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In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e Dio separò la luce dalle tenebre. Dio chiamò la luce giorno, mentre chiamò le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: giorno primo. Dio disse: «Sia un firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque». Dio fece il firmamento e separò le acque che sono sotto il firmamento dalle acque che sono sopra il firmamento. E così avvenne. Dio chiamò il firmamento cielo. E fu sera e fu mattina: secondo giorno. Dio disse: «Le acque che sono sotto il cielo si raccolgano in un unico luogo e appaia l’asciutto». E così avvenne. Dio chiamò l’asciutto terra, mentre chiamò la massa delle acque mare. Dio vide che era cosa buona. Dio disse: «La terra produca germogli erbe che producono seme e alberi da frutto che fanno sulla terra frutto con il seme ciascuno secondo la propria specie». E così avvenne. E la terra produsse germogli erbe che producono seme ciascuna secondo la propria specie e alberi che fanno ciascuno frutto con il seme secondo la propria specie. Dio vide che era cosa buona.
E fu sera e fu mattina: terzo giorno. Dio disse: «Ci siano fonti di luce nel firmamento del cielo per separare il giorno dalla notte; siano segni per le feste per i giorni e per gli anni e siano fonti di l uce nel firmamento del cielo p er illuminare la terra». E così avvenne. E Dio fece le due fonti di l uce grandi: la fonte di luce maggiore per governare il giorno e la fonte di luce minore per gove r nare la notte e le stelle. Dio le pose nel firmamento del cielo per illuminare la terra e per govern are il giorno e la notte e per separare la luce dalle tenebre. Dio vide che era cosa buona. E fu sera e fu mattina: quarto giorno. Dio disse: «Le acque brulichino di esseri viventi e uccelli volino sopra la terra, davanti al firmamento del cielo». Dio creò i grandi mostri marini e tutti gli esseri viventi che guizzano e brulicano nelle acque secondo la loro specie e tutti gli uccelli alati secondo la loro specie. Dio vide che era cosa buona. Dio li benedisse: «Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari; gli uccelli si moltiplichino sulla terra»
E
fu sera e fu mattina: quinto giorno. Dio disse: «La terra produca esseri viventi secondo la loro specie: bestiame rettili e animali selvatici secondo
la loro specie
». E
così avvenne. Dio fece gli animali selvatici secondo la loro specie il bestiame secondo
la propria specie
e tutti i rettili del suolo secondo
la loro specie
. Dio vide che era cosa buona. Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine secondo la nostra somiglianza: dòmini
sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo sul bestiame su tutti gli animali selvatici e su tutti
i rettili che strisciano sulla terra». E
Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine
di Dio
lo creò
: maschio e femmina li creò
. Dio li benedisse e Di o disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo
e su ogni essere vivente che striscia sulla terra
». Dio disse: «Ecco io vi do ogni erba che produce
seme e che è su tutta la terra, e ogni
albero fruttifero che produce
seme
: saranno il vostro cibo. A tutti gli animali selvatici a tutti
gli uccelli del cielo e a tutti
gli
esseri
che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita io do in cibo ogni erba verde». E
così avvenne. Dio vide quanto aveva fatto ed ecco era cosa molto buona. E
fu sera e fu mattina: sesto giorno. Così furono portati a compimento
il cielo e la terra e tutte le loro schiere. Dio nel settimo giorno portò a compimento il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo
giorno
da ogni suo la v oro che aveva
fatto
. Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli aveva
fatto creando. Queste sono le origini
del cielo e della terra quand o vennero creati. Nel giorno in cui il Signore Dio fece la terra e il cielo nessun cespuglio campestre
era sulla terra
nessuna erba campestre
era spuntata perché il Signore
Dio
non aveva fatto piovere
sulla terra
e non
c’era uomo che lavorasse il suolo ma una polla d’acqua sgorgava dalla terra
e irrigava tutto il suolo
. Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nel le sue narici un alito di vita e l’uomo
divenne un essere vivente.
Poi
il Signore Dio piantò un giardino in Eden a oriente e vi collocò l’uomo che aveva plasmato.
Il S
ignore
Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi
alla vista e buoni da mangiare e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero
della conoscenza del bene e del male. Un fiume
usciva da Eden per irrigar e il giardino poi di lì si divideva e formava quattro corsi. Il primo fiume
si chiama Pison
: esso scorre attorno a tutta la regione di Avìla
dove si trova l’oro e l’oro
di quella regione
è fino; vi si trova
pure la resina odorosa e la pietra d’ònice
. Il secondo fiume si chi ama Ghicon
: esso scorre attorno a tutta la regione d’Etiopia.
Il terzo fiume si chiama Tigri: esso scorre a oriente di Assur
. Il quarto fiume è l’Eufrate. Il Signore Dio prese l’uomo e lo
pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse
e lo custodisse. Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: «
Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino ma dell’
albero
della conoscenza del bene
e del male non devi mangiare perché nel giorno in cui tu ne mangerai certamente dovrai morire». E
il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio
fargli un aiuto che gli corrisponda». Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di ani mali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo per vedere come li avrebbe chiamati
: in qualunque modo l’uomo
avesse chiamato ognuno degli esseri viventi quello doveva esser e il suo nome. Così l’uomo im

pose
nomi a tutto il bestiame a tutti gli uccelli del cielo e a tutti
gli animali selvatici ma per l’uomo
non trovò un aiuto che gli corrispondesse. Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull
’uomo che si addormentò gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Di o formò con la costola che ave va
tolta all’uomo una donna e la condusse all’uomo
. Allora l’uomo
disse: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne
. La si chiamerà donna, perc
h é
dall’uomo è stata tolta». Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua mo glie, e i due saranno un’unica carne. Ora tutti e due erano
nudi l’

uomo
e sua moglie e non provavano vergogna. Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici
che Dio aveva fatto e disse alla donna: «è vero che Dio
ha
detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino”?». Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino n oi
possiamo mangiare ma del fr utto
dell’albero che sta in mezzo al giardino
Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non
lo dovete
toccare altrimenti mor

.
. Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato». Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché hai fatto questo, maledetto tu fra tutto il bestiame e fra tutti gli animali selvatici! Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidirai il calcagno». Alla donna disse: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ed egli ti dominerà». All’uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato: “Non devi mangiarne” maledetto il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba dei campi. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai!». L’uomo chiamò sua moglie Eva perché ella fu la madre di tutti i viventi. Il Signore Dio fece all’uomo e a sua moglie tuniche di pelli e li vestì. Poi il Signore Dio disse: «Ecco l’uomo è diventato come uno di noi quanto alla conoscenza del bene e del male. Che ora egli non stenda la mano e non prenda anche dell’albero della vita ne mangi e viva per sempre!». Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden perché lavorasse il suolo da cui era stato tratto. Scacci ò l’uomo e pose a oriente del gia rdino di Eden i cherubini e la fiamma della spada guizzante per custodire la via all’albero della vi ta. Adamo conobbe Eva sua m oglie che concepì e partorì Caino e disse: «Ho acquistato un uom
o grazie al Signore». Poi partorì ancora Abele suo fratello. Ora Abele era pastore di greggi men t re Caino era lavoratore del suolo. Trascorso del tempo Caino presentò frutti del suolo come off erta al Signore, mentre Abele presentò a sua volta primogeniti de l suo gregge e il loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta ma non gradì Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritat o e il suo volto era abbattuto. Il Signore disse allora a Caino: «Perché sei irritato e perché è abba ttuto il tuo volto? Se agisci bene non dovresti forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene il peccat o è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto e tu lo dominerai». Caino parlò al frat ello Abele. Mentre erano in campagna Caino alzò la mano contro
il fratello Abele e lo uccise. Allora il Signore disse a Caino: «Dov’è Abele tuo fratello?». Egli rispo se: «Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?». Ri prese: «Che hai fatto? La voce del sa ngue di tuo fratello grida a me dal suolo! Ora sii maledetto lontano dal suolo che ha aperto la b occa per ricevere il sangue di tuo fratello dalla tua mano. Quando lavorerai il suolo esso non ti d arà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra». Disse Caino al Signore: «Tropp o gr ande è la mia colpa per ottenere perdono. Ecco tu mi scacci oggi da questo suolo e dovrò nasco ndermi lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi uccid erà». Ma il Signore gli disse: «Ebbene chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!». I l Signore impose a Caino un
segno perché nessuno incontrandolo lo colpisse. Caino si allontanò dal Signore e abitò nella regi one di Nod a oriente di Eden. Ora Caino conobbe sua moglie ch
e concepì e partorì Enoc; poi divenne costruttore di una città che chiamò Enoc dal nome del figli o. A Enoc nacque Irad; Irad generò Mecuiaèl e Mecuiaèl generò
Metusaèl e Metusaèl generò Lamec. Lamec si prese due mogli: una chiamata Ada e l’altra chiam ata Silla. Ada partorì Iabal: egli fu il padre di quanti abitano so tto le tende presso il bestiame. Il fratello di questi si chiamava Iubal: egli fu il padre di tutti i suonatori di cetra e di flauto. Silla a s ua volta partorì Tubal-Kain il fabbro padre di quanti lavorano il bronzo e il ferro. La sorella di Tubal-Kain fu Naamà. Lamec disse alle mogli: «Ada e Silla ascoltate la mia voce; mogli di Lamec porget e l’orecchio al mio dire. Ho ucciso un uomo per una mia scalf
ittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settantasette»
. Adamo di nuovo conobbe sua moglie che partorì un figlio e lo
chiamò Set. «Perché – disse –
Dio mi ha concesso un’altra discendenza al posto di Abele, poiché Caino l’ha ucciso». Anche a S
et nacque un figlio che chiamò Enos. A quel tempo si cominci

ò a invocare il nome del Signore. Questo è il libro della discendenza di Adamo. Nel giorno in cui Dio creò l’uomo lo fece a somiglianza di Dio; maschio e femm
ina li creò li benedisse e diede loro il nome di uomo nel giorno in cui furono creati. Adamo avev a centotrenta anni quando generò un figlio a sua immagine seco ndo la sua somiglianza e lo chi amò Set. Dopo aver generato Set Adamo visse ancora ottocento anni e generò figli e figlie. L’int era vita di Adamo fu di novecent otrenta anni; poi morì. Set aveva centocinque anni quando ge nerò Enos; dopo aver generato Enos Set visse ancora ottocentosette anni e generò figli e figlie.
L’in tera vita di Set fu di novecentododici anni; poi morì. Enos aveva novanta anni quando gener ò Kenan; Enos dopo aver generato Kenan visse ancora ottocentoqui
ndici anni e generò figli e figlie. L’intera vita di Enos fu di novecentocinque anni; poi morì. Kenan aveva settanta anni quando generò Maalalèl; Kenan, dopo av er generato Maalalèl visse ancora ottocentoquaranta anni e generò figli e figlie. L’intera vita di Kenan fu di novecentodieci anni; p oi morì. Maalalèl aveva sessa ntacinque anni quando generò Iered; Maalalèl dopo aver generat o Iered visse ancora ottocentotrenta anni e generò figli e figlie. L’intera vita di Maalalèl fu di ott ocentonovantacinque anni; poi morì. Iered aveva centosessantadue anni quando generò Enoc; I ered dopo aver generato Enoc visse ancora ottocento anni e gener
ò figli e figlie. L’intera vita di Iered fu di novecentosessantadue anni; poi morì. Enoc aveva sessa ntacinque anni quando generò Matusalemme. Enoc camminò c
on Dio; dopo aver generato Matusalemme visse ancora per trecento anni e generò figli e figlie.
L’intera vita di Enoc fu di trecentosessantacinque anni. Enoc ca mminò con Dio poi scomparve p erché Dio l’aveva preso. Matusalemme aveva centoottantasette anni quando generò Lamec; M
atusalemme dopo aver generato
Lamec visse ancora settecentoottantadue anni e generò figli e figlie. L’intera vita di Matusalem me fu di novecentosessantanove anni; poi morì. Lamec aveva cen
toottantadue anni quando generò un figlio e lo chiamò Noè dicendo: «Costui ci consolerà del no stro lavoro e della fatica delle nostre mani a causa del suolo che il Signore ha maledetto». Lame c dopo aver generato Noè visse ancora cinquecentonovantacinque anni e generò figli e figlie. L’i ntera vita di Lamec fu di settece ntosettantasette anni; poi morì. Noè aveva cinquecento anni q uando generò Sem Cam e Iafet. Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nac qu
ero loro delle figlie, i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per mo gli a loro scelta. Allora il Signore disse: «Il mio spirito non res terà sempre nell’uomo perché egli è carne e la sua vita sarà di centoventi anni». C’erano sulla terra i giganti a quei tempi –
e anche dopo –

quando i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini e queste partorivano loro dei figli: sono qu esti gli eroi dell’antichità uomini famosi. Il Signore vide che l a malvagità degli uomini era grand e sulla terra e che ogni intimo intento del loro cuore non era altro che male sempre. E il Signore si pentì di aver fatto l’uomo s ulla terra e se ne addolorò in cuor suo. Il Signore disse: «Canceller ò dalla faccia della terra l’uomo che ho creato e con l’uomo anche il bestiame e i rettili e gli u cc elli del cielo perché sono pentito di averli fatti». Ma Noè trovò grazia agli occhi del Signore. Que sta è la discendenza di Noè. Noè era uomo giusto e integro tr a i suoi contemporanei e cammina va con Dio. Noè generò tre figli: Sem Cam e Iafet. Ma la terra era corrotta davanti a Dio e piena di violenza. Dio guardò la ter ra ed ecco essa era corrotta perché ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla terra. Allora Dio disse a Noè: «è venuta per me la fine di ogni uomo, perché l a terra per causa loro è piena di violenza; ecco io li distruggerò insieme con la terra. Fatti un’arc a di legno di cipresso; dividerai l’arca in scompartimenti e la sp almerai di bitume dentro e fuori.
Ecco come devi farla: l’arca avrà trecento cubiti di lunghezza cinquanta di larghezza e trenta di altezza. Farai nell’arca un tetto e a un cubito più sopra la terminerai; da un lato metterai la port a dell’arca. La farai a piani: inferiore medio e superiore. Ecco io sto per mandare il diluvio cioè le acque sulla terra per distruggere sotto il cielo ogni carne in cui c’è soffio di vita; quanto è sulla t erra perirà. Ma con te io stabilisco la mia alleanza. Entrerai nell
’arca tu e con te i tuoi figli, tua moglie e le mogli dei tuoi figli. Di quanto vive di ogni carne intro durrai nell’arca due di ogni specie per conservarli in vita con te
: siano maschio e femmina. Degli uccelli secondo la loro specie del bestiame secondo la propria specie e di tutti i rettili del suolo secondo la loro specie due di o gnuna verranno con te per esse re conservati in vita. Quanto a te prenditi ogni sorta di cibo da mangiare e fanne provvista: sarà di nutrimento per te e per loro». Noè eseguì ogni cosa come Dio gli aveva comandato: così fece.
Il Signore disse a Noè: «Entra nell’arca tu con tutta la tua famiglia, perché ti ho visto giusto dina nzi a me in questa generazione. Di ogni animale puro prendine con te sette paia il maschio e la s ua femmina; degli animali che non sono puri un paio il maschio e la sua femmina. Anche degli u ccelli del cielo sette paia maschio e femmina per conservarne in vita la razza su tutta la terra. Pe rché tra sette giorni farò piovere sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti; cancellerò dall a terra ogni essere che ho fatto». Noè fece quanto il Signore gli aveva comandato. Noè aveva se icento anni quando venne il diluvio cioè le acque sulla terra. Noè entrò nell’arca e con lui i suoi f igli sua moglie e le mogli dei suoi figli per sottrarsi alle acque del diluvio. Degli animali puri e di q uelli impuri degli uccelli e di tutti gli esseri che strisciano sul suolo un maschio e una femmina e ntrarono a due a due nell’arca come Dio aveva comandato a Noè. Dopo sette giorni le acque del diluvio furono sopra la terra; nell’anno seicentesimo della vita di Noè nel secondo mese il dicias sette del mese in quello stesso giorno eruppero tutte le sorgenti del grande abisso e le cateratt e del cielo si aprirono. Cadde la pioggia sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti. In quell o stesso giorno entrarono nell’arca Noè con i figli Sem Cam e Iafet la moglie di Noè, le tre mogli
dei suoi tre figli; essi e tutti i viventi secondo la loro specie e tutto il bestiame secondo la propri a specie e tutti i rettili che strisciano sulla terra secondo la loro specie tutti i volatili secondo la l oro specie tutti gli uccelli tutti gli esseri alati. Vennero dunque a Noè nell’arca a due a due di og ni carne in cui c’è il soffio di vita. Quelli che venivano maschio e femmina d’ogni carne entraron o come gli aveva comandato Dio. Il Signore chiuse la porta dietro di lui. Il diluvio durò sulla terra quaranta giorni: le acque crebbero e sollevarono l’arca che s’innalzò sulla terra. Le acque furon o travolgenti e crebbero molto sopra la terra e l’arca galleggiava sulle acque. Le acque furono se mpre più travolgenti sopra la terra e coprirono tutti i monti più alti che sono sotto tutto il cielo.
Le acque superarono in altezza di quindici cubiti i monti che avevano ricoperto. Perì ogni essere vivente che si muove sulla terra uccelli bestiame e fiere e tutti gli esseri che brulicano sulla terra e tutti gli uomini. Ogni essere che ha un alito di vita nelle narici cioè quanto era sulla terra asciu tta morì. Così fu cancellato ogni essere che era sulla terra: dagli uomini agli animali domestici ai rettili e agli uccelli del cielo; essi furono cancellati dalla terra e rimase solo Noè e chi stava con l ui nell’arca. Le acque furono travolgenti sopra la terra centocinquanta giorni. Dio si ricordò di N
oè di tutte le fiere e di tutti gli animali domestici che erano con lui nell’arca. Dio fece passare un vento sulla terra e le acque si abbassarono. Le fonti dell’abisso e le cateratte del cielo furono ch iuse e fu trattenuta la pioggia dal cielo; le acque andarono via via ritirandosi dalla terra e calaro no dopo centocinquanta giorni. Nel settimo mese il diciassette del mese l’arca si posò sui monti dell’Araràt. Le acque andarono via via diminuendo fino al decimo mese. Nel decimo mese il pri mo giorno del mese apparvero le cime dei monti. Trascorsi quaranta giorni Noè aprì la finestra c he aveva fatto nell’arca e fece uscire un corvo. Esso uscì andando e tornando finché si prosciuga rono le acque sulla terra. Noè poi fece uscire una colomba per vedere se le acque si fossero ritir ate dal suolo; ma la colomba non trovando dove posare la pianta del piede tornò a lui nell’arca perché c’era ancora l’acqua su tutta la terra. Egli stese la mano la prese e la fece rientrare press o di sé nell’arca. Attese altri sette giorni e di nuovo fece uscire la colomba dall’arca e la colomba tornò a lui sul far della sera; ecco essa aveva nel becco una tenera foglia di ulivo. Noè comprese che le acque si erano ritirate dalla terra. Aspettò altri sette giorni poi lasciò andare la colomba; essa non tornò più da lui. L’anno seicentouno della vita di Noè il primo mese il primo giorno del mese, le acque si erano prosciugate sulla terra; Noè tolse la copertura dell’arca ed ecco la super ficie del suolo era asciutta. Nel secondo mese il ventisette del mese tutta la terra si era prosciug ata. Dio ordinò a Noè: «Esci dall’arca tu e tua moglie i tuoi figli e le mogli dei tuoi figli con te. Tut ti gli animali d’ogni carne che hai con te uccelli bestiame e tutti i rettili che strisciano sulla terra falli uscire con te, perché possano diffondersi sulla terra siano fecondi e si moltiplichino su di es sa». Noè uscì con i figli la moglie e le mogli dei figli. Tutti i viventi e tutto il bestiame e tutti gli uc celli e tutti i rettili che strisciano sulla terra secondo le loro specie uscirono dall’arca. Allora Noè edificò un altare al Signore; prese ogni sorta di animali puri e di uccelli puri e offrì olocausti sull’
altare. Il Signore ne odorò il profumo gradito e disse in cuor suo: «Non maledirò più il suolo a ca usa dell’uomo, perché ogni intento del cuore umano è incline al male fin dall’adolescenza; né co
lpirò più ogni essere vivente come ho fatto. Finché durerà la terra, seme e mèsse, freddo e cald o, estate e inverno, giorno e notte non cesseranno». Dio benedisse Noè e i suoi figli e disse loro:
«Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite la terra. Il timore e il terrore di voi sia in tutti gli anim ali della terra e in tutti gli uccelli del cielo. Quanto striscia sul suolo e tutti i pesci del mare sono dati in vostro potere. Ogni essere che striscia e ha vita vi servirà di cibo: vi do tutto questo come già le verdi erbe. Soltanto non mangerete la carne con la sua vita cioè con il suo sangue. Del sa ngue vostro ossia della vostra vita io domanderò conto; ne domanderò conto a ogni essere vive nte e domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello. Chi sparge il san gue dell’uomo, dall’uomo il suo sangue sarà sparso, perché a immagine di Dio è stato fatto l’uo mo. E voi siate fecondi e moltiplicatevi, siate numerosi sulla terra e dominatela». Dio disse a No è e ai suoi figli con lui: «Quanto a me ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri disc endenti dopo di voi con ogni essere vivente che è con voi uccelli bestiame e animali selvatici co n tutti gli animali che sono usciti dall’arca con tutti gli animali della terra. Io stabilisco la mia alle anza con voi: non sarà più distrutta alcuna carne dalle acque del diluvio né il diluvio devasterà p iù la terra». Dio disse: «Questo è il segno dell’alleanza, che io pongo tra me e voi e ogni essere v ivente che è con voi, per tutte le generazioni future. Pongo il mio arco sulle nubi, perché sia il se gno dell’alleanza tra me e la terra. Quando ammasserò le nubi sulla terra e apparirà l’arco sulle nubi, ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi e ogni essere che vive in ogni carne, e non ci s aranno più le acque per il diluvio, per distruggere ogni carne. L’arco sarà sulle nubi, e io lo guard erò per ricordare l’alleanza eterna tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra».
Disse Dio a Noè: «Questo è il segno dell’alleanza che io ho stabilito tra me e ogni carne che è su lla terra». I figli di Noè che uscirono dall’arca furono Sem Cam e Iafet; Cam è il padre di Canaan.
Questi tre sono i figli di Noè e da questi fu popolata tutta la terra. Ora Noè coltivatore della terr a cominciò a piantare una vigna. Avendo bevuto il vino si ubriacò e si denudò all’interno della su a tenda. Cam padre di Canaan vide la nudità di suo padre e raccontò la cosa ai due fratelli che st avano fuori. Allora Sem e Iafet presero il mantello se lo misero tutti e due sulle spalle e cammin ando a ritroso coprirono la nudità del loro padre; avendo tenuto la faccia rivolta indietro non vi dero la nudità del loro padre. Quando Noè si fu risvegliato dall’ebbrezza seppe quanto gli aveva fatto il figlio minore; allora disse: «Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fra telli!». E aggiunse: «Benedetto il Signore Dio di Sem, Canaan sia suo schiavo! Dio dilati Iafet ed e gli dimori nelle tende di Sem, Canaan sia suo schiavo!». Noè visse dopo il diluvio trecentocinqua nta anni. L’intera vita di Noè fu di novecentocinquanta anni; poi morì. Questa è la discendenza dei figli di Noè: Sem Cam e Iafet ai quali nacquero figli dopo il diluvio. I figli di Iafet: Gomer Mag òg Madai Iavan Tubal Mesec e Tiras. I figli di Gomer: Aschenàz Rifat e Togarmà. I figli di Iavan: El isa Tarsis i Chittìm e i Dodanìm. Da costoro derivarono le genti disperse per le isole nei loro terri tori ciascuna secondo la propria lingua e secondo le loro famiglie nelle rispettive nazioni. I figli d i Cam: Etiopia Egitto Put e Canaan. I figli di Etiopia: Seba, Avìla Sabta Raamà e Sabtecà. I figli di R
aamà: Saba e Dedan. Etiopia generò Nimrod: costui cominciò a essere potente sulla terra. Egli e
ra valente nella caccia davanti al Signore perciò si dice: «Come Nimrod, valente cacciatore dava nti al Signore». L’inizio del suo regno fu Babele Uruc, Accad e Calne nella regione di Sinar. Da qu ella terra si portò ad Assur e costruì Ninive Recobòt-Ir e Calach e Resen tra Ninive e Calach; quella è la grande città. Egitto generò quelli di Lud Anam Laab Naftuch, Patros Casluch e Caftor da dove uscirono i Filistei. Canaan generò Sidone suo pri mogenito e Chet e il Gebuseo l’Amorreo il Gergeseo, l’Eveo l’Archeo e il Sineo l’Arvadeo il Sema reo e il Camateo. In seguito si dispersero le famiglie dei Cananei. Il confine dei Cananei andava d a Sidone in direzione di Gerar fino a Gaza poi in direzione di Sòdoma Gomorra Adma e Seboìm fi no a Lesa. Questi furono i figli di Cam secondo le loro famiglie e le loro lingue nei loro territori e nelle rispettive nazioni. Anche a Sem fratello maggiore di Iafet e capostipite di tutti i figli di Eber nacque una discendenza. I figli di Sem: Elam Assur Arpacsàd Lud e Aram. I figli di Aram: Us Ul G
heter e Mas. Arpacsàd generò Selach e Selach generò Eber. A Eber nacquero due figli: uno si chi amò Peleg perché ai suoi tempi fu divisa la terra e il fratello si chiamò Ioktan. Ioktan generò Alm odàd Selef Asarmàvet Ierach Adoràm Uzal Dikla, Obal Abimaèl Saba Ofir Avìla e Iobab. Tutti que sti furono i figli di Ioktan; la loro sede era sulle montagne dell’oriente da Mesa in direzione di Se far. Questi furono i figli di Sem secondo le loro famiglie e le loro lingue, nei loro territori second o le rispettive nazioni. Queste furono le famiglie dei figli di Noè secondo le loro genealogie nelle rispettive nazioni. Da costoro si dispersero le nazioni sulla terra dopo il diluvio. Tutta la terra av eva un’unica lingua e uniche parole. Emigrando dall’oriente gli uomini capitarono in una pianur a nella regione di Sinar e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: «Venite facciamoci mattoni e cu ociamoli al fuoco». Il mattone servì loro da pietra e il bitume da malta. Poi dissero: «Venite cost ruiamoci una città e una torre la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome per non disperder ci su tutta la terra». Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che i figli degli uomini stavan o costruendo. Il Signore disse: «Ecco essi sono un unico popolo e hanno tutti un’unica lingua; qu esto è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile
. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro». Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per q uesto la si chiamò Babele perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra. Questa è la discendenza di Sem: Sem aveva cento anni quando gener ò Arpacsàd due anni dopo il diluvio; Sem dopo aver generato Arpacsàd visse cinquecento anni e generò figli e figlie. Arpacsàd aveva trentacinque anni quando generò Selach; Arpacsàd dopo av er generato Selach visse quattrocentotré anni e generò figli e figlie. Selach aveva trent’anni qua ndo generò Eber; Selach dopo aver generato Eber visse quattrocentotré anni e generò figli e figl ie. Eber aveva trentaquattro anni quando generò Peleg; Eber dopo aver generato Peleg visse qu attrocentotrenta anni e generò figli e figlie. Peleg aveva trent’anni quando generò Reu; Peleg d opo aver generato Reu visse duecentonove anni e generò figli e figlie. Reu aveva trentadue anni quando generò Serug; Reu dopo aver generato Serug visse duecentosette anni e generò figli e f iglie. Serug aveva trent’anni quando generò Nacor; Serug dopo aver generato Nacor visse duece
nto anni e generò figli e figlie. Nacor aveva ventinove anni quando generò Terach; Nacor dopo a ver generato Terach visse centodiciannove anni e generò figli e figlie. Terach aveva settant’anni quando generò Abram Nacor e Aran. Questa è la discendenza di Terach: Terach generò Abram Nacor e Aran; Aran generò Lot. Aran poi morì alla presenza di suo padre Terach nella sua terra n atale in Ur dei Caldei. Abram e Nacor presero moglie; la moglie di Abram si chiamava Sarài e la moglie di Nacor Milca che era figlia di Aran padre di Milca e padre di Isca. Sarài era sterile e non aveva figli. Poi Terach prese Abram suo figlio e Lot figlio di Aran figlio cioè di suo figlio, e Sarài s ua nuora moglie di Abram suo figlio e uscì con loro da Ur dei Caldei per andare nella terra di Ca naan. Arrivarono fino a Carran e vi si stabilirono. La vita di Terach fu di duecentocinque anni; Te rach morì a Carran. Il Signore disse ad Abram: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dall a casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedir ò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benedi ranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della t erra». Allora Abram partì come gli aveva ordinato il Signore e con lui partì Lot. Abram aveva sett antacinque anni quando lasciò Carran. Abram prese la moglie Sarài e Lot figlio di suo fratello e t utti i beni che avevano acquistati in Carran e tutte le persone che lì si erano procurate e si inca mminarono verso la terra di Canaan. Arrivarono nella terra di Canaan e Abram la attraversò fino alla località di Sichem presso la Quercia di Morè. Nella terra si trovavano allora i Cananei. Il Sign ore apparve ad Abram e gli disse: «Alla tua discendenza io darò questa terra». Allora Abram cos truì in quel luogo un altare al Signore che gli era apparso. Di là passò sulle montagne a oriente d i Betel e piantò la tenda avendo Betel ad occidente e Ai ad oriente. Lì costruì un altare al Signor e e invocò il nome del Signore. Poi Abram levò la tenda per andare ad accamparsi nel Negheb. V
enne una carestia nella terra e Abram scese in Egitto per soggiornarvi perché la carestia gravava su quella terra. Quando fu sul punto di entrare in Egitto disse alla moglie Sarài: «Vedi io so che tu sei donna di aspetto avvenente. Quando gli Egiziani ti vedranno penseranno: “Costei è sua m oglie” e mi uccideranno mentre lasceranno te in vita. Di’ dunque che tu sei mia sorella perché io sia trattato bene per causa tua e io viva grazie a te». Quando Abram arrivò in Egitto gli Egiziani videro che la donna era molto avvenente. La osservarono gli ufficiali del faraone e ne fecero le l odi al faraone; così la donna fu presa e condotta nella casa del faraone. A causa di lei egli trattò bene Abram, che ricevette greggi e armenti e asini schiavi e schiave asine e cammelli. Ma il Sign ore colpì il faraone e la sua casa con grandi calamità per il fatto di Sarài moglie di Abram. Allora il faraone convocò Abram e gli disse: «Che mi hai fatto? Perché non mi hai dichiarato che era tu a moglie? Perché hai detto: “è mia sorella” così che io me la sono presa in moglie? E ora eccoti t ua moglie: prendila e vattene!». Poi il faraone diede disposizioni su di lui ad alcuni uomini che lo allontanarono insieme con la moglie e tutti i suoi averi. Dall’Egitto Abram risalì nel Negheb con la moglie e tutti i suoi averi; Lot era con lui. Abram era molto ricco in bestiame argento e oro. A bram si spostò a tappe dal Negheb fino a Betel fino al luogo dov’era già prima la sua tenda tra B
etel e Ai il luogo dove prima aveva costruito l’altare: lì Abram invocò il nome del Signore. Ma an
che Lot che accompagnava Abram aveva greggi e armenti e tende e il territorio non consentiva che abitassero insieme perché avevano beni troppo grandi e non potevano abitare insieme. Per questo sorse una lite tra i mandriani di Abram e i mandriani di Lot. I Cananei e i Perizziti abitava no allora nella terra. Abram disse a Lot: «Non vi sia discordia tra me e te tra i miei mandriani e i tuoi perché noi siamo fratelli. Non sta forse davanti a te tutto il territorio? Sepàrati da me. Se tu vai a sinistra io andrò a destra; se tu vai a destra io andrò a sinistra». Allora Lot alzò gli occhi e v ide che tutta la valle del Giordano era un luogo irrigato da ogni parte –
prima che il Signore distruggesse Sòdoma e Gomorra –
come il giardino del Signore come la terra d’Egitto fino a Soar. Lot scelse per sé tutta la valle del Giordano e trasportò le tende verso oriente. Così si separarono l’uno dall’altro: Abram si stabilì nella terra di Canaan e Lot si stabilì nelle città della valle e piantò le tende vicino a Sòdoma. Ora gli uomini di Sòdoma erano malvagi e peccavano molto contro il Signore. Allora il Signore disse ad Abram dopo che Lot si era separato da lui: «Alza gli occhi e dal luogo dove tu stai spingi lo sg uardo verso il settentrione e il mezzogiorno verso l’oriente e l’occidente. Tutta la terra che tu ve di io la darò a te e alla tua discendenza per sempre. Renderò la tua discendenza come la polvere della terra: se uno può contare la polvere della terra potrà contare anche i tuoi discendenti. àlz ati, percorri la terra in lungo e in largo perché io la darò a te». Poi Abram si spostò con le sue te nde e andò a stabilirsi alle Querce di Mamre che sono ad Ebron e vi costruì un altare al Signore.
Al tempo di Amrafèl re di Sinar di Ariòc re di Ellasàr di Chedorlaòmer re dell’Elam e di Tidal re di Goìm costoro mossero guerra contro Bera re di Sòdoma Birsa re di Gomorra Sinab re di Adma S
emeber re di Seboìm e contro il re di Bela cioè Soar. Tutti questi si concentrarono nella valle di S
iddìm, cioè del Mar Morto. Per dodici anni essi erano stati sottomessi a Chedorlaòmer, ma il tre dicesimo anno si erano ribellati. Nell’anno quattordicesimo arrivarono Chedorlaòmer e i re che erano con lui e sconfissero i Refaìm ad Astarot-Karnàim gli Zuzìm ad Am gli Emìm a Save-Kiriatàim e gli Urriti sulle montagne di Seir fino a El-
Paran che è presso il deserto. Poi mutarono direzione e vennero a En-Mispàt cioè Kades e devastarono tutto il territorio degli Amaleciti e anche degli Amorrei che abi tavano a Casesòn-Tamar. Allora il re di Sòdoma il re di Gomorra il re di Adma il re di Seboìm e il re di Bela cioè Soa r uscirono e si schierarono a battaglia nella valle di Siddìm contro di essi cioè contro Chedorlaò mer re dell’Elam, Tidal re di Goìm Amrafèl re di Sinar e Ariòc re di Ellasàr: quattro re contro cinq ue. La valle di Siddìm era piena di pozzi di bitume; messi in fuga il re di Sòdoma e il re di Gomorr a vi caddero dentro mentre gli altri fuggirono sulla montagna. Gli invasori presero tutti i beni di Sòdoma e Gomorra e tutti i loro viveri e se ne andarono. Prima di andarsene catturarono anche Lot figlio del fratello di Abram e i suoi beni: egli risiedeva appunto a Sòdoma. Ma un fuggiasco v enne ad avvertire Abram l’Ebreo che si trovava alle Querce di Mamre l’Amorreo fratello di Escol e fratello di Aner i quali erano alleati di Abram. Quando Abram seppe che suo fratello era stato preso prigioniero organizzò i suoi uomini esperti nelle armi, schiavi nati nella sua casa in numer
o di trecentodiciotto e si diede all’inseguimento fino a Dan. Fece delle squadre lui e i suoi servi c ontro di loro li sconfisse di notte e li inseguì fino a Coba a settentrione di Damasco. Recuperò co sì tutti i beni e anche Lot suo fratello i suoi beni con le donne e il popolo. Quando Abram fu di ri torno dopo la sconfitta di Chedorlaòmer e dei re che erano con lui il re di Sòdoma gli uscì incont ro nella valle di Save cioè la valle del Re. Intanto Melchìsedek re di Salem offrì pane e vino: era s acerdote del Dio altissimo e benedisse Abram con queste parole: «Sia benedetto Abram dal Dio altissimo, creatore del cielo e della terra, e benedetto sia il Dio altissimo, che ti ha messo in man o i tuoi nemici». Ed egli diede a lui la decima di tutto. Il re di Sòdoma disse ad Abram: «Dammi l e persone; i beni prendili per te». Ma Abram disse al re di Sòdoma: «Alzo la mano davanti al Sig nore il Dio altissimo creatore del cielo e della terra: né un filo né un legaccio di sandalo niente io prenderò di ciò che è tuo; non potrai dire: io ho arricchito Abram. Per me niente se non quello che i servi hanno mangiato; quanto a ciò che spetta agli uomini che sono venuti con me Aner Es col e Mamre essi stessi si prendano la loro parte». Dopo tali fatti fu rivolta ad Abram in visione questa parola del Signore: «Non temere Abram. Io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà mo lto grande». Rispose Abram: «Signore Dio che cosa mi darai? Io me ne vado senza figli e l’erede della mia casa è Elièzer di Damasco». Soggiunse Abram: «Ecco a me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà mio erede». Ed ecco gli fu rivolta questa parola dal Signore: «Non sarà c ostui il tuo erede ma uno nato da te sarà il tuo erede». Poi lo condusse fuori e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle se riesci a contarle» e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza». Egli cr edette al Signore che glielo accreditò come giustizia. E gli disse: «Io sono il Signore che ti ho fatt o uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questa terra». Rispose: «Signore Dio come potrò s apere che ne avrò il possesso?». Gli disse: «Prendimi una giovenca di tre anni una capra di tre a nni un ariete di tre anni una tortora e un colombo». Andò a prendere tutti questi animali li divis e in due e collocò ogni metà di fronte all’altra; non divise però gli uccelli. Gli uccelli rapaci calaro no su quei cadaveri ma Abram li scacciò. Mentre il sole stava per tramontare un torpore cadde s u Abram ed ecco terrore e grande oscurità lo assalirono. Allora il Signore disse ad Abram: «Sapp i che i tuoi discendenti saranno forestieri in una terra non loro; saranno fatti schiavi e saranno o ppressi per quattrocento anni. Ma la nazione che essi avranno servito la giudicherò io: dopo ess i usciranno con grandi ricchezze. Quanto a te andrai in pace presso i tuoi padri; sarai sepolto do po una vecchiaia felice. Alla quarta generazione torneranno qui perché l’iniquità degli Amorrei n on ha ancora raggiunto il colmo». Quando tramontato il sole si era fatto buio fitto ecco un braci ere fumante e una fiaccola ardente passare in mezzo agli animali divisi. In quel giorno il Signore concluse quest’alleanza con Abram: «Alla tua discendenza io do questa terra, dal fiume d’Egitto al grande fiume il fiume Eufrate; la terra dove abitano i Keniti i Kenizziti i Kadmoniti gli Ittiti i Per izziti i Refaìm gli Amorrei i Cananei i Gergesei e i Gebusei». Sarài moglie di Abram non gli aveva dato figli. Avendo però una schiava egiziana chiamata Agar Sarài disse ad Abram: «Ecco il Signor e mi ha impedito di aver prole; unisciti alla mia schiava: forse da lei potrò avere figli». Abram as coltò l’invito di Sarài. Così al termine di dieci anni da quando Abram abitava nella terra di Canaa
n Sarài moglie di Abram prese Agar l’Egiziana sua schiava e la diede in moglie ad Abram suo mar ito. Egli si unì ad Agar che restò incinta. Ma quando essa si accorse di essere incinta la sua padro na non contò più nulla per lei. Allora Sarài disse ad Abram: «L’offesa a me fatta ricada su di te! I o ti ho messo in grembo la mia schiava ma da quando si è accorta d’essere incinta io non conto più niente per lei. Il Signore sia giudice tra me e te!». Abram disse a Sarài: «Ecco la tua schiava è in mano tua: trattala come ti piace». Sarài allora la maltrattò tanto che quella fuggì dalla sua pr esenza. La trovò l’angelo del Signore presso una sorgente d’acqua nel deserto la sorgente sulla s trada di Sur, e le disse: «Agar schiava di Sarài da dove vieni e dove vai?». Rispose: «Fuggo dalla presenza della mia padrona Sarài». Le disse l’angelo del Signore: «Ritorna dalla tua padrona e re stale sottomessa». Le disse ancora l’angelo del Signore: «Moltiplicherò la tua discendenza e non si potrà contarla tanto sarà numerosa». Soggiunse poi l’angelo del Signore: «Ecco sei incinta: p artorirai un figlio e lo chiamerai Ismaele, perché il Signore ha udito il tuo lamento. Egli sarà com e un asino selvatico; la sua mano sarà contro tutti e la mano di tutti contro di lui, e abiterà di fro nte a tutti i suoi fratelli». Agar al Signore che le aveva parlato diede questo nome: «Tu sei il Dio della visione» perché diceva: «Non ho forse visto qui colui che mi vede?». Per questo il pozzo si chiamò pozzo di Lacai-Roì è appunto quello che si trova tra Kades e Bered. Agar partorì ad Abram un figlio e Abram chi amò Ismaele il figlio che Agar gli aveva partorito. Abram aveva ottantasei anni quando Agar gli p artorì Ismaele. Quando Abram ebbe novantanove anni il Signore gli apparve e gli disse: «Io sono Dio l’Onnipotente: cammina davanti a me e sii integro. Porrò la mia alleanza tra me e te e ti ren derò molto molto numeroso». Subito Abram si prostrò con il viso a terra e Dio parlò con lui: «Q
uanto a me ecco la mia alleanza è con te: diventerai padre di una moltitudine di nazioni. Non ti chiamerai più Abram, ma ti chiamerai Abramo, perché padre di una moltitudine di nazioni ti ren derò. E ti renderò molto molto fecondo; ti farò diventare nazioni e da te usciranno dei re. Stabili rò la mia alleanza con te e con la tua discendenza dopo di te di generazione in generazione com e alleanza perenne per essere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te. La terra dove sei for estiero tutta la terra di Canaan la darò in possesso per sempre a te e alla tua discendenza dopo di te; sarò il loro Dio». Disse Dio ad Abramo: «Da parte tua devi osservare la mia alleanza tu e la tua discendenza dopo di te di generazione in generazione. Questa è la mia alleanza che dovete osservare alleanza tra me e voi e la tua discendenza dopo di te: sia circonciso tra voi ogni masch io. Vi lascerete circoncidere la carne del vostro prepuzio e ciò sarà il segno dell’alleanza tra me e voi. Quando avrà otto giorni sarà circonciso tra voi ogni maschio di generazione in generazione sia quello nato in casa sia quello comprato con denaro da qualunque straniero che non sia della tua stirpe. Deve essere circonciso chi è nato in casa e chi viene comprato con denaro; così la mi a alleanza sussisterà nella vostra carne come alleanza perenne. Il maschio non circonciso di cui c ioè non sarà stata circoncisa la carne del prepuzio sia eliminato dal suo popolo: ha violato la mia alleanza». Dio aggiunse ad Abramo: «Quanto a Sarài tua moglie non la chiamerai più Sarài ma S
ara. Io la benedirò e anche da lei ti darò un figlio; la benedirò e diventerà nazioni e re di popoli
nasceranno da lei». Allora Abramo si prostrò con la faccia a terra e rise e pensò: «A uno di cento anni può nascere un figlio? E Sara all’età di novant’anni potrà partorire?». Abramo disse a Dio:
«Se almeno Ismaele potesse vivere davanti a te!». E Dio disse: «No Sara tua moglie ti partorirà un figlio e lo chiamerai Isacco. Io stabilirò la mia alleanza con lui come alleanza perenne per ess ere il Dio suo e della sua discendenza dopo di lui. Anche riguardo a Ismaele io ti ho esaudito: ec co io lo benedico e lo renderò fecondo e molto molto numeroso: dodici prìncipi egli genererà e di lui farò una grande nazione. Ma stabilirò la mia alleanza con Isacco che Sara ti partorirà a que sta data l’anno venturo». Dio terminò così di parlare con lui e lasciò Abramo levandosi in alto. Al lora Abramo prese Ismaele suo figlio e tutti i nati nella sua casa e tutti quelli comprati con il suo denaro tutti i maschi appartenenti al personale della casa di Abramo e circoncise la carne del lor o prepuzio in quello stesso giorno come Dio gli aveva detto. Abramo aveva novantanove anni q uando si fece circoncidere la carne del prepuzio. Ismaele suo figlio aveva tredici anni quando gli fu circoncisa la carne del prepuzio. In quello stesso giorno furono circoncisi Abramo e Ismaele s uo figlio. E tutti gli uomini della sua casa quelli nati in casa e quelli comprati con denaro dagli str anieri furono circoncisi con lui. Poi il Signore apparve a lui alle Querce di Mamre mentre egli sed eva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si pro strò fino a terra dicendo: «Mio signore se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senz a fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po’ d’acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sott o l’albero. Andrò a prendere un boccone di pane e ristoratevi; dopo potrete proseguire perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo». Quelli dissero: «Fa’ pure come hai dett o». Allora Abramo andò in fretta nella tenda da Sara e disse: «Presto tre sea di fior di farina imp astala e fanne focacce». All’armento corse lui stesso Abramo; prese un vitello tenero e buono e lo diede al servo che si affrettò a prepararlo. Prese panna e latte fresco insieme con il vitello che aveva preparato e li porse loro. Così mentre egli stava in piedi presso di loro sotto l’albero quell i mangiarono. Poi gli dissero: «Dov’è Sara tua moglie?». Rispose: «è là nella tenda». Riprese: «T
ornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara tua moglie avrà un figlio». Intanto Sara stav a ad ascoltare all’ingresso della tenda dietro di lui. Abramo e Sara erano vecchi avanti negli anni
; era cessato a Sara ciò che avviene regolarmente alle donne. Allora Sara rise dentro di sé e diss e: «Avvizzita come sono dovrei provare il piacere mentre il mio signore è vecchio!». Ma il Signor e disse ad Abramo: «Perché Sara ha riso dicendo: “Potrò davvero partorire mentre sono vecchia
”? C’è forse qualche cosa d’impossibile per il Signore? Al tempo fissato tornerò da te tra un ann o e Sara avrà un figlio». Allora Sara negò: «Non ho riso!» perché aveva paura; ma egli disse: «Sì hai proprio riso». Quegli uomini si alzarono e andarono a contemplare Sòdoma dall’alto mentre Abramo li accompagnava per congedarli. Il Signore diceva: «Devo io tenere nascosto ad Abramo quello che sto per fare mentre Abramo dovrà diventare una nazione grande e potente e in lui si diranno benedette tutte le nazioni della terra? Infatti io l’ho scelto perché egli obblighi i suoi fig li e la sua famiglia dopo di lui a osservare la via del Signore e ad agire con giustizia e diritto perc
hé il Signore compia per Abramo quanto gli ha promesso». Disse allora il Signore: «Il grido di Sò doma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave. Voglio scendere a vedere se p roprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere!». Quegli uomi ni partirono di là e andarono verso Sòdoma mentre Abramo stava ancora alla presenza del Sign ore. Abramo gli si avvicinò e gli disse: «Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per rigua rdo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lontano da te il far morire il giusto con l’empio così ch e il giusto sia trattato come l’empio; lontano da te! Forse il giudice di tutta la terra non pratiche rà la giustizia?». Rispose il Signore: «Se a Sòdoma troverò cinquanta giusti nell’ambito della citt à per riguardo a loro perdonerò a tutto quel luogo». Abramo riprese e disse: «Vedi come ardisc o parlare al mio Signore io che sono polvere e cenere: forse ai cinquanta giusti ne mancheranno cinque; per questi cinque distruggerai tutta la città?». Rispose: «Non la distruggerò se ve ne tro verò quarantacinque». Abramo riprese ancora a parlargli e disse: «Forse là se ne troveranno qu aranta». Rispose: «Non lo farò per riguardo a quei quaranta». Riprese: «Non si adiri il mio Signo re se parlo ancora: forse là se ne troveranno trenta». Rispose: «Non lo farò se ve ne troverò tre nta». Riprese: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore! Forse là se ne troveranno venti». Risp ose: «Non la distruggerò per riguardo a quei venti». Riprese: «Non si adiri il mio Signore se parl o ancora una volta sola: forse là se ne troveranno dieci». Rispose: «Non la distruggerò per rigua rdo a quei dieci». Come ebbe finito di parlare con Abramo il Signore se ne andò e Abramo ritorn ò alla sua abitazione. I due angeli arrivarono a Sòdoma sul far della sera mentre Lot stava sedut o alla porta di Sòdoma. Non appena li ebbe visti Lot si alzò andò loro incontro e si prostrò con la faccia a terra. E disse: «Miei signori venite in casa del vostro servo: vi passerete la notte vi laver ete i piedi e poi domattina per tempo ve ne andrete per la vostra strada». Quelli risposero: «No passeremo la notte sulla piazza». Ma egli insistette tanto che vennero da lui ed entrarono nella sua casa. Egli preparò per loro un banchetto fece cuocere pani azzimi e così mangiarono. Non si erano ancora coricati quand’ecco gli uomini della città cioè gli abitanti di Sòdoma si affollarono attorno alla casa giovani e vecchi tutto il popolo al completo. Chiamarono Lot e gli dissero: «Do ve sono quegli uomini che sono entrati da te questa notte? Falli uscire da noi perché possiamo abusarne!». Lot uscì verso di loro sulla soglia e dopo aver chiuso la porta dietro di sé disse: «No fratelli miei non fate del male! Sentite io ho due figlie che non hanno ancora conosciuto uomo; l asciate che ve le porti fuori e fate loro quel che vi piace purché non facciate nulla a questi uomi ni, perché sono entrati all’ombra del mio tetto». Ma quelli risposero: «Tìrati via! Quest’individu o è venuto qui come straniero e vuol fare il giudice! Ora faremo a te peggio che a loro!». E sping endosi violentemente contro quell’uomo cioè contro Lot si fecero avanti per sfondare la porta.
Allora dall’interno quegli uomini sporsero le mani si trassero in casa Lot e chiusero la porta; colp irono di cecità gli uomini che erano all’ingresso della casa dal più piccolo al più grande così che non riuscirono a trovare la porta. Quegli uomini dissero allora a Lot: «Chi hai ancora qui? Il gene ro i tuoi figli le tue figlie e quanti hai in città falli uscire da questo luogo. Perché noi stiamo per d
istruggere questo luogo: il grido innalzato contro di loro davanti al Signore è grande e il Signore ci ha mandato a distruggerli». Lot uscì a parlare ai suoi generi che dovevano sposare le sue figlie e disse: «Alzatevi uscite da questo luogo perché il Signore sta per distruggere la città!». Ai suoi generi sembrò che egli volesse scherzare. Quando apparve l’alba gli angeli fecero premura a Lot dicendo: «Su prendi tua moglie e le tue due figlie che hai qui per non essere travolto nel castig o della città». Lot indugiava ma quegli uomini presero per mano lui sua moglie e le sue due figli e per un grande atto di misericordia del Signore verso di lui; lo fecero uscire e lo condussero fuo ri della città. Dopo averli condotti fuori uno di loro disse: «Fuggi per la tua vita. Non guardare in dietro e non fermarti dentro la valle: fuggi sulle montagne per non essere travolto!». Ma Lot gli disse: «No mio signore! Vedi il tuo servo ha trovato grazia ai tuoi occhi e tu hai usato grande bo ntà verso di me salvandomi la vita ma io non riuscirò a fuggire sul monte senza che la sciagura mi raggiunga e io muoia. Ecco quella città: è abbastanza vicina perché mi possa rifugiare là ed è piccola cosa! Lascia che io fugga lassù – non è una piccola cosa? –
e così la mia vita sarà salva». Gli rispose: «Ecco ti ho favorito anche in questo di non distrugger e la città di cui hai parlato. Presto fuggi là perché io non posso far nulla finché tu non vi sia arriv ato». Perciò quella città si chiamò Soar. Il sole spuntava sulla terra e Lot era arrivato a Soar qua nd’ecco il Signore fece piovere dal cielo sopra Sòdoma e sopra Gomorra zolfo e fuoco provenien ti dal Signore. Distrusse queste città e tutta la valle con tutti gli abitanti delle città e la vegetazio ne del suolo. Ora la moglie di Lot guardò indietro e divenne una statua di sale. Abramo andò di buon mattino al luogo dove si era fermato alla presenza del Signore; contemplò dall’alto Sòdom a e Gomorra e tutta la distesa della valle e vide che un fumo saliva dalla terra come il fumo di u na fornace. Così quando distrusse le città della valle Dio si ricordò di Abramo e fece sfuggire Lot alla catastrofe mentre distruggeva le città nelle quali Lot aveva abitato. Poi Lot partì da Soar e a ndò ad abitare sulla montagna con le sue due figlie, perché temeva di restare a Soar e si stabilì i n una caverna con le sue due figlie. Ora la maggiore disse alla più piccola: «Nostro padre è vecc hio e non c’è nessuno in questo territorio per unirsi a noi come avviene dappertutto. Vieni facci amo bere del vino a nostro padre e poi corichiamoci con lui così daremo vita a una discendenza da nostro padre». Quella notte fecero bere del vino al loro padre e la maggiore andò a coricarsi con il padre; ma egli non se ne accorse né quando lei si coricò né quando lei si alzò. All’indoman i la maggiore disse alla più piccola: «Ecco ieri io mi sono coricata con nostro padre: facciamogli bere del vino anche questa notte e va’ tu a coricarti con lui; così daremo vita a una discendenza da nostro padre». Anche quella notte fecero bere del vino al loro padre e la più piccola andò a c oricarsi con lui; ma egli non se ne accorse né quando lei si coricò né quando lei si alzò. Così le du e figlie di Lot rimasero incinte del loro padre. La maggiore partorì un figlio e lo chiamò Moab. Co stui è il padre dei Moabiti che esistono ancora oggi. Anche la più piccola partorì un figlio e lo chi amò «Figlio del mio popolo». Costui è il padre degli Ammoniti che esistono ancora oggi. Abramo levò le tende dirigendosi nella regione del Negheb e si stabilì tra Kades e Sur; poi soggiornò co me straniero a Gerar. Siccome Abramo aveva detto della moglie Sara: «è mia sorella» Abimèlec
re di Gerar mandò a prendere Sara. Ma Dio venne da Abimèlec di notte in sogno e gli disse: «Ec co stai per morire a causa della donna che tu hai preso; lei appartiene a suo marito». Abimèlec che non si era ancora accostato a lei disse: «Mio Signore vuoi far morire una nazione anche se g iusta? Non è stato forse lui a dirmi: “è mia sorella”? E anche lei ha detto: “è mio fratello”. Con c uore retto e mani innocenti mi sono comportato in questo modo». Gli rispose Dio nel sogno: «S
o bene che hai agito così con cuore retto e ti ho anche impedito di peccare contro di me: perciò non ho permesso che tu la toccassi. Ora restituisci la donna di quest’uomo perché è un profeta: pregherà per te e tu vivrai. Ma se tu non la restituisci sappi che meriterai la morte con tutti i tuo i». Allora Abimèlec si alzò di mattina presto e chiamò tutti i suoi servi ai quali riferì tutte queste cose e quegli uomini si impaurirono molto. Poi Abimèlec chiamò Abramo e gli disse: «Che cosa c i hai fatto? E che colpa ho commesso contro di te perché tu abbia esposto me e il mio regno a u n peccato tanto grande? Tu hai fatto a mio riguardo azioni che non si fanno». Poi Abimèlec diss e ad Abramo: «A che cosa miravi agendo in tal modo?». Rispose Abramo: «Io mi sono detto: cer to non vi sarà timor di Dio in questo luogo e mi uccideranno a causa di mia moglie. Inoltre ella è veramente mia sorella figlia di mio padre ma non figlia di mia madre ed è divenuta mia moglie.
Quando Dio mi ha fatto andare errando lungi dalla casa di mio padre io le dissi: “Questo è il fav ore che tu mi farai: in ogni luogo dove noi arriveremo dirai di me: è mio fratello”». Allora Abimè lec prese greggi e armenti schiavi e schiave li diede ad Abramo e gli restituì la moglie Sara. Inoltr e Abimèlec disse: «Ecco davanti a te il mio territorio: va’ ad abitare dove ti piace!». A Sara disse:
«Ecco ho dato mille pezzi d’argento a tuo fratello: sarà per te come un risarcimento di fronte a quanti sono con te. Così tu sei in tutto riabilitata». Abramo pregò Dio e Dio guarì Abimèlec sua moglie e le sue serve sì che poterono ancora aver figli. Il Signore infatti aveva reso sterili tutte le donne della casa di Abimèlec per il fatto di Sara moglie di Abramo. Il Signore visitò Sara come a veva detto e fece a Sara come aveva promesso. Sara concepì e partorì ad Abramo un figlio nella vecchiaia nel tempo che Dio aveva fissato. Abramo chiamò Isacco il figlio che gli era nato che Sa ra gli aveva partorito. Abramo circoncise suo figlio Isacco quando questi ebbe otto giorni come Dio gli aveva comandato. Abramo aveva cento anni quando gli nacque il figlio Isacco. Allora Sara disse: «Motivo di lieto riso mi ha dato Dio: chiunque lo saprà riderà lietamente di me!». Poi diss e: «Chi avrebbe mai detto ad Abramo che Sara avrebbe allattato figli? Eppure gli ho partorito un figlio nella sua vecchiaia!». Il bambino crebbe e fu svezzato e Abramo fece un grande banchett o quando Isacco fu svezzato. Ma Sara vide che il figlio di Agar l’Egiziana quello che lei aveva part orito ad Abramo, scherzava con il figlio Isacco. Disse allora ad Abramo: «Scaccia questa schiava e suo figlio perché il figlio di questa schiava non deve essere erede con mio figlio Isacco». La cos a sembrò un gran male agli occhi di Abramo a motivo di suo figlio. Ma Dio disse ad Abramo: «N
on sembri male ai tuoi occhi questo riguardo al fanciullo e alla tua schiava: ascolta la voce di Sar a in tutto quello che ti dice perché attraverso Isacco da te prenderà nome una stirpe. Ma io farò diventare una nazione anche il figlio della schiava perché è tua discendenza». Abramo si alzò di buon mattino prese il pane e un otre d’acqua e li diede ad Agar caricandoli sulle sue spalle; le co
nsegnò il fanciullo e la mandò via. Ella se ne andò e si smarrì per il deserto di Bersabea. Tutta l’a cqua dell’otre era venuta a mancare. Allora depose il fanciullo sotto un cespuglio e andò a sede rsi di fronte, alla distanza di un tiro d’arco perché diceva: «Non voglio veder morire il fanciullo!»
. Sedutasi di fronte alzò la voce e pianse. Dio udì la voce del fanciullo e un angelo di Dio chiamò Agar dal cielo e le disse: «Che hai Agar? Non temere perché Dio ha udito la voce del fanciullo là dove si trova. àlzati prendi il fanciullo e tienilo per mano perché io ne farò una grande nazione».
Dio le aprì gli occhi ed ella vide un pozzo d’acqua. Allora andò a riempire l’otre e diede da bere al fanciullo. E Dio fu con il fanciullo che crebbe e abitò nel deserto e divenne un tiratore d’arco.
Egli abitò nel deserto di Paran e sua madre gli prese una moglie della terra d’Egitto. In quel tem po Abimèlec con Picol capo del suo esercito disse ad Abramo: «Dio è con te in quello che fai. Eb bene giurami qui per Dio che tu non ingannerai né me né la mia prole né i miei discendenti: co me io ho agito lealmente con te così tu agirai con me e con la terra nella quale sei ospitato». Ris pose Abramo: «Io lo giuro». Ma Abramo rimproverò Abimèlec a causa di un pozzo d’acqua, che i servi di Abimèlec avevano usurpato. Abimèlec disse: «Io non so chi abbia fatto questa cosa: né tu me ne hai informato né io ne ho sentito parlare prima d’oggi». Allora Abramo prese alcuni ca pi del gregge e dell’armento e li diede ad Abimèlec: tra loro due conclusero un’alleanza. Poi Abr amo mise in disparte sette agnelle del gregge. Abimèlec disse ad Abramo: «Che significano quell e sette agnelle che hai messo in disparte?». Rispose: «Tu accetterai queste sette agnelle dalla m ia mano perché ciò mi valga di testimonianza che ho scavato io questo pozzo». Per questo quel l uogo si chiamò Bersabea perché là fecero giuramento tutti e due. E dopo che ebbero concluso l’
alleanza a Bersabea, Abimèlec si alzò con Picol capo del suo esercito e ritornarono nel territorio dei Filistei. Abramo piantò un tamerisco a Bersabea e lì invocò il nome del Signore, Dio dell’eter nità. E visse come forestiero nel territorio dei Filistei per molto tempo. Dopo queste cose Dio mi se alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Prendi tuo figlio il tu o unigenito che ami Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che i o ti indicherò». Abramo si alzò di buon mattino sellò l’asino prese con sé due servi e il figlio Isac co spaccò la legna per l’olocausto e si mise in viaggio verso il luogo che Dio gli aveva indicato. Il terzo giorno Abramo alzò gli occhi e da lontano vide quel luogo. Allora Abramo disse ai suoi serv i: «Fermatevi qui con l’asino; io e il ragazzo andremo fin lassù ci prostreremo e poi ritorneremo da voi». Abramo prese la legna dell’olocausto e la caricò sul figlio Isacco prese in mano il fuoco e il coltello poi proseguirono tutti e due insieme. Isacco si rivolse al padre Abramo e disse: «Pad re mio!». Rispose: «Eccomi figlio mio». Riprese: «Ecco qui il fuoco e la legna ma dov’è l’agnello per l’olocausto?». Abramo rispose: «Dio stesso si provvederà l’agnello per l’olocausto figlio mio
!». Proseguirono tutti e due insieme. Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abr amo costruì l’altare collocò la legna legò suo figlio Isacco e lo depose sull’altare sopra la legna. P
oi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l’angelo del Signore lo ch iamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». L’angelo disse: «Non stende re la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo
figlio il tuo unigenito». Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato con le corna in u n cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio. Abramo chi amò quel luogo «Il Signore vede» perciò oggi si dice: «Sul monte il Signore si fa vedere». L’angel o del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso oracol o del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio il tuo unigenito io ti col merò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza come le stelle del cielo e co me la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra perché tu hai obbedito alla mia voce». Abramo tornò dai suoi servi; insieme si misero in cammino verso Bersabea e Abram o abitò a Bersabea. Dopo queste cose fu annunciato ad Abramo che anche Milca aveva partorit o figli a Nacor suo fratello: Us il primogenito e suo fratello Buz e Kemuèl il padre di Aram, e Ches ed Azo Pildas Idlaf e Betuèl. Betuèl generò Rebecca. Milca partorì questi otto figli a Nacor fratell o di Abramo. Anche la sua concubina chiamata Reumà partorì figli: Tebach Gacam Tacas e Maac à. Gli anni della vita di Sara furono centoventisette: questi furono gli anni della vita di Sara. Sara morì a Kiriat-Arbà cioè Ebron nella terra di Canaan e Abramo venne a fare il lamento per Sara e a piangerla. P
oi Abramo si staccò dalla salma e parlò agli Ittiti: «Io sono forestiero e di passaggio in mezzo a v oi. Datemi la proprietà di un sepolcro in mezzo a voi perché io possa portar via il morto e seppel lirlo». Allora gli Ittiti risposero ad Abramo dicendogli: «Ascolta noi, piuttosto signore. Tu sei un p rincipe di Dio in mezzo a noi: seppellisci il tuo morto nel migliore dei nostri sepolcri. Nessuno di noi ti proibirà di seppellire il tuo morto nel suo sepolcro». Abramo si alzò si prostrò davanti al p opolo della regione davanti agli Ittiti, e parlò loro: «Se è secondo il vostro desiderio che io porti via il mio morto e lo seppellisca ascoltatemi e insistete per me presso Efron figlio di Socar, perch é mi dia la sua caverna di Macpela che è all’estremità del suo campo. Me la ceda per il suo prezz o intero come proprietà sepolcrale in mezzo a voi». Ora Efron stava seduto in mezzo agli Ittiti. E
fron l’Ittita rispose ad Abramo mentre lo ascoltavano gli Ittiti quanti erano convenuti alla porta della sua città e disse: «Ascolta me piuttosto mio signore: ti cedo il campo con la caverna che vi si trova, in presenza dei figli del mio popolo te la cedo: seppellisci il tuo morto». Allora Abramo si prostrò a lui alla presenza del popolo della regione. Parlò a Efron, mentre lo ascoltava il popol o della regione e disse: «Se solo mi volessi ascoltare: io ti do il prezzo del campo. Accettalo da m e così là seppellirò il mio morto». Efron rispose ad Abramo: «Ascolta me piuttosto mio signore: un terreno del valore di quattrocento sicli d’argento che cosa è mai tra me e te? Seppellisci dun que il tuo morto». Abramo accettò le richieste di Efron e Abramo pesò a Efron il prezzo che que sti aveva detto mentre lo ascoltavano gli Ittiti cioè quattrocento sicli d’argento secondo la misur a in corso sul mercato. Così il campo di Efron che era a Macpela di fronte a Mamre il campo e la caverna che vi si trovava e tutti gli alberi che erano dentro il campo e intorno al suo limite passa rono in proprietà ad Abramo alla presenza degli Ittiti di quanti erano convenuti alla porta della c ittà. Poi Abramo seppellì Sara sua moglie nella caverna del campo di Macpela di fronte a Mamre
cioè Ebron nella terra di Canaan. Il campo e la caverna che vi si trovava passarono dagli Ittiti ad Abramo in proprietà sepolcrale. Abramo era ormai vecchio avanti negli anni e il Signore lo avev a benedetto in tutto. Allora Abramo disse al suo servo il più anziano della sua casa che aveva po tere su tutti i suoi beni: «Metti la mano sotto la mia coscia e ti farò giurare per il Signore Dio del cielo e Dio della terra che non prenderai per mio figlio una moglie tra le figlie dei Cananei, in m ezzo ai quali abito ma che andrai nella mia terra tra la mia parentela a scegliere una moglie per mio figlio Isacco». Gli disse il servo: «Se la donna non mi vuol seguire in questa terra dovrò forse ricondurre tuo figlio alla terra da cui tu sei uscito?». Gli rispose Abramo: «Guàrdati dal ricondur re là mio figlio! Il Signore Dio del cielo e Dio della terra che mi ha preso dalla casa di mio padre e dalla mia terra natia che mi ha parlato e mi ha giurato: “Alla tua discendenza darò questa terra
”, egli stesso manderà il suo angelo davanti a te perché tu possa prendere di là una moglie per mio figlio. Se la donna non vorrà seguirti allora sarai libero dal giuramento a me fatto; ma non d evi ricondurre là mio figlio». Il servo mise la mano sotto la coscia di Abramo suo padrone e gli pr estò così il giuramento richiesto. Il servo prese dieci cammelli del suo padrone e portando ogni sorta di cose preziose del suo padrone si mise in viaggio e andò in Aram Naharàim alla città di N
acor. Fece inginocchiare i cammelli fuori della città presso il pozzo d’acqua, nell’ora della sera q uando le donne escono ad attingere. E disse: «Signore Dio del mio padrone Abramo concedimi un felice incontro quest’oggi e usa bontà verso il mio padrone Abramo! Ecco io sto presso la fon te dell’acqua mentre le figlie degli abitanti della città escono per attingere acqua. Ebbene la rag azza alla quale dirò: “Abbassa l’anfora e lasciami bere” e che risponderà: “Bevi anche ai tuoi ca mmelli darò da bere” sia quella che tu hai destinato al tuo servo Isacco; da questo riconoscerò c he tu hai usato bontà verso il mio padrone». Non aveva ancora finito di parlare quand’ecco Reb ecca che era figlia di Betuèl figlio di Milca moglie di Nacor fratello di Abramo usciva con l’anfora sulla spalla. La giovinetta era molto bella d’aspetto era vergine nessun uomo si era unito a lei. El la scese alla sorgente riempì l’anfora e risalì. Il servo allora le corse incontro e disse: «Fammi ber e un po’ d’acqua dalla tua anfora». Rispose: «Bevi mio signore». In fretta calò l’anfora sul bracci o e lo fece bere. Come ebbe finito di dargli da bere disse: «Anche per i tuoi cammelli ne attinger ò finché non avranno finito di bere». In fretta vuotò l’anfora nell’abbeveratoio corse di nuovo a d attingere al pozzo e attinse per tutti i cammelli di lui. Intanto quell’uomo la contemplava in sil enzio in attesa di sapere se il Signore avesse o no concesso buon esito al suo viaggio. Quando i c ammelli ebbero finito di bere quell’uomo prese un pendente d’oro del peso di mezzo siclo e glie lo mise alle narici e alle sue braccia mise due braccialetti del peso di dieci sicli d’oro. E disse: «Di chi sei figlia? Dimmelo. C’è posto per noi in casa di tuo padre per passarvi la notte?». Gli rispos e: «Io sono figlia di Betuèl il figlio che Milca partorì a Nacor». E soggiunse: «C’è paglia e foraggio in quantità da noi e anche posto per passare la notte». Quell’uomo si inginocchiò e si prostrò al Signore e disse: «Sia benedetto il Signore Dio del mio padrone Abramo che non ha cessato di u sare bontà e fedeltà verso il mio padrone. Quanto a me il Signore mi ha guidato sulla via fino all a casa dei fratelli del mio padrone». La giovinetta corse ad annunciare alla casa di sua madre tut
te queste cose. Ora Rebecca aveva un fratello chiamato Làbano e Làbano corse fuori da quell’uo mo al pozzo. Egli infatti visti il pendente e i braccialetti alle braccia della sorella e udite queste p arole di Rebecca sua sorella: «Così mi ha parlato quell’uomo» andò da lui che stava ancora pres so i cammelli vicino al pozzo. Gli disse: «Vieni benedetto dal Signore! Perché te ne stai fuori me ntre io ho preparato la casa e un posto per i cammelli?». Allora l’uomo entrò in casa e Làbano t olse il basto ai cammelli fornì paglia e foraggio ai cammelli e acqua per lavare i piedi a lui e ai su oi uomini. Quindi gli fu posto davanti da mangiare ma egli disse: «Non mangerò finché non avrò detto quello che devo dire». Gli risposero: «Di’ pure». E disse: «Io sono un servo di Abramo. Il S
ignore ha benedetto molto il mio padrone che è diventato potente: gli ha concesso greggi e arm enti argento e oro schiavi e schiave cammelli e asini. Sara la moglie del mio padrone quando or mai era vecchia gli ha partorito un figlio al quale egli ha dato tutti i suoi beni. E il mio padrone m i ha fatto giurare: “Non devi prendere per mio figlio una moglie tra le figlie dei Cananei in mezzo ai quali abito, ma andrai alla casa di mio padre alla mia famiglia a prendere una moglie per mio figlio”. Io dissi al mio padrone: “Forse la donna non vorrà seguirmi”. Mi rispose: “Il Signore alla c ui presenza io cammino manderà con te il suo angelo e darà felice esito al tuo viaggio così che t u possa prendere una moglie per mio figlio dalla mia famiglia e dalla casa di mio padre. Solo qua ndo sarai andato dalla mia famiglia sarai esente dalla mia maledizione; se loro non volessero ce dertela tu sarai esente dalla mia maledizione”. Così oggi sono arrivato alla fonte e ho detto: “Sig nore Dio del mio padrone Abramo se tu vorrai dare buon esito al viaggio che sto compiendo ecc o io sto presso la fonte d’acqua; ebbene la giovane che uscirà ad attingere alla quale io dirò: Fa mmi bere un po’ d’acqua dalla tua anfora e mi risponderà: Bevi tu e ne attingerò anche per i tuo i cammelli quella sarà la moglie che il Signore ha destinato al figlio del mio padrone”. Io non ave vo ancora finito di pensare a queste cose quand’ecco Rebecca uscì con l’anfora sulla spalla sces e alla fonte e attinse acqua; io allora le dissi: “Fammi bere”. Subito lei calò l’anfora e disse: “Bev i; anche ai tuoi cammelli darò da bere”. Così io bevvi ed ella diede da bere anche ai cammelli. E i o la interrogai: “Di chi sei figlia?”. Rispose: “Sono figlia di Betuèl il figlio che Milca ha partorito a Nacor”. Allora le posi il pendente alle narici e i braccialetti alle braccia. Poi mi inginocchiai e mi prostrai al Signore e benedissi il Signore Dio del mio padrone Abramo il quale mi aveva guidato per la via giusta a prendere per suo figlio la figlia del fratello del mio padrone. Ora se intendete usare bontà e fedeltà verso il mio padrone fatemelo sapere; se no fatemelo sapere ugualmente perché io mi rivolga altrove». Allora Làbano e Betuèl risposero: «La cosa procede dal Signore no n possiamo replicarti nulla né in bene né in male. Ecco Rebecca davanti a te: prendila va’ e sia la moglie del figlio del tuo padrone come ha parlato il Signore». Quando il servo di Abramo udì le l oro parole si prostrò a terra davanti al Signore. Poi il servo estrasse oggetti d’argento oggetti d’
oro e vesti e li diede a Rebecca; doni preziosi diede anche al fratello e alla madre di lei. Poi man giarono e bevvero lui e i suoi uomini e passarono la notte. Quando si alzarono alla mattina egli disse: «Lasciatemi andare dal mio padrone». Ma il fratello e la madre di lei dissero: «Rimanga la giovinetta con noi qualche tempo una decina di giorni; dopo te ne andrai». Rispose loro: «Non t
rattenetemi mentre il Signore ha concesso buon esito al mio viaggio. Lasciatemi partire per and are dal mio padrone!». Dissero allora: «Chiamiamo la giovinetta e domandiamo a lei stessa». Ch iamarono dunque Rebecca e le dissero: «Vuoi partire con quest’uomo?». Ella rispose: «Sì». Allor a essi lasciarono partire la loro sorella Rebecca con la nutrice insieme con il servo di Abramo e i suoi uomini. Benedissero Rebecca e le dissero: «Tu sorella nostra, diventa migliaia di miriadi e la tua stirpe conquisti le città dei suoi nemici!». Così Rebecca e le sue ancelle si alzarono salirono sui cammelli e seguirono quell’uomo. Il servo prese con sé Rebecca e partì. Intanto Isacco rientr ava dal pozzo di Lacai-Roì abitava infatti nella regione del Negheb. Isacco uscì sul far della sera per svagarsi in campag na e alzando gli occhi vide venire i cammelli. Alzò gli occhi anche Rebecca vide Isacco e scese su bito dal cammello. E disse al servo: «Chi è quell’uomo che viene attraverso la campagna incontr o a noi?». Il servo rispose: «è il mio padrone». Allora ella prese il velo e si coprì. Il servo raccont ò a Isacco tutte le cose che aveva fatto. Isacco introdusse Rebecca nella tenda che era stata di s ua madre Sara; si prese in moglie Rebecca e l’amò. Isacco trovò conforto dopo la morte della m adre. Abramo prese un’altra moglie che aveva nome Keturà. Ella gli partorì Zimran Ioksan Meda n Madian Isbak e Suach. Ioksan generò Saba e Dedan e i figli di Dedan furono gli Assurìm i Letusì m e i Leummìm. I figli di Madian furono Efa Efer Enoc Abidà ed Eldaà. Tutti questi sono i figli di K
eturà. Abramo diede tutti i suoi beni a Isacco. Invece ai figli delle concubine, che aveva avuto Ab ramo fece doni e mentre era ancora in vita li licenziò mandandoli lontano da Isacco suo figlio ve rso il levante nella regione orientale. L’intera durata della vita di Abramo fu di centosettantacin que anni. Poi Abramo spirò e morì in felice canizie vecchio e sazio di giorni e si riunì ai suoi ante nati. Lo seppellirono i suoi figli Isacco e Ismaele nella caverna di Macpela nel campo di Efron figli o di Socar l’Ittita di fronte a Mamre. è appunto il campo che Abramo aveva comprato dagli Ittiti: ivi furono sepolti Abramo e sua moglie Sara. Dopo la morte di Abramo Dio benedisse il figlio di l ui Isacco e Isacco abitò presso il pozzo di Lacai-Roì. Questa è la discendenza di Ismaele figlio di Abramo che gli aveva partorito Agar l’Egiziana s chiava di Sara. Questi sono i nomi dei figli d’Ismaele con il loro elenco in ordine di generazione: i l primogenito di Ismaele è Nebaiòt poi Kedar Adbeèl, Mibsam Misma Duma Massa Adad Tema I etur Nafis e Kedma. Questi sono i figli di Ismaele e questi sono i loro nomi secondo i loro recinti e accampamenti. Sono i dodici prìncipi delle rispettive tribù. La durata della vita di Ismaele fu di centotrentasette anni; poi spirò e si riunì ai suoi antenati. Egli abitò da Avìla fino a Sur che è lun go il confine dell’Egitto in direzione di Assur. Egli si era stabilito di fronte a tutti i suoi fratelli. Qu esta è la discendenza di Isacco figlio di Abramo. Abramo aveva generato Isacco. Isacco aveva qu arant’anni quando si prese in moglie Rebecca figlia di Betuèl l’Arameo da Paddan-Aram e sorella di Làbano l’Arameo. Isacco supplicò il Signore per sua moglie perché ella era steri le e il Signore lo esaudì, così che sua moglie Rebecca divenne incinta. Ora i figli si urtavano nel s uo seno ed ella esclamò: «Se è così che cosa mi sta accadendo?». Andò a consultare il Signore. Il Signore le rispose: «Due nazioni sono nel tuo seno e due popoli dal tuo grembo si divideranno;
un popolo sarà più forte dell’altro e il maggiore servirà il più piccolo». Quando poi si compì per l ei il tempo di partorire ecco due gemelli erano nel suo grembo. Uscì il primo rossiccio e tutto co me un mantello di pelo e fu chiamato Esaù. Subito dopo uscì il fratello e teneva in mano il calca gno di Esaù fu chiamato Giacobbe. Isacco aveva sessant’anni quando essi nacquero. I fanciulli cr ebbero ed Esaù divenne abile nella caccia un uomo della steppa mentre Giacobbe era un uomo tranquillo che dimorava sotto le tende. Isacco prediligeva Esaù, perché la cacciagione era di suo gusto mentre Rebecca prediligeva Giacobbe. Una volta Giacobbe aveva cotto una minestra; Esa ù arrivò dalla campagna ed era sfinito. Disse a Giacobbe: «Lasciami mangiare un po’ di questa m inestra rossa, perché io sono sfinito». Per questo fu chiamato Edom. Giacobbe disse: «Vendimi subito la tua primogenitura». Rispose Esaù: «Ecco sto morendo: a che mi serve allora la primog enitura?». Giacobbe allora disse: «Giuramelo subito». Quegli lo giurò e vendette la primogenitu ra a Giacobbe. Giacobbe diede a Esaù il pane e la minestra di lenticchie; questi mangiò e bevve poi si alzò e se ne andò. A tal punto Esaù aveva disprezzato la primogenitura. Venne una caresti a nella terra dopo quella che c’era stata ai tempi di Abramo e Isacco andò a Gerar presso Abimè lec re dei Filistei. Gli apparve il Signore e gli disse: «Non scendere in Egitto abita nella terra che i o ti indicherò rimani come forestiero in questa terra e io sarò con te e ti benedirò: a te e alla tua discendenza io concederò tutti questi territori e manterrò il giuramento che ho fatto ad Abram o tuo padre. Renderò la tua discendenza numerosa come le stelle del cielo e concederò alla tua discendenza tutti questi territori: tutte le nazioni della terra si diranno benedette nella tua disce ndenza; perché Abramo ha obbedito alla mia voce e ha osservato ciò che io gli avevo prescritto: i miei comandamenti le mie istituzioni e le mie leggi». Così Isacco dimorò a Gerar. Gli uomini de l luogo gli fecero domande sulla moglie ma egli disse: «è mia sorella» infatti aveva timore di dire
: «è mia moglie» pensando che gli uomini del luogo lo avrebbero potuto uccidere a causa di Reb ecca che era di bell’aspetto. Era là da molto tempo quando Abimèlec re dei Filistei si affacciò all a finestra e vide Isacco scherzare con la propria moglie Rebecca. Abimèlec chiamò Isacco e disse
: «Sicuramente ella è tua moglie. E perché tu hai detto: “è mia sorella”?». Gli rispose Isacco: «Pe rché mi son detto: che io non abbia a morire per causa di lei!». Riprese Abimèlec: «Perché ti sei comportato così con noi? Poco ci mancava che qualcuno del popolo si unisse a tua moglie e tu a ttirassi su di noi una colpa». Abimèlec diede quest’ordine a tutto il popolo: «Chi tocca quest’uo mo o sua moglie sarà messo a morte!». Isacco fece una semina in quella terra e raccolse quell’a nno il centuplo. Il Signore infatti lo aveva benedetto. E l’uomo divenne ricco e crebbe tanto in ri cchezze fino a divenire ricchissimo: possedeva greggi e armenti e numerosi schiavi e i Filistei co minciarono a invidiarlo. Tutti i pozzi che avevano scavato i servi di suo padre ai tempi di Abramo suo padre i Filistei li avevano chiusi riempiendoli di terra. Abimèlec disse a Isacco: «Vattene via da noi perché tu sei molto più potente di noi». Isacco andò via di là si accampò lungo il torrente di Gerar e vi si stabilì. Isacco riattivò i pozzi d’acqua che avevano scavato i servi di suo padre Abr amo e che i Filistei avevano chiuso dopo la morte di Abramo e li chiamò come li aveva chiamati suo padre. I servi di Isacco scavarono poi nella valle e vi trovarono un pozzo di acqua viva. Ma i
pastori di Gerar litigarono con i pastori di Isacco dicendo: «L’acqua è nostra!». Allora egli chiam ò il pozzo Esek perché quelli avevano litigato con lui. Scavarono un altro pozzo ma quelli litigaro no anche per questo ed egli lo chiamò Sitna. Si mosse di là e scavò un altro pozzo per il quale no n litigarono; allora egli lo chiamò Recobòt e disse: «Ora il Signore ci ha dato spazio libero perché noi prosperiamo nella terra». Di là salì a Bersabea. E in quella notte gli apparve il Signore e diss e: «Io sono il Dio di Abramo tuo padre; non temere perché io sono con te: ti benedirò e moltipli cherò la tua discendenza a causa di Abramo mio servo». Allora egli costruì in quel luogo un altar e e invocò il nome del Signore. Lì piantò la tenda e i servi di Isacco scavarono un pozzo. Intanto Abimèlec da Gerar era andato da lui insieme con Acuzzàt suo consigliere e Picol capo del suo es ercito. Isacco disse loro: «Perché siete venuti da me mentre voi mi odiate e mi avete scacciato d a voi?». Gli risposero: «Abbiamo visto che il Signore è con te e abbiamo detto: vi sia tra noi un gi uramento tra noi e te, e concludiamo un’alleanza con te: tu non ci farai alcun male come noi no n ti abbiamo toccato e non ti abbiamo fatto se non del bene e ti abbiamo lasciato andare in pac e. Tu sei ora un uomo benedetto dal Signore». Allora imbandì loro un convito e mangiarono e b evvero. Alzatisi di buon mattino si prestarono giuramento l’un l’altro poi Isacco li congedò e par tirono da lui in pace. Proprio in quel giorno arrivarono i servi di Isacco e lo informarono a propo sito del pozzo che avevano scavato e gli dissero: «Abbiamo trovato l’acqua». Allora egli lo chiam ò Siba: per questo la città si chiama Bersabea ancora oggi. Quando Esaù ebbe quarant’anni pres e in moglie Giuditta figlia di Beerì l’Ittita e Basmat figlia di Elon l’Ittita. Esse furono causa d’intim a amarezza per Isacco e per Rebecca. Isacco era vecchio e gli occhi gli si erano così indeboliti ch e non ci vedeva più. Chiamò il figlio maggiore Esaù e gli disse: «Figlio mio». Gli rispose: «Eccomi
». Riprese: «Vedi io sono vecchio e ignoro il giorno della mia morte. Ebbene prendi le tue armi l a tua farètra e il tuo arco va’ in campagna e caccia per me della selvaggina. Poi preparami un pia tto di mio gusto e portamelo; io lo mangerò affinché possa benedirti prima di morire». Ora Reb ecca ascoltava, mentre Isacco parlava al figlio Esaù. Andò dunque Esaù in campagna a caccia di s elvaggina da portare a casa. Rebecca disse al figlio Giacobbe: «Ecco ho sentito tuo padre dire a t uo fratello Esaù: “Portami della selvaggina e preparami un piatto lo mangerò e poi ti benedirò al la presenza del Signore prima di morire”. Ora figlio mio, da’ retta a quel che ti ordino. Va’ subito al gregge e prendimi di là due bei capretti; io preparerò un piatto per tuo padre secondo il suo gusto. Così tu lo porterai a tuo padre che ne mangerà perché ti benedica prima di morire». Risp ose Giacobbe a Rebecca sua madre: «Sai bene che mio fratello Esaù è peloso mentre io ho la pe lle liscia. Forse mio padre mi toccherà e si accorgerà che mi prendo gioco di lui e attirerò sopra di me una maledizione invece di una benedizione». Ma sua madre gli disse: «Ricada pure su di me la tua maledizione, figlio mio! Tu dammi retta e va’ a prendermi i capretti». Allora egli andò a prenderli e li portò alla madre così la madre ne fece un piatto secondo il gusto di suo padre. R
ebecca prese i vestiti più belli del figlio maggiore Esaù che erano in casa presso di lei e li fece ind ossare al figlio minore Giacobbe; con le pelli dei capretti rivestì le sue braccia e la parte liscia del collo. Poi mise in mano a suo figlio Giacobbe il piatto e il pane che aveva preparato. Così egli ve
nne dal padre e disse: «Padre mio». Rispose: «Eccomi; chi sei tu figlio mio?». Giacobbe rispose a l padre: «Io sono Esaù il tuo primogenito. Ho fatto come tu mi hai ordinato. àlzati dunque siediti e mangia la mia selvaggina, perché tu mi benedica». Isacco disse al figlio: «Come hai fatto prest o a trovarla figlio mio!». Rispose: «Il Signore tuo Dio me l’ha fatta capitare davanti». Ma Isacco g li disse: «Avvicìnati e lascia che ti tocchi figlio mio per sapere se tu sei proprio il mio figlio Esaù o no». Giacobbe si avvicinò a Isacco suo padre il quale lo toccò e disse: «La voce è la voce di Giac obbe ma le braccia sono le braccia di Esaù ». Così non lo riconobbe perché le sue braccia erano pelose come le braccia di suo fratello Esaù e lo benedisse. Gli disse ancora: «Tu sei proprio il mi o figlio Esaù?». Rispose: «Lo sono». Allora disse: «Servimi perché possa mangiare della selvaggi na di mio figlio e ti benedica». Gliene servì ed egli mangiò gli portò il vino ed egli bevve. Poi suo padre Isacco gli disse: «Avvicìnati e baciami figlio mio!». Gli si avvicinò e lo baciò. Isacco aspirò l’
odore degli abiti di lui e lo benedisse: «Ecco l’odore del mio figlio come l’odore di un campo che il Signore ha benedetto. Dio ti conceda rugiada dal cielo, terre grasse frumento e mosto in abb ondanza. Popoli ti servano e genti si prostrino davanti a te. Sii il signore dei tuoi fratelli e si pros trino davanti a te i figli di tua madre. Chi ti maledice sia maledetto e chi ti benedice sia benedett o!». Isacco aveva appena finito di benedire Giacobbe e Giacobbe si era allontanato dal padre Isa cco quando tornò dalla caccia Esaù suo fratello. Anch’egli preparò un piatto lo portò al padre e gli disse: «Si alzi mio padre e mangi la selvaggina di suo figlio per potermi benedire». Gli disse su o padre Isacco: «Chi sei tu?». Rispose: «Io sono il tuo figlio primogenito Esaù ». Allora Isacco fu colto da un fortissimo tremito e disse: «Chi era dunque colui che ha preso la selvaggina e me l’h a portata? Io ho mangiato tutto prima che tu giungessi poi l’ho benedetto e benedetto resterà»
. Quando Esaù sentì le parole di suo padre scoppiò in alte amarissime grida. Disse a suo padre: «
Benedici anche me padre mio!». Rispose: «è venuto tuo fratello con inganno e ha carpito la ben edizione che spettava a te». Riprese: «Forse perché si chiama Giacobbe mi ha soppiantato già d ue volte? Già ha carpito la mia primogenitura ed ecco ora ha carpito la mia benedizione!». E sog giunse: «Non hai forse in serbo qualche benedizione per me?». Isacco rispose e disse a Esaù: «E
cco io l’ho costituito tuo signore e gli ho dato come servi tutti i suoi fratelli; l’ho provveduto di fr umento e di mosto; ora per te che cosa mai potrei fare figlio mio?». Esaù disse al padre: «Hai un a sola benedizione, padre mio? Benedici anche me padre mio!». Esaù alzò la voce e pianse. Allo ra suo padre Isacco prese la parola e gli disse: «Ecco la tua abitazione sarà lontano dalle terre gr asse, lontano dalla rugiada del cielo dall’alto. Vivrai della tua spada e servirai tuo fratello; ma ve rrà il giorno che ti riscuoterai, spezzerai il suo giogo dal tuo collo». Esaù perseguitò Giacobbe pe r la benedizione che suo padre gli aveva dato. Pensò Esaù: «Si avvicinano i giorni del lutto per m io padre; allora ucciderò mio fratello Giacobbe». Ma furono riferite a Rebecca le parole di Esaù suo figlio maggiore ed ella mandò a chiamare il figlio minore Giacobbe e gli disse: «Esaù tuo frat ello vuole vendicarsi di te e ucciderti. Ebbene figlio mio dammi retta: su fuggi a Carran da mio fr atello Làbano. Rimarrai con lui qualche tempo finché l’ira di tuo fratello si sarà placata. Quando la collera di tuo fratello contro di te si sarà placata e si sarà dimenticato di quello che gli hai fatt
o allora io manderò a prenderti di là. Perché dovrei venir privata di voi due in un solo giorno?».
E Rebecca disse a Isacco: «Ho disgusto della mia vita a causa delle donne ittite: se Giacobbe pre nde moglie tra le Ittite come queste tra le ragazze della regione a che mi giova la vita?». Allora I sacco chiamò Giacobbe lo benedisse e gli diede questo comando: «Tu non devi prender moglie tra le figlie di Canaan. Su va’ in Paddan-Aram nella casa di Betuèl padre di tua madre e prenditi là una moglie tra le figlie di Làbano frate llo di tua madre. Ti benedica Dio l’Onnipotente ti renda fecondo e ti moltiplichi sì che tu diveng a un insieme di popoli. Conceda la benedizione di Abramo a te e alla tua discendenza con te per ché tu possieda la terra che Dio ha dato ad Abramo dove tu sei stato forestiero». Così Isacco fec e partire Giacobbe che andò in Paddan-Aram presso Làbano figlio di Betuèl l’Arameo fratello di Rebecca madre di Giacobbe e di Esaù. E
saù vide che Isacco aveva benedetto Giacobbe e l’aveva mandato in Paddan-Aram per prendersi una moglie originaria di là e che mentre lo benediceva gli aveva dato quest o comando: «Non devi prender moglie tra le Cananee». Giacobbe obbedendo al padre e alla ma dre era partito per Paddan-Aram. Esaù comprese che le figlie di Canaan non erano gradite a suo padre Isacco. Allora si recò da Ismaele e oltre le mogli che aveva si prese in moglie Macalàt figlia di Ismaele figlio di Abram o sorella di Nebaiòt. Giacobbe partì da Bersabea e si diresse verso Carran. Capitò così in un luog o dove passò la notte perché il sole era tramontato; prese là una pietra se la pose come guancia le e si coricò in quel luogo. Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra mentre la sua cima rag giungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa. Ecco il Signore gli sta va davanti e disse: «Io sono il Signore il Dio di Abramo tuo padre e il Dio di Isacco. A te e alla tua discendenza darò la terra sulla quale sei coricato. La tua discendenza sarà innumerevole come l a polvere della terra; perciò ti espanderai a occidente e a oriente a settentrione e a mezzogiorn o. E si diranno benedette in te e nella tua discendenza tutte le famiglie della terra. Ecco, io sono con te e ti proteggerò dovunque tu andrai; poi ti farò ritornare in questa terra, perché non ti ab bandonerò senza aver fatto tutto quello che ti ho detto». Giacobbe si svegliò dal sonno e disse:
«Certo il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo». Ebbe timore e disse: «Quanto è terribile questo luogo! Questa è proprio la casa di Dio questa è la porta del cielo». La mattina Giacobbe si alzò prese la pietra che si era posta come guanciale la eresse come una stele e versò olio sulla sua sommità. E chiamò quel luogo Betel mentre prima di allora la città si chiamava Luz. Giacob be fece questo voto: «Se Dio sarà con me e mi proteggerà in questo viaggio che sto facendo e m i darà pane da mangiare e vesti per coprirmi se ritornerò sano e salvo alla casa di mio padre il Si gnore sarà il mio Dio. Questa pietra che io ho eretto come stele sarà una casa di Dio; di quanto mi darai, io ti offrirò la decima». Giacobbe si mise in cammino e andò nel territorio degli orienta li. Vide nella campagna un pozzo e tre greggi di piccolo bestiame distese vicino perché a quel po zzo si abbeveravano le greggi. Sulla bocca del pozzo c’era una grande pietra: solo quando tutte l e greggi si erano radunate là i pastori facevano rotolare la pietra dalla bocca del pozzo e abbeve
ravano il bestiame; poi rimettevano la pietra al suo posto sulla bocca del pozzo. Giacobbe disse loro: «Fratelli miei di dove siete?». Risposero: «Siamo di Carran». Disse loro: «Conoscete Làban o figlio di Nacor?». Risposero: «Lo conosciamo». Poi domandò: «Sta bene?». Risposero: «Sì ecc o sua figlia Rachele che viene con il gregge». Riprese: «Eccoci ancora in pieno giorno: non è tem po di radunare il bestiame. Date da bere al bestiame e andate a pascolare!». Ed essi risposero:
«Non possiamo finché non si siano radunate tutte le greggi e si rotoli la pietra dalla bocca del p ozzo; allora faremo bere il gregge». Egli stava ancora parlando con loro quando arrivò Rachele c on il bestiame del padre; era infatti una pastorella. Quando Giacobbe vide Rachele figlia di Làba no fratello di sua madre insieme con il bestiame di Làbano fratello di sua madre Giacobbe fattos i avanti fece rotolare la pietra dalla bocca del pozzo e fece bere le pecore di Làbano fratello di s ua madre. Poi Giacobbe baciò Rachele e pianse ad alta voce. Giacobbe rivelò a Rachele che egli era parente del padre di lei perché figlio di Rebecca. Allora ella corse a riferirlo al padre. Quand o Làbano seppe che era Giacobbe il figlio di sua sorella, gli corse incontro lo abbracciò lo baciò e lo condusse nella sua casa. Ed egli raccontò a Làbano tutte queste vicende. Allora Làbano gli dis se: «Davvero tu sei mio osso e mia carne!». Così restò presso di lui per un mese. Poi Làbano diss e a Giacobbe: «Poiché sei mio parente dovrai forse prestarmi servizio gratuitamente? Indicami quale deve essere il tuo salario». Ora Làbano aveva due figlie; la maggiore si chiamava Lia e la pi ù piccola si chiamava Rachele. Lia aveva gli occhi smorti mentre Rachele era bella di forme e avv enente di aspetto, perciò Giacobbe s’innamorò di Rachele. Disse dunque: «Io ti servirò sette an ni per Rachele tua figlia minore». Rispose Làbano: «Preferisco darla a te piuttosto che a un estra neo. Rimani con me». Così Giacobbe servì sette anni per Rachele: gli sembrarono pochi giorni ta nto era il suo amore per lei. Poi Giacobbe disse a Làbano: «Dammi la mia sposa perché i giorni s ono terminati e voglio unirmi a lei». Allora Làbano radunò tutti gli uomini del luogo e diede un b anchetto. Ma quando fu sera egli prese la figlia Lia e la condusse da lui ed egli si unì a lei. Làban o diede come schiava alla figlia Lia la sua schiava Zilpa. Quando fu mattina… ecco era Lia! Allora Giacobbe disse a Làbano: «Che cosa mi hai fatto? Non sono stato al tuo servizio per Rachele? Pe rché mi hai ingannato?». Rispose Làbano: «Non si usa far così dalle nostre parti non si dà in spo sa la figlia più piccola prima della primogenita. Finisci questa settimana nuziale poi ti darò anche l’altra per il servizio che tu presterai presso di me per altri sette anni». E così fece Giacobbe: ter minò la settimana nuziale e allora Làbano gli diede in moglie la figlia Rachele. Làbano diede com e schiava alla figlia Rachele la sua schiava Bila. Giacobbe si unì anche a Rachele e amò Rachele p iù di Lia. Fu ancora al servizio di lui per altri sette anni. Ora il Signore vedendo che Lia veniva tra scurata la rese feconda mentre Rachele rimaneva sterile. Così Lia concepì e partorì un figlio e lo chiamò Ruben, perché disse: «Il Signore ha visto la mia umiliazione; certo ora mio marito mi am erà». Concepì ancora e partorì un figlio e disse: «Il Signore ha udito che io ero trascurata e mi h a dato anche questo». E lo chiamò Simeone. Concepì ancora e partorì un figlio e disse: «Questa volta mio marito mi si affezionerà, perché gli ho partorito tre figli». Per questo lo chiamò Levi. C
oncepì ancora e partorì un figlio e disse: «Questa volta loderò il Signore». Per questo lo chiamò
Giuda. E cessò di avere figli. Rachele vedendo che non le era concesso di dare figli a Giacobbe di venne gelosa della sorella e disse a Giacobbe: «Dammi dei figli se no io muoio!». Giacobbe s’irri tò contro Rachele e disse: «Tengo forse io il posto di Dio il quale ti ha negato il frutto del gremb o?». Allora ella rispose: «Ecco la mia serva Bila: unisciti a lei, partorisca sulle mie ginocchia cosic ché per mezzo di lei abbia anch’io una mia prole». Così ella gli diede in moglie la propria schiava Bila e Giacobbe si unì a lei. Bila concepì e partorì a Giacobbe un figlio. Rachele disse: «Dio mi ha fatto giustizia e ha anche ascoltato la mia voce dandomi un figlio». Per questo ella lo chiamò Da n. Bila la schiava di Rachele concepì ancora e partorì a Giacobbe un secondo figlio. Rachele disse
: «Ho sostenuto contro mia sorella lotte tremende e ho vinto!». E lo chiamò Nèftali. Allora Lia v edendo che aveva cessato di aver figli prese la propria schiava Zilpa e la diede in moglie a Giaco bbe. Zilpa la schiava di Lia partorì a Giacobbe un figlio. Lia esclamò: «Per fortuna!» e lo chiamò Gad. Zilpa la schiava di Lia partorì un secondo figlio a Giacobbe. Lia disse: «Per mia felicità! Cert amente le donne mi chiameranno beata». E lo chiamò Aser. Al tempo della mietitura del grano Ruben uscì e trovò delle mandragore che portò alla madre Lia. Rachele disse a Lia: «Dammi un p o’ delle mandragore di tuo figlio». Ma Lia rispose: «Ti sembra poco avermi portato via il marito perché ora tu voglia portare via anche le mandragore di mio figlio?». Riprese Rachele: «Ebbene Giacobbe si corichi pure con te questa notte ma dammi in cambio le mandragore di tuo figlio».
La sera quando Giacobbe arrivò dalla campagna Lia gli uscì incontro e gli disse: «Da me devi ven ire perché io ho pagato il diritto di averti con le mandragore di mio figlio». Così egli si coricò con lei quella notte. Il Signore esaudì Lia la quale concepì e partorì a Giacobbe un quinto figlio. Lia d isse: «Dio mi ha dato il mio salario perché ho dato la mia schiava a mio marito». E lo chiamò ìssa car. Lia concepì e partorì ancora un sesto figlio a Giacobbe. Lia disse: «Dio mi ha fatto un bel reg alo: questa volta mio marito mi preferirà perché gli ho partorito sei figli». E lo chiamò Zàbulon. I n seguito partorì una figlia e la chiamò Dina. Dio si ricordò anche di Rachele; Dio la esaudì e la re se feconda. Ella concepì e partorì un figlio e disse: «Dio ha tolto il mio disonore». E lo chiamò Gi useppe dicendo: «Il Signore mi aggiunga un altro figlio!». Dopo che Rachele ebbe partorito Gius eppe Giacobbe disse a Làbano: «Lasciami andare e tornare a casa mia nella mia terra. Dammi le mogli per le quali ti ho servito e i miei bambini perché possa partire: tu conosci il servizio che ti ho prestato». Gli disse Làbano: «Se ho trovato grazia ai tuoi occhi… Per divinazione ho saputo c he il Signore mi ha benedetto per causa tua». E aggiunse: «Fissami il tuo salario e te lo darò». Gl i rispose: «Tu stesso sai come ti ho servito e quanto sono cresciuti i tuoi averi per opera mia. Pe rché il poco che avevi prima della mia venuta è aumentato oltre misura e il Signore ti ha benede tto sui miei passi. Ma ora quando lavorerò anch’io per la mia casa?». Riprese Làbano: «Che cosa ti devo dare?». Giacobbe rispose: «Non mi devi nulla; se tu farai per me quanto ti dico, ritorner ò a pascolare il tuo gregge e a custodirlo. Oggi passerò fra tutto il tuo bestiame; tu metti da part e ogni capo di colore scuro tra le pecore e ogni capo chiazzato e punteggiato tra le capre: sarà il mio salario. In futuro la mia stessa onestà risponderà per me; quando verrai a verificare il mio s alario ogni capo che non sarà punteggiato o chiazzato tra le capre e di colore scuro tra le pecore
se si troverà presso di me sarà come rubato». Làbano disse: «Bene sia come tu hai detto!». In q uel giorno mise da parte i capri striati e chiazzati e tutte le capre punteggiate e chiazzate ogni ca po che aveva del bianco e ogni capo di colore scuro tra le pecore. Li affidò ai suoi figli e stabilì u na distanza di tre giorni di cammino tra sé e Giacobbe mentre Giacobbe pascolava l’altro bestia me di Làbano. Ma Giacobbe prese rami freschi di pioppo di mandorlo e di platano ne intagliò la corteccia a strisce bianche mettendo a nudo il bianco dei rami. Mise i rami così scortecciati nei c analetti agli abbeveratoi dell’acqua dove veniva a bere il bestiame bene in vista per le bestie ch e andavano in calore quando venivano a bere. Così le bestie andarono in calore di fronte ai rami e le capre figliarono capretti striati punteggiati e chiazzati. Quanto alle pecore Giacobbe le sepa rò e fece sì che le bestie avessero davanti a loro gli animali striati e tutti quelli di colore scuro de l gregge di Làbano. E i branchi che si era così formato per sé non li mise insieme al gregge di Làb ano. Ogni qualvolta andavano in calore bestie robuste Giacobbe metteva i rami nei canaletti in vista delle bestie per farle concepire davanti ai rami. Quando invece le bestie erano deboli non l i metteva. Così i capi di bestiame deboli erano per Làbano e quelli robusti per Giacobbe. Egli si a rricchì oltre misura e possedette greggi in grande quantità, schiave e schiavi cammelli e asini. Gi acobbe venne a sapere che i figli di Làbano dicevano: «Giacobbe si è preso tutto quello che avev a nostro padre e con quanto era di nostro padre si è fatto questa grande fortuna». Giacobbe os servò anche la faccia di Làbano e si accorse che verso di lui non era più come prima. Il Signore di sse a Giacobbe: «Torna alla terra dei tuoi padri nella tua famiglia e io sarò con te». Allora Giaco bbe mandò a chiamare Rachele e Lia in campagna presso il suo gregge e disse loro: «Io mi accor go dal volto di vostro padre che egli verso di me non è più come prima; ma il Dio di mio padre è stato con me. Sapete voi stesse che ho servito vostro padre con tutte le mie forze mentre vostr o padre si è beffato di me e ha cambiato dieci volte il mio salario; ma Dio non gli ha permesso di farmi del male. Se egli diceva: “Le bestie punteggiate saranno il tuo salario” tutto il gregge figlia va bestie punteggiate; se diceva: “Le bestie striate saranno il tuo salario” allora tutto il gregge fi gliava bestie striate. Così Dio ha sottratto il bestiame a vostro padre e l’ha dato a me. Una volta nel tempo in cui il piccolo bestiame va in calore io in sogno alzai gli occhi e vidi che i capri in pro cinto di montare le bestie erano striati punteggiati e chiazzati. L’angelo di Dio mi disse in sogno:
“Giacobbe!”. Risposi: “Eccomi”. Riprese: “Alza gli occhi e guarda: tutti i capri che montano le be stie sono striati punteggiati e chiazzati perché ho visto come ti tratta Làbano. Io sono il Dio di Be tel dove tu hai unto una stele e dove mi hai fatto un voto. Ora àlzati parti da questa terra e torn a nella terra della tua famiglia!”». Rachele e Lia gli risposero: «Abbiamo forse ancora una parte o una eredità nella casa di nostro padre? Non siamo forse tenute in conto di straniere da parte sua dal momento che ci ha vendute e si è anche mangiato il nostro denaro? Tutta la ricchezza c he Dio ha sottratto a nostro padre è nostra e dei nostri figli. Ora fa’ pure quello che Dio ti ha det to». Allora Giacobbe si alzò caricò i figli e le mogli sui cammelli e condusse via tutto il bestiame e tutti gli averi che si era acquistato il bestiame che si era acquistato in Paddan-Aram per ritornare da Isacco suo padre nella terra di Canaan. Làbano era andato a tosare il greg
ge e Rachele rubò gli idoli che appartenevano al padre. Giacobbe eluse l’attenzione di Làbano l’
Arameo non lasciando trapelare che stava per fuggire; così poté andarsene con tutti i suoi averi.
Si mosse dunque passò il Fiume e si diresse verso le montagne di Gàlaad. Il terzo giorno fu riferi to a Làbano che Giacobbe era fuggito. Allora egli prese con sé i suoi parenti lo inseguì per sette giorni di cammino e lo raggiunse sulle montagne di Gàlaad. Ma Dio venne da Làbano, l’Arameo i n un sogno notturno e gli disse: «Bada di non dir niente a Giacobbe né in bene né in male!». Làb ano andò dunque a raggiungere Giacobbe. Ora Giacobbe aveva piantato la tenda sulle montagn e e Làbano si era accampato con i parenti sulle montagne di Gàlaad. Disse allora Làbano a Giaco bbe: «Che cosa hai fatto? Hai eluso la mia attenzione e hai condotto via le mie figlie come prigio niere di guerra! Perché sei fuggito di nascosto mi hai ingannato e non mi hai avvertito? Io ti avre i congedato con festa e con canti a suon di tamburelli e di cetre! E non mi hai permesso di bacia re i miei figli e le mie figlie! Certo hai agito in modo insensato. Sarebbe in mio potere farti del m ale ma il Dio di tuo padre mi ha parlato la notte scorsa: “Bada di non dir niente a Giacobbe né in bene né in male!”. Certo sei partito perché soffrivi di nostalgia per la casa di tuo padre; ma perc hé hai rubato i miei dèi?». Giacobbe rispose a Làbano e disse: «Perché avevo paura e pensavo c he mi avresti tolto con la forza le tue figlie. Ma quanto a colui presso il quale tu troverai i tuoi d èi non resterà in vita! Alla presenza dei nostri parenti verifica quanto vi può essere di tuo presso di me e riprendilo». Giacobbe non sapeva che li aveva rubati Rachele. Allora Làbano entrò nella tenda di Giacobbe e poi nella tenda di Lia e nella tenda delle due schiave ma non trovò nulla. P
oi uscì dalla tenda di Lia ed entrò nella tenda di Rachele. Rachele aveva preso gli idoli e li aveva messi nella sella del cammello poi vi si era seduta sopra così Làbano frugò in tutta la tenda ma n on li trovò. Ella parlò al padre: «Non si offenda il mio signore se io non posso alzarmi davanti a t e perché ho quello che avviene di regola alle donne». Làbano cercò ma non trovò gli idoli. Giaco bbe allora si adirò e apostrofò Làbano al quale disse: «Qual è il mio delitto qual è il mio peccato perché ti accanisca contro di me? Ora che hai frugato tra tutti i miei oggetti che cosa hai trovato di tutte le cose di casa tua? Mettilo qui davanti ai miei e tuoi parenti e siano essi giudici tra noi due. Vent’anni ho passato con te: le tue pecore e le tue capre non hanno abortito e non ho mai mangiato i montoni del tuo gregge. Nessuna bestia sbranata ti ho portato a mio discarico: io ste sso ne compensavo il danno e tu reclamavi da me il risarcimento sia di quanto veniva rubato di giorno sia di quanto veniva rubato di notte. Di giorno mi divorava il caldo e di notte il gelo e il so nno fuggiva dai miei occhi. Vent’anni sono stato in casa tua: ho servito quattordici anni per le tu e due figlie e sei anni per il tuo gregge e tu hai cambiato il mio salario dieci volte. Se il Dio di mio padre il Dio di Abramo e il Terrore di Isacco non fosse stato con me tu ora mi avresti licenziato a mani vuote; ma Dio ha visto la mia afflizione e la fatica delle mie mani e la scorsa notte egli ha fatto da arbitro». Làbano allora rispose e disse a Giacobbe: «Queste figlie sono le mie figlie e q uesti figli sono i miei figli; questo bestiame è il mio bestiame e quanto tu vedi è mio. E che cosa potrei fare oggi a queste mie figlie o ai figli che hanno messo al mondo? Ebbene vieni, concludia mo un’alleanza io e te e ci sia un testimone tra me e te». Giacobbe prese una pietra e la eresse
come stele. Poi disse ai suoi parenti: «Raccogliete pietre» e quelli presero pietre e ne fecero un mucchio; e su quel mucchio mangiarono. Làbano lo chiamò Iegar-Saadutà mentre Giacobbe lo chiamò Gal-
Ed. Làbano disse: «Questo mucchio è oggi un testimone tra me e te» per questo lo chiamò Gal-Ed e anche Mispa perché disse: «Il Signore starà di vedetta tra me e te quando noi non ci vedre mo più l’un l’altro. Se tu maltratterai le mie figlie e se prenderai altre mogli oltre le mie figlie sa ppi che non un uomo è con noi ma Dio è testimone tra me e te». Soggiunse Làbano a Giacobbe:
«Ecco questo mucchio ed ecco questa stele che io ho eretto tra me e te. Questo mucchio è testi mone e questa stele è testimone che io giuro di non oltrepassare questo mucchio dalla tua part e e che tu giuri di non oltrepassare questo mucchio e questa stele dalla mia parte per fare il mal e. Il Dio di Abramo e il Dio di Nacor siano giudici tra di noi». Giacobbe giurò per il Terrore di Isac co suo padre. Poi offrì un sacrificio sulle montagne e invitò i suoi parenti a prender cibo. Essi ma ngiarono e passarono la notte sulle montagne. Làbano si alzò di buon mattino baciò i figli e le fi glie e li benedisse. Poi partì e ritornò a casa. Mentre Giacobbe andava per la sua strada gli si fec ero incontro gli angeli di Dio. Giacobbe al vederli disse: «Questo è l’accampamento di Dio» e chi amò quel luogo Macanàim. Poi Giacobbe mandò avanti a sé alcuni messaggeri al fratello Esaù n ella regione di Seir la campagna di Edom. Diede loro questo comando: «Direte al mio signore Es aù: “Dice il tuo servo Giacobbe: Sono restato come forestiero presso Làbano e vi sono rimasto fi no ad ora. Sono venuto in possesso di buoi asini e greggi di schiavi e schiave. Ho mandato a info rmarne il mio signore per trovare grazia ai suoi occhi”». I messaggeri tornarono da Giacobbe dic endo: «Siamo stati da tuo fratello Esaù ora egli stesso sta venendoti incontro e ha con sé quattr ocento uomini». Giacobbe si spaventò molto e si sentì angustiato; allora divise in due accampa menti la gente che era con lui il gregge gli armenti e i cammelli. Pensava infatti: «Se Esaù raggiu nge un accampamento e lo sconfigge l’altro si salverà». Giacobbe disse: «Dio del mio padre Abr amo e Dio del mio padre Isacco Signore che mi hai detto: “Ritorna nella tua terra e tra la tua par entela e io ti farò del bene” io sono indegno di tutta la bontà e di tutta la fedeltà che hai usato v erso il tuo servo. Con il mio solo bastone avevo passato questo Giordano e ora sono arrivato al punto di formare due accampamenti. Salvami dalla mano di mio fratello, dalla mano di Esaù per ché io ho paura di lui: che egli non arrivi e colpisca me e senza riguardi, madri e bambini! Eppur e tu hai detto: “Ti farò del bene e renderò la tua discendenza tanto numerosa come la sabbia de l mare che non si può contare”». Giacobbe rimase in quel luogo a passare la notte. Poi prese da ciò che gli capitava tra mano un dono per il fratello Esaù: duecento capre e venti capri duecento pecore e venti montoni trenta cammelle che allattavano con i loro piccoli quaranta giovenche e dieci torelli venti asine e dieci asinelli. Egli affidò ai suoi servi i singoli branchi separatamente e disse loro: «Passate davanti a me e lasciate una certa distanza tra un branco e l’altro». Diede qu est’ordine al primo: «Quando ti incontrerà Esaù mio fratello e ti domanderà: “A chi appartieni?
Dove vai? Di chi sono questi animali che ti camminano davanti?” tu risponderai: “Di tuo fratello Giacobbe; è un dono inviato al mio signore Esaù ecco egli stesso ci segue”». Lo stesso ordine die
de anche al secondo e anche al terzo e a quanti seguivano i branchi: «Queste parole voi rivolger ete ad Esaù quando lo incontrerete; gli direte: “Anche il tuo servo Giacobbe ci segue”». Pensava infatti: «Lo placherò con il dono che mi precede e in seguito mi presenterò a lui; forse mi accogl ierà con benevolenza». Così il dono passò prima di lui mentre egli trascorse quella notte nell’acc ampamento. Durante quella notte egli si alzò prese le due mogli le due schiave i suoi undici ba mbini e passò il guado dello Iabbok. Li prese fece loro passare il torrente e portò di là anche tutt i i suoi averi. Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. Veden do che non riusciva a vincerlo lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò mentre continuava a lottare con lui. Quello disse: «Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora». Giacobbe rispose: «Non ti lascerò se non mi avrai benedetto!». Gli domand ò: «Come ti chiami?». Rispose: «Giacobbe». Riprese: «Non ti chiamerai più Giacobbe ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!». Giacobbe allora gli chiese: «Svela mi il tuo nome». Gli rispose: «Perché mi chiedi il nome?». E qui lo benedisse. Allora Giacobbe ch iamò quel luogo Penuèl: «Davvero – disse –
ho visto Dio faccia a faccia eppure la mia vita è rimasta salva». Spuntava il sole quando Giacobb e passò Penuèl e zoppicava all’anca. Per questo gli Israeliti fino ad oggi non mangiano il nervo sc iatico che è sopra l’articolazione del femore perché quell’uomo aveva colpito l’articolazione del femore di Giacobbe nel nervo sciatico. Giacobbe alzò gli occhi e vide arrivare Esaù che aveva co n sé quattrocento uomini. Allora distribuì i bambini tra Lia Rachele e le due schiave; alla testa m ise le schiave con i loro bambini più indietro Lia con i suoi bambini e più indietro Rachele e Gius eppe. Egli passò davanti a loro e si prostrò sette volte fino a terra mentre andava avvicinandosi al fratello. Ma Esaù gli corse incontro lo abbracciò gli si gettò al collo lo baciò e piansero. Alzàti g li occhi vide le donne e i bambini e domandò: «Chi sono questi con te?». Giacobbe rispose: «So no i bambini che Dio si è compiaciuto di dare al tuo servo». Allora si fecero avanti le schiave con i loro bambini e si prostrarono. Si fecero avanti anche Lia e i suoi bambini e si prostrarono e infi ne si fecero avanti Giuseppe e Rachele e si prostrarono. Domandò ancora: «Che cosa vuoi fare d i tutta questa carovana che ho incontrato?». Rispose: «è per trovar grazia agli occhi del mio sign ore». Esaù disse: «Ho beni in abbondanza fratello mio resti per te quello che è tuo!». Ma Giacob be disse: «No ti prego se ho trovato grazia ai tuoi occhi accetta dalla mia mano il mio dono perc hé io sto alla tua presenza come davanti a Dio e tu mi hai gradito. Accetta il dono augurale che t i è stato presentato perché Dio mi ha favorito e sono provvisto di tutto!». Così egli insistette e q uegli accettò. Esaù disse: «Partiamo e mettiamoci in viaggio: io camminerò davanti a te». Gli ris pose: «Il mio signore sa che i bambini sono delicati e che devo aver cura delle greggi e degli arm enti che allattano: se si affaticassero anche un giorno solo tutte le bestie morirebbero. Il mio sig nore passi prima del suo servo mentre io mi sposterò con mio agio tenendo il passo di questo b estiame che mi precede e dei bambini finché arriverò presso il mio signore in Seir». Disse allora Esaù: «Almeno possa lasciare con te una parte della gente che ho con me!». Rispose: «Ma perc hé? Basta solo che io trovi grazia agli occhi del mio signore!». Così quel giorno stesso Esaù ritorn
ò per conto proprio in Seir. Giacobbe invece partì per Succot dove costruì una casa per sé e fece capanne per il gregge. Per questo chiamò quel luogo Succot. Giacobbe arrivò sano e salvo alla c ittà di Sichem che è nella terra di Canaan al ritorno da Paddan-Aram e si accampò di fronte alla città. Acquistò dai figli di Camor padre di Sichem per cento pez zi d’argento quella porzione di campagna dove aveva piantato la tenda. Qui eresse un altare e l o chiamò «El Dio d’Israele». Dina la figlia che Lia aveva partorito a Giacobbe uscì a vedere le rag azze del posto. Ma la notò Sichem figlio di Camor l’Eveo principe di quel territorio la rapì e si cor icò con lei facendole violenza. Ma poi egli rimase legato a Dina, figlia di Giacobbe; s’innamorò d ella giovane e le rivolse parole di conforto. Quindi disse a Camor suo padre: «Prendimi in moglie questa ragazza». Intanto Giacobbe aveva saputo che quello aveva disonorato sua figlia Dina ma i suoi figli erano in campagna con il suo bestiame e Giacobbe tacque fino al loro arrivo. Venne d unque Camor padre di Sichem da Giacobbe per parlare con lui. Quando i figli di Giacobbe tornar ono dalla campagna sentito l’accaduto ne furono addolorati e s’indignarono molto perché quegl i coricandosi con la figlia di Giacobbe aveva commesso un’infamia in Israele: così non si doveva f are! Camor disse loro: «Sichem mio figlio è innamorato della vostra figlia; vi prego dategliela in moglie! Anzi imparentatevi con noi: voi darete a noi le vostre figlie e vi prenderete per voi le no stre figlie. Abiterete con noi e la terra sarà a vostra disposizione; potrete risiedervi percorrerla i n lungo e in largo e acquistare proprietà». Sichem disse al padre e ai fratelli di lei: «Possa io trov are grazia agli occhi vostri; vi darò quel che mi direte. Alzate pure molto a mio carico il prezzo n uziale e il valore del dono; vi darò quanto mi chiederete ma concedetemi la giovane in moglie!»
. Allora i figli di Giacobbe risposero a Sichem e a suo padre Camor e parlarono con inganno, poic hé quegli aveva disonorato la loro sorella Dina. Dissero loro: «Non possiamo fare questo dare la nostra sorella a un uomo non circonciso perché ciò sarebbe un disonore per noi. Acconsentire mo alla vostra richiesta solo a questa condizione: diventare come noi, circoncidendo ogni vostro maschio. In tal caso noi vi daremo le nostre figlie e ci prenderemo le vostre abiteremo con voi e diventeremo un solo popolo. Ma se voi non ci ascoltate a proposito della nostra circoncisione p renderemo la nostra ragazza e ce ne andremo». Le loro parole piacquero a Camor e a Sichem fig lio di Camor. Il giovane non indugiò a eseguire la cosa perché amava la figlia di Giacobbe; d’altra parte era il più onorato di tutto il casato di suo padre. Vennero dunque Camor e il figlio Sichem alla porta della loro città e parlarono agli uomini della città: «Questi uomini sono gente pacifica con noi: abitino pure con noi nel territorio e lo percorrano in lungo e in largo; esso è molto ampi o per loro in ogni direzione. Noi potremo prendere in moglie le loro figlie e potremo dare loro le nostre. Ma questi uomini a una condizione acconsentiranno ad abitare con noi per diventare u n unico popolo: se noi circoncidiamo ogni nostro maschio come loro stessi sono circoncisi. I loro armenti la loro ricchezza e tutto il loro bestiame non diverranno forse nostri? Accontentiamoli dunque e possano abitare con noi!». Quanti si radunavano alla porta della sua città ascoltarono Camor e il figlio Sichem: tutti i maschi quanti si radunavano alla porta della città si fecero circon cidere. Ma il terzo giorno quand’essi erano sofferenti i due figli di Giacobbe Simeone e Levi i frat
elli di Dina presero ciascuno la propria spada entrarono indisturbati nella città e uccisero tutti i maschi. Passarono così a fil di spada Camor e suo figlio Sichem portarono via Dina dalla casa di S
ichem e si allontanarono. I figli di Giacobbe si buttarono sui cadaveri e saccheggiarono la città p erché quelli avevano disonorato la loro sorella. Presero le loro greggi e i loro armenti i loro asini e quanto era nella città e nella campagna. Portarono via come bottino tutte le loro ricchezze tut ti i loro bambini e le loro donne e saccheggiarono quanto era nelle case. Allora Giacobbe disse a Simeone e a Levi: «Voi mi avete rovinato rendendomi odioso agli abitanti della regione ai Cana nei e ai Perizziti. Io ho solo pochi uomini; se essi si raduneranno contro di me mi vinceranno e io sarò annientato con la mia casa». Risposero: «Si tratta forse la nostra sorella come una prostitu ta?». Dio disse a Giacobbe: «àlzati sali a Betel e abita là costruisci in quel luogo un altare al Dio c he ti è apparso quando fuggivi lontano da Esaù tuo fratello». Allora Giacobbe disse alla sua fami glia e a quanti erano con lui: «Eliminate gli dèi degli stranieri che avete con voi purificatevi e ca mbiate gli abiti. Poi alziamoci e saliamo a Betel dove io costruirò un altare al Dio che mi ha esau dito al tempo della mia angoscia ed è stato con me nel cammino che ho percorso». Essi consegn arono a Giacobbe tutti gli dèi degli stranieri che possedevano e i pendenti che avevano agli orec chi e Giacobbe li sotterrò sotto la quercia presso Sichem. Poi partirono e un grande terrore assa lì le città all’intorno così che non inseguirono i figli di Giacobbe. Giacobbe e tutta la gente che er a con lui arrivarono a Luz cioè Betel che è nella terra di Canaan. Qui egli costruì un altare e chia mò quel luogo El-Betel perché là Dio gli si era rivelato quando fuggiva lontano da suo fratello. Allora morì Dèbora la nutrice di Rebecca e fu sepolta al di sotto di Betel ai piedi della quercia. Così essa prese il nom e di Quercia del Pianto. Dio apparve un’altra volta a Giacobbe durante il ritorno da Paddan-Aram e lo benedisse. Dio gli disse: «Il tuo nome è Giacobbe. Ma non ti chiamerai più Giacobbe: I sraele sarà il tuo nome». Così lo si chiamò Israele. Dio gli disse: «Io sono Dio l’Onnipotente. Sii f econdo e diventa numeroso; deriveranno da te una nazione e un insieme di nazioni, e re usciran no dai tuoi fianchi. Darò a te la terra che ho concesso ad Abramo e a Isacco e dopo di te, la darò alla tua stirpe». Dio disparve da lui dal luogo dove gli aveva parlato. Allora Giacobbe eresse una stele dove gli aveva parlato una stele di pietra e su di essa fece una libagione e versò olio. Giac obbe chiamò Betel il luogo dove Dio gli aveva parlato. Quindi partirono da Betel. Mancava anco ra un tratto di cammino per arrivare a èfrata, quando Rachele partorì ed ebbe un parto difficile.
Mentre penava a partorire la levatrice le disse: «Non temere: anche questa volta avrai un figlio
!». Ormai moribonda quando stava per esalare l’ultimo respiro lei lo chiamò Ben-Onì ma suo padre lo chiamò Beniamino. Così Rachele morì e fu sepolta lungo la strada verso èfr ata cioè Betlemme. Giacobbe eresse sulla sua tomba una stele. è la stele della tomba di Rachele che esiste ancora oggi. Poi Israele partì e piantò la tenda al di là di Migdal-Eder. Mentre Israele abitava in quel territorio Ruben andò a unirsi con Bila concubina del padre e Israele lo venne a sapere. I figli di Giacobbe furono dodici. Figli di Lia: Ruben il primogenito di Giacobbe poi Simeone Levi Giuda ìssacar e Zàbulon; figli di Rachele: Giuseppe e Beniamino; figli
di Bila schiava di Rachele: Dan e Nèftali; figli di Zilpa schiava di Lia: Gad e Aser. Questi sono i figli di Giacobbe che gli nacquero in Paddan-Aram. Giacobbe venne da suo padre Isacco a Mamre a Kiriat-
Arbà cioè Ebron dove Abramo e Isacco avevano soggiornato come forestieri. Isacco raggiunse l’
età di centoottant’anni. Poi Isacco spirò morì e si riunì ai suoi antenati vecchio e sazio di giorni.
Lo seppellirono i suoi figli Esaù e Giacobbe. Questa è la discendenza di Esaù cioè Edom. Esaù pre se le sue mogli tra le figlie dei Cananei: Ada figlia di Elon l’Ittita; Oolibamà figlia di Anà figlio di Si beon l’Urrita; Basmat figlia di Ismaele sorella di Nebaiòt. Ada partorì a Esaù Elifaz Basmat partor ì Reuèl Oolibamà partorì Ieus Ialam e Core. Questi sono i figli di Esaù che gli nacquero nella terr a di Canaan. Poi Esaù prese con sé le mogli i figli e le figlie e tutte le persone della sua casa il suo gregge e tutto il suo bestiame e tutti i suoi beni che aveva acquistati nella terra di Canaan e and ò in una regione lontano dal fratello Giacobbe. Infatti i loro possedimenti erano troppo grandi p erché essi potessero abitare insieme e il territorio dove soggiornavano come forestieri non bast ava a sostenerli a causa del loro bestiame. Così Esaù si stabilì sulle montagne di Seir. Esaù è Edo m. Questa è la discendenza di Esaù padre degli Edomiti nelle montagne di Seir. Questi sono i no mi dei figli di Esaù: Elifaz figlio di Ada moglie di Esaù Reuèl figlio di Basmat moglie di Esaù. I figli di Elifaz furono: Teman Omar, Sefò Gatam Kenaz. Timna era concubina di Elifaz figlio di Esaù e gl i generò Amalèk. Questi sono i figli di Ada moglie di Esaù. Questi sono i figli di Reuèl: Nacat e Ze rach Sammà e Mizzà. Questi furono i figli di Basmat moglie di Esaù. Questi furono i figli di Oolib amà moglie di Esaù figlia di Anà figlio di Sibeon; ella partorì a Esaù Ieus Ialam e Core. Questi son o i capi dei figli di Esaù: i figli di Elifaz primogenito di Esaù: il capo di Teman il capo di Omar il ca po di Sefò il capo di Kenaz il capo di Core il capo di Gatam il capo di Amalèk. Questi sono i capi d i Elifaz nel territorio di Edom: questi sono i figli di Ada. Questi sono i figli di Reuèl figlio di Esaù: il capo di Nacat il capo di Zerach il capo di Sammà il capo di Mizzà. Questi sono i capi di Reuèl nel territorio di Edom; questi sono i figli di Basmat moglie di Esaù. Questi sono i figli di Oolibamà m oglie di Esaù: il capo di Ieus il capo di Ialam il capo di Core. Questi sono i capi di Oolibamà figlia di Anà moglie di Esaù. Questi sono i figli di Esaù e questi i loro capi. Questo è il popolo degli Edo miti. Questi sono i figli di Seir l’Urrita che abitano la regione: Lotan Sobal Sibeon, Anà Dison Eser e Disan. Questi sono i capi degli Urriti figli di Seir nel territorio di Edom. I figli di Lotan furono Or ì e Emam e la sorella di Lotan era Timna. I figli di Sobal sono Alvan Manàcat Ebal Sefò e Onam. I figli di Sibeon sono Aià e Anà fu proprio Anà che trovò le sorgenti calde nel deserto mentre pasc olava gli asini del padre Sibeon. I figli di Anà sono Dison e Oolibamà. I figli di Dison sono Chemda n Esban Itran e Cheran. I figli di Eser sono Bilan Zaavan e Akan. I figli di Disan sono Us e Aran. Qu esti sono i capi degli Urriti: il capo di Lotan il capo di Sobal il capo di Sibeon il capo di Anà il capo di Dison il capo di Eser il capo di Disan. Questi sono i capi degli Urriti secondo le loro tribù nella regione di Seir. Questi sono i re che regnarono nel territorio di Edom prima che regnasse un re s ugli Israeliti. Regnò dunque in Edom Bela figlio di Beor e la sua città si chiamava Dinaba. Bela m orì e al suo posto regnò Iobab figlio di Zerach da Bosra. Iobab morì e al suo posto regnò Cusam
del territorio dei Temaniti. Cusam morì e al suo posto regnò Adad figlio di Bedad colui che vinse i Madianiti nelle steppe di Moab; la sua città si chiamava Avìt. Adad morì e al suo posto regnò S
amla da Masrekà. Samla morì e al suo posto regnò Saul da Recobòt-
Naar. Saul morì e al suo posto regnò Baal-Canan figlio di Acbor. Baal-Canan figlio di Acbor morì e al suo posto regnò Adar: la sua città si chiama Pau e la moglie si chi amava Meetabèl figlia di Matred, figlia di Me-Zaab. Questi sono i nomi dei capi di Esaù secondo le loro famiglie le loro località con i loro nomi: il capo di Timna il capo di Alva il capo di Ietet il capo di Oolibamà il capo di Ela il capo di Pinon il capo di Kenaz il capo di Teman il capo di Mibsar il capo di Magdièl il capo di Iram. Questi sono i capi di Edom secondo le loro sedi nel territorio di loro proprietà. è questi Esaù il padre degli Edo miti. Giacobbe si stabilì nella terra dove suo padre era stato forestiero nella terra di Canaan. Qu esta è la discendenza di Giacobbe. Giuseppe all’età di diciassette anni pascolava il gregge con i s uoi fratelli. Essendo ancora giovane stava con i figli di Bila e i figli di Zilpa mogli di suo padre. Or a Giuseppe riferì al padre di chiacchiere maligne su di loro. Israele amava Giuseppe più di tutti i suoi figli, perché era il figlio avuto in vecchiaia e gli aveva fatto una tunica con maniche lunghe. I suoi fratelli vedendo che il loro padre amava lui più di tutti i suoi figli lo odiavano e non riusciva no a parlargli amichevolmente. Ora Giuseppe fece un sogno e lo raccontò ai fratelli che lo odiar ono ancora di più. Disse dunque loro: «Ascoltate il sogno che ho fatto. Noi stavamo legando cov oni in mezzo alla campagna quand’ecco il mio covone si alzò e restò diritto e i vostri covoni si po sero attorno e si prostrarono davanti al mio». Gli dissero i suoi fratelli: «Vuoi forse regnare su di noi o ci vuoi dominare?». Lo odiarono ancora di più a causa dei suoi sogni e delle sue parole. Eg li fece ancora un altro sogno e lo narrò ai fratelli e disse: «Ho fatto ancora un sogno sentite: il so le la luna e undici stelle si prostravano davanti a me». Lo narrò dunque al padre e ai fratelli. Ma il padre lo rimproverò e gli disse: «Che sogno è questo che hai fatto! Dovremo forse venire io tu a madre e i tuoi fratelli a prostrarci fino a terra davanti a te?». I suoi fratelli perciò divennero inv idiosi di lui mentre il padre tenne per sé la cosa. I suoi fratelli erano andati a pascolare il gregge del loro padre a Sichem. Israele disse a Giuseppe: «Sai che i tuoi fratelli sono al pascolo a Siche m? Vieni ti voglio mandare da loro». Gli rispose: «Eccomi!». Gli disse: «Va’ a vedere come stann o i tuoi fratelli e come sta il bestiame poi torna a darmi notizie». Lo fece dunque partire dalla va lle di Ebron ed egli arrivò a Sichem. Mentre egli si aggirava per la campagna lo trovò un uomo c he gli domandò: «Che cosa cerchi?». Rispose: «Sono in cerca dei miei fratelli. Indicami dove si tr ovano a pascolare». Quell’uomo disse: «Hanno tolto le tende di qui; li ho sentiti dire: “Andiamo a Dotan!”». Allora Giuseppe ripartì in cerca dei suoi fratelli e li trovò a Dotan. Essi lo videro da lo ntano e prima che giungesse vicino a loro complottarono contro di lui per farlo morire. Si disser o l’un l’altro: «Eccolo! è arrivato il signore dei sogni! Orsù uccidiamolo e gettiamolo in una cister na! Poi diremo: “Una bestia feroce l’ha divorato!”. Così vedremo che ne sarà dei suoi sogni!». M
a Ruben sentì e volendo salvarlo dalle loro mani disse: «Non togliamogli la vita». Poi disse loro:
«Non spargete il sangue gettatelo in questa cisterna che è nel deserto ma non colpitelo con la v
ostra mano»: egli intendeva salvarlo dalle loro mani e ricondurlo a suo padre. Quando Giuseppe fu arrivato presso i suoi fratelli, essi lo spogliarono della sua tunica quella tunica con le maniche lunghe che egli indossava, lo afferrarono e lo gettarono nella cisterna: era una cisterna vuota s enz’acqua. Poi sedettero per prendere cibo. Quand’ecco alzando gli occhi videro arrivare una ca rovana di Ismaeliti provenienti da Gàlaad con i cammelli carichi di resina balsamo e làudano, ch e andavano a portare in Egitto. Allora Giuda disse ai fratelli: «Che guadagno c’è a uccidere il nos tro fratello e a coprire il suo sangue? Su vendiamolo agli Ismaeliti e la nostra mano non sia contr o di lui perché è nostro fratello e nostra carne». I suoi fratelli gli diedero ascolto. Passarono alcu ni mercanti madianiti; essi tirarono su ed estrassero Giuseppe dalla cisterna e per venti sicli d’ar gento vendettero Giuseppe agli Ismaeliti. Così Giuseppe fu condotto in Egitto. Quando Ruben to rnò alla cisterna ecco Giuseppe non c’era più. Allora si stracciò le vesti tornò dai suoi fratelli e di sse: «Il ragazzo non c’è più e io dove andrò?». Allora presero la tunica di Giuseppe sgozzarono u n capro e intinsero la tunica nel sangue. Poi mandarono al padre la tunica con le maniche lungh e e gliela fecero pervenire con queste parole: «Abbiamo trovato questa; per favore verifica se è la tunica di tuo figlio o no». Egli la riconobbe e disse: «è la tunica di mio figlio! Una bestia feroce l’ha divorato. Giuseppe è stato sbranato». Giacobbe si stracciò le vesti si pose una tela di sacco attorno ai fianchi e fece lutto sul suo figlio per molti giorni. Tutti i figli e le figlie vennero a conso larlo ma egli non volle essere consolato dicendo: «No io scenderò in lutto da mio figlio negli infe ri». E il padre suo lo pianse. Intanto i Madianiti lo vendettero in Egitto a Potifàr eunuco del fara one e comandante delle guardie. In quel tempo Giuda si separò dai suoi fratelli e si stabilì press o un uomo di Adullàm di nome Chira. Qui Giuda notò la figlia di un Cananeo chiamato Sua la pre se in moglie e si unì a lei. Ella concepì e partorì un figlio e lo chiamò Er. Concepì ancora e partorì un figlio e lo chiamò Onan. Ancora un’altra volta partorì un figlio e lo chiamò Sela. Egli si trovav a a Chezìb quando lei lo partorì. Giuda scelse per il suo primogenito Er una moglie che si chiama va Tamar. Ma Er primogenito di Giuda si rese odioso agli occhi del Signore e il Signore lo fece m orire. Allora Giuda disse a Onan: «Va’ con la moglie di tuo fratello compi verso di lei il dovere di cognato e assicura così una posterità a tuo fratello». Ma Onan sapeva che la prole non sarebbe stata considerata come sua; ogni volta che si univa alla moglie del fratello disperdeva il seme pe r terra per non dare un discendente al fratello. Ciò che egli faceva era male agli occhi del Signor e il quale fece morire anche lui. Allora Giuda disse alla nuora Tamar: «Ritorna a casa da tuo padr e come vedova fin quando il mio figlio Sela sarà cresciuto». Perché pensava: «Che non muoia an che questo come i suoi fratelli!». Così Tamar se ne andò e ritornò alla casa di suo padre. Trascor sero molti giorni e morì la figlia di Sua moglie di Giuda. Quando Giuda ebbe finito il lutto si recò a Timna da quelli che tosavano il suo gregge e con lui c’era Chira il suo amico di Adullàm. La noti zia fu data a Tamar: «Ecco tuo suocero va a Timna per la tosatura del suo gregge». Allora Tamar si tolse gli abiti vedovili si coprì con il velo e se lo avvolse intorno poi si pose a sedere all’ingress o di Enàim che è sulla strada per Timna. Aveva visto infatti che Sela era ormai cresciuto ma lei n on gli era stata data in moglie. Quando Giuda la vide la prese per una prostituta perché essa si e
ra coperta la faccia. Egli si diresse su quella strada verso di lei e disse: «Lascia che io venga con t e!». Non sapeva infatti che era sua nuora. Ella disse: «Che cosa mi darai per venire con me?». Ri spose: «Io ti manderò un capretto del gregge». Ella riprese: «Mi lasci qualcosa in pegno fin quan do non me lo avrai mandato?». Egli domandò: «Qual è il pegno che devo dare?». Rispose: «Il tu o sigillo il tuo cordone e il bastone che hai in mano». Allora Giuda glieli diede e si unì a lei. Ella ri mase incinta. Poi si alzò e se ne andò si tolse il velo e riprese gli abiti vedovili. Giuda mandò il ca pretto per mezzo del suo amico di Adullàm per riprendere il pegno dalle mani di quella donna ma quello non la trovò. Domandò agli uomini di quel luogo: «Dov’è quella prostituta che stava a Enàim sulla strada?». Ma risposero: «Qui non c’è stata alcuna prostituta». Così tornò da Giuda e disse: «Non l’ho trovata; anche gli uomini di quel luogo dicevano: “Qui non c’è stata alcuna pr ostituta”». Allora Giuda disse: «Si tenga quello che ha! Altrimenti ci esponiamo agli scherni. Ecc o: le ho mandato questo capretto ma tu non l’hai trovata». Circa tre mesi dopo fu portata a Giu da questa notizia: «Tamar tua nuora si è prostituita e anzi è incinta a causa delle sue prostituzio ni». Giuda disse: «Conducetela fuori e sia bruciata!». Mentre veniva condotta fuori ella mandò a dire al suocero: «Io sono incinta dell’uomo a cui appartengono questi oggetti». E aggiunse: «P
er favore, verifica di chi siano questo sigillo questi cordoni e questo bastone». Giuda li riconobb e e disse: «Lei è più giusta di me: infatti io non l’ho data a mio figlio Sela». E non ebbe più rappo rti con lei. Quando giunse per lei il momento di partorire ecco aveva nel grembo due gemelli. D
urante il parto uno di loro mise fuori una mano e la levatrice prese un filo scarlatto e lo legò att orno a quella mano dicendo: «Questi è uscito per primo». Ma poi questi ritirò la mano ed ecco v enne alla luce suo fratello. Allora ella esclamò: «Come ti sei aperto una breccia?» e fu chiamato Peres. Poi uscì suo fratello che aveva il filo scarlatto alla mano e fu chiamato Zerach. Giuseppe e ra stato portato in Egitto e Potifàr eunuco del faraone e comandante delle guardie un Egiziano l o acquistò da quegli Ismaeliti che l’avevano condotto laggiù. Il Signore fu con Giuseppe: a lui tut to riusciva bene e rimase nella casa dell’Egiziano, suo padrone. Il suo padrone si accorse che il Si gnore era con lui e che il Signore faceva riuscire per mano sua quanto egli intraprendeva. Così G
iuseppe trovò grazia agli occhi di lui e divenne suo servitore personale; anzi quello lo nominò su o maggiordomo e gli diede in mano tutti i suoi averi. Da quando egli lo aveva fatto suo maggior domo e incaricato di tutti i suoi averi il Signore benedisse la casa dell’Egiziano grazie a Giuseppe e la benedizione del Signore fu su quanto aveva sia in casa sia nella campagna. Così egli lasciò t utti i suoi averi nelle mani di Giuseppe e non si occupava più di nulla se non del cibo che mangia va. Ora Giuseppe era bello di forma e attraente di aspetto. Dopo questi fatti la moglie del padro ne mise gli occhi su Giuseppe e gli disse: «Còricati con me!». Ma egli rifiutò e disse alla moglie d el suo padrone: «Vedi il mio signore non mi domanda conto di quanto è nella sua casa e mi ha d ato in mano tutti i suoi averi. Lui stesso non conta più di me in questa casa; non mi ha proibito n ient’altro se non te perché sei sua moglie. Come dunque potrei fare questo grande male e pecc are contro Dio?». E benché giorno dopo giorno ella parlasse a Giuseppe in tal senso, egli non ac cettò di coricarsi insieme per unirsi a lei. Un giorno egli entrò in casa per fare il suo lavoro ment
re non c’era alcuno dei domestici. Ella lo afferrò per la veste dicendo: «Còricati con me!». Ma eg li le lasciò tra le mani la veste fuggì e se ne andò fuori. Allora lei vedendo che egli le aveva lascia to tra le mani la veste ed era fuggito fuori, chiamò i suoi domestici e disse loro: «Guardate ci ha condotto in casa un Ebreo per divertirsi con noi! Mi si è accostato per coricarsi con me ma io ho gridato a gran voce. Egli appena ha sentito che alzavo la voce e chiamavo ha lasciato la veste ac canto a me, è fuggito e se ne è andato fuori». Ed ella pose accanto a sé la veste di lui finché il pa drone venne a casa. Allora gli disse le stesse cose: «Quel servo ebreo che tu ci hai condotto in c asa mi si è accostato per divertirsi con me. Ma appena io ho gridato e ho chiamato ha abbando nato la veste presso di me ed è fuggito fuori». Il padrone, all’udire le parole che sua moglie gli ri peteva: «Proprio così mi ha fatto il tuo servo!» si accese d’ira. Il padrone prese Giuseppe e lo mi se nella prigione, dove erano detenuti i carcerati del re. Così egli rimase là in prigione. Ma il Sign ore fu con Giuseppe gli accordò benevolenza e gli fece trovare grazia agli occhi del comandante della prigione. Così il comandante della prigione affidò a Giuseppe tutti i carcerati che erano nel la prigione e quanto c’era da fare là dentro lo faceva lui. Il comandante della prigione non si pre ndeva più cura di nulla di quanto era affidato a Giuseppe perché il Signore era con lui e il Signor e dava successo a tutto quanto egli faceva. Dopo questi fatti il coppiere del re d’Egitto e il panet tiere offesero il loro padrone, il re d’Egitto. Il faraone si adirò contro i suoi due eunuchi il capo d ei coppieri e il capo dei panettieri e li fece mettere in custodia nella casa del comandante delle g uardie nella prigione dove Giuseppe era detenuto. Il comandante delle guardie assegnò loro Giu seppe perché li accudisse. Così essi restarono nel carcere per un certo tempo. Ora in una medes ima notte il coppiere e il panettiere del re d’Egitto detenuti nella prigione ebbero tutti e due un sogno ciascuno il suo sogno con un proprio significato. Alla mattina Giuseppe venne da loro e li vide abbattuti. Allora interrogò gli eunuchi del faraone che erano con lui in carcere nella casa de l suo padrone e disse: «Perché oggi avete la faccia così triste?». Gli risposero: «Abbiamo fatto u n sogno e non c’è chi lo interpreti». Giuseppe replicò loro: «Non è forse Dio che ha in suo poter e le interpretazioni? Raccontatemi dunque». Allora il capo dei coppieri raccontò il suo sogno a G
iuseppe e gli disse: «Nel mio sogno ecco mi stava davanti una vite sulla quale vi erano tre tralci; non appena cominciò a germogliare apparvero i fiori e i suoi grappoli maturarono gli acini. Io te nevo in mano il calice del faraone; presi gli acini li spremetti nella coppa del faraone poi diedi la coppa in mano al faraone». Giuseppe gli disse: «Eccone l’interpretazione: i tre tralci rappresent ano tre giorni. Fra tre giorni il faraone solleverà la tua testa e ti reintegrerà nella tua carica e tu porgerai il calice al faraone secondo la consuetudine di prima quando eri il suo coppiere. Se poi nella tua fortuna volessi ricordarti che sono stato con te trattami ti prego con bontà: ricordami al faraone per farmi uscire da questa casa. Perché io sono stato portato via ingiustamente dalla terra degli Ebrei e anche qui non ho fatto nulla perché mi mettessero in questo sotterraneo». Al lora il capo dei panettieri vedendo che l’interpretazione era favorevole disse a Giuseppe: «Quan to a me nel mio sogno tenevo sul capo tre canestri di pane bianco e nel canestro che stava di so pra c’era ogni sorta di cibi per il faraone quali si preparano dai panettieri. Ma gli uccelli li mangi
avano dal canestro che avevo sulla testa». Giuseppe rispose e disse: «Questa è l’interpretazione
: i tre canestri rappresentano tre giorni. Fra tre giorni il faraone solleverà la tua testa e ti impicc herà a un palo e gli uccelli ti mangeranno la carne addosso». Appunto al terzo giorno che era il g iorno natalizio del faraone questi fece un banchetto per tutti i suoi ministri e allora sollevò la tes ta del capo dei coppieri e la testa del capo dei panettieri in mezzo ai suoi ministri. Reintegrò il c apo dei coppieri nel suo ufficio di coppiere perché porgesse la coppa al faraone; invece impiccò il capo dei panettieri secondo l’interpretazione che Giuseppe aveva loro data. Ma il capo dei co ppieri non si ricordò di Giuseppe e lo dimenticò. Due anni dopo il faraone sognò di trovarsi pres so il Nilo. Ed ecco, salirono dal Nilo sette vacche belle di aspetto e grasse e si misero a pascolare tra i giunchi. Ed ecco dopo quelle salirono dal Nilo altre sette vacche brutte di aspetto e magre e si fermarono accanto alle prime vacche sulla riva del Nilo. Le vacche brutte di aspetto e magre divorarono le sette vacche belle di aspetto e grasse. E il faraone si svegliò. Poi si addormentò e sognò una seconda volta: ecco sette spighe spuntavano da un unico stelo grosse e belle. Ma do po quelle ecco spuntare altre sette spighe vuote e arse dal vento d’oriente. Le spighe vuote ing hiottirono le sette spighe grosse e piene. Il faraone si svegliò: era stato un sogno. Alla mattina il suo spirito ne era turbato perciò convocò tutti gli indovini e tutti i saggi dell’Egitto. Il faraone rac contò loro il sogno ma nessuno sapeva interpretarlo al faraone. Allora il capo dei coppieri parlò al faraone: «Io devo ricordare oggi le mie colpe. Il faraone si era adirato contro i suoi servi e li av eva messi in carcere nella casa del capo delle guardie sia me sia il capo dei panettieri. Noi facem mo un sogno nella stessa notte io e lui; ma avemmo ciascuno un sogno con un proprio significat o. C’era là con noi un giovane ebreo schiavo del capo delle guardie; noi gli raccontammo i nostri sogni ed egli ce li interpretò dando a ciascuno l’interpretazione del suo sogno. E come egli ci av eva interpretato così avvenne: io fui reintegrato nella mia carica e l’altro fu impiccato». Allora il faraone convocò Giuseppe. Lo fecero uscire in fretta dal sotterraneo; egli si rase si cambiò gli ab iti e si presentò al faraone. Il faraone disse a Giuseppe: «Ho fatto un sogno e nessuno sa interpr etarlo; ora io ho sentito dire di te che ti basta ascoltare un sogno per interpretarlo subito». Gius eppe rispose al faraone: «Non io ma Dio darà la risposta per la salute del faraone!». Allora il far aone raccontò a Giuseppe: «Nel mio sogno io mi trovavo sulla riva del Nilo. Ed ecco salirono dal Nilo sette vacche grasse e belle di forma e si misero a pascolare tra i giunchi. E dopo quelle ecco salire altre sette vacche deboli molto brutte di forma e magre; non ne vidi mai di così brutte in tutta la terra d’Egitto. Le vacche magre e brutte divorarono le prime sette vacche quelle grasse.
Queste entrarono nel loro ventre ma non ci si accorgeva che vi fossero entrate perché il loro as petto era brutto come prima. E mi svegliai. Poi vidi nel sogno spuntare da un unico stelo sette s pighe piene e belle. Ma ecco dopo quelle spuntavano sette spighe secche vuote e arse dal vent o d’oriente. Le spighe vuote inghiottirono le sette spighe belle. Ho riferito il sogno agli indovini ma nessuno sa darmene la spiegazione». Allora Giuseppe disse al faraone: «Il sogno del faraone è uno solo: Dio ha indicato al faraone quello che sta per fare. Le sette vacche belle rappresenta no sette anni e le sette spighe belle rappresentano sette anni: si tratta di un unico sogno. Le set
te vacche magre e brutte che salgono dopo quelle rappresentano sette anni e le sette spighe vu ote arse dal vento d’oriente rappresentano sette anni: verranno sette anni di carestia. è appunt o quel che ho detto al faraone: Dio ha manifestato al faraone quanto sta per fare. Ecco stanno p er venire sette anni in cui ci sarà grande abbondanza in tutta la terra d’Egitto. A questi succeder anno sette anni di carestia; si dimenticherà tutta quell’abbondanza nella terra d’Egitto e la care stia consumerà la terra. Non vi sarà più alcuna traccia dell’abbondanza che vi era stata nella terr a a causa della carestia successiva perché sarà molto dura. Quanto al fatto che il sogno del fara one si è ripetuto due volte significa che la cosa è decisa da Dio e che Dio si affretta a eseguirla. Il faraone pensi a trovare un uomo intelligente e saggio e lo metta a capo della terra d’Egitto. Il fa raone inoltre proceda a istituire commissari sul territorio per prelevare un quinto sui prodotti d ella terra d’Egitto durante i sette anni di abbondanza. Essi raccoglieranno tutti i viveri di queste annate buone che stanno per venire ammasseranno il grano sotto l’autorità del faraone e lo ter ranno in deposito nelle città. Questi viveri serviranno di riserva al paese per i sette anni di cares tia che verranno nella terra d’Egitto; così il paese non sarà distrutto dalla carestia». La proposta piacque al faraone e a tutti i suoi ministri. Il faraone disse ai ministri: «Potremo trovare un uom o come questo in cui sia lo spirito di Dio?». E il faraone disse a Giuseppe: «Dal momento che Dio ti ha manifestato tutto questo non c’è nessuno intelligente e saggio come te. Tu stesso sarai il mio governatore e ai tuoi ordini si schiererà tutto il mio popolo: solo per il trono io sarò più gra nde di te». Il faraone disse a Giuseppe: «Ecco io ti metto a capo di tutta la terra d’Egitto». Il fara one si tolse di mano l’anello e lo pose sulla mano di Giuseppe; lo rivestì di abiti di lino finissimo e gli pose al collo un monile d’oro. Lo fece salire sul suo secondo carro e davanti a lui si gridava:
«Abrech». E così lo si stabilì su tutta la terra d’Egitto. Poi il faraone disse a Giuseppe: «Io sono il faraone ma senza il tuo permesso nessuno potrà alzare la mano o il piede in tutta la terra d’Egit to». E il faraone chiamò Giuseppe Safnat-Panèach e gli diede in moglie Asenat figlia di Potifera sacerdote di Eliòpoli. Giuseppe partì per vi sitare l’Egitto. Giuseppe aveva trent’anni quando entrò al servizio del faraone re d’Egitto. Quind i Giuseppe si allontanò dal faraone e percorse tutta la terra d’Egitto. Durante i sette anni di abb ondanza la terra produsse a profusione. Egli raccolse tutti i viveri dei sette anni di abbondanza c he vennero nella terra d’Egitto e ripose i viveri nelle città: in ogni città i viveri della campagna cir costante. Giuseppe ammassò il grano come la sabbia del mare in grandissima quantità così che non se ne fece più il computo perché era incalcolabile. Intanto prima che venisse l’anno della ca restia nacquero a Giuseppe due figli, partoriti a lui da Asenat figlia di Potifera sacerdote di Eliòp oli. Giuseppe chiamò il primogenito Manasse «perché – disse –
Dio mi ha fatto dimenticare ogni affanno e tutta la casa di mio padre». E il secondo lo chiamò è fraim, «perché – disse –
Dio mi ha reso fecondo nella terra della mia afflizione». Finirono i sette anni di abbondanza nell a terra d’Egitto e cominciarono i sette anni di carestia come aveva detto Giuseppe. Ci fu carestia in ogni paese ma in tutta la terra d’Egitto c’era il pane. Poi anche tutta la terra d’Egitto cominci
ò a sentire la fame e il popolo gridò al faraone per avere il pane. Il faraone disse a tutti gli Egizia ni: «Andate da Giuseppe; fate quello che vi dirà». La carestia imperversava su tutta la terra. Allo ra Giuseppe aprì tutti i depositi in cui vi era grano e lo vendette agli Egiziani. La carestia si aggra vava in Egitto ma da ogni paese venivano in Egitto per acquistare grano da Giuseppe perché la c arestia infieriva su tutta la terra. Giacobbe venne a sapere che in Egitto c’era grano; perciò disse ai figli: «Perché state a guardarvi l’un l’altro?». E continuò: «Ecco ho sentito dire che vi è grano in Egitto. Andate laggiù a comprarne per noi, perché viviamo e non moriamo». Allora i dieci frat elli di Giuseppe scesero per acquistare il frumento dall’Egitto. Quanto a Beniamino fratello di Gi useppe Giacobbe non lo lasciò partire con i fratelli perché diceva: «Che non gli debba succedere qualche disgrazia!». Arrivarono dunque i figli d’Israele per acquistare il grano in mezzo ad altri c he pure erano venuti perché nella terra di Canaan c’era la carestia. Giuseppe aveva autorità su quella terra e vendeva il grano a tutta la sua popolazione. Perciò i fratelli di Giuseppe vennero d a lui e gli si prostrarono davanti con la faccia a terra. Giuseppe vide i suoi fratelli e li riconobbe ma fece l’estraneo verso di loro, parlò duramente e disse: «Da dove venite?». Risposero: «Dalla terra di Canaan per comprare viveri». Giuseppe riconobbe dunque i fratelli mentre essi non lo ri conobbero. Allora Giuseppe si ricordò dei sogni che aveva avuto a loro riguardo e disse loro: «V
oi siete spie! Voi siete venuti per vedere i punti indifesi del territorio!». Gli risposero: «No mio si gnore; i tuoi servi sono venuti per acquistare viveri. Noi siamo tutti figli di un solo uomo. Noi sia mo sinceri. I tuoi servi non sono spie!». Ma egli insistette: «No voi siete venuti per vedere i punt i indifesi del territorio!». Allora essi dissero: «Dodici sono i tuoi servi; siamo fratelli, figli di un sol o uomo che abita nella terra di Canaan; ora il più giovane è presso nostro padre e uno non c’è pi ù ». Giuseppe disse loro: «Le cose stanno come vi ho detto: voi siete spie! In questo modo saret e messi alla prova: per la vita del faraone, voi non uscirete di qui se non quando vi avrà raggiunt o il vostro fratello più giovane. Mandate uno di voi a prendere il vostro fratello; voi rimarrete pr igionieri. Saranno così messe alla prova le vostre parole per sapere se la verità è dalla vostra par te. Se no, per la vita del faraone voi siete spie!». E li tenne in carcere per tre giorni. Il terzo giorn o Giuseppe disse loro: «Fate questo e avrete salva la vita; io temo Dio! Se voi siete sinceri uno di voi fratelli resti prigioniero nel vostro carcere e voi andate a portare il grano per la fame delle v ostre case. Poi mi condurrete qui il vostro fratello più giovane. Così le vostre parole si dimostrer anno vere e non morirete». Essi annuirono. Si dissero allora l’un l’altro: «Certo su di noi grava la colpa nei riguardi di nostro fratello perché abbiamo visto con quale angoscia ci supplicava e no n lo abbiamo ascoltato. Per questo ci ha colpiti quest’angoscia». Ruben prese a dir loro: «Non vi avevo detto io: “Non peccate contro il ragazzo”? Ma non mi avete dato ascolto. Ecco, ora ci vie ne domandato conto del suo sangue». Non si accorgevano che Giuseppe li capiva dato che tra l ui e loro vi era l’interprete. Allora egli andò in disparte e pianse. Poi tornò e parlò con loro. Scels e tra loro Simeone e lo fece incatenare sotto i loro occhi. Quindi Giuseppe diede ordine di riemp ire di frumento i loro sacchi e di rimettere il denaro di ciascuno nel suo sacco e di dare loro prov viste per il viaggio. E così venne loro fatto. Essi caricarono il grano sugli asini e partirono di là. Or
a in un luogo dove passavano la notte uno di loro aprì il sacco per dare il foraggio all’asino e vid e il proprio denaro alla bocca del sacco. Disse ai fratelli: «Mi è stato restituito il denaro: eccolo q ui nel mio sacco!». Allora si sentirono mancare il cuore e tremanti si dissero l’un l’altro: «Che è mai questo che Dio ci ha fatto?». Arrivati da Giacobbe loro padre nella terra di Canaan gli riferir ono tutte le cose che erano loro capitate: «Quell’uomo che è il signore di quella terra ci ha parla to duramente e ci ha trattato come spie del territorio. Gli abbiamo detto: “Noi siamo sinceri; no n siamo spie! Noi siamo dodici fratelli figli dello stesso padre: uno non c’è più e il più giovane è ora presso nostro padre nella terra di Canaan”. Ma l’uomo signore di quella terra ci ha risposto:
“Mi accerterò se voi siete sinceri in questo modo: lasciate qui con me uno dei vostri fratelli pren dete il grano necessario alle vostre case e andate. Poi conducetemi il vostro fratello più giovane
; così mi renderò conto che non siete spie ma che siete sinceri; io vi renderò vostro fratello e voi potrete circolare nel territorio”». Mentre svuotavano i sacchi ciascuno si accorse di avere la sua borsa di denaro nel proprio sacco. Quando essi e il loro padre videro le borse di denaro furono presi da timore. E il loro padre Giacobbe disse: «Voi mi avete privato dei figli! Giuseppe non c’è più, Simeone non c’è più e Beniamino me lo volete prendere. Tutto ricade su di me!». Allora Ru ben disse al padre: «Farai morire i miei due figli se non te lo ricondurrò. Affidalo alle mie mani e io te lo restituirò». Ma egli rispose: «Il mio figlio non andrà laggiù con voi perché suo fratello è morto ed egli è rimasto solo. Se gli capitasse una disgrazia durante il viaggio che voi volete fare f areste scendere con dolore la mia canizie negli inferi». La carestia continuava a gravare sulla ter ra. Quand’ebbero finito di consumare il grano che avevano portato dall’Egitto il padre disse loro
: «Tornate là e acquistate per noi un po’ di viveri». Ma Giuda gli disse: «Quell’uomo ci ha avverti to severamente: “Non verrete alla mia presenza se non avrete con voi il vostro fratello!”. Se tu s ei disposto a lasciar partire con noi nostro fratello andremo laggiù e ti compreremo dei viveri.
Ma se tu non lo lasci partire non ci andremo, perché quell’uomo ci ha detto: “Non verrete alla mia presenza se non avrete con voi il vostro fratello!”». Israele disse: «Perché mi avete fatto qu esto male: far sapere a quell’uomo che avevate ancora un fratello?». Risposero: «Quell’uomo ci ha interrogati con insistenza intorno a noi e alla nostra parentela: “è ancora vivo vostro padre?
Avete qualche altro fratello?”. E noi abbiamo risposto secondo queste domande. Come avremm o potuto sapere che egli avrebbe detto: “Conducete qui vostro fratello”?». Giuda disse a Israele suo padre: «Lascia venire il giovane con me; prepariamoci a partire per sopravvivere e non mori re noi tu e i nostri bambini. Io mi rendo garante di lui: dalle mie mani lo reclamerai. Se non te lo ricondurrò se non te lo riporterò io sarò colpevole contro di te per tutta la vita. Se non avessimo indugiato ora saremmo già di ritorno per la seconda volta». Israele loro padre rispose: «Se è co sì fate pure: mettete nei vostri bagagli i prodotti più scelti della terra e portateli in dono a quell’
uomo: un po’ di balsamo un po’ di miele resina e làudano pistacchi e mandorle. Prendete con v oi il doppio del denaro così porterete indietro il denaro che è stato rimesso nella bocca dei vostr i sacchi: forse si tratta di un errore. Prendete anche vostro fratello partite e tornate da quell’uo mo. Dio l’Onnipotente vi faccia trovare misericordia presso quell’uomo così che vi rilasci sia l’alt
ro fratello sia Beniamino. Quanto a me una volta che non avrò più i miei figli non li avrò più!». G
li uomini presero dunque questo dono e il doppio del denaro e anche Beniamino si avviarono sc esero in Egitto e si presentarono a Giuseppe. Quando Giuseppe vide Beniamino con loro disse al suo maggiordomo: «Conduci questi uomini in casa macella quello che occorre e apparecchia pe rché questi uomini mangeranno con me a mezzogiorno». Quell’uomo fece come Giuseppe avev a ordinato e introdusse quegli uomini nella casa di Giuseppe. Ma essi si spaventarono perché ve nivano condotti in casa di Giuseppe e si dissero: «A causa del denaro rimesso l’altra volta nei no stri sacchi ci conducono là: per assalirci, piombarci addosso e prenderci come schiavi con i nostr i asini». Allora si avvicinarono al maggiordomo della casa di Giuseppe e parlarono con lui all’ingr esso della casa; dissero: «Perdona mio signore noi siamo venuti già un’altra volta per comprare viveri. Quando fummo arrivati a un luogo per passarvi la notte aprimmo i sacchi ed ecco il denar o di ciascuno si trovava alla bocca del suo sacco: proprio il nostro denaro con il suo peso esatto.
Noi ora l’abbiamo portato indietro e per acquistare i viveri abbiamo portato con noi altro denar o. Non sappiamo chi abbia messo nei sacchi il nostro denaro!». Ma quegli disse: «State in pace non temete! Il vostro Dio e il Dio dei vostri padri vi ha messo un tesoro nei sacchi; il vostro dena ro lo avevo ricevuto io». E condusse loro Simeone. Quell’uomo fece entrare gli uomini nella cas a di Giuseppe diede loro dell’acqua, perché si lavassero i piedi e diede il foraggio ai loro asini. Es si prepararono il dono nell’attesa che Giuseppe arrivasse a mezzogiorno perché avevano saputo che avrebbero preso cibo in quel luogo. Quando Giuseppe arrivò a casa gli presentarono il don o che avevano con sé e si prostrarono davanti a lui con la faccia a terra. Egli domandò loro com e stavano e disse: «Sta bene il vostro vecchio padre di cui mi avete parlato? Vive ancora?». Risp osero: «Il tuo servo nostro padre sta bene è ancora vivo» e si inginocchiarono prostrandosi. Egli alzò gli occhi e guardò Beniamino il suo fratello figlio della stessa madre e disse: «è questo il vos tro fratello più giovane di cui mi avete parlato?» e aggiunse: «Dio ti conceda grazia figlio mio!».
Giuseppe si affrettò a uscire perché si era commosso nell’intimo alla presenza di suo fratello e s entiva il bisogno di piangere; entrò nella sua camera e pianse. Poi si lavò la faccia uscì e facendo si forza ordinò: «Servite il pasto». Fu servito per lui a parte per loro a parte e per i commensali e giziani a parte perché gli Egiziani non possono prender cibo con gli Ebrei: ciò sarebbe per loro u n abominio. Presero posto davanti a lui dal primogenito al più giovane ciascuno in ordine di età e si guardavano con meraviglia l’un l’altro. Egli fece portare loro porzioni prese dalla propria me nsa ma la porzione di Beniamino era cinque volte più abbondante di quella di tutti gli altri. E con lui bevvero fino all’allegria. Diede poi quest’ordine al suo maggiordomo: «Riempi i sacchi di que gli uomini di tanti viveri quanti ne possono contenere e rimetti il denaro di ciascuno alla bocca d el suo sacco. Metterai la mia coppa la coppa d’argento alla bocca del sacco del più giovane, insi eme con il denaro del suo grano». Quello fece secondo l’ordine di Giuseppe. Alle prime luci del mattino quegli uomini furono fatti partire con i loro asini. Erano appena usciti dalla città e ancor a non si erano allontanati quando Giuseppe disse al suo maggiordomo: «Su insegui quegli uomi ni raggiungili e di’ loro: “Perché avete reso male per bene? Non è forse questa la coppa in cui be
ve il mio signore e per mezzo della quale egli suole trarre i presagi? Avete fatto male a fare così”
». Egli li raggiunse e ripeté loro queste parole. Quelli gli risposero: «Perché il mio signore dice q uesto? Lontano dai tuoi servi il fare una cosa simile! Ecco se ti abbiamo riportato dalla terra di C
anaan il denaro che abbiamo trovato alla bocca dei nostri sacchi come avremmo potuto rubare argento o oro dalla casa del tuo padrone? Quello dei tuoi servi presso il quale si troverà sia mes so a morte e anche noi diventeremo schiavi del mio signore». Rispose: «Ebbene come avete det to così sarà: colui, presso il quale si troverà la coppa diventerà mio schiavo e voi sarete innocent i». Ciascuno si affrettò a scaricare a terra il suo sacco e lo aprì. Quegli li frugò cominciando dal maggiore e finendo con il più piccolo e la coppa fu trovata nel sacco di Beniamino. Allora essi si stracciarono le vesti ricaricarono ciascuno il proprio asino e tornarono in città. Giuda e i suoi fra telli vennero nella casa di Giuseppe che si trovava ancora là e si gettarono a terra davanti a lui.
Giuseppe disse loro: «Che azione avete commesso? Non vi rendete conto che un uomo come m e è capace di indovinare?». Giuda disse: «Che diremo al mio signore? Come parlare? Come giust ificarci? Dio stesso ha scoperto la colpa dei tuoi servi! Eccoci schiavi del mio signore noi e colui c he è stato trovato in possesso della coppa». Ma egli rispose: «Lontano da me fare una cosa simil e! L’uomo trovato in possesso della coppa quello sarà mio schiavo: quanto a voi tornate in pace da vostro padre». Allora Giuda gli si fece innanzi e disse: «Perdona mio signore sia permesso al t uo servo di far sentire una parola agli orecchi del mio signore; non si accenda la tua ira contro il tuo servo, perché uno come te è pari al faraone! Il mio signore aveva interrogato i suoi servi: “A vete ancora un padre o un fratello?”. E noi avevamo risposto al mio signore: “Abbiamo un padr e vecchio e un figlio ancora giovane natogli in vecchiaia il fratello che aveva è morto ed egli è ri masto l’unico figlio di quella madre e suo padre lo ama”. Tu avevi detto ai tuoi servi: “Conducet elo qui da me perché possa vederlo con i miei occhi”. Noi avevamo risposto al mio signore: “Il gi ovinetto non può abbandonare suo padre: se lascerà suo padre questi ne morirà”. Ma tu avevi i ngiunto ai tuoi servi: “Se il vostro fratello minore non verrà qui con voi non potrete più venire al la mia presenza”. Fatto ritorno dal tuo servo mio padre gli riferimmo le parole del mio signore.
E nostro padre disse: “Tornate ad acquistare per noi un po’ di viveri”. E noi rispondemmo: “Non possiamo ritornare laggiù: solo se verrà con noi il nostro fratello minore andremo; non saremm o ammessi alla presenza di quell’uomo senza avere con noi il nostro fratello minore”. Allora il tu o servo mio padre ci disse: “Voi sapete che due figli mi aveva procreato mia moglie. Uno partì d a me e dissi: certo è stato sbranato! Da allora non l’ho più visto. Se ora mi porterete via anche q uesto e gli capitasse una disgrazia voi fareste scendere con dolore la mia canizie negli inferi”. Or a se io arrivassi dal tuo servo mio padre e il giovinetto non fosse con noi poiché la vita dell’uno è legata alla vita dell’altro non appena egli vedesse che il giovinetto non è con noi, morirebbe e i tuoi servi avrebbero fatto scendere con dolore negli inferi la canizie del tuo servo nostro padre
. Ma il tuo servo si è reso garante del giovinetto presso mio padre dicendogli: “Se non te lo rico ndurrò sarò colpevole verso mio padre per tutta la vita”. Ora lascia che il tuo servo rimanga al p osto del giovinetto come schiavo del mio signore e il giovinetto torni lassù con i suoi fratelli! Per
ché come potrei tornare da mio padre senza avere con me il giovinetto? Che io non veda il male che colpirebbe mio padre!». Allora Giuseppe non poté più trattenersi dinanzi a tutti i circostant i e gridò: «Fate uscire tutti dalla mia presenza!». Così non restò nessun altro presso di lui mentr e Giuseppe si faceva conoscere dai suoi fratelli. E proruppe in un grido di pianto. Gli Egiziani lo s entirono e la cosa fu risaputa nella casa del faraone. Giuseppe disse ai fratelli: «Io sono Giusepp e! è ancora vivo mio padre?». Ma i suoi fratelli non potevano rispondergli perché sconvolti dalla sua presenza. Allora Giuseppe disse ai fratelli: «Avvicinatevi a me!». Si avvicinarono e disse loro
: «Io sono Giuseppe il vostro fratello quello che voi avete venduto sulla via verso l’Egitto. Ma or a non vi rattristate e non vi crucciate per avermi venduto quaggiù perché Dio mi ha mandato qu i prima di voi per conservarvi in vita. Perché già da due anni vi è la carestia nella regione e ancor a per cinque anni non vi sarà né aratura né mietitura. Dio mi ha mandato qui prima di voi per as sicurare a voi la sopravvivenza nella terra e per farvi vivere per una grande liberazione. Dunque non siete stati voi a mandarmi qui ma Dio. Egli mi ha stabilito padre per il faraone signore su tut ta la sua casa e governatore di tutto il territorio d’Egitto. Affrettatevi a salire da mio padre e dit egli: “Così dice il tuo figlio Giuseppe: Dio mi ha stabilito signore di tutto l’Egitto. Vieni quaggiù pr esso di me senza tardare. Abiterai nella terra di Gosen e starai vicino a me tu con i tuoi figli e i fi gli dei tuoi figli le tue greggi e i tuoi armenti e tutti i tuoi averi. Là io provvederò al tuo sostenta mento poiché la carestia durerà ancora cinque anni e non cadrai nell’indigenza tu la tua famiglia e quanto possiedi”. Ed ecco i vostri occhi lo vedono e lo vedono gli occhi di mio fratello Beniami no: è la mia bocca che vi parla! Riferite a mio padre tutta la gloria che io ho in Egitto e quanto a vete visto; affrettatevi a condurre quaggiù mio padre». Allora egli si gettò al collo di suo fratello Beniamino e pianse. Anche Beniamino piangeva stretto al suo collo. Poi baciò tutti i fratelli e pia nse. Dopo i suoi fratelli si misero a conversare con lui. Intanto nella casa del faraone si era diffus a la voce: «Sono venuti i fratelli di Giuseppe!» e questo fece piacere al faraone e ai suoi ministri.
Allora il faraone disse a Giuseppe: «Di’ ai tuoi fratelli: “Fate così: caricate le cavalcature partite e andate nella terra di Canaan. Prendete vostro padre e le vostre famiglie e venite da me: io vi d arò il meglio del territorio d’Egitto e mangerete i migliori prodotti della terra”. Quanto a te da’ l oro questo comando: “Fate così: prendete con voi dalla terra d’Egitto carri per i vostri bambini e le vostre donne caricate vostro padre e venite. Non abbiate rincrescimento per i vostri beni per ché il meglio di tutta la terra d’Egitto sarà vostro”». Così fecero i figli d’Israele. Giuseppe diede l oro carri secondo l’ordine del faraone e consegnò loro una provvista per il viaggio. Diede a tutti un cambio di abiti per ciascuno ma a Beniamino diede trecento sicli d’argento e cinque cambi di abiti. Inoltre mandò al padre dieci asini carichi dei migliori prodotti dell’Egitto e dieci asine caric he di frumento pane e viveri per il viaggio del padre. Poi congedò i fratelli e mentre partivano di sse loro: «Non litigate durante il viaggio!». Così essi salirono dall’Egitto e arrivarono nella terra di Canaan dal loro padre Giacobbe e gli riferirono: «Giuseppe è ancora vivo anzi governa lui tutt o il territorio d’Egitto!». Ma il suo cuore rimase freddo perché non poteva credere loro. Quando però gli riferirono tutte le parole che Giuseppe aveva detto loro ed egli vide i carri che Giusepp
e gli aveva mandato per trasportarlo allora lo spirito del loro padre Giacobbe si rianimò. Israele disse: «Basta! Giuseppe mio figlio è vivo. Voglio andare a vederlo prima di morire!». Israele dun que levò le tende con quanto possedeva e arrivò a Bersabea dove offrì sacrifici al Dio di suo pad re Isacco. Dio disse a Israele in una visione nella notte: «Giacobbe Giacobbe!». Rispose: «Eccomi
!». Riprese: «Io sono Dio il Dio di tuo padre. Non temere di scendere in Egitto perché laggiù io fa rò di te una grande nazione. Io scenderò con te in Egitto e io certo ti farò tornare. Giuseppe ti c hiuderà gli occhi con le sue mani». Giacobbe partì da Bersabea e i figli d’Israele fecero salire il lo ro padre Giacobbe i loro bambini e le loro donne sui carri che il faraone aveva mandato per tras portarlo. Presero il loro bestiame e tutti i beni che avevano acquistato nella terra di Canaan e ve nnero in Egitto Giacobbe e con lui tutti i suoi discendenti. Egli condusse con sé in Egitto i suoi fig li e i nipoti le sue figlie e le nipoti tutti i suoi discendenti. Questi sono i nomi dei figli d’Israele ch e entrarono in Egitto: Giacobbe e i suoi figli il primogenito di Giacobbe, Ruben. I figli di Ruben: E
noc Pallu Chesron e Carmì. I figli di Simeone: Iemuèl Iamin Oad Iachin Socar e Saul figlio della Ca nanea. I figli di Levi: Gherson Keat e Merarì. I figli di Giuda: Er Onan Sela Peres e Zerach; ma Er e Onan erano morti nella terra di Canaan. Furono figli di Peres: Chesron e Camul. I figli di ìssacar: Tola Puva Iob e Simron. I figli di Zàbulon: Sered Elon e Iacleèl. Questi sono i figli che Lia partorì a Giacobbe in Paddan-Aram oltre alla figlia Dina; tutti i figli e le figlie di Giacobbe erano trentatré persone. I figli di Gad
: Sifiòn Agghì Sunì Esbon Erì Arodì e Arelì. I figli di Aser: Imna Isva Isvì Berià e la loro sorella Sera ch. I figli di Berià: Cheber e Malchièl. Questi sono i figli di Zilpa che Làbano aveva dato come schi ava alla figlia Lia; ella li partorì a Giacobbe: erano sedici persone. I figli di Rachele moglie di Giac obbe: Giuseppe e Beniamino. A Giuseppe erano nati in Egitto èfraim e Manasse che gli partorì A senat figlia di Potifera sacerdote di Eliòpoli. I figli di Beniamino: Bela Becher e Asbel Ghera Naa màn, Echì Ros Muppìm Uppìm e Ard. Questi sono i figli che Rachele partorì a Giacobbe; in tutto quattordici persone. I figli di Dan: Cusìm. I figli di Nèftali: Iacseèl, Gunì Ieser e Sillem. Questi son o i figli di Bila che Làbano diede come schiava alla figlia Rachele ed ella li partorì a Giacobbe; in t utto sette persone. Tutte le persone che entrarono con Giacobbe in Egitto discendenti da lui se nza contare le mogli dei figli di Giacobbe furono sessantasei. I figli che nacquero a Giuseppe in E
gitto furono due. Tutte le persone della famiglia di Giacobbe che entrarono in Egitto ammontan o a settanta. Egli aveva mandato Giuda davanti a sé da Giuseppe perché questi desse istruzioni i n Gosen prima del suo arrivo. Arrivarono quindi alla terra di Gosen. Allora Giuseppe fece attacc are il suo carro e salì incontro a Israele suo padre in Gosen. Appena se lo vide davanti gli si gettò al collo e pianse a lungo stretto al suo collo. Israele disse a Giuseppe: «Posso anche morire que sta volta dopo aver visto la tua faccia perché sei ancora vivo». Allora Giuseppe disse ai fratelli e alla famiglia del padre: «Vado a informare il faraone e a dirgli: “I miei fratelli e la famiglia di mio padre che erano nella terra di Canaan sono venuti da me. Questi uomini sono pastori di greggi s i occupano di bestiame e hanno portato le loro greggi i loro armenti e tutti i loro averi”. Quando dunque il faraone vi chiamerà e vi domanderà: “Qual è il vostro mestiere?”, risponderete: “I tu
oi servi sono stati gente dedita al bestiame; lo furono i nostri padri e lo siamo noi dalla nostra fa nciullezza fino ad ora”. Questo perché possiate risiedere nella terra di Gosen». Perché tutti i pas tori di greggi sono un abominio per gli Egiziani. Giuseppe andò a informare il faraone dicendogli
: «Mio padre e i miei fratelli con le loro greggi e i loro armenti e con tutti i loro averi sono venuti dalla terra di Canaan; eccoli nella terra di Gosen». Intanto prese cinque uomini dal gruppo dei s uoi fratelli e li presentò al faraone. Il faraone domandò loro: «Qual è il vostro mestiere?». Essi ri sposero al faraone: «Pastori di greggi sono i tuoi servi lo siamo noi e lo furono i nostri padri». E
dissero al faraone: «Siamo venuti per soggiornare come forestieri nella regione, perché non c’è più pascolo per il gregge dei tuoi servi; infatti è grave la carestia nella terra di Canaan. E ora lasci a che i tuoi servi si stabiliscano nella terra di Gosen!». Allora il faraone disse a Giuseppe: «Tuo p adre e i tuoi fratelli sono dunque venuti da te. Ebbene la terra d’Egitto è a tua disposizione: fa’ r isiedere tuo padre e i tuoi fratelli nella regione migliore. Risiedano pure nella terra di Gosen. Se tu sai che vi sono tra loro uomini capaci costituiscili sopra i miei averi in qualità di sorveglianti s ul bestiame». Quindi Giuseppe introdusse Giacobbe suo padre e lo presentò al faraone e Giaco bbe benedisse il faraone. Il faraone domandò a Giacobbe: «Quanti anni hai?». Giacobbe rispose al faraone: «Centotrenta di vita errabonda pochi e tristi sono stati gli anni della mia vita e non h anno raggiunto il numero degli anni dei miei padri al tempo della loro vita errabonda». E Giacob be benedisse il faraone e si allontanò dal faraone. Giuseppe fece risiedere suo padre e i suoi frat elli e diede loro una proprietà nella terra d’Egitto nella regione migliore nel territorio di Ramses come aveva comandato il faraone. Giuseppe provvide al sostentamento del padre dei fratelli e di tutta la famiglia di suo padre secondo il numero dei bambini. Ora non c’era pane in tutta la te rra perché la carestia era molto grave: la terra d’Egitto e la terra di Canaan languivano per la car estia. Giuseppe raccolse tutto il denaro che si trovava nella terra d’Egitto e nella terra di Canaan in cambio del grano che essi acquistavano; Giuseppe consegnò questo denaro alla casa del fara one. Quando fu esaurito il denaro della terra d’Egitto e della terra di Canaan tutti gli Egiziani ve nnero da Giuseppe a dire: «Dacci del pane! Perché dovremmo morire sotto i tuoi occhi? Infatti non c’è più denaro». Rispose Giuseppe: «Se non c’è più denaro cedetemi il vostro bestiame e io vi darò pane in cambio del vostro bestiame». Condussero così a Giuseppe il loro bestiame e Giu seppe diede loro il pane in cambio dei cavalli e delle pecore dei buoi e degli asini; così in quell’a nno li nutrì di pane in cambio di tutto il loro bestiame. Passato quell’anno vennero da lui l’anno successivo e gli dissero: «Non nascondiamo al mio signore che si è esaurito il denaro e anche il possesso del bestiame è passato al mio signore non rimane più a disposizione del mio signore s e non il nostro corpo e il nostro terreno. Perché dovremmo perire sotto i tuoi occhi noi e la nost ra terra? Acquista noi e la nostra terra in cambio di pane e diventeremo servi del faraone noi co n la nostra terra; ma dacci di che seminare, così che possiamo vivere e non morire e il suolo non diventi un deserto!». Allora Giuseppe acquistò per il faraone tutto il terreno dell’Egitto, perché gli Egiziani vendettero ciascuno il proprio campo tanto infieriva su di loro la carestia. Così la terr a divenne proprietà del faraone. Quanto al popolo egli lo trasferì nelle città da un capo all’altro
dell’Egitto. Soltanto il terreno dei sacerdoti egli non acquistò perché i sacerdoti avevano un’asse gnazione fissa da parte del faraone e si nutrivano dell’assegnazione che il faraone passava loro; per questo non vendettero il loro terreno. Poi Giuseppe disse al popolo: «Vedete io ho acquista to oggi per il faraone voi e il vostro terreno. Eccovi il seme: seminate il terreno. Ma quando vi sa rà il raccolto, voi ne darete un quinto al faraone e quattro parti saranno vostre per la semina dei campi per il nutrimento vostro e di quelli di casa vostra e per il nutrimento dei vostri bambini».
Gli risposero: «Ci hai salvato la vita! Ci sia solo concesso di trovare grazia agli occhi del mio sign ore e saremo servi del faraone!». Così Giuseppe fece di questo una legge in vigore fino ad oggi s ui terreni d’Egitto secondo la quale si deve dare la quinta parte al faraone. Soltanto i terreni dei sacerdoti non divennero proprietà del faraone. Gli Israeliti intanto si stabilirono nella terra d’Egi tto nella regione di Gosen, ebbero proprietà e furono fecondi e divennero molto numerosi. Giac obbe visse nella terra d’Egitto diciassette anni e gli anni della sua vita furono centoquarantasett e. Quando fu vicino il tempo della sua morte Israele chiamò il figlio Giuseppe e gli disse: «Se ho trovato grazia ai tuoi occhi metti la mano sotto la mia coscia e usa con me bontà e fedeltà: non seppellirmi in Egitto! Quando io mi sarò coricato con i miei padri portami via dall’Egitto e seppel liscimi nel loro sepolcro». Rispose: «Farò come hai detto». Riprese: «Giuramelo!». E glielo giurò.
Allora Israele si prostrò sul capezzale del letto. Dopo queste cose fu riferito a Giuseppe: «Ecco t uo padre è malato!». Allora egli prese con sé i due figli Manasse ed èfraim. Fu riferita la cosa a Giacobbe: «Ecco tuo figlio Giuseppe è venuto da te». Allora Israele raccolse le forze e si mise a s edere sul letto. Giacobbe disse a Giuseppe: «Dio l’Onnipotente mi apparve a Luz nella terra di C
anaan e mi benedisse dicendomi: “Ecco io ti rendo fecondo: ti moltiplicherò e ti farò diventare un insieme di popoli e darò questa terra alla tua discendenza dopo di te in possesso perenne”.
Ora i due figli che ti sono nati nella terra d’Egitto prima del mio arrivo presso di te in Egitto li co nsidero miei: èfraim e Manasse saranno miei come Ruben e Simeone. Invece i figli che tu avrai g enerato dopo di essi apparterranno a te: saranno chiamati con il nome dei loro fratelli nella loro eredità. Quanto a me mentre giungevo da Paddan tua madre Rachele mi morì nella terra di Can aan durante il viaggio quando mancava un tratto di cammino per arrivare a èfrata e l’ho sepolta là lungo la strada di èfrata cioè Betlemme». Israele vide i figli di Giuseppe e disse: «Chi sono qu esti?». Giuseppe disse al padre: «Sono i figli che Dio mi ha dato qui». Riprese: «Portameli perch é io li benedica!». Gli occhi d’Israele erano offuscati dalla vecchiaia: non poteva più distinguere.
Giuseppe li avvicinò a lui che li baciò e li abbracciò. Israele disse a Giuseppe: «Io non pensavo pi ù di vedere il tuo volto; ma ecco Dio mi ha concesso di vedere anche la tua prole!». Allora Giuse ppe li ritirò dalle sue ginocchia e si prostrò con la faccia a terra. Li prese tutti e due èfraim con la sua destra alla sinistra d’Israele, e Manasse con la sua sinistra alla destra d’Israele e li avvicinò a lui. Ma Israele stese la mano destra e la pose sul capo di èfraim che pure era il più giovane e la sua sinistra sul capo di Manasse incrociando le braccia benché Manasse fosse il primogenito. E c osì benedisse Giuseppe: «Il Dio alla cui presenza hanno camminato i miei padri Abramo e Isacco
, il Dio che è stato il mio pastore da quando esisto fino ad oggi, l’angelo che mi ha liberato da og
ni male, benedica questi ragazzi! Sia ricordato in essi il mio nome e il nome dei miei padri Abra mo e Isacco, e si moltiplichino in gran numero in mezzo alla terra!». Giuseppe notò che il padre aveva posato la destra sul capo di èfraim e ciò gli spiacque. Prese dunque la mano del padre per toglierla dal capo di èfraim e porla sul capo di Manasse. Disse al padre: «Non così padre mio: è questo il primogenito posa la destra sul suo capo!». Ma il padre rifiutò e disse: «Lo so figlio mio lo so: anch’egli diventerà un popolo anch’egli sarà grande, ma il suo fratello minore sarà più gra nde di lui e la sua discendenza diventerà una moltitudine di nazioni». E li benedisse in quel gior no: «Di te si servirà Israele per benedire dicendo: “Dio ti renda come èfraim e come Manasse!”»
. Così pose èfraim prima di Manasse. Quindi Israele disse a Giuseppe: «Ecco io sto per morire m a Dio sarà con voi e vi farà tornare alla terra dei vostri padri. Quanto a me io do a te in più che ai tuoi fratelli un dorso di monte che io ho conquistato dalle mani degli Amorrei con la spada e l’a rco». Quindi Giacobbe chiamò i figli e disse: «Radunatevi perché io vi annunci quello che vi acca drà nei tempi futuri. Radunatevi e ascoltate figli di Giacobbe, ascoltate Israele vostro padre! Ru ben tu sei il mio primogenito, il mio vigore e la primizia della mia virilità, esuberante in fierezza ed esuberante in forza! Bollente come l’acqua tu non avrai preminenza, perché sei salito sul tal amo di tuo padre, hai profanato così il mio giaciglio. Simeone e Levi sono fratelli, strumenti di vi olenza sono i loro coltelli. Nel loro conciliabolo non entri l’anima mia, al loro convegno non si un isca il mio cuore, perché nella loro ira hanno ucciso gli uomini e nella loro passione hanno mutil ato i tori. Maledetta la loro ira perché violenta, e la loro collera perché crudele! Io li dividerò in Giacobbe e li disperderò in Israele. Giuda ti loderanno i tuoi fratelli; la tua mano sarà sulla cervic e dei tuoi nemici; davanti a te si prostreranno i figli di tuo padre. Un giovane leone è Giuda: dall a preda figlio mio sei tornato; si è sdraiato si è accovacciato come un leone e come una leoness a; chi lo farà alzare? Non sarà tolto lo scettro da Giuda né il bastone del comando tra i suoi piedi
, finché verrà colui al quale esso appartiene e a cui è dovuta l’obbedienza dei popoli. Egli lega all a vite il suo asinello e a una vite scelta il figlio della sua asina, lava nel vino la sua veste e nel san gue dell’uva il suo manto; scuri ha gli occhi più del vino e bianchi i denti più del latte. Zàbulon gi ace lungo il lido del mare e presso l’approdo delle navi, con il fianco rivolto a Sidone. ìssacar è u n asino robusto, accovacciato tra un doppio recinto. Ha visto che il luogo di riposo era bello, che la terra era amena; ha piegato il dorso a portare la soma ed è stato ridotto ai lavori forzati. Dan giudica il suo popolo come una delle tribù d’Israele. Sia Dan un serpente sulla strada una vipera cornuta sul sentiero, che morde i garretti del cavallo, così che il suo cavaliere cada all’indietro. I o spero nella tua salvezza Signore! Gad predoni lo assaliranno, ma anche lui li assalirà alle calca gna. Aser il suo pane è pingue: egli fornisce delizie da re. Nèftali è una cerva slanciata; egli prop one parole d’incanto. Germoglio di ceppo fecondo è Giuseppe; germoglio di ceppo fecondo pre sso una fonte, i cui rami si stendono sul muro. Lo hanno esasperato e colpito, lo hanno persegui tato i tiratori di frecce. Ma fu spezzato il loro arco, furono snervate le loro braccia per le mani d el Potente di Giacobbe, per il nome del Pastore Pietra d’Israele. Per il Dio di tuo padre: egli ti aiu ti, e per il Dio l’Onnipotente: egli ti benedica! Con benedizioni del cielo dall’alto, benedizioni del
l’abisso nel profondo, benedizioni delle mammelle e del grembo. Le benedizioni di tuo padre so no superiori alle benedizioni dei monti antichi, alle attrattive dei colli perenni. Vengano sul capo di Giuseppe e sulla testa del principe tra i suoi fratelli! Beniamino è un lupo che sbrana: al matti no divora la preda e alla sera spartisce il bottino». Tutti questi formano le dodici tribù d’Israele.
Questo è ciò che disse loro il padre nell’atto di benedirli; egli benedisse ciascuno con una bened izione particolare. Poi diede loro quest’ordine: «Io sto per essere riunito ai miei antenati: seppel litemi presso i miei padri nella caverna che è nel campo di Efron l’Ittita, nella caverna che si trov a nel campo di Macpela di fronte a Mamre nella terra di Canaan, quella che Abramo acquistò co n il campo di Efron l’Ittita come proprietà sepolcrale. Là seppellirono Abramo e Sara sua moglie là seppellirono Isacco e Rebecca sua moglie e là seppellii Lia. La proprietà del campo e della cav erna che si trova in esso è stata acquistata dagli Ittiti». Quando Giacobbe ebbe finito di dare qu est’ordine ai figli ritrasse i piedi nel letto e spirò e fu riunito ai suoi antenati. Allora Giuseppe si g ettò sul volto di suo padre pianse su di lui e lo baciò. Quindi Giuseppe ordinò ai medici al suo se rvizio di imbalsamare suo padre. I medici imbalsamarono Israele e vi impiegarono quaranta gior ni perché tanti ne occorrono per l’imbalsamazione. Gli Egiziani lo piansero settanta giorni. Passa ti i giorni del lutto Giuseppe parlò alla casa del faraone: «Se ho trovato grazia ai vostri occhi vogl iate riferire agli orecchi del faraone queste parole. Mio padre mi ha fatto fare un giuramento dic endomi: “Ecco io sto per morire: tu devi seppellirmi nel sepolcro che mi sono scavato nella terra di Canaan”. Ora possa io andare a seppellire mio padre e poi tornare». Il faraone rispose: «Va’
e seppellisci tuo padre come egli ti ha fatto giurare». Giuseppe andò a seppellire suo padre e co n lui andarono tutti i ministri del faraone, gli anziani della sua casa tutti gli anziani della terra d’E
gitto tutta la casa di Giuseppe i suoi fratelli e la casa di suo padre. Lasciarono nella regione di Go sen soltanto i loro bambini le loro greggi e i loro armenti. Andarono con lui anche i carri da guer ra e la cavalleria, così da formare una carovana imponente. Quando arrivarono all’aia di Atad ch e è al di là del Giordano fecero un lamento molto grande e solenne e Giuseppe celebrò per suo padre un lutto di sette giorni. I Cananei che abitavano la terra videro il lutto all’aia di Atad e diss ero: «è un lutto grave questo per gli Egiziani». Per questo la si chiamò Abel-Misràim; essa si trova al di là del Giordano. I figli di Giacobbe fecero per lui così come aveva loro comandato. I suoi figli lo portarono nella terra di Canaan e lo seppellirono nella caverna del ca mpo di Macpela quel campo che Abramo aveva acquistato come proprietà sepolcrale da Efron l’
Ittita e che si trova di fronte a Mamre. Dopo aver sepolto suo padre Giuseppe tornò in Egitto ins ieme con i suoi fratelli e con quanti erano andati con lui a seppellire suo padre. Ma i fratelli di Gi useppe cominciarono ad aver paura dato che il loro padre era morto e dissero: «Chissà se Giuse ppe non ci tratterà da nemici e non ci renderà tutto il male che noi gli abbiamo fatto?». Allora mandarono a dire a Giuseppe: «Tuo padre prima di morire ha dato quest’ordine: “Direte a Gius eppe: Perdona il delitto dei tuoi fratelli e il loro peccato perché ti hanno fatto del male!”. Perdo na dunque il delitto dei servi del Dio di tuo padre!». Giuseppe pianse quando gli si parlò così. E i suoi fratelli andarono e si gettarono a terra davanti a lui e dissero: «Eccoci tuoi schiavi!». Ma Gi
useppe disse loro: «Non temete. Tengo io forse il posto di Dio? Se voi avevate tramato del male contro di me Dio ha pensato di farlo servire a un bene per compiere quello che oggi si avvera: fa r vivere un popolo numeroso. Dunque non temete io provvederò al sostentamento per voi e pe r i vostri bambini». Così li consolò parlando al loro cuore. Giuseppe con la famiglia di suo padre abitò in Egitto; egli visse centodieci anni. Così Giuseppe vide i figli di èfraim fino alla terza gener azione e anche i figli di Machir figlio di Manasse nacquero sulle ginocchia di Giuseppe. Poi Giuse ppe disse ai fratelli: «Io sto per morire ma Dio verrà certo a visitarvi e vi farà uscire da questa te rra verso la terra che egli ha promesso con giuramento ad Abramo a Isacco e a Giacobbe». Gius eppe fece giurare ai figli d’Israele così: «Dio verrà certo a visitarvi e allora voi porterete via di qu i le mie ossa». Giuseppe morì all’età di centodieci anni; lo imbalsamarono e fu posto in un sarco fago in Egitto. Questi sono i nomi dei figli d’Israele entrati in Egitto; essi vi giunsero insieme a Gi acobbe ognuno con la sua famiglia: Ruben Simeone Levi e Giuda, ìssacar Zàbulon e Beniamino D
an e Nèftali Gad e Aser. Tutte le persone discendenti da Giacobbe erano settanta. Giuseppe si tr ovava già in Egitto. Giuseppe poi morì e così tutti i suoi fratelli e tutta quella generazione. I figli d’Israele prolificarono e crebbero divennero numerosi e molto forti e il paese ne fu pieno. Allor a sorse sull’Egitto un nuovo re che non aveva conosciuto Giuseppe. Egli disse al suo popolo: «Ec co che il popolo dei figli d’Israele è più numeroso e più forte di noi. Cerchiamo di essere avvedut i nei suoi riguardi per impedire che cresca altrimenti in caso di guerra si unirà ai nostri avversari combatterà contro di noi e poi partirà dal paese». Perciò vennero imposti loro dei sovrintenden ti ai lavori forzati per opprimerli con le loro angherie e così costruirono per il faraone le città-
deposito cioè Pitom e Ramses. Ma quanto più opprimevano il popolo tanto più si moltiplicava e cresceva ed essi furono presi da spavento di fronte agli Israeliti. Per questo gli Egiziani fecero lav orare i figli d’Israele trattandoli con durezza. Resero loro amara la vita mediante una dura schia vitù costringendoli a preparare l’argilla e a fabbricare mattoni e ad ogni sorta di lavoro nei camp i; a tutti questi lavori li obbligarono con durezza. Il re d’Egitto disse alle levatrici degli Ebrei delle quali una si chiamava Sifra e l’altra Pua: «Quando assistete le donne ebree durante il parto oss ervate bene tra le due pietre: se è un maschio fatelo morire; se è una femmina potrà vivere». M
a le levatrici temettero Dio: non fecero come aveva loro ordinato il re d’Egitto e lasciarono viver e i bambini. Il re d’Egitto chiamò le levatrici e disse loro: «Perché avete fatto questo e avete lasc iato vivere i bambini?». Le levatrici risposero al faraone: «Le donne ebree non sono come le egi ziane: sono piene di vitalità. Prima che giunga da loro la levatrice hanno già partorito!». Dio ben eficò le levatrici. Il popolo aumentò e divenne molto forte. E poiché le levatrici avevano temuto Dio egli diede loro una discendenza. Allora il faraone diede quest’ordine a tutto il suo popolo: «
Gettate nel Nilo ogni figlio maschio che nascerà ma lasciate vivere ogni femmina». Un uomo del la famiglia di Levi andò a prendere in moglie una discendente di Levi. La donna concepì e partorì un figlio; vide che era bello e lo tenne nascosto per tre mesi. Ma non potendo tenerlo nascosto più oltre prese per lui un cestello di papiro lo spalmò di bitume e di pece vi adagiò il bambino e l o depose fra i giunchi sulla riva del Nilo. La sorella del bambino si pose a osservare da lontano c
he cosa gli sarebbe accaduto. Ora la figlia del faraone scese al Nilo per fare il bagno mentre le s ue ancelle passeggiavano lungo la sponda del Nilo. Ella vide il cestello fra i giunchi e mandò la su a schiava a prenderlo. L’aprì e vide il bambino: ecco il piccolo piangeva. Ne ebbe compassione e disse: «è un bambino degli Ebrei». La sorella del bambino disse allora alla figlia del faraone: «De vo andare a chiamarti una nutrice tra le donne ebree perché allatti per te il bambino?». «Va’» ri spose la figlia del faraone. La fanciulla andò a chiamare la madre del bambino. La figlia del farao ne le disse: «Porta con te questo bambino e allattalo per me; io ti darò un salario». La donna pr ese il bambino e lo allattò. Quando il bambino fu cresciuto lo condusse alla figlia del faraone. Eg li fu per lei come un figlio e lo chiamò Mosè dicendo: «Io l’ho tratto dalle acque!». Un giorno M
osè cresciuto in età si recò dai suoi fratelli e notò i loro lavori forzati. Vide un Egiziano che colpiv a un Ebreo uno dei suoi fratelli. Voltatosi attorno e visto che non c’era nessuno colpì a morte l’E
giziano e lo sotterrò nella sabbia. Il giorno dopo uscì di nuovo e vide due Ebrei che litigavano; di sse a quello che aveva torto: «Perché percuoti il tuo fratello?». Quegli rispose: «Chi ti ha costitui to capo e giudice su di noi? Pensi forse di potermi uccidere come hai ucciso l’Egiziano?». Allora Mosè ebbe paura e pensò: «Certamente la cosa si è risaputa». Il faraone sentì parlare di questo fatto e fece cercare Mosè per metterlo a morte. Allora Mosè fuggì lontano dal faraone e si ferm ò nel territorio di Madian e sedette presso un pozzo. Il sacerdote di Madian aveva sette figlie. Es se vennero ad attingere acqua e riempirono gli abbeveratoi per far bere il gregge del padre. Ma arrivarono alcuni pastori e le scacciarono. Allora Mosè si levò a difendere le ragazze e fece bere il loro bestiame. Tornarono dal loro padre Reuèl e questi disse loro: «Come mai oggi avete fatto ritorno così in fretta?». Risposero: «Un uomo un Egiziano ci ha liberato dalle mani dei pastori; l ui stesso ha attinto per noi e ha fatto bere il gregge». Quegli disse alle figlie: «Dov’è? Perché ave te lasciato là quell’uomo? Chiamatelo a mangiare il nostro cibo!». Così Mosè accettò di abitare con quell’uomo che gli diede in moglie la propria figlia Sipporà. Ella gli partorì un figlio ed egli lo chiamò Ghersom perché diceva: «Vivo come forestiero in terra straniera!». Dopo molto tempo i l re d’Egitto morì. Gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù alzarono grida di lamento e il loro g rido dalla schiavitù salì a Dio. Dio ascoltò il loro lamento Dio si ricordò della sua alleanza con Abr amo, Isacco e Giacobbe. Dio guardò la condizione degli Israeliti Dio se ne diede pensiero. Mentr e Mosè stava pascolando il gregge di Ietro suo suocero sacerdote di Madian, condusse il bestia me oltre il deserto e arrivò al monte di Dio l’Oreb. L’angelo del Signore gli apparve in una fiamm a di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco ma quel rov eto non si consumava. Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?». Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui d al roveto: «Mosè Mosè!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali d ai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!». E disse: «Io sono il Dio di tuo padre il Di o di Abramo il Dio di Isacco il Dio di Giacobbe». Mosè allora si coprì il volto perché aveva paura di guardare verso Dio. Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho ud ito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberar
lo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa verso u na terra dove scorrono latte e miele verso il luogo dove si trovano il Cananeo l’Ittita l’Amorreo il Perizzita l’Eveo il Gebuseo. Ecco il grido degli Israeliti è arrivato fino a me e io stesso ho visto co me gli Egiziani li opprimono. Perciò va’! Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio pop olo gli Israeliti!». Mosè disse a Dio: «Chi sono io per andare dal faraone e far uscire gli Israeliti d all’Egitto?». Rispose: «Io sarò con te. Questo sarà per te il segno che io ti ho mandato: quando t u avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto servirete Dio su questo monte». Mosè disse a Dio: «Ecco io vado dagli Israeliti e dico loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi”. Mi diranno: “Qua l è il suo nome?”. E io che cosa risponderò loro?». Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!».
E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: “Io-
Sono mi ha mandato a voi”». Dio disse ancora a Mosè: «Dirai agli Israeliti: “Il Signore Dio dei vos tri padri Dio di Abramo Dio di Isacco Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi”. Questo è il mio nom e per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione. Va’! Riunis ci gli anziani d’Israele e di’ loro: “Il Signore Dio dei vostri padri Dio di Abramo di Isacco e di Giaco bbe mi è apparso per dirmi: Sono venuto a visitarvi e vedere ciò che viene fatto a voi in Egitto. E
ho detto: Vi farò salire dalla umiliazione dell’Egitto verso la terra del Cananeo dell’Ittita dell’Am orreo del Perizzita, dell’Eveo e del Gebuseo verso una terra dove scorrono latte e miele”. Essi as colteranno la tua voce e tu e gli anziani d’Israele andrete dal re d’Egitto e gli direte: “Il Signore D
io degli Ebrei si è presentato a noi. Ci sia permesso di andare nel deserto a tre giorni di cammin o per fare un sacrificio al Signore nostro Dio”. Io so che il re d’Egitto non vi permetterà di partire se non con l’intervento di una mano forte. Stenderò dunque la mano e colpirò l’Egitto con tutti i prodigi che opererò in mezzo ad esso dopo di che egli vi lascerà andare. Farò sì che questo pop olo trovi grazia agli occhi degli Egiziani: quando partirete non ve ne andrete a mani vuote. Ogni donna domanderà alla sua vicina e all’inquilina della sua casa oggetti d’argento e oggetti d’oro e vesti; li farete portare ai vostri figli e alle vostre figlie e spoglierete l’Egitto». Mosè replicò dice ndo: «Ecco non mi crederanno non daranno ascolto alla mia voce ma diranno: “Non ti è appars o il Signore!”». Il Signore gli disse: «Che cosa hai in mano?». Rispose: «Un bastone». Riprese: «G
ettalo a terra!». Lo gettò a terra e il bastone diventò un serpente davanti al quale Mosè si mise a fuggire. Il Signore disse a Mosè: «Stendi la mano e prendilo per la coda!». Stese la mano lo pre se e diventò di nuovo un bastone nella sua mano. «Questo perché credano che ti è apparso il Si gnore Dio dei loro padri, Dio di Abramo Dio di Isacco Dio di Giacobbe». Il Signore gli disse ancor a: «Introduci la mano nel seno!». Egli si mise in seno la mano e poi la ritirò: ecco la sua mano er a diventata lebbrosa bianca come la neve. Egli disse: «Rimetti la mano nel seno!». Rimise in sen o la mano e la tirò fuori: ecco era tornata come il resto della sua carne. «Dunque se non ti credo no e non danno retta alla voce del primo segno crederanno alla voce del secondo! Se non crede ranno neppure a questi due segni e non daranno ascolto alla tua voce prenderai acqua del Nilo e la verserai sulla terra asciutta: l’acqua che avrai preso dal Nilo diventerà sangue sulla terra asc iutta». Mosè disse al Signore: «Perdona Signore io non sono un buon parlatore; non lo sono stat
o né ieri né ieri l’altro e neppure da quando tu hai cominciato a parlare al tuo servo ma sono im pacciato di bocca e di lingua». Il Signore replicò: «Chi ha dato una bocca all’uomo o chi lo rende muto o sordo veggente o cieco? Non sono forse io il Signore? Ora va’! Io sarò con la tua bocca e ti insegnerò quello che dovrai dire». Mosè disse: «Perdona Signore manda chi vuoi mandare!».
Allora la collera del Signore si accese contro Mosè e gli disse: «Non vi è forse tuo fratello Aronn e il levita? Io so che lui sa parlare bene. Anzi sta venendoti incontro. Ti vedrà e gioirà in cuor suo
. Tu gli parlerai e porrai le parole sulla sua bocca e io sarò con la tua e la sua bocca e vi insegner ò quello che dovrete fare. Parlerà lui al popolo per te: egli sarà la tua bocca e tu farai per lui le v eci di Dio. Terrai in mano questo bastone: con esso tu compirai i segni». Mosè partì tornò da Iet ro suo suocero e gli disse: «Lasciami andare ti prego: voglio tornare dai miei fratelli che sono in Egitto per vedere se sono ancora vivi!». Ietro rispose a Mosè: «Va’ in pace!». Il Signore disse a Mosè in Madian: «Va’ torna in Egitto perché sono morti quanti insidiavano la tua vita!». Mosè p rese la moglie e i figli li fece salire sull’asino e tornò nella terra d’Egitto. E Mosè prese in mano il bastone di Dio. Il Signore disse a Mosè: «Mentre parti per tornare in Egitto bada a tutti i prodigi che ti ho messi in mano: tu li compirai davanti al faraone ma io indurirò il suo cuore ed egli non lascerà partire il popolo. Allora tu dirai al faraone: “Così dice il Signore: Israele è il mio figlio pri mogenito. Io ti avevo detto: lascia partire il mio figlio perché mi serva! Ma tu hai rifiutato di lasc iarlo partire: ecco io farò morire il tuo figlio primogenito!”». Mentre era in viaggio nel luogo dov e pernottava il Signore lo affrontò e cercò di farlo morire. Allora Sipporà prese una selce taglien te recise il prepuzio al figlio e con quello gli toccò i piedi e disse: «Tu sei per me uno sposo di sa ngue». Allora il Signore si ritirò da lui. Ella aveva detto «sposo di sangue» a motivo della circonci sione. Il Signore disse ad Aronne: «Va’ incontro a Mosè nel deserto!». Egli andò e lo incontrò al monte di Dio e lo baciò. Mosè riferì ad Aronne tutte le parole con le quali il Signore lo aveva invi ato e tutti i segni con i quali l’aveva accreditato. Mosè e Aronne andarono e radunarono tutti gli anziani degli Israeliti. Aronne parlò al popolo riferendo tutte le parole che il Signore aveva dett o a Mosè e compì i segni davanti agli occhi del popolo. Allora il popolo credette. Quando udiron o che il Signore aveva visitato gli Israeliti e che aveva visto la loro afflizione essi si inginocchiaro no e si prostrarono. In seguito Mosè e Aronne vennero dal faraone e gli annunciarono: «Così dic e il Signore il Dio d’Israele: “Lascia partire il mio popolo perché mi celebri una festa nel deserto!
”». Il faraone rispose: «Chi è il Signore perché io debba ascoltare la sua voce e lasciare partire Is raele? Non conosco il Signore e non lascerò certo partire Israele!». Ripresero: «Il Dio degli Ebrei ci è venuto incontro. Ci sia dunque concesso di partire per un cammino di tre giorni nel deserto e offrire un sacrificio al Signore, nostro Dio perché non ci colpisca di peste o di spada!». Il re d’E
gitto disse loro: «Mosè e Aronne perché distogliete il popolo dai suoi lavori? Tornate ai vostri la vori forzati!». Il faraone disse: «Ecco ora che il popolo è numeroso nel paese voi vorreste far lor o interrompere i lavori forzati?». In quel giorno il faraone diede questi ordini ai sovrintendenti d el popolo e agli scribi: «Non darete più la paglia al popolo per fabbricare i mattoni come facevat e prima. Andranno a cercarsi da sé la paglia. Però voi dovete esigere il numero di mattoni che fa
cevano finora senza ridurlo. Sono fannulloni; per questo protestano: “Vogliamo partire, dobbia mo sacrificare al nostro Dio!”. Pesi dunque la schiavitù su questi uomini e lavorino; non diano re tta a parole false!». I sovrintendenti del popolo e gli scribi uscirono e riferirono al popolo: «Così dice il faraone: “Io non vi fornisco più paglia. Andate voi stessi a procurarvela dove ne troverete ma non diminuisca la vostra produzione”». Il popolo si sparse in tutto il territorio d’Egitto a racc ogliere stoppie da usare come paglia. Ma i sovrintendenti li sollecitavano dicendo: «Portate a te rmine il vostro lavoro: ogni giorno lo stesso quantitativo come quando avevate la paglia». Basto narono gli scribi degli Israeliti quelli che i sovrintendenti del faraone avevano costituito loro capi dicendo: «Perché non avete portato a termine né ieri né oggi il vostro numero di mattoni come prima?». Allora gli scribi degli Israeliti vennero dal faraone a reclamare dicendo: «Perché tratti così noi tuoi servi? Non viene data paglia ai tuoi servi, ma ci viene detto: “Fate i mattoni!”. E ora i tuoi servi sono bastonati e la colpa è del tuo popolo!». Rispose: «Fannulloni siete fannulloni! P
er questo dite: “Vogliamo partire dobbiamo sacrificare al Signore”. Ora andate lavorate! Non vi sarà data paglia ma dovrete consegnare lo stesso numero di mattoni». Gli scribi degli Israeliti si videro in difficoltà sentendosi dire: «Non diminuirete affatto il numero giornaliero dei mattoni»
. Usciti dalla presenza del faraone quando incontrarono Mosè e Aronne che stavano ad aspettar li dissero loro: «Il Signore guardi a voi e giudichi perché ci avete resi odiosi agli occhi del faraone e agli occhi dei suoi ministri mettendo loro in mano la spada per ucciderci!». Allora Mosè si rivo lse al Signore e disse: «Signore perché hai maltrattato questo popolo? Perché dunque mi hai inv iato? Da quando sono venuto dal faraone per parlargli in tuo nome egli ha fatto del male a ques to popolo e tu non hai affatto liberato il tuo popolo!». Il Signore disse a Mosè: «Ora vedrai quell o che sto per fare al faraone: con mano potente li lascerà andare anzi con mano potente li scacc erà dalla sua terra!». Dio parlò a Mosè e gli disse: «Io sono il Signore! Mi sono manifestato ad A bramo a Isacco a Giacobbe come Dio l’Onnipotente ma non ho fatto conoscere loro il mio nome di Signore. Ho anche stabilito la mia alleanza con loro per dar loro la terra di Canaan la terra del le loro migrazioni nella quale furono forestieri. Io stesso ho udito il lamento degli Israeliti che gli Egiziani resero loro schiavi e mi sono ricordato della mia alleanza. Pertanto di’ agli Israeliti: “Io s ono il Signore! Vi sottrarrò ai lavori forzati degli Egiziani vi libererò dalla loro schiavitù e vi riscat terò con braccio teso e con grandi castighi. Vi prenderò come mio popolo e diventerò il vostro D
io. Saprete che io sono il Signore il vostro Dio che vi sottrae ai lavori forzati degli Egiziani. Vi farò entrare nella terra che ho giurato a mano alzata di dare ad Abramo a Isacco e a Giacobbe; ve la darò in possesso: io sono il Signore!”». Mosè parlò così agli Israeliti ma essi non lo ascoltarono p erché erano stremati dalla dura schiavitù. Il Signore disse a Mosè: «Va’ e parla al faraone re d’E
gitto perché lasci partire dalla sua terra gli Israeliti!». Mosè disse alla presenza del Signore: «Ecc o gli Israeliti non mi hanno ascoltato: come vorrà ascoltarmi il faraone mentre io ho le labbra in circoncise?». Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne e diede loro ordini per gli Israeliti e per il farao ne re d’Egitto allo scopo di far uscire gli Israeliti dalla terra d’Egitto. Questi sono i capi dei loro c asati. Figli di Ruben primogenito d’Israele: Enoc Pallu Chesron e Carmì queste sono le famiglie di
Ruben. Figli di Simeone: Iemuèl Iamin Oad Iachin Socar e Saul figlio della Cananea; queste sono le famiglie di Simeone. Questi sono i nomi dei figli di Levi secondo le loro generazioni: Gherson Keat, Merarì. Gli anni della vita di Levi furono centotrentasette. Figli di Gherson: Libnì e Simei or dinati secondo le loro famiglie. Figli di Keat: Amram Isar Ebron e Uzzièl. Gli anni della vita di Kea t furono centotrentatré. Figli di Merarì: Maclì e Musì queste sono le famiglie di Levi secondo le l oro generazioni. Amram prese in moglie Iochebed sua zia la quale gli partorì Aronne e Mosè. Gli anni della vita di Amram furono centotrentasette. Figli di Isar: Core Nefeg e Zicrì. Figli di Uzzièl: Misaele Elsafàn Sitrì. Aronne prese in moglie Elisabetta figlia di Amminadàb sorella di Nacson da lla quale ebbe i figli Nadab Abiu Eleàzaro e Itamàr. Figli di Core: Assir Elkanà e Abiasàf; queste so no le famiglie dei Coriti. Eleàzaro figlio di Aronne prese in moglie una figlia di Putièl la quale gli p artorì Fineès. Questi sono i capi delle casate dei leviti ordinati secondo le loro famiglie. Sono qu esti quell’Aronne e quel Mosè ai quali il Signore disse: «Fate uscire dalla terra d’Egitto gli Israelit i secondo le loro schiere!». Questi dissero al faraone re d’Egitto di lasciar uscire dall’Egitto gli Isr aeliti: sono Mosè e Aronne. Questo avvenne quando il Signore parlò a Mosè nella terra d’Egitto: il Signore disse a Mosè: «Io sono il Signore! Riferisci al faraone re d’Egitto quanto io ti dico». M
osè disse alla presenza del Signore: «Ecco ho le labbra incirconcise e come vorrà ascoltarmi il far aone?». Il Signore disse a Mosè: «Vedi io ti ho posto a far le veci di Dio di fronte al faraone: Aro nne tuo fratello sarà il tuo profeta. Tu gli dirai quanto io ti ordinerò: Aronne tuo fratello parlerà al faraone perché lasci partire gli Israeliti dalla sua terra. Ma io indurirò il cuore del faraone e m oltiplicherò i miei segni e i miei prodigi nella terra d’Egitto. Il faraone non vi ascolterà e io leverò la mano contro l’Egitto e farò uscire dalla terra d’Egitto le mie schiere il mio popolo gli Israeliti per mezzo di grandi castighi. Allora gli Egiziani sapranno che io sono il Signore, quando stenderò la mano contro l’Egitto e farò uscire di mezzo a loro gli Israeliti!». Mosè e Aronne eseguirono q uanto il Signore aveva loro comandato; così fecero. Mosè aveva ottant’anni e Aronne ottantatr é quando parlarono al faraone. Il Signore disse a Mosè e ad Aronne: «Quando il faraone vi chied erà di fare un prodigio a vostro sostegno tu dirai ad Aronne: “Prendi il tuo bastone e gettalo dav anti al faraone e diventerà un serpente!”». Mosè e Aronne si recarono dunque dal faraone ed e seguirono quanto il Signore aveva loro comandato: Aronne gettò il suo bastone davanti al farao ne e ai suoi ministri ed esso divenne un serpente. A sua volta il faraone convocò i sapienti e gli i ncantatori e anche i maghi dell’Egitto con i loro sortilegi, operarono la stessa cosa. Ciascuno get tò il suo bastone e i bastoni divennero serpenti. Ma il bastone di Aronne inghiottì i loro bastoni.
Però il cuore del faraone si ostinò e non diede loro ascolto secondo quanto aveva detto il Signor e. Il Signore disse a Mosè: «Il cuore del faraone è irremovibile: si rifiuta di lasciar partire il popol o. Va’ dal faraone al mattino quando uscirà verso le acque. Tu starai ad attenderlo sulla riva del Nilo tenendo in mano il bastone che si è cambiato in serpente. Gli dirai: “Il Signore il Dio degli E
brei mi ha inviato a dirti: Lascia partire il mio popolo perché possa servirmi nel deserto; ma tu fi nora non hai obbedito. Dice il Signore: Da questo fatto saprai che io sono il Signore; ecco con il bastone che ho in mano io batto un colpo sulle acque che sono nel Nilo: esse si muteranno in sa
ngue. I pesci che sono nel Nilo moriranno e il Nilo ne diventerà fetido così che gli Egiziani non p otranno più bere acqua dal Nilo!”». Il Signore disse a Mosè: «Di’ ad Aronne: “Prendi il tuo basto ne e stendi la mano sulle acque degli Egiziani sui loro fiumi canali stagni e su tutte le loro riserve di acqua; diventino sangue e ci sia sangue in tutta la terra d’Egitto perfino nei recipienti di legn o e di pietra!”». Mosè e Aronne eseguirono quanto aveva ordinato il Signore: Aronne alzò il bas tone e percosse le acque che erano nel Nilo sotto gli occhi del faraone e dei suoi ministri. Tutte l e acque che erano nel Nilo si mutarono in sangue. I pesci che erano nel Nilo morirono e il Nilo n e divenne fetido così che gli Egiziani non poterono più berne le acque. Vi fu sangue in tutta la te rra d’Egitto. Ma i maghi dell’Egitto con i loro sortilegi operarono la stessa cosa. Il cuore del farao ne si ostinò e non diede loro ascolto secondo quanto aveva detto il Signore. Il faraone voltò le s palle e rientrò nella sua casa e non tenne conto neppure di questo fatto. Tutti gli Egiziani scavar ono allora nei dintorni del Nilo per attingervi acqua da bere perché non potevano bere le acque del Nilo. Trascorsero sette giorni da quando il Signore aveva colpito il Nilo. Il Signore disse a Mo sè: «Va’ a riferire al faraone: “Dice il Signore: Lascia partire il mio popolo perché mi possa servir e! Se tu rifiuti di lasciarlo partire ecco io colpirò tutto il tuo territorio con le rane: il Nilo bruliche rà di rane; esse usciranno ti entreranno in casa nella camera dove dormi e sul tuo letto nella cas a dei tuoi ministri e tra il tuo popolo nei tuoi forni e nelle tue madie. Contro di te, contro il tuo p opolo e contro tutti i tuoi ministri usciranno le rane”». Il Signore disse a Mosè: «Di’ ad Aronne: “
Stendi la mano con il tuo bastone sui fiumi sui canali e sugli stagni e fa’ uscire le rane sulla terra d’Egitto!”». Aronne stese la mano sulle acque d’Egitto e le rane uscirono e coprirono la terra d’E
gitto. Ma i maghi con i loro sortilegi operarono la stessa cosa e fecero uscire le rane sulla terra d
’Egitto. Il faraone fece chiamare Mosè e Aronne e disse: «Pregate il Signore che allontani le rane da me e dal mio popolo; io lascerò partire il popolo perché possa sacrificare al Signore!». Mosè disse al faraone: «Fammi l’onore di dirmi per quando io devo pregare in favore tuo e dei tuoi mi nistri e del tuo popolo per liberare dalle rane te e le tue case in modo che ne rimangano soltant o nel Nilo». Rispose: «Per domani». Riprese: «Sia secondo la tua parola! Perché tu sappia che n on esiste nessuno pari al Signore nostro Dio, le rane si ritireranno da te e dalle tue case dai tuoi ministri e dal tuo popolo: ne rimarranno soltanto nel Nilo». Mosè e Aronne si allontanarono dal faraone e Mosè supplicò il Signore riguardo alle rane che aveva mandato contro il faraone. Il Sig nore operò secondo la parola di Mosè e le rane morirono nelle case nei cortili e nei campi. Le ra ccolsero in tanti mucchi e la terra ne fu ammorbata. Ma il faraone vide che c’era un po’ di sollie vo si ostinò e non diede loro ascolto secondo quanto aveva detto il Signore. Quindi il Signore dis se a Mosè: «Di’ ad Aronne: “Stendi il tuo bastone percuoti la polvere del suolo: essa si muterà i n zanzare in tutta la terra d’Egitto!”». Così fecero: Aronne stese la mano con il suo bastone, colp ì la polvere del suolo e ci furono zanzare sugli uomini e sulle bestie; tutta la polvere del suolo si era mutata in zanzare in tutta la terra d’Egitto. I maghi cercarono di fare la stessa cosa con i loro sortilegi per far uscire le zanzare ma non riuscirono e c’erano zanzare sugli uomini e sulle bestie
. Allora i maghi dissero al faraone: «è il dito di Dio!». Ma il cuore del faraone si ostinò e non die
de ascolto secondo quanto aveva detto il Signore. Il Signore disse a Mosè: «àlzati di buon matti no e presèntati al faraone quando andrà alle acque. Gli dirai: “Così dice il Signore: Lascia partire il mio popolo perché mi possa servire! Se tu non lasci partire il mio popolo ecco, manderò su di te sui tuoi ministri sul tuo popolo e sulle tue case sciami di tafani: le case degli Egiziani saranno piene di tafani e anche il suolo sul quale essi si trovano. Ma in quel giorno io risparmierò la regi one di Gosen dove dimora il mio popolo: là non vi saranno tafani, perché tu sappia che io sono i l Signore in mezzo al paese! Così farò distinzione tra il mio popolo e il tuo popolo. Domani avver rà questo segno”». Così fece il Signore: sciami imponenti di tafani entrarono nella casa del farao ne, nella casa dei suoi ministri e in tutta la terra d’Egitto; la terra era devastata a causa dei tafan i. Il faraone fece chiamare Mosè e Aronne e disse: «Andate a sacrificare al vostro Dio ma nel pa ese!». Mosè rispose: «Non è opportuno far così perché quello che noi sacrifichiamo al Signore n ostro Dio è abominio per gli Egiziani. Se noi facessimo sotto i loro occhi un sacrificio abominevol e per gli Egiziani forse non ci lapiderebbero? Andremo nel deserto a tre giorni di cammino e sac rificheremo al Signore, nostro Dio secondo quanto egli ci ordinerà!». Allora il faraone replicò: «
Vi lascerò partire e potrete sacrificare al Signore nel deserto. Ma non andate troppo lontano e p regate per me». Rispose Mosè: «Ecco mi allontanerò da te e pregherò il Signore; domani i tafani si ritireranno dal faraone dai suoi ministri e dal suo popolo. Però il faraone cessi di burlarsi di n oi impedendo al popolo di partire perché possa sacrificare al Signore!». Mosè si allontanò dal fa raone e pregò il Signore. Il Signore agì secondo la parola di Mosè e allontanò i tafani dal faraone dai suoi ministri e dal suo popolo: non ne restò neppure uno. Ma il faraone si ostinò anche que sta volta e non lasciò partire il popolo. Allora il Signore disse a Mosè: «Va’ a riferire al faraone: “
Così dice il Signore il Dio degli Ebrei: Lascia partire il mio popolo perché mi possa servire! Se tu r ifiuti di lasciarlo partire e lo trattieni ancora ecco la mano del Signore verrà sopra il tuo bestiam e che è nella campagna sopra i cavalli gli asini i cammelli sopra gli armenti e le greggi con una pe ste gravissima! Ma il Signore farà distinzione tra il bestiame d’Israele e quello degli Egiziani così che niente muoia di quanto appartiene agli Israeliti”». Il Signore fissò la data dicendo: «Domani il Signore compirà questa cosa nel paese!». Appunto il giorno dopo, il Signore compì tale cosa: morì tutto il bestiame degli Egiziani ma del bestiame degli Israeliti non morì neppure un capo. Il faraone mandò a vedere ed ecco neppure un capo del bestiame d’Israele era morto. Ma il cuore del faraone rimase ostinato e non lasciò partire il popolo. Il Signore si rivolse a Mosè e ad Aron ne: «Procuratevi una manciata di fuliggine di fornace: Mosè la sparga verso il cielo sotto gli occh i del faraone. Essa diventerà un pulviscolo che diffondendosi su tutta la terra d’Egitto produrrà s ugli uomini e sulle bestie ulcere degeneranti in pustole in tutta la terra d’Egitto». Presero dunqu e fuliggine di fornace e si posero alla presenza del faraone. Mosè la sparse verso il cielo ed essa produsse ulcere pustolose con eruzioni su uomini e bestie. I maghi non poterono stare alla pres enza di Mosè a causa delle ulcere che li avevano colpiti come tutti gli Egiziani. Ma il Signore rese ostinato il cuore del faraone il quale non diede loro ascolto, come il Signore aveva detto a Mos è. Il Signore disse a Mosè: «àlzati di buon mattino presèntati al faraone e annunciagli: “Così dice
il Signore il Dio degli Ebrei: Lascia partire il mio popolo, perché mi possa servire! Perché questa volta io mando tutti i miei flagelli contro il tuo cuore contro i tuoi ministri e contro il tuo popolo perché tu sappia che nessuno è come me su tutta la terra. Se fin da principio io avessi steso la mano per colpire te e il tuo popolo con la peste tu ormai saresti stato cancellato dalla terra; inv ece per questo ti ho lasciato sussistere per dimostrarti la mia potenza e per divulgare il mio no me in tutta la terra. Ancora ti opponi al mio popolo e non lo lasci partire! Ecco io farò cadere do mani a questa stessa ora una grandine violentissima come non ci fu mai in Egitto dal giorno dell a sua fondazione fino ad oggi. Manda dunque fin d’ora a mettere al riparo il tuo bestiame e qua nto hai in campagna. Su tutti gli uomini e su tutti gli animali che si troveranno in campagna e ch e non saranno stati ricondotti in casa si abbatterà la grandine e moriranno”». Chi tra i ministri d el faraone temeva il Signore fece ricoverare nella casa i suoi schiavi e il suo bestiame; chi invece non diede retta alla parola del Signore lasciò schiavi e bestiame in campagna. Il Signore disse a Mosè: «Stendi la mano verso il cielo: vi sia grandine in tutta la terra d’Egitto sugli uomini sulle b estie e su tutta la vegetazione dei campi nella terra d’Egitto!». Mosè stese il bastone verso il ciel o e il Signore mandò tuoni e grandine; sul suolo si abbatté fuoco e il Signore fece cadere grandi ne su tutta la terra d’Egitto. Ci furono grandine e fuoco in mezzo alla grandine: non vi era mai st ata in tutta la terra d’Egitto una grandinata così violenta dal tempo in cui era diventata nazione!
La grandine colpì in tutta la terra d’Egitto quanto era nella campagna dagli uomini alle bestie; la grandine flagellò anche tutta la vegetazione dei campi e schiantò tutti gli alberi della campagna
. Soltanto nella regione di Gosen dove stavano gli Israeliti non vi fu grandine. Allora il faraone m andò a chiamare Mosè e Aronne e disse loro: «Questa volta ho peccato: il Signore è il giusto; io e il mio popolo siamo colpevoli. Pregate il Signore: ci sono stati troppi tuoni violenti e grandine!
Vi lascerò partire e non dovrete più restare qui». Mosè gli rispose: «Non appena sarò uscito dall a città stenderò le mani verso il Signore: i tuoni cesseranno e non grandinerà più, perché tu sap pia che la terra appartiene al Signore. Ma quanto a te e ai tuoi ministri io so che ancora non tem erete il Signore Dio». Ora il lino e l’orzo erano stati colpiti perché l’orzo era in spiga e il lino in fi ore; ma il grano e la spelta non erano stati colpiti perché tardivi. Mosè si allontanò dal faraone e dalla città stese le mani verso il Signore: i tuoni e la grandine cessarono e la pioggia non si roves ciò più sulla terra. Quando il faraone vide che la pioggia la grandine e i tuoni erano cessati conti nuò a peccare e si ostinò insieme con i suoi ministri. Il cuore del faraone si ostinò e non lasciò p artire gli Israeliti come aveva detto il Signore per mezzo di Mosè. Allora il Signore disse a Mosè:
«Va’ dal faraone perché io ho indurito il cuore suo e dei suoi ministri per compiere questi miei s egni in mezzo a loro e perché tu possa raccontare e fissare nella memoria di tuo figlio e del figli o di tuo figlio come mi sono preso gioco degli Egiziani e i segni che ho compiuti in mezzo a loro: così saprete che io sono il Signore!». Mosè e Aronne si recarono dal faraone e gli dissero: «Così dice il Signore il Dio degli Ebrei: “Fino a quando rifiuterai di piegarti davanti a me? Lascia partire il mio popolo perché mi possa servire. Se tu rifiuti di lasciar partire il mio popolo ecco, da doma ni io manderò le cavallette sul tuo territorio. Esse copriranno la superficie della terra così che no
n si possa più vedere il suolo: divoreranno il poco che è stato lasciato per voi dalla grandine e di voreranno ogni albero che rispunta per voi nella campagna. Riempiranno le tue case le case di t utti i tuoi ministri e le case di tutti gli Egiziani, cosa che non videro i tuoi padri né i padri dei tuoi padri da quando furono su questo suolo fino ad oggi!”». Poi voltò le spalle e uscì dalla presenza del faraone. I ministri del faraone gli dissero: «Fino a quando costui resterà tra noi come una tra ppola? Lascia partire questa gente perché serva il Signore suo Dio! Non ti accorgi ancora che l’E
gitto va in rovina?». Mosè e Aronne furono richiamati presso il faraone, che disse loro: «Andate servite il Signore vostro Dio! Ma chi sono quelli che devono partire?». Mosè disse: «Partiremo n oi insieme con i nostri giovani e i nostri vecchi con i figli e le figlie con le nostre greggi e i nostri a rmenti perché per noi è una festa del Signore». Rispose: «Così sia il Signore con voi com’è vero c he io intendo lasciar partire voi e i vostri bambini! Badate però che voi avete cattive intenzioni.
Così non va! Partite voi uomini e rendete culto al Signore se davvero voi cercate questo!». E li c acciarono dalla presenza del faraone. Allora il Signore disse a Mosè: «Stendi la mano sulla terra d’Egitto per far venire le cavallette: assalgano la terra d’Egitto e divorino tutta l’erba della terra tutto quello che la grandine ha risparmiato!». Mosè stese il suo bastone contro la terra d’Egitto e il Signore diresse su quella terra un vento d’oriente per tutto quel giorno e tutta la notte. Qua ndo fu mattina il vento d’oriente aveva portato le cavallette. Le cavallette salirono sopra tutta l a terra d’Egitto e si posarono su tutto quanto il territorio d’Egitto. Fu cosa gravissima: tante non ve n’erano mai state prima né vi furono in seguito. Esse coprirono tutta la superficie della terra così che la terra ne fu oscurata; divorarono ogni erba della terra e ogni frutto d’albero che la gra ndine aveva risparmiato: nulla di verde rimase sugli alberi e fra le erbe dei campi in tutta la terr a d’Egitto. Il faraone allora convocò in fretta Mosè e Aronne e disse: «Ho peccato contro il Signo re vostro Dio e contro di voi. Ma ora perdonate il mio peccato anche questa volta e pregate il Si gnore vostro Dio perché almeno allontani da me questa morte!». Egli si allontanò dal faraone e pregò il Signore. Il Signore cambiò la direzione del vento e lo fece soffiare dal mare con grande f orza: esso portò via le cavallette e le abbatté nel Mar Rosso; non rimase neppure una cavalletta in tutta la terra d’Egitto. Ma il Signore rese ostinato il cuore del faraone il quale non lasciò partir e gli Israeliti. Allora il Signore disse a Mosè: «Stendi la mano verso il cielo: vengano sulla terra d’
Egitto tenebre tali da potersi palpare!». Mosè stese la mano verso il cielo: vennero dense teneb re su tutta la terra d’Egitto per tre giorni. Non si vedevano più l’un l’altro e per tre giorni nessun o si poté muovere dal suo posto. Ma per tutti gli Israeliti c’era luce là dove abitavano. Allora il fa raone convocò Mosè e disse: «Partite servite il Signore! Solo rimangano le vostre greggi e i vostr i armenti. Anche i vostri bambini potranno partire con voi». Rispose Mosè: «Tu stesso metterai a nostra disposizione sacrifici e olocausti e noi li offriremo al Signore nostro Dio. Anche il nostro bestiame partirà con noi: neppure un’unghia ne resterà qui. Perché da esso noi dobbiamo prele vare le vittime per servire il Signore nostro Dio e noi non sapremo quel che dovremo sacrificare al Signore finché non saremo arrivati in quel luogo». Ma il Signore rese ostinato il cuore del fara one il quale non volle lasciarli partire. Gli rispose dunque il faraone: «Vattene da me! Guàrdati d
al ricomparire davanti a me perché il giorno in cui rivedrai il mio volto, morirai». Mosè disse: «H
ai parlato bene: non vedrò più il tuo volto!». Il Signore disse a Mosè: «Ancora una piaga mander ò contro il faraone e l’Egitto; dopo di che egli vi lascerà partire di qui. Vi lascerà partire senza co ndizioni, anzi vi caccerà via di qui. Di’ dunque al popolo che ciascuno dal suo vicino e ciascuna d alla sua vicina si facciano dare oggetti d’argento e oggetti d’oro». Il Signore fece sì che il popolo trovasse favore agli occhi degli Egiziani. Inoltre Mosè era un uomo assai considerato nella terra d’Egitto agli occhi dei ministri del faraone e del popolo. Mosè annunciò: «Così dice il Signore: Ve rso la metà della notte io uscirò attraverso l’Egitto: morirà ogni primogenito nella terra d’Egitto dal primogenito del faraone che siede sul trono fino al primogenito della schiava che sta dietro l a mola e ogni primogenito del bestiame. Un grande grido si alzerà in tutta la terra d’Egitto quale non vi fu mai e quale non si ripeterà mai più. Ma contro tutti gli Israeliti neppure un cane abbai erà né contro uomini né contro bestie, perché sappiate che il Signore fa distinzione tra l’Egitto e Israele. Tutti questi tuoi ministri scenderanno da me e si prostreranno davanti a me dicendo: “E
sci tu e tutto il popolo che ti segue!”. Dopo io uscirò!». Mosè pieno d’ira si allontanò dal faraon e. Il Signore aveva appunto detto a Mosè: «Il faraone non vi darà ascolto, perché si moltiplichin o i miei prodigi nella terra d’Egitto». Mosè e Aronne avevano fatto tutti quei prodigi davanti al f araone; ma il Signore aveva reso ostinato il cuore del faraone il quale non lasciò partire gli Israel iti dalla sua terra. Il Signore disse a Mosè e ad Aronne in terra d’Egitto: «Questo mese sarà per v oi l’inizio dei mesi sarà per voi il primo mese dell’anno. Parlate a tutta la comunità d’Israele e dit e: “Il dieci di questo mese ciascuno si procuri un agnello per famiglia un agnello per casa. Se la f amiglia fosse troppo piccola per un agnello si unirà al vicino il più prossimo alla sua casa, second o il numero delle persone; calcolerete come dovrà essere l’agnello secondo quanto ciascuno pu ò mangiarne. Il vostro agnello sia senza difetto maschio nato nell’anno; potrete sceglierlo tra le pecore o tra le capre e lo conserverete fino al quattordici di questo mese: allora tutta l’assembl ea della comunità d’Israele lo immolerà al tramonto. Preso un po’ del suo sangue lo porranno s ui due stipiti e sull’architrave delle case nelle quali lo mangeranno. In quella notte ne mangeran no la carne arrostita al fuoco; la mangeranno con azzimi e con erbe amare. Non lo mangerete cr udo né bollito nell’acqua ma solo arrostito al fuoco con la testa le zampe e le viscere. Non ne do vete far avanzare fino al mattino: quello che al mattino sarà avanzato lo brucerete nel fuoco. Ec co in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti i sandali ai piedi il bastone in mano; lo manger ete in fretta. è la Pasqua del Signore! In quella notte io passerò per la terra d’Egitto e colpirò og ni primogenito nella terra d’Egitto uomo o animale; così farò giustizia di tutti gli dèi dell’Egitto. I o sono il Signore! Il sangue sulle case dove vi troverete servirà da segno in vostro favore: io vedr ò il sangue e passerò oltre; non vi sarà tra voi flagello di sterminio quando io colpirò la terra d’E
gitto. Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di genera zione in generazione lo celebrerete come un rito perenne. Per sette giorni voi mangerete azzimi
. Fin dal primo giorno farete sparire il lievito dalle vostre case perché chiunque mangerà del liev itato dal giorno primo al giorno settimo quella persona sarà eliminata da Israele. Nel primo gior
no avrete una riunione sacra e nel settimo giorno una riunione sacra: durante questi giorni non si farà alcun lavoro; si potrà preparare da mangiare per ogni persona: questo solo si farà presso di voi. Osservate la festa degli Azzimi perché proprio in questo giorno io ho fatto uscire le vostre schiere dalla terra d’Egitto; osserverete tale giorno di generazione in generazione come rito per enne. Nel primo mese dal giorno quattordici del mese alla sera voi mangerete azzimi fino al gior no ventuno del mese alla sera. Per sette giorni non si trovi lievito nelle vostre case perché chiun que mangerà del lievitato quella persona sia forestiera sia nativa della terra sarà eliminata dalla comunità d’Israele. Non mangerete nulla di lievitato; in tutte le vostre abitazioni mangerete azzi mi”». Mosè convocò tutti gli anziani d’Israele e disse loro: «Andate a procurarvi un capo di besti ame minuto per ogni vostra famiglia e immolate la Pasqua. Prenderete un fascio di issòpo lo inti ngerete nel sangue che sarà nel catino e spalmerete l’architrave ed entrambi gli stipiti con il san gue del catino. Nessuno di voi esca dalla porta della sua casa fino al mattino. Il Signore passerà per colpire l’Egitto, vedrà il sangue sull’architrave e sugli stipiti; allora il Signore passerà oltre la porta e non permetterà allo sterminatore di entrare nella vostra casa per colpire. Voi osserveret e questo comando come un rito fissato per te e per i tuoi figli per sempre. Quando poi sarete en trati nella terra che il Signore vi darà come ha promesso osserverete questo rito. Quando i vostr i figli vi chiederanno: “Che significato ha per voi questo rito?”, voi direte loro: “è il sacrificio dell a Pasqua per il Signore il quale è passato oltre le case degli Israeliti in Egitto quando colpì l’Egitt o e salvò le nostre case”». Il popolo si inginocchiò e si prostrò. Poi gli Israeliti se ne andarono ed eseguirono ciò che il Signore aveva ordinato a Mosè e ad Aronne; così fecero. A mezzanotte il Si gnore colpì ogni primogenito nella terra d’Egitto dal primogenito del faraone che siede sul tron o fino al primogenito del prigioniero in carcere e tutti i primogeniti del bestiame. Si alzò il farao ne nella notte e con lui i suoi ministri e tutti gli Egiziani; un grande grido scoppiò in Egitto perch é non c’era casa dove non ci fosse un morto! Il faraone convocò Mosè e Aronne nella notte e di sse: «Alzatevi e abbandonate il mio popolo voi e gli Israeliti! Andate rendete culto al Signore co me avete detto. Prendete anche il vostro bestiame e le vostre greggi come avete detto e partite
! Benedite anche me!». Gli Egiziani fecero pressione sul popolo affrettandosi a mandarli via dal paese perché dicevano: «Stiamo per morire tutti!». Il popolo portò con sé la pasta prima che fo sse lievitata recando sulle spalle le madie avvolte nei mantelli. Gli Israeliti eseguirono l’ordine di Mosè e si fecero dare dagli Egiziani oggetti d’argento e d’oro e vesti. Il Signore fece sì che il pop olo trovasse favore agli occhi degli Egiziani i quali accolsero le loro richieste. Così essi spogliaron o gli Egiziani. Gli Israeliti partirono da Ramses alla volta di Succot in numero di seicentomila uo mini adulti senza contare i bambini. Inoltre una grande massa di gente promiscua partì con loro e greggi e armenti in mandrie molto grandi. Fecero cuocere la pasta che avevano portato dall’E
gitto in forma di focacce azzime perché non era lievitata: infatti erano stati scacciati dall’Egitto e non avevano potuto indugiare; neppure si erano procurati provviste per il viaggio. La permane nza degli Israeliti in Egitto fu di quattrocentotrent’anni. Al termine dei quattrocentotrent’anni p roprio in quel giorno tutte le schiere del Signore uscirono dalla terra d’Egitto. Notte di veglia fu
questa per il Signore per farli uscire dalla terra d’Egitto. Questa sarà una notte di veglia in onore del Signore per tutti gli Israeliti di generazione in generazione. Il Signore disse a Mosè e ad Aron ne: «Questo è il rito della Pasqua: nessuno straniero ne deve mangiare. Quanto a ogni schiavo a cquistato con denaro lo circonciderai e allora ne potrà mangiare. L’ospite e il mercenario non n e mangeranno. In una sola casa si mangerà: non ne porterai la carne fuori di casa; non ne spezz erete alcun osso. Tutta la comunità d’Israele la celebrerà. Se un forestiero soggiorna presso di t e e vuol celebrare la Pasqua del Signore sia circonciso ogni maschio della sua famiglia: allora pot rà accostarsi per celebrarla e sarà come un nativo della terra. Ma non ne mangi nessuno che no n sia circonciso. Vi sarà una sola legge per il nativo e per il forestiero che soggiorna in mezzo a v oi». Tutti gli Israeliti fecero così come il Signore aveva ordinato a Mosè e ad Aronne in tal modo operarono. Proprio in quel giorno il Signore fece uscire gli Israeliti dalla terra d’Egitto, ordinati s econdo le loro schiere. Il Signore disse a Mosè: «Consacrami ogni essere che esce per primo dal seno materno tra gli Israeliti: ogni primogenito di uomini o di animali appartiene a me». Mosè d isse al popolo: «Ricòrdati di questo giorno nel quale siete usciti dall’Egitto dalla dimora di schiav itù perché con la potenza del suo braccio il Signore vi ha fatto uscire di là: non si mangi nulla di l ievitato. In questo giorno del mese di Abìb voi uscite. Quando il Signore ti avrà fatto entrare nell a terra del Cananeo dell’Ittita dell’Amorreo dell’Eveo e del Gebuseo che ha giurato ai tuoi padri di dare a te terra dove scorrono latte e miele allora tu celebrerai questo rito in questo mese. Pe r sette giorni mangerai azzimi. Nel settimo giorno vi sarà una festa in onore del Signore. Nei sett e giorni si mangeranno azzimi e non compaia presso di te niente di lievitato; non ci sia presso di te lievito entro tutti i tuoi confini. In quel giorno tu spiegherai a tuo figlio: “è a causa di quanto h a fatto il Signore per me quando sono uscito dall’Egitto”. Sarà per te segno sulla tua mano e me moriale fra i tuoi occhi affinché la legge del Signore sia sulla tua bocca. Infatti il Signore ti ha fatt o uscire dall’Egitto con mano potente. Osserverai questo rito nella sua ricorrenza di anno in ann o. Quando il Signore ti avrà fatto entrare nella terra del Cananeo come ha giurato a te e ai tuoi padri e te l’avrà data in possesso tu riserverai per il Signore ogni primogenito del seno materno; ogni primo parto del tuo bestiame se di sesso maschile lo consacrerai al Signore. Riscatterai og ni primo parto dell’asino mediante un capo di bestiame minuto e se non lo vorrai riscattare gli s paccherai la nuca. Riscatterai ogni primogenito dell’uomo tra i tuoi discendenti. Quando tuo figl io un domani ti chiederà: “Che significa ciò?” tu gli risponderai: “Con la potenza del suo braccio i l Signore ci ha fatto uscire dall’Egitto dalla condizione servile. Poiché il faraone si ostinava a non lasciarci partire il Signore ha ucciso ogni primogenito nella terra d’Egitto: i primogeniti degli uo mini e i primogeniti del bestiame. Per questo io sacrifico al Signore ogni primo parto di sesso m aschile e riscatto ogni primogenito dei miei discendenti”. Questo sarà un segno sulla tua mano, sarà un pendaglio fra i tuoi occhi poiché con la potenza del suo braccio il Signore ci ha fatto usci re dall’Egitto». Quando il faraone lasciò partire il popolo Dio non lo condusse per la strada del t erritorio dei Filistei benché fosse più corta perché Dio pensava: «Che il popolo non si penta alla vista della guerra e voglia tornare in Egitto!». Dio fece deviare il popolo per la strada del deserto
verso il Mar Rosso. Gli Israeliti armati uscirono dalla terra d’Egitto. Mosè prese con sé le ossa di Giuseppe perché questi aveva fatto prestare un solenne giuramento agli Israeliti dicendo: «Dio certo verrà a visitarvi; voi allora vi porterete via le mie ossa». Partirono da Succot e si accampar ono a Etam sul limite del deserto. Il Signore marciava alla loro testa di giorno con una colonna d i nube per guidarli sulla via da percorrere e di notte con una colonna di fuoco per far loro luce c osì che potessero viaggiare giorno e notte. Di giorno la colonna di nube non si ritirava mai dalla vista del popolo né la colonna di fuoco durante la notte. Il Signore disse a Mosè: «Comanda agli Israeliti che tornino indietro e si accampino davanti a Pi-Achiròt tra Migdol e il mare davanti a Baal-
Sefòn; di fronte a quel luogo vi accamperete presso il mare. Il faraone penserà degli Israeliti: “V
anno errando nella regione; il deserto li ha bloccati!”. Io renderò ostinato il cuore del faraone e d egli li inseguirà io dimostrerò la mia gloria contro il faraone e tutto il suo esercito così gli Egizia ni sapranno che io sono il Signore!». Ed essi fecero così. Quando fu riferito al re d’Egitto che il p opolo era fuggito il cuore del faraone e dei suoi ministri si rivolse contro il popolo. Dissero: «Che cosa abbiamo fatto lasciando che Israele si sottraesse al nostro servizio?». Attaccò allora il cocc hio e prese con sé i suoi soldati. Prese seicento carri scelti e tutti i carri d’Egitto con i combatten ti sopra ciascuno di essi. Il Signore rese ostinato il cuore del faraone re d’Egitto il quale inseguì g li Israeliti mentre gli Israeliti uscivano a mano alzata. Gli Egiziani li inseguirono e li raggiunsero m entre essi stavano accampati presso il mare; tutti i cavalli e i carri del faraone i suoi cavalieri e il suo esercito erano presso Pi-Achiròt davanti a Baal-Sefòn. Quando il faraone fu vicino gli Israeliti alzarono gli occhi: ecco gli Egiziani marciavano diet ro di loro! Allora gli Israeliti ebbero grande paura e gridarono al Signore. E dissero a Mosè: «è fo rse perché non c’erano sepolcri in Egitto che ci hai portati a morire nel deserto? Che cosa ci hai fatto portandoci fuori dall’Egitto? Non ti dicevamo in Egitto: “Lasciaci stare e serviremo gli Egizi ani perché è meglio per noi servire l’Egitto che morire nel deserto”?». Mosè rispose: «Non abbi ate paura! Siate forti e vedrete la salvezza del Signore il quale oggi agirà per voi; perché gli Egizi ani che voi oggi vedete non li rivedrete mai più! Il Signore combatterà per voi e voi starete tran quilli». Il Signore disse a Mosè: «Perché gridi verso di me? Ordina agli Israeliti di riprendere il ca mmino. Tu intanto alza il bastone stendi la mano sul mare e dividilo, perché gli Israeliti entrino nel mare all’asciutto. Ecco io rendo ostinato il cuore degli Egiziani così che entrino dietro di loro e io dimostri la mia gloria sul faraone e tutto il suo esercito sui suoi carri e sui suoi cavalieri. Gli Egiziani sapranno che io sono il Signore quando dimostrerò la mia gloria contro il faraone i suoi carri e i suoi cavalieri». L’angelo di Dio che precedeva l’accampamento d’Israele cambiò posto e passò indietro. Anche la colonna di nube si mosse e dal davanti passò dietro. Andò a porsi tra l’a ccampamento degli Egiziani e quello d’Israele. La nube era tenebrosa per gli uni mentre per gli a ltri illuminava la notte; così gli uni non poterono avvicinarsi agli altri durante tutta la notte. Allor a Mosè stese la mano sul mare. E il Signore durante tutta la notte risospinse il mare con un fort e vento d’oriente rendendolo asciutto; le acque si divisero. Gli Israeliti entrarono nel mare sull’a
sciutto mentre le acque erano per loro un muro a destra e a sinistra. Gli Egiziani li inseguirono e tutti i cavalli del faraone i suoi carri e i suoi cavalieri entrarono dietro di loro in mezzo al mare.
Ma alla veglia del mattino il Signore dalla colonna di fuoco e di nube gettò uno sguardo sul cam po degli Egiziani e lo mise in rotta. Frenò le ruote dei loro carri, così che a stento riuscivano a spi ngerle. Allora gli Egiziani dissero: «Fuggiamo di fronte a Israele perché il Signore combatte per l oro contro gli Egiziani!». Il Signore disse a Mosè: «Stendi la mano sul mare: le acque si riversino sugli Egiziani sui loro carri e i loro cavalieri». Mosè stese la mano sul mare e il mare sul far del m attino tornò al suo livello consueto mentre gli Egiziani fuggendo gli si dirigevano contro. Il Signo re li travolse così in mezzo al mare. Le acque ritornarono e sommersero i carri e i cavalieri di tut to l’esercito del faraone che erano entrati nel mare dietro a Israele: non ne scampò neppure un o. Invece gli Israeliti avevano camminato sull’asciutto in mezzo al mare mentre le acque erano p er loro un muro a destra e a sinistra. In quel giorno il Signore salvò Israele dalla mano degli Egizi ani e Israele vide gli Egiziani morti sulla riva del mare; Israele vide la mano potente con la quale il Signore aveva agito contro l’Egitto e il popolo temette il Signore e credette in lui e in Mosè su o servo. Allora Mosè e gli Israeliti cantarono questo canto al Signore e dissero: «Voglio cantare al Signore, perché ha mirabilmente trionfato: cavallo e cavaliere ha gettato nel mare. Mia forza e mio canto è il Signore, egli è stato la mia salvezza. è il mio Dio: lo voglio lodare, il Dio di mio pa dre: lo voglio esaltare! Il Signore è un guerriero, Signore è il suo nome. I carri del faraone e il su o esercito li ha scagliati nel mare; i suoi combattenti scelti furono sommersi nel Mar Rosso. Gli a bissi li ricoprirono, sprofondarono come pietra. La tua destra Signore, è gloriosa per la potenza, la tua destra Signore, annienta il nemico; con sublime maestà abbatti i tuoi avversari, scateni il t uo furore, che li divora come paglia. Al soffio della tua ira si accumularono le acque, si alzarono l e onde come un argine, si rappresero gli abissi nel fondo del mare. Il nemico aveva detto: “Inseg uirò raggiungerò, spartirò il bottino, se ne sazierà la mia brama; sfodererò la spada, li conquiste rà la mia mano!”. Soffiasti con il tuo alito: li ricoprì il mare, sprofondarono come piombo in acqu e profonde. Chi è come te fra gli dèi Signore? Chi è come te maestoso in santità, terribile nelle i mprese, autore di prodigi? Stendesti la destra: li inghiottì la terra. Guidasti con il tuo amore que sto popolo che hai riscattato, lo conducesti con la tua potenza alla tua santa dimora. Udirono i p opoli: sono atterriti. L’angoscia afferrò gli abitanti della Filistea. Allora si sono spaventati i capi d i Edom, il pànico prende i potenti di Moab; hanno tremato tutti gli abitanti di Canaan. Piómbino su di loro paura e terrore; per la potenza del tuo braccio restino muti come pietra, finché sia pa ssato il tuo popolo Signore, finché sia passato questo tuo popolo, che ti sei acquistato. Tu lo fai entrare e lo pianti sul monte della tua eredità, luogo che per tua dimora, Signore hai preparato, santuario che le tue mani, Signore hanno fondato. Il Signore regni in eterno e per sempre!». Qu ando i cavalli del faraone i suoi carri e i suoi cavalieri furono entrati nel mare il Signore fece torn are sopra di essi le acque del mare mentre gli Israeliti avevano camminato sull’asciutto in mezzo al mare. Allora Maria la profetessa sorella di Aronne prese in mano un tamburello: dietro a lei u scirono le donne con i tamburelli e con danze. Maria intonò per loro il ritornello: «Cantate al Sig
nore, perché ha mirabilmente trionfato: cavallo e cavaliere ha gettato nel mare!». Mosè fece pa rtire Israele dal Mar Rosso ed essi avanzarono verso il deserto di Sur. Camminarono tre giorni n el deserto senza trovare acqua. Arrivarono a Mara ma non potevano bere le acque di Mara perc hé erano amare. Per questo furono chiamate Mara. Allora il popolo mormorò contro Mosè: «Ch e cosa berremo?». Egli invocò il Signore il quale gli indicò un legno. Lo gettò nell’acqua e l’acqua divenne dolce. In quel luogo il Signore impose al popolo una legge e un diritto; in quel luogo lo mise alla prova. Disse: «Se tu darai ascolto alla voce del Signore tuo Dio e farai ciò che è retto ai suoi occhi se tu presterai orecchio ai suoi ordini e osserverai tutte le sue leggi io non t’infliggerò nessuna delle infermità che ho inflitto agli Egiziani perché io sono il Signore colui che ti guarisce
!». Poi arrivarono a Elìm dove sono dodici sorgenti di acqua e settanta palme. Qui si accamparo no presso l’acqua. Levarono le tende da Elìm e tutta la comunità degli Israeliti arrivò al deserto di Sin che si trova tra Elìm e il Sinai il quindici del secondo mese dopo la loro uscita dalla terra d’
Egitto. Nel deserto tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mosè e contro Aronne. Gli I sraeliti dissero loro: «Fossimo morti per mano del Signore nella terra d’Egitto quando eravamo seduti presso la pentola della carne mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatto uscire in qu esto deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine». Allora il Signore disse a Mosè: «E
cco io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la raz ione di un giorno perché io lo metta alla prova per vedere se cammina o no secondo la mia legg e. Ma il sesto giorno quando prepareranno quello che dovranno portare a casa sarà il doppio di ciò che avranno raccolto ogni altro giorno». Mosè e Aronne dissero a tutti gli Israeliti: «Questa s era saprete che il Signore vi ha fatto uscire dalla terra d’Egitto e domani mattina vedrete la glori a del Signore, poiché egli ha inteso le vostre mormorazioni contro di lui. Noi infatti che cosa sia mo perché mormoriate contro di noi?». Mosè disse: «Quando il Signore vi darà alla sera la carn e da mangiare e alla mattina il pane a sazietà sarà perché il Signore ha inteso le mormorazioni c on le quali mormorate contro di lui. Noi infatti che cosa siamo? Non contro di noi vanno le vostr e mormorazioni ma contro il Signore». Mosè disse ad Aronne: «Da’ questo comando a tutta la c omunità degli Israeliti: “Avvicinatevi alla presenza del Signore perché egli ha inteso le vostre mo rmorazioni!”». Ora mentre Aronne parlava a tutta la comunità degli Israeliti essi si voltarono ver so il deserto: ed ecco la gloria del Signore si manifestò attraverso la nube. Il Signore disse a Mos è: «Ho inteso la mormorazione degli Israeliti. Parla loro così: “Al tramonto mangerete carne e al la mattina vi sazierete di pane; saprete che io sono il Signore vostro Dio”». La sera le quaglie sali rono e coprirono l’accampamento; al mattino c’era uno strato di rugiada intorno all’accampam ento. Quando lo strato di rugiada svanì, ecco sulla superficie del deserto c’era una cosa fine e gr anulosa minuta come è la brina sulla terra. Gli Israeliti la videro e si dissero l’un l’altro: «Che cos
’è?» perché non sapevano che cosa fosse. Mosè disse loro: «è il pane che il Signore vi ha dato in cibo. Ecco che cosa comanda il Signore: “Raccoglietene quanto ciascuno può mangiarne un om er a testa secondo il numero delle persone che sono con voi. Ne prenderete ciascuno per quelli della propria tenda”». Così fecero gli Israeliti. Ne raccolsero chi molto chi poco. Si misurò con l’

omer: colui che ne aveva preso di più non ne aveva di troppo; colui che ne aveva preso di meno non ne mancava. Avevano raccolto secondo quanto ciascuno poteva mangiarne. Mosè disse lor o: «Nessuno ne faccia avanzare fino al mattino». Essi non obbedirono a Mosè e alcuni ne conser varono fino al mattino; ma vi si generarono vermi e imputridì. Mosè si irritò contro di loro. Essi dunque ne raccoglievano ogni mattina secondo quanto ciascuno mangiava; quando il sole comi nciava a scaldare si scioglieva. Quando venne il sesto giorno essi raccolsero il doppio di quel pan e due omer a testa. Allora tutti i capi della comunità vennero a informare Mosè. Egli disse loro:
«è appunto ciò che ha detto il Signore: “Domani è sabato riposo assoluto consacrato al Signore.
Ciò che avete da cuocere cuocetelo; ciò che avete da bollire bollitelo; quanto avanza tenetelo in serbo fino a domani mattina”». Essi lo misero in serbo fino al mattino come aveva ordinato Mo sè e non imputridì né vi si trovarono vermi. Disse Mosè: «Mangiatelo oggi perché è sabato in on ore del Signore: oggi non ne troverete nella campagna. Sei giorni lo raccoglierete ma il settimo giorno è sabato: non ve ne sarà». Nel settimo giorno alcuni del popolo uscirono per raccogliern e ma non ne trovarono. Disse allora il Signore a Mosè: «Fino a quando rifiuterete di osservare i miei ordini e le mie leggi? Vedete che il Signore vi ha dato il sabato! Per questo egli vi dà al sest o giorno il pane per due giorni. Restate ciascuno al proprio posto! Nel settimo giorno nessuno e sca dal luogo dove si trova». Il popolo dunque riposò nel settimo giorno. La casa d’Israele lo chia mò manna. Era simile al seme del coriandolo e bianco; aveva il sapore di una focaccia con miele
. Mosè disse: «Questo ha ordinato il Signore: “Riempitene un omer e conservatelo per i vostri di scendenti perché vedano il pane che vi ho dato da mangiare nel deserto, quando vi ho fatto usci re dalla terra d’Egitto”». Mosè disse quindi ad Aronne: «Prendi un’urna e mettici un omer comp leto di manna; deponila davanti al Signore e conservala per i vostri discendenti». Secondo quant o il Signore aveva ordinato a Mosè Aronne la depose per conservarla davanti alla Testimonianza
. Gli Israeliti mangiarono la manna per quarant’anni fino al loro arrivo in una terra abitata: mang iarono la manna finché non furono arrivati ai confini della terra di Canaan. L’ omer è la decima p arte dell’ efa. Tutta la comunità degli Israeliti levò le tende dal deserto di Sin camminando di tap pa in tappa secondo l’ordine del Signore e si accampò a Refidìm. Ma non c’era acqua da bere pe r il popolo. Il popolo protestò contro Mosè: «Dateci acqua da bere!». Mosè disse loro: «Perché protestate con me? Perché mettete alla prova il Signore?». In quel luogo il popolo soffriva la set e per mancanza di acqua; il popolo mormorò contro Mosè e disse: «Perché ci hai fatto salire dal l’Egitto per far morire di sete noi i nostri figli e il nostro bestiame?». Allora Mosè gridò al Signor e dicendo: «Che cosa farò io per questo popolo? Ancora un poco e mi lapideranno!». Il Signore disse a Mosè: «Passa davanti al popolo e prendi con te alcuni anziani d’Israele. Prendi in mano il bastone con cui hai percosso il Nilo e va’! Ecco io starò davanti a te là sulla roccia sull’Oreb; tu b atterai sulla roccia: ne uscirà acqua e il popolo berrà». Mosè fece così sotto gli occhi degli anzia ni d’Israele. E chiamò quel luogo Massa e Merìba a causa della protesta degli Israeliti e perché misero alla prova il Signore dicendo: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?». Amalèk venne a com battere contro Israele a Refidìm. Mosè disse a Giosuè: «Scegli per noi alcuni uomini ed esci in b
attaglia contro Amalèk. Domani io starò ritto sulla cima del colle con in mano il bastone di Dio».
Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalèk mentre Mosè Ar onne e Cur salirono sulla cima del colle. Quando Mosè alzava le mani Israele prevaleva; ma qua ndo le lasciava cadere prevaleva Amalèk. Poiché Mosè sentiva pesare le mani presero una pietr a la collocarono sotto di lui ed egli vi si sedette mentre Aronne e Cur uno da una parte e l’altro dall’altra sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole. Gi osuè sconfisse Amalèk e il suo popolo passandoli poi a fil di spada. Allora il Signore disse a Mosè
: «Scrivi questo per ricordo nel libro e mettilo negli orecchi di Giosuè: io cancellerò del tutto la memoria di Amalèk sotto il cielo!». Allora Mosè costruì un altare lo chiamò “Il Signore è il mio v essillo” e disse: «Una mano contro il trono del Signore! Vi sarà guerra per il Signore contro Amal èk, di generazione in generazione!». Ietro sacerdote di Madian suocero di Mosè venne a sapere quanto Dio aveva operato per Mosè e per Israele suo popolo cioè come il Signore aveva fatto us cire Israele dall’Egitto. Allora Ietro prese con sé Sipporà moglie di Mosè che prima egli aveva ri mandata con i due figli di lei uno dei quali si chiamava Ghersom, perché egli aveva detto: «Sono un emigrato in terra straniera» e l’altro si chiamava Elièzer perché: «Il Dio di mio padre è venut o in mio aiuto e mi ha liberato dalla spada del faraone». Ietro dunque suocero di Mosè con i figli e la moglie di lui venne da Mosè nel deserto dove era accampato presso la montagna di Dio. Eg li fece dire a Mosè: «Sono io Ietro tuo suocero che vengo da te con tua moglie e i suoi due figli!
». Mosè andò incontro al suocero si prostrò davanti a lui e lo baciò poi si informarono l’uno dell a salute dell’altro ed entrarono sotto la tenda. Mosè raccontò al suocero quanto il Signore avev a fatto al faraone e agli Egiziani a motivo di Israele tutte le difficoltà incontrate durante il viaggi o dalle quali il Signore li aveva liberati. Ietro si rallegrò di tutto il bene che il Signore aveva fatto a Israele quando lo aveva liberato dalla mano degli Egiziani. Disse Ietro: «Benedetto il Signore c he vi ha liberato dalla mano degli Egiziani e dalla mano del faraone: egli ha liberato questo popo lo dalla mano dell’Egitto! Ora io so che il Signore è più grande di tutti gli dèi: ha rivolto contro di loro quello che tramavano». Ietro suocero di Mosè offrì un olocausto e sacrifici a Dio. Vennero Aronne e tutti gli anziani d’Israele per partecipare al banchetto con il suocero di Mosè davanti a Dio. Il giorno dopo Mosè sedette a render giustizia al popolo e il popolo si trattenne presso Mo sè dalla mattina fino alla sera. Allora il suocero di Mosè visto quanto faceva per il popolo gli diss e: «Che cos’è questo che fai per il popolo? Perché siedi tu solo mentre il popolo sta presso di te dalla mattina alla sera?». Mosè rispose al suocero: «Perché il popolo viene da me per consultar e Dio. Quando hanno qualche questione vengono da me e io giudico le vertenze tra l’uno e l’altr o e faccio conoscere i decreti di Dio e le sue leggi». Il suocero di Mosè gli disse: «Non va bene q uello che fai! Finirai per soccombere tu e il popolo che è con te perché il compito è troppo pesa nte per te; non puoi attendervi tu da solo. Ora ascoltami: ti voglio dare un consiglio e Dio sia co n te! Tu sta’ davanti a Dio in nome del popolo e presenta le questioni a Dio. A loro spiegherai i d ecreti e le leggi; indicherai loro la via per la quale devono camminare e le opere che devono co mpiere. Invece sceglierai tra tutto il popolo uomini validi che temono Dio uomini retti che odian
o la venalità per costituirli sopra di loro come capi di migliaia capi di centinaia capi di cinquantin e e capi di decine. Essi dovranno giudicare il popolo in ogni circostanza; quando vi sarà una ques tione importante la sottoporranno a te mentre essi giudicheranno ogni affare minore. Così ti all eggerirai il peso ed essi lo porteranno con te. Se tu fai questa cosa e Dio te lo ordina potrai resis tere e anche tutto questo popolo arriverà in pace alla meta». Mosè diede ascolto alla proposta del suocero e fece quanto gli aveva suggerito. Mosè dunque scelse in tutto Israele uomini validi e li costituì alla testa del popolo come capi di migliaia capi di centinaia capi di cinquantine e capi di decine. Essi giudicavano il popolo in ogni circostanza: quando avevano affari difficili li sottop onevano a Mosè ma giudicavano essi stessi tutti gli affari minori. Poi Mosè congedò il suocero, il quale tornò alla sua terra. Al terzo mese dall’uscita degli Israeliti dalla terra d’Egitto nello stess o giorno essi arrivarono al deserto del Sinai. Levate le tende da Refidìm giunsero al deserto del Sinai dove si accamparono; Israele si accampò davanti al monte. Mosè salì verso Dio e il Signore lo chiamò dal monte dicendo: «Questo dirai alla casa di Giacobbe e annuncerai agli Israeliti: “V
oi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fa tto venire fino a me. Ora se darete ascolto alla mia voce e custodirete la mia alleanza voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli; mia infatti è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa”. Queste parole dirai agli Israeliti». Mosè andò convo cò gli anziani del popolo e riferì loro tutte queste parole come gli aveva ordinato il Signore. Tutt o il popolo rispose insieme e disse: «Quanto il Signore ha detto noi lo faremo!». Mosè tornò dal Signore e riferì le parole del popolo. Il Signore disse a Mosè: «Ecco io sto per venire verso di te i n una densa nube perché il popolo senta quando io parlerò con te e credano per sempre anche a te». Mosè riferì al Signore le parole del popolo. Il Signore disse a Mosè: «Va’ dal popolo e sant ificalo oggi e domani: lavino le loro vesti e si tengano pronti per il terzo giorno perché nel terzo giorno il Signore scenderà sul monte Sinai alla vista di tutto il popolo. Fisserai per il popolo un li mite tutto attorno dicendo: “Guardatevi dal salire sul monte e dal toccarne le falde. Chiunque t occherà il monte sarà messo a morte. Nessuna mano però dovrà toccare costui: dovrà essere la pidato o colpito con tiro di arco. Animale o uomo non dovrà sopravvivere”. Solo quando suoner à il corno essi potranno salire sul monte». Mosè scese dal monte verso il popolo; egli fece santif icare il popolo ed essi lavarono le loro vesti. Poi disse al popolo: «Siate pronti per il terzo giorno: non unitevi a donna». Il terzo giorno sul far del mattino vi furono tuoni e lampi una nube densa sul monte e un suono fortissimo di corno: tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da tremore. Allora Mosè fece uscire il popolo dall’accampamento incontro a Dio. Essi stettero in piedi alle falde del monte. Il monte Sinai era tutto fumante perché su di esso era sceso il Signor e nel fuoco e ne saliva il fumo come il fumo di una fornace: tutto il monte tremava molto. Il suo no del corno diventava sempre più intenso: Mosè parlava e Dio gli rispondeva con una voce. Il S
ignore scese dunque sul monte Sinai sulla vetta del monte e il Signore chiamò Mosè sulla vetta del monte. Mosè salì. Il Signore disse a Mosè: «Scendi scongiura il popolo di non irrompere vers o il Signore per vedere altrimenti ne cadrà una moltitudine! Anche i sacerdoti che si avvicinano
al Signore si santifichino altrimenti il Signore si avventerà contro di loro!». Mosè disse al Signore
: «Il popolo non può salire al monte Sinai perché tu stesso ci hai avvertito dicendo: “Delimita il monte e dichiaralo sacro”». Il Signore gli disse: «Va’ scendi poi salirai tu e Aronne con te. Ma i s acerdoti e il popolo non si precipitino per salire verso il Signore altrimenti egli si avventerà contr o di loro!». Mosè scese verso il popolo e parlò loro. Dio pronunciò tutte queste parole: «Io sono il Signore tuo Dio che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto dalla condizione servile: Non avrai alt ri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di qua nto è quaggiù sulla terra né di quanto è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a lor o e non li servirai. Perché io il Signore tuo Dio, sono un Dio geloso che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione per coloro che mi odiano ma che dimostra la su a bontà fino a mille generazioni per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti. Non pronuncerai invano il nome del Signore tuo Dio perché il Signore non lascia impunito chi pronu ncia il suo nome invano. Ricòrdati del giorno del sabato per santificarlo. Sei giorni lavorerai e far ai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore tuo Dio: non farai alcun l avoro né tu né tuo figlio né tua figlia né il tuo schiavo né la tua schiava né il tuo bestiame né il f orestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il ma re e quanto è in essi ma si è riposato il settimo giorno. Perciò il Signore ha benedetto il giorno d el sabato e lo ha consacrato. Onora tuo padre e tua madre perché si prolunghino i tuoi giorni ne l paese che il Signore tuo Dio ti dà. Non ucciderai. Non commetterai adulterio. Non ruberai. Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo. Non desidererai la casa del tuo prossim o. Non desidererai la moglie del tuo prossimo né il suo schiavo né la sua schiava né il suo bue né il suo asino né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo». Tutto il popolo percepiva i tuoni e i lampi il suono del corno e il monte fumante. Il popolo vide fu preso da tremore e si tenne lont ano. Allora dissero a Mosè: «Parla tu a noi e noi ascolteremo; ma non ci parli Dio altrimenti mor iremo!». Mosè disse al popolo: «Non abbiate timore: Dio è venuto per mettervi alla prova e per ché il suo timore sia sempre su di voi e non pecchiate». Il popolo si tenne dunque lontano ment re Mosè avanzò verso la nube oscura dove era Dio. Il Signore disse a Mosè: «Così dirai agli Israel iti: “Voi stessi avete visto che vi ho parlato dal cielo! Non farete dèi d’argento e dèi d’oro accant o a me: non ne farete per voi! Farai per me un altare di terra e sopra di esso offrirai i tuoi oloca usti e i tuoi sacrifici di comunione le tue pecore e i tuoi buoi; in ogni luogo dove io vorrò far rico rdare il mio nome verrò a te e ti benedirò. Se tu farai per me un altare di pietra non lo costruirai con pietra tagliata perché usando la tua lama su di essa tu la renderesti profana. Non salirai sul mio altare per mezzo di gradini, perché là non si scopra la tua nudità”. Queste sono le norme ch e tu esporrai loro. Quando tu avrai acquistato uno schiavo ebreo egli ti servirà per sei anni e nel settimo potrà andarsene libero senza riscatto. Se è venuto solo solo se ne andrà se era coniugat o sua moglie se ne andrà con lui. Se il suo padrone gli ha dato moglie e questa gli ha partorito fi gli o figlie la donna e i suoi figli saranno proprietà del padrone ed egli se ne andrà solo. Ma se lo schiavo dice: “Io sono affezionato al mio padrone a mia moglie ai miei figli non voglio andarmen
e libero” allora il suo padrone lo condurrà davanti a Dio lo farà accostare al battente o allo stipit e della porta e gli forerà l’orecchio con la lesina e quello resterà suo schiavo per sempre. Quand o un uomo venderà la figlia come schiava ella non se ne andrà come se ne vanno gli schiavi. Se l ei non piace al padrone che perciò non la destina a sé in moglie la farà riscattare. In ogni caso e gli non può venderla a gente straniera agendo con frode verso di lei. Se egli la vuol destinare in moglie al proprio figlio si comporterà nei suoi riguardi secondo il diritto delle figlie. Se egli pren de in moglie un’altra non diminuirà alla prima il nutrimento il vestiario la coabitazione. Se egli n on le fornisce queste tre cose lei potrà andarsene senza che sia pagato il prezzo del riscatto. Col ui che colpisce un uomo causandone la morte sarà messo a morte. Se però non ha teso insidia ma Dio glielo ha fatto incontrare io ti fisserò un luogo dove potrà rifugiarsi. Ma se un uomo ave va premeditato di uccidere il suo prossimo con inganno allora lo strapperai anche dal mio altare perché sia messo a morte. Colui che percuote suo padre o sua madre sarà messo a morte. Colui che rapisce un uomo sia che lo venda sia che lo si trovi ancora in mano sua, sarà messo a morte
. Colui che maledice suo padre o sua madre sarà messo a morte. Quando alcuni uomini litigano e uno colpisce il suo prossimo con una pietra o con il pugno e questi non muore ma deve mette rsi a letto se poi si alza ed esce con il bastone chi lo ha colpito sarà ritenuto innocente ma dovrà pagare il riposo forzato e assicurargli le cure. Quando un uomo colpisce con il bastone il suo sch iavo o la sua schiava e gli muore sotto le sue mani si deve fare vendetta. Ma se sopravvive un gi orno o due non sarà vendicato, perché è suo denaro. Quando alcuni uomini litigano e urtano un a donna incinta, così da farla abortire se non vi è altra disgrazia si esigerà un’ammenda secondo quanto imporrà il marito della donna e il colpevole pagherà attraverso un arbitrato. Ma se segu e una disgrazia allora pagherai vita per vita: occhio per occhio dente per dente mano per mano piede per piede bruciatura per bruciatura ferita per ferita livido per livido. Quando un uomo col pisce l’occhio del suo schiavo o della sua schiava e lo acceca, darà loro la libertà in compenso de ll’occhio. Se fa cadere il dente del suo schiavo o della sua schiava darà loro la libertà in compens o del dente. Quando un bue cozza con le corna contro un uomo o una donna e ne segue la mort e il bue sarà lapidato e non se ne mangerà la carne. Però il proprietario del bue è innocente. Ma se il bue era solito cozzare con le corna già prima e il padrone era stato avvisato e non lo aveva custodito se ha causato la morte di un uomo o di una donna il bue sarà lapidato e anche il suo p adrone dev’essere messo a morte. Se invece gli viene imposto un risarcimento, egli pagherà il ri scatto della propria vita secondo quanto gli verrà imposto. Se cozza con le corna contro un figlio o se cozza contro una figlia si procederà nella stessa maniera. Se il bue colpisce con le corna un o schiavo o una schiava si darà al suo padrone del denaro trenta sicli e il bue sarà lapidato. Qua ndo un uomo lascia una cisterna aperta oppure quando un uomo scava una cisterna e non la co pre se vi cade un bue o un asino il proprietario della cisterna deve dare l’indennizzo: verserà il d enaro al padrone della bestia e l’animale morto gli apparterrà. Quando il bue di un tale cozza co ntro il bue del suo prossimo e ne causa la morte essi venderanno il bue vivo e se ne divideranno il prezzo; si divideranno anche la bestia morta. Ma se è notorio che il bue era solito cozzare già
prima e il suo padrone non lo ha custodito egli dovrà dare come indennizzo bue per bue e la bes tia morta gli apparterrà. Quando un uomo ruba un bue o un montone e poi lo sgozza o lo vende darà come indennizzo cinque capi di grosso bestiame per il bue e quattro capi di bestiame min uto per il montone. Se un ladro viene sorpreso mentre sta facendo una breccia in un muro e vie ne colpito e muore, non vi è per lui vendetta di sangue. Ma se il sole si era già alzato su di lui, vi è per lui vendetta di sangue. Il ladro dovrà dare l’indennizzo: se non avrà di che pagare sarà ven duto in compenso dell’oggetto rubato. Se si trova ancora in vita e ciò che è stato rubato è in suo possesso si tratti di bue di asino o di montone restituirà il doppio. Quando un uomo usa come p ascolo un campo o una vigna e lascia che il suo bestiame vada a pascolare in un campo altrui de ve dare l’indennizzo con il meglio del suo campo e con il meglio della sua vigna. Quando un fuoc o si propaga e si attacca ai cespugli spinosi se viene bruciato un mucchio di covoni o il grano in s piga o il grano in erba colui che ha provocato l’incendio darà l’indennizzo. Quando un uomo dà i n custodia al suo prossimo denaro od oggetti e poi nella casa di costui viene commesso un furto se si trova il ladro quest’ultimo restituirà il doppio. Se il ladro non si trova il padrone della casa si avvicinerà a Dio per giurare che non ha allungato la mano sulla proprietà del suo prossimo. Q
ualunque sia l’oggetto di una frode si tratti di un bue di un asino di un montone, di una veste di qualunque oggetto perduto di cui uno dice: “è questo!” la causa delle due parti andrà fino a Dio
: colui che Dio dichiarerà colpevole restituirà il doppio al suo prossimo. Quando un uomo dà in c ustodia al suo prossimo un asino o un bue o un capo di bestiame minuto o qualsiasi animale se l a bestia muore o si è prodotta una frattura o è stata rapita senza testimone interverrà tra le du e parti un giuramento per il Signore per dichiarare che il depositario non ha allungato la mano s ulla proprietà del suo prossimo. Il padrone della bestia accetterà e l’altro non dovrà risarcire. M
a se la bestia è stata rubata quando si trovava presso di lui pagherà l’indennizzo al padrone di es sa. Se invece è stata sbranata ne porterà la prova in testimonianza e non dovrà dare l’indennizz o per la bestia sbranata. Quando un uomo prende in prestito dal suo prossimo una bestia e que sta si è prodotta una frattura o è morta in assenza del padrone dovrà pagare l’indennizzo. Ma s e il padrone si trova presente non deve restituire; se si tratta di una bestia presa a nolo la sua p erdita è compensata dal prezzo del noleggio. Quando un uomo seduce una vergine non ancora f idanzata e si corica con lei ne pagherà il prezzo nuziale e lei diverrà sua moglie. Se il padre di lei si rifiuta di dargliela egli dovrà versare una somma di denaro pari al prezzo nuziale delle vergini.
Non lascerai vivere colei che pratica la magia. Chiunque giaccia con una bestia sia messo a mort e. Colui che offre un sacrificio agli dèi anziché al solo Signore sarà votato allo sterminio. Non mo lesterai il forestiero né lo opprimerai perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto. Non maltr atterai la vedova o l’orfano. Se tu lo maltratti quando invocherà da me l’aiuto io darò ascolto al suo grido la mia ira si accenderà e vi farò morire di spada: le vostre mogli saranno vedove e i vo stri figli orfani. Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo all’indigente che sta con te non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse. Se prendi in pegno il m antello del tuo prossimo glielo renderai prima del tramonto del sole, perché è la sua sola copert
a è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo? Altrimenti quando griderà v erso di me io l’ascolterò, perché io sono pietoso. Non bestemmierai Dio e non maledirai il capo del tuo popolo. Non ritarderai l’offerta di ciò che riempie il tuo granaio e di ciò che stilla dal tuo frantoio. Il primogenito dei tuoi figli lo darai a me. Così farai per il tuo bue e per il tuo bestiame minuto: sette giorni resterà con sua madre l’ottavo giorno lo darai a me. Voi sarete per me uom ini santi: non mangerete la carne di una bestia sbranata nella campagna, ma la getterete ai cani.
Non spargerai false dicerie; non presterai mano al colpevole per far da testimone in favore di u n’ingiustizia. Non seguirai la maggioranza per agire male e non deporrai in processo così da star e con la maggioranza per ledere il diritto. Non favorirai nemmeno il debole nel suo processo. Q
uando incontrerai il bue del tuo nemico o il suo asino dispersi glieli dovrai ricondurre. Quando v edrai l’asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico non abbandonarlo a se stesso: mettiti con lui a scioglierlo dal carico. Non ledere il diritto del tuo povero nel suo processo. Ti terrai lontano da parola menzognera. Non far morire l’innocente e il giusto, perché io non assolvo il colpevole
. Non accetterai doni perché il dono acceca chi ha gli occhi aperti e perverte anche le parole dei giusti. Non opprimerai il forestiero: anche voi conoscete la vita del forestiero perché siete stati f orestieri in terra d’Egitto. Per sei anni seminerai la tua terra e ne raccoglierai il prodotto ma nel settimo anno non la sfrutterai e la lascerai incolta: ne mangeranno gli indigenti del tuo popolo e ciò che lasceranno sarà consumato dalle bestie selvatiche. Così farai per la tua vigna e per il tuo oliveto. Per sei giorni farai i tuoi lavori ma nel settimo giorno farai riposo perché possano goder e quiete il tuo bue e il tuo asino e possano respirare i figli della tua schiava e il forestiero. Farete attenzione a quanto vi ho detto: non pronunciate il nome di altri dèi; non si senta sulla tua boc ca! Tre volte all’anno farai festa in mio onore. Osserverai la festa degli Azzimi: per sette giorni m angerai azzimi come ti ho ordinato, nella ricorrenza del mese di Abìb perché in esso sei uscito d all’Egitto. Non si dovrà comparire davanti a me a mani vuote. Osserverai la festa della mietitura cioè dei primi frutti dei tuoi lavori di semina nei campi e poi al termine dell’anno la festa del rac colto quando raccoglierai il frutto dei tuoi lavori nei campi. Tre volte all’anno ogni tuo maschio c omparirà alla presenza del Signore Dio. Non offrirai con pane lievitato il sangue del sacrificio in mio onore e il grasso della vittima per la mia festa non dovrà restare fino al mattino. Il meglio d elle primizie del tuo suolo lo porterai alla casa del Signore tuo Dio. Non farai cuocere un caprett o nel latte di sua madre. Ecco io mando un angelo davanti a te per custodirti sul cammino e per farti entrare nel luogo che ho preparato. Abbi rispetto della sua presenza da’ ascolto alla sua vo ce e non ribellarti a lui; egli infatti non perdonerebbe la vostra trasgressione perché il mio nome è in lui. Se tu dai ascolto alla sua voce e fai quanto ti dirò io sarò il nemico dei tuoi nemici e l’av versario dei tuoi avversari. Quando il mio angelo camminerà alla tua testa e ti farà entrare press o l’Amorreo l’Ittita il Perizzita il Cananeo l’Eveo e il Gebuseo e io li distruggerò, tu non ti prostre rai davanti ai loro dèi e non li servirai; tu non ti comporterai secondo le loro opere ma dovrai de molire e frantumare le loro stele. Voi servirete il Signore vostro Dio. Egli benedirà il tuo pane e l a tua acqua. Terrò lontana da te la malattia. Non vi sarà nella tua terra donna che abortisca o ch
e sia sterile. Ti farò giungere al numero completo dei tuoi giorni. Manderò il mio terrore davanti a te e metterò in rotta ogni popolo in mezzo al quale entrerai; farò voltare le spalle a tutti i tuoi nemici davanti a te. Manderò i calabroni davanti a te ed essi scacceranno dalla tua presenza l’E
veo, il Cananeo e l’Ittita. Non li scaccerò dalla tua presenza in un solo anno, perché non resti de serta la terra e le bestie selvatiche si moltiplichino contro di te. Li scaccerò dalla tua presenza a poco a poco finché non avrai tanti discendenti da occupare la terra. Stabilirò il tuo confine dal Mar Rosso fino al mare dei Filistei e dal deserto fino al Fiume perché ti consegnerò in mano gli a bitanti della terra e li scaccerò dalla tua presenza. Ma tu non farai alleanza con loro e con i loro dèi; essi non abiteranno più nella tua terra altrimenti ti farebbero peccare contro di me perché t u serviresti i loro dèi e ciò diventerebbe una trappola per te». Il Signore disse a Mosè: «Sali vers o il Signore tu e Aronne Nadab e Abiu e settanta anziani d’Israele; voi vi prostrerete da lontano solo Mosè si avvicinerà al Signore: gli altri non si avvicinino e il popolo non salga con lui». Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose a u na sola voce dicendo: «Tutti i comandamenti che il Signore ha dato noi li eseguiremo!». Mosè s crisse tutte le parole del Signore. Si alzò di buon mattino ed eresse un altare ai piedi del monte con dodici stele per le dodici tribù d’Israele. Incaricò alcuni giovani tra gli Israeliti di offrire oloca usti e di sacrificare giovenchi come sacrifici di comunione per il Signore. Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare. Quindi prese il libro dell’allean za e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: «Quanto ha detto il Signore lo eseguiremo e vi pr esteremo ascolto». Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo dicendo: «Ecco il sangue dell’all eanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!». Mosè salì con Aron ne Nadab Abiu e i settanta anziani d’Israele. Essi videro il Dio d’Israele: sotto i suoi piedi vi era c ome un pavimento in lastre di zaffìro limpido come il cielo. Contro i privilegiati degli Israeliti non stese la mano: essi videro Dio e poi mangiarono e bevvero. Il Signore disse a Mosè: «Sali verso di me sul monte e rimani lassù: io ti darò le tavole di pietra la legge e i comandamenti che io ho scritto per istruirli». Mosè si mosse con Giosuè suo aiutante e Mosè salì sul monte di Dio. Agli a nziani aveva detto: «Restate qui ad aspettarci fin quando torneremo da voi; ecco avete con voi Aronne e Cur: chiunque avrà una questione si rivolgerà a loro». Mosè salì dunque sul monte e la nube coprì il monte. La gloria del Signore venne a dimorare sul monte Sinai e la nube lo coprì p er sei giorni. Al settimo giorno il Signore chiamò Mosè dalla nube. La gloria del Signore appariva agli occhi degli Israeliti come fuoco divorante sulla cima della montagna. Mosè entrò dunque in mezzo alla nube e salì sul monte. Mosè rimase sul monte quaranta giorni e quaranta notti. Il Sig nore parlò a Mosè dicendo: «Ordina agli Israeliti che raccolgano per me un contributo. Lo racco glierete da chiunque sia generoso di cuore. Ed ecco che cosa raccoglierete da loro come contrib uto: oro argento e bronzo tessuti di porpora viola e rossa di scarlatto di bisso e di pelo di capra pelle di montone tinta di rosso, pelle di tasso e legno di acacia olio per l’illuminazione balsami p er l’olio dell’unzione e per l’incenso aromatico pietre di ònice e pietre da incastonare nell’ efod e nel pettorale. Essi mi faranno un santuario e io abiterò in mezzo a loro. Eseguirete ogni cosa s
econdo quanto ti mostrerò, secondo il modello della Dimora e il modello di tutti i suoi arredi. Fa ranno dunque un’arca di legno di acacia: avrà due cubiti e mezzo di lunghezza, un cubito e mezz o di larghezza un cubito e mezzo di altezza. La rivestirai d’oro puro: dentro e fuori la rivestirai e l e farai intorno un bordo d’oro. Fonderai per essa quattro anelli d’oro e li fisserai ai suoi quattro piedi: due anelli su di un lato e due anelli sull’altro. Farai stanghe di legno di acacia e le rivestirai d’oro. Introdurrai le stanghe negli anelli sui due lati dell’arca per trasportare con esse l’arca. Le stanghe dovranno rimanere negli anelli dell’arca: non verranno tolte di lì. Nell’arca collocherai l a Testimonianza che io ti darò. Farai il propiziatorio d’oro puro; avrà due cubiti e mezzo di lungh ezza e un cubito e mezzo di larghezza. Farai due cherubini d’oro: li farai lavorati a martello sulle due estremità del propiziatorio. Fa’ un cherubino a una estremità e un cherubino all’altra estre mità. Farete i cherubini alle due estremità del propiziatorio. I cherubini avranno le due ali spieg ate verso l’alto proteggendo con le ali il propiziatorio; saranno rivolti l’uno verso l’altro e le facc e dei cherubini saranno rivolte verso il propiziatorio. Porrai il propiziatorio sulla parte superiore dell’arca e collocherai nell’arca la Testimonianza che io ti darò. Io ti darò convegno in quel luogo
: parlerò con te da sopra il propiziatorio in mezzo ai due cherubini che saranno sull’arca della Te stimonianza dandoti i miei ordini riguardo agli Israeliti. Farai una tavola di legno di acacia: avrà due cubiti di lunghezza un cubito di larghezza un cubito e mezzo di altezza. La rivestirai d’oro pu ro e le farai attorno un bordo d’oro. Le farai attorno una cornice di un palmo e farai un bordo d’
oro per la cornice. Le farai quattro anelli d’oro e li fisserai ai quattro angoli che costituiranno i s uoi quattro piedi. Gli anelli saranno contigui alla cornice e serviranno a inserire le stanghe desti nate a trasportare la tavola. Farai le stanghe di legno di acacia e le rivestirai d’oro; con esse si tr asporterà la tavola. Farai anche i suoi piatti coppe anfore e tazze per le libagioni: li farai d’oro p uro. Sulla tavola collocherai i pani dell’offerta: saranno sempre alla mia presenza. Farai anche u n candelabro d’oro puro. Il candelabro sarà lavorato a martello il suo fusto e i suoi bracci; i suoi calici i suoi bulbi e le sue corolle saranno tutti di un pezzo. Sei bracci usciranno dai suoi lati: tre bracci del candelabro da un lato e tre bracci del candelabro dall’altro lato. Vi saranno su di un br accio tre calici in forma di fiore di mandorlo con bulbo e corolla e così anche sull’altro braccio tr e calici in forma di fiore di mandorlo con bulbo e corolla. Così sarà per i sei bracci che usciranno dal candelabro. Il fusto del candelabro avrà quattro calici in forma di fiore di mandorlo con i lor o bulbi e le loro corolle: un bulbo sotto i due bracci che si dipartono da esso e un bulbo sotto i d ue bracci seguenti e un bulbo sotto gli ultimi due bracci che si dipartono da esso; così per tutti i sei bracci che escono dal candelabro. I bulbi e i relativi bracci saranno tutti di un pezzo: il tutto s arà formato da una sola massa d’oro puro lavorata a martello. Farai le sue sette lampade: vi si c ollocheranno sopra in modo da illuminare lo spazio davanti ad esso. I suoi smoccolatoi e i suoi p ortacenere saranno d’oro puro. Lo si farà con un talento di oro puro esso con tutti i suoi accesso ri. Guarda ed esegui secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte. Quanto alla Dimora l a farai con dieci teli di bisso ritorto di porpora viola di porpora rossa e di scarlatto. Vi farai figure di cherubini lavoro d’artista. La lunghezza di un telo sarà di ventotto cubiti; la larghezza di quatt
ro cubiti per un telo; la stessa dimensione per tutti i teli. Cinque teli saranno uniti l’uno all’altro e anche gli altri cinque saranno uniti l’uno all’altro. Farai cordoni di porpora viola sull’orlo del pr imo telo all’estremità della sutura; così farai sull’orlo del telo estremo nella seconda sutura. Far ai cinquanta cordoni al primo telo e farai cinquanta cordoni all’estremità della seconda sutura: i cordoni corrisponderanno l’uno all’altro. Farai cinquanta fibbie d’oro e unirai i teli l’uno all’altr o mediante le fibbie così la Dimora formerà un tutto unico. Farai poi teli di pelo di capra per la t enda sopra la Dimora. Ne farai undici teli. La lunghezza di un telo sarà di trenta cubiti; la larghez za di quattro cubiti per un telo; la stessa dimensione per gli undici teli. Unirai insieme cinque teli da una parte e sei teli dall’altra. Piegherai in due il sesto telo sulla parte anteriore della tenda. F
arai cinquanta cordoni sull’orlo del primo telo che è all’estremità della sutura e cinquanta cordo ni sull’orlo del telo della seconda sutura. Farai cinquanta fibbie di bronzo introdurrai le fibbie ne i cordoni e unirai insieme la tenda; così essa formerà un tutto unico. La parte che pende in ecce denza nei teli della tenda la metà cioè di un telo che sopravanza penderà sulla parte posteriore della Dimora. Il cubito in eccedenza da una parte come il cubito in eccedenza dall’altra parte nel senso della lunghezza dei teli della tenda ricadranno sui due lati della Dimora per coprirla da un a parte e dall’altra. Farai per la tenda una copertura di pelli di montone tinte di rosso e al di sop ra una copertura di pelli di tasso. Poi farai per la Dimora le assi di legno di acacia da porsi vertica li. La lunghezza di un’asse sarà dieci cubiti e un cubito e mezzo la larghezza. Ogni asse avrà due s ostegni congiunti l’uno all’altro da un rinforzo. Così farai per tutte le assi della Dimora. Farai dun que le assi per la Dimora: venti assi verso il mezzogiorno a sud. Farai anche quaranta basi d’arge nto sotto le venti assi due basi sotto un’asse per i suoi due sostegni e due basi sotto l’altra asse per i suoi due sostegni. Per il secondo lato della Dimora verso il settentrione venti assi, come an che le loro quaranta basi d’argento due basi sotto un’asse e due basi sotto l’altra asse. Per la pa rte posteriore della Dimora verso occidente farai sei assi. Farai inoltre due assi per gli angoli dell a Dimora sulla parte posteriore. Esse saranno formate ciascuna da due pezzi uguali abbinati e p erfettamente congiunti dal basso fino alla cima all’altezza del primo anello. Così sarà per ambed ue: esse formeranno i due angoli. Vi saranno dunque otto assi con le loro basi d’argento: sedici basi due basi sotto un’asse e due basi sotto l’altra asse. Farai inoltre traverse di legno di acacia: cinque per le assi di un lato della Dimora e cinque traverse per le assi dell’altro lato della Dimor a e cinque traverse per le assi della parte posteriore verso occidente. La traversa mediana a me zza altezza delle assi le attraverserà da una estremità all’altra. Rivestirai d’oro le assi farai in oro i loro anelli, che serviranno per inserire le traverse e rivestirai d’oro anche le traverse. Costruirai la Dimora secondo la disposizione che ti è stata mostrata sul monte. Farai il velo di porpora viol a di porpora rossa di scarlatto e di bisso ritorto. Lo si farà con figure di cherubini lavoro d’artista
. Lo appenderai a quattro colonne di acacia rivestite d’oro munite di uncini d’oro e poggiate su quattro basi d’argento. Collocherai il velo sotto le fibbie e là nell’interno oltre il velo, introdurrai l’arca della Testimonianza. Il velo costituirà per voi la separazione tra il Santo e il Santo dei Sant i. Porrai il propiziatorio sull’arca della Testimonianza nel Santo dei Santi. Collocherai la tavola fu
ori del velo e il candelabro di fronte alla tavola sul lato meridionale della Dimora; collocherai la t avola sul lato settentrionale. Farai una cortina all’ingresso della tenda di porpora viola e di porp ora rossa di scarlatto e di bisso ritorto lavoro di ricamatore. Farai per la cortina cinque colonne di acacia e le rivestirai d’oro. I loro uncini saranno d’oro e fonderai per esse cinque basi di bronz o. Farai l’altare di legno di acacia: avrà cinque cubiti di lunghezza e cinque cubiti di larghezza. L’
altare sarà quadrato e avrà l’altezza di tre cubiti. Farai ai suoi quattro angoli quattro corni e cost ituiranno un sol pezzo con esso. Lo rivestirai di bronzo. Farai i suoi recipienti per raccogliere le c eneri le sue palette i suoi vasi per l’aspersione le sue forcelle e i suoi bracieri. Farai di bronzo tut ti questi accessori. Farai per esso una graticola di bronzo lavorato in forma di rete e farai sulla re te quattro anelli di bronzo alle sue quattro estremità. La porrai sotto la cornice dell’altare in bas so: la rete arriverà a metà dell’altezza dell’altare. Farai anche stanghe per l’altare: saranno stan ghe di legno di acacia e le rivestirai di bronzo. Si introdurranno queste stanghe negli anelli e le s tanghe saranno sui due lati dell’altare quando lo si trasporta. Lo farai di tavole vuoto nell’intern o: lo faranno come ti fu mostrato sul monte. Farai poi il recinto della Dimora. Sul lato meridiona le verso sud il recinto avrà tendaggi di bisso ritorto per la lunghezza di cento cubiti sullo stesso l ato. Vi saranno venti colonne con venti basi di bronzo. Gli uncini delle colonne e le loro aste tras versali saranno d’argento. Allo stesso modo sul lato rivolto a settentrione: tendaggi per cento c ubiti di lunghezza le relative venti colonne con le venti basi di bronzo gli uncini delle colonne e l e aste trasversali d’argento. La larghezza del recinto verso occidente avrà cinquanta cubiti di ten daggi con le relative dieci colonne e le dieci basi. La larghezza del recinto sul lato orientale verso levante sarà di cinquanta cubiti: quindici cubiti di tendaggi con le relative tre colonne e le tre b asi alla prima ala; all’altra ala quindici cubiti di tendaggi con le tre colonne e le tre basi. Alla port a del recinto vi sarà una cortina di venti cubiti lavoro di ricamatore di porpora viola porpora ross a scarlatto e bisso ritorto con le relative quattro colonne e le quattro basi. Tutte le colonne intor no al recinto saranno fornite di aste trasversali d’argento: i loro uncini saranno d’argento e le lo ro basi di bronzo. La lunghezza del recinto sarà di cento cubiti la larghezza di cinquanta, l’altezza di cinque cubiti: di bisso ritorto con le basi di bronzo. Tutti gli arredi della Dimora per tutti i suoi servizi e tutti i picchetti come anche i picchetti del recinto saranno di bronzo. Tu ordinerai agli I sraeliti che ti procurino olio puro di olive schiacciate per l’illuminazione per tener sempre acces a una lampada. Nella tenda del convegno al di fuori del velo che sta davanti alla Testimonianza Aronne e i suoi figli la prepareranno perché dalla sera alla mattina essa sia davanti al Signore: rit o perenne presso gli Israeliti di generazione in generazione. Fa’ avvicinare a te in mezzo agli Isra eliti Aronne tuo fratello e i suoi figli con lui perché siano miei sacerdoti: Aronne Nadab e Abiu El eàzaro e Itamàr figli di Aronne. Farai per Aronne tuo fratello abiti sacri per gloria e decoro. Parle rai a tutti gli artigiani più esperti che io ho riempito di uno spirito di saggezza ed essi faranno gli abiti di Aronne per la sua consacrazione e per l’esercizio del sacerdozio in mio onore. E questi s ono gli abiti che faranno: il pettorale e l’ efod il manto la tunica ricamata il turbante e la cintura.
Faranno vesti sacre per Aronne tuo fratello e per i suoi figli, perché esercitino il sacerdozio in m
io onore. Useranno oro porpora viola e porpora rossa scarlatto e bisso. Faranno l’ efod con oro porpora viola e porpora rossa scarlatto e bisso ritorto, artisticamente lavorati. Avrà due spalline attaccate alle due estremità e in tal modo formerà un pezzo ben unito. La cintura per fissarlo c he sta sopra di esso, sarà della stessa fattura e sarà d’un sol pezzo: sarà intessuta d’oro di porpo ra viola e porpora rossa scarlatto e bisso ritorto. Prenderai due pietre di ònice e inciderai su di e sse i nomi dei figli d’Israele: sei dei loro nomi sulla prima pietra e gli altri sei nomi sulla seconda pietra in ordine di nascita. Inciderai le due pietre con i nomi dei figli d’Israele seguendo l’arte de ll’intagliatore di pietre per l’incisione di un sigillo; le inserirai in castoni d’oro. Fisserai le due piet re sulle spalline dell’ efod come memoriale per i figli d’Israele; così Aronne porterà i loro nomi s ulle sue spalle davanti al Signore come un memoriale. Farai anche i castoni d’oro e due catene d
’oro puro in forma di cordoni con un lavoro d’intreccio; poi fisserai le catene a intreccio sui cast oni. Farai il pettorale del giudizio artisticamente lavorato di fattura uguale a quella dell’ efod: co n oro porpora viola porpora rossa scarlatto e bisso ritorto. Sarà quadrato doppio; avrà una span na di lunghezza e una spanna di larghezza. Lo coprirai con un’incastonatura di pietre preziose di sposte in quattro file. Prima fila: una cornalina un topazio e uno smeraldo; seconda fila: una tur chese uno zaffìro e un berillo; terza fila: un giacinto un’àgata e un’ametista; quarta fila: un crisòl ito un’ònice e un diaspro. Esse saranno inserite nell’oro mediante i loro castoni. Le pietre corris ponderanno ai nomi dei figli d’Israele: dodici secondo i loro nomi e saranno incise come sigilli ci ascuna con il nome corrispondente secondo le dodici tribù. Sul pettorale farai catene in forma d i cordoni lavoro d’intreccio d’oro puro. Sul pettorale farai anche due anelli d’oro e metterai i du e anelli alle estremità del pettorale. Metterai le due catene d’oro sui due anelli alle estremità de l pettorale. Quanto alle altre due estremità delle catene le fisserai sui due castoni e le farai pass are sulle due spalline dell’ efod nella parte anteriore. Farai due anelli d’oro e li metterai sulle du e estremità del pettorale sul suo bordo che è dall’altra parte dell’ efod verso l’interno. Farai due altri anelli d’oro e li metterai sulle due spalline dell’ efod in basso sul suo lato anteriore in vicina nza del punto di attacco al di sopra della cintura dell’ efod. Si legherà il pettorale con i suoi anell i agli anelli dell’ efod mediante un cordone di porpora viola perché stia al di sopra della cintura dell’ efod e perché il pettorale non si distacchi dall’ efod. Così Aronne porterà i nomi dei figli d’Is raele sul pettorale del giudizio sopra il suo cuore quando entrerà nel Santo come memoriale da vanti al Signore per sempre. Unirai al pettorale del giudizio gli urìm e i tummìm. Saranno così so pra il cuore di Aronne quando entrerà alla presenza del Signore: Aronne porterà il giudizio degli Israeliti sopra il suo cuore alla presenza del Signore per sempre. Farai il manto dell’ efod tutto di porpora viola con in mezzo la scollatura per la testa; il bordo attorno alla scollatura sarà un lavo ro di tessitore come la scollatura di una corazza che non si lacera. Farai sul suo lembo melagran e di porpora viola, di porpora rossa e di scarlatto intorno al suo lembo e in mezzo disporrai sona gli d’oro: un sonaglio d’oro e una melagrana un sonaglio d’oro e una melagrana intorno all’orlo i nferiore del manto. Aronne l’indosserà nelle funzioni sacerdotali e se ne sentirà il suono quando egli entrerà nel Santo alla presenza del Signore e quando ne uscirà. Così non morirà. Farai una l
amina d’oro puro e vi inciderai come su di un sigillo “Sacro al Signore”. L’attaccherai con un cor done di porpora viola al turbante sulla parte anteriore. Starà sulla fronte di Aronne; Aronne por terà il carico delle colpe che potranno commettere gli Israeliti in occasione delle offerte sacre d a loro presentate. Aronne la porterà sempre sulla sua fronte per attirare su di loro il favore del S
ignore. Tesserai la tunica di bisso. Farai un turbante di bisso e una cintura lavoro di ricamo. Per i figli di Aronne farai tuniche e cinture. Per loro farai anche berretti per gloria e decoro. Farai ind ossare queste vesti ad Aronne tuo fratello e ai suoi figli. Poi li ungerai darai loro l’investitura e li consacrerai perché esercitino il sacerdozio in mio onore. Farai loro inoltre calzoni di lino per cop rire la loro nudità dovranno arrivare dai fianchi fino alle cosce. Aronne e i suoi figli li indosseran no quando entreranno nella tenda del convegno o quando si avvicineranno all’altare per officiar e nel santuario perché non incorrano in una colpa che li farebbe morire. è una prescrizione pere nne per lui e per i suoi discendenti. Osserverai questo rito per consacrarli al mio sacerdozio. Pre ndi un giovenco e due arieti senza difetto; poi pani azzimi focacce azzime impastate con olio e s chiacciate azzime cosparse di olio: le preparerai con fior di farina di frumento. Le disporrai in un solo canestro e le offrirai nel canestro insieme con il giovenco e i due arieti. Farai avvicinare Ar onne e i suoi figli all’ingresso della tenda del convegno e li laverai con acqua. Prenderai le vesti e rivestirai Aronne della tunica del manto dell’ efod dell’ efod e del pettorale; lo cingerai con la cintura dell’ efod; gli porrai sul capo il turbante e fisserai il diadema sacro sopra il turbante. Poi prenderai l’olio dell’unzione lo verserai sul suo capo e lo ungerai. Quanto ai suoi figli li farai avvi cinare li rivestirai di tuniche; li cingerai con la cintura e legherai loro i berretti. Il sacerdozio appa rterrà loro per decreto perenne. Così darai l’investitura ad Aronne e ai suoi figli. Farai poi avvici nare il giovenco davanti alla tenda del convegno. Aronne e i suoi figli poseranno le mani sulla su a testa. Immolerai il giovenco davanti al Signore, all’ingresso della tenda del convegno. Prender ai parte del suo sangue e con il dito lo spalmerai sui corni dell’altare. Il resto del sangue lo verse rai alla base dell’altare. Prenderai tutto il grasso che avvolge le viscere il lobo del fegato i reni co n il grasso che vi è sopra e li farai ardere in sacrificio sull’altare. Ma la carne del giovenco la sua pelle e i suoi escrementi li brucerai fuori dell’accampamento perché si tratta di un sacrificio per il peccato. Prenderai poi uno degli arieti; Aronne e i suoi figli poseranno le mani sulla sua testa. I mmolerai l’ariete ne raccoglierai il sangue e lo spargerai intorno all’altare. Dividerai in pezzi l’ari ete ne laverai le viscere e le zampe e le disporrai sui quarti e sulla testa. Allora farai bruciare sull
’altare tutto l’ariete. è un olocausto in onore del Signore un profumo gradito un’offerta consum ata dal fuoco in onore del Signore. Prenderai il secondo ariete; Aronne e i suoi figli poseranno le mani sulla sua testa. Lo immolerai prenderai parte del suo sangue e ne porrai sul lobo dell’orec chio destro di Aronne sul lobo dell’orecchio destro dei suoi figli sul pollice della loro mano destr a e sull’alluce del loro piede destro; poi spargerai il sangue intorno all’altare. Prenderai di quest o sangue dall’altare e insieme un po’ d’olio dell’unzione e ne spruzzerai su Aronne e le sue vesti sui figli di Aronne e le loro vesti: così sarà consacrato lui con le sue vesti e insieme con lui i suoi f igli con le loro vesti. Prenderai il grasso dell’ariete: la coda il grasso che copre le viscere il lobo d
el fegato i due reni con il grasso che vi è sopra e la coscia destra perché è l’ariete dell’investitura
. Prenderai anche un pane rotondo una focaccia all’olio e una schiacciata dal canestro di azzimi deposto davanti al Signore. Metterai il tutto sulle palme di Aronne e sulle palme dei suoi figli e f arai compiere il rito di elevazione davanti al Signore. Riprenderai ogni cosa dalle loro mani e la f arai bruciare sull’altare insieme all’olocausto come profumo gradito davanti al Signore: è un’off erta consumata dal fuoco in onore del Signore. Prenderai il petto dell’ariete dell’investitura di A ronne e lo presenterai con rito di elevazione davanti al Signore: diventerà la tua porzione. Cons acrerai il petto con il rito di elevazione e la coscia con il rito di innalzamento prelevandoli dall’ari ete dell’investitura: saranno di Aronne e dei suoi figli. Dovranno appartenere ad Aronne e ai suo i figli come porzione loro riservata dagli Israeliti in forza di legge perenne. Perché è un prelevam ento un prelevamento cioè che gli Israeliti dovranno operare in tutti i loro sacrifici di comunione un prelevamento dovuto al Signore. Le vesti sacre di Aronne passeranno dopo di lui ai suoi figli che se ne rivestiranno per ricevere l’unzione e l’investitura. Quello dei figli di Aronne che gli suc cederà nel sacerdozio ed entrerà nella tenda del convegno per officiare nel santuario, porterà q ueste vesti per sette giorni. Poi prenderai l’ariete dell’investitura e ne cuocerai le carni in luogo santo. Aronne e i suoi figli mangeranno la carne dell’ariete e il pane contenuto nel canestro all’i ngresso della tenda del convegno. Mangeranno così ciò che sarà servito per compiere il rito espi atorio nel corso della loro investitura e consacrazione. Nessun estraneo ne deve mangiare perc hé sono cose sante. Nel caso che al mattino ancora restasse carne del sacrificio d’investitura e d el pane brucerai questo avanzo nel fuoco. Non lo si mangerà: è cosa santa. Farai dunque ad Aro nne e ai suoi figli quanto ti ho comandato. Per sette giorni compirai il rito dell’investitura. In cias cun giorno offrirai un giovenco in sacrificio per il peccato in espiazione; toglierai il peccato dall’a ltare compiendo per esso il rito espiatorio e in seguito lo ungerai per consacrarlo. Per sette gior ni compirai il rito espiatorio per l’altare e lo consacrerai. Diverrà allora una cosa santissima e qu anto toccherà l’altare sarà santo. Ecco ciò che tu offrirai sull’altare: due agnelli di un anno ogni giorno per sempre. Offrirai uno di questi agnelli al mattino il secondo al tramonto. Con il primo agnello offrirai un decimo di efa di fior di farina, impastata con un quarto di hin di olio puro e un a libagione di un quarto di hin di vino. Offrirai il secondo agnello al tramonto con un’oblazione e una libagione come quelle del mattino: profumo gradito offerta consumata dal fuoco in onore del Signore. Questo è l’olocausto perenne di generazione in generazione all’ingresso della tenda del convegno, alla presenza del Signore dove io vi darò convegno per parlarti. Darò convegno a gli Israeliti in questo luogo che sarà consacrato dalla mia gloria. Consacrerò la tenda del conveg no e l’altare. Consacrerò anche Aronne e i suoi figli perché esercitino il sacerdozio per me. Abite rò in mezzo agli Israeliti e sarò il loro Dio. Sapranno che io sono il Signore loro Dio che li ho fatti uscire dalla terra d’Egitto per abitare in mezzo a loro io il Signore loro Dio. Farai un altare sul qu ale bruciare l’incenso: lo farai di legno di acacia. Avrà un cubito di lunghezza e un cubito di largh ezza: sarà quadrato; avrà due cubiti di altezza e i suoi corni costituiranno un solo pezzo con esso
. Rivestirai d’oro puro il suo piano i suoi lati i suoi corni e gli farai intorno un bordo d’oro. Farai a
nche due anelli d’oro al di sotto del bordo sui due fianchi ponendoli cioè sui due lati opposti: ser viranno per inserire le stanghe destinate a trasportarlo. Farai le stanghe di legno di acacia e le ri vestirai d’oro. Porrai l’altare davanti al velo che nasconde l’arca della Testimonianza di fronte al propiziatorio che è sopra la Testimonianza dove io ti darò convegno. Aronne brucerà su di esso l
’incenso aromatico: lo brucerà ogni mattina quando riordinerà le lampade, e lo brucerà anche a l tramonto quando Aronne riempirà le lampade: incenso perenne davanti al Signore di generazi one in generazione. Non vi offrirete sopra incenso illegittimo né olocausto né oblazione né vi ve rserete libagione. Una volta all’anno Aronne compirà il rito espiatorio sui corni di esso: con il sa ngue del sacrificio espiatorio per il peccato compirà sopra di esso una volta all’anno il rito espiat orio di generazione in generazione. è cosa santissima per il Signore». Il Signore parlò a Mosè e g li disse: «Quando per il censimento conterai uno per uno gli Israeliti all’atto del censimento cias cuno di essi pagherà al Signore il riscatto della sua vita perché non li colpisca un flagello in occas ione del loro censimento. Chiunque verrà sottoposto al censimento pagherà un mezzo siclo con forme al siclo del santuario il siclo di venti ghera. Questo mezzo siclo sarà un’offerta prelevata i n onore del Signore. Ogni persona sottoposta al censimento dai venti anni in su, corrisponderà l
’offerta prelevata per il Signore. Il ricco non darà di più e il povero non darà di meno di mezzo si clo per soddisfare all’offerta prelevata per il Signore a riscatto delle vostre vite. Prenderai il den aro espiatorio ricevuto dagli Israeliti e lo impiegherai per il servizio della tenda del convegno. Es so sarà per gli Israeliti come un memoriale davanti al Signore per il riscatto delle vostre vite». Il Signore parlò a Mosè: «Farai per le abluzioni un bacino di bronzo con il piedistallo di bronzo; lo collocherai tra la tenda del convegno e l’altare e vi metterai acqua. Aronne e i suoi figli vi atting eranno per lavarsi le mani e i piedi. Quando entreranno nella tenda del convegno faranno un’ab luzione con l’acqua, perché non muoiano; così quando si avvicineranno all’altare per officiare p er bruciare un’offerta da consumare con il fuoco in onore del Signore si laveranno le mani e i pi edi e non moriranno. è una prescrizione rituale perenne per Aronne e per i suoi discendenti in t utte le loro generazioni». Il Signore parlò a Mosè: «Procù rati balsami pregiati: mirra vergine per il peso di cinquecento sicli; cinnamòmo profumato la metà cioè duecentocinquanta sicli; canna aromatica, duecentocinquanta; cassia cinquecento sicli conformi al siclo del santuario; e un hin d’olio d’oliva. Ne farai l’olio per l’unzione sacra un unguento composto secondo l’arte del profu miere: sarà l’olio per l’unzione sacra. Con esso ungerai la tenda del convegno l’arca della Testim onianza, la tavola e tutti i suoi accessori il candelabro con i suoi accessori l’altare dell’incenso l’a ltare degli olocausti e tutti i suoi accessori il bacino con il suo piedistallo. Consacrerai queste cos e che diventeranno santissime: tutto quello che verrà a contatto con esse sarà santo. Ungerai a nche Aronne e i suoi figli e li consacrerai perché esercitino il mio sacerdozio. Agli Israeliti dirai: “
Questo sarà per me l’olio dell’unzione sacra di generazione in generazione. Non si dovrà versare sul corpo di nessun uomo e di simile a questo non ne dovrete fare: è una cosa santa e santa la dovrete ritenere. Chi ne farà di simile a questo o ne porrà sopra un uomo estraneo sia eliminato dal suo popolo”». Il Signore disse a Mosè: «Procù rati balsami: storace ònice, gàlbano e incenso
puro: il tutto in parti uguali. Farai con essi un profumo da bruciare una composizione aromatica secondo l’arte del profumiere salata pura e santa. Ne pesterai un poco riducendola in polvere minuta e ne metterai davanti alla Testimonianza, nella tenda del convegno dove io ti darò conv egno. Cosa santissima sarà da voi ritenuta. Non farete per vostro uso alcun profumo di composi zione simile a quello che devi fare: lo riterrai una cosa santa in onore del Signore. Chi ne farà di simile per sentirne il profumo sia eliminato dal suo popolo». Il Signore parlò a Mosè e gli disse:
«Vedi ho chiamato per nome Besalèl figlio di Urì figlio di Cur della tribù di Giuda. L’ho riempito dello spirito di Dio perché abbia saggezza intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro per idea re progetti da realizzare in oro argento e bronzo, per intagliare le pietre da incastonare per scol pire il legno ed eseguire ogni sorta di lavoro. Ed ecco gli ho dato per compagno Ooliàb figlio di A chisamàc della tribù di Dan. Inoltre nel cuore di ogni artista ho infuso saggezza perché possano eseguire quanto ti ho comandato: la tenda del convegno l’arca della Testimonianza il propiziato rio sopra di essa e tutti gli accessori della tenda; la tavola con i suoi accessori il candelabro puro con i suoi accessori l’altare dell’incenso e l’altare degli olocausti con tutti i suoi accessori il bacin o con il suo piedistallo; le vesti ornamentali le vesti sacre del sacerdote Aronne e le vesti dei suo i figli per esercitare il sacerdozio; l’olio dell’unzione e l’incenso aromatico per il santuario. Essi e seguiranno quanto ti ho ordinato». Il Signore disse a Mosè: «Tu ora parla agli Israeliti e riferisci l oro: “Osserverete attentamente i miei sabati perché il sabato è un segno tra me e voi di genera zione in generazione perché si sappia che io sono il Signore che vi santifica. Osserverete dunque il sabato perché per voi è santo. Chi lo profanerà sia messo a morte; chiunque in quel giorno fa rà qualche lavoro sia eliminato dal suo popolo. Per sei giorni si lavori ma il settimo giorno vi sarà riposo assoluto sacro al Signore. Chiunque farà un lavoro in giorno di sabato sia messo a morte.
Gli Israeliti osserveranno il sabato festeggiando il sabato nelle loro generazioni come un’alleanz a perenne. Esso è un segno perenne fra me e gli Israeliti: infatti il Signore in sei giorni ha fatto il cielo e la terra ma nel settimo ha cessato e ha preso respiro”». Quando il Signore ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai gli diede le due tavole della Testimonianza tavole di pietra scri tte dal dito di Dio. Il popolo vedendo che Mosè tardava a scendere dal monte fece ressa intorno ad Aronne e gli disse: «Fa’ per noi un dio che cammini alla nostra testa perché a Mosè, quell’uo mo che ci ha fatto uscire dalla terra d’Egitto non sappiamo che cosa sia accaduto». Aronne rispo se loro: «Togliete i pendenti d’oro che hanno agli orecchi le vostre mogli i vostri figli e le vostre f iglie e portateli a me». Tutto il popolo tolse i pendenti che ciascuno aveva agli orecchi e li portò ad Aronne. Egli li ricevette dalle loro mani li fece fondere in una forma e ne modellò un vitello di metallo fuso. Allora dissero: «Ecco il tuo Dio o Israele colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Eg itto!». Ciò vedendo Aronne costruì un altare davanti al vitello e proclamò: «Domani sarà festa in onore del Signore». Il giorno dopo si alzarono presto offrirono olocausti e presentarono sacrific i di comunione. Il popolo sedette per mangiare e bere poi si alzò per darsi al divertimento. Allor a il Signore disse a Mosè: «Va’ scendi perché il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitt o si è pervertito. Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicato! Si sono
fatti un vitello di metallo fuso poi gli si sono prostrati dinanzi gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: “Ecco il tuo Dio Israele colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto”». Il Signore disse in oltre a Mosè: «Ho osservato questo popolo: ecco è un popolo dalla dura cervice. Ora lascia che l a mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione». Mosè allora supplicò il Signore suo Dio e disse: «Perché, Signore si accenderà la tua ira contro il tuo popolo c he hai fatto uscire dalla terra d’Egitto con grande forza e con mano potente? Perché dovranno dire gli Egiziani: “Con malizia li ha fatti uscire per farli perire tra le montagne e farli sparire dalla terra”? Desisti dall’ardore della tua ira e abbandona il proposito di fare del male al tuo popolo.
Ricòrdati di Abramo di Isacco di Israele tuoi servi ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: “R
enderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo e tutta questa terra di cui ho parlat o la darò ai tuoi discendenti e la possederanno per sempre”». Il Signore si pentì del male che av eva minacciato di fare al suo popolo. Mosè si voltò e scese dal monte con in mano le due tavole della Testimonianza, tavole scritte sui due lati da una parte e dall’altra. Le tavole erano opera di Dio, la scrittura era scrittura di Dio scolpita sulle tavole. Giosuè sentì il rumore del popolo che u rlava e disse a Mosè: «C’è rumore di battaglia nell’accampamento». Ma rispose Mosè: «Non è il grido di chi canta: “Vittoria!”. Non è il grido di chi canta: “Disfatta!”. Il grido di chi canta a due c ori io sento». Quando si fu avvicinato all’accampamento vide il vitello e le danze. Allora l’ira di Mosè si accese: egli scagliò dalle mani le tavole spezzandole ai piedi della montagna. Poi afferrò il vitello che avevano fatto lo bruciò nel fuoco lo frantumò fino a ridurlo in polvere ne sparse la polvere nell’acqua e la fece bere agli Israeliti. Mosè disse ad Aronne: «Che cosa ti ha fatto quest o popolo perché tu l’abbia gravato di un peccato così grande?». Aronne rispose: «Non si accend a l’ira del mio signore; tu stesso sai che questo popolo è incline al male. Mi dissero: “Fa’ per noi un dio che cammini alla nostra testa perché a Mosè quell’uomo che ci ha fatto uscire dalla terra d’Egitto non sappiamo che cosa sia accaduto”. Allora io dissi: “Chi ha dell’oro? Toglietevelo!”. E
ssi me lo hanno dato; io l’ho gettato nel fuoco e ne è uscito questo vitello». Mosè vide che il po polo non aveva più freno perché Aronne gli aveva tolto ogni freno così da farne oggetto di derisi one per i loro avversari. Mosè si pose alla porta dell’accampamento e disse: «Chi sta con il Signo re venga da me!». Gli si raccolsero intorno tutti i figli di Levi. Disse loro: «Dice il Signore il Dio d’I sraele: “Ciascuno di voi tenga la spada al fianco. Passate e ripassate nell’accampamento da una porta all’altra: uccida ognuno il proprio fratello ognuno il proprio amico ognuno il proprio vicino
”». I figli di Levi agirono secondo il comando di Mosè e in quel giorno perirono circa tremila uom ini del popolo. Allora Mosè disse: «Ricevete oggi l’investitura dal Signore; ciascuno di voi è stato contro suo figlio e contro suo fratello, perché oggi egli vi accordasse benedizione». Il giorno do po Mosè disse al popolo: «Voi avete commesso un grande peccato; ora salirò verso il Signore: f orse otterrò il perdono della vostra colpa». Mosè ritornò dal Signore e disse: «Questo popolo ha commesso un grande peccato: si sono fatti un dio d’oro. Ma ora se tu perdonassi il loro peccat o… Altrimenti cancellami dal tuo libro che hai scritto!». Il Signore disse a Mosè: «Io cancellerò d al mio libro colui che ha peccato contro di me. Ora va’, conduci il popolo là dove io ti ho detto. E

cco il mio angelo ti precederà nel giorno della mia visita li punirò per il loro peccato». Il Signore colpì il popolo perché aveva fatto il vitello fabbricato da Aronne. Il Signore parlò a Mosè: «Su sal i di qui tu e il popolo che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto verso la terra che ho promesso con giuramento ad Abramo a Isacco e a Giacobbe dicendo: “La darò alla tua discendenza”. Manderò davanti a te un angelo e scaccerò il Cananeo l’Amorreo l’Ittita il Perizzita l’Eveo e il Gebuseo. Va
’ pure verso la terra dove scorrono latte e miele. Ma io non verrò in mezzo a te per non doverti sterminare lungo il cammino perché tu sei un popolo di dura cervice». Il popolo udì questa trist e notizia e tutti fecero lutto: nessuno più indossò i suoi ornamenti. Il Signore disse a Mosè: «Rif erisci agli Israeliti: “Voi siete un popolo di dura cervice; se per un momento io venissi in mezzo a te io ti sterminerei. Ora togliti i tuoi ornamenti, così saprò che cosa dovrò farti”». Gli Israeliti si spogliarono dei loro ornamenti dal monte Oreb in poi. Mosè prendeva la tenda e la piantava fu ori dell’accampamento a una certa distanza dall’accampamento e l’aveva chiamata tenda del co nvegno; appunto a questa tenda del convegno posta fuori dell’accampamento si recava chiunq ue volesse consultare il Signore. Quando Mosè usciva per recarsi alla tenda tutto il popolo si alz ava in piedi stando ciascuno all’ingresso della sua tenda: seguivano con lo sguardo Mosè finché non fosse entrato nella tenda. Quando Mosè entrava nella tenda scendeva la colonna di nube e restava all’ingresso della tenda e parlava con Mosè. Tutto il popolo vedeva la colonna di nube c he stava all’ingresso della tenda e tutti si alzavano e si prostravano ciascuno all’ingresso della pr opria tenda. Il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico. Po i questi tornava nell’accampamento mentre il suo inserviente il giovane Giosuè figlio di Nun non si allontanava dall’interno della tenda. Mosè disse al Signore: «Vedi tu mi ordini: “Fa’ salire que sto popolo” ma non mi hai indicato chi manderai con me; eppure hai detto: “Ti ho conosciuto p er nome, anzi hai trovato grazia ai miei occhi”. Ora se davvero ho trovato grazia ai tuoi occhi ind icami la tua via così che io ti conosca e trovi grazia ai tuoi occhi; considera che questa nazione è il tuo popolo». Rispose: «Il mio volto camminerà con voi e ti darò riposo». Riprese: «Se il tuo vol to non camminerà con noi, non farci salire di qui. Come si saprà dunque che ho trovato grazia ai tuoi occhi io e il tuo popolo se non nel fatto che tu cammini con noi? Così saremo distinti io e il tuo popolo da tutti i popoli che sono sulla faccia della terra». Disse il Signore a Mosè: «Anche qu anto hai detto io farò perché hai trovato grazia ai miei occhi e ti ho conosciuto per nome». Gli di sse: «Mostrami la tua gloria!». Rispose: «Farò passare davanti a te tutta la mia bontà e proclam erò il mio nome Signore davanti a te. A chi vorrò far grazia farò grazia e di chi vorrò aver miseric ordia avrò misericordia». Soggiunse: «Ma tu non potrai vedere il mio volto perché nessun uomo può vedermi e restare vivo». Aggiunse il Signore: «Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: quando passerà la mia gloria io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finc hé non sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle ma il mio volto non si può veder e». Il Signore disse a Mosè: «Taglia due tavole di pietra come le prime. Io scriverò su queste tav ole le parole che erano sulle tavole di prima che hai spezzato. Tieniti pronto per domani mattina
: domani mattina salirai sul monte Sinai e rimarrai lassù per me in cima al monte. Nessuno salga
con te e non si veda nessuno su tutto il monte; neppure greggi o armenti vengano a pascolare davanti a questo monte». Mosè tagliò due tavole di pietra come le prime; si alzò di buon mattin o e salì sul monte Sinai, come il Signore gli aveva comandato con le due tavole di pietra in mano
. Allora il Signore scese nella nube si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore. Il Sig nore passò davanti a lui proclamando: «Il Signore il Signore Dio misericordioso e pietoso lento a ll’ira e ricco di amore e di fedeltà, che conserva il suo amore per mille generazioni che perdona l a colpa la trasgressione e il peccato ma non lascia senza punizione che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione». Mosè si curvò in fretta fino a terra e si prostrò. Disse: «Se ho trovato grazia ai tuoi occhi Signore che il Signore cammini in m ezzo a noi. Sì è un popolo di dura cervice ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato: fa’ d i noi la tua eredità». Il Signore disse: «Ecco io stabilisco un’alleanza: in presenza di tutto il tuo p opolo io farò meraviglie quali non furono mai compiute in nessuna terra e in nessuna nazione: t utto il popolo in mezzo al quale ti trovi vedrà l’opera del Signore perché terribile è quanto io sto per fare con te. Osserva dunque ciò che io oggi ti comando. Ecco io scaccerò davanti a te l’Amo rreo il Cananeo l’Ittita il Perizzita l’Eveo e il Gebuseo. Guàrdati bene dal far alleanza con gli abita nti della terra nella quale stai per entrare perché ciò non diventi una trappola in mezzo a te. Anz i distruggerete i loro altari farete a pezzi le loro stele e taglierete i loro pali sacri. Tu non devi pr ostrarti ad altro dio perché il Signore si chiama Geloso: egli è un Dio geloso. Non fare alleanza c on gli abitanti di quella terra altrimenti quando si prostituiranno ai loro dèi e faranno sacrifici ai loro dèi inviteranno anche te: tu allora mangeresti del loro sacrificio. Non prendere per mogli d ei tuoi figli le loro figlie altrimenti quando esse si prostituiranno ai loro dèi indurrebbero anche i tuoi figli a prostituirsi ai loro dèi. Non ti farai un dio di metallo fuso. Osserverai la festa degli Azz imi. Per sette giorni mangerai pane azzimo come ti ho comandato nel tempo stabilito del mese di Abìb: perché nel mese di Abìb sei uscito dall’Egitto. Ogni essere che nasce per primo dal seno materno è mio: ogni tuo capo di bestiame maschio primo parto del bestiame grosso e minuto. R
iscatterai il primo parto dell’asino mediante un capo di bestiame minuto e se non lo vorrai risca ttare gli spaccherai la nuca. Ogni primogenito dei tuoi figli lo dovrai riscattare. Nessuno venga d avanti a me a mani vuote. Per sei giorni lavorerai ma nel settimo riposerai; dovrai riposare anch e nel tempo dell’aratura e della mietitura. Celebrerai anche la festa delle Settimane la festa cioè delle primizie della mietitura del frumento e la festa del raccolto al volgere dell’anno. Tre volte all’anno ogni tuo maschio compaia alla presenza del Signore Dio Dio d’Israele. Perché io scaccerò le nazioni davanti a te e allargherò i tuoi confini; così quando tu tre volte all’anno salirai per c omparire alla presenza del Signore tuo Dio nessuno potrà desiderare di invadere la tua terra. Non sacrificherai con pane lievitato il sangue della mia vittima sacrificale; la vittima sacrificale del la festa di Pasqua non dovrà restare fino al mattino. Porterai alla casa del Signore tuo Dio il meg lio delle primizie della tua terra. Non cuocerai un capretto nel latte di sua madre». Il Signore dis se a Mosè: «Scrivi queste parole perché sulla base di queste parole io ho stabilito un’alleanza co n te e con Israele». Mosè rimase con il Signore quaranta giorni e quaranta notti senza mangiar pane e senza bere acqua. Egli scrisse sulle tavole le parole dell’alleanza le dieci parole. Quando Mosè scese dal monte Sinai –
le due tavole della Testimonianza si trovavano nelle mani di Mosè mentre egli scendeva dal mo nte –
non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante poiché aveva conversato con lui. M
a Aronne e tutti gli Israeliti vedendo che la pelle del suo viso era raggiante ebbero timore di avvi cinarsi a lui. Mosè allora li chiamò e Aronne con tutti i capi della comunità, tornò da lui. Mosè p arlò a loro. Si avvicinarono dopo di loro tutti gli Israeliti ed egli ingiunse loro ciò che il Signore gli aveva ordinato sul monte Sinai. Quando Mosè ebbe finito di parlare a loro si pose un velo sul vi so. Quando entrava davanti al Signore per parlare con lui Mosè si toglieva il velo fin quando non fosse uscito. Una volta uscito riferiva agli Israeliti ciò che gli era stato ordinato. Gli Israeliti guar dando in faccia Mosè vedevano che la pelle del suo viso era raggiante. Poi egli si rimetteva il vel o sul viso fin quando non fosse di nuovo entrato a parlare con il Signore. Mosè radunò tutta la c omunità degli Israeliti e disse loro: «Queste sono le cose che il Signore ha comandato di fare: Pe r sei giorni si lavorerà ma il settimo sarà per voi un giorno santo un giorno di riposo assoluto sac ro al Signore. Chiunque in quel giorno farà qualche lavoro sarà messo a morte. In giorno di saba to non accenderete il fuoco in nessuna delle vostre dimore». Mosè disse a tutta la comunità de gli Israeliti: «Il Signore ha comandato: “Prelevate su quanto possedete un contributo per il Signo re”. Quanti hanno cuore generoso portino questo contributo per il Signore: oro argento e bronz o tessuti di porpora viola e rossa di scarlatto di bisso e di pelo di capra pelli di montone tinte di r osso, pelli di tasso e legno di acacia olio per l’illuminazione balsami per l’olio dell’unzione e per l
’incenso aromatico pietre di ònice e pietre da incastonare nell’ efod e nel pettorale. Tutti gli arti sti che sono tra voi vengano ed eseguano quanto il Signore ha comandato: la Dimora la sua ten da la sua copertura le sue fibbie le sue assi le sue traverse le sue colonne e le sue basi, l’arca e l e sue stanghe il propiziatorio e il velo che lo nasconde, la tavola con le sue stanghe e tutti i suoi accessori e i pani dell’offerta, il candelabro per illuminare con i suoi accessori le sue lampade e l
’olio per l’illuminazione l’altare dell’incenso con le sue stanghe l’olio dell’unzione e l’incenso aro matico la cortina d’ingresso alla porta della Dimora, l’altare degli olocausti con la sua graticola d i bronzo le sue sbarre e tutti i suoi accessori il bacino con il suo piedistallo i tendaggi del recinto le sue colonne e le sue basi e la cortina alla porta del recinto i picchetti della Dimora i picchetti del recinto e le loro corde le vesti ornamentali per officiare nel santuario le vesti sacre per il sac erdote Aronne e le vesti dei suoi figli per esercitare il sacerdozio». Allora tutta la comunità degli Israeliti si ritirò dalla presenza di Mosè. Quanti erano di cuore generoso ed erano mossi dal loro spirito vennero a portare il contributo per il Signore per la costruzione della tenda del convegno per tutti i suoi oggetti di culto e per le vesti sacre. Vennero uomini e donne quanti erano di cuo re generoso e portarono fermagli pendenti anelli collane ogni sorta di gioielli d’oro: quanti vole vano presentare un’offerta d’oro al Signore la portarono. Quanti si trovavano in possesso di tes suti di porpora viola e rossa di scarlatto di bisso di pelo di capra di pelli di montone tinte di ross
o e di pelli di tasso ne portarono. Quanti potevano offrire un contributo in argento o bronzo, lo portarono al Signore. Coloro che si trovavano in possesso di legno di acacia per qualche opera d ella costruzione ne portarono. Inoltre tutte le donne esperte filarono con le mani e portarono fil ati di porpora viola e rossa di scarlatto e di bisso. Tutte le donne che erano di cuore generoso se condo la loro abilità filarono il pelo di capra. I capi portarono le pietre di ònice e le pietre prezio se da incastonare nell’ efod e nel pettorale balsami e olio per l’illuminazione per l’olio dell’unzio ne e per l’incenso aromatico. Così tutti uomini e donne che erano di cuore disposto a portare q ualche cosa per la costruzione che il Signore per mezzo di Mosè aveva comandato di fare la port arono: gli Israeliti portarono la loro offerta spontanea al Signore. Mosè disse agli Israeliti: «Vede te il Signore ha chiamato per nome Besalèl figlio di Urì figlio di Cur della tribù di Giuda. L’ha rie mpito dello spirito di Dio perché egli abbia saggezza intelligenza e scienza in ogni genere di lavo ro per ideare progetti da realizzare in oro argento bronzo per intagliare le pietre da incastonare per scolpire il legno ed eseguire ogni sorta di lavoro artistico. Gli ha anche messo nel cuore il do no di insegnare e così anche ha fatto con Ooliàb figlio di Achisamàc della tribù di Dan. Li ha riem piti di saggezza per compiere ogni genere di lavoro d’intagliatore di disegnatore di ricamatore in porpora viola, in porpora rossa in scarlatto e in bisso e di tessitore: capaci di realizzare ogni sort a di lavoro e di ideare progetti». Besalèl Ooliàb e tutti gli artisti che il Signore aveva dotati di sag gezza e d’intelligenza per eseguire i lavori della costruzione del santuario fecero ogni cosa secon do ciò che il Signore aveva ordinato. Mosè chiamò Besalèl Ooliàb e tutti gli artisti nel cuore dei quali il Signore aveva messo saggezza quanti erano portati a prestarsi per l’esecuzione dei lavori
. Essi ricevettero da Mosè ogni contributo portato dagli Israeliti per il lavoro della costruzione d el santuario. Ma gli Israeliti continuavano a portare ogni mattina offerte spontanee. Allora tutti gli artisti che eseguivano i lavori per il santuario lasciarono il lavoro che ciascuno stava facendo e dissero a Mosè: «Il popolo porta più di quanto è necessario per il lavoro che il Signore ha ordi nato». Mosè allora ordinò di diffondere nell’accampamento questa voce: «Nessuno uomo o do nna offra più alcuna cosa come contributo per il santuario». Così si impedì al popolo di portare altre offerte; perché il materiale era sufficiente anzi sovrabbondante per l’esecuzione di tutti i l avori. Tutti gli artisti addetti ai lavori fecero la Dimora. Besalèl la fece con dieci teli di bisso ritort o di porpora viola di porpora rossa e di scarlatto. La fece con figure di cherubini artisticamente l avorati. La lunghezza di ciascun telo era ventotto cubiti; la larghezza quattro cubiti per ciascun t elo; la stessa dimensione per tutti i teli. Unì cinque teli l’uno all’altro e anche i cinque altri teli u nì l’uno all’altro. Fece cordoni di porpora viola sull’orlo del primo telo all’estremità della sutura e fece la stessa cosa sull’orlo del telo estremo nella seconda sutura. Fece cinquanta cordoni al p rimo telo e fece anche cinquanta cordoni all’estremità del telo della seconda sutura: i cordoni c orrispondevano l’uno all’altro. Fece cinquanta fibbie d’oro e unì i teli l’uno all’altro mediante le fibbie; così la Dimora formò un tutto unico. Fece poi teli di peli di capra per la tenda sopra la Di mora. Fece undici teli. La lunghezza di un telo era trenta cubiti; la larghezza quattro cubiti per u n telo; la stessa dimensione per gli undici teli. Unì insieme cinque teli a parte e sei teli a parte. F

ece cinquanta cordoni sull’orlo del telo della seconda sutura. Fece cinquanta fibbie di bronzo pe r unire insieme la tenda così da formare un tutto unico. Fece poi per la tenda una copertura di p elli di montone tinte di rosso e al di sopra una copertura di pelli di tasso. Fece per la Dimora assi di legno di acacia verticali. Dieci cubiti la lunghezza di un’asse e un cubito e mezzo la larghezza.
Ogni asse aveva due sostegni, congiunti l’uno all’altro da un rinforzo. Così fece per tutte le assi della Dimora. Fece dunque le assi per la Dimora: venti assi sul lato verso il mezzogiorno a sud. F
ece anche quaranta basi d’argento sotto le venti assi due basi sotto un’asse, per i suoi due soste gni e due basi sotto l’altra asse per i suoi due sostegni. Per il secondo lato della Dimora verso il s ettentrione fece venti assi e le loro quaranta basi d’argento due basi sotto un’asse e due basi so tto l’altra asse. Per la parte posteriore della Dimora verso occidente fece sei assi. Fece inoltre d ue assi per gli angoli della Dimora nella parte posteriore. Esse erano formate ciascuna da due pe zzi uguali, abbinati e perfettamente congiunti dal basso fino alla cima all’altezza del primo anell o. Così fece per ambedue: esse vennero a formare i due angoli. C’erano dunque otto assi con le loro basi d’argento: sedici basi due basi sotto un’asse e due basi sotto l’altra asse. Fece inoltre tr averse di legno di acacia: cinque per le assi di un lato della Dimora, cinque traverse per le assi d ell’altro lato della Dimora e cinque traverse per le assi della parte posteriore verso occidente. Fe ce la traversa mediana che a mezza altezza delle assi le attraversava da un’estremità all’altra. Ri vestì d’oro le assi fece in oro i loro anelli per inserire le traverse e rivestì d’oro anche le traverse.
Fece il velo di porpora viola e di porpora rossa di scarlatto e di bisso ritorto. Lo fece con figure d i cherubini lavoro d’artista. Fece per esso quattro colonne di acacia le rivestì d’oro; anche i loro uncini erano d’oro e fuse per esse quattro basi d’argento. Fecero poi una cortina per l’ingresso della tenda di porpora viola e di porpora rossa, di scarlatto e di bisso ritorto lavoro di ricamator e e le sue cinque colonne con i loro uncini. Rivestì d’oro i loro capitelli e le loro aste trasversali e fece le loro cinque basi di bronzo. Besalèl fece l’arca di legno di acacia: aveva due cubiti e mezz o di lunghezza un cubito e mezzo di larghezza un cubito e mezzo di altezza. La rivestì d’oro puro, dentro e fuori. Le fece intorno un bordo d’oro. Fuse per essa quattro anelli d’oro e li fissò ai suo i quattro piedi: due anelli su di un lato e due anelli sull’altro. Fece stanghe di legno di acacia e le rivestì d’oro. Introdusse le stanghe negli anelli sui due lati dell’arca per trasportare l’arca. Fece il propiziatorio d’oro puro: aveva due cubiti e mezzo di lunghezza e un cubito e mezzo di larghezz a. Fece due cherubini d’oro; li fece lavorati a martello sulle due estremità del propiziatorio: un c herubino a una estremità e un cherubino all’altra estremità. Fece i cherubini tutti d’un pezzo co n il propiziatorio posti alle sue due estremità. I cherubini avevano le due ali spiegate verso l’alto proteggendo con le ali il propiziatorio; erano rivolti l’uno verso l’altro e le facce dei cherubini er ano rivolte verso il propiziatorio. Fece la tavola di legno di acacia: aveva due cubiti di lunghezza un cubito di larghezza un cubito e mezzo di altezza. La rivestì d’oro puro e le fece attorno un bor do d’oro. Le fece attorno una cornice di un palmo e un bordo d’oro per la cornice. Fuse per essa quattro anelli d’oro e li fissò ai quattro angoli che costituivano i suoi quattro piedi. Gli anelli era no fissati alla cornice e servivano per inserire le stanghe destinate a trasportare la tavola. Fece l
e stanghe di legno di acacia per trasportare la tavola e le rivestì d’oro. Fece anche gli accessori d ella tavola: piatti coppe anfore e tazze per le libagioni; li fece di oro puro. Fece il candelabro d’o ro puro; lo fece lavorato a martello il suo fusto e i suoi bracci; i suoi calici i suoi bulbi e le sue cor olle facevano corpo con esso. Sei bracci uscivano dai suoi lati: tre bracci del candelabro da un la to e tre bracci del candelabro dall’altro. Vi erano su un braccio tre calici in forma di fiore di man dorlo con bulbo e corolla; anche sull’altro braccio tre calici in forma di fiore di mandorlo con bul bo e corolla. Così era per i sei bracci che uscivano dal candelabro. Il fusto del candelabro aveva quattro calici in forma di fiore di mandorlo con i loro bulbi e le loro corolle: un bulbo sotto due bracci che si dipartivano da esso e un bulbo sotto i due bracci seguenti che si dipartivano da ess o e un bulbo sotto gli ultimi due bracci che si dipartivano da esso; così per tutti i sei bracci che u scivano dal candelabro. I bulbi e i relativi bracci facevano corpo con esso: il tutto era formato da una sola massa d’oro puro lavorata a martello. Fece le sue sette lampade i suoi smoccolatoi e i suoi portacenere d’oro puro. Impiegò un talento d’oro puro per il candelabro e per tutti i suoi a ccessori. Fece l’altare per bruciare l’incenso di legno di acacia; aveva un cubito di lunghezza e u n cubito di larghezza: era quadrato con due cubiti di altezza e i suoi corni costituivano un sol pez zo con esso. Rivestì d’oro puro il suo piano i suoi lati i suoi corni e gli fece intorno un orlo d’oro.
Fece anche due anelli d’oro sotto l’orlo sui due fianchi cioè sui due lati opposti per inserirvi le st anghe destinate a trasportarlo. Fece le stanghe di legno di acacia e le rivestì d’oro. Preparò l’oli o dell’unzione sacra e l’incenso aromatico puro opera di profumiere. Fece l’altare per gli olocau sti di legno di acacia: aveva cinque cubiti di lunghezza e cinque cubiti di larghezza: era quadrato con tre cubiti di altezza. Fece i corni ai suoi quattro angoli: i corni costituivano un sol pezzo con esso. Lo rivestì di bronzo. Fece anche tutti gli accessori dell’altare: i recipienti le palette i vasi pe r l’aspersione le forcelle e i bracieri; fece di bronzo tutti i suoi accessori. Fece per l’altare una gr aticola di bronzo lavorata a forma di rete e la pose sotto la cornice dell’altare in basso: la rete ar rivava a metà altezza dell’altare. Fuse quattro anelli e li pose alle quattro estremità della gratico la di bronzo per inserirvi le stanghe. Fece anche le stanghe di legno di acacia e le rivestì di bronz o. Introdusse le stanghe negli anelli sui lati dell’altare: servivano a trasportarlo. Fece l’altare di t avole vuoto all’interno. Fece il bacino di bronzo con il suo piedistallo di bronzo impiegandovi gli specchi delle donne che venivano a prestare servizio all’ingresso della tenda del convegno. Fece il recinto: sul lato meridionale verso sud il recinto aveva tendaggi di bisso ritorto, per la lunghez za di cento cubiti. C’erano le loro venti colonne con le venti basi di bronzo. Gli uncini delle colon ne e le loro aste trasversali erano d’argento. Anche sul lato rivolto a settentrione vi erano tenda ggi per cento cubiti di lunghezza le relative venti colonne con le venti basi di bronzo gli uncini delle colonne e le aste trasversali d’argento. Sul lato verso occidente c’erano cinquanta cubiti di tendaggi con le relative dieci colonne e le dieci basi, gli uncini delle colonne e le loro aste trasversali d’argento. Sul lato orientale, verso levante vi erano cinquanta cubiti: quindici cubiti di tendaggi con le relative tre colonne e le tre basi alla prima ala; quindici cubiti di tendaggi con le tre colonne e le tre basi all’altra ala. Le basi delle colonne erano di bronzo gli uncini delle colonne e le aste trasversali erano d’argent o; il rivestimento dei loro capitelli era d’argento e tutte le colonne del recinto erano collegate d a aste trasversali d’argento. Alla porta del recinto c’era una cortina lavoro di ricamatore di porp ora viola porpora rossa scarlatto e bisso ritorto; la sua lunghezza era di venti cubiti la sua altezz a nel senso della larghezza era di cinque cubiti come i tendaggi del recinto. Le colonne relative e rano quattro con le quattro basi di bronzo i loro uncini d’argento il rivestimento dei loro capitell i e le loro aste trasversali d’argento. Tutti i picchetti della Dimora e del recinto circostante erano di bronzo. Questo è il computo dei metalli impiegati per la Dimora la Dimora della Testimonian
za redatto su ordine di Mosè a opera dei leviti sotto la direzione di Itamàr figlio del sacerdote Ar onne. Besalèl figlio di Urì figlio di Cur della tribù di Giuda eseguì quanto il Signore aveva ordinat o a Mosè insieme con lui Ooliàb figlio di Achisamàc della tribù di Dan intagliatore decoratore e r icamatore di porpora viola porpora rossa scarlatto e bisso. Il totale dell’oro impiegato nella lavo razione cioè per tutto il lavoro del santuario – era l’oro presentato in offerta –
fu di ventinove talenti e settecentotrenta sicli, in sicli del santuario. L’argento raccolto in occasi one del censimento della comunità pesava cento talenti e millesettecentosettantacinque sicli in
sicli del santuario, cioè un beka a testa vale a dire mezzo siclo secondo il siclo del santuario, per ciascuno dei sottoposti al censimento dai vent’anni in su. Erano seicentotremilacinquecentocinquanta. Cento talenti d’argento servirono a fondere le basi del santuario e le basi del velo: cent o basi per cento talenti cioè un talento per ogni base. Con i millesettecentosettantacinque sicli f ece gli uncini delle colonne rivestì i loro capitelli e le riunì con le aste trasversali. Il bronzo prese ntato in offerta assommava a settanta talenti e duemilaquattrocento sicli. Con esso fece le basi per l’ingresso della tenda del convegno l’altare di bronzo con la sua graticola di bronzo e tutti gli accessori dell’altare, le basi del recinto le basi della porta del recinto tutti i picchetti della Dimo ra e tutti i picchetti del recinto. Con porpora viola e porpora rossa e con scarlatto fecero le vesti liturgiche per officiare nel santuario. Fecero le vesti sacre di Aronne come il Signore aveva ordin ato a Mosè. Fecero l’ efod con oro porpora viola e porpora rossa scarlatto e bisso ritorto. Fecer o placche d’oro battuto e le tagliarono in strisce sottili per intrecciarle con la porpora viola la po rpora rossa lo scarlatto e il bisso lavoro d’artista. Fecero all’ efod due spalline che vennero attac cate alle sue due estremità in modo da formare un tutt’uno. La cintura che lo teneva legato e ch e stava sopra di esso era della stessa fattura ed era di un sol pezzo intessuta d’oro di porpora vi ola e porpora rossa di scarlatto e di bisso ritorto come il Signore aveva ordinato a Mosè. Lavorar ono le pietre di ònice, inserite in castoni d’oro incise con i nomi dei figli d’Israele secondo l’arte d’incidere i sigilli. Fissarono le due pietre sulle spalline dell’ efod, come memoriale per i figli d’Is raele come il Signore aveva ordinato a Mosè. Fecero il pettorale lavoro d’artista come l’ efod: c on oro porpora viola, porpora rossa scarlatto e bisso ritorto. Era quadrato e lo fecero doppio; av eva una spanna di lunghezza e una spanna di larghezza. Lo coprirono con quattro file di pietre.
Prima fila: una cornalina un topazio e uno smeraldo; seconda fila: una turchese uno zaffìro e un berillo; terza fila: un giacinto un’àgata e un’ametista; quarta fila: un crisòlito un’ònice e un diasp Generated by https://countwordsfree[dot]com
ro. Esse erano inserite nell’oro mediante i loro castoni. Le pietre corrispondevano ai nomi dei fi gli d’Israele: dodici secondo i loro nomi; incise come i sigilli ciascuna con il nome corrispondente per le dodici tribù. Fecero sul pettorale catene in forma di cordoni lavoro d’intreccio d’oro puro
. Fecero due castoni d’oro e due anelli d’oro e misero i due anelli alle due estremità del pettoral e. Misero le due catene d’oro sui due anelli alle due estremità del pettorale. Quanto alle altre d ue estremità delle catene le fissarono sui due castoni e le fecero passare sulle spalline dell’ efod nella parte anteriore. Fecero due altri anelli d’oro e li collocarono alle due estremità del pettor ale sull’orlo che era dall’altra parte dell’ efod verso l’interno. Fecero due altri anelli d’oro e li po sero sulle due spalline dell’ efod in basso sul suo lato anteriore in vicinanza del punto di attacco al di sopra della cintura dell’ efod. Poi legarono il pettorale con i suoi anelli agli anelli dell’ efod mediante un cordone di porpora viola perché stesse al di sopra della cintura dell’ efod e il petto rale non si distaccasse dall’ efod come il Signore aveva ordinato a Mosè. Fecero il manto dell’ ef od lavoro di tessitore tutto di porpora viola; la scollatura del manto in mezzo era come la scollat ura di una corazza: intorno aveva un bordo perché non si lacerasse. Fecero sul lembo del manto
melagrane di porpora viola, di porpora rossa di scarlatto e di bisso ritorto. Fecero sonagli d’oro puro e collocarono i sonagli in mezzo alle melagrane intorno all’orlo inferiore del manto: un son aglio e una melagrana un sonaglio e una melagrana lungo tutto il giro del lembo del manto per
officiare, come il Signore aveva ordinato a Mosè. Fecero le tuniche di bisso lavoro di tessitore p er Aronne e per i suoi figli; il turbante di bisso gli ornamenti dei berretti di bisso e i calzoni di lin o di bisso ritorto; la cintura di bisso ritorto di porpora viola di porpora rossa e di scarlatto, lavor o di ricamatore come il Signore aveva ordinato a Mosè. Fecero la lamina il diadema sacro d’oro
puro e vi scrissero sopra a caratteri incisi, come un sigillo «Sacro al Signore». Vi fissarono un cor done di porpora viola, per porre il diadema sopra il turbante come il Signore aveva ordinato a M
osè. Così fu finito tutto il lavoro della Dimora della tenda del convegno. Gli Israeliti eseguirono o gni cosa come il Signore aveva ordinato a Mosè: così fecero. Portarono dunque a Mosè la Dimor
a la tenda e tutti i suoi accessori: le sue fibbie, le sue assi le sue traverse le sue colonne e le sue basi la copertura di pelli di montone tinte di rosso la copertura di pelli di tasso e il velo per far d a cortina; l’arca della Testimonianza con le sue stanghe e il propiziatorio; la tavola con tutti i suo i accessori e i pani dell’offerta; il candelabro d’oro puro con le sue lampade le lampade cioè che dovevano essere collocate sopra di esso con tutti i suoi accessori e l’olio per l’illuminazione; l’alt are d’oro l’olio dell’unzione, l’incenso aromatico e la cortina per l’ingresso della tenda; l’altare d i bronzo con la sua graticola di bronzo le sue stanghe e tutti i suoi accessori il bacino con il suo p iedistallo, i tendaggi del recinto le sue colonne le sue basi e la cortina per la porta del recinto le sue corde i suoi picchetti e tutti gli arredi del servizio della Dimora per la tenda del convegno; le vesti liturgiche per officiare nel santuario le vesti sacre del sacerdote Aronne e le vesti dei suoi f igli per l’esercizio del sacerdozio. Gli Israeliti avevano eseguito ogni lavoro come il Signore aveva ordinato a Mosè. Mosè vide tutta l’opera e riscontrò che l’avevano eseguita come il Signore av
eva ordinato. Allora Mosè li benedisse. Il Signore parlò a Mosè e gli disse: «Il primo giorno del p Generated by https://countwordsfree[dot]com
rimo mese erigerai la Dimora la tenda del convegno. Dentro vi collocherai l’arca della Testimoni anza davanti all’arca tenderai il velo. Vi introdurrai la tavola e disporrai su di essa ciò che vi deve essere disposto; introdurrai anche il candelabro e vi preparerai sopra le sue lampade. Metterai
l’altare d’oro per l’incenso davanti all’arca della Testimonianza e porrai infine la cortina all’ingre sso della tenda. Poi metterai l’altare degli olocausti di fronte all’ingresso della Dimora della tend a del convegno. Metterai il bacino fra la tenda del convegno e l’altare e vi porrai l’acqua. Dispor rai il recinto tutt’attorno e metterai la cortina alla porta del recinto. Poi prenderai l’olio dell’unzi one e ungerai con esso la Dimora e quanto vi sarà dentro e la consacrerai con tutti i suoi access ori; così diventerà cosa santa. Ungerai anche l’altare degli olocausti e tutti i suoi accessori; cons acrerai l’altare e l’altare diventerà cosa santissima. Ungerai anche il bacino con il suo piedistallo e lo consacrerai. Poi farai avvicinare Aronne e i suoi figli all’ingresso della tenda del convegno e l i farai lavare con acqua. Farai indossare ad Aronne le vesti sacre lo ungerai lo consacrerai e così egli eserciterà il mio sacerdozio. Farai avvicinare anche i suoi figli e farai loro indossare le tunich e. Li ungerai come avrai unto il loro padre e così eserciteranno il mio sacerdozio; in tal modo la l oro unzione conferirà loro un sacerdozio perenne per le loro generazioni». Mosè eseguì ogni co
sa come il Signore gli aveva ordinato: così fece. Nel secondo anno nel primo giorno del primo m
ese fu eretta la Dimora. Mosè eresse la Dimora: pose le sue basi dispose le assi vi fissò le travers e e rizzò le colonne; poi stese la tenda sopra la Dimora e dispose al di sopra la copertura della te nda come il Signore gli aveva ordinato. Prese la Testimonianza la pose dentro l’arca mise le stan ghe all’arca e pose il propiziatorio sull’arca; poi introdusse l’arca nella Dimora collocò il velo che doveva far da cortina e lo tese davanti all’arca della Testimonianza come il Signore aveva ordin ato a Mosè. Nella tenda del convegno collocò la tavola sul lato settentrionale della Dimora al di fuori del velo. Dispose su di essa il pane in focacce sovrapposte alla presenza del Signore come i l Signore aveva ordinato a Mosè. Collocò inoltre il candelabro nella tenda del convegno di front e alla tavola sul lato meridionale della Dimora e vi preparò sopra le lampade davanti al Signore come il Signore aveva ordinato a Mosè. Collocò poi l’altare d’oro nella tenda del convegno dava
nti al velo, e bruciò su di esso l’incenso aromatico come il Signore aveva ordinato a Mosè. Mise i nfine la cortina all’ingresso della Dimora. Poi collocò l’altare degli olocausti all’ingresso della Di mora della tenda del convegno e offrì su di esso l’olocausto e l’offerta come il Signore aveva ord inato a Mosè. Collocò il bacino fra la tenda del convegno e l’altare e vi mise dentro l’acqua per l e abluzioni. Mosè Aronne e i suoi figli si lavavano con essa le mani e i piedi: quando entravano n ella tenda del convegno e quando si accostavano all’altare essi si lavavano come il Signore avev a ordinato a Mosè. Infine eresse il recinto intorno alla Dimora e all’altare e mise la cortina alla p orta del recinto. Così Mosè terminò l’opera. Allora la nube coprì la tenda del convegno e la glori a del Signore riempì la Dimora. Mosè non poté entrare nella tenda del convegno perché la nube
sostava su di essa e la gloria del Signore riempiva la Dimora. Per tutto il tempo del loro viaggio quando la nube s’innalzava e lasciava la Dimora, gli Israeliti levavano le tende. Se la nube non si innalzava essi non partivano, finché non si fosse innalzata.

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In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’a bisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: «Sia l a luce!». E la luce fu. Dio vide che l a luce era cosa buona e Dio separò la luce dalle tenebre. Dio chiamò la luce giorno, mentre chia mò le tenebre notte. E fu ser a e fu mattina: giorno primo. Dio disse: «Sia un firmamento in mez zo alle acque per separare le acque dalle acque». Dio fece il firmamento e separò le acque ch e sono sotto il firmamento dalle acque che sono sopra il firmamento. E così avvenne. Dio chiamò i l firmamento cielo. E fu sera e fu mattina: secondo giorno. Di o disse: «Le acque che sono sotto i l cielo si raccolgano in un unico luogo e appaia l’asciutto». E così avvenne. Dio chiamò l’asciutto terra, mentre chiamò la mas sa delle acque mare. Dio vide che era cosa buona. Dio disse: «La te rra produca germogli erbe che producono seme e alberi da frutto che fanno sulla terra frutto c on il seme ciascuno secondo la propria specie». E così avvenne. E la terra produsse germogli erb e che producono seme ciascuna secondo la propria specie e albe ri che fanno ciascuno frutto con il seme secondo la propria specie. Dio vide che era cosa buona.
E fu sera e fu mattina: terzo giorno. Dio disse: «Ci siano fonti di luce nel firmamento del cielo pe r separare il giorno dalla notte; siano segni per le feste per i giorni e per gli anni e siano fonti di l uce nel firmamento del cielo p er illuminare la terra». E così avvenne. E Dio fece le due fonti di l uce grandi: la fonte di luce maggiore per governare il giorno e la fonte di luce minore per gove r nare la notte e le stelle. Dio le pose nel firmamento del cielo per illuminare la terra e per govern are il giorno e la notte e per separare la luce dalle tenebre. Dio v ide che era cosa buona. E fu se ra e fu mattina: quarto giorno. Dio disse: «Le acque brulichino di esseri viventi e uccelli volino s opra la terra, davanti al firmame nto del cielo». Dio creò i grandi mostri marini e tutti gli esseri v iventi che guizzano e brulicano nelle acque secondo la loro specie e tutti gli uccelli alati secondo la loro specie. Dio vide che era cosa buona. Dio li benedisse: «Siate fecondi e moltiplicatevi e ri empite le acque dei mari; gli uccelli si moltiplichino sulla terra»
. E fu sera e fu mattina: quinto giorno. Dio disse: «La terra produca esseri viventi secondo la loro specie: bestiame rettili e animali selvatici secondo la loro speci e». E così avvenne. Dio fece gli a nimali selvatici secondo la loro specie il bestiame secondo la propria specie e tutti i rettili del su olo secondo la loro specie. Dio vide che era cosa buona. Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra i mmagine secondo la nostra somiglianza: dòmini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo sul bestiame su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». E Dio creò l’uo mo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e fem mina li creò. Dio li benedisse e Di o disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cie lo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra». Dio disse: «Ecc o io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra, e ogni albero fruttifero che pro d uce seme: saranno il vostro cibo. A tutti gli animali selvatici a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli
esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita io do in cibo ogni erba verde». E così avv enne. Dio vide quanto aveva fatto ed ecco era cosa molto buona. E fu sera e fu mattina: sesto gi orno. Così furono portati a c ompimento il cielo e la terra e tutte le loro schiere. Dio nel settimo giorno portò a compimento il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo la v oro che aveva fatto. Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli aveva fatto creando. Queste sono le origi ni del cielo e della terra quand o vennero creati. Nel giorno in cui il Signore Dio fece la terra e il cielo nessun cespuglio campest re era sulla terra nessuna erba ca mpestre era spuntata perché il Signore Dio non aveva fatto pi overe sulla terra e non c’era uomo che lavorasse il suolo ma una polla d’acqua sgorgava dalla te rra e irrigava tutto il suolo. Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nel le sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. P
oi il Signore Dio piantò un giardino in Eden a oriente e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il S
ignore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi gra diti alla vista e buoni da mangiare e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male. Un fiu me usciva da Eden per irrigar e il giardino poi di lì si divideva e formava quattro corsi. Il primo fi ume si chiama Pison: esso scorre attorno a tutta la regione di Avìla dove si trova l’oro e l’oro di quella regione è fino; vi si trova pure la resina odorosa e la pietra d’ònice. Il secondo fiume si chi ama Ghicon: esso scorre attorno a tutta la regione d’Etiopia.
Il terzo fiume si chiama Tigri: esso scorre a oriente di Assur. Il quarto fiume è l’Eufrate. Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo co ltivasse e lo custodisse. Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino ma dell’
albero della conoscenza del b ene e del male non devi mangiare perché nel giorno in cui tu ne mangerai certamente dovrai morire». E il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: v oglio fargli un aiuto che gli corrisponda». Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di ani mali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo per vedere come li avrebbe chiam ati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi quello doveva esser e il suo nome. Così l’uomo im
pose nomi a tutto il bestiame a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici ma per l’uo mo non trovò un aiuto che gli corrispondesse. Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull
’uomo che si addormentò gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Di o formò con la costola che ave va tolta all’uomo una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uom o disse: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna, perc h é dall’uomo è stata tolta». Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua mo glie, e i due saranno un’unica carne. Ora tutti e due erano nudi l’

uomo e sua moglie e non provavano vergogna. Il serpente era il più astuto di tutti gli animali sel vatici che Dio aveva fatto e disse alla donna: «è vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino”?». Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino n oi possiamo mangiare ma del fr utto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare altrimenti morirete”». Ma il serpente disse alla donn a:
«Non morirete affatto! Anzi Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri oc chi e sareste come Dio conoscendo il bene e il male». Allora l a donna vide che l’albero era buo no da mangiare gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò poi ne diede anch e al marito che era con lei e anch’egli ne mangiò. Allora si apriro no gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero c inture. Poi udirono il rumore dei passi del Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza d el giorno e l’uomo con sua moglie si nascose dalla presenza d el Signore Dio in mezzo agli alberi del giardino. Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avut o paura perché sono nudo e mi sono nascosto». Riprese: «Chi ti ha fa tto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non m angiare?». Rispose l’uomo: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?»
. Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato». Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché hai fatto questo, maledetto tu fra tutto il best iame e fra tutti gli animali selv atici! Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. Io porrò inim icizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidie rai il calcagno». Alla donna disse: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore par t orirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ed egli ti dominerà». All’uomo disse: «Poiché ha i ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato: “Non devi mangiarne” maledetto il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba dei campi. Con il sudore del tuo volto m angerai il pane, finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e i n polvere ritornerai!». L’uomo chiamò sua moglie Eva perché ella fu la madre di tutti i viventi. Il Signore Dio fece all’uomo e a sua moglie tuniche di pelli e li ves tì. Poi il Signore Dio disse: «Ecco l’uomo è diventato come uno di noi quanto alla conoscenza del bene e del male. Che ora egli n on stenda la mano e non prend
a anche dell’albero della vita ne mangi e viva per sempre!». Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden perché lavorasse il suolo da cui era stato tratto. Scacci ò l’uomo e pose a oriente del gia rdino di Eden i cherubini e la fiamma della spada guizzante per custodire la via all’albero della vi ta. Adamo conobbe Eva sua m oglie che concepì e partorì Caino e disse: «Ho acquistato un uom
o grazie al Signore». Poi partorì ancora Abele suo fratello. Ora Abele era pastore di greggi men t re Caino era lavoratore del suolo. Trascorso del tempo Caino presentò frutti del suolo come off erta al Signore, mentre Abele presentò a sua volta primogeniti de l suo gregge e il loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta ma non gradì Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritat o e il suo volto era abbattuto. Il Signore disse allora a Caino: «Perché sei irritato e perché è abba ttuto il tuo volto? Se agisci bene non dovresti forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene il peccat o è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto e tu lo dominerai». Caino parlò al frat ello Abele. Mentre erano in campagna Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise. Allora il Signore disse a Caino: «Dov’è Abele tuo fratello?». Egli rispo se: «Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?». Ri prese: «Che hai fatto? La voce del sa ngue di tuo fratello grida a me dal suolo! Ora sii maledetto lontano dal suolo che ha aperto la b occa per ricevere il sangue di tuo fratello dalla tua mano. Quando lavorerai il suolo esso non ti d arà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra». Disse Caino al Signore: «Tropp o gr ande è la mia colpa per ottenere perdono. Ecco tu mi scacci oggi da questo suolo e dovrò nasco ndermi lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi uccid erà». Ma il Signore gli disse: «Ebbene chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!». I l Signore impose a Caino un
segno perché nessuno incontrandolo lo colpisse. Caino si allontanò dal Signore e abitò nella regi one di Nod a oriente di Eden. Ora Caino conobbe sua moglie ch e concepì e partorì Enoc; poi divenne costruttore di una città che chiamò Enoc dal nome del figli o. A Enoc nacque Irad; Irad generò Mecuiaèl e Mecuiaèl generò Metusaèl e Metusaèl generò Lamec. Lamec si prese due mogli: una chiamata Ada e l’altra chiam ata Silla. Ada partorì Iabal: egli fu il padre di quanti abitano so tto le tende presso il bestiame. Il fratello di questi si chiamava Iubal: egli fu il padre di tutti i suonatori di cetra e di flauto. Silla a s ua volta partorì Tubal-Kain il fabbro padre di quanti lavorano il bronzo e il ferro. La sorella di Tubal-Kain fu Naamà. Lamec disse alle mogli: «Ada e Silla ascoltate la mia voce; mogli di Lamec porget e l’orecchio al mio dire. Ho ucciso un uomo per una mia scalf ittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settantasette»
. Adamo di nuovo conobbe sua moglie che partorì un figlio e lo chiamò Set. «Perché – disse –
Dio mi ha concesso un’altra discendenza al posto di Abele, poiché Caino l’ha ucciso». Anche a S
et nacque un figlio che chiamò Enos. A quel tempo si cominci
ò a invocare il nome del Signore. Questo è il libro della discendenza di Adamo. Nel giorno in cui Dio creò l’uomo lo fece a somiglianza di Dio; maschio e femm ina li creò li benedisse e diede loro il nome di uomo nel giorno in cui furono creati. Adamo avev a centotrenta anni quando generò un figlio a sua immagine seco ndo la sua somiglianza e lo chi amò Set. Dopo aver generato Set Adamo visse ancora ottocento anni e generò figli e figlie. L’int era vita di Adamo fu di novecent otrenta anni; poi morì. Set aveva centocinque anni quando ge nerò Enos; dopo aver generato Enos Set visse ancora ottocentosette anni e generò figli e figlie.
L’in tera vita di Set fu di novecentododici anni; poi morì. Enos aveva novanta anni quando gener ò Kenan; Enos dopo aver generato Kenan visse ancora ottocentoqui ndici anni e generò figli e figlie. L’intera vita di Enos fu di novecentocinque anni; poi morì. Kenan aveva settanta anni quando generò Maalalèl; Kenan, dopo av er generato Maalalèl visse ancora ottocentoquaranta anni e generò figli e figlie. L’intera vita di Kenan fu di novecentodieci anni; p oi morì. Maalalèl aveva sessa ntacinque anni quando generò Iered; Maalalèl dopo aver generat o Iered visse ancora ottocentotrenta anni e generò figli e figlie. L’intera vita di Maalalèl fu di ott ocentonovantacinque anni; poi morì. Iered aveva centosessantadue anni quando generò Enoc; I ered dopo aver generato Enoc visse ancora ottocento anni e gener ò figli e figlie. L’intera vita di Iered fu di novecentosessantadue anni; poi morì. Enoc aveva sessa ntacinque anni quando generò Matusalemme. Enoc camminò c
on Dio; dopo aver generato Matusalemme visse ancora per trecento anni e generò figli e figlie.
L’intera vita di Enoc fu di trecentosessantacinque anni. Enoc ca mminò con Dio poi scomparve p erché Dio l’aveva preso. Matusalemme aveva centoottantasette anni quando generò Lamec; M
atusalemme dopo aver generato
Lamec visse ancora settecentoottantadue anni e generò figli e figlie. L’intera vita di Matusalem me fu di novecentosessantanove anni; poi morì. Lamec aveva cen toottantadue anni quando generò un figlio e lo chiamò Noè dicendo: «Costui ci consolerà del no stro lavoro e della fatica delle nostre mani a causa del suolo che il Signore ha maledetto». Lame c dopo aver generato Noè visse ancora cinquecentonovantacinque anni e generò figli e figlie. L’i ntera vita di Lamec fu di settece ntosettantasette anni; poi morì. Noè aveva cinquecento anni q uando generò Sem Cam e Iafet. Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nac qu
ero loro delle figlie, i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per mo gli a loro scelta. Allora il Signore disse: «Il mio spirito non res terà sempre nell’uomo perché egli è carne e la sua vita sarà di centoventi anni». C’erano sulla terra i giganti a quei tempi –
e anche dopo –

quando i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini e queste partorivano loro dei figli: sono qu esti gli eroi dell’antichità uomini famosi. Il Signore vide che l a malvagità degli uomini era grand e sulla terra e che ogni intimo intento del loro cuore non era altro che male sempre. E il Signore si pentì di aver fatto l’uomo s ulla terra e se ne addolorò in cuor suo. Il Signore disse: «Canceller ò dalla faccia della terra l’uomo che ho creato e con l’uomo anche il bestiame e i rettili e gli u cc elli del cielo perché sono pentito di averli fatti». Ma Noè trovò grazia agli occhi del Signore. Que sta è la discendenza di Noè. Noè era uomo giusto e integro tr a i suoi contemporanei e cammina va con Dio. Noè generò tre figli: Sem Cam e Iafet. Ma la terra era corrotta davanti a Dio e piena di violenza. Dio guardò la ter ra ed ecco essa era corrotta perché ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla terra. Allora Dio disse a Noè: «è venuta per me la fine di ogni uomo, perché l a terra per causa loro è piena di violenza; ecco io li distruggerò insieme con la terra. Fatti un’arc a di legno di cipresso; dividerai l’arca in scompartimenti e la sp almerai di bitume dentro e fuori.
Ecco come devi farla: l’arca avrà trecento cubiti di lunghezza cinquanta di larghezza e trenta di altezza. Farai nell’arca un tetto e a un cubito più sopra la terminerai; da un lato metterai la port a dell’arca. La farai a piani: inferiore medio e superiore. Ecco io sto per mandare il diluvio cioè le acque sulla terra per distruggere sotto il cielo ogni carne in cui c’è soffio di vita; quanto è sulla t erra perirà. Ma con te io stabilisco la mia alleanza. Entrerai nell
’arca tu e con te i tuoi figli, tua moglie e le mogli dei tuoi figli. Di quanto vive di ogni carne intro durrai nell’arca due di ogni specie per conservarli in vita con te
: siano maschio e femmina. Degli uccelli secondo la loro specie del bestiame secondo la propria specie e di tutti i rettili del suolo secondo la loro specie due di o gnuna verranno con te per esse re conservati in vita. Quanto a te prenditi ogni sorta di cibo da mangiare e fanne provvista: sarà di nutrimento per te e per loro». Noè eseguì ogni cosa come Dio gli aveva comandato: così fece.
Il Signore disse a Noè: «Entra nell’arca tu con tutta la tua famiglia, perché ti ho visto giusto dina nzi a me in questa generazione. Di ogni animale puro prendine con te sette paia il maschio e la s ua femmina; degli animali che non sono puri un paio il maschio e la sua femmina. Anche degli u ccelli del cielo sette paia maschio e femmina per conservarne in vita la razza su tutta la terra. Pe rché tra sette giorni farò piovere sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti; cancellerò dall a terra ogni essere che ho fatto». Noè fece quanto il Signore gli aveva comandato. Noè aveva se icento anni quando venne il diluvio cioè le acque sulla terra. Noè entrò nell’arca e con lui i suoi f igli sua moglie e le mogli dei suoi figli per sottrarsi alle acque del diluvio. Degli animali puri e di q uelli impuri degli uccelli e di tutti gli esseri che strisciano sul suolo un maschio e una femmina e ntrarono a due a due nell’arca come Dio aveva comandato a Noè. Dopo sette giorni le acque del diluvio furono sopra la terra; nell’anno seicentesimo della vita di Noè nel secondo mese il dicias sette del mese in quello stesso giorno eruppero tutte le sorgenti del grande abisso e le cateratt e del cielo si aprirono. Cadde la pioggia sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti. In quell o stesso giorno entrarono nell’arca Noè con i figli Sem Cam e Iafet la moglie di Noè, le tre mogli
dei suoi tre figli; essi e tutti i viventi secondo la loro specie e tutto il bestiame secondo la propri a specie e tutti i rettili che strisciano sulla terra secondo la loro specie tutti i volatili secondo la l oro specie tutti gli uccelli tutti gli esseri alati. Vennero dunque a Noè nell’arca a due a due di og ni carne in cui c’è il soffio di vita. Quelli che venivano maschio e femmina d’ogni carne entraron o come gli aveva comandato Dio. Il Signore chiuse la porta dietro di lui. Il diluvio durò sulla terra quaranta giorni: le acque crebbero e sollevarono l’arca che s’innalzò sulla terra. Le acque furon o travolgenti e crebbero molto sopra la terra e l’arca galleggiava sulle acque. Le acque furono se mpre più travolgenti sopra la terra e coprirono tutti i monti più alti che sono sotto tutto il cielo.
Le acque superarono in altezza di quindici cubiti i monti che avevano ricoperto. Perì ogni essere vivente che si muove sulla terra uccelli bestiame e fiere e tutti gli esseri che brulicano sulla terra e tutti gli uomini. Ogni essere che ha un alito di vita nelle narici cioè quanto era sulla terra asciu tta morì. Così fu cancellato ogni essere che era sulla terra: dagli uomini agli animali domestici ai rettili e agli uccelli del cielo; essi furono cancellati dalla terra e rimase solo Noè e chi stava con l ui nell’arca. Le acque furono travolgenti sopra la terra centocinquanta giorni. Dio si ricordò di N
oè di tutte le fiere e di tutti gli animali domestici che erano con lui nell’arca. Dio fece passare un vento sulla terra e le acque si abbassarono. Le fonti dell’abisso e le cateratte del cielo furono ch iuse e fu trattenuta la pioggia dal cielo; le acque andarono via via ritirandosi dalla terra e calaro no dopo centocinquanta giorni. Nel settimo mese il diciassette del mese l’arca si posò sui monti dell’Araràt. Le acque andarono via via diminuendo fino al decimo mese. Nel decimo mese il pri mo giorno del mese apparvero le cime dei monti. Trascorsi quaranta giorni Noè aprì la finestra c he aveva fatto nell’arca e fece uscire un corvo. Esso uscì andando e tornando finché si prosciuga rono le acque sulla terra. Noè poi fece uscire una colomba per vedere se le acque si fossero ritir ate dal suolo; ma la colomba non trovando dove posare la pianta del piede tornò a lui nell’arca perché c’era ancora l’acqua su tutta la terra. Egli stese la mano la prese e la fece rientrare press o di sé nell’arca. Attese altri sette giorni e di nuovo fece uscire la colomba dall’arca e la colomba tornò a lui sul far della sera; ecco essa aveva nel becco una tenera foglia di ulivo. Noè comprese che le acque si erano ritirate dalla terra. Aspettò altri sette giorni poi lasciò andare la colomba; essa non tornò più da lui. L’anno seicentouno della vita di Noè il primo mese il primo giorno del mese, le acque si erano prosciugate sulla terra; Noè tolse la copertura dell’arca ed ecco la super ficie del suolo era asciutta. Nel secondo mese il ventisette del mese tutta la terra si era prosciug ata. Dio ordinò a Noè: «Esci dall’arca tu e tua moglie i tuoi figli e le mogli dei tuoi figli con te. Tut ti gli animali d’ogni carne che hai con te uccelli bestiame e tutti i rettili che strisciano sulla terra falli uscire con te, perché possano diffondersi sulla terra siano fecondi e si moltiplichino su di es sa». Noè uscì con i figli la moglie e le mogli dei figli. Tutti i viventi e tutto il bestiame e tutti gli uc celli e tutti i rettili che strisciano sulla terra secondo le loro specie uscirono dall’arca. Allora Noè edificò un altare al Signore; prese ogni sorta di animali puri e di uccelli puri e offrì olocausti sull’
altare. Il Signore ne odorò il profumo gradito e disse in cuor suo: «Non maledirò più il suolo a ca usa dell’uomo, perché ogni intento del cuore umano è incline al male fin dall’adolescenza; né co
lpirò più ogni essere vivente come ho fatto. Finché durerà la terra, seme e mèsse, freddo e cald o, estate e inverno, giorno e notte non cesseranno». Dio benedisse Noè e i suoi figli e disse loro:
«Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite la terra. Il timore e il terrore di voi sia in tutti gli anim ali della terra e in tutti gli uccelli del cielo. Quanto striscia sul suolo e tutti i pesci del mare sono dati in vostro potere. Ogni essere che striscia e ha vita vi servirà di cibo: vi do tutto questo come già le verdi erbe. Soltanto non mangerete la carne con la sua vita cioè con il suo sangue. Del sa ngue vostro ossia della vostra vita io domanderò conto; ne domanderò conto a ogni essere vive nte e domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello. Chi sparge il san gue dell’uomo, dall’uomo il suo sangue sarà sparso, perché a immagine di Dio è stato fatto l’uo mo. E voi siate fecondi e moltiplicatevi, siate numerosi sulla terra e dominatela». Dio disse a No è e ai suoi figli con lui: «Quanto a me ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri disc endenti dopo di voi con ogni essere vivente che è con voi uccelli bestiame e animali selvatici co n tutti gli animali che sono usciti dall’arca con tutti gli animali della terra. Io stabilisco la mia alle anza con voi: non sarà più distrutta alcuna carne dalle acque del diluvio né il diluvio devasterà p iù la terra». Dio disse: «Questo è il segno dell’alleanza, che io pongo tra me e voi e ogni essere v ivente che è con voi, per tutte le generazioni future. Pongo il mio arco sulle nubi, perché sia il se gno dell’alleanza tra me e la terra. Quando ammasserò le nubi sulla terra e apparirà l’arco sulle nubi, ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi e ogni essere che vive in ogni carne, e non ci s aranno più le acque per il diluvio, per distruggere ogni carne. L’arco sarà sulle nubi, e io lo guard erò per ricordare l’alleanza eterna tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra».
Disse Dio a Noè: «Questo è il segno dell’alleanza che io ho stabilito tra me e ogni carne che è su lla terra». I figli di Noè che uscirono dall’arca furono Sem Cam e Iafet; Cam è il padre di Canaan.
Questi tre sono i figli di Noè e da questi fu popolata tutta la terra. Ora Noè coltivatore della terr a cominciò a piantare una vigna. Avendo bevuto il vino si ubriacò e si denudò all’interno della su a tenda. Cam padre di Canaan vide la nudità di suo padre e raccontò la cosa ai due fratelli che st avano fuori. Allora Sem e Iafet presero il mantello se lo misero tutti e due sulle spalle e cammin ando a ritroso coprirono la nudità del loro padre; avendo tenuto la faccia rivolta indietro non vi dero la nudità del loro padre. Quando Noè si fu risvegliato dall’ebbrezza seppe quanto gli aveva fatto il figlio minore; allora disse: «Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fra telli!». E aggiunse: «Benedetto il Signore Dio di Sem, Canaan sia suo schiavo! Dio dilati Iafet ed e gli dimori nelle tende di Sem, Canaan sia suo schiavo!». Noè visse dopo il diluvio trecentocinqua nta anni. L’intera vita di Noè fu di novecentocinquanta anni; poi morì. Questa è la discendenza dei figli di Noè: Sem Cam e Iafet ai quali nacquero figli dopo il diluvio. I figli di Iafet: Gomer Mag òg Madai Iavan Tubal Mesec e Tiras. I figli di Gomer: Aschenàz Rifat e Togarmà. I figli di Iavan: El isa Tarsis i Chittìm e i Dodanìm. Da costoro derivarono le genti disperse per le isole nei loro terri tori ciascuna secondo la propria lingua e secondo le loro famiglie nelle rispettive nazioni. I figli d i Cam: Etiopia Egitto Put e Canaan. I figli di Etiopia: Seba, Avìla Sabta Raamà e Sabtecà. I figli di R
aamà: Saba e Dedan. Etiopia generò Nimrod: costui cominciò a essere potente sulla terra. Egli e
ra valente nella caccia davanti al Signore perciò si dice: «Come Nimrod, valente cacciatore dava nti al Signore». L’inizio del suo regno fu Babele Uruc, Accad e Calne nella regione di Sinar. Da qu ella terra si portò ad Assur e costruì Ninive Recobòt-Ir e Calach e Resen tra Ninive e Calach; quella è la grande città. Egitto generò quelli di Lud Anam Laab Naftuch, Patros Casluch e Caftor da dove uscirono i Filistei. Canaan generò Sidone suo pri mogenito e Chet e il Gebuseo l’Amorreo il Gergeseo, l’Eveo l’Archeo e il Sineo l’Arvadeo il Sema reo e il Camateo. In seguito si dispersero le famiglie dei Cananei. Il confine dei Cananei andava d a Sidone in direzione di Gerar fino a Gaza poi in direzione di Sòdoma Gomorra Adma e Seboìm fi no a Lesa. Questi furono i figli di Cam secondo le loro famiglie e le loro lingue nei loro territori e nelle rispettive nazioni. Anche a Sem fratello maggiore di Iafet e capostipite di tutti i figli di Eber nacque una discendenza. I figli di Sem: Elam Assur Arpacsàd Lud e Aram. I figli di Aram: Us Ul G
heter e Mas. Arpacsàd generò Selach e Selach generò Eber. A Eber nacquero due figli: uno si chi amò Peleg perché ai suoi tempi fu divisa la terra e il fratello si chiamò Ioktan. Ioktan generò Alm odàd Selef Asarmàvet Ierach Adoràm Uzal Dikla, Obal Abimaèl Saba Ofir Avìla e Iobab. Tutti que sti furono i figli di Ioktan; la loro sede era sulle montagne dell’oriente da Mesa in direzione di Se far. Questi furono i figli di Sem secondo le loro famiglie e le loro lingue, nei loro territori second o le rispettive nazioni. Queste furono le famiglie dei figli di Noè secondo le loro genealogie nelle rispettive nazioni. Da costoro si dispersero le nazioni sulla terra dopo il diluvio. Tutta la terra av eva un’unica lingua e uniche parole. Emigrando dall’oriente gli uomini capitarono in una pianur a nella regione di Sinar e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: «Venite facciamoci mattoni e cu ociamoli al fuoco». Il mattone servì loro da pietra e il bitume da malta. Poi dissero: «Venite cost ruiamoci una città e una torre la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome per non disperder ci su tutta la terra». Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che i figli degli uomini stavan o costruendo. Il Signore disse: «Ecco essi sono un unico popolo e hanno tutti un’unica lingua; qu esto è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile
. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro». Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per q uesto la si chiamò Babele perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra. Questa è la discendenza di Sem: Sem aveva cento anni quando gener ò Arpacsàd due anni dopo il diluvio; Sem dopo aver generato Arpacsàd visse cinquecento anni e generò figli e figlie. Arpacsàd aveva trentacinque anni quando generò Selach; Arpacsàd dopo av er generato Selach visse quattrocentotré anni e generò figli e figlie. Selach aveva trent’anni qua ndo generò Eber; Selach dopo aver generato Eber visse quattrocentotré anni e generò figli e figl ie. Eber aveva trentaquattro anni quando generò Peleg; Eber dopo aver generato Peleg visse qu attrocentotrenta anni e generò figli e figlie. Peleg aveva trent’anni quando generò Reu; Peleg d opo aver generato Reu visse duecentonove anni e generò figli e figlie. Reu aveva trentadue anni quando generò Serug; Reu dopo aver generato Serug visse duecentosette anni e generò figli e f iglie. Serug aveva trent’anni quando generò Nacor; Serug dopo aver generato Nacor visse duece
nto anni e generò figli e figlie. Nacor aveva ventinove anni quando generò Terach; Nacor dopo a ver generato Terach visse centodiciannove anni e generò figli e figlie. Terach aveva settant’anni quando generò Abram Nacor e Aran. Questa è la discendenza di Terach: Terach generò Abram Nacor e Aran; Aran generò Lot. Aran poi morì alla presenza di suo padre Terach nella sua terra n atale in Ur dei Caldei. Abram e Nacor presero moglie; la moglie di Abram si chiamava Sarài e la moglie di Nacor Milca che era figlia di Aran padre di Milca e padre di Isca. Sarài era sterile e non aveva figli. Poi Terach prese Abram suo figlio e Lot figlio di Aran figlio cioè di suo figlio, e Sarài s ua nuora moglie di Abram suo figlio e uscì con loro da Ur dei Caldei per andare nella terra di Ca naan. Arrivarono fino a Carran e vi si stabilirono. La vita di Terach fu di duecentocinque anni; Te rach morì a Carran. Il Signore disse ad Abram: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dall a casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedir ò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benedi ranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della t erra». Allora Abram partì come gli aveva ordinato il Signore e con lui partì Lot. Abram aveva sett antacinque anni quando lasciò Carran. Abram prese la moglie Sarài e Lot figlio di suo fratello e t utti i beni che avevano acquistati in Carran e tutte le persone che lì si erano procurate e si inca mminarono verso la terra di Canaan. Arrivarono nella terra di Canaan e Abram la attraversò fino alla località di Sichem presso la Quercia di Morè. Nella terra si trovavano allora i Cananei. Il Sign ore apparve ad Abram e gli disse: «Alla tua discendenza io darò questa terra». Allora Abram cos truì in quel luogo un altare al Signore che gli era apparso. Di là passò sulle montagne a oriente d i Betel e piantò la tenda avendo Betel ad occidente e Ai ad oriente. Lì costruì un altare al Signor e e invocò il nome del Signore. Poi Abram levò la tenda per andare ad accamparsi nel Negheb. V
enne una carestia nella terra e Abram scese in Egitto per soggiornarvi perché la carestia gravava su quella terra. Quando fu sul punto di entrare in Egitto disse alla moglie Sarài: «Vedi io so che tu sei donna di aspetto avvenente. Quando gli Egiziani ti vedranno penseranno: “Costei è sua m oglie” e mi uccideranno mentre lasceranno te in vita. Di’ dunque che tu sei mia sorella perché io sia trattato bene per causa tua e io viva grazie a te». Quando Abram arrivò in Egitto gli Egiziani videro che la donna era molto avvenente. La osservarono gli ufficiali del faraone e ne fecero le l odi al faraone; così la donna fu presa e condotta nella casa del faraone. A causa di lei egli trattò bene Abram, che ricevette greggi e armenti e asini schiavi e schiave asine e cammelli. Ma il Sign ore colpì il faraone e la sua casa con grandi calamità per il fatto di Sarài moglie di Abram. Allora il faraone convocò Abram e gli disse: «Che mi hai fatto? Perché non mi hai dichiarato che era tu a moglie? Perché hai detto: “è mia sorella” così che io me la sono presa in moglie? E ora eccoti t ua moglie: prendila e vattene!». Poi il faraone diede disposizioni su di lui ad alcuni uomini che lo allontanarono insieme con la moglie e tutti i suoi averi. Dall’Egitto Abram risalì nel Negheb con la moglie e tutti i suoi averi; Lot era con lui. Abram era molto ricco in bestiame argento e oro. A bram si spostò a tappe dal Negheb fino a Betel fino al luogo dov’era già prima la sua tenda tra B
etel e Ai il luogo dove prima aveva costruito l’altare: lì Abram invocò il nome del Signore. Ma an
che Lot che accompagnava Abram aveva greggi e armenti e tende e il territorio non consentiva che abitassero insieme perché avevano beni troppo grandi e non potevano abitare insieme. Per questo sorse una lite tra i mandriani di Abram e i mandriani di Lot. I Cananei e i Perizziti abitava no allora nella terra. Abram disse a Lot: «Non vi sia discordia tra me e te tra i miei mandriani e i tuoi perché noi siamo fratelli. Non sta forse davanti a te tutto il territorio? Sepàrati da me. Se tu vai a sinistra io andrò a destra; se tu vai a destra io andrò a sinistra». Allora Lot alzò gli occhi e v ide che tutta la valle del Giordano era un luogo irrigato da ogni parte –
prima che il Signore distruggesse Sòdoma e Gomorra –
come il giardino del Signore come la terra d’Egitto fino a Soar. Lot scelse per sé tutta la valle del Giordano e trasportò le tende verso oriente. Così si separarono l’uno dall’altro: Abram si stabilì nella terra di Canaan e Lot si stabilì nelle città della valle e piantò le tende vicino a Sòdoma. Ora gli uomini di Sòdoma erano malvagi e peccavano molto contro il Signore. Allora il Signore disse ad Abram dopo che Lot si era separato da lui: «Alza gli occhi e dal luogo dove tu stai spingi lo sg uardo verso il settentrione e il mezzogiorno verso l’oriente e l’occidente. Tutta la terra che tu ve di io la darò a te e alla tua discendenza per sempre. Renderò la tua discendenza come la polvere della terra: se uno può contare la polvere della terra potrà contare anche i tuoi discendenti. àlz ati, percorri la terra in lungo e in largo perché io la darò a te». Poi Abram si spostò con le sue te nde e andò a stabilirsi alle Querce di Mamre che sono ad Ebron e vi costruì un altare al Signore.
Al tempo di Amrafèl re di Sinar di Ariòc re di Ellasàr di Chedorlaòmer re dell’Elam e di Tidal re di Goìm costoro mossero guerra contro Bera re di Sòdoma Birsa re di Gomorra Sinab re di Adma S
emeber re di Seboìm e contro il re di Bela cioè Soar. Tutti questi si concentrarono nella valle di S
iddìm, cioè del Mar Morto. Per dodici anni essi erano stati sottomessi a Chedorlaòmer, ma il tre dicesimo anno si erano ribellati. Nell’anno quattordicesimo arrivarono Chedorlaòmer e i re che erano con lui e sconfissero i Refaìm ad Astarot-Karnàim gli Zuzìm ad Am gli Emìm a Save-Kiriatàim e gli Urriti sulle montagne di Seir fino a El-
Paran che è presso il deserto. Poi mutarono direzione e vennero a En-Mispàt cioè Kades e devastarono tutto il territorio degli Amaleciti e anche degli Amorrei che abi tavano a Casesòn-Tamar. Allora il re di Sòdoma il re di Gomorra il re di Adma il re di Seboìm e il re di Bela cioè Soa r uscirono e si schierarono a battaglia nella valle di Siddìm contro di essi cioè contro Chedorlaò mer re dell’Elam, Tidal re di Goìm Amrafèl re di Sinar e Ariòc re di Ellasàr: quattro re contro cinq ue. La valle di Siddìm era piena di pozzi di bitume; messi in fuga il re di Sòdoma e il re di Gomorr a vi caddero dentro mentre gli altri fuggirono sulla montagna. Gli invasori presero tutti i beni di Sòdoma e Gomorra e tutti i loro viveri e se ne andarono. Prima di andarsene catturarono anche Lot figlio del fratello di Abram e i suoi beni: egli risiedeva appunto a Sòdoma. Ma un fuggiasco v enne ad avvertire Abram l’Ebreo che si trovava alle Querce di Mamre l’Amorreo fratello di Escol e fratello di Aner i quali erano alleati di Abram. Quando Abram seppe che suo fratello era stato preso prigioniero organizzò i suoi uomini esperti nelle armi, schiavi nati nella sua casa in numer
o di trecentodiciotto e si diede all’inseguimento fino a Dan. Fece delle squadre lui e i suoi servi c ontro di loro li sconfisse di notte e li inseguì fino a Coba a settentrione di Damasco. Recuperò co sì tutti i beni e anche Lot suo fratello i suoi beni con le donne e il popolo. Quando Abram fu di ri torno dopo la sconfitta di Chedorlaòmer e dei re che erano con lui il re di Sòdoma gli uscì incont ro nella valle di Save cioè la valle del Re. Intanto Melchìsedek re di Salem offrì pane e vino: era s acerdote del Dio altissimo e benedisse Abram con queste parole: «Sia benedetto Abram dal Dio altissimo, creatore del cielo e della terra, e benedetto sia il Dio altissimo, che ti ha messo in man o i tuoi nemici». Ed egli diede a lui la decima di tutto. Il re di Sòdoma disse ad Abram: «Dammi l e persone; i beni prendili per te». Ma Abram disse al re di Sòdoma: «Alzo la mano davanti al Sig nore il Dio altissimo creatore del cielo e della terra: né un filo né un legaccio di sandalo niente io prenderò di ciò che è tuo; non potrai dire: io ho arricchito Abram. Per me niente se non quello che i servi hanno mangiato; quanto a ciò che spetta agli uomini che sono venuti con me Aner Es col e Mamre essi stessi si prendano la loro parte». Dopo tali fatti fu rivolta ad Abram in visione questa parola del Signore: «Non temere Abram. Io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà mo lto grande». Rispose Abram: «Signore Dio che cosa mi darai? Io me ne vado senza figli e l’erede della mia casa è Elièzer di Damasco». Soggiunse Abram: «Ecco a me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà mio erede». Ed ecco gli fu rivolta questa parola dal Signore: «Non sarà c ostui il tuo erede ma uno nato da te sarà il tuo erede». Poi lo condusse fuori e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle se riesci a contarle» e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza». Egli cr edette al Signore che glielo accreditò come giustizia. E gli disse: «Io sono il Signore che ti ho fatt o uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questa terra». Rispose: «Signore Dio come potrò s apere che ne avrò il possesso?». Gli disse: «Prendimi una giovenca di tre anni una capra di tre a nni un ariete di tre anni una tortora e un colombo». Andò a prendere tutti questi animali li divis e in due e collocò ogni metà di fronte all’altra; non divise però gli uccelli. Gli uccelli rapaci calaro no su quei cadaveri ma Abram li scacciò. Mentre il sole stava per tramontare un torpore cadde s u Abram ed ecco terrore e grande oscurità lo assalirono. Allora il Signore disse ad Abram: «Sapp i che i tuoi discendenti saranno forestieri in una terra non loro; saranno fatti schiavi e saranno o ppressi per quattrocento anni. Ma la nazione che essi avranno servito la giudicherò io: dopo ess i usciranno con grandi ricchezze. Quanto a te andrai in pace presso i tuoi padri; sarai sepolto do po una vecchiaia felice. Alla quarta generazione torneranno qui perché l’iniquità degli Amorrei n on ha ancora raggiunto il colmo». Quando tramontato il sole si era fatto buio fitto ecco un braci ere fumante e una fiaccola ardente passare in mezzo agli animali divisi. In quel giorno il Signore concluse quest’alleanza con Abram: «Alla tua discendenza io do questa terra, dal fiume d’Egitto al grande fiume il fiume Eufrate; la terra dove abitano i Keniti i Kenizziti i Kadmoniti gli Ittiti i Per izziti i Refaìm gli Amorrei i Cananei i Gergesei e i Gebusei». Sarài moglie di Abram non gli aveva dato figli. Avendo però una schiava egiziana chiamata Agar Sarài disse ad Abram: «Ecco il Signor e mi ha impedito di aver prole; unisciti alla mia schiava: forse da lei potrò avere figli». Abram as coltò l’invito di Sarài. Così al termine di dieci anni da quando Abram abitava nella terra di Canaa
n Sarài moglie di Abram prese Agar l’Egiziana sua schiava e la diede in moglie ad Abram suo mar ito. Egli si unì ad Agar che restò incinta. Ma quando essa si accorse di essere incinta la sua padro na non contò più nulla per lei. Allora Sarài disse ad Abram: «L’offesa a me fatta ricada su di te! I o ti ho messo in grembo la mia schiava ma da quando si è accorta d’essere incinta io non conto più niente per lei. Il Signore sia giudice tra me e te!». Abram disse a Sarài: «Ecco la tua schiava è in mano tua: trattala come ti piace». Sarài allora la maltrattò tanto che quella fuggì dalla sua pr esenza. La trovò l’angelo del Signore presso una sorgente d’acqua nel deserto la sorgente sulla s trada di Sur, e le disse: «Agar schiava di Sarài da dove vieni e dove vai?». Rispose: «Fuggo dalla presenza della mia padrona Sarài». Le disse l’angelo del Signore: «Ritorna dalla tua padrona e re stale sottomessa». Le disse ancora l’angelo del Signore: «Moltiplicherò la tua discendenza e non si potrà contarla tanto sarà numerosa». Soggiunse poi l’angelo del Signore: «Ecco sei incinta: p artorirai un figlio e lo chiamerai Ismaele, perché il Signore ha udito il tuo lamento. Egli sarà com e un asino selvatico; la sua mano sarà contro tutti e la mano di tutti contro di lui, e abiterà di fro nte a tutti i suoi fratelli». Agar al Signore che le aveva parlato diede questo nome: «Tu sei il Dio della visione» perché diceva: «Non ho forse visto qui colui che mi vede?». Per questo il pozzo si chiamò pozzo di Lacai-Roì è appunto quello che si trova tra Kades e Bered. Agar partorì ad Abram un figlio e Abram chi amò Ismaele il figlio che Agar gli aveva partorito. Abram aveva ottantasei anni quando Agar gli p artorì Ismaele. Quando Abram ebbe novantanove anni il Signore gli apparve e gli disse: «Io sono Dio l’Onnipotente: cammina davanti a me e sii integro. Porrò la mia alleanza tra me e te e ti ren derò molto molto numeroso». Subito Abram si prostrò con il viso a terra e Dio parlò con lui: «Q
uanto a me ecco la mia alleanza è con te: diventerai padre di una moltitudine di nazioni. Non ti chiamerai più Abram, ma ti chiamerai Abramo, perché padre di una moltitudine di nazioni ti ren derò. E ti renderò molto molto fecondo; ti farò diventare nazioni e da te usciranno dei re. Stabili rò la mia alleanza con te e con la tua discendenza dopo di te di generazione in generazione com e alleanza perenne per essere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te. La terra dove sei for estiero tutta la terra di Canaan la darò in possesso per sempre a te e alla tua discendenza dopo di te; sarò il loro Dio». Disse Dio ad Abramo: «Da parte tua devi osservare la mia alleanza tu e la tua discendenza dopo di te di generazione in generazione. Questa è la mia alleanza che dovete osservare alleanza tra me e voi e la tua discendenza dopo di te: sia circonciso tra voi ogni masch io. Vi lascerete circoncidere la carne del vostro prepuzio e ciò sarà il segno dell’alleanza tra me e voi. Quando avrà otto giorni sarà circonciso tra voi ogni maschio di generazione in generazione sia quello nato in casa sia quello comprato con denaro da qualunque straniero che non sia della tua stirpe. Deve essere circonciso chi è nato in casa e chi viene comprato con denaro; così la mi a alleanza sussisterà nella vostra carne come alleanza perenne. Il maschio non circonciso di cui c ioè non sarà stata circoncisa la carne del prepuzio sia eliminato dal suo popolo: ha violato la mia alleanza». Dio aggiunse ad Abramo: «Quanto a Sarài tua moglie non la chiamerai più Sarài ma S
ara. Io la benedirò e anche da lei ti darò un figlio; la benedirò e diventerà nazioni e re di popoli
nasceranno da lei». Allora Abramo si prostrò con la faccia a terra e rise e pensò: «A uno di cento anni può nascere un figlio? E Sara all’età di novant’anni potrà partorire?». Abramo disse a Dio:
«Se almeno Ismaele potesse vivere davanti a te!». E Dio disse: «No Sara tua moglie ti partorirà un figlio e lo chiamerai Isacco. Io stabilirò la mia alleanza con lui come alleanza perenne per ess ere il Dio suo e della sua discendenza dopo di lui. Anche riguardo a Ismaele io ti ho esaudito: ec co io lo benedico e lo renderò fecondo e molto molto numeroso: dodici prìncipi egli genererà e di lui farò una grande nazione. Ma stabilirò la mia alleanza con Isacco che Sara ti partorirà a que sta data l’anno venturo». Dio terminò così di parlare con lui e lasciò Abramo levandosi in alto. Al lora Abramo prese Ismaele suo figlio e tutti i nati nella sua casa e tutti quelli comprati con il suo denaro tutti i maschi appartenenti al personale della casa di Abramo e circoncise la carne del lor o prepuzio in quello stesso giorno come Dio gli aveva detto. Abramo aveva novantanove anni q uando si fece circoncidere la carne del prepuzio. Ismaele suo figlio aveva tredici anni quando gli fu circoncisa la carne del prepuzio. In quello stesso giorno furono circoncisi Abramo e Ismaele s uo figlio. E tutti gli uomini della sua casa quelli nati in casa e quelli comprati con denaro dagli str anieri furono circoncisi con lui. Poi il Signore apparve a lui alle Querce di Mamre mentre egli sed eva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si pro strò fino a terra dicendo: «Mio signore se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senz a fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po’ d’acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sott o l’albero. Andrò a prendere un boccone di pane e ristoratevi; dopo potrete proseguire perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo». Quelli dissero: «Fa’ pure come hai dett o». Allora Abramo andò in fretta nella tenda da Sara e disse: «Presto tre sea di fior di farina imp astala e fanne focacce». All’armento corse lui stesso Abramo; prese un vitello tenero e buono e lo diede al servo che si affrettò a prepararlo. Prese panna e latte fresco insieme con il vitello che aveva preparato e li porse loro. Così mentre egli stava in piedi presso di loro sotto l’albero quell i mangiarono. Poi gli dissero: «Dov’è Sara tua moglie?». Rispose: «è là nella tenda». Riprese: «T
ornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara tua moglie avrà un figlio». Intanto Sara stav a ad ascoltare all’ingresso della tenda dietro di lui. Abramo e Sara erano vecchi avanti negli anni
; era cessato a Sara ciò che avviene regolarmente alle donne. Allora Sara rise dentro di sé e diss e: «Avvizzita come sono dovrei provare il piacere mentre il mio signore è vecchio!». Ma il Signor e disse ad Abramo: «Perché Sara ha riso dicendo: “Potrò davvero partorire mentre sono vecchia
”? C’è forse qualche cosa d’impossibile per il Signore? Al tempo fissato tornerò da te tra un ann o e Sara avrà un figlio». Allora Sara negò: «Non ho riso!» perché aveva paura; ma egli disse: «Sì hai proprio riso». Quegli uomini si alzarono e andarono a contemplare Sòdoma dall’alto mentre Abramo li accompagnava per congedarli. Il Signore diceva: «Devo io tenere nascosto ad Abramo quello che sto per fare mentre Abramo dovrà diventare una nazione grande e potente e in lui si diranno benedette tutte le nazioni della terra? Infatti io l’ho scelto perché egli obblighi i suoi fig li e la sua famiglia dopo di lui a osservare la via del Signore e ad agire con giustizia e diritto perc
hé il Signore compia per Abramo quanto gli ha promesso». Disse allora il Signore: «Il grido di Sò doma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave. Voglio scendere a vedere se p roprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere!». Quegli uomi ni partirono di là e andarono verso Sòdoma mentre Abramo stava ancora alla presenza del Sign ore. Abramo gli si avvicinò e gli disse: «Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per rigua rdo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lontano da te il far morire il giusto con l’empio così ch e il giusto sia trattato come l’empio; lontano da te! Forse il giudice di tutta la terra non pratiche rà la giustizia?». Rispose il Signore: «Se a Sòdoma troverò cinquanta giusti nell’ambito della citt à per riguardo a loro perdonerò a tutto quel luogo». Abramo riprese e disse: «Vedi come ardisc o parlare al mio Signore io che sono polvere e cenere: forse ai cinquanta giusti ne mancheranno cinque; per questi cinque distruggerai tutta la città?». Rispose: «Non la distruggerò se ve ne tro verò quarantacinque». Abramo riprese ancora a parlargli e disse: «Forse là se ne troveranno qu aranta». Rispose: «Non lo farò per riguardo a quei quaranta». Riprese: «Non si adiri il mio Signo re se parlo ancora: forse là se ne troveranno trenta». Rispose: «Non lo farò se ve ne troverò tre nta». Riprese: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore! Forse là se ne troveranno venti». Risp ose: «Non la distruggerò per riguardo a quei venti». Riprese: «Non si adiri il mio Signore se parl o ancora una volta sola: forse là se ne troveranno dieci». Rispose: «Non la distruggerò per rigua rdo a quei dieci». Come ebbe finito di parlare con Abramo il Signore se ne andò e Abramo ritorn ò alla sua abitazione. I due angeli arrivarono a Sòdoma sul far della sera mentre Lot stava sedut o alla porta di Sòdoma. Non appena li ebbe visti Lot si alzò andò loro incontro e si prostrò con la faccia a terra. E disse: «Miei signori venite in casa del vostro servo: vi passerete la notte vi laver ete i piedi e poi domattina per tempo ve ne andrete per la vostra strada». Quelli risposero: «No passeremo la notte sulla piazza». Ma egli insistette tanto che vennero da lui ed entrarono nella sua casa. Egli preparò per loro un banchetto fece cuocere pani azzimi e così mangiarono. Non si erano ancora coricati quand’ecco gli uomini della città cioè gli abitanti di Sòdoma si affollarono attorno alla casa giovani e vecchi tutto il popolo al completo. Chiamarono Lot e gli dissero: «Do ve sono quegli uomini che sono entrati da te questa notte? Falli uscire da noi perché possiamo abusarne!». Lot uscì verso di loro sulla soglia e dopo aver chiuso la porta dietro di sé disse: «No fratelli miei non fate del male! Sentite io ho due figlie che non hanno ancora conosciuto uomo; l asciate che ve le porti fuori e fate loro quel che vi piace purché non facciate nulla a questi uomi ni, perché sono entrati all’ombra del mio tetto». Ma quelli risposero: «Tìrati via! Quest’individu o è venuto qui come straniero e vuol fare il giudice! Ora faremo a te peggio che a loro!». E sping endosi violentemente contro quell’uomo cioè contro Lot si fecero avanti per sfondare la porta.
Allora dall’interno quegli uomini sporsero le mani si trassero in casa Lot e chiusero la porta; colp irono di cecità gli uomini che erano all’ingresso della casa dal più piccolo al più grande così che non riuscirono a trovare la porta. Quegli uomini dissero allora a Lot: «Chi hai ancora qui? Il gene ro i tuoi figli le tue figlie e quanti hai in città falli uscire da questo luogo. Perché noi stiamo per d
istruggere questo luogo: il grido innalzato contro di loro davanti al Signore è grande e il Signore ci ha mandato a distruggerli». Lot uscì a parlare ai suoi generi che dovevano sposare le sue figlie e disse: «Alzatevi uscite da questo luogo perché il Signore sta per distruggere la città!». Ai suoi generi sembrò che egli volesse scherzare. Quando apparve l’alba gli angeli fecero premura a Lot dicendo: «Su prendi tua moglie e le tue due figlie che hai qui per non essere travolto nel castig o della città». Lot indugiava ma quegli uomini presero per mano lui sua moglie e le sue due figli e per un grande atto di misericordia del Signore verso di lui; lo fecero uscire e lo condussero fuo ri della città. Dopo averli condotti fuori uno di loro disse: «Fuggi per la tua vita. Non guardare in dietro e non fermarti dentro la valle: fuggi sulle montagne per non essere travolto!». Ma Lot gli disse: «No mio signore! Vedi il tuo servo ha trovato grazia ai tuoi occhi e tu hai usato grande bo ntà verso di me salvandomi la vita ma io non riuscirò a fuggire sul monte senza che la sciagura mi raggiunga e io muoia. Ecco quella città: è abbastanza vicina perché mi possa rifugiare là ed è piccola cosa! Lascia che io fugga lassù – non è una piccola cosa? –
e così la mia vita sarà salva». Gli rispose: «Ecco ti ho favorito anche in questo di non distrugger e la città di cui hai parlato. Presto fuggi là perché io non posso far nulla finché tu non vi sia arriv ato». Perciò quella città si chiamò Soar. Il sole spuntava sulla terra e Lot era arrivato a Soar qua nd’ecco il Signore fece piovere dal cielo sopra Sòdoma e sopra Gomorra zolfo e fuoco provenien ti dal Signore. Distrusse queste città e tutta la valle con tutti gli abitanti delle città e la vegetazio ne del suolo. Ora la moglie di Lot guardò indietro e divenne una statua di sale. Abramo andò di buon mattino al luogo dove si era fermato alla presenza del Signore; contemplò dall’alto Sòdom a e Gomorra e tutta la distesa della valle e vide che un fumo saliva dalla terra come il fumo di u na fornace. Così quando distrusse le città della valle Dio si ricordò di Abramo e fece sfuggire Lot alla catastrofe mentre distruggeva le città nelle quali Lot aveva abitato. Poi Lot partì da Soar e a ndò ad abitare sulla montagna con le sue due figlie, perché temeva di restare a Soar e si stabilì i n una caverna con le sue due figlie. Ora la maggiore disse alla più piccola: «Nostro padre è vecc hio e non c’è nessuno in questo territorio per unirsi a noi come avviene dappertutto. Vieni facci amo bere del vino a nostro padre e poi corichiamoci con lui così daremo vita a una discendenza da nostro padre». Quella notte fecero bere del vino al loro padre e la maggiore andò a coricarsi con il padre; ma egli non se ne accorse né quando lei si coricò né quando lei si alzò. All’indoman i la maggiore disse alla più piccola: «Ecco ieri io mi sono coricata con nostro padre: facciamogli bere del vino anche questa notte e va’ tu a coricarti con lui; così daremo vita a una discendenza da nostro padre». Anche quella notte fecero bere del vino al loro padre e la più piccola andò a c oricarsi con lui; ma egli non se ne accorse né quando lei si coricò né quando lei si alzò. Così le du e figlie di Lot rimasero incinte del loro padre. La maggiore partorì un figlio e lo chiamò Moab. Co stui è il padre dei Moabiti che esistono ancora oggi. Anche la più piccola partorì un figlio e lo chi amò «Figlio del mio popolo». Costui è il padre degli Ammoniti che esistono ancora oggi. Abramo levò le tende dirigendosi nella regione del Negheb e si stabilì tra Kades e Sur; poi soggiornò co me straniero a Gerar. Siccome Abramo aveva detto della moglie Sara: «è mia sorella» Abimèlec
re di Gerar mandò a prendere Sara. Ma Dio venne da Abimèlec di notte in sogno e gli disse: «Ec co stai per morire a causa della donna che tu hai preso; lei appartiene a suo marito». Abimèlec che non si era ancora accostato a lei disse: «Mio Signore vuoi far morire una nazione anche se g iusta? Non è stato forse lui a dirmi: “è mia sorella”? E anche lei ha detto: “è mio fratello”. Con c uore retto e mani innocenti mi sono comportato in questo modo». Gli rispose Dio nel sogno: «S
o bene che hai agito così con cuore retto e ti ho anche impedito di peccare contro di me: perciò non ho permesso che tu la toccassi. Ora restituisci la donna di quest’uomo perché è un profeta: pregherà per te e tu vivrai. Ma se tu non la restituisci sappi che meriterai la morte con tutti i tuo i». Allora Abimèlec si alzò di mattina presto e chiamò tutti i suoi servi ai quali riferì tutte queste cose e quegli uomini si impaurirono molto. Poi Abimèlec chiamò Abramo e gli disse: «Che cosa c i hai fatto? E che colpa ho commesso contro di te perché tu abbia esposto me e il mio regno a u n peccato tanto grande? Tu hai fatto a mio riguardo azioni che non si fanno». Poi Abimèlec diss e ad Abramo: «A che cosa miravi agendo in tal modo?». Rispose Abramo: «Io mi sono detto: cer to non vi sarà timor di Dio in questo luogo e mi uccideranno a causa di mia moglie. Inoltre ella è veramente mia sorella figlia di mio padre ma non figlia di mia madre ed è divenuta mia moglie.
Quando Dio mi ha fatto andare errando lungi dalla casa di mio padre io le dissi: “Questo è il fav ore che tu mi farai: in ogni luogo dove noi arriveremo dirai di me: è mio fratello”». Allora Abimè lec prese greggi e armenti schiavi e schiave li diede ad Abramo e gli restituì la moglie Sara. Inoltr e Abimèlec disse: «Ecco davanti a te il mio territorio: va’ ad abitare dove ti piace!». A Sara disse:
«Ecco ho dato mille pezzi d’argento a tuo fratello: sarà per te come un risarcimento di fronte a quanti sono con te. Così tu sei in tutto riabilitata». Abramo pregò Dio e Dio guarì Abimèlec sua moglie e le sue serve sì che poterono ancora aver figli. Il Signore infatti aveva reso sterili tutte le donne della casa di Abimèlec per il fatto di Sara moglie di Abramo. Il Signore visitò Sara come a veva detto e fece a Sara come aveva promesso. Sara concepì e partorì ad Abramo un figlio nella vecchiaia nel tempo che Dio aveva fissato. Abramo chiamò Isacco il figlio che gli era nato che Sa ra gli aveva partorito. Abramo circoncise suo figlio Isacco quando questi ebbe otto giorni come Dio gli aveva comandato. Abramo aveva cento anni quando gli nacque il figlio Isacco. Allora Sara disse: «Motivo di lieto riso mi ha dato Dio: chiunque lo saprà riderà lietamente di me!». Poi diss e: «Chi avrebbe mai detto ad Abramo che Sara avrebbe allattato figli? Eppure gli ho partorito un figlio nella sua vecchiaia!». Il bambino crebbe e fu svezzato e Abramo fece un grande banchett o quando Isacco fu svezzato. Ma Sara vide che il figlio di Agar l’Egiziana quello che lei aveva part orito ad Abramo, scherzava con il figlio Isacco. Disse allora ad Abramo: «Scaccia questa schiava e suo figlio perché il figlio di questa schiava non deve essere erede con mio figlio Isacco». La cos a sembrò un gran male agli occhi di Abramo a motivo di suo figlio. Ma Dio disse ad Abramo: «N
on sembri male ai tuoi occhi questo riguardo al fanciullo e alla tua schiava: ascolta la voce di Sar a in tutto quello che ti dice perché attraverso Isacco da te prenderà nome una stirpe. Ma io farò diventare una nazione anche il figlio della schiava perché è tua discendenza». Abramo si alzò di buon mattino prese il pane e un otre d’acqua e li diede ad Agar caricandoli sulle sue spalle; le co
nsegnò il fanciullo e la mandò via. Ella se ne andò e si smarrì per il deserto di Bersabea. Tutta l’a cqua dell’otre era venuta a mancare. Allora depose il fanciullo sotto un cespuglio e andò a sede rsi di fronte, alla distanza di un tiro d’arco perché diceva: «Non voglio veder morire il fanciullo!»
. Sedutasi di fronte alzò la voce e pianse. Dio udì la voce del fanciullo e un angelo di Dio chiamò Agar dal cielo e le disse: «Che hai Agar? Non temere perché Dio ha udito la voce del fanciullo là dove si trova. àlzati prendi il fanciullo e tienilo per mano perché io ne farò una grande nazione».
Dio le aprì gli occhi ed ella vide un pozzo d’acqua. Allora andò a riempire l’otre e diede da bere al fanciullo. E Dio fu con il fanciullo che crebbe e abitò nel deserto e divenne un tiratore d’arco.
Egli abitò nel deserto di Paran e sua madre gli prese una moglie della terra d’Egitto. In quel tem po Abimèlec con Picol capo del suo esercito disse ad Abramo: «Dio è con te in quello che fai. Eb bene giurami qui per Dio che tu non ingannerai né me né la mia prole né i miei discendenti: co me io ho agito lealmente con te così tu agirai con me e con la terra nella quale sei ospitato». Ris pose Abramo: «Io lo giuro». Ma Abramo rimproverò Abimèlec a causa di un pozzo d’acqua, che i servi di Abimèlec avevano usurpato. Abimèlec disse: «Io non so chi abbia fatto questa cosa: né tu me ne hai informato né io ne ho sentito parlare prima d’oggi». Allora Abramo prese alcuni ca pi del gregge e dell’armento e li diede ad Abimèlec: tra loro due conclusero un’alleanza. Poi Abr amo mise in disparte sette agnelle del gregge. Abimèlec disse ad Abramo: «Che significano quell e sette agnelle che hai messo in disparte?». Rispose: «Tu accetterai queste sette agnelle dalla m ia mano perché ciò mi valga di testimonianza che ho scavato io questo pozzo». Per questo quel l uogo si chiamò Bersabea perché là fecero giuramento tutti e due. E dopo che ebbero concluso l’
alleanza a Bersabea, Abimèlec si alzò con Picol capo del suo esercito e ritornarono nel territorio dei Filistei. Abramo piantò un tamerisco a Bersabea e lì invocò il nome del Signore, Dio dell’eter nità. E visse come forestiero nel territorio dei Filistei per molto tempo. Dopo queste cose Dio mi se alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Prendi tuo figlio il tu o unigenito che ami Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che i o ti indicherò». Abramo si alzò di buon mattino sellò l’asino prese con sé due servi e il figlio Isac co spaccò la legna per l’olocausto e si mise in viaggio verso il luogo che Dio gli aveva indicato. Il terzo giorno Abramo alzò gli occhi e da lontano vide quel luogo. Allora Abramo disse ai suoi serv i: «Fermatevi qui con l’asino; io e il ragazzo andremo fin lassù ci prostreremo e poi ritorneremo da voi». Abramo prese la legna dell’olocausto e la caricò sul figlio Isacco prese in mano il fuoco e il coltello poi proseguirono tutti e due insieme. Isacco si rivolse al padre Abramo e disse: «Pad re mio!». Rispose: «Eccomi figlio mio». Riprese: «Ecco qui il fuoco e la legna ma dov’è l’agnello per l’olocausto?». Abramo rispose: «Dio stesso si provvederà l’agnello per l’olocausto figlio mio
!». Proseguirono tutti e due insieme. Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abr amo costruì l’altare collocò la legna legò suo figlio Isacco e lo depose sull’altare sopra la legna. P
oi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l’angelo del Signore lo ch iamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». L’angelo disse: «Non stende re la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo
figlio il tuo unigenito». Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato con le corna in u n cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio. Abramo chi amò quel luogo «Il Signore vede» perciò oggi si dice: «Sul monte il Signore si fa vedere». L’angel o del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso oracol o del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio il tuo unigenito io ti col merò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza come le stelle del cielo e co me la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra perché tu hai obbedito alla mia voce». Abramo tornò dai suoi servi; insieme si misero in cammino verso Bersabea e Abram o abitò a Bersabea. Dopo queste cose fu annunciato ad Abramo che anche Milca aveva partorit o figli a Nacor suo fratello: Us il primogenito e suo fratello Buz e Kemuèl il padre di Aram, e Ches ed Azo Pildas Idlaf e Betuèl. Betuèl generò Rebecca. Milca partorì questi otto figli a Nacor fratell o di Abramo. Anche la sua concubina chiamata Reumà partorì figli: Tebach Gacam Tacas e Maac à. Gli anni della vita di Sara furono centoventisette: questi furono gli anni della vita di Sara. Sara morì a Kiriat-Arbà cioè Ebron nella terra di Canaan e Abramo venne a fare il lamento per Sara e a piangerla. P
oi Abramo si staccò dalla salma e parlò agli Ittiti: «Io sono forestiero e di passaggio in mezzo a v oi. Datemi la proprietà di un sepolcro in mezzo a voi perché io possa portar via il morto e seppel lirlo». Allora gli Ittiti risposero ad Abramo dicendogli: «Ascolta noi, piuttosto signore. Tu sei un p rincipe di Dio in mezzo a noi: seppellisci il tuo morto nel migliore dei nostri sepolcri. Nessuno di noi ti proibirà di seppellire il tuo morto nel suo sepolcro». Abramo si alzò si prostrò davanti al p opolo della regione davanti agli Ittiti, e parlò loro: «Se è secondo il vostro desiderio che io porti via il mio morto e lo seppellisca ascoltatemi e insistete per me presso Efron figlio di Socar, perch é mi dia la sua caverna di Macpela che è all’estremità del suo campo. Me la ceda per il suo prezz o intero come proprietà sepolcrale in mezzo a voi». Ora Efron stava seduto in mezzo agli Ittiti. E
fron l’Ittita rispose ad Abramo mentre lo ascoltavano gli Ittiti quanti erano convenuti alla porta della sua città e disse: «Ascolta me piuttosto mio signore: ti cedo il campo con la caverna che vi si trova, in presenza dei figli del mio popolo te la cedo: seppellisci il tuo morto». Allora Abramo si prostrò a lui alla presenza del popolo della regione. Parlò a Efron, mentre lo ascoltava il popol o della regione e disse: «Se solo mi volessi ascoltare: io ti do il prezzo del campo. Accettalo da m e così là seppellirò il mio morto». Efron rispose ad Abramo: «Ascolta me piuttosto mio signore: un terreno del valore di quattrocento sicli d’argento che cosa è mai tra me e te? Seppellisci dun que il tuo morto». Abramo accettò le richieste di Efron e Abramo pesò a Efron il prezzo che que sti aveva detto mentre lo ascoltavano gli Ittiti cioè quattrocento sicli d’argento secondo la misur a in corso sul mercato. Così il campo di Efron che era a Macpela di fronte a Mamre il campo e la caverna che vi si trovava e tutti gli alberi che erano dentro il campo e intorno al suo limite passa rono in proprietà ad Abramo alla presenza degli Ittiti di quanti erano convenuti alla porta della c ittà. Poi Abramo seppellì Sara sua moglie nella caverna del campo di Macpela di fronte a Mamre
cioè Ebron nella terra di Canaan. Il campo e la caverna che vi si trovava passarono dagli Ittiti ad Abramo in proprietà sepolcrale. Abramo era ormai vecchio avanti negli anni e il Signore lo avev a benedetto in tutto. Allora Abramo disse al suo servo il più anziano della sua casa che aveva po tere su tutti i suoi beni: «Metti la mano sotto la mia coscia e ti farò giurare per il Signore Dio del cielo e Dio della terra che non prenderai per mio figlio una moglie tra le figlie dei Cananei, in m ezzo ai quali abito ma che andrai nella mia terra tra la mia parentela a scegliere una moglie per mio figlio Isacco». Gli disse il servo: «Se la donna non mi vuol seguire in questa terra dovrò forse ricondurre tuo figlio alla terra da cui tu sei uscito?». Gli rispose Abramo: «Guàrdati dal ricondur re là mio figlio! Il Signore Dio del cielo e Dio della terra che mi ha preso dalla casa di mio padre e dalla mia terra natia che mi ha parlato e mi ha giurato: “Alla tua discendenza darò questa terra
”, egli stesso manderà il suo angelo davanti a te perché tu possa prendere di là una moglie per mio figlio. Se la donna non vorrà seguirti allora sarai libero dal giuramento a me fatto; ma non d evi ricondurre là mio figlio». Il servo mise la mano sotto la coscia di Abramo suo padrone e gli pr estò così il giuramento richiesto. Il servo prese dieci cammelli del suo padrone e portando ogni sorta di cose preziose del suo padrone si mise in viaggio e andò in Aram Naharàim alla città di N
acor. Fece inginocchiare i cammelli fuori della città presso il pozzo d’acqua, nell’ora della sera q uando le donne escono ad attingere. E disse: «Signore Dio del mio padrone Abramo concedimi un felice incontro quest’oggi e usa bontà verso il mio padrone Abramo! Ecco io sto presso la fon te dell’acqua mentre le figlie degli abitanti della città escono per attingere acqua. Ebbene la rag azza alla quale dirò: “Abbassa l’anfora e lasciami bere” e che risponderà: “Bevi anche ai tuoi ca mmelli darò da bere” sia quella che tu hai destinato al tuo servo Isacco; da questo riconoscerò c he tu hai usato bontà verso il mio padrone». Non aveva ancora finito di parlare quand’ecco Reb ecca che era figlia di Betuèl figlio di Milca moglie di Nacor fratello di Abramo usciva con l’anfora sulla spalla. La giovinetta era molto bella d’aspetto era vergine nessun uomo si era unito a lei. El la scese alla sorgente riempì l’anfora e risalì. Il servo allora le corse incontro e disse: «Fammi ber e un po’ d’acqua dalla tua anfora». Rispose: «Bevi mio signore». In fretta calò l’anfora sul bracci o e lo fece bere. Come ebbe finito di dargli da bere disse: «Anche per i tuoi cammelli ne attinger ò finché non avranno finito di bere». In fretta vuotò l’anfora nell’abbeveratoio corse di nuovo a d attingere al pozzo e attinse per tutti i cammelli di lui. Intanto quell’uomo la contemplava in sil enzio in attesa di sapere se il Signore avesse o no concesso buon esito al suo viaggio. Quando i c ammelli ebbero finito di bere quell’uomo prese un pendente d’oro del peso di mezzo siclo e glie lo mise alle narici e alle sue braccia mise due braccialetti del peso di dieci sicli d’oro. E disse: «Di chi sei figlia? Dimmelo. C’è posto per noi in casa di tuo padre per passarvi la notte?». Gli rispos e: «Io sono figlia di Betuèl il figlio che Milca partorì a Nacor». E soggiunse: «C’è paglia e foraggio in quantità da noi e anche posto per passare la notte». Quell’uomo si inginocchiò e si prostrò al Signore e disse: «Sia benedetto il Signore Dio del mio padrone Abramo che non ha cessato di u sare bontà e fedeltà verso il mio padrone. Quanto a me il Signore mi ha guidato sulla via fino all a casa dei fratelli del mio padrone». La giovinetta corse ad annunciare alla casa di sua madre tut
te queste cose. Ora Rebecca aveva un fratello chiamato Làbano e Làbano corse fuori da quell’uo mo al pozzo. Egli infatti visti il pendente e i braccialetti alle braccia della sorella e udite queste p arole di Rebecca sua sorella: «Così mi ha parlato quell’uomo» andò da lui che stava ancora pres so i cammelli vicino al pozzo. Gli disse: «Vieni benedetto dal Signore! Perché te ne stai fuori me ntre io ho preparato la casa e un posto per i cammelli?». Allora l’uomo entrò in casa e Làbano t olse il basto ai cammelli fornì paglia e foraggio ai cammelli e acqua per lavare i piedi a lui e ai su oi uomini. Quindi gli fu posto davanti da mangiare ma egli disse: «Non mangerò finché non avrò detto quello che devo dire». Gli risposero: «Di’ pure». E disse: «Io sono un servo di Abramo. Il S
ignore ha benedetto molto il mio padrone che è diventato potente: gli ha concesso greggi e arm enti argento e oro schiavi e schiave cammelli e asini. Sara la moglie del mio padrone quando or mai era vecchia gli ha partorito un figlio al quale egli ha dato tutti i suoi beni. E il mio padrone m i ha fatto giurare: “Non devi prendere per mio figlio una moglie tra le figlie dei Cananei in mezzo ai quali abito, ma andrai alla casa di mio padre alla mia famiglia a prendere una moglie per mio figlio”. Io dissi al mio padrone: “Forse la donna non vorrà seguirmi”. Mi rispose: “Il Signore alla c ui presenza io cammino manderà con te il suo angelo e darà felice esito al tuo viaggio così che t u possa prendere una moglie per mio figlio dalla mia famiglia e dalla casa di mio padre. Solo qua ndo sarai andato dalla mia famiglia sarai esente dalla mia maledizione; se loro non volessero ce dertela tu sarai esente dalla mia maledizione”. Così oggi sono arrivato alla fonte e ho detto: “Sig nore Dio del mio padrone Abramo se tu vorrai dare buon esito al viaggio che sto compiendo ecc o io sto presso la fonte d’acqua; ebbene la giovane che uscirà ad attingere alla quale io dirò: Fa mmi bere un po’ d’acqua dalla tua anfora e mi risponderà: Bevi tu e ne attingerò anche per i tuo i cammelli quella sarà la moglie che il Signore ha destinato al figlio del mio padrone”. Io non ave vo ancora finito di pensare a queste cose quand’ecco Rebecca uscì con l’anfora sulla spalla sces e alla fonte e attinse acqua; io allora le dissi: “Fammi bere”. Subito lei calò l’anfora e disse: “Bev i; anche ai tuoi cammelli darò da bere”. Così io bevvi ed ella diede da bere anche ai cammelli. E i o la interrogai: “Di chi sei figlia?”. Rispose: “Sono figlia di Betuèl il figlio che Milca ha partorito a Nacor”. Allora le posi il pendente alle narici e i braccialetti alle braccia. Poi mi inginocchiai e mi prostrai al Signore e benedissi il Signore Dio del mio padrone Abramo il quale mi aveva guidato per la via giusta a prendere per suo figlio la figlia del fratello del mio padrone. Ora se intendete usare bontà e fedeltà verso il mio padrone fatemelo sapere; se no fatemelo sapere ugualmente perché io mi rivolga altrove». Allora Làbano e Betuèl risposero: «La cosa procede dal Signore no n possiamo replicarti nulla né in bene né in male. Ecco Rebecca davanti a te: prendila va’ e sia la moglie del figlio del tuo padrone come ha parlato il Signore». Quando il servo di Abramo udì le l oro parole si prostrò a terra davanti al Signore. Poi il servo estrasse oggetti d’argento oggetti d’
oro e vesti e li diede a Rebecca; doni preziosi diede anche al fratello e alla madre di lei. Poi man giarono e bevvero lui e i suoi uomini e passarono la notte. Quando si alzarono alla mattina egli disse: «Lasciatemi andare dal mio padrone». Ma il fratello e la madre di lei dissero: «Rimanga la giovinetta con noi qualche tempo una decina di giorni; dopo te ne andrai». Rispose loro: «Non t
rattenetemi mentre il Signore ha concesso buon esito al mio viaggio. Lasciatemi partire per and are dal mio padrone!». Dissero allora: «Chiamiamo la giovinetta e domandiamo a lei stessa». Ch iamarono dunque Rebecca e le dissero: «Vuoi partire con quest’uomo?». Ella rispose: «Sì». Allor a essi lasciarono partire la loro sorella Rebecca con la nutrice insieme con il servo di Abramo e i suoi uomini. Benedissero Rebecca e le dissero: «Tu sorella nostra, diventa migliaia di miriadi e la tua stirpe conquisti le città dei suoi nemici!». Così Rebecca e le sue ancelle si alzarono salirono sui cammelli e seguirono quell’uomo. Il servo prese con sé Rebecca e partì. Intanto Isacco rientr ava dal pozzo di Lacai-Roì abitava infatti nella regione del Negheb. Isacco uscì sul far della sera per svagarsi in campag na e alzando gli occhi vide venire i cammelli. Alzò gli occhi anche Rebecca vide Isacco e scese su bito dal cammello. E disse al servo: «Chi è quell’uomo che viene attraverso la campagna incontr o a noi?». Il servo rispose: «è il mio padrone». Allora ella prese il velo e si coprì. Il servo raccont ò a Isacco tutte le cose che aveva fatto. Isacco introdusse Rebecca nella tenda che era stata di s ua madre Sara; si prese in moglie Rebecca e l’amò. Isacco trovò conforto dopo la morte della m adre. Abramo prese un’altra moglie che aveva nome Keturà. Ella gli partorì Zimran Ioksan Meda n Madian Isbak e Suach. Ioksan generò Saba e Dedan e i figli di Dedan furono gli Assurìm i Letusì m e i Leummìm. I figli di Madian furono Efa Efer Enoc Abidà ed Eldaà. Tutti questi sono i figli di K
eturà. Abramo diede tutti i suoi beni a Isacco. Invece ai figli delle concubine, che aveva avuto Ab ramo fece doni e mentre era ancora in vita li licenziò mandandoli lontano da Isacco suo figlio ve rso il levante nella regione orientale. L’intera durata della vita di Abramo fu di centosettantacin que anni. Poi Abramo spirò e morì in felice canizie vecchio e sazio di giorni e si riunì ai suoi ante nati. Lo seppellirono i suoi figli Isacco e Ismaele nella caverna di Macpela nel campo di Efron figli o di Socar l’Ittita di fronte a Mamre. è appunto il campo che Abramo aveva comprato dagli Ittiti: ivi furono sepolti Abramo e sua moglie Sara. Dopo la morte di Abramo Dio benedisse il figlio di l ui Isacco e Isacco abitò presso il pozzo di Lacai-Roì. Questa è la discendenza di Ismaele figlio di Abramo che gli aveva partorito Agar l’Egiziana s chiava di Sara. Questi sono i nomi dei figli d’Ismaele con il loro elenco in ordine di generazione: i l primogenito di Ismaele è Nebaiòt poi Kedar Adbeèl, Mibsam Misma Duma Massa Adad Tema I etur Nafis e Kedma. Questi sono i figli di Ismaele e questi sono i loro nomi secondo i loro recinti e accampamenti. Sono i dodici prìncipi delle rispettive tribù. La durata della vita di Ismaele fu di centotrentasette anni; poi spirò e si riunì ai suoi antenati. Egli abitò da Avìla fino a Sur che è lun go il confine dell’Egitto in direzione di Assur. Egli si era stabilito di fronte a tutti i suoi fratelli. Qu esta è la discendenza di Isacco figlio di Abramo. Abramo aveva generato Isacco. Isacco aveva qu arant’anni quando si prese in moglie Rebecca figlia di Betuèl l’Arameo da Paddan-Aram e sorella di Làbano l’Arameo. Isacco supplicò il Signore per sua moglie perché ella era steri le e il Signore lo esaudì, così che sua moglie Rebecca divenne incinta. Ora i figli si urtavano nel s uo seno ed ella esclamò: «Se è così che cosa mi sta accadendo?». Andò a consultare il Signore. Il Signore le rispose: «Due nazioni sono nel tuo seno e due popoli dal tuo grembo si divideranno;
un popolo sarà più forte dell’altro e il maggiore servirà il più piccolo». Quando poi si compì per l ei il tempo di partorire ecco due gemelli erano nel suo grembo. Uscì il primo rossiccio e tutto co me un mantello di pelo e fu chiamato Esaù. Subito dopo uscì il fratello e teneva in mano il calca gno di Esaù fu chiamato Giacobbe. Isacco aveva sessant’anni quando essi nacquero. I fanciulli cr ebbero ed Esaù divenne abile nella caccia un uomo della steppa mentre Giacobbe era un uomo tranquillo che dimorava sotto le tende. Isacco prediligeva Esaù, perché la cacciagione era di suo gusto mentre Rebecca prediligeva Giacobbe. Una volta Giacobbe aveva cotto una minestra; Esa ù arrivò dalla campagna ed era sfinito. Disse a Giacobbe: «Lasciami mangiare un po’ di questa m inestra rossa, perché io sono sfinito». Per questo fu chiamato Edom. Giacobbe disse: «Vendimi subito la tua primogenitura». Rispose Esaù: «Ecco sto morendo: a che mi serve allora la primog enitura?». Giacobbe allora disse: «Giuramelo subito». Quegli lo giurò e vendette la primogenitu ra a Giacobbe. Giacobbe diede a Esaù il pane e la minestra di lenticchie; questi mangiò e bevve poi si alzò e se ne andò. A tal punto Esaù aveva disprezzato la primogenitura. Venne una caresti a nella terra dopo quella che c’era stata ai tempi di Abramo e Isacco andò a Gerar presso Abimè lec re dei Filistei. Gli apparve il Signore e gli disse: «Non scendere in Egitto abita nella terra che i o ti indicherò rimani come forestiero in questa terra e io sarò con te e ti benedirò: a te e alla tua discendenza io concederò tutti questi territori e manterrò il giuramento che ho fatto ad Abram o tuo padre. Renderò la tua discendenza numerosa come le stelle del cielo e concederò alla tua discendenza tutti questi territori: tutte le nazioni della terra si diranno benedette nella tua disce ndenza; perché Abramo ha obbedito alla mia voce e ha osservato ciò che io gli avevo prescritto: i miei comandamenti le mie istituzioni e le mie leggi». Così Isacco dimorò a Gerar. Gli uomini de l luogo gli fecero domande sulla moglie ma egli disse: «è mia sorella» infatti aveva timore di dire
: «è mia moglie» pensando che gli uomini del luogo lo avrebbero potuto uccidere a causa di Reb ecca che era di bell’aspetto. Era là da molto tempo quando Abimèlec re dei Filistei si affacciò all a finestra e vide Isacco scherzare con la propria moglie Rebecca. Abimèlec chiamò Isacco e disse
: «Sicuramente ella è tua moglie. E perché tu hai detto: “è mia sorella”?». Gli rispose Isacco: «Pe rché mi son detto: che io non abbia a morire per causa di lei!». Riprese Abimèlec: «Perché ti sei comportato così con noi? Poco ci mancava che qualcuno del popolo si unisse a tua moglie e tu a ttirassi su di noi una colpa». Abimèlec diede quest’ordine a tutto il popolo: «Chi tocca quest’uo mo o sua moglie sarà messo a morte!». Isacco fece una semina in quella terra e raccolse quell’a nno il centuplo. Il Signore infatti lo aveva benedetto. E l’uomo divenne ricco e crebbe tanto in ri cchezze fino a divenire ricchissimo: possedeva greggi e armenti e numerosi schiavi e i Filistei co minciarono a invidiarlo. Tutti i pozzi che avevano scavato i servi di suo padre ai tempi di Abramo suo padre i Filistei li avevano chiusi riempiendoli di terra. Abimèlec disse a Isacco: «Vattene via da noi perché tu sei molto più potente di noi». Isacco andò via di là si accampò lungo il torrente di Gerar e vi si stabilì. Isacco riattivò i pozzi d’acqua che avevano scavato i servi di suo padre Abr amo e che i Filistei avevano chiuso dopo la morte di Abramo e li chiamò come li aveva chiamati suo padre. I servi di Isacco scavarono poi nella valle e vi trovarono un pozzo di acqua viva. Ma i
pastori di Gerar litigarono con i pastori di Isacco dicendo: «L’acqua è nostra!». Allora egli chiam ò il pozzo Esek perché quelli avevano litigato con lui. Scavarono un altro pozzo ma quelli litigaro no anche per questo ed egli lo chiamò Sitna. Si mosse di là e scavò un altro pozzo per il quale no n litigarono; allora egli lo chiamò Recobòt e disse: «Ora il Signore ci ha dato spazio libero perché noi prosperiamo nella terra». Di là salì a Bersabea. E in quella notte gli apparve il Signore e diss e: «Io sono il Dio di Abramo tuo padre; non temere perché io sono con te: ti benedirò e moltipli cherò la tua discendenza a causa di Abramo mio servo». Allora egli costruì in quel luogo un altar e e invocò il nome del Signore. Lì piantò la tenda e i servi di Isacco scavarono un pozzo. Intanto Abimèlec da Gerar era andato da lui insieme con Acuzzàt suo consigliere e Picol capo del suo es ercito. Isacco disse loro: «Perché siete venuti da me mentre voi mi odiate e mi avete scacciato d a voi?». Gli risposero: «Abbiamo visto che il Signore è con te e abbiamo detto: vi sia tra noi un gi uramento tra noi e te, e concludiamo un’alleanza con te: tu non ci farai alcun male come noi no n ti abbiamo toccato e non ti abbiamo fatto se non del bene e ti abbiamo lasciato andare in pac e. Tu sei ora un uomo benedetto dal Signore». Allora imbandì loro un convito e mangiarono e b evvero. Alzatisi di buon mattino si prestarono giuramento l’un l’altro poi Isacco li congedò e par tirono da lui in pace. Proprio in quel giorno arrivarono i servi di Isacco e lo informarono a propo sito del pozzo che avevano scavato e gli dissero: «Abbiamo trovato l’acqua». Allora egli lo chiam ò Siba: per questo la città si chiama Bersabea ancora oggi. Quando Esaù ebbe quarant’anni pres e in moglie Giuditta figlia di Beerì l’Ittita e Basmat figlia di Elon l’Ittita. Esse furono causa d’intim a amarezza per Isacco e per Rebecca. Isacco era vecchio e gli occhi gli si erano così indeboliti ch e non ci vedeva più. Chiamò il figlio maggiore Esaù e gli disse: «Figlio mio». Gli rispose: «Eccomi
». Riprese: «Vedi io sono vecchio e ignoro il giorno della mia morte. Ebbene prendi le tue armi l a tua farètra e il tuo arco va’ in campagna e caccia per me della selvaggina. Poi preparami un pia tto di mio gusto e portamelo; io lo mangerò affinché possa benedirti prima di morire». Ora Reb ecca ascoltava, mentre Isacco parlava al figlio Esaù. Andò dunque Esaù in campagna a caccia di s elvaggina da portare a casa. Rebecca disse al figlio Giacobbe: «Ecco ho sentito tuo padre dire a t uo fratello Esaù: “Portami della selvaggina e preparami un piatto lo mangerò e poi ti benedirò al la presenza del Signore prima di morire”. Ora figlio mio, da’ retta a quel che ti ordino. Va’ subito al gregge e prendimi di là due bei capretti; io preparerò un piatto per tuo padre secondo il suo gusto. Così tu lo porterai a tuo padre che ne mangerà perché ti benedica prima di morire». Risp ose Giacobbe a Rebecca sua madre: «Sai bene che mio fratello Esaù è peloso mentre io ho la pe lle liscia. Forse mio padre mi toccherà e si accorgerà che mi prendo gioco di lui e attirerò sopra di me una maledizione invece di una benedizione». Ma sua madre gli disse: «Ricada pure su di me la tua maledizione, figlio mio! Tu dammi retta e va’ a prendermi i capretti». Allora egli andò a prenderli e li portò alla madre così la madre ne fece un piatto secondo il gusto di suo padre. R
ebecca prese i vestiti più belli del figlio maggiore Esaù che erano in casa presso di lei e li fece ind ossare al figlio minore Giacobbe; con le pelli dei capretti rivestì le sue braccia e la parte liscia del collo. Poi mise in mano a suo figlio Giacobbe il piatto e il pane che aveva preparato. Così egli ve
nne dal padre e disse: «Padre mio». Rispose: «Eccomi; chi sei tu figlio mio?». Giacobbe rispose a l padre: «Io sono Esaù il tuo primogenito. Ho fatto come tu mi hai ordinato. àlzati dunque siediti e mangia la mia selvaggina, perché tu mi benedica». Isacco disse al figlio: «Come hai fatto prest o a trovarla figlio mio!». Rispose: «Il Signore tuo Dio me l’ha fatta capitare davanti». Ma Isacco g li disse: «Avvicìnati e lascia che ti tocchi figlio mio per sapere se tu sei proprio il mio figlio Esaù o no». Giacobbe si avvicinò a Isacco suo padre il quale lo toccò e disse: «La voce è la voce di Giac obbe ma le braccia sono le braccia di Esaù ». Così non lo riconobbe perché le sue braccia erano pelose come le braccia di suo fratello Esaù e lo benedisse. Gli disse ancora: «Tu sei proprio il mi o figlio Esaù?». Rispose: «Lo sono». Allora disse: «Servimi perché possa mangiare della selvaggi na di mio figlio e ti benedica». Gliene servì ed egli mangiò gli portò il vino ed egli bevve. Poi suo padre Isacco gli disse: «Avvicìnati e baciami figlio mio!». Gli si avvicinò e lo baciò. Isacco aspirò l’
odore degli abiti di lui e lo benedisse: «Ecco l’odore del mio figlio come l’odore di un campo che il Signore ha benedetto. Dio ti conceda rugiada dal cielo, terre grasse frumento e mosto in abb ondanza. Popoli ti servano e genti si prostrino davanti a te. Sii il signore dei tuoi fratelli e si pros trino davanti a te i figli di tua madre. Chi ti maledice sia maledetto e chi ti benedice sia benedett o!». Isacco aveva appena finito di benedire Giacobbe e Giacobbe si era allontanato dal padre Isa cco quando tornò dalla caccia Esaù suo fratello. Anch’egli preparò un piatto lo portò al padre e gli disse: «Si alzi mio padre e mangi la selvaggina di suo figlio per potermi benedire». Gli disse su o padre Isacco: «Chi sei tu?». Rispose: «Io sono il tuo figlio primogenito Esaù ». Allora Isacco fu colto da un fortissimo tremito e disse: «Chi era dunque colui che ha preso la selvaggina e me l’h a portata? Io ho mangiato tutto prima che tu giungessi poi l’ho benedetto e benedetto resterà»
. Quando Esaù sentì le parole di suo padre scoppiò in alte amarissime grida. Disse a suo padre: «
Benedici anche me padre mio!». Rispose: «è venuto tuo fratello con inganno e ha carpito la ben edizione che spettava a te». Riprese: «Forse perché si chiama Giacobbe mi ha soppiantato già d ue volte? Già ha carpito la mia primogenitura ed ecco ora ha carpito la mia benedizione!». E sog giunse: «Non hai forse in serbo qualche benedizione per me?». Isacco rispose e disse a Esaù: «E
cco io l’ho costituito tuo signore e gli ho dato come servi tutti i suoi fratelli; l’ho provveduto di fr umento e di mosto; ora per te che cosa mai potrei fare figlio mio?». Esaù disse al padre: «Hai un a sola benedizione, padre mio? Benedici anche me padre mio!». Esaù alzò la voce e pianse. Allo ra suo padre Isacco prese la parola e gli disse: «Ecco la tua abitazione sarà lontano dalle terre gr asse, lontano dalla rugiada del cielo dall’alto. Vivrai della tua spada e servirai tuo fratello; ma ve rrà il giorno che ti riscuoterai, spezzerai il suo giogo dal tuo collo». Esaù perseguitò Giacobbe pe r la benedizione che suo padre gli aveva dato. Pensò Esaù: «Si avvicinano i giorni del lutto per m io padre; allora ucciderò mio fratello Giacobbe». Ma furono riferite a Rebecca le parole di Esaù suo figlio maggiore ed ella mandò a chiamare il figlio minore Giacobbe e gli disse: «Esaù tuo frat ello vuole vendicarsi di te e ucciderti. Ebbene figlio mio dammi retta: su fuggi a Carran da mio fr atello Làbano. Rimarrai con lui qualche tempo finché l’ira di tuo fratello si sarà placata. Quando la collera di tuo fratello contro di te si sarà placata e si sarà dimenticato di quello che gli hai fatt
o allora io manderò a prenderti di là. Perché dovrei venir privata di voi due in un solo giorno?».
E Rebecca disse a Isacco: «Ho disgusto della mia vita a causa delle donne ittite: se Giacobbe pre nde moglie tra le Ittite come queste tra le ragazze della regione a che mi giova la vita?». Allora I sacco chiamò Giacobbe lo benedisse e gli diede questo comando: «Tu non devi prender moglie tra le figlie di Canaan. Su va’ in Paddan-Aram nella casa di Betuèl padre di tua madre e prenditi là una moglie tra le figlie di Làbano frate llo di tua madre. Ti benedica Dio l’Onnipotente ti renda fecondo e ti moltiplichi sì che tu diveng a un insieme di popoli. Conceda la benedizione di Abramo a te e alla tua discendenza con te per ché tu possieda la terra che Dio ha dato ad Abramo dove tu sei stato forestiero». Così Isacco fec e partire Giacobbe che andò in Paddan-Aram presso Làbano figlio di Betuèl l’Arameo fratello di Rebecca madre di Giacobbe e di Esaù. E
saù vide che Isacco aveva benedetto Giacobbe e l’aveva mandato in Paddan-Aram per prendersi una moglie originaria di là e che mentre lo benediceva gli aveva dato quest o comando: «Non devi prender moglie tra le Cananee». Giacobbe obbedendo al padre e alla ma dre era partito per Paddan-Aram. Esaù comprese che le figlie di Canaan non erano gradite a suo padre Isacco. Allora si recò da Ismaele e oltre le mogli che aveva si prese in moglie Macalàt figlia di Ismaele figlio di Abram o sorella di Nebaiòt. Giacobbe partì da Bersabea e si diresse verso Carran. Capitò così in un luog o dove passò la notte perché il sole era tramontato; prese là una pietra se la pose come guancia le e si coricò in quel luogo. Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra mentre la sua cima rag giungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa. Ecco il Signore gli sta va davanti e disse: «Io sono il Signore il Dio di Abramo tuo padre e il Dio di Isacco. A te e alla tua discendenza darò la terra sulla quale sei coricato. La tua discendenza sarà innumerevole come l a polvere della terra; perciò ti espanderai a occidente e a oriente a settentrione e a mezzogiorn o. E si diranno benedette in te e nella tua discendenza tutte le famiglie della terra. Ecco, io sono con te e ti proteggerò dovunque tu andrai; poi ti farò ritornare in questa terra, perché non ti ab bandonerò senza aver fatto tutto quello che ti ho detto». Giacobbe si svegliò dal sonno e disse:
«Certo il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo». Ebbe timore e disse: «Quanto è terribile questo luogo! Questa è proprio la casa di Dio questa è la porta del cielo». La mattina Giacobbe si alzò prese la pietra che si era posta come guanciale la eresse come una stele e versò olio sulla sua sommità. E chiamò quel luogo Betel mentre prima di allora la città si chiamava Luz. Giacob be fece questo voto: «Se Dio sarà con me e mi proteggerà in questo viaggio che sto facendo e m i darà pane da mangiare e vesti per coprirmi se ritornerò sano e salvo alla casa di mio padre il Si gnore sarà il mio Dio. Questa pietra che io ho eretto come stele sarà una casa di Dio; di quanto mi darai, io ti offrirò la decima». Giacobbe si mise in cammino e andò nel territorio degli orienta li. Vide nella campagna un pozzo e tre greggi di piccolo bestiame distese vicino perché a quel po zzo si abbeveravano le greggi. Sulla bocca del pozzo c’era una grande pietra: solo quando tutte l e greggi si erano radunate là i pastori facevano rotolare la pietra dalla bocca del pozzo e abbeve
ravano il bestiame; poi rimettevano la pietra al suo posto sulla bocca del pozzo. Giacobbe disse loro: «Fratelli miei di dove siete?». Risposero: «Siamo di Carran». Disse loro: «Conoscete Làban o figlio di Nacor?». Risposero: «Lo conosciamo». Poi domandò: «Sta bene?». Risposero: «Sì ecc o sua figlia Rachele che viene con il gregge». Riprese: «Eccoci ancora in pieno giorno: non è tem po di radunare il bestiame. Date da bere al bestiame e andate a pascolare!». Ed essi risposero:
«Non possiamo finché non si siano radunate tutte le greggi e si rotoli la pietra dalla bocca del p ozzo; allora faremo bere il gregge». Egli stava ancora parlando con loro quando arrivò Rachele c on il bestiame del padre; era infatti una pastorella. Quando Giacobbe vide Rachele figlia di Làba no fratello di sua madre insieme con il bestiame di Làbano fratello di sua madre Giacobbe fattos i avanti fece rotolare la pietra dalla bocca del pozzo e fece bere le pecore di Làbano fratello di s ua madre. Poi Giacobbe baciò Rachele e pianse ad alta voce. Giacobbe rivelò a Rachele che egli era parente del padre di lei perché figlio di Rebecca. Allora ella corse a riferirlo al padre. Quand o Làbano seppe che era Giacobbe il figlio di sua sorella, gli corse incontro lo abbracciò lo baciò e lo condusse nella sua casa. Ed egli raccontò a Làbano tutte queste vicende. Allora Làbano gli dis se: «Davvero tu sei mio osso e mia carne!». Così restò presso di lui per un mese. Poi Làbano diss e a Giacobbe: «Poiché sei mio parente dovrai forse prestarmi servizio gratuitamente? Indicami quale deve essere il tuo salario». Ora Làbano aveva due figlie; la maggiore si chiamava Lia e la pi ù piccola si chiamava Rachele. Lia aveva gli occhi smorti mentre Rachele era bella di forme e avv enente di aspetto, perciò Giacobbe s’innamorò di Rachele. Disse dunque: «Io ti servirò sette an ni per Rachele tua figlia minore». Rispose Làbano: «Preferisco darla a te piuttosto che a un estra neo. Rimani con me». Così Giacobbe servì sette anni per Rachele: gli sembrarono pochi giorni ta nto era il suo amore per lei. Poi Giacobbe disse a Làbano: «Dammi la mia sposa perché i giorni s ono terminati e voglio unirmi a lei». Allora Làbano radunò tutti gli uomini del luogo e diede un b anchetto. Ma quando fu sera egli prese la figlia Lia e la condusse da lui ed egli si unì a lei. Làban o diede come schiava alla figlia Lia la sua schiava Zilpa. Quando fu mattina… ecco era Lia! Allora Giacobbe disse a Làbano: «Che cosa mi hai fatto? Non sono stato al tuo servizio per Rachele? Pe rché mi hai ingannato?». Rispose Làbano: «Non si usa far così dalle nostre parti non si dà in spo sa la figlia più piccola prima della primogenita. Finisci questa settimana nuziale poi ti darò anche l’altra per il servizio che tu presterai presso di me per altri sette anni». E così fece Giacobbe: ter minò la settimana nuziale e allora Làbano gli diede in moglie la figlia Rachele. Làbano diede com e schiava alla figlia Rachele la sua schiava Bila. Giacobbe si unì anche a Rachele e amò Rachele p iù di Lia. Fu ancora al servizio di lui per altri sette anni. Ora il Signore vedendo che Lia veniva tra scurata la rese feconda mentre Rachele rimaneva sterile. Così Lia concepì e partorì un figlio e lo chiamò Ruben, perché disse: «Il Signore ha visto la mia umiliazione; certo ora mio marito mi am erà». Concepì ancora e partorì un figlio e disse: «Il Signore ha udito che io ero trascurata e mi h a dato anche questo». E lo chiamò Simeone. Concepì ancora e partorì un figlio e disse: «Questa volta mio marito mi si affezionerà, perché gli ho partorito tre figli». Per questo lo chiamò Levi. C
oncepì ancora e partorì un figlio e disse: «Questa volta loderò il Signore». Per questo lo chiamò
Giuda. E cessò di avere figli. Rachele vedendo che non le era concesso di dare figli a Giacobbe di venne gelosa della sorella e disse a Giacobbe: «Dammi dei figli se no io muoio!». Giacobbe s’irri tò contro Rachele e disse: «Tengo forse io il posto di Dio il quale ti ha negato il frutto del gremb o?». Allora ella rispose: «Ecco la mia serva Bila: unisciti a lei, partorisca sulle mie ginocchia cosic ché per mezzo di lei abbia anch’io una mia prole». Così ella gli diede in moglie la propria schiava Bila e Giacobbe si unì a lei. Bila concepì e partorì a Giacobbe un figlio. Rachele disse: «Dio mi ha fatto giustizia e ha anche ascoltato la mia voce dandomi un figlio». Per questo ella lo chiamò Da n. Bila la schiava di Rachele concepì ancora e partorì a Giacobbe un secondo figlio. Rachele disse
: «Ho sostenuto contro mia sorella lotte tremende e ho vinto!». E lo chiamò Nèftali. Allora Lia v edendo che aveva cessato di aver figli prese la propria schiava Zilpa e la diede in moglie a Giaco bbe. Zilpa la schiava di Lia partorì a Giacobbe un figlio. Lia esclamò: «Per fortuna!» e lo chiamò Gad. Zilpa la schiava di Lia partorì un secondo figlio a Giacobbe. Lia disse: «Per mia felicità! Cert amente le donne mi chiameranno beata». E lo chiamò Aser. Al tempo della mietitura del grano Ruben uscì e trovò delle mandragore che portò alla madre Lia. Rachele disse a Lia: «Dammi un p o’ delle mandragore di tuo figlio». Ma Lia rispose: «Ti sembra poco avermi portato via il marito perché ora tu voglia portare via anche le mandragore di mio figlio?». Riprese Rachele: «Ebbene Giacobbe si corichi pure con te questa notte ma dammi in cambio le mandragore di tuo figlio».
La sera quando Giacobbe arrivò dalla campagna Lia gli uscì incontro e gli disse: «Da me devi ven ire perché io ho pagato il diritto di averti con le mandragore di mio figlio». Così egli si coricò con lei quella notte. Il Signore esaudì Lia la quale concepì e partorì a Giacobbe un quinto figlio. Lia d isse: «Dio mi ha dato il mio salario perché ho dato la mia schiava a mio marito». E lo chiamò ìssa car. Lia concepì e partorì ancora un sesto figlio a Giacobbe. Lia disse: «Dio mi ha fatto un bel reg alo: questa volta mio marito mi preferirà perché gli ho partorito sei figli». E lo chiamò Zàbulon. I n seguito partorì una figlia e la chiamò Dina. Dio si ricordò anche di Rachele; Dio la esaudì e la re se feconda. Ella concepì e partorì un figlio e disse: «Dio ha tolto il mio disonore». E lo chiamò Gi useppe dicendo: «Il Signore mi aggiunga un altro figlio!». Dopo che Rachele ebbe partorito Gius eppe Giacobbe disse a Làbano: «Lasciami andare e tornare a casa mia nella mia terra. Dammi le mogli per le quali ti ho servito e i miei bambini perché possa partire: tu conosci il servizio che ti ho prestato». Gli disse Làbano: «Se ho trovato grazia ai tuoi occhi… Per divinazione ho saputo c he il Signore mi ha benedetto per causa tua». E aggiunse: «Fissami il tuo salario e te lo darò». Gl i rispose: «Tu stesso sai come ti ho servito e quanto sono cresciuti i tuoi averi per opera mia. Pe rché il poco che avevi prima della mia venuta è aumentato oltre misura e il Signore ti ha benede tto sui miei passi. Ma ora quando lavorerò anch’io per la mia casa?». Riprese Làbano: «Che cosa ti devo dare?». Giacobbe rispose: «Non mi devi nulla; se tu farai per me quanto ti dico, ritorner ò a pascolare il tuo gregge e a custodirlo. Oggi passerò fra tutto il tuo bestiame; tu metti da part e ogni capo di colore scuro tra le pecore e ogni capo chiazzato e punteggiato tra le capre: sarà il mio salario. In futuro la mia stessa onestà risponderà per me; quando verrai a verificare il mio s alario ogni capo che non sarà punteggiato o chiazzato tra le capre e di colore scuro tra le pecore
se si troverà presso di me sarà come rubato». Làbano disse: «Bene sia come tu hai detto!». In q uel giorno mise da parte i capri striati e chiazzati e tutte le capre punteggiate e chiazzate ogni ca po che aveva del bianco e ogni capo di colore scuro tra le pecore. Li affidò ai suoi figli e stabilì u na distanza di tre giorni di cammino tra sé e Giacobbe mentre Giacobbe pascolava l’altro bestia me di Làbano. Ma Giacobbe prese rami freschi di pioppo di mandorlo e di platano ne intagliò la corteccia a strisce bianche mettendo a nudo il bianco dei rami. Mise i rami così scortecciati nei c analetti agli abbeveratoi dell’acqua dove veniva a bere il bestiame bene in vista per le bestie ch e andavano in calore quando venivano a bere. Così le bestie andarono in calore di fronte ai rami e le capre figliarono capretti striati punteggiati e chiazzati. Quanto alle pecore Giacobbe le sepa rò e fece sì che le bestie avessero davanti a loro gli animali striati e tutti quelli di colore scuro de l gregge di Làbano. E i branchi che si era così formato per sé non li mise insieme al gregge di Làb ano. Ogni qualvolta andavano in calore bestie robuste Giacobbe metteva i rami nei canaletti in vista delle bestie per farle concepire davanti ai rami. Quando invece le bestie erano deboli non l i metteva. Così i capi di bestiame deboli erano per Làbano e quelli robusti per Giacobbe. Egli si a rricchì oltre misura e possedette greggi in grande quantità, schiave e schiavi cammelli e asini. Gi acobbe venne a sapere che i figli di Làbano dicevano: «Giacobbe si è preso tutto quello che avev a nostro padre e con quanto era di nostro padre si è fatto questa grande fortuna». Giacobbe os servò anche la faccia di Làbano e si accorse che verso di lui non era più come prima. Il Signore di sse a Giacobbe: «Torna alla terra dei tuoi padri nella tua famiglia e io sarò con te». Allora Giaco bbe mandò a chiamare Rachele e Lia in campagna presso il suo gregge e disse loro: «Io mi accor go dal volto di vostro padre che egli verso di me non è più come prima; ma il Dio di mio padre è stato con me. Sapete voi stesse che ho servito vostro padre con tutte le mie forze mentre vostr o padre si è beffato di me e ha cambiato dieci volte il mio salario; ma Dio non gli ha permesso di farmi del male. Se egli diceva: “Le bestie punteggiate saranno il tuo salario” tutto il gregge figlia va bestie punteggiate; se diceva: “Le bestie striate saranno il tuo salario” allora tutto il gregge fi gliava bestie striate. Così Dio ha sottratto il bestiame a vostro padre e l’ha dato a me. Una volta nel tempo in cui il piccolo bestiame va in calore io in sogno alzai gli occhi e vidi che i capri in pro cinto di montare le bestie erano striati punteggiati e chiazzati. L’angelo di Dio mi disse in sogno:
“Giacobbe!”. Risposi: “Eccomi”. Riprese: “Alza gli occhi e guarda: tutti i capri che montano le be stie sono striati punteggiati e chiazzati perché ho visto come ti tratta Làbano. Io sono il Dio di Be tel dove tu hai unto una stele e dove mi hai fatto un voto. Ora àlzati parti da questa terra e torn a nella terra della tua famiglia!”». Rachele e Lia gli risposero: «Abbiamo forse ancora una parte o una eredità nella casa di nostro padre? Non siamo forse tenute in conto di straniere da parte sua dal momento che ci ha vendute e si è anche mangiato il nostro denaro? Tutta la ricchezza c he Dio ha sottratto a nostro padre è nostra e dei nostri figli. Ora fa’ pure quello che Dio ti ha det to». Allora Giacobbe si alzò caricò i figli e le mogli sui cammelli e condusse via tutto il bestiame e tutti gli averi che si era acquistato il bestiame che si era acquistato in Paddan-Aram per ritornare da Isacco suo padre nella terra di Canaan. Làbano era andato a tosare il greg
ge e Rachele rubò gli idoli che appartenevano al padre. Giacobbe eluse l’attenzione di Làbano l’
Arameo non lasciando trapelare che stava per fuggire; così poté andarsene con tutti i suoi averi.
Si mosse dunque passò il Fiume e si diresse verso le montagne di Gàlaad. Il terzo giorno fu riferi to a Làbano che Giacobbe era fuggito. Allora egli prese con sé i suoi parenti lo inseguì per sette giorni di cammino e lo raggiunse sulle montagne di Gàlaad. Ma Dio venne da Làbano, l’Arameo i n un sogno notturno e gli disse: «Bada di non dir niente a Giacobbe né in bene né in male!». Làb ano andò dunque a raggiungere Giacobbe. Ora Giacobbe aveva piantato la tenda sulle montagn e e Làbano si era accampato con i parenti sulle montagne di Gàlaad. Disse allora Làbano a Giaco bbe: «Che cosa hai fatto? Hai eluso la mia attenzione e hai condotto via le mie figlie come prigio niere di guerra! Perché sei fuggito di nascosto mi hai ingannato e non mi hai avvertito? Io ti avre i congedato con festa e con canti a suon di tamburelli e di cetre! E non mi hai permesso di bacia re i miei figli e le mie figlie! Certo hai agito in modo insensato. Sarebbe in mio potere farti del m ale ma il Dio di tuo padre mi ha parlato la notte scorsa: “Bada di non dir niente a Giacobbe né in bene né in male!”. Certo sei partito perché soffrivi di nostalgia per la casa di tuo padre; ma perc hé hai rubato i miei dèi?». Giacobbe rispose a Làbano e disse: «Perché avevo paura e pensavo c he mi avresti tolto con la forza le tue figlie. Ma quanto a colui presso il quale tu troverai i tuoi d èi non resterà in vita! Alla presenza dei nostri parenti verifica quanto vi può essere di tuo presso di me e riprendilo». Giacobbe non sapeva che li aveva rubati Rachele. Allora Làbano entrò nella tenda di Giacobbe e poi nella tenda di Lia e nella tenda delle due schiave ma non trovò nulla. P
oi uscì dalla tenda di Lia ed entrò nella tenda di Rachele. Rachele aveva preso gli idoli e li aveva messi nella sella del cammello poi vi si era seduta sopra così Làbano frugò in tutta la tenda ma n on li trovò. Ella parlò al padre: «Non si offenda il mio signore se io non posso alzarmi davanti a t e perché ho quello che avviene di regola alle donne». Làbano cercò ma non trovò gli idoli. Giaco bbe allora si adirò e apostrofò Làbano al quale disse: «Qual è il mio delitto qual è il mio peccato perché ti accanisca contro di me? Ora che hai frugato tra tutti i miei oggetti che cosa hai trovato di tutte le cose di casa tua? Mettilo qui davanti ai miei e tuoi parenti e siano essi giudici tra noi due. Vent’anni ho passato con te: le tue pecore e le tue capre non hanno abortito e non ho mai mangiato i montoni del tuo gregge. Nessuna bestia sbranata ti ho portato a mio discarico: io ste sso ne compensavo il danno e tu reclamavi da me il risarcimento sia di quanto veniva rubato di giorno sia di quanto veniva rubato di notte. Di giorno mi divorava il caldo e di notte il gelo e il so nno fuggiva dai miei occhi. Vent’anni sono stato in casa tua: ho servito quattordici anni per le tu e due figlie e sei anni per il tuo gregge e tu hai cambiato il mio salario dieci volte. Se il Dio di mio padre il Dio di Abramo e il Terrore di Isacco non fosse stato con me tu ora mi avresti licenziato a mani vuote; ma Dio ha visto la mia afflizione e la fatica delle mie mani e la scorsa notte egli ha fatto da arbitro». Làbano allora rispose e disse a Giacobbe: «Queste figlie sono le mie figlie e q uesti figli sono i miei figli; questo bestiame è il mio bestiame e quanto tu vedi è mio. E che cosa potrei fare oggi a queste mie figlie o ai figli che hanno messo al mondo? Ebbene vieni, concludia mo un’alleanza io e te e ci sia un testimone tra me e te». Giacobbe prese una pietra e la eresse
come stele. Poi disse ai suoi parenti: «Raccogliete pietre» e quelli presero pietre e ne fecero un mucchio; e su quel mucchio mangiarono. Làbano lo chiamò Iegar-Saadutà mentre Giacobbe lo chiamò Gal-
Ed. Làbano disse: «Questo mucchio è oggi un testimone tra me e te» per questo lo chiamò Gal-Ed e anche Mispa perché disse: «Il Signore starà di vedetta tra me e te quando noi non ci vedre mo più l’un l’altro. Se tu maltratterai le mie figlie e se prenderai altre mogli oltre le mie figlie sa ppi che non un uomo è con noi ma Dio è testimone tra me e te». Soggiunse Làbano a Giacobbe:
«Ecco questo mucchio ed ecco questa stele che io ho eretto tra me e te. Questo mucchio è testi mone e questa stele è testimone che io giuro di non oltrepassare questo mucchio dalla tua part e e che tu giuri di non oltrepassare questo mucchio e questa stele dalla mia parte per fare il mal e. Il Dio di Abramo e il Dio di Nacor siano giudici tra di noi». Giacobbe giurò per il Terrore di Isac co suo padre. Poi offrì un sacrificio sulle montagne e invitò i suoi parenti a prender cibo. Essi ma ngiarono e passarono la notte sulle montagne. Làbano si alzò di buon mattino baciò i figli e le fi glie e li benedisse. Poi partì e ritornò a casa. Mentre Giacobbe andava per la sua strada gli si fec ero incontro gli angeli di Dio. Giacobbe al vederli disse: «Questo è l’accampamento di Dio» e chi amò quel luogo Macanàim. Poi Giacobbe mandò avanti a sé alcuni messaggeri al fratello Esaù n ella regione di Seir la campagna di Edom. Diede loro questo comando: «Direte al mio signore Es aù: “Dice il tuo servo Giacobbe: Sono restato come forestiero presso Làbano e vi sono rimasto fi no ad ora. Sono venuto in possesso di buoi asini e greggi di schiavi e schiave. Ho mandato a info rmarne il mio signore per trovare grazia ai suoi occhi”». I messaggeri tornarono da Giacobbe dic endo: «Siamo stati da tuo fratello Esaù ora egli stesso sta venendoti incontro e ha con sé quattr ocento uomini». Giacobbe si spaventò molto e si sentì angustiato; allora divise in due accampa menti la gente che era con lui il gregge gli armenti e i cammelli. Pensava infatti: «Se Esaù raggiu nge un accampamento e lo sconfigge l’altro si salverà». Giacobbe disse: «Dio del mio padre Abr amo e Dio del mio padre Isacco Signore che mi hai detto: “Ritorna nella tua terra e tra la tua par entela e io ti farò del bene” io sono indegno di tutta la bontà e di tutta la fedeltà che hai usato v erso il tuo servo. Con il mio solo bastone avevo passato questo Giordano e ora sono arrivato al punto di formare due accampamenti. Salvami dalla mano di mio fratello, dalla mano di Esaù per ché io ho paura di lui: che egli non arrivi e colpisca me e senza riguardi, madri e bambini! Eppur e tu hai detto: “Ti farò del bene e renderò la tua discendenza tanto numerosa come la sabbia de l mare che non si può contare”». Giacobbe rimase in quel luogo a passare la notte. Poi prese da ciò che gli capitava tra mano un dono per il fratello Esaù: duecento capre e venti capri duecento pecore e venti montoni trenta cammelle che allattavano con i loro piccoli quaranta giovenche e dieci torelli venti asine e dieci asinelli. Egli affidò ai suoi servi i singoli branchi separatamente e disse loro: «Passate davanti a me e lasciate una certa distanza tra un branco e l’altro». Diede qu est’ordine al primo: «Quando ti incontrerà Esaù mio fratello e ti domanderà: “A chi appartieni?
Dove vai? Di chi sono questi animali che ti camminano davanti?” tu risponderai: “Di tuo fratello Giacobbe; è un dono inviato al mio signore Esaù ecco egli stesso ci segue”». Lo stesso ordine die
de anche al secondo e anche al terzo e a quanti seguivano i branchi: «Queste parole voi rivolger ete ad Esaù quando lo incontrerete; gli direte: “Anche il tuo servo Giacobbe ci segue”». Pensava infatti: «Lo placherò con il dono che mi precede e in seguito mi presenterò a lui; forse mi accogl ierà con benevolenza». Così il dono passò prima di lui mentre egli trascorse quella notte nell’acc ampamento. Durante quella notte egli si alzò prese le due mogli le due schiave i suoi undici ba mbini e passò il guado dello Iabbok. Li prese fece loro passare il torrente e portò di là anche tutt i i suoi averi. Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. Veden do che non riusciva a vincerlo lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò mentre continuava a lottare con lui. Quello disse: «Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora». Giacobbe rispose: «Non ti lascerò se non mi avrai benedetto!». Gli domand ò: «Come ti chiami?». Rispose: «Giacobbe». Riprese: «Non ti chiamerai più Giacobbe ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!». Giacobbe allora gli chiese: «Svela mi il tuo nome». Gli rispose: «Perché mi chiedi il nome?». E qui lo benedisse. Allora Giacobbe ch iamò quel luogo Penuèl: «Davvero – disse –
ho visto Dio faccia a faccia eppure la mia vita è rimasta salva». Spuntava il sole quando Giacobb e passò Penuèl e zoppicava all’anca. Per questo gli Israeliti fino ad oggi non mangiano il nervo sc iatico che è sopra l’articolazione del femore perché quell’uomo aveva colpito l’articolazione del femore di Giacobbe nel nervo sciatico. Giacobbe alzò gli occhi e vide arrivare Esaù che aveva co n sé quattrocento uomini. Allora distribuì i bambini tra Lia Rachele e le due schiave; alla testa m ise le schiave con i loro bambini più indietro Lia con i suoi bambini e più indietro Rachele e Gius eppe. Egli passò davanti a loro e si prostrò sette volte fino a terra mentre andava avvicinandosi al fratello. Ma Esaù gli corse incontro lo abbracciò gli si gettò al collo lo baciò e piansero. Alzàti g li occhi vide le donne e i bambini e domandò: «Chi sono questi con te?». Giacobbe rispose: «So no i bambini che Dio si è compiaciuto di dare al tuo servo». Allora si fecero avanti le schiave con i loro bambini e si prostrarono. Si fecero avanti anche Lia e i suoi bambini e si prostrarono e infi ne si fecero avanti Giuseppe e Rachele e si prostrarono. Domandò ancora: «Che cosa vuoi fare d i tutta questa carovana che ho incontrato?». Rispose: «è per trovar grazia agli occhi del mio sign ore». Esaù disse: «Ho beni in abbondanza fratello mio resti per te quello che è tuo!». Ma Giacob be disse: «No ti prego se ho trovato grazia ai tuoi occhi accetta dalla mia mano il mio dono perc hé io sto alla tua presenza come davanti a Dio e tu mi hai gradito. Accetta il dono augurale che t i è stato presentato perché Dio mi ha favorito e sono provvisto di tutto!». Così egli insistette e q uegli accettò. Esaù disse: «Partiamo e mettiamoci in viaggio: io camminerò davanti a te». Gli ris pose: «Il mio signore sa che i bambini sono delicati e che devo aver cura delle greggi e degli arm enti che allattano: se si affaticassero anche un giorno solo tutte le bestie morirebbero. Il mio sig nore passi prima del suo servo mentre io mi sposterò con mio agio tenendo il passo di questo b estiame che mi precede e dei bambini finché arriverò presso il mio signore in Seir». Disse allora Esaù: «Almeno possa lasciare con te una parte della gente che ho con me!». Rispose: «Ma perc hé? Basta solo che io trovi grazia agli occhi del mio signore!». Così quel giorno stesso Esaù ritorn
ò per conto proprio in Seir. Giacobbe invece partì per Succot dove costruì una casa per sé e fece capanne per il gregge. Per questo chiamò quel luogo Succot. Giacobbe arrivò sano e salvo alla c ittà di Sichem che è nella terra di Canaan al ritorno da Paddan-Aram e si accampò di fronte alla città. Acquistò dai figli di Camor padre di Sichem per cento pez zi d’argento quella porzione di campagna dove aveva piantato la tenda. Qui eresse un altare e l o chiamò «El Dio d’Israele». Dina la figlia che Lia aveva partorito a Giacobbe uscì a vedere le rag azze del posto. Ma la notò Sichem figlio di Camor l’Eveo principe di quel territorio la rapì e si cor icò con lei facendole violenza. Ma poi egli rimase legato a Dina, figlia di Giacobbe; s’innamorò d ella giovane e le rivolse parole di conforto. Quindi disse a Camor suo padre: «Prendimi in moglie questa ragazza». Intanto Giacobbe aveva saputo che quello aveva disonorato sua figlia Dina ma i suoi figli erano in campagna con il suo bestiame e Giacobbe tacque fino al loro arrivo. Venne d unque Camor padre di Sichem da Giacobbe per parlare con lui. Quando i figli di Giacobbe tornar ono dalla campagna sentito l’accaduto ne furono addolorati e s’indignarono molto perché quegl i coricandosi con la figlia di Giacobbe aveva commesso un’infamia in Israele: così non si doveva f are! Camor disse loro: «Sichem mio figlio è innamorato della vostra figlia; vi prego dategliela in moglie! Anzi imparentatevi con noi: voi darete a noi le vostre figlie e vi prenderete per voi le no stre figlie. Abiterete con noi e la terra sarà a vostra disposizione; potrete risiedervi percorrerla i n lungo e in largo e acquistare proprietà». Sichem disse al padre e ai fratelli di lei: «Possa io trov are grazia agli occhi vostri; vi darò quel che mi direte. Alzate pure molto a mio carico il prezzo n uziale e il valore del dono; vi darò quanto mi chiederete ma concedetemi la giovane in moglie!»
. Allora i figli di Giacobbe risposero a Sichem e a suo padre Camor e parlarono con inganno, poic hé quegli aveva disonorato la loro sorella Dina. Dissero loro: «Non possiamo fare questo dare la nostra sorella a un uomo non circonciso perché ciò sarebbe un disonore per noi. Acconsentire mo alla vostra richiesta solo a questa condizione: diventare come noi, circoncidendo ogni vostro maschio. In tal caso noi vi daremo le nostre figlie e ci prenderemo le vostre abiteremo con voi e diventeremo un solo popolo. Ma se voi non ci ascoltate a proposito della nostra circoncisione p renderemo la nostra ragazza e ce ne andremo». Le loro parole piacquero a Camor e a Sichem fig lio di Camor. Il giovane non indugiò a eseguire la cosa perché amava la figlia di Giacobbe; d’altra parte era il più onorato di tutto il casato di suo padre. Vennero dunque Camor e il figlio Sichem alla porta della loro città e parlarono agli uomini della città: «Questi uomini sono gente pacifica con noi: abitino pure con noi nel territorio e lo percorrano in lungo e in largo; esso è molto ampi o per loro in ogni direzione. Noi potremo prendere in moglie le loro figlie e potremo dare loro le nostre. Ma questi uomini a una condizione acconsentiranno ad abitare con noi per diventare u n unico popolo: se noi circoncidiamo ogni nostro maschio come loro stessi sono circoncisi. I loro armenti la loro ricchezza e tutto il loro bestiame non diverranno forse nostri? Accontentiamoli dunque e possano abitare con noi!». Quanti si radunavano alla porta della sua città ascoltarono Camor e il figlio Sichem: tutti i maschi quanti si radunavano alla porta della città si fecero circon cidere. Ma il terzo giorno quand’essi erano sofferenti i due figli di Giacobbe Simeone e Levi i frat
elli di Dina presero ciascuno la propria spada entrarono indisturbati nella città e uccisero tutti i maschi. Passarono così a fil di spada Camor e suo figlio Sichem portarono via Dina dalla casa di S
ichem e si allontanarono. I figli di Giacobbe si buttarono sui cadaveri e saccheggiarono la città p erché quelli avevano disonorato la loro sorella. Presero le loro greggi e i loro armenti i loro asini e quanto era nella città e nella campagna. Portarono via come bottino tutte le loro ricchezze tut ti i loro bambini e le loro donne e saccheggiarono quanto era nelle case. Allora Giacobbe disse a Simeone e a Levi: «Voi mi avete rovinato rendendomi odioso agli abitanti della regione ai Cana nei e ai Perizziti. Io ho solo pochi uomini; se essi si raduneranno contro di me mi vinceranno e io sarò annientato con la mia casa». Risposero: «Si tratta forse la nostra sorella come una prostitu ta?». Dio disse a Giacobbe: «àlzati sali a Betel e abita là costruisci in quel luogo un altare al Dio c he ti è apparso quando fuggivi lontano da Esaù tuo fratello». Allora Giacobbe disse alla sua fami glia e a quanti erano con lui: «Eliminate gli dèi degli stranieri che avete con voi purificatevi e ca mbiate gli abiti. Poi alziamoci e saliamo a Betel dove io costruirò un altare al Dio che mi ha esau dito al tempo della mia angoscia ed è stato con me nel cammino che ho percorso». Essi consegn arono a Giacobbe tutti gli dèi degli stranieri che possedevano e i pendenti che avevano agli orec chi e Giacobbe li sotterrò sotto la quercia presso Sichem. Poi partirono e un grande terrore assa lì le città all’intorno così che non inseguirono i figli di Giacobbe. Giacobbe e tutta la gente che er a con lui arrivarono a Luz cioè Betel che è nella terra di Canaan. Qui egli costruì un altare e chia mò quel luogo El-Betel perché là Dio gli si era rivelato quando fuggiva lontano da suo fratello. Allora morì Dèbora la nutrice di Rebecca e fu sepolta al di sotto di Betel ai piedi della quercia. Così essa prese il nom e di Quercia del Pianto. Dio apparve un’altra volta a Giacobbe durante il ritorno da Paddan-Aram e lo benedisse. Dio gli disse: «Il tuo nome è Giacobbe. Ma non ti chiamerai più Giacobbe: I sraele sarà il tuo nome». Così lo si chiamò Israele. Dio gli disse: «Io sono Dio l’Onnipotente. Sii f econdo e diventa numeroso; deriveranno da te una nazione e un insieme di nazioni, e re usciran no dai tuoi fianchi. Darò a te la terra che ho concesso ad Abramo e a Isacco e dopo di te, la darò alla tua stirpe». Dio disparve da lui dal luogo dove gli aveva parlato. Allora Giacobbe eresse una stele dove gli aveva parlato una stele di pietra e su di essa fece una libagione e versò olio. Giac obbe chiamò Betel il luogo dove Dio gli aveva parlato. Quindi partirono da Betel. Mancava anco ra un tratto di cammino per arrivare a èfrata, quando Rachele partorì ed ebbe un parto difficile.
Mentre penava a partorire la levatrice le disse: «Non temere: anche questa volta avrai un figlio
!». Ormai moribonda quando stava per esalare l’ultimo respiro lei lo chiamò Ben-Onì ma suo padre lo chiamò Beniamino. Così Rachele morì e fu sepolta lungo la strada verso èfr ata cioè Betlemme. Giacobbe eresse sulla sua tomba una stele. è la stele della tomba di Rachele che esiste ancora oggi. Poi Israele partì e piantò la tenda al di là di Migdal-Eder. Mentre Israele abitava in quel territorio Ruben andò a unirsi con Bila concubina del padre e Israele lo venne a sapere. I figli di Giacobbe furono dodici. Figli di Lia: Ruben il primogenito di Giacobbe poi Simeone Levi Giuda ìssacar e Zàbulon; figli di Rachele: Giuseppe e Beniamino; figli
di Bila schiava di Rachele: Dan e Nèftali; figli di Zilpa schiava di Lia: Gad e Aser. Questi sono i figli di Giacobbe che gli nacquero in Paddan-Aram. Giacobbe venne da suo padre Isacco a Mamre a Kiriat-Arbà cioè Ebron dove Abramo e Isacco avevano soggiornato come forestieri. Isacco raggiunse l’
età di centoottant’anni. Poi Isacco spirò morì e si riunì ai suoi antenati vecchio e sazio di giorni.
Lo seppellirono i suoi figli Esaù e Giacobbe. Questa è la discendenza di Esaù cioè Edom. Esaù pre se le sue mogli tra le figlie dei Cananei: Ada figlia di Elon l’Ittita; Oolibamà figlia di Anà figlio di Si beon l’Urrita; Basmat figlia di Ismaele sorella di Nebaiòt. Ada partorì a Esaù Elifaz Basmat partor ì Reuèl Oolibamà partorì Ieus Ialam e Core. Questi sono i figli di Esaù che gli nacquero nella terr a di Canaan. Poi Esaù prese con sé le mogli i figli e le figlie e tutte le persone della sua casa il suo gregge e tutto il suo bestiame e tutti i suoi beni che aveva acquistati nella terra di Canaan e and ò in una regione lontano dal fratello Giacobbe. Infatti i loro possedimenti erano troppo grandi p erché essi potessero abitare insieme e il territorio dove soggiornavano come forestieri non bast ava a sostenerli a causa del loro bestiame. Così Esaù si stabilì sulle montagne di Seir. Esaù è Edo m. Questa è la discendenza di Esaù padre degli Edomiti nelle montagne di Seir. Questi sono i no mi dei figli di Esaù: Elifaz figlio di Ada moglie di Esaù Reuèl figlio di Basmat moglie di Esaù. I figli di Elifaz furono: Teman Omar, Sefò Gatam Kenaz. Timna era concubina di Elifaz figlio di Esaù e gl i generò Amalèk. Questi sono i figli di Ada moglie di Esaù. Questi sono i figli di Reuèl: Nacat e Ze rach Sammà e Mizzà. Questi furono i figli di Basmat moglie di Esaù. Questi furono i figli di Oolib amà moglie di Esaù figlia di Anà figlio di Sibeon; ella partorì a Esaù Ieus Ialam e Core. Questi son o i capi dei figli di Esaù: i figli di Elifaz primogenito di Esaù: il capo di Teman il capo di Omar il ca po di Sefò il capo di Kenaz il capo di Core il capo di Gatam il capo di Amalèk. Questi sono i capi d i Elifaz nel territorio di Edom: questi sono i figli di Ada. Questi sono i figli di Reuèl figlio di Esaù: il capo di Nacat il capo di Zerach il capo di Sammà il capo di Mizzà. Questi sono i capi di Reuèl nel territorio di Edom; questi sono i figli di Basmat moglie di Esaù. Questi sono i figli di Oolibamà m oglie di Esaù: il capo di Ieus il capo di Ialam il capo di Core. Questi sono i capi di Oolibamà figlia di Anà moglie di Esaù. Questi sono i figli di Esaù e questi i loro capi. Questo è il popolo degli Edo miti. Questi sono i figli di Seir l’Urrita che abitano la regione: Lotan Sobal Sibeon, Anà Dison Eser e Disan. Questi sono i capi degli Urriti figli di Seir nel territorio di Edom. I figli di Lotan furono Or ì e Emam e la sorella di Lotan era Timna. I figli di Sobal sono Alvan Manàcat Ebal Sefò e Onam. I figli di Sibeon sono Aià e Anà fu proprio Anà che trovò le sorgenti calde nel deserto mentre pasc olava gli asini del padre Sibeon. I figli di Anà sono Dison e Oolibamà. I figli di Dison sono Chemda n Esban Itran e Cheran. I figli di Eser sono Bilan Zaavan e Akan. I figli di Disan sono Us e Aran. Qu esti sono i capi degli Urriti: il capo di Lotan il capo di Sobal il capo di Sibeon il capo di Anà il capo di Dison il capo di Eser il capo di Disan. Questi sono i capi degli Urriti secondo le loro tribù nella regione di Seir. Questi sono i re che regnarono nel territorio di Edom prima che regnasse un re s ugli Israeliti. Regnò dunque in Edom Bela figlio di Beor e la sua città si chiamava Dinaba. Bela m orì e al suo posto regnò Iobab figlio di Zerach da Bosra. Iobab morì e al suo posto regnò Cusam
del territorio dei Temaniti. Cusam morì e al suo posto regnò Adad figlio di Bedad colui che vinse i Madianiti nelle steppe di Moab; la sua città si chiamava Avìt. Adad morì e al suo posto regnò S
amla da Masrekà. Samla morì e al suo posto regnò Saul da Recobòt-Naar. Saul morì e al suo posto regnò Baal-Canan figlio di Acbor. Baal-Canan figlio di Acbor morì e al suo posto regnò Adar: la sua città si chiama Pau e la moglie si chi amava Meetabèl figlia di Matred, figlia di Me-Zaab. Questi sono i nomi dei capi di Esaù secondo le loro famiglie le loro località con i loro nomi: il capo di Timna il capo di Alva il capo di Ietet il capo di Oolibamà il capo di Ela il capo di Pinon il capo di Kenaz il capo di Teman il capo di Mibsar il capo di Magdièl il capo di Iram. Questi sono i capi di Edom secondo le loro sedi nel territorio di loro proprietà. è questi Esaù il padre degli Edo miti. Giacobbe si stabilì nella terra dove suo padre era stato forestiero nella terra di Canaan. Qu esta è la discendenza di Giacobbe. Giuseppe all’età di diciassette anni pascolava il gregge con i s uoi fratelli. Essendo ancora giovane stava con i figli di Bila e i figli di Zilpa mogli di suo padre. Or a Giuseppe riferì al padre di chiacchiere maligne su di loro. Israele amava Giuseppe più di tutti i suoi figli, perché era il figlio avuto in vecchiaia e gli aveva fatto una tunica con maniche lunghe. I suoi fratelli vedendo che il loro padre amava lui più di tutti i suoi figli lo odiavano e non riusciva no a parlargli amichevolmente. Ora Giuseppe fece un sogno e lo raccontò ai fratelli che lo odiar ono ancora di più. Disse dunque loro: «Ascoltate il sogno che ho fatto. Noi stavamo legando cov oni in mezzo alla campagna quand’ecco il mio covone si alzò e restò diritto e i vostri covoni si po sero attorno e si prostrarono davanti al mio». Gli dissero i suoi fratelli: «Vuoi forse regnare su di noi o ci vuoi dominare?». Lo odiarono ancora di più a causa dei suoi sogni e delle sue parole. Eg li fece ancora un altro sogno e lo narrò ai fratelli e disse: «Ho fatto ancora un sogno sentite: il so le la luna e undici stelle si prostravano davanti a me». Lo narrò dunque al padre e ai fratelli. Ma il padre lo rimproverò e gli disse: «Che sogno è questo che hai fatto! Dovremo forse venire io tu a madre e i tuoi fratelli a prostrarci fino a terra davanti a te?». I suoi fratelli perciò divennero inv idiosi di lui mentre il padre tenne per sé la cosa. I suoi fratelli erano andati a pascolare il gregge del loro padre a Sichem. Israele disse a Giuseppe: «Sai che i tuoi fratelli sono al pascolo a Siche m? Vieni ti voglio mandare da loro». Gli rispose: «Eccomi!». Gli disse: «Va’ a vedere come stann o i tuoi fratelli e come sta il bestiame poi torna a darmi notizie». Lo fece dunque partire dalla va lle di Ebron ed egli arrivò a Sichem. Mentre egli si aggirava per la campagna lo trovò un uomo c he gli domandò: «Che cosa cerchi?». Rispose: «Sono in cerca dei miei fratelli. Indicami dove si tr ovano a pascolare». Quell’uomo disse: «Hanno tolto le tende di qui; li ho sentiti dire: “Andiamo a Dotan!”». Allora Giuseppe ripartì in cerca dei suoi fratelli e li trovò a Dotan. Essi lo videro da lo ntano e prima che giungesse vicino a loro complottarono contro di lui per farlo morire. Si disser o l’un l’altro: «Eccolo! è arrivato il signore dei sogni! Orsù uccidiamolo e gettiamolo in una cister na! Poi diremo: “Una bestia feroce l’ha divorato!”. Così vedremo che ne sarà dei suoi sogni!». M
a Ruben sentì e volendo salvarlo dalle loro mani disse: «Non togliamogli la vita». Poi disse loro:
«Non spargete il sangue gettatelo in questa cisterna che è nel deserto ma non colpitelo con la v
ostra mano»: egli intendeva salvarlo dalle loro mani e ricondurlo a suo padre. Quando Giuseppe fu arrivato presso i suoi fratelli, essi lo spogliarono della sua tunica quella tunica con le maniche lunghe che egli indossava, lo afferrarono e lo gettarono nella cisterna: era una cisterna vuota s enz’acqua. Poi sedettero per prendere cibo. Quand’ecco alzando gli occhi videro arrivare una ca rovana di Ismaeliti provenienti da Gàlaad con i cammelli carichi di resina balsamo e làudano, ch e andavano a portare in Egitto. Allora Giuda disse ai fratelli: «Che guadagno c’è a uccidere il nos tro fratello e a coprire il suo sangue? Su vendiamolo agli Ismaeliti e la nostra mano non sia contr o di lui perché è nostro fratello e nostra carne». I suoi fratelli gli diedero ascolto. Passarono alcu ni mercanti madianiti; essi tirarono su ed estrassero Giuseppe dalla cisterna e per venti sicli d’ar gento vendettero Giuseppe agli Ismaeliti. Così Giuseppe fu condotto in Egitto. Quando Ruben to rnò alla cisterna ecco Giuseppe non c’era più. Allora si stracciò le vesti tornò dai suoi fratelli e di sse: «Il ragazzo non c’è più e io dove andrò?». Allora presero la tunica di Giuseppe sgozzarono u n capro e intinsero la tunica nel sangue. Poi mandarono al padre la tunica con le maniche lungh e e gliela fecero pervenire con queste parole: «Abbiamo trovato questa; per favore verifica se è la tunica di tuo figlio o no». Egli la riconobbe e disse: «è la tunica di mio figlio! Una bestia feroce l’ha divorato. Giuseppe è stato sbranato». Giacobbe si stracciò le vesti si pose una tela di sacco attorno ai fianchi e fece lutto sul suo figlio per molti giorni. Tutti i figli e le figlie vennero a conso larlo ma egli non volle essere consolato dicendo: «No io scenderò in lutto da mio figlio negli infe ri». E il padre suo lo pianse. Intanto i Madianiti lo vendettero in Egitto a Potifàr eunuco del fara one e comandante delle guardie. In quel tempo Giuda si separò dai suoi fratelli e si stabilì press o un uomo di Adullàm di nome Chira. Qui Giuda notò la figlia di un Cananeo chiamato Sua la pre se in moglie e si unì a lei. Ella concepì e partorì un figlio e lo chiamò Er. Concepì ancora e partorì un figlio e lo chiamò Onan. Ancora un’altra volta partorì un figlio e lo chiamò Sela. Egli si trovav a a Chezìb quando lei lo partorì. Giuda scelse per il suo primogenito Er una moglie che si chiama va Tamar. Ma Er primogenito di Giuda si rese odioso agli occhi del Signore e il Signore lo fece m orire. Allora Giuda disse a Onan: «Va’ con la moglie di tuo fratello compi verso di lei il dovere di cognato e assicura così una posterità a tuo fratello». Ma Onan sapeva che la prole non sarebbe stata considerata come sua; ogni volta che si univa alla moglie del fratello disperdeva il seme pe r terra per non dare un discendente al fratello. Ciò che egli faceva era male agli occhi del Signor e il quale fece morire anche lui. Allora Giuda disse alla nuora Tamar: «Ritorna a casa da tuo padr e come vedova fin quando il mio figlio Sela sarà cresciuto». Perché pensava: «Che non muoia an che questo come i suoi fratelli!». Così Tamar se ne andò e ritornò alla casa di suo padre. Trascor sero molti giorni e morì la figlia di Sua moglie di Giuda. Quando Giuda ebbe finito il lutto si recò a Timna da quelli che tosavano il suo gregge e con lui c’era Chira il suo amico di Adullàm. La noti zia fu data a Tamar: «Ecco tuo suocero va a Timna per la tosatura del suo gregge». Allora Tamar si tolse gli abiti vedovili si coprì con il velo e se lo avvolse intorno poi si pose a sedere all’ingress o di Enàim che è sulla strada per Timna. Aveva visto infatti che Sela era ormai cresciuto ma lei n on gli era stata data in moglie. Quando Giuda la vide la prese per una prostituta perché essa si e
ra coperta la faccia. Egli si diresse su quella strada verso di lei e disse: «Lascia che io venga con t e!». Non sapeva infatti che era sua nuora. Ella disse: «Che cosa mi darai per venire con me?». Ri spose: «Io ti manderò un capretto del gregge». Ella riprese: «Mi lasci qualcosa in pegno fin quan do non me lo avrai mandato?». Egli domandò: «Qual è il pegno che devo dare?». Rispose: «Il tu o sigillo il tuo cordone e il bastone che hai in mano». Allora Giuda glieli diede e si unì a lei. Ella ri mase incinta. Poi si alzò e se ne andò si tolse il velo e riprese gli abiti vedovili. Giuda mandò il ca pretto per mezzo del suo amico di Adullàm per riprendere il pegno dalle mani di quella donna ma quello non la trovò. Domandò agli uomini di quel luogo: «Dov’è quella prostituta che stava a Enàim sulla strada?». Ma risposero: «Qui non c’è stata alcuna prostituta». Così tornò da Giuda e disse: «Non l’ho trovata; anche gli uomini di quel luogo dicevano: “Qui non c’è stata alcuna pr ostituta”». Allora Giuda disse: «Si tenga quello che ha! Altrimenti ci esponiamo agli scherni. Ecc o: le ho mandato questo capretto ma tu non l’hai trovata». Circa tre mesi dopo fu portata a Giu da questa notizia: «Tamar tua nuora si è prostituita e anzi è incinta a causa delle sue prostituzio ni». Giuda disse: «Conducetela fuori e sia bruciata!». Mentre veniva condotta fuori ella mandò a dire al suocero: «Io sono incinta dell’uomo a cui appartengono questi oggetti». E aggiunse: «P
er favore, verifica di chi siano questo sigillo questi cordoni e questo bastone». Giuda li riconobb e e disse: «Lei è più giusta di me: infatti io non l’ho data a mio figlio Sela». E non ebbe più rappo rti con lei. Quando giunse per lei il momento di partorire ecco aveva nel grembo due gemelli. D
urante il parto uno di loro mise fuori una mano e la levatrice prese un filo scarlatto e lo legò att orno a quella mano dicendo: «Questi è uscito per primo». Ma poi questi ritirò la mano ed ecco v enne alla luce suo fratello. Allora ella esclamò: «Come ti sei aperto una breccia?» e fu chiamato Peres. Poi uscì suo fratello che aveva il filo scarlatto alla mano e fu chiamato Zerach. Giuseppe e ra stato portato in Egitto e Potifàr eunuco del faraone e comandante delle guardie un Egiziano l o acquistò da quegli Ismaeliti che l’avevano condotto laggiù. Il Signore fu con Giuseppe: a lui tut to riusciva bene e rimase nella casa dell’Egiziano, suo padrone. Il suo padrone si accorse che il Si gnore era con lui e che il Signore faceva riuscire per mano sua quanto egli intraprendeva. Così G
iuseppe trovò grazia agli occhi di lui e divenne suo servitore personale; anzi quello lo nominò su o maggiordomo e gli diede in mano tutti i suoi averi. Da quando egli lo aveva fatto suo maggior domo e incaricato di tutti i suoi averi il Signore benedisse la casa dell’Egiziano grazie a Giuseppe e la benedizione del Signore fu su quanto aveva sia in casa sia nella campagna. Così egli lasciò t utti i suoi averi nelle mani di Giuseppe e non si occupava più di nulla se non del cibo che mangia va. Ora Giuseppe era bello di forma e attraente di aspetto. Dopo questi fatti la moglie del padro ne mise gli occhi su Giuseppe e gli disse: «Còricati con me!». Ma egli rifiutò e disse alla moglie d el suo padrone: «Vedi il mio signore non mi domanda conto di quanto è nella sua casa e mi ha d ato in mano tutti i suoi averi. Lui stesso non conta più di me in questa casa; non mi ha proibito n ient’altro se non te perché sei sua moglie. Come dunque potrei fare questo grande male e pecc are contro Dio?». E benché giorno dopo giorno ella parlasse a Giuseppe in tal senso, egli non ac cettò di coricarsi insieme per unirsi a lei. Un giorno egli entrò in casa per fare il suo lavoro ment
re non c’era alcuno dei domestici. Ella lo afferrò per la veste dicendo: «Còricati con me!». Ma eg li le lasciò tra le mani la veste fuggì e se ne andò fuori. Allora lei vedendo che egli le aveva lascia to tra le mani la veste ed era fuggito fuori, chiamò i suoi domestici e disse loro: «Guardate ci ha condotto in casa un Ebreo per divertirsi con noi! Mi si è accostato per coricarsi con me ma io ho gridato a gran voce. Egli appena ha sentito che alzavo la voce e chiamavo ha lasciato la veste ac canto a me, è fuggito e se ne è andato fuori». Ed ella pose accanto a sé la veste di lui finché il pa drone venne a casa. Allora gli disse le stesse cose: «Quel servo ebreo che tu ci hai condotto in c asa mi si è accostato per divertirsi con me. Ma appena io ho gridato e ho chiamato ha abbando nato la veste presso di me ed è fuggito fuori». Il padrone, all’udire le parole che sua moglie gli ri peteva: «Proprio così mi ha fatto il tuo servo!» si accese d’ira. Il padrone prese Giuseppe e lo mi se nella prigione, dove erano detenuti i carcerati del re. Così egli rimase là in prigione. Ma il Sign ore fu con Giuseppe gli accordò benevolenza e gli fece trovare grazia agli occhi del comandante della prigione. Così il comandante della prigione affidò a Giuseppe tutti i carcerati che erano nel la prigione e quanto c’era da fare là dentro lo faceva lui. Il comandante della prigione non si pre ndeva più cura di nulla di quanto era affidato a Giuseppe perché il Signore era con lui e il Signor e dava successo a tutto quanto egli faceva. Dopo questi fatti il coppiere del re d’Egitto e il panet tiere offesero il loro padrone, il re d’Egitto. Il faraone si adirò contro i suoi due eunuchi il capo d ei coppieri e il capo dei panettieri e li fece mettere in custodia nella casa del comandante delle g uardie nella prigione dove Giuseppe era detenuto. Il comandante delle guardie assegnò loro Giu seppe perché li accudisse. Così essi restarono nel carcere per un certo tempo. Ora in una medes ima notte il coppiere e il panettiere del re d’Egitto detenuti nella prigione ebbero tutti e due un sogno ciascuno il suo sogno con un proprio significato. Alla mattina Giuseppe venne da loro e li vide abbattuti. Allora interrogò gli eunuchi del faraone che erano con lui in carcere nella casa de l suo padrone e disse: «Perché oggi avete la faccia così triste?». Gli risposero: «Abbiamo fatto u n sogno e non c’è chi lo interpreti». Giuseppe replicò loro: «Non è forse Dio che ha in suo poter e le interpretazioni? Raccontatemi dunque». Allora il capo dei coppieri raccontò il suo sogno a G
iuseppe e gli disse: «Nel mio sogno ecco mi stava davanti una vite sulla quale vi erano tre tralci; non appena cominciò a germogliare apparvero i fiori e i suoi grappoli maturarono gli acini. Io te nevo in mano il calice del faraone; presi gli acini li spremetti nella coppa del faraone poi diedi la coppa in mano al faraone». Giuseppe gli disse: «Eccone l’interpretazione: i tre tralci rappresent ano tre giorni. Fra tre giorni il faraone solleverà la tua testa e ti reintegrerà nella tua carica e tu porgerai il calice al faraone secondo la consuetudine di prima quando eri il suo coppiere. Se poi nella tua fortuna volessi ricordarti che sono stato con te trattami ti prego con bontà: ricordami al faraone per farmi uscire da questa casa. Perché io sono stato portato via ingiustamente dalla terra degli Ebrei e anche qui non ho fatto nulla perché mi mettessero in questo sotterraneo». Al lora il capo dei panettieri vedendo che l’interpretazione era favorevole disse a Giuseppe: «Quan to a me nel mio sogno tenevo sul capo tre canestri di pane bianco e nel canestro che stava di so pra c’era ogni sorta di cibi per il faraone quali si preparano dai panettieri. Ma gli uccelli li mangi
avano dal canestro che avevo sulla testa». Giuseppe rispose e disse: «Questa è l’interpretazione
: i tre canestri rappresentano tre giorni. Fra tre giorni il faraone solleverà la tua testa e ti impicc herà a un palo e gli uccelli ti mangeranno la carne addosso». Appunto al terzo giorno che era il g iorno natalizio del faraone questi fece un banchetto per tutti i suoi ministri e allora sollevò la tes ta del capo dei coppieri e la testa del capo dei panettieri in mezzo ai suoi ministri. Reintegrò il c apo dei coppieri nel suo ufficio di coppiere perché porgesse la coppa al faraone; invece impiccò il capo dei panettieri secondo l’interpretazione che Giuseppe aveva loro data. Ma il capo dei co ppieri non si ricordò di Giuseppe e lo dimenticò. Due anni dopo il faraone sognò di trovarsi pres so il Nilo. Ed ecco, salirono dal Nilo sette vacche belle di aspetto e grasse e si misero a pascolare tra i giunchi. Ed ecco dopo quelle salirono dal Nilo altre sette vacche brutte di aspetto e magre e si fermarono accanto alle prime vacche sulla riva del Nilo. Le vacche brutte di aspetto e magre divorarono le sette vacche belle di aspetto e grasse. E il faraone si svegliò. Poi si addormentò e sognò una seconda volta: ecco sette spighe spuntavano da un unico stelo grosse e belle. Ma do po quelle ecco spuntare altre sette spighe vuote e arse dal vento d’oriente. Le spighe vuote ing hiottirono le sette spighe grosse e piene. Il faraone si svegliò: era stato un sogno. Alla mattina il suo spirito ne era turbato perciò convocò tutti gli indovini e tutti i saggi dell’Egitto. Il faraone rac contò loro il sogno ma nessuno sapeva interpretarlo al faraone. Allora il capo dei coppieri parlò al faraone: «Io devo ricordare oggi le mie colpe. Il faraone si era adirato contro i suoi servi e li av eva messi in carcere nella casa del capo delle guardie sia me sia il capo dei panettieri. Noi facem mo un sogno nella stessa notte io e lui; ma avemmo ciascuno un sogno con un proprio significat o. C’era là con noi un giovane ebreo schiavo del capo delle guardie; noi gli raccontammo i nostri sogni ed egli ce li interpretò dando a ciascuno l’interpretazione del suo sogno. E come egli ci av eva interpretato così avvenne: io fui reintegrato nella mia carica e l’altro fu impiccato». Allora il faraone convocò Giuseppe. Lo fecero uscire in fretta dal sotterraneo; egli si rase si cambiò gli ab iti e si presentò al faraone. Il faraone disse a Giuseppe: «Ho fatto un sogno e nessuno sa interpr etarlo; ora io ho sentito dire di te che ti basta ascoltare un sogno per interpretarlo subito». Gius eppe rispose al faraone: «Non io ma Dio darà la risposta per la salute del faraone!». Allora il far aone raccontò a Giuseppe: «Nel mio sogno io mi trovavo sulla riva del Nilo. Ed ecco salirono dal Nilo sette vacche grasse e belle di forma e si misero a pascolare tra i giunchi. E dopo quelle ecco salire altre sette vacche deboli molto brutte di forma e magre; non ne vidi mai di così brutte in tutta la terra d’Egitto. Le vacche magre e brutte divorarono le prime sette vacche quelle grasse.
Queste entrarono nel loro ventre ma non ci si accorgeva che vi fossero entrate perché il loro as petto era brutto come prima. E mi svegliai. Poi vidi nel sogno spuntare da un unico stelo sette s pighe piene e belle. Ma ecco dopo quelle spuntavano sette spighe secche vuote e arse dal vent o d’oriente. Le spighe vuote inghiottirono le sette spighe belle. Ho riferito il sogno agli indovini ma nessuno sa darmene la spiegazione». Allora Giuseppe disse al faraone: «Il sogno del faraone è uno solo: Dio ha indicato al faraone quello che sta per fare. Le sette vacche belle rappresenta no sette anni e le sette spighe belle rappresentano sette anni: si tratta di un unico sogno. Le set
te vacche magre e brutte che salgono dopo quelle rappresentano sette anni e le sette spighe vu ote arse dal vento d’oriente rappresentano sette anni: verranno sette anni di carestia. è appunt o quel che ho detto al faraone: Dio ha manifestato al faraone quanto sta per fare. Ecco stanno p er venire sette anni in cui ci sarà grande abbondanza in tutta la terra d’Egitto. A questi succeder anno sette anni di carestia; si dimenticherà tutta quell’abbondanza nella terra d’Egitto e la care stia consumerà la terra. Non vi sarà più alcuna traccia dell’abbondanza che vi era stata nella terr a a causa della carestia successiva perché sarà molto dura. Quanto al fatto che il sogno del fara one si è ripetuto due volte significa che la cosa è decisa da Dio e che Dio si affretta a eseguirla. Il faraone pensi a trovare un uomo intelligente e saggio e lo metta a capo della terra d’Egitto. Il fa raone inoltre proceda a istituire commissari sul territorio per prelevare un quinto sui prodotti d ella terra d’Egitto durante i sette anni di abbondanza. Essi raccoglieranno tutti i viveri di queste annate buone che stanno per venire ammasseranno il grano sotto l’autorità del faraone e lo ter ranno in deposito nelle città. Questi viveri serviranno di riserva al paese per i sette anni di cares tia che verranno nella terra d’Egitto; così il paese non sarà distrutto dalla carestia». La proposta piacque al faraone e a tutti i suoi ministri. Il faraone disse ai ministri: «Potremo trovare un uom o come questo in cui sia lo spirito di Dio?». E il faraone disse a Giuseppe: «Dal momento che Dio ti ha manifestato tutto questo non c’è nessuno intelligente e saggio come te. Tu stesso sarai il mio governatore e ai tuoi ordini si schiererà tutto il mio popolo: solo per il trono io sarò più gra nde di te». Il faraone disse a Giuseppe: «Ecco io ti metto a capo di tutta la terra d’Egitto». Il fara one si tolse di mano l’anello e lo pose sulla mano di Giuseppe; lo rivestì di abiti di lino finissimo e gli pose al collo un monile d’oro. Lo fece salire sul suo secondo carro e davanti a lui si gridava:
«Abrech». E così lo si stabilì su tutta la terra d’Egitto. Poi il faraone disse a Giuseppe: «Io sono il faraone ma senza il tuo permesso nessuno potrà alzare la mano o il piede in tutta la terra d’Egit to». E il faraone chiamò Giuseppe Safnat-Panèach e gli diede in moglie Asenat figlia di Potifera sacerdote di Eliòpoli. Giuseppe partì per vi sitare l’Egitto. Giuseppe aveva trent’anni quando entrò al servizio del faraone re d’Egitto. Quind i Giuseppe si allontanò dal faraone e percorse tutta la terra d’Egitto. Durante i sette anni di abb ondanza la terra produsse a profusione. Egli raccolse tutti i viveri dei sette anni di abbondanza c he vennero nella terra d’Egitto e ripose i viveri nelle città: in ogni città i viveri della campagna cir costante. Giuseppe ammassò il grano come la sabbia del mare in grandissima quantità così che non se ne fece più il computo perché era incalcolabile. Intanto prima che venisse l’anno della ca restia nacquero a Giuseppe due figli, partoriti a lui da Asenat figlia di Potifera sacerdote di Eliòp oli. Giuseppe chiamò il primogenito Manasse «perché – disse –
Dio mi ha fatto dimenticare ogni affanno e tutta la casa di mio padre». E il secondo lo chiamò è fraim, «perché – disse –
Dio mi ha reso fecondo nella terra della mia afflizione». Finirono i sette anni di abbondanza nell a terra d’Egitto e cominciarono i sette anni di carestia come aveva detto Giuseppe. Ci fu carestia in ogni paese ma in tutta la terra d’Egitto c’era il pane. Poi anche tutta la terra d’Egitto cominci
ò a sentire la fame e il popolo gridò al faraone per avere il pane. Il faraone disse a tutti gli Egizia ni: «Andate da Giuseppe; fate quello che vi dirà». La carestia imperversava su tutta la terra. Allo ra Giuseppe aprì tutti i depositi in cui vi era grano e lo vendette agli Egiziani. La carestia si aggra vava in Egitto ma da ogni paese venivano in Egitto per acquistare grano da Giuseppe perché la c arestia infieriva su tutta la terra. Giacobbe venne a sapere che in Egitto c’era grano; perciò disse ai figli: «Perché state a guardarvi l’un l’altro?». E continuò: «Ecco ho sentito dire che vi è grano in Egitto. Andate laggiù a comprarne per noi, perché viviamo e non moriamo». Allora i dieci frat elli di Giuseppe scesero per acquistare il frumento dall’Egitto. Quanto a Beniamino fratello di Gi useppe Giacobbe non lo lasciò partire con i fratelli perché diceva: «Che non gli debba succedere qualche disgrazia!». Arrivarono dunque i figli d’Israele per acquistare il grano in mezzo ad altri c he pure erano venuti perché nella terra di Canaan c’era la carestia. Giuseppe aveva autorità su quella terra e vendeva il grano a tutta la sua popolazione. Perciò i fratelli di Giuseppe vennero d a lui e gli si prostrarono davanti con la faccia a terra. Giuseppe vide i suoi fratelli e li riconobbe ma fece l’estraneo verso di loro, parlò duramente e disse: «Da dove venite?». Risposero: «Dalla terra di Canaan per comprare viveri». Giuseppe riconobbe dunque i fratelli mentre essi non lo ri conobbero. Allora Giuseppe si ricordò dei sogni che aveva avuto a loro riguardo e disse loro: «V
oi siete spie! Voi siete venuti per vedere i punti indifesi del territorio!». Gli risposero: «No mio si gnore; i tuoi servi sono venuti per acquistare viveri. Noi siamo tutti figli di un solo uomo. Noi sia mo sinceri. I tuoi servi non sono spie!». Ma egli insistette: «No voi siete venuti per vedere i punt i indifesi del territorio!». Allora essi dissero: «Dodici sono i tuoi servi; siamo fratelli, figli di un sol o uomo che abita nella terra di Canaan; ora il più giovane è presso nostro padre e uno non c’è pi ù ». Giuseppe disse loro: «Le cose stanno come vi ho detto: voi siete spie! In questo modo saret e messi alla prova: per la vita del faraone, voi non uscirete di qui se non quando vi avrà raggiunt o il vostro fratello più giovane. Mandate uno di voi a prendere il vostro fratello; voi rimarrete pr igionieri. Saranno così messe alla prova le vostre parole per sapere se la verità è dalla vostra par te. Se no, per la vita del faraone voi siete spie!». E li tenne in carcere per tre giorni. Il terzo giorn o Giuseppe disse loro: «Fate questo e avrete salva la vita; io temo Dio! Se voi siete sinceri uno di voi fratelli resti prigioniero nel vostro carcere e voi andate a portare il grano per la fame delle v ostre case. Poi mi condurrete qui il vostro fratello più giovane. Così le vostre parole si dimostrer anno vere e non morirete». Essi annuirono. Si dissero allora l’un l’altro: «Certo su di noi grava la colpa nei riguardi di nostro fratello perché abbiamo visto con quale angoscia ci supplicava e no n lo abbiamo ascoltato. Per questo ci ha colpiti quest’angoscia». Ruben prese a dir loro: «Non vi avevo detto io: “Non peccate contro il ragazzo”? Ma non mi avete dato ascolto. Ecco, ora ci vie ne domandato conto del suo sangue». Non si accorgevano che Giuseppe li capiva dato che tra l ui e loro vi era l’interprete. Allora egli andò in disparte e pianse. Poi tornò e parlò con loro. Scels e tra loro Simeone e lo fece incatenare sotto i loro occhi. Quindi Giuseppe diede ordine di riemp ire di frumento i loro sacchi e di rimettere il denaro di ciascuno nel suo sacco e di dare loro prov viste per il viaggio. E così venne loro fatto. Essi caricarono il grano sugli asini e partirono di là. Or
a in un luogo dove passavano la notte uno di loro aprì il sacco per dare il foraggio all’asino e vid e il proprio denaro alla bocca del sacco. Disse ai fratelli: «Mi è stato restituito il denaro: eccolo q ui nel mio sacco!». Allora si sentirono mancare il cuore e tremanti si dissero l’un l’altro: «Che è mai questo che Dio ci ha fatto?». Arrivati da Giacobbe loro padre nella terra di Canaan gli riferir ono tutte le cose che erano loro capitate: «Quell’uomo che è il signore di quella terra ci ha parla to duramente e ci ha trattato come spie del territorio. Gli abbiamo detto: “Noi siamo sinceri; no n siamo spie! Noi siamo dodici fratelli figli dello stesso padre: uno non c’è più e il più giovane è ora presso nostro padre nella terra di Canaan”. Ma l’uomo signore di quella terra ci ha risposto:
“Mi accerterò se voi siete sinceri in questo modo: lasciate qui con me uno dei vostri fratelli pren dete il grano necessario alle vostre case e andate. Poi conducetemi il vostro fratello più giovane
; così mi renderò conto che non siete spie ma che siete sinceri; io vi renderò vostro fratello e voi potrete circolare nel territorio”». Mentre svuotavano i sacchi ciascuno si accorse di avere la sua borsa di denaro nel proprio sacco. Quando essi e il loro padre videro le borse di denaro furono presi da timore. E il loro padre Giacobbe disse: «Voi mi avete privato dei figli! Giuseppe non c’è più, Simeone non c’è più e Beniamino me lo volete prendere. Tutto ricade su di me!». Allora Ru ben disse al padre: «Farai morire i miei due figli se non te lo ricondurrò. Affidalo alle mie mani e io te lo restituirò». Ma egli rispose: «Il mio figlio non andrà laggiù con voi perché suo fratello è morto ed egli è rimasto solo. Se gli capitasse una disgrazia durante il viaggio che voi volete fare f areste scendere con dolore la mia canizie negli inferi». La carestia continuava a gravare sulla ter ra. Quand’ebbero finito di consumare il grano che avevano portato dall’Egitto il padre disse loro
: «Tornate là e acquistate per noi un po’ di viveri». Ma Giuda gli disse: «Quell’uomo ci ha avverti to severamente: “Non verrete alla mia presenza se non avrete con voi il vostro fratello!”. Se tu s ei disposto a lasciar partire con noi nostro fratello andremo laggiù e ti compreremo dei viveri.
Ma se tu non lo lasci partire non ci andremo, perché quell’uomo ci ha detto: “Non verrete alla mia presenza se non avrete con voi il vostro fratello!”». Israele disse: «Perché mi avete fatto qu esto male: far sapere a quell’uomo che avevate ancora un fratello?». Risposero: «Quell’uomo ci ha interrogati con insistenza intorno a noi e alla nostra parentela: “è ancora vivo vostro padre?
Avete qualche altro fratello?”. E noi abbiamo risposto secondo queste domande. Come avremm o potuto sapere che egli avrebbe detto: “Conducete qui vostro fratello”?». Giuda disse a Israele suo padre: «Lascia venire il giovane con me; prepariamoci a partire per sopravvivere e non mori re noi tu e i nostri bambini. Io mi rendo garante di lui: dalle mie mani lo reclamerai. Se non te lo ricondurrò se non te lo riporterò io sarò colpevole contro di te per tutta la vita. Se non avessimo indugiato ora saremmo già di ritorno per la seconda volta». Israele loro padre rispose: «Se è co sì fate pure: mettete nei vostri bagagli i prodotti più scelti della terra e portateli in dono a quell’
uomo: un po’ di balsamo un po’ di miele resina e làudano pistacchi e mandorle. Prendete con v oi il doppio del denaro così porterete indietro il denaro che è stato rimesso nella bocca dei vostr i sacchi: forse si tratta di un errore. Prendete anche vostro fratello partite e tornate da quell’uo mo. Dio l’Onnipotente vi faccia trovare misericordia presso quell’uomo così che vi rilasci sia l’alt
ro fratello sia Beniamino. Quanto a me una volta che non avrò più i miei figli non li avrò più!». G
li uomini presero dunque questo dono e il doppio del denaro e anche Beniamino si avviarono sc esero in Egitto e si presentarono a Giuseppe. Quando Giuseppe vide Beniamino con loro disse al suo maggiordomo: «Conduci questi uomini in casa macella quello che occorre e apparecchia pe rché questi uomini mangeranno con me a mezzogiorno». Quell’uomo fece come Giuseppe avev a ordinato e introdusse quegli uomini nella casa di Giuseppe. Ma essi si spaventarono perché ve nivano condotti in casa di Giuseppe e si dissero: «A causa del denaro rimesso l’altra volta nei no stri sacchi ci conducono là: per assalirci, piombarci addosso e prenderci come schiavi con i nostr i asini». Allora si avvicinarono al maggiordomo della casa di Giuseppe e parlarono con lui all’ingr esso della casa; dissero: «Perdona mio signore noi siamo venuti già un’altra volta per comprare viveri. Quando fummo arrivati a un luogo per passarvi la notte aprimmo i sacchi ed ecco il denar o di ciascuno si trovava alla bocca del suo sacco: proprio il nostro denaro con il suo peso esatto.
Noi ora l’abbiamo portato indietro e per acquistare i viveri abbiamo portato con noi altro denar o. Non sappiamo chi abbia messo nei sacchi il nostro denaro!». Ma quegli disse: «State in pace non temete! Il vostro Dio e il Dio dei vostri padri vi ha messo un tesoro nei sacchi; il vostro dena ro lo avevo ricevuto io». E condusse loro Simeone. Quell’uomo fece entrare gli uomini nella cas a di Giuseppe diede loro dell’acqua, perché si lavassero i piedi e diede il foraggio ai loro asini. Es si prepararono il dono nell’attesa che Giuseppe arrivasse a mezzogiorno perché avevano saputo che avrebbero preso cibo in quel luogo. Quando Giuseppe arrivò a casa gli presentarono il don o che avevano con sé e si prostrarono davanti a lui con la faccia a terra. Egli domandò loro com e stavano e disse: «Sta bene il vostro vecchio padre di cui mi avete parlato? Vive ancora?». Risp osero: «Il tuo servo nostro padre sta bene è ancora vivo» e si inginocchiarono prostrandosi. Egli alzò gli occhi e guardò Beniamino il suo fratello figlio della stessa madre e disse: «è questo il vos tro fratello più giovane di cui mi avete parlato?» e aggiunse: «Dio ti conceda grazia figlio mio!».
Giuseppe si affrettò a uscire perché si era commosso nell’intimo alla presenza di suo fratello e s entiva il bisogno di piangere; entrò nella sua camera e pianse. Poi si lavò la faccia uscì e facendo si forza ordinò: «Servite il pasto». Fu servito per lui a parte per loro a parte e per i commensali e giziani a parte perché gli Egiziani non possono prender cibo con gli Ebrei: ciò sarebbe per loro u n abominio. Presero posto davanti a lui dal primogenito al più giovane ciascuno in ordine di età e si guardavano con meraviglia l’un l’altro. Egli fece portare loro porzioni prese dalla propria me nsa ma la porzione di Beniamino era cinque volte più abbondante di quella di tutti gli altri. E con lui bevvero fino all’allegria. Diede poi quest’ordine al suo maggiordomo: «Riempi i sacchi di que gli uomini di tanti viveri quanti ne possono contenere e rimetti il denaro di ciascuno alla bocca d el suo sacco. Metterai la mia coppa la coppa d’argento alla bocca del sacco del più giovane, insi eme con il denaro del suo grano». Quello fece secondo l’ordine di Giuseppe. Alle prime luci del mattino quegli uomini furono fatti partire con i loro asini. Erano appena usciti dalla città e ancor a non si erano allontanati quando Giuseppe disse al suo maggiordomo: «Su insegui quegli uomi ni raggiungili e di’ loro: “Perché avete reso male per bene? Non è forse questa la coppa in cui be
ve il mio signore e per mezzo della quale egli suole trarre i presagi? Avete fatto male a fare così”
». Egli li raggiunse e ripeté loro queste parole. Quelli gli risposero: «Perché il mio signore dice q uesto? Lontano dai tuoi servi il fare una cosa simile! Ecco se ti abbiamo riportato dalla terra di C
anaan il denaro che abbiamo trovato alla bocca dei nostri sacchi come avremmo potuto rubare argento o oro dalla casa del tuo padrone? Quello dei tuoi servi presso il quale si troverà sia mes so a morte e anche noi diventeremo schiavi del mio signore». Rispose: «Ebbene come avete det to così sarà: colui, presso il quale si troverà la coppa diventerà mio schiavo e voi sarete innocent i». Ciascuno si affrettò a scaricare a terra il suo sacco e lo aprì. Quegli li frugò cominciando dal maggiore e finendo con il più piccolo e la coppa fu trovata nel sacco di Beniamino. Allora essi si stracciarono le vesti ricaricarono ciascuno il proprio asino e tornarono in città. Giuda e i suoi fra telli vennero nella casa di Giuseppe che si trovava ancora là e si gettarono a terra davanti a lui.
Giuseppe disse loro: «Che azione avete commesso? Non vi rendete conto che un uomo come m e è capace di indovinare?». Giuda disse: «Che diremo al mio signore? Come parlare? Come giust ificarci? Dio stesso ha scoperto la colpa dei tuoi servi! Eccoci schiavi del mio signore noi e colui c he è stato trovato in possesso della coppa». Ma egli rispose: «Lontano da me fare una cosa simil e! L’uomo trovato in possesso della coppa quello sarà mio schiavo: quanto a voi tornate in pace da vostro padre». Allora Giuda gli si fece innanzi e disse: «Perdona mio signore sia permesso al t uo servo di far sentire una parola agli orecchi del mio signore; non si accenda la tua ira contro il tuo servo, perché uno come te è pari al faraone! Il mio signore aveva interrogato i suoi servi: “A vete ancora un padre o un fratello?”. E noi avevamo risposto al mio signore: “Abbiamo un padr e vecchio e un figlio ancora giovane natogli in vecchiaia il fratello che aveva è morto ed egli è ri masto l’unico figlio di quella madre e suo padre lo ama”. Tu avevi detto ai tuoi servi: “Conducet elo qui da me perché possa vederlo con i miei occhi”. Noi avevamo risposto al mio signore: “Il gi ovinetto non può abbandonare suo padre: se lascerà suo padre questi ne morirà”. Ma tu avevi i ngiunto ai tuoi servi: “Se il vostro fratello minore non verrà qui con voi non potrete più venire al la mia presenza”. Fatto ritorno dal tuo servo mio padre gli riferimmo le parole del mio signore.
E nostro padre disse: “Tornate ad acquistare per noi un po’ di viveri”. E noi rispondemmo: “Non possiamo ritornare laggiù: solo se verrà con noi il nostro fratello minore andremo; non saremm o ammessi alla presenza di quell’uomo senza avere con noi il nostro fratello minore”. Allora il tu o servo mio padre ci disse: “Voi sapete che due figli mi aveva procreato mia moglie. Uno partì d a me e dissi: certo è stato sbranato! Da allora non l’ho più visto. Se ora mi porterete via anche q uesto e gli capitasse una disgrazia voi fareste scendere con dolore la mia canizie negli inferi”. Or a se io arrivassi dal tuo servo mio padre e il giovinetto non fosse con noi poiché la vita dell’uno è legata alla vita dell’altro non appena egli vedesse che il giovinetto non è con noi, morirebbe e i tuoi servi avrebbero fatto scendere con dolore negli inferi la canizie del tuo servo nostro padre
. Ma il tuo servo si è reso garante del giovinetto presso mio padre dicendogli: “Se non te lo rico ndurrò sarò colpevole verso mio padre per tutta la vita”. Ora lascia che il tuo servo rimanga al p osto del giovinetto come schiavo del mio signore e il giovinetto torni lassù con i suoi fratelli! Per
ché come potrei tornare da mio padre senza avere con me il giovinetto? Che io non veda il male che colpirebbe mio padre!». Allora Giuseppe non poté più trattenersi dinanzi a tutti i circostant i e gridò: «Fate uscire tutti dalla mia presenza!». Così non restò nessun altro presso di lui mentr e Giuseppe si faceva conoscere dai suoi fratelli. E proruppe in un grido di pianto. Gli Egiziani lo s entirono e la cosa fu risaputa nella casa del faraone. Giuseppe disse ai fratelli: «Io sono Giusepp e! è ancora vivo mio padre?». Ma i suoi fratelli non potevano rispondergli perché sconvolti dalla sua presenza. Allora Giuseppe disse ai fratelli: «Avvicinatevi a me!». Si avvicinarono e disse loro
: «Io sono Giuseppe il vostro fratello quello che voi avete venduto sulla via verso l’Egitto. Ma or a non vi rattristate e non vi crucciate per avermi venduto quaggiù perché Dio mi ha mandato qu i prima di voi per conservarvi in vita. Perché già da due anni vi è la carestia nella regione e ancor a per cinque anni non vi sarà né aratura né mietitura. Dio mi ha mandato qui prima di voi per as sicurare a voi la sopravvivenza nella terra e per farvi vivere per una grande liberazione. Dunque non siete stati voi a mandarmi qui ma Dio. Egli mi ha stabilito padre per il faraone signore su tut ta la sua casa e governatore di tutto il territorio d’Egitto. Affrettatevi a salire da mio padre e dit egli: “Così dice il tuo figlio Giuseppe: Dio mi ha stabilito signore di tutto l’Egitto. Vieni quaggiù pr esso di me senza tardare. Abiterai nella terra di Gosen e starai vicino a me tu con i tuoi figli e i fi gli dei tuoi figli le tue greggi e i tuoi armenti e tutti i tuoi averi. Là io provvederò al tuo sostenta mento poiché la carestia durerà ancora cinque anni e non cadrai nell’indigenza tu la tua famiglia e quanto possiedi”. Ed ecco i vostri occhi lo vedono e lo vedono gli occhi di mio fratello Beniami no: è la mia bocca che vi parla! Riferite a mio padre tutta la gloria che io ho in Egitto e quanto a vete visto; affrettatevi a condurre quaggiù mio padre». Allora egli si gettò al collo di suo fratello Beniamino e pianse. Anche Beniamino piangeva stretto al suo collo. Poi baciò tutti i fratelli e pia nse. Dopo i suoi fratelli si misero a conversare con lui. Intanto nella casa del faraone si era diffus a la voce: «Sono venuti i fratelli di Giuseppe!» e questo fece piacere al faraone e ai suoi ministri.
Allora il faraone disse a Giuseppe: «Di’ ai tuoi fratelli: “Fate così: caricate le cavalcature partite e andate nella terra di Canaan. Prendete vostro padre e le vostre famiglie e venite da me: io vi d arò il meglio del territorio d’Egitto e mangerete i migliori prodotti della terra”. Quanto a te da’ l oro questo comando: “Fate così: prendete con voi dalla terra d’Egitto carri per i vostri bambini e le vostre donne caricate vostro padre e venite. Non abbiate rincrescimento per i vostri beni per ché il meglio di tutta la terra d’Egitto sarà vostro”». Così fecero i figli d’Israele. Giuseppe diede l oro carri secondo l’ordine del faraone e consegnò loro una provvista per il viaggio. Diede a tutti un cambio di abiti per ciascuno ma a Beniamino diede trecento sicli d’argento e cinque cambi di abiti. Inoltre mandò al padre dieci asini carichi dei migliori prodotti dell’Egitto e dieci asine caric he di frumento pane e viveri per il viaggio del padre. Poi congedò i fratelli e mentre partivano di sse loro: «Non litigate durante il viaggio!». Così essi salirono dall’Egitto e arrivarono nella terra di Canaan dal loro padre Giacobbe e gli riferirono: «Giuseppe è ancora vivo anzi governa lui tutt o il territorio d’Egitto!». Ma il suo cuore rimase freddo perché non poteva credere loro. Quando però gli riferirono tutte le parole che Giuseppe aveva detto loro ed egli vide i carri che Giusepp
e gli aveva mandato per trasportarlo allora lo spirito del loro padre Giacobbe si rianimò. Israele disse: «Basta! Giuseppe mio figlio è vivo. Voglio andare a vederlo prima di morire!». Israele dun que levò le tende con quanto possedeva e arrivò a Bersabea dove offrì sacrifici al Dio di suo pad re Isacco. Dio disse a Israele in una visione nella notte: «Giacobbe Giacobbe!». Rispose: «Eccomi
!». Riprese: «Io sono Dio il Dio di tuo padre. Non temere di scendere in Egitto perché laggiù io fa rò di te una grande nazione. Io scenderò con te in Egitto e io certo ti farò tornare. Giuseppe ti c hiuderà gli occhi con le sue mani». Giacobbe partì da Bersabea e i figli d’Israele fecero salire il lo ro padre Giacobbe i loro bambini e le loro donne sui carri che il faraone aveva mandato per tras portarlo. Presero il loro bestiame e tutti i beni che avevano acquistato nella terra di Canaan e ve nnero in Egitto Giacobbe e con lui tutti i suoi discendenti. Egli condusse con sé in Egitto i suoi fig li e i nipoti le sue figlie e le nipoti tutti i suoi discendenti. Questi sono i nomi dei figli d’Israele ch e entrarono in Egitto: Giacobbe e i suoi figli il primogenito di Giacobbe, Ruben. I figli di Ruben: E
noc Pallu Chesron e Carmì. I figli di Simeone: Iemuèl Iamin Oad Iachin Socar e Saul figlio della Ca nanea. I figli di Levi: Gherson Keat e Merarì. I figli di Giuda: Er Onan Sela Peres e Zerach; ma Er e Onan erano morti nella terra di Canaan. Furono figli di Peres: Chesron e Camul. I figli di ìssacar: Tola Puva Iob e Simron. I figli di Zàbulon: Sered Elon e Iacleèl. Questi sono i figli che Lia partorì a Giacobbe in Paddan-Aram oltre alla figlia Dina; tutti i figli e le figlie di Giacobbe erano trentatré persone. I figli di Gad
: Sifiòn Agghì Sunì Esbon Erì Arodì e Arelì. I figli di Aser: Imna Isva Isvì Berià e la loro sorella Sera ch. I figli di Berià: Cheber e Malchièl. Questi sono i figli di Zilpa che Làbano aveva dato come schi ava alla figlia Lia; ella li partorì a Giacobbe: erano sedici persone. I figli di Rachele moglie di Giac obbe: Giuseppe e Beniamino. A Giuseppe erano nati in Egitto èfraim e Manasse che gli partorì A senat figlia di Potifera sacerdote di Eliòpoli. I figli di Beniamino: Bela Becher e Asbel Ghera Naa màn, Echì Ros Muppìm Uppìm e Ard. Questi sono i figli che Rachele partorì a Giacobbe; in tutto quattordici persone. I figli di Dan: Cusìm. I figli di Nèftali: Iacseèl, Gunì Ieser e Sillem. Questi son o i figli di Bila che Làbano diede come schiava alla figlia Rachele ed ella li partorì a Giacobbe; in t utto sette persone. Tutte le persone che entrarono con Giacobbe in Egitto discendenti da lui se nza contare le mogli dei figli di Giacobbe furono sessantasei. I figli che nacquero a Giuseppe in E
gitto furono due. Tutte le persone della famiglia di Giacobbe che entrarono in Egitto ammontan o a settanta. Egli aveva mandato Giuda davanti a sé da Giuseppe perché questi desse istruzioni i n Gosen prima del suo arrivo. Arrivarono quindi alla terra di Gosen. Allora Giuseppe fece attacc are il suo carro e salì incontro a Israele suo padre in Gosen. Appena se lo vide davanti gli si gettò al collo e pianse a lungo stretto al suo collo. Israele disse a Giuseppe: «Posso anche morire que sta volta dopo aver visto la tua faccia perché sei ancora vivo». Allora Giuseppe disse ai fratelli e alla famiglia del padre: «Vado a informare il faraone e a dirgli: “I miei fratelli e la famiglia di mio padre che erano nella terra di Canaan sono venuti da me. Questi uomini sono pastori di greggi s i occupano di bestiame e hanno portato le loro greggi i loro armenti e tutti i loro averi”. Quando dunque il faraone vi chiamerà e vi domanderà: “Qual è il vostro mestiere?”, risponderete: “I tu
oi servi sono stati gente dedita al bestiame; lo furono i nostri padri e lo siamo noi dalla nostra fa nciullezza fino ad ora”. Questo perché possiate risiedere nella terra di Gosen». Perché tutti i pas tori di greggi sono un abominio per gli Egiziani. Giuseppe andò a informare il faraone dicendogli
: «Mio padre e i miei fratelli con le loro greggi e i loro armenti e con tutti i loro averi sono venuti dalla terra di Canaan; eccoli nella terra di Gosen». Intanto prese cinque uomini dal gruppo dei s uoi fratelli e li presentò al faraone. Il faraone domandò loro: «Qual è il vostro mestiere?». Essi ri sposero al faraone: «Pastori di greggi sono i tuoi servi lo siamo noi e lo furono i nostri padri». E
dissero al faraone: «Siamo venuti per soggiornare come forestieri nella regione, perché non c’è più pascolo per il gregge dei tuoi servi; infatti è grave la carestia nella terra di Canaan. E ora lasci a che i tuoi servi si stabiliscano nella terra di Gosen!». Allora il faraone disse a Giuseppe: «Tuo p adre e i tuoi fratelli sono dunque venuti da te. Ebbene la terra d’Egitto è a tua disposizione: fa’ r isiedere tuo padre e i tuoi fratelli nella regione migliore. Risiedano pure nella terra di Gosen. Se tu sai che vi sono tra loro uomini capaci costituiscili sopra i miei averi in qualità di sorveglianti s ul bestiame». Quindi Giuseppe introdusse Giacobbe suo padre e lo presentò al faraone e Giaco bbe benedisse il faraone. Il faraone domandò a Giacobbe: «Quanti anni hai?». Giacobbe rispose al faraone: «Centotrenta di vita errabonda pochi e tristi sono stati gli anni della mia vita e non h anno raggiunto il numero degli anni dei miei padri al tempo della loro vita errabonda». E Giacob be benedisse il faraone e si allontanò dal faraone. Giuseppe fece risiedere suo padre e i suoi frat elli e diede loro una proprietà nella terra d’Egitto nella regione migliore nel territorio di Ramses come aveva comandato il faraone. Giuseppe provvide al sostentamento del padre dei fratelli e di tutta la famiglia di suo padre secondo il numero dei bambini. Ora non c’era pane in tutta la te rra perché la carestia era molto grave: la terra d’Egitto e la terra di Canaan languivano per la car estia. Giuseppe raccolse tutto il denaro che si trovava nella terra d’Egitto e nella terra di Canaan in cambio del grano che essi acquistavano; Giuseppe consegnò questo denaro alla casa del fara one. Quando fu esaurito il denaro della terra d’Egitto e della terra di Canaan tutti gli Egiziani ve nnero da Giuseppe a dire: «Dacci del pane! Perché dovremmo morire sotto i tuoi occhi? Infatti non c’è più denaro». Rispose Giuseppe: «Se non c’è più denaro cedetemi il vostro bestiame e io vi darò pane in cambio del vostro bestiame». Condussero così a Giuseppe il loro bestiame e Giu seppe diede loro il pane in cambio dei cavalli e delle pecore dei buoi e degli asini; così in quell’a nno li nutrì di pane in cambio di tutto il loro bestiame. Passato quell’anno vennero da lui l’anno successivo e gli dissero: «Non nascondiamo al mio signore che si è esaurito il denaro e anche il possesso del bestiame è passato al mio signore non rimane più a disposizione del mio signore s e non il nostro corpo e il nostro terreno. Perché dovremmo perire sotto i tuoi occhi noi e la nost ra terra? Acquista noi e la nostra terra in cambio di pane e diventeremo servi del faraone noi co n la nostra terra; ma dacci di che seminare, così che possiamo vivere e non morire e il suolo non diventi un deserto!». Allora Giuseppe acquistò per il faraone tutto il terreno dell’Egitto, perché gli Egiziani vendettero ciascuno il proprio campo tanto infieriva su di loro la carestia. Così la terr a divenne proprietà del faraone. Quanto al popolo egli lo trasferì nelle città da un capo all’altro
dell’Egitto. Soltanto il terreno dei sacerdoti egli non acquistò perché i sacerdoti avevano un’asse gnazione fissa da parte del faraone e si nutrivano dell’assegnazione che il faraone passava loro; per questo non vendettero il loro terreno. Poi Giuseppe disse al popolo: «Vedete io ho acquista to oggi per il faraone voi e il vostro terreno. Eccovi il seme: seminate il terreno. Ma quando vi sa rà il raccolto, voi ne darete un quinto al faraone e quattro parti saranno vostre per la semina dei campi per il nutrimento vostro e di quelli di casa vostra e per il nutrimento dei vostri bambini».
Gli risposero: «Ci hai salvato la vita! Ci sia solo concesso di trovare grazia agli occhi del mio sign ore e saremo servi del faraone!». Così Giuseppe fece di questo una legge in vigore fino ad oggi s ui terreni d’Egitto secondo la quale si deve dare la quinta parte al faraone. Soltanto i terreni dei sacerdoti non divennero proprietà del faraone. Gli Israeliti intanto si stabilirono nella terra d’Egi tto nella regione di Gosen, ebbero proprietà e furono fecondi e divennero molto numerosi. Giac obbe visse nella terra d’Egitto diciassette anni e gli anni della sua vita furono centoquarantasett e. Quando fu vicino il tempo della sua morte Israele chiamò il figlio Giuseppe e gli disse: «Se ho trovato grazia ai tuoi occhi metti la mano sotto la mia coscia e usa con me bontà e fedeltà: non seppellirmi in Egitto! Quando io mi sarò coricato con i miei padri portami via dall’Egitto e seppel liscimi nel loro sepolcro». Rispose: «Farò come hai detto». Riprese: «Giuramelo!». E glielo giurò.
Allora Israele si prostrò sul capezzale del letto. Dopo queste cose fu riferito a Giuseppe: «Ecco t uo padre è malato!». Allora egli prese con sé i due figli Manasse ed èfraim. Fu riferita la cosa a Giacobbe: «Ecco tuo figlio Giuseppe è venuto da te». Allora Israele raccolse le forze e si mise a s edere sul letto. Giacobbe disse a Giuseppe: «Dio l’Onnipotente mi apparve a Luz nella terra di C
anaan e mi benedisse dicendomi: “Ecco io ti rendo fecondo: ti moltiplicherò e ti farò diventare un insieme di popoli e darò questa terra alla tua discendenza dopo di te in possesso perenne”.
Ora i due figli che ti sono nati nella terra d’Egitto prima del mio arrivo presso di te in Egitto li co nsidero miei: èfraim e Manasse saranno miei come Ruben e Simeone. Invece i figli che tu avrai g enerato dopo di essi apparterranno a te: saranno chiamati con il nome dei loro fratelli nella loro eredità. Quanto a me mentre giungevo da Paddan tua madre Rachele mi morì nella terra di Can aan durante il viaggio quando mancava un tratto di cammino per arrivare a èfrata e l’ho sepolta là lungo la strada di èfrata cioè Betlemme». Israele vide i figli di Giuseppe e disse: «Chi sono qu esti?». Giuseppe disse al padre: «Sono i figli che Dio mi ha dato qui». Riprese: «Portameli perch é io li benedica!». Gli occhi d’Israele erano offuscati dalla vecchiaia: non poteva più distinguere.
Giuseppe li avvicinò a lui che li baciò e li abbracciò. Israele disse a Giuseppe: «Io non pensavo pi ù di vedere il tuo volto; ma ecco Dio mi ha concesso di vedere anche la tua prole!». Allora Giuse ppe li ritirò dalle sue ginocchia e si prostrò con la faccia a terra. Li prese tutti e due èfraim con la sua destra alla sinistra d’Israele, e Manasse con la sua sinistra alla destra d’Israele e li avvicinò a lui. Ma Israele stese la mano destra e la pose sul capo di èfraim che pure era il più giovane e la sua sinistra sul capo di Manasse incrociando le braccia benché Manasse fosse il primogenito. E c osì benedisse Giuseppe: «Il Dio alla cui presenza hanno camminato i miei padri Abramo e Isacco
, il Dio che è stato il mio pastore da quando esisto fino ad oggi, l’angelo che mi ha liberato da og
ni male, benedica questi ragazzi! Sia ricordato in essi il mio nome e il nome dei miei padri Abra mo e Isacco, e si moltiplichino in gran numero in mezzo alla terra!». Giuseppe notò che il padre aveva posato la destra sul capo di èfraim e ciò gli spiacque. Prese dunque la mano del padre per toglierla dal capo di èfraim e porla sul capo di Manasse. Disse al padre: «Non così padre mio: è questo il primogenito posa la destra sul suo capo!». Ma il padre rifiutò e disse: «Lo so figlio mio lo so: anch’egli diventerà un popolo anch’egli sarà grande, ma il suo fratello minore sarà più gra nde di lui e la sua discendenza diventerà una moltitudine di nazioni». E li benedisse in quel gior no: «Di te si servirà Israele per benedire dicendo: “Dio ti renda come èfraim e come Manasse!”»
. Così pose èfraim prima di Manasse. Quindi Israele disse a Giuseppe: «Ecco io sto per morire m a Dio sarà con voi e vi farà tornare alla terra dei vostri padri. Quanto a me io do a te in più che ai tuoi fratelli un dorso di monte che io ho conquistato dalle mani degli Amorrei con la spada e l’a rco». Quindi Giacobbe chiamò i figli e disse: «Radunatevi perché io vi annunci quello che vi acca drà nei tempi futuri. Radunatevi e ascoltate figli di Giacobbe, ascoltate Israele vostro padre! Ru ben tu sei il mio primogenito, il mio vigore e la primizia della mia virilità, esuberante in fierezza ed esuberante in forza! Bollente come l’acqua tu non avrai preminenza, perché sei salito sul tal amo di tuo padre, hai profanato così il mio giaciglio. Simeone e Levi sono fratelli, strumenti di vi olenza sono i loro coltelli. Nel loro conciliabolo non entri l’anima mia, al loro convegno non si un isca il mio cuore, perché nella loro ira hanno ucciso gli uomini e nella loro passione hanno mutil ato i tori. Maledetta la loro ira perché violenta, e la loro collera perché crudele! Io li dividerò in Giacobbe e li disperderò in Israele. Giuda ti loderanno i tuoi fratelli; la tua mano sarà sulla cervic e dei tuoi nemici; davanti a te si prostreranno i figli di tuo padre. Un giovane leone è Giuda: dall a preda figlio mio sei tornato; si è sdraiato si è accovacciato come un leone e come una leoness a; chi lo farà alzare? Non sarà tolto lo scettro da Giuda né il bastone del comando tra i suoi piedi
, finché verrà colui al quale esso appartiene e a cui è dovuta l’obbedienza dei popoli. Egli lega all a vite il suo asinello e a una vite scelta il figlio della sua asina, lava nel vino la sua veste e nel san gue dell’uva il suo manto; scuri ha gli occhi più del vino e bianchi i denti più del latte. Zàbulon gi ace lungo il lido del mare e presso l’approdo delle navi, con il fianco rivolto a Sidone. ìssacar è u n asino robusto, accovacciato tra un doppio recinto. Ha visto che il luogo di riposo era bello, che la terra era amena; ha piegato il dorso a portare la soma ed è stato ridotto ai lavori forzati. Dan giudica il suo popolo come una delle tribù d’Israele. Sia Dan un serpente sulla strada una vipera cornuta sul sentiero, che morde i garretti del cavallo, così che il suo cavaliere cada all’indietro. I o spero nella tua salvezza Signore! Gad predoni lo assaliranno, ma anche lui li assalirà alle calca gna. Aser il suo pane è pingue: egli fornisce delizie da re. Nèftali è una cerva slanciata; egli prop one parole d’incanto. Germoglio di ceppo fecondo è Giuseppe; germoglio di ceppo fecondo pre sso una fonte, i cui rami si stendono sul muro. Lo hanno esasperato e colpito, lo hanno persegui tato i tiratori di frecce. Ma fu spezzato il loro arco, furono snervate le loro braccia per le mani d el Potente di Giacobbe, per il nome del Pastore Pietra d’Israele. Per il Dio di tuo padre: egli ti aiu ti, e per il Dio l’Onnipotente: egli ti benedica! Con benedizioni del cielo dall’alto, benedizioni del
l’abisso nel profondo, benedizioni delle mammelle e del grembo. Le benedizioni di tuo padre so no superiori alle benedizioni dei monti antichi, alle attrattive dei colli perenni. Vengano sul capo di Giuseppe e sulla testa del principe tra i suoi fratelli! Beniamino è un lupo che sbrana: al matti no divora la preda e alla sera spartisce il bottino». Tutti questi formano le dodici tribù d’Israele.
Questo è ciò che disse loro il padre nell’atto di benedirli; egli benedisse ciascuno con una bened izione particolare. Poi diede loro quest’ordine: «Io sto per essere riunito ai miei antenati: seppel litemi presso i miei padri nella caverna che è nel campo di Efron l’Ittita, nella caverna che si trov a nel campo di Macpela di fronte a Mamre nella terra di Canaan, quella che Abramo acquistò co n il campo di Efron l’Ittita come proprietà sepolcrale. Là seppellirono Abramo e Sara sua moglie là seppellirono Isacco e Rebecca sua moglie e là seppellii Lia. La proprietà del campo e della cav erna che si trova in esso è stata acquistata dagli Ittiti». Quando Giacobbe ebbe finito di dare qu est’ordine ai figli ritrasse i piedi nel letto e spirò e fu riunito ai suoi antenati. Allora Giuseppe si g ettò sul volto di suo padre pianse su di lui e lo baciò. Quindi Giuseppe ordinò ai medici al suo se rvizio di imbalsamare suo padre. I medici imbalsamarono Israele e vi impiegarono quaranta gior ni perché tanti ne occorrono per l’imbalsamazione. Gli Egiziani lo piansero settanta giorni. Passa ti i giorni del lutto Giuseppe parlò alla casa del faraone: «Se ho trovato grazia ai vostri occhi vogl iate riferire agli orecchi del faraone queste parole. Mio padre mi ha fatto fare un giuramento dic endomi: “Ecco io sto per morire: tu devi seppellirmi nel sepolcro che mi sono scavato nella terra di Canaan”. Ora possa io andare a seppellire mio padre e poi tornare». Il faraone rispose: «Va’
e seppellisci tuo padre come egli ti ha fatto giurare». Giuseppe andò a seppellire suo padre e co n lui andarono tutti i ministri del faraone, gli anziani della sua casa tutti gli anziani della terra d’E
gitto tutta la casa di Giuseppe i suoi fratelli e la casa di suo padre. Lasciarono nella regione di Go sen soltanto i loro bambini le loro greggi e i loro armenti. Andarono con lui anche i carri da guer ra e la cavalleria, così da formare una carovana imponente. Quando arrivarono all’aia di Atad ch e è al di là del Giordano fecero un lamento molto grande e solenne e Giuseppe celebrò per suo padre un lutto di sette giorni. I Cananei che abitavano la terra videro il lutto all’aia di Atad e diss ero: «è un lutto grave questo per gli Egiziani». Per questo la si chiamò Abel-Misràim; essa si trova al di là del Giordano. I figli di Giacobbe fecero per lui così come aveva loro comandato. I suoi figli lo portarono nella terra di Canaan e lo seppellirono nella caverna del ca mpo di Macpela quel campo che Abramo aveva acquistato come proprietà sepolcrale da Efron l’
Ittita e che si trova di fronte a Mamre. Dopo aver sepolto suo padre Giuseppe tornò in Egitto ins ieme con i suoi fratelli e con quanti erano andati con lui a seppellire suo padre. Ma i fratelli di Gi useppe cominciarono ad aver paura dato che il loro padre era morto e dissero: «Chissà se Giuse ppe non ci tratterà da nemici e non ci renderà tutto il male che noi gli abbiamo fatto?». Allora mandarono a dire a Giuseppe: «Tuo padre prima di morire ha dato quest’ordine: “Direte a Gius eppe: Perdona il delitto dei tuoi fratelli e il loro peccato perché ti hanno fatto del male!”. Perdo na dunque il delitto dei servi del Dio di tuo padre!». Giuseppe pianse quando gli si parlò così. E i suoi fratelli andarono e si gettarono a terra davanti a lui e dissero: «Eccoci tuoi schiavi!». Ma Gi
useppe disse loro: «Non temete. Tengo io forse il posto di Dio? Se voi avevate tramato del male contro di me Dio ha pensato di farlo servire a un bene per compiere quello che oggi si avvera: fa r vivere un popolo numeroso. Dunque non temete io provvederò al sostentamento per voi e pe r i vostri bambini». Così li consolò parlando al loro cuore. Giuseppe con la famiglia di suo padre abitò in Egitto; egli visse centodieci anni. Così Giuseppe vide i figli di èfraim fino alla terza gener azione e anche i figli di Machir figlio di Manasse nacquero sulle ginocchia di Giuseppe. Poi Giuse ppe disse ai fratelli: «Io sto per morire ma Dio verrà certo a visitarvi e vi farà uscire da questa te rra verso la terra che egli ha promesso con giuramento ad Abramo a Isacco e a Giacobbe». Gius eppe fece giurare ai figli d’Israele così: «Dio verrà certo a visitarvi e allora voi porterete via di qu i le mie ossa». Giuseppe morì all’età di centodieci anni; lo imbalsamarono e fu posto in un sarco fago in Egitto. Questi sono i nomi dei figli d’Israele entrati in Egitto; essi vi giunsero insieme a Gi acobbe ognuno con la sua famiglia: Ruben Simeone Levi e Giuda, ìssacar Zàbulon e Beniamino D
an e Nèftali Gad e Aser. Tutte le persone discendenti da Giacobbe erano settanta. Giuseppe si tr ovava già in Egitto. Giuseppe poi morì e così tutti i suoi fratelli e tutta quella generazione. I figli d’Israele prolificarono e crebbero divennero numerosi e molto forti e il paese ne fu pieno. Allor a sorse sull’Egitto un nuovo re che non aveva conosciuto Giuseppe. Egli disse al suo popolo: «Ec co che il popolo dei figli d’Israele è più numeroso e più forte di noi. Cerchiamo di essere avvedut i nei suoi riguardi per impedire che cresca altrimenti in caso di guerra si unirà ai nostri avversari combatterà contro di noi e poi partirà dal paese». Perciò vennero imposti loro dei sovrintenden ti ai lavori forzati per opprimerli con le loro angherie e così costruirono per il faraone le città-
deposito cioè Pitom e Ramses. Ma quanto più opprimevano il popolo tanto più si moltiplicava e cresceva ed essi furono presi da spavento di fronte agli Israeliti. Per questo gli Egiziani fecero lav orare i figli d’Israele trattandoli con durezza. Resero loro amara la vita mediante una dura schia vitù costringendoli a preparare l’argilla e a fabbricare mattoni e ad ogni sorta di lavoro nei camp i; a tutti questi lavori li obbligarono con durezza. Il re d’Egitto disse alle levatrici degli Ebrei delle quali una si chiamava Sifra e l’altra Pua: «Quando assistete le donne ebree durante il parto oss ervate bene tra le due pietre: se è un maschio fatelo morire; se è una femmina potrà vivere». M
a le levatrici temettero Dio: non fecero come aveva loro ordinato il re d’Egitto e lasciarono viver e i bambini. Il re d’Egitto chiamò le levatrici e disse loro: «Perché avete fatto questo e avete lasc iato vivere i bambini?». Le levatrici risposero al faraone: «Le donne ebree non sono come le egi ziane: sono piene di vitalità. Prima che giunga da loro la levatrice hanno già partorito!». Dio ben eficò le levatrici. Il popolo aumentò e divenne molto forte. E poiché le levatrici avevano temuto Dio egli diede loro una discendenza. Allora il faraone diede quest’ordine a tutto il suo popolo: «
Gettate nel Nilo ogni figlio maschio che nascerà ma lasciate vivere ogni femmina». Un uomo del la famiglia di Levi andò a prendere in moglie una discendente di Levi. La donna concepì e partorì un figlio; vide che era bello e lo tenne nascosto per tre mesi. Ma non potendo tenerlo nascosto più oltre prese per lui un cestello di papiro lo spalmò di bitume e di pece vi adagiò il bambino e l o depose fra i giunchi sulla riva del Nilo. La sorella del bambino si pose a osservare da lontano c
he cosa gli sarebbe accaduto. Ora la figlia del faraone scese al Nilo per fare il bagno mentre le s ue ancelle passeggiavano lungo la sponda del Nilo. Ella vide il cestello fra i giunchi e mandò la su a schiava a prenderlo. L’aprì e vide il bambino: ecco il piccolo piangeva. Ne ebbe compassione e disse: «è un bambino degli Ebrei». La sorella del bambino disse allora alla figlia del faraone: «De vo andare a chiamarti una nutrice tra le donne ebree perché allatti per te il bambino?». «Va’» ri spose la figlia del faraone. La fanciulla andò a chiamare la madre del bambino. La figlia del farao ne le disse: «Porta con te questo bambino e allattalo per me; io ti darò un salario». La donna pr ese il bambino e lo allattò. Quando il bambino fu cresciuto lo condusse alla figlia del faraone. Eg li fu per lei come un figlio e lo chiamò Mosè dicendo: «Io l’ho tratto dalle acque!». Un giorno M
osè cresciuto in età si recò dai suoi fratelli e notò i loro lavori forzati. Vide un Egiziano che colpiv a un Ebreo uno dei suoi fratelli. Voltatosi attorno e visto che non c’era nessuno colpì a morte l’E
giziano e lo sotterrò nella sabbia. Il giorno dopo uscì di nuovo e vide due Ebrei che litigavano; di sse a quello che aveva torto: «Perché percuoti il tuo fratello?». Quegli rispose: «Chi ti ha costitui to capo e giudice su di noi? Pensi forse di potermi uccidere come hai ucciso l’Egiziano?». Allora Mosè ebbe paura e pensò: «Certamente la cosa si è risaputa». Il faraone sentì parlare di questo fatto e fece cercare Mosè per metterlo a morte. Allora Mosè fuggì lontano dal faraone e si ferm ò nel territorio di Madian e sedette presso un pozzo. Il sacerdote di Madian aveva sette figlie. Es se vennero ad attingere acqua e riempirono gli abbeveratoi per far bere il gregge del padre. Ma arrivarono alcuni pastori e le scacciarono. Allora Mosè si levò a difendere le ragazze e fece bere il loro bestiame. Tornarono dal loro padre Reuèl e questi disse loro: «Come mai oggi avete fatto ritorno così in fretta?». Risposero: «Un uomo un Egiziano ci ha liberato dalle mani dei pastori; l ui stesso ha attinto per noi e ha fatto bere il gregge». Quegli disse alle figlie: «Dov’è? Perché ave te lasciato là quell’uomo? Chiamatelo a mangiare il nostro cibo!». Così Mosè accettò di abitare con quell’uomo che gli diede in moglie la propria figlia Sipporà. Ella gli partorì un figlio ed egli lo chiamò Ghersom perché diceva: «Vivo come forestiero in terra straniera!». Dopo molto tempo i l re d’Egitto morì. Gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù alzarono grida di lamento e il loro g rido dalla schiavitù salì a Dio. Dio ascoltò il loro lamento Dio si ricordò della sua alleanza con Abr amo, Isacco e Giacobbe. Dio guardò la condizione degli Israeliti Dio se ne diede pensiero. Mentr e Mosè stava pascolando il gregge di Ietro suo suocero sacerdote di Madian, condusse il bestia me oltre il deserto e arrivò al monte di Dio l’Oreb. L’angelo del Signore gli apparve in una fiamm a di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco ma quel rov eto non si consumava. Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?». Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui d al roveto: «Mosè Mosè!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali d ai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!». E disse: «Io sono il Dio di tuo padre il Di o di Abramo il Dio di Isacco il Dio di Giacobbe». Mosè allora si coprì il volto perché aveva paura di guardare verso Dio. Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho ud ito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberar
lo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa verso u na terra dove scorrono latte e miele verso il luogo dove si trovano il Cananeo l’Ittita l’Amorreo il Perizzita l’Eveo il Gebuseo. Ecco il grido degli Israeliti è arrivato fino a me e io stesso ho visto co me gli Egiziani li opprimono. Perciò va’! Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio pop olo gli Israeliti!». Mosè disse a Dio: «Chi sono io per andare dal faraone e far uscire gli Israeliti d all’Egitto?». Rispose: «Io sarò con te. Questo sarà per te il segno che io ti ho mandato: quando t u avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto servirete Dio su questo monte». Mosè disse a Dio: «Ecco io vado dagli Israeliti e dico loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi”. Mi diranno: “Qua l è il suo nome?”. E io che cosa risponderò loro?». Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!».
E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: “Io-
Sono mi ha mandato a voi”». Dio disse ancora a Mosè: «Dirai agli Israeliti: “Il Signore Dio dei vos tri padri Dio di Abramo Dio di Isacco Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi”. Questo è il mio nom e per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione. Va’! Riunis ci gli anziani d’Israele e di’ loro: “Il Signore Dio dei vostri padri Dio di Abramo di Isacco e di Giaco bbe mi è apparso per dirmi: Sono venuto a visitarvi e vedere ciò che viene fatto a voi in Egitto. E
ho detto: Vi farò salire dalla umiliazione dell’Egitto verso la terra del Cananeo dell’Ittita dell’Am orreo del Perizzita, dell’Eveo e del Gebuseo verso una terra dove scorrono latte e miele”. Essi as colteranno la tua voce e tu e gli anziani d’Israele andrete dal re d’Egitto e gli direte: “Il Signore D
io degli Ebrei si è presentato a noi. Ci sia permesso di andare nel deserto a tre giorni di cammin o per fare un sacrificio al Signore nostro Dio”. Io so che il re d’Egitto non vi permetterà di partire se non con l’intervento di una mano forte. Stenderò dunque la mano e colpirò l’Egitto con tutti i prodigi che opererò in mezzo ad esso dopo di che egli vi lascerà andare. Farò sì che questo pop olo trovi grazia agli occhi degli Egiziani: quando partirete non ve ne andrete a mani vuote. Ogni donna domanderà alla sua vicina e all’inquilina della sua casa oggetti d’argento e oggetti d’oro e vesti; li farete portare ai vostri figli e alle vostre figlie e spoglierete l’Egitto». Mosè replicò dice ndo: «Ecco non mi crederanno non daranno ascolto alla mia voce ma diranno: “Non ti è appars o il Signore!”». Il Signore gli disse: «Che cosa hai in mano?». Rispose: «Un bastone». Riprese: «G
ettalo a terra!». Lo gettò a terra e il bastone diventò un serpente davanti al quale Mosè si mise a fuggire. Il Signore disse a Mosè: «Stendi la mano e prendilo per la coda!». Stese la mano lo pre se e diventò di nuovo un bastone nella sua mano. «Questo perché credano che ti è apparso il Si gnore Dio dei loro padri, Dio di Abramo Dio di Isacco Dio di Giacobbe». Il Signore gli disse ancor a: «Introduci la mano nel seno!». Egli si mise in seno la mano e poi la ritirò: ecco la sua mano er a diventata lebbrosa bianca come la neve. Egli disse: «Rimetti la mano nel seno!». Rimise in sen o la mano e la tirò fuori: ecco era tornata come il resto della sua carne. «Dunque se non ti credo no e non danno retta alla voce del primo segno crederanno alla voce del secondo! Se non crede ranno neppure a questi due segni e non daranno ascolto alla tua voce prenderai acqua del Nilo e la verserai sulla terra asciutta: l’acqua che avrai preso dal Nilo diventerà sangue sulla terra asc iutta». Mosè disse al Signore: «Perdona Signore io non sono un buon parlatore; non lo sono stat
o né ieri né ieri l’altro e neppure da quando tu hai cominciato a parlare al tuo servo ma sono im pacciato di bocca e di lingua». Il Signore replicò: «Chi ha dato una bocca all’uomo o chi lo rende muto o sordo veggente o cieco? Non sono forse io il Signore? Ora va’! Io sarò con la tua bocca e ti insegnerò quello che dovrai dire». Mosè disse: «Perdona Signore manda chi vuoi mandare!».
Allora la collera del Signore si accese contro Mosè e gli disse: «Non vi è forse tuo fratello Aronn e il levita? Io so che lui sa parlare bene. Anzi sta venendoti incontro. Ti vedrà e gioirà in cuor suo
. Tu gli parlerai e porrai le parole sulla sua bocca e io sarò con la tua e la sua bocca e vi insegner ò quello che dovrete fare. Parlerà lui al popolo per te: egli sarà la tua bocca e tu farai per lui le v eci di Dio. Terrai in mano questo bastone: con esso tu compirai i segni». Mosè partì tornò da Iet ro suo suocero e gli disse: «Lasciami andare ti prego: voglio tornare dai miei fratelli che sono in Egitto per vedere se sono ancora vivi!». Ietro rispose a Mosè: «Va’ in pace!». Il Signore disse a Mosè in Madian: «Va’ torna in Egitto perché sono morti quanti insidiavano la tua vita!». Mosè p rese la moglie e i figli li fece salire sull’asino e tornò nella terra d’Egitto. E Mosè prese in mano il bastone di Dio. Il Signore disse a Mosè: «Mentre parti per tornare in Egitto bada a tutti i prodigi che ti ho messi in mano: tu li compirai davanti al faraone ma io indurirò il suo cuore ed egli non lascerà partire il popolo. Allora tu dirai al faraone: “Così dice il Signore: Israele è il mio figlio pri mogenito. Io ti avevo detto: lascia partire il mio figlio perché mi serva! Ma tu hai rifiutato di lasc iarlo partire: ecco io farò morire il tuo figlio primogenito!”». Mentre era in viaggio nel luogo dov e pernottava il Signore lo affrontò e cercò di farlo morire. Allora Sipporà prese una selce taglien te recise il prepuzio al figlio e con quello gli toccò i piedi e disse: «Tu sei per me uno sposo di sa ngue». Allora il Signore si ritirò da lui. Ella aveva detto «sposo di sangue» a motivo della circonci sione. Il Signore disse ad Aronne: «Va’ incontro a Mosè nel deserto!». Egli andò e lo incontrò al monte di Dio e lo baciò. Mosè riferì ad Aronne tutte le parole con le quali il Signore lo aveva invi ato e tutti i segni con i quali l’aveva accreditato. Mosè e Aronne andarono e radunarono tutti gli anziani degli Israeliti. Aronne parlò al popolo riferendo tutte le parole che il Signore aveva dett o a Mosè e compì i segni davanti agli occhi del popolo. Allora il popolo credette. Quando udiron o che il Signore aveva visitato gli Israeliti e che aveva visto la loro afflizione essi si inginocchiaro no e si prostrarono. In seguito Mosè e Aronne vennero dal faraone e gli annunciarono: «Così dic e il Signore il Dio d’Israele: “Lascia partire il mio popolo perché mi celebri una festa nel deserto!
”». Il faraone rispose: «Chi è il Signore perché io debba ascoltare la sua voce e lasciare partire Is raele? Non conosco il Signore e non lascerò certo partire Israele!». Ripresero: «Il Dio degli Ebrei ci è venuto incontro. Ci sia dunque concesso di partire per un cammino di tre giorni nel deserto e offrire un sacrificio al Signore, nostro Dio perché non ci colpisca di peste o di spada!». Il re d’E
gitto disse loro: «Mosè e Aronne perché distogliete il popolo dai suoi lavori? Tornate ai vostri la vori forzati!». Il faraone disse: «Ecco ora che il popolo è numeroso nel paese voi vorreste far lor o interrompere i lavori forzati?». In quel giorno il faraone diede questi ordini ai sovrintendenti d el popolo e agli scribi: «Non darete più la paglia al popolo per fabbricare i mattoni come facevat e prima. Andranno a cercarsi da sé la paglia. Però voi dovete esigere il numero di mattoni che fa
cevano finora senza ridurlo. Sono fannulloni; per questo protestano: “Vogliamo partire, dobbia mo sacrificare al nostro Dio!”. Pesi dunque la schiavitù su questi uomini e lavorino; non diano re tta a parole false!». I sovrintendenti del popolo e gli scribi uscirono e riferirono al popolo: «Così dice il faraone: “Io non vi fornisco più paglia. Andate voi stessi a procurarvela dove ne troverete ma non diminuisca la vostra produzione”». Il popolo si sparse in tutto il territorio d’Egitto a racc ogliere stoppie da usare come paglia. Ma i sovrintendenti li sollecitavano dicendo: «Portate a te rmine il vostro lavoro: ogni giorno lo stesso quantitativo come quando avevate la paglia». Basto narono gli scribi degli Israeliti quelli che i sovrintendenti del faraone avevano costituito loro capi dicendo: «Perché non avete portato a termine né ieri né oggi il vostro numero di mattoni come prima?». Allora gli scribi degli Israeliti vennero dal faraone a reclamare dicendo: «Perché tratti così noi tuoi servi? Non viene data paglia ai tuoi servi, ma ci viene detto: “Fate i mattoni!”. E ora i tuoi servi sono bastonati e la colpa è del tuo popolo!». Rispose: «Fannulloni siete fannulloni! P
er questo dite: “Vogliamo partire dobbiamo sacrificare al Signore”. Ora andate lavorate! Non vi sarà data paglia ma dovrete consegnare lo stesso numero di mattoni». Gli scribi degli Israeliti si videro in difficoltà sentendosi dire: «Non diminuirete affatto il numero giornaliero dei mattoni»
. Usciti dalla presenza del faraone quando incontrarono Mosè e Aronne che stavano ad aspettar li dissero loro: «Il Signore guardi a voi e giudichi perché ci avete resi odiosi agli occhi del faraone e agli occhi dei suoi ministri mettendo loro in mano la spada per ucciderci!». Allora Mosè si rivo lse al Signore e disse: «Signore perché hai maltrattato questo popolo? Perché dunque mi hai inv iato? Da quando sono venuto dal faraone per parlargli in tuo nome egli ha fatto del male a ques to popolo e tu non hai affatto liberato il tuo popolo!». Il Signore disse a Mosè: «Ora vedrai quell o che sto per fare al faraone: con mano potente li lascerà andare anzi con mano potente li scacc erà dalla sua terra!». Dio parlò a Mosè e gli disse: «Io sono il Signore! Mi sono manifestato ad A bramo a Isacco a Giacobbe come Dio l’Onnipotente ma non ho fatto conoscere loro il mio nome di Signore. Ho anche stabilito la mia alleanza con loro per dar loro la terra di Canaan la terra del le loro migrazioni nella quale furono forestieri. Io stesso ho udito il lamento degli Israeliti che gli Egiziani resero loro schiavi e mi sono ricordato della mia alleanza. Pertanto di’ agli Israeliti: “Io s ono il Signore! Vi sottrarrò ai lavori forzati degli Egiziani vi libererò dalla loro schiavitù e vi riscat terò con braccio teso e con grandi castighi. Vi prenderò come mio popolo e diventerò il vostro D
io. Saprete che io sono il Signore il vostro Dio che vi sottrae ai lavori forzati degli Egiziani. Vi farò entrare nella terra che ho giurato a mano alzata di dare ad Abramo a Isacco e a Giacobbe; ve la darò in possesso: io sono il Signore!”». Mosè parlò così agli Israeliti ma essi non lo ascoltarono p erché erano stremati dalla dura schiavitù. Il Signore disse a Mosè: «Va’ e parla al faraone re d’E
gitto perché lasci partire dalla sua terra gli Israeliti!». Mosè disse alla presenza del Signore: «Ecc o gli Israeliti non mi hanno ascoltato: come vorrà ascoltarmi il faraone mentre io ho le labbra in circoncise?». Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne e diede loro ordini per gli Israeliti e per il farao ne re d’Egitto allo scopo di far uscire gli Israeliti dalla terra d’Egitto. Questi sono i capi dei loro c asati. Figli di Ruben primogenito d’Israele: Enoc Pallu Chesron e Carmì queste sono le famiglie di
Ruben. Figli di Simeone: Iemuèl Iamin Oad Iachin Socar e Saul figlio della Cananea; queste sono le famiglie di Simeone. Questi sono i nomi dei figli di Levi secondo le loro generazioni: Gherson Keat, Merarì. Gli anni della vita di Levi furono centotrentasette. Figli di Gherson: Libnì e Simei or dinati secondo le loro famiglie. Figli di Keat: Amram Isar Ebron e Uzzièl. Gli anni della vita di Kea t furono centotrentatré. Figli di Merarì: Maclì e Musì queste sono le famiglie di Levi secondo le l oro generazioni. Amram prese in moglie Iochebed sua zia la quale gli partorì Aronne e Mosè. Gli anni della vita di Amram furono centotrentasette. Figli di Isar: Core Nefeg e Zicrì. Figli di Uzzièl: Misaele Elsafàn Sitrì. Aronne prese in moglie Elisabetta figlia di Amminadàb sorella di Nacson da lla quale ebbe i figli Nadab Abiu Eleàzaro e Itamàr. Figli di Core: Assir Elkanà e Abiasàf; queste so no le famiglie dei Coriti. Eleàzaro figlio di Aronne prese in moglie una figlia di Putièl la quale gli p artorì Fineès. Questi sono i capi delle casate dei leviti ordinati secondo le loro famiglie. Sono qu esti quell’Aronne e quel Mosè ai quali il Signore disse: «Fate uscire dalla terra d’Egitto gli Israelit i secondo le loro schiere!». Questi dissero al faraone re d’Egitto di lasciar uscire dall’Egitto gli Isr aeliti: sono Mosè e Aronne. Questo avvenne quando il Signore parlò a Mosè nella terra d’Egitto: il Signore disse a Mosè: «Io sono il Signore! Riferisci al faraone re d’Egitto quanto io ti dico». M
osè disse alla presenza del Signore: «Ecco ho le labbra incirconcise e come vorrà ascoltarmi il far aone?». Il Signore disse a Mosè: «Vedi io ti ho posto a far le veci di Dio di fronte al faraone: Aro nne tuo fratello sarà il tuo profeta. Tu gli dirai quanto io ti ordinerò: Aronne tuo fratello parlerà al faraone perché lasci partire gli Israeliti dalla sua terra. Ma io indurirò il cuore del faraone e m oltiplicherò i miei segni e i miei prodigi nella terra d’Egitto. Il faraone non vi ascolterà e io leverò la mano contro l’Egitto e farò uscire dalla terra d’Egitto le mie schiere il mio popolo gli Israeliti per mezzo di grandi castighi. Allora gli Egiziani sapranno che io sono il Signore, quando stenderò la mano contro l’Egitto e farò uscire di mezzo a loro gli Israeliti!». Mosè e Aronne eseguirono q uanto il Signore aveva loro comandato; così fecero. Mosè aveva ottant’anni e Aronne ottantatr é quando parlarono al faraone. Il Signore disse a Mosè e ad Aronne: «Quando il faraone vi chied erà di fare un prodigio a vostro sostegno tu dirai ad Aronne: “Prendi il tuo bastone e gettalo dav anti al faraone e diventerà un serpente!”». Mosè e Aronne si recarono dunque dal faraone ed e seguirono quanto il Signore aveva loro comandato: Aronne gettò il suo bastone davanti al farao ne e ai suoi ministri ed esso divenne un serpente. A sua volta il faraone convocò i sapienti e gli i ncantatori e anche i maghi dell’Egitto con i loro sortilegi, operarono la stessa cosa. Ciascuno get tò il suo bastone e i bastoni divennero serpenti. Ma il bastone di Aronne inghiottì i loro bastoni.
Però il cuore del faraone si ostinò e non diede loro ascolto secondo quanto aveva detto il Signor e. Il Signore disse a Mosè: «Il cuore del faraone è irremovibile: si rifiuta di lasciar partire il popol o. Va’ dal faraone al mattino quando uscirà verso le acque. Tu starai ad attenderlo sulla riva del Nilo tenendo in mano il bastone che si è cambiato in serpente. Gli dirai: “Il Signore il Dio degli E
brei mi ha inviato a dirti: Lascia partire il mio popolo perché possa servirmi nel deserto; ma tu fi nora non hai obbedito. Dice il Signore: Da questo fatto saprai che io sono il Signore; ecco con il bastone che ho in mano io batto un colpo sulle acque che sono nel Nilo: esse si muteranno in sa
ngue. I pesci che sono nel Nilo moriranno e il Nilo ne diventerà fetido così che gli Egiziani non p otranno più bere acqua dal Nilo!”». Il Signore disse a Mosè: «Di’ ad Aronne: “Prendi il tuo basto ne e stendi la mano sulle acque degli Egiziani sui loro fiumi canali stagni e su tutte le loro riserve di acqua; diventino sangue e ci sia sangue in tutta la terra d’Egitto perfino nei recipienti di legn o e di pietra!”». Mosè e Aronne eseguirono quanto aveva ordinato il Signore: Aronne alzò il bas tone e percosse le acque che erano nel Nilo sotto gli occhi del faraone e dei suoi ministri. Tutte l e acque che erano nel Nilo si mutarono in sangue. I pesci che erano nel Nilo morirono e il Nilo n e divenne fetido così che gli Egiziani non poterono più berne le acque. Vi fu sangue in tutta la te rra d’Egitto. Ma i maghi dell’Egitto con i loro sortilegi operarono la stessa cosa. Il cuore del farao ne si ostinò e non diede loro ascolto secondo quanto aveva detto il Signore. Il faraone voltò le s palle e rientrò nella sua casa e non tenne conto neppure di questo fatto. Tutti gli Egiziani scavar ono allora nei dintorni del Nilo per attingervi acqua da bere perché non potevano bere le acque del Nilo. Trascorsero sette giorni da quando il Signore aveva colpito il Nilo. Il Signore disse a Mo sè: «Va’ a riferire al faraone: “Dice il Signore: Lascia partire il mio popolo perché mi possa servir e! Se tu rifiuti di lasciarlo partire ecco io colpirò tutto il tuo territorio con le rane: il Nilo bruliche rà di rane; esse usciranno ti entreranno in casa nella camera dove dormi e sul tuo letto nella cas a dei tuoi ministri e tra il tuo popolo nei tuoi forni e nelle tue madie. Contro di te, contro il tuo p opolo e contro tutti i tuoi ministri usciranno le rane”». Il Signore disse a Mosè: «Di’ ad Aronne: “
Stendi la mano con il tuo bastone sui fiumi sui canali e sugli stagni e fa’ uscire le rane sulla terra d’Egitto!”». Aronne stese la mano sulle acque d’Egitto e le rane uscirono e coprirono la terra d’E
gitto. Ma i maghi con i loro sortilegi operarono la stessa cosa e fecero uscire le rane sulla terra d
’Egitto. Il faraone fece chiamare Mosè e Aronne e disse: «Pregate il Signore che allontani le rane da me e dal mio popolo; io lascerò partire il popolo perché possa sacrificare al Signore!». Mosè disse al faraone: «Fammi l’onore di dirmi per quando io devo pregare in favore tuo e dei tuoi mi nistri e del tuo popolo per liberare dalle rane te e le tue case in modo che ne rimangano soltant o nel Nilo». Rispose: «Per domani». Riprese: «Sia secondo la tua parola! Perché tu sappia che n on esiste nessuno pari al Signore nostro Dio, le rane si ritireranno da te e dalle tue case dai tuoi ministri e dal tuo popolo: ne rimarranno soltanto nel Nilo». Mosè e Aronne si allontanarono dal faraone e Mosè supplicò il Signore riguardo alle rane che aveva mandato contro il faraone. Il Sig nore operò secondo la parola di Mosè e le rane morirono nelle case nei cortili e nei campi. Le ra ccolsero in tanti mucchi e la terra ne fu ammorbata. Ma il faraone vide che c’era un po’ di sollie vo si ostinò e non diede loro ascolto secondo quanto aveva detto il Signore. Quindi il Signore dis se a Mosè: «Di’ ad Aronne: “Stendi il tuo bastone percuoti la polvere del suolo: essa si muterà i n zanzare in tutta la terra d’Egitto!”». Così fecero: Aronne stese la mano con il suo bastone, colp ì la polvere del suolo e ci furono zanzare sugli uomini e sulle bestie; tutta la polvere del suolo si era mutata in zanzare in tutta la terra d’Egitto. I maghi cercarono di fare la stessa cosa con i loro sortilegi per far uscire le zanzare ma non riuscirono e c’erano zanzare sugli uomini e sulle bestie
. Allora i maghi dissero al faraone: «è il dito di Dio!». Ma il cuore del faraone si ostinò e non die
de ascolto secondo quanto aveva detto il Signore. Il Signore disse a Mosè: «àlzati di buon matti no e presèntati al faraone quando andrà alle acque. Gli dirai: “Così dice il Signore: Lascia partire il mio popolo perché mi possa servire! Se tu non lasci partire il mio popolo ecco, manderò su di te sui tuoi ministri sul tuo popolo e sulle tue case sciami di tafani: le case degli Egiziani saranno piene di tafani e anche il suolo sul quale essi si trovano. Ma in quel giorno io risparmierò la regi one di Gosen dove dimora il mio popolo: là non vi saranno tafani, perché tu sappia che io sono i l Signore in mezzo al paese! Così farò distinzione tra il mio popolo e il tuo popolo. Domani avver rà questo segno”». Così fece il Signore: sciami imponenti di tafani entrarono nella casa del farao ne, nella casa dei suoi ministri e in tutta la terra d’Egitto; la terra era devastata a causa dei tafan i. Il faraone fece chiamare Mosè e Aronne e disse: «Andate a sacrificare al vostro Dio ma nel pa ese!». Mosè rispose: «Non è opportuno far così perché quello che noi sacrifichiamo al Signore n ostro Dio è abominio per gli Egiziani. Se noi facessimo sotto i loro occhi un sacrificio abominevol e per gli Egiziani forse non ci lapiderebbero? Andremo nel deserto a tre giorni di cammino e sac rificheremo al Signore, nostro Dio secondo quanto egli ci ordinerà!». Allora il faraone replicò: «
Vi lascerò partire e potrete sacrificare al Signore nel deserto. Ma non andate troppo lontano e p regate per me». Rispose Mosè: «Ecco mi allontanerò da te e pregherò il Signore; domani i tafani si ritireranno dal faraone dai suoi ministri e dal suo popolo. Però il faraone cessi di burlarsi di n oi impedendo al popolo di partire perché possa sacrificare al Signore!». Mosè si allontanò dal fa raone e pregò il Signore. Il Signore agì secondo la parola di Mosè e allontanò i tafani dal faraone dai suoi ministri e dal suo popolo: non ne restò neppure uno. Ma il faraone si ostinò anche que sta volta e non lasciò partire il popolo. Allora il Signore disse a Mosè: «Va’ a riferire al faraone: “
Così dice il Signore il Dio degli Ebrei: Lascia partire il mio popolo perché mi possa servire! Se tu r ifiuti di lasciarlo partire e lo trattieni ancora ecco la mano del Signore verrà sopra il tuo bestiam e che è nella campagna sopra i cavalli gli asini i cammelli sopra gli armenti e le greggi con una pe ste gravissima! Ma il Signore farà distinzione tra il bestiame d’Israele e quello degli Egiziani così che niente muoia di quanto appartiene agli Israeliti”». Il Signore fissò la data dicendo: «Domani il Signore compirà questa cosa nel paese!». Appunto il giorno dopo, il Signore compì tale cosa: morì tutto il bestiame degli Egiziani ma del bestiame degli Israeliti non morì neppure un capo. Il faraone mandò a vedere ed ecco neppure un capo del bestiame d’Israele era morto. Ma il cuore del faraone rimase ostinato e non lasciò partire il popolo. Il Signore si rivolse a Mosè e ad Aron ne: «Procuratevi una manciata di fuliggine di fornace: Mosè la sparga verso il cielo sotto gli occh i del faraone. Essa diventerà un pulviscolo che diffondendosi su tutta la terra d’Egitto produrrà s ugli uomini e sulle bestie ulcere degeneranti in pustole in tutta la terra d’Egitto». Presero dunqu e fuliggine di fornace e si posero alla presenza del faraone. Mosè la sparse verso il cielo ed essa produsse ulcere pustolose con eruzioni su uomini e bestie. I maghi non poterono stare alla pres enza di Mosè a causa delle ulcere che li avevano colpiti come tutti gli Egiziani. Ma il Signore rese ostinato il cuore del faraone il quale non diede loro ascolto, come il Signore aveva detto a Mos è. Il Signore disse a Mosè: «àlzati di buon mattino presèntati al faraone e annunciagli: “Così dice
il Signore il Dio degli Ebrei: Lascia partire il mio popolo, perché mi possa servire! Perché questa volta io mando tutti i miei flagelli contro il tuo cuore contro i tuoi ministri e contro il tuo popolo perché tu sappia che nessuno è come me su tutta la terra. Se fin da principio io avessi steso la mano per colpire te e il tuo popolo con la peste tu ormai saresti stato cancellato dalla terra; inv ece per questo ti ho lasciato sussistere per dimostrarti la mia potenza e per divulgare il mio no me in tutta la terra. Ancora ti opponi al mio popolo e non lo lasci partire! Ecco io farò cadere do mani a questa stessa ora una grandine violentissima come non ci fu mai in Egitto dal giorno dell a sua fondazione fino ad oggi. Manda dunque fin d’ora a mettere al riparo il tuo bestiame e qua nto hai in campagna. Su tutti gli uomini e su tutti gli animali che si troveranno in campagna e ch e non saranno stati ricondotti in casa si abbatterà la grandine e moriranno”». Chi tra i ministri d el faraone temeva il Signore fece ricoverare nella casa i suoi schiavi e il suo bestiame; chi invece non diede retta alla parola del Signore lasciò schiavi e bestiame in campagna. Il Signore disse a Mosè: «Stendi la mano verso il cielo: vi sia grandine in tutta la terra d’Egitto sugli uomini sulle b estie e su tutta la vegetazione dei campi nella terra d’Egitto!». Mosè stese il bastone verso il ciel o e il Signore mandò tuoni e grandine; sul suolo si abbatté fuoco e il Signore fece cadere grandi ne su tutta la terra d’Egitto. Ci furono grandine e fuoco in mezzo alla grandine: non vi era mai st ata in tutta la terra d’Egitto una grandinata così violenta dal tempo in cui era diventata nazione!
La grandine colpì in tutta la terra d’Egitto quanto era nella campagna dagli uomini alle bestie; la grandine flagellò anche tutta la vegetazione dei campi e schiantò tutti gli alberi della campagna
. Soltanto nella regione di Gosen dove stavano gli Israeliti non vi fu grandine. Allora il faraone m andò a chiamare Mosè e Aronne e disse loro: «Questa volta ho peccato: il Signore è il giusto; io e il mio popolo siamo colpevoli. Pregate il Signore: ci sono stati troppi tuoni violenti e grandine!
Vi lascerò partire e non dovrete più restare qui». Mosè gli rispose: «Non appena sarò uscito dall a città stenderò le mani verso il Signore: i tuoni cesseranno e non grandinerà più, perché tu sap pia che la terra appartiene al Signore. Ma quanto a te e ai tuoi ministri io so che ancora non tem erete il Signore Dio». Ora il lino e l’orzo erano stati colpiti perché l’orzo era in spiga e il lino in fi ore; ma il grano e la spelta non erano stati colpiti perché tardivi. Mosè si allontanò dal faraone e dalla città stese le mani verso il Signore: i tuoni e la grandine cessarono e la pioggia non si roves ciò più sulla terra. Quando il faraone vide che la pioggia la grandine e i tuoni erano cessati conti nuò a peccare e si ostinò insieme con i suoi ministri. Il cuore del faraone si ostinò e non lasciò p artire gli Israeliti come aveva detto il Signore per mezzo di Mosè. Allora il Signore disse a Mosè:
«Va’ dal faraone perché io ho indurito il cuore suo e dei suoi ministri per compiere questi miei s egni in mezzo a loro e perché tu possa raccontare e fissare nella memoria di tuo figlio e del figli o di tuo figlio come mi sono preso gioco degli Egiziani e i segni che ho compiuti in mezzo a loro: così saprete che io sono il Signore!». Mosè e Aronne si recarono dal faraone e gli dissero: «Così dice il Signore il Dio degli Ebrei: “Fino a quando rifiuterai di piegarti davanti a me? Lascia partire il mio popolo perché mi possa servire. Se tu rifiuti di lasciar partire il mio popolo ecco, da doma ni io manderò le cavallette sul tuo territorio. Esse copriranno la superficie della terra così che no
n si possa più vedere il suolo: divoreranno il poco che è stato lasciato per voi dalla grandine e di voreranno ogni albero che rispunta per voi nella campagna. Riempiranno le tue case le case di t utti i tuoi ministri e le case di tutti gli Egiziani, cosa che non videro i tuoi padri né i padri dei tuoi padri da quando furono su questo suolo fino ad oggi!”». Poi voltò le spalle e uscì dalla presenza del faraone. I ministri del faraone gli dissero: «Fino a quando costui resterà tra noi come una tra ppola? Lascia partire questa gente perché serva il Signore suo Dio! Non ti accorgi ancora che l’E
gitto va in rovina?». Mosè e Aronne furono richiamati presso il faraone, che disse loro: «Andate servite il Signore vostro Dio! Ma chi sono quelli che devono partire?». Mosè disse: «Partiremo n oi insieme con i nostri giovani e i nostri vecchi con i figli e le figlie con le nostre greggi e i nostri a rmenti perché per noi è una festa del Signore». Rispose: «Così sia il Signore con voi com’è vero c he io intendo lasciar partire voi e i vostri bambini! Badate però che voi avete cattive intenzioni.
Così non va! Partite voi uomini e rendete culto al Signore se davvero voi cercate questo!». E li c acciarono dalla presenza del faraone. Allora il Signore disse a Mosè: «Stendi la mano sulla terra d’Egitto per far venire le cavallette: assalgano la terra d’Egitto e divorino tutta l’erba della terra tutto quello che la grandine ha risparmiato!». Mosè stese il suo bastone contro la terra d’Egitto e il Signore diresse su quella terra un vento d’oriente per tutto quel giorno e tutta la notte. Qua ndo fu mattina il vento d’oriente aveva portato le cavallette. Le cavallette salirono sopra tutta l a terra d’Egitto e si posarono su tutto quanto il territorio d’Egitto. Fu cosa gravissima: tante non ve n’erano mai state prima né vi furono in seguito. Esse coprirono tutta la superficie della terra così che la terra ne fu oscurata; divorarono ogni erba della terra e ogni frutto d’albero che la gra ndine aveva risparmiato: nulla di verde rimase sugli alberi e fra le erbe dei campi in tutta la terr a d’Egitto. Il faraone allora convocò in fretta Mosè e Aronne e disse: «Ho peccato contro il Signo re vostro Dio e contro di voi. Ma ora perdonate il mio peccato anche questa volta e pregate il Si gnore vostro Dio perché almeno allontani da me questa morte!». Egli si allontanò dal faraone e pregò il Signore. Il Signore cambiò la direzione del vento e lo fece soffiare dal mare con grande f orza: esso portò via le cavallette e le abbatté nel Mar Rosso; non rimase neppure una cavalletta in tutta la terra d’Egitto. Ma il Signore rese ostinato il cuore del faraone il quale non lasciò partir e gli Israeliti. Allora il Signore disse a Mosè: «Stendi la mano verso il cielo: vengano sulla terra d’
Egitto tenebre tali da potersi palpare!». Mosè stese la mano verso il cielo: vennero dense teneb re su tutta la terra d’Egitto per tre giorni. Non si vedevano più l’un l’altro e per tre giorni nessun o si poté muovere dal suo posto. Ma per tutti gli Israeliti c’era luce là dove abitavano. Allora il fa raone convocò Mosè e disse: «Partite servite il Signore! Solo rimangano le vostre greggi e i vostr i armenti. Anche i vostri bambini potranno partire con voi». Rispose Mosè: «Tu stesso metterai a nostra disposizione sacrifici e olocausti e noi li offriremo al Signore nostro Dio. Anche il nostro bestiame partirà con noi: neppure un’unghia ne resterà qui. Perché da esso noi dobbiamo prele vare le vittime per servire il Signore nostro Dio e noi non sapremo quel che dovremo sacrificare al Signore finché non saremo arrivati in quel luogo». Ma il Signore rese ostinato il cuore del fara one il quale non volle lasciarli partire. Gli rispose dunque il faraone: «Vattene da me! Guàrdati d
al ricomparire davanti a me perché il giorno in cui rivedrai il mio volto, morirai». Mosè disse: «H
ai parlato bene: non vedrò più il tuo volto!». Il Signore disse a Mosè: «Ancora una piaga mander ò contro il faraone e l’Egitto; dopo di che egli vi lascerà partire di qui. Vi lascerà partire senza co ndizioni, anzi vi caccerà via di qui. Di’ dunque al popolo che ciascuno dal suo vicino e ciascuna d alla sua vicina si facciano dare oggetti d’argento e oggetti d’oro». Il Signore fece sì che il popolo trovasse favore agli occhi degli Egiziani. Inoltre Mosè era un uomo assai considerato nella terra d’Egitto agli occhi dei ministri del faraone e del popolo. Mosè annunciò: «Così dice il Signore: Ve rso la metà della notte io uscirò attraverso l’Egitto: morirà ogni primogenito nella terra d’Egitto dal primogenito del faraone che siede sul trono fino al primogenito della schiava che sta dietro l a mola e ogni primogenito del bestiame. Un grande grido si alzerà in tutta la terra d’Egitto quale non vi fu mai e quale non si ripeterà mai più. Ma contro tutti gli Israeliti neppure un cane abbai erà né contro uomini né contro bestie, perché sappiate che il Signore fa distinzione tra l’Egitto e Israele. Tutti questi tuoi ministri scenderanno da me e si prostreranno davanti a me dicendo: “E
sci tu e tutto il popolo che ti segue!”. Dopo io uscirò!». Mosè pieno d’ira si allontanò dal faraon e. Il Signore aveva appunto detto a Mosè: «Il faraone non vi darà ascolto, perché si moltiplichin o i miei prodigi nella terra d’Egitto». Mosè e Aronne avevano fatto tutti quei prodigi davanti al f araone; ma il Signore aveva reso ostinato il cuore del faraone il quale non lasciò partire gli Israel iti dalla sua terra. Il Signore disse a Mosè e ad Aronne in terra d’Egitto: «Questo mese sarà per v oi l’inizio dei mesi sarà per voi il primo mese dell’anno. Parlate a tutta la comunità d’Israele e dit e: “Il dieci di questo mese ciascuno si procuri un agnello per famiglia un agnello per casa. Se la f amiglia fosse troppo piccola per un agnello si unirà al vicino il più prossimo alla sua casa, second o il numero delle persone; calcolerete come dovrà essere l’agnello secondo quanto ciascuno pu ò mangiarne. Il vostro agnello sia senza difetto maschio nato nell’anno; potrete sceglierlo tra le pecore o tra le capre e lo conserverete fino al quattordici di questo mese: allora tutta l’assembl ea della comunità d’Israele lo immolerà al tramonto. Preso un po’ del suo sangue lo porranno s ui due stipiti e sull’architrave delle case nelle quali lo mangeranno. In quella notte ne mangeran no la carne arrostita al fuoco; la mangeranno con azzimi e con erbe amare. Non lo mangerete cr udo né bollito nell’acqua ma solo arrostito al fuoco con la testa le zampe e le viscere. Non ne do vete far avanzare fino al mattino: quello che al mattino sarà avanzato lo brucerete nel fuoco. Ec co in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti i sandali ai piedi il bastone in mano; lo manger ete in fretta. è la Pasqua del Signore! In quella notte io passerò per la terra d’Egitto e colpirò og ni primogenito nella terra d’Egitto uomo o animale; così farò giustizia di tutti gli dèi dell’Egitto. I o sono il Signore! Il sangue sulle case dove vi troverete servirà da segno in vostro favore: io vedr ò il sangue e passerò oltre; non vi sarà tra voi flagello di sterminio quando io colpirò la terra d’E
gitto. Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di genera zione in generazione lo celebrerete come un rito perenne. Per sette giorni voi mangerete azzimi
. Fin dal primo giorno farete sparire il lievito dalle vostre case perché chiunque mangerà del liev itato dal giorno primo al giorno settimo quella persona sarà eliminata da Israele. Nel primo gior
no avrete una riunione sacra e nel settimo giorno una riunione sacra: durante questi giorni non si farà alcun lavoro; si potrà preparare da mangiare per ogni persona: questo solo si farà presso di voi. Osservate la festa degli Azzimi perché proprio in questo giorno io ho fatto uscire le vostre schiere dalla terra d’Egitto; osserverete tale giorno di generazione in generazione come rito per enne. Nel primo mese dal giorno quattordici del mese alla sera voi mangerete azzimi fino al gior no ventuno del mese alla sera. Per sette giorni non si trovi lievito nelle vostre case perché chiun que mangerà del lievitato quella persona sia forestiera sia nativa della terra sarà eliminata dalla comunità d’Israele. Non mangerete nulla di lievitato; in tutte le vostre abitazioni mangerete azzi mi”». Mosè convocò tutti gli anziani d’Israele e disse loro: «Andate a procurarvi un capo di besti ame minuto per ogni vostra famiglia e immolate la Pasqua. Prenderete un fascio di issòpo lo inti ngerete nel sangue che sarà nel catino e spalmerete l’architrave ed entrambi gli stipiti con il san gue del catino. Nessuno di voi esca dalla porta della sua casa fino al mattino. Il Signore passerà per colpire l’Egitto, vedrà il sangue sull’architrave e sugli stipiti; allora il Signore passerà oltre la porta e non permetterà allo sterminatore di entrare nella vostra casa per colpire. Voi osserveret e questo comando come un rito fissato per te e per i tuoi figli per sempre. Quando poi sarete en trati nella terra che il Signore vi darà come ha promesso osserverete questo rito. Quando i vostr i figli vi chiederanno: “Che significato ha per voi questo rito?”, voi direte loro: “è il sacrificio dell a Pasqua per il Signore il quale è passato oltre le case degli Israeliti in Egitto quando colpì l’Egitt o e salvò le nostre case”». Il popolo si inginocchiò e si prostrò. Poi gli Israeliti se ne andarono ed eseguirono ciò che il Signore aveva ordinato a Mosè e ad Aronne; così fecero. A mezzanotte il Si gnore colpì ogni primogenito nella terra d’Egitto dal primogenito del faraone che siede sul tron o fino al primogenito del prigioniero in carcere e tutti i primogeniti del bestiame. Si alzò il farao ne nella notte e con lui i suoi ministri e tutti gli Egiziani; un grande grido scoppiò in Egitto perch é non c’era casa dove non ci fosse un morto! Il faraone convocò Mosè e Aronne nella notte e di sse: «Alzatevi e abbandonate il mio popolo voi e gli Israeliti! Andate rendete culto al Signore co me avete detto. Prendete anche il vostro bestiame e le vostre greggi come avete detto e partite
! Benedite anche me!». Gli Egiziani fecero pressione sul popolo affrettandosi a mandarli via dal paese perché dicevano: «Stiamo per morire tutti!». Il popolo portò con sé la pasta prima che fo sse lievitata recando sulle spalle le madie avvolte nei mantelli. Gli Israeliti eseguirono l’ordine di Mosè e si fecero dare dagli Egiziani oggetti d’argento e d’oro e vesti. Il Signore fece sì che il pop olo trovasse favore agli occhi degli Egiziani i quali accolsero le loro richieste. Così essi spogliaron o gli Egiziani. Gli Israeliti partirono da Ramses alla volta di Succot in numero di seicentomila uo mini adulti senza contare i bambini. Inoltre una grande massa di gente promiscua partì con loro e greggi e armenti in mandrie molto grandi. Fecero cuocere la pasta che avevano portato dall’E
gitto in forma di focacce azzime perché non era lievitata: infatti erano stati scacciati dall’Egitto e non avevano potuto indugiare; neppure si erano procurati provviste per il viaggio. La permane nza degli Israeliti in Egitto fu di quattrocentotrent’anni. Al termine dei quattrocentotrent’anni p roprio in quel giorno tutte le schiere del Signore uscirono dalla terra d’Egitto. Notte di veglia fu
questa per il Signore per farli uscire dalla terra d’Egitto. Questa sarà una notte di veglia in onore del Signore per tutti gli Israeliti di generazione in generazione. Il Signore disse a Mosè e ad Aron ne: «Questo è il rito della Pasqua: nessuno straniero ne deve mangiare. Quanto a ogni schiavo a cquistato con denaro lo circonciderai e allora ne potrà mangiare. L’ospite e il mercenario non n e mangeranno. In una sola casa si mangerà: non ne porterai la carne fuori di casa; non ne spezz erete alcun osso. Tutta la comunità d’Israele la celebrerà. Se un forestiero soggiorna presso di t e e vuol celebrare la Pasqua del Signore sia circonciso ogni maschio della sua famiglia: allora pot rà accostarsi per celebrarla e sarà come un nativo della terra. Ma non ne mangi nessuno che no n sia circonciso. Vi sarà una sola legge per il nativo e per il forestiero che soggiorna in mezzo a v oi». Tutti gli Israeliti fecero così come il Signore aveva ordinato a Mosè e ad Aronne in tal modo operarono. Proprio in quel giorno il Signore fece uscire gli Israeliti dalla terra d’Egitto, ordinati s econdo le loro schiere. Il Signore disse a Mosè: «Consacrami ogni essere che esce per primo dal seno materno tra gli Israeliti: ogni primogenito di uomini o di animali appartiene a me». Mosè d isse al popolo: «Ricòrdati di questo giorno nel quale siete usciti dall’Egitto dalla dimora di schiav itù perché con la potenza del suo braccio il Signore vi ha fatto uscire di là: non si mangi nulla di l ievitato. In questo giorno del mese di Abìb voi uscite. Quando il Signore ti avrà fatto entrare nell a terra del Cananeo dell’Ittita dell’Amorreo dell’Eveo e del Gebuseo che ha giurato ai tuoi padri di dare a te terra dove scorrono latte e miele allora tu celebrerai questo rito in questo mese. Pe r sette giorni mangerai azzimi. Nel settimo giorno vi sarà una festa in onore del Signore. Nei sett e giorni si mangeranno azzimi e non compaia presso di te niente di lievitato; non ci sia presso di te lievito entro tutti i tuoi confini. In quel giorno tu spiegherai a tuo figlio: “è a causa di quanto h a fatto il Signore per me quando sono uscito dall’Egitto”. Sarà per te segno sulla tua mano e me moriale fra i tuoi occhi affinché la legge del Signore sia sulla tua bocca. Infatti il Signore ti ha fatt o uscire dall’Egitto con mano potente. Osserverai questo rito nella sua ricorrenza di anno in ann o. Quando il Signore ti avrà fatto entrare nella terra del Cananeo come ha giurato a te e ai tuoi padri e te l’avrà data in possesso tu riserverai per il Signore ogni primogenito del seno materno; ogni primo parto del tuo bestiame se di sesso maschile lo consacrerai al Signore. Riscatterai og ni primo parto dell’asino mediante un capo di bestiame minuto e se non lo vorrai riscattare gli s paccherai la nuca. Riscatterai ogni primogenito dell’uomo tra i tuoi discendenti. Quando tuo figl io un domani ti chiederà: “Che significa ciò?” tu gli risponderai: “Con la potenza del suo braccio i l Signore ci ha fatto uscire dall’Egitto dalla condizione servile. Poiché il faraone si ostinava a non lasciarci partire il Signore ha ucciso ogni primogenito nella terra d’Egitto: i primogeniti degli uo mini e i primogeniti del bestiame. Per questo io sacrifico al Signore ogni primo parto di sesso m aschile e riscatto ogni primogenito dei miei discendenti”. Questo sarà un segno sulla tua mano, sarà un pendaglio fra i tuoi occhi poiché con la potenza del suo braccio il Signore ci ha fatto usci re dall’Egitto». Quando il faraone lasciò partire il popolo Dio non lo condusse per la strada del t erritorio dei Filistei benché fosse più corta perché Dio pensava: «Che il popolo non si penta alla vista della guerra e voglia tornare in Egitto!». Dio fece deviare il popolo per la strada del deserto
verso il Mar Rosso. Gli Israeliti armati uscirono dalla terra d’Egitto. Mosè prese con sé le ossa di Giuseppe perché questi aveva fatto prestare un solenne giuramento agli Israeliti dicendo: «Dio certo verrà a visitarvi; voi allora vi porterete via le mie ossa». Partirono da Succot e si accampar ono a Etam sul limite del deserto. Il Signore marciava alla loro testa di giorno con una colonna d i nube per guidarli sulla via da percorrere e di notte con una colonna di fuoco per far loro luce c osì che potessero viaggiare giorno e notte. Di giorno la colonna di nube non si ritirava mai dalla vista del popolo né la colonna di fuoco durante la notte. Il Signore disse a Mosè: «Comanda agli Israeliti che tornino indietro e si accampino davanti a Pi-Achiròt tra Migdol e il mare davanti a Baal-
Sefòn; di fronte a quel luogo vi accamperete presso il mare. Il faraone penserà degli Israeliti: “V
anno errando nella regione; il deserto li ha bloccati!”. Io renderò ostinato il cuore del faraone e d egli li inseguirà io dimostrerò la mia gloria contro il faraone e tutto il suo esercito così gli Egizia ni sapranno che io sono il Signore!». Ed essi fecero così. Quando fu riferito al re d’Egitto che il p opolo era fuggito il cuore del faraone e dei suoi ministri si rivolse contro il popolo. Dissero: «Che cosa abbiamo fatto lasciando che Israele si sottraesse al nostro servizio?». Attaccò allora il cocc hio e prese con sé i suoi soldati. Prese seicento carri scelti e tutti i carri d’Egitto con i combatten ti sopra ciascuno di essi. Il Signore rese ostinato il cuore del faraone re d’Egitto il quale inseguì g li Israeliti mentre gli Israeliti uscivano a mano alzata. Gli Egiziani li inseguirono e li raggiunsero m entre essi stavano accampati presso il mare; tutti i cavalli e i carri del faraone i suoi cavalieri e il suo esercito erano presso Pi-Achiròt davanti a Baal-Sefòn. Quando il faraone fu vicino gli Israeliti alzarono gli occhi: ecco gli Egiziani marciavano diet ro di loro! Allora gli Israeliti ebbero grande paura e gridarono al Signore. E dissero a Mosè: «è fo rse perché non c’erano sepolcri in Egitto che ci hai portati a morire nel deserto? Che cosa ci hai fatto portandoci fuori dall’Egitto? Non ti dicevamo in Egitto: “Lasciaci stare e serviremo gli Egizi ani perché è meglio per noi servire l’Egitto che morire nel deserto”?». Mosè rispose: «Non abbi ate paura! Siate forti e vedrete la salvezza del Signore il quale oggi agirà per voi; perché gli Egizi ani che voi oggi vedete non li rivedrete mai più! Il Signore combatterà per voi e voi starete tran quilli». Il Signore disse a Mosè: «Perché gridi verso di me? Ordina agli Israeliti di riprendere il ca mmino. Tu intanto alza il bastone stendi la mano sul mare e dividilo, perché gli Israeliti entrino nel mare all’asciutto. Ecco io rendo ostinato il cuore degli Egiziani così che entrino dietro di loro e io dimostri la mia gloria sul faraone e tutto il suo esercito sui suoi carri e sui suoi cavalieri. Gli Egiziani sapranno che io sono il Signore quando dimostrerò la mia gloria contro il faraone i suoi carri e i suoi cavalieri». L’angelo di Dio che precedeva l’accampamento d’Israele cambiò posto e passò indietro. Anche la colonna di nube si mosse e dal davanti passò dietro. Andò a porsi tra l’a ccampamento degli Egiziani e quello d’Israele. La nube era tenebrosa per gli uni mentre per gli a ltri illuminava la notte; così gli uni non poterono avvicinarsi agli altri durante tutta la notte. Allor a Mosè stese la mano sul mare. E il Signore durante tutta la notte risospinse il mare con un fort e vento d’oriente rendendolo asciutto; le acque si divisero. Gli Israeliti entrarono nel mare sull’a
sciutto mentre le acque erano per loro un muro a destra e a sinistra. Gli Egiziani li inseguirono e tutti i cavalli del faraone i suoi carri e i suoi cavalieri entrarono dietro di loro in mezzo al mare.
Ma alla veglia del mattino il Signore dalla colonna di fuoco e di nube gettò uno sguardo sul cam po degli Egiziani e lo mise in rotta. Frenò le ruote dei loro carri, così che a stento riuscivano a spi ngerle. Allora gli Egiziani dissero: «Fuggiamo di fronte a Israele perché il Signore combatte per l oro contro gli Egiziani!». Il Signore disse a Mosè: «Stendi la mano sul mare: le acque si riversino sugli Egiziani sui loro carri e i loro cavalieri». Mosè stese la mano sul mare e il mare sul far del m attino tornò al suo livello consueto mentre gli Egiziani fuggendo gli si dirigevano contro. Il Signo re li travolse così in mezzo al mare. Le acque ritornarono e sommersero i carri e i cavalieri di tut to l’esercito del faraone che erano entrati nel mare dietro a Israele: non ne scampò neppure un o. Invece gli Israeliti avevano camminato sull’asciutto in mezzo al mare mentre le acque erano p er loro un muro a destra e a sinistra. In quel giorno il Signore salvò Israele dalla mano degli Egizi ani e Israele vide gli Egiziani morti sulla riva del mare; Israele vide la mano potente con la quale il Signore aveva agito contro l’Egitto e il popolo temette il Signore e credette in lui e in Mosè su o servo. Allora Mosè e gli Israeliti cantarono questo canto al Signore e dissero: «Voglio cantare al Signore, perché ha mirabilmente trionfato: cavallo e cavaliere ha gettato nel mare. Mia forza e mio canto è il Signore, egli è stato la mia salvezza. è il mio Dio: lo voglio lodare, il Dio di mio pa dre: lo voglio esaltare! Il Signore è un guerriero, Signore è il suo nome. I carri del faraone e il su o esercito li ha scagliati nel mare; i suoi combattenti scelti furono sommersi nel Mar Rosso. Gli a bissi li ricoprirono, sprofondarono come pietra. La tua destra Signore, è gloriosa per la potenza, la tua destra Signore, annienta il nemico; con sublime maestà abbatti i tuoi avversari, scateni il t uo furore, che li divora come paglia. Al soffio della tua ira si accumularono le acque, si alzarono l e onde come un argine, si rappresero gli abissi nel fondo del mare. Il nemico aveva detto: “Inseg uirò raggiungerò, spartirò il bottino, se ne sazierà la mia brama; sfodererò la spada, li conquiste rà la mia mano!”. Soffiasti con il tuo alito: li ricoprì il mare, sprofondarono come piombo in acqu e profonde. Chi è come te fra gli dèi Signore? Chi è come te maestoso in santità, terribile nelle i mprese, autore di prodigi? Stendesti la destra: li inghiottì la terra. Guidasti con il tuo amore que sto popolo che hai riscattato, lo conducesti con la tua potenza alla tua santa dimora. Udirono i p opoli: sono atterriti. L’angoscia afferrò gli abitanti della Filistea. Allora si sono spaventati i capi d i Edom, il pànico prende i potenti di Moab; hanno tremato tutti gli abitanti di Canaan. Piómbino su di loro paura e terrore; per la potenza del tuo braccio restino muti come pietra, finché sia pa ssato il tuo popolo Signore, finché sia passato questo tuo popolo, che ti sei acquistato. Tu lo fai entrare e lo pianti sul monte della tua eredità, luogo che per tua dimora, Signore hai preparato, santuario che le tue mani, Signore hanno fondato. Il Signore regni in eterno e per sempre!». Qu ando i cavalli del faraone i suoi carri e i suoi cavalieri furono entrati nel mare il Signore fece torn are sopra di essi le acque del mare mentre gli Israeliti avevano camminato sull’asciutto in mezzo al mare. Allora Maria la profetessa sorella di Aronne prese in mano un tamburello: dietro a lei u scirono le donne con i tamburelli e con danze. Maria intonò per loro il ritornello: «Cantate al Sig
nore, perché ha mirabilmente trionfato: cavallo e cavaliere ha gettato nel mare!». Mosè fece pa rtire Israele dal Mar Rosso ed essi avanzarono verso il deserto di Sur. Camminarono tre giorni n el deserto senza trovare acqua. Arrivarono a Mara ma non potevano bere le acque di Mara perc hé erano amare. Per questo furono chiamate Mara. Allora il popolo mormorò contro Mosè: «Ch e cosa berremo?». Egli invocò il Signore il quale gli indicò un legno. Lo gettò nell’acqua e l’acqua divenne dolce. In quel luogo il Signore impose al popolo una legge e un diritto; in quel luogo lo mise alla prova. Disse: «Se tu darai ascolto alla voce del Signore tuo Dio e farai ciò che è retto ai suoi occhi se tu presterai orecchio ai suoi ordini e osserverai tutte le sue leggi io non t’infliggerò nessuna delle infermità che ho inflitto agli Egiziani perché io sono il Signore colui che ti guarisce
!». Poi arrivarono a Elìm dove sono dodici sorgenti di acqua e settanta palme. Qui si accamparo no presso l’acqua. Levarono le tende da Elìm e tutta la comunità degli Israeliti arrivò al deserto di Sin che si trova tra Elìm e il Sinai il quindici del secondo mese dopo la loro uscita dalla terra d’
Egitto. Nel deserto tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mosè e contro Aronne. Gli I sraeliti dissero loro: «Fossimo morti per mano del Signore nella terra d’Egitto quando eravamo seduti presso la pentola della carne mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatto uscire in qu esto deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine». Allora il Signore disse a Mosè: «E
cco io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la raz ione di un giorno perché io lo metta alla prova per vedere se cammina o no secondo la mia legg e. Ma il sesto giorno quando prepareranno quello che dovranno portare a casa sarà il doppio di ciò che avranno raccolto ogni altro giorno». Mosè e Aronne dissero a tutti gli Israeliti: «Questa s era saprete che il Signore vi ha fatto uscire dalla terra d’Egitto e domani mattina vedrete la glori a del Signore, poiché egli ha inteso le vostre mormorazioni contro di lui. Noi infatti che cosa sia mo perché mormoriate contro di noi?». Mosè disse: «Quando il Signore vi darà alla sera la carn e da mangiare e alla mattina il pane a sazietà sarà perché il Signore ha inteso le mormorazioni c on le quali mormorate contro di lui. Noi infatti che cosa siamo? Non contro di noi vanno le vostr e mormorazioni ma contro il Signore». Mosè disse ad Aronne: «Da’ questo comando a tutta la c omunità degli Israeliti: “Avvicinatevi alla presenza del Signore perché egli ha inteso le vostre mo rmorazioni!”». Ora mentre Aronne parlava a tutta la comunità degli Israeliti essi si voltarono ver so il deserto: ed ecco la gloria del Signore si manifestò attraverso la nube. Il Signore disse a Mos è: «Ho inteso la mormorazione degli Israeliti. Parla loro così: “Al tramonto mangerete carne e al la mattina vi sazierete di pane; saprete che io sono il Signore vostro Dio”». La sera le quaglie sali rono e coprirono l’accampamento; al mattino c’era uno strato di rugiada intorno all’accampam ento. Quando lo strato di rugiada svanì, ecco sulla superficie del deserto c’era una cosa fine e gr anulosa minuta come è la brina sulla terra. Gli Israeliti la videro e si dissero l’un l’altro: «Che cos
’è?» perché non sapevano che cosa fosse. Mosè disse loro: «è il pane che il Signore vi ha dato in cibo. Ecco che cosa comanda il Signore: “Raccoglietene quanto ciascuno può mangiarne un om er a testa secondo il numero delle persone che sono con voi. Ne prenderete ciascuno per quelli della propria tenda”». Così fecero gli Israeliti. Ne raccolsero chi molto chi poco. Si misurò con l’

omer: colui che ne aveva preso di più non ne aveva di troppo; colui che ne aveva preso di meno non ne mancava. Avevano raccolto secondo quanto ciascuno poteva mangiarne. Mosè disse lor o: «Nessuno ne faccia avanzare fino al mattino». Essi non obbedirono a Mosè e alcuni ne conser varono fino al mattino; ma vi si generarono vermi e imputridì. Mosè si irritò contro di loro. Essi dunque ne raccoglievano ogni mattina secondo quanto ciascuno mangiava; quando il sole comi nciava a scaldare si scioglieva. Quando venne il sesto giorno essi raccolsero il doppio di quel pan e due omer a testa. Allora tutti i capi della comunità vennero a informare Mosè. Egli disse loro:
«è appunto ciò che ha detto il Signore: “Domani è sabato riposo assoluto consacrato al Signore.
Ciò che avete da cuocere cuocetelo; ciò che avete da bollire bollitelo; quanto avanza tenetelo in serbo fino a domani mattina”». Essi lo misero in serbo fino al mattino come aveva ordinato Mo sè e non imputridì né vi si trovarono vermi. Disse Mosè: «Mangiatelo oggi perché è sabato in on ore del Signore: oggi non ne troverete nella campagna. Sei giorni lo raccoglierete ma il settimo giorno è sabato: non ve ne sarà». Nel settimo giorno alcuni del popolo uscirono per raccogliern e ma non ne trovarono. Disse allora il Signore a Mosè: «Fino a quando rifiuterete di osservare i miei ordini e le mie leggi? Vedete che il Signore vi ha dato il sabato! Per questo egli vi dà al sest o giorno il pane per due giorni. Restate ciascuno al proprio posto! Nel settimo giorno nessuno e sca dal luogo dove si trova». Il popolo dunque riposò nel settimo giorno. La casa d’Israele lo chia mò manna. Era simile al seme del coriandolo e bianco; aveva il sapore di una focaccia con miele
. Mosè disse: «Questo ha ordinato il Signore: “Riempitene un omer e conservatelo per i vostri di scendenti perché vedano il pane che vi ho dato da mangiare nel deserto, quando vi ho fatto usci re dalla terra d’Egitto”». Mosè disse quindi ad Aronne: «Prendi un’urna e mettici un omer comp leto di manna; deponila davanti al Signore e conservala per i vostri discendenti». Secondo quant o il Signore aveva ordinato a Mosè Aronne la depose per conservarla davanti alla Testimonianza
. Gli Israeliti mangiarono la manna per quarant’anni fino al loro arrivo in una terra abitata: mang iarono la manna finché non furono arrivati ai confini della terra di Canaan. L’ omer è la decima p arte dell’ efa. Tutta la comunità degli Israeliti levò le tende dal deserto di Sin camminando di tap pa in tappa secondo l’ordine del Signore e si accampò a Refidìm. Ma non c’era acqua da bere pe r il popolo. Il popolo protestò contro Mosè: «Dateci acqua da bere!». Mosè disse loro: «Perché protestate con me? Perché mettete alla prova il Signore?». In quel luogo il popolo soffriva la set e per mancanza di acqua; il popolo mormorò contro Mosè e disse: «Perché ci hai fatto salire dal l’Egitto per far morire di sete noi i nostri figli e il nostro bestiame?». Allora Mosè gridò al Signor e dicendo: «Che cosa farò io per questo popolo? Ancora un poco e mi lapideranno!». Il Signore disse a Mosè: «Passa davanti al popolo e prendi con te alcuni anziani d’Israele. Prendi in mano il bastone con cui hai percosso il Nilo e va’! Ecco io starò davanti a te là sulla roccia sull’Oreb; tu b atterai sulla roccia: ne uscirà acqua e il popolo berrà». Mosè fece così sotto gli occhi degli anzia ni d’Israele. E chiamò quel luogo Massa e Merìba a causa della protesta degli Israeliti e perché misero alla prova il Signore dicendo: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?». Amalèk venne a com battere contro Israele a Refidìm. Mosè disse a Giosuè: «Scegli per noi alcuni uomini ed esci in b
attaglia contro Amalèk. Domani io starò ritto sulla cima del colle con in mano il bastone di Dio».
Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalèk mentre Mosè Ar onne e Cur salirono sulla cima del colle. Quando Mosè alzava le mani Israele prevaleva; ma qua ndo le lasciava cadere prevaleva Amalèk. Poiché Mosè sentiva pesare le mani presero una pietr a la collocarono sotto di lui ed egli vi si sedette mentre Aronne e Cur uno da una parte e l’altro dall’altra sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole. Gi osuè sconfisse Amalèk e il suo popolo passandoli poi a fil di spada. Allora il Signore disse a Mosè
: «Scrivi questo per ricordo nel libro e mettilo negli orecchi di Giosuè: io cancellerò del tutto la memoria di Amalèk sotto il cielo!». Allora Mosè costruì un altare lo chiamò “Il Signore è il mio v essillo” e disse: «Una mano contro il trono del Signore! Vi sarà guerra per il Signore contro Amal èk, di generazione in generazione!». Ietro sacerdote di Madian suocero di Mosè venne a sapere quanto Dio aveva operato per Mosè e per Israele suo popolo cioè come il Signore aveva fatto us cire Israele dall’Egitto. Allora Ietro prese con sé Sipporà moglie di Mosè che prima egli aveva ri mandata con i due figli di lei uno dei quali si chiamava Ghersom, perché egli aveva detto: «Sono un emigrato in terra straniera» e l’altro si chiamava Elièzer perché: «Il Dio di mio padre è venut o in mio aiuto e mi ha liberato dalla spada del faraone». Ietro dunque suocero di Mosè con i figli e la moglie di lui venne da Mosè nel deserto dove era accampato presso la montagna di Dio. Eg li fece dire a Mosè: «Sono io Ietro tuo suocero che vengo da te con tua moglie e i suoi due figli!
». Mosè andò incontro al suocero si prostrò davanti a lui e lo baciò poi si informarono l’uno dell a salute dell’altro ed entrarono sotto la tenda. Mosè raccontò al suocero quanto il Signore avev a fatto al faraone e agli Egiziani a motivo di Israele tutte le difficoltà incontrate durante il viaggi o dalle quali il Signore li aveva liberati. Ietro si rallegrò di tutto il bene che il Signore aveva fatto a Israele quando lo aveva liberato dalla mano degli Egiziani. Disse Ietro: «Benedetto il Signore c he vi ha liberato dalla mano degli Egiziani e dalla mano del faraone: egli ha liberato questo popo lo dalla mano dell’Egitto! Ora io so che il Signore è più grande di tutti gli dèi: ha rivolto contro di loro quello che tramavano». Ietro suocero di Mosè offrì un olocausto e sacrifici a Dio. Vennero Aronne e tutti gli anziani d’Israele per partecipare al banchetto con il suocero di Mosè davanti a Dio. Il giorno dopo Mosè sedette a render giustizia al popolo e il popolo si trattenne presso Mo sè dalla mattina fino alla sera. Allora il suocero di Mosè visto quanto faceva per il popolo gli diss e: «Che cos’è questo che fai per il popolo? Perché siedi tu solo mentre il popolo sta presso di te dalla mattina alla sera?». Mosè rispose al suocero: «Perché il popolo viene da me per consultar e Dio. Quando hanno qualche questione vengono da me e io giudico le vertenze tra l’uno e l’altr o e faccio conoscere i decreti di Dio e le sue leggi». Il suocero di Mosè gli disse: «Non va bene q uello che fai! Finirai per soccombere tu e il popolo che è con te perché il compito è troppo pesa nte per te; non puoi attendervi tu da solo. Ora ascoltami: ti voglio dare un consiglio e Dio sia co n te! Tu sta’ davanti a Dio in nome del popolo e presenta le questioni a Dio. A loro spiegherai i d ecreti e le leggi; indicherai loro la via per la quale devono camminare e le opere che devono co mpiere. Invece sceglierai tra tutto il popolo uomini validi che temono Dio uomini retti che odian
o la venalità per costituirli sopra di loro come capi di migliaia capi di centinaia capi di cinquantin e e capi di decine. Essi dovranno giudicare il popolo in ogni circostanza; quando vi sarà una ques tione importante la sottoporranno a te mentre essi giudicheranno ogni affare minore. Così ti all eggerirai il peso ed essi lo porteranno con te. Se tu fai questa cosa e Dio te lo ordina potrai resis tere e anche tutto questo popolo arriverà in pace alla meta». Mosè diede ascolto alla proposta del suocero e fece quanto gli aveva suggerito. Mosè dunque scelse in tutto Israele uomini validi e li costituì alla testa del popolo come capi di migliaia capi di centinaia capi di cinquantine e capi di decine. Essi giudicavano il popolo in ogni circostanza: quando avevano affari difficili li sottop onevano a Mosè ma giudicavano essi stessi tutti gli affari minori. Poi Mosè congedò il suocero, il quale tornò alla sua terra. Al terzo mese dall’uscita degli Israeliti dalla terra d’Egitto nello stess o giorno essi arrivarono al deserto del Sinai. Levate le tende da Refidìm giunsero al deserto del Sinai dove si accamparono; Israele si accampò davanti al monte. Mosè salì verso Dio e il Signore lo chiamò dal monte dicendo: «Questo dirai alla casa di Giacobbe e annuncerai agli Israeliti: “V
oi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fa tto venire fino a me. Ora se darete ascolto alla mia voce e custodirete la mia alleanza voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli; mia infatti è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa”. Queste parole dirai agli Israeliti». Mosè andò convo cò gli anziani del popolo e riferì loro tutte queste parole come gli aveva ordinato il Signore. Tutt o il popolo rispose insieme e disse: «Quanto il Signore ha detto noi lo faremo!». Mosè tornò dal Signore e riferì le parole del popolo. Il Signore disse a Mosè: «Ecco io sto per venire verso di te i n una densa nube perché il popolo senta quando io parlerò con te e credano per sempre anche a te». Mosè riferì al Signore le parole del popolo. Il Signore disse a Mosè: «Va’ dal popolo e sant ificalo oggi e domani: lavino le loro vesti e si tengano pronti per il terzo giorno perché nel terzo giorno il Signore scenderà sul monte Sinai alla vista di tutto il popolo. Fisserai per il popolo un li mite tutto attorno dicendo: “Guardatevi dal salire sul monte e dal toccarne le falde. Chiunque t occherà il monte sarà messo a morte. Nessuna mano però dovrà toccare costui: dovrà essere la pidato o colpito con tiro di arco. Animale o uomo non dovrà sopravvivere”. Solo quando suoner à il corno essi potranno salire sul monte». Mosè scese dal monte verso il popolo; egli fece santif icare il popolo ed essi lavarono le loro vesti. Poi disse al popolo: «Siate pronti per il terzo giorno: non unitevi a donna». Il terzo giorno sul far del mattino vi furono tuoni e lampi una nube densa sul monte e un suono fortissimo di corno: tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da tremore. Allora Mosè fece uscire il popolo dall’accampamento incontro a Dio. Essi stettero in piedi alle falde del monte. Il monte Sinai era tutto fumante perché su di esso era sceso il Signor e nel fuoco e ne saliva il fumo come il fumo di una fornace: tutto il monte tremava molto. Il suo no del corno diventava sempre più intenso: Mosè parlava e Dio gli rispondeva con una voce. Il S
ignore scese dunque sul monte Sinai sulla vetta del monte e il Signore chiamò Mosè sulla vetta del monte. Mosè salì. Il Signore disse a Mosè: «Scendi scongiura il popolo di non irrompere vers o il Signore per vedere altrimenti ne cadrà una moltitudine! Anche i sacerdoti che si avvicinano
al Signore si santifichino altrimenti il Signore si avventerà contro di loro!». Mosè disse al Signore
: «Il popolo non può salire al monte Sinai perché tu stesso ci hai avvertito dicendo: “Delimita il monte e dichiaralo sacro”». Il Signore gli disse: «Va’ scendi poi salirai tu e Aronne con te. Ma i s acerdoti e il popolo non si precipitino per salire verso il Signore altrimenti egli si avventerà contr o di loro!». Mosè scese verso il popolo e parlò loro. Dio pronunciò tutte queste parole: «Io sono il Signore tuo Dio che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto dalla condizione servile: Non avrai alt ri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di qua nto è quaggiù sulla terra né di quanto è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a lor o e non li servirai. Perché io il Signore tuo Dio, sono un Dio geloso che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione per coloro che mi odiano ma che dimostra la su a bontà fino a mille generazioni per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti. Non pronuncerai invano il nome del Signore tuo Dio perché il Signore non lascia impunito chi pronu ncia il suo nome invano. Ricòrdati del giorno del sabato per santificarlo. Sei giorni lavorerai e far ai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore tuo Dio: non farai alcun l avoro né tu né tuo figlio né tua figlia né il tuo schiavo né la tua schiava né il tuo bestiame né il f orestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il ma re e quanto è in essi ma si è riposato il settimo giorno. Perciò il Signore ha benedetto il giorno d el sabato e lo ha consacrato. Onora tuo padre e tua madre perché si prolunghino i tuoi giorni ne l paese che il Signore tuo Dio ti dà. Non ucciderai. Non commetterai adulterio. Non ruberai. Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo. Non desidererai la casa del tuo prossim o. Non desidererai la moglie del tuo prossimo né il suo schiavo né la sua schiava né il suo bue né il suo asino né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo». Tutto il popolo percepiva i tuoni e i lampi il suono del corno e il monte fumante. Il popolo vide fu preso da tremore e si tenne lont ano. Allora dissero a Mosè: «Parla tu a noi e noi ascolteremo; ma non ci parli Dio altrimenti mor iremo!». Mosè disse al popolo: «Non abbiate timore: Dio è venuto per mettervi alla prova e per ché il suo timore sia sempre su di voi e non pecchiate». Il popolo si tenne dunque lontano ment re Mosè avanzò verso la nube oscura dove era Dio. Il Signore disse a Mosè: «Così dirai agli Israel iti: “Voi stessi avete visto che vi ho parlato dal cielo! Non farete dèi d’argento e dèi d’oro accant o a me: non ne farete per voi! Farai per me un altare di terra e sopra di esso offrirai i tuoi oloca usti e i tuoi sacrifici di comunione le tue pecore e i tuoi buoi; in ogni luogo dove io vorrò far rico rdare il mio nome verrò a te e ti benedirò. Se tu farai per me un altare di pietra non lo costruirai con pietra tagliata perché usando la tua lama su di essa tu la renderesti profana. Non salirai sul mio altare per mezzo di gradini, perché là non si scopra la tua nudità”. Queste sono le norme ch e tu esporrai loro. Quando tu avrai acquistato uno schiavo ebreo egli ti servirà per sei anni e nel settimo potrà andarsene libero senza riscatto. Se è venuto solo solo se ne andrà se era coniugat o sua moglie se ne andrà con lui. Se il suo padrone gli ha dato moglie e questa gli ha partorito fi gli o figlie la donna e i suoi figli saranno proprietà del padrone ed egli se ne andrà solo. Ma se lo schiavo dice: “Io sono affezionato al mio padrone a mia moglie ai miei figli non voglio andarmen
e libero” allora il suo padrone lo condurrà davanti a Dio lo farà accostare al battente o allo stipit e della porta e gli forerà l’orecchio con la lesina e quello resterà suo schiavo per sempre. Quand o un uomo venderà la figlia come schiava ella non se ne andrà come se ne vanno gli schiavi. Se l ei non piace al padrone che perciò non la destina a sé in moglie la farà riscattare. In ogni caso e gli non può venderla a gente straniera agendo con frode verso di lei. Se egli la vuol destinare in moglie al proprio figlio si comporterà nei suoi riguardi secondo il diritto delle figlie. Se egli pren de in moglie un’altra non diminuirà alla prima il nutrimento il vestiario la coabitazione. Se egli n on le fornisce queste tre cose lei potrà andarsene senza che sia pagato il prezzo del riscatto. Col ui che colpisce un uomo causandone la morte sarà messo a morte. Se però non ha teso insidia ma Dio glielo ha fatto incontrare io ti fisserò un luogo dove potrà rifugiarsi. Ma se un uomo ave va premeditato di uccidere il suo prossimo con inganno allora lo strapperai anche dal mio altare perché sia messo a morte. Colui che percuote suo padre o sua madre sarà messo a morte. Colui che rapisce un uomo sia che lo venda sia che lo si trovi ancora in mano sua, sarà messo a morte
. Colui che maledice suo padre o sua madre sarà messo a morte. Quando alcuni uomini litigano e uno colpisce il suo prossimo con una pietra o con il pugno e questi non muore ma deve mette rsi a letto se poi si alza ed esce con il bastone chi lo ha colpito sarà ritenuto innocente ma dovrà pagare il riposo forzato e assicurargli le cure. Quando un uomo colpisce con il bastone il suo sch iavo o la sua schiava e gli muore sotto le sue mani si deve fare vendetta. Ma se sopravvive un gi orno o due non sarà vendicato, perché è suo denaro. Quando alcuni uomini litigano e urtano un a donna incinta, così da farla abortire se non vi è altra disgrazia si esigerà un’ammenda secondo quanto imporrà il marito della donna e il colpevole pagherà attraverso un arbitrato. Ma se segu e una disgrazia allora pagherai vita per vita: occhio per occhio dente per dente mano per mano piede per piede bruciatura per bruciatura ferita per ferita livido per livido. Quando un uomo col pisce l’occhio del suo schiavo o della sua schiava e lo acceca, darà loro la libertà in compenso de ll’occhio. Se fa cadere il dente del suo schiavo o della sua schiava darà loro la libertà in compens o del dente. Quando un bue cozza con le corna contro un uomo o una donna e ne segue la mort e il bue sarà lapidato e non se ne mangerà la carne. Però il proprietario del bue è innocente. Ma se il bue era solito cozzare con le corna già prima e il padrone era stato avvisato e non lo aveva custodito se ha causato la morte di un uomo o di una donna il bue sarà lapidato e anche il suo p adrone dev’essere messo a morte. Se invece gli viene imposto un risarcimento, egli pagherà il ri scatto della propria vita secondo quanto gli verrà imposto. Se cozza con le corna contro un figlio o se cozza contro una figlia si procederà nella stessa maniera. Se il bue colpisce con le corna un o schiavo o una schiava si darà al suo padrone del denaro trenta sicli e il bue sarà lapidato. Qua ndo un uomo lascia una cisterna aperta oppure quando un uomo scava una cisterna e non la co pre se vi cade un bue o un asino il proprietario della cisterna deve dare l’indennizzo: verserà il d enaro al padrone della bestia e l’animale morto gli apparterrà. Quando il bue di un tale cozza co ntro il bue del suo prossimo e ne causa la morte essi venderanno il bue vivo e se ne divideranno il prezzo; si divideranno anche la bestia morta. Ma se è notorio che il bue era solito cozzare già
prima e il suo padrone non lo ha custodito egli dovrà dare come indennizzo bue per bue e la bes tia morta gli apparterrà. Quando un uomo ruba un bue o un montone e poi lo sgozza o lo vende darà come indennizzo cinque capi di grosso bestiame per il bue e quattro capi di bestiame min uto per il montone. Se un ladro viene sorpreso mentre sta facendo una breccia in un muro e vie ne colpito e muore, non vi è per lui vendetta di sangue. Ma se il sole si era già alzato su di lui, vi è per lui vendetta di sangue. Il ladro dovrà dare l’indennizzo: se non avrà di che pagare sarà ven duto in compenso dell’oggetto rubato. Se si trova ancora in vita e ciò che è stato rubato è in suo possesso si tratti di bue di asino o di montone restituirà il doppio. Quando un uomo usa come p ascolo un campo o una vigna e lascia che il suo bestiame vada a pascolare in un campo altrui de ve dare l’indennizzo con il meglio del suo campo e con il meglio della sua vigna. Quando un fuoc o si propaga e si attacca ai cespugli spinosi se viene bruciato un mucchio di covoni o il grano in s piga o il grano in erba colui che ha provocato l’incendio darà l’indennizzo. Quando un uomo dà i n custodia al suo prossimo denaro od oggetti e poi nella casa di costui viene commesso un furto se si trova il ladro quest’ultimo restituirà il doppio. Se il ladro non si trova il padrone della casa si avvicinerà a Dio per giurare che non ha allungato la mano sulla proprietà del suo prossimo. Q
ualunque sia l’oggetto di una frode si tratti di un bue di un asino di un montone, di una veste di qualunque oggetto perduto di cui uno dice: “è questo!” la causa delle due parti andrà fino a Dio
: colui che Dio dichiarerà colpevole restituirà il doppio al suo prossimo. Quando un uomo dà in c ustodia al suo prossimo un asino o un bue o un capo di bestiame minuto o qualsiasi animale se l a bestia muore o si è prodotta una frattura o è stata rapita senza testimone interverrà tra le du e parti un giuramento per il Signore per dichiarare che il depositario non ha allungato la mano s ulla proprietà del suo prossimo. Il padrone della bestia accetterà e l’altro non dovrà risarcire. M
a se la bestia è stata rubata quando si trovava presso di lui pagherà l’indennizzo al padrone di es sa. Se invece è stata sbranata ne porterà la prova in testimonianza e non dovrà dare l’indennizz o per la bestia sbranata. Quando un uomo prende in prestito dal suo prossimo una bestia e que sta si è prodotta una frattura o è morta in assenza del padrone dovrà pagare l’indennizzo. Ma s e il padrone si trova presente non deve restituire; se si tratta di una bestia presa a nolo la sua p erdita è compensata dal prezzo del noleggio. Quando un uomo seduce una vergine non ancora f idanzata e si corica con lei ne pagherà il prezzo nuziale e lei diverrà sua moglie. Se il padre di lei si rifiuta di dargliela egli dovrà versare una somma di denaro pari al prezzo nuziale delle vergini.
Non lascerai vivere colei che pratica la magia. Chiunque giaccia con una bestia sia messo a mort e. Colui che offre un sacrificio agli dèi anziché al solo Signore sarà votato allo sterminio. Non mo lesterai il forestiero né lo opprimerai perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto. Non maltr atterai la vedova o l’orfano. Se tu lo maltratti quando invocherà da me l’aiuto io darò ascolto al suo grido la mia ira si accenderà e vi farò morire di spada: le vostre mogli saranno vedove e i vo stri figli orfani. Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo all’indigente che sta con te non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse. Se prendi in pegno il m antello del tuo prossimo glielo renderai prima del tramonto del sole, perché è la sua sola copert
a è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo? Altrimenti quando griderà v erso di me io l’ascolterò, perché io sono pietoso. Non bestemmierai Dio e non maledirai il capo del tuo popolo. Non ritarderai l’offerta di ciò che riempie il tuo granaio e di ciò che stilla dal tuo frantoio. Il primogenito dei tuoi figli lo darai a me. Così farai per il tuo bue e per il tuo bestiame minuto: sette giorni resterà con sua madre l’ottavo giorno lo darai a me. Voi sarete per me uom ini santi: non mangerete la carne di una bestia sbranata nella campagna, ma la getterete ai cani.
Non spargerai false dicerie; non presterai mano al colpevole per far da testimone in favore di u n’ingiustizia. Non seguirai la maggioranza per agire male e non deporrai in processo così da star e con la maggioranza per ledere il diritto. Non favorirai nemmeno il debole nel suo processo. Q
uando incontrerai il bue del tuo nemico o il suo asino dispersi glieli dovrai ricondurre. Quando v edrai l’asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico non abbandonarlo a se stesso: mettiti con lui a scioglierlo dal carico. Non ledere il diritto del tuo povero nel suo processo. Ti terrai lontano da parola menzognera. Non far morire l’innocente e il giusto, perché io non assolvo il colpevole
. Non accetterai doni perché il dono acceca chi ha gli occhi aperti e perverte anche le parole dei giusti. Non opprimerai il forestiero: anche voi conoscete la vita del forestiero perché siete stati f orestieri in terra d’Egitto. Per sei anni seminerai la tua terra e ne raccoglierai il prodotto ma nel settimo anno non la sfrutterai e la lascerai incolta: ne mangeranno gli indigenti del tuo popolo e ciò che lasceranno sarà consumato dalle bestie selvatiche. Così farai per la tua vigna e per il tuo oliveto. Per sei giorni farai i tuoi lavori ma nel settimo giorno farai riposo perché possano goder e quiete il tuo bue e il tuo asino e possano respirare i figli della tua schiava e il forestiero. Farete attenzione a quanto vi ho detto: non pronunciate il nome di altri dèi; non si senta sulla tua boc ca! Tre volte all’anno farai festa in mio onore. Osserverai la festa degli Azzimi: per sette giorni m angerai azzimi come ti ho ordinato, nella ricorrenza del mese di Abìb perché in esso sei uscito d all’Egitto. Non si dovrà comparire davanti a me a mani vuote. Osserverai la festa della mietitura cioè dei primi frutti dei tuoi lavori di semina nei campi e poi al termine dell’anno la festa del rac colto quando raccoglierai il frutto dei tuoi lavori nei campi. Tre volte all’anno ogni tuo maschio c omparirà alla presenza del Signore Dio. Non offrirai con pane lievitato il sangue del sacrificio in mio onore e il grasso della vittima per la mia festa non dovrà restare fino al mattino. Il meglio d elle primizie del tuo suolo lo porterai alla casa del Signore tuo Dio. Non farai cuocere un caprett o nel latte di sua madre. Ecco io mando un angelo davanti a te per custodirti sul cammino e per farti entrare nel luogo che ho preparato. Abbi rispetto della sua presenza da’ ascolto alla sua vo ce e non ribellarti a lui; egli infatti non perdonerebbe la vostra trasgressione perché il mio nome è in lui. Se tu dai ascolto alla sua voce e fai quanto ti dirò io sarò il nemico dei tuoi nemici e l’av versario dei tuoi avversari. Quando il mio angelo camminerà alla tua testa e ti farà entrare press o l’Amorreo l’Ittita il Perizzita il Cananeo l’Eveo e il Gebuseo e io li distruggerò, tu non ti prostre rai davanti ai loro dèi e non li servirai; tu non ti comporterai secondo le loro opere ma dovrai de molire e frantumare le loro stele. Voi servirete il Signore vostro Dio. Egli benedirà il tuo pane e l a tua acqua. Terrò lontana da te la malattia. Non vi sarà nella tua terra donna che abortisca o ch
e sia sterile. Ti farò giungere al numero completo dei tuoi giorni. Manderò il mio terrore davanti a te e metterò in rotta ogni popolo in mezzo al quale entrerai; farò voltare le spalle a tutti i tuoi nemici davanti a te. Manderò i calabroni davanti a te ed essi scacceranno dalla tua presenza l’E
veo, il Cananeo e l’Ittita. Non li scaccerò dalla tua presenza in un solo anno, perché non resti de serta la terra e le bestie selvatiche si moltiplichino contro di te. Li scaccerò dalla tua presenza a poco a poco finché non avrai tanti discendenti da occupare la terra. Stabilirò il tuo confine dal Mar Rosso fino al mare dei Filistei e dal deserto fino al Fiume perché ti consegnerò in mano gli a bitanti della terra e li scaccerò dalla tua presenza. Ma tu non farai alleanza con loro e con i loro dèi; essi non abiteranno più nella tua terra altrimenti ti farebbero peccare contro di me perché t u serviresti i loro dèi e ciò diventerebbe una trappola per te». Il Signore disse a Mosè: «Sali vers o il Signore tu e Aronne Nadab e Abiu e settanta anziani d’Israele; voi vi prostrerete da lontano solo Mosè si avvicinerà al Signore: gli altri non si avvicinino e il popolo non salga con lui». Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose a u na sola voce dicendo: «Tutti i comandamenti che il Signore ha dato noi li eseguiremo!». Mosè s crisse tutte le parole del Signore. Si alzò di buon mattino ed eresse un altare ai piedi del monte con dodici stele per le dodici tribù d’Israele. Incaricò alcuni giovani tra gli Israeliti di offrire oloca usti e di sacrificare giovenchi come sacrifici di comunione per il Signore. Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare. Quindi prese il libro dell’allean za e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: «Quanto ha detto il Signore lo eseguiremo e vi pr esteremo ascolto». Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo dicendo: «Ecco il sangue dell’all eanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!». Mosè salì con Aron ne Nadab Abiu e i settanta anziani d’Israele. Essi videro il Dio d’Israele: sotto i suoi piedi vi era c ome un pavimento in lastre di zaffìro limpido come il cielo. Contro i privilegiati degli Israeliti non stese la mano: essi videro Dio e poi mangiarono e bevvero. Il Signore disse a Mosè: «Sali verso di me sul monte e rimani lassù: io ti darò le tavole di pietra la legge e i comandamenti che io ho scritto per istruirli». Mosè si mosse con Giosuè suo aiutante e Mosè salì sul monte di Dio. Agli a nziani aveva detto: «Restate qui ad aspettarci fin quando torneremo da voi; ecco avete con voi Aronne e Cur: chiunque avrà una questione si rivolgerà a loro». Mosè salì dunque sul monte e la nube coprì il monte. La gloria del Signore venne a dimorare sul monte Sinai e la nube lo coprì p er sei giorni. Al settimo giorno il Signore chiamò Mosè dalla nube. La gloria del Signore appariva agli occhi degli Israeliti come fuoco divorante sulla cima della montagna. Mosè entrò dunque in mezzo alla nube e salì sul monte. Mosè rimase sul monte quaranta giorni e quaranta notti. Il Sig nore parlò a Mosè dicendo: «Ordina agli Israeliti che raccolgano per me un contributo. Lo racco glierete da chiunque sia generoso di cuore. Ed ecco che cosa raccoglierete da loro come contrib uto: oro argento e bronzo tessuti di porpora viola e rossa di scarlatto di bisso e di pelo di capra pelle di montone tinta di rosso, pelle di tasso e legno di acacia olio per l’illuminazione balsami p er l’olio dell’unzione e per l’incenso aromatico pietre di ònice e pietre da incastonare nell’ efod e nel pettorale. Essi mi faranno un santuario e io abiterò in mezzo a loro. Eseguirete ogni cosa s
econdo quanto ti mostrerò, secondo il modello della Dimora e il modello di tutti i suoi arredi. Fa ranno dunque un’arca di legno di acacia: avrà due cubiti e mezzo di lunghezza, un cubito e mezz o di larghezza un cubito e mezzo di altezza. La rivestirai d’oro puro: dentro e fuori la rivestirai e l e farai intorno un bordo d’oro. Fonderai per essa quattro anelli d’oro e li fisserai ai suoi quattro piedi: due anelli su di un lato e due anelli sull’altro. Farai stanghe di legno di acacia e le rivestirai d’oro. Introdurrai le stanghe negli anelli sui due lati dell’arca per trasportare con esse l’arca. Le stanghe dovranno rimanere negli anelli dell’arca: non verranno tolte di lì. Nell’arca collocherai l a Testimonianza che io ti darò. Farai il propiziatorio d’oro puro; avrà due cubiti e mezzo di lungh ezza e un cubito e mezzo di larghezza. Farai due cherubini d’oro: li farai lavorati a martello sulle due estremità del propiziatorio. Fa’ un cherubino a una estremità e un cherubino all’altra estre mità. Farete i cherubini alle due estremità del propiziatorio. I cherubini avranno le due ali spieg ate verso l’alto proteggendo con le ali il propiziatorio; saranno rivolti l’uno verso l’altro e le facc e dei cherubini saranno rivolte verso il propiziatorio. Porrai il propiziatorio sulla parte superiore dell’arca e collocherai nell’arca la Testimonianza che io ti darò. Io ti darò convegno in quel luogo
: parlerò con te da sopra il propiziatorio in mezzo ai due cherubini che saranno sull’arca della Te stimonianza dandoti i miei ordini riguardo agli Israeliti. Farai una tavola di legno di acacia: avrà due cubiti di lunghezza un cubito di larghezza un cubito e mezzo di altezza. La rivestirai d’oro pu ro e le farai attorno un bordo d’oro. Le farai attorno una cornice di un palmo e farai un bordo d’
oro per la cornice. Le farai quattro anelli d’oro e li fisserai ai quattro angoli che costituiranno i s uoi quattro piedi. Gli anelli saranno contigui alla cornice e serviranno a inserire le stanghe desti nate a trasportare la tavola. Farai le stanghe di legno di acacia e le rivestirai d’oro; con esse si tr asporterà la tavola. Farai anche i suoi piatti coppe anfore e tazze per le libagioni: li farai d’oro p uro. Sulla tavola collocherai i pani dell’offerta: saranno sempre alla mia presenza. Farai anche u n candelabro d’oro puro. Il candelabro sarà lavorato a martello il suo fusto e i suoi bracci; i suoi calici i suoi bulbi e le sue corolle saranno tutti di un pezzo. Sei bracci usciranno dai suoi lati: tre bracci del candelabro da un lato e tre bracci del candelabro dall’altro lato. Vi saranno su di un br accio tre calici in forma di fiore di mandorlo con bulbo e corolla e così anche sull’altro braccio tr e calici in forma di fiore di mandorlo con bulbo e corolla. Così sarà per i sei bracci che usciranno dal candelabro. Il fusto del candelabro avrà quattro calici in forma di fiore di mandorlo con i lor o bulbi e le loro corolle: un bulbo sotto i due bracci che si dipartono da esso e un bulbo sotto i d ue bracci seguenti e un bulbo sotto gli ultimi due bracci che si dipartono da esso; così per tutti i sei bracci che escono dal candelabro. I bulbi e i relativi bracci saranno tutti di un pezzo: il tutto s arà formato da una sola massa d’oro puro lavorata a martello. Farai le sue sette lampade: vi si c ollocheranno sopra in modo da illuminare lo spazio davanti ad esso. I suoi smoccolatoi e i suoi p ortacenere saranno d’oro puro. Lo si farà con un talento di oro puro esso con tutti i suoi accesso ri. Guarda ed esegui secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte. Quanto alla Dimora l a farai con dieci teli di bisso ritorto di porpora viola di porpora rossa e di scarlatto. Vi farai figure di cherubini lavoro d’artista. La lunghezza di un telo sarà di ventotto cubiti; la larghezza di quatt
ro cubiti per un telo; la stessa dimensione per tutti i teli. Cinque teli saranno uniti l’uno all’altro e anche gli altri cinque saranno uniti l’uno all’altro. Farai cordoni di porpora viola sull’orlo del pr imo telo all’estremità della sutura; così farai sull’orlo del telo estremo nella seconda sutura. Far ai cinquanta cordoni al primo telo e farai cinquanta cordoni all’estremità della seconda sutura: i cordoni corrisponderanno l’uno all’altro. Farai cinquanta fibbie d’oro e unirai i teli l’uno all’altr o mediante le fibbie così la Dimora formerà un tutto unico. Farai poi teli di pelo di capra per la t enda sopra la Dimora. Ne farai undici teli. La lunghezza di un telo sarà di trenta cubiti; la larghez za di quattro cubiti per un telo; la stessa dimensione per gli undici teli. Unirai insieme cinque teli da una parte e sei teli dall’altra. Piegherai in due il sesto telo sulla parte anteriore della tenda. F
arai cinquanta cordoni sull’orlo del primo telo che è all’estremità della sutura e cinquanta cordo ni sull’orlo del telo della seconda sutura. Farai cinquanta fibbie di bronzo introdurrai le fibbie ne i cordoni e unirai insieme la tenda; così essa formerà un tutto unico. La parte che pende in ecce denza nei teli della tenda la metà cioè di un telo che sopravanza penderà sulla parte posteriore della Dimora. Il cubito in eccedenza da una parte come il cubito in eccedenza dall’altra parte nel senso della lunghezza dei teli della tenda ricadranno sui due lati della Dimora per coprirla da un a parte e dall’altra. Farai per la tenda una copertura di pelli di montone tinte di rosso e al di sop ra una copertura di pelli di tasso. Poi farai per la Dimora le assi di legno di acacia da porsi vertica li. La lunghezza di un’asse sarà dieci cubiti e un cubito e mezzo la larghezza. Ogni asse avrà due s ostegni congiunti l’uno all’altro da un rinforzo. Così farai per tutte le assi della Dimora. Farai dun que le assi per la Dimora: venti assi verso il mezzogiorno a sud. Farai anche quaranta basi d’arge nto sotto le venti assi due basi sotto un’asse per i suoi due sostegni e due basi sotto l’altra asse per i suoi due sostegni. Per il secondo lato della Dimora verso il settentrione venti assi, come an che le loro quaranta basi d’argento due basi sotto un’asse e due basi sotto l’altra asse. Per la pa rte posteriore della Dimora verso occidente farai sei assi. Farai inoltre due assi per gli angoli dell a Dimora sulla parte posteriore. Esse saranno formate ciascuna da due pezzi uguali abbinati e p erfettamente congiunti dal basso fino alla cima all’altezza del primo anello. Così sarà per ambed ue: esse formeranno i due angoli. Vi saranno dunque otto assi con le loro basi d’argento: sedici basi due basi sotto un’asse e due basi sotto l’altra asse. Farai inoltre traverse di legno di acacia: cinque per le assi di un lato della Dimora e cinque traverse per le assi dell’altro lato della Dimor a e cinque traverse per le assi della parte posteriore verso occidente. La traversa mediana a me zza altezza delle assi le attraverserà da una estremità all’altra. Rivestirai d’oro le assi farai in oro i loro anelli, che serviranno per inserire le traverse e rivestirai d’oro anche le traverse. Costruirai la Dimora secondo la disposizione che ti è stata mostrata sul monte. Farai il velo di porpora viol a di porpora rossa di scarlatto e di bisso ritorto. Lo si farà con figure di cherubini lavoro d’artista
. Lo appenderai a quattro colonne di acacia rivestite d’oro munite di uncini d’oro e poggiate su quattro basi d’argento. Collocherai il velo sotto le fibbie e là nell’interno oltre il velo, introdurrai l’arca della Testimonianza. Il velo costituirà per voi la separazione tra il Santo e il Santo dei Sant i. Porrai il propiziatorio sull’arca della Testimonianza nel Santo dei Santi. Collocherai la tavola fu
ori del velo e il candelabro di fronte alla tavola sul lato meridionale della Dimora; collocherai la t avola sul lato settentrionale. Farai una cortina all’ingresso della tenda di porpora viola e di porp ora rossa di scarlatto e di bisso ritorto lavoro di ricamatore. Farai per la cortina cinque colonne di acacia e le rivestirai d’oro. I loro uncini saranno d’oro e fonderai per esse cinque basi di bronz o. Farai l’altare di legno di acacia: avrà cinque cubiti di lunghezza e cinque cubiti di larghezza. L’
altare sarà quadrato e avrà l’altezza di tre cubiti. Farai ai suoi quattro angoli quattro corni e cost ituiranno un sol pezzo con esso. Lo rivestirai di bronzo. Farai i suoi recipienti per raccogliere le c eneri le sue palette i suoi vasi per l’aspersione le sue forcelle e i suoi bracieri. Farai di bronzo tut ti questi accessori. Farai per esso una graticola di bronzo lavorato in forma di rete e farai sulla re te quattro anelli di bronzo alle sue quattro estremità. La porrai sotto la cornice dell’altare in bas so: la rete arriverà a metà dell’altezza dell’altare. Farai anche stanghe per l’altare: saranno stan ghe di legno di acacia e le rivestirai di bronzo. Si introdurranno queste stanghe negli anelli e le s tanghe saranno sui due lati dell’altare quando lo si trasporta. Lo farai di tavole vuoto nell’intern o: lo faranno come ti fu mostrato sul monte. Farai poi il recinto della Dimora. Sul lato meridiona le verso sud il recinto avrà tendaggi di bisso ritorto per la lunghezza di cento cubiti sullo stesso l ato. Vi saranno venti colonne con venti basi di bronzo. Gli uncini delle colonne e le loro aste tras versali saranno d’argento. Allo stesso modo sul lato rivolto a settentrione: tendaggi per cento c ubiti di lunghezza le relative venti colonne con le venti basi di bronzo gli uncini delle colonne e l e aste trasversali d’argento. La larghezza del recinto verso occidente avrà cinquanta cubiti di ten daggi con le relative dieci colonne e le dieci basi. La larghezza del recinto sul lato orientale verso levante sarà di cinquanta cubiti: quindici cubiti di tendaggi con le relative tre colonne e le tre b asi alla prima ala; all’altra ala quindici cubiti di tendaggi con le tre colonne e le tre basi. Alla port a del recinto vi sarà una cortina di venti cubiti lavoro di ricamatore di porpora viola porpora ross a scarlatto e bisso ritorto con le relative quattro colonne e le quattro basi. Tutte le colonne intor no al recinto saranno fornite di aste trasversali d’argento: i loro uncini saranno d’argento e le lo ro basi di bronzo. La lunghezza del recinto sarà di cento cubiti la larghezza di cinquanta, l’altezza di cinque cubiti: di bisso ritorto con le basi di bronzo. Tutti gli arredi della Dimora per tutti i suoi servizi e tutti i picchetti come anche i picchetti del recinto saranno di bronzo. Tu ordinerai agli I sraeliti che ti procurino olio puro di olive schiacciate per l’illuminazione per tener sempre acces a una lampada. Nella tenda del convegno al di fuori del velo che sta davanti alla Testimonianza Aronne e i suoi figli la prepareranno perché dalla sera alla mattina essa sia davanti al Signore: rit o perenne presso gli Israeliti di generazione in generazione. Fa’ avvicinare a te in mezzo agli Isra eliti Aronne tuo fratello e i suoi figli con lui perché siano miei sacerdoti: Aronne Nadab e Abiu El eàzaro e Itamàr figli di Aronne. Farai per Aronne tuo fratello abiti sacri per gloria e decoro. Parle rai a tutti gli artigiani più esperti che io ho riempito di uno spirito di saggezza ed essi faranno gli abiti di Aronne per la sua consacrazione e per l’esercizio del sacerdozio in mio onore. E questi s ono gli abiti che faranno: il pettorale e l’ efod il manto la tunica ricamata il turbante e la cintura.
Faranno vesti sacre per Aronne tuo fratello e per i suoi figli, perché esercitino il sacerdozio in m
io onore. Useranno oro porpora viola e porpora rossa scarlatto e bisso. Faranno l’ efod con oro porpora viola e porpora rossa scarlatto e bisso ritorto, artisticamente lavorati. Avrà due spalline attaccate alle due estremità e in tal modo formerà un pezzo ben unito. La cintura per fissarlo c he sta sopra di esso, sarà della stessa fattura e sarà d’un sol pezzo: sarà intessuta d’oro di porpo ra viola e porpora rossa scarlatto e bisso ritorto. Prenderai due pietre di ònice e inciderai su di e sse i nomi dei figli d’Israele: sei dei loro nomi sulla prima pietra e gli altri sei nomi sulla seconda pietra in ordine di nascita. Inciderai le due pietre con i nomi dei figli d’Israele seguendo l’arte de ll’intagliatore di pietre per l’incisione di un sigillo; le inserirai in castoni d’oro. Fisserai le due piet re sulle spalline dell’ efod come memoriale per i figli d’Israele; così Aronne porterà i loro nomi s ulle sue spalle davanti al Signore come un memoriale. Farai anche i castoni d’oro e due catene d
’oro puro in forma di cordoni con un lavoro d’intreccio; poi fisserai le catene a intreccio sui cast oni. Farai il pettorale del giudizio artisticamente lavorato di fattura uguale a quella dell’ efod: co n oro porpora viola porpora rossa scarlatto e bisso ritorto. Sarà quadrato doppio; avrà una span na di lunghezza e una spanna di larghezza. Lo coprirai con un’incastonatura di pietre preziose di sposte in quattro file. Prima fila: una cornalina un topazio e uno smeraldo; seconda fila: una tur chese uno zaffìro e un berillo; terza fila: un giacinto un’àgata e un’ametista; quarta fila: un crisòl ito un’ònice e un diaspro. Esse saranno inserite nell’oro mediante i loro castoni. Le pietre corris ponderanno ai nomi dei figli d’Israele: dodici secondo i loro nomi e saranno incise come sigilli ci ascuna con il nome corrispondente secondo le dodici tribù. Sul pettorale farai catene in forma d i cordoni lavoro d’intreccio d’oro puro. Sul pettorale farai anche due anelli d’oro e metterai i du e anelli alle estremità del pettorale. Metterai le due catene d’oro sui due anelli alle estremità de l pettorale. Quanto alle altre due estremità delle catene le fisserai sui due castoni e le farai pass are sulle due spalline dell’ efod nella parte anteriore. Farai due anelli d’oro e li metterai sulle du e estremità del pettorale sul suo bordo che è dall’altra parte dell’ efod verso l’interno. Farai due altri anelli d’oro e li metterai sulle due spalline dell’ efod in basso sul suo lato anteriore in vicina nza del punto di attacco al di sopra della cintura dell’ efod. Si legherà il pettorale con i suoi anell i agli anelli dell’ efod mediante un cordone di porpora viola perché stia al di sopra della cintura dell’ efod e perché il pettorale non si distacchi dall’ efod. Così Aronne porterà i nomi dei figli d’Is raele sul pettorale del giudizio sopra il suo cuore quando entrerà nel Santo come memoriale da vanti al Signore per sempre. Unirai al pettorale del giudizio gli urìm e i tummìm. Saranno così so pra il cuore di Aronne quando entrerà alla presenza del Signore: Aronne porterà il giudizio degli Israeliti sopra il suo cuore alla presenza del Signore per sempre. Farai il manto dell’ efod tutto di porpora viola con in mezzo la scollatura per la testa; il bordo attorno alla scollatura sarà un lavo ro di tessitore come la scollatura di una corazza che non si lacera. Farai sul suo lembo melagran e di porpora viola, di porpora rossa e di scarlatto intorno al suo lembo e in mezzo disporrai sona gli d’oro: un sonaglio d’oro e una melagrana un sonaglio d’oro e una melagrana intorno all’orlo i nferiore del manto. Aronne l’indosserà nelle funzioni sacerdotali e se ne sentirà il suono quando egli entrerà nel Santo alla presenza del Signore e quando ne uscirà. Così non morirà. Farai una l
amina d’oro puro e vi inciderai come su di un sigillo “Sacro al Signore”. L’attaccherai con un cor done di porpora viola al turbante sulla parte anteriore. Starà sulla fronte di Aronne; Aronne por terà il carico delle colpe che potranno commettere gli Israeliti in occasione delle offerte sacre d a loro presentate. Aronne la porterà sempre sulla sua fronte per attirare su di loro il favore del S
ignore. Tesserai la tunica di bisso. Farai un turbante di bisso e una cintura lavoro di ricamo. Per i figli di Aronne farai tuniche e cinture. Per loro farai anche berretti per gloria e decoro. Farai ind ossare queste vesti ad Aronne tuo fratello e ai suoi figli. Poi li ungerai darai loro l’investitura e li consacrerai perché esercitino il sacerdozio in mio onore. Farai loro inoltre calzoni di lino per cop rire la loro nudità dovranno arrivare dai fianchi fino alle cosce. Aronne e i suoi figli li indosseran no quando entreranno nella tenda del convegno o quando si avvicineranno all’altare per officiar e nel santuario perché non incorrano in una colpa che li farebbe morire. è una prescrizione pere nne per lui e per i suoi discendenti. Osserverai questo rito per consacrarli al mio sacerdozio. Pre ndi un giovenco e due arieti senza difetto; poi pani azzimi focacce azzime impastate con olio e s chiacciate azzime cosparse di olio: le preparerai con fior di farina di frumento. Le disporrai in un solo canestro e le offrirai nel canestro insieme con il giovenco e i due arieti. Farai avvicinare Ar onne e i suoi figli all’ingresso della tenda del convegno e li laverai con acqua. Prenderai le vesti e rivestirai Aronne della tunica del manto dell’ efod dell’ efod e del pettorale; lo cingerai con la cintura dell’ efod; gli porrai sul capo il turbante e fisserai il diadema sacro sopra il turbante. Poi prenderai l’olio dell’unzione lo verserai sul suo capo e lo ungerai. Quanto ai suoi figli li farai avvi cinare li rivestirai di tuniche; li cingerai con la cintura e legherai loro i berretti. Il sacerdozio appa rterrà loro per decreto perenne. Così darai l’investitura ad Aronne e ai suoi figli. Farai poi avvici nare il giovenco davanti alla tenda del convegno. Aronne e i suoi figli poseranno le mani sulla su a testa. Immolerai il giovenco davanti al Signore, all’ingresso della tenda del convegno. Prender ai parte del suo sangue e con il dito lo spalmerai sui corni dell’altare. Il resto del sangue lo verse rai alla base dell’altare. Prenderai tutto il grasso che avvolge le viscere il lobo del fegato i reni co n il grasso che vi è sopra e li farai ardere in sacrificio sull’altare. Ma la carne del giovenco la sua pelle e i suoi escrementi li brucerai fuori dell’accampamento perché si tratta di un sacrificio per il peccato. Prenderai poi uno degli arieti; Aronne e i suoi figli poseranno le mani sulla sua testa. I mmolerai l’ariete ne raccoglierai il sangue e lo spargerai intorno all’altare. Dividerai in pezzi l’ari ete ne laverai le viscere e le zampe e le disporrai sui quarti e sulla testa. Allora farai bruciare sull
’altare tutto l’ariete. è un olocausto in onore del Signore un profumo gradito un’offerta consum ata dal fuoco in onore del Signore. Prenderai il secondo ariete; Aronne e i suoi figli poseranno le mani sulla sua testa. Lo immolerai prenderai parte del suo sangue e ne porrai sul lobo dell’orec chio destro di Aronne sul lobo dell’orecchio destro dei suoi figli sul pollice della loro mano destr a e sull’alluce del loro piede destro; poi spargerai il sangue intorno all’altare. Prenderai di quest o sangue dall’altare e insieme un po’ d’olio dell’unzione e ne spruzzerai su Aronne e le sue vesti sui figli di Aronne e le loro vesti: così sarà consacrato lui con le sue vesti e insieme con lui i suoi f igli con le loro vesti. Prenderai il grasso dell’ariete: la coda il grasso che copre le viscere il lobo d
el fegato i due reni con il grasso che vi è sopra e la coscia destra perché è l’ariete dell’investitura
. Prenderai anche un pane rotondo una focaccia all’olio e una schiacciata dal canestro di azzimi deposto davanti al Signore. Metterai il tutto sulle palme di Aronne e sulle palme dei suoi figli e f arai compiere il rito di elevazione davanti al Signore. Riprenderai ogni cosa dalle loro mani e la f arai bruciare sull’altare insieme all’olocausto come profumo gradito davanti al Signore: è un’off erta consumata dal fuoco in onore del Signore. Prenderai il petto dell’ariete dell’investitura di A ronne e lo presenterai con rito di elevazione davanti al Signore: diventerà la tua porzione. Cons acrerai il petto con il rito di elevazione e la coscia con il rito di innalzamento prelevandoli dall’ari ete dell’investitura: saranno di Aronne e dei suoi figli. Dovranno appartenere ad Aronne e ai suo i figli come porzione loro riservata dagli Israeliti in forza di legge perenne. Perché è un prelevam ento un prelevamento cioè che gli Israeliti dovranno operare in tutti i loro sacrifici di comunione un prelevamento dovuto al Signore. Le vesti sacre di Aronne passeranno dopo di lui ai suoi figli che se ne rivestiranno per ricevere l’unzione e l’investitura. Quello dei figli di Aronne che gli suc cederà nel sacerdozio ed entrerà nella tenda del convegno per officiare nel santuario, porterà q ueste vesti per sette giorni. Poi prenderai l’ariete dell’investitura e ne cuocerai le carni in luogo santo. Aronne e i suoi figli mangeranno la carne dell’ariete e il pane contenuto nel canestro all’i ngresso della tenda del convegno. Mangeranno così ciò che sarà servito per compiere il rito espi atorio nel corso della loro investitura e consacrazione. Nessun estraneo ne deve mangiare perc hé sono cose sante. Nel caso che al mattino ancora restasse carne del sacrificio d’investitura e d el pane brucerai questo avanzo nel fuoco. Non lo si mangerà: è cosa santa. Farai dunque ad Aro nne e ai suoi figli quanto ti ho comandato. Per sette giorni compirai il rito dell’investitura. In cias cun giorno offrirai un giovenco in sacrificio per il peccato in espiazione; toglierai il peccato dall’a ltare compiendo per esso il rito espiatorio e in seguito lo ungerai per consacrarlo. Per sette gior ni compirai il rito espiatorio per l’altare e lo consacrerai. Diverrà allora una cosa santissima e qu anto toccherà l’altare sarà santo. Ecco ciò che tu offrirai sull’altare: due agnelli di un anno ogni giorno per sempre. Offrirai uno di questi agnelli al mattino il secondo al tramonto. Con il primo agnello offrirai un decimo di efa di fior di farina, impastata con un quarto di hin di olio puro e un a libagione di un quarto di hin di vino. Offrirai il secondo agnello al tramonto con un’oblazione e una libagione come quelle del mattino: profumo gradito offerta consumata dal fuoco in onore del Signore. Questo è l’olocausto perenne di generazione in generazione all’ingresso della tenda del convegno, alla presenza del Signore dove io vi darò convegno per parlarti. Darò convegno a gli Israeliti in questo luogo che sarà consacrato dalla mia gloria. Consacrerò la tenda del conveg no e l’altare. Consacrerò anche Aronne e i suoi figli perché esercitino il sacerdozio per me. Abite rò in mezzo agli Israeliti e sarò il loro Dio. Sapranno che io sono il Signore loro Dio che li ho fatti uscire dalla terra d’Egitto per abitare in mezzo a loro io il Signore loro Dio. Farai un altare sul qu ale bruciare l’incenso: lo farai di legno di acacia. Avrà un cubito di lunghezza e un cubito di largh ezza: sarà quadrato; avrà due cubiti di altezza e i suoi corni costituiranno un solo pezzo con esso
. Rivestirai d’oro puro il suo piano i suoi lati i suoi corni e gli farai intorno un bordo d’oro. Farai a
nche due anelli d’oro al di sotto del bordo sui due fianchi ponendoli cioè sui due lati opposti: ser viranno per inserire le stanghe destinate a trasportarlo. Farai le stanghe di legno di acacia e le ri vestirai d’oro. Porrai l’altare davanti al velo che nasconde l’arca della Testimonianza di fronte al propiziatorio che è sopra la Testimonianza dove io ti darò convegno. Aronne brucerà su di esso l
’incenso aromatico: lo brucerà ogni mattina quando riordinerà le lampade, e lo brucerà anche a l tramonto quando Aronne riempirà le lampade: incenso perenne davanti al Signore di generazi one in generazione. Non vi offrirete sopra incenso illegittimo né olocausto né oblazione né vi ve rserete libagione. Una volta all’anno Aronne compirà il rito espiatorio sui corni di esso: con il sa ngue del sacrificio espiatorio per il peccato compirà sopra di esso una volta all’anno il rito espiat orio di generazione in generazione. è cosa santissima per il Signore». Il Signore parlò a Mosè e g li disse: «Quando per il censimento conterai uno per uno gli Israeliti all’atto del censimento cias cuno di essi pagherà al Signore il riscatto della sua vita perché non li colpisca un flagello in occas ione del loro censimento. Chiunque verrà sottoposto al censimento pagherà un mezzo siclo con forme al siclo del santuario il siclo di venti ghera. Questo mezzo siclo sarà un’offerta prelevata i n onore del Signore. Ogni persona sottoposta al censimento dai venti anni in su, corrisponderà l
’offerta prelevata per il Signore. Il ricco non darà di più e il povero non darà di meno di mezzo si clo per soddisfare all’offerta prelevata per il Signore a riscatto delle vostre vite. Prenderai il den aro espiatorio ricevuto dagli Israeliti e lo impiegherai per il servizio della tenda del convegno. Es so sarà per gli Israeliti come un memoriale davanti al Signore per il riscatto delle vostre vite». Il Signore parlò a Mosè: «Farai per le abluzioni un bacino di bronzo con il piedistallo di bronzo; lo collocherai tra la tenda del convegno e l’altare e vi metterai acqua. Aronne e i suoi figli vi atting eranno per lavarsi le mani e i piedi. Quando entreranno nella tenda del convegno faranno un’ab luzione con l’acqua, perché non muoiano; così quando si avvicineranno all’altare per officiare p er bruciare un’offerta da consumare con il fuoco in onore del Signore si laveranno le mani e i pi edi e non moriranno. è una prescrizione rituale perenne per Aronne e per i suoi discendenti in t utte le loro generazioni». Il Signore parlò a Mosè: «Procù rati balsami pregiati: mirra vergine per il peso di cinquecento sicli; cinnamòmo profumato la metà cioè duecentocinquanta sicli; canna aromatica, duecentocinquanta; cassia cinquecento sicli conformi al siclo del santuario; e un hin d’olio d’oliva. Ne farai l’olio per l’unzione sacra un unguento composto secondo l’arte del profu miere: sarà l’olio per l’unzione sacra. Con esso ungerai la tenda del convegno l’arca della Testim onianza, la tavola e tutti i suoi accessori il candelabro con i suoi accessori l’altare dell’incenso l’a ltare degli olocausti e tutti i suoi accessori il bacino con il suo piedistallo. Consacrerai queste cos e che diventeranno santissime: tutto quello che verrà a contatto con esse sarà santo. Ungerai a nche Aronne e i suoi figli e li consacrerai perché esercitino il mio sacerdozio. Agli Israeliti dirai: “
Questo sarà per me l’olio dell’unzione sacra di generazione in generazione. Non si dovrà versare sul corpo di nessun uomo e di simile a questo non ne dovrete fare: è una cosa santa e santa la dovrete ritenere. Chi ne farà di simile a questo o ne porrà sopra un uomo estraneo sia eliminato dal suo popolo”». Il Signore disse a Mosè: «Procù rati balsami: storace ònice, gàlbano e incenso
puro: il tutto in parti uguali. Farai con essi un profumo da bruciare una composizione aromatica secondo l’arte del profumiere salata pura e santa. Ne pesterai un poco riducendola in polvere minuta e ne metterai davanti alla Testimonianza, nella tenda del convegno dove io ti darò conv egno. Cosa santissima sarà da voi ritenuta. Non farete per vostro uso alcun profumo di composi zione simile a quello che devi fare: lo riterrai una cosa santa in onore del Signore. Chi ne farà di simile per sentirne il profumo sia eliminato dal suo popolo». Il Signore parlò a Mosè e gli disse:
«Vedi ho chiamato per nome Besalèl figlio di Urì figlio di Cur della tribù di Giuda. L’ho riempito dello spirito di Dio perché abbia saggezza intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro per idea re progetti da realizzare in oro argento e bronzo, per intagliare le pietre da incastonare per scol pire il legno ed eseguire ogni sorta di lavoro. Ed ecco gli ho dato per compagno Ooliàb figlio di A chisamàc della tribù di Dan. Inoltre nel cuore di ogni artista ho infuso saggezza perché possano eseguire quanto ti ho comandato: la tenda del convegno l’arca della Testimonianza il propiziato rio sopra di essa e tutti gli accessori della tenda; la tavola con i suoi accessori il candelabro puro con i suoi accessori l’altare dell’incenso e l’altare degli olocausti con tutti i suoi accessori il bacin o con il suo piedistallo; le vesti ornamentali le vesti sacre del sacerdote Aronne e le vesti dei suo i figli per esercitare il sacerdozio; l’olio dell’unzione e l’incenso aromatico per il santuario. Essi e seguiranno quanto ti ho ordinato». Il Signore disse a Mosè: «Tu ora parla agli Israeliti e riferisci l oro: “Osserverete attentamente i miei sabati perché il sabato è un segno tra me e voi di genera zione in generazione perché si sappia che io sono il Signore che vi santifica. Osserverete dunque il sabato perché per voi è santo. Chi lo profanerà sia messo a morte; chiunque in quel giorno fa rà qualche lavoro sia eliminato dal suo popolo. Per sei giorni si lavori ma il settimo giorno vi sarà riposo assoluto sacro al Signore. Chiunque farà un lavoro in giorno di sabato sia messo a morte.
Gli Israeliti osserveranno il sabato festeggiando il sabato nelle loro generazioni come un’alleanz a perenne. Esso è un segno perenne fra me e gli Israeliti: infatti il Signore in sei giorni ha fatto il cielo e la terra ma nel settimo ha cessato e ha preso respiro”». Quando il Signore ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai gli diede le due tavole della Testimonianza tavole di pietra scri tte dal dito di Dio. Il popolo vedendo che Mosè tardava a scendere dal monte fece ressa intorno ad Aronne e gli disse: «Fa’ per noi un dio che cammini alla nostra testa perché a Mosè, quell’uo mo che ci ha fatto uscire dalla terra d’Egitto non sappiamo che cosa sia accaduto». Aronne rispo se loro: «Togliete i pendenti d’oro che hanno agli orecchi le vostre mogli i vostri figli e le vostre f iglie e portateli a me». Tutto il popolo tolse i pendenti che ciascuno aveva agli orecchi e li portò ad Aronne. Egli li ricevette dalle loro mani li fece fondere in una forma e ne modellò un vitello di metallo fuso. Allora dissero: «Ecco il tuo Dio o Israele colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Eg itto!». Ciò vedendo Aronne costruì un altare davanti al vitello e proclamò: «Domani sarà festa in onore del Signore». Il giorno dopo si alzarono presto offrirono olocausti e presentarono sacrific i di comunione. Il popolo sedette per mangiare e bere poi si alzò per darsi al divertimento. Allor a il Signore disse a Mosè: «Va’ scendi perché il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitt o si è pervertito. Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicato! Si sono
fatti un vitello di metallo fuso poi gli si sono prostrati dinanzi gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: “Ecco il tuo Dio Israele colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto”». Il Signore disse in oltre a Mosè: «Ho osservato questo popolo: ecco è un popolo dalla dura cervice. Ora lascia che l a mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione». Mosè allora supplicò il Signore suo Dio e disse: «Perché, Signore si accenderà la tua ira contro il tuo popolo c he hai fatto uscire dalla terra d’Egitto con grande forza e con mano potente? Perché dovranno dire gli Egiziani: “Con malizia li ha fatti uscire per farli perire tra le montagne e farli sparire dalla terra”? Desisti dall’ardore della tua ira e abbandona il proposito di fare del male al tuo popolo.
Ricòrdati di Abramo di Isacco di Israele tuoi servi ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: “R
enderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo e tutta questa terra di cui ho parlat o la darò ai tuoi discendenti e la possederanno per sempre”». Il Signore si pentì del male che av eva minacciato di fare al suo popolo. Mosè si voltò e scese dal monte con in mano le due tavole della Testimonianza, tavole scritte sui due lati da una parte e dall’altra. Le tavole erano opera di Dio, la scrittura era scrittura di Dio scolpita sulle tavole. Giosuè sentì il rumore del popolo che u rlava e disse a Mosè: «C’è rumore di battaglia nell’accampamento». Ma rispose Mosè: «Non è il grido di chi canta: “Vittoria!”. Non è il grido di chi canta: “Disfatta!”. Il grido di chi canta a due c ori io sento». Quando si fu avvicinato all’accampamento vide il vitello e le danze. Allora l’ira di Mosè si accese: egli scagliò dalle mani le tavole spezzandole ai piedi della montagna. Poi afferrò il vitello che avevano fatto lo bruciò nel fuoco lo frantumò fino a ridurlo in polvere ne sparse la polvere nell’acqua e la fece bere agli Israeliti. Mosè disse ad Aronne: «Che cosa ti ha fatto quest o popolo perché tu l’abbia gravato di un peccato così grande?». Aronne rispose: «Non si accend a l’ira del mio signore; tu stesso sai che questo popolo è incline al male. Mi dissero: “Fa’ per noi un dio che cammini alla nostra testa perché a Mosè quell’uomo che ci ha fatto uscire dalla terra d’Egitto non sappiamo che cosa sia accaduto”. Allora io dissi: “Chi ha dell’oro? Toglietevelo!”. E
ssi me lo hanno dato; io l’ho gettato nel fuoco e ne è uscito questo vitello». Mosè vide che il po polo non aveva più freno perché Aronne gli aveva tolto ogni freno così da farne oggetto di derisi one per i loro avversari. Mosè si pose alla porta dell’accampamento e disse: «Chi sta con il Signo re venga da me!». Gli si raccolsero intorno tutti i figli di Levi. Disse loro: «Dice il Signore il Dio d’I sraele: “Ciascuno di voi tenga la spada al fianco. Passate e ripassate nell’accampamento da una porta all’altra: uccida ognuno il proprio fratello ognuno il proprio amico ognuno il proprio vicino
”». I figli di Levi agirono secondo il comando di Mosè e in quel giorno perirono circa tremila uom ini del popolo. Allora Mosè disse: «Ricevete oggi l’investitura dal Signore; ciascuno di voi è stato contro suo figlio e contro suo fratello, perché oggi egli vi accordasse benedizione». Il giorno do po Mosè disse al popolo: «Voi avete commesso un grande peccato; ora salirò verso il Signore: f orse otterrò il perdono della vostra colpa». Mosè ritornò dal Signore e disse: «Questo popolo ha commesso un grande peccato: si sono fatti un dio d’oro. Ma ora se tu perdonassi il loro peccat o… Altrimenti cancellami dal tuo libro che hai scritto!». Il Signore disse a Mosè: «Io cancellerò d al mio libro colui che ha peccato contro di me. Ora va’, conduci il popolo là dove io ti ho detto. E

cco il mio angelo ti precederà nel giorno della mia visita li punirò per il loro peccato». Il Signore colpì il popolo perché aveva fatto il vitello fabbricato da Aronne. Il Signore parlò a Mosè: «Su sal i di qui tu e il popolo che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto verso la terra che ho promesso con giuramento ad Abramo a Isacco e a Giacobbe dicendo: “La darò alla tua discendenza”. Manderò davanti a te un angelo e scaccerò il Cananeo l’Amorreo l’Ittita il Perizzita l’Eveo e il Gebuseo. Va
’ pure verso la terra dove scorrono latte e miele. Ma io non verrò in mezzo a te per non doverti sterminare lungo il cammino perché tu sei un popolo di dura cervice». Il popolo udì questa trist e notizia e tutti fecero lutto: nessuno più indossò i suoi ornamenti. Il Signore disse a Mosè: «Rif erisci agli Israeliti: “Voi siete un popolo di dura cervice; se per un momento io venissi in mezzo a te io ti sterminerei. Ora togliti i tuoi ornamenti, così saprò che cosa dovrò farti”». Gli Israeliti si spogliarono dei loro ornamenti dal monte Oreb in poi. Mosè prendeva la tenda e la piantava fu ori dell’accampamento a una certa distanza dall’accampamento e l’aveva chiamata tenda del co nvegno; appunto a questa tenda del convegno posta fuori dell’accampamento si recava chiunq ue volesse consultare il Signore. Quando Mosè usciva per recarsi alla tenda tutto il popolo si alz ava in piedi stando ciascuno all’ingresso della sua tenda: seguivano con lo sguardo Mosè finché non fosse entrato nella tenda. Quando Mosè entrava nella tenda scendeva la colonna di nube e restava all’ingresso della tenda e parlava con Mosè. Tutto il popolo vedeva la colonna di nube c he stava all’ingresso della tenda e tutti si alzavano e si prostravano ciascuno all’ingresso della pr opria tenda. Il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico. Po i questi tornava nell’accampamento mentre il suo inserviente il giovane Giosuè figlio di Nun non si allontanava dall’interno della tenda. Mosè disse al Signore: «Vedi tu mi ordini: “Fa’ salire que sto popolo” ma non mi hai indicato chi manderai con me; eppure hai detto: “Ti ho conosciuto p er nome, anzi hai trovato grazia ai miei occhi”. Ora se davvero ho trovato grazia ai tuoi occhi ind icami la tua via così che io ti conosca e trovi grazia ai tuoi occhi; considera che questa nazione è il tuo popolo». Rispose: «Il mio volto camminerà con voi e ti darò riposo». Riprese: «Se il tuo vol to non camminerà con noi, non farci salire di qui. Come si saprà dunque che ho trovato grazia ai tuoi occhi io e il tuo popolo se non nel fatto che tu cammini con noi? Così saremo distinti io e il tuo popolo da tutti i popoli che sono sulla faccia della terra». Disse il Signore a Mosè: «Anche qu anto hai detto io farò perché hai trovato grazia ai miei occhi e ti ho conosciuto per nome». Gli di sse: «Mostrami la tua gloria!». Rispose: «Farò passare davanti a te tutta la mia bontà e proclam erò il mio nome Signore davanti a te. A chi vorrò far grazia farò grazia e di chi vorrò aver miseric ordia avrò misericordia». Soggiunse: «Ma tu non potrai vedere il mio volto perché nessun uomo può vedermi e restare vivo». Aggiunse il Signore: «Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: quando passerà la mia gloria io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finc hé non sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle ma il mio volto non si può veder e». Il Signore disse a Mosè: «Taglia due tavole di pietra come le prime. Io scriverò su queste tav ole le parole che erano sulle tavole di prima che hai spezzato. Tieniti pronto per domani mattina
: domani mattina salirai sul monte Sinai e rimarrai lassù per me in cima al monte. Nessuno salga
con te e non si veda nessuno su tutto il monte; neppure greggi o armenti vengano a pascolare davanti a questo monte». Mosè tagliò due tavole di pietra come le prime; si alzò di buon mattin o e salì sul monte Sinai, come il Signore gli aveva comandato con le due tavole di pietra in mano
. Allora il Signore scese nella nube si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore. Il Sig nore passò davanti a lui proclamando: «Il Signore il Signore Dio misericordioso e pietoso lento a ll’ira e ricco di amore e di fedeltà, che conserva il suo amore per mille generazioni che perdona l a colpa la trasgressione e il peccato ma non lascia senza punizione che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione». Mosè si curvò in fretta fino a terra e si prostrò. Disse: «Se ho trovato grazia ai tuoi occhi Signore che il Signore cammini in m ezzo a noi. Sì è un popolo di dura cervice ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato: fa’ d i noi la tua eredità». Il Signore disse: «Ecco io stabilisco un’alleanza: in presenza di tutto il tuo p opolo io farò meraviglie quali non furono mai compiute in nessuna terra e in nessuna nazione: t utto il popolo in mezzo al quale ti trovi vedrà l’opera del Signore perché terribile è quanto io sto per fare con te. Osserva dunque ciò che io oggi ti comando. Ecco io scaccerò davanti a te l’Amo rreo il Cananeo l’Ittita il Perizzita l’Eveo e il Gebuseo. Guàrdati bene dal far alleanza con gli abita nti della terra nella quale stai per entrare perché ciò non diventi una trappola in mezzo a te. Anz i distruggerete i loro altari farete a pezzi le loro stele e taglierete i loro pali sacri. Tu non devi pr ostrarti ad altro dio perché il Signore si chiama Geloso: egli è un Dio geloso. Non fare alleanza c on gli abitanti di quella terra altrimenti quando si prostituiranno ai loro dèi e faranno sacrifici ai loro dèi inviteranno anche te: tu allora mangeresti del loro sacrificio. Non prendere per mogli d ei tuoi figli le loro figlie altrimenti quando esse si prostituiranno ai loro dèi indurrebbero anche i tuoi figli a prostituirsi ai loro dèi. Non ti farai un dio di metallo fuso. Osserverai la festa degli Azz imi. Per sette giorni mangerai pane azzimo come ti ho comandato nel tempo stabilito del mese di Abìb: perché nel mese di Abìb sei uscito dall’Egitto. Ogni essere che nasce per primo dal seno materno è mio: ogni tuo capo di bestiame maschio primo parto del bestiame grosso e minuto. R
iscatterai il primo parto dell’asino mediante un capo di bestiame minuto e se non lo vorrai risca ttare gli spaccherai la nuca. Ogni primogenito dei tuoi figli lo dovrai riscattare. Nessuno venga d avanti a me a mani vuote. Per sei giorni lavorerai ma nel settimo riposerai; dovrai riposare anch e nel tempo dell’aratura e della mietitura. Celebrerai anche la festa delle Settimane la festa cioè delle primizie della mietitura del frumento e la festa del raccolto al volgere dell’anno. Tre volte all’anno ogni tuo maschio compaia alla presenza del Signore Dio Dio d’Israele. Perché io scaccer ò le nazioni davanti a te e allargherò i tuoi confini; così quando tu tre volte all’anno salirai per c omparire alla presenza del Signore tuo Dio nessuno potrà desiderare di invadere la tua terra. N
on sacrificherai con pane lievitato il sangue della mia vittima sacrificale; la vittima sacrificale del la festa di Pasqua non dovrà restare fino al mattino. Porterai alla casa del Signore tuo Dio il meg lio delle primizie della tua terra. Non cuocerai un capretto nel latte di sua madre». Il Signore dis se a Mosè: «Scrivi queste parole perché sulla base di queste parole io ho stabilito un’alleanza co n te e con Israele». Mosè rimase con il Signore quaranta giorni e quaranta notti senza mangiar p
ane e senza bere acqua. Egli scrisse sulle tavole le parole dell’alleanza le dieci parole. Quando M
osè scese dal monte Sinai –
le due tavole della Testimonianza si trovavano nelle mani di Mosè mentre egli scendeva dal mo nte –
non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante poiché aveva conversato con lui. M
a Aronne e tutti gli Israeliti vedendo che la pelle del suo viso era raggiante ebbero timore di avvi cinarsi a lui. Mosè allora li chiamò e Aronne con tutti i capi della comunità, tornò da lui. Mosè p arlò a loro. Si avvicinarono dopo di loro tutti gli Israeliti ed egli ingiunse loro ciò che il Signore gli aveva ordinato sul monte Sinai. Quando Mosè ebbe finito di parlare a loro si pose un velo sul vi so. Quando entrava davanti al Signore per parlare con lui Mosè si toglieva il velo fin quando non fosse uscito. Una volta uscito riferiva agli Israeliti ciò che gli era stato ordinato. Gli Israeliti guar dando in faccia Mosè vedevano che la pelle del suo viso era raggiante. Poi egli si rimetteva il vel o sul viso fin quando non fosse di nuovo entrato a parlare con il Signore. Mosè radunò tutta la c omunità degli Israeliti e disse loro: «Queste sono le cose che il Signore ha comandato di fare: Pe r sei giorni si lavorerà ma il settimo sarà per voi un giorno santo un giorno di riposo assoluto sac ro al Signore. Chiunque in quel giorno farà qualche lavoro sarà messo a morte. In giorno di saba to non accenderete il fuoco in nessuna delle vostre dimore». Mosè disse a tutta la comunità de gli Israeliti: «Il Signore ha comandato: “Prelevate su quanto possedete un contributo per il Signo re”. Quanti hanno cuore generoso portino questo contributo per il Signore: oro argento e bronz o tessuti di porpora viola e rossa di scarlatto di bisso e di pelo di capra pelli di montone tinte di r osso, pelli di tasso e legno di acacia olio per l’illuminazione balsami per l’olio dell’unzione e per l
’incenso aromatico pietre di ònice e pietre da incastonare nell’ efod e nel pettorale. Tutti gli arti sti che sono tra voi vengano ed eseguano quanto il Signore ha comandato: la Dimora la sua ten da la sua copertura le sue fibbie le sue assi le sue traverse le sue colonne e le sue basi, l’arca e l e sue stanghe il propiziatorio e il velo che lo nasconde, la tavola con le sue stanghe e tutti i suoi accessori e i pani dell’offerta, il candelabro per illuminare con i suoi accessori le sue lampade e l
’olio per l’illuminazione l’altare dell’incenso con le sue stanghe l’olio dell’unzione e l’incenso aro matico la cortina d’ingresso alla porta della Dimora, l’altare degli olocausti con la sua graticola d i bronzo le sue sbarre e tutti i suoi accessori il bacino con il suo piedistallo i tendaggi del recinto le sue colonne e le sue basi e la cortina alla porta del recinto i picchetti della Dimora i picchetti del recinto e le loro corde le vesti ornamentali per officiare nel santuario le vesti sacre per il sac erdote Aronne e le vesti dei suoi figli per esercitare il sacerdozio». Allora tutta la comunità degli Israeliti si ritirò dalla presenza di Mosè. Quanti erano di cuore generoso ed erano mossi dal loro spirito vennero a portare il contributo per il Signore per la costruzione della tenda del convegno per tutti i suoi oggetti di culto e per le vesti sacre. Vennero uomini e donne quanti erano di cuo re generoso e portarono fermagli pendenti anelli collane ogni sorta di gioielli d’oro: quanti vole vano presentare un’offerta d’oro al Signore la portarono. Quanti si trovavano in possesso di tes suti di porpora viola e rossa di scarlatto di bisso di pelo di capra di pelli di montone tinte di ross
o e di pelli di tasso ne portarono. Quanti potevano offrire un contributo in argento o bronzo, lo portarono al Signore. Coloro che si trovavano in possesso di legno di acacia per qualche opera d ella costruzione ne portarono. Inoltre tutte le donne esperte filarono con le mani e portarono fil ati di porpora viola e rossa di scarlatto e di bisso. Tutte le donne che erano di cuore generoso se condo la loro abilità filarono il pelo di capra. I capi portarono le pietre di ònice e le pietre prezio se da incastonare nell’ efod e nel pettorale balsami e olio per l’illuminazione per l’olio dell’unzio ne e per l’incenso aromatico. Così tutti uomini e donne che erano di cuore disposto a portare q ualche cosa per la costruzione che il Signore per mezzo di Mosè aveva comandato di fare la port arono: gli Israeliti portarono la loro offerta spontanea al Signore. Mosè disse agli Israeliti: «Vede te il Signore ha chiamato per nome Besalèl figlio di Urì figlio di Cur della tribù di Giuda. L’ha rie mpito dello spirito di Dio perché egli abbia saggezza intelligenza e scienza in ogni genere di lavo ro per ideare progetti da realizzare in oro argento bronzo per intagliare le pietre da incastonare per scolpire il legno ed eseguire ogni sorta di lavoro artistico. Gli ha anche messo nel cuore il do no di insegnare e così anche ha fatto con Ooliàb figlio di Achisamàc della tribù di Dan. Li ha riem piti di saggezza per compiere ogni genere di lavoro d’intagliatore di disegnatore di ricamatore in porpora viola, in porpora rossa in scarlatto e in bisso e di tessitore: capaci di realizzare ogni sort a di lavoro e di ideare progetti». Besalèl Ooliàb e tutti gli artisti che il Signore aveva dotati di sag gezza e d’intelligenza per eseguire i lavori della costruzione del santuario fecero ogni cosa secon do ciò che il Signore aveva ordinato. Mosè chiamò Besalèl Ooliàb e tutti gli artisti nel cuore dei quali il Signore aveva messo saggezza quanti erano portati a prestarsi per l’esecuzione dei lavori
. Essi ricevettero da Mosè ogni contributo portato dagli Israeliti per il lavoro della costruzione d el santuario. Ma gli Israeliti continuavano a portare ogni mattina offerte spontanee. Allora tutti gli artisti che eseguivano i lavori per il santuario lasciarono il lavoro che ciascuno stava facendo e dissero a Mosè: «Il popolo porta più di quanto è necessario per il lavoro che il Signore ha ordi nato». Mosè allora ordinò di diffondere nell’accampamento questa voce: «Nessuno uomo o do nna offra più alcuna cosa come contributo per il santuario». Così si impedì al popolo di portare altre offerte; perché il materiale era sufficiente anzi sovrabbondante per l’esecuzione di tutti i l avori. Tutti gli artisti addetti ai lavori fecero la Dimora. Besalèl la fece con dieci teli di bisso ritort o di porpora viola di porpora rossa e di scarlatto. La fece con figure di cherubini artisticamente l avorati. La lunghezza di ciascun telo era ventotto cubiti; la larghezza quattro cubiti per ciascun t elo; la stessa dimensione per tutti i teli. Unì cinque teli l’uno all’altro e anche i cinque altri teli u nì l’uno all’altro. Fece cordoni di porpora viola sull’orlo del primo telo all’estremità della sutura e fece la stessa cosa sull’orlo del telo estremo nella seconda sutura. Fece cinquanta cordoni al p rimo telo e fece anche cinquanta cordoni all’estremità del telo della seconda sutura: i cordoni c orrispondevano l’uno all’altro. Fece cinquanta fibbie d’oro e unì i teli l’uno all’altro mediante le fibbie; così la Dimora formò un tutto unico. Fece poi teli di peli di capra per la tenda sopra la Di mora. Fece undici teli. La lunghezza di un telo era trenta cubiti; la larghezza quattro cubiti per u n telo; la stessa dimensione per gli undici teli. Unì insieme cinque teli a parte e sei teli a parte. F

ece cinquanta cordoni sull’orlo del telo della seconda sutura. Fece cinquanta fibbie di bronzo pe r unire insieme la tenda così da formare un tutto unico. Fece poi per la tenda una copertura di p elli di montone tinte di rosso e al di sopra una copertura di pelli di tasso. Fece per la Dimora assi di legno di acacia verticali. Dieci cubiti la lunghezza di un’asse e un cubito e mezzo la larghezza.
Ogni asse aveva due sostegni, congiunti l’uno all’altro da un rinforzo. Così fece per tutte le assi della Dimora. Fece dunque le assi per la Dimora: venti assi sul lato verso il mezzogiorno a sud. F
ece anche quaranta basi d’argento sotto le venti assi due basi sotto un’asse, per i suoi due soste gni e due basi sotto l’altra asse per i suoi due sostegni. Per il secondo lato della Dimora verso il s ettentrione fece venti assi e le loro quaranta basi d’argento due basi sotto un’asse e due basi so tto l’altra asse. Per la parte posteriore della Dimora verso occidente fece sei assi. Fece inoltre d ue assi per gli angoli della Dimora nella parte posteriore. Esse erano formate ciascuna da due pe zzi uguali, abbinati e perfettamente congiunti dal basso fino alla cima all’altezza del primo anell o. Così fece per ambedue: esse vennero a formare i due angoli. C’erano dunque otto assi con le loro basi d’argento: sedici basi due basi sotto un’asse e due basi sotto l’altra asse. Fece inoltre tr averse di legno di acacia: cinque per le assi di un lato della Dimora, cinque traverse per le assi d ell’altro lato della Dimora e cinque traverse per le assi della parte posteriore verso occidente. Fe ce la traversa mediana che a mezza altezza delle assi le attraversava da un’estremità all’altra. Ri vestì d’oro le assi fece in oro i loro anelli per inserire le traverse e rivestì d’oro anche le traverse.
Fece il velo di porpora viola e di porpora rossa di scarlatto e di bisso ritorto. Lo fece con figure d i cherubini lavoro d’artista. Fece per esso quattro colonne di acacia le rivestì d’oro; anche i loro uncini erano d’oro e fuse per esse quattro basi d’argento. Fecero poi una cortina per l’ingresso della tenda di porpora viola e di porpora rossa, di scarlatto e di bisso ritorto lavoro di ricamator e e le sue cinque colonne con i loro uncini. Rivestì d’oro i loro capitelli e le loro aste trasversali e fece le loro cinque basi di bronzo. Besalèl fece l’arca di legno di acacia: aveva due cubiti e mezz o di lunghezza un cubito e mezzo di larghezza un cubito e mezzo di altezza. La rivestì d’oro puro, dentro e fuori. Le fece intorno un bordo d’oro. Fuse per essa quattro anelli d’oro e li fissò ai suo i quattro piedi: due anelli su di un lato e due anelli sull’altro. Fece stanghe di legno di acacia e le rivestì d’oro. Introdusse le stanghe negli anelli sui due lati dell’arca per trasportare l’arca. Fece il propiziatorio d’oro puro: aveva due cubiti e mezzo di lunghezza e un cubito e mezzo di larghezz a. Fece due cherubini d’oro; li fece lavorati a martello sulle due estremità del propiziatorio: un c herubino a una estremità e un cherubino all’altra estremità. Fece i cherubini tutti d’un pezzo co n il propiziatorio posti alle sue due estremità. I cherubini avevano le due ali spiegate verso l’alto proteggendo con le ali il propiziatorio; erano rivolti l’uno verso l’altro e le facce dei cherubini er ano rivolte verso il propiziatorio. Fece la tavola di legno di acacia: aveva due cubiti di lunghezza un cubito di larghezza un cubito e mezzo di altezza. La rivestì d’oro puro e le fece attorno un bor do d’oro. Le fece attorno una cornice di un palmo e un bordo d’oro per la cornice. Fuse per essa quattro anelli d’oro e li fissò ai quattro angoli che costituivano i suoi quattro piedi. Gli anelli era no fissati alla cornice e servivano per inserire le stanghe destinate a trasportare la tavola. Fece l
e stanghe di legno di acacia per trasportare la tavola e le rivestì d’oro. Fece anche gli accessori d ella tavola: piatti coppe anfore e tazze per le libagioni; li fece di oro puro. Fece il candelabro d’o ro puro; lo fece lavorato a martello il suo fusto e i suoi bracci; i suoi calici i suoi bulbi e le sue cor olle facevano corpo con esso. Sei bracci uscivano dai suoi lati: tre bracci del candelabro da un la to e tre bracci del candelabro dall’altro. Vi erano su un braccio tre calici in forma di fiore di man dorlo con bulbo e corolla; anche sull’altro braccio tre calici in forma di fiore di mandorlo con bul bo e corolla. Così era per i sei bracci che uscivano dal candelabro. Il fusto del candelabro aveva quattro calici in forma di fiore di mandorlo con i loro bulbi e le loro corolle: un bulbo sotto due bracci che si dipartivano da esso e un bulbo sotto i due bracci seguenti che si dipartivano da ess o e un bulbo sotto gli ultimi due bracci che si dipartivano da esso; così per tutti i sei bracci che u scivano dal candelabro. I bulbi e i relativi bracci facevano corpo con esso: il tutto era formato da una sola massa d’oro puro lavorata a martello. Fece le sue sette lampade i suoi smoccolatoi e i suoi portacenere d’oro puro. Impiegò un talento d’oro puro per il candelabro e per tutti i suoi a ccessori. Fece l’altare per bruciare l’incenso di legno di acacia; aveva un cubito di lunghezza e u n cubito di larghezza: era quadrato con due cubiti di altezza e i suoi corni costituivano un sol pez zo con esso. Rivestì d’oro puro il suo piano i suoi lati i suoi corni e gli fece intorno un orlo d’oro.
Fece anche due anelli d’oro sotto l’orlo sui due fianchi cioè sui due lati opposti per inserirvi le st anghe destinate a trasportarlo. Fece le stanghe di legno di acacia e le rivestì d’oro. Preparò l’oli o dell’unzione sacra e l’incenso aromatico puro opera di profumiere. Fece l’altare per gli olocau sti di legno di acacia: aveva cinque cubiti di lunghezza e cinque cubiti di larghezza: era quadrato con tre cubiti di altezza. Fece i corni ai suoi quattro angoli: i corni costituivano un sol pezzo con esso. Lo rivestì di bronzo. Fece anche tutti gli accessori dell’altare: i recipienti le palette i vasi pe r l’aspersione le forcelle e i bracieri; fece di bronzo tutti i suoi accessori. Fece per l’altare una gr aticola di bronzo lavorata a forma di rete e la pose sotto la cornice dell’altare in basso: la rete ar rivava a metà altezza dell’altare. Fuse quattro anelli e li pose alle quattro estremità della gratico la di bronzo per inserirvi le stanghe. Fece anche le stanghe di legno di acacia e le rivestì di bronz o. Introdusse le stanghe negli anelli sui lati dell’altare: servivano a trasportarlo. Fece l’altare di t avole vuoto all’interno. Fece il bacino di bronzo con il suo piedistallo di bronzo impiegandovi gli specchi delle donne che venivano a prestare servizio all’ingresso della tenda del convegno. Fece il recinto: sul lato meridionale verso sud il recinto aveva tendaggi di bisso ritorto, per la lunghez za di cento cubiti. C’erano le loro venti colonne con le venti basi di bronzo. Gli uncini delle colon ne e le loro aste trasversali erano d’argento. Anche sul lato rivolto a settentrione vi erano tenda ggi per cento cubiti di lunghezza le relative venti colonne con le venti basi di bronzo gli uncini de lle colonne e le aste trasversali d’argento. Sul lato verso occidente c’erano cinquanta cubiti di te ndaggi con le relative dieci colonne e le dieci basi, gli uncini delle colonne e le loro aste trasvers ali d’argento. Sul lato orientale, verso levante vi erano cinquanta cubiti: quindici cubiti di tendag gi con le relative tre colonne e le tre basi alla prima ala; quindici cubiti di tendaggi con le tre col onne e le tre basi all’altra ala. Tutti i tendaggi che delimitavano il recinto erano di bisso ritorto. L

e basi delle colonne erano di bronzo gli uncini delle colonne e le aste trasversali erano d’argent o; il rivestimento dei loro capitelli era d’argento e tutte le colonne del recinto erano collegate d a aste trasversali d’argento. Alla porta del recinto c’era una cortina lavoro di ricamatore di porp ora viola porpora rossa scarlatto e bisso ritorto; la sua lunghezza era di venti cubiti la sua altezz a nel senso della larghezza era di cinque cubiti come i tendaggi del recinto. Le colonne relative e rano quattro con le quattro basi di bronzo i loro uncini d’argento il rivestimento dei loro capitell i e le loro aste trasversali d’argento. Tutti i picchetti della Dimora e del recinto circostante erano di bronzo. Questo è il computo dei metalli impiegati per la Dimora la Dimora della Testimonian za redatto su ordine di Mosè a opera dei leviti sotto la direzione di Itamàr figlio del sacerdote Ar onne. Besalèl figlio di Urì figlio di Cur della tribù di Giuda eseguì quanto il Signore aveva ordinat o a Mosè insieme con lui Ooliàb figlio di Achisamàc della tribù di Dan intagliatore decoratore e r icamatore di porpora viola porpora rossa scarlatto e bisso. Il totale dell’oro impiegato nella lavo razione cioè per tutto il lavoro del santuario – era l’oro presentato in offerta –
fu di ventinove talenti e settecentotrenta sicli, in sicli del santuario. L’argento raccolto in occasi one del censimento della comunità pesava cento talenti e millesettecentosettantacinque sicli in sicli del santuario, cioè un beka a testa vale a dire mezzo siclo secondo il siclo del santuario, per ciascuno dei sottoposti al censimento dai vent’anni in su. Erano seicentotremilacinquecentocin quanta. Cento talenti d’argento servirono a fondere le basi del santuario e le basi del velo: cent o basi per cento talenti cioè un talento per ogni base. Con i millesettecentosettantacinque sicli f ece gli uncini delle colonne rivestì i loro capitelli e le riunì con le aste trasversali. Il bronzo prese ntato in offerta assommava a settanta talenti e duemilaquattrocento sicli. Con esso fece le basi per l’ingresso della tenda del convegno l’altare di bronzo con la sua graticola di bronzo e tutti gli accessori dell’altare, le basi del recinto le basi della porta del recinto tutti i picchetti della Dimo ra e tutti i picchetti del recinto. Con porpora viola e porpora rossa e con scarlatto fecero le vesti liturgiche per officiare nel santuario. Fecero le vesti sacre di Aronne come il Signore aveva ordin ato a Mosè. Fecero l’ efod con oro porpora viola e porpora rossa scarlatto e bisso ritorto. Fecer o placche d’oro battuto e le tagliarono in strisce sottili per intrecciarle con la porpora viola la po rpora rossa lo scarlatto e il bisso lavoro d’artista. Fecero all’ efod due spalline che vennero attac cate alle sue due estremità in modo da formare un tutt’uno. La cintura che lo teneva legato e ch e stava sopra di esso era della stessa fattura ed era di un sol pezzo intessuta d’oro di porpora vi ola e porpora rossa di scarlatto e di bisso ritorto come il Signore aveva ordinato a Mosè. Lavorar ono le pietre di ònice, inserite in castoni d’oro incise con i nomi dei figli d’Israele secondo l’arte d’incidere i sigilli. Fissarono le due pietre sulle spalline dell’ efod, come memoriale per i figli d’Is raele come il Signore aveva ordinato a Mosè. Fecero il pettorale lavoro d’artista come l’ efod: c on oro porpora viola, porpora rossa scarlatto e bisso ritorto. Era quadrato e lo fecero doppio; av eva una spanna di lunghezza e una spanna di larghezza. Lo coprirono con quattro file di pietre.
Prima fila: una cornalina un topazio e uno smeraldo; seconda fila: una turchese uno zaffìro e un berillo; terza fila: un giacinto un’àgata e un’ametista; quarta fila: un crisòlito un’ònice e un diasp
ro. Esse erano inserite nell’oro mediante i loro castoni. Le pietre corrispondevano ai nomi dei fi gli d’Israele: dodici secondo i loro nomi; incise come i sigilli ciascuna con il nome corrispondente per le dodici tribù. Fecero sul pettorale catene in forma di cordoni lavoro d’intreccio d’oro puro
. Fecero due castoni d’oro e due anelli d’oro e misero i due anelli alle due estremità del pettoral e. Misero le due catene d’oro sui due anelli alle due estremità del pettorale. Quanto alle altre d ue estremità delle catene le fissarono sui due castoni e le fecero passare sulle spalline dell’ efod nella parte anteriore. Fecero due altri anelli d’oro e li collocarono alle due estremità del pettor ale sull’orlo che era dall’altra parte dell’ efod verso l’interno. Fecero due altri anelli d’oro e li po sero sulle due spalline dell’ efod in basso sul suo lato anteriore in vicinanza del punto di attacco al di sopra della cintura dell’ efod. Poi legarono il pettorale con i suoi anelli agli anelli dell’ efod mediante un cordone di porpora viola perché stesse al di sopra della cintura dell’ efod e il petto rale non si distaccasse dall’ efod come il Signore aveva ordinato a Mosè. Fecero il manto dell’ ef od lavoro di tessitore tutto di porpora viola; la scollatura del manto in mezzo era come la scollat ura di una corazza: intorno aveva un bordo perché non si lacerasse. Fecero sul lembo del manto melagrane di porpora viola, di porpora rossa di scarlatto e di bisso ritorto. Fecero sonagli d’oro puro e collocarono i sonagli in mezzo alle melagrane intorno all’orlo inferiore del manto: un son aglio e una melagrana un sonaglio e una melagrana lungo tutto il giro del lembo del manto per officiare, come il Signore aveva ordinato a Mosè. Fecero le tuniche di bisso lavoro di tessitore p er Aronne e per i suoi figli; il turbante di bisso gli ornamenti dei berretti di bisso e i calzoni di lin o di bisso ritorto; la cintura di bisso ritorto di porpora viola di porpora rossa e di scarlatto, lavor o di ricamatore come il Signore aveva ordinato a Mosè. Fecero la lamina il diadema sacro d’oro puro e vi scrissero sopra a caratteri incisi, come un sigillo «Sacro al Signore». Vi fissarono un cor done di porpora viola, per porre il diadema sopra il turbante come il Signore aveva ordinato a M
osè. Così fu finito tutto il lavoro della Dimora della tenda del convegno. Gli Israeliti eseguirono o gni cosa come il Signore aveva ordinato a Mosè: così fecero. Portarono dunque a Mosè la Dimor a la tenda e tutti i suoi accessori: le sue fibbie, le sue assi le sue traverse le sue colonne e le sue basi la copertura di pelli di montone tinte di rosso la copertura di pelli di tasso e il velo per far d a cortina; l’arca della Testimonianza con le sue stanghe e il propiziatorio; la tavola con tutti i suo i accessori e i pani dell’offerta; il candelabro d’oro puro con le sue lampade le lampade cioè che dovevano essere collocate sopra di esso con tutti i suoi accessori e l’olio per l’illuminazione; l’alt are d’oro l’olio dell’unzione, l’incenso aromatico e la cortina per l’ingresso della tenda; l’altare d i bronzo con la sua graticola di bronzo le sue stanghe e tutti i suoi accessori il bacino con il suo p iedistallo, i tendaggi del recinto le sue colonne le sue basi e la cortina per la porta del recinto le sue corde i suoi picchetti e tutti gli arredi del servizio della Dimora per la tenda del convegno; le vesti liturgiche per officiare nel santuario le vesti sacre del sacerdote Aronne e le vesti dei suoi f igli per l’esercizio del sacerdozio. Gli Israeliti avevano eseguito ogni lavoro come il Signore aveva ordinato a Mosè. Mosè vide tutta l’opera e riscontrò che l’avevano eseguita come il Signore av eva ordinato. Allora Mosè li benedisse. Il Signore parlò a Mosè e gli disse: «Il primo giorno del p
rimo mese erigerai la Dimora la tenda del convegno. Dentro vi collocherai l’arca della Testimoni anza davanti all’arca tenderai il velo. Vi introdurrai la tavola e disporrai su di essa ciò che vi deve essere disposto; introdurrai anche il candelabro e vi preparerai sopra le sue lampade. Metterai l’altare d’oro per l’incenso davanti all’arca della Testimonianza e porrai infine la cortina all’ingre sso della tenda. Poi metterai l’altare degli olocausti di fronte all’ingresso della Dimora della tend a del convegno. Metterai il bacino fra la tenda del convegno e l’altare e vi porrai l’acqua. Dispor rai il recinto tutt’attorno e metterai la cortina alla porta del recinto. Poi prenderai l’olio dell’unzi one e ungerai con esso la Dimora e quanto vi sarà dentro e la consacrerai con tutti i suoi access ori; così diventerà cosa santa. Ungerai anche l’altare degli olocausti e tutti i suoi accessori; cons acrerai l’altare e l’altare diventerà cosa santissima. Ungerai anche il bacino con il suo piedistallo e lo consacrerai. Poi farai avvicinare Aronne e i suoi figli all’ingresso della tenda del convegno e l i farai lavare con acqua. Farai indossare ad Aronne le vesti sacre lo ungerai lo consacrerai e così egli eserciterà il mio sacerdozio. Farai avvicinare anche i suoi figli e farai loro indossare le tunich e. Li ungerai come avrai unto il loro padre e così eserciteranno il mio sacerdozio; in tal modo la l oro unzione conferirà loro un sacerdozio perenne per le loro generazioni». Mosè eseguì ogni co sa come il Signore gli aveva ordinato: così fece. Nel secondo anno nel primo giorno del primo m ese fu eretta la Dimora. Mosè eresse la Dimora: pose le sue basi dispose le assi vi fissò le travers e e rizzò le colonne; poi stese la tenda sopra la Dimora e dispose al di sopra la copertura della te nda come il Signore gli aveva ordinato. Prese la Testimonianza la pose dentro l’arca mise le stan ghe all’arca e pose il propiziatorio sull’arca; poi introdusse l’arca nella Dimora collocò il velo che doveva far da cortina e lo tese davanti all’arca della Testimonianza come il Signore aveva ordin ato a Mosè. Nella tenda del convegno collocò la tavola sul lato settentrionale della Dimora al di fuori del velo. Dispose su di essa il pane in focacce sovrapposte alla presenza del Signore come i l Signore aveva ordinato a Mosè. Collocò inoltre il candelabro nella tenda del convegno di front e alla tavola sul lato meridionale della Dimora e vi preparò sopra le lampade davanti al Signore come il Signore aveva ordinato a Mosè. Collocò poi l’altare d’oro nella tenda del convegno dava nti al velo, e bruciò su di esso l’incenso aromatico come il Signore aveva ordinato a Mosè. Mise i nfine la cortina all’ingresso della Dimora. Poi collocò l’altare degli olocausti all’ingresso della Di mora della tenda del convegno e offrì su di esso l’olocausto e l’offerta come il Signore aveva ord inato a Mosè. Collocò il bacino fra la tenda del convegno e l’altare e vi mise dentro l’acqua per l e abluzioni. Mosè Aronne e i suoi figli si lavavano con essa le mani e i piedi: quando entravano n ella tenda del convegno e quando si accostavano all’altare essi si lavavano come il Signore avev a ordinato a Mosè. Infine eresse il recinto intorno alla Dimora e all’altare e mise la cortina alla p orta del recinto. Così Mosè terminò l’opera. Allora la nube coprì la tenda del convegno e la glori a del Signore riempì la Dimora. Mosè non poté entrare nella tenda del convegno perché la nube sostava su di essa e la gloria del Signore riempiva la Dimora. Per tutto il tempo del loro viaggio quando la nube s’innalzava e lasciava la Dimora, gli Israeliti levavano le tende. Se la nube non si innalzava essi non partivano, finché non si fosse innalzata. Perché la nube del Signore durante il
giorno, rimaneva sulla Dimora e durante la notte vi era in essa un fuoco visibile a tutta la casa d’
Israele per tutto il tempo del loro viaggio. Il Signore chiamò Mosè gli parlò dalla tenda del conve gno e disse: «Parla agli Israeliti dicendo: “Quando uno di voi vorrà presentare come offerta in o nore del Signore un animale scelto fra il bestiame domestico offrirete un capo di bestiame gross o o minuto. Se la sua offerta è un olocausto di bestiame grosso egli offrirà un maschio senza dif etto; l’offrirà all’ingresso della tenda del convegno perché sia accetto al Signore in suo favore. P
oserà la mano sulla testa della vittima che sarà accettata in suo favore per compiere il rito espia torio per lui. Poi scannerà il giovenco davanti al Signore e i figli di Aronne i sacerdoti offriranno i l sangue e lo spargeranno intorno all’altare che è all’ingresso della tenda del convegno. Scortich erà la vittima e la taglierà a pezzi. I figli del sacerdote Aronne porranno il fuoco sull’altare e met teranno la legna sul fuoco; poi i figli di Aronne i sacerdoti disporranno i pezzi la testa e il grasso sulla legna e sul fuoco che è sull’altare. Laverà con acqua le viscere e le zampe; poi il sacerdote brucerà il tutto sull’altare come olocausto sacrificio consumato dal fuoco profumo gradito in on ore del Signore. Se la sua offerta per l’olocausto è presa dal bestiame minuto tra le pecore o tra le capre egli offrirà un maschio senza difetto. Lo scannerà al lato settentrionale dell’altare dava nti al Signore. I figli di Aronne i sacerdoti spargeranno il sangue attorno all’altare. Lo taglierà a p ezzi con la testa e il grasso e il sacerdote li disporrà sulla legna collocata sul fuoco dell’altare. La verà con acqua le viscere e le zampe; poi il sacerdote offrirà il tutto e lo brucerà sull’altare: è un olocausto sacrificio consumato dal fuoco profumo gradito in onore del Signore. Se la sua offerta in onore del Signore è un olocausto di uccelli presenterà tortore o colombi. Il sacerdote present erà l’animale all’altare ne staccherà la testa la farà bruciare sull’altare e il sangue sarà spruzzato sulla parete dell’altare. Poi toglierà il gozzo con il suo sudiciume e lo getterà al lato orientale de ll’altare dov’è il luogo delle ceneri. Dividerà l’uccello in due metà prendendolo per le ali ma senz a staccarle e il sacerdote lo brucerà sull’altare sulla legna che è sul fuoco. è un olocausto sacrific io consumato dal fuoco profumo gradito in onore del Signore. Se qualcuno presenterà come off erta un’oblazione in onore del Signore la sua offerta sarà di fior di farina sulla quale verserà olio e porrà incenso. La porterà ai figli di Aronne i sacerdoti; prenderà da essa una manciata di fior d i farina e d’olio con tutto l’incenso e il sacerdote la farà bruciare sull’altare come suo memoriale
: è un sacrificio consumato dal fuoco profumo gradito in onore del Signore. Il resto dell’oblazion e spetta ad Aronne e ai suoi figli; è parte santissima porzione del Signore. Quando presenterai c ome offerta un’oblazione cotta nel forno essa consisterà in focacce azzime di fior di farina impa state con olio e anche in schiacciate azzime spalmate di olio. Se la tua offerta sarà un’oblazione cotta sulla teglia sarà di fior di farina azzima e impastata con olio; la dividerai in pezzi e sopra vi verserai olio: è un’oblazione. Se la tua offerta sarà un’oblazione cotta nella pentola, sarà fatta c on fior di farina e olio; porterai al Signore l’oblazione così preparata poi sarà presentata al sacer dote che la porterà sull’altare. Il sacerdote preleverà dall’oblazione il suo memoriale e lo brucer à sull’altare: sacrificio consumato dal fuoco profumo gradito in onore del Signore. Il resto dell’o blazione spetta ad Aronne e ai suoi figli; è parte santissima porzione del Signore. Nessuna delle
oblazioni che offrirete al Signore sarà lievitata: non farete bruciare né pasta lievitata né miele c ome sacrificio consumato dal fuoco in onore del Signore; potrete offrire queste cose al Signore come offerta di primizie ma non saliranno sull’altare come profumo gradito. Dovrai salare ogni t ua offerta di oblazione: nella tua oblazione non lascerai mancare il sale dell’alleanza del tuo Dio; sopra ogni tua offerta porrai del sale. Se offrirai al Signore un’oblazione di primizie offrirai com e oblazione delle tue primizie spighe di grano abbrustolite al fuoco e chicchi frantumati di grano novello. Verserai olio sopra di essa vi metterai incenso: è un’oblazione. Il sacerdote farà bruciar e come suo memoriale una parte dei chicchi e dell’olio insieme con tutto l’incenso: è un sacrifici o consumato dal fuoco in onore del Signore. Nel caso che la sua offerta sia un sacrificio di comu nione se offre un capo di bestiame grosso maschio o femmina lo presenterà senza difetto davan ti al Signore, poserà la sua mano sulla testa della vittima e la scannerà all’ingresso della tenda d el convegno e i figli di Aronne i sacerdoti spargeranno il sangue attorno all’altare. Di questo sacr ificio di comunione offrirà come sacrificio consumato dal fuoco in onore del Signore sia il grasso che avvolge le viscere sia tutto quello che vi è sopra i due reni con il loro grasso e il grasso attor no ai lombi e al lobo del fegato che distaccherà insieme ai reni. I figli di Aronne faranno bruciare tutto questo sull’altare in aggiunta all’olocausto posto sulla legna che è sul fuoco: è un sacrifici o consumato dal fuoco, profumo gradito in onore del Signore. Se la sua offerta per il sacrificio di comunione in onore del Signore è presa dal bestiame minuto maschio o femmina la presenterà senza difetto. Se presenta una pecora in offerta la offrirà davanti al Signore; poserà la mano sul la testa della vittima e la scannerà davanti alla tenda del convegno e i figli di Aronne ne sparger anno il sangue attorno all’altare. Di questo sacrificio di comunione offrirà quale sacrificio consu mato dal fuoco per il Signore il grasso e cioè l’intera coda presso l’estremità della spina dorsale i l grasso che avvolge le viscere e tutto il grasso che vi è sopra, i due reni con il loro grasso e il gra sso attorno ai lombi e al lobo del fegato che distaccherà insieme ai reni. Il sacerdote farà bruciar e tutto ciò sull’altare: è un alimento consumato dal fuoco in onore del Signore. Se la sua offerta è una capra la offrirà davanti al Signore; poserà la mano sulla sua testa e la scannerà davanti all a tenda del convegno e i figli di Aronne ne spargeranno il sangue attorno all’altare. Di essa prele verà come offerta consumata dal fuoco in onore del Signore il grasso che avvolge le viscere e tu tto il grasso che vi è sopra i due reni con il loro grasso e il grasso attorno ai lombi e al lobo del fe gato che distaccherà insieme ai reni. Il sacerdote li farà bruciare sull’altare: è un alimento consu mato dal fuoco profumo gradito in onore del Signore. Ogni parte grassa appartiene al Signore. è una prescrizione rituale perenne di generazione in generazione dovunque abiterete: non dovre te mangiare né grasso né sangue”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla agli Israeliti dicendo:
“Nel caso che qualcuno trasgredisca inavvertitamente un qualsiasi divieto della legge del Signor e facendo una cosa proibita: Se chi ha peccato è il sacerdote consacrato e così ha reso colpevole il popolo, presenterà in onore del Signore per il peccato da lui commesso un giovenco senza dif etto come sacrificio per il peccato. Condurrà il giovenco davanti al Signore all’ingresso della ten da del convegno; poserà la mano sulla testa del giovenco e lo scannerà davanti al Signore. Il sac
erdote consacrato prenderà un po’ del sangue del giovenco e lo porterà nell’interno della tenda del convegno; intingerà il dito nel sangue e farà sette aspersioni davanti al Signore di fronte al v elo del santuario. Porrà un po’ del sangue sui corni dell’altare dell’incenso aromatico, che è dav anti al Signore nella tenda del convegno e verserà tutto il resto del sangue del giovenco alla bas e dell’altare degli olocausti che si trova all’ingresso della tenda del convegno. Poi dal giovenco d el sacrificio per il peccato toglierà tutto il grasso: il grasso che avvolge le viscere tutto quello che vi è sopra i due reni con il loro grasso e il grasso attorno ai lombi e al lobo del fegato che distacc herà insieme ai reni. Farà come si fa per il giovenco del sacrificio di comunione e farà bruciare il tutto sull’altare degli olocausti. Ma la pelle del giovenco la carne con la testa le viscere le zampe e gli escrementi cioè tutto il resto del giovenco egli lo farà portare fuori dell’accampamento in l uogo puro dove si gettano le ceneri e lo farà bruciare sulla legna: dovrà essere bruciato sul muc chio delle ceneri. Se tutta la comunità d’Israele ha commesso un’inavvertenza senza che l’intera assemblea la conosca violando così un divieto della legge del Signore e rendendosi colpevole q uando il peccato commesso sarà conosciuto l’assemblea presenterà come sacrificio per il pecca to un giovenco e lo condurrà davanti alla tenda del convegno. Gli anziani della comunità posera nno le mani sulla testa del giovenco e lo si scannerà davanti al Signore. Il sacerdote consacrato porterà un po’ del sangue del giovenco nell’interno della tenda del convegno; intingerà il dito n el sangue e farà sette aspersioni davanti al Signore di fronte al velo del santuario. Porrà un po’ d el sangue sui corni dell’altare che è davanti al Signore nella tenda del convegno e verserà tutto i l resto del sangue alla base dell’altare degli olocausti che si trova all’ingresso della tenda del con vegno. Toglierà al giovenco tutte le parti grasse per bruciarle sull’altare. Tratterà il giovenco co me ha trattato quello offerto in sacrificio per il peccato: tutto allo stesso modo. Il sacerdote co mpirà in loro favore il rito espiatorio e sarà loro perdonato. Poi porterà il giovenco fuori dell’acc ampamento e lo brucerà come ha bruciato il primo. Questo è il sacrificio per il peccato dell’asse mblea. Se pecca un capo violando per inavvertenza un divieto del Signore suo Dio quando si ren derà conto di essere in condizione di colpa oppure quando gli verrà fatto conoscere il peccato c he ha commesso porterà come offerta un capro maschio senza difetto. Poserà la mano sulla tes ta del capro e lo scannerà nel luogo dove si scanna la vittima per l’olocausto davanti al Signore: è un sacrificio per il peccato. Il sacerdote prenderà con il dito un po’ del sangue della vittima sac rificata per il peccato e lo porrà sui corni dell’altare degli olocausti e verserà il resto del sangue alla base dell’altare degli olocausti. Poi brucerà sull’altare ogni parte grassa, come il grasso del s acrificio di comunione. Il sacerdote compirà per lui il rito espiatorio per il suo peccato e gli sarà perdonato. Se pecca per inavvertenza qualcuno del popolo della terra violando un divieto del Si gnore, quando si renderà conto di essere in condizione di colpa oppure quando gli verrà fatto c onoscere il peccato che ha commesso porterà come offerta una capra femmina senza difetto pe r il peccato che ha commesso. Poserà la mano sulla testa della vittima offerta per il peccato e la scannerà nel luogo dove si scanna la vittima per l’olocausto. Il sacerdote prenderà con il dito un po’ del sangue di essa e lo porrà sui corni dell’altare degli olocausti e verserà tutto il resto del sa
ngue alla base dell’altare. Preleverà tutte le parti grasse come si preleva il grasso del sacrificio di comunione e il sacerdote le brucerà sull’altare profumo gradito in onore del Signore. Il sacerdo te compirà per lui il rito espiatorio e gli sarà perdonato. Se porterà una pecora come offerta per il peccato porterà una femmina senza difetto. Poserà la mano sulla testa della vittima offerta p er il peccato e la scannerà in sacrificio per il peccato nel luogo dove si scanna la vittima per l’olo causto. Il sacerdote prenderà con il dito un po’ del sangue della vittima per il peccato e lo porrà sui corni dell’altare degli olocausti e verserà tutto il resto del sangue alla base dell’altare. Prelev erà tutte le parti grasse come si preleva il grasso della pecora del sacrificio di comunione e il sac erdote le brucerà sull’altare in aggiunta alle vittime consumate dal fuoco in onore del Signore. Il sacerdote compirà per lui il rito espiatorio per il peccato commesso e gli sarà perdonato. Quan do una persona ha udito una formula di scongiuro e ne è testimone perché l’ha visto o l’ha sapu to e pecca perché non dichiara nulla porterà il peso della sua colpa; oppure quando qualcuno se nza avvedersene tocca una cosa impura come il cadavere di una bestia selvatica o il cadavere di un animale domestico o quello di un rettile rimarrà egli stesso impuro e in condizione di colpa; oppure quando senza avvedersene tocca un’impurità propria della persona umana –
una qualunque delle cose per le quali l’uomo diviene impuro –
quando verrà a saperlo sarà in condizione di colpa; oppure quando qualcuno senza avvedersen e parlando con leggerezza avrà giurato con uno di quei giuramenti che gli uomini proferiscono a lla leggera di fare qualche cosa di male o di bene quando se ne rende conto sarà in condizione d i colpa. Quando sarà in condizione di colpa a causa di uno di questi fatti dovrà confessare in che cosa ha peccato; poi porterà al Signore come riparazione del peccato commesso una femmina d el bestiame minuto pecora o capra per il sacrificio espiatorio; il sacerdote compirà in suo favore il rito espiatorio per il peccato. Se non ha mezzi per procurarsi una pecora o una capra porterà al Signore come riparazione per il peccato commesso due tortore o due colombi: uno come sacr ificio per il peccato l’altro come olocausto. Li porterà al sacerdote il quale offrirà prima quello d estinato al sacrificio per il peccato: gli spaccherà la testa all’altezza della nuca ma senza staccarl a; poi spargerà un po’ del sangue della vittima offerta per il peccato sopra la parete dell’altare e farà colare il resto del sangue alla base dell’altare. è un sacrificio per il peccato. Con l’altro ucce llo offrirà un olocausto secondo le norme stabilite. Così il sacerdote compirà per lui il rito espiat orio per il peccato commesso e gli sarà perdonato. Ma se non ha mezzi per procurarsi due torto re o due colombi porterà come offerta per il peccato commesso un decimo di efa di fior di farin a come sacrificio per il peccato; non vi metterà né olio né incenso perché è un sacrificio per il pe ccato. Porterà la farina al sacerdote che ne prenderà una manciata come suo memoriale facend ola bruciare sull’altare in aggiunta alle vittime consumate dal fuoco in onore del Signore. è un s acrificio per il peccato. Così il sacerdote compirà per lui il rito espiatorio per il peccato commess o in uno dei casi suddetti e gli sarà perdonato. Il resto spetta al sacerdote come nell’oblazione”
». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Se qualcuno commetterà un’infedeltà e peccherà per errore riguardo a cose consacrate al Signore, porterà al Signore come sacrificio di riparazione un ariete
senza difetto preso dal gregge, corrispondente al valore stabilito in sicli d’argento conformi al si clo del santuario; risarcirà il danno fatto al santuario aggiungendovi un quinto e lo darà al sacer dote il quale compirà per lui il rito espiatorio con l’ariete offerto come sacrificio di riparazione e gli sarà perdonato. Quando qualcuno peccherà facendo senza saperlo una cosa vietata dal Sign ore sarà comunque in condizione di colpa e ne porterà il peso. Porterà al sacerdote come sacrifi cio di riparazione un ariete senza difetto preso dal bestiame minuto corrispondente al valore st abilito; il sacerdote compirà per lui il rito espiatorio per l’errore commesso per ignoranza e gli s arà perdonato. è un sacrificio di riparazione; quell’individuo infatti si era messo in condizione di colpa verso il Signore». Il Signore parlò a Mosè dicendo: «Quando qualcuno peccherà e commet terà un’infedeltà verso il Signore perché inganna il suo prossimo riguardo a depositi a pegni o a oggetti rubati oppure perché ricatta il suo prossimo, o perché trovando una cosa smarrita ment e in proposito e giura il falso riguardo a una cosa in cui uno commette peccato se avrà così pecc ato si troverà in condizione di colpa. Dovrà restituire la cosa rubata o ottenuta con ricatto o il d eposito che gli era stato affidato o l’oggetto smarrito che aveva trovato o qualunque cosa per c ui abbia giurato il falso. Farà la restituzione per intero aggiungendovi un quinto e renderà ciò al proprietario nel giorno in cui farà la riparazione. Come riparazione al Signore, porterà al sacerdo te un ariete senza difetto preso dal gregge corrispondente al valore stabilito per il sacrificio di ri parazione. Il sacerdote compirà per lui il rito espiatorio davanti al Signore e gli sarà perdonato q ualunque sia la mancanza di cui si è reso colpevole». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Da’ quest’
ordine ad Aronne e ai suoi figli: “Questa è la legge per l’olocausto. L’olocausto rimarrà acceso su l braciere sopra l’altare tutta la notte fino al mattino; il fuoco dell’altare sarà tenuto acceso. Il sa cerdote indossata la tunica di lino e vestiti i calzoni di lino sul suo corpo toglierà la cenere dopo che il fuoco avrà consumato l’olocausto sopra l’altare e la deporrà al fianco dell’altare. Poi, spog liatosi delle vesti e indossatene altre porterà la cenere fuori dell’accampamento in un luogo pur o. Il fuoco sarà tenuto acceso sull’altare e non lo si lascerà spegnere; il sacerdote vi brucerà legn a ogni mattina vi disporrà sopra l’olocausto e vi brucerà sopra il grasso dei sacrifici di comunion e. Il fuoco deve essere sempre tenuto acceso sull’altare senza lasciarlo spegnere. Questa è la le gge dell’oblazione. I figli di Aronne la presenteranno al Signore, dinanzi all’altare. Il sacerdote pr eleverà una manciata di fior di farina con il suo olio e con tutto l’incenso che è sopra l’oblazione e la farà bruciare sull’altare come profumo gradito in suo memoriale in onore del Signore. Aron ne e i suoi figli mangeranno quello che rimarrà dell’oblazione; lo si mangerà senza lievito in luog o santo nel recinto della tenda del convegno. Non si cuocerà con lievito; è la parte che ho loro a ssegnata delle offerte a me bruciate con il fuoco. è cosa santissima come il sacrificio per il pecca to e il sacrificio di riparazione. Ogni maschio tra i figli di Aronne potrà mangiarne. è un diritto pe renne delle vostre generazioni sui sacrifici consumati dal fuoco in onore del Signore. Tutto ciò c he verrà a contatto con queste cose sarà santo”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Questa è l’of ferta che Aronne e i suoi figli presenteranno al Signore il giorno in cui riceveranno l’unzione: un decimo di efa di fior di farina come oblazione perpetua metà la mattina e metà la sera. Essa sar
à preparata con olio nella teglia: la porterai ben stemperata; la presenterai a pezzi come profu mo gradito in onore del Signore. Il sacerdote che tra i figli di Aronne, sarà stato consacrato per s uccedergli farà questa offerta; è una prescrizione perenne: sarà bruciata tutta in onore del Sign ore. Ogni oblazione del sacerdote sarà bruciata tutta; non se ne potrà mangiare». Il Signore parl ò a Mosè e disse: «Parla ad Aronne e ai suoi figli dicendo: “Questa è la legge del sacrificio per il peccato. Nel luogo dove si scanna l’olocausto sarà scannata davanti al Signore la vittima per il p eccato. è cosa santissima. Il sacerdote che l’avrà offerta come sacrificio per il peccato potrà ma ngiarla; dovrà mangiarla in luogo santo nel recinto della tenda del convegno. Tutto ciò che verrà a contatto con la sua carne sarà santo; se parte del suo sangue schizza sopra una veste laverai il lembo macchiato di sangue in luogo santo. Ma il vaso di terra che sarà servito a cuocerla sarà s pezzato; se è stata cotta in un recipiente di bronzo questo sarà strofinato bene e sciacquato con acqua. Tra i sacerdoti ogni maschio ne potrà mangiare. è cosa santissima. Ma ogni offerta per il peccato il cui sangue verrà portato nella tenda del convegno per il rito espiatorio nel santuario non dovrà essere mangiata; essa sarà bruciata nel fuoco. Questa è la legge del sacrificio di ripar azione. è cosa santissima. Nel luogo dove si scanna l’olocausto si scannerà la vittima di riparazio ne; se ne spargerà il sangue attorno all’altare e se ne offrirà tutto il grasso: la coda il grasso che copre le viscere i due reni con il loro grasso e il grasso attorno ai lombi e al lobo del fegato che d istaccherà insieme ai reni. Il sacerdote farà bruciare tutto questo sull’altare come sacrificio cons umato dal fuoco in onore del Signore. Questo è un sacrificio di riparazione. Ogni maschio tra i sa cerdoti ne potrà mangiare; lo si mangerà in luogo santo. è cosa santissima. Il sacrificio di riparaz ione è come il sacrificio per il peccato: la stessa legge vale per ambedue; la vittima spetterà al s acerdote che avrà compiuto il rito espiatorio. Il sacerdote che avrà offerto l’olocausto per qualc uno avrà per sé la pelle della vittima che ha offerto. Così anche ogni oblazione cotta nel forno o preparata nella pentola o nella teglia spetterà al sacerdote che l’ha offerta. Ogni oblazione impa stata con olio o asciutta spetterà a tutti i figli di Aronne in misura uguale. Questa è la legge del s acrificio di comunione che si offrirà al Signore. Se qualcuno lo offrirà in ringraziamento offrirà c on il sacrificio di comunione focacce senza lievito impastate con olio schiacciate senza lievito un te con olio e fior di farina stemperata in forma di focacce impastate con olio. Insieme alle focacc e di pane lievitato presenterà la sua offerta in aggiunta al suo sacrificio di comunione offerto in ringraziamento. Di ognuna di queste offerte una parte si presenterà come oblazione prelevata i n onore del Signore; essa spetterà al sacerdote che ha sparso il sangue della vittima del sacrifici o di comunione. La carne del sacrificio di comunione offerto in ringraziamento dovrà mangiarsi i l giorno stesso in cui esso viene offerto; non se ne lascerà nulla per il mattino seguente. Ma se il sacrificio che qualcuno offre è votivo o spontaneo la vittima si mangerà il giorno in cui verrà off erta il resto dovrà esser mangiato il giorno dopo; ma quel che sarà rimasto della carne del sacrif icio fino al terzo giorno dovrà essere bruciato nel fuoco. Se qualcuno mangia la carne del sacrific io di comunione il terzo giorno l’offerente non sarà gradito; dell’offerta non gli sarà tenuto cont o: sarà avariata e chi ne avrà mangiato subirà la pena della sua colpa. La carne che sarà stata a c
ontatto con qualche cosa di impuro non si potrà mangiare; sarà bruciata nel fuoco. Chiunque sa rà puro potrà mangiare la carne; se qualcuno mangerà la carne del sacrificio di comunione offer to al Signore e sarà in stato di impurità costui sarà eliminato dal suo popolo. Se qualcuno tocche rà qualsiasi cosa impura – un’impurità umana un animale impuro o qualsiasi cosa obbrobriosa –
e poi mangerà la carne di un sacrificio di comunione offerto in onore del Signore sarà eliminato dal suo popolo”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla agli Israeliti dicendo: “Non mangerete alcun grasso né di bue né di pecora né di capra. Il grasso di una bestia che è morta naturalment e o il grasso di una bestia sbranata potrà servire per qualunque altro uso ma non ne mangerete affatto perché chiunque mangerà il grasso di animali che si possono offrire in sacrificio consuma to dal fuoco in onore del Signore sarà eliminato dal suo popolo. E non mangerete affatto sangu e né di uccelli né di animali domestici dovunque abitiate. Chiunque mangerà sangue di qualunq ue specie sarà eliminato dal suo popolo”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla agli Israeliti di cendo: “Chi offrirà al Signore il sacrificio di comunione porterà un’offerta al Signore prelevandol a dal sacrificio di comunione. Porterà con le proprie mani ciò che deve essere offerto al Signore con il fuoco: porterà il grasso insieme con il petto il petto per presentarlo con il rito di elevazion e davanti al Signore. Il sacerdote brucerà il grasso sopra l’altare; il petto sarà di Aronne e dei su oi figli. Darete anche come contributo al sacerdote la coscia destra dei vostri sacrifici di comuni one. Essa spetterà come sua parte al figlio di Aronne che avrà offerto il sangue e il grasso dei sa crifici di comunione. Poiché dai sacrifici di comunione offerti dagli Israeliti io mi riservo il petto d ella vittima offerta con il rito di elevazione e la coscia della vittima offerta come contributo e li d o al sacerdote Aronne e ai suoi figli per legge perenne che gli Israeliti osserveranno”». Questa è la parte dovuta ad Aronne e ai suoi figli dei sacrifici bruciati in onore del Signore ogni volta che v erranno offerti nell’esercizio della funzione sacerdotale al servizio del Signore. Agli Israeliti il Sig nore ha ordinato di dar loro questo dal giorno della loro consacrazione. è una parte che è loro d ovuta per sempre di generazione in generazione. Questa è la legge per l’olocausto l’oblazione il sacrificio per il peccato il sacrificio di riparazione l’investitura e il sacrificio di comunione: legge c he il Signore ha dato a Mosè sul monte Sinai quando ordinò agli Israeliti di presentare le offerte al Signore nel deserto del Sinai. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Prendi Aronne insieme ai suoi f igli le vesti l’olio dell’unzione il giovenco del sacrificio per il peccato i due arieti e il cesto dei pan i azzimi; convoca tutta la comunità all’ingresso della tenda del convegno». Mosè fece come il Si gnore gli aveva ordinato e la comunità fu convocata all’ingresso della tenda del convegno. Mosè disse alla comunità: «Questo il Signore ha ordinato di fare». Mosè fece accostare Aronne e i su oi figli e li lavò con acqua. Poi rivestì Aronne della tunica lo cinse della cintura gli pose addosso il manto gli mise l’ efod e lo cinse con la cintura dell’ efod con la quale lo fissò. Gli mise anche il p ettorale e nel pettorale pose gli urìm e i tummìm. Poi gli mise in capo il turbante e sul davanti d el turbante pose la lamina d’oro il sacro diadema come il Signore aveva ordinato a Mosè. Poi M
osè prese l’olio dell’unzione unse la Dimora e tutte le cose che vi si trovavano e così le consacrò.
Fece con esso sette volte l’aspersione sull’altare unse l’altare con tutti i suoi accessori il bacino
con il suo piedistallo per consacrarli. Versò l’olio dell’unzione sul capo di Aronne e unse Aronne, per consacrarlo. Poi Mosè fece avvicinare i figli di Aronne li vestì di tuniche li cinse con le cintur e e legò sul loro capo i turbanti come il Signore aveva ordinato a Mosè. Fece quindi accostare il giovenco del sacrificio per il peccato e Aronne e i suoi figli stesero le mani sulla testa del giovenc o del sacrificio per il peccato. Mosè lo scannò ne prese del sangue ne spalmò con il dito i corni a ttorno all’altare e purificò l’altare; poi sparse il resto del sangue alla base dell’altare e lo consacr ò per compiere su di esso il rito espiatorio. Prese tutto il grasso aderente alle viscere il lobo del f egato i due reni con il loro grasso e Mosè fece bruciare tutto sull’altare. Ma bruciò nel fuoco fuo ri dell’accampamento il giovenco cioè la sua pelle la sua carne e gli escrementi come il Signore g li aveva ordinato. Fece quindi avvicinare l’ariete dell’olocausto e Aronne e i suoi figli stesero le mani sulla testa dell’ariete. Mosè lo scannò e ne sparse il sangue attorno all’altare. Fece a pezzi l’ariete e ne bruciò testa pezzi e grasso. Dopo averne lavato le viscere e le zampe con acqua fec e bruciare tutto l’ariete sull’altare: fu un olocausto di profumo gradito un sacrificio consumato d al fuoco in onore del Signore come il Signore gli aveva ordinato. Poi fece accostare il secondo ari ete l’ariete del rito di investitura e Aronne e i suoi figli stesero le mani sulla testa dell’ariete. Mo sè lo scannò ne prese del sangue e lo pose sul lobo dell’orecchio destro di Aronne e sul pollice d ella mano destra e sull’alluce del piede destro. Mosè fece avvicinare i figli di Aronne e pose un p o’ del sangue sul lobo del loro orecchio destro sul pollice della mano destra e sull’alluce del pied e destro; sparse il resto del sangue attorno all’altare. Prese il grasso la coda, tutto il grasso ader ente alle viscere il lobo del fegato i reni con il loro grasso e la coscia destra; dal canestro dei pan i azzimi che stava davanti al Signore prese una focaccia senza lievito, una focaccia di pasta con l’
olio e una schiacciata e le pose sulle parti grasse e sulla coscia destra. Mise tutte queste cose sul le palme di Aronne e dei suoi figli e compì il rito di elevazione davanti al Signore. Mosè quindi le prese dalle loro palme e le fece bruciare sull’altare insieme all’olocausto: sacrificio per l’investit ura di profumo gradito, sacrificio consumato dal fuoco in onore del Signore. Poi Mosè prese il p etto dell’ariete e lo presentò con il rito di elevazione davanti al Signore; questa fu la parte dell’a riete del rito di investitura toccata a Mosè come il Signore gli aveva ordinato. Mosè prese quindi l’olio dell’unzione e il sangue che era sopra l’altare ne asperse Aronne e le sue vesti i figli di lui e le loro vesti insieme a lui; così consacrò Aronne e le sue vesti e similmente i suoi figli e le loro vesti. Poi Mosè disse ad Aronne e ai suoi figli: «Fate cuocere la carne all’ingresso della tenda del convegno e là mangiatela con il pane che è nel canestro per il rito dell’investitura come ho ordi nato dicendo: La mangeranno Aronne e i suoi figli. Quel che avanza della carne e del pane bruci atelo nel fuoco. Per sette giorni non uscirete dall’ingresso della tenda del convegno finché cioè non siano compiuti i giorni della vostra investitura perché il rito della vostra investitura durerà s ette giorni. Come si è fatto oggi così il Signore ha ordinato che si faccia per il rito espiatorio su di voi. Rimarrete sette giorni all’ingresso della tenda del convegno, giorno e notte osservando il c omandamento del Signore perché non moriate; così infatti mi è stato ordinato». Aronne e i suoi figli fecero quanto era stato ordinato dal Signore per mezzo di Mosè. L’ottavo giorno Mosè con
vocò Aronne i suoi figli e gli anziani d’Israele e disse ad Aronne: «Procù rati un vitello per il sacrif icio per il peccato e un ariete per l’olocausto tutti e due senza difetto e presentali davanti al Sig nore. Agli Israeliti dirai: “Prendete un capro per il sacrificio per il peccato un vitello e un agnello tutti e due di un anno senza difetto per l’olocausto un toro e un ariete per il sacrificio di comuni one da immolare davanti al Signore e infine un’oblazione impastata con olio, perché oggi il Sign ore si manifesterà a voi”». Essi dunque condussero davanti alla tenda del convegno quanto Mos è aveva ordinato; tutta la comunità si avvicinò e restarono in piedi davanti al Signore. Mosè diss e: «Ecco ciò che il Signore vi ha ordinato; fatelo e la gloria del Signore vi apparirà». Mosè disse a d Aronne: «Avvicìnati all’altare: offri il tuo sacrificio per il peccato e il tuo olocausto e compi il ri to espiatorio in favore tuo e in favore del popolo; presenta anche l’offerta del popolo e compi p er esso il rito espiatorio come il Signore ha ordinato». Aronne dunque si avvicinò all’altare e sca nnò il vitello del sacrificio per il proprio peccato. I suoi figli gli porsero il sangue ed egli vi intinse il dito lo spalmò sui corni dell’altare e sparse il resto del sangue alla base dell’altare; ma il grass o i reni e il lobo del fegato della vittima per il peccato li fece bruciare sopra l’altare come il Signo re aveva ordinato a Mosè. La carne e la pelle le bruciò nel fuoco fuori dell’accampamento. Poi s cannò l’olocausto; i figli di Aronne gli porsero il sangue ed egli lo sparse attorno all’altare. Gli po rsero anche la vittima dell’olocausto divisa in pezzi e la testa e le fece bruciare sull’altare. Lavò l e viscere e le zampe e le fece bruciare sull’olocausto sopra l’altare. Poi presentò l’offerta del po polo. Prese il capro destinato al sacrificio per il peccato del popolo lo scannò e lo offrì in sacrifici o per il peccato come il precedente. Quindi presentò l’olocausto e lo offrì secondo le prescrizion i stabilite. Presentò quindi l’oblazione ne prese una manciata piena e la fece bruciare sull’altare oltre all’olocausto della mattina. Scannò il toro e l’ariete in sacrificio di comunione per il popolo.
I figli di Aronne gli porsero il sangue ed egli lo sparse attorno all’altare. Gli porsero le parti grass e del toro e dell’ariete la coda il grasso aderente alle viscere i reni e il lobo del fegato: misero le parti grasse sui petti ed egli li fece bruciare sull’altare. I petti e la coscia destra Aronne li present ò con il rito di elevazione davanti al Signore come Mosè aveva ordinato. Aronne alzate le mani v erso il popolo lo benedisse; poi discese dopo aver compiuto il sacrificio per il peccato l’olocaust o e i sacrifici di comunione. Mosè e Aronne entrarono nella tenda del convegno; poi uscirono e benedissero il popolo e la gloria del Signore si manifestò a tutto il popolo. Un fuoco uscì dalla pr esenza del Signore e consumò sull’altare l’olocausto e le parti grasse; tutto il popolo vide mand arono grida di esultanza e si prostrarono con la faccia a terra. Ora Nadab e Abiu figli di Aronne p resero ciascuno un braciere vi misero dentro il fuoco e vi posero sopra dell’incenso e presentar ono davanti al Signore un fuoco illegittimo che il Signore non aveva loro ordinato. Ma un fuoco uscì dalla presenza del Signore e li divorò e morirono così davanti al Signore. Allora Mosè disse ad Aronne: «Di questo il Signore ha parlato quando ha detto: “In coloro che mi stanno vicino mi mostrerò santo e alla presenza di tutto il popolo sarò glorificato”». Aronne tacque. Mosè chiam ò Misaele ed Elsafàn figli di Uzzièl zio di Aronne e disse loro: «Avvicinatevi portate via questi vos tri fratelli dal santuario fuori dell’accampamento». Essi si avvicinarono e li portarono via con le l
oro tuniche, fuori dell’accampamento come Mosè aveva detto. Ad Aronne a Eleàzaro e a Itamàr suoi figli Mosè disse: «Non vi scarmigliate i capelli del capo e non vi stracciate le vesti perché n on moriate e il Signore non si adiri contro tutta la comunità ma i vostri fratelli tutta la casa d’Isr aele facciano pure lutto per coloro che il Signore ha distrutto con il fuoco. Non vi allontanate da ll’ingresso della tenda del convegno così che non moriate; perché l’olio dell’unzione del Signore è su di voi». Essi fecero come Mosè aveva detto. Il Signore parlò ad Aronne dicendo: «Non beve te vino o bevanda inebriante né tu né i tuoi figli quando dovete entrare nella tenda del convegn o perché non moriate. Sarà una legge perenne di generazione in generazione. Questo perché p ossiate distinguere ciò che è santo da ciò che è profano e ciò che è impuro da ciò che è puro e p ossiate insegnare agli Israeliti tutte le leggi che il Signore ha dato loro per mezzo di Mosè». Poi Mosè disse ad Aronne a Eleàzaro e a Itamàr figli superstiti di Aronne: «Prendete quel che è avan zato dell’oblazione dei sacrifici consumati dal fuoco in onore del Signore e mangiatelo senza liev ito presso l’altare perché è cosa santissima. Dovete mangiarlo in luogo santo perché è la parte c he spetta a te e ai tuoi figli tra i sacrifici consumati dal fuoco in onore del Signore: così mi è stat o ordinato. La coscia della vittima offerta come contributo e il petto della vittima offerta con il ri to di elevazione li mangerete tu i tuoi figli e le tue figlie con te in luogo puro; perché vi sono stat i dati come parte tua e dei tuoi figli tra i sacrifici di comunione degli Israeliti. Essi porteranno insi eme con le parti grasse da bruciare la coscia del contributo e il petto del rito di elevazione, perc hé siano ritualmente elevati davanti al Signore; questo spetterà a te e ai tuoi figli con te, per diri tto perenne come il Signore ha ordinato». Mosè si informò accuratamente circa il capro del sacr ificio per il peccato e seppe che era stato bruciato; allora si sdegnò contro Eleàzaro e contro Ita màr figli superstiti di Aronne dicendo: «Perché non avete mangiato la vittima del sacrificio per il peccato nel luogo santo? Infatti è cosa santissima. Il Signore ve l’ha data, perché tolga la colpa della comunità compiendo per loro il rito espiatorio davanti al Signore. Ecco il sangue della vitti ma non è stato portato dentro il santuario; voi avreste dovuto mangiarla nel santuario come io avevo ordinato». Aronne allora disse a Mosè: «Ecco oggi essi hanno offerto il loro sacrificio per i l peccato e il loro olocausto davanti al Signore; ma dopo le cose che mi sono capitate se oggi av essi mangiato la vittima del sacrificio per il peccato sarebbe stato bene agli occhi del Signore?».
Quando Mosè udì questo parve bene ai suoi occhi. Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne e disse l oro: «Parlate agli Israeliti dicendo: “Questi sono gli animali che potrete mangiare fra tutte le bes tie che sono sulla terra. Potrete mangiare di ogni quadrupede che ha l’unghia bipartita divisa da una fessura e che rumina. Ma fra i ruminanti e gli animali che hanno l’unghia divisa non manger ete i seguenti: il cammello perché rumina ma non ha l’unghia divisa lo considererete impuro; l’ir àce perché rumina ma non ha l’unghia divisa lo considererete impuro; la lepre perché rumina m a non ha l’unghia divisa la considererete impura; il porco perché ha l’unghia bipartita da una fes sura ma non rumina lo considererete impuro. Non mangerete la loro carne e non toccherete i lo ro cadaveri; li considererete impuri. Fra tutti gli animali acquatici ecco quelli che potrete mangia re: potrete mangiare tutti quelli di mare o di fiume che hanno pinne e squame. Ma di tutti gli an
imali che si muovono o vivono nelle acque nei mari e nei fiumi quanti non hanno né pinne né sq uame saranno per voi obbrobriosi. Essi saranno per voi obbrobriosi; non mangerete la loro carn e e riterrete obbrobriosi i loro cadaveri. Tutto ciò che non ha né pinne né squame nelle acque s arà per voi obbrobrioso. Fra i volatili saranno obbrobriosi questi che non dovrete mangiare perc hé obbrobriosi: l’aquila l’avvoltoio e l’aquila di mare il nibbio e ogni specie di falco ogni specie di corvo lo struzzo la civetta il gabbiano e ogni specie di sparviero il gufo l’alcione l’ibis, il cigno il p ellicano la fòlaga la cicogna ogni specie di airone l’ù pupa e il pipistrello. Sarà per voi obbrobrios o anche ogni insetto alato che cammina su quattro piedi. Però fra tutti gli insetti alati che camm inano su quattro piedi potrete mangiare quelli che hanno due zampe sopra i piedi per saltare su lla terra. Perciò potrete mangiare i seguenti: ogni specie di cavalletta ogni specie di locusta ogni specie di acrìdi e ogni specie di grillo. Ogni altro insetto alato che ha quattro piedi sarà obbrobri oso per voi; infatti vi rendono impuri: chiunque toccherà il loro cadavere sarà impuro fino alla s era e chiunque trasporterà i loro cadaveri si dovrà lavare le vesti e sarà impuro fino alla sera. Rit errete impuro ogni animale che ha l’unghia ma non divisa da fessura e non rumina: chiunque li t occherà sarà impuro. Considererete impuri tutti i quadrupedi che camminano sulla pianta dei pi edi; chiunque ne toccherà il cadavere sarà impuro fino alla sera. E chiunque trasporterà i loro ca daveri si dovrà lavare le vesti e sarà impuro fino alla sera. Tali animali riterrete impuri. Fra gli ani mali che strisciano per terra riterrete impuro: la talpa il topo e ogni specie di sauri il toporagno l a lucertola il geco il ramarro il camaleonte. Questi animali fra quanti strisciano saranno impuri p er voi; chiunque li toccherà morti sarà impuro fino alla sera. Ogni oggetto sul quale cadrà morto qualcuno di essi sarà impuro: si tratti di utensile di legno oppure di veste o pelle o sacco o qual unque altro oggetto di cui si faccia uso; si immergerà nell’acqua e sarà impuro fino alla sera poi sarà puro. Se ne cade qualcuno in un vaso di terra quanto vi si troverà dentro sarà impuro e spe zzerete il vaso. Ogni cibo che serve di nutrimento sul quale cada quell’acqua sarà impuro; ogni b evanda potabile qualunque sia il vaso che la contiene sarà impura. Ogni oggetto sul quale cadrà qualche parte del loro cadavere sarà impuro; il forno o il fornello sarà spezzato: sono impuri e li dovete ritenere tali. Però una fonte o una cisterna cioè una raccolta di acqua resterà pura; ma c hi toccherà i loro cadaveri sarà impuro. Se qualcosa dei loro cadaveri cade su qualche seme che deve essere seminato questo sarà puro; ma se è stata versata acqua sul seme e vi cade qualche cosa dei loro cadaveri lo riterrai impuro. Se muore un animale di cui vi potete cibare colui che n e toccherà il cadavere sarà impuro fino alla sera. Colui che mangerà di quel cadavere si laverà le vesti e sarà impuro fino alla sera; anche colui che trasporterà quel cadavere si laverà le vesti e s arà impuro fino alla sera. Ogni essere che striscia sulla terra sarà obbrobrioso; non se ne mange rà. Di tutti gli animali che strisciano sulla terra non ne mangerete alcuno che cammini sul ventre o cammini con quattro piedi o con molti piedi poiché saranno obbrobriosi. Non rendete le vostr e persone contaminate con alcuno di questi animali che strisciano; non rendetevi impuri con es si e non diventate a causa loro impuri. Poiché io sono il Signore vostro Dio. Santificatevi dunque e siate santi perché io sono santo; non rendete impure le vostre persone con alcuno di questi a
nimali che strisciano per terra. Poiché io sono il Signore che vi ho fatto uscire dalla terra d’Egitto per essere il vostro Dio; siate dunque santi perché io sono santo. Questa è la legge che riguarda i quadrupedi gli uccelli ogni essere vivente che si muove nelle acque e ogni essere che striscia p er terra per distinguere ciò che è impuro da ciò che è puro l’animale che si può mangiare da que llo che non si deve mangiare”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla agli Israeliti dicendo: “Se una donna sarà rimasta incinta e darà alla luce un maschio sarà impura per sette giorni; sarà im pura come nel tempo delle sue mestruazioni. L’ottavo giorno si circonciderà il prepuzio del bam bino. Poi ella resterà ancora trentatré giorni a purificarsi dal suo sangue; non toccherà alcuna co sa santa e non entrerà nel santuario finché non siano compiuti i giorni della sua purificazione. M
a se partorisce una femmina sarà impura due settimane come durante le sue mestruazioni; rest erà sessantasei giorni a purificarsi del suo sangue. Quando i giorni della sua purificazione per un figlio o per una figlia saranno compiuti, porterà al sacerdote all’ingresso della tenda del conveg no un agnello di un anno come olocausto e un colombo o una tortora in sacrificio per il peccato.
Il sacerdote li offrirà davanti al Signore e farà il rito espiatorio per lei; ella sarà purificata dal flus so del suo sangue. Questa è la legge che riguarda la donna quando partorisce un maschio o una femmina. Se non ha mezzi per offrire un agnello prenderà due tortore o due colombi: uno per l’
olocausto e l’altro per il sacrificio per il peccato. Il sacerdote compirà il rito espiatorio per lei ed ella sarà pura”». Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne e disse: «Se qualcuno ha sulla pelle del cor po un tumore o una pustola o macchia bianca che faccia sospettare una piaga di lebbra quel tal e sarà condotto dal sacerdote Aronne o da qualcuno dei sacerdoti suoi figli. Il sacerdote esamin erà la piaga sulla pelle del corpo: se il pelo della piaga è diventato bianco e la piaga appare com e incavata rispetto alla pelle del corpo è piaga di lebbra; il sacerdote dopo averlo esaminato dic hiarerà quell’uomo impuro. Ma se la macchia sulla pelle del corpo è bianca e non appare incava ta rispetto alla pelle e il suo pelo non è diventato bianco il sacerdote isolerà per sette giorni colu i che ha la piaga. Al settimo giorno il sacerdote l’esaminerà ancora; se gli parrà che la piaga si sia fermata senza allargarsi sulla pelle il sacerdote lo isolerà per altri sette giorni. Il sacerdote il sett imo giorno lo esaminerà di nuovo: se vedrà che la piaga non è più bianca e non si è allargata sull a pelle dichiarerà quell’uomo puro; è una pustola. Quello si laverà le vesti e sarà puro. Ma se la pustola si è allargata sulla pelle dopo che egli si è mostrato al sacerdote per essere dichiarato p uro si farà esaminare di nuovo dal sacerdote: il sacerdote l’esaminerà e se vedrà che la pustola si è allargata sulla pelle il sacerdote lo dichiarerà impuro; è lebbra. Se qualcuno avrà addosso un a piaga di lebbra sarà condotto dal sacerdote, ed egli lo esaminerà: se vedrà che sulla pelle c’è u n tumore bianco che questo tumore ha fatto imbiancare il pelo e che nel tumore si trova carne viva, è lebbra inveterata nella pelle del corpo e il sacerdote lo dichiarerà impuro; non c’è bisogn o che lo tenga ancora isolato perché certo è impuro. Se la lebbra si propaga sulla pelle in modo da coprire tutta la pelle di colui che ha la piaga dal capo ai piedi dovunque il sacerdote guardi q uesti lo esaminerà e se vedrà che la lebbra copre tutto il corpo dichiarerà puro l’individuo affett o dal morbo: essendo tutto bianco è puro. Ma quando apparirà in lui carne viva allora sarà impu
ro. Il sacerdote vista la carne viva lo dichiarerà impuro: la carne viva è impura; è lebbra. Ma se l a carne viva ridiventa bianca egli vada dal sacerdote e il sacerdote lo esaminerà: se vedrà che la piaga è ridiventata bianca il sacerdote dichiarerà puro colui che ha la piaga; è puro. Se qualcuno ha avuto sulla pelle del corpo un’ulcera che sia guarita e poi sul luogo dell’ulcera appaia un tum ore bianco o una macchia bianco-rossastra, quel tale si mostrerà al sacerdote il quale l’esaminerà e se vedrà che la macchia è info ssata rispetto alla pelle e che il pelo è diventato bianco il sacerdote lo dichiarerà impuro: è una piaga di lebbra che è scoppiata nell’ulcera. Ma se il sacerdote esaminandola vede che nella mac chia non ci sono peli bianchi che non appare infossata rispetto alla pelle ma che si è attenuata il sacerdote lo isolerà per sette giorni. Se la macchia si allarga sulla pelle il sacerdote lo dichiarerà impuro: è una piaga di lebbra. Ma se la macchia è rimasta allo stesso punto senza allargarsi è un a cicatrice di ulcera e il sacerdote lo dichiarerà puro. Oppure se qualcuno ha sulla pelle del corp o una scottatura prodotta da fuoco e su questa appaia una macchia lucida bianco-rossastra o soltanto bianca il sacerdote l’esaminerà: se vedrà che il pelo della macchia è diventa to bianco e la macchia appare incavata rispetto alla pelle è lebbra scoppiata nella scottatura. Il s acerdote lo dichiarerà impuro: è una piaga di lebbra. Ma se il sacerdote esaminandola vede che non c’è pelo bianco nella macchia e che essa non è infossata rispetto alla pelle e si è attenuata il sacerdote lo isolerà per sette giorni. Al settimo giorno il sacerdote lo esaminerà e se la macchia si è diffusa sulla pelle il sacerdote lo dichiarerà impuro: è una piaga di lebbra. Ma se la macchia è rimasta ferma nella stessa zona e non si è diffusa sulla pelle ma si è attenuata è un gonfiore d ovuto a bruciatura; il sacerdote dichiarerà quel tale puro perché si tratta di una cicatrice della b ruciatura. Se un uomo o una donna ha una piaga sul capo o sul mento il sacerdote esaminerà la piaga: se riscontra che essa è incavata rispetto alla pelle e che vi è del pelo gialliccio e sottile il s acerdote lo dichiarerà impuro; è tigna lebbra del capo o del mento. Ma se il sacerdote esamina ndo la piaga della tigna riscontra che non è incavata rispetto alla pelle e che non vi è pelo scuro il sacerdote isolerà per sette giorni la persona affetta da tigna. Se il sacerdote esaminando al set timo giorno la piaga vedrà che la tigna non si è allargata e che non vi è pelo gialliccio e che la tig na non appare incavata rispetto alla pelle quella persona si raderà ma non raderà il luogo dove è la tigna; il sacerdote la terrà isolata per altri sette giorni. Al settimo giorno il sacerdote esamin erà la tigna: se riscontra che la tigna non si è allargata sulla pelle e non appare incavata rispetto alla pelle il sacerdote la dichiarerà pura; quella persona si laverà le vesti e sarà pura. Ma se dop o che sarà stata dichiarata pura la tigna si allargherà sulla pelle, il sacerdote l’esaminerà: se not a che la tigna si è allargata sulla pelle non starà a cercare se vi è il pelo giallo; quella persona è i mpura. Ma se vedrà che la tigna si è fermata e vi è cresciuto il pelo scuro la tigna è guarita; quell a persona è pura e il sacerdote la dichiarerà tale. Se un uomo o una donna ha sulla pelle del cor po macchie lucide bianche, il sacerdote le esaminerà: se vedrà che le macchie sulla pelle del lor o corpo sono di un bianco pallido è un’eruzione cutanea; quella persona è pura. Chi perde i cap elli del capo è calvo ma è puro. Se i capelli gli sono caduti dal lato della fronte è calvo davanti m
a è puro. Ma se sulla parte calva del cranio o della fronte appare una piaga bianco-rossastra è lebbra scoppiata sulla calvizie del cranio o della fronte; il sacerdote lo esaminerà: se riscontra che il tumore della piaga nella parte calva del cranio o della fronte è bianco-rossastro simile alla lebbra della pelle del corpo quel tale è un lebbroso; è impuro e lo dovrà dic hiarare impuro: il male lo ha colpito al capo. Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappat e e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore andrà gridando: “Impuro! Impuro!”. Sarà im puro finché durerà in lui il male; è impuro se ne starà solo abiterà fuori dell’accampamento. Qu ando apparirà una macchia di lebbra su una veste di lana o di lino, nel tessuto o nel manufatto di lino o di lana su una pelliccia o qualunque altra cosa di cuoio se la macchia sarà verdastra o ro ssastra sulla veste o sulla pelliccia sul tessuto o sul manufatto o su qualunque cosa di cuoio è m acchia di lebbra e sarà mostrata al sacerdote. Il sacerdote esaminerà la macchia e rinchiuderà p er sette giorni l’oggetto che ha la macchia. Al settimo giorno esaminerà la macchia: se la macchi a si sarà allargata sulla veste o sul tessuto o sul manufatto o sulla pelliccia o sull’oggetto di cuoi o per qualunque uso è una macchia di lebbra maligna è cosa impura. Egli brucerà quella veste o il tessuto o il manufatto di lana o di lino o qualunque oggetto fatto di pelle sul quale è la macchi a; poiché è lebbra maligna saranno bruciati nel fuoco. Ma se il sacerdote esaminandola vedrà c he la macchia non si è allargata sulle vesti o sul tessuto o sul manufatto o su qualunque oggetto di cuoio il sacerdote ordinerà che si lavi l’oggetto su cui è la macchia e lo rinchiuderà per altri s ette giorni. Il sacerdote esaminerà la macchia dopo che sarà stata lavata: se vedrà che la macchi a non ha mutato colore benché non si sia allargata è un oggetto impuro; lo brucerai nel fuoco: v i è corrosione sia sul diritto sia sul rovescio dell’oggetto. Se il sacerdote esaminandola vede che la macchia dopo essere stata lavata si è attenuata la strapperà dalla veste o dalla pelle o dal tes suto o dal manufatto. Se appare ancora sulla veste o sul tessuto o sul manufatto o sull’oggetto di cuoio, è un’eruzione in atto; brucerai nel fuoco l’oggetto su cui è la macchia. La veste o il tess uto o il manufatto o qualunque oggetto di cuoio che avrai lavato e dal quale la macchia sarà sco mparsa si laverà una seconda volta e sarà puro. Questa è la legge relativa alla macchia di lebbra sopra una veste di lana o di lino, sul tessuto o sul manufatto o su qualunque oggetto di pelle per dichiararli puri o impuri». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Questa è la legge che si riferisce al le bbroso per il giorno della sua purificazione. Egli sarà condotto al sacerdote. Il sacerdote uscirà d all’accampamento e lo esaminerà: se riscontrerà che la piaga della lebbra è guarita nel lebbroso ordinerà che si prendano per la persona da purificare due uccelli vivi puri legno di cedro panno scarlatto e issòpo. Il sacerdote ordinerà di immolare uno degli uccelli in un vaso di terracotta co n acqua corrente. Poi prenderà l’uccello vivo il legno di cedro il panno scarlatto e l’issòpo e li im mergerà con l’uccello vivo nel sangue dell’uccello sgozzato sopra l’acqua corrente. Ne aspergerà sette volte colui che deve essere purificato dalla lebbra; lo dichiarerà puro e lascerà andare libe ro per i campi l’uccello vivo. Colui che è purificato si laverà le vesti si raderà tutti i peli si laverà n ell’acqua e sarà puro. Dopo questo potrà entrare nell’accampamento ma per sette giorni rester à fuori della sua tenda. Il settimo giorno si raderà tutti i peli il capo la barba le ciglia insomma tu
tti i peli; si laverà le vesti e si bagnerà il corpo nell’acqua e sarà puro. L’ottavo giorno prenderà d ue agnelli senza difetto un’agnella di un anno senza difetto tre decimi di efa di fior di farina imp astata con olio come oblazione e un log di olio; il sacerdote che compie il rito di purificazione pr esenterà l’uomo che si purifica e le cose suddette davanti al Signore all’ingresso della tenda del convegno. Il sacerdote prenderà uno degli agnelli e lo presenterà come sacrificio di riparazione con il log d’olio e li offrirà con il rito di elevazione davanti al Signore. Poi scannerà l’agnello nel l uogo dove si scanna la vittima per il peccato e l’olocausto cioè nel luogo santo. Come il sacrifici o per il peccato anche quello di riparazione spetta al sacerdote: è cosa santissima. Il sacerdote p renderà del sangue della vittima per il sacrificio di riparazione e lo metterà sul lobo dell’orecchi o destro di colui che si purifica sul pollice della mano destra e sull’alluce del piede destro. Poi pr eso un po’ d’olio dal log lo verserà sulla palma della sua mano sinistra; intingerà il dito della des tra nell’olio che ha nella palma sinistra con il dito spruzzerà sette volte quell’olio davanti al Sign ore. Quanto resta dell’olio che tiene nella palma della mano il sacerdote lo metterà sul lobo dell
’orecchio destro di colui che si purifica sul pollice della mano destra e sull’alluce del piede destr o insieme al sangue della vittima del sacrificio di riparazione. Il resto dell’olio che ha nella palma il sacerdote lo verserà sul capo di colui che si purifica; il sacerdote compirà per lui il rito espiato rio davanti al Signore. Poi il sacerdote offrirà il sacrificio per il peccato e compirà il rito espiatori o per colui che si purifica della sua impurità. Quindi scannerà l’olocausto. Offerto l’olocausto e l’
oblazione sull’altare il sacerdote compirà per lui il rito espiatorio e sarà puro. Se quel tale è pov ero e non ha mezzi sufficienti prenderà un agnello come sacrificio di riparazione da offrire con il rito di elevazione per compiere l’espiazione per lui e un decimo di efa di fior di farina impastata con olio come oblazione e un log di olio. Prenderà anche due tortore o due colombi secondo i s uoi mezzi; uno sarà per il sacrificio per il peccato e l’altro per l’olocausto. L’ottavo giorno porter à per la sua purificazione queste cose al sacerdote all’ingresso della tenda del convegno, davant i al Signore. Il sacerdote prenderà l’agnello del sacrificio di riparazione e il log d’olio e li present erà con il rito di elevazione davanti al Signore. Poi scannerà l’agnello del sacrificio di riparazione prenderà del sangue della vittima di riparazione e lo metterà sul lobo dell’orecchio destro di col ui che si purifica, sul pollice della mano destra e sull’alluce del piede destro. Il sacerdote si verse rà un po’ dell’olio sulla palma della mano sinistra. Con il dito della sua destra spruzzerà sette vol te l’olio che tiene nella palma sinistra davanti al Signore. Poi porrà un po’ d’olio che tiene nella palma sul lobo dell’orecchio destro di colui che si purifica sul pollice della mano destra e sull’all uce del piede destro sul luogo dove ha messo il sangue della vittima per il sacrificio di riparazion e. Il resto dell’olio che ha nella palma il sacerdote lo verserà sul capo di colui che si purifica per c ompiere il rito espiatorio per lui davanti al Signore. Poi sacrificherà una delle tortore o uno dei d ue colombi che ha potuto procurarsi; delle vittime che ha in mano una l’offrirà come sacrificio p er il peccato e l’altra come olocausto insieme con l’oblazione. Il sacerdote compirà il rito espiato rio davanti al Signore per colui che si deve purificare. Questa è la legge relativa a colui che è affe tto da piaga di lebbra e non ha mezzi per conseguire la sua purificazione». Il Signore parlò a Mo
sè e ad Aronne e disse: «Quando sarete entrati nella terra di Canaan che io sto per darvi in poss esso qualora io mandi un’infezione di lebbra in una casa della terra di vostra proprietà il padron e della casa andrà a dichiararlo al sacerdote dicendo: “Mi pare che in casa mia ci sia come della l ebbra”. Allora il sacerdote ordinerà di sgomberare la casa prima che egli vi entri per esaminare l a macchia sospetta perché quanto è nella casa non diventi impuro. Dopo questo il sacerdote en trerà per esaminare la casa. Esaminerà dunque la macchia: se vedrà che la macchia sui muri dell a casa consiste in cavità verdastre o rossastre che appaiono più profonde della superficie della p arete il sacerdote uscirà sulla porta della casa e farà chiudere la casa per sette giorni. Il settimo giorno il sacerdote vi tornerà e se esaminandola riscontrerà che la macchia si è allargata sulle p areti della casa il sacerdote ordinerà che si rimuovano le pietre intaccate e si gettino in luogo im puro fuori della città. Farà raschiare tutto l’interno della casa e butteranno i calcinacci rimossi fu ori della città in luogo impuro. Poi si prenderanno altre pietre e si metteranno al posto delle pri me e si intonacherà la casa con altra calce. Se la macchia spunta di nuovo nella casa dopo che le pietre ne sono state rimosse e la casa è stata raschiata e di nuovo intonacata il sacerdote entre rà a esaminare la casa: se troverà che la macchia vi si è allargata nella casa vi è lebbra maligna; l a casa è impura. Perciò si demolirà la casa; pietre legname e calcinacci si porteranno fuori della città in luogo impuro. Inoltre chiunque sarà entrato in quella casa mentre era chiusa sarà impur o fino alla sera. Sia chi avrà dormito in quella casa sia chi vi avrà mangiato dovrà lavarsi le vesti.
Se invece il sacerdote che è entrato nella casa e l’ha esaminata riscontra che la macchia non si è allargata nella casa dopo che la casa è stata intonacata dichiarerà la casa pura perché la macchi a è risanata. Poi per purificare la casa, prenderà due uccelli legno di cedro panno scarlatto e issò po; immolerà uno degli uccelli in un vaso di terra con dentro acqua corrente. Prenderà il legno d i cedro l’issòpo il panno scarlatto e l’uccello vivo e li immergerà nel sangue dell’uccello immolat o e nell’acqua corrente e ne aspergerà sette volte la casa. Purificata la casa con il sangue dell’uc cello con l’acqua corrente con l’uccello vivo con il legno di cedro con l’issòpo e con il panno scar latto, lascerà andare libero l’uccello vivo fuori della città nella campagna; così compirà il rito esp iatorio per la casa ed essa sarà pura. Questa è la legge per ogni sorta di infezione di lebbra o di t igna, per la lebbra delle vesti e della casa per i tumori le pustole e le macchie per determinare q uando una cosa è impura e quando è pura. Questa è la legge per la lebbra». Il Signore parlò a M
osè e ad Aronne e disse: «Parlate agli Israeliti dicendo loro: “Se un uomo soffre di gonorrea nell a sua carne la sua gonorrea è impura. Questa è la condizione di impurità per la gonorrea: sia ch e la carne lasci uscire il liquido sia che lo trattenga si tratta di impurità. Ogni giaciglio sul quale si coricherà chi è affetto da gonorrea sarà impuro; ogni oggetto sul quale si siederà sarà impuro.
Chi toccherà il giaciglio di costui dovrà lavarsi le vesti e bagnarsi nell’acqua e resterà impuro fin o alla sera. Chi si siederà sopra un oggetto qualunque sul quale si sia seduto colui che soffre di g onorrea dovrà lavarsi le vesti bagnarsi nell’acqua e resterà impuro fino alla sera. Chi toccherà il corpo di colui che è affetto da gonorrea si laverà le vesti si bagnerà nell’acqua e resterà impuro fino alla sera. Se colui che ha la gonorrea sputerà sopra uno che è puro questi dovrà lavarsi le ve
sti bagnarsi nell’acqua e resterà impuro fino alla sera. Ogni sella su cui monterà chi ha la gonorr ea sarà impura. Chiunque toccherà qualsiasi cosa che sia stata sotto quel tale, resterà impuro fi no alla sera. Chi porterà tali oggetti dovrà lavarsi le vesti bagnarsi nell’acqua e resterà impuro fi no alla sera. Chiunque sarà toccato da colui che ha la gonorrea se questi non si era lavato le ma ni dovrà lavarsi le vesti bagnarsi nell’acqua e resterà impuro fino alla sera. Il recipiente di terrac otta toccato da colui che soffre di gonorrea sarà spezzato; ogni vaso di legno sarà lavato nell’ac qua. Quando uno sarà guarito dalla sua gonorrea conterà sette giorni dalla sua guarigione; poi s i laverà le vesti bagnerà il suo corpo nell’acqua corrente e sarà puro. L’ottavo giorno prenderà d ue tortore o due colombi verrà davanti al Signore all’ingresso della tenda del convegno e li cons egnerà al sacerdote, il quale ne offrirà uno come sacrificio per il peccato l’altro come olocausto; il sacerdote compirà per lui il rito espiatorio davanti al Signore per la sua gonorrea. L’uomo che avrà avuto un’emissione seminale si laverà tutto il corpo nell’acqua e resterà impuro fino alla se ra. Ogni veste o pelle su cui vi sarà un’emissione seminale dovrà essere lavata nell’acqua e reste rà impura fino alla sera. La donna e l’uomo che abbiano avuto un rapporto con emissione semin ale si laveranno nell’acqua e resteranno impuri fino alla sera. Quando una donna abbia flusso di sangue cioè il flusso nel suo corpo per sette giorni resterà nell’impurità mestruale; chiunque la toccherà sarà impuro fino alla sera. Ogni giaciglio sul quale si sarà messa a dormire durante la s ua impurità mestruale sarà impuro; ogni mobile sul quale si sarà seduta sarà impuro. Chiunque toccherà il suo giaciglio dovrà lavarsi le vesti bagnarsi nell’acqua e sarà impuro fino alla sera. Chi toccherà qualunque mobile sul quale lei si sarà seduta dovrà lavarsi le vesti bagnarsi nell’acqua e sarà impuro fino alla sera. Se un oggetto si trova sul letto o su qualche cosa su cui lei si è sedu ta chiunque toccherà questo oggetto sarà impuro fino alla sera. Se un uomo ha rapporto intimo con lei l’impurità mestruale viene a contatto con lui: egli resterà impuro per sette giorni e ogni giaciglio sul quale si coricherà resterà impuro. La donna che ha un flusso di sangue per molti gio rni fuori del tempo delle mestruazioni o che lo abbia più del normale sarà impura per tutto il te mpo del flusso come durante le sue mestruazioni. Ogni giaciglio sul quale si coricherà durante t utto il tempo del flusso sarà per lei come il giaciglio sul quale si corica quando ha le mestruazion i; ogni oggetto sul quale siederà sarà impuro come lo è quando lei ha le mestruazioni. Chiunque toccherà quelle cose sarà impuro; dovrà lavarsi le vesti bagnarsi nell’acqua e sarà impuro fino al la sera. Se sarà guarita dal suo flusso conterà sette giorni e poi sarà pura. L’ottavo giorno prend erà due tortore o due colombi e li porterà al sacerdote all’ingresso della tenda del convegno. Il s acerdote ne offrirà uno come sacrificio per il peccato e l’altro come olocausto e compirà per lei i l rito espiatorio davanti al Signore per il flusso che la rendeva impura. Avvertite gli Israeliti di ciò che potrebbe renderli impuri perché non muoiano per la loro impurità qualora rendessero imp ura la mia Dimora che è in mezzo a loro. Questa è la legge per colui che ha la gonorrea o ha avu to un’emissione seminale che lo rende impuro e la legge per colei che è indisposta a causa delle mestruazioni, cioè per l’uomo o per la donna che abbiano il flusso e per l’uomo che si corichi co n una donna in stato di impurità”». Il Signore parlò a Mosè dopo che i due figli di Aronne erano
morti mentre si presentavano davanti al Signore. Il Signore disse a Mosè: «Parla ad Aronne tuo f ratello: non entri in qualunque tempo nel santuario oltre il velo davanti al propiziatorio che sta sull’arca affinché non muoia quando io apparirò in mezzo alla nube sul propiziatorio. Aronne en trerà nel santuario in questo modo: con un giovenco per il sacrificio per il peccato e un ariete pe r l’olocausto. Si metterà la tunica sacra di lino, indosserà sul corpo i calzoni di lino si cingerà dell a cintura di lino e si metterà in capo il turbante di lino. Sono queste le vesti sacre che indosserà dopo essersi lavato il corpo con l’acqua. Dalla comunità degli Israeliti prenderà due capri per il s acrificio per il peccato e un ariete per l’olocausto. Aronne offrirà il proprio giovenco del sacrifici o per il peccato e compirà il rito espiatorio per sé e per la sua casa. Poi prenderà i due capri e li f arà stare davanti al Signore all’ingresso della tenda del convegno e getterà le sorti sui due capri: un capro destinato al Signore e l’altro ad Azazèl. Aronne farà quindi avvicinare il capro che è to ccato in sorte al Signore e l’offrirà in sacrificio per il peccato; invece il capro che è toccato in sor te ad Azazèl sarà posto vivo davanti al Signore perché si compia il rito espiatorio su di esso e sia mandato poi ad Azazèl nel deserto. Aronne offrirà il proprio giovenco del sacrificio per il peccat o e compirà il rito espiatorio per sé e per la sua casa e scannerà il proprio giovenco del sacrificio per il peccato. Poi prenderà l’incensiere pieno di brace tolta dall’altare davanti al Signore e due manciate d’incenso aromatico fine; porterà ogni cosa oltre il velo. Metterà l’incenso sul fuoco d avanti al Signore e la nube d’incenso coprirà il propiziatorio che sta sulla Testimonianza affinché non muoia. Poi prenderà un po’ del sangue del giovenco e ne aspergerà con il dito il propiziator io dal lato orientale e farà sette volte l’aspersione del sangue con il dito davanti al propiziatorio.
Poi scannerà il capro del sacrificio per il peccato quello per il popolo e ne porterà il sangue oltre il velo; farà con questo sangue quello che ha fatto con il sangue del giovenco: lo aspergerà sul p ropiziatorio e davanti al propiziatorio. Così purificherà il santuario dalle impurità degli Israeliti e dalle loro ribellioni insieme a tutti i loro peccati. Lo stesso farà per la tenda del convegno che si trova fra di loro in mezzo alle loro impurità. Nessuno dovrà trovarsi nella tenda del convegno da quando egli entrerà nel santuario per compiere il rito espiatorio fino a quando non sarà uscito e non avrà compiuto il rito espiatorio per sé per la sua casa e per tutta la comunità d’Israele. Us cito dunque verso l’altare che è davanti al Signore lo purificherà, prenderà un po’ del sangue del giovenco e del sangue del capro e lo spalmerà sui corni intorno all’altare. Farà per sette volte l’
aspersione del sangue con il dito sopra l’altare; così lo purificherà e lo santificherà dalle impurit à degli Israeliti. Quando avrà finito di purificare il santuario la tenda del convegno e l’altare, farà accostare il capro vivo. Aronne poserà entrambe le mani sul capo del capro vivo confesserà su di esso tutte le colpe degli Israeliti tutte le loro trasgressioni tutti i loro peccati e li riverserà sull a testa del capro; poi per mano di un uomo incaricato di ciò lo manderà via nel deserto. Così il c apro porterà sopra di sé tutte le loro colpe in una regione remota ed egli invierà il capro nel des erto. Poi Aronne entrerà nella tenda del convegno si toglierà le vesti di lino che aveva indossato per entrare nel santuario e le deporrà in quel luogo. Laverà il suo corpo nell’acqua in luogo sant o indosserà le sue vesti e uscirà ad offrire il suo olocausto e l’olocausto del popolo e compirà il r
ito espiatorio per sé e per il popolo. E farà bruciare sull’altare le parti grasse della vittima del sa crificio per il peccato. Colui che avrà inviato il capro destinato ad Azazèl si laverà le vesti laverà il suo corpo nell’acqua; dopo rientrerà nell’accampamento. Farà portare fuori dall’accampament o il giovenco del sacrificio per il peccato e il capro del sacrificio per il peccato il cui sangue è stat o introdotto nel santuario per compiere il rito espiatorio; se ne bruceranno nel fuoco la pelle la carne e gli escrementi. Colui che li avrà bruciati dovrà lavarsi le vesti e bagnarsi il corpo nell’acq ua; dopo rientrerà nell’accampamento. Questa sarà per voi una legge perenne: nel settimo mes e nel decimo giorno del mese, vi umilierete vi asterrete da qualsiasi lavoro sia colui che è nativo del paese sia il forestiero che soggiorna in mezzo a voi poiché in quel giorno si compirà il rito es piatorio per voi al fine di purificarvi da tutti i vostri peccati. Sarete purificati davanti al Signore. S
arà per voi un sabato di riposo assoluto e voi vi umilierete; è una legge perenne. Compirà il rito espiatorio il sacerdote che ha ricevuto l’unzione e l’investitura per succedere nel sacerdozio al p osto di suo padre; si vestirà delle vesti di lino, delle vesti sacre. Purificherà la parte più santa del santuario, purificherà la tenda del convegno e l’altare; farà l’espiazione per i sacerdoti e per tut to il popolo della comunità. Questa sarà per voi una legge perenne: una volta all’anno si compir à il rito espiatorio in favore degli Israeliti per tutti i loro peccati». E si fece come il Signore aveva ordinato a Mosè. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla ad Aronne ai suoi figli e a tutti gli Israeli ti dicendo loro: “Questo il Signore ha ordinato: Ogni Israelita che scanni un giovenco o un agnell o o una capra entro l’accampamento o fuori dell’accampamento e non lo porti all’ingresso della tenda del convegno per presentarlo come offerta al Signore davanti alla Dimora del Signore sar à considerato colpevole di delitto di sangue: ha sparso il sangue e quest’uomo sarà eliminato da l suo popolo. Perciò gli Israeliti invece di immolare come fanno le loro vittime nei campi le prese nteranno in onore del Signore portandole al sacerdote all’ingresso della tenda del convegno e le immoleranno in onore del Signore come sacrifici di comunione. Il sacerdote ne spanderà il sang ue sull’altare del Signore all’ingresso della tenda del convegno e farà bruciare il grasso come pr ofumo gradito in onore del Signore. Essi non offriranno più i loro sacrifici ai satiri ai quali soglion o prostituirsi. Questa sarà per loro una legge perenne di generazione in generazione”. Dirai loro ancora: “Ogni uomo Israelita o straniero dimorante in mezzo a loro che offra un olocausto o un sacrificio senza portarlo all’ingresso della tenda del convegno per offrirlo in onore del Signore q uest’uomo sarà eliminato dal suo popolo. Ogni uomo Israelita o straniero dimorante in mezzo a loro che mangi di qualsiasi specie di sangue contro di lui che ha mangiato il sangue io volgerò il mio volto e lo eliminerò dal suo popolo. Poiché la vita della carne è nel sangue. Perciò vi ho con cesso di porlo sull’altare in espiazione per le vostre vite; perché il sangue espia in quanto è la vit a. Perciò ho detto agli Israeliti: Nessuno tra voi mangerà il sangue, neppure lo straniero che dim ora fra voi mangerà sangue. Se qualcuno degli Israeliti o degli stranieri che dimorano fra di loro prende alla caccia un animale o un uccello che si può mangiare ne deve spargere il sangue e cop rirlo di terra; perché la vita di ogni essere vivente è il suo sangue in quanto è la sua vita. Perciò h o ordinato agli Israeliti: Non mangerete sangue di alcuna specie di essere vivente, perché il sang
ue è la vita di ogni carne; chiunque ne mangerà sarà eliminato. Ogni persona nativa o straniera che mangi carne di bestia morta naturalmente o sbranata, dovrà lavarsi le vesti bagnarsi nell’ac qua e resterà impura fino alla sera; allora sarà pura. Ma se non si lava le vesti e il corpo porterà l a pena della sua colpa”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla agli Israeliti dicendo loro: “Io so no il Signore vostro Dio. Non farete come si fa nella terra d’Egitto dove avete abitato né farete c ome si fa nella terra di Canaan dove io vi conduco, né imiterete i loro costumi. Metterete invece in pratica le mie prescrizioni e osserverete le mie leggi seguendole. Io sono il Signore vostro Dio
. Osserverete dunque le mie leggi e le mie prescrizioni mediante le quali chiunque le metterà in pratica vivrà. Io sono il Signore. Nessuno si accosterà a una sua consanguinea per scoprire la sua nudità. Io sono il Signore. Non scoprirai la nudità di tuo padre né la nudità di tua madre: è tua madre; non scoprirai la sua nudità. Non scoprirai la nudità di una moglie di tuo padre; è la nudit à di tuo padre. Non scoprirai la nudità di tua sorella figlia di tuo padre o figlia di tua madre nata in casa o fuori; non scoprirai la loro nudità. Non scoprirai la nudità della figlia di tuo figlio o della figlia di tua figlia, perché è la tua propria nudità. Non scoprirai la nudità della figlia di una mogli e di tuo padre generata da tuo padre: è tua sorella non scoprirai la sua nudità. Non scoprirai la nudità della sorella di tuo padre; è carne di tuo padre. Non scoprirai la nudità della sorella di tua madre perché è carne di tua madre. Non scoprirai la nudità del fratello di tuo padre avendo rap porti con sua moglie: è tua zia. Non scoprirai la nudità di tua nuora: è la moglie di tuo figlio; non scoprirai la sua nudità. Non scoprirai la nudità di tua cognata: è la nudità di tuo fratello. Non sc oprirai la nudità di una donna e di sua figlia. Non prenderai la figlia di suo figlio né la figlia di sua figlia per scoprirne la nudità: sono parenti carnali. è un’infamia. Non prenderai in sposa la sorell a di tua moglie per non suscitare rivalità scoprendo la sua nudità mentre tua moglie è in vita. N
on ti accosterai a donna per scoprire la sua nudità durante l’impurità mestruale. Non darai il tuo giaciglio alla moglie del tuo prossimo rendendoti impuro con lei. Non consegnerai alcuno dei tu oi figli per farlo passare a Moloc e non profanerai il nome del tuo Dio. Io sono il Signore. Non ti coricherai con un uomo come si fa con una donna: è cosa abominevole. Non darai il tuo giacigli o a una bestia per contaminarti con essa; così nessuna donna si metterà con un animale per acc oppiarsi: è una perversione. Non rendetevi impuri con nessuna di tali pratiche poiché con tutte queste cose si sono rese impure le nazioni che io sto per scacciare davanti a voi. La terra ne è st ata resa impura; per questo ho punito la sua colpa e la terra ha vomitato i suoi abitanti. Voi dun que osserverete le mie leggi e le mie prescrizioni e non commetterete nessuna di queste pratich e abominevoli: né colui che è nativo della terra né il forestiero che dimora in mezzo a voi. Poich é tutte queste cose abominevoli le ha commesse la gente che vi era prima di voi e la terra è dive nuta impura. Che la terra non vomiti anche voi per averla resa impura come ha vomitato chi l’a bitava prima di voi perché chiunque praticherà qualcuna di queste abominazioni ogni persona c he le commetterà sarà eliminata dal suo popolo. Osserverete dunque i miei ordini e non seguire te alcuno di quei costumi abominevoli che sono stati praticati prima di voi; non vi renderete im puri a causa di essi. Io sono il Signore, vostro Dio”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla a tutt
a la comunità degli Israeliti dicendo loro: “Siate santi perché io il Signore vostro Dio sono santo.
Ognuno di voi rispetti sua madre e suo padre; osservate i miei sabati. Io sono il Signore, vostro Dio. Non rivolgetevi agli idoli e non fatevi divinità di metallo fuso. Io sono il Signore, vostro Dio.
Quando immolerete al Signore una vittima in sacrificio di comunione offritela in modo da esser gli graditi. La si mangerà il giorno stesso che l’avrete immolata o il giorno dopo; ciò che avanzer à ancora al terzo giorno lo brucerete nel fuoco. Se invece si mangiasse il terzo giorno sarebbe av ariata; il sacrificio non sarebbe gradito. Chiunque ne mangiasse porterebbe la pena della sua col pa perché profanerebbe ciò che è sacro al Signore. Quella persona sarebbe eliminata dal suo po polo. Quando mieterete la messe della vostra terra non mieterete fino ai margini del campo, né raccoglierete ciò che resta da spigolare della messe; quanto alla tua vigna, non coglierai i racim oli e non raccoglierai gli acini caduti: li lascerai per il povero e per il forestiero. Io sono il Signore vostro Dio. Non ruberete né userete inganno o menzogna a danno del prossimo. Non giurerete i l falso servendovi del mio nome: profaneresti il nome del tuo Dio. Io sono il Signore. Non oppri merai il tuo prossimo né lo spoglierai di ciò che è suo; non tratterrai il salario del bracciante al t uo servizio fino al mattino dopo. Non maledirai il sordo né metterai inciampo davanti al cieco m a temerai il tuo Dio. Io sono il Signore. Non commetterete ingiustizia in giudizio; non tratterai co n parzialità il povero né userai preferenze verso il potente: giudicherai il tuo prossimo con giusti zia. Non andrai in giro a spargere calunnie fra il tuo popolo né coopererai alla morte del tuo pro ssimo. Io sono il Signore. Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apert amente il tuo prossimo così non ti caricherai di un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serb erai rancore contro i figli del tuo popolo ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Sig nore. Osserverete le mie leggi. Non accoppierai bestie di specie differenti; non seminerai il tuo c ampo con due specie di seme né porterai veste tessuta di due specie diverse. Se un uomo ha ra pporti con una donna schiava ma promessa ad un altro uomo benché non sia stata ancora né ris cattata né affrancata dovrà pagare un risarcimento; i colpevoli però non saranno messi a morte perché lei non era affrancata. L’uomo condurrà al Signore all’ingresso della tenda del convegno in sacrificio di riparazione un ariete; con questo ariete di riparazione il sacerdote compirà per lui il rito espiatorio davanti al Signore per il peccato da lui commesso e il peccato commesso gli sar à perdonato. Quando sarete entrati nella terra e vi avrete piantato ogni sorta di alberi da frutto ne considererete i frutti come non circoncisi; per tre anni saranno per voi come non circoncisi: n on se ne dovrà mangiare. Nel quarto anno tutti i loro frutti saranno consacrati al Signore, come dono festivo. Nel quinto anno mangerete il frutto di quegli alberi; così essi continueranno a pro durre per voi. Io sono il Signore vostro Dio. Non mangerete carne con il sangue. Non praticheret e alcuna sorta di divinazione o di magia. Non vi taglierete in tondo il margine dei capelli né detu rperai ai margini la tua barba. Non vi farete incisioni sul corpo per un defunto né vi farete segni di tatuaggio. Io sono il Signore. Non profanare tua figlia prostituendola perché il paese non si di a alla prostituzione e non si riempia di infamie. Osserverete i miei sabati e porterete rispetto al mio santuario. Io sono il Signore. Non vi rivolgete ai negromanti né agli indovini; non li consultat
e per non rendervi impuri per mezzo loro. Io sono il Signore vostro Dio. àlzati davanti a chi ha i c apelli bianchi onora la persona del vecchio e temi il tuo Dio. Io sono il Signore. Quando un forest iero dimorerà presso di voi nella vostra terra non lo opprimerete. Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete sta ti forestieri in terra d’Egitto. Io sono il Signore vostro Dio. Non commetterete ingiustizia nei giud izi nelle misure di lunghezza nei pesi o nelle misure di capacità. Avrete bilance giuste pesi giusti efa giusta hin giusto. Io sono il Signore vostro Dio che vi ho fatto uscire dalla terra d’Egitto. Osse rverete dunque tutte le mie leggi e tutte le mie prescrizioni e le metterete in pratica. Io sono il S
ignore”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Dirai agli Israeliti: “Chiunque tra gli Israeliti o tra i for estieri che dimorano in Israele darà qualcuno dei suoi figli a Moloc dovrà essere messo a morte; il popolo della terra lo lapiderà. Anch’io volgerò il mio volto contro quell’uomo e lo eliminerò d al suo popolo perché ha dato qualcuno dei suoi figli a Moloc con l’intenzione di rendere impuro il mio santuario e profanare il mio santo nome. Se il popolo della terra chiude gli occhi quando q uell’uomo dà qualcuno dei suoi figli a Moloc e non lo mette a morte io volgerò il mio volto contr o quell’uomo e contro la sua famiglia ed eliminerò dal suo popolo lui con quanti si danno all’idol atria come lui prostituendosi a venerare Moloc. Se un uomo si rivolge ai negromanti e agli indov ini per darsi alle superstizioni dietro a loro io volgerò il mio volto contro quella persona e la elim inerò dal suo popolo. Santificatevi dunque e siate santi perché io sono il Signore vostro Dio. Oss ervate le mie leggi e mettetele in pratica. Io sono il Signore che vi santifica. Chiunque maledice s uo padre o sua madre dovrà essere messo a morte; ha maledetto suo padre o sua madre: il suo sangue ricadrà su di lui. Se uno commette adulterio con la moglie del suo prossimo l’adultero e l
’adultera dovranno esser messi a morte. Se uno ha rapporti con una moglie di suo padre egli sc opre la nudità del padre; tutti e due dovranno essere messi a morte: il loro sangue ricadrà su di loro. Se uno ha rapporti con la nuora tutti e due dovranno essere messi a morte; hanno comme sso una perversione: il loro sangue ricadrà su di loro. Se uno ha rapporti con un uomo come con una donna tutti e due hanno commesso un abominio; dovranno essere messi a morte: il loro sa ngue ricadrà su di loro. Se uno prende in moglie la figlia e la madre è un’infamia; si bruceranno con il fuoco lui e loro perché non ci sia fra voi tale delitto. L’uomo che si accoppia con una besti a dovrà essere messo a morte; dovrete uccidere anche la bestia. Se una donna si accosta a una bestia per accoppiarsi con essa, ucciderai la donna e la bestia; tutte e due dovranno essere mes se a morte: il loro sangue ricadrà su di loro. Se uno prende la propria sorella figlia di suo padre o figlia di sua madre e vede la nudità di lei e lei vede la nudità di lui è un disonore; tutti e due sar anno eliminati alla presenza dei figli del loro popolo. Quel tale ha scoperto la nudità della propri a sorella: dovrà portare la pena della sua colpa. Se uno ha un rapporto con una donna durante l e sue mestruazioni e ne scopre la nudità, quel tale ha scoperto il flusso di lei e lei ha scoperto il f lusso del proprio sangue; perciò tutti e due saranno eliminati dal loro popolo. Non scoprirai la n udità della sorella di tua madre o della sorella di tuo padre; chi lo fa scopre la sua stessa carne: t utti e due porteranno la pena della loro colpa. Se uno ha rapporti con la moglie di suo zio scopr
e la nudità di suo zio; tutti e due porteranno la pena del loro peccato: dovranno morire senza fi gli. Se uno prende la moglie del fratello è un’impurità egli ha scoperto la nudità del fratello: non avranno figli. Osserverete dunque tutte le mie leggi e tutte le mie prescrizioni e le metterete in pratica, perché la terra dove io vi conduco per abitarla non vi vomiti. Non seguirete le usanze de lle nazioni che io sto per scacciare dinanzi a voi; esse hanno fatto tutte quelle cose perciò ho dis gusto di esse e vi ho detto: Voi possederete il loro suolo; ve lo darò in proprietà. è una terra dov e scorrono latte e miele. Io il Signore vostro Dio vi ho separato dagli altri popoli. Farete dunque distinzione tra animali puri e impuri fra uccelli impuri e puri e non vi contaminerete mangiando animali uccelli o esseri che strisciano sulla terra e che io vi ho fatto separare come impuri. Saret e santi per me poiché io il Signore sono santo e vi ho separato dagli altri popoli perché siate mie i. Se uomo o donna in mezzo a voi eserciteranno la negromanzia o la divinazione dovranno esse re messi a morte: saranno lapidati e il loro sangue ricadrà su di loro”». Il Signore disse a Mosè: «
Parla ai sacerdoti figli di Aronne dicendo loro: “Un sacerdote non dovrà rendersi impuro per il c ontatto con un morto della sua parentela, se non per un suo parente stretto cioè per sua madre suo padre suo figlio sua figlia suo fratello e sua sorella ancora vergine che viva con lui e non sia ancora maritata; per questa può esporsi all’impurità. Come marito non si renda impuro per la s ua parentela profanando se stesso. I sacerdoti non si faranno tonsure sul capo né si raderanno ai margini la barba né si faranno incisioni sul corpo. Saranno santi per il loro Dio e non profaner anno il nome del loro Dio perché sono loro che presentano al Signore sacrifici consumati dal fuo co pane del loro Dio; perciò saranno santi. Non prenderanno in moglie una prostituta o una già disonorata né una donna ripudiata dal marito. Infatti il sacerdote è santo per il suo Dio. Tu consi dererai dunque il sacerdote come santo perché egli offre il pane del tuo Dio: sarà per te santo, perché io il Signore che vi santifico sono santo. Se la figlia di un sacerdote si disonora prostituen dosi disonora suo padre; sarà arsa con il fuoco. Il sacerdote quello che è il sommo tra i suoi frat elli sul capo del quale è stato versato l’olio dell’unzione e ha ricevuto l’investitura indossando le vesti sacre non dovrà scarmigliarsi i capelli né stracciarsi le vesti. Non si avvicinerà ad alcun cada vere; non potrà rendersi impuro neppure per suo padre e per sua madre. Non uscirà dal santua rio e non profanerà il santuario del suo Dio, perché la consacrazione è su di lui mediante l’olio d ell’unzione del suo Dio. Io sono il Signore. Sposerà una vergine. Non potrà sposare né una vedo va né una divorziata né una disonorata né una prostituta ma prenderà in moglie una vergine del la sua parentela. Così non disonorerà la sua discendenza tra la sua parentela; poiché io sono il Si gnore che lo santifico”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla ad Aronne dicendo: “Nelle gener azioni future nessun uomo della tua stirpe che abbia qualche deformità potrà accostarsi ad offri re il pane del suo Dio; perché nessun uomo che abbia qualche deformità potrà accostarsi: né un cieco né uno zoppo né uno sfregiato né un deforme né chi abbia una frattura al piede o alla ma no, né un gobbo né un nano né chi abbia una macchia nell’occhio o la scabbia o piaghe purulent e o i testicoli schiacciati. Nessun uomo della stirpe del sacerdote Aronne con qualche deformità si accosterà per presentare i sacrifici consumati dal fuoco in onore del Signore. Ha un difetto: no
n si accosti quindi per offrire il pane del suo Dio. Potrà mangiare il pane del suo Dio le cose sacr osante e le cose sante; ma non potrà avvicinarsi al velo né accostarsi all’altare perché ha una de formità. Non dovrà profanare i miei luoghi santi perché io sono il Signore che li santifico”». Così Mosè parlò ad Aronne ai suoi figli e a tutti gli Israeliti. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla ad Aronne e ai suoi figli: trattino con rispetto le offerte sante degli Israeliti e non profanino il mio s anto nome, perché sono offerte consacrate a me. Io sono il Signore. Di’ loro: “Nelle generazioni future ogni uomo della vostra discendenza che si accosterà in stato di impurità alle offerte sant e consacrate dagli Israeliti in onore del Signore, sarà eliminato dalla mia presenza. Io sono il Sig nore. Nessun uomo della stirpe di Aronne affetto da lebbra o da gonorrea potrà mangiare le off erte sante finché non sia puro. Così sarà per chi toccherà qualsiasi cosa impura a causa di un ca davere o per chi avrà perdite seminali oppure per chi toccherà un rettile che lo rende impuro o una persona che lo rende impuro qualunque sia la sua impurità. Colui che avrà avuto tali contat ti resterà impuro fino alla sera e non mangerà le offerte sante prima di essersi lavato il corpo ne ll’acqua; dopo il tramonto del sole sarà puro e allora potrà mangiare le offerte sante perché ess e sono il suo cibo. Non mangerà carne di bestia morta naturalmente o sbranata per non renders i impuro. Io sono il Signore. Osserveranno dunque ciò che ho comandato altrimenti porteranno la pena del loro peccato e moriranno per aver commesso profanazioni. Io sono il Signore che li s antifico. Nessun profano mangerà le offerte sante; né l’ospite di un sacerdote né il salariato pot rà mangiare le offerte sante. Ma una persona che il sacerdote avrà comprato con il proprio den aro ne potrà mangiare e così anche lo schiavo che gli è nato in casa: costoro potranno mangiare il suo cibo. Se la figlia di un sacerdote è sposata con un profano non potrà mangiare del contrib uto delle offerte sante. Se invece la figlia del sacerdote è rimasta vedova o è stata ripudiata e n on ha figli ed è tornata ad abitare da suo padre come quando era giovane potrà mangiare il cibo del padre; ma nessun profano potrà mangiarne. Se uno mangia inavvertitamente di un’offerta santa darà al sacerdote il valore dell’offerta santa aggiungendovi un quinto. I sacerdoti non prof aneranno dunque le offerte sante degli Israeliti che essi prelevano per il Signore e non faranno portare loro il peso della colpa di cui si renderebbero colpevoli mangiando le loro offerte sante; poiché io sono il Signore che le santifico”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla ad Aronne ai s uoi figli a tutti gli Israeliti dicendo loro: “Chiunque della casa d’Israele o dei forestieri dimoranti i n Israele presenterà la sua offerta per qualsiasi voto o dono spontaneo da presentare come olo causto in onore del Signore per essere gradito dovrà offrire un maschio senza difetto di bovini d i pecore o di capre. Non offrirete nulla con qualche difetto, perché non sarebbe gradito. Se qual cuno presenterà al Signore in sacrificio di comunione un bovino o un ovino sia per adempiere u n voto sia come offerta spontanea la vittima perché sia gradita dovrà essere perfetta e non aver e alcun difetto. Non presenterete in onore del Signore nessuna vittima cieca o storpia o mutilat a o con ulcere o con la scabbia o con piaghe purulente; non ne farete sull’altare un sacrificio co nsumato dal fuoco in onore del Signore. Un capo di bestiame grosso o minuto che sia deforme o atrofizzato potrai offrirlo come dono spontaneo ma non sarà gradito come sacrificio votivo. N

on offrirete al Signore un animale con i testicoli ammaccati o contusi o strappati o tagliati. Tali c ose non farete nella vostra terra né prenderete dalle mani dello straniero alcuna di queste vitti me per offrirla come cibo in onore del vostro Dio; essendo mutilate difettose non sarebbero gra dite a vostro favore”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Quando nascerà un vitello o un agnello o un capretto starà sette giorni presso la madre; dall’ottavo giorno in poi sarà gradito come vitti ma da consumare con il fuoco per il Signore. Non scannerete mucca o pecora lo stesso giorno c on il suo piccolo. Quando offrirete al Signore un sacrificio di ringraziamento offritelo in modo ch e sia gradito. La vittima sarà mangiata il giorno stesso; non ne farete avanzare nulla fino al matti no. Io sono il Signore. Osserverete dunque i miei comandi e li metterete in pratica. Io sono il Sig nore. Non profanerete il mio santo nome affinché io sia santificato in mezzo agli Israeliti. Io son o il Signore che vi santifico che vi ho fatto uscire dalla terra d’Egitto per essere vostro Dio. Io so no il Signore». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla agli Israeliti dicendo loro: “Ecco le solennit à del Signore nelle quali convocherete riunioni sacre. Queste sono le mie solennità. Durante sei giorni si attenderà al lavoro; ma il settimo giorno è sabato giorno di assoluto riposo e di riunion e sacra. Non farete in esso lavoro alcuno; è un sabato in onore del Signore in tutti i luoghi dove abiterete. Queste sono le solennità del Signore le riunioni sacre che convocherete nei tempi sta biliti. Il primo mese al quattordicesimo giorno al tramonto del sole sarà la Pasqua del Signore; il quindici dello stesso mese sarà la festa degli Azzimi in onore del Signore; per sette giorni mange rete pane senza lievito. Nel primo giorno avrete una riunione sacra: non farete alcun lavoro serv ile. Per sette giorni offrirete al Signore sacrifici consumati dal fuoco. Il settimo giorno vi sarà una riunione sacra: non farete alcun lavoro servile”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla agli Isra eliti dicendo loro: “Quando sarete entrati nella terra che io vi do e ne mieterete la messe porter ete al sacerdote un covone come primizia del vostro raccolto. Il sacerdote eleverà il covone dav anti al Signore perché sia gradito per il vostro bene; il sacerdote lo eleverà il giorno dopo il saba to. Quando farete il rito di elevazione del covone offrirete un agnello di un anno, senza difetto p er l’olocausto in onore del Signore insieme a un’oblazione di due decimi di efa di fior di farina i mpastata con olio: è un sacrificio consumato dal fuoco, profumo gradito in onore del Signore; la libagione sarà di un quarto di hin di vino. Non mangerete pane né grano abbrustolito né grano novello prima di quel giorno prima di aver portato l’offerta del vostro Dio. Sarà per voi una legg e perenne di generazione in generazione in tutti i luoghi dove abiterete. Dal giorno dopo il saba to cioè dal giorno in cui avrete portato il covone per il rito di elevazione conterete sette settima ne complete. Conterete cinquanta giorni fino all’indomani del settimo sabato e offrirete al Sign ore una nuova oblazione. Porterete dai luoghi dove abiterete due pani per offerta con rito di ele vazione: saranno di due decimi di efa di fior di farina e li farete cuocere lievitati; sono le primizie in onore del Signore. Oltre quei pani offrirete sette agnelli dell’anno senza difetto un giovenco e due arieti: saranno un olocausto per il Signore insieme con la loro oblazione e le loro libagioni; sarà un sacrificio di profumo gradito, consumato dal fuoco in onore del Signore. Offrirete un ca pro in sacrificio per il peccato e due agnelli dell’anno in sacrificio di comunione. Il sacerdote pre
senterà gli agnelli insieme al pane delle primizie con il rito di elevazione davanti al Signore; tant o i pani quanto i due agnelli consacrati al Signore saranno riservati al sacerdote. Proclamerete i n quello stesso giorno una festa e convocherete una riunione sacra. Non farete alcun lavoro ser vile. Sarà per voi una legge perenne di generazione in generazione in tutti i luoghi dove abiteret e. Quando mieterai la messe della vostra terra non mieterai fino al margine del campo e non ra ccoglierai ciò che resta da spigolare del tuo raccolto; lo lascerai per il povero e per il forestiero. I o sono il Signore vostro Dio”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla agli Israeliti dicendo: “Nel settimo mese il primo giorno del mese sarà per voi riposo assoluto un memoriale celebrato a su on di tromba una riunione sacra. Non farete alcun lavoro servile e offrirete sacrifici consumati d al fuoco in onore del Signore”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Il decimo giorno di questo setti mo mese sarà il giorno dell’espiazione; terrete una riunione sacra vi umilierete e offrirete sacrifi ci consumati dal fuoco in onore del Signore. In quel giorno non farete alcun lavoro poiché è il gi orno dell’espiazione per compiere il rito espiatorio per voi davanti al Signore vostro Dio. Ogni p ersona che non si umilierà in quel giorno sarà eliminata dalla sua parentela. Ogni persona che fa rà in quel giorno un qualunque lavoro io la farò perire in mezzo alla sua parentela. Non farete al cun lavoro. Sarà per voi una legge perenne di generazione in generazione in tutti i luoghi dove a biterete. Sarà per voi un sabato di assoluto riposo e dovrete umiliarvi: il nono giorno del mese d alla sera alla sera seguente farete il vostro riposo del sabato». Il Signore parlò a Mosè e disse: «
Parla agli Israeliti dicendo: “Il giorno quindici di questo settimo mese sarà la festa delle Capanne per sette giorni in onore del Signore. Il primo giorno vi sarà una riunione sacra; non farete alcu n lavoro servile. Per sette giorni offrirete vittime consumate dal fuoco in onore del Signore. L’ot tavo giorno terrete la riunione sacra e offrirete al Signore sacrifici consumati con il fuoco. è gior no di riunione; non farete alcun lavoro servile. Queste sono le solennità del Signore nelle quali c onvocherete riunioni sacre per presentare al Signore sacrifici consumati dal fuoco olocausti e o blazioni vittime e libagioni ogni cosa nel giorno stabilito oltre i sabati del Signore oltre i vostri do ni oltre tutti i vostri voti e tutte le offerte spontanee che presenterete al Signore. Inoltre il giorn o quindici del settimo mese quando avrete raccolto i frutti della terra, celebrerete una festa del Signore per sette giorni; il primo giorno sarà di assoluto riposo e così l’ottavo giorno. Il primo gi orno prenderete frutti degli alberi migliori rami di palma rami con dense foglie e salici di torrent e e gioirete davanti al Signore vostro Dio per sette giorni. Celebrerete questa festa in onore del Signore per sette giorni ogni anno. Sarà per voi una legge perenne di generazione in generazion e. La celebrerete il settimo mese. Dimorerete in capanne per sette giorni; tutti i cittadini d’Israel e dimoreranno in capanne perché le vostre generazioni sappiano che io ho fatto dimorare in ca panne gli Israeliti quando li ho condotti fuori dalla terra d’Egitto. Io sono il Signore vostro Dio”».
E Mosè parlò così agli Israeliti delle solennità del Signore. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Ordi na agli Israeliti che ti portino olio puro di olive schiacciate per l’illuminazione per tenere perenn emente accesa la lampada. Aronne la disporrà nella tenda del convegno fuori del velo che sta d avanti alla Testimonianza perché arda dalla sera al mattino davanti al Signore sempre. Sarà per
voi una legge perenne di generazione in generazione. Egli disporrà le lampade sul candelabro d’
oro puro perché ardano sempre davanti al Signore. Prenderai anche fior di farina e ne farai cuoc ere dodici focacce; ogni focaccia sarà di due decimi di efa. Le disporrai su due pile sei per pila su lla tavola d’oro puro davanti al Signore. Porrai incenso puro sopra ogni pila perché serva da me moriale per il pane come sacrificio consumato dal fuoco in onore del Signore. Ogni giorno di sab ato lo si disporrà davanti al Signore perennemente da parte degli Israeliti: è un’alleanza eterna.
Sarà riservato ad Aronne e ai suoi figli: essi lo mangeranno in luogo santo, perché sarà per loro c osa santissima tra i sacrifici da bruciare in onore del Signore. è una legge perenne». Ora il figlio di una donna israelita e di un Egiziano uscì in mezzo agli Israeliti e nell’accampamento scoppiò u na lite fra il figlio della donna e un Israelita. Il figlio della Israelita bestemmiò il Nome imprecand o; perciò fu condotto da Mosè. La madre di quel tale si chiamava Selomìt figlia di Dibrì della trib ù di Dan. Lo misero sotto sorveglianza finché venisse una decisione dalla bocca del Signore. Il Si gnore parlò a Mosè dicendo: «Conduci quel bestemmiatore fuori dell’accampamento; quanti lo hanno udito posino le mani sul suo capo e tutta la comunità lo lapiderà. Parla agli Israeliti dicen do: “Chiunque maledirà il suo Dio porterà il peso del suo peccato. Chi bestemmia il nome del Si gnore dovrà essere messo a morte: tutta la comunità lo dovrà lapidare. Straniero o nativo della terra se ha bestemmiato il Nome sarà messo a morte. Chi percuote a morte qualsiasi uomo dov rà essere messo a morte. Chi percuote a morte un capo di bestiame dovrà risarcirlo: vita per vit a. Se uno farà una lesione al suo prossimo si farà a lui come egli ha fatto all’altro: frattura per fr attura occhio per occhio dente per dente; gli si farà la stessa lesione che egli ha fatto all’altro. C
hi percuote a morte un capo di bestiame dovrà risarcirlo; ma chi percuote a morte un uomo sar à messo a morte. Ci sarà per voi una sola legge per il forestiero e per il cittadino della terra; poic hé io sono il Signore vostro Dio”». Mosè parlò agli Israeliti ed essi condussero quel bestemmiato re fuori dell’accampamento e lo lapidarono. Così gli Israeliti fecero come il Signore aveva ordina to a Mosè. Il Signore parlò a Mosè sul monte Sinai e disse: «Parla agli Israeliti dicendo loro: “Qu ando entrerete nella terra che io vi do la terra farà il riposo del sabato in onore del Signore: per sei anni seminerai il tuo campo e poterai la tua vigna e ne raccoglierai i frutti; ma il settimo ann o sarà come sabato un riposo assoluto per la terra un sabato in onore del Signore. Non seminer ai il tuo campo non poterai la tua vigna. Non mieterai quello che nascerà spontaneamente dopo la tua mietitura e non vendemmierai l’uva della vigna che non avrai potata; sarà un anno di co mpleto riposo per la terra. Ciò che la terra produrrà durante il suo riposo servirà di nutrimento a te al tuo schiavo alla tua schiava al tuo bracciante e all’ospite che si troverà presso di te; anch e al tuo bestiame e agli animali che sono nella tua terra servirà di nutrimento quanto essa prod urrà. Conterai sette settimane di anni cioè sette volte sette anni; queste sette settimane di anni faranno un periodo di quarantanove anni. Al decimo giorno del settimo mese farai echeggiare il suono del corno; nel giorno dell’espiazione farete echeggiare il corno per tutta la terra. Dichiar erete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abita nti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia. Il cin
quantesimo anno sarà per voi un giubileo; non farete né semina né mietitura di quanto i campi produrranno da sé né farete la vendemmia delle vigne non potate. Poiché è un giubileo: esso sa rà per voi santo; potrete però mangiare il prodotto che daranno i campi. In quest’anno del giubi leo ciascuno tornerà nella sua proprietà. Quando vendete qualcosa al vostro prossimo o quand o acquistate qualcosa dal vostro prossimo, nessuno faccia torto al fratello. Regolerai l’acquisto c he farai dal tuo prossimo in base al numero degli anni trascorsi dopo l’ultimo giubileo: egli vend erà a te in base agli anni di raccolto. Quanti più anni resteranno tanto più aumenterai il prezzo; quanto minore sarà il tempo tanto più ribasserai il prezzo perché egli ti vende la somma dei rac colti. Nessuno di voi opprima il suo prossimo; temi il tuo Dio poiché io sono il Signore vostro Dio
. Metterete in pratica le mie leggi e osserverete le mie prescrizioni le adempirete e abiterete al sicuro nella terra. La terra produrrà frutti voi ne mangerete a sazietà e vi abiterete al sicuro. Se dite: Che mangeremo il settimo anno se non semineremo e non raccoglieremo i nostri prodotti
? io disporrò in vostro favore la mia benedizione per il sesto anno e la terra vi darà frutti per tre anni. L’ottavo anno seminerete ma consumerete il vecchio raccolto fino al nono anno; mangere te del raccolto vecchio finché venga il nuovo. Le terre non si potranno vendere per sempre perc hé la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti. Perciò in tutta la terra che avr ete in possesso concederete il diritto di riscatto per i terreni. Se il tuo fratello cade in miseria e v ende una parte della sua proprietà colui che ha il diritto di riscatto cioè il suo parente più strett o verrà e riscatterà ciò che il fratello ha venduto. Se uno non ha chi possa fare il riscatto ma giu nge a procurarsi da sé la somma necessaria al riscatto conterà le annate passate dopo la vendit a restituirà al compratore il valore degli anni che ancora rimangono e rientrerà così in possesso del suo patrimonio. Ma se non trova da sé la somma sufficiente a rimborsarlo ciò che ha vendut o rimarrà in possesso del compratore fino all’anno del giubileo; al giubileo il compratore uscirà e l’altro rientrerà in possesso del suo patrimonio. Se uno vende una casa abitabile in una città ci nta di mura ha diritto al riscatto fino allo scadere dell’anno dalla vendita; il suo diritto di riscatto durerà un anno intero. Ma se quella casa posta in una città cinta di mura non è riscattata prima dello scadere di un intero anno rimarrà sempre proprietà del compratore e dei suoi discendenti
; il compratore non sarà tenuto a uscirne al giubileo. Però le case dei villaggi non attorniati da m ura vanno considerate come parte dei fondi campestri; potranno essere riscattate e al giubileo i l compratore dovrà uscirne. Quanto alle città dei leviti e alle case che essi vi possederanno i levi ti avranno il diritto perenne di riscatto. Se chi riscatta è un levita in occasione del giubileo il com pratore uscirà dalla casa comprata nella città levitica perché le case delle città levitiche sono lor o proprietà in mezzo agli Israeliti. Neppure campi situati nei dintorni delle città levitiche si potra nno vendere perché sono loro proprietà perenne. Se il tuo fratello che è presso di te cade in mis eria ed è inadempiente verso di te sostienilo come un forestiero o un ospite perché possa viver e presso di te. Non prendere da lui interessi né utili ma temi il tuo Dio e fa’ vivere il tuo fratello presso di te. Non gli presterai il denaro a interesse né gli darai il vitto a usura. Io sono il Signore vostro Dio che vi ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, per darvi la terra di Canaan per essere il vos
tro Dio. Se il tuo fratello che è presso di te cade in miseria e si vende a te non farlo lavorare com e schiavo; sia presso di te come un bracciante come un ospite. Ti servirà fino all’anno del giubile o; allora se ne andrà da te insieme con i suoi figli, tornerà nella sua famiglia e rientrerà nella pro prietà dei suoi padri. Essi sono infatti miei servi che io ho fatto uscire dalla terra d’Egitto; non de bbono essere venduti come si vendono gli schiavi. Non lo tratterai con durezza ma temerai il tu o Dio. Quanto allo schiavo e alla schiava che avrai in proprietà potrete prenderli dalle nazioni ch e vi circondano; da queste potrete comprare lo schiavo e la schiava. Potrete anche comprarne t ra i figli degli stranieri stabiliti presso di voi e tra le loro famiglie che sono presso di voi tra i loro figli nati nella vostra terra; saranno vostra proprietà. Li potrete lasciare in eredità ai vostri figli d opo di voi come loro proprietà vi potrete servire sempre di loro come di schiavi. Ma quanto ai v ostri fratelli gli Israeliti nessuno dòmini sull’altro con durezza. Se un forestiero stabilito presso di te diventa ricco e il tuo fratello si grava di debiti con lui e si vende al forestiero stabilito presso di te o a qualcuno della sua famiglia dopo che si è venduto ha il diritto di riscatto: lo potrà riscat tare uno dei suoi fratelli o suo zio o il figlio di suo zio; lo potrà riscattare uno dei consanguinei d ella sua parentela o se ha i mezzi per farlo potrà riscattarsi da sé. Farà il calcolo con il suo compr atore dall’anno che gli si è venduto all’anno del giubileo; il prezzo da pagare sarà in proporzione del numero degli anni valutando le sue giornate come quelle di un bracciante. Se vi sono ancor a molti anni per arrivare al giubileo pagherà il riscatto in ragione di questi anni e in proporzione del prezzo per il quale fu comprato; se rimangono pochi anni per arrivare al giubileo farà il calco lo con il suo compratore e pagherà il prezzo del suo riscatto in ragione di quegli anni. Resterà pr esso di lui come un bracciante preso a servizio anno per anno; il padrone non dovrà trattarlo co n durezza sotto i suoi occhi. Se non è riscattato in alcuno di questi modi se ne andrà libero l’ann o del giubileo: lui con i suoi figli. Poiché gli Israeliti sono miei servi; essi sono servi miei che ho fa tto uscire dalla terra d’Egitto. Io sono il Signore vostro Dio. Non vi farete idoli né vi erigerete im magini scolpite o stele né permetterete che nella vostra terra vi sia pietra ornata di figure per pr ostrarvi davanti ad essa; poiché io sono il Signore vostro Dio. Osserverete i miei sabati e portere te rispetto al mio santuario. Io sono il Signore. Se seguirete le mie leggi se osserverete i miei co mandi e li metterete in pratica, io vi darò le piogge al loro tempo la terra darà prodotti e gli albe ri della campagna daranno frutti. La trebbiatura durerà per voi fino alla vendemmia e la vendem mia durerà fino alla semina; mangerete il vostro pane a sazietà e abiterete al sicuro nella vostra terra. Io stabilirò la pace nella terra e quando vi coricherete nulla vi turberà. Farò sparire dalla t erra le bestie nocive e la spada non passerà sui vostri territori. Voi inseguirete i vostri nemici ed essi cadranno dinanzi a voi colpiti di spada. Cinque di voi ne inseguiranno cento cento di voi ne i nseguiranno diecimila e i vostri nemici cadranno dinanzi a voi colpiti di spada. Io mi volgerò a vo i vi renderò fecondi e vi moltiplicherò e confermerò la mia alleanza con voi. Voi mangerete del v ecchio raccolto serbato a lungo e dovrete disfarvi del raccolto vecchio per far posto al nuovo. St abilirò la mia dimora in mezzo a voi e non vi respingerò. Camminerò in mezzo a voi sarò vostro Dio e voi sarete mio popolo. Io sono il Signore vostro Dio che vi ho fatto uscire dalla terra d’Egitt
o, perché non foste più loro schiavi; ho spezzato il vostro giogo e vi ho fatto camminare a testa alta. Ma se non mi darete ascolto e se non metterete in pratica tutti questi comandi, se disprezz erete le mie leggi e rigetterete le mie prescrizioni non mettendo in pratica tutti i miei comandi e infrangendo la mia alleanza ecco come io vi tratterò: manderò contro di voi il terrore la consun zione e la febbre che vi faranno languire gli occhi e vi consumeranno la vita. Seminerete invano l e vostre sementi: le mangeranno i vostri nemici. Volgerò il mio volto contro di voi e voi sarete s confitti dai nemici; quelli che vi odiano vi opprimeranno e vi darete alla fuga senza che alcuno vi insegua. Se nemmeno a questo punto mi darete ascolto io vi castigherò sette volte di più per i v ostri peccati. Spezzerò la vostra forza superba renderò il vostro cielo come ferro e la vostra terr a come bronzo. Le vostre energie si consumeranno invano poiché la vostra terra non darà prod otti e gli alberi della campagna non daranno frutti. Se vi opporrete a me e non mi vorrete ascolt are io vi colpirò sette volte di più secondo i vostri peccati. Manderò contro di voi le bestie selvat iche che vi rapiranno i figli stermineranno il vostro bestiame vi ridurranno a un piccolo numero e le vostre strade diventeranno deserte. Se nonostante questi castighi non vorrete correggervi per tornare a me ma vi opporrete a me anch’io mi opporrò a voi e vi colpirò sette volte di più pe r i vostri peccati. Manderò contro di voi la spada vindice della mia alleanza; voi vi raccoglierete nelle vostre città ma io manderò in mezzo a voi la peste e sarete dati in mano al nemico. Quand o io avrò tolto il sostegno del pane dieci donne faranno cuocere il vostro pane in uno stesso for no e il pane che esse porteranno sarà razionato: mangerete ma non vi sazierete. Se nonostante tutto questo non vorrete darmi ascolto ma vi opporrete a me, anch’io mi opporrò a voi con furo re e vi castigherò sette volte di più per i vostri peccati. Mangerete perfino la carne dei vostri figli e mangerete la carne delle vostre figlie. Devasterò le vostre alture distruggerò i vostri altari per l’incenso butterò i vostri cadaveri sui cadaveri dei vostri idoli e vi detesterò. Ridurrò le vostre ci ttà a deserti devasterò i vostri santuari e non aspirerò più il profumo dei vostri incensi. Devaster ò io stesso la terra e i vostri nemici che vi prenderanno dimora ne saranno stupefatti. Quanto a voi vi disperderò fra le nazioni e sguainerò la spada dietro di voi; la vostra terra sarà desolata e l e vostre città saranno deserte. Allora la terra godrà i suoi sabati per tutto il tempo della desolazi one mentre voi resterete nella terra dei vostri nemici; allora la terra si riposerà e si compenserà dei suoi sabati. Finché rimarrà desolata avrà il riposo che non le fu concesso da voi con i sabati quando l’abitavate. A quelli che tra voi saranno superstiti infonderò nel cuore costernazione nei territori dei loro nemici: il fruscìo di una foglia agitata li metterà in fuga; fuggiranno come si fug ge di fronte alla spada e cadranno senza che alcuno li insegua. Cadranno uno sopra l’altro come di fronte alla spada senza che alcuno li insegua. Non potrete resistere dinanzi ai vostri nemici. P
erirete fra le nazioni: la terra dei vostri nemici vi divorerà. Quelli che tra voi saranno superstiti si consumeranno a causa delle proprie colpe nei territori dei loro nemici; anche a causa delle colp e dei loro padri periranno con loro. Dovranno confessare la loro colpa e la colpa dei loro padri: per essere stati infedeli nei miei riguardi ed essersi opposti a me; perciò anch’io mi sono oppost o a loro e li ho deportati nella terra dei loro nemici. Allora il loro cuore non circonciso si umilierà
e sconteranno la loro colpa. E io mi ricorderò della mia alleanza con Giacobbe dell’alleanza con Isacco e dell’alleanza con Abramo e mi ricorderò della terra. Quando dunque la terra sarà abba ndonata da loro e godrà i suoi sabati mentre rimarrà deserta senza di loro essi sconteranno la lo ro colpa per avere disprezzato le mie prescrizioni ed essersi stancati delle mie leggi. Nonostante tutto questo quando saranno nella terra dei loro nemici io non li rigetterò e non mi stancherò d i loro fino al punto di annientarli del tutto e di rompere la mia alleanza con loro poiché io sono il Signore loro Dio; ma mi ricorderò in loro favore dell’alleanza con i loro antenati che ho fatto us cire dalla terra d’Egitto davanti alle nazioni per essere loro Dio. Io sono il Signore”». Questi sono gli statuti le prescrizioni e le leggi che il Signore stabilì fra sé e gli Israeliti sul monte Sinai per m ezzo di Mosè. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla agli Israeliti dicendo loro: “Se qualcuno vor rà adempiere un voto in onore del Signore basandosi su valutazioni corrispondenti alle persone eccone i valori: per un uomo dai venti ai sessant’anni il valore è di cinquanta sicli d’argento conf ormi al siclo del santuario; invece per una donna il valore è di trenta sicli. Dai cinque ai venti an ni il valore è di venti sicli per un maschio e di dieci sicli per una femmina. Da un mese a cinque a nni il valore è di cinque sicli d’argento per un maschio e di tre sicli d’argento per una femmina.
Dai sessant’anni in su il valore è di quindici sicli per un maschio e di dieci sicli per una femmina.
Se colui che ha fatto il voto è troppo povero per pagare la somma fissata dovrà presentare al sa cerdote la persona consacrata con voto e il sacerdote ne farà la stima. Il sacerdote farà la stima in proporzione dei mezzi di colui che ha fatto il voto. Se si tratta di animali che possono essere p resentati in offerta al Signore ogni animale donato al Signore sarà cosa santa. Non lo si potrà co mmutare né si potrà sostituire un animale di qualità con uno difettoso né uno difettoso con uno di buona qualità se tuttavia qualcuno sostituisse un animale all’altro entrambi gli animali diverr anno cosa sacra. Se invece si tratta di qualunque animale impuro che non si può presentare co me offerta al Signore l’animale sarà portato davanti al sacerdote; egli valuterà se l’animale è in buono o cattivo stato e si starà al valore stabilito dal sacerdote. Ma se qualcuno lo vorrà riscatta re aggiungerà un quinto al valore fissato. Se qualcuno vorrà consacrare la sua casa come cosa sa cra al Signore il sacerdote ne farà la stima secondo che essa sia in buono o in cattivo stato; si sta rà alla stima stabilita dal sacerdote. Se colui che ha consacrato la sua casa la vorrà riscattare, ag giungerà un quinto al prezzo della stima e sarà sua. Se qualcuno vorrà consacrare al Signore un terreno del suo patrimonio il suo valore sarà stabilito in proporzione alla semente: cinquanta sic li d’argento per un homer di seme d’orzo. Se consacra il suo campo dall’anno del giubileo il prez zo resterà intero secondo la stima; ma se lo consacra dopo il giubileo il sacerdote ne valuterà il prezzo in proporzione agli anni che rimangono fino al giubileo e si farà una detrazione dalla stim a. Se colui che ha consacrato il pezzo di terra lo vorrà riscattare aggiungerà un quinto all’ammo ntare della stima e resterà suo. Se non riscatta il pezzo di terra e lo vende a un altro non lo si po trà più riscattare; ma quel pezzo di terra quando al giubileo il compratore ne uscirà sarà sacro al Signore come un campo votato allo sterminio e diventerà proprietà del sacerdote. Se uno vorrà consacrare al Signore un pezzo di terra comprato che non fa parte del suo patrimonio il sacerd
ote valuterà l’ammontare del prezzo fino all’anno del giubileo; quel tale pagherà il giorno stesso il prezzo fissato come cosa consacrata al Signore. Nell’anno del giubileo la terra tornerà a colui da cui fu comprata e del cui patrimonio faceva parte. Ogni valutazione si farà sulla base del siclo del santuario: il siclo corrisponde a venti ghera. Tuttavia nessuno potrà consacrare un primoge nito del bestiame il quale appartiene già al Signore perché primogenito: sia esso di grosso bestia me o di bestiame minuto appartiene al Signore. Se si tratta di un animale impuro lo si riscatterà al prezzo di stima, aggiungendovi un quinto; se non è riscattato sarà venduto al prezzo di stima.
Nondimeno quanto uno avrà consacrato al Signore con voto di sterminio fra le cose che gli appa rtengono persona animale o pezzo di terra del suo patrimonio non potrà essere né venduto né r iscattato; ogni cosa votata allo sterminio è cosa santissima riservata al Signore. Nessuna person a votata allo sterminio potrà essere riscattata; dovrà essere messa a morte. Ogni decima della t erra cioè delle granaglie del suolo e dei frutti degli alberi, appartiene al Signore: è cosa consacra ta al Signore. Se uno vuole riscattare una parte della sua decima vi aggiungerà un quinto. Ogni d ecima del bestiame grosso o minuto, ossia il decimo capo di quanto passa sotto la verga del pas tore sarà consacrata al Signore. Non si farà cernita fra animale migliore e peggiore né si faranno sostituzioni; qualora però avvenisse una sostituzione entrambi gli animali diverranno cosa sacr a: non si potranno riscattare”». Questi sono i comandi che il Signore diede a Mosè per gli Israeli ti sul monte Sinai. Il Signore parlò a Mosè nel deserto del Sinai nella tenda del convegno il prim o giorno del secondo mese il secondo anno dalla loro uscita dalla terra d’Egitto e disse: «Fate il computo di tutta la comunità degli Israeliti secondo le loro famiglie, secondo i loro casati patern i contando i nomi di tutti i maschi testa per testa dai vent’anni in su quanti in Israele possono an dare in guerra; tu e Aronne li censirete schiera per schiera. Sarà con voi un uomo per tribù un u omo che sia capo del casato dei suoi padri. Questi sono i nomi degli uomini che vi assisteranno.
Per Ruben: Elisù r figlio di Sedeù r; per Simeone: Selumièl figlio di Surisaddài; per Giuda: Nacson figlio di Amminadàb; per ìssacar: Netanèl figlio di Suar; per Zàbulon: Eliàb figlio di Chelon; per i figli di Giuseppe per èfraim: Elisamà figlio di Ammiù d; per Manasse: Gamlièl figlio di Pedasù r; p er Beniamino: Abidàn figlio di Ghideonì per Dan: Achièzer figlio di Ammisaddài; per Aser: Paghiè l figlio di Ocran; per Gad: Eliasàf, figlio di Deuèl; per Nèftali: Achirà figlio di Enan». Questi furono i designati della comunità i prìncipi delle loro tribù paterne i capi delle migliaia d’Israele. Mosè e Aronne presero questi uomini, che erano stati designati per nome e radunarono tutta la comu nità il primo giorno del secondo mese; furono registrati secondo le famiglie secondo i loro casat i paterni contando il numero delle persone dai vent’anni in su testa per testa. Come il Signore gl i aveva ordinato Mosè ne fece il censimento nel deserto del Sinai. Risultò per i figli di Ruben pri mogenito d’Israele stabilite le loro genealogie secondo le loro famiglie secondo i loro casati pat erni contando i nomi di tutti i maschi testa per testa dai vent’anni in su quanti potevano andare in guerra: censiti della tribù di Ruben quarantaseimilacinquecento. Per i figli di Simeone stabilite le loro genealogie secondo le loro famiglie secondo i loro casati paterni contando i nomi di tutti i maschi testa per testa dai vent’anni in su quanti potevano andare in guerra: censiti della tribù
di Simeone cinquantanovemilatrecento. Per i figli di Gad stabilite le loro genealogie secondo le l oro famiglie secondo i loro casati paterni contando i nomi di quelli dai vent’anni in su quanti pot evano andare in guerra: censiti della tribù di Gad quarantacinquemilaseicentocinquanta. Per i fi gli di Giuda stabilite le loro genealogie secondo le loro famiglie secondo i loro casati paterni con tando i nomi di quelli dai vent’anni in su quanti potevano andare in guerra: censiti della tribù di Giuda settantaquattromilaseicento. Per i figli di ìssacar stabilite le loro genealogie secondo le lo ro famiglie secondo i loro casati paterni contando i nomi di quelli dai vent’anni in su quanti pote vano andare in guerra: censiti della tribù di ìssacar cinquantaquattromilaquattrocento. Per i figli di Zàbulon stabilite le loro genealogie secondo le loro famiglie secondo i loro casati paterni con tando i nomi di quelli dai vent’anni in su quanti potevano andare in guerra: censiti della tribù di Zàbulon cinquantasettemilaquattrocento. Per i figli di Giuseppe: per i figli di èfraim stabilite le l oro genealogie secondo le loro famiglie secondo i loro casati paterni contando i nomi di quelli d ai vent’anni in su quanti potevano andare in guerra: censiti della tribù di èfraim quarantamilacin quecento; per i figli di Manasse stabilite le loro genealogie secondo le loro famiglie secondo i lor o casati paterni contando i nomi di quelli dai vent’anni in su quanti potevano andare in guerra: c ensiti della tribù di Manasse trentaduemiladuecento. Per i figli di Beniamino stabilite le loro gen ealogie secondo le loro famiglie secondo i loro casati paterni contando i nomi di quelli dai vent’
anni in su quanti potevano andare in guerra: censiti della tribù di Beniamino trentacinquemilaq uattrocento. Per i figli di Dan stabilite le loro genealogie secondo le loro famiglie secondo i loro casati paterni contando i nomi di quelli dai vent’anni in su quanti potevano andare in guerra: ce nsiti della tribù di Dan sessantaduemilasettecento. Per i figli di Aser stabilite le loro genealogie s econdo le loro famiglie secondo i loro casati paterni contando i nomi di quelli dai vent’anni in su quanti potevano andare in guerra: censiti della tribù di Aser quarantunmilacinquecento. Per i fi gli di Nèftali stabilite le loro genealogie secondo le loro famiglie secondo i loro casati paterni co ntando i nomi di quelli dai vent’anni in su quanti potevano andare in guerra: censiti della tribù d i Nèftali cinquantatremilaquattrocento. Questi furono i censiti di cui fecero il censimento Mosè e Aronne e i prìncipi d’Israele dodici uomini: c’era un uomo per ciascun casato paterno. E tutti i censiti degli Israeliti secondo i loro casati paterni dai vent’anni in su cioè quanti potevano andar e in guerra in Israele risultarono registrati in tutto seicentotremilacinquecentocinquanta. Ma i le viti secondo la loro tribù paterna non furono registrati insieme con gli altri. Il Signore parlò a Mo sè dicendo: «Solo la tribù di Levi non censirai né di essa farai il computo tra gli Israeliti; invece af fiderai ai leviti la Dimora della Testimonianza tutti i suoi accessori e quanto le appartiene. Essi tr asporteranno la Dimora e tutti i suoi accessori vi presteranno servizio e staranno accampati atto rno alla Dimora. Quando la Dimora dovrà muoversi i leviti la smonteranno; quando la Dimora d ovrà accamparsi i leviti la erigeranno. Se un estraneo si avvicinerà sarà messo a morte. Gli Israel iti pianteranno le tende ognuno nel suo campo ognuno vicino alla sua insegna secondo le loro s chiere. Ma i leviti pianteranno le tende attorno alla Dimora della Testimonianza; così la mia ira non si abbatterà sulla comunità degli Israeliti. I leviti avranno la cura della Dimora della Testimo
nianza». Gli Israeliti eseguirono ogni cosa come il Signore aveva comandato a Mosè: così fecero.
Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne e disse: «Gli Israeliti si accamperanno ciascuno vicino alla s ua insegna con i simboli dei loro casati paterni; si accamperanno di fronte alla tenda del conveg no tutt’intorno. Si accamperanno a oriente verso levante quelli dell’insegna dell’accampamento di Giuda secondo le loro schiere. Principe per i figli di Giuda è Nacson figlio di Amminadàb, e la sua schiera è di settantaquattromilaseicento censiti. Si accamperanno accanto a lui quelli della t ribù di ìssacar. Principe per i figli di ìssacar è Netanèl figlio di Suar e la sua schiera è di cinquanta quattromilaquattrocento censiti. Poi la tribù di Zàbulon. Principe per i figli di Zàbulon è Eliàb figl io di Chelon e la sua schiera è di cinquantasettemilaquattrocento censiti. Il totale dei censiti per l’accampamento di Giuda è di centoottantaseimilaquattrocento uomini suddivisi secondo le lor o schiere. Leveranno le tende per primi. L’insegna dell’accampamento di Ruben suddiviso secon do le sue schiere starà a mezzogiorno. Principe per i figli di Ruben è Elisù r figlio di Sedeù r e la s ua schiera è di quarantaseimilacinquecento censiti. Si accamperanno accanto a lui quelli della tr ibù di Simeone. Principe per i figli di Simeone è Selumièl figlio di Surisaddài e la sua schiera è di cinquantanovemilatrecento censiti. Poi la tribù di Gad: principe per i figli di Gad è Eliasàf figlio di Deuèl e la sua schiera è di quarantacinquemilaseicentocinquanta censiti. Il totale dei censiti per l’accampamento di Ruben è di centocinquantunmilaquattrocentocinquanta uomini suddivisi se condo le loro schiere. Leveranno le tende per secondi. Poi si leverà la tenda del convegno con l’
accampamento dei leviti in mezzo agli altri accampamenti. Come si erano accampati così si leve ranno ciascuno al suo posto suddivisi secondo le loro insegne. L’insegna dell’accampamento di èfraim suddiviso secondo le sue schiere, starà a occidente. Principe per i figli di èfraim è Elisamà figlio di Ammiù d, la sua schiera è di quarantamilacinquecento censiti. Accanto a lui la tribù di Manasse. Principe per i figli di Manasse è Gamlièl figlio di Pedasù r e la sua schiera è di trentadu emiladuecento censiti. Poi la tribù di Beniamino. Principe per i figli di Beniamino è Abidàn, figlio di Ghideonì e la sua schiera è di trentacinquemilaquattrocento censiti. Il totale dei censiti per l’a ccampamento di èfraim è di centoottomilacento uomini suddivisi secondo le loro schiere. Lever anno le tende per terzi. L’insegna dell’accampamento di Dan suddiviso secondo le sue schiere st arà a settentrione. Principe per i figli di Dan è Achièzer figlio di Ammisaddài, e la sua schiera è di sessantaduemilasettecento censiti. Si accamperanno accanto a lui quelli della tribù di Aser. Prin cipe per i figli di Aser è Paghièl figlio di Ocran e la sua schiera è di quarantunmilacinquecento ce nsiti. Poi la tribù di Nèftali. Principe per i figli di Nèftali è Achirà figlio di Enan e la sua schiera è d i cinquantatremilaquattrocento censiti. Il totale dei censiti per l’accampamento di Dan è dunqu e centocinquantasettemilaseicento. Leveranno le tende per ultimi suddivisi secondo le loro inse gne». Questi sono i censiti degli Israeliti secondo i loro casati paterni tutti i censiti degli accamp amenti suddivisi secondo le loro schiere: seicentotremilacinquecentocinquanta. Ma i leviti non f urono censiti in mezzo agli Israeliti come il Signore aveva comandato a Mosè. Gli Israeliti esegui rono ogni cosa come il Signore aveva comandato a Mosè. Così si accampavano secondo le loro i nsegne e così levavano le tende ciascuno secondo la sua famiglia in base al casato dei suoi padri
. Questi sono i discendenti di Aronne e di Mosè quando il Signore parlò con Mosè sul monte Sin ai. Questi sono i nomi dei figli di Aronne: il primogenito Nadab poi Abiu Eleàzaro e Itamàr. Tali i nomi dei figli di Aronne i sacerdoti consacrati con l’unzione che avevano ricevuto l’investitura p er esercitare il sacerdozio. Nadab e Abiu morirono davanti al Signore quando offrirono fuoco ille gittimo davanti al Signore nel deserto del Sinai. Essi non avevano figli. Eleàzaro e Itamàr esercita rono il sacerdozio alla presenza di Aronne loro padre. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Fa’ avvici nare la tribù dei leviti e presentala al sacerdote Aronne perché sia al suo servizio. Essi assumera nno l’incarico suo e quello di tutta la comunità nei confronti della tenda del convegno prestand o servizio alla Dimora. E custodiranno tutti gli arredi della tenda del convegno e assumeranno l’i ncarico degli Israeliti prestando servizio alla Dimora. Assegnerai i leviti ad Aronne e ai suoi figli: saranno affidati completamente a lui da parte degli Israeliti. Tu incaricherai Aronne e i suoi figli di esercitare il sacerdozio; il profano che vi si accosterà sarà messo a morte». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Ecco io ho scelto i leviti tra gli Israeliti al posto di ogni primogenito che nasce per primo dal seno materno tra gli Israeliti; i leviti saranno miei perché ogni primogenito è mio. Qu ando io colpii tutti i primogeniti in terra d’Egitto io consacrai a me in Israele ogni primogenito si a dell’uomo sia del bestiame; essi mi apparterranno. Io sono il Signore». Il Signore parlò a Mosè nel deserto del Sinai e disse: «Censisci i figli di Levi secondo i loro casati paterni secondo le loro famiglie; censirai tutti i maschi da un mese in su». Mosè li censì secondo l’ordine del Signore co me gli era stato ordinato. Questi sono i figli di Levi secondo i loro nomi: Gherson Keat e Merarì.
Questi i nomi dei figli di Gherson secondo le loro famiglie: Libnì e Simei. I figli di Keat secondo le loro famiglie: Amram Isar Ebron e Uzzièl. I figli di Merarì secondo le loro famiglie: Maclì e Musì.
Queste sono le famiglie dei leviti suddivisi secondo i loro casati paterni. A Gherson appartengon o la famiglia dei Libniti e la famiglia dei Simeiti. Queste sono le famiglie dei Ghersoniti. I loro cen siti contando tutti i maschi da un mese in su erano settemilacinquecento. Le famiglie dei Gherso niti avevano l’accampamento dietro la Dimora a occidente. Il principe del casato paterno per i G
hersoniti era Eliasàf, figlio di Laèl. I figli di Gherson nella tenda del convegno avevano l’incarico della Dimora e della tenda della sua copertura e della cortina all’ingresso della tenda del conveg no, dei tendaggi del recinto e della cortina all’ingresso del recinto intorno alla Dimora e all’altar e e delle corde per tutto il suo impianto. A Keat appartengono la famiglia degli Amramiti la fami glia degli Isariti la famiglia degli Ebroniti e la famiglia degli Uzzieliti. Queste sono le famiglie dei Keatiti contando tutti i maschi da un mese in su: ottomilaseicento. Essi avevano la custodia del s antuario. Le famiglie dei figli di Keat avevano l’accampamento al lato meridionale della Dimora.
Il principe del casato paterno per i Keatiti era Elisafàn figlio di Uzzièl. Avevano l’incarico dell’arc a della tavola del candelabro degli altari e degli arredi del santuario con i quali si svolge il servizi o della cortina e di tutto il suo impianto. Il principe dei prìncipi dei leviti era Eleàzaro figlio del sa cerdote Aronne; esercitava la sorveglianza su quelli che avevano l’incarico del santuario. A Mer arì appartengono la famiglia dei Macliti e la famiglia dei Musiti. Queste sono le famiglie di Mera rì. I loro censiti contando tutti i maschi da un mese in su erano seimiladuecento. Il principe del c
asato paterno per le famiglie di Merarì era Surièl figlio di Abicàil. Essi avevano l’accampamento al lato settentrionale della Dimora. I figli di Merarì avevano l’incarico di custodire le assi della Di mora le sue stanghe le sue colonne e le loro basi tutti i suoi arredi e tutto il suo impianto le colo nne del recinto all’intorno le loro basi i loro picchetti e le loro corde. Davanti alla Dimora a orien te avevano l’accampamento Mosè Aronne e i suoi figli; essi avevano la custodia del santuario a nome degli Israeliti. Il profano che vi si fosse avvicinato sarebbe stato messo a morte. Tutti i levi ti di cui Mosè e Aronne fecero il censimento secondo le loro famiglie per ordine del Signore tutt i i maschi da un mese in su erano ventiduemila. Il Signore disse a Mosè: «Censisci tutti i primoge niti maschi tra gli Israeliti, da un mese in su e conta i loro nomi. Prenderai i leviti per me –
io sono il Signore –
invece di tutti i primogeniti degli Israeliti e il bestiame dei leviti invece dei primi parti del bestia me degli Israeliti». Mosè censì come il Signore gli aveva comandato ogni primogenito tra gli Isra eliti secondo l’ordine che il Signore gli aveva dato. Il totale dei primogeniti maschi che furono ce nsiti contando i nomi da un mese in su fu di ventiduemiladuecentosettantatré. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Prendi i leviti al posto di tutti i primogeniti degli Israeliti e il bestiame dei leviti a l posto del loro bestiame; i leviti saranno miei. Io sono il Signore. Come riscatto dei duecentoset tantatré eccedenti rispetto ai leviti tra i primogeniti degli Israeliti prenderai cinque sicli a testa; l i prenderai conformi al siclo del santuario: venti ghera per un siclo. Darai il denaro ad Aronne e ai suoi figli come riscatto di quelli tra loro eccedenti». Mosè prese il denaro del riscatto di quelli che oltrepassavano il numero dei primogeniti riscattati dai leviti. Da questi primogeniti degli Isr aeliti prese in denaro milletrecentosessantacinque sicli, conformi al siclo del santuario. Mosè di ede il denaro del riscatto ad Aronne e ai suoi figli secondo l’ordine del Signore come aveva ordi nato il Signore a Mosè. Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne e disse: «Fate il computo dei figli di Keat tra i figli di Levi secondo le loro famiglie e secondo i loro casati paterni, dai trent’anni fino ai cinquant’anni di quanti fanno parte di una schiera, prestando servizio nella tenda del conveg no. Questo è il servizio dei figli di Keat nella tenda del convegno. è cosa santissima. Quando si le veranno le tende verranno Aronne e i suoi figli caleranno il velo della cortina e copriranno con e sso l’arca della Testimonianza; poi porranno sull’arca una coperta di pelli di tasso vi stenderann o sopra un drappo tutto di porpora viola e metteranno a posto le stanghe. Poi stenderanno un drappo di porpora viola sulla tavola dell’offerta e vi metteranno sopra i piatti le coppe le anfore le tazze per le libagioni; sopra vi sarà il pane perenne. Su queste cose stenderanno un drappo sc arlatto e lo copriranno con una coperta di pelli di tasso e collocheranno le stanghe. Prenderann o un drappo di porpora viola e copriranno il candelabro per l’illuminazione, le sue lampade i suo i smoccolatoi i suoi portacenere e tutti i vasi per l’olio di cui si servono. Metteranno il candelabr o con tutti i suoi accessori in una coperta di pelli di tasso e lo metteranno sopra la portantina. S
opra l’altare d’oro stenderanno un drappo di porpora viola e lo copriranno con una coperta di p elli di tasso e collocheranno le stanghe. Prenderanno tutti gli arredi che si usano per il servizio n el santuario li metteranno in un drappo di porpora viola li avvolgeranno in una coperta di pelli d
i tasso e li metteranno sopra la portantina. Toglieranno il grasso bruciato dall’altare e stenderan no su di esso un drappo scarlatto; vi metteranno sopra tutti gli arredi di cui si servono i bracieri l e forcelle, le palette i vasi per l’aspersione tutti gli accessori dell’altare e vi stenderanno sopra u na coperta di pelli di tasso e collocheranno le stanghe. Quando Aronne e i suoi figli avranno finit o di coprire il santuario e tutti gli arredi del santuario al momento di levare le tende i figli di Kea t verranno per trasportarlo; ma non toccheranno il santuario perché non muoiano. Questo è l’in carico dei figli di Keat nella tenda del convegno. Eleàzaro figlio del sacerdote Aronne avrà la sor veglianza dell’olio per l’illuminazione dell’incenso aromatico dell’offerta perenne e dell’olio dell’
unzione e la sorveglianza di tutta la Dimora e di quanto contiene sia del santuario sia dei suoi ar redi». Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne e disse: «Non provocate l’eliminazione della tribù del le famiglie dei Keatiti di mezzo ai leviti; ma fate questo per loro perché vivano e non muoiano n ell’accostarsi al Santo dei Santi: Aronne e i suoi figli vengano e assegnino ciascuno di loro al pro prio servizio e al proprio incarico. Non entrino essi a guardare neanche per un istante il santuari o perché morirebbero». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Si faccia il computo anche dei figli di G
herson secondo i loro casati paterni secondo le loro famiglie. Dai trent’anni fino ai cinquant’ann i li censirai quanti fanno parte di una schiera prestando servizio nella tenda del convegno. Quest o è il servizio delle famiglie dei Ghersoniti quello che dovranno fare e quello che dovranno port are. Essi porteranno i teli della Dimora e la tenda del convegno la sua copertura la copertura di pelli di tasso che vi è sopra e la cortina all’ingresso della tenda del convegno i tendaggi del recin to la cortina all’ingresso del recinto che è attorno alla Dimora e all’altare le loro corde e tutti gli arredi per il loro servizio e tutto quanto è predisposto perché prestino servizio. Tutto il servizio dei Ghersoniti sarà agli ordini di Aronne e dei suoi figli per quanto dovranno portare e per quant o dovranno fare. E affiderete loro in custodia quanto dovranno portare. Tale è il servizio delle fa miglie dei figli dei Ghersoniti nella tenda del convegno; il loro servizio dipenderà da Itamàr figlio del sacerdote Aronne. Censirai i figli di Merarì secondo le loro famiglie secondo i loro casati pat erni; dai trent’anni fino ai cinquant’anni li censirai quanti fanno parte di una schiera prestando s ervizio nella tenda del convegno. Questo è quanto è affidato alla loro custodia e quello che dovr anno trasportare come loro servizio nella tenda del convegno: le assi della Dimora le sue stangh e le sue colonne le sue basi le colonne del recinto tutt’intorno le loro basi i loro picchetti le loro corde tutti i loro arredi e tutto il loro impianto. Elencherete per nome gli oggetti affidati alla lor o custodia e che essi dovranno trasportare. Tale è il servizio delle famiglie dei figli di Merarì sec ondo tutto il loro servizio nella tenda del convegno sotto gli ordini di Itamàr figlio del sacerdote Aronne». Mosè Aronne e i prìncipi della comunità censirono i figli dei Keatiti secondo le loro fa miglie secondo i loro casati paterni dai trent’anni fino ai cinquant’anni quanti facevano parte di una schiera prestando servizio nella tenda del convegno. I loro censiti secondo le loro famiglie f urono duemilasettecentocinquanta. Questi appartengono alle famiglie dei Keatiti di cui si fece il censimento quanti prestavano servizio nella tenda del convegno che Mosè e Aronne censirono secondo l’ordine che il Signore aveva dato per mezzo di Mosè. I censiti dei figli di Gherson seco
ndo le loro famiglie secondo i loro casati paterni, dai trent’anni fino ai cinquant’anni quanti face vano parte di una schiera, prestando servizio nella tenda del convegno quelli di cui si fece il cens imento secondo le loro famiglie secondo i loro casati paterni furono duemilaseicentotrenta. Qu esti appartengono alle famiglie dei figli di Gherson di cui si fece il censimento quanti prestavano servizio nella tenda del convegno che Mosè e Aronne censirono secondo l’ordine del Signore. I censiti delle famiglie dei figli di Merarì secondo le loro famiglie secondo i loro casati paterni dai trent’anni fino ai cinquant’anni quanti facevano parte di una schiera prestando servizio nella te nda del convegno quelli di cui si fece il censimento secondo le loro famiglie furono tremiladuec ento. Questi appartengono alle famiglie dei figli di Merarì che Mosè e Aronne censirono second o l’ordine che il Signore aveva dato per mezzo di Mosè. Tutti i censiti che Mosè Aronne e i prìnci pi d’Israele censirono presso i leviti secondo le loro famiglie secondo i loro casati paterni dai tre nt’anni fino ai cinquant’anni quanti prestavano servizio di lavoro e servizio di trasporto nella ten da del convegno, tutti quelli di cui si fece il censimento furono ottomilacinquecentoottanta. Per ordine del Signore li censirono per mezzo di Mosè uno per uno assegnando a ciascuno il servizio che doveva fare e ciò che doveva trasportare. Il loro censimento fu quello che il Signore aveva ordinato a Mosè. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Ordina agli Israeliti che espellano dall’accamp amento ogni lebbroso chiunque soffre di gonorrea e ogni impuro a causa di un morto. Allontan erete sia i maschi sia le femmine; li allontanerete dall’accampamento, così non renderanno imp uro il loro accampamento dove io abito tra di loro». Così fecero gli Israeliti: li espulsero fuori del l’accampamento. Come il Signore aveva parlato a Mosè così fecero gli Israeliti. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Di’ agli Israeliti: “Quando un uomo o una donna avrà fatto qualsiasi peccato con tro qualcuno commettendo un’infedeltà contro il Signore questa persona sarà in condizione di c olpa. Dovrà confessare il peccato commesso. Restituirà per intero ciò per cui si è reso colpevole vi aggiungerà un quinto e lo darà a colui verso il quale si è reso colpevole. Ma se non vi è un par ente stretto a cui dare il risarcimento questo è da restituire al Signore cioè al sacerdote oltre l’a riete del rito di espiazione, mediante il quale si compirà l’espiazione per lui. Ogni prelievo su tut te le cose consacrate che gli Israeliti offriranno al sacerdote, apparterrà a lui; le cose sante di og nuno saranno sue ma ciò che uno darà al sacerdote apparterrà a lui”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla agli Israeliti dicendo loro: “Se un uomo ha una moglie che si è traviata e ha comm esso un’infedeltà verso di lui e un altro uomo ha avuto rapporti con lei ma la cosa è rimasta nas costa agli occhi del marito ed ella si è resa impura in segreto non vi sono testimoni contro di lei e non è stata colta sul fatto qualora uno spirito di gelosia si impadronisca del marito e questi div enti geloso della moglie che si è resa impura oppure uno spirito di gelosia si impadronisca di lui e questi diventi geloso della moglie che non si è resa impura, il marito condurrà sua moglie al sa cerdote e per lei porterà come offerta un decimo di efa di farina d’orzo; non vi spanderà sopra olio né vi metterà sopra incenso perché è un’oblazione di gelosia un’oblazione commemorativa per ricordare una colpa. Il sacerdote farà avvicinare la donna e la farà stare davanti al Signore. P
oi il sacerdote prenderà acqua santa in un vaso di terra; prenderà anche un po’ della polvere ch
e è sul pavimento della Dimora e la metterà nell’acqua. Il sacerdote farà quindi stare la donna d avanti al Signore le scioglierà la capigliatura e porrà nelle mani di lei l’oblazione commemorativ a che è oblazione di gelosia, mentre il sacerdote avrà in mano l’acqua di amarezza che porta ma ledizione. Il sacerdote la farà giurare e dirà alla donna: Se nessun altro uomo si è coricato con te e se non ti sei traviata rendendoti impura con un altro mentre appartieni a tuo marito sii tu dim ostrata innocente da quest’acqua di amarezza che porta maledizione. Ma se ti sei traviata con u n altro mentre appartieni a tuo marito e ti sei resa impura e un altro uomo ha avuto rapporti co n te all’infuori di tuo marito… a questo punto il sacerdote farà giurare la donna con un’imprecaz ione e il sacerdote dirà alla donna: Il Signore faccia di te un oggetto di maledizione e di imprecaz ione in mezzo al tuo popolo facendoti lui il Signore avvizzire i fianchi e gonfiare il ventre; quest’a cqua che porta maledizione ti entri nelle viscere per farti gonfiare il ventre e avvizzire i fianchi!
E la donna dirà: Amen Amen! E il sacerdote scriverà queste imprecazioni su un documento e le cancellerà con l’acqua di amarezza. Farà bere alla donna quell’acqua di amarezza che porta mal edizione e l’acqua che porta maledizione entrerà in lei per produrre amarezza. Il sacerdote pren derà dalle mani della donna l’oblazione di gelosia presenterà l’oblazione con il rito di elevazione davanti al Signore e l’accosterà all’altare. Il sacerdote prenderà una manciata di quell’oblazione come suo memoriale e la farà bruciare sull’altare; poi farà bere l’acqua alla donna. Quando le a vrà fatto bere l’acqua se lei si è contaminata e ha commesso un’infedeltà contro suo marito l’ac qua che porta maledizione entrerà in lei per produrre amarezza; il ventre le si gonfierà e i suoi fi anchi avvizziranno e quella donna diventerà un oggetto d’imprecazione all’interno del suo popo lo. Ma se la donna non si è resa impura ed è quindi pura sarà dimostrata innocente e sarà fecon da. Questa è la legge della gelosia nel caso in cui una donna si sia traviata con un altro mentre a ppartiene al marito e si sia resa impura e nel caso in cui uno spirito di gelosia si impadronisca de l marito e questi sia divenuto geloso della moglie; egli farà comparire sua moglie davanti al Sign ore e il sacerdote le applicherà questa legge integralmente. Il marito sarà immune da colpa ma l a donna porterà la propria colpa”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla agli Israeliti dicendo l oro: “Quando un uomo o una donna farà un voto speciale il voto di nazireato per consacrarsi al Signore si asterrà dal vino e dalle bevande inebrianti non berrà aceto di vino né aceto di bevand a inebriante non berrà liquori tratti dall’uva e non mangerà uva né fresca né secca. Per tutto il t empo del suo nazireato non mangerà alcun prodotto della vite dai chicchi acerbi alle vinacce. Pe r tutto il tempo del suo voto di nazireato il rasoio non passerà sul suo capo; finché non siano co mpiuti i giorni per i quali si è votato al Signore sarà sacro: lascerà crescere liberamente la capigli atura del suo capo. Per tutto il tempo in cui rimane votato al Signore non si avvicinerà a un cada vere; si trattasse anche di suo padre di sua madre di suo fratello e di sua sorella non si renderà i mpuro per loro alla loro morte perché porta sul capo il segno della sua consacrazione a Dio. Per tutto il tempo del suo nazireato egli è sacro al Signore. Se qualcuno gli muore accanto all’impro vviso e rende impuro il suo capo consacrato nel giorno della sua purificazione si raderà il capo: s e lo raderà il settimo giorno; l’ottavo giorno porterà due tortore o due piccoli di colomba al sace
rdote, all’ingresso della tenda del convegno. Il sacerdote ne offrirà uno in sacrificio per il peccat o e l’altro in olocausto e compirà il rito espiatorio per lui per il peccato in cui è incorso a causa d i quel morto. In quel giorno stesso il nazireo consacrerà così il suo capo. Consacrerà di nuovo al Signore i giorni del suo nazireato e offrirà un agnello dell’anno come sacrificio per il peccato; i gi orni precedenti decadranno perché il suo nazireato è stato reso impuro. Questa è la legge per il nazireo: quando i giorni del suo nazireato saranno compiuti, lo si farà venire all’ingresso della te nda del convegno; egli presenterà l’offerta al Signore: un agnello dell’anno senza difetto per l’ol ocausto; una pecora dell’anno senza difetto per il sacrificio per il peccato; un ariete senza difett o come sacrificio di comunione; un canestro di pani azzimi di fior di farina di focacce impastate con olio di schiacciate senza lievito unte d’olio insieme con la loro oblazione e le loro libagioni. Il sacerdote le offrirà davanti al Signore e compirà il suo sacrificio per il peccato e il suo olocausto
; offrirà l’ariete come sacrificio di comunione al Signore oltre al canestro degli azzimi. Il sacerdot e offrirà anche l’oblazione e la sua libagione. Il nazireo raderà all’ingresso della tenda del conve gno il suo capo consacrato prenderà la capigliatura del suo capo consacrato e la metterà sul fuo co che è sotto il sacrificio di comunione. Il sacerdote prenderà la spalla dell’ariete, quando sarà cotta una focaccia non lievitata dal canestro e una schiacciata azzima e le porrà nelle mani del n azireo dopo che questi avrà rasato la capigliatura consacrata. Il sacerdote le presenterà con il rit o di elevazione davanti al Signore; è cosa santa che appartiene al sacerdote insieme con il petto della vittima offerta con il rito di elevazione e la coscia della vittima offerta come tributo. Dopo i l nazireo potrà bere vino. Questa è la legge per il nazireo che ha promesso la sua offerta al Signo re per il suo nazireato oltre quello che è in grado di fare in più secondo il voto che avrà emesso.
Così egli farà quanto alla legge del suo nazireato”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla ad Ar onne e ai suoi figli dicendo: “Così benedirete gli Israeliti: direte loro: Ti benedica il Signore e ti c ustodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te i l suo volto e ti conceda pace”. Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò». Nel gior no in cui Mosè ebbe finito di erigere la Dimora e l’ebbe unta e consacrata con tutti i suoi arredi quando ebbe eretto l’altare e tutti i suoi arredi e li ebbe unti e consacrati i prìncipi di Israele cap i dei loro casati paterni quelli che erano i prìncipi delle tribù e che avevano presieduto al censim ento presentarono un’offerta. Portarono la loro offerta davanti al Signore: sei carri coperti e do dici capi di bestiame grosso cioè un carro ogni due prìncipi e un bue ciascuno e li offrirono dava nti alla Dimora. Il Signore disse a Mosè: «Prendili da loro per impiegarli al servizio della tenda de l convegno e assegnali ai leviti; a ciascuno secondo il suo servizio». Mosè prese dunque i carri e i buoi e li diede ai leviti. Diede due carri e quattro buoi ai figli di Gherson secondo il loro servizio; diede quattro carri e otto buoi ai figli di Merarì secondo il loro servizio sotto la sorveglianza di It amàr figlio del sacerdote Aronne. Ma ai figli di Keat non ne diede perché a loro incombeva il ser vizio del santuario e dovevano trasportarlo sulle spalle. I prìncipi presentarono l’offerta per la d edicazione dell’altare il giorno in cui esso fu unto; i prìncipi presentarono la loro offerta di front e all’altare. Il Signore disse a Mosè: «Offriranno la loro offerta per la dedicazione dell’altare un
principe al giorno». Presentò l’offerta il primo giorno Nacson figlio di Amminadàb della tribù di Giuda; la sua offerta fu un piatto d’argento del peso di centotrenta sicli un vassoio d’argento di settanta sicli conformi al siclo del santuario tutti e due pieni di fior di farina impastata con olio p er l’oblazione una coppa d’oro di dieci sicli piena d’incenso un giovenco un ariete un agnello di un anno per l’olocausto, un capro per il sacrificio per il peccato e per il sacrificio di comunione d ue bovini cinque arieti cinque capri cinque agnelli di un anno. Tale fu l’offerta di Nacson, figlio di Amminadàb. Il secondo giorno Netanèl figlio di Suar principe di ìssacar fece l’offerta. Offrì un pi atto d’argento del peso di centotrenta sicli un vassoio d’argento di settanta sicli conformi al sicl o del santuario tutti e due pieni di fior di farina impastata con olio per l’oblazione una coppa d’o ro di dieci sicli piena d’incenso un giovenco un ariete un agnello di un anno per l’olocausto, un c apro per il sacrificio per il peccato e per il sacrificio di comunione due bovini cinque arieti cinqu e capri cinque agnelli di un anno. Tale fu l’offerta di Netanèl figlio di Suar. Il terzo giorno fu Eliàb figlio di Chelon principe dei figli di Zàbulon. La sua offerta fu un piatto d’argento del peso di cen totrenta sicli un vassoio d’argento di settanta sicli conformi al siclo del santuario tutti e due pie ni di fior di farina impastata con olio per l’oblazione una coppa d’oro di dieci sicli piena d’incens o, un giovenco un ariete un agnello di un anno per l’olocausto un capro per il sacrificio per il pec cato e per il sacrificio di comunione due bovini cinque arieti cinque capri cinque agnelli di un an no. Tale fu l’offerta di Eliàb figlio di Chelon. Il quarto giorno fu Elisù r figlio di Sedeù r principe de i figli di Ruben. La sua offerta fu un piatto d’argento del peso di centotrenta sicli un vassoio d’ar gento di settanta sicli conformi al siclo del santuario tutti e due pieni di fior di farina impastata c on olio per l’oblazione una coppa d’oro di dieci sicli piena d’incenso, un giovenco un ariete un a gnello di un anno per l’olocausto un capro per il sacrificio per il peccato e per il sacrificio di com unione due bovini cinque arieti cinque capri cinque agnelli di un anno. Tale fu l’offerta di Elisù r figlio di Sedeù r. Il quinto giorno fu Selumièl figlio di Surisaddài principe dei figli di Simeone. La s ua offerta fu un piatto d’argento del peso di centotrenta sicli un vassoio d’argento di settanta si cli conformi al siclo del santuario tutti e due pieni di fior di farina impastata con olio per l’oblazi one una coppa d’oro di dieci sicli piena d’incenso un giovenco un ariete un agnello di un anno p er l’olocausto, un capro per il sacrificio per il peccato e per il sacrificio di comunione due bovini cinque arieti cinque capri cinque agnelli di un anno. Tale fu l’offerta di Selumièl figlio di Surisadd ài. Il sesto giorno fu Eliasàf figlio di Deuèl principe dei figli di Gad. La sua offerta fu un piatto d’ar gento del peso di centotrenta sicli un vassoio d’argento di settanta sicli conformi al siclo del san tuario tutti e due pieni di fior di farina impastata con olio per l’oblazione una coppa d’oro di die ci sicli piena d’incenso, un giovenco un ariete un agnello di un anno per l’olocausto un capro per il sacrificio per il peccato e per il sacrificio di comunione due bovini cinque arieti cinque capri ci nque agnelli di un anno. Tale fu l’offerta di Eliasàf figlio di Deuèl. Il settimo giorno fu Elisamà figl io di Ammiù d principe dei figli di èfraim. La sua offerta fu un piatto d’argento del peso di centot renta sicli un vassoio d’argento del peso di settanta sicli conformi al siclo del santuario tutti e du e pieni di fior di farina impastata con olio per l’oblazione una coppa d’oro di dieci sicli piena d’in
censo un giovenco un ariete un agnello di un anno per l’olocausto, un capro per il sacrificio per i l peccato e per il sacrificio di comunione due bovini cinque arieti cinque capri cinque agnelli di u n anno. Tale fu l’offerta di Elisamà figlio di Ammiù d. L’ottavo giorno fu Gamlièl figlio di Pedasù r principe dei figli di Manasse. La sua offerta fu un piatto d’argento del peso di centotrenta sicli u n vassoio d’argento di settanta sicli conformi al siclo del santuario tutti e due pieni di fior di fari na impastata con olio per l’oblazione una coppa d’oro di dieci sicli piena d’incenso un giovenco un ariete un agnello di un anno per l’olocausto, un capro per il sacrificio per il peccato e per il sa crificio di comunione due bovini cinque arieti cinque capri cinque agnelli di un anno. Tale fu l’off erta di Gamlièl figlio di Pedasù r. Il nono giorno fu Abidàn figlio di Ghideonì principe dei figli di B
eniamino. La sua offerta fu un piatto d’argento del peso di centotrenta sicli un vassoio d’argent o di settanta sicli conformi al siclo del santuario tutti e due pieni di fior di farina impastata con o lio per l’oblazione una coppa d’oro di dieci sicli piena d’incenso, un giovenco un ariete un agnell o di un anno per l’olocausto un capro per il sacrificio per il peccato e per il sacrificio di comunio ne due bovini cinque arieti cinque capri cinque agnelli di un anno. Tale fu l’offerta di Abidàn figli o di Ghideonì. Il decimo giorno fu Achièzer figlio di Ammisaddài principe dei figli di Dan. La sua o fferta fu un piatto d’argento del peso di centotrenta sicli un vassoio d’argento di settanta sicli c onformi al siclo del santuario tutti e due pieni di fior di farina impastata con olio per l’oblazione una coppa d’oro di dieci sicli piena d’incenso, un giovenco un ariete un agnello di un anno per l’
olocausto un capro per il sacrificio per il peccato e per il sacrificio di comunione due bovini cinq ue arieti cinque capri cinque agnelli di un anno. Tale fu l’offerta di Achièzer figlio di Ammisaddài
. L’undicesimo giorno fu Paghièl figlio di Ocran principe dei figli di Aser. La sua offerta fu un piatt o d’argento del peso di centotrenta sicli un vassoio d’argento di settanta sicli conformi al siclo d el santuario tutti e due pieni di fior di farina impastata con olio per l’oblazione una coppa d’oro di dieci sicli piena d’incenso, un giovenco un ariete un agnello di un anno per l’olocausto un cap ro per il sacrificio per il peccato e per il sacrificio di comunione due bovini cinque arieti cinque c apri cinque agnelli di un anno. Tale fu l’offerta di Paghièl figlio di Ocran. Il dodicesimo giorno fu Achirà figlio di Enan principe dei figli di Nèftali. La sua offerta fu un piatto d’argento del peso di centotrenta sicli un vassoio d’argento di settanta sicli conformi al siclo del santuario tutti e due pieni di fior di farina impastata con olio per l’oblazione una coppa d’oro di dieci sicli piena d’inc enso, un giovenco un ariete un agnello di un anno per l’olocausto un capro per il sacrificio per il peccato e per il sacrificio di comunione due bovini cinque arieti cinque capri cinque agnelli di un anno. Tale fu l’offerta di Achirà figlio di Enan. Questi furono i doni per la dedicazione dell’altare da parte dei capi d’Israele, il giorno in cui esso fu unto: dodici piatti d’argento dodici vassoi d’ar gento dodici coppe d’oro; ogni piatto d’argento era di centotrenta sicli e ogni vassoio di settant a. Totale dell’argento dei vasi: duemilaquattrocento sicli conformi al siclo del santuario; dodici c oppe d’oro piene d’incenso a dieci sicli per coppa conformi al siclo del santuario. Totale dell’oro delle coppe: centoventi sicli. Totale del bestiame per l’olocausto: dodici giovenchi dodici arieti dodici agnelli di un anno con la loro oblazione e dodici capri per il sacrificio per il peccato. Total
e del bestiame per il sacrificio di comunione: ventiquattro giovenchi sessanta arieti sessanta cap ri sessanta agnelli di un anno. Questa fu la dedicazione dell’altare dopo che esso fu unto. Quand o Mosè entrava nella tenda del convegno per parlare con il Signore udiva la voce che gli parlava dall’alto del propiziatorio che è sopra l’arca della Testimonianza fra i due cherubini. Ed egli parla va a lui. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla ad Aronne dicendogli: “Quando collocherai le la mpade le sette lampade dovranno far luce verso la parte anteriore del candelabro”». Aronne fe ce così: collocò le lampade in modo che facessero luce verso la parte anteriore del candelabro c ome il Signore aveva ordinato a Mosè. E questa era la struttura del candelabro: era d’oro lavora to a martello dal suo fusto alle sue corolle era un solo lavoro a martello. Mosè aveva fatto il can delabro secondo la visione che il Signore gli aveva mostrato. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Pr endi i leviti tra gli Israeliti e purificali. Per purificarli farai così: li aspergerai con l’acqua lustrale; f aranno passare il rasoio su tutto il loro corpo laveranno le loro vesti e si purificheranno. Poi pre nderanno un giovenco e la sua oblazione di fior di farina impastata con olio e tu prenderai un se condo giovenco per il sacrificio per il peccato. Farai avvicinare i leviti dinanzi alla tenda del conv egno e convocherai tutta la comunità degli Israeliti. Farai avvicinare i leviti davanti al Signore e g li Israeliti porranno le mani sui leviti; Aronne presenterà i leviti con il rito di elevazione davanti a l Signore da parte degli Israeliti ed essi svolgeranno il servizio del Signore. Poi i leviti porranno le mani sulla testa dei giovenchi e tu ne offrirai uno in sacrificio per il peccato e l’altro in olocaust o al Signore per compiere il rito espiatorio per i leviti. Farai stare i leviti davanti ad Aronne e dav anti ai suoi figli e li presenterai con il rito di elevazione in onore del Signore. Così separerai i levit i dagli Israeliti e i leviti saranno miei. Dopo di che quando li avrai purificati e presentati con il rit o di elevazione i leviti entreranno in servizio nella tenda del convegno. Essi infatti sono doni dati a me tra gli Israeliti io li ho presi per me al posto di quanti nascono per primi dalla madre al pos to di ogni primogenito di tutti gli Israeliti. Poiché mio è ogni primogenito fra gli Israeliti sia degli uomini sia del bestiame: io me li sono consacrati il giorno in cui percossi tutti i primogeniti in ter ra d’Egitto. Ho scelto i leviti al posto di ogni primogenito fra gli Israeliti. Ho dato i leviti in dono a d Aronne e ai suoi figli tra gli Israeliti perché svolgano il servizio degli Israeliti nella tenda del con vegno e perché compiano il rito espiatorio per gli Israeliti e non vi sia flagello per gli Israeliti qua ndo gli Israeliti si accosteranno al santuario». Così fecero Mosè Aronne e tutta la comunità degli Israeliti per i leviti; gli Israeliti fecero per i leviti quanto il Signore aveva ordinato a Mosè a loro r iguardo. I leviti si purificarono e lavarono le loro vesti. Aronne li presentò con il rito di elevazion e davanti al Signore e compì il rito espiatorio per loro per purificarli. Dopo questo i leviti entraro no in servizio nella tenda del convegno alla presenza di Aronne e dei suoi figli. Come il Signore a veva ordinato a Mosè riguardo ai leviti così fecero per loro. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Qu esto riguarda i leviti: da venticinque anni in su il levita entrerà a far parte della schiera al servizi o della tenda del convegno e a cinquant’anni si ritirerà dalla schiera del suo servizio: non preste rà più servizio. Assisterà i suoi fratelli nella tenda del convegno sorvegliando ciò che è affidato al la loro custodia ma non presterà servizio. Così farai per i leviti per quel che riguarda il loro incari
co». Il Signore parlò a Mosè nel deserto del Sinai il secondo anno dalla loro uscita dalla terra d’E
gitto nel primo mese e disse: «Gli Israeliti celebreranno la Pasqua nel tempo stabilito. La celebre rete nel tempo stabilito il giorno quattordici di questo mese tra le due sere; la celebrerete seco ndo tutte le leggi e secondo tutte le prescrizioni». Mosè parlò agli Israeliti perché celebrassero l a Pasqua. Essi celebrarono la Pasqua il giorno quattordici del primo mese tra le due sere nel des erto del Sinai. Secondo quanto il Signore aveva ordinato a Mosè così fecero gli Israeliti. Ma vi er ano degli uomini che erano impuri a causa del cadavere di un uomo e non potevano celebrare l a Pasqua in quel giorno. Si presentarono in quello stesso giorno davanti a Mosè e davanti ad Ar onne; quegli uomini gli dissero: «Noi siamo impuri per il cadavere di un uomo: perché ci dev’ess ere impedito di presentare l’offerta del Signore al tempo stabilito in mezzo agli Israeliti?». Mosè rispose loro: «Aspettate e sentirò quello che il Signore ordinerà a vostro riguardo». Il Signore p arlò a Mosè e disse: «Parla agli Israeliti dicendo loro: “Chiunque di voi o dei vostri discendenti si a impuro per il contatto con un cadavere o sia lontano in viaggio potrà celebrare la Pasqua in on ore del Signore. La celebreranno nel secondo mese il giorno quattordici tra le due sere; la mang eranno con pane azzimo e con erbe amare. Non ne serberanno alcun resto fino al mattino e no n ne spezzeranno alcun osso. La celebreranno seguendo fedelmente la legge della Pasqua. Però l’uomo che sia puro e non sia in viaggio ma ometta di fare la Pasqua, quella persona sarà elimin ata dal suo popolo perché non ha presentato l’offerta al Signore nel tempo stabilito: quell’uom o porterà il suo peccato. Se uno straniero che dimora tra voi celebrerà la Pasqua per il Signore l o farà secondo la legge della Pasqua e secondo quanto è stabilito per essa. Vi sarà un’unica legg e per voi per lo straniero e per il nativo della terra”». Nel giorno in cui la Dimora fu eretta la nub e coprì la Dimora dalla parte della tenda della Testimonianza; alla sera ci fu sulla Dimora come u n’apparizione di fuoco fino alla mattina. Così avveniva sempre: la nube la copriva e di notte ave va l’aspetto del fuoco. Tutte le volte che la nube si alzava sopra la tenda subito gli Israeliti si met tevano in cammino e nel luogo dove la nube si posava là gli Israeliti si accampavano. Sull’ordine del Signore gli Israeliti si mettevano in cammino e sull’ordine del Signore si accampavano. Tutti i giorni in cui la nube restava sulla Dimora essi rimanevano accampati. Quando la nube rimaneva per molti giorni sulla Dimora gli Israeliti osservavano la prescrizione del Signore e non partivano
. Avveniva che la nube rimanesse pochi giorni sulla Dimora: essi all’ordine del Signore rimaneva no accampati e all’ordine del Signore levavano le tende. E avveniva che se la nube si fermava da lla sera alla mattina e si alzava la mattina subito riprendevano il cammino; o se dopo un giorno e una notte la nube si alzava allora levavano le tende. O se la nube rimaneva ferma sulla Dimora due giorni o un mese o un anno gli Israeliti rimanevano accampati e non partivano; ma quando si alzava levavano le tende. All’ordine del Signore si accampavano e all’ordine del Signore levav ano le tende, e osservavano le prescrizioni del Signore secondo l’ordine dato dal Signore per me zzo di Mosè. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Fatti due trombe d’argento; le farai d’argento lav orato a martello e ti serviranno per convocare la comunità e per far muovere gli accampamenti.
Quando si suonerà con esse tutta la comunità si radunerà presso di te all’ingresso della tenda d
el convegno. Al suono di una tromba sola si raduneranno presso di te i prìncipi capi delle migliai a d’Israele. Quando le suonerete a squillo disteso gli accampamenti che sono a levante si mette ranno in cammino. Quando le suonerete a squillo disteso una seconda volta si metteranno in ca mmino gli accampamenti posti a mezzogiorno. A squillo disteso si suonerà per i loro spostamen ti. Per radunare l’assemblea suonerete ma non con squillo disteso. I sacerdoti figli di Aronne su oneranno le trombe; sarà per voi un rito perenne di generazione in generazione. Quando nella v ostra terra entrerete in guerra contro l’avversario che vi attaccherà suonerete le trombe a squill o disteso e sarete ricordati davanti al Signore vostro Dio e sarete salvati dai vostri nemici. Nel vo stro giorno di gioia nelle vostre solennità e al principio dei vostri mesi, suonerete le trombe dur ante i vostri olocausti e i vostri sacrifici di comunione. Esse saranno per voi un richiamo davanti al vostro Dio. Io sono il Signore vostro Dio». Il secondo anno il secondo mese il venti del mese la nube si alzò da sopra la Dimora della Testimonianza. Gli Israeliti si mossero secondo il loro ordi ne di spostamento, dal deserto del Sinai. La nube si fermò nel deserto di Paran. Così si misero in cammino la prima volta secondo l’ordine del Signore dato per mezzo di Mosè. Per prima si mos se l’insegna dell’accampamento dei figli di Giuda suddivisi secondo le loro schiere. Nacson figlio di Amminadàb comandava la schiera di Giuda. Netanèl figlio di Suar comandava la schiera della tribù dei figli di ìssacar. Eliàb figlio di Chelon comandava la schiera della tribù dei figli di Zàbulon
. La Dimora fu smontata e si mossero i figli di Gherson e i figli di Merarì portatori della Dimora. P
oi si mosse l’insegna dell’accampamento di Ruben secondo le sue schiere. Elisù r figlio di Sedeù r comandava la schiera di Ruben. Selumièl, figlio di Surisaddài comandava la schiera della tribù dei figli di Simeone. Eliasàf figlio di Deuèl comandava la schiera della tribù dei figli di Gad. Poi si mossero i Keatiti portatori del santuario; la Dimora veniva eretta al loro arrivo. Poi si mosse l’ins egna dell’accampamento dei figli di èfraim suddivisi secondo le sue schiere. Elisamà figlio di Am miù d comandava la schiera di èfraim. Gamlièl figlio di Pedasù r comandava la schiera della tribù dei figli di Manasse. Abidàn figlio di Ghideonì comandava la schiera della tribù dei figli di Benia mino. Poi si mosse l’insegna dell’accampamento dei figli di Dan retroguardia di tutti gli accampa menti suddivisi secondo le loro schiere. Achièzer figlio di Ammisaddài comandava la schiera di D
an. Paghièl figlio di Ocran comandava la schiera della tribù dei figli di Aser e Achirà figlio di Enan comandava la schiera della tribù dei figli di Nèftali. Questo era l’ordine degli spostamenti degli I sraeliti secondo le loro schiere quando levarono le tende. Mosè disse a Obab figlio di Reuèl il M
adianita suocero di Mosè: «Noi stiamo per partire verso il luogo del quale il Signore ha detto: “L
o darò a voi in possesso”. Vieni con noi e ti faremo del bene perché il Signore ha promesso del b ene a Israele». Ma egli replicò: «Io non verrò anzi tornerò alla mia terra e alla mia parentela».
Mosè rispose: «Non ci abbandonare ti prego poiché tu conosci i luoghi dove accamparci nel des erto e sarai per noi come gli occhi. Se vieni con noi tutto il bene che il Signore farà a noi noi lo fa remo a te». Così partirono dal monte del Signore e fecero tre giornate di cammino; l’arca dell’all eanza del Signore si muoveva davanti a loro durante le tre giornate di cammino per cercare loro un luogo di sosta. La nube del Signore era sopra di loro durante il giorno quando partivano dall’

accampamento. Quando l’arca partiva Mosè diceva: «Sorgi Signore, e siano dispersi i tuoi nemic i e fuggano davanti a te coloro che ti odiano». Quando sostava diceva: «Torna Signore, alle miri adi di migliaia d’Israele». Ora il popolo cominciò a lamentarsi aspramente agli orecchi del Signor e. Li udì il Signore e la sua ira si accese: il fuoco del Signore divampò in mezzo a loro e divorò un’
estremità dell’accampamento. Il popolo gridò a Mosè Mosè pregò il Signore e il fuoco si spense.
Quel luogo fu chiamato Taberà perché il fuoco del Signore era divampato fra loro. La gente racc ogliticcia in mezzo a loro fu presa da grande bramosia e anche gli Israeliti ripresero a piangere e dissero: «Chi ci darà carne da mangiare? Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto gratu itamente dei cetrioli dei cocomeri dei porri delle cipolle e dell’aglio. Ora la nostra gola inaridisce
; non c’è più nulla i nostri occhi non vedono altro che questa manna». La manna era come il se me di coriandolo e aveva l’aspetto della resina odorosa. Il popolo andava attorno a raccoglierla poi la riduceva in farina con la macina o la pestava nel mortaio la faceva cuocere nelle pentole o ne faceva focacce; aveva il sapore di pasta con l’olio. Quando di notte cadeva la rugiada sull’acc ampamento cadeva anche la manna. Mosè udì il popolo che piangeva in tutte le famiglie ognun o all’ingresso della propria tenda; l’ira del Signore si accese e la cosa dispiacque agli occhi di Mo sè. Mosè disse al Signore: «Perché hai fatto del male al tuo servo? Perché non ho trovato grazia ai tuoi occhi al punto di impormi il peso di tutto questo popolo? L’ho forse concepito io tutto qu esto popolo? O l’ho forse messo al mondo io perché tu mi dica: “Portalo in grembo” come la nu trice porta il lattante fino al suolo che tu hai promesso con giuramento ai suoi padri? Da dove pr enderò la carne da dare a tutto questo popolo? Essi infatti si lamentano dietro a me dicendo: “
Dacci da mangiare carne!”. Non posso io da solo portare il peso di tutto questo popolo; è tropp o pesante per me. Se mi devi trattare così fammi morire piuttosto fammi morire se ho trovato g razia ai tuoi occhi; che io non veda più la mia sventura!». Il Signore disse a Mosè: «Radunami se ttanta uomini tra gli anziani d’Israele conosciuti da te come anziani del popolo e come loro scrib i conducili alla tenda del convegno; vi si presentino con te. Io scenderò e lì parlerò con te; toglie rò dello spirito che è su di te e lo porrò su di loro e porteranno insieme a te il carico del popolo e tu non lo porterai più da solo. Dirai al popolo: “Santificatevi per domani e mangerete carne pe rché avete pianto agli orecchi del Signore dicendo: Chi ci darà da mangiare carne? Stavamo così bene in Egitto! Ebbene il Signore vi darà carne e voi ne mangerete. Ne mangerete non per un gi orno non per due giorni non per cinque giorni non per dieci giorni non per venti giorni, ma per u n mese intero finché vi esca dalle narici e vi venga a nausea perché avete respinto il Signore che è in mezzo a voi e avete pianto davanti a lui dicendo: Perché siamo usciti dall’Egitto?”». Mosè d isse: «Questo popolo in mezzo al quale mi trovo conta seicentomila adulti e tu dici: “Io darò lor o la carne e ne mangeranno per un mese intero!”. Si sgozzeranno per loro greggi e armenti in m odo che ne abbiano abbastanza? O si raduneranno per loro tutti i pesci del mare in modo che n e abbiano abbastanza?». Il Signore rispose a Mosè: «Il braccio del Signore è forse raccorciato? O
ra vedrai se ti accadrà o no quello che ti ho detto». Mosè dunque uscì e riferì al popolo le parole del Signore; radunò settanta uomini tra gli anziani del popolo e li fece stare intorno alla tenda.

Allora il Signore scese nella nube e gli parlò: tolse parte dello spirito che era su di lui e lo pose so pra i settanta uomini anziani; quando lo spirito si fu posato su di loro quelli profetizzarono ma n on lo fecero più in seguito. Ma erano rimasti due uomini nell’accampamento uno chiamato Elda d e l’altro Medad. E lo spirito si posò su di loro; erano fra gli iscritti ma non erano usciti per and are alla tenda. Si misero a profetizzare nell’accampamento. Un giovane corse ad annunciarlo a Mosè e disse: «Eldad e Medad profetizzano nell’accampamento». Giosuè figlio di Nun servitore di Mosè fin dalla sua adolescenza prese la parola e disse: «Mosè mio signore impediscili!». Ma Mosè gli disse: «Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Si gnore porre su di loro il suo spirito!». E Mosè si ritirò nell’accampamento insieme con gli anziani d’Israele. Un vento si alzò per volere del Signore e portò quaglie dal mare e le fece cadere sull’a ccampamento per la lunghezza di circa una giornata di cammino da un lato e una giornata di ca mmino dall’altro intorno all’accampamento e a un’altezza di circa due cubiti sulla superficie del suolo. Il popolo si alzò e tutto quel giorno e tutta la notte e tutto il giorno dopo raccolse le quagl ie. Chi ne raccolse meno ne ebbe dieci homer; le distesero per loro intorno all’accampamento. L
a carne era ancora fra i loro denti e non era ancora stata masticata quando l’ira del Signore si ac cese contro il popolo e il Signore percosse il popolo con una gravissima piaga. Quel luogo fu chi amato Kibrot-Taavà perché là seppellirono il popolo che si era abbandonato all’ingordigia. Da Kibrot-Taavà il popolo partì per Caseròt e a Caseròt fece sosta. Maria e Aronne parlarono contro Mosè a causa della donna etiope che aveva preso. Infatti aveva sposato una donna etiope. Dissero: «Il Signore ha forse parlato soltanto per mezzo di Mosè? Non ha parlato anche per mezzo nostro?
». Il Signore udì. Ora Mosè era un uomo assai umile più di qualunque altro sulla faccia della terr a. Il Signore disse a un tratto a Mosè ad Aronne e a Maria: «Uscite tutti e tre verso la tenda del c onvegno». Uscirono tutti e tre. Il Signore scese in una colonna di nube si fermò all’ingresso della tenda e chiamò Aronne e Maria. I due si fecero avanti. Il Signore disse: «Ascoltate le mie parole
! Se ci sarà un vostro profeta, io il Signore, in visione a lui mi rivelerò, in sogno parlerò con lui. N
on così per il mio servo Mosè: egli è l’uomo di fiducia in tutta la mia casa. Bocca a bocca parlo c on lui, in visione e non per enigmi, ed egli contempla l’immagine del Signore. Perché non avete temuto di parlare contro il mio servo contro Mosè?». L’ira del Signore si accese contro di loro e d egli se ne andò. La nube si ritirò di sopra alla tenda ed ecco: Maria era lebbrosa bianca come l a neve. Aronne si volse verso Maria ed ecco: era lebbrosa. Aronne disse a Mosè: «Ti prego mio s ignore non addossarci il peccato che abbiamo stoltamente commesso! Ella non sia come il bam bino nato morto la cui carne è già mezza consumata quando esce dal seno della madre». Mosè gridò al Signore dicendo: «Dio ti prego guariscila!». Il Signore disse a Mosè: «Se suo padre le ave sse sputato in viso non ne porterebbe lei vergogna per sette giorni? Stia dunque isolata fuori de ll’accampamento sette giorni; poi vi sarà riammessa». Maria dunque rimase isolata fuori dell’ac campamento sette giorni; il popolo non riprese il cammino finché Maria non fu riammessa. Poi i l popolo partì da Caseròt e si accampò nel deserto di Paran. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Ma
nda uomini a esplorare la terra di Canaan che sto per dare agli Israeliti. Manderete un uomo per ogni tribù dei suoi padri: tutti siano prìncipi fra loro». Mosè li mandò dal deserto di Paran secon do il comando del Signore; quegli uomini erano tutti capi degli Israeliti. Questi erano i loro nomi
: per la tribù di Ruben Sammù a figlio di Zaccur; per la tribù di Simeone Safat figlio di Orì per la t ribù di Giuda Caleb figlio di Iefunnè per la tribù di ìssacar, Igal figlio di Giuseppe; per la tribù di è fraim Osea figlio di Nun; per la tribù di Beniamino Paltì figlio di Rafu; per la tribù di Zàbulon Gad dièl figlio di Sodì per la tribù di Giuseppe cioè per la tribù di Manasse Gaddì figlio di Susì per la tr ibù di Dan Ammièl figlio di Ghemallì per la tribù di Aser, Setur figlio di Michele; per la tribù di Nè ftali Nacbì figlio di Vofsì per la tribù di Gad Gheuèl figlio di Machì. Questi sono i nomi degli uomi ni che Mosè mandò a esplorare la terra. Mosè diede a Osea figlio di Nun il nome di Giosuè. Mos è dunque li mandò a esplorare la terra di Canaan e disse loro: «Salite attraverso il Negheb; poi s alirete alla regione montana e osserverete che terra sia che popolo l’abiti se forte o debole se sc arso o numeroso; come sia la regione che esso abita se buona o cattiva e come siano le città do ve abita se siano accampamenti o luoghi fortificati; come sia il terreno se grasso o magro se vi si ano alberi o no. Siate coraggiosi e prendete dei frutti del luogo». Erano i giorni delle primizie del l’uva. Salirono dunque ed esplorarono la terra dal deserto di Sin fino a Recob all’ingresso di Cam at. Salirono attraverso il Negheb e arrivarono fino a Ebron dove erano Achimàn, Sesài e Talmài discendenti di Anak. Ebron era stata edificata sette anni prima di Tanis d’Egitto. Giunsero fino al la valle di Escol e là tagliarono un tralcio con un grappolo d’uva che portarono in due con una st anga e presero anche melagrane e fichi. Quel luogo fu chiamato valle di Escol a causa del grapp olo d’uva che gli Israeliti vi avevano tagliato. Al termine di quaranta giorni tornarono dall’esplor azione della terra e andarono da Mosè e Aronne e da tutta la comunità degli Israeliti nel desert o di Paran verso Kades; riferirono ogni cosa a loro e a tutta la comunità e mostrarono loro i frutt i della terra. Raccontarono: «Siamo andati nella terra alla quale tu ci avevi mandato; vi scorrono davvero latte e miele e questi sono i suoi frutti. Ma il popolo che abita quella terra è potente le città sono fortificate e assai grandi e vi abbiamo anche visto i discendenti di Anak. Gli Amaleciti abitano la regione del Negheb; gli Ittiti i Gebusei e gli Amorrei le montagne; i Cananei abitano pr esso il mare e lungo la riva del Giordano». Caleb fece tacere il popolo davanti a Mosè e disse: «
Dobbiamo salire e conquistarla perché certo vi riusciremo». Ma gli uomini che vi erano andati c on lui dissero: «Non riusciremo ad andare contro questo popolo perché è più forte di noi». E dif fusero tra gli Israeliti il discredito sulla terra che avevano esplorato dicendo: «La terra che abbia mo attraversato per esplorarla è una terra che divora i suoi abitanti; tutto il popolo che vi abbia mo visto è gente di alta statura. Vi abbiamo visto i giganti discendenti di Anak della razza dei gig anti di fronte ai quali ci sembrava di essere come locuste e così dovevamo sembrare a loro». All ora tutta la comunità alzò la voce e diede in alte grida; quella notte il popolo pianse. Tutti gli Isr aeliti mormorarono contro Mosè e contro Aronne e tutta la comunità disse loro: «Fossimo mort i in terra d’Egitto o fossimo morti in questo deserto! E perché il Signore ci fa entrare in questa t erra per cadere di spada? Le nostre mogli e i nostri bambini saranno preda. Non sarebbe meglio
per noi tornare in Egitto?». Si dissero l’un l’altro: «Su diamoci un capo e torniamo in Egitto». All ora Mosè e Aronne si prostrarono con la faccia a terra dinanzi a tutta l’assemblea della comunit à degli Israeliti. Giosuè figlio di Nun e Caleb figlio di Iefunnè che erano stati tra gli esploratori de lla terra si stracciarono le vesti e dissero a tutta la comunità degli Israeliti: «La terra che abbiam o attraversato per esplorarla è una terra molto molto buona. Se il Signore ci sarà favorevole, ci i ntrodurrà in quella terra e ce la darà: è una terra dove scorrono latte e miele. Soltanto non vi ri bellate al Signore e non abbiate paura del popolo della terra, perché ne faremo un boccone; la l oro difesa li ha abbandonati mentre il Signore è con noi. Non ne abbiate paura». Allora tutta la c omunità parlò di lapidarli; ma la gloria del Signore apparve sulla tenda del convegno a tutti gli Is raeliti. Il Signore disse a Mosè: «Fino a quando mi tratterà senza rispetto questo popolo? E fino a quando non crederanno in me dopo tutti i segni che ho compiuto in mezzo a loro? Io lo colpir ò con la peste e lo escluderò dall’eredità ma farò di te una nazione più grande e più potente di l ui». Mosè disse al Signore: «Gli Egiziani hanno saputo che tu hai fatto uscire di là questo popolo con la tua potenza e lo hanno detto agli abitanti di questa terra. Essi hanno udito che tu Signor e sei in mezzo a questo popolo che tu Signore ti mostri loro faccia a faccia, che la tua nube si fer ma sopra di loro e che cammini davanti a loro di giorno in una colonna di nube e di notte in una colonna di fuoco. Ora se fai perire questo popolo come un solo uomo le nazioni che hanno udit o la tua fama diranno: “Siccome il Signore non riusciva a condurre questo popolo nella terra che aveva giurato di dargli li ha massacrati nel deserto”. Ora si mostri grande la potenza del mio Sig nore secondo quello che hai detto: “Il Signore è lento all’ira e grande nell’amore perdona la col pa e la ribellione ma non lascia senza punizione; castiga la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione”. Perdona ti prego la colpa di questo popolo secondo la grandezza del tuo amore così come hai perdonato a questo popolo dall’Egitto fin qui». Il Signore disse: «Io pe rdono come tu hai chiesto; ma come è vero che io vivo e che la gloria del Signore riempirà tutta la terra tutti gli uomini che hanno visto la mia gloria e i segni compiuti da me in Egitto e nel dese rto e tuttavia mi hanno messo alla prova già dieci volte e non hanno dato ascolto alla mia voce c erto non vedranno la terra che ho giurato di dare ai loro padri e tutti quelli che mi trattano senz a rispetto non la vedranno. Ma il mio servo Caleb che è stato animato da un altro spirito e mi ha seguito fedelmente io lo introdurrò nella terra dove già è stato; la sua stirpe la possederà. Gli A maleciti e i Cananei abitano nella valle; domani incamminatevi e tornate indietro verso il desert o in direzione del Mar Rosso». Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne e disse: «Fino a quando sopp orterò questa comunità malvagia che mormora contro di me? Ho udito le mormorazioni degli Is raeliti contro di me. Riferisci loro: “Come è vero che io vivo oracolo del Signore così come avete parlato alle mie orecchie io farò a voi! I vostri cadaveri cadranno in questo deserto. Nessun cens ito tra voi di quanti siete stati registrati dai venti anni in su e avete mormorato contro di me pot rà entrare nella terra nella quale ho giurato a mano alzata di farvi abitare a eccezione di Caleb fi glio di Iefunnè e di Giosuè figlio di Nun. Proprio i vostri bambini dei quali avete detto che sarebb ero diventati una preda di guerra, quelli ve li farò entrare; essi conosceranno la terra che voi av
ete rifiutato. Quanto a voi i vostri cadaveri cadranno in questo deserto. I vostri figli saranno no madi nel deserto per quarant’anni e porteranno il peso delle vostre infedeltà finché i vostri cad averi siano tutti quanti nel deserto. Secondo il numero dei giorni che avete impiegato per esplor are la terra quaranta giorni per ogni giorno un anno porterete le vostre colpe per quarant’anni e saprete che cosa comporta ribellarsi a me”. Io il Signore ho parlato. Così agirò con tutta quest a comunità malvagia con coloro che si sono coalizzati contro di me: in questo deserto saranno a nnientati e qui moriranno». Gli uomini che Mosè aveva mandato a esplorare la terra e che torn ati avevano fatto mormorare tutta la comunità contro di lui diffondendo il discredito sulla terra, quegli uomini che avevano propagato cattive voci su quella terra morirono per un flagello, dava nti al Signore. Di quegli uomini che erano andati a esplorare la terra sopravvissero Giosuè figlio di Nun e Caleb figlio di Iefunnè. Mosè riferì quelle parole a tutti gli Israeliti e il popolo ne fu molt o afflitto. Si alzarono di buon mattino per salire sulla cima del monte dicendo: «Eccoci pronti a s alire verso il luogo a proposito del quale il Signore ha detto che noi abbiamo peccato». Ma Mos è disse: «Perché trasgredite l’ordine del Signore? La cosa non vi riuscirà. Non salite perché il Sig nore non è in mezzo a voi; altrimenti sarete sconfitti dai vostri nemici! Infatti di fronte a voi stan no gli Amaleciti e i Cananei e voi cadrete di spada perché avete abbandonato il Signore e il Sign ore non sarà con voi». Si ostinarono a salire verso la cima del monte ma l’arca dell’alleanza del S
ignore e Mosè non si mossero dall’accampamento. Allora gli Amaleciti e i Cananei che abitavan o su quel monte discesero e li percossero e li fecero a pezzi fino a Corma. Il Signore parlò a Mos è e disse: «Parla agli Israeliti dicendo loro: “Quando sarete entrati nella terra che dovrete abitar e e che io sto per darvi, e offrirete al Signore un sacrificio consumato dal fuoco olocausto o sacri ficio per soddisfare un voto o per un’offerta spontanea o nelle vostre solennità per offrire un pr ofumo gradito al Signore con il vostro bestiame grosso o minuto colui che presenterà l’offerta al Signore offrirà in oblazione un decimo di efa di fior di farina impastata con un quarto di hin di o lio e vino come libagione un quarto di hin: lo aggiungerai all’olocausto o al sacrificio per ogni ag nello. Se è per un ariete, offrirai in oblazione due decimi di efa di fior di farina impastata con un terzo di hin di olio, e vino in libagione un terzo di hin: l’offrirai come profumo gradito al Signore.
Se offri un giovenco in olocausto o in sacrificio per soddisfare un voto o in sacrificio di comunio ne al Signore oltre al giovenco si offrirà un’oblazione di tre decimi di efa di fior di farina impasta ta in mezzo hin di olio e offrirai vino in libagione un mezzo hin di vino; è un sacrificio consumato dal fuoco profumo gradito al Signore. Così si farà per ogni giovenco per ogni ariete per ogni agn ello o capretto. Secondo il numero degli animali che immolerete farete così per ciascuna vittima
. Quanti sono nativi della terra faranno così per offrire un sacrificio consumato dal fuoco profu mo gradito al Signore. Se uno straniero che dimora da voi o chiunque abiterà in mezzo a voi di g enerazione in generazione offrirà un sacrificio consumato dal fuoco, profumo gradito al Signore farà come fate voi. Vi sarà una sola legge per l’assemblea sia per voi sia per lo straniero che dim ora in mezzo a voi una legge perenne di generazione in generazione; come siete voi così sarà lo straniero davanti al Signore. Ci sarà una stessa legge e una stessa regola per voi e per lo stranier
o che dimora presso di voi”». Il Signore parlò ancora a Mosè dicendo: «Parla agli Israeliti e di’ lo ro: “Quando entrerete nella terra in cui io vi conduco e mangerete il pane di quella terra ne prel everete un’offerta da presentare al Signore. Dalle primizie della vostra pasta preleverete una fo caccia come contributo: la preleverete come si preleva il contributo per l’aia. Delle primizie dell a vostra pasta darete al Signore un contributo di generazione in generazione. Se avrete mancat o per inavvertenza e non avrete osservato tutti questi comandi che il Signore ha dato a Mosè qu anto il Signore vi ha comandato per mezzo di Mosè dal giorno in cui il Signore vi ha dato coman di e in seguito di generazione in generazione se il peccato è stato commesso per inavvertenza d a parte della comunità senza che la comunità se ne sia accorta tutta la comunità offrirà un giove nco come olocausto di profumo gradito al Signore, con la sua oblazione e la sua libagione secon do la regola e un capro come sacrificio espiatorio. Il sacerdote compirà il rito espiatorio per tutt a la comunità degli Israeliti, e sarà loro perdonato; è un’inavvertenza ed essi hanno portato l’off erta il sacrificio consumato dal fuoco in onore del Signore e il loro sacrificio per il peccato davan ti al Signore per la loro inavvertenza. Sarà perdonato a tutta la comunità degli Israeliti e allo stra niero che dimora in mezzo a loro perché tutto il popolo ha peccato per inavvertenza. Se è una p ersona sola che ha peccato per inavvertenza offra una capra di un anno come sacrificio per il pe ccato. Il sacerdote compirà il rito espiatorio davanti al Signore per la persona che avrà peccato p er inavvertenza; quando avrà fatto l’espiazione per essa le sarà perdonato. Sia per un nativo del la terra tra gli Israeliti sia per uno straniero che dimora in mezzo a loro avrete un’unica legge pe r colui che pecca per inavvertenza. Ma la persona che agisce con deliberazione nativa della terr a o straniera insulta il Signore; essa sarà eliminata dal suo popolo. Poiché ha disprezzato la paro la del Signore e ha violato il suo comando quella persona dovrà essere assolutamente eliminata; la colpa è su di lei”». Mentre gli Israeliti erano nel deserto trovarono un uomo che raccoglieva l egna in giorno di sabato. Quelli che l’avevano trovato a raccogliere legna lo condussero a Mosè, ad Aronne e a tutta la comunità. Lo misero sotto sorveglianza perché non era stato ancora stab ilito che cosa gli si dovesse fare. Il Signore disse a Mosè: «Quell’uomo deve essere messo a mort e; tutta la comunità lo lapiderà fuori dell’accampamento». Tutta la comunità lo condusse fuori dell’accampamento e lo lapidò quello morì secondo il comando che il Signore aveva dato a Mos è. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla agli Israeliti dicendo loro che si facciano di generazione in generazione una frangia ai lembi delle loro vesti e che mettano sulla frangia del lembo un co rdone di porpora viola. Avrete tali frange e quando le guarderete vi ricorderete di tutti i comand i del Signore e li eseguirete; non andrete vagando dietro il vostro cuore e i vostri occhi seguend o i quali vi prostituireste. Così vi ricorderete di tutti i miei comandi li metterete in pratica e saret e santi per il vostro Dio. Io sono il Signore vostro Dio che vi ho fatto uscire dalla terra d’Egitto pe r essere il vostro Dio. Io sono il Signore vostro Dio». Ora Core figlio di Isar figlio di Keat figlio di L
evi con Datan e Abiràm figli di Eliàb e On figlio di Pelet figli di Ruben presero altra gente e insors ero contro Mosè con duecentocinquanta uomini tra gli Israeliti prìncipi della comunità membri del consiglio uomini stimati; si radunarono contro Mosè e contro Aronne e dissero loro: «Basta
con voi! Tutta la comunità tutti sono santi e il Signore è in mezzo a loro; perché dunque vi innalz ate sopra l’assemblea del Signore?». Quando Mosè ebbe udito questo si prostrò con la faccia a t erra; poi parlò a Core e a tutta la gente che era con lui dicendo: «Domani mattina il Signore farà conoscere chi è suo e chi è santo e se lo farà avvicinare: farà avvicinare a sé colui che egli avrà s celto. Fate questo: prendetevi gli incensieri tu Core e tutta la gente che è con te; domani vi mett erete il fuoco e porrete incenso davanti al Signore; colui che il Signore avrà scelto sarà santo. Ba sta con voi, figli di Levi!». Mosè disse poi a Core: «Ora ascoltate figli di Levi! è forse poco per voi che il Dio d’Israele vi abbia separato dalla comunità d’Israele facendovi avvicinare a sé per pres tare servizio nella Dimora del Signore e stare davanti alla comunità esercitando per essa il vostr o ministero? Egli ha fatto avvicinare a sé te e con te tutti i tuoi fratelli figli di Levi e ora voi prete ndete anche il sacerdozio? Per questo tu e tutta la gente che è con te siete convenuti contro il S
ignore! E chi è Aronne perché vi mettiate a mormorare contro di lui?». Mosè mandò a chiamare Datan e Abiràm figli di Eliàb; ma essi dissero: «Noi non verremo. è troppo poco per te l’averci fa tto salire da una terra dove scorrono latte e miele per farci morire nel deserto perché tu voglia elevarti anche sopra di noi ed erigerti a capo? Non ci hai affatto condotto in una terra dove scor rono latte e miele né ci hai dato in eredità campi e vigne! Credi tu di poter privare degli occhi qu esta gente? Noi non verremo». Allora Mosè si adirò molto e disse al Signore: «Non gradire la lor o oblazione; io non ho preso da costoro neppure un asino e non ho fatto torto ad alcuno di loro
». Mosè disse a Core: «Tu e tutta la tua gente trovatevi domani davanti al Signore: tu e loro con Aronne; ciascuno di voi prenda il suo incensiere vi metta l’incenso e porti ciascuno il suo incensi ere davanti al Signore: duecentocinquanta incensieri. Anche tu e Aronne avrete ciascuno il vostr o». Essi dunque presero ciascuno un incensiere vi misero il fuoco vi posero l’incenso e si fermar ono all’ingresso della tenda del convegno come pure Mosè e Aronne. Core convocò contro di lo ro tutta la comunità all’ingresso della tenda del convegno. E la gloria del Signore apparve a tutta la comunità. Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne dicendo: «Allontanatevi da questa comunità e io li consumerò in un istante». Essi si prostrarono con la faccia a terra e dissero: «Dio Dio degli s piriti di ogni essere vivente! Un uomo solo ha peccato e vorresti adirarti contro tutta la comunit à?». Il Signore parlò a Mosè dicendo: «Parla alla comunità e órdinale: “Ritiratevi dalle vicinanze della dimora di Core Datan e Abiràm”». Mosè si alzò e andò verso Datan e Abiràm; gli anziani d’I sraele lo seguirono. Egli parlò alla comunità dicendo: «Allontanatevi dalle tende di questi uomin i malvagi e non toccate nulla di quanto loro appartiene, perché non periate a causa di tutti i loro peccati». Così quelli si ritirarono dal luogo dove stavano Core Datan e Abiràm. Datan e Abiràm uscirono e si fermarono all’ingresso delle loro tende con le mogli i figli e i bambini. Mosè disse:
«Da questo saprete che il Signore mi ha mandato per fare tutte queste opere e che io non ho ag ito di mia iniziativa. Se questa gente muore come muoiono tutti gli uomini se la loro sorte è la s orte comune a tutti gli uomini il Signore non mi ha mandato. Ma se il Signore opera un prodigio e se la terra spalanca la bocca e li ingoia con quanto appartiene loro di modo che essi scendano vivi agli inferi allora saprete che questi uomini hanno disprezzato il Signore». Come egli ebbe fin
ito di pronunciare tutte queste parole il suolo si squarciò sotto i loro piedi la terra spalancò la b occa e li inghiottì: essi e le loro famiglie con tutta la gente che apparteneva a Core e tutti i loro b eni. Scesero vivi agli inferi essi e quanto loro apparteneva; la terra li ricoprì ed essi scomparvero dall’assemblea. Tutto Israele che era attorno a loro fuggì alle loro grida perché dicevano: «La te rra non inghiottisca anche noi!». Un fuoco uscì dal Signore e divorò i duecentocinquanta uomini che offrivano l’incenso. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Di’ a Eleàzaro figlio del sacerdote Aron ne di estrarre gli incensieri dall’incendio e di disperdere lontano il fuoco perché essi sono sacri.
Degli incensieri di quegli uomini che hanno peccato a prezzo della loro vita si facciano lamine int recciate come rivestimento per l’altare, poiché sono stati offerti davanti al Signore e quindi son o sacri; saranno un segno per gli Israeliti». Il sacerdote Eleàzaro prese gli incensieri di bronzo ch e gli uomini arsi dal fuoco avevano offerto e furono ridotti in lamine per rivestirne l’altare, mem oriale per gli Israeliti perché nessun profano che non sia della discendenza di Aronne si accosti a bruciare incenso davanti al Signore e subisca così la sorte di Core e di quelli che erano con lui. E
leàzaro fece come il Signore gli aveva ordinato per mezzo di Mosè. L’indomani tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mosè e Aronne dicendo: «Voi avete fatto morire il popolo del Sig nore». Mentre la comunità si radunava contro Mosè e contro Aronne gli Israeliti si volsero verso la tenda del convegno; ed ecco la nube la ricoprì e apparve la gloria del Signore. Mosè e Aronne vennero davanti alla tenda del convegno. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Allontanatevi da que sta comunità e io li consumerò in un istante». Ma essi si prostrarono con la faccia a terra. Mosè disse ad Aronne: «Prendi l’incensiere mettici il fuoco preso dall’altare ponici sopra l’incenso por talo in fretta in mezzo alla comunità e compi il rito espiatorio per loro; poiché l’ira del Signore è divampata il flagello è già cominciato». Aronne prese quel che Mosè aveva detto corse in mezzo all’assemblea; ecco il flagello era già cominciato in mezzo al popolo. Mise l’incenso nel braciere e compì il rito espiatorio per il popolo. Si fermò tra i morti e i vivi e il flagello si arrestò. Quelli c he morirono per il flagello furono quattordicimilasettecento oltre ai morti per il fatto di Core. Ar onne tornò da Mosè all’ingresso della tenda del convegno: il flagello si era arrestato. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla agli Israeliti e prendi da loro dei bastoni uno per ogni loro casato pa terno: cioè dodici bastoni da parte di tutti i loro prìncipi secondo i loro casati paterni; scriverai il nome di ognuno sul suo bastone, scriverai il nome di Aronne sul bastone di Levi poiché ci sarà u n bastone per ogni capo dei loro casati paterni. Riporrai quei bastoni nella tenda del convegno d avanti alla Testimonianza dove io vi do convegno. L’uomo che io avrò scelto sarà quello il cui ba stone fiorirà e così farò cessare davanti a me le mormorazioni che gli Israeliti fanno contro di voi
». Mosè parlò agli Israeliti e tutti i loro prìncipi gli diedero un bastone: un bastone per ciascun p rincipe secondo i loro casati paterni cioè dodici bastoni; il bastone di Aronne era in mezzo ai lor o bastoni. Mosè ripose quei bastoni davanti al Signore nella tenda della Testimonianza. L’indom ani Mosè entrò nella tenda della Testimonianza ed ecco il bastone di Aronne per il casato di Levi era fiorito: aveva prodotto germogli aveva fatto sbocciare fiori e maturato mandorle. Allora Mo sè tolse tutti i bastoni dalla presenza del Signore e li portò a tutti gli Israeliti; essi li videro e pres
ero ciascuno il proprio bastone. Il Signore disse a Mosè: «Riporta il bastone di Aronne davanti al la Testimonianza perché sia conservato come un segno per i ribelli e si ponga fine alle loro mor morazioni contro di me ed essi non ne muoiano». Mosè fece come il Signore gli aveva comanda to. Gli Israeliti dissero a Mosè: «Ecco moriamo siamo perduti siamo tutti perduti! Chiunque si ac costa alla Dimora del Signore muore; dovremo morire tutti?». Il Signore disse ad Aronne: «Tu i t uoi figli e la casa di tuo padre con te porterete il peso delle colpe commesse nel santuario; tu e i tuoi figli con te porterete il peso delle colpe commesse nell’esercizio del vostro sacerdozio. Anc he i tuoi fratelli la tribù di Levi la tribù di tuo padre farai accostare a te perché si aggiungano a te e ti assistano quando tu e i tuoi figli con te sarete davanti alla tenda della Testimonianza. Essi st aranno al tuo servizio e al servizio di tutta la tenda; soltanto non si accosteranno agli arredi del santuario né all’altare perché non moriate né loro né voi. Essi si aggiungeranno a te e presteran no servizio alla tenda del convegno per tutto il servizio della tenda e nessun profano si accoster à a voi. Voi sarete addetti alla custodia del santuario e dell’altare e non vi sarà più ira contro gli I sraeliti. Quanto a me, ecco io ho preso i vostri fratelli i leviti tra gli Israeliti; dati al Signore essi s ono resi in dono a voi, per prestare servizio nella tenda del convegno. Tu e i tuoi figli con te eser citerete il vostro sacerdozio per tutto ciò che riguarda l’altare e ciò che è oltre il velo e presteret e il vostro servizio. Io vi do l’esercizio del sacerdozio come un dono. Il profano che si accosterà s arà messo a morte». Il Signore parlò ancora ad Aronne: «Ecco io ti do il diritto su tutto ciò che si preleva per me cioè su tutte le cose consacrate dagli Israeliti; le do a te e ai tuoi figli a motivo d ella tua unzione per legge perenne. Questo ti apparterrà fra le cose santissime fra le loro offerte destinate al fuoco: ogni oblazione ogni sacrificio per il peccato e ogni sacrificio di riparazione ch e mi presenteranno; sono tutte cose santissime che apparterranno a te e ai tuoi figli. Le manger ai in luogo santissimo; ne mangerà ogni maschio. Le tratterai come cose sante. Questo ancora ti apparterrà: i doni che gli Israeliti presenteranno come tributo prelevato e tutte le loro offerte f atte con il rito di elevazione. Io le do a te ai tuoi figli e alle tue figlie con te per legge perenne. C
hiunque sarà puro in casa tua ne potrà mangiare. Ti do anche tutte le primizie che offriranno al Signore: il meglio dell’olio nuovo il meglio del mosto e del grano. Le primizie di quanto produrrà la loro terra che essi porteranno al Signore saranno tue. Chiunque sarà puro in casa tua ne potr à mangiare. Quanto in Israele sarà consacrato per voto di sterminio sarà tuo. Ogni essere che na sce per primo da ogni essere vivente offerto al Signore sia degli uomini sia degli animali sarà tuo
; però farai riscattare il primogenito dell’uomo e farai anche riscattare il primo nato dell’animal e impuro. Il tuo riscatto lo effettuerai dall’età di un mese secondo la stima di cinque sicli d’arge nto conformi al siclo del santuario che è di venti ghera. Ma non farai riscattare il primo nato dell a mucca né il primo nato della pecora né il primo nato della capra: sono cosa sacra. Verserai il lo ro sangue sull’altare e farai bruciare le loro parti grasse come sacrificio consumato dal fuoco pr ofumo gradito al Signore. La loro carne sarà tua; sarà tua come il petto dell’offerta che si fa con il rito di elevazione e come la coscia destra. Io do a te, ai tuoi figli e alle tue figlie con te per legg e perenne tutte le offerte di cose sante che gli Israeliti preleveranno per il Signore. è un’alleanza
inviolabile perenne davanti al Signore per te e per la tua discendenza con te». Il Signore disse a d Aronne: «Tu non avrai alcuna eredità nella loro terra e non ci sarà parte per te in mezzo a loro
. Io sono la tua parte e la tua eredità in mezzo agli Israeliti. Ai figli di Levi io do in possesso tutte le decime in Israele in cambio del servizio che fanno il servizio della tenda del convegno. Gli Isra eliti non si accosteranno più alla tenda del convegno per non caricarsi di un peccato che li fareb be morire. Ma il servizio nella tenda del convegno lo faranno soltanto i leviti; essi porteranno il peso della loro colpa. Sarà una legge perenne di generazione in generazione. Non possederanno eredità tra gli Israeliti, poiché io do in possesso ai leviti le decime che gli Israeliti preleveranno c ome contributo per il Signore; per questo ho detto di loro: “Non avranno possesso ereditario tr a gli Israeliti”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parlerai inoltre ai leviti dicendo loro: “Quando p renderete dagli Israeliti la decima che io ho dato a voi da parte loro come vostra eredità preleve rete un’offerta come contributo al Signore: una decima dalla decima. Il vostro prelevamento vi sarà calcolato come quello del grano che viene dall’aia e come il mosto che esce dal torchio. Co sì anche voi preleverete un’offerta per il Signore da tutte le decime che riceverete dagli Israeliti e darete al sacerdote Aronne l’offerta che avrete prelevato per il Signore. Da tutte le cose che vi saranno concesse preleverete tutte le offerte per il Signore; di tutto ciò che vi sarà di meglio pr eleverete la parte sacra”. Dirai loro: “Quando ne avrete prelevato il meglio quel che rimane sarà calcolato per i leviti come il provento dell’aia e come il provento del torchio. Lo potrete mangia re in qualunque luogo voi e le vostre famiglie perché è il vostro salario in cambio del vostro serv izio nella tenda del convegno. Dal momento che ne avrete prelevato la parte migliore non saret e gravati da alcun peccato; non profanerete le cose sante degli Israeliti e non morirete”». Il Sign ore parlò a Mosè e ad Aronne e disse: «Questa è una disposizione della legge che il Signore ha p rescritto. Ordina agli Israeliti che ti portino una giovenca rossa senza macchia senza difetti e che non abbia mai portato il giogo. La darete al sacerdote Eleàzaro che la condurrà fuori dell’accam pamento e la farà immolare in sua presenza. Il sacerdote Eleàzaro prenderà con il dito un po’ de l sangue della giovenca e ne farà sette volte l’aspersione davanti alla tenda del convegno; poi si brucerà la giovenca sotto i suoi occhi: se ne brucerà la pelle la carne e il sangue con gli escreme nti. Il sacerdote prenderà legno di cedro issòpo, tintura scarlatta e getterà tutto nel fuoco che c onsuma la giovenca. Poi il sacerdote laverà le sue vesti e farà un bagno al suo corpo nell’acqua quindi rientrerà nell’accampamento; il sacerdote sarà impuro fino alla sera. Colui che avrà bruci ato la giovenca si laverà le vesti nell’acqua farà un bagno al suo corpo nell’acqua e sarà impuro f ino alla sera. Un uomo puro raccoglierà le ceneri della giovenca e le depositerà fuori dell’accam pamento in luogo puro dove saranno conservate per la comunità degli Israeliti per l’acqua di pu rificazione: è un rito per il peccato. Colui che avrà raccolto le ceneri della giovenca si laverà le ve sti e sarà impuro fino alla sera. Questa sarà una legge perenne per gli Israeliti e per lo straniero che dimorerà presso di loro. Chi avrà toccato il cadavere di qualsiasi persona sarà impuro per se tte giorni. Quando uno si sarà purificato con quell’acqua il terzo e il settimo giorno sarà puro; m a se non si purifica il terzo e il settimo giorno non sarà puro. Chiunque avrà toccato il cadavere
di una persona che è morta e non si sarà purificato avrà contaminato la Dimora del Signore e sa rà eliminato da Israele. Siccome l’acqua di purificazione non è stata spruzzata su di lui egli è imp uro; ha ancora addosso l’impurità. Questa è la legge per quando un uomo muore in una tenda: chiunque entrerà nella tenda e tutto ciò che è nella tenda sarà impuro per sette giorni. Ogni vas o scoperto sul quale non sia un coperchio o una legatura sarà impuro. Chiunque sulla superficie di un campo avrà toccato un uomo ucciso di spada o morto di morte naturale o un osso d’uomo o un sepolcro sarà impuro per sette giorni. Per colui che sarà divenuto impuro si prenderà la ce nere della vittima bruciata per l’espiazione e vi si verserà sopra l’acqua corrente in un vaso; poi un uomo puro prenderà issòpo lo intingerà nell’acqua e ne aspergerà la tenda, tutti gli arredi e t utte le persone che erano là e colui che ha toccato l’osso o l’ucciso o il morto o il sepolcro. L’uo mo puro aspergerà l’impuro il terzo giorno e il settimo giorno e lo purificherà il settimo giorno; poi colui che è stato impuro si laverà le vesti farà un bagno con l’acqua e alla sera diventerà pur o. Ma colui che reso impuro non si purificherà sarà eliminato dall’assemblea perché ha contami nato il santuario del Signore e l’acqua della purificazione non è stata aspersa su di lui: è impuro.
Sarà per loro una legge perenne. Colui che avrà asperso l’acqua di purificazione si laverà le vesti
; chi avrà toccato l’acqua di purificazione sarà impuro fino alla sera. Quanto l’impuro avrà toccat o sarà impuro; chi lo avrà toccato sarà impuro fino alla sera». Ora tutta la comunità degli Israelit i arrivò al deserto di Sin il primo mese e il popolo si fermò a Kades. Qui morì e fu sepolta Maria.
Mancava l’acqua per la comunità: ci fu un assembramento contro Mosè e contro Aronne. Il pop olo ebbe una lite con Mosè dicendo: «Magari fossimo morti quando morirono i nostri fratelli da vanti al Signore! Perché avete condotto l’assemblea del Signore in questo deserto per far morir e noi e il nostro bestiame? E perché ci avete fatto uscire dall’Egitto per condurci in questo luogo inospitale? Non è un luogo dove si possa seminare non ci sono fichi non vigne non melograni e non c’è acqua da bere». Allora Mosè e Aronne si allontanarono dall’assemblea per recarsi all’in gresso della tenda del convegno; si prostrarono con la faccia a terra e la gloria del Signore appar ve loro. Il Signore parlò a Mosè dicendo: «Prendi il bastone; tu e tuo fratello Aronne convocate l a comunità e parlate alla roccia sotto i loro occhi ed essa darà la sua acqua; tu farai uscire per lo ro l’acqua dalla roccia e darai da bere alla comunità e al loro bestiame». Mosè dunque prese il b astone che era davanti al Signore come il Signore gli aveva ordinato. Mosè e Aronne radunaron o l’assemblea davanti alla roccia e Mosè disse loro: «Ascoltate o ribelli: vi faremo noi forse uscir e acqua da questa roccia?». Mosè alzò la mano percosse la roccia con il bastone due volte e ne uscì acqua in abbondanza; ne bevvero la comunità e il bestiame. Ma il Signore disse a Mosè e a d Aronne: «Poiché non avete creduto in me, in modo che manifestassi la mia santità agli occhi d egli Israeliti voi non introdurrete quest’assemblea nella terra che io le do». Queste sono le acqu e di Merìba, dove gli Israeliti litigarono con il Signore e dove egli si dimostrò santo in mezzo a lor o. Mosè mandò da Kades messaggeri al re di Edom per dirgli: «Così dice Israele tuo fratello: “Tu conosci tutte le tribolazioni che ci hanno colpito. I nostri padri scesero in Egitto e noi in Egitto di morammo per lungo tempo e gli Egiziani maltrattarono noi e i nostri padri. Noi gridammo al Sig
nore ed egli udì la nostra voce e mandò un angelo e ci fece uscire dall’Egitto; eccoci ora a Kades città al confine del tuo territorio. Permettici di passare per il tuo territorio. Non passeremo per campi né per vigne e non berremo l’acqua dei pozzi; seguiremo la via Regia non devieremo né a destra né a sinistra finché non avremo attraversato il tuo territorio”». Ma Edom gli rispose: «Tu non passerai da me; altrimenti uscirò contro di te con la spada». Gli Israeliti gli dissero: «Passer emo per la strada maestra; se noi e il nostro bestiame berremo la tua acqua te la pagheremo: la sciaci soltanto transitare a piedi». Ma quegli rispose: «Non passerai!». Edom mosse contro Israe le con molta gente e con mano potente. Così Edom rifiutò a Israele il transito nel suo territorio e Israele si tenne lontano da lui. Tutta la comunità degli Israeliti levò l’accampamento da Kades e arrivò al monte Or. Il Signore disse a Mosè e ad Aronne al monte Or sui confini del territorio di Edom: «Aronne sta per essere riunito ai suoi padri e non entrerà nella terra che ho dato agli Isr aeliti perché siete stati ribelli al mio ordine alle acque di Merìba. Prendi Aronne e suo figlio Eleà zaro e falli salire sul monte Or. Spoglia Aronne delle sue vesti e rivestine suo figlio Eleàzaro. Là A ronne sarà riunito ai suoi padri e morirà». Mosè fece come il Signore aveva ordinato ed essi salir ono sul monte Or sotto gli occhi di tutta la comunità. Mosè spogliò Aronne delle sue vesti e ne r ivestì Eleàzaro suo figlio. Là Aronne morì sulla cima del monte. Poi Mosè ed Eleàzaro scesero dal monte. Tutta la comunità vide che Aronne era spirato e tutta la casa d’Israele lo pianse per tren ta giorni. Il re cananeo di Arad che abitava il Negheb appena seppe che Israele veniva per la via di Atarìm attaccò battaglia contro Israele e fece alcuni prigionieri. Allora Israele fece un voto al Signore e disse: «Se tu mi consegni nelle mani questo popolo le loro città saranno da me votate allo sterminio». Il Signore ascoltò la voce d’Israele e gli consegnò nelle mani i Cananei; Israele v otò allo sterminio i Cananei e le loro città e quel luogo fu chiamato Corma. Gli Israeliti si mosser o dal monte Or per la via del Mar Rosso per aggirare il territorio di Edom. Ma il popolo non sopp ortò il viaggio. Il popolo disse contro Dio e contro Mosè: «Perché ci avete fatto salire dall’Egitto per farci morire in questo deserto? Perché qui non c’è né pane né acqua e siamo nauseati di qu esto cibo così leggero». Allora il Signore mandò fra il popolo serpenti brucianti i quali mordevan o la gente e un gran numero d’Israeliti morì. Il popolo venne da Mosè e disse: «Abbiamo peccat o perché abbiamo parlato contro il Signore e contro di te; supplica il Signore che allontani da no i questi serpenti». Mosè pregò per il popolo. Il Signore disse a Mosè: «Fatti un serpente e mettil o sopra un’asta; chiunque sarà stato morso e lo guarderà resterà in vita». Mosè allora fece un s erpente di bronzo e lo mise sopra l’asta; quando un serpente aveva morso qualcuno se questi g uardava il serpente di bronzo restava in vita. Gli Israeliti si mossero e si accamparono a Obot; pa rtiti da Obot si accamparono a Iie-Abarìm nel deserto che sta di fronte a Moab dal lato dove sorge il sole. Di là si mossero e si acca mparono nella valle di Zered. Si mossero di là e si accamparono sull’altra riva dell’Arnon che sco rre nel deserto e proviene dal territorio degli Amorrei; l’Arnon infatti è la frontiera di Moab fra Moab e gli Amorrei. Per questo si dice nel libro delle Guerre del Signore: «Vaèb in Sufa e i torre nti, l’Arnon e il pendio dei torrenti, che declina verso la sede di Ar e si appoggia alla frontiera di
Moab». Di là andarono a Beèr. Questo è il pozzo di cui il Signore disse a Mosè: «Raduna il popol o e io gli darò l’acqua». Allora Israele cantò questo canto: «Sgorga o pozzo: cantàtelo! Pozzo sca vato da prìncipi, perforato da nobili del popolo, con lo scettro con i loro bastoni». Poi dal desert o andarono a Mattanà da Mattanà a Nacalièl da Nacalièl a Bamòt e da Bamòt alla valle che si tr ova nelle steppe di Moab presso la cima del Pisga che è di fronte al deserto. Israele mandò mes saggeri a Sicon re degli Amorrei per dirgli: «Lasciami passare nel tuo territorio; noi non deviere mo per i campi né per le vigne e non berremo l’acqua dei pozzi; seguiremo la via Regia finché av remo oltrepassato il tuo territorio». Ma Sicon non permise a Israele di passare per il suo territor io anzi radunò tutto il suo popolo e uscì incontro a Israele nel deserto; giunse a Iaas e combatté contro Israele. Israele lo sconfisse passandolo a fil di spada e conquistò il suo territorio dall’Arno n fino allo Iabbok estendendosi fino alla regione degli Ammoniti perché la frontiera degli Ammo niti era forte. Israele prese tutte quelle città e abitò in tutte le città degli Amorrei cioè a Chesbo n e in tutte le città del suo territorio; Chesbon infatti era la città di Sicon re degli Amorrei il qual e aveva mosso guerra al precedente re di Moab e gli aveva strappato di mano tutto il suo territo rio fino all’Arnon. Per questo dicono i poeti: «Entrate in Chesbon! Sia ricostruita e rifondata la ci ttà di Sicon! Perché un fuoco uscì da Chesbon, una fiamma dalla cittadella di Sicon: essa divorò Ar-Moab, i Baal delle alture dell’Arnon. Guai a te Moab, sei perduto popolo di Camos! Egli ha reso f uggiaschi i suoi figli, e le sue figlie ha dato in schiavitù a Sicon re degli Amorrei. Ma noi li abbiam o trafitti! è rovinata Chesbon fino a Dibon. Abbiamo devastato fino a Nofach, che è presso Màd aba». Israele si stabilì dunque nella terra degli Amorrei. Poi Mosè mandò a esplorare Iazer e gli I sraeliti presero le città del suo territorio e ne cacciarono gli Amorrei che vi si trovavano. Poi mut arono direzione e salirono lungo la strada verso Basan. Og re di Basan uscì contro di loro con tut ta la sua gente per dar loro battaglia a Edrei. Ma il Signore disse a Mosè: «Non lo temere perché io lo do in tuo potere lui tutta la sua gente e il suo territorio; trattalo come hai trattato Sicon re degli Amorrei che abitava a Chesbon». E sconfissero lui i suoi figli e tutto il suo popolo così che non gli rimase più superstite alcuno e si impadronirono del suo territorio. Poi gli Israeliti partiro no e si accamparono nelle steppe di Moab oltre il Giordano di Gerico. Balak figlio di Sippor vide quanto Israele aveva fatto agli Amorrei e Moab ebbe grande paura di questo popolo che era cos ì numeroso; Moab fu preso da spavento di fronte agli Israeliti. Quindi Moab disse agli anziani di Madian: «Ora questa assemblea divorerà quanto è intorno a noi come il bue divora l’erba dei ca mpi». Balak figlio di Sippor era in quel tempo re di Moab. Egli mandò messaggeri a Balaam, figli o di Beor a Petor che sta sul fiume nel territorio dei figli di Amau per chiamarlo e dirgli: «Ecco u n popolo è uscito dall’Egitto; ha ricoperto la faccia della terra e si è stabilito di fronte a me. Ora dunque vieni e maledici questo popolo per me poiché esso è più potente di me. Forse riuscirò a batterlo per scacciarlo dalla terra; perché io lo so: colui che tu benedici è benedetto e colui che tu maledici è maledetto». Gli anziani di Moab e gli anziani di Madian partirono con in mano il co mpenso per l’oracolo. Arrivarono da Balaam e gli riferirono le parole di Balak. Balaam disse loro:
«Alloggiate qui stanotte e vi darò la risposta secondo quanto mi dirà il Signore». I capi di Moab si fermarono da Balaam. Ora Dio venne da Balaam e gli disse: «Chi sono questi uomini che stan no da te?». Balaam rispose a Dio: «Balak figlio di Sippor re di Moab mi ha mandato a dire: “Ecco il popolo che è uscito dall’Egitto ha ricoperto la superficie della terra. Ora vieni maledicilo per me; forse riuscirò a batterlo e potrò scacciarlo”». Dio disse a Balaam: «Tu non andrai con loro n on maledirai quel popolo perché esso è benedetto». Balaam si alzò la mattina e disse ai prìncipi di Balak: «Andatevene nella vostra terra perché il Signore si è rifiutato di lasciarmi venire con vo i». I prìncipi di Moab si alzarono tornarono da Balak e dissero: «Balaam si è rifiutato di venire co n noi». Allora Balak mandò di nuovo dei prìncipi in maggior numero e più influenti di quelli di pr ima. Vennero da Balaam e gli dissero: «Così dice Balak, figlio di Sippor: “Nulla ti trattenga dal ve nire da me perché io ti colmerò di grandi onori e farò quanto mi dirai; vieni dunque e maledici p er me questo popolo”». Ma Balaam rispose e disse ai ministri di Balak: «Quand’anche Balak mi desse la sua casa piena d’argento e oro non potrei trasgredire l’ordine del Signore mio Dio per f are cosa piccola o grande. Nondimeno trattenetevi qui anche voi stanotte perché io sappia ciò c he il Signore mi dirà ancora». La notte Dio venne da Balaam e gli disse: «Questi uomini non son o venuti a chiamarti? àlzati dunque e va’ con loro; ma farai ciò che io ti dirò». Balaam quindi si a lzò di buon mattino sellò l’asina e se ne andò con i capi di Moab. Ma l’ira di Dio si accese perché egli stava andando; l’angelo del Signore si pose sulla strada per ostacolarlo. Egli cavalcava la su a asina e aveva con sé due servitori. L’asina vide l’angelo del Signore che stava ritto sulla strada con la spada sguainata in mano. E l’asina deviò dalla strada e cominciò ad andare per i campi. B
alaam percosse l’asina per rimetterla sulla strada. Allora l’angelo del Signore si fermò in un senti ero infossato tra le vigne che aveva un muro di qua e un muro di là. L’asina vide l’angelo del Sig nore si serrò al muro e strinse il piede di Balaam contro il muro e Balaam la percosse di nuovo. L
’angelo del Signore passò di nuovo più avanti e si fermò in un luogo stretto tanto stretto che no n vi era modo di deviare né a destra né a sinistra. L’asina vide l’angelo del Signore e si accovacci ò sotto Balaam. L’ira di Balaam si accese ed egli percosse l’asina con il bastone. Allora il Signore aprì la bocca dell’asina ed essa disse a Balaam: «Che cosa ti ho fatto perché tu mi percuota già p er la terza volta?». Balaam rispose all’asina: «Perché ti sei beffata di me! Ah se avessi una spada in mano ti ucciderei all’istante!». L’asina disse a Balaam: «Non sono io la tua asina, sulla quale hai cavalcato da quando hai iniziato fino ad oggi? Sono forse abituata ad agire così?». Ed egli ris pose: «No». Allora il Signore aprì gli occhi di Balaam ed egli vide l’angelo del Signore che stava ri tto sulla strada con in mano la spada sguainata. Balaam si inginocchiò e si prostrò con la faccia a terra. L’angelo del Signore gli disse: «Perché hai percosso la tua asina già tre volte? Ecco io son o uscito a ostacolarti perché il tuo cammino contro di me è rovinoso. L’asina mi ha visto e ha de viato davanti a me per tre volte; se non avesse deviato davanti a me certo ora io avrei già ucciso proprio te e lasciato in vita lei». Allora Balaam disse all’angelo del Signore: «Ho peccato perché non sapevo che tu ti fossi posto contro di me sul cammino; ora se questo è male ai tuoi occhi m e ne tornerò indietro». L’angelo del Signore disse a Balaam: «Va’ pure con questi uomini; ma dir
ai soltanto quello che io ti dirò». Balaam andò con i prìncipi di Balak. Balak udì che Balaam arriv ava e gli uscì incontro a Ir-Moab che è sulla frontiera dell’Arnon all’estremità del territorio. Balak disse a Balaam: «Non av evo forse mandato a chiamarti con insistenza? Perché non sei venuto da me? Non sono forse in grado di trattarti con onore?». Balaam rispose a Balak: «Ecco sono venuto da te; ma ora posso f orse dire qualsiasi cosa? La parola che Dio mi metterà in bocca quella dirò». Balaam andò con B
alak e giunsero a Kiriat-
Cusòt. Balak immolò bestiame grosso e minuto e mandò parte della carne a Balaam e ai prìncipi che erano con lui. La mattina Balak prese Balaam e lo fece salire a BamòtBaal e di là vide un’estremità del popolo accampato. Balaam disse a Balak: «Costruiscimi qui set te altari e preparami qui sette giovenchi e sette arieti». Balak fece come Balaam aveva detto; Ba lak e Balaam offrirono un giovenco e un ariete su ciascun altare. Balaam disse a Balak: «Férmati presso il tuo olocausto e io andrò. Forse il Signore mi verrà incontro; quel che mi mostrerà io te lo riferirò». Andò su di un’altura brulla. Dio andò incontro a Balaam e Balaam gli disse: «Ho prep arato i sette altari e ho offerto un giovenco e un ariete su ciascun altare». Allora il Signore mise una parola in bocca a Balaam e gli disse: «Torna da Balak e parla così». Balaam tornò da Balak c he stava presso il suo olocausto: egli e tutti i prìncipi di Moab. Allora Balaam pronunciò il suo po ema e disse: «Da Aram mi fa venire Balak, il re di Moab dalle montagne d’oriente: “Vieni maledi ci per me Giacobbe; vieni minaccia Israele!”. Come maledirò quel che Dio non ha maledetto? Co me minaccerò quel che il Signore non ha minacciato? Perché dalla vetta delle rupi io lo vedo e d alle alture lo contemplo: ecco un popolo che dimora in disparte e tra le nazioni non si annovera.
Chi può contare la polvere di Giacobbe? O chi può calcolare un solo quarto d’Israele? Possa io morire della morte dei giusti e sia la mia fine come la loro». Allora Balak disse a Balaam: «Che c osa mi hai fatto? Per maledire i miei nemici io ti ho preso ed ecco li hai grandemente benedetti
». Rispose: «Non devo forse aver cura di dire solo quello che il Signore mi mette sulla bocca?».
Balak gli disse: «Vieni con me in altro luogo da dove tu possa vederlo; ne vedrai solo un’estremi tà non lo vedrai tutto intero: di là maledicilo per me». Lo condusse al campo di Sofìm sulla cima del Pisga; costruì sette altari e offrì un giovenco e un ariete su ogni altare. Allora Balaam disse a Balak: «Férmati presso il tuo olocausto e io andrò incontro al Signore». Il Signore andò incontro a Balaam gli mise una parola sulla bocca e gli disse: «Torna da Balak e parla così». Balaam tornò da Balak che stava presso il suo olocausto insieme con i capi di Moab. Balak gli disse: «Che cosa ha detto il Signore?». Allora Balaam pronunciò il suo poema e disse: «Sorgi Balak e ascolta; porg imi orecchio figlio di Sippor! Dio non è un uomo perché egli menta, non è un figlio d’uomo perc hé egli ritratti. Forse egli dice e poi non fa? Parla e non adempie? Ecco di benedire ho ricevuto il comando: egli ha benedetto e non mi metterò contro. Egli non scorge colpa in Giacobbe, non h a veduto torto in Israele. Il Signore suo Dio è con lui e in lui risuona un’acclamazione per il re. Di o che lo ha fatto uscire dall’Egitto, è per lui come le corna del bufalo. Perché non vi è sortilegio contro Giacobbe e non vi è magìa contro Israele: a suo tempo vien detto a Giacobbe e a Israele
che cosa opera Dio. Ecco un popolo che si leva come una leonessa e si erge come un leone; non si accovaccia finché non abbia divorato la preda e bevuto il sangue degli uccisi». Allora Balak dis se a Balaam: «Se proprio non lo maledici almeno non benedirlo!». Rispose Balaam e disse a Bala k: «Non ti ho già detto che quanto il Signore dirà io dovrò eseguirlo?». Balak disse a Balaam: «Vi eni ti condurrò in altro luogo: forse piacerà agli occhi di Dio che tu lo maledica per me di là». Co sì Balak condusse Balaam in cima al Peor che è di fronte al deserto. Balaam disse a Balak: «Costr uiscimi qui sette altari e preparami sette giovenchi e sette arieti». Balak fece come Balaam avev a detto e offrì un giovenco e un ariete su ogni altare. Balaam vide che al Signore piaceva benedi re Israele e non andò come le altre volte alla ricerca di sortilegi ma rivolse la sua faccia verso il d eserto. Balaam alzò gli occhi e vide Israele accampato tribù per tribù. Allora lo spirito di Dio fu s opra di lui. Egli pronunciò il suo poema e disse: «Oracolo di Balaam figlio di Beor, e oracolo dell’
uomo dall’occhio penetrante; oracolo di chi ode le parole di Dio, di chi vede la visione dell’Onni potente, cade e gli è tolto il velo dagli occhi. Come sono belle le tue tende Giacobbe, le tue dim ore Israele! Si estendono come vallate, come giardini lungo un fiume, come àloe che il Signore h a piantato, come cedri lungo le acque. Fluiranno acque dalle sue secchie e il suo seme come acq ue copiose. Il suo re sarà più grande di Agag e il suo regno sarà esaltato. Dio che lo ha fatto uscir e dall’Egitto, è per lui come le corna del bufalo. Egli divora le nazioni che lo avversano, addenta l e loro ossa e le loro frecce egli spezza. Si accoscia si accovaccia come un leone e come una leon essa: chi lo farà alzare? Benedetto chi ti benedice e maledetto chi ti maledice». Allora l’ira di Bal ak si accese contro Balaam; Balak batté le mani e disse a Balaam: «Per maledire i miei nemici ti ho chiamato ed ecco li hai grandemente benedetti per tre volte. Ora vattene nella tua terra! Av evo detto che ti avrei colmato di onori ma ecco il Signore ti ha impedito di averli». Balaam disse a Balak: «Non avevo forse detto ai messaggeri che mi avevi mandato: “Quand’anche Balak mi d esse la sua casa piena d’argento e d’oro non potrei trasgredire l’ordine del Signore per fare cosa buona o cattiva di mia iniziativa: ciò che il Signore dirà quello soltanto dirò”? Ora sto per tornar e al mio popolo; ebbene vieni: ti predirò ciò che questo popolo farà al tuo popolo nei giorni a ve nire». Egli pronunciò il suo poema e disse: «Oracolo di Balaam figlio di Beor, oracolo dell’uomo dall’occhio penetrante, oracolo di chi ode le parole di Dio e conosce la scienza dell’Altissimo, di chi vede la visione dell’Onnipotente, cade e gli è tolto il velo dagli occhi. Io lo vedo ma non ora, i o lo contemplo ma non da vicino: una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele, spacca le tempie di Moab e il cranio di tutti i figli di Set; Edom diverrà sua conquista e diverrà su a conquista Seir suo nemico, mentre Israele compirà prodezze. Uno di Giacobbe dominerà e far à perire gli scampati dalla città». Poi vide Amalèk pronunciò il suo poema e disse: «Amalèk è la prima delle nazioni, ma il suo avvenire sarà la rovina». Poi vide i Keniti pronunciò il suo poema e disse: «Sicura è la tua dimora o Caino, e il tuo nido è aggrappato alla roccia. Ma sarà dato all’inc endio, finché Assur non ti deporterà in prigionia». Pronunciò ancora il suo poema e disse: «Ahi mè! Chi vivrà dopo che Dio avrà compiuto queste cose? Verranno navi dalla parte dei Chittìm e piegheranno Assur e piegheranno Eber, ma anch’egli andrà in perdizione». Poi Balaam si alzò e t
ornò nella sua terra mentre Balak se ne andò per la sua strada. Israele si stabilì a Sittìm e il popo lo cominciò a fornicare con le figlie di Moab. Esse invitarono il popolo ai sacrifici offerti ai loro d èi; il popolo mangiò e si prostrò davanti ai loro dèi. Israele aderì a Baal-Peor e l’ira del Signore si accese contro Israele. Il Signore disse a Mosè: «Prendi tutti i capi del p opolo e fa’ appendere al palo costoro davanti al Signore in faccia al sole e si allontanerà l’ira ard ente del Signore da Israele». Mosè disse ai giudici d’Israele: «Ognuno di voi uccida dei suoi uomi ni coloro che hanno aderito a Baal-Peor». Uno degli Israeliti venne e condusse ai suoi fratelli una donna madianita sotto gli occhi di Mosè e di tutta la comunità degli Israeliti mentre essi stavano piangendo all’ingresso della tend a del convegno. Vedendo ciò Fineès figlio di Eleàzaro figlio del sacerdote Aronne si alzò in mezz o alla comunità prese in mano una lancia, seguì quell’uomo di Israele nell’alcova e li trafisse tutt i e due, l’uomo d’Israele e la donna nel basso ventre. E il flagello si allontanò dagli Israeliti. Quell i che morirono per il flagello furono ventiquattromila. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Fineès, fi glio di Eleàzaro figlio del sacerdote Aronne ha allontanato la mia collera dagli Israeliti mostrand o la mia stessa gelosia in mezzo a loro e io nella mia gelosia non ho sterminato gli Israeliti. Perci ò digli che io stabilisco con lui la mia alleanza di pace; essa sarà per lui e per la sua discendenza dopo di lui un’alleanza di perenne sacerdozio perché egli ha avuto zelo per il suo Dio e ha compi uto il rito espiatorio per gli Israeliti». L’uomo d’Israele ucciso con la Madianita si chiamava Zimrì figlio di Salu principe di un casato paterno dei Simeoniti. La donna uccisa la Madianita si chiama va Cozbì figlia di Sur capo della gente di un casato in Madian. Il Signore parlò a Mosè e disse: «T
rattate i Madianiti da nemici e uccideteli poiché essi sono stati nemici per voi con le astuzie che hanno usato con voi nella vicenda di Peor e di Cozbì figlia di un principe di Madian loro sorella, c he è stata uccisa il giorno del flagello causato per il fatto di Peor». Dopo il flagello il Signore parl ò a Mosè e ad Eleàzaro figlio del sacerdote Aronne e disse: «Fate il computo di tutta la comunit à degli Israeliti dai vent’anni in su suddivisi secondo i loro casati paterni di quanti in Israele poss ono andare in guerra». Mosè e il sacerdote Eleàzaro dissero loro nelle steppe di Moab presso il Giordano di Gerico: «Si faccia il censimento dai vent’anni in su secondo quanto il Signore aveva ordinato a Mosè e agli Israeliti usciti dalla terra d’Egitto». Ruben primogenito d’Israele. Figli di R
uben: da Enoc discende la famiglia degli Enochiti; da Pallu discende la famiglia dei Palluiti; da Ch esron discende la famiglia dei Chesroniti; da Carmì discende la famiglia dei Carmiti. Tali sono le f amiglie dei Rubeniti: quelli che furono registrati erano quarantatremilasettecentotrenta. Figli di Pallu: Eliàb. Figli di Eliàb: Nemuèl Datan e Abiràm. Questi sono quel Datan e quell’Abiràm memb ri del consiglio che si ribellarono contro Mosè e contro Aronne con la gente di Core quando que sta si era ribellata contro il Signore; la terra spalancò la bocca e li inghiottì insieme con Core qua ndo quella gente perì e il fuoco divorò duecentocinquanta uomini che servirono d’esempio. Ma i figli di Core non perirono. Figli di Simeone secondo le loro famiglie: da Nemuèl discende la fam iglia dei Nemueliti; da Iamin la famiglia degli Iaminiti; da Iachin la famiglia degli Iachiniti; da Zera ch la famiglia degli Zerachiti; da Saul la famiglia dei Sauliti. Tali sono le famiglie dei Simeoniti. Ne
furono registrati ventiduemiladuecento. Figli di Gad secondo le loro famiglie: da Sefon discend e la famiglia dei Sefoniti; da Agghì la famiglia degli Agghiti; da Sunì la famiglia dei Suniti; da Oznì la famiglia degli Ozniti; da Erì la famiglia degli Eriti; da Arod la famiglia degli Aroditi; da Arelì la fa miglia degli Areliti. Tali sono le famiglie dei figli di Gad. Ne furono registrati quarantamilacinque cento. Figli di Giuda: Er e Onan; ma Er e Onan morirono nella terra di Canaan. I figli di Giuda sec ondo le loro famiglie furono: da Sela discende la famiglia dei Selaniti; da Peres la famiglia dei Pe resiti; da Zerach la famiglia degli Zerachiti. I figli di Peres furono: da Chesron discende la famiglia dei Chesroniti; da Camul discende la famiglia dei Camuliti. Tali sono le famiglie di Giuda. Ne fur ono registrati settantaseimilacinquecento. Figli di ìssacar secondo le loro famiglie: da Tola disce nde la famiglia dei Tolaiti; da Puva la famiglia dei Puviti; da Iasub la famiglia degli Iasubiti; da Si mron la famiglia dei Simroniti. Tali sono le famiglie di ìssacar. Ne furono registrati sessantaquatt romilatrecento. Figli di Zàbulon secondo le loro famiglie: da Sered discende la famiglia dei Sered iti; da Elon la famiglia degli Eloniti; da Iacleèl la famiglia degli Iacleeliti. Tali sono le famiglie degli Zabuloniti. Ne furono registrati sessantamilacinquecento. Figli di Giuseppe secondo le loro fami glie: Manasse ed èfraim. Figli di Manasse: da Machir discende la famiglia dei Machiriti. Machir g enerò Gàlaad. Da Gàlaad discende la famiglia dei Galaaditi. Questi sono i figli di Gàlaad: da Iezer discende la famiglia degli Iezeriti; da Chelek discende la famiglia dei Cheleciti; da Asrièl discend e la famiglia degli Asrieliti; da Sichem discende la famiglia dei Sichemiti; da Semidà discende la f amiglia dei Semidaiti; da Chefer discende la famiglia dei Cheferiti. Ora Selofcàd figlio di Chefer n on ebbe maschi ma soltanto figlie e le figlie di Selofcàd si chiamarono Macla Noa Cogla Milca e Tirsa. Tali sono le famiglie di Manasse. Ne furono registrati cinquantaduemilasettecento. Questi sono i figli di èfraim secondo le loro famiglie: da Sutèlach discende la famiglia dei Sutalchiti; da Becher la famiglia dei Becheriti; da Tacan la famiglia dei Tacaniti. Questi sono i figli di Sutèlach: da Eran discende la famiglia degli Eraniti. Tali sono le famiglie dei figli di èfraim. Ne furono regist rati trentaduemilacinquecento. Questi sono i figli di Giuseppe secondo le loro famiglie. Figli di B
eniamino secondo le loro famiglie: da Bela discende la famiglia dei Belaiti; da Asbel discende la f amiglia degli Asbeliti; da Achiràm discende la famiglia degli Achiramiti; da Sufam discende la fa miglia dei Sufamiti; da Cufam discende la famiglia dei Cufamiti. I figli di Bela furono Ard e Naam àn; da Ard discende la famiglia degli Arditi; da Naamàn discende la famiglia dei Naamiti. Tali son o i figli di Beniamino secondo le loro famiglie. Ne furono registrati quarantacinquemilaseicento.
Questi sono i figli di Dan secondo le loro famiglie: da Sucam discende la famiglia dei Sucamiti. S
ono queste le famiglie di Dan secondo le loro famiglie. Totale per le famiglie dei Sucamiti: ne fur ono registrati sessantaquattromilaquattrocento. Figli di Aser secondo le loro famiglie: da Imna d iscende la famiglia degli Imniti; da Isvì la famiglia degli Isviti; da Berià la famiglia dei Beriiti. Dai fi gli di Berià discendono: da Cheber discende la famiglia dei Cheberiti; da Malchièl discende la fa miglia dei Malchieliti. La figlia di Aser si chiamava Serach. Tali sono le famiglie dei figli di Aser. N
e furono registrati cinquantatremilaquattrocento. Figli di Nèftali secondo le loro famiglie: da Iac seèl discende la famiglia degli Iacseeliti; da Gunì la famiglia dei Guniti; da Ieser la famiglia degli I
eseriti; da Sillem la famiglia dei Sillemiti. Tali sono le famiglie di Nèftali secondo le loro famiglie.
Ne furono registrati quarantacinquemilaquattrocento. Questi sono gli Israeliti che furono registr ati: seicentounmilasettecentotrenta. Il Signore parlò a Mosè dicendo: «Tra costoro la terra sarà divisa in eredità secondo il numero delle persone. A chi è numeroso darai numerosa eredità e a chi è piccolo darai piccola eredità a ciascuno sarà data la sua eredità secondo il numero dei suoi censiti. La terra sarà divisa per sorteggio; essi riceveranno la rispettiva proprietà secondo i nomi delle loro tribù paterne. La ripartizione delle proprietà sarà gettata a sorte per tutte le tribù gra ndi o piccole». Questi sono i leviti dei quali si fece il censimento secondo le loro famiglie: da Gh erson discende la famiglia dei Ghersoniti; da Keat la famiglia dei Keatiti; da Merarì la famiglia de i Merariti. Queste sono le famiglie di Levi: la famiglia dei Libniti la famiglia degli Ebroniti la famig lia dei Macliti la famiglia dei Musiti la famiglia dei Coriti. Keat generò Amram. La moglie di Amra m si chiamava Iochebed figlia di Levi che nacque a Levi in Egitto; essa partorì ad Amram Aronne Mosè e Maria loro sorella. Ad Aronne nacquero Nadab e Abiu Eleàzaro e Itamàr. Ora Nadab e A biu morirono quando presentarono al Signore un fuoco illegittimo. I censiti furono ventitremila: tutti maschi, dall’età di un mese in su. Essi non furono compresi nel censimento degli Israeliti p erché non fu data loro alcuna proprietà tra gli Israeliti. Questi sono i censiti da Mosè e dal sacer dote Eleàzaro i quali fecero il censimento degli Israeliti nelle steppe di Moab presso il Giordano di Gerico. Fra questi non vi era alcuno di quegli Israeliti dei quali Mosè e il sacerdote Aronne ave vano fatto il censimento nel deserto del Sinai perché il Signore aveva detto di loro: «Dovranno morire nel deserto!». E non ne rimase neppure uno eccetto Caleb figlio di Iefunnè e Giosuè figli o di Nun. Si fecero avanti le figlie di Selofcàd figlio di Chefer figlio di Gàlaad, figlio di Machir figli o di Manasse delle famiglie di Manasse figlio di Giuseppe che si chiamavano Macla Noa, Cogla Milca e Tirsa. Si presentarono davanti a Mosè davanti al sacerdote Eleàzaro davanti ai prìncipi e a tutta la comunità all’ingresso della tenda del convegno e dissero: «Nostro padre è morto nel d eserto. Egli non era nella compagnia di coloro che si erano coalizzati contro il Signore non era d ella gente di Core ma è morto a causa del suo peccato senza figli maschi. Perché dovrebbe il no me di nostro padre scomparire dalla sua famiglia per il fatto che non ha avuto figli maschi? Dacc i una proprietà in mezzo ai fratelli di nostro padre». Mosè presentò la loro causa davanti al Sign ore. Il Signore disse a Mosè: «Le figlie di Selofcàd dicono bene. Darai loro in eredità una proprie tà tra i fratelli del loro padre e farai passare a esse l’eredità del loro padre. Parlerai inoltre agli Is raeliti e dirai: “Quando un uomo morirà senza lasciare un figlio maschio farete passare la sua er edità alla figlia. Se non ha neppure una figlia darete la sua eredità ai suoi fratelli. Se non ha frate lli darete la sua eredità ai fratelli del padre. Se non ci sono fratelli del padre darete la sua eredit à al parente più stretto nella sua cerchia familiare e quegli la possederà. Questa sarà per gli Isra eliti una norma di diritto secondo quanto il Signore ha ordinato a Mosè”». Il Signore disse a Mos è: «Sali su questo monte degli Abarìm e contempla la terra che io do agli Israeliti. Quando l’avrai vista anche tu sarai riunito ai tuoi padri come fu riunito Aronne tuo fratello perché vi siete ribell ati contro il mio ordine nel deserto di Sin quando la comunità si ribellò e non avete manifestato
la mia santità agli occhi loro a proposito di quelle acque». Sono le acque di Merìba di Kades nel deserto di Sin. Mosè disse al Signore: «Il Signore il Dio della vita di ogni essere vivente metta a c apo di questa comunità un uomo che li preceda nell’uscire e nel tornare li faccia uscire e li facci a tornare perché la comunità del Signore non sia un gregge senza pastore». Il Signore disse a M
osè: «Prenditi Giosuè figlio di Nun uomo in cui è lo spirito; porrai la mano su di lui lo farai comp arire davanti al sacerdote Eleàzaro e davanti a tutta la comunità gli darai i tuoi ordini sotto i loro occhi e porrai su di lui una parte della tua autorità, perché tutta la comunità degli Israeliti gli ob bedisca. Egli si presenterà davanti al sacerdote Eleàzaro che consulterà per lui il giudizio degli ur ìm davanti al Signore; egli e tutti gli Israeliti con lui e tutta la comunità usciranno all’ordine di El eàzaro ed entreranno all’ordine suo». Mosè fece come il Signore gli aveva ordinato; prese Giosu è e lo fece comparire davanti al sacerdote Eleàzaro e davanti a tutta la comunità pose su di lui l e mani e gli diede i suoi ordini come il Signore aveva detto per mezzo di Mosè. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Ordina agli Israeliti e di’ loro: “Avrete cura di presentarmi al tempo stabilito l’off erta l’alimento dei miei sacrifici da consumare con il fuoco profumo a me gradito”. Dirai loro: “
Questo è il sacrificio consumato dal fuoco che offrirete al Signore: agnelli dell’anno senza difetti due al giorno come olocausto perenne. Offrirai il primo agnello la mattina e l’altro agnello lo off rirai al tramonto; come oblazione un decimo di efa di fior di farina impastata con un quarto di hi n di olio puro. Tale è l’olocausto perenne offerto presso il monte Sinai: sacrificio consumato dal fuoco profumo gradito al Signore. La libagione sarà di un quarto di hin per il primo agnello; la lib agione sarà versata nel santuario bevanda inebriante in onore del Signore. Offrirai il secondo ag nello al tramonto con un’oblazione e una libagione simili a quelle della mattina: è un sacrificio c onsumato dal fuoco profumo gradito al Signore. Nel giorno di sabato offrirete due agnelli dell’a nno senza difetti; come oblazione due decimi di fior di farina impastata con olio con la sua libagi one. è l’olocausto del sabato per ogni sabato oltre l’olocausto perenne e la sua libagione. Al prin cipio dei vostri mesi offrirete come olocausto al Signore due giovenchi un ariete, sette agnelli d ell’anno senza difetti e tre decimi di fior di farina impastata con olio come oblazione per ciascun giovenco; due decimi di fior di farina impastata con olio per il solo ariete, e ciascuna volta un d ecimo di fior di farina impastata con olio come oblazione per ogni agnello. è un olocausto di pro fumo gradito un sacrificio consumato dal fuoco in onore del Signore. Le libagioni saranno di un mezzo hin di vino per giovenco di un terzo di hin per l’ariete e di un quarto di hin per agnello. è l
’olocausto del mese per tutti i mesi dell’anno. Si offrirà al Signore un capro in sacrificio per il pec cato oltre l’olocausto perenne e la sua libagione. Il primo mese il giorno quattordici del mese sa rà la Pasqua del Signore. Il giorno quindici di quel mese sarà giorno di festa. Per sette giorni si m angerà pane azzimo. Il primo giorno si terrà una riunione sacra; non farete alcun lavoro servile.
Offrirete in sacrificio consumato dal fuoco un olocausto al Signore: due giovenchi un ariete e set te agnelli dell’anno senza difetti. La loro oblazione sarà fior di farina impastata con olio: ne offrir ete tre decimi per giovenco e due per l’ariete, ne offrirai un decimo per volta per ciascuno dei s ette agnelli e offrirai un capro come sacrificio per il peccato per compiere il rito espiatorio su di
voi. Offrirete questi sacrifici oltre l’olocausto della mattina che è un olocausto perenne. Li offrir ete ogni giorno per sette giorni; è un alimento consumato dal fuoco un sacrificio di profumo gra dito al Signore. Lo si offrirà oltre l’olocausto perenne con la sua libagione. Il settimo giorno terre te una riunione sacra; non farete alcun lavoro servile. Il giorno delle primizie quando presentere te al Signore un’oblazione nuova alla vostra festa delle Settimane terrete una riunione sacra; no n farete alcun lavoro servile. Offrirete in olocausto di profumo gradito al Signore due giovenchi un ariete e sette agnelli dell’anno. La loro oblazione sarà fior di farina impastata con olio: tre de cimi per ogni giovenco due decimi per il solo ariete e un decimo ogni volta per ciascuno dei sett e agnelli. Offrirete un capro per compiere il rito espiatorio per voi. Offrirete questi sacrifici oltre l’olocausto perenne e la sua oblazione. Sceglierete animali senza difetti e vi aggiungerete le loro libagioni. Il settimo mese il primo del mese terrete una riunione sacra; non farete alcun lavoro servile. Sarà per voi il giorno dell’acclamazione con le trombe. Offrirete in olocausto di profumo gradito al Signore un giovenco un ariete sette agnelli dell’anno senza difetti. La loro oblazione s arà fior di farina impastata con olio: tre decimi per il giovenco, due decimi per l’ariete un decim o per ciascuno dei sette agnelli. Offrirete inoltre un capro in sacrificio per il peccato per compier e il rito espiatorio per voi oltre l’olocausto del mese con la sua oblazione e l’olocausto perenne c on la sua oblazione e le loro libagioni secondo il loro rito. Sarà un sacrificio consumato dal fuoco profumo gradito al Signore. Il dieci di questo settimo mese terrete una riunione sacra e vi umili erete; non farete alcun lavoro e offrirete in olocausto di profumo gradito al Signore un giovenco un ariete sette agnelli dell’anno senza difetti. La loro oblazione sarà fior di farina impastata con olio: tre decimi per il giovenco due decimi per il solo ariete un decimo ogni volta per ciascuno d ei sette agnelli. Offrirete inoltre un capro in sacrificio per il peccato oltre il sacrificio per il peccat o del rito espiatorio e oltre l’olocausto perenne con la sua oblazione e le loro libagioni. Il quindic esimo giorno del settimo mese terrete una riunione sacra; non farete alcun lavoro servile e cele brerete una festa in onore del Signore per sette giorni. Offrirete in olocausto come sacrificio co nsumato dal fuoco profumo gradito al Signore tredici giovenchi due arieti, quattordici agnelli de ll’anno senza difetti. La loro oblazione sarà fior di farina impastata con olio: tre decimi per ciasc uno dei tredici giovenchi due decimi per ciascuno dei due arieti, un decimo ogni volta per ciascu no dei quattordici agnelli. Offrirete inoltre un capro in sacrificio per il peccato oltre l’olocausto p erenne con la sua oblazione e la sua libagione. Il secondo giorno offrirete dodici giovenchi due a rieti quattordici agnelli dell’anno senza difetti con le loro oblazioni e le libagioni per i giovenchi gli arieti e gli agnelli secondo il numero e il rito e un capro in sacrificio per il peccato oltre l’oloca usto perenne la sua oblazione e le loro libagioni. Il terzo giorno offrirete undici giovenchi due ari eti quattordici agnelli dell’anno senza difetti con le loro oblazioni e le loro libagioni per i giovenc hi gli arieti e gli agnelli secondo il loro numero e il rito, e un capro in sacrificio per il peccato oltr e l’olocausto perenne la sua oblazione e la sua libagione. Il quarto giorno offrirete dieci giovenc hi due arieti quattordici agnelli dell’anno senza difetti con le loro offerte e le loro libagioni per i giovenchi gli arieti e gli agnelli secondo il loro numero e il rito e un capro in sacrificio per il pecc
ato, oltre l’olocausto perenne la sua oblazione e la sua libagione. Il quinto giorno offrirete nove giovenchi due arieti quattordici agnelli dell’anno senza difetti con le loro oblazioni e le loro libag ioni per i giovenchi gli arieti e gli agnelli secondo il loro numero e il rito, e un capro in sacrificio p er il peccato oltre l’olocausto perenne la sua oblazione e la sua libagione. Il sesto giorno offriret e otto giovenchi due arieti quattordici agnelli dell’anno senza difetti con le loro oblazioni e le lor o libagioni per i giovenchi gli arieti e gli agnelli secondo il loro numero e il rito e un capro in sacri ficio per il peccato oltre l’olocausto perenne la sua oblazione e la sua libagione. Il settimo giorn o offrirete sette giovenchi due arieti quattordici agnelli dell’anno senza difetti, con le loro oblazi oni e le loro libagioni per i giovenchi gli arieti e gli agnelli secondo il loro numero e il rito e un ca pro in sacrificio per il peccato oltre l’olocausto perenne, la sua oblazione e la sua libagione. L’ott avo giorno terrete una riunione sacra; non farete alcun lavoro servile; offrirete in olocausto co me sacrificio consumato dal fuoco, profumo gradito al Signore un giovenco un ariete sette agne lli dell’anno senza difetti, con le loro oblazioni e le loro libagioni per il giovenco l’ariete e gli agn elli secondo il loro numero e il rito e un capro in sacrificio per il peccato oltre l’olocausto perenn e la sua oblazione e la sua libagione. Questi sono i sacrifici che offrirete al Signore nelle vostre s olennità oltre i vostri voti e le vostre offerte spontanee si tratti dei vostri olocausti o delle vostr e oblazioni o delle vostre libagioni o dei vostri sacrifici di comunione”». Mosè riferì agli Israeliti quanto il Signore gli aveva ordinato. Mosè disse ai capi delle tribù degli Israeliti: «Questo il Sign ore ha ordinato: “Quando uno avrà fatto un voto al Signore o si sarà impegnato con giuramento a un obbligo non violi la sua parola ma dia esecuzione a quanto ha promesso con la bocca. Qua ndo una donna avrà fatto un voto al Signore e si sarà impegnata a un obbligo, mentre è ancora i n casa del padre durante la sua giovinezza se il padre venuto a conoscenza del voto di lei e dell’
obbligo al quale si è impegnata non dice nulla tutti i voti di lei saranno validi e saranno validi tut ti gli obblighi ai quali si sarà impegnata. Ma se il padre quando ne viene a conoscenza le fa oppo sizione tutti i voti di lei e tutti gli obblighi ai quali si sarà impegnata non saranno validi; il Signore la perdonerà perché il padre le ha fatto opposizione. Se si sposa quando è legata da voti o da u n obbligo assunto alla leggera con le labbra se il marito ne ha conoscenza e quando viene a con oscenza non dice nulla i voti di lei saranno validi e saranno validi gli obblighi da lei assunti. Ma s e il marito, quando ne viene a conoscenza le fa opposizione egli annullerà il voto che ella ha fatt o e l’obbligo che si è assunta alla leggera; il Signore la perdonerà. Ma il voto di una vedova o di una donna ripudiata qualunque sia l’obbligo che si è assunta rimarrà valido. Se una donna nella casa del marito farà voti o si impegnerà con giuramento a un obbligo e il marito ne avrà conosc enza se il marito non dice nulla e non le fa opposizione tutti i voti di lei saranno validi e saranno validi tutti gli obblighi da lei assunti. Ma se il marito quando ne viene a conoscenza li annulla qu anto le sarà uscito dalle labbra voti od obblighi non sarà valido: il marito lo ha annullato; il Signo re la perdonerà. Il marito può ratificare e il marito può annullare qualunque voto e qualunque gi uramento per il quale ella sia impegnata a mortificarsi. Ma se il marito con il passare dei giorni non dice nulla in proposito egli ratifica così tutti i voti di lei e tutti gli obblighi da lei assunti; li rat
ifica perché non ha detto nulla a questo proposito quando ne ha avuto conoscenza. Ma se li ann ulla qualche tempo dopo averne avuto conoscenza porterà il peso della colpa della moglie”». Q
ueste sono le leggi che il Signore prescrisse a Mosè riguardo al marito e alla moglie al padre e all a figlia quando questa è ancora fanciulla in casa del padre. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Co mpi la vendetta degli Israeliti contro i Madianiti quindi sarai riunito ai tuoi padri». Mosè disse al popolo: «Si armino fra voi uomini per l’esercito e marcino contro Madian per eseguire la vendet ta del Signore su Madian. Manderete in guerra mille uomini per tribù per tutte le tribù d’Israele
». Così furono reclutati tra le migliaia d’Israele, mille uomini per tribù cioè dodicimila armati per la guerra. Mosè mandò in guerra quei mille uomini per tribù e con loro Fineès figlio del sacerdo te Eleàzaro il quale portava gli oggetti sacri e aveva in mano le trombe dell’acclamazione. Marci arono dunque contro Madian come il Signore aveva ordinato a Mosè e uccisero tutti i maschi. T
ra i caduti uccisero anche i re di Madian Evì Rekem Sur Cur e Reba, cioè cinque re di Madian; uc cisero di spada anche Balaam figlio di Beor. Gli Israeliti fecero prigioniere le donne di Madian e i loro fanciulli e catturarono come bottino tutto il loro bestiame tutte le loro greggi e ogni loro b ene; appiccarono il fuoco a tutte le città che quelli abitavano e a tutti i loro recinti e presero tutt o il bottino e tutta la preda gente e bestiame. Poi condussero i prigionieri la preda e il bottino a Mosè al sacerdote Eleàzaro e alla comunità degli Israeliti accampati nelle steppe di Moab press o il Giordano di Gerico. Mosè il sacerdote Eleàzaro e tutti i prìncipi della comunità uscirono loro incontro fuori dell’accampamento. Mosè si adirò contro i comandanti dell’esercito capi di miglia ia e capi di centinaia che tornavano da quella spedizione di guerra. Mosè disse loro: «Avete lasci ato in vita tutte le femmine? Proprio loro per suggerimento di Balaam hanno insegnato agli Isra eliti l’infedeltà verso il Signore nella vicenda di Peor per cui venne il flagello nella comunità del S
ignore. Ora uccidete ogni maschio tra i fanciulli e uccidete ogni donna che si è unita con un uom o; ma tutte le fanciulle che non si sono unite con uomini conservatele in vita per voi. Voi poi acc ampatevi per sette giorni fuori del campo; chiunque ha ucciso qualcuno e chiunque ha toccato un caduto si purifichi il terzo e il settimo giorno: questo tanto per voi quanto per i vostri prigioni eri. Purificherete anche ogni veste ogni oggetto di pelle ogni lavoro di pelo di capra e ogni ogget to di legno». Il sacerdote Eleàzaro disse agli uomini dell’esercito che erano andati alla battaglia:
«Questa è la norma della legge che il Signore ha prescritto a Mosè: “L’oro l’argento il bronzo il f erro lo stagno e il piombo, quanto può sopportare il fuoco lo farete passare per il fuoco e sarà r eso puro purché venga purificato anche con l’acqua della purificazione; quanto non può soppor tare il fuoco lo farete passare per l’acqua. Laverete anche le vostre vesti il settimo giorno e sare te puri; poi potrete entrare nell’accampamento”». Il Signore disse a Mosè: «Tu con il sacerdote Eleàzaro e con i capi dei casati della comunità fa’ il computo di tutta la preda che è stata fatta: d ella gente e del bestiame; dividi la preda a metà fra coloro che usciti in guerra hanno sostenuto la battaglia e tutta la comunità. Dalla parte spettante ai soldati che sono usciti in guerra preleve rai un contributo per il Signore: cioè un individuo su cinquecento tanto delle persone quanto de l bestiame grosso degli asini e del bestiame minuto. Lo prenderete sulla metà di loro spettanza
e lo darai al sacerdote Eleàzaro, come offerta da presentare quale contributo in onore del Signo re. Della metà che spetta agli Israeliti prenderai una quota di uno su cinquanta tanto delle perso ne quanto del bestiame grosso, degli asini e del bestiame minuto; la darai ai leviti che hanno la custodia della Dimora del Signore». Mosè e il sacerdote Eleàzaro fecero come il Signore aveva o rdinato a Mosè. Il bottino cioè tutto ciò che rimaneva della preda fatta dagli uomini dell’esercit o consisteva in seicentosettantacinquemila capi di bestiame minuto, settantaduemila capi di be stiame grosso sessantunmila asini e trentaduemila persone ossia donne che non si erano unite c on uomini. La metà cioè la parte di quelli che erano usciti in guerra fu di trecentotrentasettemil acinquecento capi di bestiame minuto dei quali seicentosettantacinque per il tributo al Signore; trentaseimila capi di bestiame grosso dei quali settantadue per il tributo al Signore; trentamilac inquecento asini dei quali sessantuno per il tributo al Signore e sedicimila persone delle quali tr entadue per il tributo al Signore. Mosè diede al sacerdote Eleàzaro il contributo dell’offerta prel evata per il Signore come il Signore gli aveva ordinato. La metà che spettava agli Israeliti dopo c he Mosè ebbe fatto la spartizione per gli uomini dell’esercito la metà spettante alla comunità fu di trecentotrentasettemilacinquecento capi di bestiame minuto, trentaseimila capi di bestiame grosso trentamilacinquecento asini e sedicimila persone. Da questa metà che spettava agli Israe liti, Mosè prese la quota di uno su cinquanta degli uomini e degli animali e li diede ai leviti che h anno la custodia della Dimora del Signore come il Signore aveva ordinato a Mosè. I comandanti delle migliaia dell’esercito capi di migliaia e capi di centinaia si avvicinarono a Mosè e gli dissero
: «I tuoi servi hanno fatto il computo dei soldati che erano sotto i nostri ordini e non ne manca n eppure uno. Per questo portiamo in offerta al Signore ognuno quello che ha trovato di oggetti d
‘oro: bracciali braccialetti anelli pendenti, collane per compiere il rito espiatorio per le nostre pe rsone davanti al Signore». Mosè e il sacerdote Eleàzaro presero da loro quell’oro tutti gli oggetti lavorati. Tutto l’oro del contributo che prelevarono per il Signore da parte dei capi di migliaia e dei capi di centinaia pesava sedicimilasettecentocinquanta sicli. Gli uomini dell’esercito si tenne ro il bottino che ognuno aveva fatto per conto suo. Mosè e il sacerdote Eleàzaro presero l’oro d ei capi di migliaia e di centinaia e lo portarono nella tenda del convegno come memoriale per gli Israeliti davanti al Signore. I figli di Ruben e i figli di Gad avevano bestiame in numero molto gra nde; quando videro che la terra di Iazer e la terra di Gàlaad erano luoghi da bestiame i figli di Ga d e i figli di Ruben vennero a parlare a Mosè al sacerdote Eleàzaro e ai prìncipi della comunità e dissero: «Ataròt Dibon Iazer Nimra Chesbon Elalè, Sebam Nebo e Beon terre che il Signore ha co lpito alla presenza della comunità d’Israele sono terre da bestiame e i tuoi servi hanno appunto il bestiame». Aggiunsero: «Se abbiamo trovato grazia ai tuoi occhi sia concesso ai tuoi servi il po ssesso di questa regione: non farci passare il Giordano». Ma Mosè rispose ai figli di Gad e ai figli di Ruben: «Andrebbero dunque i vostri fratelli in guerra e voi ve ne stareste qui? Perché volete scoraggiare gli Israeliti dal passare nella terra che il Signore ha dato loro? Così fecero i vostri pad ri quando li mandai da Kades-Barnea per esplorare la terra. Salirono fino alla valle di Escol e dopo aver esplorato la terra scor
aggiarono gli Israeliti dall’entrare nella terra che il Signore aveva loro dato. Così l’ira del Signore si accese in quel giorno ed egli giurò: “Gli uomini che sono usciti dall’Egitto dai vent’anni in su n on vedranno mai la terra che ho promesso con giuramento ad Abramo a Isacco e a Giacobbe pe rché non mi hanno seguito pienamente, se non Caleb figlio di Iefunnè il Kenizzita e Giosuè figlio di Nun che hanno seguito il Signore pienamente”. L’ira del Signore si accese dunque contro Isra ele; lo fece errare nel deserto per quarant’anni finché non fosse finita tutta la generazione che a veva agito male agli occhi del Signore. Ed ecco voi sorgete al posto dei vostri padri, razza di uom ini peccatori per aumentare ancora l’ardore dell’ira del Signore contro Israele. Perché se voi vi ri traete dal seguirlo il Signore continuerà a lasciarlo nel deserto e voi avrete causato la perdita di tutto questo popolo». Ma quelli si avvicinarono a lui e gli dissero: «Costruiremo qui recinti per il nostro bestiame e città per i nostri fanciulli; ma quanto a noi ci armeremo in fretta per marciar e davanti agli Israeliti finché li avremo introdotti nel luogo destinato loro. Intanto i nostri fanciul li dimoreranno nelle città fortificate per timore degli abitanti della regione. Non torneremo alle nostre case finché ogni Israelita non abbia ereditato ciascuno la sua eredità non prenderemo nu lla in eredità con loro al di là del Giordano e più oltre perché la nostra eredità ci è toccata da qu esta parte del Giordano a oriente». Allora Mosè disse loro: «Se fate questo se vi armerete dava nti al Signore per andare a combattere se tutti quelli di voi che si armeranno passeranno il Gior dano davanti al Signore finché egli abbia scacciato i suoi nemici dalla sua presenza se non torne rete fin quando la terra sia stata sottomessa davanti al Signore voi sarete innocenti di fronte al Signore e di fronte a Israele e questa terra sarà vostra proprietà alla presenza del Signore. Ma s e non fate così voi peccherete contro il Signore; sappiate che il vostro peccato vi raggiungerà. C
ostruitevi pure città per i vostri fanciulli e recinti per le vostre greggi ma fate quello che la vostr a bocca ha promesso». I figli di Gad e i figli di Ruben dissero a Mosè: «I tuoi servi faranno quello che il mio signore comanda. I nostri fanciulli le nostre donne le nostre greggi e tutto il nostro b estiame rimarranno qui nelle città di Gàlaad; ma i tuoi servi tutti armati per la guerra andranno a combattere davanti al Signore come dice il mio signore». Allora Mosè diede per loro ordini al sacerdote Eleàzaro a Giosuè, figlio di Nun e ai capi delle famiglie delle tribù degli Israeliti. Mosè disse loro: «Se i figli di Gad e i figli di Ruben passeranno con voi il Giordano tutti armati per com battere davanti al Signore e se la terra sarà sottomessa davanti a voi darete loro in possesso la t erra di Gàlaad. Ma se non passeranno armati con voi avranno la loro proprietà in mezzo a voi ne lla terra di Canaan». I figli di Gad e i figli di Ruben risposero: «Faremo come il Signore ha ordinat o ai tuoi servi. Passeremo armati davanti al Signore nella terra di Canaan ma quanto a noi il poss esso della nostra eredità è di qua dal Giordano». Mosè dunque diede ai figli di Gad e ai figli di R
uben e a metà della tribù di Manasse figlio di Giuseppe il regno di Sicon re degli Amorrei e il reg no di Og re di Basan: il territorio con le sue città comprese entro i confini le città del territorio c he si stendeva all’intorno. I figli di Gad ricostruirono Dibon Ataròt Aroèr, Atròt-Sofan Iazer Iogbea Bet-Nimra e Bet-
Aran città fortificate e fecero recinti per le greggi. I figli di Ruben ricostruirono Chesbon, Elalè Ki
riatàim Nebo e Baal-
Meon i cui nomi furono mutati e Sibma e diedero nomi alle città che avevano ricostruito. I figli d i Machir figlio di Manasse, andarono nella terra di Gàlaad la presero e ne cacciarono gli Amorrei che vi abitavano. Mosè allora diede Gàlaad a Machir figlio di Manasse che vi si stabilì. Anche Iai r figlio di Manasse andò e prese i loro villaggi e li chiamò villaggi di Iair. Nobach andò e prese Ke nat con le dipendenze e la chiamò con il proprio nome Nobach. Queste sono le tappe degli Israe liti che uscirono dalla terra d’Egitto ordinati secondo le loro schiere sotto la guida di Mosè e di A ronne. Mosè scrisse i loro punti di partenza tappa per tappa per ordine del Signore; queste sono le loro tappe nell’ordine dei loro punti di partenza. Partirono da Ramses il primo mese il quindic esimo giorno del primo mese. Il giorno dopo la Pasqua gli Israeliti uscirono a mano alzata sotto gli occhi di tutto l’Egitto mentre gli Egiziani seppellivano quelli che il Signore aveva colpito fra lo ro cioè tutti i primogeniti quando il Signore aveva pronunciato il suo giudizio anche sui loro dèi.
Gli Israeliti partirono dunque da Ramses e si accamparono a Succot. Partirono da Succot e si acc amparono a Etam che è sull’estremità del deserto. Partirono da Etam e piegarono verso Pi-Achiròt che è di fronte a Baal-Sefòn e si accamparono davanti a Migdol. Partirono da Pi-Achiròt, passarono in mezzo al mare in direzione del deserto fecero tre giornate di marcia nel d eserto di Etam e si accamparono a Mara. Partirono da Mara e giunsero a Elìm; a Elìm c’erano do dici sorgenti di acqua e settanta palme: qui si accamparono. Partirono da Elìm e si accamparono presso il Mar Rosso. Partirono dal Mar Rosso e si accamparono nel deserto di Sin. Partirono dal deserto di Sin e si accamparono a Dofka. Partirono da Dofka e si accamparono ad Alus. Partiron o da Alus e si accamparono a Refidìm dove non c’era acqua da bere per il popolo. Partirono da R
efidìm e si accamparono nel deserto del Sinai. Partirono dal deserto del Sinai e si accamparono a Kibrot-Taavà. Partirono da Kibrot-Taavà e si accamparono a Caseròt. Partirono da Caseròt e si accamparono a Ritma. Partirono da Ritma e si accamparono a Rimmòn-Peres. Partirono da Rimmòn-Peres e si accamparono a Libna. Partirono da Libna e si accamparono a Rissa. Partirono da Rissa e si accamparono a Keelata. Partirono da Keelata e si accamparono al monte Sefer. Partirono da l monte Sefer e si accamparono a Caradà. Partirono da Caradà e si accamparono a Makelòt. Part irono da Makelòt e si accamparono a Tacat. Partirono da Tacat e si accamparono a Tarach. Parti rono da Tarach e si accamparono a Mitka. Partirono da Mitka e si accamparono a Casmonà. Par tirono da Casmonà e si accamparono a Moseròt. Partirono da Moseròt e si accamparono a Ben e-Iaakàn. Partirono da Bene-Iaakàn e si accamparono a Or-Ghidgad. Partirono da Or-Ghidgad e si accamparono a Iotbata. Partirono da Iotbata e si accamparono ad Abronà. Partiron o da Abronà e si accamparono a Esion-Ghèber. Partirono da Esion-Ghèber e si accamparono nel deserto di Sin cioè a Kades. Poi partirono da Kades e si accamparo no al monte Or all’estremità della terra di Edom. Il sacerdote Aronne salì sul monte Or per ordin e del Signore e in quel luogo morì il quarantesimo anno dopo l’uscita degli Israeliti dalla terra d’
Egitto il quinto mese il primo giorno del mese. Aronne era in età di centoventitré anni quando
morì sul monte Or. Il cananeo re di Arad che abitava nel Negheb nella terra di Canaan venne a s apere che gli Israeliti arrivavano. Partirono dal monte Or e si accamparono a Salmonà. Partirono da Salmonà e si accamparono a Punon. Partirono da Punon e si accamparono a Obot. Partirono da Obot e si accamparono a Iie-Abarìm sui confini di Moab. Partirono da Iie-Abarìm e si accamparono a Dibon-Gad. Partirono da Dibon-Gad e si accamparono ad Almon-Diblatàim. Partirono da Almon-
Diblatàim e si accamparono ai monti Abarìm di fronte al Nebo. Partirono dai monti Abarìm e si a ccamparono nelle steppe di Moab presso il Giordano di Gerico. Si accamparono presso il Giorda no da Bet-Iesimòt fino ad Abel-Sittìm nelle steppe di Moab. Il Signore parlò a Mosè nelle steppe di Moab presso il Giordano di Gerico e disse: «Parla agli Israeliti dicendo loro: “Quando avrete attraversato il Giordano verso l a terra di Canaan e avrete cacciato dinanzi a voi tutti gli abitanti della terra distruggerete tutte l e loro immagini distruggerete tutte le loro statue di metallo fuso e devasterete tutte le loro altu re. Prenderete possesso della terra e in essa vi stabilirete poiché io vi ho dato la terra perché la possediate. Dividerete la terra a sorte secondo le vostre famiglie. A chi è numeroso darai numer osa eredità e a chi è piccolo darai piccola eredità. Ognuno avrà quello che gli sarà toccato in sort e; farete la divisione secondo le tribù dei vostri padri. Ma se non caccerete dinanzi a voi gli abita nti della terra, quelli di loro che vi avrete lasciati saranno per voi come spine negli occhi e pungo li nei fianchi e vi tratteranno da nemici nella terra in cui abiterete. Allora io tratterò voi come mi ero proposto di trattare loro”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Ordina agli Israeliti e di’ loro: “
Quando entrerete nella terra di Canaan questa sarà la terra che vi toccherà in eredità: la terra di Canaan secondo i suoi confini. Il vostro confine meridionale comincerà al deserto di Sin a lato d i Edom; così la vostra frontiera meridionale partirà dall’estremità del Mar Morto a oriente; ques ta frontiera volgerà al sud della salita di Akrabbìm passerà per Sin e si estenderà a mezzogiorno di Kades-Barnea; poi continuerà verso Casar-Addar e passerà per Asmon. Da Asmon la frontiera girerà fino al torrente d’Egitto e finirà al mar e. La vostra frontiera a occidente sarà il Mare Grande: quella sarà la vostra frontiera occidentale
. Questa sarà la vostra frontiera settentrionale: partendo dal Mare Grande traccerete una linea fino al monte Or; dal monte Or la traccerete fino all’ingresso di Camat e l’estremità della frontie ra sarà a Sedad; la frontiera continuerà fino a Zifron e finirà a Casar-Enàn: questa sarà la vostra frontiera settentrionale. Traccerete la vostra frontiera orientale da C
asar-
Enan a Sefam; la frontiera scenderà da Sefam verso Ribla a oriente di Ain; poi la frontiera scend erà e si estenderà lungo il mare di Chinneret a oriente; poi la frontiera scenderà lungo il Giorda no e finirà al Mar Morto. Questa sarà la vostra terra con le sue frontiere tutt’intorno”». Mosè di ede quest’ordine agli Israeliti dicendo: «Questa è la terra che vi distribuirete a sorte e che il Sign ore ha ordinato di dare a nove tribù e mezza; poiché la tribù dei figli di Ruben secondo i loro cas ati paterni e la tribù dei figli di Gad secondo i loro casati paterni e metà della tribù di Manasse h
anno ricevuto la loro porzione. Queste due tribù e mezza hanno ricevuto la loro porzione oltre il Giordano di Gerico dal lato orientale». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Questi sono i nomi degl i uomini che spartiranno la terra fra voi: il sacerdote Eleàzaro e Giosuè figlio di Nun. Prenderete anche un principe uno per ogni tribù per fare la spartizione della terra. Ecco i nomi di questi uo mini. Per la tribù di Giuda Caleb figlio di Iefunnè. Per la tribù dei figli di Simeone Samuele figlio d i Ammiù d. Per la tribù di Beniamino Elidàd figlio di Chislon. Per la tribù dei figli di Dan il principe Bukkì figlio di Ioglì. Per i figli di Giuseppe per la tribù dei figli di Manasse il principe Cannièl figlio di Efod; per la tribù dei figli di èfraim il principe Kemuèl figlio di Siftan. Per la tribù dei figli di Zà bulon il principe Elisafàn figlio di Parnac. Per la tribù dei figli di ìssacar il principe Paltièl figlio di Azzan. Per la tribù dei figli di Aser il principe Achiù d figlio di Selomì. Per la tribù dei figli di Nèfta li il principe Pedaèl, figlio di Ammiù d». Questi sono coloro ai quali il Signore ordinò di spartire il possesso della terra di Canaan tra gli Israeliti. Il Signore parlò a Mosè nelle steppe di Moab pres so il Giordano di Gerico e disse: «Ordina agli Israeliti che dell’eredità che possederanno riservin o ai leviti città da abitare; darete anche ai leviti il terreno che è intorno alle città. Essi avranno le città per abitarvi e il terreno intorno servirà per il loro bestiame per i loro beni e per tutti i loro animali. Il terreno delle città che darete ai leviti si estenderà per lo spazio di mille cubiti fuori da lle mura della città tutt’intorno. Misurerete dunque all’esterno della città duemila cubiti dal lato orientale duemila cubiti dal lato meridionale duemila cubiti dal lato occidentale e duemila cubit i dal lato settentrionale; la città sarà in mezzo. Tali saranno i terreni di ciascuna delle loro città.
Fra le città che darete ai leviti sei saranno città di asilo che voi designerete perché vi si rifugi l’o micida: a queste aggiungerete altre quarantadue città. Tutte le città che darete ai leviti saranno dunque quarantotto con i relativi terreni. Le città che darete ai leviti verranno prese dalla propri età degli Israeliti: da chi ha molto prenderete molto da chi ha meno prenderete meno; ognuno ai leviti darà delle sue città in proporzione della parte che avrà ereditato». Il Signore parlò a Mo sè e disse: «Parla agli Israeliti dicendo loro: “Quando avrete attraversato il Giordano verso la ter ra di Canaan, designerete città che siano per voi città di asilo dove possa rifugiarsi l’omicida che avrà ucciso qualcuno involontariamente. Queste città vi serviranno di asilo contro il vendicatore del sangue perché l’omicida non sia messo a morte prima di comparire in giudizio dinanzi alla c omunità. Delle città che darete sei saranno dunque per voi città di asilo. Darete tre città di qua dal Giordano e darete tre altre città nella terra di Canaan; saranno città di asilo. Queste sei città serviranno di asilo agli Israeliti al forestiero e all’ospite che soggiornerà in mezzo a voi perché vi si rifugi chiunque abbia ucciso qualcuno involontariamente. Ma se uno colpisce un altro con un o strumento di ferro e quello muore quel tale è omicida; l’omicida dovrà essere messo a morte.
Se lo colpisce con una pietra che aveva in mano atta a causare la morte e il colpito muore quel t ale è un omicida; l’omicida dovrà essere messo a morte. O se lo colpisce con uno strumento di l egno che aveva in mano atto a causare la morte e il colpito muore quel tale è un omicida; l’omic ida dovrà essere messo a morte. Sarà il vendicatore del sangue quello che metterà a morte l’om icida; quando lo incontrerà lo ucciderà. Se uno dà a un altro una spinta per odio o gli getta contr
o qualcosa con premeditazione e quello muore o lo colpisce per inimicizia con la mano e quello muore chi ha colpito dovrà essere messo a morte; egli è un omicida e il vendicatore del sangue ucciderà l’omicida quando lo incontrerà. Ma se gli dà una spinta per caso e non per inimicizia o gli getta contro qualcosa senza premeditazione o se senza vederlo gli fa cadere addosso una pie tra che possa causare la morte e quello ne muore senza che l’altro gli fosse nemico o gli volesse fare del male, allora ecco le regole secondo le quali la comunità giudicherà fra colui che ha colpi to e il vendicatore del sangue. La comunità libererà l’omicida dalle mani del vendicatore del san gue e lo farà tornare alla città di asilo dove era fuggito. Lì dovrà abitare fino alla morte del som mo sacerdote che fu unto con l’olio santo. Ma se l’omicida esce dai confini della città di asilo do ve si era rifugiato e se il vendicatore del sangue lo trova fuori dei confini della sua città di asilo e uccide l’omicida il vendicatore del sangue non sarà reo del sangue versato. Perché l’omicida de ve stare nella sua città di asilo fino alla morte del sommo sacerdote; dopo la morte del sommo s acerdote, l’omicida potrà tornare nella terra di sua proprietà. Queste saranno per voi le regole di giudizio di generazione in generazione in tutte le vostre residenze. Se uno uccide un altro l’o micida sarà messo a morte in seguito a deposizione di testimoni ma un unico testimone non bas terà per condannare a morte una persona. Non accetterete prezzo di riscatto per la vita di un o micida reo di morte perché dovrà essere messo a morte. Non accetterete prezzo di riscatto che permetta all’omicida di fuggire dalla sua città di asilo e di tornare ad abitare nella sua terra fino alla morte del sacerdote. Non contaminerete la terra dove sarete perché il sangue contamina la terra e per la terra non vi è espiazione del sangue che vi è stato sparso se non mediante il sang ue di chi l’ha sparso. Non contaminerete dunque la terra che andate ad abitare e in mezzo alla q uale io dimorerò perché io sono il Signore che dimoro in mezzo agli Israeliti”». I capi delle famigl ie dei figli di Gàlaad figlio di Machir figlio di Manasse tra le famiglie dei figli di Giuseppe si fecero avanti a parlare in presenza di Mosè e dei prìncipi capi delle famiglie degli Israeliti e dissero: «Il Signore ha ordinato al mio signore di dare la terra in eredità agli Israeliti in base alla sorte; il mio signore ha anche ricevuto l’ordine dal Signore di dare l’eredità di Selofcàd nostro fratello alle fi glie di lui. Se queste sposano qualche figlio delle altre tribù degli Israeliti la loro eredità sarà detr atta dall’eredità dei nostri padri e aggiunta all’eredità della tribù alla quale apparterranno; così s arà detratta dall’eredità che ci è toccata in sorte. Quando verrà il giubileo per gli Israeliti la loro eredità sarà aggiunta a quella della tribù alla quale apparterranno e l’eredità loro sarà detratta dall’eredità della tribù dei nostri padri». Allora Mosè comandò agli Israeliti su ordine del Signore
: «La tribù dei figli di Giuseppe dice bene. Questo il Signore ha ordinato riguardo alle figlie di Sel ofcàd: sposeranno chi vorranno purché si sposino in una famiglia della tribù dei loro padri. Ness una eredità tra gli Israeliti potrà passare da una tribù all’altra ma ciascuno degli Israeliti si terrà vincolato all’eredità della tribù dei suoi padri. Ogni fanciulla che possiede un’eredità in una tribù degli Israeliti sposerà uno che appartenga a una famiglia della tribù di suo padre perché ognun o degli Israeliti rimanga nel possesso dell’eredità dei suoi padri e nessuna eredità passi da una tr ibù all’altra; ognuna delle tribù degli Israeliti si terrà vincolata alla propria eredità». Le figlie di S

elofcàd fecero secondo l’ordine che il Signore aveva dato a Mosè. Macla Tirsa Cogla Milca e Noa le figlie di Selofcàd sposarono i figli dei loro zii paterni; si sposarono nelle famiglie dei figli di Ma nasse figlio di Giuseppe e la loro eredità rimase nella tribù della famiglia del padre loro. Questi s ono i comandi e le leggi che il Signore impose agli Israeliti per mezzo di Mosè nelle steppe di Mo ab presso il Giordano di Gerico. Queste sono le parole che Mosè rivolse a tutto Israele oltre il Gi ordano nel deserto, nell’Araba di fronte a Suf tra Paran Tofel Laban Caseròt e Di-Zaab. Vi sono undici giornate di cammino dall’Oreb per la via del monte Seir fino a Kades-Barnea. Nel quarantesimo anno l’undicesimo mese il primo giorno del mese Mosè riferì agli Isra eliti quanto il Signore gli aveva ordinato per loro dopo avere sconfitto Sicon re degli Amorrei ch e abitava a Chesbon e Og re di Basan che abitava ad Astaròt a Edrei. Oltre il Giordano nella terra di Moab Mosè cominciò a spiegare questa legge: «Il Signore nostro Dio ci ha parlato sull’Oreb e ci ha detto: “Avete dimorato abbastanza su questa montagna; voltatevi levate l’accampamento e dirigetevi verso le montagne degli Amorrei e verso tutte le regioni vicine: l’Araba le montagn e la Sefela il Negheb la costa del mare – che è la terra dei Cananei e del Libano –
fino al grande fiume il fiume Eufrate. Ecco io ho posto davanti a voi la terra. Entrate e prendete possesso della terra che il Signore aveva giurato ai vostri padri ad Abramo a Isacco e a Giacobbe di dar loro e alla loro stirpe dopo di loro”. In quel tempo io vi ho parlato e vi ho detto: “Io non p osso da solo sostenere il peso di tutti voi. Il Signore vostro Dio vi ha moltiplicati ed eccovi numer osi come le stelle del cielo. Il Signore Dio dei vostri padri vi aumenterà mille volte di più e vi ben edirà come vi ha promesso. Ma come posso io da solo portare il vostro peso il vostro carico e le vostre liti? Sceglietevi nelle vostre tribù uomini saggi, intelligenti e stimati e io li costituirò vostri capi”. Voi mi rispondeste: “Va bene ciò che dici di fare”. Allora presi i capi delle vostre tribù uo mini saggi e stimati e li stabilii sopra di voi come capi: capi di migliaia capi di centinaia, capi di ci nquantine capi di decine e come scribi per le vostre tribù. In quel tempo diedi quest’ordine ai vo stri giudici: “Ascoltate le cause dei vostri fratelli e decidete con giustizia fra un uomo e suo fratel lo o lo straniero che sta presso di lui. Nei vostri giudizi non avrete riguardi personali darete ascol to al piccolo come al grande; non temerete alcun uomo poiché il giudizio appartiene a Dio; le ca use troppo difficili per voi le presenterete a me e io le ascolterò”. In quel tempo io vi ordinai tut te le cose che dovevate fare. Poi partimmo dall’Oreb e attraversammo tutto quel deserto grand e e spaventoso che avete visto dirigendoci verso le montagne degli Amorrei come il Signore nos tro Dio ci aveva ordinato e giungemmo a Kades-Barnea. Allora vi dissi: “Siete arrivati presso la montagna degli Amorrei che il Signore nostro Dio sta per darci. Ecco il Signore tuo Dio ti ha posto la terra dinanzi: entra prendine possesso come i l Signore Dio dei tuoi padri ti ha detto; non temere e non ti scoraggiare!”. Voi tutti vi accostaste a me e diceste: “Mandiamo innanzi a noi uomini che esplorino la terra e ci riferiscano sul cammi no per il quale dovremo procedere e sulle città nelle quali dovremo entrare”. La proposta mi pia cque e scelsi dodici uomini tra voi uno per tribù. Quelli si incamminarono salirono verso i monti giunsero alla valle di Escol ed esplorarono il paese. Presero con le loro mani dei frutti della terra
ce li portarono e ci fecero questa relazione dicendo: “Buona è la terra che il Signore nostro Dio sta per darci”. Ma voi non voleste entrarvi e vi ribellaste all’ordine del Signore vostro Dio; morm oraste nelle vostre tende e diceste: “Il Signore ci odia per questo ci ha fatto uscire dalla terra d’
Egitto per darci in mano agli Amorrei e sterminarci. Dove possiamo andare noi? I nostri fratelli c i hanno scoraggiati dicendo: Quella gente è più grande e più alta di noi le città sono grandi e for tificate fino al cielo; abbiamo visto là perfino dei figli degli Anakiti”. Allora vi dissi: “Non spavent atevi e non abbiate paura di loro. Il Signore vostro Dio che vi precede egli stesso combatterà per voi come insieme a voi ha fatto sotto i vostri occhi in Egitto e nel deserto dove hai visto come il Signore, tuo Dio ti ha portato come un uomo porta il proprio figlio per tutto il cammino che ave te fatto finché siete arrivati qui”. Nonostante questo non aveste fiducia nel Signore vostro Dio, c he andava innanzi a voi nel cammino per cercarvi un luogo dove porre l’accampamento: di nott e nel fuoco per mostrarvi la via dove andare e di giorno nella nube. Il Signore udì il suono delle v ostre parole si adirò e giurò: “Nessuno degli uomini di questa generazione malvagia vedrà la bu ona terra che ho giurato di dare ai vostri padri se non Caleb figlio di Iefunnè. Egli la vedrà e a lui e ai suoi figli darò la terra su cui ha camminato perché ha pienamente seguito il Signore”. Anche contro di me si adirò il Signore per causa vostra e disse: “Neanche tu vi entrerai ma vi entrerà G
iosuè figlio di Nun che sta al tuo servizio; incoraggialo perché egli la metterà in possesso d’Israel e. Anche i vostri bambini dei quali avevate detto che sarebbero divenuti oggetto di preda e i vos tri figli che oggi non conoscono né il bene né il male essi vi entreranno; a loro la darò ed essi la possederanno. Ma voi tornate indietro e incamminatevi verso il deserto in direzione del Mar Ro sso”. Allora voi mi rispondeste: “Abbiamo peccato contro il Signore! Saliremo e combatteremo come il Signore nostro Dio ci ha ordinato”. Ognuno di voi cinse le armi e presumeste di salire ve rso la montagna. Il Signore mi disse: “Ordina loro: Non salite e non combattete perché io non so no in mezzo a voi e sarete sconfitti davanti ai vostri nemici”. Io ve lo dissi ma voi non mi ascoltas te; anzi vi ribellaste all’ordine del Signore foste presuntuosi e saliste verso i monti. Allora gli Am orrei che abitano quella montagna uscirono contro di voi vi inseguirono come fanno le api e vi b atterono in Seir fino a Corma. Voi tornaste e piangeste davanti al Signore; ma il Signore non die de ascolto alla vostra voce e non vi porse l’orecchio. Così rimaneste a Kades molti giorni per tutt o il tempo in cui vi siete rimasti. Allora tornammo indietro e ci incamminammo verso il deserto i n direzione del Mar Rosso come il Signore mi aveva detto e per lungo tempo girammo intorno a lla montagna di Seir. Il Signore mi disse: “Avete girato abbastanza intorno a questa montagna; v olgetevi verso settentrione. Da’ quest’ordine al popolo: Voi state per passare i confini dei figli di Esaù vostri fratelli che dimorano in Seir; essi avranno paura di voi ma state molto attenti: non muovete loro guerra perché della loro terra io non vi darò neppure quanto ne può calcare la pia nta di un piede; infatti ho dato la montagna di Seir in proprietà a Esaù. Comprerete da loro con denaro le vettovaglie che mangerete e comprerete da loro con denaro anche l’acqua che berret e perché il Signore tuo Dio ti ha benedetto in ogni lavoro delle tue mani ti ha seguito nel tuo via ggio attraverso questo grande deserto. Il Signore tuo Dio è stato con te in questi quarant’anni e
non ti è mancato nulla”. Allora passammo oltre i nostri fratelli i figli di Esaù che abitano in Seir l ungo la via dell’Araba per Elat ed Esion-Ghèber. Poi piegammo e avanzammo in direzione del deserto di Moab. Il Signore mi disse: “Non attaccare Moab e non gli muovere guerra perché io non ti darò nulla da possedere nella sua ter ra; infatti ho dato Ar ai figli di Lot come loro proprietà”. Prima vi abitavano gli Emìm popolo gra nde numeroso alto di statura come gli Anakiti. Erano anch’essi considerati Refaìm come gli Anak iti ma i Moabiti li chiamavano Emìm. Anche in Seir prima abitavano gli Urriti ma i figli di Esaù li s cacciarono li distrussero e si stabilirono al posto loro come ha fatto Israele nella terra che possie de e che il Signore gli ha dato. “Ora alzatevi e attraversate il torrente Zered!”. E attraversammo il torrente Zered. La durata del nostro cammino da Kades-Barnea al passaggio del torrente Zered fu di trentotto anni finché tutta quella generazione di uo mini atti alla guerra scomparve dall’accampamento come il Signore aveva loro giurato. Anche la mano del Signore era stata contro di loro per sterminarli dall’accampamento fino ad annientarl i. Quando da mezzo al popolo scomparvero per morte tutti quegli uomini atti alla guerra, il Sign ore mi disse: “Oggi tu stai per attraversare i confini di Moab ad Ar e ti avvicinerai agli Ammoniti.
Non li attaccare e non muover loro guerra, perché io non ti darò nessun possesso nella terra de gli Ammoniti; infatti l’ho data in proprietà ai figli di Lot”. Anche questa terra era reputata terra dei Refaìm: prima vi abitavano i Refaìm e gli Ammoniti li chiamavano Zamzummìm popolo gran de numeroso alto di statura come gli Anakiti; ma il Signore li aveva distrutti davanti agli Ammon iti che li avevano scacciati e si erano stabiliti al loro posto. Allo stesso modo il Signore aveva fatt o per i figli di Esaù che abitano in Seir quando distrusse gli Urriti davanti a loro; essi li scacciaron o e si stabilirono al loro posto e vi sono rimasti fino ad oggi. Anche gli Avviti che dimoravano in v illaggi fino a Gaza furono distrutti dai Caftoriti usciti da Caftor i quali si stabilirono al loro posto.
“Alzatevi levate l’accampamento e attraversate il torrente Arnon; ecco io metto in tuo potere Si con l’Amorreo re di Chesbon e la sua terra; comincia a prenderne possesso e muovigli guerra. D
a quest’oggi comincerò a incutere paura e terrore di te nei popoli che sono sotto tutti i cieli così che all’udire la tua fama tremeranno e saranno presi da spavento dinanzi a te”. Allora mandai m essaggeri dal deserto di Kedemòt a Sicon re di Chesbon con parole di pace per dirgli: “Lasciami passare nella tua terra; io camminerò per la strada maestra senza volgermi né a destra né a sini stra. Tu mi venderai per denaro le vettovaglie che mangerò e mi darai per denaro l’acqua che b errò permettimi solo il transito, come mi hanno permesso i figli di Esaù che abitano in Seir e i M
oabiti che abitano ad Ar finché io abbia passato il Giordano verso la terra che il Signore nostro D
io sta per darci”. Ma Sicon re di Chesbon non volle lasciarci passare perché il Signore, tuo Dio gli aveva reso inflessibile lo spirito e ostinato il cuore per metterlo nelle tue mani come appunto è oggi. Il Signore mi disse: “Vedi ho cominciato a mettere in tuo potere Sicon e la sua terra; da’ ini zio alla conquista impadronendoti della sua terra”. Allora Sicon uscì contro di noi con tutta la su a gente per darci battaglia a Iaas. Il Signore nostro Dio ce lo consegnò e noi sconfiggemmo lui i s uoi figli e tutta la sua gente. In quel tempo prendemmo tutte le sue città e votammo allo stermi
nio ogni città, uomini donne e bambini; non vi lasciammo alcun superstite. Soltanto prelevamm o per noi come preda il bestiame e le spoglie delle città che avevamo preso. Da Aroèr che è sull a riva del torrente Arnon e dalla città che è nella valle fino a Gàlaad non ci fu città che fosse inac cessibile per noi: il Signore nostro Dio le mise tutte in nostro potere. Ma non ti avvicinasti alla te rra degli Ammoniti a tutta la riva del torrente Iabbok alle città delle montagne a tutti i luoghi ch e il Signore nostro Dio ci aveva proibito. Poi piegammo e salimmo per la via di Basan. Og re di B
asan con tutta la sua gente ci venne incontro per darci battaglia a Edrei. Il Signore mi disse: “No n lo temere perché io lo do in tuo potere lui tutta la sua gente e il suo territorio; trattalo come h ai trattato Sicon re degli Amorrei che abitava a Chesbon”. Così il Signore nostro Dio mise in nost ro potere anche Og re di Basan con tutta la sua gente; noi lo sconfiggemmo così che non gli rim ase più superstite alcuno. Gli prendemmo in quel tempo tutte le sue città non ci fu città che noi non prendessimo loro: sessanta città tutta la regione di Argob il regno di Og in Basan –
tutte queste città erano fortificate con alte mura porte e sbarre –
senza contare le città aperte che erano molto numerose. Noi le votammo allo sterminio come a vevamo fatto con Sicon re di Chesbon: votammo allo sterminio ogni città uomini donne e bambi ni. Ma prelevammo per noi come preda il bestiame e le spoglie delle città. In quel tempo prend emmo ai due re degli Amorrei la terra che è oltre il Giordano dal torrente Arnon al monte Ermo n – quelli di Sidone chiamano Sirion l’Ermon mentre gli Amorrei lo chiamano Senir –
tutte le città della pianura tutto Gàlaad tutto Basan fino a Salca e a Edrei città del regno di Og i n Basan. Perché Og re di Basan era rimasto l’unico superstite dei Refaìm. Ecco, il suo letto un let to di ferro non è forse a Rabbà degli Ammoniti? è lungo nove cubiti e largo quattro secondo il c ubito di un uomo. In quel tempo prendemmo possesso di questa terra da Aroèr sul torrente Arn on fino a metà della montagna di Gàlaad: diedi le sue città ai Rubeniti e ai Gaditi. Alla metà dell a tribù di Manasse diedi il resto di Gàlaad e tutto il regno di Og in Basan tutta la regione di Argo b con tutto Basan che si chiamava terra dei Refaìm. Iair figlio di Manasse prese tutta la regione di Argob sino ai confini dei Ghesuriti e dei Maacatiti e chiamò con il suo nome i villaggi di Basan che anche oggi si chiamano villaggi di Iair. A Machir assegnai Gàlaad. Ai Rubeniti e ai Gaditi diedi da Gàlaad fino al torrente Arnon – fino alla metà del torrente che serve di confine –
e fino al torrente Iabbok frontiera degli Ammoniti inoltre l’Araba e il Giordano; il territorio va d a Chinneret fino al mare dell’Araba cioè il Mar Morto sotto le pendici del Pisga a oriente. In quel tempo io vi diedi quest’ordine: “Il Signore vostro Dio vi ha dato questo paese in proprietà. Voi t utti uomini vigorosi passerete armati alla testa degli Israeliti vostri fratelli. Soltanto le vostre mo gli i vostri fanciulli e il vostro bestiame – so che di bestiame ne avete molto –
rimarranno nelle città che vi ho dato finché il Signore abbia dato una dimora tranquilla ai vostri fratelli come ha fatto per voi e prendano anch’essi possesso della terra che il Signore vostro Dio sta per dare a loro oltre il Giordano. Poi ciascuno tornerà nel territorio che io vi ho assegnato”.
In quel tempo diedi anche a Giosuè quest’ordine: “I tuoi occhi hanno visto quanto il Signore vos tro Dio ha fatto a questi due re; lo stesso farà il Signore a tutti i regni nei quali tu stai per entrar
e. Non li temete perché lo stesso Signore vostro Dio, combatte per voi”. In quel tempo io suppli cai il Signore dicendo: “Signore Dio tu hai cominciato a mostrare al tuo servo la tua grandezza e la tua mano potente; quale altro Dio infatti in cielo o sulla terra può fare opere e prodigi come i tuoi? Permetti che io passi al di là e veda la bella terra che è oltre il Giordano e questi bei monti e il Libano”. Ma il Signore si adirò contro di me per causa vostra e non mi esaudì. Il Signore mi di sse: “Basta non aggiungere più una parola su questo argomento. Sali sulla cima del Pisga volgi lo sguardo a occidente a settentrione a mezzogiorno e a oriente e contempla con gli occhi; perché tu non attraverserai questo Giordano. Trasmetti i tuoi ordini a Giosuè rendilo intrepido e incora ggialo perché lui lo attraverserà alla testa di questo popolo e metterà Israele in possesso della t erra che vedrai”. Così ci fermammo nella valle di fronte a Bet-Peor. Ora Israele ascolta le leggi e le norme che io vi insegno affinché le mettiate in pratica perc hé viviate ed entriate in possesso della terra che il Signore Dio dei vostri padri sta per darvi. Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla; ma osserverete i comandi del Signore vostro Dio che io vi prescrivo. I vostri occhi videro ciò che il Signore fece a Baal-Peor: come il Signore tuo Dio abbia sterminato in mezzo a te quanti avevano seguito Baal-Peor; ma voi che vi manteneste fedeli al Signore vostro Dio siete oggi tutti in vita. Vedete io vi h o insegnato leggi e norme come il Signore mio Dio mi ha ordinato perché le mettiate in pratica nella terra in cui state per entrare per prenderne possesso. Le osserverete dunque e le metteret e in pratica perché quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli i qu ali udendo parlare di tutte queste leggi diranno: “Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente”. Infatti quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé come il Signore nostro Dio è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo? E quale grande nazione ha leggi e norme giuste com e è tutta questa legislazione che io oggi vi do? Ma bada a te e guardati bene dal dimenticare le c ose che i tuoi occhi hanno visto non ti sfuggano dal cuore per tutto il tempo della tua vita: le ins egnerai anche ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli. Il giorno in cui sei comparso davanti al Signore tu o Dio sull’Oreb il Signore mi disse: “Radunami il popolo e io farò loro udire le mie parole perché imparino a temermi per tutti i giorni della loro vita sulla terra e le insegnino ai loro figli”. Voi vi a vvicinaste e vi fermaste ai piedi del monte; il monte ardeva con il fuoco che si innalzava fino alla sommità del cielo fra tenebre nuvole e oscurità. Il Signore vi parlò dal fuoco; voi udivate il suon o delle parole ma non vedevate alcuna figura: vi era soltanto una voce. Egli vi annunciò la sua al leanza che vi comandò di osservare cioè le dieci parole e le scrisse su due tavole di pietra. In qu ella circostanza il Signore mi ordinò di insegnarvi leggi e norme perché voi le metteste in pratica nella terra in cui state per entrare per prenderne possesso. State bene in guardia per la vostra v ita: poiché non vedeste alcuna figura quando il Signore vi parlò sull’Oreb dal fuoco non vi corro mpete dunque e non fatevi l’immagine scolpita di qualche idolo la figura di maschio o di femmi na la figura di qualunque animale che è sopra la terra la figura di un uccello che vola nei cieli la f igura di una bestia che striscia sul suolo la figura di un pesce che vive nelle acque sotto la terra.
Quando alzi gli occhi al cielo e vedi il sole la luna le stelle e tutto l’esercito del cielo tu non lascia
rti indurre a prostrarti davanti a quelle cose e a servirle; cose che il Signore tuo Dio ha dato in so rte a tutti i popoli che sono sotto tutti i cieli. Voi invece il Signore vi ha presi vi ha fatti uscire dal crogiuolo di ferro dall’Egitto perché foste per lui come popolo di sua proprietà quale oggi siete.
Il Signore si adirò contro di me per causa vostra e giurò che io non avrei attraversato il Giordano e non sarei entrato nella buona terra che il Signore tuo Dio sta per darti in eredità. Difatti io mo rirò in questa terra senza attraversare il Giordano; ma voi lo attraverserete e possederete quell a buona terra. Guardatevi dal dimenticare l’alleanza che il Signore vostro Dio ha stabilito con vo i e dal farvi alcuna immagine scolpita di qualunque cosa riguardo alla quale il Signore tuo Dio ti ha dato un comando perché il Signore tuo Dio è fuoco divoratore un Dio geloso. Quando avrete generato figli e nipoti e sarete invecchiati nella terra se vi corromperete, se vi farete un’immagi ne scolpita di qualunque cosa se farete ciò che è male agli occhi del Signore tuo Dio per irritarlo io chiamo oggi a testimone contro di voi il cielo e la terra: voi certo scomparirete presto dalla te rra in cui state per entrare per prenderne possesso attraversando il Giordano. Voi non vi rimarr ete lunghi giorni ma sarete tutti sterminati. Il Signore vi disperderà fra i popoli e non resterete c he un piccolo numero fra le nazioni dove il Signore vi condurrà. Là servirete a dèi fatti da mano d’uomo di legno e di pietra i quali non vedono non mangiano non odorano. Ma di là cercherai il Signore, tuo Dio e lo troverai se lo cercherai con tutto il cuore e con tutta l’anima. Nella tua disp erazione tutte queste cose ti accadranno; negli ultimi giorni però tornerai al Signore tuo Dio e a scolterai la sua voce poiché il Signore tuo Dio è un Dio misericordioso, non ti abbandonerà e no n ti distruggerà non dimenticherà l’alleanza che ha giurato ai tuoi padri. Interroga pure i tempi a ntichi che furono prima di te: dal giorno in cui Dio creò l’uomo sulla terra e da un’estremità all’a ltra dei cieli vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un po polo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco come l’hai udita tu e che rimanesse vivo? O ha mai tentato un dio di andare a scegliersi una nazione in mezzo a un’altra con prove segni prodig i e battaglie con mano potente e braccio teso e grandi terrori come fece per voi il Signore vostro Dio in Egitto, sotto i tuoi occhi? Tu sei stato fatto spettatore di queste cose perché tu sappia ch e il Signore è Dio e che non ve n’è altri fuori di lui. Dal cielo ti ha fatto udire la sua voce per educ arti; sulla terra ti ha mostrato il suo grande fuoco e tu hai udito le sue parole che venivano dal f uoco. Poiché ha amato i tuoi padri ha scelto la loro discendenza dopo di loro e ti ha fatto uscire dall’Egitto con la sua presenza e con la sua grande potenza, scacciando dinanzi a te nazioni più g randi e più potenti di te facendoti entrare nella loro terra e dandotene il possesso com’è oggi. S
appi dunque oggi e medita bene nel tuo cuore che il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra: non ve n’è altro. Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi che oggi ti do, perché sia fe lice tu e i tuoi figli dopo di te e perché tu resti a lungo nel paese che il Signore, tuo Dio ti dà per sempre». In quel tempo Mosè scelse tre città oltre il Giordano a oriente, perché servissero di asi lo all’omicida che avesse ucciso il suo prossimo involontariamente senza averlo odiato prima pe rché potesse aver salva la vita rifugiandosi in una di quelle città. Esse furono Beser nel deserto s ull’altopiano per i Rubeniti, Ramot in Gàlaad per i Gaditi e Golan in Basan per i Manassiti. Quest
a è la legge che Mosè espose agli Israeliti. Queste sono le istruzioni le leggi e le norme che Mosè diede agli Israeliti quando furono usciti dall’Egitto oltre il Giordano nella valle di fronte a Bet-Peor nella terra di Sicon, re degli Amorrei che abitava a Chesbon e che Mosè e gli Israeliti sconfi ssero quando furono usciti dall’Egitto. Essi avevano preso possesso della terra di lui e del paese di Og re di Basan – due re Amorrei che stavano oltre il Giordano a oriente –
da Aroèr che è sulla riva del torrente Arnon fino al monte Sirion cioè l’Ermon, con tutta l’Araba oltre il Giordano a oriente fino al mare dell’Araba sotto le pendici del Pisga. Mosè convocò tutto Israele e disse loro: «Ascolta Israele le leggi e le norme che oggi io proclamo ai vostri orecchi: i mparatele e custoditele per metterle in pratica. Il Signore nostro Dio ha stabilito con noi un’alle anza sull’Oreb. Il Signore non ha stabilito quest’alleanza con i nostri padri ma con noi che siamo qui oggi tutti vivi. Il Signore sul monte vi ha parlato dal fuoco faccia a faccia, mentre io stavo tra il Signore e voi per riferirvi la parola del Signore perché voi avevate paura di quel fuoco e non er avate saliti sul monte. Egli disse: “Io sono il Signore tuo Dio che ti ho fatto uscire dalla terra d’Eg itto dalla condizione servile. Non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alc una di quanto è lassù nel cielo né di quanto è quaggiù sulla terra né di quanto è nelle acque sott o la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io il Signore tuo Dio, sono un Dio geloso che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione per col oro che mi odiano ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni per quelli che mi aman o e osservano i miei comandamenti. Non pronuncerai invano il nome del Signore tuo Dio perch é il Signore non lascia impunito chi pronuncia il suo nome invano. Osserva il giorno del sabato p er santificarlo come il Signore tuo Dio ti ha comandato. Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavor o; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore tuo Dio: non farai alcun lavoro né tu né t uo figlio, né tua figlia né il tuo schiavo né la tua schiava né il tuo bue né il tuo asino né il tuo bes tiame né il forestiero che dimora presso di te perché il tuo schiavo e la tua schiava si riposino co me te. Ricòrdati che sei stato schiavo nella terra d’Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscir e di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno del sabato. Onora tuo padre e tua madre come il Signore tuo Dio ti ha comandato perché si prol unghino i tuoi giorni e tu sia felice nel paese che il Signore tuo Dio ti dà. Non ucciderai. Non com metterai adulterio. Non ruberai. Non pronuncerai testimonianza menzognera contro il tuo pros simo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo. Non bramerai la casa del tuo prossimo né il s uo campo né il suo schiavo né la sua schiava né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che ap partenga al tuo prossimo”. Sul monte il Signore disse con voce possente queste parole a tutta la vostra assemblea in mezzo al fuoco alla nube e all’oscurità. Non aggiunse altro. Le scrisse su du e tavole di pietra e me le diede. Quando udiste la voce in mezzo alle tenebre mentre il monte er a tutto in fiamme i vostri capitribù e i vostri anziani si avvicinarono tutti a me e dissero: “Ecco il Signore nostro Dio ci ha mostrato la sua gloria e la sua grandezza e noi abbiamo udito la sua voc e dal fuoco; oggi abbiamo visto che Dio può parlare con l’uomo e l’uomo restare vivo. Ma ora p erché dovremmo morire? Questo grande fuoco infatti ci consumerà. Se continuiamo a udire anc
ora la voce del Signore nostro Dio moriremo. Chi infatti tra tutti i mortali ha udito come noi la v oce del Dio vivente parlare dal fuoco ed è rimasto vivo? Accòstati tu e ascolta tutto ciò che il Sig nore nostro Dio dirà. Tu ci riferirai tutto ciò che il Signore nostro Dio ti avrà detto: noi lo ascolte remo e lo faremo”. Il Signore udì il suono delle vostre parole mentre mi parlavate e mi disse: “H
o udito le parole che questo popolo ti ha rivolto. Tutto ciò che hanno detto va bene. Oh se aves sero sempre un tal cuore da temermi e da osservare tutti i miei comandi per essere felici loro e i loro figli per sempre! Va’ e di’ loro: Tornate alle vostre tende. Ma tu resta qui con me e io ti de tterò tutti i comandi tutte le leggi e le norme che dovrai insegnare loro perché le mettano in pra tica nella terra che io sto per dare loro in possesso”. Abbiate cura perciò di fare come il Signore vostro Dio vi ha comandato. Non deviate né a destra né a sinistra; camminate in tutto e per tutt o per la via che il Signore vostro Dio vi ha prescritto perché viviate e siate felici e rimaniate a lun go nella terra di cui avrete il possesso. Questi sono i comandi le leggi e le norme che il Signore v ostro Dio ha ordinato di insegnarvi perché li mettiate in pratica nella terra in cui state per entrar e per prenderne possesso; perché tu tema il Signore tuo Dio osservando per tutti i giorni della t ua vita tu, il tuo figlio e il figlio del tuo figlio tutte le sue leggi e tutti i suoi comandi che io ti do e così si prolunghino i tuoi giorni. Ascolta o Israele e bada di metterli in pratica perché tu sia felice e diventiate molto numerosi nella terra dove scorrono latte e miele come il Signore Dio dei tuoi padri ti ha detto. Ascolta Israele: il Signore è il nostro Dio unico è il Signore. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do ti stiano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli ne parlerai quando ti troverai in casa tua quando ca mminerai per via quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segn o ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue po rte. Quando il Signore tuo Dio ti avrà fatto entrare nella terra che ai tuoi padri Abramo Isacco e Giacobbe aveva giurato di darti con città grandi e belle che tu non hai edificato, case piene di og ni bene che tu non hai riempito cisterne scavate ma non da te vigne e oliveti che tu non hai pian tato quando avrai mangiato e ti sarai saziato guàrdati dal dimenticare il Signore che ti ha fatto u scire dalla terra d’Egitto dalla condizione servile. Temerai il Signore tuo Dio lo servirai e giurerai per il suo nome. Non seguirete altri dèi divinità dei popoli che vi staranno attorno, perché il Sign ore tuo Dio che sta in mezzo a te è un Dio geloso; altrimenti l’ira del Signore tuo Dio si accender à contro di te e ti farà scomparire dalla faccia della terra. Non tenterete il Signore vostro Dio co me lo tentaste a Massa. Osserverete diligentemente i comandi del Signore vostro Dio le istruzio ni e le leggi che ti ha date. Farai ciò che è giusto e buono agli occhi del Signore perché tu sia felic e ed entri in possesso della buona terra che il Signore giurò ai tuoi padri di darti, dopo che egli a vrà scacciato tutti i tuoi nemici davanti a te come il Signore ha promesso. Quando in avvenire tu o figlio ti domanderà: “Che cosa significano queste istruzioni queste leggi e queste norme che il Signore nostro Dio vi ha dato?” tu risponderai a tuo figlio: “Eravamo schiavi del faraone in Egitt o e il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente. Il Signore operò sotto i nostri occhi seg ni e prodigi grandi e terribili contro l’Egitto contro il faraone e contro tutta la sua casa. Ci fece u
scire di là per condurci nella terra che aveva giurato ai nostri padri di darci. Allora il Signore ci or dinò di mettere in pratica tutte queste leggi temendo il Signore nostro Dio così da essere sempr e felici ed essere conservati in vita come appunto siamo oggi. La giustizia consisterà per noi nel mettere in pratica tutti questi comandi, davanti al Signore nostro Dio come ci ha ordinato”. Qua ndo il Signore tuo Dio ti avrà introdotto nella terra in cui stai per entrare per prenderne possess o e avrà scacciato davanti a te molte nazioni: gli Ittiti i Gergesei gli Amorrei i Cananei i Perizziti gl i Evei e i Gebusei sette nazioni più grandi e più potenti di te, quando il Signore tuo Dio le avrà m esse in tuo potere e tu le avrai sconfitte tu le voterai allo sterminio. Con esse non stringerai alcu na alleanza e nei loro confronti non avrai pietà. Non costituirai legami di parentela con loro non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli perché allontanerebbero la tua discendenza dal seguire me per farli servire a dèi stranieri e l’ira del Signore si accendere bbe contro di voi e ben presto vi distruggerebbe. Ma con loro vi comporterete in questo modo: demolirete i loro altari spezzerete le loro stele taglierete i loro pali sacri brucerete i loro idoli nel fuoco. Tu infatti sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio: il Signore tuo Dio ti ha scelto per e ssere il suo popolo particolare fra tutti i popoli che sono sulla terra. Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli –
siete infatti il più piccolo di tutti i popoli –
, ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri: il Signore vi ha fatti uscire con mano potente e vi ha riscattati liberandovi dalla condizione servile dalla mano del faraone re d’Egitto. Riconosci dunque il Signore tuo Dio: egli è Dio il Dio fedele c he mantiene l’alleanza e la bontà per mille generazioni con coloro che lo amano e osservano i s uoi comandamenti ma ripaga direttamente coloro che lo odiano, facendoli perire; non concede una dilazione a chi lo odia ma lo ripaga direttamente. Osserverai dunque mettendoli in pratica i comandi le leggi e le norme che oggi ti prescrivo. Se avrete dato ascolto a queste norme e se le avrete osservate e messe in pratica, il Signore tuo Dio conserverà per te l’alleanza e la bontà ch e ha giurato ai tuoi padri. Egli ti amerà ti benedirà ti moltiplicherà benedirà il frutto del tuo seno e il frutto del tuo suolo: il tuo frumento il tuo mosto e il tuo olio i parti delle tue vacche e i nati del tuo gregge nel paese che ha giurato ai tuoi padri di darti. Tu sarai benedetto più di tutti i po poli: non sarà sterile né il maschio né la femmina in mezzo a te e neppure in mezzo al tuo bestia me. Il Signore allontanerà da te ogni infermità e non manderà su di te alcuna di quelle funeste malattie d’Egitto che ben conoscesti ma le manderà a quanti ti odiano. Sterminerai dunque tutti i popoli che il Signore tuo Dio sta per consegnarti. Il tuo occhio non ne abbia compassione e no n servire i loro dèi perché ciò è una trappola per te. Forse dirai in cuor tuo: “Queste nazioni son o più numerose di me; come potrò scacciarle?”. Non temerle! Ricòrdati di quello che il Signore t uo Dio fece al faraone e a tutti gli Egiziani: le grandi prove che hai visto con gli occhi i segni i pro digi la mano potente e il braccio teso con cui il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire. Così farà il Sign ore tuo Dio a tutti i popoli dei quali hai timore. Anche i calabroni manderà contro di loro il Signo re tuo Dio finché non siano periti quelli che saranno rimasti illesi o nascosti al tuo sguardo. Non
tremare davanti a loro perché il Signore tuo Dio è in mezzo a te Dio grande e terribile. Il Signore tuo Dio scaccerà a poco a poco queste nazioni dinanzi a te: tu non le potrai distruggere in fretta altrimenti le bestie selvatiche si moltiplicherebbero a tuo danno; ma il Signore tuo Dio le metter à in tuo potere e le getterà in grande spavento finché siano distrutte. Ti metterà nelle mani i lor o re e tu farai perire i loro nomi sotto il cielo; nessuno potrà resisterti finché tu le abbia distrutt e. Darai alle fiamme le sculture dei loro dèi. Non bramerai e non prenderai per te l’argento e l’o ro che le ricopre altrimenti ne resteresti come preso in trappola perché sono un abominio per il Signore tuo Dio. Non introdurrai un abominio in casa tua perché sarai come esso votato allo ste rminio. Lo detesterai e lo avrai in abominio perché è votato allo sterminio. Abbiate cura di mett ere in pratica tutti i comandi che oggi vi do perché viviate, diveniate numerosi ed entriate in pos sesso della terra che il Signore ha giurato di dare ai vostri padri. Ricòrdati di tutto il cammino ch e il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto per umiliarti e mett erti alla prova per sapere quello che avevi nel cuore se tu avresti osservato o no i suoi comandi.
Egli dunque ti ha umiliato ti ha fatto provare la fame poi ti ha nutrito di manna che tu non cono scevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto per farti capire che l’uomo non vive soltant o di pane ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. Il tuo mantello non ti si è l ogorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni. Riconosci dunque in cuor tuo che come un uomo corregge il figlio così il Signore tuo Dio corregge te. Osserva i co mandi del Signore tuo Dio camminando nelle sue vie e temendolo, perché il Signore tuo Dio sta per farti entrare in una buona terra: terra di torrenti di fonti e di acque sotterranee che scaturis cono nella pianura e sulla montagna; terra di frumento di orzo di viti di fichi e di melograni; terr a di ulivi di olio e di miele; terra dove non mangerai con scarsità il pane dove non ti mancherà n ulla; terra dove le pietre sono ferro e dai cui monti scaverai il rame. Mangerai sarai sazio e bene dirai il Signore tuo Dio a causa della buona terra che ti avrà dato. Guàrdati bene dal dimenticare il Signore tuo Dio così da non osservare i suoi comandi le sue norme e le sue leggi che oggi io ti prescrivo. Quando avrai mangiato e ti sarai saziato quando avrai costruito belle case e vi avrai a bitato quando avrai visto il tuo bestiame grosso e minuto moltiplicarsi accrescersi il tuo argento e il tuo oro e abbondare ogni tua cosa, il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare i l Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto dalla condizione servile; che ti ha cond otto per questo deserto grande e spaventoso luogo di serpenti velenosi e di scorpioni terra asse tata senz’acqua; che ha fatto sgorgare per te l’acqua dalla roccia durissima; che nel deserto ti h a nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri per umiliarti e per provarti per farti felice nel tuo av venire. Guàrdati dunque dal dire nel tuo cuore: “La mia forza e la potenza della mia mano mi ha nno acquistato queste ricchezze”. Ricòrdati invece del Signore tuo Dio perché egli ti dà la forza per acquistare ricchezze al fine di mantenere come fa oggi, l’alleanza che ha giurato ai tuoi padr i. Ma se tu dimenticherai il Signore tuo Dio e seguirai altri dèi e li servirai e ti prostrerai davanti a loro io attesto oggi contro di voi che certo perirete! Perirete come le nazioni che il Signore sta per far perire davanti a voi se non avrete dato ascolto alla voce del Signore vostro Dio. Ascolta I
sraele! Oggi tu stai per attraversare il Giordano per andare a conquistare nazioni più grandi e pi ù potenti di te città grandi e fortificate fino al cielo, un popolo grande e alto di statura i figli degl i Anakiti che tu conosci e dei quali hai sentito dire: “Chi mai può resistere ai figli di Anak?”. Sapp i dunque oggi che il Signore tuo Dio passerà davanti a te come fuoco divoratore li distruggerà e l i abbatterà davanti a te. Tu li scaccerai e li distruggerai rapidamente come il Signore ti ha detto.
Quando il Signore tuo Dio li avrà scacciati davanti a te non pensare: “A causa della mia giustizia i l Signore mi ha fatto entrare in possesso di questa terra”. è invece per la malvagità di queste na zioni che il Signore le scaccia davanti a te. No tu non entri in possesso della loro terra a causa de lla tua giustizia né a causa della rettitudine del tuo cuore; ma il Signore tuo Dio scaccia quelle na zioni davanti a te per la loro malvagità e per mantenere la parola che il Signore ha giurato ai tuo i padri ad Abramo a Isacco e a Giacobbe. Sappi dunque che non a causa della tua giustizia il Sign ore tuo Dio ti dà il possesso di questa buona terra; anzi tu sei un popolo di dura cervice. Ricòrda ti non dimenticare come hai provocato all’ira il Signore tuo Dio nel deserto. Da quando usciste d alla terra d’Egitto fino al vostro arrivo in questo luogo siete stati ribelli al Signore. All’Oreb prov ocaste l’ira del Signore; il Signore si adirò contro di voi fino a volere la vostra distruzione. Quand o io salii sul monte a prendere le tavole di pietra le tavole dell’alleanza che il Signore aveva stabi lito con voi rimasi sul monte quaranta giorni e quaranta notti senza mangiare pane né bere acq ua. Il Signore mi diede le due tavole di pietra scritte dal dito di Dio sulle quali stavano tutte le pa role che il Signore vi aveva detto sul monte in mezzo al fuoco il giorno dell’assemblea. Alla fine dei quaranta giorni e delle quaranta notti il Signore mi diede le due tavole di pietra le tavole dell
’alleanza. Poi il Signore mi disse: “àlzati scendi in fretta di qui perché il tuo popolo che hai fatto uscire dall’Egitto si è traviato; si sono presto allontanati dalla via che io avevo loro indicata: si so no fatti un idolo di metallo fuso”. Il Signore mi aggiunse: “Io ho visto questo popolo; ecco è un p opolo di dura cervice. Lasciami fare: io li distruggerò e cancellerò il loro nome sotto i cieli e farò di te una nazione più potente e più grande di loro”. Così io mi volsi e scesi dal monte. Il monte b ruciava nelle fiamme. Le due tavole dell’alleanza erano nelle mie mani. Guardai ed ecco avevate peccato contro il Signore vostro Dio. Avevate fatto per voi un vitello di metallo fuso: avevate be n presto lasciato la via che il Signore vi aveva prescritto. Allora afferrai le due tavole, le gettai co n le mie mani le spezzai sotto i vostri occhi e mi prostrai davanti al Signore. Come avevo fatto la prima volta per quaranta giorni e per quaranta notti non mangiai pane né bevvi acqua a causa d el grande peccato che avevate commesso facendo ciò che è male agli occhi del Signore per prov ocarlo. Io avevo paura di fronte all’ira e al furore di cui il Signore era acceso contro di voi al punt o di volervi distruggere. Ma il Signore mi esaudì anche quella volta. Anche contro Aronne il Sign ore si era fortemente adirato al punto di volerlo far perire. In quell’occasione io pregai anche pe r Aronne. Poi presi l’oggetto del vostro peccato il vitello che avevate fatto lo bruciai nel fuoco lo feci a pezzi frantumandolo finché fosse ridotto in polvere e buttai quella polvere nel torrente c he scende dal monte. Anche a Taberà a Massa e a Kibrot-Taavà voi provocaste il Signore. Quando il Signore volle farvi partire da Kades-
Barnea dicendo: “Entrate e prendete in possesso la terra che vi do” voi vi ribellaste all’ordine de l Signore vostro Dio non aveste fede in lui e non obbediste alla sua voce. Siete stati ribelli al Sign ore da quando vi ho conosciuto. Io stetti prostrato davanti al Signore per quaranta giorni e per quaranta notti, perché il Signore aveva minacciato di distruggervi. Pregai il Signore e dissi: “Sign ore Dio non distruggere il tuo popolo la tua eredità che hai riscattato nella tua grandezza, che h ai fatto uscire dall’Egitto con mano potente. Ricòrdati dei tuoi servi Abramo Isacco e Giacobbe; non guardare alla caparbietà di questo popolo e alla sua malvagità e al suo peccato perché la te rra da dove ci hai fatto uscire non dica: Poiché il Signore non era in grado di introdurli nella terr a che aveva loro promesso e poiché li odiava li ha fatti uscire di qui per farli morire nel deserto.
Al contrario essi sono il tuo popolo la tua eredità che tu hai fatto uscire dall’Egitto con grande p otenza e con il tuo braccio teso”. In quel tempo il Signore mi disse: “Tàgliati due tavole di pietra simili alle prime e sali da me sul monte. Costruisci anche un’arca di legno. Io scriverò su quelle t avole le parole che erano sulle prime che tu hai spezzato e tu le metterai nell’arca”. Io feci dunq ue un’arca di legno d’acacia e tagliai due tavole di pietra simili alle prime; poi salii sul monte con le due tavole in mano. Il Signore scrisse su quelle tavole come era stato scritto la prima volta ci oè le dieci parole che il Signore aveva promulgato per voi sul monte in mezzo al fuoco il giorno dell’assemblea. Il Signore me le consegnò. Allora mi voltai scesi dal monte e collocai le tavole ne ll’arca che avevo fatto. Là restarono come il Signore mi aveva ordinato. Poi gli Israeliti partirono dai pozzi di Bene-Iaakàn per Moserà. Là morì Aronne e là fu sepolto. Al suo posto divenne sacerdote suo figlio Ele àzaro. Di là partirono alla volta di Gudgoda e da Gudgoda alla volta di Iotbata terra ricca di torre nti d’acqua. In quel tempo il Signore prescelse la tribù di Levi per portare l’arca dell’alleanza del Signore per stare davanti al Signore per servirlo e per benedire nel suo nome come avviene fino ad oggi. Perciò Levi non ha parte né eredità con i suoi fratelli: il Signore è la sua eredità come gl i aveva detto il Signore tuo Dio. Io ero rimasto sul monte come la prima volta quaranta giorni e quaranta notti. Il Signore mi esaudì anche questa volta: il Signore non ha voluto distruggerti. Poi il Signore mi disse: “àlzati mettiti in cammino alla testa del tuo popolo: entrino nella terra che g iurai ai loro padri di dare loro e ne prendano possesso”. Ora Israele che cosa ti chiede il Signore tuo Dio se non che tu tema il Signore tuo Dio, che tu cammini per tutte le sue vie che tu lo ami c he tu serva il Signore tuo Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima che tu osservi i comandi del S
ignore e le sue leggi che oggi ti do per il tuo bene? Ecco al Signore tuo Dio appartengono i cieli i cieli dei cieli la terra e quanto essa contiene. Ma il Signore predilesse soltanto i tuoi padri li amò e dopo di loro ha scelto fra tutti i popoli la loro discendenza cioè voi come avviene oggi. Circonc idete dunque il vostro cuore ostinato e non indurite più la vostra cervice; perché il Signore vostr o Dio è il Dio degli dèi il Signore dei signori il Dio grande forte e terribile che non usa parzialità e non accetta regali, rende giustizia all’orfano e alla vedova ama il forestiero e gli dà pane e vestit o. Amate dunque il forestiero perché anche voi foste forestieri nella terra d’Egitto. Temi il Signo re tuo Dio servilo restagli fedele e giura nel suo nome. Egli è la tua lode egli è il tuo Dio che ha fa
tto per te quelle cose grandi e tremende che i tuoi occhi hanno visto. I tuoi padri scesero in Egitt o in numero di settanta persone; ora il Signore tuo Dio ti ha reso numeroso come le stelle del ci elo. Ama dunque il Signore tuo Dio e osserva ogni giorno le sue prescrizioni: le sue leggi le sue n orme e i suoi comandi. Oggi voi –
non parlo ai vostri figli che non hanno conosciuto né hanno visto le lezioni del Signore vostro Di o –
riconoscete la sua grandezza la sua mano potente il suo braccio teso i suoi portenti le opere ch e ha fatto in mezzo all’Egitto contro il faraone re d’Egitto e contro la sua terra; ciò che ha fatto a ll’esercito d’Egitto ai suoi cavalli e ai suoi carri come ha fatto rifluire su di loro le acque del Mar Rosso quando essi vi inseguivano e come il Signore li ha distrutti per sempre; ciò che ha fatto pe r voi nel deserto fino al vostro arrivo in questo luogo; ciò che ha fatto a Datan e ad Abiràm figli di Eliàb figlio di Ruben, quando la terra spalancò la bocca e li inghiottì con le loro famiglie le loro tende e quanto a loro apparteneva in mezzo a tutto Israele. Davvero i vostri occhi hanno visto l e grandi cose che il Signore ha operato. Osserverete dunque tutti i comandi che oggi vi do perch é siate forti e possiate conquistare la terra che state per invadere al fine di possederla e perché restiate a lungo nel paese che il Signore ha giurato di dare ai vostri padri e alla loro discendenza
: terra dove scorrono latte e miele. Certamente la terra in cui stai per entrare per prenderne po ssesso non è come la terra d’Egitto da cui siete usciti e dove gettavi il tuo seme e poi lo irrigavi c on il tuo piede come fosse un orto di erbaggi; ma la terra che andate a prendere in possesso è u na terra di monti e di valli beve l’acqua della pioggia che viene dal cielo: è una terra della quale i l Signore tuo Dio ha cura e sulla quale si posano sempre gli occhi del Signore tuo Dio dal principi o dell’anno sino alla fine. Ora se obbedirete diligentemente ai comandi che oggi vi do amando il Signore vostro Dio e servendolo con tutto il cuore e con tutta l’anima io darò alla vostra terra la pioggia al suo tempo: la pioggia d’autunno e la pioggia di primavera perché tu possa raccoglier e il tuo frumento il tuo vino e il tuo olio. Darò anche erba al tuo campo per il tuo bestiame. Tu mangerai e ti sazierai. State in guardia perché il vostro cuore non si lasci sedurre e voi vi allonta niate servendo dèi stranieri e prostrandovi davanti a loro. Allora si accenderebbe contro di voi l’
ira del Signore ed egli chiuderebbe il cielo non vi sarebbe più pioggia il suolo non darebbe più i s uoi prodotti e voi perireste ben presto scomparendo dalla buona terra che il Signore sta per dar vi. Porrete dunque nel cuore e nell’anima queste mie parole; ve le legherete alla mano come un segno e le terrete come un pendaglio tra gli occhi; le insegnerete ai vostri figli, parlandone qua ndo sarai seduto in casa tua e quando camminerai per via quando ti coricherai e quando ti alzer ai; le scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte, perché siano numerosi i vostri giorni e i giorni dei vostri figli come i giorni del cielo sopra la terra nel paese che il Signore ha giurato ai v ostri padri di dare loro. Certamente se osserverete con impegno tutti questi comandi che vi do e li metterete in pratica amando il Signore vostro Dio camminando in tutte le sue vie e tenendo vi uniti a lui, il Signore scaccerà dinanzi a voi tutte quelle nazioni e voi v’impadronirete di nazion i più grandi e più potenti di voi. Ogni luogo che la pianta del vostro piede calcherà sarà vostro: i
vostri confini si estenderanno dal deserto al Libano dal fiume il fiume Eufrate al mare occidental e. Nessuno potrà resistere a voi; il Signore vostro Dio come vi ha detto diffonderà la paura e il t errore di voi su tutta la terra che voi calpesterete. Vedete io pongo oggi davanti a voi benedizio ne e maledizione: la benedizione se obbedirete ai comandi del Signore vostro Dio che oggi vi do
; la maledizione se non obbedirete ai comandi del Signore vostro Dio e se vi allontanerete dalla via che oggi vi prescrivo per seguire dèi stranieri che voi non avete conosciuto. Quando il Signor e tuo Dio ti avrà introdotto nella terra in cui stai per entrare per prenderne possesso tu porrai la benedizione sul monte Garizìm e la maledizione sul monte Ebal. Questi monti non si trovano fo rse oltre il Giordano oltre la via verso occidente nella terra dei Cananei che abitano l’Araba di fr onte a Gàlgala presso le Querce di Morè? Voi di fatto state per attraversare il Giordano per pre ndere possesso della terra che il Signore vostro Dio vi dà: voi la possederete e l’abiterete. Avret e cura di mettere in pratica tutte le leggi e le norme che oggi io pongo dinanzi a voi. Queste son o le leggi e le norme che avrete cura di mettere in pratica nella terra che il Signore Dio dei tuoi p adri ti dà perché tu la possegga finché vivrete nel paese. Distruggerete completamente tutti i lu oghi dove le nazioni che state per scacciare servono i loro dèi: sugli alti monti sui colli e sotto og ni albero verde. Demolirete i loro altari spezzerete le loro stele taglierete i loro pali sacri brucer ete nel fuoco le statue dei loro dèi e cancellerete il loro nome da quei luoghi. Non farete così co n il Signore vostro Dio ma lo cercherete nella sua dimora nel luogo che il Signore vostro Dio avrà scelto fra tutte le vostre tribù per stabilirvi il suo nome: là andrete. Là presenterete i vostri oloc austi e i vostri sacrifici le vostre decime quello che le vostre mani avranno prelevato le vostre of ferte votive e le vostre offerte spontanee e i primogeniti del vostro bestiame grosso e minuto; mangerete davanti al Signore vostro Dio e gioirete voi e le vostre famiglie per ogni opera riuscit a delle vostre mani e di cui il Signore vostro Dio vi avrà benedetti. Non farete come facciamo og gi qui dove ognuno fa quanto gli sembra bene, perché ancora non siete giunti al luogo del ripos o e nel possesso che il Signore, vostro Dio sta per darvi. Ma quando avrete attraversato il Giord ano e abiterete nella terra che il Signore vostro Dio vi dà in eredità ed egli vi avrà messo al sicur o da tutti i vostri nemici che vi circondano e abiterete tranquilli allora porterete al luogo che il Si gnore vostro Dio avrà scelto per fissarvi la sede del suo nome quanto vi comando: i vostri oloca usti e i vostri sacrifici le vostre decime quello che le vostre mani avranno prelevato e tutte le off erte scelte che avrete promesso come voto al Signore. Gioirete davanti al Signore vostro Dio voi i vostri figli le vostre figlie i vostri schiavi le vostre schiave e il levita che abiterà le vostre città p erché non ha né parte né eredità in mezzo a voi. Guàrdati bene dall’offrire i tuoi olocausti in qu alunque luogo avrai visto. Offrirai invece i tuoi olocausti nel luogo che il Signore avrà scelto in u na delle tue tribù: là farai quanto ti comando. Ogni volta però che ne sentirai desiderio potrai uc cidere animali e mangiarne la carne in tutte le tue città secondo la benedizione che il Signore ti avrà elargito. Ne potranno mangiare sia l’impuro che il puro come si fa della carne di gazzella e di cervo. Non ne mangerete però il sangue: lo spargerai per terra come acqua. Non potrai mang iare entro le tue città le decime del tuo frumento del tuo mosto del tuo olio né i primogeniti del
tuo bestiame grosso e minuto né ciò che avrai consacrato per voto né le tue offerte spontanee né quello che le tue mani avranno prelevato. Davanti al Signore tuo Dio, nel luogo che il Signore tuo Dio avrà scelto mangerai tali cose tu il tuo figlio la tua figlia il tuo schiavo la tua schiava e il l evita che abiterà le tue città gioirai davanti al Signore tuo Dio di ogni cosa a cui avrai messo man o. Guàrdati bene finché vivrai nel tuo paese dall’abbandonare il levita. Quando il Signore tuo Di o avrà allargato i tuoi confini come ti ha promesso e tu desiderando mangiare la carne dirai: “Vo rrei mangiare la carne” potrai mangiare carne a tuo piacere. Se il luogo che il Signore tuo Dio, av rà scelto per stabilirvi il suo nome sarà lontano da te potrai ammazzare bestiame grosso e minu to che il Signore ti avrà dato come ti ho prescritto. Potrai mangiare entro le tue città a tuo piace re. Soltanto ne mangerete come si mangia la carne di gazzella e di cervo; ne potrà mangiare chi sarà impuro e chi sarà puro. Astieniti tuttavia dal mangiare il sangue perché il sangue è la vita; t u non devi mangiare la vita insieme con la carne. Non lo mangerai. Lo spargerai per terra come l
’acqua. Non lo mangerai perché sia felice tu e i tuoi figli dopo di te: così avrai fatto ciò che è rett o agli occhi del Signore. Ma quanto alle cose che avrai consacrato o promesso in voto le prende rai e andrai al luogo che il Signore avrà scelto e offrirai i tuoi olocausti, la carne e il sangue sull’al tare del Signore tuo Dio. Il sangue delle altre tue vittime dovrà essere sparso sull’altare del Sign ore tuo Dio e tu ne mangerai la carne. Osserva e obbedisci a tutte queste cose che ti comando p erché sia sempre felice tu e i tuoi figli dopo di te, quando avrai fatto ciò che è buono e retto agli occhi del Signore tuo Dio. Quando il Signore tuo Dio avrà distrutto davanti a te le nazioni di cui t u stai per prendere possesso quando le avrai conquistate e ti sarai stanziato nella loro terra, guà rdati bene dal lasciarti ingannare seguendo il loro esempio dopo che saranno state distrutte dav anti a te e dal cercare i loro dèi dicendo: “Come servivano i loro dèi queste nazioni? Voglio fare così anch’io”. Non ti comporterai in tal modo riguardo al Signore tuo Dio; perché esse facevano per i loro dèi ciò che è abominevole per il Signore e ciò che egli detesta: bruciavano nel fuoco p erfino i loro figli e le loro figlie in onore dei loro dèi. Osserverete per metterlo in pratica tutto ci ò che vi comando: non vi aggiungerai nulla e nulla vi toglierai. Qualora sorga in mezzo a te un pr ofeta o un sognatore che ti proponga un segno o un prodigio, e il segno e il prodigio annunciato succeda ed egli ti dica: “Seguiamo dèi stranieri che tu non hai mai conosciuto e serviamoli” tu n on dovrai ascoltare le parole di quel profeta o di quel sognatore perché il Signore vostro Dio vi mette alla prova per sapere se amate il Signore vostro Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima.
Seguirete il Signore vostro Dio temerete lui osserverete i suoi comandi ascolterete la sua voce l o servirete e gli resterete fedeli. Quanto a quel profeta o a quel sognatore egli dovrà essere mes so a morte perché ha proposto di abbandonare il Signore vostro Dio che vi ha fatto uscire dalla t erra d’Egitto e ti ha riscattato dalla condizione servile per trascinarti fuori della via per la quale il Signore tuo Dio ti ha ordinato di camminare. Così estirperai il male in mezzo a te. Qualora il tuo fratello figlio di tuo padre o figlio di tua madre o il figlio o la figlia o la moglie che riposa sul tuo petto o l’amico che è come te stesso t’istighi in segreto, dicendo: “Andiamo serviamo altri dèi”
dèi che né tu né i tuoi padri avete conosciuto divinità dei popoli che vi circondano vicini a te o d
a te lontani da un’estremità all’altra della terra tu non dargli retta non ascoltarlo. Il tuo occhio n on ne abbia compassione: non risparmiarlo non coprire la sua colpa. Tu anzi devi ucciderlo: la tu a mano sia la prima contro di lui per metterlo a morte; poi sarà la mano di tutto il popolo. Lapid alo e muoia perché ha cercato di trascinarti lontano dal Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal la terra d’Egitto dalla condizione servile. Tutto Israele verrà a saperlo ne avrà timore e non com metterà in mezzo a te una tale azione malvagia. Qualora tu senta dire di una delle tue città che i l Signore tuo Dio ti dà per abitarvi che uomini iniqui sono usciti in mezzo a te e hanno sedotto gl i abitanti della loro città dicendo: “Andiamo serviamo altri dèi” dèi che voi non avete mai conos ciuto tu farai le indagini investigherai interrogherai con cura. Se troverai che la cosa è vera che il fatto sussiste e che un tale abominio è stato realmente commesso in mezzo a te, allora dovrai passare a fil di spada gli abitanti di quella città la dovrai votare allo sterminio con quanto contie ne e dovrai passare a fil di spada anche il suo bestiame. Poi radunerai tutto il bottino in mezzo a lla piazza e brucerai nel fuoco la città e l’intero suo bottino sacrificio per il Signore tuo Dio. Dive nterà una rovina per sempre e non sarà più ricostruita. Nulla di ciò che sarà votato allo stermini o si attaccherà alla tua mano perché il Signore desista dalla sua ira ardente ti conceda misericor dia abbia misericordia di te e ti moltiplichi come ha giurato ai tuoi padri. Così tu ascolterai la voc e del Signore tuo Dio: osservando tutti i suoi comandi che oggi ti do e facendo ciò che è retto ag li occhi del Signore tuo Dio. Voi siete figli per il Signore vostro Dio: non vi farete incisioni e non v i raderete tra gli occhi per un morto. Tu sei infatti un popolo consacrato al Signore tuo Dio e il Si gnore ti ha scelto per essere il suo popolo particolare fra tutti i popoli che sono sulla terra. Non mangerai alcuna cosa abominevole. Questi sono gli animali che potrete mangiare: il bue la peco ra e la capra; il cervo la gazzella il capriolo lo stambecco, l’antilope il bufalo e il camoscio. Potret e mangiare di ogni quadrupede che ha l’unghia bipartita divisa in due da una fessura e che rumi na. Ma non mangerete quelli che ruminano soltanto o che hanno soltanto l’unghia bipartita divi sa da una fessura: il cammello la lepre, l’iràce che ruminano ma non hanno l’unghia bipartita. C
onsiderateli impuri. Anche il porco che ha l’unghia bipartita ma non rumina per voi è impuro. N
on mangerete la loro carne e non toccherete i loro cadaveri. Fra tutti gli animali che vivono nell e acque potrete mangiare quelli che hanno pinne e squame; ma non mangerete nessuno di que lli che non hanno pinne e squame. Considerateli impuri. Potrete mangiare qualunque uccello pu ro ma delle seguenti specie non dovete mangiare: l’aquila l’avvoltoio e l’aquila di mare il nibbio e ogni specie di falco ogni specie di corvo lo struzzo la civetta il gabbiano e ogni specie di sparvi ero il gufo l’ibis il cigno il pellicano la fòlaga l’alcione la cicogna ogni specie di airone, l’ù pupa e i l pipistrello. Considererete come impuro ogni insetto alato. Non ne mangiate. Potrete mangiare ogni uccello puro. Non mangerete alcuna bestia che sia morta di morte naturale; la darai al for estiero che risiede nelle tue città perché la mangi o la venderai a qualche straniero perché tu sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio. Non farai cuocere un capretto nel latte di sua madre.
Dovrai prelevare la decima da tutto il frutto della tua semente che il campo produce ogni anno.
Mangerai davanti al Signore tuo Dio nel luogo dove avrà scelto di stabilire il suo nome la decima
del tuo frumento del tuo mosto del tuo olio e i primi parti del tuo bestiame grosso e minuto pe rché tu impari a temere sempre il Signore tuo Dio. Ma se il cammino è troppo lungo per te e tu non puoi trasportare quelle decime perché è troppo lontano da te il luogo dove il Signore tuo Di o avrà scelto di stabilire il suo nome – perché il Signore, tuo Dio ti avrà benedetto –
allora le convertirai in denaro e tenendolo in mano andrai al luogo che il Signore tuo Dio avrà s celto e lo impiegherai per comprarti quanto tu desideri: bestiame grosso o minuto vino bevand e inebrianti o qualunque cosa di tuo gusto e mangerai davanti al Signore tuo Dio e gioirai tu e la tua famiglia. Il levita che abita le tue città non lo abbandonerai perché non ha parte né eredità c on te. Alla fine di ogni triennio metterai da parte tutte le decime del tuo provento in quell’anno e le deporrai entro le tue porte. Il levita che non ha parte né eredità con te, il forestiero l’orfano e la vedova che abiteranno le tue città mangeranno e si sazieranno, perché il Signore tuo Dio ti benedica in ogni lavoro a cui avrai messo mano. Alla fine di ogni sette anni celebrerete la remiss ione. Ecco la norma di questa remissione: ogni creditore che detenga un pegno per un prestito f atto al suo prossimo lascerà cadere il suo diritto: non lo esigerà dal suo prossimo dal suo fratell o poiché è stata proclamata la remissione per il Signore. Potrai esigerlo dallo straniero; ma quan to al tuo diritto nei confronti di tuo fratello lo lascerai cadere. Del resto non vi sarà alcun bisogn oso in mezzo a voi; perché il Signore certo ti benedirà nella terra che il Signore tuo Dio, ti dà in p ossesso ereditario purché tu obbedisca fedelmente alla voce del Signore tuo Dio avendo cura di eseguire tutti questi comandi che oggi ti do. Quando il Signore tuo Dio ti benedirà come ti ha pr omesso tu farai prestiti a molte nazioni ma non prenderai nulla in prestito. Dominerai molte naz ioni mentre esse non ti domineranno. Se vi sarà in mezzo a te qualche tuo fratello che sia bisog noso in una delle tue città nella terra che il Signore tuo Dio ti dà non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la mano davanti al tuo fratello bisognoso ma gli aprirai la mano e gli presterai quanto occorre alla necessità in cui si trova. Bada bene che non ti entri in cuore questo pensiero iniquo:
“è vicino il settimo anno l’anno della remissione” e il tuo occhio sia cattivo verso il tuo fratello b isognoso e tu non gli dia nulla: egli griderebbe al Signore contro di te e un peccato sarebbe su di te. Dagli generosamente e mentre gli doni il tuo cuore non si rattristi. Proprio per questo infatti il Signore tuo Dio ti benedirà in ogni lavoro e in ogni cosa a cui avrai messo mano. Poiché i biso gnosi non mancheranno mai nella terra allora io ti do questo comando e ti dico: “Apri generosa mente la mano al tuo fratello povero e bisognoso nella tua terra”. Se un tuo fratello ebreo o un a ebrea si vende a te ti servirà per sei anni ma il settimo lo lascerai andare via da te libero. Quan do lo lascerai andare via da te libero non lo rimanderai a mani vuote. Gli farai doni dal tuo gregg e dalla tua aia e dal tuo torchio. Gli darai ciò di cui il Signore tuo Dio ti avrà benedetto. Ti ricord erai che sei stato schiavo nella terra d’Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha riscattato; perciò io ti do oggi questo comando. Ma se egli ti dice: “Non voglio andarmene da te” perché ama te e la t ua casa e sta bene presso di te allora prenderai la lesina gli forerai l’orecchio contro la porta ed egli ti sarà schiavo per sempre. Anche per la tua schiava farai così. Non ti sia grave lasciarlo and are libero perché ti ha servito sei anni e un mercenario ti sarebbe costato il doppio; così il Signo
re tuo Dio ti benedirà in ogni cosa che farai. Consacrerai al Signore tuo Dio ogni primogenito ma schio che ti nascerà nel tuo bestiame grosso e minuto. Non metterai al lavoro il primo parto del tuo bestiame grosso e non toserai il primo parto del tuo bestiame minuto. Li mangerai ogni ann o con la tua famiglia davanti al Signore, tuo Dio nel luogo che il Signore avrà scelto. Se l’animale ha qualche difetto, se è zoppo o cieco o ha qualunque altro grave difetto non lo sacrificherai al Signore tuo Dio. Lo mangerai entro le tue porte: l’impuro e il puro possono mangiarne senza dis tinzione, come si mangia la gazzella e il cervo. Solo non ne mangerai il sangue. Lo spargerai per t erra come l’acqua. Osserva il mese di Abìb e celebra la Pasqua in onore del Signore tuo Dio, per ché nel mese di Abìb il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire dall’Egitto durante la notte. Immolerai l a Pasqua al Signore tuo Dio: un sacrificio di bestiame grosso e minuto nel luogo che il Signore av rà scelto per stabilirvi il suo nome. Con la vittima non mangerai pane lievitato; con essa per sett e giorni mangerai gli azzimi pane di afflizione perché sei uscito in fretta dalla terra d’Egitto. In q uesto modo ti ricorderai per tutto il tempo della tua vita del giorno in cui sei uscito dalla terra d’
Egitto. Non si veda lievito presso di te entro tutti i tuoi confini per sette giorni né resti nulla fino al mattino della carne che avrai immolato la sera del primo giorno. Non potrai immolare la Pasq ua in una qualsiasi città che il Signore tuo Dio sta per darti ma immolerai la Pasqua soltanto nel l uogo che il Signore tuo Dio avrà scelto per fissarvi il suo nome. La immolerai alla sera al tramont o del sole nell’ora in cui sei uscito dall’Egitto. La farai cuocere e la mangerai nel luogo che il Sign ore tuo Dio avrà scelto. La mattina potrai andartene e tornare alle tue tende. Per sei giorni man gerai azzimi e il settimo giorno vi sarà una solenne assemblea per il Signore tuo Dio. Non farai al cun lavoro. Conterai sette settimane. Quando si metterà la falce nella messe comincerai a conta re sette settimane e celebrerai la festa delle Settimane per il Signore tuo Dio offrendo secondo l a tua generosità e nella misura in cui il Signore tuo Dio ti avrà benedetto. Gioirai davanti al Sign ore tuo Dio tu tuo figlio e tua figlia il tuo schiavo e la tua schiava il levita che abiterà le tue città i l forestiero l’orfano e la vedova che saranno in mezzo a te nel luogo che il Signore tuo Dio avrà s celto per stabilirvi il suo nome. Ricòrdati che sei stato schiavo in Egitto: osserva e metti in pratic a queste leggi. Celebrerai la festa delle Capanne per sette giorni quando raccoglierai il prodotto della tua aia e del tuo torchio. Gioirai in questa tua festa tu tuo figlio e tua figlia il tuo schiavo e l a tua schiava e il levita il forestiero l’orfano e la vedova che abiteranno le tue città. Celebrerai la festa per sette giorni per il Signore tuo Dio nel luogo che avrà scelto il Signore perché il Signore tuo Dio ti benedirà in tutto il tuo raccolto e in tutto il lavoro delle tue mani e tu sarai pienament e felice. Tre volte all’anno ogni tuo maschio si presenterà davanti al Signore tuo Dio, nel luogo c he egli avrà scelto: nella festa degli Azzimi nella festa delle Settimane e nella festa delle Capann e. Nessuno si presenterà davanti al Signore a mani vuote ma il dono di ciascuno sarà in misura d ella benedizione che il Signore tuo Dio ti avrà dato. Ti costituirai giudici e scribi in tutte le città c he il Signore tuo Dio ti dà tribù per tribù essi giudicheranno il popolo con giuste sentenze. Non l ederai il diritto non avrai riguardi personali e non accetterai regali perché il regalo acceca gli occ hi dei saggi e corrompe le parole dei giusti. La giustizia e solo la giustizia seguirai per poter viver
e e possedere la terra che il Signore tuo Dio sta per darti. Non pianterai alcun palo sacro di qual unque specie di legno accanto all’altare del Signore tuo Dio che tu hai costruito. Non erigerai alc una stele che il Signore tuo Dio ha in odio. Non immolerai al Signore tuo Dio un capo di bestiam e grosso o minuto che abbia qualche difetto o qualche deformità perché sarebbe abominio per i l Signore tuo Dio. Qualora si trovi in mezzo a te in una delle città che il Signore tuo Dio sta per d arti un uomo o una donna che faccia ciò che è male agli occhi del Signore tuo Dio trasgredendo l a sua alleanza che vada e serva altri dèi prostrandosi davanti a loro davanti al sole o alla luna o a tutto l’esercito del cielo contro il mio comando quando ciò ti sia riferito o tu ne abbia sentito parlare infórmatene diligentemente. Se la cosa è vera se il fatto sussiste se un tale abominio è s tato commesso in Israele farai condurre alle porte della tua città quell’uomo o quella donna che avrà commesso quell’azione cattiva e lapiderai quell’uomo o quella donna così che muoia. Colu i che dovrà morire sarà messo a morte sulla deposizione di due o di tre testimoni. Non potrà ess ere messo a morte sulla deposizione di un solo testimone. La mano dei testimoni sarà la prima c ontro di lui per farlo morire. Poi sarà la mano di tutto il popolo. Così estirperai il male in mezzo a te. Quando in una causa ti sarà troppo difficile decidere tra assassinio e assassinio tra diritto e diritto tra percossa e percossa in cose su cui si litiga nelle tue città ti alzerai e salirai al luogo che il Signore tuo Dio avrà scelto. Andrai dai sacerdoti leviti e dal giudice in carica in quei giorni li co nsulterai ed essi ti indicheranno la sentenza da pronunciare. Tu agirai in base a quello che essi ti indicheranno nel luogo che il Signore avrà scelto e avrai cura di fare quanto ti avranno insegnat o. Agirai in base alla legge che essi ti avranno insegnato e alla sentenza che ti avranno indicato s enza deviare da quello che ti avranno esposto né a destra né a sinistra. L’uomo che si comporte rà con presunzione e non obbedirà al sacerdote che sta là per servire il Signore tuo Dio o al giud ice quell’uomo dovrà morire. Così estirperai il male da Israele. Tutto il popolo verrà a saperlo ne avrà timore e non agirà più con presunzione. Quando sarai entrato nella terra che il Signore tuo Dio sta per darti e ne avrai preso possesso e l’abiterai se dirai: “Voglio costituire sopra di me un re come tutte le nazioni che mi stanno intorno” dovrai costituire sopra di te come re colui che il Signore tuo Dio, avrà scelto. Costituirai sopra di te come re uno dei tuoi fratelli; non potrai costi tuire su di te uno straniero che non sia tuo fratello. Ma egli non dovrà procurarsi un gran numer o di cavalli né far tornare il popolo in Egitto per procurarsi un gran numero di cavalli perché il Si gnore vi ha detto: “Non tornerete più indietro per quella via!”. Non dovrà avere un gran numer o di mogli perché il suo cuore non si smarrisca; non abbia grande quantità di argento e di oro. Q
uando si insedierà sul trono regale, scriverà per suo uso in un libro una copia di questa legge sec ondo l’esemplare dei sacerdoti leviti. Essa sarà con lui ed egli la leggerà tutti i giorni della sua vit a per imparare a temere il Signore suo Dio e a osservare tutte le parole di questa legge e di que sti statuti, affinché il suo cuore non si insuperbisca verso i suoi fratelli ed egli non si allontani da questi comandi né a destra né a sinistra e prolunghi così i giorni del suo regno lui e i suoi figli in mezzo a Israele. I sacerdoti leviti tutta la tribù di Levi non avranno parte né eredità insieme con Israele; vivranno dei sacrifici consumati dal fuoco per il Signore e della sua eredità. Non avrà alc
una eredità tra i suoi fratelli: il Signore è la sua eredità come gli ha promesso. Questo sarà il dirit to dei sacerdoti sul popolo, su quelli che offriranno come sacrificio un capo di bestiame grosso o minuto: essi daranno al sacerdote la spalla le due mascelle e lo stomaco. Gli darai le primizie de l tuo frumento del tuo mosto e del tuo olio e le primizie della tosatura del tuo bestiame minuto perché il Signore, tuo Dio l’ha scelto fra tutte le tue tribù affinché attenda al servizio del nome d el Signore lui e i suoi figli per sempre. Se un levita abbandonando qualunque città dove dimora i n Israele verrà seguendo pienamente il suo desiderio al luogo che il Signore avrà scelto e farà il servizio nel nome del Signore tuo Dio come tutti i suoi fratelli leviti che stanno là davanti al Sign ore egli riceverà per il suo mantenimento una parte uguale a quella degli altri senza contare il ri cavo dalla vendita della sua casa paterna. Quando sarai entrato nella terra che il Signore tuo Dio sta per darti non imparerai a commettere gli abomini di quelle nazioni. Non si trovi in mezzo a t e chi fa passare per il fuoco il suo figlio o la sua figlia né chi esercita la divinazione o il sortilegio o il presagio o la magia né chi faccia incantesimi né chi consulti i negromanti o gli indovini, né ch i interroghi i morti perché chiunque fa queste cose è in abominio al Signore. A causa di questi a bomini il Signore tuo Dio sta per scacciare quelle nazioni davanti a te. Tu sarai irreprensibile ver so il Signore tuo Dio perché le nazioni di cui tu vai ad occupare il paese ascoltano gli indovini e g li incantatori ma quanto a te non così ti ha permesso il Signore tuo Dio. Il Signore tuo Dio suscit erà per te, in mezzo a te tra i tuoi fratelli un profeta pari a me. A lui darete ascolto. Avrai così qu anto hai chiesto al Signore tuo Dio sull’Oreb il giorno dell’assemblea dicendo: “Che io non oda p iù la voce del Signore mio Dio e non veda più questo grande fuoco, perché non muoia”. Il Signor e mi rispose: “Quello che hanno detto va bene. Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro frat elli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò. Se qualcuno non ascolterà le parole che egli dirà in mio nome io gliene domanderò conto. Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome una cosa che io non gli ho comandato di dire o che parlerà in nome di altri dèi quel profeta dovrà morire”. Forse potresti dire nel tuo cuore: “Come riconosc eremo la parola che il Signore non ha detto?”. Quando il profeta parlerà in nome del Signore e l a cosa non accadrà e non si realizzerà quella parola non l’ha detta il Signore. Il profeta l’ha detta per presunzione. Non devi aver paura di lui. Quando il Signore tuo Dio avrà distrutto le nazioni delle quali egli ti dà la terra e tu prenderai il loro posto e abiterai nelle loro città e nelle loro cas e ti sceglierai tre città nella terra della quale il Signore tuo Dio ti dà il possesso. Preparerai strad e e dividerai in tre parti l’area della terra che il Signore tuo Dio, ti dà in eredità perché ogni omic ida si possa rifugiare in quella città. Ecco in qual caso l’omicida che vi si rifugerà avrà salva la vit a: chiunque avrà ucciso il suo prossimo involontariamente senza che l’abbia odiato prima –
come quando uno va al bosco con il suo compagno a tagliare la legna e mentre la mano afferra la scure per abbattere l’albero il ferro gli sfugge dal manico e colpisce il compagno così che ne muoia –
quello si rifugerà in una di queste città e avrà salva la vita; altrimenti il vendicatore del sangue mentre l’ira gli arde in cuore potrebbe inseguire l’omicida e qualora il cammino sia lungo potreb
be raggiungerlo e colpirlo a morte mentre egli non era reo di morte perché prima non aveva odi ato il compagno. Ti do dunque quest’ordine: “Scegliti tre città”. Se il Signore tuo Dio allargherà i tuoi confini come ha giurato ai tuoi padri e ti darà tutta la terra che ha promesso di dare ai tuoi padri se osserverai tutti questi comandi che oggi ti do amando il Signore tuo Dio e camminando sempre secondo le sue vie allora aggiungerai tre altre città alle prime tre perché non si sparga s angue innocente nella terra che il Signore tuo Dio ti dà in eredità e tu non ti renda colpevole del sangue versato. Ma se un uomo odia il suo prossimo gli tende insidie l’assale lo percuote in mo do da farlo morire e poi si rifugia in una di quelle città gli anziani della sua città lo manderanno a prendere di là e lo consegneranno nelle mani del vendicatore del sangue, perché sia messo a m orte. L’occhio tuo non lo compianga; così estirperai da Israele lo spargimento del sangue innoce nte e sarai felice. Non sposterai i confini del tuo vicino posti dai tuoi antenati nell’eredità che ti sarà toccata nella terra che il Signore tuo Dio ti dà in possesso. Un solo testimone non avrà valo re contro alcuno per qualsiasi colpa e per qualsiasi peccato; qualunque peccato uno abbia com messo il fatto dovrà essere stabilito sulla parola di due o di tre testimoni. Qualora un testimone ingiusto si alzi contro qualcuno per accusarlo di ribellione i due uomini fra i quali ha luogo la cau sa compariranno davanti al Signore, davanti ai sacerdoti e ai giudici in carica in quei giorni. I giu dici indagheranno con diligenza e se quel testimone risulta falso perché ha deposto il falso contr o il suo fratello, farete a lui quello che egli aveva pensato di fare al suo fratello. Così estirperai il male in mezzo a te. Gli altri verranno a saperlo e ne avranno paura e non commetteranno più in mezzo a te una tale azione malvagia. Il tuo occhio non avrà compassione: vita per vita occhio p er occhio dente per dente mano per mano piede per piede. Quando andrai in guerra contro i tu oi nemici e vedrai cavalli e carri e forze superiori a te, non temerli perché è con te il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto. Quando sarete vicini alla battaglia il sacerdote si fa rà avanti, parlerà al popolo e gli dirà: “Ascolta Israele! Voi oggi siete prossimi a dar battaglia ai v ostri nemici. Il vostro cuore non venga meno. Non temete non vi smarrite e non vi spaventate di nanzi a loro perché il Signore vostro Dio cammina con voi per combattere per voi contro i vostri nemici e per salvarvi”. Gli scribi diranno al popolo: “C’è qualcuno che abbia costruito una casa n uova e non l’abbia ancora inaugurata? Vada, torni a casa perché non muoia in battaglia e un altr o inauguri la casa. C’è qualcuno che abbia piantato una vigna e non ne abbia ancora goduto il pr imo frutto? Vada torni a casa perché non muoia in battaglia e un altro ne goda il primo frutto. C
’è qualcuno che si sia fidanzato con una donna e non l’abbia ancora sposata? Vada torni a casa perché non muoia in battaglia e un altro la sposi”. Gli scribi aggiungeranno al popolo: “C’è qualc uno che abbia paura e a cui venga meno il coraggio? Vada torni a casa perché il coraggio dei suo i fratelli non venga a mancare come il suo”. Quando gli scribi avranno finito di parlare al popolo costituiranno i comandanti delle schiere alla testa del popolo. Quando ti avvicinerai a una città per attaccarla le offrirai prima la pace. Se accetta la pace e ti apre le sue porte tutto il popolo ch e vi si troverà ti sarà tributario e ti servirà. Ma se non vuol far pace con te e vorrà la guerra allor a l’assedierai. Quando il Signore tuo Dio l’avrà data nelle tue mani ne colpirai a fil di spada tutti i
maschi ma le donne i bambini il bestiame e quanto sarà nella città tutto il suo bottino li prende rai come tua preda. Mangerai il bottino dei tuoi nemici che il Signore tuo Dio ti avrà dato. Così f arai per tutte le città che sono molto lontane da te e che non sono città di popolazioni a te vicin e. Soltanto nelle città di questi popoli che il Signore tuo Dio ti dà in eredità non lascerai in vita al cun vivente ma li voterai allo sterminio: cioè gli Ittiti gli Amorrei i Cananei i Perizziti gli Evei e i G
ebusei come il Signore tuo Dio ti ha comandato di fare perché essi non v’insegnino a commetter e tutti gli abomini che fanno per i loro dèi e voi non pecchiate contro il Signore vostro Dio. Quan do cingerai d’assedio una città per lungo tempo per espugnarla e conquistarla non ne distrugge rai gli alberi colpendoli con la scure; ne mangerai il frutto ma non li taglierai: l’albero della camp agna è forse un uomo per essere coinvolto nell’assedio? Soltanto potrai distruggere e recidere g li alberi che saprai non essere alberi da frutto per costruire opere d’assedio contro la città che è in guerra con te finché non sia caduta. Se nel paese di cui il Signore tuo Dio sta per darti il posse sso si troverà un uomo ucciso disteso nella campagna senza che si sappia chi l’abbia ucciso i tuoi anziani e i tuoi giudici usciranno e misureranno la distanza fra l’ucciso e le città dei dintorni. All ora gli anziani della città più vicina all’ucciso prenderanno una giovenca che non abbia ancora la vorato né portato il giogo. Gli anziani di quella città faranno scendere la giovenca presso un cors o d’acqua corrente in un luogo dove non si lavora e non si semina e là spezzeranno la nuca alla giovenca. Si avvicineranno poi i sacerdoti figli di Levi poiché il Signore tuo Dio li ha scelti per ser virlo e per dare la benedizione nel nome del Signore e la loro parola dovrà decidere ogni contro versia e ogni caso di lesione. Allora tutti gli anziani di quella città che sono i più vicini al cadaver e si laveranno le mani sulla giovenca a cui sarà stata spezzata la nuca nel torrente. Prendendo la parola diranno: “Le nostre mani non hanno sparso questo sangue e i nostri occhi non l’hanno vi sto spargere. Signore libera dalla colpa il tuo popolo Israele che tu hai redento e non imputare a l tuo popolo Israele sangue innocente!”. Quel sangue per quanto li riguarda resterà espiato. Cos ì tu toglierai da te il sangue innocente, perché avrai fatto ciò che è retto agli occhi del Signore. S
e andrai in guerra contro i tuoi nemici e il Signore tuo Dio te li avrà messi nelle mani e tu avrai fa tto prigionieri se vedrai tra i prigionieri una donna bella d’aspetto e ti sentirai legato a lei tanto da volerla prendere in moglie te la condurrai a casa. Ella si raderà il capo si taglierà le unghie si l everà la veste che portava quando fu presa dimorerà in casa tua e piangerà suo padre e sua ma dre per un mese intero; dopo potrai unirti a lei e comportarti da marito verso di lei e sarà tua m oglie. Se in seguito non ti sentissi più di amarla la lascerai andare per suo conto, ma non potrai a ssolutamente venderla per denaro né trattarla come una schiava perché tu l’hai disonorata. Se un uomo avrà due mogli l’una amata e l’altra odiata e tanto l’amata quanto l’odiata gli avranno procreato figli se il primogenito è il figlio dell’odiata quando dividerà tra i suoi figli i beni che pos siede non potrà dare il diritto di primogenito al figlio dell’amata preferendolo al figlio dell’odiat a, che è il primogenito. Riconoscerà invece come primogenito il figlio dell’odiata dandogli il dop pio di quello che possiede poiché costui è la primizia del suo vigore e a lui appartiene il diritto di primogenitura. Se un uomo avrà un figlio testardo e ribelle che non obbedisce alla voce né di s
uo padre né di sua madre e benché l’abbiano castigato non dà loro retta, suo padre e sua madr e lo prenderanno e lo condurranno dagli anziani della città alla porta del luogo dove abita e dira nno agli anziani della città: “Questo nostro figlio è testardo e ribelle; non vuole obbedire alla no stra voce è un ingordo e un ubriacone”. Allora tutti gli uomini della sua città lo lapideranno ed e gli morirà. Così estirperai da te il male e tutto Israele lo saprà e avrà timore. Se un uomo avrà co mmesso un delitto degno di morte e tu l’avrai messo a morte e appeso a un albero il suo cadave re non dovrà rimanere tutta la notte sull’albero ma lo seppellirai lo stesso giorno perché l’appes o è una maledizione di Dio e tu non contaminerai il paese che il Signore tuo Dio ti dà in eredità.
Se vedi smarrito un capo di bestiame grosso o un capo di bestiame minuto di tuo fratello non d evi fingere di non averli scorti ma avrai cura di ricondurli a tuo fratello. Se tuo fratello non abita vicino a te e non lo conosci accoglierai l’animale in casa tua: rimarrà da te finché tuo fratello no n ne faccia ricerca e allora glielo renderai. Lo stesso farai del suo asino lo stesso della sua veste l o stesso di ogni altro oggetto che tuo fratello abbia perduto e che tu trovi. Non fingerai di non a verli scorti. Se vedi l’asino di tuo fratello o il suo bue caduto lungo la strada non fingerai di non a verli scorti ma insieme con lui li farai rialzare. La donna non si metterà un indumento da uomo n é l’uomo indosserà una veste da donna perché chiunque fa tali cose è in abominio al Signore tu o Dio. Quando cammin facendo troverai sopra un albero o per terra un nido d’uccelli con uccelli ni o uova e la madre che sta covando gli uccellini o le uova non prenderai la madre che è con i fi gli. Lascia andar via la madre e prendi per te i figli perché tu sia felice e goda lunga vita. Quando costruirai una casa nuova farai un parapetto intorno alla tua terrazza per non attirare sulla tua c asa la vendetta del sangue qualora uno cada di là. Non seminerai nella tua vigna semi di due sp ecie diverse perché altrimenti tutto il prodotto di ciò che avrai seminato e la rendita della vigna diventerà cosa sacra. Non devi arare con un bue e un asino aggiogati assieme. Non ti vestirai co n un tessuto misto fatto di lana e di lino insieme. Metterai fiocchi alle quattro estremità del ma ntello con cui ti copri. Se un uomo sposa una donna e dopo essersi unito a lei la prende in odio, le attribuisce azioni scandalose e diffonde sul suo conto una fama cattiva dicendo: “Ho preso qu esta donna ma quando mi sono accostato a lei non l’ho trovata in stato di verginità” il padre e la madre della giovane prenderanno i segni della verginità della giovane e li presenteranno agli an ziani della città alla porta. Il padre della giovane dirà agli anziani: “Ho dato mia figlia in moglie a quest’uomo; egli l’ha presa in odio ed ecco le attribuisce azioni scandalose, dicendo: Non ho tro vato tua figlia in stato di verginità ebbene questi sono i segni della verginità di mia figlia” e spieg heranno il panno davanti agli anziani della città. Allora gli anziani di quella città prenderanno il marito lo castigheranno e gli imporranno un’ammenda di cento sicli d’argento che daranno al p adre della giovane per il fatto che ha diffuso una cattiva fama contro una vergine d’Israele. Ella r imarrà sua moglie ed egli non potrà ripudiarla per tutto il tempo della sua vita. Ma se la cosa è v era se la giovane non è stata trovata in stato di verginità allora la faranno uscire all’ingresso dell a casa del padre e la gente della sua città la lapiderà a morte perché ha commesso un’infamia in Israele disonorandosi in casa del padre. Così estirperai il male in mezzo a te. Quando un uomo
verrà trovato a giacere con una donna maritata tutti e due dovranno morire: l’uomo che è giaci uto con la donna e la donna. Così estirperai il male da Israele. Quando una fanciulla vergine è fi danzata e un uomo trovandola in città giace con lei condurrete tutti e due alla porta di quella cit tà e li lapiderete a morte: la fanciulla perché essendo in città non ha gridato e l’uomo perché ha disonorato la donna del suo prossimo. Così estirperai il male in mezzo a te. Ma se l’uomo trova per i campi la fanciulla fidanzata e facendole violenza giace con lei allora dovrà morire soltanto l
’uomo che è giaciuto con lei ma non farai nulla alla fanciulla. Nella fanciulla non c’è colpa degna di morte: come quando un uomo assale il suo prossimo e l’uccide, così è in questo caso perché egli l’ha incontrata per i campi. La giovane fidanzata ha potuto gridare ma non c’era nessuno pe r venirle in aiuto. Se un uomo trova una fanciulla vergine che non sia fidanzata l’afferra e giace c on lei e sono colti in flagrante l’uomo che è giaciuto con lei darà al padre della fanciulla cinquan ta sicli d’argento; ella sarà sua moglie per il fatto che egli l’ha disonorata e non potrà ripudiarla per tutto il tempo della sua vita. Nessuno sposerà una moglie del padre né solleverà il lembo de l mantello paterno. Non entrerà nella comunità del Signore chi ha i testicoli schiacciati o il mem bro mutilato. Il bastardo non entrerà nella comunità del Signore; nessuno dei suoi neppure alla decima generazione entrerà nella comunità del Signore. L’Ammonita e il Moabita non entreran no nella comunità del Signore; nessuno dei loro discendenti neppure alla decima generazione e ntrerà nella comunità del Signore. Non vi entreranno mai perché non vi vennero incontro con il pane e con l’acqua nel vostro cammino quando uscivate dall’Egitto e perché contro di te hanno pagato Balaam figlio di Beor da Petor in Aram Naharàim perché ti maledicesse. Ma il Signore tu o Dio non volle ascoltare Balaam e il Signore tuo Dio mutò per te la maledizione in benedizione, perché il Signore tuo Dio ti ama. Non cercherai né la loro pace né la loro prosperità mai finché vi vrai. Non avrai in abominio l’Edomita, perché è tuo fratello. Non avrai in abominio l’Egiziano per ché sei stato forestiero nella sua terra. I figli che nasceranno da loro alla terza generazione potr anno entrare nella comunità del Signore. Quando uscirai e ti accamperai contro i tuoi nemici, gu àrdati da ogni cosa cattiva. Se si trova qualcuno in mezzo a te che non sia puro a causa di una p olluzione notturna uscirà dall’accampamento e non vi entrerà. Verso sera si laverà con acqua e dopo il tramonto del sole potrà rientrare nell’accampamento. Avrai anche un posto fuori dell’ac campamento e là andrai per i tuoi bisogni. Nel tuo equipaggiamento avrai un piolo con il quale quando ti accovaccerai fuori scaverai una buca e poi ricoprirai i tuoi escrementi. Poiché il Signor e tuo Dio passa in mezzo al tuo accampamento per salvarti e per mettere i nemici in tuo potere l’accampamento deve essere santo. Egli non deve vedere in mezzo a te qualche indecenza altri menti ti abbandonerebbe. Non consegnerai al suo padrone uno schiavo che dopo essergli fuggit o si sarà rifugiato presso di te. Rimarrà da te in mezzo ai tuoi nel luogo che avrà scelto in quella città che gli parrà meglio. Non lo opprimerai. Non vi sarà alcuna donna dedita alla prostituzione sacra tra le figlie d’Israele né vi sarà alcun uomo dedito alla prostituzione sacra tra i figli d’Israel e. Non porterai nel tempio del Signore tuo Dio il dono di una prostituta né il salario di un cane q ualunque voto tu abbia fatto poiché tutti e due sono abominio per il Signore tuo Dio. Non farai
al tuo fratello prestiti a interesse né di denaro né di viveri né di qualunque cosa che si presta a i nteresse. Allo straniero potrai prestare a interesse ma non al tuo fratello perché il Signore tuo D
io ti benedica in tutto ciò a cui metterai mano nella terra in cui stai per entrare per prenderne p ossesso. Quando avrai fatto un voto al Signore tuo Dio non tarderai a soddisfarlo perché il Signo re tuo Dio te ne domanderebbe certo conto e in te vi sarebbe un peccato. Ma se ti astieni dal fa r voti non vi sarà in te peccato. Manterrai la parola uscita dalle tue labbra ed eseguirai il voto ch e avrai fatto spontaneamente al Signore tuo Dio come la tua bocca avrà promesso. Se entri nell a vigna del tuo prossimo potrai mangiare uva secondo il tuo appetito a sazietà ma non potrai m etterne in alcun tuo recipiente. Se passi tra la messe del tuo prossimo potrai coglierne spighe co n la mano ma non potrai mettere la falce nella messe del tuo prossimo. Quando un uomo ha pr eso una donna e ha vissuto con lei da marito se poi avviene che ella non trovi grazia ai suoi occh i perché egli ha trovato in lei qualche cosa di vergognoso scriva per lei un libello di ripudio e gliel o consegni in mano e la mandi via dalla casa. Se ella uscita dalla casa di lui va e diventa moglie d i un altro marito e anche questi la prende in odio scrive per lei un libello di ripudio glielo conseg na in mano e la manda via dalla casa o se quest’altro marito, che l’aveva presa per moglie muor e il primo marito che l’aveva rinviata non potrà riprenderla per moglie dopo che lei è stata cont aminata perché sarebbe abominio agli occhi del Signore. Tu non renderai colpevole di peccato l a terra che il Signore tuo Dio sta per darti in eredità. Quando un uomo si sarà sposato da poco n on andrà in guerra e non gli sarà imposto alcun incarico. Sarà libero per un anno di badare alla s ua casa e farà lieta la moglie che ha sposato. Nessuno prenderà in pegno né le due pietre della macina domestica né la pietra superiore della macina perché sarebbe come prendere in pegno l a vita. Quando si troverà un uomo che abbia rapito qualcuno dei suoi fratelli tra gli Israeliti l’abb ia sfruttato come schiavo o l’abbia venduto quel ladro sarà messo a morte. Così estirperai il mal e in mezzo a te. In caso di lebbra bada bene di osservare diligentemente e fare quanto i sacerdo ti leviti vi insegneranno. Avrete cura di fare come io ho loro ordinato. Ricòrdati di quello che il Si gnore tuo Dio fece a Maria durante il viaggio quando uscivate dall’Egitto. Quando presterai qual siasi cosa al tuo prossimo non entrerai in casa sua per prendere il suo pegno. Te ne starai fuori e l’uomo a cui avrai fatto il prestito ti porterà fuori il pegno. Se quell’uomo è povero non andrai a dormire con il suo pegno. Dovrai assolutamente restituirgli il pegno al tramonto del sole perché egli possa dormire con il suo mantello e benedirti. Questo ti sarà contato come un atto di giusti zia agli occhi del Signore tuo Dio. Non defrauderai il salariato povero e bisognoso sia egli uno de i tuoi fratelli o uno dei forestieri che stanno nella tua terra nelle tue città. Gli darai il suo salario i l giorno stesso prima che tramonti il sole perché egli è povero e a quello aspira. Così egli non gri derà contro di te al Signore e tu non sarai in peccato. Non si metteranno a morte i padri per una colpa dei figli né si metteranno a morte i figli per una colpa dei padri. Ognuno sarà messo a mo rte per il proprio peccato. Non lederai il diritto dello straniero e dell’orfano e non prenderai in p egno la veste della vedova. Ricòrdati che sei stato schiavo in Egitto e che di là ti ha liberato il Sig nore tuo Dio; perciò ti comando di fare questo. Quando facendo la mietitura nel tuo campo vi a
vrai dimenticato qualche mannello non tornerai indietro a prenderlo. Sarà per il forestiero per l’
orfano e per la vedova perché il Signore tuo Dio ti benedica in ogni lavoro delle tue mani. Quan do bacchierai i tuoi ulivi non tornare a ripassare i rami. Sarà per il forestiero per l’orfano e per la vedova. Quando vendemmierai la tua vigna non tornerai indietro a racimolare. Sarà per il fores tiero per l’orfano e per la vedova. Ricòrdati che sei stato schiavo nella terra d’Egitto; perciò ti co mando di fare questo. Quando sorgerà una lite fra alcuni uomini e verranno in giudizio i giudici che sentenzieranno assolveranno l’innocente e condanneranno il colpevole. Se il colpevole avrà meritato di essere fustigato il giudice lo farà stendere per terra e fustigare in sua presenza con un numero di colpi proporzionato alla gravità della sua colpa. Gli farà dare non più di quaranta c olpi perché aggiungendo altre battiture a queste la punizione non risulti troppo grave e il tuo fr atello resti infamato ai tuoi occhi. Non metterai la museruola al bue mentre sta trebbiando. Qu ando i fratelli abiteranno insieme e uno di loro morirà senza lasciare figli la moglie del defunto n on si sposerà con uno di fuori con un estraneo. Suo cognato si unirà a lei e se la prenderà in mo glie compiendo così verso di lei il dovere di cognato. Il primogenito che ella metterà al mondo a ndrà sotto il nome del fratello morto perché il nome di questi non si estingua in Israele. Ma se q uell’uomo non ha piacere di prendere la cognata ella salirà alla porta degli anziani e dirà: “Mio c ognato rifiuta di assicurare in Israele il nome del fratello; non acconsente a compiere verso di m e il dovere di cognato”. Allora gli anziani della sua città lo chiameranno e gli parleranno. Se egli persiste e dice: “Non ho piacere di prenderla” allora sua cognata gli si avvicinerà in presenza de gli anziani gli toglierà il sandalo dal piede gli sputerà in faccia e proclamerà: “Così si fa all’uomo che non vuole ricostruire la famiglia del fratello”. La sua sarà chiamata in Israele la famiglia dell o scalzato. Se alcuni verranno a contesa fra di loro e la moglie dell’uno si avvicinerà per liberare il marito dalle mani di chi lo percuote e stenderà la mano per afferrare costui nelle parti vergog nose tu le taglierai la mano. Il tuo occhio non dovrà avere compassione. Non avrai nel tuo sacch etto due pesi diversi uno grande e uno piccolo. Non avrai in casa due tipi di efa una grande e un a piccola. Terrai un peso completo e giusto terrai un’ efa completa e giusta perché tu possa aver e lunga vita nel paese che il Signore tuo Dio ti dà. Poiché chiunque compie tali cose chiunque co mmette ingiustizia è in abominio al Signore tuo Dio. Ricòrdati di ciò che ti ha fatto Amalèk lungo il cammino quando uscivate dall’Egitto: come ti assalì lungo il cammino e aggredì nella tua caro vana tutti i più deboli della retroguardia mentre tu eri stanco e sfinito. Non ebbe alcun timor di Dio. Quando dunque il Signore tuo Dio ti avrà assicurato tranquillità, liberandoti da tutti i tuoi n emici all’intorno nella terra che il Signore tuo Dio sta per darti in eredità cancellerai la memoria di Amalèk sotto il cielo. Non dimenticare! Quando sarai entrato nella terra che il Signore tuo Dio ti dà in eredità e la possederai e là ti sarai stabilito prenderai le primizie di tutti i frutti del suolo da te raccolti nella terra che il Signore tuo Dio ti dà le metterai in una cesta e andrai al luogo ch e il Signore tuo Dio avrà scelto per stabilirvi il suo nome. Ti presenterai al sacerdote in carica in quei giorni e gli dirai: “Io dichiaro oggi al Signore tuo Dio che sono entrato nella terra che il Sign ore ha giurato ai nostri padri di dare a noi”. Il sacerdote prenderà la cesta dalle tue mani e la de
porrà davanti all’altare del Signore tuo Dio, e tu pronuncerai queste parole davanti al Signore tu o Dio: “Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono ci umiliar ono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore al Dio dei nostri padri e il Sign ore ascoltò la nostra voce vide la nostra umiliazione la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso spargendo terrore e oper ando segni e prodigi. Ci condusse in questo luogo e ci diede questa terra dove scorrono latte e miele. Ora ecco io presento le primizie dei frutti del suolo che tu, Signore mi hai dato”. Le depor rai davanti al Signore tuo Dio e ti prostrerai davanti al Signore tuo Dio. Gioirai con il levita e con il forestiero che sarà in mezzo a te di tutto il bene che il Signore tuo Dio avrà dato a te e alla tua famiglia. Quando avrai finito di prelevare tutte le decime delle tue entrate il terzo anno, l’anno delle decime e le avrai date al levita al forestiero all’orfano e alla vedova, perché ne mangino ne lle tue città e ne siano sazi allora dirai dinanzi al Signore tuo Dio: “Ho tolto dalla mia casa ciò che era consacrato e l’ho dato al levita al forestiero all’orfano e alla vedova secondo quanto mi hai ordinato. Non ho trasgredito né dimenticato alcuno dei tuoi comandi. Non ne ho mangiato dura nte il mio lutto non ne ho tolto nulla quando ero impuro e non ne ho dato a un morto. Ho obbe dito alla voce del Signore mio Dio ho agito secondo quanto mi hai ordinato. Volgi lo sguardo dall a dimora della tua santità dal cielo e benedici il tuo popolo Israele e il paese che ci hai dato com e hai giurato ai nostri padri terra dove scorrono latte e miele!”. Oggi il Signore tuo Dio ti coman da di mettere in pratica queste leggi e queste norme. Osservale e mettile in pratica con tutto il c uore e con tutta l’anima. Tu hai sentito oggi il Signore dichiarare che egli sarà Dio per te ma solo se tu camminerai per le sue vie e osserverai le sue leggi i suoi comandi le sue norme e ascoltera i la sua voce. Il Signore ti ha fatto dichiarare oggi che tu sarai il suo popolo particolare come egli ti ha detto ma solo se osserverai tutti i suoi comandi. Egli ti metterà per gloria rinomanza e sple ndore sopra tutte le nazioni che ha fatto e tu sarai un popolo consacrato al Signore tuo Dio com e egli ha promesso». Mosè e gli anziani d’Israele diedero quest’ordine al popolo: «Osservate tut ti i comandi che oggi vi do. Quando avrete attraversato il Giordano per entrare nella terra che il Signore vostro Dio sta per darvi erigerai grandi pietre e le intonacherai di calce. Scriverai su di e sse tutte le parole di questa legge quando avrai attraversato il Giordano per entrare nella terra che il Signore tuo Dio sta per darti terra dove scorrono latte e miele come il Signore Dio dei tuoi padri ti ha detto. Quando dunque avrete attraversato il Giordano, erigerete sul monte Ebal que ste pietre come oggi vi comando e le intonacherete di calce. Là costruirai anche un altare al Sign ore tuo Dio un altare di pietre non toccate da strumento di ferro. Costruirai l’altare del Signore t uo Dio con pietre intatte e sopra vi offrirai olocausti al Signore tuo Dio. Offrirai sacrifici di comu nione là ne mangerai e ti rallegrerai davanti al Signore tuo Dio. Scriverai su quelle pietre tutte le parole di questa legge con scrittura ben chiara». Mosè e i sacerdoti leviti dissero a tutto Israele:
«Fa’ silenzio e ascolta, Israele! Oggi sei divenuto il popolo del Signore tuo Dio. Obbedirai quindi alla voce del Signore tuo Dio e metterai in pratica i suoi comandi e le sue leggi che oggi ti do». In
quello stesso giorno Mosè diede quest’ordine al popolo: «Ecco quelli che una volta attraversat o il Giordano staranno sul monte Garizìm per benedire il popolo: Simeone Levi Giuda ìssacar Giu seppe e Beniamino; ecco quelli che staranno sul monte Ebal per pronunciare la maledizione: Ru ben Gad Aser Zàbulon Dan e Nèftali. I leviti prenderanno la parola e diranno ad alta voce a tutti gli Israeliti: “Maledetto l’uomo che fa un’immagine scolpita o di metallo fuso abominio per il Sig nore lavoro di mano d’artefice e la pone in luogo occulto!”. Tutto il popolo risponderà e dirà: “A men”. “Maledetto chi maltratta il padre e la madre!”. Tutto il popolo dirà: “Amen”. “Maledetto chi sposta i confini del suo prossimo!”. Tutto il popolo dirà: “Amen”. “Maledetto chi fa smarrire il cammino al cieco!”. Tutto il popolo dirà: “Amen”. “Maledetto chi lede il diritto del forestiero d ell’orfano e della vedova!”. Tutto il popolo dirà: “Amen”. “Maledetto chi si unisce con la moglie del padre perché solleva il lembo del mantello del padre!”. Tutto il popolo dirà: “Amen”. “Male detto chi giace con qualsiasi bestia!”. Tutto il popolo dirà: “Amen”. “Maledetto chi giace con la propria sorella figlia di suo padre o figlia di sua madre!”. Tutto il popolo dirà: “Amen”. “Maledet to chi giace con la suocera!”. Tutto il popolo dirà: “Amen”. “Maledetto chi colpisce il suo prossi mo in segreto!”. Tutto il popolo dirà: “Amen”. “Maledetto chi accetta un regalo per condannare a morte un innocente!”. Tutto il popolo dirà: “Amen”. “Maledetto chi non mantiene in vigore le parole di questa legge per metterle in pratica!”. Tutto il popolo dirà: “Amen”. Se tu obbedirai fe delmente alla voce del Signore tuo Dio preoccupandoti di mettere in pratica tutti i suoi comandi che io ti prescrivo il Signore tuo Dio ti metterà al di sopra di tutte le nazioni della terra. Poiché t u avrai ascoltato la voce del Signore tuo Dio verranno su di te e ti raggiungeranno tutte queste benedizioni. Sarai benedetto nella città e benedetto nella campagna. Benedetto sarà il frutto de l tuo grembo il frutto del tuo suolo e il frutto del tuo bestiame sia i parti delle tue vacche sia i na ti delle tue pecore. Benedette saranno la tua cesta e la tua madia. Sarai benedetto quando entri e benedetto quando esci. Il Signore farà soccombere davanti a te i tuoi nemici che insorgerann o contro di te: per una sola via verranno contro di te e per sette vie fuggiranno davanti a te. Il Si gnore ordinerà alla benedizione di essere con te nei tuoi granai e in tutto ciò a cui metterai man o. Ti benedirà nella terra che il Signore tuo Dio sta per darti. Il Signore ti renderà popolo a lui co nsacrato come ti ha giurato se osserverai i comandi del Signore tuo Dio e camminerai nelle sue vie. Tutti i popoli della terra vedranno che il nome del Signore è stato invocato su di te e ti teme ranno. Il Signore tuo Dio, ti concederà abbondanza di beni quanto al frutto del tuo grembo al fr utto del tuo bestiame e al frutto del tuo suolo nel paese che il Signore ha giurato ai tuoi padri di darti. Il Signore aprirà per te il suo benefico tesoro il cielo per dare alla tua terra la pioggia a su o tempo e per benedire tutto il lavoro delle tue mani: presterai a molte nazioni mentre tu non d omanderai prestiti. Il Signore ti metterà in testa e non in coda e sarai sempre in alto e mai in ba sso se obbedirai ai comandi del Signore tuo Dio che oggi io ti prescrivo perché tu li osservi e li m etta in pratica e se non devierai né a destra né a sinistra da alcuna delle cose che oggi vi coman do per seguire altri dèi e servirli. Ma se non obbedirai alla voce del Signore tuo Dio se non cerch erai di eseguire tutti i suoi comandi e tutte le sue leggi che oggi io ti prescrivo verranno su di te
e ti colpiranno tutte queste maledizioni: sarai maledetto nella città e maledetto nella campagna
. Maledette saranno la tua cesta e la tua madia. Maledetto sarà il frutto del tuo grembo e il frutt o del tuo suolo sia i parti delle tue vacche sia i nati delle tue pecore. Maledetto sarai quando en tri e maledetto quando esci. Il Signore lancerà contro di te la maledizione la costernazione e la minaccia in ogni lavoro a cui metterai mano, finché tu sia distrutto e perisca rapidamente a caus a delle tue azioni malvagie per avermi abbandonato. Il Signore ti attaccherà la peste finché essa non ti abbia eliminato dal paese in cui stai per entrare per prenderne possesso. Il Signore ti colp irà con la consunzione con la febbre con l’infiammazione con l’arsura con la siccità con il carbon chio e con la ruggine che ti perseguiteranno finché tu non sia perito. Il cielo sarà di bronzo sopra il tuo capo e la terra sotto di te sarà di ferro. Il Signore darà come pioggia alla tua terra sabbia e polvere che scenderanno dal cielo su di te, finché tu sia distrutto. Il Signore ti farà sconfiggere d ai tuoi nemici: per una sola via andrai contro di loro e per sette vie fuggirai davanti a loro. Diven terai oggetto di orrore per tutti i regni della terra. Il tuo cadavere diventerà pasto di tutti gli ucc elli del cielo e degli animali della terra e nessuno li scaccerà. Il Signore ti colpirà con le ulcere d’E
gitto con bubboni scabbia e pruriti da cui non potrai guarire. Il Signore ti colpirà di delirio di ceci tà e di pazzia così che andrai brancolando in pieno giorno come il cieco brancola nel buio. Non ri uscirai nelle tue imprese sarai ogni giorno oppresso e spogliato e nessuno ti aiuterà. Ti fidanzera i con una donna e un altro la possederà. Costruirai una casa ma non vi abiterai. Pianterai una vig na e non ne potrai cogliere i primi frutti. Il tuo bue sarà ammazzato sotto i tuoi occhi e tu non n e mangerai. Il tuo asino ti sarà portato via in tua presenza e non tornerà più a te. Il tuo gregge s arà dato ai tuoi nemici e nessuno ti aiuterà. I tuoi figli e le tue figlie saranno consegnati a un pop olo straniero mentre i tuoi occhi vedranno e languiranno di pianto per loro ogni giorno ma nient e potrà fare la tua mano. Un popolo che tu non conosci mangerà il frutto del tuo suolo e di tutta la tua fatica. Sarai oppresso e schiacciato ogni giorno. Diventerai pazzo per ciò che i tuoi occhi d ovranno vedere. Il Signore ti colpirà alle ginocchia e alle cosce con un’ulcera maligna dalla quale non potrai guarire. Ti colpirà dalla pianta dei piedi alla sommità del capo. Il Signore deporterà t e e il re che ti sarai costituito in una nazione che né tu né i tuoi padri avete conosciuto. Là servir ai dèi stranieri dèi di legno e di pietra. Diventerai oggetto di stupore di motteggio e di scherno p er tutti i popoli fra i quali il Signore ti avrà condotto. Porterai molta semente al campo e raccogli erai poco perché la locusta la divorerà. Pianterai vigne e le coltiverai ma non berrai vino né cogli erai uva perché il verme le roderà. Avrai oliveti in tutta la tua terra ma non ti ungerai di olio per ché le tue olive cadranno immature. Genererai figli e figlie ma non saranno tuoi perché andrann o in prigionia. Tutti i tuoi alberi e il frutto del tuo suolo saranno preda di un esercito d’insetti. Il f orestiero che sarà in mezzo a te si innalzerà sempre più sopra di te e tu scenderai sempre più in basso. Egli farà un prestito a te e tu non lo farai a lui. Egli sarà in testa e tu in coda. Tutte queste maledizioni verranno su di te ti perseguiteranno e ti raggiungeranno, finché tu sia distrutto per ché non avrai obbedito alla voce del Signore tuo Dio osservando i comandi e le leggi che egli ti h a dato. Esse per te e per la tua discendenza saranno sempre un segno e un prodigio. Poiché non
avrai servito il Signore tuo Dio con gioia e di buon cuore in mezzo all’abbondanza di ogni cosa s ervirai i tuoi nemici che il Signore manderà contro di te in mezzo alla fame alla sete alla nudità e alla mancanza di ogni cosa. Essi ti metteranno un giogo di ferro sul collo finché non ti abbiano d istrutto. Il Signore solleverà contro di te da lontano dalle estremità della terra una nazione che s i slancia a volo come l’aquila: una nazione della quale non capirai la lingua, una nazione dall’asp etto feroce che non avrà riguardo per il vecchio né avrà compassione del fanciullo. Mangerà il fr utto del tuo bestiame e il frutto del tuo suolo finché tu sia distrutto e non ti lascerà alcun residu o di frumento di mosto di olio dei parti delle tue vacche e dei nati delle tue pecore finché ti avrà fatto perire. Ti assedierà in tutte le tue città finché in tutta la tua terra cadano le mura alte e fo rtificate nelle quali avrai riposto la fiducia. Ti assedierà in tutte le tue città in tutta la terra che il Signore tuo Dio ti avrà dato. Durante l’assedio e l’angoscia alla quale ti ridurrà il tuo nemico ma ngerai il frutto delle tue viscere le carni dei tuoi figli e delle tue figlie che il Signore tuo Dio ti avr à dato. L’uomo più raffinato e più delicato tra voi guarderà di malocchio il suo fratello e la donn a del suo seno e il resto dei suoi figli che ancora sopravvivono, per non dare ad alcuno di loro le carni dei suoi figli delle quali si ciberà, perché non gli sarà rimasto più nulla durante l’assedio e l’
angoscia alla quale i nemici ti avranno ridotto entro tutte le tue città. La donna più raffinata e d elicata tra voi che per delicatezza e raffinatezza non avrebbe mai provato a posare in terra la pi anta del piede guarderà di malocchio l’uomo del suo seno il figlio e la figlia e si ciberà di nascost o di quanto esce dai suoi fianchi e dei bambini che partorirà mancando di tutto durante l’assedi o e l’angoscia alla quale i nemici ti avranno ridotto entro tutte le tue città. Se non cercherai di e seguire tutte le parole di questa legge scritte in questo libro avendo timore di questo nome glor ioso e terribile del Signore tuo Dio allora il Signore colpirà te e i tuoi discendenti con flagelli pro digiosi: flagelli grandi e duraturi malattie maligne e ostinate. Farà tornare su di te le infermità d ell’Egitto delle quali tu avevi paura e si attaccheranno a te. Anche ogni altra malattia e ogni altr o flagello che non sta scritto nel libro di questa legge il Signore manderà contro di te finché tu n on sia distrutto. Voi rimarrete in pochi uomini dopo essere stati numerosi come le stelle del ciel o perché non avrai obbedito alla voce del Signore tuo Dio. Come il Signore gioiva a vostro riguar do nel beneficarvi e moltiplicarvi così il Signore gioirà a vostro riguardo nel farvi perire e distrug gervi. Sarete strappati dal paese in cui stai per entrare per prenderne possesso. Il Signore ti disp erderà fra tutti i popoli da un’estremità all’altra della terra. Là servirai altri dèi che né tu né i tuo i padri avete conosciuto dèi di legno e di pietra. Fra quelle nazioni non troverai sollievo e non vi sarà luogo di riposo per la pianta dei tuoi piedi. Là il Signore ti darà un cuore trepidante languor e di occhi e animo sgomento. La tua vita ti starà dinanzi come sospesa a un filo. Proverai spaven to notte e giorno e non sarai sicuro della tua vita. Alla mattina dirai: “Se fosse sera!” e alla sera dirai: “Se fosse mattina!” a causa dello spavento che ti agiterà il cuore e delle cose che i tuoi occ hi vedranno. Il Signore ti farà tornare in Egitto su navi per una via della quale ti ho detto: “Non d ovrete più rivederla!”. E là vi metterete in vendita ai vostri nemici come schiavi e schiave ma ne ssuno vi acquisterà». Queste sono le parole dell’alleanza che il Signore ordinò a Mosè di stabilir
e con gli Israeliti nella terra di Moab oltre l’alleanza che aveva stabilito con loro sull’Oreb. Mosè convocò tutto Israele e disse loro: «Voi avete visto quanto il Signore ha fatto sotto i vostri occhi nella terra d’Egitto al faraone a tutti i suoi ministri e a tutta la sua terra le prove grandiose che i tuoi occhi hanno visto i segni e i grandi prodigi. Ma fino a oggi il Signore non vi ha dato una men te per comprendere né occhi per vedere né orecchi per udire. Io vi ho condotti per quarant’anni nel deserto; i vostri mantelli non si sono logorati addosso a voi e i vostri sandali non si sono log orati ai vostri piedi. Non avete mangiato pane non avete bevuto vino né bevanda inebriante per ché sappiate che io sono il Signore vostro Dio. Quando siete arrivati in questo luogo e Sicon re d i Chesbon e Og re di Basan sono usciti contro di noi per combattere noi li abbiamo sconfitti, abb iamo preso la loro terra e l’abbiamo data in possesso ai Rubeniti ai Gaditi e a metà della tribù di Manasse. Osservate dunque le parole di questa alleanza e mettetele in pratica perché abbiate s uccesso in tutto ciò che farete. Oggi voi state tutti davanti al Signore vostro Dio i vostri capi le v ostre tribù i vostri anziani i vostri scribi tutti gli Israeliti i vostri bambini le vostre mogli il forestie ro che sta in mezzo al tuo accampamento da chi ti spacca la legna a chi ti attinge l’acqua, per en trare nell’alleanza del Signore tuo Dio e nel giuramento imprecatorio che il Signore tuo Dio stabi lisce oggi con te per costituirti oggi suo popolo e per essere egli il tuo Dio come ti ha detto e co me ha giurato ai tuoi padri ad Abramo a Isacco e a Giacobbe. Non soltanto con voi io stabilisco quest’alleanza e questo giuramento imprecatorio, ma con chi oggi sta qui con noi davanti al Sig nore nostro Dio e con chi non è oggi qui con noi. Davvero voi sapete come abbiamo abitato nell a terra d’Egitto come siamo passati in mezzo alle nazioni che avete attraversato. Avete visto i lo ro abomini e gli idoli di legno, di pietra d’argento e d’oro che sono presso di loro. Non vi sia tra v oi uomo o donna o famiglia o tribù che volga oggi il cuore lontano dal Signore nostro Dio per an dare a servire gli dèi di quelle nazioni. Non vi sia tra voi radice alcuna che produca veleno e asse nzio. Se qualcuno udendo le parole di questo giuramento imprecatorio si lusinga in cuor suo dic endo: “Avrò benessere anche se mi regolerò secondo l’ostinazione del mio cuore” pensando ch e il terreno irrigato faccia sparire quello arido il Signore non consentirà a perdonarlo. Anzi in tal caso l’ira del Signore e la sua gelosia si accenderanno contro quell’uomo e ricadrà sopra di lui og ni giuramento imprecatorio scritto in questo libro e il Signore cancellerà il suo nome sotto il ciel o. Il Signore lo segregherà per sua sventura da tutte le tribù d’Israele secondo tutti i giuramenti imprecatori dell’alleanza scritta in questo libro della legge. Allora la generazione futura i vostri fi gli che sorgeranno dopo di voi e lo straniero che verrà da una terra lontana vedranno i flagelli di quella terra e le malattie che il Signore le avrà inflitto. Tutta la sua terra sarà zolfo sale arsura n on sarà seminata e non germoglierà né erba di sorta vi crescerà come dopo lo sconvolgimento d i Sòdoma di Gomorra di Adma e di Seboìm distrutte dalla sua ira e dal suo furore. Diranno dunq ue tutte le nazioni: “Perché il Signore ha trattato così questa terra? Perché l’ardore di questa gr ande collera?”. E si risponderà: “Perché hanno abbandonato l’alleanza del Signore Dio dei loro p adri che egli aveva stabilito con loro quando li ha fatti uscire dalla terra d’Egitto e perché sono a ndati a servire altri dèi prostrandosi dinanzi a loro: dèi che essi non avevano conosciuto e che e
gli non aveva dato loro in sorte. Per questo si è accesa l’ira del Signore contro questa terra man dandovi contro ogni maledizione scritta in questo libro. Il Signore li ha strappati dal loro paese c on ira con furore e con grande sdegno e li ha gettati in un’altra terra come avviene oggi”. Le cos e occulte appartengono al Signore, nostro Dio ma le cose rivelate sono per noi e per i nostri figli per sempre affinché pratichiamo tutte le parole di questa legge. Quando tutte queste cose che io ti ho poste dinanzi la benedizione e la maledizione si saranno realizzate su di te e tu le richia merai alla tua mente in mezzo a tutte le nazioni dove il Signore tuo Dio ti avrà disperso se ti con vertirai al Signore tuo Dio e obbedirai alla sua voce tu e i tuoi figli con tutto il cuore e con tutta l’
anima secondo quanto oggi ti comando, allora il Signore tuo Dio cambierà la tua sorte avrà piet à di te e ti raccoglierà di nuovo da tutti i popoli in mezzo ai quali il Signore tuo Dio ti aveva dispe rso. Quand’anche tu fossi disperso fino all’estremità del cielo di là il Signore tuo Dio ti raccoglier à e di là ti riprenderà. Il Signore tuo Dio ti ricondurrà nella terra che i tuoi padri avevano possed uto e tu ne riprenderai il possesso. Egli ti farà felice e ti moltiplicherà più dei tuoi padri. Il Signor e tuo Dio circonciderà il tuo cuore e il cuore della tua discendenza, perché tu possa amare il Sig nore tuo Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima e viva. Il Signore tuo Dio farà cadere tutti que sti giuramenti imprecatori sui tuoi nemici e su quanti ti odieranno e perseguiteranno. Tu ti conv ertirai ascolterai la voce del Signore e metterai in pratica tutti questi comandi che oggi ti do. Il Si gnore tuo Dio ti farà sovrabbondare di beni in ogni lavoro delle tue mani nel frutto delle tue visc ere nel frutto del tuo bestiame e nel frutto del tuo suolo. Il Signore infatti gioirà di nuovo per te facendoti felice come gioiva per i tuoi padri quando obbedirai alla voce del Signore tuo Dio osse rvando i suoi comandi e i suoi decreti scritti in questo libro della legge e quando ti sarai converti to al Signore tuo Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima. Questo comando che oggi ti ordino n on è troppo alto per te né troppo lontano da te. Non è nel cielo perché tu dica: “Chi salirà per n oi in cielo per prendercelo e farcelo udire affinché possiamo eseguirlo?”. Non è di là dal mare p erché tu dica: “Chi attraverserà per noi il mare per prendercelo e farcelo udire affinché possiam o eseguirlo?”. Anzi questa parola è molto vicina a te è nella tua bocca e nel tuo cuore perché tu la metta in pratica. Vedi io pongo oggi davanti a te la vita e il bene la morte e il male. Oggi perci ò io ti comando di amare il Signore tuo Dio di camminare per le sue vie, di osservare i suoi coma ndi le sue leggi e le sue norme perché tu viva e ti moltiplichi e il Signore, tuo Dio ti benedica nell a terra in cui tu stai per entrare per prenderne possesso. Ma se il tuo cuore si volge indietro e se tu non ascolti e ti lasci trascinare a prostrarti davanti ad altri dèi e a servirli oggi io vi dichiaro ch e certo perirete che non avrete vita lunga nel paese in cui state per entrare per prenderne poss esso attraversando il Giordano. Prendo oggi a testimoni contro di voi il cielo e la terra: io ti ho p osto davanti la vita e la morte la benedizione e la maledizione. Scegli dunque la vita perché viva tu e la tua discendenza amando il Signore tuo Dio obbedendo alla sua voce e tenendoti unito a l ui poiché è lui la tua vita e la tua longevità per poter così abitare nel paese che il Signore ha giur ato di dare ai tuoi padri, Abramo Isacco e Giacobbe». Mosè andò e rivolse queste parole a tutto Israele. Disse loro: «Io oggi ho centovent’anni. Non posso più andare e venire. Il Signore inoltre
mi ha detto: “Tu non attraverserai questo Giordano”. Il Signore tuo Dio lo attraverserà davanti a te distruggerà davanti a te quelle nazioni in modo che tu possa prenderne possesso. Quanto a Giosuè egli lo attraverserà davanti a te come il Signore ha detto. Il Signore tratterà quelle nazio ni come ha trattato Sicon e Og re degli Amorrei e come ha trattato la loro terra che egli ha distr utto. Il Signore le metterà in vostro potere e voi le tratterete secondo tutti gli ordini che vi ho d ato. Siate forti fatevi animo, non temete e non vi spaventate di loro perché il Signore tuo Dio ca mmina con te; non ti lascerà e non ti abbandonerà». Poi Mosè chiamò Giosuè e gli disse alla pre senza di tutto Israele: «Sii forte e fatti animo perché tu condurrai questo popolo nella terra che il Signore giurò ai loro padri di darvi: tu gliene darai il possesso. Il Signore stesso cammina davan ti a te. Egli sarà con te non ti lascerà e non ti abbandonerà. Non temere e non perderti d’animo!
». Mosè scrisse questa legge e la diede ai sacerdoti figli di Levi che portavano l’arca dell’alleanza del Signore e a tutti gli anziani d’Israele. Mosè diede loro quest’ordine: «Alla fine di ogni sette a nni al tempo dell’anno della remissione alla festa delle Capanne quando tutto Israele verrà a pr esentarsi davanti al Signore tuo Dio nel luogo che avrà scelto leggerai questa legge davanti a tut to Israele agli orecchi di tutti. Radunerai il popolo uomini donne bambini e il forestiero che sarà nelle tue città perché ascoltino imparino a temere il Signore vostro Dio e abbiano cura di metter e in pratica tutte le parole di questa legge. I loro figli che ancora non la conoscono la udranno e impareranno a temere il Signore vostro Dio finché vivrete nel paese in cui voi state per entrare per prenderne possesso attraversando il Giordano». Il Signore disse a Mosè: «Ecco i giorni della tua morte sono vicini. Chiama Giosuè e presentatevi nella tenda del convegno perché io gli com unichi i miei ordini». Mosè e Giosuè andarono a presentarsi nella tenda del convegno. Il Signore apparve nella tenda in una colonna di nube e la colonna di nube stette all’ingresso della tenda.
Il Signore disse a Mosè: «Ecco tu stai per addormentarti con i tuoi padri. Questo popolo si alzerà e si leverà per prostituirsi con dèi stranieri nella terra dove sta per entrare. Mi abbandonerà e i nfrangerà l’alleanza che io ho stabilito con lui. In quel giorno la mia ira si accenderà contro di lui
: io li abbandonerò, nasconderò loro il volto e saranno divorati. Lo colpiranno malanni numerosi e angosciosi e in quel giorno dirà: “Questi mali non mi hanno forse colpito per il fatto che il mio Dio non è più in mezzo a me?”. Io in quel giorno nasconderò il mio volto a causa di tutto il male che avranno fatto rivolgendosi ad altri dèi. Ora scrivete per voi questo cantico; insegnalo agli Isr aeliti mettilo nella loro bocca, perché questo cantico mi sia testimone contro gli Israeliti. Quand o lo avrò introdotto nel paese che ho promesso ai suoi padri con giuramento dove scorrono latt e e miele ed egli avrà mangiato si sarà saziato e ingrassato e poi si sarà rivolto ad altri dèi per se rvirli e mi avrà disprezzato e avrà infranto la mia alleanza e quando lo avranno colpito malanni n umerosi e angosciosi allora questo cantico sarà testimone davanti a lui, poiché non sarà dimenti cato dalla sua discendenza. Sì conosco i pensieri da lui concepiti già oggi prima ancora che io lo abbia introdotto nella terra che ho promesso con giuramento». Mosè scrisse quel giorno questo cantico e lo insegnò agli Israeliti. Poi comunicò i suoi ordini a Giosuè figlio di Nun e gli disse: «Sii forte e coraggioso poiché tu introdurrai gli Israeliti nella terra che ho giurato di dar loro e io sar
ò con te». Quando Mosè ebbe finito di scrivere su un libro tutte le parole di questa legge, ordin ò ai leviti che portavano l’arca dell’alleanza del Signore: «Prendete questo libro della legge e me ttetelo a fianco dell’arca dell’alleanza del Signore vostro Dio. Vi rimanga come testimone contro di te, perché io conosco la tua ribellione e la durezza della tua cervice. Se fino ad oggi, mentre v ivo ancora in mezzo a voi siete stati ribelli contro il Signore quanto più lo sarete dopo la mia mo rte! Radunate presso di me tutti gli anziani delle vostre tribù e i vostri scribi; io farò udire loro q ueste parole e prenderò a testimoni contro di loro il cielo e la terra. So infatti che dopo la mia m orte voi certo vi corromperete e vi allontanerete dalla via che vi ho detto di seguire. La sventura vi colpirà negli ultimi giorni perché avrete fatto ciò che è male agli occhi del Signore provocand olo a sdegno con l’opera delle vostre mani». Poi Mosè pronunciò innanzi a tutta l’assemblea d’I sraele le parole di questo cantico fino all’ultima: «Udite o cieli: io voglio parlare. Ascolti la terra l e parole della mia bocca! Scorra come pioggia la mia dottrina, stilli come rugiada il mio dire; co me pioggia leggera sul verde, come scroscio sull’erba. Voglio proclamare il nome del Signore: m agnificate il nostro Dio! Egli è la Roccia: perfette le sue opere, giustizia tutte le sue vie; è un Dio fedele e senza malizia, egli è giusto e retto. Prevaricano contro di lui: non sono suoi figli per le lo ro macchie, generazione tortuosa e perversa. Così tu ripaghi il Signore, popolo stolto e privo di s aggezza? Non è lui il padre che ti ha creato, che ti ha fatto e ti ha costituito? Ricorda i giorni del tempo antico, medita gli anni lontani. Interroga tuo padre e te lo racconterà, i tuoi vecchi e te lo diranno. Quando l’Altissimo divideva le nazioni, quando separava i figli dell’uomo, egli stabilì i c onfini dei popoli secondo il numero dei figli d’Israele. Perché porzione del Signore è il suo popol o, Giacobbe sua parte di eredità. Egli lo trovò in una terra deserta, in una landa di ululati solitari
. Lo circondò lo allevò, lo custodì come la pupilla del suo occhio. Come un’aquila che veglia la su a nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali. Il Signore l ui solo lo ha guidato, non c’era con lui alcun dio straniero. Lo fece salire sulle alture della terra e lo nutrì con i prodotti della campagna; gli fece succhiare miele dalla rupe e olio dalla roccia duri ssima, panna di mucca e latte di pecora insieme con grasso di agnelli, arieti di Basan e capri, fior di farina di frumento e sangue di uva che bevevi spumeggiante. Iesurù n si è ingrassato e ha rec alcitrato, – sì ti sei ingrassato impinguato rimpinzato –
e ha respinto il Dio che lo aveva fatto, ha disprezzato la Roccia sua salvezza. Lo hanno fatto inge losire con dèi stranieri e provocato all’ira con abomini. Hanno sacrificato a dèmoni che non son o Dio, a dèi che non conoscevano, nuovi venuti da poco, che i vostri padri non avevano temuto.
La Roccia che ti ha generato tu hai trascurato; hai dimenticato il Dio che ti ha procreato! Ma il Si gnore ha visto e ha disdegnato con ira i suoi figli e le sue figlie. Ha detto: “Io nasconderò loro il mio volto; vedrò quale sarà la loro fine. Sono una generazione perfida, sono figli infedeli. Mi res ero geloso con ciò che non è Dio, mi irritarono con i loro idoli vani; io li renderò gelosi con uno c he non è popolo, li irriterò con una nazione stolta. Un fuoco si è acceso nella mia collera e bruce rà fino alla profondità degl’inferi; divorerà la terra e il suo prodotto e incendierà le radici dei mo nti. Accumulerò sopra di loro i malanni; le mie frecce esaurirò contro di loro. Saranno estenuati
dalla fame, divorati dalla febbre e da peste dolorosa. Il dente delle belve manderò contro di lor o, con il veleno dei rettili che strisciano nella polvere. Di fuori la spada li priverà dei figli, dentro l e case li ucciderà lo spavento. Periranno insieme il giovane e la vergine, il lattante e l’uomo can uto. Io ho detto: Li voglio disperdere, cancellarne tra gli uomini il ricordo, se non temessi l’arrog anza del nemico. Non si ingannino i loro avversari; non dicano: La nostra mano ha vinto, non è il Signore che ha operato tutto questo! Sono un popolo insensato e in essi non c’è intelligenza: se fossero saggi capirebbero, rifletterebbero sulla loro fine. Come può un uomo solo inseguirne m ille o due soli metterne in fuga diecimila? Non è forse perché la loro Roccia li ha venduti, il Signo re li ha consegnati? Perché la loro roccia non è come la nostra e i nostri nemici ne sono giudici.
La loro vite è dal ceppo di Sòdoma, dalle piantagioni di Gomorra. La loro uva è velenosa, ha gra ppoli amari. Tossico di serpenti è il loro vino, micidiale veleno di vipere. Non è questo nascosto presso di me, sigillato nei miei forzieri? Mia sarà la vendetta e il castigo, quando vacillerà il loro piede! Sì vicino è il giorno della loro rovina e il loro destino si affretta a venire”. Perché il Signor e farà giustizia al suo popolo e dei suoi servi avrà compassione; quando vedrà che ogni forza è s vanita e non è rimasto né schiavo né libero. Allora dirà: “Dove sono i loro dèi, la roccia in cui cer cavano rifugio, quelli che mangiavano il grasso dei loro sacrifici, che bevevano il vino delle loro li bagioni? Sorgano ora e vi soccorrano, siano il riparo per voi! Ora vedete che io io lo sono e ness un altro è dio accanto a me. Sono io che do la morte e faccio vivere; io percuoto e io guarisco, e nessuno può liberare dalla mia mano. Alzo la mano verso il cielo e dico: Per la mia vita per semp re: quando avrò affilato la folgore della mia spada e la mia mano inizierà il giudizio, farò vendett a dei miei avversari, ripagherò i miei nemici. Inebrierò di sangue le mie frecce, si pascerà di carn e la mia spada, del sangue dei cadaveri e dei prigionieri, delle teste dei condottieri nemici!”. Esu ltate o nazioni per il suo popolo, perché egli vendicherà il sangue dei suoi servi; volgerà la vende tta contro i suoi avversari e purificherà la sua terra e il suo popolo». Mosè venne con Giosuè figl io di Nun e pronunciò agli orecchi del popolo tutte le parole di questo cantico. Quando Mosè eb be finito di pronunciare tutte queste parole davanti a tutto Israele, disse loro: «Ponete nella vos tra mente tutte le parole che io oggi uso come testimonianza contro di voi. Le prescriverete ai v ostri figli perché cerchino di eseguire tutte le parole di questa legge. Essa infatti non è una parol a senza valore per voi; anzi è la vostra vita. Per questa parola passerete lunghi giorni nel paese i n cui state per entrare per prenderne possesso, attraversando il Giordano». In quello stesso gio rno il Signore disse a Mosè: «Sali su questo monte degli Abarìm sul monte Nebo che è nella terr a di Moab di fronte a Gerico e contempla la terra di Canaan che io do in possesso agli Israeliti.
Muori sul monte sul quale stai per salire e riunisciti ai tuoi antenati come Aronne tuo fratello è morto sul monte Or ed è stato riunito ai suoi antenati perché siete stati infedeli verso di me in mezzo agli Israeliti alle acque di Merìba di Kades nel deserto di Sin e non avete manifestato la m ia santità in mezzo agli Israeliti. Tu vedrai la terra davanti a te ma là nella terra che io sto per dar e agli Israeliti tu non entrerai!». Ed ecco la benedizione con la quale Mosè uomo di Dio benediss e gli Israeliti prima di morire. Egli disse: «Il Signore è venuto dal Sinai, è spuntato per loro dal Sei
r, è apparso dal monte Paran, è arrivato tra miriadi di consacrati: dalla sua destra per loro il fuoc o della legge. Certo egli ama i popoli; tutti i suoi santi sono nelle tue mani, mentre essi accampa ti ai tuoi piedi, ricevono le tue parole. Una legge ci ha ordinato Mosè, un’eredità per l’assemble a di Giacobbe. Vi fu un re in Iesurù n, quando si radunarono i capi del popolo, tutte insieme le tr ibù d’Israele. Viva Ruben e non muoia, benché siano pochi i suoi uomini». Questo disse per Giud a: «Ascolta Signore la voce di Giuda e riconducilo verso il suo popolo; la sua mano difenderà la s ua causa e tu sarai l’aiuto contro i suoi avversari». Per Levi disse: «Da’ a Levi i tuoi tummìm e i t uoi urìm all’uomo a te fedele, che hai messo alla prova a Massa, per cui hai litigato presso le acq ue di Merìba; a lui che dice del padre e della madre: “Io non li ho visti” che non riconosce i suoi fratelli e ignora i suoi figli. Essi osservano la tua parola e custodiscono la tua alleanza, insegnano i tuoi decreti a Giacobbe e la tua legge a Israele, pongono l’incenso sotto le tue narici e un sacri ficio sul tuo altare. Benedici Signore il suo valore e gradisci il lavoro delle sue mani; colpisci al fia nco i suoi aggressori e i suoi nemici più non si rialzino». Per Beniamino disse: «Prediletto del Sig nore Beniamino, abita tranquillo presso di lui; egli lo protegge sempre e tra le sue spalle dimora
». Per Giuseppe disse: «Benedetta dal Signore la sua terra! Dalla rugiada abbia il meglio dei cieli
, e dall’abisso disteso al di sotto; il meglio dei prodotti del sole e il meglio di ciò che germoglia o gni luna, la primizia dei monti antichi, il meglio dei colli eterni e il meglio della terra e di ciò che contiene. Il favore di colui che abitava nel roveto venga sul capo di Giuseppe, sulla testa del prin cipe tra i suoi fratelli! Come primogenito di toro egli è d’aspetto maestoso e le sue corna sono d i bufalo; con esse cozzerà contro i popoli, tutti insieme sino ai confini della terra. Tali sono le mi riadi di èfraim e tali le migliaia di Manasse». Per Zàbulon disse: «Gioisci Zàbulon ogni volta che p arti, e tu ìssacar nelle tue tende! Chiamano i popoli sulla montagna, dove offrono sacrifici legitti mi, perché succhiano le ricchezze dei mari e i tesori nascosti nella sabbia». Per Gad disse: «Bene detto colui che amplia Gad! Come una leonessa ha la sede, sbranò un braccio e anche un cranio
; poi si scelse le primizie, perché là era la parte riservata a un capo. Venne alla testa del popolo eseguì la giustizia del Signore e i suoi decreti riguardo a Israele». Per Dan disse: «Dan è un giova ne leone che balza da Basan». Per Nèftali disse: «Nèftali è sazio di favori e colmo delle benedizi oni del Signore: il mare e il meridione sono sua proprietà». Per Aser disse: «Benedetto tra i figli è Aser! Sia il favorito tra i suoi fratelli e intinga il suo piede nell’olio. Di ferro e di bronzo siano i t uoi catenacci e quanto i tuoi giorni duri il tuo vigore». «Nessuno è pari al Dio di Iesurù n, che ca valca sui cieli per venirti in aiuto e sulle nubi nella sua maestà. Rifugio è il Dio dei tempi antichi e quaggiù lo sono le sue braccia eterne. Ha scacciato davanti a te il nemico e ha intimato: “Distru ggi!”. Israele abita tranquillo, la fonte di Giacobbe in luogo appartato, in terra di frumento e di mosto, dove il cielo stilla rugiada. Te beato Israele! Chi è come te, popolo salvato dal Signore? E
gli è lo scudo della tua difesa e la spada del tuo trionfo. I tuoi nemici vorranno adularti, ma tu ca lcherai il loro dorso». Poi Mosè salì dalle steppe di Moab sul monte Nebo cima del Pisga che è di fronte a Gerico. Il Signore gli mostrò tutta la terra: Gàlaad fino a Dan, tutto Nèftali la terra di èf raim e di Manasse tutta la terra di Giuda fino al mare occidentale e il Negheb il distretto della va
lle di Gerico città delle palme, fino a Soar. Il Signore gli disse: «Questa è la terra per la quale io h o giurato ad Abramo a Isacco e a Giacobbe: “Io la darò alla tua discendenza”. Te l’ho fatta veder e con i tuoi occhi ma tu non vi entrerai!». Mosè servo del Signore morì in quel luogo nella terra di Moab secondo l’ordine del Signore. Fu sepolto nella valle nella terra di Moab di fronte a Bet-Peor. Nessuno fino ad oggi ha saputo dove sia la sua tomba. Mosè aveva centoventi anni quand o morì. Gli occhi non gli si erano spenti e il vigore non gli era venuto meno. Gli Israeliti lo pianse ro nelle steppe di Moab per trenta giorni finché furono compiuti i giorni di pianto per il lutto di Mosè. Giosuè figlio di Nun era pieno dello spirito di saggezza perché Mosè aveva imposto le ma ni su di lui. Gli Israeliti gli obbedirono e fecero quello che il Signore aveva comandato a Mosè. N
on è più sorto in Israele un profeta come Mosè che il Signore conosceva faccia a faccia per tutti i segni e prodigi che il Signore lo aveva mandato a compiere nella terra d’Egitto contro il faraon e contro i suoi ministri e contro tutta la sua terra, e per la mano potente e il terrore grande con cui Mosè aveva operato davanti agli occhi di tutto Israele. Dopo la morte di Mosè servo del Sign ore il Signore disse a Giosuè figlio di Nun aiutante di Mosè: «Mosè mio servo è morto. Ora dunq ue, attraversa questo Giordano tu e tutto questo popolo verso la terra che io do loro agli Israelit i. Ogni luogo su cui si poserà la pianta dei vostri piedi ve l’ho assegnato come ho promesso a Mo sè. Dal deserto e da questo Libano fino al grande fiume, l’Eufrate tutta la terra degli Ittiti fino al Mare Grande dove tramonta il sole: tali saranno i vostri confini. Nessuno potrà resistere a te pe r tutti i giorni della tua vita; come sono stato con Mosè così sarò con te: non ti lascerò né ti abb andonerò. Sii coraggioso e forte poiché tu dovrai assegnare a questo popolo la terra che ho giur ato ai loro padri di dare loro. Tu dunque sii forte e molto coraggioso per osservare e mettere in pratica tutta la legge che ti ha prescritto Mosè mio servo. Non deviare da essa né a destra né a s inistra e così avrai successo in ogni tua impresa. Non si allontani dalla tua bocca il libro di questa legge ma meditalo giorno e notte per osservare e mettere in pratica tutto quanto vi è scritto; c osì porterai a buon fine il tuo cammino e avrai successo. Non ti ho forse comandato: “Sii forte e coraggioso”? Non aver paura e non spaventarti perché il Signore tuo Dio è con te dovunque tu v ada». Allora Giosuè comandò agli scribi del popolo: «Passate in mezzo all’accampamento e com andate al popolo: “Fatevi provviste di viveri poiché fra tre giorni voi attraverserete questo Giord ano per entrare a prendere possesso della terra che il Signore vostro Dio vi dà in proprietà”». A quelli di Ruben e di Gad e alla metà della tribù di Manasse Giosuè disse: «Ricordatevi delle cose che vi ha ordinato Mosè servo del Signore, dicendo: “Il Signore vostro Dio vi concede riposo e vi dà questa terra”. Le vostre mogli i vostri bambini e il vostro bestiame staranno nella terra che Mosè vi ha assegnato al di là del Giordano; ma voi prodi guerrieri attraverserete ben armati dav anti ai vostri fratelli e li aiuterete fino a quando il Signore non concederà riposo ai vostri fratelli come a voi e anch’essi prenderanno possesso della terra che il Signore vostro Dio, assegna loro.
Allora ritornerete per possederla nella terra della vostra eredità che Mosè servo del Signore vi h a dato oltre il Giordano a oriente». Essi risposero a Giosuè: «Faremo quanto ci ordini e andremo dovunque ci mandi. Come abbiamo obbedito in tutto a Mosè così obbediremo a te; purché il Si
gnore tuo Dio sia con te com’è stato con Mosè. Chiunque si ribellerà contro di te e non obbedir à a tutti gli ordini che ci darai sarà messo a morte. Tu dunque sii forte e coraggioso». Giosuè figli o di Nun di nascosto inviò da Sittìm due spie ingiungendo: «Andate osservate il territorio e Geri co». Essi andarono ed entrarono in casa di una prostituta di nome Raab. Lì dormirono. Fu riferit o al re di Gerico: «Guarda che alcuni degli Israeliti sono venuti qui questa notte per esplorare il t erritorio». Allora il re di Gerico mandò a dire a Raab: «Fa’ uscire gli uomini che sono venuti da te e sono entrati in casa tua perché sono venuti a esplorare tutto il territorio». Allora la donna pre se i due uomini e dopo averli nascosti rispose: «Sì sono venuti da me quegli uomini ma non sape vo di dove fossero. All’imbrunire quando stava per chiudersi la porta della città uscirono e non s o dove siano andati. Inseguiteli presto! Li raggiungerete di certo». Ella invece li aveva fatti salire sulla terrazza e li aveva nascosti fra gli steli di lino che teneva lì ammucchiati. Quelli li inseguiron o sulla strada del Giordano fino ai guadi, e si chiuse la porta della città dopo che furono usciti gli inseguitori. Quegli uomini non si erano ancora coricati quando la donna salì da loro sulla terraz za, e disse loro: «So che il Signore vi ha consegnato la terra. Ci è piombato addosso il terrore di voi e davanti a voi tremano tutti gli abitanti della regione poiché udimmo che il Signore ha prosc iugato le acque del Mar Rosso davanti a voi quando usciste dall’Egitto e quanto avete fatto ai d ue re amorrei oltre il Giordano Sicon e Og da voi votati allo sterminio. Quando l’udimmo il nostr o cuore venne meno e nessuno ha più coraggio dinanzi a voi perché il Signore vostro Dio è Dio l assù in cielo e quaggiù sulla terra. Ora giuratemi per il Signore che come io ho usato benevolenz a con voi così anche voi userete benevolenza con la casa di mio padre; datemi dunque un segno sicuro che lascerete in vita mio padre mia madre i miei fratelli le mie sorelle e quanto loro appa rtiene e risparmierete le nostre vite dalla morte». Quegli uomini le dissero: «Siamo disposti a m orire al vostro posto purché voi non riveliate questo nostro accordo; quando poi il Signore ci co nsegnerà la terra ti tratteremo con benevolenza e lealtà». Allora ella li fece scendere con una co rda dalla finestra dal momento che la sua casa era addossata alla parete delle mura e là ella abit ava e disse loro: «Andate verso i monti perché non v’incontrino gli inseguitori. Rimanete nascos ti là tre giorni fino al loro ritorno; poi andrete per la vostra strada». Quegli uomini le risposero:
«Saremo sciolti da questo giuramento che ci hai richiesto se non osservi queste condizioni: qua ndo noi entreremo nella terra legherai questa cordicella di filo scarlatto alla finestra da cui ci hai fatto scendere e radunerai dentro casa presso di te tuo padre tua madre i tuoi fratelli e tutta la famiglia di tuo padre. Chiunque uscirà fuori dalla porta della tua casa, sarà responsabile lui della sua vita non noi; per chiunque invece starà con te in casa saremo responsabili noi se gli si mett eranno le mani addosso. Ma se tu rivelerai questo nostro accordo noi saremo liberi dal giurame nto che ci hai richiesto». Ella rispose: «Sia come dite». Poi li congedò e quelli se ne andarono. Ell a legò la cordicella scarlatta alla finestra. Se ne andarono e raggiunsero i monti. Vi rimasero tre giorni finché non furono tornati gli inseguitori. Gli inseguitori li avevano cercati in ogni direzione senza trovarli. Quei due uomini allora presero la via del ritorno scesero dai monti e attraversar ono il fiume. Vennero da Giosuè figlio di Nun e gli raccontarono tutto quanto era loro accaduto.

Dissero a Giosuè: «Il Signore ha consegnato nelle nostre mani tutta la terra e davanti a noi tre mano già tutti gli abitanti della regione». Giosuè si levò di buon mattino; si mossero da Sittìm e giunsero al Giordano lui e tutti gli Israeliti. Lì pernottarono prima di attraversare. Trascorsi tre gi orni gli scribi percorsero l’accampamento e diedero al popolo quest’ordine: «Quando vedrete l’
arca dell’alleanza del Signore vostro Dio e i sacerdoti leviti che la portano voi vi muoverete dal v ostro posto e la seguirete; vi sia però tra voi ed essa una distanza di circa duemila cubiti: non av vicinatevi. Così potrete conoscere la strada dove andare, perché prima d’oggi non siete passati per questa strada». Giosuè ordinò al popolo: «Santificatevi poiché domani il Signore compirà m eraviglie in mezzo a voi». E ai sacerdoti Giosuè disse: «Sollevate l’arca dell’alleanza e attraversat e il fiume davanti al popolo». Essi sollevarono l’arca dell’alleanza e camminarono davanti al pop olo. Il Signore disse a Giosuè: «Oggi comincerò a renderti grande agli occhi di tutto Israele perch é sappiano che come sono stato con Mosè così sarò con te. Da parte tua ordina ai sacerdoti che portano l’arca dell’alleanza: “Una volta arrivati alla riva delle acque del Giordano vi fermerete”»
. Disse allora Giosuè agli Israeliti: «Venite qui ad ascoltare gli ordini del Signore vostro Dio». Diss e ancora Giosuè: «Da ciò saprete che in mezzo a voi vi è un Dio vivente: proprio lui caccerà via d inanzi a voi il Cananeo l’Ittita l’Eveo il Perizzita, il Gergeseo l’Amorreo e il Gebuseo. Ecco l’arca d ell’alleanza del Signore di tutta la terra sta per attraversare il Giordano dinanzi a voi. Sceglietevi dunque dodici uomini dalle tribù d’Israele un uomo per ciascuna tribù. Quando le piante dei pie di dei sacerdoti che portano l’arca del Signore di tutta la terra si poseranno nelle acque del Gior dano le acque del Giordano si divideranno: l’acqua che scorre da monte si fermerà come un sol o argine». Quando il popolo levò le tende per attraversare il Giordano i sacerdoti portavano l’ar ca dell’alleanza davanti al popolo. Appena i portatori dell’arca furono arrivati al Giordano e i pie di dei sacerdoti che portavano l’arca si immersero al limite delle acque –
il Giordano infatti è colmo fino alle sponde durante tutto il tempo della mietitura –
, le acque che scorrevano da monte si fermarono e si levarono come un solo argine molto lungo a partire da Adam la città che è dalla parte di Sartàn. Le acque che scorrevano verso il mare dell
’Araba il Mar Morto si staccarono completamente. Così il popolo attraversò di fronte a Gerico. I sacerdoti che portavano l’arca dell’alleanza del Signore stettero fermi all’asciutto in mezzo al Gi ordano mentre tutto Israele attraversava all’asciutto finché tutta la gente non ebbe finito di attr aversare il Giordano. Quando tutta la gente ebbe finito di attraversare il Giordano il Signore diss e a Giosuè: «Sceglietevi tra il popolo dodici uomini un uomo per ciascuna tribù e comandate lor o di prendere dodici pietre da qui in mezzo al Giordano dal luogo dove stanno immobili i piedi d ei sacerdoti di trasportarle e di deporle dove questa notte pernotterete». Giosuè convocò i dodi ci uomini che aveva designato tra gli Israeliti un uomo per ciascuna tribù e disse loro: «Passate davanti all’arca del Signore vostro Dio in mezzo al Giordano e caricatevi sulle spalle ciascuno un a pietra, secondo il numero delle tribù degli Israeliti perché siano un segno in mezzo a voi. Quan do un domani i vostri figli vi chiederanno che cosa significhino per voi queste pietre, rispondere te loro: “Le acque del Giordano si divisero dinanzi all’arca dell’alleanza del Signore. Quando ess
a attraversò il Giordano le acque del Giordano si divisero. Queste pietre dovranno essere un me moriale per gli Israeliti per sempre”». Gli Israeliti fecero quanto aveva comandato Giosuè preser o dodici pietre in mezzo al Giordano come aveva detto il Signore a Giosuè secondo il numero de lle tribù degli Israeliti le trasportarono verso il luogo di pernottamento e le deposero là. Giosuè poi eresse dodici pietre in mezzo al Giordano nel luogo dove poggiavano i piedi dei sacerdoti ch e portavano l’arca dell’alleanza: esse si trovano là fino ad oggi. I sacerdoti che portavano l’arca r imasero fermi in mezzo al Giordano finché non si fosse compiuto quanto Giosuè aveva comand ato al popolo secondo l’ordine del Signore e secondo tutte le prescrizioni dategli da Mosè. Il po polo dunque si affrettò ad attraversare il fiume. Quando poi tutto il popolo ebbe terminato la tr aversata anche l’arca del Signore attraversò e i sacerdoti si posero dinanzi al popolo. Quelli di R
uben di Gad e metà della tribù di Manasse ben armati attraversarono in testa agli Israeliti secon do il comando di Mosè circa quarantamila militarmente equipaggiati attraversarono davanti al S
ignore pronti a combattere in direzione delle steppe di Gerico. In quel giorno il Signore rese gra nde Giosuè agli occhi di tutto Israele. Essi lo temettero come avevano temuto Mosè tutti i giorni della sua vita. Il Signore disse a Giosuè: «Comanda ai sacerdoti che portano l’arca della Testimo nianza di risalire dal Giordano». Giosuè comandò ai sacerdoti: «Risalite dal Giordano». Quando i sacerdoti che portavano l’arca dell’alleanza del Signore risalirono dal Giordano nello stesso mo mento in cui la pianta dei loro piedi toccò l’asciutto le acque del Giordano tornarono al loro pos to e rifluirono come nei giorni precedenti su tutta l’ampiezza delle loro sponde. Il popolo risalì d al Giordano il dieci del primo mese e si accampò a Gàlgala sul confine orientale di Gerico. Giosu è eresse a Gàlgala quelle dodici pietre prese dal Giordano e disse agli Israeliti: «Quando un dom ani i vostri figli chiederanno ai loro padri: “Che cosa sono queste pietre?” darete ai vostri figli qu esta spiegazione: “All’asciutto Israele ha attraversato questo Giordano, poiché il Signore vostro Dio prosciugò le acque del Giordano dinanzi a voi, finché non attraversaste come il Signore vost ro Dio fece con il Mar Rosso che prosciugò davanti a noi finché non attraversammo; perché tutti i popoli della terra sappiano che la mano del Signore è potente e voi temiate tutti i giorni il Sign ore vostro Dio”». Quando tutti i re degli Amorrei a occidente del Giordano e tutti i re dei Canan ei lungo il mare vennero a sapere che il Signore aveva prosciugato le acque del Giordano davant i agli Israeliti al loro passaggio si sentirono venir meno il cuore e rimasero senza coraggio davant i agli Israeliti. In quel tempo il Signore disse a Giosuè: «Fatti coltelli di selce e fa’ una nuova circo ncisione agli Israeliti». Giosuè si fece coltelli di selce e circoncise gli Israeliti al colle dei Prepuzi.
La ragione di questa circoncisione praticata da Giosuè è la seguente: tutto il popolo uscito dall’E
gitto i maschi tutti gli uomini atti alla guerra erano morti nel deserto dopo l’uscita dall’Egitto. Tu tti coloro che erano usciti erano circoncisi mentre tutti coloro che erano nati nel deserto dopo l’
uscita dall’Egitto non erano circoncisi. Quarant’anni infatti avevano camminato gli Israeliti nel d eserto finché non fu estinta tutta la generazione degli uomini idonei alla guerra usciti dall’Egitto
; essi non avevano ascoltato la voce del Signore e il Signore aveva giurato di non far loro vedere quella terra che il Signore aveva giurato ai loro padri di darci terra dove scorrono latte e miele.

Al loro posto suscitò i loro figli e Giosuè circoncise costoro; non erano infatti circoncisi perché n on era stata fatta la circoncisione durante il viaggio. Quando si terminò di circoncidere tutti rim asero a riposo nell’accampamento fino al loro ristabilimento. Allora il Signore disse a Giosuè: «O
ggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto». Quel luogo si chiama Gàlgala fino ad oggi. Gli Isra eliti rimasero accampati a Gàlgala e celebrarono la Pasqua al quattordici del mese alla sera nelle steppe di Gerico. Il giorno dopo la Pasqua mangiarono i prodotti della terra azzimi e frumento a bbrustolito in quello stesso giorno. E a partire dal giorno seguente come ebbero mangiato i pro dotti della terra la manna cessò. Gli Israeliti non ebbero più manna; quell’anno mangiarono i fru tti della terra di Canaan. Quando fu presso Gerico Giosuè alzò gli occhi e vide un uomo in piedi davanti a sé che aveva in mano una spada sguainata. Giosuè si diresse verso di lui e gli chiese: «
Tu sei dei nostri o dei nostri nemici?». Rispose: «No io sono il capo dell’esercito del Signore. Giu ngo proprio ora». Allora Giosuè cadde con la faccia a terra si prostrò e gli disse: «Che ha da dire il mio signore al suo servo?». Rispose il capo dell’esercito del Signore a Giosuè: «Togliti i sandali dai tuoi piedi perché il luogo sul quale tu stai è santo». Giosuè così fece. Ora Gerico era sbarrata e sprangata davanti agli Israeliti; nessuno usciva né entrava. Disse il Signore a Giosuè: «Vedi co nsegno in mano tua Gerico e il suo re pur essendo essi prodi guerrieri. Voi tutti idonei alla guerr a girerete intorno alla città percorrendo una volta il perimetro della città. Farete così per sei gio rni. Sette sacerdoti porteranno sette trombe di corno d’ariete davanti all’arca; il settimo giorno poi girerete intorno alla città per sette volte e i sacerdoti suoneranno le trombe. Quando si suo nerà il corno d’ariete appena voi sentirete il suono della tromba, tutto il popolo proromperà in un grande grido di guerra allora le mura della città crolleranno e il popolo salirà ciascuno diritto davanti a sé». Giosuè figlio di Nun convocò i sacerdoti e disse loro: «Portate l’arca dell’alleanza; sette sacerdoti portino sette trombe di corno d’ariete davanti all’arca del Signore». E al popolo disse: «Mettetevi in marcia e girate intorno alla città e il gruppo armato passi davanti all’arca de l Signore». Come Giosuè ebbe parlato al popolo i sette sacerdoti che portavano le sette trombe di corno d’ariete davanti al Signore si mossero e suonarono le trombe mentre l’arca dell’alleanz a del Signore li seguiva. Il gruppo armato marciava davanti ai sacerdoti che suonavano le tromb e e la retroguardia seguiva l’arca; si procedeva al suono delle trombe. Giosuè aveva dato quest’
ordine al popolo: «Non lanciate il grido di guerra non alzate la voce e non esca parola dalla vost ra bocca fino al giorno in cui vi dirò di gridare. Allora griderete». L’arca del Signore girò intorno alla città, percorrendone il perimetro una volta. Poi tornarono nell’accampamento e passarono la notte nell’accampamento. Di buon mattino Giosuè si alzò e i sacerdoti portarono l’arca del Si gnore; i sette sacerdoti che portavano le sette trombe di corno d’ariete davanti all’arca del Sign ore procedevano suonando le trombe. Il gruppo armato marciava davanti a loro e la retroguardi a seguiva l’arca del Signore; si procedeva al suono delle trombe. Il secondo giorno girarono into rno alla città una volta e tornarono poi all’accampamento. Così fecero per sei giorni. Il settimo g iorno si alzarono allo spuntare dell’alba e girarono intorno alla città sette volte secondo questo cerimoniale; soltanto in quel giorno fecero sette volte il giro intorno alla città. Alla settima volta
i sacerdoti diedero fiato alle trombe e Giosuè disse al popolo: «Lanciate il grido di guerra perch é il Signore vi consegna la città. Questa città con quanto vi è in essa sarà votata allo sterminio p er il Signore. Rimarrà in vita soltanto la prostituta Raab e chiunque è in casa con lei perché ha n ascosto i messaggeri inviati da noi. Quanto a voi guardatevi da ciò che è votato allo sterminio: mentre operate la distruzione non prendete nulla di ciò che è votato allo sterminio altrimenti re ndereste votato allo sterminio l’accampamento d’Israele e gli arrechereste una disgrazia. Tutto l
’argento e l’oro e gli oggetti di bronzo e di ferro sono consacrati al Signore: devono entrare nel t esoro del Signore». Il popolo lanciò il grido di guerra e suonarono le trombe. Come il popolo udì il suono della tromba e lanciò un grande grido di guerra le mura della città crollarono su se stes se; il popolo salì verso la città ciascuno diritto davanti a sé e si impadronirono della città. Votaro no allo sterminio tutto quanto c’era in città: uomini e donne giovani e vecchi buoi pecore e asini tutto passarono a fil di spada. Giosuè aveva detto ai due uomini che avevano esplorato la terra:
«Entrate nella casa della prostituta conducetela fuori con quanto le appartiene come le avete g iurato». Quei giovani esploratori entrarono e condussero fuori Raab suo padre sua madre i suoi fratelli e quanto le apparteneva. Fecero uscire tutti quelli della sua famiglia e li posero fuori dell’
accampamento d’Israele. Incendiarono poi la città e quanto vi era dentro. Destinarono però l’ar gento l’oro e gli oggetti di bronzo e di ferro al tesoro del tempio del Signore. Giosuè lasciò in vit a la prostituta Raab la casa di suo padre e quanto le apparteneva. Ella è rimasta in mezzo a Israe le fino ad oggi per aver nascosto gli inviati che Giosuè aveva mandato a esplorare Gerico. In que lla circostanza Giosuè fece giurare: «Maledetto davanti al Signore l’uomo che si metterà a ricost ruire questa città di Gerico! Sul suo primogenito ne getterà le fondamenta e sul figlio minore ne erigerà le porte!». Il Signore fu con Giosuè la cui fama si sparse in tutta la regione. Ma gli Israeli ti violarono la legge dello sterminio: Acan figlio di Carmì figlio di Zabdì figlio di Zerach della tribù di Giuda si impadronì di cose votate allo sterminio e allora la collera del Signore si accese contr o gli Israeliti. Giosuè inviò degli uomini da Gerico ad Ai che si trova presso Bet-Aven a oriente di Betel con quest’ordine: «Salite a esplorare la regione». Quegli uomini salirono a esplorare Ai ritornarono da Giosuè e gli dissero: «Non c’è bisogno che vada tutto il popolo: va dano all’assalto due o tremila uomini ed espugneranno Ai; non impegnare tutto il popolo perch é sono in pochi». Vi andarono allora del popolo circa tremila uomini ma dovettero fuggire dava nti a quelli di Ai che ne uccisero circa trentasei li inseguirono dalla porta della città fino a Sebarì m sconfiggendoli sulle pendici. Il cuore del popolo si sciolse come acqua. Giosuè si stracciò le ve sti si prostrò con la faccia a terra davanti all’arca del Signore e lì rimase fino a sera insieme agli a nziani d’Israele e si cosparsero il capo di polvere. Giosuè disse: «Ah! Signore Dio perché hai volu to far passare il Giordano a questo popolo per consegnarci poi nelle mani dell’Amorreo e distru ggerci? Avessimo deciso di stabilirci al di là del Giordano! Perdona Signore mio: che posso dire d al momento che Israele ha dovuto volgere le spalle di fronte ai suoi nemici? Lo udranno i Canan ei e tutti gli abitanti della regione ci accerchieranno e cancelleranno il nostro nome dalla terra. E
tu che farai per il tuo grande nome?». Rispose il Signore a Giosuè: «àlzati perché stai con la facc
ia a terra? Israele ha peccato. Essi hanno trasgredito il patto che avevo loro imposto e hanno pr eso cose votate allo sterminio: hanno rubato hanno dissimulato le hanno messe nei loro sacchi!
Gli Israeliti non potranno resistere ai loro nemici volgeranno loro le spalle perché sono incorsi n ello sterminio. Non sarò più con voi se non estirperete da voi la causa dello sterminio. Su santifi ca il popolo e di’ loro: “Per domani santificatevi, perché così dice il Signore Dio d’Israele: C’è una causa di sterminio in mezzo a te Israele! Tu non potrai resistere ai tuoi nemici finché non elimin erete da voi la causa dello sterminio. Vi accosterete dunque domattina divisi per tribù: la tribù c he il Signore avrà designato con la sorte si accosterà per casati e il casato che il Signore avrà des ignato si accosterà per famiglie; la famiglia che il Signore avrà designato si accosterà per individ ui. Colui che risulterà causa di sterminio sarà bruciato lui e tutte le sue cose per aver trasgredito il patto del Signore e aver commesso un’infamia in Israele”». Giosuè si alzò di buon mattino e f ece accostare Israele per tribù e venne sorteggiata la tribù di Giuda. Fece accostare i casati di Gi uda e venne sorteggiato il casato degli Zerachiti; fece accostare il casato degli Zerachiti per fami glie e venne sorteggiato Zabdì fece accostare la sua famiglia per individui e venne sorteggiato A can figlio di Carmì figlio di Zabdì figlio di Zerach della tribù di Giuda. Disse allora Giosuè ad Acan:
«Figlio mio da’ gloria al Signore Dio d’Israele e rendigli lode. Raccontami dunque che cosa hai fa tto non me lo nascondere». Acan rispose a Giosuè: «è vero io ho peccato contro il Signore Dio d
’Israele e ho fatto quanto vi dirò: avevo visto nel bottino un bel mantello di Sinar duecento sicli d’argento e un lingotto d’oro del peso di cinquanta sicli. Li ho desiderati e me li sono presi ed ec coli nascosti in terra al centro della mia tenda e l’argento è sotto». Giosuè mandò incaricati che corsero alla tenda ed ecco tutto era nascosto nella tenda e l’argento era sotto. Presero il tutto d alla tenda lo portarono a Giosuè e a tutti gli Israeliti e lo deposero davanti al Signore. Giosuè all ora prese Acan figlio di Zerach con l’argento il mantello il lingotto d’oro i suoi figli le sue figlie i s uoi buoi i suoi asini le sue pecore la sua tenda e quanto gli apparteneva. Tutto Israele era con lu i ed egli li condusse alla valle di Acor. Giosuè disse: «Come tu ci hai arrecato disgrazia così oggi il Signore l’arrechi a te!». Tutti gli Israeliti lo lapidarono. Poi li bruciarono tutti e li coprirono di pie tre. Eressero poi sul posto un gran mucchio di pietre che esiste ancora oggi. E il Signore placò l’a rdore della sua ira. Perciò quel luogo si chiama valle di Acor fino ad oggi. Il Signore disse a Giosu è: «Non temere e non abbatterti. Prendi con te tutti i guerrieri. Su va’ contro Ai. Vedi io consegn o nella tua mano il re di Ai il suo popolo la sua città e il suo territorio. Tratta Ai e il suo re come hai trattato Gerico e il suo re; tuttavia prenderete per voi il suo bottino e il suo bestiame. Tendi un agguato contro la città dietro a essa». Giosuè e tutto il suo esercito si accinsero ad assalire Ai
. Egli scelse trentamila guerrieri valenti li inviò di notte con questo comando: «State attenti: voi tenderete agguati dietro la città senza allontanarvi troppo da essa. State tutti all’erta. Io e tutta la gente che è con me ci avvicineremo alla città. Quando usciranno contro di noi come la prima volta noi fuggiremo davanti a loro. Essi usciranno dietro a noi finché li avremo attirati lontano d alla città perché penseranno: “Fuggono davanti a noi come la prima volta!”. Mentre noi fuggire mo davanti a loro, voi balzerete fuori dall’imboscata e occuperete la città e il Signore vostro Dio
la consegnerà in mano vostra. Una volta occupata appiccherete il fuoco alla città. Agite secondo il comando del Signore. Fate attenzione! Questi sono i miei ordini». Giosuè allora li inviò ed essi andarono al luogo dell’imboscata e si posero fra Betel e Ai a occidente di Ai; Giosuè passò quell a notte in mezzo al popolo. Di buon mattino passò in rassegna il popolo e con gli anziani d’Israel e alla testa del popolo salì contro Ai. Anche tutti quelli idonei alla guerra che erano con lui saliro no e avvicinandosi giunsero di fronte alla città. Si accamparono a settentrione di Ai, lasciando la valle tra loro e Ai. Giosuè aveva preso circa cinquemila uomini e li aveva posti in agguato tra Bet el e Ai a occidente della città. Il popolo aveva collocato tutto l’accampamento a settentrione di Ai mentre l’agguato era a occidente della città Giosuè di notte andò in mezzo alla valle. Non app ena il re di Ai si accorse di ciò gli uomini della città si alzarono in fretta e uscirono incontro a Isra ele per il combattimento il re con tutto il popolo verso il pendio di fronte all’Araba. Non sapeva però che era teso un agguato contro di lui dietro la città. Giosuè e tutto Israele si diedero per vi nti dinanzi a loro e fuggirono per la via del deserto. Tutta la gente che era dentro la città gridan do si mise a inseguirli. Inseguirono Giosuè e furono attirati lontano dalla città. In Ai non rimase nessuno che non inseguisse Israele. E così per inseguire Israele lasciarono la città aperta. Il Sign ore disse a Giosuè: «Tendi verso la città il giavellotto che tieni in mano perché io la consegno ne lle tue mani». Giosuè tese verso la città il giavellotto che teneva in mano e non appena stese la mano quelli che erano in agguato balzarono subito dal loro nascondiglio corsero per entrare in c ittà la occuparono e in un attimo vi appiccarono il fuoco. Quelli di Ai si voltarono indietro e vider o che il fumo della città si alzava verso il cielo. Ma ormai non c’era più per loro alcuna possibilità di fuga in nessuna direzione, poiché il popolo che fuggiva verso il deserto si era voltato contro g li inseguitori. Giosuè e tutto Israele videro che quelli dell’agguato avevano conquistato la città e che il fumo della città si era levato; si voltarono dunque indietro e colpirono gli uomini di Ai. An che gli altri uscirono dalla città contro di loro e così i combattenti di Ai si trovarono in mezzo agli Israeliti avendoli da una parte e dall’altra. Gli Israeliti li colpirono finché non rimase nessun sup erstite o fuggiasco. Presero vivo il re di Ai e lo condussero da Giosuè. Quando gli Israeliti ebbero finito di uccidere tutti gli abitanti di Ai che li avevano inseguiti in campo aperto nel deserto e tu tti fino all’ultimo furono passati a fil di spada tutti gli Israeliti rientrarono in Ai e la colpirono a fil di spada. Tutti i caduti in quel giorno uomini e donne furono dodicimila tutta la popolazione di Ai. Giosuè non ritirò la mano che brandiva il giavellotto finché non ebbero votato allo sterminio tutti gli abitanti di Ai. Gli Israeliti trattennero per sé soltanto il bestiame e il bottino della città, s econdo l’ordine che il Signore aveva dato a Giosuè. Giosuè incendiò Ai riducendola a una collina di rovine per sempre una desolazione fino ad oggi. Fece appendere il re di Ai a un albero fino al la sera. Al tramonto Giosuè comandò che il suo cadavere fosse calato giù dall’albero; lo gettaro no all’ingresso della porta della città e vi eressero sopra un gran mucchio di pietre che esiste an cora oggi. In quell’occasione Giosuè costruì un altare al Signore Dio d’Israele sul monte Ebal co me aveva ordinato Mosè servo del Signore agli Israeliti secondo quanto è scritto nel libro della l egge di Mosè un altare di pietre intere non levigate dal ferro; vi bruciarono sopra olocausti in o
nore del Signore e immolarono sacrifici di comunione. In quel luogo Giosuè scrisse sulle pietre u na copia della legge di Mosè che questi aveva scritto alla presenza degli Israeliti. Tutto Israele gli anziani gli scribi i giudici il forestiero come quelli del popolo stavano in piedi da una parte e dall
’altra dell’arca, di fronte ai sacerdoti leviti che portavano l’arca dell’alleanza del Signore: una m età verso il monte Garizìm e l’altra metà verso il monte Ebal come aveva prescritto Mosè servo del Signore per benedire il popolo d’Israele anzitutto. Giosuè lesse poi tutte le parole della legg e la benedizione e la maledizione secondo quanto sta scritto nel libro della legge. Di tutto quant o Mosè aveva comandato non ci fu parola che Giosuè non leggesse davanti a tutta l’assemblea d’Israele comprese le donne i fanciulli e i forestieri che camminavano con loro. Quando udirono questi fatti tutti i re della parte occidentale del Giordano della zona montuosa della Sefela e di t utto il litorale del Mare Grande verso il Libano –
gli Ittiti gli Amorrei i Cananei i Perizziti gli Evei i Gebusei –
si allearono per far guerra contro Giosuè e Israele sotto un unico comando. Gli abitanti di Gàba on invece quando ebbero sentito ciò che Giosuè aveva fatto a Gerico e ad Ai ricorsero da parte l oro a un’astuzia: andarono a rifornirsi di provviste presero sacchi sdruciti per i loro asini otri di v ino consunti rotti e rappezzati, calzarono sandali strappati e ricuciti e vestirono abiti logori. Tutt o il pane della loro provvigione era secco e sbriciolato. Andarono poi da Giosuè all’accampamen to di Gàlgala e dissero a lui e agli Israeliti: «Veniamo da una terra lontana; stringete con noi un p atto». La gente d’Israele rispose a quegli Evei: «Ma forse voi abitate in mezzo a noi: come potre mmo allora stringere un patto con voi?». Risposero a Giosuè: «Noi siamo tuoi servi!» e Giosuè c hiese loro: «Chi siete e da dove venite?». Gli risposero: «I tuoi servi vengono da una terra molto lontana per la fama del Signore tuo Dio perché ne abbiamo sentito parlare come di quanto ha f atto in Egitto, di quanto ha fatto ai due re degli Amorrei al di là del Giordano a Sicon re di Chesb on e a Og re di Basan ad Astaròt. I nostri anziani e tutti gli abitanti della nostra terra ci hanno de tto: “Rifornitevi di provviste per il cammino andate loro incontro e dite loro: noi siamo vostri ser vi; stringete dunque un patto con noi”. Questo è il nostro pane: caldo noi lo prendemmo come provvista dalle nostre case nel giorno in cui uscimmo per venire da voi e ora eccolo secco e rido tto in briciole. Questi otri di vino che noi riempimmo nuovi eccoli rotti. Questi nostri vestiti e i n ostri sandali sono consumati dal lunghissimo cammino». Allora la gente prese in consegna le lor o provviste senza consultare l’oracolo del Signore. Giosuè fece pace con loro stringendo con lor o il patto di lasciarli in vita. Giurarono a loro favore anche i capi della comunità. Tre giorni dopo che ebbero stretto il patto con loro gli Israeliti vennero a sapere che quelli erano loro vicini e ab itavano in mezzo a loro. Allora gli Israeliti partirono e il terzo giorno entrarono nelle loro città: le loro città erano Gàbaon Chefirà, Beeròt e Kiriat-Iearìm. Gli Israeliti non li attaccarono perché i capi della comunità avevano loro giurato per il Sig nore Dio d’Israele. Ma tutta la comunità mormorò contro i capi. Allora tutti i capi dissero all’inte ra comunità: «Noi stessi abbiamo loro giurato per il Signore Dio d’Israele. E dunque non li possia mo colpire. Ma facciamo loro così: li lasceremo in vita perché non ci piombi addosso un castigo
per il giuramento che abbiamo loro prestato. Vivano pure – aggiunsero i capi –
ma siano tagliatori di legna e portatori d’acqua per tutta la comunità». Dopo che i capi ebbero parlato loro, Giosuè chiamò quelli di Gàbaon e parlò loro dicendo: «Perché ci avete ingannato di cendo di abitare molto lontano mentre abitate in mezzo a noi? Maledetti! Voi non cesserete d’e ssere schiavi: tagliatori di legna e portatori d’acqua per il tempio del mio Dio». Risposero a Gios uè: «Ai tuoi servi era stato riferito più volte quanto il Signore tuo Dio aveva ordinato a Mosè suo servo di dare cioè a voi tutta la terra e di distruggere dinanzi a voi tutti i suoi abitanti. Allora av endo molta paura di voi per le nostre vite ci comportammo così. Ora eccoci nelle tue mani: fa’ d i noi come sembra buono e giusto ai tuoi occhi». Giosuè li trattò in questo modo: li salvò dalla mano degli Israeliti che non li uccisero; ma da quel giorno fino ad oggi Giosuè li rese tagliatori di legna e portatori d’acqua per la comunità e per l’altare del Signore nel luogo che egli avrebbe s celto. Quando Adonì-
Sedek re di Gerusalemme venne a sapere che Giosuè aveva conquistato Ai e l’aveva votata allo sterminio e che come aveva fatto a Gerico e al suo re aveva fatto ad Ai e al suo re e che quelli di Gàbaon avevano fatto pace con gli Israeliti e si trovavano ormai in mezzo a loro ebbe grande pa ura perché Gàbaon era grande come una delle città regali ed era più grande di Ai e tutti i suoi u omini erano valorosi. Allora Adonì-
Sedek re di Gerusalemme mandò questo messaggio a Oam re di Ebron a Piram re di Iarmut a Iaf ìa re di Lachis e a Debir re di Eglon: «Venite ad aiutarmi per attaccare Gàbaon perché ha fatto p ace con Giosuè e con gli Israeliti». Questi cinque re amorrei –
il re di Gerusalemme il re di Ebron il re di Iarmut il re di Lachis e il re di Eglon –
con tutte le loro truppe si radunarono insieme andarono ad accamparsi contro Gàbaon e le mo ssero guerra. Gli uomini di Gàbaon inviarono allora questa richiesta a Giosuè, all’accampamento di Gàlgala: «Da’ una mano ai tuoi servi! Vieni presto da noi a salvarci e aiutaci perché si sono all eati contro di noi tutti i re degli Amorrei che abitano le montagne». Allora Giosuè salì da Gàlgala con tutto l’esercito e i prodi guerrieri e il Signore gli disse: «Non aver paura di loro perché li con segno in mano tua: nessuno di loro resisterà davanti a te». Giosuè piombò su di loro all’improvv iso avendo marciato tutta la notte da Gàlgala. Il Signore li disperse davanti a Israele e inflisse lor o una grande sconfitta a Gàbaon li inseguì sulla via della salita di Bet-Oron e li batté fino ad Azekà e a Makkedà. Mentre essi fuggivano dinanzi a Israele ed erano alla discesa di Bet-Oron il Signore lanciò dal cielo su di loro come grosse pietre fino ad Azekà e molti morirono. Mo rirono per le pietre della grandine più di quanti ne avessero uccisi gli Israeliti con la spada. Quan do il Signore consegnò gli Amorrei in mano agli Israeliti Giosuè parlò al Signore e disse alla prese nza d’Israele: «Férmati sole su Gàbaon, luna sulla valle di àialon». Si fermò il sole e la luna rimas e immobile finché il popolo non si vendicò dei nemici. Non è forse scritto nel libro del Giusto? St ette fermo il sole nel mezzo del cielo non corse al tramonto un giorno intero. Né prima né poi vi fu giorno come quello in cui il Signore ascoltò la voce d’un uomo perché il Signore combatteva
per Israele. Giosuè e tutto Israele ritornarono verso l’accampamento di Gàlgala. Quei cinque re fuggirono e si nascosero nella grotta a Makkedà. Fu riferito a Giosuè: «Sono stati trovati i cinqu e re nascosti nella grotta a Makkedà». Giosuè disse loro: «Rotolate grosse pietre contro l’entrat a della grotta e appostate alcune sentinelle per sorvegliarli. Voi però non fermatevi: continuate a inseguire i vostri nemici attaccate la loro retroguardia e non lasciateli rientrare nelle loro città, perché il Signore vostro Dio li consegna nelle vostre mani». Quando Giosuè e gli Israeliti ebbero finito di infliggere loro una sconfitta tanto grande da finirli e i superstiti che erano loro sfuggiti ebbero raggiunto le loro fortezze tutto l’esercito ritornò sano e salvo all’accampamento di Mak kedà presso Giosuè. Nessuno osò più muover lingua contro gli Israeliti. Giosuè quindi ordinò: «A prite l’ingresso della grotta e fatemi uscire dalla grotta quei cinque re». Così fecero e gli conduss ero fuori dalla grotta quei cinque re: il re di Gerusalemme il re di Ebron il re di Iarmut il re di Lac his e il re di Eglon. Quando quei re furono fatti uscire dinanzi a Giosuè egli convocò tutti gli Israe liti e disse agli ufficiali che avevano marciato con lui: «Avvicinatevi e ponete i vostri piedi sul coll o di questi re!». Quelli si avvicinarono e posero i piedi sul loro collo. Disse loro Giosuè: «Non te mete e non spaventatevi! Coraggio siate forti perché così farà il Signore a tutti i nemici contro c ui dovrete combattere». Dopo di ciò Giosuè li colpì e li fece morire e li fece appendere a cinque alberi. Vi rimasero appesi fino a sera. All’ora del tramonto per ordine di Giosuè li calarono dagli alberi e li gettarono nella grotta dove si erano nascosti. All’ingresso della grotta posero grosse p ietre che sono lì ancora oggi. Giosuè in quel giorno conquistò Makkedà: passò a fil di spada la cit tà e il suo re li votò allo sterminio con ogni essere vivente che era in essa; non lasciò alcun super stite e trattò il re di Makkedà come aveva trattato il re di Gerico. Da Makkedà Giosuè e tutto Isr aele passarono a Libna e l’attaccarono. Il Signore consegnò anche questa città e il suo re nelle m ani d’Israele, che la passò a fil di spada con ogni essere vivente che era in essa; non vi lasciò alcu n superstite e trattò il suo re come aveva trattato il re di Gerico. Da Libna Giosuè e tutto Israele passarono a Lachis si accamparono contro di essa e l’attaccarono. Il Signore consegnò Lachis nel le mani d’Israele: la conquistò il secondo giorno e la passò a fil di spada con ogni essere vivente che era in essa come aveva fatto a Libna. Allora Oram re di Ghezer andò in soccorso di Lachis. Gi osuè batté lui e il suo popolo fino a non lasciargli alcun superstite. Da Lachis Giosuè e tutto Israe le passarono a Eglon si accamparono contro di essa e l’attaccarono. La presero quello stesso gio rno e la passarono a fil di spada votando allo sterminio ogni essere vivente che era in essa come avevano fatto a Lachis. Da Eglon Giosuè e tutto Israele salirono a Ebron e l’attaccarono. Presero e passarono a fil di spada la città il suo re tutti i suoi villaggi e ogni essere vivente che era in ess a. Non lasciarono alcun superstite come avevano fatto a Eglon: la votarono allo sterminio con o gni essere vivente che era in essa. Poi Giosuè e con lui tutto Israele si volsero a Debir e l’attacca rono. La presero con il suo re e tutti i suoi villaggi li passarono a fil di spada e votarono allo ster minio ogni essere vivente che era in essa: non lasciarono alcun superstite. Trattarono Debir e il suo re come avevano trattato Ebron e come avevano trattato Libna e il suo re. Così Giosuè conq uistò tutta la regione: le montagne il Negheb la Sefela le pendici con tutti i loro re. Non lasciò al
cun superstite e votò allo sterminio ogni vivente come aveva comandato il Signore Dio d’Israele.
Giosuè li conquistò da Kades-
Barnea fino a Gaza con tutto il territorio di Gosen fino a Gàbaon. Giosuè prese tutti questi re e i loro territori in una sola volta perché il Signore Dio d’Israele combatteva per Israele. Infine Gios uè e tutto Israele ritornarono all’accampamento di Gàlgala. Quando Iabin re di Asor seppe ques te cose ne informò Iobab il re di Madon il re di Simron il re di Acsaf e i re che erano a settentrio ne sulle montagne nell’Araba a meridione di Chinaròt nella Sefela e sulle colline di Dor a occide nte. I Cananei erano a oriente e a occidente gli Amorrei gli Ittiti i Perizziti i Gebusei erano sulle montagne e gli Evei erano ai piedi dell’Ermon nella regione di Mispa. Allora essi uscirono con tut ti i loro eserciti: erano una truppa numerosa come la sabbia sulla riva del mare con numerosissi mi cavalli e carri. Tutti questi re si allearono e vennero ad accamparsi insieme presso le acque di Merom per combattere contro Israele. Allora il Signore disse a Giosuè: «Non temerli, perché do mani a quest’ora io li consegnerò tutti trafitti davanti a Israele. Taglierai i garretti ai loro cavalli e appiccherai il fuoco ai loro carri». Giosuè con tutti i suoi guerrieri andò contro di loro presso le acque di Merom a sorpresa e piombò su di loro. Il Signore li consegnò nelle mani d’Israele che li batté e li inseguì fino a Sidone la Grande fino a Misrefot-Màim e fino alla valle di Mispa a oriente. Li sconfissero fino a non lasciar loro neppure un supers tite. Giosuè fece loro come gli aveva detto il Signore: tagliò i garretti ai loro cavalli e appiccò il fu oco ai loro carri. In quello stesso tempo Giosuè tornò indietro conquistò Asor e passò a fil di spa da il suo re perché prima Asor era stata la capitale di tutti quei regni. Passò a fil di spada ogni es sere vivente che vi era votandolo allo sterminio; non risparmiò nessun vivente e appiccò il fuoc o ad Asor. Giosuè prese tutti quei re e le loro città passandoli a fil di spada; li votò allo sterminio come aveva comandato Mosè servo del Signore. Tuttavia Israele non incendiò nessuna delle cit tà costruite su colline a parte Asor incendiata da Giosuè. Gli Israeliti presero tutto il bottino di q ueste città e il bestiame; passarono però a fil di spada tutti gli uomini fino a distruggerli: non ris parmiarono alcun vivente. Come aveva comandato il Signore a Mosè suo servo così Mosè aveva comandato a Giosuè e così Giosuè fece non trascurando alcuna parola di quanto il Signore avev a comandato a Mosè. Giosuè si impadronì di tutta questa terra: la zona montuosa tutto il Negh eb, tutta la regione di Gosen la Sefela l’Araba le montagne d’Israele e il loro bassopiano. Dal mo nte Calak che sale verso Seir fino a Baal-Gad nella valle del Libano ai piedi del monte Ermon: catturò tutti i loro re li vinse e li uccise. Per molto tempo Giosuè fece guerra a tutti questi re. Non ci fu alcuna città che facesse pace con gli Israeliti eccetto gli Evei che abitavano Gàbaon: le presero tutte con le armi, perché veniva dal Si gnore che il loro cuore si ostinasse a dichiarare guerra a Israele per votarle allo sterminio senza pietà e così distruggerle come il Signore aveva comandato a Mosè. In quel tempo Giosuè andò a eliminare gli Anakiti dalla zona montuosa: da Ebron da Debir da Anab da tutti i monti di Giuda e di Israele. Giosuè li votò allo sterminio con le loro città. Non rimasero Anakiti nella terra degli Is raeliti. Ne rimasero alcuni solo a Gaza a Gat e ad Asdod. Giosuè prese tutto il territorio come il S

ignore aveva ordinato a Mosè. Giosuè lo assegnò in eredità a Israele secondo le loro divisioni in tribù. E la terra visse tranquilla senza guerra. Questi sono i re della regione al di là del Giordano a oriente che gli Israeliti sconfissero e del cui territorio entrarono in possesso dal torrente Arno n al monte Ermon con tutta l’Araba orientale: Sicon re degli Amorrei che risiedeva a Chesbon; e gli dominava partendo da Aroèr, situata sul margine della valle del torrente Arnon il fondovalle del torrente la metà di Gàlaad fino al torrente Iabbok confine degli Ammoniti e l’Araba fino alla riva orientale del mare di Chinaròt e fino alla riva orientale del mare dell’Araba cioè il Mar Mort o in direzione di Bet-Iesimòt e più a meridione fin sotto le pendici del Pisga. Og re di Basan uno degli ultimi figli dei R
efaìm che risiedeva ad Astaròt e a Edrei; egli dominava il monte Ermon e Salca e tutto Basan fin o al confine dei Ghesuriti e dei Maacatiti inoltre metà di Gàlaad sino al confine di Sicon re di Che sbon. Mosè servo del Signore e gli Israeliti li avevano sconfitti e Mosè servo del Signore ne died e il possesso a quelli di Ruben a quelli di Gad e a metà della tribù di Manasse. Questi sono i re d el territorio a occidente del Giordano che Giosuè e gli Israeliti sconfissero da Baal-Gad nella valle del Libano fino al monte Calak che sale verso Seir e le cui terre Giosuè diede in p roprietà alle tribù d’Israele secondo le loro divisioni in tribù nella zona montuosa nella Sefela ne ll’Araba sulle pendici nel deserto e nel Negheb dov’erano gli Ittiti gli Amorrei i Cananei i Perizziti gli Evei e i Gebusei: il re di Gerico uno; il re di Ai che è presso Betel uno; il re di Gerusalemme u no; il re di Ebron uno; il re di Iarmut uno; il re di Lachis uno; il re di Eglon uno; il re di Ghezer uno
; il re di Debir uno; il re di Gheder uno; il re di Corma uno; il re di Arad uno; il re di Libna uno; il r e di Adullàm uno; il re di Makkedà uno; il re di Betel uno; il re di Tappù ach uno; il re di Chefer u no; il re di Afek uno; il re di Saron uno; il re di Madon uno; il re di Azor uno; il re di Simron-Meron uno; il re di Acsaf uno; il re di Taanac uno; il re di Meghiddo uno; il re di Kedes uno; il re di Iokneàm del Carmelo uno; il re di Dor sulla collina di Dor uno; il re delle popolazioni di Gàlgala uno; il re di Tirsa uno. In tutto trentuno re. Giosuè era ormai vecchio e avanti negli anni e il Sign ore gli disse: «Tu sei vecchio e avanti negli anni mentre rimane molto territorio da occupare. Qu este sono le terre rimaste: tutti i distretti dei Filistei e tutto il territorio dei Ghesuriti dal Sicor di fronte all’Egitto fino al territorio di Ekron a settentrione zona considerata cananea; i cinque prin cipati dei Filistei – Gaza Asdod àscalon Gat ed Ekron –
e gli Avviti nel meridione; tutto il territorio dei Cananei da Ara che è di quelli di Sidone fino ad A fek fino al confine degli Amorrei; il territorio di quelli di Biblo e tutto il Libano orientale da Baal-Gad ai piedi del monte Ermon fino all’ingresso di Camat. Io stesso scaccerò davanti agli Israeliti t utti gli abitanti delle montagne dal Libano a Misrefot-Màim e tutti quelli di Sidone. Tu dovrai solo tirare a sorte l’eredità per Israele come ti ho coman dato. Ora dunque distribuisci questa terra in eredità alle nove tribù e a metà della tribù di Mana sse». Insieme con l’altra metà di Manasse i Rubeniti e i Gaditi avevano ricevuto la loro parte di e redità che Mosè aveva assegnato loro al di là del Giordano a oriente come aveva concesso loro Mosè servo del Signore: da Aroèr che è sulla riva del torrente Arnon e dalla città in fondovalle t
utta la pianura di Màdaba fino a Dibon; tutte le città di Sicon re degli Amorrei che regnava a Che sbon fino al confine degli Ammoniti; Gàlaad il territorio dei Ghesuriti e dei Maacatiti tutto il mo nte Ermon e tutto Basan fino a Salca; in Basan tutto il regno di Og che regnava ad Astaròt e a Ed rei uno degli ultimi figli dei Refaìm che Mosè aveva debellato e spodestato. Tuttavia gli Israeliti non avevano scacciato i Ghesuriti e i Maacatiti; infatti le popolazioni di Ghesur e Maacà vivono i n mezzo a Israele ancora oggi. Soltanto alla tribù di Levi non aveva assegnato un’eredità: i sacrifi ci consumati dal fuoco per il Signore Dio d’Israele sono la sua eredità come aveva detto loro. M
osè aveva assegnato alla tribù dei figli di Ruben una parte secondo i loro casati ed essi ebbero il territorio da Aroèr che è sulla riva del torrente Arnon e dalla città in fondovalle tutta la pianura presso Màdaba Chesbon e tutte le sue città che sono nella pianura Dibon Bamòt-Baal Bet-Baal-Meon, Iaas Kedemòt Mefàat Kiriatàim Sibma e Seret-
Hassacàr sulle montagne che dominano la valle Bet-Peor le pendici del Pisga, Bet-Iesimòt tutte le città della pianura tutto il regno di Sicon re degli Amorrei che regnava a Chesbo n e che Mosè aveva sconfitto insieme con i capi dei Madianiti vassalli di Sicon che abitavano nell a regione: Evì Rekem Sur Cur e Reba. Quanto a Balaam, figlio di Beor l’indovino gli Israeliti lo ucc isero di spada insieme a quelli che avevano trafitto. Il territorio dei Rubeniti comprende poi il Gi ordano e il territorio limitrofo. Questa è l’eredità dei Rubeniti secondo i loro casati: le città con i loro villaggi. Mosè poi aveva dato una parte alla tribù di Gad ai figli di Gad secondo i loro casati ed essi ebbero il territorio di Iazer e tutte le città di Gàlaad e metà del territorio degli Ammoniti fino ad Aroèr che è di fronte a Rabbà, e da Chesbon fino a Ramat-Mispe e Betonìm e da Macanàim fino al territorio di Lodebàr; nella valle: Bet-Aram e Bet-Nimra Succot e Safon il resto del regno di Sicon re di Chesbon. Il Giordano ne era il confine sino all’estremità del mare di Chinneret oltre il Giordano a oriente. Questa è l’eredità dei figli di Gad secondo i loro casati: le città con i loro villaggi. Mosè aveva assegnato a metà della tribù dei figli di Manasse secondo i loro casati il seguente territorio che appartenne a loro: da Macanàim tutt o il Basan tutto il regno di Og re di Basan e tutti i villaggi di Iair che sono in Basan: sessanta città.
La metà di Gàlaad Astaròt ed Edrei città del regno di Og in Basan furono date ai figli di Machir fi glio di Manasse cioè alla metà dei figli di Machir, secondo i loro casati. Questo è quanto distribu ì Mosè nelle steppe di Moab oltre il Giordano di Gerico a oriente. Alla tribù di Levi però Mosè n on aveva assegnato alcuna eredità: il Signore Dio d’Israele è la loro eredità come aveva detto lo ro. Questo è invece quanto ebbero in eredità gli Israeliti nella terra di Canaan: lo assegnarono lo ro in eredità il sacerdote Eleàzaro e Giosuè figlio di Nun e i capifamiglia delle tribù degli Israeliti.
L’eredità fu stabilita mediante sorteggio, come aveva comandato il Signore per mezzo di Mosè per le nove tribù e per la mezza tribù infatti Mosè aveva assegnato l’eredità delle due tribù e de lla mezza tribù a oriente del Giordano e ai leviti non aveva dato alcuna eredità in mezzo a loro.
Poiché i figli di Giuseppe formano due tribù Manasse ed èfraim non si diede parte alcuna ai levit i nella terra tranne le città dove abitare e i loro pascoli per le loro greggi e gli armenti. Come ave va comandato il Signore a Mosè così fecero gli Israeliti e si divisero la terra. Vennero allora da Gi
osuè a Gàlgala i figli di Giuda e Caleb figlio di Iefunnè il Kenizzita gli disse: «Tu conosci la parola che ha detto il Signore a Mosè uomo di Dio riguardo a me e a te a Kades-Barnea. Avevo quarant’anni quando Mosè, servo del Signore mi inviò da Kades-Barnea a esplorare la terra e io gli riferii con sincerità di cuore. I compagni che vennero con me scoraggiarono il popolo io invece seguii fedelmente il Signore mio Dio. Mosè in quel giorno giur ò: “La terra che il tuo piede ha calcato sarà in eredità a te e ai tuoi figli per sempre perché hai se guito fedelmente il Signore mio Dio”. Ora ecco il Signore mi ha conservato in vita come aveva d etto: sono cioè quarantacinque anni da quando disse questa parola a Mosè mentre Israele cam minava nel deserto e oggi ecco che ho ottantacinque anni; io sono ancora oggi come quando M
osè mi inviò: come il mio vigore allora così il mio vigore ora sia per la battaglia sia per ogni altro lavoro. Ora concedimi questi monti di cui il Signore ha parlato in quel giorno, poiché tu hai sapu to allora che vi sono gli Anakiti e città grandi e fortificate; spero che il Signore sia con me e io le conquisterò secondo quanto ha detto il Signore!». Giosuè lo benedisse e assegnò Ebron in eredi tà a Caleb figlio di Iefunnè. Per questo Caleb figlio di Iefunnè il Kenizzita ebbe in eredità Ebron fi no ad oggi perché aveva seguito fedelmente il Signore Dio d’Israele. Ebron si chiamava prima Ki riat-Arbà: costui era stato l’uomo più grande tra gli Anakiti. E la terra visse tranquilla senza guerra. Il territorio toccato in sorte alla tribù dei figli di Giuda secondo i loro casati si estendeva fino ai co nfini di Edom dal deserto di Sin verso il Negheb all’estremo meridione. Il loro confine a mezzogi orno cominciava dalla parte estrema del Mar Morto dalla punta rivolta verso mezzogiorno poi p rocedeva a meridione della salita di Akrabbìm passava per Sin e risaliva a meridione di Kades-Barnea; passava poi da Chesron saliva ad Addar e girava verso Karkà passava poi da Asmon e ra ggiungeva il torrente d’Egitto e faceva capo al mare. Questo era il loro confine meridionale. A or iente il confine era costituito dal Mar Morto fino alla foce del Giordano. Dal lato settentrionale i l confine partiva dalla lingua di mare presso la foce del Giordano saliva a Bet-Cogla e passava a settentrione di Bet-
Araba e saliva al sasso di Boan figlio di Ruben. Poi il confine saliva a Debir per la valle di Acor e a settentrione, girava verso Gàlgala che è di fronte alla salita di Adummìm a mezzogiorno del torr ente; passava poi alle acque di En-Semes e faceva capo a En-Roghel. Saliva poi la valle di Ben-Innòm sul versante meridionale dei Gebusei cioè di Gerusalemme; poi il confine saliva sulla vett a della montagna che domina la valle di Innòm a occidente ed è all’estremità della valle dei Refa ìm a settentrione. Poi il confine piegava dalla vetta della montagna verso la fonte delle acque di Neftòach e usciva al monte Efron; piegava poi verso Baalà che è Kiriat-Iearìm. Indi il confine girava da Baalà a occidente verso il monte Seir passava sul pendio settentr ionale del monte Iearìm cioè Chesalòn scendeva a Bet-Semes e passava per Timna. Poi il confine raggiungeva il pendio settentrionale di Ekron, quindi piegava verso Siccaròn passava per il monte Baalà raggiungeva Iabneèl e terminava al mare. Il c onfine occidentale era il Mare Grande. Questo era nel complesso il territorio dei figli di Giuda se
condo i loro casati. A Caleb figlio di Iefunnè fu data una parte in mezzo ai figli di Giuda secondo l
’ordine del Signore a Giosuè: fu data Kiriat-
Arbà padre di Anak cioè Ebron. Caleb scacciò di là i tre figli di Anak: Sesài Achimàn e Talmài nati da Anak. Di là passò ad assalire gli abitanti di Debir che prima si chiamava Kiriat-Sefer. Disse allora Caleb: «A chi colpirà Kiriat-
Sefer e la prenderà io darò in moglie mia figlia Acsa». La prese Otnièl figlio di Kenaz fratello di C
aleb; a lui diede in moglie sua figlia Acsa. Ora mentre andava dal marito ella lo convinse a chied ere a suo padre un campo. Scese dall’asino e Caleb le disse: «Che hai?». Ella rispose: «Concedim i un favore; poiché tu mi hai dato una terra arida dammi anche qualche fonte d’acqua». Egli le d onò la sorgente superiore e la sorgente inferiore. Questa fu l’eredità della tribù dei figli di Giuda secondo i loro casati. Le città poste all’estremità della tribù dei figli di Giuda lungo il confine di Edom nel Negheb erano: Kabseèl Eder Iagur Kina Dimonà, Adadà Kedes Asor-Itnàn Zif Telem Bealòt, Asor-Adattà Keriòt-Chesron cioè Asor Amam Sema, Moladà Casar-Gaddà Chesmon Bet-Pelet Casar-
Sual, Bersabea e le sue dipendenze Baalà Iim Esem Eltolàd, Chesil Corma Siklag Madmannà Sans annà Lebaòt, Silchìm En-Rimmon: in tutto ventinove città e i loro villaggi. Nella Sefela: Estaòl Sorea Asna Zanòach, En-Gannìm Tappù ach Enam Iarmut Adullàm Soco Azekà, Saaràim Aditàim Ghederà e Ghederotàim: quattordici città e i loro villaggi; Senan Adasà Migdal-Gad Dileàn Mispa, Iokteèl Lachis Boskat Eglon Cabbon Lacmas Chitlis, Ghederòt Bet-Dagon Naamà e Makkedà: sedici città e i loro villaggi; Libna Eter Asan Iftach Asna Nesib, Keila Ac zib e Maresà: nove città e i loro villaggi; Ekron, le città del suo distretto e i suoi villaggi; da Ekron fino al mare tutte le città vicine ad Asdod e i loro villaggi; Asdod le città del suo distretto e i suoi villaggi; Gaza le città del suo distretto e i suoi villaggi fino al torrente d’Egitto e al Mare Grande che serve da confine. Sulle montagne: Samir Iattir Soco Danna Kiriat-Sannà, cioè Debir Anab Estemòa Anìm Gosen Colòn e Ghilo: undici città e i loro villaggi. Arab Du ma Esan Ianum, Bet-Tappù ach Afekà Cumta Kiriat-Arbà cioè Ebron e Sior: nove città e i loro villaggi. Maon Carmel Zif Iutta Izreèl, Iokdeàm Zanòac h Kain Gàbaa e Timna: dieci città e i loro villaggi. Calcul Bet-Sur Ghedor Maaràt Bet-Anòt e Eltekòn: sei città e i loro villaggi. Tekòa èfrata cioè Betlemme Peor, Etam Culon Tatam So res Carem Gallìm Beter Manàcat: undici città e i loro villaggi. Kiriat-Baal cioè Kiriat-Iearìm e Rabbà: due città e i loro villaggi. Nel deserto: Bet-Araba Middin Secacà Nibsan la città del sale e Engaddi: sei città e i loro villaggi. Quanto ai Gebus ei che abitavano in Gerusalemme i figli di Giuda non riuscirono a scacciarli; così i Gebusei abitan o a Gerusalemme insieme con i figli di Giuda ancora oggi. Il territorio toccato in sorte ai figli di G
iuseppe si estendeva dal Giordano di Gerico verso le acque di Gerico a oriente seguendo il deser to che per la montagna sale da Gerico a Betel. Il confine continuava poi da Betel a Luz e correva lungo il confine degli Architi ad Ataròt; scendeva a occidente verso il confine degli Iafletiti fino al
confine di Bet-
Oron inferiore e fino a Ghezer e faceva capo al mare. I figli di Giuseppe Manasse ed èfraim ebbe ro così la loro eredità. Questi erano i confini dei figli di èfraim secondo i loro casati. Il confine de lla loro eredità era a oriente Atròt-Addar fino a Bet-Oron superiore; continuava fino al mare dal lato occidentale verso Micmetàt a settentrione gira va a oriente verso Taanat-Silo e le passava davanti a oriente di Ianòach. Poi da Ianòach scendeva ad Ataròt e a Naarà tocc ava Gerico e faceva capo al Giordano. Da Tappù ach il confine andava verso occidente fino al tor rente Kana e terminava al mare. Tale era l’eredità della tribù dei figli di èfraim secondo i loro ca sati incluse le città riservate ai figli di èfraim in mezzo all’eredità dei figli di Manasse tutte le citt à e i loro villaggi. Essi non scacciarono i Cananei che abitavano a Ghezer; i Cananei hanno abitat o in mezzo ad èfraim fino ad oggi ma sono costretti al lavoro coatto da schiavi. Questo è il territ orio toccato in sorte alla tribù di Manasse perché egli era il primogenito di Giuseppe. Quanto a Machir primogenito di Manasse e padre di Gàlaad, poiché era guerriero aveva ottenuto Gàlaad e Basan. Fu dunque assegnata una parte agli altri figli di Manasse secondo i loro casati: ai figli di Abièzer di Chelek di Asrièl di Sichem di Chefer di Semidà. Questi erano i figli maschi di Manasse figlio di Giuseppe secondo i loro casati. Selofcàd figlio di Chefer, figlio di Gàlaad figlio di Machir f iglio di Manasse non ebbe figli maschi ma ebbe figlie delle quali ecco i nomi: Macla Noa Cogla M
ilca e Tirsa. Queste si presentarono al sacerdote Eleàzaro a Giosuè figlio di Nun e ai capi dicendo
: «Il Signore ha comandato a Mosè di darci un’eredità in mezzo ai nostri fratelli». Giosuè diede l oro un’eredità in mezzo ai fratelli del padre loro secondo l’ordine del Signore. Toccarono così di eci parti a Manasse oltre il territorio di Gàlaad e di Basan che è a oriente del Giordano poiché le figlie di Manasse ebbero un’eredità in mezzo ai figli di lui. La terra di Gàlaad fu per gli altri figli di Manasse. Il confine di Manasse cominciava da Aser Micmetàt situata di fronte a Sichem poi il c onfine girava a destra verso Iasib alla fonte di Tappù ach. A Manasse apparteneva il territorio di Tappù ach mentre Tappù ach al confine di Manasse era dei figli di èfraim. Quindi il confine scen deva al torrente Kana. A meridione del torrente vi erano le città di èfraim oltre quelle città che erano in mezzo alle città di Manasse. Il territorio di Manasse era a settentrione del torrente e fa ceva capo al mare. Il territorio a meridione era di èfraim a settentrione era di Manasse e suo co nfine era il mare. Con Aser erano confinanti a settentrione e con ìssacar a oriente. Inoltre in ìssa car e in Aser appartenevano a Manasse: Bet-Sean e i suoi villaggi Ibleàm e i suoi villaggi gli abitanti di Dor e i suoi villaggi gli abitanti di Endor e i suoi villaggi gli abitanti di Taanac e i suoi villaggi gli abitanti di Meghiddo e i suoi villaggi un te rzo della regione collinosa. Non poterono però i figli di Manasse impossessarsi di queste città e i l Cananeo continuò ad abitare in questa regione. Poi quando gli Israeliti divennero forti costrins ero il Cananeo al lavoro coatto ma non lo spodestarono del tutto. I figli di Giuseppe dissero a Gi osuè: «Perché mi hai dato in eredità un solo lotto e una sola parte mentre io sono un popolo nu meroso che il Signore ha così benedetto?». Rispose loro Giosuè: «Se sei un popolo numeroso sa
li alla foresta e disboscala per te nel territorio dei Perizziti e dei Refaìm dato che la zona montuo sa di èfraim è troppo stretta per voi». Replicarono allora i figli di Giuseppe: «La zona montuosa non ci basta; inoltre tutti i Cananei che abitano nel territorio pianeggiante hanno carri di ferro t anto in Bet-Sean e nei suoi villaggi quanto nella pianura di Izreèl». Allora Giosuè disse alla casa di Giuseppe cioè a èfraim e a Manasse: «Tu sei un popolo numeroso e possiedi una grande forza; la tua non sarà una porzione soltanto, perché le montagne saranno tue. è una foresta ma tu la disboscher ai e sarà tua da un estremo all’altro; spodesterai infatti il Cananeo benché abbia carri di ferro e sia forte». Tutta la comunità degli Israeliti si radunò a Silo e qui eresse la tenda del convegno. La terra era stata sottomessa a loro. Rimanevano tra gli Israeliti sette tribù che non avevano avuto la loro parte. Disse allora Giosuè agli Israeliti: «Fino a quando trascurerete di andare a occupare la terra che il Signore Dio dei vostri padri vi ha dato? Sceglietevi tre uomini per tribù e io li invie rò. Essi andranno subito a ispezionare la terra ne tracceranno un piano per la divisione in eredit à e torneranno da me. Essi se la divideranno in sette parti: Giuda rimarrà sul suo territorio nel m eridione e quelli della casa di Giuseppe rimarranno sul loro territorio al settentrione. Voi traccer ete una mappa scritta della terra in sette parti e me la porterete qui e io getterò per voi la sorte qui, dinanzi al Signore Dio nostro. Tuttavia non vi è parte per i leviti in mezzo a voi, perché il sac erdozio del Signore è la loro eredità e Gad Ruben e metà della tribù di Manasse hanno già ricev uto la loro eredità oltre il Giordano a oriente come ha concesso loro Mosè servo del Signore». Q
uegli uomini si misero in cammino; Giosuè comandò a coloro che andarono a tracciare una map pa scritta della terra: «Andate a perlustrare la regione tracciatene una mappa e tornate da me e qui io getterò per voi la sorte davanti al Signore a Silo». Gli uomini andarono ispezionarono la r egione ne tracciarono una mappa scritta secondo le città dividendola in sette parti e ritornaron o da Giosuè all’accampamento a Silo. Allora Giosuè gettò per loro la sorte a Silo dinanzi al Signo re e lì Giosuè spartì la terra tra gli Israeliti secondo le loro ripartizioni. Fu tirata a sorte la parte d ella tribù dei figli di Beniamino secondo i loro casati; il territorio che toccò loro aveva i confini tr a i figli di Giuda e i figli di Giuseppe. Dal lato settentrionale il loro confine partiva dal Giordano s aliva il pendio settentrionale di Gerico saliva per la montagna verso occidente e faceva capo al d eserto di Bet-Aven. Di là passava per Luz sul versante meridionale di Luz cioè Betel e scendeva ad Atròt-Addar presso il monte che è a mezzogiorno di Bet-
Oron inferiore. Poi il confine piegava e al lato occidentale girava a mezzogiorno dal monte posto di fronte a Bet-Oron a mezzogiorno e faceva capo a Kiriat-Baal cioè Kiriat-Iearìm città dei figli di Giuda. Questo era il lato occidentale. Il lato meridionale cominciava all’es tremità di Kiriat-Iearìm. Il confine piegava verso occidente fino alla fonte delle acque di Neftòach, poi scendeva f ino al crinale del monte di fronte alla valle di Ben-Innòm nella valle dei Refaìm a settentrione e scendeva per la valle di Ben-
Innòm sul pendio meridionale dei Gebusei fino a En-Roghel. Si estendeva quindi verso il settentrione e giungeva a En-Semes; di là si dirigeva verso Ghelilòt che è di fronte alla salita di Adummìm e scendeva al sasso di Boan figlio di Ruben poi passava per il pendio settentrionale di fronte all’Araba e scendeva all
’Araba. Il confine passava quindi per il pendio settentrionale di Bet-Cogla e faceva capo al golfo settentrionale del Mar Morto alla foce meridionale del Giordano. Q
uesto era il confine meridionale. Il Giordano serviva di confine dal lato orientale. Questa era l’er edità dei figli di Beniamino secondo i loro casati con i suoi confini da tutti i lati. Le città della trib ù dei figli di Beniamino secondo i loro casati erano: Gerico Bet-Cogla Emek-Kesis Bet-Araba Semaràim Betel, Avvìm Para Ofra Chefar-
Ammonài Ofni e Gheba: dodici città e i loro villaggi; Gàbaon Rama Beeròt, Mispa Chefirà Mosa Rekem Irpeèl Taralà, Sela-Elef la città gebusea cioè Gerusalemme Gàbaa, Kiriat-Iearìm: quattordici città e i loro villaggi. Questa era l’eredità dei figli di Beniamino secondo i loro casati. La seconda parte sorteggiata toccò a Simeone alla tribù dei figli di Simeone secondo i lor o casati. La loro eredità è in mezzo a quella dei figli di Giuda. Ebbero nel loro territorio: Bersabe a Seba Moladà Casar-Sual, Bala Esem Eltolàd Betul Corma Siklag Bet-Marcabòt, Casar-Susa Bet-Lebaòt e Saruchèn: tredici città e i loro villaggi; En Rimmon Eter e Asan: quattro città e i loro vill aggi; tutti i villaggi che stanno intorno a queste città fino a Baalàt-Beer Ramat-Negheb. Questa è l’eredità della tribù dei figli di Simeone secondo i loro casati. L’eredità dei figli di Simeone fu presa dalla parte dei figli di Giuda, perché la parte dei figli di Giuda era troppo gr ande per loro; perciò i figli di Simeone ebbero la loro eredità in mezzo all’eredità di quelli. @@
La terza parte sorteggiata toccò ai figli di Zàbulon secondo i loro casati. Il confine del loro territo rio si estendeva fino a Sarid. Questo confine saliva a occidente verso Maralà e giungeva a Dabbe set e poi toccava il torrente che è di fronte a Iokneàm. Da Sarid girava a oriente dove sorge il sol e sino al confine di Chislot-Tabor; poi continuava verso Daberàt e saliva a Iafìa. Di là passava verso oriente, dove sorge il so le per Gat-Chefer per Et-Kasìn usciva verso Rimmon girando fino a Nea. Poi il confine piegava dal lato di settentrione ver so Cannatòn e faceva capo alla valle d’Iftach-El. Esso includeva inoltre Kattat Naalàl Simron Idalà e Betlemme: dodici città e i loro villaggi. Qu esta fu l’eredità dei figli di Zàbulon secondo i loro casati: queste città e i loro villaggi. La quarta p arte sorteggiata toccò a ìssacar ai figli d’ìssacar, secondo i loro casati. Il loro territorio comprend eva: Izreèl Chesullòt, Sunem Cafaràim Sion Anacaràt Rabbit Kisiòn, Abes Remet En-Gannìm En-Caddà e Bet-Passes. Poi il confine giungeva a Tabor Sacasìm Bet-Semes e faceva capo al Giordano: sedici città e i loro villaggi. Questa fu l’eredità della tribù dei fi gli d’ìssacar secondo i loro casati: queste città e i loro villaggi. La quinta parte sorteggiata toccò ai figli di Aser secondo i loro casati. Il loro territorio comprendeva: Chelkat Calì Beten Acsaf, Ala mmèlec Amad Misal. Il loro confine giungeva verso occidente al Carmelo e a Sicor-
Libnat. Poi piegava dal lato dove sorge il sole verso Bet-Dagon toccava Zàbulon e la valle di Iftach-El a settentrione Bet-Emek e Neièl e si prolungava verso Cabul a sinistra e verso Ebron Recob Cammon e Kana fino a Sidone la Grande. Poi il confine piegava verso Rama fino alla fortezza di Tiro girava verso Cosa e faceva capo al mare incluse Mecallèb Aczib Acco Afek e Recob: ventidue città e i loro villaggi. Q
uesta fu l’eredità della tribù dei figli di Aser secondo i loro casati: queste città e i loro villaggi. La sesta parte sorteggiata toccò ai figli di Nèftali secondo i loro casati. Il loro confine si estendeva d a Chelef e dalla Quercia di Saanannìm ad Adamì-
Nekeb e Iabneèl fino a Lakkum e faceva capo al Giordano; poi il confine piegava a occidente ver so Aznot-Tabor e di là continuava verso Cukok giungeva a Zàbulon dal lato di mezzogiorno ad Aser dal lat o di ponente e a Giuda del Giordano dal lato di levante. Le fortezze erano Siddìm Ser Cammat R
akkat Chinneret Adamà Rama Asor, Kedes Edrei En-Asor Iron Migdal-El Corem Bet-Anat e Bet-Semes: diciannove città e i loro villaggi. Questa fu l’eredità della tribù dei figli di Nèftali secondo i loro casati: queste città e i loro villaggi. La settima parte sorteggiata toccò alla tribù dei figli di Dan secondo i loro casati. Il confine della loro eredità comprendeva Sorea Estaòl Ir-Semes, Saalabbìn àialon Itla Elon Timna Ekron, Eltekè Ghibbetòn Baalàt Ieud Bene-Berak, Gat-Rimmon Me-
Iarkon e Rakkon con il territorio di fronte a Giaffa. Ma il territorio dei figli di Dan si estese più lo ntano perché i figli di Dan andarono a combattere contro Lesem; la presero e la passarono a fil di spada ne presero possesso vi si stabilirono e la chiamarono Dan dal nome di Dan loro caposti pite. Questa fu l’eredità della tribù dei figli di Dan secondo i loro casati: queste città e i loro villa ggi. Quando gli Israeliti ebbero finito di distribuire in eredità la terra secondo i suoi confini diede ro a Giosuè figlio di Nun una proprietà in mezzo a loro. Secondo l’ordine del Signore gli diedero l a città che egli chiese: Timnat-Serach sulle montagne di èfraim. Egli costruì la città e vi stabilì la sua dimora. Tali sono le eredit à che il sacerdote Eleàzaro Giosuè figlio di Nun e i capifamiglia delle tribù degli Israeliti distribuir ono a sorte a Silo davanti al Signore, all’ingresso della tenda del convegno. Così portarono a ter mine la divisione della terra. Il Signore disse a Giosuè: «Di’ agli Israeliti: Sceglietevi le città di asil o come vi avevo ordinato per mezzo di Mosè, perché l’omicida che avrà ucciso qualcuno per err ore o per inavvertenza, vi si possa rifugiare. Vi serviranno di rifugio contro il vendicatore del san gue. Se qualcuno cerca asilo in una di queste città fermatosi all’ingresso della porta della città, e sporrà il suo caso agli anziani di quella città. Se costoro lo accoglieranno presso di sé dentro la ci ttà gli assegneranno una dimora ed egli si stabilirà in mezzo a loro. Se il vendicatore del sangue l o insegue essi non abbandoneranno nelle sue mani l’omicida perché ha ucciso il prossimo per in avvertenza e senza averlo prima odiato. L’omicida abiterà in quella città finché comparirà in giu dizio davanti alla comunità. Alla morte del sommo sacerdote in carica in quel tempo l’omicida p otrà tornarsene e rientrare nella sua città e nella sua casa nella città da dove era fuggito». Allor
a consacrarono Kedes in Galilea sulle montagne di Nèftali Sichem sulle montagne di èfraim e Kir iat-Arbà ossia Ebron sulle montagne di Giuda. Oltre il Giordano a oriente di Gerico stabilirono Beser sull’altopiano desertico nella tribù di Ruben, Ramot in Gàlaad nella tribù di Gad e Golan in Basa n nella tribù di Manasse. Queste furono le città stabilite per tutti gli Israeliti e per lo straniero di morante in mezzo a loro perché chiunque avesse ucciso qualcuno per errore potesse rifugiarvisi e non morisse per mano del vendicatore del sangue prima d’essere comparso davanti alla com unità. I capifamiglia dei leviti si presentarono al sacerdote Eleàzaro a Giosuè figlio di Nun e ai ca pifamiglia delle tribù degli Israeliti e dissero loro a Silo nella terra di Canaan: «Il Signore ha coma ndato per mezzo di Mosè che ci fossero date città da abitare, con i loro pascoli per il nostro best iame». Allora gli Israeliti secondo il comando del Signore diedero ai leviti le seguenti città con i l oro pascoli prendendole dalla loro eredità. Si tirò a sorte per i casati dei Keatiti. Ai leviti figli del sacerdote Aronne, toccarono in sorte tredici città della tribù di Giuda della tribù di Simeone e d ella tribù di Beniamino. Al resto dei Keatiti toccarono in sorte dieci città dei casati della tribù di èfraim della tribù di Dan e di metà della tribù di Manasse. Ai figli di Gherson toccarono in sorte t redici città dei casati della tribù di ìssacar della tribù di Aser della tribù di Nèftali e di metà della tribù di Manasse in Basan. Ai figli di Merarì secondo i loro casati, toccarono dodici città della tri bù di Ruben della tribù di Gad e della tribù di Zàbulon. Gli Israeliti dunque assegnarono per sort eggio ai leviti queste città con i loro pascoli come il Signore aveva comandato per mezzo di Mos è. Della tribù dei figli di Giuda e della tribù dei figli di Simeone assegnarono le città qui nominat e. Esse toccarono ai leviti figli d’Aronne dei casati dei Keatiti perché il primo sorteggio fu per lor o. Furono dunque date loro Kiriat-Arbà padre di Anak ossia Ebron sulle montagne di Giuda con i suoi pascoli tutt’intorno; ma died ero in possesso a Caleb figlio di Iefunnè i campi di questa città e i villaggi circostanti. Diedero du nque ai figli del sacerdote Aronne Ebron città di asilo per l’omicida con i suoi pascoli Libna e i su oi pascoli Iattir e i suoi pascoli Estemòa e i suoi pascoli Colon e i suoi pascoli Debir e i suoi pascol i, Ain e i suoi pascoli Iutta e i suoi pascoli Bet-Semes e i suoi pascoli: nove città di queste tribù. Della tribù di Beniamino Gàbaon e i suoi pasco li Gheba e i suoi pascoli, Anatòt e i suoi pascoli Almon e i suoi pascoli: quattro città. Totale delle città dei sacerdoti figli d’Aronne: tredici città e i loro pascoli. Ai casati dei Keatiti cioè al resto dei leviti figli di Keat toccarono città della tribù di èfraim. Fu loro data come città di asilo per l’omici da Sichem e i suoi pascoli sulle montagne di èfraim; poi Ghezer e i suoi pascoli, Kibsàim e i suoi pascoli Bet-Oron e i suoi pascoli: quattro città. Della tribù di Dan: Eltekè e i suoi pascoli Ghibbetòn e i suoi p ascoli, àialon e i suoi pascoli Gat-Rimmon e i suoi pascoli: quattro città. Di metà della tribù di Manasse: Taanac e i suoi pascoli Ibl eàm e i suoi pascoli: due città. Totale: dieci città con i loro pascoli che toccarono ai casati degli a ltri figli di Keat. Ai figli di Gherson che erano tra i casati dei leviti furono date di metà della tribù
di Manasse come città di asilo per l’omicida Golan in Basan e i suoi pascoli, Astaròt con i suoi pa scoli: due città della tribù d’ìssacar Kisiòn e i suoi pascoli Daberàt e i suoi pascoli, Iarmut e i suoi pascoli En-Gannìm e i suoi pascoli: quattro città della tribù di Aser Misal e i suoi pascoli Abdon e i suoi pasc oli, Chelkat e i suoi pascoli Recob e i suoi pascoli: quattro città della tribù di Nèftali come città di asilo per l’omicida Kedes in Galilea e i suoi pascoli Cammòt-Dor e i suoi pascoli Kartan con i suoi pascoli: tre città. Totale delle città dei Ghersoniti secondo i loro casati: tredici città e i loro pascoli. Ai casati dei figli di Merarì cioè al resto dei leviti furono d ate della tribù di Zàbulon Iokneàm e i suoi pascoli Karta e i suoi pascoli, Dimna e i suoi pascoli N
aalàl e i suoi pascoli: quattro città della tribù di Ruben come città di asilo per l’omicida Beser e i suoi pascoli Iaas e i suoi pascoli Kedemòt e i suoi pascoli Mefàat e i suoi pascoli: quattro città de lla tribù di Gad come città di asilo per l’omicida Ramot in Gàlaad e i suoi pascoli Macanàim e i su oi pascoli, Chesbon e i suoi pascoli Iazer e i suoi pascoli: in tutto quattro città. Totale delle città date in sorte ai figli di Merarì secondo i loro casati, cioè il resto dei casati dei leviti: dodici città.
Totale delle città dei leviti in mezzo ai possessi degli Israeliti: quarantotto città e i loro pascoli. Ci ascuna di queste città comprendeva la città e il suo pascolo intorno: così di tutte queste città. Il Signore assegnò dunque a Israele tutta la terra che aveva giurato ai padri di dar loro e gli Israelit i ne presero possesso e vi si stabilirono. Il Signore diede loro tranquillità all’intorno come aveva giurato ai loro padri; nessuno tra tutti i loro nemici poté resistere loro: il Signore consegnò nelle loro mani tutti quei nemici. Non una parola cadde di tutte le promesse che il Signore aveva fatt o alla casa d’Israele: tutto si è compiuto. In quel tempo Giosuè convocò quelli di Ruben e di Gad e la metà della tribù di Manasse e disse loro: «Voi avete adempiuto quanto Mosè servo del Sign ore vi aveva ordinato e avete ascoltato la mia voce in tutto quello che io vi ho comandato. Non avete abbandonato i vostri fratelli durante questo lungo tempo fino ad oggi e avete osservato s crupolosamente il comandamento del Signore vostro Dio. Ora che il Signore vostro Dio ha dato tranquillità ai vostri fratelli come aveva loro promesso tornate e andatevene alle vostre tende n ella terra di vostra proprietà che Mosè servo del Signore vi ha assegnato a oriente del Giordano.
Tuttavia abbiate gran cura di eseguire il comandamento e la legge che Mosè, servo del Signore vi ha dato: amare il Signore vostro Dio camminare in tutte le sue vie osservare i suoi comandam enti aderire a lui e servirlo con tutto il vostro cuore e con tutta la vostra anima». Poi Giosuè li be nedisse e li congedò ed essi tornarono alle loro tende. Mosè aveva dato a metà della tribù di M
anasse un possesso in Basan e Giosuè diede all’altra metà un possesso tra i loro fratelli al di qua del Giordano a occidente. Anche costoro Giosuè rimandò alle loro tende e li benedisse. Disse lo ro: «Tornate alle vostre tende con grandi ricchezze con bestiame molto numeroso con argento oro, bronzo ferro e una grande quantità di vesti; dividete con i vostri fratelli il bottino tolto ai vo stri nemici». I figli di Ruben e di Gad e la metà della tribù di Manasse tornarono. Lasciarono gli Is raeliti a Silo nella terra di Canaan per andare nel territorio di Gàlaad la terra di loro proprietà ch e avevano ricevuto in possesso secondo il comando del Signore per mezzo di Mosè. Giunti a Gh
elilòt del Giordano nella terra di Canaan i Rubeniti e i Gaditi e la metà della tribù di Manasse vi c ostruirono un altare presso il Giordano: un altare grande ben visibile. Gli Israeliti udirono che si diceva: «Ecco Rubeniti Gaditi e metà della tribù di Manasse hanno costruito un altare di fronte alla terra di Canaan a Ghelilòt del Giordano dalla parte degli Israeliti». Quando gli Israeliti venne ro a saperlo, riunirono tutta la loro comunità a Silo per muover loro guerra. Gli Israeliti inviaron o Fineès figlio del sacerdote Eleàzaro nel territorio di Gàlaad ai Rubeniti ai Gaditi e alla metà del la tribù di Manasse e con lui dieci capi un capo per ciascun casato di tutte le tribù d’Israele: tutti erano capi di un casato fra i gruppi di migliaia d’Israele. Quando giunsero da quelli di Ruben di Gad e di metà della tribù di Manasse nel territorio di Gàlaad dissero loro: «Così dice tutta la co munità del Signore: “Che cos’è questa infedeltà che avete commesso contro il Dio d’Israele sme ttendo oggi di seguire il Signore, con la costruzione di un altare per ribellarvi oggi al Signore? No n ci basta forse la colpa di Peor dalla quale non ci siamo ancora purificati oggi e che ha attirato quel flagello sulla comunità del Signore? Voi oggi avete smesso di seguire il Signore! Poiché oggi vi siete ribellati al Signore domani egli si adirerà contro tutta la comunità d’Israele. Se la terra d el vostro possesso è impura ebbene passate pure nella terra che è possesso del Signore dove st a la Dimora del Signore e stabilitevi in mezzo a noi; ma non ribellatevi al Signore e non rendetec i complici di ribellione costruendovi un altare oltre l’altare del Signore nostro Dio. Quando Acan figlio di Zerach commise un’infrazione contro lo sterminio, l’ira del Signore non venne forse su t utta la comunità d’Israele sebbene fosse un individuo solo? Non morì forse per la sua colpa?”».
Allora quelli di Ruben di Gad e la metà della tribù di Manasse risposero così ai capi delle migliaia d’Israele: «Dio degli dèi è il Signore! Dio degli dèi è il Signore! Egli lo sa ma lo sappia anche Israe le. Se abbiamo agito con ribellione o con infedeltà verso il Signore egli non ci salvi oggi stesso! S
e abbiamo costruito un altare per smettere di seguire il Signore per offrirvi olocausti od oblazio ni e per farvi sacrifici di comunione il Signore stesso ce ne chieda conto! Non è così! L’abbiamo f atto perché siamo preoccupati che in avvenire i vostri figli potrebbero dire ai nostri: “Che avete in comune voi con il Signore Dio d’Israele? Il Signore ha posto il Giordano come confine tra noi e voi figli di Ruben e di Gad; voi non avete parte alcuna con il Signore!”. Così i vostri figli farebber o desistere i nostri figli dal temere il Signore. Perciò ci siamo detti: Costruiamo questo altare no n per olocausti o per sacrifici ma perché sia testimonianza fra noi e voi e fra i nostri discendenti dopo di noi che vogliamo compiere il nostro servizio al Signore davanti a lui con i nostri olocaust i con le nostre vittime e con i nostri sacrifici di comunione. Così i vostri figli non potranno un do mani dire ai nostri: “Voi non avete parte con il Signore”. Ci siamo detti: Se in avvenire essi diran no questo a noi o ai nostri discendenti risponderemo: “Guardate la forma dell’altare del Signore che i nostri padri hanno costruito non per olocausti o per sacrifici ma perché fosse testimonian za fra noi e voi”. Lontano da noi l’idea di ribellarci al Signore e di smettere oggi di seguirlo, costr uendo un altare per olocausti offerte e sacrifici oltre l’altare del Signore nostro Dio che è davant i alla sua Dimora!». Quando il sacerdote Fineès i capi della comunità e i comandanti delle migliai a d’Israele che l’accompagnavano udirono le parole degli uomini di Ruben di Gad e di Manasse
esse parvero buone ai loro occhi. Fineès figlio del sacerdote Eleàzaro disse a quelli di Ruben di G
ad e di Manasse: «Oggi sappiamo che il Signore è in mezzo a noi poiché non avete commesso q uesta infedeltà verso il Signore. Avete così liberato gli Israeliti dalla mano del Signore». Fineès fi glio del sacerdote Eleàzaro e i capi lasciarono quelli di Ruben e di Gad e tornarono dal territorio di Gàlaad alla terra di Canaan presso gli Israeliti ai quali riferirono l’accaduto. La cosa parve buo na agli occhi degli Israeliti i quali benedissero Dio e non parlarono più di muover guerra contro quelli di Ruben e di Gad per devastare il territorio che essi abitavano. Quelli di Ruben e di Gad c hiamarono quell’altare Testimonianza, perché dissero: «è una testimonianza fra noi che il Signo re è Dio». Molto tempo dopo che il Signore aveva dato tregua a Israele da tutti i nemici che lo ci rcondavano Giosuè ormai vecchio e molto avanti negli anni convocò tutto Israele gli anziani i ca pi i giudici e gli scribi e disse loro: «Io sono vecchio molto avanti negli anni. Voi avete visto quan to il Signore vostro Dio ha fatto a tutte queste nazioni, scacciandole dinanzi a voi. Il Signore stes so vostro Dio ha combattuto per voi. Guardate: ho ripartito tra voi a sorte come eredità per le v ostre tribù queste nazioni rimanenti – oltre a tutte quelle che ho sterminato –
dal Giordano fino al Mare Grande a occidente. Il Signore vostro Dio le disperderà egli stesso din anzi a voi e le scaccerà dinanzi a voi e voi prenderete possesso dei loro territori come il Signore vostro Dio vi ha promesso. Siate forti nell’osservare e mettere in pratica quanto è scritto nel libr o della legge di Mosè senza deviare da esso né a destra né a sinistra senza mescolarvi con quest e nazioni che rimangono fra voi. Non invocate i loro dèi. Non giurate su di loro. Non serviteli e n on prostratevi davanti a loro. Restate invece fedeli al Signore vostro Dio come avete fatto fino a d oggi. Il Signore ha scacciato dinanzi a voi nazioni grandi e potenti; nessuno ha potuto resistere a voi fino ad oggi. Uno solo di voi ne inseguiva mille, perché il Signore vostro Dio ha combattut o per voi come vi aveva promesso. Abbiate gran cura per la vostra vita di amare il Signore vostr o Dio. Perché se vi volgete indietro e vi unite al resto di queste nazioni che sono rimaste fra voi e vi imparentate con loro e vi mescolate con esse ed esse con voi sappiate bene che il Signore v ostro Dio non scaccerà più queste nazioni dinanzi a voi. Esse diventeranno per voi una rete e un a trappola flagello ai vostri fianchi e spine nei vostri occhi finché non sarete spazzati via da ques to terreno buono che il Signore, vostro Dio vi ha dato. Ecco io oggi me ne vado per la via di ogni abitante della terra; riconoscete con tutto il vostro cuore e con tutta la vostra anima che non è caduta neppure una parola di tutte le promesse che il Signore vostro Dio aveva fatto per voi. Tu tte si sono compiute per voi: neppure una parola è caduta. Ma come è giunta a compimento pe r voi ogni promessa che il Signore vostro Dio vi aveva fatto così il Signore porterà a compimento contro di voi tutte le minacce finché vi abbia eliminato da questo terreno buono che il Signore vostro Dio vi ha dato. Se trasgredirete l’alleanza che il Signore vostro Dio vi ha imposto andando a servire altri dèi e prostrandovi davanti a loro l’ira del Signore si accenderà contro di voi e voi s arete spazzati via dalla terra buona che egli vi ha dato». Giosuè radunò tutte le tribù d’Israele a Sichem e convocò gli anziani d’Israele i capi i giudici e gli scribi ed essi si presentarono davanti a Dio. Giosuè disse a tutto il popolo: «Così dice il Signore Dio d’Israele: “Nei tempi antichi i vostri
padri tra cui Terach padre di Abramo e padre di Nacor abitavano oltre il Fiume. Essi servivano al tri dèi. Io presi Abramo vostro padre da oltre il Fiume e gli feci percorrere tutta la terra di Canaa n. Moltiplicai la sua discendenza e gli diedi Isacco. A Isacco diedi Giacobbe ed Esaù assegnai a Es aù il possesso della zona montuosa di Seir mentre Giacobbe e i suoi figli scesero in Egitto. In seg uito mandai Mosè e Aronne e colpii l’Egitto con le mie azioni in mezzo a esso e poi vi feci uscire.
Feci uscire dall’Egitto i vostri padri e voi arrivaste al mare. Gli Egiziani inseguirono i vostri padri con carri e cavalieri fino al Mar Rosso ma essi gridarono al Signore che pose fitte tenebre fra voi e gli Egiziani; sospinsi sopra di loro il mare che li sommerse: i vostri occhi hanno visto quanto fe ci in Egitto. Poi dimoraste lungo tempo nel deserto. Vi feci entrare nella terra degli Amorrei che abitavano ad occidente del Giordano. Vi attaccarono ma io li consegnai in mano vostra; voi pren deste possesso della loro terra e io li distrussi dinanzi a voi. In seguito Balak figlio di Sippor re di Moab si levò e attaccò Israele. Mandò a chiamare Balaam figlio di Beor perché vi maledicesse.
Ma io non volli ascoltare Balaam ed egli dovette benedirvi. Così vi liberai dalle sue mani. Attrave rsaste il Giordano e arrivaste a Gerico. Vi attaccarono i signori di Gerico gli Amorrei i Perizziti i C
ananei gli Ittiti i Gergesei gli Evei e i Gebusei ma io li consegnai in mano vostra. Mandai i calabro ni davanti a voi per sgominare i due re amorrei non con la tua spada né con il tuo arco. Vi diedi una terra che non avevate lavorato abitate in città che non avete costruito e mangiate i frutti di vigne e oliveti che non avete piantato”. Ora dunque temete il Signore e servitelo con integrità e fedeltà. Eliminate gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume e in Egitto e servite il Sign ore. Se sembra male ai vostri occhi servire il Signore sceglietevi oggi chi servire: se gli dèi che i v ostri padri hanno servito oltre il Fiume oppure gli dèi degli Amorrei nel cui territorio abitate. Qu anto a me e alla mia casa serviremo il Signore». Il popolo rispose: «Lontano da noi abbandonare il Signore per servire altri dèi! Poiché è il Signore nostro Dio che ha fatto salire noi e i padri nost ri dalla terra d’Egitto dalla condizione servile; egli ha compiuto quei grandi segni dinanzi ai nostr i occhi e ci ha custodito per tutto il cammino che abbiamo percorso e in mezzo a tutti i popoli fr a i quali siamo passati. Il Signore ha scacciato dinanzi a noi tutti questi popoli e gli Amorrei che a bitavano la terra. Perciò anche noi serviremo il Signore perché egli è il nostro Dio». Giosuè disse al popolo: «Voi non potete servire il Signore perché è un Dio santo è un Dio geloso; egli non per donerà le vostre trasgressioni e i vostri peccati. Se abbandonerete il Signore e servirete dèi stra nieri egli vi si volterà contro e dopo avervi fatto tanto bene vi farà del male e vi annienterà». Il p opolo rispose a Giosuè: «No! Noi serviremo il Signore». Giosuè disse allora al popolo: «Voi siete testimoni contro voi stessi che vi siete scelti il Signore per servirlo!». Risposero: «Siamo testimo ni!». «Eliminate allora gli dèi degli stranieri che sono in mezzo a voi e rivolgete il vostro cuore al Signore Dio d’Israele!». Il popolo rispose a Giosuè: «Noi serviremo il Signore nostro Dio e ascolt eremo la sua voce!». Giosuè in quel giorno concluse un’alleanza per il popolo e gli diede uno sta tuto e una legge a Sichem. Scrisse queste parole nel libro della legge di Dio. Prese una grande pi etra e la rizzò là sotto la quercia che era nel santuario del Signore. Infine Giosuè disse a tutto il p opolo: «Ecco: questa pietra sarà una testimonianza per noi perché essa ha udito tutte le parole
che il Signore ci ha detto; essa servirà quindi da testimonianza per voi perché non rinneghiate il vostro Dio». Poi Giosuè congedò il popolo ciascuno alla sua eredità. Dopo questi fatti Giosuè figl io di Nun servo del Signore morì a centodieci anni e lo seppellirono nel territorio della sua eredi tà a Timnat-Serach sulle montagne di èfraim a settentrione del monte Gaas. Israele servì il Signore in tutti i giorni di Giosuè e degli anziani che sopravvissero a Giosuè e che conoscevano tutte le opere che il Signore aveva compiuto per Israele. Gli Israeliti seppellirono le ossa di Giuseppe che avevano portato dall’Egitto a Sichem in una parte della campagna che Giacobbe aveva acquistato dai figli di Camor padre di Sichem per cento pezzi d’argento e che i figli di Giuseppe avevano ricevuto in eredità. Morì anche Eleàzaro figlio di Aronne. Lo seppellirono a Gàbaa che apparteneva a Fineè s suo figlio in quanto era stata assegnata a lui nella zona montuosa di èfraim. Dopo la morte di Giosuè gli Israeliti consultarono il Signore dicendo: «Chi di noi salirà per primo a combattere co ntro i Cananei?». Il Signore rispose: «Salirà Giuda: ecco ho messo la terra nelle sue mani». Allor a Giuda disse a suo fratello Simeone: «Sali con me nel territorio che mi è toccato in sorte e com battiamo contro i Cananei; poi anch’io verrò con te in quello che ti è toccato in sorte». Simeone andò con lui. Giuda dunque salì e il Signore mise nelle loro mani i Cananei e i Perizziti; sconfisser o a Bezek diecimila uomini. A Bezek trovarono Adonì-
Bezek, l’attaccarono e sconfissero i Cananei e i Perizziti. Adonì-
Bezek fuggì ma essi lo inseguirono lo catturarono e gli amputarono i pollici e gli alluci. Adonì-
Bezek disse: «Settanta re con i pollici e gli alluci amputati, raccattavano gli avanzi sotto la mia ta vola. Dio mi ripaga quel che ho fatto». Lo condussero poi a Gerusalemme dove morì. I figli di Gi uda attaccarono Gerusalemme e la presero; la passarono a fil di spada e l’abbandonarono alle fi amme. Poi essi discesero a combattere contro i Cananei che abitavano la montagna il Negheb e la Sefela. Giuda marciò contro i Cananei che abitavano a Ebron che prima si chiamava Kiriat-Arbà e sconfisse Sesài Achimàn e Talmài. Di là andò contro gli abitanti di Debir che prima si chia mava Kiriat-Sefer. Disse allora Caleb: «A chi colpirà Kiriat-Sefer e la prenderà io darò in moglie mia figlia Acsa». La prese Otnièl figlio di Kenaz fratello min ore di Caleb; a lui diede in moglie sua figlia Acsa. Ora mentre andava dal marito ella lo convinse a chiedere a suo padre un campo. Scese dall’asino e Caleb le disse: «Che hai?». Ella rispose: «Co ncedimi un favore; poiché tu mi hai dato una terra arida dammi anche qualche fonte d’acqua».
Caleb le donò la sorgente superiore e la sorgente inferiore. I figli del suocero di Mosè il Kenita s alirono dalla città delle palme con i figli di Giuda nel deserto di Giuda a mezzogiorno di Arad; an darono e abitarono con quel popolo. Poi Giuda marciò con suo fratello Simeone: sconfissero i C
ananei che abitavano a Sefat e votarono allo sterminio la città che fu chiamata Corma. Giuda pr ese anche Gaza con il suo territorio àscalon con il suo territorio ed Ekron con il suo territorio. Il Signore fu con Giuda che scacciò gli abitanti delle montagne ma non poté scacciare gli abitanti d ella pianura perché avevano carri di ferro. Come Mosè aveva ordinato Ebron fu data a Caleb che scacciò da essa i tre figli di Anak. I figli di Beniamino non scacciarono i Gebusei che abitavano G

erusalemme perciò i Gebusei abitano con i figli di Beniamino a Gerusalemme ancora oggi. La ca sa di Giuseppe salì anch’essa ma contro Betel e il Signore fu con loro. La casa di Giuseppe mand ò a esplorare Betel città che prima si chiamava Luz. Gli esploratori videro un uomo che usciva da lla città e gli dissero: «Insegnaci una via di accesso alla città e noi ti faremo grazia». Egli insegnò loro la via di accesso alla città ed essi passarono la città a fil di spada ma risparmiarono quell’uo mo con tutta la sua famiglia. Quell’uomo andò nella terra degli Ittiti e vi edificò una città che chi amò Luz: questo è il suo nome fino ad oggi. Manasse non scacciò gli abitanti di Bet-Sean e delle sue dipendenze né quelli di Taanac e delle sue dipendenze né quelli di Dor e delle s ue dipendenze né quelli d’Ibleàm e delle sue dipendenze né quelli di Meghiddo e delle sue dipe ndenze; i Cananei continuarono ad abitare in quella regione. Quando Israele divenne più forte c ostrinse al lavoro coatto i Cananei ma non li scacciò del tutto. Nemmeno èfraim scacciò i Canan ei che abitavano a Ghezer perciò i Cananei abitarono a Ghezer in mezzo a èfraim. Zàbulon non s cacciò gli abitanti di Kitron né gli abitanti di Naalòl; i Cananei abitarono in mezzo a Zàbulon e fur ono costretti al lavoro coatto. Aser non scacciò gli abitanti di Acco né gli abitanti di Sidone né qu elli di Aclab di Aczib di Chelba di Afik di Recob; i figli di Aser si stabilirono in mezzo ai Cananei ch e abitavano la regione perché non li avevano scacciati. Nèftali non scacciò gli abitanti di Bet-Semes né gli abitanti di Bet-
Anat e si stabilì in mezzo ai Cananei che abitavano la regione; ma gli abitanti di Bet-Semes e di Bet-
Anat furono da loro costretti al lavoro coatto. Gli Amorrei respinsero i figli di Dan sulla montagn a e non li lasciarono scendere nella pianura. Gli Amorrei continuarono ad abitare ad Ar-Cheres àialon e Saalbìm ma la mano della casa di Giuseppe si aggravò su di loro e furono costret ti al lavoro coatto. Il confine degli Amorrei si estendeva dalla salita di Akrabbìm da Sela in su. Or a l’angelo del Signore salì da Gàlgala a Bochìm e disse: «Io vi ho fatto uscire dall’Egitto e vi ho fa tto entrare nella terra che avevo giurato ai vostri padri di darvi. Avevo anche detto: “Non infran gerò mai la mia alleanza con voi e voi non farete alleanza con gli abitanti di questa terra; distrug gerete i loro altari”. Ma voi non avete obbedito alla mia voce. Che cosa avete fatto? Perciò anch
’io dico: non li scaccerò dinanzi a voi; ma essi vi staranno ai fianchi e i loro dèi saranno per voi u na trappola». Appena l’angelo del Signore ebbe detto queste parole a tutti gli Israeliti il popolo alzò la voce e pianse. Chiamarono quel luogo Bochìm e là offrirono sacrifici al Signore. Quando Giosuè ebbe congedato il popolo gli Israeliti se ne andarono ciascuno nella sua eredità a prende re in possesso la terra. Il popolo servì il Signore durante tutta la vita di Giosuè e degli anziani ch e sopravvissero a Giosuè e che avevano visto tutte le grandi opere che il Signore aveva fatto in f avore d’Israele. Poi Giosuè figlio di Nun servo del Signore morì a centodieci anni e fu sepolto nel territorio della sua eredità a Timnat-Cheres sulle montagne di èfraim a settentrione del monte Gaas. Anche tutta quella generazione fu riunita ai suoi padri; dopo di essa ne sorse un’altra che non aveva conosciuto il Signore né l’o pera che aveva compiuto in favore d’Israele. Gli Israeliti fecero ciò che è male agli occhi del Sign
ore e servirono i Baal; abbandonarono il Signore Dio dei loro padri che li aveva fatti uscire dalla terra d’Egitto e seguirono altri dèi tra quelli dei popoli circostanti: si prostrarono davanti a loro e provocarono il Signore abbandonarono il Signore e servirono Baal e le Astarti. Allora si accese l’ira del Signore contro Israele e li mise in mano a predatori che li depredarono; li vendette ai ne mici che stavano loro intorno ed essi non potevano più tener testa ai nemici. In tutte le loro spe dizioni la mano del Signore era per il male, contro di loro come il Signore aveva detto come il Sig nore aveva loro giurato: furono ridotti all’estremo. Allora il Signore fece sorgere dei giudici che l i salvavano dalle mani di quelli che li depredavano. Ma neppure ai loro giudici davano ascolto a nzi si prostituivano ad altri dèi e si prostravano davanti a loro. Abbandonarono ben presto la via seguita dai loro padri i quali avevano obbedito ai comandi del Signore: essi non fecero così. Qu ando il Signore suscitava loro dei giudici il Signore era con il giudice e li salvava dalla mano dei lo ro nemici durante tutta la vita del giudice perché il Signore si muoveva a compassione per i loro gemiti davanti a quelli che li opprimevano e li maltrattavano. Ma quando il giudice moriva torna vano a corrompersi più dei loro padri seguendo altri dèi per servirli e prostrarsi davanti a loro: n on desistevano dalle loro pratiche e dalla loro condotta ostinata. Perciò l’ira del Signore si acces e contro Israele e disse: «Poiché questa nazione ha violato l’alleanza che avevo stabilito con i lor o padri e non hanno obbedito alla mia voce anch’io non scaccerò più dinanzi a loro nessuno dei popoli che Giosuè lasciò quando morì. Così per mezzo loro metterò alla prova Israele per veder e se custodiranno o no la via del Signore camminando in essa come la custodirono i loro padri».
Il Signore lasciò sussistere quelle nazioni senza affrettarsi a scacciarle e non le consegnò nelle m ani di Giosuè. Queste sono le nazioni che il Signore lasciò sussistere allo scopo di mettere alla pr ova per mezzo loro Israele cioè quanti non avevano visto tutte le guerre di Canaan. Ciò avvenne soltanto per istruire le nuove generazioni degli Israeliti per insegnare loro la guerra perché pri ma non l’avevano mai conosciuta: i cinque prìncipi dei Filistei tutti i Cananei quelli di Sidone e gl i Evei che abitavano le montagne del Libano, dal monte Baal-Ermon fino all’ingresso di Camat. Queste nazioni servirono a mettere Israele alla prova per vede re se Israele avrebbe obbedito ai comandi che il Signore aveva dato ai loro padri per mezzo di M
osè. Così gli Israeliti abitarono in mezzo ai Cananei agli Ittiti, agli Amorrei ai Perizziti agli Evei e ai Gebusei; ne presero in moglie le figlie fecero sposare le proprie figlie con i loro figli e servirono i loro dèi. Gli Israeliti fecero ciò che è male agli occhi del Signore; dimenticarono il Signore loro Dio e servirono i Baal e le Asere. L’ira del Signore si accese contro Israele e li consegnò nelle ma ni di Cusan-Risatàim re di Aram Naharàim; gli Israeliti furono servi di Cusan-Risatàim per otto anni. Poi gli Israeliti gridarono al Signore e il Signore fece sorgere per loro un s alvatore Otnièl figlio di Kenaz fratello minore di Caleb e li salvò. Lo spirito del Signore fu su di lui ed egli fu giudice d’Israele. Uscì a combattere e il Signore gli consegnò nelle mani Cusan-Risatàim re di Aram; la sua mano fu potente contro Cusan-
Risatàim. La terra rimase tranquilla per quarant’anni poi Otnièl figlio di Kenaz morì. Gli Israeliti r ipresero a fare ciò che è male agli occhi del Signore; il Signore rese forte Eglon re di Moab contr
o Israele perché facevano ciò che è male agli occhi del Signore. Eglon radunò intorno a sé gli Am moniti e gli Amaleciti fece una spedizione contro Israele lo batté e occuparono la città delle pal me. Gli Israeliti furono servi di Eglon re di Moab per diciotto anni. Poi gridarono al Signore ed eg li fece sorgere per loro un salvatore Eud figlio di Ghera Beniaminita che era mancino. Gli Israeliti mandarono per mezzo di lui un tributo a Eglon re di Moab. Eud si fece una spada a due tagli, lu nga un gomed, e se la cinse sotto la veste al fianco destro. Poi presentò il tributo a Eglon re di M
oab che era un uomo molto grasso. Finita la presentazione del tributo ripartì con la gente che l’
aveva portato. Ma egli dal luogo detto Idoli che è presso Gàlgala tornò indietro e disse: «O re ho una cosa da dirti in segreto». Il re disse: «Silenzio!» e quanti stavano con lui uscirono. Allora Eu d si accostò al re che stava seduto al piano di sopra riservato a lui solo, per la frescura e gli disse
: «Ho una parola di Dio per te». Quegli si alzò dal suo seggio. Allora Eud allungata la mano sinist ra trasse la spada dal suo fianco e gliela piantò nel ventre. Anche l’elsa entrò con la lama; il gras so si richiuse intorno alla lama. Eud senza estrargli la spada dal ventre uscì dalla finestra passò n el portico dopo aver chiuso i battenti del piano di sopra e aver tirato il chiavistello. Quando fu u scito vennero i servi i quali guardarono e videro che i battenti del piano di sopra erano sprangati
; pensarono: «Certo attende ai suoi bisogni nel camerino della stanza fresca». Aspettarono fino a essere inquieti ma quegli non apriva i battenti del piano di sopra. Allora presero la chiave aprir ono ed ecco che il loro signore era steso per terra morto. Mentre essi indugiavano Eud era fuggi to e dopo aver oltrepassato gli Idoli si era messo in salvo nella Seirà. Appena arrivato là suonò il corno sulle montagne di èfraim e gli Israeliti scesero con lui dalle montagne ed egli si mise alla l oro testa. Disse loro: «Seguitemi perché il Signore vi ha consegnato nelle mani i Moabiti, vostri nemici». Quelli scesero dopo di lui occuparono i guadi del Giordano in direzione di Moab e non l asciarono passare nessuno. In quella circostanza sconfissero circa diecimila Moabiti tutti robusti e valorosi; non ne scampò neppure uno. Così in quel giorno Moab fu umiliato sotto la mano d’I sraele e la terra rimase tranquilla per ottant’anni. Dopo di lui ci fu Samgar figlio di Anat. Egli sco nfisse seicento Filistei con un pungolo da buoi; anch’egli salvò Israele. Eud era morto e gli Israeli ti ripresero a fare ciò che è male agli occhi del Signore. Il Signore li consegnò nelle mani di Iabin re di Canaan che regnava ad Asor. Il capo del suo esercito era Sìsara che abitava a Caroset-Goìm. Gli Israeliti gridarono al Signore perché Iabin aveva novecento carri di ferro e da vent’ann i opprimeva duramente gli Israeliti. In quel tempo era giudice d’Israele una donna una profetess a Dèbora moglie di Lappidòt. Ella sedeva sotto la palma di Dèbora tra Rama e Betel sulle monta gne di èfraim e gli Israeliti salivano da lei per ottenere giustizia. Ella mandò a chiamare Barak figl io di Abinòam da Kedes di Nèftali e gli disse: «Sappi che il Signore, Dio d’Israele ti dà quest’ordin e: “Va’ marcia sul monte Tabor e prendi con te diecimila figli di Nèftali e figli di Zàbulon. Io attir erò verso di te, al torrente Kison Sìsara capo dell’esercito di Iabin con i suoi carri e la sua gente c he è numerosa e lo consegnerò nelle tue mani”». Barak le rispose: «Se vieni anche tu con me an drò ma se non vieni non andrò». Rispose: «Bene verrò con te; però non sarà tua la gloria sulla vi a per cui cammini, perché il Signore consegnerà Sìsara nelle mani di una donna». Dèbora si alzò
e andò con Barak a Kedes. Barak convocò Zàbulon e Nèftali a Kedes; diecimila uomini si misero al suo seguito e Dèbora andò con lui. Cheber il Kenita si era separato dai Keniti discendenti di O
bab suocero di Mosè e aveva piantato le tende alla Quercia di Saannàim che è presso Kedes. Fu riferito a Sìsara che Barak figlio di Abinòam era salito sul monte Tabor. Allora Sìsara radunò tutti i suoi carri novecento carri di ferro e tutta la gente che era con lui da Caroset-Goìm fino al torrente Kison. Dèbora disse a Barak: «àlzati perché questo è il giorno in cui il Signo re ha messo Sìsara nelle tue mani. Il Signore non è forse uscito in campo davanti a te?». Allora B
arak scese dal monte Tabor seguito da diecimila uomini. Il Signore sconfisse davanti a Barak Sìsa ra con tutti i suoi carri e con tutto il suo esercito; Sìsara scese dal carro e fuggì a piedi. Barak ins eguì i carri e l’esercito fino a Caroset-Goìm; tutto l’esercito di Sìsara cadde a fil di spada: non ne scampò neppure uno. Intanto Sìsara era fuggito a piedi verso la tenda di Giaele moglie di Cheber il Kenita perché vi era pace fra Iabin re di Asor e la casa di Cheber il Kenita. Giaele uscì incontro a Sìsara e gli disse: «Férmati mio sig nore, férmati da me: non temere». Egli entrò da lei nella sua tenda ed ella lo nascose con una c operta. Egli le disse: «Dammi da bere un po’ d’acqua perché ho sete». Ella aprì l’otre del latte gli diede da bere e poi lo ricoprì. Egli le disse: «Sta’ all’ingresso della tenda; se viene qualcuno a int errogarti dicendo: “C’è qui un uomo?” dirai: “Nessuno”». Allora Giaele moglie di Cheber prese u n picchetto della tenda impugnò il martello, venne pian piano accanto a lui e gli conficcò il picch etto nella tempia fino a farlo penetrare in terra. Egli era profondamente addormentato e sfinito
; così morì. Ed ecco sopraggiungere Barak che inseguiva Sìsara; Giaele gli uscì incontro e gli disse
: «Vieni e ti mostrerò l’uomo che cerchi». Egli entrò da lei ed ecco Sìsara era steso morto, con il picchetto nella tempia. Così Dio umiliò quel giorno Iabin re di Canaan davanti agli Israeliti. La m ano degli Israeliti si fece sempre più pesante su Iabin re di Canaan, finché ebbero stroncato Iabi n re di Canaan. In quel giorno Dèbora con Barak figlio di Abinòam elevò questo canto: «Ci furon o capi in Israele per assumere il comando; ci furono volontari per arruolarsi in massa: benedite i l Signore! Ascoltate o re, porgete l’orecchio o sovrani; io voglio cantare al Signore, voglio cantar e inni al Signore Dio d’Israele! Signore quando uscivi dal Seir, quando avanzavi dalla steppa di E
dom, la terra tremò i cieli stillarono, le nubi stillarono acqua. Sussultarono i monti davanti al Sig nore quello del Sinai, davanti al Signore Dio d’Israele. Ai giorni di Samgar figlio di Anat, ai giorni di Giaele, erano deserte le strade e i viandanti deviavano su sentieri tortuosi. Era cessato ogni p otere @@ era cessato in Israele, finché non sorsi io Dèbora, finché non sorsi come madre in Isra ele. Si preferivano dèi nuovi, e allora la guerra fu alle porte, ma scudo non si vedeva né lancia p er quarantamila in Israele. Il mio cuore si volge ai comandanti d’Israele, ai volontari tra il popolo
: benedite il Signore! Voi che cavalcate asine bianche, seduti su gualdrappe, voi che procedete s ulla via meditate; unitevi al grido degli uomini schierati fra gli abbeveratoi: là essi proclamano le vittorie del Signore, le vittorie del suo potere in Israele, quando scese alle porte il popolo del Si gnore. Déstati déstati o Dèbora, déstati déstati intona un canto! Sorgi Barak e cattura i tuoi prigi onieri, o figlio di Abinòam! Allora scesero i fuggiaschi per unirsi ai prìncipi; il popolo del Signore
scese a sua difesa tra gli eroi. Quelli della stirpe di èfraim scesero nella pianura, ti seguì Beniami no fra le tue truppe. Dalla stirpe di Machir scesero i comandanti e da Zàbulon chi impugna lo sc ettro del comando. I prìncipi di ìssacar mossero con Dèbora, Barak si lanciò sui suoi passi nella p ianura. Nei territori di Ruben grandi erano le esitazioni. Perché sei rimasto seduto tra gli ovili ad ascoltare le zampogne dei pastori? Nei territori di Ruben grandi erano le dispute. Gàlaad sta fer mo oltre il Giordano e Dan perché va peregrinando sulle navi? Aser si è stabilito lungo la riva del mare e presso le sue insenature dimora. Zàbulon invece è un popolo che si è esposto alla mort e, come Nèftali sui poggi della campagna! Vennero i re diedero battaglia, combatterono i re di C
anaan a Taanac presso le acque di Meghiddo, ma non riportarono bottino d’argento. Dal cielo l e stelle diedero battaglia, dalle loro orbite combatterono contro Sìsara. Il torrente Kison li travol se; torrente impetuoso fu il torrente Kison. Anima mia marcia con forza! Allora martellarono gli zoccoli dei cavalli al galoppo al galoppo dei destrieri. Maledite Meroz –
dice l’angelo del Signore –
, maledite maledite i suoi abitanti, perché non vennero in aiuto al Signore, in aiuto al Signore tra gli eroi. Sia benedetta fra le donne Giaele, la moglie di Cheber il Kenita, benedetta fra le donne della tenda! Acqua egli chiese latte ella diede, in una coppa da prìncipi offrì panna. Una mano el la stese al picchetto e la destra a un martello da fabbri, e colpì Sìsara lo percosse alla testa, ne fr acassò ne trapassò la tempia. Ai piedi di lei si contorse cadde giacque; ai piedi di lei si contorse c adde; dove si contorse là cadde finito. Dietro la finestra si affaccia e si lamenta la madre di Sìsar a dietro le grate: “Perché il suo carro tarda ad arrivare? Perché così a rilento procedono i suoi ca rri?”. Le più sagge tra le sue principesse rispondono, e anche lei torna a dire a se stessa: “Certo han trovato bottino stan facendo le parti: una fanciulla due fanciulle per ogni uomo; un bottino di vesti variopinte per Sìsara, un bottino di vesti variopinte a ricamo; una veste variopinta a due ricami è il bottino per il mio collo”. Così periscano tutti i tuoi nemici Signore! Ma coloro che ti a mano siano come il sole, quando sorge con tutto lo splendore». Poi la terra rimase tranquilla pe r quarant’anni. Gli Israeliti fecero ciò che è male agli occhi del Signore e il Signore li consegnò ne lle mani di Madian per sette anni. La mano di Madian si fece pesante contro Israele; per la paur a dei Madianiti gli Israeliti adattarono per sé gli antri dei monti le caverne e le cime scoscese. Og ni volta che Israele aveva seminato i Madianiti con i figli di Amalèk e i figli dell’oriente venivano contro di lui si accampavano sul territorio degli Israeliti distruggevano tutti i prodotti della terra fino alle vicinanze di Gaza e non lasciavano in Israele mezzi di sussistenza: né pecore né buoi né asini. Venivano infatti con i loro armenti e con le loro tende e arrivavano numerosi come le cava llette – essi e i loro cammelli erano senza numero –
e venivano nella terra per devastarla. Israele fu ridotto in grande miseria a causa di Madian e gl i Israeliti gridarono al Signore. Quando gli Israeliti ebbero gridato al Signore a causa di Madian il Signore mandò loro un profeta che disse: «Dice il Signore Dio d’Israele: Io vi ho fatto salire dall’E
gitto e vi ho fatto uscire dalla condizione servile. Vi ho strappato dalla mano degli Egiziani e dall a mano di quanti vi opprimevano; li ho scacciati davanti a voi vi ho dato la loro terra e vi ho dett
o: “Io sono il Signore vostro Dio; non venerate gli dèi degli Amorrei nella terra dei quali abitate”.
Ma voi non avete ascoltato la mia voce». Ora l’angelo del Signore venne a sedere sotto il terebi nto di Ofra che apparteneva a Ioas Abiezerita. Gedeone figlio di Ioas batteva il grano nel frantoi o per sottrarlo ai Madianiti. L’angelo del Signore gli apparve e gli disse: «Il Signore è con te uom o forte e valoroso!». Gedeone gli rispose: «Perdona mio signore: se il Signore è con noi perché c i è capitato tutto questo? Dove sono tutti i suoi prodigi che i nostri padri ci hanno narrato dicen do: “Il Signore non ci ha fatto forse salire dall’Egitto?”. Ma ora il Signore ci ha abbandonato e ci ha consegnato nelle mani di Madian». Allora il Signore si volse a lui e gli disse: «Va’ con questa t ua forza e salva Israele dalla mano di Madian; non ti mando forse io?». Gli rispose: «Perdona mi o signore: come salverò Israele? Ecco la mia famiglia è la più povera di Manasse e io sono il più piccolo nella casa di mio padre». Il Signore gli disse: «Io sarò con te e tu sconfiggerai i Madianiti come se fossero un uomo solo». Gli disse allora: «Se ho trovato grazia ai tuoi occhi dammi un se gno che proprio tu mi parli. Intanto non te ne andare di qui prima che io torni da te e porti la mi a offerta da presentarti». Rispose: «Resterò fino al tuo ritorno». Allora Gedeone entrò in casa, p reparò un capretto e con un’ efa di farina fece focacce azzime; mise la carne in un canestro, il br odo in una pentola gli portò tutto sotto il terebinto e glielo offrì. L’angelo di Dio gli disse: «Pren di la carne e le focacce azzime posale su questa pietra e vèrsavi il brodo». Egli fece così. Allora l’
angelo del Signore stese l’estremità del bastone che aveva in mano e toccò la carne e le focacce azzime; dalla roccia salì un fuoco che consumò la carne e le focacce azzime e l’angelo del Signor e scomparve dai suoi occhi. Gedeone vide che era l’angelo del Signore e disse: «Signore Dio ho dunque visto l’angelo del Signore faccia a faccia!». Il Signore gli disse: «La pace sia con te non te mere non morirai!». Allora Gedeone costruì in quel luogo un altare al Signore e lo chiamò «Il Sig nore è pace». Esso esiste ancora oggi a Ofra degli Abiezeriti. In quella stessa notte il Signore gli disse: «Prendi il giovenco di tuo padre e un secondo giovenco di sette anni demolisci l’altare di Baal che appartiene a tuo padre e taglia il palo sacro che gli sta accanto. Costruisci un altare al S
ignore tuo Dio sulla cima di questa roccia disponendo ogni cosa con ordine; poi prendi il second o giovenco e offrilo in olocausto sulla legna del palo sacro che avrai tagliato». Allora Gedeone pr ese dieci uomini fra i suoi servitori e fece come il Signore gli aveva ordinato; ma temendo di farl o di giorno per paura dei suoi parenti e della gente della città lo fece di notte. Quando il mattin o dopo la gente della città si alzò ecco che l’altare di Baal era stato demolito il palo sacro accant o era stato tagliato e il secondo giovenco era offerto in olocausto sull’altare che era stato costru ito. Si dissero l’un altro: «Chi ha fatto questo?». Investigarono si informarono e dissero: «Gedeo ne figlio di Ioas ha fatto questo». Allora la gente della città disse a Ioas: «Conduci fuori tuo figlio e sia messo a morte perché ha demolito l’altare di Baal e ha tagliato il palo sacro che gli stava a ccanto». Ioas rispose a quanti insorgevano contro di lui: «Volete difendere voi la causa di Baal e venirgli in aiuto? Chi vorrà difendere la sua causa sarà messo a morte prima di domattina; se è davvero un dio difenda da sé la sua causa per il fatto che hanno demolito il suo altare». Perciò i n quel giorno Gedeone fu chiamato Ierub-
Baal perché si disse: «Baal difenda la sua causa contro di lui perché egli ha demolito il suo altare
». Tutti i Madianiti Amalèk e i figli dell’oriente si radunarono passarono il Giordano e si accampa rono nella valle di Izreèl. Ma lo spirito del Signore rivestì Gedeone; egli suonò il corno e gli Abiez eriti furono convocati al suo seguito. Egli mandò anche messaggeri in tutto Manasse che fu pure chiamato a seguirlo; mandò anche messaggeri nelle tribù di Aser di Zàbulon e di Nèftali le quali vennero a unirsi agli altri. Gedeone disse a Dio: «Se tu stai per salvare Israele per mano mia com e hai detto, ecco io metterò un vello di lana sull’aia: se ci sarà rugiada soltanto sul vello e tutto il terreno resterà asciutto io saprò che tu salverai Israele per mia mano come hai detto». Così avv enne. La mattina dopo Gedeone si alzò per tempo, strizzò il vello e ne spremette la rugiada: una coppa piena d’acqua. Gedeone disse a Dio: «Non adirarti contro di me; io parlerò ancora una v olta. Lasciami fare la prova con il vello una volta ancora: resti asciutto soltanto il vello e ci sia la rugiada su tutto il terreno». Dio fece così quella notte: il vello soltanto restò asciutto e ci fu rugi ada su tutto il terreno. Ierub-Baal dunque cioè Gedeone con tutta la gente che era con lui alzatosi di buon mattino si accamp ò alla fonte di Carod. Il campo di Madian era rispetto a lui a settentrione ai piedi della collina di Morè nella pianura. Il Signore disse a Gedeone: «La gente che è con te è troppo numerosa perc hé io consegni Madian nelle sue mani; Israele potrebbe vantarsi dinanzi a me e dire: “La mia ma no mi ha salvato”. Ora annuncia alla gente: “Chiunque ha paura e trema torni indietro e fugga d al monte di Gàlaad”». Tornarono indietro ventiduemila uomini tra quella gente e ne rimasero di ecimila. Il Signore disse a Gedeone: «La gente è ancora troppo numerosa; falli scendere all’acqu a e te li metterò alla prova. Quello del quale ti dirò: “Costui venga con te” verrà e quello del qua le ti dirò: “Costui non venga con te” non verrà». Gedeone fece dunque scendere la gente all’acq ua e il Signore gli disse: «Quanti lambiranno l’acqua con la lingua come la lambisce il cane li porr ai da una parte; quanti invece per bere si metteranno in ginocchio li porrai dall’altra». Il numero di quelli che lambirono l’acqua portandosela alla bocca con la mano fu di trecento uomini; tutt o il resto della gente si mise in ginocchio per bere l’acqua. Allora il Signore disse a Gedeone: «Co n questi trecento uomini che hanno lambito l’acqua io vi salverò e consegnerò i Madianiti nelle tue mani. Tutto il resto della gente se ne vada ognuno a casa sua». Essi presero dalle mani della gente le provviste e i corni; Gedeone rimandò tutti gli altri Israeliti ciascuno alla sua tenda e ten ne con sé i trecento uomini. L’accampamento di Madian gli stava al di sotto nella pianura. In qu ella stessa notte il Signore disse a Gedeone: «àlzati e piomba sul campo, perché io l’ho consegn ato nelle tue mani. Ma se hai paura di farlo scendi con il tuo servo Pura e ascolterai quello che d icono; dopo prenderai vigore per piombare sul campo». Egli scese con Pura suo servo fino agli a vamposti dell’accampamento. I Madianiti gli Amaleciti e tutti i figli dell’oriente erano sparsi nell a pianura numerosi come le cavallette e i loro cammelli erano senza numero come la sabbia che è sul lido del mare. Quando Gedeone vi giunse un uomo stava raccontando un sogno al suo co mpagno e gli diceva: «Ho fatto un sogno. Mi pareva di vedere una pagnotta d’orzo rotolare nell’
accampamento di Madian: giunse alla tenda la urtò e la rovesciò e la tenda cadde a terra». Il su
o compagno gli rispose: «Questo non è altro che la spada di Gedeone figlio di Ioas uomo d’Israel e; Dio ha consegnato nelle sue mani Madian e tutto l’accampamento». Quando Gedeone ebbe udito il racconto del sogno e la sua interpretazione si prostrò poi tornò al campo d’Israele e diss e: «Alzatevi perché il Signore ha consegnato nelle vostre mani l’accampamento di Madian». Divi se i trecento uomini in tre schiere mise in mano a tutti corni e brocche vuote con dentro fiaccol e e disse loro: «Guardate me e fate come farò io; quando sarò giunto ai limiti dell’accampament o come farò io così farete voi. Quando io con quanti sono con me suonerò il corno anche voi su onerete i corni intorno a tutto l’accampamento e griderete: “Per il Signore e per Gedeone!”». G
edeone e i cento uomini che erano con lui giunsero all’estremità dell’accampamento all’inizio d ella veglia di mezzanotte quando avevano appena cambiato le sentinelle. Suonarono i corni spe zzando la brocca che avevano in mano. Anche le tre schiere suonarono i corni e spezzarono le b rocche tenendo le fiaccole con la sinistra e con la destra i corni per suonare e gridarono: «La spa da per il Signore e per Gedeone!». Ognuno di loro rimase al suo posto attorno all’accampament o: tutto l’accampamento si mise a correre a gridare a fuggire. Mentre quelli suonavano i trecent o corni il Signore fece volgere la spada di ciascuno contro il compagno per tutto l’accampament o. L’esercito fuggì fino a Bet-Sitta, verso Sererà fino alla riva di Abel-Mecolà presso Tabbat. Gli Israeliti si radunarono da Nèftali da Aser e da tutto Manasse e insegui rono i Madianiti. Intanto Gedeone aveva mandato messaggeri per tutte le montagne di èfraim a dire: «Scendete contro i Madianiti e occupate prima di loro le acque fino a Bet-Bara e anche il Giordano». Così tutti gli uomini di èfraim si radunarono e occuparono le acque fi no a Bet-Bara e anche il Giordano. Presero due capi di Madian Oreb e Zeeb; uccisero Oreb alla roccia di Oreb e Zeeb al torchio di Zeeb. Inseguirono i Madianiti e portarono le teste di Oreb e di Zeeb a Gedeone oltre il Giordano. Ma gli uomini di èfraim gli dissero: «Perché ti sei comportato a quest o modo con noi non chiamandoci quando sei andato a combattere contro Madian?». Litigarono con lui violentemente. Egli rispose loro: «Che cosa ho fatto io in confronto a voi? La racimolatur a di èfraim non vale più della vendemmia di Abièzer? Dio ha consegnato in mano vostra i capi di Madian Oreb e Zeeb; che cosa mai ho potuto fare io in confronto a voi?». A tali parole la loro a nimosità contro di lui si calmò. Gedeone arrivò al Giordano e lo attraversò. Ma egli e i suoi trece nto uomini erano esausti per l’inseguimento. Disse a quelli di Succot: «Date per favore focacce di pane alla gente che mi segue perché è esausta e io sto inseguendo Zebach e Salmunnà re di Madian». Ma i capi di Succot risposero: «Tieni forse già nelle tue mani i polsi di Zebach e di Sal munnà perché dobbiamo dare pane al tuo esercito?». Gedeone disse: «Ebbene quando il Signor e mi avrà consegnato nelle mani Zebach e Salmunnà vi strazierò le carni con le spine del deserto e con i cardi». Di là salì a Penuèl e parlò agli uomini di Penuèl nello stesso modo; essi gli rispose ro come avevano fatto quelli di Succot. Egli disse anche agli uomini di Penuèl: «Quando tornerò vittorioso abbatterò questa torre». Zebach e Salmunnà erano a Karkor con il loro accampament o di circa quindicimila uomini quanti erano rimasti dell’intero esercito dei figli dell’oriente: eran
o caduti centoventimila uomini armati di spada. Gedeone salì per la via dei nomadi a oriente di Nobach e di Iogbea e mise in rotta l’esercito quando esso si credeva sicuro. Zebach e Salmunnà si diedero alla fuga ma egli li inseguì prese i due re di Madian Zebach e Salmunnà e sbaragliò tut to l’esercito. Poi Gedeone figlio di Ioas tornò dalla battaglia per la salita di Cheres. Catturò un gi ovane tra gli uomini di Succot e lo interrogò quello gli mise per iscritto i nomi dei capi e degli an ziani di Succot: settantasette uomini. Poi venne dagli uomini di Succot e disse: «Ecco Zebach e S
almunnà a proposito dei quali mi avete insultato dicendo: “Tieni forse già nelle tue mani i polsi di Zebach e di Salmunnà perché dobbiamo dare pane alla tua gente esausta?”». Prese gli anzian i della città e con le spine del deserto e con i cardi castigò gli uomini di Succot. Demolì la torre di Penuèl e uccise gli uomini della città. Poi disse a Zebach e a Salmunnà: «Come erano gli uomini che avete ucciso al Tabor?». Quelli risposero: «Erano come te; ognuno di loro aveva l’aspetto di un figlio di re». Egli riprese: «Erano miei fratelli figli di mia madre; per la vita del Signore se aves te risparmiato loro la vita io non vi ucciderei!». Quindi disse a Ieter suo primogenito: «Su uccidili
!». Ma il giovane non estrasse la spada perché aveva paura essendo ancora giovane. Zebach e S
almunnà dissero: «Suvvia colpisci tu stesso poiché qual è l’uomo tale è la sua forza». Gedeone si alzò e uccise Zebach e Salmunnà e prese le lunette che i loro cammelli portavano al collo. Allor a gli Israeliti dissero a Gedeone: «Governa tu tuo figlio e il figlio di tuo figlio poiché ci hai salvati dalla mano di Madian». Ma Gedeone rispose loro: «Non vi governerò io né vi governerà mio figl io: il Signore vi governerà». Poi Gedeone disse loro: «Una cosa voglio chiedervi: ognuno di voi m i dia un anello del suo bottino». I nemici avevano anelli d’oro perché erano Ismaeliti. Risposero:
«Li daremo volentieri». Egli stese allora il mantello e ognuno vi gettò un anello del suo bottino. I l peso degli anelli d’oro che egli aveva chiesto fu di millesettecento sicli d’oro oltre le lunette le catenelle e le vesti di porpora che i re di Madian avevano addosso e oltre i collari che i loro cam melli avevano al collo. Gedeone ne fece un efod che pose a Ofra sua città tutto Israele vi si prost ituì e ciò divenne una causa di rovina per Gedeone e per la sua casa. Così Madian fu umiliato da vanti agli Israeliti e non alzò più il capo; la terra rimase tranquilla per quarant’anni durante la vit a di Gedeone. Ierub-Baal, figlio di Ioas se ne andò ad abitare a casa sua. Gedeone ebbe settanta figli nati da lui perch é aveva molte mogli. Anche la sua concubina che stava a Sichem gli partorì un figlio che chiamò Abimèlec. Gedeone figlio di Ioas, morì dopo una felice vecchiaia e fu sepolto nella tomba di Ioas suo padre a Ofra degli Abiezeriti. Dopo la morte di Gedeone gli Israeliti tornarono a prostituirsi ai Baal e presero Baal-Berit come loro dio. Gli Israeliti non si ricordarono del Signore loro Dio che li aveva liberati dalle mani di tutti i loro nemici all’intorno e non dimostrarono gratitudine alla casa di Ierub-Baal cioè di Gedeone per tutto il bene che egli aveva fatto a Israele. Ora Abimèlec figlio di Ierub-Baal andò a Sichem dai fratelli di sua madre e disse a loro e a tutta la parentela di sua madre: «
Riferite a tutti i signori di Sichem: “è meglio per voi che vi governino settanta uomini tutti i figli di Ierub-
Baal o che vi governi un solo uomo? Ricordatevi che io sono delle vostre ossa e della vostra carn e”». I fratelli di sua madre riferirono a suo riguardo a tutti i signori di Sichem tutte quelle parole e il loro cuore si piegò a favore di Abimèlec perché dicevano: «è nostro fratello». Gli diedero set tanta sicli d’argento presi dal tempio di Baal-Berit; con essi Abimèlec assoldò uomini sfaccendati e avventurieri che lo seguirono. Venne alla casa di suo padre a Ofra e uccise sopra una stessa pietra i suoi fratelli figli di Ierub-Baal settanta uomini. Ma Iotam figlio minore di Ierub-
Baal scampò perché si era nascosto. Tutti i signori di Sichem e tutta Bet-Millo si radunarono e andarono a proclamare re Abimèlec presso la Quercia della Stele che si tr ova a Sichem. Ma Iotam informato della cosa andò a porsi sulla sommità del monte Garizìm e al zando la voce gridò: «Ascoltatemi signori di Sichem e Dio ascolterà voi! Si misero in cammino gli alberi per ungere un re su di essi. Dissero all’ulivo: “Regna su di noi”. Rispose loro l’ulivo: “Rinu ncerò al mio olio, grazie al quale si onorano dèi e uomini, e andrò a librarmi sugli alberi?”. Disse ro gli alberi al fico: “Vieni tu regna su di noi”. Rispose loro il fico: “Rinuncerò alla mia dolcezza e al mio frutto squisito, e andrò a librarmi sugli alberi?”. Dissero gli alberi alla vite: “Vieni tu regna su di noi”. Rispose loro la vite: “Rinuncerò al mio mosto, che allieta dèi e uomini, e andrò a libra rmi sugli alberi?”. Dissero tutti gli alberi al rovo: “Vieni tu regna su di noi”. Rispose il rovo agli al beri: “Se davvero mi ungete re su di voi, venite rifugiatevi alla mia ombra; se no esca un fuoco d al rovo e divori i cedri del Libano”. Voi non avete agito con lealtà e onestà proclamando re Abim èlec non avete operato bene verso Ierub-Baal e la sua casa non lo avete trattato secondo il merito delle sue azioni. Mio padre infatti ha c ombattuto per voi ha esposto al pericolo la sua vita e vi ha liberati dalle mani di Madian. Voi inv ece siete insorti oggi contro la casa di mio padre, avete ucciso i suoi figli settanta uomini sopra u na stessa pietra e avete proclamato re dei signori di Sichem Abimèlec figlio di una sua schiava p erché è vostro fratello. Se dunque avete operato oggi con lealtà e onestà verso Ierub-Baal e la sua casa godetevi Abimèlec ed egli si goda voi! Ma se non è così esca da Abimèlec un f uoco che divori i signori di Sichem e Bet-Millo; esca dai signori di Sichem e da Bet-Millo un fuoco che divori Abimèlec!». Iotam corse via si mise in salvo e andò a stabilirsi a Beèr l ontano da Abimèlec suo fratello. Abimèlec dominò su Israele tre anni. Poi Dio mandò un cattivo spirito fra Abimèlec e i signori di Sichem e i signori di Sichem si ribellarono ad Abimèlec. Questo avvenne perché la violenza fatta ai settanta figli di Ierub-Baal ricevesse il castigo e il loro sangue ricadesse su Abimèlec loro fratello che li aveva uccisi e s ui signori di Sichem che gli avevano dato man forte per uccidere i suoi fratelli. I signori di Siche m tesero agguati contro di lui sulla cima dei monti rapinando chiunque passasse vicino alla stra da. Abimèlec fu informato della cosa. Poi Gaal figlio di Ebed e i suoi fratelli vennero e si stabiliro no a Sichem e i signori di Sichem riposero in lui la loro fiducia. Usciti nella campagna vendemmi arono le loro vigne pigiarono l’uva e fecero festa. Poi entrarono nella casa del loro dio mangiaro no bevvero e maledissero Abimèlec. Gaal, figlio di Ebed disse: «Chi è Abimèlec e che cosa è Sich
em perché dobbiamo servirlo? Non dovrebbero piuttosto il figlio di Ierub-Baal e Zebul suo luogotenente servire gli uomini di Camor capostipite di Sichem? Perché dovre mmo servirlo noi? Se avessi in mano questo popolo io scaccerei Abimèlec e direi: “Accresci pure il tuo esercito ed esci in campo”». Ora Zebul governatore della città udite le parole di Gaal figlio di Ebed si accese d’ira e mandò in segreto messaggeri ad Abimèlec per dirgli: «Ecco, Gaal figlio di Ebed e i suoi fratelli sono venuti a Sichem e sollevano la città contro di te. àlzati dunque di no tte con la gente che hai con te e prepara un agguato nella campagna. Domattina non appena sp unterà il sole ti alzerai e piomberai sulla città mentre lui con la sua gente ti uscirà contro: tu gli f arai quel che riterrai opportuno». Abimèlec e tutta la gente che era con lui si alzarono di notte e tesero un agguato contro Sichem divisi in quattro schiere. Gaal figlio di Ebed uscì e si fermò all’i ngresso della porta della città allora Abimèlec uscì dall’agguato con la gente che aveva. Gaal vist a quella gente disse a Zebul: «Ecco gente che scende dalle cime dei monti». Zebul gli rispose: «T
u vedi l’ombra dei monti e la prendi per uomini». Gaal riprese a parlare e disse: «Ecco gente che scende dall’ombelico della terra e una schiera che giunge per la via della Quercia dei Maghi». Al lora Zebul gli disse: «Dov’è ora la spavalderia di quando dicevi: “Chi è Abimèlec perché dobbiam o servirlo?”. Non è questo il popolo che disprezzavi? Ora esci in campo e combatti contro di lui!
». Allora Gaal uscì alla testa dei signori di Sichem e diede battaglia ad Abimèlec. Ma Abimèlec lo inseguì ed egli fuggì dinanzi a lui e molti uomini caddero morti fino all’ingresso della porta. Abi mèlec ritornò ad Arumà e Zebul scacciò Gaal e i suoi fratelli che non poterono più rimanere a Si chem. Il giorno dopo il popolo di Sichem uscì in campagna e Abimèlec ne fu informato. Egli pres e la sua gente la divise in tre schiere e tese un agguato nella campagna: quando vide che il popo lo usciva dalla città si mosse contro di loro e li batté. Abimèlec e la sua schiera fecero irruzione e si fermarono all’ingresso della porta della città mentre le altre due schiere si gettarono su quell i che erano nella campagna e li colpirono. Abimèlec combatté contro la città tutto quel giorno la prese e uccise il popolo che vi si trovava; poi distrusse la città e la cosparse di sale. Tutti i signor i della torre di Sichem all’udir questo entrarono nel sotterraneo del tempio di El-Berit. Fu riferito ad Abimèlec che tutti i signori della torre di Sichem si erano adunati. Allora Abi mèlec salì sul monte Salmon con tutta la gente che aveva con sé prese in mano la scure tagliò u n ramo d’albero lo sollevò e se lo mise in spalla poi disse alla sua gente: «Quello che mi avete vi sto fare fatelo presto anche voi!». Tutti tagliarono un ramo ciascuno e seguirono Abimèlec; pos ero i rami contro il sotterraneo e lo bruciarono con quelli che vi erano dentro. Così perì tutta la gente della torre di Sichem circa mille persone fra uomini e donne. Poi Abimèlec andò a Tebes l a cinse d’assedio e la prese. In mezzo alla città c’era una torre fortificata dove si rifugiarono tutt i gli uomini e le donne con i signori della città vi si rinchiusero dentro e salirono sul terrazzo dell a torre. Abimèlec giunto alla torre l’attaccò e si accostò alla porta della torre per appiccarvi il fu oco. Ma una donna gettò giù il pezzo superiore di una macina sulla testa di Abimèlec e gli spacc ò il cranio. Egli chiamò in fretta il giovane che gli portava le armi e gli disse: «Estrai la spada e uc cidimi, perché non si dica di me: “L’ha ucciso una donna!”». Il giovane lo trafisse ed egli morì. Q

uando gli Israeliti videro che Abimèlec era morto se ne andarono ciascuno a casa sua. Così Dio f ece ricadere sopra Abimèlec il male che egli aveva fatto contro suo padre uccidendo settanta su oi fratelli. Dio fece anche ricadere sul capo della gente di Sichem tutto il male che essa aveva fat to. Così si avverò su di loro la maledizione di Iotam, figlio di Ierub-Baal. Dopo Abimèlec sorse a salvare Israele Tola figlio di Pua figlio di Dodo uomo di ìssacar. Dim orava a Samir sulle montagne di èfraim; fu giudice d’Israele per ventitré anni poi morì e fu sepol to a Samir. Dopo di lui sorse Iair il Galaadita che fu giudice d’Israele per ventidue anni; ebbe tre nta figli che cavalcavano trenta asinelli e avevano trenta città che si chiamano anche oggi villagg i di Iair e sono nella terra di Gàlaad. Poi Iair morì e fu sepolto a Kamon. Gli Israeliti continuarono a fare ciò che è male agli occhi del Signore e servirono i Baal le Astarti gli dèi di Aram gli dèi di S
idone gli dèi di Moab gli dèi degli Ammoniti e quelli dei Filistei; abbandonarono il Signore e non lo servirono più. L’ira del Signore si accese contro Israele e li consegnò nelle mani dei Filistei e n elle mani degli Ammoniti. Questi afflissero e oppressero per diciotto anni gli Israeliti, tutti i figli d’Israele che erano oltre il Giordano nella terra degli Amorrei in Gàlaad. Poi gli Ammoniti passar ono il Giordano per combattere anche contro Giuda contro Beniamino e contro la casa di èfrai m e Israele fu in grande angoscia. Allora gli Israeliti gridarono al Signore: «Abbiamo peccato con tro di te perché abbiamo abbandonato il nostro Dio e abbiamo servito i Baal». Il Signore disse a gli Israeliti: «Non vi ho forse liberati dagli Egiziani dagli Amorrei dagli Ammoniti e dai Filistei? Qu ando quelli di Sidone gli Amaleciti e i Madianiti vi opprimevano e voi gridavate a me non vi ho f orse salvati dalle loro mani? Eppure mi avete abbandonato e avete servito altri dèi; perciò io no n vi salverò più. Andate a gridare agli dèi che avete scelto: vi salvino loro nel tempo della vostra angoscia!». Gli Israeliti dissero al Signore: «Abbiamo peccato! Fa’ di noi ciò che sembra bene ai t uoi occhi; soltanto liberaci in questo giorno». Eliminarono gli dèi stranieri e servirono il Signore i l quale non tollerò più la tribolazione d’Israele. Gli Ammoniti si radunarono e si accamparono in Gàlaad e anche gli Israeliti si adunarono e si accamparono a Mispa. La gente i prìncipi di Gàlaad si dissero l’un l’altro: «Chi sarà l’uomo che comincerà a combattere contro gli Ammoniti? Egli sa rà il capo di tutti gli abitanti di Gàlaad». Ora Iefte il Galaadita era un guerriero forte figlio di una prostituta; lo aveva generato Gàlaad. La moglie di Gàlaad gli partorì dei figli i figli di questa donn a crebbero e cacciarono Iefte e gli dissero: «Tu non avrai eredità nella casa di nostro padre, perc hé sei figlio di un’altra donna». Iefte fuggì lontano dai suoi fratelli e si stabilì nella terra di Tob. A ttorno a Iefte si raccolsero alcuni sfaccendati e facevano scorrerie con lui. Qualche tempo dopo gli Ammoniti mossero guerra a Israele. Quando gli Ammoniti iniziarono la guerra contro Israele gli anziani di Gàlaad andarono a prendere Iefte nella terra di Tob. Dissero a Iefte: «Vieni sii nostr o condottiero e così potremo combattere contro gli Ammoniti». Ma Iefte rispose agli anziani di Gàlaad: «Non siete forse voi quelli che mi avete odiato e scacciato dalla casa di mio padre? Perc hé venite da me ora che siete nell’angoscia?». Gli anziani di Gàlaad dissero a Iefte: «Proprio per questo ora ci rivolgiamo a te: verrai con noi combatterai contro gli Ammoniti e sarai il capo di n oi tutti abitanti di Gàlaad». Iefte rispose agli anziani di Gàlaad: «Se mi fate ritornare per combat
tere contro gli Ammoniti e il Signore li mette in mio potere io sarò vostro capo». Gli anziani di G
àlaad dissero a Iefte: «Il Signore sia testimone tra noi se non faremo come hai detto». Iefte dun que andò con gli anziani di Gàlaad; il popolo lo costituì suo capo e condottiero e Iefte ripeté tutt e le sue parole davanti al Signore a Mispa. Poi Iefte inviò messaggeri al re degli Ammoniti per di rgli: «Che cosa c’è tra me e te perché tu venga contro di me a muover guerra nella mia terra?».
Il re degli Ammoniti rispose ai messaggeri di Iefte: «Perché Israele quando salì dall’Egitto si imp ossessò del mio territorio dall’Arnon fino allo Iabbok e al Giordano; restituiscilo pacificamente».
Iefte inviò di nuovo messaggeri al re degli Ammoniti per dirgli: «Dice Iefte: Israele non si imposs essò della terra di Moab né di quella degli Ammoniti. Quando salì dall’Egitto Israele attraversò il deserto fino al Mar Rosso e giunse a Kades e mandò messaggeri al re di Edom per dirgli: “Lascia mi passare per la tua terra”. Ma il re di Edom non acconsentì. Ne mandò anche al re di Moab m a anch’egli rifiutò e Israele rimase a Kades. Poi camminò per il deserto fece il giro della terra di E
dom e di quella di Moab, giunse a oriente della terra di Moab e si accampò oltre l’Arnon senza e ntrare nei territori di Moab, perché l’Arnon segna il confine di Moab. Allora Israele mandò mess aggeri a Sicon re degli Amorrei re di Chesbon e gli disse: “Lasciaci passare dalla tua terra per arri vare alla nostra meta”. Ma Sicon non si fidò a lasciar passare Israele per i suoi territori; anzi rad unò tutta la sua gente si accampò a Iaas e combatté contro Israele. Il Signore Dio d’Israele mise Sicon e tutta la sua gente nelle mani d’Israele, che li sconfisse; così Israele conquistò tutta la ter ra degli Amorrei che abitavano quel territorio: conquistò tutti i territori degli Amorrei dall’Arnon allo Iabbok e dal deserto al Giordano. Ora il Signore Dio d’Israele ha scacciato gli Amorrei davan ti a Israele suo popolo e tu vorresti scacciarlo? Non possiedi tu quello che Camos, tuo dio ti ha f atto possedere? Così anche noi possederemo la terra di quelli che il Signore ha scacciato davant i a noi. Sei tu forse più di Balak figlio di Sippor re di Moab? Litigò forse con Israele o gli fece guer ra? Da trecento anni Israele abita a Chesbon e nelle sue dipendenze ad Aroèr e nelle sue dipend enze e in tutte le città lungo l’Arnon; perché non gliele avete tolte durante questo tempo? Io no n ti ho fatto torto e tu agisci male verso di me muovendomi guerra; il Signore che è giudice giud ichi oggi tra gli Israeliti e gli Ammoniti!». Ma il re degli Ammoniti non ascoltò le parole che Iefte gli aveva mandato a dire. Allora lo spirito del Signore venne su Iefte ed egli attraversò Gàlaad e Manasse passò a Mispa di Gàlaad e da Mispa di Gàlaad raggiunse gli Ammoniti. Iefte fece voto a l Signore e disse: «Se tu consegni nelle mie mani gli Ammoniti, chiunque uscirà per primo dalle porte di casa mia per venirmi incontro quando tornerò vittorioso dagli Ammoniti sarà per il Sign ore e io lo offrirò in olocausto». Quindi Iefte raggiunse gli Ammoniti per combatterli e il Signore li consegnò nelle sue mani. Egli li sconfisse da Aroèr fin verso Minnit prendendo loro venti città, e fino ad Abel-Cheramìm. Così gli Ammoniti furono umiliati davanti agli Israeliti. Poi Iefte tornò a Mispa a casa sua; ed ecco uscirgli incontro la figlia con tamburelli e danze. Era l’unica figlia: non aveva altri fig li né altre figlie. Appena la vide si stracciò le vesti e disse: «Figlia mia tu mi hai rovinato! Anche t u sei con quelli che mi hanno reso infelice! Io ho dato la mia parola al Signore e non posso ritirar
mi». Ella gli disse: «Padre mio se hai dato la tua parola al Signore, fa’ di me secondo quanto è us cito dalla tua bocca perché il Signore ti ha concesso vendetta sugli Ammoniti tuoi nemici». Poi d isse al padre: «Mi sia concesso questo: lasciami libera per due mesi perché io vada errando per i monti a piangere la mia verginità con le mie compagne». Egli le rispose: «Va’!» e la lasciò andar e per due mesi. Ella se ne andò con le compagne e pianse sui monti la sua verginità. Alla fine dei due mesi tornò dal padre ed egli compì su di lei il voto che aveva fatto. Ella non aveva conosciu to uomo; di qui venne in Israele questa usanza: le fanciulle d’Israele vanno a piangere la figlia di Iefte il Galaadita per quattro giorni ogni anno. Gli uomini di èfraim si radunarono passarono il Gi ordano verso Safon e dissero a Iefte: «Perché sei andato a combattere contro gli Ammoniti e no n ci hai chiamati con te? Noi bruceremo te e la tua casa». Iefte rispose loro: «Io e il mio popolo abbiamo avuto grandi lotte con gli Ammoniti; quando vi ho chiamati in aiuto non siete venuti a salvarmi dalle loro mani. Vedendo che non venivate voi a salvarmi ho esposto al pericolo la vita ho marciato contro gli Ammoniti e il Signore li ha consegnati nelle mie mani. Perché dunque siet e venuti oggi contro di me a muovermi guerra?». Iefte radunati tutti gli uomini di Gàlaad diede battaglia a èfraim; gli uomini di Gàlaad sconfissero gli Efraimiti perché questi dicevano: «Voi siet e fuggiaschi di èfraim; Gàlaad sta in mezzo a èfraim e in mezzo a Manasse». I Galaaditi occuparo no i guadi del Giordano in direzione di èfraim. Quando uno dei fuggiaschi di èfraim diceva: «Las ciatemi passare» gli uomini di Gàlaad gli chiedevano: «Sei un Efraimita?». Se rispondeva: «No» i Galaaditi gli dicevano: «Ebbene di’ scibbòlet » e se quello diceva: « Sibbòlet » non riuscendo a pronunciare bene allora lo afferravano e lo uccidevano presso i guadi del Giordano. In quell’occ asione perirono quarantaduemila uomini di èfraim. Iefte fu giudice d’Israele per sei anni. Poi Ief te il Galaadita morì e fu sepolto nella sua città in Gàlaad. Dopo di lui fu giudice d’Israele Ibsan di Betlemme. Egli ebbe trenta figli e trenta figlie: fece sposare queste ultime con uomini di fuori e fece venire da fuori trenta fanciulle per i suoi figli. Fu giudice d’Israele per sette anni. Poi Ibsan morì e fu sepolto a Betlemme. Dopo di lui fu giudice d’Israele Elon lo Zabulonita; fu giudice d’Isr aele per dieci anni. Poi Elon lo Zabulonita morì e fu sepolto ad àialon nel territorio di Zàbulon. D
opo di lui fu giudice d’Israele Abdon figlio d’Illel di Piratòn. Ebbe quaranta figli e trenta nipoti i q uali cavalcavano settanta asinelli. Fu giudice d’Israele per otto anni. Poi Abdon figlio d’Illel di Pir atòn, morì e fu sepolto a Piratòn nel territorio di èfraim sul monte dell’Amalecita. Gli Israeliti tor narono a fare quello che è male agli occhi del Signore e il Signore li consegnò nelle mani dei Filis tei per quarant’anni. C’era allora un uomo di Sorea della tribù dei Daniti chiamato Manòach; su a moglie era sterile e non aveva avuto figli. L’angelo del Signore apparve a questa donna e le dis se: «Ecco tu sei sterile e non hai avuto figli ma concepirai e partorirai un figlio. Ora guàrdati dal bere vino o bevanda inebriante e non mangiare nulla d’impuro. Poiché ecco tu concepirai e part orirai un figlio sulla cui testa non passerà rasoio perché il fanciullo sarà un nazireo di Dio fin dal seno materno; egli comincerà a salvare Israele dalle mani dei Filistei». La donna andò a dire al marito: «Un uomo di Dio è venuto da me; aveva l’aspetto di un angelo di Dio un aspetto maesto so. Io non gli ho domandato da dove veniva ed egli non mi ha rivelato il suo nome ma mi ha det
to: “Ecco tu concepirai e partorirai un figlio; ora non bere vino né bevanda inebriante e non ma ngiare nulla d’impuro perché il fanciullo sarà un nazireo di Dio dal seno materno fino al giorno d ella sua morte”». Allora Manòach pregò il Signore e disse: «Perdona mio Signore, l’uomo di Dio mandato da te venga di nuovo da noi e c’insegni quello che dobbiamo fare per il nascituro». Dio ascoltò la preghiera di Manòach e l’angelo di Dio tornò ancora dalla donna mentre stava nel ca mpo; ma Manòach suo marito non era con lei. La donna corse in fretta a informare il marito e gl i disse: «Ecco mi è apparso quell’uomo che venne da me l’altro giorno». Manòach si alzò, seguì l a moglie e giunto da quell’uomo gli disse: «Sei tu l’uomo che ha parlato a questa donna?». Que gli rispose: «Sono io». Manòach gli disse: «Quando la tua parola si sarà avverata quale sarà la n orma da seguire per il bambino e che cosa dovrà fare?». L’angelo del Signore rispose a Manòac h: «Si astenga la donna da quanto le ho detto: non mangi nessun prodotto della vigna, né beva vino o bevanda inebriante e non mangi nulla d’impuro; osservi quanto le ho comandato». Manò ach disse all’angelo del Signore: «Permettici di trattenerti e di prepararti un capretto!». L’angel o del Signore rispose a Manòach: «Anche se tu mi trattenessi non mangerei il tuo cibo; ma se vu oi fare un olocausto offrilo al Signore». Manòach non sapeva che quello era l’angelo del Signore
. Manòach disse all’angelo del Signore: «Come ti chiami perché ti rendiamo onore quando si sar à avverata la tua parola?». L’angelo del Signore gli rispose: «Perché mi chiedi il mio nome? Esso è misterioso». Manòach prese il capretto e l’offerta e sulla pietra li offrì in olocausto al Signore che opera cose misteriose. Manòach e la moglie stavano guardando: mentre la fiamma saliva d all’altare al cielo l’angelo del Signore salì con la fiamma dell’altare. Manòach e la moglie che sta vano guardando si gettarono allora con la faccia a terra e l’angelo del Signore non apparve più n é a Manòach né alla moglie. Allora Manòach comprese che quello era l’angelo del Signore. Man òach disse alla moglie: «Moriremo certamente perché abbiamo visto Dio». Ma sua moglie gli dis se: «Se il Signore avesse voluto farci morire non avrebbe accettato dalle nostre mani l’olocausto e l’offerta non ci avrebbe mostrato tutte queste cose né ci avrebbe fatto udire proprio ora cose come queste». E la donna partorì un figlio che chiamò Sansone. Il bambino crebbe e il Signore l o benedisse. Lo spirito del Signore cominciò ad agire su di lui quando era nell’Accampamento di Dan fra Sorea ed Estaòl. Sansone scese a Timna e a Timna vide una donna tra le figlie dei Filistei
. Tornato a casa disse al padre e alla madre: «Ho visto a Timna una donna una figlia dei Filistei; prendetemela in moglie». Suo padre e sua madre gli dissero: «Non c’è una donna tra le figlie de i tuoi fratelli e in tutto il nostro popolo perché tu vada a prenderti una moglie tra i Filistei non ci rconcisi?». Ma Sansone rispose al padre: «Prendimi quella, perché mi piace». Suo padre e sua m adre non sapevano che questo veniva dal Signore il quale cercava un motivo di scontro con i Fili stei. In quel tempo i Filistei dominavano Israele. Sansone scese con il padre e con la madre a Ti mna; quando furono giunti alle vigne di Timna, ecco un leoncello venirgli incontro ruggendo. Lo spirito del Signore irruppe su di lui ed egli senza niente in mano squarciò il leone come si squarc ia un capretto. Ma di ciò che aveva fatto non disse nulla al padre e alla madre. Scese dunque pa rlò alla donna e questa gli piacque. Dopo qualche tempo tornò per prenderla e uscì dalla strada
per vedere la carcassa del leone: ecco nel corpo del leone c’era uno sciame d’api e del miele. Eg li ne prese nel cavo delle mani e si mise a mangiarlo camminando. Quand’ebbe raggiunto il padr e e la madre ne diede loro ed essi ne mangiarono; ma non disse loro che aveva preso il miele da l corpo del leone. Suo padre scese dunque da quella donna e Sansone fece là un banchetto, per ché così usavano fare i giovani. Quando lo ebbero visto presero trenta compagni perché stesser o con lui. Sansone disse loro: «Voglio proporvi un enigma. Se voi me lo spiegate entro i sette gio rni del banchetto e se l’indovinate vi darò trenta tuniche e trenta mute di vesti; ma se non saret e capaci di spiegarmelo darete trenta tuniche e trenta mute di vesti a me». Quelli gli risposero:
«Proponi l’enigma e noi lo ascolteremo». Egli disse loro: «Da colui che mangia è uscito quel che si mangia e dal forte è uscito il dolce». Per tre giorni quelli non riuscirono a spiegare l’enigma. Al quarto giorno dissero alla moglie di Sansone: «Induci tuo marito a spiegarti l’enigma; se no dar emo fuoco a te e alla casa di tuo padre. Ci avete invitati qui per spogliarci?». La moglie di Sanso ne si mise a piangergli intorno e a dirgli: «Tu hai per me solo odio e non mi ami; hai proposto un enigma ai figli del mio popolo e non me l’hai spiegato!». Le disse: «Ecco non l’ho spiegato nean che a mio padre e a mia madre e dovrei spiegarlo a te?». Ella continuò a piangergli intorno dura nte i sette giorni del banchetto. Il settimo giorno Sansone glielo spiegò perché lo tormentava e l ei spiegò l’enigma ai figli del suo popolo. Gli uomini della città il settimo giorno prima che tramo ntasse il sole dissero a Sansone: «Che c’è di più dolce del miele? Che c’è di più forte del leone?»
. Rispose loro: «Se non aveste arato con la mia giovenca, non avreste sciolto il mio enigma». All ora lo spirito del Signore irruppe su di lui ed egli scese ad àscalon; vi uccise trenta uomini prese l e loro spoglie e diede le mute di vesti a quelli che avevano spiegato l’enigma. Poi, acceso d’ira ri salì alla casa di suo padre e la moglie di Sansone fu data al compagno che gli aveva fatto da ami co di nozze. Dopo qualche tempo nei giorni della mietitura del grano Sansone andò a visitare su a moglie le portò un capretto e disse: «Voglio entrare da mia moglie nella camera». Ma il padre di lei non gli permise di entrare e gli disse: «Credevo proprio che tu l’avessi presa in odio e perci ò l’ho data al tuo compagno; la sua sorella minore non è più bella di lei? Prendila dunque al suo posto». Ma Sansone rispose loro: «Questa volta non sarò colpevole verso i Filistei se farò loro d el male». Sansone se ne andò e catturò trecento volpi; prese delle fiaccole legò coda a coda e m ise una fiaccola fra le due code. Poi accese le fiaccole lasciò andare le volpi per i campi di grano dei Filistei e bruciò i covoni ammassati il grano ancora in piedi e perfino le vigne e gli oliveti. I Fil istei chiesero: «Chi ha fatto questo?». La risposta fu: «Sansone il genero dell’uomo di Timna per ché costui gli ha ripreso la moglie e l’ha data al compagno di lui». I Filistei salirono e bruciarono tra le fiamme lei e suo padre. Sansone disse loro: «Poiché agite in questo modo io non la smett erò finché non mi sia vendicato di voi». Li sbatté uno contro l’altro facendone una grande strag e. Poi scese e si ritirò nella caverna della rupe di Etam. Allora i Filistei vennero si accamparono i n Giuda e fecero una scorreria fino a Lechì. Gli uomini di Giuda dissero loro: «Perché siete venut i contro di noi?». Quelli risposero: «Siamo venuti per legare Sansone per fare a lui quello che ha fatto a noi». Tremila uomini di Giuda scesero alla caverna della rupe di Etam e dissero a Sanson
e: «Non sai che i Filistei dominano su di noi? Che cosa ci hai fatto?». Egli rispose loro: «Quello c he hanno fatto a me io l’ho fatto a loro». Gli dissero: «Siamo scesi per legarti e metterti nelle m ani dei Filistei». Sansone replicò loro: «Giuratemi che non mi colpirete». Quelli risposero: «No; t i legheremo soltanto e ti metteremo nelle loro mani ma certo non ti uccideremo». Lo legarono con due funi nuove e lo trassero su dalla rupe. Mentre giungeva a Lechì e i Filistei gli venivano in contro con grida di gioia lo spirito del Signore irruppe su di lui: le funi che aveva alle braccia dive nnero come stoppini bruciacchiati dal fuoco e i legacci gli caddero disfatti dalle mani. Trovò allo ra una mascella d’asino ancora fresca stese la mano l’afferrò e uccise con essa mille uomini. San sone disse: «Con una mascella d’asino, li ho ben macellati! Con una mascella d’asino, ho colpito mille uomini!». Quand’ebbe finito di parlare gettò via la mascella; per questo quel luogo fu chia mato Ramat-Lechì. Poi ebbe gran sete e invocò il Signore dicendo: «Tu hai concesso questa grande vittoria p er mezzo del tuo servo; ora dovrò morire di sete e cadere nelle mani dei non circoncisi?». Allora Dio spaccò la roccia concava che è a Lechì e ne scaturì acqua. Sansone bevve il suo spirito si ria nimò ed egli riprese vita. Perciò quella fonte fu chiamata En-Kore: essa esiste a Lechì ancora oggi. Sansone fu giudice d’Israele al tempo dei Filistei per venti anni. Sansone andò a Gaza vide una prostituta e andò da lei. Fu riferito a quelli di Gaza: «è venu to Sansone». Essi lo circondarono stettero in agguato tutta la notte presso la porta della città e t utta quella notte rimasero quieti dicendo: «Attendiamo lo spuntar del giorno e allora lo uccider emo». Sansone riposò fino a mezzanotte; a mezzanotte si alzò afferrò i battenti della porta dell a città e i due stipiti li divelse insieme con la sbarra se li mise sulle spalle e li portò in cima al mo nte che è di fronte a Ebron. In seguito si innamorò di una donna della valle di Sorek che si chiam ava Dalila. Allora i prìncipi dei Filistei andarono da lei e le dissero: «Seducilo e vedi da dove prov iene la sua forza così grande e come potremmo prevalere su di lui per legarlo e domarlo; ti dare mo ciascuno millecento sicli d’argento». Dalila dunque disse a Sansone: «Spiegami da dove prov iene la tua forza così grande e in che modo ti si potrebbe legare per domarti». Sansone le rispos e: «Se mi si legasse con sette corde d’arco fresche non ancora secche io diventerei debole e sar ei come un uomo qualunque». Allora i capi dei Filistei le portarono sette corde d’arco fresche n on ancora secche con le quali lo legò. L’agguato era teso in una camera interna. Ella gli gridò: «S
ansone i Filistei ti sono addosso!». Ma egli spezzò le corde come si spezza un filo di stoppa quan do sente il fuoco. Così il segreto della sua forza non fu conosciuto. Poi Dalila disse a Sansone: «E
cco ti sei burlato di me e mi hai detto menzogne; ora spiegami come ti si potrebbe legare». Le ri spose: «Se mi si legasse con funi nuove non ancora adoperate io diventerei debole e sarei come un uomo qualunque». Dalila prese dunque funi nuove lo legò e gli gridò: «Sansone i Filistei ti so no addosso!». L’agguato era teso nella camera interna. Egli ruppe come un filo le funi che aveva alle braccia. Poi Dalila disse a Sansone: «Ancora ti sei burlato di me e mi hai detto menzogne; s piegami come ti si potrebbe legare». Le rispose: «Se tu tessessi le sette trecce della mia testa ne ll’ordito e le fissassi con il pettine del telaio io diventerei debole e sarei come un uomo qualunq
ue». Ella dunque lo fece addormentare tessé le sette trecce della sua testa nell’ordito e le fissò con il pettine poi gli gridò: «Sansone i Filistei ti sono addosso!». Ma egli si svegliò dal sonno e str appò il pettine del telaio e l’ordito. Allora ella gli disse: «Come puoi dirmi: “Ti amo” mentre il tu o cuore non è con me? Già tre volte ti sei burlato di me e non mi hai spiegato da dove proviene la tua forza così grande». Ora poiché lei lo importunava ogni giorno con le sue parole e lo torme ntava egli ne fu annoiato da morire e le aprì tutto il cuore e le disse: «Non è mai passato rasoio sulla mia testa perché sono un nazireo di Dio dal seno di mia madre; se fossi rasato la mia forza si ritirerebbe da me diventerei debole e sarei come un uomo qualunque». Allora Dalila vide che egli le aveva aperto tutto il suo cuore, mandò a chiamare i prìncipi dei Filistei e fece dir loro: «V
enite questa volta, perché egli mi ha aperto tutto il suo cuore». Allora i prìncipi dei Filistei venne ro da lei e portarono con sé il denaro. Ella lo addormentò sulle sue ginocchia, chiamò un uomo e gli fece radere le sette trecce del capo; cominciò così a indebolirlo e la sua forza si ritirò da lui.
Allora lei gli gridò: «Sansone i Filistei ti sono addosso!». Egli svegliatosi dal sonno pensò: «Ne us cirò come ogni altra volta e mi svincolerò». Ma non sapeva che il Signore si era ritirato da lui. I F
ilistei lo presero e gli cavarono gli occhi; lo fecero scendere a Gaza e lo legarono con una doppia catena di bronzo. Egli dovette girare la macina nella prigione. Intanto la capigliatura che gli ave vano rasata cominciava a ricrescergli. Ora i prìncipi dei Filistei si radunarono per offrire un gran sacrificio a Dagon loro dio e per far festa. Dicevano: «Il nostro dio ci ha messo nelle mani Sanso ne nostro nemico». Quando la gente lo vide cominciarono a lodare il loro dio e a dire: «Il nostro dio ci ha messo nelle mani il nostro nemico, che devastava la nostra terra e moltiplicava i nostri caduti». Nella gioia del loro cuore dissero: «Chiamate Sansone perché ci faccia divertire!». Fece ro quindi uscire Sansone dalla prigione ed egli si mise a far giochi alla loro presenza. Poi lo fecer o stare fra le colonne. Sansone disse al servo che lo teneva per la mano: «Lasciami toccare le col onne sulle quali posa il tempio perché possa appoggiarmi ad esse». Ora il tempio era pieno di u omini e di donne; vi erano tutti i prìncipi dei Filistei e sul terrazzo circa tremila persone fra uomi ni e donne che stavano a guardare mentre Sansone faceva i giochi. Allora Sansone invocò il Sign ore dicendo: «Signore Dio ricòrdati di me! Dammi forza ancora per questa volta soltanto o Dio e in un colpo solo mi vendicherò dei Filistei per i miei due occhi!». Sansone palpò le due colonne di mezzo sulle quali posava il tempio; si appoggiò ad esse all’una con la destra e all’altra con la s inistra. Sansone disse: «Che io muoia insieme con i Filistei!». Si curvò con tutta la forza e il temp io rovinò addosso ai prìncipi e a tutta la gente che vi era dentro. Furono più i morti che egli caus ò con la sua morte di quanti aveva uccisi in vita. Poi i suoi fratelli e tutta la casa di suo padre sce sero e lo portarono via; risalirono e lo seppellirono fra Sorea ed Estaòl nel sepolcro di Manòach suo padre. Egli era stato giudice d’Israele per venti anni. C’era un uomo delle montagne di èfrai m che si chiamava Mica. Egli disse alla madre: «Quei millecento sicli d’argento che ti erano stati presi e per i quali hai pronunciato una maledizione e l’hai pronunciata alla mia presenza ecco li ho io; quel denaro l’avevo preso io. Ora te lo restituisco». La madre disse: «Benedetto sia mio fi glio dal Signore!». Egli restituì alla madre i millecento sicli d’argento e la madre disse: «Io consa
cro con la mia mano questo denaro al Signore in favore di mio figlio per farne una statua di met allo fuso». Quando egli ebbe restituito il denaro alla madre questa prese duecento sicli e li died e al fonditore il quale ne fece una statua di metallo fuso che fu collocata nella casa di Mica. Que st’uomo Mica aveva un santuario; fece un efod e i terafìm e diede l’investitura a uno dei figli ch e divenne suo sacerdote. In quel tempo non c’era un re in Israele; ognuno faceva come gli semb rava bene. Ora c’era un giovane di Betlemme di Giuda della tribù di Giuda il quale era un levita e abitava in quel luogo come forestiero. Quest’uomo era partito dalla città di Betlemme di Giud a per cercare una dimora dovunque la trovasse. Cammin facendo era giunto sulle montagne di èfraim alla casa di Mica. Mica gli domandò: «Da dove vieni?». Gli rispose: «Sono un levita di Bet lemme di Giuda e vado a cercare una dimora dove la troverò». Mica gli disse: «Rimani con me e sii per me padre e sacerdote; ti darò dieci sicli d’argento all’anno vestiario e vitto». Il levita entr ò. Il levita dunque acconsentì a stare con quell’uomo che trattò il giovane come un figlio. Mica d iede l’investitura al levita; il giovane divenne suo sacerdote e si stabilì in casa di lui. Mica disse:
«Ora so che il Signore mi farà del bene perché questo levita è divenuto mio sacerdote». Allora n on c’era un re in Israele e in quel tempo la tribù dei Daniti cercava un territorio per stabilirvisi p erché fino a quei giorni non le era toccata nessuna eredità fra le tribù d’Israele. I figli di Dan ma ndarono dunque da Sorea e da Estaòl cinque uomini della loro tribù uomini di valore per visitar e ed esplorare il territorio; dissero loro: «Andate ad esplorare il territorio!». Quelli giunsero sull e montagne di èfraim fino alla casa di Mica e passarono la notte in quel luogo. Mentre erano pr esso la casa di Mica riconobbero la voce del giovane levita; avvicinatisi gli chiesero: «Chi ti ha co ndotto qua? Che cosa fai in questo luogo? Che hai tu qui?». Rispose loro: «Mica mi ha fatto così e così mi dà un salario e io sono divenuto suo sacerdote». Gli dissero: «Consulta Dio perché pos siamo sapere se il viaggio che abbiamo intrapreso avrà buon esito». Il sacerdote rispose loro: «A ndate in pace il viaggio che fate è sotto lo sguardo del Signore». I cinque uomini continuarono il viaggio e arrivarono a Lais e videro che il popolo che vi abitava viveva in sicurezza secondo i cost umi di quelli di Sidone, tranquillo e fiducioso; non c’era nella regione chi usurpando il potere fac esse qualcosa di offensivo; erano lontani da quelli di Sidone e non avevano relazione con nessu no. Poi tornarono dai loro fratelli a Sorea e a Estaòl e i fratelli chiesero loro: «Che notizie portat e?». Quelli risposero: «Alziamoci e andiamo contro quella gente poiché abbiamo visto il territori o ed è ottimo. E voi rimanete inattivi? Non indugiate a partire per andare a prendere in possess o il territorio. Quando arriverete là troverete un popolo che non sospetta di nulla. La terra è vas ta e Dio ve l’ha consegnata nelle mani; è un luogo dove non manca nulla di ciò che è sulla terra»
. Allora seicento uomini della tribù dei Daniti partirono da Sorea e da Estaòl, ben armati. Andaro no e si accamparono a Kiriat-Iearìm in Giuda; perciò il luogo che è a occidente di Kiriat-Iearìm fu chiamato e si chiama fino ad oggi Accampamento di Dan. Di là passarono sulle montag ne di èfraim e giunsero alla casa di Mica. I cinque uomini che erano andati a esplorare la terra di Lais dissero ai loro fratelli: «Sapete che in queste case ci sono un efod, i terafìm e una statua di metallo fuso? Sappiate ora quello che dovete fare». Quelli si diressero da quella parte giunsero
alla casa del giovane levita cioè alla casa di Mica e lo salutarono. Mentre i seicento uomini muni ti delle loro armi stavano davanti alla porta i cinque uomini che erano andati a esplorare il territ orio vennero entrarono in casa presero la statua di metallo fuso, l’ efod e i terafìm. Intanto il sac erdote stava davanti alla porta con i seicento uomini armati. Quando entrati in casa di Mica ebb ero preso la statua di metallo fuso, l’ efod e i terafìm il sacerdote disse loro: «Che cosa fate?». Q
uelli gli risposero: «Taci mettiti la mano sulla bocca vieni con noi e sarai per noi padre e sacerdo te. Che cosa è meglio per te: essere sacerdote della casa di un uomo solo oppure essere sacerd ote di una tribù e di una famiglia in Israele?». Il sacerdote gioì in cuor suo; prese l’ efod i terafìm e la statua e si unì a quella gente. Allora si rimisero in cammino mettendo innanzi a loro i bambi ni il bestiame e le masserizie. Essi erano già lontani dalla casa di Mica quando i suoi vicini si mise ro in armi e raggiunsero i Daniti. Allora gridarono ai Daniti. Questi si voltarono e dissero a Mica:
«Perché ti sei messo in armi?». Egli rispose: «Avete portato via gli dèi che mi ero fatto e il sacer dote e ve ne siete andati. Ora che cosa mi resta? Come potete dunque dirmi: “Che cos’hai?”». I Daniti gli dissero: «Non si senta la tua voce dietro a noi perché uomini irritati potrebbero scaglia rsi su di voi e tu ci perderesti la vita e la vita di quelli della tua casa!». I Daniti continuarono il via ggio; Mica, vedendo che erano più forti di lui si voltò indietro e tornò a casa. Quelli dunque pres i con sé gli oggetti che Mica aveva fatto e il sacerdote che aveva al suo servizio giunsero a Lais a un popolo che se ne stava tranquillo e fiducioso; lo passarono a fil di spada e diedero la città all e fiamme. Nessuno le prestò aiuto perché era lontana da Sidone e i suoi abitanti non avevano r elazioni con altra gente. Essa era nella valle che si estende verso Bet-Recob. Poi i Daniti ricostruirono la città e l’abitarono. La chiamarono Dan dal nome di Dan loro padre che era nato da Israele; ma prima la città si chiamava Lais. E i Daniti eressero per loro uso la statua; Giònata figlio di Ghersom figlio di Mosè e i suoi figli furono sacerdoti della tribù dei D
aniti finché gli abitanti della regione furono deportati. Essi misero in onore per proprio uso la st atua che Mica aveva fatto finché la casa di Dio rimase a Silo. In quel tempo quando non c’era un re in Israele un levita che dimorava all’estremità delle montagne di èfraim si prese per concubi na una donna di Betlemme di Giuda. Ma questa sua concubina provò avversione verso di lui e lo abbandonò per tornare alla casa di suo padre a Betlemme di Giuda e vi rimase per un certo te mpo per quattro mesi. Suo marito si mosse e andò da lei per parlare al suo cuore e farla tornare
. Aveva preso con sé il suo servo e due asini. Ella lo condusse in casa di suo padre; quando il pad re della giovane lo vide gli andò incontro con gioia. Il padre della giovane suo suocero lo tratten ne ed egli rimase con lui tre giorni; mangiarono e bevvero e passarono la notte in quel luogo. Il quarto giorno si alzarono di buon’ora e il levita si disponeva a partire. Il padre della giovane diss e al genero: «Prendi un boccone di pane per ristorarti; poi ve ne andrete». Così sedettero tutti e due insieme mangiarono e bevvero. Poi il padre della giovane disse al marito: «Accetta di passa re qui la notte e il tuo cuore gioisca». Quell’uomo si alzò per andarsene; ma il suocero fece tant a insistenza che accettò di passare la notte in quel luogo. Il quinto giorno egli si alzò di buon’ora per andarsene e il padre della giovane gli disse: «Ristòrati prima». Così indugiarono fino al decli
nare del giorno e mangiarono insieme. Quando quell’uomo si alzò per andarsene con la sua con cubina e con il suo servo il suocero il padre della giovane gli disse: «Ecco il giorno ora volge a ser a: state qui questa notte. Ormai il giorno sta per finire: passa la notte qui e riconfòrtati. Domani vi metterete in viaggio di buon’ora e andrai alla tua tenda». Ma quell’uomo non volle passare la notte in quel luogo; si alzò partì e giunse di fronte a Gebus cioè Gerusalemme con i suoi due asi ni sellati la sua concubina e il servo. Quando furono vicino a Gebus il giorno era molto avanzato e il servo disse al suo padrone: «Vieni deviamo il cammino verso questa città dei Gebusei e pass iamo lì la notte». Il padrone gli rispose: «Non entreremo in una città di stranieri i cui abitanti no n sono Israeliti ma andremo oltre fino a Gàbaa». E disse al suo servo: «Vieni raggiungiamo uno di quei luoghi e passeremo la notte a Gàbaa o a Rama». Così passarono oltre e continuarono il v iaggio; il sole tramontava quando si trovarono nei pressi di Gàbaa che appartiene a Beniamino.
Deviarono in quella direzione per passare la notte a Gàbaa. Il levita entrò e si fermò sulla piazza della città ma nessuno li accolse in casa per la notte. Quand’ecco un vecchio che tornava la sera dal lavoro nei campi –
era un uomo delle montagne di èfraim che abitava come forestiero a Gàbaa, mentre la gente d el luogo era beniaminita –
alzàti gli occhi vide quel viandante sulla piazza della città. Il vecchio gli disse: «Dove vai e da dov e vieni?». Quegli rispose: «Andiamo da Betlemme di Giuda fino all’estremità delle montagne di èfraim. Io sono di là ed ero andato a Betlemme di Giuda; ora mi reco alla casa del Signore ma ne ssuno mi accoglie sotto il suo tetto. Eppure abbiamo paglia e foraggio per i nostri asini e anche pane e vino per me per la tua serva e per il giovane che è con i tuoi servi: non ci manca nulla». Il vecchio gli disse: «La pace sia con te! Prendo a mio carico quanto ti occorre; non devi passare l a notte sulla piazza». Così lo condusse in casa sua e diede foraggio agli asini; i viandanti si lavaro no i piedi poi mangiarono e bevvero. Mentre si stavano riconfortando alcuni uomini della città g ente iniqua circondarono la casa bussando fortemente alla porta e dissero al vecchio padrone di casa: «Fa’ uscire quell’uomo che è entrato in casa tua perché vogliamo abusare di lui». Il padro ne di casa uscì e disse loro: «No fratelli miei non comportatevi male; dal momento che quest’uo mo è venuto in casa mia non dovete commettere quest’infamia! Ecco mia figlia che è vergine e l a sua concubina: io ve le condurrò fuori, violentatele e fate loro quello che vi pare ma non com mettete contro quell’uomo una simile infamia». Ma quegli uomini non vollero ascoltarlo. Allora il levita afferrò la sua concubina e la portò fuori da loro. Essi la presero e la violentarono tutta la notte fino al mattino; la lasciarono andare allo spuntar dell’alba. Quella donna sul far del matti no venne a cadere all’ingresso della casa dell’uomo presso il quale stava il suo padrone e là rest ò finché fu giorno chiaro. Il suo padrone si alzò alla mattina aprì la porta della casa e uscì per co ntinuare il suo viaggio ed ecco che la donna la sua concubina giaceva distesa all’ingresso della c asa con le mani sulla soglia. Le disse: «àlzati dobbiamo partire!». Ma non ebbe risposta. Allora il marito la caricò sull’asino e partì per tornare alla sua abitazione. Come giunse a casa si munì di un coltello afferrò la sua concubina e la tagliò membro per membro in dodici pezzi; poi li spedì
per tutto il territorio d’Israele. Agli uomini che inviava ordinò: «Così direte a ogni uomo d’Israel e: “è forse mai accaduta una cosa simile da quando gli Israeliti sono usciti dalla terra d’Egitto fin o ad oggi? Pensateci consultatevi e decidete!”». Quanti vedevano dicevano: «Non è mai accadu ta e non si è mai vista una cosa simile da quando gli Israeliti sono usciti dalla terra d’Egitto fino a d oggi!». Allora tutti gli Israeliti uscirono da Dan fino a Bersabea e al territorio di Gàlaad, e la co munità si radunò come un sol uomo dinanzi al Signore a Mispa. I capi di tutto il popolo e tutte le tribù d’Israele si presentarono all’assemblea del popolo di Dio in numero di quattrocentomila f anti che maneggiavano la spada. I figli di Beniamino vennero a sapere che gli Israeliti erano ven uti a Mispa. Gli Israeliti dissero: «Parlate! Com’è avvenuta questa scelleratezza?». Allora il levita il marito della donna che era stata uccisa, rispose: «Io ero giunto con la mia concubina a Gàbaa di Beniamino per passarvi la notte. Ma gli abitanti di Gàbaa insorsero contro di me e circondaro no di notte la casa dove stavo. Volevano uccidere me; quanto alla mia concubina le usarono viol enza fino al punto che ne morì. Io presi la mia concubina la feci a pezzi e mandai i pezzi a tutti i t erritori dell’eredità d’Israele perché costoro hanno commesso un delitto e un’infamia in Israele.
Eccovi qui tutti Israeliti: consultatevi e decidete qui». Tutto il popolo si alzò insieme gridando: «
Nessuno di noi tornerà alla tenda nessuno di noi rientrerà a casa. Ora ecco quanto faremo a Gà baa: tireremo a sorte e prenderemo in tutte le tribù d’Israele dieci uomini su cento cento su mill e e mille su diecimila i quali andranno a cercare viveri per il popolo per quelli che andranno a pu nire Gàbaa di Beniamino come merita l’infamia che ha commesso in Israele». Così tutti gli Israeli ti si radunarono contro la città uniti come un solo uomo. Le tribù d’Israele mandarono uomini in tutta la tribù di Beniamino a dire: «Quale delitto è stato commesso in mezzo a voi? Consegnate ci quegli uomini iniqui di Gàbaa perché li uccidiamo e cancelliamo il male da Israele». Ma i figli d i Beniamino non vollero ascoltare la voce dei loro fratelli gli Israeliti. I figli di Beniamino uscirono dalle loro città e si radunarono a Gàbaa per combattere contro gli Israeliti. Si passarono in rasse gna i figli di Beniamino usciti dalle città: formavano un totale di ventiseimila uomini che manegg iavano la spada senza contare gli abitanti di Gàbaa. Fra tutta questa gente c’erano settecento u omini scelti che erano ambidestri. Tutti costoro erano capaci di colpire con la fionda un capello senza mancarlo. Si fece pure la rassegna degli Israeliti non compresi quelli di Beniamino ed eran o quattrocentomila uomini in grado di maneggiare la spada tutti guerrieri. Gli Israeliti si mosser o vennero a Betel e consultarono Dio dicendo: «Chi di noi andrà per primo a combattere contro i figli di Beniamino?». Il Signore rispose: «Giuda andrà per primo». Il mattino dopo gli Israeliti si mossero e si accamparono presso Gàbaa. Gli Israeliti uscirono per combattere contro Beniamin o e si disposero in ordine di battaglia contro di loro presso Gàbaa. Allora i figli di Beniamino usci rono da Gàbaa e in quel giorno sterminarono ventiduemila Israeliti ma l’esercito degli Israeliti si rinfrancò ed essi tornarono a schierarsi in battaglia dove si erano schierati il primo giorno. Gli Isr aeliti salirono a piangere davanti al Signore fino alla sera e consultarono il Signore dicendo: «De vo continuare a combattere contro Beniamino mio fratello?». Il Signore rispose: «Andate contro di loro». Gli Israeliti vennero a battaglia con i figli di Beniamino una seconda volta. I Beniaminiti
una seconda volta uscirono da Gàbaa contro di loro e sterminarono altri diciottomila uomini de gli Israeliti tutti atti a maneggiare la spada. Allora tutti gli Israeliti e tutto il popolo salirono a Bet el piansero e rimasero davanti al Signore e digiunarono quel giorno fino alla sera e offrirono olo causti e sacrifici di comunione davanti al Signore. Gli Israeliti consultarono il Signore –
l’arca dell’alleanza di Dio in quel tempo era là e Fineès figlio di Eleàzaro figlio di Aronne prestav a servizio davanti ad essa in quel tempo –
e dissero: «Devo continuare ancora a uscire in battaglia contro i figli di Beniamino mio fratello o devo cessare?». Il Signore rispose: «Andate perché domani li consegnerò in mano vostra». Isr aele tese quindi un agguato intorno a Gàbaa. Gli Israeliti andarono il terzo giorno contro i figli di Beniamino e si disposero a battaglia presso Gàbaa come le altre volte. I figli di Beniamino fecer o una sortita contro il popolo si lasciarono attirare lontano dalla città e cominciarono a colpire e a uccidere come le altre volte alcuni del popolo d’Israele lungo le strade che portano l’una a Be tel e l’altra a Gàbaon in aperta campagna: ne uccisero circa trenta. Già i figli di Beniamino pensa vano: «Eccoli sconfitti davanti a noi come la prima volta». Ma gli Israeliti dissero: «Fuggiamo e a ttiriamoli dalla città sulle strade!». Tutti gli Israeliti abbandonarono la loro posizione e si dispose ro a battaglia a Baal-Tamar mentre quelli di Israele che erano in agguato sbucavano dal luogo dove si trovavano a oc cidente di Gàbaa. Diecimila uomini scelti in tutto Israele giunsero davanti a Gàbaa. Il combattim ento fu aspro: quelli non si accorgevano del disastro che stava per colpirli. Il Signore sconfisse B
eniamino davanti a Israele; gli Israeliti uccisero in quel giorno venticinquemilacento uomini di B
eniamino tutti atti a maneggiare la spada. I figli di Beniamino si accorsero di essere sconfitti. Gli Israeliti avevano ceduto terreno a Beniamino perché confidavano nell’agguato che avevano tes o presso Gàbaa. Quelli che stavano in agguato infatti si gettarono d’improvviso contro Gàbaa e f attavi irruzione passarono a fil di spada l’intera città. C’era un segnale convenuto fra gli Israeliti e quelli che stavano in agguato: questi dovevano far salire dalla città una colonna di fumo. Gli Is raeliti avevano dunque voltato le spalle nel combattimento e gli uomini di Beniamino avevano c ominciato a colpire e uccidere circa trenta uomini d’Israele. Essi dicevano: «Ormai essi sono sco nfitti davanti a noi come nella prima battaglia!». Ma quando il segnale la colonna di fumo comin ciò ad alzarsi dalla città quelli di Beniamino si voltarono indietro ed ecco tutta la città saliva in fi amme verso il cielo. Allora gli Israeliti tornarono indietro e gli uomini di Beniamino furono presi dal terrore vedendo il disastro piombare loro addosso. Voltarono le spalle davanti agli Israeliti e presero la via del deserto; ma i combattenti li incalzavano e quelli che venivano dalla città piom bavano in mezzo a loro massacrandoli. Circondarono i Beniaminiti li inseguirono senza tregua li i ncalzarono fino di fronte a Gàbaa dal lato orientale. Caddero dei Beniaminiti diciottomila uomin i tutti valorosi. I superstiti voltarono le spalle e fuggirono verso il deserto in direzione della rocci a di Rimmon e gli Israeliti ne rastrellarono per le strade cinquemila li incalzarono fino a Ghìdeo m e ne colpirono altri duemila. Così il numero totale dei Beniaminiti che caddero quel giorno fu di venticinquemila atti a maneggiare la spada tutta gente di valore. Seicento uomini, che avevan
o voltato le spalle ed erano fuggiti verso il deserto raggiunsero la roccia di Rimmon e rimasero a lla roccia di Rimmon quattro mesi. Intanto gli Israeliti tornarono contro i figli di Beniamino, pass arono a fil di spada nella città uomini e bestiame e quanto trovarono e diedero alle fiamme anc he tutte le città che incontrarono. Gli Israeliti avevano giurato a Mispa: «Nessuno di noi darà la propria figlia in moglie a un Beniaminita». Il popolo venne a Betel dove rimase fino alla sera dav anti a Dio alzò la voce prorompendo in pianto e disse: «Signore Dio d’Israele, perché è avvenuto questo in Israele che oggi in Israele sia venuta meno una delle sue tribù?». Il giorno dopo il pop olo si alzò di buon mattino costruì in quel luogo un altare e offrì olocausti e sacrifici di comunion e. Poi gli Israeliti dissero: «Fra tutte le tribù d’Israele qual è quella che non è venuta all’assembl ea davanti al Signore?». Perché contro chi non fosse venuto alla presenza del Signore a Mispa si era pronunciato questo grande giuramento: «Sarà messo a morte». Gli Israeliti si pentivano di quello che avevano fatto a Beniamino loro fratello e dicevano: «Oggi è stata soppressa una trib ù d’Israele. Come faremo per procurare donne ai superstiti dato che abbiamo giurato per il Sign ore di non dar loro in moglie nessuna delle nostre figlie?». Dissero dunque: «Fra le tribù d’Israel e qual è quella che non è venuta davanti al Signore a Mispa?». Risultò che nessuno di Iabes di G
àlaad era venuto all’accampamento dove era l’assemblea; fatta la rassegna del popolo si era tro vato che là non vi era nessuno degli abitanti di Iabes di Gàlaad. Allora la comunità vi mandò dod icimila uomini dei più valorosi e ordinò: «Andate e passate a fil di spada gli abitanti di Iabes di G
àlaad comprese le donne e i bambini. Farete così: voterete allo sterminio ogni maschio e ogni d onna che abbia avuto rapporti con un uomo; invece risparmierete le vergini». Quelli fecero così.
Trovarono fra gli abitanti di Iabes di Gàlaad quattrocento fanciulle vergini che non avevano avu to rapporti con un uomo e le condussero all’accampamento a Silo che è nella terra di Canaan. T
utta la comunità mandò messaggeri per parlare ai figli di Beniamino, che erano alla roccia di Ri mmon e per proporre loro la pace. Allora i Beniaminiti tornarono e furono date loro quelle don ne di Iabes di Gàlaad a cui era stata risparmiata la vita; ma non erano sufficienti per tutti. Il pop olo dunque si era pentito di quello che aveva fatto a Beniamino perché il Signore aveva aperto una breccia fra le tribù d’Israele. Gli anziani della comunità dissero: «Come procureremo donne ai superstiti poiché le donne beniaminite sono state sterminate?». Soggiunsero: «Bisogna conse rvare il possesso di un resto a Beniamino perché non sia soppressa una tribù in Israele. Ma noi n on possiamo dare loro in moglie le nostre figlie perché gli Israeliti hanno giurato: “Maledetto ch i darà una moglie a Beniamino!”». Aggiunsero: «Ecco ogni anno si fa una festa per il Signore a Si lo». Questa città è a settentrione di Betel a oriente della strada che sale da Betel a Sichem e a m ezzogiorno di Lebonà. Diedero quest’ordine ai figli di Beniamino: «Andate appostatevi nelle vign e e state attenti: quando le fanciulle di Silo usciranno per danzare in coro uscite dalle vigne rapit e ciascuno una donna tra le fanciulle di Silo e andatevene nel territorio di Beniamino. Quando i l oro padri o i loro fratelli verranno a discutere con noi diremo loro: “Perdonateli: non le hanno p rese una ciascuno in guerra né voi le avete date loro: solo in tal caso sareste in colpa”». I figli di Beniamino fecero a quel modo: si presero mogli secondo il loro numero fra le danzatrici; le rapir
ono poi partirono e tornarono nel loro territorio riedificarono le città e vi stabilirono la loro dim ora. In quel medesimo tempo gli Israeliti se ne andarono ciascuno nella sua tribù e nella sua fa miglia e da quel luogo ciascuno si diresse verso la sua eredità. In quel tempo non c’era un re in I sraele; ognuno faceva come gli sembrava bene. Al tempo dei giudici ci fu nel paese una carestia e un uomo con la moglie e i suoi due figli emigrò da Betlemme di Giuda nei campi di Moab. Que st’uomo si chiamava Elimèlec sua moglie Noemi e i suoi due figli Maclon e Chilion; erano Efratei di Betlemme di Giuda. Giunti nei campi di Moab vi si stabilirono. Poi Elimèlec marito di Noemi morì ed essa rimase con i suoi due figli. Questi sposarono donne moabite: una si chiamava Orpa e l’altra Rut. Abitarono in quel luogo per dieci anni. Poi morirono anche Maclon e Chilion e la d onna rimase senza i suoi due figli e senza il marito. Allora intraprese il cammino di ritorno dai ca mpi di Moab con le sue nuore perché nei campi di Moab aveva sentito dire che il Signore aveva visitato il suo popolo dandogli pane. Partì dunque con le due nuore da quel luogo ove risiedeva e si misero in cammino per tornare nel paese di Giuda. Noemi disse alle due nuore: «Andate tor nate ciascuna a casa di vostra madre; il Signore usi bontà con voi come voi avete fatto con quelli che sono morti e con me! Il Signore conceda a ciascuna di voi di trovare tranquillità in casa di u n marito». E le baciò. Ma quelle scoppiarono a piangere e le dissero: «No, torneremo con te al t uo popolo». Noemi insistette: «Tornate indietro figlie mie! Perché dovreste venire con me? Ho f orse ancora in grembo figli che potrebbero diventare vostri mariti? Tornate indietro figlie mie a ndate! Io sono troppo vecchia per risposarmi. Se anche pensassi di avere una speranza prendes si marito questa notte e generassi pure dei figli, vorreste voi aspettare che crescano e rinuncere ste per questo a maritarvi? No figlie mie; io sono molto più amareggiata di voi poiché la mano d el Signore è rivolta contro di me». Di nuovo esse scoppiarono a piangere. Orpa si accomiatò con un bacio da sua suocera, Rut invece non si staccò da lei. Noemi le disse: «Ecco tua cognata è to rnata dalla sua gente e dal suo dio; torna indietro anche tu come tua cognata». Ma Rut replicò:
«Non insistere con me che ti abbandoni e torni indietro senza di te perché dove andrai tu andrò anch’io e dove ti fermerai mi fermerò il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio
. Dove morirai tu morirò anch’io e lì sarò sepolta. Il Signore mi faccia questo male e altro ancora se altra cosa che non sia la morte mi separerà da te». Vedendo che era davvero decisa ad anda re con lei Noemi non insistette più. Esse continuarono il viaggio finché giunsero a Betlemme. Qu ando giunsero a Betlemme, tutta la città fu in subbuglio per loro e le donne dicevano: «Ma ques ta è Noemi!». Ella replicava: «Non chiamatemi Noemi chiamatemi Mara perché l’Onnipotente mi ha tanto amareggiata! Piena me n’ero andata ma il Signore mi fa tornare vuota. Perché allor a chiamarmi Noemi se il Signore si è dichiarato contro di me e l’Onnipotente mi ha resa infelice
?». Così dunque tornò Noemi con Rut la moabita sua nuora venuta dai campi di Moab. Esse arri varono a Betlemme quando si cominciava a mietere l’orzo. Noemi aveva un parente da parte de l marito un uomo altolocato della famiglia di Elimèlec che si chiamava Booz. Rut la moabita diss e a Noemi: «Lasciami andare in campagna a spigolare dietro qualcuno nelle cui grazie riuscirò a entrare». Le rispose: «Va’ pure figlia mia». Rut andò e si mise a spigolare nella campagna dietro
ai mietitori. Per caso si trovò nella parte di campagna appartenente a Booz che era della famigli a di Elimèlec. Proprio in quel mentre Booz arrivava da Betlemme. Egli disse ai mietitori: «Il Signo re sia con voi!». Ed essi gli risposero: «Ti benedica il Signore!». Booz disse al sovrintendente dei mietitori: «Di chi è questa giovane?». Il sovrintendente dei mietitori rispose: «è una giovane mo abita quella tornata con Noemi dai campi di Moab. Ha detto di voler spigolare e raccogliere tra i covoni dietro ai mietitori. è venuta ed è rimasta in piedi da stamattina fino ad ora. Solo adesso si è un poco seduta in casa». Allora Booz disse a Rut: «Ascolta figlia mia non andare a spigolare i n un altro campo. Non allontanarti di qui e sta’ insieme alle mie serve. Tieni d’occhio il campo d ove mietono e cammina dietro a loro. Ho lasciato detto ai servi di non molestarti. Quando avrai sete, va’ a bere dagli orci ciò che i servi hanno attinto». Allora Rut si prostrò con la faccia a terra e gli disse: «Io sono una straniera: perché sono entrata nelle tue grazie e tu ti interessi di me?».
Booz le rispose: «Mi è stato riferito quanto hai fatto per tua suocera dopo la morte di tuo marit o e come hai abbandonato tuo padre tua madre e la tua patria per venire presso gente che prim a non conoscevi. Il Signore ti ripaghi questa tua buona azione e sia davvero piena per te la ricom pensa da parte del Signore Dio d’Israele sotto le cui ali sei venuta a rifugiarti». Ella soggiunse: «P
ossa rimanere nelle tue grazie mio signore! Poiché tu mi hai consolato e hai parlato al cuore dell a tua serva benché io non sia neppure come una delle tue schiave». Poi al momento del pasto B
ooz le disse: «Avvicìnati mangia un po’ di pane e intingi il boccone nell’aceto». Ella si mise a sed ere accanto ai mietitori. Booz le offrì del grano abbrustolito; lei ne mangiò a sazietà e ne avanzò
. Poi si alzò per tornare a spigolare e Booz diede quest’ordine ai suoi servi: «Lasciatela spigolare anche fra i covoni e non fatele del male. Anzi fate cadere apposta per lei spighe dai mannelli; las ciatele lì perché le raccolga e non sgridatela». Così Rut spigolò in quel campo fino alla sera. Batt é quello che aveva raccolto e ne venne fuori quasi un’ efa di orzo. Se lo caricò addosso e rientrò in città. Sua suocera vide ciò che aveva spigolato. Rut tirò fuori quanto le era rimasto del pasto e glielo diede. La suocera le chiese: «Dove hai spigolato oggi? Dove hai lavorato? Benedetto col ui che si è interessato di te!». Rut raccontò alla suocera con chi aveva lavorato e disse: «L’uomo con cui ho lavorato oggi si chiama Booz». Noemi disse alla nuora: «Sia benedetto dal Signore ch e non ha rinunciato alla sua bontà verso i vivi e verso i morti!». E aggiunse: «Quest’uomo è un n ostro parente stretto uno di quelli che hanno su di noi il diritto di riscatto». Rut la moabita disse
: «Mi ha anche detto di rimanere insieme ai suoi servi finché abbiano finito tutta la mietitura».
Noemi disse a Rut sua nuora: «Figlia mia è bene che tu vada con le sue serve e non ti molestino in un altro campo». Ella rimase dunque con le serve di Booz a spigolare sino alla fine della mietit ura dell’orzo e del frumento e abitava con la suocera. Un giorno Noemi sua suocera le disse: «Fi glia mia non devo forse cercarti una sistemazione perché tu sia felice? Ora tu sei stata con le ser ve di Booz: egli è nostro parente e proprio questa sera deve ventilare l’orzo sull’aia. Làvati profù mati mettiti il mantello e scendi all’aia. Ma non ti far riconoscere da lui prima che egli abbia fini to di mangiare e di bere. Quando si sarà coricato – e tu dovrai sapere dove si è coricato –
va’ scoprigli i piedi e sdraiati lì. Ti dirà lui ciò che dovrai fare». Rut le rispose: «Farò quanto mi di
ci». Scese all’aia e fece quanto la suocera le aveva ordinato. Booz mangiò bevve e con il cuore al legro andò a dormire accanto al mucchio d’orzo. Allora essa venne pian piano gli scoprì i piedi e si sdraiò. Verso mezzanotte quell’uomo ebbe un brivido di freddo si girò e vide una donna sdrai ata ai suoi piedi. Domandò: «Chi sei?». Rispose: «Sono Rut tua serva. Stendi il lembo del tuo ma ntello sulla tua serva perché tu hai il diritto di riscatto». Egli disse: «Sii benedetta dal Signore figl ia mia! Questo tuo secondo atto di bontà è ancora migliore del primo perché non sei andata in c erca di uomini giovani poveri o ricchi che fossero. Ora figlia mia non temere! Farò per te tutto q uanto chiedi, perché tutti i miei concittadini sanno che sei una donna di valore. è vero: io ho il di ritto di riscatto ma c’è un altro che è parente più stretto di me. Passa qui la notte e domani mat tina se lui vorrà assolvere il diritto di riscatto va bene lo faccia; ma se non vorrà riscattarti io ti ri scatterò per la vita del Signore! Rimani coricata fino a domattina». Ella rimase coricata ai suoi pi edi fino alla mattina e si alzò prima che una persona riesca a riconoscere un’altra. Booz infatti p ensava: «Nessuno deve sapere che questa donna è venuta nell’aia!». Le disse: «Apri il mantello che hai addosso e tienilo forte». Lei lo tenne ed egli vi versò dentro sei misure d’orzo. Glielo pos e sulle spalle e Rut rientrò in città. Arrivata dalla suocera questa le chiese: «Com’è andata figlia mia?». Ella le raccontò quanto quell’uomo aveva fatto per lei e aggiunse: «Mi ha anche dato sei misure di orzo dicendomi: “Non devi tornare da tua suocera a mani vuote”». Noemi disse: «Sta’
tranquilla figlia mia finché non sai come andrà a finire la cosa. Di certo quest’uomo non si darà pace finché non avrà concluso oggi stesso questa faccenda». Booz dunque salì alla porta della ci ttà e lì si sedette. Ed ecco passare colui che aveva il diritto di riscatto e del quale Booz aveva par lato. Booz lo chiamò: «Vieni a sederti qui amico mio!». Quello si avvicinò e si sedette. Poi Booz prese dieci degli anziani della città e disse loro: «Sedete qui». Quelli si sedettero. Allora Booz dis se a colui che aveva il diritto di riscatto: «Il campo che apparteneva al nostro fratello Elimèlec lo mette in vendita Noemi tornata dai campi di Moab. Ho pensato bene di informartene e dirti: “C
ompralo davanti alle persone qui presenti e davanti agli anziani del mio popolo”. Se vuoi riscatt arlo riscattalo pure; ma se non lo riscatti fammelo sapere. Infatti, oltre a te nessun altro ha il dir itto di riscatto e io vengo dopo di te». Quegli rispose: «Lo riscatto io». E Booz proseguì: «Quand o acquisterai il campo da Noemi tu dovrai acquistare anche Rut la moabita moglie del defunto p er mantenere il nome del defunto sulla sua eredità». Allora colui che aveva il diritto di riscatto ri spose: «Non posso esercitare il diritto di riscatto altrimenti danneggerei la mia stessa eredità. S
ubentra tu nel mio diritto. Io non posso davvero esercitare questo diritto di riscatto». Anticame nte in Israele vigeva quest’usanza in relazione al diritto di riscatto o alla permuta: per convalidar e un atto, uno si toglieva il sandalo e lo dava all’altro. Questa era la forma di autenticazione in Is raele. Allora colui che aveva il diritto di riscatto rispose a Booz: «Acquìstatelo tu». E si tolse il sa ndalo. Allora Booz disse agli anziani e a tutta la gente: «Voi siete oggi testimoni che io ho acquis tato tutto quanto apparteneva a Elimèlec a Chilion e a Maclon dalle mani di Noemi, e che ho pr eso anche in moglie Rut la moabita già moglie di Maclon per mantenere il nome del defunto sull a sua eredità e perché il nome del defunto non scompaia tra i suoi fratelli e alla porta della sua c
ittà. Voi ne siete oggi testimoni». Tutta la gente che si trovava presso la porta rispose: «Ne siam o testimoni». Gli anziani aggiunsero: «Il Signore renda la donna, che entra in casa tua come Rac hele e Lia, le due donne che edificarono la casa d’Israele. Procù rati ricchezza in èfrata, fatti un n ome in Betlemme! La tua casa sia come la casa di Peres, che Tamar partorì a Giuda, grazie alla p osterità che il Signore ti darà da questa giovane!». Così Booz prese in moglie Rut. Egli si unì a lei e il Signore le accordò di concepire: ella partorì un figlio. E le donne dicevano a Noemi: «Benede tto il Signore il quale oggi non ti ha fatto mancare uno che esercitasse il diritto di riscatto. Il suo nome sarà ricordato in Israele! Egli sarà il tuo consolatore e il sostegno della tua vecchiaia perch é lo ha partorito tua nuora che ti ama e che vale per te più di sette figli». Noemi prese il bambin o se lo pose in grembo e gli fece da nutrice. Le vicine gli cercavano un nome e dicevano: «è nato un figlio a Noemi!». E lo chiamarono Obed. Egli fu il padre di Iesse, padre di Davide. Questa è la discendenza di Peres: Peres generò Chesron, Chesron generò Ram Ram generò Amminadàb, A mminadàb generò Nacson Nacson generò Salmon, Salmon generò Booz Booz generò Obed Obe d generò Iesse e Iesse generò Davide. C’era un uomo di Ramatàim un Sufita delle montagne di è fraim chiamato Elkanà figlio di Ierocàm figlio di Eliu figlio di Tocu figlio di Suf l’Efraimita. Aveva d ue mogli l’una chiamata Anna l’altra Peninnà. Peninnà aveva figli mentre Anna non ne aveva. Q
uest’uomo saliva ogni anno dalla sua città per prostrarsi e sacrificare al Signore degli eserciti a Si lo dove erano i due figli di Eli Ofni e Fineès sacerdoti del Signore. Venne il giorno in cui Elkanà of frì il sacrificio. Ora egli soleva dare alla moglie Peninnà e a tutti i figli e le figlie di lei le loro parti.
Ad Anna invece dava una parte speciale poiché egli amava Anna sebbene il Signore ne avesse r eso sterile il grembo. La sua rivale per giunta l’affliggeva con durezza a causa della sua umiliazio ne, perché il Signore aveva reso sterile il suo grembo. Così avveniva ogni anno: mentre saliva all a casa del Signore quella la mortificava; allora Anna si metteva a piangere e non voleva mangiar e. Elkanà suo marito le diceva: «Anna perché piangi? Perché non mangi? Perché è triste il tuo cu ore? Non sono forse io per te meglio di dieci figli?». Anna si alzò dopo aver mangiato e bevuto a Silo; in quel momento il sacerdote Eli stava seduto sul suo seggio davanti a uno stipite del temp io del Signore. Ella aveva l’animo amareggiato e si mise a pregare il Signore piangendo dirottam ente. Poi fece questo voto: «Signore degli eserciti se vorrai considerare la miseria della tua schia va e ricordarti di me se non dimenticherai la tua schiava e darai alla tua schiava un figlio maschi o io lo offrirò al Signore per tutti i giorni della sua vita e il rasoio non passerà sul suo capo». Me ntre ella prolungava la preghiera davanti al Signore Eli stava osservando la sua bocca. Anna preg ava in cuor suo e si muovevano soltanto le labbra ma la voce non si udiva; perciò Eli la ritenne u briaca. Le disse Eli: «Fino a quando rimarrai ubriaca? Smaltisci il tuo vino!». Anna rispose: «No mio signore; io sono una donna affranta e non ho bevuto né vino né altra bevanda inebriante m a sto solo sfogando il mio cuore davanti al Signore. Non considerare la tua schiava una donna p erversa poiché finora mi ha fatto parlare l’eccesso del mio dolore e della mia angoscia». Allora E
li le rispose: «Va’ in pace e il Dio d’Israele ti conceda quello che gli hai chiesto». Ella replicò: «Po ssa la tua serva trovare grazia ai tuoi occhi». Poi la donna se ne andò per la sua via mangiò e il s
uo volto non fu più come prima. Il mattino dopo si alzarono e dopo essersi prostrati davanti al S
ignore tornarono a casa a Rama. Elkanà si unì a sua moglie e il Signore si ricordò di lei. Così al fin ir dell’anno Anna concepì e partorì un figlio e lo chiamò Samuele «perché – diceva –
al Signore l’ho richiesto». Quando poi Elkanà andò con tutta la famiglia a offrire il sacrificio di o gni anno al Signore e a soddisfare il suo voto Anna non andò perché disse al marito: «Non verrò finché il bambino non sia svezzato e io possa condurlo a vedere il volto del Signore; poi resterà l à per sempre». Le rispose Elkanà suo marito: «Fa’ pure quanto ti sembra meglio: rimani finché t u l’abbia svezzato. Adempia il Signore la sua parola!». La donna rimase e allattò il figlio finché l’
ebbe svezzato. Dopo averlo svezzato lo portò con sé con un giovenco di tre anni, un’ efa di farin a e un otre di vino e lo introdusse nel tempio del Signore a Silo: era ancora un fanciullo. Immola to il giovenco presentarono il fanciullo a Eli e lei disse: «Perdona mio signore. Per la tua vita mio signore io sono quella donna che era stata qui presso di te a pregare il Signore. Per questo fanci ullo ho pregato e il Signore mi ha concesso la grazia che gli ho richiesto. Anch’io lascio che il Sig nore lo richieda: per tutti i giorni della sua vita egli è richiesto per il Signore». E si prostrarono là davanti al Signore. Allora Anna pregò così: «Il mio cuore esulta nel Signore, la mia forza s’innalz a grazie al mio Dio. Si apre la mia bocca contro i miei nemici, perché io gioisco per la tua salvezz a. Non c’è santo come il Signore, perché non c’è altri all’infuori di te e non c’è roccia come il nos tro Dio. Non moltiplicate i discorsi superbi, dalla vostra bocca non esca arroganza, perché il Sign ore è un Dio che sa tutto e da lui sono ponderate le azioni. L’arco dei forti s’è spezzato, ma i deb oli si sono rivestiti di vigore. I sazi si sono venduti per un pane, hanno smesso di farlo gli affamat i. La sterile ha partorito sette volte e la ricca di figli è sfiorita. Il Signore fa morire e fa vivere, sce ndere agli inferi e risalire. Il Signore rende povero e arricchisce, abbassa ed esalta. Solleva dalla polvere il debole, dall’immondizia rialza il povero, per farli sedere con i nobili e assegnare loro u n trono di gloria. Perché al Signore appartengono i cardini della terra e su di essi egli poggia il m ondo. Sui passi dei suoi fedeli egli veglia, ma i malvagi tacciono nelle tenebre. Poiché con la sua forza l’uomo non prevale. Il Signore distruggerà i suoi avversari! Contro di essi tuonerà dal cielo.
Il Signore giudicherà le estremità della terra; darà forza al suo re, innalzerà la potenza del suo c onsacrato». Poi Elkanà tornò a Rama a casa sua e il fanciullo rimase a servire il Signore alla pres enza del sacerdote Eli. Ora i figli di Eli erano uomini perversi; non riconoscevano il Signore né le usanze dei sacerdoti nei confronti del popolo. Quando uno offriva il sacrificio, veniva il servo del sacerdote mentre la carne cuoceva con in mano una forcella a tre denti, e la infilava nella pent ola o nella marmitta o nel tegame o nella caldaia e tutto ciò che la forcella tirava su il sacerdote lo teneva per sé. Così facevano con tutti gli Israeliti che venivano là a Silo. Inoltre prima che foss e bruciato il grasso veniva ancora il servo del sacerdote e diceva a chi offriva il sacrificio: «Dam mi la carne da arrostire per il sacerdote, perché non vuole avere da te carne cotta ma cruda». S
e quegli rispondeva: «Si bruci prima il grasso poi prenderai quanto vorrai!» replicava: «No me la devi dare ora, altrimenti la prenderò con la forza». Il peccato di quei servitori era molto grande davanti al Signore perché disonoravano l’offerta del Signore. Samuele prestava servizio davanti
al Signore come servitore cinto di efod di lino. Sua madre gli preparava una piccola veste e gliel a portava ogni anno quando andava con il marito a offrire il sacrificio annuale. Eli allora benedic eva Elkanà e sua moglie e diceva: «Ti conceda il Signore altra prole da questa donna in cambio d ella richiesta fatta per il Signore». Essi tornarono a casa e il Signore visitò Anna che concepì e pa rtorì ancora tre figli e due figlie. Frattanto il fanciullo Samuele cresceva presso il Signore. Eli era molto vecchio e sentiva quanto i suoi figli facevano a tutto Israele e come essi giacevano con do nne che prestavano servizio all’ingresso della tenda del convegno. Perciò disse loro: «Perché fat e tali cose? Io infatti sento che tutto il popolo parla delle vostre azioni cattive! No figli non è be ne ciò che io odo di voi che cioè sviate il popolo del Signore. Se un uomo pecca contro un altro uomo, Dio potrà intervenire in suo favore ma se l’uomo pecca contro il Signore chi potrà interce dere per lui?». Ma non ascoltarono la voce del padre perché il Signore aveva deciso di farli mori re. Invece il giovane Samuele andava crescendo ed era gradito al Signore e agli uomini. Un giorn o venne un uomo di Dio da Eli e gli disse: «Così dice il Signore: Non mi sono forse rivelato alla ca sa di tuo padre mentre erano in Egitto in casa del faraone? L’ho scelto da tutte le tribù d’Israele come mio sacerdote perché salga all’altare bruci l’incenso e porti l’ efod davanti a me. Alla casa di tuo padre ho anche assegnato tutti i sacrifici consumati dal fuoco offerti dagli Israeliti. Perché dunque avete calpestato i miei sacrifici e le mie offerte che ho ordinato nella mia dimora e tu h ai avuto più riguardo per i tuoi figli che per me e vi siete pasciuti con le primizie di ogni offerta d
’Israele mio popolo? Perciò ecco l’oracolo del Signore Dio d’Israele: Sì avevo detto alla tua casa e alla casa di tuo padre che avrebbero sempre camminato alla mia presenza. Ma ora –
oracolo del Signore –
non sia mai! Perché chi mi onorerà anch’io l’onorerò chi mi disprezzerà sarà oggetto di disprezz o. Ecco verranno giorni in cui io troncherò il tuo braccio e il braccio della casa di tuo padre sì che non vi sia più un anziano nella tua casa. Vedrai un tuo nemico nella mia dimora e anche il bene che egli farà a Israele mentre non ci sarà mai più un anziano nella tua casa. Qualcuno dei tuoi tu ttavia non lo strapperò dal mio altare, perché ti si consumino gli occhi e si strazi il tuo animo ma tutta la prole della tua casa morirà appena adulta. Sarà per te un segno quello che avverrà ai tu oi due figli a Ofni e Fineès: nello stesso giorno moriranno tutti e due. Dopo farò sorgere al mio s ervizio un sacerdote fedele che agirà secondo il mio cuore e il mio animo. Io gli darò una casa st abile e camminerà davanti al mio consacrato per sempre. Chiunque sarà superstite nella tua cas a andrà a prostrarsi davanti a lui per un po’ di denaro e per un pezzo di pane e dirà: “Ammettim i a qualunque ufficio sacerdotale perché possa mangiare un tozzo di pane”». Il giovane Samuele serviva il Signore alla presenza di Eli. La parola del Signore era rara in quei giorni le visioni non e rano frequenti. E quel giorno avvenne che Eli stava dormendo al suo posto i suoi occhi comincia vano a indebolirsi e non riusciva più a vedere. La lampada di Dio non era ancora spenta e Samu ele dormiva nel tempio del Signore dove si trovava l’arca di Dio. Allora il Signore chiamò: «Samu ele!» ed egli rispose: «Eccomi» poi corse da Eli e gli disse: «Mi hai chiamato eccomi!». Egli rispo se: «Non ti ho chiamato torna a dormire!». Tornò e si mise a dormire. Ma il Signore chiamò di n
uovo: «Samuele!» Samuele si alzò e corse da Eli dicendo: «Mi hai chiamato eccomi!». Ma quello rispose di nuovo: «Non ti ho chiamato, figlio mio torna a dormire!». In realtà Samuele fino ad al lora non aveva ancora conosciuto il Signore né gli era stata ancora rivelata la parola del Signore.
Il Signore tornò a chiamare: «Samuele!» per la terza volta; questi si alzò nuovamente e corse d a Eli dicendo: «Mi hai chiamato eccomi!». Allora Eli comprese che il Signore chiamava il giovane
. Eli disse a Samuele: «Vattene a dormire e se ti chiamerà dirai: “Parla Signore perché il tuo serv o ti ascolta”». Samuele andò a dormire al suo posto. Venne il Signore stette accanto a lui e lo ch iamò come le altre volte: «Samuele Samuele!». Samuele rispose subito: «Parla perché il tuo ser vo ti ascolta». Allora il Signore disse a Samuele: «Ecco io sto per fare in Israele una cosa che risu onerà negli orecchi di chiunque l’udrà. In quel giorno compirò contro Eli quanto ho pronunciato riguardo alla sua casa da cima a fondo. Gli ho annunciato che io faccio giustizia della casa di lui p er sempre perché sapeva che i suoi figli disonoravano Dio e non li ha ammoniti. Per questo io gi uro contro la casa di Eli: non sarà mai espiata la colpa della casa di Eli né con i sacrifici né con le offerte!». Samuele dormì fino al mattino poi aprì i battenti della casa del Signore. Samuele però temeva di manifestare la visione a Eli. Eli chiamò Samuele e gli disse: «Samuele figlio mio». Risp ose: «Eccomi». Disse: «Che discorso ti ha fatto? Non tenermi nascosto nulla. Così Dio faccia a te e anche peggio se mi nasconderai una sola parola di quanto ti ha detto». Allora Samuele gli svel ò tutto e non tenne nascosto nulla. E disse: «è il Signore! Faccia ciò che a lui pare bene». Samue le crebbe e il Signore fu con lui né lasciò andare a vuoto una sola delle sue parole. Perciò tutto I sraele da Dan fino a Bersabea seppe che Samuele era stato costituito profeta del Signore. Il Sign ore continuò ad apparire a Silo perché il Signore si rivelava a Samuele a Silo con la sua parola. La parola di Samuele giunse a tutto Israele. In quei giorni i Filistei si radunarono per combattere c ontro Israele. Allora Israele scese in campo contro i Filistei. Essi si accamparono presso Eben-Ezer mentre i Filistei s’erano accampati ad Afek. I Filistei si schierarono contro Israele e la battag lia divampò ma Israele fu sconfitto di fronte ai Filistei e caddero sul campo delle loro schiere circ a quattromila uomini. Quando il popolo fu rientrato nell’accampamento gli anziani d’Israele si c hiesero: «Perché ci ha sconfitti oggi il Signore di fronte ai Filistei? Andiamo a prenderci l’arca del l’alleanza del Signore a Silo perché venga in mezzo a noi e ci liberi dalle mani dei nostri nemici».
Il popolo mandò subito alcuni uomini a Silo a prelevare l’arca dell’alleanza del Signore degli eser citi che siede sui cherubini: c’erano con l’arca dell’alleanza di Dio i due figli di Eli Ofni e Fineès. N
on appena l’arca dell’alleanza del Signore giunse all’accampamento gli Israeliti elevarono un url o così forte che ne tremò la terra. Anche i Filistei udirono l’eco di quell’urlo e dissero: «Che signi fica quest’urlo così forte nell’accampamento degli Ebrei?». Poi vennero a sapere che era arrivat a nel loro campo l’arca del Signore. I Filistei ne ebbero timore e si dicevano: «è venuto Dio nell’a ccampamento!» ed esclamavano: «Guai a noi perché non è stato così né ieri né prima. Guai a n oi! Chi ci libererà dalle mani di queste divinità così potenti? Queste divinità hanno colpito con o gni piaga l’Egitto nel deserto. Siate forti e siate uomini o Filistei altrimenti sarete schiavi degli Eb rei come essi sono stati vostri schiavi. Siate uomini dunque e combattete!». Quindi i Filistei atta
ccarono battaglia Israele fu sconfitto e ciascuno fuggì alla sua tenda. La strage fu molto grande: dalla parte d’Israele caddero trentamila fanti. In più l’arca di Dio fu presa e i due figli di Eli Ofni e Fineès morirono. Uno della tribù di Beniamino fuggì dallo schieramento e venne a Silo il giorno stesso con le vesti stracciate e polvere sul capo. Quando giunse Eli stava seduto sul suo seggio p resso la porta e scrutava la strada perché aveva il cuore in ansia per l’arca di Dio. Venne dunque quell’uomo e diede l’annuncio in città e tutta la città alzò lamenti. Eli sentendo il rumore delle g rida si chiese: «Che sarà questo rumore tumultuoso?». Intanto l’uomo avanzò in gran fretta e p ortò l’annuncio a Eli. Eli aveva novantotto anni aveva lo sguardo fisso e non poteva più vedere.
Disse dunque quell’uomo a Eli: «Sono giunto dallo schieramento. Sono fuggito oggi dallo schiera mento». Eli domandò: «Che è dunque accaduto figlio mio?». Rispose il messaggero: «Israele è f uggito davanti ai Filistei e nel popolo v’è stata una grande sconfitta; inoltre i tuoi due figli Ofni e Fineès sono morti e l’arca di Dio è stata presa!». Appena quegli ebbe accennato all’arca di Dio El i cadde all’indietro dal seggio sul lato della porta si ruppe la nuca e morì, perché era vecchio e p esante. Egli era stato giudice d’Israele per quarant’anni. La nuora di lui moglie di Fineès incinta e prossima al parto quando sentì la notizia che era stata presa l’arca di Dio e che erano morti il s uocero e il marito s’accasciò e colta dalle doglie partorì. Mentre era sul punto di morire le dicev ano quelle che le stavano attorno: «Non temere hai partorito un figlio». Ella non rispose e non v i fece attenzione. Ma chiamò il bambino Icabòd dicendo: «Se n’è andata lontano da Israele la gl oria!» riferendosi alla cattura dell’arca di Dio al suocero e al marito. Disse: «Se n’è andata lonta no da Israele la gloria» perché era stata presa l’arca di Dio. I Filistei catturata l’arca di Dio la port arono da Eben-Ezer ad Asdod. I Filistei poi presero l’arca di Dio la introdussero nel tempio di Dagon e la colloca rono a fianco di Dagon. Il giorno dopo i cittadini di Asdod si alzarono ed ecco che Dagon era cad uto con la faccia a terra davanti all’arca del Signore; essi presero Dagon e lo rimisero al suo post o. Si alzarono il giorno dopo di buon mattino ed ecco che Dagon era caduto con la faccia a terra davanti all’arca del Signore mentre la testa di Dagon e le palme delle mani giacevano staccate s ulla soglia; il resto di Dagon era intero. Per questo i sacerdoti di Dagon e quanti entrano nel tem pio di Dagon ad Asdod non calpestano la soglia di Dagon ancora oggi. Allora incominciò a pesar e la mano del Signore sugli abitanti di Asdod li devastò e li colpì con bubboni Asdod e il suo terri torio. I cittadini di Asdod vedendo che le cose si mettevano in tal modo dissero: «Non rimanga c on noi l’arca del Dio d’Israele perché la sua mano è dura contro di noi e contro Dagon nostro di o!». Allora fatti radunare presso di loro tutti i prìncipi dei Filistei dissero: «Che dobbiamo fare d ell’arca del Dio d’Israele?». Risposero: «Si porti a Gat l’arca del Dio d’Israele». E portarono via l’
arca del Dio d’Israele. Ma ecco dopo che l’ebbero portata via la mano del Signore fu sulla città e un terrore molto grande colpì gli abitanti della città dal più piccolo al più grande e scoppiarono loro dei bubboni. Allora mandarono l’arca di Dio a Ekron; ma all’arrivo dell’arca di Dio a Ekron i cittadini protestarono: «Mi hanno portato qui l’arca del Dio d’Israele per far morire me e il mio popolo!». Fatti perciò radunare tutti i prìncipi dei Filistei dissero: «Mandate via l’arca del Dio d’I
sraele! Ritorni alla sua sede e non faccia morire me e il mio popolo». Infatti si era diffuso un terr ore mortale in tutta la città, perché la mano di Dio era molto pesante. Quelli che non morivano erano colpiti da bubboni e il gemito della città saliva al cielo. L’arca del Signore rimase nel territ orio dei Filistei sette mesi. Poi i Filistei convocarono i sacerdoti e gli indovini e dissero: «Che dob biamo fare dell’arca del Signore? Indicateci il modo di rimandarla alla sua sede». Risposero: «Se intendete rimandare l’arca del Dio d’Israele non rimandatela vuota ma pagatele un tributo di ri parazione per la colpa. Allora guarirete e vi sarà noto perché non si è ritirata da voi la sua mano
». Chiesero: «Quale riparazione dobbiamo darle?». Risposero: «Secondo il numero dei prìncipi d ei Filistei cinque bubboni d’oro e cinque topi d’oro, perché unico è stato il flagello per tutti voi e per i vostri prìncipi. Fate dunque figure dei vostri bubboni e figure dei vostri topi che infestano l a terra e date gloria al Dio d’Israele. Forse renderà più leggera la sua mano su di voi sul vostro di o e sul vostro territorio. Perché ostinarvi come si sono ostinati gli Egiziani e il faraone? Non li ha nno forse lasciati andare dopo che egli infierì su di loro? Dunque fate un carro nuovo poi prend ete due mucche che allattano sulle quali non sia mai stato posto il giogo e attaccate queste muc che al carro togliendo loro i vitelli e riconducendoli alla stalla. Quindi prendete l’arca del Signore collocatela sul carro e ponete gli oggetti d’oro che dovete darle in tributo di riparazione in una cesta al suo fianco. Poi fatela partire e lasciate che se ne vada. E state a vedere: se salirà a Bet-Semes per la via che porta al suo territorio è lui che ci ha provocato tutti questi mali così grandi; se no sapremo che non ci ha colpiti la sua mano ma per caso ci è capitato questo». Quegli uomi ni fecero in tal modo. Presero due mucche che allattano le attaccarono al carro e chiusero nella stalla i loro vitelli. Quindi collocarono l’arca del Signore sul carro con la cesta e i topi d’oro e le fi gure delle escrescenze. Le mucche andarono diritte per la strada di Bet-Semes, percorrendo sicure una sola via e muggendo ma non piegarono né a destra né a sinistra.
I prìncipi dei Filistei le seguirono sino al confine con Bet-Semes. Gli abitanti di Bet-Semes stavano facendo la mietitura del grano nella pianura. Alzando gli occhi scorsero l’arca ed esultarono a quella vista. Il carro giunse al campo di Giosuè di Bet-Semes e si fermò là dove era una grossa pietra. Allora fecero a pezzi i legni del carro e offrirono le mucche in olocausto al Signore. I leviti avevano deposto l’arca del Signore e la cesta che vi era appesa nella quale stavano gli oggetti d’oro e l’avevano collocata sulla grossa pietra. In quel gio rno gli uomini di Bet-Semes offrirono olocausti e fecero sacrifici al Signore. I cinque prìncipi dei Filistei stettero ad oss ervare poi tornarono il giorno stesso a Ekron. Sono queste le escrescenze che i Filistei diedero in tributo di riparazione al Signore: una per Asdod una per Gaza una per àscalon una per Gat una per Ekron. Invece i topi d’oro erano pari al numero delle città filistee appartenenti ai cinque prì ncipi dalle fortezze sino ai villaggi di campagna. Ne è testimonianza fino ad oggi nel campo di Gi osuè di Bet-Semes la grossa pietra sulla quale avevano posto l’arca del Signore. Ma il Signore colpì gli uomin i di Bet-
Semes perché avevano guardato nell’arca del Signore; colpì nel popolo settanta persone su cinq uantamila e il popolo fu in lutto, perché il Signore aveva inflitto alla loro gente questo grave col po. Gli uomini di Bet-Semes allora esclamarono: «Chi mai potrà stare al cospetto del Signore questo Dio così santo? L
a manderemo via da noi; ma da chi?». Perciò inviarono messaggeri agli abitanti di Kiriat-Iearìm a dire: «I Filistei hanno restituito l’arca del Signore. Scendete e portatela presso di voi».
Gli abitanti di Kiriat-
Iearìm vennero a portare via l’arca del Signore e la introdussero nella casa di Abinadàb sulla coll ina; consacrarono suo figlio Eleàzaro perché custodisse l’arca del Signore. Era trascorso molto t empo da quando l’arca era rimasta a Kiriat-Iearìm; erano passati venti anni quando tutta la casa d’Israele alzò lamenti al Signore. Allora Sa muele disse a tutta la casa d’Israele: «Se è proprio di tutto cuore che voi tornate al Signore elimi nate da voi tutti gli dèi stranieri e le Astarti; indirizzate il vostro cuore al Signore e servite lui lui solo ed egli vi libererà dalla mano dei Filistei». Subito gli Israeliti eliminarono i Baal e le Astarti e servirono solo il Signore. Disse poi Samuele: «Radunate tutto Israele a Mispa perché voglio preg are il Signore per voi». Si radunarono pertanto a Mispa attinsero acqua la versarono davanti al S
ignore digiunarono in quel giorno e là dissero: «Abbiamo peccato contro il Signore!». A Mispa S
amuele fu giudice degli Israeliti. Anche i Filistei udirono che gli Israeliti si erano radunati a Mispa e i prìncipi filistei si levarono contro Israele. Quando gli Israeliti lo udirono ebbero paura dei Fili stei. Dissero allora gli Israeliti a Samuele: «Non cessare di gridare per noi al Signore nostro Dio p erché ci salvi dalle mani dei Filistei». Samuele prese un agnello da latte e lo offrì tutto intero in olocausto al Signore; Samuele alzò grida al Signore per Israele e il Signore lo esaudì. Mentre Sa muele offriva l’olocausto i Filistei attaccarono battaglia contro Israele; ma in quel giorno il Signo re tuonò con voce potente contro i Filistei li terrorizzò ed essi furono sconfitti davanti a Israele.
Gli Israeliti uscirono da Mispa per inseguire i Filistei e li batterono fin sotto Bet-Car. Samuele prese allora una pietra e la pose tra Mispa e il Dente, e la chiamò Eben-Ezer dicendo: «Fin qui ci ha soccorso il Signore». Così i Filistei furono umiliati e non vennero più nel territorio d’Israele: la mano del Signore fu contro i Filistei per tutto il periodo di Samuele. To rnarono anche in possesso d’Israele le città che i Filistei avevano preso agli Israeliti da Ekron a G
at: Israele liberò il loro territorio dalla mano dei Filistei. E ci fu anche pace tra Israele e l’Amorre o. Samuele fu giudice d’Israele per tutto il tempo della sua vita. Ogni anno egli compiva il giro di Betel Gàlgala e Mispa ed era giudice d’Israele in tutte queste località. Poi ritornava a Rama perc hé là era la sua casa e anche là era giudice d’Israele. In quel luogo costruì anche un altare al Sign ore. Quando Samuele fu vecchio stabilì giudici d’Israele i suoi figli. Il primogenito si chiamava Gi oele il secondogenito Abia; erano giudici a Bersabea. I figli di lui però non camminavano sulle su e orme perché deviavano dietro il guadagno accettavano regali e stravolgevano il diritto. Si radu narono allora tutti gli anziani d’Israele e vennero da Samuele a Rama. Gli dissero: «Tu ormai sei vecchio e i tuoi figli non camminano sulle tue orme. Stabilisci quindi per noi un re che sia nostro
giudice come avviene per tutti i popoli». Agli occhi di Samuele la proposta dispiacque perché av evano detto: «Dacci un re che sia nostro giudice». Perciò Samuele pregò il Signore. Il Signore dis se a Samuele: «Ascolta la voce del popolo qualunque cosa ti dicano perché non hanno rigettato te ma hanno rigettato me perché io non regni più su di loro. Come hanno fatto dal giorno in cui li ho fatti salire dall’Egitto fino ad oggi abbandonando me per seguire altri dèi, così stanno facen do anche a te. Ascolta pure la loro richiesta però ammoniscili chiaramente e annuncia loro il diri tto del re che regnerà su di loro». Samuele riferì tutte le parole del Signore al popolo che gli ave va chiesto un re. Disse: «Questo sarà il diritto del re che regnerà su di voi: prenderà i vostri figli per destinarli ai suoi carri e ai suoi cavalli li farà correre davanti al suo cocchio li farà capi di migl iaia e capi di cinquantine li costringerà ad arare i suoi campi mietere le sue messi e apprestargli armi per le sue battaglie e attrezzature per i suoi carri. Prenderà anche le vostre figlie per farle s ue profumiere e cuoche e fornaie. Prenderà pure i vostri campi le vostre vigne i vostri oliveti più belli e li darà ai suoi ministri. Sulle vostre sementi e sulle vostre vigne prenderà le decime e le d arà ai suoi cortigiani e ai suoi ministri. Vi prenderà i servi e le serve i vostri armenti migliori e i v ostri asini e li adopererà nei suoi lavori. Metterà la decima sulle vostre greggi e voi stessi divent erete suoi servi. Allora griderete a causa del re che avrete voluto eleggere ma il Signore non vi a scolterà». Il popolo rifiutò di ascoltare la voce di Samuele e disse: «No! Ci sia un re su di noi. Sar emo anche noi come tutti i popoli; il nostro re ci farà da giudice uscirà alla nostra testa e comba tterà le nostre battaglie». Samuele ascoltò tutti i discorsi del popolo e li riferì all’orecchio del Sig nore. Il Signore disse a Samuele: «Ascoltali: lascia regnare un re su di loro». Samuele disse agli Is raeliti: «Ciascuno torni alla sua città!». C’era un uomo della tribù di Beniamino chiamato Kis figli o di Abièl, figlio di Seror figlio di Becoràt figlio di Afìach un Beniaminita uomo di valore. Costui a veva un figlio chiamato Saul prestante e bello: non c’era nessuno più bello di lui tra gli Israeliti; s uperava dalla spalla in su chiunque altro del popolo. Ora le asine di Kis padre di Saul si smarriro no e Kis disse al figlio Saul: «Su prendi con te uno dei domestici e parti subito in cerca delle asin e». Attraversarono le montagne di èfraim passarono al territorio di Salisà ma non le trovarono.
Si recarono allora nel territorio di Saalìm ma non c’erano; poi percorsero il territorio di Beniami no e non le trovarono. Quando arrivarono nel territorio di Suf Saul disse al domestico che era co n lui: «Su, torniamo indietro altrimenti mio padre smetterà di pensare alle asine e comincerà a preoccuparsi di noi». Gli rispose: «Ecco in questa città c’è un uomo di Dio ed è un uomo tenuto i n alta considerazione: tutto quello che dice si avvera certamente. Ebbene andiamoci! Forse ci in dicherà la via che dobbiamo battere». Rispose Saul al domestico: «Sì andiamo! Ma che portere mo a quell’uomo? Il pane nelle nostre sporte è finito e non abbiamo alcun dono da portare all’u omo di Dio: che abbiamo?». Ma il domestico rispondendo a Saul soggiunse: «Guarda: mi ritrovo in mano un quarto di siclo d’argento. Lo darò all’uomo di Dio ed egli ci indicherà la nostra via».
Una volta, in Israele quando uno andava a consultare Dio diceva: «Su andiamo dal veggente» pe rché, quello che oggi si chiama profeta allora si chiamava veggente. Disse dunque Saul al domes tico: «Hai detto bene; su andiamo». E andarono nella città dove era l’uomo di Dio. Mentre essi s
alivano il pendio della città trovarono delle ragazze che uscivano ad attingere acqua e chiesero l oro: «è qui il veggente?». Quelle risposero dicendo: «Sì eccolo davanti a te. Ma fa’ presto: ora in fatti è arrivato in città perché oggi il popolo celebra un sacrificio sull’altura. Entrando in città lo t roverete subito prima che salga all’altura per il banchetto perché il popolo non si mette a mangi are finché egli non sia arrivato; egli infatti deve benedire il sacrificio e dopo gli invitati mangiano
. Ora salite perché lo troverete subito». Salirono dunque alla città. Mentre essi stavano per entr are in città ecco che Samuele stava uscendo in direzione opposta per salire all’altura. Il Signore aveva rivelato all’orecchio di Samuele, un giorno prima che giungesse Saul: «Domani a quest’or a ti manderò un uomo della terra di Beniamino e tu lo ungerai come capo del mio popolo Israel e. Egli salverà il mio popolo dalle mani dei Filistei perché io ho guardato il mio popolo essendo g iunto fino a me il suo grido». Quando Samuele vide Saul il Signore gli confermò: «Ecco l’uomo di cui ti ho parlato: costui reggerà il mio popolo». Saul si accostò a Samuele in mezzo alla porta e gli chiese: «Indicami per favore la casa del veggente». Samuele rispose a Saul: «Sono io il vegge nte. Precedimi su, all’altura. Oggi voi due mangerete con me. Ti congederò domani mattina e ti darò indicazioni su tutto ciò che hai in mente. Riguardo poi alle tue asine smarrite tre giorni fa n on stare in pensiero perché sono state ritrovate. A chi del resto appartiene quel che c’è di prezi oso in Israele se non a te e a tutta la casa di tuo padre?». Rispose Saul: «Non sono io forse un B
eniaminita della più piccola tribù d’Israele? E la mia famiglia non è forse la più piccola fra tutte l e famiglie della tribù di Beniamino? Perché mi hai parlato in questo modo?». Ma Samuele prese Saul e il suo domestico e li fece entrare nella sala e assegnò loro il posto a capo degli invitati ch e erano una trentina. Quindi Samuele disse al cuoco: «Portami la porzione che ti avevo dato dic endoti: “Mettila da parte”». Il cuoco prese la coscia con la parte che le sta sopra la pose davanti a Saul e disse: «Ecco quel che è rimasto ti è posto davanti: mangia, perché è per questa circosta nza che è stato conservato per te quando si è detto: “Ho invitato il popolo”». Così quel giorno S
aul mangiò con Samuele. Scesero poi dall’altura in città e Samuele s’intrattenne con Saul sulla t errazza. Di buon mattino al sorgere dell’aurora Samuele chiamò Saul che era sulla terrazza dice ndo: «àlzati perché devo congedarti». Saul si alzò e ambedue lui e Samuele uscirono. Quando fu rono scesi alla periferia della città, Samuele disse a Saul: «Ordina al domestico che vada avanti».
E il domestico passò oltre. «Tu férmati un momento perché ti possa comunicare la parola di Di o». Samuele prese allora l’ampolla dell’olio e gliela versò sulla testa poi lo baciò dicendo: «Non t i ha forse unto il Signore come capo sulla sua eredità? Oggi quando sarai partito da me troverai due uomini presso la tomba di Rachele sul confine con Beniamino a Selsach. Essi ti diranno: “So no state ritrovate le asine che sei andato a cercare ed ecco che tuo padre non bada più alla facc enda delle asine ma è preoccupato di voi e va dicendo: Che cosa devo fare per mio figlio?”. Pass erai di là e andrai oltre; quando arriverai alla Quercia di Tabor vi troverai tre uomini che salgono a onorare Dio a Betel: uno porterà tre capretti, l’altro porterà tre pani rotondi il terzo porterà u n otre di vino. Ti domanderanno se stai bene e ti daranno due pani che tu prenderai dalle loro mani. Giungerai poi a Gàbaa di Dio dove c’è una guarnigione di Filistei ed entrando in città inco
ntrerai un gruppo di profeti che scenderanno dall’altura preceduti da arpe tamburelli flauti e ce tre, che agiranno da profeti. Lo spirito del Signore irromperà anche su di te e ti metterai a fare il profeta insieme con loro e sarai trasformato in un altro uomo. Quando questi segni che ti rigua rdano saranno accaduti farai quanto vorrai perché Dio sarà con te. Scenderai a Gàlgala precede ndomi ed ecco io ti raggiungerò per offrire olocausti e immolare sacrifici di comunione. Sette gi orni aspetterai finché io verrò da te e ti indicherò quello che dovrai fare». Appena egli ebbe volt ato le spalle per partire da Samuele Dio gli mutò il cuore e tutti questi segni si verificarono il gio rno stesso. Arrivarono là a Gàbaa ed ecco una schiera di profeti di fronte a loro; lo spirito di Dio irruppe su di lui e si mise a fare il profeta in mezzo a loro. Quanti lo avevano conosciuto prima v edendolo d’un tratto fare il profeta con i profeti si dissero l’un l’altro: «Che è accaduto al figlio d i Kis? è dunque anche Saul tra i profeti?». Uno del luogo disse: «E chi è il loro padre?». Per ques to passò in proverbio l’espressione: «è dunque anche Saul tra i profeti?». Quando ebbe termina to di profetare andò sull’altura. Lo zio di Saul chiese poi a lui e al suo domestico: «Dove siete an dati?». Rispose: «A cercare le asine e vedendo che non c’erano ci siamo recati da Samuele». Lo zio di Saul soggiunse: «Raccontami quello che vi ha detto Samuele». Saul rispose allo zio: «Ci ha assicurato che le asine erano state ritrovate». Ma non gli riferì il discorso del regno che gli aveva tenuto Samuele. Samuele convocò il popolo davanti a Dio a Mispa e disse agli Israeliti: «Dice il S
ignore Dio d’Israele: Io ho fatto salire Israele dall’Egitto e l’ho liberato dalla mano degli Egiziani e dalla mano di tutti i regni che vi affliggevano. Ma voi oggi avete ripudiato il vostro Dio il quale solo vi salva da tutti i vostri mali e da tutte le tribolazioni. E gli avete detto: “Costituisci un re so pra di noi!”. Ora mettetevi davanti a Dio distinti per tribù e per casati». Samuele fece accostare ogni tribù d’Israele e fu sorteggiata la tribù di Beniamino. Fece poi accostare la tribù di Beniami no distinta per casati e fu sorteggiato il casato di Matrì e fu sorteggiato Saul figlio di Kis. Si miser o a cercarlo ma non lo si trovò. Allora consultarono di nuovo il Signore: «è venuto qui quell’uom o?». Disse il Signore: «Eccolo nascosto in mezzo ai bagagli». Corsero a prenderlo di là ed egli si c ollocò in mezzo al popolo: sopravanzava dalla spalla in su tutto il popolo. Samuele disse a tutto i l popolo: «Vedete dunque chi il Signore ha eletto perché non c’è nessuno in tutto il popolo com e lui». Tutto il popolo proruppe in un grido: «Viva il re!». Samuele espose a tutto il popolo il diri tto del regno e lo scrisse in un libro che depositò davanti al Signore. Poi Samuele congedò tutto il popolo perché ognuno tornasse a casa sua. Anche Saul tornò a casa a Gàbaa e lo seguirono uo mini valorosi ai quali Dio aveva toccato il cuore. Ma degli uomini perversi dissero: «Potrà forse s alvarci costui?». Così lo disprezzarono e non vollero portargli alcun dono. Ma egli rimase in silen zio. Nacas l’Ammonita si mosse e pose il campo contro Iabes di Gàlaad. Tutti i cittadini di Iabes di Gàlaad dissero allora a Nacas: «Fa’ un patto con noi e ti saremo sudditi». Rispose loro Nacas l’
Ammonita: «A queste condizioni farò un patto con voi: possa io cavare a tutti voi l’occhio destro e porre tale gesto a oltraggio di tutto Israele». Di nuovo chiesero gli anziani di Iabes: «Lasciaci s ette giorni per inviare messaggeri in tutto il territorio d’Israele. Se nessuno verrà a salvarci uscir emo incontro a te». I messaggeri arrivarono a Gàbaa di Saul e riferirono quelle parole davanti al
popolo e tutto il popolo levò la voce e pianse. Ma ecco che Saul veniva dalla campagna dietro l’
armento. Chiese dunque Saul: «Che ha il popolo da piangere?». Riferirono a lui le parole degli u omini di Iabes. Lo spirito di Dio irruppe allora su Saul ed egli appena udite quelle parole si irritò molto. Prese un paio di buoi li fece a pezzi e li inviò in tutto il territorio d’Israele per mezzo di m essaggeri con questo proclama: «A chi non uscirà dietro Saul e dietro Samuele così sarà fatto de i suoi buoi». Cadde il terrore del Signore sul popolo e si mossero come un sol uomo. Saul li pass ò in rassegna a Bezek e risultarono trecentomila Israeliti e trentamila di Giuda. Dissero allora ai messaggeri che erano giunti: «Direte ai cittadini di Iabes di Gàlaad: “Domani quando il sole comi ncerà a scaldare sarete salvi”». I messaggeri partirono e riferirono agli uomini di Iabes che ne eb bero grande gioia. Allora gli uomini di Iabes dissero a Nacas: «Domani usciremo incontro a voi e ci farete quanto sembrerà bene ai vostri occhi». Il giorno dopo Saul divise il popolo in tre schier e e irruppe in mezzo al campo sul far del mattino; batterono gli Ammoniti finché il giorno si fece caldo. Quelli che scamparono furono dispersi: non ne rimasero due insieme. Il popolo allora dis se a Samuele: «Chi ha detto: “Dovrà forse regnare Saul su di noi?”. Consegnaci costoro e li fare mo morire». Ma Saul disse: «Oggi non si deve far morire nessuno perché in questo giorno il Sign ore ha operato la salvezza in Israele». Samuele ordinò al popolo: «Su andiamo a Gàlgala: là inau gureremo il regno». Tutto il popolo andò a Gàlgala e là davanti al Signore a Gàlgala riconobbero Saul come re; qui offrirono anche sacrifici di comunione davanti al Signore con grande gioia Saul e tutti gli Israeliti. Allora Samuele disse a tutto Israele: «Ecco ho ascoltato la vostra voce in tutt o quello che mi avete detto e ho costituito su di voi un re. Ora ecco che il re procede davanti a v oi. Quanto a me sono diventato vecchio e canuto e i miei figli eccoli tra voi. Io ho camminato dal la mia giovinezza fino ad oggi sotto i vostri occhi. Eccomi pronunciatevi a mio riguardo alla pres enza del Signore e del suo consacrato. A chi ho portato via il bue? A chi ho portato via l’asino? C
hi ho trattato con prepotenza? A chi ho fatto offesa? Da chi ho accettato un regalo per chiudere gli occhi a suo riguardo? Sono qui a restituire!». Risposero: «Non ci hai trattato con prepotenza né ci hai fatto offesa né hai preso nulla da nessuno». Egli soggiunse loro: «è testimone il Signor e contro di voi ed è testimone oggi il suo consacrato che non trovaste niente in mano mia». Risp osero: «Sì è testimone». Allora Samuele disse al popolo: «è il Signore che ha stabilito Mosè e Ar onne e che ha fatto salire i vostri padri dalla terra d’Egitto. Ora fatevi avanti, perché voglio giudi carvi davanti al Signore a causa di tutti i benefici che il Signore ha operato con voi e con i vostri padri. Quando Giacobbe andò in Egitto e i vostri padri gridarono al Signore il Signore mandò lor o Mosè e Aronne che li fecero uscire dall’Egitto e li fecero risiedere in questo luogo. Ma essi dim enticarono il Signore loro Dio ed egli li consegnò in potere di Sìsara capo dell’esercito di Asor e i n mano dei Filistei e in mano del re di Moab che mossero loro guerra. Essi gridarono al Signore e dissero: “Abbiamo peccato perché abbiamo abbandonato il Signore e abbiamo servito i Baal e le Astarti! Ma ora liberaci dalle mani dei nostri nemici e serviremo te”. Allora il Signore vi mand ò Ierub-Baal e Barak e Iefte e Samuele e vi liberò dalle mani dei nemici che vi circondavano e siete vissu
ti tranquilli. Eppure quando avete visto che Nacas re degli Ammoniti muoveva contro di voi mi a vete detto: “No un re regni sopra di noi”. Invece il Signore vostro Dio è vostro re. Ora ecco il re c he avete scelto e che avevate chiesto. Ecco che il Signore ha posto un re sopra di voi. Dunque se temerete il Signore se lo servirete e ascolterete la sua voce e non sarete ribelli alla parola del Si gnore voi e il re che regna su di voi sarete con il Signore, vostro Dio. Se invece non ascolterete la voce del Signore e sarete ribelli alla sua parola, la mano del Signore peserà su di voi e sui vostri padri. Fatevi avanti ancora e osservate questa grande cosa che il Signore sta per compiere sotto i vostri occhi. Non è forse questo il tempo della mietitura del grano? Ma io griderò al Signore e d egli manderà tuoni e pioggia. Così vi persuaderete e constaterete che grande è il male che ave te fatto davanti al Signore chiedendo un re per voi». Samuele allora invocò il Signore e il Signore mandò subito tuoni e pioggia in quel giorno. Tutto il popolo ebbe grande timore del Signore e d i Samuele. Tutto il popolo perciò disse a Samuele: «Prega il Signore tuo Dio per noi tuoi servi ch e non abbiamo a morire, poiché abbiamo aggiunto a tutti i nostri peccati il male di aver chiesto per noi un re». Samuele disse al popolo: «Non temete: voi avete fatto tutto questo male ma al meno non allontanatevi dal Signore anzi servite lui il Signore con tutto il cuore. Non allontanate vi dietro nullità che non possono giovare né salvare perché appunto sono nullità. Certo il Signor e non abbandonerà il suo popolo a causa del suo grande nome perché il Signore ha deciso di far e di voi il suo popolo. Quanto a me, non sia mai che io pecchi contro il Signore tralasciando di su pplicare per voi e di indicarvi la via buona e retta. Solo temete il Signore e servitelo fedelmente con tutto il cuore: considerate infatti le grandi cose che ha operato tra voi. Se invece vorrete far e il male voi e il vostro re perirete». Saul era nel pieno degli anni quando cominciò a regnare e r egnò due anni su Israele. Egli si scelse tremila uomini da Israele: duemila stavano con Saul a Mic mas e sul monte di Betel e mille stavano con Giònata a Gàbaa di Beniamino; rimandò invece il r esto del popolo ciascuno alla sua tenda. Allora Giònata sconfisse la guarnigione dei Filistei che e ra a Gàbaa e i Filistei lo seppero. Ma Saul suonò il corno in tutta la regione gridando: «Ascoltino gli Ebrei!». Tutto Israele udì e corse la voce: «Saul ha battuto la guarnigione dei Filistei e ormai I sraele s’è urtato con i Filistei». Il popolo si radunò dietro Saul a Gàlgala. I Filistei si radunarono p er combattere Israele, con trentamila carri e seimila cavalieri e una moltitudine numerosa come la sabbia che è sulla spiaggia del mare. Così si levarono e posero il campo a Micmas a oriente di Bet-Aven. Quando gli Israeliti videro di essere alle strette e che il popolo era incalzato cominciarono a nascondersi nelle grotte nelle cavità fra le rocce nelle fosse e nelle cisterne. Alcuni Ebrei pass arono oltre il Giordano nella terra di Gad e di Gàlaad. Saul restava a Gàlgala e tutto il popolo ch e era con lui s’impaurì. Aspettò tuttavia sette giorni per l’appuntamento fissato da Samuele. Ma Samuele non arrivava a Gàlgala e il popolo cominciò a disperdersi lontano da lui. Allora Saul die de ordine: «Portatemi l’olocausto e i sacrifici di comunione». Quindi offrì l’olocausto. Ed ecco a ppena ebbe finito di offrire l’olocausto giunse Samuele, e Saul gli uscì incontro per salutarlo. Sa muele disse: «Che hai fatto?». Saul rispose: «Vedendo che il popolo si disperdeva lontano da m
e e tu non venivi all’appuntamento, mentre i Filistei si riunivano a Micmas ho detto: “Ora scend eranno i Filistei contro di me a Gàlgala mentre io non ho ancora placato il Signore”. Perciò mi so no fatto ardito e ho offerto l’olocausto». Rispose Samuele a Saul: «Hai agito da stolto non osser vando il comando che il Signore tuo Dio ti aveva dato perché in questa occasione il Signore avre bbe reso stabile il tuo regno su Israele per sempre. Ora invece il tuo regno non durerà. Il Signor e si è già scelto un uomo secondo il suo cuore e gli comanderà di essere capo del suo popolo pe rché tu non hai osservato quanto ti aveva comandato il Signore». Samuele poi si alzò e salì da G
àlgala a Gàbaa di Beniamino; Saul contò la gente che si trovava con lui: erano seicento uomini. S
aul e Giònata e la gente rimasta con loro stavano a Gàbaa di Beniamino e i Filistei erano accamp ati a Micmas. Dall’accampamento filisteo uscì una pattuglia d’assalto divisa in tre schiere: una si diresse sulla via di Ofra verso la regione di Sual, un’altra si diresse sulla via di Bet-Oron la terza schiera si diresse sulla strada della regione che guarda la valle di Seboìm verso il d eserto. Allora non si trovava un fabbro in tutta la terra d’Israele «perché –
così dicevano i Filistei –
gli Ebrei non fabbrichino spade o lance». Così gli Israeliti dovevano sempre scendere dai Filistei per affilare ognuno l’aratro o la zappa o la scure o il vomere dell’aratro. Il prezzo era di un pim p er l’aratro e le zappe e di un terzo di siclo per le scuri e per raddrizzare il pungolo. Nel giorno del la battaglia tra tutta la gente che stava con Saul e Giònata non si trovò in mano ad alcuno né sp ada né lancia. Se ne trovò solo per Saul e suo figlio Giònata. Intanto una guarnigione di Filistei e ra uscita verso il passo di Micmas. Un giorno Giònata figlio di Saul disse al suo scudiero: «Su por tiamoci fino alla postazione dei Filistei che sta qui di fronte». Ma non disse nulla a suo padre. Sa ul se ne stava al limitare di Gàbaa sotto il melograno che si trova a Migron; la gente che era con lui ammontava a circa seicento uomini. Achia figlio di Achitù b, fratello di Icabòd figlio di Fineès figlio di Eli sacerdote del Signore a Silo portava l’ efod e il popolo non sapeva che Giònata era pa rtito. Tra i varchi che Giònata cercava per passare alla postazione dei Filistei c’era un dente di ro ccia da una parte e un dente dall’altra parte: uno si chiamava Boses l’altro Senne. Uno dei denti si ergeva di fronte a Micmas a settentrione l’altro era di fronte a Gheba a meridione. Giònata di sse allo scudiero: «Vieni avviciniamoci alla postazione di questi incirconcisi; forse il Signore oper erà per noi perché non è difficile per il Signore salvare con molti o con pochi». Lo scudiero gli ris pose: «Fa’ quanto hai nel cuore. Avvìati! Eccomi con te come il tuo cuore desidera». Allora Giòn ata disse: «Ecco noi ci avvicineremo a questi uomini e ci faremo vedere da loro. Se ci diranno: “F
ermatevi finché vi raggiungiamo!” restiamo in basso e non saliamo da loro. Se invece ci diranno:
“Venite su da noi!” saliamo perché il Signore ce li ha consegnati nelle mani e questo sarà per n oi il segno». Quindi i due si lasciarono scorgere dalla postazione filistea e i Filistei dissero: «Ecco gli Ebrei che escono dalle caverne dove si erano nascosti». Poi gli uomini della guarnigione disse ro a Giònata e al suo scudiero: «Salite da noi: abbiamo una cosa da dirvi!». Giònata allora disse al suo scudiero: «Sali dopo di me perché il Signore li ha consegnati nelle mani d’Israele». Giònat a si arrampicava con le mani e con i piedi e lo scudiero lo seguiva; quelli cadevano davanti a Giò
nata e dietro lo scudiero li finiva. Questa fu la prima strage nella quale Giònata e il suo scudiero colpirono una ventina di uomini in circa mezzo iugero di campo. Si sparse così il terrore nell’acc ampamento nella campagna e tra tutto il popolo. Anche la guarnigione e gli uomini d’assalto fur ono atterriti. La terra tremò e ci fu un terrore divino. Le vedette di Saul a Gàbaa di Beniamino g uardarono e videro la moltitudine in agitazione che fuggiva qua e là. Allora Saul disse alla gente che era con lui: «Su controllate e vedete chi sia partito da noi». Controllarono ed ecco non c’era no né Giònata né il suo scudiero. Saul disse ad Achia: «Avvicina l’arca di Dio». Infatti in quel gior no c’era l’arca di Dio con gli Israeliti. Mentre Saul parlava al sacerdote il tumulto nel campo filist eo andava propagandosi e crescendo. Saul disse al sacerdote: «Ritira la mano». Saul e la gente c he era con lui alzarono grida e mossero all’attacco ed ecco trovarono che la spada dell’uno si riv olgeva contro l’altro in una confusione molto grande. Anche quegli Ebrei che erano con i Filistei da qualche tempo e che erano saliti con loro all’accampamento cominciarono anch’essi a stare dalla parte degli Israeliti che erano con Saul e Giònata. Inoltre anche tutti gli Israeliti che si eran o nascosti sulle montagne di èfraim quando seppero che i Filistei erano in fuga si unirono con lo ro nella battaglia. Così il Signore in quel giorno salvò Israele e la battaglia si estese fino a Bet-Aven. Gli uomini d’Israele erano sfiniti in quel giorno ma Saul fece giurare a tutto il popolo: «Ma ledetto chiunque toccherà cibo prima di sera prima che io mi sia vendicato dei miei nemici». E n essuno del popolo gustò cibo. Tutta la gente passò per una selva dove c’erano favi di miele sul s uolo. Il popolo passò per la selva ed ecco si vedeva colare il miele ma nessuno stese la mano e l a portò alla bocca perché il popolo temeva il giuramento. Ma Giònata non aveva saputo che suo padre aveva fatto giurare il popolo quindi allungò la punta del bastone che teneva in mano e la intinse nel favo di miele poi riportò la mano alla bocca e i suoi occhi si rischiararono. Uno fra la gente intervenne dicendo: «Tuo padre ha fatto fare questo solenne giuramento al popolo: “Mal edetto chiunque toccherà cibo quest’oggi!” sebbene il popolo fosse sfinito». Rispose Giònata: «
Mio padre ha rovinato il paese! Guardate come si sono rischiarati i miei occhi perché ho gustato un po’ di questo miele. Magari il popolo avesse mangiato oggi del bottino dei nemici che ha tro vato. Quanto maggiore sarebbe stata ora la sconfitta dei Filistei!». In quel giorno essi batterono i Filistei da Micmas fino ad àialon e il popolo era sfinito. Il popolo si gettò sulla preda e presero pecore buoi e vitelli e li macellarono per terra e li mangiarono con il sangue. La cosa fu annunci ata a Saul: «Ecco il popolo pecca contro il Signore mangiando con il sangue». Rispose: «Avete pr evaricato! Rotolate subito qui una grande pietra». Saul soggiunse: «Passate tra il popolo e dite l oro che ognuno mi conduca qua il suo bue e il suo montone e li macellerete su questa pietra e n e mangerete; così non peccherete contro il Signore mangiando il sangue». E tutto il popolo con dusse nella notte ciascuno il bestiame che aveva e là lo macellò. Saul innalzò un altare al Signor e. Fu questo il primo altare che egli edificò al Signore. Quindi Saul disse: «Scendiamo a inseguire i Filistei questa notte stessa e deprediamoli fino al mattino e non lasciamo scampare uno solo d i loro». Gli risposero: «Fa’ quanto ti sembra bene». Ma il sacerdote disse: «Accostiamoci qui a D
io». Saul dunque interrogò Dio: «Devo scendere a inseguire i Filistei? Li consegnerai in mano d’I
sraele?». Ma quel giorno non gli rispose. Allora Saul disse: «Accostatevi qui autorità tutte del po polo. Cercate ed esaminate da chi sia stato commesso oggi il peccato perché per la vita del Sign ore salvatore d’Israele certamente costui morirà anche se si trattasse di mio figlio Giònata». Ma nessuno del popolo gli rispose. Perciò disse a tutto Israele: «Voi state da una parte e io e mio fi glio Giònata staremo dall’altra». Il popolo rispose a Saul: «Fa’ quanto ti sembra bene». Saul diss e al Signore: «Dio d’Israele da’ una risposta chiara». E furono indicati Giònata e Saul mentre il p opolo restò libero. Saul soggiunse: «Tirate a sorte tra me e mio figlio Giònata». E fu indicato Giò nata. Saul disse a Giònata: «Narrami quello che hai fatto». Giònata raccontò: «Sì ho assaggiato un po’ di miele con la punta del bastone che avevo in mano. Ecco morirò». Saul disse: «Faccia Di o a me questo e anche di peggio se non andrai a morte Giònata!». Ma il popolo disse a Saul: «D
ovrà forse morire Giònata che ha ottenuto questa grande vittoria in Israele? Non sia mai! Per la vita del Signore non cadrà a terra un capello del suo capo perché in questo giorno egli ha operat o con Dio». Così il popolo riscattò Giònata che non fu messo a morte. Saul si ritrasse dall’insegui re i Filistei e questi raggiunsero il loro territorio. Saul si assicurò il regno su Israele e combatté c ontro tutti i nemici all’intorno: contro Moab e gli Ammoniti contro Edom e i re di Soba e i Filistei e dovunque si volgeva, aveva successo. Compì imprese coraggiose batté gli Amaleciti e liberò Is raele dalle mani degli oppressori. Figli di Saul furono Giònata Isvì e Malchisù a; le sue due figlie s i chiamavano Merab la maggiore e Mical la più piccola. La moglie di Saul si chiamava Achinòam f iglia di Achimàas. Il capo delle sue milizie si chiamava Abner figlio di Ner zio di Saul. Kis padre di Saul e Ner padre di Abner erano figli di Abièl. Durante tutto il tempo di Saul vi fu guerra aperta c on i Filistei; se Saul scorgeva un uomo robusto o un giovane coraggioso lo prendeva al suo segui to. Samuele disse a Saul: «Il Signore ha inviato me per ungerti re sopra Israele suo popolo. Ora a scolta la voce del Signore. Così dice il Signore degli eserciti: “Ho considerato ciò che ha fatto Am alèk a Israele come gli si oppose per la via quando usciva dall’Egitto. Va’ dunque e colpisci Amal èk e vota allo sterminio quanto gli appartiene; non risparmiarlo ma uccidi uomini e donne bamb ini e lattanti buoi e pecore cammelli e asini”». Saul convocò il popolo e passò in rassegna le trup pe a Telaìm: erano duecentomila fanti e diecimila uomini di Giuda. Saul venne alla città di Amal èk e tese un’imboscata nella valle. Disse inoltre Saul ai Keniti: «Andate via ritiratevi dagli Amale citi prima che vi distrugga insieme con loro poiché avete usato benevolenza con tutti gli Israeliti quando uscivano dall’Egitto». I Keniti si ritirarono da Amalèk. Saul colpì Amalèk da Avìla in direzi one di Sur che è di fronte all’Egitto. Egli prese vivo Agag re di Amalèk e sterminò a fil di spada tu tto il popolo. Ma Saul e il popolo risparmiarono Agag e il meglio del bestiame minuto e grosso ci oè gli animali grassi e gli agnelli tutto il meglio e non vollero sterminarli; invece votarono allo st erminio tutto il bestiame scadente e patito. Allora fu rivolta a Samuele questa parola del Signor e: «Mi pento di aver fatto regnare Saul perché si è allontanato da me e non ha rispettato la mia parola». Samuele si adirò e alzò grida al Signore tutta la notte. Al mattino presto Samuele si alzò per andare incontro a Saul ma fu annunciato a Samuele: «Saul è andato a Carmel ed ecco si è f atto costruire un trofeo poi è tornato passando altrove ed è sceso a Gàlgala». Samuele raggiuns
e Saul e Saul gli disse: «Benedetto tu sia dal Signore; ho eseguito gli ordini del Signore». Rispose Samuele: «Ma che è questo belar di pecore che mi giunge all’orecchio e questi muggiti d’armen to che odo?». Disse Saul: «Li hanno condotti qui dagli Amaleciti come il meglio del bestiame gro sso e minuto che il popolo ha risparmiato per sacrificarli al Signore tuo Dio. Il resto l’abbiamo vo tato allo sterminio». Rispose Samuele a Saul: «Lascia che ti annunci ciò che il Signore mi ha dett o questa notte». E Saul gli disse: «Parla!». Samuele continuò: «Non sei tu capo delle tribù d’Isra ele benché piccolo ai tuoi stessi occhi? Il Signore non ti ha forse unto re d’Israele? Il Signore ti a veva mandato per una spedizione e aveva detto: “Va’ vota allo sterminio quei peccatori di Amal eciti combattili finché non li avrai distrutti”. Perché dunque non hai ascoltato la voce del Signor e e ti sei attaccato al bottino e hai fatto il male agli occhi del Signore?». Saul insisté con Samuel e: «Ma io ho obbedito alla parola del Signore ho fatto la spedizione che il Signore mi ha ordinat o ho condotto Agag re di Amalèk e ho sterminato gli Amaleciti. Il popolo poi ha preso dal bottin o bestiame minuto e grosso primizie di ciò che è votato allo sterminio per sacrificare al Signore t uo Dio a Gàlgala». Samuele esclamò: «Il Signore gradisce forse gli olocausti e i sacrifici quanto l’
obbedienza alla voce del Signore? Ecco obbedire è meglio del sacrificio, essere docili è meglio d el grasso degli arieti. Sì peccato di divinazione è la ribellione, e colpa e terafìm l’ostinazione. Poi ché hai rigettato la parola del Signore, egli ti ha rigettato come re». Saul disse allora a Samuele:
«Ho peccato per avere trasgredito il comando del Signore e i tuoi ordini mentre ho temuto il po polo e ho ascoltato la sua voce. Ma ora perdona il mio peccato e ritorna con me perché possa p rostrarmi al Signore». Ma Samuele rispose a Saul: «Non posso ritornare con te perché tu stesso hai rigettato la parola del Signore e il Signore ti ha rigettato perché tu non sia più re sopra Israel e». Samuele si voltò per andarsene ma Saul gli afferrò un lembo del mantello che si strappò. Sa muele gli disse: «Oggi il Signore ha strappato da te il regno d’Israele e l’ha dato a un altro miglio re di te. D’altra parte colui che è la gloria d’Israele non mentisce né può pentirsi perché egli non è uomo per pentirsi». Saul disse: «Ho peccato ma onorami ora davanti agli anziani del mio pop olo e davanti a Israele; ritorna con me perché mi possa prostrare al Signore tuo Dio». Samuele ri tornò con Saul e questi si prostrò al Signore. Poi Samuele disse: «Conducetemi Agag re di Amalè k». Agag avanzò in catene verso di lui e disse: «Certo è passata l’amarezza della morte!». Samue le l’apostrofò: «Come la tua spada ha privato di figli le donne, così tra le donne sarà privata di fi gli tua madre». E Samuele abbatté Agag davanti al Signore a Gàlgala. Samuele andò quindi a Ra ma e Saul salì a casa sua a Gàbaa di Saul. Samuele non rivide più Saul fino al giorno della sua mo rte; ma Samuele piangeva per Saul perché il Signore si era pentito di aver fatto regnare Saul su I sraele. Il Signore disse a Samuele: «Fino a quando piangerai su Saul mentre io l’ho ripudiato per ché non regni su Israele? Riempi d’olio il tuo corno e parti. Ti mando da Iesse il Betlemmita perc hé mi sono scelto tra i suoi figli un re». Samuele rispose: «Come posso andare? Saul lo verrà a s apere e mi ucciderà». Il Signore soggiunse: «Prenderai con te una giovenca e dirai: “Sono venut o per sacrificare al Signore”. Inviterai quindi Iesse al sacrificio. Allora io ti farò conoscere quello che dovrai fare e ungerai per me colui che io ti dirò». Samuele fece quello che il Signore gli avev
a comandato e venne a Betlemme; gli anziani della città gli vennero incontro trepidanti e gli chi esero: «è pacifica la tua venuta?». Rispose: «è pacifica. Sono venuto per sacrificare al Signore. S
antificatevi poi venite con me al sacrificio». Fece santificare anche Iesse e i suoi figli e li invitò al sacrificio. Quando furono entrati egli vide Eliàb e disse: «Certo davanti al Signore sta il suo cons acrato!». Il Signore replicò a Samuele: «Non guardare al suo aspetto né alla sua alta statura. Io l’
ho scartato perché non conta quel che vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza ma il Signo re vede il cuore». Iesse chiamò Abinadàb e lo presentò a Samuele ma questi disse: «Nemmeno costui il Signore ha scelto». Iesse fece passare Sammà e quegli disse: «Nemmeno costui il Signor e ha scelto». Iesse fece passare davanti a Samuele i suoi sette figli e Samuele ripeté a Iesse: «Il S
ignore non ha scelto nessuno di questi». Samuele chiese a Iesse: «Sono qui tutti i giovani?». Ris pose Iesse: «Rimane ancora il più piccolo che ora sta a pascolare il gregge». Samuele disse a Iess e: «Manda a prenderlo perché non ci metteremo a tavola prima che egli sia venuto qui». Lo ma ndò a chiamare e lo fece venire. Era fulvo con begli occhi e bello di aspetto. Disse il Signore: «àlz ati e ungilo: è lui!». Samuele prese il corno dell’olio e lo unse in mezzo ai suoi fratelli e lo spirito del Signore irruppe su Davide da quel giorno in poi. Samuele si alzò e andò a Rama. Lo spirito de l Signore si era ritirato da Saul e cominciò a turbarlo un cattivo spirito venuto dal Signore. Allora i servi di Saul gli dissero: «Ecco un cattivo spirito di Dio ti turba. Comandi il signore nostro ai ser vi che gli stanno intorno e noi cercheremo un uomo abile a suonare la cetra. Quando il cattivo s pirito di Dio sarà su di te quegli metterà mano alla cetra e ti sentirai meglio». Saul rispose ai min istri: «Ebbene cercatemi un uomo che suoni bene e fatelo venire da me». Rispose uno dei dome stici: «Ecco ho visto il figlio di Iesse il Betlemmita: egli sa suonare ed è forte e coraggioso abile n elle armi saggio di parole di bell’aspetto e il Signore è con lui». Saul mandò messaggeri a dire a I esse: «Mandami tuo figlio Davide quello che sta con il gregge». Iesse prese un asino del pane un otre di vino e un capretto e per mezzo di Davide suo figlio li inviò a Saul. Davide giunse da Saul e cominciò a stare alla sua presenza. Questi gli si affezionò molto ed egli divenne suo scudiero.
E Saul mandò a dire a Iesse: «Rimanga Davide con me perché ha trovato grazia ai miei occhi». Q
uando dunque lo spirito di Dio era su Saul Davide prendeva in mano la cetra e suonava: Saul si c almava e si sentiva meglio e lo spirito cattivo si ritirava da lui. I Filistei radunarono di nuovo le lo ro truppe per la guerra si radunarono a Soco di Giuda e si accamparono tra Soco e Azekà a Efes-Dammìm. Anche Saul e gli Israeliti si radunarono e si accamparono nella valle del Terebinto e si schierarono a battaglia contro i Filistei. I Filistei stavano sul monte da una parte e Israele sul mo nte dall’altra parte e in mezzo c’era la valle. Dall’accampamento dei Filistei uscì uno sfidante chi amato Golia di Gat; era alto sei cubiti e un palmo. Aveva in testa un elmo di bronzo ed era rivest ito di una corazza a piastre il cui peso era di cinquemila sicli di bronzo. Portava alle gambe schini eri di bronzo e un giavellotto di bronzo tra le spalle. L’asta della sua lancia era come un cilindro di tessitori e la punta dell’asta pesava seicento sicli di ferro; davanti a lui avanzava il suo scudier o. Egli si fermò e gridò alle schiere d’Israele: «Perché siete usciti e vi siete schierati a battaglia?
Non sono io Filisteo e voi servi di Saul? Sceglietevi un uomo che scenda contro di me. Se sarà ca
pace di combattere con me e mi abbatterà noi saremo vostri servi. Se invece prevarrò io su di lu i e lo abbatterò sarete voi nostri servi e ci servirete». Il Filisteo aggiungeva: «Oggi ho sfidato le s chiere d’Israele. Datemi un uomo e combatteremo insieme». Saul e tutto Israele udirono le par ole del Filisteo; rimasero sconvolti ed ebbero grande paura. Davide era figlio di un Efrateo di Bet lemme di Giuda chiamato Iesse che aveva otto figli. Al tempo di Saul quest’uomo era un vecchio avanzato negli anni. I tre figli maggiori di Iesse erano andati con Saul in guerra. Di questi tre figli che erano andati in guerra il maggiore si chiamava Eliàb il secondo Abinadàb il terzo Sammà. D
avide era ancora giovane quando questi tre più grandi erano andati dietro a Saul. Egli andava e veniva dal seguito di Saul e pascolava il gregge di suo padre a Betlemme. Il Filisteo si avvicinava mattina e sera; continuò così per quaranta giorni. Ora Iesse disse a Davide suo figlio: «Prendi pe r i tuoi fratelli questa misura di grano tostato e questi dieci pani e corri dai tuoi fratelli nell’acca mpamento. Al comandante di migliaia porterai invece queste dieci forme di formaggio. Infórma ti della salute dei tuoi fratelli e prendi la loro paga. Essi con Saul e tutto l’esercito d’Israele sono nella valle del Terebinto a combattere contro i Filistei». Davide si alzò di buon mattino: lasciò il gregge a un guardiano prese il carico e partì come gli aveva ordinato Iesse. Arrivò ai carriaggi qu ando le truppe uscivano per schierarsi e lanciavano il grido di guerra. Si disposero in ordine Isra ele e i Filistei: schiera contro schiera. Davide si liberò dei bagagli consegnandoli al custode poi c orse allo schieramento e domandò ai suoi fratelli se stavano bene. Mentre egli parlava con loro ecco lo sfidante chiamato Golia il Filisteo di Gat. Avanzava dalle schiere filistee e tornò a dire le sue solite parole e Davide le intese. Tutti gli Israeliti quando lo videro fuggirono davanti a lui ed ebbero grande paura. Ora un Israelita disse: «Vedete quest’uomo che avanza? Viene a sfidare Is raele. Chiunque lo abbatterà il re lo colmerà di ricchezze gli darà in moglie sua figlia ed esenterà la casa di suo padre da ogni gravame in Israele». Davide domandava agli uomini che gli stavano attorno: «Che faranno dunque all’uomo che abbatterà questo Filisteo e farà cessare la vergogn a da Israele? E chi è mai questo Filisteo incirconciso per sfidare le schiere del Dio vivente?». Tutt i gli rispondevano la stessa cosa: «Così e così si farà all’uomo che lo abbatterà». Lo sentì Eliàb su o fratello maggiore mentre parlava con quegli uomini ed Eliàb si irritò con Davide e gli disse: «M
a perché sei venuto giù e a chi hai lasciato quelle poche pecore nel deserto? Io conosco la tua b oria e la malizia del tuo cuore: tu sei venuto giù per vedere la battaglia». Davide rispose: «Che c osa ho dunque fatto? Era solo una domanda». Si allontanò da lui andò dall’altra parte e fece la s tessa domanda e tutti gli diedero la stessa risposta. Sentendo le domande che Davide faceva le riferirono a Saul e questi lo fece chiamare. Davide disse a Saul: «Nessuno si perda d’animo a cau sa di costui. Il tuo servo andrà a combattere con questo Filisteo». Saul rispose a Davide: «Tu no n puoi andare contro questo Filisteo a combattere con lui: tu sei un ragazzo e costui è uomo d’a rmi fin dalla sua adolescenza». Ma Davide disse a Saul: «Il tuo servo pascolava il gregge di suo p adre e veniva talvolta un leone o un orso a portar via una pecora dal gregge. Allora lo inseguivo lo abbattevo e strappavo la pecora dalla sua bocca. Se si rivoltava contro di me l’afferravo per le mascelle l’abbattevo e lo uccidevo. Il tuo servo ha abbattuto il leone e l’orso. Codesto Filisteo n
on circonciso farà la stessa fine di quelli, perché ha sfidato le schiere del Dio vivente». Davide ag giunse: «Il Signore che mi ha liberato dalle unghie del leone e dalle unghie dell’orso mi libererà anche dalle mani di questo Filisteo». Saul rispose a Davide: «Ebbene va’ e il Signore sia con te».
Saul rivestì Davide della sua armatura gli mise in capo un elmo di bronzo e lo rivestì della corazz a. Poi Davide cinse la spada di lui sopra l’armatura e cercò invano di camminare perché non ave va mai provato. Allora Davide disse a Saul: «Non posso camminare con tutto questo perché non sono abituato». E Davide se ne liberò. Poi prese in mano il suo bastone si scelse cinque ciottoli l isci dal torrente e li pose nella sua sacca da pastore nella bisaccia; prese ancora in mano la fiond a e si avvicinò al Filisteo. Il Filisteo avanzava passo passo avvicinandosi a Davide mentre il suo sc udiero lo precedeva. Il Filisteo scrutava Davide e quando lo vide bene ne ebbe disprezzo, perché era un ragazzo fulvo di capelli e di bell’aspetto. Il Filisteo disse a Davide: «Sono io forse un cane perché tu venga a me con un bastone?». E quel Filisteo maledisse Davide in nome dei suoi dèi.
Poi il Filisteo disse a Davide: «Fatti avanti e darò le tue carni agli uccelli del cielo e alle bestie sel vatiche». Davide rispose al Filisteo: «Tu vieni a me con la spada con la lancia e con l’asta. Io ven go a te nel nome del Signore degli eserciti Dio delle schiere d’Israele che tu hai sfidato. In quest o stesso giorno il Signore ti farà cadere nelle mie mani. Io ti abbatterò e ti staccherò la testa e g etterò i cadaveri dell’esercito filisteo agli uccelli del cielo e alle bestie selvatiche; tutta la terra s aprà che vi è un Dio in Israele. Tutta questa moltitudine saprà che il Signore non salva per mezz o della spada o della lancia perché del Signore è la guerra ed egli vi metterà certo nelle nostre m ani». Appena il Filisteo si mosse avvicinandosi incontro a Davide questi corse a prendere posizio ne in fretta contro il Filisteo. Davide cacciò la mano nella sacca ne trasse una pietra la lanciò con la fionda e colpì il Filisteo in fronte. La pietra s’infisse nella fronte di lui che cadde con la faccia a terra. Così Davide ebbe il sopravvento sul Filisteo con la fionda e con la pietra colpì il Filisteo e l’uccise benché Davide non avesse spada. Davide fece un salto e fu sopra il Filisteo prese la sua spada la sguainò e lo uccise poi con quella gli tagliò la testa. I Filistei videro che il loro eroe era morto e si diedero alla fuga. Si levarono allora gli uomini d’Israele e di Giuda alzando il grido di g uerra e inseguirono i Filistei fin presso Gat e fino alle porte di Ekron. I cadaveri dei Filistei cadde ro lungo la strada di Saaràim fino all’ingresso di Gat e fino a Ekron. Quando gli Israeliti furono di ritorno dall’inseguimento dei Filistei saccheggiarono il loro campo. Davide prese la testa del Filis teo e la portò a Gerusalemme. Le armi di lui invece le pose nella sua tenda. Saul mentre guarda va Davide uscire contro il Filisteo aveva chiesto ad Abner capo delle milizie: «Abner di chi è figli o questo giovane?». Rispose Abner: «Per la tua vita o re non lo so». Il re soggiunse: «Chiedi tu di chi sia figlio quel giovinetto». Quando Davide tornò dall’uccisione del Filisteo Abner lo prese e l o condusse davanti a Saul mentre aveva ancora in mano la testa del Filisteo. Saul gli chiese: «Di chi sei figlio giovane?». Rispose Davide: «Di Iesse il Betlemmita tuo servo». Quando Davide ebb e finito di parlare con Saul la vita di Giònata s’era legata alla vita di Davide e Giònata lo amò co me se stesso. Saul in quel giorno lo prese con sé e non lo lasciò tornare a casa di suo padre. Giò nata strinse con Davide un patto perché lo amava come se stesso. Giònata si tolse il mantello ch
e indossava e lo diede a Davide e vi aggiunse i suoi abiti la sua spada il suo arco e la cintura. Dav ide riusciva in tutti gli incarichi che Saul gli affidava così che Saul lo pose al comando dei guerrie ri ed era gradito a tutto il popolo e anche ai ministri di Saul. Al loro rientrare mentre Davide tor nava dall’uccisione del Filisteo uscirono le donne da tutte le città d’Israele a cantare e a danzare incontro al re Saul accompagnandosi con i tamburelli con grida di gioia e con sistri. Le donne ca ntavano danzando e dicevano: «Ha ucciso Saul i suoi mille e Davide i suoi diecimila». Saul ne fu molto irritato e gli parvero cattive quelle parole. Diceva: «Hanno dato a Davide diecimila a me n e hanno dati mille. Non gli manca altro che il regno». Così da quel giorno in poi Saul guardava so spettoso Davide. Il giorno dopo un cattivo spirito di Dio irruppe su Saul il quale si mise a fare il p rofeta in casa. Davide suonava la cetra come ogni giorno e Saul teneva in mano la lancia. Saul i mpugnò la lancia pensando: «Inchioderò Davide al muro!». Ma Davide gli sfuggì per due volte. S
aul cominciò a sentire timore di fronte a Davide perché il Signore era con lui mentre si era ritirat o da Saul. Saul lo allontanò da sé e lo fece comandante di migliaia e Davide andava e veniva al c ospetto del popolo. Davide riusciva in tutte le sue imprese poiché il Signore era con lui. Saul ved endo che riusciva proprio sempre aveva timore di lui. Ma tutto Israele e Giuda amavano Davide perché egli andava e veniva alla loro testa. Ora Saul disse a Davide: «Ecco Merab mia figlia mag giore. La do in moglie a te. Tu dovrai essere il mio guerriero e combatterai le battaglie del Signo re». Saul pensava: «Non sia contro di lui la mia mano ma contro di lui sia la mano dei Filistei». D
avide rispose a Saul: «Chi sono io che cos’è la mia vita e che cos’è la famiglia di mio padre in Isra ele perché io possa diventare genero del re?». E così quando venne il tempo di dare Merab figli a di Saul a Davide fu data invece in moglie ad Adrièl di Mecolà. Intanto Mical l’altra figlia di Saul s’invaghì di Davide; ne riferirono a Saul e la cosa gli sembrò giusta. Saul diceva: «Gliela darò ma sarà per lui una trappola e la mano dei Filistei cadrà su di lui». E Saul disse a Davide: «Oggi hai u na seconda occasione per diventare mio genero». Quindi Saul ordinò ai suoi ministri: «Dite in se greto a Davide: “Ecco tu piaci al re e i suoi ministri ti amano. Su dunque diventa genero del re”»
. I ministri di Saul sussurrarono all’orecchio di Davide queste parole e Davide rispose: «Vi pare pi ccola cosa diventare genero del re? Io sono povero e di umile condizione». I ministri di Saul gli ri ferirono: «Davide ha risposto in questo modo». Allora Saul disse: «Riferite a Davide: “Il re non v uole il prezzo nuziale ma solo cento prepuzi di Filistei perché sia fatta vendetta dei nemici del re
”». Saul tramava di far cadere Davide in mano ai Filistei. I ministri di lui riferirono a Davide quest e parole e a Davide sembrò giusta tale condizione per diventare genero del re. Non erano ancor a compiuti i giorni fissati quando Davide si alzò partì con i suoi uomini e abbatté tra i Filistei due cento uomini. Davide riportò tutti quanti i loro prepuzi al re per diventare genero del re. Saul gli diede in moglie la figlia Mical. Saul si accorse che il Signore era con Davide e che Mical sua figlia lo amava. Saul ebbe ancora più paura nei riguardi di Davide e fu nemico di Davide per tutti i su oi giorni. I capi dei Filistei facevano sortite ma Davide ogni volta che uscivano riportava successi maggiori di tutti i ministri di Saul e divenne molto famoso. Saul comunicò a Giònata suo figlio e ai suoi ministri di voler uccidere Davide. Ma Giònata figlio di Saul nutriva grande affetto per Dav
ide. Giònata informò Davide dicendo: «Saul mio padre cerca di ucciderti. Sta’ in guardia domani, sta’ al riparo e nasconditi. Io uscirò e starò al fianco di mio padre nella campagna dove sarai tu e parlerò in tuo favore a mio padre. Ciò che vedrò te lo farò sapere». Giònata parlò dunque a Sa ul suo padre in favore di Davide e gli disse: «Non pecchi il re contro il suo servo contro Davide c he non ha peccato contro di te, che anzi ha fatto cose belle per te. Egli ha esposto la vita quand o abbatté il Filisteo e il Signore ha concesso una grande salvezza a tutto Israele. Hai visto e hai gi oito. Dunque, perché pecchi contro un innocente uccidendo Davide senza motivo?». Saul ascolt ò la voce di Giònata e giurò: «Per la vita del Signore non morirà!». Giònata chiamò Davide e gli r iferì questo colloquio. Poi Giònata introdusse presso Saul Davide che rimase alla sua presenza c ome prima. Ci fu di nuovo la guerra e Davide uscì a combattere i Filistei e inflisse loro una grand e sconfitta così che si dettero alla fuga davanti a lui. Ma un cattivo spirito del Signore fu su Saul.
Egli stava in casa e teneva in mano la lancia mentre Davide suonava la cetra. Saul tentò di inchio dare Davide con la lancia nel muro. Ma Davide si scansò da Saul che infisse la lancia nel muro. D
avide fuggì e quella notte si salvò. Saul mandò messaggeri alla casa di Davide per sorvegliarlo e ucciderlo il mattino dopo. Mical sua moglie avvertì Davide dicendo: «Se non metti in salvo la tua vita questa notte, domani sarai ucciso». Mical calò Davide dalla finestra e quegli partì di corsa e si salvò. Mical prese allora i terafìm e li pose sul letto. Mise dalla parte del capo un tessuto di p elo di capra e li coprì con una coltre. Saul mandò dunque messaggeri a prendere Davide ma ella disse: «è malato». Saul rimandò i messaggeri a vedere Davide dicendo: «Portatelo qui da me ne l suo letto perché lo faccia morire». Tornarono i messaggeri ed ecco che sul letto c’erano i terafì m e il tessuto di pelo di capra dalla parte del capo. Saul disse a Mical: «Perché mi hai ingannato a questo modo e hai permesso al mio nemico di salvarsi?». Rispose Mical a Saul: «Egli mi ha det to: “Lasciami andare altrimenti ti uccido”». Davide dunque fuggì e si salvò. Andò da Samuele a R
ama e gli narrò quanto gli aveva fatto Saul; poi Davide e Samuele andarono ad abitare a Naiot. L
a cosa fu riferita a Saul: «Ecco Davide sta a Naiot di Rama». Allora Saul spedì messaggeri a cattu rare Davide ma quando videro profetare la comunità dei profeti mentre Samuele stava in piedi alla loro testa lo spirito di Dio fu sui messaggeri di Saul e anch’essi fecero i profeti. Annunciaron o a Saul questa cosa ed egli spedì altri messaggeri ma anch’essi fecero i profeti. Saul mandò di n uovo messaggeri per la terza volta ma anch’essi fecero i profeti. Allora venne egli stesso a Rama e si portò alla grande cisterna che si trova a Secu e domandò: «Dove sono Samuele e Davide?».
Gli risposero: «Eccoli: sono a Naiot di Rama». Egli si incamminò verso Naiot di Rama ma fu anch e su di lui lo spirito di Dio e andava avanti facendo il profeta finché giunse a Naiot di Rama. Anc h’egli si tolse gli abiti e continuò a fare il profeta davanti a Samuele; poi crollò e restò nudo tutt o quel giorno e tutta la notte. Da qui è venuto il detto: «Anche Saul è tra i profeti?». Davide fug gì da Naiot di Rama si recò da Giònata e gli disse: «Che cosa ho fatto che colpa e che peccato ho nei riguardi di tuo padre perché attenti così alla mia vita?». Rispose: «Non sia mai. Non morirai.
Vedi mio padre non fa nulla di grande o di piccolo senza confidarmelo. Perché mi avrebbe nasc osto questa cosa? Non è possibile!». Ma Davide giurò ancora: «Tuo padre sa benissimo che ho t
rovato grazia ai tuoi occhi e dice: “Giònata non deve sapere questa cosa perché si affliggerebbe
”. Ma per la vita del Signore e per la tua vita c’è soltanto un passo tra me e la morte». Giònata d isse: «Che cosa desideri che io faccia per te?». Rispose Davide: «Domani è la luna nuova e io do vrei fermarmi a mangiare con il re. Ma tu mi lascerai partire e io resterò nascosto nella campag na fino alla terza sera. Se tuo padre noterà la mia assenza dirai: “Davide mi ha supplicato di and are in fretta a Betlemme sua città perché vi si celebra il sacrificio annuale per tutta la famiglia”.
Se dirà: “Va bene” allora il tuo servo può stare in pace. Se invece andrà in collera sii certo che è stato deciso il peggio da parte sua. Agisci con bontà verso il tuo servo perché hai voluto legare a te il tuo servo con un patto del Signore: se c’è colpa in me uccidimi tu; ma per qual motivo dovr esti condurmi da tuo padre?». Giònata rispose: «Non sia mai! Se di certo io sapessi che è deciso il male contro di te da parte di mio padre non te lo farei forse sapere?». Davide disse a Giònata:
«Chi mi avvertirà se tuo padre ti risponde duramente?». Giònata rispose a Davide: «Vieni andia mo in campagna». Uscirono tutti e due nella campagna. Allora Giònata disse a Davide: «Per il Si gnore Dio d’Israele domani e dopodomani a quest’ora scruterò le intenzioni di mio padre. Se sar à benevolo verso Davide e io non manderò subito a riferirlo al tuo orecchio, tanto faccia il Signo re a Giònata e ancora di peggio. Se invece sembrerà bene a mio padre decidere il male a tuo rig uardo io te lo confiderò e ti farò partire. Tu andrai tranquillo e il Signore sarà con te come è stat o con mio padre. Fin quando sarò in vita usa verso di me la benevolenza del Signore. Se sarò mo rto non ritirare mai la tua benevolenza dalla mia casa; neppure quando il Signore avrà eliminato dalla terra ogni uomo nemico di Davide non sia eliminato il nome di Giònata dalla casa di David e: il Signore ne chiederà conto ai nemici di Davide». Giònata volle ancora far giurare Davide per ché gli voleva bene e lo amava come se stesso. Giònata disse a Davide: «Domani è la luna nuova e la tua assenza sarà notata perché si guarderà al tuo posto. Aspetterai il terzo giorno poi scend erai in fretta e ti recherai al luogo dove ti sei nascosto il giorno di quel fatto e resterai presso qu ella collinetta. Io tirerò tre frecce da quella parte come se tirassi al bersaglio per conto mio. Poi manderò il ragazzo gridando: “Va’ a cercare le frecce!”. Se dirò al ragazzo: “Guarda le frecce son o più in qua di dove ti trovi prendile!”, allora vieni perché tutto va bene per te; per la vita del Sig nore non c’è niente. Se invece dirò al giovane: “Guarda le frecce sono più avanti di dove ti trovi!
” allora va’ perché il Signore ti fa partire. Riguardo alle parole che abbiamo detto tu e io ecco è t estimone il Signore tra me e te per sempre». Davide dunque si nascose nel campo. Arrivò la lun a nuova e il re sedette a mangiare. Il re sedette come al solito sul sedile contro il muro; Giònata si mise di fronte, Abner si sedette al fianco del re e si notò il posto di Davide. Ma Saul non disse nulla quel giorno perché pensava: «è un caso: non sarà puro. Certo non è puro». Ma l’indomani il secondo giorno della luna nuova si notò il posto di Davide. Saul disse allora a Giònata suo figli o: «Perché il figlio di Iesse non è venuto a prendere cibo né ieri né oggi?». Giònata rispose a Sau l: «Davide mi ha chiesto con insistenza di andare a Betlemme. Mi ha detto: “Lasciami andare pe rché abbiamo in città il sacrificio di famiglia e mio fratello me ne ha fatto un obbligo. Se dunque ho trovato grazia ai tuoi occhi lasciami libero perché possa vedere i miei fratelli”. Per questo no
n è venuto alla tavola del re». Saul si adirò molto con Giònata e gli gridò: «Figlio di una scostum ata non so io forse che tu preferisci il figlio di Iesse a tua vergogna e a vergogna della nudità di t ua madre? Perché fino a quando vivrà il figlio di Iesse sulla terra non avrai sicurezza né tu né il t uo regno. Manda dunque a prenderlo e conducilo qui da me perché merita la morte». Rispose Giònata a Saul suo padre: «Perché deve morire? Che cosa ha fatto?». Saul afferrò la lancia contr o di lui per colpirlo e Giònata capì che suo padre aveva ormai deciso di uccidere Davide. Giònata si alzò dalla tavola acceso d’ira e non volle prendere cibo in quel secondo giorno della luna nuo va. Era rattristato per Davide, perché suo padre l’aveva offeso. Il mattino dopo Giònata uscì in c ampagna per l’appuntamento con Davide. Era con lui un ragazzo ancora piccolo. Egli disse al rag azzo: «Corri a cercare le frecce che io tirerò». Il ragazzo corse ed egli tirò la freccia più avanti di l ui. Il ragazzo corse fino al luogo dov’era la freccia che Giònata aveva tirato e Giònata gridò al rag azzo: «La freccia non è forse più avanti di te?». Giònata gridò ancora al ragazzo: «Corri svelto e non fermarti!». Il ragazzo di Giònata raccolse le frecce e le portò al suo padrone. Il ragazzo non aveva capito niente; soltanto Giònata e Davide sapevano la cosa. Allora Giònata diede le armi al ragazzo che era con lui e gli disse: «Va’ e riportale in città». Partito il ragazzo Davide si alzò da d ietro la collinetta cadde con la faccia a terra e si prostrò tre volte poi si baciarono l’un l’altro e pi ansero insieme finché Davide si fece forza. E Giònata disse a Davide: «Va’ in pace ora che noi du e abbiamo giurato nel nome del Signore in questi termini: “Il Signore sia tra me e te tra la mia di scendenza e la tua discendenza per sempre”». Davide si alzò e partì e Giònata tornò in città. Da vide si recò a Nob dal sacerdote Achimèlec. Achimèlec trepidante, andò incontro a Davide e gli disse: «Perché sei solo e non c’è nessuno con te?». Rispose Davide al sacerdote Achimèlec: «Il r e mi ha ordinato e mi ha detto: “Nessuno sappia niente di questa cosa per la quale ti mando e d i cui ti ho dato incarico”. Ai miei giovani ho dato appuntamento al tal posto. Ora però se hai sott omano cinque pani, dammeli o altra cosa che si possa trovare». Il sacerdote rispose a Davide: «
Non ho sottomano pani comuni ho solo pani sacri per i tuoi giovani se si sono almeno astenuti d alle donne». Rispose Davide al sacerdote: «Ma certo! Dalle donne ci siamo astenuti dall’altro ier i. Quando mi misi in viaggio il sesso dei giovani era in condizione di santità sebbene si trattasse d’un viaggio profano; tanto più oggi». Il sacerdote gli diede il pane sacro perché non c’era là altr o pane che quello dell’offerta ritirato dalla presenza del Signore per mettervi pane fresco nel gi orno in cui quello veniva tolto. Ma era là in quel giorno uno dei ministri di Saul trattenuto press o il Signore di nome Doeg Edomita capo dei pastori di Saul. Davide disse ad Achimèlec: «Non hai per caso sottomano una lancia o una spada? Io non ho preso con me né la mia spada né altre mie armi perché l’incarico del re era urgente». Il sacerdote rispose: «Guarda c’è la spada di Goli a il Filisteo che tu hai ucciso nella valle del Terebinto; è là dietro l’ efod, avvolta in un manto. Se te la vuoi prendere prendila perché qui non c’è altra spada che questa». Rispose Davide: «Non c e n’è una migliore. Dammela». Quel giorno Davide si alzò e si allontanò da Saul e giunse da Achi s re di Gat. I ministri di Achis gli dissero: «Non è costui Davide il re del paese? Non cantavano a l ui tra le danze dicendo: “Ha ucciso Saul i suoi mille e Davide i suoi diecimila”?». Davide si preocc
upò di queste parole e temette molto Achis re di Gat. Allora cambiò comportamento ai loro occ hi e faceva il folle tra le loro mani: tracciava segni strani sulle porte e lasciava colare la saliva sull a barba. Achis disse ai ministri: «Ecco vedete anche voi che è un pazzo. Perché lo avete condott o da me? Non ho abbastanza pazzi io perché mi conduciate anche costui per fare il pazzo davan ti a me? Dovrebbe entrare in casa mia un uomo simile?». Davide partì di là e si rifugiò nella grot ta di Adullàm. Lo seppero i suoi fratelli e tutta la casa di suo padre e scesero là da lui. Si radunar ono allora con lui quanti erano nei guai quelli che avevano debiti e tutti gli scontenti ed egli dive ntò loro capo. Vi furono così con lui circa quattrocento uomini. Davide partì di là e andò a Mispa di Moab e disse al re di Moab: «Permetti che risiedano da voi mio padre e mia madre finché sa ppia che cosa Dio vuol fare di me». Li condusse al re di Moab e rimasero con lui finché Davide ri mase nel rifugio. Il profeta Gad disse a Davide: «Non restare più in questo rifugio. Parti e va’ nel territorio di Giuda». Davide partì e andò nella foresta di Cheret. Saul venne a sapere che era sta to avvistato Davide con gli uomini che erano con lui. Saul era seduto a Gàbaa sotto il tamerisco sull’altura con la lancia in mano e i ministri intorno. Saul disse allora ai ministri che gli stavano in torno: «Ascoltate voi Beniaminiti. Il figlio di Iesse darà forse a tutti voi campi e vigne vi farà tutti comandanti di migliaia e comandanti di centinaia perché voi tutti siate d’accordo contro di me?
Nessuno mi avverte dell’alleanza di mio figlio con il figlio di Iesse nessuno di voi si affligge per me e mi confida che mio figlio ha sollevato il mio servo contro di me per ordire insidie come avv iene oggi». Rispose Doeg l’Edomita che stava tra i ministri di Saul: «Ho visto il figlio di Iesse. è ve nuto a Nob da Achimèlec figlio di Achitù b e costui ha consultato il Signore per lui gli ha dato da mangiare e gli ha consegnato la spada di Golia il Filisteo». Il re subito convocò il sacerdote Achi mèlec figlio di Achitù b e tutti i sacerdoti della casa di suo padre che erano in Nob ed essi venne ro tutti dal re. Disse Saul: «Ascolta figlio di Achitù b». Rispose: «Eccomi mio signore». Saul gli dis se: «Perché vi siete accordati contro di me tu e il figlio di Iesse dal momento che gli hai dato pan e e spada e hai consultato Dio per lui perché insorgesse contro di me insidiandomi come avvien e oggi?». Achimèlec rispose al re: «E chi tra tutti i tuoi ministri è come Davide fedele e genero d el re e capo del tuo corpo di guardia e onorato in casa tua? è forse oggi la prima volta che consu lto Dio per lui? Non sia mai! Non imputi il re questo fatto al suo servo a tutta la casa di mio padr e poiché il tuo servo non sapeva di questa faccenda cosa alcuna né piccola né grande». Ma il re disse: «Devi morire Achimèlec tu e tutta la casa di tuo padre». Il re disse ai corrieri che stavano attorno a lui: «Scagliatevi contro i sacerdoti del Signore e metteteli a morte, perché hanno prest ato mano a Davide e non mi hanno avvertito pur sapendo che egli fuggiva». Ma i ministri del re non vollero stendere le mani per colpire i sacerdoti del Signore. Allora il re disse a Doeg: «Scàgli ati tu contro i sacerdoti e colpiscili». Doeg l’Edomita si scagliò lui contro i sacerdoti e li colpì e uc cise in quel giorno ottantacinque uomini che portavano l’ efod di lino. Passò a fil di spada Nob la città dei sacerdoti: uomini e donne fanciulli e lattanti; anche buoi asini e pecore passò a fil di sp ada. Si salvò un figlio di Achimèlec figlio di Achitù b che si chiamava Ebiatàr il quale fuggì presso Davide. Ebiatàr narrò a Davide che Saul aveva trucidato i sacerdoti del Signore. Davide rispose a
Ebiatàr: «Quel giorno sapevo data la presenza di Doeg l’Edomita che avrebbe riferito tutto a Sa ul. Io mi sono scagliato contro tutte le vite della casa di tuo padre. Rimani con me e non temere: chiunque vorrà la tua vita vorrà la mia perché tu presso di me sarai come un bene da custodire
». Riferirono a Davide: «Ecco i Filistei stanno attaccando Keila e saccheggiano le aie». Davide co nsultò il Signore chiedendo: «Devo andare? Riuscirò a sconfiggere questi Filistei?». Rispose il Sig nore: «Va’ perché sconfiggerai i Filistei e salverai Keila». Ma gli uomini di Davide gli dissero: «Ec co noi abbiamo già da temere qui in Giuda tanto più se andremo a Keila contro le schiere dei Fili stei». Davide consultò di nuovo il Signore e il Signore gli rispose: «Muoviti e scendi a Keila perch é io metterò i Filistei nelle tue mani». Davide con i suoi uomini scese a Keila combatté con i Filis tei portò via il loro bestiame e inflisse loro una grande sconfitta. Così Davide salvò gli abitanti di Keila. Poiché Ebiatàr figlio di Achimèlec si era rifugiato presso Davide anche l’ efod nelle sue ma ni era sceso a Keila. Fu riferito a Saul che Davide era giunto a Keila e Saul disse: «Dio l’ha gettato nelle mie mani poiché si è rinchiuso da sé venendo in una città con porte e sbarre». Saul chiam ò tutto il popolo alle armi per scendere a Keila e assediare Davide e i suoi uomini. Quando David e seppe che Saul veniva contro di lui macchinando il male disse al sacerdote Ebiatàr: «Porta qui l’ efod ». Davide disse: «Signore Dio d’Israele il tuo servo ha sentito dire che Saul cerca di venire a Keila per distruggere la città per causa mia. Mi metteranno nelle sue mani i signori di Keila? S
cenderà Saul come ha saputo il tuo servo? Signore Dio d’Israele fallo sapere al tuo servo». Il Sig nore rispose: «Scenderà». Davide disse: «I signori di Keila mi consegneranno nelle mani di Saul c on i miei uomini?». Il Signore rispose: «Ti consegneranno». Davide si alzò e uscì da Keila con i su oi uomini circa seicento vagando senza mèta. Fu riferito a Saul che Davide si era messo in salvo fuggendo da Keila ed egli rinunciò all’azione. Davide andò a dimorare nel deserto in luoghi impe rvi in zona montuosa nel deserto di Zif e Saul lo cercava continuamente; ma Dio non lo mise mai nelle sue mani. Davide vide che Saul era uscito per attentare alla sua vita. Davide stava nel des erto di Zif, a Corsa. Allora Giònata figlio di Saul si alzò e andò da Davide a Corsa e ne rinvigorì il c oraggio in nome di Dio. Gli disse: «Non temere: la mano di Saul mio padre non potrà raggiunger ti e tu regnerai su Israele mentre io sarò a te secondo. Anche Saul mio padre lo sa bene». Essi st rinsero un patto davanti al Signore. Davide rimase a Corsa e Gionata tornò a casa. Ma alcuni di Z
if vennero a Gàbaa da Saul per dirgli: «Non sai che Davide è nascosto presso di noi nei luoghi im pervi di Corsa sulla collina di Achilà a meridione della steppa? Ora dato che il tuo animo desider a scendere o re scendi. A noi metterlo nelle mani del re!». Rispose Saul: «Benedetti voi dal Sign ore perché avete avuto compassione di me. Andate dunque accertatevi ancora e cercate di con oscere il luogo dove muove i suoi passi e chi lo ha visto là perché mi hanno detto che egli è molt o astuto. Cercate di conoscere tutti i nascondigli nei quali si rifugia e tornate a me con la confer ma. Allora verrò con voi e se sarà nella zona lo ricercherò in tutti i villaggi di Giuda». Si alzarono e tornarono a Zif precedendo Saul. Davide e i suoi uomini erano nel deserto di Maon nell’Araba a meridione della steppa. Saul andò con i suoi uomini per cercarlo. Ma la cosa fu riferita a David e il quale scese presso la rupe rimanendo nel deserto di Maon. Lo seppe Saul e inseguì Davide n
el deserto di Maon. Saul procedeva sul fianco del monte da una parte e Davide e i suoi uomini s ul fianco del monte dall’altra parte. Davide correva via precipitosamente per sfuggire a Saul e S
aul e i suoi uomini accerchiavano Davide e i suoi uomini per catturarli. Ma arrivò un messaggero a dire a Saul: «Vieni via in fretta perché i Filistei hanno fatto incursione nella regione». Allora Sa ul cessò di inseguire Davide e andò contro i Filistei. Per questo chiamarono quel luogo Rupe dell a Divisione. Davide da quel luogo salì ad abitare nei luoghi impervi di Engàddi. Quando Saul torn ò dall’azione contro i Filistei gli riferirono: «Ecco, Davide è nel deserto di Engàddi». Saul scelse tr emila uomini valorosi in tutto Israele e partì alla ricerca di Davide e dei suoi uomini di fronte alle Rocce dei Caprioli. Arrivò ai recinti delle greggi lungo la strada ove c’era una caverna. Saul vi en trò per coprire i suoi piedi mentre Davide e i suoi uomini se ne stavano in fondo alla caverna. Gli uomini di Davide gli dissero: «Ecco il giorno in cui il Signore ti dice: “Vedi pongo nelle tue mani i l tuo nemico: trattalo come vuoi”». Davide si alzò e tagliò un lembo del mantello di Saul senza f arsene accorgere. Ma ecco dopo aver fatto questo Davide si sentì battere il cuore per aver tagli ato un lembo del mantello di Saul. Poi disse ai suoi uomini: «Mi guardi il Signore dal fare simile c osa al mio signore al consacrato del Signore dallo stendere la mano su di lui perché è il consacra to del Signore». Davide a stento dissuase con le parole i suoi uomini e non permise loro che si a vventassero contro Saul. Saul uscì dalla caverna e tornò sulla via. Dopo questo fatto Davide si al zò uscì dalla grotta e gridò a Saul: «O re mio signore!». Saul si voltò indietro e Davide si inginocc hiò con la faccia a terra e si prostrò. Davide disse a Saul: «Perché ascolti la voce di chi dice: “Ecc o Davide cerca il tuo male”? Ecco in questo giorno i tuoi occhi hanno visto che il Signore ti aveva messo oggi nelle mie mani nella caverna; mi si diceva di ucciderti ma ho avuto pietà di te e ho d etto: “Non stenderò le mani sul mio signore perché egli è il consacrato del Signore”. Guarda pad re mio guarda il lembo del tuo mantello nella mia mano: quando ho staccato questo lembo dal t uo mantello nella caverna non ti ho ucciso. Riconosci dunque e vedi che non c’è in me alcun mal e né ribellione né ho peccato contro di te; invece tu vai insidiando la mia vita per sopprimerla. S
ia giudice il Signore tra me e te e mi faccia giustizia il Signore nei tuoi confronti; ma la mia mano non sarà mai contro di te. Come dice il proverbio antico: “Dai malvagi esce il male, ma la mia m ano non sarà contro di te”. Contro chi è uscito il re d’Israele? Chi insegui? Un cane morto una p ulce. Il Signore sia arbitro e giudice tra me e te veda e difenda la mia causa e mi liberi dalla tua mano». Quando Davide ebbe finito di rivolgere a Saul queste parole Saul disse: «è questa la tua voce Davide figlio mio?». Saul alzò la voce e pianse. Poi continuò rivolto a Davide: «Tu sei più gi usto di me perché mi hai reso il bene, mentre io ti ho reso il male. Oggi mi hai dimostrato che a gisci bene con me e che il Signore mi aveva abbandonato nelle tue mani e tu non mi hai ucciso.
Quando mai uno trova il suo nemico e lo lascia andare sulla buona strada? Il Signore ti ricompe nsi per quanto hai fatto a me oggi. Ora ecco sono persuaso che certamente regnerai e che sarà saldo nelle tue mani il regno d’Israele. Ma tu giurami ora per il Signore che non eliminerai dopo di me la mia discendenza e non cancellerai il mio nome dalla casa di mio padre». Davide giurò a Saul. Saul tornò a casa mentre Davide con i suoi uomini salì al rifugio. Samuele morì e tutto Isra
ele si radunò e fece il lamento su di lui. Lo seppellirono presso la sua casa a Rama. Davide si alzò e scese verso il deserto di Paran. Vi era a Maon un uomo che possedeva beni a Carmel; costui e ra molto ricco aveva tremila pecore e mille capre e si trovava a Carmel per tosare il gregge. Que st’uomo si chiamava Nabal e sua moglie Abigàil. La donna era assennata e di bell’aspetto ma il marito era rude e di brutte maniere; era un Calebita. Davide nel deserto sentì che Nabal era alla tosatura del gregge. Allora Davide inviò dieci domestici; Davide disse a questi domestici: «Salite a Carmel andate da Nabal e chiedetegli a mio nome se sta bene. Voi direte così al mio fratello:
“Pace a te e pace alla tua casa e pace a quanto ti appartiene! Ho sentito appunto che stanno fac endo per te la tosatura. Ebbene quando i tuoi pastori sono stati con noi non abbiamo recato lor o alcuna offesa e niente è stato loro sottratto finché sono stati a Carmel. Interroga i tuoi domes tici e ti informeranno. Questi domestici trovino grazia ai tuoi occhi perché siamo giunti in un gio rno lieto. Da’ ti prego quanto puoi dare ai tuoi servi e al tuo figlio Davide”». I domestici di David e andarono e fecero a Nabal tutto quel discorso a nome di Davide e attesero. Ma Nabal rispose ai servi di Davide: «Chi è Davide e chi è il figlio di Iesse? Oggi sono troppi i servi che vanno via da i loro padroni. Devo prendere il pane l’acqua e la carne che ho preparato per i tosatori e darli a gente che non so da dove venga?». I domestici di Davide rifecero la strada tornarono indietro e gli riferirono tutto questo discorso. Allora Davide disse ai suoi uomini: «Cingete tutti la spada!».
Tutti cinsero la spada e Davide cinse la sua e partirono dietro a Davide circa quattrocento uomi ni. Duecento rimasero a guardia dei bagagli. Ma Abigàil la moglie di Nabal fu avvertita da uno d ei domestici che le disse: «Ecco Davide ha inviato messaggeri dal deserto per salutare il nostro p adrone ma egli ha inveito contro di loro. Veramente questi domestici sono stati molto buoni co n noi; non ci hanno recato offesa e non ci è stato sottratto niente finché siamo stati con loro qu ando eravamo in campagna. Sono stati per noi come un muro di difesa di notte e di giorno finch é siamo stati con loro a pascolare il gregge. Ora esamina bene ciò che devi fare perché pende q ualche male sul nostro padrone e su tutta la sua casa. Egli è un uomo perverso e non gli si può p arlare». Abigàil allora prese in fretta duecento pani due otri di vino cinque pecore già pronte cin que sea di grano tostato cento grappoli di uva passa e duecento schiacciate di fichi secchi e li ca ricò sugli asini. Poi disse ai domestici: «Precedetemi, io vi seguirò». Ma non informò il marito Na bal. Ora mentre ella sul dorso di un asino scendeva lungo un sentiero nascosto della montagna, Davide e i suoi uomini scendevano di fronte a lei ed essa s’incontrò con loro. Davide andava dic endo: «Dunque ho custodito invano tutto ciò che appartiene a costui nel deserto; niente fu sott ratto di ciò che gli appartiene ed egli mi rende male per bene. Tanto faccia Dio a Davide e ancor a peggio se di tutti i suoi lascerò sopravvivere fino al mattino un solo maschio!». Appena Abigàil vide Davide smontò in fretta dall’asino cadde con la faccia davanti a Davide e si prostrò a terra.
Caduta ai suoi piedi disse: «Ti prego mio signore sono io colpevole! Lascia che parli la tua schiav a al tuo orecchio e tu ascolta le parole della tua schiava. Non faccia caso il mio signore a quell’u omo perverso che è Nabal perché egli è come il suo nome: stolto si chiama e stoltezza è in lui; i o tua schiava non avevo visto o mio signore i tuoi domestici che avevi mandato. Ora mio signore
per la vita di Dio e per la tua vita poiché Dio ti ha impedito di giungere al sangue e di farti giusti zia da te stesso ebbene ora siano come Nabal i tuoi nemici e coloro che cercano di fare il male a l mio signore. E ora questo dono che la tua schiava porta al mio signore fa’ che sia dato ai dome stici che seguono i passi del mio signore. Perdona la colpa della tua schiava. Certo il Signore edif icherà al mio signore una casa stabile perché il mio signore combatte le battaglie del Signore né si troverà alcun male in te per tutti i giorni della tua vita. Se qualcuno insorgerà a perseguitarti e ad attentare alla tua vita la vita del mio signore sarà conservata nello scrigno dei viventi presso il Signore tuo Dio mentre la vita dei tuoi nemici egli la scaglierà via come dal cavo della fionda. C
erto quando il Signore ti avrà concesso tutto il bene che ha detto a tuo riguardo e ti avrà costitu ito capo d’Israele non sia d’inciampo o di rimorso al mio signore l’aver versato invano il sangue e l’essersi il mio signore fatto giustizia da se stesso. Il Signore farà prosperare il mio signore ma tu vorrai ricordarti della tua schiava». Davide disse ad Abigàil: «Benedetto il Signore Dio d’Israel e che ti ha mandato oggi incontro a me. Benedetto il tuo senno e benedetta tu che sei riuscita a impedirmi oggi di giungere al sangue e di farmi giustizia da me. Viva sempre il Signore Dio d’Isr aele che mi ha impedito di farti del male; perché se non fossi venuta in fretta incontro a me non sarebbe rimasto a Nabal allo spuntar del giorno un solo maschio». Davide prese poi dalle mani di lei quanto gli aveva portato e le disse: «Torna a casa in pace. Vedi: ho ascoltato la tua voce e ho rasserenato il tuo volto». Abigàil tornò da Nabal: questi teneva in casa un banchetto come u n banchetto da re. Il suo cuore era soddisfatto ed egli era fin troppo ubriaco. Ella non gli disse n é tanto né poco fino allo spuntar del giorno. Il mattino dopo quando Nabal ebbe smaltito il vino la moglie gli narrò la faccenda. Allora il cuore gli si tramortì nel petto ed egli rimase come una pi etra. Dieci giorni dopo il Signore colpì Nabal ed egli morì. Quando Davide sentì che Nabal era m orto esclamò: «Benedetto il Signore che ha difeso la mia causa per l’ingiuria fattami da Nabal e ha trattenuto il suo servo dal male e ha rivolto sul capo di Nabal la sua cattiveria». Poi Davide m andò messaggeri e annunciò ad Abigàil che voleva prenderla in moglie. I servi di Davide andaron o a Carmel e le dissero: «Davide ci ha mandato a prenderti perché tu sia sua moglie». Ella si alzò si prostrò con la faccia a terra e disse: «Ecco la tua schiava diventerà una serva per lavare i pied i ai servi del mio signore». Abigàil si preparò in fretta poi salì su un asino e seguita dalle sue cinq ue ancelle tenne dietro ai messaggeri di Davide e divenne sua moglie. Davide aveva preso anch e Achinòam di Izreèl e furono tutte e due sue mogli. Saul aveva dato sua figlia Mical già moglie di Davide a Paltì figlio di Lais che era di Gallìm. Gli abitanti di Zif si recarono da Saul a Gàbaa e gli dissero: «Non sai che Davide è nascosto sulla collina di Achilà di fronte alla steppa?». Saul si mo sse e scese nel deserto di Zif conducendo con sé tremila uomini scelti d’Israele per ricercare Dav ide nel deserto di Zif. Saul si accampò sulla collina di Achilà di fronte alla steppa presso la strada mentre Davide si trovava nel deserto. Quando si accorse che Saul lo inseguiva nel deserto Davi de mandò alcune spie ed ebbe conferma che Saul era arrivato davvero. Allora Davide si alzò e v enne al luogo dove si era accampato Saul. Davide notò il posto dove dormivano Saul e Abner fig lio di Ner capo dell’esercito di lui: Saul dormiva tra i carriaggi e la truppa era accampata all’intor
no. Davide si rivolse ad Achimèlec l’Ittita e ad Abisài figlio di Seruià fratello di Ioab dicendo: «Chi vuol scendere con me da Saul nell’accampamento?». Rispose Abisài: «Scenderò io con te». Dav ide e Abisài scesero tra quella gente di notte ed ecco Saul dormiva profondamente tra i carriagg i e la sua lancia era infissa a terra presso il suo capo, mentre Abner con la truppa dormiva all’int orno. Abisài disse a Davide: «Oggi Dio ti ha messo nelle mani il tuo nemico. Lascia dunque che i o l’inchiodi a terra con la lancia in un sol colpo e non aggiungerò il secondo». Ma Davide disse a d Abisài: «Non ucciderlo! Chi mai ha messo la mano sul consacrato del Signore ed è rimasto imp unito?». Davide soggiunse: «Per la vita del Signore solo il Signore lo colpirà o perché arriverà il s uo giorno e morirà o perché scenderà in battaglia e sarà tolto di mezzo. Il Signore mi guardi dall o stendere la mano sul consacrato del Signore! Ora prendi la lancia che sta presso il suo capo e l a brocca dell’acqua e andiamocene». Così Davide portò via la lancia e la brocca dell’acqua che e ra presso il capo di Saul e tutti e due se ne andarono; nessuno vide nessuno se ne accorse nessu no si svegliò: tutti dormivano perché era venuto su di loro un torpore mandato dal Signore. Davi de passò dall’altro lato e si fermò lontano sulla cima del monte; vi era una grande distanza tra l oro. Allora Davide gridò alla truppa e ad Abner figlio di Ner: «Abner vuoi rispondere?». Abner ri spose: «Chi sei tu che gridi al re?». Davide rispose ad Abner: «Non sei un uomo tu? E chi è come te in Israele? E perché non hai fatto la guardia al re tuo signore? è venuto infatti uno del popol o per uccidere il re tuo signore. Non hai fatto certo una bella cosa. Per la vita del Signore siete d egni di morte voi che non avete fatto la guardia al vostro signore al consacrato del Signore. E or a guarda dov’è la lancia del re e la brocca che era presso il suo capo». Saul riconobbe la voce di Davide e disse: «è questa la tua voce Davide figlio mio?». Rispose Davide: «è la mia voce o re mi o signore». Aggiunse: «Perché il mio signore perseguita il suo servo? Che cosa ho fatto? Che ma le si trova in me? Ascolti dunque il re mio signore la parola del suo servo: se il Signore ti incita c ontro di me voglia accettare il profumo di un’offerta; ma se sono gli uomini siano maledetti dav anti al Signore perché oggi mi scacciano lontano impedendomi di partecipare all’eredità del Sig nore dicendo: “Va’ a servire altri dèi”. Almeno non sia versato sulla terra il mio sangue lontano dal Signore ora che il re d’Israele è uscito in campo per ricercare una pulce come si insegue una pernice sui monti». Saul rispose: «Ho peccato! Ritorna Davide figlio mio! Non ti farò più del mal e perché la mia vita oggi è stata tanto preziosa ai tuoi occhi. Ho agito da sciocco e mi sono comp letamente ingannato». Rispose Davide: «Ecco la lancia del re: passi qui uno dei servitori e la pre nda! Il Signore renderà a ciascuno secondo la sua giustizia e la sua fedeltà dal momento che ogg i il Signore ti aveva messo nelle mie mani e non ho voluto stendere la mano sul consacrato del S
ignore. Ed ecco come è stata preziosa oggi la tua vita ai miei occhi così sia preziosa la mia vita ag li occhi del Signore ed egli mi liberi da ogni angustia». Saul rispose a Davide: «Benedetto tu sia D
avide, figlio mio. Certo in ciò che farai avrai piena riuscita». Davide andò per la sua strada e Saul tornò alla sua dimora. Davide pensò: «Certo un giorno o l’altro sarò tolto di mezzo per mano di Saul. Non ho miglior via d’uscita che cercare scampo nella terra dei Filistei; Saul rinuncerà a rice rcarmi in tutto il territorio d’Israele e sfuggirò alle sue mani». Così Davide si alzò e si portò con i
seicento uomini che aveva con sé presso Achis figlio di Maoc re di Gat. Davide rimase presso Ac his a Gat lui e i suoi uomini ciascuno con la famiglia; Davide con le due mogli Achinòam di Izreèl e Abigàil già moglie di Nabal di Carmel. Fu riferito a Saul che Davide era fuggito a Gat e non lo c ercò più. Davide disse ad Achis: «Se ho trovato grazia ai tuoi occhi mi sia concesso un luogo in u na città della campagna dove io possa abitare. Perché dovrà stare il tuo servo presso di te nella tua città regale?». E Achis quello stesso giorno gli diede Siklag. Per questo Siklag è rimasta ai re di Giuda fino ad oggi. La durata del soggiorno di Davide nella campagna dei Filistei fu di un anno e quattro mesi. Davide e i suoi uomini partivano a fare razzie contro i Ghesuriti i Ghirziti e gli A maleciti: questi abitano da sempre il territorio che si estende in direzione di Sur fino alla terra d’
Egitto. Davide batteva quel territorio e non lasciava in vita né uomo né donna; prendeva greggi e armenti asini e cammelli e vesti poi tornava indietro e andava da Achis. Quando Achis chiedev a: «Dove avete fatto razzie oggi?» Davide rispondeva: «Contro il Negheb di Giuda contro il Negh eb degli Ieracmeeliti contro il Negheb dei Keniti». Davide non lasciava in vita né uomo né donna da portare a Gat pensando: «Non vorrei che riferissero contro di noi: “Così ha fatto Davide”». T
ale fu la sua norma finché dimorò nella campagna dei Filistei. Achis si fidò di Davide pensando:
«Si è proprio reso odioso al suo popolo Israele e così sarà per sempre mio servo». In quei giorni i Filistei radunarono l’esercito per combattere contro Israele e Achis disse a Davide: «Tieni bene a mente che devi uscire in campo con me insieme con i tuoi uomini». Davide rispose ad Achis:
«Tu sai già quello che farà il tuo servo». Achis disse: «Bene! Ti faccio per sempre mia guardia del corpo». Samuele era morto e tutto Israele aveva fatto il lamento su di lui; poi l’avevano seppelli to a Rama sua città. Saul aveva bandito dalla terra i negromanti e gli indovini. I Filistei si radunar ono e andarono a porre il campo a Sunem. Saul radunò tutto Israele e si accampò sul Gèlboe. Q
uando Saul vide il campo dei Filistei ebbe paura e il suo cuore tremò. Saul consultò il Signore e il Signore non gli rispose, né attraverso i sogni né mediante gli urìm né per mezzo dei profeti. Allo ra Saul disse ai suoi ministri: «Cercatemi una negromante perché voglio andare a consultarla». I suoi ministri gli risposero: «Vi è una negromante a Endor». Saul si camuffò si travestì e partì con due uomini. Arrivò da quella donna di notte. Disse: «Pratica per me la divinazione mediante un o spirito. èvocami colui che ti dirò». La donna gli rispose: «Tu sai bene quello che ha fatto Saul: ha eliminato dalla terra i negromanti e gli indovini. Perché dunque tendi un tranello alla mia vit a per uccidermi?». Saul le giurò per il Signore: «Per la vita del Signore non avrai alcuna colpa per questa faccenda». Ella disse: «Chi devo evocarti?». Rispose: «èvocami Samuele». La donna vide Samuele e proruppe in un forte grido e disse a Saul: «Perché mi hai ingannata? Tu sei Saul!». Le rispose il re: «Non aver paura! Che cosa vedi?». La donna disse a Saul: «Vedo un essere divino c he sale dalla terra». Le domandò: «Che aspetto ha?». Rispose: «è un uomo anziano che sale ed è avvolto in un mantello». Saul comprese che era veramente Samuele e s’inginocchiò con la fac cia a terra e si prostrò. Allora Samuele disse a Saul: «Perché mi hai disturbato evocandomi?». Sa ul rispose: «Sono in grande angustia. I Filistei mi muovono guerra e Dio si è allontanato da me: non mi ha più risposto né attraverso i profeti né attraverso i sogni; perciò ti ho chiamato perché
tu mi manifesti quello che devo fare». Samuele rispose: «Perché mi vuoi consultare quando il Si gnore si è allontanato da te ed è divenuto tuo nemico? Il Signore ha fatto quello che ha detto p er mezzo mio. Il Signore ha strappato da te il regno e l’ha dato a un altro a Davide. Poiché non h ai ascoltato la voce del Signore e non hai dato corso all’ardore della sua ira contro Amalèk per q uesto il Signore ti ha trattato oggi in questo modo. Il Signore metterà Israele insieme con te nell e mani dei Filistei. Domani tu e i tuoi figli sarete con me; il Signore metterà anche le schiere d’Is raele in mano ai Filistei». All’istante Saul cadde a terra lungo disteso pieno di terrore per le paro le di Samuele; inoltre era già senza forze perché non aveva mangiato nulla tutto quel giorno e t utta quella notte. Allora la donna si accostò a Saul e vedendolo sconvolto gli disse: «Ecco la tua serva ha ascoltato la tua voce. Ho esposto al pericolo la mia vita per ascoltare la parola che tu m i hai detto. Ma ora ascolta anche tu la voce della tua serva. Voglio darti un pezzo di pane: mangi a e così riprenderai le forze perché devi rimetterti in viaggio». Egli rifiutava e diceva: «Non man gio». Ma i suoi servi insieme alla donna lo costrinsero ed egli ascoltò la loro voce. Si alzò da terr a e sedette sul letto. La donna aveva in casa un vitello da ingrasso; si affrettò a ucciderlo poi pre se la farina la impastò e gli fece cuocere pani azzimi. Mise tutto davanti a Saul e ai suoi servi. Ess i mangiarono poi si alzarono e partirono quella stessa notte. I Filistei avevano concentrato tutte le schiere ad Afek mentre gli Israeliti erano accampati presso la sorgente che si trova in Izreèl. I prìncipi dei Filistei marciavano con le loro centinaia e le loro migliaia. Davide e i suoi uomini mar ciavano nella retroguardia con Achis. I capi dei Filistei domandarono: «Che cosa fanno questi Eb rei?». Achis rispose ai capi dei Filistei: «Non è forse costui Davide servo di Saul re d’Israele? è st ato con me un anno o due e non ho trovato in lui nulla da ridire dal giorno che è capitato qui fin o ad oggi». I capi dei Filistei si irritarono tutti contro di lui e gli intimarono: «Rimanda quest’uom o: torni al luogo che gli hai assegnato. Non venga con noi in guerra perché non diventi nostro av versario durante il combattimento. Come riacquisterà costui il favore del suo signore se non co n le teste di questi uomini? Non è costui quel Davide a cui cantavano tra le danze dicendo: “Ha ucciso Saul i suoi mille e Davide i suoi diecimila”?». Achis chiamò Davide e gli disse: «Per la vita del Signore tu sei retto e io vedrei bene che tu vada e venga con le mie schiere perché non ho tr ovato in te alcun male da quando sei arrivato fino ad oggi. Ma non sei gradito agli occhi dei prìn cipi. Quindi torna e va’ in pace così non farai cosa sgradita agli occhi dei prìncipi dei Filistei». Ris pose Davide ad Achis: «Che cosa ho fatto e che cosa hai trovato nel tuo servo da quando sono s tato alla tua presenza fino ad oggi perché io non possa venire a combattere contro i nemici del r e mio signore?». Rispose Achis a Davide: «So bene che tu mi sei prezioso come un messaggero di Dio; ma i capi dei Filistei mi hanno detto: “Non deve venire con noi a combattere”. àlzati dun que domani mattina con i servi del tuo signore che sono venuti con te. Alzatevi presto e allo spu ntar del giorno partite». Il mattino dopo Davide e i suoi uomini si alzarono presto e partirono to rnando nel territorio dei Filistei. I Filistei salirono a Izreèl. Quando Davide e i suoi uomini arrivar ono a Siklag il terzo giorno gli Amaleciti avevano fatto una razzia nel Negheb e a Siklag. Avevano distrutto Siklag appiccandole il fuoco. Avevano fatto prigioniere le donne e quanti vi erano picc
oli e grandi; non avevano ucciso nessuno ma li avevano presi e portati via. Tornò dunque David e e gli uomini che erano con lui alla città che era in preda alle fiamme; le loro donne i loro figli e le loro figlie erano stati condotti via prigionieri. Davide e la sua gente alzarono la voce e pianser o finché ne ebbero forza. Le due mogli di Davide Achinòam di Izreèl e Abigàil già moglie di Nabal di Carmel erano state condotte via prigioniere. Davide fu in grande angustia perché la gente pa rlava di lapidarlo. Tutti avevano l’animo esasperato ciascuno per i suoi figli e le sue figlie. Ma Da vide ritrovò forza e coraggio nel Signore suo Dio. Allora Davide disse al sacerdote Ebiatàr figlio d i Achimèlec: «Portami l’ efod ». Ebiatàr portò l’ efod a Davide. Davide consultò il Signore e chies e: «Devo inseguire questa banda? La raggiungerò?». Gli rispose: «Insegui perché certamente ra ggiungerai e libererai i prigionieri». Davide e i seicento uomini che erano con lui partirono e giu nsero al torrente di Besor dove quelli rimasti indietro si fermarono. Davide continuò l’inseguime nto con quattrocento uomini: si fermarono invece duecento uomini che erano troppo affaticati per passare il torrente di Besor. Trovarono nella campagna un Egiziano e lo portarono a Davide.
Gli diedero da mangiare pane e gli diedero da bere acqua. Gli diedero anche una schiacciata di f ichi secchi e due grappoli di uva passa. Mangiò e si rianimò perché non aveva preso cibo e non a veva bevuto acqua da tre giorni e tre notti. Davide gli domandò: «A chi appartieni tu e di dove s ei?». Rispose: «Sono un giovane egiziano schiavo di un Amalecita. Il mio padrone mi ha abband onato perché tre giorni fa mi sono ammalato. Noi abbiamo fatto razzia nel Negheb dei Cretei, in quello di Giuda e nel Negheb di Caleb e abbiamo appiccato il fuoco a Siklag». Davide gli disse: «
Vuoi guidarmi verso quella banda?». Rispose: «Giurami per Dio che non mi ucciderai e non mi ri consegnerai al mio padrone e ti condurrò da quella banda». Così fece da guida ed ecco erano sp arsi sulla distesa di quella regione a mangiare e a bere e a far festa con tutto l’ingente bottino c he avevano preso dal territorio dei Filistei e dal territorio di Giuda. Davide li colpì dalle prime luc i dell’alba fino alla sera del giorno dopo e non sfuggì alcuno di loro se non quattrocento giovani che montarono sui cammelli e fuggirono. Davide liberò tutti coloro che gli Amaleciti avevano pr eso e liberò anche le sue due mogli. Non mancò nessuno tra loro né piccolo né grande, né figli n é figlie né la preda né ogni altra cosa che era stata presa loro: Davide recuperò tutto. Davide pr ese tutte le greggi e le mandrie; spingevano davanti a lui questo bestiame e gridavano: «Questo è il bottino di Davide». Davide poi raggiunse i duecento uomini che essendo troppo sfiniti per s eguirlo aveva fatto rimanere al torrente di Besor. Essi andarono incontro a Davide e a tutta la su a gente: Davide con la truppa si avvicinò e domandò loro come stavano. Ma tutti i cattivi e gli sc ellerati tra gli uomini che erano andati con Davide si misero a dire: «Poiché non sono venuti con noi non si dia loro niente della preda che abbiamo ricavato eccetto le mogli e i figli di ciascuno: li conducano via e se ne vadano». Davide rispose: «Non fate così fratelli miei con quello che il Si gnore ci ha dato salvandoci tutti e mettendo nelle nostre mani quella banda che era venuta con tro di noi. Chi vorrà ascoltarvi in questa proposta? Perché quale è la parte di chi scende a battag lia tale è la parte di chi resta ai bagagli: insieme faranno le parti». Da quel giorno in poi stabilì q uesto come regola e norma in Israele fino ad oggi. Quando arrivò a Siklag Davide mandò parte d
el bottino agli anziani di Giuda, suoi amici con queste parole: «Eccovi un dono proveniente dal b ottino dei nemici del Signore». Ne inviò a quelli di Betel, a quelli di Ramot-Negheb, a quelli di Iattir, a quelli di Aroèr, a quelli di Sifmot, a quelli di Estemòa, a quelli di Racal
, a quelli delle città degli Ieracmeeliti, a quelli delle città dei Keniti, a quelli di Corma, a quelli di Bor-Asan, a quelli di Atac, a quelli di Ebron e a quelli di tutti i luoghi per cui era passato Davide con i suoi uomini. I Filistei attaccarono Israele ma gli uomini d’Israele fuggirono davanti ai Filistei e ca ddero trafitti sul monte Gèlboe. I Filistei si strinsero attorno a Saul e ai suoi figli e colpirono a m orte Giònata Abinadàb e Malchisù a figli di Saul. La battaglia si concentrò intorno a Saul: gli arci eri lo presero di mira con gli archi ed egli fu ferito gravemente dagli arcieri. Allora Saul disse al s uo scudiero: «Sfodera la spada e trafiggimi prima che vengano quegli incirconcisi a trafiggermi e a schernirmi». Ma lo scudiero non volle perché era troppo spaventato. Allora Saul prese la spad a e vi si gettò sopra. Quando lo scudiero vide che Saul era morto si gettò anche lui sulla sua spa da e morì con lui. Così morirono insieme in quel giorno Saul e i suoi tre figli lo scudiero e anche t utti i suoi uomini. Quando gli Israeliti che erano dall’altra parte della valle e quelli che erano oltr e il Giordano videro che gli uomini d’Israele erano in fuga e che erano morti Saul e i suoi figli ab bandonarono le loro città e fuggirono. Vennero i Filistei e vi si stabilirono. Il giorno dopo i Filistei vennero a spogliare i cadaveri e trovarono Saul e i suoi tre figli caduti sul monte Gèlboe. Essi gli tagliarono la testa lo spogliarono delle armi e mandarono a dare il felice annuncio in giro nella t erra dei Filistei ai templi dei loro idoli e al popolo. Deposero le sue armi nel tempio di Astarte e appesero il suo corpo alle mura di Bet-Sean. Gli abitanti di Iabes di Gàlaad vennero a sapere quello che i Filistei avevano fatto a Saul. T
utti i guerrieri si mossero: viaggiarono tutta la notte e presero il corpo di Saul e i corpi dei suoi fi gli dalle mura di Bet-Sean li portarono a Iabes e qui li bruciarono. Poi presero le loro ossa le seppellirono sotto il tam erisco che è a Iabes e fecero digiuno per sette giorni. Dopo la morte di Saul Davide tornò dalla s trage degli Amaleciti e rimase a Siklag due giorni. Al terzo giorno ecco arrivare un uomo dal cam po di Saul con la veste stracciata e col capo cosparso di polvere. Appena giunto presso Davide c adde a terra e si prostrò. Davide gli chiese: «Da dove vieni?». Rispose: «Sono fuggito dal campo d’Israele». Davide gli domandò: «Come sono andate le cose? Su dammi notizie!». Rispose: «è su ccesso che il popolo è fuggito nel corso della battaglia, molti del popolo sono caduti e sono mor ti; anche Saul e suo figlio Giònata sono morti». Davide chiese ancora al giovane che gli portava l e notizie: «Come sai che sono morti Saul e suo figlio Giònata?». Il giovane che recava la notizia r ispose: «Ero capitato per caso sul monte Gèlboe e vidi Saul curvo sulla lancia: lo attaccavano car ri e cavalieri. Egli si volse indietro mi vide e mi chiamò vicino. Dissi: “Eccomi!”. Mi chiese: “Chi se i tu?”. Gli risposi: “Sono un Amalecita”. Mi disse: “Gèttati sopra di me e uccidimi: io sento i brivi di ma la vita è ancora tutta in me”. Io gli fui sopra e lo uccisi perché capivo che non sarebbe sop ravvissuto alla sua caduta. Poi presi il diadema che era sul suo capo e la catenella che aveva al b
raccio e li ho portati qui al mio signore». Davide afferrò le sue vesti e le stracciò così fecero tutti gli uomini che erano con lui. Essi alzarono lamenti piansero e digiunarono fino a sera per Saul e Giònata suo figlio per il popolo del Signore e per la casa d’Israele perché erano caduti di spada.
Davide chiese poi al giovane che aveva portato la notizia: «Di dove sei tu?». Rispose: «Sono figli o di un forestiero amalecita». Davide gli disse allora: «Come non hai temuto di stendere la man o per uccidere il consacrato del Signore?». Davide chiamò uno dei suoi giovani e gli disse: «Accò stati e aggrediscilo». Egli lo colpì subito e quegli morì. Davide gridò a lui: «Il tuo sangue ricada s ul tuo capo. Attesta contro di te la tua bocca che ha detto: “Io ho ucciso il consacrato del Signor e!”». Allora Davide intonò questo lamento su Saul e suo figlio Giònata e ordinò che fosse insegn ato ai figli di Giuda; è il canto dell’arco e si trova scritto nel libro del Giusto: «Il tuo vanto Israele, sulle tue alture giace trafitto! Come sono caduti gli eroi? Non fatelo sapere in Gat, non l’annunc iate per le vie di àscalon, perché non ne facciano festa le figlie dei Filistei, non ne gioiscano le fig lie dei non circoncisi! O monti di Gèlboe non più rugiada né pioggia su di voi né campi da primizi e, perché qui fu rigettato lo scudo degli eroi; lo scudo di Saul non fu unto con olio, ma col sangu e dei trafitti col grasso degli eroi. O arco di Giònata! Non tornò mai indietro. O spada di Saul! No n tornava mai a vuoto. O Saul e Giònata amabili e gentili, né in vita né in morte furono divisi; er ano più veloci delle aquile, più forti dei leoni. Figlie d’Israele piangete su Saul, che con delizia vi rivestiva di porpora, che appendeva gioielli d’oro sulle vostre vesti. Come son caduti gli eroi in mezzo alla battaglia? Giònata sulle tue alture trafitto! Una grande pena ho per te, fratello mio G
iònata! Tu mi eri molto caro; la tua amicizia era per me preziosa, più che amore di donna. Come sono caduti gli eroi, sono perite le armi?». Dopo questi fatti Davide consultò il Signore dicendo:
«Devo salire in qualcuna delle città di Giuda?». Il Signore gli rispose: «Sali!». Chiese ancora Davi de: «Dove salirò?». Rispose: «A Ebron». Davide dunque vi salì con le sue due mogli Achinòam di Izreèl e Abigàil già moglie di Nabal di Carmel. Davide portò con sé anche i suoi uomini ognuno c on la sua famiglia, e abitarono nelle città di Ebron. Vennero allora gli uomini di Giuda e qui unse ro Davide re sulla casa di Giuda. Come fu annunciato a Davide che gli uomini di Iabes di Gàlaad avevano sepolto Saul, Davide inviò messaggeri agli uomini di Iabes di Gàlaad per dire loro: «Ben edetti voi dal Signore perché avete compiuto questo gesto d’amore verso Saul vostro signore, d andogli sepoltura. Vi renda dunque il Signore amore e fedeltà. Anche io farò a voi del bene perc hé avete compiuto quest’opera. Ora riprendano coraggio le vostre mani e siate uomini forti. è morto Saul vostro signore ma quelli della tribù di Giuda hanno unto me come re sopra di loro».
Intanto Abner figlio di Ner capo dell’esercito di Saul prese Is-Baal figlio di Saul, e lo condusse a Macanàim. Poi lo costituì re su Gàlaad sugli Asuriti su Izreèl su èfraim e su Beniamino cioè su tutto Israele. Is-Baal figlio di Saul aveva quarant’anni quando fu fatto re d’Israele e regnò due anni. Solo la casa di Giuda seguiva Davide. Il periodo di tempo durante il quale Davide fu re di Ebron fu di sette an ni e sei mesi. Abner figlio di Ner e i servi di Is-Baal figlio di Saul partirono da Macanàim per Gàbaon. Anche Ioab figlio di Seruià e i servi di Davi
de partirono e li incontrarono presso la piscina di Gàbaon. Questi stavano presso la piscina da u na parte e quelli dall’altra parte. Abner disse a Ioab: «Si alzino i giovani e lottino davanti a noi».
Ioab rispose: «Si alzino pure». Si alzarono e sfilarono in rassegna: dodici dalla parte di Beniamin o e di Is-Baal figlio di Saul e dodici tra i servi di Davide. Ciascuno afferrò la testa dell’avversario e gli confi ccò la spada nel fianco: così caddero tutti insieme e quel luogo fu chiamato Campo dei Fianchi c he si trova a Gàbaon. La battaglia divenne in quel giorno molto dura e furono sconfitti Abner e g li Israeliti dai servi di Davide. Vi erano là tre figli di Seruià: Ioab Abisài e Asaèl. Asaèl era veloce n ella corsa come le gazzelle della campagna. Asaèl si era messo a inseguire Abner e non deviava né a destra né a sinistra dietro ad Abner. Abner si volse indietro e gli disse: «Tu sei Asaèl?». Risp ose: «Sì». Abner aggiunse: «Volgiti a destra o a sinistra afferra qualcuno dei giovani e porta via l e sue spoglie». Ma Asaèl non volle cessare d’inseguirlo. Abner tornò a dirgli: «Tìrati via. Perché vuoi che ti stenda a terra? Come potrò alzare lo sguardo verso Ioab tuo fratello?». Ma siccome quegli non voleva ritirarsi lo colpì con l’estremità inferiore della lancia al ventre, così che la lanci a gli uscì dall’altra parte ed egli cadde e morì sul posto. Allora quanti arrivarono al luogo dove A saèl era caduto e morto si fermarono. Ma Ioab e Abisài inseguirono Abner finché al tramonto d el sole essi giunsero alla collina di Ammà, di fronte a Ghiach sulla strada del deserto di Gàbaon. I Beniaminiti si radunarono dietro Abner formando un gruppo compatto e si fermarono in cima a una collina. Allora Abner gridò a Ioab: «Dovrà continuare per sempre la spada a divorare? Non sai quanta amarezza ci sarà alla fine? Perché non ti decidi a ordinare al popolo di cessare l’inseg uimento dei loro fratelli?». Disse Ioab: «Per la vita di Dio se tu non avessi parlato nessuno della truppa avrebbe cessato fino al mattino di inseguire il proprio fratello». Allora Ioab fece suonare il corno e tutto il popolo si fermò e non inseguì più Israele e non combatté più. Abner e i suoi uo mini marciarono per l’Araba tutta quella notte; passarono il Giordano e dopo aver camminato t utta la mattina arrivarono a Macànaim. Ioab tornato dall’inseguimento di Abner, radunò tutto il popolo. Degli uomini di Davide ne mancavano diciannove oltre Asaèl. Ma i servi di Davide avev ano colpito e ucciso trecentosessanta uomini tra i Beniaminiti e la gente di Abner. Essi presero Asaèl e lo seppellirono nel sepolcro di suo padre che è a Betlemme. Ioab e i suoi uomini marciar ono tutta la notte; spuntava il giorno quando furono a Ebron. La guerra tra la casa di Saul e la ca sa di Davide fu lunga. Davide andava facendosi più forte mentre la casa di Saul andava indebole ndosi. A Ebron nacquero a Davide dei figli e furono: il primogenito Amnon nato da Achinòam di Izreèl; il secondo Chilab nato da Abigàil già moglie di Nabal di Carmel; il terzo Assalonne figlio di Maacà figlia di Talmài re di Ghesur; il quarto Adonia figlio di Agghìt; il quinto Sefatia figlio di Abit àl; il sesto Itreàm nato da Egla moglie di Davide. Questi nacquero a Davide a Ebron. Mentre c’er a lotta tra la casa di Saul e quella di Davide Abner era diventato potente nella casa di Saul. Saul aveva avuto una concubina chiamata Rispa figlia di Aià. Ora Is-Baal disse ad Abner: «Perché ti sei unito alla concubina di mio padre?». Abner si adirò molto pe r le parole di Is-
Baal e disse: «Sono dunque una testa di cane di Giuda? Fino ad oggi ho usato benevolenza vers o la casa di Saul tuo padre i suoi fratelli e i suoi amici, e non ti ho fatto cadere nelle mani di Davi de. Oggi tu mi rimproveri una colpa di donna. Così faccia Dio ad Abner e anche peggio se io non farò per Davide ciò che il Signore gli ha giurato: trasferire cioè il regno dalla casa di Saul e stabili re il trono di Davide su Israele e su Giuda da Dan fino a Bersabea». Quegli non fu capace di rispo ndere una parola ad Abner perché aveva paura di lui. Abner inviò subito messaggeri a Davide pe r dirgli: «Di chi è la terra?» per dire: «Fa’ alleanza con me ed ecco la mia mano sarà con te per fa r volgere a te tutto Israele». Rispose: «Bene! Io farò alleanza con te. Però ho una cosa da chiede rti ed è questa: non vedrai il mio volto senza condurmi Mical figlia di Saul quando verrai a veder e il mio volto». Davide spedì messaggeri a Is-Baal figlio di Saul dicendogli: «Ridammi mia moglie Mical che feci mia sposa al prezzo di cento p repuzi di Filistei». Is-Baal mandò a toglierla a suo marito Paltièl figlio di Lais. Suo marito partì con lei camminando e piangendo dietro di lei fino a Bacurìm. Poi Abner gli disse: «Torna indietro!». E quegli tornò. Int anto Abner rivolse questo discorso agli anziani d’Israele: «Da tempo voi desiderate avere David e come vostro re. Ora mettetevi in azione perché il Signore ha detto così a Davide: “Per mezzo d i Davide mio servo salverò il mio popolo Israele dalle mani dei Filistei e dalle mani di tutti i suoi nemici”». Abner ebbe colloqui anche con gli uomini di Beniamino. Poi Abner andò da Davide a E
bron a parlargli di quanto era parso bene agli occhi d’Israele e di tutta la casa di Beniamino. Abn er venne dunque da Davide a Ebron con venti uomini e Davide fece un banchetto per Abner e i suoi uomini. Abner disse poi a Davide: «Adesso vado a radunare tutto Israele intorno al re mio s ignore. Essi faranno alleanza con te e regnerai secondo il tuo desiderio». Davide congedò poi Ab ner che partì in pace. Ed ecco i servi di Davide e Ioab tornavano da una scorreria e portavano co n sé grande bottino. Abner non era più con Davide a Ebron perché questi lo aveva congedato ed egli era partito in pace. Quando arrivarono Ioab e la sua truppa fu riferito a Ioab: «è venuto dal re Abner figlio di Ner ed egli l’ha congedato e se n’è andato in pace». Ioab andò dal re e gli disse
: «Che cosa hai fatto? Ecco è venuto Abner da te; come mai l’hai congedato ed egli ha potuto an darsene? Lo sai chi è Abner, figlio di Ner? è venuto per ingannarti per conoscere le tue mosse p er sapere ciò che fai». Ioab si allontanò da Davide e mandò messaggeri dietro Abner e lo fece to rnare indietro dalla cisterna di Sira senza che Davide lo sapesse. Abner tornò a Ebron e Ioab lo p rese in disparte dentro la porta come per parlargli pacificamente e qui lo colpì a morte al ventre per vendicare il sangue di Asaèl suo fratello. Davide seppe più tardi la cosa e disse: «Sono innoc ente io e il mio regno per sempre davanti al Signore del sangue di Abner, figlio di Ner. Ricada sul la testa di Ioab e su tutta la casa di suo padre. Nella casa di Ioab non manchi mai chi soffra di go norrea o sia colpito da lebbra o si appoggi al bastone chi cada di spada o chi sia senza pane». Io ab e suo fratello Abisài avevano trucidato Abner, perché aveva ucciso Asaèl loro fratello a Gàba on in battaglia. Davide disse a Ioab e a tutta la gente che era con lui: «Stracciatevi le vesti vestit evi di sacco e fate il lamento davanti ad Abner». Anche il re Davide seguiva la bara. Seppellirono
Abner a Ebron e il re levò la sua voce e pianse davanti al sepolcro di Abner; pianse anche tutto i l popolo. Il re intonò un lamento funebre su Abner e disse: «Come muore un insensato, doveva dunque Abner morire? Le tue mani non sono state legate, i tuoi piedi non sono stati stretti in ca tene! Sei caduto come si cade davanti ai malfattori!». Tutto il popolo riprese a piangere su di lui
. Tutto il popolo venne ad invitare Davide a prendere cibo mentre era ancora giorno; ma Davide giurò: «Così mi faccia Dio e anche di peggio se io gusterò pane o qualsiasi altra cosa prima del t ramonto del sole». Tutto il popolo notò la cosa e l’approvò quanto fece il re ebbe l’approvazion e del popolo intero. Tutto il popolo e tutto Israele fu convinto in quel giorno che non era stato il re a far uccidere Abner figlio di Ner. Disse ancora il re ai suoi servi: «Non sapete che oggi è cadu to un capo un grande in Israele? Io oggi sono tenero sebbene già unto re mentre questi uomini i figli di Seruià sono più duri di me. Provveda il Signore a trattare il malvagio secondo la sua malv agità». Quando il figlio di Saul seppe della morte di Abner a Ebron gli caddero le braccia e tutto I sraele rimase sconvolto. Il figlio di Saul aveva due uomini capi di bande chiamati l’uno Baanà e il secondo Recab figli di Rimmon il Beerotita della tribù di Beniamino, perché anche Beeròt era co mputata fra le città di Beniamino. I Beerotiti si erano rifugiati a Ghittàim e vi sono rimasti come forestieri fino ad oggi. Giònata figlio di Saul aveva un figlio storpio nei piedi. Egli aveva cinque a nni quando giunsero da Izreèl le notizie circa i fatti di Saul e di Giònata. La nutrice l’aveva preso ed era fuggita ma nella fretta della fuga il bambino era caduto ed era rimasto storpio. Si chiama va Merib-Baal. Si mossero dunque i figli di Rimmon il Beerotita Recab e Baanà e vennero nell’ora più cald a del giorno alla casa di Is-Baal mentre egli stava facendo la siesta pomeridiana. Ora la portinaia della casa mentre monda va il grano si era assopita e dormiva: perciò Recab e Baanà suo fratello poterono introdursi inos servati. Entrarono dunque in casa mentre egli era disteso sul suo giaciglio nella camera da letto: lo colpirono l’uccisero e gli tagliarono la testa; poi portando via la testa di lui presero la via dell’
Araba camminando tutta la notte. Portarono la testa di IsBaal a Davide a Ebron e dissero al re: «Ecco la testa di Is-Baal figlio di Saul tuo nemico che attentava alla tua vita. Oggi il Signore ha concesso al re mio sig nore, la vendetta contro Saul e la sua discendenza». Ma Davide rispose a Recab e a Baanà suo fr atello figli di Rimmon il Beerotita: «Per la vita del Signore che mi ha liberato da ogni angustia! C
olui che mi annunciava: “Ecco è morto Saul!” credendo di portarmi una lieta notizia l’ho preso e ucciso a Siklag e questa fu la ricompensa per la notizia. Ora che uomini malvagi hanno ucciso u n giusto in casa mentre dormiva non dovrò a maggior ragione chiedere conto del suo sangue all e vostre mani ed eliminarvi dalla terra?». Davide diede ordine ai suoi giovani; questi li uccisero t agliarono loro le mani e i piedi e li appesero presso la piscina di Ebron. Presero poi la testa di Is-Baal e la seppellirono nel sepolcro di Abner a Ebron. Vennero allora tutte le tribù d’Israele da D
avide a Ebron e gli dissero: «Ecco noi siamo tue ossa e tua carne. Già prima quando regnava Sau l su di noi, tu conducevi e riconducevi Israele. Il Signore ti ha detto: “Tu pascerai il mio popolo Is
raele tu sarai capo d’Israele”». Vennero dunque tutti gli anziani d’Israele dal re a Ebron il re Davi de concluse con loro un’alleanza a Ebron davanti al Signore ed essi unsero Davide re d’Israele. D
avide aveva trent’anni quando fu fatto re e regnò quarant’anni. A Ebron regnò su Giuda sette a nni e sei mesi e a Gerusalemme regnò trentatré anni su tutto Israele e su Giuda. Il re e i suoi uo mini andarono a Gerusalemme contro i Gebusei che abitavano in quella regione. Costoro disser o a Davide: «Tu qui non entrerai: i ciechi e gli zoppi ti respingeranno» per dire: «Davide non pot rà entrare qui». Ma Davide espugnò la rocca di Sion, cioè la Città di Davide. Davide disse in quel giorno: «Chiunque vuol colpire i Gebusei attacchi attraverso il canale gli zoppi e i ciechi che odia no la vita di Davide». Per questo dicono: «Il cieco e lo zoppo non entreranno nella casa». Davide si stabilì nella rocca e la chiamò Città di Davide. Egli fece fortificazioni tutt’intorno dal Millo vers o l’interno. Davide andava sempre più crescendo in potenza e il Signore Dio degli eserciti era co n lui. Chiram re di Tiro inviò messaggeri a Davide con legno di cedro carpentieri e muratori i qua li costruirono una casa a Davide. Davide seppe allora che il Signore lo confermava re d’Israele e d esaltava il suo regno per amore d’Israele suo popolo. Davide prese ancora concubine e mogli da Gerusalemme dopo il suo arrivo da Ebron: queste generarono a Davide altri figli e figlie. I no mi di quelli generati a Gerusalemme sono: Sammù a Sobab Natan Salomone Ibcar Elisù a Nefeg Iafìa, Elisamà Eliadà ed Elifèlet. Quando i Filistei seppero che avevano unto Davide re d’Israele s alirono tutti per dargli la caccia. Appena Davide ne fu informato discese alla fortezza. Vennero i Filistei e si sparsero nella valle dei Refaìm. Davide consultò il Signore chiedendo: «Devo andare contro i Filistei? Li metterai nelle mie mani?». Il Signore rispose a Davide: «Va’ pure perché cert amente metterò i Filistei nelle tue mani». Davide si recò a Baal-Perasìm dove Davide li sconfisse e disse: «Il Signore ha aperto una breccia tra i miei nemici dava nti a me come una breccia aperta dalle acque». Per questo chiamò quel luogo Baal-Perasìm. I Filistei vi abbandonarono i loro idoli e Davide e la sua gente li portarono via. I Filistei s alirono di nuovo e si sparsero nella valle dei Refaìm. Davide consultò il Signore che gli rispose: «
Non salire; gira alle loro spalle e raggiungili dalla parte di Becaìm. Quando sentirai un rumore di passi sulla cima di Becaìm lànciati subito all’attacco perché allora il Signore uscirà davanti a te p er colpire l’accampamento dei Filistei». Davide fece come il Signore gli aveva ordinato e colpì i F
ilistei da Gàbaon fino all’ingresso di Ghezer. Davide reclutò di nuovo tutti gli uomini scelti d’Isra ele in numero di trentamila. Poi si alzò e partì con tutta la sua gente da Baalà di Giuda, per far s alire di là l’arca di Dio sulla quale si proclama il nome del Signore degli eserciti che siede sui cher ubini. Posero l’arca di Dio sopra un carro nuovo e la tolsero dalla casa di Abinadàb che era sul co lle; Uzzà e Achio figli di Abinadàb conducevano il carro nuovo. Mentre conducevano il carro con l’arca di Dio dalla casa di Abinadàb che stava sul colle Achio precedeva l’arca. Davide e tutta la c asa d’Israele danzavano davanti al Signore con tutte le forze con canti e con cetre arpe tambure lli sistri e cimbali. Giunti all’aia di Nacon Uzzà stese la mano verso l’arca di Dio e la sostenne per ché i buoi vacillavano. L’ira del Signore si accese contro Uzzà Dio lo percosse per la sua negligen za ed egli morì sul posto presso l’arca di Dio. Davide si rattristò per il fatto che il Signore aveva a
perto una breccia contro Uzzà quel luogo fu chiamato Peres-Uzzà fino ad oggi. Davide in quel giorno ebbe timore del Signore e disse: «Come potrà venire da me l’arca del Signore?». Davide non volle trasferire l’arca del Signore presso di sé nella Città di Davide ma la fece dirottare in casa di Obed-Edom di Gat. L’arca del Signore rimase tre mesi nella casa di Obed-Edom di Gat e il Signore benedisse Obed-
Edom e tutta la sua casa. Ma poi fu detto al re Davide: «Il Signore ha benedetto la casa di Obed-Edom e quanto gli appartiene a causa dell’arca di Dio». Allora Davide andò e fece salire l’arca di Dio dalla casa di Obed-Edom alla Città di Davide con gioia. Quando quelli che portavano l’arca del Signore ebbero fatto sei passi egli immolò un giovenco e un ariete grasso. Davide danzava con tutte le forze davanti al Signore. Davide era cinto di un efod di lino. Così Davide e tutta la casa d’Israele facevano salir e l’arca del Signore con grida e al suono del corno. Quando l’arca del Signore entrò nella Città di Davide Mical figlia di Saul guardando dalla finestra vide il re Davide che saltava e danzava dinan zi al Signore e lo disprezzò in cuor suo. Introdussero dunque l’arca del Signore e la collocarono a l suo posto al centro della tenda che Davide aveva piantato per essa; Davide offrì olocausti e sac rifici di comunione davanti al Signore. Quando ebbe finito di offrire gli olocausti e i sacrifici di co munione, Davide benedisse il popolo nel nome del Signore degli eserciti e distribuì a tutto il pop olo a tutta la moltitudine d’Israele uomini e donne una focaccia di pane per ognuno una porzion e di carne arrostita e una schiacciata di uva passa. Poi tutto il popolo se ne andò ciascuno a casa sua. Davide tornò per benedire la sua famiglia; gli uscì incontro Mical figlia di Saul e gli disse: «B
ell’onore si è fatto oggi il re d’Israele scoprendosi davanti agli occhi delle serve dei suoi servi co me si scoprirebbe davvero un uomo da nulla!». Davide rispose a Mical: «L’ho fatto dinanzi al Sig nore che mi ha scelto invece di tuo padre e di tutta la sua casa per stabilirmi capo sul popolo del Signore su Israele; ho danzato davanti al Signore. Anzi mi abbasserò anche più di così e mi rend erò vile ai tuoi occhi ma presso quelle serve di cui tu parli proprio presso di loro io sarò onorato!
». Mical figlia di Saul non ebbe figli fino al giorno della sua morte. Il re quando si fu stabilito nell a sua casa e il Signore gli ebbe dato riposo da tutti i suoi nemici all’intorno disse al profeta Nata n: «Vedi io abito in una casa di cedro mentre l’arca di Dio sta sotto i teli di una tenda». Natan ris pose al re: «Va’ fa’ quanto hai in cuor tuo perché il Signore è con te». Ma quella stessa notte fu rivolta a Natan questa parola del Signore: «Va’ e di’ al mio servo Davide: Così dice il Signore: “Fo rse tu mi costruirai una casa perché io vi abiti? Io infatti non ho abitato in una casa da quando h o fatto salire Israele dall’Egitto fino ad oggi; sono andato vagando sotto una tenda in un padiglio ne. Durante tutto il tempo in cui ho camminato insieme con tutti gli Israeliti ho forse mai detto ad alcuno dei giudici d’Israele a cui avevo comandato di pascere il mio popolo Israele: Perché no n mi avete edificato una casa di cedro?”. Ora dunque dirai al mio servo Davide: Così dice il Signo re degli eserciti: “Io ti ho preso dal pascolo mentre seguivi il gregge perché tu fossi capo del mio popolo Israele. Sono stato con te dovunque sei andato ho distrutto tutti i tuoi nemici davanti a
te e renderò il tuo nome grande come quello dei grandi che sono sulla terra. Fisserò un luogo p er Israele mio popolo e ve lo pianterò perché vi abiti e non tremi più e i malfattori non lo oppri mano come in passato e come dal giorno in cui avevo stabilito dei giudici sul mio popolo Israele.
Ti darò riposo da tutti i tuoi nemici. Il Signore ti annuncia che farà a te una casa. Quando i tuoi g iorni saranno compiuti e tu dormirai con i tuoi padri io susciterò un tuo discendente dopo di te uscito dalle tue viscere e renderò stabile il suo regno. Egli edificherà una casa al mio nome e io r enderò stabile il trono del suo regno per sempre. Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio.
Se farà il male lo colpirò con verga d’uomo e con percosse di figli d’uomo, ma non ritirerò da lui il mio amore come l’ho ritirato da Saul che ho rimosso di fronte a te. La tua casa e il tuo regno s aranno saldi per sempre davanti a te il tuo trono sarà reso stabile per sempre”». Natan parlò a Davide secondo tutte queste parole e secondo tutta questa visione. Allora il re Davide andò a pr esentarsi davanti al Signore e disse: «Chi sono io, Signore Dio e che cos’è la mia casa perché tu mi abbia condotto fin qui? E questo è parso ancora poca cosa ai tuoi occhi Signore Dio: tu hai pa rlato anche della casa del tuo servo per un lontano avvenire: e questa è la legge per l’uomo Sign ore Dio! Che cosa potrebbe dirti di più Davide? Tu conosci il tuo servo Signore Dio! Per amore d ella tua parola e secondo il tuo cuore hai compiuto tutte queste grandi cose, manifestandole al tuo servo. Tu sei davvero grande Signore Dio! Nessuno è come te e non vi è altro Dio fuori di te proprio come abbiamo udito con i nostri orecchi. E chi è come il tuo popolo come Israele unica nazione sulla terra che Dio è venuto a riscattare come popolo per sé e a dargli un nome operan do cose grandi e stupende per la tua terra davanti al tuo popolo che ti sei riscattato dalla nazion e d’Egitto e dai suoi dèi? Hai stabilito il tuo popolo Israele come popolo tuo per sempre e tu Sig nore sei diventato Dio per loro. Ora Signore Dio la parola che hai pronunciato sul tuo servo e sul la sua casa confermala per sempre e fa’ come hai detto. Il tuo nome sia magnificato per sempre così: “Il Signore degli eserciti è il Dio d’Israele!”. La casa del tuo servo Davide sia dunque stabile davanti a te! Poiché tu Signore degli eserciti Dio d’Israele hai rivelato questo al tuo servo e gli h ai detto: “Io ti edificherò una casa!”. Perciò il tuo servo ha trovato l’ardire di rivolgerti questa pr eghiera. Ora Signore Dio tu sei Dio le tue parole sono verità. Hai fatto al tuo servo queste belle promesse. Dégnati dunque di benedire ora la casa del tuo servo perché sia sempre dinanzi a te!
Poiché tu Signore Dio hai parlato e per la tua benedizione la casa del tuo servo è benedetta per sempre!». In seguito Davide sconfisse i Filistei e li umiliò. Davide prese le redini del comando da lle mani dei Filistei. Sconfisse anche i Moabiti e fattili coricare per terra li misurò con la corda; n e misurò due corde per farli mettere a morte e una corda intera per lasciarli in vita. I Moabiti di vennero sudditi e tributari di Davide. Davide sconfisse anche Adadèzer figlio di Recob re di Soba mentre egli andava a ristabilire il suo dominio sul fiume Eufrate. Davide gli prese millesettecent o cavalieri e ventimila fanti. Davide poi fece tagliare i garretti a tutti i cavalli risparmiandone un centinaio. Gli Aramei di Damasco andarono in aiuto di Adadèzer re di Soba ma Davide uccise ve ntiduemila Aramei. Poi Davide mise guarnigioni nell’Aram di Damasco e gli Aramei divennero su dditi e tributari di Davide. Il Signore salvava Davide in ogni sua impresa. Davide prese ai servi di
Adadèzer gli scudi d’oro e li portò a Gerusalemme. Da Betach e da Berotài città di Adadèzer, il r e Davide asportò una grande quantità di bronzo. Quando Tou re di Camat, udì che Davide aveva sconfitto tutto l’esercito di Adadèzer mandò al re Davide suo figlio Ioram per salutarlo e per be nedirlo perché aveva mosso guerra ad Adadèzer e l’aveva sconfitto; infatti Tou era sempre in gu erra con Adadèzer. Ioram gli portò vasi d’argento vasi d’oro e vasi di bronzo. Il re Davide consac rò anche quelli al Signore come già aveva consacrato l’argento e l’oro tolto alle nazioni che avev a soggiogato agli Aramei ai Moabiti agli Ammoniti ai Filistei agli Amaleciti e il bottino di Adadèze r figlio di Recob re di Soba. Al ritorno dalla sua vittoria sugli Aramei, Davide acquistò ancora fam a sconfiggendo nella valle del Sale diciottomila Edomiti. Stabilì guarnigioni in Edom; ne mise per tutto Edom e tutti gli Edomiti divennero sudditi di Davide. Il Signore salvava Davide in ogni sua i mpresa. Davide regnò su tutto Israele e rese giustizia con retti giudizi a tutto il suo popolo. Ioab figlio di Seruià comandava l’esercito; Giòsafat figlio di Achilù d era archivista; Sadoc figlio di Achi tù b e Achimèlec figlio di Ebiatàr erano sacerdoti; Seraià era scriba; Benaià figlio di Ioiadà era ca po dei Cretei e dei Peletei e i figli di Davide erano sacerdoti. Davide disse: «C’è forse ancora qua lche superstite della casa di Saul che io possa trattare con bontà a causa di Giònata?». Ora vi er a un servo della casa di Saul di nome Siba che fu chiamato presso Davide. Il re gli chiese: «Sei tu Siba?». Quegli rispose: «Sì». Il re gli disse: «C’è ancora qualcuno della casa di Saul che io possa t rattare con la bontà di Dio?». Siba rispose al re: «Vi è ancora un figlio di Giònata storpio nei pied i». Il re gli disse: «Dov’è?». Siba rispose al re: «è in casa di Machir figlio di Ammièl a Lodebàr». Al lora il re lo mandò a prendere in casa di Machir figlio di Ammièl a Lodebàr. Merib-Baal figlio di Giònata, figlio di Saul venne da Davide si gettò con la faccia a terra e si prostrò. Dav ide disse: «Merib-Baal!». Rispose: «Ecco il tuo servo!». Davide gli disse: «Non temere perché voglio trattarti con b ontà per amore di Giònata tuo padre; ti restituisco tutti i campi di Saul tuo avo e tu mangerai se mpre alla mia tavola». Merib-Baal si prostrò e disse: «Che cos’è il tuo servo, perché tu ti volga a un cane morto come sono io?
». Allora il re chiamò Siba domestico di Saul e gli disse: «Quanto apparteneva a Saul e a tutta la sua casa io lo do al figlio del tuo signore. Tu dunque con i figli e gli schiavi lavorerai per lui la terr a contribuendo perché abbia pane e nutrimento il figlio del tuo signore; ma Merib-Baal figlio del tuo signore, mangerà sempre alla mia tavola». Ora Siba aveva quindici figli e venti schiavi. Siba disse al re: «Il tuo servo farà quanto il re mio signore ordina al suo servo». Merib-Baal dunque mangiava alla tavola di Davide come uno dei figli del re. Merib-Baal aveva un figlioletto chiamato Mica; tutti quelli che stavano in casa di Siba erano al servizio di Merib-Baal. Ma Merib-Baal abitava a Gerusalemme perché mangiava sempre alla tavola del re. Era storpio in ambedue i piedi. Dopo questo morì il re degli Ammoniti e Canun suo figlio divenne re al suo posto. David e disse: «Manterrò fedeltà a Canun figlio di Nacas come suo padre la mantenne a me». Davide mandò alcuni suoi ministri a consolarlo per suo padre. I ministri di Davide andarono nel territori
o degli Ammoniti. Ma i capi degli Ammoniti dissero a Canun loro signore: «Forse Davide intende onorare tuo padre ai tuoi occhi mandandoti dei consolatori? Non ha piuttosto mandato da te i suoi ministri per esplorare la città per ispezionarla e perlustrarla?». Canun allora prese i ministri di Davide fece loro radere la metà della barba e tagliare le vesti a metà fino alle natiche poi li ri mandò. Quando l’annunciarono a Davide egli mandò qualcuno a incontrarli perché quegli uomi ni si vergognavano moltissimo. Il re fece dire loro: «Rimanete a Gerico finché vi sia cresciuta di nuovo la barba poi tornerete». Gli Ammoniti vedendo che si erano attirati l’inimicizia di Davide mandarono ad assoldare ventimila fanti di Aram Bet-Recob e di Aram Soba mille uomini del re di Maacà e dodicimila uomini della gente di Tob. Quan do Davide sentì questo mandò Ioab con tutto l’esercito dei prodi. Gli Ammoniti uscirono e si dis posero a battaglia all’ingresso della porta della città mentre gli Aramei di Soba e di Recob e la ge nte di Tob e di Maacà stavano da parte nella campagna. Ioab vide che il fronte della battaglia gli era davanti e alle spalle. Scelse allora un corpo tra i migliori d’Israele lo schierò contro gli Aram ei e affidò il resto dell’esercito a suo fratello Abisài per schierarlo contro gli Ammoniti. Disse: «S
e gli Aramei saranno più forti di me tu mi verrai a salvare; se invece gli Ammoniti saranno più fo rti di te verrò io a salvarti. Sii forte e dimostriamoci forti per il nostro popolo e per le città del no stro Dio. Il Signore faccia quello che a lui piacerà». Poi Ioab con la gente che aveva con sé attacc ò battaglia con gli Aramei i quali fuggirono davanti a lui. Quando gli Ammoniti videro che gli Ara mei erano fuggiti, fuggirono davanti ad Abisài e rientrarono nella città. Allora Ioab tornò dalla s pedizione contro gli Ammoniti e venne a Gerusalemme. Gli Aramei vedendo che erano stati sco nfitti da Israele si riunirono insieme. Adadèzer mandò a chiamare gli Aramei che erano al di là d el Fiume e quelli giunsero a Chelam; Sobac comandante dell’esercito di Adadèzer era alla loro t esta. La cosa fu riferita a Davide che radunò tutto Israele attraversò il Giordano e giunse a Chela m. Gli Aramei si schierarono di fronte a Davide e si scontrarono con lui. Ma gli Aramei fuggirono davanti a Israele: Davide uccise degli Aramei settecento cavalieri e quarantamila fanti; colpì anc he Sobac comandante del loro esercito che morì in quel luogo. Tutti i re vassalli di Adadèzer qua ndo si videro sconfitti da Israele fecero la pace con Israele e gli rimasero sottoposti. Gli Aramei n on osarono più venire a salvare gli Ammoniti. All’inizio dell’anno successivo al tempo in cui i re s ono soliti andare in guerra Davide mandò Ioab con i suoi servitori e con tutto Israele a compiere devastazioni contro gli Ammoniti; posero l’assedio a Rabbà mentre Davide rimaneva a Gerusale mme. Un tardo pomeriggio Davide alzatosi dal letto si mise a passeggiare sulla terrazza della reg gia. Dalla terrazza vide una donna che faceva il bagno: la donna era molto bella d’aspetto. David e mandò a informarsi sulla donna. Gli fu detto: «è Betsabea figlia di Eliàm moglie di Uria l’Ittita»
. Allora Davide mandò messaggeri a prenderla. Ella andò da lui ed egli giacque con lei che si era appena purificata dalla sua impurità. Poi ella tornò a casa. La donna concepì e mandò ad annun ciare a Davide: «Sono incinta». Allora Davide mandò a dire a Ioab: «Mandami Uria l’Ittita». Ioab mandò Uria da Davide. Arrivato Uria Davide gli chiese come stessero Ioab e la truppa e come an dasse la guerra. Poi Davide disse a Uria: «Scendi a casa tua e làvati i piedi». Uria uscì dalla reggia
e gli fu mandata dietro una porzione delle vivande del re. Ma Uria dormì alla porta della reggia con tutti i servi del suo signore e non scese a casa sua. La cosa fu riferita a Davide: «Uria non è s ceso a casa sua». Allora Davide disse a Uria: «Non vieni forse da un viaggio? Perché dunque non sei sceso a casa tua?». Uria rispose a Davide: «L’arca Israele e Giuda abitano sotto le tende Ioab mio signore e i servi del mio signore sono accampati in aperta campagna e io dovrei entrare in casa mia per mangiare e bere e per giacere con mia moglie? Per la tua vita per la vita della tua p ersona non farò mai cosa simile!». Davide disse a Uria: «Rimani qui anche oggi e domani ti lasce rò partire». Così Uria rimase a Gerusalemme quel giorno e il seguente. Davide lo invitò a mangia re e a bere con sé e lo fece ubriacare; la sera Uria uscì per andarsene a dormire sul suo giaciglio con i servi del suo signore e non scese a casa sua. La mattina dopo Davide scrisse una lettera a I oab e gliela mandò per mano di Uria. Nella lettera aveva scritto così: «Ponete Uria sul fronte del la battaglia più dura; poi ritiratevi da lui perché resti colpito e muoia». Allora Ioab che assediava la città pose Uria nel luogo dove sapeva che c’erano uomini valorosi. Gli uomini della città fecer o una sortita e attaccarono Ioab; caddero parecchi della truppa e dei servi di Davide e perì anch e Uria l’Ittita. Ioab mandò ad annunciare a Davide tutte le cose che erano avvenute nella battagl ia e diede al messaggero quest’ordine: «Quando avrai finito di raccontare al re quanto è success o nella battaglia se il re andasse in collera e ti dicesse: “Perché vi siete avvicinati così alla città p er dar battaglia? Non sapevate che avrebbero tirato dall’alto delle mura? Chi ha ucciso Abimèle c figlio di Ierub-Baal? Non fu forse una donna che gli gettò addosso il pezzo superiore di una macina dalle mura, così che egli morì a Tebes? Perché vi siete avvicinati così alle mura?” tu digli allora: “Anche il tu o servo Uria l’Ittita è morto”». Il messaggero dunque partì e quando fu arrivato annunciò a Davi de quanto Ioab lo aveva incaricato di dire. E il messaggero disse a Davide: «Poiché i nemici avev ano avuto vantaggio su di noi e avevano fatto una sortita contro di noi nella campagna noi fum mo loro addosso fino alla porta della città allora gli arcieri tirarono sui tuoi servi dall’alto delle m ura e parecchi dei servi del re perirono. Anche il tuo servo Uria l’Ittita è morto». Allora Davide di sse al messaggero: «Riferirai a Ioab: “Non sia male ai tuoi occhi questo fatto perché la spada div ora ora in un modo ora in un altro; rinforza la tua battaglia contro la città e distruggila”. E tu ste sso fagli coraggio». La moglie di Uria saputo che Uria suo marito era morto fece il lamento per il suo signore. Passati i giorni del lutto Davide la mandò a prendere e l’aggregò alla sua casa. Ella diventò sua moglie e gli partorì un figlio. Ma ciò che Davide aveva fatto era male agli occhi del Si gnore. Il Signore mandò il profeta Natan a Davide e Natan andò da lui e gli disse: «Due uomini e rano nella stessa città uno ricco e l’altro povero. Il ricco aveva bestiame minuto e grosso in gran numero mentre il povero non aveva nulla se non una sola pecorella piccina che egli aveva comp rato. Essa era vissuta e cresciuta insieme con lui e con i figli, mangiando del suo pane bevendo a lla sua coppa e dormendo sul suo seno. Era per lui come una figlia. Un viandante arrivò dall’uo mo ricco e questi evitando di prendere dal suo bestiame minuto e grosso quanto era da servire al viaggiatore che era venuto da lui prese la pecorella di quell’uomo povero e la servì all’uomo c
he era venuto da lui». Davide si adirò contro quell’uomo e disse a Natan: «Per la vita del Signor e chi ha fatto questo è degno di morte. Pagherà quattro volte il valore della pecora per aver fatt o una tal cosa e non averla evitata». Allora Natan disse a Davide: «Tu sei quell’uomo! Così dice il Signore Dio d’Israele: “Io ti ho unto re d’Israele e ti ho liberato dalle mani di Saul ti ho dato la c asa del tuo padrone e ho messo nelle tue braccia le donne del tuo padrone ti ho dato la casa d’I sraele e di Giuda e se questo fosse troppo poco io vi aggiungerei anche altro. Perché dunque hai disprezzato la parola del Signore facendo ciò che è male ai suoi occhi? Tu hai colpito di spada U
ria l’Ittita hai preso in moglie la moglie sua e lo hai ucciso con la spada degli Ammoniti. Ebbene l a spada non si allontanerà mai dalla tua casa poiché tu mi hai disprezzato e hai preso in moglie l a moglie di Uria l’Ittita”. Così dice il Signore: “Ecco io sto per suscitare contro di te il male dalla t ua stessa casa; prenderò le tue mogli sotto i tuoi occhi per darle a un altro che giacerà con loro alla luce di questo sole. Poiché tu l’hai fatto in segreto ma io farò questo davanti a tutto Israele e alla luce del sole”». Allora Davide disse a Natan: «Ho peccato contro il Signore!». Natan rispos e a Davide: «Il Signore ha rimosso il tuo peccato: tu non morirai. Tuttavia poiché con quest’azio ne tu hai insultato il Signore il figlio che ti è nato dovrà morire». Natan tornò a casa. Il Signore d unque colpì il bambino che la moglie di Uria aveva partorito a Davide e il bambino si ammalò gr avemente. Davide allora fece suppliche a Dio per il bambino si mise a digiunare e quando rientr ava per passare la notte dormiva per terra. Gli anziani della sua casa insistevano presso di lui pe rché si alzasse da terra ma egli non volle e non prese cibo con loro. Ora il settimo giorno il bamb ino morì e i servi di Davide temevano di annunciargli che il bambino era morto perché dicevano:
«Ecco quando il bambino era ancora vivo noi gli abbiamo parlato e non ha ascoltato le nostre p arole; come faremo ora a dirgli che il bambino è morto? Farà di peggio!». Ma Davide si accorse che i suoi servi bisbigliavano fra loro comprese che il bambino era morto e disse ai suoi servi: «è morto il bambino?». Quelli risposero: «è morto». Allora Davide si alzò da terra si lavò si unse e cambiò le vesti; poi andò nella casa del Signore e si prostrò. Rientrato in casa chiese che gli port assero del cibo e mangiò. I suoi servi gli dissero: «Che cosa fai? Per il bambino ancora vivo hai di giunato e pianto e ora che è morto ti alzi e mangi!». Egli rispose: «Quando il bambino era ancor a vivo digiunavo e piangevo perché dicevo: “Chissà? Il Signore avrà forse pietà di me e il bambin o resterà vivo”. Ma ora egli è morto: perché digiunare? Potrei forse farlo ritornare? Andrò io da lui ma lui non tornerà da me!». Poi Davide consolò Betsabea sua moglie andando da lei e giacen do con lei: così partorì un figlio che egli chiamò Salomone. Il Signore lo amò e mandò il profeta Natan perché lo chiamasse Iedidià per ordine del Signore. Intanto Ioab assalì Rabbà degli Ammo niti si impadronì della città regale e inviò messaggeri a Davide per dirgli: «Ho assalito Rabbà e m i sono già impadronito della città delle acque. Ora raduna il resto del popolo accàmpati contro l a città e prendila; altrimenti se la prendessi io porterebbe il mio nome». Davide radunò tutto il popolo si mosse verso Rabbà le diede battaglia e la occupò. Prese dalla testa di Milcom la coron a che pesava un talento d’oro e aveva una pietra preziosa; essa fu posta sulla testa di Davide. Eg li ricavò dalla città un bottino molto grande. Ne fece uscire gli abitanti e li impiegò alle seghe ai
picconi di ferro e alle asce di ferro e li trasferì alle fornaci da mattoni; allo stesso modo trattò tu tte le città degli Ammoniti. Poi Davide tornò a Gerusalemme con tutta la sua gente. Dopo quest o accadde che avendo Assalonne figlio di Davide una sorella molto bella, chiamata Tamar Amno n figlio di Davide si innamorò di lei. Amnon ne ebbe una tale passione da cadere malato a causa di Tamar sua sorella; poiché ella era vergine pareva impossibile ad Amnon di poterle fare qualco sa. Ora Amnon aveva un amico chiamato Ionadàb figlio di Simeà fratello di Davide e Ionadàb er a un uomo molto esperto. Egli disse: «Perché tu figlio del re diventi sempre più magro di giorno in giorno? Non me lo vuoi dire?». Amnon gli rispose: «Sono innamorato di Tamar sorella di mio fratello Assalonne». Ionadàb gli disse: «Mettiti a letto e fa’ l’ammalato; quando tuo padre verrà a vederti gli dirai: “Mia sorella Tamar venga a darmi il cibo da preparare sotto i miei occhi perch é io possa vedere e prendere il cibo dalle sue mani”». Amnon si mise a letto e fece l’ammalato; quando il re venne a vederlo Amnon gli disse: «Mia sorella Tamar venga e faccia un paio di fritte lle sotto i miei occhi e allora prenderò il cibo dalle sue mani». Allora Davide mandò a dire a Tam ar in casa: «Va’ a casa di Amnon tuo fratello e prepara una vivanda per lui». Tamar andò a casa di Amnon suo fratello che giaceva a letto. Ella prese la farina la impastò ne fece frittelle sotto i s uoi occhi e le fece cuocere. Poi prese la padella e le versò davanti a lui; ma egli rifiutò di mangia re e disse: «Escano tutti di qui». Tutti uscirono di là. Allora Amnon disse a Tamar: «Portami la vi vanda in camera e prenderò il cibo dalle tue mani». Tamar prese le frittelle che aveva fatto e le portò in camera ad Amnon suo fratello. Ma mentre gli porgeva il cibo egli l’afferrò e le disse: «V
ieni giaci con me sorella mia». Ella gli rispose: «No fratello mio, non farmi violenza. Questo non si fa in Israele: non commettere quest’infamia! E io, dove andrei a finire col mio disonore? Quan to a te tu diverresti uno dei più infami in Israele. Parlane piuttosto al re: egli non mi rifiuterà a t e». Ma egli non volle ascoltarla: fu più forte di lei e la violentò giacendo con lei. Poi Amnon conc epì verso di lei un odio grandissimo: l’odio verso di lei fu più grande dell’amore con cui l’aveva a mata prima. Le disse: «àlzati vattene!». Gli rispose: «O no! Questo male che mi fai cacciandomi è peggiore dell’altro che mi hai già fatto». Ma egli non volle ascoltarla. Anzi chiamato il domesti co che lo serviva gli disse: «Caccia fuori di qui costei e sprangale dietro la porta». Ella vestiva un a tunica con le maniche lunghe perché le figlie del re ancora vergini indossavano tali vesti. Il ser vo di Amnon dunque la mise fuori e le sprangò dietro la porta. Tamar si sparse polvere sulla test a si stracciò la tunica con le maniche lunghe che aveva indosso si mise le mani sulla testa e se ne andava gridando. Assalonne suo fratello le disse: «Forse Amnon tuo fratello è stato con te? Per ora taci sorella mia: è tuo fratello. Non fissare il tuo cuore su questo fatto». Tamar desolata rim ase in casa di Assalonne suo fratello. Il re Davide venne a sapere tutte queste cose e ne fu molto irritato ma non volle urtare suo figlio Amnon perché aveva per lui molto affetto: era infatti il su o primogenito. Assalonne non disse una parola ad Amnon né in bene né in male ma odiava Amn on perché aveva fatto violenza a Tamar sua sorella. Due anni dopo Assalonne aveva i tosatori a Baal-Asor presso èfraim e invitò tutti i figli del re. Andò dunque Assalonne dal re e disse: «Ecco dal tu
o servo ci sono i tosatori. Venga dunque anche il re con i suoi servi a casa del tuo servo!». Ma il re disse ad Assalonne: «No figlio mio non verremo tutti perché non ti siamo di peso». Sebbene i nsistesse il re non volle andare e gli diede la sua benedizione. Allora Assalonne disse: «Ma alme no venga con noi Amnon mio fratello». Il re gli rispose: «Perché dovrebbe venire con te?». Ma A ssalonne tanto insisté che Davide lasciò andare con lui Amnon e tutti i figli del re. Assalonne fec e un banchetto da re e diede quest’ordine ai domestici: «Badate quando Amnon avrà il cuore all egro per il vino e io vi dirò: “Colpite Amnon!” voi allora uccidetelo e non abbiate paura. Non ve l o comando io? Siate forti e coraggiosi!». I domestici di Assalonne fecero ad Amnon come Assalo nne aveva comandato. Allora tutti i figli del re si alzarono montarono ciascuno sul proprio mulo e fuggirono. Mentre essi erano ancora per strada giunse a Davide questa notizia: «Assalonne ha ucciso tutti i figli del re e neppure uno è scampato». Allora il re si alzò si stracciò le vesti e si get tò per terra; tutti i suoi servi che stavano là si stracciarono le vesti. Ma Ionadàb figlio di Simeà fr atello di Davide disse: «Non dica il mio signore che tutti i giovani figli del re sono stati uccisi poic hé il solo Amnon è morto: da Assalonne era stato deciso fin da quando egli aveva fatto violenza a sua sorella Tamar. Ora non pensi il mio signore che tutti i figli del re siano morti poiché il solo Amnon è morto e Assalonne è fuggito». Il giovane che stava di sentinella alzò gli occhi guardò e d ecco venire una gran turba di gente per la strada di Coronàim dal lato del monte sulla discesa.
La sentinella venne ad avvertire il re e disse: «Ho visto uomini scendere per la strada di Coronài m dal lato del monte». Allora Ionadàb disse al re: «Ecco i figli del re che arrivano; la cosa sta co me il tuo servo ha detto». Come ebbe finito di parlare ecco giungere i figli del re i quali alzarono grida e piansero; anche il re e tutti i suoi servi fecero un gran pianto. Intanto Assalonne era fug gito ed era andato da Talmài figlio di Ammiù d re di Ghesur. Il re fece il lutto per suo figlio per lu ngo tempo. Assalonne rimase tre anni a Ghesur dove era andato dopo aver preso la fuga. Poi il r e Davide cessò di sfogarsi contro Assalonne perché si era consolato per la morte di Amnon. Ioab figlio di Seruià si accorse che il cuore del re si rivolgeva ad Assalonne. Allora mandò a prendere a Tekòa una donna saggia e le disse: «Fingi di essere in lutto: mettiti una veste da lutto non ti un gere con olio e compòrtati da donna che pianga da molto tempo un morto; poi entra presso il r e e parlagli così e così». Ioab le mise in bocca le parole. La donna di Tekòa andò dunque dal re si gettò con la faccia a terra si prostrò e disse: «Aiutami o re!». Il re le disse: «Che hai?». Rispose:
«Ahimè! Io sono una vedova: mio marito è morto. La tua schiava aveva due figli ma i due venne ro tra loro a contesa in campagna e nessuno li separava; così uno colpì l’altro e l’uccise. Ed ecco tutta la famiglia è insorta contro la tua schiava dicendo: “Consegnaci il fratricida: dobbiamo farl o morire per la vita del fratello che egli ha ucciso”. Elimineranno così anche l’erede e spegneran no l’ultima brace che mi è rimasta e non si lascerà a mio marito né nome né discendenza sulla t erra». Il re disse alla donna: «Va’ pure a casa: io darò ordini a tuo riguardo». La donna di Tekòa disse al re: «O re mio signore la colpa cada su di me e sulla casa di mio padre ma il re e il suo tro no siano innocenti». E il re: «Se qualcuno parla contro di te, conducilo da me e non ti molesterà più ». Riprese: «Il re giuri nel nome del Signore suo Dio perché il vendicatore del sangue non acc
resca la rovina e non mi sopprimano il figlio». Egli rispose: «Per la vita del Signore non cadrà a t erra un capello di tuo figlio!». Allora la donna disse: «La tua schiava possa dire una parola al re mio signore!». Egli rispose: «Parla». Riprese la donna: «Allora perché pensi così contro il popolo di Dio? Il re pronunciando questa sentenza si è come dichiarato colpevole per il fatto che il re n on fa ritornare colui che ha bandito. Noi dobbiamo morire e siamo come acqua versata per terr a che non si può più raccogliere e Dio non ridà la vita. Il re pensi qualche piano perché chi è stat o bandito non sia più bandito lontano da lui. Ora se io sono venuta a parlare così al re mio signo re, è perché la gente mi ha fatto paura e la tua schiava ha detto: “Voglio parlare al re; forse il re farà quanto gli dirà la sua schiava poiché il re ascolterà la sua schiava e la libererà dalle mani di chi cerca di eliminare me con mio figlio dalla eredità di Dio”. Quindi la tua schiava dice: “La paro la del re mio signore sia fonte di quiete”. Perché il re mio signore è come un angelo di Dio nell’a scoltare il bene e il male. Il Signore tuo Dio sia con te!». Il re rispose e disse alla donna: «Non te nermi nascosto nulla di quello che io ti domanderò». La donna disse: «Parli pure il re mio signor e». Disse il re: «La mano di Ioab non è forse con te in tutto questo?». La donna rispose: «Per la t ua vita o re mio signore non si può andare né a destra né a sinistra di quanto ha detto il re mio s ignore! Proprio il tuo servo Ioab mi ha dato questi ordini e ha messo tutte queste parole in bocc a alla tua schiava. Il tuo servo Ioab ha agito così per dare un altro aspetto alla vicenda; ma il mio signore ha la saggezza di un angelo di Dio e sa quanto avviene sulla terra». Allora il re disse a Io ab: «Ecco faccio come mi hai detto; va’ dunque e fa’ tornare il giovane Assalonne». Ioab si gettò con la faccia a terra si prostrò benedisse il re e disse: «Oggi il tuo servo sa di aver trovato grazia ai tuoi occhi o re, mio signore poiché il re ha fatto quello che il suo servo gli ha detto». Ioab dun que si alzò andò a Ghesur e condusse Assalonne a Gerusalemme. Ma il re disse: «Si ritiri in casa e non veda la mia faccia». Così Assalonne si ritirò in casa e non vide la faccia del re. Ora in tutto Israele non vi era uomo bello che fosse tanto lodato quanto Assalonne; dalla pianta dei piedi all a cima del capo non era in lui difetto alcuno. Quando si faceva tagliare i capelli –
e se li faceva tagliare ogni anno perché la capigliatura gli pesava troppo e perciò li tagliava –
egli pesava i suoi capelli e il peso era di duecento sicli al peso del re. Ad Assalonne nacquero tre figli e una figlia chiamata Tamar che era donna di bell’aspetto. Assalonne abitò a Gerusalemme due anni senza vedere la faccia del re. Poi Assalonne fece chiamare Ioab per mandarlo dal re m a egli non volle andare da lui. Lo fece chiamare una seconda volta ma non volle andare. Allora A ssalonne disse ai suoi servi: «Vedete il campo di Ioab è vicino al mio e vi è l’orzo: andate e appic catevi il fuoco!». I servi di Assalonne appiccarono il fuoco al campo. Allora Ioab si alzò andò a ca sa di Assalonne e gli disse: «Perché i tuoi servi hanno dato fuoco al mio campo?». Assalonne ris pose a Ioab: «Io ti avevo mandato a dire: Vieni qui, voglio mandarti a dire al re: “Perché sono to rnato da Ghesur? Era meglio per me stare ancora là”. Ora voglio vedere la faccia del re e se vi è colpa in me mi faccia morire!». Ioab allora andò dal re e gli riferì la cosa. Il re fece chiamare Ass alonne, che venne e si prostrò con la faccia a terra davanti al re. E il re baciò Assalonne. Ma dop o questo Assalonne si procurò un carro cavalli e cinquanta uomini che correvano innanzi a lui. A
ssalonne si alzava la mattina presto e si metteva da un lato della via di accesso alla porta della ci ttà. Quando qualcuno aveva una lite e veniva dal re per il giudizio Assalonne lo chiamava e gli di ceva: «Di quale città sei?». L’altro gli rispondeva: «Il tuo servo è di tale e tale tribù d’Israele». All ora Assalonne gli diceva: «Vedi le tue ragioni sono buone e giuste ma nessuno ti ascolta per con to del re». Assalonne aggiungeva: «Se facessero me giudice del paese! Chiunque avesse una lite o un giudizio verrebbe da me e io gli farei giustizia». Quando uno gli si accostava per prostrarsi davanti a lui gli porgeva la mano l’abbracciava e lo baciava. Assalonne faceva così con tutti gli Is raeliti che venivano dal re per il giudizio; in questo modo Assalonne si accattivò il cuore degli Isr aeliti. Ora dopo quattro anni Assalonne disse al re: «Vorrei andare a Ebron a sciogliere un voto c he ho fatto al Signore. Perché durante la sua dimora a Ghesur in Aram il tuo servo ha fatto ques to voto: “Se il Signore mi riconduce a Gerusalemme io servirò il Signore!”». Il re gli disse: «Va’ in pace!». Egli si alzò e andò a Ebron. Allora Assalonne mandò corrieri per tutte le tribù d’Israele a dire: «Quando sentirete il suono del corno allora direte: “Assalonne è divenuto re a Ebron”». C
on Assalonne erano partiti da Gerusalemme duecento uomini i quali invitati partirono con semp licità senza saper nulla. Assalonne convocò Achitòfel il Ghilonita consigliere di Davide perché ve nisse dalla sua città di Ghilo all’offerta dei sacrifici. La congiura divenne potente e il popolo anda va aumentando intorno ad Assalonne. Arrivò un informatore da Davide e disse: «Il cuore degli Is raeliti è con Assalonne». Allora Davide disse a tutti i suoi servi che erano con lui a Gerusalemme
: «Alzatevi fuggiamo; altrimenti nessuno di noi scamperà dalle mani di Assalonne. Partite in fret ta, perché non si affretti lui a raggiungerci e faccia cadere su di noi la rovina e passi la città a fil d i spada». I servi del re gli dissero: «Tutto come preferirà il re, mio signore; ecco noi siamo i tuoi servi». Il re dunque uscì a piedi con tutta la famiglia; lasciò dieci concubine a custodire la reggia.
Il re uscì dunque a piedi con tutto il popolo e si fermarono all’ultima casa. Tutti i servi del re ca mminavano al suo fianco e tutti i Cretei e tutti i Peletei e tutti quelli di Gat seicento uomini venu ti da Gat al suo seguito sfilavano davanti al re. Allora il re disse a Ittài di Gat: «Perché vuoi venir e anche tu con noi? Torna indietro e resta con il re perché sei uno straniero e per di più un esule dalla tua patria. Appena ieri sei arrivato e oggi ti farei vagare con noi mentre io stesso vado dov e capiterà di andare? Torna indietro e riconduci con te i tuoi fratelli. Fedeltà e lealtà!». Ma Ittài rispose al re: «Per la vita del Signore e la tua o re mio signore in qualunque luogo sarà il re mio s ignore, per morire o per vivere là sarà anche il tuo servo». Allora Davide disse a Ittài: «Su passa!
». Ittài di Gat passò con tutti gli uomini e con tutte le donne e i bambini che erano con lui. Tutta la terra piangeva con alte grida. Tutto il popolo passava anche il re attendeva di passare il torre nte Cedron e tutto il popolo passava davanti a lui prendendo la via del deserto. Ecco venire anc he Sadoc con tutti i leviti i quali portavano l’arca dell’alleanza di Dio. Essi deposero l’arca di Dio –
anche Ebiatàr era venuto –
finché tutto il popolo non finì di venire via dalla città. Il re disse a Sadoc: «Riporta in città l’arca di Dio! Se io trovo grazia agli occhi del Signore egli mi farà tornare e me la farà rivedere essa e la sua sede. Ma se dice: “Non ti gradisco!” eccomi: faccia di me quello che sarà bene davanti a lui
». Il re aggiunse al sacerdote Sadoc: «Vedi: torna in pace in città e Achimàas tuo figlio e Giònata figlio di Ebiatàr i vostri due figli siano con voi. Badate: io aspetterò presso i guadi del deserto fin ché mi sia portata qualche notizia da parte vostra». Così Sadoc ed Ebiatàr riportarono a Gerusal emme l’arca di Dio e là rimasero. Davide saliva l’erta degli Ulivi saliva piangendo e camminava c on il capo coperto e a piedi scalzi; tutta la gente che era con lui aveva il capo coperto e salendo piangeva. Fu intanto portata a Davide la notizia: «Achitòfel è con Assalonne tra i congiurati». Da vide disse: «Rendi stolti i consigli di Achitòfel Signore!». Quando Davide fu giunto in vetta al mo nte al luogo dove ci si prostra a Dio ecco farglisi incontro Cusài, l’Archita con la tunica stracciata e il capo coperto di polvere. Davide gli disse: «Se tu passi con me mi sarai di peso; ma se torni in città e dici ad Assalonne: “Io sarò tuo servo o re; come sono stato servo di tuo padre prima così sarò ora tuo servo” tu mi renderai nulli i consigli di Achitòfel. E non avrai forse là con te i sacerd oti Sadoc ed Ebiatàr? Quanto sentirai dire nella reggia lo riferirai ai sacerdoti Sadoc ed Ebiatàr. E
cco essi hanno con loro i due figli Achimàas, figlio di Sadoc e Giònata figlio di Ebiatàr; per mezzo di loro mi manderete a dire quanto avrete sentito». Cusài amico di Davide arrivò in città quand o Assalonne entrava in Gerusalemme. Davide aveva appena superato la cima del monte quand’
ecco Siba servo di Merib-
Baal, gli si fece incontro con un paio di asini sellati e carichi di duecento pani cento grappoli di u va passa cento frutti d’estate e un otre di vino. Il re disse a Siba: «Che vuoi fare di queste cose?»
. Siba rispose: «Gli asini serviranno da cavalcatura alla famiglia del re i pani e i frutti d’estate son o per sfamare i giovani il vino per dissetare quelli che saranno stanchi nel deserto». Il re disse: «
Dov’è il figlio del tuo signore?». Siba rispose al re: «Ecco è rimasto a Gerusalemme perché ha de tto: “Oggi la casa di Israele mi restituirà il regno di mio padre”». Il re disse a Siba: «Quanto appa rtiene a Merib-Baal è tuo». Siba rispose: «Mi prostro! Possa io trovar grazia ai tuoi occhi o re mio signore!». Qu ando poi il re Davide fu giunto a Bacurìm ecco uscire di là un uomo della famiglia della casa di S
aul chiamato Simei figlio di Ghera. Egli usciva imprecando e gettava sassi contro Davide e contr o tutti i servi del re Davide mentre tutto il popolo e tutti i prodi stavano alla sua destra e alla sua sinistra. Così diceva Simei maledicendo Davide: «Vattene, vattene sanguinario malvagio! Il Sign ore ha fatto ricadere sul tuo capo tutto il sangue della casa di Saul al posto del quale regni; il Sig nore ha messo il regno nelle mani di Assalonne tuo figlio, ed eccoti nella tua rovina perché sei u n sanguinario». Allora Abisài, figlio di Seruià disse al re: «Perché questo cane morto dovrà male dire il re mio signore? Lascia che io vada e gli tagli la testa!». Ma il re rispose: «Che ho io in com une con voi figli di Seruià? Se maledice è perché il Signore gli ha detto: “Maledici Davide!”. E chi potrà dire: “Perché fai così?”». Poi Davide disse ad Abisài e a tutti i suoi servi: «Ecco il figlio uscit o dalle mie viscere cerca di togliermi la vita: e allora questo Beniaminita lasciatelo maledire poic hé glielo ha ordinato il Signore. Forse il Signore guarderà la mia afflizione e mi renderà il bene in cambio della maledizione di oggi». Davide e la sua gente continuarono il cammino e Simei cam minava sul fianco del monte parallelamente a Davide e cammin facendo malediceva gli tirava sa
ssi e gli lanciava polvere. Il re e tutta la gente che era con lui arrivarono stanchi presso il Giorda no dove ripresero fiato. Intanto Assalonne con tutti gli Israeliti era entrato in Gerusalemme e Ac hitòfel era con lui. Quando Cusài l’Archita l’amico di Davide fu giunto presso Assalonne gli disse:
«Viva il re! Viva il re!». Assalonne disse a Cusài: «Questa è la fedeltà che hai per il tuo amico? P
erché non sei andato con il tuo amico?». Cusài rispose ad Assalonne: «No io sarò per colui che il Signore e questo popolo e tutti gli Israeliti hanno scelto e con lui rimarrò. E poi di chi sarò servo
? Non lo sarò forse di suo figlio? Come ho servito tuo padre così servirò te». Allora Assalonne di sse ad Achitòfel: «Consultatevi su quello che dobbiamo fare». Achitòfel rispose ad Assalonne: «
Entra dalle concubine che tuo padre ha lasciato a custodia della casa; tutto Israele saprà che ti s ei reso odioso a tuo padre e sarà rafforzato il coraggio di tutti i tuoi». Fu dunque tesa una tenda sulla terrazza per Assalonne e Assalonne entrò dalle concubine del padre alla vista di tutto Israe le. In quei giorni un consiglio dato da Achitòfel era come se si fosse consultata la parola di Dio. C
osì era di tutti i consigli di Achitòfel tanto per Davide che per Assalonne. Achitòfel disse ad Assal onne: «Sceglierò dodicimila uomini: mi metterò a inseguire Davide questa notte gli piomberò a ddosso mentre egli è stanco e ha le braccia fiacche lo spaventerò e tutta la gente che è con lui si darà alla fuga; io colpirò solo il re e ricondurrò a te tutto il popolo, come ritorna la sposa al suo uomo. La vita di un solo uomo tu cerchi: la gente rimarrà tranquilla». Questo parlare piacque ad Assalonne e a tutti gli anziani d’Israele. Ma Assalonne disse: «Chiamate anche Cusài l’Archita e sentiamo ciò che ha in bocca anche lui». Quando Cusài fu giunto da Assalonne questi gli disse: «
Achitòfel ha parlato così e così: dobbiamo fare come ha detto lui? Se no, parla tu!». Cusài rispos e ad Assalonne: «Questa volta il consiglio dato da Achitòfel non è buono». Cusài continuò: «Tu c onosci tuo padre e i suoi uomini: sai che sono dei prodi e che hanno l’animo esasperato come u n’orsa privata dei figli nella campagna; poi tuo padre è un guerriero e non passerà la notte con i l popolo. A quest’ora egli è nascosto in qualche buca o in qualche altro luogo; se fin da principio cadranno alcuni dei tuoi si verrà a sapere e si dirà: “C’è stata una strage tra la gente che segue Assalonne”. Allora il più valoroso, anche se avesse un cuore di leone si avvilirà perché tutto Isra ele sa che tuo padre è un prode e che i suoi uomini sono valorosi. Perciò io consiglio che tutto Is raele da Dan fino a Bersabea si raduni presso di te numeroso come la sabbia che è sulla riva del mare e che tu in persona vada alla battaglia. Così lo raggiungeremo in qualunque luogo si trover à e piomberemo su di lui come la rugiada cade sul suolo; di tutti i suoi uomini non ne resterà un o solo. Se poi si ritira in qualche città tutto Israele porterà corde a quella città e noi la trascinere mo nella valle in modo che non se ne trovi più nemmeno una pietruzza». Assalonne e tutti gli Is raeliti dissero: «Il consiglio di Cusài l’Archita è migliore di quello di Achitòfel». Il Signore aveva st abilito di render nullo il buon consiglio di Achitòfel per far cadere la rovina su Assalonne. Allora Cusài disse ai sacerdoti Sadoc ed Ebiatàr: «Achitòfel ha consigliato Assalonne e gli anziani d’Isra ele così e così ma io ho consigliato diversamente. Ora dunque mandate in fretta a informare Da vide e ditegli: “Non passare la notte presso i guadi del deserto ma passa subito dall’altra parte p erché non sia finita per il re e la gente che è con lui”». Ora Giònata e Achimàas stavano presso l
a fonte di Roghel e una schiava andò a portare loro le notizie che essi dovevano andare a riferir e al re Davide perché non potevano farsi vedere entrare in città. Ma un giovane li vide e inform ò Assalonne. I due partirono di corsa e giunsero a Bacurìm a casa di un uomo che aveva nel corti le una cisterna. Essi vi si calarono e la donna di casa prese una coperta la distese sulla bocca dell a cisterna e sparse del grano su di essa così che non ci si accorgeva di nulla. I servi di Assalonne vennero in casa della donna e chiesero: «Dove sono Achimàas e Giònata?». La donna rispose lor o: «Hanno oltrepassato il serbatoio dell’acqua». Quelli si misero a cercarli ma non riuscendo a tr ovarli tornarono a Gerusalemme. Quando costoro se ne furono partiti i due uscirono dalla cister na e andarono a informare il re Davide. Gli dissero: «Muovetevi e passate in fretta l’acqua perch é così ha consigliato Achitòfel a vostro danno». Allora Davide si levò con tutta la sua gente e pas sò il Giordano. Allo spuntare del giorno neppure uno era rimasto che non avesse passato il Gior dano. Achitòfel vedendo che il suo consiglio non era stato seguito sellò l’asino e partì per andar e a casa sua nella sua città. Mise in ordine gli affari della casa e s’impiccò. Così morì e fu sepolto nel sepolcro di suo padre. Davide era giunto a Macanàim quando Assalonne passò il Giordano c on tutti gli Israeliti. Assalonne aveva posto a capo dell’esercito Amasà invece di Ioab. Amasà era figlio di un uomo chiamato Itra l’Israelita il quale si era unito ad Abigàl, figlia di Nacas e sorella di Seruià madre di Ioab. Israele e Assalonne si accamparono nel territorio di Gàlaad. Quando Da vide fu giunto a Macanàim Sobì, figlio di Nacas da Rabbà degli Ammoniti e Machir figlio di Ammi èl da Lodebàr e Barzillài il Galaadita da Roghelìm portarono giacigli coppe e vasi di terracotta gr ano orzo farina grano arrostito fave lenticchie miele panna e pecore e formaggio di mucca per D
avide e per la sua gente perché mangiassero; infatti dicevano: «Questa gente ha patito fame sta nchezza e sete nel deserto». Davide fece ispezione tra la sua gente e costituì comandanti di migl iaia e comandanti di centinaia su di loro. Davide dispose la gente: un terzo sotto il comando di I oab un terzo sotto il comando di Abisài figlio di Seruià fratello di Ioab e un terzo sotto il comand o di Ittài di Gat. Poi il re disse al popolo: «Voglio uscire anch’io con voi!». Ma il popolo rispose: «
Tu non devi uscire perché se noi fossimo messi in fuga, non si farebbe alcun caso di noi; quand’
anche perisse la metà di noi non se ne farebbe alcun caso, ma tu conti per diecimila di noi. Quin di è meglio che tu sia per noi di aiuto dalla città». Il re rispose loro: «Farò quello che vi sembra b ene». Il re si fermò al fianco della porta mentre tutto l’esercito usciva a schiere di cento e di mill e uomini. Il re ordinò a Ioab ad Abisài e a Ittài: «Trattatemi con riguardo il giovane Assalonne!».
E tutto il popolo udì quanto il re ordinò a tutti i capi a proposito di Assalonne. L’esercito uscì in c ampo contro Israele e la battaglia ebbe luogo nella foresta di èfraim. La gente d’Israele fu sconfi tta in quel luogo dai servi di Davide; la strage fu grande in quel giorno: ventimila uomini. La batt aglia si estese per tutta la regione e la foresta divorò in quel giorno molta più gente di quanta n on ne avesse divorata la spada. Ora Assalonne s’imbatté nei servi di Davide. Assalonne cavalcav a il mulo; il mulo entrò sotto il groviglio di una grande quercia e la testa di Assalonne rimase im pigliata nella quercia e così egli restò sospeso fra cielo e terra mentre il mulo che era sotto di lui passò oltre. Un uomo lo vide e venne a riferire a Ioab: «Ho visto Assalonne appeso a una querci
a». Ioab rispose all’uomo che gli portava la notizia: «Dunque, l’hai visto? E perché non l’hai stes o al suolo tu sul posto? Io t’avrei dato dieci sicli d’argento e una cintura». Ma quell’uomo disse a Ioab: «Quand’anche mi fossero messi in mano mille sicli d’argento io non stenderei la mano s ul figlio del re perché con i nostri orecchi abbiamo udito l’ordine che il re ha dato a te ad Abisài e a Ittài: “Proteggetemi il giovane Assalonne!”. Ma se io avessi agito con perfidia di mia testa po iché nulla rimane nascosto al re tu avresti preso le distanze». Allora Ioab disse: «Io non voglio p erdere così il tempo con te». Prese in mano tre dardi e li ficcò nel cuore di Assalonne che era an cora vivo nel folto della quercia. Poi dieci giovani scudieri di Ioab circondarono Assalonne lo col pirono e lo finirono. Allora Ioab suonò il corno e il popolo cessò di inseguire Israele, perché Ioab aveva trattenuto il popolo. Quindi presero Assalonne lo gettarono in una grande buca nella for esta ed elevarono sopra di lui un grande mucchio di pietre. Tutto Israele era fuggito, ciascuno n ella sua tenda. Ora Assalonne mentre era in vita si era eretta la stele che è nella valle del Re per ché diceva: «Io non ho un figlio per conservare il ricordo del mio nome». Chiamò quella stele co n il suo nome e la si chiamò monumento di Assalonne fino ad oggi. Achimàas figlio di Sadoc diss e a Ioab: «Correrò a portare al re la bella notizia che il Signore lo ha liberato dai suoi nemici». Io ab gli disse: «Tu non sarai oggi l’uomo della bella notizia la darai un altro giorno; non darai oggi l a bella notizia, perché il figlio del re è morto». Poi Ioab disse all’Etiope: «Va’ e riferisci al re quell o che hai visto». L’Etiope si prostrò a Ioab e corse via. Achimàas figlio di Sadoc disse di nuovo a I oab: «Comunque sia voglio correre anch’io dietro all’Etiope». Ioab gli disse: «Ma perché correre figlio mio? La bella notizia non ti porterà nulla di buono». E l’altro: «Comunque sia voglio correr e». Ioab gli disse: «Corri!». Allora Achimàas prese la corsa per la strada della valle e oltrepassò l’
Etiope. Davide stava seduto fra le due porte; la sentinella salì sul tetto della porta sopra le mura alzò gli occhi, guardò ed ecco vide un uomo correre tutto solo. La sentinella gridò e l’annunciò al re. Il re disse: «Se è solo ha in bocca una bella notizia». Quegli andava avvicinandosi sempre p iù. La sentinella vide un altro uomo che correva e gridò al guardiano: «Ecco un altro uomo corre re tutto solo!». E il re: «Anche questo ha una bella notizia». La sentinella disse: «Il modo di corr ere del primo mi pare quello di Achimàas figlio di Sadoc». E il re disse: «è un uomo buono: viene certo per una lieta notizia!». Achimàas gridò al re: «Pace!». Poi si prostrò al re con la faccia a te rra e disse: «Benedetto sia il Signore tuo Dio che ha fermato gli uomini che avevano alzato le m ani contro il re mio signore!». Il re disse: «Il giovane Assalonne sta bene?». Achimaàs rispose: «
Quando Ioab mandava il servo del re e me tuo servo io vidi un gran tumulto ma non so che cosa fosse». Il re gli disse: «Mettiti là da parte». Quegli si mise da parte e aspettò. Ed ecco arrivare l’
Etiope che disse: «Si rallegri per la notizia il re mio signore! Il Signore ti ha liberato oggi da quan ti erano insorti contro di te». Il re disse all’Etiope: «Il giovane Assalonne sta bene?». L’Etiope ris pose: «Diventino come quel giovane i nemici del re mio signore e quanti insorgono contro di te per farti del male!». Allora il re fu scosso da un tremito salì al piano di sopra della porta e pianse
; diceva andandosene: «Figlio mio Assalonne! Figlio mio figlio mio Assalonne! Fossi morto io inv ece di te, Assalonne figlio mio figlio mio!». Fu riferito a Ioab: «Ecco il re piange e fa lutto per Ass
alonne». La vittoria in quel giorno si cambiò in lutto per tutto il popolo perché il popolo sentì dir e in quel giorno: «Il re è desolato a causa del figlio». Il popolo in quel giorno rientrò in città furti vamente come avrebbe fatto gente vergognosa per essere fuggita durante la battaglia. Il re si er a coperta la faccia e gridava a gran voce: «Figlio mio Assalonne Assalonne figlio mio figlio mio!».
Allora Ioab entrò in casa del re e disse: «Tu fai arrossire oggi il volto di tutta la tua gente che in questo giorno ha salvato la vita a te ai tuoi figli e alle tue figlie alle tue mogli e alle tue concubin e perché ami quelli che ti odiano e odii quelli che ti amano. Infatti oggi tu mostri chiaramente c he capi e servi per te non contano nulla; ora io ho capito che se Assalonne fosse vivo e noi quest
’oggi fossimo tutti morti questa sarebbe una cosa giusta ai tuoi occhi. Ora dunque àlzati esci e p arla al cuore dei tuoi servi perché io giuro per il Signore che se non esci neppure un uomo rester à con te questa notte; questo sarebbe per te un male peggiore di tutti quelli che ti sono capitati dalla tua giovinezza fino ad oggi». Allora il re si alzò e si sedette alla porta; fu dato quest’annunc io a tutto il popolo: «Ecco il re sta seduto alla porta». E tutto il popolo venne alla presenza del r e. Gli Israeliti erano fuggiti ognuno alla sua tenda. In tutte le tribù d’Israele tutto il popolo stava discutendo e diceva: «Il re ci ha liberati dalle mani dei nostri nemici e ci ha salvati dalle mani dei Filistei; ora è dovuto fuggire dalla terra a causa di Assalonne. Ma Assalonne che noi avevamo u nto re su di noi è morto in battaglia. Ora perché indugiate a fare tornare il re?». Ciò che si dicev a in tutto Israele era giunto a conoscenza del re. Il re Davide mandò a dire ai sacerdoti Sadoc ed Ebiatàr: «Riferite agli anziani di Giuda: “Perché volete essere gli ultimi a far tornare il re alla sua casa? Fratelli miei voi siete mio osso e mia carne e perché dunque sareste gli ultimi a far tornar e il re?”. Dite ad Amasà: “Non sei forse mio osso e mia carne? Dio mi faccia questo e anche peg gio se tu non diventerai davanti a me capo dell’esercito per sempre al posto di Ioab!”». Così pie gò il cuore di tutti gli uomini di Giuda, come se fosse stato il cuore di un sol uomo; essi mandaro no a dire al re: «Ritorna tu e tutti i tuoi servi». Il re dunque tornò e giunse al Giordano; quelli di Giuda vennero a Gàlgala per andare incontro al re e per fargli passare il Giordano. Simei figlio di Ghera Beniaminita che era di Bacurìm si affrettò a scendere con gli uomini di Giuda incontro al re Davide. Aveva con sé mille uomini di Beniamino. Siba il domestico della casa di Saul i suoi qui ndici figli e i suoi venti servi si precipitarono al Giordano prima del re. La barca faceva la travers ata per far passare la famiglia del re e poi fare quanto gli fosse sembrato opportuno. Intanto Si mei figlio di Ghera si gettò ai piedi del re nel momento in cui passava il Giordano e disse al re: «I l mio signore non tenga conto della mia colpa! Quanto il tuo servo ha commesso quando il re mi o signore è uscito da Gerusalemme non ricordarlo, non lo conservi il re nel suo cuore! Certo il tu o servo riconosce di aver peccato ed ecco oggi primo di tutta la casa di Giuseppe sono sceso inc ontro al re mio signore». Ma Abisài figlio di Seruià disse: «Non dovrà forse essere messo a mort e Simei perché ha maledetto il consacrato del Signore?». Davide disse: «Che ho io in comune co n voi o figli di Seruià perché diventiate oggi miei avversari? Si può mettere a morte oggi qualcun o in Israele? Non so già forse di essere oggi il re d’Israele?». Il re disse a Simei: «Tu non morirai!
». E il re glielo giurò. Anche Merib-

Baal nipote di Saul scese incontro al re. Non si era curato i piedi né la barba intorno alle labbra e non aveva lavato le vesti dal giorno in cui il re era partito a quello in cui tornava in pace. Mentr e andava a Gerusalemme incontro al re il re gli disse: «Perché non sei venuto con me Merib-Baal?». Egli rispose: «O re, mio signore il mio servo mi ha ingannato! Il tuo servo aveva detto: “I o mi farò sellare l’asino monterò e andrò con il re perché il tuo servo è zoppo”. Inoltre egli ha ca lunniato il tuo servo presso il re mio signore. Però il re mio signore è come un angelo di Dio; fa’
dunque ciò che sembrerà bene ai tuoi occhi. Perché tutti quelli della casa di mio padre erano sol o degni di morte per il re mio signore; ma tu hai posto il tuo servo fra quelli che mangiano alla t ua tavola. E che diritto avrei ancora di supplicare il re?». Il re gli disse: «Non occorre che tu aggi unga altre parole. Ho deciso: tu e Siba vi dividerete i campi». Merib-Baal rispose al re: «Se li prenda pure tutti lui dato che ormai il re mio signore è tornato in pace a casa sua!». Barzillài il Galaadita era sceso da Roghelìm e aveva passato il Giordano con il re per congedarsi da lui presso il Giordano. Barzillài era molto vecchio: aveva ottant’anni. Aveva dato s ostentamento al re mentre questi si trovava a Macanàim perché era un uomo molto facoltoso. I l re disse a Barzillài: «Vieni con me; io provvederò al tuo sostentamento presso di me a Gerusale mme». Ma Barzillài rispose al re: «Quanti sono gli anni che mi restano da vivere perché io salga con il re a Gerusalemme? Io ora ho ottant’anni; posso forse ancora distinguere ciò che è buono da ciò che è cattivo? Può il tuo servo gustare ancora ciò che mangia e ciò che beve? Posso udire ancora la voce dei cantanti e delle cantanti? E perché allora il tuo servo dovrebbe essere di pes o al re mio signore? Il tuo servo verrà con il re appena oltre il Giordano; perché il re dovrebbe d armi una tale ricompensa? Lascia che il tuo servo torni indietro e che io possa morire nella mia c ittà presso la tomba di mio padre e di mia madre. Ecco qui mio figlio il tuo servo Chimam: venga lui con il re mio signore; fa’ per lui quello che ti piacerà». Il re rispose: «Venga dunque con me C
himam e io farò per lui quello che a te piacerà farò per te quello che desidererai da me». Poi tut to il popolo passò il Giordano. Il re l’aveva già passato. Allora il re baciò Barzillài e lo benedisse; quegli tornò a casa. Così il re proseguì per Gàlgala e Chimam era venuto con lui. Tutta la gente d i Giuda e anche metà della gente d’Israele aveva fatto passare il re. Allora tutti gli Israeliti venne ro dal re e gli dissero: «Perché i nostri fratelli gli uomini di Giuda ti hanno prelevato e hanno fatt o passare il Giordano al re alla sua famiglia e a tutta la gente di Davide?». Tutti gli uomini di Giu da risposero agli Israeliti: «Il re è un nostro parente stretto; perché vi adirate per questo? Abbia mo forse mangiato a spese del re o ci fu portata qualche porzione?». Gli Israeliti replicarono agli uomini di Giuda: «Io ho dieci parti sul re e anche su Davide ho la preminenza rispetto a te; perc hé mi hai disprezzato? Non sono forse stato il primo a proporre di far tornare il re?». Ma il parla re degli uomini di Giuda fu più ostinato di quello degli Israeliti. Capitò là uno scellerato chiamat o Seba figlio di Bicrì un Beniaminita, il quale suonò il corno e disse: «Non abbiamo alcuna parte con Davide e non abbiamo un’eredità con il figlio di Iesse. Ognuno alle proprie tende Israele!».
Tutti gli Israeliti si allontanarono da Davide per seguire Seba figlio di Bicrì ma gli uomini di Giuda rimasero uniti al loro re e lo accompagnarono dal Giordano fino a Gerusalemme. Davide entrò
nella reggia a Gerusalemme. Il re prese le dieci concubine che aveva lasciato a custodia della re ggia e le mise in una residenza sorvegliata; dava loro sostentamento ma non si accostava a loro.
Rimasero così recluse fino al giorno della loro morte vivendo da vedove. Quindi il re disse ad A masà: «Radunami tutti gli uomini di Giuda in tre giorni; poi férmati qui». Amasà dunque partì pe r far venire gli uomini di Giuda; ma tardò più del tempo fissato. Allora Davide disse ad Abisài: «S
eba figlio di Bicrì ci farà ora più male di Assalonne; prendi i servi del tuo signore e inseguilo perc hé non trovi fortezze e sfugga ai nostri occhi». Con lui uscirono gli uomini di Ioab i Cretei i Pelet ei e tutti i prodi; uscirono da Gerusalemme per inseguire Seba, figlio di Bicrì. Si trovavano press o la grande pietra che è a Gàbaon quando Amasà venne loro incontro. Ioab indossava la veste militare sopra la quale portava il cinturone con la spada pendente dai fianchi nel fodero; venen do fuori essa gli cadde. Ioab disse ad Amasà: «Stai bene fratello mio?» e con la destra prese Am asà per la barba per baciarlo. Amasà non fece attenzione alla spada che Ioab aveva nell’altra ma no e Ioab lo colpì al ventre e ne sparse le viscere a terra; non lo colpì una seconda volta perché era già morto. Poi Ioab e Abisài suo fratello inseguirono Seba figlio di Bicrì. Uno dei giovani di Io ab era rimasto presso Amasà e diceva: «Chi ama Ioab e chi è per Davide segua Ioab!». Intanto A masà giaceva insanguinato in mezzo al sentiero e quell’uomo vide che tutto il popolo si fermava
. Allora trascinò Amasà fuori dal sentiero in un campo e gli buttò addosso una veste perché qua nti gli arrivavano vicino lo vedevano e si fermavano. Quando fu rimosso dal sentiero passarono tutti al seguito di Ioab per inseguire Seba figlio di Bicrì. Costui passò per tutte le tribù d’Israele fi no ad Abel-Bet-Maacà tutti gli alleati si radunarono e lo seguirono. Vennero dunque lo assediarono ad Abel-Bet-
Maacà e innalzarono contro la città un terrapieno addossato al contrafforte; tutto il popolo che era con Ioab faceva di tutto per far cadere le mura. Allora una donna saggia gridò dalla città: «A scoltate ascoltate! Dite a Ioab di avvicinarsi gli voglio parlare!». Quando egli le si avvicinò la don na gli chiese: «Sei tu Ioab?». Egli rispose: «Sì». Allora ella gli disse: «Ascolta la parola della tua sc hiava». Egli rispose: «Ascolto». Riprese: «Una volta si soleva dire: “Si consultino quelli di Abel” e la cosa si risolveva. Io vivo tra uomini pacifici e fedeli d’Israele e tu cerchi di far perire una città che è una madre in Israele. Perché vuoi distruggere l’eredità del Signore?». Ioab rispose: «Non s ia mai non sia mai che io distrugga e devasti! La questione è diversa: un uomo delle montagne d i èfraim chiamato Seba figlio di Bicrì ha alzato la mano contro il re Davide. Consegnatemi lui sol o e io me ne andrò dalla città». La donna disse a Ioab: «Ecco la sua testa ti sarà gettata dalle mu ra». Allora la donna si rivolse a tutto il popolo con saggezza; così quelli tagliarono la testa a Seba figlio di Bicrì e la gettarono a Ioab. Egli fece suonare il corno; tutti si dispersero lontano dalla cit tà ognuno alla propria tenda. Poi Ioab tornò a Gerusalemme presso il re. Ioab era a capo di tutt o l’esercito d’Israele; Benaià figlio di Ioiadà era capo dei Cretei e dei Peletei; Adoràm sovrintend eva al lavoro coatto; Giòsafat figlio di Achilù d era archivista; Seva era scriba; Sadoc ed Ebiatàr e rano sacerdoti e anche Ira lo Iairita era sacerdote di Davide. Al tempo di Davide ci fu una caresti
a per tre anni; Davide cercò il volto del Signore e il Signore gli disse: «Su Saul e sulla sua casa c’è sangue perché egli ha fatto morire i Gabaoniti». Allora il re chiamò i Gabaoniti e parlò loro. I Ga baoniti non erano Israeliti ma un resto degli Amorrei e gli Israeliti avevano fatto con loro un giur amento; Saul però nel suo zelo per gli Israeliti e per quelli di Giuda aveva cercato di colpirli. Davi de disse ai Gabaoniti: «Che devo fare per voi? In che modo espierò, perché voi possiate benedir e l’eredità del Signore?». I Gabaoniti gli risposero: «Fra noi e Saul e la sua casa non è questione d’argento o d’oro, né ci riguarda l’uccidere qualcuno in Israele». Il re disse: «Quello che voi diret e io ve lo farò». Quelli risposero al re: «Di quell’uomo che ci ha distrutti e aveva progettato di fi nirci perché più non sopravvivessimo in tutto il territorio d’Israele ci siano consegnati sette uom ini tra i suoi figli e noi li impiccheremo davanti al Signore a Gàbaon sul monte del Signore». Il re disse: «Ve li consegnerò». Il re risparmiò Merib-Baal figlio di Giònata figlio di Saul per il giuramento del Signore che c’era tra loro tra Davide e Gi ònata figlio di Saul. Il re prese i due figli che Rispa figlia di Aià aveva partoriti a Saul Armonì e Me rib-Baal e i cinque figli che Merab figlia di Saul aveva partoriti ad Adrièl di Mecolà, figlio di Barzillài.
Li consegnò nelle mani dei Gabaoniti che li impiccarono sul monte davanti al Signore. Tutti e set te caddero insieme. Furono messi a morte nei primi giorni della mietitura quando si cominciava a mietere l’orzo. Allora Rispa figlia di Aià prese il sacco e lo stese sulla roccia dal principio della mietitura fino a quando dal cielo non cadde su di loro la pioggia. Essa non permise agli uccelli de l cielo di posarsi su di loro di giorno e alle bestie selvatiche di accostarsi di notte. Fu riferito a Da vide quello che Rispa figlia di Aià concubina di Saul aveva fatto. Davide andò a prendere le ossa di Saul e quelle di Giònata suo figlio presso i signori di Iabes di Gàlaad i quali le avevano sottratt e furtivamente dalla piazza di Bet-Sean dove i Filistei li avevano appesi quando avevano colpito Saul sul Gèlboe. Egli riportò le oss a di Saul e quelle di Giònata suo figlio; poi si raccolsero anche le ossa di quelli che erano stati im piccati. Le ossa di Saul e di Giònata suo figlio furono sepolte nel territorio di Beniamino a Sela n el sepolcro di Kis padre di Saul. Fu fatto quanto il re aveva ordinato e dopo questo Dio si mostrò placato verso la terra. I Filistei mossero di nuovo guerra a Israele e Davide scese con i suoi servi a combattere contro i Filistei. Davide era stanco e Isbi-Benòb uno dei discendenti di Rafa con una lancia del peso di trecento sicli di bronzo e portando una spada nuova manifestò il proposito di uccidere Davide; ma Abisài figlio di Seruià venne in ai uto al re, colpì il Filisteo e lo uccise. Allora gli uomini di Davide gli giurarono: «Tu non uscirai più con noi a combattere e non spegnerai la lampada d’Israele». Dopo questo ci fu un’altra battagli a con i Filistei a Gob. Allora Sibbecài di Cusa uccise Saf uno dei discendenti di Rafa. Ci fu un’altra battaglia con i Filistei a Gob ed Elcanàn figlio di Iair di Betlemme uccise Golia di Gat: l’asta della sua lancia era come un cilindro da tessitori. Ci fu un’altra battaglia a Gat dove c’era un uomo di grande statura che aveva sei dita per mano e per piede in tutto ventiquattro e anche lui discend eva da Rafa. Egli sfidò Israele ma Giònata figlio di Simeà fratello di Davide lo uccise. Questi quatt
ro discendevano da Rafa a Gat. Essi caddero per mano di Davide e dei suoi uomini. Davide rivols e al Signore le parole di questo canto quando il Signore lo liberò dalla mano di tutti i suoi nemici e dalla mano di Saul. Egli disse: «Signore mia roccia mia fortezza mio liberatore, mio Dio mia ru pe in cui mi rifugio; mio scudo mia potente salvezza e mio baluardo, mio nascondiglio che mi sal va, dalla violenza tu mi salvi. Invoco il Signore degno di lode, e sarò salvato dai miei nemici. Mi c ircondavano flutti di morte, mi travolgevano torrenti infernali; già mi avvolgevano i lacci degli in feri, già mi stringevano agguati mortali. Nell’angoscia invocai il Signore, nell’angoscia gridai al m io Dio: dal suo tempio ascoltò la mia voce, a lui ai suoi orecchi giunse il mio grido. La terra trem ò e si scosse; vacillarono le fondamenta dei cieli, si scossero perché egli era adirato. Dalle sue na rici saliva fumo, dalla sua bocca un fuoco divorante; da lui sprizzavano carboni ardenti. Abbassò i cieli e discese, una nube oscura sotto i suoi piedi. Cavalcava un cherubino e volava, appariva su lle ali del vento. Si avvolgeva di tenebre come di una tenda, di acque oscure e di nubi. Davanti al suo fulgore arsero carboni ardenti. Il Signore tuonò dal cielo, l’Altissimo fece udire la sua voce.
Scagliò saette e li disperse, fulminò con folgore e li sconfisse. Allora apparve il fondo del mare, s i scoprirono le fondamenta del mondo, per la minaccia del Signore, per lo spirare del suo furore
. Stese la mano dall’alto e mi prese, mi sollevò dalle grandi acque, mi liberò da nemici potenti, d a coloro che mi odiavano ed erano più forti di me. Mi assalirono nel giorno della mia sventura, ma il Signore fu il mio sostegno; mi portò al largo, mi liberò perché mi vuol bene. Il Signore mi tr atta secondo la mia giustizia, mi ripaga secondo l’innocenza delle mie mani, perché ho custodit o le vie del Signore, non ho abbandonato come un empio il mio Dio. I suoi giudizi mi stanno tutti davanti, non ho respinto da me la sua legge; ma integro sono stato con lui e mi sono guardato dalla colpa. Il Signore mi ha ripagato secondo la mia giustizia, secondo la mia innocenza davanti ai suoi occhi. Con l’uomo buono tu sei buono, con l’uomo integro tu sei integro, con l’uomo pur o tu sei puro e dal perverso non ti fai ingannare. Tu salvi il popolo dei poveri, ma sui superbi abb assi i tuoi occhi. Signore tu sei la mia lampada; il Signore rischiara le mie tenebre. Con te mi gett erò nella mischia, con il mio Dio scavalcherò le mura. La via di Dio è perfetta, la parola del Signo re è purificata nel fuoco; egli è scudo per chi in lui si rifugia. Infatti chi è Dio se non il Signore? O
chi è roccia se non il nostro Dio? Il Dio che mi ha cinto di vigore e ha reso integro il mio cammin o, mi ha dato agilità come di cerve e sulle alture mi ha fatto stare saldo, ha addestrato le mie m ani alla battaglia, le mie braccia a tendere l’arco di bronzo. Tu mi hai dato il tuo scudo di salvezz a, mi hai esaudito e mi hai fatto crescere. Hai spianato la via ai miei passi, i miei piedi non hann o vacillato. Ho inseguito i miei nemici e li ho distrutti, non sono tornato senza averli annientati.
Li ho annientati e colpiti e non si sono rialzati, sono caduti sotto i miei piedi. Tu mi hai cinto di f orza per la guerra, hai piegato sotto di me gli avversari. Dei nemici mi hai mostrato le spalle: qu elli che mi odiavano li ho distrutti. Hanno gridato e nessuno li ha salvati, hanno gridato al Signor e ma non ha risposto. Come polvere della terra li ho dispersi, calpestati schiacciati come fango d elle strade. Mi hai scampato dal popolo in rivolta, mi hai conservato a capo di nazioni. Un popol o che non conoscevo mi ha servito; stranieri cercavano il mio favore, all’udirmi subito mi obbedi
vano, impallidivano uomini stranieri e uscivano tremanti dai loro nascondigli. Viva il Signore e b enedetta la mia roccia, sia esaltato Dio rupe della mia salvezza. Dio tu mi accordi la rivincita e so ttometti i popoli al mio giogo, mi sottrai ai miei nemici, dei miei avversari mi fai trionfare e mi li beri dall’uomo violento. Per questo ti loderò Signore tra le genti e canterò inni al tuo nome. Egli concede al suo re grandi vittorie, si mostra fedele al suo consacrato, a Davide e alla sua discend enza per sempre». Queste sono le ultime parole di Davide: «Oracolo di Davide figlio di Iesse, or acolo dell’uomo innalzato dall’Altissimo, del consacrato del Dio di Giacobbe, del soave salmista d’Israele. Lo spirito del Signore parla in me, la sua parola è sulla mia lingua; il Dio di Giacobbe ha parlato, la roccia d’Israele mi ha detto: “Chi governa gli uomini con giustizia, chi governa con ti more di Dio, è come luce di un mattino quando sorge il sole, mattino senza nubi, che fa scintillar e dopo la pioggia i germogli della terra”. Non è forse così la mia casa davanti a Dio, poiché ha st abilito con me un’alleanza eterna, in tutto regolata e osservata? Non farà dunque germogliare q uanto mi salva e quanto mi diletta? Ma gli scellerati sono come spine, che si buttano via tutte e non si prendono in mano; chi le tocca si arma di un ferro e di un’asta di lancia e si bruciano sul p osto col fuoco». Questi sono i nomi dei prodi di Davide: Is-Baal l’Acmonita capo dei Tre. Egli impugnando la lancia contro ottocento uomini li trafisse in un solo scontro. Dopo di lui veniva Eleàzaro figlio di Dodo l’Acochita uno dei tre prodi che erano co n Davide: quando i Filistei li insultarono si schierarono là per combattere mentre gli Israeliti si rit irarono sulle alture. Egli si alzò percosse i Filistei finché la sua mano sfinita rimase attaccata alla spada. Il Signore operò quel giorno una grande salvezza e il popolo seguì Eleàzaro soltanto per s pogliare i cadaveri. Dopo di lui veniva Sammà figlio di Aghè l’Ararita. I Filistei erano radunati a L
echì in quel luogo vi era un campo pieno di lenticchie e il popolo fuggì dinanzi ai Filistei. Egli allo ra si appostò in mezzo al campo lo difese e sconfisse i Filistei e il Signore operò una grande vitto ria. Tre dei Trenta capi scesero al tempo della mietitura e vennero da Davide nella caverna di Ad ullàm mentre una schiera di Filistei era accampata nella valle dei Refaìm. Davide era allora nel ri fugio e c’era una postazione di Filistei a Betlemme. Davide ebbe un desiderio e disse: «Se qualc uno mi desse da bere l’acqua del pozzo che è vicino alla porta di Betlemme!». I tre prodi irruppe ro nel campo filisteo, attinsero l’acqua dal pozzo di Betlemme vicino alla porta la presero e la pr esentarono a Davide il quale però non ne volle bere ma la sparse in onore del Signore dicendo:
«Non sia mai Signore che io faccia una cosa simile! è il sangue di questi uomini che sono andati l à a rischio della loro vita!». Non la volle bere. Tali gesta compirono quei tre prodi. Abisài fratello di Ioab figlio di Seruià fu il capo dei Trenta. Egli, impugnando la lancia contro trecento uomini li trafisse; si fece un nome fra i Trenta. Certo fu glorioso fra i Trenta e divenne loro comandante ma non giunse alla pari dei Tre. Poi veniva Benaià figlio di Ioiadà uomo valoroso di molte prodez ze, originario di Kabseèl. Egli uccise i due figli di Arièl di Moab; inoltre sceso in una cisterna in un giorno di neve vi abbatté un leone. Uccise anche un Egiziano uomo d’alta statura il quale tenev a in mano una lancia; gli andò incontro con un bastone strappò di mano all’Egiziano la lancia e l o uccise con la sua stessa lancia. Questo fece Benaià, figlio di Ioiadà e si fece un nome tra i trent
a prodi. Fu glorioso fra i Trenta ma non giunse alla pari dei Tre. Davide lo mise a capo del suo co rpo di guardia. Poi Asaèl fratello di Ioab uno dei Trenta Elcanàn figlio di Dodo di Betlemme, Sam mà di Carod Elikà di Carod Cheles di Pelet Ira, figlio di Ikkes di Tekòa Abièzer di Anatòt Mebunnà i di Cusa, Salmon di Acòach Maarai di Netofà Cheleb figlio di Baanà di Netofà Ittài figlio di Ribài di Gàbaa dei figli di Beniamino, Benaià di Piratòn Iddài di Nacalè-Gaas, Abi-Albòn di Arbàt Azmàvet di Bacurìm, Eliacbà di Saalbòn Iasen di Gun Giònata figlio di Sammà di A rar Achiàm figlio di Sarar di Arar Elifèlet figlio di Acasbài il Maacatita Eliàm figlio di Achitòfel di G
hilo, Chesrài di Carmel Paarài di Arab Igal figlio di Natan, di Soba Banì di Gad Selek l’Ammonita Nacrài di Beeròt scudiero di Ioab figlio di Seruià Ira di Ieter Gareb di Ieter Uria l’Ittita. In tutto tr entasette. L’ira del Signore si accese di nuovo contro Israele e incitò Davide contro il popolo in q uesto modo: «Su fa’ il censimento d’Israele e di Giuda». Il re disse a Ioab capo dell’esercito a lui affidato: «Percorri tutte le tribù d’Israele da Dan fino a Bersabea e fate il censimento del popolo perché io conosca il numero della popolazione». Ioab rispose al re: «Il Signore tuo Dio aumenti il popolo cento volte più di quello che è e gli occhi del re mio signore possano vederlo! Ma perc hé il re mio signore vuole questa cosa?». Ma l’ordine del re prevalse su Ioab e sui comandanti d ell’esercito e Ioab e i comandanti dell’esercito si allontanarono dal re per fare il censimento del popolo d’Israele. Passarono il Giordano e cominciarono da Aroèr e dalla città che è a metà del t orrente di Gad su fino a Iazer. Poi andarono in Gàlaad e nella terra degli Ittiti a Kades andarono a Dan-Iaan e piegarono verso Sidone. Andarono alla fortezza di Tiro e in tutte le città degli Evei e dei C
ananei e finirono nel Negheb di Giuda a Bersabea. Percorsero così tutto il territorio e dopo nove mesi e venti giorni tornarono a Gerusalemme. Ioab consegnò al re il totale del censimento del popolo: c’erano in Israele ottocentomila uomini abili in grado di maneggiare la spada; in Giuda c inquecentomila. Ma dopo che ebbe contato il popolo il cuore di Davide gli fece sentire il rimors o ed egli disse al Signore: «Ho peccato molto per quanto ho fatto; ti prego Signore togli la colpa del tuo servo, poiché io ho commesso una grande stoltezza». Al mattino quando Davide si alzò f u rivolta questa parola del Signore al profeta Gad veggente di Davide: «Va’ a riferire a Davide: C
osì dice il Signore: “Io ti propongo tre cose: scegline una e quella ti farò”». Gad venne dunque a Davide gli riferì questo e disse: «Vuoi che vengano sette anni di carestia nella tua terra o tre me si di fuga davanti al nemico che ti insegue o tre giorni di peste nella tua terra? Ora rifletti e vedi che cosa io debba riferire a chi mi ha mandato». Davide rispose a Gad: «Sono in grande angusti a! Ebbene cadiamo nelle mani del Signore perché la sua misericordia è grande ma che io non ca da nelle mani degli uomini!». Così il Signore mandò la peste in Israele da quella mattina fino al t empo fissato; da Dan a Bersabea morirono tra il popolo settantamila persone. E quando l’angel o ebbe stesa la mano su Gerusalemme per devastarla il Signore si pentì di quel male e disse all’a ngelo devastatore del popolo: «Ora basta! Ritira la mano!». L’angelo del Signore si trovava pres so l’aia di Araunà il Gebuseo. Davide vedendo l’angelo che colpiva il popolo disse al Signore: «Io ho peccato, io ho agito male; ma queste pecore che hanno fatto? La tua mano venga contro di
me e contro la casa di mio padre!». Quel giorno Gad venne da Davide e gli disse: «Sali innalza u n altare al Signore nell’aia di Araunà il Gebuseo». Davide salì secondo la parola di Gad come il Si gnore aveva comandato. Araunà guardò e vide il re e i suoi servi dirigersi verso di lui. Araunà us cì e si prostrò davanti al re con la faccia a terra. Poi Araunà disse: «Perché il re mio signore vien e dal suo servo?». Davide rispose: «Per acquistare da te l’aia e costruire un altare al Signore, per ché si allontani il flagello dal popolo». Araunà disse a Davide: «Il re mio signore prenda e offra q uanto vuole! Ecco i giovenchi per l’olocausto; le trebbie e gli arnesi dei buoi serviranno da legna
. Tutte queste cose o re Araunà te le regala». Poi Araunà disse al re: «Il Signore tuo Dio ti sia pro pizio!». Ma il re rispose ad Araunà: «No io acquisterò da te a pagamento e non offrirò olocausti gratuitamente al Signore mio Dio». Davide acquistò l’aia e i buoi per cinquanta sicli d’argento. Q
uindi Davide costruì in quel luogo un altare al Signore e offrì olocausti e sacrifici di comunione. Il Signore si mostrò placato verso la terra e il flagello si allontanò da Israele. Il re Davide era vecch io e avanzato negli anni e sebbene lo coprissero non riusciva a riscaldarsi. I suoi servi gli suggerir ono: «Si cerchi per il re nostro signore una giovane vergine che assista il re e lo curi e dorma sul suo seno; così il re nostro signore si riscalderà». Si cercò in tutto il territorio d’Israele una giovan e bella e si trovò Abisàg la Sunammita e la condussero al re. La giovane era straordinariamente bella; ella curava il re e lo serviva ma il re non si unì a lei. Intanto Adonia figlio di Agghìt insuper bito diceva: «Sarò io il re». Si procurò un carro un tiro di cavalli e cinquanta uomini che correvan o dinanzi a lui. Suo padre non lo contrariò mai dicendo: «Perché ti comporti in questo modo?».
Anche lui era molto avvenente; era nato dopo Assalonne. Si accordò con Ioab figlio di Seruià e c on il sacerdote Ebiatàr i quali sostenevano il partito di Adonia. Invece il sacerdote Sadoc Benaià figlio di Ioiadà il profeta Natan Simei, Rei e il corpo dei prodi di Davide non si schierarono con A donia. Adonia un giorno immolò pecore buoi e vitelli grassi presso la pietra Zochèlet che è vicin a alla fonte di Roghel. Invitò tutti i suoi fratelli figli del re e tutti gli uomini di Giuda al servizio de l re. Ma non invitò il profeta Natan né Benaià né il corpo dei prodi e neppure Salomone suo frat ello. Allora Natan disse a Betsabea madre di Salomone: «Non hai sentito che Adonia figlio di Ag ghìt è diventato re e Davide nostro signore non lo sa neppure? Ebbene, ti do un consiglio perch é tu salvi la tua vita e quella di tuo figlio Salomone. Va’ presentati al re Davide e digli: “O re mio signore tu non hai forse giurato alla tua schiava dicendo: Salomone tuo figlio sarà re dopo di me ed egli siederà sul mio trono? Perché allora è diventato re Adonia?”. Ecco mentre tu starai anco ra lì a parlare al re io ti seguirò e completerò le tue parole». Betsabea si presentò al re nella cam era da letto; il re era molto vecchio e Abisàg la Sunammita lo serviva. Betsabea si inchinò e si pr ostrò davanti al re. Il re poi le domandò: «Che hai?». Ella gli rispose: «Signore mio tu hai giurato alla tua schiava per il Signore tuo Dio: “Salomone tuo figlio, sarà re dopo di me ed egli siederà s ul trono”. Ora invece Adonia è diventato re senza che tu o re mio signore neppure lo sappia. Ha immolato molti giovenchi vitelli grassi e pecore ha invitato tutti i figli del re il sacerdote Ebiatàr e Ioab capo dell’esercito ma non ha invitato Salomone tuo servitore. Perciò su di te o re, mio sig nore sono gli occhi di tutto Israele perché annunci loro chi siederà sul trono del re mio signore d
opo di lui. Quando il re mio signore si sarà addormentato con i suoi padri io e mio figlio Salomo ne saremo trattati da colpevoli». Mentre lei ancora parlava con il re arrivò il profeta Natan. Fu a nnunciato al re: «Ecco c’è il profeta Natan». Questi entrò alla presenza del re davanti al quale si prostrò con la faccia a terra. Natan disse: «O re mio signore hai forse decretato tu: Adonia regn erà dopo di me e siederà sul mio trono? Difatti oggi egli è andato a immolare molti giovenchi vit elli grassi e pecore e ha invitato tutti i figli del re i capi dell’esercito e il sacerdote Ebiatàr. Costor o mangiano e bevono con lui e gridano: “Viva il re Adonia!”. Ma non ha invitato me tuo servitor e né il sacerdote Sadoc né Benaià figlio di Ioiadà né Salomone tuo servitore. Questa cosa è forse avvenuta per ordine del re mio signore? Perché non hai fatto sapere al tuo servo chi siederà sul trono del re mio signore dopo di lui?». Il re Davide presa la parola disse: «Chiamatemi Betsabea
!». Costei entrò alla presenza del re e stette davanti a lui. Il re giurò e disse: «Per la vita del Sign ore che mi ha liberato da ogni angustia! Come ti ho giurato per il Signore Dio d’Israele dicendo:
“Salomone tuo figlio sarà re dopo di me ed egli siederà sul mio trono al mio posto” così farò ogg i». Betsabea si inchinò con la faccia a terra si prostrò davanti al re dicendo: «Viva il mio signore i l re Davide per sempre!». Poi il re Davide disse: «Chiamatemi il sacerdote Sadoc il profeta Natan e Benaià figlio di Ioiadà». Costoro entrarono alla presenza del re, che disse loro: «Prendete con voi la guardia del vostro signore: fate montare Salomone, mio figlio sulla mia mula e fatelo scen dere a Ghicon. Ivi il sacerdote Sadoc con il profeta Natan lo unga re d’Israele. Voi suonerete il co rno e griderete: “Viva il re Salomone!”. Quindi risalirete dietro a lui che verrà a sedere sul mio tr ono e regnerà al mio posto. Poiché io ho designato lui a divenire capo su Israele e su Giuda». Be naià figlio di Ioiadà rispose al re: «Così sia! Anche il Signore Dio del re mio signore decida allo st esso modo! Come il Signore fu con il re mio signore così sia con Salomone e renda il suo trono p iù splendido del trono del mio signore il re Davide». Scesero il sacerdote Sadoc il profeta Natan e Benaià figlio di Ioiadà, insieme con i Cretei e con i Peletei; fecero montare Salomone sulla mul a del re Davide e lo condussero a Ghicon. Il sacerdote Sadoc prese il corno dell’olio dalla tenda e unse Salomone; suonarono il corno e tutto il popolo gridò: «Viva il re Salomone!». Tutto il pop olo risalì dietro a lui il popolo suonava i flauti e godeva di una grande gioia; il loro clamore lacer ava la terra. Lo sentì Adonia insieme agli invitati che erano con lui; essi avevano finito di mangia re. Ioab udito il suono del corno chiese: «Perché c’è clamore di città in tumulto?». Mentre parla va ecco giungere Giònata figlio del sacerdote Ebiatàr al quale Adonia disse: «Vieni! Tu sei un val oroso e rechi certo buone notizie!». «No – rispose Giònata ad Adonia –
il re Davide nostro signore ha fatto re Salomone e ha mandato con lui il sacerdote Sadoc il prof eta Natan e Benaià, figlio di Ioiadà insieme con i Cretei e con i Peletei che l’hanno fatto montare sulla mula del re. Il sacerdote Sadoc e il profeta Natan l’hanno unto re a Ghicon; quindi sono ris aliti esultanti e la città si è messa in agitazione. Questo è il clamore che avete udito. Anzi Salom one si è già seduto sul trono del regno e i servi del re sono andati a felicitarsi con il re Davide no stro signore dicendo: “Il tuo Dio renda il nome di Salomone più celebre del tuo nome e renda il suo trono più splendido del tuo trono!”. Il re si è prostrato sul letto. Poi il re ha detto anche que
sto: “Sia benedetto il Signore Dio d’Israele perché oggi ha concesso che uno sieda sul mio trono mentre i miei occhi lo vedono”». Allora tutti gli invitati di Adonia si spaventarono si alzarono e s e ne andarono ognuno per la sua strada. Adonia che temeva Salomone alzatosi andò ad aggrap parsi ai corni dell’altare. Fu riferito a Salomone: «Sappi che Adonia avendo paura del re Salomo ne ha afferrato i corni dell’altare dicendo: “Mi giuri oggi il re Salomone che non farà morire di s pada il suo servitore”». Salomone disse: «Se si comporterà da uomo leale neppure un suo capell o cadrà a terra; ma se in lui sarà trovato qualche male morirà». Il re Salomone ordinò che lo fac essero scendere dall’altare; quegli venne a prostrarsi davanti al re Salomone poi Salomone gli di sse: «Va’ a casa tua!». I giorni di Davide si erano avvicinati alla morte ed egli ordinò a Salomone suo figlio: «Io me ne vado per la strada di ogni uomo sulla terra. Tu sii forte e móstrati uomo. Os serva la legge del Signore tuo Dio procedendo nelle sue vie ed eseguendo le sue leggi i suoi com andi le sue norme e le sue istruzioni come sta scritto nella legge di Mosè perché tu riesca in tutt o quello che farai e dovunque ti volgerai, perché il Signore compia la promessa che mi ha fatto dicendo: “Se i tuoi figli nella loro condotta si cureranno di camminare davanti a me con fedeltà con tutto il loro cuore e con tutta la loro anima non ti sarà tolto un discendente dal trono d’Isra ele”. Anche tu sai quel che ha fatto a me Ioab figlio di Seruià cioè come egli ha trattato i due cap i dell’esercito d’Israele Abner figlio di Ner e Amasà figlio di Ieter, come li ha uccisi spargendo in t empo di pace il sangue di guerra e mettendo sangue di guerra sulla sua cintura che era intorno ai suoi fianchi e sul suo sandalo che era ai suoi piedi. Agirai con la tua saggezza e non permetter ai che la sua vecchiaia scenda in pace agli inferi. Agirai con bontà verso i figli di Barzillài il Galaad ita e saranno tra coloro che mangiano alla tua tavola, perché mi hanno assistito mentre fuggivo da Assalonne tuo fratello. Ed ecco accanto a te Simei figlio di Ghera Beniaminita di Bacurìm; egli mi maledisse con una maledizione terribile nel giorno in cui andavo a Macanàim. Ma discese in contro a me al Giordano e gli giurai per il Signore: “Non ti farò morire di spada”. Ora però non la sciarlo impunito. Infatti tu sei un uomo saggio e sai ciò che gli dovrai fare. Farai scendere la sua canizie agli inferi con morte violenta». Davide si addormentò con i suoi padri e fu sepolto nella Città di Davide. La durata del regno di Davide su Israele fu di quarant’anni: a Ebron regnò sette anni e a Gerusalemme regnò trentatré anni. Salomone sedette sul trono di Davide suo padre e il suo regno si consolidò molto. Adonia figlio di Agghìt si recò da Betsabea madre di Salomone ch e gli chiese: «Vieni con intenzioni pacifiche?». «Pacifiche» rispose quello, e soggiunse: «Ho da di rti una cosa». E quella: «Parla!». Egli disse: «Tu sai che il regno spettava a me e che tutti gli Israe liti si attendevano che io regnassi. Eppure il regno mi è sfuggito ed è passato a mio fratello perc hé gli era stato decretato dal Signore. Ora ti rivolgo una sola domanda: non respingermi». Ed es sa: «Parla!». Adonia disse: «Di’ al re Salomone il quale nulla ti può negare che mi conceda in mo glie Abisàg la Sunammita». Betsabea rispose: «Bene! Parlerò io stessa al re in tuo favore». Betsa bea si presentò al re Salomone per parlargli in favore di Adonia. Il re si alzò per andarle incontro si prostrò davanti a lei quindi sedette sul trono facendo collocare un trono per la madre del re.
Questa gli sedette alla destra e disse: «Ti rivolgo una sola piccola domanda: non respingermi». Il
re le rispose: «Chiedi madre mia certo non ti respingerò». E quella: «Si conceda Abisàg la Suna mmita in moglie ad Adonia tuo fratello». Il re Salomone rispose a sua madre: «Perché tu mi chie di Abisàg la Sunammita per Adonia? Chiedi pure il regno per lui poiché egli è mio fratello maggi ore e per lui parteggiano il sacerdote Ebiatàr e Ioab figlio di Seruià». Il re Salomone giurò per il S
ignore: «Dio mi faccia questo e altro mi aggiunga, se non è vero che Adonia ha avanzato questa proposta a danno della sua vita. Ebbene, per la vita del Signore che mi ha reso saldo mi ha fatto sedere sul trono di Davide mio padre e mi ha fatto una casa come aveva promesso oggi stesso A donia verrà ucciso». Il re Salomone ordinò l’esecuzione a Benaià figlio di Ioiadà il quale lo colpì e quegli morì. Il re disse al sacerdote Ebiatàr: «Vattene ad Anatòt nella tua campagna. Certo tu se i degno di morte ma oggi non ti faccio morire perché tu hai portato l’arca del Signore Dio davan ti a Davide mio padre e perché ti sei occupato di tutto quello di cui mio padre si occupava». Così Salomone espulse Ebiatàr perché non fosse sacerdote del Signore adempiendo la parola che il Signore aveva pronunciato a Silo riguardo alla casa di Eli. La notizia arrivò a Ioab –
Ioab si era schierato per Adonia mentre non si era schierato per Assalonne –
e allora Ioab fuggì nella tenda del Signore e si afferrò ai corni dell’altare. Fu riferito al re Salomo ne che Ioab era fuggito nella tenda del Signore e che stava al fianco dell’altare. Salomone inviò Benaià figlio di Ioiadà con quest’ordine: «Va’ colpiscilo!». Benaià andò nella tenda del Signore e disse a Ioab: «Così dice il re: “Esci!”». Quegli rispose: «No! Qui voglio morire!». Benaià riferì al r e: «Ioab ha parlato così e così mi ha risposto». Il re gli disse: «Fa’ come egli ha detto: colpiscilo e seppelliscilo; così allontanerai da me e dalla casa di mio padre il sangue che Ioab ha sparso senz a motivo. Il Signore farà ricadere il suo sangue sulla sua testa perché egli ha colpito due uomini giusti e migliori di lui e li ha trafitti con la sua spada senza che Davide mio padre lo sapesse: Abn er figlio di Ner capo dell’esercito d’Israele e Amasà figlio di Ieter capo dell’esercito di Giuda. Il lo ro sangue ricadrà sulla testa di Ioab e sulla testa della sua discendenza per sempre mentre per Davide e la sua discendenza la sua casa e il suo trono vi sarà pace per sempre da parte del Signo re». Benaià figlio di Ioiadà salì lo colpì e lo uccise; Ioab fu sepolto nella sua casa nel deserto. Il re lo sostituì nominando capo dell’esercito Benaià figlio di Ioiadà mentre mise il sacerdote Sadoc al posto di Ebiatàr. Il re mandò a chiamare Simei per dirgli: «Costruisciti una casa a Gerusalemm e; ivi sarà la tua dimora e non ne uscirai per andartene qua e là. Quando ne uscirai oltrepassand o il torrente Cedron sappi bene che morirai certamente: il tuo sangue ricadrà sulla tua testa». Si mei disse al re: «Va bene! Come ha detto il re mio signore, così farà il tuo servo». Simei dimorò i n Gerusalemme per molto tempo. Dopo tre anni due schiavi di Simei fuggirono presso Achis figli o di Maacà re di Gat. Fu riferito a Simei: «I tuoi schiavi sono in Gat». Simei si alzò, sellò il suo asi no e partì per Gat andando da Achis in cerca dei suoi schiavi. Simei vi andò e ricondusse i suoi sc hiavi da Gat. Fu riferito a Salomone che Simei era andato da Gerusalemme a Gat e che era ritor nato. Il re fece chiamare Simei e gli disse: «Non ti avevo forse fatto giurare per il Signore e non t i avevo ammonito dicendo: “Nel giorno in cui uscirai per andartene qua e là sappi bene che cert amente dovrai morire”? Tu mi avevi risposto: “Va bene, ho capito”. Perché non hai rispettato il
giuramento del Signore e il comando che ti avevo impartito?». Il re aggiunse a Simei: «Tu conos ci poiché il tuo cuore ne è consapevole tutto il male che hai fatto a Davide mio padre. Il Signore farà ricadere la tua malvagità sulla tua testa. Invece sarà benedetto il re Salomone e il trono di Davide sarà saldo per sempre davanti al Signore». Il re diede ordine a Benaià figlio di Ioiadà il qu ale uscito lo colpì e quegli morì. Il regno si consolidò nelle mani di Salomone. Salomone divenne genero del faraone re d’Egitto. Prese la figlia del faraone che introdusse nella Città di Davide ov e rimase finché non terminò di costruire la propria casa il tempio del Signore e le mura di cinta di Gerusalemme. Il popolo però offriva sacrifici sulle alture perché ancora non era stato costruit o un tempio per il nome del Signore. Salomone amava il Signore e nella sua condotta seguiva le disposizioni di Davide suo padre; tuttavia offriva sacrifici e bruciava incenso sulle alture. Il re an dò a Gàbaon per offrirvi sacrifici perché ivi sorgeva l’altura più grande. Su quell’altare Salomone offrì mille olocausti. A Gàbaon il Signore apparve a Salomone in sogno durante la notte. Dio dis se: «Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda». Salomone disse: «Tu hai trattato il tuo servo Davi de mio padre con grande amore perché egli aveva camminato davanti a te con fedeltà con giust izia e con cuore retto verso di te. Tu gli hai conservato questo grande amore e gli hai dato un fig lio che siede sul suo trono come avviene oggi. Ora Signore mio Dio tu hai fatto regnare il tuo ser vo al posto di Davide mio padre. Ebbene io sono solo un ragazzo; non so come regolarmi. Il tuo servo è in mezzo al tuo popolo che hai scelto popolo numeroso che per quantità non si può calc olare né contare. Concedi al tuo servo un cuore docile perché sappia rendere giustizia al tuo po polo e sappia distinguere il bene dal male; infatti chi può governare questo tuo popolo così num eroso?». Piacque agli occhi del Signore che Salomone avesse domandato questa cosa. Dio gli dis se: «Poiché hai domandato questa cosa e non hai domandato per te molti giorni né hai domand ato per te ricchezza, né hai domandato la vita dei tuoi nemici ma hai domandato per te il discer nimento nel giudicare, ecco faccio secondo le tue parole. Ti concedo un cuore saggio e intellige nte: uno come te non ci fu prima di te né sorgerà dopo di te. Ti concedo anche quanto non hai d omandato cioè ricchezza e gloria come a nessun altro fra i re per tutta la tua vita. Se poi cammi nerai nelle mie vie osservando le mie leggi e i miei comandi come ha fatto Davide tuo padre pro lungherò anche la tua vita». Salomone si svegliò ecco era stato un sogno. Andò a Gerusalemme; stette davanti all’arca dell’alleanza del Signore offrì olocausti compì sacrifici di comunione e die de un banchetto per tutti i suoi servi. Un giorno vennero dal re due prostitute e si presentarono innanzi a lui. Una delle due disse: «Perdona mio signore! Io e questa donna abitiamo nella stess a casa; io ho partorito mentre lei era in casa. Tre giorni dopo il mio parto anche questa donna h a partorito; noi stiamo insieme e non c’è nessun estraneo in casa fuori di noi due. Il figlio di que sta donna è morto durante la notte perché lei gli si era coricata sopra. Ella si è alzata nel cuore d ella notte ha preso il mio figlio dal mio fianco mentre la tua schiava dormiva e se lo è messo in s eno e sul mio seno ha messo il suo figlio morto. Al mattino mi sono alzata per allattare mio figli o ma ecco era morto. L’ho osservato bene al mattino; ecco non era il figlio che avevo partorito i o». L’altra donna disse: «Non è così! Mio figlio è quello vivo, il tuo è quello morto». E quella al c
ontrario diceva: «Non è così! Quello morto è tuo figlio il mio è quello vivo». Discutevano così all a presenza del re. Il re disse: «Costei dice: “Mio figlio è quello vivo il tuo è quello morto” mentre quella dice: “Non è così! Tuo figlio è quello morto e il mio è quello vivo”». Allora il re ordinò: «A ndate a prendermi una spada!». Portarono una spada davanti al re. Quindi il re aggiunse: «Tagli ate in due il bambino vivo e datene una metà all’una e una metà all’altra». La donna il cui figlio era vivo si rivolse al re poiché le sue viscere si erano commosse per il suo figlio e disse: «Perdon a mio signore! Date a lei il bimbo vivo; non dovete farlo morire!». L’altra disse: «Non sia né mio né tuo; tagliate!». Presa la parola il re disse: «Date alla prima il bimbo vivo; non dovete farlo mo rire. Quella è sua madre». Tutti gli Israeliti seppero della sentenza pronunciata dal re e provaron o un profondo rispetto per il re perché avevano constatato che la sapienza di Dio era in lui per r endere giustizia. Il re Salomone estese il suo dominio su tutto Israele. Questi erano i suoi dignita ri: Azaria figlio di Sadoc fu sacerdote; Elicòref e Achia figli di Sisa, scribi; Giòsafat figlio di Achilù d archivista; Benaià figlio di Ioiadà capo dell’esercito; Sadoc ed Ebiatàr sacerdoti; Azaria figlio di Natan capo dei prefetti; Zabud figlio di Natan sacerdote amico del re; Achisar maggiordomo; Ad oniràm figlio di Abda sovrintendente al lavoro coatto. Salomone aveva dodici prefetti su tutto Is raele i quali provvedevano al re e alla sua casa; ognuno aveva l’incarico di procurare il necessari o per un mese all’anno. Questi sono i loro nomi: il figlio di Cur sulle montagne di èfraim; il figlio di Deker a Makas a Saalbìm a Bet-Semes a Elon-Bet-Canan; il figlio di Chesed ad Arubbòt: a lui appartenevano Soco e tutta la regione di Chefer; il fig lio di Abinadàb aveva tutta la collina di Dor; sua moglie era Tafat figlia di Salomone; Baanà figlio di Achilù d aveva Taanac Meghiddo e tutta Bet-Sean che è dal lato verso Sartàn sotto Izreèl da Bet-Sean fino ad Abel-Mecolà fin oltre Iokmeàm; il figlio di Gheber a Ramot di Gàlaad: a lui appartenevano i villaggi di Iair figlio di Manasse in Gàlaad il distretto di Argob in Basan sessanta grandi città con mura e spr anghe di bronzo; Achinadàb figlio di Iddo a Macanàim; Achimàas in Nèftali: anch’egli aveva pres o in moglie una figlia di Salomone Basmat; Baanà figlio di Cusài in Aser e in Zàbulon; Giòsafat fig lio di Parù ach in ìssacar; Simei, figlio di Ela in Beniamino; Gheber figlio di Urì nella regione di Gà laad, cioè la terra di Sicon re degli Amorrei e di Og re di Basan. Inoltre c’era un prefetto unico ne lla terra di Giuda. Giuda e Israele per quantità erano numerosi come la sabbia del mare; mangia vano, bevevano e vivevano felici. Salomone dominava su tutti i regni dal Fiume alla regione dei Filistei e al confine con l’Egitto. Gli portavano tributi e servivano Salomone tutti i giorni della sua vita. I viveri di Salomone per un giorno erano trenta kor di fior di farina e sessanta kor di farina comune dieci buoi grassi venti buoi da pascolo e cento pecore senza contare i cervi le gazzelle i caprioli e i volatili ingrassati. Egli infatti dominava su tutto l’Oltrefiume da Tifsach a Gaza su tutti i re dell’Oltrefiume e aveva pace dappertutto all’intorno. Giuda e Israele erano al sicuro; ognun o stava sotto la propria vite e sotto il proprio fico da Dan fino a Bersabea per tutti i giorni di Salo mone. Salomone possedeva quarantamila stalle per i cavalli dei suoi carri e dodicimila cavalli da sella. Quei prefetti ognuno per il suo mese provvedevano quanto serviva al re Salomone e a qu
elli che erano ammessi alla sua tavola; non facevano mancare nulla. Portavano l’orzo e la paglia per i cavalli e i destrieri nel luogo ove si trovava ognuno secondo il suo mandato. Dio concesse a Salomone sapienza e intelligenza molto grandi e una mente vasta come la sabbia che è sulla spi aggia del mare. La sapienza di Salomone superava la sapienza di tutti gli orientali e tutta la sapie nza dell’Egitto. Egli era più saggio di tutti gli uomini più di Etan l’Ezraita di Eman di Calcol e di Da rda figli di Macol; il suo nome era famoso fra tutte le genti limitrofe. Salomone pronunciò tremil a proverbi; le sue odi furono millecinque. Parlò delle piante dal cedro del Libano all’issòpo che s buca dal muro; parlò delle bestie degli uccelli dei rettili e dei pesci. Da tutte le nazioni venivano per ascoltare la sapienza di Salomone mandati da tutti i re della terra che avevano sentito parla re della sua sapienza. Chiram re di Tiro mandò i suoi servi da Salomone perché aveva sentito ch e l’avevano unto re al posto di suo padre; infatti Chiram era sempre stato amico di Davide. Salo mone mandò a dire a Chiram: «Tu sai che Davide mio padre non ha potuto edificare un tempio al nome del Signore suo Dio a causa delle guerre che i nemici gli mossero da tutte le parti finché il Signore non li prostrò sotto la pianta dei suoi piedi. Ora il Signore mio Dio mi ha dato pace da ogni parte e non ho né avversari né particolari difficoltà. Ecco ho deciso di edificare un tempio a l nome del Signore, mio Dio come ha detto il Signore a Davide mio padre: “Tuo figlio che io porr ò al tuo posto sul tuo trono lui edificherà il tempio al mio nome”. Ordina dunque che si taglino per me cedri del Libano; i miei servi saranno con i tuoi servi e io ti darò come salario per i tuoi s ervi quanto fisserai. Tu sai bene infatti che fra noi nessuno è capace di tagliare il legname come sanno fare quelli di Sidone». Quando Chiram udì le parole di Salomone si rallegrò molto e disse:
«Sia benedetto oggi il Signore che per Davide ha posto un figlio saggio sopra questo popolo nu meroso». Chiram mandò a dire a Salomone: «Ho ascoltato ciò che mi hai mandato a dire; io far ò quanto tu desideri riguardo al legname di cedro e al legname di cipresso. I miei servi lo calera nno dal Libano al mare; lo avvierò per mare a mo’ di zattere al luogo che mi indicherai. Là lo sle gherò e tu lo prenderai. Quanto a provvedere al mantenimento della mia casa tu soddisferai il mio desiderio». Chiram diede a Salomone legname di cedro e legname di cipresso quanto ne vo lle. Salomone diede a Chiram ventimila kor di grano per il mantenimento della sua casa e venti kor di olio puro; questo dava Salomone a Chiram ogni anno. Il Signore concesse a Salomone la s apienza come gli aveva promesso. Fra Chiram e Salomone vi fu pace e conclusero un’alleanza tr a loro due. Il re Salomone arruolò da tutto Israele uomini per il lavoro coatto e gli uomini del lav oro coatto erano trentamila. Li mandava a turno nel Libano diecimila al mese: passavano un me se nel Libano e due mesi nelle loro case. Adoniràm sovrintendeva al lavoro coatto. Salomone av eva settantamila operai addetti a portare i pesi e ottantamila scalpellini per lavorare sulle mont agne senza contare gli incaricati dei prefetti di Salomone che erano preposti ai lavori in numero di tremilatrecento e dirigevano il popolo che era occupato nei lavori. Il re diede ordine di estrarr e pietre grandi pietre scelte per porre a fondamento del tempio pietre squadrate. Gli operai di S
alomone gli operai di Chiram e di Biblo le sgrossavano; inoltre preparavano il legname e le pietr e per costruire il tempio. L’anno quattrocentoottantesimo dopo l’uscita degli Israeliti dalla terra
d’Egitto l’anno quarto del regno di Salomone su Israele nel mese di Ziv cioè nel secondo mese e gli dette inizio alla costruzione del tempio del Signore. Il tempio costruito dal re Salomone per il Signore aveva sessanta cubiti di lunghezza venti di larghezza trenta cubiti di altezza. Davanti all’
aula del tempio vi era il vestibolo: era lungo venti cubiti nel senso della larghezza del tempio e p rofondo dieci cubiti davanti al tempio. Fece nel tempio finestre con cornici e inferriate. Contro il muro del tempio costruì all’intorno un edificio a piani cioè intorno alle pareti del tempio sia dell
’aula sia del sacrario e vi fece delle stanze. Il piano inferiore era largo cinque cubiti il piano di m ezzo era largo sei cubiti e il terzo era largo sette cubiti perché predispose delle rientranze tutt’in torno all’esterno del tempio in modo che non fossero intaccate le pareti del tempio. Per la costr uzione del tempio venne usata pietra intatta di cava; durante i lavori nel tempio non si udirono martelli piccone o altro arnese di ferro. La porta del piano più basso era sul lato destro del temp io; attraverso una scala a chiocciola si saliva al piano di mezzo e dal piano di mezzo al terzo. Det te inizio alla costruzione del tempio e la portò a termine e coprì il tempio con assi e con travatur a di cedro. Costruì anche l’edificio a piani contro tutto il tempio alto cinque cubiti per piano che poggiava sul tempio con travi di cedro. Fu rivolta a Salomone questa parola del Signore: «Riguar do al tempio che stai edificando se camminerai secondo le mie leggi se eseguirai le mie norme e osserverai tutti i miei comandi camminando in essi io confermerò a tuo favore la mia parola qu ella che ho annunciato a Davide tuo padre. Io abiterò in mezzo agli Israeliti; non abbandonerò il mio popolo Israele». Salomone dette inizio alla costruzione del tempio e la portò a termine. Cos truì i muri del tempio all’interno con tavole di cedro dal pavimento del tempio fino ai muri di co pertura; rivestì di legno la parte interna e inoltre rivestì con tavole di cipresso il pavimento del t empio. Costruì i venti cubiti in fondo al tempio con tavole di cedro dal pavimento fino ai muri; al l’interno costruì il sacrario cioè il Santo dei Santi. L’aula del tempio di fronte ad esso era di quar anta cubiti. Il legno di cedro all’interno della sala era scolpito con coloquìntidi e fiori in sboccio; tutto era di cedro e non si vedeva una pietra. Eresse il sacrario nel tempio, nella parte più intern a per collocarvi l’arca dell’alleanza del Signore. Il sacrario era lungo venti cubiti largo venti cubiti e alto venti cubiti. Lo rivestì d’oro purissimo e vi eresse un altare di cedro. Salomone rivestì l’int erno della sala con oro purissimo e fece passare catene dorate davanti al sacrario che aveva rive stito d’oro. E d’oro fu rivestita tutta la sala in ogni parte e rivestì d’oro anche l’intero altare che era nel sacrario. Nel sacrario fece due cherubini di legno d’ulivo; la loro altezza era di dieci cubit i. L’ala di un cherubino era di cinque cubiti e di cinque cubiti era anche l’altra ala del cherubino; c’erano dieci cubiti da una estremità all’altra delle ali. Di dieci cubiti era l’altro cherubino; i due cherubini erano identici nella misura e nella forma. L’altezza di un cherubino era di dieci cubiti e così anche il secondo cherubino. Pose i cherubini nel mezzo della sala interna. Le ali dei cherubi ni erano spiegate: l’ala di uno toccava la parete e l’ala dell’altro toccava l’altra parete, mentre le loro ali che erano in mezzo alla sala si toccavano ala contro ala. Ricoprì d’oro anche i cherubini.
Ricoprì le pareti della sala tutto all’intorno con sculture incise di cherubini, di palme e di fiori in sboccio all’interno e all’esterno. Ricoprì d’oro il pavimento della sala all’interno e all’esterno. Fe
ce costruire la porta del sacrario con battenti di legno d’ulivo e profilo degli stipiti pentagonale.
I due battenti erano di legno d’ulivo. Su di essi fece scolpire cherubini palme e fiori in sboccio; li rivestì d’oro e stese lamine d’oro sui cherubini e sulle palme. Allo stesso modo fece costruire ne lla porta dell’aula stipiti di legno d’ulivo a quadrangolo. I due battenti erano di legno di cipresso; le due ante di un battente erano girevoli come erano girevoli le imposte dell’altro battente. Vi f ece scolpire cherubini palme e fiori in sboccio che rivestì d’oro aderente all’incisione. Costruì il muro del cortile interno con tre ordini di pietre squadrate e con un ordine di travi di cedro. Nell’
anno quarto nel mese di Ziv si gettarono le fondamenta del tempio del Signore. Nell’anno undic esimo nel mese di Bul che è l’ottavo mese fu terminato il tempio in tutte le sue parti e con tutto l’occorrente. Lo edificò in sette anni. Salomone costruì anche la sua reggia e la portò a compim ento in tredici anni. Costruì il palazzo detto Foresta del Libano. Di cento cubiti era la sua lunghez za di cinquanta cubiti era la sua larghezza e di trenta cubiti era la sua altezza; era su quattro ordi ni di colonne di cedro e con travi di cedro sulle colonne e in alto era coperto con legno di cedro sulle traverse che poggiavano sulle colonne in numero di quarantacinque quindici per fila. Vi er ano finestre con cornici in tre file che si corrispondevano faccia a faccia tre volte. Tutte le porte con gli stipiti avevano cornice quadrangolare; un’apertura era prospiciente all’altra per tre volte
. Fece il vestibolo delle colonne; di cinquanta cubiti era la sua lunghezza e di trenta cubiti era la sua larghezza. Sul davanti c’era un vestibolo e altre colonne e davanti a esse una cancellata. Fec e anche il vestibolo del trono ove esercitava la giustizia cioè il vestibolo del giudizio; era coperto con legno di cedro dal pavimento al soffitto. La reggia dove abitava fu costruita in modo simile a quest’opera in un secondo cortile all’interno rispetto al vestibolo; in modo simile a tale vestib olo fece anche una casa per la figlia del faraone che Salomone aveva preso in moglie. Tutte que ste costruzioni erano di pietre scelte squadrate secondo misura segate con la sega sul lato inter no ed esterno dalle fondamenta ai cornicioni e al di fuori fino al cortile maggiore. Ed erano state poste come fondamenta pietre scelte pietre grandi pietre di dieci cubiti e pietre di otto cubiti.
Al di sopra c’erano pietre scelte squadrate a misura e legno di cedro. Il cortile maggiore era tutt o con tre file di pietre squadrate e una di travi di cedro; era simile al cortile interno del tempio d el Signore e al vestibolo del tempio. Il re Salomone mandò a prendere da Tiro Chiram figlio di un a vedova della tribù di Nèftali; suo padre era di Tiro e lavorava il bronzo. Era pieno di sapienza, di intelligenza e di perizia per fare ogni genere di lavoro in bronzo. Egli si recò dal re Salomone e d eseguì tutti i suoi lavori. Modellò due colonne di bronzo; di diciotto cubiti era l’altezza di una c olonna e un filo di dodici cubiti poteva abbracciare la seconda colonna. Fece due capitelli fusi in bronzo da collocarsi sulla cima delle colonne; l’altezza di un capitello era di cinque cubiti e di cin que cubiti era l’altezza del secondo capitello. Predispose reticoli lavoro di fili intrecciati lavoro a catenelle per i capitelli sulla cima delle colonne: sette per un capitello e sette per il secondo cap itello. Fece dunque le colonne e due file intorno a ciascun reticolo per rivestire i capitelli che era no sulla cima a forma di melagrane e così fece per il secondo capitello. I capitelli sulla cima delle colonne del vestibolo erano di quattro cubiti con lavorazione a giglio. I capitelli sulle due colonn
e si innalzavano da dietro la concavità al di là del reticolo e vi erano duecento melagrane in file i ntorno a ogni capitello. Eresse le colonne per il vestibolo dell’aula. Eresse la colonna di destra c he chiamò Iachin ed eresse la colonna di sinistra che chiamò Boaz e la cima delle colonne era la vorata a giglio. Così fu terminato il lavoro delle colonne. Fece il Mare un bacino di metallo fuso di dieci cubiti da un orlo all’altro, perfettamente rotondo; la sua altezza era di cinque cubiti e un a corda di trenta cubiti lo poteva cingere intorno. C’erano sotto l’orlo tutt’intorno figure di colo quìntidi, dieci per ogni cubito che formavano un giro all’intorno; le figure di coloquìntidi erano d isposte in due file ed erano state colate insieme con il Mare. Questo poggiava su dodici buoi; tre guardavano verso settentrione tre verso occidente tre verso meridione e tre verso oriente. Il M
are poggiava su di essi e tutte le loro parti posteriori erano rivolte verso l’interno. Il suo spessor e era di un palmo; il suo orlo fatto come l’orlo di un calice era a forma di giglio. La sua capacità e ra di duemila bat. Fece dieci carrelli di bronzo; di quattro cubiti era la lunghezza di ogni carrello e di quattro cubiti la larghezza e di tre cubiti l’altezza. La struttura dei carrelli era questa: telai e traverse tra i telai. Sulle traverse che erano fra i telai vi erano figure di leoni buoi e cherubini e s ull’intelaiatura sia sopra che sotto i leoni e i buoi c’erano ghirlande a festoni. Ciascun carrello av eva quattro ruote di bronzo con gli assi di bronzo e quattro supporti con sporgenze per sostener e il bacino; le sporgenze erano fuse contrapposte a ciascuna ghirlanda. L’orlo della parte circola re interna sporgeva di un cubito: l’orlo era rotondo come opera di sostegno ed era di un cubito e mezzo; anche sulla sua apertura c’erano sculture. Il telaio del carrello era quadrato non roton do. Le quattro ruote erano sotto il telaio; i perni delle ruote erano fissati al carrello e l’altezza di ogni ruota era di un cubito e mezzo. Le ruote erano lavorate come le ruote di un carro; i loro pe rni i loro quarti i loro raggi e i loro mozzi tutto era in metallo fuso. Quattro sporgenze erano sui quattro angoli di ciascun carrello; la sporgenza e il carrello erano in un unico pezzo. Alla cima de l carrello vi era una fascia rotonda di mezzo cubito d’altezza; alla cima del carrello vi erano mani ci e cornici che sporgevano da essa. Nei riquadri dei suoi manici e nel suo telaio erano incise fig ure di cherubini leoni e palme secondo lo spazio libero e ghirlande intorno. I dieci carrelli furono fusi in un medesimo stampo identici nella misura e nella forma. Fece poi anche dieci bacini di b ronzo; ognuno aveva una capacità di quaranta bat ed era di quattro cubiti: un bacino per ogni c arrello per i dieci carrelli. Pose cinque carrelli sul lato destro del tempio e cinque su quello sinist ro. Pose il Mare sul lato destro del tempio, a oriente rivolto verso meridione. Chiram fece i recip ienti le palette e i vasi per l’aspersione. Terminò di fare tutto il lavoro che aveva eseguito per il r e Salomone riguardo al tempio del Signore: le due colonne i globi dei capitelli che erano sopra l e colonne i due reticoli per coprire i due globi dei capitelli che erano sopra le colonne le quattro cento melagrane per i due reticoli due file di melagrane per ciascun reticolo per coprire i due gl obi dei capitelli che erano sulle colonne, i dieci carrelli e i dieci bacini sui carrelli l’unico Mare e i dodici buoi sotto il Mare i recipienti le palette i vasi per l’aspersione e tutti quegli utensili che C
hiram aveva fatto al re Salomone per il tempio del Signore. Tutto era di bronzo rifinito. Il re li fe ce fondere nel circondario del Giordano in suolo argilloso fra Succot e Sartàn. Salomone sistem
ò tutti gli utensili; a causa della loro quantità così grande non si poteva calcolare il peso del bron zo. Salomone fece tutti gli utensili del tempio del Signore l’altare d’oro la mensa d’oro su cui si p onevano i pani dell’offerta i cinque candelabri a destra e i cinque a sinistra di fronte al sacrario d’oro purissimo i fiori le lampade gli smoccolatoi d’oro, le coppe i coltelli i vasi per l’aspersione i mortai e i bracieri d’oro purissimo i cardini per i battenti del tempio interno cioè per il Santo de i Santi e per i battenti del tempio cioè dell’aula in oro. Fu così terminato tutto il lavoro che il re S
alomone aveva fatto per il tempio del Signore. Salomone fece portare le offerte consacrate da Davide suo padre cioè l’argento l’oro e gli utensili; le depositò nei tesori del tempio del Signore.
Salomone allora convocò presso di sé in assemblea a Gerusalemme gli anziani d’Israele tutti i ca pitribù i prìncipi dei casati degli Israeliti per fare salire l’arca dell’alleanza del Signore dalla Città di Davide cioè da Sion. Si radunarono presso il re Salomone tutti gli Israeliti nel mese di Etanìm c ioè il settimo mese durante la festa. Quando furono giunti tutti gli anziani d’Israele i sacerdoti s ollevarono l’arca e fecero salire l’arca del Signore con la tenda del convegno e con tutti gli ogget ti sacri che erano nella tenda; li facevano salire i sacerdoti e i leviti. Il re Salomone e tutta la com unità d’Israele convenuta presso di lui immolavano davanti all’arca pecore e giovenchi che non si potevano contare né si potevano calcolare per la quantità. I sacerdoti introdussero l’arca dell’
alleanza del Signore al suo posto nel sacrario del tempio nel Santo dei Santi sotto le ali dei cher ubini. Difatti i cherubini stendevano le ali sul luogo dell’arca; i cherubini cioè proteggevano l’arc a e le sue stanghe dall’alto. Le stanghe sporgevano e le punte delle stanghe si vedevano dal San to di fronte al sacrario ma non si vedevano di fuori. Vi sono ancora oggi. Nell’arca non c’era null a se non le due tavole di pietra che vi aveva deposto Mosè sull’Oreb dove il Signore aveva concl uso l’alleanza con gli Israeliti quando uscirono dalla terra d’Egitto. Appena i sacerdoti furono usc iti dal santuario la nube riempì il tempio del Signore, e i sacerdoti non poterono rimanervi per c ompiere il servizio a causa della nube, perché la gloria del Signore riempiva il tempio del Signore
. Allora Salomone disse: «Il Signore ha deciso di abitare nella nube oscura. Ho voluto costruirti u na casa eccelsa, un luogo per la tua dimora in eterno». Il re si voltò e benedisse tutta l’assemble a d’Israele mentre tutta l’assemblea d’Israele stava in piedi e disse: «Benedetto il Signore Dio d’
Israele che ha adempiuto con le sue mani quanto con la bocca ha detto a Davide mio padre: “D
a quando ho fatto uscire Israele mio popolo dall’Egitto io non ho scelto una città fra tutte le trib ù d’Israele per costruire una casa perché vi dimorasse il mio nome ma ho scelto Davide perché governi il mio popolo Israele”. Davide mio padre aveva deciso di costruire una casa al nome del Signore Dio d’Israele ma il Signore disse a Davide mio padre: “Poiché hai deciso di costruire una casa al mio nome hai fatto bene a deciderlo; solo che non costruirai tu la casa ma tuo figlio che uscirà dai tuoi fianchi lui costruirà una casa al mio nome”. Il Signore ha attuato la parola che ave va pronunciato: sono succeduto infatti a Davide mio padre e siedo sul trono d’Israele come ave va preannunciato il Signore e ho costruito la casa al nome del Signore Dio d’Israele. Vi ho fissato un posto per l’arca dove c’è l’alleanza che il Signore aveva concluso con i nostri padri quando li fece uscire dalla terra d’Egitto». Poi Salomone si pose davanti all’altare del Signore di fronte a t
utta l’assemblea d’Israele e stese le mani verso il cielo disse: «Signore Dio d’Israele non c’è un D
io come te né lassù nei cieli né quaggiù sulla terra! Tu mantieni l’alleanza e la fedeltà verso i tuo i servi che camminano davanti a te con tutto il loro cuore. Tu hai mantenuto nei riguardi del tuo servo Davide mio padre quanto gli avevi promesso; quanto avevi detto con la bocca l’hai adem piuto con la tua mano come appare oggi. Ora Signore Dio d’Israele mantieni nei riguardi del tuo servo Davide mio padre, quanto gli hai promesso dicendo: “Non ti mancherà mai un discendent e che stia davanti a me e sieda sul trono d’Israele purché i tuoi figli veglino sulla loro condotta c amminando davanti a me come hai camminato tu davanti a me”. Ora Signore Dio d’Israele si ad empia la tua parola che hai rivolto al tuo servo Davide mio padre! Ma è proprio vero che Dio abi ta sulla terra? Ecco i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti tanto meno questa casa che io ho costruito! Volgiti alla preghiera del tuo servo e alla sua supplica Signore mio Dio per ascoltar e il grido e la preghiera che il tuo servo oggi innalza davanti a te! Siano aperti i tuoi occhi notte e giorno verso questa casa verso il luogo di cui hai detto: “Lì porrò il mio nome!”. Ascolta la preg hiera che il tuo servo innalza in questo luogo. Ascolta la supplica del tuo servo e del tuo popolo I sraele quando pregheranno in questo luogo. Ascoltali nel luogo della tua dimora in cielo; ascolt a e perdona! Se uno pecca contro il suo prossimo e perché gli è imposto un giuramento impreca torio viene a giurare davanti al tuo altare in questo tempio tu ascoltalo nel cielo, intervieni e fa’
giustizia con i tuoi servi; condanna il malvagio facendogli ricadere sul capo la sua condotta e dic hiara giusto l’innocente rendendogli quanto merita la sua giustizia. Quando il tuo popolo Israele sarà sconfitto di fronte al nemico perché ha peccato contro di te ma si converte a te loda il tuo nome ti prega e ti supplica in questo tempio, tu ascolta nel cielo perdona il peccato del tuo pop olo Israele e fallo tornare sul suolo che hai dato ai loro padri. Quando si chiuderà il cielo e non ci sarà pioggia perché hanno peccato contro di te ma ti pregano in questo luogo lodano il tuo no me e si convertono dal loro peccato perché tu li hai umiliati tu ascolta nel cielo perdona il pecca to dei tuoi servi e del tuo popolo Israele ai quali indicherai la strada buona su cui camminare e c oncedi la pioggia alla terra che hai dato in eredità al tuo popolo. Quando sulla terra ci sarà fame o peste carbonchio o ruggine invasione di locuste o di bruchi quando il suo nemico lo assedierà nel territorio delle sue città o quando vi sarà piaga o infermità d’ogni genere ogni preghiera e o gni supplica di un solo individuo o di tutto il tuo popolo Israele di chiunque abbia patito una pia ga nel cuore e stenda le mani verso questo tempio tu ascoltala nel cielo luogo della tua dimora perdona agisci e da’ a ciascuno secondo la sua condotta tu che conosci il suo cuore poiché solo t u conosci il cuore di tutti gli uomini perché ti temano tutti i giorni della loro vita sul suolo che ha i dato ai nostri padri. Anche lo straniero che non è del tuo popolo Israele se viene da una terra l ontana a causa del tuo nome perché si sentirà parlare del tuo grande nome della tua mano pote nte e del tuo braccio teso se egli viene a pregare in questo tempio tu ascolta nel cielo luogo dell a tua dimora e fa’ tutto quello per cui ti avrà invocato lo straniero, perché tutti i popoli della ter ra conoscano il tuo nome ti temano come il tuo popolo Israele e sappiano che il tuo nome è stat o invocato su questo tempio che io ho costruito. Quando il tuo popolo uscirà in guerra contro i s
uoi nemici seguendo la via sulla quale l’avrai mandato e pregheranno il Signore rivolti verso la ci ttà che tu hai scelto e verso il tempio che io ho costruito al tuo nome ascolta nel cielo la loro pr eghiera e la loro supplica e rendi loro giustizia. Quando peccheranno contro di te poiché non c’è nessuno che non pecchi e tu adirato contro di loro li consegnerai a un nemico e i loro conquista tori li deporteranno in una terra ostile lontana o vicina se nella terra in cui saranno deportati rie ntrando in se stessi, torneranno a te supplicandoti nella terra della loro prigionia dicendo: “Abbi amo peccato siamo colpevoli, siamo stati malvagi” se torneranno a te con tutto il loro cuore e c on tutta la loro anima nella terra dei nemici che li avranno deportati e ti supplicheranno rivolti v erso la loro terra che tu hai dato ai loro padri verso la città che tu hai scelto e verso il tempio ch e io ho costruito al tuo nome, tu ascolta nel cielo luogo della tua dimora la loro preghiera e la lo ro supplica e rendi loro giustizia. Perdona al tuo popolo che ha peccato contro di te tutte le loro ribellioni con cui si sono ribellati contro di te e rendili oggetto di compassione davanti ai loro de portatori, affinché abbiano di loro misericordia perché si tratta del tuo popolo e della tua eredit à di coloro che hai fatto uscire dall’Egitto da una fornace per fondere il ferro. Siano aperti i tuoi occhi alla preghiera del tuo servo e del tuo popolo Israele e ascoltali in tutto quello che ti chiedo no perché te li sei separati da tutti i popoli della terra come tua proprietà secondo quanto avevi dichiarato per mezzo di Mosè tuo servo mentre facevi uscire i nostri padri dall’Egitto o Signore Dio». Quando Salomone ebbe finito di rivolgere al Signore questa preghiera e questa supplica si alzò davanti all’altare del Signore dove era inginocchiato con le palme tese verso il cielo, si mise in piedi e benedisse tutta l’assemblea d’Israele a voce alta: «Benedetto il Signore che ha conces so tranquillità a Israele suo popolo, secondo la sua parola. Non è venuta meno neppure una dell e parole buone che aveva pronunciato per mezzo di Mosè suo servo. Il Signore nostro Dio sia co n noi come è stato con i nostri padri; non ci abbandoni e non ci respinga ma volga piuttosto i no stri cuori verso di lui, perché seguiamo tutte le sue vie e osserviamo i comandi le leggi e le norm e che ha ordinato ai nostri padri. Queste mie parole usate da me per supplicare il Signore siano presenti davanti al Signore nostro Dio giorno e notte perché renda giustizia al suo servo e a Isra ele suo popolo secondo le necessità di ogni giorno affinché sappiano tutti i popoli della terra ch e il Signore è Dio e che non ce n’è altri. Il vostro cuore sarà tutto dedito al Signore nostro Dio pe rché cammini secondo le sue leggi e osservi i suoi comandi come avviene oggi». Il re e tutto Isra ele con lui offrirono un sacrificio davanti al Signore. Salomone immolò al Signore in sacrificio di comunione ventiduemila giovenchi e centoventimila pecore; così il re e tutti gli Israeliti dedicar ono il tempio del Signore. In quel giorno il re consacrò il centro del cortile che era di fronte al te mpio del Signore; infatti lì offrì l’olocausto l’offerta e il grasso dei sacrifici di comunione perché l
’altare di bronzo che era davanti al Signore era troppo piccolo per contenere l’olocausto l’offert a e il grasso dei sacrifici di comunione. In quel tempo Salomone celebrò la festa davanti al Signo re nostro Dio per sette giorni: tutto Israele dall’ingresso di Camat al torrente d’Egitto un’assemb lea molto grande, era con lui. Nell’ottavo giorno congedò il popolo. I convenuti benedetto il re, andarono alle loro tende contenti e con la gioia nel cuore per tutto il bene concesso dal Signore
a Davide suo servo e a Israele suo popolo. Quando Salomone ebbe terminato di costruire il tem pio del Signore la reggia e quanto aveva voluto attuare il Signore apparve per la seconda volta a Salomone come gli era apparso a Gàbaon. Il Signore gli disse: «Ho ascoltato la tua preghiera e l a tua supplica che mi hai rivolto; ho consacrato questa casa che tu hai costruito per porre in ess a il mio nome per sempre. I miei occhi e il mio cuore saranno là tutti i giorni. Quanto a te se cam minerai davanti a me come camminò Davide tuo padre con cuore integro e con rettitudine face ndo quanto ti ho comandato, e osserverai le mie leggi e le mie norme io stabilirò il trono del tuo regno su Israele per sempre come ho promesso a Davide tuo padre dicendo: “Non ti sarà tolto un discendente dal trono d’Israele”. Ma se voi e i vostri figli vi ritirerete dal seguirmi se non osse rverete i miei comandi e le mie leggi che io vi ho proposto se andrete a servire altri dèi e a prost rarvi davanti ad essi allora eliminerò Israele dalla terra che ho dato loro, rigetterò da me il temp io che ho consacrato al mio nome; Israele diventerà la favola e lo zimbello di tutti i popoli. Ques to tempio sarà una rovina; chiunque vi passerà accanto resterà sbigottito fischierà di scherno e si domanderà: “Perché il Signore ha agito così con questa terra e con questo tempio?”. Si rispon derà: “Perché hanno abbandonato il Signore loro Dio che aveva fatto uscire i loro padri dalla ter ra d’Egitto e si sono legati a dèi stranieri prostrandosi davanti a loro e servendoli. Per questo il S
ignore ha fatto venire su di loro tutta questa sciagura”». Passati i vent’anni durante i quali Salo mone aveva costruito i due edifici il tempio del Signore e la reggia poiché Chiram re di Tiro avev a fornito a Salomone legname di cedro e legname di cipresso e oro secondo ogni suo desiderio Salomone diede a Chiram venti città nella regione della Galilea. Chiram uscì da Tiro per vedere l e città che Salomone gli aveva dato ma non gli piacquero. Perciò disse: «Sono queste le città ch e tu mi hai dato fratello mio?». Le chiamò terra di Cabul nome ancora in uso. Chiram aveva man dato al re centoventi talenti d’oro. Questa fu l’occasione in cui il re Salomone istituì il lavoro coa tto per costruire il tempio la reggia il Millo le mura di Gerusalemme Asor Meghiddo Ghezer. Il fa raone re d’Egitto con una spedizione aveva preso Ghezer l’aveva data alle fiamme aveva ucciso i Cananei che abitavano nella città e poi l’aveva assegnata in dote a sua figlia moglie di Salomon e. Salomone riedificò Ghezer Bet-Oron inferiore Baalàt, Tamar nel deserto del paese e tutte le città dei magazzini che gli apparten evano le città per i carri quelle per i cavalli e costruì a Gerusalemme nel Libano e in tutto il territ orio del suo dominio tutto ciò che gli piacque. Quanti rimanevano degli Amorrei, degli Ittiti dei P
erizziti degli Evei e dei Gebusei che non erano Israeliti e cioè i loro discendenti rimasti dopo di lo ro nella terra coloro che gli Israeliti non avevano potuto votare allo sterminio Salomone li arruol ò per il lavoro coatto da schiavi come è ancora oggi. Ma degli Israeliti Salomone non fece schiav o nessuno perché essi erano guerrieri, suoi ministri suoi comandanti suoi scudieri comandanti d ei suoi carri e dei suoi cavalieri. I comandanti dei prefetti che dirigevano i lavori per Salomone e rano cinquecentocinquanta; essi dirigevano il popolo che si occupava dei lavori. Dopo che la figli a del faraone si trasferì dalla Città di Davide alla casa che il re Salomone le aveva fatto costruire questi costruì il Millo. Tre volte all’anno Salomone offriva olocausti e sacrifici di comunione sull’

altare che aveva costruito per il Signore e bruciava incenso su quello che era davanti al Signore.
Così terminò il tempio. Salomone costruì anche una flotta a Esion-Ghèber che è presso Elat, sulla riva del Mar Rosso nel territorio di Edom. Chiram inviò alla flotta i suoi servi marinai che conoscevano il mare insieme con i servi di Salomone. Andarono in Ofir e di là presero quattrocentoventi talenti d’oro e li portarono al re Salomone. La regina di Saba se ntita la fama di Salomone dovuta al nome del Signore venne per metterlo alla prova con enigmi.
Arrivò a Gerusalemme con un corteo molto numeroso con cammelli carichi di aromi d’oro in gr ande quantità e di pietre preziose. Si presentò a Salomone e gli parlò di tutto quello che aveva n el suo cuore. Salomone le chiarì tutto quanto ella gli diceva; non ci fu parola tanto nascosta al re che egli non potesse spiegarle. La regina di Saba quando vide tutta la sapienza di Salomone la r eggia che egli aveva costruito i cibi della sua tavola il modo ordinato di sedere dei suoi servi il se rvizio dei suoi domestici e le loro vesti i suoi coppieri e gli olocausti che egli offriva nel tempio d el Signore rimase senza respiro. Quindi disse al re: «Era vero dunque quanto avevo sentito nel mio paese sul tuo conto e sulla tua sapienza! Io non credevo a quanto si diceva finché non sono giunta qui e i miei occhi non hanno visto; ebbene non me n’era stata riferita neppure una metà!
Quanto alla sapienza e alla prosperità superi la fama che io ne ho udita. Beati i tuoi uomini e be ati questi tuoi servi che stanno sempre alla tua presenza e ascoltano la tua sapienza! Sia benede tto il Signore tuo Dio che si è compiaciuto di te così da collocarti sul trono d’Israele perché il Sig nore ama Israele in eterno e ti ha stabilito re per esercitare il diritto e la giustizia». Ella diede al r e centoventi talenti d’oro aromi in gran quantità e pietre preziose. Non arrivarono più tanti aro mi quanti ne aveva dati la regina di Saba al re Salomone. Inoltre la flotta di Chiram che caricava oro da Ofir recò da Ofir legname di sandalo in grande quantità e pietre preziose. Con il legname di sandalo il re fece ringhiere per il tempio del Signore e per la reggia cetre e arpe per i cantori.
Mai più arrivò, né mai più si vide fino ad oggi tanto legno di sandalo. Il re Salomone diede alla re gina di Saba quanto lei desiderava e aveva domandato oltre quanto le aveva dato con munifice nza degna di lui. Quindi ella si mise in viaggio e tornò nel suo paese con i suoi servi. Il peso dell’
oro che giungeva a Salomone ogni anno era di seicentosessantasei talenti d’oro senza contare q uanto ne proveniva dai mercanti e dal guadagno dei commercianti, da tutti i re dell’occidente e dai governatori del territorio. Il re Salomone fece duecento scudi grandi d’oro battuto per ognu no dei quali adoperò seicento sicli d’oro e trecento scudi piccoli d’oro battuto per ognuno dei q uali adoperò tre mine d’oro. Il re li collocò nel palazzo della Foresta del Libano. Inoltre il re fece un grande trono d’avorio che rivestì d’oro fino. Il trono aveva sei gradini; nella sua parte posteri ore il trono aveva una sommità rotonda vi erano braccioli da una parte e dall’altra del sedile e d ue leoni che stavano a fianco dei braccioli. Dodici leoni si ergevano di qua e di là sui sei gradini; una cosa simile non si era mai fatta in nessun regno. Tutti i vasi per le bevande del re Salomone erano d’oro tutti gli arredi del palazzo della Foresta del Libano erano d’oro fino; nessuno era in argento poiché ai giorni di Salomone non valeva nulla. Difatti il re aveva in mare le navi di Tarsis con le navi di Chiram; ogni tre anni le navi di Tarsis arrivavano portando oro argento zanne d’el
efante scimmie e pavoni. Il re Salomone fu più grande per ricchezza e sapienza di tutti i re della terra. Tutta la terra cercava il volto di Salomone per ascoltare la sapienza che Dio aveva messo nel suo cuore. Ognuno gli portava ogni anno il proprio tributo oggetti d’argento e oggetti d’oro vesti armi aromi cavalli e muli. Salomone radunò carri e cavalli; aveva millequattrocento carri e dodicimila cavalli da sella distribuiti nelle città per i carri e presso il re a Gerusalemme. Il re fece sì che a Gerusalemme l’argento abbondasse come le pietre e rese il legname di cedro tanto co mune quanto i sicomòri che crescono nella Sefela. I cavalli di Salomone provenivano da Musri e da Kue; i mercanti del re li compravano in Kue. Un carro importato da Musri costava seicento si cli d’argento un cavallo centocinquanta. In tal modo ne importavano per fornirli a tutti i re degli Ittiti e ai re di Aram. Il re Salomone amò molte donne straniere oltre la figlia del faraone: moabi te, ammonite edomite sidònie e ittite provenienti dai popoli di cui aveva detto il Signore agli Isr aeliti: «Non andate da loro ed essi non vengano da voi perché certo faranno deviare i vostri cuo ri dietro i loro dèi». Salomone si legò a loro per amore. Aveva settecento principesse per mogli e trecento concubine; le sue donne gli fecero deviare il cuore. Quando Salomone fu vecchio le s ue donne gli fecero deviare il cuore per seguire altri dèi e il suo cuore non restò integro con il Si gnore suo Dio come il cuore di Davide suo padre. Salomone seguì Astarte dea di quelli di Sidone e Milcom obbrobrio degli Ammoniti. Salomone commise il male agli occhi del Signore e non seg uì pienamente il Signore come Davide suo padre. Salomone costruì un’altura per Camos obbrob rio dei Moabiti sul monte che è di fronte a Gerusalemme e anche per Moloc obbrobrio degli Am moniti. Allo stesso modo fece per tutte le sue donne straniere che offrivano incenso e sacrifici a i loro dèi. Il Signore perciò si sdegnò con Salomone perché aveva deviato il suo cuore dal Signor e Dio d’Israele che gli era apparso due volte e gli aveva comandato di non seguire altri dèi ma Sa lomone non osservò quanto gli aveva comandato il Signore. Allora disse a Salomone: «Poiché ti sei comportato così e non hai osservato la mia alleanza né le leggi che ti avevo dato ti strapperò via il regno e lo consegnerò a un tuo servo. Tuttavia non lo farò durante la tua vita per amore di Davide tuo padre; lo strapperò dalla mano di tuo figlio. Ma non gli strapperò tutto il regno; una tribù la darò a tuo figlio per amore di Davide mio servo e per amore di Gerusalemme che ho sc elto». Il Signore suscitò contro Salomone un avversario l’edomita Adad che era della stirpe regal e di Edom. Dopo la disfatta inflitta da Davide a Edom quando Ioab capo dell’esercito era andato a seppellire i cadaveri e aveva ucciso tutti i maschi di Edom –
Ioab con tutto Israele vi si era fermato sei mesi finché ebbe sterminato ogni maschio di Edom –
Adad con alcuni Edomiti a servizio del padre fuggì per andare in Egitto. Allora Adad era un raga zzo. Essi partirono da Madian e andarono a Paran; presero con sé uomini di Paran e andarono i n Egitto dal faraone re d’Egitto che diede ad Adad una casa gli fissò alimenti e gli diede una terr a. Adad trovò grande favore agli occhi del faraone tanto che gli diede in moglie la sorella della p ropria moglie la sorella di Tacpenès, la regina madre. La sorella di Tacpenès gli partorì il figlio Gh enubàt, che Tacpenès svezzò nel palazzo del faraone. Ghenubàt visse nella casa del faraone tra i figli del faraone. Quando Adad seppe in Egitto che Davide si era addormentato con i suoi padri
e che era morto Ioab capo dell’esercito disse al faraone: «Lasciami partire; voglio andare nella mia terra». Il faraone gli rispose: «Ti manca forse qualcosa nella mia casa perché tu cerchi di an dare nella tua terra?». Quegli soggiunse: «No ma ti prego lasciami partire!». Dio suscitò contro Salomone un altro avversario Rezon figlio di Eliadà che era fuggito da Adadèzer re di Soba suo si gnore. Egli radunò uomini presso di sé e divenne capo di una banda quando Davide aveva mass acrato gli Aramei. Andarono quindi a Damasco si stabilirono là e cominciarono a regnare in Dam asco. Fu avversario d’Israele per tutta la vita di Salomone e questo oltre al male fatto da Adad; detestò Israele e regnò su Aram. Anche Geroboamo figlio dell’efraimita Nebat di Seredà –
sua madre una vedova si chiamava Seruà –
mentre era al servizio di Salomone alzò la mano contro il re. Questa è la ragione per cui alzò la mano contro il re: Salomone costruiva il Millo e chiudeva la breccia apertasi nella Città di Davide suo padre. Geroboamo era un uomo di riguardo; Salomone visto quanto il giovane lavorava lo nominò sorvegliante di tutto il lavoro coatto della casa di Giuseppe. In quel tempo Geroboamo uscito da Gerusalemme, incontrò per strada il profeta Achia di Silo che era coperto con un mant ello nuovo; erano loro due soli, in campagna. Achia afferrò il mantello nuovo che indossava e lo lacerò in dodici pezzi. Quindi disse a Geroboamo: «Prenditi dieci pezzi poiché dice il Signore Dio d’Israele: “Ecco strapperò il regno dalla mano di Salomone e ne darò a te dieci tribù. A lui rimarr à una tribù a causa di Davide mio servo e a causa di Gerusalemme la città che ho scelto fra tutte le tribù d’Israele. Ciò avverrà perché mi hanno abbandonato e si sono prostrati davanti ad Asta rte dea di quelli di Sidone a Camos dio dei Moabiti e a Milcom dio degli Ammoniti e non hanno camminato sulle mie vie compiendo ciò che è retto ai miei occhi osservando le mie leggi e le mi e norme come Davide suo padre. Non gli toglierò tutto il regno dalla mano perché l’ho stabilito principe per tutti i giorni della sua vita a causa di Davide mio servo che ho scelto il quale ha osse rvato i miei comandi e le mie leggi. Toglierò il regno dalla mano di suo figlio e ne consegnerò a t e dieci tribù. A suo figlio darò una tribù affinché ci sia una lampada per Davide mio servo per tut ti i giorni dinanzi a me a Gerusalemme la città che mi sono scelta per porvi il mio nome. Io pren derò te e tu regnerai su quanto vorrai; sarai re d’Israele. Se ascolterai quanto ti comanderò se s eguirai le mie vie e farai ciò che è retto ai miei occhi osservando le mie leggi e i miei comandi co me ha fatto Davide mio servo io sarò con te e ti edificherò una casa stabile come l’ho edificata p er Davide. Ti consegnerò Israele; umilierò la discendenza di Davide per questo motivo ma non p er sempre”». Salomone cercò di far morire Geroboamo il quale però trovò rifugio in Egitto da Si sak re d’Egitto. Geroboamo rimase in Egitto fino alla morte di Salomone. Le altre gesta di Salom one tutte le sue azioni e la sua sapienza non sono forse descritte nel libro delle gesta di Salomo ne? Il tempo in cui Salomone aveva regnato a Gerusalemme su tutto Israele fu di quarant’anni.
Salomone si addormentò con i suoi padri e fu sepolto nella Città di Davide suo padre; al suo pos to divenne re suo figlio Roboamo. Roboamo andò a Sichem perché tutto Israele era convenuto a Sichem per proclamarlo re. Quando lo seppe Geroboamo figlio di Nebat che era ancora in Egit to dove era fuggito per paura del re Salomone tornò dall’Egitto. Lo mandarono a chiamare e Ge
roboamo venne con tutta l’assemblea d’Israele e parlarono a Roboamo dicendo: «Tuo padre ha reso duro il nostro giogo; ora tu alleggerisci la dura servitù di tuo padre e il giogo pesante che e gli ci ha imposto e noi ti serviremo». Rispose loro: «Andate e tornate da me fra tre giorni». Il po polo se ne andò. Il re Roboamo si consigliò con gli anziani che erano stati al servizio di Salomone suo padre durante la sua vita domandando: «Che cosa mi consigliate di rispondere a questo po polo?». Gli dissero: «Se oggi ti farai servo sottomettendoti a questo popolo se li ascolterai e se dirai loro parole buone essi ti saranno servi per sempre». Ma egli trascurò il consiglio che gli anz iani gli avevano dato e si consultò con i giovani che erano cresciuti con lui ed erano al suo servizi o. Domandò loro: «Voi che cosa mi consigliate di rispondere a questo popolo che mi ha chiesto di alleggerire il giogo imposto loro da mio padre?». I giovani che erano cresciuti con lui gli disser o: «Per rispondere al popolo che si è rivolto a te dicendo: “Tuo padre ha reso pesante il nostro g iogo tu alleggeriscilo!” di’ loro così: “Il mio mignolo è più grosso dei fianchi di mio padre. Ora mi o padre vi caricò di un giogo pesante, io renderò ancora più grave il vostro giogo; mio padre vi c astigò con fruste, io vi castigherò con flagelli”». Geroboamo e tutto il popolo si presentarono a Roboamo il terzo giorno come il re aveva ordinato dicendo: «Tornate da me il terzo giorno». Il r e rispose duramente al popolo respingendo il consiglio che gli anziani gli avevano dato; egli diss e loro secondo il consiglio dei giovani: «Mio padre ha reso pesante il vostro giogo, io renderò an cora più grave il vostro giogo; mio padre vi castigò con fruste, io vi castigherò con flagelli». Il re non ascoltò il popolo poiché era disposizione del Signore che si attuasse la parola che il Signore aveva rivolta a Geroboamo figlio di Nebat per mezzo di Achia di Silo. Tutto Israele visto che il re non li ascoltava diede al re questa risposta: «Che parte abbiamo con Davide? Noi non abbiamo eredità con il figlio di Iesse! Alle tue tende Israele! Ora pensa alla tua casa Davide!». Israele se n e andò alle sue tende. Sugli Israeliti che abitavano nelle città di Giuda regnò Roboamo. Il re Rob oamo mandò Adoràm che era sovrintendente al lavoro coatto ma tutti gli Israeliti lo lapidarono ed egli morì. Allora il re Roboamo salì in fretta sul carro per fuggire a Gerusalemme. Israele si ri bellò alla casa di Davide fino ad oggi. Quando tutto Israele seppe che era tornato Geroboamo lo mandò a chiamare perché partecipasse all’assemblea; lo proclamarono re di tutto Israele. Ness uno seguì la casa di Davide se non la tribù di Giuda. Roboamo giunto a Gerusalemme convocò t utta la casa di Giuda e la tribù di Beniamino centoottantamila guerrieri scelti per combattere co ntro la casa d’Israele e per restituire il regno a Roboamo figlio di Salomone. La parola di Dio fu ri volta a Semaià uomo di Dio: «Riferisci a Roboamo figlio di Salomone re di Giuda a tutta la casa d i Giuda e di Beniamino e al resto del popolo: Così dice il Signore: “Non salite a combattere contr o i vostri fratelli israeliti; ognuno torni a casa perché questo fatto è dipeso da me”». Ascoltaron o la parola del Signore e tornarono indietro come il Signore aveva ordinato. Geroboamo fortific ò Sichem sulle montagne di èfraim e vi pose la sua residenza. Uscito di lì fortificò Penuèl. Gerob oamo pensò: «In questa situazione il regno potrà tornare alla casa di Davide. Se questo popolo continuerà a salire a Gerusalemme per compiervi sacrifici nel tempio del Signore il cuore di que sto popolo si rivolgerà verso il suo signore verso Roboamo re di Giuda; mi uccideranno e ritorne
ranno da Roboamo re di Giuda». Consigliatosi il re preparò due vitelli d’oro e disse al popolo: «S
iete già saliti troppe volte a Gerusalemme! Ecco Israele i tuoi dèi che ti hanno fatto salire dalla t erra d’Egitto». Ne collocò uno a Betel e l’altro lo mise a Dan. Questo fatto portò al peccato; il po polo infatti andava sino a Dan per prostrarsi davanti a uno di quelli. Egli edificò templi sulle altur e e costituì sacerdoti presi da tutto il popolo i quali non erano discendenti di Levi. Geroboamo is tituì una festa nell’ottavo mese il quindici del mese simile alla festa che si celebrava in Giuda. Eg li stesso salì all’altare; così fece a Betel per sacrificare ai vitelli che aveva eretto e a Betel stabilì s acerdoti dei templi da lui eretti sulle alture. Il giorno quindici del mese ottavo il mese che aveva scelto di sua iniziativa salì all’altare che aveva eretto a Betel; istituì una festa per gli Israeliti e sal ì all’altare per offrire incenso. Un uomo di Dio per comando del Signore si portò da Giuda a Bete l mentre Geroboamo stava presso l’altare per offrire incenso. Per comando del Signore quegli g ridò verso l’altare: «Altare altare così dice il Signore: “Ecco nascerà un figlio nella casa di Davide chiamato Giosia il quale immolerà su di te i sacerdoti delle alture che hanno offerto incenso su di te e brucerà su di te ossa umane”». In quel giorno diede un segno dicendo: «Questo è il segn o che il Signore parla: ecco l’altare si spezzerà e sarà sparsa la cenere che vi è sopra». Appena se ntì la parola che l’uomo di Dio aveva proferito contro l’altare di Betel il re Geroboamo tese la m ano ritirandola dall’altare dicendo: «Afferratelo!». Ma la sua mano tesa contro quello gli si inari dì e non la poté far tornare a sé. L’altare si spezzò e fu sparsa la cenere dell’altare secondo il seg no dato dall’uomo di Dio per comando del Signore. Presa la parola il re disse all’uomo di Dio: «P
laca il volto del Signore tuo Dio e prega per me perché mi sia resa la mia mano». L’uomo di Dio placò il volto del Signore e la mano del re gli tornò com’era prima. All’uomo di Dio il re disse: «V
ieni a casa con me per ristorarti; ti darò un regalo». L’uomo di Dio rispose al re: «Anche se mi da rai metà della tua casa non verrò con te e non mangerò pane né berrò acqua in questo luogo, p erché così mi è stato ordinato per comando del Signore: “Non mangerai pane e non berrai acqu a né tornerai per la strada percorsa nell’andata”». Se ne andò per un’altra strada e non tornò p er quella che aveva percorso venendo a Betel. Ora abitava a Betel un vecchio profeta al quale i f igli andarono a raccontare quanto aveva fatto quel giorno l’uomo di Dio a Betel; essi raccontaro no al loro padre anche le parole che quello aveva detto al re. Il padre domandò loro: «Quale via ha preso?». I suoi figli gli indicarono la via presa dall’uomo di Dio che era venuto da Giuda. Ed e gli disse ai suoi figli: «Sellatemi l’asino!». Gli sellarono l’asino ed egli vi montò sopra. Inseguì l’uo mo di Dio e lo trovò seduto sotto una quercia. Gli domandò: «Sei tu l’uomo di Dio venuto da Giu da?». Rispose: «Sono io». L’altro gli disse: «Vieni a casa con me per mangiare del pane». Egli ris pose: «Non posso tornare con te né venire con te; non mangerò pane e non berrò acqua in que sto luogo perché mi fu rivolta una parola per ordine del Signore: “Là non mangerai pane e non b errai acqua né ritornerai per la strada percorsa all’andata”». Quegli disse: «Anche io sono profe ta come te; ora un angelo mi ha detto per ordine del Signore: “Fallo tornare con te nella tua cas a perché mangi pane e beva acqua”». Egli mentiva a costui che ritornò con lui, mangiò pane nell a sua casa e bevve acqua. Mentre essi stavano seduti a tavola la parola del Signore fu rivolta al
profeta che aveva fatto tornare indietro l’altro ed egli gridò all’uomo di Dio che era venuto da G
iuda: «Così dice il Signore: “Poiché ti sei ribellato alla voce del Signore, non hai osservato il com ando che ti ha dato il Signore tuo Dio sei tornato indietro hai mangiato pane e bevuto acqua nel luogo in cui il tuo Dio ti aveva ordinato di non mangiare pane e di non bere acqua il tuo cadaver e non entrerà nel sepolcro dei tuoi padri”». Dopo che egli ebbe mangiato pane e bevuto fu sleg ato per lui l’asino del profeta che lo aveva fatto ritornare. Egli partì e un leone lo trovò per strad a e l’uccise; il suo cadavere rimase steso sulla strada mentre l’asino se ne stava là vicino e anche il leone stava vicino al cadavere. Ora alcuni passanti videro il cadavere steso sulla strada e il leo ne che se ne stava vicino al cadavere. Essi andarono e divulgarono il fatto nella città ove dimora va il vecchio profeta. Avendolo udito il profeta che l’aveva fatto ritornare dalla strada disse: «Q
uello è un uomo di Dio che si è ribellato alla voce del Signore; per questo il Signore l’ha consegn ato al leone che l’ha fatto a pezzi e l’ha fatto morire secondo la parola che gli aveva detto il Sign ore». Egli aggiunse ai figli: «Sellatemi l’asino». Quando l’asino fu sellato egli andò e trovò il cada vere di lui steso sulla strada con l’asino e il leone accanto. Il leone non aveva mangiato il cadave re né fatto a pezzi l’asino. Il profeta prese il cadavere dell’uomo di Dio lo adagiò sull’asino e lo p ortò indietro; il vecchio profeta entrò in città per piangerlo e seppellirlo. Depose il cadavere nel proprio sepolcro e fecero su di lui il lamento: «Ohimè fratello mio!». Dopo averlo sepolto disse ai figli: «Alla mia morte mi seppellirete nel sepolcro in cui è stato sepolto l’uomo di Dio; porrete le mie ossa vicino alle sue poiché certo si avvererà la parola che egli gridò per ordine del Signore contro l’altare di Betel e contro tutti i santuari delle alture che sono nelle città di Samaria». Do po questo fatto Geroboamo non abbandonò la sua via cattiva. Egli continuò a prendere da tutto il popolo i sacerdoti delle alture e a chiunque lo desiderava conferiva l’incarico e quegli diveniv a sacerdote delle alture. Tale condotta costituì per la casa di Geroboamo il peccato che ne prov ocò la distruzione e lo sterminio dalla faccia della terra. In quel tempo si ammalò Abia figlio di G
eroboamo. Geroboamo disse a sua moglie: «àlzati cambia vestito perché non si sappia che tu se i la moglie di Geroboamo e va’ a Silo. Là c’è il profeta Achia colui che mi disse che avrei regnato su questo popolo. Prendi con te dieci pani focacce e un vaso di miele; va’ da lui. Egli ti rivelerà c he cosa avverrà del ragazzo». La moglie di Geroboamo fece così. Si alzò andò a Silo ed entrò nell a casa di Achia il quale non poteva vedere, perché i suoi occhi erano offuscati per la vecchiaia. Il Signore aveva detto ad Achia: «Ecco la moglie di Geroboamo viene per chiederti un oracolo sul figlio che è malato; tu le dirai questo e questo. Arriverà travestita». Appena Achia sentì il rumor e dei piedi di lei che arrivava alla porta disse: «Entra moglie di Geroboamo. Perché ti fingi un’alt ra? Io sono stato incaricato di annunciarti una dura notizia. Su riferisci a Geroboamo: Così dice il Signore Dio d’Israele: “Io ti ho innalzato fra il popolo costituendoti capo del popolo d’Israele ho strappato il regno dalla casa di Davide e l’ho consegnato a te. Ma tu non sei stato come il mio s ervo Davide che osservò i miei comandi e mi seguì con tutto il suo cuore facendo solo ciò che è retto davanti ai miei occhi anzi hai agito peggio di tutti quelli che furono prima di te e sei andato a fabbricarti altri dèi e immagini fuse per provocarmi mentre hai gettato me dietro alle tue spal
le. Per questo ecco manderò la sventura sulla casa di Geroboamo, distruggerò nella casa di Ger oboamo ogni maschio schiavo o libero in Israele e spazzerò la casa di Geroboamo come si spazz a lo sterco fino alla sua totale scomparsa. I cani divoreranno quanti della casa di Geroboamo mo riranno in città quelli morti in campagna li divoreranno gli uccelli del cielo perché il Signore ha p arlato”. Ma tu àlzati va’ a casa tua; quando i tuoi piedi raggiungeranno la città il bambino morirà
. Ne faranno il lamento tutti gli Israeliti e lo seppelliranno; infatti soltanto lui della famiglia di Ge roboamo entrerà in un sepolcro perché in lui si è trovato qualcosa di buono da parte del Signor e Dio d’Israele nella famiglia di Geroboamo. Il Signore farà sorgere per sé un re sopra Israele ch e distruggerà la famiglia di Geroboamo. Questo è quel giorno! Non è forse già adesso? Inoltre il Signore percuoterà Israele come una canna agitata dall’acqua. Eliminerà Israele da questa terra buona che ha dato ai loro padri e li disperderà oltre il Fiume perché si sono eretti i loro pali sacri provocando così il Signore. Il Signore abbandonerà Israele a causa dei peccati di Geroboamo il quale peccò e fece peccare Israele». La moglie di Geroboamo si alzò e se ne andò a Tirsa. Propri o mentre lei varcava la soglia di casa il ragazzo morì. Lo seppellirono e tutto Israele ne fece il la mento secondo la parola del Signore comunicata per mezzo del suo servo il profeta Achia. Le alt re gesta di Geroboamo le sue guerre e il suo regno sono descritti nel libro delle Cronache dei re d’Israele. La durata del regno di Geroboamo fu di ventidue anni; egli si addormentò con i suoi p adri e al suo posto divenne re suo figlio Nadab. Roboamo figlio di Salomone regnò in Giuda. Ave va quarantun anni quando divenne re e regnò diciassette anni a Gerusalemme città scelta dal Si gnore fra tutte le tribù d’Israele per collocarvi il suo nome. Sua madre ammonita si chiamava Na amà. Giuda fece ciò che è male agli occhi del Signore; essi provocarono il Signore a gelosia più d i quanto avevano fatto i loro padri con i peccati da loro commessi. Anch’essi si costruirono altur e stele e pali sacri su ogni alto colle e sotto ogni albero verde. Inoltre nella terra c’erano prostitu ti sacri. Essi commisero tutti gli abomini dei popoli che il Signore aveva scacciato davanti agli Isr aeliti. Nell’anno quinto del re Roboamo il re d’Egitto Sisak salì contro Gerusalemme. Prese i teso ri del tempio del Signore e i tesori della reggia portò via tutto prese anche gli scudi d’oro fatti da Salomone. Il re Roboamo li sostituì con scudi di bronzo che affidò ai comandanti delle guardie a ddette alle porte della reggia. Ogni volta che il re andava nel tempio del Signore le guardie li pre ndevano poi li riportavano nella sala delle guardie. Le altre gesta di Roboamo e tutte le sue azio ni non sono forse descritte nel libro delle Cronache dei re di Giuda? Ci fu guerra continua fra Ro boamo e Geroboamo. Roboamo si addormentò con i suoi padri e fu sepolto con i suoi padri nell a Città di Davide. Sua madre ammonita si chiamava Naamà. Al suo posto divenne re suo figlio A biam. Nell’anno diciottesimo del re Geroboamo figlio di Nebat Abiam divenne re su Giuda. Regn ò tre anni a Gerusalemme. Sua madre si chiamava Maacà figlia di Abisalòm. Egli imitò tutti i pec cati che suo padre aveva commesso prima di lui; il suo cuore non fu integro con il Signore suo Di o come il cuore di Davide suo padre. Ma, per amore di Davide il Signore suo Dio gli concesse un a lampada a Gerusalemme facendo sorgere suo figlio dopo di lui e rendendo stabile Gerusalem me perché Davide aveva fatto ciò che è retto agli occhi del Signore e non aveva deviato da quan
to il Signore aveva ordinato durante tutta la sua vita se si eccettua il caso di Uria l’Ittita. Ci fu gu erra continua fra Roboamo e Geroboamo. Le altre gesta di Abiam e tutte le sue azioni non sono forse descritte nel libro delle Cronache dei re di Giuda? Ci fu guerra fra Abiam e Geroboamo. Ab iam si addormentò con i suoi padri; lo seppellirono nella Città di Davide e al suo posto divenne r e suo figlio Asa. Nell’anno ventesimo di Geroboamo re d’Israele Asa divenne re di Giuda. Egli re gnò quarantun anni a Gerusalemme. Sua madre si chiamava Maacà figlia di Abisalòm. Asa fece c iò che è retto agli occhi del Signore come Davide, suo padre. Eliminò i prostituti sacri dalla terra e allontanò tutti gli idoli che avevano fatto i suoi padri. Privò anche sua madre Maacà del titolo di regina madre perché ella aveva eretto ad Asera un’immagine infame; Asa demolì l’immagine i nfame e la bruciò nella valle del torrente Cedron. Ma non scomparvero le alture anche se il cuor e di Asa si mantenne integro nei riguardi del Signore per tutta la sua vita. Fece portare nel temp io del Signore le offerte consacrate da suo padre e quelle consacrate da lui stesso consistenti in argento oro e utensili. Ci fu guerra fra Asa e Baasà re d’Israele per tutta la loro vita. Il re d’Israel e Baasà salì contro Giuda; egli fortificò Rama per impedire il transito ad Asa re di Giuda. Asa pre se tutto l’argento e l’oro rimasti nei tesori del tempio del Signore e nei tesori della reggia li cons egnò ai suoi ministri che li portarono per ordine del re Asa a Ben-Adàd figlio di Tabrimmòn figlio di Cheziòn re di Aram residente a Damasco con questa proposta:
«Ci sia un’alleanza fra me e te, come tra mio padre e tuo padre. Ecco ti mando un dono d’argen to e d’oro. Su rompi la tua alleanza con Baasà re d’Israele in modo che egli si ritiri da me». Ben-Adàd ascoltò il re Asa; mandò contro le città d’Israele i comandanti del suo esercito che colpiro no Iion Dan Abel-Bet-Maacà e l’intera regione di Chinaròt compreso tutto il territorio di Nèftali. Quando lo seppe, Ba asà smise di fortificare Rama e tornò a Tirsa. Allora il re Asa convocò tutti quelli di Giuda nessun o escluso; costoro andarono a prendere le pietre e il legname con cui Baasà stava fortificando R
ama e con essi il re Asa fortificò Gheba di Beniamino e Mispa. Tutte le altre gesta di Asa tutta la sua potenza e tutte le sue azioni le città che egli edificò non sono forse descritte nel libro delle C
ronache dei re di Giuda? Tuttavia nella sua vecchiaia fu ammalato ai piedi. Asa si addormentò c on i suoi padri fu sepolto con i suoi padri nella Città di Davide suo padre e al suo posto divenne r e suo figlio Giòsafat. Nadab figlio di Geroboamo divenne re su Israele nell’anno secondo di Asa r e di Giuda e regnò su Israele due anni. Egli fece ciò che è male agli occhi del Signore seguendo la via di suo padre e il peccato che questi aveva fatto commettere a Israele. Contro di lui congiurò Baasà figlio di Achia della casa di ìssacar; Baasà lo colpì a Ghibbetòn che apparteneva ai Filistei mentre Nadab e tutto Israele assediavano Ghibbetòn. Baasà lo fece morire nell’anno terzo di As a re di Giuda e divenne re al suo posto. Appena divenuto re egli colpì tutta la casa di Geroboam o: non risparmiò nessuno della stirpe di Geroboamo fino ad estinguerla secondo la parola del Si gnore pronunciata per mezzo del suo servo Achia di Silo a causa dei peccati che Geroboamo co mmise e fece commettere a Israele e a causa dello sdegno a cui aveva provocato il Signore Dio d’Israele. Le altre gesta di Nadab e tutte le sue azioni non sono forse descritte nel libro delle Cro
nache dei re d’Israele? Ci fu guerra fra Asa e Baasà re d’Israele per tutta la loro vita. Nell’anno t erzo di Asa re di Giuda Baasà figlio di Achia divenne re su tutto Israele a Tirsa. Regnò ventiquattr o anni. Egli fece ciò che è male agli occhi del Signore seguendo la via di Geroboamo e il peccato che questi aveva fatto commettere a Israele. La parola del Signore fu rivolta a Ieu figlio di Anàni contro Baasà: «Io ti ho innalzato dalla polvere e ti ho costituito capo sul mio popolo Israele ma t u hai seguito la via di Geroboamo e hai fatto peccare il mio popolo Israele provocandomi con i l oro peccati. Ecco io spazzerò via Baasà e la sua casa e renderò la tua casa come la casa di Gerob oamo figlio di Nebat. I cani divoreranno quanti della casa di Baasà moriranno in città quelli mort i in campagna li divoreranno gli uccelli del cielo». Le altre gesta di Baasà le sue azioni e la sua po tenza non sono forse descritte nel libro delle Cronache dei re d’Israele? Baasà si addormentò co n i suoi padri; fu sepolto a Tirsa e al suo posto divenne re suo figlio Ela. Attraverso il profeta Ieu figlio di Anàni la parola del Signore fu rivolta a Baasà e alla sua casa per tutto il male che aveva c ommesso agli occhi del Signore irritandolo con le opere delle sue mani tanto che la sua casa era diventata come quella di Geroboamo e perché egli aveva colpito quella casa. Nell’anno ventisei esimo di Asa re di Giuda Ela figlio di Baasà divenne re su Israele a Tirsa; regnò due anni. Contro di lui congiurò il suo ufficiale Zimrì comandante della metà dei carri. Mentre egli a Tirsa beveva e si ubriacava nella casa di Arsà maggiordomo a Tirsa arrivò Zimrì lo colpì e lo fece morire nell’a nno ventisettesimo di Asa re di Giuda e divenne re al suo posto. Divenuto re appena seduto sul suo trono colpì tutta la casa di Baasà non gli lasciò sopravvivere alcun maschio fra i suoi parenti e amici. Zimrì distrusse tutta la casa di Baasà secondo la parola che il Signore aveva rivolto contr o Baasà per mezzo del profeta Ieu a causa di tutti i peccati di Baasà e dei peccati di Ela suo figlio di quelli commessi da loro e di quelli fatti commettere a Israele provocando a sdegno con le lor o vanità il Signore Dio d’Israele. Le altre gesta di Ela e tutte le sue azioni non sono forse descritt e nel libro delle Cronache dei re d’Israele? Nell’anno ventisettesimo di Asa re di Giuda Zimrì div enne re per sette giorni a Tirsa mentre il popolo era accampato contro Ghibbetòn che apparten eva ai Filistei. Quando il popolo là accampato venne a sapere che Zimrì si era ribellato e aveva u cciso il re tutto Israele in quello stesso giorno nell’accampamento proclamò re su Israele Omri, c omandante dell’esercito. Omri con tutto Israele si mosse da Ghibbetòn e strinsero d’assedio Tir sa. Quando vide che veniva presa la città Zimrì entrò nel torrione della reggia incendiò dietro di sé la reggia e così morì bruciato. Ciò avvenne a causa dei suoi peccati che aveva commesso com piendo ciò che è male agli occhi del Signore seguendo la via di Geroboamo e il peccato con cui a veva fatto peccare Israele. Le altre gesta di Zimrì e la congiura da lui organizzata non sono forse descritte nel libro delle Cronache dei re d’Israele? Allora il popolo d’Israele si divise in due parti.
Una metà del popolo seguiva Tibnì figlio di Ghinat per farlo re e una metà seguiva Omri. Il popo lo che seguiva Omri prevalse sul popolo che seguiva Tibnì figlio di Ghinat. Tibnì morì e Omri dive nne re. Nell’anno trentunesimo di Asa re di Giuda Omri divenne re su Israele. Regnò dodici anni di cui sei a Tirsa. Poi acquistò il monte Samaria da Semer per due talenti d’argento. Costruì sul monte e chiamò la città che ivi edificò Samaria, dal nome di Semer proprietario del monte. Omri
fece ciò che è male agli occhi del Signore fece peggio di tutti quelli prima di lui. Seguì in tutto la via di Geroboamo figlio di Nebat e i peccati che quegli aveva fatto commettere a Israele provoc ando a sdegno con le loro vanità il Signore Dio d’Israele. Le altre gesta che compì Omri e la pote nza con cui agì non sono forse descritte nel libro delle Cronache dei re d’Israele? Omri si addor mentò con i suoi padri; fu sepolto a Samaria e al suo posto divenne re suo figlio Acab. Acab figli o di Omri divenne re su Israele nell’anno trentottesimo di Asa re di Giuda. Acab figlio di Omri re gnò su Israele a Samaria ventidue anni. Acab figlio di Omri fece ciò che è male agli occhi del Sign ore più di tutti quelli prima di lui. Non gli bastò imitare il peccato di Geroboamo figlio di Nebat ma prese anche in moglie Gezabele figlia di Etbàal re di quelli di Sidone e si mise a servire Baal e a prostrarsi davanti a lui. Eresse un altare a Baal nel tempio di Baal che egli aveva costruito a Sa maria. Acab eresse anche il palo sacro e continuò ad agire provocando a sdegno il Signore, Dio d
’Israele più di tutti i re d’Israele prima di lui. Nei suoi giorni Chièl di Betel ricostruì Gerico; gettò l e fondamenta sopra Abiràm suo primogenito e collocò la sua porta a doppio battente sopra Seg ub suo ultimogenito secondo la parola pronunciata dal Signore per mezzo di Giosuè figlio di Nu n. Elia il Tisbita uno di quelli che si erano stabiliti in Gàlaad disse ad Acab: «Per la vita del Signor e Dio d’Israele alla cui presenza io sto in questi anni non ci sarà né rugiada né pioggia se non qu ando lo comanderò io». A lui fu rivolta questa parola del Signore: «Vattene di qui dirigiti verso o riente; nasconditi presso il torrente Cherìt che è a oriente del Giordano. Berrai dal torrente e i c orvi per mio comando ti porteranno da mangiare». Egli partì e fece secondo la parola del Signor e; andò a stabilirsi accanto al torrente Cherìt che è a oriente del Giordano. I corvi gli portavano pane e carne al mattino e pane e carne alla sera; egli beveva dal torrente. Dopo alcuni giorni il t orrente si seccò perché non era piovuto sulla terra. Fu rivolta a lui la parola del Signore: «àlzati va’ a Sarepta di Sidone; ecco io là ho dato ordine a una vedova di sostenerti». Egli si alzò e andò a Sarepta. Arrivato alla porta della città ecco una vedova che raccoglieva legna. La chiamò e le d isse: «Prendimi un po’ d’acqua in un vaso perché io possa bere». Mentre quella andava a prend erla le gridò: «Per favore prendimi anche un pezzo di pane». Quella rispose: «Per la vita del Sign ore tuo Dio non ho nulla di cotto ma solo un pugno di farina nella giara e un po’ d’olio nell’orcio
; ora raccolgo due pezzi di legna dopo andrò a prepararla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo». Elia le disse: «Non temere; va’ a fare come hai detto. Prima però prepara una piccola focaccia per me e portamela; quindi ne preparerai per te e per tuo figlio, poiché così dic e il Signore Dio d’Israele: “La farina della giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non diminuirà fin o al giorno in cui il Signore manderà la pioggia sulla faccia della terra”». Quella andò e fece com e aveva detto Elia; poi mangiarono lei lui e la casa di lei per diversi giorni. La farina della giara n on venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì secondo la parola che il Signore aveva pronunciat o per mezzo di Elia. In seguito accadde che il figlio della padrona di casa si ammalò. La sua malat tia si aggravò tanto che egli cessò di respirare. Allora lei disse a Elia: «Che cosa c’è tra me e te o uomo di Dio? Sei venuto da me per rinnovare il ricordo della mia colpa e per far morire mio figli o?». Elia le disse: «Dammi tuo figlio». Glielo prese dal seno lo portò nella stanza superiore dove
abitava e lo stese sul letto. Quindi invocò il Signore: «Signore mio Dio vuoi fare del male anche a questa vedova che mi ospita tanto da farle morire il figlio?». Si distese tre volte sul bambino e i nvocò il Signore: «Signore mio Dio la vita di questo bambino torni nel suo corpo». Il Signore asc oltò la voce di Elia; la vita del bambino tornò nel suo corpo e quegli riprese a vivere. Elia prese il bambino lo portò giù nella casa dalla stanza superiore e lo consegnò alla madre. Elia disse: «Gua rda! Tuo figlio vive». La donna disse a Elia: «Ora so veramente che tu sei uomo di Dio e che la pa rola del Signore nella tua bocca è verità». Dopo molti giorni la parola del Signore fu rivolta a Elia nell’anno terzo: «Va’ a presentarti ad Acab e io manderò la pioggia sulla faccia della terra». Elia andò a presentarsi ad Acab. A Samaria c’era una grande carestia. Acab convocò Abdia che era il maggiordomo. Abdia temeva molto il Signore; quando Gezabele uccideva i profeti del Signore A bdia aveva preso cento profeti e ne aveva nascosti cinquanta alla volta in una caverna e aveva p rocurato loro pane e acqua. Acab disse ad Abdia: «Va’ nella regione verso tutte le sorgenti e tut ti i torrenti; forse troveremo erba per tenere in vita cavalli e muli e non dovremo uccidere una p arte del bestiame». Si divisero la zona da percorrere; Acab andò per una strada da solo e Abdia per un’altra da solo. Mentre Abdia era in cammino ecco farglisi incontro Elia. Quello lo riconobb e e cadde con la faccia a terra dicendo: «Sei proprio tu il mio signore Elia?». Gli rispose: «Lo son o; va’ a dire al tuo signore: “C’è qui Elia”». Quello disse: «Che male ho fatto perché tu consegni i l tuo servo in mano ad Acab per farmi morire? Per la vita del Signore tuo Dio non esiste nazione o regno in cui il mio signore non abbia mandato a cercarti. Se gli rispondevano: “Non c’è!” egli f aceva giurare la nazione o il regno di non averti trovato. Ora tu dici: “Va’ a dire al tuo signore: C’
è qui Elia!”. Appena sarò partito da te lo spirito del Signore ti porterà in un luogo a me ignoto. S
e io vado a riferirlo ad Acab egli non trovandoti mi ucciderà ora il tuo servo teme il Signore fin d alla sua giovinezza. Non fu riferito forse al mio signore ciò che ho fatto quando Gezabele uccide va i profeti del Signore come io nascosi cento profeti cinquanta alla volta in una caverna e procu rai loro pane e acqua? E ora tu comandi: “Va’ a dire al tuo signore: C’è qui Elia”? Egli mi uccider à». Elia rispose: «Per la vita del Signore degli eserciti alla cui presenza io sto oggi stesso io mi pr esenterò a lui». Abdia andò incontro ad Acab e gli riferì la cosa. Acab si diresse verso Elia. Appen a lo vide Acab disse a Elia: «Sei tu colui che manda in rovina Israele?». Egli rispose: «Non io man do in rovina Israele ma piuttosto tu e la tua casa, perché avete abbandonato i comandi del Sign ore e tu hai seguito i Baal. Perciò fa’ radunare tutto Israele presso di me sul monte Carmelo insi eme con i quattrocentocinquanta profeti di Baal e con i quattrocento profeti di Asera che mangi ano alla tavola di Gezabele». Acab convocò tutti gli Israeliti e radunò i profeti sul monte Carmel o. Elia si accostò a tutto il popolo e disse: «Fino a quando salterete da una parte all’altra? Se il Si gnore è Dio seguitelo! Se invece lo è Baal seguite lui!». Il popolo non gli rispose nulla. Elia disse ancora al popolo: «Io sono rimasto solo come profeta del Signore mentre i profeti di Baal sono quattrocentocinquanta. Ci vengano dati due giovenchi; essi se ne scelgano uno lo squartino e lo pongano sulla legna senza appiccarvi il fuoco. Io preparerò l’altro giovenco e lo porrò sulla legn a senza appiccarvi il fuoco. Invocherete il nome del vostro dio e io invocherò il nome del Signore
. Il dio che risponderà col fuoco è Dio!». Tutto il popolo rispose: «La proposta è buona!». Elia dis se ai profeti di Baal: «Sceglietevi il giovenco e fate voi per primi, perché voi siete più numerosi. I nvocate il nome del vostro dio ma senza appiccare il fuoco». Quelli presero il giovenco che spett ava loro lo prepararono e invocarono il nome di Baal dal mattino fino a mezzogiorno gridando:
«Baal rispondici!». Ma non vi fu voce né chi rispondesse. Quelli continuavano a saltellare da una parte all’altra intorno all’altare che avevano eretto. Venuto mezzogiorno Elia cominciò a beffar si di loro dicendo: «Gridate a gran voce perché è un dio! è occupato è in affari o è in viaggio; for se dorme ma si sveglierà». Gridarono a gran voce e si fecero incisioni secondo il loro costume c on spade e lance fino a bagnarsi tutti di sangue. Passato il mezzogiorno, quelli ancora agirono d a profeti fino al momento dell’offerta del sacrificio ma non vi fu né voce né risposta né un segn o d’attenzione. Elia disse a tutto il popolo: «Avvicinatevi a me!». Tutto il popolo si avvicinò a lui e riparò l’altare del Signore che era stato demolito. Elia prese dodici pietre secondo il numero d elle tribù dei figli di Giacobbe al quale era stata rivolta questa parola del Signore: «Israele sarà il tuo nome». Con le pietre eresse un altare nel nome del Signore; scavò intorno all’altare un cana letto della capacità di circa due sea di seme. Dispose la legna squartò il giovenco e lo pose sulla l egna. Quindi disse: «Riempite quattro anfore d’acqua e versatele sull’olocausto e sulla legna!».
Ed essi lo fecero. Egli disse: «Fatelo di nuovo!». Ed essi ripeterono il gesto. Disse ancora: «Fatelo per la terza volta!». Lo fecero per la terza volta. L’acqua scorreva intorno all’altare; anche il can aletto si riempì d’acqua. Al momento dell’offerta del sacrificio si avvicinò il profeta Elia e disse:
«Signore Dio di Abramo di Isacco e d’Israele oggi si sappia che tu sei Dio in Israele e che io sono tuo servo e che ho fatto tutte queste cose sulla tua parola. Rispondimi Signore rispondimi e que sto popolo sappia che tu o Signore sei Dio e che converti il loro cuore!». Cadde il fuoco del Sign ore e consumò l’olocausto la legna le pietre e la cenere prosciugando l’acqua del canaletto. A ta l vista tutto il popolo cadde con la faccia a terra e disse: «Il Signore è Dio! Il Signore è Dio!». Elia disse loro: «Afferrate i profeti di Baal; non ne scappi neppure uno!». Li afferrarono. Elia li fece s cendere al torrente Kison ove li ammazzò. Elia disse ad Acab: «Va’ a mangiare e a bere perché c’
è già il rumore della pioggia torrenziale». Acab andò a mangiare e a bere. Elia salì sulla cima del Carmelo; gettatosi a terra pose la sua faccia tra le ginocchia. Quindi disse al suo servo: «Sali pre sto guarda in direzione del mare». Quegli salì guardò e disse: «Non c’è nulla!». Elia disse: «Torn aci ancora per sette volte». La settima volta riferì: «Ecco una nuvola piccola come una mano d’u omo sale dal mare». Elia gli disse: «Va’ a dire ad Acab: “Attacca i cavalli e scendi perché non ti tr attenga la pioggia!”». D’un tratto il cielo si oscurò per le nubi e per il vento e vi fu una grande pi oggia. Acab montò sul carro e se ne andò a Izreèl. La mano del Signore fu sopra Elia che si cinse i fianchi e corse davanti ad Acab finché giunse a Izreèl. Acab riferì a Gezabele tutto quello che El ia aveva fatto e che aveva ucciso di spada tutti i profeti. Gezabele inviò un messaggero a Elia pe r dirgli: «Gli dèi mi facciano questo e anche di peggio se domani a quest’ora non avrò reso la tua vita come la vita di uno di loro». Elia impaurito si alzò e se ne andò per salvarsi. Giunse a Bersa bea di Giuda. Lasciò là il suo servo. Egli s’inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a s
edersi sotto una ginestra. Desideroso di morire disse: «Ora basta Signore! Prendi la mia vita per ché io non sono migliore dei miei padri». Si coricò e si addormentò sotto la ginestra. Ma ecco ch e un angelo lo toccò e gli disse: «àlzati mangia!». Egli guardò e vide vicino alla sua testa una foc accia cotta su pietre roventi e un orcio d’acqua. Mangiò e bevve, quindi di nuovo si coricò. Torn ò per la seconda volta l’angelo del Signore lo toccò e gli disse: «àlzati mangia perché è troppo lu ngo per te il cammino». Si alzò mangiò e bevve. Con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio l’Oreb. Là entrò in una caverna per passarvi la notte quand’ecco gli fu rivolta la parola del Signore in questi termini: «Che cosa fai qui Elia?». Egli risp ose: «Sono pieno di zelo per il Signore Dio degli eserciti poiché gli Israeliti hanno abbandonato l a tua alleanza hanno demolito i tuoi altari hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto sol o ed essi cercano di togliermi la vita». Gli disse: «Esci e férmati sul monte alla presenza del Sign ore». Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e s pezzare le rocce davanti al Signore ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento un terremoto ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto un fuoco ma il Signore non era nel fuoco
. Dopo il fuoco il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello u scì e si fermò all’ingresso della caverna. Ed ecco venne a lui una voce che gli diceva: «Che cosa f ai qui Elia?». Egli rispose: «Sono pieno di zelo per il Signore Dio degli eserciti poiché gli Israeliti h anno abbandonato la tua alleanza hanno demolito i tuoi altari hanno ucciso di spada i tuoi profe ti. Sono rimasto solo ed essi cercano di togliermi la vita». Il Signore gli disse: «Su ritorna sui tuoi passi verso il deserto di Damasco; giunto là ungerai Cazaèl come re su Aram. Poi ungerai Ieu figli o di Nimsì, come re su Israele e ungerai Eliseo figlio di Safat di Abel-Mecolà come profeta al tuo posto. Se uno scamperà alla spada di Cazaèl lo farà morire Ieu; se u no scamperà alla spada di Ieu lo farà morire Eliseo. Io poi riserverò per me in Israele settemila p ersone tutti i ginocchi che non si sono piegati a Baal e tutte le bocche che non l’hanno baciato».
Partito di lì Elia trovò Eliseo figlio di Safat. Costui arava con dodici paia di buoi davanti a sé men tre egli stesso guidava il dodicesimo. Elia passandogli vicino gli gettò addosso il suo mantello. Q
uello lasciò i buoi e corse dietro a Elia dicendogli: «Andrò a baciare mio padre e mia madre poi t i seguirò». Elia disse: «Va’ e torna perché sai che cosa ho fatto per te». Allontanatosi da lui Elise o prese un paio di buoi e li uccise; con la legna del giogo dei buoi fece cuocere la carne e la died e al popolo, perché la mangiasse. Quindi si alzò e seguì Elia entrando al suo servizio. Ben-Adàd re di Aram radunò tutto il suo esercito; con lui c’erano trentadue re con cavalli e carri. Egli salì contro Samaria per cingerla d’assedio ed espugnarla. Inviò messaggeri in città ad Acab re d’
Israele per dirgli: «Così dice Ben-
Adàd: Il tuo argento e il tuo oro appartengono a me e le tue donne e i tuoi figli migliori sono per me». Il re d’Israele rispose: «Avvenga secondo la tua parola o re mio signore; io e quanto possi edo siamo tuoi». Ma i messaggeri tornarono di nuovo e dissero: «Così dice Ben-Adàd che ci manda a te: “Mi consegnerai il tuo argento il tuo oro le tue donne e i tuoi figli. Dom ani a quest’ora, manderò da te i miei servi che perquisiranno la tua casa e le case dei tuoi servi;
essi prenderanno tutto ciò che è prezioso agli occhi tuoi e lo porteranno via”». Il re d’Israele con vocò tutti gli anziani del paese ai quali disse: «Sappiate e vedete come costui ci voglia fare del m ale. Difatti mi ha mandato a chiedere le mie donne e i miei figli il mio argento e il mio oro e io n on gli ho opposto rifiuto». Tutti gli anziani e tutto il popolo gli dissero: «Non ascoltarlo e non co nsentire!». Egli disse ai messaggeri di Ben-Adàd: «Dite al re mio signore: “Quanto hai imposto prima al tuo servo lo farò ma la nuova richie sta non posso soddisfarla”». I messaggeri andarono a riferire la risposta. Ben-Adàd allora gli mandò a dire: «Gli dèi mi facciano questo e anche di peggio se la polvere di Sama ria basterà per riempire il pugno di coloro che mi seguono». Il re d’Israele rispose: «Riferitegli: “
Chi cinge le armi non si vanti come chi le depone”». Nell’udire questa risposta –
egli stava insieme con i re a bere sotto le tende –
disse ai suoi ufficiali: «Circondate la città!». Ed essi la circondarono. Ed ecco un profeta si avvici nò ad Acab re d’Israele per dirgli: «Così dice il Signore: “Vedi tutta questa moltitudine immensa
? Ebbene oggi la metto nella tua mano; saprai che io sono il Signore”». Acab disse: «Per mezzo di chi?». Quegli rispose: «Così dice il Signore: “Per mezzo dei giovani dei capi delle province”».
Domandò: «Chi attaccherà la battaglia?». Rispose: «Tu!». Acab ispezionò i giovani dei capi delle province: erano duecentotrentadue. Dopo di loro ispezionò tutto il popolo tutti gli Israeliti: eran o settemila. A mezzogiorno fecero una sortita. Ben-Adàd stava bevendo e ubriacandosi sotto le tende insieme con i trentadue re che lo aiutavano.
Per primi uscirono i giovani dei capi delle province. Ben-Adàd mandò a vedere e gli fu riferito: «Alcuni uomini sono usciti da Samaria!». Quegli disse: «Se sono usciti per la pace catturateli vivi; se sono usciti per la guerra catturateli ugualmente vivi».
Quelli usciti dalla città erano i giovani dei capi delle province seguiti dall’esercito; ognuno di loro uccise chi gli si fece davanti. Gli Aramei fuggirono inseguiti da Israele. Ben-Adàd re di Aram si mise in salvo a cavallo insieme con alcuni cavalieri. Uscì quindi il re d’Israele c he colpì i cavalli e i carri e inflisse ad Aram una grande sconfitta. Allora il profeta si avvicinò al re d’Israele e gli disse: «Su sii forte; sappi e vedi quanto dovrai fare perché l’anno prossimo il re di Aram salirà contro di te». Ma i servi del re di Aram gli dissero: «Il loro Dio è un Dio dei monti; pe r questo ci sono stati superiori; se combatteremo contro di loro in pianura certamente saremo s uperiori a loro. Fa’ così: ritira i re ognuno dal suo luogo e sostituiscili con governatori. Tu prepar a un esercito come quello che ti è venuto meno: cavalli come quei cavalli e carri come quei carri
; quindi combatteremo contro di loro in pianura. Certamente saremo superiori a loro». Egli asco ltò la loro voce e agì in tal modo. L’anno dopo Ben-Adàd ispezionò gli Aramei quindi andò ad Afek per attaccare gli Israeliti. Gli Israeliti ispezionati e approvvigionati mossero loro incontro accampandosi di fronte; sembravano due piccoli greggi di capre mentre gli Aramei riempivano la regione. Un uomo di Dio si avvicinò al re d’Israele e gli disse: «Così dice il Signore: “Poiché gli Aramei hanno affermato: Il Signore è Dio dei monti e non Dio delle valli io metterò in mano tua tutta questa moltitudine immensa; così saprete che io so
no il Signore”». Per sette giorni stettero accampati gli uni di fronte agli altri. Al settimo giorno si arrivò alla battaglia. Gli Israeliti in un giorno uccisero centomila fanti aramei. I superstiti fuggiro no ad Afek nella città le cui mura caddero sui ventisettemila superstiti. Ben-Adàd fuggì e entrato nella città cercava rifugio da una stanza all’altra. I suoi servi gli dissero: «Ec co abbiamo sentito che i re della casa d’Israele sono re clementi. Indossiamo sacchi ai fianchi e mettiamoci corde sulla testa e usciamo incontro al re d’Israele. Forse ti lascerà in vita». Si legaro no sacchi ai fianchi e corde sulla testa quindi si presentarono al re d’Israele e dissero: «Il tuo ser vo Ben-Adàd dice: “Possa io vivere!”». Quello domandò: «è ancora vivo? Egli è mio fratello!». Gli uomin i vi scorsero un buon auspicio si affrettarono a strappargli una decisione. Dissero: «Ben-Adàd è tuo fratello!». Quello soggiunse: «Andate a prenderlo». Ben-Adàd si recò da lui che lo fece salire sul carro. Ben-
Adàd gli disse: «Restituirò le città che mio padre ha preso a tuo padre; tu potrai disporre di mer cati in Damasco come mio padre ne aveva in Samaria». Ed egli: «Io ti lascerò andare con questo patto». E concluse con lui il patto e lo lasciò andare. Allora uno dei figli dei profeti disse al comp agno per ordine del Signore: «Colpiscimi!». L’uomo si rifiutò di colpirlo. Quello disse: «Poiché no n hai obbedito alla voce del Signore appena sarai andato via da me ti colpirà il leone». Se ne an dò via da lui il leone lo trovò e lo colpì. Quello trovato un altro uomo gli disse: «Colpiscimi!». E q uello lo colpì e lo ferì. Il profeta andò ad attendere il re sulla strada dopo essersi reso irriconosci bile con una benda agli occhi. Quando passò il re gli gridò: «Il tuo servo era nel cuore della batta glia ed ecco un uomo fuggì qualcuno lo condusse da me, dicendomi: “Fa’ la guardia a quest’uo mo: se per disgrazia verrà a mancare la tua vita sostituirà la sua oppure dovrai pagare un talent o d’argento”. Mentre il tuo servo era occupato qua e là quello scomparve». Il re d’Israele disse a lui: «La tua condanna è giusta; hai deciso tu stesso!». Ma egli immediatamente si tolse la ben da dagli occhi e il re d’Israele riconobbe che era uno dei profeti. Costui gli disse: «Così dice il Sig nore: “Poiché hai lasciato andare libero quell’uomo da me votato allo sterminio la tua vita sostit uirà la sua il tuo popolo sostituirà il suo popolo”». Il re d’Israele rientrò a casa amareggiato e irri tato ed entrò in Samaria. In seguito avvenne questo episodio. Nabot di Izreèl possedeva una vig na che era a Izreèl vicino al palazzo di Acab re di Samaria. Acab disse a Nabot: «Cedimi la tua vig na; ne farò un orto perché è confinante con la mia casa. Al suo posto ti darò una vigna migliore di quella oppure se preferisci te la pagherò in denaro al prezzo che vale». Nabot rispose ad Acab
: «Mi guardi il Signore dal cederti l’eredità dei miei padri». Acab se ne andò a casa amareggiato e sdegnato per le parole dettegli da Nabot di Izreèl che aveva affermato: «Non ti cederò l’eredit à dei miei padri!». Si coricò sul letto voltò la faccia da un lato e non mangiò niente. Entrò da lui l a moglie Gezabele e gli domandò: «Perché mai il tuo animo è tanto amareggiato e perché non v uoi mangiare?». Le rispose: «Perché ho detto a Nabot di Izreèl: “Cedimi la tua vigna per denaro o se preferisci, ti darò un’altra vigna” ed egli mi ha risposto: “Non cederò la mia vigna!”». Allora sua moglie Gezabele gli disse: «Tu eserciti così la potestà regale su Israele? àlzati mangia e il tuo
cuore gioisca. Te la farò avere io la vigna di Nabot di Izreèl!». Ella scrisse lettere con il nome di Acab le sigillò con il suo sigillo quindi le spedì agli anziani e ai notabili della città che abitavano vi cino a Nabot. Nelle lettere scrisse: «Bandite un digiuno e fate sedere Nabot alla testa del popol o. Di fronte a lui fate sedere due uomini perversi i quali l’accusino: “Hai maledetto Dio e il re!”.
Quindi conducetelo fuori e lapidatelo ed egli muoia». Gli uomini della città di Nabot gli anziani e i notabili che abitavano nella sua città fecero come aveva ordinato loro Gezabele ossia come er a scritto nelle lettere che aveva loro spedito. Bandirono un digiuno e fecero sedere Nabot alla t esta del popolo. Giunsero i due uomini perversi che si sedettero di fronte a lui. Costoro accusar ono Nabot davanti al popolo affermando: «Nabot ha maledetto Dio e il re». Lo condussero fuori della città e lo lapidarono ed egli morì. Quindi mandarono a dire a Gezabele: «Nabot è stato lap idato ed è morto». Appena Gezabele sentì che Nabot era stato lapidato ed era morto disse ad A cab: «Su prendi possesso della vigna di Nabot di Izreèl il quale ha rifiutato di dartela in cambio d i denaro perché Nabot non vive più, è morto». Quando sentì che Nabot era morto Acab si alzò p er scendere nella vigna di Nabot di Izreèl a prenderne possesso. Allora la parola del Signore fu ri volta a Elia il Tisbita: «Su, scendi incontro ad Acab re d’Israele che abita a Samaria; ecco è nella vigna di Nabot ove è sceso a prenderne possesso. Poi parlerai a lui dicendo: “Così dice il Signore
: Hai assassinato e ora usurpi!”. Gli dirai anche: “Così dice il Signore: Nel luogo ove lambirono il sangue di Nabot i cani lambiranno anche il tuo sangue”». Acab disse a Elia: «Mi hai dunque trov ato o mio nemico?». Quello soggiunse: «Ti ho trovato perché ti sei venduto per fare ciò che è m ale agli occhi del Signore. Ecco io farò venire su di te una sciagura e ti spazzerò via. Sterminerò a d Acab ogni maschio, schiavo o libero in Israele. Renderò la tua casa come la casa di Geroboamo figlio di Nebat e come la casa di Baasà figlio di Achia perché tu mi hai irritato e hai fatto peccare Israele. Anche riguardo a Gezabele parla il Signore dicendo: “I cani divoreranno Gezabele nel ca mpo di Izreèl”. Quanti della famiglia di Acab moriranno in città li divoreranno i cani; quanti mori ranno in campagna li divoreranno gli uccelli del cielo». In realtà nessuno si è mai venduto per fa re il male agli occhi del Signore come Acab perché sua moglie Gezabele l’aveva istigato. Commis e molti abomini, seguendo gli idoli come avevano fatto gli Amorrei che il Signore aveva scacciat o davanti agli Israeliti. Quando sentì tali parole Acab si stracciò le vesti indossò un sacco sul suo corpo e digiunò si coricava con il sacco e camminava a testa bassa. La parola del Signore fu rivol ta a Elia il Tisbita: «Hai visto come Acab si è umiliato davanti a me? Poiché si è umiliato davanti a me non farò venire la sciagura durante la sua vita; farò venire la sciagura sulla sua casa durant e la vita di suo figlio». Trascorsero tre anni senza guerra fra Aram e Israele. Nel terzo anno Giòsa fat re di Giuda scese dal re d’Israele. Ora il re d’Israele aveva detto ai suoi ufficiali: «Non sapete che Ramot di Gàlaad è nostra? Eppure noi ce ne stiamo inerti senza riprenderla dalla mano del r e di Aram». Disse a Giòsafat: «Verresti con me a combattere per Ramot di Gàlaad?». Giòsafat ri spose al re d’Israele: «Conta su di me come su te stesso sul mio popolo come sul tuo sui miei ca valli come sui tuoi». Giòsafat disse al re d’Israele: «Consulta per favore oggi stesso la parola del Signore». Il re d’Israele radunò i profeti quattrocento persone e domandò loro: «Devo andare in
guerra contro Ramot di Gàlaad o devo rinunciare?». Risposero: «Attacca; il Signore la metterà i n mano al re». Giòsafat disse: «Non c’è qui ancora un profeta del Signore da consultare?». Il re d’Israele rispose a Giòsafat: «C’è ancora un uomo per consultare tramite lui il Signore ma io lo d etesto perché non mi profetizza il bene, ma il male: è Michea figlio di Imla». Giòsafat disse: «Il r e non parli così!». Il re d’Israele chiamato un cortigiano gli ordinò: «Convoca subito Michea figli o di Imla». Il re d’Israele e Giòsafat re di Giuda sedevano ognuno sul suo trono vestiti dei loro m antelli nello spiazzo all’ingresso della porta di Samaria; tutti i profeti profetizzavano davanti a lo ro. Sedecìa figlio di Chenaanà che si era fatto corna di ferro, affermava: «Così dice il Signore: “C
on queste cozzerai contro gli Aramei sino a finirli”». Tutti i profeti profetizzavano allo stesso mo do: «Assali Ramot di Gàlaad avrai successo. Il Signore la metterà in mano al re». Il messaggero c he era andato a chiamare Michea gli disse: «Ecco le parole dei profeti concordano sul successo del re; ora la tua parola sia come quella degli altri: preannuncia il successo!». Michea rispose: «
Per la vita del Signore annuncerò quanto il Signore mi dirà». Si presentò al re che gli domandò:
«Michea dobbiamo andare in guerra contro Ramot di Gàlaad o rinunciare?». Gli rispose: «Attac cala e avrai successo; il Signore la metterà nella mano del re». Il re gli disse: «Quante volte ti de vo scongiurare di non dirmi se non la verità nel nome del Signore?». Egli disse: «Vedo tutti gli Isr aeliti vagare sui monti come pecore che non hanno pastore. Il Signore dice: “Questi non hanno padrone; ognuno torni a casa sua in pace!”». Il re d’Israele disse a Giòsafat: «Non te l’avevo det to che costui non mi profetizza il bene ma solo il male?». Michea disse: «Perciò, ascolta la parol a del Signore. Io ho visto il Signore seduto sul trono; tutto l’esercito del cielo gli stava intorno a destra e a sinistra. Il Signore domandò: “Chi ingannerà Acab perché salga contro Ramot di Gàlaa d e vi perisca?”. Chi rispose in un modo e chi in un altro. Si fece avanti uno spirito che presentat osi al Signore disse: “Lo ingannerò io”. “Come?” gli domandò il Signore. Rispose: “Andrò e diven terò spirito di menzogna sulla bocca di tutti i suoi profeti”. Gli disse: “Lo ingannerai; certo riuscir ai: va’ e fa’ così”. Ecco, dunque il Signore ha messo uno spirito di menzogna sulla bocca di tutti q uesti tuoi profeti ma il Signore a tuo riguardo parla di sciagura». Allora Sedecìa figlio di Chenaan à si avvicinò e percosse Michea sulla guancia dicendo: «In che modo lo spirito del Signore è pass ato da me per parlare a te?». Michea rispose: «Ecco lo vedrai nel giorno in cui passerai di stanza in stanza per nasconderti». Il re d’Israele disse: «Prendi Michea e conducilo da Amon, governat ore della città e da Ioas figlio del re. Dirai loro: “Così dice il re: Mettete costui in prigione e nutrit elo con il minimo di pane e di acqua finché tornerò in pace”». Michea disse: «Se davvero torner ai in pace il Signore non ha parlato per mezzo mio». E aggiunse: «Popoli tutti ascoltate!». Il re d’
Israele marciò insieme con Giòsafat re di Giuda contro Ramot di Gàlaad. Il re d’Israele disse a Gi òsafat: «Io per combattere mi travestirò. Tu resta con i tuoi abiti». Il re d’Israele si travestì ed en trò in battaglia. Il re di Aram aveva ordinato ai comandanti dei suoi carri che erano trentadue: «
Non combattete contro nessuno piccolo o grande ma unicamente contro il re d’Israele». Appen a videro Giòsafat i comandanti dei carri dissero: «Certo quello è il re d’Israele». Si avvicinarono a lui per combattere. Giòsafat lanciò un grido. I comandanti dei carri si accorsero che non era il
re d’Israele e si allontanarono da lui. Ma un uomo tese a caso l’arco e colpì il re d’Israele fra le maglie dell’armatura e la corazza. Il re disse al suo cocchiere: «Gira portami fuori della mischia, perché sono ferito». La battaglia infuriò in quel giorno; il re stette sul suo carro di fronte agli Ara mei. Alla sera morì il sangue della sua ferita era colato sul fondo del carro. Al tramonto questo g rido si diffuse per l’accampamento: «Ognuno alla sua città e ognuno alla sua terra!». Il re dunqu e morì. Giunsero a Samaria e seppellirono il re a Samaria. Il carro fu lavato nella piscina di Sama ria; i cani leccarono il suo sangue e le prostitute vi si bagnarono secondo la parola pronunciata d al Signore. Le altre gesta di Acab tutte le sue azioni la costruzione della casa d’avorio e delle citt à da lui erette non sono forse descritte nel libro delle Cronache dei re d’Israele? Acab si addorm entò con i suoi padri e al suo posto divenne re suo figlio Acazia. Giòsafat figlio di Asa divenne re su Giuda l’anno quarto di Acab re d’Israele. Giòsafat aveva trentacinque anni quando divenne r e; regnò venticinque anni a Gerusalemme. Sua madre si chiamava Azubà figlia di Silchì. Seguì in tutto la via di Asa suo padre non si allontanò da essa facendo ciò che è retto agli occhi del Signo re. Ma non scomparvero le alture; il popolo ancora sacrificava e offriva incenso sulle alture. Giò safat fece pace con il re d’Israele. Le altre gesta di Giòsafat e la potenza con cui agì e combatté non sono forse descritte nel libro delle Cronache dei re di Giuda? Egli spazzò via dalla terra il res to dei prostituti sacri che era rimasto al tempo di suo padre Asa. Allora non c’era re in Edom; lo sostituiva un governatore. Giòsafat costruì navi di Tarsis per andare a cercare l’oro in Ofir; ma n on ci andò perché le navi si sfasciarono a Esion-Ghèber. Allora Acazia figlio di Acab disse a Giòsafat: «I miei servi vadano con i tuoi servi sulle na vi». Ma Giòsafat non volle. Giòsafat si addormentò con i suoi padri fu sepolto con i suoi padri ne lla Città di Davide suo padre e al suo posto divenne re suo figlio Ioram. Acazia figlio di Acab dive nne re su Israele a Samaria nell’anno diciassettesimo di Giòsafat re di Giuda; regnò due anni su I sraele. Fece ciò che è male agli occhi del Signore seguendo la via di suo padre quella di sua mad re e quella di Geroboamo figlio di Nebat che aveva fatto peccare Israele. Servì Baal e si prostrò davanti a lui irritando il Signore Dio d’Israele come aveva fatto suo padre. Dopo la morte di Aca b Moab si ribellò a Israele. Acazia cadde dalla finestra della stanza superiore a Samaria e rimase ferito. Allora inviò messaggeri con quest’ordine: «Andate e interrogate Baal-Zebù b dio di Ekron per sapere se sopravviverò a questa mia infermità». Ma l’angelo del Signore disse a Elia il Tisbita: «Su va’ incontro ai messaggeri del re di Samaria e di’ loro: “Non c’è forse u n Dio in Israele perché dobbiate andare a consultare Baal-Zebù b dio di Ekron? Pertanto così dice il Signore: Dal letto in cui sei salito non scenderai ma cer tamente morirai”». Ed Elia se ne andò. I messaggeri ritornarono dal re che domandò loro: «Perc hé siete tornati?». Gli dissero: «Ci è venuto incontro un uomo che ci ha detto: “Su tornate dal re che vi ha inviati e ditegli: Così dice il Signore: Non c’è forse un Dio in Israele perché tu debba m andare a consultare Baal-Zebù b dio di Ekron? Pertanto dal letto, in cui sei salito non scenderai ma certamente morirai”».
Domandò loro: «Qual era l’aspetto dell’uomo che è salito incontro a voi e vi ha detto simili par
ole?». Risposero: «Era un uomo coperto di peli; una cintura di cuoio gli cingeva i fianchi». Egli di sse: «Quello è Elia il Tisbita!». Allora gli mandò un comandante di cinquanta con i suoi cinquant a uomini. Questi salì da lui che era seduto sulla cima del monte e gli disse: «Uomo di Dio il re ha detto: “Scendi!”». Elia rispose al comandante dei cinquanta uomini: «Se sono uomo di Dio scen da un fuoco dal cielo e divori te e i tuoi cinquanta». Scese un fuoco dal cielo e divorò quello con i suoi cinquanta. Il re mandò da lui ancora un altro comandante di cinquanta con i suoi cinquant a uomini. Questi gli disse: «Uomo di Dio ha detto il re: “Scendi subito”». Elia rispose loro: «Se so no uomo di Dio scenda un fuoco dal cielo e divori te e i tuoi cinquanta». Scese il fuoco di Dio dal cielo e divorò lui e i suoi cinquanta. Il re mandò ancora un terzo comandante di cinquanta con i suoi cinquanta uomini. Questo terzo comandante di cinquanta salì e giunto cadde in ginocchio d avanti a Elia e lo supplicò: «Uomo di Dio sia preziosa ai tuoi occhi la mia vita e la vita di questi tu oi cinquanta servi. Ecco è sceso un fuoco dal cielo e ha divorato i due primi comandanti di cinqu anta con i loro uomini. Ora la mia vita sia preziosa ai tuoi occhi». L’angelo del Signore disse a Eli a: «Scendi con lui e non aver paura di lui». Si alzò e scese con lui dal re e gli disse: «Così dice il Si gnore: “Poiché hai mandato messaggeri a consultare Baal-Zebù b dio di Ekron –
non c’è forse un Dio in Israele per consultare la sua parola? –
per questo dal letto su cui sei salito non scenderai ma certamente morirai”». Difatti morì secon do la parola del Signore pronunciata da Elia. Al suo posto divenne re suo fratello Ioram nell’ann o secondo di Ioram figlio di Giòsafat re di Giuda perché egli non aveva un figlio. Le altre gesta co mpiute da Acazia non sono forse descritte nel libro delle Cronache dei re d’Israele? Quando il Si gnore stava per far salire al cielo in un turbine Elia questi partì da Gàlgala con Eliseo. Elia disse a Eliseo: «Rimani qui perché il Signore mi manda fino a Betel». Eliseo rispose: «Per la vita del Sign ore e per la tua stessa vita non ti lascerò». Scesero a Betel. I figli dei profeti che erano a Betel an darono incontro a Eliseo e gli dissero: «Non sai tu che oggi il Signore porterà via il tuo signore al di sopra della tua testa?». Ed egli rispose: «Lo so anch’io; tacete!». Elia gli disse: «Eliseo rimani q ui perché il Signore mi manda a Gerico». Egli rispose: «Per la vita del Signore e per la tua stessa vita non ti lascerò» e andarono a Gerico. I figli dei profeti che erano a Gerico si avvicinarono a El iseo e gli dissero: «Non sai tu che oggi il Signore porterà via il tuo signore al di sopra della tua te sta?». Rispose: «Lo so anch’io; tacete!». Elia gli disse: «Rimani qui, perché il Signore mi manda a l Giordano». Egli rispose: «Per la vita del Signore e per la tua stessa vita non ti lascerò». E proce dettero insieme. Cinquanta uomini tra i figli dei profeti li seguirono e si fermarono di fronte a di stanza; loro due si fermarono al Giordano. Elia prese il suo mantello l’arrotolò e percosse le acq ue che si divisero di qua e di là loro due passarono sull’asciutto. Appena furono passati Elia diss e a Eliseo: «Domanda che cosa io debba fare per te, prima che sia portato via da te». Eliseo risp ose: «Due terzi del tuo spirito siano in me». Egli soggiunse: «Tu pretendi una cosa difficile! Sia p er te così se mi vedrai quando sarò portato via da te; altrimenti non avverrà». Mentre continuav ano a camminare conversando ecco un carro di fuoco e cavalli di fuoco si interposero fra loro d ue. Elia salì nel turbine verso il cielo. Eliseo guardava e gridava: «Padre mio padre mio carro d’Is
raele e suoi destrieri!». E non lo vide più. Allora afferrò le proprie vesti e le lacerò in due pezzi.
Quindi raccolse il mantello che era caduto a Elia e tornò indietro fermandosi sulla riva del Giord ano. Prese il mantello che era caduto a Elia e percosse le acque dicendo: «Dov’è il Signore Dio di Elia?». Quando anch’egli ebbe percosso le acque queste si divisero di qua e di là ed Eliseo le att raversò. Se lo videro di fronte i figli dei profeti di Gerico e dissero: «Lo spirito di Elia si è posato s u Eliseo». Gli andarono incontro e si prostrarono a terra davanti a lui. Gli dissero: «Ecco fra i tuo i servi ci sono cinquanta uomini vigorosi; potrebbero andare a cercare il tuo signore nel caso ch e lo spirito del Signore l’abbia preso e gettato su qualche monte o in qualche valle». Egli disse: «
Non mandateli!». Insistettero tanto con lui che egli disse: «Mandateli!». Mandarono cinquanta uomini che cercarono per tre giorni ma non lo trovarono. Tornarono da Eliseo che stava a Geric o. Egli disse loro: «Non vi avevo forse detto: “Non andate”?». Gli uomini della città dissero a Elis eo: «Ecco è bello soggiornare in questa città come il mio signore può constatare ma le acque so no cattive e la terra provoca aborti». Ed egli disse: «Prendetemi una scodella nuova e mettetevi del sale». Gliela portarono. Eliseo si recò alla sorgente delle acque e vi versò il sale dicendo: «Co sì dice il Signore: “Rendo sane queste acque; da esse non verranno più né morte né aborti”». Le acque rimasero sane fino ad oggi secondo la parola pronunciata da Eliseo. Di lì Eliseo salì a Bete l. Mentre egli andava per strada uscirono dalla città alcuni ragazzetti che si burlarono di lui dice ndo: «Sali calvo! Sali calvo!». Egli si voltò li guardò e li maledisse nel nome del Signore. Allora us cirono dalla foresta due orse che sbranarono quarantadue di quei bambini. Di là egli andò al mo nte Carmelo e quindi tornò a Samaria. Ioram figlio di Acab divenne re su Israele a Samaria l’ann o diciottesimo di Giòsafat re di Giuda. Ioram regnò dodici anni. Fece ciò che è male agli occhi de l Signore ma non come suo padre e sua madre. Egli allontanò la stele di Baal che aveva fatto suo padre. Ma restò legato senza allontanarsene ai peccati che Geroboamo, figlio di Nebat aveva fa tto commettere a Israele. Il re di Moab Mesa era un allevatore di pecore. Egli inviava come tribu to al re d’Israele centomila agnelli e la lana di centomila arieti. Ma alla morte di Acab il re di Mo ab si ribellò al re d’Israele. Un giorno il re Ioram uscì da Samaria e passò in rassegna tutto Israel e. Dopo essere partito mandò a dire a Giòsafat re di Giuda: «Il re di Moab si è ribellato contro di me; verresti con me alla guerra contro Moab?». Egli rispose: «Verrò conta su di me come su di te sul mio popolo come sul tuo sui miei cavalli come sui tuoi». «Per quale strada saliremo?», do mandò Giòsafat. L’altro rispose: «Per la strada del deserto di Edom». Allora si avviarono in marc ia il re d’Israele il re di Giuda e il re di Edom. Girarono per sette giorni. Non c’era acqua per l’ese rcito né per le bestie che lo seguivano. Il re d’Israele disse: «Ohimè! Il Signore ha chiamato ques ti tre re per consegnarli nelle mani di Moab». Giòsafat disse: «Non c’è qui un profeta del Signor e per mezzo del quale possiamo consultare il Signore?». Rispose uno dei servi del re d’Israele: «
C’è qui Eliseo figlio di Safat che versava l’acqua sulle mani di Elia». Giòsafat disse: «La parola del Signore è in lui». Scesero da lui il re d’Israele Giòsafat e il re di Edom. Eliseo disse al re d’Israele:
«Che cosa c’è tra me e te? Va’ dai profeti di tuo padre e dai profeti di tua madre!». Il re d’Israel e gli disse: «No, perché il Signore ha chiamato questi tre re per consegnarli nelle mani di Moab»

. Eliseo disse: «Per la vita del Signore degli eserciti alla cui presenza io sto se non fosse per il risp etto che provo verso Giòsafat re di Giuda a te non avrei neppure badato né ti avrei guardato. Or a andate a prendermi un suonatore di cetra». Mentre il suonatore suonava il suo strumento la mano del Signore fu sopra Eliseo. Egli annunciò: «Così dice il Signore: “Scavate molte fosse in qu esto alveo”. Infatti così dice il Signore: “Voi non vedrete vento non vedrete pioggia, eppure que st’alveo si riempirà d’acqua; berrete voi il vostro bestiame minuto e i vostri giumenti”. Ciò è poc a cosa agli occhi del Signore: egli consegnerà anche Moab nelle vostre mani. Voi colpirete tutte l e città fortificate e tutte le città principali abbatterete ogni albero buono e ostruirete tutte le so rgenti d’acqua rovinerete tutti i campi riempiendoli di pietre». Al mattino nell’ora dell’offerta d el sacrificio ecco venire acqua dalla direzione di Edom; la terra si riempì d’acqua. Tutti i Moabiti udito che erano saliti i re per fare loro guerra radunarono chiunque sapesse portare un’arma e s i schierarono sulla frontiera. I Moabiti si alzarono presto al mattino quando il sole splendeva sull e acque e videro da lontano le acque rosse come sangue. Esclamarono: «Quello è sangue! I re si sono scontrati e l’uno ha ucciso l’altro. Ebbene Moab alla preda!». Andarono dunque nell’acca mpamento d’Israele. Ma gli Israeliti insorsero e sconfissero i Moabiti che fuggirono davanti a lor o. Li inseguirono e sconfissero i Moabiti. Demolirono le città in ogni campo buono ognuno gettò la sua pietra fino a riempirlo ostruirono tutte le sorgenti d’acqua e abbatterono ogni albero bu ono fino a lasciare a Kir-Carèset solo le sue pietre: i frombolieri l’aggirarono e l’assalirono. Il re di Moab visto che la guer ra era superiore alle sue forze prese con sé settecento uomini che maneggiavano la spada per a prirsi un passaggio verso il re di Edom ma non ci riuscì. Allora prese il figlio primogenito che dov eva regnare dopo di lui e l’offrì in olocausto sulle mura. Si scatenò una grande ira contro gli Isra eliti che si allontanarono da lui e tornarono nella loro terra. Una donna una delle mogli dei figli dei profeti gridò a Eliseo: «Mio marito, tuo servo è morto; tu sai che il tuo servo temeva il Signo re. Ora è venuto il creditore per prendersi come schiavi i miei due bambini». Eliseo le disse: «Ch e cosa posso fare io per te? Dimmi che cosa hai in casa». Quella rispose: «In casa la tua serva no n ha altro che un orcio d’olio». Le disse: «Va’ fuori a chiedere vasi da tutti i tuoi vicini: vasi vuoti e non pochi! Poi entra in casa e chiudi la porta dietro a te e ai tuoi figli. Versa olio in tutti quei v asi e i pieni mettili da parte». Si allontanò da lui e chiuse la porta dietro a sé e ai suoi figli; questi le porgevano e lei versava. Quando i vasi furono pieni disse a suo figlio: «Porgimi ancora un vas o». Le rispose: «Non ce ne sono più ». L’olio cessò. Ella andò a riferire la cosa all’uomo di Dio ch e le disse: «Va’ vendi l’olio e paga il tuo debito; tu e i tuoi figli vivete con quanto ne resterà». Un giorno Eliseo passava per Sunem ove c’era un’illustre donna che lo trattenne a mangiare. In seg uito tutte le volte che passava si fermava a mangiare da lei. Ella disse al marito: «Io so che è un uomo di Dio un santo colui che passa sempre da noi. Facciamo una piccola stanza superiore in muratura mettiamoci un letto un tavolo una sedia e un candeliere; così venendo da noi vi si pot rà ritirare». Un giorno che passò di lì si ritirò nella stanza superiore e si coricò. Egli disse a Giezi s uo servo: «Chiama questa Sunammita». La chiamò e lei si presentò a lui. Eliseo disse al suo serv
o: «Dille tu: “Ecco hai avuto per noi tutta questa premura; che cosa possiamo fare per te? C’è fo rse bisogno di parlare in tuo favore al re o al comandante dell’esercito?”». Ella rispose: «Io vivo tranquilla con il mio popolo». Eliseo replicò: «Che cosa si può fare per lei?». Giezi disse: «Purtro ppo lei non ha un figlio e suo marito è vecchio». Eliseo disse: «Chiamala!». La chiamò ella si fer mò sulla porta. Allora disse: «L’anno prossimo in questa stessa stagione tu stringerai un figlio fr a le tue braccia». Ella rispose: «No mio signore uomo di Dio non mentire con la tua serva». Ora l a donna concepì e partorì un figlio nel tempo stabilito in quel periodo dell’anno come le aveva d etto Eliseo. Il bambino crebbe e un giorno uscì per andare dal padre presso i mietitori. Egli disse a suo padre: «La mia testa la mia testa!». Il padre ordinò a un servo: «Portalo da sua madre». Q
uesti lo prese e lo portò da sua madre. Il bambino sedette sulle ginocchia di lei fino a mezzogior no poi morì. Ella salì a coricarlo sul letto dell’uomo di Dio; chiuse la porta e uscì. Chiamò il marit o e gli disse: «Mandami per favore uno dei servi e un’asina; voglio correre dall’uomo di Dio e tor nerò subito». Quello domandò: «Perché vuoi andare da lui oggi? Non è il novilunio né sabato».
Ma lei rispose: «Addio». Sellò l’asina e disse al proprio servo: «Conducimi cammina non tratten ermi nel cavalcare a meno che non te lo ordini io». Si incamminò giunse dall’uomo di Dio sul mo nte Carmelo. Quando l’uomo di Dio la vide da lontano disse a Giezi suo servo: «Ecco la Sunammi ta! Su corrile incontro e domandale: “Stai bene? Tuo marito sta bene? E tuo figlio sta bene?”».
Quella rispose: «Bene!». Giunta presso l’uomo di Dio sul monte gli afferrò i piedi. Giezi si avvicin ò per tirarla indietro ma l’uomo di Dio disse: «Lasciala stare, perché il suo animo è amareggiato e il Signore me ne ha nascosto il motivo; non me l’ha rivelato». Ella disse: «Avevo forse domand ato io un figlio al mio signore? Non ti dissi forse: “Non mi ingannare”?». Eliseo disse a Giezi: «Ci ngi i tuoi fianchi prendi in mano il mio bastone e parti. Se incontrerai qualcuno non salutarlo; se qualcuno ti saluta non rispondergli. Metterai il mio bastone sulla faccia del ragazzo». La madre del ragazzo disse: «Per la vita del Signore e per la tua stessa vita non ti lascerò». Allora egli si alz ò e la seguì. Giezi li aveva preceduti; aveva posto il bastone sulla faccia del ragazzo ma non c’era stata voce né reazione. Egli tornò incontro a Eliseo e gli riferì: «Il ragazzo non si è svegliato». Eli seo entrò in casa. Il ragazzo era morto coricato sul letto. Egli entrò chiuse la porta dietro a loro due e pregò il Signore. Quindi salì e si coricò sul bambino; pose la bocca sulla bocca di lui gli occ hi sugli occhi di lui le mani sulle mani di lui si curvò su di lui e il corpo del bambino riprese calore
. Quindi desistette e si mise a camminare qua e là per la casa; poi salì e si curvò su di lui. Il ragaz zo starnutì sette volte poi aprì gli occhi. Eliseo chiamò Giezi e gli disse: «Chiama questa Sunamm ita!». La chiamò e quando lei gli giunse vicino le disse: «Prendi tuo figlio!». Quella entrò cadde a i piedi di lui si prostrò a terra prese il figlio e uscì. Eliseo tornò a Gàlgala. Nella regione c’era care stia. Mentre i figli dei profeti stavano seduti davanti a lui egli disse al suo servo: «Metti la pentol a grande e cuoci una minestra per i figli dei profeti». Uno di essi andò in campagna per cogliere erbe selvatiche e trovò una specie di vite selvatica: da essa colse zucche agresti e se ne riempì il mantello. Ritornò e gettò i frutti a pezzi nella pentola della minestra non sapendo che cosa foss ero. Si versò da mangiare agli uomini che appena assaggiata la minestra gridarono: «Nella pent
ola c’è la morte uomo di Dio!». Non ne potevano mangiare. Allora Eliseo ordinò: «Andate a pre ndere della farina». Versatala nella pentola disse: «Danne da mangiare a questa gente». Non c’
era più nulla di cattivo nella pentola. Da Baal-
Salisà venne un uomo che portò pane di primizie all’uomo di Dio: venti pani d’orzo e grano nove llo che aveva nella bisaccia. Eliseo disse: «Dallo da mangiare alla gente». Ma il suo servitore diss e: «Come posso mettere questo davanti a cento persone?». Egli replicò: «Dallo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore: “Ne mangeranno e ne faranno avanzare”». Lo pose davanti a quelli, che mangiarono e ne fecero avanzare secondo la parola del Signore. Naamàn comandant e dell’esercito del re di Aram era un personaggio autorevole presso il suo signore e stimato perc hé per suo mezzo il Signore aveva concesso la salvezza agli Aramei. Ma quest’uomo prode era le bbroso. Ora bande aramee avevano condotto via prigioniera dalla terra d’Israele una ragazza ch e era finita al servizio della moglie di Naamàn. Lei disse alla padrona: «Oh se il mio signore pote sse presentarsi al profeta che è a Samaria certo lo libererebbe dalla sua lebbra». Naamàn andò a riferire al suo signore: «La ragazza che proviene dalla terra d’Israele ha detto così e così». Il re di Aram gli disse: «Va’ pure io stesso invierò una lettera al re d’Israele». Partì dunque prendend o con sé dieci talenti d’argento seimila sicli d’oro e dieci mute di abiti. Portò la lettera al re d’Isr aele nella quale si diceva: «Orbene insieme con questa lettera ho mandato da te Naamàn mio ministro perché tu lo liberi dalla sua lebbra». Letta la lettera il re d’Israele si stracciò le vesti dic endo: «Sono forse Dio per dare la morte o la vita perché costui mi ordini di liberare un uomo da lla sua lebbra? Riconoscete e vedete che egli evidentemente cerca pretesti contro di me». Quan do Eliseo uomo di Dio seppe che il re d’Israele si era stracciate le vesti, mandò a dire al re: «Perc hé ti sei stracciato le vesti? Quell’uomo venga da me e saprà che c’è un profeta in Israele». Naa màn arrivò con i suoi cavalli e con il suo carro e si fermò alla porta della casa di Eliseo. Eliseo gli mandò un messaggero per dirgli: «Va’ bàgnati sette volte nel Giordano: il tuo corpo ti ritornerà sano e sarai purificato». Naamàn si sdegnò e se ne andò dicendo: «Ecco io pensavo: “Certo verr à fuori e stando in piedi invocherà il nome del Signore suo Dio, agiterà la sua mano verso la part e malata e toglierà la lebbra”. Forse l’Abanà e il Parpar fiumi di Damasco non sono migliori di tu tte le acque d’Israele? Non potrei bagnarmi in quelli per purificarmi?». Si voltò e se ne partì adir ato. Gli si avvicinarono i suoi servi e gli dissero: «Padre mio se il profeta ti avesse ordinato una g ran cosa non l’avresti forse eseguita? Tanto più ora che ti ha detto: “Bàgnati e sarai purificato”»
. Egli allora scese e si immerse nel Giordano sette volte secondo la parola dell’uomo di Dio e il s uo corpo ridivenne come il corpo di un ragazzo; egli era purificato. Tornò con tutto il seguito dal l’uomo di Dio; entrò e stette davanti a lui dicendo: «Ecco ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele. Adesso accetta un dono dal tuo servo». Quello disse: «Per la vita del Signore al la cui presenza io sto non lo prenderò». L’altro insisteva perché accettasse ma egli rifiutò. Allora Naamàn disse: «Se è no sia permesso almeno al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne porta una coppia di muli perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrific io ad altri dèi ma solo al Signore. Però il Signore perdoni il tuo servo per questa azione: quando i
l mio signore entra nel tempio di Rimmon per prostrarsi si appoggia al mio braccio e anche io mi prostro nel tempio di Rimmon mentre egli si prostra nel tempio di Rimmon. Il Signore perdoni il tuo servo per questa azione». Egli disse: «Va’ in pace». Partì da lui e fece un bel tratto di strada.
Giezi servo di Eliseo uomo di Dio disse fra sé: «Ecco il mio signore ha rinunciato a prendere dall a mano di questo arameo Naamàn ciò che egli aveva portato; per la vita del Signore gli correrò dietro e prenderò qualche cosa da lui». Giezi inseguì Naamàn. Naamàn vedendolo correre verso di sé saltò giù dal carro per andargli incontro e gli domandò: «Tutto bene?». Quello rispose: «T
utto bene. Il mio signore mi ha mandato a dirti: “Ecco proprio ora sono giunti da me due giovani dalle montagne di èfraim da parte dei figli dei profeti. Da’ loro un talento d’argento e due mute di abiti”». Naamàn disse: «è meglio che tu prenda due talenti» e insistette con lui. Chiuse due t alenti d’argento in due sacchi insieme con due mute di abiti e li diede a due suoi servi che li port arono davanti a Giezi. Giunto alla collina, questi prese dalla loro mano il tutto e lo depose in cas a quindi rimandò quegli uomini che se ne andarono. Poi egli andò a presentarsi al suo signore. E
liseo gli domandò: «Giezi da dove vieni?». Rispose: «Il tuo servo non è andato da nessuna parte
». Egli disse: «Non ero forse presente in spirito quando quell’uomo si voltò dal suo carro per ve nirti incontro? Era forse il tempo di accettare denaro e di accettare abiti oliveti vigne, bestiame minuto e grosso schiavi e schiave? Ma la lebbra di Naamàn si attaccherà a te e alla tua discende nza per sempre». Uscì da lui lebbroso bianco come la neve. I figli dei profeti dissero a Eliseo: «Ec co l’ambiente in cui abitiamo presso di te è troppo stretto per noi. Andiamo fino al Giordano pr endiamo lì una trave ciascuno e costruiamoci lì un locale dove abitare». Egli rispose: «Andate!».
Uno disse: «Dégnati di venire anche tu con i tuoi servi». Egli rispose: «Verrò». E andò con loro.
Giunti al Giordano cominciarono a tagliare gli alberi. Ora mentre uno abbatteva un tronco il ferr o della scure gli cadde nell’acqua. Egli gridò: «Oh mio signore! Era stato preso in prestito!». L’uo mo di Dio domandò: «Dov’è caduto?». Gli mostrò il posto. Eliseo allora tagliò un legno e lo gett ò in quel punto e il ferro venne a galla. Disse: «Tiratelo su!». Quello stese la mano e lo prese. Il r e di Aram combatteva contro Israele e in un consiglio con i suoi ufficiali disse che si sarebbe acc ampato in un certo luogo. L’uomo di Dio mandò a dire al re d’Israele: «Guàrdati dal passare per quel luogo perché là stanno scendendo gli Aramei». Il re d’Israele fece spedizioni nel luogo indic atogli dall’uomo di Dio e riguardo al quale egli l’aveva ammonito e là se ne stette in guardia non una né due volte soltanto. Molto turbato in cuor suo per questo fatto il re di Aram convocò i su oi ufficiali e disse loro: «Non mi potete indicare chi dei nostri è a favore del re d’Israele?». Uno degli ufficiali rispose: «No o re mio signore ma Eliseo profeta d’Israele riferisce al re d’Israele le parole che tu dici nella tua camera da letto». Quegli disse: «Andate a scoprire dov’è costui; lo m anderò a prendere». Gli fu riferito: «Ecco sta a Dotan». Egli mandò là cavalli carri e una schiera c onsistente; vi giunsero di notte e circondarono la città. Il servitore dell’uomo di Dio si alzò prest o e uscì. Ecco una schiera circondava la città con cavalli e carri. Il suo servo gli disse: «Ohimè mi o signore! Come faremo?». Egli rispose: «Non temere perché quelli che sono con noi sono più n umerosi di quelli che sono con loro». Eliseo pregò così: «Signore apri i suoi occhi perché veda». I
l Signore aprì gli occhi del servo che vide. Ecco il monte era pieno di cavalli e di carri di fuoco int orno a Eliseo. Poi scesero verso di lui ed Eliseo pregò il Signore dicendo: «Colpisci questa gente di cecità!». E il Signore li colpì di cecità secondo la parola di Eliseo. Disse loro Eliseo: «Non è que sta la strada e non è questa la città. Seguitemi e io vi condurrò dall’uomo che cercate». Egli li co ndusse a Samaria. Quando entrarono in Samaria Eliseo disse: «Signore apri gli occhi di costoro p erché vedano!». Il Signore aprì i loro occhi ed essi videro. Erano in mezzo a Samaria! Quando li v ide il re d’Israele disse a Eliseo: «Li devo colpire padre mio?». Egli rispose: «Non colpire! Sei fors e solito colpire uno che hai fatto prigioniero con la tua spada e con il tuo arco? Piuttosto metti d avanti a loro pane e acqua; mangino e bevano, poi se ne vadano dal loro signore». Si preparò pe r loro un grande pranzo. Dopo che ebbero mangiato e bevuto li congedò ed essi se ne andarono dal loro signore. Le bande aramee non penetrarono più nella terra d’Israele. Dopo tali cose Ben

Adàd re di Aram radunò tutto il suo esercito e venne ad assediare Samaria. Ci fu una grande car estia a Samaria; la strinsero d’assedio fino al punto che una testa d’asino si vendeva a ottanta si cli d’argento e un quarto di qab di guano di colomba a cinque sicli. Mentre il re d’Israele passav a sulle mura una donna gli gridò: «Salvami o re mio signore!». Rispose: «No il Signore ti salvi! Co me ti posso salvare io? Forse con il prodotto dell’aia o con quello del torchio?». Poi il re aggiuns e: «Che hai?». Quella rispose: «Questa donna mi ha detto: “Dammi tuo figlio perché lo mangia mo oggi. Mio figlio ce lo mangeremo domani”. Abbiamo cotto mio figlio e lo abbiamo mangiato.
Il giorno dopo io le ho detto: “Dammi tuo figlio perché lo mangiamo” ma essa ha nascosto suo f iglio». Quando udì le parole della donna il re si stracciò le vesti e mentre egli passava sulle mura il popolo vide che di sotto aderente al corpo portava il sacco. Egli disse: «Dio mi faccia questo e anche di peggio se oggi la testa di Eliseo figlio di Safat resterà su di lui». Eliseo stava seduto in c asa e con lui sedevano gli anziani. Il re si fece precedere da un uomo. Prima che il messaggero a rrivasse da lui egli disse agli anziani: «Vedete che quel figlio di assassino manda uno a tagliarmi l a testa! State attenti: quando arriverà il messaggero chiudete la porta; tenetelo fermo sulla por ta. Non c’è forse il rumore dei piedi del suo signore dietro di lui?». Stava ancora parlando con lo ro quando il re scese da lui e gli disse: «Ecco questa è la sventura che viene dal Signore; che cos a posso ancora sperare dal Signore?». Ma Eliseo disse: «Ascoltate la parola del Signore! Così dic e il Signore: “A quest’ora domani alla porta di Samaria un sea di farina costerà un siclo e anche due sea di orzo costeranno un siclo”». Ma lo scudiero al cui braccio il re si appoggiava rispose all
’uomo di Dio: «Già il Signore apre le cateratte in cielo! Avverrà mai una cosa simile?». Ed egli re plicò: «Ecco tu lo vedrai con i tuoi occhi, ma non ne mangerai». Ora c’erano quattro lebbrosi sul la soglia della porta. Essi dicevano fra di loro: «Perché stiamo seduti qui ad aspettare la morte?
Se decidiamo di andare in città in città c’è la carestia e vi moriremo. Se stiamo qui moriremo. Or a su, passiamo all’accampamento degli Aramei: se ci lasceranno in vita vivremo; se ci faranno m orire, moriremo». Si alzarono al crepuscolo per andare all’accampamento degli Aramei e giunse ro fino al limite del loro accampamento. Ebbene là non c’era nessuno. Il Signore aveva fatto udi
re nell’accampamento degli Aramei rumore di carri rumore di cavalli e rumore di un grande ese rcito. Essi si erano detti l’un l’altro: «Ecco il re d’Israele ha assoldato contro di noi i re degli Ittiti e i re dell’Egitto per mandarli contro di noi». Alzatisi erano fuggiti al crepuscolo lasciando le loro tende i loro cavalli e i loro asini e l’accampamento com’era; erano fuggiti per salvarsi la vita. Qu ei lebbrosi, giunti al limite dell’accampamento entrarono in una tenda e dopo aver mangiato e bevuto portarono via argento oro e vesti che andarono a nascondere. Ritornati entrarono in un’
altra tenda; portarono via tutto e andarono a nasconderlo. Ma poi si dissero l’un l’altro: «Non è giusto quello che facciamo; oggi è giorno di lieta notizia mentre noi ce ne stiamo zitti. Se attendi amo fino alla luce del mattino, potrebbe sopraggiungerci un castigo. Andiamo ora entriamo in ci ttà e annunciamolo alla reggia». Vi andarono; chiamarono i guardiani della città e riferirono loro
: «Siamo andati nell’accampamento degli Aramei; ecco non c’era nessuno né c’era voce umana ma c’erano i cavalli legati e gli asini legati e le tende al loro posto». I guardiani allora gridarono e diedero la notizia all’interno della reggia. Il re si alzò nella notte e disse ai suoi ufficiali: «Vi dirò quello che hanno fatto a noi gli Aramei. Sapendo che siamo affamati sono usciti dall’accampam ento per nascondersi in campagna dicendo: “Appena usciranno dalla città li prenderemo vivi e p oi entreremo in città”». Uno dei suoi ufficiali rispose: «Si prendano cinque dei cavalli superstiti c he sono rimasti in questa città –
avverrà di loro come di tutta la moltitudine d’Israele rimasta in città come di tutta la moltitudin e d’Israele che è perita –
e mandiamo a vedere». Presero allora due carri con i cavalli; il re li mandò sulle tracce dell’eser cito degli Aramei dicendo: «Andate a vedere». Andarono sulle loro tracce fino al Giordano; ecco tutta la strada era piena di abiti e di oggetti che gli Aramei avevano gettato via nella loro fuga p recipitosa. I messaggeri tornarono e riferirono al re. Allora il popolo uscì e saccheggiò l’accampa mento degli Aramei. Un sea di farina si vendette per un siclo e due sea di orzo ugualmente per un siclo secondo la parola del Signore. Il re aveva messo a guardia della porta lo scudiero al cui braccio egli si appoggiava. Calpestato dalla folla presso la porta quello morì come aveva detto l’
uomo di Dio, quando aveva parlato al re che era sceso da lui. Avvenne come aveva detto l’uomo di Dio al re: «A quest’ora domani alla porta di Samaria due sea di orzo costeranno un siclo e an che un sea di farina costerà un siclo». Lo scudiero aveva risposto all’uomo di Dio: «Già il Signore apre le cateratte in cielo! Avverrà mai una cosa simile?». E quegli aveva replicato: «Ecco tu lo v edrai con i tuoi occhi ma non ne mangerai». A lui capitò proprio questo: lo calpestò la folla alla porta ed egli morì. Eliseo aveva detto alla donna a cui aveva richiamato in vita il figlio: «àlzati e vattene con la tua famiglia; dimora da straniera dove potrai dimorare perché il Signore ha chia mato la carestia e già sta venendo sulla terra per sette anni». La donna si era alzata e aveva fatt o come aveva detto l’uomo di Dio. Se n’era andata con la sua famiglia e aveva dimorato da stra niera nella terra dei Filistei per sette anni. Al termine dei sette anni la donna tornò dalla terra d ei Filistei e si recò dal re per reclamare la sua casa e il suo campo. Il re stava parlando con Giezi servo dell’uomo di Dio e diceva: «Narrami tutte le grandi cose compiute da Eliseo». Costui stava
narrando al re come aveva richiamato in vita il morto quand’ecco si rivolse al re la donna della quale aveva richiamato in vita il figlio per la sua casa e il suo campo. Giezi disse: «O re mio signo re questa è la donna e questo è il figlio che Eliseo ha richiamato in vita». Il re interrogò la donna che gli narrò il fatto. Il re le mise a disposizione un cortigiano dicendo: «Restituiscile quanto le a ppartiene e la rendita intera del campo dal giorno in cui lasciò la terra fino ad ora». Eliseo andò a Damasco. A Ben-Adàd re di Aram che era ammalato fu riferito: «L’uomo di Dio è venuto fin qui». Il re disse a Caz aèl: «Prendi con te un dono e va’ incontro all’uomo di Dio e per suo mezzo interroga il Signore d icendo: “Guarirò da questa malattia?”». Cazaèl gli andò incontro prendendo con sé in regalo tut te le cose migliori di Damasco un carico di quaranta cammelli. Arrivato stette davanti a lui e gli disse: «Tuo figlio Ben-Adàd re di Aram mi ha mandato da te con la domanda: “Guarirò da questa malattia?”». Eliseo gl i disse: «Va’ a dirgli: “Guarirai di sicuro”. Ma il Signore mi ha mostrato che egli certamente mori rà». Poi immobilizzò il suo volto e irrigidì il suo sguardo fino all’estremo e alla fine l’uomo di Dio si mise a piangere. Cazaèl disse: «Per quale motivo il mio signore piange?». Egli rispose: «Perch é so quanto male farai agli Israeliti: brucerai le loro fortezze ucciderai di spada i loro giovani sfra cellerai i loro bambini sventrerai le loro donne incinte». Cazaèl disse: «Che cos’è il tuo servo qu esto cane per poter fare una cosa così enorme?». Eliseo rispose: «Il Signore mi ha mostrato che tu sarai re di Aram». Quello partì da Eliseo e ritornò dal suo padrone che gli domandò: «Che cos a ti ha detto Eliseo?». Rispose: «Mi ha detto: “Guarirai di sicuro”». Il giorno dopo costui prese u na coperta l’immerse nell’acqua e poi la stese sulla faccia del re che morì. Al suo posto divenne re Cazaèl. Nell’anno quinto di Ioram figlio di Acab re d’Israele divenne re Ioram figlio di Giòsafat re di Giuda. Quando divenne re aveva trentadue anni; regnò a Gerusalemme otto anni. Seguì la via dei re d’Israele come aveva fatto la casa di Acab perché sua moglie era figlia di Acab. Fece ci ò che è male agli occhi del Signore. Ma il Signore non volle distruggere Giuda a causa di Davide s uo servo secondo la promessa fattagli di lasciare sempre una lampada per lui e per i suoi figli. N
ei suoi giorni Edom si ribellò al dominio di Giuda e si elesse un re. Allora Ioram sconfinò verso Sa ir con tutti i suoi carri. Egli si mosse di notte e sconfisse gli Edomiti che l’avevano accerchiato ins ieme con i comandanti dei carri; così il popolo fuggì nelle tende. Tuttavia Edom si è sottratto al dominio di Giuda fino ad oggi. In quel tempo anche Libna si ribellò. Le altre gesta di Ioram e tutt e le sue azioni non sono forse descritte nel libro delle Cronache dei re di Giuda? Ioram si addor mentò con i suoi padri fu sepolto con i suoi padri nella Città di Davide e al suo posto divenne re suo figlio Acazia. Nell’anno dodicesimo di Ioram figlio di Acab re d’Israele divenne re Acazia, figli o di Ioram re di Giuda. Quando divenne re Acazia aveva ventidue anni; regnò un anno a Gerusal emme. Sua madre si chiamava Atalia ed era figlia di Omri re d’Israele. Seguì la via della casa di A cab; fece ciò che è male agli occhi del Signore come la casa di Acab perché era imparentato con la casa di Acab. Egli andò alla guerra con Ioram figlio di Acab contro Cazaèl re di Aram a Ramot di Gàlaad; ma gli Aramei ferirono Ioram. Allora il re Ioram tornò a curarsi a Izreèl per le ferite ric
evute dagli Aramei a Rama mentre combatteva contro Cazaèl re di Aram. Acazia figlio di Ioram, re di Giuda scese a visitare Ioram figlio di Acab a Izreèl perché era malato. Il profeta Eliseo chia mò uno dei figli dei profeti e gli disse: «Cingiti i fianchi prendi in mano questo vasetto d’olio e va
’ a Ramot di Gàlaad. Appena giunto là cerca Ieu figlio di Giòsafat figlio di Nimsì. Entrato in casa l o farai alzare tra i suoi fratelli e lo condurrai in una camera interna. Prenderai il vasetto dell’olio e lo verserai sulla sua testa dicendo: “Così dice il Signore: Ti ungo re su Israele”. Poi aprirai la po rta e fuggirai e non aspetterai». Il giovane il servo del profeta andò a Ramot di Gàlaad. Appena giunto trovò i capi dell’esercito seduti insieme. Egli disse: «Ho una parola per te comandante». I eu disse: «Per chi fra tutti noi?». Ed egli rispose: «Per te comandante». Si alzò ed entrò in casa e quello gli versò l’olio sulla testa dicendogli: «Così dice il Signore Dio d’Israele: “Ti ungo re sul po polo del Signore su Israele. Tu colpirai la casa di Acab tuo signore; io vendicherò il sangue dei mi ei servi i profeti e il sangue di tutti i servi del Signore sparso dalla mano di Gezabele. Tutta la cas a di Acab perirà io eliminerò ad Acab ogni maschio schiavo o libero in Israele. Renderò la casa di Acab come la casa di Geroboamo figlio di Nebat e come la casa di Baasà figlio di Achia. I cani di voreranno Gezabele nel campo di Izreèl; nessuno la seppellirà”». Quindi aprì la porta e fuggì. Q
uando Ieu uscì per raggiungere gli ufficiali del suo signore gli domandarono: «Va tutto bene? Pe rché questo pazzo è venuto da te?». Egli disse loro: «Voi conoscete l’uomo e le sue chiacchiere»
. Gli dissero: «Non è vero! Su raccontaci!». Egli disse: «Mi ha parlato così e così affermando: “Co sì dice il Signore: Ti ungo re su Israele”». Allora si affrettarono e presero ciascuno il proprio man tello e lo stesero sui gradini sotto di lui suonarono il corno e gridarono: «Ieu è re». Ieu figlio di G
iòsafat figlio di Nimsì congiurò contro Ioram. Ora Ioram aveva difeso con tutto Israele Ramot di Gàlaad di fronte a Cazaèl re di Aram, poi il re Ioram era tornato a curarsi a Izreèl le ferite ricevut e dagli Aramei nella guerra contro Cazaèl re di Aram. Ieu disse: «Se tale è la vostra convinzione nessuno fugga dalla città per andare ad annunciarlo a Izreèl». Ieu salì su un carro e partì per Izre èl perché là giaceva malato Ioram e Acazia re di Giuda era sceso a visitarlo. La sentinella che sta va sulla torre di Izreèl vide la schiera di Ieu che avanzava e disse: «Vedo una schiera». Ioram diss e: «Prendi un cavaliere e mandalo loro incontro per domandare: “Tutto bene?”». Uno a cavallo andò loro incontro e disse: «Così dice il re: “Tutto bene?”». Ieu disse: «Che importa a te come v ada? Passa dietro e seguimi». La sentinella riferì: «Il messaggero è arrivato da quelli ma non tor na indietro». Il re mandò un altro cavaliere che giunto da quelli, disse: «Il re domanda: “Tutto b ene?”». Ma Ieu disse: «Che importa a te come vada? Passa dietro e seguimi». La sentinella riferì
: «è arrivato da quelli ma non torna indietro. Il modo di guidare è come quello di Ieu figlio di Ni msì: difatti guida all’impazzata». Ioram disse: «Attacca i cavalli». Attaccarono i cavalli al suo carr o. Ioram re d’Israele e Acazia re di Giuda uscirono ognuno sul proprio carro. Uscirono incontro a Ieu che trovarono nel campo di Nabot di Izreèl. Quando Ioram vide Ieu gli domandò: «Tutto be ne Ieu?». Rispose: «Come può andare tutto bene fin quando durano le prostituzioni di Gezabele tua madre e le sue numerose magie?». Allora Ioram si volse indietro e fuggì dicendo ad Acazia:
«Tradimento Acazia!». Ieu impugnato l’arco colpì Ioram tra le spalle. La freccia gli attraversò il c
uore ed egli si accasciò sul carro. Ieu disse a Bidkar suo scudiero: «Sollevalo gettalo nel campo d i Nabot di Izreèl. Ricòrdatelo: io e te eravamo con coloro che cavalcavano appaiati dietro Acab s uo padre e il Signore proferì su di lui questo oracolo: “Non ho forse visto ieri il sangue di Nabot e il sangue dei suoi figli? Oracolo del Signore. Ti ripagherò in questo stesso campo. Oracolo del S
ignore”. Sollevalo e gettalo nel campo secondo la parola del Signore». Visto ciò Acazia re di Giu da fuggì per la strada di Bet-Gan; Ieu l’inseguì e ordinò: «Colpite anche lui!». Lo colpirono sul carro nella salita di Gur nelle vi cinanze di Ibleàm. Egli fuggì a Meghiddo dove morì. I suoi ufficiali lo portarono a Gerusalemme su un carro e lo seppellirono nel suo sepolcro accanto ai suoi padri nella Città di Davide. Acazia era divenuto re di Giuda nell’anno undicesimo di Ioram figlio di Acab. Ieu arrivò a Izreèl. Appena lo seppe Gezabele si truccò gli occhi con stibio si ornò il capo e si affacciò alla finestra. Mentre I eu arrivava alla porta gli domandò: «Tutto bene Zimrì assassino del suo signore?». Ieu alzò lo sg uardo verso la finestra e disse: «Chi è con me? Chi?». Due o tre cortigiani si affacciarono a guar darlo. Egli disse: «Gettàtela giù ». La gettarono giù. Parte del suo sangue schizzò sul muro e sui c avalli che la calpestarono. Poi Ieu entrò mangiò e bevve; alla fine ordinò: «Andate a vedere quel la maledetta e seppellitela perché era figlia di re». Andati per seppellirla non trovarono altro ch e il cranio i piedi e le palme delle mani. Tornati riferirono il fatto a Ieu che disse: «è la parola del Signore che aveva detto per mezzo del suo servo Elia il Tisbita: “Nel campo di Izreèl i cani divor eranno la carne di Gezabele. E il cadavere di Gezabele sarà come letame sulla superficie della ca mpagna nel campo di Izreèl così che non si potrà più dire: Questa è Gezabele”». Acab aveva sett anta figli a Samaria. Ieu scrisse lettere e le inviò a Samaria ai capi di Izreèl agli anziani e ai tutori dei figli di Acab. In esse diceva: «Ora, quando giungerà a voi questa lettera –
voi infatti avete con voi i figli del vostro signore i carri i cavalli la città fortificata e le armi –
scegliete il figlio migliore e più retto del vostro signore e ponetelo sul trono di suo padre; comb attete per la casa del vostro signore». Quelli ebbero una grande paura e dissero: «Ecco due re n on hanno potuto resistergli; come potremmo resistergli noi?». Il maggiordomo il prefetto della città gli anziani e i tutori mandarono a Ieu questo messaggio: «Noi siamo tuoi servi; noi faremo quanto ci ordinerai. Non faremo re nessuno; fa’ quanto ti piace». Ieu scrisse loro una seconda le ttera dicendo: «Se siete dalla mia parte e se obbedite alla mia parola prendete le teste dei figli d el vostro signore e presentatevi a me domani a quest’ora a Izreèl». I figli del re erano settanta; v ivevano con i grandi della città che li allevavano. Ricevuta la lettera quelli presero i figli del re e l i ammazzarono tutti e settanta; quindi posero le loro teste in ceste e le mandarono da lui a Izre èl. Si presentò un messaggero che riferì a Ieu: «Hanno portato le teste dei figli del re». Egli disse
: «Ponetele in due mucchi alla soglia della porta fino al mattino». Il mattino dopo uscì e stando i n piedi disse a tutto il popolo: «Voi siete giusti; ecco io ho congiurato contro il mio signore e l’h o ucciso. Ma chi ha colpito tutti questi? Riconoscete dunque che non è caduta in terra nessuna delle parole del Signore annunciate per mezzo del suo servo Elia riguardo alla casa di Acab; il Sig nore ha attuato quanto aveva predetto per mezzo di Elia suo servo». Ieu colpì poi tutti i supersti
ti della casa di Acab a Izreèl tutti i suoi grandi i suoi amici e i suoi sacerdoti fino a non lasciargli a lcun superstite. Poi si alzò partì e si avviò verso Samaria. Mentre si trovava per la strada nella lo calità di Bet-Eked-dei-Pastori Ieu trovò i fratelli di Acazia, re di Giuda. Egli domandò: «Voi chi siete?». Risposero: «Sia mo fratelli di Acazia; siamo scesi per salutare i figli del re e i figli della regina madre». Egli ordinò
: «Prendeteli vivi». Li presero vivi li ammazzarono presso la cisterna di Bet-Eked; erano quarantadue e non ne risparmiò neppure uno. Partito di lì trovò Ionadàb figlio di R
ecab che gli veniva incontro; Ieu lo salutò e gli disse: «Il tuo cuore è retto come lo è il mio verso di te?». Ionadàb rispose: «Lo è». «Se lo è dammi la mano». Ionadàb gliela diede. Ieu allora lo fec e salire sul carro vicino a sé e gli disse: «Vieni con me per vedere il mio zelo per il Signore». Lo fe ce viaggiare con sé sul proprio carro. Entrò in Samaria e colpì tutti i superstiti della casa di Acab fino ad annientarli secondo la parola che il Signore aveva comunicato a Elia. Ieu radunò tutto il popolo e disse loro: «Acab ha servito Baal un poco; Ieu lo servirà molto. Ora convocatemi tutti i profeti di Baal tutti i suoi servitori e tutti i suoi sacerdoti: non ne manchi neppure uno perché in tendo offrire un grande sacrificio a Baal. Chi mancherà non sarà lasciato in vita». Ieu agiva con a stuzia per distruggere tutti i servitori di Baal. Ieu disse: «Convocate una festa solenne a Baal». L
a convocarono. Ieu inviò messaggeri per tutto Israele; si presentarono tutti i servitori di Baal e n on mancò nessuno. Entrarono nel tempio di Baal che si riempì da un’estremità all’altra. Ieu diss e al guardarobiere: «Tira fuori le vesti per tutti i servitori di Baal» ed egli le tirò fuori. Ieu accom pagnato da Ionadàb figlio di Recab entrò nel tempio di Baal e disse ai servitori di Baal: «Verificat e bene che non ci sia qui fra voi nessuno dei servitori del Signore ma che ci siano solo servitori d i Baal». Entrarono quindi per compiere sacrifici e olocausti. Ieu però aveva posto all’esterno ott anta uomini dei suoi ai quali aveva detto: «Se a qualcuno sfuggirà uno degli uomini che consegn o nelle vostre mani darà la sua vita al posto della vita di quello». Quando ebbe finito di compier e l’olocausto Ieu disse alle guardie e agli scudieri: «Entrate colpiteli. Nessuno scappi». Le guardi e e gli scudieri li colpirono a fil di spada e li gettarono via. Poi le guardie e gli scudieri andarono f ino alla cella del tempio di Baal. Portarono fuori le stele del tempio di Baal e le bruciarono. La st ele di Baal la fecero a pezzi poi demolirono il tempio di Baal e lo ridussero a latrina fino ad oggi.
Ieu fece scomparire Baal da Israele. Ma Ieu non si allontanò dai peccati che Geroboamo figlio di Nebat aveva fatto commettere a Israele e non abbandonò i vitelli d’oro che erano a Betel e a Da n. Il Signore disse a Ieu: «Poiché hai agito bene facendo ciò che è giusto ai miei occhi e hai comp iuto per la casa di Acab quanto era nel mio cuore i tuoi figli fino alla quarta generazione siedera nno sul trono d’Israele». Ma Ieu non si curò di seguire la legge del Signore Dio d’Israele con tutt o il suo cuore; non si allontanò dai peccati che Geroboamo aveva fatto commettere a Israele. In quel tempo il Signore cominciò a ridurre Israele; infatti Cazaèl sconfisse gli Israeliti in tutto il lor o territorio: dal Giordano verso oriente occupò tutta la terra di Gàlaad dei Gaditi dei Rubeniti e dei Manassiti da Aroèr che è presso il torrente Arnon fino al Gàlaad e al Basan. Le altre gesta di I eu tutte le sue azioni e la sua potenza non sono forse descritte nel libro delle Cronache dei re d’

Israele? Ieu si addormentò con i suoi padri e lo seppellirono a Samaria. Al suo posto divenne re suo figlio Ioacàz. La durata del regno di Ieu su Israele a Samaria fu di ventotto anni. Atalia madr e di Acazia visto che era morto suo figlio si accinse a sterminare tutta la discendenza regale. Ma Ioseba figlia del re Ioram e sorella di Acazia prese Ioas figlio di Acazia sottraendolo ai figli del re destinati alla morte e lo portò assieme alla sua nutrice nella camera dei letti; lo nascose così ad Atalia ed egli non fu messo a morte. Rimase nascosto presso di lei nel tempio del Signore per se i anni; intanto Atalia regnava sul paese. Il settimo anno Ioiadà mandò a chiamare i comandanti delle centinaia dei Carii e delle guardie e li fece venire presso di sé nel tempio del Signore. Egli c oncluse con loro un’alleanza facendoli giurare nel tempio del Signore; quindi mostrò loro il figlio del re. Diede loro le seguenti disposizioni: «Questo è ciò che dovrete fare: la terza parte di voi c he inizia il servizio di sabato per fare la guardia alla reggia il terzo alla porta di Sur e il terzo alla porta dietro i cursori farete insieme la guardia al tempio, mentre gli altri due gruppi di voi tutti quelli che lasciano il servizio di sabato faranno la guardia nel tempio al re. Circonderete il re ogn uno con l’arma in pugno e chi tenta di penetrare nello schieramento sia messo a morte. Sarete con il re in tutti i suoi movimenti». I comandanti delle centinaia fecero quanto aveva disposto il sacerdote Ioiadà. Ognuno prese i suoi uomini quelli che entravano in servizio il sabato e quelli c he smontavano il sabato e andarono dal sacerdote Ioiadà. Il sacerdote consegnò ai comandanti di centinaia lance e scudi già appartenenti al re Davide che erano nel tempio del Signore. Le gua rdie, ognuno con l’arma in pugno si disposero dall’angolo destro del tempio fino all’angolo sinist ro lungo l’altare e l’edificio in modo da circondare il re. Allora Ioiadà fece uscire il figlio del re e gli consegnò il diadema e il mandato; lo proclamarono re e lo unsero. Gli astanti batterono le m ani e acclamarono: «Viva il re!». Quando sentì il clamore delle guardie e del popolo Atalia si pre sentò al popolo nel tempio del Signore. Guardò ed ecco che il re stava presso la colonna second o l’usanza i comandanti e i trombettieri erano presso il re mentre tutto il popolo della terra era i n festa e suonava le trombe. Atalia si stracciò le vesti e gridò: «Congiura, congiura!». Il sacerdot e Ioiadà ordinò ai comandanti delle centinaia, preposti all’esercito: «Conducetela fuori in mezzo alle file e chiunque la segue venga ucciso di spada». Il sacerdote infatti aveva detto: «Non sia u ccisa nel tempio del Signore». Le misero addosso le mani ed essa raggiunse la reggia attraverso l
’ingresso dei Cavalli e là fu uccisa. Ioiadà concluse un’alleanza fra il Signore il re e il popolo affin ché fosse il popolo del Signore e così pure fra il re e il popolo. Tutto il popolo della terra entrò n el tempio di Baal e lo demolì ne fece a pezzi completamente gli altari e le immagini e ammazzò Mattàn sacerdote di Baal davanti agli altari. Il sacerdote Ioiadà mise sorveglianti al tempio del Si gnore. Egli prese i comandanti di centinaia i Carii le guardie e tutto il popolo della terra; costoro fecero scendere il re dal tempio del Signore e attraverso la porta delle Guardie lo condussero ne lla reggia ove egli sedette sul trono regale. Tutto il popolo della terra era in festa e la città rimas e tranquilla: Atalia era stata uccisa con la spada nella reggia. Quando divenne re Ioas aveva sett e anni. Divenne re nell’anno settimo di Ieu e regnò quarant’anni a Gerusalemme. Sua madre di Bersabea si chiamava Sibìa. Ioas fece ciò che è retto agli occhi del Signore per tutta la sua vita, p
erché lo aveva istruito il sacerdote Ioiadà. Ma non scomparvero le alture dal momento che il po polo sacrificava e offriva ancora incenso sulle alture. Ioas disse ai sacerdoti: «Tutto il denaro del le cose sacre che viene portato nel tempio del Signore il denaro corrente versato da ognuno co me riscatto della persona e tutto il denaro delle libere offerte di ciascuno al tempio del Signore l o ritirino per sé i sacerdoti ognuno dai propri addetti; ed essi riparino le parti danneggiate del te mpio ovunque vi trovino danni». Ora nell’anno ventitreesimo del re Ioas i sacerdoti non avevan o ancora riparato le parti danneggiate del tempio. Il re Ioas convocò il sacerdote Ioiadà con i sac erdoti e disse loro: «Perché non avete riparato le parti danneggiate del tempio? D’ora innanzi n on dovrete più ritirare il denaro dai vostri addetti ma lo consegnerete direttamente per le parti danneggiate del tempio». I sacerdoti acconsentirono a non ricevere più il denaro dal popolo e a non curare il restauro del tempio. Il sacerdote Ioiadà prese una cassa vi fece un buco nel coperc hio e la pose a lato dell’altare a destra di chi entra nel tempio del Signore. I sacerdoti custodi del la soglia depositavano ivi tutto il denaro portato al tempio del Signore. Quando vedevano che n ella cassa c’era molto denaro saliva lo scriba del re insieme con il sommo sacerdote ed essi racc oglievano e contavano il denaro trovato nel tempio del Signore. Consegnavano il denaro control lato nelle mani degli esecutori dei lavori sovrintendenti al tempio del Signore. Costoro lo distrib uivano ai falegnami e ai costruttori che lavoravano nel tempio del Signore ai muratori agli scalp ellini per l’acquisto di legname e pietre da taglio per riparare le parti danneggiate del tempio de l Signore e per tutto quanto era necessario per riparare il tempio. Ma con il denaro portato al te mpio del Signore non si dovevano fare nel tempio del Signore né coppe d’argento né coltelli, né vasi per l’aspersione né trombe nessun oggetto d’oro o d’argento. Esso infatti era consegnato s olo agli esecutori dei lavori perché riparassero il tempio del Signore. Non si controllavano coloro nelle cui mani veniva consegnato il denaro da dare agli esecutori dei lavori perché lavoravano c on onestà. Il denaro del sacrificio di riparazione e del sacrificio per il peccato non era portato ne l tempio del Signore ma era per i sacerdoti. In quel tempo Cazaèl re di Aram salì per combattere contro Gat e la conquistò. Poi Cazaèl si accinse a salire a Gerusalemme. Ioas re di Giuda, prese t utti gli oggetti consacrati da Giòsafat da Ioram e da Acazia suoi padri re di Giuda e quelli consacr ati da lui stesso insieme con tutto l’oro trovato nei tesori del tempio del Signore e della reggia; egli mandò tutto ciò a Cazaèl re di Aram che si allontanò da Gerusalemme. Le altre gesta di Ioas e tutte le sue azioni non sono forse descritte nel libro delle Cronache dei re di Giuda? I suoi uffic iali si sollevarono organizzando una congiura; colpirono Ioas a Bet-Millo nella discesa verso Silla. Iozabàd figlio di Simeàt e Iozabàd figlio di Somer suoi ufficiali lo c olpirono ed egli morì. Lo seppellirono con i suoi padri nella Città di Davide e al suo posto divenn e re suo figlio Amasia. Nell’anno ventitreesimo di Ioas figlio di Acazia re di Giuda Ioacàz figlio di I eu divenne re su Israele a Samaria. Egli regnò diciassette anni. Fece ciò che è male agli occhi del Signore; imitò il peccato di Geroboamo figlio di Nebat che aveva fatto peccare Israele né mai se ne allontanò. L’ira del Signore si accese contro Israele e li consegnò in mano a Cazaèl re di Aram e in mano a Ben-
Adàd figlio di Cazaèl per tutto quel tempo. Ma Ioacàz placò il volto del Signore e il Signore lo asc oltò perché aveva visto l’oppressione d’Israele: infatti il re di Aram lo opprimeva. Il Signore conc esse un salvatore a Israele che così riuscì a sfuggire al potere di Aram; gli Israeliti poterono abita re nelle loro tende come prima. Ma essi non si allontanarono dai peccati che la casa di Geroboa mo aveva fatto commettere a Israele ma li imitarono e anche il palo sacro rimase in piedi a Sam aria. Pertanto non furono lasciati soldati a Ioacàz se non cinquanta cavalli dieci carri e diecimila fanti perché li aveva distrutti il re di Aram riducendoli come la polvere che si calpesta. Le altre g esta di Ioacàz tutte le sue azioni e la sua potenza non sono forse descritte nel libro delle Cronac he dei re d’Israele? Ioacàz si addormentò con i suoi padri fu sepolto a Samaria e al suo posto div enne re suo figlio Ioas. Nell’anno trentasettesimo di Ioas re di Giuda Ioas figlio di Ioacàz divenne re su Israele a Samaria. Egli regnò sedici anni. Fece ciò che è male agli occhi del Signore; non si allontanò da tutti i peccati che Geroboamo figlio di Nebat aveva fatto commettere a Israele ma l i imitò. Le altre gesta di Ioas tutte le sue azioni e la potenza con cui combatté con Amasia, re di Giuda non sono forse descritte nel libro delle Cronache dei re d’Israele? Ioas si addormentò con i suoi padri e sul suo trono si sedette Geroboamo. Ioas fu sepolto a Samaria con i re d’Israele. Q
uando Eliseo si ammalò della malattia di cui morì Ioas re d’Israele, scese da lui scoppiò in pianto in sua presenza dicendo: «Padre mio padre mio carro d’Israele e suoi destrieri!». Eliseo gli disse
: «Va’ a prendere arco e frecce» ed egli prese arco e frecce per lui. Disse ancora Eliseo al re d’Isr aele: «Metti la tua mano sull’arco». Dopo che egli ebbe messa la mano Eliseo mise le sue mani s opra le mani del re quindi disse: «Apri la finestra verso oriente». Dopo che egli ebbe aperta la fi nestra Eliseo disse: «Tira!». Ioas tirò. Eliseo disse: «Freccia vittoriosa del Signore freccia vittorios a contro Aram. Tu colpirai Aram ad Afek sino a finirlo». Eliseo disse: «Prendi le frecce». E quand o quegli le ebbe prese, disse al re d’Israele: «Colpisci la terra» ed egli la percosse tre volte poi si fermò. L’uomo di Dio s’indignò contro di lui e disse: «Colpendo cinque o sei volte avresti colpito Aram sino a finirlo; ora invece sconfiggerai Aram solo tre volte». Eliseo morì e lo seppellirono. N
ell’anno successivo alcune bande di Moab penetrarono nella terra. Mentre seppellivano un uo mo alcuni visto un gruppo di razziatori, gettarono quell’uomo sul sepolcro di Eliseo e se ne anda rono. L’uomo venuto a contatto con le ossa di Eliseo riacquistò la vita e si alzò sui suoi piedi. Caz aèl re di Aram oppresse gli Israeliti per tutti i giorni di Ioacàz. Ma il Signore ebbe pietà di loro ne ebbe compassione e tornò a favorirli a causa della sua alleanza con Abramo Isacco e Giacobbe; non volle distruggerli e non li ha rigettati dal suo volto fino ad ora. Cazaèl re di Aram morì e al s uo posto divenne re suo figlio Ben-Adàd. Allora Ioas figlio di Ioacàz tornò a prendere a Ben-Adàd figlio di Cazaèl le città che Cazaèl aveva tolte con la guerra a suo padre Ioacàz. Ioas lo scon fisse tre volte; così recuperò le città d’Israele. Nell’anno secondo di Ioas figlio di Ioacàz re d’Isra ele Amasia figlio di Ioas divenne re di Giuda. Quando divenne re aveva venticinque anni; regnò ventinove anni a Gerusalemme. Sua madre era di Gerusalemme e si chiamava Ioaddàn. Egli fece ciò che è retto agli occhi del Signore ma non come Davide suo padre: fece come suo padre Ioas.
Solo non scomparvero le alture; il popolo ancora sacrificava e offriva incenso sulle alture. Quan
do il regno fu saldo nelle sue mani uccise i suoi ufficiali che avevano ucciso il re suo padre. Ma n on fece morire i figli degli uccisori secondo quanto è scritto nel libro della legge di Mosè ove il Si gnore prescrive: «Non si metteranno a morte i padri per una colpa dei figli né si metteranno a morte i figli per una colpa dei padri. Ognuno sarà messo a morte per il proprio peccato». Egli sc onfisse gli Edomiti nella valle del Sale in tutto diecimila. In quella guerra occupò Sela e la chiamò Iokteèl come è chiamata ancora oggi. Allora Amasia mandò messaggeri a Ioas figlio di Ioacàz fig lio di Ieu re d’Israele per dirgli: «Vieni affrontiamoci». Ioas re d’Israele, fece rispondere ad Amas ia re di Giuda: «Il cardo del Libano mandò a dire al cedro del Libano: “Da’ in moglie tua figlia a m io figlio”. Ma passò una bestia selvatica del Libano e calpestò il cardo. Hai ben colpito Edom e il tuo cuore ti ha esaltato. Sii glorioso, ma resta nella tua casa. Perché ti precipiti in una disfatta?
Potresti soccombere tu e Giuda con te». Ma Amasia non lo ascoltò. Allora Ioas re d’Israele si mo sse; si affrontarono lui e Amasia re di Giuda presso Bet-Semes che appartiene a Giuda. Giuda fu sconfitto di fronte a Israele e ognuno fuggì nella propri a tenda. Ioas re d’Israele fece prigioniero Amasia re di Giuda figlio di Ioas figlio di Acazia a Bet-Semes. Quindi andato a Gerusalemme aprì una breccia nelle mura di Gerusalemme dalla porta di èfraim fino alla porta dell’Angolo per quattrocento cubiti. Prese tutto l’oro e l’argento e tutti gli oggetti trovati nel tempio del Signore e nei tesori della reggia e gli ostaggi e tornò a Samaria.
Le altre gesta che compì Ioas la sua potenza e la guerra che combatté contro Amasia re di Giuda non sono forse descritte nel libro delle Cronache dei re d’Israele? Ioas si addormentò con i suoi padri fu sepolto a Samaria con i re d’Israele e al suo posto divenne re suo figlio Geroboamo. Am asia figlio di Ioas re di Giuda visse quindici anni dopo la morte di Ioas figlio di Ioacàz re d’Israele.
Le altre gesta di Amasia non sono forse descritte nel libro delle Cronache dei re di Giuda? Si ord ì contro di lui una congiura a Gerusalemme. Egli fuggì a Lachis ma lo fecero inseguire fino a Lach is dove l’uccisero. Lo caricarono su cavalli e fu sepolto a Gerusalemme con i suoi padri nella Citt à di Davide. Tutto il popolo di Giuda prese Azaria che aveva sedici anni e lo fece re al posto di su o padre Amasia. Egli ricostruì Elat riannettendola a Giuda dopo che il re si era addormentato co n i suoi padri. Nell’anno quindicesimo di Amasia figlio di Ioas re di Giuda Geroboamo figlio di Ioa s re d’Israele divenne re a Samaria. Egli regnò quarantun anni. Egli fece ciò che è male agli occhi del Signore; non si allontanò da nessuno dei peccati che Geroboamo figlio di Nebat aveva fatto commettere a Israele. Egli recuperò a Israele il territorio dall’ingresso di Camat fino al mare dell’
Araba secondo la parola del Signore Dio d’Israele pronunciata per mezzo del suo servo il profeta Giona figlio di Amittài di Gat-Chefer. Infatti il Signore aveva visto la miseria molto amara d’Israele: non c’era più né schiavo n é libero e Israele non aveva chi l’aiutasse. Il Signore che aveva deciso di non cancellare il nome d’Israele sotto il cielo li liberò per mezzo di Geroboamo figlio di Ioas. Le altre gesta di Geroboam o tutte le sue azioni e la potenza con cui combatté e con la quale recuperò a Israele Damasco e Camat non sono forse descritte nel libro delle Cronache dei re d’Israele? Geroboamo si addorm entò con i suoi padri con i re d’Israele e al suo posto divenne re suo figlio Zaccaria. Nell’anno ve
ntisettesimo di Geroboamo re d’Israele divenne re Azaria figlio di Amasia re di Giuda. Quando di venne re aveva sedici anni; regnò a Gerusalemme cinquantadue anni. Sua madre era di Gerusal emme e si chiamava Iecolia. Egli fece ciò che è retto agli occhi del Signore come aveva fatto Am asia suo padre. Ma non scomparvero le alture. Il popolo ancora sacrificava e offriva incenso sull e alture. Il Signore colpì il re che divenne lebbroso fino al giorno della sua morte e abitò in una c asa d’isolamento. Iotam figlio del re era a capo della reggia e governava il popolo della terra. Le altre gesta di Azaria e tutte le sue azioni non sono forse descritte nel libro delle Cronache dei re di Giuda? Azaria si addormentò con i suoi padri lo seppellirono con i suoi padri nella Città di Dav ide e al suo posto divenne re suo figlio Iotam. Nell’anno trentottesimo di Azaria re di Giuda Zacc aria figlio di Geroboamo divenne re su Israele a Samaria. Egli regnò sei mesi. Fece ciò che è mal e agli occhi del Signore come l’avevano fatto i suoi padri; non si allontanò dai peccati che Gerob oamo, figlio di Nebat aveva fatto commettere a Israele. Ma Sallum figlio di Iabes, congiurò contr o di lui lo colpì a Ibleàm lo fece morire e regnò al suo posto. Le altre gesta di Zaccaria sono descr itte nel libro delle Cronache dei re d’Israele. Questa è la parola del Signore che aveva rivolto a Ie u dicendo: «I tuoi figli siederanno sul trono d’Israele fino alla quarta generazione». E avvenne c osì. Sallum figlio di Iabes divenne re nell’anno trentanovesimo di Ozia re di Giuda; regnò un mes e a Samaria. Da Tirsa salì Menachèm figlio di Gadì, entrò a Samaria e colpì Sallum figlio di Iabes l o fece morire e divenne re al suo posto. Le altre gesta di Sallum e la congiura da lui organizzata sono descritte nel libro delle Cronache dei re d’Israele. Allora Menachèm colpì Tifsach tutto que llo che era in essa e il suo territorio a partire da Tirsa. Devastò tutto il suo territorio perché non gli avevano aperto le porte e sventrò tutte le donne incinte. Nell’anno trentanovesimo di Azaria re di Giuda Menachèm figlio di Gadì divenne re su Israele. Egli regnò dieci anni a Samaria. Fece c iò che è male agli occhi del Signore; non si allontanò dai peccati che Geroboamo figlio di Nebat, aveva fatto commettere a Israele in tutti i suoi giorni. Pul re d’Assiria invase il paese. Menachè m diede a Pul mille talenti d’argento perché l’aiutasse a consolidare nelle sue mani il potere reg ale. Per quel denaro Menachèm impose una tassa su Israele sulle persone facoltose per poterlo dare al re d’Assiria; da ognuno richiese cinquanta sicli. Così il re d’Assiria se ne andò e non rimas e là nel paese. Le altre gesta di Menachèm e tutte le sue azioni non sono forse descritte nel libr o delle Cronache dei re d’Israele? Menachèm si addormentò con i suoi padri e al suo posto dive nne re suo figlio Pekachia. Nell’anno cinquantesimo di Azaria re di Giuda Pekachia figlio di Mena chèm, divenne re su Israele a Samaria. Egli regnò due anni. Fece ciò che è male agli occhi del Sig nore; non si allontanò dai peccati che Geroboamo figlio di Nebat aveva fatto commettere a Isra ele. Contro di lui congiurò Pekach figlio di Romelia suo scudiero. Lo colpì a Samaria nel torrione della reggia insieme ad Argob e ad Ariè avendo con sé cinquanta uomini di Gàlaad; lo fece morir e e divenne re al suo posto. Le altre gesta di Pekachia e tutte le sue azioni sono descritte nel libr o delle Cronache dei re d’Israele. Nell’anno cinquantaduesimo di Azaria re di Giuda Pekach figlio di Romelia divenne re su Israele a Samaria. Egli regnò vent’anni. Fece ciò che è male agli occhi d el Signore; non si allontanò dai peccati che Geroboamo figlio di Nebat aveva fatto commettere
a Israele. Nei giorni di Pekach re d’Israele venne Tiglat-Pilèser re d’Assiria, che occupò Iion Abel-Bet-
Maacà Ianòach Kedes Asor il Gàlaad e la Galilea tutta la terra di Nèftali deportandone la popola zione in Assiria. Contro Pekach figlio di Romelia ordì una congiura Osea figlio di Ela che lo colpì e lo fece morire divenendo re al suo posto nell’anno ventesimo di Iotam figlio di Ozia. Le altre ge sta di Pekach e tutte le sue azioni sono descritte nel libro delle Cronache dei re d’Israele. Nell’an no secondo di Pekach figlio di Romelia re d’Israele divenne re Iotam, figlio di Ozia re di Giuda. Q
uando divenne re aveva venticinque anni; regnò sedici anni a Gerusalemme. Sua madre si chia mava Ierusà figlia di Sadoc. Egli fece ciò che è retto agli occhi del Signore come aveva fatto Ozia suo padre. Ma non scomparvero le alture; il popolo ancora sacrificava e offriva incenso sulle alt ure. Egli costruì la porta superiore del tempio del Signore. Le altre gesta che compì Iotam non s ono forse descritte nel libro delle Cronache dei re di Giuda? In quei giorni il Signore cominciò a f ar avanzare contro Giuda Resin re di Aram e Pekach figlio di Romelia. Iotam si addormentò con i suoi padri fu sepolto con i suoi padri nella Città di Davide suo padre e al suo posto divenne re s uo figlio Acaz. Nell’anno diciassettesimo di Pekach figlio di Romelia divenne re Acaz figlio di Iota m re di Giuda. Quando Acaz divenne re aveva vent’anni; regnò sedici anni a Gerusalemme. Non fece ciò che è retto agli occhi del Signore suo Dio come Davide suo padre. Seguì la via dei re d’Is raele; fece perfino passare per il fuoco suo figlio, secondo gli abomini delle nazioni che il Signor e aveva scacciato davanti agli Israeliti. Sacrificava e bruciava incenso sulle alture sui colli e sotto ogni albero verde. Allora Resin re di Aram e Pekach figlio di Romelia re d’Israele salirono per co mbattere contro Gerusalemme; strinsero d’assedio Acaz ma non poterono attaccare battaglia. I n quel tempo Resin re di Aram recuperò Elat ad Aram ed espulse i Giudei da Elat; poi gli Edomiti entrarono in Elat e vi si sono stabiliti fino ad oggi. Acaz mandò messaggeri a Tiglat-Pilèser re d’Assiria per dirgli: «Io sono tuo servo e tuo figlio; sali e salvami dalla mano del re di A ram e dalla mano del re d’Israele che sono insorti contro di me». Acaz preso l’argento e l’oro ch e si trovava nel tempio del Signore e nei tesori della reggia lo mandò in dono al re d’Assiria. Il re d’Assiria lo ascoltò e salì a Damasco e la prese, ne deportò la popolazione a Kir e fece morire Re sin. Il re Acaz andò incontro a Tiglat-Pilèser re d’Assiria a Damasco e, visto l’altare che si trovava a Damasco il re Acaz mandò al sacer dote Uria il disegno dell’altare e il suo modello con tutta la sua lavorazione. Il sacerdote Uria cos truì l’altare conformemente a tutte le indicazioni che il re aveva inviato da Damasco; il sacerdot e Uria fece così prima che tornasse Acaz da Damasco. Arrivato da Damasco il re si avvicinò all’alt are e vi salì bruciò sull’altare il suo olocausto e la sua offerta versò la sua libagione e sparse il sa ngue dei sacrifici di comunione a lui spettanti. Spostò l’altare di bronzo che era di fronte al Sign ore dalla facciata del tempio dal luogo tra l’altare e il tempio del Signore e lo pose al fianco dell’
altare verso settentrione. Il re Acaz ordinò al sacerdote Uria: «Sull’altare grande brucerai l’oloca usto del mattino l’offerta della sera l’olocausto del re e la sua offerta l’olocausto di tutto il popo lo della terra la sua offerta e le sue libagioni; su di esso spargerai tutto il sangue degli olocausti
e tutto il sangue dei sacrifici. Dell’altare di bronzo mi occuperò io». Il sacerdote Uria fece quant o aveva ordinato il re Acaz. Il re Acaz tagliò a pezzi le traverse dei carrelli e tolse da esse i bacini.
Fece scendere il Mare dai buoi di bronzo che lo sostenevano e lo collocò sul pavimento di pietr e. A causa del re d’Assiria egli rimosse dal tempio del Signore il portico del sabato che era stato costruito nel tempio e l’ingresso esterno del re. Le altre gesta che compì Acaz non sono forse de scritte nel libro delle Cronache dei re di Giuda? Acaz si addormentò con i suoi padri fu sepolto c on i suoi padri nella Città di Davide e al suo posto divenne re suo figlio Ezechia. Nell’anno dodice simo di Acaz re di Giuda Osea figlio di Ela divenne re su Israele a Samaria. Egli regnò nove anni.
Fece ciò che è male agli occhi del Signore ma non come i re d’Israele che l’avevano preceduto. C
ontro di lui mosse Salmanàssar re d’Assiria; Osea divenne suo vassallo e gli pagò un tributo. Ma poi il re d’Assiria scoprì una congiura di Osea; infatti questi aveva inviato messaggeri a So re d’E
gitto e non spediva più il tributo al re d’Assiria come ogni anno. Perciò il re d’Assiria lo arrestò e incatenato lo gettò in carcere. Il re d’Assiria invase tutta la terra salì a Samaria e l’assediò per tr e anni. Nell’anno nono di Osea il re d’Assiria occupò Samaria, deportò gli Israeliti in Assiria e li st abilì a Calach e presso il Cabor fiume di Gozan e nelle città della Media. Ciò avvenne perché gli I sraeliti avevano peccato contro il Signore loro Dio, che li aveva fatti uscire dalla terra d’Egitto da lle mani del faraone re d’Egitto. Essi venerarono altri dèi seguirono le leggi delle nazioni che il Si gnore aveva scacciato davanti agli Israeliti e quelle introdotte dai re d’Israele. Gli Israeliti riversa rono contro il Signore loro Dio parole non giuste e si costruirono alture in ogni loro città dalla to rre di guardia alla città fortificata. Si eressero stele e pali sacri su ogni alto colle e sotto ogni albe ro verde. Ivi su ogni altura bruciarono incenso come le nazioni che il Signore aveva scacciato da vanti a loro; fecero azioni cattive irritando il Signore. Servirono gli idoli, dei quali il Signore avev a detto: «Non farete una cosa simile!». Eppure il Signore per mezzo di tutti i suoi profeti e dei v eggenti aveva ordinato a Israele e a Giuda: «Convertitevi dalle vostre vie malvagie e osservate i miei comandi e i miei decreti secondo tutta la legge che io ho prescritto ai vostri padri e che ho trasmesso a voi per mezzo dei miei servi i profeti». Ma essi non ascoltarono anzi resero dura la l oro cervice come quella dei loro padri i quali non avevano creduto al Signore loro Dio. Rigettaro no le sue leggi e la sua alleanza che aveva concluso con i loro padri e le istruzioni che aveva dato loro; seguirono le vanità e diventarono vani seguirono le nazioni intorno a loro pur avendo il Si gnore proibito di agire come quelle. Abbandonarono tutti i comandi del Signore loro Dio; si eres sero i due vitelli in metallo fuso si fecero un palo sacro si prostrarono davanti a tutta la milizia c eleste e servirono Baal. Fecero passare i loro figli e le loro figlie per il fuoco praticarono la divina zione e trassero presagi; si vendettero per compiere ciò che è male agli occhi del Signore provoc andolo a sdegno. Il Signore si adirò molto contro Israele e lo allontanò dal suo volto e non rimas e che la sola tribù di Giuda. Neppure quelli di Giuda osservarono i comandi del Signore loro Dio ma seguirono le leggi d’Israele. Il Signore rigettò tutta la discendenza d’Israele; li umiliò e li cons egnò in mano a predoni finché non li scacciò dal suo volto. Quando aveva strappato Israele dall a casa di Davide avevano fatto re Geroboamo figlio di Nebat; poi Geroboamo aveva spinto Israe
le a staccarsi dal Signore e gli aveva fatto commettere un grande peccato. Gli Israeliti imitarono tutti i peccati che Geroboamo aveva commesso; non se ne allontanarono finché il Signore non a llontanò Israele dal suo volto come aveva detto per mezzo di tutti i suoi servi i profeti. Israele fu deportato dalla sua terra in Assiria fino ad oggi. Il re d’Assiria mandò gente da Babilonia da Cut a da Avva da Camat e da Sefarvàim e la stabilì nelle città della Samaria al posto degli Israeliti. E
quelli presero possesso della Samaria e si stabilirono nelle sue città. All’inizio del loro insediame nto non veneravano il Signore ed egli inviò contro di loro dei leoni che ne facevano strage. Allor a dissero al re d’Assiria: «Le popolazioni che tu hai trasferito e stabilito nelle città della Samaria non conoscono il culto del dio locale ed egli ha mandato contro di loro dei leoni i quali seminan o morte tra loro perché esse non conoscono il culto del dio locale». Il re d’Assiria ordinò: «Man date laggiù uno dei sacerdoti che avete deportato di là: vada vi si stabilisca e insegni il culto del dio locale». Venne uno dei sacerdoti deportati da Samaria che si stabilì a Betel e insegnava loro come venerare il Signore. Ogni popolazione si fece i suoi dèi e li mise nei templi delle alture cost ruite dai Samaritani ognuna nella città dove dimorava. Gli uomini di Babilonia si fecero Succot-Benòt gli uomini di Cuta si fecero Nergal gli uomini di Camat si fecero Asimà. Gli Avviti si fecero Nibcaz e Tartak; i Sefarvei bruciavano nel fuoco i propri figli in onore di Adrammèlec e di Anam mèlec divinità di Sefarvàim. Veneravano anche il Signore; si fecero sacerdoti per le alture scegli endoli tra di loro: prestavano servizio per loro nei templi delle alture. Veneravano il Signore e se rvivano i loro dèi secondo il culto delle nazioni dalle quali li avevano deportati. Fino ad oggi essi agiscono secondo i culti antichi: non venerano il Signore e non agiscono secondo le loro norme e il loro culto né secondo la legge e il comando che il Signore ha dato ai figli di Giacobbe a cui im pose il nome d’Israele. Il Signore aveva concluso con loro un’alleanza e aveva loro ordinato: «No n venerate altri dèi non prostratevi davanti a loro non serviteli e non sacrificate a loro, ma vene rate solo il Signore che vi ha fatto salire dalla terra d’Egitto con grande potenza e con braccio te so: a lui prostratevi e a lui sacrificate. Osservate le norme i precetti la legge e il comando che egl i ha scritto per voi mettendoli in pratica tutti i giorni; non venerate altri dèi. Non dimenticate l’a lleanza che ho concluso con voi e non venerate altri dèi ma venerate soltanto il Signore vostro D
io ed egli vi libererà dal potere di tutti i vostri nemici». Essi però non ascoltarono ma continuan o ad agire secondo il loro culto antico. Così quelle popolazioni veneravano il Signore e servivano i loro idoli e così pure i loro figli e i figli dei loro figli: come fecero i loro padri essi fanno ancora oggi. Nell’anno terzo di Osea figlio di Ela re d’Israele divenne re Ezechia figlio di Acaz re di Giuda
. Quando egli divenne re aveva venticinque anni; regnò ventinove anni a Gerusalemme. Sua ma dre si chiamava Abì figlia di Zaccaria. Fece ciò che è retto agli occhi del Signore come aveva fatt o Davide suo padre. Egli eliminò le alture e frantumò le stele tagliò il palo sacro e fece a pezzi il serpente di bronzo che aveva fatto Mosè difatti fino a quel tempo gli Israeliti gli bruciavano ince nso e lo chiamavano Necustàn. Egli confidò nel Signore Dio d’Israele. Dopo non vi fu uno come l ui tra tutti i re di Giuda né tra quelli che ci furono prima. Aderì al Signore e non si staccò da lui; osservò i precetti che il Signore aveva dato a Mosè. Il Signore fu con lui ed egli riusciva in tutto q
uello che intraprendeva. Egli si ribellò al re d’Assiria e non lo servì. Sconfisse i Filistei fino a Gaza e ai suoi territori dalla torre di guardia alla città fortificata. Nell’anno quarto del re Ezechia cioè l’anno settimo di Osea figlio di Ela re d’Israele Salmanàssar re d’Assiria salì contro Samaria e l’as sediò. Dopo tre anni la prese; nell’anno sesto di Ezechia cioè l’anno nono di Osea re d’Israele Sa maria fu presa. Il re d’Assiria deportò gli Israeliti in Assiria li collocò a Calach e presso il Cabor fiu me di Gozan e nelle città della Media. Ciò accadde perché quelli non avevano ascoltato la voce del Signore loro Dio e avevano trasgredito la sua alleanza cioè tutto quello che egli aveva ordina to a Mosè servo del Signore: non l’avevano ascoltato e non l’avevano messo in pratica. Nell’ann o quattordicesimo del re Ezechia Sennàcherib re d’Assiria, salì contro tutte le città fortificate di Giuda e le prese. Ezechia re di Giuda mandò a dire al re d’Assiria a Lachis: «Ho peccato; allontàn ati da me e io accetterò quanto mi imporrai». Il re d’Assiria impose a Ezechia re di Giuda trecent o talenti d’argento e trenta talenti d’oro. Ezechia consegnò tutto il denaro che si trovava nel te mpio del Signore e nei tesori della reggia. In quel tempo Ezechia fece a pezzi i battenti del tempi o del Signore e gli stipiti che egli stesso re di Giuda aveva ricoperto con lamine e li diede al re d’
Assiria. Il re d’Assiria mandò da Lachis a Gerusalemme dal re Ezechia il tartan, il grande eunuco e il gran coppiere con una schiera numerosa. Costoro salirono e giunsero a Gerusalemme; saliro no arrivarono e si fermarono presso il canale della piscina superiore che è nella via del campo d el lavandaio. Essi chiamarono il re e gli andarono incontro Eliakìm figlio di Chelkia il maggiordo mo Sebna lo scriba e Iòach figlio di Asaf l’archivista. Il gran coppiere disse loro: «Riferite a Ezechi a: “Così dice il grande re il re d’Assiria: Che fiducia è quella nella quale confidi? Pensi forse che l a sola parola delle labbra sia di consiglio e di forza per la guerra? Ora in chi confidi per ribellarti a me? Ecco tu confidi su questo sostegno di canna spezzata che è l’Egitto che penetra nella man o forandola a chi vi si appoggia; tale è il faraone re d’Egitto per tutti coloro che confidano in lui.
Se mi dite: Noi confidiamo nel Signore nostro Dio non è forse quello stesso del quale Ezechia eli minò le alture e gli altari ordinando alla gente di Giuda e di Gerusalemme: Vi prostrerete solo d avanti a questo altare a Gerusalemme? Ora fa’ una scommessa col mio signore re d’Assiria; io ti darò duemila cavalli se potrai mettere tuoi cavalieri su di essi. Come potrai far voltare indietro u no solo dei più piccoli servi del mio signore? Ma tu confidi nell’Egitto per i carri e i cavalieri! Ora non è forse secondo il volere del Signore che io sono salito contro questo luogo per mandarlo in rovina? Il Signore mi ha detto: Sali contro questa terra e mandala in rovina”». Eliakìm figlio di C
helkia Sebna e Iòach risposero al gran coppiere: «Per favore parla ai tuoi servi in aramaico perc hé noi lo comprendiamo; ma non parlarci in giudaico: il popolo che è sulle mura ha orecchi per s entire». Il gran coppiere replicò: «Forse il mio signore mi ha inviato per pronunciare tali parole a l tuo signore e a te e non piuttosto agli uomini che stanno sulle mura ridotti a mangiare i loro es crementi e a bere la propria urina con voi?». Il gran coppiere allora si alzò in piedi e gridò a gran voce in giudaico; parlò e disse: «Udite la parola del grande re del re d’Assiria. Così dice il re: “N
on vi inganni Ezechia poiché non potrà liberarvi dalla mia mano. Ezechia non vi induca a confida re nel Signore dicendo: Certo il Signore ci libererà questa città non sarà consegnata in mano al r
e d’Assiria”. Non ascoltate Ezechia poiché così dice il re d’Assiria: “Fate la pace con me e arrend etevi. Allora ognuno potrà mangiare i frutti della propria vigna e del proprio fico e ognuno potrà bere l’acqua della sua cisterna fino a quando io verrò per condurvi in una terra come la vostra t erra di frumento e di mosto terra di pane e di vigne terra di ulivi e di miele; così voi vivrete e no n morirete. Non ascoltate Ezechia che vi inganna dicendo: Il Signore ci libererà! Forse gli dèi dell e nazioni sono riusciti a liberare ognuno la propria terra dalla mano del re d’Assiria? Dove sono gli dèi di Camat e di Arpad? Dove gli dèi di Sefarvàim di Ena e di Ivva? Hanno forse liberato Sam aria dalla mia mano? Quali mai fra tutti gli dèi di quelle regioni hanno liberato la loro terra dalla mia mano perché il Signore possa liberare Gerusalemme dalla mia mano?”». Quelli tacquero e n on gli risposero nulla perché l’ordine del re era: «Non rispondetegli». Eliakìm figlio di Chelkia il maggiordomo Sebna lo scriba e Iòach figlio di Asaf l’archivista si presentarono a Ezechia con le v esti stracciate e gli riferirono le parole del gran coppiere. Quando udì il re Ezechia si stracciò le v esti si ricoprì di sacco e andò nel tempio del Signore. Quindi mandò Eliakìm il maggiordomo Seb na lo scriba e gli anziani dei sacerdoti ricoperti di sacco dal profeta Isaia figlio di Amoz, perché gl i dicessero: «Così dice Ezechia: “Giorno di angoscia di castigo e di disonore è questo poiché i bi mbi stanno per nascere ma non c’è forza per partorire. Forse il Signore tuo Dio udrà tutte le par ole del gran coppiere che il re d’Assiria suo signore ha inviato per insultare il Dio vivente e lo cas tigherà per le parole che il Signore tuo Dio avrà udito. Innalza ora una preghiera per quel resto c he ancora rimane”». Così i ministri del re Ezechia andarono da Isaia. Disse loro Isaia: «Riferite al vostro signore: “Così dice il Signore: Non temere per le parole che hai udito e con le quali i minis tri del re d’Assiria mi hanno ingiuriato. Ecco io infonderò in lui uno spirito tale che egli appena u drà una notizia ritornerà nella sua terra e nella sua terra io lo farò cadere di spada”». Il gran cop piere ritornò ma trovò il re d’Assiria che combatteva contro Libna; infatti aveva udito che si era allontanato da Lachis avendo avuto riguardo a Tiraka, re d’Etiopia questa notizia: «Ecco è uscito per combattere contro di te». Allora il re d’Assiria inviò di nuovo messaggeri a Ezechia dicendo:
«Così direte a Ezechia re di Giuda: “Non ti illuda il tuo Dio in cui confidi dicendo: Gerusalemme non sarà consegnata in mano al re d’Assiria. Ecco, tu sai quanto hanno fatto i re d’Assiria a tutti i territori votandoli allo sterminio. Soltanto tu ti salveresti? Gli dèi delle nazioni che i miei padri hanno devastato hanno forse salvato quelli di Gozan di Carran di Resef e i figli di Eden che eran o a Telassàr? Dove sono il re di Camat e il re di Arpad e il re della città di Sefarvàim di Ena e di Iv va?”». Ezechia prese la lettera dalla mano dei messaggeri e la lesse poi salì al tempio del Signor e l’aprì davanti al Signore e pregò davanti al Signore: «Signore Dio d’Israele che siedi sui cherubi ni tu solo sei Dio per tutti i regni della terra; tu hai fatto il cielo e la terra. Porgi Signore il tuo ore cchio e ascolta; apri Signore i tuoi occhi e guarda. Ascolta tutte le parole che Sennàcherib ha ma ndato a dire per insultare il Dio vivente. è vero Signore i re d’Assiria hanno devastato le nazioni e la loro terra, hanno gettato i loro dèi nel fuoco; quelli però non erano dèi ma solo opera di ma ni d’uomo legno e pietra: perciò li hanno distrutti. Ma ora, Signore nostro Dio salvaci dalla sua mano perché sappiano tutti i regni della terra che tu solo o Signore sei Dio». Allora Isaia figlio di
Amoz mandò a dire a Ezechia: «Così dice il Signore Dio d’Israele: “Ho udito quanto hai chiesto n ella tua preghiera riguardo a Sennàcherib re d’Assiria. Questa è la sentenza che il Signore ha pro nunciato contro di lui: Ti disprezza ti deride la vergine figlia di Sion. Dietro a te scuote il capo la f iglia di Gerusalemme. Chi hai insultato e ingiuriato? Contro chi hai alzato la voce e hai levato in alto i tuoi occhi? Contro il Santo d’Israele! Per mezzo dei tuoi messaggeri hai insultato il mio Sig nore e hai detto: Alla guida dei miei carri sono salito in cima ai monti, sugli estremi gioghi del Li bano: ne ho reciso i cedri più alti, i suoi cipressi migliori, sono penetrato nel suo angolo più rem oto, nella sua foresta lussureggiante. Io ho scavato e bevuto acque straniere, ho fatto inaridire c on la pianta dei miei piedi tutti i fiumi d’Egitto. Non l’hai forse udito? Da tempo ho preparato qu esto, da giorni remoti io l’ho progettato; ora lo eseguo. E sarai tu a ridurre in mucchi di rovine le città fortificate. I loro abitanti stremati di forza, erano atterriti e confusi, erano erba del campo, foglie verdi d’erbetta, erba di tetti grano riarso prima di diventare messe. Ti sieda esca o rientri, io lo so. Poiché il tuo infuriarti contro di me e il tuo fare arrogante è salito ai miei orecchi, porrò il mio anello alle tue narici e il mio morso alle tue labbra; ti farò tornare per la strada, per la qu ale sei venuto”. Questo sarà per te il segno: mangiate quest’anno il frutto dei semi caduti, nel se condo anno ciò che nasce da sé, nel terzo anno seminate e mietete, piantate vigne e mangiaten e il frutto. Il residuo superstite della casa di Giuda continuerà a mettere radici in basso e a frutti ficare in alto. Poiché da Gerusalemme uscirà un resto, dal monte Sion un residuo. Lo zelo del Sig nore farà questo. Perciò così dice il Signore riguardo al re d’Assiria: “Non entrerà in questa città né vi lancerà una freccia, non l’affronterà con scudi e contro essa non costruirà terrapieno. Rito rnerà per la strada per cui è venuto; non entrerà in questa città. Oracolo del Signore. Protegger ò questa città per salvarla, per amore di me e di Davide mio servo”». Ora in quella notte l’angel o del Signore uscì e colpì nell’accampamento degli Assiri centoottantacinquemila uomini. Quan do i superstiti si alzarono al mattino, ecco erano tutti cadaveri senza vita. Sennàcherib re d’Assir ia levò le tende partì e fece ritorno a Ninive dove rimase. Mentre si prostrava nel tempio di Nisr oc suo dio i suoi figli Adrammèlec e Sarèser lo colpirono di spada mettendosi quindi al sicuro nel la terra di Araràt. Al suo posto divenne re suo figlio Assarhàddon. In quei giorni Ezechia si amma lò mortalmente. Il profeta Isaia figlio di Amoz si recò da lui e gli disse: «Così dice il Signore: “Da’
disposizioni per la tua casa perché tu morirai e non vivrai”». Ezechia allora voltò la faccia verso l a parete e pregò il Signore dicendo: «Signore ricòrdati che ho camminato davanti a te con fedelt à e con cuore integro e ho compiuto ciò che è buono ai tuoi occhi». Ed Ezechia fece un gran pia nto. Prima che Isaia uscisse dal cortile centrale la parola del Signore fu rivolta a lui dicendo: «To rna indietro e riferisci a Ezechia principe del mio popolo: “Così dice il Signore Dio di Davide tuo padre: Ho udito la tua preghiera e ho visto le tue lacrime; ecco io ti guarirò: fra tre giorni salirai al tempio del Signore. Aggiungerò ai tuoi giorni quindici anni. Libererò te e questa città dalla ma no del re d’Assiria; proteggerò questa città per amore di me e di Davide mio servo”». Isaia disse
: «Andate a prendere un impiastro di fichi». Andarono a prenderlo lo posero sull’ulcera e il re gu arì. Ezechia disse a Isaia: «Qual è il segno che il Signore mi guarirà e che fra tre giorni salirò al te
mpio del Signore?». Isaia rispose: «Da parte del Signore questo ti sia come segno che il Signore manterrà questa promessa che ti ha fatto: vuoi che l’ombra avanzi di dieci gradi oppure che retr oceda di dieci gradi?». Ezechia disse: «è facile per l’ombra allungarsi di dieci gradi. Non così! L’o mbra deve tornare indietro di dieci gradi». Il profeta Isaia invocò il Signore che fece tornare indi etro di dieci gradi l’ombra sulla meridiana che era già scesa sull’orologio di Acaz. In quel tempo Merodac-Baladàn figlio di Baladàn re di Babilonia mandò lettere e un dono a Ezechia perché aveva sentit o che Ezechia era stato malato. Ezechia ne fu molto lieto e mostrò agli inviati tutto il tesoro l’arg ento e l’oro gli aromi e l’olio prezioso il suo arsenale e quanto si trovava nei suoi magazzini; non ci fu nulla che Ezechia non mostrasse loro nella reggia e in tutto il suo regno. Allora il profeta Is aia si presentò al re Ezechia e gli domandò: «Che cosa hanno detto quegli uomini e da dove son o venuti a te?». Ezechia rispose: «Sono venuti da una regione lontana da Babilonia». Quegli sog giunse: «Che cosa hanno visto nella tua reggia?». Ezechia rispose: «Hanno visto quanto si trova nella mia reggia; non c’è nulla nei miei magazzini che io non abbia mostrato loro». Allora Isaia di sse a Ezechia: «Ascolta la parola del Signore: “Ecco verranno giorni nei quali tutto ciò che si trov a nella tua reggia e ciò che hanno accumulato i tuoi padri fino ad oggi verrà portato a Babilonia; non resterà nulla dice il Signore. Prenderanno i figli che da te saranno usciti e che tu avrai gener ato, per farne eunuchi nella reggia di Babilonia”». Ezechia disse a Isaia: «Buona è la parola del Si gnore che mi hai riferita». Egli pensava: «Perché no? Almeno vi saranno pace e stabilità nei miei giorni». Le altre gesta di Ezechia tutta la sua potenza la costruzione della piscina e del canale pe r introdurre l’acqua nella città non sono forse descritte nel libro delle Cronache dei re di Giuda?
Ezechia si addormentò con i suoi padri e al suo posto divenne re suo figlio Manasse. Quando div enne re Manasse aveva dodici anni; regnò cinquantacinque anni a Gerusalemme. Sua madre si chiamava Chefsiba. Fece ciò che è male agli occhi del Signore, secondo gli abomini delle nazioni che il Signore aveva scacciato davanti agli Israeliti. Costruì di nuovo le alture che suo padre Ezec hia aveva demolito eresse altari a Baal, fece un palo sacro come l’aveva fatto Acab re d’Israele.
Si prostrò davanti a tutto l’esercito del cielo e lo servì. Costruì altari nel tempio del Signore, rigu ardo al quale il Signore aveva detto: «A Gerusalemme porrò il mio nome». Eresse altari a tutto l’
esercito del cielo nei due cortili del tempio del Signore. Fece passare suo figlio per il fuoco si affi dò a vaticini e presagi istituì negromanti e indovini. Compì in molte maniere ciò che è male agli occhi del Signore, provocando il suo sdegno. Collocò l’immagine di Asera che aveva fatto scolpir e, nel tempio riguardo al quale il Signore aveva detto a Davide e a Salomone suo figlio: «In ques to tempio e a Gerusalemme che ho scelto fra tutte le tribù d’Israele porrò il mio nome per semp re. Non permetterò più che il piede degli Israeliti erri lontano dal suolo che io ho dato ai loro pa dri purché si impegnino a osservare tutto quello che ho comandato loro secondo tutta la legge c he ha prescritto loro il mio servo Mosè». Ma essi non ascoltarono. Manasse li spinse a fare pegg io delle nazioni che il Signore aveva estirpato davanti agli Israeliti. Allora il Signore parlò per me zzo dei suoi servi i profeti dicendo: «Poiché Manasse re di Giuda ha compiuto tali abomini peggi
ori di tutti quelli commessi dagli Amorrei prima di lui e ha indotto a peccare anche Giuda per m ezzo dei suoi idoli, per questo dice il Signore Dio d’Israele: “Ecco io mando su Gerusalemme e su Giuda una sventura tale che risuonerà negli orecchi di chiunque l’udrà. Stenderò su Gerusalem me la cordicella di Samaria e il piombino della casa di Acab; asciugherò Gerusalemme come si a sciuga la scodella che una volta asciugata si rovescia sottosopra. Rigetterò il resto della mia ere dità li consegnerò in mano ai loro nemici e diventeranno preda e bottino di tutti i loro nemici pe rché hanno fatto ciò che è male ai miei occhi e mi hanno provocato a sdegno dal giorno in cui i l oro padri uscirono dall’Egitto fino ad oggi”». Manasse versò anche sangue innocente in grande quantità fino a riempirne Gerusalemme da un’estremità all’altra senza contare i peccati che ave va fatto commettere a Giuda facendo ciò che è male agli occhi del Signore. Le altre gesta di Ma nasse tutte le sue azioni e i peccati commessi non sono forse descritti nel libro delle Cronache d ei re di Giuda? Manasse si addormentò con i suoi padri fu sepolto nel giardino della sua casa nel giardino di Uzzà e al suo posto divenne re suo figlio Amon. Quando divenne re Amon aveva ven tidue anni; regnò due anni a Gerusalemme. Sua madre, di Iotba si chiamava Mesullèmet figlia di Carus. Fece ciò che è male agli occhi del Signore come Manasse suo padre. Seguì in tutto la via su cui aveva camminato suo padre e servì gli idoli che suo padre aveva servito e si prostrò dava nti ad essi. Abbandonò il Signore Dio dei suoi padri e non seguì la via del Signore. Gli ufficiali di Amon congiurarono contro di lui e l’uccisero nel suo palazzo. Ma il popolo della terra colpì quan ti avevano congiurato contro il re Amon e proclamò re al suo posto suo figlio Giosia. Le altre ges ta che compì Amon non sono forse descritte nel libro delle Cronache dei re di Giuda? Lo seppelli rono nel suo sepolcro nel giardino di Uzzà e al suo posto divenne re suo figlio Giosia. Quando di venne re Giosia aveva otto anni; regnò trentun anni a Gerusalemme. Sua madre, di Boskat si chi amava Iedidà figlia di Adaià. Fece ciò che è retto agli occhi del Signore seguendo in tutto la via d i Davide suo padre senza deviare né a destra né a sinistra. Nell’anno diciottesimo del re Giosia il re mandò Safan figlio di Asalia figlio di Mesullàm scriba nel tempio del Signore dicendo: «Sali da Chelkia il sommo sacerdote perché metta assieme il denaro depositato nel tempio del Signore c he i custodi della soglia hanno raccolto dal popolo. Lo si dia in mano agli esecutori dei lavori sov rintendenti al tempio del Signore; costoro lo diano agli esecutori dei lavori che sono nel tempio del Signore per riparare le parti danneggiate del tempio ossia ai falegnami ai costruttori e ai mu ratori per l’acquisto di legname e pietre da taglio per riparare il tempio. Tuttavia non si controlli il denaro consegnato nelle loro mani perché lavorano con onestà». Il sommo sacerdote Chelkia disse allo scriba Safan: «Ho trovato nel tempio del Signore il libro della legge». Chelkia diede il li bro a Safan che lo lesse. Lo scriba Safan quindi andò dal re e lo informò dicendo: «I tuoi servitori hanno versato il denaro trovato nel tempio e l’hanno consegnato in mano agli esecutori dei lav ori sovrintendenti al tempio del Signore». Poi lo scriba Safan annunciò al re: «Il sacerdote Chelki a mi ha dato un libro». Safan lo lesse davanti al re. Udite le parole del libro della legge il re si str acciò le vesti. Il re comandò al sacerdote Chelkia ad Achikàm figlio di Safan ad Acbor, figlio di Mi chea allo scriba Safan e ad Asaià ministro del re: «Andate, consultate il Signore per me per il po
polo e per tutto Giuda riguardo alle parole di questo libro ora trovato; grande infatti è la collera del Signore che si è accesa contro di noi perché i nostri padri non hanno ascoltato le parole di q uesto libro mettendo in pratica quanto è stato scritto per noi». Il sacerdote Chelkia insieme con Achikàm Acbor Safan e Asaià si recò dalla profetessa Culda moglie di Sallum figlio di Tikva figlio di Carcas custode delle vesti la quale abitava nel secondo quartiere di Gerusalemme; essi parlar ono con lei ed ella rispose loro: «Così dice il Signore Dio d’Israele: “Riferite all’uomo che vi ha in viati da me: Così dice il Signore: Ecco io farò venire una sciagura su questo luogo e sui suoi abita nti conformemente a tutte le parole del libro che ha letto il re di Giuda, perché hanno abbando nato me e hanno bruciato incenso ad altri dèi per provocarmi a sdegno con tutte le opere delle l oro mani; la mia collera si accenderà contro questo luogo e non si spegnerà!”. Al re di Giuda che vi ha inviati a consultare il Signore, riferirete questo: “Così dice il Signore Dio d’Israele: Quanto alle parole che hai udito, poiché il tuo cuore si è intenerito e ti sei umiliato davanti al Signore, all
’udire quanto ho proferito contro questo luogo e contro i suoi abitanti per farne motivo di orror e e di maledizione e ti sei stracciato le vesti e hai pianto davanti a me anch’io ho ascoltato oraco lo del Signore! Per questo ecco io ti riunirò ai tuoi padri e sarai loro riunito nel tuo sepolcro in p ace e i tuoi occhi non vedranno tutta la sciagura che io farò venire su questo luogo”». Quelli rife rirono il messaggio al re. Il re mandò a radunare presso di sé tutti gli anziani di Giuda e di Gerus alemme. Il re salì al tempio del Signore; erano con lui tutti gli uomini di Giuda tutti gli abitanti di Gerusalemme i sacerdoti i profeti e tutto il popolo dal più piccolo al più grande. Lesse alla loro presenza tutte le parole del libro dell’alleanza trovato nel tempio del Signore. Il re in piedi press o la colonna concluse l’alleanza davanti al Signore per seguire il Signore e osservare i suoi coma ndi le istruzioni e le leggi con tutto il cuore e con tutta l’anima per attuare le parole dell’alleanza scritte in quel libro. Tutto il popolo aderì all’alleanza. Il re comandò al sommo sacerdote Chelki a ai sacerdoti del secondo ordine e ai custodi della soglia di portare fuori dal tempio del Signore tutti gli oggetti fatti in onore di Baal di Asera e di tutto l’esercito del cielo; li bruciò fuori di Geru salemme nei campi del Cedron e ne portò la cenere a Betel. Destituì i sacerdoti creati dai re di G
iuda per offrire incenso sulle alture delle città di Giuda e dei dintorni di Gerusalemme e quanti o ffrivano incenso a Baal al sole e alla luna ai segni dello zodiaco e a tutto l’esercito del cielo. Fece portare il palo sacro dal tempio del Signore fuori di Gerusalemme al torrente Cedron; lo bruciò nel torrente Cedron, lo ridusse in polvere e gettò la polvere sul sepolcro dei figli del popolo. De molì le case dei prostituti sacri che erano nel tempio del Signore e nelle quali le donne tessevan o tende per Asera. Fece venire tutti i sacerdoti dalle città di Giuda, rese impure le alture dove i s acerdoti offrivano incenso da Gheba a Bersabea; demolì l’altura dei satiri che era all’ingresso de lla porta di Giosuè governatore della città a sinistra di chi entra per la porta della città. I sacerdo ti delle alture non salivano più all’altare del Signore a Gerusalemme; tuttavia potevano mangiar e pani azzimi in mezzo ai loro fratelli. Giosia rese impuro il Tofet che si trovava nella valle di Ben

Innòm perché nessuno vi facesse passare il proprio figlio o la propria figlia per il fuoco in onore
di Moloc. Rimosse i cavalli che i re di Giuda avevano posto in onore del sole all’ingresso del tem pio del Signore presso la stanza del cortigiano Netan-Mèlec che era accanto alla loggia e diede alle fiamme i carri del sole. Demolì gli altari sulla terra zza della stanza superiore di Acaz eretti dai re di Giuda e gli altari eretti da Manasse nei due cort ili del tempio del Signore; il re li frantumò e ne gettò in fretta la polvere nel torrente Cedron. Il r e rese impure le alture che erano di fronte a Gerusalemme a destra del monte della Perdizione erette da Salomone re d’Israele in onore di Astarte obbrobrio di quelli di Sidone in onore di Cam os obbrobrio dei Moabiti e in onore di Milcom abominio degli Ammoniti. Fece a pezzi le stele e t agliò i pali sacri riempiendone il posto con ossa umane. Quanto all’altare di Betel e all’altura ere tta da Geroboamo figlio di Nebat che aveva fatto commettere peccati a Israele lo demolì insiem e con l’altura e bruciò l’altura; triturò ridusse in polvere e bruciò il palo sacro. Giosia si voltò e vi de i sepolcri che erano là sul monte; egli mandò a prendere le ossa dai sepolcri e le bruciò sull’al tare rendendolo impuro secondo la parola del Signore che aveva proclamato l’uomo di Dio qua ndo Geroboamo durante la festa stava presso l’altare. Quindi si voltò alzato lo sguardo verso il s epolcro dell’uomo di Dio che aveva proclamato queste cose Giosia domandò: «Che cos’è quel ci ppo che io vedo?». Gli uomini della città gli dissero: «è il sepolcro dell’uomo di Dio che partito d a Giuda proclamò queste cose che hai fatto riguardo all’altare di Betel». Egli disse: «Lasciatelo ri posare; nessuno rimuova le sue ossa». Così preservarono le sue ossa insieme con le ossa del pro feta venuto dalla Samaria. Giosia eliminò anche tutti i templi delle alture costruiti dai re d’Israel e nelle città della Samaria provocando a sdegno il Signore. Fece a loro riguardo quello che aveva fatto a Betel. Immolò sugli altari tutti i sacerdoti delle alture del luogo; su di essi bruciò ossa u mane. Quindi ritornò a Gerusalemme. Il re ordinò a tutto il popolo: «Celebrate la Pasqua in ono re del Signore, vostro Dio come è scritto nel libro di questa alleanza». Difatti una Pasqua simile a questa non era mai stata celebrata dal tempo dei giudici che governarono Israele ossia per tut to il periodo dei re d’Israele e dei re di Giuda. Soltanto nell’anno diciottesimo del re Giosia ques ta Pasqua fu celebrata in onore del Signore a Gerusalemme. Giosia fece poi scomparire anche i negromanti gli indovini i terafìm gli idoli e tutti gli obbrobri che erano comparsi nella terra di Gi uda e a Gerusalemme per mettere in pratica le parole della legge scritte nel libro trovato dal sac erdote Chelkia nel tempio del Signore. Prima di lui non era esistito un re che come lui si fosse co nvertito al Signore con tutto il suo cuore e con tutta la sua anima e con tutta la sua forza second o tutta la legge di Mosè dopo di lui non sorse uno come lui. Tuttavia il Signore non si ritirò dall’a rdore della sua grande ira che si era accesa contro Giuda a causa di tutte le prevaricazioni con c ui Manasse l’aveva provocato. Perciò il Signore disse: «Anche Giuda allontanerò dalla mia prese nza, come ho allontanato Israele; respingerò questa città Gerusalemme che avevo scelto e il te mpio di cui avevo detto: “Lì sarà il mio nome”». Le altre gesta di Giosia e tutte le sue azioni non sono forse descritte nel libro delle Cronache dei re di Giuda? Nei suoi giorni il faraone Necao re d’Egitto marciò per raggiungere il re d’Assiria sul fiume Eufrate. Il re Giosia gli andò incontro ma Necao lo uccise presso Meghiddo appena lo vide. I suoi ufficiali posero su un carro il morto per
portarlo da Meghiddo a Gerusalemme e lo seppellirono nel suo sepolcro. Il popolo della terra pr ese Ioacàz figlio di Giosia lo unse e lo proclamò re al posto di suo padre. Quando divenne re Ioa càz aveva ventitré anni; regnò tre mesi a Gerusalemme. Sua madre era di Libna e si chiamava C
amutàl figlia di Geremia. Fece ciò che è male agli occhi del Signore come avevano fatto i suoi pa dri. Il faraone Necao lo fece prigioniero a Ribla nel paese di Camat perché non regnasse a Gerus alemme; alla terra egli impose un tributo di cento talenti d’argento e di un talento d’oro. Il fara one Necao nominò re Eliakìm figlio di Giosia al posto di Giosia suo padre cambiandogli il nome i n Ioiakìm. Quindi prese Ioacàz. Questi andò in Egitto ove morì. Ioiakìm consegnò l’argento e l’or o al faraone in quanto aveva tassato la terra per consegnare il denaro secondo la disposizione d el faraone. Con una tassa individuale proporzionata ai beni egli riscosse l’argento e l’oro dal pop olo della terra per consegnarlo al faraone Necao. Quando divenne re Ioiakìm aveva venticinque anni; regnò undici anni a Gerusalemme. Sua madre era di Ruma e si chiamava Zebidà figlia di Pe daià. Fece ciò che è male agli occhi del Signore come avevano fatto i suoi padri. Nei suoi giorni Nabucodònosor re di Babilonia salì contro di lui e Ioiakìm gli fu sottomesso per tre anni poi di n uovo si ribellò contro di lui. Il Signore mandò contro di lui bande armate di Caldei di Aramei di Moabiti e di Ammoniti; le mandò in Giuda per annientarlo secondo la parola che il Signore avev a pronunciato per mezzo dei suoi servi i profeti. Ciò avvenne in Giuda solo per ordine del Signor e per allontanarlo dal suo volto a causa dei peccati di Manasse per tutto quel che aveva fatto e anche a causa del sangue innocente che aveva versato; infatti aveva riempito di sangue innocen te Gerusalemme. Il Signore non volle usare indulgenza. Le altre gesta di Ioiakìm e tutte le sue az ioni non sono forse descritte nel libro delle Cronache dei re di Giuda? Ioiakìm si addormentò co n i suoi padri e al suo posto divenne re suo figlio Ioiachìn. Il re d’Egitto non uscì più dalla sua ter ra perché il re di Babilonia dal torrente d’Egitto sino al fiume Eufrate aveva conquistato tutto qu ello che era appartenuto al re d’Egitto. Quando divenne re Ioiachìn aveva diciotto anni; regnò tr e mesi a Gerusalemme. Sua madre era di Gerusalemme e si chiamava Necustà figlia di Elnatàn.
Fece ciò che è male agli occhi del Signore come aveva fatto suo padre. In quel tempo gli ufficiali di Nabucodònosor re di Babilonia salirono a Gerusalemme e la città fu assediata. Nabucodònos or re di Babilonia giunse presso la città mentre i suoi ufficiali l’assediavano. Ioiachìn re di Giuda, uscì incontro al re di Babilonia con sua madre i suoi ministri i suoi comandanti e i suoi cortigiani; il re di Babilonia lo fece prigioniero nell’anno ottavo del suo regno. Asportò di là tutti i tesori de l tempio del Signore e i tesori della reggia; fece a pezzi tutti gli oggetti d’oro che Salomone re d’I sraele aveva fatto nel tempio del Signore come aveva detto il Signore. Deportò tutta Gerusalem me cioè tutti i comandanti tutti i combattenti in numero di diecimila esuli tutti i falegnami e i fa bbri; non rimase che la gente povera della terra. Deportò a Babilonia Ioiachìn; inoltre portò in e silio da Gerusalemme a Babilonia la madre del re le mogli del re i suoi cortigiani e i nobili del pa ese. Inoltre tutti gli uomini di valore in numero di settemila i falegnami e i fabbri in numero di m ille e tutti gli uomini validi alla guerra il re di Babilonia li condusse in esilio a Babilonia. Il re di Ba bilonia nominò re al posto di Ioiachìn Mattania suo zio cambiandogli il nome in Sedecìa. Quand
o divenne re Sedecìa aveva ventun anni; regnò undici anni a Gerusalemme. Sua madre era di Lib na e si chiamava Camutàl figlia di Geremia. Fece ciò che è male agli occhi del Signore come avev a fatto Ioiakìm. Ma a causa dell’ira del Signore a Gerusalemme e in Giuda le cose arrivarono a ta l punto che il Signore li scacciò dalla sua presenza. Sedecìa si ribellò al re di Babilonia. Nell’anno nono del suo regno nel decimo mese il dieci del mese Nabucodònosor, re di Babilonia con tutto il suo esercito arrivò a Gerusalemme si accampò contro di essa e vi costruirono intorno opere d’
assedio. La città rimase assediata fino all’undicesimo anno del re Sedecìa. Al quarto mese il nov e del mese quando la fame dominava la città e non c’era più pane per il popolo della terra fu ap erta una breccia nella città. Allora tutti i soldati fuggirono di notte per la via della porta tra le du e mura presso il giardino del re e mentre i Caldei erano intorno alla città presero la via dell’Arab a. I soldati dei Caldei inseguirono il re e lo raggiunsero nelle steppe di Gerico mentre tutto il suo esercito si disperse allontanandosi da lui. Presero il re e lo condussero dal re di Babilonia a Ribl a; si pronunciò la sentenza su di lui. I figli di Sedecìa furono ammazzati davanti ai suoi occhi; Na bucodònosor fece cavare gli occhi a Sedecìa lo fece mettere in catene e lo condusse a Babilonia.
Il settimo giorno del quinto mese –
era l’anno diciannovesimo del re Nabucodònosor re di Babilonia –
Nabuzaradàn capo delle guardie ufficiale del re di Babilonia entrò in Gerusalemme. Egli incendi ò il tempio del Signore e la reggia e tutte le case di Gerusalemme; diede alle fiamme anche tutt e le case dei nobili. Tutto l’esercito dei Caldei che era con il capo delle guardie demolì le mura in torno a Gerusalemme. Nabuzaradàn capo delle guardie deportò il resto del popolo che era rima sto in città i disertori che erano passati al re di Babilonia e il resto della moltitudine. Il capo delle guardie lasciò parte dei poveri della terra come vignaioli e come agricoltori. I Caldei fecero a pe zzi le colonne di bronzo che erano nel tempio del Signore i carrelli e il Mare di bronzo che erano nel tempio del Signore e ne portarono il bronzo a Babilonia. Essi presero anche i recipienti le pa lette i coltelli le coppe e tutti gli oggetti di bronzo che servivano al culto. Il capo delle guardie pr ese anche i bracieri e i vasi per l’aspersione quanto era d’oro e d’argento. Quanto alle due colon ne, all’unico Mare e ai carrelli che aveva fatto Salomone per il tempio del Signore non si poteva calcolare quale fosse il peso del bronzo di tutti questi oggetti. L’altezza di una colonna era di dici otto cubiti il capitello sopra di essa era di bronzo e l’altezza del capitello era di cinque cubiti; tut to intorno al capitello c’erano un reticolo e melagrane e il tutto era di bronzo. Così pure era l’alt ra colonna. Il capo delle guardie fece prigioniero Seraià sacerdote capo e Sofonia sacerdote del secondo ordine insieme ai tre custodi della soglia. Dalla città egli fece prigionieri un cortigiano c he era a capo dei soldati cinque uomini fra gli intimi del re i quali furono trovati nella città lo scri ba del comandante dell’esercito che arruolava il popolo della terra e sessanta uomini del popol o della terra trovati nella città. Nabuzaradàn capo delle guardie li prese e li condusse al re di Ba bilonia a Ribla. Il re di Babilonia li colpì e li fece morire a Ribla nel paese di Camat. Così fu deport ato Giuda dalla sua terra. Quanto al popolo rimasto nella terra di Giuda lasciatovi da Nabucodò nosor re di Babilonia gli fu posto a capo Godolia figlio di Achikàm figlio di Safan. Quando tutti i c
api delle bande armate e i loro uomini udirono che il re di Babilonia aveva messo a capo Godolia
, vennero da Godolia a Mispa. Essi erano: Ismaele figlio di Netania Giovanni figlio di Karèach, Se raià figlio di Tancù met il Netofatita e Iaazania figlio del Maacatita insieme con i loro uomini. Go dolia giurò a loro e ai loro uomini e disse loro: «Non temete gli ufficiali dei Caldei; rimanete nell a terra e servite il re di Babilonia e vi troverete bene». Nel settimo mese venne Ismaele figlio di Netania figlio di Elisamà di stirpe regale con dieci uomini; costoro colpirono a morte Godolia e a nche i Giudei e i Caldei che erano con lui a Mispa. Tutto il popolo dal più piccolo al più grande e i comandanti dei soldati si levarono per andare in Egitto perché avevano paura dei Caldei. Ora n ell’anno trentasettesimo della deportazione di Ioiachìn re di Giuda nel dodicesimo mese il venti sette del mese Evil-Merodàc re di Babilonia nell’anno in cui divenne re, fece grazia a Ioiachìn re di Giuda e lo liberò dalla prigione. Gli parlò con benevolenza e pose il suo trono al di sopra del trono dei re che si tr ovavano con lui a Babilonia. Gli cambiò le vesti da prigioniero e Ioiachìn prese sempre cibo alla presenza di lui per tutti i giorni della sua vita. Dal re gli venne fornito il sostentamento abituale ogni giorno per tutto il tempo della sua vita. Adamo Set Enos Kenan Maalalèl Iered Enoc Matusa lemme Lamec, Noè Sem Cam e Iafet. Figli di Iafet: Gomer Magòg Madai Iavan Tubal Mesec e Tir as. Figli di Gomer: Aschenàz Rifat e Togarmà. Figli di Iavan: Elisà, Tarsis i Chittìm e quelli di Rodi.
Figli di Cam: Etiopia Egitto Put e Canaan. Figli di Etiopia: Seba Avìla Sabta, Raamà e Sabtecà. Figli di Raamà: Saba e Dedan. Etiopia generò Nimrod: costui cominciò a essere potente sulla terra. E
gitto generò quelli di Lud Anam Laab Naftuch Patros Casluch e Caftor da dove uscirono i Filistei.
Canaan generò Sidone suo primogenito e Chet e il Gebuseo l’Amorreo il Gergeseo l’Eveo l’Arche o il Sineo, l’Arvadita il Semareo e il Camateo. Figli di Sem: Elam Assur Arpacsàd Lud e Aram. Figli di Aram: Us Ul Gheter e Mesec. Arpacsàd generò Selach e Selach generò Eber. A Eber nacquero due figli: uno si chiamò Peleg perché ai suoi tempi si divise la terra e il fratello si chiamò Ioktan.
Ioktan generò Almodàd Selef Asarmàvet Ierach, Adoràm Uzal Dikla Ebal Abimaèl Saba Ofir Avìla e Iobab. Tutti questi furono i figli di Ioktan. Sem Arpacsàd Selach Eber Peleg Reu Serug Nacor T
erach, Abram cioè Abramo. Figli di Abramo: Isacco e Ismaele. Ecco la loro discendenza: Primoge nito di Ismaele fu Nebaiòt; altri suoi figli: Kedar Adbeèl Mibsam Misma, Duma Massa Adad Tem a Ietur Nafis e Kedma; questi furono i figli di Ismaele. Figli di Keturà concubina di Abramo: essa partorì Zimran Ioksan Medan Madian, Isbak e Suach. Figli di Ioksan: Saba e Dedan. Figli di Madia n: Efa Efer Enoc Abidà ed Eldaà tutti questi furono i figli di Keturà. Abramo generò Isacco. Figli di Isacco: Esaù e Israele. Figli di Esaù: Elifaz Reuèl Ieus Ialam e Core. Figli di Elifaz: Teman Omar Sef ì, Gatam Kenaz Timna e Amalèk. Figli di Reuèl: Nacat Zerach Sammà e Mizzà. Figli di Seir: Lotan Sobal Sibeon Anà Dison Eser e Disan. Figli di Lotan: Orì e Omam. Sorella di Lotan: Timna. Figli di Sobal: Alvan Manàcat Ebal Sefì e Onam. Figli di Sibeon: Aià e Anà. Figli di Anà: Dison. Figli di Diso n: Camran Esban Itran e Cheran. Figli di Eser: Bilan Zaavan Iaakan. Figli di Dison: Us e Aran. Ques ti sono i re che regnarono nel territorio di Edom prima che regnasse un re sugli Israeliti: Bela figl io di Beor e la sua città si chiamava Dinaba. Bela morì e al suo posto regnò Iobab figlio di Zerach
da Bosra. Iobab morì e al suo posto regnò Cusam, del territorio dei Temaniti. Cusam morì e al su o posto regnò Adad figlio di Bedad, colui che vinse i Madianiti nelle steppe di Moab; la sua città si chiamava Avìt. Adad morì e al suo posto regnò Samla da Masrekà. Samla morì e al suo posto r egnò Saul da Recobòt-Naar. Saul morì e al suo posto regnò Baal-Canan, figlio di Acbor. Baal-Canan figlio di Acbor morì e al suo posto regnò Adad: la sua città si chiama Pau e la moglie si chi amava Meetabèl figlia di Matred figlia di Me-Zaab. Adad morì e ci furono allora in Edom dei capi: il capo di Timna il capo di Alva il capo di Iet et il capo di Oolibamà il capo di Ela il capo di Pinon il capo di Kenaz, il capo di Teman il capo di Mibsar il capo di Magdièl il capo di Iram. Questi furono i capi di Edom. Questi sono i figli d’Israel e: Ruben Simeone Levi Giuda ìssacar Zàbulon, Dan Giuseppe Beniamino Nèftali Gad e Aser. Figli di Giuda: Er Onan Sela; i tre gli nacquero dalla figlia di Sua la Cananea. Ma Er primogenito di Giu da si rese odioso agli occhi del Signore che perciò lo fece morire. Tamar sua nuora, gli partorì Pe res e Zerach. Totale dei figli di Giuda: cinque. Figli di Peres: Chesron e Camul. Figli di Zerach: Zim rì Etan Eman Calcol e Darda; in tutto: cinque. Figli di Carmì: Acar che provocò una disgrazia in Isr aele con la trasgressione dello sterminio. Figli di Etan: Azaria. Figli che nacquero a Chesron: Iera cmeèl Ram e Chelubài. Ram generò Amminadàb; Amminadàb generò Nacson capo dei figli di Gi uda. Nacson generò Salma; Salma generò Booz. Booz generò Obed; Obed generò Iesse. Iesse ge nerò Eliàb il primogenito Abinadàb secondo, Simeà terzo Netanèl quarto Raddài quinto Osem s esto, Davide settimo. Loro sorelle furono: Seruià e Abigàil. Figli di Seruià furono Abisài Ioab e As aèl: tre. Abigàil partorì Amasà il cui padre fu Ieter l’Ismaelita. Caleb figlio di Chesron dalla mogli e Azubà ebbe Ieriòt. Questi sono i figli di lei: Ieser Sobab e Ardon. Morta Azubà Caleb prese in m oglie Efrat che gli partorì Cur. Cur generò Urì Urì generò Besalèl. In seguito Chesron si unì alla fig lia di Machir padre di Gàlaad; egli la sposò a sessant’anni ed essa gli partorì Segub. Segub gener ò Iair cui appartennero ventitré città nella regione di Gàlaad. Ghesur e Aram presero loro i villag gi di Iair con Kenat e le dipendenze: sessanta città. Tutti questi furono figli di Machir padre di Gà laad. Dopo la morte di Chesron Caleb si unì a èfrata moglie di suo padre Chesron la quale gli par torì Ascur padre di Tekòa. I figli di Ieracmeèl primogenito di Chesron furono Ram il primogenito Buna Oren Osem, Achia. Ieracmeèl ebbe una seconda moglie che si chiamava Atarà e fu madre di Onam. I figli di Ram primogenito di Ieracmeèl furono Maas Iamin ed Eker. I figli di Onam furo no Sammài e Iada. Figli di Sammài: Nadab e Abisù r. La moglie di Abisù r si chiamava Abiàil e gli partorì Acban e Molid. Figli di Nadab furono Seled e Appàim. Seled morì senza figli. Figli di Appài m: Isèi; figli di Isèi: Sesan; figli di Sesan: Aclài. Figli di Iada fratello di Sammài: Ieter e Giònata. Iet er morì senza figli. Figli di Giònata: Pelet e Zaza. Questi furono i discendenti di Ieracmeèl. Sesan non ebbe figli ma solo figlie; egli aveva uno schiavo egiziano chiamato Iarca. Sesan diede in mog lie allo schiavo Iarca una figlia che gli partorì Attài. Attài generò Natan; Natan generò Zabad; Za bad generò Eflal; Eflal generò Obed; Obed generò Ieu; Ieu generò Azaria; Azaria generò Cheles; Cheles generò Elasà Elasà generò Sismài; Sismài generò Sallum; Sallum generò Iekamia; Iekamia generò Elisamà. Figli di Caleb fratello di Ieracmeèl furono Mesa suo primogenito che fu padre d
i Zif; il figlio di Maresà fu padre di Ebron. Figli di Ebron: Core Tappù ach Rekem e Sema. Sema ge nerò Racam padre di Iorkoàm; Rekem generò Sammài. Figlio di Sammài: Maon che fu padre di B
et-
Sur. Efa concubina di Caleb partorì Carran Mosa e Gazez; Carran generò Gazez. Figli di Iadài: Reg hem Iotam Ghesan Pelet Efa e Saaf. Maacà concubina di Caleb partorì Seber e Tircanà partorì a nche Saaf padre di Madmannà e Seva padre di Macbenà e padre di Gàbaa. Figlia di Caleb fu Acs a. Questi furono i figli di Caleb. Figli di Cur primogenito di èfrata: Sobal padre di Kiriat-Iearìm Salma padre di Betlemme Caref padre di Bet-Gader. I figli di Sobal padre di Kiriat-Iearìm furono Reaià la metà dei Manactei e le famiglie di Kiriat-Iearìm: gli Itrei i Putei, i Sumatei e i Misraei. Da costoro derivarono i Soreatiti e gli Estaoliti. Figli di Salma: Betlemme i Netofatiti Atròt-Bet-Ioab e la metà dei Manactei i Soriti e le famiglie degli scribi che abitavano a Iabes: i Tiratei i Sim atei e i Sucatei. Questi sono i Keniti discendenti da Cammat padre della casa di Recab. Questi fu rono i figli che nacquero a Davide a Ebron: il primogenito Amnon nato da Achinòam di Izreèl; il s econdo Daniele nato da Abigàil di Carmel; il terzo Assalonne figlio di Maacà figlia di Talmài re di Ghesur; il quarto Adonia figlio di Agghìt; il quinto Sefatia nato da Abitàl; il sesto Itreàm nato da s ua moglie Egla. Sei gli nacquero a Ebron dove egli regnò sette anni e sei mesi mentre regnò tren tatré anni a Gerusalemme. I seguenti gli nacquero a Gerusalemme: Simeà Sobab Natan e Salom one ossia quattro figli natigli da Betsabea figlia di Ammièl; inoltre Ibcar Elisamà, Elifèlet Noga Ne feg Iafìa Elisamà Eliadà ed Elifèlet ossia nove figli. Tutti costoro furono figli di Davide senza cont are i figli delle sue concubine. Tamar era loro sorella. Figli di Salomone: Roboamo di cui fu figlio Abia di cui fu figlio Asa di cui fu figlio Giòsafat di cui fu figlio Ioram di cui fu figlio Acazia di cui fu figlio Ioas, di cui fu figlio Amazia di cui fu figlio Azaria di cui fu figlio Iotam di cui fu figlio Acaz di cui fu figlio Ezechia di cui fu figlio Manasse di cui fu figlio Amon di cui fu figlio Giosia. Figli di Gios ia: il primogenito Giovanni il secondo Ioiakìm il terzo Sedecìa il quarto Sallum. Figli di Ioiakìm: Ie conìa di cui fu figlio Sedecìa. Figli di Ieconìa il prigioniero: Sealtièl Malchiràm, Pedaià Senassàr Ie kamia Osamà e Nedabia. Figli di Pedaià: Zorobabele e Simei. Figli di Zorobabele: Mesullàm e An ania e Selomìt loro sorella. Figli di Mesullàm: Casubà Oel Berechia Casadia Iusab-Chèsed: cinque figli. Figli di Anania: Pelatia di cui fu figlio Isaia di cui fu figlio Refaià di cui fu figli o Arnan di cui fu figlio Abdia di cui fu figlio Secania. Figli di Secania: Semaià Cattus Igal Barìach, Nearia e Safat: sei. Figli di Nearia: Elioenài Ezechia e Azrikàm: tre. Figli di Elioenài: Odavia Eliasìb Pelaià Akkub Giovanni Delaià e Anàni: sette. Figli di Giuda: Peres Chesron Carmì Cur e Sobal. Re aià figlio di Sobal, generò Iacat; Iacat generò Acumài e Laad. Queste sono le famiglie dei Soreatit i. Questi sono i discendenti del padre di Etam: Izreèl Isma e Idbas; la loro sorella si chiamava Asl elponì. Penuèl fu padre di Ghedor; Ezer fu padre di Cusa. Questi sono i figli di Cur il primogenito di èfrata padre di Betlemme. Ascur padre di Tekòa aveva due mogli Chelea e Naarà. Naarà gli pa rtorì Acuzzàm Chefer il Temanita e l’Acastarita; questi erano i figli di Naarà. Figli di Chelea: Seret Socar Etnan e Kos. Kos generò Anub Assobebà e le famiglie di Acarchèl figlio di Arum. Iabes fu p
iù onorato dei suoi fratelli; sua madre l’aveva chiamato Iabes poiché diceva: «Io l’ho partorito c on dolore». Iabes invocò il Dio d’Israele dicendo: «Se tu mi benedicessi e allargassi i miei confini e la tua mano fosse con me e mi tenessi lontano dal male in modo che non debba soffrire!». Di o gli concesse quanto aveva chiesto. Chelub fratello di Suca generò Mechir che fu padre di Esto n. Eston generò Bet-Rafa Paseach e Techinnà padre di Ir-Nacas. Questi sono gli uomini di Reca. Figli di Kenaz: Otnièl e Seraià figli di Otnièl: Catat e Meon otài. Meonotài generò Ofra; Seraià generò Ioab padre degli abitanti della valle degli Artigiani po iché erano artigiani. Figli di Caleb figlio di Iefunnè: Ir, Ela e Naam. Figli di Ela: Kenaz. Figli di Iealle lèl: Zif Zifa Tirià e Asarèl. Figli di Esdra: Ieter Mered Efer e Ialon. Essa concepì Miriam Sammài e I sbach padre di Estemòa. Sua moglie la Giudea generò Iered padre di Ghedor Cheber padre di So co e Iekutièl padre di Zanòach. Questi sono i figli di Bitià figlia del faraone che Mered aveva pres a in moglie. Figli della moglie di Odia sorella di Nacam padre di Keila il Garmita e di Estemòa il M
aacatita. Figli di Simone: Ammon Rinna Ben-Canan e Tilon. Figli di Isì: Zochet e Ben-Zochet. Figli di Sela figlio di Giuda: Er padre di Leca Lada padre di Maresà e le famiglie dei lavora tori del bisso a Bet-Asbèa Iokim la gente di Cozebà Ioas e Saraf che dominarono in Moab e poi tornarono a Betlem me. Ma si tratta di fatti antichi. Erano vasai e abitavano a Netaìm e a Ghederà abitavano là con i l re al suo servizio. Figli di Simeone: Nemuèl Iamin Iarib Zerach Saul di cui fu figlio Sallum, di cui f u figlio Mibsam di cui fu figlio Misma. Figli di Misma: Cammuèl di cui fu figlio Zaccur di cui fu figli o Simei. Simei ebbe sedici figli e sei figlie ma i suoi fratelli non ebbero molti figli: tutte le loro fa miglie non si moltiplicarono come quelle dei discendenti di Giuda. Si stabilirono a Bersabea a M
oladà a Casar-Sual a Bila a Esem a Tolad a Betuèl a Corma a Siklag a Bet-Marcabòt a Casar-Susìm a Bet-
Birì e a Saaràim. Queste furono le loro città fino al regno di Davide. Loro villaggi erano Etam Ain Rimmon Tochen e Asan: cinque città e tutti i villaggi che erano intorno a queste città fino a Baal.
Questa era la loro sede e questi i loro nomi nei registri genealogici. Mesobàb Iamlec Iosa figlio di Amasia Gioele Ieu figlio di Iosibia figlio di Seraià figlio di Asièl Elioenài Iaakòba Iesocaià, Asaià Adièl Iesimièl Benaià Ziza figlio di Sifì figlio di Allon figlio di Iedaià figlio di Simrì figlio di Semaià: questi elencati per nome erano capi nelle loro famiglie; i loro casati si estesero molto. Andarono verso l’ingresso di Ghedor fino a oriente della valle in cerca di pascoli per le loro greggi. Trovaro no pascoli pingui e buoni; la regione era estesa tranquilla e quieta poiché prima vi abitavano i di scendenti di Cam. Ma gli uomini di cui sono stati elencati i nomi al tempo di Ezechia re di Giuda assalirono e sbaragliarono le loro tende e i Meuniti che si trovavano là li votarono allo sterminio che è durato fino ad oggi e ne occuparono il posto poiché era ricco di pascoli per le greggi. Alcu ni di loro fra i discendenti di Simeone andarono sulle montagne di Seir: cinquecento uomini, gui dati da Pelatia Nearia Refaià e Uzzièl figli di Isì. Eliminarono i superstiti degli Amaleciti e si stabili rono là fino ad oggi. Figli di Ruben primogenito d’Israele. Egli era il primogenito ma poiché avev a profanato il letto del padre la primogenitura fu assegnata ai figli di Giuseppe figlio d’Israele. M

a questa primogenitura non fu registrata. Giuda infatti prevalse sui fratelli e un suo discendente divenne capo; tuttavia la primogenitura appartiene a Giuseppe. Figli di Ruben primogenito d’Isr aele: Enoc Pallu Chesron e Carmì. Figli di Gioele: Semaià di cui fu figlio Gog di cui fu figlio Simei d i cui fu figlio Mica di cui fu figlio Reaià di cui fu figlio Baal di cui fu figlio Beerà che fu deportato n ella deportazione di Tiglat-Pilèser re d’Assiria; egli era il capo dei Rubeniti. Suoi fratelli secondo le loro famiglie come sono iscritti nelle genealogie furono: il primo Ieièl quindi Zaccaria e Bela figlio di Azaz figlio di Sema fi glio di Gioele che dimorava ad Aroèr e si estendeva fino al Nebo e a Baal-Meon. A oriente raggiungevano il limite del deserto che va dal fiume Eufrate in qua perché le lo ro greggi erano numerose nel territorio di Gàlaad. Al tempo di Saul mossero guerra agli Agareni; caduti questi nelle loro mani essi si stabilirono nelle loro tende su tutta la parte orientale di Gàl aad. I figli di Gad di fronte a loro dimoravano nella regione di Basan fino a Salca. Gioele il primo Safam secondo quindi Ianài e Safat in Basan. Loro fratelli, secondo i loro casati furono Michele Mesullàm Seba Iorài Iacan Zia ed Eber: sette. Costoro erano figli di Abicàil figlio di Curì figlio di I aròach figlio di Gàlaad figlio di Michele figlio di Iesisài figlio di Iacdo figlio di Buz. Achì figlio di Ab dièl figlio di Gunì era il capo del loro casato. Dimoravano in Gàlaad e in Basan e nelle loro dipen denze e in tutti i pascoli di Saron fino ai loro estremi confini. Tutti costoro furono registrati negli elenchi genealogici di Iotam re di Giuda e al tempo di Geroboamo re d’Israele. I figli di Ruben i Gaditi e metà della tribù di Manasse gente valorosa armata di scudo e di spada tiratori di arco e d esperti della guerra potevano uscire in campo in numero di quarantaquattromilasettecentose ssanta. Essi attaccarono gli Agareni Ietur Nafis e Nodab. Erano stati soccorsi contro costoro perc hé durante l’assalto si erano rivolti a Dio, che li aiutò per la loro fiducia in lui e così gli Agareni e tutti i loro alleati furono consegnati nelle loro mani. Essi razziarono il bestiame degli Agareni: ci nquantamila cammelli, duecentocinquantamila pecore duemila asini e centomila persone poich é numerosi furono i feriti a morte dato che la guerra era voluta da Dio. I vincitori si stabilirono n ei territori dei vinti fino alla deportazione. I figli di metà della tribù di Manasse abitavano nella r egione che si estende da Basan a Baal-Ermon a Senir e al monte Ermon; essi erano numerosi. Questi sono i capi dei loro casati: Efer Isì Elièl Azrièl Geremia Odavia e Iacdièl uomini valorosi e famosi capi dei loro casati. Ma furono inf edeli al Dio dei loro padri prostituendosi agli dèi delle popolazioni della terra che Dio aveva distr utte davanti a loro. Il Dio d’Israele eccitò lo spirito di Pul re d’Assiria cioè lo spirito di Tiglat-Pilèser re d’Assiria che deportò i Rubeniti i Gaditi e metà della tribù di Manasse; li condusse a C
helach e presso il Cabor ad Ara e al fiume di Gozan ove rimangono ancora oggi. Figli di Levi: Ghe rson Keat e Merarì. Figli di Keat: Amram Isar Ebron e Uzzièl. Figli di Amram: Aronne Mosè e Mar ia. Figli di Aronne: Nadab Abiu, Eleàzaro e Itamàr. Eleàzaro generò Fineès; Fineès generò Abisù a; Abisù a generò Bukkì Bukkì generò Uzzì Uzzì generò Zerachia; Zerachia generò Meraiòt; Merai òt generò Amaria; Amaria generò Achitù b; Achitù b generò Sadoc; Sadoc generò Achimàas; Ach imàas generò Azaria; Azaria generò Giovanni; Giovanni generò Azaria che fu sacerdote nel temp
io costruito da Salomone a Gerusalemme. Azaria generò Amaria; Amaria generò Achitù b; Achit ù b generò Sadoc; Sadoc generò Sallum; Sallum generò Chelkia; Chelkia generò Azaria; Azaria ge nerò Seraià Seraià generò Iosadàk. Iosadàk partì quando il Signore per mezzo di Nabucodònosor fece deportare Giuda e Gerusalemme. Figli di Levi: Ghersom Keat e Merarì. Questi sono i nomi dei figli di Ghersom: Libnì e Simei. Figli di Keat: Amram Isar Ebron e Uzzièl. Figli di Merarì: Maclì e Musì. Queste sono le famiglie di Levi secondo i loro casati. Ghersom ebbe per figlio Libnì di cui fu figlio Iacat di cui fu figlio Zimmà, di cui fu figlio Iòach di cui fu figlio Iddo di cui fu figlio Zerach di cui fu figlio Ieotrài. Figli di Keat: Amminadàb di cui fu figlio Core di cui fu figlio Assir di cui fu fi glio Elkanà di cui fu figlio Abiasàf di cui fu figlio Assir di cui fu figlio Tacat di cui fu figlio Urièl di c ui fu figlio Ozia di cui fu figlio Saul. Figli di Elkanà: Amasài e Achimòt di cui fu figlio Elkanà di cui f u figlio Sufài di cui fu figlio Nacat di cui fu figlio Eliàb di cui fu figlio Ierocàm di cui fu figlio Elkanà
. Figli di Samuele: Gioele primogenito e Abia secondo. Figli di Merarì: Maclì di cui fu figlio Libnì d i cui fu figlio Simei di cui fu figlio Uzzà di cui fu figlio Simeà di cui fu figlio Agghia di cui fu figlio As aià. Ecco coloro ai quali Davide affidò la direzione del canto nel tempio del Signore dopo che vi ebbe sede l’arca. Essi esercitarono l’ufficio di cantori davanti alla Dimora della tenda del conveg no finché Salomone non costruì il tempio del Signore a Gerusalemme. Nel servizio si attenevano alla regola fissata per loro. Questi furono gli incaricati e questi i loro figli. Tra i Keatiti: Eman il c antore figlio di Gioele figlio di Samuele figlio di Elkanà figlio di Ierocàm figlio di Elièl figlio di Tòac h figlio di Suf figlio di Elkanà figlio di Macat, figlio di Amasài figlio di Elkanà figlio di Gioele figlio di Azaria figlio di Sofonia figlio di Tacat figlio di Assir figlio di Abiasàf figlio di Core, figlio di Isar fi glio di Keat figlio di Levi figlio d’Israele. Suo fratello era Asaf che stava alla sua destra: Asaf figlio di Berechia figlio di Simeà, figlio di Michele figlio di Baasea figlio di Malchia figlio di Etnì figlio di Zerach figlio di Adaià figlio di Etan figlio di Zimmà figlio di Simei, figlio di Iacat figlio di Ghersom f iglio di Levi. I figli di Merarì loro fratelli che stavano alla sinistra erano Etan figlio di Kisì figlio di A bdì figlio di Malluc figlio di Casabia figlio di Amasia figlio di Chelkia figlio di Amsì figlio di Banì figl io di Semer figlio di Maclì figlio di Musì figlio di Merarì figlio di Levi. I loro fratelli leviti erano add etti a ogni servizio della Dimora nel tempio di Dio. Aronne e i suoi figli bruciavano le offerte sull’
altare dell’olocausto e sull’altare dell’incenso curavano tutto il servizio nel Santo dei Santi e co mpivano il rito espiatorio per Israele secondo quanto aveva comandato Mosè servo di Dio. Que sti sono i figli di Aronne: Eleàzaro di cui fu figlio Fineès di cui fu figlio Abisù a di cui fu figlio Bukkì di cui fu figlio Uzzì di cui fu figlio Zerachia di cui fu figlio Meraiòt di cui fu figlio Amaria di cui fu f iglio Achitù b, di cui fu figlio Sadoc di cui fu figlio Achimàas. Queste sono le loro residenze secon do i loro attendamenti nei rispettivi territori. Ai figli di Aronne della famiglia dei Keatiti che furo no sorteggiati per primi fu assegnata Ebron nel territorio di Giuda con i suoi pascoli vicini ma i te rreni della città e i suoi villaggi furono assegnati a Caleb figlio di Iefunnè. Ai figli di Aronne furon o assegnate come città di asilo Ebron Libna con i suoi pascoli Iattir Estemòa con i suoi pascoli, C
hilez con i suoi pascoli Debir con i suoi pascoli Asan con i suoi pascoli Bet-Semes con i suoi pascoli e nella tribù di Beniamino Gheba con i suoi pascoli Alèmet con i suoi pa
scoli Anatòt con i suoi pascoli. Totale: tredici città con i loro pascoli. Agli altri figli di Keat second o le loro famiglie furono assegnate in sorte dieci città prese dalla tribù di èfraim dalla tribù di Da n e dalla metà della tribù di Manasse. Ai figli di Ghersom secondo le loro famiglie furono assegn ate tredici città prese dalla tribù di ìssacar dalla tribù di Aser dalla tribù di Nèftali e dalla tribù di Manasse in Basan. Ai figli di Merarì secondo le loro famiglie furono assegnate in sorte dodici citt à prese dalla tribù di Ruben dalla tribù di Gad e dalla tribù di Zàbulon. Gli Israeliti assegnarono a i leviti queste città con i loro pascoli. Queste città prese dalle tribù dei figli di Giuda dei figli di Si meone e dei figli di Beniamino le assegnarono in sorte dando loro il relativo nome. Alle famiglie dei figli di Keat furono assegnate in sorte città appartenenti alla tribù di èfraim. Assegnarono lor o come città di asilo Sichem con i suoi pascoli sulle montagne di èfraim Ghezer con i suoi pascoli Iokmeàm con i suoi pascoli Bet-Oron con i suoi pascoli àialon con i suoi pascoli Gat-Rimmon con i suoi pascoli e dalla metà della tribù di Manasse Aner con i suoi pascoli Bileàm con i suoi pascoli. Queste città erano per la famiglia degli altri figli di Keat. Ai figli di Ghersom secon do le loro famiglie assegnarono in sorte dalla metà della tribù di Manasse: Golan in Basan con i suoi pascoli e Astaròt con i suoi pascoli; dalla tribù di ìssacar: Kedes con i suoi pascoli Daberàt c on i suoi pascoli, Ramot con i suoi pascoli e Anem con i suoi pascoli; dalla tribù di Aser: Masal co n i suoi pascoli Abdon con i suoi pascoli Cukok con i suoi pascoli e Recob con i suoi pascoli; dalla tribù di Nèftali: Kedes di Galilea con i suoi pascoli Cammon con i suoi pascoli e Kiriatàim con i su oi pascoli. Agli altri figli di Merarì dalla tribù di Zàbulon furono assegnate: Rimmon con i suoi pas coli e Tabor con i suoi pascoli; oltre il Giordano di Gerico a oriente del Giordano, dalla tribù di R
uben: Beser nel deserto con i suoi pascoli Iaas con i suoi pascoli, Kedemòt con i suoi pascoli Mef àat con i suoi pascoli; dalla tribù di Gad: Ramot in Gàlaad con i suoi pascoli Macanàim con i suoi pascoli Chesbon con i suoi pascoli e Iazer con i suoi pascoli. Figli di ìssacar: Tola Pua Iasub Simro n: quattro. Figli di Tola: Uzzì, Refaià Ierièl Iacmài Ibsam Samuele capi dei casati di Tola uomini va lorosi nelle loro genealogie; al tempo di Davide il loro numero era di ventiduemilaseicento. Figli di Uzzì: Izrachia. Figli di Izrachia: Michele Abdia Gioele Issia: in tutto cinque capi. Suddivisi secon do le loro genealogie e i loro casati avevano trentaseimila uomini nelle loro schiere armate per l a guerra, poiché abbondavano di mogli e di figli. I loro fratelli appartenenti a tutte le famiglie di ìssacar uomini valorosi secondo il loro censimento erano ottantasettemila in tutto. Figli di Benia mino: Bela Becher e Iedaèl tre. Figli di Bela: Esbon Uzzì, Uzzièl Ierimòt Irì cinque capi dei loro cas ati uomini valorosi; secondo il loro censimento erano ventiduemilatrentaquattro. Figli di Becher
: Zemirà Ioas Elièzer, Elioenài Omri Ieremòt Abia Anatòt e Alèmet; tutti costoro erano figli di Bec her. Il loro censimento eseguito secondo le loro genealogie in base ai capi dei loro casati, indicò ventimiladuecento uomini valorosi. Figli di Iediaèl: Bilan. Figli di Bilan: Ieus Beniamino Eud Chen aanà Zetan Tarsis e Achisacàr. Tutti questi erano figli di Iediaèl capi dei loro casati uomini valoro si in numero di diciassettemiladuecento pronti per una spedizione militare e per combattere. Su ppìm e Cuppìm figli di Ir; Cusìm figlio di Acher. Figli di Nèftali: Iacasièl Gunì Ieser e Sallum figli di Bila. Figli di Manasse: Asrièl partorito dalla concubina aramea che partorì anche Machir, padre d
i Gàlaad. Machir prese una moglie per Cuppìm e Suppìm; sua sorella si chiamava Maacà. Il seco ndo figlio si chiamava Selofcàd; Selofcàd aveva solo figlie. Maacà moglie di Machir partorì un fig lio che chiamò Peres mentre suo fratello si chiamava Seres; suoi figli erano Ulam e Rekem. Figlio di Ulam: Bedan. Questi furono i figli di Gàlaad figlio di Machir figlio di Manasse. La sua sorella A mmolèket partorì Isod Abièzer e Macla. Figli di Semidà furono Achiàn Sichem, Lichì e Aniàm. Figl i di èfraim: Sutèlach di cui fu figlio Bered di cui fu figlio Tacat di cui fu figlio Eladà di cui fu figlio T
acat di cui fu figlio Zabad di cui furono figli Sutèlach Ezer ed Elad uccisi dagli uomini di Gat indig eni della regione perché erano scesi a razziarne il bestiame. Il loro padre èfraim li pianse per mo lti giorni e i suoi fratelli vennero per consolarlo. Quindi si unì alla moglie che rimase incinta e pa rtorì un figlio che il padre chiamò Berià perché nato con la sventura in casa. Figlia di èfraim fu Se erà la quale edificò Bet-Oron inferiore e superiore e Uzzen-Seerà. Suo figlio fu anche Refach di cui fu figlio Resef di cui fu figlio Telach di cui fu figlio Tacan, di cui fu figlio Ladan di cui fu figlio Ammiù d di cui fu figlio Elisamà, di cui fu figlio Nun di cui fu fi glio Giosuè. Loro proprietà e loro residenza furono Betel con le sue dipendenze a oriente Naarà n a occidente Ghezer con le sue dipendenze, Sichem con le sue dipendenze fino ad Aià con le su e dipendenze. Appartenevano ai figli di Manasse: Bet-Sean con le sue dipendenze Taanac con le sue dipendenze Meghiddo con le sue dipendenze Dor con le sue dipendenze. In queste località abitavano i figli di Giuseppe figlio d’Israele. Figli di Ase r: Imna Isva Isvì Berià e la loro sorella Serach. Figli di Berià: Cheber e Malchièl padre di Birzàit. C
heber generò Iaflet Semer, Cotam e Suà loro sorella. Figli di Iaflet: Pasac Bimal e Asvat; questi fu rono i figli di Iaflet. Figli di Semer suo fratello: Roga Cubba e Aram. Figli di Chelem suo fratello: S
ofach Imna Seles e Amal. Figli di Sofach: Suach Carnefer Sual Berì Imra, Beser Od Sammà Silsa It ran e Beerà. Figli di Ieter: Iefunnè, Pispa e Ara. Figli di Ullà: Arach Cannièl e Risià. Tutti costoro f urono figli di Aser capi di casato uomini scelti e valorosi capi tra i prìncipi. Nel loro censimento, eseguito in base alla capacità militare risultò il numero ventiseimila. Beniamino generò Bela suo primogenito Asbel secondo Achiràm terzo Noca quarto e Rafa quinto. Bela ebbe come figli Add ar Ghera padre di Ecud Abisù a, Naamàn Acòach Ghera Sepufàn e Curam. Questi furono i figli di Ecud che erano capi di casato fra gli abitanti di Gheba e che furono deportati a Manàcat: Naamà n Achia e Ghera che li deportò e generò Uzzà e Achicù d. Sacaràim ebbe figli nel territorio di Mo ab dopo aver ripudiato le mogli Cusìm e Baarà. Da Codes sua moglie generò Iobab Sibìa Mesa M
alcam, Ieus Sachìa e Mirma. Questi furono i suoi figli capi di casato. Da Cusìm generò Abitù b ed Elpàal. Figli di Elpàal: Eber Misam e Semed che costruì Ono e Lod con le sue dipendenze. Berià e Sema che furono capi di casato fra gli abitanti di àialon misero in fuga gli abitanti di Gat. Loro fr atelli: Sasak e Ieremòt. Zebadia Arad Eder Michele Ispa e Ioca erano figli di Berià. Zebadia Mesul làm Chizkì Cheber Ismerài Izlia e Iobab erano figli di Elpàal. Iakim Zikrì Zabdì Elienài, Silletài Elièl Adaià Beraià e Simrat erano figli di Simei. Ispan Eber Elièl Abdon Zikrì Canan Anania Elam, Antoti a Ifdia e Penuèl erano figli di Sasak. Samserài Secaria Atalia, Iaaresia Elia e Zikrì erano figli di Iero càm. Questi erano capi di casato secondo le loro genealogie; essi abitavano a Gerusalemme. A
Gàbaon abitava il padre di Gàbaon la cui moglie si chiamava Maacà. Suo figlio primogenito era Abdon poi Sur Kis Baal Ner Nadab Ghedor Achio Zeker e Miklòt. Miklòt generò Simeà. Anche co storo come già i loro fratelli abitavano a Gerusalemme assieme a loro. Ner generò Kis; Kis gener ò Saul; Saul generò Giònata Malchisù a Abinadàb e Is-Baal. Figlio di Giònata fu Merib-Baal; Merib-
Baal generò Mica. Figli di Mica: Piton Melec Tarea e Acaz. Acaz generò Ioaddà Ioaddà generò Al èmet Azmàvet e Zimrì Zimrì generò Mosa. Mosa generò Bineà di cui fu figlio Rafa di cui fu figlio Elasà di cui fu figlio Asel. Asel ebbe sei figli che si chiamavano Azrikàm Bocru Ismaele Searia Abd ia e Canan; tutti questi erano figli di Asel. Figli di Esek suo fratello: Ulam suo primogenito Ieus se condo Elifèlet terzo. I figli di Ulam erano uomini valorosi e tiratori di arco. Ebbero numerosi figli e nipoti: centocinquanta. Tutti questi erano discendenti di Beniamino. Tutti gli Israeliti furono re gistrati per genealogie e iscritti nel libro dei re d’Israele e di Giuda; per le loro colpe furono dep ortati a Babilonia. I primi abitanti che si erano ristabiliti nelle loro proprietà nelle loro città eran o Israeliti sacerdoti leviti e oblati. A Gerusalemme abitavano figli di Giuda di Beniamino di èfrai m e di Manasse. Utài figlio di Ammiù d figlio di Omri figlio di Imrì figlio di Banì dei figli di Peres fi glio di Giuda. Tra i Siloniti: Asaià il primogenito e i suoi figli. Tra i figli di Zerach: Ieuèl. Con i loro f ratelli erano seicentonovanta in tutto. Tra i figli di Beniamino: Sallu figlio di Mesullàm figlio di O
davia figlio di Assenuà Ibnia figlio di Ierocàm Ela figlio di Uzzì figlio di Micrì, e Mesullàm figlio di Sefatia figlio di Reuèl figlio di Ibnia. I loro fratelli, secondo le loro genealogie erano novecentoci nquantasei; tutti costoro erano capi di casato. Tra i sacerdoti: Iedaià Ioiarìb Iachin e Azaria figlio di Chelkia, figlio di Mesullàm figlio di Sadoc figlio di Meraiòt figlio di Achitù b capo del tempio di Dio Adaià figlio di Ierocàm figlio di Pascur figlio di Malchia e Masài, figlio di Adièl figlio di Iaczerà figlio di Mesullàm figlio di Mesillemìt figlio di Immer. I loro fratelli capi dei loro casati erano mill esettecentosessanta uomini abili in ogni lavoro per il servizio del tempio di Dio. Dei leviti: Semai à figlio di Cassub figlio di Azrikàm figlio di Casabia dei figli di Merarì Bakbakkàr Cheres Galal Mat tania figlio di Mica figlio di Zikrì, figlio di Asaf Abdia figlio di Semaià figlio di Galal figlio di Iedutù n e Berechia figlio di Asa figlio di Elkanà che abitava nei villaggi dei Netofatiti. Dei portieri: Sallu m Akkub Talmon Achimàn e i loro fratelli. Sallum era il capo e sta fino ad oggi alla porta del re a oriente. Costoro erano i portieri degli accampamenti dei figli di Levi. Sallum figlio di Cori figlio di Ebiasàf figlio di Core e i suoi fratelli, i Coriti del suo casato attendevano al servizio liturgico; era no custodi della soglia della tenda e i loro padri custodivano l’ingresso nell’accampamento del S
ignore. Fineès figlio di Eleàzaro era un tempo il loro capo il Signore sia con lui! Zaccaria figlio di Meselemia, custodiva la porta della tenda del convegno. Tutti costoro scelti come custodi della soglia erano duecentododici; erano iscritti nelle genealogie secondo i loro villaggi. Li avevano st abiliti nell’ufficio per la loro fedeltà Davide e il veggente Samuele. Essi e i loro figli avevano la re sponsabilità delle porte nel tempio del Signore cioè nella casa della tenda. C’erano portieri ai qu attro lati: oriente occidente settentrione e meridione. I loro fratelli che abitavano nei loro villag gi di tanto in tanto dovevano andare con loro per sette giorni. Poiché erano sempre in funzione
quei quattro portieri maggiori che erano leviti, controllavano le stanze e i tesori del tempio di Di o. Alloggiavano nelle adiacenze del tempio di Dio perché a loro incombeva la sua custodia e la s ua apertura ogni mattina. Di essi alcuni controllavano gli oggetti per il culto che contavano quan do li portavano dentro e quando li riportavano fuori. Alcuni erano incaricati degli arredi di tutti gli oggetti del santuario della farina del vino, dell’olio dell’incenso e degli aromi. Alcuni tra i figli dei sacerdoti preparavano le sostanze aromatiche per i profumi. Il levita Mattitia primogenito di Sallum il Corita per la sua fedeltà era incaricato di ciò che si preparava nei tegami. Tra i figli dei Keatiti alcuni loro fratelli badavano ai pani dell’offerta da disporre ogni sabato. Questi erano i c antori capi di casato levitici; vivevano liberi da altri compiti nelle stanze del tempio perché giorn o e notte erano in attività. Questi erano i capi delle famiglie levitiche secondo le loro genealogie
; essi abitavano a Gerusalemme. A Gàbaon abitavano il padre di Gàbaon Ieièl la cui moglie si chi amava Maacà suo figlio primogenito Abdon poi Sur Kis Baal Ner Nadab Ghedor, Achio Zaccaria e Miklòt. Miklòt generò Simeàm. Anche costoro come già i loro fratelli abitavano a Gerusalemme assieme a loro. Ner generò Kis; Kis generò Saul; Saul generò Giònata Malchisù a Abinadàb e Is-Baal. Figlio di Giònata fu Merib-Baal; Merib-
Baal generò Mica. Figli di Mica: Piton Melec e Tacrea. Acaz generò Iara; Iara generò Alèmet Azm àvet e Zimrì Zimrì generò Mosa. Mosa generò Bineà di cui fu figlio Refaià di cui fu figlio Elasà di c ui fu figlio Asel. Asel ebbe sei figli che si chiamavano Azrikàm Bocru Ismaele Searia Abdia e Cana n; questi erano figli di Asel. I Filistei attaccarono Israele ma gli uomini d’Israele fuggirono davant i ai Filistei e caddero trafitti da loro sul monte Gèlboe. I Filistei inseguirono molto da vicino Saul e i suoi figli, e colpirono a morte Giònata Abinadàb e Malchisù a figli di Saul. La battaglia si conc entrò intorno a Saul: gli arcieri lo presero di mira con gli archi ed egli fu ferito gravemente dagli arcieri. Allora Saul disse al suo scudiero: «Sfodera la spada e trafiggimi prima che vengano quegl i incirconcisi a schernirmi». Ma lo scudiero non volle perché era troppo spaventato. Allora Saul prese la spada e vi si gettò sopra. Quando lo scudiero vide che Saul era morto si gettò anche lui sulla spada e morì. Così morì Saul con i suoi tre figli; tutta la sua famiglia morì insieme. Quando tutti gli Israeliti della valle videro che i loro erano in fuga e che erano morti Saul e i suoi figli abb andonarono le loro città e fuggirono. Vennero i Filistei e vi si stabilirono. Il giorno dopo i Filistei vennero a spogliare i cadaveri e trovarono Saul e i suoi figli caduti sul monte Gèlboe. Lo spogliar ono presero la testa e le armi e mandarono a dare il felice annuncio in giro nella terra dei Filistei ai loro idoli e al popolo. Deposero le sue armi nel tempio del loro dio e appesero il suo teschio nel tempio di Dagon. Tutti gli abitanti di Iabes di Gàlaad vennero a sapere tutto quello che i Filis tei avevano fatto a Saul. Tutti i loro guerrieri andarono a prendere il corpo di Saul e i corpi dei s uoi figli e li portarono a Iabes; seppellirono le loro ossa sotto la quercia a Iabes e fecero digiuno per sette giorni. Così Saul morì a causa della sua infedeltà al Signore perché non ne aveva ascolt ato la parola e perché aveva evocato uno spirito per consultarlo. Non aveva consultato il Signor e; per questo il Signore lo fece morire e trasferì il regno a Davide figlio di Iesse. Tutti gli Israeliti s i raccolsero intorno a Davide a Ebron e gli dissero: «Ecco noi siamo tue ossa e tua carne. Già pri
ma quando regnava Saul tu conducevi e riconducevi Israele. Il Signore tuo Dio ti ha detto: “Tu p ascerai il mio popolo Israele; tu sarai capo del mio popolo Israele”». Vennero dunque tutti gli an ziani d’Israele dal re a Ebron Davide concluse con loro un’alleanza a Ebron davanti al Signore ed essi unsero Davide re d’Israele secondo la parola pronunciata dal Signore per mezzo di Samuele
. Davide con tutto Israele andò a Gerusalemme cioè Gebus dove c’erano i Gebusei, abitanti dell a regione. Gli abitanti di Gebus dissero a Davide: «Tu qui non entrerai». Ma Davide espugnò la r occa di Sion cioè la Città di Davide. Davide aveva detto: «Chi colpirà per primo i Gebusei divente rà capo e principe». Salì per primo Ioab figlio di Seruià che divenne così capo. Davide si stabilì n ella rocca, che perciò fu chiamata Città di Davide. Egli fortificò la città tutt’intorno dal Millo per t utto il suo perimetro; Ioab restaurò il resto della città. Davide andava crescendo sempre più in p otenza e il Signore degli eserciti era con lui. Questi sono i capi dei prodi di Davide che si erano af fermati con il valore nel suo regno e che, insieme con tutto Israele lo avevano costituito re seco ndo la parola del Signore nei riguardi d’Israele. Ecco l’elenco dei prodi di Davide: Iasobàm figlio di un Acmonita capo dei Tre. Egli, impugnando la lancia contro trecento uomini li trafisse in un s olo scontro. Dopo di lui veniva Eleàzaro figlio di Dodo l’Acochita; era uno dei tre prodi. Egli fu co n Davide a Pas-Dammìm. I Filistei vi si erano riuniti per combattere; c’era un campo pieno d’orzo e il popolo fug gì dinanzi ai Filistei. Egli allora si appostò in mezzo al campo lo difese e sconfisse i Filistei e il Sig nore operò una grande salvezza. Tre dei Trenta capi scesero sulla roccia presso Davide nella cav erna di Adullàm; il campo dei Filistei era posto nella valle dei Refaìm. Davide era allora nel rifugi o e c’era una postazione di Filistei a Betlemme. Davide ebbe un desiderio e disse: «Se qualcuno mi desse da bere l’acqua del pozzo che è vicino alla porta di Betlemme!». I tre irruppero nel ca mpo filisteo attinsero l’acqua dal pozzo di Betlemme vicino alla porta la presero e la presentaro no a Davide il quale però non ne volle bere ma la sparse in onore del Signore, dicendo: «Non sia mai mio Dio che io faccia una cosa simile! Dovrei bere il sangue di quegli uomini insieme con la loro vita? Difatti l’hanno portata a rischio della propria vita». Non la volle bere. Tali gesta compi rono quei tre prodi. Abisài fratello di Ioab fu il capo dei Trenta. Egli impugnando la lancia contro trecento uomini li trafisse; si fece un nome fra i Trenta. Fu stimato doppiamente fra i Trenta e d ivenne loro comandante ma non giunse alla pari dei Tre. Poi veniva Benaià figlio di Ioiadà uomo valoroso di molte prodezze originario di Kabseèl. Egli uccise i due figli di Arièl di Moab; inoltre sc eso in una cisterna in un giorno di neve vi abbatté un leone. Uccise anche un Egiziano alto cinqu e cubiti il quale aveva in mano una lancia come un cilindro da tessitore; gli andò incontro con u n bastone strappò di mano all’Egiziano la lancia e lo uccise con la sua stessa lancia. Questo fece Benaià figlio di Ioiadà e si fece un nome fra i trenta prodi. Fu glorioso fra i Trenta ma non giunse alla pari dei Tre. Davide lo mise a capo del suo corpo di guardia. Ecco i prodi valorosi: Asaèl frat ello di Ioab Elcanàn figlio di Dodo di Betlemme, Sammòt di Carod Cheles di Pelet Ira figlio di Ikke s di Tekòa, Abièzer di Anatòt Sibbecài di Cusa Ilài di Acòach, Marài di Netofà Cheled figlio di Baa nà di Netofà, Itài figlio di Ribài di Gàbaa dei figli di Beniamino Benaià di Piratòn Curài di Nacalè-

Gaas Abièl di Arbàt, Azmàvet di Bacurìm Eliacbà di Saalbòn Iasen di Gun, Giònata figlio di Saghè di Arar Achiam figlio di Sacar di Arar Elifèlet, figlio di Ur Chefer di Mecherà Achia di Pelon Chesr ò di Carmel, Naarài figlio di Ezbài Gioele fratello di Natan Mibcar figlio di Agrì, Selek l’Ammonita Nacrài di Beeròt scudiero di Ioab figlio di Seruià, Ira di Ieter Gareb di Ieter Uria l’Ittita Zabad figli o di Aclài, Adinà figlio di Siza il Rubenita capo dei Rubeniti e con lui altri trenta, Canan figlio di M
aacà Giòsafat di Meten Ozia di Astaròt Sama e Ieièl figli di Cotam di Aroèr Iediaèl figlio di Simrì e Ioca suo fratello di Tisì Elièl di Macavìm Ieribài e Osea figli di Elnàam Itma il Moabita Elièl Obed e Iaasièl di Soba. Questi sono gli uomini che raggiunsero Davide a Siklag quando ancora fuggiva di fronte a Saul, figlio di Kis. Essi erano i prodi che l’aiutarono in guerra. Erano armati d’arco e sa pevano tirare frecce e sassi con la destra e con la sinistra; erano della tribù di Beniamino fratelli di Saul: Achièzer il capo e Ioas figli di Semaà di Gàbaa Iezièl e Pelet figli di Azmàvet Beracà e Ieu di Anatòt Ismaia di Gàbaon prode fra i Trenta e sopra i Trenta Geremia Iacazièl Giovanni e Iozab àd di Ghederà, Eleuzài Ierimòt Bealia Semaria Sefatia di Carif Elkanà Issia, Azarèl Ioèzer Iasobàm Coriti Ioelà e Zebadia figli di Ierocàm di Ghedor. Dei Gaditi alcuni uomini passarono a Davide ne lla fortezza del deserto; erano uomini valorosi, guerrieri pronti a combattere abili nell’uso dello scudo e della lancia sembravano leoni ed erano agili come gazzelle sui monti: Ezer era il capo Ab dia il secondo Eliàb il terzo, Mismannà il quarto Geremia il quinto Attài il sesto Elièl il settimo Gi ovanni l’ottavo Elzabàd il nono Geremia il decimo, Macbannài l’undicesimo. Costoro erano disc endenti di Gad capi dell’esercito; il più piccolo ne comandava cento e il più grande mille. Questi attraversarono il Giordano nel primo mese dell’anno mentre era in piena su tutte le rive e miser o in fuga tutti gli abitanti della valle a oriente e a occidente. Alcuni dei figli di Beniamino e di Giu da andarono da Davide fino alla sua fortezza. Davide uscì loro incontro e presa la parola disse lo ro: «Se siete venuti da me con intenzioni pacifiche per aiutarmi sono disposto a unirmi a voi; ma se venite per tradirmi e consegnarmi ai miei avversari mentre non c’è violenza nelle mie mani il Dio dei nostri padri veda e punisca». Allora lo spirito invase Amasài capo dei Trenta: «Per te Da vide, e con te figlio di Iesse. Pace pace a te, e pace a chi ti aiuta, perché il tuo Dio ti aiuta». Davi de li accolse e li costituì capi di schiere. Anche da Manasse alcuni passarono a Davide mentre in sieme con i Filistei marciava in guerra contro Saul. Egli però non li aiutò perché essendosi consul tati i prìncipi dei Filistei lo rimandarono dicendo: «A danno delle nostre teste egli passerebbe a Saul suo signore». Mentre era diretto a Siklag passarono dalla sua parte i manassiti Adnach Ioza bàd, Iediaèl Michele Iozabàd Eliu e Silletài capi di migliaia nella tribù di Manasse. Essi aiutarono Davide contro i razziatori perché erano tutti valorosi e divennero comandanti dell’esercito. In ve rità ogni giorno alcuni passavano dalla parte di Davide per aiutarlo e così il suo divenne un acca mpamento enorme. Ecco le cifre dei capi armati che passarono a Davide a Ebron per trasferire il regno da Saul a lui, secondo l’ordine del Signore. Dei figli di Giuda che portavano scudo e lancia
: seimilaottocento armati. Dei figli di Simeone uomini valorosi in guerra: settemilacento. Dei figli di Levi: quattromilaseicento inoltre Ioiadà condottiero della famiglia di Aronne e con lui tremila settecento e Sadoc giovane molto valoroso e il casato con i ventidue comandanti. Dei figli di Be
niamino fratelli di Saul: tremila perché in massima parte essi rimasero al servizio della casa di Sa ul. Dei figli di èfraim: ventimilaottocento uomini valorosi celebri nei loro casati. Di metà della tri bù di Manàsse: diciottomila che furono designati per nome, per andare a proclamare re Davide.
Dei figli di ìssacar che conoscevano bene i vari tempi in modo da sapere che cosa dovesse fare I sraele: duecento capi e tutti i loro fratelli alle loro dipendenze. Di Zàbulon: cinquantamila arruol ati nell’esercito pronti per la battaglia con tutte le armi da guerra disposti ad aiutare senza dopp iezza. Di Nèftali: mille comandanti e con loro trentasettemila dotati di scudo e di lancia. Dei Dan iti: ventottomilaseicento armati per la guerra. Di Aser: quarantamila guerrieri arruolati nell’eser cito e armati per la guerra. Dalla Transgiordania ossia dei Rubeniti dei Gaditi e di metà della trib ù di Manasse: centoventimila con tutte le armi da guerra. Tutti costoro guerrieri pronti a marcia re con cuore leale si recarono a Ebron per proclamare Davide re su tutto Israele; anche tutto il r esto d’Israele era concorde nel proclamare re Davide. Rimasero là con Davide tre giorni mangia ndo e bevendo quanto i fratelli avevano preparato per loro. Anche i loro vicini e perfino da ìssac ar da Zàbulon e da Nèftali avevano portato cibarie con asini cammelli muli e buoi: farina schiacc iate di fichi uva passa vino olio, buoi e pecore in gran quantità perché c’era gioia in Israele. Davi de si consigliò con i comandanti di migliaia e di centinaia e con tutti i condottieri. A tutta l’asse mblea d’Israele Davide disse: «Se vi sembra bene e se il Signore, nostro Dio lo consente comuni chiamo ai nostri fratelli rimasti in tutti i territori d’Israele ai sacerdoti e ai leviti nelle città dei lor o pascoli di radunarsi presso di noi. Così riporteremo l’arca del nostro Dio qui presso di noi perc hé non ce ne siamo più curati dal tempo di Saul». Tutti i partecipanti all’assemblea approvarono che si facesse così perché la proposta parve giusta agli occhi di tutto il popolo. Davide convocò tutto Israele da Sicor d’Egitto fino all’ingresso di Camat per trasportare l’arca di Dio da Kiriat-Iearìm. Davide con tutto Israele salì a Baalà verso Kiriat-Iearìm che apparteneva a Giuda per far salire di là l’arca di Dio sulla quale si proclama il nome d el Signore che siede sui cherubini. Dalla casa di Abinadàb trasportarono l’arca di Dio su un carro nuovo; Uzzà e Achio conducevano il carro. Davide e tutto Israele danzavano davanti a Dio con t utte le forze con canti e con cetre arpe, tamburelli cimbali e trombe. Giunti all’aia di Chidon Uzz à stese la mano per trattenere l’arca perché i buoi vacillavano. L’ira del Signore si accese contro Uzzà e lo colpì perché aveva steso la mano sull’arca e morì sul posto davanti a Dio. Davide si rat tristò perché il Signore aveva aperto una breccia contro Uzzà quel luogo fu chiamato Peres-Uzzà fino ad oggi. Davide in quel giorno ebbe timore di Dio e disse: «Come potrei condurre pres so di me l’arca di Dio?». Così Davide non portò l’arca presso di sé nella Città di Davide ma la fec e dirottare nella casa di Obed-Edom di Gat. L’arca di Dio rimase tre mesi in casa di Obed-Edom e il Signore benedisse la casa di Obed-
Edom e quanto gli apparteneva. Chiram re di Tiro inviò messaggeri a Davide con legno di cedro muratori e carpentieri per costruirgli una casa. Davide seppe allora che il Signore lo confermava re d’Israele e che il suo regno era molto esaltato per amore d’Israele suo popolo. Davide prese a ltre mogli a Gerusalemme e generò altri figli e figlie. I nomi di quelli che gli furono generati a Ge
rusalemme sono: Sammù a Sobab Natan Salomone Ibcar, Elisù a Elifèlet Noga Nefeg Iafìa Elisam à, Beeliadà ed Elifèlet. Quando i Filistei seppero che Davide era stato unto re di tutto Israele sali rono tutti per dargli la caccia. Appena Davide ne fu informato uscì loro incontro. Vennero i Filist ei e invasero la valle dei Refaìm. Davide consultò Dio chiedendo: «Devo andare contro i Filistei?
Li metterai nelle mie mani?». Il Signore gli rispose: «Va’ pure; li metterò nelle tue mani». Quelli vennero a Baal-Perasìm dove Davide li sconfisse. Davide disse: «Dio ha aperto per mio mezzo una breccia tra i miei nemici come una breccia aperta dalle acque». Per questo chiamò quel luogo Baal-Perasìm. I Filistei vi abbandonarono i loro idoli e Davide ordinò: «Brucino tra le fiamme!». I Filist ei tornarono di nuovo a invadere la valle. Davide consultò ancora Dio, che gli rispose: «Non seg uirli; aggirali e raggiungili dalla parte di Becaìm. Quando sentirai un rumore di passi sulla cima di Becaìm allora uscirai a combattere perché Dio uscirà davanti a te per colpire l’accampamento d ei Filistei». Davide fece come Dio gli aveva ordinato e colpì l’accampamento dei Filistei da Gàba on fino a Ghezer. La fama di Davide si diffuse in tutti i paesi mentre il Signore lo rendeva terribil e fra tutte le genti. Egli si costruì edifici nella Città di Davide preparò il posto per l’arca di Dio ed eresse per essa una tenda. Allora Davide disse: «Nessuno se non i leviti porti l’arca di Dio perch é Dio li ha scelti come portatori dell’arca e come suoi ministri per sempre». Davide convocò tutt o Israele a Gerusalemme per far salire l’arca del Signore nel posto che le aveva preparato. David e radunò i figli di Aronne e i leviti. Dei figli di Keat: Urièl il comandante con i centoventi fratelli; dei figli di Merarì: Asaià il comandante con i duecentoventi fratelli; dei figli di Ghersom: Gioele il comandante con i centotrenta fratelli; dei figli di Elisafàn: Semaià il comandante, con i duecent o fratelli; dei figli di Ebron: Elièl il comandante con gli ottanta fratelli; dei figli di Uzzièl: Ammina dàb il comandante con i centodieci fratelli. Davide chiamò i sacerdoti Sadoc ed Ebiatàr e i leviti Urièl Asaià, Gioele Semaià Elièl e Amminadàb e disse loro: «Voi siete i capi dei casati levitici. San tificatevi voi e i vostri fratelli. Quindi fate salire l’arca del Signore Dio d’Israele nel posto che io l e ho preparato. Poiché la prima volta voi non c’eravate il Signore nostro Dio si irritò con noi per ché non l’abbiamo consultato secondo la regola». I sacerdoti e i leviti si santificarono per far sali re l’arca del Signore Dio d’Israele. I figli dei leviti sollevarono l’arca di Dio sulle loro spalle per m ezzo di stanghe come aveva prescritto Mosè sulla parola del Signore. Davide disse ai capi dei lev iti di tenere pronti i loro fratelli i cantori con gli strumenti musicali arpe cetre e cimbali perché, l evando la loro voce facessero udire i suoni di gioia. I leviti tennero pronti Eman figlio di Gioele A saf uno dei suoi fratelli figlio di Berechia e tra i figli di Merarì loro fratelli Etan, figlio di Kusaià. C
on loro c’erano i loro fratelli di secondo grado: Zaccaria Ben, Iaazièl Semiramòt Iechièl Unnì Elià b Benaià Maasia Mattitia, Elifleu Micneià Obed-Edom e Ieièl portieri. I cantori Eman Asaf ed Etan usavano cimbali di bronzo per il loro suono sq uillante. Zaccaria Azièl Semiramòt, Iechièl Unnì Eliàb Maasia e Benaià suonavano arpe in acuto.
Mattitia, Elifleu Micneià Obed-
Edom Ieièl Azaria suonavano le cetre sull’ottava per dare il tono. Chenania capo dei leviti dirige
va l’esecuzione perché era esperto. Berechia ed Elkanà facevano da portieri presso l’arca. I sace rdoti Sebania Giòsafat Netanèl Amasài Zaccaria Benaià Elièzer suonavano le trombe davanti all’
arca di Dio; Obed-
Edom e Iechia facevano da portieri presso l’arca. Davide gli anziani d’Israele e i comandanti di m igliaia procedettero con gioia a far salire l’arca dell’alleanza del Signore dalla casa di Obed-Edom. Poiché Dio assisteva i leviti che portavano l’arca dell’alleanza del Signore si sacrificarono sette giovenchi e sette arieti. Davide indossava un manto di bisso come pure tutti i leviti che por tavano l’arca i cantori e Chenania che dirigeva l’esecuzione. Davide aveva inoltre un efod di lino.
Tutto Israele faceva salire l’arca dell’alleanza del Signore con grida con suoni di corno con trom be e con cimbali suonando arpe e cetre. Quando l’arca dell’alleanza del Signore entrò nella Città di Davide Mical figlia di Saul guardando dalla finestra vide il re Davide ballare e far festa e lo dis prezzò in cuor suo. Introdussero dunque l’arca di Dio e la collocarono al centro della tenda che Davide aveva piantato per essa; offrirono olocausti e sacrifici di comunione davanti a Dio. Quan do ebbe finito di offrire gli olocausti e i sacrifici di comunione Davide benedisse il popolo nel no me del Signore. Distribuì a tutti gli Israeliti uomini e donne una pagnotta di pane una porzione d i carne arrostita e una schiacciata di uva passa. Egli stabilì che alcuni leviti stessero davanti all’ar ca del Signore come ministri per celebrare ringraziare e lodare il Signore Dio d’Israele. Erano As af il capo Zaccaria il suo secondo Ieièl Semiramòt Iechièl Mattitia Eliàb Benaià Obed-Edom e Ieièl che suonavano strumenti musicali arpe e cetre; Asaf suonava i cimbali. I sacerdoti Benaià e Iacazièl con le trombe erano sempre davanti all’arca dell’alleanza di Dio. Proprio in que l giorno Davide per la prima volta affidò ad Asaf e ai suoi fratelli questa lode al Signore: «Rendet e grazie al Signore e invocate il suo nome, proclamate fra i popoli le sue opere. A lui cantate a lu i inneggiate, meditate tutte le sue meraviglie. Gloriatevi del suo santo nome: gioisca il cuore di c hi cerca il Signore. Cercate il Signore e la sua potenza, ricercate sempre il suo volto. Ricordate le meraviglie che ha compiuto, i suoi prodigi e i giudizi della sua bocca, voi stirpe d’Israele suo ser vo, figli di Giacobbe suoi eletti. è lui il Signore nostro Dio: su tutta la terra i suoi giudizi. Ricordat e sempre la sua alleanza, parola data per mille generazioni, l’alleanza stabilita con Abramo e il s uo giuramento a Isacco. L’ha stabilita per Giacobbe come decreto, per Israele come alleanza ete rna, quando disse: “Ti darò il paese di Canaan come parte della vostra eredità”. Quando erano i n piccolo numero, pochi e stranieri in quel luogo, e se ne andavano di nazione in nazione e da u n regno a un altro popolo, non permise che alcuno li opprimesse e castigò i re per causa loro: “
Non toccate i miei consacrati, non fate alcun male ai miei profeti”. Cantate al Signore uomini di tutta la terra, annunciate di giorno in giorno la sua salvezza. In mezzo alle genti narrate la sua gl oria, a tutti i popoli dite le sue meraviglie. Grande è il Signore e degno di ogni lode, terribile sop ra tutti gli dèi. Tutti gli dèi dei popoli sono un nulla, il Signore invece ha fatto i cieli. Maestà e on ore sono davanti a lui, forza e gioia nella sua dimora. Date al Signore o famiglie dei popoli, date al Signore gloria e potenza, date al Signore la gloria del suo nome. Portate offerte ed entrate al suo cospetto, prostratevi al Signore nel suo atrio santo. Tremi davanti a lui tutta la terra. è stabil
e il mondo non potrà vacillare! Gioiscano i cieli esulti la terra, e dicano tra le genti: “Il Signore re gna!”. Risuoni il mare e quanto racchiude, sia in festa la campagna e quanto contiene. Acclamin o gli alberi della foresta davanti al Signore che viene a giudicare la terra. Rendete grazie al Signo re perché è buono, perché il suo amore è per sempre. Dite: “Salvaci Dio della nostra salvezza, ra dunaci e liberaci dalle genti, perché ringraziamo il tuo nome santo: lodarti sarà la nostra gloria.
Benedetto il Signore Dio d’Israele, da sempre e per sempre”». Tutto il popolo disse: «Amen lode al Signore». Quindi Davide lasciò Asaf e i suoi fratelli davanti all’arca dell’alleanza del Signore p erché officiassero continuamente davanti all’arca secondo il rituale quotidiano; lasciò Obed-Edom figlio di Iedutù n e Cosa insieme con sessantotto fratelli come portieri. Egli incaricò della Dimora del Signore che era sull’altura di Gàbaon il sacerdote Sadoc e i suoi fratelli sacerdoti per ché offrissero olocausti al Signore sull’altare degli olocausti per sempre al mattino e alla sera e c ompissero quanto è scritto nella legge che il Signore aveva imposto a Israele. Con loro erano Em an Iedutù n e tutti gli altri scelti e designati per nome perché lodassero il Signore perché il suo a more è per sempre. Con loro avevano trombe e cimbali per suonare e altri strumenti per il cant o divino. I figli di Iedutù n erano incaricati della porta. Poi tutto il popolo se ne andò ciascuno a casa sua e Davide tornò per benedire la sua famiglia. Davide quando si fu stabilito nella sua casa disse al profeta Natan: «Ecco io abito in una casa di cedro mentre l’arca dell’alleanza del Signor e sta sotto i teli di una tenda». Natan rispose a Davide: «Fa’ quanto hai in cuor tuo perché Dio è con te». Ma quella stessa notte fu rivolta a Natan questa parola di Dio: «Va’ e di’ a Davide mio s ervo: Così dice il Signore: “Non mi costruirai tu la casa per la mia dimora. Io infatti non ho abitat o in una casa da quando ho fatto salire Israele fino ad oggi. Io passai da una tenda all’altra e da un padiglione all’altro. Durante tutto il tempo in cui ho camminato insieme con tutto Israele ho forse mai detto ad alcuno dei giudici d’Israele a cui avevo comandato di pascere il mio popolo: P
erché non mi avete edificato una casa di cedro?”. Ora dunque dirai al mio servo Davide: Così dic e il Signore degli eserciti: “Io ti ho preso dal pascolo mentre seguivi il gregge perché tu fossi cap o del mio popolo Israele. Sono stato con te dovunque sei andato ho distrutto tutti i tuoi nemici davanti a te e renderò il tuo nome come quello dei grandi che sono sulla terra. Fisserò un luogo per Israele mio popolo e ve lo pianterò perché vi abiti e non tremi più e i malfattori non lo rovini no come in passato, come dai giorni in cui avevo stabilito dei giudici sopra il mio popolo Israele.
Umilierò tutti i tuoi nemici e ti annuncio: una casa costruirà a te il Signore. Quando i tuoi giorni saranno compiuti e te ne andrai con i tuoi padri io susciterò un tuo discendente dopo di te uno dei tuoi figli e renderò stabile il suo regno. Egli mi edificherà una casa e io renderò stabile il suo trono per sempre. Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio; non ritirerò da lui il mio amore come l’ho ritirato dal tuo predecessore. Io lo farò stare saldo per sempre nella mia casa e nel m io regno; il suo trono sarà reso stabile per sempre”». Natan parlò a Davide secondo tutte quest e parole e secondo tutta questa visione. Allora il re Davide andò a presentarsi davanti al Signore e disse: «Chi sono io, Signore Dio e che cos’è la mia casa perché tu mi abbia condotto fin qui? E
questo è parso poca cosa ai tuoi occhi o Dio: tu hai parlato della casa del tuo servo per un lonta
no avvenire; mi hai fatto contemplare come una successione di uomini in ascesa Signore Dio! C
ome può pretendere Davide di aggiungere qualcosa alla tua gloria? Tu conosci il tuo servo. Sign ore per amore del tuo servo e secondo il tuo cuore hai compiuto tutte queste grandi cose per m anifestare tutte le tue meraviglie. Signore nessuno è come te e non vi è altro Dio fuori di te prop rio come abbiamo udito con i nostri orecchi. E chi è come il tuo popolo, come Israele unica nazi one sulla terra che Dio è venuto a riscattare come popolo per sé e per procurarsi un nome gran de e stabile? Tu hai scacciato le nazioni davanti al tuo popolo che tu hai riscattato dalla nazione d’Egitto. Hai reso il tuo popolo Israele popolo tuo per sempre e tu Signore, sei diventato Dio per loro. Ora Signore la parola che hai pronunciato sul tuo servo e sulla sua casa resti per sempre e fa’ come hai detto. Il tuo nome sia saldo e sia magnificato per sempre così: “Il Signore degli eser citi Dio d’Israele è Dio per Israele!”. La casa di Davide tuo servo sia stabile davanti a te! Poiché t u Dio mio hai rivelato al tuo servo l’intenzione di costruirgli una casa per questo il tuo servo ha t rovato l’ardire di pregare alla tua presenza. Ora Signore tu sei Dio; hai fatto al tuo servo queste belle promesse. Dégnati dunque di benedire ora la casa del tuo servo perché sia sempre dinanzi a te! Poiché quanto tu Signore benedici è sempre benedetto». In seguito Davide sconfisse i Filis tei li umiliò e prese Gat con le dipendenze dalle mani dei Filistei. Quindi sconfisse Moab e i Moa biti divennero sudditi e tributari di Davide. Davide sconfisse anche Adadèzer re di Soba verso Ca mat nella sua marcia verso il fiume Eufrate per stabilirvi il suo dominio. Davide gli prese mille ca rri settemila cavalieri e ventimila fanti. Davide poi fece tagliare i garretti a tutti i cavalli risparmi andone un centinaio. Gli Aramei di Damasco andarono in aiuto di Adadèzer re di Soba ma David e uccise ventiduemila Aramei. Poi Davide pose guarnigioni nell’Aram di Damasco e gli Aramei di vennero sudditi e tributari di Davide. Il Signore salvava Davide in ogni sua impresa. Davide prese ai servi di Adadèzer gli scudi d’oro e li portò a Gerusalemme. Da Tibcat e da Cun città di Adadèz er Davide asportò una grande quantità di bronzo con cui Salomone costruì il Mare di bronzo le c olonne e i vari arredi di bronzo. Quando Tou re di Camat udì che Davide aveva sconfitto tutto l’e sercito di Adadèzer re di Soba mandò al re Davide suo figlio Adoràm per salutarlo e per benedirl o perché aveva mosso guerra ad Adadèzer e l’aveva sconfitto; infatti Tou era sempre in guerra c on Adadèzer. Adoràm gli portò vasi d’oro d’argento e di bronzo. Il re Davide consacrò anche qu elli al Signore, insieme con l’argento e l’oro che aveva tolto a tutti gli altri popoli agli Edomiti ai Moabiti, agli Ammoniti ai Filistei e agli Amaleciti. Abisài figlio di Seruià sconfisse nella valle del S
ale diciottomila Edomiti. Stabilì guarnigioni in Edom e tutti gli Edomiti divennero sudditi di Davi de. Il Signore salvava Davide in ogni sua impresa. Davide regnò su tutto Israele e rese giustizia c on retti giudizi a tutto il suo popolo. Ioab figlio di Seruià comandava l’esercito; Giòsafat figlio di Achilù d era archivista; Sadoc figlio di Achitù b e Abimèlec figlio di Ebiatàr erano sacerdoti; Savs a era scriba; Benaià figlio di Ioiadà era capo dei Cretei e dei Peletei e i figli di Davide erano i prim i al fianco del re. Dopo questo morì Nacas re degli Ammoniti e suo figlio divenne re al suo posto.
Davide disse: «Manterrò fedeltà a Canun figlio di Nacas perché anche suo padre la mantenne a me». Davide mandò messaggeri a consolarlo per suo padre. I ministri di Davide andarono nel te
rritorio degli Ammoniti da Canun per consolarlo. Ma i capi degli Ammoniti dissero a Canun: «For se Davide intende onorare tuo padre ai tuoi occhi mandandoti dei consolatori? Questi suoi mini stri non sono venuti forse da te per spiare la regione per perlustrarla e per ispezionarla?». Canu n allora prese i ministri di Davide li fece radere fece tagliare le loro vesti a metà fino alle natiche poi li rimandò. Alcuni vennero a riferire a Davide la sorte di quegli uomini. Il re mandò qualcun o a incontrarli perché quegli uomini si vergognavano moltissimo. Il re fece dire loro: «Rimanete a Gerico finché vi sia cresciuta di nuovo la barba poi tornerete». Gli Ammoniti vedendo che si er ano resi nemici di Davide mandarono essi e Canun mille talenti d’argento per assoldare carri e c avalieri da Aram Naharàim da Aram Maacà e da Soba. Assoldarono trentaduemila carri e il re di Maacà con le sue truppe. Questi vennero e si accamparono di fronte a Màdaba; frattanto gli Am moniti si erano radunati dalle loro città e si erano mossi per la guerra. Quando Davide sentì que sto mandò Ioab con tutto l’esercito dei prodi. Gli Ammoniti uscirono e si disposero a battaglia d avanti alla città mentre i re alleati stavano da parte nella campagna. Ioab vide che il fronte della battaglia gli era davanti e alle spalle. Scelse allora un corpo tra i migliori d’Israele li schierò cont ro gli Aramei e affidò il resto dell’esercito a suo fratello Abisài ed essi si schierarono contro gli A mmoniti. Disse: «Se gli Aramei saranno più forti di me tu mi verrai a salvare; se invece gli Ammo niti saranno più forti di te io salverò te. Sii forte e dimostriamoci forti per il nostro popolo e per l e città del nostro Dio. Il Signore faccia quello che a lui piacerà». Poi Ioab con la gente che aveva con sé attaccò battaglia con gli Aramei i quali fuggirono davanti a lui. Quando gli Ammoniti vide ro che gli Aramei erano fuggiti fuggirono di fronte ad Abisài fratello di Ioab e rientrarono in città
. Ioab allora venne a Gerusalemme. Gli Aramei vedendo che erano stati sconfitti da Israele man darono a chiamare gli Aramei che erano al di là del Fiume; Sofac comandante dell’esercito di Ad adèzer era alla loro testa. La cosa fu riferita a Davide che radunò tutto Israele e attraversò il Gio rdano. Li raggiunse e si schierò davanti a loro; Davide si dispose alla battaglia di fronte agli Aram ei ed essi si scontrarono con lui. Ma gli Aramei fuggirono davanti a Israele: Davide uccise degli A ramei settemila cavalieri e quarantamila fanti; uccise anche Sofac comandante dell’esercito. I va ssalli di Adadèzer quando si videro sconfitti da Israele fecero la pace con Davide e gli rimasero s ottoposti. Gli Aramei non vollero più venire a salvare gli Ammoniti. All’inizio dell’anno successiv o al tempo in cui i re sono soliti andare in guerra Ioab, alla testa di un forte esercito devastò il te rritorio degli Ammoniti quindi andò ad assediare Rabbà mentre Davide rimaneva a Gerusalemm e. Ioab occupò e distrusse Rabbà. Davide prese dalla testa di Milcom la corona e trovò che pesa va un talento d’oro e aveva una pietra preziosa; essa fu posta sulla testa di Davide. Egli ricavò d alla città un bottino molto grande. Ne fece uscire gli abitanti e li impiegò alle seghe ai picconi di ferro e alle asce. Allo stesso modo Davide trattò tutte le città degli Ammoniti. Poi Davide tornò a Gerusalemme con tutta la sua gente. Dopo questo ci fu una battaglia con i Filistei a Ghezer. All ora Sibbecài di Cusa uccise Sippài dei discendenti dei Refaìm. I Filistei furono soggiogati. Ci fu un
’altra battaglia con i Filistei ed Elcanan figlio di Iair uccise Lacmì, fratello di Golia di Gat: l’asta de lla sua lancia era come un cilindro da tessitori. Ci fu un’altra battaglia a Gat dove c’era un uomo
di grande statura con le dita a sei a sei in tutto ventiquattro e anche lui era discendente di Rafa.
Egli sfidò Israele ma Giònata figlio di Simeà fratello di Davide lo uccise. Questi erano i discenden ti di Rafa a Gat. Essi caddero per mano di Davide e dei suoi uomini. Satana insorse contro Israel e e incitò Davide a censire Israele. Davide disse a Ioab e ai capi del popolo: «Andate contate gli I sraeliti da Bersabea a Dan; quindi portatemene il conto, così che io conosca il loro numero». Ioa b disse a Davide: «Il Signore aumenti il suo popolo cento volte più di quello che è! Ma o re mio s ignore essi non sono tutti sudditi del mio signore? Perché il mio signore vuole questa inchiesta?
Perché dovrebbe cadere tale colpa su Israele?». Ma l’ordine del re prevalse su Ioab. Questi partì e percorse tutto Israele quindi tornò a Gerusalemme. Ioab consegnò a Davide il totale del censi mento del popolo: c’erano in tutto Israele un milione e centomila uomini in grado di maneggiar e la spada; in Giuda risultarono quattrocentosettantamila uomini in grado di maneggiare la spa da. Fra costoro Ioab non censì i leviti né la tribù di Beniamino perché l’ordine del re gli appariva un abominio. Il fatto dispiacque agli occhi di Dio che perciò colpì Israele. Davide disse a Dio: «Ho peccato molto facendo una cosa simile. Ti prego togli la colpa del tuo servo, poiché io ho comm esso una grande stoltezza». Il Signore disse a Gad veggente di Davide: «Va’ riferisci a Davide: Co sì dice il Signore: “Io ti propongo tre cose: scegline una e quella ti farò”». Gad venne dunque da Davide e gli riferì: «Dice il Signore: “Scegli fra tre anni di carestia tre mesi di fuga di fronte al tuo nemico sotto l’incubo della spada dei tuoi nemici e tre giorni della spada del Signore con la pest e che si diffonde sulla terra e l’angelo del Signore che porta lo sterminio in tutto il territorio d’Is raele”. Ora vedi che cosa io debba riferire a chi mi ha mandato». Davide rispose a Gad: «Sono in grande angustia. Ebbene, che io cada nelle mani del Signore perché la sua misericordia è grand e ma che io non cada nelle mani degli uomini». Così il Signore mandò la peste in Israele; cadder o settantamila Israeliti. Dio mandò un angelo a Gerusalemme per devastarla. Ma nell’atto di de vastare il Signore guardò e si pentì di quel male. Egli disse all’angelo devastatore: «Ora basta! Ri tira la mano». L’angelo del Signore stava ritto presso l’aia di Ornan il Gebuseo. Davide alzàti gli occhi vide l’angelo del Signore ritto fra terra e cielo con la spada sguainata in mano tesa verso G
erusalemme. Allora Davide e gli anziani coperti di sacco si prostrarono con la faccia a terra. Davi de disse a Dio: «Non sono forse stato io a ordinare il censimento del popolo? Io ho peccato e ho commesso il male; ma queste pecore che cosa hanno fatto? Signore mio Dio sì la tua mano ven ga contro di me e contro la casa di mio padre ma non colpisca il tuo popolo». L’angelo del Signo re ordinò a Gad di riferire a Davide che salisse a innalzare un altare al Signore nell’aia di Ornan il Gebuseo. Davide salì secondo la parola che Gad aveva pronunciato nel nome del Signore. Orna n si volse e vide l’angelo; i suoi quattro figli, che erano con lui si nascosero. Ornan stava trebbia ndo il grano quando gli si avvicinò Davide. Ornan guardò e riconosciuto Davide uscì dall’aia pros trandosi con la faccia a terra davanti a Davide. Davide disse a Ornan: «Cedimi il terreno dell’aia perché io vi costruisca un altare al Signore; cedimelo per tutto il suo valore così che il flagello si allontani dal popolo». Ornan disse a Davide: «Prenditelo; il re mio signore ne faccia quello che v uole. Vedi io ti do anche i giovenchi per gli olocausti le trebbie per la legna e il grano per l’offert
a; tutto io ti offro». Ma il re Davide disse a Ornan: «No! Lo voglio acquistare per tutto il suo valo re; non presenterò al Signore una cosa che appartiene a te offrendo un olocausto gratuitament e». E così Davide diede a Ornan seicento sicli d’oro per il terreno. Quindi Davide costruì in quel l uogo un altare al Signore e offrì olocausti e sacrifici di comunione. Invocò il Signore che gli rispo se con il fuoco sceso dal cielo sull’altare dell’olocausto. Il Signore ordinò all’angelo e questi ripos e la spada nel fodero. Allora visto che il Signore l’aveva ascoltato sull’aia di Ornan il Gebuseo Da vide offrì là un sacrificio. La Dimora del Signore eretta da Mosè nel deserto e l’altare dell’olocau sto in quel tempo stavano sull’altura che era a Gàbaon; ma Davide non osava recarsi là a consul tare Dio perché si era molto spaventato di fronte alla spada dell’angelo del Signore. Davide diss e: «Questa è la casa del Signore Dio e questo è l’altare per gli olocausti d’Israele». Davide ordin ò di radunare i forestieri che erano nella terra d’Israele. Quindi diede incarico agli scalpellini per ché squadrassero pietre per la costruzione del tempio di Dio. Davide preparò ferro in abbondan za per i chiodi dei battenti delle porte e per le spranghe e anche molto bronzo in quantità incalc olabile. Il legno di cedro non si contava poiché quelli di Sidone e di Tiro avevano portato a David e molto legno di cedro. Davide pensava: «Mio figlio Salomone è giovane e inesperto mentre la c ostruzione da erigersi per il Signore deve essere straordinariamente grande tale da suscitare fa ma e ammirazione in tutto il mondo; per questo ne farò i preparativi io». Davide prima di morir e fece preparativi imponenti. Poi chiamò Salomone suo figlio e gli comandò di costruire una cas a al Signore Dio d’Israele. Davide disse a Salomone: «Figlio mio io avevo deciso di costruire una casa al nome del Signore mio Dio. Ma mi fu rivolta questa parola del Signore: “Tu hai versato tr oppo sangue e hai fatto grandi guerre; per questo non costruirai una casa al mio nome perché h ai versato troppo sangue sulla terra davanti a me. Ecco ti nascerà un figlio che sarà uomo di pac e; io gli concederò la tranquillità da parte di tutti i suoi nemici che lo circondano. Egli si chiamer à Salomone. Nei suoi giorni io concederò pace e tranquillità a Israele. Egli costruirà una casa al mio nome; egli sarà figlio per me e io sarò padre per lui. Stabilirò il trono del suo regno su Israel e per sempre”. Ora figlio mio il Signore sia con te perché tu riesca a costruire una casa al Signor e tuo Dio come ti ha promesso. Ebbene il Signore ti conceda senno e intelligenza ti ponga a cap o d’Israele per osservare la legge del Signore tuo Dio. Allora riuscirai se cercherai di praticare le l eggi e le norme che il Signore ha prescritto a Mosè per Israele. Sii forte e coraggioso; non temer e e non abbatterti. Ecco anche in mezzo alle angosce ho preparato per la casa del Signore cento mila talenti d’oro un milione di talenti d’argento bronzo e ferro in quantità incalcolabile. Inoltre ho preparato legname e pietre; tu ve ne aggiungerai ancora. Sono con te molti operai scalpellini e lavoratori della pietra e del legno e ogni artigiano per ogni lavoro. L’oro l’argento, il bronzo e i l ferro non si calcolano; su mettiti al lavoro e il Signore sia con te». Davide comandò a tutti i capi d’Israele di aiutare Salomone suo figlio. Disse: «Il Signore vostro Dio non è forse con voi e non v i ha concesso tranquillità all’intorno? Difatti ha già messo nelle mie mani gli abitanti della region e; la terra è assoggettata davanti al Signore e davanti al suo popolo. Ora perciò dedicatevi con il vostro cuore e con la vostra anima alla ricerca del Signore vostro Dio. Su costruite il santuario d
el Signore vostro Dio per introdurre l’arca dell’alleanza del Signore e gli oggetti consacrati a Dio nella casa che sarà eretta al nome del Signore». Davide ormai vecchio e sazio di giorni costituì r e su Israele suo figlio Salomone. Egli radunò tutti i capi d’Israele i sacerdoti e i leviti. Si contaron o i leviti dai trent’anni in su: censiti uno per uno risultarono trentottomila. Di costoro ventiquatt romila dirigevano l’attività del tempio del Signore seimila erano scribi e giudici, quattromila port ieri e quattromila lodavano il Signore con tutti gli strumenti inventati da Davide per lodarlo. Dav ide divise in classi i figli di Levi: Gherson Keat e Merarì. Dei Ghersoniti: Ladan e Simei. Figli di Lad an: Iechièl il capo poi Zetam e Gioele; tre. Figli di Simei: Selomìt Cazièl Aran; tre. Costoro sono i capi dei casati di Ladan. Figli di Simei: Iacat Ziza Ieus Berià questi sono i quattro figli di Simei. Iac at era il capo e Ziza il secondo. Ieus e Berià non ebbero molti figli; perciò erano un solo casato u na sola classe. Figli di Keat: Amram Isar Ebron e Uzzièl; quattro. Figli di Amram: Aronne e Mosè.
Aronne fu scelto per consacrare le cose santissime egli e i suoi figli per sempre perché offrisse i ncenso davanti al Signore lo servisse e benedicesse in suo nome per sempre. Riguardo a Mosè u omo di Dio i suoi figli furono annoverati nella tribù di Levi. Figli di Mosè: Ghersom ed Elièzer. Fig li di Ghersom: Sebuèl il capo. I figli di Elièzer furono Recabia il capo. Elièzer non ebbe altri figli m entre i figli di Recabia furono moltissimi. Figli di Isar: Selomìt il capo. Figli di Ebron: Ieria il capo Amaria secondo Iacazièl terzo Iekamàm quarto. Figli di Uzzièl: Mica il capo Issia secondo. Figli di Merarì: Maclì e Musì. Figli di Maclì: Eleàzaro e Kis. Eleàzaro morì senza figli avendo soltanto figli e; le sposarono i figli di Kis loro fratelli. Figli di Musì: Maclì Eder e Ieremòt; tre. Questi sono i figli di Levi secondo i loro casati i capi di casato secondo il censimento contati nominalmente uno p er uno incaricati dei lavori per il servizio del tempio del Signore dai vent’anni in su. Infatti David e aveva detto: «Il Signore Dio d’Israele ha concesso la tranquillità al suo popolo e si è stabilito a Gerusalemme per sempre. Anche i leviti non avranno più da trasportare la Dimora e tutti i suoi oggetti per il suo servizio». Secondo le ultime disposizioni di Davide il censimento dei figli di Levi si fece dai vent’anni in su. Perciò il loro posto era a fianco dei figli di Aronne per il servizio del te mpio del Signore relativamente ai cortili alle stanze alla purificazione di ogni cosa sacra e all’atti vità per il servizio del tempio di Dio al pane dell’offerta alla farina all’offerta alle focacce non lie vitate alle cose che dovevano essere preparate nella teglia e ben stemperate e a tutte le misure di capacità e di lunghezza. Dovevano presentarsi ogni mattina e ogni sera per celebrare e lodar e il Signore come pure per tutti gli olocausti da offrire al Signore nei sabati nei noviluni nelle fest e fisse secondo un numero preciso prescritto dalle loro regole, stando sempre davanti al Signor e. Dovevano provvedere anche al servizio della tenda del convegno e al servizio del santuario e stavano agli ordini dei figli di Aronne loro fratelli per il servizio del tempio del Signore. Classi dei figli di Aronne. Figli di Aronne: Nadab Abiu Eleàzaro e Itamàr. Nadab e Abiu morirono prima del padre e non lasciarono figli. Esercitarono il sacerdozio Eleàzaro e Itamàr. Davide insieme con Sa doc dei figli di Eleàzaro e con Achimèlec dei figli di Itamàr li divise in classi secondo il loro servizi o. Poiché risultò che i figli di Eleàzaro quanto alla somma dei maschi erano più numerosi dei figli di Itamàr furono così classificati: sedici capi di casato per i figli di Eleàzaro otto per i figli di Itam
àr. Li divisero a sorte questi come quelli perché c’erano prìncipi del santuario e prìncipi di Dio si a tra i figli di Eleàzaro che tra i figli di Itamàr. Lo scriba Semaià figlio di Netanèl dei figli di Levi ne fece il catalogo alla presenza del re dei prìncipi del sacerdote Sadoc di Achimèlec figlio di Ebiatà r dei capi dei casati sacerdotali e levitici; si registravano due casati per Eleàzaro e uno per Itamà r. La prima sorte toccò a Ioiarìb la seconda a Iedaià la terza a Carim la quarta a Seorìm la quinta a Malchia la sesta a Miamìn la settima ad Akkos l’ottava ad Abia la nona a Giosuè la decima a Se cania, l’undecima a Eliasìb la dodicesima a Iakim la tredicesima a Cuppà la quattordicesima a Is-Baal la quindicesima a Bilga la sedicesima a Immer, la diciassettesima a Chezir la diciottesima a Appisès la diciannovesima a Petachia la ventesima a Ezechiele la ventunesima a Iachin la ventid uesima a Gamul, la ventitreesima a Delaià la ventiquattresima a Maazia. Queste furono le classi secondo il loro servizio per entrare nel tempio del Signore secondo la regola stabilita dal loro an tenato Aronne come gli aveva ordinato il Signore Dio d’Israele. Quanto agli altri figli di Levi per i figli di Amram c’era Subaèl; per i figli di Subaèl Iecdia. Quanto a Recabia il capo dei figli di Recabi a era Issia. Per gli Isariti Selomòt; per i figli di Selomòt Iacat. Figli di Ebron: Ieria il capo, Amaria s econdo Iacazièl terzo Iekamàm quarto. Figli di Uzzièl: Mica; per i figli di Mica Samir; fratello di M
ica era Issia; per i figli di Issia Zaccaria. Figli di Merarì: Maclì e Musì figli di Iaazia suo figlio. Figli d i Merarì nella linea di Iaazia suo figlio: Soam Zaccur e Ibrì. Per Maclì: Eleàzaro, che non ebbe figli e Kis. Figlio di Kis era Ieracmeèl. Figli di Musì: Maclì Eder e Ierimòt. Questi sono i figli dei leviti s econdo i loro casati. Anch’essi come i loro fratelli figli di Aronne furono sorteggiati alla presenza del re Davide di Sadoc di Achimèlec dei capi dei casati sacerdotali e levitici: sia i casati del magg iore sia quelli di suo fratello minore. Quindi Davide insieme con i comandanti dell’esercito separ ò per il servizio i figli di Asaf di Eman e di Idutù n che profetavano con cetre arpe e cimbali. Ed e cco il numero di questi uomini, incaricati di tale attività. Per i figli di Asaf: Zaccur Giuseppe Neta nia Asarela; i figli di Asaf erano sotto la direzione di Asaf che eseguiva la musica secondo le istru zioni del re. Per Iedutù n i figli di Iedutù n: Godolia Serì Isaia Simei Casabia Mattitia: sei sotto la direzione del loro padre Iedutù n che cantava sulla cetra ed eseguiva musica per celebrare e lod are il Signore. Per Eman i figli di Eman: Bukkia Mattania Uzzièl Sebuèl Ierimòt Anania, Anàni Elia ta Ghiddalti Romàmti-Ezer Iosbekasa Malloti Otir Macaziòt. Tutti costoro erano figli di Eman veggente del re secondo l a promessa di Dio di esaltare la sua potenza. Dio infatti concesse a Eman quattordici figli e tre fi glie. Tutti costoro sotto la direzione del loro padre cantavano nel tempio del Signore con cimbal i arpe e cetre per il servizio del tempio di Dio agli ordini del re. Il numero di costoro insieme con i fratelli esperti nel canto del Signore tutti maestri era di duecentoottantotto. Per i loro turni di servizio furono sorteggiati i piccoli come i grandi i maestri come i discepoli. La prima sorte toccò per Asaf a Giuseppe; secondo fu Godolia con i fratelli e i figli: dodici; terzo Zaccur con i figli e i fr atelli: dodici; quarto Isrì con i figli e i fratelli: dodici; quinto Netania con i figli e i fratelli: dodici; s esto Bukkia, con i figli e i fratelli: dodici; settimo Iesarela con i figli e i fratelli: dodici; ottavo Isaia con i figli e i fratelli: dodici; nono Mattania con i figli e i fratelli: dodici; decimo Simei con i figli e
i fratelli: dodici; undicesimo Azarèl con i figli e i fratelli: dodici; dodicesimo Casabia con i figli e i f ratelli: dodici; tredicesimo Subaèl con i figli e i fratelli: dodici; quattordicesimo Mattitia con i figli e i fratelli: dodici; quindicesimo Ieremòt con i figli e i fratelli: dodici; sedicesimo Anania con i figl i e i fratelli: dodici; diciassettesimo Iosbekasa, con i figli e i fratelli: dodici; diciottesimo Anàni co n i figli e i fratelli: dodici; diciannovesimo Malloti con i figli e i fratelli: dodici; ventesimo Eliata co n i figli e i fratelli: dodici; ventunesimo Otir con i figli e i fratelli: dodici; ventiduesimo Ghiddalti c on i figli e i fratelli: dodici; ventitreesimo Macaziòt con i figli e i fratelli: dodici; ventiquattresimo Romàmti-Ezer con i figli e i fratelli: dodici. Quanto alle classi dei portieri per i Coriti vi era Meselemia figlio di Cori dei figli di Asaf. Figli di Meselemia: Zaccaria il primogenito Iediaèl il secondo Zebadia il te rzo, Iatnièl il quarto Elam il quinto Giovanni il sesto Elioenài il settimo. Figli di Obed-Edom: Semaià il primogenito Iozabàd il secondo Iòach il terzo, Sacar il quarto Netanèl il quinto Ammièl il sesto ìssacar il settimo, Peulletài l’ottavo poiché Dio l’aveva benedetto. A Semaià suo figlio nacquero figli che dominavano nel loro casato perché erano uomini valorosi. Figli di Semai à: Otnì Raffaele Obed Elzabàd con i suoi fratelli, uomini valorosi Eliu e Semachia. Tutti costoro e rano discendenti di Obed-Edom. Essi e i loro figli e i loro fratelli uomini valorosi erano in forza per il servizio. Per Obed-Edom: sessantadue in tutto. Meselemia aveva figli e fratelli tutti uomini valorosi: diciotto in tutt o. Figli di Cosa dei discendenti di Merarì: Simrì il capo; non era primogenito ma suo padre lo ave va costituito capo. Chelkia era il secondo Tebalia il terzo Zaccaria il quarto. Totale dei figli e frate lli di Cosa: tredici. Queste classi di portieri cioè i capigruppo avevano l’incarico come i loro fratel li, di servire nel tempio del Signore. Gettarono le sorti tanto il piccolo quanto il grande secondo i loro casati per ciascuna porta. Per il lato orientale la sorte toccò a Selemia; a Zaccaria suo figlio consigliere assennato per sorteggio toccò il lato settentrionale a Obed-Edom quello meridionale ai suoi figli toccarono i magazzini. Il lato occidentale con la porta Sallè chet sulla via della salita toccò a Suppìm e a Cosa. Un posto di guardia era accanto all’altro. Per i l lato orientale erano incaricati sei uomini ogni giorno per il lato settentrionale quattro al giorno per quello meridionale quattro al giorno per ogni magazzino due. Alla loggia a occidente ce n’er ano quattro per la strada e due per la loggia. Queste le classi dei portieri per i figli di Core e per i figli di Merarì. I leviti loro fratelli addetti alla sorveglianza dei tesori del tempio di Dio e dei teso ri delle cose consacrate erano figli di Ladan Ghersoniti secondo la linea di Ladan. Capi dei casati di Ladan il Ghersonita erano gli Iechieliti. Gli Iechieliti Zetam e Gioele suo fratello erano addetti ai tesori del tempio del Signore. Fra i discendenti di Amram di Isar di Ebron e di Uzzièl Subaèl fig lio di Ghersom figlio di Mosè era sovrintendente dei tesori. Suoi fratelli nella linea di Elièzer era no suo figlio Recabia di cui fu figlio Isaia di cui fu figlio Ioram di cui fu figlio Zikrì di cui fu figlio Se lomìt. Questo Selomìt con i suoi fratelli era addetto ai tesori delle cose consacrate che il re Davi de i capi di casato i comandanti di migliaia e di centinaia e i comandanti dell’esercito avevano c onsacrato prendendole dal bottino di guerra e da altre prede per la manutenzione del tempio d
el Signore. Inoltre c’erano tutte le cose consacrate dal veggente Samuele da Saul figlio di Kis da Abner figlio di Ner e da Ioab figlio di Seruià tutte queste cose consacrate dipendevano da Selom ìt e dai suoi fratelli. Fra i discendenti di Isar Chenania e i suoi figli erano addetti agli affari esterni d’Israele come scribi e giudici. Fra i discendenti di Ebron Casabia e i suoi fratelli uomini valorosi in numero di millesettecento erano addetti alla sorveglianza d’Israele dal lato occidentale del Gi ordano, per il culto del Signore e al servizio del re. Fra i discendenti di Ebron c’era Ieria il capo d egli Ebroniti secondo le loro generazioni e i loro casati; nell’anno quarantesimo del regno di Dav ide si fecero ricerche e fra loro si trovarono uomini valorosi a Iazer di Gàlaad. Tra i fratelli di Ieri a uomini valorosi c’erano duemilasettecento capi di casato. Il re Davide diede a costoro autorità sui Rubeniti sui Gaditi e su metà della tribù di Manasse per tutte le questioni riguardanti Dio e quelle riguardanti il re. Ecco i figli d’Israele secondo il loro numero i capi di casato i comandanti di migliaia e di centinaia i loro scribi al servizio del re secondo le loro classi delle quali una entra va e l’altra usciva ogni mese per tutti i mesi dell’anno. Ogni classe comprendeva ventiquattromil a uomini. Alla prima classe in funzione nel primo mese presiedeva Iasobàm figlio di Zabdièl; la s ua classe era di ventiquattromila. Egli era dei discendenti di Peres ed era il capo di tutti i coman danti dell’esercito per il primo mese. Alla classe del secondo mese presiedeva Dodài di Acòach; l a sua classe era di ventiquattromila uomini. Al terzo gruppo per il terzo mese presiedeva Benaià figlio di Ioiadà sommo sacerdote; la sua classe era di ventiquattromila uomini. Questo Benaià e ra un prode dei Trenta e aveva il comando dei Trenta e della sua classe. Suo figlio era Ammizabà d. Quarto per il quarto mese era Asaèl fratello di Ioab e dopo di lui Zebadia suo figlio; la sua clas se era di ventiquattromila uomini. Quinto per il quinto mese era il comandante Samut di Zerach
; la sua classe era di ventiquattromila uomini. Sesto per il sesto mese era Ira figlio di Ikkes di Tek òa; la sua classe era di ventiquattromila uomini. Settimo per il settimo mese era Cheles di Pelon dei discendenti di èfraim; la sua classe era di ventiquattromila uomini. Ottavo per l’ottavo mes e era Sibbecài di Cusa lo Zerachita; la sua classe era di ventiquattromila uomini. Nono per il non o mese era Abièzer di Anatòt il Beniaminita; la sua classe era di ventiquattromila uomini. Decim o per il decimo mese era Marài di Netofà lo Zerachita; la sua classe era di ventiquattromila uomi ni. Undicesimo per l’undicesimo mese era Benaià di Piratòn dei discendenti di èfraim; la sua clas se era di ventiquattromila uomini. Dodicesimo per il dodicesimo mese era Cheldài di Netofà dell a stirpe di Otnièl; la sua classe era di ventiquattromila uomini. Riguardo alle tribù d’Israele: della tribù di Ruben era condottiero Elièzer figlio di Zikrì di quella di Simeone Sefatia figlio di Maacà d i quella di Levi Casabia figlio di Kemuèl; degli Arònnidi Sadoc; di quella di Giuda, Eliu dei fratelli di Davide; di quella di ìssacar Omri figlio di Michele; di quella di Zàbulon Ismaia figlio di Abdia; di quella di Nèftali Ierimòt figlio di Azrièl; degli Efraimiti Osea figlio di Azazia; di una metà della tri bù di Manasse Gioele, figlio di Pedaià dell’altra metà della tribù di Manasse in Gàlaad Iddo figlio di Zaccaria; di quella di Beniamino Iaasièl figlio di Abner; di quella di Dan Azarèl figlio di Ierocà m. Questi erano i capi delle tribù d’Israele. Davide non fece il censimento di quelli al di sotto dei vent’anni perché il Signore aveva detto che avrebbe moltiplicato Israele come le stelle del cielo
. Ioab figlio di Seruià aveva cominciato il censimento ma non lo terminò proprio per questo si sc atenò l’ira su Israele. Questo censimento non fu registrato nel libro delle Cronache del re David e. Sovrintendenti: ai tesori del re Azmàvet figlio di Adièl; ai tesori che erano nella campagna nell e città nei villaggi e nelle torri Giònata figlio di Ozia; agli operai agricoli per la lavorazione del su olo Ezrì figlio di Chelub; alle vigne Simei di Rama; ai prodotti delle vigne depositati nelle cantine Zabdì di Sefam; agli oliveti e ai sicomòri nella Sefela Baal-Canan di Gheder; ai depositi di olio Ioas; agli armenti che pascolavano nella pianura di Saron il S
aronita Sitrài; agli armenti nelle valli Safat figlio di Adlài; ai cammelli Obil l’Ismaelita; alle asine I ecdia di Meronòt; alle pecore Iaziz l’Agareno. Tutti costoro erano sovrintendenti ai beni del re D
avide. Giònata zio di Davide era consigliere; uomo intelligente e scriba egli insieme con Iechièl fi glio di Acmonì si occupava dei figli del re. Achitòfel era consigliere del re; Cusài l’Arkita era amic o del re. Ad Achitòfel successero Ioiadà figlio di Benaià ed Ebiatàr. Comandante dell’esercito del re era Ioab. Davide convocò tutti i comandanti d’Israele i capi delle tribù e i comandanti delle v arie classi al servizio del re i comandanti di migliaia i comandanti di centinaia i sovrintendenti a t utti i beni e a tutto il bestiame del re e dei suoi figli insieme con i cortigiani i prodi e ogni soldato valoroso in Israele. Davide si alzò in piedi e disse: «Ascoltatemi fratelli miei e popolo mio! Io av evo deciso di costruire una dimora stabile per l’arca dell’alleanza del Signore per lo sgabello dei piedi del nostro Dio. Avevo fatto i preparativi per la costruzione ma Dio mi disse: “Non costruira i una casa al mio nome perché tu sei stato un guerriero e hai versato sangue”. Il Signore Dio d’Is raele scelse me fra tutta la famiglia di mio padre perché divenissi per sempre re su Israele; difat ti egli si è scelto Giuda come capo e fra la discendenza di Giuda ha scelto il casato di mio padre e tra i figli di mio padre ha trovato compiacenza in me per costituirmi re su tutto Israele. Fra tut ti i miei figli poiché il Signore mi ha dato molti figli ha scelto mio figlio Salomone per farlo seder e sul trono del regno del Signore su Israele. Egli infatti mi ha detto: “Salomone tuo figlio costruir à la mia casa e i miei cortili perché io mi sono scelto lui come figlio e io gli sarò padre. Renderò s aldo il suo regno per sempre se egli persevererà nel compiere i miei comandi e le mie norme co me fa oggi”. Ora sotto gli occhi d’Israele assemblea del Signore e davanti al nostro Dio che ascol ta vi scongiuro: custodite e ricercate tutti i comandi del Signore vostro Dio perché possediate q uesta buona terra e la passiate in eredità ai vostri figli dopo di voi per sempre. Tu Salomone figli o mio riconosci il Dio di tuo padre servilo con cuore perfetto e con animo volenteroso perché il Signore scruta tutti i cuori e conosce ogni intimo intento: se lo cercherai ti si farà trovare; se inv ece l’abbandonerai egli ti rigetterà per sempre. Vedi: ora il Signore ti ha scelto perché tu gli cost ruisca una casa come santuario; sii forte e mettiti al lavoro». Davide diede a Salomone suo figlio il modello del vestibolo e degli edifici delle stanze per i tesori dei piani superiori e delle camere interne e del luogo per il propiziatorio inoltre il modello di quanto aveva in animo riguardo ai co rtili del tempio del Signore a tutte le stanze laterali ai tesori del tempio di Dio e ai tesori delle co se consacrate alle classi dei sacerdoti e dei leviti e a tutta l’attività per il servizio del tempio del Signore e a tutti gli arredi usati nel tempio del Signore. Quanto a tutti gli oggetti d’oro gli conseg
nò l’oro indicando il peso dell’oro di ciascun oggetto destinato al culto e il peso dell’argento di c iascun oggetto di culto; inoltre l’oro dei candelabri e delle loro lampade indicando il peso dei sin goli candelabri e delle loro lampade e l’argento destinato ai candelabri indicando il peso dei can delabri e delle loro lampade secondo l’uso di ogni candelabro; inoltre il quantitativo dell’oro per le tavole dell’offerta per ogni tavola e dell’argento per le tavole d’argento, dell’oro puro per le f orcelle i vasi per l’aspersione e le brocche; il quantitativo dell’oro per le coppe per ogni coppa d’
oro e quello dell’argento per ogni coppa d’argento; l’oro puro per l’altare dell’incenso aromatic o indicandone il peso; il modello del carro d’oro dei cherubini che stendevano le ali e coprivano l’arca dell’alleanza del Signore. Tutto ciò era contenuto in uno scritto di mano del Signore, che s piegava tutti i particolari del modello. Davide disse a Salomone suo figlio: «Sii forte e coraggioso
; mettiti al lavoro non temere e non abbatterti perché il Signore Dio il mio Dio è con te. Non ti la scerà e non ti abbandonerà finché tu non abbia terminato tutto il lavoro per il tempio del Signor e. Ecco le classi dei sacerdoti e dei leviti per ogni servizio del tempio di Dio; ci sono con te in ogn i lavoro esperti in ogni attività. I capi e tutto il popolo sono ai tuoi ordini». Il re Davide disse a tu tta l’assemblea: «Salomone mio figlio il solo che Dio ha scelto, è giovane e inesperto mentre l’i mpresa è grandiosa perché l’edificio non è per un uomo ma per il Signore Dio. Con tutta la mia f orza ho fatto preparativi per il tempio del mio Dio; ho preparato oro su oro argento su argento bronzo su bronzo ferro su ferro legname su legname, ònici brillanti topazi pietre di vario valore e pietre preziose e marmo bianco in quantità. Inoltre per il mio amore per il tempio del mio Dio quanto possiedo in oro e in argento lo dono per il tempio del mio Dio oltre a quanto ho prepara to per il santuario: tremila talenti d’oro, d’oro di Ofir e settemila talenti d’argento raffinato per rivestire le pareti interne, l’oro per gli oggetti in oro l’argento per quelli in argento e per tutti i la vori eseguiti dagli artefici. E chi vuole ancora riempire oggi la sua mano per fare offerte al Signor e?». Fecero allora offerte i capi di casato i capi delle tribù d’Israele i comandanti di migliaia e di centinaia e i sovrintendenti agli affari del re. Essi diedero per l’opera del tempio di Dio cinquemi la talenti d’oro diecimila dàrici diecimila talenti d’argento, diciottomila talenti di bronzo e cento mila talenti di ferro. Quanti si ritrovarono in possesso di pietre preziose le diedero nelle mani di Iechièl il Ghersonita perché fossero depositate nel tesoro del tempio del Signore. Il popolo gioì per queste loro offerte perché erano fatte al Signore con cuore sincero; anche il re Davide gioì v ivamente. Davide benedisse il Signore sotto gli occhi di tutta l’assemblea. Davide disse: «Bened etto sei tu Signore, Dio d’Israele nostro padre, ora e per sempre. Tua Signore è la grandezza la p otenza, lo splendore la gloria e la maestà: perché tutto nei cieli e sulla terra è tuo. Tuo è il regno Signore: ti innalzi sovrano sopra ogni cosa. Da te provengono la ricchezza e la gloria, tu domini t utto; nella tua mano c’è forza e potenza, con la tua mano dai a tutti ricchezza e potere. Ed ora n ostro Dio noi ti ringraziamo e lodiamo il tuo nome glorioso. E chi sono io e chi è il mio popolo pe r essere in grado di offrirti tutto questo spontaneamente? Tutto proviene da te: noi dopo averlo ricevuto dalla tua mano te l’abbiamo ridato. Noi siamo forestieri davanti a te e ospiti come tutti i nostri padri. Come un’ombra sono i nostri giorni sulla terra e non c’è speranza. Signore nostro
Dio quanto noi abbiamo preparato per costruire una casa al tuo santo nome proviene da te ed è tutto tuo. So mio Dio che tu provi i cuori e ti compiaci della rettitudine. Io con cuore retto ho offerto spontaneamente tutte queste cose. Ora io vedo con gioia che anche il tuo popolo qui pr esente ti porta offerte spontanee. Signore Dio di Abramo di Isacco e d’Israele nostri padri custo disci per sempre questa disposizione come intimo intento del cuore del tuo popolo. Dirigi i loro cuori verso di te. A Salomone mio figlio concedi un cuore sincero perché custodisca i tuoi coma ndi le tue istruzioni e le tue norme perché esegua tutto ciò e costruisca l’edificio per il quale io h o fatto i preparativi». Davide disse a tutta l’assemblea: «Benedite dunque il Signore vostro Dio!
». Tutta l’assemblea benedisse il Signore Dio dei loro padri; si inginocchiarono e si prostrarono d avanti al Signore e al re. Offrirono sacrifici al Signore e gli bruciarono olocausti il giorno dopo: m ille giovenchi mille arieti mille agnelli con le loro libagioni oltre a numerosi sacrifici per tutto Isra ele. Mangiarono e bevvero alla presenza del Signore in quel giorno con grande gioia. Di nuovo p roclamarono re Salomone figlio di Davide e unsero per il Signore lui come capo e Sadoc come sa cerdote. Salomone sedette sul trono del Signore come re al posto di Davide suo padre; prosper ò e tutto Israele gli fu sottomesso. Tutti i comandanti i prodi e anche tutti i figli del re Davide si s ottomisero al re Salomone. Il Signore rese grande Salomone agli occhi di tutto Israele e gli diede un regno così splendido che nessun predecessore in Israele aveva mai avuto. Davide figlio di Ies se regnò su tutto Israele. La durata del suo regno su Israele fu di quarant’anni: a Ebron regnò se tte anni e a Gerusalemme regnò trentatré anni. Morì in vecchiaia sazio di anni di ricchezza e di g loria. Al suo posto divenne re suo figlio Salomone. Le gesta del re Davide dalle prime alle ultime sono descritte nei libri del veggente Samuele nel libro del profeta Natan e nel libro del veggente Gad con tutta la storia del suo regno della sua potenza e di quanto in quei tempi accadde a lui a Israele e a tutti i regni del mondo. Salomone figlio di Davide si affermò nel regno. Il Signore suo Dio era con lui e lo rese molto grande. Salomone mandò ordini a tutto Israele ai comandanti di migliaia e di centinaia ai magistrati a tutti i prìncipi di tutto Israele e ai capi di casato. Poi Salom one e tutta l’assemblea con lui si recarono all’altura di Gàbaon perché là si trovava la tenda del convegno di Dio eretta da Mosè servo del Signore nel deserto. Ma Davide aveva fatto salire l’arc a di Dio da Kiriat-Iearìm nel luogo che aveva preparato per essa perché egli aveva innalzato per essa una tenda a Gerusalemme. L’altare di bronzo opera di Besalèl, figlio di Urì figlio di Cur era là davanti alla Dim ora del Signore. Salomone e l’assemblea vi andarono per consultare il Signore. Ivi Salomone salì all’altare di bronzo davanti al Signore presso la tenda del convegno e vi offrì sopra mille olocaus ti. In quella notte Dio apparve a Salomone e gli disse: «Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda».
Salomone disse a Dio: «Tu hai trattato Davide mio padre con grande amore e mi hai fatto regna re al suo posto. Ora Signore Dio si avveri la tua promessa fatta a Davide mio padre perché mi ha i costituito re su un popolo numeroso come la polvere della terra. Ora concedimi saggezza e sci enza perché io possa guidare questo popolo; perché chi governerebbe mai questo tuo grande p opolo?». Dio disse a Salomone: «Poiché questo ti sta a cuore e poiché non hai domandato né ric
chezza né beni né gloria né la vita dei tuoi avversari e neppure una lunga vita ma hai domandat o per te saggezza e scienza per governare il mio popolo su cui ti ho costituito re, saggezza e scie nza ti saranno concesse. Inoltre io ti darò ricchezza beni e gloria quali non ebbero mai i re prima di te e non avranno mai quelli dopo di te». Salomone poi dall’altura che si trovava a Gàbaon tor nò a Gerusalemme lontano dalla tenda del convegno e regnò su Israele. Salomone radunò carri e cavalli; aveva millequattrocento carri e dodicimila cavalli da sella, distribuiti nelle città per i ca rri e presso il re a Gerusalemme. Il re fece sì che a Gerusalemme l’argento e l’oro abbondassero come le pietre e rese il legname di cedro tanto comune quanto i sicomòri che crescono nella Sef ela. I cavalli di Salomone provenivano da Musri e da Kue; i mercanti del re li compravano in Kue.
Essi facevano venire e importavano da Musri un carro per seicento sicli d’argento un cavallo pe r centocinquanta. In tal modo ne importavano per fornirli a tutti i re degli Ittiti e ai re di Aram. S
alomone decise di costruire una casa al nome del Signore e una reggia per sé. Salomone ingaggi ò settantamila uomini addetti a portare pesi ottantamila scalpellini per lavorare sulle montagne e tremilaseicento sorveglianti. Salomone mandò a dire a Curam re di Tiro: «Come hai fatto con mio padre Davide al quale avevi spedito legno di cedro per la costruzione della sua dimora fa’ a nche con me. Ecco, ho deciso di costruire un tempio al nome del Signore mio Dio per consacrarl o a lui così che io possa bruciare incenso aromatico davanti a lui esporre sempre i pani dell’offer ta e presentare olocausti mattina e sera nei sabati nei noviluni e nelle feste del Signore nostro D
io. Per Israele questo è un obbligo perenne. Il tempio che io intendo costruire deve essere gran de perché il nostro Dio è più grande di tutti gli dèi. Ma chi avrà la capacità di costruirgli un temp io quando i cieli e i cieli dei cieli non bastano per contenerlo? E chi sono io perché gli costruisca un tempio anche solo per bruciare incenso alla sua presenza? Ora mandami un uomo esperto n el lavorare l’oro l’argento il bronzo il ferro filati di porpora di crèmisi e di violetto e che sappia e seguire intagli di ogni genere; egli lavorerà con gli altri artigiani che io ho in Giuda e a Gerusale mme preparàti da mio padre Davide. Mandami legno di cedro di cipresso e di sandalo dal Liban o. Io so infatti che i tuoi uomini sono abili nel tagliare gli alberi del Libano. Ora i miei uomini si u niranno ai tuoi per prepararmi legno in grande quantità perché il tempio che intendo costruire deve essere grande e stupendo. Ecco a quanti abbatteranno e taglieranno gli alberi io darò gran o per vettovagliamento; ai tuoi uomini darò ventimila kor di grano ventimila kor d’orzo ventimil a bat di vino e ventimila bat d’olio». Curam re di Tiro mandò per iscritto a Salomone questo mes saggio: «Per l’amore che il Signore porta al suo popolo ti ha costituito re su di esso». Quindi Cur am diceva: «Sia benedetto il Signore Dio d’Israele che ha fatto il cielo e la terra che ha concesso al re Davide un figlio saggio pieno di senno e d’intelligenza il quale costruirà un tempio al Signor e e una reggia per sé. Ora ti mando un uomo esperto pieno di saggezza Curam-Abì, figlio di una donna della tribù di Dan e di un padre di Tiro. Egli sa lavorare l’oro, l’argento il bronzo il ferro le pietre il legno i filati di porpora di violetto di bisso e di crèmisi; sa eseguire ogn i intaglio ed eseguire ogni opera d’arte che gli venga sottoposta. Egli lavorerà con i tuoi artigiani e con gli artigiani del mio signore Davide tuo padre. Ora il mio signore mandi ai suoi uomini il gr
ano l’orzo l’olio e il vino promessi. Noi taglieremo nel Libano il legname quanto te ne occorrerà e te lo porteremo per mare a mo’ di zattere fino a Giaffa e tu lo farai salire a Gerusalemme». Sal omone censì tutti i forestieri che erano nella terra d’Israele: un nuovo censimento dopo quello effettuato da suo padre Davide. Ne furono trovati centocinquantatremilaseicento. Ne prese set tantamila come addetti a portare pesi ottantamila come scalpellini per lavorare sulle montagne e tremilaseicento come sorveglianti per far lavorare quella gente. Salomone cominciò a costruir e il tempio del Signore a Gerusalemme sul monte Mòria dove il Signore era apparso a Davide su o padre nel luogo preparato da Davide sull’aia di Ornan il Gebuseo. Incominciò a costruire nel s econdo mese dell’anno quarto del suo regno. Queste sono le misure delle fondamenta poste da Salomone per edificare il tempio di Dio: lunghezza, in cubiti dell’antica misura sessanta cubiti; l arghezza venti cubiti. Il vestibolo che era di fronte nel senso della larghezza del tempio era di ve nti cubiti; la sua altezza era di centoventi cubiti. Egli ricoprì l’interno d’oro puro. Ricoprì con leg no di cipresso la sala maggiore e la rivestì d’oro fino; sopra vi scolpì palme e catenelle. Rivestì la sala con pietre preziose per ornamento. L’oro era oro di Parvàim. Rivestì d’oro la sala cioè le tra vi le soglie le pareti e le porte; sulle pareti scolpì cherubini. Costruì il Santo dei Santi lungo nel se nso della larghezza del tempio venti cubiti e largo venti cubiti. Lo rivestì d’oro fino impiegandon e seicento talenti. Il peso dei chiodi era di cinquanta sicli d’oro; anche i piani di sopra rivestì d’or o. Nel Santo dei Santi eresse due cherubini lavoro di scultura e li rivestì d’oro. Le ali dei cherubin i erano lunghe venti cubiti. Un’ala del primo cherubino lunga cinque cubiti toccava la parete dell a sala; l’altra lunga cinque cubiti toccava l’ala del secondo cherubino. Un’ala del secondo cheru bino di cinque cubiti toccava la parete della sala; l’altra, di cinque cubiti toccava l’ala del primo c herubino. Queste ali dei cherubini spiegate, misuravano venti cubiti; essi erano raffigurati ritti v oltati verso l’interno. Fece il velo di stoffa di violetto di porpora di crèmisi e di bisso; sopra vi fec e ricamare cherubini. Di fronte al tempio eresse due colonne alte trentacinque cubiti; il capitell o sulla cima di ciascuna era di cinque cubiti. Fece delle catenelle come nel sacrario e le pose sull a cima delle colonne. Fece anche cento melagrane e le collocò in forma di catenelle. Eresse le c olonne di fronte all’aula una a destra e una a sinistra; quella a destra la chiamò Iachin e quella a sinistra Boaz. Salomone fece l’altare di bronzo lungo venti cubiti largo venti e alto dieci. Fece il Mare un bacino di metallo fuso di dieci cubiti da un orlo all’altro perfettamente rotondo; la sua altezza era di cinque cubiti e una corda di trenta cubiti lo poteva cingere intorno. C’erano sotto l
’orlo tutt’intorno figure dalla sembianza di buoi dieci per ogni cubito che formavano un giro all’i ntorno; le figure di buoi erano disposte in due file ed erano state colate insieme con il Mare. Qu esto poggiava su dodici buoi; tre guardavano verso settentrione tre verso occidente tre verso m eridione e tre verso oriente. Il Mare poggiava su di essi e tutte le loro parti posteriori erano rivol te verso l’interno. Il suo spessore era di un palmo; il suo orlo fatto come l’orlo di un calice, era a forma di giglio. La sua capacità era di tremila bat. Fece poi dieci bacini per la purificazione pone ndone cinque a destra e cinque a sinistra; in essi si lavava quanto veniva usato per l’olocausto. Il Mare serviva alle abluzioni dei sacerdoti. Fece dieci candelabri d’oro secondo la forma prescritt
a e li pose nell’aula: cinque a destra e cinque a sinistra. Fece dieci mense e le collocò nell’aula ci nque a destra e cinque a sinistra. Fece inoltre dieci vasi d’oro per l’aspersione. Fece il cortile dei sacerdoti il gran cortile e le sue porte i cui battenti rivestì di bronzo. Pose il Mare dal lato destro a oriente rivolto verso meridione. Curam fece i recipienti le palette e i vasi per l’aspersione. Ter minò di fare il lavoro che aveva eseguito per il re Salomone quanto al tempio di Dio: le due colo nne i globi dei capitelli che erano sopra le colonne i due reticoli per coprire i due globi dei capite lli che erano sopra le colonne le quattrocento melagrane per i due reticoli due file di melagrane per ciascun reticolo, per coprire i due globi dei capitelli che erano sulle colonne i dieci carrelli e i dieci bacini sui carrelli l’unico Mare e i dodici buoi sotto di esso i recipienti le palette i vasi per l’
aspersione e tutti quegli utensili che Curam-
Abì aveva fatto al re Salomone per il tempio del Signore. Tutto era di bronzo splendente. Il re li f ece fondere nel circondario del Giordano in suolo argilloso fra Succot e Seredà. Salomone fece f are tutti quegli utensili in quantità molto grande tanto che non si poteva calcolare il peso del br onzo. Salomone fece tutti gli utensili del tempio di Dio l’altare d’oro le mense su cui si ponevan o i pani dell’offerta i candelabri e le lampade d’oro purissimo da accendersi, come era prescritto di fronte al sacrario i fiori le lampade gli smoccolatoi d’oro di quello più raffinato i coltelli i vasi per l’aspersione i mortai e i bracieri d’oro purissimo e quanto alle porte del tempio i battenti int erni verso il Santo dei Santi e i battenti del tempio cioè dell’aula in oro. Fu così terminato tutto i l lavoro che Salomone aveva fatto per il tempio del Signore. Salomone fece portare le offerte co nsacrate da Davide suo padre cioè l’argento l’oro e tutti gli utensili; le depositò nei tesori del te mpio di Dio. Salomone allora convocò in assemblea a Gerusalemme gli anziani d’Israele e tutti i capitribù i prìncipi dei casati degli Israeliti per far salire l’arca dell’alleanza del Signore dalla Città di Davide cioè da Sion. Si radunarono presso il re tutti gli Israeliti nel settimo mese durante la fe sta. Quando furono giunti tutti gli anziani d’Israele, i leviti sollevarono l’arca e fecero salire l’arc a con la tenda del convegno e con tutti gli oggetti sacri che erano nella tenda; li facevano salire i sacerdoti leviti. Il re Salomone e tutta la comunità d’Israele convenuta presso di lui immolavan o davanti all’arca pecore e giovenchi che non si potevano contare né si potevano calcolare per l a quantità. I sacerdoti introdussero l’arca dell’alleanza del Signore al suo posto nel sacrario del t empio nel Santo dei Santi sotto le ali dei cherubini. Difatti i cherubini stendevano le ali sul luogo dell’arca; i cherubini cioè coprivano l’arca e le sue stanghe dall’alto. Le stanghe sporgevano e le punte delle stanghe si vedevano dall’arca di fronte al sacrario ma non si vedevano di fuori. Vi è rimasta fino ad oggi. Nell’arca non c’era nulla se non le due tavole che vi aveva posto Mosè sull’
Oreb dove il Signore concluse l’alleanza con gli Israeliti quando uscirono dall’Egitto. Appena i sa cerdoti furono usciti dal santuario –
tutti i sacerdoti presenti infatti si erano santificati senza badare alle classi –
mentre tutti i leviti cantori cioè Asaf Eman, Iedutù n e i loro figli e fratelli vestiti di bisso con cim bali arpe e cetre stavano in piedi a oriente dell’altare e mentre presso di loro centoventi sacerd oti suonavano le trombe avvenne che, quando i suonatori e i cantori fecero udire all’unisono la
voce per lodare e celebrare il Signore e il suono delle trombe dei cimbali e degli altri strumenti s i levò per lodare il Signore perché è buono perché il suo amore è per sempre allora il tempio il t empio del Signore si riempì di una nube e i sacerdoti non poterono rimanervi per compiere il se rvizio a causa della nube perché la gloria del Signore riempiva il tempio di Dio. Allora Salomone disse: «Il Signore ha deciso di abitare nella nube oscura. Ti ho costruito una casa eccelsa, un luo go per la tua dimora in eterno». Il re si voltò e benedisse tutta l’assemblea d’Israele mentre tutt a l’assemblea d’Israele stava in piedi e disse: «Benedetto il Signore Dio d’Israele che ha adempiu to con le sue mani quanto con la bocca ha detto a Davide mio padre: “Da quando feci uscire il m io popolo dalla terra d’Egitto io non ho scelto una città fra tutte le tribù d’Israele per costruire u na casa perché vi dimorasse il mio nome e non ho scelto nessuno perché fosse condottiero del mio popolo Israele; ma ho scelto Gerusalemme perché vi dimori il mio nome e ho scelto Davide perché governi il mio popolo Israele”. Davide mio padre aveva deciso di costruire una casa al no me del Signore Dio d’Israele ma il Signore disse a Davide mio padre: “Poiché hai deciso di costru ire una casa al mio nome hai fatto bene a deciderlo; solo che non costruirai tu la casa ma tuo fig lio che uscirà dai tuoi fianchi lui costruirà una casa al mio nome”. Il Signore ha attuato la parola che aveva pronunciato: sono succeduto infatti a Davide mio padre e siedo sul trono d’Israele co me aveva preannunciato il Signore e ho costruito la casa al nome del Signore Dio d’Israele. Vi ho collocato l’arca dove c’è l’alleanza che il Signore aveva concluso con gli Israeliti». Egli si pose po i davanti all’altare del Signore di fronte a tutta l’assemblea d’Israele e stese le mani. Salomone i nfatti aveva eretto una tribuna di bronzo e l’aveva collocata in mezzo al grande cortile; era lung a cinque cubiti larga cinque e alta tre. Egli vi salì e si inginocchiò di fronte a tutta l’assemblea d’I sraele. Stese le mani verso il cielo e disse: «Signore Dio d’Israele non c’è un Dio come te in cielo e sulla terra. Tu mantieni l’alleanza e la fedeltà verso i tuoi servi che camminano davanti a te co n tutto il loro cuore. Tu hai mantenuto nei riguardi del tuo servo Davide mio padre quanto gli av evi promesso; quanto avevi detto con la bocca l’hai adempiuto con la tua mano come appare og gi. Ora Signore Dio d’Israele mantieni nei riguardi del tuo servo Davide mio padre quanto gli hai promesso dicendo: “Non ti mancherà mai un discendente che stia davanti a me e sieda sul tron o d’Israele purché i tuoi figli veglino sulla loro condotta camminando secondo la mia legge come hai camminato tu davanti a me”. Ora Signore Dio d’Israele si adempia la tua parola che hai rivol to al tuo servo Davide! Ma è proprio vero che Dio abita con gli uomini sulla terra? Ecco i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti tanto meno questa casa che io ho costruito! Volgiti alla pr eghiera del tuo servo e alla sua supplica Signore mio Dio per ascoltare il grido e la preghiera che il tuo servo innalza davanti a te! Siano aperti i tuoi occhi giorno e notte verso questa casa verso il luogo dove hai promesso di porre il tuo nome per ascoltare la preghiera che il tuo servo innal za in questo luogo. Ascolta le suppliche del tuo servo e del tuo popolo Israele quando preghera nno in questo luogo. Ascoltali dal luogo della tua dimora dal cielo; ascolta e perdona! Se uno pe cca contro il suo prossimo e perché gli è imposto un giuramento imprecatorio viene a giurare da vanti al tuo altare in questo tempio tu ascoltalo dal cielo, intervieni e fa’ giustizia con i tuoi servi
; condanna il malvagio facendogli ricadere sul capo la sua condotta e dichiara giusto l’innocente rendendogli quanto merita la sua giustizia. Quando il tuo popolo Israele sarà sconfitto di fronte al nemico perché ha peccato contro di te ma si converte e loda il tuo nome prega e supplica da vanti a te in questo tempio tu ascolta dal cielo perdona il peccato del tuo popolo Israele e fallo t ornare sul suolo che hai dato a loro e ai loro padri. Quando si chiuderà il cielo e non ci sarà piog gia perché hanno peccato contro di te ma ti pregano in questo luogo lodano il tuo nome e si co nvertono dal loro peccato perché tu li hai umiliati tu ascolta nel cielo perdona il peccato dei tuoi servi e del tuo popolo Israele ai quali indicherai la strada buona su cui camminare e concedi la pioggia alla terra che hai dato in eredità al tuo popolo. Quando nella terra ci sarà fame o peste c arbonchio o ruggine invasione di locuste o di bruchi quando il suo nemico lo assedierà nel territ orio delle sue città o quando vi sarà piaga o infermità d’ogni genere ogni preghiera e ogni suppli ca di un solo individuo o di tutto il tuo popolo Israele di chiunque abbia patito piaga e dolore e s tenda le mani verso questo tempio, tu ascoltala dal cielo luogo della tua dimora perdona e da’ a ciascuno secondo la sua condotta tu che conosci il suo cuore poiché solo tu conosci il cuore deg li uomini, perché ti temano e camminino nelle tue vie tutti i giorni della loro vita sul suolo che h ai dato ai nostri padri. Anche lo straniero che non è del tuo popolo Israele se viene da una terra lontana a causa del tuo grande nome della tua mano potente e del tuo braccio teso se egli vien e a pregare in questo tempio, tu ascolta dal cielo luogo della tua dimora e fa’ tutto quello per cu i ti avrà invocato lo straniero perché tutti i popoli della terra conoscano il tuo nome ti temano c ome il tuo popolo Israele e sappiano che il tuo nome è stato invocato su questo tempio che io h o costruito. Quando il tuo popolo uscirà in guerra contro i suoi nemici seguendo la via sulla qual e l’avrai mandato e ti pregheranno rivolti verso questa città che tu hai scelto e verso il tempio c he ho costruito al tuo nome ascolta dal cielo la loro preghiera e la loro supplica e rendi loro gius tizia. Quando peccheranno contro di te poiché non c’è nessuno che non pecchi e tu, adirato con tro di loro li consegnerai a un nemico e i loro conquistatori li deporteranno in una terra lontana o vicina se nella terra in cui saranno deportati rientrando in se stessi torneranno a te, supplican doti nella terra della loro prigionia dicendo: “Abbiamo peccato siamo colpevoli siamo stati malv agi” se torneranno a te con tutto il loro cuore e con tutta la loro anima nella terra della loro prig ionia dove li avranno deportati e supplicheranno rivolti verso la loro terra che tu hai dato ai loro padri verso la città che tu hai scelto e verso il tempio che io ho costruito al tuo nome, tu ascolta dal cielo luogo della tua dimora la loro preghiera e la loro supplica e rendi loro giustizia. Perdon a al tuo popolo che ha peccato contro di te. Ora mio Dio i tuoi occhi siano aperti e le tue orecchi e attente alla preghiera innalzata in questo luogo. Ora sorgi Signore Dio verso il luogo del tuo ri poso tu e l’arca della tua potenza. I tuoi sacerdoti Signore Dio si rivestano di salvezza e i tuoi fed eli gioiscano nella prosperità. Signore Dio non respingere il volto del tuo consacrato; ricòrdati i f avori fatti a Davide, tuo servo». Appena Salomone ebbe finito di pregare cadde dal cielo il fuoco che consumò l’olocausto e le altre vittime mentre la gloria del Signore riempiva il tempio. I sace rdoti non potevano entrare nel tempio del Signore perché la gloria del Signore lo riempiva. Tutti
gli Israeliti quando videro scendere il fuoco e la gloria del Signore sul tempio si prostrarono con la faccia a terra sul pavimento adorarono e celebrarono il Signore perché è buono perché il suo amore è per sempre. Il re e tutto il popolo offrirono un sacrificio davanti al Signore. Il re Salomo ne offrì in sacrificio ventiduemila giovenchi e centoventimila pecore; così il re e tutto il popolo d edicarono il tempio di Dio. I sacerdoti attendevano al servizio e così pure i leviti con tutti gli stru menti musicali che il re Davide aveva fatto per celebrare il Signore perché il suo amore è per se mpre quando salmodiava per mezzo loro. I sacerdoti suonavano le trombe di fronte ai leviti me ntre tutti gli Israeliti stavano in piedi. Salomone consacrò il centro del cortile che era di fronte al tempio del Signore; infatti lì offrì gli olocausti e il grasso dei sacrifici di comunione perché l’altar e di bronzo eretto da Salomone non poteva contenere l’olocausto l’offerta e i grassi. In quel te mpo Salomone celebrò la festa per sette giorni: tutto Israele dall’ingresso di Camat al torrente d i Egitto un’assemblea grandissima era con lui. Nel giorno ottavo ci fu una riunione solenne esse ndo durata la dedicazione dell’altare sette giorni e sette giorni anche la festa. Il ventitré del setti mo mese Salomone congedò il popolo perché tornasse alle sue tende contento e con la gioia ne l cuore per il bene concesso dal Signore a Davide a Salomone e a Israele, suo popolo. Salomone terminò il tempio del Signore e la reggia; attuò quanto aveva deciso di fare nel tempio del Signo re e nella propria reggia. Il Signore apparve di notte a Salomone e gli disse: «Ho ascoltato la tua preghiera; mi sono scelto questo luogo come casa ove sacrificare. Se chiuderò il cielo e non ci sa rà più pioggia se comanderò alle cavallette di divorare la campagna e se invierò la peste in mezz o al mio popolo se il mio popolo sul quale è stato invocato il mio nome si umilierà pregherà e ric ercherà il mio volto e si convertirà dalle sue vie malvagie ascolterò dal cielo e perdonerò il suo p eccato e risanerò la sua terra. Ora i miei occhi saranno aperti e i miei orecchi attenti alla preghie ra fatta in questo luogo. Ora io mi sono scelto e ho consacrato questa casa perché il mio nome v i resti sempre; i miei occhi e il mio cuore saranno là tutti i giorni. Quanto a te, se camminerai da vanti a me come ha camminato Davide tuo padre facendo quanto ti ho comandato e osserverai le mie leggi e le mie norme io stabilirò il trono del tuo regno come ho promesso a Davide tuo pa dre dicendo: “Non ti sarà tolto un discendente che regni in Israele”. Ma se voi devierete e abba ndonerete le leggi e le norme che io vi ho proposto se andrete a servire altri dèi e a prostrarvi d avanti a loro vi sterminerò dalla terra che vi ho dato ripudierò questo tempio che ho consacrato al mio nome lo renderò la favola e lo zimbello di tutti i popoli. Questo tempio sarà una rovina; c hiunque vi passerà accanto resterà sbigottito e si domanderà: “Perché il Signore ha agito così co n questa terra e con questo tempio?”. Si risponderà: “Perché hanno abbandonato il Signore Dio dei loro padri che li aveva fatti uscire dalla terra d’Egitto e si sono legati a dèi stranieri, prostran dosi davanti a loro e servendoli. Per questo egli ha fatto venire su di loro tutta questa sciagura”
». Passati i vent’anni durante i quali aveva costruito il tempio del Signore e la reggia, Salomone r icostruì le città che Curam gli aveva dato e vi stabilì gli Israeliti. Salomone andò a Camat di Soba e la occupò. Egli ricostruì Tadmor nel deserto e tutte le città dei magazzini che aveva costruito i n Camat. Riedificò Bet-Oron superiore e Bet-
Oron inferiore fortezze con mura battenti e catenacci. Lo stesso fece con Baalàt con tutte le citt à dei magazzini che gli appartenevano e con tutte le città per i carri e per i cavalli e costruì a Ger usalemme nel Libano e in tutto il territorio del suo dominio tutto ciò che gli piacque. Quanti rim anevano degli Ittiti degli Amorrei dei Perizziti degli Evei e dei Gebusei che non erano Israeliti e ci oè i loro discendenti rimasti dopo di loro nella terra coloro che gli Israeliti non avevano distrutto Salomone li arruolò per il lavoro coatto come accade ancora oggi. Ma degli Israeliti Salomone n on fece schiavo nessuno per i suoi lavori perché essi erano guerrieri comandanti dei suoi scudie ri comandanti dei suoi carri e dei suoi cavalieri. I comandanti dei prefetti del re Salomone erano duecentocinquanta e dirigevano il popolo. Salomone trasferì la figlia del faraone dalla Città di D
avide alla casa che le aveva fatto costruire perché pensava: «Non deve abitare una mia donna n ella casa di Davide re d’Israele perché è santo ogni luogo in cui ha sostato l’arca del Signore». In quel tempo Salomone offrì olocausti al Signore sull’altare del Signore che aveva fatto costruire di fronte al vestibolo. Secondo il rituale quotidiano offriva olocausti conformemente al comand o di Mosè nei sabati nei noviluni e nelle tre feste dell’anno cioè nella festa degli Azzimi nella fest a delle Settimane e nella festa delle Capanne. Secondo le disposizioni di Davide suo padre stabil ì le classi dei sacerdoti per il loro servizio. Anche per i leviti dispose che nel loro ufficio lodassero Dio e assistessero i sacerdoti ogni giorno; ai portieri nelle loro classi assegnò le singole porte pe rché così aveva comandato Davide uomo di Dio. Non si allontanarono in nulla dalle disposizioni del re Davide riguardo ai sacerdoti e ai leviti; lo stesso avvenne riguardo ai tesori. Così fu realizz ata tutta l’opera di Salomone da quando si gettarono le fondamenta del tempio del Signore fino al compimento definitivo del tempio del Signore. Allora Salomone andò a Esion-Ghèber e a Elat sulla riva del mare nel territorio di Edom. Curam per mezzo dei suoi marinai gli mandò alcune navi e uomini esperti del mare. Costoro insieme con i marinai di Salomone andar ono a Ofir e di là presero quattrocentocinquanta talenti d’oro e li portarono al re Salomone. La r egina di Saba sentita la fama di Salomone venne a Gerusalemme per metterlo alla prova con eni gmi. Arrivò con un corteo molto numeroso con cammelli carichi di aromi d’oro in quantità e di p ietre preziose. Si presentò a Salomone e gli parlò di tutto quello che aveva nel suo cuore. Salom one le chiarì tutto quanto ella gli diceva; non ci fu parola tanto nascosta a Salomone che egli no n potesse spiegarle. La regina di Saba quando vide la sapienza di Salomone la reggia che egli ave va costruito, i cibi della sua tavola il modo ordinato di sedere dei suoi servi il servizio dei suoi do mestici e le loro vesti i suoi coppieri e le loro vesti gli olocausti che egli offriva nel tempio del Sig nore rimase senza respiro. Quindi disse al re: «Era vero dunque quanto avevo sentito nel mio pa ese sul tuo conto e sulla tua sapienza! Io non credevo a quanto si diceva finché non sono giunta qui e i miei occhi non hanno visto; ebbene non mi era stata riferita neppure una metà della gran dezza della tua sapienza! Tu superi la fama che ne ho udita. Beati i tuoi uomini e beati questi tu oi servi che stanno sempre alla tua presenza e ascoltano la tua sapienza! Sia benedetto il Signor e tuo Dio che si è compiaciuto di te così da collocarti sul suo trono come re per il Signore tuo Di o. Poiché il tuo Dio ama Israele e intende renderlo stabile per sempre ti ha posto su di loro com
e re per esercitare il diritto e la giustizia». Ella diede al re centoventi talenti d’oro aromi in gran quantità e pietre preziose. Non ci furono mai tanti aromi come quelli che la regina di Saba diede al re Salomone. Inoltre gli uomini di Curam e quelli di Salomone che portavano oro da Ofir reca rono legno di sandalo e pietre preziose. Con il legname di sandalo il re fece le scale per il tempio del Signore e per la reggia cetre e arpe per i cantori; strumenti simili non erano mai stati visti n ella terra di Giuda. Il re Salomone diede alla regina di Saba quanto lei desiderava e aveva doma ndato oltre l’equivalente di quanto aveva portato al re. Quindi ella si mise in viaggio e tornò nel suo paese con i suoi servi. Il peso dell’oro che giungeva a Salomone ogni anno era di seicentoses santasei talenti d’oro senza contare quanto ne proveniva dai mercanti e dai commercianti; tutti i re dell’Arabia e i governatori della regione portavano a Salomone oro e argento. Il re Salomon e fece duecento scudi grandi d’oro battuto per ognuno dei quali adoperò seicento sicli d’oro bat tuto e trecento scudi piccoli d’oro battuto per ognuno dei quali adoperò trecento sicli d’oro. Il r e li collocò nel palazzo della Foresta del Libano. Inoltre il re fece un grande trono d’avorio che ri vestì d’oro puro. Il trono aveva sei gradini e uno sgabello d’oro. Vi erano braccioli da una parte e dall’altra del sedile e due leoni che stavano a fianco dei braccioli. Dodici leoni si ergevano di q ua e di là sui sei gradini; una cosa simile non si era mai fatta in nessun regno. Tutti i vasi per le b evande del re Salomone erano d’oro tutti gli arredi del palazzo della Foresta del Libano erano d’
oro fino; nessuno era in argento perché ai giorni di Salomone non valeva nulla. Difatti le navi de l re andavano a Tarsis guidate dai marinai di Curam; ogni tre anni le navi di Tarsis arrivavano por tando oro argento zanne d’elefante scimmie e pavoni. Il re Salomone fu più grande per ricchezz a e sapienza di tutti i re della terra. Tutti i re della terra cercavano il volto di Salomone per ascol tare la sapienza che Dio aveva messo nel suo cuore. Ognuno gli portava ogni anno il proprio trib uto oggetti d’argento e oggetti d’oro vesti armi aromi cavalli e muli. Salomone aveva quattromil a stalle per i suoi cavalli e i suoi carri e dodicimila cavalli da sella, distribuiti nelle città per i carri e presso il re a Gerusalemme. Egli dominava su tutti i re dal Fiume alla regione dei Filistei e al co nfine con l’Egitto. Il re fece sì che a Gerusalemme l’argento abbondasse come le pietre e rese il l egname di cedro tanto comune quanto i sicomòri che crescono nella Sefela. Da Musri e da tutti i paesi si importavano cavalli per Salomone. Le altre gesta di Salomone dalle prime alle ultime n on sono forse descritte negli atti del profeta Natan nella profezia di Achia di Silo e nelle visioni d el veggente Iedo riguardo a Geroboamo figlio di Nebat? Salomone regnò a Gerusalemme su tutt o Israele quarant’anni. Salomone si addormentò con i suoi padri e lo seppellirono nella Città di Davide suo padre; al suo posto divenne re suo figlio Roboamo. Roboamo andò a Sichem perché tutti gli Israeliti erano convenuti a Sichem per proclamarlo re. Quando lo seppe Geroboamo figli o di Nebat che era in Egitto dove era fuggito per paura del re Salomone tornò dall’Egitto. Lo ma ndarono a chiamare e Geroboamo venne con tutto Israele e parlarono a Roboamo dicendo: «Tu o padre ha reso duro il nostro giogo; ora tu alleggerisci la dura servitù di tuo padre e il giogo pes ante che egli ci ha imposto e noi ti serviremo». Rispose loro: «Tornate da me fra tre giorni». Il p opolo se ne andò. Il re Roboamo si consigliò con gli anziani che erano stati al servizio di Salomon
e suo padre, durante la sua vita domandando: «Che cosa mi consigliate di rispondere a questo p opolo?». Gli dissero: «Se oggi ti mostrerai benevolo verso questo popolo se l’accontenterai e se dirai loro parole buone essi ti saranno servi per sempre». Ma egli trascurò il consiglio che gli anz iani gli avevano dato e si consultò con i giovani che erano cresciuti con lui ed erano al suo servizi o. Domandò loro: «Voi che cosa mi consigliate di rispondere a questo popolo che mi ha chiesto di alleggerire il giogo imposto loro da mio padre?». I giovani che erano cresciuti con lui gli disser o: «Per rispondere al popolo che si è rivolto a te dicendo: “Tuo padre ha reso pesante il nostro g iogo tu alleggeriscilo!” di’ loro così: “Il mio mignolo è più grosso dei fianchi di mio padre. Ora mi o padre vi caricò di un giogo pesante, io renderò ancora più grave il vostro giogo; mio padre vi c astigò con fruste, io con flagelli”». Geroboamo e tutto il popolo si presentarono a Roboamo il te rzo giorno come il re aveva ordinato dicendo: «Tornate da me il terzo giorno». Il re rispose loro duramente. Il re Roboamo respinse il consiglio degli anziani; egli disse loro secondo il consiglio d ei giovani: «Mio padre ha reso pesante il vostro giogo, io lo renderò ancora più grave; mio padr e vi castigò con fruste, io con flagelli». Il re non ascoltò il popolo poiché era disposizione divina c he il Signore attuasse la parola che aveva rivolta a Geroboamo figlio di Nebat per mezzo di Achi a di Silo. Tutto Israele, visto che il re non li ascoltava diede al re questa risposta: «Che parte abbi amo con Davide? Noi non abbiamo eredità con il figlio di Iesse! Ognuno alle proprie tende Israel e! Ora pensa alla tua casa Davide». Tutto Israele se ne andò alle sue tende. Sugli Israeliti che abi tavano nelle città di Giuda regnò Roboamo. Il re Roboamo mandò Adoràm che era sovrintenden te al lavoro coatto ma gli Israeliti lo lapidarono ed egli morì. Allora il re Roboamo salì in fretta su l carro per fuggire a Gerusalemme. Israele si ribellò alla casa di Davide fino ad oggi. Roboamo gi unto a Gerusalemme convocò la casa di Giuda e di Beniamino centoottantamila guerrieri scelti per combattere contro Israele e per restituire il regno a Roboamo. La parola del Signore fu rivolt a a Semaià uomo di Dio: «Riferisci a Roboamo figlio di Salomone re di Giuda e a tutti gli Israeliti che sono in Giuda e in Beniamino: “Così dice il Signore: Non salite a combattere contro i vostri f ratelli; ognuno torni a casa perché questo fatto è dipeso da me”». Ascoltarono le parole del Sign ore e tornarono indietro senza marciare contro Geroboamo. Roboamo abitò a Gerusalemme. E
gli trasformò in fortezze alcune città di Giuda. Ricostruì Betlemme Etam Tekòa Bet-Sur Soco Adullàm, Gat Maresà Zif Adoràim Lachis Azekà Sorea, àialon ed Ebron; queste fortezze erano in Giuda e in Beniamino. Egli munì queste fortezze vi mise sovrintendenti e vi stabilì depo siti di cibarie di olio e di vino. In ogni città depositò scudi e lance rendendole fortissime. Apparte nnero dunque a lui Giuda e Beniamino. I sacerdoti e i leviti che erano in tutto Israele si radunaro no da tutto il loro territorio presso di lui. Infatti i leviti lasciarono i pascoli e le proprietà e andar ono in Giuda e a Gerusalemme perché Geroboamo e i suoi figli li avevano esclusi dall’esercitare il sacerdozio del Signore. Geroboamo aveva stabilito suoi sacerdoti per le alture per i satiri e per i vitelli che aveva eretto. Al seguito dei leviti da tutte le tribù d’Israele quanti avevano determin ato in cuor loro di ricercare il Signore Dio d’Israele andarono a Gerusalemme per sacrificare al Si gnore Dio dei loro padri. Così rafforzarono il regno di Giuda e sostennero Roboamo figlio di Salo
mone per tre anni perché per tre anni egli seguì la via di Davide e di Salomone. Roboamo si pres e in moglie Macalàt figlia di Ierimòt figlio di Davide e di Abiàil figlia di Eliàb figlio di Iesse. Essa gli partorì i figli Ieus, Semaria e Zaam. Dopo di lei prese Maacà figlia di Assalonne che gli partorì Ab ia, Attài Ziza e Selomìt. Roboamo amò Maacà figlia di Assalonne, più di tutte le altre mogli e con cubine; egli prese diciotto mogli e sessanta concubine e generò ventotto figli e sessanta figlie. R
oboamo costituì Abia figlio di Maacà capo ossia principe tra i suoi fratelli perché pensava di farl o re. Con accortezza egli sparse in tutte le contrade di Giuda e di Beniamino in tutte le città forti ficate alcuni suoi figli. Diede loro viveri in abbondanza e li provvide di molte mogli. Quando il re gno fu consolidato ed egli si sentì forte Roboamo abbandonò la legge del Signore e tutto Israele lo seguì. Nell’anno quinto del re Roboamo il re d’Egitto Sisak salì contro Gerusalemme, perché i suoi abitanti si erano ribellati al Signore. Egli aveva milleduecento carri, sessantamila cavalli. Col oro che erano venuti con lui dall’Egitto non si contavano: Libi Succhei ed Etiopi. Egli prese le fort ezze di Giuda e giunse fino a Gerusalemme. Il profeta Semaià si presentò a Roboamo e ai coma ndanti di Giuda che si erano raccolti a Gerusalemme per paura di Sisak e disse loro: «Dice il Sign ore: “Voi avete abbandonato me e io ho abbandonato voi nelle mani di Sisak”». Allora i capi d’Is raele e il re si umiliarono e dissero: «Giusto è il Signore!». Quando il Signore vide che si erano u miliati la parola del Signore fu rivolta a Semaià: «Si sono umiliati e io non li distruggerò. Anzi con cederò loro la liberazione fra poco; la mia ira non si riverserà su Gerusalemme per mezzo di Sisa k. Tuttavia essi diventeranno suoi servi; così sapranno che cosa sia servire me e servire i regni d el mondo». Sisak re d’Egitto salì a Gerusalemme e prese i tesori del tempio del Signore e i tesori della reggia portò via tutto prese anche gli scudi d’oro fatti da Salomone. Il re Roboamo li sostit uì con scudi di bronzo che affidò ai comandanti delle guardie addette alle porte della reggia. Og ni volta che il re andava nel tempio del Signore le guardie li prendevano, poi li riportavano nella sala delle guardie. Poiché Roboamo si era umiliato l’ira del Signore si ritirò da lui e non lo distrus se del tutto. Anzi in Giuda ci furono avvenimenti felici. Il re Roboamo si consolidò a Gerusalemm e e regnò. Quando divenne re Roboamo aveva quarantun anni e regnò diciassette anni a Gerusa lemme città scelta dal Signore fra tutte le tribù d’Israele per collocarvi il suo nome. Sua madre a mmonita si chiamava Naamà. Egli fece il male perché non aveva applicato il cuore alla ricerca d el Signore. Le gesta di Roboamo dalle prime alle ultime non sono forse descritte negli atti del pr ofeta Semaià e del veggente Iddo secondo le genealogie? Ci furono guerre continue fra Roboam o e Geroboamo. Roboamo si addormentò con i suoi padri e fu sepolto nella Città di Davide. Al s uo posto divenne re suo figlio Abia. Nell’anno diciottesimo del re Geroboamo Abia divenne re s u Giuda. Regnò tre anni a Gerusalemme; sua madre di Gàbaa si chiamava Maacà figlia di Urièl. C
i fu guerra fra Abia e Geroboamo. Abia attaccò battaglia con un esercito di valorosi quattrocent omila uomini scelti. Geroboamo si schierò in battaglia contro di lui con ottocentomila uomini sc elti soldati valorosi. Abia si pose sul monte Semaràim che è sulle montagne di èfraim e gridò: «A scoltatemi Geroboamo e tutto Israele! Non sapete forse che il Signore Dio d’Israele, ha concess o il regno a Davide su Israele per sempre a lui e ai suoi figli con un’alleanza inviolabile? Geroboa
mo figlio di Nebat ministro di Salomone figlio di Davide è insorto e si è ribellato contro il suo pa drone. Presso di lui si sono radunati uomini sfaccendati e perversi; essi si fecero forti contro Ro boamo figlio di Salomone. Roboamo era giovane timido di carattere; non fu abbastanza forte di fronte a loro. Ora voi pensate di imporvi sul regno del Signore che è nelle mani dei figli di David e perché siete una grande moltitudine e con voi sono i vitelli d’oro che Geroboamo vi ha fatti co me divinità. Non avete forse voi scacciato i sacerdoti del Signore figli di Aronne e i leviti e non vi siete costituiti dei sacerdoti come i popoli degli altri paesi? Chiunque si è presentato con un gio venco di armento e con sette arieti a farsi consacrare è divenuto sacerdote di chi non è Dio. Qu anto a noi il Signore è nostro Dio; non l’abbiamo abbandonato. I sacerdoti che prestano servizio al Signore sono discendenti di Aronne e i leviti sono gli addetti alle funzioni. Essi offrono al Sign ore olocausti ogni mattina e ogni sera l’incenso aromatico i pani dell’offerta su una tavola pura dispongono i candelabri d’oro con le lampade da accendersi ogni sera perché noi osserviamo i c omandi del Signore nostro Dio mentre voi lo avete abbandonato. Ecco alla nostra testa con noi c’è Dio; i suoi sacerdoti e le trombe lanciano il grido di guerra contro di voi. Israeliti non combat tete contro il Signore Dio dei vostri padri perché non avrete successo». Geroboamo li aggirò con un agguato per assalirli alle spalle. Le truppe stavano di fronte a Giuda mentre coloro che eran o in agguato si trovavano alle spalle. Quelli di Giuda si volsero. Avendo da combattere di fronte e alle spalle gridarono al Signore e i sacerdoti suonarono le trombe. Tutti quelli di Giuda alzaron o il grido di guerra. Mentre quelli di Giuda lanciavano il grido Dio colpì Geroboamo e tutto Israel e di fronte ad Abia e a Giuda. Gli Israeliti fuggirono di fronte a Giuda; Dio li aveva messi nelle lor o mani. Abia e la sua truppa inflissero loro una grave sconfitta; fra gli Israeliti caddero morti cin quecentomila uomini scelti. In quel tempo furono umiliati gli Israeliti mentre si rafforzarono que lli di Giuda perché avevano confidato nel Signore Dio dei loro padri. Abia inseguì Geroboamo e g li prese le seguenti città: Betel con le sue dipendenze, Iesanà con le sue dipendenze ed Efron co n le sue dipendenze. Durante la vita di Abia, Geroboamo non ebbe più forza alcuna; il Signore lo colpì ed egli morì. Abia, invece si rafforzò egli prese quattordici mogli e generò ventidue figli e s edici figlie. Le altre gesta di Abia le sue azioni e le sue parole sono descritte nella memoria del p rofeta Iddo. Abia si addormentò con i suoi padri; lo seppellirono nella Città di Davide e al suo po sto divenne re suo figlio Asa. Ai suoi tempi la terra rimase tranquilla per dieci anni. Asa fece ciò che è bene e retto agli occhi del Signore suo Dio. Rimosse gli altari degli stranieri e le alture; spe zzò le stele ed eliminò i pali sacri. Egli ordinò a Giuda di ricercare il Signore Dio dei loro padri e d i eseguirne la legge e i comandi. Da tutte le città di Giuda rimosse le alture e gli altari per l’incen so. Il regno fu tranquillo sotto di lui. In Giuda ricostruì le fortezze poiché il territorio era tranquill o e in quegli anni non si trovava in guerra; il Signore gli aveva concesso tregua. Egli disse a Giud a: «Ricostruiamo quelle città circondandole di mura e di torri con porte e sbarre mentre il territ orio è ancora in nostro potere perché abbiamo ricercato il Signore, nostro Dio; noi l’abbiamo ric ercato ed egli ci ha concesso tregua alle frontiere». Ricostruirono e prosperarono. Asa aveva un esercito di trecentomila uomini di Giuda con grandi scudi e lance e di duecentoottantamila Beni
aminiti con piccoli scudi e archi. Tutti costoro erano valorosi soldati. Contro di loro marciò Zerac h l’Etiope con un milione di soldati e con trecento carri; egli giunse fino a Maresà. Asa gli andò i ncontro; si schierarono a battaglia nella valle di Sefatà presso Maresà. Asa domandò al Signore suo Dio: «Signore nessuno come te può soccorrere nella lotta fra il potente e chi è senza forza.
Soccorrici Signore nostro Dio perché noi confidiamo in te e nel tuo nome marciamo contro ques ta moltitudine. Signore tu sei nostro Dio; un uomo non prevalga su di te!». Il Signore sconfisse g li Etiopi di fronte ad Asa e di fronte a Giuda. Gli Etiopi si diedero alla fuga. Asa e quanti erano co n lui li inseguirono fino a Gerar. Degli Etiopi ne caddero tanti che non ne restò uno vivo perché f atti a pezzi di fronte al Signore e al suo esercito. Riportarono un grande bottino. Conquistarono anche tutte le città intorno a Gerar poiché il terrore del Signore si era diffuso in esse; saccheggia rono tutte le città nelle quali c’era grande bottino. Si abbatterono anche sulle tende del bestiam e facendo razzie di pecore e di cammelli in grande quantità quindi tornarono a Gerusalemme. L
o spirito di Dio investì Azaria figlio di Oded. Costui uscito incontro ad Asa, gli disse: «Asa e voi tu tti di Giuda e di Beniamino ascoltatemi! Il Signore sarà con voi se voi sarete con lui; se lo ricerch erete si lascerà trovare da voi ma se lo abbandonerete vi abbandonerà. Per lungo tempo Israele non ebbe vero Dio né un sacerdote che insegnasse, né una legge. Ma nella miseria egli fece rito rno al Signore Dio d’Israele; lo cercarono ed egli si lasciò trovare da loro. In quei tempi non c’era pace per chi andava e veniva perché fra gli abitanti dei vari paesi c’erano grandi terrori. Una na zione cozzava contro l’altra una città contro l’altra perché Dio li affliggeva con tribolazioni di og ni genere. Ma voi siate forti e le vostre mani non crollino perché c’è una ricompensa per le vostr e azioni». Quando Asa ebbe udito queste parole e la profezia riprese animo. Eliminò gli idoli da t utto il territorio di Giuda e di Beniamino e dalle città che egli aveva conquistato sulle montagne di èfraim; rinnovò l’altare del Signore che si trovava di fronte al vestibolo del Signore. Radunò tu tti gli abitanti di Giuda e di Beniamino e quanti provenienti da èfraim da Manasse e da Simeone abitavano in mezzo a loro come forestieri; difatti da Israele erano venuti da lui in grande numer o avendo constatato che il Signore suo Dio era con lui. Si radunarono a Gerusalemme nel terzo mese dell’anno quindicesimo del regno di Asa. In quel giorno sacrificarono al Signore parte della preda che avevano riportato: settecento giovenchi e settemila pecore. Si obbligarono con un’al leanza a ricercare il Signore Dio dei loro padri con tutto il loro cuore e con tutta la loro anima. P
er chiunque grande o piccolo uomo o donna non avesse ricercato il Signore Dio d’Israele c’era la morte. Giurarono al Signore a voce alta e con acclamazioni fra suoni di trombe e di corni. Tutto Giuda gioì per il giuramento perché avevano giurato con tutto il loro cuore e avevano cercato il Signore con tutto il loro impegno e questi si era lasciato trovare da loro e aveva concesso tregua alle frontiere. Egli privò anche Maacà madre del re Asa del titolo di regina madre perché ella av eva eretto ad Asera un’immagine infame; Asa demolì l’immagine infame la fece a pezzi e la bruc iò nella valle del torrente Cedron. Ma non scomparvero le alture da Israele anche se il cuore di Asa si mantenne integro per tutta la sua vita. Fece portare nel tempio di Dio le offerte consacrat e da suo padre e quelle consacrate da lui stesso consistenti in argento oro e utensili. Non ci fu g
uerra fino all’anno trentacinquesimo del regno di Asa. Nell’anno trentaseiesimo del regno di As a il re d’Israele Baasà salì contro Giuda. Egli fortificò Rama per impedire il transito ad Asa re di G
iuda. Asa estrasse dai tesori del tempio del Signore e della reggia argento e oro e li mandò a Be n-Adàd re di Aram residente a Damasco con questa proposta: «Ci sia un’alleanza tra me e te come tra mio padre e tuo padre. Ecco ti mando argento e oro. Su rompi la tua alleanza con Baasà re d
’Israele, in modo che egli si ritiri da me». Ben-
Adàd ascoltò il re Asa; mandò contro le città d’Israele i comandanti del suo esercito che colpiro no Iion Dan Abel-Màim e tutte le città di approvvigionamento di Nèftali. Quando lo seppe Baasà smise di fortifica re Rama e desistette dalla sua impresa. Il re Asa convocò tutti quelli di Giuda che andarono a pr endere le pietre e il legname con cui Baasà stava fortificando Rama e con essi fortificò Gheba e Mispa. In quel tempo il veggente Anàni si presentò ad Asa re di Giuda e gli disse: «Poiché ti sei a ppoggiato al re di Aram e non al Signore tuo Dio l’esercito del re di Aram ti è sfuggito di mano. E
tiopi e Libi non costituivano forse un grande esercito con numerosissimi carri e cavalli? Quando ti appoggiasti al Signore egli non li consegnò forse in mano tua? Difatti il Signore con gli occhi sc ruta tutta la terra per mostrare la sua potenza a favore di chi si comporta con lui con cuore sinc ero. Tu in ciò hai agito da stolto; per questo d’ora in poi avrai solo guerre». Asa si sdegnò contro il veggente e lo mise in prigione adirato con lui per tali parole. In quel tempo Asa oppresse anc he parte del popolo. Ecco le gesta di Asa dalle prime alle ultime sono descritte nel libro dei re di Giuda e d’Israele. Nell’anno trentanovesimo del suo regno Asa si ammalò gravemente ai piedi.
Neppure nell’infermità egli ricercò il Signore ricorrendo solo ai medici. Asa si addormentò con i suoi padri; morì nell’anno quarantunesimo del suo regno. Lo seppellirono nel sepolcro che egli s i era scavato nella Città di Davide. Lo stesero su un letto pieno di aromi e profumi composti con arte di profumeria; ne bruciarono per lui una quantità immensa. Al suo posto divenne re suo figl io Giòsafat che si fortificò contro Israele. Egli mise guarnigioni militari in tutte le fortezze di Giud a; nominò governatori per il territorio di Giuda e per le città di èfraim occupate dal padre Asa. Il Signore fu con Giòsafat perché egli camminò sulle vie seguite prima da suo padre e non ricercò i Baal ma piuttosto ricercò il Dio di suo padre e ne seguì i comandi senza imitare Israele. Il Signor e consolidò il regno nelle mani di Giòsafat e tutto Giuda gli portava offerte. Egli ebbe ricchezze e gloria in quantità. Il suo cuore divenne forte nel seguire il Signore; eliminò anche le alture e i p ali sacri da Giuda. Nell’anno terzo del suo regno mandò i suoi ufficiali BenCàil Abdia Zaccaria, Netanèl e Michea a insegnare nelle città di Giuda. Con essi c’erano i leviti Se maià Natania Zebadia Asaèl Semiramòt Giònata Adonia e Tobia e i sacerdoti Elisamà e Ioram. In segnarono in Giuda; avevano con sé il libro della legge del Signore e percorsero tutte le città di Giuda istruendo il popolo. Il terrore del Signore si diffuse per tutti i regni che circondavano Giud a e così essi non fecero guerra a Giòsafat. Da parte dei Filistei si portavano a Giòsafat tributi e ar gento in dono; anche gli Arabi gli portavano bestiame minuto: settemilasettecento arieti e sette
milasettecento capri. Giòsafat cresceva sempre più in potenza. Egli costruì in Giuda castelli e cit tà di approvvigionamento. Disponeva di molta manodopera nelle città di Giuda. A Gerusalemm e risiedevano i suoi guerrieri soldati valorosi. Ecco il loro censimento secondo i casati. Per Giuda erano comandanti di migliaia Adna il comandante e con lui trecentomila soldati valorosi; alle su e dipendenze c’era il comandante Giovanni e con lui duecentoottantamila soldati; alle sue dipe ndenze c’era Amasia figlio di Zicrì votato al Signore e con lui duecentomila soldati valorosi. Per Beniamino Eliadà soldato valoroso e con lui duecentomila armati di arco e di scudo. Alle sue dip endenze c’era Iozabàd e con lui centoottantamila armati per la guerra. Tutti costoro erano al se rvizio del re oltre quelli che il re aveva stabiliti nelle fortezze in tutto Giuda. Giòsafat che aveva r icchezza e gloria in abbondanza si imparentò con Acab. Dopo alcuni anni scese da Acab a Samari a; Acab uccise per lui e per la gente del suo seguito pecore e buoi in quantità e lo persuase ad at taccare con lui Ramot di Gàlaad. Acab re d’Israele disse a Giòsafat re di Giuda: «Verresti con me contro Ramot di Gàlaad?». Gli rispose: «Conta su di me come su te stesso sul mio popolo come sul tuo; sarò con te in battaglia». Giòsafat disse al re d’Israele: «Consulta per favore oggi stesso l a parola del Signore». Il re d’Israele radunò i profeti quattrocento persone e domandò loro: «Do bbiamo andare contro Ramot di Gàlaad o devo rinunciare?». Risposero: «Attacca; Dio la metter à in mano al re». Giòsafat disse: «Non c’è qui ancora un profeta del Signore da consultare?». Il r e d’Israele rispose a Giòsafat: «C’è ancora un uomo per consultare tramite lui il Signore ma io lo detesto perché non mi profetizza il bene ma sempre il male: è Michea figlio di Imla». Giòsafat d isse: «Il re non parli così». Il re d’Israele chiamato un cortigiano gli ordinò: «Convoca subito Mic hea figlio di Imla!». Il re d’Israele e Giòsafat re di Giuda sedevano ognuno sul suo trono vestiti d ei loro mantelli nello spiazzo all’ingresso della porta di Samaria; tutti i profeti profetizzavano da vanti a loro. Sedecìa figlio di Chenaanà che si era fatto corna di ferro affermava: «Così dice il Sig nore: “Con queste cozzerai contro gli Aramei sino a finirli”». Tutti i profeti profetizzavano allo st esso modo: «Assali Ramot di Gàlaad avrai successo. Il Signore la metterà in mano al re». Il mess aggero che era andato a chiamare Michea gli disse: «Ecco le parole dei profeti concordano sul s uccesso del re; ora la tua parola sia come quella degli altri: preannuncia il successo». Michea ris pose: «Per la vita del Signore annuncerò quanto il mio Dio mi dirà». Si presentò al re che gli do mandò: «Michea dobbiamo andare in guerra contro Ramot di Gàlaad o rinunciare?». Gli rispose
: «Attaccàtela avrete successo; i suoi abitanti saranno messi nelle vostre mani». Il re gli disse: «
Quante volte ti devo scongiurare di non dirmi altro se non la verità nel nome del Signore?». Egli disse: «Vedo tutti gli Israeliti vagare sui monti come pecore che non hanno pastore. Il Signore di ce: “Questi non hanno padrone; ognuno torni a casa sua in pace!”». Il re d’Israele disse a Giòsaf at: «Non te l’avevo detto che costui non mi profetizza il bene ma solo il male?». Michea disse: «
Perciò ascoltate la parola del Signore. Io ho visto il Signore seduto sul trono; tutto l’esercito del cielo stava alla sua destra e alla sua sinistra. Il Signore domandò: “Chi ingannerà Acab re d’Israel e, perché salga contro Ramot di Gàlaad e vi perisca?”. Chi rispose in un modo e chi in un altro. S
i fece avanti uno spirito che presentatosi al Signore disse: “Lo ingannerò io”. “Come?” gli doman
dò il Signore. Rispose: “Andrò e diventerò spirito di menzogna sulla bocca di tutti i suoi profeti”.
Gli disse: “Lo ingannerai; certo riuscirai: va’ e fa’ così”. Ecco dunque il Signore ha messo uno spi rito di menzogna sulla bocca di questi tuoi profeti ma il Signore a tuo riguardo parla di sciagura»
. Allora Sedecìa figlio di Chenaanà si avvicinò e percosse Michea sulla guancia dicendo: «Per qua le via lo spirito del Signore è passato da me per parlare a te?». Michea rispose: «Ecco lo vedrai n el giorno in cui passerai di stanza in stanza per nasconderti». Il re d’Israele disse: «Prendete Mic hea e conducetelo da Amon, governatore della città e da Ioas figlio del re. Direte loro: “Così dic e il re: Mettete costui in prigione e nutritelo con il minimo di pane e di acqua finché tornerò in p ace”». Michea disse: «Se davvero tornerai in pace il Signore non ha parlato per mezzo mio». E a ggiunse: «Popoli tutti ascoltate!». Il re d’Israele marciò insieme con Giòsafat re di Giuda contro Ramot di Gàlaad. Il re d’Israele disse a Giòsafat: «Io per combattere mi travestirò. Tu resta con i tuoi abiti». Il re d’Israele si travestì ed entrarono in battaglia. Il re di Aram aveva ordinato ai co mandanti dei suoi carri: «Non combattete contro nessuno piccolo o grande ma unicamente con tro il re d’Israele». Appena videro Giòsafat i comandanti dei carri dissero: «Quello è il re d’Israel e!». Lo circondarono per combattere. Giòsafat lanciò un grido e il Signore gli venne in aiuto e Di o li allontanò dalla sua persona. I comandanti dei carri si accorsero che non era il re d’Israele e s i allontanarono da lui. Ma un uomo tese a caso l’arco e colpì il re d’Israele fra le maglie dell’arm atura e la corazza. Il re disse al suo cocchiere: «Gira, portami fuori dalla mischia perché sono fer ito». La battaglia infuriò in quel giorno; il re d’Israele stette sul carro di fronte agli Aramei sino al la sera e morì al tramonto del sole. Giòsafat re di Giuda tornò in pace a casa a Gerusalemme. Il veggente Ieu, figlio di Anàni gli andò incontro e disse a Giòsafat: «Si aiuta forse un malvagio? E t u ami coloro che odiano il Signore? Per questo lo sdegno del Signore è contro di te. Tuttavia in t e si sono trovate cose buone perché hai bruciato i pali sacri nel territorio e hai rivolto il tuo cuor e a cercare Dio». Giòsafat rimase a Gerusalemme; poi si recò di nuovo fra il suo popolo da Bersa bea alle montagne di èfraim riportandolo al Signore Dio dei loro padri. Egli stabilì giudici nel terr itorio in tutte le fortezze di Giuda città per città. Ai giudici egli raccomandò: «Guardate a quello che fate perché non giudicate per gli uomini ma per il Signore il quale sarà con voi quando pron uncerete la sentenza. Ora il terrore del Signore sia con voi; nell’agire badate che nel Signore nos tro Dio non c’è nessuna iniquità: egli non ha preferenze personali né accetta doni». Anche a Ger usalemme Giòsafat costituì alcuni leviti sacerdoti e capifamiglia d’Israele per il giudizio del Signo re e le liti degli abitanti di Gerusalemme. Egli comandò loro: «Voi agirete nel timore del Signore con fedeltà e con cuore integro. Su ogni causa che vi verrà presentata da parte dei vostri fratelli che abitano nelle loro città –
si tratti di omicidio o di una questione che riguarda una legge o un comandamento o statuti o d ecreti –
istruiteli in modo che non si mettano in condizione di colpa davanti al Signore e il suo sdegno n on si riversi su di voi e sui vostri fratelli. Agite così e non diventerete colpevoli. Ecco Amaria som mo sacerdote sarà vostro capo in tutte le cose del Signore mentre Zebadia, figlio di Ismaele cap
o della casa di Giuda in tutte le cose del re; in qualità di scribi sono a vostra disposizione i leviti.
Coraggio mettetevi al lavoro. E il Signore sia con chi è buono». In seguito i Moabiti e gli Ammoni ti aiutati dai Meuniti mossero guerra a Giòsafat. Fu annunciato a Giòsafat: «Una grande moltitu dine è venuta contro di te da oltre il mare da Edom. Ecco sono a Casesòn-Tamar cioè a Engàddi». Nella paura, Giòsafat si decise a cercare il Signore e indisse un digiuno p er tutto Giuda. Quelli di Giuda si radunarono per chiedere aiuto al Signore; vennero da tutte le c ittà di Giuda per chiedere aiuto al Signore. Giòsafat stando in piedi in mezzo all’assemblea di Gi uda e di Gerusalemme nel tempio del Signore di fronte al nuovo cortile disse: «Signore Dio dei n ostri padri non sei forse tu il Dio che è in cielo? Tu dòmini su tutti i regni delle nazioni. Nelle tue mani sono la forza e la potenza; nessuno può opporsi a te. Non hai scacciato tu nostro Dio gli ab itanti di questa terra di fronte al tuo popolo Israele e non l’hai data per sempre alla discendenza del tuo amico Abramo? Essi l’hanno abitata e vi hanno costruito un santuario al tuo nome dice ndo: “Se ci piomberà addosso una sciagura una spada punitrice una peste o una carestia noi ci p resenteremo al tuo cospetto in questo tempio poiché il tuo nome è in questo tempio e gridere mo a te dalla nostra sciagura e tu ci ascolterai e ci aiuterai”. Ora ecco gli Ammoniti i Moabiti e q uelli della montagna di Seir nelle cui terre non hai permesso agli Israeliti di entrare, quando veni vano dalla terra d’Egitto e perciò si sono tenuti lontani da quelli e non li hanno distrutti ecco ora ci ricompensano venendoci a scacciare dall’eredità che tu hai acquistato per noi. Dio nostro no n vorrai renderci giustizia nei loro riguardi poiché noi non abbiamo la forza di opporci a una mol titudine così grande piombataci addosso? Non sappiamo che cosa fare; perciò i nostri occhi son o rivolti a te». Tutti gli abitanti di Giuda stavano in piedi davanti al Signore con i loro bambini le l oro mogli e i loro figli. Allora lo spirito del Signore in mezzo all’assemblea fu su Iacazièl, figlio di Zaccaria figlio di Benaià figlio di Ieièl figlio di Mattania levita dei figli di Asaf. Egli disse: «Porgete l’orecchio voi tutti di Giuda abitanti di Gerusalemme e tu, re Giòsafat. Vi dice il Signore: “Non te mete e non spaventatevi davanti a questa moltitudine immensa perché la guerra non riguarda v oi ma Dio. Domani scendete contro di loro; ecco, saliranno per la salita di Sis. Voi li sorprendere te al termine della valle di fronte al deserto di Ieruèl. Non toccherà a voi combattere in tale mo mento; fermatevi bene ordinati e vedrete la salvezza che il Signore opererà per voi o Giuda e Ge rusalemme. Non temete e non abbattetevi. Domani uscite loro incontro; il Signore sarà con voi”
». Giòsafat s’inginocchiò con la faccia a terra; tutto Giuda e gli abitanti di Gerusalemme caddero davanti al Signore per prostrarsi davanti a lui. I leviti tra i figli dei Keatiti e i figli dei Coriti si alzar ono a lodare il Signore Dio d’Israele a piena voce. La mattina dopo si alzarono presto e partiron o per il deserto di Tekòa. Mentre si muovevano, Giòsafat si fermò e disse: «Ascoltatemi Giuda e abitanti di Gerusalemme! Credete nel Signore vostro Dio e sarete saldi; credete nei suoi profeti e riuscirete». Quindi, consigliatosi con il popolo mise i cantori del Signore e i salmisti vestiti con paramenti sacri schierati davanti agli uomini in armi perché lodassero il Signore dicendo: «Rend ete grazie al Signore, perché il suo amore è per sempre». Appena cominciarono i loro canti di es ultanza e di lode il Signore tese un agguato contro gli Ammoniti i Moabiti e quelli della montagn
a di Seir venuti contro Giuda e furono sconfitti. Gli Ammoniti e i Moabiti insorsero contro gli abi tanti della montagna di Seir per votarli allo sterminio e distruggerli. Quando ebbero finito con gl i abitanti della montagna di Seir contribuirono a distruggersi a vicenda. Quando quelli di Giuda r aggiunsero la collina da dove si vedeva il deserto si voltarono verso la moltitudine ed ecco: non c’erano che cadaveri gettati per terra senza alcun superstite. Giòsafat e la sua gente andarono a raccogliere la loro preda. Vi trovarono in abbondanza bestiame ricchezze vesti e oggetti prezios i. Ne presero più di quanto ne potessero portare. Passarono tre giorni a raccogliere il bottino pe rché esso era molto abbondante. Il quarto giorno si radunarono nella valle di Beracà poiché là b enedissero il Signore chiamarono quel luogo valle di Beracà come è ancora oggi. Quindi tutto Gi uda e tutti quelli di Gerusalemme, con Giòsafat alla testa partirono per tornare a Gerusalemme pieni di gioia perché il Signore li aveva riempiti di letizia a danno dei loro nemici. Entrarono in G
erusalemme diretti al tempio del Signore fra suoni di arpe di cetre e di trombe. Quando si seppe che il Signore aveva combattuto contro i nemici d’Israele il terrore di Dio si diffuse su tutti i reg ni del mondo. Il regno di Giòsafat rimase tranquillo; Dio gli aveva concesso tregua su tutte le fro ntiere. Giòsafat regnò su Giuda. Aveva trentacinque anni quando divenne re; regnò venticinque anni a Gerusalemme. Sua madre si chiamava Azubà figlia di Silchì. Seguì la via di Asa suo padre non si allontanò da essa facendo ciò che è retto agli occhi del Signore. Ma non scomparvero le a lture; il popolo non aveva ancora diretto il cuore verso il Dio dei suoi padri. Le altre gesta di Giòs afat dalle prime alle ultime ecco sono descritte negli atti di Ieu, figlio di Anàni inseriti nel libro d ei re d’Israele. In seguito Giòsafat re di Giuda si alleò con Acazia re d’Israele che agiva con malva gità. Egli si associò a lui per costruire navi capaci di raggiungere Tarsis. Allestirono le navi a Esion

Ghèber. Ma Elièzer figlio di Dodavàu di Maresà profetizzò contro Giòsafat dicendo: «Poiché ti se i alleato con Acazia, il Signore ha aperto una breccia nei tuoi lavori». Le navi si sfasciarono e non poterono partire per Tarsis. Giòsafat si addormentò con i suoi padri fu sepolto con loro nella Cit tà di Davide e al suo posto divenne re suo figlio Ioram. I suoi fratelli figli di Giòsafat erano Azaria Iechièl Zaccaria Azariàu, Michele e Sefatia; tutti costoro erano figli di Giòsafat re d’Israele. Il pa dre aveva dato loro ricchi doni: argento oro e oggetti preziosi insieme con fortezze in Giuda; il r egno però l’aveva assegnato a Ioram perché era il primogenito. Ioram prese in possesso il regno di suo padre e quando si fu rafforzato uccise di spada tutti i suoi fratelli e con loro anche alcuni capi d’Israele. Quando divenne re Ioram aveva trentadue anni; regnò a Gerusalemme otto anni.
Seguì la via dei re d’Israele, come aveva fatto la casa di Acab perché sua moglie era figlia di Aca b. Fece ciò che è male agli occhi del Signore. Ma il Signore non volle distruggere la casa di David e a causa dell’alleanza che aveva concluso con Davide e secondo la promessa fattagli di lasciare sempre una lampada per lui e per i suoi figli. Nei suoi giorni Edom si ribellò al dominio di Giuda e si elesse un re. Allora Ioram con i suoi comandanti sconfinò con tutti i carri. Egli si mosse di no tte e sconfisse gli Edomiti che l’avevano accerchiato insieme con i comandanti dei carri. Tuttavia Edom si è sottratto al dominio di Giuda fino ad oggi. In quel tempo anche Libna si ribellò al suo
dominio perché Ioram aveva abbandonato il Signore Dio dei suoi padri. Egli inoltre eresse alture sui monti di Giuda, fece prostituire gli abitanti di Gerusalemme e fece traviare Giuda. Gli giunse da parte del profeta Elia uno scritto che diceva: «Dice il Signore Dio di Davide, tuo padre: “Poic hé non hai seguito la via di Giòsafat tuo padre né la via di Asa re di Giuda ma hai seguito la via d ei re d’Israele hai fatto prostituire Giuda e gli abitanti di Gerusalemme come ha fatto la casa di Acab e inoltre hai ucciso i tuoi fratelli della famiglia di tuo padre, uomini migliori di te ecco il Sig nore sta per colpire con un grave disastro il tuo popolo i tuoi figli le tue mogli e tutti i tuoi beni.
Tu soffrirai gravi malattie una malattia intestinale tale che per essa le tue viscere ti usciranno ne l giro di due anni”». Il Signore risvegliò contro Ioram l’ostilità dei Filistei e degli Arabi che abitan o al confine con gli Etiopi. Costoro attaccarono Giuda vi penetrarono portando via tutti i beni tr ovati nella reggia e persino i suoi figli e le sue mogli. Non gli rimase nessun figlio se non Ioacàz il più piccolo. Dopo tutto questo il Signore lo colpì con una malattia intestinale inguaribile. Andò a vanti per più di un anno; verso la fine del secondo anno gli uscirono le viscere per la gravità dell a malattia e così morì fra dolori atroci. E per lui il popolo non fece fuochi d’aromi come gli aromi bruciati per i suoi padri. Quando divenne re egli aveva trentadue anni; regnò a Gerusalemme ot to anni. Se ne andò senza lasciare rimpianti; lo seppellirono nella Città di Davide ma non nei sep olcri dei re. Gli abitanti di Gerusalemme proclamarono re al suo posto Acazia il minore dei figli p erché tutti quelli più anziani erano stati uccisi dalla banda che era penetrata con gli Arabi nell’ac campamento. Così divenne re Acazia figlio di Ioram re di Giuda. Quando divenne re Acazia avev a quarantadue anni; regnò un anno a Gerusalemme. Sua madre si chiamava Atalia ed era figlia di Omri. Anch’egli seguì la via della casa di Acab perché sua madre lo consigliava ad agire da mal vagio. Fece ciò che è male agli occhi del Signore come la casa di Acab perché dopo la morte di s uo padre costoro per sua rovina erano i suoi consiglieri. Su loro consiglio egli andò alla guerra c on Ioram figlio di Acab re d’Israele contro Cazaèl re di Aram a Ramot di Gàlaad; ma gli Aramei fe rirono Ioram che tornò a curarsi a Izreèl per le ferite ricevute a Rama mentre combatteva contr o Cazaèl re di Aram. Acazia figlio di Ioram re di Giuda scese a visitare Ioram figlio di Acab a Izreèl perché era malato. Fu volontà di Dio che Acazia per sua rovina andasse da Ioram. Difatti quand o giunse uscì con Ioram incontro a Ieu figlio di Nimsì che il Signore aveva unto perché distrugges se la casa di Acab. Mentre faceva giustizia della casa di Acab Ieu trovò i comandanti di Giuda e i nipoti di Acazia suoi servi e li uccise. Egli fece ricercare Acazia e lo catturarono mentre era nasco sto a Samaria; lo condussero da Ieu che lo uccise. Ma lo seppellirono perché dicevano: «è figlio di Giòsafat che ha ricercato il Signore con tutto il cuore». Nella casa di Acazia nessuno era in gra do di regnare. Atalia madre di Acazia visto che era morto suo figlio si accinse a sterminare tutta la discendenza regale della casa di Giuda. Ma Iosabàt figlia del re prese Ioas figlio di Acazia sottr aendolo ai figli del re destinati alla morte e lo portò assieme alla sua nutrice nella camera dei let ti; così Iosabàt figlia del re Ioram e moglie del sacerdote Ioiadà – era anche sorella di Acazia –
nascose Ioas ad Atalia che perciò non lo mise a morte. Rimase nascosto presso di lei nel tempio di Dio per sei anni; intanto Atalia regnava sul paese. Nell’anno settimo Ioiadà sentendosi sicuro
mandò a prendere i comandanti delle centinaia cioè Azaria figlio di Ierocàm Ismaele figlio di Gio vanni Azaria figlio di Obed, Maasia figlio di Adaià ed Elisafàt figlio di Zicrì e concluse un’alleanza con loro. Percorsero Giuda e radunarono i leviti da tutte le città di Giuda e i capi dei casati d’Isra ele; essi vennero a Gerusalemme. Tutta l’assemblea concluse un’alleanza con il re nel tempio di Dio. Ioiadà disse loro: «Ecco il figlio del re. Deve regnare come ha promesso il Signore ai figli di Davide. Questo è ciò che dovrete fare: la terza parte di voi che inizia il servizio di sabato sacerdo ti e leviti farà la guardia alle porte; un altro terzo starà nella reggia e un terzo alla porta di Iesod mentre tutto il popolo starà nei cortili del tempio del Signore. Nessuno entri nel tempio del Sign ore se non i sacerdoti e i leviti di servizio: costoro vi entreranno perché sono santi; tutto il popol o osserverà l’ordine del Signore. I leviti circonderanno il re ognuno con l’arma in pugno e chiunq ue tenti di entrare nel tempio sia messo a morte. Saranno con il re in tutti i suoi movimenti». I l eviti e tutti quelli di Giuda fecero quanto aveva comandato il sacerdote Ioiadà. Ognuno prese i s uoi uomini quelli che entravano in servizio il sabato e quelli che smontavano il sabato perché il s acerdote Ioiadà non aveva licenziato le classi uscenti. Il sacerdote Ioiadà consegnò ai comandan ti di centinaia lance scudi grandi e piccoli già appartenenti al re Davide, che erano nel tempio di Dio. Dispose tutto il popolo ognuno con l’arma in pugno, dall’angolo destro del tempio fino all’a ngolo sinistro lungo l’altare e l’edificio in modo da circondare il re. Fecero uscire il figlio del re e gli consegnarono il diadema e il mandato; lo proclamarono re. Ioiadà e i suoi figli lo unsero e ac clamarono: «Viva il re!». Quando sentì le grida del popolo che acclamando correva verso il re At alia si presentò al popolo nel tempio del Signore. Guardò ed ecco che il re stava presso la colon na all’ingresso i comandanti e i trombettieri circondavano il re mentre tutto il popolo della terra era in festa e suonava le trombe. I cantori con gli strumenti musicali intonavano i canti di lode.
Atalia si stracciò le vesti e gridò: «Congiura congiura!». Il sacerdote Ioiadà fece uscire i comanda nti delle centinaia preposti all’esercito e disse: «Conducetela fuori in mezzo alle file e chiunque l a segue venga ucciso di spada». Il sacerdote infatti aveva detto: «Non uccidetela nel tempio del Signore». Le misero addosso le mani e lei raggiunse la reggia attraverso l’ingresso della porta de i Cavalli e là essi l’uccisero. Ioiadà concluse un’alleanza tra sé il popolo tutto e il re affinché foss e il popolo del Signore. Tutto il popolo entrò nel tempio di Baal e lo demolì ne fece a pezzi gli alt ari e le immagini e ammazzò Mattàn sacerdote di Baal davanti agli altari. Ioiadà affidò la sorvegl ianza del tempio ai sacerdoti e ai leviti che Davide aveva diviso in classi per il tempio perché offr issero olocausti al Signore come sta scritto nella legge di Mosè fra gioia e canti secondo le dispo sizioni di Davide. Stabilì i portieri alle porte del tempio perché non vi entrasse nessun impuro pe r qualsiasi motivo. Prese i comandanti di centinaia i notabili e quanti avevano autorità fra il pop olo come anche tutto il popolo della terra e fece scendere il re dal tempio del Signore. Attravers o la porta superiore lo condussero nella reggia e lo fecero sedere sul trono regale. Tutto il popol o della terra era in festa e la città rimase tranquilla: Atalia era stata uccisa con la spada. Quando divenne re Ioas aveva sette anni; regnò quarant’anni a Gerusalemme. Sua madre, di Bersabea s i chiamava Sibìa. Ioas fece ciò che è retto agli occhi del Signore finché visse il sacerdote Ioiadà. I
oiadà gli diede due mogli ed egli generò figli e figlie. In seguito Ioas decise di restaurare il tempi o del Signore. Radunò i sacerdoti e i leviti e disse loro: «Andate nelle città di Giuda e raccogliete ogni anno da tutto Israele denaro per restaurare il tempio del vostro Dio. Cercate di sollecitare i l lavoro». Ma i leviti non mostrarono nessuna fretta. Allora il re convocò Ioiadà il capo e gli disse
: «Perché non hai richiesto ai leviti che portassero da Giuda e da Gerusalemme la tassa prescritt a da Mosè servo del Signore e fissata dall’assemblea d’Israele per la tenda della Testimonianza?
L’empia Atalia infatti e i suoi adepti hanno dilapidato il tempio di Dio; hanno adoperato per i Ba al perfino tutte le cose consacrate del tempio del Signore». Per ordine del re fecero una cassa c he posero alla porta del tempio del Signore all’esterno. Quindi fecero un proclama in Giuda e a Gerusalemme perché si portasse al Signore la tassa imposta da Mosè servo di Dio a Israele nel d eserto. Tutti i comandanti e tutto il popolo si rallegrarono e portarono il denaro che misero nell a cassa fino a riempirla. Quando la cassa veniva portata per l’ispezione regale affidata ai leviti e d essi vedevano che c’era molto denaro allora veniva lo scriba del re e l’ispettore del sommo sa cerdote vuotavano la cassa quindi la prendevano e la ricollocavano al suo posto. Facevano così ogni giorno e così misero insieme molto denaro. Il re e Ioiadà lo diedero agli esecutori dei lavori addetti al tempio del Signore ed essi impegnarono scalpellini e falegnami per il restauro del tem pio del Signore; anche lavoratori del ferro e del bronzo si misero al lavoro per riparare il tempio del Signore. Gli esecutori dei lavori si misero all’opera e nelle loro mani le riparazioni progrediro no; essi riportarono il tempio di Dio in buono stato e lo consolidarono. Quando ebbero finito po rtarono davanti al re e a Ioiadà il resto del denaro e con esso fecero arredi per il tempio del Sign ore: vasi per il servizio e per gli olocausti coppe e altri oggetti d’oro e d’argento. Finché visse Ioi adà si offrirono sempre olocausti nel tempio del Signore. Ioiadà divenuto vecchio e sazio di anni morì a centotrenta anni. Lo seppellirono nella Città di Davide con i re perché aveva agito bene i n Israele per il servizio del Signore e per il suo tempio. Dopo la morte di Ioiadà i comandanti di Giuda andarono a prostrarsi davanti al re che allora diede loro ascolto. Costoro trascurarono il t empio del Signore Dio dei loro padri per venerare i pali sacri e gli idoli. Per questa loro colpa l’ir a di Dio fu su Giuda e su Gerusalemme. Il Signore mandò loro profeti perché li facessero ritorna re a lui. Questi testimoniavano contro di loro ma non furono ascoltati. Allora lo spirito di Dio inv estì Zaccaria figlio del sacerdote Ioiadà che si alzò in mezzo al popolo e disse: «Dice Dio: “Perché trasgredite i comandi del Signore? Per questo non avete successo; poiché avete abbandonato il Signore anch’egli vi abbandona”». Ma congiurarono contro di lui e per ordine del re lo lapidaro no nel cortile del tempio del Signore. Il re Ioas non si ricordò del favore fattogli da Ioiadà padre di Zaccaria ma ne uccise il figlio che morendo disse: «Il Signore veda e ne chieda conto!». All’iniz io dell’anno successivo salì contro Ioas l’esercito degli Aramei. Essi vennero in Giuda e a Gerusal emme sterminarono fra il popolo tutti i comandanti e inviarono l’intero bottino al re di Damasc o. L’esercito degli Aramei era venuto con pochi uomini ma il Signore mise nelle loro mani un gra nde esercito perché essi avevano abbandonato il Signore Dio dei loro padri. Essi fecero giustizia di Ioas. Quando furono partiti lasciandolo gravemente malato i suoi ministri ordirono una congi
ura contro di lui perché aveva versato il sangue del figlio del sacerdote Ioiadà e lo uccisero nel s uo letto. Così egli morì e lo seppellirono nella Città di Davide ma non nei sepolcri dei re. Questi f urono i congiurati contro di lui: Zabad figlio di Simeàt l’Ammonita e Iozabàd figlio di Simrìt il Mo abita. Quanto riguarda i suoi figli la quantità dei tributi da lui riscossi il restauro del tempio di Di o sono cose descritte nella memoria del libro dei Re. Al suo posto divenne re suo figlio Amasia.
Quando divenne re Amasia aveva venticinque anni; regnò ventinove anni a Gerusalemme. Sua madre era di Gerusalemme e si chiamava Ioaddàn. Egli fece ciò che è retto agli occhi del Signore ma non con cuore perfetto. Quando il regno fu saldo nelle sue mani, giustiziò i suoi ufficiali che avevano ucciso il re suo padre. Ma non fece morire i loro figli secondo quanto è scritto nel libro della legge di Mosè ove il Signore prescrive: «Non moriranno i padri per una colpa dei figli né m oriranno i figli per una colpa dei padri. Ognuno morirà per il proprio peccato». Amasia riunì quel li di Giuda e li distribuì secondo i casati sotto comandanti di migliaia e sotto comandanti di centi naia per tutto Giuda e Beniamino. Fece un censimento dai vent’anni in su e trovò che c’erano tr ecentomila uomini scelti abili alla guerra armati di lancia e di scudo. Egli assoldò da Israele cent omila soldati valorosi per cento talenti d’argento. Gli si presentò un uomo di Dio che gli disse: «
O re non si unisca a te l’esercito d’Israele perché il Signore non è con Israele né con alcuno dei fi gli di èfraim. Altrimenti va’ fa’ pure raffòrzati per la battaglia; Dio ti farà stramazzare davanti al nemico poiché Dio ha la forza per aiutare e per abbattere». Amasia rispose all’uomo di Dio: «Ch e ne sarà dei cento talenti che ho dato per la schiera d’Israele?». L’uomo di Dio rispose: «Il Sign ore può darti molto più di questo». Amasia congedò la schiera venuta a lui da èfraim perché se ne tornasse a casa; ma la loro ira si accese contro Giuda e tornarono a casa loro pieni d’ira. Ama sia fattosi animo andò a capo del suo popolo nella valle del Sale ove sconfisse diecimila figli di S
eir. Quelli di Giuda ne catturarono diecimila vivi e condottili sulla cima della roccia li precipitaro no giù si sfracellarono tutti. I componenti della schiera che Amasia aveva congedato perché non andassero con lui alla guerra assalirono le città di Giuda da Samaria a Bet-Oron uccidendo in esse tremila persone e facendo un immenso bottino. Tornato dalla strage co mpiuta sugli Edomiti Amasia fece portare le divinità dei figli di Seir e le costituì suoi dèi; si prostr ò davanti a loro e offrì loro incenso. Perciò l’ira del Signore si accese contro Amasia; gli mandò u n profeta che gli disse: «Perché ti sei rivolto a dèi che non sono stati capaci di liberare il loro po polo dalla tua mano?». Mentre questi gli parlava il re lo interruppe: «Forse ti abbiamo costituito consigliere del re? Non insistere! Perché vuoi farti uccidere?». Il profeta non insistette ma disse
: «Vedo che Dio ha deciso di distruggerti perché hai fatto questo e non hai dato retta al mio con siglio». Consigliatosi Amasia re di Giuda mandò a dire a Ioas figlio di Ioacàz figlio di Ieu re d’Israe le: «Vieni affrontiamoci!». Ioas re d’Israele fece rispondere ad Amasia re di Giuda: «Il cardo del Libano mandò a dire al cedro del Libano: Da’ in moglie tua figlia a mio figlio. Ma passò una besti a selvatica del Libano e calpestò il cardo. Tu ripeti: Ecco ho sconfitto Edom! E il tuo cuore ti ha e saltato gloriandosi. Ma stattene nella tua casa! Perché ti precipiti in una disfatta? Potresti socco mbere tu e Giuda con te». Ma Amasia non lo ascoltò. Era volontà di Dio che fossero consegnati
nelle mani del nemico, perché si erano rivolti agli dèi di Edom. Allora Ioas re d’Israele si mosse; si affrontarono lui e Amasia re di Giuda a Bet-Semes, che appartiene a Giuda. Giuda fu sconfitto di fronte a Israele e ognuno fuggì nella propri a tenda. Ioas re d’Israele fece prigioniero Amasia re di Giuda figlio di Ioas figlio di Ioacàz a Bet-Semes. Condottolo a Gerusalemme aprì una breccia nelle mura di Gerusalemme dalla porta di è fraim fino alla porta dell’Angolo per quattrocento cubiti. Prese tutto l’oro l’argento e tutti gli og getti trovati nel tempio di Dio che erano affidati a Obed-Edom i tesori della reggia e gli ostaggi e tornò a Samaria. Amasia figlio di Ioas re di Giuda visse q uindici anni dopo la morte di Ioas figlio di Ioacàz re d’Israele. Le altre gesta di Amasia dalle prim e alle ultime non sono forse descritte nel libro dei re di Giuda e d’Israele? Dopo che Amasia si fu allontanato dal Signore si ordì contro di lui una congiura a Gerusalemme. Egli fuggì a Lachis ma lo fecero inseguire fino a Lachis dove l’uccisero. Lo caricarono su cavalli e lo seppellirono con i s uoi padri nella città di Giuda. Tutto il popolo di Giuda prese Ozia che aveva sedici anni e lo fece r e al posto di suo padre Amasia. Egli ricostruì Elat riannettendola a Giuda dopo che il re si era ad dormentato con i suoi padri. Ozia aveva sedici anni quando divenne re; regnò a Gerusalemme ci nquantadue anni. Sua madre era di Gerusalemme e si chiamava Iecolia. Egli fece ciò che è retto agli occhi del Signore, come aveva fatto Amasia suo padre. Egli cercò Dio finché visse Zaccaria c he l’aveva istruito nella visione di Dio e finché egli cercò il Signore Dio lo fece prosperare. Uscito in guerra contro i Filistei smantellò le mura di Gat di Iabne e di Asdod; costruì piazzeforti nel ter ritorio di Asdod e in quello dei Filistei. Dio lo aiutò contro i Filistei contro gli Arabi che risiedevan o a Gur-Baal e contro i Meuniti. Gli Ammoniti pagavano un tributo a Ozia la cui fama giunse sino alla fro ntiera egiziana perché egli era divenuto molto potente. Ozia costruì torri a Gerusalemme alla po rta dell’Angolo e alla porta della Valle e sul Cantone e le fortificò. Costruì anche torri nella stepp a e scavò molte cisterne perché possedeva numeroso bestiame nella Sefela e nell’altopiano; av eva contadini e vignaioli sui monti e sulle colline perché egli amava l’agricoltura. Ozia possedeva un esercito di combattenti abili alla guerra divisi in schiere secondo il numero del loro censime nto compiuto dallo scriba Ieièl e dall’ispettore Maasia agli ordini di Anania uno dei comandanti del re. Tutti i capifamiglia di quei soldati valorosi ammontavano a duemilaseicento. Da loro dipe ndeva un esercito di trecentosettemilacinquecento combattenti di grande valore a difesa del re contro il nemico. A loro cioè a tutto l’esercito Ozia fornì scudi e lance elmi corazze archi e pietre per le fionde. A Gerusalemme aveva fatto costruire macchine, inventate da un esperto che coll ocò sulle torri e sugli angoli per scagliare frecce e grandi pietre. La fama di Ozia giunse in regioni lontane; fu infatti straordinario l’aiuto che ricevette e così divenne potente. Ma in seguito a tan ta potenza il suo cuore si insuperbì fino a rovinarsi. Difatti prevaricò nei confronti del Signore su o Dio. Penetrò nell’aula del tempio del Signore per bruciare incenso sull’altare. Dietro a lui entr ò il sacerdote Azaria con ottanta sacerdoti del Signore uomini virtuosi. Questi si opposero al re Ozia dicendogli: «Non tocca a te Ozia offrire l’incenso al Signore ma ai sacerdoti figli di Aronne c
he sono stati consacrati per offrire l’incenso. Esci dal santuario perché hai prevaricato. Non hai diritto alla gloria che viene dal Signore Dio». Ozia che teneva in mano il braciere per offrire l’inc enso si adirò. Mentre sfogava la sua collera contro i sacerdoti gli spuntò la lebbra sulla fronte da vanti ai sacerdoti nel tempio del Signore presso l’altare dell’incenso. Azaria sommo sacerdote e tutti i sacerdoti si voltarono verso di lui che apparve con la lebbra sulla fronte. Lo fecero uscire i n fretta di là anch’egli si precipitò per uscire poiché il Signore l’aveva colpito. Il re Ozia rimase le bbroso fino al giorno della sua morte. Egli abitò in una casa d’isolamento come lebbroso escluso dal tempio del Signore. Suo figlio Iotam era a capo della reggia e governava il popolo della terra
. Le altre gesta di Ozia dalle prime alle ultime le ha descritte il profeta Isaia figlio di Amoz. Ozia si addormentò con i suoi padri e lo seppellirono con i suoi padri nel campo presso le tombe dei re perché si diceva: «è un lebbroso». Al suo posto divenne re suo figlio Iotam. Quando Iotam dive nne re aveva venticinque anni; regnò sedici anni a Gerusalemme. Sua madre si chiamava Ierusà figlia di Sadoc. Egli fece ciò che è retto agli occhi del Signore come aveva fatto Ozia suo padre m a non entrò nell’aula del tempio del Signore e il popolo continuava a pervertirsi. Egli restaurò la porta superiore del tempio; lavorò molto anche per le mura dell’Ofel. Ricostruì città sulle monta gne di Giuda; costruì castelli e torri nelle zone boscose. Attaccò il re degli Ammoniti vincendolo.
Gli Ammoniti gli diedero in quell’anno cento talenti d’argento diecimila kor di grano e altrettant i d’orzo. Altrettanto gli consegnarono gli Ammoniti anche il secondo e il terzo anno. Iotam diven ne potente perché aveva sempre tenuto una condotta fedele nei confronti del Signore suo Dio.
Le altre gesta di Iotam tutte le sue guerre e la sua condotta sono descritte nel libro dei re d’Isra ele e di Giuda. Quando divenne re aveva venticinque anni; regnò sedici anni a Gerusalemme. Iot am si addormentò con i suoi padri lo seppellirono nella Città di Davide e al suo posto divenne re suo figlio Acaz. Quando Acaz divenne re aveva vent’anni; regnò sedici anni a Gerusalemme. No n fece ciò che è retto agli occhi del Signore come Davide suo padre. Seguì le vie dei re d’Israele; fece perfino fondere statue per i Baal. Egli bruciò incenso nella valle di Ben-Innòm; fece passare i suoi figli per il fuoco secondo gli abomini delle nazioni che il Signore aveva scacciato davanti agli Israeliti. Sacrificava e bruciava incenso sulle alture sui colli e sotto ogni al bero verde. Ma il Signore suo Dio lo consegnò nelle mani del re degli Aramei i quali lo vinsero e gli catturarono un gran numero di prigionieri che condussero in Damasco. Fu consegnato anche nelle mani del re d’Israele che gli inflisse una grande sconfitta. Pekach figlio di Romelia in un gio rno uccise centoventimila uomini in Giuda tutti uomini di valore perché avevano abbandonato il Signore Dio dei loro padri. Zicrì un eroe di èfraim uccise Maasia figlio del re e Azrikàm prefetto del palazzo ed Elkanà il secondo dopo il re. Gli Israeliti condussero in prigionia tra i propri fratelli duecentomila persone fra donne figli e figlie; essi raccolsero anche una preda abbondante che portarono a Samaria. C’era là un profeta del Signore di nome Oded. Costui uscì incontro all’eser cito che giungeva a Samaria e disse: «Ecco a causa dello sdegno contro Giuda il Signore, Dio dei vostri padri li ha consegnati nelle vostre mani; ma voi li avete massacrati con un furore tale che è giunto fino al cielo. Ora voi dite di soggiogare come vostri schiavi e schiave i figli di Giuda e di
Gerusalemme. Ma non siete proprio voi colpevoli nei confronti del Signore vostro Dio? Ora asco ltatemi e rimandate i prigionieri che avete catturato in mezzo ai vostri fratelli, perché l’ardore d ell’ira del Signore è su di voi». Alcuni capi tra gli Efraimiti cioè Azaria figlio di Giovanni Berechia f iglio di Mesillemòt Ezechia figlio di Sallum e Amasà figlio di Cadlài insorsero contro quanti torna vano dalla guerra dicendo loro: «Non portate qui i prigionieri perché su di noi pesa già una colp a nei confronti del Signore. Voi intendete aumentare i nostri peccati e le nostre colpe, mentre la nostra colpa è già grande e su Israele incombe un’ira ardente». I soldati allora rilasciarono i prig ionieri e la preda davanti ai capi e a tutta l’assemblea. Alcuni uomini designati per nome si pres ero cura dei prigionieri. Quanti erano nudi li rivestirono e li calzarono con capi di vestiario presi dal bottino diedero loro da mangiare e da bere li medicarono con unzioni; quindi trasportando s u asini gli inabili a marciare li condussero a Gerico città delle palme, presso i loro fratelli. Poi tor narono a Samaria. In quel tempo il re Acaz mandò a chiedere aiuto al re d’Assiria. Gli Edomiti er ano venuti ancora una volta e avevano sconfitto Giuda e fatto prigionieri. Anche i Filistei si eran o sparsi per le città della Sefela e del Negheb di Giuda occupando Bet-Semes, àialon Ghederòt Soco con le dipendenze Timna con le dipendenze e Ghimzo con le dipe ndenze e vi si erano insediati. Questo accadde perché il Signore aveva umiliato Giuda a causa di Acaz re d’Israele che aveva permesso ogni licenza in Giuda ed era stato infedele al Signore. Tigla t-Pilèser re d’Assiria venne contro di lui e lo oppresse anziché sostenerlo. Acaz spogliò il tempio d el Signore il palazzo del re e dei prìncipi e consegnò tutto all’Assiria ma non ne ricevette alcun ai uto. Anche quando si trovava alle strette continuava a essere infedele al Signore: così era il re A caz. Sacrificò agli dèi di Damasco che lo avevano sconfitto dicendo: «Poiché gli dèi dei re di Ara m portano a loro aiuto io sacrificherò a essi e mi aiuteranno». In realtà essi provocarono la sua c aduta e quella di tutto Israele. Acaz radunò gli arredi del tempio di Dio e li fece a pezzi; chiuse le porte del tempio di Dio mentre eresse altari in tutti i crocicchi di Gerusalemme. In tutte le città di Giuda eresse alture per bruciare incenso ad altri dèi provocando così lo sdegno del Signore Di o dei suoi padri. Le altre gesta di lui e tutte le sue imprese dalle prime alle ultime sono descritte nel libro dei re di Giuda e d’Israele. Acaz si addormentò con i suoi padri e lo seppellirono in città a Gerusalemme ma non lo collocarono nei sepolcri dei re d’Israele. Al suo posto divenne re suo figlio Ezechia. Ezechia divenne re a venticinque anni; regnò ventinove anni a Gerusalemme. Sua madre si chiamava Abia figlia di Zaccaria. Fece ciò che è retto agli occhi del Signore come aveva fatto Davide suo padre. Nel primo anno del suo regno nel primo mese aprì le porte del tempio e le restaurò. Fece venire i sacerdoti e i leviti e dopo averli radunati nella piazza d’oriente, disse l oro: «Ascoltatemi leviti! Ora santificatevi e poi santificate il tempio del Signore, Dio dei vostri pa dri e portate fuori l’impurità dal santuario. I nostri padri sono stati infedeli e hanno commesso c iò che è male agli occhi del Signore nostro Dio che essi avevano abbandonato distogliendo lo sg uardo dalla dimora del Signore e voltandole le spalle. Hanno chiuso perfino le porte del vestibol o spento le lampade non hanno offerto più incenso né olocausti nel santuario al Dio d’Israele. P

erciò l’ira del Signore si è riversata su Giuda e su Gerusalemme ed egli ha reso gli abitanti oggett o di terrore di stupore e di scherno come potete vedere con i vostri occhi. Ora ecco i nostri padr i sono caduti di spada; i nostri figli le nostre figlie e le nostre mogli sono andati per questo in pri gionia. Ora io ho deciso di concludere un’alleanza con il Signore Dio d’Israele perché si allontani da noi l’ardore della sua ira. Figli miei non siate negligenti perché il Signore ha scelto voi per star e alla sua presenza per servirlo per essere suoi ministri e per offrirgli incenso». Si alzarono allora i seguenti leviti: Macat figlio di Amasài Gioele figlio di Azaria dei Keatiti; dei figli di Merarì: Kis fi glio di Abdì e Azaria figlio di Ieallelèl; dei Ghersoniti: Iòach figlio di Zimmà ed Eden figlio di Iòach
; dei figli di Elisafàn: Simrì e Ieièl; dei figli di Asaf: Zaccaria e Mattania; dei figli di Eman: Iechièl e Simei; dei figli di Iedutù n: Semaià e Uzzièl. Essi riunirono i fratelli e si santificarono; quindi entra rono secondo il comando del re e le prescrizioni del Signore per purificare il tempio del Signore.
I sacerdoti entrarono nell’interno del tempio del Signore per purificarlo; portarono fuori nel cor tile del tempio del Signore ogni impurità trovata nell’aula del Signore. I leviti l’ammucchiarono p er portarla fuori nel torrente Cedron. Il primo giorno del primo mese cominciarono la purificazio ne; nel giorno ottavo del mese entrarono nel vestibolo del Signore e purificarono il tempio del S
ignore in otto giorni. Finirono il sedici del primo mese. Quindi entrarono negli appartamenti real i di Ezechia e gli dissero: «Abbiamo purificato tutto il tempio del Signore l’altare degli olocausti c on tutti gli utensili e la tavola dei pani dell’offerta con tutti gli utensili. Abbiamo rinnovato e con sacrato tutti gli utensili che il re Acaz con empietà aveva messo da parte durante il suo regno. Ec co stanno davanti all’altare del Signore». Allora il re Ezechia alzatosi riunì i capi della città e salì al tempio del Signore. Portarono sette giovenchi sette arieti sette agnelli e sette capri per offrirli per la casa reale per il santuario e per Giuda in sacrificio per il peccato. Il re ordinò ai sacerdoti f igli di Aronne di offrirli in olocausto sull’altare del Signore. Sgozzarono i giovenchi quindi i sacer doti ne raccolsero il sangue e lo sparsero sull’altare. Sgozzarono gli arieti e ne sparsero il sangue sull’altare. Sgozzarono gli agnelli e ne sparsero il sangue sull’altare. Quindi fecero avvicinare i c apri per il sacrificio per il peccato davanti al re e all’assemblea che imposero loro le mani. I sacer doti li sgozzarono e ne sparsero il sangue sull’altare quale sacrificio per il peccato in espiazione per tutto Israele perché il re aveva ordinato l’olocausto e il sacrificio per il peccato per tutto Isra ele. Egli inoltre assegnò il loro posto ai leviti nel tempio del Signore con cimbali arpe e cetre sec ondo le disposizioni di Davide di Gad veggente del re e del profeta Natan poiché si trattava di u n comando del Signore comunicato per mezzo dei suoi profeti. Quando i leviti ebbero preso pos to con gli strumenti musicali di Davide e i sacerdoti con le loro trombe Ezechia ordinò di offrire gli olocausti sull’altare. Quando iniziò l’olocausto cominciarono anche i canti del Signore al suon o delle trombe e con l’accompagnamento degli strumenti di Davide re d’Israele. Tutta l’assembl ea si prostrò mentre si cantavano inni e si suonavano le trombe; tutto questo durò fino alla fine dell’olocausto. Terminato l’olocausto il re e tutti i presenti si inginocchiarono e si prostrarono. Il re Ezechia e i suoi capi ordinarono ai leviti di lodare il Signore con le parole di Davide e del vegg ente Asaf; lo lodarono con entusiasmo poi si inchinarono e si prostrarono. Allora Ezechia presa l
a parola disse: «Ora siete incaricati ufficialmente del servizio del Signore. Avvicinatevi e portate qui le vittime e i sacrifici di lode nel tempio del Signore». L’assemblea portò le vittime e i sacrific i di lode mentre quelli dal cuore generoso offrirono olocausti. Il numero degli olocausti offerti d all’assemblea fu di settanta giovenchi cento arieti duecento agnelli tutti per l’olocausto in onore del Signore. Le offerte sacre furono di seicento giovenchi e tremila pecore. I sacerdoti erano tro ppo pochi e non bastavano a scorticare tutti gli olocausti perciò i loro fratelli i leviti li aiutarono f inché non terminò il lavoro e finché i sacerdoti non si furono santificati poiché i leviti erano stati più zelanti dei sacerdoti nel santificarsi. Ci fu anche un abbondante olocausto del grasso dei sac rifici di comunione e delle libagioni connesse con l’olocausto. Così fu ristabilito il culto nel tempi o del Signore. Ezechia con tutto il popolo gioì perché Dio aveva ben disposto il popolo; ogni cosa infatti era stata compiuta rapidamente. Ezechia mandò messaggeri per tutto Israele e Giuda e s crisse anche lettere a èfraim e a Manasse per convocare tutti nel tempio del Signore a Gerusale mme a celebrare la Pasqua per il Signore Dio d’Israele. Il re i capi e tutta l’assemblea di Gerusale mme decisero di celebrare la Pasqua nel secondo mese. Infatti non avevano potuto celebrarla n el tempo fissato perché i sacerdoti non si erano santificati in numero sufficiente e il popolo non si era radunato a Gerusalemme. La proposta piacque al re e a tutta l’assemblea. Stabilirono di p roclamare con bando in tutto Israele da Bersabea a Dan che tutti venissero a celebrare a Gerusa lemme la Pasqua per il Signore Dio d’Israele perché molti non avevano osservato le norme pres critte. Partirono i corrieri con lettere da parte del re e dei capi per recarsi in tutto Israele e Giud a. Secondo l’ordine del re dicevano: «Israeliti fate ritorno al Signore Dio di Abramo di Isacco e di Israele ed egli ritornerà a quanti fra voi sono scampati dalla mano dei re d’Assiria. Non siate co me i vostri padri e i vostri fratelli infedeli al Signore Dio dei loro padri che perciò li ha abbandon ati alla desolazione come vedete. Ora non siate di dura cervice come i vostri padri date la mano al Signore venite nel santuario che egli ha consacrato per sempre. Servite il Signore vostro Dio e si allontanerà da voi l’ardore della sua ira. Difatti se fate ritorno al Signore i vostri fratelli e i vos tri figli troveranno compassione presso coloro che li hanno deportati; ritorneranno in questa ter ra poiché il Signore vostro Dio è misericordioso e pietoso e non distoglierà lo sguardo da voi se voi farete ritorno a lui». I corrieri passarono di città in città nel territorio di èfraim e di Manasse fino a Zàbulon ma la gente li derideva e si faceva beffe di loro. Solo alcuni di Aser di Manasse e di Zàbulon si umiliarono e vennero a Gerusalemme. In Giuda invece si manifestò la mano di Dio e generò negli uomini un cuore concorde per eseguire il comando del re e dei capi secondo la p arola del Signore. Si riunì a Gerusalemme una grande folla per celebrare la festa degli Azzimi nel secondo mese; fu un’assemblea molto numerosa. Cominciarono a eliminare gli altari che si trov avano a Gerusalemme; eliminarono anche tutti gli altari dei profumi e li gettarono nel torrente Cedron. Essi immolarono la Pasqua il quattordici del secondo mese; i sacerdoti e i leviti pieni di vergogna si santificarono e quindi portarono gli olocausti nel tempio del Signore. Occuparono il proprio posto secondo le regole fissate per loro nella legge di Mosè uomo di Dio. I sacerdoti fac evano aspersioni con il sangue che ricevevano dalle mani dei leviti perché molti dell’assemblea
non si erano santificati. I leviti si occupavano dell’uccisione degli agnelli pasquali per quanti non erano puri per consacrarli al Signore. In realtà la maggioranza della gente, fra cui molti provenie nti da èfraim da Manasse da ìssacar e da Zàbulon non si era purificata; mangiarono la Pasqua se nza fare quanto è prescritto. Ezechia pregò per loro: «Il Signore che è buono liberi dalla colpa ch iunque abbia il cuore disposto a cercare Dio ossia il Signore Dio dei suoi padri anche senza la pu rificazione necessaria per il santuario». Il Signore esaudì Ezechia e risparmiò il popolo. Gli Israeli ti che si trovavano a Gerusalemme celebrarono la festa degli Azzimi per sette giorni con grande gioia mentre i sacerdoti e i leviti lodavano ogni giorno il Signore suonando con tutte le forze per il Signore. Ezechia parlò al cuore di tutti i leviti che avevano dimostrato grande avvedutezza nei riguardi del Signore; per sette giorni parteciparono al banchetto solenne offrirono sacrifici di co munione e lodarono il Signore Dio dei loro padri. Tutta l’assemblea decise di festeggiare altri set te giorni; così passarono ancora sette giorni di gioia. Difatti Ezechia re di Giuda aveva donato all’
assemblea mille giovenchi e settemila pecore; anche i capi avevano donato all’assemblea mille giovenchi e diecimila pecore. I sacerdoti si santificarono in gran numero. Tutta l’assemblea di Gi uda i sacerdoti e i leviti tutta l’assemblea venuta da Israele i forestieri venuti dal territorio d’Isra ele e gli abitanti di Giuda furono pieni di gioia. Ci fu una gioia straordinaria a Gerusalemme perc hé dal tempo di Salomone figlio di Davide re d’Israele non c’era mai stata una cosa simile a Geru salemme. I sacerdoti e i leviti si levarono a benedire il popolo; la loro voce fu ascoltata e la loro preghiera raggiunse la sua santa dimora nel cielo. Quando tutto questo finì tutti gli Israeliti pres enti andarono nelle città di Giuda a infrangere le stele a tagliare i pali sacri e ad abbattere comp letamente le alture e gli altari da tutto Giuda e Beniamino e in èfraim e Manasse. Poi tutti gli Isr aeliti tornarono nelle loro città ognuno nella sua proprietà. Ezechia ricostituì le classi dei sacerd oti e dei leviti secondo le loro funzioni assegnando a ognuno ai sacerdoti e ai leviti il proprio ser vizio riguardo all’olocausto e ai sacrifici di comunione, per celebrare e lodare con inni e per serv ire alle porte degli accampamenti del Signore. Una parte dei beni del re era per gli olocausti del mattino e della sera gli olocausti dei sabati dei noviluni e delle feste come sta scritto nella legge del Signore. Egli ordinò al popolo agli abitanti di Gerusalemme di consegnare ai sacerdoti e ai le viti la loro parte perché questi potessero attendere alla legge del Signore. Appena si diffuse que st’ordine gli Israeliti offrirono in abbondanza le primizie del grano del mosto dell’olio del miele e di ogni altro prodotto agricolo e la decima abbondante di ogni cosa. E gli Israeliti e i Giudei che abitavano nelle città di Giuda, portarono anche loro la decima degli armenti e delle greggi come anche la decima dei doni consacrati al Signore, loro Dio facendone grandi mucchi. Nel terzo me se si cominciò a fare i mucchi che furono completati nel settimo mese. Vennero Ezechia e i capi; visti i mucchi benedissero il Signore e il popolo d’Israele. Ezechia interrogò i sacerdoti e i leviti ri guardo ai mucchi e il sommo sacerdote Azaria della casa di Sadoc gli rispose: «Da quando si è co minciato a portare l’offerta nel tempio del Signore noi abbiamo mangiato e ci siamo saziati ma ne è rimasta in abbondanza perché il Signore ha benedetto il suo popolo; ne è rimasta questa gr ande quantità». Ezechia allora ordinò che si preparassero stanze nel tempio del Signore. Le prep
ararono. Vi depositarono scrupolosamente le offerte le decime e le cose consacrate. A tali cose presiedeva il levita Conania alle cui dipendenze era il fratello Simei. Iechièl Azazia Nacat, Asaèl I erimòt Iozabàd Elièl Ismachia Macat e Benaià erano sorveglianti, sotto la direzione di Conania e di suo fratello Simei per ordine del re Ezechia e di Azaria sovrintendente al tempio di Dio. Cori fi glio di Imna levita custode della porta d’oriente era preposto alle offerte spontanee fatte a Dio; egli distribuiva quanto si prelevava per l’offerta al Signore e le cose santissime. Da lui dipendeva no Eden Miniamìn Giosuè Semaià Amaria e Secania nelle città sacerdotali come distributori fed eli tra i loro fratelli grandi e piccoli secondo le loro classi oltre ai maschi registrati dai tre anni in su; questi entravano ogni giorno nel tempio del Signore per il loro servizio secondo le loro funzi oni e secondo le loro classi. La registrazione dei sacerdoti era fatta secondo i loro casati; quella dei leviti dai vent’anni in su secondo le loro funzioni e secondo le loro classi. Erano registrati co n tutti i bambini le mogli i figli e le figlie di tutta la comunità poiché dovevano consacrarsi con fe deltà a ciò che è sacro. Per i figli di Aronne ossia per i sacerdoti residenti in campagna nelle zon e attorno alle loro città in ogni città c’erano uomini designati per nome per distribuire la parte d ovuta a ogni maschio fra i sacerdoti e a ogni registrato fra i leviti. Ezechia fece lo stesso in tutto Giuda; egli fece ciò che è buono retto e leale davanti al Signore suo Dio. Quanto aveva intrapres o per il servizio del tempio di Dio per la legge e per i comandamenti cercando il suo Dio lo fece c on tutto il cuore; per questo ebbe successo. Dopo questi fatti e queste prove di fedeltà venne S
ennàcherib re d’Assiria. Penetrato in Giuda assediò le città fortificate e ordinò di espugnarle. Ez echia vide l’avanzata di Sennàcherib che si dirigeva verso Gerusalemme per assediarla. Egli deci se con i suoi comandanti e con i suoi prodi di ostruire le acque sorgive che erano fuori della citt à. Essi l’aiutarono. Si radunò un popolo numeroso per ostruire tutte le sorgenti e il torrente che scorreva attraverso la regione dicendo: «Perché dovrebbero venire i re d’Assiria e trovare acqua in abbondanza?». Agì da forte: ricostruì tutta la parte diroccata delle mura vi innalzò torri e al d i fuori un altro muro fortificò il Millo della Città di Davide e preparò armi in abbondanza e scudi.
Designò capi militari sopra il popolo; li radunò presso di sé nella piazza della porta della città e c osì parlò al loro cuore: «Siate forti e coraggiosi! Non temete e non abbattetevi davanti al re d’As siria e davanti a tutta la moltitudine che l’accompagna perché con noi c’è uno più grande di que llo che è con lui. Con lui c’è un braccio di carne con noi c’è il Signore nostro Dio per aiutarci e pe r combattere le nostre battaglie». Il popolo rimase rassicurato dalle parole di Ezechia re di Giud a. In seguito Sennàcherib re d’Assiria mandò i suoi servitori a Gerusalemme, mentre egli con tut te le forze assaliva Lachis per dire a Ezechia re di Giuda e a tutti quelli di Giuda che erano a Geru salemme: «Così parla Sennàcherib re d’Assiria: “In chi avete fiducia voi per restare a Gerusalem me assediata? Ezechia non vi inganna forse per farvi morire di fame e di sete quando asserisce: Il Signore nostro Dio ci libererà dalle mani del re d’Assiria? Egli non è forse lo stesso Ezechia che ha eliminato le sue alture e i suoi altari dicendo a Giuda e a Gerusalemme: Vi prostrerete davan ti a un solo altare e su di esso soltanto offrirete incenso? Non sapete che cosa abbiamo fatto io e i miei padri a tutti i popoli del mondo? Forse gli dèi delle nazioni del mondo hanno potuto libe
rare i loro paesi dalla mia mano? Quale fra tutti gli dèi di quelle nazioni che i miei padri avevano votato allo sterminio ha potuto liberare il suo popolo dalla mia mano? Potrà il vostro Dio libera rvi dalla mia mano? Ora non vi inganni Ezechia e non vi seduca in questa maniera! Non credeteg li perché nessun dio di qualsiasi nazione o regno ha potuto liberare il suo popolo dalla mia man o e dalle mani dei miei padri. Nemmeno i vostri dèi vi libereranno dalla mia mano!”». Parlarono ancora i suoi servitori contro il Signore Dio e contro Ezechia suo servo. Sennàcherib aveva scritt o anche lettere insultando il Signore Dio d’Israele e parlando contro di lui in questi termini: «Co me gli dèi delle nazioni del mondo non hanno potuto liberare i loro popoli dalla mia mano così il Dio di Ezechia non libererà dalla mia mano il suo popolo». Gli inviati gridarono a gran voce in gi udaico al popolo di Gerusalemme che stava sulle mura per spaventarlo e atterrirlo al fine di occ uparne la città. Essi parlarono del Dio di Gerusalemme come di uno degli dèi degli altri popoli d ella terra opera di mani d’uomo. Allora il re Ezechia e il profeta Isaia figlio di Amoz pregarono a questo riguardo e gridarono al cielo. Il Signore mandò un angelo che sterminò tutti i soldati valo rosi ogni condottiero e ogni comandante nel campo del re d’Assiria. Questi se ne tornò con la ve rgogna sul volto nella sua terra. Entrò nel tempio del suo dio dove alcuni suoi figli nati dalle sue viscere, l’uccisero di spada. Così il Signore salvò Ezechia e gli abitanti di Gerusalemme dalla man o di Sennàcherib re d’Assiria e dalla mano di tutti gli altri e concesse loro tregua alle frontiere. A llora molti portarono offerte al Signore a Gerusalemme e oggetti preziosi a Ezechia re di Giuda c he dopo queste cose aumentò di prestigio agli occhi di tutte le nazioni. In quei giorni Ezechia si ammalò mortalmente. Egli pregò il Signore che l’esaudì e operò un prodigio per lui. Ma Ezechia non corrispose ai benefici a lui concessi perché il suo cuore si era insuperbito; per questo su di l ui su Giuda e su Gerusalemme si riversò l’ira divina. Tuttavia Ezechia si umiliò della superbia del suo cuore e a lui si associarono gli abitanti di Gerusalemme; per questo l’ira del Signore non si a bbatté su di loro durante i giorni di Ezechia. Ezechia ebbe ricchezze e gloria in abbondanza. Egli si costruì depositi per l’argento, l’oro le pietre preziose gli aromi gli scudi e per qualsiasi cosa pr eziosa magazzini per i prodotti del grano del mosto e dell’olio stalle per ogni genere di bestiame ovili per le pecore. Si edificò città ebbe molto bestiame minuto e grosso perché Dio gli aveva co ncesso beni molto grandi. Ezechia chiuse l’apertura superiore delle acque del Ghicon convoglian dole in basso verso il lato occidentale della Città di Davide. Ezechia riuscì in ogni sua impresa. M
a quando i capi di Babilonia gli inviarono messaggeri per informarsi sul prodigio avvenuto nel pa ese Dio l’abbandonò per metterlo alla prova e conoscerne completamente il cuore. Le altre gest a di Ezechia e le sue opere di pietà sono descritte nella visione del profeta Isaia figlio di Amoz ne l libro dei re di Giuda e d’Israele. Ezechia si addormentò con i suoi padri e lo seppellirono nella s alita dei sepolcri dei figli di Davide. Alla sua morte gli resero omaggio tutto Giuda e gli abitanti di Gerusalemme. Al suo posto divenne re suo figlio Manasse. Quando divenne re Manasse aveva dodici anni; regnò cinquantacinque anni a Gerusalemme. Fece ciò che è male agli occhi del Sign ore secondo gli abomini delle nazioni che il Signore aveva scacciato davanti agli Israeliti. Costruì di nuovo le alture che suo padre Ezechia aveva demolito eresse altari ai Baal fece pali sacri si pr
ostrò davanti a tutto l’esercito del cielo e lo servì. Costruì altari nel tempio del Signore riguardo al quale il Signore aveva detto: «A Gerusalemme porrò il mio nome per sempre». Eresse altari a tutto l’esercito del cielo nei due cortili del tempio del Signore. Fece passare i suoi figli per il fuoc o nella valle di Ben-Innòm si affidò a vaticini, presagi e magie istituì negromanti e indovini. Compì in molte maniere ciò che è male agli occhi del Signore provocando il suo sdegno. Collocò l’immagine dell’idolo, ch e aveva fatto scolpire nel tempio di Dio riguardo al quale Dio aveva detto a Davide e a Salomon e suo figlio: «In questo tempio e a Gerusalemme che ho scelto fra tutte le tribù d’Israele porrò il mio nome per sempre. Non permetterò più che il piede degli Israeliti erri lontano dal suolo che io ho destinato ai vostri padri purché si impegnino a osservare tutto quello che ho comandato l oro secondo tutta la legge gli statuti e i decreti comunicati per mezzo di Mosè». Manasse spinse Giuda e gli abitanti di Gerusalemme a fare peggio delle nazioni che il Signore aveva estirpato da vanti agli Israeliti. Il Signore parlò a Manasse e al suo popolo ma non gli prestarono attenzione.
Allora il Signore mandò contro di loro i comandanti dell’esercito del re assiro; essi presero Man asse con uncini lo legarono con catene di bronzo e lo condussero a Babilonia. Ridotto in tale mis eria egli placò il volto del Signore suo Dio e si umiliò molto di fronte al Dio dei suoi padri. Egli lo pregò e Dio si lasciò commuovere esaudì la sua supplica e lo fece tornare a Gerusalemme nel su o regno; così Manasse riconobbe che il Signore è Dio. In seguito egli costruì il muro esterno dell a Città di Davide a occidente del Ghicon nella valle fino alla porta dei Pesci e circondò l’Ofel e lo sollevò a notevole altezza. In tutte le fortezze di Giuda egli pose comandanti dell’esercito. Rimo sse gli dèi degli stranieri e l’idolo dal tempio del Signore insieme con tutti gli altari che egli avev a costruito sul monte del tempio del Signore e a Gerusalemme e gettò tutto fuori della città. Re staurò l’altare del Signore e offrì su di esso sacrifici di comunione e di lode e comandò a Giuda d i servire il Signore Dio d’Israele. Tuttavia il popolo continuava a sacrificare sulle alture anche se l o faceva in onore del Signore suo Dio. Le altre gesta di Manasse la preghiera al suo Dio e le paro le che i veggenti gli comunicarono a nome del Signore Dio d’Israele ecco sono descritte negli att i dei re d’Israele. La sua preghiera e come fu esaudito tutta la sua colpa e la sua infedeltà le loca lità ove costruì alture eresse pali sacri e immagini scolpite prima della sua umiliazione sono desc ritte negli atti di Cozài. Manasse si addormentò con i suoi padri lo seppellirono nel suo palazzo e al suo posto divenne re suo figlio Amon. Quando divenne re Amon aveva ventidue anni; regnò due anni a Gerusalemme. Egli fece ciò che è male agli occhi del Signore come Manasse suo padr e. Amon offrì sacrifici a tutti gli idoli eretti da Manasse suo padre e li servì. Non si umiliò davanti al Signore come si era umiliato Manasse suo padre; anzi Amon aumentò le sue colpe. I suoi uffi ciali congiurarono contro di lui e l’uccisero nel suo palazzo. Ma il popolo della terra colpì quanti avevano congiurato contro il re Amon e proclamò re al suo posto suo figlio Giosia. Quando dive nne re Giosia aveva otto anni; regnò trentun anni a Gerusalemme. Fece ciò che è retto agli occh i del Signore seguendo le vie di Davide suo padre, senza deviare né a destra né a sinistra. Nell’a nno ottavo del suo regno quando era ancora un ragazzo cominciò a cercare il Dio di Davide suo
padre. Nel dodicesimo anno cominciò a purificare Giuda e Gerusalemme dalle alture dai pali sac ri e dalle immagini scolpite o fuse. Sotto i suoi occhi furono demoliti gli altari dei Baal, infranse g li altari per l’incenso che vi erano sopra distrusse i pali sacri e le immagini scolpite o fuse, riduce ndoli in polvere che sparse sui sepolcri di coloro che avevano sacrificato a tali cose. Le ossa dei s acerdoti le bruciò sui loro altari; così purificò Giuda e Gerusalemme. Lo stesso fece nelle città di Manasse di èfraim e di Simeone fino a Nèftali, nei loro villaggi circostanti. Demolì gli altari fece a pezzi i pali sacri e gli idoli in modo da ridurli in polvere demolì tutti gli altari per l’incenso in tut ta la terra d’Israele; poi fece ritorno a Gerusalemme. Nell’anno diciottesimo del suo regno dopo aver purificato la terra e il tempio mandò Safan figlio di Asalia Maasia governatore della città e Iòach figlio di Ioacàz, archivista per restaurare il tempio del Signore suo Dio. Costoro si presenta rono al sommo sacerdote Chelkia e gli consegnarono il denaro depositato nel tempio di Dio; l’av evano raccolto i leviti custodi della soglia da Manasse da èfraim e da tutto il resto d’Israele da t utto Giuda da Beniamino e dagli abitanti di Gerusalemme. Lo misero in mano agli esecutori dei l avori sovrintendenti al tempio del Signore ed essi lo diedero agli esecutori dei lavori che lavorav ano nel tempio del Signore per consolidare e riparare il tempio. Lo diedero ai falegnami e ai mu ratori per l’acquisto di pietre da taglio e di legname per l’armatura e la travatura dei locali lascia ti rovinare dai re di Giuda. Quegli uomini lavoravano con onestà erano stati loro preposti per la direzione Iacat e Abdia leviti dei figli di Merarì Zaccaria e Mesullàm dei figli di Keat. Leviti espert i di strumenti musicali sorvegliavano i portatori e dirigevano quanti compivano lavori di qualsias i genere; altri leviti erano scribi ispettori e portieri. Mentre si prelevava il denaro depositato nel tempio del Signore il sacerdote Chelkia trovò il libro della legge del Signore data per mezzo di M
osè. Chelkia prese a parlare e disse allo scriba Safan: «Ho trovato nel tempio del Signore il libro della legge». Chelkia diede il libro a Safan. Safan portò il libro dal re; egli inoltre lo informò dice ndo: «Quanto è stato ordinato i tuoi servitori lo eseguono. Hanno versato il denaro trovato nel t empio del Signore e l’hanno consegnato in mano ai sorveglianti e agli operai». Poi lo scriba Safa n annunciò al re: «Il sacerdote Chelkia mi ha dato un libro». Safan ne lesse una parte davanti al re. Udite le parole della legge il re si stracciò le vesti. Il re comandò a Chelkia ad Achikàm figlio d i Safan ad Abdon figlio di Mica allo scriba Safan e ad Asaià ministro del re: «Andate consultate il Signore per me e per quanti sono rimasti in Israele e in Giuda riguardo alle parole del libro che è stato trovato; grande infatti è la collera del Signore che si è riversata su di noi perché i nostri pa dri non hanno ascoltato le parole del Signore mettendo in pratica quanto sta scritto in questo li bro». Chelkia insieme con coloro che il re aveva designato si recò dalla profetessa Culda moglie di Sallum figlio di Tokat figlio di Casra custode delle vesti la quale abitava nel secondo quartiere di Gerusalemme. Le parlarono in tal senso ed ella rispose loro: «Così dice il Signore Dio d’Israele
: “Riferite all’uomo che vi ha inviati da me: Così dice il Signore: Ecco io farò venire una sciagura s u questo luogo e sui suoi abitanti tutte le maledizioni scritte nel libro letto davanti al re di Giuda perché hanno abbandonato me e hanno bruciato incenso ad altri dèi per provocarmi a sdegno con tutte le opere delle loro mani; la mia collera si riverserà contro questo luogo e non si spegn
erà!”. Al re di Giuda che vi ha inviati a consultare il Signore riferirete questo: “Così dice il Signor e Dio d’Israele: Quanto alle parole che hai udito poiché il tuo cuore si è intenerito e ti sei umiliat o davanti a Dio all’udire le sue parole contro questo luogo e contro i suoi abitanti poiché ti sei u miliato davanti a me ti sei stracciato le vesti e hai pianto davanti a me anch’io ho ascoltato, orac olo del Signore! Ecco io ti riunirò ai tuoi padri e sarai loro riunito nel tuo sepolcro in pace e i tuoi occhi non vedranno tutta la sciagura che io farò venire su questo luogo e sui suoi abitanti”». Qu elli riferirono il messaggio al re. Allora il re mandò a radunare tutti gli anziani di Giuda e di Gerus alemme. Il re salì al tempio; erano con lui tutti gli uomini di Giuda gli abitanti di Gerusalemme i sacerdoti i leviti e tutto il popolo dal più grande al più piccolo. Lesse alla loro presenza tutte le p arole del libro dell’alleanza trovato nel tempio del Signore. Il re in piedi presso la colonna, concl use l’alleanza davanti al Signore per seguire il Signore e osservare i suoi comandi le istruzioni e l e leggi con tutto il suo cuore e con tutta la sua anima per mettere in pratica le parole dell’allean za scritte in quel libro. Fece impegnare quanti si trovavano a Gerusalemme e in Beniamino. Gli a bitanti di Gerusalemme agirono secondo l’alleanza di Dio Dio dei loro padri. Giosia rimosse tutti gli abomini da tutti i territori appartenenti agli Israeliti; costrinse quanti si trovavano in Israele a servire il Signore loro Dio. Finché egli visse non desistettero dal seguire il Signore Dio dei loro pa dri. Giosia celebrò a Gerusalemme la Pasqua in onore del Signore. La Pasqua fu immolata il quat tordici del primo mese. Egli ristabilì i sacerdoti nei loro uffici e li incoraggiò al servizio del tempi o del Signore. Egli disse ai leviti che ammaestravano tutto Israele e che si erano consacrati al Sig nore: «Collocate l’arca santa nel tempio costruito da Salomone figlio di Davide re d’Israele; essa non costituirà più un peso per le vostre spalle. Ora servite il Signore vostro Dio e il suo popolo I sraele. Disponetevi secondo il vostro casato secondo le vostre classi in base alla prescrizione di Davide re d’Israele e alla prescrizione di Salomone suo figlio. State nel santuario a disposizione dei casati dei vostri fratelli dei figli del popolo; per i leviti ci sarà una parte in ogni casato. Immol ate la Pasqua santificatevi e mettetevi a disposizione dei vostri fratelli secondo la parola del Sig nore comunicata per mezzo di Mosè». Giosia diede ai figli del popolo a quanti erano lì presenti del bestiame minuto cioè trentamila agnelli e capretti come vittime pasquali e in più tremila gio venchi. Ciò proveniva dai beni del re. I suoi capi fecero offerte spontanee per il popolo per i sac erdoti e per i leviti. Chelkia Zaccaria e Iechièl sovrintendenti al tempio di Dio diedero ai sacerdot i per i sacrifici pasquali duemilaseicento agnelli e trecento giovenchi. Conania Semaià e Netanèl suoi fratelli Casabia Ieièl e Iozabàd capi dei leviti diedero ai leviti per i sacrifici pasquali, cinquem ila agnelli e cinquecento giovenchi. Così tutto fu pronto per il servizio; i sacerdoti si misero al lor o posto così anche i leviti secondo le loro classi conformemente al comando del re. Immolarono la Pasqua: i sacerdoti spargevano il sangue mentre i leviti scorticavano. Misero da parte l’oloca usto da distribuire ai figli del popolo secondo le divisioni per casato perché lo presentassero al S
ignore come sta scritto nel libro di Mosè. Lo stesso fecero per i giovenchi. Secondo la regola arr ostirono la Pasqua sul fuoco; le parti consacrate le cossero in pentole in caldaie e in tegami e le distribuirono sollecitamente a tutto il popolo. Dopo, prepararono la Pasqua per se stessi e per i
sacerdoti poiché i sacerdoti figli di Aronne furono occupati fino a notte nell’offrire gli olocausti e le parti grasse; per questo i leviti la prepararono per se stessi e per i sacerdoti figli di Aronne. I c antori figli di Asaf occupavano il loro posto, secondo le prescrizioni di Davide di Asaf di Eman e d i Iedutù n veggente del re; i portieri erano alle varie porte. Costoro non dovettero allontanarsi d al loro posto perché i leviti loro fratelli prepararono per loro. Così in quel giorno fu disposto tutt o il servizio del Signore per celebrare la Pasqua e per offrire gli olocausti sull’altare del Signore s econdo l’ordine del re Giosia. Gli Israeliti presenti celebrarono allora la Pasqua e la festa degli A zzimi per sette giorni. Dal tempo del profeta Samuele non era stata celebrata una Pasqua simile in Israele; nessuno dei re d’Israele aveva celebrato una Pasqua come questa celebrata da Giosi a insieme con i sacerdoti i leviti tutti quelli di Giuda e d’Israele presenti e gli abitanti di Gerusale mme. Questa Pasqua fu celebrata nel diciottesimo anno del regno di Giosia. Dopo tutto ciò dop o che Giosia aveva riorganizzato il tempio Necao re d’Egitto, salì a combattere a Càrchemis sull’
Eufrate. Giosia uscì incontro a lui. Quegli mandò messaggeri a dirgli: «Che c’è fra me e te o re di Giuda? Io non vengo oggi contro di te ma sono in guerra contro un’altra casa e Dio mi ha impost o di affrettarmi. Pertanto non opporti a Dio che è con me affinché egli non ti distrugga». Ma Gio sia non si ritirò. Deciso ad affrontarlo non ascoltò le parole di Necao che venivano dalla bocca di Dio e attaccò battaglia nella valle di Meghiddo. Gli arcieri tirarono sul re Giosia. Il re diede ques t’ordine ai suoi servi: «Portatemi via perché sono ferito gravemente». I suoi servi lo tolsero dal s uo carro lo misero in un altro suo carro e lo riportarono a Gerusalemme ove morì. Fu sepolto ne i sepolcri dei suoi padri. Tutti quelli di Giuda e di Gerusalemme fecero lutto per Giosia. Geremia compose un lamento su Giosia; tutti i cantanti e le cantanti lo ripetono ancora oggi nei lamenti su Giosia: è diventata una tradizione in Israele. Esso è inserito fra i lamenti. Le altre gesta di Gio sia le sue opere di pietà secondo ciò che è scritto nella legge del Signore le sue gesta dalle prime alle ultime sono descritte nel libro dei re d’Israele e di Giuda. Il popolo della terra prese Ioacàz f iglio di Giosia e lo proclamò re al posto del padre a Gerusalemme. Quando divenne re Ioacàz av eva ventitré anni; regnò tre mesi a Gerusalemme. Il re d’Egitto lo destituì a Gerusalemme e imp ose alla terra un tributo di cento talenti d’argento e di un talento d’oro. Il re d’Egitto nominò re su Giuda e Gerusalemme il fratello Eliakìm cambiandogli il nome in Ioiakìm. Quanto al fratello di lui Ioacàz Necao lo prese e lo deportò in Egitto. Quando divenne re Ioiakìm aveva venticinque a nni; regnò undici anni a Gerusalemme. Fece ciò che è male agli occhi del Signore suo Dio. Contr o di lui salì Nabucodònosor re di Babilonia che lo legò con catene di bronzo per deportarlo a Ba bilonia. Nabucodònosor portò a Babilonia parte degli oggetti del tempio del Signore che depose a Babilonia nella sua reggia. Le altre gesta di Ioiakìm gli abomini da lui commessi e ciò che risult a a suo carico, sono descritti nel libro dei re d’Israele e di Giuda. Al suo posto divenne re suo figl io Ioiachìn. Quando divenne re Ioiachìn aveva diciotto anni; regnò tre mesi e dieci giorni a Gerus alemme. Fece ciò che è male agli occhi del Signore. All’inizio del nuovo anno il re Nabucodònos or mandò a prenderlo per deportarlo a Babilonia con gli oggetti più preziosi del tempio del Sign ore. Egli nominò re su Giuda e Gerusalemme suo fratello Sedecìa. Quando divenne re Sedecìa a
veva ventun anni; regnò undici anni a Gerusalemme. Fece ciò che è male agli occhi del Signore s uo Dio. Non si umiliò davanti al profeta Geremia che gli parlava in nome del Signore. Si ribellò a nche al re Nabucodònosor che gli aveva fatto giurare fedeltà in nome di Dio. Egli indurì la sua ce rvice e si ostinò in cuor suo a non far ritorno al Signore Dio d’Israele. Anche tutti i capi di Giuda i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà, imitando in tutto gli abomini degli altri po poli e contaminarono il tempio che il Signore si era consacrato a Gerusalemme. Il Signore Dio de i loro padri mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli perché aveva compassione del suo popolo e della sua dimora. Ma essi si beffarono dei messaggeri di Di o disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine senza più rimedio. Allora il Signore fece salire contro di loro il re dei Caldei che uccise di spada i loro uomini migliori nel santuario senza pietà per i giovani per le fanciulle per i vecchi e i decrepiti. Il Signore consegnò ogni cosa nelle sue mani. Portò a Babiloni a tutti gli oggetti del tempio di Dio grandi e piccoli i tesori del tempio del Signore e i tesori del re e dei suoi ufficiali. Quindi incendiarono il tempio del Signore demolirono le mura di Gerusalem me e diedero alle fiamme tutti i suoi palazzi e distrussero tutti i suoi oggetti preziosi. Il re deport ò a Babilonia gli scampati alla spada che divennero schiavi suoi e dei suoi figli fino all’avvento de l regno persiano attuandosi così la parola del Signore per bocca di Geremia: «Finché la terra non abbia scontato i suoi sabati essa riposerà per tutto il tempo della desolazione fino al compiersi di settanta anni». Nell’anno primo di Ciro re di Persia perché si adempisse la parola del Signore pronunciata per bocca di Geremia il Signore suscitò lo spirito di Ciro re di Persia che fece procla mare per tutto il suo regno anche per iscritto: «Così dice Ciro re di Persia: “Il Signore Dio del ciel o mi ha concesso tutti i regni della terra. Egli mi ha incaricato di costruirgli un tempio a Gerusale mme che è in Giuda. Chiunque di voi appartiene al suo popolo il Signore suo Dio sia con lui e sal ga!”». Nell’anno primo di Ciro re di Persia perché si adempisse la parola che il Signore aveva det to per bocca di Geremia il Signore suscitò lo spirito di Ciro re di Persia che fece proclamare per t utto il suo regno anche per iscritto: «Così dice Ciro re di Persia: “Il Signore Dio del cielo mi ha co ncesso tutti i regni della terra. Egli mi ha incaricato di costruirgli un tempio a Gerusalemme che è in Giuda. Chiunque di voi appartiene al suo popolo il suo Dio sia con lui e salga a Gerusalemm e che è in Giuda e costruisca il tempio del Signore Dio d’Israele: egli è il Dio che è a Gerusalemm e. E a ogni superstite da tutti i luoghi dove aveva dimorato come straniero gli abitanti del luogo forniranno argento e oro beni e bestiame con offerte spontanee per il tempio di Dio che è a Ger usalemme”». Allora si levarono i capi di casato di Giuda e di Beniamino e i sacerdoti e i leviti. A t utti Dio aveva destato lo spirito affinché salissero a costruire il tempio del Signore che è a Gerus alemme. Tutti i loro vicini li sostennero con oggetti d’argento oro beni bestiame e oggetti prezio si oltre a quello che ciascuno offrì spontaneamente. Anche il re Ciro fece prelevare gli utensili d el tempio del Signore che Nabucodònosor aveva asportato da Gerusalemme e aveva deposto n el tempio del suo dio. Ciro re di Persia li fece prelevare da Mitridate il tesoriere e li consegnò a S
esbassàr principe di Giuda. Questo è il loro inventario: bacili d’oro: trenta; bacili d’argento: mill
e; coltelli: ventinove; coppe d’oro: trenta; coppe d’argento di second’ordine: quattrocentodieci; altri utensili: mille. Tutti gli utensili d’oro e d’argento erano cinquemilaquattrocento. Sesbassàr li riportò tutti quando gli esuli tornarono da Babilonia a Gerusalemme. Questi sono gli abitanti d ella provincia che ritornarono dall’esilio quelli che Nabucodònosor re di Babilonia aveva deport ato a Babilonia e che tornarono a Gerusalemme e in Giudea, ognuno alla sua città essi vennero con Zorobabele Giosuè Neemia Seraià, Reelaià Mardocheo Bilsan Mispar Bigvài Recum Baanà.
Questa è la lista degli uomini del popolo d’Israele. Figli di Paros: duemilacentosettantadue. Figli di Sefatia: trecentosettantadue. Figli di Arach: settecentosettantacinque. Figli di Pacat-Moab cioè figli di Giosuè e di Ioab: duemilaottocentododici. Figli di Elam: milleduecentocinquan taquattro. Figli di Zattu: novecentoquarantacinque. Figli di Zaccài: settecentosessanta. Figli di B
anì: seicentoquarantadue. Figli di Bebài: seicentoventitré. Figli di Azgad: milleduecentoventidue
. Figli di Adonikàm: seicentosessantasei. Figli di Bigvài: duemilacinquantasei. Figli di Adin: quattr ocentocinquantaquattro. Figli di Ater cioè di Ezechia: novantotto. Figli di Besài: trecentoventitré
. Figli di Iora: centododici. Figli di Casum: duecentoventitré. Figli di Ghibbar: novantacinque. Figli di Betlemme: centoventitré. Uomini di Netofà: cinquantasei. Uomini di Anatòt: centoventotto.
Figli di Azmàvet: quarantadue. Figli di Kiriat-
Iearìm di Chefirà e di Beeròt: settecentoquarantatré. Figli di Rama e di Gheba: seicentoventuno.
Uomini di Micmas: centoventidue. Uomini di Betel e di Ai: duecentoventitré. Figli di Nebo: cinq uantadue. Figli di Magbis: centocinquantasei. Figli di un altro Elam: milleduecentocinquantaqua ttro. Figli di Carim: trecentoventi. Figli di Lod Adid e Ono: settecentoventicinque. Figli di Gerico: trecentoquarantacinque. Figli di Senaà: tremilaseicentotrenta. Sacerdoti: figli di Iedaià della cas a di Giosuè: novecentosettantatré. Figli di Immer: millecinquantadue. Figli di Pascur: milleduece ntoquarantasette. Figli di Carim: millediciassette. Leviti: figli di Giosuè e di Kadmièl cioè figli di O
davia: settantaquattro. Cantori: figli di Asaf: centoventotto. Portieri: figli di Sallum figli di Ater fi gli di Talmon figli di Akkub figli di Catità, figli di Sobài: in tutto centotrentanove. Oblati: figli di Si ca figli di Casufà, figli di Tabbaòt figli di Keros, figli di Siaà figli di Padon, figli di Lebanà figli di Aga bà, figli di Akkub figli di Agab, figli di Samlài figli di Canan, figli di Ghiddel figli di Gacar, figli di Re aià figli di Resin, figli di Nekodà figli di Gazzam, figli di Uzzà figli di Pasèach, figli di Besài figli di A sna, figli dei Meuniti figli dei Nefisiti, figli di Bakbuk figli di Akufà, figli di Carcur figli di Baslù t, fig li di Mechidà figli di Carsa, figli di Barkos figli di Sìsara, figli di Temach figli di Nesìach figli di Catif à. Figli degli schiavi di Salomone: figli di Sotài figli di Assofèret figli di Perudà figli di Iala figli di D
arkon figli di Ghiddel figli di Sefatia, figli di Cattil figli di Pocheret-Assebàim figli di Amì. Totale degli oblati e dei figli degli schiavi di Salomone: trecentonovantadu e. Questi sono coloro che ritornarono da Tel-Melach Tel-Carsa Cherub-Addan e Immer ma non avevano potuto indicare se il loro casato e la loro discendenza fossero d
’Israele: i figli di Delaià i figli di Tobia i figli di Nekodà: seicentocinquantadue; tra i sacerdoti i figli di Cobaià i figli di Akkos i figli di Barzillài il quale aveva preso in moglie una delle figlie di Barzillà i il Galaadita e veniva chiamato con il loro nome. Costoro cercarono il loro registro genealogico
ma non lo trovarono e furono allora esclusi dal sacerdozio. Il governatore disse loro che non pot evano mangiare le cose santissime finché non si presentasse un sacerdote con urìm e tummìm.
Tutta la comunità nel suo insieme era di quarantaduemilatrecentosessanta persone, oltre i loro schiavi e le loro schiave in numero di settemilatrecentotrentasette; avevano anche duecento ca ntori e cantatrici. I loro cavalli erano settecentotrentasei i loro muli duecentoquarantacinque i l oro cammelli quattrocentotrentacinque e gli asini seimilasettecentoventi. Alcuni capi di casato al loro arrivo al tempio del Signore che è a Gerusalemme fecero offerte spontanee al tempio di Dio per edificarlo al suo posto. Secondo le loro possibilità diedero al tesoro della fabbrica sessa ntunmila dracme d’oro cinquemila mine d’argento e cento tuniche sacerdotali. Poi i sacerdoti i l eviti alcuni del popolo i cantori i portieri e gli oblati si stabilirono nelle loro città e tutti gli Israeli ti nelle loro città. Giunse il settimo mese e gli Israeliti stavano nelle città. Il popolo si radunò co me un solo uomo a Gerusalemme. Allora si levarono Giosuè figlio di Iosadàk con i suoi fratelli i s acerdoti e Zorobabele figlio di Sealtièl con i suoi fratelli e costruirono l’altare del Dio d’Israele p er offrirvi olocausti come è scritto nella legge di Mosè uomo di Dio. Fissarono l’altare sulle sue b asi poiché erano presi dal terrore delle popolazioni locali e vi offrirono sopra olocausti al Signor e gli olocausti del mattino e della sera. Celebrarono la festa delle Capanne come sta scritto e off rirono olocausti quotidiani nel numero prescritto per ogni giorno e poi l’olocausto perenne per i noviluni per tutte le solennità consacrate al Signore e per tutti coloro che volevano fare offerte spontanee al Signore. Cominciarono a offrire olocausti al Signore dal primo giorno del mese sett imo benché del tempio del Signore non fossero poste le fondamenta. Allora diedero denaro agli scalpellini e ai falegnami e alimenti bevande e olio alla gente di Sidone e di Tiro perché inviasse ro il legname di cedro dal Libano per mare fino a Giaffa secondo la concessione fatta loro da Cir o re di Persia. Nel secondo anno dal loro arrivo al tempio di Dio a Gerusalemme nel secondo me se diedero inizio ai lavori Zorobabele figlio di Sealtièl e Giosuè, figlio di Iosadàk con gli altri fratel li sacerdoti e leviti e quanti erano tornati dall’esilio a Gerusalemme. Essi incaricarono i leviti dai vent’anni in su di dirigere i lavori del tempio del Signore. Giosuè i suoi figli e i suoi fratelli Kadmi èl e i suoi figli i figli di Giuda si misero come un solo uomo a dirigere chi faceva il lavoro nel tem pio di Dio; così pure i figli di Chenadàd con i loro figli e i loro fratelli leviti. Mentre i costruttori g ettavano le fondamenta del tempio del Signore vi assistevano i sacerdoti con i loro paramenti e con le trombe e i leviti figli di Asaf con i cimbali per lodare il Signore secondo le istruzioni di Davi de re d’Israele. Essi cantavano lodando e rendendo grazie al Signore, ripetendo: «Perché è buon o perché il suo amore è per sempre verso Israele». Tutto il popolo faceva risuonare grida di gra nde acclamazione lodando così il Signore perché erano state gettate le fondamenta del tempio del Signore. Tuttavia molti tra i sacerdoti e i leviti e i capi di casato anziani che avevano visto il t empio di prima mentre si gettavano sotto i loro occhi le fondamenta di questo tempio piangeva no forte; i più, invece continuavano ad alzare grida di acclamazione e di gioia. Così non si poteva distinguere il grido dell’acclamazione di gioia dal grido di pianto del popolo perché il popolo fac eva risuonare grida di grande acclamazione e il suono si sentiva lontano. Quando i nemici di Giu
da e di Beniamino vennero a sapere che gli esuli rimpatriati stavano costruendo un tempio al Si gnore Dio d’Israele si presentarono a Zorobabele e ai capi di casato e dissero: «Vogliamo costrui re anche noi insieme con voi perché anche noi come voi cerchiamo il vostro Dio; a lui noi faccia mo sacrifici dal tempo di Assarhàddon re d’Assiria che ci ha fatto salire qui». Ma Zorobabele Gio suè e gli altri capi di casato d’Israele dissero loro: «Non conviene che costruiamo insieme una ca sa al nostro Dio; noi soltanto la costruiremo al Signore, Dio d’Israele come Ciro re di Persia ci ha ordinato». Allora la popolazione locale si mise a scoraggiare il popolo dei Giudei e a intimorirlo perché non costruisse. Inoltre con denaro misero contro di loro alcuni funzionari per far fallire il loro piano; e ciò per tutto il tempo di Ciro re di Persia fino al regno di Dario re di Persia. Durant e il regno di Serse al principio del suo regno essi presentarono una denuncia contro gli abitanti di Giuda e di Gerusalemme. Poi al tempo di Artaserse Bislam Mitridate Tabeèl e gli altri loro coll eghi scrissero ad Artaserse re di Persia: il testo del documento era in caratteri aramaici e tradott o in aramaico. Recum governatore e Simsài scriba scrissero al re Artaserse contro Gerusalemme la lettera seguente: «Da parte di Recum governatore e Simsài scriba e gli altri loro colleghi giudi ci e prefetti uomini di Tarpel di Persia di Uruc di Babilonia e di Susa, cioè di Elam e altri popoli ch e il grande e illustre Asnappàr deportò e stabilì nella città di Samaria e nel resto della regione de ll’Oltrefiume…». Questa è la copia della lettera che gli mandarono: «Al re Artaserse i tuoi servi u omini della regione dell’Oltrefiume. Sia noto al re che i Giudei che sono partiti da te e sono ven uti presso di noi a Gerusalemme stanno ricostruendo la città ribelle e malvagia: hanno terminat o le mura e riparato le fondamenta. Ora sia noto al re che se quella città è ricostruita e le mura sono riparate tributi imposte e tasse non saranno più pagati e questo danneggerà i re. Ora poic hé noi mangiamo il sale della reggia e per noi non è decoroso stare a guardare la spoliazione del re mandiamo informazioni al re, perché si facciano ricerche nel libro delle memorie dei tuoi pa dri: tu troverai nel libro delle memorie e constaterai che quella città è una città ribelle causa di guai per re e province e vi hanno fatto sedizioni fin dai tempi antichi. Per questo quella città è st ata distrutta. Noi informiamo il re che se quella città è ricostruita e le mura sono riparate non av rai più possedimenti nella regione dell’Oltrefiume». Il re inviò questa risposta: «A Recum govern atore e Simsài scriba e agli altri loro colleghi che risiedono in Samaria e nel resto della regione d ell’Oltrefiume salute! Ora la lettera che ci avete mandato è stata letta davanti a me accuratame nte. Dietro mio ordine si sono fatte ricerche e si è trovato che quella città fin dai tempi antichi si è sollevata contro i re e in essa sono avvenute rivolte e sedizioni. A Gerusalemme vi furono re p otenti che comandavano su tutto il territorio dell’Oltrefiume: a loro si pagavano tributi imposte e tasse. Date perciò ordine di fermare quegli uomini e quella città non sia ricostruita fino a mio ordine nuovo. Badate di non essere negligenti in questo perché non aumenti il danno arrecato a l re». Appena la copia della lettera del re Artaserse fu letta davanti a Recum e a Simsài scriba e a i loro colleghi questi andarono in gran fretta a Gerusalemme dai Giudei e li fecero smettere con la forza e con la violenza. Così cessò il lavoro per il tempio di Dio che è a Gerusalemme e rimase fermo fino all’anno secondo del regno di Dario re di Persia. Ma i profeti cioè il profeta Aggeo e Z

accaria figlio di Iddo profetarono ai Giudei che erano in Giuda e a Gerusalemme nel nome del Di o d’Israele che era con loro. Allora Zorobabele figlio di Sealtièl e Giosuè figlio di Iosadàk si levar ono e ripresero a costruire il tempio di Dio che è a Gerusalemme; con essi c’erano i profeti di Di o che li sostenevano. In quel tempo Tattènai governatore della regione dell’Oltrefiume, Setar-Boznài e i loro colleghi vennero da loro e dissero: «Chi vi ha dato ordine di costruire questo tem pio e di preparare questo legname? Chi sono e come si chiamano gli uomini che costruiscono q uesto edificio?». Ma l’occhio vigile del loro Dio era sugli anziani dei Giudei: quelli perciò non li fe cero smettere in attesa che pervenisse a Dario una relazione e poi fosse rimandato un rescritto su questo affare. Ecco la copia della lettera che Tattènai governatore dell’Oltrefiume, Setar-Boznài e i suoi colleghi funzionari dell’Oltrefiume mandarono al re Dario. Gli mandarono un rap porto in cui era scritto: «Al re Dario salute perfetta! Sia noto al re che siamo andati nella provinc ia della Giudea al tempio del grande Dio. Esso viene costruito con pietre squadrate e si mette le gno alle pareti; quel lavoro viene fatto con diligenza e progredisce nelle loro mani. Allora abbia mo interrogato quegli anziani e abbiamo detto loro: “Chi vi ha dato ordine di costruire questo t empio e di preparare questo legname?”. Inoltre abbiamo domandato i loro nomi per farteli con oscere scrivendo il nome degli uomini che stanno loro a capo. Essi hanno risposto: “Noi siamo s ervitori del Dio del cielo e della terra e ricostruiamo il tempio che fu edificato molti anni fa. Un g rande re d’Israele lo ha costruito e lo ha portato a termine. Ma poiché i nostri padri hanno prov ocato all’ira il Dio del cielo egli li ha messi nelle mani di Nabucodònosor re di Babilonia il Caldeo che distrusse questo tempio e deportò a Babilonia il popolo. Ma nel primo anno di Ciro re di Ba bilonia il re Ciro ha dato ordine di costruire questo tempio di Dio; inoltre i vasi del tempio di Dio
, d’oro e d’argento che Nabucodònosor aveva portato via dal tempio di Gerusalemme e trasferit o al tempio di Babilonia il re Ciro li ha fatti togliere dal tempio di Babilonia e li ha fatti consegnar e a un tale di nome Sesbassàr che egli aveva costituito governatore. Gli disse: Prendi questi vasi e va’ a deporli nel tempio che è a Gerusalemme e il tempio di Dio sia costruito al suo posto. Allo ra quel Sesbassàr venne gettò le fondamenta del tempio di Dio che è a Gerusalemme e da allor a fino ad oggi esso è in costruzione ma non è ancora finito”. Ora se piace al re si cerchi negli arc hivi del re a Babilonia se risulta che dal re Ciro sia stato emanato un decreto di costruire quel te mpio di Dio a Gerusalemme e ci venga inviata la decisione del re a questo proposito». Allora il r e Dario ordinò che si facessero ricerche nell’archivio là dove si depongono i tesori a Babilonia e a Ecbàtana la fortezza che è nella provincia di Media si trovò un rotolo in cui era scritta la segue nte annotazione: «Nell’anno primo del suo regno il re Ciro prese questa decisione riguardo al te mpio di Dio a Gerusalemme: il tempio sia ricostruito come luogo in cui si facciano sacrifici; le su e fondamenta siano salde la sua altezza sia di sessanta cubiti la sua larghezza di sessanta cubiti.
Vi siano nei muri tre ordini di pietre squadrate e un ordine di legno. La spesa sia sostenuta dalla reggia. E anche i vasi del tempio di Dio d’oro e d’argento che Nabucodònosor portò via dal temp io che è a Gerusalemme e trasferì a Babilonia siano restituiti e vadano al tempio che è a Gerusal emme al loro posto e siano deposti nel tempio di Dio». «Quindi Tattènai governatore dell’Oltref
iume Setar-
Boznài e voi loro colleghi funzionari dell’Oltrefiume tenetevi in disparte. Lasciate che lavorino a quel tempio di Dio. Il governatore dei Giudei e i loro anziani costruiscano quel tempio di Dio al s uo posto. Ed ecco il mio ordine circa quello che dovrete fare con quegli anziani dei Giudei per la costruzione di quel tempio di Dio: con il denaro del re quello delle tasse dell’Oltrefiume siano in tegralmente sostenute le spese di quegli uomini perché non vi siano interruzioni. Ciò che loro o ccorre giovenchi, arieti e agnelli per gli olocausti al Dio del cielo grano sale vino e olio siano loro forniti ogni giorno senza negligenza secondo le indicazioni dei sacerdoti di Gerusalemme perché facciano offerte di profumo gradito al Dio del cielo e preghino per la vita del re e dei suoi figli. E
ordino che se qualcuno trasgredirà questo decreto sia estratta una trave dalla sua casa e venga innalzata perché vi sia appeso e la sua casa sia ridotta a letamaio per questo motivo. Il Dio che ha fatto abitare lì il suo nome rovesci qualsiasi re o popolo che osi stendere la propria mano per trasgredire e distruggere quel tempio di Dio che è a Gerusalemme. Io Dario ho emanato quest’
ordine: sia eseguito integralmente». Allora Tattènai governatore dell’Oltrefiume Setar-Boznài e i loro colleghi, fecero integralmente come il re Dario aveva comandato. Gli anziani dei Giudei continuarono a costruire e fecero progressi grazie alla profezia del profeta Aggeo e di Za ccaria figlio di Iddo. Portarono a compimento la costruzione per ordine del Dio d’Israele e per or dine di Ciro di Dario e di Artaserse re di Persia. Si terminò questo tempio per il giorno tre del me se di Adar nell’anno sesto del regno del re Dario. Gli Israeliti i sacerdoti i leviti e gli altri rimpatri ati celebrarono con gioia la dedicazione di questo tempio di Dio; offrirono per la dedicazione di questo tempio di Dio cento tori duecento arieti quattrocento agnelli e dodici capri come sacrific i espiatori per tutto Israele, secondo il numero delle tribù d’Israele. Stabilirono i sacerdoti secon do le loro classi e i leviti secondo i loro turni per il servizio di Dio a Gerusalemme come è scritto nel libro di Mosè. I rimpatriati celebrarono la Pasqua il quattordici del primo mese. Infatti i sace rdoti e i leviti si erano purificati tutti insieme come un sol uomo: tutti erano puri. Così immolaro no la Pasqua per tutti i rimpatriati per i loro fratelli sacerdoti e per se stessi. Ne mangiarono gli I sraeliti che erano tornati dall’esilio e quanti si erano separati dalla contaminazione del popolo d el paese unendosi a loro per cercare il Signore Dio d’Israele. Celebrarono con gioia la festa degli Azzimi per sette giorni poiché il Signore li aveva colmati di gioia avendo piegato a loro favore il c uore del re d’Assiria per rafforzare le loro mani nel lavoro per il tempio di Dio il Dio d’Israele. Do po questi avvenimenti sotto il regno di Artaserse re di Persia Esdra figlio di Seraià, figlio di Azari a figlio di Chelkia figlio di Sallum figlio di Sadoc figlio di Achitù b, figlio di Amaria figlio di Azaria fi glio di Meraiòt figlio di Zerachia figlio di Uzzì figlio di Bukkì figlio di Abisù a figlio di Fineès figlio d i Eleàzaro figlio di Aronne sommo sacerdote Esdra dunque partì da Babilonia. Egli era uno scriba esperto nella legge di Mosè data dal Signore Dio d’Israele. Poiché la mano del Signore suo Dio e ra su di lui il re aveva esaudito ogni sua richiesta. Partirono per Gerusalemme alcuni Israeliti sac erdoti leviti cantori portieri e oblati nel settimo anno del re Artaserse. Egli arrivò a Gerusalemm e nel quinto mese: era l’anno settimo del re. Egli aveva fissato la partenza da Babilonia per il pri
mo giorno del primo mese e il primo del quinto mese arrivò a Gerusalemme poiché la mano be nevola del suo Dio era su di lui. Infatti Esdra si era dedicato con tutto il cuore a studiare la legge del Signore e a praticarla e a insegnare in Israele le leggi e le norme. Questa è la copia del docu mento che il re Artaserse consegnò a Esdra sacerdote, scriba ed esperto nei comandamenti del Signore e nelle leggi date a Israele: «Artaserse re dei re al sacerdote Esdra scriba della legge del Dio del cielo salute perfetta. Ora io ordino che nel mio regno chiunque del popolo d’Israele dei s uoi sacerdoti e dei leviti vuole venire a Gerusalemme venga pure con te; infatti da parte del re e dei suoi sette consiglieri tu sei inviato a fare inchiesta in Giudea e a Gerusalemme riguardo alla legge del tuo Dio che è nelle tue mani e a portare l’argento e l’oro che il re e i suoi consiglieri in viano come offerta spontanea al Dio d’Israele che abita a Gerusalemme e tutto l’argento e l’oro che troverai in tutta la provincia di Babilonia insieme con le offerte spontanee che il popolo e i s acerdoti offriranno per il tempio del loro Dio a Gerusalemme. Perciò con questo argento ti pren derai cura di acquistare tori arieti agnelli con le loro oblazioni e le loro libagioni, e li offrirai sull’
altare del tempio del vostro Dio che è a Gerusalemme. Con il resto dell’argento e dell’oro farete quello che sembrerà bene fare a te e ai tuoi fratelli secondo la volontà del vostro Dio. I vasi che ti sono stati dati per il culto del tempio del tuo Dio rendili al Dio di Gerusalemme. Il resto di qua nto occorre per il tempio del tuo Dio e che spetta a te procurare lo procurerai a spese del tesor o del re. Io il re Artaserse ordino a tutti i tesorieri dell’Oltrefiume: Tutto ciò che Esdra, sacerdote e scriba della legge del Dio del cielo vi domanderà sia fatto integralmente fino a cento talenti d’
argento cento kor di grano cento bat di vino cento bat di olio e sale a volontà. Quanto è prescrit to dal Dio del cielo sia fatto con diligenza per il tempio del Dio del cielo perché non venga l’ira s ul regno del re e dei suoi figli. E vi comunichiamo che nessuno può imporre tasse tributi o impos te a tutti i sacerdoti leviti cantori, portieri oblati e inservienti di questo tempio. Quanto a te Esdr a secondo la sapienza del tuo Dio che tu possiedi stabilisci magistrati e giudici che giudichino tut to il popolo dell’Oltrefiume cioè tutti coloro che conoscono le leggi del tuo Dio e voi dovrete istr uire chi non le conosce. Contro chiunque non osserverà la legge del tuo Dio e la legge del re si f accia con sollecitudine un processo e lo si punisca con la morte o una pena corporale o un’amm enda in denaro o il carcere». Benedetto il Signore Dio dei padri nostri che ha disposto così il cuo re del re a glorificare il tempio del Signore che è a Gerusalemme e si è volto verso di me con am ore di fronte al re ai suoi consiglieri e a tutti i comandanti del re. Allora io mi sono sentito incora ggiato, perché la mano del Signore mio Dio era su di me e ho radunato alcuni capi da Israele per ché salissero con me. Questi sono con le loro indicazioni genealogiche i capi di casato che sono partiti con me da Babilonia sotto il regno del re Artaserse: dei figli di Fineès: Ghersom; dei figli d i Itamàr: Daniele; dei figli di Davide: Cattus figlio di Secania; dei figli di Paros: Zaccaria e con lui f urono registrati centocinquanta maschi; dei figli di Pacat-Moab: Elioenài figlio di Zerachia e con lui duecento maschi; dei figli di Zattu: Secania figlio di Iac azièl e con lui trecento maschi; dei figli di Adin: Ebed figlio di Giònata e con lui cinquanta maschi
; dei figli di Elam: Isaia figlio di Atalia e con lui settanta maschi; dei figli di Sefatia: Zebadia figlio
di Michele e con lui ottanta maschi; dei figli di Ioab: Abdia figlio di Iechièl e con lui duecentodici otto maschi; dei figli di Banì: Selomìt figlio di Iosifia e con lui centosessanta maschi; dei figli di B
ebài: Zaccaria figlio di Bebài e con lui ventotto maschi; dei figli di Azgad: Giovanni figlio di Akkat àn e con lui centodieci maschi; dei figli di Adonikàm: gli ultimi di cui ecco i nomi: Elifèlet Ieièl e S
emaià e con loro sessanta maschi; dei figli di Bigvài: Utài e Zabbud e con loro settanta maschi. Io li ho radunati presso il fiume che scorre verso Aavà. Là siamo stati accampati per tre giorni. Ho fatto una rassegna tra il popolo e i sacerdoti e non vi ho trovato nessun levita. Allora ho mandat o a chiamare i capi Elièzer Arièl Semaià Elnatàn, Iarib Elnatàn Natan Zaccaria Mesullàm e gli istr uttori Ioiarìb ed Elnatàn, e li ho mandati da Iddo capo nella località di Casifià e ho messo loro in bocca le parole da dire a Iddo e ai suoi fratelli oblati nella località di Casifià perché ci mandasser o dei ministri per il tempio del nostro Dio. Poiché la mano benefica del nostro Dio era su di noi c i hanno mandato un uomo assennato dei figli di Maclì figlio di Levi figlio d’Israele cioè Serebia c on i suoi figli e fratelli: diciotto persone; inoltre Casabia e con lui Isaia dei figli di Merarì i suoi fra telli e i loro figli: venti persone e infine degli oblati che Davide e i capi avevano assegnato al serv izio dei leviti: duecentoventi oblati. Tutti furono registrati per nome. Là presso il fiume Aavà ho i ndetto un digiuno per umiliarci davanti al nostro Dio e implorare da lui un felice viaggio per noi i nostri bambini e tutti i nostri averi. Avevo infatti vergogna di domandare al re soldati e cavalieri per difenderci lungo il cammino da un eventuale nemico poiché avevamo detto al re: «La mano del nostro Dio è su quanti lo cercano, per il loro bene; ma la sua potenza e la sua ira su quanti l o abbandonano». Così abbiamo digiunato e implorato Dio per questo ed egli ci ha esaudito. Qui ndi ho scelto dodici tra i capi dei sacerdoti: Serebia e Casabia e con loro dieci loro fratelli; ho pes ato per loro l’argento l’oro e i vasi l’offerta per il tempio del nostro Dio fatta dal re dai suoi cons iglieri dai suoi capi e da tutti gli Israeliti che si trovavano da quelle parti. Ho pesato dunque nelle loro mani seicentocinquanta talenti d’argento vasi d’argento per cento talenti cento talenti d’o ro e inoltre venti coppe d’oro per mille dàrici e due vasi di bronzo pregiato e lucente preziosi co me l’oro. Ho detto loro: «Voi siete consacrati al Signore e i vasi sono cosa sacra; l’argento e l’oro sono offerta spontanea al Signore, Dio dei nostri padri. Abbiatene cura e custoditeli finché non li peserete davanti ai preposti dei sacerdoti e dei leviti e ai preposti di casato d’Israele a Gerusal emme nelle stanze del tempio del Signore». Allora i sacerdoti e i leviti presero in consegna il car ico dell’argento e dell’oro e dei vasi per portarli a Gerusalemme nel tempio del nostro Dio. Il do dici del primo mese siamo partiti dal fiume Aavà per andare a Gerusalemme e la mano del nostr o Dio era su di noi: egli ci ha liberato dagli assalti dei nemici e dei briganti lungo il cammino. Sia mo arrivati a Gerusalemme e ci siamo rimasti tre giorni. Il quarto giorno è stato pesato l’argent o l’oro e i vasi nel tempio del nostro Dio nelle mani del sacerdote Meremòt figlio di Uria e con lu i vi era Eleàzaro figlio di Fineès e con loro i leviti Iozabàd figlio di Giosuè e Noadia figlio di Binnù i; il numero e il peso corrispondeva in tutto e il peso totale fu registrato in quel momento. Quell i che venivano dall’esilio i deportati offrirono olocausti al Dio d’Israele: dodici tori per tutto Isra ele novantasei arieti settantasette agnelli dodici capri per il peccato tutto come olocausto al Sig
nore. Quindi consegnarono i decreti del re ai satrapi del re e ai governatori dell’Oltrefiume i qua li iniziarono a proteggere il popolo e il tempio di Dio. Terminate queste cose sono venuti da me i preposti per dirmi: «Il popolo d’Israele i sacerdoti e i leviti non si sono separati dalle popolazion i locali per quanto riguarda i loro abomini, cioè da Cananei Ittiti Perizziti Gebusei Ammoniti Moa biti Egiziani Amorrei ma hanno preso in moglie le loro figlie per sé e per i loro figli: così hanno m escolato la stirpe santa con le popolazioni locali e la mano dei preposti e dei governatori è stata la prima in questa prevaricazione». All’udire questa parola stracciai il mio vestito e il mio mantel lo mi strappai i capelli del capo e la barba e mi sedetti costernato. Quanti tremavano per i giudiz i del Dio d’Israele su questa prevaricazione dei rimpatriati si radunarono presso di me. Ma io se devo costernato fino all’offerta della sera. All’offerta della sera mi alzai dal mio stato di prostraz ione e con il vestito e il mantello laceri caddi in ginocchio e stesi le mani al Signore mio Dio e dis si: «Mio Dio sono confuso ho vergogna di alzare la faccia verso di te mio Dio poiché le nostre ini quità si sono moltiplicate fin sopra la nostra testa; la nostra colpa è grande fino al cielo. Dai gior ni dei nostri padri fino ad oggi noi siamo stati molto colpevoli e per le nostre colpe noi, i nostri r e i nostri sacerdoti siamo stati messi in potere di re stranieri in preda alla spada alla prigionia, al la rapina al disonore come avviene oggi. Ma ora per un po’ di tempo il Signore nostro Dio ci ha f atto una grazia: di lasciarci un resto e darci un asilo nel suo luogo santo e così il nostro Dio ha fa tto brillare i nostri occhi e ci ha dato un po’ di sollievo nella nostra schiavitù. Infatti noi siamo sc hiavi; ma nella nostra schiavitù il nostro Dio non ci ha abbandonati: ci ha resi graditi ai re di Pers ia per conservarci la vita ed erigere il tempio del nostro Dio e restaurare le sue rovine e darci un riparo in Giuda e a Gerusalemme. Ma ora o nostro Dio che cosa possiamo dire dopo questo? In fatti abbiamo abbandonato i tuoi comandamenti che tu avevi dato per mezzo dei tuoi servi i pro feti dicendo: “La terra che voi andate a prendere in eredità è una terra contaminata a causa dell e contaminazioni dei popoli indigeni e delle loro nefandezze che l’hanno colmata da un capo all’
altro con le loro impurità. E allora non dovete dare le vostre figlie ai loro figli né prendere le lor o figlie per i vostri figli; non dovrete mai contribuire alla loro prosperità e al loro benessere così diventerete forti voi e potrete mangiare i beni della terra e lasciare un’eredità ai vostri figli per s empre”. Dopo ciò che è venuto su di noi a causa delle nostre cattive azioni e per le nostre grand i mancanze benché tu nostro Dio sia stato indulgente nonostante la nostra colpa e ci abbia dato superstiti come questi, potremmo forse noi tornare a violare i tuoi comandamenti e a imparent arci con questi popoli abominevoli? Non ti adireresti contro di noi fino a sterminarci senza lascia re né resto né superstite? Signore Dio d’Israele tu sei giusto poiché ci è stato lasciato un resto c ome oggi: eccoci davanti a te con le nostre mancanze anche se per questo non potremmo regge re davanti a te!». Mentre Esdra pregava e faceva questa confessione piangendo prostrato dava nti al tempio di Dio si riunì intorno a lui un’assemblea molto numerosa d’Israeliti: uomini donne e fanciulli; e il popolo piangeva a dirotto. Allora Secania figlio di Iechièl uno dei figli di Elam pres e la parola e disse a Esdra: «Abbiamo prevaricato contro il nostro Dio sposando donne straniere prese dalle popolazioni del luogo. Orbene a questo riguardo c’è ancora una speranza per Israel
e. Facciamo dunque un patto con il nostro Dio impegnandoci a rimandare tutte le donne e i figli nati da loro secondo la volontà del mio signore e rispettando il comando del nostro Dio. Si farà s econdo la legge! àlzati perché a te è affidato questo compito. Noi saremo con te; sii forte e met titi all’opera!». Allora Esdra si alzò e fece giurare ai capi dei sacerdoti e dei leviti e a tutto Israele che avrebbero agito secondo quelle parole; essi giurarono. Esdra quindi si alzò da dove si trova va davanti al tempio di Dio e andò nella camera di Giovanni figlio di Eliasìb e vi andò senza pren dere cibo né bere acqua perché era in lutto a causa della prevaricazione dei rimpatriati. Poi in G
iuda e a Gerusalemme si comunicò a tutti i rimpatriati di radunarsi a Gerusalemme: se qualcuno non fosse venuto entro tre giorni secondo la disposizione dei preposti e degli anziani sarebbero stati votati allo sterminio tutti i suoi beni ed egli stesso sarebbe stato escluso dalla comunità de i rimpatriati. Allora tutti gli uomini di Giuda e di Beniamino si radunarono a Gerusalemme entro tre giorni; si era al nono mese il venti del mese. Tutto il popolo stava nella piazza del tempio di Dio tremante per questo evento e per la gran pioggia. Allora il sacerdote Esdra si levò e disse lor o: «Voi avete prevaricato sposando donne straniere: così avete accresciuto le mancanze d’Israel e. Ma ora rendete lode al Signore Dio dei vostri padri e fate la sua volontà separandovi dalle po polazioni del paese e dalle donne straniere». Tutta l’assemblea rispose a gran voce: «Sì! Dobbia mo fare come tu ci hai detto. Ma il popolo è numeroso e siamo al tempo delle piogge; non è po ssibile restare all’aperto. D’altra parte non è lavoro di un giorno o di due perché siamo in molti ad aver peccato in questa materia. I nostri preposti stiano a rappresentare tutta l’assemblea; e t utti quelli delle nostre città che hanno sposato donne straniere vengano in date determinate e c on gli anziani della città ogni città con i suoi giudici finché non sia allontanata da noi l’ira ardent e del nostro Dio causata da questa situazione». Soltanto Gionata figlio di Asaèl e Iaczia figlio di T
ikva si opposero appoggiati da Mesullàm e dal levita Sabbetài. I rimpatriati fecero come si era d etto. Furono scelti il sacerdote Esdra e alcuni capi di casato secondo il loro casato tutti designati per nome. Essi iniziarono le sedute il primo giorno del decimo mese per esaminare la questione e terminarono con tutti gli uomini che avevano sposato donne straniere il primo giorno del pri mo mese. Tra i figli dei sacerdoti che avevano sposato donne straniere si trovarono: dei figli di G
iosuè figlio di Iosadàk e tra i suoi fratelli: Maasia Elièzer Iarib e Godolia; essi si impegnarono a ri mandare le loro donne e offrirono un ariete come sacrificio di riparazione per le loro mancanze; dei figli di Immer: Anàni e Zebadia; dei figli di Carim: Maasia Elia Semaià Iechièl e Ozia; dei figli di Pascur: Elioenài Maasia Ismaele Natanèl Iozabàd ed Eleasà dei leviti: Iozabàd Simei Kelaià chi amato anche Kelità Petachia Giuda ed Elièzer; dei cantori: Eliasìb; dei portieri: Sallum Telem e U
rì. Quanto agli Israeliti: dei figli di Paros: Ramia Izzia Malchia Miamìn Eleàzaro Malchia e Benaià dei figli di Elam: Mattania Zaccaria Iechièl Abdì Ieremòt ed Elia; dei figli di Zattu: Elioenài Eliasìb Mattania Ieremòt Zabad e Azizà dei figli di Bebài: Giovanni Anania Zabbài e Atlài; dei figli di Banì
: Mesullàm Malluc Adaià Iasub Seal e Ieramòt; dei figli di Pacat-Moab: Adna Chelal Benaià Maasia Mattania Besalèl, Binnù i e Manasse; dei figli di Carim: Elièzer Issia Malchia Semaià Simeone, Beniamino, Malluc Semaria; dei figli di Casum: Mattenài Mattatt
à Zabad Elifèlet Ieremài, Manasse e Simei; dei figli di Banì: Maadài Amram Uèl Benaià Bedia, Ch eluu Vania Meremòt Eliasìb Mattania Mattenài e Iaasài; dei figli di Binnù i: Simei Selemia Natan Adaià, Macnadbài, Sasài Sarài, Azarèl Selemia Semaria Sallum Amaria, Giuseppe; dei figli di Neb o: Ieièl Mattitia Zabad Zebinà Iaddài Gioele, Benaià. Tutti questi avevano sposato donne stranie re e rimandarono le donne insieme con i figli. Parole di Neemia figlio di Acalia. Nel mese di Chisl eu dell’anno ventesimo mentre ero nella cittadella di Susa Anàni uno dei miei fratelli e alcuni alt ri uomini arrivarono dalla Giudea. Li interrogai riguardo ai Giudei i superstiti che erano scampati alla deportazione e riguardo a Gerusalemme. Essi mi dissero: «I superstiti che sono scampati all a deportazione sono là, nella provincia in grande miseria e desolazione; le mura di Gerusalemm e sono devastate e le sue porte consumate dal fuoco». Udite queste parole mi sedetti e piansi; f eci lutto per parecchi giorni, digiunando e pregando davanti al Dio del cielo. E dissi: «O Signore Dio del cielo Dio grande e tremendo che mantieni l’alleanza e la fedeltà con quelli che ti amano e osservano i tuoi comandi, sia il tuo orecchio attento i tuoi occhi aperti per ascoltare la preghie ra del tuo servo; io prego ora davanti a te giorno e notte per gli Israeliti tuoi servi confessando i peccati che noi Israeliti abbiamo commesso contro di te; anch’io e la casa di mio padre abbiamo peccato. Abbiamo gravemente peccato contro di te e non abbiamo osservato i comandi le leggi e le norme che tu hai dato a Mosè tuo servo. Ricòrdati della parola che hai affidato a Mosè tuo servo: “Se sarete infedeli io vi disperderò fra i popoli; ma se tornerete a me e osserverete i miei comandi e li eseguirete anche se i vostri esiliati si trovassero all’estremità dell’orizzonte io di là l i raccoglierò e li ricondurrò al luogo che ho scelto per farvi dimorare il mio nome”. Ora questi so no tuoi servi e tuo popolo che hai redento con la tua grande forza e con la tua mano potente. O
Signore sia il tuo orecchio attento alla preghiera del tuo servo e alla preghiera dei tuoi servi che desiderano temere il tuo nome; concedi oggi buon successo al tuo servo e fa’ che trovi compass ione presso quest’uomo». Io allora ero coppiere del re. Nel mese di Nisan dell’anno ventesimo del re Artaserse appena il vino fu pronto davanti al re, io presi il vino e glielo diedi. Non ero mai stato triste davanti a lui. Ma il re mi disse: «Perché hai l’aspetto triste? Eppure non sei malato; n on può essere altro che un’afflizione del cuore». Allora io ebbi grande timore e dissi al re: «Viva il re per sempre! Come potrebbe il mio aspetto non essere triste quando la città dove sono i sep olcri dei miei padri è in rovina e le sue porte sono consumate dal fuoco?». Il re mi disse: «Che c osa domandi?». Allora io pregai il Dio del cielo e poi risposi al re: «Se piace al re e se il tuo servo ha trovato grazia ai tuoi occhi mandami in Giudea nella città dove sono i sepolcri dei miei padri perché io possa ricostruirla». Il re che aveva la regina seduta al suo fianco mi disse: «Quanto du rerà il tuo viaggio? Quando ritornerai?». Dunque la cosa non spiaceva al re che mi lasciava anda re e io gli indicai la data. Poi dissi al re: «Se piace al re mi si diano le lettere per i governatori dell
’Oltrefiume perché mi lascino passare fino ad arrivare in Giudea e una lettera per Asaf guardian o del parco del re perché mi dia il legname per munire di travi le porte della cittadella del tempi o per le mura della città e la casa dove andrò ad abitare». Il re mi diede le lettere perché la man o benefica del mio Dio era su di me. Giunsi presso i governatori dell’Oltrefiume e diedi loro le le
ttere del re. Il re aveva mandato con me una scorta di capi dell’esercito e di cavalieri. Ma lo ven nero a sapere Sanballàt il Coronita e Tobia lo schiavo ammonita e furono molto contrariati per il fatto che fosse venuto un uomo a procurare il bene degli Israeliti. Giunto a Gerusalemme vi rim asi tre giorni. Poi mi alzai di notte io e pochi uomini che erano con me senza parlare a nessuno d i quello che Dio mi aveva messo in cuore di fare per Gerusalemme e non avendo altro giumento oltre quello che io cavalcavo. Uscii di notte per la porta della Valle e andai verso la fonte del Dr ago e alla porta del Letame osservando le mura di Gerusalemme che erano diroccate mentre le sue porte erano consumate dal fuoco. Mi spinsi verso la porta della Fonte e la piscina del Re ma non vi era posto per cui potesse passare il giumento che cavalcavo. Allora risalii di notte lungo i l torrente sempre osservando le mura; poi rientrato per la porta della Valle me ne ritornai. I ma gistrati non sapevano né dove io fossi andato né che cosa facessi. Fino a quel momento non ave vo detto nulla né ai Giudei né ai sacerdoti né ai notabili né ai magistrati né agli altri che si dovev ano occupare del lavoro. Allora io dissi loro: «Voi vedete la miseria nella quale ci troviamo poich é Gerusalemme è in rovina e le sue porte sono consumate dal fuoco. Venite ricostruiamo le mur a di Gerusalemme e non saremo più insultati!». Narrai loro della mano del mio Dio che era bene fica su di me e riferii anche le parole che il re mi aveva riferite. Quelli dissero: «Su costruiamo!».
E misero mano vigorosamente alla buona impresa. Ma quando Sanballàt il Coronita e Tobia lo s chiavo ammonita e Ghesem l’Arabo, seppero la cosa ci schernirono e ci derisero dicendo: «Che state facendo? Volete forse ribellarvi al re?». Allora io risposi loro: «Il Dio del cielo ci darà succe sso. Noi suoi servi ci metteremo a costruire. Ma voi non avrete né parte né diritto né ricordo in Gerusalemme». Eliasìb sommo sacerdote con i suoi fratelli sacerdoti si misero a costruire la por ta delle Pecore. La consacrarono e vi misero i battenti; la consacrarono fino alla torre dei Cento e fino alla torre di Cananèl. Accanto a lui costruirono gli uomini di Gerico e accanto a lui costruì Zaccur, figlio di Imrì. I figli di Senaà costruirono la porta dei Pesci la munirono di travi e vi poser o i battenti le serrature e le sbarre. Accanto a loro lavorò al restauro Meremòt figlio di Uria figli o di Akkos; accanto a loro lavorò al restauro Mesullàm figlio di Berechia figlio di Mesezabèl; acc anto a loro lavorò al restauro Sadoc figlio di Baanà. Accanto a loro lavorarono al restauro quelli di Tekòa ma i loro notabili non piegarono il collo a lavorare all’opera del loro Signore. Ioiadà figli o di Pasèach e Mesullàm figlio di Besodia restaurarono la porta Vecchia la munirono di travi e vi posero i battenti, le serrature e le sbarre. Accanto a loro lavorarono al restauro Melatia di Gàba on Iadon di Meronòt e gli uomini di Gàbaon e di Mispa alle dipendenze della sede del governato re dell’Oltrefiume. Accanto a loro lavorò al restauro Uzzièl figlio di Caraià uno degli orefici e acc anto a lui lavorò al restauro Anania uno dei profumieri. Essi ricostruirono Gerusalemme fino al muro largo. Accanto a loro lavorò al restauro Refaià, figlio di Cur capo della metà del distretto di Gerusalemme. Accanto a loro lavorò al restauro di fronte alla sua casa Iedaià figlio di Carumàf e accanto a lui lavorò al restauro Cattus figlio di Casabnia. Malchia figlio di Carim e Cassub figlio d i Pacat-Moab, restaurarono la parte seguente e la torre dei Forni. Accanto a loro lavorò al restauro, insi
eme con le figlie Sallum figlio di Allochès capo della metà del distretto di Gerusalemme. Canun e gli abitanti di Zanòach restaurarono la porta della Valle; la costruirono vi posero i battenti le s errature e le sbarre. Fecero inoltre mille cubiti di muro fino alla porta del Letame. Malchia figlio di Recab capo del distretto di Bet-Cherem restaurò la porta del Letame; la costruì vi pose i battenti le serrature e le sbarre. Sallum figlio di Col-Cozè, preposto del distretto di Mispa restaurò la porta della Fonte; la ricostruì la munì di tetto v i pose i battenti le serrature e le sbarre. Fece inoltre il muro della piscina di Sìloe presso il giardi no del re fino alla scalinata per cui si scende dalla Città di Davide. Dopo di lui Neemia figlio di Az buk preposto della metà del distretto di Bet-Sur lavorò al restauro fin davanti alle tombe di Davide fino alla piscina artificiale e fino alla casa dei prodi. Dopo di lui lavorarono al restauro i leviti con Recum figlio di Banì e accanto a lui lavor ò al restauro per il suo distretto Casabia preposto della metà del distretto di Keila. Dopo di lui la vorarono al restauro i loro fratelli Binnù i figlio di Chenadàd preposto dell’altra metà del distrett o di Keila. Accanto a lui Ezer figlio di Giosuè preposto di Mispa restaurò un’altra parte di fronte alla salita dell’arsenale sul Cantone. Dopo di lui Baruc, figlio di Zabbài restaurò con impegno un’
altra parte dal Cantone fino alla porta della casa di Eliasìb sommo sacerdote. Dopo di lui Merem òt figlio di Uria figlio di Akkos, restaurò un’altra parte dalla porta della casa di Eliasìb fino all’estr emità della casa di Eliasìb. Dopo di lui lavorarono al restauro i sacerdoti che abitavano la periferi a. Dopo di loro Beniamino e Cassub lavorarono al restauro di fronte alla loro casa. Dopo di loro Azaria figlio di Maasia figlio di Anania lavorò al restauro presso la sua casa. Dopo di lui Binnù i fi glio di Chenadàd restaurò un’altra parte delle mura dalla casa di Azaria fino al Cantone e fino all
’angolo. Palal figlio di Uzài lavorò al restauro di fronte al Cantone e alla torre sporgente dalla pa rte superiore della reggia che dà sul cortile della prigione. Dopo di lui Pedaià figlio di Paros e gli oblati che abitavano sull’Ofel lavorarono al restauro fin davanti alla porta delle Acque verso orie nte e alla torre sporgente. Dopo di loro quelli di Tekòa restaurarono un’altra parte di fronte alla grande torre sporgente e fino al muro dell’Ofel. I sacerdoti lavorarono al restauro sopra la porta dei Cavalli ciascuno di fronte alla propria casa. Dopo di loro lavorò al restauro Sadoc figlio di Im mer di fronte alla sua casa e dopo di lui Semaià figlio di Secania custode della porta Orientale. D
opo di lui Anania figlio di Selemia e Canun sesto figlio di Salaf restaurarono un’altra parte. Dopo di loro Mesullàm figlio di Berechia lavorò al restauro di fronte alla propria stanza. Dopo di lui M
alchia uno degli orefici lavorò al restauro fino alla casa degli oblati e dei mercanti di fronte alla p orta della Rassegna e fino al vano superiore dell’angolo. Gli orefici e i mercanti lavorarono al res tauro fra il vano superiore dell’angolo e la porta delle Pecore. Sanballàt quando sentì che noi rie dificavamo le mura si adirò si indignò molto si fece beffe dei Giudei e disse in presenza dei suoi f ratelli e dei soldati di Samaria: «Che vogliono fare questi miserabili Giudei? Dobbiamo lasciarli f are? Offriranno sacrifici? Finiranno in un sol giorno? Vogliono far rivivere da mucchi di polvere d elle pietre già consumate dal fuoco?». Tobia l’Ammonita che gli stava accanto disse: «Edifichino
pure! Se una volpe vi salta sopra farà crollare il loro muro di pietra!». Ascolta o nostro Dio com e siamo disprezzati! Fa’ ricadere sul loro capo l’insulto e abbandonali al saccheggio in un paese di schiavitù! Non coprire la loro colpa e non sia cancellato dalla tua vista il loro peccato perché h anno offeso i costruttori. Noi dunque ricostruimmo le mura che furono ben consolidate fino a metà altezza e al popolo stava a cuore il lavoro. Ma quando Sanballàt Tobia gli Arabi gli Ammoni ti e gli Asdoditi sentirono che il restauro delle mura di Gerusalemme progrediva e che le brecce cominciavano a venir chiuse si adirarono molto e tutti insieme congiurarono di venire ad attacc are Gerusalemme e crearvi confusione. Allora noi pregammo il nostro Dio e contro di loro mett emmo sentinelle di giorno e di notte per difenderci da loro. Quelli di Giuda dicevano: «Le forze dei portatori vengono meno e le macerie sono molte; noi non potremo ricostruire le mura!». I n ostri avversari dicevano: «Senza che s’accorgano di nulla noi piomberemo in mezzo a loro li ucci deremo e faremo cessare i lavori». Poiché i Giudei che dimoravano vicino a loro vennero a riferi rci dieci volte: «Da tutti i luoghi dove vi volgete saranno contro di noi» io in luoghi bassi oltre le mura nei punti scoperti disposi il popolo per famiglie con le loro spade le loro lance i loro archi.
Dopo aver considerato la cosa mi alzai e dissi ai notabili ai magistrati e al resto del popolo: «Non li temete! Ricordatevi del Signore grande e tremendo; combattete per i vostri fratelli per i vostr i figli e le vostre figlie per le vostre mogli e per le vostre case!». Quando i nostri nemici sentiron o che eravamo informati della cosa Dio fece fallire il loro disegno e noi tutti tornammo alle mur a ognuno al suo lavoro. Da quel giorno la metà dei miei giovani lavorava e l’altra metà stava ar mata di lance di scudi di archi di corazze; i preposti stavano dietro a tutta la casa di Giuda. Quell i che ricostruivano le mura e quelli che portavano o caricavano i pesi con una mano lavoravano e con l’altra tenevano la loro arma; tutti i costruttori lavorando portavano ciascuno la spada cin ta ai fianchi. Il suonatore di corno stava accanto a me. Dissi allora ai notabili ai magistrati e al re sto del popolo: «L’opera è grande ed estesa e noi siamo sparsi sulle mura e distanti l’uno dall’alt ro. Dovunque udrete il suono del corno raccoglietevi presso di noi; il nostro Dio combatterà per noi». Così continuavamo i lavori mentre la metà di loro teneva impugnata la lancia dal sorgere d ell’alba allo spuntare delle stelle. Anche in quell’occasione dissi al popolo: «Ognuno con il suo ai utante passi la notte dentro Gerusalemme, così saranno per noi una guardia di notte e mano d’
opera di giorno». Io poi i miei fratelli i miei servi e gli uomini di guardia che mi seguivano non ci togliemmo mai le vesti; ognuno teneva l’arma a portata di mano. Si alzò un gran lamento da par te della gente del popolo e delle loro mogli contro i loro fratelli Giudei. Alcuni dicevano: «I nostr i figli e le nostre figlie sono numerosi; prendiamoci del grano per mangiare e vivere!». Altri dice vano: «Dobbiamo impegnare i nostri campi le nostre vigne e le nostre case per assicurarci il gra no durante la carestia!». Altri ancora dicevano: «Abbiamo preso denaro a prestito sui nostri ca mpi e sulle nostre vigne per pagare il tributo del re. La nostra carne è come la carne dei nostri fr atelli i nostri figli sono come i loro figli; ecco dobbiamo sottoporre i nostri figli e le nostre figlie a lla schiavitù e alcune delle nostre figlie sono già state ridotte schiave e non possiamo fare nulla perché i nostri campi e le nostre vigne sono in mano d’altri». Quando udii i loro lamenti e quest
e parole ne fui molto indignato. Dopo aver riflettuto dentro di me accusai i notabili e i magistrat i e dissi loro: «Voi esigete dunque un interesse tra fratelli?». Convocai contro di loro una grande assemblea e dissi loro: «Noi secondo la nostra possibilità abbiamo riscattato i nostri fratelli Giu dei che si erano venduti agli stranieri e ora proprio voi vendete i vostri fratelli perché siano rive nduti a noi?». Allora quelli tacquero e non seppero che cosa rispondere. Io dissi: «Quello che vo i fate non va bene. Non dovreste voi camminare nel timore del nostro Dio per non essere scher niti dagli stranieri nostri nemici? Ma anch’io i miei fratelli e i miei servi abbiamo dato loro in pre stito denaro e grano. Condoniamo questo debito! Rendete loro oggi stesso i loro campi le loro v igne i loro oliveti e le loro case e l’interesse del denaro del grano del vino e dell’olio che voi esig ete da loro». Quelli risposero: «Restituiremo e non esigeremo più nulla da loro; faremo come tu dici». Allora chiamai i sacerdoti e li feci giurare di attenersi a questa parola. Poi scossi la piega a nteriore del mio mantello e dissi: «Così Dio scuota dalla sua casa e dai suoi beni chiunque non manterrà questa parola e così sia egli scosso e svuotato di tutto!». Tutta l’assemblea disse: «Am en» e lodarono il Signore. Il popolo si attenne a questa parola. Inoltre da quando il re mi aveva s tabilito loro governatore nel paese di Giuda dal ventesimo anno fino al trentaduesimo anno del re Artaserse durante dodici anni né io né i miei fratelli mangiammo la provvista assegnata al gov ernatore. I governatori che mi avevano preceduto avevano gravato il popolo ricevendone pane e vino oltre a quaranta sicli d’argento; perfino i loro servi angariavano il popolo ma io non ho fat to così per timore di Dio. Anzi ho messo mano ai lavori di restauro di queste mura e non abbiam o comprato alcun podere. Tutti i miei giovani erano raccolti là a lavorare. Avevo alla mia tavola centocinquanta uomini Giudei e magistrati oltre a quelli che venivano a noi dalle nazioni vicine.
Quello che si preparava ogni giorno un bue sei capi scelti di bestiame minuto e uccelli veniva pr eparato a mie spese. Ogni dieci giorni vino per tutti in abbondanza. Tuttavia non ho mai chiesto la provvista assegnata al governatore perché il popolo era già gravato abbastanza a causa dei la vori. Mio Dio ricòrdati in mio favore di quanto ho fatto a questo popolo. Quando Sanballàt Tobi a e Ghesem l’Arabo e gli altri nostri nemici sentirono che io avevo edificato le mura e che non vi era più rimasta alcuna breccia sebbene a quel momento ancora non avessi messo i battenti alle porte Sanballàt e Ghesem mi mandarono a dire: «Vieni, incontriamoci a Chefirìm nella valle di Ono». Essi pensavano di farmi del male. Ma io inviai loro messaggeri a dire: «Sto facendo un gra n lavoro e non posso scendere: perché dovrebbe interrompersi il lavoro mentre io lo lascio per scendere da voi?». Essi mandarono quattro volte a dirmi la stessa cosa e io risposi nello stesso modo. Allora Sanballàt per la quinta volta mi mandò a dire la stessa cosa per mezzo del suo serv o che aveva in mano una lettera aperta nella quale stava scritto: «Si sente dire fra queste nazio ni e Gasmu lo afferma che tu e i Giudei meditate di ribellarvi e perciò tu costruisci le mura e sec ondo queste voci tu diventeresti loro re e avresti inoltre stabilito profeti, perché proclamino di t e a Gerusalemme: “Vi è un re in Giuda!”. Ora questi discorsi saranno riferiti al re. Vieni dunque e consultiamoci insieme». Ma io gli feci rispondere: «Non è come tu dici. Tu inventi!». Tutta que lla gente infatti ci voleva impaurire e diceva: «Le loro mani desisteranno e il lavoro non si farà».

Io invece irrobustii le mie mani! Io andai a casa di Semaià figlio di Delaià figlio di Meetabèl perc hé era impedito; egli disse: «Troviamoci insieme nel tempio dentro il santuario e chiudiamo le p orte del santuario perché verranno ad ucciderti; di notte verranno ad ucciderti». Ma io risposi:
«Un uomo come me può darsi alla fuga? E chi nella mia condizione entrerebbe nel santuario pe r salvare la vita? No non entrerò». Compresi che non era mandato da Dio ma aveva pronunciato quella profezia a mio danno perché Tobia e Sanballàt l’avevano pagato. Era stato pagato per im paurirmi e indurmi ad agire in quel modo e a peccare così avrebbero avuto un capo di accusa pe r screditarmi. Mio Dio ricòrdati di Tobia e di Sanballàt, per queste loro opere e anche della prof etessa Noadia e degli altri profeti che cercavano di spaventarmi! Le mura furono condotte a ter mine il venticinquesimo giorno di Elul in cinquantadue giorni. Quando lo seppero tutti i nostri n emici ebbero paura tutte le nazioni che stavano intorno a noi si sentirono molto umiliate e dove ttero riconoscere che quest’opera si era compiuta per l’intervento del nostro Dio. In quei giorni i notabili di Giuda mandavano frequenti lettere a Tobia e da Tobia ne ricevevano; infatti molti in Giuda erano suoi alleati perché egli era genero di Secania, figlio di Arach e suo figlio Giovanni a veva sposato la figlia di Mesullàm figlio di Berechia. Anche in mia presenza parlavano bene di lui e gli riferivano le mie parole mentre Tobia mandava lettere per intimorirmi. Quando le mura fu rono riedificate e io ebbi messo a posto le porte e i portieri i cantori e i leviti furono stabiliti nei l oro uffici affidai il governo di Gerusalemme a Anàni mio fratello e ad Anania comandante della c ittadella perché era un uomo fedele e temeva Dio più di tanti altri. Ordinai loro: «Le porte di Ge rusalemme non si aprano finché il sole non cominci a scaldare e si chiudano e si sbarrino i batte nti mentre gli abitanti sono ancora in piedi; si stabiliscano delle guardie prese fra gli abitanti di Gerusalemme ognuno al suo turno e ognuno davanti alla propria casa». La città era spaziosa e g rande; ma dentro vi era poca gente e non c’erano case costruite. Il mio Dio mi ispirò di radunare i notabili i magistrati e il popolo per farne il censimento. Trovai il registro genealogico di quelli c he erano tornati dall’esilio la prima volta e vi trovai scritto: Questi sono gli abitanti della provinc ia che ritornarono dall’esilio quelli che Nabucodònosor re di Babilonia aveva deportato e che to rnarono a Gerusalemme e in Giudea ognuno nella sua città essi vennero con Zorobabele Giosuè Neemia Azaria Raamia, Nacamanì Mardocheo Bilsan Mispèret Bigvài Necum e Baanà. Questa è la lista degli uomini del popolo d’Israele. Figli di Paros: duemilacentosettantadue. Figli di Sefatia
: trecentosettantadue. Figli di Arach: seicentocinquantadue. Figli di Pacat-Moab cioè figli di Giosuè e di Ioab: duemilaottocentodiciotto. Figli di Elam: milleduecentocinqua ntaquattro. Figli di Zattu: ottocentoquarantacinque. Figli di Zaccài: settecentosessanta. Figli di B
innù i: seicentoquarantotto. Figli di Bebài: seicentoventotto. Figli di Azgad: duemilatrecentovent idue. Figli di Adonikàm: seicentosessantasette. Figli di Bigvài: duemilasessantasette. Figli di Adin
: seicentocinquantacinque. Figli di Ater cioè di Ezechia: novantotto. Figli di Casum: trecentovent otto. Figli di Besài: trecentoventiquattro. Figli di Carif: centododici. Figli di Gàbaon: novantacinq ue. Uomini di Betlemme e di Netofà: centoottantotto. Uomini di Anatòt: centoventotto. Uomini di Bet-Azmàvet: quarantadue. Uomini di Kiriat-
Iearìm di Chefirà e di Beeròt: settecentoquarantatré. Uomini di Rama e di Gheba: seicentoventu no. Uomini di Micmas: centoventidue. Uomini di Betel e di Ai: centoventitré. Uomini di un altro Nebo: cinquantadue. Figli di un altro Elam: milleduecentocinquantaquattro. Figli di Carim: trece ntoventi. Figli di Gerico: trecentoquarantacinque. Figli di Lod di Adid e di Ono: settecentoventu no. Figli di Senaà: tremilanovecentotrenta. Sacerdoti: figli di Iedaià della casa di Giosuè: novece ntosettantatré. Figli di Immer: millecinquantadue. Figli di Pascur: milleduecentoquarantasette.
Figli di Carim: millediciassette. Leviti: figli di Giosuè cioè di Kadmièl figli di Odva: settantaquattro
. Cantori: figli di Asaf: centoquarantotto. Portieri: figli di Sallum figli di Ater figli di Talmon figli di Akkub figli di Catità, figli di Sobài: centotrentotto. Oblati: figli di Sica figli di Casufà, figli di Tabba òt figli di Keros, figli di Sià figli di Padon, figli di Lebanà figli di Agabà, figli di Salmài figli di Canan, figli di Ghiddel figli di Gacar, figli di Reaià figli di Resin, figli di Nekodà figli di Gazzam, figli di Uzz à figli di Pasèach, figli di Besài figli dei Meuniti figli dei Nefisesiti, figli di Bakbuk figli di Akufà, figl i di Carcur figli di Baslìt, figli di Mechidà figli di Carsa, figli di Barkos figli di Sìsara, figli di Temach figli di Nesìach figli di Catifà. Figli degli schiavi di Salomone: figli di Sotài figli di Sofèret figli di Per idà figli di Iala figli di Darkon figli di Ghiddel figli di Sefatia, figli di Cattil figli di Pocheret-Assebàim figli di Amon. Totale degli oblati e dei figli degli schiavi di Salomone: trecentonovanta due. Questi sono coloro che ritornarono da Tel-Melach Tel-Carsa Cherub-Addon e Immer ma non avevano potuto dichiarare se il loro casato e la loro discendenza fosser o d’Israele: i figli di Delaià i figli di Tobia i figli di Nekodà: seicentoquarantadue; tra i sacerdoti: i f igli di Cobaià i figli di Akkos i figli di Barzillài il quale aveva preso in moglie una delle figlie di Barzi llài il Galaadita e veniva chiamato con il loro nome. Costoro cercarono il loro registro genealogic o ma non lo trovarono e furono quindi esclusi dal sacerdozio. Il governatore disse loro che non potevano mangiare le cose santissime finché non si presentasse un sacerdote con urìm e tummì m. Tutta la comunità nel suo insieme era di quarantaduemilatrecentosessanta persone, oltre i l oro schiavi e le loro schiave in numero di settemilatrecentotrentasette; avevano anche duecent oquarantacinque cantori e cantatrici. Avevano quattrocentotrentacinque cammelli seimilasette centoventi asini. Alcuni capi di casato fecero offerta alla fabbrica. Il governatore diede al tesoro mille dracme d’oro cinquanta vasi per l’aspersione cinquecentotrenta tuniche sacerdotali. Alcun i capi di casato diedero al tesoro della fabbrica ventimila dracme d’oro e duemiladuecento mine d’argento. Ciò che il resto del popolo diede era ventimila dracme d’oro duemila mine d’argento e sessantasette tuniche sacerdotali. Poi i sacerdoti i leviti i portieri i cantori alcuni del popolo gli oblati e tutti gli Israeliti si stabilirono nelle loro città. Giunse il settimo mese e gli Israeliti stavan o nelle loro città. Allora tutto il popolo si radunò come un solo uomo sulla piazza davanti alla po rta delle Acque e disse allo scriba Esdra di portare il libro della legge di Mosè che il Signore avev a dato a Israele. Il primo giorno del settimo mese il sacerdote Esdra portò la legge davanti all’as semblea degli uomini delle donne e di quanti erano capaci di intendere. Lesse il libro sulla piazz a davanti alla porta delle Acque dallo spuntare della luce fino a mezzogiorno in presenza degli u omini delle donne e di quelli che erano capaci d’intendere; tutto il popolo tendeva l’orecchio al
libro della legge. Lo scriba Esdra stava sopra una tribuna di legno che avevano costruito per l’oc correnza e accanto a lui stavano a destra Mattitia Sema, Anaià Uria Chelkia e Maasia e a sinistra Pedaià Misaele Malchia Casum Casbaddana Zaccaria e Mesullàm. Esdra aprì il libro in presenza di tutto il popolo poiché stava più in alto di tutti; come ebbe aperto il libro tutto il popolo si alzò in piedi. Esdra benedisse il Signore Dio grande e tutto il popolo rispose: «Amen amen» alzando le mani; si inginocchiarono e si prostrarono con la faccia a terra dinanzi al Signore. Giosuè Banì S
erebia Iamin, Akkub Sabbetài Odia Maasia Kelità Azaria Iozabàd Canan Pelaià e i leviti spiegavan o la legge al popolo e il popolo stava in piedi. Essi leggevano il libro della legge di Dio a brani dist inti e spiegavano il senso e così facevano comprendere la lettura. Neemia che era il governatore Esdra sacerdote e scriba e i leviti che ammaestravano il popolo dissero a tutto il popolo: «Ques to giorno è consacrato al Signore vostro Dio; non fate lutto e non piangete!». Infatti tutto il pop olo piangeva mentre ascoltava le parole della legge. Poi Neemia disse loro: «Andate mangiate c arni grasse e bevete vini dolci e mandate porzioni a quelli che nulla hanno di preparato perché questo giorno è consacrato al Signore nostro; non vi rattristate perché la gioia del Signore è la v ostra forza». I leviti calmavano tutto il popolo dicendo: «Tacete perché questo giorno è santo; n on vi rattristate!». Tutto il popolo andò a mangiare a bere a mandare porzioni e a esultare con g rande gioia perché avevano compreso le parole che erano state loro proclamate. Il secondo gior no i capi di casato di tutto il popolo i sacerdoti e i leviti si radunarono presso lo scriba Esdra per esaminare le parole della legge. Trovarono scritto nella legge data dal Signore per mezzo di Mos è che gli Israeliti dovevano dimorare in capanne durante la festa del settimo mese e dovevano p roclamare e far passare questa voce in tutte le loro città e a Gerusalemme: «Uscite verso la mo ntagna e portate rami di ulivo rami di olivastro rami di mirto rami di palme e rami di alberi ombr osi per fare capanne come sta scritto». Allora il popolo uscì, portò l’occorrente e si fecero capan ne ciascuno sul tetto della propria casa nei loro cortili nei cortili di Dio sulla piazza della porta de lle Acque e sulla piazza della porta di èfraim. Così tutta la comunità di coloro che erano tornati d alla deportazione si fece capanne e dimorò nelle capanne. Dal tempo di Giosuè figlio di Nun gli I sraeliti non avevano fatto così fino a quel giorno. Vi fu gioia molto grande. Si lesse il libro della l egge di Dio ogni giorno dal primo giorno fino all’ultimo giorno. Fecero festa per sette giorni e all
’ottavo giorno si tenne una solenne assemblea com’è prescritto. Il ventiquattro dello stesso me se gli Israeliti si radunarono per un digiuno vestiti di sacchi e coperti di polvere. I discendenti d’I sraele si separarono da tutti gli stranieri e in piedi confessarono i loro peccati e le colpe dei loro padri. Si alzarono in piedi e lessero il libro della legge del Signore loro Dio per un quarto della gi ornata; per un altro quarto essi confessarono i peccati e si prostrarono davanti al Signore loro D
io. Giosuè Banì Kadmièl Sebania, Bunnì Serebia Banì e Chenanì salirono sulla pedana dei leviti e invocarono a gran voce il Signore loro Dio. I leviti Giosuè Kadmièl Banì Casabnia Serebia Odia, S
ebania e Petachia dissero: «Alzatevi e benedite il Signore vostro Dio, da sempre e per sempre! B
enedicano il tuo nome glorioso, esaltato al di sopra di ogni benedizione e di ogni lode! Tu tu sol o sei il Signore, tu hai fatto i cieli i cieli dei cieli e tutto il loro esercito, la terra e quanto sta su di
essa, i mari e quanto è in essi; tu fai vivere tutte queste cose e l’esercito dei cieli ti adora. Tu sei il Signore Dio che hai scelto Abram, lo hai fatto uscire da Ur dei Caldei e lo hai chiamato Abramo
. Tu hai trovato il suo cuore fedele davanti a te e hai stabilito con lui un’alleanza, promettendo d i dare la terra dei Cananei, degli Ittiti degli Amorrei dei Perizziti, dei Gebusei e dei Gergesei, di d arla a lui e alla sua discendenza; hai mantenuto la tua parola perché sei giusto. Tu hai visto l’affli zione dei nostri padri in Egitto e hai ascoltato il loro grido presso il Mar Rosso; hai operato segni e prodigi contro il faraone, contro tutti i suoi servi, contro tutto il popolo della sua terra, perché sapevi che li avevano trattati con durezza, e ti sei fatto un nome che dura ancora oggi. Hai aper to il mare davanti a loro ed essi sono passati in mezzo al mare sull’asciutto; quelli che li inseguiv ano hai precipitato nell’abisso, come una pietra in acque impetuose. Li hai guidati di giorno con una colonna di nube e di notte con una colonna di fuoco, per rischiarare loro la strada su cui ca mminare. Sei sceso sul monte Sinai e hai parlato con loro dal cielo, e hai dato loro norme giuste e leggi sicure, statuti e comandi buoni; hai fatto loro conoscere il tuo santo sabato e hai dato lor o comandi statuti e una legge per mezzo di Mosè tuo servo. Hai dato loro pane del cielo per la l oro fame e hai fatto scaturire acqua dalla rupe per la loro sete, e hai detto loro di andare a pren dere in possesso la terra che avevi giurato di dare loro. Ma essi i nostri padri, si sono comportati con superbia, hanno indurito la loro cervice e non hanno obbedito ai tuoi comandi. Si sono rifiu tati di obbedire e non si sono ricordati dei tuoi prodigi, che tu avevi operato in loro favore; hann o indurito la loro cervice e nella loro ribellione si sono dati un capo per tornare alla loro schiavit ù. Ma tu sei un Dio pronto a perdonare, misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e non li hai abbandonati. Anche quando si sono fatti un vitello di metallo fuso e hanno detto: “Ec co il tuo Dio che ti ha fatto uscire dall’Egitto!”, e ti hanno insultato gravemente, tu nella tua gra nde misericordia, non li hai abbandonati nel deserto, non hai ritirato da loro la colonna di nube di giorno, per guidarli nel cammino, né la colonna di fuoco di notte, per rischiarare loro la strada su cui camminare. Hai concesso loro il tuo spirito buono per istruirli e non hai rifiutato la tua m anna alle loro bocche e hai dato loro l’acqua per la loro sete. Per quarant’anni li hai nutriti nel d eserto e non è mancato loro nulla; le loro vesti non si sono logorate e i loro piedi non si sono go nfiati. Poi hai dato loro regni e popoli e li hai divisi definendone i confini; essi hanno posseduto l a terra di Sicon e la terra del re di Chesbon e la terra di Og re di Basan. Hai moltiplicato i loro figl i come le stelle del cielo e li hai introdotti nella terra nella quale avevi comandato ai loro padri d i entrare per prenderne possesso. I figli sono entrati e hanno preso in possesso la terra; tu hai u miliato dinanzi a loro gli abitanti della terra i Cananei, e li hai messi nelle loro mani con i loro re e con i popoli della terra, perché ne disponessero a loro piacere. Essi si sono impadroniti di città fortificate e di una terra grassa e hanno posseduto case piene di ogni bene, cisterne scavate vig ne, oliveti alberi da frutto in abbondanza; hanno mangiato e si sono saziati e si sono ingrassati e sono vissuti nelle delizie per la tua grande bontà. Ma poi hanno disobbedito, si sono ribellati co ntro di te, si sono gettati la tua legge dietro le spalle, hanno ucciso i tuoi profeti, che li ammoniv ano per farli tornare a te, e ti hanno insultato gravemente. Perciò tu li hai messi nelle mani dei l
oro nemici, che li hanno oppressi. Ma nel tempo della loro angoscia essi hanno gridato a te e tu hai ascoltato dal cielo e nella tua grande misericordia, tu hai dato loro salvatori, che li hanno sal vati dalle mani dei loro nemici. Ma quando avevano pace, ritornavano a fare il male dinanzi a te
, perciò tu li abbandonavi nelle mani dei loro nemici, che li opprimevano; poi quando ricomincia vano a gridare a te, tu ascoltavi dal cielo. Così nella tua misericordia più volte li hai liberati. Tu li ammonivi per farli tornare alla tua legge, ma essi si mostravano superbi e non obbedivano ai tu oi comandi; peccavano contro i tuoi decreti, che fanno vivere chi li mette in pratica, offrivano sp alle ribelli, indurivano la loro cervice e non obbedivano. Hai pazientato con loro molti anni e li h ai ammoniti con il tuo spirito per mezzo dei tuoi profeti; ma essi non hanno voluto prestare ore cchio. Allora li hai messi nelle mani dei popoli di terre straniere. Però nella tua grande compassi one, tu non li hai sterminati del tutto e non li hai abbandonati, perché sei un Dio misericordioso e pietoso. Ora o nostro Dio Dio grande potente e tremendo, che mantieni l’alleanza e la benev olenza, non sembri poca cosa ai tuoi occhi tutta la sventura che è piombata su di noi, sui nostri r e sui nostri capi, sui nostri sacerdoti sui nostri profeti, sui nostri padri su tutto il tuo popolo, dal tempo dei re d’Assiria fino ad oggi. Tu sei giusto per tutto quello che ci è accaduto, poiché tu ha i agito fedelmente, mentre noi ci siamo comportati da malvagi. I nostri re i nostri capi i nostri sa cerdoti i nostri padri non hanno messo in pratica la tua legge e non hanno obbedito né ai coma ndi né agli ammonimenti con i quali tu li ammonivi. Essi mentre godevano del loro regno, del gr ande benessere che tu largivi loro e della terra vasta e fertile che tu avevi messo a loro disposizi one, non ti hanno servito e non hanno abbandonato le loro azioni malvagie. Oggi eccoci schiavi; e quanto alla terra che tu hai concesso ai nostri padri, perché ne mangiassero i frutti e i beni, ec co in essa siamo schiavi. I suoi prodotti abbondanti sono per i re, che hai posto su di noi a causa dei nostri peccati e dispongono dei nostri corpi e del nostro bestiame a loro piacimento, e noi si amo in grande angoscia. Tuttavia noi vogliamo sancire un patto e lo mettiamo per iscritto. Sul d ocumento sigillato figurino i nostri capi i nostri leviti e i nostri sacerdoti». Sui documenti sigillati figuravano Neemia il governatore figlio di Acalia e Sedecia, Seraià Azaria Geremia Pascur Amari a Malchia Cattus Sebania, Malluc Carim Meremòt Abdia Daniele Ghinnetòn Baruc, Mesullàm Ab ia Miamìn Maazia Bilgài Semaià questi erano i sacerdoti. Leviti: Giosuè figlio di Azania Binnù i de i figli di Chenadàd, Kadmièl e i loro fratelli Sebania Odia Kelità Pelaià Canan, Mica Recob Casabia Zaccur Serebia Sebania Odia Banì Beninu. Capi del popolo: Paros Pacat-Moab Elam Zattu Banì Bunnì Azgad, Bebài Adonia Bigvài Adin Ater Ezechia Azzur Odia, Casum B
esài Carif Anatòt Nebài Magpiàs, Mesullàm Chezir Mesezabèl Sadoc Iaddua Pelatia Canan Anaià, Osea Anania Cassub Allochès Pilca Sobek Recum Casabna, Maasia Achia Canan Anan Malluc Car im Baanà. Il resto del popolo i sacerdoti i leviti i portieri i cantori gli oblati e quanti si erano sepa rati dai popoli di terre straniere per aderire alla legge di Dio le loro mogli i loro figli e le loro figli e quanti potevano intendere si unirono ai loro fratelli più ragguardevoli e fecero un patto e un g iuramento di camminare nella legge di Dio data per mezzo di Mosè servo di Dio promettendo di osservare e mettere in pratica tutti i comandi del Signore il Signore nostro le sue norme e le su
e leggi. E così non daremo le nostre figlie ai popoli della regione e non prenderemo le loro figlie per i nostri figli. Dai popoli della regione che portano le mercanzie e ogni genere di grano in gior no di sabato per venderli non faremo acquisti di sabato o in un giorno santo. Lasceremo in ripos o la terra ogni settimo anno e condoneremo ogni debito. Ci siamo imposti per legge di dare ogni anno il terzo di un siclo per il servizio del tempio del nostro Dio: per i pani dell’offerta per l’obla zione perenne per l’olocausto perenne nei sabati nei noviluni nelle feste per le cose sacre per i s acrifici per il peccato in vista dell’espiazione in favore d’Israele e per ogni attività del tempio del nostro Dio. Sacerdoti leviti e popolo abbiamo tirato a sorte per l’offerta della legna da portare a l tempio del nostro Dio secondo i nostri casati a tempi fissi anno per anno per bruciarla sull’altar e del Signore nostro Dio come sta scritto nella legge e per portare ogni anno al tempio del Signo re le primizie del nostro suolo e le primizie di ogni frutto di qualunque pianta come anche i prim ogeniti dei nostri figli e del nostro bestiame secondo quanto sta scritto nella legge e i primi parti del nostro bestiame grosso e minuto per portarli al tempio del nostro Dio e ai sacerdoti che pre stano servizio nel tempio del nostro Dio. Porteremo ai sacerdoti nelle stanze del tempio del nos tro Dio le primizie della nostra farina le nostre offerte i frutti di qualunque albero il vino e l’olio e porteremo la decima del nostro suolo ai leviti. I leviti stessi preleveranno le decime in tutte le città del nostro lavoro. Un sacerdote figlio di Aronne sarà con i leviti quando i leviti preleverann o le decime e i leviti porteranno la decima della decima al tempio del nostro Dio nelle stanze del tesoro perché in quelle stanze i figli d’Israele e i figli di Levi devono portare l’offerta prelevata s ul frumento sul vino e sull’olio; in quel luogo stanno gli utensili del santuario i sacerdoti che pre stano il servizio i portieri e i cantori. Non trascureremo il tempio del nostro Dio. I capi del popol o si stabilirono a Gerusalemme; il resto del popolo tirò a sorte per far venire uno su dieci ad abit are a Gerusalemme la città santa e nove nelle altre città. Il popolo benedisse quanti si erano off erti spontaneamente per abitare a Gerusalemme. Questi sono i capi della provincia che si stabili rono a Gerusalemme mentre nelle città di Giuda si stabilirono nelle rispettive città ognuno nella sua proprietà Israeliti sacerdoti, leviti oblati e i figli degli schiavi di Salomone. A Gerusalemme si stabilirono figli di Giuda e figli di Beniamino. Dei figli di Giuda: Ataià figlio di Ozia figlio di Zaccar ia figlio di Amaria figlio di Sefatia figlio di Maalalèl dei figli di Peres; Maasia figlio di Baruc figlio d i Col-Cozè figlio di Cazaià figlio di Adaià figlio di Ioiarìb figlio di Zaccaria figlio del Silonita. Totale dei fi gli di Peres che si stabilirono a Gerusalemme: quattrocentosessantotto uomini valorosi. Questi s ono i figli di Beniamino: Sallu figlio di Mesullàm figlio di Ioed figlio di Pedaià figlio di Kolaià figlio di Maasia figlio di Itièl figlio di Isaia e, dopo di lui Gabbài Sallài: novecentoventotto. Gioele figlio di Zicrì era prefetto su di loro e Giuda figlio di Assenuà era il secondo sulla città. Dei sacerdoti: Ie daià figlio di Ioiarìb Iachin Seraià figlio di Chelkia figlio di Mesullàm figlio di Sadoc figlio di Merai òt figlio di Achitù b, preposto del tempio di Dio e i loro fratelli addetti al lavoro del tempio in nu mero di ottocentoventidue; Adaià figlio di Ierocàm figlio di Pelalia figlio di Amsì figlio di Zaccaria figlio di Pascur figlio di Malchia e i suoi fratelli preposti di casato in numero di duecentoquarant
adue; Amassài figlio di Azarèl figlio di Aczài figlio di Mesillemòt figlio di Immer e i loro fratelli uo mini valorosi in numero di centoventotto; Zabdièl figlio di Ghedolìm era prefetto su di loro. Dei l eviti: Semaià figlio di Cassub figlio di Azrikàm figlio di Casabia figlio di Bunnì Sabbetài e Iozabàd al servizio esterno del tempio fra i capi dei leviti; Mattania figlio di Mica figlio di Zabdì figlio di A saf il capo che iniziava intonando la preghiera e Bakbukia secondo tra i suoi fratelli; Abda figlio d i Sammù a figlio di Galal, figlio di Iedutù n. Totale dei leviti nella città santa: duecentoottantaqu attro. Portieri: Akkub Talmon e i loro fratelli custodi delle porte: centosettantadue. Il resto d’Isr aele dei sacerdoti e dei leviti si stabilì in tutte le città di Giuda ognuno nella sua eredità. Gli obla ti si stabilirono sull’Ofel con Sica e Ghispa alla testa degli oblati. Il prefetto dei leviti a Gerusalem me era Uzzì figlio di Banì figlio di Casabia, figlio di Mattania figlio di Mica dei figli di Asaf i cantori per il servizio del tempio di Dio; vi era infatti una disposizione del re a loro riguardo e un ordine per i cantori prescrizione per ogni giorno. Petachia figlio di Mesezabèl dei figli di Zerach figlio di Giuda suppliva il re per tutti gli affari del popolo. Nei villaggi delle campagne alcuni figli di Giud a si stabilirono a Kiriat-Arbà e nelle sue dipendenze a Dibon e nelle sue dipendenze a Iekabseèl e nei suoi villaggi a Iesu a a Moladà a Bet-Pelet a Casar-Sual a Bersabea e nelle sue dipendenze a Siklag, a Meconà e nelle sue dipendenze a En-Rimmon a Sorea a Iarmut a Zanòach ad Adullàm e nei loro villaggi a Lachis e nelle sue campagne ad Azekà e nelle sue dipendenze. Si insediarono da Bersabea fino alla valle di Innòm. I figli di Be niamino si stabilirono a Gheba Micmas Aià Betel e sue dipendenze, ad Anatòt Nob Anania Asor Rama Ghittàim Adid, Seboìm Neballat Lod e Ono nella valle degli Artigiani. Dei leviti parte si sta bilì con Giuda parte con Beniamino. Questi sono i sacerdoti e i leviti che tornarono con Zorobab ele figlio di Sealtièl e con Giosuè: Seraià Geremia Esdra Amaria Malluc Cattus Secania Recum, M
eremòt Iddo Ghinnetòn Abia Miamìn Maadia Bilga, Semaià Ioiarìb Iedaià Sallu Amok Chelkia Ied aià. Questi erano i capi dei sacerdoti e dei loro fratelli al tempo di Giosuè. Leviti: Giosuè Binnù i Kadmièl Serebia Giuda Mattania che era preposto agli inni con i suoi fratelli. Bakbukia e Unnì lor o fratelli si alternavano con loro secondo gli incarichi. Giosuè generò Ioiakìm Ioiakìm generò Elia sìb, Eliasìb generò Ioiadà Ioiadà generò Giònata, Giònata generò Iaddua. Al tempo di Ioiakìm i sa cerdoti capi di casato erano: del casato di Seraià, Meraià di quello di Geremia Anania; di quello di Esdra Mesullàm; di quello di Amaria Giovanni; di quello di Melikù Giònata; di quello di Sebani a Giuseppe; di quello di Carim Adna; di quello di Meraiòt Chelkài; di quello di Iddo Zaccaria; di q uello di Ghinnetòn Mesullàm; di quello di Abia Zicrì di quello di Miniamìn … di quello di Moadia Piltài; di quello di Bilga, Sammù a; di quello di Semaià Giònata; di quello di Ioiarìb, Mattenài; di quello di Iedaià Uzzì di quello di Sallu Kallài; di quello di Amok Eber; di quello di Chelkia Casabia; di quello di Iedaià Netanèl. I leviti furono registrati quanto ai capi di casato al tempo di Eliasìb d i Ioiadà, di Giovanni e di Iaddua; e i sacerdoti sotto il regno di Dario il Persiano. I leviti capi di cas ato furono registrati nel libro delle Cronache fino al tempo di Giovanni figlio di Eliasìb. I capi dei leviti Casabia Serebia Giosuè figlio di Kadmièl e i loro fratelli si alternavano con loro per lodare e
ringraziare secondo l’ordine di Davide uomo di Dio turno per turno. Mattania Bakbukia Abdia Mesullàm Talmon Akkub erano portieri e facevano la guardia ai magazzini delle porte. Questi vi vevano al tempo di Ioiakìm figlio di Giosuè figlio di Iosadàk e al tempo di Neemia il governatore e di Esdra sacerdote e scriba. Per la dedicazione delle mura di Gerusalemme si mandarono a cer care i leviti da tutti i luoghi dove si trovavano per farli venire a Gerusalemme per celebrare la de dicazione con gioia con azioni di grazie con il canto con cimbali arpe e cetre. I cantori si radunar ono dal distretto intorno a Gerusalemme, dai villaggi dei Netofatiti da Bet-Gàlgala e dal territorio di Gheba e di Azmàvet, poiché i cantori si erano edificati villaggi nei dint orni di Gerusalemme. I sacerdoti e i leviti si purificarono e purificarono il popolo le porte e le m ura. Allora io feci salire sulle mura i capi di Giuda e formai due grandi cori. Il primo s’incamminò dal lato destro sulle mura, verso la porta del Letame; dietro a loro camminavano Osea metà dei capi di Giuda, Azaria Esdra Mesullàm Giuda Beniamino Semaià Geremia, e dei sacerdoti con le t rombe Zaccaria figlio di Gionata figlio di Semaià figlio di Mattania figlio di Michea figlio di Zaccur figlio di Asaf e i suoi fratelli Semaià, Azarèl Milalài Ghilalài Maài Netanèl Giuda Anàni con gli str umenti musicali di Davide uomo di Dio; lo scriba Esdra era davanti a loro. E alla porta della Font e e davanti a loro salirono per le scale della Città di Davide lungo la salita del muro oltre la casa di Davide fino alla porta delle Acque a oriente. Il secondo coro si incamminò a sinistra e io lo seg uivo con l’altra metà del popolo sopra le mura dalla torre dei Forni e fino al muro largo e dalla p orta di èfraim alla porta Vecchia e alla porta dei Pesci alla torre di Cananèl e alla torre dei Cento fino alla porta delle Pecore e si fermarono alla porta della Prigione. I due cori si fermarono nel t empio di Dio; così feci io con la metà dei magistrati che si trovavano con me e i sacerdoti Eliakì m Maasia Miniamìn Michea, Elioenài Zaccaria Anania con le trombe e Maasia Semaià Eleàzaro, Uzzì Giovanni Malchia Elam Ezer. I cantori facevano sentire la voce e Izrachia ne era il direttore.
In quel giorno il popolo offrì numerosi sacrifici e si rallegrò perché Dio gli aveva concesso una gr ande gioia. Anche le donne e i fanciulli si rallegrarono e la gioia di Gerusalemme si sentiva di lon tano. In quel giorno alcuni uomini furono preposti alle stanze dei magazzini delle offerte delle p rimizie e delle decime per raccogliervi dalle campagne di ogni località le parti assegnate dalla le gge ai sacerdoti e ai leviti poiché i Giudei gioivano per i sacerdoti e i leviti intenti alle funzioni: e ssi svolgevano il servizio del loro Dio e il servizio della purificazione come i cantori e i portieri se condo l’ordine di Davide e di Salomone suo figlio. Infatti al tempo di Davide e di Asaf in antico vi erano capi cantori e canti di lode e di ringraziamento a Dio. E tutto Israele al tempo di Zorobab ele e al tempo di Neemia ogni giorno forniva le porzioni prescritte ai cantori e ai portieri e quell e consacrate ai leviti i quali le davano ai figli di Aronne. In quel giorno si lesse in presenza del po polo il libro di Mosè e vi si trovò scritto che l’Ammonita e il Moabita non dovevano mai entrare nella comunità di Dio, perché non erano venuti incontro agli Israeliti con il pane e l’acqua e perc hé, contro di loro avevano pagato Balaam per maledirli sebbene il nostro Dio avesse mutato la maledizione in benedizione. Quando ebbero udito la legge separarono da Israele tutti gli stranie ri. Prima di questo il sacerdote Eliasìb assegnato alle stanze del tempio del nostro Dio parente di
Tobia aveva preparato per lui una camera grande dove prima di allora si riponevano le offerte, l
’incenso gli utensili la decima del grano del vino e dell’olio spettanza di legge dei leviti, dei canto ri dei portieri e il tributo per i sacerdoti. Quando si faceva tutto questo io non ero a Gerusalem me perché nell’anno trentaduesimo di Artaserse re di Babilonia ero andato dal re; ma dopo qua lche tempo chiesi di congedarmi dal re venni a Gerusalemme e mi accorsi del male che Eliasìb a veva fatto in favore di Tobia preparando per lui una stanza nei cortili del tempio di Dio. La cosa mi dispiacque molto e feci gettare fuori dalla stanza tutti gli oggetti della casa di Tobia; poi ordi nai che si purificassero quelle camere e vi feci tornare gli utensili del tempio di Dio le offerte e l’i ncenso. Seppi anche che le porzioni fissate per i leviti non erano state consegnate e che i leviti e i cantori che prestavano il servizio erano fuggiti ognuno al suo paese. Allora rimproverai i magis trati e dissi loro: «Perché il tempio di Dio è stato abbandonato?». Poi li radunai e li ristabilii nei l oro uffici. Allora tutto Giuda portò ai magazzini la decima del frumento del vino e dell’olio; incar icai dei magazzini il sacerdote Selemia lo scriba Sadoc, Pedaià uno dei leviti e al loro fianco Cana n figlio di Zaccur figlio di Mattania perché erano reputati uomini fedeli. Così stava a loro fare le parti per i loro fratelli. Ricòrdati per questo di me o mio Dio e non cancellare la fedeltà con cui h o agito per il tempio del mio Dio e per il suo servizio! In quei giorni osservai in Giuda alcuni che pigiavano nei tini durante il sabato altri che trasportavano i covoni e li caricavano sugli asini e a nche vino uva fichi e ogni sorta di carichi e li portavano a Gerusalemme in giorno di sabato; io p rotestai a motivo del giorno in cui vendevano le derrate. C’erano anche alcuni di Tiro stabiliti in città che portavano pesce e ogni sorta di merci e le vendevano durante il sabato ai figli di Giuda e a Gerusalemme. Allora io rimproverai i notabili di Giuda e dissi loro: «Che cosa è mai questo male che fate profanando il giorno del sabato? I nostri padri non hanno fatto così? Il nostro Dio per questo ha fatto cadere su noi e su questa città tutti questi mali. Voi accrescete l’ira contro Is raele profanando il sabato!». Non appena le porte di Gerusalemme comiciavano a essere nell’o mbra prima del sabato io ordinai che le porte fossero chiuse e che non si riaprissero fin dopo il s abato; collocai alcuni miei uomini alle porte: non doveva entrare nessun carico durante il sabat o. Così i mercanti e i venditori di ogni merce una o due volte passarono la notte fuori di Gerusal emme. Allora io protestai contro di loro e dissi: «Perché passate la notte davanti alle mura? Se l o farete un’altra volta stenderò la mano contro di voi». Da quel momento non vennero più dura nte il sabato. Ordinai ai leviti di purificarsi e di venire a custodire le porte per santificare il giorn o del sabato. Anche per questo ricòrdati di me mio Dio e abbi pietà di me secondo il tuo grande amore! In quei giorni vidi anche che alcuni Giudei si erano ammogliati con donne di Asdod di A mmon e di Moab; la metà dei loro figli parlava l’asdodeo nessuno di loro sapeva parlare giudaic o ma solo la lingua di un popolo o dell’altro. Io li rimproverai li maledissi ne picchiai alcuni strap pai loro i capelli e li feci giurare su Dio: «Non darete le vostre figlie ai loro figli e non prenderete le loro figlie per i vostri figli o per voi stessi. Salomone re d’Israele non ha forse peccato appunt o in questo? Certo fra le molte nazioni non ci fu un re simile a lui: era amato dal suo Dio e Dio l’
aveva fatto re di tutto Israele; eppure le donne straniere fecero peccare anche lui. Dovremmo d
unque ascoltare voi e fare tutto questo grande male e prevaricare contro il nostro Dio sposando donne straniere?». Uno dei figli di Ioiadà figlio di Eliasìb il sommo sacerdote era genero di Sanb allàt il Coronita; io lo cacciai via da me. Ricòrdati di loro mio Dio poiché hanno profanato il sacer dozio e l’alleanza dei sacerdoti e dei leviti. Così li purificai da ogni elemento straniero e ristabilii gli incarichi dei sacerdoti e dei leviti ognuno al suo compito quelli dell’offerta della legna ai tem pi stabiliti e delle primizie. Ricòrdati di me in bene mio Dio! 1a Nel secondo anno di regno del gr ande re Artaserse il giorno primo di Nisan Mardocheo figlio di Giàiro figlio di Simei figlio di Kis d ella tribù di Beniamino ebbe in sogno una visione. 1b Egli era un Giudeo che abitava nella città d i Susa un uomo ragguardevole che prestava servizio alla corte del re 1c e proveniva dal gruppo degli esuli che Nabucodònosor re di Babilonia aveva deportato da Gerusalemme con Ieconia re della Giudea. 1d Questo fu il suo sogno: ecco grida e tumulto tuoni e terremoto sconvolgimenti sulla terra. 1e Ed ecco: due enormi draghi avanzarono tutti e due pronti alla lotta e risuonò pote nte il loro grido. 1f Al loro grido ogni nazione si preparò alla guerra per combattere contro il pop olo dei giusti. 1g Ecco un giorno di tenebre e di caligine! Tribolazione e angustia afflizione e gran di sconvolgimenti sulla terra! 1h Tutta la nazione dei giusti rimase sconvolta: essi temendo la pr opria rovina si prepararono a morire e levarono a Dio il loro grido. 1i Ma dal loro grido come da una piccola fonte sorse un grande fiume con acque abbondanti. 1k Apparvero la luce e il sole: gl i umili furono esaltati e divorarono i superbi. 1l Mardocheo allora si svegliò: aveva visto questo sogno e quello che Dio aveva deciso di fare; in cuor suo continuava a ripensarvi fino a notte cerc ando di comprenderlo in ogni suo particolare. 1m Mardocheo alloggiava alla corte con Gabatà e Tarra i due eunuchi del re che custodivano la corte. 1n Intese i loro ragionamenti indagò sui lor o disegni e venne a sapere che quelli si preparavano a mettere le mani sul re Artaserse. Allora n e avvertì il re. 1o Il re sottopose i due eunuchi a un interrogatorio: essi confessarono e furono to lti di mezzo. 1p Poi il re fece scrivere questi fatti nelle cronache e anche Mardocheo li mise per i scritto. 1q Il re costituì Mardocheo funzionario della corte e gli fece regali in compenso di quest e cose. 1r Ma vi era anche Aman figlio di Amadàta il Bugeo che era molto stimato presso il re e cercò il modo di fare del male a Mardocheo e al suo popolo per questa faccenda che riguardava i due eunuchi del re. Dopo queste cose al tempo di Artaserse –
quell’Artaserse che regnava dall’India sopra centoventisette province –
proprio in quel tempo il re Artaserse che regnava nella città di Susa l’anno terzo del suo regno f ece un banchetto per gli amici e per quelli delle altre nazionalità per i nobili dei Persiani e i dei Medi e per i prefetti delle province. Dopo aver mostrato loro le ricchezze del suo regno e il fasto attraente della sua ricchezza per centoottanta giorni quando si compirono i giorni delle nozze il re fece un banchetto per i rappresentanti delle nazioni che si trovavano nella città per sei giorni nella sala della reggia. La sala era adornata con drappi di lino delicato e pregiato appesi a cordo ni di lino color porpora, fissati a ganci d’oro e d’argento su colonne di marmo pario e di pietra. I divani erano d’oro e d’argento sopra un pavimento di pietra verde smeraldo e di madreperla e di marmo pario; vi erano inoltre tappeti con ricami variegati e rose disposte in circolo. Per bere
c’erano coppe d’oro e d’argento come pure un piccolo calice di turchese del valore di trentamil a talenti. Il vino era abbondante e dolce e lo stesso re ne beveva. Si poteva bere senza limiti: cos ì infatti aveva voluto il re ordinando ai camerieri di soddisfare il desiderio suo e degli altri. Anch e Vasti la regina tenne un banchetto per le donne nella stessa reggia di Artaserse. Il settimo gior no il re euforico per il vino ordinò ad Aman Bazan Tarra Borazè, Zatoltà Abatazà Tarabà i sette e unuchi che erano al servizio del re Artaserse, di far venire davanti a lui la regina per intronizzarl a ponendole sul capo il diadema e per mostrare ai prìncipi e alle nazioni la sua bellezza: era infa tti molto bella. Ma la regina Vasti rifiutò di andare con gli eunuchi. Il re ne fu addolorato e irritat o e disse ai suoi amici: «Così e così ha parlato Vasti: giudicate dunque secondo la legge e il diritt o». Si fecero avanti Archeseo e Sarsateo e Maleseàr prìncipi dei Persiani e dei Medi che erano pi ù vicini al re e che primi sedevano accanto al re e gli espressero il proprio parere su che cosa si d ovesse fare alla regina Vasti secondo le leggi perché non aveva eseguito l’ordine datole dal re Ar taserse per mezzo degli eunuchi. Mucheo disse in presenza del re e dei prìncipi: «La regina Vasti ha mancato non solo nei confronti del re ma anche nei confronti di tutti i prìncipi e i capi del re
– infatti costui aveva riferito loro le parole della regina e come ella aveva risposto al re –
e come ella ha risposto al re Artaserse così oggi le altre principesse dei capi dei Persiani e dei M
edi, avendo udito ciò che ella ha detto al re oseranno disprezzare allo stesso modo i loro mariti.
Se dunque sembra bene al re sia emanato un decreto reale scritto secondo le leggi dei Medi e d ei Persiani e irrevocabile secondo il quale la regina non possa più comparire davanti a lui e il re c onferisca la dignità a una donna migliore di lei. E l’editto emanato dal re sia fatto conoscere nel suo regno e così tutte le donne rispetteranno i loro mariti dal più povero al più ricco». La propos ta piacque al re e ai prìncipi. Il re fece come aveva detto Mucheo: mandò lettere a tutto il regno a ogni provincia secondo la sua lingua in modo che i mariti fossero rispettati nelle loro case. Do po questi fatti l’ira del re si placò ed egli non si ricordò più di Vasti avendo presente quello che l ei aveva detto e come egli l’aveva ormai condannata. Dissero allora i servi del re: «Si cerchino p er il re fanciulle incorrotte e belle. E in tutte le province del suo regno il re dia incarico ai govern atori locali perché siano scelte fanciulle vergini e belle; siano portate nella città di Susa nell’hare m e siano consegnate all’eunuco del re che è il custode delle donne e siano dati loro unguenti e ogni altra cosa necessaria e la donna che piacerà al re diventi regina al posto di Vasti». La propo sta piacque al re e così si fece. Nella città di Susa c’era un Giudeo di nome Mardocheo figlio di G
iàiro figlio di Simei figlio di Kis della tribù di Beniamino il quale era stato deportato da Gerusale mme quando fu ridotta in schiavitù da Nabucodònosor re di Babilonia. Egli aveva una figlia adot tiva figlia di Aminadàb fratello di suo padre che si chiamava Ester. Quando erano morti i suoi ge nitori egli l’aveva allevata per prenderla in moglie. La fanciulla era bella d’aspetto. E quando il d ecreto del re fu pubblicato molte fanciulle furono raccolte nella città di Susa sotto la sorveglianz a di Gai; anche Ester fu condotta da Gai custode delle donne. La fanciulla gli piacque e trovò gra zia presso di lui ed egli si preoccupò di darle gli unguenti e la sua porzione di cibo oltre alle sette fanciulle assegnate a lei dalla reggia e usò verso di lei e le sue ancelle un trattamento di favore
nell’harem. Ester non disse nulla né del suo popolo né della sua stirpe perché Mardocheo le ave va ordinato di non dirlo. Mardocheo passeggiava ogni giorno lungo il cortile dell’harem per ved ere che cosa fosse accaduto a Ester. Il momento di andare dal re giungeva per una fanciulla alla fine di dodici mesi quando terminavano i giorni della preparazione. Il periodo della preparazion e si svolgeva così: sei mesi per essere unta con olio di mirra e sei con spezie e unguenti femminil i. Allora veniva introdotta dal re e quello che chiedeva le veniva dato per portarlo con sé dall’ha rem alla reggia. Vi andava la sera e la mattina seguente passava nel secondo harem dove Gai l’e unuco del re custodiva le donne; nessuna di loro poteva rientrare dal re se non veniva chiamata per nome. Quando per Ester figlia di Aminadàb fratello del padre di Mardocheo si compì il tem po di entrare dal re ella nulla tralasciò di quello che le aveva ordinato l’eunuco il custode delle d onne; Ester infatti trovava grazia presso tutti quelli che la vedevano. Ester entrò dal re Artaserse nel dodicesimo mese chiamato Adar l’anno settimo del suo regno. Il re si innamorò di Ester: ell a trovò grazia più di tutte le fanciulle e perciò egli pose su di lei la corona regale. Poi il re fece un banchetto per tutti i suoi amici e i potenti per sette giorni volendo solennizzare così le nozze di Ester; condonò pure i debiti a tutti quelli che erano sotto il suo dominio. Mardocheo prestava s ervizio nel palazzo. Ester non palesò la sua stirpe: Mardocheo infatti le aveva raccomandato di a vere il timore di Dio e di osservare i suoi comandamenti come quando stava con lui. Ester non c ambiò il suo modo di vivere. I due eunuchi del re capi delle guardie del corpo si rattristarono pe rché Mardocheo era stato promosso e cercavano di uccidere il re Artaserse. La cosa fu resa nota a Mardocheo ed egli la fece conoscere ad Ester; ella rivelò al re la notizia della congiura. Allora i l re fece indagare riguardo ai due eunuchi e li impiccò il re ordinò di prenderne nota negli archiv i reali, in memoria e a lode dei buoni uffici di Mardocheo. Dopo questi avvenimenti il re Artaser se onorò grandemente Aman figlio di Amadàta il Bugeo. Lo elevò in dignità e fra tutti i suoi amic i lo faceva sedere al primo posto. Tutti quelli che stavano al palazzo si prostravano davanti a lui poiché il re aveva ordinato di fare così. Ma Mardocheo non si prostrava davanti a lui. Allora quel li che stavano nel palazzo dissero a Mardocheo: «Mardocheo perché non ascolti i comandi del r e?». Essi glielo dicevano giorno dopo giorno ma egli non li ascoltava. Allora fecero presente ad Aman che Mardocheo trasgrediva gli ordini del re. Mardocheo inoltre aveva rivelato loro di esse re un Giudeo. Ma Aman accortosi che Mardocheo non si prostrava davanti a lui si indignò grand emente e decise di sterminare tutti i Giudei che si trovavano sotto il dominio di Artaserse. Fece un editto nell’anno dodicesimo del regno di Artaserse; tirò a sorte il giorno e il mese per stermi nare in un solo giorno il popolo di Mardocheo. La sorte cadde sul quattordicesimo giorno del m ese di Adar. Allora disse al re Artaserse: «C’è un popolo disperso tra le nazioni in tutto il tuo reg no le cui leggi differiscono da quelle di tutte le altre nazioni; essi disobbediscono alle leggi del re e non è conveniente che il re glielo permetta. Se piace al re dia ordine di ucciderli, e io assegner ò al tesoro del re diecimila talenti d’argento». Il re preso il suo anello lo dette in mano ad Aman per mettere il sigillo sui decreti contro i Giudei. Il re disse ad Aman: «Tieni pure il denaro e tratt a questo popolo come vuoi tu». Nel tredicesimo giorno del primo mese furono chiamati gli scrib
i e come aveva ordinato Aman scrissero ai capi e ai governatori di ogni provincia dall’India fino a ll’Etiopia a centoventisette province e ai capi delle nazioni, secondo la loro lingua a nome del re Artaserse. Le lettere furono mandate per mezzo di corrieri nel regno di Artaserse perché in un s olo giorno del dodicesimo mese chiamato Adar fosse sterminata la stirpe dei Giudei e si saccheg giassero i loro beni. 13a Questa è la copia della lettera: «Il grande re Artaserse ai governatori de lle centoventisette province dall’India all’Etiopia, e ai funzionari loro subordinati scrive quanto s egue: 13b Essendo io al comando di molte nazioni e avendo il dominio di tutto il mondo non vol endo abusare della grandezza del potere ma volendo governare sempre con moderazione e con dolcezza mi sono proposto di rendere quieta la vita dei sudditi e di assicurare un regno tranquil lo e percorribile fino alle frontiere per far rifiorire la pace sospirata da tutti gli uomini. 13c Dopo aver chiesto ai miei consiglieri come si potesse attuare tutto questo Aman distinto presso di noi per prudenza eccellente per inalterata devozione e sicura fedeltà ed elevato alla seconda dignit à del regno 13d ci ha avvertiti che in mezzo a tutte le razze che vi sono nel mondo si è mescolat o un popolo ostile il quale vivendo con leggi diverse da quelle di ogni altra nazione trascura sem pre i decreti del re così da compromettere la pace delle nazioni da noi consolidata. 13e Conside rando dunque che questa nazione è l’unica ad essere in continuo contrasto con ogni essere um ano differenziandosi per uno strano regime di leggi e che ostile ai nostri interessi compie le peg giori malvagità e ostacola la stabilità del regno 13f abbiamo ordinato che le persone a voi segnal ate nei rapporti scritti da Aman incaricato dei nostri affari pubblici e da noi trattato come un sec ondo padre tutte con le mogli e i figli siano radicalmente sterminate con la spada dei loro avver sari, senz’alcuna pietà né perdono il quattordici del dodicesimo mese dell’anno corrente, cioè A dar 13g cosicché questi nostri oppositori di ieri e di oggi precipitando violentemente negli inferi in un solo giorno ci assicurino definitivamente per l’avvenire un governo stabile e tranquillo». L
e copie delle lettere furono pubblicate in ogni provincia e a tutte le nazioni fu ordinato di stare pronti per quel giorno. L’applicazione fu sollecitata anche nella città di Susa e, mentre il re e Am an si davano a bere smodatamente la città era costernata. Quando Mardocheo seppe quello ch e era accaduto si stracciò le vesti indossò un sacco e si cosparse di cenere. Precipitatosi nella pia zza della città gridava a gran voce: «Viene distrutto un popolo che non ha fatto nulla di male». V
enne fino alla porta del re e si fermò infatti non gli era consentito entrare nel palazzo portando sacco e cenere. In ogni provincia in cui erano state pubblicate le lettere c’erano grida e lamenti e grande afflizione tra i Giudei i quali si stendevano sul sacco e sulla cenere. Entrarono le ancell e e gli eunuchi della regina e le parlarono. All’udire quel che era accaduto rimase sconvolta e m andò a vestire Mardocheo e a togliergli il sacco; ma egli non acconsentì. Allora Ester chiamò il s uo eunuco Acrateo che stava al suo servizio e lo mandò a chiedere informazioni precise a Mard ocheo. [Atac si recò da Mardocheo sulla piazza della città davanti alla porta del re.] Mardocheo gli fece conoscere quel che era accaduto e la promessa che Aman aveva fatto al re riguardo ai di ecimila talenti per il tesoro allo scopo di sterminare i Giudei. E gli diede la copia dell’editto prom ulgato nella città di Susa e riguardante la loro distruzione perché la mostrasse a Ester; gli disse d
i ordinarle di entrare dal re per domandargli grazia e intercedere a favore del popolo. «Ricòrdati
– aggiunse –
dei giorni in cui eri povera quando eri nutrita dalle mie mani giacché Aman il quale ha avuto il s econdo posto dopo il re ha parlato contro di noi per farci morire. Invoca il Signore e parla al re i n favore nostro perché ci liberi dalla morte». Acrateo entrò e le riferì tutte queste parole. Ed Est er disse ad Acrateo: «Va’ da Mardocheo e digli: “Tutte le nazioni dell’impero sanno che chiunqu e, uomo o donna entri dal re nel palazzo interno senza essere chiamato non avrà scampo; solo c olui sul quale il re avrà steso il suo scettro d’oro sarà salvo. E io non sono più stata chiamata a e ntrare dal re già da trenta giorni”». Acrateo riferì a Mardocheo tutte queste parole di Ester. Mar docheo disse ad Acrateo: «Va’ a dirle: “Ester non dire a te stessa che tu sola potrai salvarti nel r egno fra tutti i Giudei. Perché se tu ti rifiuti in questa circostanza da un’altra parte verranno aiut o e protezione per i Giudei. Tu e la casa di tuo padre perirete. Chi sa che tu non sia diventata re gina proprio per questa circostanza?”». Ester mandò da Mardocheo l’uomo che era venuto da l ei e gli fece dire: «Va’ e raduna i Giudei che abitano a Susa e digiunate per me: per tre giorni e tr e notti non mangiate e non bevete. Anch’io e le mie ancelle digiuneremo. Allora contravvenend o alla legge, entrerò dal re anche se dovessi morire». Mardocheo andò e fece tutto quello che E
ster gli aveva ordinato. 17a Poi pregò il Signore ricordando tutte le gesta del Signore e disse: 17
b «Signore Signore re che domini l’universo tutte le cose sono sottoposte al tuo potere e non c’
è nessuno che possa opporsi a te nella tua volontà di salvare Israele. 17c Tu hai fatto il cielo e la terra e tutte le meraviglie che si trovano sotto il firmamento. Tu sei il Signore di tutte le cose e n on c’è nessuno che possa resistere a te Signore. 17d Tu conosci tutto; tu sai Signore che non per orgoglio non per superbia né per vanagloria ho fatto questo gesto di non prostrarmi davanti al superbo Aman perché avrei anche baciato la pianta dei suoi piedi per la salvezza d’Israele. 17e Ma ho fatto questo per non porre la gloria di un uomo al di sopra della gloria di Dio; non mi pro strerò mai davanti a nessuno se non davanti a te che sei il mio Signore e non farò così per super bia. 17f Ora Signore Dio re Dio di Abramo risparmia il tuo popolo! Perché guardano a noi per dis truggerci e desiderano ardentemente far perire quella che è la tua eredità dai tempi antichi. 17
g Non trascurare il tuo possesso che hai redento per te dal paese d’Egitto. 17h Ascolta la mia pr eghiera e sii propizio alla tua eredità cambia il nostro lutto in gioia, perché vivi possiamo cantar e inni al tuo nome Signore e non far scomparire quelli che ti lodano con la loro bocca». 17i Tutti gli Israeliti gridavano con tutte le loro forze perché la morte stava davanti ai loro occhi. 17k Anc he la regina Ester cercò rifugio presso il Signore presa da un’angoscia mortale. Si tolse le vesti di lusso e indossò gli abiti di miseria e di lutto; invece dei superbi profumi si riempì la testa di cen eri e di immondizie. Umiliò duramente il suo corpo e con i capelli sconvolti coprì ogni sua parte che prima soleva ornare a festa. Poi supplicò il Signore e disse: 17l «Mio Signore nostro re tu sei l’unico! Vieni in aiuto a me che sono sola e non ho altro soccorso all’infuori di te perché un gra nde pericolo mi sovrasta. 17m Io ho sentito fin dalla mia nascita in seno alla mia famiglia che tu Signore hai preso Israele tra tutte le nazioni e i nostri padri tra tutti i loro antenati come tua ete
rna eredità e hai fatto per loro tutto quello che avevi promesso. 17n Ma ora abbiamo peccato c ontro di te e ci hai consegnato nelle mani dei nostri nemici perché abbiamo dato gloria ai loro d èi. Tu sei giusto Signore! 17o Ma ora non si sono accontentati dell’amarezza della nostra schiavi tù: hanno anche posto le mani sulle mani dei loro idoli giurando di abolire il decreto della tua b occa di sterminare la tua eredità di chiudere la bocca di quelli che ti lodano e spegnere la gloria del tuo tempio e il tuo altare, 17p di aprire invece la bocca delle nazioni per lodare gli idoli vani e proclamare per sempre la propria ammirazione per un re mortale. 17q Non consegnare Signor e il tuo scettro a quelli che neppure esistono. Non permettere che ridano della nostra caduta; m a volgi contro di loro questi loro progetti e colpisci con un castigo esemplare chi è a capo dei no stri persecutori. 17r Ricòrdati Signore manifèstati nel giorno della nostra afflizione e da’ a me co raggio o re degli dèi e dominatore di ogni potere. 17s Metti nella mia bocca una parola ben mis urata di fronte al leone e volgi il suo cuore all’odio contro colui che ci combatte per lo sterminio suo e di coloro che sono d’accordo con lui. 17t Quanto a noi salvaci con la tua mano e vieni in mio aiuto perché sono sola e non ho altri che te Signore! 17u Tu hai conoscenza di tutto e sai ch e io odio la gloria degli empi e detesto il letto dei non circoncisi e di qualunque straniero. 17v Tu sai che mi trovo nella necessità e che detesto l’insegna della mia alta carica che cinge il mio cap o nei giorni in cui devo comparire in pubblico; la detesto come un panno immondo e non la port o nei giorni in cui mi tengo appartata. 17x La tua serva non ha mangiato alla tavola di Aman; no n ha onorato il banchetto del re né ha bevuto il vino delle libagioni. 17y La tua serva da quando ha cambiato condizione fino ad oggi non ha gioito se non in te Signore, Dio di Abramo. 17z O Di o che su tutti eserciti la forza ascolta la voce dei disperati liberaci dalla mano dei malvagi e liber a me dalla mia angoscia!». Il terzo giorno quando ebbe finito di pregare ella si tolse gli abiti serv ili e si rivestì di quelli sontuosi. 1a Fattasi splendida invocò quel Dio che su tutti veglia e tutti sal va e prese con sé due ancelle. Su di una si appoggiava con apparente mollezza mentre l’altra la seguiva sollevando il manto di lei. 1b Era rosea nel fiore della sua bellezza: il suo viso era lieto c ome ispirato a benevolenza, ma il suo cuore era oppresso dalla paura. 1c Attraversate tutte le p orte si fermò davanti al re. Egli stava seduto sul suo trono regale e rivestiva i suoi ornamenti uffi ciali: era tutto splendente di oro e di pietre preziose e aveva un aspetto che incuteva paura. 1d Alzato il viso che la sua maestà rendeva fiammeggiante al culmine della collera la guardò. La reg ina cadde a terra in un attimo di svenimento mutò colore e si curvò sulla testa dell’ancella che l’
accompagnava. 1e Dio volse a dolcezza l’animo del re: ansioso balzò dal trono la prese tra le bra ccia, fino a quando ella non si fu rialzata e la confortava con parole rassicuranti dicendole: 1f «C
he c’è Ester? Io sono tuo fratello; coraggio tu non morirai perché il nostro decreto è solo per la gente comune. Avvicìnati!». Alzato lo scettro d’oro lo posò sul collo di lei la baciò e le disse: «Pa rlami!». 2a Gli disse: «Ti ho visto signore come un angelo di Dio e il mio cuore è rimasto sconvol to per timore della tua gloria: tu sei ammirevole signore e il tuo volto è pieno d’incanto». 2b Me ntre parlava cadde svenuta; il re si turbò e tutti i suoi servi cercavano di rincuorarla. Allora il re l e disse: «Che cosa vuoi Ester e qual è la tua richiesta? Fosse pure metà del mio regno sarà tua».

Ester rispose: «Oggi è un giorno speciale per me: se così piace al re venga egli con Aman al banc hetto che oggi io darò». Disse il re: «Fate venire presto Aman per compiere quello che Ester ha detto». E ambedue vennero al banchetto di cui aveva parlato Ester. Mentre si beveva il re rivolt o a Ester disse: «Che cosa c’è regina Ester? Ti sarà concesso tutto quello che chiedi». Rispose: «
Ecco la mia domanda e la mia richiesta: se ho trovato grazia davanti al re venga anche domani c on Aman al banchetto che io darò per loro e domani farò come ho fatto oggi». Aman era uscito dal re contento euforico; ma quando nel cortile della reggia vide Mardocheo il Giudeo si adirò f ortemente. Tornato a casa sua chiamò gli amici e Zosara sua moglie. Mostrò loro le sue ricchezz e e il potere del quale il re l’aveva investito: gli aveva dato il primo posto e il governo del regno.
Disse Aman: «Al banchetto la regina non ha invitato altri che me insieme al re e io sono invitato per domani. Ma questo non mi piace fin quando vedrò Mardocheo il Giudeo nel cortile della reg gia». Zosara sua moglie e gli amici gli dissero: «Fa’ preparare un palo alto cinquanta cubiti e do mani mattina dì al re di farvi impiccare Mardocheo; poi tu va’ al banchetto con il re e stai allegr o». La cosa piacque ad Aman e si preparò il palo. Quella notte il Signore tolse il sonno al re che perciò disse al suo precettore di portargli il libro delle memorie le cronache e di dargliene lettur a. Egli vi trovò scritto riguardo a Mardocheo che egli aveva riferito al re che due eunuchi del re nel fare la guardia avevano cercato di aggredire Artaserse. Disse allora il re: «Quale onore o fav ore abbiamo fatto a Mardocheo?». I servi del re risposero: «Non hai fatto nulla per lui». Mentre il re veniva informato circa la benevolenza di Mardocheo ecco Aman nel cortile della reggia. All ora il re disse: «Chi c’è nel cortile?». Aman era venuto per dire al re di fare impiccare Mardoche o al palo che egli aveva preparato per lui. I servi del re dissero: «Ecco Aman è nel cortile della re ggia». E il re replicò: «Chiamatelo!». Allora il re disse ad Aman: «Che cosa dovrò fare per l’uomo che io voglio onorare?». Aman disse in cuor suo: «Chi il re vuole onorare se non me?». E rispos e al re: «Per l’uomo che il re vuole onorare i servi del re portino una veste di lino che viene indo ssata dal re e un cavallo che il re suole cavalcare: siano dati a uno degli amici del re fra i nobili e questi ne rivesta l’uomo che il re ama; poi lo faccia salire sul cavallo e si annunci nella piazza del la città: “Così sarà per ogni uomo che il re intende onorare”». Il re disse ad Aman: «Come hai de tto così fai a Mardocheo il Giudeo che si trova nel cortile della reggia e non trascurare nulla di q uello che hai detto». Aman prese la veste e il cavallo rivestì Mardocheo e lo fece salire sul cavall o, passò per la piazza della città annunciando: «Così sarà per ogni uomo che il re intende onorar e». Mardocheo ritornò nel cortile della reggia e Aman tornò a casa sua afflitto e con il capo cop erto. Poi Aman raccontò a Zosara sua moglie e ai suoi amici quello che era accaduto. Allora gli a mici e la moglie si rivolsero a lui con queste parole: «Se Mardocheo è della stirpe dei Giudei, co mincia ad abbassarti davanti a lui cadendo ai suoi piedi: tu non potrai resistergli perché il Dio viv ente è con lui». Essi stavano ancora parlando quando giunsero gli eunuchi e in fretta portarono Aman al banchetto che Ester aveva preparato. Il re e Aman andarono a banchettare con la regin a. Il secondo giorno che si beveva il re disse a Ester: «Che c’è regina Ester? Qual è la tua doman da e quale la tua richiesta? Fosse anche la metà del mio regno ti sarà data». Rispose: «Se ho tro
vato grazia davanti al re sia risparmiata la vita a me secondo la mia domanda e al mio popolo se condo la mia richiesta. Infatti siamo stati venduti io e il mio popolo siamo stati venduti per esser e distrutti, uccisi e fatti schiavi noi e i nostri figli per diventare servi e serve; ma io finsi di non ud ire, perché quel calunniatore non è degno del palazzo del re». Disse il re: «Chi è costui che ha os ato fare queste cose?». Ester rispose: «Un nemico: Aman è quel malvagio». Aman fu preso da t errore in presenza del re e della regina. Allora il re si alzò dal banchetto per andare nel giardino: Aman si mise a supplicare la regina perché avvertiva di essere nei guai. Il re ritornò dal giardino e intanto Aman si era lasciato cadere sul divano supplicando la regina. Allora il re disse: «Vuole anche fare violenza a mia moglie in casa mia?». Appena ebbe sentito Aman mutò d’aspetto. Bu gatàn uno degli eunuchi disse al re: «Ecco Aman ha preparato anche un palo per Mardocheo il q uale aveva parlato in favore del re un palo alto cinquanta cubiti eretto nella proprietà di Aman»
. Disse il re: «Sia impiccato su quel palo». Allora Aman fu appeso al palo che aveva preparato pe r Mardocheo. E l’ira del re si placò. Lo stesso giorno il re Artaserse donò a Ester la proprietà di A man il calunniatore e Mardocheo fu chiamato dal re perché Ester aveva rivelato che egli era leg ato da parentela con lei. Allora il re prese l’anello che aveva fatto ritirare ad Aman e lo diede a Mardocheo ed Ester stabilì Mardocheo su tutte le proprietà di Aman. Ester parlò di nuovo al re cadde ai suoi piedi e lo pregava di rimuovere il male fatto da Aman tutto quello che aveva fatto contro i Giudei. Il re stese lo scettro d’oro verso Ester ed Ester si alzò per stare accanto al re. Dis se Ester: «Se piace a te e ho trovato grazia, si ordini di revocare le lettere inviate da Aman quell e che erano state scritte per sterminare i Giudei che si trovano nel tuo regno. Come potrei infat ti sopportare la vista dei mali del mio popolo e come potrei sopravvivere allo sterminio della mi a stirpe?». Il re rispose a Ester: «Se ti ho dato tutti i beni di Aman e ti ho concesso la mia grazia s e l’ho fatto appendere a un palo perché aveva messo le mani sui Giudei che cosa chiedi ancora?
Potete scrivere voi a mio nome come vi sembra e sigillate con il mio anello: infatti tutto quello che è stato scritto su comando del re ed è stato sigillato con il mio anello reale non può essere r evocato». Il ventitré del primo mese quello di Nisan dello stesso anno furono convocati i segret ari e fu scritto ai Giudei tutto quello che era stato comandato ai governatori e ai capi dei satrapi dall’India fino all’Etiopia centoventisette satrapie provincia per provincia secondo le loro lingue
. Fu scritto a nome del re e fu posto il sigillo del suo anello e le lettere furono mandate per mezz o di corrieri: si prescriveva loro di seguire le loro leggi in qualunque città sia per difendersi che p er trattare come volevano i loro nemici e i loro avversari e ciò in un solo giorno: il tredici del dod icesimo mese quello di Adar in tutto il regno di Artaserse. 12a Quanto segue è la copia della lett era: 12b «Il grande re Artaserse ai governatori delle centoventisette satrapie dall’India all’Etiopi a e a quelli che hanno a cuore i nostri interessi salute. 12c Molti uomini quanto più spesso veng ono onorati dalla più munifica generosità dei benefattori tanto più s’inorgogliscono e non solo c ercano di fare il male ai nostri sudditi, ma incapaci di frenare la loro superbia tramano insidie an che contro i loro benefattori. 12d Non solo cancellano la riconoscenza dal cuore degli uomini m a esaltati dallo strepito spavaldo di chi ignora il bene si lusingano di sfuggire a Dio che tutto ved
e e alla sua giustizia che odia il male. 12e Spesso poi molti di coloro che sono costituiti in autorit à per aver affidato a certi amici la responsabilità degli affari pubblici e per aver subìto la loro infl uenza divennero con essi responsabili del sangue innocente e furono travolti in disgrazie irrepar abili 12f perché i falsi ragionamenti di nature perverse avevano sviato l’incontaminata buona fe de dei governanti. 12g Questo si può vedere non tanto nelle storie più antiche a cui abbiamo ac cennato quanto piuttosto badando alle iniquità perpetrate dal comportamento corrotto di colo ro che indegnamente esercitano il potere. 12h Provvederemo per l’avvenire ad assicurare a tutt i gli uomini un regno indisturbato e pacifico 12i operando cambiamenti opportuni e giudicando sempre con la più equa fermezza gli affari che ci vengono posti sotto gli occhi. 12k Questo è il ca so di Aman figlio di Amadàta il Macèdone il quale estraneo, per la verità al sangue persiano e be n lontano dalla nostra bontà essendo stato accolto come ospite presso di noi 12l aveva tanto ap profittato dell’umanità che professiamo verso qualunque nazione da essere proclamato nostro padre e da ottenere il secondo rango presso il trono regale, venendo da tutti onorato con la pro strazione. 12m Ma non reggendo al peso della sua superbia egli si adoperò per privare noi del p otere e della vita 12n e con falsi e tortuosi argomenti richiese la pena di morte per il nostro salv atore e strenuo benefattore Mardocheo per l’irreprensibile consorte del nostro regno Ester e p er tutto il loro popolo. 12o Egli infatti avendoci messo in una condizione di isolamento pensava di trasferire l’impero dei Persiani ai Macèdoni. 12p Ora noi troviamo che questi Giudei destinati da quell’uomo tre volte scellerato allo sterminio non sono malfattori ma sono governati da leggi giustissime 12q sono figli del Dio altissimo massimo vivente il quale in favore nostro e dei nostri antenati dirige il regno nel migliore dei modi. 12r Farete dunque bene a non tenere conto delle lettere mandate da Aman figlio di Amadàta perché costui che ha perpetrato tali cose è stato im piccato a un palo con tutta la sua famiglia alle porte di Susa giusto castigo datogli rapidamente da Dio dominatore di tutti gli eventi. 12s Esposta invece una copia della presente lettera in ogni luogo permettete ai Giudei di valersi con tutta sicurezza delle loro leggi e prestate loro man fort e per respingere coloro che volessero assalirli al momento della persecuzione in quello stesso gi orno cioè il tredici del dodicesimo mese chiamato Adar. 12t Infatti questo giorno invece di segn are la rovina della stirpe eletta Dio dominatore di ogni cosa lo ha cambiato per loro in giorno di gioia. 12u Quanto a voi dunque tra le vostre feste commemorative celebrate questo giorno insi gne con ogni sorta di banchetti perché ora e in avvenire sia salvezza per noi e per gli amici dei P
ersiani ma per quelli che ci insidiano sia ricordo della loro perdizione. 12v Ogni città e in general e ogni località che non agirà secondo queste disposizioni sarà inesorabilmente messa a ferro e f uoco; non soltanto agli uomini sarà resa inaccessibile ma anche alle fiere e agli uccelli diventerà orribile per tutti i tempi. Le copie della lettera siano esposte in chiara evidenza in tutto il regno e in quel giorno i Giudei siano pronti a combattere contro i loro nemici». Allora i cavalieri partir ono in fretta per eseguire gli ordini del re mentre il decreto fu promulgato anche a Susa. Mardo cheo uscì indossando la veste regale e portando una corona d’oro e un diadema di lino purpure o. Al vederlo gli abitanti di Susa se ne rallegrarono. Per i Giudei vi era luce e letizia; in ogni città
e provincia dove era stato pubblicato l’editto dovunque era stato esposto il decreto vi erano pe r i Giudei gioia ed esultanza festa e allegria. E molti pagani si fecero circoncidere e per paura dei Giudei si fecero Giudei. Il dodicesimo mese il tredici del mese di Adar le lettere scritte dal re era no giunte. In quel giorno i nemici dei Giudei perirono; nessuno resistette per paura di loro. Infat ti i capi dei satrapi i prìncipi e gli scribi del re onoravano i Giudei poiché la paura di Mardocheo s i era impadronita di loro. In effetti l’editto del re imponeva che egli fosse onorato in tutto il regn o. [I Giudei dunque colpirono tutti i nemici passandoli a fil di spada uccidendoli e sterminandoli; fecero dei nemici quello che vollero.] Nella città di Susa i Giudei uccisero cinquecento uomini: F
arsannestàin Delfo Fasga Fardata Barea, Sarbacà Marmasimà Arufeo Arseo Zabuteo i dieci figli d i Aman figlio di Amadàta il Bugeo nemico dei Giudei e fecero saccheggio. In quello stesso giorno il numero di quelli che perirono a Susa fu reso noto al re. Allora il re disse a Ester: «I Giudei han no fatto perire cinquecento uomini nella città di Susa e come pensi si siano comportati nel resto del paese? Che cosa chiedi ancora? Ti sarà dato». Ester disse al re: «Sia concesso ai Giudei di co mportarsi allo stesso modo domani fino a quando saranno impiccati i dieci figli di Aman». Ed egl i permise che così si facesse e consegnò ai Giudei della città i corpi dei figli di Aman per essere a ppesi. I Giudei si radunarono nella città di Susa il quattordicesimo giorno del mese di Adar e ucci sero trecento uomini ma non fecero alcun saccheggio. Il resto dei Giudei che si erano radunati n el regno si aiutarono a vicenda ed ebbero tregua dai loro nemici: infatti ne sterminarono quindi cimila nel tredicesimo giorno del mese di Adar ma non fecero alcun saccheggio. Il quattordicesi mo giorno dello stesso mese si riposarono e trascorsero quel giorno di riposo con gioia ed esult anza. Invece nella città di Susa i Giudei che si erano radunati anche il quattordicesimo giorno m a senza riposarsi, trascorsero nella gioia e nell’esultanza anche il quindicesimo giorno. è per que sto dunque che i Giudei sparsi in ogni provincia straniera celebrano con gioia il quattordicesimo giorno del mese di Adar come giorno di festa mandando ciascuno regali al suo prossimo. Coloro che risiedono invece nelle città principali celebrano con gioia anche il quindicesimo giorno del mese di Adar come giorno di festa, mandando ciascuno regali al suo prossimo. Mardocheo scris se queste cose su un libro e lo mandò ai Giudei che vivevano nel regno di Artaserse vicini e lont ani per stabilire questi giorni come festivi da celebrare il quattordici e il quindici del mese di Ada r. In quei giorni infatti i Giudei ebbero tregua dai loro nemici e quello fu il mese Adar nel quale e ssi passarono dal pianto alla gioia e dal dolore a un giorno di festa; perciò esso deve essere cons iderato tutto quanto come un periodo di giorni festivi di nozze ed esultanza, in cui si inviano do ni agli amici e ai poveri. I Giudei approvarono il racconto che aveva scritto loro Mardocheo: com e Aman figlio di Amadàta il Macèdone li aveva combattuti come egli aveva emesso il decreto e a veva tirato le sorti per farli scomparire e come egli era andato dal re dicendogli di impiccare Ma rdocheo; ma tutti i mali che egli aveva cercato di far cadere sopra i Giudei erano venuti sopra di lui ed era stato impiccato lui e i suoi figli. Perciò quei giorni furono chiamati Purìm a motivo dell e sorti poiché nella loro lingua esse sono chiamate Purìm e a motivo delle parole di questa lette ra che ricordava tutto quello che avevano sofferto e che era loro capitato. Mardocheo stabilì e i
Giudei approvarono per sé per i loro discendenti e per quelli che si fossero uniti a loro che non s i sarebbero comportati in modo diverso: questi giorni dovevano essere un memoriale da osserv are di generazione in generazione in ogni città famiglia e provincia. Questi giorni dei Purìm sara nno celebrati in ogni tempo e il loro ricordo non sia lasciato cadere dai loro discendenti. La regi na Ester figlia di Aminadàb e Mardocheo il Giudeo scrissero tutto quello che avevano fatto e co nfermarono la lettera dei Purìm. Mardocheo e la regina Ester stabilirono per sé privatamente di digiunare; imposero allora la loro volontà contro la loro salute. Ester lo stabilì con un ordine ch e fu scritto come memoriale. Il re impose tributi a tutto il regno sia per terra che per mare. La s ua potenza e il suo valore la ricchezza e la gloria del suo regno tutto sta scritto nel libro del re d ei Persiani e dei Medi a memoria. Mardocheo era secondo rispetto al re Artaserse era grande n el regno ed era onorato dai Giudei; trascorse la sua vita amato da tutta la sua nazione. 3a E Mar docheo disse: «Queste cose sono avvenute per volere di Dio. 3b Mi ricordo infatti del sogno che ebbi circa le cose di cui sto parlando: neppure un loro dettaglio è stato tralasciato. 3c La piccola sorgente che divenne un fiume la luce che spuntò il sole e l’acqua copiosa: questo fiume è Este r che il re ha sposato e costituito regina. 3d I due draghi siamo io e Aman. 3e Le nazioni sono qu elle che si coalizzarono per distruggere il nome dei Giudei. 3f La mia nazione è Israele quelli che elevarono le loro grida a Dio e furono salvati. Sì il Signore ha salvato il suo popolo ci ha liberati d a tutti questi mali; Dio ha operato segni e prodigi grandi quali non sono accaduti mai tra le nazio ni. 3g Così egli gettò due sorti: una per il popolo di Dio e una per tutte le nazioni. 3h Queste due sorti si sono realizzate nell’ora nel momento opportuno nel giorno del giudizio al cospetto di Di o e in tutte le nazioni. 3i Dio allora si ricordò del suo popolo e rese giustizia alla sua eredità. 3k Questi giorni del mese di Adar il quattordici e il quindici dello stesso mese saranno celebrati con riunioni gioia e letizia davanti a Dio di generazione in generazione per sempre nel suo popolo Is raele». 3l Nell’anno quarto del re Tolomeo e di Cleopatra Dositeo che diceva di essere sacerdot e e levita e Tolomeo suo figlio portarono in Egitto la presente lettera sui Purìm e dissero che si t rattava della lettera autentica tradotta da Lisìmaco figlio di Tolomeo residente a Gerusalemme.
Viveva nella terra di Us un uomo chiamato Giobbe integro e retto timorato di Dio e lontano dal male. Gli erano nati sette figli e tre figlie; possedeva settemila pecore e tremila cammelli cinque cento paia di buoi e cinquecento asine e una servitù molto numerosa. Quest’uomo era il più gra nde fra tutti i figli d’oriente. I suoi figli solevano andare a fare banchetti in casa di uno di loro cia scuno nel suo giorno e mandavano a invitare le loro tre sorelle per mangiare e bere insieme. Qu ando avevano compiuto il turno dei giorni del banchetto Giobbe li mandava a chiamare per puri ficarli; si alzava di buon mattino e offriva olocausti per ognuno di loro. Giobbe infatti pensava: «
Forse i miei figli hanno peccato e hanno maledetto Dio nel loro cuore». Così era solito fare Giob be ogni volta. Ora un giorno i figli di Dio andarono a presentarsi al Signore e anche Satana andò in mezzo a loro. Il Signore chiese a Satana: «Da dove vieni?». Satana rispose al Signore: «Dalla t erra che ho percorso in lungo e in largo». Il Signore disse a Satana: «Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra: uomo integro e retto timorato di Dio e lontano d
al male». Satana rispose al Signore: «Forse che Giobbe teme Dio per nulla? Non sei forse tu che hai messo una siepe intorno a lui e alla sua casa e a tutto quello che è suo? Tu hai benedetto il l avoro delle sue mani e i suoi possedimenti si espandono sulla terra. Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha e vedrai come ti maledirà apertamente!». Il Signore disse a Satana: «Ecco qu anto possiede è in tuo potere ma non stendere la mano su di lui». Satana si ritirò dalla presenza del Signore. Un giorno accadde che mentre i suoi figli e le sue figlie stavano mangiando e beven do vino in casa del fratello maggiore un messaggero venne da Giobbe e gli disse: «I buoi stavan o arando e le asine pascolando vicino ad essi. I Sabei hanno fatto irruzione li hanno portati via e hanno passato a fil di spada i guardiani. Sono scampato soltanto io per raccontartelo». Mentre egli ancora parlava entrò un altro e disse: «Un fuoco divino è caduto dal cielo: si è appiccato alle pecore e ai guardiani e li ha divorati. Sono scampato soltanto io per raccontartelo». Mentre egli ancora parlava entrò un altro e disse: «I Caldei hanno formato tre bande: sono piombati sopra i cammelli e li hanno portati via e hanno passato a fil di spada i guardiani. Sono scampato soltant o io per raccontartelo». Mentre egli ancora parlava entrò un altro e disse: «I tuoi figli e le tue fig lie stavano mangiando e bevendo vino in casa del loro fratello maggiore quand’ecco un vento i mpetuoso si è scatenato da oltre il deserto: ha investito i quattro lati della casa che è rovinata s ui giovani e sono morti. Sono scampato soltanto io per raccontartelo». Allora Giobbe si alzò e si stracciò il mantello; si rase il capo cadde a terra si prostrò e disse: «Nudo uscii dal grembo di mi a madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Sig nore!». In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di ingiusto. Accadde un gior no che i figli di Dio andarono a presentarsi al Signore e anche Satana andò in mezzo a loro a pre sentarsi al Signore. Il Signore chiese a Satana: «Da dove vieni?». Satana rispose al Signore: «Dall a terra che ho percorso in lungo e in largo». Il Signore disse a Satana: «Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra: uomo integro e retto timorato di Dio e lonta no dal male. Egli è ancora saldo nella sua integrità tu mi hai spinto contro di lui per rovinarlo se nza ragione». Satana rispose al Signore: «Pelle per pelle; tutto quello che possiede l’uomo è pro nto a darlo per la sua vita. Ma stendi un poco la mano e colpiscilo nelle ossa e nella carne e vedr ai come ti maledirà apertamente!». Il Signore disse a Satana: «Eccolo nelle tue mani! Soltanto ri sparmia la sua vita». Satana si ritirò dalla presenza del Signore e colpì Giobbe con una piaga mal igna dalla pianta dei piedi alla cima del capo. Giobbe prese un coccio per grattarsi e stava sedut o in mezzo alla cenere. Allora sua moglie disse: «Rimani ancora saldo nella tua integrità? Maledi ci Dio e muori!». Ma egli le rispose: «Tu parli come parlerebbe una stolta! Se da Dio accettiamo il bene perché non dovremmo accettare il male?». In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra. Tre amici di Giobbe vennero a sapere di tutte le disgrazie che si erano abbattute su di lui
. Partirono ciascuno dalla sua contrada Elifaz di Teman Bildad di Suach e Sofar di Naamà e si acc ordarono per andare a condividere il suo dolore e a consolarlo. Alzarono gli occhi da lontano m a non lo riconobbero. Levarono la loro voce e si misero a piangere. Ognuno si stracciò il mantell o e lanciò polvere verso il cielo sul proprio capo. Poi sedettero accanto a lui in terra per sette gi
orni e sette notti. Nessuno gli rivolgeva una parola perché vedevano che molto grande era il suo dolore. Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo giorno. Prese a dire: «Perisca il giorno in c ui nacqui e la notte in cui si disse: “è stato concepito un maschio!”. Quel giorno divenga tenebra
, non se ne curi Dio dall’alto, né brilli mai su di esso la luce. Lo rivendichino la tenebra e l’ombra della morte, gli si stenda sopra una nube e lo renda spaventoso l’oscurarsi del giorno! Quella no tte se la prenda il buio, non si aggiunga ai giorni dell’anno, non entri nel conto dei mesi. Ecco qu ella notte sia sterile, e non entri giubilo in essa. La maledicano quelli che imprecano il giorno, ch e sono pronti a evocare Leviatàn. Si oscurino le stelle della sua alba, aspetti la luce e non venga né veda le palpebre dell’aurora, poiché non mi chiuse il varco del grembo materno, e non nasco se l’affanno agli occhi miei! Perché non sono morto fin dal seno di mia madre e non spirai appe na uscito dal grembo? Perché due ginocchia mi hanno accolto, e due mammelle mi allattarono?
Così ora giacerei e avrei pace, dormirei e troverei riposo con i re e i governanti della terra, che r icostruiscono per sé le rovine, e con i prìncipi che posseggono oro e riempiono le case d’argento
. Oppure come aborto nascosto più non sarei, o come i bambini che non hanno visto la luce. Là i malvagi cessano di agitarsi, e chi è sfinito trova riposo. Anche i prigionieri hanno pace, non odo no più la voce dell’aguzzino. Il piccolo e il grande là sono uguali, e lo schiavo è libero dai suoi pa droni. Perché dare la luce a un infelice e la vita a chi ha amarezza nel cuore, a quelli che aspetta no la morte e non viene, che la cercano più di un tesoro, che godono fino a esultare e gioiscono quando trovano una tomba, a un uomo la cui via è nascosta e che Dio ha sbarrato da ogni parte
? Perché al posto del pane viene la mia sofferenza e si riversa come acqua il mio grido, perché ci ò che temevo mi è sopraggiunto, quello che mi spaventava è venuto su di me. Non ho tranquilli tà non ho requie, non ho riposo ed è venuto il tormento!». Elifaz di Teman prese a dire: «Se uno tenta di parlare ti sarà gravoso? Ma chi può trattenere le parole? Ecco sei stato maestro di molt i e a mani stanche hai ridato vigore; le tue parole hanno sorretto chi vacillava e le ginocchia che si piegavano hai rafforzato. Ma ora che questo accade a te ti è gravoso; capita a te e ne sei scon volto. La tua pietà non era forse la tua fiducia, e la tua condotta integra la tua speranza? Ricord alo: quale innocente è mai perito e quando mai uomini retti furono distrutti? Per quanto io ho v isto chi ara iniquità e semina affanni li raccoglie. A un soffio di Dio periscono e dallo sfogo della sua ira sono annientati. Ruggisce il leone urla la belva, e i denti dei leoncelli si frantumano; il leo ne perisce per mancanza di preda, e i figli della leonessa si disperdono. A me fu recata furtiva u na parola e il mio orecchio ne percepì il lieve sussurro. Negli incubi delle visioni notturne, quand o il torpore grava sugli uomini, terrore mi prese e spavento, che tutte le ossa mi fece tremare; u n vento mi passò sulla faccia, sulla pelle mi si drizzarono i peli. Stava là uno ma non ne riconobbi l’aspetto, una figura era davanti ai miei occhi. Poi udii una voce sommessa: “Può l’uomo essere più retto di Dio, o il mortale più puro del suo creatore? Ecco dei suoi servi egli non si fida e nei s uoi angeli trova difetti, quanto più in coloro che abitano case di fango, che nella polvere hanno i l loro fondamento! Come tarlo sono schiacciati, sono annientati fra il mattino e la sera, senza ch e nessuno ci badi periscono per sempre. Non viene forse strappata la corda della loro tenda, sic
ché essi muoiono ma senza sapienza?”. Grida pure! Ti risponderà forse qualcuno? E a chi fra i sa nti ti rivolgerai? Poiché la collera uccide lo stolto e l’invidia fa morire lo sciocco. Ho visto lo stolt o mettere radici e subito ho dichiarato maledetta la sua dimora. I suoi figli non sono mai al sicur o, e in tribunale sono oppressi senza difensore; l’affamato ne divora la messe, anche se ridotta a spine la porterà via e gente assetata agognerà le sue sostanze. Non esce certo dal suolo la sve ntura né germoglia dalla terra il dolore, ma è l’uomo che genera pene, come le scintille volano i n alto. Io invece mi rivolgerei a Dio e a Dio esporrei la mia causa: a lui che fa cose tanto grandi d a non potersi indagare, meraviglie da non potersi contare, che dà la pioggia alla terra e manda l’
acqua sulle campagne. Egli esalta gli umili e solleva a prosperità gli afflitti; è lui che rende vani i pensieri degli scaltri, perché le loro mani non abbiano successo. Egli sorprende i saccenti nella l oro astuzia e fa crollare il progetto degli scaltri. Di giorno incappano nel buio, in pieno sole bran colano come di notte. Egli invece salva il povero dalla spada della loro bocca e dalla mano del vi olento. C’è speranza per il misero, ma chi fa l’ingiustizia deve chiudere la bocca. Perciò beato l’u omo che è corretto da Dio: non sdegnare la correzione dell’Onnipotente, perché egli ferisce e fa scia la piaga, colpisce e la sua mano risana. Da sei tribolazioni ti libererà e alla settima il male no n ti toccherà nella carestia ti libererà dalla morte e in guerra dal colpo della spada, sarai al ripar o dal flagello della lingua, né temerai quando giunge la rovina. Della rovina e della fame riderai né temerai le bestie selvatiche; con le pietre del campo avrai un patto e le bestie selvatiche sara nno in pace con te. Vedrai che sarà prospera la tua tenda, visiterai la tua proprietà e non sarai d eluso. Vedrai che sarà numerosa la tua prole, i tuoi rampolli come l’erba dei prati. Te ne andrai alla tomba in piena maturità, come un covone raccolto a suo tempo. Ecco questo l’abbiamo stu diato a fondo ed è vero. Ascoltalo e imparalo per il tuo bene». Giobbe prese a dire: «Se ben si p esasse la mia angoscia e sulla stessa bilancia si ponesse la mia sventura, certo sarebbe più pesa nte della sabbia del mare! Per questo le mie parole sono così avventate, perché le saette dell’O
nnipotente mi stanno infitte, sicché il mio spirito ne beve il veleno e i terrori di Dio mi si schiera no contro! Raglia forse l’asino selvatico con l’erba davanti o muggisce il bue sopra il suo foraggi o? Si mangia forse un cibo insipido senza sale? O che gusto c’è nel succo di malva? Ciò che io ric usavo di toccare ora è il mio cibo nauseante! Oh mi accadesse quello che invoco e Dio mi conce desse quello che spero! Volesse Dio schiacciarmi, stendere la mano e sopprimermi! Questo sare bbe il mio conforto, e io gioirei pur nell’angoscia senza pietà, perché non ho rinnegato i decreti del Santo. Qual è la mia forza perché io possa aspettare, o qual è la mia fine perché io debba pa zientare? La mia forza è forse quella dei macigni? E la mia carne è forse di bronzo? Nulla c’è in me che mi sia di aiuto? Ogni successo mi è precluso? A chi è sfinito dal dolore è dovuto l’affetto degli amici, anche se ha abbandonato il timore di Dio. I miei fratelli sono incostanti come un tor rente, come l’alveo dei torrenti che scompaiono: sono torbidi per il disgelo, si gonfiano allo scio gliersi della neve, ma al tempo della siccità svaniscono e all’arsura scompaiono dai loro letti. Le carovane deviano dalle loro piste, avanzano nel deserto e vi si perdono; le carovane di Tema li c ercano con lo sguardo, i viandanti di Saba sperano in essi: ma rimangono delusi d’aver sperato,
giunti fin là ne restano confusi. Così ora voi non valete niente: vedete una cosa che fa paura e vi spaventate. Vi ho detto forse: “Datemi qualcosa”, o “Con i vostri beni pagate il mio riscatto”, o
“Liberatemi dalle mani di un nemico”, o “Salvatemi dalle mani dei violenti”? Istruitemi e allora i o tacerò, fatemi capire in che cosa ho sbagliato. Che hanno di offensivo le mie sincere parole e c he cosa dimostrano le vostre accuse? Voi pretendete di confutare le mie ragioni, e buttate al ve nto i detti di un disperato. Persino su un orfano gettereste la sorte e fareste affari a spese di un vostro amico. Ma ora degnatevi di volgervi verso di me: davanti a voi non mentirò. Su ricredete vi: non siate ingiusti! Ricredetevi: io sono nel giusto! C’è forse iniquità sulla mia lingua o il mio p alato non sa distinguere il male? L’uomo non compie forse un duro servizio sulla terra e i suoi gi orni non sono come quelli d’un mercenario? Come lo schiavo sospira l’ombra e come il mercena rio aspetta il suo salario, così a me sono toccati mesi d’illusione e notti di affanno mi sono state assegnate. Se mi corico dico: “Quando mi alzerò?”. La notte si fa lunga e sono stanco di rigirarm i fino all’alba. Ricoperta di vermi e di croste polverose è la mia carne, raggrinzita è la mia pelle e si dissolve. I miei giorni scorrono più veloci d’una spola, svaniscono senza un filo di speranza. Ric òrdati che un soffio è la mia vita: il mio occhio non rivedrà più il bene. Non mi scorgerà più l’occ hio di chi mi vede: i tuoi occhi mi cercheranno ma io più non sarò. Una nube svanisce e se ne va, così chi scende al regno dei morti più non risale; non tornerà più nella sua casa, né più lo ricono scerà la sua dimora. Ma io non terrò chiusa la mia bocca, parlerò nell’angoscia del mio spirito, mi lamenterò nell’amarezza del mio cuore! Sono io forse il mare oppure un mostro marino, per ché tu metta sopra di me una guardia? Quando io dico: “Il mio giaciglio mi darà sollievo, il mio l etto allevierà il mio lamento”, tu allora mi spaventi con sogni e con fantasmi tu mi atterrisci. Pre ferirei morire soffocato, la morte piuttosto che vivere in queste mie ossa. Mi sto consumando n on vivrò più a lungo. Lasciami perché un soffio sono i miei giorni. Che cosa è l’uomo perché tu lo consideri grande e a lui rivolga la tua attenzione e lo scruti ogni mattina e ad ogni istante lo me tta alla prova? Fino a quando da me non toglierai lo sguardo e non mi lascerai inghiottire la saliv a? Se ho peccato che cosa ho fatto a te, o custode dell’uomo? Perché mi hai preso a bersaglio e sono diventato un peso per me? Perché non cancelli il mio peccato e non dimentichi la mia colp a? Ben presto giacerò nella polvere e se mi cercherai io non ci sarò!». Bildad di Suach prese a dir e: «Fino a quando dirai queste cose e vento impetuoso saranno le parole della tua bocca? Può f orse Dio sovvertire il diritto o l’Onnipotente sovvertire la giustizia? Se i tuoi figli hanno peccato contro di lui, li ha abbandonati in balìa delle loro colpe. Se tu cercherai Dio e implorerai l’Onnip otente, se puro e integro tu sarai, allora egli veglierà su di te e renderà prospera la dimora della tua giustizia; anzi piccola cosa sarà la tua condizione di prima e quella futura sarà molto più gra nde. Chiedilo infatti alle generazioni passate, considera l’esperienza dei loro padri, perché noi si amo di ieri e nulla sappiamo, un’ombra sono i nostri giorni sulla terra. Non ti istruiranno e non ti parleranno traendo dal cuore le loro parole? Cresce forse il papiro fuori della palude e si svilup pa forse il giunco senz’acqua? Ancora verde non buono per tagliarlo, inaridirebbe prima di ogni altra erba. Tale è la sorte di chi dimentica Dio, così svanisce la speranza dell’empio; la sua fiduci
a è come un filo e una tela di ragno è la sua sicurezza: se si appoggia alla sua casa essa non resis te, se vi si aggrappa essa non regge. Rigoglioso si mostra in faccia al sole e sopra il giardino si sp andono i suoi rami, sul terreno sassoso s’intrecciano le sue radici e tra le pietre si abbarbica. Ma se lo si strappa dal suo luogo, questo lo rinnega: “Non ti ho mai visto!”. Ecco la gioia del suo des tino e dalla terra altri rispuntano. Dunque Dio non rigetta l’uomo integro e non sostiene la man o dei malfattori. Colmerà di nuovo la tua bocca di sorriso e le tue labbra di gioia. I tuoi nemici sa ranno coperti di vergogna, la tenda degli empi più non sarà». Giobbe prese a dire: «In verità io s o che è così: e come può un uomo aver ragione dinanzi a Dio? Se uno volesse disputare con lui, non sarebbe in grado di rispondere una volta su mille. Egli è saggio di mente potente di forza: c hi si è opposto a lui ed è rimasto salvo? Egli sposta le montagne ed esse non lo sanno, nella sua i ra egli le sconvolge. Scuote la terra dal suo posto e le sue colonne tremano. Comanda al sole ed esso non sorge e mette sotto sigillo le stelle. Lui solo dispiega i cieli e cammina sulle onde del m are. Crea l’Orsa e l’Orione, le Plèiadi e le costellazioni del cielo australe. Fa cose tanto grandi ch e non si possono indagare, meraviglie che non si possono contare. Se mi passa vicino e non lo v edo, se ne va e di lui non mi accorgo. Se rapisce qualcosa chi lo può impedire? Chi gli può dire: “
Cosa fai?”. Dio non ritira la sua collera: sotto di lui sono fiaccati i sostenitori di Raab. Tanto men o potrei rispondergli io, scegliendo le parole da dirgli; io anche se avessi ragione non potrei risp ondergli, al mio giudice dovrei domandare pietà. Se lo chiamassi e mi rispondesse, non credo ch e darebbe ascolto alla mia voce. Egli con una tempesta mi schiaccia, moltiplica le mie piaghe se nza ragione, non mi lascia riprendere il fiato, anzi mi sazia di amarezze. Se si tratta di forza è lui i l potente; se di giustizia chi potrà citarlo in giudizio? Se avessi ragione la mia bocca mi condanne rebbe; se fossi innocente egli mi dichiarerebbe colpevole. Benché innocente non mi curo di me stesso, detesto la mia vita! Per questo io dico che è la stessa cosa: egli fa perire l’innocente e il r eo! Se un flagello uccide all’improvviso, della sciagura degli innocenti egli ride. La terra è lasciat a in balìa del malfattore: egli vela il volto dei giudici; chi se non lui può fare questo? I miei giorni passano più veloci d’un corriere, fuggono senza godere alcun bene, volano come barche di papi ro, come aquila che piomba sulla preda. Se dico: “Voglio dimenticare il mio gemito, cambiare il mio volto e rasserenarmi”, mi spavento per tutti i miei dolori; so bene che non mi dichiarerai in nocente. Se sono colpevole, perché affaticarmi invano? Anche se mi lavassi con la neve e pulissi con la soda le mie mani, allora tu mi tufferesti in un pantano e in orrore mi avrebbero le mie ve sti. Poiché non è uomo come me al quale io possa replicare: “Presentiamoci alla pari in giudizio”
. Non c’è fra noi due un arbitro che ponga la mano su di noi. Allontani da me la sua verga, che n on mi spaventi il suo terrore: allora parlerei senza aver paura di lui; poiché così non è mi ritrovo con me solo. Io sono stanco della mia vita! Darò libero sfogo al mio lamento, parlerò nell’amare zza del mio cuore. Dirò a Dio: “Non condannarmi! Fammi sapere di che cosa mi accusi. è forse b ene per te opprimermi, disprezzare l’opera delle tue mani e favorire i progetti dei malvagi? Hai t u forse occhi di carne o anche tu vedi come vede l’uomo? Sono forse i tuoi giorni come quelli di un uomo, i tuoi anni come quelli di un mortale, perché tu debba scrutare la mia colpa ed esami
nare il mio peccato, pur sapendo che io non sono colpevole e che nessuno mi può liberare dalla tua mano? Le tue mani mi hanno plasmato e mi hanno fatto integro in ogni parte: e ora vorresti distruggermi? Ricòrdati che come argilla mi hai plasmato; alla polvere vorresti farmi tornare? N
on mi hai colato come latte e fatto cagliare come formaggio? Di pelle e di carne mi hai rivestito, di ossa e di nervi mi hai intessuto. Vita e benevolenza tu mi hai concesso e la tua premura ha cu stodito il mio spirito. Eppure questo nascondevi nel cuore, so che questo era nei tuoi disegni! Se pecco tu mi sorvegli e non mi lasci impunito per la mia colpa. Se sono colpevole guai a me! Ma anche se sono giusto non oso sollevare il capo, sazio d’ignominia come sono ed ebbro di miseria
. Se lo sollevo tu come un leone mi dai la caccia e torni a compiere le tue prodezze contro di me
, rinnovi contro di me i tuoi testimoni, contro di me aumenti la tua ira e truppe sempre nuove m i stanno addosso. Perché tu mi hai tratto dal seno materno? Sarei morto e nessun occhio mi avr ebbe mai visto! Sarei come uno che non è mai esistito; dal ventre sarei stato portato alla tomba
! Non sono poca cosa i miei giorni? Lasciami che io possa respirare un poco prima che me ne va da senza ritorno, verso la terra delle tenebre e dell’ombra di morte, terra di oscurità e di disordi ne, dove la luce è come le tenebre”». Sofar di Naamà prese a dire: «A tante parole non si dovrà forse dare risposta? O il loquace dovrà avere ragione? I tuoi sproloqui faranno tacere la gente?
Ti farai beffe senza che alcuno ti svergogni? Tu dici: “Pura è la mia condotta, io sono irreprensibi le agli occhi tuoi”. Tuttavia volesse Dio parlare e aprire le labbra contro di te, per manifestarti i s egreti della sapienza, che sono così difficili all’intelletto, allora sapresti che Dio ti condona parte della tua colpa. Credi tu di poter scrutare l’intimo di Dio o penetrare la perfezione dell’Onnipote nte? è più alta del cielo: che cosa puoi fare? è più profonda del regno dei morti: che cosa ne sai
? Più lunga della terra ne è la dimensione, più vasta del mare. Se egli assale e imprigiona e chia ma in giudizio chi glielo può impedire? Egli conosce gli uomini fallaci; quando scorge l’iniquità n on dovrebbe tenerne conto? L’uomo stolto diventerà giudizioso? E un puledro di asino selvatico sarà generato uomo? Ora se tu a Dio dirigerai il cuore e tenderai a lui le tue palme, se allontane rai l’iniquità che è nella tua mano e non farai abitare l’ingiustizia nelle tue tende, allora potrai al zare il capo senza macchia, sarai saldo e non avrai timori, perché dimenticherai l’affanno e te ne ricorderai come di acqua passata. Più del sole meridiano splenderà la tua vita, l’oscurità sarà pe r te come l’aurora. Avrai fiducia perché c’è speranza e guardandoti attorno riposerai tranquillo.
Ti coricherai e nessuno ti metterà paura; anzi molti cercheranno i tuoi favori. Ma gli occhi dei m alvagi languiranno, ogni scampo è loro precluso, unica loro speranza è l’ultimo respiro!». Giobb e prese a dire: «Certo voi rappresentate un popolo; con voi morirà la sapienza! Anch’io però ho senno come voi, e non sono da meno di voi; chi non sa cose simili? Sono diventato il sarcasmo d ei miei amici, io che grido a Dio perché mi risponda; sarcasmo io che sono il giusto l’integro! “All o sventurato spetta il disprezzo”, pensa la gente nella prosperità, “spinte a colui che ha il piede tremante”. Le tende dei ladri sono tranquille, c’è sicurezza per chi provoca Dio, per chi riduce Di o in suo potere. Interroga pure le bestie e ti insegneranno, gli uccelli del cielo e ti informeranno; i rettili della terra e ti istruiranno, i pesci del mare e ti racconteranno. Chi non sa fra tutti costor
o, che la mano del Signore ha fatto questo? Egli ha in mano l’anima di ogni vivente e il soffio di ogni essere umano. L’orecchio non distingue forse le parole e il palato non assapora i cibi? Nei c anuti sta la saggezza e in chi ha vita lunga la prudenza. In lui risiedono sapienza e forza, a lui app artengono consiglio e prudenza! Ecco se egli demolisce non si può ricostruire, se imprigiona qua lcuno non c’è chi possa liberarlo. Se trattiene le acque vi è siccità, se le lascia andare devastano la terra. In lui risiedono potenza e sagacia, da lui dipendono l’ingannato e l’ingannatore. Fa anda re scalzi i consiglieri della terra, rende stolti i giudici; slaccia la cintura dei re e cinge i loro fianchi d’una corda. Fa andare scalzi i sacerdoti e rovescia i potenti. Toglie la parola a chi si crede sicur o e priva del senno i vegliardi. Sui potenti getta il disprezzo e allenta la cintura dei forti. Strappa dalle tenebre i segreti e porta alla luce le ombre della morte. Rende grandi i popoli e li fa perire, fa largo ad altri popoli e li guida. Toglie la ragione ai capi di un paese e li fa vagare nel vuoto sen za strade, vanno a tastoni in un buio senza luce, e barcollano come ubriachi. Ecco tutto questo ha visto il mio occhio, l’ha udito il mio orecchio e l’ha compreso. Quel che sapete voi lo so anch’i o; non sono da meno di voi. Ma io all’Onnipotente voglio parlare, con Dio desidero contendere.
Voi imbrattate di menzogne, siete tutti medici da nulla. Magari taceste del tutto: sarebbe per vo i un atto di sapienza! Ascoltate dunque la mia replica e alle argomentazioni delle mie labbra fat e attenzione. Vorreste forse dire il falso in difesa di Dio e in suo favore parlare con inganno? Vor reste prendere le parti di Dio e farvi suoi avvocati? Sarebbe bene per voi se egli vi scrutasse? Cr edete di ingannarlo come s’inganna un uomo? Severamente vi redarguirà, se in segreto sarete p arziali. La sua maestà non vi incute spavento e il terrore di lui non vi assale? Sentenze di cenere sono i vostri moniti, baluardi di argilla sono i vostri baluardi. Tacete state lontani da me: parlerò io, qualunque cosa possa accadermi. Prenderò la mia carne con i denti e la mia vita porrò sulle mie palme. Mi uccida pure io non aspetterò, ma la mia condotta davanti a lui difenderò! Già qu esto sarebbe la mia salvezza, perché davanti a lui l’empio non può presentarsi. Ascoltate bene l e mie parole e il mio discorso entri nei vostri orecchi. Ecco espongo la mia causa, sono convinto che sarò dichiarato innocente. Chi vuole contendere con me? Perché allora tacerei e morirei. Fa mmi solo due cose e allora non mi sottrarrò alla tua presenza: allontana da me la tua mano e il t uo terrore più non mi spaventi. Interrogami pure e io risponderò, oppure parlerò io e tu ribatter ai. Quante sono le mie colpe e i miei peccati? Fammi conoscere il mio delitto e il mio peccato. P
erché mi nascondi la tua faccia e mi consideri come un nemico? Vuoi spaventare una foglia disp ersa dal vento e dare la caccia a una paglia secca? Tu scrivi infatti contro di me sentenze amare e su di me fai ricadere i miei errori giovanili; tu poni in ceppi i miei piedi, vai spiando tutti i miei passi e rilevi le orme dei miei piedi. Intanto l’uomo si consuma come legno tarlato o come un ve stito corroso da tignola. L’uomo nato da donna, ha vita breve e piena d’inquietudine; come un fi ore spunta e avvizzisce, fugge come l’ombra e mai si ferma. Tu sopra di lui tieni aperti i tuoi occ hi, e lo chiami a giudizio dinanzi a te? Chi può trarre il puro dall’immondo? Nessuno. Se i suoi gi orni sono contati, il numero dei suoi mesi dipende da te, hai fissato un termine che non può oltr epassare. Distogli lo sguardo da lui perché trovi pace e compia come un salariato la sua giornata
! è vero per l’albero c’è speranza: se viene tagliato ancora si rinnova, e i suoi germogli non cessa no di crescere; se sotto terra invecchia la sua radice e al suolo muore il suo tronco, al sentire l’a cqua rifiorisce e mette rami come giovane pianta. Invece l’uomo se muore giace inerte; quando il mortale spira dov’è mai? Potranno sparire le acque dal mare e i fiumi prosciugarsi e disseccars i, ma l’uomo che giace non si alzerà più, finché durano i cieli non si sveglierà né più si desterà da l suo sonno. Oh se tu volessi nascondermi nel regno dei morti, occultarmi finché sia passata la t ua ira, fissarmi un termine e poi ricordarti di me! L’uomo che muore può forse rivivere? Aspette rei tutti i giorni del mio duro servizio, finché arrivi per me l’ora del cambio! Mi chiameresti e io r isponderei, l’opera delle tue mani tu brameresti. Mentre ora tu conti i miei passi, non spieresti più il mio peccato: in un sacchetto chiuso sarebbe il mio delitto e tu ricopriresti la mia colpa. E i nvece come un monte che cade si sfalda e come una rupe si stacca dal suo posto, e le acque co nsumano le pietre, le alluvioni portano via il terreno: così tu annienti la speranza dell’uomo. Tu l o abbatti per sempre ed egli se ne va, tu sfiguri il suo volto e lo scacci. Siano pure onorati i suoi f igli non lo sa; siano disprezzati lo ignora! Solo la sua carne su di lui è dolorante, e la sua anima s u di lui fa lamento». Elifaz di Teman prese a dire: «Potrebbe il saggio rispondere con ragioni ca mpate in aria e riempirsi il ventre del vento d’oriente? Si difende egli con parole inutili e con dis corsi inconcludenti? Ma tu distruggi la religione e abolisci la preghiera innanzi a Dio. Infatti la tu a malizia istruisce la tua bocca e scegli il linguaggio degli astuti. Non io ma la tua bocca ti condan na e le tue labbra attestano contro di te. Sei forse tu il primo uomo che è nato, o prima dei mon ti sei stato generato? Hai tu avuto accesso ai segreti consigli di Dio e ti sei appropriato tu solo d ella sapienza? Che cosa sai tu che noi non sappiamo? Che cosa capisci che non sia chiaro anche a noi? Sia il vecchio che il canuto sono fra di noi, carichi di anni più di tuo padre. Poca cosa sono per te le consolazioni di Dio e una parola moderata rivolta a te? Perché il tuo cuore ti stravolge, perché ammiccano i tuoi occhi, quando volgi contro Dio il tuo animo e fai uscire tali parole dalla tua bocca? Che cos’è l’uomo perché si ritenga puro, perché si dica giusto un nato da donna? Ec co neppure nei suoi santi egli ha fiducia e i cieli non sono puri ai suoi occhi, tanto meno un esser e abominevole e corrotto, l’uomo che beve l’iniquità come acqua. Voglio spiegartelo ascoltami, ti racconterò quel che ho visto, quello che i saggi hanno riferito, che non hanno celato ad essi i l oro padri; solo a loro fu concessa questa terra, né straniero alcuno era passato in mezzo a loro.
Per tutti i giorni della vita il malvagio si tormenta; sono contati gli anni riservati al violento. Voci di spavento gli risuonano agli orecchi e in piena pace si vede assalito dal predone. Non crede di potersi sottrarre alle tenebre, egli si sente destinato alla spada. Abbandonato in pasto ai falchi, sa che gli è preparata la rovina. Un giorno tenebroso lo spaventa, la miseria e l’angoscia l’assalg ono come un re pronto all’attacco, perché ha steso contro Dio la sua mano, ha osato farsi forte contro l’Onnipotente; correva contro di lui a testa alta, al riparo del curvo spessore del suo scud o, poiché aveva la faccia coperta di grasso e pinguedine intorno ai suoi fianchi. Avrà dimora in ci ttà diroccate, in case dove non si abita più, destinate a diventare macerie. Non si arricchirà non durerà la sua fortuna, le sue proprietà non si estenderanno sulla terra. Alle tenebre non sfuggir
à, il fuoco seccherà i suoi germogli e il vento porterà via i suoi fiori. Non si affidi alla vanità che è fallace, perché vanità sarà la sua ricompensa. Prima del tempo saranno disseccati, i suoi rami n on rinverdiranno più. Sarà spogliato come vigna della sua uva ancora acerba e getterà via come ulivo i suoi fiori, poiché la stirpe dell’empio è sterile e il fuoco divora le tende dell’uomo venale.
Concepisce malizia e genera sventura e nel suo seno alleva l’inganno». Giobbe prese a dire: «Ne ho udite già molte di cose simili! Siete tutti consolatori molesti. Non avranno termine le parole campate in aria? O che cosa ti spinge a rispondere? Anch’io sarei capace di parlare come voi, se voi foste al mio posto: comporrei con eleganza parole contro di voi e scuoterei il mio capo su di voi. Vi potrei incoraggiare con la bocca e il movimento delle mie labbra potrebbe darvi sollievo.
Ma se parlo non si placa il mio dolore; se taccio che cosa lo allontana da me? Ora però egli mi to glie le forze, ha distrutto tutti i miei congiunti e mi opprime. Si è costituito testimone ed è insort o contro di me: il mio calunniatore mi accusa in faccia. La sua collera mi dilania e mi perseguita; digrigna i denti contro di me, il mio nemico su di me aguzza gli occhi. Spalancano la bocca contr o di me, mi schiaffeggiano con insulti, insieme si alleano contro di me. Dio mi consegna come pr eda all’empio, e mi getta nelle mani dei malvagi. Me ne stavo tranquillo ed egli mi ha scosso, mi ha afferrato per il collo e mi ha stritolato; ha fatto di me il suo bersaglio. I suoi arcieri mi circon dano; mi trafigge le reni senza pietà, versa a terra il mio fiele, mi apre ferita su ferita, mi si avve nta contro come un guerriero. Ho cucito un sacco sulla mia pelle e ho prostrato la fronte nella p olvere. La mia faccia è rossa per il pianto e un’ombra mortale mi vela le palpebre, benché non ci sia violenza nelle mie mani e sia pura la mia preghiera. O terra non coprire il mio sangue né un l uogo segreto trattenga il mio grido! Ecco fin d’ora il mio testimone è nei cieli, il mio difensore è lassù. I miei amici mi scherniscono, rivolto a Dio versa lacrime il mio occhio, perché egli stesso si a arbitro fra l’uomo e Dio, come tra un figlio dell’uomo e il suo prossimo; poiché passano i miei anni che sono contati e me ne vado per una via senza ritorno. Il mio respiro è affannoso, i miei g iorni si spengono; non c’è che la tomba per me! Non sono con me i beffardi? Fra i loro insulti ve glia il mio occhio. Poni ti prego la mia cauzione presso di te; chi altri se no mi stringerebbe la ma no? Poiché hai tolto il senno alla loro mente, per questo non li farai trionfare. Come chi invita a pranzo gli amici, mentre gli occhi dei suoi figli languiscono. Mi ha fatto diventare la favola dei po poli, sono oggetto di scherno davanti a loro. Si offusca per il dolore il mio occhio e le mie memb ra non sono che ombra. Gli onesti ne rimangono stupiti e l’innocente si sdegna contro l’empio.
Ma il giusto si conferma nella sua condotta e chi ha le mani pure raddoppia gli sforzi. Su venite t utti di nuovo: io non troverò un saggio fra voi. I miei giorni sono passati svaniti i miei progetti, i desideri del mio cuore. Essi cambiano la notte in giorno: “La luce – dicono –
è più vicina delle tenebre”. Se posso sperare qualche cosa il regno dei morti è la mia casa, nelle tenebre distendo il mio giaciglio. Al sepolcro io grido: “Padre mio sei tu!” e ai vermi: “Madre mi a sorella mia voi siete!”. Dov’è dunque la mia speranza? Il mio bene chi lo vedrà? Caleranno le p orte del regno dei morti, e insieme nella polvere sprofonderemo?». Bildad di Suach prese a dire
: «Quando porrai fine alle tue chiacchiere? Rifletti bene e poi parleremo. Perché ci consideri co
me bestie, ci fai passare per idioti ai tuoi occhi? Tu che ti rodi l’anima nel tuo furore, forse per c ausa tua sarà abbandonata la terra e le rupi si staccheranno dal loro posto? Certamente la luce del malvagio si spegnerà e più non brillerà la fiamma del suo focolare. La luce si offuscherà nella sua tenda e la lucerna si estinguerà sopra di lui. Il suo energico passo si accorcerà e i suoi proge tti lo faranno precipitare, perché con i suoi piedi incapperà in una rete e tra le maglie camminer à. Un laccio l’afferrerà per il calcagno, un nodo scorsoio lo stringerà. Gli è nascosta per terra una fune e gli è tesa una trappola sul sentiero. Terrori lo spaventano da tutte le parti e gli stanno all e calcagna. Diventerà carestia la sua opulenza e la rovina è ritta al suo fianco. Un malanno divor erà la sua pelle, il primogenito della morte roderà le sue membra. Sarà tolto dalla tenda in cui fi dava, per essere trascinato davanti al re dei terrori! Potresti abitare nella tenda che non è più s ua; sulla sua dimora si spargerà zolfo. Al di sotto le sue radici si seccheranno, sopra appassirann o i suoi rami. Il suo ricordo sparirà dalla terra e il suo nome più non si udrà per la contrada. Lo g etteranno dalla luce nel buio e dal mondo lo stermineranno. Non famiglia non discendenza avrà nel suo popolo, non superstiti nei luoghi della sua residenza. Della sua fine stupirà l’occidente e l’oriente ne avrà orrore. Ecco qual è la sorte dell’iniquo: questa è la dimora di chi non riconosce Dio». Giobbe prese a dire: «Fino a quando mi tormenterete e mi opprimerete con le vostre par ole? Sono dieci volte che mi insultate e mi maltrattate in modo sfacciato. è poi vero che io abbia sbagliato e che persista nel mio errore? Davvero voi pensate di prevalere su di me, rinfacciando mi la mia vergogna? Sappiate dunque che Dio mi ha schiacciato e mi ha avvolto nella sua rete. E
cco grido: “Violenza!” ma non ho risposta, chiedo aiuto ma non c’è giustizia! Mi ha sbarrato la s trada perché io non passi e sui miei sentieri ha disteso le tenebre. Mi ha spogliato della mia glor ia e mi ha tolto dal capo la corona. Mi ha distrutto da ogni parte e io sparisco, ha strappato com e un albero la mia speranza. Ha acceso contro di me la sua ira e mi considera come suo nemico.
Insieme sono accorse le sue schiere e si sono tracciate la strada contro di me; si sono accampat e intorno alla mia tenda. I miei fratelli si sono allontanati da me, persino i miei familiari mi sono diventati estranei. Sono scomparsi vicini e conoscenti, mi hanno dimenticato gli ospiti di casa; d a estraneo mi trattano le mie ancelle, sono un forestiero ai loro occhi. Chiamo il mio servo ed eg li non risponde, devo supplicarlo con la mia bocca. Il mio fiato è ripugnante per mia moglie e fac cio ribrezzo ai figli del mio grembo. Anche i ragazzi mi disprezzano: se tento di alzarmi mi copro no di insulti. Mi hanno in orrore tutti i miei confidenti: quelli che amavo si rivoltano contro di m e. Alla pelle si attaccano le mie ossa e non mi resta che la pelle dei miei denti. Pietà pietà di me almeno voi amici miei, perché la mano di Dio mi ha percosso! Perché vi accanite contro di me c ome Dio, e non siete mai sazi della mia carne? Oh se le mie parole si scrivessero, se si fissassero in un libro, fossero impresse con stilo di ferro e con piombo, per sempre s’incidessero sulla rocci a! Io so che il mio redentore è vivo e che ultimo si ergerà sulla polvere! Dopo che questa mia pe lle sarà strappata via, senza la mia carne vedrò Dio. Io lo vedrò io stesso, i miei occhi lo contemp leranno e non un altro. Languisco dentro di me. Voi che dite: “Come lo perseguitiamo noi, se la radice del suo danno è in lui?”, temete per voi la spada, perché è la spada che punisce l’iniquità,
e saprete che c’è un giudice». Sofar di Naamà prese a dire: «Per questo i miei pensieri mi sping ono a rispondere e c’è fretta dentro di me. Ho ascoltato un rimprovero per me offensivo, ma un o spirito dal mio interno mi spinge a replicare. Non sai tu che da sempre, da quando l’uomo fu p osto sulla terra, il trionfo degli empi è breve e la gioia del perverso è di un istante? Anche se si i nnalzasse fino al cielo la sua statura e il suo capo toccasse le nubi, come il suo sterco sarebbe sp azzato via per sempre e chi lo aveva visto direbbe: “Dov’è?”. Svanirà come un sogno e non lo si troverà più, si dileguerà come visione notturna. L’occhio avvezzo a vederlo più non lo vedrà né più lo scorgerà la sua casa. I suoi figli dovranno risarcire i poveri e le sue stesse mani restituiran no le sue ricchezze. Le sue ossa erano piene di vigore giovanile, con lui ora giacciono nella polve re. Se alla sua bocca fu dolce il male, se lo teneva nascosto sotto la sua lingua, assaporandolo se nza inghiottirlo, se lo tratteneva in mezzo al suo palato, il suo cibo gli si guasterà nelle viscere, gl i si trasformerà in veleno di vipere. I beni che ha divorato dovrà vomitarli, Dio glieli caccerà fuori dal ventre. Veleno di vipere ha succhiato, una lingua di aspide lo ucciderà. Non vedrà più ruscel li d’olio, fiumi di miele e fior di panna; darà ad altri il frutto della sua fatica senza mangiarne, co me non godrà del frutto del suo commercio, perché ha oppresso e abbandonato i miseri, ha rub ato case invece di costruirle; perché non ha saputo calmare il suo ventre, con i suoi tesori non si salverà. Nulla è sfuggito alla sua voracità, per questo non durerà il suo benessere. Nel colmo de lla sua abbondanza si troverà in miseria; ogni sorta di sciagura piomberà su di lui. Quando starà per riempire il suo ventre, Dio scaglierà su di lui la fiamma del suo sdegno e gli farà piovere add osso brace. Se sfuggirà all’arma di ferro, lo trafiggerà l’arco di bronzo. Se estrarrà la freccia dalla schiena, una spada lucente gli squarcerà il fegato. Lo assaliranno i terrori; le tenebre più fitte gli saranno riservate. Lo divorerà un fuoco non attizzato da uomo, esso consumerà quanto è rimas to nella sua tenda. Riveleranno i cieli la sua iniquità e la terra si alzerà contro di lui. Sparirà il rac colto della sua casa, tutto sarà disperso nel giorno della sua ira. Questa è la sorte che Dio riserva all’uomo malvagio, l’eredità che Dio gli ha decretato». Giobbe prese a dire: «Ascoltate bene la mia parola e sia questo almeno il conforto che mi date. Tollerate che io parli e dopo che avrò pa rlato deridetemi pure. Mi lamento forse di un uomo? E perché non dovrei perdere la pazienza?
Statemi attenti e resterete stupiti, mettetevi la mano sulla bocca. Se io ci penso rimango turbat o e la mia carne è presa da un brivido. Perché i malvagi continuano a vivere, e invecchiando div entano più forti e più ricchi? La loro prole prospera insieme con loro, i loro rampolli crescono so tto i loro occhi. Le loro case sono tranquille e senza timori; il bastone di Dio non pesa su di loro.
Il loro toro monta senza mai fallire, la mucca partorisce senza abortire. Mandano fuori come un gregge i loro ragazzi e i loro figli danzano in festa. Cantano al ritmo di tamburelli e di cetre, si div ertono al suono dei flauti. Finiscono nel benessere i loro giorni e scendono tranquilli nel regno d ei morti. Eppure dicevano a Dio: “Allontànati da noi, non vogliamo conoscere le tue vie. Chi è l’
Onnipotente perché dobbiamo servirlo? E che giova pregarlo?”. Essi hanno in mano il loro bene ssere e il consiglio degli empi è lontano da lui. Quante volte si spegne la lucerna degli empi, e la sventura piomba su di loro, e infligge loro castighi con ira? Sono essi come paglia sollevata al ve
nto o come pula in preda all’uragano? “Dio – si dirà –
riserva il castigo per i figli dell’empio”. No lo subisca e lo senta lui il castigo! Veda con i suoi occ hi la sua rovina e beva dell’ira dell’Onnipotente! Che cosa gli importa infatti della sua casa quan do è morto, quando il numero dei suoi mesi è finito? S’insegna forse la scienza a Dio, a lui che gi udica gli esseri celesti? Uno muore in piena salute, tutto tranquillo e prospero; i suoi fianchi son o coperti di grasso e il midollo delle sue ossa è ben nutrito. Un altro muore con l’amarezza in cu ore, senza aver mai assaporato la gioia. Eppure entrambi giacciono insieme nella polvere e i ver mi li ricoprono. Ecco io conosco bene i vostri pensieri e i progetti che tramate contro di me! Infa tti voi dite: “Dov’è la casa del nobile, dove sono le tende degli empi?”. Perché non avete chiesto a chi ha viaggiato e non avete considerato attentamente le loro prove? Cioè che nel giorno dell a sciagura è risparmiato il malvagio e nel giorno dell’ira egli trova scampo? Chi gli rimprovera in faccia la sua condotta e di quel che ha fatto chi lo ripaga? Egli sarà portato al sepolcro, sul suo t umulo si veglia e gli sono lievi le zolle della valle. Camminano dietro a lui tutti gli uomini e innan zi a sé ha una folla senza numero. E voi vorreste consolarmi con argomenti vani! Nelle vostre ris poste non c’è altro che inganno». Elifaz di Teman prese a dire: «Può forse l’uomo giovare a Dio, dato che il saggio può giovare solo a se stesso? Quale interesse ne viene all’Onnipotente che tu sia giusto, o che vantaggio ha se tieni una condotta integra? è forse per la tua pietà che ti punis ce e ti convoca in giudizio? O non piuttosto per la tua grande malvagità e per le tue iniquità sen za limite? Senza motivo infatti hai angariato i tuoi fratelli e delle vesti hai spogliato gli ignudi. No n hai dato da bere all’assetato e all’affamato hai rifiutato il pane. Ai prepotenti davi la terra e vi abitavano solo i tuoi favoriti. Le vedove rimandavi a mani vuote e spezzavi le braccia degli orfani
. Ecco perché intorno a te ci sono lacci e un improvviso spavento ti sorprende, oppure l’oscurità ti impedisce di vedere e la piena delle acque ti sommerge. Ma Dio non è nell’alto dei cieli? Guar da quanto è lontano il vertice delle stelle! E tu dici: “Che cosa ne sa Dio? Come può giudicare att raverso l’oscurità delle nubi? Le nubi gli fanno velo e non vede quando passeggia sulla volta dei cieli”. Vuoi tu seguire il sentiero di un tempo, già battuto da persone perverse, che prematuram ente furono portate via, quando un fiume si era riversato sulle loro fondamenta? Dicevano a Di o: “Allontànati da noi! Che cosa può fare a noi l’Onnipotente?”. Eppure è lui che ha riempito le l oro case di beni, mentre il consiglio dei malvagi è lontano da lui! I giusti vedranno e ne gioirann o e l’innocente riderà di loro: “Finalmente sono annientati i loro averi e il fuoco ha divorato la lo ro opulenza!”. Su riconcìliati con lui e tornerai felice, e avrai nuovamente il tuo benessere. Acco gli la legge dalla sua bocca e poni le sue parole nel tuo cuore. Se ti rivolgerai all’Onnipotente ver rai ristabilito. Se allontanerai l’iniquità dalla tua tenda, se stimerai come polvere l’oro e come ci ottoli dei fiumi l’oro di Ofir, allora l’Onnipotente sarà il tuo oro, sarà per te come mucchi d’arge nto. Allora sì nell’Onnipotente ti delizierai e a Dio alzerai il tuo volto. Lo supplicherai ed egli ti es audirà, e tu scioglierai i tuoi voti. Quando deciderai una cosa ti riuscirà e sul tuo cammino briller à la luce, perché egli umilia l’alterigia del superbo, ma soccorre chi ha lo sguardo dimesso. Egli li bera chi è innocente, e tu sarai liberato per la purezza delle tue mani». Giobbe prese a dire: «An
che oggi il mio lamento è amaro e la sua mano pesa sopra i miei gemiti. Oh potessi sapere dove trovarlo, potessi giungere fin dove risiede! Davanti a lui esporrei la mia causa e avrei piene le la bbra di ragioni. Conoscerei le parole con le quali mi risponde e capirei che cosa mi deve dire. Do vrebbe forse con sfoggio di potenza contendere con me? Gli basterebbe solo ascoltarmi! Allora un giusto discuterebbe con lui e io per sempre sarei assolto dal mio giudice. Ma se vado a orient e egli non c’è, se vado a occidente non lo sento. A settentrione lo cerco e non lo scorgo, mi volg o a mezzogiorno e non lo vedo. Poiché egli conosce la mia condotta, se mi mette alla prova com e oro puro io ne esco. Alle sue orme si è attaccato il mio piede, al suo cammino mi sono attenut o e non ho deviato; dai comandi delle sue labbra non mi sono allontanato, ho riposto nel cuore i detti della sua bocca. Se egli decide chi lo farà cambiare? Ciò che desidera egli lo fa. Egli esegue il decreto contro di me come pure i molti altri che ha in mente. Per questo davanti a lui io allibi sco, al solo pensarci mi viene paura. Dio ha fiaccato il mio cuore, l’Onnipotente mi ha frastornat o; ma non è a causa della tenebra che io perisco, né a causa dell’oscurità che ricopre il mio volt o. Perché all’Onnipotente non restano nascosti i tempi, mentre i suoi fedeli non vedono i suoi gi orni? I malvagi spostano i confini, rubano le greggi e le conducono al pascolo; portano via l’asin o degli orfani, prendono in pegno il bue della vedova. Spingono i poveri fuori strada, tutti i mise ri del paese devono nascondersi. Ecco come asini selvatici nel deserto escono per il loro lavoro; di buon mattino vanno in cerca di cibo, la steppa offre pane per i loro figli. Mietono nel campo n on loro, racimolano la vigna del malvagio. Nudi passano la notte senza vestiti, non hanno da cop rirsi contro il freddo. Dagli acquazzoni dei monti sono bagnati, per mancanza di rifugi si aggrapp ano alle rocce. Strappano l’orfano dal seno della madre e prendono in pegno il mantello del pov ero. Nudi se ne vanno senza vestiti, e sopportando la fame portano i covoni. Sulle terrazze delle vigne frangono le olive, pigiano l’uva e soffrono la sete. Dalla città si alza il gemito dei moribond i e l’anima dei feriti grida aiuto, ma Dio non bada a queste suppliche. Vi sono di quelli che avver sano la luce, non conoscono le sue vie né dimorano nei suoi sentieri. Quando non c’è luce si alz a l’omicida per uccidere il misero e il povero; nella notte va in giro come un ladro. L’occhio dell’
adultero attende il buio e pensa: “Nessun occhio mi osserva!”, e si pone un velo sul volto. Nelle tenebre forzano le case, mentre di giorno se ne stanno nascosti: non vogliono saperne della luc e; infatti per loro l’alba è come spettro di morte, poiché sono abituati ai terrori del buio fondo.
Fuggono veloci sul filo dell’acqua; maledetta è la loro porzione di campo sulla terra, non si inca mminano più per la strada delle vigne. Come siccità e calore assorbono le acque nevose, così il r egno dei morti il peccatore. Lo dimenticherà il seno materno, i vermi lo gusteranno, non sarà pi ù ricordato e l’iniquità sarà spezzata come un albero. Maltratta la sterile che non genera, alla ve dova non fa alcun bene. Con la sua forza egli trascina i potenti, risorge quando già disperava del la vita. Dio gli concede sicurezza ed egli vi si appoggia, ma i suoi occhi sono sopra la sua condott a. Salgono in alto per un poco poi non sono più, sono abbattuti come tutti sono troncati via, falc iati come la testa di una spiga. Non è forse così? Chi può smentirmi e ridurre a nulla le mie parol e?». Bildad di Suach prese a dire: «Dominio e terrore sono con lui, che impone la pace nell’alto
dei cieli. Si possono forse contare le sue schiere? E su chi non sorge la sua luce? Come può esser e giusto un uomo davanti a Dio e come può essere puro un nato da donna? Ecco la luna stessa manca di chiarore e le stelle non sono pure ai suoi occhi: tanto meno l’uomo che è un verme, l’e ssere umano che è una larva». Giobbe prese a dire: «Che aiuto hai dato al debole e che soccors o hai prestato al braccio senza forza! Quanti consigli hai dato all’ignorante, e con quanta abbon danza hai manifestato la saggezza! A chi hai rivolto le tue parole e l’ispirazione da chi ti è venuta
? Le ombre dei morti tremano sotto le acque e i loro abitanti. Davanti a lui nudo è il regno dei m orti e senza velo è l’abisso. Egli distende il cielo sopra il vuoto, sospende la terra sopra il nulla. Ri nchiude le acque dentro le nubi e la nuvola non si squarcia sotto il loro peso. Copre la vista del s uo trono stendendovi sopra la sua nuvola. Ha tracciato un cerchio sulle acque, sino al confine tr a la luce e le tenebre. Le colonne del cielo si scuotono, alla sua minaccia sono prese da terrore.
Con forza agita il mare e con astuzia abbatte Raab. Al suo soffio si rasserenano i cieli, la sua man o trafigge il serpente tortuoso. Ecco questi sono solo i contorni delle sue opere; quanto lieve è il sussurro che ne percepiamo! Ma il tuono della sua potenza chi può comprenderlo?». Giobbe c ontinuò il suo discorso dicendo: «Per la vita di Dio che mi ha privato del mio diritto, per l’Onnip otente che mi ha amareggiato l’animo, finché ci sarà in me un soffio di vita, e l’alito di Dio nelle mie narici, mai le mie labbra diranno falsità e mai la mia lingua mormorerà menzogna! Lontano da me darvi ragione; fino alla morte non rinuncerò alla mia integrità. Mi terrò saldo nella mia gi ustizia senza cedere, la mia coscienza non mi rimprovera nessuno dei miei giorni. Sia trattato co me reo il mio nemico e il mio avversario come un ingiusto. Che cosa infatti può sperare l’empio quando finirà, quando Dio gli toglierà la vita? Ascolterà forse Dio il suo grido, quando la sventur a piomberà su di lui? Troverà forse il suo conforto nell’Onnipotente? Potrà invocare Dio in ogni momento? Io vi istruirò sul potere di Dio, non vi nasconderò i pensieri dell’Onnipotente. Ecco v oi tutti lo vedete bene: perché dunque vi perdete in cose vane? Questa è la sorte che Dio riserv a all’uomo malvagio, l’eredità che i violenti ricevono dall’Onnipotente. Se ha molti figli saranno destinati alla spada e i suoi discendenti non avranno pane da sfamarsi; i suoi superstiti saranno sepolti dalla peste e le loro vedove non potranno fare lamento. Se ammassa argento come la po lvere e ammucchia vestiti come fango, egli li prepara ma il giusto li indosserà, e l’argento lo ere diterà l’innocente. Ha costruito la casa come una tela di ragno e come una capanna fatta da un guardiano. Si corica ricco ma per l’ultima volta, quando apre gli occhi non avrà più nulla. Come a cque il terrore lo assale, di notte se lo rapisce l’uragano; il vento d’oriente lo solleva e se ne va, l o sradica dalla sua dimora, lo bersaglia senza pietà ed egli tenterà di sfuggire alla sua presa. Si b attono le mani contro di lui e si fischia di scherno su di lui ovunque si trovi. Certo l’argento ha le sue miniere e l’oro un luogo dove si raffina. Il ferro lo si estrae dal suolo, il rame si libera fonden do le rocce. L’uomo pone un termine alle tenebre e fruga fino all’estremo limite, fino alle rocce nel buio più fondo. In luoghi remoti scavano gallerie dimenticate dai passanti; penzolano sospes i lontano dagli uomini. La terra da cui si trae pane, di sotto è sconvolta come dal fuoco. Sede di z affìri sono le sue pietre e vi si trova polvere d’oro. L’uccello rapace ne ignora il sentiero, non lo s
corge neppure l’occhio del falco, non lo calpestano le bestie feroci, non passa su di esso il leone.
Contro la selce l’uomo stende la mano, sconvolge i monti fin dalle radici. Nelle rocce scava cana li e su quanto è prezioso posa l’occhio. Scandaglia il fondo dei fiumi e quel che vi è nascosto por ta alla luce. Ma la sapienza da dove si estrae? E il luogo dell’intelligenza dov’è? L’uomo non ne c onosce la via, essa non si trova sulla terra dei viventi. L’oceano dice: “Non è in me!” e il mare dic e: “Neppure presso di me!”. Non si scambia con l’oro migliore né per comprarla si pesa l’argent o. Non si acquista con l’oro di Ofir né con l’ònice prezioso o con lo zaffìro. Non la eguagliano l’or o e il cristallo né si permuta con vasi di oro fino. Coralli e perle non meritano menzione: l’acquis to della sapienza non si fa con le gemme. Non la eguaglia il topazio d’Etiopia, con l’oro puro non si può acquistare. Ma da dove viene la sapienza? E il luogo dell’intelligenza dov’è? è nascosta a gli occhi di ogni vivente, è ignota agli uccelli del cielo. L’abisso e la morte dicono: “Con i nostri or ecchi ne udimmo la fama”. Dio solo ne discerne la via, lui solo sa dove si trovi, perché lui solo vo lge lo sguardo fino alle estremità della terra, vede tutto ciò che è sotto la volta del cielo. Quand o diede al vento un peso e delimitò le acque con la misura, quando stabilì una legge alla pioggia e una via al lampo tonante, allora la vide e la misurò, la fondò e la scrutò appieno, e disse all’uo mo: “Ecco il timore del Signore questo è sapienza, evitare il male questo è intelligenza”». Giobb e continuò il suo discorso dicendo: «Potessi tornare com’ero ai mesi andati, ai giorni in cui Dio v egliava su di me, quando brillava la sua lucerna sopra il mio capo e alla sua luce camminavo in mezzo alle tenebre; com’ero nei giorni del mio rigoglio, quando Dio proteggeva la mia tenda, qu ando l’Onnipotente stava ancora con me e i miei giovani mi circondavano, quando mi lavavo i pi edi nella panna e la roccia mi versava ruscelli d’olio! Quando uscivo verso la porta della città e s ulla piazza ponevo il mio seggio, vedendomi i giovani si ritiravano e i vecchi si alzavano in piedi, i notabili sospendevano i loro discorsi e si mettevano la mano alla bocca, la voce dei capi si smor zava e la loro lingua restava fissa al palato; infatti con gli orecchi ascoltavano e mi dicevano felic e, con gli occhi vedevano e mi rendevano testimonianza, perché soccorrevo il povero che chied eva aiuto e l’orfano che ne era privo. La benedizione del disperato scendeva su di me e al cuore della vedova infondevo la gioia. Ero rivestito di giustizia come di un abito, come mantello e turb ante era la mia equità. Io ero gli occhi per il cieco, ero i piedi per lo zoppo. Padre io ero per i pov eri ed esaminavo la causa dello sconosciuto, spezzavo le mascelle al perverso e dai suoi denti st rappavo la preda. Pensavo: “Spirerò nel mio nido e moltiplicherò i miei giorni come la fenice. Le mie radici si estenderanno fino all’acqua e la rugiada di notte si poserà sul mio ramo. La mia glo ria si rinnoverà in me e il mio arco si rinforzerà nella mia mano”. Mi ascoltavano in attesa fiduci osa e tacevano per udire il mio consiglio. Dopo le mie parole non replicavano, e su di loro stillav a il mio dire. Le attendevano come si attende la pioggia e aprivano la bocca come ad acqua prim averile. Se a loro sorridevo non osavano crederlo, non si lasciavano sfuggire la benevolenza del mio volto. Indicavo loro la via da seguire e sedevo come capo, e vi rimanevo come un re fra le s ue schiere o come un consolatore di afflitti. Ora invece si burlano di me i più giovani di me in et à, i cui padri non avrei degnato di mettere tra i cani del mio gregge. Anche la forza delle loro ma
ni a che mi giova? Hanno perduto ogni vigore; disfatti dall’indigenza e dalla fame, brucano per l’
arido deserto, da lungo tempo regione desolata, raccogliendo erbe amare accanto ai cespugli e radici di ginestra per loro cibo. Espulsi dalla società, si grida dietro a loro come al ladro; dimoran o perciò in orrendi dirupi, nelle grotte della terra e nelle rupi. In mezzo alle macchie urlano acca lcandosi sotto i roveti, razza ignobile razza senza nome, cacciati via dalla terra. Ora invece io son o la loro canzone, sono diventato la loro favola! Hanno orrore di me e mi schivano né si tratteng ono dallo sputarmi in faccia! Egli infatti ha allentato il mio arco e mi ha abbattuto, ed essi di fro nte a me hanno rotto ogni freno. A destra insorge la plebaglia, per far inciampare i miei piedi e t racciare contro di me la strada dello sterminio. Hanno sconvolto il mio sentiero, cospirando per la mia rovina, e nessuno si oppone a loro. Irrompono come da una larga breccia, sbucano in me zzo alle macerie. I terrori si sono volti contro di me; si è dileguata come vento la mia dignità e co me nube è svanita la mia felicità. Ed ora mi consumo, mi hanno colto giorni funesti. Di notte mi sento trafiggere le ossa e i dolori che mi rodono non mi danno riposo. A gran forza egli mi afferr a per la veste, mi stringe come il collo della mia tunica. Mi ha gettato nel fango: sono diventato come polvere e cenere. Io grido a te ma tu non mi rispondi, insisto ma tu non mi dai retta. Sei di ventato crudele con me e con la forza delle tue mani mi perseguiti; mi sollevi e mi poni a cavallo del vento e mi fai sballottare dalla bufera. So bene che mi conduci alla morte, alla casa dove co nvengono tutti i viventi. Nella disgrazia non si tendono forse le braccia e non si invoca aiuto nell a sventura? Non ho forse pianto con chi aveva una vita dura e non mi sono afflitto per chi era p overo? Speravo il bene ed è venuto il male, aspettavo la luce ed è venuto il buio. Le mie viscere ribollono senza posa e giorni d’affanno mi hanno raggiunto. Avanzo con il volto scuro senza con forto, nell’assemblea mi alzo per invocare aiuto. Sono divenuto fratello degli sciacalli e compag no degli struzzi. La mia pelle annerita si stacca, le mie ossa bruciano per la febbre. La mia cetra accompagna lamenti e il mio flauto la voce di chi piange. Ho stretto un patto con i miei occhi, di non fissare lo sguardo su una vergine. E invece quale sorte mi assegna Dio di lassù e quale eredi tà mi riserva l’Onnipotente dall’alto? Non è forse la rovina riservata all’iniquo e la sventura per chi compie il male? Non vede egli la mia condotta e non conta tutti i miei passi? Se ho agito con falsità e il mio piede si è affrettato verso la frode, mi pesi pure sulla bilancia della giustizia e Dio riconosca la mia integrità. Se il mio passo è andato fuori strada e il mio cuore ha seguìto i miei o cchi, se la mia mano si è macchiata, io semini e un altro ne mangi il frutto e siano sradicati i miei germogli. Se il mio cuore si lasciò sedurre da una donna e sono stato in agguato alla porta del mio prossimo, mia moglie macini per un estraneo e altri si corichino con lei; difatti quella è un’i nfamia, un delitto da denunciare, quello è un fuoco che divora fino alla distruzione e avrebbe co nsumato tutto il mio raccolto. Se ho negato i diritti del mio schiavo e della schiava in lite con me
, che cosa farei quando Dio si alzasse per giudicare, e che cosa risponderei quando aprisse l’inqu isitoria? Chi ha fatto me nel ventre materno, non ha fatto anche lui? Non fu lo stesso a formarci nel grembo? Se ho rifiutato ai poveri quanto desideravano, se ho lasciato languire gli occhi della vedova, se da solo ho mangiato il mio tozzo di pane, senza che ne mangiasse anche l’orfano –

poiché fin dall’infanzia come un padre io l’ho allevato e appena generato gli ho fatto da guida –
, se mai ho visto un misero senza vestito o un indigente che non aveva di che coprirsi, se non mi hanno benedetto i suoi fianchi, riscaldàti con la lana dei miei agnelli, se contro l’orfano ho alzat o la mano, perché avevo in tribunale chi mi favoriva, mi si stacchi la scapola dalla spalla e si rom pa al gomito il mio braccio, perché mi incute timore il castigo di Dio e davanti alla sua maestà n on posso resistere. Se ho riposto la mia speranza nell’oro e all’oro fino ho detto: “Tu sei la mia fi ducia”, se ho goduto perché grandi erano i miei beni e guadagnava molto la mia mano, se vede ndo il sole risplendere e la luna avanzare smagliante, si è lasciato sedurre in segreto il mio cuore e con la mano alla bocca ho mandato un bacio, anche questo sarebbe stato un delitto da denu nciare, perché avrei rinnegato Dio che sta in alto. Ho gioito forse della disgrazia del mio nemico
? Ho esultato perché lo colpiva la sventura? Ho permesso alla mia lingua di peccare, augurando gli la morte con imprecazioni? La gente della mia tenda esclamava: “A chi non ha dato le sue car ni per saziarsi?”. All’aperto non passava la notte il forestiero e al viandante aprivo le mie porte.
Non ho nascosto come uomo la mia colpa, tenendo celato nel mio petto il mio delitto, come se temessi molto la folla e il disprezzo delle famiglie mi spaventasse, tanto da starmene zitto senza uscire di casa. Oh avessi uno che mi ascoltasse! Ecco qui la mia firma! L’Onnipotente mi rispond a! Il documento scritto dal mio avversario vorrei certo portarlo sulle mie spalle e cingerlo come mio diadema! Gli renderò conto di tutti i miei passi, mi presenterei a lui come un principe». 40b Sono finite le parole di Giobbe. Se contro di me grida la mia terra e i suoi solchi piangono a una sola voce, se ho mangiato il suo frutto senza pagare e ho fatto sospirare i suoi coltivatori, 1a in l uogo di frumento mi crescano spini ed erbaccia al posto dell’orzo. Quei tre uomini cessarono di rispondere a Giobbe perché egli si riteneva giusto. Allora si accese lo sdegno di Eliu figlio di Bara chele il Buzita della tribù di Ram. Si accese di sdegno contro Giobbe perché si considerava giust o di fronte a Dio; si accese di sdegno anche contro i suoi tre amici perché non avevano trovato d i che rispondere sebbene avessero dichiarato Giobbe colpevole. Eliu aveva aspettato mentre es si parlavano con Giobbe perché erano più vecchi di lui in età. Quando vide che sulla bocca di qu esti tre uomini non vi era più alcuna risposta Eliu si accese di sdegno. Eliu figlio di Barachele il B
uzita prese a dire: «Giovane io sono di anni e voi siete già canuti; per questo ho esitato per rispe tto, a manifestarvi il mio sapere. Pensavo: “Parlerà l’età e gli anni numerosi insegneranno la sap ienza”. Ma è lo spirito che è nell’uomo, è il soffio dell’Onnipotente che lo fa intelligente. Essere anziani non significa essere sapienti, essere vecchi non significa saper giudicare. Per questo io o so dire: “Ascoltatemi; esporrò anch’io il mio parere”. Ecco ho atteso le vostre parole, ho teso l’o recchio ai vostri ragionamenti. Finché andavate in cerca di argomenti, su di voi fissai l’attenzion e. Ma ecco nessuno ha potuto confutare Giobbe, nessuno tra voi ha risposto ai suoi detti. Non v enite a dire: “Abbiamo trovato noi la sapienza, Dio solo può vincerlo non un uomo!”. Egli non ha rivolto a me le sue parole, e io non gli risponderò con i vostri argomenti. Sono sconcertati non r ispondono più, mancano loro le parole. Ho atteso ma poiché non parlano più, poiché stanno lì s enza risposta, risponderò anch’io per la mia parte, esporrò anch’io il mio parere; mi sento infatt
i pieno di parole, mi preme lo spirito che è nel mio ventre. Ecco il mio ventre è come vino senza aria di sfogo, come otri nuovi sta per scoppiare. Parlerò e avrò un po’ d’aria, aprirò le labbra e ri sponderò. Non guarderò in faccia ad alcuno, e non adulerò nessuno, perché io non so adulare: a ltrimenti il mio creatore in breve mi annienterebbe. Ascolta dunque Giobbe i miei discorsi, porgi l’orecchio ad ogni mia parola. Ecco io apro la bocca, parla la mia lingua entro il mio palato. Il mi o cuore dirà parole schiette e le mie labbra parleranno con chiarezza. Lo spirito di Dio mi ha cre ato e il soffio dell’Onnipotente mi fa vivere. Se puoi rispondimi, prepàrati tieniti pronto davanti a me. Ecco io sono come te di fronte a Dio, anch’io sono stato formato dal fango: ecco nulla hai da temere da me, non farò pesare su di te la mia mano. Tu hai detto in mia presenza e il suono delle tue parole ho udito: “Puro sono io senza peccato, io sono pulito non ho colpa; ma lui contr o di me trova pretesti e mi considera suo nemico, pone in ceppi i miei piedi e spia tutti i miei pa ssi!”. Ecco in questo non hai ragione ti rispondo: Dio infatti è più grande dell’uomo. Perché vuoi contendere con lui, se egli non rende conto di tutte le sue parole? Dio può parlare in un modo o in un altro ma non vi si presta attenzione. Nel sogno nella visione notturna, quando cade il torp ore sugli uomini, nel sonno sul giaciglio, allora apre l’orecchio degli uomini e per la loro correzio ne li spaventa, per distogliere l’uomo dal suo operato e tenerlo lontano dall’orgoglio, per preser vare la sua anima dalla fossa e la sua vita dal canale infernale. Talvolta egli lo corregge con dolor i nel suo letto e con la tortura continua delle ossa. Il pane gli provoca nausea, gli ripugnano anch e i cibi più squisiti, dimagrisce a vista d’occhio e le ossa che prima non si vedevano spuntano fuo ri, la sua anima si avvicina alla fossa e la sua vita a coloro che infliggono la morte. Ma se vi è un angelo sopra di lui, un mediatore solo fra mille, che mostri all’uomo il suo dovere, che abbia pie tà di lui e implori: “Scampalo dallo scendere nella fossa, io gli ho trovato un riscatto”, allora la s ua carne sarà più florida che in gioventù, ed egli tornerà ai giorni della sua adolescenza. Supplic herà Dio e questi gli userà benevolenza, gli mostrerà con giubilo il suo volto, e di nuovo lo ricon oscerà giusto. Egli si rivolgerà agli uomini e dirà: “Avevo peccato e violato la giustizia, ma egli no n mi ha ripagato per quel che meritavo; mi ha scampato dal passare per la fossa e la mia vita co ntempla la luce”. Ecco tutto questo Dio fa, due tre volte per l’uomo, per far ritornare la sua ani ma dalla fossa e illuminarla con la luce dei viventi. Porgi l’orecchio Giobbe ascoltami, sta’ in sile nzio e parlerò io; ma se hai qualcosa da dire rispondimi, parla perché io desidero darti ragione.
Altrimenti ascoltami, sta’ in silenzio e io ti insegnerò la sapienza». Eliu prese a dire: «Ascoltate s aggi le mie parole e voi dotti porgetemi l’orecchio, perché come l’orecchio distingue le parole e il palato assapora i cibi, così noi esploriamo ciò che è giusto, indaghiamo tra noi ciò che è bene.
Giobbe ha detto: “Io sono giusto, ma Dio mi nega il mio diritto; contro il mio diritto passo per m enzognero, inguaribile è la mia piaga benché senza colpa”. Quale uomo è come Giobbe che bev e come l’acqua l’insulto, che cammina in compagnia dei malfattori, andando con uomini iniqui?
Infatti egli ha detto: “Non giova all’uomo essere gradito a Dio”. Perciò ascoltatemi voi che siete uomini di senno: lontano da Dio l’iniquità e dall’Onnipotente l’ingiustizia! Egli infatti ricompensa l’uomo secondo le sue opere, retribuisce ciascuno secondo la sua condotta. In verità Dio non a
gisce da ingiusto e l’Onnipotente non sovverte il diritto! Chi mai gli ha affidato la terra? Chi gli h a assegnato l’universo? Se egli pensasse solo a se stesso e a sé ritraesse il suo spirito e il suo soff io, ogni carne morirebbe all’istante e l’uomo ritornerebbe in polvere. Se sei intelligente ascolta bene questo, porgi l’orecchio al suono delle mie parole. Può mai governare chi è nemico del diri tto? E tu osi condannare il Giusto supremo? Lui che dice a un re: “Iniquo!” e ai prìncipi: “Malvag i!”, lui che non usa parzialità con i potenti e non preferisce il ricco al povero, perché tutti sono o pera delle sue mani. In un istante muoiono e nel cuore della notte sono colpiti i potenti e perisc ono. Senza sforzo egli rimuove i tiranni, perché tiene gli occhi sulla condotta dell’uomo e vede t utti i suoi passi. Non vi è tenebra non densa oscurità, dove possano nascondersi i malfattori. Poi ché non si fissa una data all’uomo per comparire davanti a Dio in giudizio: egli abbatte i potenti senza fare indagini, e colloca altri al loro posto. Perché conosce le loro opere, li travolge nella n otte e sono schiacciati. Come malvagi li percuote, li colpisce alla vista di tutti, perché si sono allo ntanati da lui e di tutte le sue vie non vollero saperne, facendo salire fino a lui il grido degli oppr essi, ed egli udì perciò il lamento dei poveri. Se egli rimane inattivo chi può condannarlo? Se nas conde il suo volto chi può vederlo? Ma sulle nazioni e sugli individui egli veglia, perché non regn i un uomo perverso, e il popolo non venga ostacolato. A Dio si può dire questo: “Mi sono ingann ato non farò più del male. Al di là di quello che vedo istruiscimi tu. Se ho commesso iniquità non persisterò”. Forse dovrebbe ricompensare secondo il tuo modo di vedere, perché tu rifiuti il su o giudizio? Sei tu che devi scegliere non io, di’ dunque quello che sai. Gli uomini di senno mi dir anno insieme a ogni saggio che mi ascolta: “Giobbe non parla con sapienza e le sue parole sono prive di senso”. Bene Giobbe sia esaminato fino in fondo, per le sue risposte da uomo empio, p erché al suo peccato aggiunge la ribellione, getta scherno su di noi e moltiplica le sue parole co ntro Dio». Eliu prese a dire: «Ti pare di aver pensato correttamente, quando dicesti: “Sono giust o davanti a Dio”? Tu dici infatti: “A che serve? Quale guadagno ho a non peccare?”. Voglio replic are a te e ai tuoi amici insieme con te. Contempla il cielo e osserva, considera le nubi come sono più alte di te. Se pecchi che cosa gli fai? Se aumenti i tuoi delitti che danno gli arrechi? Se tu sei giusto che cosa gli dai o che cosa riceve dalla tua mano? Su un uomo come te ricade la tua maliz ia, su un figlio d’uomo la tua giustizia! Si grida sotto il peso dell’oppressione, si invoca aiuto cont ro il braccio dei potenti, ma non si dice: “Dov’è quel Dio che mi ha creato, che ispira nella notte canti di gioia, che ci rende più istruiti delle bestie selvatiche, che ci fa più saggi degli uccelli del c ielo?”. Si grida allora ma egli non risponde a causa della superbia dei malvagi. è inutile: Dio non ascolta e l’Onnipotente non vi presta attenzione; ancor meno quando tu dici che non lo vedi, ch e la tua causa sta innanzi a lui e tu in lui speri, e così pure quando dici che la sua ira non punisce né si cura molto dell’iniquità. Giobbe dunque apre a vuoto la sua bocca e accumula chiacchiere senza senso». Eliu continuò a dire: «Abbi un po’ di pazienza e io ti istruirò, perché c’è altro da di re in difesa di Dio. Prenderò da lontano il mio sapere e renderò giustizia al mio creatore. Non è certo menzogna il mio parlare: è qui con te un uomo dalla scienza perfetta. Ecco Dio è grande e non disprezza nessuno, egli è grande per la fermezza delle sue decisioni. Non lascia vivere l’iniq
uo e rende giustizia ai miseri. Non stacca gli occhi dai giusti, li fa sedere sui troni dei re e li esalta per sempre. Se sono avvinti in catene, o sono stretti dai lacci dell’afflizione, Dio mostra loro gli errori e i misfatti che hanno commesso per orgoglio. Apre loro gli orecchi alla correzione e li eso rta ad allontanarsi dal male. Se ascoltano e si sottomettono, termineranno i loro giorni nel bene ssere e i loro anni fra le delizie. Ma se non ascoltano, passeranno attraverso il canale infernale e spireranno senza rendersene conto. I perversi di cuore si abbandonano all’ira, non invocano aiu to quando Dio li incatena. Si spegne in gioventù la loro vita, la loro esistenza come quella dei pr ostituti. Ma Dio libera il povero mediante l’afflizione, e con la sofferenza gli apre l’orecchio. Egli trarrà anche te dalle fauci dell’angustia verso un luogo spazioso non ristretto, e la tua tavola sar à colma di cibi succulenti. Ma se di giudizio iniquo sei pieno, giudizio e condanna ti seguiranno.
Fa’ che l’ira non ti spinga allo scherno, e che il prezzo eccessivo del riscatto non ti faccia deviare.
Varrà forse davanti a lui il tuo grido d’aiuto nell’angustia o tutte le tue risorse di energia? Non d esiderare che venga quella notte nella quale i popoli sono sradicati dalla loro sede. Bada di non volgerti all’iniquità, poiché per questo sei stato provato dalla miseria. Ecco Dio è sublime nella s ua potenza; quale maestro è come lui? Chi mai gli ha imposto il suo modo d’agire o chi mai ha p otuto dirgli: “Hai agito male?”. Ricòrdati di lodarlo per le sue opere, che l’umanità ha cantato. T
utti le contemplano, i mortali le ammirano da lontano. Ecco Dio è così grande che non lo compr endiamo, è incalcolabile il numero dei suoi anni. Egli attrae in alto le gocce d’acqua e scioglie in pioggia i suoi vapori che le nubi rovesciano, grondano sull’uomo in quantità. Chi può calcolare l a distesa delle nubi e i fragori della sua dimora? Ecco egli vi diffonde la sua luce e ricopre le prof ondità del mare. In tal modo alimenta i popoli e offre loro cibo in abbondanza. Con le mani affer ra la folgore e la scaglia contro il bersaglio. Il suo fragore lo annuncia, la sua ira si accende contr o l’iniquità. Per questo mi batte forte il cuore e mi balza fuori dal petto. Udite attentamente il r umore della sua voce, il fragore che esce dalla sua bocca. Egli lo diffonde per tutto il cielo e la su a folgore giunge ai lembi della terra; dietro di essa ruggisce una voce, egli tuona con la sua voce maestosa: nulla può arrestare il lampo appena si ode la sua voce. Dio tuona mirabilmente con la sua voce, opera meraviglie che non comprendiamo! Egli infatti dice alla neve: “Cadi sulla terra”
e alle piogge torrenziali: “Siate violente”. Nella mano di ogni uomo pone un sigillo, perché tutti r iconoscano la sua opera. Le belve si ritirano nei loro nascondigli e si accovacciano nelle loro tan e. Dalla regione australe avanza l’uragano e il gelo dal settentrione. Al soffio di Dio si forma il gh iaccio e le distese d’acqua si congelano. Carica di umidità le nuvole e le nubi ne diffondono le fol gori. Egli le fa vagare dappertutto secondo i suoi ordini, perché eseguano quanto comanda loro su tutta la faccia della terra. Egli le manda o per castigo del mondo o in segno di bontà. Porgi l’o recchio a questo Giobbe, férmati e considera le meraviglie di Dio. Sai tu come Dio le governa e c ome fa brillare il lampo dalle nubi? Conosci tu come le nuvole si muovono in aria? Sono i prodigi di colui che ha una scienza perfetta. Sai tu perché le tue vesti sono roventi, quando la terra è in letargo sotto il soffio dello scirocco? Hai tu forse disteso con lui il firmamento, solido come spec chio di metallo fuso? Facci sapere che cosa possiamo dirgli! Noi non siamo in grado di esprimerc
i perché avvolti nelle tenebre. Gli viene forse riferito se io parlo, o se uno parla ne viene informa to? All’improvviso la luce diventa invisibile, oscurata dalle nubi: poi soffia il vento e le spazza via
. Dal settentrione giunge un aureo chiarore, intorno a Dio è tremenda maestà. L’Onnipotente n oi non possiamo raggiungerlo, sublime in potenza e rettitudine, grande per giustizia: egli non op prime. Perciò lo temono tutti gli uomini, ma egli non considera quelli che si credono sapienti!».
Il Signore prese a dire a Giobbe in mezzo all’uragano: «Chi è mai costui che oscura il mio piano c on discorsi da ignorante? Cingiti i fianchi come un prode: io t’interrogherò e tu mi istruirai! Qua ndo ponevo le fondamenta della terra tu dov’eri? Dimmelo se sei tanto intelligente! Chi ha fissa to le sue dimensioni se lo sai, o chi ha teso su di essa la corda per misurare? Dove sono fissate le sue basi o chi ha posto la sua pietra angolare, mentre gioivano in coro le stelle del mattino e ac clamavano tutti i figli di Dio? Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando usciva impetuoso dal s eno materno, quando io lo vestivo di nubi e lo fasciavo di una nuvola oscura, quando gli ho fissa to un limite, e gli ho messo chiavistello e due porte dicendo: “Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde”? Da quando vivi hai mai comandato al mattino e assegna to il posto all’aurora, perché afferri la terra per i lembi e ne scuota via i malvagi, ed essa prenda forma come creta premuta da sigillo e si tinga come un vestito, e sia negata ai malvagi la loro lu ce e sia spezzato il braccio che si alza a colpire? Sei mai giunto alle sorgenti del mare e nel fondo dell’abisso hai tu passeggiato? Ti sono state svelate le porte della morte e hai visto le porte dell
’ombra tenebrosa? Hai tu considerato quanto si estende la terra? Dillo se sai tutto questo! Qual è la strada dove abita la luce e dove dimorano le tenebre, perché tu le possa ricondurre dentro i loro confini e sappia insegnare loro la via di casa? Certo tu lo sai perché allora eri già nato e il n umero dei tuoi giorni è assai grande! Sei mai giunto fino ai depositi della neve, hai mai visto i se rbatoi della grandine, che io riserbo per l’ora della sciagura, per il giorno della guerra e della bat taglia? Per quali vie si diffonde la luce, da dove il vento d’oriente invade la terra? Chi ha scavato canali agli acquazzoni e una via al lampo tonante, per far piovere anche sopra una terra spopol ata, su un deserto dove non abita nessuno, per dissetare regioni desolate e squallide e far sbocc iare germogli verdeggianti? Ha forse un padre la pioggia? O chi fa nascere le gocce della rugiada
? Dal qual grembo esce il ghiaccio e la brina del cielo chi la genera, quando come pietra le acque si induriscono e la faccia dell’abisso si raggela? Puoi tu annodare i legami delle Plèiadi o scioglie re i vincoli di Orione? Puoi tu far spuntare a suo tempo le costellazioni o guidare l’Orsa insieme con i suoi figli? Conosci tu le leggi del cielo o ne applichi le norme sulla terra? Puoi tu alzare la v oce fino alle nubi per farti inondare da una massa d’acqua? Scagli tu i fulmini ed essi partono di cendoti: “Eccoci!”? Chi mai ha elargito all’ibis la sapienza o chi ha dato al gallo intelligenza? Chi mai è in grado di contare con esattezza le nubi e chi può riversare gli otri del cielo, quando la po lvere del suolo diventa fango e le zolle si attaccano insieme? Sei forse tu che vai a caccia di pred a per la leonessa e sazi la fame dei leoncelli, quando sono accovacciati nelle tane o stanno in ag guato nei nascondigli? Chi prepara al corvo il suo pasto, quando i suoi piccoli gridano verso Dio e vagano qua e là per mancanza di cibo? Sai tu quando figliano i camosci o assisti alle doglie dell
e cerve? Conti tu i mesi della loro gravidanza e sai tu quando devono partorire? Si curvano e si s gravano dei loro parti, espellono i loro feti. Robusti sono i loro figli crescono all’aperto, se ne va nno e non tornano più da esse. Chi lascia libero l’asino selvatico e chi ne scioglie i legami? Io gli ho dato come casa il deserto e per dimora la terra salmastra. Dei rumori della città se ne ride e non ode le urla dei guardiani. Gira per le montagne sua pastura, e va in cerca di quanto è verde.
Forse il bufalo acconsente a servirti o a passare la notte presso la tua greppia? Puoi forse legare il bufalo al solco con le corde, o fargli arare le valli dietro a te? Ti puoi fidare di lui perché la sua forza è grande, e puoi scaricare su di lui le tue fatiche? Conteresti su di lui perché torni e raduni la tua messe sull’aia? Lo struzzo batte festosamente le ali, come se fossero penne di cicogna e d i falco. Depone infatti sulla terra le uova e nella sabbia le lascia riscaldare. Non pensa che un pie de può schiacciarle, una bestia selvatica calpestarle. Tratta duramente i figli come se non fosser o suoi, della sua inutile fatica non si preoccupa, perché Dio gli ha negato la saggezza e non gli ha dato in sorte l’intelligenza. Ma quando balza in alto, si beffa del cavallo e del suo cavaliere. Puoi dare la forza al cavallo e rivestire di criniera il suo collo? Puoi farlo saltare come una cavalletta, con il suo nitrito maestoso e terrificante? Scalpita nella valle baldanzoso e con impeto va incont ro alle armi. Sprezza la paura non teme, né retrocede davanti alla spada. Su di lui tintinna la fare tra, luccica la lancia e il giavellotto. Con eccitazione e furore divora lo spazio e al suono del corn o più non si tiene. Al primo suono nitrisce: “Ah!” e da lontano fiuta la battaglia, gli urli dei capi e il grido di guerra. è forse per il tuo ingegno che spicca il volo lo sparviero e distende le ali verso il meridione? O al tuo comando l’aquila s’innalza e costruisce il suo nido sulle alture? Vive e pas sa la notte fra le rocce, sugli spuntoni delle rocce o sui picchi. Di lassù spia la preda e da lontano la scorgono i suoi occhi. I suoi piccoli succhiano il sangue e dove sono cadaveri là essa si trova».
Il Signore prese a dire a Giobbe: «Il censore vuole ancora contendere con l’Onnipotente? L’accu satore di Dio risponda!». Giobbe prese a dire al Signore: «Ecco non conto niente: che cosa ti pos so rispondere? Mi metto la mano sulla bocca. Ho parlato una volta ma non replicherò, due volte ho parlato ma non continuerò». Il Signore prese a dire a Giobbe in mezzo all’uragano: «Cingiti i fianchi come un prode: io t’interrogherò e tu mi istruirai! Oseresti tu cancellare il mio giudizio, d are a me il torto per avere tu la ragione? Hai tu un braccio come quello di Dio e puoi tuonare co n voce pari alla sua? Su órnati pure di maestà e di grandezza, rivèstiti di splendore e di gloria! Ef fondi pure i furori della tua collera, guarda ogni superbo e abbattilo, guarda ogni superbo e umil ialo, schiaccia i malvagi ovunque si trovino; sprofondali nella polvere tutti insieme e rinchiudi i l oro volti nel buio! Allora anch’io ti loderò, perché hai trionfato con la tua destra. Ecco l’ippopot amo che io ho creato al pari di te, si nutre di erba come il bue. Guarda la sua forza è nei fianchi e il suo vigore nel ventre. Rizza la coda come un cedro, i nervi delle sue cosce s’intrecciano saldi, le sue vertebre sono tubi di bronzo, le sue ossa come spranghe di ferro. Esso è la prima delle op ere di Dio; solo il suo creatore può minacciarlo con la spada. Gli portano in cibo i prodotti dei m onti, mentre tutte le bestie della campagna si trastullano attorno a lui. Sotto le piante di loto si sdraia, nel folto del canneto e della palude. Lo ricoprono d’ombra le piante di loto, lo circondan
o i salici del torrente. Ecco se il fiume si ingrossa egli non si agita, anche se il Giordano gli salisse fino alla bocca resta calmo. Chi mai può afferrarlo per gli occhi, o forargli le narici con un uncino
? Puoi tu pescare il Leviatàn con l’amo e tenere ferma la sua lingua con una corda, ficcargli un gi unco nelle narici e forargli la mascella con un gancio? Ti rivolgerà forse molte suppliche o ti dirà dolci parole? Stipulerà forse con te un’alleanza, perché tu lo assuma come servo per sempre? S
cherzerai con lui come un passero, legandolo per le tue bambine? Faranno affari con lui gli adde tti alla pesca, e lo spartiranno tra i rivenditori? Crivellerai tu di dardi la sua pelle e con la fiocina l a sua testa? Prova a mettere su di lui la tua mano: al solo ricordo della lotta non ci riproverai! Ec co davanti a lui ogni sicurezza viene meno, al solo vederlo si resta abbattuti. Nessuno è tanto au dace da poterlo sfidare: chi mai può resistergli? Chi mai lo ha assalito e ne è uscito illeso? Nessu no sotto ogni cielo. Non passerò sotto silenzio la forza delle sue membra, né la sua potenza né l a sua imponente struttura. Chi mai ha aperto il suo manto di pelle e nella sua doppia corazza chi è penetrato? Chi mai ha aperto i battenti della sua bocca, attorno ai suoi denti terrificanti? Il su o dorso è formato da file di squame, saldate con tenace suggello: l’una è così unita con l’altra ch e l’aria fra di esse non passa; ciascuna aderisce a quella vicina, sono compatte e non possono st accarsi. Il suo starnuto irradia luce, i suoi occhi sono come le palpebre dell’aurora. Dalla sua boc ca erompono vampate, sprizzano scintille di fuoco. Dalle sue narici esce fumo come da caldaia i nfuocata e bollente. Il suo fiato incendia carboni e dalla bocca gli escono fiamme. Nel suo collo r isiede la forza e innanzi a lui corre il terrore. Compatta è la massa della sua carne, ben salda su di lui e non si muove. Il suo cuore è duro come pietra, duro come la macina inferiore. Quando si alza si spaventano gli dèi e per il terrore restano smarriti. La spada che lo affronta non penetra, né lancia né freccia né dardo. Il ferro per lui è come paglia, il bronzo come legno tarlato. Non lo mette in fuga la freccia, per lui le pietre della fionda sono come stoppia. Come stoppia è la maz za per lui e si fa beffe del sibilo del giavellotto. La sua pancia è fatta di cocci aguzzi e striscia sul f ango come trebbia. Fa ribollire come pentola il fondo marino, fa gorgogliare il mare come un va so caldo di unguenti. Dietro di sé produce una scia lucente e l’abisso appare canuto. Nessuno su lla terra è pari a lui, creato per non aver paura. Egli domina tutto ciò che superbo s’innalza, è so vrano su tutte le bestie feroci». Giobbe prese a dire al Signore: «Comprendo che tu puoi tutto e che nessun progetto per te è impossibile. Chi è colui che da ignorante, può oscurare il tuo piano
? Davvero ho esposto cose che non capisco, cose troppo meravigliose per me che non compren do. Ascoltami e io parlerò, io t’interrogherò e tu mi istruirai! Io ti conoscevo solo per sentito dir e, ma ora i miei occhi ti hanno veduto. Perciò mi ricredo e mi pento sopra polvere e cenere». D
opo che il Signore ebbe rivolto queste parole a Giobbe disse a Elifaz di Teman: «La mia ira si è a ccesa contro di te e contro i tuoi due amici perché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe. Prendete dunque sette giovenchi e sette montoni e andate dal mio servo Giobbe e offriteli in olocausto per voi. Il mio servo Giobbe pregherà per voi e io per riguardo a lui non p unirò la vostra stoltezza perché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe». Eli faz di Teman Bildad di Suach e Sofar di Naamà andarono e fecero come aveva detto loro il Signo
re e il Signore ebbe riguardo di Giobbe. Il Signore ristabilì la sorte di Giobbe dopo che egli ebbe pregato per i suoi amici. Infatti il Signore raddoppiò quanto Giobbe aveva posseduto. Tutti i suoi fratelli le sue sorelle e i suoi conoscenti di prima vennero a trovarlo; banchettarono con lui in c asa sua condivisero il suo dolore e lo consolarono di tutto il male che il Signore aveva mandato s u di lui e ognuno gli regalò una somma di denaro e un anello d’oro. Il Signore benedisse il futuro di Giobbe più del suo passato. Così possedette quattordicimila pecore e seimila cammelli mille paia di buoi e mille asine. Ebbe anche sette figli e tre figlie. Alla prima mise nome Colomba alla s econda Cassia e alla terza Argentea. In tutta la terra non si trovarono donne così belle come le fi glie di Giobbe e il loro padre le mise a parte dell’eredità insieme con i loro fratelli. Dopo tutto q uesto Giobbe visse ancora centoquarant’anni e vide figli e nipoti per quattro generazioni. Poi Gi obbe morì vecchio e sazio di giorni. Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi, non r esta nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli arroganti, ma nella legge del Signore trova la sua gioia, la sua legge medita giorno e notte. è come albero piantato lungo corsi d’acqu a, che dà frutto a suo tempo: le sue foglie non appassiscono e tutto quello che fa riesce bene. N
on così non così i malvagi, ma come pula che il vento disperde; perciò non si alzeranno i malvagi nel giudizio né i peccatori nell’assemblea dei giusti, poiché il Signore veglia sul cammino dei giu sti, mentre la via dei malvagi va in rovina. Perché le genti sono in tumulto e i popoli cospirano in vano? Insorgono i re della terra e i prìncipi congiurano insieme contro il Signore e il suo consacr ato: «Spezziamo le loro catene, gettiamo via da noi il loro giogo!». Ride colui che sta nei cieli, il Signore si fa beffe di loro. Egli parla nella sua ira, li spaventa con la sua collera: «Io stesso ho sta bilito il mio sovrano sul Sion mia santa montagna». Voglio annunciare il decreto del Signore. Egli mi ha detto: «Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato. Chiedimi e ti darò in eredità le genti e in t uo dominio le terre più lontane. Le spezzerai con scettro di ferro, come vaso di argilla le frantu merai». E ora siate saggi o sovrani; lasciatevi correggere o giudici della terra; servite il Signore c on timore e rallegratevi con tremore. Imparate la disciplina, perché non si adiri e voi perdiate la via: in un attimo divampa la sua ira. Beato chi in lui si rifugia. Salmo. Di Davide. Quando fuggiva davanti al figlio Assalonne. Signore quanti sono i miei avversari! Molti contro di me insorgono.
Molti dicono della mia vita: «Per lui non c’è salvezza in Dio!». Ma tu sei mio scudo Signore, sei la mia gloria e tieni alta la mia testa. A gran voce grido al Signore ed egli mi risponde dalla sua san ta montagna. Io mi corico mi addormento e mi risveglio: il Signore mi sostiene. Non temo la foll a numerosa che intorno a me si è accampata. Sorgi Signore! Salvami Dio mio! Tu hai colpito alla mascella tutti i miei nemici, hai spezzato i denti dei malvagi. La salvezza viene dal Signore: sul tu o popolo la tua benedizione. Al maestro del coro. Per strumenti a corda. Salmo. Di Davide. Qua ndo t’invoco rispondimi Dio della mia giustizia! Nell’angoscia mi hai dato sollievo; pietà di me as colta la mia preghiera. Fino a quando voi uomini calpesterete il mio onore, amerete cose vane e cercherete la menzogna? Sappiatelo: il Signore fa prodigi per il suo fedele; il Signore mi ascolta quando lo invoco. Tremate e più non peccate, nel silenzio sul vostro letto esaminate il vostro cu ore. Offrite sacrifici legittimi e confidate nel Signore. Molti dicono: «Chi ci farà vedere il bene, se
da noi Signore è fuggita la luce del tuo volto?». Hai messo più gioia nel mio cuore di quanta ne diano a loro grano e vino in abbondanza. In pace mi corico e subito mi addormento, perché tu s olo Signore fiducioso mi fai riposare. Al maestro del coro. Per flauti. Salmo. Di Davide. Porgi l’or ecchio Signore alle mie parole: intendi il mio lamento. Sii attento alla voce del mio grido, o mio r e e mio Dio, perché a te Signore rivolgo la mia preghiera. Al mattino ascolta la mia voce; al matt ino ti espongo la mia richiesta e resto in attesa. Tu non sei un Dio che gode del male, non è tuo ospite il malvagio; gli stolti non resistono al tuo sguardo. Tu hai in odio tutti i malfattori, tu distr uggi chi dice menzogne. Sanguinari e ingannatori il Signore li detesta. Io invece per il tuo grande amore, entro nella tua casa; mi prostro verso il tuo tempio santo nel tuo timore. Guidami Signo re nella tua giustizia a causa dei miei nemici; spiana davanti a me la tua strada. Non c’è sincerità sulla loro bocca, è pieno di perfidia il loro cuore; la loro gola è un sepolcro aperto, la loro lingua seduce. Condannali o Dio, soccombano alle loro trame, per i tanti loro delitti disperdili, perché a te si sono ribellati. Gioiscano quanti in te si rifugiano, esultino senza fine. Proteggili perché in t e si allietino quanti amano il tuo nome, poiché tu benedici il giusto Signore, come scudo lo circo ndi di benevolenza. Al maestro del coro. Per strumenti a corda. Sull’ottava. Salmo. Di Davide. Si gnore non punirmi nella tua ira, non castigarmi nel tuo furore. Pietà di me Signore sono sfinito; guariscimi Signore: tremano le mie ossa. Trema tutta l’anima mia. Ma tu Signore fino a quando?
Ritorna Signore libera la mia vita, salvami per la tua misericordia. Nessuno tra i morti ti ricorda.
Chi negli inferi canta le tue lodi? Sono stremato dai miei lamenti, ogni notte inondo di pianto il mio giaciglio, bagno di lacrime il mio letto. I miei occhi nel dolore si consumano, invecchiano fra tante mie afflizioni. Via da me voi tutti che fate il male: il Signore ascolta la voce del mio pianto.
Il Signore ascolta la mia supplica, il Signore accoglie la mia preghiera. Si vergognino e tremino molto tutti i miei nemici, tornino indietro e si vergognino all’istante. Lamento che Davide cantò al Signore a causa delle parole di Cus il Beniaminita. Signore mio Dio in te ho trovato rifugio: sal vami da chi mi perseguita e liberami, perché non mi sbrani come un leone, dilaniandomi senza c he alcuno mi liberi. Signore mio Dio se così ho agito, se c’è ingiustizia nelle mie mani, se ho ripa gato il mio amico con il male, se ho spogliato i miei avversari senza motivo, il nemico mi insegua e mi raggiunga, calpesti a terra la mia vita e getti nella polvere il mio onore. Sorgi Signore nella tua ira, àlzati contro la furia dei miei avversari, svégliati mio Dio emetti un giudizio! L’assemblea dei popoli ti circonda: ritorna dall’alto a dominarla! Il Signore giudica i popoli. Giudicami Signor e secondo la mia giustizia, secondo l’innocenza che è in me. Cessi la cattiveria dei malvagi. Rend i saldo il giusto, tu che scruti mente e cuore o Dio giusto. Il mio scudo è in Dio: egli salva i retti di cuore. Dio è giudice giusto, Dio si sdegna ogni giorno. Non torna forse ad affilare la spada, a ten dere a puntare il suo arco? Si prepara strumenti di morte, arroventa le sue frecce. Ecco il malva gio concepisce ingiustizia, è gravido di cattiveria partorisce menzogna. Egli scava un pozzo profo ndo e cade nella fossa che ha fatto; la sua cattiveria ricade sul suo capo, la sua violenza gli piom ba sulla testa. Renderò grazie al Signore per la sua giustizia e canterò il nome di Dio l’Altissimo.
Al maestro del coro. Su «I torchi». Salmo. Di Davide. O Signore Signore nostro, quanto è mirabil
e il tuo nome su tutta la terra! Voglio innalzare sopra i cieli la tua magnificenza, con la bocca di bambini e di lattanti: hai posto una difesa contro i tuoi avversari, per ridurre al silenzio nemici e ribelli. Quando vedo i tuoi cieli opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato, che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo perché te ne curi? Davvero l’hai fatto poc o meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato. Gli hai dato potere sulle opere delle tue m ani, tutto hai posto sotto i suoi piedi: tutte le greggi e gli armenti e anche le bestie della campag na, gli uccelli del cielo e i pesci del mare, ogni essere che percorre le vie dei mari. O Signore Sign ore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra! Al maestro del coro. Su «La morte de l figlio». Salmo. Di Davide. Renderò grazie al Signore con tutto il cuore, annuncerò tutte le tue m eraviglie. Gioirò ed esulterò in te, canterò inni al tuo nome o Altissimo, mentre i miei nemici tor nano indietro, davanti a te inciampano e scompaiono, perché hai sostenuto il mio diritto e la mi a causa: ti sei seduto in trono come giudice giusto. Hai minacciato le nazioni hai sterminato il m alvagio, il loro nome hai cancellato in eterno per sempre. Il nemico è battuto ridotto a rovine pe r sempre. è scomparso il ricordo delle città che hai distrutto. Ma il Signore siede in eterno, stabil isce il suo trono per il giudizio: governerà il mondo con giustizia, giudicherà i popoli con rettitudi ne. Il Signore sarà un rifugio per l’oppresso, un rifugio nei momenti di angoscia. Confidino in te quanti conoscono il tuo nome, perché tu non abbandoni chi ti cerca Signore. Cantate inni al Sign ore che abita in Sion, narrate le sue imprese tra i popoli, perché egli chiede conto del sangue ve rsato, se ne ricorda non dimentica il grido dei poveri. Abbi pietà di me Signore, vedi la mia miser ia opera dei miei nemici, tu che mi fai risalire dalle porte della morte, perché io possa annunciar e tutte le tue lodi; alle porte della figlia di Sion esulterò per la tua salvezza. Sono sprofondate le genti nella fossa che hanno scavato, nella rete che hanno nascosto si è impigliato il loro piede. Il Signore si è fatto conoscere ha reso giustizia; il malvagio è caduto nella rete opera delle sue ma ni. Tornino i malvagi negli inferi, tutte le genti che dimenticano Dio. Perché il misero non sarà m ai dimenticato, la speranza dei poveri non sarà mai delusa. Sorgi Signore non prevalga l’uomo: d avanti a te siano giudicate le genti. Riempile di spavento Signore, riconoscano le genti di essere mortali. Dio abbatte l’arroganza dell’empio Perché, Signore, ti tieni lontano, nei momenti di peri colo ti nascondi? Con arroganza il malvagio perseguita il povero: cadano nelle insidie che hanno tramato! Il malvagio si vanta dei suoi desideri, l’avido benedice se stesso. Nel suo orgoglio il ma lvagio disprezza il Signore: »Dio non ne chiede conto, non esiste!»; questo è tutto il suo pensier o. Le sue vie vanno sempre a buon fine, troppo in alto per lui sono i tuoi giudizi: con un soffio sp azza via i suoi avversari. Egli pensa: «Non sarò mai scosso, vivrò sempre senza sventure». Di spe rgiuri, di frodi e d’inganni ha piena la bocca, sulla sua lingua sono cattiveria e prepotenza. Sta in agguato dietro le siepi, dai nascondigli uccide l’innocente. I suoi occhi spiano il misero, sta in ag guato di nascosto come un leone nel covo. Sta in agguato per ghermire il povero, ghermisce il p overo attirandolo nella rete. Si piega e si acquatta, cadono i miseri sotto i suoi artigli. Egli pensa:
«Dio dimentica, nasconde il volto, non vede più nulla». Sorgi, Signore Dio, alza la tua mano, no n dimenticare i poveri. Perché il malvagio disprezza Dio e pensa: «Non ne chiederai conto»? Epp
ure tu vedi l’affanno e il dolore, li guardi e li prendi nelle tue mani. A te si abbandona il misero, dell’orfano tu sei l’aiuto. Spezza il braccio del malvagio e dell’empio, cercherai il suo peccato e p iù non lo troverai. Il Signore è re in eterno, per sempre: dalla sua terra sono scomparse le genti.
Tu accogli, Signore, il desiderio dei poveri, rafforzi i loro cuori, porgi l’orecchio, perché sia fatta giustizia all’orfano e all’oppresso, e non continui più a spargere terrore l’uomo fatto di terra. Fid ucia in Dio Al maestro del coro. Di Davide. Nel Signore mi sono rifugiato. Come potete dirmi: »F
uggi come un passero verso il monte»? Ecco, i malvagi tendono l’arco, aggiustano la freccia sull a corda per colpire nell’ombra i retti di cuore. Quando sono scosse le fondamenta, il giusto che cosa può fare? Ma il Signore sta nel suo tempio santo, il Signore ha il trono nei cieli. I suoi occhi osservano attenti, le sue pupille scrutano l’uomo. Il Signore scruta giusti e malvagi, egli odia chi ama la violenza. Brace, fuoco e zolfo farà piovere sui malvagi; vento bruciante toccherà loro in s orte. Giusto è il Signore, ama le cose giuste; gli uomini retti contempleranno il suo volto. Contro la menzogna e l’arroganza Al maestro del coro. Sull’ottava. Salmo. Di Davide. Salvami, Signore!
Non c’è più un uomo giusto; sono scomparsi i fedeli tra i figli dell’uomo. Si dicono menzogne l’u no all’altro, labbra adulatrici parlano con cuore doppio. Recida il Signore le labbra adulatrici, la li ngua che vanta imprese grandiose, quanti dicono: «Con la nostra lingua siamo forti, le nostre la bbra sono con noi: chi sarà il nostro padrone?». »Per l’oppressione dei miseri e il gemito dei pov eri, ecco, mi alzerò – dice il Signore –
; metterò in salvo chi è disprezzato». Le parole del Signore sono parole pure, argento separato dalle scorie nel crogiuolo, raffinato sette volte. Tu, o Signore, le manterrai, ci proteggerai da qu esta gente, per sempre, anche se attorno si aggirano i malvagi e cresce la corruzione in mezzo a gli uomini. Al maestro del coro. Salmo. Di Davide. Fino a quando, Signore, continuerai a dimenti carmi? Fino a quando mi nasconderai il tuo volto? Fino a quando nell’anima mia addenserò pen sieri, tristezza nel mio cuore tutto il giorno? Fino a quando su di me prevarrà il mio nemico? Gu arda, rispondimi, Signore, mio Dio, conserva la luce ai miei occhi, perché non mi sorprenda il so nno della morte, perché il mio nemico non dica: “L’ho vinto!” e non esultino i miei avversari se i o vacillo. Ma io nella tua fedeltà ho confidato; esulterà il mio cuore nella tua salvezza, canterò a l Signore, che mi ha beneficato. Al maestro del coro. Di Davide. Lo stolto pensa: «Dio non c’è». S
ono corrotti fanno cose abominevoli: non c’è chi agisca bene. Il Signore dal cielo si china sui figli dell’uomo per vedere se c’è un uomo saggio, uno che cerchi Dio. Sono tutti traviati tutti corrott i; non c’è chi agisca bene neppure uno. Non impareranno dunque tutti i malfattori, che divoran o il mio popolo come il pane e non invocano il Signore? Ecco hanno tremato di spavento, perch é Dio è con la stirpe del giusto. Voi volete umiliare le speranze del povero, ma il Signore è il suo rifugio. Chi manderà da Sion la salvezza d’Israele? Quando il Signore ristabilirà la sorte del suo p opolo, esulterà Giacobbe e gioirà Israele. Salmo. Di Davide. Signore chi abiterà nella tua tenda?
Chi dimorerà sulla tua santa montagna? Colui che cammina senza colpa, pratica la giustizia e dic e la verità che ha nel cuore, non sparge calunnie con la sua lingua, non fa danno al suo prossimo e non lancia insulti al suo vicino. Ai suoi occhi è spregevole il malvagio, ma onora chi teme il Sig
nore. Anche se ha giurato a proprio danno, mantiene la parola; non presta il suo denaro a usura e non accetta doni contro l’innocente. Colui che agisce in questo modo resterà saldo per sempr e. Miktam. Di Davide. Proteggimi o Dio: in te mi rifugio. Ho detto al Signore: «Il mio Signore sei t u, solo in te è il mio bene». Agli idoli del paese, agli dèi potenti andava tutto il mio favore. Molti plicano le loro pene quelli che corrono dietro a un dio straniero. Io non spanderò le loro libagio ni di sangue, né pronuncerò con le mie labbra i loro nomi. Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita. Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi: la mia eredità è stupenda. Benedico il Signore che mi ha dato consiglio; anche di notte il mio animo mi istruisce.
Io pongo sempre davanti a me il Signore, sta alla mia destra non potrò vacillare. Per questo gioi sce il mio cuore ed esulta la mia anima; anche il mio corpo riposa al sicuro, perché non abbando nerai la mia vita negli inferi, né lascerai che il tuo fedele veda la fossa. Mi indicherai il sentiero d ella vita, gioia piena alla tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra. Preghiera. Di Davide.
Ascolta Signore la mia giusta causa, sii attento al mio grido. Porgi l’orecchio alla mia preghiera: s ulle mie labbra non c’è inganno. Dal tuo volto venga per me il giudizio, i tuoi occhi vedano la giu stizia. Saggia il mio cuore scrutalo nella notte, provami al fuoco: non troverai malizia. La mia boc ca non si è resa colpevole, secondo l’agire degli uomini; seguendo la parola delle tue labbra, ho evitato i sentieri del violento. Tieni saldi i miei passi sulle tue vie e i miei piedi non vacilleranno.
Io t’invoco poiché tu mi rispondi o Dio; tendi a me l’orecchio ascolta le mie parole, mostrami i p rodigi della tua misericordia, tu che salvi dai nemici chi si affida alla tua destra. Custodiscimi co me pupilla degli occhi, all’ombra delle tue ali nascondimi, di fronte ai malvagi che mi opprimono
, ai nemici mortali che mi accerchiano. Il loro animo è insensibile, le loro bocche parlano con arr oganza. Eccoli: avanzano mi circondano, puntano gli occhi per gettarmi a terra, simili a un leone che brama la preda, a un leoncello che si apposta in agguato. àlzati Signore affrontalo abbattilo
; con la tua spada liberami dal malvagio, con la tua mano Signore dai mortali, dai mortali del mo ndo la cui sorte è in questa vita. Sazia pure dei tuoi beni il loro ventre, se ne sazino anche i figli e ne avanzi per i loro bambini. Ma io nella giustizia contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazier ò della tua immagine. Al maestro del coro. Di Davide servo del Signore che rivolse al Signore le parole di questo canto quando il Signore lo liberò dal potere di tutti i suoi nemici e dalla mano d i Saul. Disse dunque: Ti amo Signore mia forza, Signore mia roccia mia fortezza mio liberatore, mio Dio mia rupe in cui mi rifugio; mio scudo mia potente salvezza e mio baluardo. Invoco il Sig nore degno di lode, e sarò salvato dai miei nemici. Mi circondavano flutti di morte, mi travolgev ano torrenti infernali; già mi avvolgevano i lacci degli inferi, già mi stringevano agguati mortali.
Nell’angoscia invocai il Signore, nell’angoscia gridai al mio Dio: dal suo tempio ascoltò la mia voc e, a lui ai suoi orecchi giunse il mio grido. La terra tremò e si scosse; vacillarono le fondamenta d ei monti, si scossero perché egli era adirato. Dalle sue narici saliva fumo, dalla sua bocca un fuo co divorante; da lui sprizzavano carboni ardenti. Abbassò i cieli e discese, una nube oscura sotto i suoi piedi. Cavalcava un cherubino e volava, si librava sulle ali del vento. Si avvolgeva di teneb re come di un velo, di acque oscure e di nubi come di una tenda. Davanti al suo fulgore passaro
no le nubi, con grandine e carboni ardenti. Il Signore tuonò dal cielo, l’Altissimo fece udire la su a voce: grandine e carboni ardenti. Scagliò saette e li disperse, fulminò con folgori e li sconfisse.
Allora apparve il fondo del mare, si scoprirono le fondamenta del mondo, per la tua minaccia Si gnore, per lo spirare del tuo furore. Stese la mano dall’alto e mi prese, mi sollevò dalle grandi ac que, mi liberò da nemici potenti, da coloro che mi odiavano ed erano più forti di me. Mi assaliro no nel giorno della mia sventura, ma il Signore fu il mio sostegno; mi portò al largo, mi liberò pe rché mi vuol bene. Il Signore mi tratta secondo la mia giustizia, mi ripaga secondo l’innocenza d elle mie mani, perché ho custodito le vie del Signore, non ho abbandonato come un empio il mi o Dio. I suoi giudizi mi stanno tutti davanti, non ho respinto da me la sua legge; ma integro sono stato con lui e mi sono guardato dalla colpa. Il Signore mi ha ripagato secondo la mia giustizia, s econdo l’innocenza delle mie mani davanti ai suoi occhi. Con l’uomo buono tu sei buono, con l’u omo integro tu sei integro, con l’uomo puro tu sei puro e dal perverso non ti fai ingannare. Perc hé tu salvi il popolo dei poveri, ma abbassi gli occhi dei superbi. Signore tu dai luce alla mia lam pada; il mio Dio rischiara le mie tenebre. Con te mi getterò nella mischia, con il mio Dio scavalch erò le mura. La via di Dio è perfetta, la parola del Signore è purificata nel fuoco; egli è scudo per chi in lui si rifugia. Infatti chi è Dio se non il Signore? O chi è roccia se non il nostro Dio? Il Dio ch e mi ha cinto di vigore e ha reso integro il mio cammino, mi ha dato agilità come di cerve e sulle alture mi ha fatto stare saldo, ha addestrato le mie mani alla battaglia, le mie braccia a tendere l’arco di bronzo. Tu mi hai dato il tuo scudo di salvezza, la tua destra mi ha sostenuto, mi hai es audito e mi hai fatto crescere. Hai spianato la via ai miei passi, i miei piedi non hanno vacillato.
Ho inseguito i miei nemici e li ho raggiunti, non sono tornato senza averli annientati. Li ho colpit i e non si sono rialzati, sono caduti sotto i miei piedi. Tu mi hai cinto di forza per la guerra, hai pi egato sotto di me gli avversari. Dei nemici mi hai mostrato le spalle: quelli che mi odiavano li ho distrutti. Hanno gridato e nessuno li ha salvati, hanno gridato al Signore ma non ha risposto. Co me polvere al vento li ho dispersi, calpestati come fango delle strade. Mi hai scampato dal popo lo in rivolta, mi hai posto a capo di nazioni. Un popolo che non conoscevo mi ha servito; all’udir mi subito mi obbedivano, stranieri cercavano il mio favore, impallidivano uomini stranieri e usci vano tremanti dai loro nascondigli. Viva il Signore e benedetta la mia roccia, sia esaltato il Dio d ella mia salvezza. Dio tu mi accordi la rivincita e sottometti i popoli al mio giogo, mi salvi dai ne mici furenti, dei miei avversari mi fai trionfare e mi liberi dall’uomo violento. Per questo Signore ti loderò tra le genti e canterò inni al tuo nome. Egli concede al suo re grandi vittorie, si mostra fedele al suo consacrato, a Davide e alla sua discendenza per sempre. Al maestro del coro. Salm o. Di Davide. I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annuncia il firmamento. Il gior no al giorno ne affida il racconto e la notte alla notte ne trasmette notizia. Senza linguaggio sen za parole, senza che si oda la loro voce, per tutta la terra si diffonde il loro annuncio e ai confini del mondo il loro messaggio. Là pose una tenda per il sole che esce come sposo dalla stanza nuz iale: esulta come un prode che percorre la via. Sorge da un estremo del cielo e la sua orbita ragg iunge l’altro estremo: nulla si sottrae al suo calore. La legge del Signore è perfetta, rinfranca l’an
ima; la testimonianza del Signore è stabile, rende saggio il semplice. I precetti del Signore sono r etti, fanno gioire il cuore; il comando del Signore è limpido, illumina gli occhi. Il timore del Signo re è puro, rimane per sempre; i giudizi del Signore sono fedeli, sono tutti giusti, più preziosi dell’
oro, di molto oro fino, più dolci del miele e di un favo stillante. Anche il tuo servo ne è illuminat o, per chi li osserva è grande il profitto. Le inavvertenze chi le discerne? Assolvimi dai peccati na scosti. Anche dall’orgoglio salva il tuo servo perché su di me non abbia potere; allora sarò irrepr ensibile, sarò puro da grave peccato. Ti siano gradite le parole della mia bocca; davanti a te i pe nsieri del mio cuore, Signore mia roccia e mio redentore. Al maestro del coro. Salmo. Di Davide.
Ti risponda il Signore nel giorno dell’angoscia, ti protegga il nome del Dio di Giacobbe. Ti mandi l’aiuto dal suo santuario e dall’alto di Sion ti sostenga. Si ricordi di tutte le tue offerte e gradisca i tuoi olocausti. Ti conceda ciò che il tuo cuore desidera, adempia ogni tuo progetto. Esulterem o per la tua vittoria, nel nome del nostro Dio alzeremo i nostri vessilli: adempia il Signore tutte l e tue richieste. Ora so che il Signore dà vittoria al suo consacrato; gli risponde dal suo cielo sant o con la forza vittoriosa della sua destra. Chi fa affidamento sui carri chi sui cavalli: noi invochia mo il nome del Signore nostro Dio. Quelli si piegano e cadono, ma noi restiamo in piedi e siamo saldi. Da’ al re la vittoria Signore; rispondici quando t’invochiamo. Al maestro del coro. Salmo. D
i Davide. Signore il re gioisce della tua potenza! Quanto esulta per la tua vittoria! Hai esaudito il desiderio del suo cuore, non hai respinto la richiesta delle sue labbra. Gli vieni incontro con larg he benedizioni, gli poni sul capo una corona di oro puro. Vita ti ha chiesto a lui l’hai concessa, lu nghi giorni in eterno per sempre. Grande è la sua gloria per la tua vittoria, lo ricopri di maestà e di onore, poiché gli accordi benedizioni per sempre, lo inondi di gioia dinanzi al tuo volto. Perch é il re confida nel Signore: per la fedeltà dell’Altissimo non sarà mai scosso. La tua mano raggiun gerà tutti i nemici, la tua destra raggiungerà quelli che ti odiano. Gettali in una fornace ardente nel giorno in cui ti mostrerai; nella sua ira li inghiottirà il Signore, li divorerà il fuoco. Eliminerai dalla terra il loro frutto, la loro stirpe di mezzo agli uomini. Perché hanno riversato su di te il mal e, hanno tramato insidie; ma non avranno successo. Hai fatto loro voltare la schiena, quando co ntro di loro puntavi il tuo arco. àlzati Signore in tutta la tua forza: canteremo e inneggeremo alla tua potenza. Al maestro del coro. Su «Cerva dell’aurora». Salmo. Di Davide. Dio mio Dio mio pe rché mi hai abbandonato? Lontane dalla mia salvezza le parole del mio grido! Mio Dio grido di g iorno e non rispondi; di notte e non c’è tregua per me. Eppure tu sei il Santo, tu siedi in trono fr a le lodi d’Israele. In te confidarono i nostri padri, confidarono e tu li liberasti; a te gridarono e f urono salvati, in te confidarono e non rimasero delusi. Ma io sono un verme e non un uomo, rifi uto degli uomini disprezzato dalla gente. Si fanno beffe di me quelli che mi vedono, storcono le l abbra scuotono il capo: «Si rivolga al Signore; lui lo liberi, lo porti in salvo se davvero lo ama!». S
ei proprio tu che mi hai tratto dal grembo, mi hai affidato al seno di mia madre. Al mio nascere a te fui consegnato; dal grembo di mia madre sei tu il mio Dio. Non stare lontano da me, perché l’angoscia è vicina e non c’è chi mi aiuti. Mi circondano tori numerosi, mi accerchiano grossi tor i di Basan. Spalancano contro di me le loro fauci: un leone che sbrana e ruggisce. Io sono come
acqua versata, sono slogate tutte le mie ossa. Il mio cuore è come cera, si scioglie in mezzo alle mie viscere. Arido come un coccio è il mio vigore, la mia lingua si è incollata al palato, mi deponi su polvere di morte. Un branco di cani mi circonda, mi accerchia una banda di malfattori; hann o scavato le mie mani e i miei piedi. Posso contare tutte le mie ossa. Essi stanno a guardare e mi osservano: si dividono le mie vesti, sulla mia tunica gettano la sorte. Ma tu Signore non stare lo ntano, mia forza vieni presto in mio aiuto. Libera dalla spada la mia vita, dalle zampe del cane l’
unico mio bene. Salvami dalle fauci del leone e dalle corna dei bufali. Tu mi hai risposto! Annun cerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea. Lodate il Signore voi suoi fedeli
, gli dia gloria tutta la discendenza di Giacobbe, lo tema tutta la discendenza d’Israele; perché e gli non ha disprezzato né disdegnato l’afflizione del povero, il proprio volto non gli ha nascosto ma ha ascoltato il suo grido di aiuto. Da te la mia lode nella grande assemblea; scioglierò i miei voti davanti ai suoi fedeli. I poveri mangeranno e saranno saziati, loderanno il Signore quanti lo cercano; il vostro cuore viva per sempre! Ricorderanno e torneranno al Signore tutti i confini de lla terra; davanti a te si prostreranno tutte le famiglie dei popoli. Perché del Signore è il regno: è lui che domina sui popoli! A lui solo si prostreranno quanti dormono sotto terra, davanti a lui si curveranno quanti discendono nella polvere; ma io vivrò per lui, lo servirà la mia discendenza. Si parlerà del Signore alla generazione che viene; annunceranno la sua giustizia; al popolo che nas cerà diranno: «Ecco l’opera del Signore!». Salmo. Di Davide. Il Signore è il mio pastore: non man co di nulla. Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Rinfranca l’anima mia, mi guida per il giusto cammino a motivo del suo nome. Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza.
Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici. Ungi di olio il mio capo; il mi o calice trabocca. Sì bontà e fedeltà mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita, abiterò an cora nella casa del Signore per lunghi giorni. Di Davide. Salmo. Del Signore è la terra e quanto co ntiene: il mondo con i suoi abitanti. è lui che l’ha fondato sui mari e sui fiumi l’ha stabilito. Chi p otrà salire il monte del Signore? Chi potrà stare nel suo luogo santo? Chi ha mani innocenti e cu ore puro, chi non si rivolge agli idoli, chi non giura con inganno. Egli otterrà benedizione dal Sign ore, giustizia da Dio sua salvezza. Ecco la generazione che lo cerca, che cerca il tuo volto Dio di Giacobbe. Alzate o porte la vostra fronte, alzatevi soglie antiche, ed entri il re della gloria. Chi è questo re della gloria? Il Signore forte e valoroso, il Signore valoroso in battaglia. Alzate o porte la vostra fronte, alzatevi soglie antiche, ed entri il re della gloria. Chi è mai questo re della gloria
? Il Signore degli eserciti è il re della gloria. Di Davide. A te Signore innalzo l’anima mia, mio Dio i n te confido: che io non resti deluso! Non trionfino su di me i miei nemici! Chiunque in te spera non resti deluso; sia deluso chi tradisce senza motivo. Fammi conoscere Signore le tue vie, inseg nami i tuoi sentieri. Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi, perché sei tu il Dio della mia salvezza
; io spero in te tutto il giorno. Ricòrdati Signore della tua misericordia e del tuo amore che è da s empre. I peccati della mia giovinezza e le mie ribellioni non li ricordare: ricòrdati di me nella tua misericordia, per la tua bontà Signore. Buono e retto è il Signore, indica ai peccatori la via giusta
; guida i poveri secondo giustizia, insegna ai poveri la sua via. Tutti i sentieri del Signore sono a more e fedeltà per chi custodisce la sua alleanza e i suoi precetti. Per il tuo nome Signore, perdo na la mia colpa anche se è grande. C’è un uomo che teme il Signore? Gli indicherà la via da scegl iere. Egli riposerà nel benessere, la sua discendenza possederà la terra. Il Signore si confida con chi lo teme: gli fa conoscere la sua alleanza. I miei occhi sono sempre rivolti al Signore, è lui che fa uscire dalla rete il mio piede. Volgiti a me e abbi pietà, perché sono povero e solo. Allarga il m io cuore angosciato, liberami dagli affanni. Vedi la mia povertà e la mia fatica e perdona tutti i miei peccati. Guarda i miei nemici: sono molti, e mi detestano con odio violento. Proteggimi por tami in salvo; che io non resti deluso, perché in te mi sono rifugiato. Mi proteggano integrità e r ettitudine, perché in te ho sperato. O Dio libera Israele da tutte le sue angosce. Di Davide. Fam mi giustizia Signore: nell’integrità ho camminato, confido nel Signore non potrò vacillare. Scruta mi Signore e mettimi alla prova, raffinami al fuoco il cuore e la mente. La tua bontà è davanti ai miei occhi, nella tua verità ho camminato. Non siedo con gli uomini falsi e non vado con gli ipoc riti; odio la banda dei malfattori e non siedo con i malvagi. Lavo nell’innocenza le mie mani e gir o attorno al tuo altare o Signore, per far risuonare voci di lode e narrare tutte le tue meraviglie.
Signore amo la casa dove tu dimori e il luogo dove abita la tua gloria. Non associare me ai pecca tori né la mia vita agli uomini di sangue, perché vi è delitto nelle loro mani, di corruzione è pien a la loro destra. Ma io cammino nella mia integrità riscattami e abbi pietà di me. Il mio piede sta su terra piana; nelle assemblee benedirò il Signore. Di Davide. Il Signore è mia luce e mia salvez za: di chi avrò timore? Il Signore è difesa della mia vita: di chi avrò paura? Quando mi assalgono i malvagi per divorarmi la carne, sono essi avversari e nemici, a inciampare e cadere. Se contro di me si accampa un esercito, il mio cuore non teme; se contro di me si scatena una guerra, anc he allora ho fiducia. Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del S
ignore tutti i giorni della mia vita, per contemplare la bellezza del Signore e ammirare il suo sant uario. Nella sua dimora mi offre riparo nel giorno della sventura. Mi nasconde nel segreto della sua tenda, sopra una roccia mi innalza. E ora rialzo la testa sui nemici che mi circondano. Immol erò nella sua tenda sacrifici di vittoria, inni di gioia canterò al Signore. Ascolta Signore la mia voc e. Io grido: abbi pietà di me rispondimi! Il mio cuore ripete il tuo invito: «Cercate il mio volto!». I l tuo volto Signore io cerco. Non nascondermi il tuo volto, non respingere con ira il tuo servo. Se i tu il mio aiuto non lasciarmi, non abbandonarmi Dio della mia salvezza. Mio padre e mia madr e mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto. Mostrami Signore la tua via, guidami sul retto cammino, perché mi tendono insidie. Non gettarmi in preda ai miei avversari. Contro di m e si sono alzàti falsi testimoni che soffiano violenza. Sono certo di contemplare la bontà del Sign ore nella terra dei viventi. Spera nel Signore sii forte, si rinsaldi il tuo cuore e spera nel Signore.
Di Davide. A te grido Signore mia roccia, con me non tacere: se tu non mi parli, sono come chi sc ende nella fossa. Ascolta la voce della mia supplica, quando a te grido aiuto, quando alzo le mie mani verso il tuo santo tempio. Non trascinarmi via con malvagi e malfattori, che parlano di pac e al loro prossimo, ma hanno la malizia nel cuore. Ripagali secondo il loro agire, secondo la malv
agità delle loro azioni; secondo le opere delle loro mani, rendi loro quanto meritano. Non hann o compreso l’agire del Signore e l’opera delle sue mani: egli li demolirà senza più riedificarli. Sia benedetto il Signore, che ha dato ascolto alla voce della mia supplica. Il Signore è mia forza e mi o scudo, in lui ha confidato il mio cuore. Mi ha dato aiuto: esulta il mio cuore, con il mio canto v oglio rendergli grazie. Forza è il Signore per il suo popolo, rifugio di salvezza per il suo consacrat o. Salva il tuo popolo e benedici la tua eredità, sii loro pastore e sostegno per sempre. Salmo. Di Davide. Date al Signore figli di Dio, date al Signore gloria e potenza. Date al Signore la gloria del suo nome, prostratevi al Signore nel suo atrio santo. La voce del Signore è sopra le acque, tuona il Dio della gloria, il Signore sulle grandi acque. La voce del Signore è forza, la voce del Signore è potenza. La voce del Signore schianta i cedri, schianta il Signore i cedri del Libano. Fa balzare co me un vitello il Libano, e il monte Sirion come un giovane bufalo. La voce del Signore saetta fia mme di fuoco, la voce del Signore scuote il deserto, scuote il Signore il deserto di Kades. La voce del Signore provoca le doglie alle cerve e affretta il parto delle capre. Nel suo tempio tutti dico no: «Gloria!». Il Signore è seduto sull’oceano del cielo, il Signore siede re per sempre. Il Signore darà potenza al suo popolo, il Signore benedirà il suo popolo con la pace. Salmo. Canto per la de dicazione del tempio. Di Davide. Ti esalterò Signore perché mi hai risollevato, non hai permesso ai miei nemici di gioire su di me. Signore mio Dio, a te ho gridato e mi hai guarito. Signore hai fa tto risalire la mia vita dagli inferi, mi hai fatto rivivere perché non scendessi nella fossa. Cantate inni al Signore o suoi fedeli, della sua santità celebrate il ricordo, perché la sua collera dura un is tante, la sua bontà per tutta la vita. Alla sera ospite è il pianto e al mattino la gioia. Ho detto nel la mia sicurezza: «Mai potrò vacillare!». Nella tua bontà o Signore, mi avevi posto sul mio mont e sicuro; il tuo volto hai nascosto e lo spavento mi ha preso. A te grido Signore, al Signore chied o pietà: «Quale guadagno dalla mia morte, dalla mia discesa nella fossa? Potrà ringraziarti la pol vere e proclamare la tua fedeltà? Ascolta Signore abbi pietà di me, Signore vieni in mio aiuto!».
Hai mutato il mio lamento in danza, mi hai tolto l’abito di sacco, mi hai rivestito di gioia, perché ti canti il mio cuore senza tacere; Signore mio Dio ti renderò grazie per sempre. Al maestro del c oro. Salmo. Di Davide. In te Signore mi sono rifugiato, mai sarò deluso; difendimi per la tua giust izia. Tendi a me il tuo orecchio, vieni presto a liberarmi. Sii per me una roccia di rifugio, un luog o fortificato che mi salva. Perché mia rupe e mia fortezza tu sei, per il tuo nome guidami e cond ucimi. Scioglimi dal laccio che mi hanno teso, perché sei tu la mia difesa. Alle tue mani affido il mio spirito; tu mi hai riscattato Signore Dio fedele. Tu hai in odio chi serve idoli falsi, io invece c onfido nel Signore. Esulterò e gioirò per la tua grazia, perché hai guardato alla mia miseria, hai c onosciuto le angosce della mia vita; non mi hai consegnato nelle mani del nemico, hai posto i mi ei piedi in un luogo spazioso. Abbi pietà di me Signore sono nell’affanno; per il pianto si consum ano i miei occhi, la mia gola e le mie viscere. Si logora nel dolore la mia vita, i miei anni passano nel gemito; inaridisce per la pena il mio vigore e si consumano le mie ossa. Sono il rifiuto dei mi ei nemici e persino dei miei vicini, il terrore dei miei conoscenti; chi mi vede per strada mi sfugg e. Sono come un morto lontano dal cuore; sono come un coccio da gettare. Ascolto la calunnia
di molti: «Terrore all’intorno!», quando insieme contro di me congiurano, tramano per toglierm i la vita. Ma io confido in te Signore; dico: «Tu sei il mio Dio, i miei giorni sono nelle tue mani». L
iberami dalla mano dei miei nemici e dai miei persecutori: sul tuo servo fa’ splendere il tuo volt o, salvami per la tua misericordia. Signore che io non debba vergognarmi per averti invocato; si vergognino i malvagi, siano ridotti al silenzio negli inferi. Tacciano le labbra bugiarde, che dicon o insolenze contro il giusto con orgoglio e disprezzo. Quanto è grande la tua bontà Signore! La ri servi per coloro che ti temono, la dispensi davanti ai figli dell’uomo, a chi in te si rifugia. Tu li na scondi al riparo del tuo volto, lontano dagli intrighi degli uomini; li metti al sicuro nella tua tend a, lontano dai litigi delle lingue. Benedetto il Signore, che per me ha fatto meraviglie di grazia in una città fortificata. Io dicevo nel mio sgomento: «Sono escluso dalla tua presenza». Tu invece h ai ascoltato la voce della mia preghiera quando a te gridavo aiuto. Amate il Signore voi tutti suoi fedeli; il Signore protegge chi ha fiducia in lui e ripaga in abbondanza chi opera con superbia. Si ate forti rendete saldo il vostro cuore, voi tutti che sperate nel Signore. Di Davide. Maskil. Beato l’uomo a cui è tolta la colpa e coperto il peccato. Beato l’uomo a cui Dio non imputa il delitto e nel cui spirito non è inganno. Tacevo e si logoravano le mie ossa, mentre ruggivo tutto il giorno.
Giorno e notte pesava su di me la tua mano, come nell’arsura estiva si inaridiva il mio vigore. Ti ho fatto conoscere il mio peccato, non ho coperto la mia colpa. Ho detto: «Confesserò al Signor e le mie iniquità» e tu hai tolto la mia colpa e il mio peccato. Per questo ti prega ogni fedele nel tempo dell’angoscia; quando irromperanno grandi acque non potranno raggiungerlo. Tu sei il m io rifugio mi liberi dall’angoscia, mi circondi di canti di liberazione: «Ti istruirò e ti insegnerò la vi a da seguire; con gli occhi su di te ti darò consiglio. Non siate privi d’intelligenza come il cavallo e come il mulo: la loro foga si piega con il morso e le briglie, se no a te non si avvicinano». Molti saranno i dolori del malvagio, ma l’amore circonda chi confida nel Signore. Rallegratevi nel Sign ore ed esultate o giusti! Voi tutti retti di cuore gridate di gioia! Esultate o giusti nel Signore; per gli uomini retti è bella la lode. Lodate il Signore con la cetra, con l’arpa a dieci corde a lui cantat e. Cantate al Signore un canto nuovo, con arte suonate la cetra e acclamate, perché retta è la p arola del Signore e fedele ogni sua opera. Egli ama la giustizia e il diritto; dell’amore del Signore è piena la terra. Dalla parola del Signore furono fatti i cieli, dal soffio della sua bocca ogni loro sc hiera. Come in un otre raccoglie le acque del mare, chiude in riserve gli abissi. Tema il Signore t utta la terra, tremino davanti a lui gli abitanti del mondo, perché egli parlò e tutto fu creato, co mandò e tutto fu compiuto. Il Signore annulla i disegni delle nazioni, rende vani i progetti dei po poli. Ma il disegno del Signore sussiste per sempre, i progetti del suo cuore per tutte le generazi oni. Beata la nazione che ha il Signore come Dio, il popolo che egli ha scelto come sua eredità. Il Signore guarda dal cielo: egli vede tutti gli uomini; dal trono dove siede scruta tutti gli abitanti della terra, lui che di ognuno ha plasmato il cuore e ne comprende tutte le opere. Il re non si sal va per un grande esercito né un prode scampa per il suo grande vigore. Un’illusione è il cavallo per la vittoria, e neppure un grande esercito può dare salvezza. Ecco l’occhio del Signore è su ch i lo teme, su chi spera nel suo amore, per liberarlo dalla morte e nutrirlo in tempo di fame. L’ani
ma nostra attende il Signore: egli è nostro aiuto e nostro scudo. è in lui che gioisce il nostro cuo re, nel suo santo nome noi confidiamo. Su di noi sia il tuo amore Signore, come da te noi speria mo. Di Davide. Quando si finse pazzo in presenza di Abimèlec tanto che questi lo scacciò ed egli se ne andò. Benedirò il Signore in ogni tempo, sulla mia bocca sempre la sua lode. Io mi glorio n el Signore: i poveri ascoltino e si rallegrino. Magnificate con me il Signore, esaltiamo insieme il s uo nome. Ho cercato il Signore: mi ha risposto e da ogni mia paura mi ha liberato. Guardate a lu i e sarete raggianti, i vostri volti non dovranno arrossire. Questo povero grida e il Signore lo asco lta, lo salva da tutte le sue angosce. L’angelo del Signore si accampa attorno a quelli che lo temo no e li libera. Gustate e vedete com’è buono il Signore; beato l’uomo che in lui si rifugia. Temet e il Signore suoi santi: nulla manca a coloro che lo temono. I leoni sono miseri e affamati, ma a c hi cerca il Signore non manca alcun bene. Venite figli ascoltatemi: vi insegnerò il timore del Sign ore. Chi è l’uomo che desidera la vita e ama i giorni in cui vedere il bene? Custodisci la lingua dal male, le labbra da parole di menzogna. Sta’ lontano dal male e fa’ il bene, cerca e persegui la pa ce. Gli occhi del Signore sui giusti, i suoi orecchi al loro grido di aiuto. Il volto del Signore contro i malfattori, per eliminarne dalla terra il ricordo. Gridano e il Signore li ascolta, li libera da tutte l e loro angosce. Il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato, egli salva gli spiriti affranti. Molti so no i mali del giusto, ma da tutti lo libera il Signore. Custodisce tutte le sue ossa: neppure uno sa rà spezzato. Il male fa morire il malvagio e chi odia il giusto sarà condannato. Il Signore riscatta l a vita dei suoi servi; non sarà condannato chi in lui si rifugia. Di Davide. Signore accusa chi mi ac cusa, combatti chi mi combatte. Afferra scudo e corazza e sorgi in mio aiuto. Impugna lancia e s cure contro chi mi insegue; dimmi: «Sono io la tua salvezza». Siano svergognati e confusi quanti attentano alla mia vita; retrocedano e siano umiliati quanti tramano la mia sventura. Siano com e pula al vento e l’angelo del Signore li disperda; la loro strada sia buia e scivolosa quando l’ang elo del Signore li insegue. Poiché senza motivo mi hanno teso una rete, senza motivo mi hanno scavato una fossa. Li colga una rovina improvvisa, li catturi la rete che hanno teso e nella rovina siano travolti. Ma l’anima mia esulterà nel Signore e gioirà per la sua salvezza. Tutte le mie ossa dicano: «Chi è come te Signore, che liberi il povero dal più forte, il povero e il misero da chi li ra pina?». Sorgevano testimoni violenti, mi interrogavano su ciò che ignoravo, mi rendevano male per bene: una desolazione per l’anima mia. Ma io quand’erano malati vestivo di sacco, mi afflig gevo col digiuno, la mia preghiera riecheggiava nel mio petto. Accorrevo come per un amico co me per un mio fratello, mi prostravo nel dolore come in lutto per la madre. Ma essi godono dell a mia caduta si radunano, si radunano contro di me per colpirmi di sorpresa. Mi dilaniano di con tinuo, mi mettono alla prova mi coprono di scherni; contro di me digrignano i loro denti. Fino a quando Signore starai a guardare? Libera la mia vita dalla loro violenza, dalle zanne dei leoni l’u nico mio bene. Ti renderò grazie nella grande assemblea, ti loderò in mezzo a un popolo numer oso. Non esultino su di me i nemici bugiardi, non strizzino l’occhio quelli che senza motivo mi od iano. Poiché essi non parlano di pace; contro gente pacifica tramano inganni. Spalancano contro di me la loro bocca; dicono: «Bene! I nostri occhi hanno visto!». Signore tu hai visto non tacere;
Signore da me non stare lontano. Déstati svégliati per il mio giudizio, per la mia causa mio Dio e Signore! Giudicami secondo la tua giustizia Signore mio Dio, perché di me non debbano gioire.
Non pensino in cuor loro: «è ciò che volevamo!». Non dicano: «Lo abbiamo divorato!». Sia sver gognato e confuso chi gode della mia rovina, sia coperto di vergogna e disonore chi mi insulta. E
sulti e gioisca chi ama il mio diritto, dica sempre: «Grande è il Signore, che vuole la pace del suo servo». La mia lingua mediterà la tua giustizia, canterà la tua lode per sempre. Al maestro del co ro. Di Davide servo del Signore. Oracolo del peccato nel cuore del malvagio: non c’è paura di Di o davanti ai suoi occhi; perché egli s’illude con se stesso davanti ai suoi occhi, nel non trovare la sua colpa e odiarla. Le sue parole sono cattiveria e inganno, rifiuta di capire di compiere il bene.
Trama cattiveria nel suo letto, si ostina su vie non buone, non respinge il male. Signore il tuo a more è nel cielo, la tua fedeltà fino alle nubi, la tua giustizia è come le più alte montagne, il tuo giudizio come l’abisso profondo: uomini e bestie tu salvi Signore. Quanto è prezioso il tuo amor e o Dio! Si rifugiano gli uomini all’ombra delle tue ali, si saziano dell’abbondanza della tua casa: tu li disseti al torrente delle tue delizie. è in te la sorgente della vita, alla tua luce vediamo la luc e. Riversa il tuo amore su chi ti riconosce, la tua giustizia sui retti di cuore. Non mi raggiunga il p iede dei superbi e non mi scacci la mano dei malvagi. Ecco sono caduti i malfattori: abbattuti no n possono rialzarsi. Di Davide. Non irritarti a causa dei malvagi, non invidiare i malfattori. Come l’erba presto appassiranno; come il verde del prato avvizziranno. Confida nel Signore e fa’ il ben e: abiterai la terra e vi pascolerai con sicurezza. Cerca la gioia nel Signore: esaudirà i desideri del tuo cuore. Affida al Signore la tua via, confida in lui ed egli agirà: farà brillare come luce la tua g iustizia, il tuo diritto come il mezzogiorno. Sta’ in silenzio davanti al Signore e spera in lui; non ir ritarti per chi ha successo, per l’uomo che trama insidie. Desisti dall’ira e deponi lo sdegno, non irritarti: non ne verrebbe che male; perché i malvagi saranno eliminati, ma chi spera nel Signore avrà in eredità la terra. Ancora un poco e il malvagio scompare: cerchi il suo posto ma lui non c’
è più. I poveri invece avranno in eredità la terra e godranno di una grande pace. Il malvagio tra ma contro il giusto, contro di lui digrigna i denti. Ma il Signore ride di lui, perché vede arrivare il suo giorno. I malvagi sfoderano la spada e tendono l’arco per abbattere il povero e il misero, pe r uccidere chi cammina onestamente. Ma la loro spada penetrerà nel loro cuore e i loro archi sa ranno spezzati. è meglio il poco del giusto che la grande abbondanza dei malvagi; le braccia dei malvagi saranno spezzate, ma il Signore è il sostegno dei giusti. Il Signore conosce i giorni degli uomini integri: la loro eredità durerà per sempre. Non si vergogneranno nel tempo della sventu ra e nei giorni di carestia saranno saziati. I malvagi infatti periranno, i nemici del Signore svanira nno; come lo splendore dei prati, in fumo svaniranno. Il malvagio prende in prestito e non restit uisce, ma il giusto ha compassione e dà in dono. Quelli che sono benedetti dal Signore avranno i n eredità la terra, ma quelli che sono da lui maledetti saranno eliminati. Il Signore rende sicuri i passi dell’uomo e si compiace della sua via. Se egli cade non rimane a terra, perché il Signore so stiene la sua mano. Sono stato fanciullo e ora sono vecchio: non ho mai visto il giusto abbandon ato né i suoi figli mendicare il pane; ogni giorno egli ha compassione e dà in prestito, e la sua sti
rpe sarà benedetta. Sta’ lontano dal male e fa’ il bene e avrai sempre una casa. Perché il Signore ama il diritto e non abbandona i suoi fedeli. Gli ingiusti saranno distrutti per sempre e la stirpe dei malvagi sarà eliminata. I giusti avranno in eredità la terra e vi abiteranno per sempre. La boc ca del giusto medita la sapienza e la sua lingua esprime il diritto; la legge del suo Dio è nel suo c uore: i suoi passi non vacilleranno. Il malvagio spia il giusto e cerca di farlo morire. Ma il Signore non lo abbandona alla sua mano, nel giudizio non lo lascia condannare. Spera nel Signore e cus todisci la sua via: egli t’innalzerà perché tu erediti la terra; tu vedrai eliminati i malvagi. Ho visto un malvagio trionfante, gagliardo come cedro verdeggiante; sono ripassato ed ecco non c’era pi ù, l’ho cercato e non si è più trovato. Osserva l’integro guarda l’uomo retto: perché avrà una dis cendenza l’uomo di pace. Ma i peccatori tutti insieme saranno eliminati, la discendenza dei mal vagi sarà sterminata. La salvezza dei giusti viene dal Signore: nel tempo dell’angoscia è loro fort ezza. Il Signore li aiuta e li libera, li libera dai malvagi e li salva, perché in lui si sono rifugiati. Sal mo. Di Davide. Per fare memoria. Signore non punirmi nella tua collera, non castigarmi nel tuo f urore. Le tue frecce mi hanno trafitto, la tua mano mi schiaccia. Per il tuo sdegno nella mia carn e non c’è nulla di sano, nulla è intatto nelle mie ossa per il mio peccato. Le mie colpe hanno sup erato il mio capo, sono un carico per me troppo pesante. Fetide e purulente sono le mie piaghe a causa della mia stoltezza. Sono tutto curvo e accasciato, triste mi aggiro tutto il giorno. Sono t utti infiammati i miei fianchi, nella mia carne non c’è più nulla di sano. Sfinito e avvilito all’estre mo, ruggisco per il fremito del mio cuore. Signore è davanti a te ogni mio desiderio e il mio gemi to non ti è nascosto. Palpita il mio cuore le forze mi abbandonano, non mi resta neppure la luce degli occhi. I miei amici e i miei compagni si scostano dalle mie piaghe, i miei vicini stanno a dist anza. Tendono agguati quelli che attentano alla mia vita, quelli che cercano la mia rovina trama no insidie e tutto il giorno studiano inganni. Io come un sordo non ascolto e come un muto non apro la bocca; sono come un uomo che non sente e non vuole rispondere. Perché io attendo te Signore; tu risponderai Signore mio Dio. Avevo detto: «Non ridano di me! Quando il mio piede v acilla, non si facciano grandi su di me!». Ecco io sto per cadere e ho sempre dinanzi la mia pena.
Ecco io confesso la mia colpa, sono in ansia per il mio peccato. I miei nemici sono vivi e forti, tr oppi mi odiano senza motivo: mi rendono male per bene, mi accusano perché cerco il bene. No n abbandonarmi Signore, Dio mio da me non stare lontano; vieni presto in mio aiuto, Signore mi a salvezza. Al maestro del coro. A Iedutù n. Salmo. Di Davide. Ho detto: «Vigilerò sulla mia cond otta per non peccare con la mia lingua; metterò il morso alla mia bocca finché ho davanti il mal vagio». Ammutolito in silenzio, tacevo ma a nulla serviva, e più acuta si faceva la mia sofferenza
. Mi ardeva il cuore nel petto; al ripensarci è divampato il fuoco. Allora ho lasciato parlare la mia lingua: «Fammi conoscere Signore la mia fine, quale sia la misura dei miei giorni, e saprò quant o fragile io sono». Ecco di pochi palmi hai fatto i miei giorni, è un nulla per te la durata della mia vita. Sì è solo un soffio ogni uomo che vive. Sì è come un’ombra l’uomo che passa. Sì come un s offio si affanna, accumula e non sa chi raccolga. Ora che potrei attendere Signore? è in te la mia speranza. Liberami da tutte le mie iniquità, non fare di me lo scherno dello stolto. Ammutolito
non apro bocca, perché sei tu che agisci. Allontana da me i tuoi colpi: sono distrutto sotto il pes o della tua mano. Castigando le sue colpe tu correggi l’uomo, corrodi come un tarlo i suoi tesori
. Sì ogni uomo non è che un soffio. Ascolta la mia preghiera Signore, porgi l’orecchio al mio grid o, non essere sordo alle mie lacrime, perché presso di te io sono forestiero, ospite come tutti i miei padri. Distogli da me il tuo sguardo: che io possa respirare, prima che me ne vada e di me n on resti più nulla. Al maestro del coro. Di Davide. Salmo. Ho sperato ho sperato nel Signore, ed egli su di me si è chinato, ha dato ascolto al mio grido. Mi ha tratto da un pozzo di acque tumult uose, dal fango della palude; ha stabilito i miei piedi sulla roccia, ha reso sicuri i miei passi. Mi h a messo sulla bocca un canto nuovo, una lode al nostro Dio. Molti vedranno e avranno timore e confideranno nel Signore. Beato l’uomo che ha posto la sua fiducia nel Signore e non si volge ve rso chi segue gli idoli né verso chi segue la menzogna. Quante meraviglie hai fatto, tu Signore m io Dio, quanti progetti in nostro favore: nessuno a te si può paragonare! Se li voglio annunciare e proclamare, sono troppi per essere contati. Sacrificio e offerta non gradisci, gli orecchi mi hai aperto, non hai chiesto olocausto né sacrificio per il peccato. Allora ho detto: «Ecco io vengo. N
el rotolo del libro su di me è scritto di fare la tua volontà: mio Dio questo io desidero; la tua legg e è nel mio intimo». Ho annunciato la tua giustizia nella grande assemblea; vedi: non tengo chiu se le labbra Signore tu lo sai. Non ho nascosto la tua giustizia dentro il mio cuore, la tua verità e la tua salvezza ho proclamato. Non ho celato il tuo amore e la tua fedeltà alla grande assemblea
. Non rifiutarmi Signore la tua misericordia; il tuo amore e la tua fedeltà mi proteggano sempre, perché mi circondano mali senza numero, le mie colpe mi opprimono e non riesco più a vedere: sono più dei capelli del mio capo, il mio cuore viene meno. Dégnati Signore di liberarmi; Signor e vieni presto in mio aiuto. Siano svergognati e confusi quanti cercano di togliermi la vita. Retro cedano coperti d’infamia, quanti godono della mia rovina. Se ne tornino indietro pieni di vergog na quelli che mi dicono: «Ti sta bene!». Esultino e gioiscano in te quelli che ti cercano; dicano se mpre: «Il Signore è grande!» quelli che amano la tua salvezza. Ma io sono povero e bisognoso: d i me ha cura il Signore. Tu sei mio aiuto e mio liberatore: mio Dio non tardare. Al maestro del co ro. Salmo. Di Davide. Beato l’uomo che ha cura del debole: nel giorno della sventura il Signore l o libera. Il Signore veglierà su di lui, lo farà vivere beato sulla terra, non lo abbandonerà in pred a ai nemici. Il Signore lo sosterrà sul letto del dolore; tu lo assisti quando giace ammalato. Io ho detto: «Pietà di me Signore, guariscimi: contro di te ho peccato». I miei nemici mi augurano il m ale: «Quando morirà e perirà il suo nome?». Chi viene a visitarmi dice il falso, il suo cuore cova c attiveria e uscito fuori sparla. Tutti insieme quelli che mi odiano contro di me tramano malefìci, hanno per me pensieri maligni: «Lo ha colpito una malattia infernale; dal letto dove è steso non potrà più rialzarsi». Anche l’amico in cui confidavo, che con me divideva il pane, contro di me al za il suo piede. Ma tu Signore abbi pietà rialzami, che io li possa ripagare. Da questo saprò che t u mi vuoi bene: se non trionfa su di me il mio nemico. Per la mia integrità tu mi sostieni e mi fai stare alla tua presenza per sempre. Sia benedetto il Signore Dio d’Israele, da sempre e per semp re. Amen amen. Al maestro del coro. Maskil. Dei figli di Core. Come la cerva anela ai corsi d’acq
ua, così l’anima mia anela a te o Dio. L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente: quando verrò e vedrò il volto di Dio? Le lacrime sono il mio pane giorno e notte, mentre mi dicono sempre: «D
ov’è il tuo Dio?». Questo io ricordo e l’anima mia si strugge: avanzavo tra la folla, la precedevo f ino alla casa di Dio, fra canti di gioia e di lode di una moltitudine in festa. Perché ti rattristi anim a mia, perché ti agiti in me? Spera in Dio: ancora potrò lodarlo, lui salvezza del mio volto e mio Dio. In me si rattrista l’anima mia; perciò di te mi ricordo dalla terra del Giordano e dell’Ermon, dal monte Misar. Un abisso chiama l’abisso al fragore delle tue cascate; tutti i tuoi flutti e le tue onde sopra di me sono passati. Di giorno il Signore mi dona il suo amore e di notte il suo canto è con me, preghiera al Dio della mia vita. Dirò a Dio: «Mia roccia! Perché mi hai dimenticato? Per ché triste me ne vado, oppresso dal nemico?». Mi insultano i miei avversari quando rompono le mie ossa, mentre mi dicono sempre: «Dov’è il tuo Dio?». Perché ti rattristi anima mia, perché ti agiti in me? Spera in Dio: ancora potrò lodarlo, lui salvezza del mio volto e mio Dio. Fammi giust izia o Dio, difendi la mia causa contro gente spietata; liberami dall’uomo perfido e perverso. Tu sei il Dio della mia difesa: perché mi respingi? Perché triste me ne vado, oppresso dal nemico?
Manda la tua luce e la tua verità: siano esse a guidarmi, mi conducano alla tua santa montagna, alla tua dimora. Verrò all’altare di Dio, a Dio mia gioiosa esultanza. A te canterò sulla cetra, Dio Dio mio. Perché ti rattristi anima mia, perché ti agiti in me? Spera in Dio: ancora potrò lodarlo, l ui salvezza del mio volto e mio Dio. Al maestro del coro. Dei figli di Core. Maskil. Dio con i nostri orecchi abbiamo udito, i nostri padri ci hanno raccontato l’opera che hai compiuto ai loro giorni
, nei tempi antichi. Tu per piantarli con la tua mano hai sradicato le genti, per farli prosperare h ai distrutto i popoli. Non con la spada infatti conquistarono la terra, né fu il loro braccio a salvarl i; ma la tua destra e il tuo braccio e la luce del tuo volto, perché tu li amavi. Sei tu il mio re Dio mio, che decidi vittorie per Giacobbe. Per te abbiamo respinto i nostri avversari, nel tuo nome a bbiamo annientato i nostri aggressori. Nel mio arco infatti non ho confidato, la mia spada non mi ha salvato, ma tu ci hai salvati dai nostri avversari, hai confuso i nostri nemici. In Dio ci gloria mo ogni giorno e lodiamo per sempre il tuo nome. Ma ora ci hai respinti e coperti di vergogna, e più non esci con le nostre schiere. Ci hai fatto fuggire di fronte agli avversari e quelli che ci odi ano ci hanno depredato. Ci hai consegnati come pecore da macello, ci hai dispersi in mezzo alle genti. Hai svenduto il tuo popolo per una miseria, sul loro prezzo non hai guadagnato. Hai fatto di noi il disprezzo dei nostri vicini, lo scherno e la derisione di chi ci sta intorno. Ci hai resi la favo la delle genti, su di noi i popoli scuotono il capo. Il mio disonore mi sta sempre davanti e la verg ogna copre il mio volto, per la voce di chi insulta e bestemmia davanti al nemico e al vendicator e. Tutto questo ci è accaduto e non ti avevamo dimenticato, non avevamo rinnegato la tua allea nza. Non si era vòlto indietro il nostro cuore, i nostri passi non avevano abbandonato il tuo senti ero; ma tu ci hai stritolati in un luogo di sciacalli e ci hai avvolti nell’ombra di morte. Se avessim o dimenticato il nome del nostro Dio e teso le mani verso un dio straniero, forse che Dio non lo avrebbe scoperto, lui che conosce i segreti del cuore? Per te ogni giorno siamo messi a morte, s timati come pecore da macello. Svégliati! Perché dormi Signore? Déstati non respingerci per se
mpre! Perché nascondi il tuo volto, dimentichi la nostra miseria e oppressione? La nostra gola è immersa nella polvere, il nostro ventre è incollato al suolo. àlzati vieni in nostro aiuto! Salvaci p er la tua misericordia! Al maestro del coro. Su «I gigli». Dei figli di Core. Maskil. Canto d’amore.
Liete parole mi sgorgano dal cuore: io proclamo al re il mio poema, la mia lingua è come stilo di scriba veloce. Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia, perciò Di o ti ha benedetto per sempre. O prode cingiti al fianco la spada, tua gloria e tuo vanto, e avanza trionfante. Cavalca per la causa della verità, della mitezza e della giustizia. La tua destra ti most ri prodigi. Le tue frecce sono acute – sotto di te cadono i popoli –
, colpiscono al cuore i nemici del re. Il tuo trono o Dio dura per sempre; scettro di rettitudine è il tuo scettro regale. Ami la giustizia e la malvagità detesti: Dio il tuo Dio ti ha consacrato con olio di letizia a preferenza dei tuoi compagni. Di mirra àloe e cassia profumano tutte le tue vesti; da palazzi d’avorio ti rallegri il suono di strumenti a corda. Figlie di re fra le tue predilette; alla tua destra sta la regina in ori di Ofir. Ascolta figlia guarda porgi l’orecchio: dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre; il re è invaghito della tua bellezza. è lui il tuo signore: rendigli omaggio. Gli abitanti di Tiro portano doni, i più ricchi del popolo cercano il tuo favore. Entra la figlia del re: è tutta splendore, tessuto d’oro è il suo vestito. è condotta al re in broccati preziosi; dietro a lei le vergini sue compagne, a te sono presentate; condotte in gioia ed esultanza, sono presentate ne l palazzo del re. Ai tuoi padri succederanno i tuoi figli; li farai prìncipi di tutta la terra. Il tuo nom e voglio far ricordare per tutte le generazioni; così i popoli ti loderanno in eterno per sempre. Al maestro del coro. Dei figli di Core. Per voci di soprano. Canto. Dio è per noi rifugio e fortezza, ai uto infallibile si è mostrato nelle angosce. Perciò non temiamo se trema la terra, se vacillano i m onti nel fondo del mare. Fremano si gonfino le sue acque, si scuotano i monti per i suoi flutti. U
n fiume e i suoi canali rallegrano la città di Dio, la più santa delle dimore dell’Altissimo. Dio è in mezzo ad essa: non potrà vacillare. Dio la soccorre allo spuntare dell’alba. Fremettero le genti v acillarono i regni; egli tuonò: si sgretolò la terra. Il Signore degli eserciti è con noi, nostro baluar do è il Dio di Giacobbe. Venite vedete le opere del Signore, egli ha fatto cose tremende sulla ter ra. Farà cessare le guerre sino ai confini della terra, romperà gli archi e spezzerà le lance, brucer à nel fuoco gli scudi. Fermatevi! Sappiate che io sono Dio, eccelso tra le genti eccelso sulla terra.
Il Signore degli eserciti è con noi, nostro baluardo è il Dio di Giacobbe. Al maestro del coro. Dei figli di Core. Salmo. Popoli tutti battete le mani! Acclamate Dio con grida di gioia, perché terribil e è il Signore l’Altissimo, grande re su tutta la terra. Egli ci ha sottomesso i popoli, sotto i nostri piedi ha posto le nazioni. Ha scelto per noi la nostra eredità, orgoglio di Giacobbe che egli ama.
Ascende Dio tra le acclamazioni, il Signore al suono di tromba. Cantate inni a Dio cantate inni, c antate inni al nostro re cantate inni; perché Dio è re di tutta la terra, cantate inni con arte. Dio r egna sulle genti, Dio siede sul suo trono santo. I capi dei popoli si sono raccolti come popolo del Dio di Abramo. Sì a Dio appartengono i poteri della terra: egli è eccelso. Cantico. Salmo. Dei figli di Core. Grande è il Signore e degno di ogni lode nella città del nostro Dio. La tua santa montagn a altura stupenda, è la gioia di tutta la terra. Il monte Sion vera dimora divina, è la capitale del g
rande re. Dio nei suoi palazzi un baluardo si è dimostrato. Ecco i re si erano alleati, avanzavano i nsieme. Essi hanno visto: atterriti presi dal panico sono fuggiti. Là uno sgomento li ha colti, dogli e come di partoriente, simile al vento orientale, che squarcia le navi di Tarsis. Come avevamo u dito così abbiamo visto nella città del Signore degli eserciti, nella città del nostro Dio; Dio l’ha fo ndata per sempre. O Dio meditiamo il tuo amore dentro il tuo tempio. Come il tuo nome o Dio, così la tua lode si estende sino all’estremità della terra; di giustizia è piena la tua destra. Gioisca il monte Sion, esultino i villaggi di Giuda a causa dei tuoi giudizi. Circondate Sion giratele intorno
, contate le sue torri, osservate le sue mura, passate in rassegna le sue fortezze, per narrare alla generazione futura: questo è Dio, il nostro Dio in eterno e per sempre; egli è colui che ci guida i n ogni tempo. Al maestro del coro. Dei figli di Core. Salmo. Ascoltate questo popoli tutti, porget e l’orecchio voi tutti abitanti del mondo, voi gente del popolo e nobili, ricchi e poveri insieme. L
a mia bocca dice cose sapienti, il mio cuore medita con discernimento. Porgerò l’orecchio a un proverbio, esporrò sulla cetra il mio enigma. Perché dovrò temere nei giorni del male, quando mi circonda la malizia di quelli che mi fanno inciampare? Essi confidano nella loro forza, si vanta no della loro grande ricchezza. Certo l’uomo non può riscattare se stesso né pagare a Dio il prop rio prezzo. Troppo caro sarebbe il riscatto di una vita: non sarà mai sufficiente per vivere senza f ine e non vedere la fossa. Vedrai infatti morire i sapienti; periranno insieme lo stolto e l’insensat o e lasceranno ad altri le loro ricchezze. Il sepolcro sarà loro eterna dimora, loro tenda di genera zione in generazione: eppure a terre hanno dato il proprio nome. Ma nella prosperità l’uomo no n dura: è simile alle bestie che muoiono. Questa è la via di chi confida in se stesso, la fine di chi si compiace dei propri discorsi. Come pecore sono destinati agli inferi, sarà loro pastore la mort e; scenderanno a precipizio nel sepolcro, svanirà di loro ogni traccia, gli inferi saranno la loro di mora. Certo Dio riscatterà la mia vita, mi strapperà dalla mano degli inferi. Non temere se un uo mo arricchisce, se aumenta la gloria della sua casa. Quando muore infatti con sé non porta nulla né scende con lui la sua gloria. Anche se da vivo benediceva se stesso: «Si congratuleranno per ché ti è andata bene», andrà con la generazione dei suoi padri, che non vedranno mai più la luc e. Nella prosperità l’uomo non comprende, è simile alle bestie che muoiono. Salmo. Di Asaf. Par la il Signore Dio degli dèi, convoca la terra da oriente a occidente. Da Sion bellezza perfetta, Dio risplende. Viene il nostro Dio e non sta in silenzio; davanti a lui un fuoco divorante, intorno a lui si scatena la tempesta. Convoca il cielo dall’alto e la terra per giudicare il suo popolo: «Davanti a me riunite i miei fedeli, che hanno stabilito con me l’alleanza offrendo un sacrificio». I cieli ann unciano la sua giustizia: è Dio che giudica. «Ascolta popolo mio voglio parlare, testimonierò con tro di te Israele! Io sono Dio il tuo Dio! Non ti rimprovero per i tuoi sacrifici, i tuoi olocausti mi st anno sempre davanti. Non prenderò vitelli dalla tua casa né capri dai tuoi ovili. Sono mie tutte l e bestie della foresta, animali a migliaia sui monti. Conosco tutti gli uccelli del cielo, è mio ciò ch e si muove nella campagna. Se avessi fame non te lo direi: mio è il mondo e quanto contiene. M
angerò forse la carne dei tori? Berrò forse il sangue dei capri? Offri a Dio come sacrificio la lode e sciogli all’Altissimo i tuoi voti; invocami nel giorno dell’angoscia: ti libererò e tu mi darai gloria
». Al malvagio Dio dice: «Perché vai ripetendo i miei decreti e hai sempre in bocca la mia alleanz a, tu che hai in odio la disciplina e le mie parole ti getti alle spalle? Se vedi un ladro corri con lui e degli adù lteri ti fai compagno. Abbandoni la tua bocca al male e la tua lingua trama inganni. T
i siedi parli contro il tuo fratello, getti fango contro il figlio di tua madre. Hai fatto questo e io do vrei tacere? Forse credevi che io fossi come te! Ti rimprovero: pongo davanti a te la mia accusa.
Capite questo voi che dimenticate Dio, perché non vi afferri per sbranarvi e nessuno vi salvi. Chi offre la lode in sacrificio questi mi onora; a chi cammina per la retta via mostrerò la salvezza di Dio». Al maestro del coro. Salmo. Di Davide. Quando il profeta Natan andò da lui che era andat o con Betsabea. Pietà di me o Dio nel tuo amore; nella tua grande misericordia cancella la mia i niquità. Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro. Sì le mie iniquità io le ricon osco, il mio peccato mi sta sempre dinanzi. Contro di te contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi io l’ho fatto: così sei giusto nella tua sentenza, sei retto nel tuo giudizio. Ecco nella colpa io sono nato, nel peccato mi ha concepito mia madre. Ma tu gradisci la sincerità nel mio intimo, nel segreto del cuore mi insegni la sapienza. Aspergimi con rami d’issòpo e sarò pur o; lavami e sarò più bianco della neve. Fammi sentire gioia e letizia: esulteranno le ossa che hai spezzato. Distogli lo sguardo dai miei peccati, cancella tutte le mie colpe. Crea in me o Dio un cu ore puro, rinnova in me uno spirito saldo. Non scacciarmi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito. Rendimi la gioia della tua salvezza, sostienimi con uno spirito generoso. Inseg nerò ai ribelli le tue vie e i peccatori a te ritorneranno. Liberami dal sangue o Dio Dio mia salvez za: la mia lingua esalterà la tua giustizia. Signore apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tu a lode. Tu non gradisci il sacrificio; se offro olocausti tu non li accetti. Uno spirito contrito è sacri ficio a Dio; un cuore contrito e affranto tu o Dio non disprezzi. Nella tua bontà fa’ grazia a Sion, r icostruisci le mura di Gerusalemme. Allora gradirai i sacrifici legittimi, l’olocausto e l’intera oblaz ione; allora immoleranno vittime sopra il tuo altare. Al maestro del coro. Maskil. Di Davide. Qua ndo l’idumeo Doeg andò da Saul per informarlo e dirgli: «Davide è entrato in casa di Achimèlec»
. Perché ti vanti del male o prepotente? Dio è fedele ogni giorno. Tu escogiti insidie; la tua lingu a è come lama affilata, o artefice d’inganni! Tu ami il male invece del bene, la menzogna invece della giustizia. Tu ami ogni parola che distrugge, o lingua d’inganno. Perciò Dio ti demolirà per s empre, ti spezzerà e ti strapperà dalla tenda e ti sradicherà dalla terra dei viventi. I giusti vedran no e avranno timore e di lui rideranno: «Ecco l’uomo che non ha posto Dio come sua fortezza, ma ha confidato nella sua grande ricchezza e si è fatto forte delle sue insidie». Ma io come olivo verdeggiante nella casa di Dio, confido nella fedeltà di Dio in eterno e per sempre. Voglio rende rti grazie in eterno per quanto hai operato; spero nel tuo nome perché è buono, davanti ai tuoi fedeli. Al maestro del coro. Su «Macalàt». Maskil. Di Davide. Lo stolto pensa: «Dio non c’è». Son o corrotti fanno cose abominevoli: non c’è chi agisca bene. Dio dal cielo si china sui figli dell’uo mo per vedere se c’è un uomo saggio, uno che cerchi Dio. Sono tutti traviati tutti corrotti; non c
’è chi agisca bene neppure uno. Non impareranno dunque tutti i malfattori che divorano il mio popolo come il pane e non invocano Dio? Ecco hanno tremato di spavento là dove non c’era da
tremare. Sì Dio ha disperso le ossa degli aggressori, sono confusi perché Dio li ha respinti. Chi m anderà da Sion la salvezza d’Israele? Quando Dio ristabilirà la sorte del suo popolo, esulterà Gia cobbe e gioirà Israele. Al maestro del coro. Per strumenti a corda. Maskil. Di Davide. Dopo che g li abitanti di Zif andarono da Saul a dirgli: «Ecco Davide se ne sta nascosto presso di noi». Dio pe r il tuo nome salvami, per la tua potenza rendimi giustizia. Dio ascolta la mia preghiera, porgi l’o recchio alle parole della mia bocca, poiché stranieri contro di me sono insorti e prepotenti insidi ano la mia vita; non pongono Dio davanti ai loro occhi. Ecco Dio è il mio aiuto, il Signore sostien e la mia vita. Ricada il male sui miei nemici, nella tua fedeltà annientali. Ti offrirò un sacrificio sp ontaneo, loderò il tuo nome Signore perché è buono; da ogni angoscia egli mi ha liberato e il mi o occhio ha guardato dall’alto i miei nemici. Al maestro del coro. Per strumenti a corda. Maskil.
Di Davide. Porgi l’orecchio Dio alla mia preghiera, non nasconderti di fronte alla mia supplica. D
ammi ascolto e rispondimi; mi agito ansioso e sono sconvolto dalle grida del nemico dall’oppres sione del malvagio. Mi rovesciano addosso cattiveria e con ira mi aggrediscono. Dentro di me si stringe il mio cuore, piombano su di me terrori di morte. Mi invadono timore e tremore e mi ric opre lo sgomento. Dico: «Chi mi darà ali come di colomba per volare e trovare riposo? Ecco erra ndo fuggirei lontano, abiterei nel deserto. In fretta raggiungerei un riparo dalla furia del vento d alla bufera». Disperdili Signore confondi le loro lingue. Ho visto nella città violenza e discordia: g iorno e notte fanno la ronda sulle sue mura; in mezzo ad essa cattiveria e dolore, in mezzo ad es sa insidia, e non cessano nelle sue piazze sopruso e inganno. Se mi avesse insultato un nemico, l
’avrei sopportato; se fosse insorto contro di me un avversario, da lui mi sarei nascosto. Ma tu m io compagno, mio intimo amico, legato a me da dolce confidenza! Camminavamo concordi vers o la casa di Dio. Li sorprenda improvvisa la morte, scendano vivi negli inferi, perché il male è nel le loro case e nel loro cuore. Io invoco Dio e il Signore mi salva. Di sera al mattino a mezzogiorn o vivo nell’ansia e sospiro, ma egli ascolta la mia voce; in pace riscatta la mia vita da quelli che mi combattono: sono tanti i miei avversari. Dio ascolterà e li umilierà, egli che domina da sempr e; essi non cambiano e non temono Dio. Ognuno ha steso la mano contro i suoi amici, violando i suoi patti. Più untuosa del burro è la sua bocca, ma nel cuore ha la guerra; più fluide dell’olio le sue parole, ma sono pugnali sguainati. Affida al Signore il tuo peso ed egli ti sosterrà, mai perm etterà che il giusto vacilli. Tu o Dio li sprofonderai nella fossa profonda, questi uomini sanguinar i e fraudolenti: essi non giungeranno alla metà dei loro giorni. Ma io Signore in te confido. Al ma estro del coro. Su «Colomba dei terebinti lontani». Di Davide. Miktam. Quando i Filistei lo tenev ano prigioniero a Gat. Pietà di me o Dio perché un uomo mi perseguita, un aggressore tutto il gi orno mi opprime. Tutto il giorno mi perseguitano i miei nemici, numerosi sono quelli che dall’alt o mi combattono. Nell’ora della paura io in te confido. In Dio di cui lodo la parola, in Dio confido non avrò timore: che cosa potrà farmi un essere di carne? Travisano tutto il giorno le mie parol e, ogni loro progetto su di me è per il male. Congiurano tendono insidie, spiano i miei passi per attentare alla mia vita. Ripagali per tanta cattiveria! Nella tua ira abbatti i popoli o Dio. I passi d el mio vagare tu li hai contati, nel tuo otre raccogli le mie lacrime: non sono forse scritte nel tuo
libro? Allora si ritireranno i miei nemici, nel giorno in cui ti avrò invocato; questo io so: che Dio è per me. In Dio di cui lodo la parola, nel Signore di cui lodo la parola, in Dio confido non avrò ti more: che cosa potrà farmi un uomo? Manterrò o Dio i voti che ti ho fatto: ti renderò azioni di g razie, perché hai liberato la mia vita dalla morte, i miei piedi dalla caduta, per camminare davan ti a Dio nella luce dei viventi. Al maestro del coro. Su «Non distruggere». Di Davide. Miktam. Qu ando fuggì da Saul nella caverna. Pietà di me pietà di me o Dio, in te si rifugia l’anima mia; all’o mbra delle tue ali mi rifugio finché l’insidia sia passata. Invocherò Dio l’Altissimo, Dio che fa tutt o per me. Mandi dal cielo a salvarmi, confonda chi vuole inghiottirmi; Dio mandi il suo amore e l a sua fedeltà. In mezzo a leoni devo coricarmi, infiammàti di rabbia contro gli uomini! I loro den ti sono lance e frecce, la loro lingua è spada affilata. Innàlzati sopra il cielo o Dio, su tutta la terr a la tua gloria. Hanno teso una rete ai miei piedi, hanno piegato il mio collo, hanno scavato dava nti a me una fossa, ma dentro vi sono caduti. Saldo è il mio cuore o Dio, saldo è il mio cuore. Vo glio cantare voglio inneggiare: svégliati mio cuore, svegliatevi arpa e cetra, voglio svegliare l’aur ora. Ti loderò fra i popoli Signore, a te canterò inni fra le nazioni: grande fino ai cieli è il tuo amo re e fino alle nubi la tua fedeltà. Innàlzati sopra il cielo o Dio, su tutta la terra la tua gloria. Al ma estro del coro. Su «Non distruggere». Di Davide. Miktam. Rendete veramente giustizia o potenti
, giudicate con equità gli uomini? No! Voi commettete iniquità con il cuore, sulla terra le vostre mani soppesano violenza. Sono traviati i malvagi fin dal seno materno, sono pervertiti dalla nasc ita i mentitori. Sono velenosi come un serpente, come una vipera sorda che si tura le orecchie, c he non segue la voce degli incantatori, del mago abile nei sortilegi. Spezzagli o Dio i denti nella b occa, rompi o Signore le zanne dei leoni. Si dissolvano come acqua che scorre, come erba calpes tata inaridiscano. Passino come bava di lumaca che si scioglie, come aborto di donna non vedan o il sole! Prima che producano spine come il rovo, siano bruciati vivi la collera li travolga. Il giust o godrà nel vedere la vendetta, laverà i piedi nel sangue dei malvagi. Gli uomini diranno: «C’è u n guadagno per il giusto, c’è un Dio che fa giustizia sulla terra!». Al maestro del coro. Su «Non di struggere». Di Davide. Miktam. Quando Saul mandò uomini a sorvegliare la casa e a ucciderlo. L
iberami dai nemici mio Dio, difendimi dai miei aggressori. Liberami da chi fa il male, salvami da chi sparge sangue. Ecco insidiano la mia vita, contro di me congiurano i potenti. Non c’è delitto i n me non c’è peccato Signore; senza mia colpa accorrono e si schierano. Svégliati vienimi incont ro e guarda. Tu Signore Dio degli eserciti Dio d’Israele, àlzati a punire tutte le genti; non avere pi età dei perfidi traditori. Ritornano a sera e ringhiano come cani, si aggirano per la città. Eccoli la bava alla bocca; le loro labbra sono spade. Dicono: «Chi ci ascolta?». Ma tu Signore ridi di loro, t i fai beffe di tutte le genti. Io veglio per te mia forza, perché Dio è la mia difesa. Il mio Dio mi pre ceda con il suo amore; Dio mi farà guardare dall’alto i miei nemici. Non ucciderli perché il mio p opolo non dimentichi; disperdili con la tua potenza e abbattili, Signore nostro scudo. Peccato de lla loro bocca è la parola delle loro labbra; essi cadono nel laccio del loro orgoglio, per le bestem mie e le menzogne che pronunciano. Annientali con furore, annientali e più non esistano, e sap piano che Dio governa in Giacobbe, sino ai confini della terra. Ritornano a sera e ringhiano com
e cani, si aggirano per la città ecco vagano in cerca di cibo, ringhiano se non possono saziarsi. M
a io canterò la tua forza, esalterò la tua fedeltà al mattino, perché sei stato mia difesa, mio rifug io nel giorno della mia angoscia. O mia forza a te voglio cantare, poiché tu sei o Dio la mia difesa
, Dio della mia fedeltà. Al maestro del coro. Su «Il giglio della testimonianza». Miktam. Di David e. Da insegnare. Quando uscì contro Aram Naharàim e contro Aram Soba e quando Ioab nel rito rno sconfisse gli Edomiti nella valle del Sale: dodicimila uomini. Dio tu ci hai respinti ci hai messi in rotta, ti sei sdegnato: ritorna a noi. Hai fatto tremare la terra l’hai squarciata: risana le sue cr epe perché essa vacilla. Hai messo a dura prova il tuo popolo, ci hai fatto bere vino che stordisc e. Hai dato un segnale a quelli che ti temono, perché fuggano lontano dagli archi. Perché siano l iberati i tuoi amici, salvaci con la tua destra e rispondici! Dio ha parlato nel suo santuario: «Esult o e divido Sichem, spartisco la valle di Succot. Mio è Gàlaad mio è Manasse, èfraim è l’elmo del mio capo, Giuda lo scettro del mio comando. Moab è il catino per lavarmi, su Edom getterò i mi ei sandali, il mio grido di vittoria sulla Filistea!». Chi mi condurrà alla città fortificata, chi potrà g uidarmi fino al paese di Edom, se non tu o Dio che ci hai respinti e più non esci o Dio con le nost re schiere? Nell’oppressione vieni in nostro aiuto, perché vana è la salvezza dell’uomo. Con Dio noi faremo prodezze, egli calpesterà i nostri nemici. Al maestro del coro. Per strumenti a corda.
Di Davide. Ascolta o Dio il mio grido, sii attento alla mia preghiera. Sull’orlo dell’abisso io t’invoc o, mentre sento che il cuore mi manca: guidami tu sulla rupe per me troppo alta. Per me sei div entato un rifugio, una torre fortificata davanti al nemico. Vorrei abitare nella tua tenda per sem pre, vorrei rifugiarmi all’ombra delle tue ali. Tu o Dio hai accolto i miei voti, mi hai dato l’eredità di chi teme il tuo nome. Ai giorni del re aggiungi altri giorni, per molte generazioni siano i suoi a nni! Regni per sempre sotto gli occhi di Dio; comanda che amore e fedeltà lo custodiscano. Così canterò inni al tuo nome per sempre, adempiendo i miei voti giorno per giorno. Al maestro del coro. Su «Iedutù n». Salmo. Di Davide. Solo in Dio riposa l’anima mia: da lui la mia salvezza. Lui s olo è mia roccia e mia salvezza, mia difesa: mai potrò vacillare. Fino a quando vi scaglierete cont ro un uomo, per abbatterlo tutti insieme come un muro cadente, come un recinto che crolla? Tr amano solo di precipitarlo dall’alto, godono della menzogna. Con la bocca benedicono, nel loro intimo maledicono. Solo in Dio riposa l’anima mia: da lui la mia speranza. Lui solo è mia roccia e mia salvezza, mia difesa: non potrò vacillare. In Dio è la mia salvezza e la mia gloria; il mio riparo sicuro il mio rifugio è in Dio. Confida in lui o popolo in ogni tempo; davanti a lui aprite il vostro cuore: nostro rifugio è Dio. Sì sono un soffio i figli di Adamo, una menzogna tutti gli uomini: tutti insieme posti sulla bilancia, sono più lievi di un soffio. Non confidate nella violenza, non illudete vi della rapina; alla ricchezza anche se abbonda, non attaccate il cuore. Una parola ha detto Dio, due ne ho udite: la forza appartiene a Dio, tua è la fedeltà Signore; secondo le sue opere tu ripa ghi ogni uomo. Salmo. Di Davide quando era nel deserto di Giuda. O Dio tu sei il mio Dio, dall’au rora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne in terra arida assetata senz’ac qua. Così nel santuario ti ho contemplato, guardando la tua potenza e la tua gloria. Poiché il tuo amore vale più della vita, le mie labbra canteranno la tua lode. Così ti benedirò per tutta la vita:
nel tuo nome alzerò le mie mani. Come saziato dai cibi migliori, con labbra gioiose ti loderà la mia bocca. Quando nel mio letto di te mi ricordo e penso a te nelle veglie notturne, a te che sei stato il mio aiuto, esulto di gioia all’ombra delle tue ali. A te si stringe l’anima mia: la tua destra mi sostiene. Ma quelli che cercano di rovinarmi sprofondino sotto terra, siano consegnati in ma no alla spada, divengano preda di sciacalli. Il re troverà in Dio la sua gioia; si glorierà chi giura pe r lui, perché ai mentitori verrà chiusa la bocca. Al maestro del coro. Salmo. Di Davide. Ascolta o Dio la voce del mio lamento, dal terrore del nemico proteggi la mia vita. Tienimi lontano dal co mplotto dei malvagi, dal tumulto di chi opera il male. Affilano la loro lingua come spada, scaglia no come frecce parole amare per colpire di nascosto l’innocente; lo colpiscono all’improvviso e non hanno timore. Si ostinano a fare il male, progettano di nascondere tranelli; dicono: «Chi po trà vederli?». Tramano delitti, attuano le trame che hanno ordito; l’intimo dell’uomo e il suo cu ore: un abisso! Ma Dio li colpisce con le sue frecce: all’improvviso sono feriti, la loro stessa lingu a li manderà in rovina, chiunque al vederli scuoterà la testa. Allora ognuno sarà preso da timore
, annuncerà le opere di Dio e saprà discernere il suo agire. Il giusto gioirà nel Signore e riporrà in lui la sua speranza: si glorieranno tutti i retti di cuore. Al maestro del coro. Salmo. Di Davide. Ca nto. Per te il silenzio è lode o Dio in Sion, a te si sciolgono i voti. A te che ascolti la preghiera, vie ne ogni mortale. Pesano su di noi le nostre colpe, ma tu perdoni i nostri delitti. Beato chi hai sce lto perché ti stia vicino: abiterà nei tuoi atri. Ci sazieremo dei beni della tua casa, delle cose sacr e del tuo tempio. Con i prodigi della tua giustizia, tu ci rispondi o Dio nostra salvezza, fiducia deg li estremi confini della terra e dei mari più lontani. Tu rendi saldi i monti con la tua forza, cinto d i potenza. Tu plachi il fragore del mare, il fragore dei suoi flutti, il tumulto dei popoli. Gli abitanti degli estremi confini sono presi da timore davanti ai tuoi segni: tu fai gridare di gioia le soglie d ell’oriente e dell’occidente. Tu visiti la terra e la disseti, la ricolmi di ricchezze. Il fiume di Dio è g onfio di acque; tu prepari il frumento per gli uomini. Così prepari la terra: ne irrighi i solchi ne sp iani le zolle, la bagni con le piogge e benedici i suoi germogli. Coroni l’anno con i tuoi benefici, i t uoi solchi stillano abbondanza. Stillano i pascoli del deserto e le colline si cingono di esultanza. I prati si coprono di greggi, le valli si ammantano di messi: gridano e cantano di gioia! Al maestro del coro. Canto. Salmo. Acclamate Dio voi tutti della terra, cantate la gloria del suo nome, dateg li gloria con la lode. Dite a Dio: «Terribili sono le tue opere! Per la grandezza della tua potenza ti lusingano i tuoi nemici. A te si prostri tutta la terra, a te canti inni canti al tuo nome». Venite e vedete le opere di Dio, terribile nel suo agire sugli uomini. Egli cambiò il mare in terraferma; pas sarono a piedi il fiume: per questo in lui esultiamo di gioia. Con la sua forza domina in eterno, il suo occhio scruta le genti; contro di lui non si sollevino i ribelli. Popoli benedite il nostro Dio, fat e risuonare la voce della sua lode; è lui che ci mantiene fra i viventi e non ha lasciato vacillare i n ostri piedi. O Dio tu ci hai messi alla prova; ci hai purificati come si purifica l’argento. Ci hai fatto cadere in un agguato, hai stretto i nostri fianchi in una morsa. Hai fatto cavalcare uomini sopra le nostre teste; siamo passati per il fuoco e per l’acqua, poi ci hai fatto uscire verso l’abbondanz a. Entrerò nella tua casa con olocausti, a te scioglierò i miei voti, pronunciati dalle mie labbra, pr
omessi dalla mia bocca nel momento dell’angoscia. Ti offrirò grassi animali in olocausto con il fu mo odoroso di arieti, ti immolerò tori e capri. Venite ascoltate voi tutti che temete Dio, e narrer ò quanto per me ha fatto. A lui gridai con la mia bocca, lo esaltai con la mia lingua. Se nel mio c uore avessi cercato il male, il Signore non mi avrebbe ascoltato. Ma Dio ha ascoltato, si è fatto a ttento alla voce della mia preghiera. Sia benedetto Dio, che non ha respinto la mia preghiera, n on mi ha negato la sua misericordia. Al maestro del coro. Per strumenti a corda. Salmo. Canto.
Dio abbia pietà di noi e ci benedica, su di noi faccia splendere il suo volto; perché si conosca sull a terra la tua via, la tua salvezza fra tutte le genti. Ti lodino i popoli o Dio, ti lodino i popoli tutti.
Gioiscano le nazioni e si rallegrino, perché tu giudichi i popoli con rettitudine, governi le nazioni sulla terra. Ti lodino i popoli o Dio, ti lodino i popoli tutti. La terra ha dato il suo frutto. Ci benedi ca Dio il nostro Dio, ci benedica Dio e lo temano tutti i confini della terra. Al maestro del coro. D
i Davide. Salmo. Canto. Sorga Dio e siano dispersi i suoi nemici e fuggano davanti a lui quelli che lo odiano. Come si dissolve il fumo tu li dissolvi; come si scioglie la cera di fronte al fuoco, perisc ono i malvagi davanti a Dio. I giusti invece si rallegrano, esultano davanti a Dio e cantano di gioi a. Cantate a Dio inneggiate al suo nome, appianate la strada a colui che cavalca le nubi: Signore è il suo nome, esultate davanti a lui. Padre degli orfani e difensore delle vedove è Dio nella sua s anta dimora. A chi è solo Dio fa abitare una casa, fa uscire con gioia i prigionieri. Solo i ribelli di morano in arida terra. O Dio quando uscivi davanti al tuo popolo, quando camminavi per il dese rto, tremò la terra i cieli stillarono davanti a Dio quello del Sinai, davanti a Dio il Dio d’Israele. Pi oggia abbondante hai riversato o Dio, la tua esausta eredità tu hai consolidato e in essa ha abita to il tuo popolo, in quella che nella tua bontà, hai reso sicura per il povero o Dio. Il Signore annu ncia una notizia, grande schiera sono le messaggere di vittoria: «Fuggono fuggono i re degli eser citi! Nel campo presso la casa ci si divide la preda. Non restate a dormire nei recinti! Splendono d’argento le ali della colomba, di riflessi d’oro le sue piume». Quando l’Onnipotente là disperde va i re, allora nevicava sul Salmon. Montagna eccelsa è il monte di Basan, montagna dalle alte ci me è il monte di Basan. Perché invidiate montagne dalle alte cime, la montagna che Dio ha desi derato per sua dimora? Il Signore l’abiterà per sempre. I carri di Dio sono miriadi migliaia gli arci eri: il Signore è tra loro sul Sinai in santità. Sei salito in alto e hai fatto prigionieri –
dagli uomini hai ricevuto tributi e anche dai ribelli –
, perché là tu dimori Signore Dio! Di giorno in giorno benedetto il Signore: a noi Dio porta la salv ezza. Il nostro Dio è un Dio che salva; al Signore Dio appartengono le porte della morte. Sì Dio sc hiaccerà il capo dei suoi nemici, la testa dai lunghi capelli di chi percorre la via del delitto. Ha de tto il Signore: «Da Basan li farò tornare, li farò tornare dagli abissi del mare, perché il tuo piede si bagni nel sangue e la lingua dei tuoi cani riceva la sua parte tra i nemici». Appare il tuo corteo Dio, il corteo del mio Dio del mio re nel santuario. Precedono i cantori seguono i suonatori di ce tra, insieme a fanciulle che suonano tamburelli. «Benedite Dio nelle vostre assemblee, benedite il Signore voi della comunità d’Israele». Ecco Beniamino un piccolo che guida i capi di Giuda la l oro schiera, i capi di Zàbulon i capi di Nèftali. Mostra o Dio la tua forza, conferma o Dio quanto
hai fatto per noi! Per il tuo tempio in Gerusalemme, i re ti porteranno doni. Minaccia la bestia d el canneto, quel branco di bufali quell’esercito di tori, che si prostrano a idoli d’argento; disperd i i popoli che amano la guerra! Verranno i grandi dall’Egitto, l’Etiopia tenderà le mani a Dio. Reg ni della terra cantate a Dio, cantate inni al Signore, a colui che cavalca nei cieli nei cieli eterni. Ec co fa sentire la sua voce una voce potente! Riconoscete a Dio la sua potenza, la sua maestà sopr a Israele, la sua potenza sopra le nubi. Terribile tu sei o Dio nel tuo santuario. è lui il Dio d’Israel e che dà forza e vigore al suo popolo. Sia benedetto Dio! Al maestro del coro. Su «I gigli». Di Dav ide. Salvami o Dio: l’acqua mi giunge alla gola. Affondo in un abisso di fango, non ho nessun sost egno; sono caduto in acque profonde e la corrente mi travolge. Sono sfinito dal gridare, la mia g ola è riarsa; i miei occhi si consumano nell’attesa del mio Dio. Sono più numerosi dei capelli del mio capo quelli che mi odiano senza ragione. Sono potenti quelli che mi vogliono distruggere, i miei nemici bugiardi: quanto non ho rubato dovrei forse restituirlo? Dio tu conosci la mia stolte zza e i miei errori non ti sono nascosti. Chi spera in te per colpa mia non sia confuso, Signore Di o degli eserciti; per causa mia non si vergogni chi ti cerca Dio d’Israele. Per te io sopporto l’insul to e la vergogna mi copre la faccia; sono diventato un estraneo ai miei fratelli, uno straniero per i figli di mia madre. Perché mi divora lo zelo per la tua casa, gli insulti di chi ti insulta ricadono s u di me. Piangevo su di me nel digiuno, ma sono stato insultato. Ho indossato come vestito un s acco e sono diventato per loro oggetto di scherno. Sparlavano di me quanti sedevano alla porta, gli ubriachi mi deridevano. Ma io rivolgo a te la mia preghiera, Signore nel tempo della benevol enza. O Dio nella tua grande bontà rispondimi, nella fedeltà della tua salvezza. Liberami dal fang o perché io non affondi, che io sia liberato dai miei nemici e dalle acque profonde. Non mi travo lga la corrente, l’abisso non mi sommerga, la fossa non chiuda su di me la sua bocca. Rispondimi Signore perché buono è il tuo amore; volgiti a me nella tua grande tenerezza. Non nascondere i l volto al tuo servo; sono nell’angoscia: presto rispondimi! Avvicìnati a me riscattami, liberami a causa dei miei nemici. Tu sai quanto sono stato insultato: quanto disonore quanta vergogna! So no tutti davanti a te i miei avversari. L’insulto ha spezzato il mio cuore e mi sento venir meno. M
i aspettavo compassione ma invano, consolatori ma non ne ho trovati. Mi hanno messo veleno nel cibo e quando avevo sete mi hanno dato aceto. La loro tavola sia per loro una trappola, un’i nsidia i loro banchetti. Si offuschino i loro occhi e più non vedano: sfibra i loro fianchi per sempr e. Riversa su di loro il tuo sdegno, li raggiunga la tua ira ardente. Il loro accampamento sia desol ato, senza abitanti la loro tenda; perché inseguono colui che hai percosso, aggiungono dolore a chi tu hai ferito. Aggiungi per loro colpa su colpa e non possano appellarsi alla tua giustizia. Dal l ibro dei viventi siano cancellati e non siano iscritti tra i giusti. Io sono povero e sofferente: la tua salvezza Dio mi ponga al sicuro. Loderò il nome di Dio con un canto, lo magnificherò con un rin graziamento, che per il Signore è meglio di un toro, di un torello con corna e zoccoli. Vedano i p overi e si rallegrino; voi che cercate Dio fatevi coraggio, perché il Signore ascolta i miseri e non d isprezza i suoi che sono prigionieri. A lui cantino lode i cieli e la terra, i mari e quanto brulica in e ssi. Perché Dio salverà Sion, ricostruirà le città di Giuda: vi abiteranno e ne riavranno il possesso.

La stirpe dei suoi servi ne sarà erede e chi ama il suo nome vi porrà dimora. Al maestro del coro
. Di Davide. Per fare memoria. O Dio vieni a salvarmi, Signore vieni presto in mio aiuto. Siano sv ergognati e confusi quanti attentano alla mia vita. Retrocedano coperti d’infamia, quanti godon o della mia rovina. Se ne tornino indietro pieni di vergogna quelli che mi dicono: «Ti sta bene!».
Esultino e gioiscano in te quelli che ti cercano; dicano sempre: «Dio è grande!» quelli che aman o la tua salvezza. Ma io sono povero e bisognoso: Dio affréttati verso di me. Tu sei mio aiuto e mio liberatore: Signore non tardare. In te Signore mi sono rifugiato, mai sarò deluso. Per la tua giustizia liberami e difendimi, tendi a me il tuo orecchio e salvami. Sii tu la mia roccia, una dimor a sempre accessibile; hai deciso di darmi salvezza: davvero mia rupe e mia fortezza tu sei! Mio Dio liberami dalle mani del malvagio, dal pugno dell’uomo violento e perverso. Sei tu mio Signo re la mia speranza, la mia fiducia Signore fin dalla mia giovinezza. Su di te mi appoggiai fin dal gr embo materno, dal seno di mia madre sei tu il mio sostegno: a te la mia lode senza fine. Per mol ti ero un prodigio, ma eri tu il mio rifugio sicuro. Della tua lode è piena la mia bocca: tutto il gior no canto il tuo splendore. Non gettarmi via nel tempo della vecchiaia, non abbandonarmi quan do declinano le mie forze. Contro di me parlano i miei nemici, coloro che mi spiano congiurano i nsieme e dicono: «Dio lo ha abbandonato, inseguitelo prendetelo: nessuno lo libera!». O Dio da me non stare lontano: Dio mio vieni presto in mio aiuto. Siano svergognati e annientati quanti mi accusano, siano coperti di insulti e d’infamia quanti cercano la mia rovina. Io invece continuo a sperare; moltiplicherò le tue lodi. La mia bocca racconterà la tua giustizia, ogni giorno la tua s alvezza, che io non so misurare. Verrò a cantare le imprese del Signore Dio: farò memoria della tua giustizia di te solo. Fin dalla giovinezza o Dio mi hai istruito e oggi ancora proclamo le tue m eraviglie. Venuta la vecchiaia e i capelli bianchi, o Dio non abbandonarmi, fino a che io annunci l a tua potenza, a tutte le generazioni le tue imprese. La tua giustizia Dio è alta come il cielo. Tu h ai fatto cose grandi: chi è come te o Dio? Molte angosce e sventure mi hai fatto vedere: tu mi d arai ancora vita, mi farai risalire dagli abissi della terra, accrescerai il mio onore e tornerai a con solarmi. Allora io ti renderò grazie al suono dell’arpa, per la tua fedeltà o mio Dio, a te canterò s ulla cetra o Santo d’Israele. Cantando le tue lodi esulteranno le mie labbra e la mia vita che tu h ai riscattato. Allora la mia lingua tutto il giorno mediterà la tua giustizia. Sì saranno svergognati e confusi quelli che cercano la mia rovina. Di Salomone. O Dio affida al re il tuo diritto, al figlio d i re la tua giustizia; egli giudichi il tuo popolo secondo giustizia e i tuoi poveri secondo il diritto. L
e montagne portino pace al popolo e le colline giustizia. Ai poveri del popolo renda giustizia, sal vi i figli del misero e abbatta l’oppressore. Ti faccia durare quanto il sole, come la luna di genera zione in generazione. Scenda come pioggia sull’erba, come acqua che irrora la terra. Nei suoi gi orni fiorisca il giusto e abbondi la pace, finché non si spenga la luna. E dòmini da mare a mare, d al fiume sino ai confini della terra. A lui si pieghino le tribù del deserto, mordano la polvere i suo i nemici. I re di Tarsis e delle isole portino tributi, i re di Saba e di Seba offrano doni. Tutti i re si prostrino a lui, lo servano tutte le genti. Perché egli libererà il misero che invoca e il povero che non trova aiuto. Abbia pietà del debole e del misero e salvi la vita dei miseri. Li riscatti dalla viol
enza e dal sopruso, sia prezioso ai suoi occhi il loro sangue. Viva e gli sia dato oro di Arabia, si pr eghi sempre per lui, sia benedetto ogni giorno. Abbondi il frumento nel paese, ondeggi sulle ci me dei monti; il suo frutto fiorisca come il Libano, la sua messe come l’erba dei campi. Il suo no me duri in eterno, davanti al sole germogli il suo nome. In lui siano benedette tutte le stirpi dell a terra e tutte le genti lo dicano beato. Benedetto il Signore Dio d’Israele: egli solo compie mera viglie. E benedetto il suo nome glorioso per sempre: della sua gloria sia piena tutta la terra. Am en amen. Qui finiscono le preghiere di Davide figlio di Iesse. Salmo. Di Asaf. Quanto è buono Dio con gli uomini retti, Dio con i puri di cuore! Ma io per poco non inciampavo, quasi vacillavano i miei passi, perché ho invidiato i prepotenti, vedendo il successo dei malvagi. Fino alla morte inf atti non hanno sofferenze e ben pasciuto è il loro ventre. Non si trovano mai nell’affanno dei m ortali e non sono colpiti come gli altri uomini. Dell’orgoglio si fanno una collana e indossano co me abito la violenza. I loro occhi sporgono dal grasso, dal loro cuore escono follie. Scherniscono e parlano con malizia, parlano dall’alto con prepotenza. Aprono la loro bocca fino al cielo e la lo ro lingua percorre la terra. Perciò il loro popolo li segue e beve la loro acqua in abbondanza. E di cono: «Dio come può saperlo? L’Altissimo come può conoscerlo?». Ecco così sono i malvagi: se mpre al sicuro ammassano ricchezze. Invano dunque ho conservato puro il mio cuore, e ho lava to nell’innocenza le mie mani! Perché sono colpito tutto il giorno e fin dal mattino sono castigat o? Se avessi detto: «Parlerò come loro», avrei tradito la generazione dei tuoi figli. Riflettevo per comprendere questo ma fu una fatica ai miei occhi, finché non entrai nel santuario di Dio e com presi quale sarà la loro fine. Ecco li poni in luoghi scivolosi, li fai cadere in rovina. Sono distrutti i n un istante! Sono finiti consumati dai terrori! Come un sogno al risveglio Signore, così quando s orgi fai svanire la loro immagine. Quando era amareggiato il mio cuore e i miei reni trafitti dal d olore, io ero insensato e non capivo, stavo davanti a te come una bestia. Ma io sono sempre co n te: tu mi hai preso per la mano destra. Mi guiderai secondo i tuoi disegni e poi mi accoglierai n ella gloria. Chi avrò per me nel cielo? Con te non desidero nulla sulla terra. Vengono meno la mi a carne e il mio cuore; ma Dio è roccia del mio cuore, mia parte per sempre. Ecco si perderà chi da te si allontana; tu distruggi chiunque ti è infedele. Per me il mio bene è stare vicino a Dio; nel Signore Dio ho posto il mio rifugio, per narrare tutte le tue opere. Maskil. Di Asaf. O Dio perché ci respingi per sempre, fumante di collera contro il gregge del tuo pascolo? Ricòrdati della comu nità che ti sei acquistata nei tempi antichi. Hai riscattato la tribù che è tua proprietà, il monte Si on dove hai preso dimora. Volgi i tuoi passi a queste rovine eterne: il nemico ha devastato tutto nel santuario. Ruggirono i tuoi avversari nella tua assemblea, issarono le loro bandiere come in segna. Come gente che s’apre un varco verso l’alto con la scure nel folto della selva, con l’ascia e con le mazze frantumavano le sue porte. Hanno dato alle fiamme il tuo santuario, hanno prof anato e demolito la dimora del tuo nome; pensavano: «Distruggiamoli tutti». Hanno incendiato nel paese tutte le dimore di Dio. Non vediamo più le nostre bandiere, non ci sono più profeti e t ra noi nessuno sa fino a quando. Fino a quando o Dio insulterà l’avversario? Il nemico disprezzer à per sempre il tuo nome? Perché ritiri la tua mano e trattieni in seno la tua destra? Eppure Dio
è nostro re dai tempi antichi, ha operato la salvezza nella nostra terra. Tu con potenza hai diviso il mare, hai spezzato la testa dei draghi sulle acque. Tu hai frantumato le teste di Leviatàn, lo ha i dato in pasto a un branco di belve. Tu hai fatto scaturire fonti e torrenti, tu hai inaridito fiumi p erenni. Tuo è il giorno e tua è la notte, tu hai fissato la luna e il sole; tu hai stabilito i confini dell a terra, l’estate e l’inverno tu li hai plasmati. Ricòrdati di questo: il nemico ha insultato il Signore
, un popolo stolto ha disprezzato il tuo nome. Non abbandonare ai rapaci la vita della tua tortor a, non dimenticare per sempre la vita dei tuoi poveri. Volgi lo sguardo alla tua alleanza; gli angol i della terra sono covi di violenza. L’oppresso non ritorni confuso, il povero e il misero lodino il t uo nome. àlzati o Dio difendi la mia causa, ricorda che lo stolto ti insulta tutto il giorno. Non dim enticare il clamore dei tuoi nemici; il tumulto dei tuoi avversari cresce senza fine. Al maestro del coro. Su «Non distruggere». Salmo. Di Asaf. Canto. Noi ti rendiamo grazie o Dio ti rendiamo gra zie: invocando il tuo nome raccontiamo le tue meraviglie. Sì nel tempo da me stabilito io giudich erò con rettitudine. Tremi pure la terra con i suoi abitanti: io tengo salde le sue colonne. Dico a chi si vanta: «Non vantatevi!», e ai malvagi: «Non alzate la fronte!». Non alzate la fronte contro il cielo, non parlate con aria insolente. Né dall’oriente né dall’occidente né dal deserto viene l’es altazione, perché Dio è giudice: è lui che abbatte l’uno ed esalta l’altro. Il Signore infatti tiene in mano una coppa, colma di vino drogato. Egli ne versa: fino alla feccia lo dovranno sorbire, ne be rranno tutti i malvagi della terra. Ma io ne parlerò per sempre, canterò inni al Dio di Giacobbe.
Piegherò la fronte dei malvagi, s’innalzerà la fronte dei giusti. Al maestro del coro. Per strument i a corda. Salmo. Di Asaf. Canto. Dio si è fatto conoscere in Giuda, in Israele è grande il suo nom e. è in Salem la sua tenda, in Sion la sua dimora. Là spezzò le saette dell’arco, lo scudo la spada l a guerra. Splendido tu sei, magnifico su montagne di preda. Furono spogliati i valorosi, furono c olti dal sonno, nessun prode ritrovava la sua mano. Dio di Giacobbe alla tua minaccia si paralizz ano carri e cavalli. Tu sei davvero terribile; chi ti resiste quando si scatena la tua ira? Dal cielo ha i fatto udire la sentenza: sbigottita tace la terra, quando Dio si alza per giudicare, per salvare tut ti i poveri della terra. Persino la collera dell’uomo ti dà gloria; gli scampati dalla collera ti fanno f esta. Fate voti al Signore vostro Dio e adempiteli, quanti lo circondano portino doni al Terribile, a lui che toglie il respiro ai potenti, che è terribile per i re della terra. Al maestro del coro. Su «Ie dutù n». Di Asaf. Salmo. La mia voce verso Dio: io grido aiuto! La mia voce verso Dio perché mi a scolti. Nel giorno della mia angoscia io cerco il Signore, nella notte le mie mani sono tese e non si stancano; l’anima mia rifiuta di calmarsi. Mi ricordo di Dio e gemo, medito e viene meno il mi o spirito. Tu trattieni dal sonno i miei occhi, sono turbato e incapace di parlare. Ripenso ai giorni passati, ricordo gli anni lontani. Un canto nella notte mi ritorna nel cuore: medito e il mio spirit o si va interrogando. Forse il Signore ci respingerà per sempre, non sarà mai più benevolo con n oi? è forse cessato per sempre il suo amore, è finita la sua promessa per sempre? Può Dio aver dimenticato la pietà, aver chiuso nell’ira la sua misericordia? E ho detto: «Questo è il mio torme nto: è mutata la destra dell’Altissimo». Ricordo i prodigi del Signore, sì ricordo le tue meraviglie di un tempo. Vado considerando le tue opere, medito tutte le tue prodezze. O Dio santa è la tua
via; quale dio è grande come il nostro Dio? Tu sei il Dio che opera meraviglie, manifesti la tua fo rza fra i popoli. Hai riscattato il tuo popolo con il tuo braccio, i figli di Giacobbe e di Giuseppe. Ti videro le acque o Dio, ti videro le acque e ne furono sconvolte; sussultarono anche gli abissi. Le nubi rovesciavano acqua, scoppiava il tuono nel cielo; le tue saette guizzavano. Il boato dei tuoi tuoni nel turbine, le tue folgori rischiaravano il mondo; tremava e si scuoteva la terra. Sul mare l a tua via, i tuoi sentieri sulle grandi acque, ma le tue orme non furono riconosciute. Guidasti co me un gregge il tuo popolo per mano di Mosè e di Aronne. Maskil. Di Asaf. Ascolta popolo mio l a mia legge, porgi l’orecchio alle parole della mia bocca. Aprirò la mia bocca con una parabola, r ievocherò gli enigmi dei tempi antichi. Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci han no raccontato non lo terremo nascosto ai nostri figli, raccontando alla generazione futura le azi oni gloriose e potenti del Signore e le meraviglie che egli ha compiuto. Ha stabilito un insegnam ento in Giacobbe, ha posto una legge in Israele, che ha comandato ai nostri padri di far conosce re ai loro figli, perché la conosca la generazione futura, i figli che nasceranno. Essi poi si alzeran no a raccontarlo ai loro figli, perché ripongano in Dio la loro fiducia e non dimentichino le opere di Dio, ma custodiscano i suoi comandi. Non siano come i loro padri, generazione ribelle e ostin ata, generazione dal cuore incostante e dallo spirito infedele a Dio. I figli di èfraim arcieri valoro si, voltarono le spalle nel giorno della battaglia. Non osservarono l’alleanza di Dio e si rifiutaron o di camminare nella sua legge. Dimenticarono le sue opere, le meraviglie che aveva loro mostr ato. Cose meravigliose aveva fatto davanti ai loro padri nel paese d’Egitto nella regione di Tanis.
Divise il mare e li fece passare, e fermò le acque come un argine. Li guidò con una nube di giorn o e tutta la notte con un bagliore di fuoco. Spaccò rocce nel deserto e diede loro da bere come dal grande abisso. Fece sgorgare ruscelli dalla rupe e scorrere l’acqua a fiumi. Eppure continuar ono a peccare contro di lui, a ribellarsi all’Altissimo in luoghi aridi. Nel loro cuore tentarono Dio, chiedendo cibo per la loro gola. Parlarono contro Dio, dicendo: «Sarà capace Dio di preparare u na tavola nel deserto?». Certo! Egli percosse la rupe e ne scaturì acqua e strariparono torrenti.
«Saprà dare anche pane o procurare carne al suo popolo?». Perciò il Signore udì e ne fu adirato; un fuoco divampò contro Giacobbe e la sua ira si levò contro Israele, perché non ebbero fede i n Dio e non confidarono nella sua salvezza. Diede ordine alle nubi dall’alto e aprì le porte del cie lo; fece piovere su di loro la manna per cibo e diede loro pane del cielo: l’uomo mangiò il pane dei forti; diede loro cibo in abbondanza. Scatenò nel cielo il vento orientale, con la sua forza fec e soffiare il vento australe; su di loro fece piovere carne come polvere e uccelli come sabbia del mare, li fece cadere in mezzo ai loro accampamenti, tutt’intorno alle loro tende. Mangiarono fin o a saziarsi ed egli appagò il loro desiderio. Il loro desiderio non era ancora scomparso, avevano ancora il cibo in bocca, quando l’ira di Dio si levò contro di loro, uccise i più robusti e abbatté i migliori d’Israele. Con tutto questo peccarono ancora e non ebbero fede nelle sue meraviglie. Al lora consumò in un soffio i loro giorni e i loro anni nel terrore. Quando li uccideva lo cercavano e tornavano a rivolgersi a lui, ricordavano che Dio è la loro roccia e Dio l’Altissimo il loro redent ore; lo lusingavano con la loro bocca, ma gli mentivano con la lingua: il loro cuore non era costa
nte verso di lui e non erano fedeli alla sua alleanza. Ma lui misericordioso perdonava la colpa, in vece di distruggere. Molte volte trattenne la sua ira e non scatenò il suo furore; ricordava che e ssi sono di carne, un soffio che va e non ritorna. Quante volte si ribellarono a lui nel deserto, lo r attristarono in quei luoghi solitari! Ritornarono a tentare Dio, a esasperare il Santo d’Israele. No n si ricordarono più della sua mano, del giorno in cui li aveva riscattati dall’oppressione, quando operò in Egitto i suoi segni, i suoi prodigi nella regione di Tanis. Egli mutò in sangue i loro fiumi e i loro ruscelli perché non bevessero. Mandò contro di loro tafani a divorarli e rane a distrugge rli. Diede ai bruchi il loro raccolto, alle locuste la loro fatica. Devastò le loro vigne con la grandin e, i loro sicomòri con la brina. Consegnò alla peste il loro bestiame, ai fulmini le loro greggi. Scat enò contro di loro l’ardore della sua ira, la collera lo sdegno la tribolazione, e inviò messaggeri d i sventure. Spianò la strada alla sua ira: non li risparmiò dalla morte e diede in preda alla peste l a loro vita. Colpì ogni primogenito in Egitto, nelle tende di Cam la primizia del loro vigore. Fece partire come pecore il suo popolo e li condusse come greggi nel deserto. Li guidò con sicurezza e non ebbero paura, ma i loro nemici li sommerse il mare. Li fece entrare nei confini del suo san tuario, questo monte che la sua destra si è acquistato. Scacciò davanti a loro le genti e sulla loro eredità gettò la sorte, facendo abitare nelle loro tende le tribù d’Israele. Ma essi lo tentarono, s i ribellarono a Dio l’Altissimo, e non osservarono i suoi insegnamenti. Deviarono e tradirono co me i loro padri, fallirono come un arco allentato. Lo provocarono con le loro alture sacre e con i loro idoli lo resero geloso. Dio udì e s’infiammò, e respinse duramente Israele. Abbandonò la di mora di Silo, la tenda che abitava tra gli uomini; ridusse in schiavitù la sua forza, il suo splendore in potere del nemico. Diede il suo popolo in preda alla spada e s’infiammò contro la sua eredità
. Il fuoco divorò i suoi giovani migliori, le sue fanciulle non ebbero canti nuziali. I suoi sacerdoti c addero di spada e le loro vedove non fecero il lamento. Ma poi il Signore si destò come da un so nno, come un eroe assopito dal vino. Colpì alle spalle i suoi avversari, inflisse loro una vergogna eterna. Rifiutò la tenda di Giuseppe, non scelse la tribù di èfraim, ma scelse la tribù di Giuda, il monte Sion che egli ama. Costruì il suo tempio alto come il cielo, e come la terra fondata per se mpre. Egli scelse Davide suo servo e lo prese dagli ovili delle pecore. Lo allontanò dalle pecore madri per farne il pastore di Giacobbe suo popolo, d’Israele sua eredità. Fu per loro un pastore dal cuore integro e li guidò con mano intelligente. Salmo. Di Asaf. O Dio nella tua eredità sono e ntrate le genti: hanno profanato il tuo santo tempio, hanno ridotto Gerusalemme in macerie. H
anno abbandonato i cadaveri dei tuoi servi in pasto agli uccelli del cielo, la carne dei tuoi fedeli agli animali selvatici. Hanno versato il loro sangue come acqua intorno a Gerusalemme e nessun o seppelliva. Siamo divenuti il disprezzo dei nostri vicini, lo scherno e la derisione di chi ci sta int orno. Fino a quando sarai adirato Signore: per sempre? Arderà come fuoco la tua gelosia? River sa il tuo sdegno sulle genti che non ti riconoscono e sui regni che non invocano il tuo nome, per ché hanno divorato Giacobbe, hanno devastato la sua dimora. Non imputare a noi le colpe dei n ostri antenati: presto ci venga incontro la tua misericordia, perché siamo così poveri! Aiutaci o Dio nostra salvezza, per la gloria del tuo nome; liberaci e perdona i nostri peccati a motivo del t
uo nome. Perché le genti dovrebbero dire: «Dov’è il loro Dio?». Si conosca tra le genti sotto i no stri occhi, la vendetta per il sangue versato dei tuoi servi. Giunga fino a te il gemito dei prigionie ri; con la grandezza del tuo braccio salva i condannati a morte. Fa’ ricadere sette volte sui nostri vicini dentro di loro, l’insulto con cui ti hanno insultato Signore. E noi tuo popolo e gregge del t uo pascolo, ti renderemo grazie per sempre; di generazione in generazione narreremo la tua lo de. Al maestro del coro. Su «Il giglio della testimonianza». Di Asaf. Salmo. Tu pastore d’Israele a scolta, tu che guidi Giuseppe come un gregge. Seduto sui cherubini risplendi davanti a èfraim Be niamino e Manasse. Risveglia la tua potenza e vieni a salvarci. O Dio fa’ che ritorniamo, fa’ splen dere il tuo volto e noi saremo salvi. Signore Dio degli eserciti, fino a quando fremerai di sdegno contro le preghiere del tuo popolo? Tu ci nutri con pane di lacrime, ci fai bere lacrime in abbond anza. Ci hai fatto motivo di contesa per i vicini e i nostri nemici ridono di noi. Dio degli eserciti fa
’ che ritorniamo, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi. Hai sradicato una vite dall’Egitto, h ai scacciato le genti e l’hai trapiantata. Le hai preparato il terreno, hai affondato le sue radici ed essa ha riempito la terra. La sua ombra copriva le montagne e i suoi rami i cedri più alti. Ha este so i suoi tralci fino al mare, arrivavano al fiume i suoi germogli. Perché hai aperto brecce nella s ua cinta e ne fa vendemmia ogni passante? La devasta il cinghiale del bosco e vi pascolano le be stie della campagna. Dio degli eserciti ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, prot eggi quello che la tua destra ha piantato, il figlio dell’uomo che per te hai reso forte. è stata dat a alle fiamme è stata recisa: essi periranno alla minaccia del tuo volto. Sia la tua mano sull’uom o della tua destra, sul figlio dell’uomo che per te hai reso forte. Da te mai più ci allontaneremo, facci rivivere e noi invocheremo il tuo nome. Signore Dio degli eserciti fa’ che ritorniamo, fa’ spl endere il tuo volto e noi saremo salvi. Al maestro del coro. Su «I torchi». Di Asaf. Esultate in Dio nostra forza, acclamate il Dio di Giacobbe! Intonate il canto e suonate il tamburello, la cetra mel odiosa con l’arpa. Suonate il corno nel novilunio, nel plenilunio nostro giorno di festa. Questo è un decreto per Israele, un giudizio del Dio di Giacobbe, una testimonianza data a Giuseppe, qua ndo usciva dal paese d’Egitto. Un linguaggio mai inteso io sento: «Ho liberato dal peso la sua sp alla, le sue mani hanno deposto la cesta. Hai gridato a me nell’angoscia e io ti ho liberato; nasco sto nei tuoni ti ho dato risposta, ti ho messo alla prova alle acque di Merìba. Ascolta popolo mio
: contro di te voglio testimoniare. Israele se tu mi ascoltassi! Non ci sia in mezzo a te un dio estr aneo e non prostrarti a un dio straniero. Sono io il Signore tuo Dio, che ti ha fatto salire dal paes e d’Egitto: apri la tua bocca la voglio riempire. Ma il mio popolo non ha ascoltato la mia voce, Isr aele non mi ha obbedito: l’ho abbandonato alla durezza del suo cuore. Seguano pure i loro prog etti! Se il mio popolo mi ascoltasse! Se Israele camminasse per le mie vie! Subito piegherei i suo i nemici e contro i suoi avversari volgerei la mia mano; quelli che odiano il Signore gli sarebbero sottomessi e la loro sorte sarebbe segnata per sempre. Lo nutrirei con fiore di frumento, lo sazi erei con miele dalla roccia». Salmo. Di Asaf. Dio presiede l’assemblea divina, giudica in mezzo ag li dèi: «Fino a quando emetterete sentenze ingiuste e sosterrete la parte dei malvagi? Difendete il debole e l’orfano, al povero e al misero fate giustizia! Salvate il debole e l’indigente, liberatel
o dalla mano dei malvagi!». Non capiscono non vogliono intendere, camminano nelle tenebre; v acillano tutte le fondamenta della terra. Io ho detto: «Voi siete dèi, siete tutti figli dell’Altissimo, ma certo morirete come ogni uomo, cadrete come tutti i potenti». àlzati o Dio a giudicare la ter ra, perché a te appartengono tutte le genti! Canto. Salmo. Di Asaf. Dio non startene muto, non r estare in silenzio e inerte o Dio. Vedi: i tuoi nemici sono in tumulto e quelli che ti odiano alzano l a testa. Contro il tuo popolo tramano congiure e cospirano contro i tuoi protetti. Hanno detto:
«Venite cancelliamoli come popolo e più non si ricordi il nome d’Israele». Hanno tramato insie me concordi, contro di te hanno concluso un patto: le tende di Edom e gli Ismaeliti, Moab e gli Agareni, Gebal Ammon e Amalèk, la Filistea con gli abitanti di Tiro. Anche l’Assiria è loro alleata e dà man forte ai figli di Lot. Trattali come Madian come Sìsara, come Iabin al torrente Kison: es si furono distrutti a Endor, divennero concime dei campi. Rendi i loro prìncipi come Oreb e Zeeb
, e come Zebach e come Salmunnà tutti i loro capi; essi dicevano: «I pascoli di Dio conquistiamol i per noi». Mio Dio rendili come un vortice, come paglia che il vento disperde. Come fuoco che i ncendia la macchia e come fiamma che divampa sui monti, così tu incalzali con la tua bufera e s gomentali con il tuo uragano. Copri di vergogna i loro volti perché cerchino il tuo nome Signore.
Siano svergognati e tremanti per sempre, siano confusi e distrutti; sappiano che il tuo nome è «
Signore»: tu solo l’Altissimo su tutta la terra. Al maestro del coro. Su «I torchi». Dei figli di Core.
Salmo. Quanto sono amabili le tue dimore, Signore degli eserciti! L’anima mia anela e desidera gli atri del Signore. Il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivente. Anche il passero trova u na casa e la rondine il nido dove porre i suoi piccoli, presso i tuoi altari, Signore degli eserciti, mi o re e mio Dio. Beato chi abita nella tua casa: senza fine canta le tue lodi. Beato l’uomo che trov a in te il suo rifugio e ha le tue vie nel suo cuore. Passando per la valle del pianto la cambia in un a sorgente; anche la prima pioggia l’ammanta di benedizioni. Cresce lungo il cammino il suo vig ore, finché compare davanti a Dio in Sion. Signore Dio degli eserciti ascolta la mia preghiera, por gi l’orecchio Dio di Giacobbe. Guarda o Dio colui che è il nostro scudo, guarda il volto del tuo co nsacrato. Sì è meglio un giorno nei tuoi atri che mille nella mia casa; stare sulla soglia della casa del mio Dio è meglio che abitare nelle tende dei malvagi. Perché sole e scudo è il Signore Dio; il Signore concede grazia e gloria, non rifiuta il bene a chi cammina nell’integrità. Signore degli es erciti, beato l’uomo che in te confida. Al maestro del coro. Dei figli di Core. Salmo. Sei stato buo no Signore con la tua terra, hai ristabilito la sorte di Giacobbe. Hai perdonato la colpa del tuo po polo, hai coperto ogni loro peccato. Hai posto fine a tutta la tua collera, ti sei distolto dalla tua ir a ardente. Ritorna a noi Dio nostra salvezza, e placa il tuo sdegno verso di noi. Forse per sempre sarai adirato con noi, di generazione in generazione riverserai la tua ira? Non tornerai tu a ridar ci la vita, perché in te gioisca il tuo popolo? Mostraci Signore la tua misericordia e donaci la tua salvezza. Ascolterò che cosa dice Dio il Signore: egli annuncia la pace per il suo popolo per i suoi fedeli, per chi ritorna a lui con fiducia. Sì la sua salvezza è vicina a chi lo teme, perché la sua glor ia abiti la nostra terra. Amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno. Verità ger moglierà dalla terra e giustizia si affaccerà dal cielo. Certo il Signore donerà il suo bene e la nost
ra terra darà il suo frutto; giustizia camminerà davanti a lui: i suoi passi tracceranno il cammino.
Supplica. Di Davide. Signore tendi l’orecchio rispondimi, perché io sono povero e misero. Custo discimi perché sono fedele; tu Dio mio salva il tuo servo che in te confida. Pietà di me Signore, a te grido tutto il giorno. Rallegra la vita del tuo servo, perché a te Signore rivolgo l’anima mia. Tu sei buono Signore e perdoni, sei pieno di misericordia con chi t’invoca. Porgi l’orecchio Signore alla mia preghiera e sii attento alla voce delle mie suppliche. Nel giorno dell’angoscia alzo a te il mio grido perché tu mi rispondi. Fra gli dèi nessuno è come te Signore, e non c’è nulla come le t ue opere. Tutte le genti che hai creato verranno e si prostreranno davanti a te Signore, per dare gloria al tuo nome. Grande tu sei e compi meraviglie: tu solo sei Dio. Mostrami Signore la tua vi a, perché nella tua verità io cammini; tieni unito il mio cuore, perché tema il tuo nome. Ti loder ò Signore mio Dio con tutto il cuore e darò gloria al tuo nome per sempre, perché grande con m e è la tua misericordia: hai liberato la mia vita dal profondo degli inferi. O Dio gli arroganti contr o di me sono insorti e una banda di prepotenti insidia la mia vita, non pongono te davanti ai lor o occhi. Ma tu Signore Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà, vo lgiti a me e abbi pietà: dona al tuo servo la tua forza, salva il figlio della tua serva. Dammi un seg no di bontà vedano quelli che mi odiano e si vergognino, perché tu Signore mi aiuti e mi consoli.
Dei figli di Core. Salmo. Canto. Sui monti santi egli l’ha fondata; il Signore ama le porte di Sion p iù di tutte le dimore di Giacobbe. Di te si dicono cose gloriose, città di Dio! Iscriverò Raab e Babil onia fra quelli che mi riconoscono; ecco Filistea Tiro ed Etiopia: là costui è nato. Si dirà di Sion: «
L’uno e l’altro in essa sono nati e lui l’Altissimo la mantiene salda». Il Signore registrerà nel libro dei popoli: «Là costui è nato». E danzando canteranno: «Sono in te tutte le mie sorgenti». Cant o. Salmo. Dei figli di Core. Al maestro del coro. Sull’aria di «Macalàt leannòt». Maskil. Di Eman l’
Ezraita. Signore Dio della mia salvezza, davanti a te grido giorno e notte. Giunga fino a te la mia preghiera, tendi l’orecchio alla mia supplica. Io sono sazio di sventure, la mia vita è sull’orlo degl i inferi. Sono annoverato fra quelli che scendono nella fossa, sono come un uomo ormai senza f orze. Sono libero ma tra i morti, come gli uccisi stesi nel sepolcro, dei quali non conservi più il ri cordo, recisi dalla tua mano. Mi hai gettato nella fossa più profonda, negli abissi tenebrosi. Pesa su di me il tuo furore e mi opprimi con tutti i tuoi flutti. Hai allontanato da me i miei compagni, mi hai reso per loro un orrore. Sono prigioniero senza scampo, si consumano i miei occhi nel pa tire. Tutto il giorno ti chiamo Signore, verso di te protendo le mie mani. Compi forse prodigi per i morti? O si alzano le ombre a darti lode? Si narra forse la tua bontà nel sepolcro, la tua fedeltà nel regno della morte? Si conoscono forse nelle tenebre i tuoi prodigi, la tua giustizia nella terra dell’oblio? Ma io Signore a te grido aiuto e al mattino viene incontro a te la mia preghiera. Perc hé Signore mi respingi? Perché mi nascondi il tuo volto? Sin dall’infanzia sono povero e vicino al la morte, sfinito sotto il peso dei tuoi terrori. Sopra di me è passata la tua collera, i tuoi spaventi mi hanno annientato, mi circondano come acqua tutto il giorno, tutti insieme mi avvolgono. Ha i allontanato da me amici e conoscenti, mi fanno compagnia soltanto le tenebre. Maskil. Di Etan l’Ezraita. Canterò in eterno l’amore del Signore, di generazione in generazione farò conoscere c
on la mia bocca la tua fedeltà, perché ho detto: «è un amore edificato per sempre; nel cielo ren di stabile la tua fedeltà». «Ho stretto un’alleanza con il mio eletto, ho giurato a Davide mio serv o. Stabilirò per sempre la tua discendenza, di generazione in generazione edificherò il tuo trono
». I cieli cantano le tue meraviglie Signore, la tua fedeltà nell’assemblea dei santi. Chi sulle nubi è uguale al Signore, chi è simile al Signore tra i figli degli dèi? Dio è tremendo nel consiglio dei sa nti, grande e terribile tra quanti lo circondano. Chi è come te Signore Dio degli eserciti? Potente Signore la tua fedeltà ti circonda. Tu domini l’orgoglio del mare, tu plachi le sue onde tempestos e. Tu hai ferito e calpestato Raab, con braccio potente hai disperso i tuoi nemici. Tuoi sono i ciel i tua è la terra, tu hai fondato il mondo e quanto contiene; il settentrione e il mezzogiorno tu li hai creati, il Tabor e l’Ermon cantano il tuo nome. Tu hai un braccio potente, forte è la tua mano alta la tua destra. Giustizia e diritto sono la base del tuo trono, amore e fedeltà precedono il tu o volto. Beato il popolo che ti sa acclamare: camminerà Signore alla luce del tuo volto; esulta tu tto il giorno nel tuo nome, si esalta nella tua giustizia. Perché tu sei lo splendore della sua forza e con il tuo favore innalzi la nostra fronte. Perché del Signore è il nostro scudo, il nostro re del S
anto d’Israele. Un tempo parlasti in visione ai tuoi fedeli dicendo: «Ho portato aiuto a un prode, ho esaltato un eletto tra il mio popolo. Ho trovato Davide mio servo, con il mio santo olio l’ho c onsacrato; la mia mano è il suo sostegno, il mio braccio è la sua forza. Su di lui non trionferà il n emico né l’opprimerà l’uomo perverso. Annienterò davanti a lui i suoi nemici e colpirò quelli ch e lo odiano. La mia fedeltà e il mio amore saranno con lui e nel mio nome s’innalzerà la sua fron te. Farò estendere sul mare la sua mano e sui fiumi la sua destra. Egli mi invocherà: “Tu sei mio padre, mio Dio e roccia della mia salvezza”. Io farò di lui il mio primogenito, il più alto fra i re del la terra. Gli conserverò sempre il mio amore, la mia alleanza gli sarà fedele. Stabilirò per sempre la sua discendenza, il suo trono come i giorni del cielo. Se i suoi figli abbandoneranno la mia leg ge e non seguiranno i miei decreti, se violeranno i miei statuti e non osserveranno i miei coman di, punirò con la verga la loro ribellione e con flagelli la loro colpa. Ma non annullerò il mio amor e e alla mia fedeltà non verrò mai meno. Non profanerò la mia alleanza, non muterò la mia pro messa. Sulla mia santità ho giurato una volta per sempre: certo non mentirò a Davide. In eterno durerà la sua discendenza, il suo trono davanti a me quanto il sole, sempre saldo come la luna, testimone fedele nel cielo». Ma tu lo hai respinto e disonorato, ti sei adirato contro il tuo consa crato; hai infranto l’alleanza con il tuo servo, hai profanato nel fango la sua corona. Hai aperto b recce in tutte le sue mura e ridotto in rovine le sue fortezze; tutti i passanti lo hanno depredato, è divenuto lo scherno dei suoi vicini. Hai esaltato la destra dei suoi rivali, hai fatto esultare tutti i suoi nemici. Hai smussato il filo della sua spada e non l’hai sostenuto nella battaglia. Hai posto fine al suo splendore, hai rovesciato a terra il suo trono. Hai abbreviato i giorni della sua giovine zza e lo hai coperto di vergogna. Fino a quando Signore ti terrai nascosto: per sempre? Arderà c ome fuoco la tua collera? Ricorda quanto è breve la mia vita: invano forse hai creato ogni uomo
? Chi è l’uomo che vive e non vede la morte? Chi potrà sfuggire alla mano degli inferi? Dov’è Sig nore il tuo amore di un tempo, che per la tua fedeltà hai giurato a Davide? Ricorda Signore l’oltr
aggio fatto ai tuoi servi: porto nel cuore le ingiurie di molti popoli, con le quali Signore i tuoi ne mici insultano, insultano i passi del tuo consacrato. Benedetto il Signore in eterno. Amen amen.
Preghiera. Di Mosè uomo di Dio. Signore tu sei stato per noi un rifugio di generazione in genera zione. Prima che nascessero i monti e la terra e il mondo fossero generati, da sempre e per sem pre tu sei o Dio. Tu fai ritornare l’uomo in polvere, quando dici: «Ritornate figli dell’uomo». Mill e anni ai tuoi occhi, sono come il giorno di ieri che è passato, come un turno di veglia nella nott e. Tu li sommergi: sono come un sogno al mattino, come l’erba che germoglia; al mattino fiorisc e e germoglia, alla sera è falciata e secca. Sì siamo distrutti dalla tua ira, atterriti dal tuo furore!
Davanti a te poni le nostre colpe, i nostri segreti alla luce del tuo volto. Tutti i nostri giorni svani scono per la tua collera, consumiamo i nostri anni come un soffio. Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, e il loro agitarsi è fatica e delusione; passano presto e noi vol iamo via. Chi conosce l’impeto della tua ira e nel timore di te la tua collera? Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio. Ritorna Signore: fino a quando? Abbi pietà dei tu oi servi! Saziaci al mattino con il tuo amore: esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni. Rend ici la gioia per i giorni in cui ci hai afflitti, per gli anni in cui abbiamo visto il male. Si manifesti ai t uoi servi la tua opera e il tuo splendore ai loro figli. Sia su di noi la dolcezza del Signore nostro Di o: rendi salda per noi l’opera delle nostre mani, l’opera delle nostre mani rendi salda. Chi abita al riparo dell’Altissimo passerà la notte all’ombra dell’Onnipotente. Io dico al Signore: «Mio rifu gio e mia fortezza, mio Dio in cui confido». Egli ti libererà dal laccio del cacciatore, dalla peste c he distrugge. Ti coprirà con le sue penne, sotto le sue ali troverai rifugio; la sua fedeltà ti sarà sc udo e corazza. Non temerai il terrore della notte né la freccia che vola di giorno, la peste che va ga nelle tenebre, lo sterminio che devasta a mezzogiorno. Mille cadranno al tuo fianco e diecimi la alla tua destra, ma nulla ti potrà colpire. Basterà che tu apra gli occhi e vedrai la ricompensa d ei malvagi! «Sì mio rifugio sei tu o Signore!». Tu hai fatto dell’Altissimo la tua dimora: non ti pot rà colpire la sventura, nessun colpo cadrà sulla tua tenda. Egli per te darà ordine ai suoi angeli d i custodirti in tutte le tue vie. Sulle mani essi ti porteranno, perché il tuo piede non inciampi nell a pietra. Calpesterai leoni e vipere, schiaccerai leoncelli e draghi. «Lo libererò perché a me si è l egato, lo porrò al sicuro perché ha conosciuto il mio nome. Mi invocherà e io gli darò risposta; n ell’angoscia io sarò con lui, lo libererò e lo renderò glorioso. Lo sazierò di lunghi giorni e gli farò vedere la mia salvezza». Salmo. Canto. Per il giorno del sabato. è bello rendere grazie al Signore e cantare al tuo nome o Altissimo, annunciare al mattino il tuo amore, la tua fedeltà lungo la no tte, sulle dieci corde e sull’arpa, con arie sulla cetra. Perché mi dai gioia Signore con le tue mera viglie, esulto per l’opera delle tue mani. Come sono grandi le tue opere Signore, quanto profon di i tuoi pensieri! L’uomo insensato non li conosce e lo stolto non li capisce: se i malvagi spuntan o come l’erba e fioriscono tutti i malfattori, è solo per la loro eterna rovina, ma tu o Signore sei l
’eccelso per sempre. Ecco i tuoi nemici o Signore, i tuoi nemici ecco periranno, saranno dispersi tutti i malfattori. Tu mi doni la forza di un bufalo, mi hai cosparso di olio splendente. I miei occhi disprezzeranno i miei nemici e contro quelli che mi assalgono, i miei orecchi udranno sventure.

Il giusto fiorirà come palma, crescerà come cedro del Libano; piantati nella casa del Signore, fior iranno negli atri del nostro Dio. Nella vecchiaia daranno ancora frutti, saranno verdi e rigogliosi, per annunciare quanto è retto il Signore, mia roccia: in lui non c’è malvagità. Il Signore regna si r iveste di maestà: si riveste il Signore si cinge di forza. è stabile il mondo non potrà vacillare. Stab ile è il tuo trono da sempre, dall’eternità tu sei. Alzarono i fiumi Signore, alzarono i fiumi la loro voce, alzarono i fiumi il loro fragore. Più del fragore di acque impetuose, più potente dei flutti d el mare, potente nell’alto è il Signore. Davvero degni di fede i tuoi insegnamenti! La santità si ad dice alla tua casa per la durata dei giorni Signore. Dio vendicatore Signore, Dio vendicatore rispl endi! àlzati giudice della terra, rendi ai superbi quello che si meritano! Fino a quando i malvagi S
ignore, fino a quando i malvagi trionferanno? Sparleranno diranno insolenze, si vanteranno tutti i malfattori? Calpestano il tuo popolo Signore, opprimono la tua eredità. Uccidono la vedova e i l forestiero, massacrano gli orfani. E dicono: «Il Signore non vede, il Dio di Giacobbe non intend e». Intendete ignoranti del popolo: stolti quando diventerete saggi? Chi ha formato l’orecchio f orse non sente? Chi ha plasmato l’occhio forse non vede? Colui che castiga le genti forse non pu nisce, lui che insegna all’uomo il sapere? Il Signore conosce i pensieri dell’uomo: non sono che u n soffio. Beato l’uomo che tu castighi Signore, e a cui insegni la tua legge, per dargli riposo nei gi orni di sventura, finché al malvagio sia scavata la fossa; poiché il Signore non respinge il suo pop olo e non abbandona la sua eredità, il giudizio ritornerà a essere giusto e lo seguiranno tutti i re tti di cuore. Chi sorgerà per me contro i malvagi? Chi si alzerà con me contro i malfattori? Se il Si gnore non fosse stato il mio aiuto, in breve avrei abitato nel regno del silenzio. Quando dicevo:
«Il mio piede vacilla», la tua fedeltà Signore mi ha sostenuto. Nel mio intimo fra molte preoccup azioni, il tuo conforto mi ha allietato. Può essere tuo alleato un tribunale iniquo, che in nome de lla legge provoca oppressioni? Si avventano contro la vita del giusto e condannano il sangue inn ocente. Ma il Signore è il mio baluardo, roccia del mio rifugio è il mio Dio. Su di loro farà ricader e la loro malizia, li annienterà per la loro perfidia, li annienterà il Signore nostro Dio. Venite cant iamo al Signore, acclamiamo la roccia della nostra salvezza. Accostiamoci a lui per rendergli graz ie, a lui acclamiamo con canti di gioia. Perché grande Dio è il Signore, grande re sopra tutti gli dè i. Nella sua mano sono gli abissi della terra, sono sue le vette dei monti. Suo è il mare è lui che l’
ha fatto; le sue mani hanno plasmato la terra. Entrate: prostràti adoriamo, in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti. è lui il nostro Dio e noi il popolo del suo pascolo, il gregge che egli cond uce. Se ascoltaste oggi la sua voce! «Non indurite il cuore come a Merìba, come nel giorno di M
assa nel deserto, dove mi tentarono i vostri padri: mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere. Per quarant’anni mi disgustò quella generazione e dissi: “Sono un popolo dal cuore travi ato, non conoscono le mie vie”. Perciò ho giurato nella mia ira: “Non entreranno nel luogo del mio riposo”». Cantate al Signore un canto nuovo, cantate al Signore uomini di tutta la terra. Can tate al Signore benedite il suo nome, annunciate di giorno in giorno la sua salvezza. In mezzo all e genti narrate la sua gloria, a tutti i popoli dite le sue meraviglie. Grande è il Signore e degno di ogni lode, terribile sopra tutti gli dèi. Tutti gli dèi dei popoli sono un nulla, il Signore invece ha f
atto i cieli. Maestà e onore sono davanti a lui, forza e splendore nel suo santuario. Date al Signo re o famiglie dei popoli, date al Signore gloria e potenza, date al Signore la gloria del suo nome.
Portate offerte ed entrate nei suoi atri, prostratevi al Signore nel suo atrio santo. Tremi davanti a lui tutta la terra. Dite tra le genti: «Il Signore regna!». è stabile il mondo non potrà vacillare! E
gli giudica i popoli con rettitudine. Gioiscano i cieli esulti la terra, risuoni il mare e quanto racchi ude; sia in festa la campagna e quanto contiene, acclamino tutti gli alberi della foresta davanti a l Signore che viene: sì egli viene a giudicare la terra; giudicherà il mondo con giustizia e nella sua fedeltà i popoli. Il Signore regna: esulti la terra, gioiscano le isole tutte. Nubi e tenebre lo avvolg ono, giustizia e diritto sostengono il suo trono. Un fuoco cammina davanti a lui e brucia tutt’int orno i suoi nemici. Le sue folgori rischiarano il mondo: vede e trema la terra. I monti fondono co me cera davanti al Signore, davanti al Signore di tutta la terra. Annunciano i cieli la sua giustizia, e tutti i popoli vedono la sua gloria. Si vergognino tutti gli adoratori di statue e chi si vanta del n ulla degli idoli. A lui si prostrino tutti gli dèi! Ascolti Sion e ne gioisca, esultino i villaggi di Giuda a causa dei tuoi giudizi Signore. Perché tu Signore, sei l’Altissimo su tutta la terra, eccelso su tut ti gli dèi. Odiate il male voi che amate il Signore: egli custodisce la vita dei suoi fedeli, li libererà dalle mani dei malvagi. Una luce è spuntata per il giusto, una gioia per i retti di cuore. Gioite giu sti nel Signore, della sua santità celebrate il ricordo. Salmo. Cantate al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto meraviglie. Gli ha dato vittoria la sua destra e il suo braccio santo. Il Signor e ha fatto conoscere la sua salvezza, agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia. Egli si è rico rdato del suo amore, della sua fedeltà alla casa d’Israele. Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio. Acclami il Signore tutta la terra, gridate esultate cantate inni! Cantate inni al Signore con la cetra, con la cetra e al suono di strumenti a corde; con le trombe e al suon o del corno acclamate davanti al re il Signore. Risuoni il mare e quanto racchiude, il mondo e i s uoi abitanti. I fiumi battano le mani, esultino insieme le montagne davanti al Signore che viene a giudicare la terra: giudicherà il mondo con giustizia e i popoli con rettitudine. Il Signore regna: tremino i popoli. Siede in trono sui cherubini: si scuota la terra. Grande è il Signore in Sion, eccel so sopra tutti i popoli. Lodino il tuo nome grande e terribile. Egli è santo! Forza del re è amare il diritto. Tu hai stabilito ciò che è retto; diritto e giustizia hai operato in Giacobbe. Esaltate il Sign ore nostro Dio, prostratevi allo sgabello dei suoi piedi. Egli è santo! Mosè e Aronne tra i suoi sac erdoti, Samuele tra quanti invocavano il suo nome: invocavano il Signore ed egli rispondeva. Par lava loro da una colonna di nubi: custodivano i suoi insegnamenti e il precetto che aveva loro da to. Signore nostro Dio tu li esaudivi, eri per loro un Dio che perdona, pur castigando i loro pecca ti. Esaltate il Signore nostro Dio, prostratevi davanti alla sua santa montagna, perché santo è il S
ignore nostro Dio! Salmo. Per il rendimento di grazie. Acclamate il Signore voi tutti della terra, s ervite il Signore nella gioia, presentatevi a lui con esultanza. Riconoscete che solo il Signore è Di o: egli ci ha fatti e noi siamo suoi, suo popolo e gregge del suo pascolo. Varcate le sue porte con inni di grazie, i suoi atri con canti di lode, lodatelo benedite il suo nome; perché buono è il Sign ore, il suo amore è per sempre, la sua fedeltà di generazione in generazione. Di Davide. Salmo.

Amore e giustizia io voglio cantare, voglio cantare inni a te Signore. Agirò con saggezza nella via dell’innocenza: quando a me verrai? Camminerò con cuore innocente dentro la mia casa. Non s opporterò davanti ai miei occhi azioni malvagie, detesto chi compie delitti: non mi starà vicino.
Lontano da me il cuore perverso, il malvagio non lo voglio conoscere. Chi calunnia in segreto il s uo prossimo io lo ridurrò al silenzio; chi ha occhio altero e cuore superbo non lo potrò sopporta re. I miei occhi sono rivolti ai fedeli del paese perché restino accanto a me: chi cammina nella vi a dell’innocenza, costui sarà al mio servizio. Non abiterà dentro la mia casa chi agisce con ingan no, chi dice menzogne non starà alla mia presenza. Ridurrò al silenzio ogni mattino tutti i malva gi del paese, per estirpare dalla città del Signore quanti operano il male. Preghiera di un povero che è sfinito ed effonde davanti al Signore il suo lamento. Signore ascolta la mia preghiera, a te giunga il mio grido di aiuto. Non nascondermi il tuo volto nel giorno in cui sono nell’angoscia. Te ndi verso di me l’orecchio, quando t’invoco presto rispondimi! Svaniscono in fumo i miei giorni e come brace ardono le mie ossa. Falciato come erba inaridisce il mio cuore; dimentico di mangi are il mio pane. A forza di gridare il mio lamento mi si attacca la pelle alle ossa. Sono come la civ etta del deserto, sono come il gufo delle rovine. Resto a vegliare: sono come un passero solitari o sopra il tetto. Tutto il giorno mi insultano i miei nemici, furenti imprecano contro di me. Cener e mangio come fosse pane, alla mia bevanda mescolo il pianto; per il tuo sdegno e la tua collera mi hai sollevato e scagliato lontano. I miei giorni declinano come ombra e io come erba inaridis co. Ma tu Signore rimani in eterno, il tuo ricordo di generazione in generazione. Ti alzerai e avra i compassione di Sion: è tempo di averne pietà l’ora è venuta! Poiché ai tuoi servi sono care le s ue pietre e li muove a pietà la sua polvere. Le genti temeranno il nome del Signore e tutti i re de lla terra la tua gloria, quando il Signore avrà ricostruito Sion e sarà apparso in tutto il suo splend ore. Egli si volge alla preghiera dei derelitti, non disprezza la loro preghiera. Questo si scriva per la generazione futura e un popolo da lui creato darà lode al Signore: «Il Signore si è affacciato d all’alto del suo santuario, dal cielo ha guardato la terra, per ascoltare il sospiro del prigioniero, p er liberare i condannati a morte, perché si proclami in Sion il nome del Signore e la sua lode in G
erusalemme, quando si raduneranno insieme i popoli e i regni per servire il Signore». Lungo il ca mmino mi ha tolto le forze, ha abbreviato i miei giorni. Io dico: mio Dio non rapirmi a metà dei miei giorni; i tuoi anni durano di generazione in generazione. In principio tu hai fondato la terra, i cieli sono opera delle tue mani. Essi periranno tu rimani; si logorano tutti come un vestito, co me un abito tu li muterai ed essi svaniranno. Ma tu sei sempre lo stesso e i tuoi anni non hanno fine. I figli dei tuoi servi avranno una dimora, la loro stirpe vivrà sicura alla tua presenza. Di Davi de. Benedici il Signore anima mia, quanto è in me benedica il suo santo nome. Benedici il Signor e anima mia, non dimenticare tutti i suoi benefici. Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità, salva dalla fossa la tua vita, ti circonda di bontà e misericordia, sazia di beni la t ua vecchiaia, si rinnova come aquila la tua giovinezza. Il Signore compie cose giuste, difende i di ritti di tutti gli oppressi. Ha fatto conoscere a Mosè le sue vie, le sue opere ai figli d’Israele. Mise ricordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. Non è in lite per sempre, non
rimane adirato in eterno. Non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe. Perché quanto il cielo è alto sulla terra, così la sua misericordia è potente su quelli che lo temono; quanto dista l’oriente dall’occidente, così egli allontana da noi le nostre colpe. Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso quelli che lo temono, perché egli sa b ene di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere. L’uomo: come l’erba sono i suoi giorni
! Come un fiore di campo così egli fiorisce. Se un vento lo investe non è più, né più lo riconosce l a sua dimora. Ma l’amore del Signore è da sempre, per sempre su quelli che lo temono, e la sua giustizia per i figli dei figli, per quelli che custodiscono la sua alleanza e ricordano i suoi precetti per osservarli. Il Signore ha posto il suo trono nei cieli e il suo regno domina l’universo. Benedite il Signore angeli suoi, potenti esecutori dei suoi comandi, attenti alla voce della sua parola. Ben edite il Signore voi tutte sue schiere, suoi ministri che eseguite la sua volontà. Benedite il Signor e voi tutte opere sue, in tutti i luoghi del suo dominio. Benedici il Signore anima mia. Benedici il Signore anima mia! Sei tanto grande Signore mio Dio! Sei rivestito di maestà e di splendore, avv olto di luce come di un manto, tu che distendi i cieli come una tenda, costruisci sulle acque le tu e alte dimore, fai delle nubi il tuo carro, cammini sulle ali del vento, fai dei venti i tuoi messagge ri e dei fulmini i tuoi ministri. Egli fondò la terra sulle sue basi: non potrà mai vacillare. Tu l’hai c operta con l’oceano come una veste; al di sopra dei monti stavano le acque. Al tuo rimprovero esse fuggirono, al fragore del tuo tuono si ritrassero atterrite. Salirono sui monti discesero nelle valli, verso il luogo che avevi loro assegnato; hai fissato loro un confine da non oltrepassare, per ché non tornino a coprire la terra. Tu mandi nelle valli acque sorgive perché scorrano tra i monti
, dissetino tutte le bestie dei campi e gli asini selvatici estinguano la loro sete. In alto abitano gli uccelli del cielo e cantano tra le fronde. Dalle tue dimore tu irrighi i monti, e con il frutto delle t ue opere si sazia la terra. Tu fai crescere l’erba per il bestiame e le piante che l’uomo coltiva per trarre cibo dalla terra, vino che allieta il cuore dell’uomo, olio che fa brillare il suo volto e pane che sostiene il suo cuore. Sono sazi gli alberi del Signore, i cedri del Libano da lui piantati. Là gli uccelli fanno il loro nido e sui cipressi la cicogna ha la sua casa; le alte montagne per le capre sel vatiche, le rocce rifugio per gli iràci. Hai fatto la luna per segnare i tempi e il sole che sa l’ora del tramonto. Stendi le tenebre e viene la notte: in essa si aggirano tutte le bestie della foresta; rug giscono i giovani leoni in cerca di preda e chiedono a Dio il loro cibo. Sorge il sole: si ritirano e si accovacciano nelle loro tane. Allora l’uomo esce per il suo lavoro, per la sua fatica fino a sera. Q
uante sono le tue opere Signore! Le hai fatte tutte con saggezza; la terra è piena delle tue creat ure. Ecco il mare spazioso e vasto: là rettili e pesci senza numero, animali piccoli e grandi; lo sol cano le navi e il Leviatàn che tu hai plasmato per giocare con lui. Tutti da te aspettano che tu di a loro cibo a tempo opportuno. Tu lo provvedi essi lo raccolgono; apri la tua mano si saziano di beni. Nascondi il tuo volto: li assale il terrore; togli loro il respiro: muoiono, e ritornano nella lor o polvere. Mandi il tuo spirito sono creati, e rinnovi la faccia della terra. Sia per sempre la gloria del Signore; gioisca il Signore delle sue opere. Egli guarda la terra ed essa trema, tocca i monti e d essi fumano. Voglio cantare al Signore finché ho vita, cantare inni al mio Dio finché esisto. A lu
i sia gradito il mio canto, io gioirò nel Signore. Scompaiano i peccatori dalla terra e i malvagi non esistano più. Benedici il Signore anima mia. Alleluia. Rendete grazie al Signore e invocate il suo nome, proclamate fra i popoli le sue opere. A lui cantate a lui inneggiate, meditate tutte le sue meraviglie. Gloriatevi del suo santo nome: gioisca il cuore di chi cerca il Signore. Cercate il Signo re e la sua potenza, ricercate sempre il suo volto. Ricordate le meraviglie che ha compiuto, i suo i prodigi e i giudizi della sua bocca, voi stirpe di Abramo suo servo, figli di Giacobbe suo eletto. è lui il Signore nostro Dio: su tutta la terra i suoi giudizi. Si è sempre ricordato della sua alleanza, parola data per mille generazioni, dell’alleanza stabilita con Abramo e del suo giuramento a Isac co. L’ha stabilita per Giacobbe come decreto, per Israele come alleanza eterna, quando disse: «
Ti darò il paese di Canaan come parte della vostra eredità». Quando erano in piccolo numero, p ochi e stranieri in quel luogo, e se ne andavano di nazione in nazione, da un regno a un altro po polo, non permise che alcuno li opprimesse e castigò i re per causa loro: «Non toccate i miei co nsacrati, non fate alcun male ai miei profeti». Chiamò la carestia su quella terra, togliendo il sos tegno del pane. Davanti a loro mandò un uomo, Giuseppe venduto come schiavo. Gli strinsero i piedi con ceppi, il ferro gli serrò la gola, finché non si avverò la sua parola e l’oracolo del Signore ne provò l’innocenza. Il re mandò a scioglierlo, il capo dei popoli lo fece liberare; lo costituì sign ore del suo palazzo, capo di tutti i suoi averi, per istruire i prìncipi secondo il suo giudizio e inseg nare la saggezza agli anziani. E Israele venne in Egitto, Giacobbe emigrò nel paese di Cam. Ma Di o rese molto fecondo il suo popolo, lo rese più forte dei suoi oppressori. Cambiò il loro cuore pe rché odiassero il suo popolo e agissero con inganno contro i suoi servi. Mandò Mosè suo servo, e Aronne che si era scelto: misero in atto contro di loro i suoi segni e i suoi prodigi nella terra di Cam. Mandò le tenebre e si fece buio, ma essi resistettero alle sue parole. Cambiò le loro acque in sangue e fece morire i pesci. La loro terra brulicò di rane fino alle stanze regali. Parlò e venne ro tafani, zanzare in tutto il territorio. Invece di piogge diede loro la grandine, vampe di fuoco s ulla loro terra. Colpì le loro vigne e i loro fichi, schiantò gli alberi del territorio. Parlò e vennero l e locuste e bruchi senza numero: divorarono tutta l’erba della loro terra, divorarono il frutto del loro suolo. Colpì ogni primogenito nella loro terra, la primizia di ogni loro vigore. Allora li fece u scire con argento e oro; nelle tribù nessuno vacillava. Quando uscirono gioì l’Egitto, che era stat o colpito dal loro terrore. Distese una nube per proteggerli e un fuoco per illuminarli di notte. Al la loro richiesta fece venire le quaglie e li saziò con il pane del cielo. Spaccò una rupe e ne sgorg arono acque: scorrevano come fiumi nel deserto. Così si è ricordato della sua parola santa, data ad Abramo suo servo. Ha fatto uscire il suo popolo con esultanza, i suoi eletti con canti di gioia.
Ha dato loro le terre delle nazioni e hanno ereditato il frutto della fatica dei popoli, perché osse rvassero i suoi decreti e custodissero le sue leggi. Alleluia. Alleluia. Rendete grazie al Signore per ché è buono, perché il suo amore è per sempre. Chi può narrare le prodezze del Signore, far risu onare tutta la sua lode? Beati coloro che osservano il diritto e agiscono con giustizia in ogni tem po. Ricòrdati di me Signore per amore del tuo popolo, visitami con la tua salvezza, perché io ved a il bene dei tuoi eletti, gioisca della gioia del tuo popolo, mi vanti della tua eredità. Abbiamo pe
ccato con i nostri padri, delitti e malvagità abbiamo commesso. I nostri padri in Egitto, non com presero le tue meraviglie, non si ricordarono della grandezza del tuo amore e si ribellarono pres so il mare presso il Mar Rosso. Ma Dio li salvò per il suo nome, per far conoscere la sua potenza.
Minacciò il Mar Rosso e fu prosciugato, li fece camminare negli abissi come nel deserto. Li salvò dalla mano di chi li odiava, li riscattò dalla mano del nemico. L’acqua sommerse i loro avversari, non ne sopravvisse neppure uno. Allora credettero alle sue parole e cantarono la sua lode. Pres to dimenticarono le sue opere, non ebbero fiducia nel suo progetto, arsero di desiderio nel des erto e tentarono Dio nella steppa. Concesse loro quanto chiedevano e li saziò fino alla nausea.
Divennero gelosi di Mosè nell’accampamento e di Aronne il consacrato del Signore. Allora si spa lancò la terra e inghiottì Datan e ricoprì la gente di Abiràm. Un fuoco divorò quella gente e una f iamma consumò quei malvagi. Si fabbricarono un vitello sull’Oreb, si prostrarono a una statua d i metallo; scambiarono la loro gloria con la figura di un toro che mangia erba. Dimenticarono Di o che li aveva salvati, che aveva operato in Egitto cose grandi, meraviglie nella terra di Cam, cos e terribili presso il Mar Rosso. Ed egli li avrebbe sterminati, se Mosè il suo eletto, non si fosse po sto sulla breccia davanti a lui per impedire alla sua collera di distruggerli. Rifiutarono una terra d i delizie, non credettero alla sua parola. Mormorarono nelle loro tende, non ascoltarono la voce del Signore. Allora egli alzò la mano contro di loro, giurando di abbatterli nel deserto, di disper dere la loro discendenza tra le nazioni e disseminarli nelle loro terre. Adorarono Baal-Peor e mangiarono i sacrifici dei morti. Lo provocarono con tali azioni, e tra loro scoppiò la pest e. Ma Fineès si alzò per fare giustizia: allora la peste cessò. Ciò fu considerato per lui un atto di g iustizia di generazione in generazione per sempre. Lo irritarono anche alle acque di Merìba e M
osè fu punito per causa loro: poiché avevano amareggiato il suo spirito ed egli aveva parlato sen za riflettere. Non sterminarono i popoli come aveva ordinato il Signore, ma si mescolarono con l e genti e impararono ad agire come loro. Servirono i loro idoli e questi furono per loro un tranel lo. Immolarono i loro figli e le loro figlie ai falsi dèi. Versarono sangue innocente, il sangue dei lo ro figli e delle loro figlie, sacrificàti agli idoli di Canaan, e la terra fu profanata dal sangue. Si cont aminarono con le loro opere, si prostituirono con le loro azioni. L’ira del Signore si accese contr o il suo popolo ed egli ebbe in orrore la sua eredità. Li consegnò in mano alle genti, li dominaro no quelli che li odiavano. Li oppressero i loro nemici: essi dovettero piegarsi sotto la loro mano.
Molte volte li aveva liberati, eppure si ostinarono nei loro progetti e furono abbattuti per le loro colpe; ma egli vide la loro angustia, quando udì il loro grido. Si ricordò della sua alleanza con lor o e si mosse a compassione per il suo grande amore. Li affidò alla misericordia di quelli che li av evano deportati. Salvaci Signore Dio nostro, radunaci dalle genti, perché ringraziamo il tuo nom e santo: lodarti sarà la nostra gloria. Benedetto il Signore Dio d’Israele, da sempre e per sempre
. Tutto il popolo dica: Amen. Alleluia. Rendete grazie al Signore perché è buono, perché il suo a more è per sempre. Lo dicano quelli che il Signore ha riscattato, che ha riscattato dalla mano de ll’oppressore e ha radunato da terre diverse, dall’oriente e dall’occidente, dal settentrione e dal mezzogiorno. Alcuni vagavano nel deserto su strade perdute, senza trovare una città in cui abit
are. Erano affamati e assetati, veniva meno la loro vita. Nell’angustia gridarono al Signore ed egl i li liberò dalle loro angosce. Li guidò per una strada sicura, perché andassero verso una città in cui abitare. Ringrazino il Signore per il suo amore, per le sue meraviglie a favore degli uomini, p erché ha saziato un animo assetato, un animo affamato ha ricolmato di bene. Altri abitavano ne lle tenebre e nell’ombra di morte, prigionieri della miseria e dei ferri, perché si erano ribellati all e parole di Dio e avevano disprezzato il progetto dell’Altissimo. Egli umiliò il loro cuore con le fa tiche: cadevano e nessuno li aiutava. Nell’angustia gridarono al Signore, ed egli li salvò dalle lor o angosce. Li fece uscire dalle tenebre e dall’ombra di morte e spezzò le loro catene. Ringrazino il Signore per il suo amore, per le sue meraviglie a favore degli uomini, perché ha infranto le por te di bronzo e ha spezzato le sbarre di ferro. Altri stolti per la loro condotta ribelle, soffrivano pe r le loro colpe; rifiutavano ogni sorta di cibo e già toccavano le soglie della morte. Nell’angustia gridarono al Signore, ed egli li salvò dalle loro angosce. Mandò la sua parola li fece guarire e li sa lvò dalla fossa. Ringrazino il Signore per il suo amore, per le sue meraviglie a favore degli uomini
. Offrano a lui sacrifici di ringraziamento, narrino le sue opere con canti di gioia. Altri che scende vano in mare sulle navi e commerciavano sulle grandi acque, videro le opere del Signore e le su e meraviglie nel mare profondo. Egli parlò e scatenò un vento burrascoso, che fece alzare le on de: salivano fino al cielo scendevano negli abissi; si sentivano venir meno nel pericolo. Ondeggia vano e barcollavano come ubriachi: tutta la loro abilità era svanita. Nell’angustia gridarono al Si gnore, ed egli li fece uscire dalle loro angosce. La tempesta fu ridotta al silenzio, tacquero le ond e del mare. Al vedere la bonaccia essi gioirono, ed egli li condusse al porto sospirato. Ringrazino il Signore per il suo amore, per le sue meraviglie a favore degli uomini. Lo esaltino nell’assembl ea del popolo, lo lodino nell’adunanza degli anziani. Cambiò i fiumi in deserto, in luoghi aridi le f onti d’acqua e la terra fertile in palude, per la malvagità dei suoi abitanti. Poi cambiò il deserto i n distese d’acqua e la terra arida in sorgenti d’acqua. Là fece abitare gli affamati, ed essi fondar ono una città in cui abitare. Seminarono campi e piantarono vigne, che produssero frutti abbon danti. Li benedisse e si moltiplicarono, e non lasciò diminuire il loro bestiame. Poi diminuirono e furono abbattuti dall’oppressione dal male e dal dolore. Colui che getta il disprezzo sui potenti l i fece vagare nel vuoto senza strade. Ma risollevò il povero dalla miseria e moltiplicò le sue fami glie come greggi. Vedano i giusti e ne gioiscano, e ogni malvagio chiuda la bocca. Chi è saggio os servi queste cose e comprenderà l’amore del Signore. Canto. Salmo. Di Davide. Saldo è il mio cu ore o Dio, saldo è il mio cuore. Voglio cantare voglio inneggiare: svégliati mio cuore, svegliatevi arpa e cetra, voglio svegliare l’aurora. Ti loderò fra i popoli Signore, a te canterò inni fra le nazio ni: grande fino ai cieli è il tuo amore e la tua fedeltà fino alle nubi. Innàlzati sopra il cielo o Dio; s u tutta la terra la tua gloria! Perché siano liberati i tuoi amici, salvaci con la tua destra e rispondi ci. Dio ha parlato nel suo santuario: «Esulto e divido Sichem, spartisco la valle di Succot. Mio è G
àlaad mio è Manasse, èfraim è l’elmo del mio capo, Giuda lo scettro del mio comando. Moab è i l catino per lavarmi, su Edom getterò i miei sandali, sulla Filistea canterò vittoria». Chi mi condu rrà alla città fortificata, chi potrà guidarmi fino al paese di Edom, se non tu o Dio che ci hai respi
nti e più non esci o Dio con le nostre schiere? Nell’oppressione vieni in nostro aiuto, perché van a è la salvezza dell’uomo. Con Dio noi faremo prodezze, egli calpesterà i nostri nemici. Al maestr o del coro. Di Davide. Salmo. Dio della mia lode non tacere, perché contro di me si sono aperte l a bocca malvagia e la bocca ingannatrice, e mi parlano con lingua bugiarda. Parole di odio mi cir condano, mi aggrediscono senza motivo. In cambio del mio amore mi muovono accuse, io invec e sono in preghiera. Mi rendono male per bene e odio in cambio del mio amore. Suscita un mal vagio contro di lui e un accusatore stia alla sua destra! Citato in giudizio ne esca colpevole e la s ua preghiera si trasformi in peccato. Pochi siano i suoi giorni e il suo posto l’occupi un altro. I su oi figli rimangano orfani e vedova sua moglie. Vadano raminghi i suoi figli mendicando, rovistino fra le loro rovine. L’usuraio divori tutti i suoi averi e gli estranei saccheggino il frutto delle sue f atiche. Nessuno gli dimostri clemenza, nessuno abbia pietà dei suoi orfani. La sua discendenza s ia votata allo sterminio, nella generazione che segue sia cancellato il suo nome. La colpa dei suo i padri sia ricordata al Signore, il peccato di sua madre non sia mai cancellato: siano sempre dav anti al Signore ed egli elimini dalla terra il loro ricordo. Perché non si è ricordato di usare cleme nza e ha perseguitato un uomo povero e misero, con il cuore affranto per farlo morire. Ha amat o la maledizione: ricada su di lui! Non ha voluto la benedizione: da lui si allontani! Si è avvolto di maledizione come di una veste: è penetrata come acqua nel suo intimo e come olio nelle sue o ssa. Sia per lui come vestito che lo avvolge, come cintura che sempre lo cinge. Sia questa da par te del Signore la ricompensa per chi mi accusa, per chi parla male contro la mia vita. Ma tu Sign ore Dio, trattami come si addice al tuo nome: liberami perché buona è la tua grazia. Io sono pov ero e misero, dentro di me il mio cuore è ferito. Come ombra che declina me ne vado, scacciato via come una locusta. Le mie ginocchia vacillano per il digiuno, scarno è il mio corpo e dimagrit o. Sono diventato per loro oggetto di scherno: quando mi vedono scuotono il capo. Aiutami Sig nore mio Dio, salvami per il tuo amore. Sappiano che qui c’è la tua mano: sei tu Signore che hai fatto questo. Essi maledicano pure ma tu benedici! Insorgano ma siano svergognati e il tuo serv o sia nella gioia. Si coprano d’infamia i miei accusatori, siano avvolti di vergogna come di un ma ntello. A piena voce ringrazierò il Signore, in mezzo alla folla canterò la sua lode, perché si è me sso alla destra del misero per salvarlo da quelli che lo condannano. Di Davide. Salmo. Oracolo d el Signore al mio signore: «Siedi alla mia destra finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi». Lo scettro del tuo potere stende il Signore da Sion: domina in mezzo ai tuoi nemici! A te i l principato nel giorno della tua potenza tra santi splendori; dal seno dell’aurora, come rugiada i o ti ho generato. Il Signore ha giurato e non si pente: «Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchìsedek». Il Signore è alla tua destra! Egli abbatterà i re nel giorno della sua ira, sarà giudic e fra le genti, ammucchierà cadaveri, abbatterà teste su vasta terra; lungo il cammino si disseta al torrente, perciò solleva alta la testa. Alleluia. Renderò grazie al Signore con tutto il cuore tra g li uomini retti riuniti in assemblea. Grandi sono le opere del Signore: le ricerchino coloro che le amano. Il suo agire è splendido e maestoso la sua giustizia rimane per sempre. Ha lasciato un ric ordo delle sue meraviglie: misericordioso e pietoso è il Signore. Egli dà il cibo a chi lo teme si ric
orda sempre della sua alleanza. Mostrò al suo popolo la potenza delle sue opere gli diede l’ered ità delle genti. Le opere delle sue mani sono verità e diritto stabili sono tutti i suoi comandi, im mutabili nei secoli per sempre da eseguire con verità e rettitudine. Mandò a liberare il suo popo lo stabilì la sua alleanza per sempre. Santo e terribile è il suo nome. Principio della sapienza è il t imore del Signore: rende saggio chi ne esegue i precetti. La lode del Signore rimane per sempre.
Alleluia. Beato l’uomo che teme il Signore e nei suoi precetti trova grande gioia. Potente sulla t erra sarà la sua stirpe la discendenza degli uomini retti sarà benedetta. Prosperità e ricchezza n ella sua casa la sua giustizia rimane per sempre. Spunta nelle tenebre luce per gli uomini retti: misericordioso pietoso e giusto. Felice l’uomo pietoso che dà in prestito amministra i suoi beni c on giustizia. Egli non vacillerà in eterno: eterno sarà il ricordo del giusto. Cattive notizie non avr à da temere saldo è il suo cuore confida nel Signore. Sicuro è il suo cuore non teme finché non v edrà la rovina dei suoi nemici. Egli dona largamente ai poveri la sua giustizia rimane per sempre la sua fronte s’innalza nella gloria. Il malvagio vede e va in collera digrigna i denti e si consuma.
Ma il desiderio dei malvagi va in rovina. Alleluia. Lodate servi del Signore, lodate il nome del Sig nore. Sia benedetto il nome del Signore, da ora e per sempre. Dal sorgere del sole al suo tramo nto sia lodato il nome del Signore. Su tutte le genti eccelso è il Signore, più alta dei cieli è la sua gloria. Chi è come il Signore nostro Dio, che siede nell’alto e si china a guardare sui cieli e sulla t erra? Solleva dalla polvere il debole, dall’immondizia rialza il povero, per farlo sedere tra i prìnci pi, tra i prìncipi del suo popolo. Fa abitare nella casa la sterile, come madre gioiosa di figli. Allelu ia. Quando Israele uscì dall’Egitto, la casa di Giacobbe da un popolo barbaro, Giuda divenne il su o santuario, Israele il suo dominio. Il mare vide e si ritrasse, il Giordano si volse indietro, le mont agne saltellarono come arieti, le colline come agnelli di un gregge. Che hai tu mare per fuggire, e tu Giordano per volgerti indietro? Perché voi montagne saltellate come arieti e voi colline co me agnelli di un gregge? Trema o terra davanti al Signore, davanti al Dio di Giacobbe, che muta la rupe in un lago, la roccia in sorgenti d’acqua. Non a noi Signore non a noi, ma al tuo nome da’
gloria, per il tuo amore per la tua fedeltà. Perché le genti dovrebbero dire: «Dov’è il loro Dio?».
Il nostro Dio è nei cieli: tutto ciò che vuole egli lo compie. I loro idoli sono argento e oro, opera delle mani dell’uomo. Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. Le loro mani non palpano, i loro piedi non camminano; dalla loro gola non escono suoni! Diventi come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida! Isr aele confida nel Signore: egli è loro aiuto e loro scudo. Casa di Aronne confida nel Signore: egli è loro aiuto e loro scudo. Voi che temete il Signore confidate nel Signore: egli è loro aiuto e loro s cudo. Il Signore si ricorda di noi ci benedice: benedice la casa d’Israele, benedice la casa di Aron ne. Benedice quelli che temono il Signore, i piccoli e i grandi. Vi renda numerosi il Signore, voi e i vostri figli. Siate benedetti dal Signore, che ha fatto cielo e terra. I cieli sono i cieli del Signore, ma la terra l’ha data ai figli dell’uomo. Non i morti lodano il Signore né quelli che scendono nel s ilenzio, ma noi benediciamo il Signore da ora e per sempre. Alleluia. Amo il Signore perché ascol ta il grido della mia preghiera. Verso di me ha teso l’orecchio nel giorno in cui lo invocavo. Mi st
ringevano funi di morte, ero preso nei lacci degli inferi, ero preso da tristezza e angoscia. Allora ho invocato il nome del Signore: «Ti prego liberami Signore». Pietoso e giusto è il Signore, il nos tro Dio è misericordioso. Il Signore protegge i piccoli: ero misero ed egli mi ha salvato. Ritorna a nima mia al tuo riposo, perché il Signore ti ha beneficato. Sì hai liberato la mia vita dalla morte, i miei occhi dalle lacrime, i miei piedi dalla caduta. Io camminerò alla presenza del Signore nella t erra dei viventi. Ho creduto anche quando dicevo: «Sono troppo infelice». Ho detto con sgomen to: «Ogni uomo è bugiardo». Che cosa renderò al Signore per tutti i benefici che mi ha fatto? Al zerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore. Adempirò i miei voti al Signore, dav anti a tutto il suo popolo. Agli occhi del Signore è preziosa la morte dei suoi fedeli. Ti prego Sign ore perché sono tuo servo; io sono tuo servo figlio della tua schiava: tu hai spezzato le mie cate ne. A te offrirò un sacrificio di ringraziamento e invocherò il nome del Signore. Adempirò i miei voti al Signore davanti a tutto il suo popolo, negli atri della casa del Signore, in mezzo a te Gerusalemme. Alleluia.

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In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’a bisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: «Sia l a luce!». E la luce fu. Dio vide che l a luce era cosa buona e Dio separò la luce dalle tenebre. Dio chiamò la luce giorno, mentre chia mò le tenebre notte. E fu ser a e fu mattina: giorno primo. Dio disse: «Sia un firmamento in mez zo alle acque per separare le acque dalle acque». Dio fece il firmamento e separò le acque che sono sotto il firmamento dalle acque che sono sopra il firmamento. E così avvenne. Dio chiamò il firmamento cielo. E fu sera e fu mattina: secondo giorno. Dio disse: «Le acque che sono sotto il cielo si raccolgano in un unico luogo e appaia l’asciutto». E così avvenne. Dio chiamò l’asciutto terra, mentre chiamò la massa delle acque mare. Dio vide che era cosa buona. Dio disse: «La terra produca germogli erbe che producono seme e alberi da frutto che fanno sulla terra frutto con il seme ciascuno secondo la propria specie». E così avvenne. E la terra produsse germogli erbe che producono seme ciascuna secondo la propria specie e albe
ri che fanno ciascuno frutto con il seme secondo la propria specie. Dio vide che era cosa buona.
E fu sera e fu mattina: terzo giorno. Dio disse: «Ci siano fonti di luce nel firmamento del cielo pe r separare il giorno dalla notte; siano segni per le feste per i giorni e per gli anni e siano fonti di l uce nel firmamento del cielo p er illuminare la terra». E così avvenne. E Dio fece le due fonti di l uce grandi: la fonte di luce maggiore per governare il giorno e la fonte di luce minore per governare la notte e le stelle. Dio le pose nel firmamento del cielo per illuminare la terra e per govern are il giorno e la notte e per separare la luce dalle tenebre. Dio v ide che era cosa buona. E fu se ra e fu mattina: quarto giorno. Dio disse: «Le acque brulichino di esseri viventi e uccelli volino s opra la terra, davanti al firmame nto del cielo». Dio creò i grandi mostri marini e tutti gli esseri v iventi che guizzano e brulicano nelle acque secondo la loro specie e tutti gli uccelli alati secondo la loro specie. Dio vide che era cosa buona. Dio li benedisse: «Siate fecondi e moltiplicatevi e ri empite le acque dei mari; gli uccelli si moltiplichino sulla terra»
. E fu sera e fu mattina: quinto giorno. Dio disse: «La terra produca esseri viventi secondo la loro specie: bestiame rettili e animali selvatici secondo la loro speci e». E così avvenne. Dio fece gli a nimali selvatici secondo la loro specie il bestiame secondo la propria specie e tutti i rettili del su olo secondo la loro specie. Dio vide che era cosa buona. Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra i mmagine secondo la nostra somiglianza: dòmini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo sul bestiame su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». E Dio creò l’uo mo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e fem mina li creò. Dio li benedisse e Di o disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cie lo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra». Dio disse: «Ecc o io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra, e ogni albero fruttifero che pro d uce seme: saranno il vostro cibo. A tutti gli animali selvatici a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli
esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita io do in cibo ogni erba verde». E così avv enne. Dio vide quanto aveva fatto ed ecco era cosa molto buona. E fu sera e fu mattina: sesto gi orno. Così furono portati a c ompimento il cielo e la terra e tutte le loro schiere. Dio nel settimo giorno portò a compimento il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo la v oro che aveva fatto. Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli aveva fatto creando. Queste sono le origi ni del cielo e della terra quand o vennero creati. Nel giorno in cui il Signore Dio fece la terra e il cielo nessun cespuglio campest re era sulla terra nessuna erba ca mpestre era spuntata perché il Signore Dio non aveva fatto pi overe sulla terra e non c’era uomo che lavorasse il suolo ma una polla d’acqua sgorgava dalla te rra e irrigava tutto il suolo. Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nel le sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. P
oi il Signore Dio piantò un giardino in Eden a oriente e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il S
ignore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi gra diti alla vista e buoni da mangiare e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male. Un fiu me usciva da Eden per irrigar e il giardino poi di lì si divideva e formava quattro corsi. Il primo fi ume si chiama Pison: esso scorre attorno a tutta la regione di Avìla dove si trova l’oro e l’oro di quella regione è fino; vi si trova pure la resina odorosa e la pietra d’ònice. Il secondo fiume si chi ama Ghicon: esso scorre attorno a tutta la regione d’Etiopia.
Il terzo fiume si chiama Tigri: esso scorre a oriente di Assur. Il quarto fiume è l’Eufrate. Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo co ltivasse e lo custodisse. Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino ma dell’
albero della conoscenza del b ene e del male non devi mangiare perché nel giorno in cui tu ne mangerai certamente dovrai morire». E il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: v oglio fargli un aiuto che gli corrisponda». Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di ani mali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo per vedere come li avrebbe chiam ati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi quello doveva esser e il suo nome. Così l’uomo im
pose nomi a tutto il bestiame a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici ma per l’uo mo non trovò un aiuto che gli corrispondesse. Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull
’uomo che si addormentò gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Di o formò con la costola che ave va tolta all’uomo una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uom o disse: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna, perc h é dall’uomo è stata tolta». Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua mo glie, e i due saranno un’unica carne. Ora tutti e due erano nudi l’
uomo e sua moglie e non provavano vergogna. Il serpente era il più astuto di tutti gli animali sel vatici che Dio aveva fatto e disse alla donna: «è vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino”?». Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino n oi possiamo mangiare ma del fr utto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare altrimenti morirete”». Ma il serpente disse alla donn a:
«Non morirete affatto! Anzi Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri oc chi e sareste come Dio conoscendo il bene e il male». Allora l a donna vide che l’albero era buo no da mangiare gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò poi ne diede anch e al marito che era con lei e anch’egli ne mangiò. Allora si apriro no gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero c inture. Poi udirono il rumore dei passi del Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza d el giorno e l’uomo con sua moglie si nascose dalla presenza d el Signore Dio in mezzo agli alberi del giardino. Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avut o paura perché sono nudo e mi sono nascosto». Riprese: «Chi ti ha fa tto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non m angiare?». Rispose l’uomo: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?»
. Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato». Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché hai fatto questo, maledetto tu fra tutto il best iame e fra tutti gli animali selv atici! Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. Io porrò inim icizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidie rai il calcagno». Alla donna disse: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore par t orirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ed egli ti dominerà». All’uomo disse: «Poiché ha i ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato: “Non devi mangiarne” maledetto il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba dei campi. Con il sudore del tuo volto m angerai il pane, finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e i n polvere ritornerai!». L’uomo chiamò sua moglie Eva perché ella fu la madre di tutti i viventi. Il Signore Dio fece all’uomo e a sua moglie tuniche di pelli e li ves tì. Poi il Signore Dio disse: «Ecco l’uomo è diventato come uno di noi quanto alla conoscenza del bene e del male. Che ora egli n on stenda la mano e non prend
a anche dell’albero della vita ne mangi e viva per sempre!». Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden perché lavorasse il suolo da cui era stato tratto. Scacci ò l’uomo e pose a oriente del gia rdino di Eden i cherubini e la fiamma della spada guizzante per custodire la via all’albero della vi ta. Adamo conobbe Eva sua m oglie che concepì e partorì Caino e disse: «Ho acquistato un uom
o grazie al Signore». Poi partorì ancora Abele suo fratello. Ora Abele era pastore di greggi men t re Caino era lavoratore del suolo. Trascorso del tempo Caino presentò frutti del suolo come off erta al Signore, mentre Abele presentò a sua volta primogeniti de l suo gregge e il loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta ma non gradì Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritat o e il suo volto era abbattuto. Il Signore disse allora a Caino: «Perché sei irritato e perché è abba ttuto il tuo volto? Se agisci bene non dovresti forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene il peccat o è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto e tu lo dominerai». Caino parlò al fratello Abele. Mentre erano in campagna Caino alzò la mano contro
il fratello Abele e lo uccise. Allora il Signore disse a Caino: «Dov’è Abele tuo fratello?». Egli rispo se: «Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?». Ri prese: «Che hai fatto? La voce del sa ngue di tuo fratello grida a me dal suolo! Ora sii maledetto lontano dal suolo che ha aperto la b occa per ricevere il sangue di tuo fratello dalla tua mano. Quando lavorerai il suolo esso non ti d arà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra». Disse Caino al Signore: «Tropp o gr ande è la mia colpa per ottenere perdono. Ecco tu mi scacci oggi da questo suolo e dovrò nasco ndermi lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi uccid erà». Ma il Signore gli disse: «Ebbene chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!». I l Signore impose a Caino un
segno perché nessuno incontrandolo lo colpisse. Caino si allontanò dal Signore e abitò nella regi one di Nod a oriente di Eden. Ora Caino conobbe sua moglie ch
e concepì e partorì Enoc; poi divenne costruttore di una città che chiamò Enoc dal nome del figli o. A Enoc nacque Irad; Irad generò Mecuiaèl e Mecuiaèl generò
Metusaèl e Metusaèl generò Lamec. Lamec si prese due mogli: una chiamata Ada e l’altra chiamata Silla. Ada partorì Iabal: egli fu il padre di quanti abitano so tto le tende presso il bestiame. Il fratello di questi si chiamava Iubal: egli fu il padre di tutti i suonatori di cetra e di flauto. Silla a s ua volta partorì Tubal-Kain il fabbro padre di quanti lavorano il bronzo e il ferro. La sorella di Tubal-Kain fu Naamà. Lamec disse alle mogli: «Ada e Silla ascoltate la mia voce; mogli di Lamec porget e l’orecchio al mio dire. Ho ucciso un uomo per una mia scalf
ittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settantasette»
. Adamo di nuovo conobbe sua moglie che partorì un figlio e lo
chiamò Set. «Perché – disse –
Dio mi ha concesso un’altra discendenza al posto di Abele, poiché Caino l’ha ucciso». Anche a S
et nacque un figlio che chiamò Enos. A quel tempo si cominci

ò a invocare il nome del Signore. Questo è il libro della discendenza di Adamo. Nel giorno in cui Dio creò l’uomo lo fece a somiglianza di Dio; maschio e femm
ina li creò li benedisse e diede loro il nome di uomo nel giorno in cui furono creati. Adamo avev a centotrenta anni quando generò un figlio a sua immagine seco ndo la sua somiglianza e lo chi amò Set. Dopo aver generato Set Adamo visse ancora ottocento anni e generò figli e figlie. L’int era vita di Adamo fu di novecent otrenta anni; poi morì. Set aveva centocinque anni quando ge nerò Enos; dopo aver generato Enos Set visse ancora ottocentosette anni e generò figli e figlie.
L’in tera vita di Set fu di novecentododici anni; poi morì. Enos aveva novanta anni quando gener ò Kenan; Enos dopo aver generato Kenan visse ancora ottocentoqui ndici anni e generò figli e figlie. L’intera vita di Enos fu di novecentocinque anni; poi morì. Kenan aveva settanta anni quando generò Maalalèl; Kenan, dopo av er generato Maalalèl visse ancora ottocentoquaranta anni e generò figli e figlie. L’intera vita di Kenan fu di novecentodieci anni; p oi morì. Maalalèl aveva sessa ntacinque anni quando generò Iered; Maalalèl dopo aver generat o Iered visse ancora ottocentotrenta anni e generò figli e figlie. L’intera vita di Maalalèl fu di ott ocentonovantacinque anni; poi morì. Iered aveva centosessantadue anni quando generò Enoc; I ered dopo aver generato Enoc visse ancora ottocento anni e gener ò figli e figlie. L’intera vita di Iered fu di novecentosessantadue anni; poi morì. Enoc aveva sessa ntacinque anni quando generò Matusalemme. Enoc camminò c
on Dio; dopo aver generato Matusalemme visse ancora per trecento anni e generò figli e figlie.
L’intera vita di Enoc fu di trecentosessantacinque anni. Enoc ca mminò con Dio poi scomparve p erché Dio l’aveva preso. Matusalemme aveva centoottantasette anni quando generò Lamec; M
atusalemme dopo aver generato
Lamec visse ancora settecentoottantadue anni e generò figli e figlie. L’intera vita di Matusalem me fu di novecentosessantanove anni; poi morì. Lamec aveva cen
toottantadue anni quando generò un figlio e lo chiamò Noè dicendo: «Costui ci consolerà del no stro lavoro e della fatica delle nostre mani a causa del suolo che il Signore ha maledetto». Lame c dopo aver generato Noè visse ancora cinquecentonovantacinque anni e generò figli e figlie. L’i ntera vita di Lamec fu di settece ntosettantasette anni; poi morì. Noè aveva cinquecento anni q uando generò Sem Cam e Iafet. Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nac qu
ero loro delle figlie, i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per mo gli a loro scelta. Allora il Signore disse: «Il mio spirito non res terà sempre nell’uomo perché egli è carne e la sua vita sarà di centoventi anni». C’erano sulla terra i giganti a quei tempi –
e anche dopo –

quando i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini e queste partorivano loro dei figli: sono qu esti gli eroi dell’antichità uomini famosi. Il Signore vide che l a malvagità degli uomini era grand e sulla terra e che ogni intimo intento del loro cuore non era altro che male sempre. E il Signore si pentì di aver fatto l’uomo s ulla terra e se ne addolorò in cuor suo. Il Signore disse: «Cancellerò dalla faccia della terra l’uomo che ho creato e con l’uomo anche il bestiame e i rettili e gli u cc elli del cielo perché sono pentito di averli fatti». Ma Noè trovò grazia agli occhi del Signore. Questa è la discendenza di Noè. Noè era uomo giusto e integro tra i suoi contemporanei e camminava con Dio. Noè generò tre figli: Sem Cam e Iafet. Ma la terra era corrotta davanti a Dio e piena di violenza. Dio guardò la terra ed ecco essa era corrotta perché ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla terra. Allora Dio disse a Noè: «è venuta per me la fine di ogni uomo, perché la terra per causa loro è piena di violenza; ecco io li distruggerò insieme con la terra. Fatti un’arca di legno di cipresso; dividerai l’arca in scompartimenti e la spalmerai di bitume dentro e fuori.
Ecco come devi farla: l’arca avrà trecento cubiti di lunghezza cinquanta di larghezza e trenta di altezza. Farai nell’arca un tetto e a un cubito più sopra la terminerai; da un lato metterai la porta dell’arca. La farai a piani: inferiore medio e superiore. Ecco io sto per mandare il diluvio cioè le acque sulla terra per distruggere sotto il cielo ogni carne in cui c’è soffio di vita; quanto è sulla t erra perirà. Ma con te io stabilisco la mia alleanza. Entrerai nell
’arca tu e con te i tuoi figli, tua moglie e le mogli dei tuoi figli. Di quanto vive di ogni carne intro durrai nell’arca due di ogni specie per conservarli in vita con te
: siano maschio e femmina. Degli uccelli secondo la loro specie del bestiame secondo la propria specie e di tutti i rettili del suolo secondo la loro specie due di o gnuna verranno con te per esse re conservati in vita. Quanto a te prenditi ogni sorta di cibo da mangiare e fanne provvista: sarà di nutrimento per te e per loro». Noè eseguì ogni cosa come Dio gli aveva comandato: così fece.
Il Signore disse a Noè: «Entra nell’arca tu con tutta la tua famiglia, perché ti ho visto giusto dina nzi a me in questa generazione. Di ogni animale puro prendine con te sette paia il maschio e la s ua femmina; degli animali che non sono puri un paio il maschio e la sua femmina. Anche degli u ccelli del cielo sette paia maschio e femmina per conservarne in vita la razza su tutta la terra. Pe rché tra sette giorni farò piovere sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti; cancellerò dall a terra ogni essere che ho fatto». Noè fece quanto il Signore gli aveva comandato. Noè aveva se icento anni quando venne il diluvio cioè le acque sulla terra. Noè entrò nell’arca e con lui i suoi f igli sua moglie e le mogli dei suoi figli per sottrarsi alle acque del diluvio. Degli animali puri e di q uelli impuri degli uccelli e di tutti gli esseri che strisciano sul suolo un maschio e una femmina e ntrarono a due a due nell’arca come Dio aveva comandato a Noè. Dopo sette giorni le acque del diluvio furono sopra la terra; nell’anno seicentesimo della vita di Noè nel secondo mese il dicias sette del mese in quello stesso giorno eruppero tutte le sorgenti del grande abisso e le cateratt e del cielo si aprirono. Cadde la pioggia sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti. In quell o stesso giorno entrarono nell’arca Noè con i figli Sem Cam e Iafet la moglie di Noè, le tre mogli
dei suoi tre figli; essi e tutti i viventi secondo la loro specie e tutto il bestiame secondo la propri a specie e tutti i rettili che strisciano sulla terra secondo la loro specie tutti i volatili secondo la l oro specie tutti gli uccelli tutti gli esseri alati. Vennero dunque a Noè nell’arca a due a due di og ni carne in cui c’è il soffio di vita. Quelli che venivano maschio e femmina d’ogni carne entraron o come gli aveva comandato Dio. Il Signore chiuse la porta dietro di lui. Il diluvio durò sulla terra quaranta giorni: le acque crebbero e sollevarono l’arca che s’innalzò sulla terra. Le acque furon o travolgenti e crebbero molto sopra la terra e l’arca galleggiava sulle acque. Le acque furono se mpre più travolgenti sopra la terra e coprirono tutti i monti più alti che sono sotto tutto il cielo.
Le acque superarono in altezza di quindici cubiti i monti che avevano ricoperto. Perì ogni essere vivente che si muove sulla terra uccelli bestiame e fiere e tutti gli esseri che brulicano sulla terra e tutti gli uomini. Ogni essere che ha un alito di vita nelle narici cioè quanto era sulla terra asciu tta morì. Così fu cancellato ogni essere che era sulla terra: dagli uomini agli animali domestici ai rettili e agli uccelli del cielo; essi furono cancellati dalla terra e rimase solo Noè e chi stava con l ui nell’arca. Le acque furono travolgenti sopra la terra centocinquanta giorni. Dio si ricordò di N
oè di tutte le fiere e di tutti gli animali domestici che erano con lui nell’arca. Dio fece passare un vento sulla terra e le acque si abbassarono. Le fonti dell’abisso e le cateratte del cielo furono ch iuse e fu trattenuta la pioggia dal cielo; le acque andarono via via ritirandosi dalla terra e calaro no dopo centocinquanta giorni. Nel settimo mese il diciassette del mese l’arca si posò sui monti dell’Araràt. Le acque andarono via via diminuendo fino al decimo mese. Nel decimo mese il pri mo giorno del mese apparvero le cime dei monti. Trascorsi quaranta giorni Noè aprì la finestra c he aveva fatto nell’arca e fece uscire un corvo. Esso uscì andando e tornando finché si prosciuga rono le acque sulla terra. Noè poi fece uscire una colomba per vedere se le acque si fossero ritir ate dal suolo; ma la colomba non trovando dove posare la pianta del piede tornò a lui nell’arca perché c’era ancora l’acqua su tutta la terra. Egli stese la mano la prese e la fece rientrare press o di sé nell’arca. Attese altri sette giorni e di nuovo fece uscire la colomba dall’arca e la colomba tornò a lui sul far della sera; ecco essa aveva nel becco una tenera foglia di ulivo. Noè comprese che le acque si erano ritirate dalla terra. Aspettò altri sette giorni poi lasciò andare la colomba; essa non tornò più da lui. L’anno seicentouno della vita di Noè il primo mese il primo giorno del mese, le acque si erano prosciugate sulla terra; Noè tolse la copertura dell’arca ed ecco la super ficie del suolo era asciutta. Nel secondo mese il ventisette del mese tutta la terra si era prosciug ata. Dio ordinò a Noè: «Esci dall’arca tu e tua moglie i tuoi figli e le mogli dei tuoi figli con te. Tut ti gli animali d’ogni carne che hai con te uccelli bestiame e tutti i rettili che strisciano sulla terra falli uscire con te, perché possano diffondersi sulla terra siano fecondi e si moltiplichino su di es sa». Noè uscì con i figli la moglie e le mogli dei figli. Tutti i viventi e tutto il bestiame e tutti gli uc celli e tutti i rettili che strisciano sulla terra secondo le loro specie uscirono dall’arca. Allora Noè edificò un altare al Signore; prese ogni sorta di animali puri e di uccelli puri e offrì olocausti sull’
altare. Il Signore ne odorò il profumo gradito e disse in cuor suo: «Non maledirò più il suolo a ca usa dell’uomo, perché ogni intento del cuore umano è incline al male fin dall’adolescenza; né co
lpirò più ogni essere vivente come ho fatto. Finché durerà la terra, seme e mèsse, freddo e cald o, estate e inverno, giorno e notte non cesseranno». Dio benedisse Noè e i suoi figli e disse loro:
«Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite la terra. Il timore e il terrore di voi sia in tutti gli anim ali della terra e in tutti gli uccelli del cielo. Quanto striscia sul suolo e tutti i pesci del mare sono dati in vostro potere. Ogni essere che striscia e ha vita vi servirà di cibo: vi do tutto questo come già le verdi erbe. Soltanto non mangerete la carne con la sua vita cioè con il suo sangue. Del sa ngue vostro ossia della vostra vita io domanderò conto; ne domanderò conto a ogni essere vive nte e domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello. Chi sparge il san gue dell’uomo, dall’uomo il suo sangue sarà sparso, perché a immagine di Dio è stato fatto l’uo mo. E voi siate fecondi e moltiplicatevi, siate numerosi sulla terra e dominatela». Dio disse a No è e ai suoi figli con lui: «Quanto a me ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri disc endenti dopo di voi con ogni essere vivente che è con voi uccelli bestiame e animali selvatici co n tutti gli animali che sono usciti dall’arca con tutti gli animali della terra. Io stabilisco la mia alle anza con voi: non sarà più distrutta alcuna carne dalle acque del diluvio né il diluvio devasterà p iù la terra». Dio disse: «Questo è il segno dell’alleanza, che io pongo tra me e voi e ogni essere v ivente che è con voi, per tutte le generazioni future. Pongo il mio arco sulle nubi, perché sia il se gno dell’alleanza tra me e la terra. Quando ammasserò le nubi sulla terra e apparirà l’arco sulle nubi, ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi e ogni essere che vive in ogni carne, e non ci s aranno più le acque per il diluvio, per distruggere ogni carne. L’arco sarà sulle nubi, e io lo guard erò per ricordare l’alleanza eterna tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra».
Disse Dio a Noè: «Questo è il segno dell’alleanza che io ho stabilito tra me e ogni carne che è su lla terra». I figli di Noè che uscirono dall’arca furono Sem Cam e Iafet; Cam è il padre di Canaan.
Questi tre sono i figli di Noè e da questi fu popolata tutta la terra. Ora Noè coltivatore della terr a cominciò a piantare una vigna. Avendo bevuto il vino si ubriacò e si denudò all’interno della su a tenda. Cam padre di Canaan vide la nudità di suo padre e raccontò la cosa ai due fratelli che st avano fuori. Allora Sem e Iafet presero il mantello se lo misero tutti e due sulle spalle e cammin ando a ritroso coprirono la nudità del loro padre; avendo tenuto la faccia rivolta indietro non vi dero la nudità del loro padre. Quando Noè si fu risvegliato dall’ebbrezza seppe quanto gli aveva fatto il figlio minore; allora disse: «Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fra telli!». E aggiunse: «Benedetto il Signore Dio di Sem, Canaan sia suo schiavo! Dio dilati Iafet ed e gli dimori nelle tende di Sem, Canaan sia suo schiavo!». Noè visse dopo il diluvio trecentocinqua nta anni. L’intera vita di Noè fu di novecentocinquanta anni; poi morì. Questa è la discendenza dei figli di Noè: Sem Cam e Iafet ai quali nacquero figli dopo il diluvio. I figli di Iafet: Gomer Mag òg Madai Iavan Tubal Mesec e Tiras. I figli di Gomer: Aschenàz Rifat e Togarmà. I figli di Iavan: El isa Tarsis i Chittìm e i Dodanìm. Da costoro derivarono le genti disperse per le isole nei loro terri tori ciascuna secondo la propria lingua e secondo le loro famiglie nelle rispettive nazioni. I figli d i Cam: Etiopia Egitto Put e Canaan. I figli di Etiopia: Seba, Avìla Sabta Raamà e Sabtecà. I figli di R
aamà: Saba e Dedan. Etiopia generò Nimrod: costui cominciò a essere potente sulla terra. Egli era valente nella caccia davanti al Signore perciò si dice: «Come Nimrod, valente cacciatore dava nti al Signore». L’inizio del suo regno fu Babele Uruc, Accad e Calne nella regione di Sinar. Da qu ella terra si portò ad Assur e costruì Ninive Recobòt-Ir e Calach e Resen tra Ninive e Calach; quella è la grande città. Egitto generò quelli di Lud Anam Laab Naftuch, Patros Casluch e Caftor da dove uscirono i Filistei. Canaan generò Sidone suo pri mogenito e Chet e il Gebuseo l’Amorreo il Gergeseo, l’Eveo l’Archeo e il Sineo l’Arvadeo il Sema reo e il Camateo. In seguito si dispersero le famiglie dei Cananei. Il confine dei Cananei andava d a Sidone in direzione di Gerar fino a Gaza poi in direzione di Sòdoma Gomorra Adma e Seboìm fi no a Lesa. Questi furono i figli di Cam secondo le loro famiglie e le loro lingue nei loro territori e nelle rispettive nazioni. Anche a Sem fratello maggiore di Iafet e capostipite di tutti i figli di Eber nacque una discendenza. I figli di Sem: Elam Assur Arpacsàd Lud e Aram. I figli di Aram: Us UlG
heter e Mas. Arpacsàd generò Selach e Selach generò Eber. A Eber nacquero due figli: uno si chi amò Peleg perché ai suoi tempi fu divisa la terra e il fratello si chiamò Ioktan. Ioktan generò Alm odàd Selef Asarmàvet Ierach Adoràm Uzal Dikla, Obal Abimaèl Saba Ofir Avìla e Iobab. Tutti que sti furono i figli di Ioktan; la loro sede era sulle montagne dell’oriente da Mesa in direzione di Se far. Questi furono i figli di Sem secondo le loro famiglie e le loro lingue, nei loro territori second o le rispettive nazioni. Queste furono le famiglie dei figli di Noè secondo le loro genealogie nelle rispettive nazioni. Da costoro si dispersero le nazioni sulla terra dopo il diluvio. Tutta la terra av eva un’unica lingua e uniche parole. Emigrando dall’oriente gli uomini capitarono in una pianur a nella regione di Sinar e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: «Venite facciamoci mattoni e cu ociamoli al fuoco». Il mattone servì loro da pietra e il bitume da malta. Poi dissero: «Venite cost ruiamoci una città e una torre la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome per non disperder ci su tutta la terra». Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che i figli degli uomini stavan o costruendo. Il Signore disse: «Ecco essi sono un unico popolo e hanno tutti un’unica lingua; qu esto è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile
. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro». Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per q uesto la si chiamò Babele perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra. Questa è la discendenza di Sem: Sem aveva cento anni quando gener ò Arpacsàd due anni dopo il diluvio; Sem dopo aver generato Arpacsàd visse cinquecento anni e generò figli e figlie. Arpacsàd aveva trentacinque anni quando generò Selach; Arpacsàd dopo av er generato Selach visse quattrocentotré anni e generò figli e figlie. Selach aveva trent’anni qua ndo generò Eber; Selach dopo aver generato Eber visse quattrocentotré anni e generò figli e figl ie. Eber aveva trentaquattro anni quando generò Peleg; Eber dopo aver generato Peleg visse qu attrocentotrenta anni e generò figli e figlie. Peleg aveva trent’anni quando generò Reu; Peleg d opo aver generato Reu visse duecentonove anni e generò figli e figlie. Reu aveva trentadue anni quando generò Serug; Reu dopo aver generato Serug visse duecentosette anni e generò figli e f iglie. Serug aveva trent’anni quando generò Nacor; Serug dopo aver generato Nacor visse duece
nto anni e generò figli e figlie. Nacor aveva ventinove anni quando generò Terach; Nacor dopo a ver generato Terach visse centodiciannove anni e generò figli e figlie. Terach aveva settant’anni quando generò Abram Nacor e Aran. Questa è la discendenza di Terach: Terach generò Abram Nacor e Aran; Aran generò Lot. Aran poi morì alla presenza di suo padre Terach nella sua terra n atale in Ur dei Caldei. Abram e Nacor presero moglie; la moglie di Abram si chiamava Sarài e la moglie di Nacor Milca che era figlia di Aran padre di Milca e padre di Isca. Sarài era sterile e non aveva figli. Poi Terach prese Abram suo figlio e Lot figlio di Aran figlio cioè di suo figlio, e Sarài s ua nuora moglie di Abram suo figlio e uscì con loro da Ur dei Caldei per andare nella terra di Ca naan. Arrivarono fino a Carran e vi si stabilirono. La vita di Terach fu di duecentocinque anni; Te rach morì a Carran. Il Signore disse ad Abram: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dall a casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedir ò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benedi ranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della t erra». Allora Abram partì come gli aveva ordinato il Signore e con lui partì Lot. Abram aveva sett antacinque anni quando lasciò Carran. Abram prese la moglie Sarài e Lot figlio di suo fratello e t utti i beni che avevano acquistati in Carran e tutte le persone che lì si erano procurate e si inca mminarono verso la terra di Canaan. Arrivarono nella terra di Canaan e Abram la attraversò fino alla località di Sichem presso la Quercia di Morè. Nella terra si trovavano allora i Cananei. Il Sign ore apparve ad Abram e gli disse: «Alla tua discendenza io darò questa terra». Allora Abram cos truì in quel luogo un altare al Signore che gli era apparso. Di là passò sulle montagne a oriente d i Betel e piantò la tenda avendo Betel ad occidente e Ai ad oriente. Lì costruì un altare al Signor e e invocò il nome del Signore. Poi Abram levò la tenda per andare ad accamparsi nel Negheb. V
enne una carestia nella terra e Abram scese in Egitto per soggiornarvi perché la carestia gravava su quella terra. Quando fu sul punto di entrare in Egitto disse alla moglie Sarài: «Vedi io so che tu sei donna di aspetto avvenente. Quando gli Egiziani ti vedranno penseranno: “Costei è sua m oglie” e mi uccideranno mentre lasceranno te in vita. Di’ dunque che tu sei mia sorella perché io sia trattato bene per causa tua e io viva grazie a te». Quando Abram arrivò in Egitto gli Egiziani videro che la donna era molto avvenente. La osservarono gli ufficiali del faraone e ne fecero le l odi al faraone; così la donna fu presa e condotta nella casa del faraone. A causa di lei egli trattò bene Abram, che ricevette greggi e armenti e asini schiavi e schiave asine e cammelli. Ma il Sign ore colpì il faraone e la sua casa con grandi calamità per il fatto di Sarài moglie di Abram. Allora il faraone convocò Abram e gli disse: «Che mi hai fatto? Perché non mi hai dichiarato che era tu a moglie? Perché hai detto: “è mia sorella” così che io me la sono presa in moglie? E ora eccoti t ua moglie: prendila e vattene!». Poi il faraone diede disposizioni su di lui ad alcuni uomini che lo allontanarono insieme con la moglie e tutti i suoi averi. Dall’Egitto Abram risalì nel Negheb con la moglie e tutti i suoi averi; Lot era con lui. Abram era molto ricco in bestiame argento e oro. A bram si spostò a tappe dal Negheb fino a Betel fino al luogo dov’era già prima la sua tenda tra B
etel e Ai il luogo dove prima aveva costruito l’altare: lì Abram invocò il nome del Signore. Ma an
che Lot che accompagnava Abram aveva greggi e armenti e tende e il territorio non consentiva che abitassero insieme perché avevano beni troppo grandi e non potevano abitare insieme. Per questo sorse una lite tra i mandriani di Abram e i mandriani di Lot. I Cananei e i Perizziti abitava no allora nella terra. Abram disse a Lot: «Non vi sia discordia tra me e te tra i miei mandriani e i tuoi perché noi siamo fratelli. Non sta forse davanti a te tutto il territorio? Sepàrati da me. Se tu vai a sinistra io andrò a destra; se tu vai a destra io andrò a sinistra». Allora Lot alzò gli occhi e v ide che tutta la valle del Giordano era un luogo irrigato da ogni parte –
prima che il Signore distruggesse Sòdoma e Gomorra –
come il giardino del Signore come la terra d’Egitto fino a Soar. Lot scelse per sé tutta la valle del Giordano e trasportò le tende verso oriente. Così si separarono l’uno dall’altro: Abram si stabilì nella terra di Canaan e Lot si stabilì nelle città della valle e piantò le tende vicino a Sòdoma. Ora gli uomini di Sòdoma erano malvagi e peccavano molto contro il Signore. Allora il Signore disse ad Abram dopo che Lot si era separato da lui: «Alza gli occhi e dal luogo dove tu stai spingi lo sg uardo verso il settentrione e il mezzogiorno verso l’oriente e l’occidente. Tutta la terra che tu ve di io la darò a te e alla tua discendenza per sempre. Renderò la tua discendenza come la polvere della terra: se uno può contare la polvere della terra potrà contare anche i tuoi discendenti. àlz ati, percorri la terra in lungo e in largo perché io la darò a te». Poi Abram si spostò con le sue te nde e andò a stabilirsi alle Querce di Mamre che sono ad Ebron e vi costruì un altare al Signore.
Al tempo di Amrafèl re di Sinar di Ariòc re di Ellasàr di Chedorlaòmer re dell’Elam e di Tidal re di Goìm costoro mossero guerra contro Bera re di Sòdoma Birsa re di Gomorra Sinab re di Adma S
emeber re di Seboìm e contro il re di Bela cioè Soar. Tutti questi si concentrarono nella valle di S
iddìm, cioè del Mar Morto. Per dodici anni essi erano stati sottomessi a Chedorlaòmer, ma il tre dicesimo anno si erano ribellati. Nell’anno quattordicesimo arrivarono Chedorlaòmer e i re che erano con lui e sconfissero i Refaìm ad Astarot-Karnàim gli Zuzìm ad Am gli Emìm a Save-Kiriatàim e gli Urriti sulle montagne di Seir fino a El-
Paran che è presso il deserto. Poi mutarono direzione e vennero a En-Mispàt cioè Kades e devastarono tutto il territorio degli Amaleciti e anche degli Amorrei che abi tavano a Casesòn-Tamar. Allora il re di Sòdoma il re di Gomorra il re di Adma il re di Seboìm e il re di Bela cioè Soa r uscirono e si schierarono a battaglia nella valle di Siddìm contro di essi cioè contro Chedorlaò mer re dell’Elam, Tidal re di Goìm Amrafèl re di Sinar e Ariòc re di Ellasàr: quattro re contro cinq ue. La valle di Siddìm era piena di pozzi di bitume; messi in fuga il re di Sòdoma e il re di Gomorr a vi caddero dentro mentre gli altri fuggirono sulla montagna. Gli invasori presero tutti i beni di Sòdoma e Gomorra e tutti i loro viveri e se ne andarono. Prima di andarsene catturarono anche Lot figlio del fratello di Abram e i suoi beni: egli risiedeva appunto a Sòdoma. Ma un fuggiasco v enne ad avvertire Abram l’Ebreo che si trovava alle Querce di Mamre l’Amorreo fratello di Escol e fratello di Aner i quali erano alleati di Abram. Quando Abram seppe che suo fratello era stato preso prigioniero organizzò i suoi uomini esperti nelle armi, schiavi nati nella sua casa in numer
o di trecentodiciotto e si diede all’inseguimento fino a Dan. Fece delle squadre lui e i suoi servi c ontro di loro li sconfisse di notte e li inseguì fino a Coba a settentrione di Damasco. Recuperò co sì tutti i beni e anche Lot suo fratello i suoi beni con le donne e il popolo. Quando Abram fu di ri torno dopo la sconfitta di Chedorlaòmer e dei re che erano con lui il re di Sòdoma gli uscì incont ro nella valle di Save cioè la valle del Re. Intanto Melchìsedek re di Salem offrì pane e vino: era s acerdote del Dio altissimo e benedisse Abram con queste parole: «Sia benedetto Abram dal Dio altissimo, creatore del cielo e della terra, e benedetto sia il Dio altissimo, che ti ha messo in man o i tuoi nemici». Ed egli diede a lui la decima di tutto. Il re di Sòdoma disse ad Abram: «Dammi l e persone; i beni prendili per te». Ma Abram disse al re di Sòdoma: «Alzo la mano davanti al Sig nore il Dio altissimo creatore del cielo e della terra: né un filo né un legaccio di sandalo niente io prenderò di ciò che è tuo; non potrai dire: io ho arricchito Abram. Per me niente se non quello che i servi hanno mangiato; quanto a ciò che spetta agli uomini che sono venuti con me Aner Es col e Mamre essi stessi si prendano la loro parte». Dopo tali fatti fu rivolta ad Abram in visione questa parola del Signore: «Non temere Abram. Io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà mo lto grande». Rispose Abram: «Signore Dio che cosa mi darai? Io me ne vado senza figli e l’erede della mia casa è Elièzer di Damasco». Soggiunse Abram: «Ecco a me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà mio erede». Ed ecco gli fu rivolta questa parola dal Signore: «Non sarà c ostui il tuo erede ma uno nato da te sarà il tuo erede». Poi lo condusse fuori e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle se riesci a contarle» e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza». Egli cr edette al Signore che glielo accreditò come giustizia. E gli disse: «Io sono il Signore che ti ho fatt o uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questa terra». Rispose: «Signore Dio come potrò s apere che ne avrò il possesso?». Gli disse: «Prendimi una giovenca di tre anni una capra di tre a nni un ariete di tre anni una tortora e un colombo». Andò a prendere tutti questi animali li divis e in due e collocò ogni metà di fronte all’altra; non divise però gli uccelli. Gli uccelli rapaci calaro no su quei cadaveri ma Abram li scacciò. Mentre il sole stava per tramontare un torpore cadde s u Abram ed ecco terrore e grande oscurità lo assalirono. Allora il Signore disse ad Abram: «Sapp i che i tuoi discendenti saranno forestieri in una terra non loro; saranno fatti schiavi e saranno o ppressi per quattrocento anni. Ma la nazione che essi avranno servito la giudicherò io: dopo ess i usciranno con grandi ricchezze. Quanto a te andrai in pace presso i tuoi padri; sarai sepolto do po una vecchiaia felice. Alla quarta generazione torneranno qui perché l’iniquità degli Amorrei n on ha ancora raggiunto il colmo». Quando tramontato il sole si era fatto buio fitto ecco un braci ere fumante e una fiaccola ardente passare in mezzo agli animali divisi. In quel giorno il Signore concluse quest’alleanza con Abram: «Alla tua discendenza io do questa terra, dal fiume d’Egitto al grande fiume il fiume Eufrate; la terra dove abitano i Keniti i Kenizziti i Kadmoniti gli Ittiti i Per izziti i Refaìm gli Amorrei i Cananei i Gergesei e i Gebusei». Sarài moglie di Abram non gli aveva dato figli. Avendo però una schiava egiziana chiamata Agar Sarài disse ad Abram: «Ecco il Signor e mi ha impedito di aver prole; unisciti alla mia schiava: forse da lei potrò avere figli». Abram as coltò l’invito di Sarài. Così al termine di dieci anni da quando Abram abitava nella terra di Canaa
n Sarài moglie di Abram prese Agar l’Egiziana sua schiava e la diede in moglie ad Abram suo mar ito. Egli si unì ad Agar che restò incinta. Ma quando essa si accorse di essere incinta la sua padro na non contò più nulla per lei. Allora Sarài disse ad Abram: «L’offesa a me fatta ricada su di te! I o ti ho messo in grembo la mia schiava ma da quando si è accorta d’essere incinta io non conto più niente per lei. Il Signore sia giudice tra me e te!». Abram disse a Sarài: «Ecco la tua schiava è in mano tua: trattala come ti piace». Sarài allora la maltrattò tanto che quella fuggì dalla sua pr esenza. La trovò l’angelo del Signore presso una sorgente d’acqua nel deserto la sorgente sulla s trada di Sur, e le disse: «Agar schiava di Sarài da dove vieni e dove vai?». Rispose: «Fuggo dalla presenza della mia padrona Sarài». Le disse l’angelo del Signore: «Ritorna dalla tua padrona e re stale sottomessa». Le disse ancora l’angelo del Signore: «Moltiplicherò la tua discendenza e non si potrà contarla tanto sarà numerosa». Soggiunse poi l’angelo del Signore: «Ecco sei incinta: p artorirai un figlio e lo chiamerai Ismaele, perché il Signore ha udito il tuo lamento. Egli sarà com e un asino selvatico; la sua mano sarà contro tutti e la mano di tutti contro di lui, e abiterà di fro nte a tutti i suoi fratelli». Agar al Signore che le aveva parlato diede questo nome: «Tu sei il Dio della visione» perché diceva: «Non ho forse visto qui colui che mi vede?». Per questo il pozzo si chiamò pozzo di Lacai-Roì è appunto quello che si trova tra Kades e Bered. Agar partorì ad Abram un figlio e Abram chi amò Ismaele il figlio che Agar gli aveva partorito. Abram aveva ottantasei anni quando Agar gli p artorì Ismaele. Quando Abram ebbe novantanove anni il Signore gli apparve e gli disse: «Io sono Dio l’Onnipotente: cammina davanti a me e sii integro. Porrò la mia alleanza tra me e te e ti ren derò molto molto numeroso». Subito Abram si prostrò con il viso a terra e Dio parlò con lui: «Q
uanto a me ecco la mia alleanza è con te: diventerai padre di una moltitudine di nazioni. Non ti chiamerai più Abram, ma ti chiamerai Abramo, perché padre di una moltitudine di nazioni ti ren derò. E ti renderò molto molto fecondo; ti farò diventare nazioni e da te usciranno dei re. Stabili rò la mia alleanza con te e con la tua discendenza dopo di te di generazione in generazione com e alleanza perenne per essere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te. La terra dove sei for estiero tutta la terra di Canaan la darò in possesso per sempre a te e alla tua discendenza dopo di te; sarò il loro Dio». Disse Dio ad Abramo: «Da parte tua devi osservare la mia alleanza tu e la tua discendenza dopo di te di generazione in generazione. Questa è la mia alleanza che dovete osservare alleanza tra me e voi e la tua discendenza dopo di te: sia circonciso tra voi ogni masch io. Vi lascerete circoncidere la carne del vostro prepuzio e ciò sarà il segno dell’alleanza tra me e voi. Quando avrà otto giorni sarà circonciso tra voi ogni maschio di generazione in generazione sia quello nato in casa sia quello comprato con denaro da qualunque straniero che non sia della tua stirpe. Deve essere circonciso chi è nato in casa e chi viene comprato con denaro; così la mi a alleanza sussisterà nella vostra carne come alleanza perenne. Il maschio non circonciso di cui c ioè non sarà stata circoncisa la carne del prepuzio sia eliminato dal suo popolo: ha violato la mia alleanza». Dio aggiunse ad Abramo: «Quanto a Sarài tua moglie non la chiamerai più Sarài ma S
ara. Io la benedirò e anche da lei ti darò un figlio; la benedirò e diventerà nazioni e re di popoli
nasceranno da lei». Allora Abramo si prostrò con la faccia a terra e rise e pensò: «A uno di cento anni può nascere un figlio? E Sara all’età di novant’anni potrà partorire?». Abramo disse a Dio:
«Se almeno Ismaele potesse vivere davanti a te!». E Dio disse: «No Sara tua moglie ti partorirà un figlio e lo chiamerai Isacco. Io stabilirò la mia alleanza con lui come alleanza perenne per ess ere il Dio suo e della sua discendenza dopo di lui. Anche riguardo a Ismaele io ti ho esaudito: ec co io lo benedico e lo renderò fecondo e molto molto numeroso: dodici prìncipi egli genererà e di lui farò una grande nazione. Ma stabilirò la mia alleanza con Isacco che Sara ti partorirà a que sta data l’anno venturo». Dio terminò così di parlare con lui e lasciò Abramo levandosi in alto. Al lora Abramo prese Ismaele suo figlio e tutti i nati nella sua casa e tutti quelli comprati con il suo denaro tutti i maschi appartenenti al personale della casa di Abramo e circoncise la carne del lor o prepuzio in quello stesso giorno come Dio gli aveva detto. Abramo aveva novantanove anni q uando si fece circoncidere la carne del prepuzio. Ismaele suo figlio aveva tredici anni quando gli fu circoncisa la carne del prepuzio. In quello stesso giorno furono circoncisi Abramo e Ismaele s uo figlio. E tutti gli uomini della sua casa quelli nati in casa e quelli comprati con denaro dagli str anieri furono circoncisi con lui. Poi il Signore apparve a lui alle Querce di Mamre mentre egli sed eva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si pro strò fino a terra dicendo: «Mio signore se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senz a fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po’ d’acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sott o l’albero. Andrò a prendere un boccone di pane e ristoratevi; dopo potrete proseguire perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo». Quelli dissero: «Fa’ pure come hai dett o». Allora Abramo andò in fretta nella tenda da Sara e disse: «Presto tre sea di fior di farina imp astala e fanne focacce». All’armento corse lui stesso Abramo; prese un vitello tenero e buono e lo diede al servo che si affrettò a prepararlo. Prese panna e latte fresco insieme con il vitello che aveva preparato e li porse loro. Così mentre egli stava in piedi presso di loro sotto l’albero quell i mangiarono. Poi gli dissero: «Dov’è Sara tua moglie?». Rispose: «è là nella tenda». Riprese: «T
ornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara tua moglie avrà un figlio». Intanto Sara stav a ad ascoltare all’ingresso della tenda dietro di lui. Abramo e Sara erano vecchi avanti negli anni
; era cessato a Sara ciò che avviene regolarmente alle donne. Allora Sara rise dentro di sé e diss e: «Avvizzita come sono dovrei provare il piacere mentre il mio signore è vecchio!». Ma il Signor e disse ad Abramo: «Perché Sara ha riso dicendo: “Potrò davvero partorire mentre sono vecchia
”? C’è forse qualche cosa d’impossibile per il Signore? Al tempo fissato tornerò da te tra un ann o e Sara avrà un figlio». Allora Sara negò: «Non ho riso!» perché aveva paura; ma egli disse: «Sì hai proprio riso». Quegli uomini si alzarono e andarono a contemplare Sòdoma dall’alto mentre Abramo li accompagnava per congedarli. Il Signore diceva: «Devo io tenere nascosto ad Abramo quello che sto per fare mentre Abramo dovrà diventare una nazione grande e potente e in lui si diranno benedette tutte le nazioni della terra? Infatti io l’ho scelto perché egli obblighi i suoi fig li e la sua famiglia dopo di lui a osservare la via del Signore e ad agire con giustizia e diritto perc
hé il Signore compia per Abramo quanto gli ha promesso». Disse allora il Signore: «Il grido di Sò doma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave. Voglio scendere a vedere se p roprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere!». Quegli uomi ni partirono di là e andarono verso Sòdoma mentre Abramo stava ancora alla presenza del Sign ore. Abramo gli si avvicinò e gli disse: «Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per rigua rdo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lontano da te il far morire il giusto con l’empio così ch e il giusto sia trattato come l’empio; lontano da te! Forse il giudice di tutta la terra non pratiche rà la giustizia?». Rispose il Signore: «Se a Sòdoma troverò cinquanta giusti nell’ambito della citt à per riguardo a loro perdonerò a tutto quel luogo». Abramo riprese e disse: «Vedi come ardisc o parlare al mio Signore io che sono polvere e cenere: forse ai cinquanta giusti ne mancheranno cinque; per questi cinque distruggerai tutta la città?». Rispose: «Non la distruggerò se ve ne tro verò quarantacinque». Abramo riprese ancora a parlargli e disse: «Forse là se ne troveranno qu aranta». Rispose: «Non lo farò per riguardo a quei quaranta». Riprese: «Non si adiri il mio Signo re se parlo ancora: forse là se ne troveranno trenta». Rispose: «Non lo farò se ve ne troverò tre nta». Riprese: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore! Forse là se ne troveranno venti». Risp ose: «Non la distruggerò per riguardo a quei venti». Riprese: «Non si adiri il mio Signore se parl o ancora una volta sola: forse là se ne troveranno dieci». Rispose: «Non la distruggerò per rigua rdo a quei dieci». Come ebbe finito di parlare con Abramo il Signore se ne andò e Abramo ritorn ò alla sua abitazione. I due angeli arrivarono a Sòdoma sul far della sera mentre Lot stava sedut o alla porta di Sòdoma. Non appena li ebbe visti Lot si alzò andò loro incontro e si prostrò con la faccia a terra. E disse: «Miei signori venite in casa del vostro servo: vi passerete la notte vi laver ete i piedi e poi domattina per tempo ve ne andrete per la vostra strada». Quelli risposero: «No passeremo la notte sulla piazza». Ma egli insistette tanto che vennero da lui ed entrarono nella sua casa. Egli preparò per loro un banchetto fece cuocere pani azzimi e così mangiarono. Non si erano ancora coricati quand’ecco gli uomini della città cioè gli abitanti di Sòdoma si affollarono attorno alla casa giovani e vecchi tutto il popolo al completo. Chiamarono Lot e gli dissero: «Do ve sono quegli uomini che sono entrati da te questa notte? Falli uscire da noi perché possiamo abusarne!». Lot uscì verso di loro sulla soglia e dopo aver chiuso la porta dietro di sé disse: «No fratelli miei non fate del male! Sentite io ho due figlie che non hanno ancora conosciuto uomo; l asciate che ve le porti fuori e fate loro quel che vi piace purché non facciate nulla a questi uomi ni, perché sono entrati all’ombra del mio tetto». Ma quelli risposero: «Tìrati via! Quest’individu o è venuto qui come straniero e vuol fare il giudice! Ora faremo a te peggio che a loro!». E sping endosi violentemente contro quell’uomo cioè contro Lot si fecero avanti per sfondare la porta.
Allora dall’interno quegli uomini sporsero le mani si trassero in casa Lot e chiusero la porta; colp irono di cecità gli uomini che erano all’ingresso della casa dal più piccolo al più grande così che non riuscirono a trovare la porta. Quegli uomini dissero allora a Lot: «Chi hai ancora qui? Il gene ro i tuoi figli le tue figlie e quanti hai in città falli uscire da questo luogo. Perché noi stiamo per d
istruggere questo luogo: il grido innalzato contro di loro davanti al Signore è grande e il Signore ci ha mandato a distruggerli». Lot uscì a parlare ai suoi generi che dovevano sposare le sue figlie e disse: «Alzatevi uscite da questo luogo perché il Signore sta per distruggere la città!». Ai suoi generi sembrò che egli volesse scherzare. Quando apparve l’alba gli angeli fecero premura a Lot dicendo: «Su prendi tua moglie e le tue due figlie che hai qui per non essere travolto nel castig o della città». Lot indugiava ma quegli uomini presero per mano lui sua moglie e le sue due figli e per un grande atto di misericordia del Signore verso di lui; lo fecero uscire e lo condussero fuo ri della città. Dopo averli condotti fuori uno di loro disse: «Fuggi per la tua vita. Non guardare in dietro e non fermarti dentro la valle: fuggi sulle montagne per non essere travolto!». Ma Lot gli disse: «No mio signore! Vedi il tuo servo ha trovato grazia ai tuoi occhi e tu hai usato grande bo ntà verso di me salvandomi la vita ma io non riuscirò a fuggire sul monte senza che la sciagura mi raggiunga e io muoia. Ecco quella città: è abbastanza vicina perché mi possa rifugiare là ed è piccola cosa! Lascia che io fugga lassù – non è una piccola cosa? –
e così la mia vita sarà salva». Gli rispose: «Ecco ti ho favorito anche in questo di non distrugger e la città di cui hai parlato. Presto fuggi là perché io non posso far nulla finché tu non vi sia arriv ato». Perciò quella città si chiamò Soar. Il sole spuntava sulla terra e Lot era arrivato a Soar qua nd’ecco il Signore fece piovere dal cielo sopra Sòdoma e sopra Gomorra zolfo e fuoco provenien ti dal Signore. Distrusse queste città e tutta la valle con tutti gli abitanti delle città e la vegetazio ne del suolo. Ora la moglie di Lot guardò indietro e divenne una statua di sale. Abramo andò di buon mattino al luogo dove si era fermato alla presenza del Signore; contemplò dall’alto Sòdom a e Gomorra e tutta la distesa della valle e vide che un fumo saliva dalla terra come il fumo di u na fornace. Così quando distrusse le città della valle Dio si ricordò di Abramo e fece sfuggire Lot alla catastrofe mentre distruggeva le città nelle quali Lot aveva abitato. Poi Lot partì da Soar e a ndò ad abitare sulla montagna con le sue due figlie, perché temeva di restare a Soar e si stabilì i n una caverna con le sue due figlie. Ora la maggiore disse alla più piccola: «Nostro padre è vecc hio e non c’è nessuno in questo territorio per unirsi a noi come avviene dappertutto. Vieni facci amo bere del vino a nostro padre e poi corichiamoci con lui così daremo vita a una discendenza da nostro padre». Quella notte fecero bere del vino al loro padre e la maggiore andò a coricarsi con il padre; ma egli non se ne accorse né quando lei si coricò né quando lei si alzò. All’indoman i la maggiore disse alla più piccola: «Ecco ieri io mi sono coricata con nostro padre: facciamogli bere del vino anche questa notte e va’ tu a coricarti con lui; così daremo vita a una discendenza da nostro padre». Anche quella notte fecero bere del vino al loro padre e la più piccola andò a c oricarsi con lui; ma egli non se ne accorse né quando lei si coricò né quando lei si alzò. Così le du e figlie di Lot rimasero incinte del loro padre. La maggiore partorì un figlio e lo chiamò Moab. Co stui è il padre dei Moabiti che esistono ancora oggi. Anche la più piccola partorì un figlio e lo chi amò «Figlio del mio popolo». Costui è il padre degli Ammoniti che esistono ancora oggi. Abramo levò le tende dirigendosi nella regione del Negheb e si stabilì tra Kades e Sur; poi soggiornò co me straniero a Gerar. Siccome Abramo aveva detto della moglie Sara: «è mia sorella» Abimèlec
re di Gerar mandò a prendere Sara. Ma Dio venne da Abimèlec di notte in sogno e gli disse: «Ec co stai per morire a causa della donna che tu hai preso; lei appartiene a suo marito». Abimèlec che non si era ancora accostato a lei disse: «Mio Signore vuoi far morire una nazione anche se g iusta? Non è stato forse lui a dirmi: “è mia sorella”? E anche lei ha detto: “è mio fratello”. Con c uore retto e mani innocenti mi sono comportato in questo modo». Gli rispose Dio nel sogno: «S
o bene che hai agito così con cuore retto e ti ho anche impedito di peccare contro di me: perciò non ho permesso che tu la toccassi. Ora restituisci la donna di quest’uomo perché è un profeta: pregherà per te e tu vivrai. Ma se tu non la restituisci sappi che meriterai la morte con tutti i tuo i». Allora Abimèlec si alzò di mattina presto e chiamò tutti i suoi servi ai quali riferì tutte queste cose e quegli uomini si impaurirono molto. Poi Abimèlec chiamò Abramo e gli disse: «Che cosa c i hai fatto? E che colpa ho commesso contro di te perché tu abbia esposto me e il mio regno a u n peccato tanto grande? Tu hai fatto a mio riguardo azioni che non si fanno». Poi Abimèlec diss e ad Abramo: «A che cosa miravi agendo in tal modo?». Rispose Abramo: «Io mi sono detto: cer to non vi sarà timor di Dio in questo luogo e mi uccideranno a causa di mia moglie. Inoltre ella è veramente mia sorella figlia di mio padre ma non figlia di mia madre ed è divenuta mia moglie.
Quando Dio mi ha fatto andare errando lungi dalla casa di mio padre io le dissi: “Questo è il fav ore che tu mi farai: in ogni luogo dove noi arriveremo dirai di me: è mio fratello”». Allora Abimè lec prese greggi e armenti schiavi e schiave li diede ad Abramo e gli restituì la moglie Sara. Inoltr e Abimèlec disse: «Ecco davanti a te il mio territorio: va’ ad abitare dove ti piace!». A Sara disse:
«Ecco ho dato mille pezzi d’argento a tuo fratello: sarà per te come un risarcimento di fronte a quanti sono con te. Così tu sei in tutto riabilitata». Abramo pregò Dio e Dio guarì Abimèlec sua moglie e le sue serve sì che poterono ancora aver figli. Il Signore infatti aveva reso sterili tutte le donne della casa di Abimèlec per il fatto di Sara moglie di Abramo. Il Signore visitò Sara come a veva detto e fece a Sara come aveva promesso. Sara concepì e partorì ad Abramo un figlio nella vecchiaia nel tempo che Dio aveva fissato. Abramo chiamò Isacco il figlio che gli era nato che Sa ra gli aveva partorito. Abramo circoncise suo figlio Isacco quando questi ebbe otto giorni come Dio gli aveva comandato. Abramo aveva cento anni quando gli nacque il figlio Isacco. Allora Sara disse: «Motivo di lieto riso mi ha dato Dio: chiunque lo saprà riderà lietamente di me!». Poi diss e: «Chi avrebbe mai detto ad Abramo che Sara avrebbe allattato figli? Eppure gli ho partorito un figlio nella sua vecchiaia!». Il bambino crebbe e fu svezzato e Abramo fece un grande banchett o quando Isacco fu svezzato. Ma Sara vide che il figlio di Agar l’Egiziana quello che lei aveva part orito ad Abramo, scherzava con il figlio Isacco. Disse allora ad Abramo: «Scaccia questa schiava e suo figlio perché il figlio di questa schiava non deve essere erede con mio figlio Isacco». La cos a sembrò un gran male agli occhi di Abramo a motivo di suo figlio. Ma Dio disse ad Abramo: «N
on sembri male ai tuoi occhi questo riguardo al fanciullo e alla tua schiava: ascolta la voce di Sar a in tutto quello che ti dice perché attraverso Isacco da te prenderà nome una stirpe. Ma io farò diventare una nazione anche il figlio della schiava perché è tua discendenza». Abramo si alzò di buon mattino prese il pane e un otre d’acqua e li diede ad Agar caricandoli sulle sue spalle; le co
nsegnò il fanciullo e la mandò via. Ella se ne andò e si smarrì per il deserto di Bersabea. Tutta l’a cqua dell’otre era venuta a mancare. Allora depose il fanciullo sotto un cespuglio e andò a sede rsi di fronte, alla distanza di un tiro d’arco perché diceva: «Non voglio veder morire il fanciullo!»
. Sedutasi di fronte alzò la voce e pianse. Dio udì la voce del fanciullo e un angelo di Dio chiamò Agar dal cielo e le disse: «Che hai Agar? Non temere perché Dio ha udito la voce del fanciullo là dove si trova. àlzati prendi il fanciullo e tienilo per mano perché io ne farò una grande nazione».
Dio le aprì gli occhi ed ella vide un pozzo d’acqua. Allora andò a riempire l’otre e diede da bere al fanciullo. E Dio fu con il fanciullo che crebbe e abitò nel deserto e divenne un tiratore d’arco.
Egli abitò nel deserto di Paran e sua madre gli prese una moglie della terra d’Egitto. In quel tem po Abimèlec con Picol capo del suo esercito disse ad Abramo: «Dio è con te in quello che fai. Eb bene giurami qui per Dio che tu non ingannerai né me né la mia prole né i miei discendenti: co me io ho agito lealmente con te così tu agirai con me e con la terra nella quale sei ospitato». Ris pose Abramo: «Io lo giuro». Ma Abramo rimproverò Abimèlec a causa di un pozzo d’acqua, che i servi di Abimèlec avevano usurpato. Abimèlec disse: «Io non so chi abbia fatto questa cosa: né tu me ne hai informato né io ne ho sentito parlare prima d’oggi». Allora Abramo prese alcuni ca pi del gregge e dell’armento e li diede ad Abimèlec: tra loro due conclusero un’alleanza. Poi Abr amo mise in disparte sette agnelle del gregge. Abimèlec disse ad Abramo: «Che significano quell e sette agnelle che hai messo in disparte?». Rispose: «Tu accetterai queste sette agnelle dalla m ia mano perché ciò mi valga di testimonianza che ho scavato io questo pozzo». Per questo quel l uogo si chiamò Bersabea perché là fecero giuramento tutti e due. E dopo che ebbero concluso l’
alleanza a Bersabea, Abimèlec si alzò con Picol capo del suo esercito e ritornarono nel territorio dei Filistei. Abramo piantò un tamerisco a Bersabea e lì invocò il nome del Signore, Dio dell’eter nità. E visse come forestiero nel territorio dei Filistei per molto tempo. Dopo queste cose Dio mi se alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Prendi tuo figlio il tu o unigenito che ami Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che i o ti indicherò». Abramo si alzò di buon mattino sellò l’asino prese con sé due servi e il figlio Isac co spaccò la legna per l’olocausto e si mise in viaggio verso il luogo che Dio gli aveva indicato. Il terzo giorno Abramo alzò gli occhi e da lontano vide quel luogo. Allora Abramo disse ai suoi serv i: «Fermatevi qui con l’asino; io e il ragazzo andremo fin lassù ci prostreremo e poi ritorneremo da voi». Abramo prese la legna dell’olocausto e la caricò sul figlio Isacco prese in mano il fuoco e il coltello poi proseguirono tutti e due insieme. Isacco si rivolse al padre Abramo e disse: «Pad re mio!». Rispose: «Eccomi figlio mio». Riprese: «Ecco qui il fuoco e la legna ma dov’è l’agnello per l’olocausto?». Abramo rispose: «Dio stesso si provvederà l’agnello per l’olocausto figlio mio
!». Proseguirono tutti e due insieme. Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abr amo costruì l’altare collocò la legna legò suo figlio Isacco e lo depose sull’altare sopra la legna. P
oi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l’angelo del Signore lo ch iamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». L’angelo disse: «Non stende re la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo
figlio il tuo unigenito». Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato con le corna in u n cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio. Abramo chi amò quel luogo «Il Signore vede» perciò oggi si dice: «Sul monte il Signore si fa vedere». L’angel o del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso oracol o del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio il tuo unigenito io ti col merò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza come le stelle del cielo e co me la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra perché tu hai obbedito alla mia voce». Abramo tornò dai suoi servi; insieme si misero in cammino verso Bersabea e Abram o abitò a Bersabea. Dopo queste cose fu annunciato ad Abramo che anche Milca aveva partorit o figli a Nacor suo fratello: Us il primogenito e suo fratello Buz e Kemuèl il padre di Aram, e Ches ed Azo Pildas Idlaf e Betuèl. Betuèl generò Rebecca. Milca partorì questi otto figli a Nacor fratell o di Abramo. Anche la sua concubina chiamata Reumà partorì figli: Tebach Gacam Tacas e Maac à. Gli anni della vita di Sara furono centoventisette: questi furono gli anni della vita di Sara. Sara morì a Kiriat-Arbà cioè Ebron nella terra di Canaan e Abramo venne a fare il lamento per Sara e a piangerla. P
oi Abramo si staccò dalla salma e parlò agli Ittiti: «Io sono forestiero e di passaggio in mezzo a v oi. Datemi la proprietà di un sepolcro in mezzo a voi perché io possa portar via il morto e seppel lirlo». Allora gli Ittiti risposero ad Abramo dicendogli: «Ascolta noi, piuttosto signore. Tu sei un p rincipe di Dio in mezzo a noi: seppellisci il tuo morto nel migliore dei nostri sepolcri. Nessuno di noi ti proibirà di seppellire il tuo morto nel suo sepolcro». Abramo si alzò si prostrò davanti al p opolo della regione davanti agli Ittiti, e parlò loro: «Se è secondo il vostro desiderio che io porti via il mio morto e lo seppellisca ascoltatemi e insistete per me presso Efron figlio di Socar, perch é mi dia la sua caverna di Macpela che è all’estremità del suo campo. Me la ceda per il suo prezz o intero come proprietà sepolcrale in mezzo a voi». Ora Efron stava seduto in mezzo agli Ittiti. E
fron l’Ittita rispose ad Abramo mentre lo ascoltavano gli Ittiti quanti erano convenuti alla porta della sua città e disse: «Ascolta me piuttosto mio signore: ti cedo il campo con la caverna che vi si trova, in presenza dei figli del mio popolo te la cedo: seppellisci il tuo morto». Allora Abramo si prostrò a lui alla presenza del popolo della regione. Parlò a Efron, mentre lo ascoltava il popol o della regione e disse: «Se solo mi volessi ascoltare: io ti do il prezzo del campo. Accettalo da m e così là seppellirò il mio morto». Efron rispose ad Abramo: «Ascolta me piuttosto mio signore: un terreno del valore di quattrocento sicli d’argento che cosa è mai tra me e te? Seppellisci dun que il tuo morto». Abramo accettò le richieste di Efron e Abramo pesò a Efron il prezzo che que sti aveva detto mentre lo ascoltavano gli Ittiti cioè quattrocento sicli d’argento secondo la misur a in corso sul mercato. Così il campo di Efron che era a Macpela di fronte a Mamre il campo e la caverna che vi si trovava e tutti gli alberi che erano dentro il campo e intorno al suo limite passa rono in proprietà ad Abramo alla presenza degli Ittiti di quanti erano convenuti alla porta della c ittà. Poi Abramo seppellì Sara sua moglie nella caverna del campo di Macpela di fronte a Mamre
cioè Ebron nella terra di Canaan. Il campo e la caverna che vi si trovava passarono dagli Ittiti ad Abramo in proprietà sepolcrale. Abramo era ormai vecchio avanti negli anni e il Signore lo avev a benedetto in tutto. Allora Abramo disse al suo servo il più anziano della sua casa che aveva po tere su tutti i suoi beni: «Metti la mano sotto la mia coscia e ti farò giurare per il Signore Dio del cielo e Dio della terra che non prenderai per mio figlio una moglie tra le figlie dei Cananei, in m ezzo ai quali abito ma che andrai nella mia terra tra la mia parentela a scegliere una moglie per mio figlio Isacco». Gli disse il servo: «Se la donna non mi vuol seguire in questa terra dovrò forse ricondurre tuo figlio alla terra da cui tu sei uscito?». Gli rispose Abramo: «Guàrdati dal ricondur re là mio figlio! Il Signore Dio del cielo e Dio della terra che mi ha preso dalla casa di mio padre e dalla mia terra natia che mi ha parlato e mi ha giurato: “Alla tua discendenza darò questa terra
”, egli stesso manderà il suo angelo davanti a te perché tu possa prendere di là una moglie per mio figlio. Se la donna non vorrà seguirti allora sarai libero dal giuramento a me fatto; ma non d evi ricondurre là mio figlio». Il servo mise la mano sotto la coscia di Abramo suo padrone e gli pr estò così il giuramento richiesto. Il servo prese dieci cammelli del suo padrone e portando ogni sorta di cose preziose del suo padrone si mise in viaggio e andò in Aram Naharàim alla città di N
acor. Fece inginocchiare i cammelli fuori della città presso il pozzo d’acqua, nell’ora della sera q uando le donne escono ad attingere. E disse: «Signore Dio del mio padrone Abramo concedimi un felice incontro quest’oggi e usa bontà verso il mio padrone Abramo! Ecco io sto presso la fon te dell’acqua mentre le figlie degli abitanti della città escono per attingere acqua. Ebbene la rag azza alla quale dirò: “Abbassa l’anfora e lasciami bere” e che risponderà: “Bevi anche ai tuoi ca mmelli darò da bere” sia quella che tu hai destinato al tuo servo Isacco; da questo riconoscerò c he tu hai usato bontà verso il mio padrone». Non aveva ancora finito di parlare quand’ecco Reb ecca che era figlia di Betuèl figlio di Milca moglie di Nacor fratello di Abramo usciva con l’anfora sulla spalla. La giovinetta era molto bella d’aspetto era vergine nessun uomo si era unito a lei. El la scese alla sorgente riempì l’anfora e risalì. Il servo allora le corse incontro e disse: «Fammi ber e un po’ d’acqua dalla tua anfora». Rispose: «Bevi mio signore». In fretta calò l’anfora sul bracci o e lo fece bere. Come ebbe finito di dargli da bere disse: «Anche per i tuoi cammelli ne attinger ò finché non avranno finito di bere». In fretta vuotò l’anfora nell’abbeveratoio corse di nuovo a d attingere al pozzo e attinse per tutti i cammelli di lui. Intanto quell’uomo la contemplava in sil enzio in attesa di sapere se il Signore avesse o no concesso buon esito al suo viaggio. Quando i c ammelli ebbero finito di bere quell’uomo prese un pendente d’oro del peso di mezzo siclo e glie lo mise alle narici e alle sue braccia mise due braccialetti del peso di dieci sicli d’oro. E disse: «Di chi sei figlia? Dimmelo. C’è posto per noi in casa di tuo padre per passarvi la notte?». Gli rispos e: «Io sono figlia di Betuèl il figlio che Milca partorì a Nacor». E soggiunse: «C’è paglia e foraggio in quantità da noi e anche posto per passare la notte». Quell’uomo si inginocchiò e si prostrò al Signore e disse: «Sia benedetto il Signore Dio del mio padrone Abramo che non ha cessato di u sare bontà e fedeltà verso il mio padrone. Quanto a me il Signore mi ha guidato sulla via fino all a casa dei fratelli del mio padrone». La giovinetta corse ad annunciare alla casa di sua madre tut
te queste cose. Ora Rebecca aveva un fratello chiamato Làbano e Làbano corse fuori da quell’uo mo al pozzo. Egli infatti visti il pendente e i braccialetti alle braccia della sorella e udite queste p arole di Rebecca sua sorella: «Così mi ha parlato quell’uomo» andò da lui che stava ancora pres so i cammelli vicino al pozzo. Gli disse: «Vieni benedetto dal Signore! Perché te ne stai fuori me ntre io ho preparato la casa e un posto per i cammelli?». Allora l’uomo entrò in casa e Làbano t olse il basto ai cammelli fornì paglia e foraggio ai cammelli e acqua per lavare i piedi a lui e ai su oi uomini. Quindi gli fu posto davanti da mangiare ma egli disse: «Non mangerò finché non avrò detto quello che devo dire». Gli risposero: «Di’ pure». E disse: «Io sono un servo di Abramo. Il S
ignore ha benedetto molto il mio padrone che è diventato potente: gli ha concesso greggi e arm enti argento e oro schiavi e schiave cammelli e asini. Sara la moglie del mio padrone quando or mai era vecchia gli ha partorito un figlio al quale egli ha dato tutti i suoi beni. E il mio padrone m i ha fatto giurare: “Non devi prendere per mio figlio una moglie tra le figlie dei Cananei in mezzo ai quali abito, ma andrai alla casa di mio padre alla mia famiglia a prendere una moglie per mio figlio”. Io dissi al mio padrone: “Forse la donna non vorrà seguirmi”. Mi rispose: “Il Signore alla c ui presenza io cammino manderà con te il suo angelo e darà felice esito al tuo viaggio così che t u possa prendere una moglie per mio figlio dalla mia famiglia e dalla casa di mio padre. Solo qua ndo sarai andato dalla mia famiglia sarai esente dalla mia maledizione; se loro non volessero ce dertela tu sarai esente dalla mia maledizione”. Così oggi sono arrivato alla fonte e ho detto: “Sig nore Dio del mio padrone Abramo se tu vorrai dare buon esito al viaggio che sto compiendo ecc o io sto presso la fonte d’acqua; ebbene la giovane che uscirà ad attingere alla quale io dirò: Fa mmi bere un po’ d’acqua dalla tua anfora e mi risponderà: Bevi tu e ne attingerò anche per i tuo i cammelli quella sarà la moglie che il Signore ha destinato al figlio del mio padrone”. Io non ave vo ancora finito di pensare a queste cose quand’ecco Rebecca uscì con l’anfora sulla spalla sces e alla fonte e attinse acqua; io allora le dissi: “Fammi bere”. Subito lei calò l’anfora e disse: “Bev i; anche ai tuoi cammelli darò da bere”. Così io bevvi ed ella diede da bere anche ai cammelli. E i o la interrogai: “Di chi sei figlia?”. Rispose: “Sono figlia di Betuèl il figlio che Milca ha partorito a Nacor”. Allora le posi il pendente alle narici e i braccialetti alle braccia. Poi mi inginocchiai e mi prostrai al Signore e benedissi il Signore Dio del mio padrone Abramo il quale mi aveva guidato per la via giusta a prendere per suo figlio la figlia del fratello del mio padrone. Ora se intendete usare bontà e fedeltà verso il mio padrone fatemelo sapere; se no fatemelo sapere ugualmente perché io mi rivolga altrove». Allora Làbano e Betuèl risposero: «La cosa procede dal Signore no n possiamo replicarti nulla né in bene né in male. Ecco Rebecca davanti a te: prendila va’ e sia la moglie del figlio del tuo padrone come ha parlato il Signore». Quando il servo di Abramo udì le l oro parole si prostrò a terra davanti al Signore. Poi il servo estrasse oggetti d’argento oggetti d’
oro e vesti e li diede a Rebecca; doni preziosi diede anche al fratello e alla madre di lei. Poi man giarono e bevvero lui e i suoi uomini e passarono la notte. Quando si alzarono alla mattina egli disse: «Lasciatemi andare dal mio padrone». Ma il fratello e la madre di lei dissero: «Rimanga la giovinetta con noi qualche tempo una decina di giorni; dopo te ne andrai». Rispose loro: «Non t
rattenetemi mentre il Signore ha concesso buon esito al mio viaggio. Lasciatemi partire per and are dal mio padrone!». Dissero allora: «Chiamiamo la giovinetta e domandiamo a lei stessa». Ch iamarono dunque Rebecca e le dissero: «Vuoi partire con quest’uomo?». Ella rispose: «Sì». Allor a essi lasciarono partire la loro sorella Rebecca con la nutrice insieme con il servo di Abramo e i suoi uomini. Benedissero Rebecca e le dissero: «Tu sorella nostra, diventa migliaia di miriadi e la tua stirpe conquisti le città dei suoi nemici!». Così Rebecca e le sue ancelle si alzarono salirono sui cammelli e seguirono quell’uomo. Il servo prese con sé Rebecca e partì. Intanto Isacco rientr ava dal pozzo di Lacai-Roì abitava infatti nella regione del Negheb. Isacco uscì sul far della sera per svagarsi in campag na e alzando gli occhi vide venire i cammelli. Alzò gli occhi anche Rebecca vide Isacco e scese su bito dal cammello. E disse al servo: «Chi è quell’uomo che viene attraverso la campagna incontr o a noi?». Il servo rispose: «è il mio padrone». Allora ella prese il velo e si coprì. Il servo raccont ò a Isacco tutte le cose che aveva fatto. Isacco introdusse Rebecca nella tenda che era stata di s ua madre Sara; si prese in moglie Rebecca e l’amò. Isacco trovò conforto dopo la morte della m adre. Abramo prese un’altra moglie che aveva nome Keturà. Ella gli partorì Zimran Ioksan Meda n Madian Isbak e Suach. Ioksan generò Saba e Dedan e i figli di Dedan furono gli Assurìm i Letusì m e i Leummìm. I figli di Madian furono Efa Efer Enoc Abidà ed Eldaà. Tutti questi sono i figli di K
eturà. Abramo diede tutti i suoi beni a Isacco. Invece ai figli delle concubine, che aveva avuto Ab ramo fece doni e mentre era ancora in vita li licenziò mandandoli lontano da Isacco suo figlio ve rso il levante nella regione orientale. L’intera durata della vita di Abramo fu di centosettantacin que anni. Poi Abramo spirò e morì in felice canizie vecchio e sazio di giorni e si riunì ai suoi ante nati. Lo seppellirono i suoi figli Isacco e Ismaele nella caverna di Macpela nel campo di Efron figli o di Socar l’Ittita di fronte a Mamre. è appunto il campo che Abramo aveva comprato dagli Ittiti: ivi furono sepolti Abramo e sua moglie Sara. Dopo la morte di Abramo Dio benedisse il figlio di l ui Isacco e Isacco abitò presso il pozzo di Lacai-Roì. Questa è la discendenza di Ismaele figlio di Abramo che gli aveva partorito Agar l’Egiziana s chiava di Sara. Questi sono i nomi dei figli d’Ismaele con il loro elenco in ordine di generazione: i l primogenito di Ismaele è Nebaiòt poi Kedar Adbeèl, Mibsam Misma Duma Massa Adad Tema I etur Nafis e Kedma. Questi sono i figli di Ismaele e questi sono i loro nomi secondo i loro recinti e accampamenti. Sono i dodici prìncipi delle rispettive tribù. La durata della vita di Ismaele fu di centotrentasette anni; poi spirò e si riunì ai suoi antenati. Egli abitò da Avìla fino a Sur che è lun go il confine dell’Egitto in direzione di Assur. Egli si era stabilito di fronte a tutti i suoi fratelli. Qu esta è la discendenza di Isacco figlio di Abramo. Abramo aveva generato Isacco. Isacco aveva qu arant’anni quando si prese in moglie Rebecca figlia di Betuèl l’Arameo da Paddan-Aram e sorella di Làbano l’Arameo. Isacco supplicò il Signore per sua moglie perché ella era steri le e il Signore lo esaudì, così che sua moglie Rebecca divenne incinta. Ora i figli si urtavano nel s uo seno ed ella esclamò: «Se è così che cosa mi sta accadendo?». Andò a consultare il Signore. Il Signore le rispose: «Due nazioni sono nel tuo seno e due popoli dal tuo grembo si divideranno;
un popolo sarà più forte dell’altro e il maggiore servirà il più piccolo». Quando poi si compì per l ei il tempo di partorire ecco due gemelli erano nel suo grembo. Uscì il primo rossiccio e tutto co me un mantello di pelo e fu chiamato Esaù. Subito dopo uscì il fratello e teneva in mano il calca gno di Esaù fu chiamato Giacobbe. Isacco aveva sessant’anni quando essi nacquero. I fanciulli cr ebbero ed Esaù divenne abile nella caccia un uomo della steppa mentre Giacobbe era un uomo tranquillo che dimorava sotto le tende. Isacco prediligeva Esaù, perché la cacciagione era di suo gusto mentre Rebecca prediligeva Giacobbe. Una volta Giacobbe aveva cotto una minestra; Esa ù arrivò dalla campagna ed era sfinito. Disse a Giacobbe: «Lasciami mangiare un po’ di questa m inestra rossa, perché io sono sfinito». Per questo fu chiamato Edom. Giacobbe disse: «Vendimi subito la tua primogenitura». Rispose Esaù: «Ecco sto morendo: a che mi serve allora la primog enitura?». Giacobbe allora disse: «Giuramelo subito». Quegli lo giurò e vendette la primogenitu ra a Giacobbe. Giacobbe diede a Esaù il pane e la minestra di lenticchie; questi mangiò e bevve poi si alzò e se ne andò. A tal punto Esaù aveva disprezzato la primogenitura. Venne una caresti a nella terra dopo quella che c’era stata ai tempi di Abramo e Isacco andò a Gerar presso Abimè lec re dei Filistei. Gli apparve il Signore e gli disse: «Non scendere in Egitto abita nella terra che i o ti indicherò rimani come forestiero in questa terra e io sarò con te e ti benedirò: a te e alla tua discendenza io concederò tutti questi territori e manterrò il giuramento che ho fatto ad Abram o tuo padre. Renderò la tua discendenza numerosa come le stelle del cielo e concederò alla tua discendenza tutti questi territori: tutte le nazioni della terra si diranno benedette nella tua disce ndenza; perché Abramo ha obbedito alla mia voce e ha osservato ciò che io gli avevo prescritto: i miei comandamenti le mie istituzioni e le mie leggi». Così Isacco dimorò a Gerar. Gli uomini de l luogo gli fecero domande sulla moglie ma egli disse: «è mia sorella» infatti aveva timore di dire
: «è mia moglie» pensando che gli uomini del luogo lo avrebbero potuto uccidere a causa di Reb ecca che era di bell’aspetto. Era là da molto tempo quando Abimèlec re dei Filistei si affacciò all a finestra e vide Isacco scherzare con la propria moglie Rebecca. Abimèlec chiamò Isacco e disse
: «Sicuramente ella è tua moglie. E perché tu hai detto: “è mia sorella”?». Gli rispose Isacco: «Pe rché mi son detto: che io non abbia a morire per causa di lei!». Riprese Abimèlec: «Perché ti sei comportato così con noi? Poco ci mancava che qualcuno del popolo si unisse a tua moglie e tu a ttirassi su di noi una colpa». Abimèlec diede quest’ordine a tutto il popolo: «Chi tocca quest’uo mo o sua moglie sarà messo a morte!». Isacco fece una semina in quella terra e raccolse quell’a nno il centuplo. Il Signore infatti lo aveva benedetto. E l’uomo divenne ricco e crebbe tanto in ri cchezze fino a divenire ricchissimo: possedeva greggi e armenti e numerosi schiavi e i Filistei co minciarono a invidiarlo. Tutti i pozzi che avevano scavato i servi di suo padre ai tempi di Abramo suo padre i Filistei li avevano chiusi riempiendoli di terra. Abimèlec disse a Isacco: «Vattene via da noi perché tu sei molto più potente di noi». Isacco andò via di là si accampò lungo il torrente di Gerar e vi si stabilì. Isacco riattivò i pozzi d’acqua che avevano scavato i servi di suo padre Abr amo e che i Filistei avevano chiuso dopo la morte di Abramo e li chiamò come li aveva chiamati suo padre. I servi di Isacco scavarono poi nella valle e vi trovarono un pozzo di acqua viva. Ma i
pastori di Gerar litigarono con i pastori di Isacco dicendo: «L’acqua è nostra!». Allora egli chiam ò il pozzo Esek perché quelli avevano litigato con lui. Scavarono un altro pozzo ma quelli litigaro no anche per questo ed egli lo chiamò Sitna. Si mosse di là e scavò un altro pozzo per il quale no n litigarono; allora egli lo chiamò Recobòt e disse: «Ora il Signore ci ha dato spazio libero perché noi prosperiamo nella terra». Di là salì a Bersabea. E in quella notte gli apparve il Signore e diss e: «Io sono il Dio di Abramo tuo padre; non temere perché io sono con te: ti benedirò e moltipli cherò la tua discendenza a causa di Abramo mio servo». Allora egli costruì in quel luogo un altar e e invocò il nome del Signore. Lì piantò la tenda e i servi di Isacco scavarono un pozzo. Intanto Abimèlec da Gerar era andato da lui insieme con Acuzzàt suo consigliere e Picol capo del suo es ercito. Isacco disse loro: «Perché siete venuti da me mentre voi mi odiate e mi avete scacciato d a voi?». Gli risposero: «Abbiamo visto che il Signore è con te e abbiamo detto: vi sia tra noi un gi uramento tra noi e te, e concludiamo un’alleanza con te: tu non ci farai alcun male come noi no n ti abbiamo toccato e non ti abbiamo fatto se non del bene e ti abbiamo lasciato andare in pac e. Tu sei ora un uomo benedetto dal Signore». Allora imbandì loro un convito e mangiarono e b evvero. Alzatisi di buon mattino si prestarono giuramento l’un l’altro poi Isacco li congedò e par tirono da lui in pace. Proprio in quel giorno arrivarono i servi di Isacco e lo informarono a propo sito del pozzo che avevano scavato e gli dissero: «Abbiamo trovato l’acqua». Allora egli lo chiam ò Siba: per questo la città si chiama Bersabea ancora oggi. Quando Esaù ebbe quarant’anni pres e in moglie Giuditta figlia di Beerì l’Ittita e Basmat figlia di Elon l’Ittita. Esse furono causa d’intim a amarezza per Isacco e per Rebecca. Isacco era vecchio e gli occhi gli si erano così indeboliti ch e non ci vedeva più. Chiamò il figlio maggiore Esaù e gli disse: «Figlio mio». Gli rispose: «Eccomi
». Riprese: «Vedi io sono vecchio e ignoro il giorno della mia morte. Ebbene prendi le tue armi l a tua farètra e il tuo arco va’ in campagna e caccia per me della selvaggina. Poi preparami un pia tto di mio gusto e portamelo; io lo mangerò affinché possa benedirti prima di morire». Ora Reb ecca ascoltava, mentre Isacco parlava al figlio Esaù. Andò dunque Esaù in campagna a caccia di s elvaggina da portare a casa. Rebecca disse al figlio Giacobbe: «Ecco ho sentito tuo padre dire a t uo fratello Esaù: “Portami della selvaggina e preparami un piatto lo mangerò e poi ti benedirò al la presenza del Signore prima di morire”. Ora figlio mio, da’ retta a quel che ti ordino. Va’ subito al gregge e prendimi di là due bei capretti; io preparerò un piatto per tuo padre secondo il suo gusto. Così tu lo porterai a tuo padre che ne mangerà perché ti benedica prima di morire». Risp ose Giacobbe a Rebecca sua madre: «Sai bene che mio fratello Esaù è peloso mentre io ho la pe lle liscia. Forse mio padre mi toccherà e si accorgerà che mi prendo gioco di lui e attirerò sopra di me una maledizione invece di una benedizione». Ma sua madre gli disse: «Ricada pure su di me la tua maledizione, figlio mio! Tu dammi retta e va’ a prendermi i capretti». Allora egli andò a prenderli e li portò alla madre così la madre ne fece un piatto secondo il gusto di suo padre. R
ebecca prese i vestiti più belli del figlio maggiore Esaù che erano in casa presso di lei e li fece ind ossare al figlio minore Giacobbe; con le pelli dei capretti rivestì le sue braccia e la parte liscia del collo. Poi mise in mano a suo figlio Giacobbe il piatto e il pane che aveva preparato. Così egli ve
nne dal padre e disse: «Padre mio». Rispose: «Eccomi; chi sei tu figlio mio?». Giacobbe rispose a l padre: «Io sono Esaù il tuo primogenito. Ho fatto come tu mi hai ordinato. àlzati dunque siediti e mangia la mia selvaggina, perché tu mi benedica». Isacco disse al figlio: «Come hai fatto prest o a trovarla figlio mio!». Rispose: «Il Signore tuo Dio me l’ha fatta capitare davanti». Ma Isacco g li disse: «Avvicìnati e lascia che ti tocchi figlio mio per sapere se tu sei proprio il mio figlio Esaù o no». Giacobbe si avvicinò a Isacco suo padre il quale lo toccò e disse: «La voce è la voce di Giac obbe ma le braccia sono le braccia di Esaù ». Così non lo riconobbe perché le sue braccia erano pelose come le braccia di suo fratello Esaù e lo benedisse. Gli disse ancora: «Tu sei proprio il mi o figlio Esaù?». Rispose: «Lo sono». Allora disse: «Servimi perché possa mangiare della selvaggi na di mio figlio e ti benedica». Gliene servì ed egli mangiò gli portò il vino ed egli bevve. Poi suo padre Isacco gli disse: «Avvicìnati e baciami figlio mio!». Gli si avvicinò e lo baciò. Isacco aspirò l’
odore degli abiti di lui e lo benedisse: «Ecco l’odore del mio figlio come l’odore di un campo che il Signore ha benedetto. Dio ti conceda rugiada dal cielo, terre grasse frumento e mosto in abb ondanza. Popoli ti servano e genti si prostrino davanti a te. Sii il signore dei tuoi fratelli e si pros trino davanti a te i figli di tua madre. Chi ti maledice sia maledetto e chi ti benedice sia benedett o!». Isacco aveva appena finito di benedire Giacobbe e Giacobbe si era allontanato dal padre Isa cco quando tornò dalla caccia Esaù suo fratello. Anch’egli preparò un piatto lo portò al padre e gli disse: «Si alzi mio padre e mangi la selvaggina di suo figlio per potermi benedire». Gli disse su o padre Isacco: «Chi sei tu?». Rispose: «Io sono il tuo figlio primogenito Esaù ». Allora Isacco fu colto da un fortissimo tremito e disse: «Chi era dunque colui che ha preso la selvaggina e me l’h a portata? Io ho mangiato tutto prima che tu giungessi poi l’ho benedetto e benedetto resterà»
. Quando Esaù sentì le parole di suo padre scoppiò in alte amarissime grida. Disse a suo padre: «
Benedici anche me padre mio!». Rispose: «è venuto tuo fratello con inganno e ha carpito la ben edizione che spettava a te». Riprese: «Forse perché si chiama Giacobbe mi ha soppiantato già d ue volte? Già ha carpito la mia primogenitura ed ecco ora ha carpito la mia benedizione!». E sog giunse: «Non hai forse in serbo qualche benedizione per me?». Isacco rispose e disse a Esaù: «E
cco io l’ho costituito tuo signore e gli ho dato come servi tutti i suoi fratelli; l’ho provveduto di fr umento e di mosto; ora per te che cosa mai potrei fare figlio mio?». Esaù disse al padre: «Hai un a sola benedizione, padre mio? Benedici anche me padre mio!». Esaù alzò la voce e pianse. Allo ra suo padre Isacco prese la parola e gli disse: «Ecco la tua abitazione sarà lontano dalle terre gr asse, lontano dalla rugiada del cielo dall’alto. Vivrai della tua spada e servirai tuo fratello; ma ve rrà il giorno che ti riscuoterai, spezzerai il suo giogo dal tuo collo». Esaù perseguitò Giacobbe pe r la benedizione che suo padre gli aveva dato. Pensò Esaù: «Si avvicinano i giorni del lutto per m io padre; allora ucciderò mio fratello Giacobbe». Ma furono riferite a Rebecca le parole di Esaù suo figlio maggiore ed ella mandò a chiamare il figlio minore Giacobbe e gli disse: «Esaù tuo frat ello vuole vendicarsi di te e ucciderti. Ebbene figlio mio dammi retta: su fuggi a Carran da mio fr atello Làbano. Rimarrai con lui qualche tempo finché l’ira di tuo fratello si sarà placata. Quando la collera di tuo fratello contro di te si sarà placata e si sarà dimenticato di quello che gli hai fatt
o allora io manderò a prenderti di là. Perché dovrei venir privata di voi due in un solo giorno?».
E Rebecca disse a Isacco: «Ho disgusto della mia vita a causa delle donne ittite: se Giacobbe pre nde moglie tra le Ittite come queste tra le ragazze della regione a che mi giova la vita?». Allora I sacco chiamò Giacobbe lo benedisse e gli diede questo comando: «Tu non devi prender moglie tra le figlie di Canaan. Su va’ in Paddan-Aram nella casa di Betuèl padre di tua madre e prenditi là una moglie tra le figlie di Làbano frate llo di tua madre. Ti benedica Dio l’Onnipotente ti renda fecondo e ti moltiplichi sì che tu diveng a un insieme di popoli. Conceda la benedizione di Abramo a te e alla tua discendenza con te per ché tu possieda la terra che Dio ha dato ad Abramo dove tu sei stato forestiero». Così Isacco fec e partire Giacobbe che andò in Paddan-Aram presso Làbano figlio di Betuèl l’Arameo fratello di Rebecca madre di Giacobbe e di Esaù. E
saù vide che Isacco aveva benedetto Giacobbe e l’aveva mandato in Paddan-Aram per prendersi una moglie originaria di là e che mentre lo benediceva gli aveva dato quest o comando: «Non devi prender moglie tra le Cananee». Giacobbe obbedendo al padre e alla ma dre era partito per Paddan-Aram. Esaù comprese che le figlie di Canaan non erano gradite a suo padre Isacco. Allora si recò da Ismaele e oltre le mogli che aveva si prese in moglie Macalàt figlia di Ismaele figlio di Abram o sorella di Nebaiòt. Giacobbe partì da Bersabea e si diresse verso Carran. Capitò così in un luog o dove passò la notte perché il sole era tramontato; prese là una pietra se la pose come guancia le e si coricò in quel luogo. Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra mentre la sua cima rag giungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa. Ecco il Signore gli sta va davanti e disse: «Io sono il Signore il Dio di Abramo tuo padre e il Dio di Isacco. A te e alla tua discendenza darò la terra sulla quale sei coricato. La tua discendenza sarà innumerevole come l a polvere della terra; perciò ti espanderai a occidente e a oriente a settentrione e a mezzogiorn o. E si diranno benedette in te e nella tua discendenza tutte le famiglie della terra. Ecco, io sono con te e ti proteggerò dovunque tu andrai; poi ti farò ritornare in questa terra, perché non ti ab bandonerò senza aver fatto tutto quello che ti ho detto». Giacobbe si svegliò dal sonno e disse:
«Certo il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo». Ebbe timore e disse: «Quanto è terribile questo luogo! Questa è proprio la casa di Dio questa è la porta del cielo». La mattina Giacobbe si alzò prese la pietra che si era posta come guanciale la eresse come una stele e versò olio sulla sua sommità. E chiamò quel luogo Betel mentre prima di allora la città si chiamava Luz. Giacob be fece questo voto: «Se Dio sarà con me e mi proteggerà in questo viaggio che sto facendo e m i darà pane da mangiare e vesti per coprirmi se ritornerò sano e salvo alla casa di mio padre il Si gnore sarà il mio Dio. Questa pietra che io ho eretto come stele sarà una casa di Dio; di quanto mi darai, io ti offrirò la decima». Giacobbe si mise in cammino e andò nel territorio degli orienta li. Vide nella campagna un pozzo e tre greggi di piccolo bestiame distese vicino perché a quel po zzo si abbeveravano le greggi. Sulla bocca del pozzo c’era una grande pietra: solo quando tutte l e greggi si erano radunate là i pastori facevano rotolare la pietra dalla bocca del pozzo e abbeve
ravano il bestiame; poi rimettevano la pietra al suo posto sulla bocca del pozzo. Giacobbe disse loro: «Fratelli miei di dove siete?». Risposero: «Siamo di Carran». Disse loro: «Conoscete Làban o figlio di Nacor?». Risposero: «Lo conosciamo». Poi domandò: «Sta bene?». Risposero: «Sì ecc o sua figlia Rachele che viene con il gregge». Riprese: «Eccoci ancora in pieno giorno: non è tem po di radunare il bestiame. Date da bere al bestiame e andate a pascolare!». Ed essi risposero:
«Non possiamo finché non si siano radunate tutte le greggi e si rotoli la pietra dalla bocca del p ozzo; allora faremo bere il gregge». Egli stava ancora parlando con loro quando arrivò Rachele c on il bestiame del padre; era infatti una pastorella. Quando Giacobbe vide Rachele figlia di Làba no fratello di sua madre insieme con il bestiame di Làbano fratello di sua madre Giacobbe fattos i avanti fece rotolare la pietra dalla bocca del pozzo e fece bere le pecore di Làbano fratello di s ua madre. Poi Giacobbe baciò Rachele e pianse ad alta voce. Giacobbe rivelò a Rachele che egli era parente del padre di lei perché figlio di Rebecca. Allora ella corse a riferirlo al padre. Quand o Làbano seppe che era Giacobbe il figlio di sua sorella, gli corse incontro lo abbracciò lo baciò e lo condusse nella sua casa. Ed egli raccontò a Làbano tutte queste vicende. Allora Làbano gli dis se: «Davvero tu sei mio osso e mia carne!». Così restò presso di lui per un mese. Poi Làbano diss e a Giacobbe: «Poiché sei mio parente dovrai forse prestarmi servizio gratuitamente? Indicami quale deve essere il tuo salario». Ora Làbano aveva due figlie; la maggiore si chiamava Lia e la più piccola si chiamava Rachele. Lia aveva gli occhi smorti mentre Rachele era bella di forme e avv enente di aspetto, perciò Giacobbe s’innamorò di Rachele. Disse dunque: «Io ti servirò sette an ni per Rachele tua figlia minore». Rispose Làbano: «Preferisco darla a te piuttosto che a un estra neo. Rimani con me». Così Giacobbe servì sette anni per Rachele: gli sembrarono pochi giorni ta nto era il suo amore per lei. Poi Giacobbe disse a Làbano: «Dammi la mia sposa perché i giorni sono terminati e voglio unirmi a lei». Allora Làbano radunò tutti gli uomini del luogo e diede un banchetto. Ma quando fu sera egli prese la figlia Lia e la condusse da lui ed egli si unì a lei. Làban o diede come schiava alla figlia Lia la sua schiava Zilpa. Quando fu mattina… ecco era Lia! Allora Giacobbe disse a Làbano: «Che cosa mi hai fatto? Non sono stato al tuo servizio per Rachele? Pe rché mi hai ingannato?». Rispose Làbano: «Non si usa far così dalle nostre parti non si dà in spo sa la figlia più piccola prima della primogenita. Finisci questa settimana nuziale poi ti darò anche l’altra per il servizio che tu presterai presso di me per altri sette anni». E così fece Giacobbe: ter minò la settimana nuziale e allora Làbano gli diede in moglie la figlia Rachele. Làbano diede com e schiava alla figlia Rachele la sua schiava Bila. Giacobbe si unì anche a Rachele e amò Rachele p iù di Lia. Fu ancora al servizio di lui per altri sette anni. Ora il Signore vedendo che Lia veniva tra scurata la rese feconda mentre Rachele rimaneva sterile. Così Lia concepì e partorì un figlio e lo chiamò Ruben, perché disse: «Il Signore ha visto la mia umiliazione; certo ora mio marito mi am erà». Concepì ancora e partorì un figlio e disse: «Il Signore ha udito che io ero trascurata e mi h a dato anche questo». E lo chiamò Simeone. Concepì ancora e partorì un figlio e disse: «Questa volta mio marito mi si affezionerà, perché gli ho partorito tre figli». Per questo lo chiamò Levi. C
oncepì ancora e partorì un figlio e disse: «Questa volta loderò il Signore». Per questo lo chiamò
Giuda. E cessò di avere figli. Rachele vedendo che non le era concesso di dare figli a Giacobbe di venne gelosa della sorella e disse a Giacobbe: «Dammi dei figli se no io muoio!». Giacobbe s’irri tò contro Rachele e disse: «Tengo forse io il posto di Dio il quale ti ha negato il frutto del gremb o?». Allora ella rispose: «Ecco la mia serva Bila: unisciti a lei, partorisca sulle mie ginocchia cosic ché per mezzo di lei abbia anch’io una mia prole». Così ella gli diede in moglie la propria schiava Bila e Giacobbe si unì a lei. Bila concepì e partorì a Giacobbe un figlio. Rachele disse: «Dio mi ha fatto giustizia e ha anche ascoltato la mia voce dandomi un figlio». Per questo ella lo chiamò Da n. Bila la schiava di Rachele concepì ancora e partorì a Giacobbe un secondo figlio. Rachele disse
: «Ho sostenuto contro mia sorella lotte tremende e ho vinto!». E lo chiamò Nèftali. Allora Lia v edendo che aveva cessato di aver figli prese la propria schiava Zilpa e la diede in moglie a Giaco bbe. Zilpa la schiava di Lia partorì a Giacobbe un figlio. Lia esclamò: «Per fortuna!» e lo chiamò Gad. Zilpa la schiava di Lia partorì un secondo figlio a Giacobbe. Lia disse: «Per mia felicità! Cert amente le donne mi chiameranno beata». E lo chiamò Aser. Al tempo della mietitura del grano Ruben uscì e trovò delle mandragore che portò alla madre Lia. Rachele disse a Lia: «Dammi un p o’ delle mandragore di tuo figlio». Ma Lia rispose: «Ti sembra poco avermi portato via il marito perché ora tu voglia portare via anche le mandragore di mio figlio?». Riprese Rachele: «Ebbene Giacobbe si corichi pure con te questa notte ma dammi in cambio le mandragore di tuo figlio».
La sera quando Giacobbe arrivò dalla campagna Lia gli uscì incontro e gli disse: «Da me devi ven ire perché io ho pagato il diritto di averti con le mandragore di mio figlio». Così egli si coricò con lei quella notte. Il Signore esaudì Lia la quale concepì e partorì a Giacobbe un quinto figlio. Lia d isse: «Dio mi ha dato il mio salario perché ho dato la mia schiava a mio marito». E lo chiamò ìssa car. Lia concepì e partorì ancora un sesto figlio a Giacobbe. Lia disse: «Dio mi ha fatto un bel reg alo: questa volta mio marito mi preferirà perché gli ho partorito sei figli». E lo chiamò Zàbulon. I n seguito partorì una figlia e la chiamò Dina. Dio si ricordò anche di Rachele; Dio la esaudì e la re se feconda. Ella concepì e partorì un figlio e disse: «Dio ha tolto il mio disonore». E lo chiamò Gi useppe dicendo: «Il Signore mi aggiunga un altro figlio!». Dopo che Rachele ebbe partorito Gius eppe Giacobbe disse a Làbano: «Lasciami andare e tornare a casa mia nella mia terra. Dammi le mogli per le quali ti ho servito e i miei bambini perché possa partire: tu conosci il servizio che ti ho prestato». Gli disse Làbano: «Se ho trovato grazia ai tuoi occhi… Per divinazione ho saputo c he il Signore mi ha benedetto per causa tua». E aggiunse: «Fissami il tuo salario e te lo darò». Gl i rispose: «Tu stesso sai come ti ho servito e quanto sono cresciuti i tuoi averi per opera mia. Pe rché il poco che avevi prima della mia venuta è aumentato oltre misura e il Signore ti ha benede tto sui miei passi. Ma ora quando lavorerò anch’io per la mia casa?». Riprese Làbano: «Che cosa ti devo dare?». Giacobbe rispose: «Non mi devi nulla; se tu farai per me quanto ti dico, ritorner ò a pascolare il tuo gregge e a custodirlo. Oggi passerò fra tutto il tuo bestiame; tu metti da part e ogni capo di colore scuro tra le pecore e ogni capo chiazzato e punteggiato tra le capre: sarà il mio salario. In futuro la mia stessa onestà risponderà per me; quando verrai a verificare il mio s alario ogni capo che non sarà punteggiato o chiazzato tra le capre e di colore scuro tra le pecore
se si troverà presso di me sarà come rubato». Làbano disse: «Bene sia come tu hai detto!». In q uel giorno mise da parte i capri striati e chiazzati e tutte le capre punteggiate e chiazzate ogni ca po che aveva del bianco e ogni capo di colore scuro tra le pecore. Li affidò ai suoi figli e stabilì u na distanza di tre giorni di cammino tra sé e Giacobbe mentre Giacobbe pascolava l’altro bestia me di Làbano. Ma Giacobbe prese rami freschi di pioppo di mandorlo e di platano ne intagliò la corteccia a strisce bianche mettendo a nudo il bianco dei rami. Mise i rami così scortecciati nei c analetti agli abbeveratoi dell’acqua dove veniva a bere il bestiame bene in vista per le bestie ch e andavano in calore quando venivano a bere. Così le bestie andarono in calore di fronte ai rami e le capre figliarono capretti striati punteggiati e chiazzati. Quanto alle pecore Giacobbe le sepa rò e fece sì che le bestie avessero davanti a loro gli animali striati e tutti quelli di colore scuro de l gregge di Làbano. E i branchi che si era così formato per sé non li mise insieme al gregge di Làb ano. Ogni qualvolta andavano in calore bestie robuste Giacobbe metteva i rami nei canaletti in vista delle bestie per farle concepire davanti ai rami. Quando invece le bestie erano deboli non l i metteva. Così i capi di bestiame deboli erano per Làbano e quelli robusti per Giacobbe. Egli si a rricchì oltre misura e possedette greggi in grande quantità, schiave e schiavi cammelli e asini. Gi acobbe venne a sapere che i figli di Làbano dicevano: «Giacobbe si è preso tutto quello che avev a nostro padre e con quanto era di nostro padre si è fatto questa grande fortuna». Giacobbe os servò anche la faccia di Làbano e si accorse che verso di lui non era più come prima. Il Signore di sse a Giacobbe: «Torna alla terra dei tuoi padri nella tua famiglia e io sarò con te». Allora Giaco bbe mandò a chiamare Rachele e Lia in campagna presso il suo gregge e disse loro: «Io mi accor go dal volto di vostro padre che egli verso di me non è più come prima; ma il Dio di mio padre è stato con me. Sapete voi stesse che ho servito vostro padre con tutte le mie forze mentre vostr o padre si è beffato di me e ha cambiato dieci volte il mio salario; ma Dio non gli ha permesso di farmi del male. Se egli diceva: “Le bestie punteggiate saranno il tuo salario” tutto il gregge figlia va bestie punteggiate; se diceva: “Le bestie striate saranno il tuo salario” allora tutto il gregge fi gliava bestie striate. Così Dio ha sottratto il bestiame a vostro padre e l’ha dato a me. Una volta nel tempo in cui il piccolo bestiame va in calore io in sogno alzai gli occhi e vidi che i capri in pro cinto di montare le bestie erano striati punteggiati e chiazzati. L’angelo di Dio mi disse in sogno:
“Giacobbe!”. Risposi: “Eccomi”. Riprese: “Alza gli occhi e guarda: tutti i capri che montano le be stie sono striati punteggiati e chiazzati perché ho visto come ti tratta Làbano. Io sono il Dio di Be tel dove tu hai unto una stele e dove mi hai fatto un voto. Ora àlzati parti da questa terra e torn a nella terra della tua famiglia!”». Rachele e Lia gli risposero: «Abbiamo forse ancora una parte o una eredità nella casa di nostro padre? Non siamo forse tenute in conto di straniere da parte sua dal momento che ci ha vendute e si è anche mangiato il nostro denaro? Tutta la ricchezza c he Dio ha sottratto a nostro padre è nostra e dei nostri figli. Ora fa’ pure quello che Dio ti ha det to». Allora Giacobbe si alzò caricò i figli e le mogli sui cammelli e condusse via tutto il bestiame e tutti gli averi che si era acquistato il bestiame che si era acquistato in Paddan-Aram per ritornare da Isacco suo padre nella terra di Canaan. Làbano era andato a tosare il greg
ge e Rachele rubò gli idoli che appartenevano al padre. Giacobbe eluse l’attenzione di Làbano l’
Arameo non lasciando trapelare che stava per fuggire; così poté andarsene con tutti i suoi averi.
Si mosse dunque passò il Fiume e si diresse verso le montagne di Gàlaad. Il terzo giorno fu riferi to a Làbano che Giacobbe era fuggito. Allora egli prese con sé i suoi parenti lo inseguì per sette giorni di cammino e lo raggiunse sulle montagne di Gàlaad. Ma Dio venne da Làbano, l’Arameo i n un sogno notturno e gli disse: «Bada di non dir niente a Giacobbe né in bene né in male!». Làb ano andò dunque a raggiungere Giacobbe. Ora Giacobbe aveva piantato la tenda sulle montagn e e Làbano si era accampato con i parenti sulle montagne di Gàlaad. Disse allora Làbano a Giaco bbe: «Che cosa hai fatto? Hai eluso la mia attenzione e hai condotto via le mie figlie come prigio niere di guerra! Perché sei fuggito di nascosto mi hai ingannato e non mi hai avvertito? Io ti avre i congedato con festa e con canti a suon di tamburelli e di cetre! E non mi hai permesso di bacia re i miei figli e le mie figlie! Certo hai agito in modo insensato. Sarebbe in mio potere farti del m ale ma il Dio di tuo padre mi ha parlato la notte scorsa: “Bada di non dir niente a Giacobbe né in bene né in male!”. Certo sei partito perché soffrivi di nostalgia per la casa di tuo padre; ma perc hé hai rubato i miei dèi?». Giacobbe rispose a Làbano e disse: «Perché avevo paura e pensavo c he mi avresti tolto con la forza le tue figlie. Ma quanto a colui presso il quale tu troverai i tuoi d èi non resterà in vita! Alla presenza dei nostri parenti verifica quanto vi può essere di tuo presso di me e riprendilo». Giacobbe non sapeva che li aveva rubati Rachele. Allora Làbano entrò nella tenda di Giacobbe e poi nella tenda di Lia e nella tenda delle due schiave ma non trovò nulla. P
oi uscì dalla tenda di Lia ed entrò nella tenda di Rachele. Rachele aveva preso gli idoli e li aveva messi nella sella del cammello poi vi si era seduta sopra così Làbano frugò in tutta la tenda ma n on li trovò. Ella parlò al padre: «Non si offenda il mio signore se io non posso alzarmi davanti a t e perché ho quello che avviene di regola alle donne». Làbano cercò ma non trovò gli idoli. Giaco bbe allora si adirò e apostrofò Làbano al quale disse: «Qual è il mio delitto qual è il mio peccato perché ti accanisca contro di me? Ora che hai frugato tra tutti i miei oggetti che cosa hai trovato di tutte le cose di casa tua? Mettilo qui davanti ai miei e tuoi parenti e siano essi giudici tra noi due. Vent’anni ho passato con te: le tue pecore e le tue capre non hanno abortito e non ho mai mangiato i montoni del tuo gregge. Nessuna bestia sbranata ti ho portato a mio discarico: io ste sso ne compensavo il danno e tu reclamavi da me il risarcimento sia di quanto veniva rubato di giorno sia di quanto veniva rubato di notte. Di giorno mi divorava il caldo e di notte il gelo e il so nno fuggiva dai miei occhi. Vent’anni sono stato in casa tua: ho servito quattordici anni per le tu e due figlie e sei anni per il tuo gregge e tu hai cambiato il mio salario dieci volte. Se il Dio di mio padre il Dio di Abramo e il Terrore di Isacco non fosse stato con me tu ora mi avresti licenziato a mani vuote; ma Dio ha visto la mia afflizione e la fatica delle mie mani e la scorsa notte egli ha fatto da arbitro». Làbano allora rispose e disse a Giacobbe: «Queste figlie sono le mie figlie e q uesti figli sono i miei figli; questo bestiame è il mio bestiame e quanto tu vedi è mio. E che cosa potrei fare oggi a queste mie figlie o ai figli che hanno messo al mondo? Ebbene vieni, concludia mo un’alleanza io e te e ci sia un testimone tra me e te». Giacobbe prese una pietra e la eresse
come stele. Poi disse ai suoi parenti: «Raccogliete pietre» e quelli presero pietre e ne fecero un mucchio; e su quel mucchio mangiarono. Làbano lo chiamò Iegar-Saadutà mentre Giacobbe lo chiamò Gal-
Ed. Làbano disse: «Questo mucchio è oggi un testimone tra me e te» per questo lo chiamò Gal-Ed e anche Mispa perché disse: «Il Signore starà di vedetta tra me e te quando noi non ci vedre mo più l’un l’altro. Se tu maltratterai le mie figlie e se prenderai altre mogli oltre le mie figlie sa ppi che non un uomo è con noi ma Dio è testimone tra me e te». Soggiunse Làbano a Giacobbe:
«Ecco questo mucchio ed ecco questa stele che io ho eretto tra me e te. Questo mucchio è testi mone e questa stele è testimone che io giuro di non oltrepassare questo mucchio dalla tua part e e che tu giuri di non oltrepassare questo mucchio e questa stele dalla mia parte per fare il mal e. Il Dio di Abramo e il Dio di Nacor siano giudici tra di noi». Giacobbe giurò per il Terrore di Isac co suo padre. Poi offrì un sacrificio sulle montagne e invitò i suoi parenti a prender cibo. Essi ma ngiarono e passarono la notte sulle montagne. Làbano si alzò di buon mattino baciò i figli e le fi glie e li benedisse. Poi partì e ritornò a casa. Mentre Giacobbe andava per la sua strada gli si fec ero incontro gli angeli di Dio. Giacobbe al vederli disse: «Questo è l’accampamento di Dio» e chi amò quel luogo Macanàim. Poi Giacobbe mandò avanti a sé alcuni messaggeri al fratello Esaù n ella regione di Seir la campagna di Edom. Diede loro questo comando: «Direte al mio signore Es aù: “Dice il tuo servo Giacobbe: Sono restato come forestiero presso Làbano e vi sono rimasto fi no ad ora. Sono venuto in possesso di buoi asini e greggi di schiavi e schiave. Ho mandato a info rmarne il mio signore per trovare grazia ai suoi occhi”». I messaggeri tornarono da Giacobbe dic endo: «Siamo stati da tuo fratello Esaù ora egli stesso sta venendoti incontro e ha con sé quattr ocento uomini». Giacobbe si spaventò molto e si sentì angustiato; allora divise in due accampa menti la gente che era con lui il gregge gli armenti e i cammelli. Pensava infatti: «Se Esaù raggiu nge un accampamento e lo sconfigge l’altro si salverà». Giacobbe disse: «Dio del mio padre Abr amo e Dio del mio padre Isacco Signore che mi hai detto: “Ritorna nella tua terra e tra la tua par entela e io ti farò del bene” io sono indegno di tutta la bontà e di tutta la fedeltà che hai usato v erso il tuo servo. Con il mio solo bastone avevo passato questo Giordano e ora sono arrivato al punto di formare due accampamenti. Salvami dalla mano di mio fratello, dalla mano di Esaù per ché io ho paura di lui: che egli non arrivi e colpisca me e senza riguardi, madri e bambini! Eppur e tu hai detto: “Ti farò del bene e renderò la tua discendenza tanto numerosa come la sabbia de l mare che non si può contare”». Giacobbe rimase in quel luogo a passare la notte. Poi prese da ciò che gli capitava tra mano un dono per il fratello Esaù: duecento capre e venti capri duecento pecore e venti montoni trenta cammelle che allattavano con i loro piccoli quaranta giovenche e dieci torelli venti asine e dieci asinelli. Egli affidò ai suoi servi i singoli branchi separatamente e disse loro: «Passate davanti a me e lasciate una certa distanza tra un branco e l’altro». Diede qu est’ordine al primo: «Quando ti incontrerà Esaù mio fratello e ti domanderà: “A chi appartieni?
Dove vai? Di chi sono questi animali che ti camminano davanti?” tu risponderai: “Di tuo fratello Giacobbe; è un dono inviato al mio signore Esaù ecco egli stesso ci segue”». Lo stesso ordine die
de anche al secondo e anche al terzo e a quanti seguivano i branchi: «Queste parole voi rivolger ete ad Esaù quando lo incontrerete; gli direte: “Anche il tuo servo Giacobbe ci segue”». Pensava infatti: «Lo placherò con il dono che mi precede e in seguito mi presenterò a lui; forse mi accogl ierà con benevolenza». Così il dono passò prima di lui mentre egli trascorse quella notte nell’acc ampamento. Durante quella notte egli si alzò prese le due mogli le due schiave i suoi undici ba mbini e passò il guado dello Iabbok. Li prese fece loro passare il torrente e portò di là anche tutt i i suoi averi. Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. Veden do che non riusciva a vincerlo lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò mentre continuava a lottare con lui. Quello disse: «Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora». Giacobbe rispose: «Non ti lascerò se non mi avrai benedetto!». Gli domand ò: «Come ti chiami?». Rispose: «Giacobbe». Riprese: «Non ti chiamerai più Giacobbe ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!». Giacobbe allora gli chiese: «Svela mi il tuo nome». Gli rispose: «Perché mi chiedi il nome?». E qui lo benedisse. Allora Giacobbe ch iamò quel luogo Penuèl: «Davvero – disse –
ho visto Dio faccia a faccia eppure la mia vita è rimasta salva». Spuntava il sole quando Giacobb e passò Penuèl e zoppicava all’anca. Per questo gli Israeliti fino ad oggi non mangiano il nervo sc iatico che è sopra l’articolazione del femore perché quell’uomo aveva colpito l’articolazione del femore di Giacobbe nel nervo sciatico. Giacobbe alzò gli occhi e vide arrivare Esaù che aveva co n sé quattrocento uomini. Allora distribuì i bambini tra Lia Rachele e le due schiave; alla testa m ise le schiave con i loro bambini più indietro Lia con i suoi bambini e più indietro Rachele e Gius eppe. Egli passò davanti a loro e si prostrò sette volte fino a terra mentre andava avvicinandosi al fratello. Ma Esaù gli corse incontro lo abbracciò gli si gettò al collo lo baciò e piansero. Alzàti g li occhi vide le donne e i bambini e domandò: «Chi sono questi con te?». Giacobbe rispose: «So no i bambini che Dio si è compiaciuto di dare al tuo servo». Allora si fecero avanti le schiave con i loro bambini e si prostrarono. Si fecero avanti anche Lia e i suoi bambini e si prostrarono e infi ne si fecero avanti Giuseppe e Rachele e si prostrarono. Domandò ancora: «Che cosa vuoi fare d i tutta questa carovana che ho incontrato?». Rispose: «è per trovar grazia agli occhi del mio sign ore». Esaù disse: «Ho beni in abbondanza fratello mio resti per te quello che è tuo!». Ma Giacob be disse: «No ti prego se ho trovato grazia ai tuoi occhi accetta dalla mia mano il mio dono perc hé io sto alla tua presenza come davanti a Dio e tu mi hai gradito. Accetta il dono augurale che t i è stato presentato perché Dio mi ha favorito e sono provvisto di tutto!». Così egli insistette e q uegli accettò. Esaù disse: «Partiamo e mettiamoci in viaggio: io camminerò davanti a te». Gli ris pose: «Il mio signore sa che i bambini sono delicati e che devo aver cura delle greggi e degli arm enti che allattano: se si affaticassero anche un giorno solo tutte le bestie morirebbero. Il mio sig nore passi prima del suo servo mentre io mi sposterò con mio agio tenendo il passo di questo b estiame che mi precede e dei bambini finché arriverò presso il mio signore in Seir». Disse allora Esaù: «Almeno possa lasciare con te una parte della gente che ho con me!». Rispose: «Ma perc hé? Basta solo che io trovi grazia agli occhi del mio signore!». Così quel giorno stesso Esaù ritorn
ò per conto proprio in Seir. Giacobbe invece partì per Succot dove costruì una casa per sé e fece capanne per il gregge. Per questo chiamò quel luogo Succot. Giacobbe arrivò sano e salvo alla c ittà di Sichem che è nella terra di Canaan al ritorno da Paddan-Aram e si accampò di fronte alla città. Acquistò dai figli di Camor padre di Sichem per cento pez zi d’argento quella porzione di campagna dove aveva piantato la tenda. Qui eresse un altare e l o chiamò «El Dio d’Israele». Dina la figlia che Lia aveva partorito a Giacobbe uscì a vedere le rag azze del posto. Ma la notò Sichem figlio di Camor l’Eveo principe di quel territorio la rapì e si cor icò con lei facendole violenza. Ma poi egli rimase legato a Dina, figlia di Giacobbe; s’innamorò d ella giovane e le rivolse parole di conforto. Quindi disse a Camor suo padre: «Prendimi in moglie questa ragazza». Intanto Giacobbe aveva saputo che quello aveva disonorato sua figlia Dina ma i suoi figli erano in campagna con il suo bestiame e Giacobbe tacque fino al loro arrivo. Venne d unque Camor padre di Sichem da Giacobbe per parlare con lui. Quando i figli di Giacobbe tornar ono dalla campagna sentito l’accaduto ne furono addolorati e s’indignarono molto perché quegl i coricandosi con la figlia di Giacobbe aveva commesso un’infamia in Israele: così non si doveva f are! Camor disse loro: «Sichem mio figlio è innamorato della vostra figlia; vi prego dategliela in moglie! Anzi imparentatevi con noi: voi darete a noi le vostre figlie e vi prenderete per voi le no stre figlie. Abiterete con noi e la terra sarà a vostra disposizione; potrete risiedervi percorrerla i n lungo e in largo e acquistare proprietà». Sichem disse al padre e ai fratelli di lei: «Possa io trov are grazia agli occhi vostri; vi darò quel che mi direte. Alzate pure molto a mio carico il prezzo n uziale e il valore del dono; vi darò quanto mi chiederete ma concedetemi la giovane in moglie!»
. Allora i figli di Giacobbe risposero a Sichem e a suo padre Camor e parlarono con inganno, poic hé quegli aveva disonorato la loro sorella Dina. Dissero loro: «Non possiamo fare questo dare la nostra sorella a un uomo non circonciso perché ciò sarebbe un disonore per noi. Acconsentire mo alla vostra richiesta solo a questa condizione: diventare come noi, circoncidendo ogni vostro maschio. In tal caso noi vi daremo le nostre figlie e ci prenderemo le vostre abiteremo con voi e diventeremo un solo popolo. Ma se voi non ci ascoltate a proposito della nostra circoncisione p renderemo la nostra ragazza e ce ne andremo». Le loro parole piacquero a Camor e a Sichem fig lio di Camor. Il giovane non indugiò a eseguire la cosa perché amava la figlia di Giacobbe; d’altra parte era il più onorato di tutto il casato di suo padre. Vennero dunque Camor e il figlio Sichem alla porta della loro città e parlarono agli uomini della città: «Questi uomini sono gente pacifica con noi: abitino pure con noi nel territorio e lo percorrano in lungo e in largo; esso è molto ampi o per loro in ogni direzione. Noi potremo prendere in moglie le loro figlie e potremo dare loro le nostre. Ma questi uomini a una condizione acconsentiranno ad abitare con noi per diventare u n unico popolo: se noi circoncidiamo ogni nostro maschio come loro stessi sono circoncisi. I loro armenti la loro ricchezza e tutto il loro bestiame non diverranno forse nostri? Accontentiamoli dunque e possano abitare con noi!». Quanti si radunavano alla porta della sua città ascoltarono Camor e il figlio Sichem: tutti i maschi quanti si radunavano alla porta della città si fecero circon cidere. Ma il terzo giorno quand’essi erano sofferenti i due figli di Giacobbe Simeone e Levi i frat
elli di Dina presero ciascuno la propria spada entrarono indisturbati nella città e uccisero tutti i maschi. Passarono così a fil di spada Camor e suo figlio Sichem portarono via Dina dalla casa di S
ichem e si allontanarono. I figli di Giacobbe si buttarono sui cadaveri e saccheggiarono la città p erché quelli avevano disonorato la loro sorella. Presero le loro greggi e i loro armenti i loro asini e quanto era nella città e nella campagna. Portarono via come bottino tutte le loro ricchezze tut ti i loro bambini e le loro donne e saccheggiarono quanto era nelle case. Allora Giacobbe disse a Simeone e a Levi: «Voi mi avete rovinato rendendomi odioso agli abitanti della regione ai Cana nei e ai Perizziti. Io ho solo pochi uomini; se essi si raduneranno contro di me mi vinceranno e io sarò annientato con la mia casa». Risposero: «Si tratta forse la nostra sorella come una prostitu ta?». Dio disse a Giacobbe: «àlzati sali a Betel e abita là costruisci in quel luogo un altare al Dio c he ti è apparso quando fuggivi lontano da Esaù tuo fratello». Allora Giacobbe disse alla sua fami glia e a quanti erano con lui: «Eliminate gli dèi degli stranieri che avete con voi purificatevi e ca mbiate gli abiti. Poi alziamoci e saliamo a Betel dove io costruirò un altare al Dio che mi ha esau dito al tempo della mia angoscia ed è stato con me nel cammino che ho percorso». Essi consegn arono a Giacobbe tutti gli dèi degli stranieri che possedevano e i pendenti che avevano agli orec chi e Giacobbe li sotterrò sotto la quercia presso Sichem. Poi partirono e un grande terrore assa lì le città all’intorno così che non inseguirono i figli di Giacobbe. Giacobbe e tutta la gente che er a con lui arrivarono a Luz cioè Betel che è nella terra di Canaan. Qui egli costruì un altare e chia mò quel luogo El-Betel perché là Dio gli si era rivelato quando fuggiva lontano da suo fratello. Allora morì Dèbora la nutrice di Rebecca e fu sepolta al di sotto di Betel ai piedi della quercia. Così essa prese il nom e di Quercia del Pianto. Dio apparve un’altra volta a Giacobbe durante il ritorno da Paddan-Aram e lo benedisse. Dio gli disse: «Il tuo nome è Giacobbe. Ma non ti chiamerai più Giacobbe: I sraele sarà il tuo nome». Così lo si chiamò Israele. Dio gli disse: «Io sono Dio l’Onnipotente. Sii f econdo e diventa numeroso; deriveranno da te una nazione e un insieme di nazioni, e re usciran no dai tuoi fianchi. Darò a te la terra che ho concesso ad Abramo e a Isacco e dopo di te, la darò alla tua stirpe». Dio disparve da lui dal luogo dove gli aveva parlato. Allora Giacobbe eresse una stele dove gli aveva parlato una stele di pietra e su di essa fece una libagione e versò olio. Giac obbe chiamò Betel il luogo dove Dio gli aveva parlato. Quindi partirono da Betel. Mancava anco ra un tratto di cammino per arrivare a èfrata, quando Rachele partorì ed ebbe un parto difficile.
Mentre penava a partorire la levatrice le disse: «Non temere: anche questa volta avrai un figlio
!». Ormai moribonda quando stava per esalare l’ultimo respiro lei lo chiamò Ben-Onì ma suo padre lo chiamò Beniamino. Così Rachele morì e fu sepolta lungo la strada verso èfr ata cioè Betlemme. Giacobbe eresse sulla sua tomba una stele. è la stele della tomba di Rachele che esiste ancora oggi. Poi Israele partì e piantò la tenda al di là di Migdal-Eder. Mentre Israele abitava in quel territorio Ruben andò a unirsi con Bila concubina del padre e Israele lo venne a sapere. I figli di Giacobbe furono dodici. Figli di Lia: Ruben il primogenito di Giacobbe poi Simeone Levi Giuda ìssacar e Zàbulon; figli di Rachele: Giuseppe e Beniamino; figli
di Bila schiava di Rachele: Dan e Nèftali; figli di Zilpa schiava di Lia: Gad e Aser. Questi sono i figli di Giacobbe che gli nacquero in Paddan-Aram. Giacobbe venne da suo padre Isacco a Mamre a Kiriat-
Arbà cioè Ebron dove Abramo e Isacco avevano soggiornato come forestieri. Isacco raggiunse l’
età di centoottant’anni. Poi Isacco spirò morì e si riunì ai suoi antenati vecchio e sazio di giorni.
Lo seppellirono i suoi figli Esaù e Giacobbe. Questa è la discendenza di Esaù cioè Edom. Esaù pre se le sue mogli tra le figlie dei Cananei: Ada figlia di Elon l’Ittita; Oolibamà figlia di Anà figlio di Si beon l’Urrita; Basmat figlia di Ismaele sorella di Nebaiòt. Ada partorì a Esaù Elifaz Basmat partor ì Reuèl Oolibamà partorì Ieus Ialam e Core. Questi sono i figli di Esaù che gli nacquero nella terr a di Canaan. Poi Esaù prese con sé le mogli i figli e le figlie e tutte le persone della sua casa il suo gregge e tutto il suo bestiame e tutti i suoi beni che aveva acquistati nella terra di Canaan e and ò in una regione lontano dal fratello Giacobbe. Infatti i loro possedimenti erano troppo grandi p erché essi potessero abitare insieme e il territorio dove soggiornavano come forestieri non bast ava a sostenerli a causa del loro bestiame. Così Esaù si stabilì sulle montagne di Seir. Esaù è Edo m. Questa è la discendenza di Esaù padre degli Edomiti nelle montagne di Seir. Questi sono i no mi dei figli di Esaù: Elifaz figlio di Ada moglie di Esaù Reuèl figlio di Basmat moglie di Esaù. I figli di Elifaz furono: Teman Omar, Sefò Gatam Kenaz. Timna era concubina di Elifaz figlio di Esaù e gl i generò Amalèk. Questi sono i figli di Ada moglie di Esaù. Questi sono i figli di Reuèl: Nacat e Ze rach Sammà e Mizzà. Questi furono i figli di Basmat moglie di Esaù. Questi furono i figli di Oolib amà moglie di Esaù figlia di Anà figlio di Sibeon; ella partorì a Esaù Ieus Ialam e Core. Questi son o i capi dei figli di Esaù: i figli di Elifaz primogenito di Esaù: il capo di Teman il capo di Omar il ca po di Sefò il capo di Kenaz il capo di Core il capo di Gatam il capo di Amalèk. Questi sono i capi d i Elifaz nel territorio di Edom: questi sono i figli di Ada. Questi sono i figli di Reuèl figlio di Esaù: il capo di Nacat il capo di Zerach il capo di Sammà il capo di Mizzà. Questi sono i capi di Reuèl nel territorio di Edom; questi sono i figli di Basmat moglie di Esaù. Questi sono i figli di Oolibamà m oglie di Esaù: il capo di Ieus il capo di Ialam il capo di Core. Questi sono i capi di Oolibamà figlia di Anà moglie di Esaù. Questi sono i figli di Esaù e questi i loro capi. Questo è il popolo degli Edo miti. Questi sono i figli di Seir l’Urrita che abitano la regione: Lotan Sobal Sibeon, Anà Dison Eser e Disan. Questi sono i capi degli Urriti figli di Seir nel territorio di Edom. I figli di Lotan furono Or ì e Emam e la sorella di Lotan era Timna. I figli di Sobal sono Alvan Manàcat Ebal Sefò e Onam. I figli di Sibeon sono Aià e Anà fu proprio Anà che trovò le sorgenti calde nel deserto mentre pasc olava gli asini del padre Sibeon. I figli di Anà sono Dison e Oolibamà. I figli di Dison sono Chemda n Esban Itran e Cheran. I figli di Eser sono Bilan Zaavan e Akan. I figli di Disan sono Us e Aran. Qu esti sono i capi degli Urriti: il capo di Lotan il capo di Sobal il capo di Sibeon il capo di Anà il capo di Dison il capo di Eser il capo di Disan. Questi sono i capi degli Urriti secondo le loro tribù nella regione di Seir. Questi sono i re che regnarono nel territorio di Edom prima che regnasse un re s ugli Israeliti. Regnò dunque in Edom Bela figlio di Beor e la sua città si chiamava Dinaba. Bela m orì e al suo posto regnò Iobab figlio di Zerach da Bosra. Iobab morì e al suo posto regnò Cusam
del territorio dei Temaniti. Cusam morì e al suo posto regnò Adad figlio di Bedad colui che vinse i Madianiti nelle steppe di Moab; la sua città si chiamava Avìt. Adad morì e al suo posto regnò S
amla da Masrekà. Samla morì e al suo posto regnò Saul da Recobòt-Naar. Saul morì e al suo posto regnò Baal-Canan figlio di Acbor. Baal-Canan figlio di Acbor morì e al suo posto regnò Adar: la sua città si chiama Pau e la moglie si chi amava Meetabèl figlia di Matred, figlia di Me-Zaab. Questi sono i nomi dei capi di Esaù secondo le loro famiglie le loro località con i loro nomi: il capo di Timna il capo di Alva il capo di Ietet il capo di Oolibamà il capo di Ela il capo di Pinon il capo di Kenaz il capo di Teman il capo di Mibsar il capo di Magdièl il capo di Iram. Questi sono i capi di Edom secondo le loro sedi nel territorio di loro proprietà. è questi Esaù il padre degli Edo miti. Giacobbe si stabilì nella terra dove suo padre era stato forestiero nella terra di Canaan. Qu esta è la discendenza di Giacobbe. Giuseppe all’età di diciassette anni pascolava il gregge con i s uoi fratelli. Essendo ancora giovane stava con i figli di Bila e i figli di Zilpa mogli di suo padre. Or a Giuseppe riferì al padre di chiacchiere maligne su di loro. Israele amava Giuseppe più di tutti i suoi figli, perché era il figlio avuto in vecchiaia e gli aveva fatto una tunica con maniche lunghe. I suoi fratelli vedendo che il loro padre amava lui più di tutti i suoi figli lo odiavano e non riusciva no a parlargli amichevolmente. Ora Giuseppe fece un sogno e lo raccontò ai fratelli che lo odiar ono ancora di più. Disse dunque loro: «Ascoltate il sogno che ho fatto. Noi stavamo legando cov oni in mezzo alla campagna quand’ecco il mio covone si alzò e restò diritto e i vostri covoni si posero attorno e si prostrarono davanti al mio». Gli dissero i suoi fratelli: «Vuoi forse regnare su di noi o ci vuoi dominare?». Lo odiarono ancora di più a causa dei suoi sogni e delle sue parole. Eg li fece ancora un altro sogno e lo narrò ai fratelli e disse: «Ho fatto ancora un sogno sentite: il so le la luna e undici stelle si prostravano davanti a me». Lo narrò dunque al padre e ai fratelli. Ma il padre lo rimproverò e gli disse: «Che sogno è questo che hai fatto! Dovremo forse venire io tu a madre e i tuoi fratelli a prostrarci fino a terra davanti a te?». I suoi fratelli perciò divennero inv idiosi di lui mentre il padre tenne per sé la cosa. I suoi fratelli erano andati a pascolare il gregge del loro padre a Sichem. Israele disse a Giuseppe: «Sai che i tuoi fratelli sono al pascolo a Siche m? Vieni ti voglio mandare da loro». Gli rispose: «Eccomi!». Gli disse: «Va’ a vedere come stann o i tuoi fratelli e come sta il bestiame poi torna a darmi notizie». Lo fece dunque partire dalla va lle di Ebron ed egli arrivò a Sichem. Mentre egli si aggirava per la campagna lo trovò un uomo c he gli domandò: «Che cosa cerchi?». Rispose: «Sono in cerca dei miei fratelli. Indicami dove si tr ovano a pascolare». Quell’uomo disse: «Hanno tolto le tende di qui; li ho sentiti dire: “Andiamo a Dotan!”». Allora Giuseppe ripartì in cerca dei suoi fratelli e li trovò a Dotan. Essi lo videro da lo ntano e prima che giungesse vicino a loro complottarono contro di lui per farlo morire. Si disser o l’un l’altro: «Eccolo! è arrivato il signore dei sogni! Orsù uccidiamolo e gettiamolo in una cister na! Poi diremo: “Una bestia feroce l’ha divorato!”. Così vedremo che ne sarà dei suoi sogni!». M
a Ruben sentì e volendo salvarlo dalle loro mani disse: «Non togliamogli la vita». Poi disse loro:
«Non spargete il sangue gettatelo in questa cisterna che è nel deserto ma non colpitelo con la v
ostra mano»: egli intendeva salvarlo dalle loro mani e ricondurlo a suo padre. Quando Giuseppe fu arrivato presso i suoi fratelli, essi lo spogliarono della sua tunica quella tunica con le maniche lunghe che egli indossava, lo afferrarono e lo gettarono nella cisterna: era una cisterna vuota s enz’acqua. Poi sedettero per prendere cibo. Quand’ecco alzando gli occhi videro arrivare una ca rovana di Ismaeliti provenienti da Gàlaad con i cammelli carichi di resina balsamo e làudano, ch e andavano a portare in Egitto. Allora Giuda disse ai fratelli: «Che guadagno c’è a uccidere il nos tro fratello e a coprire il suo sangue? Su vendiamolo agli Ismaeliti e la nostra mano non sia contr o di lui perché è nostro fratello e nostra carne». I suoi fratelli gli diedero ascolto. Passarono alcu ni mercanti madianiti; essi tirarono su ed estrassero Giuseppe dalla cisterna e per venti sicli d’ar gento vendettero Giuseppe agli Ismaeliti. Così Giuseppe fu condotto in Egitto. Quando Ruben to rnò alla cisterna ecco Giuseppe non c’era più. Allora si stracciò le vesti tornò dai suoi fratelli e di sse: «Il ragazzo non c’è più e io dove andrò?». Allora presero la tunica di Giuseppe sgozzarono u n capro e intinsero la tunica nel sangue. Poi mandarono al padre la tunica con le maniche lungh e e gliela fecero pervenire con queste parole: «Abbiamo trovato questa; per favore verifica se è la tunica di tuo figlio o no». Egli la riconobbe e disse: «è la tunica di mio figlio! Una bestia feroce l’ha divorato. Giuseppe è stato sbranato». Giacobbe si stracciò le vesti si pose una tela di sacco attorno ai fianchi e fece lutto sul suo figlio per molti giorni. Tutti i figli e le figlie vennero a conso larlo ma egli non volle essere consolato dicendo: «No io scenderò in lutto da mio figlio negli infe ri». E il padre suo lo pianse. Intanto i Madianiti lo vendettero in Egitto a Potifàr eunuco del fara one e comandante delle guardie. In quel tempo Giuda si separò dai suoi fratelli e si stabilì press o un uomo di Adullàm di nome Chira. Qui Giuda notò la figlia di un Cananeo chiamato Sua la pre se in moglie e si unì a lei. Ella concepì e partorì un figlio e lo chiamò Er. Concepì ancora e partorì un figlio e lo chiamò Onan. Ancora un’altra volta partorì un figlio e lo chiamò Sela. Egli si trovav a a Chezìb quando lei lo partorì. Giuda scelse per il suo primogenito Er una moglie che si chiama va Tamar. Ma Er primogenito di Giuda si rese odioso agli occhi del Signore e il Signore lo fece m orire. Allora Giuda disse a Onan: «Va’ con la moglie di tuo fratello compi verso di lei il dovere di cognato e assicura così una posterità a tuo fratello». Ma Onan sapeva che la prole non sarebbe stata considerata come sua; ogni volta che si univa alla moglie del fratello disperdeva il seme pe r terra per non dare un discendente al fratello. Ciò che egli faceva era male agli occhi del Signor e il quale fece morire anche lui. Allora Giuda disse alla nuora Tamar: «Ritorna a casa da tuo padr e come vedova fin quando il mio figlio Sela sarà cresciuto». Perché pensava: «Che non muoia an che questo come i suoi fratelli!». Così Tamar se ne andò e ritornò alla casa di suo padre. Trascor sero molti giorni e morì la figlia di Sua moglie di Giuda. Quando Giuda ebbe finito il lutto si recò a Timna da quelli che tosavano il suo gregge e con lui c’era Chira il suo amico di Adullàm. La noti zia fu data a Tamar: «Ecco tuo suocero va a Timna per la tosatura del suo gregge». Allora Tamar si tolse gli abiti vedovili si coprì con il velo e se lo avvolse intorno poi si pose a sedere all’ingress o di Enàim che è sulla strada per Timna. Aveva visto infatti che Sela era ormai cresciuto ma lei n on gli era stata data in moglie. Quando Giuda la vide la prese per una prostituta perché essa si e
ra coperta la faccia. Egli si diresse su quella strada verso di lei e disse: «Lascia che io venga con t e!». Non sapeva infatti che era sua nuora. Ella disse: «Che cosa mi darai per venire con me?». Ri spose: «Io ti manderò un capretto del gregge». Ella riprese: «Mi lasci qualcosa in pegno fin quan do non me lo avrai mandato?». Egli domandò: «Qual è il pegno che devo dare?». Rispose: «Il tu o sigillo il tuo cordone e il bastone che hai in mano». Allora Giuda glieli diede e si unì a lei. Ella ri mase incinta. Poi si alzò e se ne andò si tolse il velo e riprese gli abiti vedovili. Giuda mandò il ca pretto per mezzo del suo amico di Adullàm per riprendere il pegno dalle mani di quella donna ma quello non la trovò. Domandò agli uomini di quel luogo: «Dov’è quella prostituta che stava a Enàim sulla strada?». Ma risposero: «Qui non c’è stata alcuna prostituta». Così tornò da Giuda e disse: «Non l’ho trovata; anche gli uomini di quel luogo dicevano: “Qui non c’è stata alcuna pr ostituta”». Allora Giuda disse: «Si tenga quello che ha! Altrimenti ci esponiamo agli scherni. Ecc o: le ho mandato questo capretto ma tu non l’hai trovata». Circa tre mesi dopo fu portata a Giu da questa notizia: «Tamar tua nuora si è prostituita e anzi è incinta a causa delle sue prostituzio ni». Giuda disse: «Conducetela fuori e sia bruciata!». Mentre veniva condotta fuori ella mandò a dire al suocero: «Io sono incinta dell’uomo a cui appartengono questi oggetti». E aggiunse: «P
er favore, verifica di chi siano questo sigillo questi cordoni e questo bastone». Giuda li riconobb e e disse: «Lei è più giusta di me: infatti io non l’ho data a mio figlio Sela». E non ebbe più rappo rti con lei. Quando giunse per lei il momento di partorire ecco aveva nel grembo due gemelli. D
urante il parto uno di loro mise fuori una mano e la levatrice prese un filo scarlatto e lo legò att orno a quella mano dicendo: «Questi è uscito per primo». Ma poi questi ritirò la mano ed ecco v enne alla luce suo fratello. Allora ella esclamò: «Come ti sei aperto una breccia?» e fu chiamato Peres. Poi uscì suo fratello che aveva il filo scarlatto alla mano e fu chiamato Zerach. Giuseppe e ra stato portato in Egitto e Potifàr eunuco del faraone e comandante delle guardie un Egiziano l o acquistò da quegli Ismaeliti che l’avevano condotto laggiù. Il Signore fu con Giuseppe: a lui tut to riusciva bene e rimase nella casa dell’Egiziano, suo padrone. Il suo padrone si accorse che il Si gnore era con lui e che il Signore faceva riuscire per mano sua quanto egli intraprendeva. Così G
iuseppe trovò grazia agli occhi di lui e divenne suo servitore personale; anzi quello lo nominò su o maggiordomo e gli diede in mano tutti i suoi averi. Da quando egli lo aveva fatto suo maggior domo e incaricato di tutti i suoi averi il Signore benedisse la casa dell’Egiziano grazie a Giuseppe e la benedizione del Signore fu su quanto aveva sia in casa sia nella campagna. Così egli lasciò t utti i suoi averi nelle mani di Giuseppe e non si occupava più di nulla se non del cibo che mangia va. Ora Giuseppe era bello di forma e attraente di aspetto. Dopo questi fatti la moglie del padro ne mise gli occhi su Giuseppe e gli disse: «Còricati con me!». Ma egli rifiutò e disse alla moglie d el suo padrone: «Vedi il mio signore non mi domanda conto di quanto è nella sua casa e mi ha d ato in mano tutti i suoi averi. Lui stesso non conta più di me in questa casa; non mi ha proibito n ient’altro se non te perché sei sua moglie. Come dunque potrei fare questo grande male e pecc are contro Dio?». E benché giorno dopo giorno ella parlasse a Giuseppe in tal senso, egli non ac cettò di coricarsi insieme per unirsi a lei. Un giorno egli entrò in casa per fare il suo lavoro ment
re non c’era alcuno dei domestici. Ella lo afferrò per la veste dicendo: «Còricati con me!». Ma eg li le lasciò tra le mani la veste fuggì e se ne andò fuori. Allora lei vedendo che egli le aveva lascia to tra le mani la veste ed era fuggito fuori, chiamò i suoi domestici e disse loro: «Guardate ci ha condotto in casa un Ebreo per divertirsi con noi! Mi si è accostato per coricarsi con me ma io ho gridato a gran voce. Egli appena ha sentito che alzavo la voce e chiamavo ha lasciato la veste ac canto a me, è fuggito e se ne è andato fuori». Ed ella pose accanto a sé la veste di lui finché il pa drone venne a casa. Allora gli disse le stesse cose: «Quel servo ebreo che tu ci hai condotto in c asa mi si è accostato per divertirsi con me. Ma appena io ho gridato e ho chiamato ha abbando nato la veste presso di me ed è fuggito fuori». Il padrone, all’udire le parole che sua moglie gli ri peteva: «Proprio così mi ha fatto il tuo servo!» si accese d’ira. Il padrone prese Giuseppe e lo mi se nella prigione, dove erano detenuti i carcerati del re. Così egli rimase là in prigione. Ma il Sign ore fu con Giuseppe gli accordò benevolenza e gli fece trovare grazia agli occhi del comandante della prigione. Così il comandante della prigione affidò a Giuseppe tutti i carcerati che erano nel la prigione e quanto c’era da fare là dentro lo faceva lui. Il comandante della prigione non si pre ndeva più cura di nulla di quanto era affidato a Giuseppe perché il Signore era con lui e il Signor e dava successo a tutto quanto egli faceva. Dopo questi fatti il coppiere del re d’Egitto e il panet tiere offesero il loro padrone, il re d’Egitto. Il faraone si adirò contro i suoi due eunuchi il capo d ei coppieri e il capo dei panettieri e li fece mettere in custodia nella casa del comandante delle g uardie nella prigione dove Giuseppe era detenuto. Il comandante delle guardie assegnò loro Giu seppe perché li accudisse. Così essi restarono nel carcere per un certo tempo. Ora in una medes ima notte il coppiere e il panettiere del re d’Egitto detenuti nella prigione ebbero tutti e due un sogno ciascuno il suo sogno con un proprio significato. Alla mattina Giuseppe venne da loro e li vide abbattuti. Allora interrogò gli eunuchi del faraone che erano con lui in carcere nella casa de l suo padrone e disse: «Perché oggi avete la faccia così triste?». Gli risposero: «Abbiamo fatto u n sogno e non c’è chi lo interpreti». Giuseppe replicò loro: «Non è forse Dio che ha in suo poter e le interpretazioni? Raccontatemi dunque». Allora il capo dei coppieri raccontò il suo sogno a Giuseppe e gli disse: «Nel mio sogno ecco mi stava davanti una vite sulla quale vi erano tre tralci; non appena cominciò a germogliare apparvero i fiori e i suoi grappoli maturarono gli acini. Io te nevo in mano il calice del faraone; presi gli acini li spremetti nella coppa del faraone poi diedi la coppa in mano al faraone». Giuseppe gli disse: «Eccone l’interpretazione: i tre tralci rappresentano tre giorni. Fra tre giorni il faraone solleverà la tua testa e ti reintegrerà nella tua carica e tu porgerai il calice al faraone secondo la consuetudine di prima quando eri il suo coppiere. Se poi nella tua fortuna volessi ricordarti che sono stato con te trattami ti prego con bontà: ricordami al faraone per farmi uscire da questa casa. Perché io sono stato portato via ingiustamente dalla terra degli Ebrei e anche qui non ho fatto nulla perché mi mettessero in questo sotterraneo». Al lora il capo dei panettieri vedendo che l’interpretazione era favorevole disse a Giuseppe: «Quan to a me nel mio sogno tenevo sul capo tre canestri di pane bianco e nel canestro che stava di so pra c’era ogni sorta di cibi per il faraone quali si preparano dai panettieri. Ma gli uccelli li mangi
avano dal canestro che avevo sulla testa». Giuseppe rispose e disse: «Questa è l’interpretazione
: i tre canestri rappresentano tre giorni. Fra tre giorni il faraone solleverà la tua testa e ti impicc herà a un palo e gli uccelli ti mangeranno la carne addosso». Appunto al terzo giorno che era il g iorno natalizio del faraone questi fece un banchetto per tutti i suoi ministri e allora sollevò la tes ta del capo dei coppieri e la testa del capo dei panettieri in mezzo ai suoi ministri. Reintegrò il c apo dei coppieri nel suo ufficio di coppiere perché porgesse la coppa al faraone; invece impiccò il capo dei panettieri secondo l’interpretazione che Giuseppe aveva loro data. Ma il capo dei co ppieri non si ricordò di Giuseppe e lo dimenticò. Due anni dopo il faraone sognò di trovarsi pres so il Nilo. Ed ecco, salirono dal Nilo sette vacche belle di aspetto e grasse e si misero a pascolare tra i giunchi. Ed ecco dopo quelle salirono dal Nilo altre sette vacche brutte di aspetto e magre e si fermarono accanto alle prime vacche sulla riva del Nilo. Le vacche brutte di aspetto e magre divorarono le sette vacche belle di aspetto e grasse. E il faraone si svegliò. Poi si addormentò e sognò una seconda volta: ecco sette spighe spuntavano da un unico stelo grosse e belle. Ma do po quelle ecco spuntare altre sette spighe vuote e arse dal vento d’oriente. Le spighe vuote ing hiottirono le sette spighe grosse e piene. Il faraone si svegliò: era stato un sogno. Alla mattina il suo spirito ne era turbato perciò convocò tutti gli indovini e tutti i saggi dell’Egitto. Il faraone rac contò loro il sogno ma nessuno sapeva interpretarlo al faraone. Allora il capo dei coppieri parlò al faraone: «Io devo ricordare oggi le mie colpe. Il faraone si era adirato contro i suoi servi e li aveva messi in carcere nella casa del capo delle guardie sia me sia il capo dei panettieri. Noi facemmo un sogno nella stessa notte io e lui; ma avemmo ciascuno un sogno con un proprio significato. C’era là con noi un giovane ebreo schiavo del capo delle guardie; noi gli raccontammo i nostri sogni ed egli ce li interpretò dando a ciascuno l’interpretazione del suo sogno. E come egli ci aveva interpretato così avvenne: io fui reintegrato nella mia carica e l’altro fu impiccato». Allora il faraone convocò Giuseppe. Lo fecero uscire in fretta dal sotterraneo; egli si rase si cambiò gli abiti e si presentò al faraone. Il faraone disse a Giuseppe: «Ho fatto un sogno e nessuno sa interpretarlo; ora io ho sentito dire di te che ti basta ascoltare un sogno per interpretarlo subito». Giuseppe rispose al faraone: «Non io ma Dio darà la risposta per la salute del faraone!». Allora il far aone raccontò a Giuseppe: «Nel mio sogno io mi trovavo sulla riva del Nilo. Ed ecco salirono dal Nilo sette vacche grasse e belle di forma e si misero a pascolare tra i giunchi. E dopo quelle ecco salire altre sette vacche deboli molto brutte di forma e magre; non ne vidi mai di così brutte in tutta la terra d’Egitto. Le vacche magre e brutte divorarono le prime sette vacche quelle grasse.
Queste entrarono nel loro ventre ma non ci si accorgeva che vi fossero entrate perché il loro as petto era brutto come prima. E mi svegliai. Poi vidi nel sogno spuntare da un unico stelo sette s pighe piene e belle. Ma ecco dopo quelle spuntavano sette spighe secche vuote e arse dal vent o d’oriente. Le spighe vuote inghiottirono le sette spighe belle. Ho riferito il sogno agli indovini ma nessuno sa darmene la spiegazione». Allora Giuseppe disse al faraone: «Il sogno del faraone è uno solo: Dio ha indicato al faraone quello che sta per fare. Le sette vacche belle rappresenta no sette anni e le sette spighe belle rappresentano sette anni: si tratta di un unico sogno. Le set
te vacche magre e brutte che salgono dopo quelle rappresentano sette anni e le sette spighe vu ote arse dal vento d’oriente rappresentano sette anni: verranno sette anni di carestia. è appunt o quel che ho detto al faraone: Dio ha manifestato al faraone quanto sta per fare. Ecco stanno per venire sette anni in cui ci sarà grande abbondanza in tutta la terra d’Egitto. A questi succeder anno sette anni di carestia; si dimenticherà tutta quell’abbondanza nella terra d’Egitto e la carestia consumerà la terra. Non vi sarà più alcuna traccia dell’abbondanza che vi era stata nella terra a causa della carestia successiva perché sarà molto dura. Quanto al fatto che il sogno del faraone si è ripetuto due volte significa che la cosa è decisa da Dio e che Dio si affretta a eseguirla. Il faraone pensi a trovare un uomo intelligente e saggio e lo metta a capo della terra d’Egitto. Il faraone inoltre proceda a istituire commissari sul territorio per prelevare un quinto sui prodotti della terra d’Egitto durante i sette anni di abbondanza. Essi raccoglieranno tutti i viveri di queste annate buone che stanno per venire ammasseranno il grano sotto l’autorità del faraone e lo ter ranno in deposito nelle città. Questi viveri serviranno di riserva al paese per i sette anni di cares tia che verranno nella terra d’Egitto; così il paese non sarà distrutto dalla carestia». La proposta piacque al faraone e a tutti i suoi ministri. Il faraone disse ai ministri: «Potremo trovare un uom o come questo in cui sia lo spirito di Dio?». E il faraone disse a Giuseppe: «Dal momento che Dio ti ha manifestato tutto questo non c’è nessuno intelligente e saggio come te. Tu stesso sarai il mio governatore e ai tuoi ordini si schiererà tutto il mio popolo: solo per il trono io sarò più gra nde di te». Il faraone disse a Giuseppe: «Ecco io ti metto a capo di tutta la terra d’Egitto». Il fara one si tolse di mano l’anello e lo pose sulla mano di Giuseppe; lo rivestì di abiti di lino finissimo e gli pose al collo un monile d’oro. Lo fece salire sul suo secondo carro e davanti a lui si gridava:
«Abrech». E così lo si stabilì su tutta la terra d’Egitto. Poi il faraone disse a Giuseppe: «Io sono il faraone ma senza il tuo permesso nessuno potrà alzare la mano o il piede in tutta la terra d’Egit to». E il faraone chiamò Giuseppe Safnat-Panèach e gli diede in moglie Asenat figlia di Potifera sacerdote di Eliòpoli. Giuseppe partì per vi sitare l’Egitto. Giuseppe aveva trent’anni quando entrò al servizio del faraone re d’Egitto. Quind i Giuseppe si allontanò dal faraone e percorse tutta la terra d’Egitto. Durante i sette anni di abb ondanza la terra produsse a profusione. Egli raccolse tutti i viveri dei sette anni di abbondanza c he vennero nella terra d’Egitto e ripose i viveri nelle città: in ogni città i viveri della campagna cir costante. Giuseppe ammassò il grano come la sabbia del mare in grandissima quantità così che non se ne fece più il computo perché era incalcolabile. Intanto prima che venisse l’anno della ca restia nacquero a Giuseppe due figli, partoriti a lui da Asenat figlia di Potifera sacerdote di Eliòp oli. Giuseppe chiamò il primogenito Manasse «perché – disse –
Dio mi ha fatto dimenticare ogni affanno e tutta la casa di mio padre». E il secondo lo chiamò è fraim, «perché – disse –
Dio mi ha reso fecondo nella terra della mia afflizione». Finirono i sette anni di abbondanza nell a terra d’Egitto e cominciarono i sette anni di carestia come aveva detto Giuseppe. Ci fu carestia in ogni paese ma in tutta la terra d’Egitto c’era il pane. Poi anche tutta la terra d’Egitto cominci
ò a sentire la fame e il popolo gridò al faraone per avere il pane. Il faraone disse a tutti gli Egizia ni: «Andate da Giuseppe; fate quello che vi dirà». La carestia imperversava su tutta la terra. Allo ra Giuseppe aprì tutti i depositi in cui vi era grano e lo vendette agli Egiziani. La carestia si aggra vava in Egitto ma da ogni paese venivano in Egitto per acquistare grano da Giuseppe perché la c arestia infieriva su tutta la terra. Giacobbe venne a sapere che in Egitto c’era grano; perciò disse ai figli: «Perché state a guardarvi l’un l’altro?». E continuò: «Ecco ho sentito dire che vi è grano in Egitto. Andate laggiù a comprarne per noi, perché viviamo e non moriamo». Allora i dieci frat elli di Giuseppe scesero per acquistare il frumento dall’Egitto. Quanto a Beniamino fratello di Gi useppe Giacobbe non lo lasciò partire con i fratelli perché diceva: «Che non gli debba succedere qualche disgrazia!». Arrivarono dunque i figli d’Israele per acquistare il grano in mezzo ad altri c he pure erano venuti perché nella terra di Canaan c’era la carestia. Giuseppe aveva autorità su quella terra e vendeva il grano a tutta la sua popolazione. Perciò i fratelli di Giuseppe vennero d a lui e gli si prostrarono davanti con la faccia a terra. Giuseppe vide i suoi fratelli e li riconobbe ma fece l’estraneo verso di loro, parlò duramente e disse: «Da dove venite?». Risposero: «Dalla terra di Canaan per comprare viveri». Giuseppe riconobbe dunque i fratelli mentre essi non lo ri conobbero. Allora Giuseppe si ricordò dei sogni che aveva avuto a loro riguardo e disse loro: «V
oi siete spie! Voi siete venuti per vedere i punti indifesi del territorio!». Gli risposero: «No mio si gnore; i tuoi servi sono venuti per acquistare viveri. Noi siamo tutti figli di un solo uomo. Noi sia mo sinceri. I tuoi servi non sono spie!». Ma egli insistette: «No voi siete venuti per vedere i punt i indifesi del territorio!». Allora essi dissero: «Dodici sono i tuoi servi; siamo fratelli, figli di un sol o uomo che abita nella terra di Canaan; ora il più giovane è presso nostro padre e uno non c’è pi ù ». Giuseppe disse loro: «Le cose stanno come vi ho detto: voi siete spie! In questo modo saret e messi alla prova: per la vita del faraone, voi non uscirete di qui se non quando vi avrà raggiunt o il vostro fratello più giovane. Mandate uno di voi a prendere il vostro fratello; voi rimarrete pr igionieri. Saranno così messe alla prova le vostre parole per sapere se la verità è dalla vostra par te. Se no, per la vita del faraone voi siete spie!». E li tenne in carcere per tre giorni. Il terzo giorn o Giuseppe disse loro: «Fate questo e avrete salva la vita; io temo Dio! Se voi siete sinceri uno di voi fratelli resti prigioniero nel vostro carcere e voi andate a portare il grano per la fame delle v ostre case. Poi mi condurrete qui il vostro fratello più giovane. Così le vostre parole si dimostrer anno vere e non morirete». Essi annuirono. Si dissero allora l’un l’altro: «Certo su di noi grava la colpa nei riguardi di nostro fratello perché abbiamo visto con quale angoscia ci supplicava e no n lo abbiamo ascoltato. Per questo ci ha colpiti quest’angoscia». Ruben prese a dir loro: «Non vi avevo detto io: “Non peccate contro il ragazzo”? Ma non mi avete dato ascolto. Ecco, ora ci vie ne domandato conto del suo sangue». Non si accorgevano che Giuseppe li capiva dato che tra lui e loro vi era l’interprete. Allora egli andò in disparte e pianse. Poi tornò e parlò con loro. Scelse tra loro Simeone e lo fece incatenare sotto i loro occhi. Quindi Giuseppe diede ordine di riempire di frumento i loro sacchi e di rimettere il denaro di ciascuno nel suo sacco e di dare loro provviste per il viaggio. E così venne loro fatto. Essi caricarono il grano sugli asini e partirono di là. Ora in un luogo dove passavano la notte uno di loro aprì il sacco per dare il foraggio all’asino e vid e il proprio denaro alla bocca del sacco. Disse ai fratelli: «Mi è stato restituito il denaro: eccolo qui nel mio sacco!». Allora si sentirono mancare il cuore e tremanti si dissero l’un l’altro: «Che è mai questo che Dio ci ha fatto?». Arrivati da Giacobbe loro padre nella terra di Canaan gli riferir ono tutte le cose che erano loro capitate: «Quell’uomo che è il signore di quella terra ci ha parla to duramente e ci ha trattato come spie del territorio. Gli abbiamo detto: “Noi siamo sinceri; no n siamo spie! Noi siamo dodici fratelli figli dello stesso padre: uno non c’è più e il più giovane è ora presso nostro padre nella terra di Canaan”. Ma l’uomo signore di quella terra ci ha risposto:
“Mi accerterò se voi siete sinceri in questo modo: lasciate qui con me uno dei vostri fratelli pren dete il grano necessario alle vostre case e andate. Poi conducetemi il vostro fratello più giovane
; così mi renderò conto che non siete spie ma che siete sinceri; io vi renderò vostro fratello e voi potrete circolare nel territorio”». Mentre svuotavano i sacchi ciascuno si accorse di avere la sua borsa di denaro nel proprio sacco. Quando essi e il loro padre videro le borse di denaro furono presi da timore. E il loro padre Giacobbe disse: «Voi mi avete privato dei figli! Giuseppe non c’è più, Simeone non c’è più e Beniamino me lo volete prendere. Tutto ricade su di me!». Allora Ru ben disse al padre: «Farai morire i miei due figli se non te lo ricondurrò. Affidalo alle mie mani e io te lo restituirò». Ma egli rispose: «Il mio figlio non andrà laggiù con voi perché suo fratello è morto ed egli è rimasto solo. Se gli capitasse una disgrazia durante il viaggio che voi volete fare f areste scendere con dolore la mia canizie negli inferi». La carestia continuava a gravare sulla ter ra. Quand’ebbero finito di consumare il grano che avevano portato dall’Egitto il padre disse loro
: «Tornate là e acquistate per noi un po’ di viveri». Ma Giuda gli disse: «Quell’uomo ci ha avverti to severamente: “Non verrete alla mia presenza se non avrete con voi il vostro fratello!”. Se tu s ei disposto a lasciar partire con noi nostro fratello andremo laggiù e ti compreremo dei viveri.
Ma se tu non lo lasci partire non ci andremo, perché quell’uomo ci ha detto: “Non verrete alla mia presenza se non avrete con voi il vostro fratello!”». Israele disse: «Perché mi avete fatto qu esto male: far sapere a quell’uomo che avevate ancora un fratello?». Risposero: «Quell’uomo ci ha interrogati con insistenza intorno a noi e alla nostra parentela: “è ancora vivo vostro padre?
Avete qualche altro fratello?”. E noi abbiamo risposto secondo queste domande. Come avremm o potuto sapere che egli avrebbe detto: “Conducete qui vostro fratello”?». Giuda disse a Israele suo padre: «Lascia venire il giovane con me; prepariamoci a partire per sopravvivere e non mori re noi tu e i nostri bambini. Io mi rendo garante di lui: dalle mie mani lo reclamerai. Se non te lo ricondurrò se non te lo riporterò io sarò colpevole contro di te per tutta la vita. Se non avessimo indugiato ora saremmo già di ritorno per la seconda volta». Israele loro padre rispose: «Se è co sì fate pure: mettete nei vostri bagagli i prodotti più scelti della terra e portateli in dono a quell’
uomo: un po’ di balsamo un po’ di miele resina e làudano pistacchi e mandorle. Prendete con v oi il doppio del denaro così porterete indietro il denaro che è stato rimesso nella bocca dei vostr i sacchi: forse si tratta di un errore. Prendete anche vostro fratello partite e tornate da quell’uo mo. Dio l’Onnipotente vi faccia trovare misericordia presso quell’uomo così che vi rilasci sia l’alt
ro fratello sia Beniamino. Quanto a me una volta che non avrò più i miei figli non li avrò più!». Gli uomini presero dunque questo dono e il doppio del denaro e anche Beniamino si avviarono sc esero in Egitto e si presentarono a Giuseppe. Quando Giuseppe vide Beniamino con loro disse al suo maggiordomo: «Conduci questi uomini in casa macella quello che occorre e apparecchia pe rché questi uomini mangeranno con me a mezzogiorno». Quell’uomo fece come Giuseppe aveva ordinato e introdusse quegli uomini nella casa di Giuseppe. Ma essi si spaventarono perché venivano condotti in casa di Giuseppe e si dissero: «A causa del denaro rimesso l’altra volta nei nostri sacchi ci conducono là: per assalirci, piombarci addosso e prenderci come schiavi con i nostri asini». Allora si avvicinarono al maggiordomo della casa di Giuseppe e parlarono con lui all’ingr esso della casa; dissero: «Perdona mio signore noi siamo venuti già un’altra volta per comprare viveri. Quando fummo arrivati a un luogo per passarvi la notte aprimmo i sacchi ed ecco il denar o di ciascuno si trovava alla bocca del suo sacco: proprio il nostro denaro con il suo peso esatto.
Noi ora l’abbiamo portato indietro e per acquistare i viveri abbiamo portato con noi altro denar o. Non sappiamo chi abbia messo nei sacchi il nostro denaro!». Ma quegli disse: «State in pace non temete! Il vostro Dio e il Dio dei vostri padri vi ha messo un tesoro nei sacchi; il vostro dena ro lo avevo ricevuto io». E condusse loro Simeone. Quell’uomo fece entrare gli uomini nella cas a di Giuseppe diede loro dell’acqua, perché si lavassero i piedi e diede il foraggio ai loro asini. Es si prepararono il dono nell’attesa che Giuseppe arrivasse a mezzogiorno perché avevano saputo che avrebbero preso cibo in quel luogo. Quando Giuseppe arrivò a casa gli presentarono il don o che avevano con sé e si prostrarono davanti a lui con la faccia a terra. Egli domandò loro com e stavano e disse: «Sta bene il vostro vecchio padre di cui mi avete parlato? Vive ancora?». Risp osero: «Il tuo servo nostro padre sta bene è ancora vivo» e si inginocchiarono prostrandosi. Egli alzò gli occhi e guardò Beniamino il suo fratello figlio della stessa madre e disse: «è questo il vos tro fratello più giovane di cui mi avete parlato?» e aggiunse: «Dio ti conceda grazia figlio mio!».
Giuseppe si affrettò a uscire perché si era commosso nell’intimo alla presenza di suo fratello e s entiva il bisogno di piangere; entrò nella sua camera e pianse. Poi si lavò la faccia uscì e facendo si forza ordinò: «Servite il pasto». Fu servito per lui a parte per loro a parte e per i commensali e giziani a parte perché gli Egiziani non possono prender cibo con gli Ebrei: ciò sarebbe per loro u n abominio. Presero posto davanti a lui dal primogenito al più giovane ciascuno in ordine di età e si guardavano con meraviglia l’un l’altro. Egli fece portare loro porzioni prese dalla propria me nsa ma la porzione di Beniamino era cinque volte più abbondante di quella di tutti gli altri. E con lui bevvero fino all’allegria. Diede poi quest’ordine al suo maggiordomo: «Riempi i sacchi di que gli uomini di tanti viveri quanti ne possono contenere e rimetti il denaro di ciascuno alla bocca d el suo sacco. Metterai la mia coppa la coppa d’argento alla bocca del sacco del più giovane, insi eme con il denaro del suo grano». Quello fece secondo l’ordine di Giuseppe. Alle prime luci del mattino quegli uomini furono fatti partire con i loro asini. Erano appena usciti dalla città e ancor a non si erano allontanati quando Giuseppe disse al suo maggiordomo: «Su insegui quegli uomi ni raggiungili e di’ loro: “Perché avete reso male per bene? Non è forse questa la coppa in cui be
ve il mio signore e per mezzo della quale egli suole trarre i presagi? Avete fatto male a fare così”
». Egli li raggiunse e ripeté loro queste parole. Quelli gli risposero: «Perché il mio signore dice q uesto? Lontano dai tuoi servi il fare una cosa simile! Ecco se ti abbiamo riportato dalla terra di C
anaan il denaro che abbiamo trovato alla bocca dei nostri sacchi come avremmo potuto rubare argento o oro dalla casa del tuo padrone? Quello dei tuoi servi presso il quale si troverà sia mes so a morte e anche noi diventeremo schiavi del mio signore». Rispose: «Ebbene come avete det to così sarà: colui, presso il quale si troverà la coppa diventerà mio schiavo e voi sarete innocent i». Ciascuno si affrettò a scaricare a terra il suo sacco e lo aprì. Quegli li frugò cominciando dal maggiore e finendo con il più piccolo e la coppa fu trovata nel sacco di Beniamino. Allora essi si stracciarono le vesti ricaricarono ciascuno il proprio asino e tornarono in città. Giuda e i suoi fra telli vennero nella casa di Giuseppe che si trovava ancora là e si gettarono a terra davanti a lui.
Giuseppe disse loro: «Che azione avete commesso? Non vi rendete conto che un uomo come m e è capace di indovinare?». Giuda disse: «Che diremo al mio signore? Come parlare? Come giust ificarci? Dio stesso ha scoperto la colpa dei tuoi servi! Eccoci schiavi del mio signore noi e colui c he è stato trovato in possesso della coppa». Ma egli rispose: «Lontano da me fare una cosa simil e! L’uomo trovato in possesso della coppa quello sarà mio schiavo: quanto a voi tornate in pace da vostro padre». Allora Giuda gli si fece innanzi e disse: «Perdona mio signore sia permesso al t uo servo di far sentire una parola agli orecchi del mio signore; non si accenda la tua ira contro il tuo servo, perché uno come te è pari al faraone! Il mio signore aveva interrogato i suoi servi: “A vete ancora un padre o un fratello?”. E noi avevamo risposto al mio signore: “Abbiamo un padr e vecchio e un figlio ancora giovane natogli in vecchiaia il fratello che aveva è morto ed egli è ri masto l’unico figlio di quella madre e suo padre lo ama”. Tu avevi detto ai tuoi servi: “Conducet elo qui da me perché possa vederlo con i miei occhi”. Noi avevamo risposto al mio signore: “Il gi ovinetto non può abbandonare suo padre: se lascerà suo padre questi ne morirà”. Ma tu avevi i ngiunto ai tuoi servi: “Se il vostro fratello minore non verrà qui con voi non potrete più venire al la mia presenza”. Fatto ritorno dal tuo servo mio padre gli riferimmo le parole del mio signore.
E nostro padre disse: “Tornate ad acquistare per noi un po’ di viveri”. E noi rispondemmo: “Non possiamo ritornare laggiù: solo se verrà con noi il nostro fratello minore andremo; non saremm o ammessi alla presenza di quell’uomo senza avere con noi il nostro fratello minore”. Allora il tu o servo mio padre ci disse: “Voi sapete che due figli mi aveva procreato mia moglie. Uno partì d a me e dissi: certo è stato sbranato! Da allora non l’ho più visto. Se ora mi porterete via anche q uesto e gli capitasse una disgrazia voi fareste scendere con dolore la mia canizie negli inferi”. Or a se io arrivassi dal tuo servo mio padre e il giovinetto non fosse con noi poiché la vita dell’uno è legata alla vita dell’altro non appena egli vedesse che il giovinetto non è con noi, morirebbe e i tuoi servi avrebbero fatto scendere con dolore negli inferi la canizie del tuo servo nostro padre
. Ma il tuo servo si è reso garante del giovinetto presso mio padre dicendogli: “Se non te lo rico ndurrò sarò colpevole verso mio padre per tutta la vita”. Ora lascia che il tuo servo rimanga al p osto del giovinetto come schiavo del mio signore e il giovinetto torni lassù con i suoi fratelli! Per
ché come potrei tornare da mio padre senza avere con me il giovinetto? Che io non veda il male che colpirebbe mio padre!». Allora Giuseppe non poté più trattenersi dinanzi a tutti i circostant i e gridò: «Fate uscire tutti dalla mia presenza!». Così non restò nessun altro presso di lui mentr e Giuseppe si faceva conoscere dai suoi fratelli. E proruppe in un grido di pianto. Gli Egiziani lo s entirono e la cosa fu risaputa nella casa del faraone. Giuseppe disse ai fratelli: «Io sono Giusepp e! è ancora vivo mio padre?». Ma i suoi fratelli non potevano rispondergli perché sconvolti dalla sua presenza. Allora Giuseppe disse ai fratelli: «Avvicinatevi a me!». Si avvicinarono e disse loro
: «Io sono Giuseppe il vostro fratello quello che voi avete venduto sulla via verso l’Egitto. Ma or a non vi rattristate e non vi crucciate per avermi venduto quaggiù perché Dio mi ha mandato qu i prima di voi per conservarvi in vita. Perché già da due anni vi è la carestia nella regione e ancor a per cinque anni non vi sarà né aratura né mietitura. Dio mi ha mandato qui prima di voi per as sicurare a voi la sopravvivenza nella terra e per farvi vivere per una grande liberazione. Dunque non siete stati voi a mandarmi qui ma Dio. Egli mi ha stabilito padre per il faraone signore su tut ta la sua casa e governatore di tutto il territorio d’Egitto. Affrettatevi a salire da mio padre e dit egli: “Così dice il tuo figlio Giuseppe: Dio mi ha stabilito signore di tutto l’Egitto. Vieni quaggiù pr esso di me senza tardare. Abiterai nella terra di Gosen e starai vicino a me tu con i tuoi figli e i fi gli dei tuoi figli le tue greggi e i tuoi armenti e tutti i tuoi averi. Là io provvederò al tuo sostenta mento poiché la carestia durerà ancora cinque anni e non cadrai nell’indigenza tu la tua famiglia e quanto possiedi”. Ed ecco i vostri occhi lo vedono e lo vedono gli occhi di mio fratello Beniami no: è la mia bocca che vi parla! Riferite a mio padre tutta la gloria che io ho in Egitto e quanto a vete visto; affrettatevi a condurre quaggiù mio padre». Allora egli si gettò al collo di suo fratello Beniamino e pianse. Anche Beniamino piangeva stretto al suo collo. Poi baciò tutti i fratelli e pia nse. Dopo i suoi fratelli si misero a conversare con lui. Intanto nella casa del faraone si era diffus a la voce: «Sono venuti i fratelli di Giuseppe!» e questo fece piacere al faraone e ai suoi ministri.
Allora il faraone disse a Giuseppe: «Di’ ai tuoi fratelli: “Fate così: caricate le cavalcature partite e andate nella terra di Canaan. Prendete vostro padre e le vostre famiglie e venite da me: io vi d arò il meglio del territorio d’Egitto e mangerete i migliori prodotti della terra”. Quanto a te da’ l oro questo comando: “Fate così: prendete con voi dalla terra d’Egitto carri per i vostri bambini e le vostre donne caricate vostro padre e venite. Non abbiate rincrescimento per i vostri beni per ché il meglio di tutta la terra d’Egitto sarà vostro”». Così fecero i figli d’Israele. Giuseppe diede l oro carri secondo l’ordine del faraone e consegnò loro una provvista per il viaggio. Diede a tutti un cambio di abiti per ciascuno ma a Beniamino diede trecento sicli d’argento e cinque cambi di abiti. Inoltre mandò al padre dieci asini carichi dei migliori prodotti dell’Egitto e dieci asine caric he di frumento pane e viveri per il viaggio del padre. Poi congedò i fratelli e mentre partivano di sse loro: «Non litigate durante il viaggio!». Così essi salirono dall’Egitto e arrivarono nella terra di Canaan dal loro padre Giacobbe e gli riferirono: «Giuseppe è ancora vivo anzi governa lui tutt o il territorio d’Egitto!». Ma il suo cuore rimase freddo perché non poteva credere loro. Quando però gli riferirono tutte le parole che Giuseppe aveva detto loro ed egli vide i carri che Giusepp
e gli aveva mandato per trasportarlo allora lo spirito del loro padre Giacobbe si rianimò. Israele disse: «Basta! Giuseppe mio figlio è vivo. Voglio andare a vederlo prima di morire!». Israele dun que levò le tende con quanto possedeva e arrivò a Bersabea dove offrì sacrifici al Dio di suo pad re Isacco. Dio disse a Israele in una visione nella notte: «Giacobbe Giacobbe!». Rispose: «Eccomi
!». Riprese: «Io sono Dio il Dio di tuo padre. Non temere di scendere in Egitto perché laggiù io fa rò di te una grande nazione. Io scenderò con te in Egitto e io certo ti farò tornare. Giuseppe ti c hiuderà gli occhi con le sue mani». Giacobbe partì da Bersabea e i figli d’Israele fecero salire il lo ro padre Giacobbe i loro bambini e le loro donne sui carri che il faraone aveva mandato per tras portarlo. Presero il loro bestiame e tutti i beni che avevano acquistato nella terra di Canaan e ve nnero in Egitto Giacobbe e con lui tutti i suoi discendenti. Egli condusse con sé in Egitto i suoi fig li e i nipoti le sue figlie e le nipoti tutti i suoi discendenti. Questi sono i nomi dei figli d’Israele ch e entrarono in Egitto: Giacobbe e i suoi figli il primogenito di Giacobbe, Ruben. I figli di Ruben: E
noc Pallu Chesron e Carmì. I figli di Simeone: Iemuèl Iamin Oad Iachin Socar e Saul figlio della Ca nanea. I figli di Levi: Gherson Keat e Merarì. I figli di Giuda: Er Onan Sela Peres e Zerach; ma Er e Onan erano morti nella terra di Canaan. Furono figli di Peres: Chesron e Camul. I figli di ìssacar: Tola Puva Iob e Simron. I figli di Zàbulon: Sered Elon e Iacleèl. Questi sono i figli che Lia partorì a Giacobbe in Paddan-Aram oltre alla figlia Dina; tutti i figli e le figlie di Giacobbe erano trentatré persone. I figli di Gad
: Sifiòn Agghì Sunì Esbon Erì Arodì e Arelì. I figli di Aser: Imna Isva Isvì Berià e la loro sorella Sera ch. I figli di Berià: Cheber e Malchièl. Questi sono i figli di Zilpa che Làbano aveva dato come schi ava alla figlia Lia; ella li partorì a Giacobbe: erano sedici persone. I figli di Rachele moglie di Giac obbe: Giuseppe e Beniamino. A Giuseppe erano nati in Egitto èfraim e Manasse che gli partorì A senat figlia di Potifera sacerdote di Eliòpoli. I figli di Beniamino: Bela Becher e Asbel Ghera Naa màn, Echì Ros Muppìm Uppìm e Ard. Questi sono i figli che Rachele partorì a Giacobbe; in tutto quattordici persone. I figli di Dan: Cusìm. I figli di Nèftali: Iacseèl, Gunì Ieser e Sillem. Questi son o i figli di Bila che Làbano diede come schiava alla figlia Rachele ed ella li partorì a Giacobbe; in t utto sette persone. Tutte le persone che entrarono con Giacobbe in Egitto discendenti da lui se nza contare le mogli dei figli di Giacobbe furono sessantasei. I figli che nacquero a Giuseppe in E
gitto furono due. Tutte le persone della famiglia di Giacobbe che entrarono in Egitto ammontan o a settanta. Egli aveva mandato Giuda davanti a sé da Giuseppe perché questi desse istruzioni i n Gosen prima del suo arrivo. Arrivarono quindi alla terra di Gosen. Allora Giuseppe fece attacc are il suo carro e salì incontro a Israele suo padre in Gosen. Appena se lo vide davanti gli si gettò al collo e pianse a lungo stretto al suo collo. Israele disse a Giuseppe: «Posso anche morire que sta volta dopo aver visto la tua faccia perché sei ancora vivo». Allora Giuseppe disse ai fratelli e alla famiglia del padre: «Vado a informare il faraone e a dirgli: “I miei fratelli e la famiglia di mio padre che erano nella terra di Canaan sono venuti da me. Questi uomini sono pastori di greggi s i occupano di bestiame e hanno portato le loro greggi i loro armenti e tutti i loro averi”. Quando dunque il faraone vi chiamerà e vi domanderà: “Qual è il vostro mestiere?”, risponderete: “I tu
oi servi sono stati gente dedita al bestiame; lo furono i nostri padri e lo siamo noi dalla nostra fa nciullezza fino ad ora”. Questo perché possiate risiedere nella terra di Gosen». Perché tutti i pas tori di greggi sono un abominio per gli Egiziani. Giuseppe andò a informare il faraone dicendogli
: «Mio padre e i miei fratelli con le loro greggi e i loro armenti e con tutti i loro averi sono venuti dalla terra di Canaan; eccoli nella terra di Gosen». Intanto prese cinque uomini dal gruppo dei s uoi fratelli e li presentò al faraone. Il faraone domandò loro: «Qual è il vostro mestiere?». Essi ri sposero al faraone: «Pastori di greggi sono i tuoi servi lo siamo noi e lo furono i nostri padri». E
dissero al faraone: «Siamo venuti per soggiornare come forestieri nella regione, perché non c’è più pascolo per il gregge dei tuoi servi; infatti è grave la carestia nella terra di Canaan. E ora lasci a che i tuoi servi si stabiliscano nella terra di Gosen!». Allora il faraone disse a Giuseppe: «Tuo p adre e i tuoi fratelli sono dunque venuti da te. Ebbene la terra d’Egitto è a tua disposizione: fa’ r isiedere tuo padre e i tuoi fratelli nella regione migliore. Risiedano pure nella terra di Gosen. Se tu sai che vi sono tra loro uomini capaci costituiscili sopra i miei averi in qualità di sorveglianti s ul bestiame». Quindi Giuseppe introdusse Giacobbe suo padre e lo presentò al faraone e Giaco bbe benedisse il faraone. Il faraone domandò a Giacobbe: «Quanti anni hai?». Giacobbe rispose al faraone: «Centotrenta di vita errabonda pochi e tristi sono stati gli anni della mia vita e non h anno raggiunto il numero degli anni dei miei padri al tempo della loro vita errabonda». E Giacob be benedisse il faraone e si allontanò dal faraone. Giuseppe fece risiedere suo padre e i suoi frat elli e diede loro una proprietà nella terra d’Egitto nella regione migliore nel territorio di Ramses come aveva comandato il faraone. Giuseppe provvide al sostentamento del padre dei fratelli e di tutta la famiglia di suo padre secondo il numero dei bambini. Ora non c’era pane in tutta la te rra perché la carestia era molto grave: la terra d’Egitto e la terra di Canaan languivano per la car estia. Giuseppe raccolse tutto il denaro che si trovava nella terra d’Egitto e nella terra di Canaan in cambio del grano che essi acquistavano; Giuseppe consegnò questo denaro alla casa del fara one. Quando fu esaurito il denaro della terra d’Egitto e della terra di Canaan tutti gli Egiziani ve nnero da Giuseppe a dire: «Dacci del pane! Perché dovremmo morire sotto i tuoi occhi? Infatti non c’è più denaro». Rispose Giuseppe: «Se non c’è più denaro cedetemi il vostro bestiame e io vi darò pane in cambio del vostro bestiame». Condussero così a Giuseppe il loro bestiame e Giu seppe diede loro il pane in cambio dei cavalli e delle pecore dei buoi e degli asini; così in quell’a nno li nutrì di pane in cambio di tutto il loro bestiame. Passato quell’anno vennero da lui l’anno successivo e gli dissero: «Non nascondiamo al mio signore che si è esaurito il denaro e anche il possesso del bestiame è passato al mio signore non rimane più a disposizione del mio signore s e non il nostro corpo e il nostro terreno. Perché dovremmo perire sotto i tuoi occhi noi e la nost ra terra? Acquista noi e la nostra terra in cambio di pane e diventeremo servi del faraone noi co n la nostra terra; ma dacci di che seminare, così che possiamo vivere e non morire e il suolo non diventi un deserto!». Allora Giuseppe acquistò per il faraone tutto il terreno dell’Egitto, perché gli Egiziani vendettero ciascuno il proprio campo tanto infieriva su di loro la carestia. Così la terr a divenne proprietà del faraone. Quanto al popolo egli lo trasferì nelle città da un capo all’altro
dell’Egitto. Soltanto il terreno dei sacerdoti egli non acquistò perché i sacerdoti avevano un’asse gnazione fissa da parte del faraone e si nutrivano dell’assegnazione che il faraone passava loro; per questo non vendettero il loro terreno. Poi Giuseppe disse al popolo: «Vedete io ho acquista to oggi per il faraone voi e il vostro terreno. Eccovi il seme: seminate il terreno. Ma quando vi sa rà il raccolto, voi ne darete un quinto al faraone e quattro parti saranno vostre per la semina dei campi per il nutrimento vostro e di quelli di casa vostra e per il nutrimento dei vostri bambini».
Gli risposero: «Ci hai salvato la vita! Ci sia solo concesso di trovare grazia agli occhi del mio sign ore e saremo servi del faraone!». Così Giuseppe fece di questo una legge in vigore fino ad oggi s ui terreni d’Egitto secondo la quale si deve dare la quinta parte al faraone. Soltanto i terreni dei sacerdoti non divennero proprietà del faraone. Gli Israeliti intanto si stabilirono nella terra d’Egi tto nella regione di Gosen, ebbero proprietà e furono fecondi e divennero molto numerosi. Giac obbe visse nella terra d’Egitto diciassette anni e gli anni della sua vita furono centoquarantasett e. Quando fu vicino il tempo della sua morte Israele chiamò il figlio Giuseppe e gli disse: «Se ho trovato grazia ai tuoi occhi metti la mano sotto la mia coscia e usa con me bontà e fedeltà: non seppellirmi in Egitto! Quando io mi sarò coricato con i miei padri portami via dall’Egitto e seppel liscimi nel loro sepolcro». Rispose: «Farò come hai detto». Riprese: «Giuramelo!». E glielo giurò.
Allora Israele si prostrò sul capezzale del letto. Dopo queste cose fu riferito a Giuseppe: «Ecco t uo padre è malato!». Allora egli prese con sé i due figli Manasse ed èfraim. Fu riferita la cosa a Giacobbe: «Ecco tuo figlio Giuseppe è venuto da te». Allora Israele raccolse le forze e si mise a s edere sul letto. Giacobbe disse a Giuseppe: «Dio l’Onnipotente mi apparve a Luz nella terra di C
anaan e mi benedisse dicendomi: “Ecco io ti rendo fecondo: ti moltiplicherò e ti farò diventare un insieme di popoli e darò questa terra alla tua discendenza dopo di te in possesso perenne”.
Ora i due figli che ti sono nati nella terra d’Egitto prima del mio arrivo presso di te in Egitto li co nsidero miei: èfraim e Manasse saranno miei come Ruben e Simeone. Invece i figli che tu avrai g enerato dopo di essi apparterranno a te: saranno chiamati con il nome dei loro fratelli nella loro eredità. Quanto a me mentre giungevo da Paddan tua madre Rachele mi morì nella terra di Can aan durante il viaggio quando mancava un tratto di cammino per arrivare a èfrata e l’ho sepolta là lungo la strada di èfrata cioè Betlemme». Israele vide i figli di Giuseppe e disse: «Chi sono qu esti?». Giuseppe disse al padre: «Sono i figli che Dio mi ha dato qui». Riprese: «Portameli perch é io li benedica!». Gli occhi d’Israele erano offuscati dalla vecchiaia: non poteva più distinguere.
Giuseppe li avvicinò a lui che li baciò e li abbracciò. Israele disse a Giuseppe: «Io non pensavo pi ù di vedere il tuo volto; ma ecco Dio mi ha concesso di vedere anche la tua prole!». Allora Giuse ppe li ritirò dalle sue ginocchia e si prostrò con la faccia a terra. Li prese tutti e due èfraim con la sua destra alla sinistra d’Israele, e Manasse con la sua sinistra alla destra d’Israele e li avvicinò a lui. Ma Israele stese la mano destra e la pose sul capo di èfraim che pure era il più giovane e la sua sinistra sul capo di Manasse incrociando le braccia benché Manasse fosse il primogenito. E c osì benedisse Giuseppe: «Il Dio alla cui presenza hanno camminato i miei padri Abramo e Isacco
, il Dio che è stato il mio pastore da quando esisto fino ad oggi, l’angelo che mi ha liberato da og
ni male, benedica questi ragazzi! Sia ricordato in essi il mio nome e il nome dei miei padri Abra mo e Isacco, e si moltiplichino in gran numero in mezzo alla terra!». Giuseppe notò che il padre aveva posato la destra sul capo di èfraim e ciò gli spiacque. Prese dunque la mano del padre per toglierla dal capo di èfraim e porla sul capo di Manasse. Disse al padre: «Non così padre mio: è questo il primogenito posa la destra sul suo capo!». Ma il padre rifiutò e disse: «Lo so figlio mio lo so: anch’egli diventerà un popolo anch’egli sarà grande, ma il suo fratello minore sarà più gra nde di lui e la sua discendenza diventerà una moltitudine di nazioni». E li benedisse in quel gior no: «Di te si servirà Israele per benedire dicendo: “Dio ti renda come èfraim e come Manasse!”»
. Così pose èfraim prima di Manasse. Quindi Israele disse a Giuseppe: «Ecco io sto per morire m a Dio sarà con voi e vi farà tornare alla terra dei vostri padri. Quanto a me io do a te in più che ai tuoi fratelli un dorso di monte che io ho conquistato dalle mani degli Amorrei con la spada e l’a rco». Quindi Giacobbe chiamò i figli e disse: «Radunatevi perché io vi annunci quello che vi acca drà nei tempi futuri. Radunatevi e ascoltate figli di Giacobbe, ascoltate Israele vostro padre! Ru ben tu sei il mio primogenito, il mio vigore e la primizia della mia virilità, esuberante in fierezza ed esuberante in forza! Bollente come l’acqua tu non avrai preminenza, perché sei salito sul tal amo di tuo padre, hai profanato così il mio giaciglio. Simeone e Levi sono fratelli, strumenti di vi olenza sono i loro coltelli. Nel loro conciliabolo non entri l’anima mia, al loro convegno non si un isca il mio cuore, perché nella loro ira hanno ucciso gli uomini e nella loro passione hanno mutil ato i tori. Maledetta la loro ira perché violenta, e la loro collera perché crudele! Io li dividerò in Giacobbe e li disperderò in Israele. Giuda ti loderanno i tuoi fratelli; la tua mano sarà sulla cervic e dei tuoi nemici; davanti a te si prostreranno i figli di tuo padre. Un giovane leone è Giuda: dall a preda figlio mio sei tornato; si è sdraiato si è accovacciato come un leone e come una leoness a; chi lo farà alzare? Non sarà tolto lo scettro da Giuda né il bastone del comando tra i suoi piedi
, finché verrà colui al quale esso appartiene e a cui è dovuta l’obbedienza dei popoli. Egli lega all a vite il suo asinello e a una vite scelta il figlio della sua asina, lava nel vino la sua veste e nel san gue dell’uva il suo manto; scuri ha gli occhi più del vino e bianchi i denti più del latte. Zàbulon gi ace lungo il lido del mare e presso l’approdo delle navi, con il fianco rivolto a Sidone. ìssacar è u n asino robusto, accovacciato tra un doppio recinto. Ha visto che il luogo di riposo era bello, che la terra era amena; ha piegato il dorso a portare la soma ed è stato ridotto ai lavori forzati. Dan giudica il suo popolo come una delle tribù d’Israele. Sia Dan un serpente sulla strada una vipera cornuta sul sentiero, che morde i garretti del cavallo, così che il suo cavaliere cada all’indietro. I o spero nella tua salvezza Signore! Gad predoni lo assaliranno, ma anche lui li assalirà alle calca gna. Aser il suo pane è pingue: egli fornisce delizie da re. Nèftali è una cerva slanciata; egli prop one parole d’incanto. Germoglio di ceppo fecondo è Giuseppe; germoglio di ceppo fecondo pre sso una fonte, i cui rami si stendono sul muro. Lo hanno esasperato e colpito, lo hanno persegui tato i tiratori di frecce. Ma fu spezzato il loro arco, furono snervate le loro braccia per le mani d el Potente di Giacobbe, per il nome del Pastore Pietra d’Israele. Per il Dio di tuo padre: egli ti aiu ti, e per il Dio l’Onnipotente: egli ti benedica! Con benedizioni del cielo dall’alto, benedizioni del
l’abisso nel profondo, benedizioni delle mammelle e del grembo. Le benedizioni di tuo padre so no superiori alle benedizioni dei monti antichi, alle attrattive dei colli perenni. Vengano sul capo di Giuseppe e sulla testa del principe tra i suoi fratelli! Beniamino è un lupo che sbrana: al matti no divora la preda e alla sera spartisce il bottino». Tutti questi formano le dodici tribù d’Israele.
Questo è ciò che disse loro il padre nell’atto di benedirli; egli benedisse ciascuno con una bened izione particolare. Poi diede loro quest’ordine: «Io sto per essere riunito ai miei antenati: seppel litemi presso i miei padri nella caverna che è nel campo di Efron l’Ittita, nella caverna che si trov a nel campo di Macpela di fronte a Mamre nella terra di Canaan, quella che Abramo acquistò co n il campo di Efron l’Ittita come proprietà sepolcrale. Là seppellirono Abramo e Sara sua moglie là seppellirono Isacco e Rebecca sua moglie e là seppellii Lia. La proprietà del campo e della cav erna che si trova in esso è stata acquistata dagli Ittiti». Quando Giacobbe ebbe finito di dare qu est’ordine ai figli ritrasse i piedi nel letto e spirò e fu riunito ai suoi antenati. Allora Giuseppe si g ettò sul volto di suo padre pianse su di lui e lo baciò. Quindi Giuseppe ordinò ai medici al suo se rvizio di imbalsamare suo padre. I medici imbalsamarono Israele e vi impiegarono quaranta gior ni perché tanti ne occorrono per l’imbalsamazione. Gli Egiziani lo piansero settanta giorni. Passa ti i giorni del lutto Giuseppe parlò alla casa del faraone: «Se ho trovato grazia ai vostri occhi vogl iate riferire agli orecchi del faraone queste parole. Mio padre mi ha fatto fare un giuramento dic endomi: “Ecco io sto per morire: tu devi seppellirmi nel sepolcro che mi sono scavato nella terra di Canaan”. Ora possa io andare a seppellire mio padre e poi tornare». Il faraone rispose: «Va’
e seppellisci tuo padre come egli ti ha fatto giurare». Giuseppe andò a seppellire suo padre e co n lui andarono tutti i ministri del faraone, gli anziani della sua casa tutti gli anziani della terra d’E
gitto tutta la casa di Giuseppe i suoi fratelli e la casa di suo padre. Lasciarono nella regione di Go sen soltanto i loro bambini le loro greggi e i loro armenti. Andarono con lui anche i carri da guer ra e la cavalleria, così da formare una carovana imponente. Quando arrivarono all’aia di Atad ch e è al di là del Giordano fecero un lamento molto grande e solenne e Giuseppe celebrò per suo padre un lutto di sette giorni. I Cananei che abitavano la terra videro il lutto all’aia di Atad e diss ero: «è un lutto grave questo per gli Egiziani». Per questo la si chiamò Abel-Misràim; essa si trova al di là del Giordano. I figli di Giacobbe fecero per lui così come aveva loro comandato. I suoi figli lo portarono nella terra di Canaan e lo seppellirono nella caverna del ca mpo di Macpela quel campo che Abramo aveva acquistato come proprietà sepolcrale da Efron l’
Ittita e che si trova di fronte a Mamre. Dopo aver sepolto suo padre Giuseppe tornò in Egitto ins ieme con i suoi fratelli e con quanti erano andati con lui a seppellire suo padre. Ma i fratelli di Gi useppe cominciarono ad aver paura dato che il loro padre era morto e dissero: «Chissà se Giuse ppe non ci tratterà da nemici e non ci renderà tutto il male che noi gli abbiamo fatto?». Allora mandarono a dire a Giuseppe: «Tuo padre prima di morire ha dato quest’ordine: “Direte a Gius eppe: Perdona il delitto dei tuoi fratelli e il loro peccato perché ti hanno fatto del male!”. Perdo na dunque il delitto dei servi del Dio di tuo padre!». Giuseppe pianse quando gli si parlò così. E i suoi fratelli andarono e si gettarono a terra davanti a lui e dissero: «Eccoci tuoi schiavi!». Ma Gi
useppe disse loro: «Non temete. Tengo io forse il posto di Dio? Se voi avevate tramato del male contro di me Dio ha pensato di farlo servire a un bene per compiere quello che oggi si avvera: fa r vivere un popolo numeroso. Dunque non temete io provvederò al sostentamento per voi e pe r i vostri bambini». Così li consolò parlando al loro cuore. Giuseppe con la famiglia di suo padre abitò in Egitto; egli visse centodieci anni. Così Giuseppe vide i figli di èfraim fino alla terza gener azione e anche i figli di Machir figlio di Manasse nacquero sulle ginocchia di Giuseppe. Poi Giuse ppe disse ai fratelli: «Io sto per morire ma Dio verrà certo a visitarvi e vi farà uscire da questa te rra verso la terra che egli ha promesso con giuramento ad Abramo a Isacco e a Giacobbe». Gius eppe fece giurare ai figli d’Israele così: «Dio verrà certo a visitarvi e allora voi porterete via di qu i le mie ossa». Giuseppe morì all’età di centodieci anni; lo imbalsamarono e fu posto in un sarco fago in Egitto. Questi sono i nomi dei figli d’Israele entrati in Egitto; essi vi giunsero insieme a Gi acobbe ognuno con la sua famiglia: Ruben Simeone Levi e Giuda, ìssacar Zàbulon e Beniamino D
an e Nèftali Gad e Aser. Tutte le persone discendenti da Giacobbe erano settanta. Giuseppe si tr ovava già in Egitto. Giuseppe poi morì e così tutti i suoi fratelli e tutta quella generazione. I figli d’Israele prolificarono e crebbero divennero numerosi e molto forti e il paese ne fu pieno. Allor a sorse sull’Egitto un nuovo re che non aveva conosciuto Giuseppe. Egli disse al suo popolo: «Ec co che il popolo dei figli d’Israele è più numeroso e più forte di noi. Cerchiamo di essere avvedut i nei suoi riguardi per impedire che cresca altrimenti in caso di guerra si unirà ai nostri avversari combatterà contro di noi e poi partirà dal paese». Perciò vennero imposti loro dei sovrintenden ti ai lavori forzati per opprimerli con le loro angherie e così costruirono per il faraone le città-
deposito cioè Pitom e Ramses. Ma quanto più opprimevano il popolo tanto più si moltiplicava e cresceva ed essi furono presi da spavento di fronte agli Israeliti. Per questo gli Egiziani fecero lav orare i figli d’Israele trattandoli con durezza. Resero loro amara la vita mediante una dura schia vitù costringendoli a preparare l’argilla e a fabbricare mattoni e ad ogni sorta di lavoro nei camp i; a tutti questi lavori li obbligarono con durezza. Il re d’Egitto disse alle levatrici degli Ebrei delle quali una si chiamava Sifra e l’altra Pua: «Quando assistete le donne ebree durante il parto oss ervate bene tra le due pietre: se è un maschio fatelo morire; se è una femmina potrà vivere». M
a le levatrici temettero Dio: non fecero come aveva loro ordinato il re d’Egitto e lasciarono viver e i bambini. Il re d’Egitto chiamò le levatrici e disse loro: «Perché avete fatto questo e avete lasc iato vivere i bambini?». Le levatrici risposero al faraone: «Le donne ebree non sono come le egi ziane: sono piene di vitalità. Prima che giunga da loro la levatrice hanno già partorito!». Dio ben eficò le levatrici. Il popolo aumentò e divenne molto forte. E poiché le levatrici avevano temuto Dio egli diede loro una discendenza. Allora il faraone diede quest’ordine a tutto il suo popolo: «
Gettate nel Nilo ogni figlio maschio che nascerà ma lasciate vivere ogni femmina». Un uomo del la famiglia di Levi andò a prendere in moglie una discendente di Levi. La donna concepì e partorì un figlio; vide che era bello e lo tenne nascosto per tre mesi. Ma non potendo tenerlo nascosto più oltre prese per lui un cestello di papiro lo spalmò di bitume e di pece vi adagiò il bambino e l o depose fra i giunchi sulla riva del Nilo. La sorella del bambino si pose a osservare da lontano c
he cosa gli sarebbe accaduto. Ora la figlia del faraone scese al Nilo per fare il bagno mentre le s ue ancelle passeggiavano lungo la sponda del Nilo. Ella vide il cestello fra i giunchi e mandò la su a schiava a prenderlo. L’aprì e vide il bambino: ecco il piccolo piangeva. Ne ebbe compassione e disse: «è un bambino degli Ebrei». La sorella del bambino disse allora alla figlia del faraone: «De vo andare a chiamarti una nutrice tra le donne ebree perché allatti per te il bambino?». «Va’» ri spose la figlia del faraone. La fanciulla andò a chiamare la madre del bambino. La figlia del farao ne le disse: «Porta con te questo bambino e allattalo per me; io ti darò un salario». La donna pr ese il bambino e lo allattò. Quando il bambino fu cresciuto lo condusse alla figlia del faraone. Eg li fu per lei come un figlio e lo chiamò Mosè dicendo: «Io l’ho tratto dalle acque!». Un giorno M
osè cresciuto in età si recò dai suoi fratelli e notò i loro lavori forzati. Vide un Egiziano che colpiv a un Ebreo uno dei suoi fratelli. Voltatosi attorno e visto che non c’era nessuno colpì a morte l’E
giziano e lo sotterrò nella sabbia. Il giorno dopo uscì di nuovo e vide due Ebrei che litigavano; di sse a quello che aveva torto: «Perché percuoti il tuo fratello?». Quegli rispose: «Chi ti ha costitui to capo e giudice su di noi? Pensi forse di potermi uccidere come hai ucciso l’Egiziano?». Allora Mosè ebbe paura e pensò: «Certamente la cosa si è risaputa». Il faraone sentì parlare di questo fatto e fece cercare Mosè per metterlo a morte. Allora Mosè fuggì lontano dal faraone e si ferm ò nel territorio di Madian e sedette presso un pozzo. Il sacerdote di Madian aveva sette figlie. Es se vennero ad attingere acqua e riempirono gli abbeveratoi per far bere il gregge del padre. Ma arrivarono alcuni pastori e le scacciarono. Allora Mosè si levò a difendere le ragazze e fece bere il loro bestiame. Tornarono dal loro padre Reuèl e questi disse loro: «Come mai oggi avete fatto ritorno così in fretta?». Risposero: «Un uomo un Egiziano ci ha liberato dalle mani dei pastori; l ui stesso ha attinto per noi e ha fatto bere il gregge». Quegli disse alle figlie: «Dov’è? Perché ave te lasciato là quell’uomo? Chiamatelo a mangiare il nostro cibo!». Così Mosè accettò di abitare con quell’uomo che gli diede in moglie la propria figlia Sipporà. Ella gli partorì un figlio ed egli lo chiamò Ghersom perché diceva: «Vivo come forestiero in terra straniera!». Dopo molto tempo i l re d’Egitto morì. Gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù alzarono grida di lamento e il loro g rido dalla schiavitù salì a Dio. Dio ascoltò il loro lamento Dio si ricordò della sua alleanza con Abr amo, Isacco e Giacobbe. Dio guardò la condizione degli Israeliti Dio se ne diede pensiero. Mentr e Mosè stava pascolando il gregge di Ietro suo suocero sacerdote di Madian, condusse il bestia me oltre il deserto e arrivò al monte di Dio l’Oreb. L’angelo del Signore gli apparve in una fiamm a di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco ma quel rov eto non si consumava. Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?». Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui d al roveto: «Mosè Mosè!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali d ai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!». E disse: «Io sono il Dio di tuo padre il Di o di Abramo il Dio di Isacco il Dio di Giacobbe». Mosè allora si coprì il volto perché aveva paura di guardare verso Dio. Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho ud ito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberar
lo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa verso u na terra dove scorrono latte e miele verso il luogo dove si trovano il Cananeo l’Ittita l’Amorreo il Perizzita l’Eveo il Gebuseo. Ecco il grido degli Israeliti è arrivato fino a me e io stesso ho visto co me gli Egiziani li opprimono. Perciò va’! Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio pop olo gli Israeliti!». Mosè disse a Dio: «Chi sono io per andare dal faraone e far uscire gli Israeliti d all’Egitto?». Rispose: «Io sarò con te. Questo sarà per te il segno che io ti ho mandato: quando t u avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto servirete Dio su questo monte». Mosè disse a Dio: «Ecco io vado dagli Israeliti e dico loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi”. Mi diranno: “Qua l è il suo nome?”. E io che cosa risponderò loro?». Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!».
E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: “Io-
Sono mi ha mandato a voi”». Dio disse ancora a Mosè: «Dirai agli Israeliti: “Il Signore Dio dei vos tri padri Dio di Abramo Dio di Isacco Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi”. Questo è il mio nom e per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione. Va’! Riunis ci gli anziani d’Israele e di’ loro: “Il Signore Dio dei vostri padri Dio di Abramo di Isacco e di Giaco bbe mi è apparso per dirmi: Sono venuto a visitarvi e vedere ciò che viene fatto a voi in Egitto. E
ho detto: Vi farò salire dalla umiliazione dell’Egitto verso la terra del Cananeo dell’Ittita dell’Am orreo del Perizzita, dell’Eveo e del Gebuseo verso una terra dove scorrono latte e miele”. Essi as colteranno la tua voce e tu e gli anziani d’Israele andrete dal re d’Egitto e gli direte: “Il Signore D
io degli Ebrei si è presentato a noi. Ci sia permesso di andare nel deserto a tre giorni di cammin o per fare un sacrificio al Signore nostro Dio”. Io so che il re d’Egitto non vi permetterà di partire se non con l’intervento di una mano forte. Stenderò dunque la mano e colpirò l’Egitto con tutti i prodigi che opererò in mezzo ad esso dopo di che egli vi lascerà andare. Farò sì che questo pop olo trovi grazia agli occhi degli Egiziani: quando partirete non ve ne andrete a mani vuote. Ogni donna domanderà alla sua vicina e all’inquilina della sua casa oggetti d’argento e oggetti d’oro e vesti; li farete portare ai vostri figli e alle vostre figlie e spoglierete l’Egitto». Mosè replicò dice ndo: «Ecco non mi crederanno non daranno ascolto alla mia voce ma diranno: “Non ti è appars o il Signore!”». Il Signore gli disse: «Che cosa hai in mano?». Rispose: «Un bastone». Riprese: «G
ettalo a terra!». Lo gettò a terra e il bastone diventò un serpente davanti al quale Mosè si mise a fuggire. Il Signore disse a Mosè: «Stendi la mano e prendilo per la coda!». Stese la mano lo pre se e diventò di nuovo un bastone nella sua mano. «Questo perché credano che ti è apparso il Si gnore Dio dei loro padri, Dio di Abramo Dio di Isacco Dio di Giacobbe». Il Signore gli disse ancor a: «Introduci la mano nel seno!». Egli si mise in seno la mano e poi la ritirò: ecco la sua mano er a diventata lebbrosa bianca come la neve. Egli disse: «Rimetti la mano nel seno!». Rimise in sen o la mano e la tirò fuori: ecco era tornata come il resto della sua carne. «Dunque se non ti credo no e non danno retta alla voce del primo segno crederanno alla voce del secondo! Se non crede ranno neppure a questi due segni e non daranno ascolto alla tua voce prenderai acqua del Nilo e la verserai sulla terra asciutta: l’acqua che avrai preso dal Nilo diventerà sangue sulla terra asc iutta». Mosè disse al Signore: «Perdona Signore io non sono un buon parlatore; non lo sono stat
o né ieri né ieri l’altro e neppure da quando tu hai cominciato a parlare al tuo servo ma sono im pacciato di bocca e di lingua». Il Signore replicò: «Chi ha dato una bocca all’uomo o chi lo rende muto o sordo veggente o cieco? Non sono forse io il Signore? Ora va’! Io sarò con la tua bocca e ti insegnerò quello che dovrai dire». Mosè disse: «Perdona Signore manda chi vuoi mandare!».
Allora la collera del Signore si accese contro Mosè e gli disse: «Non vi è forse tuo fratello Aronn e il levita? Io so che lui sa parlare bene. Anzi sta venendoti incontro. Ti vedrà e gioirà in cuor suo
. Tu gli parlerai e porrai le parole sulla sua bocca e io sarò con la tua e la sua bocca e vi insegner ò quello che dovrete fare. Parlerà lui al popolo per te: egli sarà la tua bocca e tu farai per lui le v eci di Dio. Terrai in mano questo bastone: con esso tu compirai i segni». Mosè partì tornò da Iet ro suo suocero e gli disse: «Lasciami andare ti prego: voglio tornare dai miei fratelli che sono in Egitto per vedere se sono ancora vivi!». Ietro rispose a Mosè: «Va’ in pace!». Il Signore disse a Mosè in Madian: «Va’ torna in Egitto perché sono morti quanti insidiavano la tua vita!». Mosè p rese la moglie e i figli li fece salire sull’asino e tornò nella terra d’Egitto. E Mosè prese in mano il bastone di Dio. Il Signore disse a Mosè: «Mentre parti per tornare in Egitto bada a tutti i prodigi che ti ho messi in mano: tu li compirai davanti al faraone ma io indurirò il suo cuore ed egli non lascerà partire il popolo. Allora tu dirai al faraone: “Così dice il Signore: Israele è il mio figlio pri mogenito. Io ti avevo detto: lascia partire il mio figlio perché mi serva! Ma tu hai rifiutato di lasc iarlo partire: ecco io farò morire il tuo figlio primogenito!”». Mentre era in viaggio nel luogo dov e pernottava il Signore lo affrontò e cercò di farlo morire. Allora Sipporà prese una selce taglien te recise il prepuzio al figlio e con quello gli toccò i piedi e disse: «Tu sei per me uno sposo di sa ngue». Allora il Signore si ritirò da lui. Ella aveva detto «sposo di sangue» a motivo della circonci sione. Il Signore disse ad Aronne: «Va’ incontro a Mosè nel deserto!». Egli andò e lo incontrò al monte di Dio e lo baciò. Mosè riferì ad Aronne tutte le parole con le quali il Signore lo aveva invi ato e tutti i segni con i quali l’aveva accreditato. Mosè e Aronne andarono e radunarono tutti gli anziani degli Israeliti. Aronne parlò al popolo riferendo tutte le parole che il Signore aveva dett o a Mosè e compì i segni davanti agli occhi del popolo. Allora il popolo credette. Quando udiron o che il Signore aveva visitato gli Israeliti e che aveva visto la loro afflizione essi si inginocchiaro no e si prostrarono. In seguito Mosè e Aronne vennero dal faraone e gli annunciarono: «Così dic e il Signore il Dio d’Israele: “Lascia partire il mio popolo perché mi celebri una festa nel deserto!
”». Il faraone rispose: «Chi è il Signore perché io debba ascoltare la sua voce e lasciare partire Is raele? Non conosco il Signore e non lascerò certo partire Israele!». Ripresero: «Il Dio degli Ebrei ci è venuto incontro. Ci sia dunque concesso di partire per un cammino di tre giorni nel deserto e offrire un sacrificio al Signore, nostro Dio perché non ci colpisca di peste o di spada!». Il re d’E
gitto disse loro: «Mosè e Aronne perché distogliete il popolo dai suoi lavori? Tornate ai vostri la vori forzati!». Il faraone disse: «Ecco ora che il popolo è numeroso nel paese voi vorreste far lor o interrompere i lavori forzati?». In quel giorno il faraone diede questi ordini ai sovrintendenti d el popolo e agli scribi: «Non darete più la paglia al popolo per fabbricare i mattoni come facevat e prima. Andranno a cercarsi da sé la paglia. Però voi dovete esigere il numero di mattoni che fa
cevano finora senza ridurlo. Sono fannulloni; per questo protestano: “Vogliamo partire, dobbia mo sacrificare al nostro Dio!”. Pesi dunque la schiavitù su questi uomini e lavorino; non diano re tta a parole false!». I sovrintendenti del popolo e gli scribi uscirono e riferirono al popolo: «Così dice il faraone: “Io non vi fornisco più paglia. Andate voi stessi a procurarvela dove ne troverete ma non diminuisca la vostra produzione”». Il popolo si sparse in tutto il territorio d’Egitto a racc ogliere stoppie da usare come paglia. Ma i sovrintendenti li sollecitavano dicendo: «Portate a te rmine il vostro lavoro: ogni giorno lo stesso quantitativo come quando avevate la paglia». Basto narono gli scribi degli Israeliti quelli che i sovrintendenti del faraone avevano costituito loro capi dicendo: «Perché non avete portato a termine né ieri né oggi il vostro numero di mattoni come prima?». Allora gli scribi degli Israeliti vennero dal faraone a reclamare dicendo: «Perché tratti così noi tuoi servi? Non viene data paglia ai tuoi servi, ma ci viene detto: “Fate i mattoni!”. E ora i tuoi servi sono bastonati e la colpa è del tuo popolo!». Rispose: «Fannulloni siete fannulloni! P
er questo dite: “Vogliamo partire dobbiamo sacrificare al Signore”. Ora andate lavorate! Non vi sarà data paglia ma dovrete consegnare lo stesso numero di mattoni». Gli scribi degli Israeliti si videro in difficoltà sentendosi dire: «Non diminuirete affatto il numero giornaliero dei mattoni»
. Usciti dalla presenza del faraone quando incontrarono Mosè e Aronne che stavano ad aspettar li dissero loro: «Il Signore guardi a voi e giudichi perché ci avete resi odiosi agli occhi del faraone e agli occhi dei suoi ministri mettendo loro in mano la spada per ucciderci!». Allora Mosè si rivo lse al Signore e disse: «Signore perché hai maltrattato questo popolo? Perché dunque mi hai inv iato? Da quando sono venuto dal faraone per parlargli in tuo nome egli ha fatto del male a ques to popolo e tu non hai affatto liberato il tuo popolo!». Il Signore disse a Mosè: «Ora vedrai quell o che sto per fare al faraone: con mano potente li lascerà andare anzi con mano potente li scacc erà dalla sua terra!». Dio parlò a Mosè e gli disse: «Io sono il Signore! Mi sono manifestato ad A bramo a Isacco a Giacobbe come Dio l’Onnipotente ma non ho fatto conoscere loro il mio nome di Signore. Ho anche stabilito la mia alleanza con loro per dar loro la terra di Canaan la terra del le loro migrazioni nella quale furono forestieri. Io stesso ho udito il lamento degli Israeliti che gli Egiziani resero loro schiavi e mi sono ricordato della mia alleanza. Pertanto di’ agli Israeliti: “Io s ono il Signore! Vi sottrarrò ai lavori forzati degli Egiziani vi libererò dalla loro schiavitù e vi riscat terò con braccio teso e con grandi castighi. Vi prenderò come mio popolo e diventerò il vostro D
io. Saprete che io sono il Signore il vostro Dio che vi sottrae ai lavori forzati degli Egiziani. Vi farò entrare nella terra che ho giurato a mano alzata di dare ad Abramo a Isacco e a Giacobbe; ve la darò in possesso: io sono il Signore!”». Mosè parlò così agli Israeliti ma essi non lo ascoltarono p erché erano stremati dalla dura schiavitù. Il Signore disse a Mosè: «Va’ e parla al faraone re d’E
gitto perché lasci partire dalla sua terra gli Israeliti!». Mosè disse alla presenza del Signore: «Ecc o gli Israeliti non mi hanno ascoltato: come vorrà ascoltarmi il faraone mentre io ho le labbra in circoncise?». Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne e diede loro ordini per gli Israeliti e per il farao ne re d’Egitto allo scopo di far uscire gli Israeliti dalla terra d’Egitto. Questi sono i capi dei loro c asati. Figli di Ruben primogenito d’Israele: Enoc Pallu Chesron e Carmì queste sono le famiglie di
Ruben. Figli di Simeone: Iemuèl Iamin Oad Iachin Socar e Saul figlio della Cananea; queste sono le famiglie di Simeone. Questi sono i nomi dei figli di Levi secondo le loro generazioni: Gherson Keat, Merarì. Gli anni della vita di Levi furono centotrentasette. Figli di Gherson: Libnì e Simei or dinati secondo le loro famiglie. Figli di Keat: Amram Isar Ebron e Uzzièl. Gli anni della vita di Kea t furono centotrentatré. Figli di Merarì: Maclì e Musì queste sono le famiglie di Levi secondo le l oro generazioni. Amram prese in moglie Iochebed sua zia la quale gli partorì Aronne e Mosè. Gli anni della vita di Amram furono centotrentasette. Figli di Isar: Core Nefeg e Zicrì. Figli di Uzzièl: Misaele Elsafàn Sitrì. Aronne prese in moglie Elisabetta figlia di Amminadàb sorella di Nacson da lla quale ebbe i figli Nadab Abiu Eleàzaro e Itamàr. Figli di Core: Assir Elkanà e Abiasàf; queste so no le famiglie dei Coriti. Eleàzaro figlio di Aronne prese in moglie una figlia di Putièl la quale gli p artorì Fineès. Questi sono i capi delle casate dei leviti ordinati secondo le loro famiglie. Sono qu esti quell’Aronne e quel Mosè ai quali il Signore disse: «Fate uscire dalla terra d’Egitto gli Israelit i secondo le loro schiere!». Questi dissero al faraone re d’Egitto di lasciar uscire dall’Egitto gli Isr aeliti: sono Mosè e Aronne. Questo avvenne quando il Signore parlò a Mosè nella terra d’Egitto: il Signore disse a Mosè: «Io sono il Signore! Riferisci al faraone re d’Egitto quanto io ti dico». M
osè disse alla presenza del Signore: «Ecco ho le labbra incirconcise e come vorrà ascoltarmi il far aone?». Il Signore disse a Mosè: «Vedi io ti ho posto a far le veci di Dio di fronte al faraone: Aro nne tuo fratello sarà il tuo profeta. Tu gli dirai quanto io ti ordinerò: Aronne tuo fratello parlerà al faraone perché lasci partire gli Israeliti dalla sua terra. Ma io indurirò il cuore del faraone e m oltiplicherò i miei segni e i miei prodigi nella terra d’Egitto. Il faraone non vi ascolterà e io leverò la mano contro l’Egitto e farò uscire dalla terra d’Egitto le mie schiere il mio popolo gli Israeliti per mezzo di grandi castighi. Allora gli Egiziani sapranno che io sono il Signore, quando stenderò la mano contro l’Egitto e farò uscire di mezzo a loro gli Israeliti!». Mosè e Aronne eseguirono q uanto il Signore aveva loro comandato; così fecero. Mosè aveva ottant’anni e Aronne ottantatr é quando parlarono al faraone. Il Signore disse a Mosè e ad Aronne: «Quando il faraone vi chied erà di fare un prodigio a vostro sostegno tu dirai ad Aronne: “Prendi il tuo bastone e gettalo dav anti al faraone e diventerà un serpente!”». Mosè e Aronne si recarono dunque dal faraone ed e seguirono quanto il Signore aveva loro comandato: Aronne gettò il suo bastone davanti al farao ne e ai suoi ministri ed esso divenne un serpente. A sua volta il faraone convocò i sapienti e gli i ncantatori e anche i maghi dell’Egitto con i loro sortilegi, operarono la stessa cosa. Ciascuno get tò il suo bastone e i bastoni divennero serpenti. Ma il bastone di Aronne inghiottì i loro bastoni.
Però il cuore del faraone si ostinò e non diede loro ascolto secondo quanto aveva detto il Signor e. Il Signore disse a Mosè: «Il cuore del faraone è irremovibile: si rifiuta di lasciar partire il popol o. Va’ dal faraone al mattino quando uscirà verso le acque. Tu starai ad attenderlo sulla riva del Nilo tenendo in mano il bastone che si è cambiato in serpente. Gli dirai: “Il Signore il Dio degli E
brei mi ha inviato a dirti: Lascia partire il mio popolo perché possa servirmi nel deserto; ma tu fi nora non hai obbedito. Dice il Signore: Da questo fatto saprai che io sono il Signore; ecco con il bastone che ho in mano io batto un colpo sulle acque che sono nel Nilo: esse si muteranno in sa
ngue. I pesci che sono nel Nilo moriranno e il Nilo ne diventerà fetido così che gli Egiziani non p otranno più bere acqua dal Nilo!”». Il Signore disse a Mosè: «Di’ ad Aronne: “Prendi il tuo basto ne e stendi la mano sulle acque degli Egiziani sui loro fiumi canali stagni e su tutte le loro riserve di acqua; diventino sangue e ci sia sangue in tutta la terra d’Egitto perfino nei recipienti di legn o e di pietra!”». Mosè e Aronne eseguirono quanto aveva ordinato il Signore: Aronne alzò il bas tone e percosse le acque che erano nel Nilo sotto gli occhi del faraone e dei suoi ministri. Tutte l e acque che erano nel Nilo si mutarono in sangue. I pesci che erano nel Nilo morirono e il Nilo n e divenne fetido così che gli Egiziani non poterono più berne le acque. Vi fu sangue in tutta la te rra d’Egitto. Ma i maghi dell’Egitto con i loro sortilegi operarono la stessa cosa. Il cuore del farao ne si ostinò e non diede loro ascolto secondo quanto aveva detto il Signore. Il faraone voltò le s palle e rientrò nella sua casa e non tenne conto neppure di questo fatto. Tutti gli Egiziani scavar ono allora nei dintorni del Nilo per attingervi acqua da bere perché non potevano bere le acque del Nilo. Trascorsero sette giorni da quando il Signore aveva colpito il Nilo. Il Signore disse a Mo sè: «Va’ a riferire al faraone: “Dice il Signore: Lascia partire il mio popolo perché mi possa servir e! Se tu rifiuti di lasciarlo partire ecco io colpirò tutto il tuo territorio con le rane: il Nilo bruliche rà di rane; esse usciranno ti entreranno in casa nella camera dove dormi e sul tuo letto nella cas a dei tuoi ministri e tra il tuo popolo nei tuoi forni e nelle tue madie. Contro di te, contro il tuo p opolo e contro tutti i tuoi ministri usciranno le rane”». Il Signore disse a Mosè: «Di’ ad Aronne: “
Stendi la mano con il tuo bastone sui fiumi sui canali e sugli stagni e fa’ uscire le rane sulla terra d’Egitto!”». Aronne stese la mano sulle acque d’Egitto e le rane uscirono e coprirono la terra d’E
gitto. Ma i maghi con i loro sortilegi operarono la stessa cosa e fecero uscire le rane sulla terra d
’Egitto. Il faraone fece chiamare Mosè e Aronne e disse: «Pregate il Signore che allontani le rane da me e dal mio popolo; io lascerò partire il popolo perché possa sacrificare al Signore!». Mosè disse al faraone: «Fammi l’onore di dirmi per quando io devo pregare in favore tuo e dei tuoi mi nistri e del tuo popolo per liberare dalle rane te e le tue case in modo che ne rimangano soltant o nel Nilo». Rispose: «Per domani». Riprese: «Sia secondo la tua parola! Perché tu sappia che n on esiste nessuno pari al Signore nostro Dio, le rane si ritireranno da te e dalle tue case dai tuoi ministri e dal tuo popolo: ne rimarranno soltanto nel Nilo». Mosè e Aronne si allontanarono dal faraone e Mosè supplicò il Signore riguardo alle rane che aveva mandato contro il faraone. Il Sig nore operò secondo la parola di Mosè e le rane morirono nelle case nei cortili e nei campi. Le ra ccolsero in tanti mucchi e la terra ne fu ammorbata. Ma il faraone vide che c’era un po’ di sollie vo si ostinò e non diede loro ascolto secondo quanto aveva detto il Signore. Quindi il Signore dis se a Mosè: «Di’ ad Aronne: “Stendi il tuo bastone percuoti la polvere del suolo: essa si muterà i n zanzare in tutta la terra d’Egitto!”». Così fecero: Aronne stese la mano con il suo bastone, colp ì la polvere del suolo e ci furono zanzare sugli uomini e sulle bestie; tutta la polvere del suolo si era mutata in zanzare in tutta la terra d’Egitto. I maghi cercarono di fare la stessa cosa con i loro sortilegi per far uscire le zanzare ma non riuscirono e c’erano zanzare sugli uomini e sulle bestie
. Allora i maghi dissero al faraone: «è il dito di Dio!». Ma il cuore del faraone si ostinò e non die
de ascolto secondo quanto aveva detto il Signore. Il Signore disse a Mosè: «àlzati di buon matti no e presèntati al faraone quando andrà alle acque. Gli dirai: “Così dice il Signore: Lascia partire il mio popolo perché mi possa servire! Se tu non lasci partire il mio popolo ecco, manderò su di te sui tuoi ministri sul tuo popolo e sulle tue case sciami di tafani: le case degli Egiziani saranno piene di tafani e anche il suolo sul quale essi si trovano. Ma in quel giorno io risparmierò la regi one di Gosen dove dimora il mio popolo: là non vi saranno tafani, perché tu sappia che io sono i l Signore in mezzo al paese! Così farò distinzione tra il mio popolo e il tuo popolo. Domani avver rà questo segno”». Così fece il Signore: sciami imponenti di tafani entrarono nella casa del farao ne, nella casa dei suoi ministri e in tutta la terra d’Egitto; la terra era devastata a causa dei tafan i. Il faraone fece chiamare Mosè e Aronne e disse: «Andate a sacrificare al vostro Dio ma nel pa ese!». Mosè rispose: «Non è opportuno far così perché quello che noi sacrifichiamo al Signore n ostro Dio è abominio per gli Egiziani. Se noi facessimo sotto i loro occhi un sacrificio abominevol e per gli Egiziani forse non ci lapiderebbero? Andremo nel deserto a tre giorni di cammino e sac rificheremo al Signore, nostro Dio secondo quanto egli ci ordinerà!». Allora il faraone replicò: «
Vi lascerò partire e potrete sacrificare al Signore nel deserto. Ma non andate troppo lontano e p regate per me». Rispose Mosè: «Ecco mi allontanerò da te e pregherò il Signore; domani i tafani si ritireranno dal faraone dai suoi ministri e dal suo popolo. Però il faraone cessi di burlarsi di n oi impedendo al popolo di partire perché possa sacrificare al Signore!». Mosè si allontanò dal fa raone e pregò il Signore. Il Signore agì secondo la parola di Mosè e allontanò i tafani dal faraone dai suoi ministri e dal suo popolo: non ne restò neppure uno. Ma il faraone si ostinò anche que sta volta e non lasciò partire il popolo. Allora il Signore disse a Mosè: «Va’ a riferire al faraone: “
Così dice il Signore il Dio degli Ebrei: Lascia partire il mio popolo perché mi possa servire! Se tu r ifiuti di lasciarlo partire e lo trattieni ancora ecco la mano del Signore verrà sopra il tuo bestiam e che è nella campagna sopra i cavalli gli asini i cammelli sopra gli armenti e le greggi con una pe ste gravissima! Ma il Signore farà distinzione tra il bestiame d’Israele e quello degli Egiziani così che niente muoia di quanto appartiene agli Israeliti”». Il Signore fissò la data dicendo: «Domani il Signore compirà questa cosa nel paese!». Appunto il giorno dopo, il Signore compì tale cosa: morì tutto il bestiame degli Egiziani ma del bestiame degli Israeliti non morì neppure un capo. Il faraone mandò a vedere ed ecco neppure un capo del bestiame d’Israele era morto. Ma il cuore del faraone rimase ostinato e non lasciò partire il popolo. Il Signore si rivolse a Mosè e ad Aron ne: «Procuratevi una manciata di fuliggine di fornace: Mosè la sparga verso il cielo sotto gli occh i del faraone. Essa diventerà un pulviscolo che diffondendosi su tutta la terra d’Egitto produrrà s ugli uomini e sulle bestie ulcere degeneranti in pustole in tutta la terra d’Egitto». Presero dunqu e fuliggine di fornace e si posero alla presenza del faraone. Mosè la sparse verso il cielo ed essa produsse ulcere pustolose con eruzioni su uomini e bestie. I maghi non poterono stare alla pres enza di Mosè a causa delle ulcere che li avevano colpiti come tutti gli Egiziani. Ma il Signore rese ostinato il cuore del faraone il quale non diede loro ascolto, come il Signore aveva detto a Mos è. Il Signore disse a Mosè: «àlzati di buon mattino presèntati al faraone e annunciagli: “Così dice
il Signore il Dio degli Ebrei: Lascia partire il mio popolo, perché mi possa servire! Perché questa volta io mando tutti i miei flagelli contro il tuo cuore contro i tuoi ministri e contro il tuo popolo perché tu sappia che nessuno è come me su tutta la terra. Se fin da principio io avessi steso la mano per colpire te e il tuo popolo con la peste tu ormai saresti stato cancellato dalla terra; inv ece per questo ti ho lasciato sussistere per dimostrarti la mia potenza e per divulgare il mio no me in tutta la terra. Ancora ti opponi al mio popolo e non lo lasci partire! Ecco io farò cadere do mani a questa stessa ora una grandine violentissima come non ci fu mai in Egitto dal giorno dell a sua fondazione fino ad oggi. Manda dunque fin d’ora a mettere al riparo il tuo bestiame e qua nto hai in campagna. Su tutti gli uomini e su tutti gli animali che si troveranno in campagna e ch e non saranno stati ricondotti in casa si abbatterà la grandine e moriranno”». Chi tra i ministri d el faraone temeva il Signore fece ricoverare nella casa i suoi schiavi e il suo bestiame; chi invece non diede retta alla parola del Signore lasciò schiavi e bestiame in campagna. Il Signore disse a Mosè: «Stendi la mano verso il cielo: vi sia grandine in tutta la terra d’Egitto sugli uomini sulle b estie e su tutta la vegetazione dei campi nella terra d’Egitto!». Mosè stese il bastone verso il ciel o e il Signore mandò tuoni e grandine; sul suolo si abbatté fuoco e il Signore fece cadere grandi ne su tutta la terra d’Egitto. Ci furono grandine e fuoco in mezzo alla grandine: non vi era mai st ata in tutta la terra d’Egitto una grandinata così violenta dal tempo in cui era diventata nazione!
La grandine colpì in tutta la terra d’Egitto quanto era nella campagna dagli uomini alle bestie; la grandine flagellò anche tutta la vegetazione dei campi e schiantò tutti gli alberi della campagna
. Soltanto nella regione di Gosen dove stavano gli Israeliti non vi fu grandine. Allora il faraone m andò a chiamare Mosè e Aronne e disse loro: «Questa volta ho peccato: il Signore è il giusto; io e il mio popolo siamo colpevoli. Pregate il Signore: ci sono stati troppi tuoni violenti e grandine!
Vi lascerò partire e non dovrete più restare qui». Mosè gli rispose: «Non appena sarò uscito dall a città stenderò le mani verso il Signore: i tuoni cesseranno e non grandinerà più, perché tu sap pia che la terra appartiene al Signore. Ma quanto a te e ai tuoi ministri io so che ancora non tem erete il Signore Dio». Ora il lino e l’orzo erano stati colpiti perché l’orzo era in spiga e il lino in fi ore; ma il grano e la spelta non erano stati colpiti perché tardivi. Mosè si allontanò dal faraone e dalla città stese le mani verso il Signore: i tuoni e la grandine cessarono e la pioggia non si roves ciò più sulla terra. Quando il faraone vide che la pioggia la grandine e i tuoni erano cessati conti nuò a peccare e si ostinò insieme con i suoi ministri. Il cuore del faraone si ostinò e non lasciò p artire gli Israeliti come aveva detto il Signore per mezzo di Mosè. Allora il Signore disse a Mosè:
«Va’ dal faraone perché io ho indurito il cuore suo e dei suoi ministri per compiere questi miei s egni in mezzo a loro e perché tu possa raccontare e fissare nella memoria di tuo figlio e del figli o di tuo figlio come mi sono preso gioco degli Egiziani e i segni che ho compiuti in mezzo a loro: così saprete che io sono il Signore!». Mosè e Aronne si recarono dal faraone e gli dissero: «Così dice il Signore il Dio degli Ebrei: “Fino a quando rifiuterai di piegarti davanti a me? Lascia partire il mio popolo perché mi possa servire. Se tu rifiuti di lasciar partire il mio popolo ecco, da doma ni io manderò le cavallette sul tuo territorio. Esse copriranno la superficie della terra così che no
n si possa più vedere il suolo: divoreranno il poco che è stato lasciato per voi dalla grandine e di voreranno ogni albero che rispunta per voi nella campagna. Riempiranno le tue case le case di t utti i tuoi ministri e le case di tutti gli Egiziani, cosa che non videro i tuoi padri né i padri dei tuoi padri da quando furono su questo suolo fino ad oggi!”». Poi voltò le spalle e uscì dalla presenza del faraone. I ministri del faraone gli dissero: «Fino a quando costui resterà tra noi come una tra ppola? Lascia partire questa gente perché serva il Signore suo Dio! Non ti accorgi ancora che l’E
gitto va in rovina?». Mosè e Aronne furono richiamati presso il faraone, che disse loro: «Andate servite il Signore vostro Dio! Ma chi sono quelli che devono partire?». Mosè disse: «Partiremo n oi insieme con i nostri giovani e i nostri vecchi con i figli e le figlie con le nostre greggi e i nostri a rmenti perché per noi è una festa del Signore». Rispose: «Così sia il Signore con voi com’è vero c he io intendo lasciar partire voi e i vostri bambini! Badate però che voi avete cattive intenzioni.
Così non va! Partite voi uomini e rendete culto al Signore se davvero voi cercate questo!». E li c acciarono dalla presenza del faraone. Allora il Signore disse a Mosè: «Stendi la mano sulla terra d’Egitto per far venire le cavallette: assalgano la terra d’Egitto e divorino tutta l’erba della terra tutto quello che la grandine ha risparmiato!». Mosè stese il suo bastone contro la terra d’Egitto e il Signore diresse su quella terra un vento d’oriente per tutto quel giorno e tutta la notte. Qua ndo fu mattina il vento d’oriente aveva portato le cavallette. Le cavallette salirono sopra tutta l a terra d’Egitto e si posarono su tutto quanto il territorio d’Egitto. Fu cosa gravissima: tante non ve n’erano mai state prima né vi furono in seguito. Esse coprirono tutta la superficie della terra così che la terra ne fu oscurata; divorarono ogni erba della terra e ogni frutto d’albero che la gra ndine aveva risparmiato: nulla di verde rimase sugli alberi e fra le erbe dei campi in tutta la terr a d’Egitto. Il faraone allora convocò in fretta Mosè e Aronne e disse: «Ho peccato contro il Signo re vostro Dio e contro di voi. Ma ora perdonate il mio peccato anche questa volta e pregate il Si gnore vostro Dio perché almeno allontani da me questa morte!». Egli si allontanò dal faraone e pregò il Signore. Il Signore cambiò la direzione del vento e lo fece soffiare dal mare con grande f orza: esso portò via le cavallette e le abbatté nel Mar Rosso; non rimase neppure una cavalletta in tutta la terra d’Egitto. Ma il Signore rese ostinato il cuore del faraone il quale non lasciò partir e gli Israeliti. Allora il Signore disse a Mosè: «Stendi la mano verso il cielo: vengano sulla terra d’
Egitto tenebre tali da potersi palpare!». Mosè stese la mano verso il cielo: vennero dense teneb re su tutta la terra d’Egitto per tre giorni. Non si vedevano più l’un l’altro e per tre giorni nessun o si poté muovere dal suo posto. Ma per tutti gli Israeliti c’era luce là dove abitavano. Allora il fa raone convocò Mosè e disse: «Partite servite il Signore! Solo rimangano le vostre greggi e i vostr i armenti. Anche i vostri bambini potranno partire con voi». Rispose Mosè: «Tu stesso metterai a nostra disposizione sacrifici e olocausti e noi li offriremo al Signore nostro Dio. Anche il nostro bestiame partirà con noi: neppure un’unghia ne resterà qui. Perché da esso noi dobbiamo prele vare le vittime per servire il Signore nostro Dio e noi non sapremo quel che dovremo sacrificare al Signore finché non saremo arrivati in quel luogo». Ma il Signore rese ostinato il cuore del fara one il quale non volle lasciarli partire. Gli rispose dunque il faraone: «Vattene da me! Guàrdati d
al ricomparire davanti a me perché il giorno in cui rivedrai il mio volto, morirai». Mosè disse: «H
ai parlato bene: non vedrò più il tuo volto!». Il Signore disse a Mosè: «Ancora una piaga mander ò contro il faraone e l’Egitto; dopo di che egli vi lascerà partire di qui. Vi lascerà partire senza co ndizioni, anzi vi caccerà via di qui. Di’ dunque al popolo che ciascuno dal suo vicino e ciascuna d alla sua vicina si facciano dare oggetti d’argento e oggetti d’oro». Il Signore fece sì che il popolo trovasse favore agli occhi degli Egiziani. Inoltre Mosè era un uomo assai considerato nella terra d’Egitto agli occhi dei ministri del faraone e del popolo. Mosè annunciò: «Così dice il Signore: Ve rso la metà della notte io uscirò attraverso l’Egitto: morirà ogni primogenito nella terra d’Egitto dal primogenito del faraone che siede sul trono fino al primogenito della schiava che sta dietro l a mola e ogni primogenito del bestiame. Un grande grido si alzerà in tutta la terra d’Egitto quale non vi fu mai e quale non si ripeterà mai più. Ma contro tutti gli Israeliti neppure un cane abbai erà né contro uomini né contro bestie, perché sappiate che il Signore fa distinzione tra l’Egitto e Israele. Tutti questi tuoi ministri scenderanno da me e si prostreranno davanti a me dicendo: “E
sci tu e tutto il popolo che ti segue!”. Dopo io uscirò!». Mosè pieno d’ira si allontanò dal faraon e. Il Signore aveva appunto detto a Mosè: «Il faraone non vi darà ascolto, perché si moltiplichin o i miei prodigi nella terra d’Egitto». Mosè e Aronne avevano fatto tutti quei prodigi davanti al f araone; ma il Signore aveva reso ostinato il cuore del faraone il quale non lasciò partire gli Israel iti dalla sua terra. Il Signore disse a Mosè e ad Aronne in terra d’Egitto: «Questo mese sarà per v oi l’inizio dei mesi sarà per voi il primo mese dell’anno. Parlate a tutta la comunità d’Israele e dit e: “Il dieci di questo mese ciascuno si procuri un agnello per famiglia un agnello per casa. Se la f amiglia fosse troppo piccola per un agnello si unirà al vicino il più prossimo alla sua casa, second o il numero delle persone; calcolerete come dovrà essere l’agnello secondo quanto ciascuno pu ò mangiarne. Il vostro agnello sia senza difetto maschio nato nell’anno; potrete sceglierlo tra le pecore o tra le capre e lo conserverete fino al quattordici di questo mese: allora tutta l’assembl ea della comunità d’Israele lo immolerà al tramonto. Preso un po’ del suo sangue lo porranno s ui due stipiti e sull’architrave delle case nelle quali lo mangeranno. In quella notte ne mangeran no la carne arrostita al fuoco; la mangeranno con azzimi e con erbe amare. Non lo mangerete cr udo né bollito nell’acqua ma solo arrostito al fuoco con la testa le zampe e le viscere. Non ne do vete far avanzare fino al mattino: quello che al mattino sarà avanzato lo brucerete nel fuoco. Ec co in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti i sandali ai piedi il bastone in mano; lo manger ete in fretta. è la Pasqua del Signore! In quella notte io passerò per la terra d’Egitto e colpirò og ni primogenito nella terra d’Egitto uomo o animale; così farò giustizia di tutti gli dèi dell’Egitto. I o sono il Signore! Il sangue sulle case dove vi troverete servirà da segno in vostro favore: io vedr ò il sangue e passerò oltre; non vi sarà tra voi flagello di sterminio quando io colpirò la terra d’E
gitto. Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di genera zione in generazione lo celebrerete come un rito perenne. Per sette giorni voi mangerete azzimi
. Fin dal primo giorno farete sparire il lievito dalle vostre case perché chiunque mangerà del liev itato dal giorno primo al giorno settimo quella persona sarà eliminata da Israele. Nel primo gior
no avrete una riunione sacra e nel settimo giorno una riunione sacra: durante questi giorni non si farà alcun lavoro; si potrà preparare da mangiare per ogni persona: questo solo si farà presso di voi. Osservate la festa degli Azzimi perché proprio in questo giorno io ho fatto uscire le vostre schiere dalla terra d’Egitto; osserverete tale giorno di generazione in generazione come rito per enne. Nel primo mese dal giorno quattordici del mese alla sera voi mangerete azzimi fino al gior no ventuno del mese alla sera. Per sette giorni non si trovi lievito nelle vostre case perché chiun que mangerà del lievitato quella persona sia forestiera sia nativa della terra sarà eliminata dalla comunità d’Israele. Non mangerete nulla di lievitato; in tutte le vostre abitazioni mangerete azzi mi”». Mosè convocò tutti gli anziani d’Israele e disse loro: «Andate a procurarvi un capo di besti ame minuto per ogni vostra famiglia e immolate la Pasqua. Prenderete un fascio di issòpo lo inti ngerete nel sangue che sarà nel catino e spalmerete l’architrave ed entrambi gli stipiti con il san gue del catino. Nessuno di voi esca dalla porta della sua casa fino al mattino. Il Signore passerà per colpire l’Egitto, vedrà il sangue sull’architrave e sugli stipiti; allora il Signore passerà oltre la porta e non permetterà allo sterminatore di entrare nella vostra casa per colpire. Voi osserveret e questo comando come un rito fissato per te e per i tuoi figli per sempre. Quando poi sarete en trati nella terra che il Signore vi darà come ha promesso osserverete questo rito. Quando i vostr i figli vi chiederanno: “Che significato ha per voi questo rito?”, voi direte loro: “è il sacrificio dell a Pasqua per il Signore il quale è passato oltre le case degli Israeliti in Egitto quando colpì l’Egitt o e salvò le nostre case”». Il popolo si inginocchiò e si prostrò. Poi gli Israeliti se ne andarono ed eseguirono ciò che il Signore aveva ordinato a Mosè e ad Aronne; così fecero. A mezzanotte il Si gnore colpì ogni primogenito nella terra d’Egitto dal primogenito del faraone che siede sul tron o fino al primogenito del prigioniero in carcere e tutti i primogeniti del bestiame. Si alzò il farao ne nella notte e con lui i suoi ministri e tutti gli Egiziani; un grande grido scoppiò in Egitto perch é non c’era casa dove non ci fosse un morto! Il faraone convocò Mosè e Aronne nella notte e di sse: «Alzatevi e abbandonate il mio popolo voi e gli Israeliti! Andate rendete culto al Signore co me avete detto. Prendete anche il vostro bestiame e le vostre greggi come avete detto e partite
! Benedite anche me!». Gli Egiziani fecero pressione sul popolo affrettandosi a mandarli via dal paese perché dicevano: «Stiamo per morire tutti!». Il popolo portò con sé la pasta prima che fo sse lievitata recando sulle spalle le madie avvolte nei mantelli. Gli Israeliti eseguirono l’ordine di Mosè e si fecero dare dagli Egiziani oggetti d’argento e d’oro e vesti. Il Signore fece sì che il pop olo trovasse favore agli occhi degli Egiziani i quali accolsero le loro richieste. Così essi spogliaron o gli Egiziani. Gli Israeliti partirono da Ramses alla volta di Succot in numero di seicentomila uo mini adulti senza contare i bambini. Inoltre una grande massa di gente promiscua partì con loro e greggi e armenti in mandrie molto grandi. Fecero cuocere la pasta che avevano portato dall’E
gitto in forma di focacce azzime perché non era lievitata: infatti erano stati scacciati dall’Egitto e non avevano potuto indugiare; neppure si erano procurati provviste per il viaggio. La permane nza degli Israeliti in Egitto fu di quattrocentotrent’anni. Al termine dei quattrocentotrent’anni p roprio in quel giorno tutte le schiere del Signore uscirono dalla terra d’Egitto. Notte di veglia fu
questa per il Signore per farli uscire dalla terra d’Egitto. Questa sarà una notte di veglia in onore del Signore per tutti gli Israeliti di generazione in generazione. Il Signore disse a Mosè e ad Aron ne: «Questo è il rito della Pasqua: nessuno straniero ne deve mangiare. Quanto a ogni schiavo a cquistato con denaro lo circonciderai e allora ne potrà mangiare. L’ospite e il mercenario non n e mangeranno. In una sola casa si mangerà: non ne porterai la carne fuori di casa; non ne spezz erete alcun osso. Tutta la comunità d’Israele la celebrerà. Se un forestiero soggiorna presso di t e e vuol celebrare la Pasqua del Signore sia circonciso ogni maschio della sua famiglia: allora pot rà accostarsi per celebrarla e sarà come un nativo della terra. Ma non ne mangi nessuno che no n sia circonciso. Vi sarà una sola legge per il nativo e per il forestiero che soggiorna in mezzo a v oi». Tutti gli Israeliti fecero così come il Signore aveva ordinato a Mosè e ad Aronne in tal modo operarono. Proprio in quel giorno il Signore fece uscire gli Israeliti dalla terra d’Egitto, ordinati s econdo le loro schiere. Il Signore disse a Mosè: «Consacrami ogni essere che esce per primo dal seno materno tra gli Israeliti: ogni primogenito di uomini o di animali appartiene a me». Mosè d isse al popolo: «Ricòrdati di questo giorno nel quale siete usciti dall’Egitto dalla dimora di schiav itù perché con la potenza del suo braccio il Signore vi ha fatto uscire di là: non si mangi nulla di l ievitato. In questo giorno del mese di Abìb voi uscite. Quando il Signore ti avrà fatto entrare nell a terra del Cananeo dell’Ittita dell’Amorreo dell’Eveo e del Gebuseo che ha giurato ai tuoi padri di dare a te terra dove scorrono latte e miele allora tu celebrerai questo rito in questo mese. Pe r sette giorni mangerai azzimi. Nel settimo giorno vi sarà una festa in onore del Signore. Nei sett e giorni si mangeranno azzimi e non compaia presso di te niente di lievitato; non ci sia presso di te lievito entro tutti i tuoi confini. In quel giorno tu spiegherai a tuo figlio: “è a causa di quanto h a fatto il Signore per me quando sono uscito dall’Egitto”. Sarà per te segno sulla tua mano e me moriale fra i tuoi occhi affinché la legge del Signore sia sulla tua bocca. Infatti il Signore ti ha fatt o uscire dall’Egitto con mano potente. Osserverai questo rito nella sua ricorrenza di anno in ann o. Quando il Signore ti avrà fatto entrare nella terra del Cananeo come ha giurato a te e ai tuoi padri e te l’avrà data in possesso tu riserverai per il Signore ogni primogenito del seno materno; ogni primo parto del tuo bestiame se di sesso maschile lo consacrerai al Signore. Riscatterai og ni primo parto dell’asino mediante un capo di bestiame minuto e se non lo vorrai riscattare gli s paccherai la nuca. Riscatterai ogni primogenito dell’uomo tra i tuoi discendenti. Quando tuo figl io un domani ti chiederà: “Che significa ciò?” tu gli risponderai: “Con la potenza del suo braccio i l Signore ci ha fatto uscire dall’Egitto dalla condizione servile. Poiché il faraone si ostinava a non lasciarci partire il Signore ha ucciso ogni primogenito nella terra d’Egitto: i primogeniti degli uo mini e i primogeniti del bestiame. Per questo io sacrifico al Signore ogni primo parto di sesso m aschile e riscatto ogni primogenito dei miei discendenti”. Questo sarà un segno sulla tua mano, sarà un pendaglio fra i tuoi occhi poiché con la potenza del suo braccio il Signore ci ha fatto usci re dall’Egitto». Quando il faraone lasciò partire il popolo Dio non lo condusse per la strada del t erritorio dei Filistei benché fosse più corta perché Dio pensava: «Che il popolo non si penta alla vista della guerra e voglia tornare in Egitto!». Dio fece deviare il popolo per la strada del deserto
verso il Mar Rosso. Gli Israeliti armati uscirono dalla terra d’Egitto. Mosè prese con sé le ossa di Giuseppe perché questi aveva fatto prestare un solenne giuramento agli Israeliti dicendo: «Dio certo verrà a visitarvi; voi allora vi porterete via le mie ossa». Partirono da Succot e si accampar ono a Etam sul limite del deserto. Il Signore marciava alla loro testa di giorno con una colonna d i nube per guidarli sulla via da percorrere e di notte con una colonna di fuoco per far loro luce c osì che potessero viaggiare giorno e notte. Di giorno la colonna di nube non si ritirava mai dalla vista del popolo né la colonna di fuoco durante la notte. Il Signore disse a Mosè: «Comanda agli Israeliti che tornino indietro e si accampino davanti a Pi-Achiròt tra Migdol e il mare davanti a Baal-
Sefòn; di fronte a quel luogo vi accamperete presso il mare. Il faraone penserà degli Israeliti: “V
anno errando nella regione; il deserto li ha bloccati!”. Io renderò ostinato il cuore del faraone e d egli li inseguirà io dimostrerò la mia gloria contro il faraone e tutto il suo esercito così gli Egizia ni sapranno che io sono il Signore!». Ed essi fecero così. Quando fu riferito al re d’Egitto che il p opolo era fuggito il cuore del faraone e dei suoi ministri si rivolse contro il popolo. Dissero: «Che cosa abbiamo fatto lasciando che Israele si sottraesse al nostro servizio?». Attaccò allora il cocc hio e prese con sé i suoi soldati. Prese seicento carri scelti e tutti i carri d’Egitto con i combatten ti sopra ciascuno di essi. Il Signore rese ostinato il cuore del faraone re d’Egitto il quale inseguì g li Israeliti mentre gli Israeliti uscivano a mano alzata. Gli Egiziani li inseguirono e li raggiunsero m entre essi stavano accampati presso il mare; tutti i cavalli e i carri del faraone i suoi cavalieri e il suo esercito erano presso Pi-Achiròt davanti a Baal-Sefòn. Quando il faraone fu vicino gli Israeliti alzarono gli occhi: ecco gli Egiziani marciavano diet ro di loro! Allora gli Israeliti ebbero grande paura e gridarono al Signore. E dissero a Mosè: «è fo rse perché non c’erano sepolcri in Egitto che ci hai portati a morire nel deserto? Che cosa ci hai fatto portandoci fuori dall’Egitto? Non ti dicevamo in Egitto: “Lasciaci stare e serviremo gli Egizi ani perché è meglio per noi servire l’Egitto che morire nel deserto”?». Mosè rispose: «Non abbi ate paura! Siate forti e vedrete la salvezza del Signore il quale oggi agirà per voi; perché gli Egizi ani che voi oggi vedete non li rivedrete mai più! Il Signore combatterà per voi e voi starete tran quilli». Il Signore disse a Mosè: «Perché gridi verso di me? Ordina agli Israeliti di riprendere il ca mmino. Tu intanto alza il bastone stendi la mano sul mare e dividilo, perché gli Israeliti entrino nel mare all’asciutto. Ecco io rendo ostinato il cuore degli Egiziani così che entrino dietro di loro e io dimostri la mia gloria sul faraone e tutto il suo esercito sui suoi carri e sui suoi cavalieri. Gli Egiziani sapranno che io sono il Signore quando dimostrerò la mia gloria contro il faraone i suoi carri e i suoi cavalieri». L’angelo di Dio che precedeva l’accampamento d’Israele cambiò posto e passò indietro. Anche la colonna di nube si mosse e dal davanti passò dietro. Andò a porsi tra l’a ccampamento degli Egiziani e quello d’Israele. La nube era tenebrosa per gli uni mentre per gli a ltri illuminava la notte; così gli uni non poterono avvicinarsi agli altri durante tutta la notte. Allor a Mosè stese la mano sul mare. E il Signore durante tutta la notte risospinse il mare con un fort e vento d’oriente rendendolo asciutto; le acque si divisero. Gli Israeliti entrarono nel mare sull’a
sciutto mentre le acque erano per loro un muro a destra e a sinistra. Gli Egiziani li inseguirono e tutti i cavalli del faraone i suoi carri e i suoi cavalieri entrarono dietro di loro in mezzo al mare.
Ma alla veglia del mattino il Signore dalla colonna di fuoco e di nube gettò uno sguardo sul cam po degli Egiziani e lo mise in rotta. Frenò le ruote dei loro carri, così che a stento riuscivano a spi ngerle. Allora gli Egiziani dissero: «Fuggiamo di fronte a Israele perché il Signore combatte per l oro contro gli Egiziani!». Il Signore disse a Mosè: «Stendi la mano sul mare: le acque si riversino sugli Egiziani sui loro carri e i loro cavalieri». Mosè stese la mano sul mare e il mare sul far del m attino tornò al suo livello consueto mentre gli Egiziani fuggendo gli si dirigevano contro. Il Signo re li travolse così in mezzo al mare. Le acque ritornarono e sommersero i carri e i cavalieri di tut to l’esercito del faraone che erano entrati nel mare dietro a Israele: non ne scampò neppure un o. Invece gli Israeliti avevano camminato sull’asciutto in mezzo al mare mentre le acque erano p er loro un muro a destra e a sinistra. In quel giorno il Signore salvò Israele dalla mano degli Egizi ani e Israele vide gli Egiziani morti sulla riva del mare; Israele vide la mano potente con la quale il Signore aveva agito contro l’Egitto e il popolo temette il Signore e credette in lui e in Mosè su o servo. Allora Mosè e gli Israeliti cantarono questo canto al Signore e dissero: «Voglio cantare al Signore, perché ha mirabilmente trionfato: cavallo e cavaliere ha gettato nel mare. Mia forza e mio canto è il Signore, egli è stato la mia salvezza. è il mio Dio: lo voglio lodare, il Dio di mio pa dre: lo voglio esaltare! Il Signore è un guerriero, Signore è il suo nome. I carri del faraone e il su o esercito li ha scagliati nel mare; i suoi combattenti scelti furono sommersi nel Mar Rosso. Gli a bissi li ricoprirono, sprofondarono come pietra. La tua destra Signore, è gloriosa per la potenza, la tua destra Signore, annienta il nemico; con sublime maestà abbatti i tuoi avversari, scateni il t uo furore, che li divora come paglia. Al soffio della tua ira si accumularono le acque, si alzarono l e onde come un argine, si rappresero gli abissi nel fondo del mare. Il nemico aveva detto: “Inseg uirò raggiungerò, spartirò il bottino, se ne sazierà la mia brama; sfodererò la spada, li conquiste rà la mia mano!”. Soffiasti con il tuo alito: li ricoprì il mare, sprofondarono come piombo in acqu e profonde. Chi è come te fra gli dèi Signore? Chi è come te maestoso in santità, terribile nelle i mprese, autore di prodigi? Stendesti la destra: li inghiottì la terra. Guidasti con il tuo amore que sto popolo che hai riscattato, lo conducesti con la tua potenza alla tua santa dimora. Udirono i p opoli: sono atterriti. L’angoscia afferrò gli abitanti della Filistea. Allora si sono spaventati i capi d i Edom, il pànico prende i potenti di Moab; hanno tremato tutti gli abitanti di Canaan. Piómbino su di loro paura e terrore; per la potenza del tuo braccio restino muti come pietra, finché sia pa ssato il tuo popolo Signore, finché sia passato questo tuo popolo, che ti sei acquistato. Tu lo fai entrare e lo pianti sul monte della tua eredità, luogo che per tua dimora, Signore hai preparato, santuario che le tue mani, Signore hanno fondato. Il Signore regni in eterno e per sempre!». Qu ando i cavalli del faraone i suoi carri e i suoi cavalieri furono entrati nel mare il Signore fece torn are sopra di essi le acque del mare mentre gli Israeliti avevano camminato sull’asciutto in mezzo al mare. Allora Maria la profetessa sorella di Aronne prese in mano un tamburello: dietro a lei u scirono le donne con i tamburelli e con danze. Maria intonò per loro il ritornello: «Cantate al Sig
nore, perché ha mirabilmente trionfato: cavallo e cavaliere ha gettato nel mare!». Mosè fece pa rtire Israele dal Mar Rosso ed essi avanzarono verso il deserto di Sur. Camminarono tre giorni n el deserto senza trovare acqua. Arrivarono a Mara ma non potevano bere le acque di Mara perc hé erano amare. Per questo furono chiamate Mara. Allora il popolo mormorò contro Mosè: «Ch e cosa berremo?». Egli invocò il Signore il quale gli indicò un legno. Lo gettò nell’acqua e l’acqua divenne dolce. In quel luogo il Signore impose al popolo una legge e un diritto; in quel luogo lo mise alla prova. Disse: «Se tu darai ascolto alla voce del Signore tuo Dio e farai ciò che è retto ai suoi occhi se tu presterai orecchio ai suoi ordini e osserverai tutte le sue leggi io non t’infliggerò nessuna delle infermità che ho inflitto agli Egiziani perché io sono il Signore colui che ti guarisce
!». Poi arrivarono a Elìm dove sono dodici sorgenti di acqua e settanta palme. Qui si accamparo no presso l’acqua. Levarono le tende da Elìm e tutta la comunità degli Israeliti arrivò al deserto di Sin che si trova tra Elìm e il Sinai il quindici del secondo mese dopo la loro uscita dalla terra d’
Egitto. Nel deserto tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mosè e contro Aronne. Gli I sraeliti dissero loro: «Fossimo morti per mano del Signore nella terra d’Egitto quando eravamo seduti presso la pentola della carne mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatto uscire in qu esto deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine». Allora il Signore disse a Mosè: «E
cco io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la raz ione di un giorno perché io lo metta alla prova per vedere se cammina o no secondo la mia legg e. Ma il sesto giorno quando prepareranno quello che dovranno portare a casa sarà il doppio di ciò che avranno raccolto ogni altro giorno». Mosè e Aronne dissero a tutti gli Israeliti: «Questa s era saprete che il Signore vi ha fatto uscire dalla terra d’Egitto e domani mattina vedrete la glori a del Signore, poiché egli ha inteso le vostre mormorazioni contro di lui. Noi infatti che cosa sia mo perché mormoriate contro di noi?». Mosè disse: «Quando il Signore vi darà alla sera la carn e da mangiare e alla mattina il pane a sazietà sarà perché il Signore ha inteso le mormorazioni c on le quali mormorate contro di lui. Noi infatti che cosa siamo? Non contro di noi vanno le vostr e mormorazioni ma contro il Signore». Mosè disse ad Aronne: «Da’ questo comando a tutta la c omunità degli Israeliti: “Avvicinatevi alla presenza del Signore perché egli ha inteso le vostre mo rmorazioni!”». Ora mentre Aronne parlava a tutta la comunità degli Israeliti essi si voltarono ver so il deserto: ed ecco la gloria del Signore si manifestò attraverso la nube. Il Signore disse a Mos è: «Ho inteso la mormorazione degli Israeliti. Parla loro così: “Al tramonto mangerete carne e al la mattina vi sazierete di pane; saprete che io sono il Signore vostro Dio”». La sera le quaglie sali rono e coprirono l’accampamento; al mattino c’era uno strato di rugiada intorno all’accampam ento. Quando lo strato di rugiada svanì, ecco sulla superficie del deserto c’era una cosa fine e gr anulosa minuta come è la brina sulla terra. Gli Israeliti la videro e si dissero l’un l’altro: «Che cos
’è?» perché non sapevano che cosa fosse. Mosè disse loro: «è il pane che il Signore vi ha dato in cibo. Ecco che cosa comanda il Signore: “Raccoglietene quanto ciascuno può mangiarne un om er a testa secondo il numero delle persone che sono con voi. Ne prenderete ciascuno per quelli della propria tenda”». Così fecero gli Israeliti. Ne raccolsero chi molto chi poco. Si misurò con l’

omer: colui che ne aveva preso di più non ne aveva di troppo; colui che ne aveva preso di meno non ne mancava. Avevano raccolto secondo quanto ciascuno poteva mangiarne. Mosè disse lor o: «Nessuno ne faccia avanzare fino al mattino». Essi non obbedirono a Mosè e alcuni ne conser varono fino al mattino; ma vi si generarono vermi e imputridì. Mosè si irritò contro di loro. Essi dunque ne raccoglievano ogni mattina secondo quanto ciascuno mangiava; quando il sole comi nciava a scaldare si scioglieva. Quando venne il sesto giorno essi raccolsero il doppio di quel pan e due omer a testa. Allora tutti i capi della comunità vennero a informare Mosè. Egli disse loro:
«è appunto ciò che ha detto il Signore: “Domani è sabato riposo assoluto consacrato al Signore.
Ciò che avete da cuocere cuocetelo; ciò che avete da bollire bollitelo; quanto avanza tenetelo in serbo fino a domani mattina”». Essi lo misero in serbo fino al mattino come aveva ordinato Mo sè e non imputridì né vi si trovarono vermi. Disse Mosè: «Mangiatelo oggi perché è sabato in on ore del Signore: oggi non ne troverete nella campagna. Sei giorni lo raccoglierete ma il settimo giorno è sabato: non ve ne sarà». Nel settimo giorno alcuni del popolo uscirono per raccogliern e ma non ne trovarono. Disse allora il Signore a Mosè: «Fino a quando rifiuterete di osservare i miei ordini e le mie leggi? Vedete che il Signore vi ha dato il sabato! Per questo egli vi dà al sest o giorno il pane per due giorni. Restate ciascuno al proprio posto! Nel settimo giorno nessuno e sca dal luogo dove si trova». Il popolo dunque riposò nel settimo giorno. La casa d’Israele lo chia mò manna. Era simile al seme del coriandolo e bianco; aveva il sapore di una focaccia con miele
. Mosè disse: «Questo ha ordinato il Signore: “Riempitene un omer e conservatelo per i vostri di scendenti perché vedano il pane che vi ho dato da mangiare nel deserto, quando vi ho fatto usci re dalla terra d’Egitto”». Mosè disse quindi ad Aronne: «Prendi un’urna e mettici un omer comp leto di manna; deponila davanti al Signore e conservala per i vostri discendenti». Secondo quant o il Signore aveva ordinato a Mosè Aronne la depose per conservarla davanti alla Testimonianza
. Gli Israeliti mangiarono la manna per quarant’anni fino al loro arrivo in una terra abitata: mang iarono la manna finché non furono arrivati ai confini della terra di Canaan. L’ omer è la decima p arte dell’ efa. Tutta la comunità degli Israeliti levò le tende dal deserto di Sin camminando di tap pa in tappa secondo l’ordine del Signore e si accampò a Refidìm. Ma non c’era acqua da bere pe r il popolo. Il popolo protestò contro Mosè: «Dateci acqua da bere!». Mosè disse loro: «Perché protestate con me? Perché mettete alla prova il Signore?». In quel luogo il popolo soffriva la set e per mancanza di acqua; il popolo mormorò contro Mosè e disse: «Perché ci hai fatto salire dal l’Egitto per far morire di sete noi i nostri figli e il nostro bestiame?». Allora Mosè gridò al Signor e dicendo: «Che cosa farò io per questo popolo? Ancora un poco e mi lapideranno!». Il Signore disse a Mosè: «Passa davanti al popolo e prendi con te alcuni anziani d’Israele. Prendi in mano il bastone con cui hai percosso il Nilo e va’! Ecco io starò davanti a te là sulla roccia sull’Oreb; tu b atterai sulla roccia: ne uscirà acqua e il popolo berrà». Mosè fece così sotto gli occhi degli anzia ni d’Israele. E chiamò quel luogo Massa e Merìba a causa della protesta degli Israeliti e perché misero alla prova il Signore dicendo: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?». Amalèk venne a com battere contro Israele a Refidìm. Mosè disse a Giosuè: «Scegli per noi alcuni uomini ed esci in b
attaglia contro Amalèk. Domani io starò ritto sulla cima del colle con in mano il bastone di Dio».
Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalèk mentre Mosè Ar onne e Cur salirono sulla cima del colle. Quando Mosè alzava le mani Israele prevaleva; ma qua ndo le lasciava cadere prevaleva Amalèk. Poiché Mosè sentiva pesare le mani presero una pietr a la collocarono sotto di lui ed egli vi si sedette mentre Aronne e Cur uno da una parte e l’altro dall’altra sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole. Gi osuè sconfisse Amalèk e il suo popolo passandoli poi a fil di spada. Allora il Signore disse a Mosè
: «Scrivi questo per ricordo nel libro e mettilo negli orecchi di Giosuè: io cancellerò del tutto la memoria di Amalèk sotto il cielo!». Allora Mosè costruì un altare lo chiamò “Il Signore è il mio v essillo” e disse: «Una mano contro il trono del Signore! Vi sarà guerra per il Signore contro Amal èk, di generazione in generazione!». Ietro sacerdote di Madian suocero di Mosè venne a sapere quanto Dio aveva operato per Mosè e per Israele suo popolo cioè come il Signore aveva fatto us cire Israele dall’Egitto. Allora Ietro prese con sé Sipporà moglie di Mosè che prima egli aveva ri mandata con i due figli di lei uno dei quali si chiamava Ghersom, perché egli aveva detto: «Sono un emigrato in terra straniera» e l’altro si chiamava Elièzer perché: «Il Dio di mio padre è venut o in mio aiuto e mi ha liberato dalla spada del faraone». Ietro dunque suocero di Mosè con i figli e la moglie di lui venne da Mosè nel deserto dove era accampato presso la montagna di Dio. Eg li fece dire a Mosè: «Sono io Ietro tuo suocero che vengo da te con tua moglie e i suoi due figli!
». Mosè andò incontro al suocero si prostrò davanti a lui e lo baciò poi si informarono l’uno dell a salute dell’altro ed entrarono sotto la tenda. Mosè raccontò al suocero quanto il Signore avev a fatto al faraone e agli Egiziani a motivo di Israele tutte le difficoltà incontrate durante il viaggi o dalle quali il Signore li aveva liberati. Ietro si rallegrò di tutto il bene che il Signore aveva fatto a Israele quando lo aveva liberato dalla mano degli Egiziani. Disse Ietro: «Benedetto il Signore c he vi ha liberato dalla mano degli Egiziani e dalla mano del faraone: egli ha liberato questo popo lo dalla mano dell’Egitto! Ora io so che il Signore è più grande di tutti gli dèi: ha rivolto contro di loro quello che tramavano». Ietro suocero di Mosè offrì un olocausto e sacrifici a Dio. Vennero Aronne e tutti gli anziani d’Israele per partecipare al banchetto con il suocero di Mosè davanti a Dio. Il giorno dopo Mosè sedette a render giustizia al popolo e il popolo si trattenne presso Mo sè dalla mattina fino alla sera. Allora il suocero di Mosè visto quanto faceva per il popolo gli diss e: «Che cos’è questo che fai per il popolo? Perché siedi tu solo mentre il popolo sta presso di te dalla mattina alla sera?». Mosè rispose al suocero: «Perché il popolo viene da me per consultar e Dio. Quando hanno qualche questione vengono da me e io giudico le vertenze tra l’uno e l’altr o e faccio conoscere i decreti di Dio e le sue leggi». Il suocero di Mosè gli disse: «Non va bene q uello che fai! Finirai per soccombere tu e il popolo che è con te perché il compito è troppo pesa nte per te; non puoi attendervi tu da solo. Ora ascoltami: ti voglio dare un consiglio e Dio sia co n te! Tu sta’ davanti a Dio in nome del popolo e presenta le questioni a Dio. A loro spiegherai i d ecreti e le leggi; indicherai loro la via per la quale devono camminare e le opere che devono co mpiere. Invece sceglierai tra tutto il popolo uomini validi che temono Dio uomini retti che odian
o la venalità per costituirli sopra di loro come capi di migliaia capi di centinaia capi di cinquantin e e capi di decine. Essi dovranno giudicare il popolo in ogni circostanza; quando vi sarà una ques tione importante la sottoporranno a te mentre essi giudicheranno ogni affare minore. Così ti all eggerirai il peso ed essi lo porteranno con te. Se tu fai questa cosa e Dio te lo ordina potrai resis tere e anche tutto questo popolo arriverà in pace alla meta». Mosè diede ascolto alla proposta del suocero e fece quanto gli aveva suggerito. Mosè dunque scelse in tutto Israele uomini validi e li costituì alla testa del popolo come capi di migliaia capi di centinaia capi di cinquantine e capi di decine. Essi giudicavano il popolo in ogni circostanza: quando avevano affari difficili li sottop onevano a Mosè ma giudicavano essi stessi tutti gli affari minori. Poi Mosè congedò il suocero, il quale tornò alla sua terra. Al terzo mese dall’uscita degli Israeliti dalla terra d’Egitto nello stess o giorno essi arrivarono al deserto del Sinai. Levate le tende da Refidìm giunsero al deserto del Sinai dove si accamparono; Israele si accampò davanti al monte. Mosè salì verso Dio e il Signore lo chiamò dal monte dicendo: «Questo dirai alla casa di Giacobbe e annuncerai agli Israeliti: “V
oi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fa tto venire fino a me. Ora se darete ascolto alla mia voce e custodirete la mia alleanza voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli; mia infatti è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa”. Queste parole dirai agli Israeliti». Mosè andò convo cò gli anziani del popolo e riferì loro tutte queste parole come gli aveva ordinato il Signore. Tutt o il popolo rispose insieme e disse: «Quanto il Signore ha detto noi lo faremo!». Mosè tornò dal Signore e riferì le parole del popolo. Il Signore disse a Mosè: «Ecco io sto per venire verso di te i n una densa nube perché il popolo senta quando io parlerò con te e credano per sempre anche a te». Mosè riferì al Signore le parole del popolo. Il Signore disse a Mosè: «Va’ dal popolo e sant ificalo oggi e domani: lavino le loro vesti e si tengano pronti per il terzo giorno perché nel terzo giorno il Signore scenderà sul monte Sinai alla vista di tutto il popolo. Fisserai per il popolo un li mite tutto attorno dicendo: “Guardatevi dal salire sul monte e dal toccarne le falde. Chiunque t occherà il monte sarà messo a morte. Nessuna mano però dovrà toccare costui: dovrà essere la pidato o colpito con tiro di arco. Animale o uomo non dovrà sopravvivere”. Solo quando suoner à il corno essi potranno salire sul monte». Mosè scese dal monte verso il popolo; egli fece santif icare il popolo ed essi lavarono le loro vesti. Poi disse al popolo: «Siate pronti per il terzo giorno: non unitevi a donna». Il terzo giorno sul far del mattino vi furono tuoni e lampi una nube densa sul monte e un suono fortissimo di corno: tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da tremore. Allora Mosè fece uscire il popolo dall’accampamento incontro a Dio. Essi stettero in piedi alle falde del monte. Il monte Sinai era tutto fumante perché su di esso era sceso il Signor e nel fuoco e ne saliva il fumo come il fumo di una fornace: tutto il monte tremava molto. Il suo no del corno diventava sempre più intenso: Mosè parlava e Dio gli rispondeva con una voce. Il S
ignore scese dunque sul monte Sinai sulla vetta del monte e il Signore chiamò Mosè sulla vetta del monte. Mosè salì. Il Signore disse a Mosè: «Scendi scongiura il popolo di non irrompere vers o il Signore per vedere altrimenti ne cadrà una moltitudine! Anche i sacerdoti che si avvicinano
al Signore si santifichino altrimenti il Signore si avventerà contro di loro!». Mosè disse al Signore
: «Il popolo non può salire al monte Sinai perché tu stesso ci hai avvertito dicendo: “Delimita il monte e dichiaralo sacro”». Il Signore gli disse: «Va’ scendi poi salirai tu e Aronne con te. Ma i s acerdoti e il popolo non si precipitino per salire verso il Signore altrimenti egli si avventerà contr o di loro!». Mosè scese verso il popolo e parlò loro. Dio pronunciò tutte queste parole: «Io sono il Signore tuo Dio che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto dalla condizione servile: Non avrai alt ri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di qua nto è quaggiù sulla terra né di quanto è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a lor o e non li servirai. Perché io il Signore tuo Dio, sono un Dio geloso che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione per coloro che mi odiano ma che dimostra la su a bontà fino a mille generazioni per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti. Non pronuncerai invano il nome del Signore tuo Dio perché il Signore non lascia impunito chi pronu ncia il suo nome invano. Ricòrdati del giorno del sabato per santificarlo. Sei giorni lavorerai e far ai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore tuo Dio: non farai alcun l avoro né tu né tuo figlio né tua figlia né il tuo schiavo né la tua schiava né il tuo bestiame né il f orestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il ma re e quanto è in essi ma si è riposato il settimo giorno. Perciò il Signore ha benedetto il giorno d el sabato e lo ha consacrato. Onora tuo padre e tua madre perché si prolunghino i tuoi giorni ne l paese che il Signore tuo Dio ti dà. Non ucciderai. Non commetterai adulterio. Non ruberai. Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo. Non desidererai la casa del tuo prossim o. Non desidererai la moglie del tuo prossimo né il suo schiavo né la sua schiava né il suo bue né il suo asino né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo». Tutto il popolo percepiva i tuoni e i lampi il suono del corno e il monte fumante. Il popolo vide fu preso da tremore e si tenne lont ano. Allora dissero a Mosè: «Parla tu a noi e noi ascolteremo; ma non ci parli Dio altrimenti mor iremo!». Mosè disse al popolo: «Non abbiate timore: Dio è venuto per mettervi alla prova e per ché il suo timore sia sempre su di voi e non pecchiate». Il popolo si tenne dunque lontano ment re Mosè avanzò verso la nube oscura dove era Dio. Il Signore disse a Mosè: «Così dirai agli Israel iti: “Voi stessi avete visto che vi ho parlato dal cielo! Non farete dèi d’argento e dèi d’oro accant o a me: non ne farete per voi! Farai per me un altare di terra e sopra di esso offrirai i tuoi oloca usti e i tuoi sacrifici di comunione le tue pecore e i tuoi buoi; in ogni luogo dove io vorrò far rico rdare il mio nome verrò a te e ti benedirò. Se tu farai per me un altare di pietra non lo costruirai con pietra tagliata perché usando la tua lama su di essa tu la renderesti profana. Non salirai sul mio altare per mezzo di gradini, perché là non si scopra la tua nudità”. Queste sono le norme ch e tu esporrai loro. Quando tu avrai acquistato uno schiavo ebreo egli ti servirà per sei anni e nel settimo potrà andarsene libero senza riscatto. Se è venuto solo solo se ne andrà se era coniugat o sua moglie se ne andrà con lui. Se il suo padrone gli ha dato moglie e questa gli ha partorito fi gli o figlie la donna e i suoi figli saranno proprietà del padrone ed egli se ne andrà solo. Ma se lo schiavo dice: “Io sono affezionato al mio padrone a mia moglie ai miei figli non voglio andarmen
e libero” allora il suo padrone lo condurrà davanti a Dio lo farà accostare al battente o allo stipit e della porta e gli forerà l’orecchio con la lesina e quello resterà suo schiavo per sempre. Quand o un uomo venderà la figlia come schiava ella non se ne andrà come se ne vanno gli schiavi. Se l ei non piace al padrone che perciò non la destina a sé in moglie la farà riscattare. In ogni caso e gli non può venderla a gente straniera agendo con frode verso di lei. Se egli la vuol destinare in moglie al proprio figlio si comporterà nei suoi riguardi secondo il diritto delle figlie. Se egli pren de in moglie un’altra non diminuirà alla prima il nutrimento il vestiario la coabitazione. Se egli n on le fornisce queste tre cose lei potrà andarsene senza che sia pagato il prezzo del riscatto. Col ui che colpisce un uomo causandone la morte sarà messo a morte. Se però non ha teso insidia ma Dio glielo ha fatto incontrare io ti fisserò un luogo dove potrà rifugiarsi. Ma se un uomo ave va premeditato di uccidere il suo prossimo con inganno allora lo strapperai anche dal mio altare perché sia messo a morte. Colui che percuote suo padre o sua madre sarà messo a morte. Colui che rapisce un uomo sia che lo venda sia che lo si trovi ancora in mano sua, sarà messo a morte
. Colui che maledice suo padre o sua madre sarà messo a morte. Quando alcuni uomini litigano e uno colpisce il suo prossimo con una pietra o con il pugno e questi non muore ma deve mette rsi a letto se poi si alza ed esce con il bastone chi lo ha colpito sarà ritenuto innocente ma dovrà pagare il riposo forzato e assicurargli le cure. Quando un uomo colpisce con il bastone il suo sch iavo o la sua schiava e gli muore sotto le sue mani si deve fare vendetta. Ma se sopravvive un gi orno o due non sarà vendicato, perché è suo denaro. Quando alcuni uomini litigano e urtano un a donna incinta, così da farla abortire se non vi è altra disgrazia si esigerà un’ammenda secondo quanto imporrà il marito della donna e il colpevole pagherà attraverso un arbitrato. Ma se segu e una disgrazia allora pagherai vita per vita: occhio per occhio dente per dente mano per mano piede per piede bruciatura per bruciatura ferita per ferita livido per livido. Quando un uomo col pisce l’occhio del suo schiavo o della sua schiava e lo acceca, darà loro la libertà in compenso de ll’occhio. Se fa cadere il dente del suo schiavo o della sua schiava darà loro la libertà in compens o del dente. Quando un bue cozza con le corna contro un uomo o una donna e ne segue la mort e il bue sarà lapidato e non se ne mangerà la carne. Però il proprietario del bue è innocente. Ma se il bue era solito cozzare con le corna già prima e il padrone era stato avvisato e non lo aveva custodito se ha causato la morte di un uomo o di una donna il bue sarà lapidato e anche il suo p adrone dev’essere messo a morte. Se invece gli viene imposto un risarcimento, egli pagherà il ri scatto della propria vita secondo quanto gli verrà imposto. Se cozza con le corna contro un figlio o se cozza contro una figlia si procederà nella stessa maniera. Se il bue colpisce con le corna un o schiavo o una schiava si darà al suo padrone del denaro trenta sicli e il bue sarà lapidato. Qua ndo un uomo lascia una cisterna aperta oppure quando un uomo scava una cisterna e non la co pre se vi cade un bue o un asino il proprietario della cisterna deve dare l’indennizzo: verserà il d enaro al padrone della bestia e l’animale morto gli apparterrà. Quando il bue di un tale cozza co ntro il bue del suo prossimo e ne causa la morte essi venderanno il bue vivo e se ne divideranno il prezzo; si divideranno anche la bestia morta. Ma se è notorio che il bue era solito cozzare già
prima e il suo padrone non lo ha custodito egli dovrà dare come indennizzo bue per bue e la bes tia morta gli apparterrà. Quando un uomo ruba un bue o un montone e poi lo sgozza o lo vende darà come indennizzo cinque capi di grosso bestiame per il bue e quattro capi di bestiame min uto per il montone. Se un ladro viene sorpreso mentre sta facendo una breccia in un muro e vie ne colpito e muore, non vi è per lui vendetta di sangue. Ma se il sole si era già alzato su di lui, vi è per lui vendetta di sangue. Il ladro dovrà dare l’indennizzo: se non avrà di che pagare sarà ven duto in compenso dell’oggetto rubato. Se si trova ancora in vita e ciò che è stato rubato è in suo possesso si tratti di bue di asino o di montone restituirà il doppio. Quando un uomo usa come p ascolo un campo o una vigna e lascia che il suo bestiame vada a pascolare in un campo altrui de ve dare l’indennizzo con il meglio del suo campo e con il meglio della sua vigna. Quando un fuoc o si propaga e si attacca ai cespugli spinosi se viene bruciato un mucchio di covoni o il grano in s piga o il grano in erba colui che ha provocato l’incendio darà l’indennizzo. Quando un uomo dà i n custodia al suo prossimo denaro od oggetti e poi nella casa di costui viene commesso un furto se si trova il ladro quest’ultimo restituirà il doppio. Se il ladro non si trova il padrone della casa si avvicinerà a Dio per giurare che non ha allungato la mano sulla proprietà del suo prossimo. Q
ualunque sia l’oggetto di una frode si tratti di un bue di un asino di un montone, di una veste di qualunque oggetto perduto di cui uno dice: “è questo!” la causa delle due parti andrà fino a Dio
: colui che Dio dichiarerà colpevole restituirà il doppio al suo prossimo. Quando un uomo dà in c ustodia al suo prossimo un asino o un bue o un capo di bestiame minuto o qualsiasi animale se l a bestia muore o si è prodotta una frattura o è stata rapita senza testimone interverrà tra le du e parti un giuramento per il Signore per dichiarare che il depositario non ha allungato la mano s ulla proprietà del suo prossimo. Il padrone della bestia accetterà e l’altro non dovrà risarcire. M
a se la bestia è stata rubata quando si trovava presso di lui pagherà l’indennizzo al padrone di es sa. Se invece è stata sbranata ne porterà la prova in testimonianza e non dovrà dare l’indennizz o per la bestia sbranata. Quando un uomo prende in prestito dal suo prossimo una bestia e que sta si è prodotta una frattura o è morta in assenza del padrone dovrà pagare l’indennizzo. Ma s e il padrone si trova presente non deve restituire; se si tratta di una bestia presa a nolo la sua p erdita è compensata dal prezzo del noleggio. Quando un uomo seduce una vergine non ancora f idanzata e si corica con lei ne pagherà il prezzo nuziale e lei diverrà sua moglie. Se il padre di lei si rifiuta di dargliela egli dovrà versare una somma di denaro pari al prezzo nuziale delle vergini.
Non lascerai vivere colei che pratica la magia. Chiunque giaccia con una bestia sia messo a mort e. Colui che offre un sacrificio agli dèi anziché al solo Signore sarà votato allo sterminio. Non mo lesterai il forestiero né lo opprimerai perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto. Non maltr atterai la vedova o l’orfano. Se tu lo maltratti quando invocherà da me l’aiuto io darò ascolto al suo grido la mia ira si accenderà e vi farò morire di spada: le vostre mogli saranno vedove e i vo stri figli orfani. Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo all’indigente che sta con te non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse. Se prendi in pegno il m antello del tuo prossimo glielo renderai prima del tramonto del sole, perché è la sua sola copert
a è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo? Altrimenti quando griderà v erso di me io l’ascolterò, perché io sono pietoso. Non bestemmierai Dio e non maledirai il capo del tuo popolo. Non ritarderai l’offerta di ciò che riempie il tuo granaio e di ciò che stilla dal tuo frantoio. Il primogenito dei tuoi figli lo darai a me. Così farai per il tuo bue e per il tuo bestiame minuto: sette giorni resterà con sua madre l’ottavo giorno lo darai a me. Voi sarete per me uom ini santi: non mangerete la carne di una bestia sbranata nella campagna, ma la getterete ai cani.
Non spargerai false dicerie; non presterai mano al colpevole per far da testimone in favore di u n’ingiustizia. Non seguirai la maggioranza per agire male e non deporrai in processo così da star e con la maggioranza per ledere il diritto. Non favorirai nemmeno il debole nel suo processo. Q
uando incontrerai il bue del tuo nemico o il suo asino dispersi glieli dovrai ricondurre. Quando v edrai l’asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico non abbandonarlo a se stesso: mettiti con lui a scioglierlo dal carico. Non ledere il diritto del tuo povero nel suo processo. Ti terrai lontano da parola menzognera. Non far morire l’innocente e il giusto, perché io non assolvo il colpevole
. Non accetterai doni perché il dono acceca chi ha gli occhi aperti e perverte anche le parole dei giusti. Non opprimerai il forestiero: anche voi conoscete la vita del forestiero perché siete stati f orestieri in terra d’Egitto. Per sei anni seminerai la tua terra e ne raccoglierai il prodotto ma nel settimo anno non la sfrutterai e la lascerai incolta: ne mangeranno gli indigenti del tuo popolo e ciò che lasceranno sarà consumato dalle bestie selvatiche. Così farai per la tua vigna e per il tuo oliveto. Per sei giorni farai i tuoi lavori ma nel settimo giorno farai riposo perché possano goder e quiete il tuo bue e il tuo asino e possano respirare i figli della tua schiava e il forestiero. Farete attenzione a quanto vi ho detto: non pronunciate il nome di altri dèi; non si senta sulla tua boc ca! Tre volte all’anno farai festa in mio onore. Osserverai la festa degli Azzimi: per sette giorni m angerai azzimi come ti ho ordinato, nella ricorrenza del mese di Abìb perché in esso sei uscito d all’Egitto. Non si dovrà comparire davanti a me a mani vuote. Osserverai la festa della mietitura cioè dei primi frutti dei tuoi lavori di semina nei campi e poi al termine dell’anno la festa del rac colto quando raccoglierai il frutto dei tuoi lavori nei campi. Tre volte all’anno ogni tuo maschio c omparirà alla presenza del Signore Dio. Non offrirai con pane lievitato il sangue del sacrificio in mio onore e il grasso della vittima per la mia festa non dovrà restare fino al mattino. Il meglio d elle primizie del tuo suolo lo porterai alla casa del Signore tuo Dio. Non farai cuocere un caprett o nel latte di sua madre. Ecco io mando un angelo davanti a te per custodirti sul cammino e per farti entrare nel luogo che ho preparato. Abbi rispetto della sua presenza da’ ascolto alla sua vo ce e non ribellarti a lui; egli infatti non perdonerebbe la vostra trasgressione perché il mio nome è in lui. Se tu dai ascolto alla sua voce e fai quanto ti dirò io sarò il nemico dei tuoi nemici e l’av versario dei tuoi avversari. Quando il mio angelo camminerà alla tua testa e ti farà entrare press o l’Amorreo l’Ittita il Perizzita il Cananeo l’Eveo e il Gebuseo e io li distruggerò, tu non ti prostre rai davanti ai loro dèi e non li servirai; tu non ti comporterai secondo le loro opere ma dovrai de molire e frantumare le loro stele. Voi servirete il Signore vostro Dio. Egli benedirà il tuo pane e l a tua acqua. Terrò lontana da te la malattia. Non vi sarà nella tua terra donna che abortisca o ch
e sia sterile. Ti farò giungere al numero completo dei tuoi giorni. Manderò il mio terrore davanti a te e metterò in rotta ogni popolo in mezzo al quale entrerai; farò voltare le spalle a tutti i tuoi nemici davanti a te. Manderò i calabroni davanti a te ed essi scacceranno dalla tua presenza l’E
veo, il Cananeo e l’Ittita. Non li scaccerò dalla tua presenza in un solo anno, perché non resti de serta la terra e le bestie selvatiche si moltiplichino contro di te. Li scaccerò dalla tua presenza a poco a poco finché non avrai tanti discendenti da occupare la terra. Stabilirò il tuo confine dal Mar Rosso fino al mare dei Filistei e dal deserto fino al Fiume perché ti consegnerò in mano gli a bitanti della terra e li scaccerò dalla tua presenza. Ma tu non farai alleanza con loro e con i loro dèi; essi non abiteranno più nella tua terra altrimenti ti farebbero peccare contro di me perché t u serviresti i loro dèi e ciò diventerebbe una trappola per te». Il Signore disse a Mosè: «Sali vers o il Signore tu e Aronne Nadab e Abiu e settanta anziani d’Israele; voi vi prostrerete da lontano solo Mosè si avvicinerà al Signore: gli altri non si avvicinino e il popolo non salga con lui». Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose a u na sola voce dicendo: «Tutti i comandamenti che il Signore ha dato noi li eseguiremo!». Mosè s crisse tutte le parole del Signore. Si alzò di buon mattino ed eresse un altare ai piedi del monte con dodici stele per le dodici tribù d’Israele. Incaricò alcuni giovani tra gli Israeliti di offrire oloca usti e di sacrificare giovenchi come sacrifici di comunione per il Signore. Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare. Quindi prese il libro dell’allean za e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: «Quanto ha detto il Signore lo eseguiremo e vi pr esteremo ascolto». Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo dicendo: «Ecco il sangue dell’all eanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!». Mosè salì con Aron ne Nadab Abiu e i settanta anziani d’Israele. Essi videro il Dio d’Israele: sotto i suoi piedi vi era c ome un pavimento in lastre di zaffìro limpido come il cielo. Contro i privilegiati degli Israeliti non stese la mano: essi videro Dio e poi mangiarono e bevvero. Il Signore disse a Mosè: «Sali verso di me sul monte e rimani lassù: io ti darò le tavole di pietra la legge e i comandamenti che io ho scritto per istruirli». Mosè si mosse con Giosuè suo aiutante e Mosè salì sul monte di Dio. Agli a nziani aveva detto: «Restate qui ad aspettarci fin quando torneremo da voi; ecco avete con voi Aronne e Cur: chiunque avrà una questione si rivolgerà a loro». Mosè salì dunque sul monte e la nube coprì il monte. La gloria del Signore venne a dimorare sul monte Sinai e la nube lo coprì p er sei giorni. Al settimo giorno il Signore chiamò Mosè dalla nube. La gloria del Signore appariva agli occhi degli Israeliti come fuoco divorante sulla cima della montagna. Mosè entrò dunque in mezzo alla nube e salì sul monte. Mosè rimase sul monte quaranta giorni e quaranta notti. Il Sig nore parlò a Mosè dicendo: «Ordina agli Israeliti che raccolgano per me un contributo. Lo racco glierete da chiunque sia generoso di cuore. Ed ecco che cosa raccoglierete da loro come contrib uto: oro argento e bronzo tessuti di porpora viola e rossa di scarlatto di bisso e di pelo di capra pelle di montone tinta di rosso, pelle di tasso e legno di acacia olio per l’illuminazione balsami p er l’olio dell’unzione e per l’incenso aromatico pietre di ònice e pietre da incastonare nell’ efod e nel pettorale. Essi mi faranno un santuario e io abiterò in mezzo a loro. Eseguirete ogni cosa s
econdo quanto ti mostrerò, secondo il modello della Dimora e il modello di tutti i suoi arredi. Fa ranno dunque un’arca di legno di acacia: avrà due cubiti e mezzo di lunghezza, un cubito e mezz o di larghezza un cubito e mezzo di altezza. La rivestirai d’oro puro: dentro e fuori la rivestirai e l e farai intorno un bordo d’oro. Fonderai per essa quattro anelli d’oro e li fisserai ai suoi quattro piedi: due anelli su di un lato e due anelli sull’altro. Farai stanghe di legno di acacia e le rivestirai d’oro. Introdurrai le stanghe negli anelli sui due lati dell’arca per trasportare con esse l’arca. Le stanghe dovranno rimanere negli anelli dell’arca: non verranno tolte di lì. Nell’arca collocherai l a Testimonianza che io ti darò. Farai il propiziatorio d’oro puro; avrà due cubiti e mezzo di lungh ezza e un cubito e mezzo di larghezza. Farai due cherubini d’oro: li farai lavorati a martello sulle due estremità del propiziatorio. Fa’ un cherubino a una estremità e un cherubino all’altra estre mità. Farete i cherubini alle due estremità del propiziatorio. I cherubini avranno le due ali spieg ate verso l’alto proteggendo con le ali il propiziatorio; saranno rivolti l’uno verso l’altro e le facc e dei cherubini saranno rivolte verso il propiziatorio. Porrai il propiziatorio sulla parte superiore dell’arca e collocherai nell’arca la Testimonianza che io ti darò. Io ti darò convegno in quel luogo
: parlerò con te da sopra il propiziatorio in mezzo ai due cherubini che saranno sull’arca della Te stimonianza dandoti i miei ordini riguardo agli Israeliti. Farai una tavola di legno di acacia: avrà due cubiti di lunghezza un cubito di larghezza un cubito e mezzo di altezza. La rivestirai d’oro pu ro e le farai attorno un bordo d’oro. Le farai attorno una cornice di un palmo e farai un bordo d’
oro per la cornice. Le farai quattro anelli d’oro e li fisserai ai quattro angoli che costituiranno i s uoi quattro piedi. Gli anelli saranno contigui alla cornice e serviranno a inserire le stanghe desti nate a trasportare la tavola. Farai le stanghe di legno di acacia e le rivestirai d’oro; con esse si tr asporterà la tavola. Farai anche i suoi piatti coppe anfore e tazze per le libagioni: li farai d’oro p uro. Sulla tavola collocherai i pani dell’offerta: saranno sempre alla mia presenza. Farai anche u n candelabro d’oro puro. Il candelabro sarà lavorato a martello il suo fusto e i suoi bracci; i suoi calici i suoi bulbi e le sue corolle saranno tutti di un pezzo. Sei bracci usciranno dai suoi lati: tre bracci del candelabro da un lato e tre bracci del candelabro dall’altro lato. Vi saranno su di un br accio tre calici in forma di fiore di mandorlo con bulbo e corolla e così anche sull’altro braccio tr e calici in forma di fiore di mandorlo con bulbo e corolla. Così sarà per i sei bracci che usciranno dal candelabro. Il fusto del candelabro avrà quattro calici in forma di fiore di mandorlo con i lor o bulbi e le loro corolle: un bulbo sotto i due bracci che si dipartono da esso e un bulbo sotto i d ue bracci seguenti e un bulbo sotto gli ultimi due bracci che si dipartono da esso; così per tutti i sei bracci che escono dal candelabro. I bulbi e i relativi bracci saranno tutti di un pezzo: il tutto s arà formato da una sola massa d’oro puro lavorata a martello. Farai le sue sette lampade: vi si c ollocheranno sopra in modo da illuminare lo spazio davanti ad esso. I suoi smoccolatoi e i suoi p ortacenere saranno d’oro puro. Lo si farà con un talento di oro puro esso con tutti i suoi accesso ri. Guarda ed esegui secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte. Quanto alla Dimora l a farai con dieci teli di bisso ritorto di porpora viola di porpora rossa e di scarlatto. Vi farai figure di cherubini lavoro d’artista. La lunghezza di un telo sarà di ventotto cubiti; la larghezza di quatt
ro cubiti per un telo; la stessa dimensione per tutti i teli. Cinque teli saranno uniti l’uno all’altro e anche gli altri cinque saranno uniti l’uno all’altro. Farai cordoni di porpora viola sull’orlo del pr imo telo all’estremità della sutura; così farai sull’orlo del telo estremo nella seconda sutura. Far ai cinquanta cordoni al primo telo e farai cinquanta cordoni all’estremità della seconda sutura: i cordoni corrisponderanno l’uno all’altro. Farai cinquanta fibbie d’oro e unirai i teli l’uno all’altr o mediante le fibbie così la Dimora formerà un tutto unico. Farai poi teli di pelo di capra per la t enda sopra la Dimora. Ne farai undici teli. La lunghezza di un telo sarà di trenta cubiti; la larghez za di quattro cubiti per un telo; la stessa dimensione per gli undici teli. Unirai insieme cinque teli da una parte e sei teli dall’altra. Piegherai in due il sesto telo sulla parte anteriore della tenda. F
arai cinquanta cordoni sull’orlo del primo telo che è all’estremità della sutura e cinquanta cordo ni sull’orlo del telo della seconda sutura. Farai cinquanta fibbie di bronzo introdurrai le fibbie ne i cordoni e unirai insieme la tenda; così essa formerà un tutto unico. La parte che pende in ecce denza nei teli della tenda la metà cioè di un telo che sopravanza penderà sulla parte posteriore della Dimora. Il cubito in eccedenza da una parte come il cubito in eccedenza dall’altra parte nel senso della lunghezza dei teli della tenda ricadranno sui due lati della Dimora per coprirla da un a parte e dall’altra. Farai per la tenda una copertura di pelli di montone tinte di rosso e al di sop ra una copertura di pelli di tasso. Poi farai per la Dimora le assi di legno di acacia da porsi vertica li. La lunghezza di un’asse sarà dieci cubiti e un cubito e mezzo la larghezza. Ogni asse avrà due s ostegni congiunti l’uno all’altro da un rinforzo. Così farai per tutte le assi della Dimora. Farai dun que le assi per la Dimora: venti assi verso il mezzogiorno a sud. Farai anche quaranta basi d’arge nto sotto le venti assi due basi sotto un’asse per i suoi due sostegni e due basi sotto l’altra asse per i suoi due sostegni. Per il secondo lato della Dimora verso il settentrione venti assi, come an che le loro quaranta basi d’argento due basi sotto un’asse e due basi sotto l’altra asse. Per la pa rte posteriore della Dimora verso occidente farai sei assi. Farai inoltre due assi per gli angoli dell a Dimora sulla parte posteriore. Esse saranno formate ciascuna da due pezzi uguali abbinati e p erfettamente congiunti dal basso fino alla cima all’altezza del primo anello. Così sarà per ambed ue: esse formeranno i due angoli. Vi saranno dunque otto assi con le loro basi d’argento: sedici basi due basi sotto un’asse e due basi sotto l’altra asse. Farai inoltre traverse di legno di acacia: cinque per le assi di un lato della Dimora e cinque traverse per le assi dell’altro lato della Dimor a e cinque traverse per le assi della parte posteriore verso occidente. La traversa mediana a me zza altezza delle assi le attraverserà da una estremità all’altra. Rivestirai d’oro le assi farai in oro i loro anelli, che serviranno per inserire le traverse e rivestirai d’oro anche le traverse. Costruirai la Dimora secondo la disposizione che ti è stata mostrata sul monte. Farai il velo di porpora viol a di porpora rossa di scarlatto e di bisso ritorto. Lo si farà con figure di cherubini lavoro d’artista
. Lo appenderai a quattro colonne di acacia rivestite d’oro munite di uncini d’oro e poggiate su quattro basi d’argento. Collocherai il velo sotto le fibbie e là nell’interno oltre il velo, introdurrai l’arca della Testimonianza. Il velo costituirà per voi la separazione tra il Santo e il Santo dei Sant i. Porrai il propiziatorio sull’arca della Testimonianza nel Santo dei Santi. Collocherai la tavola fu
ori del velo e il candelabro di fronte alla tavola sul lato meridionale della Dimora; collocherai la t avola sul lato settentrionale. Farai una cortina all’ingresso della tenda di porpora viola e di porp ora rossa di scarlatto e di bisso ritorto lavoro di ricamatore. Farai per la cortina cinque colonne di acacia e le rivestirai d’oro. I loro uncini saranno d’oro e fonderai per esse cinque basi di bronz o. Farai l’altare di legno di acacia: avrà cinque cubiti di lunghezza e cinque cubiti di larghezza. L’
altare sarà quadrato e avrà l’altezza di tre cubiti. Farai ai suoi quattro angoli quattro corni e cost ituiranno un sol pezzo con esso. Lo rivestirai di bronzo. Farai i suoi recipienti per raccogliere le c eneri le sue palette i suoi vasi per l’aspersione le sue forcelle e i suoi bracieri. Farai di bronzo tut ti questi accessori. Farai per esso una graticola di bronzo lavorato in forma di rete e farai sulla re te quattro anelli di bronzo alle sue quattro estremità. La porrai sotto la cornice dell’altare in bas so: la rete arriverà a metà dell’altezza dell’altare. Farai anche stanghe per l’altare: saranno stan ghe di legno di acacia e le rivestirai di bronzo. Si introdurranno queste stanghe negli anelli e le s tanghe saranno sui due lati dell’altare quando lo si trasporta. Lo farai di tavole vuoto nell’intern o: lo faranno come ti fu mostrato sul monte. Farai poi il recinto della Dimora. Sul lato meridiona le verso sud il recinto avrà tendaggi di bisso ritorto per la lunghezza di cento cubiti sullo stesso l ato. Vi saranno venti colonne con venti basi di bronzo. Gli uncini delle colonne e le loro aste tras versali saranno d’argento. Allo stesso modo sul lato rivolto a settentrione: tendaggi per cento c ubiti di lunghezza le relative venti colonne con le venti basi di bronzo gli uncini delle colonne e l e aste trasversali d’argento. La larghezza del recinto verso occidente avrà cinquanta cubiti di ten daggi con le relative dieci colonne e le dieci basi. La larghezza del recinto sul lato orientale verso levante sarà di cinquanta cubiti: quindici cubiti di tendaggi con le relative tre colonne e le tre b asi alla prima ala; all’altra ala quindici cubiti di tendaggi con le tre colonne e le tre basi. Alla port a del recinto vi sarà una cortina di venti cubiti lavoro di ricamatore di porpora viola porpora ross a scarlatto e bisso ritorto con le relative quattro colonne e le quattro basi. Tutte le colonne intor no al recinto saranno fornite di aste trasversali d’argento: i loro uncini saranno d’argento e le lo ro basi di bronzo. La lunghezza del recinto sarà di cento cubiti la larghezza di cinquanta, l’altezza di cinque cubiti: di bisso ritorto con le basi di bronzo. Tutti gli arredi della Dimora per tutti i suoi servizi e tutti i picchetti come anche i picchetti del recinto saranno di bronzo. Tu ordinerai agli I sraeliti che ti procurino olio puro di olive schiacciate per l’illuminazione per tener sempre acces a una lampada. Nella tenda del convegno al di fuori del velo che sta davanti alla Testimonianza Aronne e i suoi figli la prepareranno perché dalla sera alla mattina essa sia davanti al Signore: rit o perenne presso gli Israeliti di generazione in generazione. Fa’ avvicinare a te in mezzo agli Isra eliti Aronne tuo fratello e i suoi figli con lui perché siano miei sacerdoti: Aronne Nadab e Abiu El eàzaro e Itamàr figli di Aronne. Farai per Aronne tuo fratello abiti sacri per gloria e decoro. Parle rai a tutti gli artigiani più esperti che io ho riempito di uno spirito di saggezza ed essi faranno gli abiti di Aronne per la sua consacrazione e per l’esercizio del sacerdozio in mio onore. E questi s ono gli abiti che faranno: il pettorale e l’ efod il manto la tunica ricamata il turbante e la cintura.
Faranno vesti sacre per Aronne tuo fratello e per i suoi figli, perché esercitino il sacerdozio in m
io onore. Useranno oro porpora viola e porpora rossa scarlatto e bisso. Faranno l’ efod con oro porpora viola e porpora rossa scarlatto e bisso ritorto, artisticamente lavorati. Avrà due spalline attaccate alle due estremità e in tal modo formerà un pezzo ben unito. La cintura per fissarlo c he sta sopra di esso, sarà della stessa fattura e sarà d’un sol pezzo: sarà intessuta d’oro di porpo ra viola e porpora rossa scarlatto e bisso ritorto. Prenderai due pietre di ònice e inciderai su di e sse i nomi dei figli d’Israele: sei dei loro nomi sulla prima pietra e gli altri sei nomi sulla seconda pietra in ordine di nascita. Inciderai le due pietre con i nomi dei figli d’Israele seguendo l’arte de ll’intagliatore di pietre per l’incisione di un sigillo; le inserirai in castoni d’oro. Fisserai le due piet re sulle spalline dell’ efod come memoriale per i figli d’Israele; così Aronne porterà i loro nomi s ulle sue spalle davanti al Signore come un memoriale. Farai anche i castoni d’oro e due catene d
’oro puro in forma di cordoni con un lavoro d’intreccio; poi fisserai le catene a intreccio sui cast oni. Farai il pettorale del giudizio artisticamente lavorato di fattura uguale a quella dell’ efod: co n oro porpora viola porpora rossa scarlatto e bisso ritorto. Sarà quadrato doppio; avrà una span na di lunghezza e una spanna di larghezza. Lo coprirai con un’incastonatura di pietre preziose di sposte in quattro file. Prima fila: una cornalina un topazio e uno smeraldo; seconda fila: una tur chese uno zaffìro e un berillo; terza fila: un giacinto un’àgata e un’ametista; quarta fila: un crisòl ito un’ònice e un diaspro. Esse saranno inserite nell’oro mediante i loro castoni. Le pietre corris ponderanno ai nomi dei figli d’Israele: dodici secondo i loro nomi e saranno incise come sigilli ci ascuna con il nome corrispondente secondo le dodici tribù. Sul pettorale farai catene in forma d i cordoni lavoro d’intreccio d’oro puro. Sul pettorale farai anche due anelli d’oro e metterai i du e anelli alle estremità del pettorale. Metterai le due catene d’oro sui due anelli alle estremità de l pettorale. Quanto alle altre due estremità delle catene le fisserai sui due castoni e le farai pass are sulle due spalline dell’ efod nella parte anteriore. Farai due anelli d’oro e li metterai sulle du e estremità del pettorale sul suo bordo che è dall’altra parte dell’ efod verso l’interno. Farai due altri anelli d’oro e li metterai sulle due spalline dell’ efod in basso sul suo lato anteriore in vicina nza del punto di attacco al di sopra della cintura dell’ efod. Si legherà il pettorale con i suoi anell i agli anelli dell’ efod mediante un cordone di porpora viola perché stia al di sopra della cintura dell’ efod e perché il pettorale non si distacchi dall’ efod. Così Aronne porterà i nomi dei figli d’Is raele sul pettorale del giudizio sopra il suo cuore quando entrerà nel Santo come memoriale da vanti al Signore per sempre. Unirai al pettorale del giudizio gli urìm e i tummìm. Saranno così so pra il cuore di Aronne quando entrerà alla presenza del Signore: Aronne porterà il giudizio degli Israeliti sopra il suo cuore alla presenza del Signore per sempre. Farai il manto dell’ efod tutto di porpora viola con in mezzo la scollatura per la testa; il bordo attorno alla scollatura sarà un lavo ro di tessitore come la scollatura di una corazza che non si lacera. Farai sul suo lembo melagran e di porpora viola, di porpora rossa e di scarlatto intorno al suo lembo e in mezzo disporrai sona gli d’oro: un sonaglio d’oro e una melagrana un sonaglio d’oro e una melagrana intorno all’orlo i nferiore del manto. Aronne l’indosserà nelle funzioni sacerdotali e se ne sentirà il suono quando egli entrerà nel Santo alla presenza del Signore e quando ne uscirà. Così non morirà. Farai una l
amina d’oro puro e vi inciderai come su di un sigillo “Sacro al Signore”. L’attaccherai con un cor done di porpora viola al turbante sulla parte anteriore. Starà sulla fronte di Aronne; Aronne por terà il carico delle colpe che potranno commettere gli Israeliti in occasione delle offerte sacre d a loro presentate. Aronne la porterà sempre sulla sua fronte per attirare su di loro il favore del S
ignore. Tesserai la tunica di bisso. Farai un turbante di bisso e una cintura lavoro di ricamo. Per i figli di Aronne farai tuniche e cinture. Per loro farai anche berretti per gloria e decoro. Farai ind ossare queste vesti ad Aronne tuo fratello e ai suoi figli. Poi li ungerai darai loro l’investitura e li consacrerai perché esercitino il sacerdozio in mio onore. Farai loro inoltre calzoni di lino per cop rire la loro nudità dovranno arrivare dai fianchi fino alle cosce. Aronne e i suoi figli li indosseran no quando entreranno nella tenda del convegno o quando si avvicineranno all’altare per officiar e nel santuario perché non incorrano in una colpa che li farebbe morire. è una prescrizione pere nne per lui e per i suoi discendenti. Osserverai questo rito per consacrarli al mio sacerdozio. Pre ndi un giovenco e due arieti senza difetto; poi pani azzimi focacce azzime impastate con olio e s chiacciate azzime cosparse di olio: le preparerai con fior di farina di frumento. Le disporrai in un solo canestro e le offrirai nel canestro insieme con il giovenco e i due arieti. Farai avvicinare Ar onne e i suoi figli all’ingresso della tenda del convegno e li laverai con acqua. Prenderai le vesti e rivestirai Aronne della tunica del manto dell’ efod dell’ efod e del pettorale; lo cingerai con la cintura dell’ efod; gli porrai sul capo il turbante e fisserai il diadema sacro sopra il turbante. Poi prenderai l’olio dell’unzione lo verserai sul suo capo e lo ungerai. Quanto ai suoi figli li farai avvi cinare li rivestirai di tuniche; li cingerai con la cintura e legherai loro i berretti. Il sacerdozio appa rterrà loro per decreto perenne. Così darai l’investitura ad Aronne e ai suoi figli. Farai poi avvici nare il giovenco davanti alla tenda del convegno. Aronne e i suoi figli poseranno le mani sulla su a testa. Immolerai il giovenco davanti al Signore, all’ingresso della tenda del convegno. Prender ai parte del suo sangue e con il dito lo spalmerai sui corni dell’altare. Il resto del sangue lo verse rai alla base dell’altare. Prenderai tutto il grasso che avvolge le viscere il lobo del fegato i reni co n il grasso che vi è sopra e li farai ardere in sacrificio sull’altare. Ma la carne del giovenco la sua pelle e i suoi escrementi li brucerai fuori dell’accampamento perché si tratta di un sacrificio per il peccato. Prenderai poi uno degli arieti; Aronne e i suoi figli poseranno le mani sulla sua testa. I mmolerai l’ariete ne raccoglierai il sangue e lo spargerai intorno all’altare. Dividerai in pezzi l’ari ete ne laverai le viscere e le zampe e le disporrai sui quarti e sulla testa. Allora farai bruciare sull
’altare tutto l’ariete. è un olocausto in onore del Signore un profumo gradito un’offerta consum ata dal fuoco in onore del Signore. Prenderai il secondo ariete; Aronne e i suoi figli poseranno le mani sulla sua testa. Lo immolerai prenderai parte del suo sangue e ne porrai sul lobo dell’orec chio destro di Aronne sul lobo dell’orecchio destro dei suoi figli sul pollice della loro mano destr a e sull’alluce del loro piede destro; poi spargerai il sangue intorno all’altare. Prenderai di quest o sangue dall’altare e insieme un po’ d’olio dell’unzione e ne spruzzerai su Aronne e le sue vesti sui figli di Aronne e le loro vesti: così sarà consacrato lui con le sue vesti e insieme con lui i suoi f igli con le loro vesti. Prenderai il grasso dell’ariete: la coda il grasso che copre le viscere il lobo d
el fegato i due reni con il grasso che vi è sopra e la coscia destra perché è l’ariete dell’investitura
. Prenderai anche un pane rotondo una focaccia all’olio e una schiacciata dal canestro di azzimi deposto davanti al Signore. Metterai il tutto sulle palme di Aronne e sulle palme dei suoi figli e f arai compiere il rito di elevazione davanti al Signore. Riprenderai ogni cosa dalle loro mani e la f arai bruciare sull’altare insieme all’olocausto come profumo gradito davanti al Signore: è un’off erta consumata dal fuoco in onore del Signore. Prenderai il petto dell’ariete dell’investitura di A ronne e lo presenterai con rito di elevazione davanti al Signore: diventerà la tua porzione. Cons acrerai il petto con il rito di elevazione e la coscia con il rito di innalzamento prelevandoli dall’ari ete dell’investitura: saranno di Aronne e dei suoi figli. Dovranno appartenere ad Aronne e ai suo i figli come porzione loro riservata dagli Israeliti in forza di legge perenne. Perché è un prelevam ento un prelevamento cioè che gli Israeliti dovranno operare in tutti i loro sacrifici di comunione un prelevamento dovuto al Signore. Le vesti sacre di Aronne passeranno dopo di lui ai suoi figli che se ne rivestiranno per ricevere l’unzione e l’investitura. Quello dei figli di Aronne che gli suc cederà nel sacerdozio ed entrerà nella tenda del convegno per officiare nel santuario, porterà q ueste vesti per sette giorni. Poi prenderai l’ariete dell’investitura e ne cuocerai le carni in luogo santo. Aronne e i suoi figli mangeranno la carne dell’ariete e il pane contenuto nel canestro all’i ngresso della tenda del convegno. Mangeranno così ciò che sarà servito per compiere il rito espi atorio nel corso della loro investitura e consacrazione. Nessun estraneo ne deve mangiare perc hé sono cose sante. Nel caso che al mattino ancora restasse carne del sacrificio d’investitura e d el pane brucerai questo avanzo nel fuoco. Non lo si mangerà: è cosa santa. Farai dunque ad Aro nne e ai suoi figli quanto ti ho comandato. Per sette giorni compirai il rito dell’investitura. In cias cun giorno offrirai un giovenco in sacrificio per il peccato in espiazione; toglierai il peccato dall’a ltare compiendo per esso il rito espiatorio e in seguito lo ungerai per consacrarlo. Per sette gior ni compirai il rito espiatorio per l’altare e lo consacrerai. Diverrà allora una cosa santissima e qu anto toccherà l’altare sarà santo. Ecco ciò che tu offrirai sull’altare: due agnelli di un anno ogni giorno per sempre. Offrirai uno di questi agnelli al mattino il secondo al tramonto. Con il primo agnello offrirai un decimo di efa di fior di farina, impastata con un quarto di hin di olio puro e un a libagione di un quarto di hin di vino. Offrirai il secondo agnello al tramonto con un’oblazione e una libagione come quelle del mattino: profumo gradito offerta consumata dal fuoco in onore del Signore. Questo è l’olocausto perenne di generazione in generazione all’ingresso della tenda del convegno, alla presenza del Signore dove io vi darò convegno per parlarti. Darò convegno a gli Israeliti in questo luogo che sarà consacrato dalla mia gloria. Consacrerò la tenda del conveg no e l’altare. Consacrerò anche Aronne e i suoi figli perché esercitino il sacerdozio per me. Abite rò in mezzo agli Israeliti e sarò il loro Dio. Sapranno che io sono il Signore loro Dio che li ho fatti uscire dalla terra d’Egitto per abitare in mezzo a loro io il Signore loro Dio. Farai un altare sul qu ale bruciare l’incenso: lo farai di legno di acacia. Avrà un cubito di lunghezza e un cubito di largh ezza: sarà quadrato; avrà due cubiti di altezza e i suoi corni costituiranno un solo pezzo con esso
. Rivestirai d’oro puro il suo piano i suoi lati i suoi corni e gli farai intorno un bordo d’oro. Farai a
nche due anelli d’oro al di sotto del bordo sui due fianchi ponendoli cioè sui due lati opposti: ser viranno per inserire le stanghe destinate a trasportarlo. Farai le stanghe di legno di acacia e le ri vestirai d’oro. Porrai l’altare davanti al velo che nasconde l’arca della Testimonianza di fronte al propiziatorio che è sopra la Testimonianza dove io ti darò convegno. Aronne brucerà su di esso l
’incenso aromatico: lo brucerà ogni mattina quando riordinerà le lampade, e lo brucerà anche a l tramonto quando Aronne riempirà le lampade: incenso perenne davanti al Signore di generazi one in generazione. Non vi offrirete sopra incenso illegittimo né olocausto né oblazione né vi ve rserete libagione. Una volta all’anno Aronne compirà il rito espiatorio sui corni di esso: con il sa ngue del sacrificio espiatorio per il peccato compirà sopra di esso una volta all’anno il rito espiat orio di generazione in generazione. è cosa santissima per il Signore». Il Signore parlò a Mosè e g li disse: «Quando per il censimento conterai uno per uno gli Israeliti all’atto del censimento cias cuno di essi pagherà al Signore il riscatto della sua vita perché non li colpisca un flagello in occas ione del loro censimento. Chiunque verrà sottoposto al censimento pagherà un mezzo siclo con forme al siclo del santuario il siclo di venti ghera. Questo mezzo siclo sarà un’offerta prelevata i n onore del Signore. Ogni persona sottoposta al censimento dai venti anni in su, corrisponderà l
’offerta prelevata per il Signore. Il ricco non darà di più e il povero non darà di meno di mezzo si clo per soddisfare all’offerta prelevata per il Signore a riscatto delle vostre vite. Prenderai il den aro espiatorio ricevuto dagli Israeliti e lo impiegherai per il servizio della tenda del convegno. Es so sarà per gli Israeliti come un memoriale davanti al Signore per il riscatto delle vostre vite». Il Signore parlò a Mosè: «Farai per le abluzioni un bacino di bronzo con il piedistallo di bronzo; lo collocherai tra la tenda del convegno e l’altare e vi metterai acqua. Aronne e i suoi figli vi atting eranno per lavarsi le mani e i piedi. Quando entreranno nella tenda del convegno faranno un’ab luzione con l’acqua, perché non muoiano; così quando si avvicineranno all’altare per officiare p er bruciare un’offerta da consumare con il fuoco in onore del Signore si laveranno le mani e i pi edi e non moriranno. è una prescrizione rituale perenne per Aronne e per i suoi discendenti in t utte le loro generazioni». Il Signore parlò a Mosè: «Procù rati balsami pregiati: mirra vergine per il peso di cinquecento sicli; cinnamòmo profumato la metà cioè duecentocinquanta sicli; canna aromatica, duecentocinquanta; cassia cinquecento sicli conformi al siclo del santuario; e un hin d’olio d’oliva. Ne farai l’olio per l’unzione sacra un unguento composto secondo l’arte del profu miere: sarà l’olio per l’unzione sacra. Con esso ungerai la tenda del convegno l’arca della Testim onianza, la tavola e tutti i suoi accessori il candelabro con i suoi accessori l’altare dell’incenso l’a ltare degli olocausti e tutti i suoi accessori il bacino con il suo piedistallo. Consacrerai queste cos e che diventeranno santissime: tutto quello che verrà a contatto con esse sarà santo. Ungerai a nche Aronne e i suoi figli e li consacrerai perché esercitino il mio sacerdozio. Agli Israeliti dirai: “
Questo sarà per me l’olio dell’unzione sacra di generazione in generazione. Non si dovrà versare sul corpo di nessun uomo e di simile a questo non ne dovrete fare: è una cosa santa e santa la dovrete ritenere. Chi ne farà di simile a questo o ne porrà sopra un uomo estraneo sia eliminato dal suo popolo”». Il Signore disse a Mosè: «Procù rati balsami: storace ònice, gàlbano e incenso
puro: il tutto in parti uguali. Farai con essi un profumo da bruciare una composizione aromatica secondo l’arte del profumiere salata pura e santa. Ne pesterai un poco riducendola in polvere minuta e ne metterai davanti alla Testimonianza, nella tenda del convegno dove io ti darò conv egno. Cosa santissima sarà da voi ritenuta. Non farete per vostro uso alcun profumo di composi zione simile a quello che devi fare: lo riterrai una cosa santa in onore del Signore. Chi ne farà di simile per sentirne il profumo sia eliminato dal suo popolo». Il Signore parlò a Mosè e gli disse:
«Vedi ho chiamato per nome Besalèl figlio di Urì figlio di Cur della tribù di Giuda. L’ho riempito dello spirito di Dio perché abbia saggezza intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro per idea re progetti da realizzare in oro argento e bronzo, per intagliare le pietre da incastonare per scol pire il legno ed eseguire ogni sorta di lavoro. Ed ecco gli ho dato per compagno Ooliàb figlio di A chisamàc della tribù di Dan. Inoltre nel cuore di ogni artista ho infuso saggezza perché possano eseguire quanto ti ho comandato: la tenda del convegno l’arca della Testimonianza il propiziato rio sopra di essa e tutti gli accessori della tenda; la tavola con i suoi accessori il candelabro puro con i suoi accessori l’altare dell’incenso e l’altare degli olocausti con tutti i suoi accessori il bacin o con il suo piedistallo; le vesti ornamentali le vesti sacre del sacerdote Aronne e le vesti dei suo i figli per esercitare il sacerdozio; l’olio dell’unzione e l’incenso aromatico per il santuario. Essi e seguiranno quanto ti ho ordinato». Il Signore disse a Mosè: «Tu ora parla agli Israeliti e riferisci l oro: “Osserverete attentamente i miei sabati perché il sabato è un segno tra me e voi di genera zione in generazione perché si sappia che io sono il Signore che vi santifica. Osserverete dunque il sabato perché per voi è santo. Chi lo profanerà sia messo a morte; chiunque in quel giorno fa rà qualche lavoro sia eliminato dal suo popolo. Per sei giorni si lavori ma il settimo giorno vi sarà riposo assoluto sacro al Signore. Chiunque farà un lavoro in giorno di sabato sia messo a morte.
Gli Israeliti osserveranno il sabato festeggiando il sabato nelle loro generazioni come un’alleanz a perenne. Esso è un segno perenne fra me e gli Israeliti: infatti il Signore in sei giorni ha fatto il cielo e la terra ma nel settimo ha cessato e ha preso respiro”». Quando il Signore ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai gli diede le due tavole della Testimonianza tavole di pietra scri tte dal dito di Dio. Il popolo vedendo che Mosè tardava a scendere dal monte fece ressa intorno ad Aronne e gli disse: «Fa’ per noi un dio che cammini alla nostra testa perché a Mosè, quell’uo mo che ci ha fatto uscire dalla terra d’Egitto non sappiamo che cosa sia accaduto». Aronne rispo se loro: «Togliete i pendenti d’oro che hanno agli orecchi le vostre mogli i vostri figli e le vostre f iglie e portateli a me». Tutto il popolo tolse i pendenti che ciascuno aveva agli orecchi e li portò ad Aronne. Egli li ricevette dalle loro mani li fece fondere in una forma e ne modellò un vitello di metallo fuso. Allora dissero: «Ecco il tuo Dio o Israele colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Eg itto!». Ciò vedendo Aronne costruì un altare davanti al vitello e proclamò: «Domani sarà festa in onore del Signore». Il giorno dopo si alzarono presto offrirono olocausti e presentarono sacrific i di comunione. Il popolo sedette per mangiare e bere poi si alzò per darsi al divertimento. Allor a il Signore disse a Mosè: «Va’ scendi perché il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitt o si è pervertito. Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicato! Si sono
fatti un vitello di metallo fuso poi gli si sono prostrati dinanzi gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: “Ecco il tuo Dio Israele colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto”». Il Signore disse in oltre a Mosè: «Ho osservato questo popolo: ecco è un popolo dalla dura cervice. Ora lascia che l a mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione». Mosè allora supplicò il Signore suo Dio e disse: «Perché, Signore si accenderà la tua ira contro il tuo popolo c he hai fatto uscire dalla terra d’Egitto con grande forza e con mano potente? Perché dovranno dire gli Egiziani: “Con malizia li ha fatti uscire per farli perire tra le montagne e farli sparire dalla terra”? Desisti dall’ardore della tua ira e abbandona il proposito di fare del male al tuo popolo.
Ricòrdati di Abramo di Isacco di Israele tuoi servi ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: “R
enderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo e tutta questa terra di cui ho parlat o la darò ai tuoi discendenti e la possederanno per sempre”». Il Signore si pentì del male che av eva minacciato di fare al suo popolo. Mosè si voltò e scese dal monte con in mano le due tavole della Testimonianza, tavole scritte sui due lati da una parte e dall’altra. Le tavole erano opera di Dio, la scrittura era scrittura di Dio scolpita sulle tavole. Giosuè sentì il rumore del popolo che u rlava e disse a Mosè: «C’è rumore di battaglia nell’accampamento». Ma rispose Mosè: «Non è il grido di chi canta: “Vittoria!”. Non è il grido di chi canta: “Disfatta!”. Il grido di chi canta a due c ori io sento». Quando si fu avvicinato all’accampamento vide il vitello e le danze. Allora l’ira di Mosè si accese: egli scagliò dalle mani le tavole spezzandole ai piedi della montagna. Poi afferrò il vitello che avevano fatto lo bruciò nel fuoco lo frantumò fino a ridurlo in polvere ne sparse la polvere nell’acqua e la fece bere agli Israeliti. Mosè disse ad Aronne: «Che cosa ti ha fatto quest o popolo perché tu l’abbia gravato di un peccato così grande?». Aronne rispose: «Non si accend a l’ira del mio signore; tu stesso sai che questo popolo è incline al male. Mi dissero: “Fa’ per noi un dio che cammini alla nostra testa perché a Mosè quell’uomo che ci ha fatto uscire dalla terra d’Egitto non sappiamo che cosa sia accaduto”. Allora io dissi: “Chi ha dell’oro? Toglietevelo!”. E
ssi me lo hanno dato; io l’ho gettato nel fuoco e ne è uscito questo vitello». Mosè vide che il po polo non aveva più freno perché Aronne gli aveva tolto ogni freno così da farne oggetto di derisi one per i loro avversari. Mosè si pose alla porta dell’accampamento e disse: «Chi sta con il Signo re venga da me!». Gli si raccolsero intorno tutti i figli di Levi. Disse loro: «Dice il Signore il Dio d’I sraele: “Ciascuno di voi tenga la spada al fianco. Passate e ripassate nell’accampamento da una porta all’altra: uccida ognuno il proprio fratello ognuno il proprio amico ognuno il proprio vicino
”». I figli di Levi agirono secondo il comando di Mosè e in quel giorno perirono circa tremila uom ini del popolo. Allora Mosè disse: «Ricevete oggi l’investitura dal Signore; ciascuno di voi è stato contro suo figlio e contro suo fratello, perché oggi egli vi accordasse benedizione». Il giorno do po Mosè disse al popolo: «Voi avete commesso un grande peccato; ora salirò verso il Signore: f orse otterrò il perdono della vostra colpa». Mosè ritornò dal Signore e disse: «Questo popolo ha commesso un grande peccato: si sono fatti un dio d’oro. Ma ora se tu perdonassi il loro peccat o… Altrimenti cancellami dal tuo libro che hai scritto!». Il Signore disse a Mosè: «Io cancellerò d al mio libro colui che ha peccato contro di me. Ora va’, conduci il popolo là dove io ti ho detto. E

cco il mio angelo ti precederà nel giorno della mia visita li punirò per il loro peccato». Il Signore colpì il popolo perché aveva fatto il vitello fabbricato da Aronne. Il Signore parlò a Mosè: «Su sal i di qui tu e il popolo che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto verso la terra che ho promesso con giuramento ad Abramo a Isacco e a Giacobbe dicendo: “La darò alla tua discendenza”. Manderò davanti a te un angelo e scaccerò il Cananeo l’Amorreo l’Ittita il Perizzita l’Eveo e il Gebuseo. Va
’ pure verso la terra dove scorrono latte e miele. Ma io non verrò in mezzo a te per non doverti sterminare lungo il cammino perché tu sei un popolo di dura cervice». Il popolo udì questa trist e notizia e tutti fecero lutto: nessuno più indossò i suoi ornamenti. Il Signore disse a Mosè: «Rif erisci agli Israeliti: “Voi siete un popolo di dura cervice; se per un momento io venissi in mezzo a te io ti sterminerei. Ora togliti i tuoi ornamenti, così saprò che cosa dovrò farti”». Gli Israeliti si spogliarono dei loro ornamenti dal monte Oreb in poi. Mosè prendeva la tenda e la piantava fu ori dell’accampamento a una certa distanza dall’accampamento e l’aveva chiamata tenda del co nvegno; appunto a questa tenda del convegno posta fuori dell’accampamento si recava chiunq ue volesse consultare il Signore. Quando Mosè usciva per recarsi alla tenda tutto il popolo si alz ava in piedi stando ciascuno all’ingresso della sua tenda: seguivano con lo sguardo Mosè finché non fosse entrato nella tenda. Quando Mosè entrava nella tenda scendeva la colonna di nube e restava all’ingresso della tenda e parlava con Mosè. Tutto il popolo vedeva la colonna di nube c he stava all’ingresso della tenda e tutti si alzavano e si prostravano ciascuno all’ingresso della pr opria tenda. Il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico. Po i questi tornava nell’accampamento mentre il suo inserviente il giovane Giosuè figlio di Nun non si allontanava dall’interno della tenda. Mosè disse al Signore: «Vedi tu mi ordini: “Fa’ salire que sto popolo” ma non mi hai indicato chi manderai con me; eppure hai detto: “Ti ho conosciuto p er nome, anzi hai trovato grazia ai miei occhi”. Ora se davvero ho trovato grazia ai tuoi occhi ind icami la tua via così che io ti conosca e trovi grazia ai tuoi occhi; considera che questa nazione è il tuo popolo». Rispose: «Il mio volto camminerà con voi e ti darò riposo». Riprese: «Se il tuo vol to non camminerà con noi, non farci salire di qui. Come si saprà dunque che ho trovato grazia ai tuoi occhi io e il tuo popolo se non nel fatto che tu cammini con noi? Così saremo distinti io e il tuo popolo da tutti i popoli che sono sulla faccia della terra». Disse il Signore a Mosè: «Anche qu anto hai detto io farò perché hai trovato grazia ai miei occhi e ti ho conosciuto per nome». Gli di sse: «Mostrami la tua gloria!». Rispose: «Farò passare davanti a te tutta la mia bontà e proclam erò il mio nome Signore davanti a te. A chi vorrò far grazia farò grazia e di chi vorrò aver miseric ordia avrò misericordia». Soggiunse: «Ma tu non potrai vedere il mio volto perché nessun uomo può vedermi e restare vivo». Aggiunse il Signore: «Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: quando passerà la mia gloria io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finc hé non sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle ma il mio volto non si può veder e». Il Signore disse a Mosè: «Taglia due tavole di pietra come le prime. Io scriverò su queste tav ole le parole che erano sulle tavole di prima che hai spezzato. Tieniti pronto per domani mattina
: domani mattina salirai sul monte Sinai e rimarrai lassù per me in cima al monte. Nessuno salga
con te e non si veda nessuno su tutto il monte; neppure greggi o armenti vengano a pascolare davanti a questo monte». Mosè tagliò due tavole di pietra come le prime; si alzò di buon mattin o e salì sul monte Sinai, come il Signore gli aveva comandato con le due tavole di pietra in mano
. Allora il Signore scese nella nube si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore. Il Sig nore passò davanti a lui proclamando: «Il Signore il Signore Dio misericordioso e pietoso lento a ll’ira e ricco di amore e di fedeltà, che conserva il suo amore per mille generazioni che perdona l a colpa la trasgressione e il peccato ma non lascia senza punizione che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione». Mosè si curvò in fretta fino a terra e si prostrò. Disse: «Se ho trovato grazia ai tuoi occhi Signore che il Signore cammini in m ezzo a noi. Sì è un popolo di dura cervice ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato: fa’ d i noi la tua eredità». Il Signore disse: «Ecco io stabilisco un’alleanza: in presenza di tutto il tuo p opolo io farò meraviglie quali non furono mai compiute in nessuna terra e in nessuna nazione: t utto il popolo in mezzo al quale ti trovi vedrà l’opera del Signore perché terribile è quanto io sto per fare con te. Osserva dunque ciò che io oggi ti comando. Ecco io scaccerò davanti a te l’Amo rreo il Cananeo l’Ittita il Perizzita l’Eveo e il Gebuseo. Guàrdati bene dal far alleanza con gli abita nti della terra nella quale stai per entrare perché ciò non diventi una trappola in mezzo a te. Anz i distruggerete i loro altari farete a pezzi le loro stele e taglierete i loro pali sacri. Tu non devi pr ostrarti ad altro dio perché il Signore si chiama Geloso: egli è un Dio geloso. Non fare alleanza c on gli abitanti di quella terra altrimenti quando si prostituiranno ai loro dèi e faranno sacrifici ai loro dèi inviteranno anche te: tu allora mangeresti del loro sacrificio. Non prendere per mogli d ei tuoi figli le loro figlie altrimenti quando esse si prostituiranno ai loro dèi indurrebbero anche i tuoi figli a prostituirsi ai loro dèi. Non ti farai un dio di metallo fuso. Osserverai la festa degli Azz imi. Per sette giorni mangerai pane azzimo come ti ho comandato nel tempo stabilito del mese di Abìb: perché nel mese di Abìb sei uscito dall’Egitto. Ogni essere che nasce per primo dal seno materno è mio: ogni tuo capo di bestiame maschio primo parto del bestiame grosso e minuto. R
iscatterai il primo parto dell’asino mediante un capo di bestiame minuto e se non lo vorrai risca ttare gli spaccherai la nuca. Ogni primogenito dei tuoi figli lo dovrai riscattare. Nessuno venga d avanti a me a mani vuote. Per sei giorni lavorerai ma nel settimo riposerai; dovrai riposare anch e nel tempo dell’aratura e della mietitura. Celebrerai anche la festa delle Settimane la festa cioè delle primizie della mietitura del frumento e la festa del raccolto al volgere dell’anno. Tre volte all’anno ogni tuo maschio compaia alla presenza del Signore Dio Dio d’Israele. Perché io scaccer ò le nazioni davanti a te e allargherò i tuoi confini; così quando tu tre volte all’anno salirai per c omparire alla presenza del Signore tuo Dio nessuno potrà desiderare di invadere la tua terra. N
on sacrificherai con pane lievitato il sangue della mia vittima sacrificale; la vittima sacrificale del la festa di Pasqua non dovrà restare fino al mattino. Porterai alla casa del Signore tuo Dio il meg lio delle primizie della tua terra. Non cuocerai un capretto nel latte di sua madre». Il Signore dis se a Mosè: «Scrivi queste parole perché sulla base di queste parole io ho stabilito un’alleanza co n te e con Israele». Mosè rimase con il Signore quaranta giorni e quaranta notti senza mangiar p
ane e senza bere acqua. Egli scrisse sulle tavole le parole dell’alleanza le dieci parole. Quando M
osè scese dal monte Sinai –
le due tavole della Testimonianza si trovavano nelle mani di Mosè mentre egli scendeva dal mo nte –
non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante poiché aveva conversato con lui. M
a Aronne e tutti gli Israeliti vedendo che la pelle del suo viso era raggiante ebbero timore di avvi cinarsi a lui. Mosè allora li chiamò e Aronne con tutti i capi della comunità, tornò da lui. Mosè p arlò a loro. Si avvicinarono dopo di loro tutti gli Israeliti ed egli ingiunse loro ciò che il Signore gli aveva ordinato sul monte Sinai. Quando Mosè ebbe finito di parlare a loro si pose un velo sul vi so. Quando entrava davanti al Signore per parlare con lui Mosè si toglieva il velo fin quando non fosse uscito. Una volta uscito riferiva agli Israeliti ciò che gli era stato ordinato. Gli Israeliti guar dando in faccia Mosè vedevano che la pelle del suo viso era raggiante. Poi egli si rimetteva il vel o sul viso fin quando non fosse di nuovo entrato a parlare con il Signore. Mosè radunò tutta la c omunità degli Israeliti e disse loro: «Queste sono le cose che il Signore ha comandato di fare: Pe r sei giorni si lavorerà ma il settimo sarà per voi un giorno santo un giorno di riposo assoluto sac ro al Signore. Chiunque in quel giorno farà qualche lavoro sarà messo a morte. In giorno di saba to non accenderete il fuoco in nessuna delle vostre dimore». Mosè disse a tutta la comunità de gli Israeliti: «Il Signore ha comandato: “Prelevate su quanto possedete un contributo per il Signo re”. Quanti hanno cuore generoso portino questo contributo per il Signore: oro argento e bronz o tessuti di porpora viola e rossa di scarlatto di bisso e di pelo di capra pelli di montone tinte di r osso, pelli di tasso e legno di acacia olio per l’illuminazione balsami per l’olio dell’unzione e per l
’incenso aromatico pietre di ònice e pietre da incastonare nell’ efod e nel pettorale. Tutti gli arti sti che sono tra voi vengano ed eseguano quanto il Signore ha comandato: la Dimora la sua ten da la sua copertura le sue fibbie le sue assi le sue traverse le sue colonne e le sue basi, l’arca e l e sue stanghe il propiziatorio e il velo che lo nasconde, la tavola con le sue stanghe e tutti i suoi accessori e i pani dell’offerta, il candelabro per illuminare con i suoi accessori le sue lampade e l
’olio per l’illuminazione l’altare dell’incenso con le sue stanghe l’olio dell’unzione e l’incenso aro matico la cortina d’ingresso alla porta della Dimora, l’altare degli olocausti con la sua graticola d i bronzo le sue sbarre e tutti i suoi accessori il bacino con il suo piedistallo i tendaggi del recinto le sue colonne e le sue basi e la cortina alla porta del recinto i picchetti della Dimora i picchetti del recinto e le loro corde le vesti ornamentali per officiare nel santuario le vesti sacre per il sac erdote Aronne e le vesti dei suoi figli per esercitare il sacerdozio». Allora tutta la comunità degli Israeliti si ritirò dalla presenza di Mosè. Quanti erano di cuore generoso ed erano mossi dal loro spirito vennero a portare il contributo per il Signore per la costruzione della tenda del convegno per tutti i suoi oggetti di culto e per le vesti sacre. Vennero uomini e donne quanti erano di cuo re generoso e portarono fermagli pendenti anelli collane ogni sorta di gioielli d’oro: quanti vole vano presentare un’offerta d’oro al Signore la portarono. Quanti si trovavano in possesso di tes suti di porpora viola e rossa di scarlatto di bisso di pelo di capra di pelli di montone tinte di ross
o e di pelli di tasso ne portarono. Quanti potevano offrire un contributo in argento o bronzo, lo portarono al Signore. Coloro che si trovavano in possesso di legno di acacia per qualche opera d ella costruzione ne portarono. Inoltre tutte le donne esperte filarono con le mani e portarono fil ati di porpora viola e rossa di scarlatto e di bisso. Tutte le donne che erano di cuore generoso se condo la loro abilità filarono il pelo di capra. I capi portarono le pietre di ònice e le pietre prezio se da incastonare nell’ efod e nel pettorale balsami e olio per l’illuminazione per l’olio dell’unzio ne e per l’incenso aromatico. Così tutti uomini e donne che erano di cuore disposto a portare q ualche cosa per la costruzione che il Signore per mezzo di Mosè aveva comandato di fare la port arono: gli Israeliti portarono la loro offerta spontanea al Signore. Mosè disse agli Israeliti: «Vede te il Signore ha chiamato per nome Besalèl figlio di Urì figlio di Cur della tribù di Giuda. L’ha rie mpito dello spirito di Dio perché egli abbia saggezza intelligenza e scienza in ogni genere di lavo ro per ideare progetti da realizzare in oro argento bronzo per intagliare le pietre da incastonare per scolpire il legno ed eseguire ogni sorta di lavoro artistico. Gli ha anche messo nel cuore il do no di insegnare e così anche ha fatto con Ooliàb figlio di Achisamàc della tribù di Dan. Li ha riem piti di saggezza per compiere ogni genere di lavoro d’intagliatore di disegnatore di ricamatore in porpora viola, in porpora rossa in scarlatto e in bisso e di tessitore: capaci di realizzare ogni sort a di lavoro e di ideare progetti». Besalèl Ooliàb e tutti gli artisti che il Signore aveva dotati di sag gezza e d’intelligenza per eseguire i lavori della costruzione del santuario fecero ogni cosa secon do ciò che il Signore aveva ordinato. Mosè chiamò Besalèl Ooliàb e tutti gli artisti nel cuore dei quali il Signore aveva messo saggezza quanti erano portati a prestarsi per l’esecuzione dei lavori
. Essi ricevettero da Mosè ogni contributo portato dagli Israeliti per il lavoro della costruzione d el santuario. Ma gli Israeliti continuavano a portare ogni mattina offerte spontanee. Allora tutti gli artisti che eseguivano i lavori per il santuario lasciarono il lavoro che ciascuno stava facendo e dissero a Mosè: «Il popolo porta più di quanto è necessario per il lavoro che il Signore ha ordi nato». Mosè allora ordinò di diffondere nell’accampamento questa voce: «Nessuno uomo o do nna offra più alcuna cosa come contributo per il santuario». Così si impedì al popolo di portare altre offerte; perché il materiale era sufficiente anzi sovrabbondante per l’esecuzione di tutti i l avori. Tutti gli artisti addetti ai lavori fecero la Dimora. Besalèl la fece con dieci teli di bisso ritort o di porpora viola di porpora rossa e di scarlatto. La fece con figure di cherubini artisticamente l avorati. La lunghezza di ciascun telo era ventotto cubiti; la larghezza quattro cubiti per ciascun t elo; la stessa dimensione per tutti i teli. Unì cinque teli l’uno all’altro e anche i cinque altri teli u nì l’uno all’altro. Fece cordoni di porpora viola sull’orlo del primo telo all’estremità della sutura e fece la stessa cosa sull’orlo del telo estremo nella seconda sutura. Fece cinquanta cordoni al p rimo telo e fece anche cinquanta cordoni all’estremità del telo della seconda sutura: i cordoni c orrispondevano l’uno all’altro. Fece cinquanta fibbie d’oro e unì i teli l’uno all’altro mediante le fibbie; così la Dimora formò un tutto unico. Fece poi teli di peli di capra per la tenda sopra la Di mora. Fece undici teli. La lunghezza di un telo era trenta cubiti; la larghezza quattro cubiti per u n telo; la stessa dimensione per gli undici teli. Unì insieme cinque teli a parte e sei teli a parte. F

ece cinquanta cordoni sull’orlo del telo della seconda sutura. Fece cinquanta fibbie di bronzo pe r unire insieme la tenda così da formare un tutto unico. Fece poi per la tenda una copertura di p elli di montone tinte di rosso e al di sopra una copertura di pelli di tasso. Fece per la Dimora assi di legno di acacia verticali. Dieci cubiti la lunghezza di un’asse e un cubito e mezzo la larghezza.
Ogni asse aveva due sostegni, congiunti l’uno all’altro da un rinforzo. Così fece per tutte le assi della Dimora. Fece dunque le assi per la Dimora: venti assi sul lato verso il mezzogiorno a sud. F
ece anche quaranta basi d’argento sotto le venti assi due basi sotto un’asse, per i suoi due soste gni e due basi sotto l’altra asse per i suoi due sostegni. Per il secondo lato della Dimora verso il s ettentrione fece venti assi e le loro quaranta basi d’argento due basi sotto un’asse e due basi so tto l’altra asse. Per la parte posteriore della Dimora verso occidente fece sei assi. Fece inoltre d ue assi per gli angoli della Dimora nella parte posteriore. Esse erano formate ciascuna da due pe zzi uguali, abbinati e perfettamente congiunti dal basso fino alla cima all’altezza del primo anell o. Così fece per ambedue: esse vennero a formare i due angoli. C’erano dunque otto assi con le loro basi d’argento: sedici basi due basi sotto un’asse e due basi sotto l’altra asse. Fece inoltre tr averse di legno di acacia: cinque per le assi di un lato della Dimora, cinque traverse per le assi d ell’altro lato della Dimora e cinque traverse per le assi della parte posteriore verso occidente. Fe ce la traversa mediana che a mezza altezza delle assi le attraversava da un’estremità all’altra. Ri vestì d’oro le assi fece in oro i loro anelli per inserire le traverse e rivestì d’oro anche le traverse.
Fece il velo di porpora viola e di porpora rossa di scarlatto e di bisso ritorto. Lo fece con figure d i cherubini lavoro d’artista. Fece per esso quattro colonne di acacia le rivestì d’oro; anche i loro uncini erano d’oro e fuse per esse quattro basi d’argento. Fecero poi una cortina per l’ingresso della tenda di porpora viola e di porpora rossa, di scarlatto e di bisso ritorto lavoro di ricamator e e le sue cinque colonne con i loro uncini. Rivestì d’oro i loro capitelli e le loro aste trasversali e fece le loro cinque basi di bronzo. Besalèl fece l’arca di legno di acacia: aveva due cubiti e mezz o di lunghezza un cubito e mezzo di larghezza un cubito e mezzo di altezza. La rivestì d’oro puro, dentro e fuori. Le fece intorno un bordo d’oro. Fuse per essa quattro anelli d’oro e li fissò ai suo i quattro piedi: due anelli su di un lato e due anelli sull’altro. Fece stanghe di legno di acacia e le rivestì d’oro. Introdusse le stanghe negli anelli sui due lati dell’arca per trasportare l’arca. Fece il propiziatorio d’oro puro: aveva due cubiti e mezzo di lunghezza e un cubito e mezzo di larghezz a. Fece due cherubini d’oro; li fece lavorati a martello sulle due estremità del propiziatorio: un c herubino a una estremità e un cherubino all’altra estremità. Fece i cherubini tutti d’un pezzo co n il propiziatorio posti alle sue due estremità. I cherubini avevano le due ali spiegate verso l’alto proteggendo con le ali il propiziatorio; erano rivolti l’uno verso l’altro e le facce dei cherubini er ano rivolte verso il propiziatorio. Fece la tavola di legno di acacia: aveva due cubiti di lunghezza un cubito di larghezza un cubito e mezzo di altezza. La rivestì d’oro puro e le fece attorno un bor do d’oro. Le fece attorno una cornice di un palmo e un bordo d’oro per la cornice. Fuse per essa quattro anelli d’oro e li fissò ai quattro angoli che costituivano i suoi quattro piedi. Gli anelli era no fissati alla cornice e servivano per inserire le stanghe destinate a trasportare la tavola. Fece l
e stanghe di legno di acacia per trasportare la tavola e le rivestì d’oro. Fece anche gli accessori d ella tavola: piatti coppe anfore e tazze per le libagioni; li fece di oro puro. Fece il candelabro d’o ro puro; lo fece lavorato a martello il suo fusto e i suoi bracci; i suoi calici i suoi bulbi e le sue cor olle facevano corpo con esso. Sei bracci uscivano dai suoi lati: tre bracci del candelabro da un la to e tre bracci del candelabro dall’altro. Vi erano su un braccio tre calici in forma di fiore di man dorlo con bulbo e corolla; anche sull’altro braccio tre calici in forma di fiore di mandorlo con bul bo e corolla. Così era per i sei bracci che uscivano dal candelabro. Il fusto del candelabro aveva quattro calici in forma di fiore di mandorlo con i loro bulbi e le loro corolle: un bulbo sotto due bracci che si dipartivano da esso e un bulbo sotto i due bracci seguenti che si dipartivano da ess o e un bulbo sotto gli ultimi due bracci che si dipartivano da esso; così per tutti i sei bracci che u scivano dal candelabro. I bulbi e i relativi bracci facevano corpo con esso: il tutto era formato da una sola massa d’oro puro lavorata a martello. Fece le sue sette lampade i suoi smoccolatoi e i suoi portacenere d’oro puro. Impiegò un talento d’oro puro per il candelabro e per tutti i suoi a ccessori. Fece l’altare per bruciare l’incenso di legno di acacia; aveva un cubito di lunghezza e u n cubito di larghezza: era quadrato con due cubiti di altezza e i suoi corni costituivano un sol pez zo con esso. Rivestì d’oro puro il suo piano i suoi lati i suoi corni e gli fece intorno un orlo d’oro.
Fece anche due anelli d’oro sotto l’orlo sui due fianchi cioè sui due lati opposti per inserirvi le st anghe destinate a trasportarlo. Fece le stanghe di legno di acacia e le rivestì d’oro. Preparò l’oli o dell’unzione sacra e l’incenso aromatico puro opera di profumiere. Fece l’altare per gli olocau sti di legno di acacia: aveva cinque cubiti di lunghezza e cinque cubiti di larghezza: era quadrato con tre cubiti di altezza. Fece i corni ai suoi quattro angoli: i corni costituivano un sol pezzo con esso. Lo rivestì di bronzo. Fece anche tutti gli accessori dell’altare: i recipienti le palette i vasi pe r l’aspersione le forcelle e i bracieri; fece di bronzo tutti i suoi accessori. Fece per l’altare una gr aticola di bronzo lavorata a forma di rete e la pose sotto la cornice dell’altare in basso: la rete ar rivava a metà altezza dell’altare. Fuse quattro anelli e li pose alle quattro estremità della gratico la di bronzo per inserirvi le stanghe. Fece anche le stanghe di legno di acacia e le rivestì di bronz o. Introdusse le stanghe negli anelli sui lati dell’altare: servivano a trasportarlo. Fece l’altare di t avole vuoto all’interno. Fece il bacino di bronzo con il suo piedistallo di bronzo impiegandovi gli specchi delle donne che venivano a prestare servizio all’ingresso della tenda del convegno. Fece il recinto: sul lato meridionale verso sud il recinto aveva tendaggi di bisso ritorto, per la lunghez za di cento cubiti. C’erano le loro venti colonne con le venti basi di bronzo. Gli uncini delle colon ne e le loro aste trasversali erano d’argento. Anche sul lato rivolto a settentrione vi erano tenda ggi per cento cubiti di lunghezza le relative venti colonne con le venti basi di bronzo gli uncini de lle colonne e le aste trasversali d’argento. Sul lato verso occidente c’erano cinquanta cubiti di te ndaggi con le relative dieci colonne e le dieci basi, gli uncini delle colonne e le loro aste trasvers ali d’argento. Sul lato orientale, verso levante vi erano cinquanta cubiti: quindici cubiti di tendag gi con le relative tre colonne e le tre basi alla prima ala; quindici cubiti di tendaggi con le tre col onne e le tre basi all’altra ala. Tutti i tendaggi che delimitavano il recinto erano di bisso ritorto. L

e basi delle colonne erano di bronzo gli uncini delle colonne e le aste trasversali erano d’argent o; il rivestimento dei loro capitelli era d’argento e tutte le colonne del recinto erano collegate d a aste trasversali d’argento. Alla porta del recinto c’era una cortina lavoro di ricamatore di porp ora viola porpora rossa scarlatto e bisso ritorto; la sua lunghezza era di venti cubiti la sua altezz a nel senso della larghezza era di cinque cubiti come i tendaggi del recinto. Le colonne relative e rano quattro con le quattro basi di bronzo i loro uncini d’argento il rivestimento dei loro capitell i e le loro aste trasversali d’argento. Tutti i picchetti della Dimora e del recinto circostante erano di bronzo. Questo è il computo dei metalli impiegati per la Dimora la Dimora della Testimonian za redatto su ordine di Mosè a opera dei leviti sotto la direzione di Itamàr figlio del sacerdote Ar onne. Besalèl figlio di Urì figlio di Cur della tribù di Giuda eseguì quanto il Signore aveva ordinat o a Mosè insieme con lui Ooliàb figlio di Achisamàc della tribù di Dan intagliatore decoratore e r icamatore di porpora viola porpora rossa scarlatto e bisso. Il totale dell’oro impiegato nella lavo razione cioè per tutto il lavoro del santuario – era l’oro presentato in offerta –
fu di ventinove talenti e settecentotrenta sicli, in sicli del santuario. L’argento raccolto in occasi one del censimento della comunità pesava cento talenti e millesettecentosettantacinque sicli in sicli del santuario, cioè un beka a testa vale a dire mezzo siclo secondo il siclo del santuario, per ciascuno dei sottoposti al censimento dai vent’anni in su. Erano seicentotremilacinquecentocin quanta. Cento talenti d’argento servirono a fondere le basi del santuario e le basi del velo: cent o basi per cento talenti cioè un talento per ogni base. Con i millesettecentosettantacinque sicli f ece gli uncini delle colonne rivestì i loro capitelli e le riunì con le aste trasversali. Il bronzo prese ntato in offerta assommava a settanta talenti e duemilaquattrocento sicli. Con esso fece le basi per l’ingresso della tenda del convegno l’altare di bronzo con la sua graticola di bronzo e tutti gli accessori dell’altare, le basi del recinto le basi della porta del recinto tutti i picchetti della Dimo ra e tutti i picchetti del recinto. Con porpora viola e porpora rossa e con scarlatto fecero le vesti liturgiche per officiare nel santuario. Fecero le vesti sacre di Aronne come il Signore aveva ordin ato a Mosè. Fecero l’ efod con oro porpora viola e porpora rossa scarlatto e bisso ritorto. Fecer o placche d’oro battuto e le tagliarono in strisce sottili per intrecciarle con la porpora viola la po rpora rossa lo scarlatto e il bisso lavoro d’artista. Fecero all’ efod due spalline che vennero attac cate alle sue due estremità in modo da formare un tutt’uno. La cintura che lo teneva legato e ch e stava sopra di esso era della stessa fattura ed era di un sol pezzo intessuta d’oro di porpora vi ola e porpora rossa di scarlatto e di bisso ritorto come il Signore aveva ordinato a Mosè. Lavorar ono le pietre di ònice, inserite in castoni d’oro incise con i nomi dei figli d’Israele secondo l’arte d’incidere i sigilli. Fissarono le due pietre sulle spalline dell’ efod, come memoriale per i figli d’Is raele come il Signore aveva ordinato a Mosè. Fecero il pettorale lavoro d’artista come l’ efod: c on oro porpora viola, porpora rossa scarlatto e bisso ritorto. Era quadrato e lo fecero doppio; av eva una spanna di lunghezza e una spanna di larghezza. Lo coprirono con quattro file di pietre.
Prima fila: una cornalina un topazio e uno smeraldo; seconda fila: una turchese uno zaffìro e un berillo; terza fila: un giacinto un’àgata e un’ametista; quarta fila: un crisòlito un’ònice e un diasp
ro. Esse erano inserite nell’oro mediante i loro castoni. Le pietre corrispondevano ai nomi dei fi gli d’Israele: dodici secondo i loro nomi; incise come i sigilli ciascuna con il nome corrispondente per le dodici tribù. Fecero sul pettorale catene in forma di cordoni lavoro d’intreccio d’oro puro
. Fecero due castoni d’oro e due anelli d’oro e misero i due anelli alle due estremità del pettoral e. Misero le due catene d’oro sui due anelli alle due estremità del pettorale. Quanto alle altre d ue estremità delle catene le fissarono sui due castoni e le fecero passare sulle spalline dell’ efod nella parte anteriore. Fecero due altri anelli d’oro e li collocarono alle due estremità del pettor ale sull’orlo che era dall’altra parte dell’ efod verso l’interno. Fecero due altri anelli d’oro e li po sero sulle due spalline dell’ efod in basso sul suo lato anteriore in vicinanza del punto di attacco al di sopra della cintura dell’ efod. Poi legarono il pettorale con i suoi anelli agli anelli dell’ efod mediante un cordone di porpora viola perché stesse al di sopra della cintura dell’ efod e il petto rale non si distaccasse dall’ efod come il Signore aveva ordinato a Mosè. Fecero il manto dell’ ef od lavoro di tessitore tutto di porpora viola; la scollatura del manto in mezzo era come la scollat ura di una corazza: intorno aveva un bordo perché non si lacerasse. Fecero sul lembo del manto melagrane di porpora viola, di porpora rossa di scarlatto e di bisso ritorto. Fecero sonagli d’oro puro e collocarono i sonagli in mezzo alle melagrane intorno all’orlo inferiore del manto: un son aglio e una melagrana un sonaglio e una melagrana lungo tutto il giro del lembo del manto per officiare, come il Signore aveva ordinato a Mosè. Fecero le tuniche di bisso lavoro di tessitore p er Aronne e per i suoi figli; il turbante di bisso gli ornamenti dei berretti di bisso e i calzoni di lin o di bisso ritorto; la cintura di bisso ritorto di porpora viola di porpora rossa e di scarlatto, lavor o di ricamatore come il Signore aveva ordinato a Mosè. Fecero la lamina il diadema sacro d’oro puro e vi scrissero sopra a caratteri incisi, come un sigillo «Sacro al Signore». Vi fissarono un cor done di porpora viola, per porre il diadema sopra il turbante come il Signore aveva ordinato a M
osè. Così fu finito tutto il lavoro della Dimora della tenda del convegno. Gli Israeliti eseguirono o gni cosa come il Signore aveva ordinato a Mosè: così fecero. Portarono dunque a Mosè la Dimor a la tenda e tutti i suoi accessori: le sue fibbie, le sue assi le sue traverse le sue colonne e le sue basi la copertura di pelli di montone tinte di rosso la copertura di pelli di tasso e il velo per far d a cortina; l’arca della Testimonianza con le sue stanghe e il propiziatorio; la tavola con tutti i suo i accessori e i pani dell’offerta; il candelabro d’oro puro con le sue lampade le lampade cioè che dovevano essere collocate sopra di esso con tutti i suoi accessori e l’olio per l’illuminazione; l’alt are d’oro l’olio dell’unzione, l’incenso aromatico e la cortina per l’ingresso della tenda; l’altare d i bronzo con la sua graticola di bronzo le sue stanghe e tutti i suoi accessori il bacino con il suo p iedistallo, i tendaggi del recinto le sue colonne le sue basi e la cortina per la porta del recinto le sue corde i suoi picchetti e tutti gli arredi del servizio della Dimora per la tenda del convegno; le vesti liturgiche per officiare nel santuario le vesti sacre del sacerdote Aronne e le vesti dei suoi f igli per l’esercizio del sacerdozio. Gli Israeliti avevano eseguito ogni lavoro come il Signore aveva ordinato a Mosè. Mosè vide tutta l’opera e riscontrò che l’avevano eseguita come il Signore av eva ordinato. Allora Mosè li benedisse. Il Signore parlò a Mosè e gli disse: «Il primo giorno del p
rimo mese erigerai la Dimora la tenda del convegno. Dentro vi collocherai l’arca della Testimoni anza davanti all’arca tenderai il velo. Vi introdurrai la tavola e disporrai su di essa ciò che vi deve essere disposto; introdurrai anche il candelabro e vi preparerai sopra le sue lampade. Metterai l’altare d’oro per l’incenso davanti all’arca della Testimonianza e porrai infine la cortina all’ingre sso della tenda. Poi metterai l’altare degli olocausti di fronte all’ingresso della Dimora della tend a del convegno. Metterai il bacino fra la tenda del convegno e l’altare e vi porrai l’acqua. Dispor rai il recinto tutt’attorno e metterai la cortina alla porta del recinto. Poi prenderai l’olio dell’unzi one e ungerai con esso la Dimora e quanto vi sarà dentro e la consacrerai con tutti i suoi access ori; così diventerà cosa santa. Ungerai anche l’altare degli olocausti e tutti i suoi accessori; cons acrerai l’altare e l’altare diventerà cosa santissima. Ungerai anche il bacino con il suo piedistallo e lo consacrerai. Poi farai avvicinare Aronne e i suoi figli all’ingresso della tenda del convegno e l i farai lavare con acqua. Farai indossare ad Aronne le vesti sacre lo ungerai lo consacrerai e così egli eserciterà il mio sacerdozio. Farai avvicinare anche i suoi figli e farai loro indossare le tunich e. Li ungerai come avrai unto il loro padre e così eserciteranno il mio sacerdozio; in tal modo la l oro unzione conferirà loro un sacerdozio perenne per le loro generazioni». Mosè eseguì ogni co sa come il Signore gli aveva ordinato: così fece. Nel secondo anno nel primo giorno del primo m ese fu eretta la Dimora. Mosè eresse la Dimora: pose le sue basi dispose le assi vi fissò le travers e e rizzò le colonne; poi stese la tenda sopra la Dimora e dispose al di sopra la copertura della te nda come il Signore gli aveva ordinato. Prese la Testimonianza la pose dentro l’arca mise le stan ghe all’arca e pose il propiziatorio sull’arca; poi introdusse l’arca nella Dimora collocò il velo che doveva far da cortina e lo tese davanti all’arca della Testimonianza come il Signore aveva ordin ato a Mosè. Nella tenda del convegno collocò la tavola sul lato settentrionale della Dimora al di fuori del velo. Dispose su di essa il pane in focacce sovrapposte alla presenza del Signore come i l Signore aveva ordinato a Mosè. Collocò inoltre il candelabro nella tenda del convegno di front e alla tavola sul lato meridionale della Dimora e vi preparò sopra le lampade davanti al Signore come il Signore aveva ordinato a Mosè. Collocò poi l’altare d’oro nella tenda del convegno dava nti al velo, e bruciò su di esso l’incenso aromatico come il Signore aveva ordinato a Mosè. Mise i nfine la cortina all’ingresso della Dimora. Poi collocò l’altare degli olocausti all’ingresso della Di mora della tenda del convegno e offrì su di esso l’olocausto e l’offerta come il Signore aveva ord inato a Mosè. Collocò il bacino fra la tenda del convegno e l’altare e vi mise dentro l’acqua per l e abluzioni. Mosè Aronne e i suoi figli si lavavano con essa le mani e i piedi: quando entravano n ella tenda del convegno e quando si accostavano all’altare essi si lavavano come il Signore avev a ordinato a Mosè. Infine eresse il recinto intorno alla Dimora e all’altare e mise la cortina alla p orta del recinto. Così Mosè terminò l’opera. Allora la nube coprì la tenda del convegno e la glori a del Signore riempì la Dimora. Mosè non poté entrare nella tenda del convegno perché la nube sostava su di essa e la gloria del Signore riempiva la Dimora. Per tutto il tempo del loro viaggio quando la nube s’innalzava e lasciava la Dimora, gli Israeliti levavano le tende. Se la nube non si innalzava essi non partivano, finché non si fosse innalzata. Perché la nube del Signore durante il
giorno, rimaneva sulla Dimora e durante la notte vi era in essa un fuoco visibile a tutta la casa d’
Israele per tutto il tempo del loro viaggio. Il Signore chiamò Mosè gli parlò dalla tenda del conve gno e disse: «Parla agli Israeliti dicendo: “Quando uno di voi vorrà presentare come offerta in o nore del Signore un animale scelto fra il bestiame domestico offrirete un capo di bestiame gross o o minuto. Se la sua offerta è un olocausto di bestiame grosso egli offrirà un maschio senza dif etto; l’offrirà all’ingresso della tenda del convegno perché sia accetto al Signore in suo favore. P
oserà la mano sulla testa della vittima che sarà accettata in suo favore per compiere il rito espia torio per lui. Poi scannerà il giovenco davanti al Signore e i figli di Aronne i sacerdoti offriranno i l sangue e lo spargeranno intorno all’altare che è all’ingresso della tenda del convegno. Scortich erà la vittima e la taglierà a pezzi. I figli del sacerdote Aronne porranno il fuoco sull’altare e met teranno la legna sul fuoco; poi i figli di Aronne i sacerdoti disporranno i pezzi la testa e il grasso sulla legna e sul fuoco che è sull’altare. Laverà con acqua le viscere e le zampe; poi il sacerdote brucerà il tutto sull’altare come olocausto sacrificio consumato dal fuoco profumo gradito in on ore del Signore. Se la sua offerta per l’olocausto è presa dal bestiame minuto tra le pecore o tra le capre egli offrirà un maschio senza difetto. Lo scannerà al lato settentrionale dell’altare dava nti al Signore. I figli di Aronne i sacerdoti spargeranno il sangue attorno all’altare. Lo taglierà a p ezzi con la testa e il grasso e il sacerdote li disporrà sulla legna collocata sul fuoco dell’altare. La verà con acqua le viscere e le zampe; poi il sacerdote offrirà il tutto e lo brucerà sull’altare: è un olocausto sacrificio consumato dal fuoco profumo gradito in onore del Signore. Se la sua offerta in onore del Signore è un olocausto di uccelli presenterà tortore o colombi. Il sacerdote present erà l’animale all’altare ne staccherà la testa la farà bruciare sull’altare e il sangue sarà spruzzato sulla parete dell’altare. Poi toglierà il gozzo con il suo sudiciume e lo getterà al lato orientale de ll’altare dov’è il luogo delle ceneri. Dividerà l’uccello in due metà prendendolo per le ali ma senz a staccarle e il sacerdote lo brucerà sull’altare sulla legna che è sul fuoco. è un olocausto sacrific io consumato dal fuoco profumo gradito in onore del Signore. Se qualcuno presenterà come off erta un’oblazione in onore del Signore la sua offerta sarà di fior di farina sulla quale verserà olio e porrà incenso. La porterà ai figli di Aronne i sacerdoti; prenderà da essa una manciata di fior d i farina e d’olio con tutto l’incenso e il sacerdote la farà bruciare sull’altare come suo memoriale
: è un sacrificio consumato dal fuoco profumo gradito in onore del Signore. Il resto dell’oblazion e spetta ad Aronne e ai suoi figli; è parte santissima porzione del Signore. Quando presenterai c ome offerta un’oblazione cotta nel forno essa consisterà in focacce azzime di fior di farina impa state con olio e anche in schiacciate azzime spalmate di olio. Se la tua offerta sarà un’oblazione cotta sulla teglia sarà di fior di farina azzima e impastata con olio; la dividerai in pezzi e sopra vi verserai olio: è un’oblazione. Se la tua offerta sarà un’oblazione cotta nella pentola, sarà fatta c on fior di farina e olio; porterai al Signore l’oblazione così preparata poi sarà presentata al sacer dote che la porterà sull’altare. Il sacerdote preleverà dall’oblazione il suo memoriale e lo brucer à sull’altare: sacrificio consumato dal fuoco profumo gradito in onore del Signore. Il resto dell’o blazione spetta ad Aronne e ai suoi figli; è parte santissima porzione del Signore. Nessuna delle
oblazioni che offrirete al Signore sarà lievitata: non farete bruciare né pasta lievitata né miele c ome sacrificio consumato dal fuoco in onore del Signore; potrete offrire queste cose al Signore come offerta di primizie ma non saliranno sull’altare come profumo gradito. Dovrai salare ogni t ua offerta di oblazione: nella tua oblazione non lascerai mancare il sale dell’alleanza del tuo Dio; sopra ogni tua offerta porrai del sale. Se offrirai al Signore un’oblazione di primizie offrirai com e oblazione delle tue primizie spighe di grano abbrustolite al fuoco e chicchi frantumati di grano novello. Verserai olio sopra di essa vi metterai incenso: è un’oblazione. Il sacerdote farà bruciar e come suo memoriale una parte dei chicchi e dell’olio insieme con tutto l’incenso: è un sacrifici o consumato dal fuoco in onore del Signore. Nel caso che la sua offerta sia un sacrificio di comu nione se offre un capo di bestiame grosso maschio o femmina lo presenterà senza difetto davan ti al Signore, poserà la sua mano sulla testa della vittima e la scannerà all’ingresso della tenda d el convegno e i figli di Aronne i sacerdoti spargeranno il sangue attorno all’altare. Di questo sacr ificio di comunione offrirà come sacrificio consumato dal fuoco in onore del Signore sia il grasso che avvolge le viscere sia tutto quello che vi è sopra i due reni con il loro grasso e il grasso attor no ai lombi e al lobo del fegato che distaccherà insieme ai reni. I figli di Aronne faranno bruciare tutto questo sull’altare in aggiunta all’olocausto posto sulla legna che è sul fuoco: è un sacrifici o consumato dal fuoco, profumo gradito in onore del Signore. Se la sua offerta per il sacrificio di comunione in onore del Signore è presa dal bestiame minuto maschio o femmina la presenterà senza difetto. Se presenta una pecora in offerta la offrirà davanti al Signore; poserà la mano sul la testa della vittima e la scannerà davanti alla tenda del convegno e i figli di Aronne ne sparger anno il sangue attorno all’altare. Di questo sacrificio di comunione offrirà quale sacrificio consu mato dal fuoco per il Signore il grasso e cioè l’intera coda presso l’estremità della spina dorsale i l grasso che avvolge le viscere e tutto il grasso che vi è sopra, i due reni con il loro grasso e il gra sso attorno ai lombi e al lobo del fegato che distaccherà insieme ai reni. Il sacerdote farà bruciar e tutto ciò sull’altare: è un alimento consumato dal fuoco in onore del Signore. Se la sua offerta è una capra la offrirà davanti al Signore; poserà la mano sulla sua testa e la scannerà davanti all a tenda del convegno e i figli di Aronne ne spargeranno il sangue attorno all’altare. Di essa prele verà come offerta consumata dal fuoco in onore del Signore il grasso che avvolge le viscere e tu tto il grasso che vi è sopra i due reni con il loro grasso e il grasso attorno ai lombi e al lobo del fe gato che distaccherà insieme ai reni. Il sacerdote li farà bruciare sull’altare: è un alimento consu mato dal fuoco profumo gradito in onore del Signore. Ogni parte grassa appartiene al Signore. è una prescrizione rituale perenne di generazione in generazione dovunque abiterete: non dovre te mangiare né grasso né sangue”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla agli Israeliti dicendo:
“Nel caso che qualcuno trasgredisca inavvertitamente un qualsiasi divieto della legge del Signor e facendo una cosa proibita: Se chi ha peccato è il sacerdote consacrato e così ha reso colpevole il popolo, presenterà in onore del Signore per il peccato da lui commesso un giovenco senza dif etto come sacrificio per il peccato. Condurrà il giovenco davanti al Signore all’ingresso della ten da del convegno; poserà la mano sulla testa del giovenco e lo scannerà davanti al Signore. Il sac
erdote consacrato prenderà un po’ del sangue del giovenco e lo porterà nell’interno della tenda del convegno; intingerà il dito nel sangue e farà sette aspersioni davanti al Signore di fronte al v elo del santuario. Porrà un po’ del sangue sui corni dell’altare dell’incenso aromatico, che è dav anti al Signore nella tenda del convegno e verserà tutto il resto del sangue del giovenco alla bas e dell’altare degli olocausti che si trova all’ingresso della tenda del convegno. Poi dal giovenco d el sacrificio per il peccato toglierà tutto il grasso: il grasso che avvolge le viscere tutto quello che vi è sopra i due reni con il loro grasso e il grasso attorno ai lombi e al lobo del fegato che distacc herà insieme ai reni. Farà come si fa per il giovenco del sacrificio di comunione e farà bruciare il tutto sull’altare degli olocausti. Ma la pelle del giovenco la carne con la testa le viscere le zampe e gli escrementi cioè tutto il resto del giovenco egli lo farà portare fuori dell’accampamento in l uogo puro dove si gettano le ceneri e lo farà bruciare sulla legna: dovrà essere bruciato sul muc chio delle ceneri. Se tutta la comunità d’Israele ha commesso un’inavvertenza senza che l’intera assemblea la conosca violando così un divieto della legge del Signore e rendendosi colpevole q uando il peccato commesso sarà conosciuto l’assemblea presenterà come sacrificio per il pecca to un giovenco e lo condurrà davanti alla tenda del convegno. Gli anziani della comunità posera nno le mani sulla testa del giovenco e lo si scannerà davanti al Signore. Il sacerdote consacrato porterà un po’ del sangue del giovenco nell’interno della tenda del convegno; intingerà il dito n el sangue e farà sette aspersioni davanti al Signore di fronte al velo del santuario. Porrà un po’ d el sangue sui corni dell’altare che è davanti al Signore nella tenda del convegno e verserà tutto i l resto del sangue alla base dell’altare degli olocausti che si trova all’ingresso della tenda del con vegno. Toglierà al giovenco tutte le parti grasse per bruciarle sull’altare. Tratterà il giovenco co me ha trattato quello offerto in sacrificio per il peccato: tutto allo stesso modo. Il sacerdote co mpirà in loro favore il rito espiatorio e sarà loro perdonato. Poi porterà il giovenco fuori dell’acc ampamento e lo brucerà come ha bruciato il primo. Questo è il sacrificio per il peccato dell’asse mblea. Se pecca un capo violando per inavvertenza un divieto del Signore suo Dio quando si ren derà conto di essere in condizione di colpa oppure quando gli verrà fatto conoscere il peccato c he ha commesso porterà come offerta un capro maschio senza difetto. Poserà la mano sulla tes ta del capro e lo scannerà nel luogo dove si scanna la vittima per l’olocausto davanti al Signore: è un sacrificio per il peccato. Il sacerdote prenderà con il dito un po’ del sangue della vittima sac rificata per il peccato e lo porrà sui corni dell’altare degli olocausti e verserà il resto del sangue alla base dell’altare degli olocausti. Poi brucerà sull’altare ogni parte grassa, come il grasso del s acrificio di comunione. Il sacerdote compirà per lui il rito espiatorio per il suo peccato e gli sarà perdonato. Se pecca per inavvertenza qualcuno del popolo della terra violando un divieto del Si gnore, quando si renderà conto di essere in condizione di colpa oppure quando gli verrà fatto c onoscere il peccato che ha commesso porterà come offerta una capra femmina senza difetto pe r il peccato che ha commesso. Poserà la mano sulla testa della vittima offerta per il peccato e la scannerà nel luogo dove si scanna la vittima per l’olocausto. Il sacerdote prenderà con il dito un po’ del sangue di essa e lo porrà sui corni dell’altare degli olocausti e verserà tutto il resto del sa
ngue alla base dell’altare. Preleverà tutte le parti grasse come si preleva il grasso del sacrificio di comunione e il sacerdote le brucerà sull’altare profumo gradito in onore del Signore. Il sacerdo te compirà per lui il rito espiatorio e gli sarà perdonato. Se porterà una pecora come offerta per il peccato porterà una femmina senza difetto. Poserà la mano sulla testa della vittima offerta p er il peccato e la scannerà in sacrificio per il peccato nel luogo dove si scanna la vittima per l’olo causto. Il sacerdote prenderà con il dito un po’ del sangue della vittima per il peccato e lo porrà sui corni dell’altare degli olocausti e verserà tutto il resto del sangue alla base dell’altare. Prelev erà tutte le parti grasse come si preleva il grasso della pecora del sacrificio di comunione e il sac erdote le brucerà sull’altare in aggiunta alle vittime consumate dal fuoco in onore del Signore. Il sacerdote compirà per lui il rito espiatorio per il peccato commesso e gli sarà perdonato. Quan do una persona ha udito una formula di scongiuro e ne è testimone perché l’ha visto o l’ha sapu to e pecca perché non dichiara nulla porterà il peso della sua colpa; oppure quando qualcuno se nza avvedersene tocca una cosa impura come il cadavere di una bestia selvatica o il cadavere di un animale domestico o quello di un rettile rimarrà egli stesso impuro e in condizione di colpa; oppure quando senza avvedersene tocca un’impurità propria della persona umana –
una qualunque delle cose per le quali l’uomo diviene impuro –
quando verrà a saperlo sarà in condizione di colpa; oppure quando qualcuno senza avvedersen e parlando con leggerezza avrà giurato con uno di quei giuramenti che gli uomini proferiscono a lla leggera di fare qualche cosa di male o di bene quando se ne rende conto sarà in condizione d i colpa. Quando sarà in condizione di colpa a causa di uno di questi fatti dovrà confessare in che cosa ha peccato; poi porterà al Signore come riparazione del peccato commesso una femmina d el bestiame minuto pecora o capra per il sacrificio espiatorio; il sacerdote compirà in suo favore il rito espiatorio per il peccato. Se non ha mezzi per procurarsi una pecora o una capra porterà al Signore come riparazione per il peccato commesso due tortore o due colombi: uno come sacr ificio per il peccato l’altro come olocausto. Li porterà al sacerdote il quale offrirà prima quello d estinato al sacrificio per il peccato: gli spaccherà la testa all’altezza della nuca ma senza staccarl a; poi spargerà un po’ del sangue della vittima offerta per il peccato sopra la parete dell’altare e farà colare il resto del sangue alla base dell’altare. è un sacrificio per il peccato. Con l’altro ucce llo offrirà un olocausto secondo le norme stabilite. Così il sacerdote compirà per lui il rito espiat orio per il peccato commesso e gli sarà perdonato. Ma se non ha mezzi per procurarsi due torto re o due colombi porterà come offerta per il peccato commesso un decimo di efa di fior di farin a come sacrificio per il peccato; non vi metterà né olio né incenso perché è un sacrificio per il pe ccato. Porterà la farina al sacerdote che ne prenderà una manciata come suo memoriale facend ola bruciare sull’altare in aggiunta alle vittime consumate dal fuoco in onore del Signore. è un s acrificio per il peccato. Così il sacerdote compirà per lui il rito espiatorio per il peccato commess o in uno dei casi suddetti e gli sarà perdonato. Il resto spetta al sacerdote come nell’oblazione”
». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Se qualcuno commetterà un’infedeltà e peccherà per errore riguardo a cose consacrate al Signore, porterà al Signore come sacrificio di riparazione un ariete
senza difetto preso dal gregge, corrispondente al valore stabilito in sicli d’argento conformi al si clo del santuario; risarcirà il danno fatto al santuario aggiungendovi un quinto e lo darà al sacer dote il quale compirà per lui il rito espiatorio con l’ariete offerto come sacrificio di riparazione e gli sarà perdonato. Quando qualcuno peccherà facendo senza saperlo una cosa vietata dal Sign ore sarà comunque in condizione di colpa e ne porterà il peso. Porterà al sacerdote come sacrifi cio di riparazione un ariete senza difetto preso dal bestiame minuto corrispondente al valore st abilito; il sacerdote compirà per lui il rito espiatorio per l’errore commesso per ignoranza e gli s arà perdonato. è un sacrificio di riparazione; quell’individuo infatti si era messo in condizione di colpa verso il Signore». Il Signore parlò a Mosè dicendo: «Quando qualcuno peccherà e commet terà un’infedeltà verso il Signore perché inganna il suo prossimo riguardo a depositi a pegni o a oggetti rubati oppure perché ricatta il suo prossimo, o perché trovando una cosa smarrita ment e in proposito e giura il falso riguardo a una cosa in cui uno commette peccato se avrà così pecc ato si troverà in condizione di colpa. Dovrà restituire la cosa rubata o ottenuta con ricatto o il d eposito che gli era stato affidato o l’oggetto smarrito che aveva trovato o qualunque cosa per c ui abbia giurato il falso. Farà la restituzione per intero aggiungendovi un quinto e renderà ciò al proprietario nel giorno in cui farà la riparazione. Come riparazione al Signore, porterà al sacerdo te un ariete senza difetto preso dal gregge corrispondente al valore stabilito per il sacrificio di ri parazione. Il sacerdote compirà per lui il rito espiatorio davanti al Signore e gli sarà perdonato q ualunque sia la mancanza di cui si è reso colpevole». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Da’ quest’
ordine ad Aronne e ai suoi figli: “Questa è la legge per l’olocausto. L’olocausto rimarrà acceso su l braciere sopra l’altare tutta la notte fino al mattino; il fuoco dell’altare sarà tenuto acceso. Il sa cerdote indossata la tunica di lino e vestiti i calzoni di lino sul suo corpo toglierà la cenere dopo che il fuoco avrà consumato l’olocausto sopra l’altare e la deporrà al fianco dell’altare. Poi, spog liatosi delle vesti e indossatene altre porterà la cenere fuori dell’accampamento in un luogo pur o. Il fuoco sarà tenuto acceso sull’altare e non lo si lascerà spegnere; il sacerdote vi brucerà legn a ogni mattina vi disporrà sopra l’olocausto e vi brucerà sopra il grasso dei sacrifici di comunion e. Il fuoco deve essere sempre tenuto acceso sull’altare senza lasciarlo spegnere. Questa è la le gge dell’oblazione. I figli di Aronne la presenteranno al Signore, dinanzi all’altare. Il sacerdote pr eleverà una manciata di fior di farina con il suo olio e con tutto l’incenso che è sopra l’oblazione e la farà bruciare sull’altare come profumo gradito in suo memoriale in onore del Signore. Aron ne e i suoi figli mangeranno quello che rimarrà dell’oblazione; lo si mangerà senza lievito in luog o santo nel recinto della tenda del convegno. Non si cuocerà con lievito; è la parte che ho loro a ssegnata delle offerte a me bruciate con il fuoco. è cosa santissima come il sacrificio per il pecca to e il sacrificio di riparazione. Ogni maschio tra i figli di Aronne potrà mangiarne. è un diritto pe renne delle vostre generazioni sui sacrifici consumati dal fuoco in onore del Signore. Tutto ciò c he verrà a contatto con queste cose sarà santo”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Questa è l’of ferta che Aronne e i suoi figli presenteranno al Signore il giorno in cui riceveranno l’unzione: un decimo di efa di fior di farina come oblazione perpetua metà la mattina e metà la sera. Essa sar
à preparata con olio nella teglia: la porterai ben stemperata; la presenterai a pezzi come profu mo gradito in onore del Signore. Il sacerdote che tra i figli di Aronne, sarà stato consacrato per s uccedergli farà questa offerta; è una prescrizione perenne: sarà bruciata tutta in onore del Sign ore. Ogni oblazione del sacerdote sarà bruciata tutta; non se ne potrà mangiare». Il Signore parl ò a Mosè e disse: «Parla ad Aronne e ai suoi figli dicendo: “Questa è la legge del sacrificio per il peccato. Nel luogo dove si scanna l’olocausto sarà scannata davanti al Signore la vittima per il p eccato. è cosa santissima. Il sacerdote che l’avrà offerta come sacrificio per il peccato potrà ma ngiarla; dovrà mangiarla in luogo santo nel recinto della tenda del convegno. Tutto ciò che verrà a contatto con la sua carne sarà santo; se parte del suo sangue schizza sopra una veste laverai il lembo macchiato di sangue in luogo santo. Ma il vaso di terra che sarà servito a cuocerla sarà s pezzato; se è stata cotta in un recipiente di bronzo questo sarà strofinato bene e sciacquato con acqua. Tra i sacerdoti ogni maschio ne potrà mangiare. è cosa santissima. Ma ogni offerta per il peccato il cui sangue verrà portato nella tenda del convegno per il rito espiatorio nel santuario non dovrà essere mangiata; essa sarà bruciata nel fuoco. Questa è la legge del sacrificio di ripar azione. è cosa santissima. Nel luogo dove si scanna l’olocausto si scannerà la vittima di riparazio ne; se ne spargerà il sangue attorno all’altare e se ne offrirà tutto il grasso: la coda il grasso che copre le viscere i due reni con il loro grasso e il grasso attorno ai lombi e al lobo del fegato che d istaccherà insieme ai reni. Il sacerdote farà bruciare tutto questo sull’altare come sacrificio cons umato dal fuoco in onore del Signore. Questo è un sacrificio di riparazione. Ogni maschio tra i sa cerdoti ne potrà mangiare; lo si mangerà in luogo santo. è cosa santissima. Il sacrificio di riparaz ione è come il sacrificio per il peccato: la stessa legge vale per ambedue; la vittima spetterà al s acerdote che avrà compiuto il rito espiatorio. Il sacerdote che avrà offerto l’olocausto per qualc uno avrà per sé la pelle della vittima che ha offerto. Così anche ogni oblazione cotta nel forno o preparata nella pentola o nella teglia spetterà al sacerdote che l’ha offerta. Ogni oblazione impa stata con olio o asciutta spetterà a tutti i figli di Aronne in misura uguale. Questa è la legge del s acrificio di comunione che si offrirà al Signore. Se qualcuno lo offrirà in ringraziamento offrirà c on il sacrificio di comunione focacce senza lievito impastate con olio schiacciate senza lievito un te con olio e fior di farina stemperata in forma di focacce impastate con olio. Insieme alle focacc e di pane lievitato presenterà la sua offerta in aggiunta al suo sacrificio di comunione offerto in ringraziamento. Di ognuna di queste offerte una parte si presenterà come oblazione prelevata i n onore del Signore; essa spetterà al sacerdote che ha sparso il sangue della vittima del sacrifici o di comunione. La carne del sacrificio di comunione offerto in ringraziamento dovrà mangiarsi i l giorno stesso in cui esso viene offerto; non se ne lascerà nulla per il mattino seguente. Ma se il sacrificio che qualcuno offre è votivo o spontaneo la vittima si mangerà il giorno in cui verrà off erta il resto dovrà esser mangiato il giorno dopo; ma quel che sarà rimasto della carne del sacrif icio fino al terzo giorno dovrà essere bruciato nel fuoco. Se qualcuno mangia la carne del sacrific io di comunione il terzo giorno l’offerente non sarà gradito; dell’offerta non gli sarà tenuto cont o: sarà avariata e chi ne avrà mangiato subirà la pena della sua colpa. La carne che sarà stata a c
ontatto con qualche cosa di impuro non si potrà mangiare; sarà bruciata nel fuoco. Chiunque sa rà puro potrà mangiare la carne; se qualcuno mangerà la carne del sacrificio di comunione offer to al Signore e sarà in stato di impurità costui sarà eliminato dal suo popolo. Se qualcuno tocche rà qualsiasi cosa impura – un’impurità umana un animale impuro o qualsiasi cosa obbrobriosa –
e poi mangerà la carne di un sacrificio di comunione offerto in onore del Signore sarà eliminato dal suo popolo”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla agli Israeliti dicendo: “Non mangerete alcun grasso né di bue né di pecora né di capra. Il grasso di una bestia che è morta naturalment e o il grasso di una bestia sbranata potrà servire per qualunque altro uso ma non ne mangerete affatto perché chiunque mangerà il grasso di animali che si possono offrire in sacrificio consuma to dal fuoco in onore del Signore sarà eliminato dal suo popolo. E non mangerete affatto sangu e né di uccelli né di animali domestici dovunque abitiate. Chiunque mangerà sangue di qualunq ue specie sarà eliminato dal suo popolo”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla agli Israeliti di cendo: “Chi offrirà al Signore il sacrificio di comunione porterà un’offerta al Signore prelevandol a dal sacrificio di comunione. Porterà con le proprie mani ciò che deve essere offerto al Signore con il fuoco: porterà il grasso insieme con il petto il petto per presentarlo con il rito di elevazion e davanti al Signore. Il sacerdote brucerà il grasso sopra l’altare; il petto sarà di Aronne e dei su oi figli. Darete anche come contributo al sacerdote la coscia destra dei vostri sacrifici di comuni one. Essa spetterà come sua parte al figlio di Aronne che avrà offerto il sangue e il grasso dei sa crifici di comunione. Poiché dai sacrifici di comunione offerti dagli Israeliti io mi riservo il petto d ella vittima offerta con il rito di elevazione e la coscia della vittima offerta come contributo e li d o al sacerdote Aronne e ai suoi figli per legge perenne che gli Israeliti osserveranno”». Questa è la parte dovuta ad Aronne e ai suoi figli dei sacrifici bruciati in onore del Signore ogni volta che v erranno offerti nell’esercizio della funzione sacerdotale al servizio del Signore. Agli Israeliti il Sig nore ha ordinato di dar loro questo dal giorno della loro consacrazione. è una parte che è loro d ovuta per sempre di generazione in generazione. Questa è la legge per l’olocausto l’oblazione il sacrificio per il peccato il sacrificio di riparazione l’investitura e il sacrificio di comunione: legge c he il Signore ha dato a Mosè sul monte Sinai quando ordinò agli Israeliti di presentare le offerte al Signore nel deserto del Sinai. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Prendi Aronne insieme ai suoi f igli le vesti l’olio dell’unzione il giovenco del sacrificio per il peccato i due arieti e il cesto dei pan i azzimi; convoca tutta la comunità all’ingresso della tenda del convegno». Mosè fece come il Si gnore gli aveva ordinato e la comunità fu convocata all’ingresso della tenda del convegno. Mosè disse alla comunità: «Questo il Signore ha ordinato di fare». Mosè fece accostare Aronne e i su oi figli e li lavò con acqua. Poi rivestì Aronne della tunica lo cinse della cintura gli pose addosso il manto gli mise l’ efod e lo cinse con la cintura dell’ efod con la quale lo fissò. Gli mise anche il p ettorale e nel pettorale pose gli urìm e i tummìm. Poi gli mise in capo il turbante e sul davanti d el turbante pose la lamina d’oro il sacro diadema come il Signore aveva ordinato a Mosè. Poi M
osè prese l’olio dell’unzione unse la Dimora e tutte le cose che vi si trovavano e così le consacrò.
Fece con esso sette volte l’aspersione sull’altare unse l’altare con tutti i suoi accessori il bacino
con il suo piedistallo per consacrarli. Versò l’olio dell’unzione sul capo di Aronne e unse Aronne, per consacrarlo. Poi Mosè fece avvicinare i figli di Aronne li vestì di tuniche li cinse con le cintur e e legò sul loro capo i turbanti come il Signore aveva ordinato a Mosè. Fece quindi accostare il giovenco del sacrificio per il peccato e Aronne e i suoi figli stesero le mani sulla testa del giovenc o del sacrificio per il peccato. Mosè lo scannò ne prese del sangue ne spalmò con il dito i corni a ttorno all’altare e purificò l’altare; poi sparse il resto del sangue alla base dell’altare e lo consacr ò per compiere su di esso il rito espiatorio. Prese tutto il grasso aderente alle viscere il lobo del f egato i due reni con il loro grasso e Mosè fece bruciare tutto sull’altare. Ma bruciò nel fuoco fuo ri dell’accampamento il giovenco cioè la sua pelle la sua carne e gli escrementi come il Signore g li aveva ordinato. Fece quindi avvicinare l’ariete dell’olocausto e Aronne e i suoi figli stesero le mani sulla testa dell’ariete. Mosè lo scannò e ne sparse il sangue attorno all’altare. Fece a pezzi l’ariete e ne bruciò testa pezzi e grasso. Dopo averne lavato le viscere e le zampe con acqua fec e bruciare tutto l’ariete sull’altare: fu un olocausto di profumo gradito un sacrificio consumato d al fuoco in onore del Signore come il Signore gli aveva ordinato. Poi fece accostare il secondo ari ete l’ariete del rito di investitura e Aronne e i suoi figli stesero le mani sulla testa dell’ariete. Mo sè lo scannò ne prese del sangue e lo pose sul lobo dell’orecchio destro di Aronne e sul pollice d ella mano destra e sull’alluce del piede destro. Mosè fece avvicinare i figli di Aronne e pose un p o’ del sangue sul lobo del loro orecchio destro sul pollice della mano destra e sull’alluce del pied e destro; sparse il resto del sangue attorno all’altare. Prese il grasso la coda, tutto il grasso ader ente alle viscere il lobo del fegato i reni con il loro grasso e la coscia destra; dal canestro dei pan i azzimi che stava davanti al Signore prese una focaccia senza lievito, una focaccia di pasta con l’
olio e una schiacciata e le pose sulle parti grasse e sulla coscia destra. Mise tutte queste cose sul le palme di Aronne e dei suoi figli e compì il rito di elevazione davanti al Signore. Mosè quindi le prese dalle loro palme e le fece bruciare sull’altare insieme all’olocausto: sacrificio per l’investit ura di profumo gradito, sacrificio consumato dal fuoco in onore del Signore. Poi Mosè prese il p etto dell’ariete e lo presentò con il rito di elevazione davanti al Signore; questa fu la parte dell’a riete del rito di investitura toccata a Mosè come il Signore gli aveva ordinato. Mosè prese quindi l’olio dell’unzione e il sangue che era sopra l’altare ne asperse Aronne e le sue vesti i figli di lui e le loro vesti insieme a lui; così consacrò Aronne e le sue vesti e similmente i suoi figli e le loro vesti. Poi Mosè disse ad Aronne e ai suoi figli: «Fate cuocere la carne all’ingresso della tenda del convegno e là mangiatela con il pane che è nel canestro per il rito dell’investitura come ho ordi nato dicendo: La mangeranno Aronne e i suoi figli. Quel che avanza della carne e del pane bruci atelo nel fuoco. Per sette giorni non uscirete dall’ingresso della tenda del convegno finché cioè non siano compiuti i giorni della vostra investitura perché il rito della vostra investitura durerà s ette giorni. Come si è fatto oggi così il Signore ha ordinato che si faccia per il rito espiatorio su di voi. Rimarrete sette giorni all’ingresso della tenda del convegno, giorno e notte osservando il c omandamento del Signore perché non moriate; così infatti mi è stato ordinato». Aronne e i suoi figli fecero quanto era stato ordinato dal Signore per mezzo di Mosè. L’ottavo giorno Mosè con
vocò Aronne i suoi figli e gli anziani d’Israele e disse ad Aronne: «Procù rati un vitello per il sacrif icio per il peccato e un ariete per l’olocausto tutti e due senza difetto e presentali davanti al Sig nore. Agli Israeliti dirai: “Prendete un capro per il sacrificio per il peccato un vitello e un agnello tutti e due di un anno senza difetto per l’olocausto un toro e un ariete per il sacrificio di comuni one da immolare davanti al Signore e infine un’oblazione impastata con olio, perché oggi il Sign ore si manifesterà a voi”». Essi dunque condussero davanti alla tenda del convegno quanto Mos è aveva ordinato; tutta la comunità si avvicinò e restarono in piedi davanti al Signore. Mosè diss e: «Ecco ciò che il Signore vi ha ordinato; fatelo e la gloria del Signore vi apparirà». Mosè disse a d Aronne: «Avvicìnati all’altare: offri il tuo sacrificio per il peccato e il tuo olocausto e compi il ri to espiatorio in favore tuo e in favore del popolo; presenta anche l’offerta del popolo e compi p er esso il rito espiatorio come il Signore ha ordinato». Aronne dunque si avvicinò all’altare e sca nnò il vitello del sacrificio per il proprio peccato. I suoi figli gli porsero il sangue ed egli vi intinse il dito lo spalmò sui corni dell’altare e sparse il resto del sangue alla base dell’altare; ma il grass o i reni e il lobo del fegato della vittima per il peccato li fece bruciare sopra l’altare come il Signo re aveva ordinato a Mosè. La carne e la pelle le bruciò nel fuoco fuori dell’accampamento. Poi s cannò l’olocausto; i figli di Aronne gli porsero il sangue ed egli lo sparse attorno all’altare. Gli po rsero anche la vittima dell’olocausto divisa in pezzi e la testa e le fece bruciare sull’altare. Lavò l e viscere e le zampe e le fece bruciare sull’olocausto sopra l’altare. Poi presentò l’offerta del po polo. Prese il capro destinato al sacrificio per il peccato del popolo lo scannò e lo offrì in sacrifici o per il peccato come il precedente. Quindi presentò l’olocausto e lo offrì secondo le prescrizion i stabilite. Presentò quindi l’oblazione ne prese una manciata piena e la fece bruciare sull’altare oltre all’olocausto della mattina. Scannò il toro e l’ariete in sacrificio di comunione per il popolo.
I figli di Aronne gli porsero il sangue ed egli lo sparse attorno all’altare. Gli porsero le parti grass e del toro e dell’ariete la coda il grasso aderente alle viscere i reni e il lobo del fegato: misero le parti grasse sui petti ed egli li fece bruciare sull’altare. I petti e la coscia destra Aronne li present ò con il rito di elevazione davanti al Signore come Mosè aveva ordinato. Aronne alzate le mani v erso il popolo lo benedisse; poi discese dopo aver compiuto il sacrificio per il peccato l’olocaust o e i sacrifici di comunione. Mosè e Aronne entrarono nella tenda del convegno; poi uscirono e benedissero il popolo e la gloria del Signore si manifestò a tutto il popolo. Un fuoco uscì dalla pr esenza del Signore e consumò sull’altare l’olocausto e le parti grasse; tutto il popolo vide mand arono grida di esultanza e si prostrarono con la faccia a terra. Ora Nadab e Abiu figli di Aronne p resero ciascuno un braciere vi misero dentro il fuoco e vi posero sopra dell’incenso e presentar ono davanti al Signore un fuoco illegittimo che il Signore non aveva loro ordinato. Ma un fuoco uscì dalla presenza del Signore e li divorò e morirono così davanti al Signore. Allora Mosè disse ad Aronne: «Di questo il Signore ha parlato quando ha detto: “In coloro che mi stanno vicino mi mostrerò santo e alla presenza di tutto il popolo sarò glorificato”». Aronne tacque. Mosè chiam ò Misaele ed Elsafàn figli di Uzzièl zio di Aronne e disse loro: «Avvicinatevi portate via questi vos tri fratelli dal santuario fuori dell’accampamento». Essi si avvicinarono e li portarono via con le l
oro tuniche, fuori dell’accampamento come Mosè aveva detto. Ad Aronne a Eleàzaro e a Itamàr suoi figli Mosè disse: «Non vi scarmigliate i capelli del capo e non vi stracciate le vesti perché n on moriate e il Signore non si adiri contro tutta la comunità ma i vostri fratelli tutta la casa d’Isr aele facciano pure lutto per coloro che il Signore ha distrutto con il fuoco. Non vi allontanate da ll’ingresso della tenda del convegno così che non moriate; perché l’olio dell’unzione del Signore è su di voi». Essi fecero come Mosè aveva detto. Il Signore parlò ad Aronne dicendo: «Non beve te vino o bevanda inebriante né tu né i tuoi figli quando dovete entrare nella tenda del convegn o perché non moriate. Sarà una legge perenne di generazione in generazione. Questo perché p ossiate distinguere ciò che è santo da ciò che è profano e ciò che è impuro da ciò che è puro e p ossiate insegnare agli Israeliti tutte le leggi che il Signore ha dato loro per mezzo di Mosè». Poi Mosè disse ad Aronne a Eleàzaro e a Itamàr figli superstiti di Aronne: «Prendete quel che è avan zato dell’oblazione dei sacrifici consumati dal fuoco in onore del Signore e mangiatelo senza liev ito presso l’altare perché è cosa santissima. Dovete mangiarlo in luogo santo perché è la parte c he spetta a te e ai tuoi figli tra i sacrifici consumati dal fuoco in onore del Signore: così mi è stat o ordinato. La coscia della vittima offerta come contributo e il petto della vittima offerta con il ri to di elevazione li mangerete tu i tuoi figli e le tue figlie con te in luogo puro; perché vi sono stat i dati come parte tua e dei tuoi figli tra i sacrifici di comunione degli Israeliti. Essi porteranno insi eme con le parti grasse da bruciare la coscia del contributo e il petto del rito di elevazione, perc hé siano ritualmente elevati davanti al Signore; questo spetterà a te e ai tuoi figli con te, per diri tto perenne come il Signore ha ordinato». Mosè si informò accuratamente circa il capro del sacr ificio per il peccato e seppe che era stato bruciato; allora si sdegnò contro Eleàzaro e contro Ita màr figli superstiti di Aronne dicendo: «Perché non avete mangiato la vittima del sacrificio per il peccato nel luogo santo? Infatti è cosa santissima. Il Signore ve l’ha data, perché tolga la colpa della comunità compiendo per loro il rito espiatorio davanti al Signore. Ecco il sangue della vitti ma non è stato portato dentro il santuario; voi avreste dovuto mangiarla nel santuario come io avevo ordinato». Aronne allora disse a Mosè: «Ecco oggi essi hanno offerto il loro sacrificio per i l peccato e il loro olocausto davanti al Signore; ma dopo le cose che mi sono capitate se oggi av essi mangiato la vittima del sacrificio per il peccato sarebbe stato bene agli occhi del Signore?».
Quando Mosè udì questo parve bene ai suoi occhi. Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne e disse l oro: «Parlate agli Israeliti dicendo: “Questi sono gli animali che potrete mangiare fra tutte le bes tie che sono sulla terra. Potrete mangiare di ogni quadrupede che ha l’unghia bipartita divisa da una fessura e che rumina. Ma fra i ruminanti e gli animali che hanno l’unghia divisa non manger ete i seguenti: il cammello perché rumina ma non ha l’unghia divisa lo considererete impuro; l’ir àce perché rumina ma non ha l’unghia divisa lo considererete impuro; la lepre perché rumina m a non ha l’unghia divisa la considererete impura; il porco perché ha l’unghia bipartita da una fes sura ma non rumina lo considererete impuro. Non mangerete la loro carne e non toccherete i lo ro cadaveri; li considererete impuri. Fra tutti gli animali acquatici ecco quelli che potrete mangia re: potrete mangiare tutti quelli di mare o di fiume che hanno pinne e squame. Ma di tutti gli an
imali che si muovono o vivono nelle acque nei mari e nei fiumi quanti non hanno né pinne né sq uame saranno per voi obbrobriosi. Essi saranno per voi obbrobriosi; non mangerete la loro carn e e riterrete obbrobriosi i loro cadaveri. Tutto ciò che non ha né pinne né squame nelle acque s arà per voi obbrobrioso. Fra i volatili saranno obbrobriosi questi che non dovrete mangiare perc hé obbrobriosi: l’aquila l’avvoltoio e l’aquila di mare il nibbio e ogni specie di falco ogni specie di corvo lo struzzo la civetta il gabbiano e ogni specie di sparviero il gufo l’alcione l’ibis, il cigno il p ellicano la fòlaga la cicogna ogni specie di airone l’ù pupa e il pipistrello. Sarà per voi obbrobrios o anche ogni insetto alato che cammina su quattro piedi. Però fra tutti gli insetti alati che camm inano su quattro piedi potrete mangiare quelli che hanno due zampe sopra i piedi per saltare su lla terra. Perciò potrete mangiare i seguenti: ogni specie di cavalletta ogni specie di locusta ogni specie di acrìdi e ogni specie di grillo. Ogni altro insetto alato che ha quattro piedi sarà obbrobri oso per voi; infatti vi rendono impuri: chiunque toccherà il loro cadavere sarà impuro fino alla s era e chiunque trasporterà i loro cadaveri si dovrà lavare le vesti e sarà impuro fino alla sera. Rit errete impuro ogni animale che ha l’unghia ma non divisa da fessura e non rumina: chiunque li t occherà sarà impuro. Considererete impuri tutti i quadrupedi che camminano sulla pianta dei pi edi; chiunque ne toccherà il cadavere sarà impuro fino alla sera. E chiunque trasporterà i loro ca daveri si dovrà lavare le vesti e sarà impuro fino alla sera. Tali animali riterrete impuri. Fra gli ani mali che strisciano per terra riterrete impuro: la talpa il topo e ogni specie di sauri il toporagno l a lucertola il geco il ramarro il camaleonte. Questi animali fra quanti strisciano saranno impuri p er voi; chiunque li toccherà morti sarà impuro fino alla sera. Ogni oggetto sul quale cadrà morto qualcuno di essi sarà impuro: si tratti di utensile di legno oppure di veste o pelle o sacco o qual unque altro oggetto di cui si faccia uso; si immergerà nell’acqua e sarà impuro fino alla sera poi sarà puro. Se ne cade qualcuno in un vaso di terra quanto vi si troverà dentro sarà impuro e spe zzerete il vaso. Ogni cibo che serve di nutrimento sul quale cada quell’acqua sarà impuro; ogni b evanda potabile qualunque sia il vaso che la contiene sarà impura. Ogni oggetto sul quale cadrà qualche parte del loro cadavere sarà impuro; il forno o il fornello sarà spezzato: sono impuri e li dovete ritenere tali. Però una fonte o una cisterna cioè una raccolta di acqua resterà pura; ma c hi toccherà i loro cadaveri sarà impuro. Se qualcosa dei loro cadaveri cade su qualche seme che deve essere seminato questo sarà puro; ma se è stata versata acqua sul seme e vi cade qualche cosa dei loro cadaveri lo riterrai impuro. Se muore un animale di cui vi potete cibare colui che n e toccherà il cadavere sarà impuro fino alla sera. Colui che mangerà di quel cadavere si laverà le vesti e sarà impuro fino alla sera; anche colui che trasporterà quel cadavere si laverà le vesti e s arà impuro fino alla sera. Ogni essere che striscia sulla terra sarà obbrobrioso; non se ne mange rà. Di tutti gli animali che strisciano sulla terra non ne mangerete alcuno che cammini sul ventre o cammini con quattro piedi o con molti piedi poiché saranno obbrobriosi. Non rendete le vostr e persone contaminate con alcuno di questi animali che strisciano; non rendetevi impuri con es si e non diventate a causa loro impuri. Poiché io sono il Signore vostro Dio. Santificatevi dunque e siate santi perché io sono santo; non rendete impure le vostre persone con alcuno di questi a
nimali che strisciano per terra. Poiché io sono il Signore che vi ho fatto uscire dalla terra d’Egitto per essere il vostro Dio; siate dunque santi perché io sono santo. Questa è la legge che riguarda i quadrupedi gli uccelli ogni essere vivente che si muove nelle acque e ogni essere che striscia p er terra per distinguere ciò che è impuro da ciò che è puro l’animale che si può mangiare da que llo che non si deve mangiare”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla agli Israeliti dicendo: “Se una donna sarà rimasta incinta e darà alla luce un maschio sarà impura per sette giorni; sarà im pura come nel tempo delle sue mestruazioni. L’ottavo giorno si circonciderà il prepuzio del bam bino. Poi ella resterà ancora trentatré giorni a purificarsi dal suo sangue; non toccherà alcuna co sa santa e non entrerà nel santuario finché non siano compiuti i giorni della sua purificazione. M
a se partorisce una femmina sarà impura due settimane come durante le sue mestruazioni; rest erà sessantasei giorni a purificarsi del suo sangue. Quando i giorni della sua purificazione per un figlio o per una figlia saranno compiuti, porterà al sacerdote all’ingresso della tenda del conveg no un agnello di un anno come olocausto e un colombo o una tortora in sacrificio per il peccato.
Il sacerdote li offrirà davanti al Signore e farà il rito espiatorio per lei; ella sarà purificata dal flus so del suo sangue. Questa è la legge che riguarda la donna quando partorisce un maschio o una femmina. Se non ha mezzi per offrire un agnello prenderà due tortore o due colombi: uno per l’
olocausto e l’altro per il sacrificio per il peccato. Il sacerdote compirà il rito espiatorio per lei ed ella sarà pura”». Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne e disse: «Se qualcuno ha sulla pelle del cor po un tumore o una pustola o macchia bianca che faccia sospettare una piaga di lebbra quel tal e sarà condotto dal sacerdote Aronne o da qualcuno dei sacerdoti suoi figli. Il sacerdote esamin erà la piaga sulla pelle del corpo: se il pelo della piaga è diventato bianco e la piaga appare com e incavata rispetto alla pelle del corpo è piaga di lebbra; il sacerdote dopo averlo esaminato dic hiarerà quell’uomo impuro. Ma se la macchia sulla pelle del corpo è bianca e non appare incava ta rispetto alla pelle e il suo pelo non è diventato bianco il sacerdote isolerà per sette giorni colu i che ha la piaga. Al settimo giorno il sacerdote l’esaminerà ancora; se gli parrà che la piaga si sia fermata senza allargarsi sulla pelle il sacerdote lo isolerà per altri sette giorni. Il sacerdote il sett imo giorno lo esaminerà di nuovo: se vedrà che la piaga non è più bianca e non si è allargata sull a pelle dichiarerà quell’uomo puro; è una pustola. Quello si laverà le vesti e sarà puro. Ma se la pustola si è allargata sulla pelle dopo che egli si è mostrato al sacerdote per essere dichiarato p uro si farà esaminare di nuovo dal sacerdote: il sacerdote l’esaminerà e se vedrà che la pustola si è allargata sulla pelle il sacerdote lo dichiarerà impuro; è lebbra. Se qualcuno avrà addosso un a piaga di lebbra sarà condotto dal sacerdote, ed egli lo esaminerà: se vedrà che sulla pelle c’è u n tumore bianco che questo tumore ha fatto imbiancare il pelo e che nel tumore si trova carne viva, è lebbra inveterata nella pelle del corpo e il sacerdote lo dichiarerà impuro; non c’è bisogn o che lo tenga ancora isolato perché certo è impuro. Se la lebbra si propaga sulla pelle in modo da coprire tutta la pelle di colui che ha la piaga dal capo ai piedi dovunque il sacerdote guardi q uesti lo esaminerà e se vedrà che la lebbra copre tutto il corpo dichiarerà puro l’individuo affett o dal morbo: essendo tutto bianco è puro. Ma quando apparirà in lui carne viva allora sarà impu
ro. Il sacerdote vista la carne viva lo dichiarerà impuro: la carne viva è impura; è lebbra. Ma se l a carne viva ridiventa bianca egli vada dal sacerdote e il sacerdote lo esaminerà: se vedrà che la piaga è ridiventata bianca il sacerdote dichiarerà puro colui che ha la piaga; è puro. Se qualcuno ha avuto sulla pelle del corpo un’ulcera che sia guarita e poi sul luogo dell’ulcera appaia un tum ore bianco o una macchia bianco-rossastra, quel tale si mostrerà al sacerdote il quale l’esaminerà e se vedrà che la macchia è info ssata rispetto alla pelle e che il pelo è diventato bianco il sacerdote lo dichiarerà impuro: è una piaga di lebbra che è scoppiata nell’ulcera. Ma se il sacerdote esaminandola vede che nella mac chia non ci sono peli bianchi che non appare infossata rispetto alla pelle ma che si è attenuata il sacerdote lo isolerà per sette giorni. Se la macchia si allarga sulla pelle il sacerdote lo dichiarerà impuro: è una piaga di lebbra. Ma se la macchia è rimasta allo stesso punto senza allargarsi è un a cicatrice di ulcera e il sacerdote lo dichiarerà puro. Oppure se qualcuno ha sulla pelle del corp o una scottatura prodotta da fuoco e su questa appaia una macchia lucida bianco-rossastra o soltanto bianca il sacerdote l’esaminerà: se vedrà che il pelo della macchia è diventa to bianco e la macchia appare incavata rispetto alla pelle è lebbra scoppiata nella scottatura. Il s acerdote lo dichiarerà impuro: è una piaga di lebbra. Ma se il sacerdote esaminandola vede che non c’è pelo bianco nella macchia e che essa non è infossata rispetto alla pelle e si è attenuata il sacerdote lo isolerà per sette giorni. Al settimo giorno il sacerdote lo esaminerà e se la macchia si è diffusa sulla pelle il sacerdote lo dichiarerà impuro: è una piaga di lebbra. Ma se la macchia è rimasta ferma nella stessa zona e non si è diffusa sulla pelle ma si è attenuata è un gonfiore d ovuto a bruciatura; il sacerdote dichiarerà quel tale puro perché si tratta di una cicatrice della b ruciatura. Se un uomo o una donna ha una piaga sul capo o sul mento il sacerdote esaminerà la piaga: se riscontra che essa è incavata rispetto alla pelle e che vi è del pelo gialliccio e sottile il s acerdote lo dichiarerà impuro; è tigna lebbra del capo o del mento. Ma se il sacerdote esamina ndo la piaga della tigna riscontra che non è incavata rispetto alla pelle e che non vi è pelo scuro il sacerdote isolerà per sette giorni la persona affetta da tigna. Se il sacerdote esaminando al set timo giorno la piaga vedrà che la tigna non si è allargata e che non vi è pelo gialliccio e che la tig na non appare incavata rispetto alla pelle quella persona si raderà ma non raderà il luogo dove è la tigna; il sacerdote la terrà isolata per altri sette giorni. Al settimo giorno il sacerdote esamin erà la tigna: se riscontra che la tigna non si è allargata sulla pelle e non appare incavata rispetto alla pelle il sacerdote la dichiarerà pura; quella persona si laverà le vesti e sarà pura. Ma se dop o che sarà stata dichiarata pura la tigna si allargherà sulla pelle, il sacerdote l’esaminerà: se not a che la tigna si è allargata sulla pelle non starà a cercare se vi è il pelo giallo; quella persona è i mpura. Ma se vedrà che la tigna si è fermata e vi è cresciuto il pelo scuro la tigna è guarita; quell a persona è pura e il sacerdote la dichiarerà tale. Se un uomo o una donna ha sulla pelle del cor po macchie lucide bianche, il sacerdote le esaminerà: se vedrà che le macchie sulla pelle del lor o corpo sono di un bianco pallido è un’eruzione cutanea; quella persona è pura. Chi perde i cap elli del capo è calvo ma è puro. Se i capelli gli sono caduti dal lato della fronte è calvo davanti m
a è puro. Ma se sulla parte calva del cranio o della fronte appare una piaga bianco-rossastra è lebbra scoppiata sulla calvizie del cranio o della fronte; il sacerdote lo esaminerà: se riscontra che il tumore della piaga nella parte calva del cranio o della fronte è bianco-rossastro simile alla lebbra della pelle del corpo quel tale è un lebbroso; è impuro e lo dovrà dic hiarare impuro: il male lo ha colpito al capo. Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappat e e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore andrà gridando: “Impuro! Impuro!”. Sarà im puro finché durerà in lui il male; è impuro se ne starà solo abiterà fuori dell’accampamento. Qu ando apparirà una macchia di lebbra su una veste di lana o di lino, nel tessuto o nel manufatto di lino o di lana su una pelliccia o qualunque altra cosa di cuoio se la macchia sarà verdastra o ro ssastra sulla veste o sulla pelliccia sul tessuto o sul manufatto o su qualunque cosa di cuoio è m acchia di lebbra e sarà mostrata al sacerdote. Il sacerdote esaminerà la macchia e rinchiuderà p er sette giorni l’oggetto che ha la macchia. Al settimo giorno esaminerà la macchia: se la macchi a si sarà allargata sulla veste o sul tessuto o sul manufatto o sulla pelliccia o sull’oggetto di cuoi o per qualunque uso è una macchia di lebbra maligna è cosa impura. Egli brucerà quella veste o il tessuto o il manufatto di lana o di lino o qualunque oggetto fatto di pelle sul quale è la macchi a; poiché è lebbra maligna saranno bruciati nel fuoco. Ma se il sacerdote esaminandola vedrà c he la macchia non si è allargata sulle vesti o sul tessuto o sul manufatto o su qualunque oggetto di cuoio il sacerdote ordinerà che si lavi l’oggetto su cui è la macchia e lo rinchiuderà per altri s ette giorni. Il sacerdote esaminerà la macchia dopo che sarà stata lavata: se vedrà che la macchi a non ha mutato colore benché non si sia allargata è un oggetto impuro; lo brucerai nel fuoco: v i è corrosione sia sul diritto sia sul rovescio dell’oggetto. Se il sacerdote esaminandola vede che la macchia dopo essere stata lavata si è attenuata la strapperà dalla veste o dalla pelle o dal tes suto o dal manufatto. Se appare ancora sulla veste o sul tessuto o sul manufatto o sull’oggetto di cuoio, è un’eruzione in atto; brucerai nel fuoco l’oggetto su cui è la macchia. La veste o il tess uto o il manufatto o qualunque oggetto di cuoio che avrai lavato e dal quale la macchia sarà sco mparsa si laverà una seconda volta e sarà puro. Questa è la legge relativa alla macchia di lebbra sopra una veste di lana o di lino, sul tessuto o sul manufatto o su qualunque oggetto di pelle per dichiararli puri o impuri». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Questa è la legge che si riferisce al le bbroso per il giorno della sua purificazione. Egli sarà condotto al sacerdote. Il sacerdote uscirà d all’accampamento e lo esaminerà: se riscontrerà che la piaga della lebbra è guarita nel lebbroso ordinerà che si prendano per la persona da purificare due uccelli vivi puri legno di cedro panno scarlatto e issòpo. Il sacerdote ordinerà di immolare uno degli uccelli in un vaso di terracotta co n acqua corrente. Poi prenderà l’uccello vivo il legno di cedro il panno scarlatto e l’issòpo e li im mergerà con l’uccello vivo nel sangue dell’uccello sgozzato sopra l’acqua corrente. Ne aspergerà sette volte colui che deve essere purificato dalla lebbra; lo dichiarerà puro e lascerà andare libe ro per i campi l’uccello vivo. Colui che è purificato si laverà le vesti si raderà tutti i peli si laverà n ell’acqua e sarà puro. Dopo questo potrà entrare nell’accampamento ma per sette giorni rester à fuori della sua tenda. Il settimo giorno si raderà tutti i peli il capo la barba le ciglia insomma tu
tti i peli; si laverà le vesti e si bagnerà il corpo nell’acqua e sarà puro. L’ottavo giorno prenderà d ue agnelli senza difetto un’agnella di un anno senza difetto tre decimi di efa di fior di farina imp astata con olio come oblazione e un log di olio; il sacerdote che compie il rito di purificazione pr esenterà l’uomo che si purifica e le cose suddette davanti al Signore all’ingresso della tenda del convegno. Il sacerdote prenderà uno degli agnelli e lo presenterà come sacrificio di riparazione con il log d’olio e li offrirà con il rito di elevazione davanti al Signore. Poi scannerà l’agnello nel l uogo dove si scanna la vittima per il peccato e l’olocausto cioè nel luogo santo. Come il sacrifici o per il peccato anche quello di riparazione spetta al sacerdote: è cosa santissima. Il sacerdote p renderà del sangue della vittima per il sacrificio di riparazione e lo metterà sul lobo dell’orecchi o destro di colui che si purifica sul pollice della mano destra e sull’alluce del piede destro. Poi pr eso un po’ d’olio dal log lo verserà sulla palma della sua mano sinistra; intingerà il dito della des tra nell’olio che ha nella palma sinistra con il dito spruzzerà sette volte quell’olio davanti al Sign ore. Quanto resta dell’olio che tiene nella palma della mano il sacerdote lo metterà sul lobo dell
’orecchio destro di colui che si purifica sul pollice della mano destra e sull’alluce del piede destr o insieme al sangue della vittima del sacrificio di riparazione. Il resto dell’olio che ha nella palma il sacerdote lo verserà sul capo di colui che si purifica; il sacerdote compirà per lui il rito espiato rio davanti al Signore. Poi il sacerdote offrirà il sacrificio per il peccato e compirà il rito espiatori o per colui che si purifica della sua impurità. Quindi scannerà l’olocausto. Offerto l’olocausto e l’
oblazione sull’altare il sacerdote compirà per lui il rito espiatorio e sarà puro. Se quel tale è pov ero e non ha mezzi sufficienti prenderà un agnello come sacrificio di riparazione da offrire con il rito di elevazione per compiere l’espiazione per lui e un decimo di efa di fior di farina impastata con olio come oblazione e un log di olio. Prenderà anche due tortore o due colombi secondo i s uoi mezzi; uno sarà per il sacrificio per il peccato e l’altro per l’olocausto. L’ottavo giorno porter à per la sua purificazione queste cose al sacerdote all’ingresso della tenda del convegno, davant i al Signore. Il sacerdote prenderà l’agnello del sacrificio di riparazione e il log d’olio e li present erà con il rito di elevazione davanti al Signore. Poi scannerà l’agnello del sacrificio di riparazione prenderà del sangue della vittima di riparazione e lo metterà sul lobo dell’orecchio destro di col ui che si purifica, sul pollice della mano destra e sull’alluce del piede destro. Il sacerdote si verse rà un po’ dell’olio sulla palma della mano sinistra. Con il dito della sua destra spruzzerà sette vol te l’olio che tiene nella palma sinistra davanti al Signore. Poi porrà un po’ d’olio che tiene nella palma sul lobo dell’orecchio destro di colui che si purifica sul pollice della mano destra e sull’all uce del piede destro sul luogo dove ha messo il sangue della vittima per il sacrificio di riparazion e. Il resto dell’olio che ha nella palma il sacerdote lo verserà sul capo di colui che si purifica per c ompiere il rito espiatorio per lui davanti al Signore. Poi sacrificherà una delle tortore o uno dei d ue colombi che ha potuto procurarsi; delle vittime che ha in mano una l’offrirà come sacrificio p er il peccato e l’altra come olocausto insieme con l’oblazione. Il sacerdote compirà il rito espiato rio davanti al Signore per colui che si deve purificare. Questa è la legge relativa a colui che è affe tto da piaga di lebbra e non ha mezzi per conseguire la sua purificazione». Il Signore parlò a Mo
sè e ad Aronne e disse: «Quando sarete entrati nella terra di Canaan che io sto per darvi in poss esso qualora io mandi un’infezione di lebbra in una casa della terra di vostra proprietà il padron e della casa andrà a dichiararlo al sacerdote dicendo: “Mi pare che in casa mia ci sia come della l ebbra”. Allora il sacerdote ordinerà di sgomberare la casa prima che egli vi entri per esaminare l a macchia sospetta perché quanto è nella casa non diventi impuro. Dopo questo il sacerdote en trerà per esaminare la casa. Esaminerà dunque la macchia: se vedrà che la macchia sui muri dell a casa consiste in cavità verdastre o rossastre che appaiono più profonde della superficie della p arete il sacerdote uscirà sulla porta della casa e farà chiudere la casa per sette giorni. Il settimo giorno il sacerdote vi tornerà e se esaminandola riscontrerà che la macchia si è allargata sulle p areti della casa il sacerdote ordinerà che si rimuovano le pietre intaccate e si gettino in luogo im puro fuori della città. Farà raschiare tutto l’interno della casa e butteranno i calcinacci rimossi fu ori della città in luogo impuro. Poi si prenderanno altre pietre e si metteranno al posto delle pri me e si intonacherà la casa con altra calce. Se la macchia spunta di nuovo nella casa dopo che le pietre ne sono state rimosse e la casa è stata raschiata e di nuovo intonacata il sacerdote entre rà a esaminare la casa: se troverà che la macchia vi si è allargata nella casa vi è lebbra maligna; l a casa è impura. Perciò si demolirà la casa; pietre legname e calcinacci si porteranno fuori della città in luogo impuro. Inoltre chiunque sarà entrato in quella casa mentre era chiusa sarà impur o fino alla sera. Sia chi avrà dormito in quella casa sia chi vi avrà mangiato dovrà lavarsi le vesti.
Se invece il sacerdote che è entrato nella casa e l’ha esaminata riscontra che la macchia non si è allargata nella casa dopo che la casa è stata intonacata dichiarerà la casa pura perché la macchi a è risanata. Poi per purificare la casa, prenderà due uccelli legno di cedro panno scarlatto e issò po; immolerà uno degli uccelli in un vaso di terra con dentro acqua corrente. Prenderà il legno d i cedro l’issòpo il panno scarlatto e l’uccello vivo e li immergerà nel sangue dell’uccello immolat o e nell’acqua corrente e ne aspergerà sette volte la casa. Purificata la casa con il sangue dell’uc cello con l’acqua corrente con l’uccello vivo con il legno di cedro con l’issòpo e con il panno scar latto, lascerà andare libero l’uccello vivo fuori della città nella campagna; così compirà il rito esp iatorio per la casa ed essa sarà pura. Questa è la legge per ogni sorta di infezione di lebbra o di t igna, per la lebbra delle vesti e della casa per i tumori le pustole e le macchie per determinare q uando una cosa è impura e quando è pura. Questa è la legge per la lebbra». Il Signore parlò a M
osè e ad Aronne e disse: «Parlate agli Israeliti dicendo loro: “Se un uomo soffre di gonorrea nell a sua carne la sua gonorrea è impura. Questa è la condizione di impurità per la gonorrea: sia ch e la carne lasci uscire il liquido sia che lo trattenga si tratta di impurità. Ogni giaciglio sul quale si coricherà chi è affetto da gonorrea sarà impuro; ogni oggetto sul quale si siederà sarà impuro.
Chi toccherà il giaciglio di costui dovrà lavarsi le vesti e bagnarsi nell’acqua e resterà impuro fin o alla sera. Chi si siederà sopra un oggetto qualunque sul quale si sia seduto colui che soffre di g onorrea dovrà lavarsi le vesti bagnarsi nell’acqua e resterà impuro fino alla sera. Chi toccherà il corpo di colui che è affetto da gonorrea si laverà le vesti si bagnerà nell’acqua e resterà impuro fino alla sera. Se colui che ha la gonorrea sputerà sopra uno che è puro questi dovrà lavarsi le ve
sti bagnarsi nell’acqua e resterà impuro fino alla sera. Ogni sella su cui monterà chi ha la gonorr ea sarà impura. Chiunque toccherà qualsiasi cosa che sia stata sotto quel tale, resterà impuro fi no alla sera. Chi porterà tali oggetti dovrà lavarsi le vesti bagnarsi nell’acqua e resterà impuro fi no alla sera. Chiunque sarà toccato da colui che ha la gonorrea se questi non si era lavato le ma ni dovrà lavarsi le vesti bagnarsi nell’acqua e resterà impuro fino alla sera. Il recipiente di terrac otta toccato da colui che soffre di gonorrea sarà spezzato; ogni vaso di legno sarà lavato nell’ac qua. Quando uno sarà guarito dalla sua gonorrea conterà sette giorni dalla sua guarigione; poi s i laverà le vesti bagnerà il suo corpo nell’acqua corrente e sarà puro. L’ottavo giorno prenderà d ue tortore o due colombi verrà davanti al Signore all’ingresso della tenda del convegno e li cons egnerà al sacerdote, il quale ne offrirà uno come sacrificio per il peccato l’altro come olocausto; il sacerdote compirà per lui il rito espiatorio davanti al Signore per la sua gonorrea. L’uomo che avrà avuto un’emissione seminale si laverà tutto il corpo nell’acqua e resterà impuro fino alla se ra. Ogni veste o pelle su cui vi sarà un’emissione seminale dovrà essere lavata nell’acqua e reste rà impura fino alla sera. La donna e l’uomo che abbiano avuto un rapporto con emissione semin ale si laveranno nell’acqua e resteranno impuri fino alla sera. Quando una donna abbia flusso di sangue cioè il flusso nel suo corpo per sette giorni resterà nell’impurità mestruale; chiunque la toccherà sarà impuro fino alla sera. Ogni giaciglio sul quale si sarà messa a dormire durante la s ua impurità mestruale sarà impuro; ogni mobile sul quale si sarà seduta sarà impuro. Chiunque toccherà il suo giaciglio dovrà lavarsi le vesti bagnarsi nell’acqua e sarà impuro fino alla sera. Chi toccherà qualunque mobile sul quale lei si sarà seduta dovrà lavarsi le vesti bagnarsi nell’acqua e sarà impuro fino alla sera. Se un oggetto si trova sul letto o su qualche cosa su cui lei si è sedu ta chiunque toccherà questo oggetto sarà impuro fino alla sera. Se un uomo ha rapporto intimo con lei l’impurità mestruale viene a contatto con lui: egli resterà impuro per sette giorni e ogni giaciglio sul quale si coricherà resterà impuro. La donna che ha un flusso di sangue per molti gio rni fuori del tempo delle mestruazioni o che lo abbia più del normale sarà impura per tutto il te mpo del flusso come durante le sue mestruazioni. Ogni giaciglio sul quale si coricherà durante t utto il tempo del flusso sarà per lei come il giaciglio sul quale si corica quando ha le mestruazion i; ogni oggetto sul quale siederà sarà impuro come lo è quando lei ha le mestruazioni. Chiunque toccherà quelle cose sarà impuro; dovrà lavarsi le vesti bagnarsi nell’acqua e sarà impuro fino al la sera. Se sarà guarita dal suo flusso conterà sette giorni e poi sarà pura. L’ottavo giorno prend erà due tortore o due colombi e li porterà al sacerdote all’ingresso della tenda del convegno. Il s acerdote ne offrirà uno come sacrificio per il peccato e l’altro come olocausto e compirà per lei i l rito espiatorio davanti al Signore per il flusso che la rendeva impura. Avvertite gli Israeliti di ciò che potrebbe renderli impuri perché non muoiano per la loro impurità qualora rendessero imp ura la mia Dimora che è in mezzo a loro. Questa è la legge per colui che ha la gonorrea o ha avu to un’emissione seminale che lo rende impuro e la legge per colei che è indisposta a causa delle mestruazioni, cioè per l’uomo o per la donna che abbiano il flusso e per l’uomo che si corichi co n una donna in stato di impurità”». Il Signore parlò a Mosè dopo che i due figli di Aronne erano
morti mentre si presentavano davanti al Signore. Il Signore disse a Mosè: «Parla ad Aronne tuo f ratello: non entri in qualunque tempo nel santuario oltre il velo davanti al propiziatorio che sta sull’arca affinché non muoia quando io apparirò in mezzo alla nube sul propiziatorio. Aronne en trerà nel santuario in questo modo: con un giovenco per il sacrificio per il peccato e un ariete pe r l’olocausto. Si metterà la tunica sacra di lino, indosserà sul corpo i calzoni di lino si cingerà dell a cintura di lino e si metterà in capo il turbante di lino. Sono queste le vesti sacre che indosserà dopo essersi lavato il corpo con l’acqua. Dalla comunità degli Israeliti prenderà due capri per il s acrificio per il peccato e un ariete per l’olocausto. Aronne offrirà il proprio giovenco del sacrifici o per il peccato e compirà il rito espiatorio per sé e per la sua casa. Poi prenderà i due capri e li f arà stare davanti al Signore all’ingresso della tenda del convegno e getterà le sorti sui due capri: un capro destinato al Signore e l’altro ad Azazèl. Aronne farà quindi avvicinare il capro che è to ccato in sorte al Signore e l’offrirà in sacrificio per il peccato; invece il capro che è toccato in sor te ad Azazèl sarà posto vivo davanti al Signore perché si compia il rito espiatorio su di esso e sia mandato poi ad Azazèl nel deserto. Aronne offrirà il proprio giovenco del sacrificio per il peccat o e compirà il rito espiatorio per sé e per la sua casa e scannerà il proprio giovenco del sacrificio per il peccato. Poi prenderà l’incensiere pieno di brace tolta dall’altare davanti al Signore e due manciate d’incenso aromatico fine; porterà ogni cosa oltre il velo. Metterà l’incenso sul fuoco d avanti al Signore e la nube d’incenso coprirà il propiziatorio che sta sulla Testimonianza affinché non muoia. Poi prenderà un po’ del sangue del giovenco e ne aspergerà con il dito il propiziator io dal lato orientale e farà sette volte l’aspersione del sangue con il dito davanti al propiziatorio.
Poi scannerà il capro del sacrificio per il peccato quello per il popolo e ne porterà il sangue oltre il velo; farà con questo sangue quello che ha fatto con il sangue del giovenco: lo aspergerà sul p ropiziatorio e davanti al propiziatorio. Così purificherà il santuario dalle impurità degli Israeliti e dalle loro ribellioni insieme a tutti i loro peccati. Lo stesso farà per la tenda del convegno che si trova fra di loro in mezzo alle loro impurità. Nessuno dovrà trovarsi nella tenda del convegno da quando egli entrerà nel santuario per compiere il rito espiatorio fino a quando non sarà uscito e non avrà compiuto il rito espiatorio per sé per la sua casa e per tutta la comunità d’Israele. Us cito dunque verso l’altare che è davanti al Signore lo purificherà, prenderà un po’ del sangue del giovenco e del sangue del capro e lo spalmerà sui corni intorno all’altare. Farà per sette volte l’
aspersione del sangue con il dito sopra l’altare; così lo purificherà e lo santificherà dalle impurit à degli Israeliti. Quando avrà finito di purificare il santuario la tenda del convegno e l’altare, farà accostare il capro vivo. Aronne poserà entrambe le mani sul capo del capro vivo confesserà su di esso tutte le colpe degli Israeliti tutte le loro trasgressioni tutti i loro peccati e li riverserà sull a testa del capro; poi per mano di un uomo incaricato di ciò lo manderà via nel deserto. Così il c apro porterà sopra di sé tutte le loro colpe in una regione remota ed egli invierà il capro nel des erto. Poi Aronne entrerà nella tenda del convegno si toglierà le vesti di lino che aveva indossato per entrare nel santuario e le deporrà in quel luogo. Laverà il suo corpo nell’acqua in luogo sant o indosserà le sue vesti e uscirà ad offrire il suo olocausto e l’olocausto del popolo e compirà il r
ito espiatorio per sé e per il popolo. E farà bruciare sull’altare le parti grasse della vittima del sa crificio per il peccato. Colui che avrà inviato il capro destinato ad Azazèl si laverà le vesti laverà il suo corpo nell’acqua; dopo rientrerà nell’accampamento. Farà portare fuori dall’accampament o il giovenco del sacrificio per il peccato e il capro del sacrificio per il peccato il cui sangue è stat o introdotto nel santuario per compiere il rito espiatorio; se ne bruceranno nel fuoco la pelle la carne e gli escrementi. Colui che li avrà bruciati dovrà lavarsi le vesti e bagnarsi il corpo nell’acq ua; dopo rientrerà nell’accampamento. Questa sarà per voi una legge perenne: nel settimo mes e nel decimo giorno del mese, vi umilierete vi asterrete da qualsiasi lavoro sia colui che è nativo del paese sia il forestiero che soggiorna in mezzo a voi poiché in quel giorno si compirà il rito es piatorio per voi al fine di purificarvi da tutti i vostri peccati. Sarete purificati davanti al Signore. S
arà per voi un sabato di riposo assoluto e voi vi umilierete; è una legge perenne. Compirà il rito espiatorio il sacerdote che ha ricevuto l’unzione e l’investitura per succedere nel sacerdozio al p osto di suo padre; si vestirà delle vesti di lino, delle vesti sacre. Purificherà la parte più santa del santuario, purificherà la tenda del convegno e l’altare; farà l’espiazione per i sacerdoti e per tut to il popolo della comunità. Questa sarà per voi una legge perenne: una volta all’anno si compir à il rito espiatorio in favore degli Israeliti per tutti i loro peccati». E si fece come il Signore aveva ordinato a Mosè. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla ad Aronne ai suoi figli e a tutti gli Israeli ti dicendo loro: “Questo il Signore ha ordinato: Ogni Israelita che scanni un giovenco o un agnell o o una capra entro l’accampamento o fuori dell’accampamento e non lo porti all’ingresso della tenda del convegno per presentarlo come offerta al Signore davanti alla Dimora del Signore sar à considerato colpevole di delitto di sangue: ha sparso il sangue e quest’uomo sarà eliminato da l suo popolo. Perciò gli Israeliti invece di immolare come fanno le loro vittime nei campi le prese nteranno in onore del Signore portandole al sacerdote all’ingresso della tenda del convegno e le immoleranno in onore del Signore come sacrifici di comunione. Il sacerdote ne spanderà il sang ue sull’altare del Signore all’ingresso della tenda del convegno e farà bruciare il grasso come pr ofumo gradito in onore del Signore. Essi non offriranno più i loro sacrifici ai satiri ai quali soglion o prostituirsi. Questa sarà per loro una legge perenne di generazione in generazione”. Dirai loro ancora: “Ogni uomo Israelita o straniero dimorante in mezzo a loro che offra un olocausto o un sacrificio senza portarlo all’ingresso della tenda del convegno per offrirlo in onore del Signore q uest’uomo sarà eliminato dal suo popolo. Ogni uomo Israelita o straniero dimorante in mezzo a loro che mangi di qualsiasi specie di sangue contro di lui che ha mangiato il sangue io volgerò il mio volto e lo eliminerò dal suo popolo. Poiché la vita della carne è nel sangue. Perciò vi ho con cesso di porlo sull’altare in espiazione per le vostre vite; perché il sangue espia in quanto è la vit a. Perciò ho detto agli Israeliti: Nessuno tra voi mangerà il sangue, neppure lo straniero che dim ora fra voi mangerà sangue. Se qualcuno degli Israeliti o degli stranieri che dimorano fra di loro prende alla caccia un animale o un uccello che si può mangiare ne deve spargere il sangue e cop rirlo di terra; perché la vita di ogni essere vivente è il suo sangue in quanto è la sua vita. Perciò h o ordinato agli Israeliti: Non mangerete sangue di alcuna specie di essere vivente, perché il sang
ue è la vita di ogni carne; chiunque ne mangerà sarà eliminato. Ogni persona nativa o straniera che mangi carne di bestia morta naturalmente o sbranata, dovrà lavarsi le vesti bagnarsi nell’ac qua e resterà impura fino alla sera; allora sarà pura. Ma se non si lava le vesti e il corpo porterà l a pena della sua colpa”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla agli Israeliti dicendo loro: “Io so no il Signore vostro Dio. Non farete come si fa nella terra d’Egitto dove avete abitato né farete c ome si fa nella terra di Canaan dove io vi conduco, né imiterete i loro costumi. Metterete invece in pratica le mie prescrizioni e osserverete le mie leggi seguendole. Io sono il Signore vostro Dio
. Osserverete dunque le mie leggi e le mie prescrizioni mediante le quali chiunque le metterà in pratica vivrà. Io sono il Signore. Nessuno si accosterà a una sua consanguinea per scoprire la sua nudità. Io sono il Signore. Non scoprirai la nudità di tuo padre né la nudità di tua madre: è tua madre; non scoprirai la sua nudità. Non scoprirai la nudità di una moglie di tuo padre; è la nudit à di tuo padre. Non scoprirai la nudità di tua sorella figlia di tuo padre o figlia di tua madre nata in casa o fuori; non scoprirai la loro nudità. Non scoprirai la nudità della figlia di tuo figlio o della figlia di tua figlia, perché è la tua propria nudità. Non scoprirai la nudità della figlia di una mogli e di tuo padre generata da tuo padre: è tua sorella non scoprirai la sua nudità. Non scoprirai la nudità della sorella di tuo padre; è carne di tuo padre. Non scoprirai la nudità della sorella di tua madre perché è carne di tua madre. Non scoprirai la nudità del fratello di tuo padre avendo rap porti con sua moglie: è tua zia. Non scoprirai la nudità di tua nuora: è la moglie di tuo figlio; non scoprirai la sua nudità. Non scoprirai la nudità di tua cognata: è la nudità di tuo fratello. Non sc oprirai la nudità di una donna e di sua figlia. Non prenderai la figlia di suo figlio né la figlia di sua figlia per scoprirne la nudità: sono parenti carnali. è un’infamia. Non prenderai in sposa la sorell a di tua moglie per non suscitare rivalità scoprendo la sua nudità mentre tua moglie è in vita. N
on ti accosterai a donna per scoprire la sua nudità durante l’impurità mestruale. Non darai il tuo giaciglio alla moglie del tuo prossimo rendendoti impuro con lei. Non consegnerai alcuno dei tu oi figli per farlo passare a Moloc e non profanerai il nome del tuo Dio. Io sono il Signore. Non ti coricherai con un uomo come si fa con una donna: è cosa abominevole. Non darai il tuo giacigli o a una bestia per contaminarti con essa; così nessuna donna si metterà con un animale per acc oppiarsi: è una perversione. Non rendetevi impuri con nessuna di tali pratiche poiché con tutte queste cose si sono rese impure le nazioni che io sto per scacciare davanti a voi. La terra ne è st ata resa impura; per questo ho punito la sua colpa e la terra ha vomitato i suoi abitanti. Voi dun que osserverete le mie leggi e le mie prescrizioni e non commetterete nessuna di queste pratich e abominevoli: né colui che è nativo della terra né il forestiero che dimora in mezzo a voi. Poich é tutte queste cose abominevoli le ha commesse la gente che vi era prima di voi e la terra è dive nuta impura. Che la terra non vomiti anche voi per averla resa impura come ha vomitato chi l’a bitava prima di voi perché chiunque praticherà qualcuna di queste abominazioni ogni persona c he le commetterà sarà eliminata dal suo popolo. Osserverete dunque i miei ordini e non seguire te alcuno di quei costumi abominevoli che sono stati praticati prima di voi; non vi renderete im puri a causa di essi. Io sono il Signore, vostro Dio”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla a tutt
a la comunità degli Israeliti dicendo loro: “Siate santi perché io il Signore vostro Dio sono santo.
Ognuno di voi rispetti sua madre e suo padre; osservate i miei sabati. Io sono il Signore, vostro Dio. Non rivolgetevi agli idoli e non fatevi divinità di metallo fuso. Io sono il Signore, vostro Dio.
Quando immolerete al Signore una vittima in sacrificio di comunione offritela in modo da esser gli graditi. La si mangerà il giorno stesso che l’avrete immolata o il giorno dopo; ciò che avanzer à ancora al terzo giorno lo brucerete nel fuoco. Se invece si mangiasse il terzo giorno sarebbe av ariata; il sacrificio non sarebbe gradito. Chiunque ne mangiasse porterebbe la pena della sua col pa perché profanerebbe ciò che è sacro al Signore. Quella persona sarebbe eliminata dal suo po polo. Quando mieterete la messe della vostra terra non mieterete fino ai margini del campo, né raccoglierete ciò che resta da spigolare della messe; quanto alla tua vigna, non coglierai i racim oli e non raccoglierai gli acini caduti: li lascerai per il povero e per il forestiero. Io sono il Signore vostro Dio. Non ruberete né userete inganno o menzogna a danno del prossimo. Non giurerete i l falso servendovi del mio nome: profaneresti il nome del tuo Dio. Io sono il Signore. Non oppri merai il tuo prossimo né lo spoglierai di ciò che è suo; non tratterrai il salario del bracciante al t uo servizio fino al mattino dopo. Non maledirai il sordo né metterai inciampo davanti al cieco m a temerai il tuo Dio. Io sono il Signore. Non commetterete ingiustizia in giudizio; non tratterai co n parzialità il povero né userai preferenze verso il potente: giudicherai il tuo prossimo con giusti zia. Non andrai in giro a spargere calunnie fra il tuo popolo né coopererai alla morte del tuo pro ssimo. Io sono il Signore. Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apert amente il tuo prossimo così non ti caricherai di un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serb erai rancore contro i figli del tuo popolo ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Sig nore. Osserverete le mie leggi. Non accoppierai bestie di specie differenti; non seminerai il tuo c ampo con due specie di seme né porterai veste tessuta di due specie diverse. Se un uomo ha ra pporti con una donna schiava ma promessa ad un altro uomo benché non sia stata ancora né ris cattata né affrancata dovrà pagare un risarcimento; i colpevoli però non saranno messi a morte perché lei non era affrancata. L’uomo condurrà al Signore all’ingresso della tenda del convegno in sacrificio di riparazione un ariete; con questo ariete di riparazione il sacerdote compirà per lui il rito espiatorio davanti al Signore per il peccato da lui commesso e il peccato commesso gli sar à perdonato. Quando sarete entrati nella terra e vi avrete piantato ogni sorta di alberi da frutto ne considererete i frutti come non circoncisi; per tre anni saranno per voi come non circoncisi: n on se ne dovrà mangiare. Nel quarto anno tutti i loro frutti saranno consacrati al Signore, come dono festivo. Nel quinto anno mangerete il frutto di quegli alberi; così essi continueranno a pro durre per voi. Io sono il Signore vostro Dio. Non mangerete carne con il sangue. Non praticheret e alcuna sorta di divinazione o di magia. Non vi taglierete in tondo il margine dei capelli né detu rperai ai margini la tua barba. Non vi farete incisioni sul corpo per un defunto né vi farete segni di tatuaggio. Io sono il Signore. Non profanare tua figlia prostituendola perché il paese non si di a alla prostituzione e non si riempia di infamie. Osserverete i miei sabati e porterete rispetto al mio santuario. Io sono il Signore. Non vi rivolgete ai negromanti né agli indovini; non li consultat
e per non rendervi impuri per mezzo loro. Io sono il Signore vostro Dio. àlzati davanti a chi ha i c apelli bianchi onora la persona del vecchio e temi il tuo Dio. Io sono il Signore. Quando un forest iero dimorerà presso di voi nella vostra terra non lo opprimerete. Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete sta ti forestieri in terra d’Egitto. Io sono il Signore vostro Dio. Non commetterete ingiustizia nei giud izi nelle misure di lunghezza nei pesi o nelle misure di capacità. Avrete bilance giuste pesi giusti efa giusta hin giusto. Io sono il Signore vostro Dio che vi ho fatto uscire dalla terra d’Egitto. Osse rverete dunque tutte le mie leggi e tutte le mie prescrizioni e le metterete in pratica. Io sono il S
ignore”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Dirai agli Israeliti: “Chiunque tra gli Israeliti o tra i for estieri che dimorano in Israele darà qualcuno dei suoi figli a Moloc dovrà essere messo a morte; il popolo della terra lo lapiderà. Anch’io volgerò il mio volto contro quell’uomo e lo eliminerò d al suo popolo perché ha dato qualcuno dei suoi figli a Moloc con l’intenzione di rendere impuro il mio santuario e profanare il mio santo nome. Se il popolo della terra chiude gli occhi quando q uell’uomo dà qualcuno dei suoi figli a Moloc e non lo mette a morte io volgerò il mio volto contr o quell’uomo e contro la sua famiglia ed eliminerò dal suo popolo lui con quanti si danno all’idol atria come lui prostituendosi a venerare Moloc. Se un uomo si rivolge ai negromanti e agli indov ini per darsi alle superstizioni dietro a loro io volgerò il mio volto contro quella persona e la elim inerò dal suo popolo. Santificatevi dunque e siate santi perché io sono il Signore vostro Dio. Oss ervate le mie leggi e mettetele in pratica. Io sono il Signore che vi santifica. Chiunque maledice s uo padre o sua madre dovrà essere messo a morte; ha maledetto suo padre o sua madre: il suo sangue ricadrà su di lui. Se uno commette adulterio con la moglie del suo prossimo l’adultero e l
’adultera dovranno esser messi a morte. Se uno ha rapporti con una moglie di suo padre egli sc opre la nudità del padre; tutti e due dovranno essere messi a morte: il loro sangue ricadrà su di loro. Se uno ha rapporti con la nuora tutti e due dovranno essere messi a morte; hanno comme sso una perversione: il loro sangue ricadrà su di loro. Se uno ha rapporti con un uomo come con una donna tutti e due hanno commesso un abominio; dovranno essere messi a morte: il loro sa ngue ricadrà su di loro. Se uno prende in moglie la figlia e la madre è un’infamia; si bruceranno con il fuoco lui e loro perché non ci sia fra voi tale delitto. L’uomo che si accoppia con una besti a dovrà essere messo a morte; dovrete uccidere anche la bestia. Se una donna si accosta a una bestia per accoppiarsi con essa, ucciderai la donna e la bestia; tutte e due dovranno essere mes se a morte: il loro sangue ricadrà su di loro. Se uno prende la propria sorella figlia di suo padre o figlia di sua madre e vede la nudità di lei e lei vede la nudità di lui è un disonore; tutti e due sar anno eliminati alla presenza dei figli del loro popolo. Quel tale ha scoperto la nudità della propri a sorella: dovrà portare la pena della sua colpa. Se uno ha un rapporto con una donna durante l e sue mestruazioni e ne scopre la nudità, quel tale ha scoperto il flusso di lei e lei ha scoperto il f lusso del proprio sangue; perciò tutti e due saranno eliminati dal loro popolo. Non scoprirai la n udità della sorella di tua madre o della sorella di tuo padre; chi lo fa scopre la sua stessa carne: t utti e due porteranno la pena della loro colpa. Se uno ha rapporti con la moglie di suo zio scopr
e la nudità di suo zio; tutti e due porteranno la pena del loro peccato: dovranno morire senza fi gli. Se uno prende la moglie del fratello è un’impurità egli ha scoperto la nudità del fratello: non avranno figli. Osserverete dunque tutte le mie leggi e tutte le mie prescrizioni e le metterete in pratica, perché la terra dove io vi conduco per abitarla non vi vomiti. Non seguirete le usanze de lle nazioni che io sto per scacciare dinanzi a voi; esse hanno fatto tutte quelle cose perciò ho dis gusto di esse e vi ho detto: Voi possederete il loro suolo; ve lo darò in proprietà. è una terra dov e scorrono latte e miele. Io il Signore vostro Dio vi ho separato dagli altri popoli. Farete dunque distinzione tra animali puri e impuri fra uccelli impuri e puri e non vi contaminerete mangiando animali uccelli o esseri che strisciano sulla terra e che io vi ho fatto separare come impuri. Saret e santi per me poiché io il Signore sono santo e vi ho separato dagli altri popoli perché siate mie i. Se uomo o donna in mezzo a voi eserciteranno la negromanzia o la divinazione dovranno esse re messi a morte: saranno lapidati e il loro sangue ricadrà su di loro”». Il Signore disse a Mosè: «
Parla ai sacerdoti figli di Aronne dicendo loro: “Un sacerdote non dovrà rendersi impuro per il c ontatto con un morto della sua parentela, se non per un suo parente stretto cioè per sua madre suo padre suo figlio sua figlia suo fratello e sua sorella ancora vergine che viva con lui e non sia ancora maritata; per questa può esporsi all’impurità. Come marito non si renda impuro per la s ua parentela profanando se stesso. I sacerdoti non si faranno tonsure sul capo né si raderanno ai margini la barba né si faranno incisioni sul corpo. Saranno santi per il loro Dio e non profaner anno il nome del loro Dio perché sono loro che presentano al Signore sacrifici consumati dal fuo co pane del loro Dio; perciò saranno santi. Non prenderanno in moglie una prostituta o una già disonorata né una donna ripudiata dal marito. Infatti il sacerdote è santo per il suo Dio. Tu consi dererai dunque il sacerdote come santo perché egli offre il pane del tuo Dio: sarà per te santo, perché io il Signore che vi santifico sono santo. Se la figlia di un sacerdote si disonora prostituen dosi disonora suo padre; sarà arsa con il fuoco. Il sacerdote quello che è il sommo tra i suoi frat elli sul capo del quale è stato versato l’olio dell’unzione e ha ricevuto l’investitura indossando le vesti sacre non dovrà scarmigliarsi i capelli né stracciarsi le vesti. Non si avvicinerà ad alcun cada vere; non potrà rendersi impuro neppure per suo padre e per sua madre. Non uscirà dal santua rio e non profanerà il santuario del suo Dio, perché la consacrazione è su di lui mediante l’olio d ell’unzione del suo Dio. Io sono il Signore. Sposerà una vergine. Non potrà sposare né una vedo va né una divorziata né una disonorata né una prostituta ma prenderà in moglie una vergine del la sua parentela. Così non disonorerà la sua discendenza tra la sua parentela; poiché io sono il Si gnore che lo santifico”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla ad Aronne dicendo: “Nelle gener azioni future nessun uomo della tua stirpe che abbia qualche deformità potrà accostarsi ad offri re il pane del suo Dio; perché nessun uomo che abbia qualche deformità potrà accostarsi: né un cieco né uno zoppo né uno sfregiato né un deforme né chi abbia una frattura al piede o alla ma no, né un gobbo né un nano né chi abbia una macchia nell’occhio o la scabbia o piaghe purulent e o i testicoli schiacciati. Nessun uomo della stirpe del sacerdote Aronne con qualche deformità si accosterà per presentare i sacrifici consumati dal fuoco in onore del Signore. Ha un difetto: no
n si accosti quindi per offrire il pane del suo Dio. Potrà mangiare il pane del suo Dio le cose sacr osante e le cose sante; ma non potrà avvicinarsi al velo né accostarsi all’altare perché ha una de formità. Non dovrà profanare i miei luoghi santi perché io sono il Signore che li santifico”». Così Mosè parlò ad Aronne ai suoi figli e a tutti gli Israeliti. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla ad Aronne e ai suoi figli: trattino con rispetto le offerte sante degli Israeliti e non profanino il mio s anto nome, perché sono offerte consacrate a me. Io sono il Signore. Di’ loro: “Nelle generazioni future ogni uomo della vostra discendenza che si accosterà in stato di impurità alle offerte sant e consacrate dagli Israeliti in onore del Signore, sarà eliminato dalla mia presenza. Io sono il Sig nore. Nessun uomo della stirpe di Aronne affetto da lebbra o da gonorrea potrà mangiare le off erte sante finché non sia puro. Così sarà per chi toccherà qualsiasi cosa impura a causa di un ca davere o per chi avrà perdite seminali oppure per chi toccherà un rettile che lo rende impuro o una persona che lo rende impuro qualunque sia la sua impurità. Colui che avrà avuto tali contat ti resterà impuro fino alla sera e non mangerà le offerte sante prima di essersi lavato il corpo ne ll’acqua; dopo il tramonto del sole sarà puro e allora potrà mangiare le offerte sante perché ess e sono il suo cibo. Non mangerà carne di bestia morta naturalmente o sbranata per non renders i impuro. Io sono il Signore. Osserveranno dunque ciò che ho comandato altrimenti porteranno la pena del loro peccato e moriranno per aver commesso profanazioni. Io sono il Signore che li s antifico. Nessun profano mangerà le offerte sante; né l’ospite di un sacerdote né il salariato pot rà mangiare le offerte sante. Ma una persona che il sacerdote avrà comprato con il proprio den aro ne potrà mangiare e così anche lo schiavo che gli è nato in casa: costoro potranno mangiare il suo cibo. Se la figlia di un sacerdote è sposata con un profano non potrà mangiare del contrib uto delle offerte sante. Se invece la figlia del sacerdote è rimasta vedova o è stata ripudiata e n on ha figli ed è tornata ad abitare da suo padre come quando era giovane potrà mangiare il cibo del padre; ma nessun profano potrà mangiarne. Se uno mangia inavvertitamente di un’offerta santa darà al sacerdote il valore dell’offerta santa aggiungendovi un quinto. I sacerdoti non prof aneranno dunque le offerte sante degli Israeliti che essi prelevano per il Signore e non faranno portare loro il peso della colpa di cui si renderebbero colpevoli mangiando le loro offerte sante; poiché io sono il Signore che le santifico”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla ad Aronne ai s uoi figli a tutti gli Israeliti dicendo loro: “Chiunque della casa d’Israele o dei forestieri dimoranti i n Israele presenterà la sua offerta per qualsiasi voto o dono spontaneo da presentare come olo causto in onore del Signore per essere gradito dovrà offrire un maschio senza difetto di bovini d i pecore o di capre. Non offrirete nulla con qualche difetto, perché non sarebbe gradito. Se qual cuno presenterà al Signore in sacrificio di comunione un bovino o un ovino sia per adempiere u n voto sia come offerta spontanea la vittima perché sia gradita dovrà essere perfetta e non aver e alcun difetto. Non presenterete in onore del Signore nessuna vittima cieca o storpia o mutilat a o con ulcere o con la scabbia o con piaghe purulente; non ne farete sull’altare un sacrificio co nsumato dal fuoco in onore del Signore. Un capo di bestiame grosso o minuto che sia deforme o atrofizzato potrai offrirlo come dono spontaneo ma non sarà gradito come sacrificio votivo. N

on offrirete al Signore un animale con i testicoli ammaccati o contusi o strappati o tagliati. Tali c ose non farete nella vostra terra né prenderete dalle mani dello straniero alcuna di queste vitti me per offrirla come cibo in onore del vostro Dio; essendo mutilate difettose non sarebbero gra dite a vostro favore”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Quando nascerà un vitello o un agnello o un capretto starà sette giorni presso la madre; dall’ottavo giorno in poi sarà gradito come vitti ma da consumare con il fuoco per il Signore. Non scannerete mucca o pecora lo stesso giorno c on il suo piccolo. Quando offrirete al Signore un sacrificio di ringraziamento offritelo in modo ch e sia gradito. La vittima sarà mangiata il giorno stesso; non ne farete avanzare nulla fino al matti no. Io sono il Signore. Osserverete dunque i miei comandi e li metterete in pratica. Io sono il Sig nore. Non profanerete il mio santo nome affinché io sia santificato in mezzo agli Israeliti. Io son o il Signore che vi santifico che vi ho fatto uscire dalla terra d’Egitto per essere vostro Dio. Io so no il Signore». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla agli Israeliti dicendo loro: “Ecco le solennit à del Signore nelle quali convocherete riunioni sacre. Queste sono le mie solennità. Durante sei giorni si attenderà al lavoro; ma il settimo giorno è sabato giorno di assoluto riposo e di riunion e sacra. Non farete in esso lavoro alcuno; è un sabato in onore del Signore in tutti i luoghi dove abiterete. Queste sono le solennità del Signore le riunioni sacre che convocherete nei tempi sta biliti. Il primo mese al quattordicesimo giorno al tramonto del sole sarà la Pasqua del Signore; il quindici dello stesso mese sarà la festa degli Azzimi in onore del Signore; per sette giorni mange rete pane senza lievito. Nel primo giorno avrete una riunione sacra: non farete alcun lavoro serv ile. Per sette giorni offrirete al Signore sacrifici consumati dal fuoco. Il settimo giorno vi sarà una riunione sacra: non farete alcun lavoro servile”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla agli Isra eliti dicendo loro: “Quando sarete entrati nella terra che io vi do e ne mieterete la messe porter ete al sacerdote un covone come primizia del vostro raccolto. Il sacerdote eleverà il covone dav anti al Signore perché sia gradito per il vostro bene; il sacerdote lo eleverà il giorno dopo il saba to. Quando farete il rito di elevazione del covone offrirete un agnello di un anno, senza difetto p er l’olocausto in onore del Signore insieme a un’oblazione di due decimi di efa di fior di farina i mpastata con olio: è un sacrificio consumato dal fuoco, profumo gradito in onore del Signore; la libagione sarà di un quarto di hin di vino. Non mangerete pane né grano abbrustolito né grano novello prima di quel giorno prima di aver portato l’offerta del vostro Dio. Sarà per voi una legg e perenne di generazione in generazione in tutti i luoghi dove abiterete. Dal giorno dopo il saba to cioè dal giorno in cui avrete portato il covone per il rito di elevazione conterete sette settima ne complete. Conterete cinquanta giorni fino all’indomani del settimo sabato e offrirete al Sign ore una nuova oblazione. Porterete dai luoghi dove abiterete due pani per offerta con rito di ele vazione: saranno di due decimi di efa di fior di farina e li farete cuocere lievitati; sono le primizie in onore del Signore. Oltre quei pani offrirete sette agnelli dell’anno senza difetto un giovenco e due arieti: saranno un olocausto per il Signore insieme con la loro oblazione e le loro libagioni; sarà un sacrificio di profumo gradito, consumato dal fuoco in onore del Signore. Offrirete un ca pro in sacrificio per il peccato e due agnelli dell’anno in sacrificio di comunione. Il sacerdote pre
senterà gli agnelli insieme al pane delle primizie con il rito di elevazione davanti al Signore; tant o i pani quanto i due agnelli consacrati al Signore saranno riservati al sacerdote. Proclamerete i n quello stesso giorno una festa e convocherete una riunione sacra. Non farete alcun lavoro ser vile. Sarà per voi una legge perenne di generazione in generazione in tutti i luoghi dove abiteret e. Quando mieterai la messe della vostra terra non mieterai fino al margine del campo e non ra ccoglierai ciò che resta da spigolare del tuo raccolto; lo lascerai per il povero e per il forestiero. I o sono il Signore vostro Dio”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla agli Israeliti dicendo: “Nel settimo mese il primo giorno del mese sarà per voi riposo assoluto un memoriale celebrato a su on di tromba una riunione sacra. Non farete alcun lavoro servile e offrirete sacrifici consumati d al fuoco in onore del Signore”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Il decimo giorno di questo setti mo mese sarà il giorno dell’espiazione; terrete una riunione sacra vi umilierete e offrirete sacrifi ci consumati dal fuoco in onore del Signore. In quel giorno non farete alcun lavoro poiché è il gi orno dell’espiazione per compiere il rito espiatorio per voi davanti al Signore vostro Dio. Ogni p ersona che non si umilierà in quel giorno sarà eliminata dalla sua parentela. Ogni persona che fa rà in quel giorno un qualunque lavoro io la farò perire in mezzo alla sua parentela. Non farete al cun lavoro. Sarà per voi una legge perenne di generazione in generazione in tutti i luoghi dove a biterete. Sarà per voi un sabato di assoluto riposo e dovrete umiliarvi: il nono giorno del mese d alla sera alla sera seguente farete il vostro riposo del sabato». Il Signore parlò a Mosè e disse: «
Parla agli Israeliti dicendo: “Il giorno quindici di questo settimo mese sarà la festa delle Capanne per sette giorni in onore del Signore. Il primo giorno vi sarà una riunione sacra; non farete alcu n lavoro servile. Per sette giorni offrirete vittime consumate dal fuoco in onore del Signore. L’ot tavo giorno terrete la riunione sacra e offrirete al Signore sacrifici consumati con il fuoco. è gior no di riunione; non farete alcun lavoro servile. Queste sono le solennità del Signore nelle quali c onvocherete riunioni sacre per presentare al Signore sacrifici consumati dal fuoco olocausti e o blazioni vittime e libagioni ogni cosa nel giorno stabilito oltre i sabati del Signore oltre i vostri do ni oltre tutti i vostri voti e tutte le offerte spontanee che presenterete al Signore. Inoltre il giorn o quindici del settimo mese quando avrete raccolto i frutti della terra, celebrerete una festa del Signore per sette giorni; il primo giorno sarà di assoluto riposo e così l’ottavo giorno. Il primo gi orno prenderete frutti degli alberi migliori rami di palma rami con dense foglie e salici di torrent e e gioirete davanti al Signore vostro Dio per sette giorni. Celebrerete questa festa in onore del Signore per sette giorni ogni anno. Sarà per voi una legge perenne di generazione in generazion e. La celebrerete il settimo mese. Dimorerete in capanne per sette giorni; tutti i cittadini d’Israel e dimoreranno in capanne perché le vostre generazioni sappiano che io ho fatto dimorare in ca panne gli Israeliti quando li ho condotti fuori dalla terra d’Egitto. Io sono il Signore vostro Dio”».
E Mosè parlò così agli Israeliti delle solennità del Signore. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Ordi na agli Israeliti che ti portino olio puro di olive schiacciate per l’illuminazione per tenere perenn emente accesa la lampada. Aronne la disporrà nella tenda del convegno fuori del velo che sta d avanti alla Testimonianza perché arda dalla sera al mattino davanti al Signore sempre. Sarà per
voi una legge perenne di generazione in generazione. Egli disporrà le lampade sul candelabro d’
oro puro perché ardano sempre davanti al Signore. Prenderai anche fior di farina e ne farai cuoc ere dodici focacce; ogni focaccia sarà di due decimi di efa. Le disporrai su due pile sei per pila su lla tavola d’oro puro davanti al Signore. Porrai incenso puro sopra ogni pila perché serva da me moriale per il pane come sacrificio consumato dal fuoco in onore del Signore. Ogni giorno di sab ato lo si disporrà davanti al Signore perennemente da parte degli Israeliti: è un’alleanza eterna.
Sarà riservato ad Aronne e ai suoi figli: essi lo mangeranno in luogo santo, perché sarà per loro c osa santissima tra i sacrifici da bruciare in onore del Signore. è una legge perenne». Ora il figlio di una donna israelita e di un Egiziano uscì in mezzo agli Israeliti e nell’accampamento scoppiò u na lite fra il figlio della donna e un Israelita. Il figlio della Israelita bestemmiò il Nome imprecand o; perciò fu condotto da Mosè. La madre di quel tale si chiamava Selomìt figlia di Dibrì della trib ù di Dan. Lo misero sotto sorveglianza finché venisse una decisione dalla bocca del Signore. Il Si gnore parlò a Mosè dicendo: «Conduci quel bestemmiatore fuori dell’accampamento; quanti lo hanno udito posino le mani sul suo capo e tutta la comunità lo lapiderà. Parla agli Israeliti dicen do: “Chiunque maledirà il suo Dio porterà il peso del suo peccato. Chi bestemmia il nome del Si gnore dovrà essere messo a morte: tutta la comunità lo dovrà lapidare. Straniero o nativo della terra se ha bestemmiato il Nome sarà messo a morte. Chi percuote a morte qualsiasi uomo dov rà essere messo a morte. Chi percuote a morte un capo di bestiame dovrà risarcirlo: vita per vit a. Se uno farà una lesione al suo prossimo si farà a lui come egli ha fatto all’altro: frattura per fr attura occhio per occhio dente per dente; gli si farà la stessa lesione che egli ha fatto all’altro. C
hi percuote a morte un capo di bestiame dovrà risarcirlo; ma chi percuote a morte un uomo sar à messo a morte. Ci sarà per voi una sola legge per il forestiero e per il cittadino della terra; poic hé io sono il Signore vostro Dio”». Mosè parlò agli Israeliti ed essi condussero quel bestemmiato re fuori dell’accampamento e lo lapidarono. Così gli Israeliti fecero come il Signore aveva ordina to a Mosè. Il Signore parlò a Mosè sul monte Sinai e disse: «Parla agli Israeliti dicendo loro: “Qu ando entrerete nella terra che io vi do la terra farà il riposo del sabato in onore del Signore: per sei anni seminerai il tuo campo e poterai la tua vigna e ne raccoglierai i frutti; ma il settimo ann o sarà come sabato un riposo assoluto per la terra un sabato in onore del Signore. Non seminer ai il tuo campo non poterai la tua vigna. Non mieterai quello che nascerà spontaneamente dopo la tua mietitura e non vendemmierai l’uva della vigna che non avrai potata; sarà un anno di co mpleto riposo per la terra. Ciò che la terra produrrà durante il suo riposo servirà di nutrimento a te al tuo schiavo alla tua schiava al tuo bracciante e all’ospite che si troverà presso di te; anch e al tuo bestiame e agli animali che sono nella tua terra servirà di nutrimento quanto essa prod urrà. Conterai sette settimane di anni cioè sette volte sette anni; queste sette settimane di anni faranno un periodo di quarantanove anni. Al decimo giorno del settimo mese farai echeggiare il suono del corno; nel giorno dell’espiazione farete echeggiare il corno per tutta la terra. Dichiar erete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abita nti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia. Il cin
quantesimo anno sarà per voi un giubileo; non farete né semina né mietitura di quanto i campi produrranno da sé né farete la vendemmia delle vigne non potate. Poiché è un giubileo: esso sa rà per voi santo; potrete però mangiare il prodotto che daranno i campi. In quest’anno del giubi leo ciascuno tornerà nella sua proprietà. Quando vendete qualcosa al vostro prossimo o quand o acquistate qualcosa dal vostro prossimo, nessuno faccia torto al fratello. Regolerai l’acquisto c he farai dal tuo prossimo in base al numero degli anni trascorsi dopo l’ultimo giubileo: egli vend erà a te in base agli anni di raccolto. Quanti più anni resteranno tanto più aumenterai il prezzo; quanto minore sarà il tempo tanto più ribasserai il prezzo perché egli ti vende la somma dei rac colti. Nessuno di voi opprima il suo prossimo; temi il tuo Dio poiché io sono il Signore vostro Dio
. Metterete in pratica le mie leggi e osserverete le mie prescrizioni le adempirete e abiterete al sicuro nella terra. La terra produrrà frutti voi ne mangerete a sazietà e vi abiterete al sicuro. Se dite: Che mangeremo il settimo anno se non semineremo e non raccoglieremo i nostri prodotti
? io disporrò in vostro favore la mia benedizione per il sesto anno e la terra vi darà frutti per tre anni. L’ottavo anno seminerete ma consumerete il vecchio raccolto fino al nono anno; mangere te del raccolto vecchio finché venga il nuovo. Le terre non si potranno vendere per sempre perc hé la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti. Perciò in tutta la terra che avr ete in possesso concederete il diritto di riscatto per i terreni. Se il tuo fratello cade in miseria e v ende una parte della sua proprietà colui che ha il diritto di riscatto cioè il suo parente più strett o verrà e riscatterà ciò che il fratello ha venduto. Se uno non ha chi possa fare il riscatto ma giu nge a procurarsi da sé la somma necessaria al riscatto conterà le annate passate dopo la vendit a restituirà al compratore il valore degli anni che ancora rimangono e rientrerà così in possesso del suo patrimonio. Ma se non trova da sé la somma sufficiente a rimborsarlo ciò che ha vendut o rimarrà in possesso del compratore fino all’anno del giubileo; al giubileo il compratore uscirà e l’altro rientrerà in possesso del suo patrimonio. Se uno vende una casa abitabile in una città ci nta di mura ha diritto al riscatto fino allo scadere dell’anno dalla vendita; il suo diritto di riscatto durerà un anno intero. Ma se quella casa posta in una città cinta di mura non è riscattata prima dello scadere di un intero anno rimarrà sempre proprietà del compratore e dei suoi discendenti
; il compratore non sarà tenuto a uscirne al giubileo. Però le case dei villaggi non attorniati da m ura vanno considerate come parte dei fondi campestri; potranno essere riscattate e al giubileo i l compratore dovrà uscirne. Quanto alle città dei leviti e alle case che essi vi possederanno i levi ti avranno il diritto perenne di riscatto. Se chi riscatta è un levita in occasione del giubileo il com pratore uscirà dalla casa comprata nella città levitica perché le case delle città levitiche sono lor o proprietà in mezzo agli Israeliti. Neppure campi situati nei dintorni delle città levitiche si potra nno vendere perché sono loro proprietà perenne. Se il tuo fratello che è presso di te cade in mis eria ed è inadempiente verso di te sostienilo come un forestiero o un ospite perché possa viver e presso di te. Non prendere da lui interessi né utili ma temi il tuo Dio e fa’ vivere il tuo fratello presso di te. Non gli presterai il denaro a interesse né gli darai il vitto a usura. Io sono il Signore vostro Dio che vi ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, per darvi la terra di Canaan per essere il vos
tro Dio. Se il tuo fratello che è presso di te cade in miseria e si vende a te non farlo lavorare com e schiavo; sia presso di te come un bracciante come un ospite. Ti servirà fino all’anno del giubile o; allora se ne andrà da te insieme con i suoi figli, tornerà nella sua famiglia e rientrerà nella pro prietà dei suoi padri. Essi sono infatti miei servi che io ho fatto uscire dalla terra d’Egitto; non de bbono essere venduti come si vendono gli schiavi. Non lo tratterai con durezza ma temerai il tu o Dio. Quanto allo schiavo e alla schiava che avrai in proprietà potrete prenderli dalle nazioni ch e vi circondano; da queste potrete comprare lo schiavo e la schiava. Potrete anche comprarne t ra i figli degli stranieri stabiliti presso di voi e tra le loro famiglie che sono presso di voi tra i loro figli nati nella vostra terra; saranno vostra proprietà. Li potrete lasciare in eredità ai vostri figli d opo di voi come loro proprietà vi potrete servire sempre di loro come di schiavi. Ma quanto ai v ostri fratelli gli Israeliti nessuno dòmini sull’altro con durezza. Se un forestiero stabilito presso di te diventa ricco e il tuo fratello si grava di debiti con lui e si vende al forestiero stabilito presso di te o a qualcuno della sua famiglia dopo che si è venduto ha il diritto di riscatto: lo potrà riscat tare uno dei suoi fratelli o suo zio o il figlio di suo zio; lo potrà riscattare uno dei consanguinei d ella sua parentela o se ha i mezzi per farlo potrà riscattarsi da sé. Farà il calcolo con il suo compr atore dall’anno che gli si è venduto all’anno del giubileo; il prezzo da pagare sarà in proporzione del numero degli anni valutando le sue giornate come quelle di un bracciante. Se vi sono ancor a molti anni per arrivare al giubileo pagherà il riscatto in ragione di questi anni e in proporzione del prezzo per il quale fu comprato; se rimangono pochi anni per arrivare al giubileo farà il calco lo con il suo compratore e pagherà il prezzo del suo riscatto in ragione di quegli anni. Resterà pr esso di lui come un bracciante preso a servizio anno per anno; il padrone non dovrà trattarlo co n durezza sotto i suoi occhi. Se non è riscattato in alcuno di questi modi se ne andrà libero l’ann o del giubileo: lui con i suoi figli. Poiché gli Israeliti sono miei servi; essi sono servi miei che ho fa tto uscire dalla terra d’Egitto. Io sono il Signore vostro Dio. Non vi farete idoli né vi erigerete im magini scolpite o stele né permetterete che nella vostra terra vi sia pietra ornata di figure per pr ostrarvi davanti ad essa; poiché io sono il Signore vostro Dio. Osserverete i miei sabati e portere te rispetto al mio santuario. Io sono il Signore. Se seguirete le mie leggi se osserverete i miei co mandi e li metterete in pratica, io vi darò le piogge al loro tempo la terra darà prodotti e gli albe ri della campagna daranno frutti. La trebbiatura durerà per voi fino alla vendemmia e la vendem mia durerà fino alla semina; mangerete il vostro pane a sazietà e abiterete al sicuro nella vostra terra. Io stabilirò la pace nella terra e quando vi coricherete nulla vi turberà. Farò sparire dalla t erra le bestie nocive e la spada non passerà sui vostri territori. Voi inseguirete i vostri nemici ed essi cadranno dinanzi a voi colpiti di spada. Cinque di voi ne inseguiranno cento cento di voi ne i nseguiranno diecimila e i vostri nemici cadranno dinanzi a voi colpiti di spada. Io mi volgerò a vo i vi renderò fecondi e vi moltiplicherò e confermerò la mia alleanza con voi. Voi mangerete del v ecchio raccolto serbato a lungo e dovrete disfarvi del raccolto vecchio per far posto al nuovo. St abilirò la mia dimora in mezzo a voi e non vi respingerò. Camminerò in mezzo a voi sarò vostro Dio e voi sarete mio popolo. Io sono il Signore vostro Dio che vi ho fatto uscire dalla terra d’Egitt
o, perché non foste più loro schiavi; ho spezzato il vostro giogo e vi ho fatto camminare a testa alta. Ma se non mi darete ascolto e se non metterete in pratica tutti questi comandi, se disprezz erete le mie leggi e rigetterete le mie prescrizioni non mettendo in pratica tutti i miei comandi e infrangendo la mia alleanza ecco come io vi tratterò: manderò contro di voi il terrore la consun zione e la febbre che vi faranno languire gli occhi e vi consumeranno la vita. Seminerete invano l e vostre sementi: le mangeranno i vostri nemici. Volgerò il mio volto contro di voi e voi sarete s confitti dai nemici; quelli che vi odiano vi opprimeranno e vi darete alla fuga senza che alcuno vi insegua. Se nemmeno a questo punto mi darete ascolto io vi castigherò sette volte di più per i v ostri peccati. Spezzerò la vostra forza superba renderò il vostro cielo come ferro e la vostra terr a come bronzo. Le vostre energie si consumeranno invano poiché la vostra terra non darà prod otti e gli alberi della campagna non daranno frutti. Se vi opporrete a me e non mi vorrete ascolt are io vi colpirò sette volte di più secondo i vostri peccati. Manderò contro di voi le bestie selvat iche che vi rapiranno i figli stermineranno il vostro bestiame vi ridurranno a un piccolo numero e le vostre strade diventeranno deserte. Se nonostante questi castighi non vorrete correggervi per tornare a me ma vi opporrete a me anch’io mi opporrò a voi e vi colpirò sette volte di più pe r i vostri peccati. Manderò contro di voi la spada vindice della mia alleanza; voi vi raccoglierete nelle vostre città ma io manderò in mezzo a voi la peste e sarete dati in mano al nemico. Quand o io avrò tolto il sostegno del pane dieci donne faranno cuocere il vostro pane in uno stesso for no e il pane che esse porteranno sarà razionato: mangerete ma non vi sazierete. Se nonostante tutto questo non vorrete darmi ascolto ma vi opporrete a me, anch’io mi opporrò a voi con furo re e vi castigherò sette volte di più per i vostri peccati. Mangerete perfino la carne dei vostri figli e mangerete la carne delle vostre figlie. Devasterò le vostre alture distruggerò i vostri altari per l’incenso butterò i vostri cadaveri sui cadaveri dei vostri idoli e vi detesterò. Ridurrò le vostre ci ttà a deserti devasterò i vostri santuari e non aspirerò più il profumo dei vostri incensi. Devaster ò io stesso la terra e i vostri nemici che vi prenderanno dimora ne saranno stupefatti. Quanto a voi vi disperderò fra le nazioni e sguainerò la spada dietro di voi; la vostra terra sarà desolata e l e vostre città saranno deserte. Allora la terra godrà i suoi sabati per tutto il tempo della desolazi one mentre voi resterete nella terra dei vostri nemici; allora la terra si riposerà e si compenserà dei suoi sabati. Finché rimarrà desolata avrà il riposo che non le fu concesso da voi con i sabati quando l’abitavate. A quelli che tra voi saranno superstiti infonderò nel cuore costernazione nei territori dei loro nemici: il fruscìo di una foglia agitata li metterà in fuga; fuggiranno come si fug ge di fronte alla spada e cadranno senza che alcuno li insegua. Cadranno uno sopra l’altro come di fronte alla spada senza che alcuno li insegua. Non potrete resistere dinanzi ai vostri nemici. P
erirete fra le nazioni: la terra dei vostri nemici vi divorerà. Quelli che tra voi saranno superstiti si consumeranno a causa delle proprie colpe nei territori dei loro nemici; anche a causa delle colp e dei loro padri periranno con loro. Dovranno confessare la loro colpa e la colpa dei loro padri: per essere stati infedeli nei miei riguardi ed essersi opposti a me; perciò anch’io mi sono oppost o a loro e li ho deportati nella terra dei loro nemici. Allora il loro cuore non circonciso si umilierà
e sconteranno la loro colpa. E io mi ricorderò della mia alleanza con Giacobbe dell’alleanza con Isacco e dell’alleanza con Abramo e mi ricorderò della terra. Quando dunque la terra sarà abba ndonata da loro e godrà i suoi sabati mentre rimarrà deserta senza di loro essi sconteranno la lo ro colpa per avere disprezzato le mie prescrizioni ed essersi stancati delle mie leggi. Nonostante tutto questo quando saranno nella terra dei loro nemici io non li rigetterò e non mi stancherò d i loro fino al punto di annientarli del tutto e di rompere la mia alleanza con loro poiché io sono il Signore loro Dio; ma mi ricorderò in loro favore dell’alleanza con i loro antenati che ho fatto us cire dalla terra d’Egitto davanti alle nazioni per essere loro Dio. Io sono il Signore”». Questi sono gli statuti le prescrizioni e le leggi che il Signore stabilì fra sé e gli Israeliti sul monte Sinai per m ezzo di Mosè. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla agli Israeliti dicendo loro: “Se qualcuno vor rà adempiere un voto in onore del Signore basandosi su valutazioni corrispondenti alle persone eccone i valori: per un uomo dai venti ai sessant’anni il valore è di cinquanta sicli d’argento conf ormi al siclo del santuario; invece per una donna il valore è di trenta sicli. Dai cinque ai venti an ni il valore è di venti sicli per un maschio e di dieci sicli per una femmina. Da un mese a cinque a nni il valore è di cinque sicli d’argento per un maschio e di tre sicli d’argento per una femmina.
Dai sessant’anni in su il valore è di quindici sicli per un maschio e di dieci sicli per una femmina.
Se colui che ha fatto il voto è troppo povero per pagare la somma fissata dovrà presentare al sa cerdote la persona consacrata con voto e il sacerdote ne farà la stima. Il sacerdote farà la stima in proporzione dei mezzi di colui che ha fatto il voto. Se si tratta di animali che possono essere p resentati in offerta al Signore ogni animale donato al Signore sarà cosa santa. Non lo si potrà co mmutare né si potrà sostituire un animale di qualità con uno difettoso né uno difettoso con uno di buona qualità se tuttavia qualcuno sostituisse un animale all’altro entrambi gli animali diverr anno cosa sacra. Se invece si tratta di qualunque animale impuro che non si può presentare co me offerta al Signore l’animale sarà portato davanti al sacerdote; egli valuterà se l’animale è in buono o cattivo stato e si starà al valore stabilito dal sacerdote. Ma se qualcuno lo vorrà riscatta re aggiungerà un quinto al valore fissato. Se qualcuno vorrà consacrare la sua casa come cosa sa cra al Signore il sacerdote ne farà la stima secondo che essa sia in buono o in cattivo stato; si sta rà alla stima stabilita dal sacerdote. Se colui che ha consacrato la sua casa la vorrà riscattare, ag giungerà un quinto al prezzo della stima e sarà sua. Se qualcuno vorrà consacrare al Signore un terreno del suo patrimonio il suo valore sarà stabilito in proporzione alla semente: cinquanta sic li d’argento per un homer di seme d’orzo. Se consacra il suo campo dall’anno del giubileo il prez zo resterà intero secondo la stima; ma se lo consacra dopo il giubileo il sacerdote ne valuterà il prezzo in proporzione agli anni che rimangono fino al giubileo e si farà una detrazione dalla stim a. Se colui che ha consacrato il pezzo di terra lo vorrà riscattare aggiungerà un quinto all’ammo ntare della stima e resterà suo. Se non riscatta il pezzo di terra e lo vende a un altro non lo si po trà più riscattare; ma quel pezzo di terra quando al giubileo il compratore ne uscirà sarà sacro al Signore come un campo votato allo sterminio e diventerà proprietà del sacerdote. Se uno vorrà consacrare al Signore un pezzo di terra comprato che non fa parte del suo patrimonio il sacerd
ote valuterà l’ammontare del prezzo fino all’anno del giubileo; quel tale pagherà il giorno stesso il prezzo fissato come cosa consacrata al Signore. Nell’anno del giubileo la terra tornerà a colui da cui fu comprata e del cui patrimonio faceva parte. Ogni valutazione si farà sulla base del siclo del santuario: il siclo corrisponde a venti ghera. Tuttavia nessuno potrà consacrare un primoge nito del bestiame il quale appartiene già al Signore perché primogenito: sia esso di grosso bestia me o di bestiame minuto appartiene al Signore. Se si tratta di un animale impuro lo si riscatterà al prezzo di stima, aggiungendovi un quinto; se non è riscattato sarà venduto al prezzo di stima.
Nondimeno quanto uno avrà consacrato al Signore con voto di sterminio fra le cose che gli appa rtengono persona animale o pezzo di terra del suo patrimonio non potrà essere né venduto né r iscattato; ogni cosa votata allo sterminio è cosa santissima riservata al Signore. Nessuna person a votata allo sterminio potrà essere riscattata; dovrà essere messa a morte. Ogni decima della t erra cioè delle granaglie del suolo e dei frutti degli alberi, appartiene al Signore: è cosa consacra ta al Signore. Se uno vuole riscattare una parte della sua decima vi aggiungerà un quinto. Ogni d ecima del bestiame grosso o minuto, ossia il decimo capo di quanto passa sotto la verga del pas tore sarà consacrata al Signore. Non si farà cernita fra animale migliore e peggiore né si faranno sostituzioni; qualora però avvenisse una sostituzione entrambi gli animali diverranno cosa sacr a: non si potranno riscattare”». Questi sono i comandi che il Signore diede a Mosè per gli Israeli ti sul monte Sinai. Il Signore parlò a Mosè nel deserto del Sinai nella tenda del convegno il prim o giorno del secondo mese il secondo anno dalla loro uscita dalla terra d’Egitto e disse: «Fate il computo di tutta la comunità degli Israeliti secondo le loro famiglie, secondo i loro casati patern i contando i nomi di tutti i maschi testa per testa dai vent’anni in su quanti in Israele possono an dare in guerra; tu e Aronne li censirete schiera per schiera. Sarà con voi un uomo per tribù un u omo che sia capo del casato dei suoi padri. Questi sono i nomi degli uomini che vi assisteranno.
Per Ruben: Elisù r figlio di Sedeù r; per Simeone: Selumièl figlio di Surisaddài; per Giuda: Nacson figlio di Amminadàb; per ìssacar: Netanèl figlio di Suar; per Zàbulon: Eliàb figlio di Chelon; per i figli di Giuseppe per èfraim: Elisamà figlio di Ammiù d; per Manasse: Gamlièl figlio di Pedasù r; p er Beniamino: Abidàn figlio di Ghideonì per Dan: Achièzer figlio di Ammisaddài; per Aser: Paghiè l figlio di Ocran; per Gad: Eliasàf, figlio di Deuèl; per Nèftali: Achirà figlio di Enan». Questi furono i designati della comunità i prìncipi delle loro tribù paterne i capi delle migliaia d’Israele. Mosè e Aronne presero questi uomini, che erano stati designati per nome e radunarono tutta la comu nità il primo giorno del secondo mese; furono registrati secondo le famiglie secondo i loro casat i paterni contando il numero delle persone dai vent’anni in su testa per testa. Come il Signore gl i aveva ordinato Mosè ne fece il censimento nel deserto del Sinai. Risultò per i figli di Ruben pri mogenito d’Israele stabilite le loro genealogie secondo le loro famiglie secondo i loro casati pat erni contando i nomi di tutti i maschi testa per testa dai vent’anni in su quanti potevano andare in guerra: censiti della tribù di Ruben quarantaseimilacinquecento. Per i figli di Simeone stabilite le loro genealogie secondo le loro famiglie secondo i loro casati paterni contando i nomi di tutti i maschi testa per testa dai vent’anni in su quanti potevano andare in guerra: censiti della tribù
di Simeone cinquantanovemilatrecento. Per i figli di Gad stabilite le loro genealogie secondo le l oro famiglie secondo i loro casati paterni contando i nomi di quelli dai vent’anni in su quanti pot evano andare in guerra: censiti della tribù di Gad quarantacinquemilaseicentocinquanta. Per i fi gli di Giuda stabilite le loro genealogie secondo le loro famiglie secondo i loro casati paterni con tando i nomi di quelli dai vent’anni in su quanti potevano andare in guerra: censiti della tribù di Giuda settantaquattromilaseicento. Per i figli di ìssacar stabilite le loro genealogie secondo le lo ro famiglie secondo i loro casati paterni contando i nomi di quelli dai vent’anni in su quanti pote vano andare in guerra: censiti della tribù di ìssacar cinquantaquattromilaquattrocento. Per i figli di Zàbulon stabilite le loro genealogie secondo le loro famiglie secondo i loro casati paterni con tando i nomi di quelli dai vent’anni in su quanti potevano andare in guerra: censiti della tribù di Zàbulon cinquantasettemilaquattrocento. Per i figli di Giuseppe: per i figli di èfraim stabilite le l oro genealogie secondo le loro famiglie secondo i loro casati paterni contando i nomi di quelli d ai vent’anni in su quanti potevano andare in guerra: censiti della tribù di èfraim quarantamilacin quecento; per i figli di Manasse stabilite le loro genealogie secondo le loro famiglie secondo i lor o casati paterni contando i nomi di quelli dai vent’anni in su quanti potevano andare in guerra: c ensiti della tribù di Manasse trentaduemiladuecento. Per i figli di Beniamino stabilite le loro gen ealogie secondo le loro famiglie secondo i loro casati paterni contando i nomi di quelli dai vent’
anni in su quanti potevano andare in guerra: censiti della tribù di Beniamino trentacinquemilaq uattrocento. Per i figli di Dan stabilite le loro genealogie secondo le loro famiglie secondo i loro casati paterni contando i nomi di quelli dai vent’anni in su quanti potevano andare in guerra: ce nsiti della tribù di Dan sessantaduemilasettecento. Per i figli di Aser stabilite le loro genealogie s econdo le loro famiglie secondo i loro casati paterni contando i nomi di quelli dai vent’anni in su quanti potevano andare in guerra: censiti della tribù di Aser quarantunmilacinquecento. Per i fi gli di Nèftali stabilite le loro genealogie secondo le loro famiglie secondo i loro casati paterni co ntando i nomi di quelli dai vent’anni in su quanti potevano andare in guerra: censiti della tribù d i Nèftali cinquantatremilaquattrocento. Questi furono i censiti di cui fecero il censimento Mosè e Aronne e i prìncipi d’Israele dodici uomini: c’era un uomo per ciascun casato paterno. E tutti i censiti degli Israeliti secondo i loro casati paterni dai vent’anni in su cioè quanti potevano andar e in guerra in Israele risultarono registrati in tutto seicentotremilacinquecentocinquanta. Ma i le viti secondo la loro tribù paterna non furono registrati insieme con gli altri. Il Signore parlò a Mo sè dicendo: «Solo la tribù di Levi non censirai né di essa farai il computo tra gli Israeliti; invece af fiderai ai leviti la Dimora della Testimonianza tutti i suoi accessori e quanto le appartiene. Essi tr asporteranno la Dimora e tutti i suoi accessori vi presteranno servizio e staranno accampati atto rno alla Dimora. Quando la Dimora dovrà muoversi i leviti la smonteranno; quando la Dimora d ovrà accamparsi i leviti la erigeranno. Se un estraneo si avvicinerà sarà messo a morte. Gli Israel iti pianteranno le tende ognuno nel suo campo ognuno vicino alla sua insegna secondo le loro s chiere. Ma i leviti pianteranno le tende attorno alla Dimora della Testimonianza; così la mia ira non si abbatterà sulla comunità degli Israeliti. I leviti avranno la cura della Dimora della Testimo
nianza». Gli Israeliti eseguirono ogni cosa come il Signore aveva comandato a Mosè: così fecero.
Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne e disse: «Gli Israeliti si accamperanno ciascuno vicino alla s ua insegna con i simboli dei loro casati paterni; si accamperanno di fronte alla tenda del conveg no tutt’intorno. Si accamperanno a oriente verso levante quelli dell’insegna dell’accampamento di Giuda secondo le loro schiere. Principe per i figli di Giuda è Nacson figlio di Amminadàb, e la sua schiera è di settantaquattromilaseicento censiti. Si accamperanno accanto a lui quelli della t ribù di ìssacar. Principe per i figli di ìssacar è Netanèl figlio di Suar e la sua schiera è di cinquanta quattromilaquattrocento censiti. Poi la tribù di Zàbulon. Principe per i figli di Zàbulon è Eliàb figl io di Chelon e la sua schiera è di cinquantasettemilaquattrocento censiti. Il totale dei censiti per l’accampamento di Giuda è di centoottantaseimilaquattrocento uomini suddivisi secondo le lor o schiere. Leveranno le tende per primi. L’insegna dell’accampamento di Ruben suddiviso secon do le sue schiere starà a mezzogiorno. Principe per i figli di Ruben è Elisù r figlio di Sedeù r e la s ua schiera è di quarantaseimilacinquecento censiti. Si accamperanno accanto a lui quelli della tr ibù di Simeone. Principe per i figli di Simeone è Selumièl figlio di Surisaddài e la sua schiera è di cinquantanovemilatrecento censiti. Poi la tribù di Gad: principe per i figli di Gad è Eliasàf figlio di Deuèl e la sua schiera è di quarantacinquemilaseicentocinquanta censiti. Il totale dei censiti per l’accampamento di Ruben è di centocinquantunmilaquattrocentocinquanta uomini suddivisi se condo le loro schiere. Leveranno le tende per secondi. Poi si leverà la tenda del convegno con l’
accampamento dei leviti in mezzo agli altri accampamenti. Come si erano accampati così si leve ranno ciascuno al suo posto suddivisi secondo le loro insegne. L’insegna dell’accampamento di èfraim suddiviso secondo le sue schiere, starà a occidente. Principe per i figli di èfraim è Elisamà figlio di Ammiù d, la sua schiera è di quarantamilacinquecento censiti. Accanto a lui la tribù di Manasse. Principe per i figli di Manasse è Gamlièl figlio di Pedasù r e la sua schiera è di trentadu emiladuecento censiti. Poi la tribù di Beniamino. Principe per i figli di Beniamino è Abidàn, figlio di Ghideonì e la sua schiera è di trentacinquemilaquattrocento censiti. Il totale dei censiti per l’a ccampamento di èfraim è di centoottomilacento uomini suddivisi secondo le loro schiere. Lever anno le tende per terzi. L’insegna dell’accampamento di Dan suddiviso secondo le sue schiere st arà a settentrione. Principe per i figli di Dan è Achièzer figlio di Ammisaddài, e la sua schiera è di sessantaduemilasettecento censiti. Si accamperanno accanto a lui quelli della tribù di Aser. Prin cipe per i figli di Aser è Paghièl figlio di Ocran e la sua schiera è di quarantunmilacinquecento ce nsiti. Poi la tribù di Nèftali. Principe per i figli di Nèftali è Achirà figlio di Enan e la sua schiera è d i cinquantatremilaquattrocento censiti. Il totale dei censiti per l’accampamento di Dan è dunqu e centocinquantasettemilaseicento. Leveranno le tende per ultimi suddivisi secondo le loro inse gne». Questi sono i censiti degli Israeliti secondo i loro casati paterni tutti i censiti degli accamp amenti suddivisi secondo le loro schiere: seicentotremilacinquecentocinquanta. Ma i leviti non f urono censiti in mezzo agli Israeliti come il Signore aveva comandato a Mosè. Gli Israeliti esegui rono ogni cosa come il Signore aveva comandato a Mosè. Così si accampavano secondo le loro i nsegne e così levavano le tende ciascuno secondo la sua famiglia in base al casato dei suoi padri
. Questi sono i discendenti di Aronne e di Mosè quando il Signore parlò con Mosè sul monte Sin ai. Questi sono i nomi dei figli di Aronne: il primogenito Nadab poi Abiu Eleàzaro e Itamàr. Tali i nomi dei figli di Aronne i sacerdoti consacrati con l’unzione che avevano ricevuto l’investitura p er esercitare il sacerdozio. Nadab e Abiu morirono davanti al Signore quando offrirono fuoco ille gittimo davanti al Signore nel deserto del Sinai. Essi non avevano figli. Eleàzaro e Itamàr esercita rono il sacerdozio alla presenza di Aronne loro padre. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Fa’ avvici nare la tribù dei leviti e presentala al sacerdote Aronne perché sia al suo servizio. Essi assumera nno l’incarico suo e quello di tutta la comunità nei confronti della tenda del convegno prestand o servizio alla Dimora. E custodiranno tutti gli arredi della tenda del convegno e assumeranno l’i ncarico degli Israeliti prestando servizio alla Dimora. Assegnerai i leviti ad Aronne e ai suoi figli: saranno affidati completamente a lui da parte degli Israeliti. Tu incaricherai Aronne e i suoi figli di esercitare il sacerdozio; il profano che vi si accosterà sarà messo a morte». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Ecco io ho scelto i leviti tra gli Israeliti al posto di ogni primogenito che nasce per primo dal seno materno tra gli Israeliti; i leviti saranno miei perché ogni primogenito è mio. Qu ando io colpii tutti i primogeniti in terra d’Egitto io consacrai a me in Israele ogni primogenito si a dell’uomo sia del bestiame; essi mi apparterranno. Io sono il Signore». Il Signore parlò a Mosè nel deserto del Sinai e disse: «Censisci i figli di Levi secondo i loro casati paterni secondo le loro famiglie; censirai tutti i maschi da un mese in su». Mosè li censì secondo l’ordine del Signore co me gli era stato ordinato. Questi sono i figli di Levi secondo i loro nomi: Gherson Keat e Merarì.
Questi i nomi dei figli di Gherson secondo le loro famiglie: Libnì e Simei. I figli di Keat secondo le loro famiglie: Amram Isar Ebron e Uzzièl. I figli di Merarì secondo le loro famiglie: Maclì e Musì.
Queste sono le famiglie dei leviti suddivisi secondo i loro casati paterni. A Gherson appartengon o la famiglia dei Libniti e la famiglia dei Simeiti. Queste sono le famiglie dei Ghersoniti. I loro cen siti contando tutti i maschi da un mese in su erano settemilacinquecento. Le famiglie dei Gherso niti avevano l’accampamento dietro la Dimora a occidente. Il principe del casato paterno per i G
hersoniti era Eliasàf, figlio di Laèl. I figli di Gherson nella tenda del convegno avevano l’incarico della Dimora e della tenda della sua copertura e della cortina all’ingresso della tenda del conveg no, dei tendaggi del recinto e della cortina all’ingresso del recinto intorno alla Dimora e all’altar e e delle corde per tutto il suo impianto. A Keat appartengono la famiglia degli Amramiti la fami glia degli Isariti la famiglia degli Ebroniti e la famiglia degli Uzzieliti. Queste sono le famiglie dei Keatiti contando tutti i maschi da un mese in su: ottomilaseicento. Essi avevano la custodia del s antuario. Le famiglie dei figli di Keat avevano l’accampamento al lato meridionale della Dimora.
Il principe del casato paterno per i Keatiti era Elisafàn figlio di Uzzièl. Avevano l’incarico dell’arc a della tavola del candelabro degli altari e degli arredi del santuario con i quali si svolge il servizi o della cortina e di tutto il suo impianto. Il principe dei prìncipi dei leviti era Eleàzaro figlio del sa cerdote Aronne; esercitava la sorveglianza su quelli che avevano l’incarico del santuario. A Mer arì appartengono la famiglia dei Macliti e la famiglia dei Musiti. Queste sono le famiglie di Mera rì. I loro censiti contando tutti i maschi da un mese in su erano seimiladuecento. Il principe del c
asato paterno per le famiglie di Merarì era Surièl figlio di Abicàil. Essi avevano l’accampamento al lato settentrionale della Dimora. I figli di Merarì avevano l’incarico di custodire le assi della Di mora le sue stanghe le sue colonne e le loro basi tutti i suoi arredi e tutto il suo impianto le colo nne del recinto all’intorno le loro basi i loro picchetti e le loro corde. Davanti alla Dimora a orien te avevano l’accampamento Mosè Aronne e i suoi figli; essi avevano la custodia del santuario a nome degli Israeliti. Il profano che vi si fosse avvicinato sarebbe stato messo a morte. Tutti i levi ti di cui Mosè e Aronne fecero il censimento secondo le loro famiglie per ordine del Signore tutt i i maschi da un mese in su erano ventiduemila. Il Signore disse a Mosè: «Censisci tutti i primoge niti maschi tra gli Israeliti, da un mese in su e conta i loro nomi. Prenderai i leviti per me –
io sono il Signore –
invece di tutti i primogeniti degli Israeliti e il bestiame dei leviti invece dei primi parti del bestia me degli Israeliti». Mosè censì come il Signore gli aveva comandato ogni primogenito tra gli Isra eliti secondo l’ordine che il Signore gli aveva dato. Il totale dei primogeniti maschi che furono ce nsiti contando i nomi da un mese in su fu di ventiduemiladuecentosettantatré. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Prendi i leviti al posto di tutti i primogeniti degli Israeliti e il bestiame dei leviti a l posto del loro bestiame; i leviti saranno miei. Io sono il Signore. Come riscatto dei duecentoset tantatré eccedenti rispetto ai leviti tra i primogeniti degli Israeliti prenderai cinque sicli a testa; l i prenderai conformi al siclo del santuario: venti ghera per un siclo. Darai il denaro ad Aronne e ai suoi figli come riscatto di quelli tra loro eccedenti». Mosè prese il denaro del riscatto di quelli che oltrepassavano il numero dei primogeniti riscattati dai leviti. Da questi primogeniti degli Isr aeliti prese in denaro milletrecentosessantacinque sicli, conformi al siclo del santuario. Mosè di ede il denaro del riscatto ad Aronne e ai suoi figli secondo l’ordine del Signore come aveva ordi nato il Signore a Mosè. Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne e disse: «Fate il computo dei figli di Keat tra i figli di Levi secondo le loro famiglie e secondo i loro casati paterni, dai trent’anni fino ai cinquant’anni di quanti fanno parte di una schiera, prestando servizio nella tenda del conveg no. Questo è il servizio dei figli di Keat nella tenda del convegno. è cosa santissima. Quando si le veranno le tende verranno Aronne e i suoi figli caleranno il velo della cortina e copriranno con e sso l’arca della Testimonianza; poi porranno sull’arca una coperta di pelli di tasso vi stenderann o sopra un drappo tutto di porpora viola e metteranno a posto le stanghe. Poi stenderanno un drappo di porpora viola sulla tavola dell’offerta e vi metteranno sopra i piatti le coppe le anfore le tazze per le libagioni; sopra vi sarà il pane perenne. Su queste cose stenderanno un drappo sc arlatto e lo copriranno con una coperta di pelli di tasso e collocheranno le stanghe. Prenderann o un drappo di porpora viola e copriranno il candelabro per l’illuminazione, le sue lampade i suo i smoccolatoi i suoi portacenere e tutti i vasi per l’olio di cui si servono. Metteranno il candelabr o con tutti i suoi accessori in una coperta di pelli di tasso e lo metteranno sopra la portantina. S
opra l’altare d’oro stenderanno un drappo di porpora viola e lo copriranno con una coperta di p elli di tasso e collocheranno le stanghe. Prenderanno tutti gli arredi che si usano per il servizio n el santuario li metteranno in un drappo di porpora viola li avvolgeranno in una coperta di pelli d
i tasso e li metteranno sopra la portantina. Toglieranno il grasso bruciato dall’altare e stenderan no su di esso un drappo scarlatto; vi metteranno sopra tutti gli arredi di cui si servono i bracieri l e forcelle, le palette i vasi per l’aspersione tutti gli accessori dell’altare e vi stenderanno sopra u na coperta di pelli di tasso e collocheranno le stanghe. Quando Aronne e i suoi figli avranno finit o di coprire il santuario e tutti gli arredi del santuario al momento di levare le tende i figli di Kea t verranno per trasportarlo; ma non toccheranno il santuario perché non muoiano. Questo è l’in carico dei figli di Keat nella tenda del convegno. Eleàzaro figlio del sacerdote Aronne avrà la sor veglianza dell’olio per l’illuminazione dell’incenso aromatico dell’offerta perenne e dell’olio dell’
unzione e la sorveglianza di tutta la Dimora e di quanto contiene sia del santuario sia dei suoi ar redi». Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne e disse: «Non provocate l’eliminazione della tribù del le famiglie dei Keatiti di mezzo ai leviti; ma fate questo per loro perché vivano e non muoiano n ell’accostarsi al Santo dei Santi: Aronne e i suoi figli vengano e assegnino ciascuno di loro al pro prio servizio e al proprio incarico. Non entrino essi a guardare neanche per un istante il santuari o perché morirebbero». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Si faccia il computo anche dei figli di G
herson secondo i loro casati paterni secondo le loro famiglie. Dai trent’anni fino ai cinquant’ann i li censirai quanti fanno parte di una schiera prestando servizio nella tenda del convegno. Quest o è il servizio delle famiglie dei Ghersoniti quello che dovranno fare e quello che dovranno port are. Essi porteranno i teli della Dimora e la tenda del convegno la sua copertura la copertura di pelli di tasso che vi è sopra e la cortina all’ingresso della tenda del convegno i tendaggi del recin to la cortina all’ingresso del recinto che è attorno alla Dimora e all’altare le loro corde e tutti gli arredi per il loro servizio e tutto quanto è predisposto perché prestino servizio. Tutto il servizio dei Ghersoniti sarà agli ordini di Aronne e dei suoi figli per quanto dovranno portare e per quant o dovranno fare. E affiderete loro in custodia quanto dovranno portare. Tale è il servizio delle fa miglie dei figli dei Ghersoniti nella tenda del convegno; il loro servizio dipenderà da Itamàr figlio del sacerdote Aronne. Censirai i figli di Merarì secondo le loro famiglie secondo i loro casati pat erni; dai trent’anni fino ai cinquant’anni li censirai quanti fanno parte di una schiera prestando s ervizio nella tenda del convegno. Questo è quanto è affidato alla loro custodia e quello che dovr anno trasportare come loro servizio nella tenda del convegno: le assi della Dimora le sue stangh e le sue colonne le sue basi le colonne del recinto tutt’intorno le loro basi i loro picchetti le loro corde tutti i loro arredi e tutto il loro impianto. Elencherete per nome gli oggetti affidati alla lor o custodia e che essi dovranno trasportare. Tale è il servizio delle famiglie dei figli di Merarì sec ondo tutto il loro servizio nella tenda del convegno sotto gli ordini di Itamàr figlio del sacerdote Aronne». Mosè Aronne e i prìncipi della comunità censirono i figli dei Keatiti secondo le loro fa miglie secondo i loro casati paterni dai trent’anni fino ai cinquant’anni quanti facevano parte di una schiera prestando servizio nella tenda del convegno. I loro censiti secondo le loro famiglie f urono duemilasettecentocinquanta. Questi appartengono alle famiglie dei Keatiti di cui si fece il censimento quanti prestavano servizio nella tenda del convegno che Mosè e Aronne censirono secondo l’ordine che il Signore aveva dato per mezzo di Mosè. I censiti dei figli di Gherson seco
ndo le loro famiglie secondo i loro casati paterni, dai trent’anni fino ai cinquant’anni quanti face vano parte di una schiera, prestando servizio nella tenda del convegno quelli di cui si fece il cens imento secondo le loro famiglie secondo i loro casati paterni furono duemilaseicentotrenta. Qu esti appartengono alle famiglie dei figli di Gherson di cui si fece il censimento quanti prestavano servizio nella tenda del convegno che Mosè e Aronne censirono secondo l’ordine del Signore. I censiti delle famiglie dei figli di Merarì secondo le loro famiglie secondo i loro casati paterni dai trent’anni fino ai cinquant’anni quanti facevano parte di una schiera prestando servizio nella te nda del convegno quelli di cui si fece il censimento secondo le loro famiglie furono tremiladuec ento. Questi appartengono alle famiglie dei figli di Merarì che Mosè e Aronne censirono second o l’ordine che il Signore aveva dato per mezzo di Mosè. Tutti i censiti che Mosè Aronne e i prìnci pi d’Israele censirono presso i leviti secondo le loro famiglie secondo i loro casati paterni dai tre nt’anni fino ai cinquant’anni quanti prestavano servizio di lavoro e servizio di trasporto nella ten da del convegno, tutti quelli di cui si fece il censimento furono ottomilacinquecentoottanta. Per ordine del Signore li censirono per mezzo di Mosè uno per uno assegnando a ciascuno il servizio che doveva fare e ciò che doveva trasportare. Il loro censimento fu quello che il Signore aveva ordinato a Mosè. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Ordina agli Israeliti che espellano dall’accamp amento ogni lebbroso chiunque soffre di gonorrea e ogni impuro a causa di un morto. Allontan erete sia i maschi sia le femmine; li allontanerete dall’accampamento, così non renderanno imp uro il loro accampamento dove io abito tra di loro». Così fecero gli Israeliti: li espulsero fuori del l’accampamento. Come il Signore aveva parlato a Mosè così fecero gli Israeliti. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Di’ agli Israeliti: “Quando un uomo o una donna avrà fatto qualsiasi peccato con tro qualcuno commettendo un’infedeltà contro il Signore questa persona sarà in condizione di c olpa. Dovrà confessare il peccato commesso. Restituirà per intero ciò per cui si è reso colpevole vi aggiungerà un quinto e lo darà a colui verso il quale si è reso colpevole. Ma se non vi è un par ente stretto a cui dare il risarcimento questo è da restituire al Signore cioè al sacerdote oltre l’a riete del rito di espiazione, mediante il quale si compirà l’espiazione per lui. Ogni prelievo su tut te le cose consacrate che gli Israeliti offriranno al sacerdote, apparterrà a lui; le cose sante di og nuno saranno sue ma ciò che uno darà al sacerdote apparterrà a lui”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla agli Israeliti dicendo loro: “Se un uomo ha una moglie che si è traviata e ha comm esso un’infedeltà verso di lui e un altro uomo ha avuto rapporti con lei ma la cosa è rimasta nas costa agli occhi del marito ed ella si è resa impura in segreto non vi sono testimoni contro di lei e non è stata colta sul fatto qualora uno spirito di gelosia si impadronisca del marito e questi div enti geloso della moglie che si è resa impura oppure uno spirito di gelosia si impadronisca di lui e questi diventi geloso della moglie che non si è resa impura, il marito condurrà sua moglie al sa cerdote e per lei porterà come offerta un decimo di efa di farina d’orzo; non vi spanderà sopra olio né vi metterà sopra incenso perché è un’oblazione di gelosia un’oblazione commemorativa per ricordare una colpa. Il sacerdote farà avvicinare la donna e la farà stare davanti al Signore. P
oi il sacerdote prenderà acqua santa in un vaso di terra; prenderà anche un po’ della polvere ch
e è sul pavimento della Dimora e la metterà nell’acqua. Il sacerdote farà quindi stare la donna d avanti al Signore le scioglierà la capigliatura e porrà nelle mani di lei l’oblazione commemorativ a che è oblazione di gelosia, mentre il sacerdote avrà in mano l’acqua di amarezza che porta ma ledizione. Il sacerdote la farà giurare e dirà alla donna: Se nessun altro uomo si è coricato con te e se non ti sei traviata rendendoti impura con un altro mentre appartieni a tuo marito sii tu dim ostrata innocente da quest’acqua di amarezza che porta maledizione. Ma se ti sei traviata con u n altro mentre appartieni a tuo marito e ti sei resa impura e un altro uomo ha avuto rapporti co n te all’infuori di tuo marito… a questo punto il sacerdote farà giurare la donna con un’imprecaz ione e il sacerdote dirà alla donna: Il Signore faccia di te un oggetto di maledizione e di imprecaz ione in mezzo al tuo popolo facendoti lui il Signore avvizzire i fianchi e gonfiare il ventre; quest’a cqua che porta maledizione ti entri nelle viscere per farti gonfiare il ventre e avvizzire i fianchi!
E la donna dirà: Amen Amen! E il sacerdote scriverà queste imprecazioni su un documento e le cancellerà con l’acqua di amarezza. Farà bere alla donna quell’acqua di amarezza che porta mal edizione e l’acqua che porta maledizione entrerà in lei per produrre amarezza. Il sacerdote pren derà dalle mani della donna l’oblazione di gelosia presenterà l’oblazione con il rito di elevazione davanti al Signore e l’accosterà all’altare. Il sacerdote prenderà una manciata di quell’oblazione come suo memoriale e la farà bruciare sull’altare; poi farà bere l’acqua alla donna. Quando le a vrà fatto bere l’acqua se lei si è contaminata e ha commesso un’infedeltà contro suo marito l’ac qua che porta maledizione entrerà in lei per produrre amarezza; il ventre le si gonfierà e i suoi fi anchi avvizziranno e quella donna diventerà un oggetto d’imprecazione all’interno del suo popo lo. Ma se la donna non si è resa impura ed è quindi pura sarà dimostrata innocente e sarà fecon da. Questa è la legge della gelosia nel caso in cui una donna si sia traviata con un altro mentre a ppartiene al marito e si sia resa impura e nel caso in cui uno spirito di gelosia si impadronisca de l marito e questi sia divenuto geloso della moglie; egli farà comparire sua moglie davanti al Sign ore e il sacerdote le applicherà questa legge integralmente. Il marito sarà immune da colpa ma l a donna porterà la propria colpa”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla agli Israeliti dicendo l oro: “Quando un uomo o una donna farà un voto speciale il voto di nazireato per consacrarsi al Signore si asterrà dal vino e dalle bevande inebrianti non berrà aceto di vino né aceto di bevand a inebriante non berrà liquori tratti dall’uva e non mangerà uva né fresca né secca. Per tutto il t empo del suo nazireato non mangerà alcun prodotto della vite dai chicchi acerbi alle vinacce. Pe r tutto il tempo del suo voto di nazireato il rasoio non passerà sul suo capo; finché non siano co mpiuti i giorni per i quali si è votato al Signore sarà sacro: lascerà crescere liberamente la capigli atura del suo capo. Per tutto il tempo in cui rimane votato al Signore non si avvicinerà a un cada vere; si trattasse anche di suo padre di sua madre di suo fratello e di sua sorella non si renderà i mpuro per loro alla loro morte perché porta sul capo il segno della sua consacrazione a Dio. Per tutto il tempo del suo nazireato egli è sacro al Signore. Se qualcuno gli muore accanto all’impro vviso e rende impuro il suo capo consacrato nel giorno della sua purificazione si raderà il capo: s e lo raderà il settimo giorno; l’ottavo giorno porterà due tortore o due piccoli di colomba al sace
rdote, all’ingresso della tenda del convegno. Il sacerdote ne offrirà uno in sacrificio per il peccat o e l’altro in olocausto e compirà il rito espiatorio per lui per il peccato in cui è incorso a causa d i quel morto. In quel giorno stesso il nazireo consacrerà così il suo capo. Consacrerà di nuovo al Signore i giorni del suo nazireato e offrirà un agnello dell’anno come sacrificio per il peccato; i gi orni precedenti decadranno perché il suo nazireato è stato reso impuro. Questa è la legge per il nazireo: quando i giorni del suo nazireato saranno compiuti, lo si farà venire all’ingresso della te nda del convegno; egli presenterà l’offerta al Signore: un agnello dell’anno senza difetto per l’ol ocausto; una pecora dell’anno senza difetto per il sacrificio per il peccato; un ariete senza difett o come sacrificio di comunione; un canestro di pani azzimi di fior di farina di focacce impastate con olio di schiacciate senza lievito unte d’olio insieme con la loro oblazione e le loro libagioni. Il sacerdote le offrirà davanti al Signore e compirà il suo sacrificio per il peccato e il suo olocausto
; offrirà l’ariete come sacrificio di comunione al Signore oltre al canestro degli azzimi. Il sacerdot e offrirà anche l’oblazione e la sua libagione. Il nazireo raderà all’ingresso della tenda del conve gno il suo capo consacrato prenderà la capigliatura del suo capo consacrato e la metterà sul fuo co che è sotto il sacrificio di comunione. Il sacerdote prenderà la spalla dell’ariete, quando sarà cotta una focaccia non lievitata dal canestro e una schiacciata azzima e le porrà nelle mani del n azireo dopo che questi avrà rasato la capigliatura consacrata. Il sacerdote le presenterà con il rit o di elevazione davanti al Signore; è cosa santa che appartiene al sacerdote insieme con il petto della vittima offerta con il rito di elevazione e la coscia della vittima offerta come tributo. Dopo i l nazireo potrà bere vino. Questa è la legge per il nazireo che ha promesso la sua offerta al Signo re per il suo nazireato oltre quello che è in grado di fare in più secondo il voto che avrà emesso.
Così egli farà quanto alla legge del suo nazireato”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla ad Ar onne e ai suoi figli dicendo: “Così benedirete gli Israeliti: direte loro: Ti benedica il Signore e ti c ustodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te i l suo volto e ti conceda pace”. Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò». Nel gior no in cui Mosè ebbe finito di erigere la Dimora e l’ebbe unta e consacrata con tutti i suoi arredi quando ebbe eretto l’altare e tutti i suoi arredi e li ebbe unti e consacrati i prìncipi di Israele cap i dei loro casati paterni quelli che erano i prìncipi delle tribù e che avevano presieduto al censim ento presentarono un’offerta. Portarono la loro offerta davanti al Signore: sei carri coperti e do dici capi di bestiame grosso cioè un carro ogni due prìncipi e un bue ciascuno e li offrirono dava nti alla Dimora. Il Signore disse a Mosè: «Prendili da loro per impiegarli al servizio della tenda de l convegno e assegnali ai leviti; a ciascuno secondo il suo servizio». Mosè prese dunque i carri e i buoi e li diede ai leviti. Diede due carri e quattro buoi ai figli di Gherson secondo il loro servizio; diede quattro carri e otto buoi ai figli di Merarì secondo il loro servizio sotto la sorveglianza di It amàr figlio del sacerdote Aronne. Ma ai figli di Keat non ne diede perché a loro incombeva il ser vizio del santuario e dovevano trasportarlo sulle spalle. I prìncipi presentarono l’offerta per la d edicazione dell’altare il giorno in cui esso fu unto; i prìncipi presentarono la loro offerta di front e all’altare. Il Signore disse a Mosè: «Offriranno la loro offerta per la dedicazione dell’altare un
principe al giorno». Presentò l’offerta il primo giorno Nacson figlio di Amminadàb della tribù di Giuda; la sua offerta fu un piatto d’argento del peso di centotrenta sicli un vassoio d’argento di settanta sicli conformi al siclo del santuario tutti e due pieni di fior di farina impastata con olio p er l’oblazione una coppa d’oro di dieci sicli piena d’incenso un giovenco un ariete un agnello di un anno per l’olocausto, un capro per il sacrificio per il peccato e per il sacrificio di comunione d ue bovini cinque arieti cinque capri cinque agnelli di un anno. Tale fu l’offerta di Nacson, figlio di Amminadàb. Il secondo giorno Netanèl figlio di Suar principe di ìssacar fece l’offerta. Offrì un pi atto d’argento del peso di centotrenta sicli un vassoio d’argento di settanta sicli conformi al sicl o del santuario tutti e due pieni di fior di farina impastata con olio per l’oblazione una coppa d’o ro di dieci sicli piena d’incenso un giovenco un ariete un agnello di un anno per l’olocausto, un c apro per il sacrificio per il peccato e per il sacrificio di comunione due bovini cinque arieti cinqu e capri cinque agnelli di un anno. Tale fu l’offerta di Netanèl figlio di Suar. Il terzo giorno fu Eliàb figlio di Chelon principe dei figli di Zàbulon. La sua offerta fu un piatto d’argento del peso di cen totrenta sicli un vassoio d’argento di settanta sicli conformi al siclo del santuario tutti e due pie ni di fior di farina impastata con olio per l’oblazione una coppa d’oro di dieci sicli piena d’incens o, un giovenco un ariete un agnello di un anno per l’olocausto un capro per il sacrificio per il pec cato e per il sacrificio di comunione due bovini cinque arieti cinque capri cinque agnelli di un an no. Tale fu l’offerta di Eliàb figlio di Chelon. Il quarto giorno fu Elisù r figlio di Sedeù r principe de i figli di Ruben. La sua offerta fu un piatto d’argento del peso di centotrenta sicli un vassoio d’ar gento di settanta sicli conformi al siclo del santuario tutti e due pieni di fior di farina impastata c on olio per l’oblazione una coppa d’oro di dieci sicli piena d’incenso, un giovenco un ariete un a gnello di un anno per l’olocausto un capro per il sacrificio per il peccato e per il sacrificio di com unione due bovini cinque arieti cinque capri cinque agnelli di un anno. Tale fu l’offerta di Elisù r figlio di Sedeù r. Il quinto giorno fu Selumièl figlio di Surisaddài principe dei figli di Simeone. La s ua offerta fu un piatto d’argento del peso di centotrenta sicli un vassoio d’argento di settanta si cli conformi al siclo del santuario tutti e due pieni di fior di farina impastata con olio per l’oblazi one una coppa d’oro di dieci sicli piena d’incenso un giovenco un ariete un agnello di un anno p er l’olocausto, un capro per il sacrificio per il peccato e per il sacrificio di comunione due bovini cinque arieti cinque capri cinque agnelli di un anno. Tale fu l’offerta di Selumièl figlio di Surisadd ài. Il sesto giorno fu Eliasàf figlio di Deuèl principe dei figli di Gad. La sua offerta fu un piatto d’ar gento del peso di centotrenta sicli un vassoio d’argento di settanta sicli conformi al siclo del san tuario tutti e due pieni di fior di farina impastata con olio per l’oblazione una coppa d’oro di die ci sicli piena d’incenso, un giovenco un ariete un agnello di un anno per l’olocausto un capro per il sacrificio per il peccato e per il sacrificio di comunione due bovini cinque arieti cinque capri ci nque agnelli di un anno. Tale fu l’offerta di Eliasàf figlio di Deuèl. Il settimo giorno fu Elisamà figl io di Ammiù d principe dei figli di èfraim. La sua offerta fu un piatto d’argento del peso di centot renta sicli un vassoio d’argento del peso di settanta sicli conformi al siclo del santuario tutti e du e pieni di fior di farina impastata con olio per l’oblazione una coppa d’oro di dieci sicli piena d’in
censo un giovenco un ariete un agnello di un anno per l’olocausto, un capro per il sacrificio per i l peccato e per il sacrificio di comunione due bovini cinque arieti cinque capri cinque agnelli di u n anno. Tale fu l’offerta di Elisamà figlio di Ammiù d. L’ottavo giorno fu Gamlièl figlio di Pedasù r principe dei figli di Manasse. La sua offerta fu un piatto d’argento del peso di centotrenta sicli u n vassoio d’argento di settanta sicli conformi al siclo del santuario tutti e due pieni di fior di fari na impastata con olio per l’oblazione una coppa d’oro di dieci sicli piena d’incenso un giovenco un ariete un agnello di un anno per l’olocausto, un capro per il sacrificio per il peccato e per il sa crificio di comunione due bovini cinque arieti cinque capri cinque agnelli di un anno. Tale fu l’off erta di Gamlièl figlio di Pedasù r. Il nono giorno fu Abidàn figlio di Ghideonì principe dei figli di B
eniamino. La sua offerta fu un piatto d’argento del peso di centotrenta sicli un vassoio d’argent o di settanta sicli conformi al siclo del santuario tutti e due pieni di fior di farina impastata con o lio per l’oblazione una coppa d’oro di dieci sicli piena d’incenso, un giovenco un ariete un agnell o di un anno per l’olocausto un capro per il sacrificio per il peccato e per il sacrificio di comunio ne due bovini cinque arieti cinque capri cinque agnelli di un anno. Tale fu l’offerta di Abidàn figli o di Ghideonì. Il decimo giorno fu Achièzer figlio di Ammisaddài principe dei figli di Dan. La sua o fferta fu un piatto d’argento del peso di centotrenta sicli un vassoio d’argento di settanta sicli c onformi al siclo del santuario tutti e due pieni di fior di farina impastata con olio per l’oblazione una coppa d’oro di dieci sicli piena d’incenso, un giovenco un ariete un agnello di un anno per l’
olocausto un capro per il sacrificio per il peccato e per il sacrificio di comunione due bovini cinq ue arieti cinque capri cinque agnelli di un anno. Tale fu l’offerta di Achièzer figlio di Ammisaddài
. L’undicesimo giorno fu Paghièl figlio di Ocran principe dei figli di Aser. La sua offerta fu un piatt o d’argento del peso di centotrenta sicli un vassoio d’argento di settanta sicli conformi al siclo d el santuario tutti e due pieni di fior di farina impastata con olio per l’oblazione una coppa d’oro di dieci sicli piena d’incenso, un giovenco un ariete un agnello di un anno per l’olocausto un cap ro per il sacrificio per il peccato e per il sacrificio di comunione due bovini cinque arieti cinque c apri cinque agnelli di un anno. Tale fu l’offerta di Paghièl figlio di Ocran. Il dodicesimo giorno fu Achirà figlio di Enan principe dei figli di Nèftali. La sua offerta fu un piatto d’argento del peso di centotrenta sicli un vassoio d’argento di settanta sicli conformi al siclo del santuario tutti e due pieni di fior di farina impastata con olio per l’oblazione una coppa d’oro di dieci sicli piena d’inc enso, un giovenco un ariete un agnello di un anno per l’olocausto un capro per il sacrificio per il peccato e per il sacrificio di comunione due bovini cinque arieti cinque capri cinque agnelli di un anno. Tale fu l’offerta di Achirà figlio di Enan. Questi furono i doni per la dedicazione dell’altare da parte dei capi d’Israele, il giorno in cui esso fu unto: dodici piatti d’argento dodici vassoi d’ar gento dodici coppe d’oro; ogni piatto d’argento era di centotrenta sicli e ogni vassoio di settant a. Totale dell’argento dei vasi: duemilaquattrocento sicli conformi al siclo del santuario; dodici c oppe d’oro piene d’incenso a dieci sicli per coppa conformi al siclo del santuario. Totale dell’oro delle coppe: centoventi sicli. Totale del bestiame per l’olocausto: dodici giovenchi dodici arieti dodici agnelli di un anno con la loro oblazione e dodici capri per il sacrificio per il peccato. Total
e del bestiame per il sacrificio di comunione: ventiquattro giovenchi sessanta arieti sessanta cap ri sessanta agnelli di un anno. Questa fu la dedicazione dell’altare dopo che esso fu unto. Quand o Mosè entrava nella tenda del convegno per parlare con il Signore udiva la voce che gli parlava dall’alto del propiziatorio che è sopra l’arca della Testimonianza fra i due cherubini. Ed egli parla va a lui. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla ad Aronne dicendogli: “Quando collocherai le la mpade le sette lampade dovranno far luce verso la parte anteriore del candelabro”». Aronne fe ce così: collocò le lampade in modo che facessero luce verso la parte anteriore del candelabro c ome il Signore aveva ordinato a Mosè. E questa era la struttura del candelabro: era d’oro lavora to a martello dal suo fusto alle sue corolle era un solo lavoro a martello. Mosè aveva fatto il can delabro secondo la visione che il Signore gli aveva mostrato. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Pr endi i leviti tra gli Israeliti e purificali. Per purificarli farai così: li aspergerai con l’acqua lustrale; f aranno passare il rasoio su tutto il loro corpo laveranno le loro vesti e si purificheranno. Poi pre nderanno un giovenco e la sua oblazione di fior di farina impastata con olio e tu prenderai un se condo giovenco per il sacrificio per il peccato. Farai avvicinare i leviti dinanzi alla tenda del conv egno e convocherai tutta la comunità degli Israeliti. Farai avvicinare i leviti davanti al Signore e g li Israeliti porranno le mani sui leviti; Aronne presenterà i leviti con il rito di elevazione davanti a l Signore da parte degli Israeliti ed essi svolgeranno il servizio del Signore. Poi i leviti porranno le mani sulla testa dei giovenchi e tu ne offrirai uno in sacrificio per il peccato e l’altro in olocaust o al Signore per compiere il rito espiatorio per i leviti. Farai stare i leviti davanti ad Aronne e dav anti ai suoi figli e li presenterai con il rito di elevazione in onore del Signore. Così separerai i levit i dagli Israeliti e i leviti saranno miei. Dopo di che quando li avrai purificati e presentati con il rit o di elevazione i leviti entreranno in servizio nella tenda del convegno. Essi infatti sono doni dati a me tra gli Israeliti io li ho presi per me al posto di quanti nascono per primi dalla madre al pos to di ogni primogenito di tutti gli Israeliti. Poiché mio è ogni primogenito fra gli Israeliti sia degli uomini sia del bestiame: io me li sono consacrati il giorno in cui percossi tutti i primogeniti in ter ra d’Egitto. Ho scelto i leviti al posto di ogni primogenito fra gli Israeliti. Ho dato i leviti in dono a d Aronne e ai suoi figli tra gli Israeliti perché svolgano il servizio degli Israeliti nella tenda del con vegno e perché compiano il rito espiatorio per gli Israeliti e non vi sia flagello per gli Israeliti qua ndo gli Israeliti si accosteranno al santuario». Così fecero Mosè Aronne e tutta la comunità degli Israeliti per i leviti; gli Israeliti fecero per i leviti quanto il Signore aveva ordinato a Mosè a loro r iguardo. I leviti si purificarono e lavarono le loro vesti. Aronne li presentò con il rito di elevazion e davanti al Signore e compì il rito espiatorio per loro per purificarli. Dopo questo i leviti entraro no in servizio nella tenda del convegno alla presenza di Aronne e dei suoi figli. Come il Signore a veva ordinato a Mosè riguardo ai leviti così fecero per loro. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Qu esto riguarda i leviti: da venticinque anni in su il levita entrerà a far parte della schiera al servizi o della tenda del convegno e a cinquant’anni si ritirerà dalla schiera del suo servizio: non preste rà più servizio. Assisterà i suoi fratelli nella tenda del convegno sorvegliando ciò che è affidato al la loro custodia ma non presterà servizio. Così farai per i leviti per quel che riguarda il loro incari
co». Il Signore parlò a Mosè nel deserto del Sinai il secondo anno dalla loro uscita dalla terra d’E
gitto nel primo mese e disse: «Gli Israeliti celebreranno la Pasqua nel tempo stabilito. La celebre rete nel tempo stabilito il giorno quattordici di questo mese tra le due sere; la celebrerete seco ndo tutte le leggi e secondo tutte le prescrizioni». Mosè parlò agli Israeliti perché celebrassero l a Pasqua. Essi celebrarono la Pasqua il giorno quattordici del primo mese tra le due sere nel des erto del Sinai. Secondo quanto il Signore aveva ordinato a Mosè così fecero gli Israeliti. Ma vi er ano degli uomini che erano impuri a causa del cadavere di un uomo e non potevano celebrare l a Pasqua in quel giorno. Si presentarono in quello stesso giorno davanti a Mosè e davanti ad Ar onne; quegli uomini gli dissero: «Noi siamo impuri per il cadavere di un uomo: perché ci dev’ess ere impedito di presentare l’offerta del Signore al tempo stabilito in mezzo agli Israeliti?». Mosè rispose loro: «Aspettate e sentirò quello che il Signore ordinerà a vostro riguardo». Il Signore p arlò a Mosè e disse: «Parla agli Israeliti dicendo loro: “Chiunque di voi o dei vostri discendenti si a impuro per il contatto con un cadavere o sia lontano in viaggio potrà celebrare la Pasqua in on ore del Signore. La celebreranno nel secondo mese il giorno quattordici tra le due sere; la mang eranno con pane azzimo e con erbe amare. Non ne serberanno alcun resto fino al mattino e no n ne spezzeranno alcun osso. La celebreranno seguendo fedelmente la legge della Pasqua. Però l’uomo che sia puro e non sia in viaggio ma ometta di fare la Pasqua, quella persona sarà elimin ata dal suo popolo perché non ha presentato l’offerta al Signore nel tempo stabilito: quell’uom o porterà il suo peccato. Se uno straniero che dimora tra voi celebrerà la Pasqua per il Signore l o farà secondo la legge della Pasqua e secondo quanto è stabilito per essa. Vi sarà un’unica legg e per voi per lo straniero e per il nativo della terra”». Nel giorno in cui la Dimora fu eretta la nub e coprì la Dimora dalla parte della tenda della Testimonianza; alla sera ci fu sulla Dimora come u n’apparizione di fuoco fino alla mattina. Così avveniva sempre: la nube la copriva e di notte ave va l’aspetto del fuoco. Tutte le volte che la nube si alzava sopra la tenda subito gli Israeliti si met tevano in cammino e nel luogo dove la nube si posava là gli Israeliti si accampavano. Sull’ordine del Signore gli Israeliti si mettevano in cammino e sull’ordine del Signore si accampavano. Tutti i giorni in cui la nube restava sulla Dimora essi rimanevano accampati. Quando la nube rimaneva per molti giorni sulla Dimora gli Israeliti osservavano la prescrizione del Signore e non partivano
. Avveniva che la nube rimanesse pochi giorni sulla Dimora: essi all’ordine del Signore rimaneva no accampati e all’ordine del Signore levavano le tende. E avveniva che se la nube si fermava da lla sera alla mattina e si alzava la mattina subito riprendevano il cammino; o se dopo un giorno e una notte la nube si alzava allora levavano le tende. O se la nube rimaneva ferma sulla Dimora due giorni o un mese o un anno gli Israeliti rimanevano accampati e non partivano; ma quando si alzava levavano le tende. All’ordine del Signore si accampavano e all’ordine del Signore levav ano le tende, e osservavano le prescrizioni del Signore secondo l’ordine dato dal Signore per me zzo di Mosè. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Fatti due trombe d’argento; le farai d’argento lav orato a martello e ti serviranno per convocare la comunità e per far muovere gli accampamenti.
Quando si suonerà con esse tutta la comunità si radunerà presso di te all’ingresso della tenda d
el convegno. Al suono di una tromba sola si raduneranno presso di te i prìncipi capi delle migliai a d’Israele. Quando le suonerete a squillo disteso gli accampamenti che sono a levante si mette ranno in cammino. Quando le suonerete a squillo disteso una seconda volta si metteranno in ca mmino gli accampamenti posti a mezzogiorno. A squillo disteso si suonerà per i loro spostamen ti. Per radunare l’assemblea suonerete ma non con squillo disteso. I sacerdoti figli di Aronne su oneranno le trombe; sarà per voi un rito perenne di generazione in generazione. Quando nella v ostra terra entrerete in guerra contro l’avversario che vi attaccherà suonerete le trombe a squill o disteso e sarete ricordati davanti al Signore vostro Dio e sarete salvati dai vostri nemici. Nel vo stro giorno di gioia nelle vostre solennità e al principio dei vostri mesi, suonerete le trombe dur ante i vostri olocausti e i vostri sacrifici di comunione. Esse saranno per voi un richiamo davanti al vostro Dio. Io sono il Signore vostro Dio». Il secondo anno il secondo mese il venti del mese la nube si alzò da sopra la Dimora della Testimonianza. Gli Israeliti si mossero secondo il loro ordi ne di spostamento, dal deserto del Sinai. La nube si fermò nel deserto di Paran. Così si misero in cammino la prima volta secondo l’ordine del Signore dato per mezzo di Mosè. Per prima si mos se l’insegna dell’accampamento dei figli di Giuda suddivisi secondo le loro schiere. Nacson figlio di Amminadàb comandava la schiera di Giuda. Netanèl figlio di Suar comandava la schiera della tribù dei figli di ìssacar. Eliàb figlio di Chelon comandava la schiera della tribù dei figli di Zàbulon
. La Dimora fu smontata e si mossero i figli di Gherson e i figli di Merarì portatori della Dimora. P
oi si mosse l’insegna dell’accampamento di Ruben secondo le sue schiere. Elisù r figlio di Sedeù r comandava la schiera di Ruben. Selumièl, figlio di Surisaddài comandava la schiera della tribù dei figli di Simeone. Eliasàf figlio di Deuèl comandava la schiera della tribù dei figli di Gad. Poi si mossero i Keatiti portatori del santuario; la Dimora veniva eretta al loro arrivo. Poi si mosse l’ins egna dell’accampamento dei figli di èfraim suddivisi secondo le sue schiere. Elisamà figlio di Am miù d comandava la schiera di èfraim. Gamlièl figlio di Pedasù r comandava la schiera della tribù dei figli di Manasse. Abidàn figlio di Ghideonì comandava la schiera della tribù dei figli di Benia mino. Poi si mosse l’insegna dell’accampamento dei figli di Dan retroguardia di tutti gli accampa menti suddivisi secondo le loro schiere. Achièzer figlio di Ammisaddài comandava la schiera di D
an. Paghièl figlio di Ocran comandava la schiera della tribù dei figli di Aser e Achirà figlio di Enan comandava la schiera della tribù dei figli di Nèftali. Questo era l’ordine degli spostamenti degli I sraeliti secondo le loro schiere quando levarono le tende. Mosè disse a Obab figlio di Reuèl il M
adianita suocero di Mosè: «Noi stiamo per partire verso il luogo del quale il Signore ha detto: “L
o darò a voi in possesso”. Vieni con noi e ti faremo del bene perché il Signore ha promesso del b ene a Israele». Ma egli replicò: «Io non verrò anzi tornerò alla mia terra e alla mia parentela».
Mosè rispose: «Non ci abbandonare ti prego poiché tu conosci i luoghi dove accamparci nel des erto e sarai per noi come gli occhi. Se vieni con noi tutto il bene che il Signore farà a noi noi lo fa remo a te». Così partirono dal monte del Signore e fecero tre giornate di cammino; l’arca dell’all eanza del Signore si muoveva davanti a loro durante le tre giornate di cammino per cercare loro un luogo di sosta. La nube del Signore era sopra di loro durante il giorno quando partivano dall’

accampamento. Quando l’arca partiva Mosè diceva: «Sorgi Signore, e siano dispersi i tuoi nemic i e fuggano davanti a te coloro che ti odiano». Quando sostava diceva: «Torna Signore, alle miri adi di migliaia d’Israele». Ora il popolo cominciò a lamentarsi aspramente agli orecchi del Signor e. Li udì il Signore e la sua ira si accese: il fuoco del Signore divampò in mezzo a loro e divorò un’
estremità dell’accampamento. Il popolo gridò a Mosè Mosè pregò il Signore e il fuoco si spense.
Quel luogo fu chiamato Taberà perché il fuoco del Signore era divampato fra loro. La gente racc ogliticcia in mezzo a loro fu presa da grande bramosia e anche gli Israeliti ripresero a piangere e dissero: «Chi ci darà carne da mangiare? Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto gratu itamente dei cetrioli dei cocomeri dei porri delle cipolle e dell’aglio. Ora la nostra gola inaridisce
; non c’è più nulla i nostri occhi non vedono altro che questa manna». La manna era come il se me di coriandolo e aveva l’aspetto della resina odorosa. Il popolo andava attorno a raccoglierla poi la riduceva in farina con la macina o la pestava nel mortaio la faceva cuocere nelle pentole o ne faceva focacce; aveva il sapore di pasta con l’olio. Quando di notte cadeva la rugiada sull’acc ampamento cadeva anche la manna. Mosè udì il popolo che piangeva in tutte le famiglie ognun o all’ingresso della propria tenda; l’ira del Signore si accese e la cosa dispiacque agli occhi di Mo sè. Mosè disse al Signore: «Perché hai fatto del male al tuo servo? Perché non ho trovato grazia ai tuoi occhi al punto di impormi il peso di tutto questo popolo? L’ho forse concepito io tutto qu esto popolo? O l’ho forse messo al mondo io perché tu mi dica: “Portalo in grembo” come la nu trice porta il lattante fino al suolo che tu hai promesso con giuramento ai suoi padri? Da dove pr enderò la carne da dare a tutto questo popolo? Essi infatti si lamentano dietro a me dicendo: “
Dacci da mangiare carne!”. Non posso io da solo portare il peso di tutto questo popolo; è tropp o pesante per me. Se mi devi trattare così fammi morire piuttosto fammi morire se ho trovato g razia ai tuoi occhi; che io non veda più la mia sventura!». Il Signore disse a Mosè: «Radunami se ttanta uomini tra gli anziani d’Israele conosciuti da te come anziani del popolo e come loro scrib i conducili alla tenda del convegno; vi si presentino con te. Io scenderò e lì parlerò con te; toglie rò dello spirito che è su di te e lo porrò su di loro e porteranno insieme a te il carico del popolo e tu non lo porterai più da solo. Dirai al popolo: “Santificatevi per domani e mangerete carne pe rché avete pianto agli orecchi del Signore dicendo: Chi ci darà da mangiare carne? Stavamo così bene in Egitto! Ebbene il Signore vi darà carne e voi ne mangerete. Ne mangerete non per un gi orno non per due giorni non per cinque giorni non per dieci giorni non per venti giorni, ma per u n mese intero finché vi esca dalle narici e vi venga a nausea perché avete respinto il Signore che è in mezzo a voi e avete pianto davanti a lui dicendo: Perché siamo usciti dall’Egitto?”». Mosè d isse: «Questo popolo in mezzo al quale mi trovo conta seicentomila adulti e tu dici: “Io darò lor o la carne e ne mangeranno per un mese intero!”. Si sgozzeranno per loro greggi e armenti in m odo che ne abbiano abbastanza? O si raduneranno per loro tutti i pesci del mare in modo che n e abbiano abbastanza?». Il Signore rispose a Mosè: «Il braccio del Signore è forse raccorciato? O
ra vedrai se ti accadrà o no quello che ti ho detto». Mosè dunque uscì e riferì al popolo le parole del Signore; radunò settanta uomini tra gli anziani del popolo e li fece stare intorno alla tenda.

Allora il Signore scese nella nube e gli parlò: tolse parte dello spirito che era su di lui e lo pose so pra i settanta uomini anziani; quando lo spirito si fu posato su di loro quelli profetizzarono ma n on lo fecero più in seguito. Ma erano rimasti due uomini nell’accampamento uno chiamato Elda d e l’altro Medad. E lo spirito si posò su di loro; erano fra gli iscritti ma non erano usciti per and are alla tenda. Si misero a profetizzare nell’accampamento. Un giovane corse ad annunciarlo a Mosè e disse: «Eldad e Medad profetizzano nell’accampamento». Giosuè figlio di Nun servitore di Mosè fin dalla sua adolescenza prese la parola e disse: «Mosè mio signore impediscili!». Ma Mosè gli disse: «Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Si gnore porre su di loro il suo spirito!». E Mosè si ritirò nell’accampamento insieme con gli anziani d’Israele. Un vento si alzò per volere del Signore e portò quaglie dal mare e le fece cadere sull’a ccampamento per la lunghezza di circa una giornata di cammino da un lato e una giornata di ca mmino dall’altro intorno all’accampamento e a un’altezza di circa due cubiti sulla superficie del suolo. Il popolo si alzò e tutto quel giorno e tutta la notte e tutto il giorno dopo raccolse le quagl ie. Chi ne raccolse meno ne ebbe dieci homer; le distesero per loro intorno all’accampamento. L
a carne era ancora fra i loro denti e non era ancora stata masticata quando l’ira del Signore si ac cese contro il popolo e il Signore percosse il popolo con una gravissima piaga. Quel luogo fu chi amato Kibrot-Taavà perché là seppellirono il popolo che si era abbandonato all’ingordigia. Da Kibrot-Taavà il popolo partì per Caseròt e a Caseròt fece sosta. Maria e Aronne parlarono contro Mosè a causa della donna etiope che aveva preso. Infatti aveva sposato una donna etiope. Dissero: «Il Signore ha forse parlato soltanto per mezzo di Mosè? Non ha parlato anche per mezzo nostro?
». Il Signore udì. Ora Mosè era un uomo assai umile più di qualunque altro sulla faccia della terr a. Il Signore disse a un tratto a Mosè ad Aronne e a Maria: «Uscite tutti e tre verso la tenda del c onvegno». Uscirono tutti e tre. Il Signore scese in una colonna di nube si fermò all’ingresso della tenda e chiamò Aronne e Maria. I due si fecero avanti. Il Signore disse: «Ascoltate le mie parole
! Se ci sarà un vostro profeta, io il Signore, in visione a lui mi rivelerò, in sogno parlerò con lui. N
on così per il mio servo Mosè: egli è l’uomo di fiducia in tutta la mia casa. Bocca a bocca parlo c on lui, in visione e non per enigmi, ed egli contempla l’immagine del Signore. Perché non avete temuto di parlare contro il mio servo contro Mosè?». L’ira del Signore si accese contro di loro e d egli se ne andò. La nube si ritirò di sopra alla tenda ed ecco: Maria era lebbrosa bianca come l a neve. Aronne si volse verso Maria ed ecco: era lebbrosa. Aronne disse a Mosè: «Ti prego mio s ignore non addossarci il peccato che abbiamo stoltamente commesso! Ella non sia come il bam bino nato morto la cui carne è già mezza consumata quando esce dal seno della madre». Mosè gridò al Signore dicendo: «Dio ti prego guariscila!». Il Signore disse a Mosè: «Se suo padre le ave sse sputato in viso non ne porterebbe lei vergogna per sette giorni? Stia dunque isolata fuori de ll’accampamento sette giorni; poi vi sarà riammessa». Maria dunque rimase isolata fuori dell’ac campamento sette giorni; il popolo non riprese il cammino finché Maria non fu riammessa. Poi i l popolo partì da Caseròt e si accampò nel deserto di Paran. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Ma
nda uomini a esplorare la terra di Canaan che sto per dare agli Israeliti. Manderete un uomo per ogni tribù dei suoi padri: tutti siano prìncipi fra loro». Mosè li mandò dal deserto di Paran secon do il comando del Signore; quegli uomini erano tutti capi degli Israeliti. Questi erano i loro nomi
: per la tribù di Ruben Sammù a figlio di Zaccur; per la tribù di Simeone Safat figlio di Orì per la t ribù di Giuda Caleb figlio di Iefunnè per la tribù di ìssacar, Igal figlio di Giuseppe; per la tribù di è fraim Osea figlio di Nun; per la tribù di Beniamino Paltì figlio di Rafu; per la tribù di Zàbulon Gad dièl figlio di Sodì per la tribù di Giuseppe cioè per la tribù di Manasse Gaddì figlio di Susì per la tr ibù di Dan Ammièl figlio di Ghemallì per la tribù di Aser, Setur figlio di Michele; per la tribù di Nè ftali Nacbì figlio di Vofsì per la tribù di Gad Gheuèl figlio di Machì. Questi sono i nomi degli uomi ni che Mosè mandò a esplorare la terra. Mosè diede a Osea figlio di Nun il nome di Giosuè. Mos è dunque li mandò a esplorare la terra di Canaan e disse loro: «Salite attraverso il Negheb; poi s alirete alla regione montana e osserverete che terra sia che popolo l’abiti se forte o debole se sc arso o numeroso; come sia la regione che esso abita se buona o cattiva e come siano le città do ve abita se siano accampamenti o luoghi fortificati; come sia il terreno se grasso o magro se vi si ano alberi o no. Siate coraggiosi e prendete dei frutti del luogo». Erano i giorni delle primizie del l’uva. Salirono dunque ed esplorarono la terra dal deserto di Sin fino a Recob all’ingresso di Cam at. Salirono attraverso il Negheb e arrivarono fino a Ebron dove erano Achimàn, Sesài e Talmài discendenti di Anak. Ebron era stata edificata sette anni prima di Tanis d’Egitto. Giunsero fino al la valle di Escol e là tagliarono un tralcio con un grappolo d’uva che portarono in due con una st anga e presero anche melagrane e fichi. Quel luogo fu chiamato valle di Escol a causa del grapp olo d’uva che gli Israeliti vi avevano tagliato. Al termine di quaranta giorni tornarono dall’esplor azione della terra e andarono da Mosè e Aronne e da tutta la comunità degli Israeliti nel desert o di Paran verso Kades; riferirono ogni cosa a loro e a tutta la comunità e mostrarono loro i frutt i della terra. Raccontarono: «Siamo andati nella terra alla quale tu ci avevi mandato; vi scorrono davvero latte e miele e questi sono i suoi frutti. Ma il popolo che abita quella terra è potente le città sono fortificate e assai grandi e vi abbiamo anche visto i discendenti di Anak. Gli Amaleciti abitano la regione del Negheb; gli Ittiti i Gebusei e gli Amorrei le montagne; i Cananei abitano pr esso il mare e lungo la riva del Giordano». Caleb fece tacere il popolo davanti a Mosè e disse: «
Dobbiamo salire e conquistarla perché certo vi riusciremo». Ma gli uomini che vi erano andati c on lui dissero: «Non riusciremo ad andare contro questo popolo perché è più forte di noi». E dif fusero tra gli Israeliti il discredito sulla terra che avevano esplorato dicendo: «La terra che abbia mo attraversato per esplorarla è una terra che divora i suoi abitanti; tutto il popolo che vi abbia mo visto è gente di alta statura. Vi abbiamo visto i giganti discendenti di Anak della razza dei gig anti di fronte ai quali ci sembrava di essere come locuste e così dovevamo sembrare a loro». All ora tutta la comunità alzò la voce e diede in alte grida; quella notte il popolo pianse. Tutti gli Isr aeliti mormorarono contro Mosè e contro Aronne e tutta la comunità disse loro: «Fossimo mort i in terra d’Egitto o fossimo morti in questo deserto! E perché il Signore ci fa entrare in questa t erra per cadere di spada? Le nostre mogli e i nostri bambini saranno preda. Non sarebbe meglio
per noi tornare in Egitto?». Si dissero l’un l’altro: «Su diamoci un capo e torniamo in Egitto». All ora Mosè e Aronne si prostrarono con la faccia a terra dinanzi a tutta l’assemblea della comunit à degli Israeliti. Giosuè figlio di Nun e Caleb figlio di Iefunnè che erano stati tra gli esploratori de lla terra si stracciarono le vesti e dissero a tutta la comunità degli Israeliti: «La terra che abbiam o attraversato per esplorarla è una terra molto molto buona. Se il Signore ci sarà favorevole, ci i ntrodurrà in quella terra e ce la darà: è una terra dove scorrono latte e miele. Soltanto non vi ri bellate al Signore e non abbiate paura del popolo della terra, perché ne faremo un boccone; la l oro difesa li ha abbandonati mentre il Signore è con noi. Non ne abbiate paura». Allora tutta la c omunità parlò di lapidarli; ma la gloria del Signore apparve sulla tenda del convegno a tutti gli Is raeliti. Il Signore disse a Mosè: «Fino a quando mi tratterà senza rispetto questo popolo? E fino a quando non crederanno in me dopo tutti i segni che ho compiuto in mezzo a loro? Io lo colpir ò con la peste e lo escluderò dall’eredità ma farò di te una nazione più grande e più potente di l ui». Mosè disse al Signore: «Gli Egiziani hanno saputo che tu hai fatto uscire di là questo popolo con la tua potenza e lo hanno detto agli abitanti di questa terra. Essi hanno udito che tu Signor e sei in mezzo a questo popolo che tu Signore ti mostri loro faccia a faccia, che la tua nube si fer ma sopra di loro e che cammini davanti a loro di giorno in una colonna di nube e di notte in una colonna di fuoco. Ora se fai perire questo popolo come un solo uomo le nazioni che hanno udit o la tua fama diranno: “Siccome il Signore non riusciva a condurre questo popolo nella terra che aveva giurato di dargli li ha massacrati nel deserto”. Ora si mostri grande la potenza del mio Sig nore secondo quello che hai detto: “Il Signore è lento all’ira e grande nell’amore perdona la col pa e la ribellione ma non lascia senza punizione; castiga la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione”. Perdona ti prego la colpa di questo popolo secondo la grandezza del tuo amore così come hai perdonato a questo popolo dall’Egitto fin qui». Il Signore disse: «Io pe rdono come tu hai chiesto; ma come è vero che io vivo e che la gloria del Signore riempirà tutta la terra tutti gli uomini che hanno visto la mia gloria e i segni compiuti da me in Egitto e nel dese rto e tuttavia mi hanno messo alla prova già dieci volte e non hanno dato ascolto alla mia voce c erto non vedranno la terra che ho giurato di dare ai loro padri e tutti quelli che mi trattano senz a rispetto non la vedranno. Ma il mio servo Caleb che è stato animato da un altro spirito e mi ha seguito fedelmente io lo introdurrò nella terra dove già è stato; la sua stirpe la possederà. Gli A maleciti e i Cananei abitano nella valle; domani incamminatevi e tornate indietro verso il desert o in direzione del Mar Rosso». Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne e disse: «Fino a quando sopp orterò questa comunità malvagia che mormora contro di me? Ho udito le mormorazioni degli Is raeliti contro di me. Riferisci loro: “Come è vero che io vivo oracolo del Signore così come avete parlato alle mie orecchie io farò a voi! I vostri cadaveri cadranno in questo deserto. Nessun cens ito tra voi di quanti siete stati registrati dai venti anni in su e avete mormorato contro di me pot rà entrare nella terra nella quale ho giurato a mano alzata di farvi abitare a eccezione di Caleb fi glio di Iefunnè e di Giosuè figlio di Nun. Proprio i vostri bambini dei quali avete detto che sarebb ero diventati una preda di guerra, quelli ve li farò entrare; essi conosceranno la terra che voi av
ete rifiutato. Quanto a voi i vostri cadaveri cadranno in questo deserto. I vostri figli saranno no madi nel deserto per quarant’anni e porteranno il peso delle vostre infedeltà finché i vostri cad averi siano tutti quanti nel deserto. Secondo il numero dei giorni che avete impiegato per esplor are la terra quaranta giorni per ogni giorno un anno porterete le vostre colpe per quarant’anni e saprete che cosa comporta ribellarsi a me”. Io il Signore ho parlato. Così agirò con tutta quest a comunità malvagia con coloro che si sono coalizzati contro di me: in questo deserto saranno a nnientati e qui moriranno». Gli uomini che Mosè aveva mandato a esplorare la terra e che torn ati avevano fatto mormorare tutta la comunità contro di lui diffondendo il discredito sulla terra, quegli uomini che avevano propagato cattive voci su quella terra morirono per un flagello, dava nti al Signore. Di quegli uomini che erano andati a esplorare la terra sopravvissero Giosuè figlio di Nun e Caleb figlio di Iefunnè. Mosè riferì quelle parole a tutti gli Israeliti e il popolo ne fu molt o afflitto. Si alzarono di buon mattino per salire sulla cima del monte dicendo: «Eccoci pronti a s alire verso il luogo a proposito del quale il Signore ha detto che noi abbiamo peccato». Ma Mos è disse: «Perché trasgredite l’ordine del Signore? La cosa non vi riuscirà. Non salite perché il Sig nore non è in mezzo a voi; altrimenti sarete sconfitti dai vostri nemici! Infatti di fronte a voi stan no gli Amaleciti e i Cananei e voi cadrete di spada perché avete abbandonato il Signore e il Sign ore non sarà con voi». Si ostinarono a salire verso la cima del monte ma l’arca dell’alleanza del S
ignore e Mosè non si mossero dall’accampamento. Allora gli Amaleciti e i Cananei che abitavan o su quel monte discesero e li percossero e li fecero a pezzi fino a Corma. Il Signore parlò a Mos è e disse: «Parla agli Israeliti dicendo loro: “Quando sarete entrati nella terra che dovrete abitar e e che io sto per darvi, e offrirete al Signore un sacrificio consumato dal fuoco olocausto o sacri ficio per soddisfare un voto o per un’offerta spontanea o nelle vostre solennità per offrire un pr ofumo gradito al Signore con il vostro bestiame grosso o minuto colui che presenterà l’offerta al Signore offrirà in oblazione un decimo di efa di fior di farina impastata con un quarto di hin di o lio e vino come libagione un quarto di hin: lo aggiungerai all’olocausto o al sacrificio per ogni ag nello. Se è per un ariete, offrirai in oblazione due decimi di efa di fior di farina impastata con un terzo di hin di olio, e vino in libagione un terzo di hin: l’offrirai come profumo gradito al Signore.
Se offri un giovenco in olocausto o in sacrificio per soddisfare un voto o in sacrificio di comunio ne al Signore oltre al giovenco si offrirà un’oblazione di tre decimi di efa di fior di farina impasta ta in mezzo hin di olio e offrirai vino in libagione un mezzo hin di vino; è un sacrificio consumato dal fuoco profumo gradito al Signore. Così si farà per ogni giovenco per ogni ariete per ogni agn ello o capretto. Secondo il numero degli animali che immolerete farete così per ciascuna vittima
. Quanti sono nativi della terra faranno così per offrire un sacrificio consumato dal fuoco profu mo gradito al Signore. Se uno straniero che dimora da voi o chiunque abiterà in mezzo a voi di g enerazione in generazione offrirà un sacrificio consumato dal fuoco, profumo gradito al Signore farà come fate voi. Vi sarà una sola legge per l’assemblea sia per voi sia per lo straniero che dim ora in mezzo a voi una legge perenne di generazione in generazione; come siete voi così sarà lo straniero davanti al Signore. Ci sarà una stessa legge e una stessa regola per voi e per lo stranier
o che dimora presso di voi”». Il Signore parlò ancora a Mosè dicendo: «Parla agli Israeliti e di’ lo ro: “Quando entrerete nella terra in cui io vi conduco e mangerete il pane di quella terra ne prel everete un’offerta da presentare al Signore. Dalle primizie della vostra pasta preleverete una fo caccia come contributo: la preleverete come si preleva il contributo per l’aia. Delle primizie dell a vostra pasta darete al Signore un contributo di generazione in generazione. Se avrete mancat o per inavvertenza e non avrete osservato tutti questi comandi che il Signore ha dato a Mosè qu anto il Signore vi ha comandato per mezzo di Mosè dal giorno in cui il Signore vi ha dato coman di e in seguito di generazione in generazione se il peccato è stato commesso per inavvertenza d a parte della comunità senza che la comunità se ne sia accorta tutta la comunità offrirà un giove nco come olocausto di profumo gradito al Signore, con la sua oblazione e la sua libagione secon do la regola e un capro come sacrificio espiatorio. Il sacerdote compirà il rito espiatorio per tutt a la comunità degli Israeliti, e sarà loro perdonato; è un’inavvertenza ed essi hanno portato l’off erta il sacrificio consumato dal fuoco in onore del Signore e il loro sacrificio per il peccato davan ti al Signore per la loro inavvertenza. Sarà perdonato a tutta la comunità degli Israeliti e allo stra niero che dimora in mezzo a loro perché tutto il popolo ha peccato per inavvertenza. Se è una p ersona sola che ha peccato per inavvertenza offra una capra di un anno come sacrificio per il pe ccato. Il sacerdote compirà il rito espiatorio davanti al Signore per la persona che avrà peccato p er inavvertenza; quando avrà fatto l’espiazione per essa le sarà perdonato. Sia per un nativo del la terra tra gli Israeliti sia per uno straniero che dimora in mezzo a loro avrete un’unica legge pe r colui che pecca per inavvertenza. Ma la persona che agisce con deliberazione nativa della terr a o straniera insulta il Signore; essa sarà eliminata dal suo popolo. Poiché ha disprezzato la paro la del Signore e ha violato il suo comando quella persona dovrà essere assolutamente eliminata; la colpa è su di lei”». Mentre gli Israeliti erano nel deserto trovarono un uomo che raccoglieva l egna in giorno di sabato. Quelli che l’avevano trovato a raccogliere legna lo condussero a Mosè, ad Aronne e a tutta la comunità. Lo misero sotto sorveglianza perché non era stato ancora stab ilito che cosa gli si dovesse fare. Il Signore disse a Mosè: «Quell’uomo deve essere messo a mort e; tutta la comunità lo lapiderà fuori dell’accampamento». Tutta la comunità lo condusse fuori dell’accampamento e lo lapidò quello morì secondo il comando che il Signore aveva dato a Mos è. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla agli Israeliti dicendo loro che si facciano di generazione in generazione una frangia ai lembi delle loro vesti e che mettano sulla frangia del lembo un co rdone di porpora viola. Avrete tali frange e quando le guarderete vi ricorderete di tutti i comand i del Signore e li eseguirete; non andrete vagando dietro il vostro cuore e i vostri occhi seguend o i quali vi prostituireste. Così vi ricorderete di tutti i miei comandi li metterete in pratica e saret e santi per il vostro Dio. Io sono il Signore vostro Dio che vi ho fatto uscire dalla terra d’Egitto pe r essere il vostro Dio. Io sono il Signore vostro Dio». Ora Core figlio di Isar figlio di Keat figlio di L
evi con Datan e Abiràm figli di Eliàb e On figlio di Pelet figli di Ruben presero altra gente e insors ero contro Mosè con duecentocinquanta uomini tra gli Israeliti prìncipi della comunità membri del consiglio uomini stimati; si radunarono contro Mosè e contro Aronne e dissero loro: «Basta
con voi! Tutta la comunità tutti sono santi e il Signore è in mezzo a loro; perché dunque vi innalz ate sopra l’assemblea del Signore?». Quando Mosè ebbe udito questo si prostrò con la faccia a t erra; poi parlò a Core e a tutta la gente che era con lui dicendo: «Domani mattina il Signore farà conoscere chi è suo e chi è santo e se lo farà avvicinare: farà avvicinare a sé colui che egli avrà s celto. Fate questo: prendetevi gli incensieri tu Core e tutta la gente che è con te; domani vi mett erete il fuoco e porrete incenso davanti al Signore; colui che il Signore avrà scelto sarà santo. Ba sta con voi, figli di Levi!». Mosè disse poi a Core: «Ora ascoltate figli di Levi! è forse poco per voi che il Dio d’Israele vi abbia separato dalla comunità d’Israele facendovi avvicinare a sé per pres tare servizio nella Dimora del Signore e stare davanti alla comunità esercitando per essa il vostr o ministero? Egli ha fatto avvicinare a sé te e con te tutti i tuoi fratelli figli di Levi e ora voi prete ndete anche il sacerdozio? Per questo tu e tutta la gente che è con te siete convenuti contro il S
ignore! E chi è Aronne perché vi mettiate a mormorare contro di lui?». Mosè mandò a chiamare Datan e Abiràm figli di Eliàb; ma essi dissero: «Noi non verremo. è troppo poco per te l’averci fa tto salire da una terra dove scorrono latte e miele per farci morire nel deserto perché tu voglia elevarti anche sopra di noi ed erigerti a capo? Non ci hai affatto condotto in una terra dove scor rono latte e miele né ci hai dato in eredità campi e vigne! Credi tu di poter privare degli occhi qu esta gente? Noi non verremo». Allora Mosè si adirò molto e disse al Signore: «Non gradire la lor o oblazione; io non ho preso da costoro neppure un asino e non ho fatto torto ad alcuno di loro
». Mosè disse a Core: «Tu e tutta la tua gente trovatevi domani davanti al Signore: tu e loro con Aronne; ciascuno di voi prenda il suo incensiere vi metta l’incenso e porti ciascuno il suo incensi ere davanti al Signore: duecentocinquanta incensieri. Anche tu e Aronne avrete ciascuno il vostr o». Essi dunque presero ciascuno un incensiere vi misero il fuoco vi posero l’incenso e si fermar ono all’ingresso della tenda del convegno come pure Mosè e Aronne. Core convocò contro di lo ro tutta la comunità all’ingresso della tenda del convegno. E la gloria del Signore apparve a tutta la comunità. Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne dicendo: «Allontanatevi da questa comunità e io li consumerò in un istante». Essi si prostrarono con la faccia a terra e dissero: «Dio Dio degli s piriti di ogni essere vivente! Un uomo solo ha peccato e vorresti adirarti contro tutta la comunit à?». Il Signore parlò a Mosè dicendo: «Parla alla comunità e órdinale: “Ritiratevi dalle vicinanze della dimora di Core Datan e Abiràm”». Mosè si alzò e andò verso Datan e Abiràm; gli anziani d’I sraele lo seguirono. Egli parlò alla comunità dicendo: «Allontanatevi dalle tende di questi uomin i malvagi e non toccate nulla di quanto loro appartiene, perché non periate a causa di tutti i loro peccati». Così quelli si ritirarono dal luogo dove stavano Core Datan e Abiràm. Datan e Abiràm uscirono e si fermarono all’ingresso delle loro tende con le mogli i figli e i bambini. Mosè disse:
«Da questo saprete che il Signore mi ha mandato per fare tutte queste opere e che io non ho ag ito di mia iniziativa. Se questa gente muore come muoiono tutti gli uomini se la loro sorte è la s orte comune a tutti gli uomini il Signore non mi ha mandato. Ma se il Signore opera un prodigio e se la terra spalanca la bocca e li ingoia con quanto appartiene loro di modo che essi scendano vivi agli inferi allora saprete che questi uomini hanno disprezzato il Signore». Come egli ebbe fin
ito di pronunciare tutte queste parole il suolo si squarciò sotto i loro piedi la terra spalancò la b occa e li inghiottì: essi e le loro famiglie con tutta la gente che apparteneva a Core e tutti i loro b eni. Scesero vivi agli inferi essi e quanto loro apparteneva; la terra li ricoprì ed essi scomparvero dall’assemblea. Tutto Israele che era attorno a loro fuggì alle loro grida perché dicevano: «La te rra non inghiottisca anche noi!». Un fuoco uscì dal Signore e divorò i duecentocinquanta uomini che offrivano l’incenso. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Di’ a Eleàzaro figlio del sacerdote Aron ne di estrarre gli incensieri dall’incendio e di disperdere lontano il fuoco perché essi sono sacri.
Degli incensieri di quegli uomini che hanno peccato a prezzo della loro vita si facciano lamine int recciate come rivestimento per l’altare, poiché sono stati offerti davanti al Signore e quindi son o sacri; saranno un segno per gli Israeliti». Il sacerdote Eleàzaro prese gli incensieri di bronzo ch e gli uomini arsi dal fuoco avevano offerto e furono ridotti in lamine per rivestirne l’altare, mem oriale per gli Israeliti perché nessun profano che non sia della discendenza di Aronne si accosti a bruciare incenso davanti al Signore e subisca così la sorte di Core e di quelli che erano con lui. E
leàzaro fece come il Signore gli aveva ordinato per mezzo di Mosè. L’indomani tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mosè e Aronne dicendo: «Voi avete fatto morire il popolo del Sig nore». Mentre la comunità si radunava contro Mosè e contro Aronne gli Israeliti si volsero verso la tenda del convegno; ed ecco la nube la ricoprì e apparve la gloria del Signore. Mosè e Aronne vennero davanti alla tenda del convegno. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Allontanatevi da que sta comunità e io li consumerò in un istante». Ma essi si prostrarono con la faccia a terra. Mosè disse ad Aronne: «Prendi l’incensiere mettici il fuoco preso dall’altare ponici sopra l’incenso por talo in fretta in mezzo alla comunità e compi il rito espiatorio per loro; poiché l’ira del Signore è divampata il flagello è già cominciato». Aronne prese quel che Mosè aveva detto corse in mezzo all’assemblea; ecco il flagello era già cominciato in mezzo al popolo. Mise l’incenso nel braciere e compì il rito espiatorio per il popolo. Si fermò tra i morti e i vivi e il flagello si arrestò. Quelli c he morirono per il flagello furono quattordicimilasettecento oltre ai morti per il fatto di Core. Ar onne tornò da Mosè all’ingresso della tenda del convegno: il flagello si era arrestato. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla agli Israeliti e prendi da loro dei bastoni uno per ogni loro casato pa terno: cioè dodici bastoni da parte di tutti i loro prìncipi secondo i loro casati paterni; scriverai il nome di ognuno sul suo bastone, scriverai il nome di Aronne sul bastone di Levi poiché ci sarà u n bastone per ogni capo dei loro casati paterni. Riporrai quei bastoni nella tenda del convegno d avanti alla Testimonianza dove io vi do convegno. L’uomo che io avrò scelto sarà quello il cui ba stone fiorirà e così farò cessare davanti a me le mormorazioni che gli Israeliti fanno contro di voi
». Mosè parlò agli Israeliti e tutti i loro prìncipi gli diedero un bastone: un bastone per ciascun p rincipe secondo i loro casati paterni cioè dodici bastoni; il bastone di Aronne era in mezzo ai lor o bastoni. Mosè ripose quei bastoni davanti al Signore nella tenda della Testimonianza. L’indom ani Mosè entrò nella tenda della Testimonianza ed ecco il bastone di Aronne per il casato di Levi era fiorito: aveva prodotto germogli aveva fatto sbocciare fiori e maturato mandorle. Allora Mo sè tolse tutti i bastoni dalla presenza del Signore e li portò a tutti gli Israeliti; essi li videro e pres
ero ciascuno il proprio bastone. Il Signore disse a Mosè: «Riporta il bastone di Aronne davanti al la Testimonianza perché sia conservato come un segno per i ribelli e si ponga fine alle loro mor morazioni contro di me ed essi non ne muoiano». Mosè fece come il Signore gli aveva comanda to. Gli Israeliti dissero a Mosè: «Ecco moriamo siamo perduti siamo tutti perduti! Chiunque si ac costa alla Dimora del Signore muore; dovremo morire tutti?». Il Signore disse ad Aronne: «Tu i t uoi figli e la casa di tuo padre con te porterete il peso delle colpe commesse nel santuario; tu e i tuoi figli con te porterete il peso delle colpe commesse nell’esercizio del vostro sacerdozio. Anc he i tuoi fratelli la tribù di Levi la tribù di tuo padre farai accostare a te perché si aggiungano a te e ti assistano quando tu e i tuoi figli con te sarete davanti alla tenda della Testimonianza. Essi st aranno al tuo servizio e al servizio di tutta la tenda; soltanto non si accosteranno agli arredi del santuario né all’altare perché non moriate né loro né voi. Essi si aggiungeranno a te e presteran no servizio alla tenda del convegno per tutto il servizio della tenda e nessun profano si accoster à a voi. Voi sarete addetti alla custodia del santuario e dell’altare e non vi sarà più ira contro gli I sraeliti. Quanto a me, ecco io ho preso i vostri fratelli i leviti tra gli Israeliti; dati al Signore essi s ono resi in dono a voi, per prestare servizio nella tenda del convegno. Tu e i tuoi figli con te eser citerete il vostro sacerdozio per tutto ciò che riguarda l’altare e ciò che è oltre il velo e presteret e il vostro servizio. Io vi do l’esercizio del sacerdozio come un dono. Il profano che si accosterà s arà messo a morte». Il Signore parlò ancora ad Aronne: «Ecco io ti do il diritto su tutto ciò che si preleva per me cioè su tutte le cose consacrate dagli Israeliti; le do a te e ai tuoi figli a motivo d ella tua unzione per legge perenne. Questo ti apparterrà fra le cose santissime fra le loro offerte destinate al fuoco: ogni oblazione ogni sacrificio per il peccato e ogni sacrificio di riparazione ch e mi presenteranno; sono tutte cose santissime che apparterranno a te e ai tuoi figli. Le manger ai in luogo santissimo; ne mangerà ogni maschio. Le tratterai come cose sante. Questo ancora ti apparterrà: i doni che gli Israeliti presenteranno come tributo prelevato e tutte le loro offerte f atte con il rito di elevazione. Io le do a te ai tuoi figli e alle tue figlie con te per legge perenne. C
hiunque sarà puro in casa tua ne potrà mangiare. Ti do anche tutte le primizie che offriranno al Signore: il meglio dell’olio nuovo il meglio del mosto e del grano. Le primizie di quanto produrrà la loro terra che essi porteranno al Signore saranno tue. Chiunque sarà puro in casa tua ne potr à mangiare. Quanto in Israele sarà consacrato per voto di sterminio sarà tuo. Ogni essere che na sce per primo da ogni essere vivente offerto al Signore sia degli uomini sia degli animali sarà tuo
; però farai riscattare il primogenito dell’uomo e farai anche riscattare il primo nato dell’animal e impuro. Il tuo riscatto lo effettuerai dall’età di un mese secondo la stima di cinque sicli d’arge nto conformi al siclo del santuario che è di venti ghera. Ma non farai riscattare il primo nato dell a mucca né il primo nato della pecora né il primo nato della capra: sono cosa sacra. Verserai il lo ro sangue sull’altare e farai bruciare le loro parti grasse come sacrificio consumato dal fuoco pr ofumo gradito al Signore. La loro carne sarà tua; sarà tua come il petto dell’offerta che si fa con il rito di elevazione e come la coscia destra. Io do a te, ai tuoi figli e alle tue figlie con te per legg e perenne tutte le offerte di cose sante che gli Israeliti preleveranno per il Signore. è un’alleanza
inviolabile perenne davanti al Signore per te e per la tua discendenza con te». Il Signore disse a d Aronne: «Tu non avrai alcuna eredità nella loro terra e non ci sarà parte per te in mezzo a loro
. Io sono la tua parte e la tua eredità in mezzo agli Israeliti. Ai figli di Levi io do in possesso tutte le decime in Israele in cambio del servizio che fanno il servizio della tenda del convegno. Gli Isra eliti non si accosteranno più alla tenda del convegno per non caricarsi di un peccato che li fareb be morire. Ma il servizio nella tenda del convegno lo faranno soltanto i leviti; essi porteranno il peso della loro colpa. Sarà una legge perenne di generazione in generazione. Non possederanno eredità tra gli Israeliti, poiché io do in possesso ai leviti le decime che gli Israeliti preleveranno c ome contributo per il Signore; per questo ho detto di loro: “Non avranno possesso ereditario tr a gli Israeliti”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parlerai inoltre ai leviti dicendo loro: “Quando p renderete dagli Israeliti la decima che io ho dato a voi da parte loro come vostra eredità preleve rete un’offerta come contributo al Signore: una decima dalla decima. Il vostro prelevamento vi sarà calcolato come quello del grano che viene dall’aia e come il mosto che esce dal torchio. Co sì anche voi preleverete un’offerta per il Signore da tutte le decime che riceverete dagli Israeliti e darete al sacerdote Aronne l’offerta che avrete prelevato per il Signore. Da tutte le cose che vi saranno concesse preleverete tutte le offerte per il Signore; di tutto ciò che vi sarà di meglio pr eleverete la parte sacra”. Dirai loro: “Quando ne avrete prelevato il meglio quel che rimane sarà calcolato per i leviti come il provento dell’aia e come il provento del torchio. Lo potrete mangia re in qualunque luogo voi e le vostre famiglie perché è il vostro salario in cambio del vostro serv izio nella tenda del convegno. Dal momento che ne avrete prelevato la parte migliore non saret e gravati da alcun peccato; non profanerete le cose sante degli Israeliti e non morirete”». Il Sign ore parlò a Mosè e ad Aronne e disse: «Questa è una disposizione della legge che il Signore ha p rescritto. Ordina agli Israeliti che ti portino una giovenca rossa senza macchia senza difetti e che non abbia mai portato il giogo. La darete al sacerdote Eleàzaro che la condurrà fuori dell’accam pamento e la farà immolare in sua presenza. Il sacerdote Eleàzaro prenderà con il dito un po’ de l sangue della giovenca e ne farà sette volte l’aspersione davanti alla tenda del convegno; poi si brucerà la giovenca sotto i suoi occhi: se ne brucerà la pelle la carne e il sangue con gli escreme nti. Il sacerdote prenderà legno di cedro issòpo, tintura scarlatta e getterà tutto nel fuoco che c onsuma la giovenca. Poi il sacerdote laverà le sue vesti e farà un bagno al suo corpo nell’acqua quindi rientrerà nell’accampamento; il sacerdote sarà impuro fino alla sera. Colui che avrà bruci ato la giovenca si laverà le vesti nell’acqua farà un bagno al suo corpo nell’acqua e sarà impuro f ino alla sera. Un uomo puro raccoglierà le ceneri della giovenca e le depositerà fuori dell’accam pamento in luogo puro dove saranno conservate per la comunità degli Israeliti per l’acqua di pu rificazione: è un rito per il peccato. Colui che avrà raccolto le ceneri della giovenca si laverà le ve sti e sarà impuro fino alla sera. Questa sarà una legge perenne per gli Israeliti e per lo straniero che dimorerà presso di loro. Chi avrà toccato il cadavere di qualsiasi persona sarà impuro per se tte giorni. Quando uno si sarà purificato con quell’acqua il terzo e il settimo giorno sarà puro; m a se non si purifica il terzo e il settimo giorno non sarà puro. Chiunque avrà toccato il cadavere
di una persona che è morta e non si sarà purificato avrà contaminato la Dimora del Signore e sa rà eliminato da Israele. Siccome l’acqua di purificazione non è stata spruzzata su di lui egli è imp uro; ha ancora addosso l’impurità. Questa è la legge per quando un uomo muore in una tenda: chiunque entrerà nella tenda e tutto ciò che è nella tenda sarà impuro per sette giorni. Ogni vas o scoperto sul quale non sia un coperchio o una legatura sarà impuro. Chiunque sulla superficie di un campo avrà toccato un uomo ucciso di spada o morto di morte naturale o un osso d’uomo o un sepolcro sarà impuro per sette giorni. Per colui che sarà divenuto impuro si prenderà la ce nere della vittima bruciata per l’espiazione e vi si verserà sopra l’acqua corrente in un vaso; poi un uomo puro prenderà issòpo lo intingerà nell’acqua e ne aspergerà la tenda, tutti gli arredi e t utte le persone che erano là e colui che ha toccato l’osso o l’ucciso o il morto o il sepolcro. L’uo mo puro aspergerà l’impuro il terzo giorno e il settimo giorno e lo purificherà il settimo giorno; poi colui che è stato impuro si laverà le vesti farà un bagno con l’acqua e alla sera diventerà pur o. Ma colui che reso impuro non si purificherà sarà eliminato dall’assemblea perché ha contami nato il santuario del Signore e l’acqua della purificazione non è stata aspersa su di lui: è impuro.
Sarà per loro una legge perenne. Colui che avrà asperso l’acqua di purificazione si laverà le vesti
; chi avrà toccato l’acqua di purificazione sarà impuro fino alla sera. Quanto l’impuro avrà toccat o sarà impuro; chi lo avrà toccato sarà impuro fino alla sera». Ora tutta la comunità degli Israelit i arrivò al deserto di Sin il primo mese e il popolo si fermò a Kades. Qui morì e fu sepolta Maria.
Mancava l’acqua per la comunità: ci fu un assembramento contro Mosè e contro Aronne. Il pop olo ebbe una lite con Mosè dicendo: «Magari fossimo morti quando morirono i nostri fratelli da vanti al Signore! Perché avete condotto l’assemblea del Signore in questo deserto per far morir e noi e il nostro bestiame? E perché ci avete fatto uscire dall’Egitto per condurci in questo luogo inospitale? Non è un luogo dove si possa seminare non ci sono fichi non vigne non melograni e non c’è acqua da bere». Allora Mosè e Aronne si allontanarono dall’assemblea per recarsi all’in gresso della tenda del convegno; si prostrarono con la faccia a terra e la gloria del Signore appar ve loro. Il Signore parlò a Mosè dicendo: «Prendi il bastone; tu e tuo fratello Aronne convocate l a comunità e parlate alla roccia sotto i loro occhi ed essa darà la sua acqua; tu farai uscire per lo ro l’acqua dalla roccia e darai da bere alla comunità e al loro bestiame». Mosè dunque prese il b astone che era davanti al Signore come il Signore gli aveva ordinato. Mosè e Aronne radunaron o l’assemblea davanti alla roccia e Mosè disse loro: «Ascoltate o ribelli: vi faremo noi forse uscir e acqua da questa roccia?». Mosè alzò la mano percosse la roccia con il bastone due volte e ne uscì acqua in abbondanza; ne bevvero la comunità e il bestiame. Ma il Signore disse a Mosè e a d Aronne: «Poiché non avete creduto in me, in modo che manifestassi la mia santità agli occhi d egli Israeliti voi non introdurrete quest’assemblea nella terra che io le do». Queste sono le acqu e di Merìba, dove gli Israeliti litigarono con il Signore e dove egli si dimostrò santo in mezzo a lor o. Mosè mandò da Kades messaggeri al re di Edom per dirgli: «Così dice Israele tuo fratello: “Tu conosci tutte le tribolazioni che ci hanno colpito. I nostri padri scesero in Egitto e noi in Egitto di morammo per lungo tempo e gli Egiziani maltrattarono noi e i nostri padri. Noi gridammo al Sig
nore ed egli udì la nostra voce e mandò un angelo e ci fece uscire dall’Egitto; eccoci ora a Kades città al confine del tuo territorio. Permettici di passare per il tuo territorio. Non passeremo per campi né per vigne e non berremo l’acqua dei pozzi; seguiremo la via Regia non devieremo né a destra né a sinistra finché non avremo attraversato il tuo territorio”». Ma Edom gli rispose: «Tu non passerai da me; altrimenti uscirò contro di te con la spada». Gli Israeliti gli dissero: «Passer emo per la strada maestra; se noi e il nostro bestiame berremo la tua acqua te la pagheremo: la sciaci soltanto transitare a piedi». Ma quegli rispose: «Non passerai!». Edom mosse contro Israe le con molta gente e con mano potente. Così Edom rifiutò a Israele il transito nel suo territorio e Israele si tenne lontano da lui. Tutta la comunità degli Israeliti levò l’accampamento da Kades e arrivò al monte Or. Il Signore disse a Mosè e ad Aronne al monte Or sui confini del territorio di Edom: «Aronne sta per essere riunito ai suoi padri e non entrerà nella terra che ho dato agli Isr aeliti perché siete stati ribelli al mio ordine alle acque di Merìba. Prendi Aronne e suo figlio Eleà zaro e falli salire sul monte Or. Spoglia Aronne delle sue vesti e rivestine suo figlio Eleàzaro. Là A ronne sarà riunito ai suoi padri e morirà». Mosè fece come il Signore aveva ordinato ed essi salir ono sul monte Or sotto gli occhi di tutta la comunità. Mosè spogliò Aronne delle sue vesti e ne r ivestì Eleàzaro suo figlio. Là Aronne morì sulla cima del monte. Poi Mosè ed Eleàzaro scesero dal monte. Tutta la comunità vide che Aronne era spirato e tutta la casa d’Israele lo pianse per tren ta giorni. Il re cananeo di Arad che abitava il Negheb appena seppe che Israele veniva per la via di Atarìm attaccò battaglia contro Israele e fece alcuni prigionieri. Allora Israele fece un voto al Signore e disse: «Se tu mi consegni nelle mani questo popolo le loro città saranno da me votate allo sterminio». Il Signore ascoltò la voce d’Israele e gli consegnò nelle mani i Cananei; Israele v otò allo sterminio i Cananei e le loro città e quel luogo fu chiamato Corma. Gli Israeliti si mosser o dal monte Or per la via del Mar Rosso per aggirare il territorio di Edom. Ma il popolo non sopp ortò il viaggio. Il popolo disse contro Dio e contro Mosè: «Perché ci avete fatto salire dall’Egitto per farci morire in questo deserto? Perché qui non c’è né pane né acqua e siamo nauseati di qu esto cibo così leggero». Allora il Signore mandò fra il popolo serpenti brucianti i quali mordevan o la gente e un gran numero d’Israeliti morì. Il popolo venne da Mosè e disse: «Abbiamo peccat o perché abbiamo parlato contro il Signore e contro di te; supplica il Signore che allontani da no i questi serpenti». Mosè pregò per il popolo. Il Signore disse a Mosè: «Fatti un serpente e mettil o sopra un’asta; chiunque sarà stato morso e lo guarderà resterà in vita». Mosè allora fece un s erpente di bronzo e lo mise sopra l’asta; quando un serpente aveva morso qualcuno se questi g uardava il serpente di bronzo restava in vita. Gli Israeliti si mossero e si accamparono a Obot; pa rtiti da Obot si accamparono a Iie-Abarìm nel deserto che sta di fronte a Moab dal lato dove sorge il sole. Di là si mossero e si acca mparono nella valle di Zered. Si mossero di là e si accamparono sull’altra riva dell’Arnon che sco rre nel deserto e proviene dal territorio degli Amorrei; l’Arnon infatti è la frontiera di Moab fra Moab e gli Amorrei. Per questo si dice nel libro delle Guerre del Signore: «Vaèb in Sufa e i torre nti, l’Arnon e il pendio dei torrenti, che declina verso la sede di Ar e si appoggia alla frontiera di
Moab». Di là andarono a Beèr. Questo è il pozzo di cui il Signore disse a Mosè: «Raduna il popol o e io gli darò l’acqua». Allora Israele cantò questo canto: «Sgorga o pozzo: cantàtelo! Pozzo sca vato da prìncipi, perforato da nobili del popolo, con lo scettro con i loro bastoni». Poi dal desert o andarono a Mattanà da Mattanà a Nacalièl da Nacalièl a Bamòt e da Bamòt alla valle che si tr ova nelle steppe di Moab presso la cima del Pisga che è di fronte al deserto. Israele mandò mes saggeri a Sicon re degli Amorrei per dirgli: «Lasciami passare nel tuo territorio; noi non deviere mo per i campi né per le vigne e non berremo l’acqua dei pozzi; seguiremo la via Regia finché av remo oltrepassato il tuo territorio». Ma Sicon non permise a Israele di passare per il suo territor io anzi radunò tutto il suo popolo e uscì incontro a Israele nel deserto; giunse a Iaas e combatté contro Israele. Israele lo sconfisse passandolo a fil di spada e conquistò il suo territorio dall’Arno n fino allo Iabbok estendendosi fino alla regione degli Ammoniti perché la frontiera degli Ammo niti era forte. Israele prese tutte quelle città e abitò in tutte le città degli Amorrei cioè a Chesbo n e in tutte le città del suo territorio; Chesbon infatti era la città di Sicon re degli Amorrei il qual e aveva mosso guerra al precedente re di Moab e gli aveva strappato di mano tutto il suo territo rio fino all’Arnon. Per questo dicono i poeti: «Entrate in Chesbon! Sia ricostruita e rifondata la ci ttà di Sicon! Perché un fuoco uscì da Chesbon, una fiamma dalla cittadella di Sicon: essa divorò Ar-Moab, i Baal delle alture dell’Arnon. Guai a te Moab, sei perduto popolo di Camos! Egli ha reso f uggiaschi i suoi figli, e le sue figlie ha dato in schiavitù a Sicon re degli Amorrei. Ma noi li abbiam o trafitti! è rovinata Chesbon fino a Dibon. Abbiamo devastato fino a Nofach, che è presso Màd aba». Israele si stabilì dunque nella terra degli Amorrei. Poi Mosè mandò a esplorare Iazer e gli I sraeliti presero le città del suo territorio e ne cacciarono gli Amorrei che vi si trovavano. Poi mut arono direzione e salirono lungo la strada verso Basan. Og re di Basan uscì contro di loro con tut ta la sua gente per dar loro battaglia a Edrei. Ma il Signore disse a Mosè: «Non lo temere perché io lo do in tuo potere lui tutta la sua gente e il suo territorio; trattalo come hai trattato Sicon re degli Amorrei che abitava a Chesbon». E sconfissero lui i suoi figli e tutto il suo popolo così che non gli rimase più superstite alcuno e si impadronirono del suo territorio. Poi gli Israeliti partiro no e si accamparono nelle steppe di Moab oltre il Giordano di Gerico. Balak figlio di Sippor vide quanto Israele aveva fatto agli Amorrei e Moab ebbe grande paura di questo popolo che era cos ì numeroso; Moab fu preso da spavento di fronte agli Israeliti. Quindi Moab disse agli anziani di Madian: «Ora questa assemblea divorerà quanto è intorno a noi come il bue divora l’erba dei ca mpi». Balak figlio di Sippor era in quel tempo re di Moab. Egli mandò messaggeri a Balaam, figli o di Beor a Petor che sta sul fiume nel territorio dei figli di Amau per chiamarlo e dirgli: «Ecco u n popolo è uscito dall’Egitto; ha ricoperto la faccia della terra e si è stabilito di fronte a me. Ora dunque vieni e maledici questo popolo per me poiché esso è più potente di me. Forse riuscirò a batterlo per scacciarlo dalla terra; perché io lo so: colui che tu benedici è benedetto e colui che tu maledici è maledetto». Gli anziani di Moab e gli anziani di Madian partirono con in mano il co mpenso per l’oracolo. Arrivarono da Balaam e gli riferirono le parole di Balak. Balaam disse loro:
«Alloggiate qui stanotte e vi darò la risposta secondo quanto mi dirà il Signore». I capi di Moab si fermarono da Balaam. Ora Dio venne da Balaam e gli disse: «Chi sono questi uomini che stan no da te?». Balaam rispose a Dio: «Balak figlio di Sippor re di Moab mi ha mandato a dire: “Ecco il popolo che è uscito dall’Egitto ha ricoperto la superficie della terra. Ora vieni maledicilo per me; forse riuscirò a batterlo e potrò scacciarlo”». Dio disse a Balaam: «Tu non andrai con loro n on maledirai quel popolo perché esso è benedetto». Balaam si alzò la mattina e disse ai prìncipi di Balak: «Andatevene nella vostra terra perché il Signore si è rifiutato di lasciarmi venire con vo i». I prìncipi di Moab si alzarono tornarono da Balak e dissero: «Balaam si è rifiutato di venire co n noi». Allora Balak mandò di nuovo dei prìncipi in maggior numero e più influenti di quelli di pr ima. Vennero da Balaam e gli dissero: «Così dice Balak, figlio di Sippor: “Nulla ti trattenga dal ve nire da me perché io ti colmerò di grandi onori e farò quanto mi dirai; vieni dunque e maledici p er me questo popolo”». Ma Balaam rispose e disse ai ministri di Balak: «Quand’anche Balak mi desse la sua casa piena d’argento e oro non potrei trasgredire l’ordine del Signore mio Dio per f are cosa piccola o grande. Nondimeno trattenetevi qui anche voi stanotte perché io sappia ciò c he il Signore mi dirà ancora». La notte Dio venne da Balaam e gli disse: «Questi uomini non son o venuti a chiamarti? àlzati dunque e va’ con loro; ma farai ciò che io ti dirò». Balaam quindi si a lzò di buon mattino sellò l’asina e se ne andò con i capi di Moab. Ma l’ira di Dio si accese perché egli stava andando; l’angelo del Signore si pose sulla strada per ostacolarlo. Egli cavalcava la su a asina e aveva con sé due servitori. L’asina vide l’angelo del Signore che stava ritto sulla strada con la spada sguainata in mano. E l’asina deviò dalla strada e cominciò ad andare per i campi. B
alaam percosse l’asina per rimetterla sulla strada. Allora l’angelo del Signore si fermò in un senti ero infossato tra le vigne che aveva un muro di qua e un muro di là. L’asina vide l’angelo del Sig nore si serrò al muro e strinse il piede di Balaam contro il muro e Balaam la percosse di nuovo. L
’angelo del Signore passò di nuovo più avanti e si fermò in un luogo stretto tanto stretto che no n vi era modo di deviare né a destra né a sinistra. L’asina vide l’angelo del Signore e si accovacci ò sotto Balaam. L’ira di Balaam si accese ed egli percosse l’asina con il bastone. Allora il Signore aprì la bocca dell’asina ed essa disse a Balaam: «Che cosa ti ho fatto perché tu mi percuota già p er la terza volta?». Balaam rispose all’asina: «Perché ti sei beffata di me! Ah se avessi una spada in mano ti ucciderei all’istante!». L’asina disse a Balaam: «Non sono io la tua asina, sulla quale hai cavalcato da quando hai iniziato fino ad oggi? Sono forse abituata ad agire così?». Ed egli ris pose: «No». Allora il Signore aprì gli occhi di Balaam ed egli vide l’angelo del Signore che stava ri tto sulla strada con in mano la spada sguainata. Balaam si inginocchiò e si prostrò con la faccia a terra. L’angelo del Signore gli disse: «Perché hai percosso la tua asina già tre volte? Ecco io son o uscito a ostacolarti perché il tuo cammino contro di me è rovinoso. L’asina mi ha visto e ha de viato davanti a me per tre volte; se non avesse deviato davanti a me certo ora io avrei già ucciso proprio te e lasciato in vita lei». Allora Balaam disse all’angelo del Signore: «Ho peccato perché non sapevo che tu ti fossi posto contro di me sul cammino; ora se questo è male ai tuoi occhi m e ne tornerò indietro». L’angelo del Signore disse a Balaam: «Va’ pure con questi uomini; ma dir
ai soltanto quello che io ti dirò». Balaam andò con i prìncipi di Balak. Balak udì che Balaam arriv ava e gli uscì incontro a Ir-Moab che è sulla frontiera dell’Arnon all’estremità del territorio. Balak disse a Balaam: «Non av evo forse mandato a chiamarti con insistenza? Perché non sei venuto da me? Non sono forse in grado di trattarti con onore?». Balaam rispose a Balak: «Ecco sono venuto da te; ma ora posso f orse dire qualsiasi cosa? La parola che Dio mi metterà in bocca quella dirò». Balaam andò con B
alak e giunsero a Kiriat-
Cusòt. Balak immolò bestiame grosso e minuto e mandò parte della carne a Balaam e ai prìncipi che erano con lui. La mattina Balak prese Balaam e lo fece salire a BamòtBaal e di là vide un’estremità del popolo accampato. Balaam disse a Balak: «Costruiscimi qui set te altari e preparami qui sette giovenchi e sette arieti». Balak fece come Balaam aveva detto; Ba lak e Balaam offrirono un giovenco e un ariete su ciascun altare. Balaam disse a Balak: «Férmati presso il tuo olocausto e io andrò. Forse il Signore mi verrà incontro; quel che mi mostrerà io te lo riferirò». Andò su di un’altura brulla. Dio andò incontro a Balaam e Balaam gli disse: «Ho prep arato i sette altari e ho offerto un giovenco e un ariete su ciascun altare». Allora il Signore mise una parola in bocca a Balaam e gli disse: «Torna da Balak e parla così». Balaam tornò da Balak c he stava presso il suo olocausto: egli e tutti i prìncipi di Moab. Allora Balaam pronunciò il suo po ema e disse: «Da Aram mi fa venire Balak, il re di Moab dalle montagne d’oriente: “Vieni maledi ci per me Giacobbe; vieni minaccia Israele!”. Come maledirò quel che Dio non ha maledetto? Co me minaccerò quel che il Signore non ha minacciato? Perché dalla vetta delle rupi io lo vedo e d alle alture lo contemplo: ecco un popolo che dimora in disparte e tra le nazioni non si annovera.
Chi può contare la polvere di Giacobbe? O chi può calcolare un solo quarto d’Israele? Possa io morire della morte dei giusti e sia la mia fine come la loro». Allora Balak disse a Balaam: «Che c osa mi hai fatto? Per maledire i miei nemici io ti ho preso ed ecco li hai grandemente benedetti
». Rispose: «Non devo forse aver cura di dire solo quello che il Signore mi mette sulla bocca?».
Balak gli disse: «Vieni con me in altro luogo da dove tu possa vederlo; ne vedrai solo un’estremi tà non lo vedrai tutto intero: di là maledicilo per me». Lo condusse al campo di Sofìm sulla cima del Pisga; costruì sette altari e offrì un giovenco e un ariete su ogni altare. Allora Balaam disse a Balak: «Férmati presso il tuo olocausto e io andrò incontro al Signore». Il Signore andò incontro a Balaam gli mise una parola sulla bocca e gli disse: «Torna da Balak e parla così». Balaam tornò da Balak che stava presso il suo olocausto insieme con i capi di Moab. Balak gli disse: «Che cosa ha detto il Signore?». Allora Balaam pronunciò il suo poema e disse: «Sorgi Balak e ascolta; porg imi orecchio figlio di Sippor! Dio non è un uomo perché egli menta, non è un figlio d’uomo perc hé egli ritratti. Forse egli dice e poi non fa? Parla e non adempie? Ecco di benedire ho ricevuto il comando: egli ha benedetto e non mi metterò contro. Egli non scorge colpa in Giacobbe, non h a veduto torto in Israele. Il Signore suo Dio è con lui e in lui risuona un’acclamazione per il re. Di o che lo ha fatto uscire dall’Egitto, è per lui come le corna del bufalo. Perché non vi è sortilegio contro Giacobbe e non vi è magìa contro Israele: a suo tempo vien detto a Giacobbe e a Israele
che cosa opera Dio. Ecco un popolo che si leva come una leonessa e si erge come un leone; non si accovaccia finché non abbia divorato la preda e bevuto il sangue degli uccisi». Allora Balak dis se a Balaam: «Se proprio non lo maledici almeno non benedirlo!». Rispose Balaam e disse a Bala k: «Non ti ho già detto che quanto il Signore dirà io dovrò eseguirlo?». Balak disse a Balaam: «Vi eni ti condurrò in altro luogo: forse piacerà agli occhi di Dio che tu lo maledica per me di là». Co sì Balak condusse Balaam in cima al Peor che è di fronte al deserto. Balaam disse a Balak: «Costr uiscimi qui sette altari e preparami sette giovenchi e sette arieti». Balak fece come Balaam avev a detto e offrì un giovenco e un ariete su ogni altare. Balaam vide che al Signore piaceva benedi re Israele e non andò come le altre volte alla ricerca di sortilegi ma rivolse la sua faccia verso il d eserto. Balaam alzò gli occhi e vide Israele accampato tribù per tribù. Allora lo spirito di Dio fu s opra di lui. Egli pronunciò il suo poema e disse: «Oracolo di Balaam figlio di Beor, e oracolo dell’
uomo dall’occhio penetrante; oracolo di chi ode le parole di Dio, di chi vede la visione dell’Onni potente, cade e gli è tolto il velo dagli occhi. Come sono belle le tue tende Giacobbe, le tue dim ore Israele! Si estendono come vallate, come giardini lungo un fiume, come àloe che il Signore h a piantato, come cedri lungo le acque. Fluiranno acque dalle sue secchie e il suo seme come acq ue copiose. Il suo re sarà più grande di Agag e il suo regno sarà esaltato. Dio che lo ha fatto uscir e dall’Egitto, è per lui come le corna del bufalo. Egli divora le nazioni che lo avversano, addenta l e loro ossa e le loro frecce egli spezza. Si accoscia si accovaccia come un leone e come una leon essa: chi lo farà alzare? Benedetto chi ti benedice e maledetto chi ti maledice». Allora l’ira di Bal ak si accese contro Balaam; Balak batté le mani e disse a Balaam: «Per maledire i miei nemici ti ho chiamato ed ecco li hai grandemente benedetti per tre volte. Ora vattene nella tua terra! Av evo detto che ti avrei colmato di onori ma ecco il Signore ti ha impedito di averli». Balaam disse a Balak: «Non avevo forse detto ai messaggeri che mi avevi mandato: “Quand’anche Balak mi d esse la sua casa piena d’argento e d’oro non potrei trasgredire l’ordine del Signore per fare cosa buona o cattiva di mia iniziativa: ciò che il Signore dirà quello soltanto dirò”? Ora sto per tornar e al mio popolo; ebbene vieni: ti predirò ciò che questo popolo farà al tuo popolo nei giorni a ve nire». Egli pronunciò il suo poema e disse: «Oracolo di Balaam figlio di Beor, oracolo dell’uomo dall’occhio penetrante, oracolo di chi ode le parole di Dio e conosce la scienza dell’Altissimo, di chi vede la visione dell’Onnipotente, cade e gli è tolto il velo dagli occhi. Io lo vedo ma non ora, i o lo contemplo ma non da vicino: una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele, spacca le tempie di Moab e il cranio di tutti i figli di Set; Edom diverrà sua conquista e diverrà su a conquista Seir suo nemico, mentre Israele compirà prodezze. Uno di Giacobbe dominerà e far à perire gli scampati dalla città». Poi vide Amalèk pronunciò il suo poema e disse: «Amalèk è la prima delle nazioni, ma il suo avvenire sarà la rovina». Poi vide i Keniti pronunciò il suo poema e disse: «Sicura è la tua dimora o Caino, e il tuo nido è aggrappato alla roccia. Ma sarà dato all’inc endio, finché Assur non ti deporterà in prigionia». Pronunciò ancora il suo poema e disse: «Ahi mè! Chi vivrà dopo che Dio avrà compiuto queste cose? Verranno navi dalla parte dei Chittìm e piegheranno Assur e piegheranno Eber, ma anch’egli andrà in perdizione». Poi Balaam si alzò e t
ornò nella sua terra mentre Balak se ne andò per la sua strada. Israele si stabilì a Sittìm e il popo lo cominciò a fornicare con le figlie di Moab. Esse invitarono il popolo ai sacrifici offerti ai loro d èi; il popolo mangiò e si prostrò davanti ai loro dèi. Israele aderì a Baal-Peor e l’ira del Signore si accese contro Israele. Il Signore disse a Mosè: «Prendi tutti i capi del p opolo e fa’ appendere al palo costoro davanti al Signore in faccia al sole e si allontanerà l’ira ard ente del Signore da Israele». Mosè disse ai giudici d’Israele: «Ognuno di voi uccida dei suoi uomi ni coloro che hanno aderito a Baal-Peor». Uno degli Israeliti venne e condusse ai suoi fratelli una donna madianita sotto gli occhi di Mosè e di tutta la comunità degli Israeliti mentre essi stavano piangendo all’ingresso della tend a del convegno. Vedendo ciò Fineès figlio di Eleàzaro figlio del sacerdote Aronne si alzò in mezz o alla comunità prese in mano una lancia, seguì quell’uomo di Israele nell’alcova e li trafisse tutt i e due, l’uomo d’Israele e la donna nel basso ventre. E il flagello si allontanò dagli Israeliti. Quell i che morirono per il flagello furono ventiquattromila. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Fineès, fi glio di Eleàzaro figlio del sacerdote Aronne ha allontanato la mia collera dagli Israeliti mostrand o la mia stessa gelosia in mezzo a loro e io nella mia gelosia non ho sterminato gli Israeliti. Perci ò digli che io stabilisco con lui la mia alleanza di pace; essa sarà per lui e per la sua discendenza dopo di lui un’alleanza di perenne sacerdozio perché egli ha avuto zelo per il suo Dio e ha compi uto il rito espiatorio per gli Israeliti». L’uomo d’Israele ucciso con la Madianita si chiamava Zimrì figlio di Salu principe di un casato paterno dei Simeoniti. La donna uccisa la Madianita si chiama va Cozbì figlia di Sur capo della gente di un casato in Madian. Il Signore parlò a Mosè e disse: «T
rattate i Madianiti da nemici e uccideteli poiché essi sono stati nemici per voi con le astuzie che hanno usato con voi nella vicenda di Peor e di Cozbì figlia di un principe di Madian loro sorella, c he è stata uccisa il giorno del flagello causato per il fatto di Peor». Dopo il flagello il Signore parl ò a Mosè e ad Eleàzaro figlio del sacerdote Aronne e disse: «Fate il computo di tutta la comunit à degli Israeliti dai vent’anni in su suddivisi secondo i loro casati paterni di quanti in Israele poss ono andare in guerra». Mosè e il sacerdote Eleàzaro dissero loro nelle steppe di Moab presso il Giordano di Gerico: «Si faccia il censimento dai vent’anni in su secondo quanto il Signore aveva ordinato a Mosè e agli Israeliti usciti dalla terra d’Egitto». Ruben primogenito d’Israele. Figli di R
uben: da Enoc discende la famiglia degli Enochiti; da Pallu discende la famiglia dei Palluiti; da Ch esron discende la famiglia dei Chesroniti; da Carmì discende la famiglia dei Carmiti. Tali sono le f amiglie dei Rubeniti: quelli che furono registrati erano quarantatremilasettecentotrenta. Figli di Pallu: Eliàb. Figli di Eliàb: Nemuèl Datan e Abiràm. Questi sono quel Datan e quell’Abiràm memb ri del consiglio che si ribellarono contro Mosè e contro Aronne con la gente di Core quando que sta si era ribellata contro il Signore; la terra spalancò la bocca e li inghiottì insieme con Core qua ndo quella gente perì e il fuoco divorò duecentocinquanta uomini che servirono d’esempio. Ma i figli di Core non perirono. Figli di Simeone secondo le loro famiglie: da Nemuèl discende la fam iglia dei Nemueliti; da Iamin la famiglia degli Iaminiti; da Iachin la famiglia degli Iachiniti; da Zera ch la famiglia degli Zerachiti; da Saul la famiglia dei Sauliti. Tali sono le famiglie dei Simeoniti. Ne
furono registrati ventiduemiladuecento. Figli di Gad secondo le loro famiglie: da Sefon discend e la famiglia dei Sefoniti; da Agghì la famiglia degli Agghiti; da Sunì la famiglia dei Suniti; da Oznì la famiglia degli Ozniti; da Erì la famiglia degli Eriti; da Arod la famiglia degli Aroditi; da Arelì la fa miglia degli Areliti. Tali sono le famiglie dei figli di Gad. Ne furono registrati quarantamilacinque cento. Figli di Giuda: Er e Onan; ma Er e Onan morirono nella terra di Canaan. I figli di Giuda sec ondo le loro famiglie furono: da Sela discende la famiglia dei Selaniti; da Peres la famiglia dei Pe resiti; da Zerach la famiglia degli Zerachiti. I figli di Peres furono: da Chesron discende la famiglia dei Chesroniti; da Camul discende la famiglia dei Camuliti. Tali sono le famiglie di Giuda. Ne fur ono registrati settantaseimilacinquecento. Figli di ìssacar secondo le loro famiglie: da Tola disce nde la famiglia dei Tolaiti; da Puva la famiglia dei Puviti; da Iasub la famiglia degli Iasubiti; da Si mron la famiglia dei Simroniti. Tali sono le famiglie di ìssacar. Ne furono registrati sessantaquatt romilatrecento. Figli di Zàbulon secondo le loro famiglie: da Sered discende la famiglia dei Sered iti; da Elon la famiglia degli Eloniti; da Iacleèl la famiglia degli Iacleeliti. Tali sono le famiglie degli Zabuloniti. Ne furono registrati sessantamilacinquecento. Figli di Giuseppe secondo le loro fami glie: Manasse ed èfraim. Figli di Manasse: da Machir discende la famiglia dei Machiriti. Machir g enerò Gàlaad. Da Gàlaad discende la famiglia dei Galaaditi. Questi sono i figli di Gàlaad: da Iezer discende la famiglia degli Iezeriti; da Chelek discende la famiglia dei Cheleciti; da Asrièl discend e la famiglia degli Asrieliti; da Sichem discende la famiglia dei Sichemiti; da Semidà discende la f amiglia dei Semidaiti; da Chefer discende la famiglia dei Cheferiti. Ora Selofcàd figlio di Chefer n on ebbe maschi ma soltanto figlie e le figlie di Selofcàd si chiamarono Macla Noa Cogla Milca e Tirsa. Tali sono le famiglie di Manasse. Ne furono registrati cinquantaduemilasettecento. Questi sono i figli di èfraim secondo le loro famiglie: da Sutèlach discende la famiglia dei Sutalchiti; da Becher la famiglia dei Becheriti; da Tacan la famiglia dei Tacaniti. Questi sono i figli di Sutèlach: da Eran discende la famiglia degli Eraniti. Tali sono le famiglie dei figli di èfraim. Ne furono regist rati trentaduemilacinquecento. Questi sono i figli di Giuseppe secondo le loro famiglie. Figli di B
eniamino secondo le loro famiglie: da Bela discende la famiglia dei Belaiti; da Asbel discende la f amiglia degli Asbeliti; da Achiràm discende la famiglia degli Achiramiti; da Sufam discende la fa miglia dei Sufamiti; da Cufam discende la famiglia dei Cufamiti. I figli di Bela furono Ard e Naam àn; da Ard discende la famiglia degli Arditi; da Naamàn discende la famiglia dei Naamiti. Tali son o i figli di Beniamino secondo le loro famiglie. Ne furono registrati quarantacinquemilaseicento.
Questi sono i figli di Dan secondo le loro famiglie: da Sucam discende la famiglia dei Sucamiti. S
ono queste le famiglie di Dan secondo le loro famiglie. Totale per le famiglie dei Sucamiti: ne fur ono registrati sessantaquattromilaquattrocento. Figli di Aser secondo le loro famiglie: da Imna d iscende la famiglia degli Imniti; da Isvì la famiglia degli Isviti; da Berià la famiglia dei Beriiti. Dai fi gli di Berià discendono: da Cheber discende la famiglia dei Cheberiti; da Malchièl discende la fa miglia dei Malchieliti. La figlia di Aser si chiamava Serach. Tali sono le famiglie dei figli di Aser. N
e furono registrati cinquantatremilaquattrocento. Figli di Nèftali secondo le loro famiglie: da Iac seèl discende la famiglia degli Iacseeliti; da Gunì la famiglia dei Guniti; da Ieser la famiglia degli I
eseriti; da Sillem la famiglia dei Sillemiti. Tali sono le famiglie di Nèftali secondo le loro famiglie.
Ne furono registrati quarantacinquemilaquattrocento. Questi sono gli Israeliti che furono registr ati: seicentounmilasettecentotrenta. Il Signore parlò a Mosè dicendo: «Tra costoro la terra sarà divisa in eredità secondo il numero delle persone. A chi è numeroso darai numerosa eredità e a chi è piccolo darai piccola eredità a ciascuno sarà data la sua eredità secondo il numero dei suoi censiti. La terra sarà divisa per sorteggio; essi riceveranno la rispettiva proprietà secondo i nomi delle loro tribù paterne. La ripartizione delle proprietà sarà gettata a sorte per tutte le tribù gra ndi o piccole». Questi sono i leviti dei quali si fece il censimento secondo le loro famiglie: da Gh erson discende la famiglia dei Ghersoniti; da Keat la famiglia dei Keatiti; da Merarì la famiglia de i Merariti. Queste sono le famiglie di Levi: la famiglia dei Libniti la famiglia degli Ebroniti la famig lia dei Macliti la famiglia dei Musiti la famiglia dei Coriti. Keat generò Amram. La moglie di Amra m si chiamava Iochebed figlia di Levi che nacque a Levi in Egitto; essa partorì ad Amram Aronne Mosè e Maria loro sorella. Ad Aronne nacquero Nadab e Abiu Eleàzaro e Itamàr. Ora Nadab e A biu morirono quando presentarono al Signore un fuoco illegittimo. I censiti furono ventitremila: tutti maschi, dall’età di un mese in su. Essi non furono compresi nel censimento degli Israeliti p erché non fu data loro alcuna proprietà tra gli Israeliti. Questi sono i censiti da Mosè e dal sacer dote Eleàzaro i quali fecero il censimento degli Israeliti nelle steppe di Moab presso il Giordano di Gerico. Fra questi non vi era alcuno di quegli Israeliti dei quali Mosè e il sacerdote Aronne ave vano fatto il censimento nel deserto del Sinai perché il Signore aveva detto di loro: «Dovranno morire nel deserto!». E non ne rimase neppure uno eccetto Caleb figlio di Iefunnè e Giosuè figli o di Nun. Si fecero avanti le figlie di Selofcàd figlio di Chefer figlio di Gàlaad, figlio di Machir figli o di Manasse delle famiglie di Manasse figlio di Giuseppe che si chiamavano Macla Noa, Cogla Milca e Tirsa. Si presentarono davanti a Mosè davanti al sacerdote Eleàzaro davanti ai prìncipi e a tutta la comunità all’ingresso della tenda del convegno e dissero: «Nostro padre è morto nel d eserto. Egli non era nella compagnia di coloro che si erano coalizzati contro il Signore non era d ella gente di Core ma è morto a causa del suo peccato senza figli maschi. Perché dovrebbe il no me di nostro padre scomparire dalla sua famiglia per il fatto che non ha avuto figli maschi? Dacc i una proprietà in mezzo ai fratelli di nostro padre». Mosè presentò la loro causa davanti al Sign ore. Il Signore disse a Mosè: «Le figlie di Selofcàd dicono bene. Darai loro in eredità una proprie tà tra i fratelli del loro padre e farai passare a esse l’eredità del loro padre. Parlerai inoltre agli Is raeliti e dirai: “Quando un uomo morirà senza lasciare un figlio maschio farete passare la sua er edità alla figlia. Se non ha neppure una figlia darete la sua eredità ai suoi fratelli. Se non ha frate lli darete la sua eredità ai fratelli del padre. Se non ci sono fratelli del padre darete la sua eredit à al parente più stretto nella sua cerchia familiare e quegli la possederà. Questa sarà per gli Isra eliti una norma di diritto secondo quanto il Signore ha ordinato a Mosè”». Il Signore disse a Mos è: «Sali su questo monte degli Abarìm e contempla la terra che io do agli Israeliti. Quando l’avrai vista anche tu sarai riunito ai tuoi padri come fu riunito Aronne tuo fratello perché vi siete ribell ati contro il mio ordine nel deserto di Sin quando la comunità si ribellò e non avete manifestato
la mia santità agli occhi loro a proposito di quelle acque». Sono le acque di Merìba di Kades nel deserto di Sin. Mosè disse al Signore: «Il Signore il Dio della vita di ogni essere vivente metta a c apo di questa comunità un uomo che li preceda nell’uscire e nel tornare li faccia uscire e li facci a tornare perché la comunità del Signore non sia un gregge senza pastore». Il Signore disse a M
osè: «Prenditi Giosuè figlio di Nun uomo in cui è lo spirito; porrai la mano su di lui lo farai comp arire davanti al sacerdote Eleàzaro e davanti a tutta la comunità gli darai i tuoi ordini sotto i loro occhi e porrai su di lui una parte della tua autorità, perché tutta la comunità degli Israeliti gli ob bedisca. Egli si presenterà davanti al sacerdote Eleàzaro che consulterà per lui il giudizio degli ur ìm davanti al Signore; egli e tutti gli Israeliti con lui e tutta la comunità usciranno all’ordine di El eàzaro ed entreranno all’ordine suo». Mosè fece come il Signore gli aveva ordinato; prese Giosu è e lo fece comparire davanti al sacerdote Eleàzaro e davanti a tutta la comunità pose su di lui l e mani e gli diede i suoi ordini come il Signore aveva detto per mezzo di Mosè. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Ordina agli Israeliti e di’ loro: “Avrete cura di presentarmi al tempo stabilito l’off erta l’alimento dei miei sacrifici da consumare con il fuoco profumo a me gradito”. Dirai loro: “
Questo è il sacrificio consumato dal fuoco che offrirete al Signore: agnelli dell’anno senza difetti due al giorno come olocausto perenne. Offrirai il primo agnello la mattina e l’altro agnello lo off rirai al tramonto; come oblazione un decimo di efa di fior di farina impastata con un quarto di hi n di olio puro. Tale è l’olocausto perenne offerto presso il monte Sinai: sacrificio consumato dal fuoco profumo gradito al Signore. La libagione sarà di un quarto di hin per il primo agnello; la lib agione sarà versata nel santuario bevanda inebriante in onore del Signore. Offrirai il secondo ag nello al tramonto con un’oblazione e una libagione simili a quelle della mattina: è un sacrificio c onsumato dal fuoco profumo gradito al Signore. Nel giorno di sabato offrirete due agnelli dell’a nno senza difetti; come oblazione due decimi di fior di farina impastata con olio con la sua libagi one. è l’olocausto del sabato per ogni sabato oltre l’olocausto perenne e la sua libagione. Al prin cipio dei vostri mesi offrirete come olocausto al Signore due giovenchi un ariete, sette agnelli d ell’anno senza difetti e tre decimi di fior di farina impastata con olio come oblazione per ciascun giovenco; due decimi di fior di farina impastata con olio per il solo ariete, e ciascuna volta un d ecimo di fior di farina impastata con olio come oblazione per ogni agnello. è un olocausto di pro fumo gradito un sacrificio consumato dal fuoco in onore del Signore. Le libagioni saranno di un mezzo hin di vino per giovenco di un terzo di hin per l’ariete e di un quarto di hin per agnello. è l
’olocausto del mese per tutti i mesi dell’anno. Si offrirà al Signore un capro in sacrificio per il pec cato oltre l’olocausto perenne e la sua libagione. Il primo mese il giorno quattordici del mese sa rà la Pasqua del Signore. Il giorno quindici di quel mese sarà giorno di festa. Per sette giorni si m angerà pane azzimo. Il primo giorno si terrà una riunione sacra; non farete alcun lavoro servile.
Offrirete in sacrificio consumato dal fuoco un olocausto al Signore: due giovenchi un ariete e set te agnelli dell’anno senza difetti. La loro oblazione sarà fior di farina impastata con olio: ne offrir ete tre decimi per giovenco e due per l’ariete, ne offrirai un decimo per volta per ciascuno dei s ette agnelli e offrirai un capro come sacrificio per il peccato per compiere il rito espiatorio su di
voi. Offrirete questi sacrifici oltre l’olocausto della mattina che è un olocausto perenne. Li offrir ete ogni giorno per sette giorni; è un alimento consumato dal fuoco un sacrificio di profumo gra dito al Signore. Lo si offrirà oltre l’olocausto perenne con la sua libagione. Il settimo giorno terre te una riunione sacra; non farete alcun lavoro servile. Il giorno delle primizie quando presentere te al Signore un’oblazione nuova alla vostra festa delle Settimane terrete una riunione sacra; no n farete alcun lavoro servile. Offrirete in olocausto di profumo gradito al Signore due giovenchi un ariete e sette agnelli dell’anno. La loro oblazione sarà fior di farina impastata con olio: tre de cimi per ogni giovenco due decimi per il solo ariete e un decimo ogni volta per ciascuno dei sett e agnelli. Offrirete un capro per compiere il rito espiatorio per voi. Offrirete questi sacrifici oltre l’olocausto perenne e la sua oblazione. Sceglierete animali senza difetti e vi aggiungerete le loro libagioni. Il settimo mese il primo del mese terrete una riunione sacra; non farete alcun lavoro servile. Sarà per voi il giorno dell’acclamazione con le trombe. Offrirete in olocausto di profumo gradito al Signore un giovenco un ariete sette agnelli dell’anno senza difetti. La loro oblazione s arà fior di farina impastata con olio: tre decimi per il giovenco, due decimi per l’ariete un decim o per ciascuno dei sette agnelli. Offrirete inoltre un capro in sacrificio per il peccato per compier e il rito espiatorio per voi oltre l’olocausto del mese con la sua oblazione e l’olocausto perenne c on la sua oblazione e le loro libagioni secondo il loro rito. Sarà un sacrificio consumato dal fuoco profumo gradito al Signore. Il dieci di questo settimo mese terrete una riunione sacra e vi umili erete; non farete alcun lavoro e offrirete in olocausto di profumo gradito al Signore un giovenco un ariete sette agnelli dell’anno senza difetti. La loro oblazione sarà fior di farina impastata con olio: tre decimi per il giovenco due decimi per il solo ariete un decimo ogni volta per ciascuno d ei sette agnelli. Offrirete inoltre un capro in sacrificio per il peccato oltre il sacrificio per il peccat o del rito espiatorio e oltre l’olocausto perenne con la sua oblazione e le loro libagioni. Il quindic esimo giorno del settimo mese terrete una riunione sacra; non farete alcun lavoro servile e cele brerete una festa in onore del Signore per sette giorni. Offrirete in olocausto come sacrificio co nsumato dal fuoco profumo gradito al Signore tredici giovenchi due arieti, quattordici agnelli de ll’anno senza difetti. La loro oblazione sarà fior di farina impastata con olio: tre decimi per ciasc uno dei tredici giovenchi due decimi per ciascuno dei due arieti, un decimo ogni volta per ciascu no dei quattordici agnelli. Offrirete inoltre un capro in sacrificio per il peccato oltre l’olocausto p erenne con la sua oblazione e la sua libagione. Il secondo giorno offrirete dodici giovenchi due a rieti quattordici agnelli dell’anno senza difetti con le loro oblazioni e le libagioni per i giovenchi gli arieti e gli agnelli secondo il numero e il rito e un capro in sacrificio per il peccato oltre l’oloca usto perenne la sua oblazione e le loro libagioni. Il terzo giorno offrirete undici giovenchi due ari eti quattordici agnelli dell’anno senza difetti con le loro oblazioni e le loro libagioni per i giovenc hi gli arieti e gli agnelli secondo il loro numero e il rito, e un capro in sacrificio per il peccato oltr e l’olocausto perenne la sua oblazione e la sua libagione. Il quarto giorno offrirete dieci giovenc hi due arieti quattordici agnelli dell’anno senza difetti con le loro offerte e le loro libagioni per i giovenchi gli arieti e gli agnelli secondo il loro numero e il rito e un capro in sacrificio per il pecc
ato, oltre l’olocausto perenne la sua oblazione e la sua libagione. Il quinto giorno offrirete nove giovenchi due arieti quattordici agnelli dell’anno senza difetti con le loro oblazioni e le loro libag ioni per i giovenchi gli arieti e gli agnelli secondo il loro numero e il rito, e un capro in sacrificio p er il peccato oltre l’olocausto perenne la sua oblazione e la sua libagione. Il sesto giorno offriret e otto giovenchi due arieti quattordici agnelli dell’anno senza difetti con le loro oblazioni e le lor o libagioni per i giovenchi gli arieti e gli agnelli secondo il loro numero e il rito e un capro in sacri ficio per il peccato oltre l’olocausto perenne la sua oblazione e la sua libagione. Il settimo giorn o offrirete sette giovenchi due arieti quattordici agnelli dell’anno senza difetti, con le loro oblazi oni e le loro libagioni per i giovenchi gli arieti e gli agnelli secondo il loro numero e il rito e un ca pro in sacrificio per il peccato oltre l’olocausto perenne, la sua oblazione e la sua libagione. L’ott avo giorno terrete una riunione sacra; non farete alcun lavoro servile; offrirete in olocausto co me sacrificio consumato dal fuoco, profumo gradito al Signore un giovenco un ariete sette agne lli dell’anno senza difetti, con le loro oblazioni e le loro libagioni per il giovenco l’ariete e gli agn elli secondo il loro numero e il rito e un capro in sacrificio per il peccato oltre l’olocausto perenn e la sua oblazione e la sua libagione. Questi sono i sacrifici che offrirete al Signore nelle vostre s olennità oltre i vostri voti e le vostre offerte spontanee si tratti dei vostri olocausti o delle vostr e oblazioni o delle vostre libagioni o dei vostri sacrifici di comunione”». Mosè riferì agli Israeliti quanto il Signore gli aveva ordinato. Mosè disse ai capi delle tribù degli Israeliti: «Questo il Sign ore ha ordinato: “Quando uno avrà fatto un voto al Signore o si sarà impegnato con giuramento a un obbligo non violi la sua parola ma dia esecuzione a quanto ha promesso con la bocca. Qua ndo una donna avrà fatto un voto al Signore e si sarà impegnata a un obbligo, mentre è ancora i n casa del padre durante la sua giovinezza se il padre venuto a conoscenza del voto di lei e dell’
obbligo al quale si è impegnata non dice nulla tutti i voti di lei saranno validi e saranno validi tut ti gli obblighi ai quali si sarà impegnata. Ma se il padre quando ne viene a conoscenza le fa oppo sizione tutti i voti di lei e tutti gli obblighi ai quali si sarà impegnata non saranno validi; il Signore la perdonerà perché il padre le ha fatto opposizione. Se si sposa quando è legata da voti o da u n obbligo assunto alla leggera con le labbra se il marito ne ha conoscenza e quando viene a con oscenza non dice nulla i voti di lei saranno validi e saranno validi gli obblighi da lei assunti. Ma s e il marito, quando ne viene a conoscenza le fa opposizione egli annullerà il voto che ella ha fatt o e l’obbligo che si è assunta alla leggera; il Signore la perdonerà. Ma il voto di una vedova o di una donna ripudiata qualunque sia l’obbligo che si è assunta rimarrà valido. Se una donna nella casa del marito farà voti o si impegnerà con giuramento a un obbligo e il marito ne avrà conosc enza se il marito non dice nulla e non le fa opposizione tutti i voti di lei saranno validi e saranno validi tutti gli obblighi da lei assunti. Ma se il marito quando ne viene a conoscenza li annulla qu anto le sarà uscito dalle labbra voti od obblighi non sarà valido: il marito lo ha annullato; il Signo re la perdonerà. Il marito può ratificare e il marito può annullare qualunque voto e qualunque gi uramento per il quale ella sia impegnata a mortificarsi. Ma se il marito con il passare dei giorni non dice nulla in proposito egli ratifica così tutti i voti di lei e tutti gli obblighi da lei assunti; li rat
ifica perché non ha detto nulla a questo proposito quando ne ha avuto conoscenza. Ma se li ann ulla qualche tempo dopo averne avuto conoscenza porterà il peso della colpa della moglie”». Q
ueste sono le leggi che il Signore prescrisse a Mosè riguardo al marito e alla moglie al padre e all a figlia quando questa è ancora fanciulla in casa del padre. Il Signore parlò a Mosè e disse: «Co mpi la vendetta degli Israeliti contro i Madianiti quindi sarai riunito ai tuoi padri». Mosè disse al popolo: «Si armino fra voi uomini per l’esercito e marcino contro Madian per eseguire la vendet ta del Signore su Madian. Manderete in guerra mille uomini per tribù per tutte le tribù d’Israele
». Così furono reclutati tra le migliaia d’Israele, mille uomini per tribù cioè dodicimila armati per la guerra. Mosè mandò in guerra quei mille uomini per tribù e con loro Fineès figlio del sacerdo te Eleàzaro il quale portava gli oggetti sacri e aveva in mano le trombe dell’acclamazione. Marci arono dunque contro Madian come il Signore aveva ordinato a Mosè e uccisero tutti i maschi. T
ra i caduti uccisero anche i re di Madian Evì Rekem Sur Cur e Reba, cioè cinque re di Madian; uc cisero di spada anche Balaam figlio di Beor. Gli Israeliti fecero prigioniere le donne di Madian e i loro fanciulli e catturarono come bottino tutto il loro bestiame tutte le loro greggi e ogni loro b ene; appiccarono il fuoco a tutte le città che quelli abitavano e a tutti i loro recinti e presero tutt o il bottino e tutta la preda gente e bestiame. Poi condussero i prigionieri la preda e il bottino a Mosè al sacerdote Eleàzaro e alla comunità degli Israeliti accampati nelle steppe di Moab press o il Giordano di Gerico. Mosè il sacerdote Eleàzaro e tutti i prìncipi della comunità uscirono loro incontro fuori dell’accampamento. Mosè si adirò contro i comandanti dell’esercito capi di miglia ia e capi di centinaia che tornavano da quella spedizione di guerra. Mosè disse loro: «Avete lasci ato in vita tutte le femmine? Proprio loro per suggerimento di Balaam hanno insegnato agli Isra eliti l’infedeltà verso il Signore nella vicenda di Peor per cui venne il flagello nella comunità del S
ignore. Ora uccidete ogni maschio tra i fanciulli e uccidete ogni donna che si è unita con un uom o; ma tutte le fanciulle che non si sono unite con uomini conservatele in vita per voi. Voi poi acc ampatevi per sette giorni fuori del campo; chiunque ha ucciso qualcuno e chiunque ha toccato un caduto si purifichi il terzo e il settimo giorno: questo tanto per voi quanto per i vostri prigioni eri. Purificherete anche ogni veste ogni oggetto di pelle ogni lavoro di pelo di capra e ogni ogget to di legno». Il sacerdote Eleàzaro disse agli uomini dell’esercito che erano andati alla battaglia:
«Questa è la norma della legge che il Signore ha prescritto a Mosè: “L’oro l’argento il bronzo il f erro lo stagno e il piombo, quanto può sopportare il fuoco lo farete passare per il fuoco e sarà r eso puro purché venga purificato anche con l’acqua della purificazione; quanto non può soppor tare il fuoco lo farete passare per l’acqua. Laverete anche le vostre vesti il settimo giorno e sare te puri; poi potrete entrare nell’accampamento”». Il Signore disse a Mosè: «Tu con il sacerdote Eleàzaro e con i capi dei casati della comunità fa’ il computo di tutta la preda che è stata fatta: d ella gente e del bestiame; dividi la preda a metà fra coloro che usciti in guerra hanno sostenuto la battaglia e tutta la comunità. Dalla parte spettante ai soldati che sono usciti in guerra preleve rai un contributo per il Signore: cioè un individuo su cinquecento tanto delle persone quanto de l bestiame grosso degli asini e del bestiame minuto. Lo prenderete sulla metà di loro spettanza
e lo darai al sacerdote Eleàzaro, come offerta da presentare quale contributo in onore del Signo re. Della metà che spetta agli Israeliti prenderai una quota di uno su cinquanta tanto delle perso ne quanto del bestiame grosso, degli asini e del bestiame minuto; la darai ai leviti che hanno la custodia della Dimora del Signore». Mosè e il sacerdote Eleàzaro fecero come il Signore aveva o rdinato a Mosè. Il bottino cioè tutto ciò che rimaneva della preda fatta dagli uomini dell’esercit o consisteva in seicentosettantacinquemila capi di bestiame minuto, settantaduemila capi di be stiame grosso sessantunmila asini e trentaduemila persone ossia donne che non si erano unite c on uomini. La metà cioè la parte di quelli che erano usciti in guerra fu di trecentotrentasettemil acinquecento capi di bestiame minuto dei quali seicentosettantacinque per il tributo al Signore; trentaseimila capi di bestiame grosso dei quali settantadue per il tributo al Signore; trentamilac inquecento asini dei quali sessantuno per il tributo al Signore e sedicimila persone delle quali tr entadue per il tributo al Signore. Mosè diede al sacerdote Eleàzaro il contributo dell’offerta prel evata per il Signore come il Signore gli aveva ordinato. La metà che spettava agli Israeliti dopo c he Mosè ebbe fatto la spartizione per gli uomini dell’esercito la metà spettante alla comunità fu di trecentotrentasettemilacinquecento capi di bestiame minuto, trentaseimila capi di bestiame grosso trentamilacinquecento asini e sedicimila persone. Da questa metà che spettava agli Israe liti, Mosè prese la quota di uno su cinquanta degli uomini e degli animali e li diede ai leviti che h anno la custodia della Dimora del Signore come il Signore aveva ordinato a Mosè. I comandanti delle migliaia dell’esercito capi di migliaia e capi di centinaia si avvicinarono a Mosè e gli dissero
: «I tuoi servi hanno fatto il computo dei soldati che erano sotto i nostri ordini e non ne manca n eppure uno. Per questo portiamo in offerta al Signore ognuno quello che ha trovato di oggetti d
‘oro: bracciali braccialetti anelli pendenti, collane per compiere il rito espiatorio per le nostre pe rsone davanti al Signore». Mosè e il sacerdote Eleàzaro presero da loro quell’oro tutti gli oggetti lavorati. Tutto l’oro del contributo che prelevarono per il Signore da parte dei capi di migliaia e dei capi di centinaia pesava sedicimilasettecentocinquanta sicli. Gli uomini dell’esercito si tenne ro il bottino che ognuno aveva fatto per conto suo. Mosè e il sacerdote Eleàzaro presero l’oro d ei capi di migliaia e di centinaia e lo portarono nella tenda del convegno come memoriale per gli Israeliti davanti al Signore. I figli di Ruben e i figli di Gad avevano bestiame in numero molto gra nde; quando videro che la terra di Iazer e la terra di Gàlaad erano luoghi da bestiame i figli di Ga d e i figli di Ruben vennero a parlare a Mosè al sacerdote Eleàzaro e ai prìncipi della comunità e dissero: «Ataròt Dibon Iazer Nimra Chesbon Elalè, Sebam Nebo e Beon terre che il Signore ha co lpito alla presenza della comunità d’Israele sono terre da bestiame e i tuoi servi hanno appunto il bestiame». Aggiunsero: «Se abbiamo trovato grazia ai tuoi occhi sia concesso ai tuoi servi il po ssesso di questa regione: non farci passare il Giordano». Ma Mosè rispose ai figli di Gad e ai figli di Ruben: «Andrebbero dunque i vostri fratelli in guerra e voi ve ne stareste qui? Perché volete scoraggiare gli Israeliti dal passare nella terra che il Signore ha dato loro? Così fecero i vostri pad ri quando li mandai da Kades-Barnea per esplorare la terra. Salirono fino alla valle di Escol e dopo aver esplorato la terra scor
aggiarono gli Israeliti dall’entrare nella terra che il Signore aveva loro dato. Così l’ira del Signore si accese in quel giorno ed egli giurò: “Gli uomini che sono usciti dall’Egitto dai vent’anni in su n on vedranno mai la terra che ho promesso con giuramento ad Abramo a Isacco e a Giacobbe pe rché non mi hanno seguito pienamente, se non Caleb figlio di Iefunnè il Kenizzita e Giosuè figlio di Nun che hanno seguito il Signore pienamente”. L’ira del Signore si accese dunque contro Isra ele; lo fece errare nel deserto per quarant’anni finché non fosse finita tutta la generazione che a veva agito male agli occhi del Signore. Ed ecco voi sorgete al posto dei vostri padri, razza di uom ini peccatori per aumentare ancora l’ardore dell’ira del Signore contro Israele. Perché se voi vi ri traete dal seguirlo il Signore continuerà a lasciarlo nel deserto e voi avrete causato la perdita di tutto questo popolo». Ma quelli si avvicinarono a lui e gli dissero: «Costruiremo qui recinti per il nostro bestiame e città per i nostri fanciulli; ma quanto a noi ci armeremo in fretta per marciar e davanti agli Israeliti finché li avremo introdotti nel luogo destinato loro. Intanto i nostri fanciul li dimoreranno nelle città fortificate per timore degli abitanti della regione. Non torneremo alle nostre case finché ogni Israelita non abbia ereditato ciascuno la sua eredità non prenderemo nu lla in eredità con loro al di là del Giordano e più oltre perché la nostra eredità ci è toccata da qu esta parte del Giordano a oriente». Allora Mosè disse loro: «Se fate questo se vi armerete dava nti al Signore per andare a combattere se tutti quelli di voi che si armeranno passeranno il Gior dano davanti al Signore finché egli abbia scacciato i suoi nemici dalla sua presenza se non torne rete fin quando la terra sia stata sottomessa davanti al Signore voi sarete innocenti di fronte al Signore e di fronte a Israele e questa terra sarà vostra proprietà alla presenza del Signore. Ma s e non fate così voi peccherete contro il Signore; sappiate che il vostro peccato vi raggiungerà. C
ostruitevi pure città per i vostri fanciulli e recinti per le vostre greggi ma fate quello che la vostr a bocca ha promesso». I figli di Gad e i figli di Ruben dissero a Mosè: «I tuoi servi faranno quello che il mio signore comanda. I nostri fanciulli le nostre donne le nostre greggi e tutto il nostro b estiame rimarranno qui nelle città di Gàlaad; ma i tuoi servi tutti armati per la guerra andranno a combattere davanti al Signore come dice il mio signore». Allora Mosè diede per loro ordini al sacerdote Eleàzaro a Giosuè, figlio di Nun e ai capi delle famiglie delle tribù degli Israeliti. Mosè disse loro: «Se i figli di Gad e i figli di Ruben passeranno con voi il Giordano tutti armati per com battere davanti al Signore e se la terra sarà sottomessa davanti a voi darete loro in possesso la t erra di Gàlaad. Ma se non passeranno armati con voi avranno la loro proprietà in mezzo a voi ne lla terra di Canaan». I figli di Gad e i figli di Ruben risposero: «Faremo come il Signore ha ordinat o ai tuoi servi. Passeremo armati davanti al Signore nella terra di Canaan ma quanto a noi il poss esso della nostra eredità è di qua dal Giordano». Mosè dunque diede ai figli di Gad e ai figli di R
uben e a metà della tribù di Manasse figlio di Giuseppe il regno di Sicon re degli Amorrei e il reg no di Og re di Basan: il territorio con le sue città comprese entro i confini le città del territorio c he si stendeva all’intorno. I figli di Gad ricostruirono Dibon Ataròt Aroèr, Atròt-Sofan Iazer Iogbea Bet-Nimra e Bet-
Aran città fortificate e fecero recinti per le greggi. I figli di Ruben ricostruirono Chesbon, Elalè Ki
riatàim Nebo e Baal-
Meon i cui nomi furono mutati e Sibma e diedero nomi alle città che avevano ricostruito. I figli d i Machir figlio di Manasse, andarono nella terra di Gàlaad la presero e ne cacciarono gli Amorrei che vi abitavano. Mosè allora diede Gàlaad a Machir figlio di Manasse che vi si stabilì. Anche Iai r figlio di Manasse andò e prese i loro villaggi e li chiamò villaggi di Iair. Nobach andò e prese Ke nat con le dipendenze e la chiamò con il proprio nome Nobach. Queste sono le tappe degli Israe liti che uscirono dalla terra d’Egitto ordinati secondo le loro schiere sotto la guida di Mosè e di A ronne. Mosè scrisse i loro punti di partenza tappa per tappa per ordine del Signore; queste sono le loro tappe nell’ordine dei loro punti di partenza. Partirono da Ramses il primo mese il quindic esimo giorno del primo mese. Il giorno dopo la Pasqua gli Israeliti uscirono a mano alzata sotto gli occhi di tutto l’Egitto mentre gli Egiziani seppellivano quelli che il Signore aveva colpito fra lo ro cioè tutti i primogeniti quando il Signore aveva pronunciato il suo giudizio anche sui loro dèi.
Gli Israeliti partirono dunque da Ramses e si accamparono a Succot. Partirono da Succot e si acc amparono a Etam che è sull’estremità del deserto. Partirono da Etam e piegarono verso Pi-Achiròt che è di fronte a Baal-Sefòn e si accamparono davanti a Migdol. Partirono da Pi-Achiròt, passarono in mezzo al mare in direzione del deserto fecero tre giornate di marcia nel d eserto di Etam e si accamparono a Mara. Partirono da Mara e giunsero a Elìm; a Elìm c’erano do dici sorgenti di acqua e settanta palme: qui si accamparono. Partirono da Elìm e si accamparono presso il Mar Rosso. Partirono dal Mar Rosso e si accamparono nel deserto di Sin. Partirono dal deserto di Sin e si accamparono a Dofka. Partirono da Dofka e si accamparono ad Alus. Partiron o da Alus e si accamparono a Refidìm dove non c’era acqua da bere per il popolo. Partirono da R
efidìm e si accamparono nel deserto del Sinai. Partirono dal deserto del Sinai e si accamparono a Kibrot-Taavà. Partirono da Kibrot-Taavà e si accamparono a Caseròt. Partirono da Caseròt e si accamparono a Ritma. Partirono da Ritma e si accamparono a Rimmòn-Peres. Partirono da Rimmòn-Peres e si accamparono a Libna. Partirono da Libna e si accamparono a Rissa. Partirono da Rissa e si accamparono a Keelata. Partirono da Keelata e si accamparono al monte Sefer. Partirono da l monte Sefer e si accamparono a Caradà. Partirono da Caradà e si accamparono a Makelòt. Part irono da Makelòt e si accamparono a Tacat. Partirono da Tacat e si accamparono a Tarach. Parti rono da Tarach e si accamparono a Mitka. Partirono da Mitka e si accamparono a Casmonà. Par tirono da Casmonà e si accamparono a Moseròt. Partirono da Moseròt e si accamparono a Ben e-Iaakàn. Partirono da Bene-Iaakàn e si accamparono a Or-Ghidgad. Partirono da Or-Ghidgad e si accamparono a Iotbata. Partirono da Iotbata e si accamparono ad Abronà. Partiron o da Abronà e si accamparono a Esion-Ghèber. Partirono da Esion-Ghèber e si accamparono nel deserto di Sin cioè a Kades. Poi partirono da Kades e si accamparo no al monte Or all’estremità della terra di Edom. Il sacerdote Aronne salì sul monte Or per ordin e del Signore e in quel luogo morì il quarantesimo anno dopo l’uscita degli Israeliti dalla terra d’
Egitto il quinto mese il primo giorno del mese. Aronne era in età di centoventitré anni quando
morì sul monte Or. Il cananeo re di Arad che abitava nel Negheb nella terra di Canaan venne a s apere che gli Israeliti arrivavano. Partirono dal monte Or e si accamparono a Salmonà. Partirono da Salmonà e si accamparono a Punon. Partirono da Punon e si accamparono a Obot. Partirono da Obot e si accamparono a Iie-Abarìm sui confini di Moab. Partirono da Iie-Abarìm e si accamparono a Dibon-Gad. Partirono da Dibon-Gad e si accamparono ad Almon-Diblatàim. Partirono da Almon-
Diblatàim e si accamparono ai monti Abarìm di fronte al Nebo. Partirono dai monti Abarìm e si a ccamparono nelle steppe di Moab presso il Giordano di Gerico. Si accamparono presso il Giorda no da Bet-Iesimòt fino ad Abel-Sittìm nelle steppe di Moab. Il Signore parlò a Mosè nelle steppe di Moab presso il Giordano di Gerico e disse: «Parla agli Israeliti dicendo loro: “Quando avrete attraversato il Giordano verso l a terra di Canaan e avrete cacciato dinanzi a voi tutti gli abitanti della terra distruggerete tutte l e loro immagini distruggerete tutte le loro statue di metallo fuso e devasterete tutte le loro altu re. Prenderete possesso della terra e in essa vi stabilirete poiché io vi ho dato la terra perché la possediate. Dividerete la terra a sorte secondo le vostre famiglie. A chi è numeroso darai numer osa eredità e a chi è piccolo darai piccola eredità. Ognuno avrà quello che gli sarà toccato in sort e; farete la divisione secondo le tribù dei vostri padri. Ma se non caccerete dinanzi a voi gli abita nti della terra, quelli di loro che vi avrete lasciati saranno per voi come spine negli occhi e pungo li nei fianchi e vi tratteranno da nemici nella terra in cui abiterete. Allora io tratterò voi come mi ero proposto di trattare loro”». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Ordina agli Israeliti e di’ loro: “
Quando entrerete nella terra di Canaan questa sarà la terra che vi toccherà in eredità: la terra di Canaan secondo i suoi confini. Il vostro confine meridionale comincerà al deserto di Sin a lato d i Edom; così la vostra frontiera meridionale partirà dall’estremità del Mar Morto a oriente; ques ta frontiera volgerà al sud della salita di Akrabbìm passerà per Sin e si estenderà a mezzogiorno di Kades-Barnea; poi continuerà verso Casar-Addar e passerà per Asmon. Da Asmon la frontiera girerà fino al torrente d’Egitto e finirà al mar e. La vostra frontiera a occidente sarà il Mare Grande: quella sarà la vostra frontiera occidentale
. Questa sarà la vostra frontiera settentrionale: partendo dal Mare Grande traccerete una linea fino al monte Or; dal monte Or la traccerete fino all’ingresso di Camat e l’estremità della frontie ra sarà a Sedad; la frontiera continuerà fino a Zifron e finirà a Casar-Enàn: questa sarà la vostra frontiera settentrionale. Traccerete la vostra frontiera orientale da C
asar-
Enan a Sefam; la frontiera scenderà da Sefam verso Ribla a oriente di Ain; poi la frontiera scend erà e si estenderà lungo il mare di Chinneret a oriente; poi la frontiera scenderà lungo il Giorda no e finirà al Mar Morto. Questa sarà la vostra terra con le sue frontiere tutt’intorno”». Mosè di ede quest’ordine agli Israeliti dicendo: «Questa è la terra che vi distribuirete a sorte e che il Sign ore ha ordinato di dare a nove tribù e mezza; poiché la tribù dei figli di Ruben secondo i loro cas ati paterni e la tribù dei figli di Gad secondo i loro casati paterni e metà della tribù di Manasse h
anno ricevuto la loro porzione. Queste due tribù e mezza hanno ricevuto la loro porzione oltre il Giordano di Gerico dal lato orientale». Il Signore parlò a Mosè e disse: «Questi sono i nomi degl i uomini che spartiranno la terra fra voi: il sacerdote Eleàzaro e Giosuè figlio di Nun. Prenderete anche un principe uno per ogni tribù per fare la spartizione della terra. Ecco i nomi di questi uo mini. Per la tribù di Giuda Caleb figlio di Iefunnè. Per la tribù dei figli di Simeone Samuele figlio d i Ammiù d. Per la tribù di Beniamino Elidàd figlio di Chislon. Per la tribù dei figli di Dan il principe Bukkì figlio di Ioglì. Per i figli di Giuseppe per la tribù dei figli di Manasse il principe Cannièl figlio di Efod; per la tribù dei figli di èfraim il principe Kemuèl figlio di Siftan. Per la tribù dei figli di Zà bulon il principe Elisafàn figlio di Parnac. Per la tribù dei figli di ìssacar il principe Paltièl figlio di Azzan. Per la tribù dei figli di Aser il principe Achiù d figlio di Selomì. Per la tribù dei figli di Nèfta li il principe Pedaèl, figlio di Ammiù d». Questi sono coloro ai quali il Signore ordinò di spartire il possesso della terra di Canaan tra gli Israeliti. Il Signore parlò a Mosè nelle steppe di Moab pres so il Giordano di Gerico e disse: «Ordina agli Israeliti che dell’eredità che possederanno riservin o ai leviti città da abitare; darete anche ai leviti il terreno che è intorno alle città. Essi avranno le città per abitarvi e il terreno intorno servirà per il loro bestiame per i loro beni e per tutti i loro animali. Il terreno delle città che darete ai leviti si estenderà per lo spazio di mille cubiti fuori da lle mura della città tutt’intorno. Misurerete dunque all’esterno della città duemila cubiti dal lato orientale duemila cubiti dal lato meridionale duemila cubiti dal lato occidentale e duemila cubit i dal lato settentrionale; la città sarà in mezzo. Tali saranno i terreni di ciascuna delle loro città.
Fra le città che darete ai leviti sei saranno città di asilo che voi designerete perché vi si rifugi l’o micida: a queste aggiungerete altre quarantadue città. Tutte le città che darete ai leviti saranno dunque quarantotto con i relativi terreni. Le città che darete ai leviti verranno prese dalla propri età degli Israeliti: da chi ha molto prenderete molto da chi ha meno prenderete meno; ognuno ai leviti darà delle sue città in proporzione della parte che avrà ereditato». Il Signore parlò a Mo sè e disse: «Parla agli Israeliti dicendo loro: “Quando avrete attraversato il Giordano verso la ter ra di Canaan, designerete città che siano per voi città di asilo dove possa rifugiarsi l’omicida che avrà ucciso qualcuno involontariamente. Queste città vi serviranno di asilo contro il vendicatore del sangue perché l’omicida non sia messo a morte prima di comparire in giudizio dinanzi alla c omunità. Delle città che darete sei saranno dunque per voi città di asilo. Darete tre città di qua dal Giordano e darete tre altre città nella terra di Canaan; saranno città di asilo. Queste sei città serviranno di asilo agli Israeliti al forestiero e all’ospite che soggiornerà in mezzo a voi perché vi si rifugi chiunque abbia ucciso qualcuno involontariamente. Ma se uno colpisce un altro con un o strumento di ferro e quello muore quel tale è omicida; l’omicida dovrà essere messo a morte.
Se lo colpisce con una pietra che aveva in mano atta a causare la morte e il colpito muore quel t ale è un omicida; l’omicida dovrà essere messo a morte. O se lo colpisce con uno strumento di l egno che aveva in mano atto a causare la morte e il colpito muore quel tale è un omicida; l’omic ida dovrà essere messo a morte. Sarà il vendicatore del sangue quello che metterà a morte l’om icida; quando lo incontrerà lo ucciderà. Se uno dà a un altro una spinta per odio o gli getta contr
o qualcosa con premeditazione e quello muore o lo colpisce per inimicizia con la mano e quello muore chi ha colpito dovrà essere messo a morte; egli è un omicida e il vendicatore del sangue ucciderà l’omicida quando lo incontrerà. Ma se gli dà una spinta per caso e non per inimicizia o gli getta contro qualcosa senza premeditazione o se senza vederlo gli fa cadere addosso una pie tra che possa causare la morte e quello ne muore senza che l’altro gli fosse nemico o gli volesse fare del male, allora ecco le regole secondo le quali la comunità giudicherà fra colui che ha colpi to e il vendicatore del sangue. La comunità libererà l’omicida dalle mani del vendicatore del san gue e lo farà tornare alla città di asilo dove era fuggito. Lì dovrà abitare fino alla morte del som mo sacerdote che fu unto con l’olio santo. Ma se l’omicida esce dai confini della città di asilo do ve si era rifugiato e se il vendicatore del sangue lo trova fuori dei confini della sua città di asilo e uccide l’omicida il vendicatore del sangue non sarà reo del sangue versato. Perché l’omicida de ve stare nella sua città di asilo fino alla morte del sommo sacerdote; dopo la morte del sommo s acerdote, l’omicida potrà tornare nella terra di sua proprietà. Queste saranno per voi le regole di giudizio di generazione in generazione in tutte le vostre residenze. Se uno uccide un altro l’o micida sarà messo a morte in seguito a deposizione di testimoni ma un unico testimone non bas terà per condannare a morte una persona. Non accetterete prezzo di riscatto per la vita di un o micida reo di morte perché dovrà essere messo a morte. Non accetterete prezzo di riscatto che permetta all’omicida di fuggire dalla sua città di asilo e di tornare ad abitare nella sua terra fino alla morte del sacerdote. Non contaminerete la terra dove sarete perché il sangue contamina la terra e per la terra non vi è espiazione del sangue che vi è stato sparso se non mediante il sang ue di chi l’ha sparso. Non contaminerete dunque la terra che andate ad abitare e in mezzo alla q uale io dimorerò perché io sono il Signore che dimoro in mezzo agli Israeliti”». I capi delle famigl ie dei figli di Gàlaad figlio di Machir figlio di Manasse tra le famiglie dei figli di Giuseppe si fecero avanti a parlare in presenza di Mosè e dei prìncipi capi delle famiglie degli Israeliti e dissero: «Il Signore ha ordinato al mio signore di dare la terra in eredità agli Israeliti in base alla sorte; il mio signore ha anche ricevuto l’ordine dal Signore di dare l’eredità di Selofcàd nostro fratello alle fi glie di lui. Se queste sposano qualche figlio delle altre tribù degli Israeliti la loro eredità sarà detr atta dall’eredità dei nostri padri e aggiunta all’eredità della tribù alla quale apparterranno; così s arà detratta dall’eredità che ci è toccata in sorte. Quando verrà il giubileo per gli Israeliti la loro eredità sarà aggiunta a quella della tribù alla quale apparterranno e l’eredità loro sarà detratta dall’eredità della tribù dei nostri padri». Allora Mosè comandò agli Israeliti su ordine del Signore
: «La tribù dei figli di Giuseppe dice bene. Questo il Signore ha ordinato riguardo alle figlie di Sel ofcàd: sposeranno chi vorranno purché si sposino in una famiglia della tribù dei loro padri. Ness una eredità tra gli Israeliti potrà passare da una tribù all’altra ma ciascuno degli Israeliti si terrà vincolato all’eredità della tribù dei suoi padri. Ogni fanciulla che possiede un’eredità in una tribù degli Israeliti sposerà uno che appartenga a una famiglia della tribù di suo padre perché ognun o degli Israeliti rimanga nel possesso dell’eredità dei suoi padri e nessuna eredità passi da una tr ibù all’altra; ognuna delle tribù degli Israeliti si terrà vincolata alla propria eredità». Le figlie di S

elofcàd fecero secondo l’ordine che il Signore aveva dato a Mosè. Macla Tirsa Cogla Milca e Noa le figlie di Selofcàd sposarono i figli dei loro zii paterni; si sposarono nelle famiglie dei figli di Ma nasse figlio di Giuseppe e la loro eredità rimase nella tribù della famiglia del padre loro. Questi s ono i comandi e le leggi che il Signore impose agli Israeliti per mezzo di Mosè nelle steppe di Mo ab presso il Giordano di Gerico. Queste sono le parole che Mosè rivolse a tutto Israele oltre il Gi ordano nel deserto, nell’Araba di fronte a Suf tra Paran Tofel Laban Caseròt e Di-Zaab. Vi sono undici giornate di cammino dall’Oreb per la via del monte Seir fino a Kades-Barnea. Nel quarantesimo anno l’undicesimo mese il primo giorno del mese Mosè riferì agli Isra eliti quanto il Signore gli aveva ordinato per loro dopo avere sconfitto Sicon re degli Amorrei ch e abitava a Chesbon e Og re di Basan che abitava ad Astaròt a Edrei. Oltre il Giordano nella terra di Moab Mosè cominciò a spiegare questa legge: «Il Signore nostro Dio ci ha parlato sull’Oreb e ci ha detto: “Avete dimorato abbastanza su questa montagna; voltatevi levate l’accampamento e dirigetevi verso le montagne degli Amorrei e verso tutte le regioni vicine: l’Araba le montagn e la Sefela il Negheb la costa del mare – che è la terra dei Cananei e del Libano –
fino al grande fiume il fiume Eufrate. Ecco io ho posto davanti a voi la terra. Entrate e prendete possesso della terra che il Signore aveva giurato ai vostri padri ad Abramo a Isacco e a Giacobbe di dar loro e alla loro stirpe dopo di loro”. In quel tempo io vi ho parlato e vi ho detto: “Io non p osso da solo sostenere il peso di tutti voi. Il Signore vostro Dio vi ha moltiplicati ed eccovi numer osi come le stelle del cielo. Il Signore Dio dei vostri padri vi aumenterà mille volte di più e vi ben edirà come vi ha promesso. Ma come posso io da solo portare il vostro peso il vostro carico e le vostre liti? Sceglietevi nelle vostre tribù uomini saggi, intelligenti e stimati e io li costituirò vostri capi”. Voi mi rispondeste: “Va bene ciò che dici di fare”. Allora presi i capi delle vostre tribù uo mini saggi e stimati e li stabilii sopra di voi come capi: capi di migliaia capi di centinaia, capi di ci nquantine capi di decine e come scribi per le vostre tribù. In quel tempo diedi quest’ordine ai vo stri giudici: “Ascoltate le cause dei vostri fratelli e decidete con giustizia fra un uomo e suo fratel lo o lo straniero che sta presso di lui. Nei vostri giudizi non avrete riguardi personali darete ascol to al piccolo come al grande; non temerete alcun uomo poiché il giudizio appartiene a Dio; le ca use troppo difficili per voi le presenterete a me e io le ascolterò”. In quel tempo io vi ordinai tut te le cose che dovevate fare. Poi partimmo dall’Oreb e attraversammo tutto quel deserto grand e e spaventoso che avete visto dirigendoci verso le montagne degli Amorrei come il Signore nos tro Dio ci aveva ordinato e giungemmo a Kades-Barnea. Allora vi dissi: “Siete arrivati presso la montagna degli Amorrei che il Signore nostro Dio sta per darci. Ecco il Signore tuo Dio ti ha posto la terra dinanzi: entra prendine possesso come i l Signore Dio dei tuoi padri ti ha detto; non temere e non ti scoraggiare!”. Voi tutti vi accostaste a me e diceste: “Mandiamo innanzi a noi uomini che esplorino la terra e ci riferiscano sul cammi no per il quale dovremo procedere e sulle città nelle quali dovremo entrare”. La proposta mi pia cque e scelsi dodici uomini tra voi uno per tribù. Quelli si incamminarono salirono verso i monti giunsero alla valle di Escol ed esplorarono il paese. Presero con le loro mani dei frutti della terra
ce li portarono e ci fecero questa relazione dicendo: “Buona è la terra che il Signore nostro Dio sta per darci”. Ma voi non voleste entrarvi e vi ribellaste all’ordine del Signore vostro Dio; morm oraste nelle vostre tende e diceste: “Il Signore ci odia per questo ci ha fatto uscire dalla terra d’
Egitto per darci in mano agli Amorrei e sterminarci. Dove possiamo andare noi? I nostri fratelli c i hanno scoraggiati dicendo: Quella gente è più grande e più alta di noi le città sono grandi e for tificate fino al cielo; abbiamo visto là perfino dei figli degli Anakiti”. Allora vi dissi: “Non spavent atevi e non abbiate paura di loro. Il Signore vostro Dio che vi precede egli stesso combatterà per voi come insieme a voi ha fatto sotto i vostri occhi in Egitto e nel deserto dove hai visto come il Signore, tuo Dio ti ha portato come un uomo porta il proprio figlio per tutto il cammino che ave te fatto finché siete arrivati qui”. Nonostante questo non aveste fiducia nel Signore vostro Dio, c he andava innanzi a voi nel cammino per cercarvi un luogo dove porre l’accampamento: di nott e nel fuoco per mostrarvi la via dove andare e di giorno nella nube. Il Signore udì il suono delle v ostre parole si adirò e giurò: “Nessuno degli uomini di questa generazione malvagia vedrà la bu ona terra che ho giurato di dare ai vostri padri se non Caleb figlio di Iefunnè. Egli la vedrà e a lui e ai suoi figli darò la terra su cui ha camminato perché ha pienamente seguito il Signore”. Anche contro di me si adirò il Signore per causa vostra e disse: “Neanche tu vi entrerai ma vi entrerà G
iosuè figlio di Nun che sta al tuo servizio; incoraggialo perché egli la metterà in possesso d’Israel e. Anche i vostri bambini dei quali avevate detto che sarebbero divenuti oggetto di preda e i vos tri figli che oggi non conoscono né il bene né il male essi vi entreranno; a loro la darò ed essi la possederanno. Ma voi tornate indietro e incamminatevi verso il deserto in direzione del Mar Ro sso”. Allora voi mi rispondeste: “Abbiamo peccato contro il Signore! Saliremo e combatteremo come il Signore nostro Dio ci ha ordinato”. Ognuno di voi cinse le armi e presumeste di salire ve rso la montagna. Il Signore mi disse: “Ordina loro: Non salite e non combattete perché io non so no in mezzo a voi e sarete sconfitti davanti ai vostri nemici”. Io ve lo dissi ma voi non mi ascoltas te; anzi vi ribellaste all’ordine del Signore foste presuntuosi e saliste verso i monti. Allora gli Am orrei che abitano quella montagna uscirono contro di voi vi inseguirono come fanno le api e vi b atterono in Seir fino a Corma. Voi tornaste e piangeste davanti al Signore; ma il Signore non die de ascolto alla vostra voce e non vi porse l’orecchio. Così rimaneste a Kades molti giorni per tutt o il tempo in cui vi siete rimasti. Allora tornammo indietro e ci incamminammo verso il deserto i n direzione del Mar Rosso come il Signore mi aveva detto e per lungo tempo girammo intorno a lla montagna di Seir. Il Signore mi disse: “Avete girato abbastanza intorno a questa montagna; v olgetevi verso settentrione. Da’ quest’ordine al popolo: Voi state per passare i confini dei figli di Esaù vostri fratelli che dimorano in Seir; essi avranno paura di voi ma state molto attenti: non muovete loro guerra perché della loro terra io non vi darò neppure quanto ne può calcare la pia nta di un piede; infatti ho dato la montagna di Seir in proprietà a Esaù. Comprerete da loro con denaro le vettovaglie che mangerete e comprerete da loro con denaro anche l’acqua che berret e perché il Signore tuo Dio ti ha benedetto in ogni lavoro delle tue mani ti ha seguito nel tuo via ggio attraverso questo grande deserto. Il Signore tuo Dio è stato con te in questi quarant’anni e
non ti è mancato nulla”. Allora passammo oltre i nostri fratelli i figli di Esaù che abitano in Seir l ungo la via dell’Araba per Elat ed Esion-Ghèber. Poi piegammo e avanzammo in direzione del deserto di Moab. Il Signore mi disse: “Non attaccare Moab e non gli muovere guerra perché io non ti darò nulla da possedere nella sua ter ra; infatti ho dato Ar ai figli di Lot come loro proprietà”. Prima vi abitavano gli Emìm popolo gra nde numeroso alto di statura come gli Anakiti. Erano anch’essi considerati Refaìm come gli Anak iti ma i Moabiti li chiamavano Emìm. Anche in Seir prima abitavano gli Urriti ma i figli di Esaù li s cacciarono li distrussero e si stabilirono al posto loro come ha fatto Israele nella terra che possie de e che il Signore gli ha dato. “Ora alzatevi e attraversate il torrente Zered!”. E attraversammo il torrente Zered. La durata del nostro cammino da Kades-Barnea al passaggio del torrente Zered fu di trentotto anni finché tutta quella generazione di uo mini atti alla guerra scomparve dall’accampamento come il Signore aveva loro giurato. Anche la mano del Signore era stata contro di loro per sterminarli dall’accampamento fino ad annientarl i. Quando da mezzo al popolo scomparvero per morte tutti quegli uomini atti alla guerra, il Sign ore mi disse: “Oggi tu stai per attraversare i confini di Moab ad Ar e ti avvicinerai agli Ammoniti.
Non li attaccare e non muover loro guerra, perché io non ti darò nessun possesso nella terra de gli Ammoniti; infatti l’ho data in proprietà ai figli di Lot”. Anche questa terra era reputata terra dei Refaìm: prima vi abitavano i Refaìm e gli Ammoniti li chiamavano Zamzummìm popolo gran de numeroso alto di statura come gli Anakiti; ma il Signore li aveva distrutti davanti agli Ammon iti che li avevano scacciati e si erano stabiliti al loro posto. Allo stesso modo il Signore aveva fatt o per i figli di Esaù che abitano in Seir quando distrusse gli Urriti davanti a loro; essi li scacciaron o e si stabilirono al loro posto e vi sono rimasti fino ad oggi. Anche gli Avviti che dimoravano in v illaggi fino a Gaza furono distrutti dai Caftoriti usciti da Caftor i quali si stabilirono al loro posto.
“Alzatevi levate l’accampamento e attraversate il torrente Arnon; ecco io metto in tuo potere Si con l’Amorreo re di Chesbon e la sua terra; comincia a prenderne possesso e muovigli guerra. D
a quest’oggi comincerò a incutere paura e terrore di te nei popoli che sono sotto tutti i cieli così che all’udire la tua fama tremeranno e saranno presi da spavento dinanzi a te”. Allora mandai m essaggeri dal deserto di Kedemòt a Sicon re di Chesbon con parole di pace per dirgli: “Lasciami passare nella tua terra; io camminerò per la strada maestra senza volgermi né a destra né a sini stra. Tu mi venderai per denaro le vettovaglie che mangerò e mi darai per denaro l’acqua che b errò permettimi solo il transito, come mi hanno permesso i figli di Esaù che abitano in Seir e i M
oabiti che abitano ad Ar finché io abbia passato il Giordano verso la terra che il Signore nostro D
io sta per darci”. Ma Sicon re di Chesbon non volle lasciarci passare perché il Signore, tuo Dio gli aveva reso inflessibile lo spirito e ostinato il cuore per metterlo nelle tue mani come appunto è oggi. Il Signore mi disse: “Vedi ho cominciato a mettere in tuo potere Sicon e la sua terra; da’ ini zio alla conquista impadronendoti della sua terra”. Allora Sicon uscì contro di noi con tutta la su a gente per darci battaglia a Iaas. Il Signore nostro Dio ce lo consegnò e noi sconfiggemmo lui i s uoi figli e tutta la sua gente. In quel tempo prendemmo tutte le sue città e votammo allo stermi
nio ogni città, uomini donne e bambini; non vi lasciammo alcun superstite. Soltanto prelevamm o per noi come preda il bestiame e le spoglie delle città che avevamo preso. Da Aroèr che è sull a riva del torrente Arnon e dalla città che è nella valle fino a Gàlaad non ci fu città che fosse inac cessibile per noi: il Signore nostro Dio le mise tutte in nostro potere. Ma non ti avvicinasti alla te rra degli Ammoniti a tutta la riva del torrente Iabbok alle città delle montagne a tutti i luoghi ch e il Signore nostro Dio ci aveva proibito. Poi piegammo e salimmo per la via di Basan. Og re di B
asan con tutta la sua gente ci venne incontro per darci battaglia a Edrei. Il Signore mi disse: “No n lo temere perché io lo do in tuo potere lui tutta la sua gente e il suo territorio; trattalo come h ai trattato Sicon re degli Amorrei che abitava a Chesbon”. Così il Signore nostro Dio mise in nost ro potere anche Og re di Basan con tutta la sua gente; noi lo sconfiggemmo così che non gli rim ase più superstite alcuno. Gli prendemmo in quel tempo tutte le sue città non ci fu città che noi non prendessimo loro: sessanta città tutta la regione di Argob il regno di Og in Basan –
tutte queste città erano fortificate con alte mura porte e sbarre –
senza contare le città aperte che erano molto numerose. Noi le votammo allo sterminio come a vevamo fatto con Sicon re di Chesbon: votammo allo sterminio ogni città uomini donne e bambi ni. Ma prelevammo per noi come preda il bestiame e le spoglie delle città. In quel tempo prend emmo ai due re degli Amorrei la terra che è oltre il Giordano dal torrente Arnon al monte Ermo n – quelli di Sidone chiamano Sirion l’Ermon mentre gli Amorrei lo chiamano Senir –
tutte le città della pianura tutto Gàlaad tutto Basan fino a Salca e a Edrei città del regno di Og i n Basan. Perché Og re di Basan era rimasto l’unico superstite dei Refaìm. Ecco, il suo letto un let to di ferro non è forse a Rabbà degli Ammoniti? è lungo nove cubiti e largo quattro secondo il c ubito di un uomo. In quel tempo prendemmo possesso di questa terra da Aroèr sul torrente Arn on fino a metà della montagna di Gàlaad: diedi le sue città ai Rubeniti e ai Gaditi. Alla metà dell a tribù di Manasse diedi il resto di Gàlaad e tutto il regno di Og in Basan tutta la regione di Argo b con tutto Basan che si chiamava terra dei Refaìm. Iair figlio di Manasse prese tutta la regione di Argob sino ai confini dei Ghesuriti e dei Maacatiti e chiamò con il suo nome i villaggi di Basan che anche oggi si chiamano villaggi di Iair. A Machir assegnai Gàlaad. Ai Rubeniti e ai Gaditi diedi da Gàlaad fino al torrente Arnon – fino alla metà del torrente che serve di confine –
e fino al torrente Iabbok frontiera degli Ammoniti inoltre l’Araba e il Giordano; il territorio va d a Chinneret fino al mare dell’Araba cioè il Mar Morto sotto le pendici del Pisga a oriente. In quel tempo io vi diedi quest’ordine: “Il Signore vostro Dio vi ha dato questo paese in proprietà. Voi t utti uomini vigorosi passerete armati alla testa degli Israeliti vostri fratelli. Soltanto le vostre mo gli i vostri fanciulli e il vostro bestiame – so che di bestiame ne avete molto –
rimarranno nelle città che vi ho dato finché il Signore abbia dato una dimora tranquilla ai vostri fratelli come ha fatto per voi e prendano anch’essi possesso della terra che il Signore vostro Dio sta per dare a loro oltre il Giordano. Poi ciascuno tornerà nel territorio che io vi ho assegnato”.
In quel tempo diedi anche a Giosuè quest’ordine: “I tuoi occhi hanno visto quanto il Signore vos tro Dio ha fatto a questi due re; lo stesso farà il Signore a tutti i regni nei quali tu stai per entrar
e. Non li temete perché lo stesso Signore vostro Dio, combatte per voi”. In quel tempo io suppli cai il Signore dicendo: “Signore Dio tu hai cominciato a mostrare al tuo servo la tua grandezza e la tua mano potente; quale altro Dio infatti in cielo o sulla terra può fare opere e prodigi come i tuoi? Permetti che io passi al di là e veda la bella terra che è oltre il Giordano e questi bei monti e il Libano”. Ma il Signore si adirò contro di me per causa vostra e non mi esaudì. Il Signore mi di sse: “Basta non aggiungere più una parola su questo argomento. Sali sulla cima del Pisga volgi lo sguardo a occidente a settentrione a mezzogiorno e a oriente e contempla con gli occhi; perché tu non attraverserai questo Giordano. Trasmetti i tuoi ordini a Giosuè rendilo intrepido e incora ggialo perché lui lo attraverserà alla testa di questo popolo e metterà Israele in possesso della t erra che vedrai”. Così ci fermammo nella valle di fronte a Bet-Peor. Ora Israele ascolta le leggi e le norme che io vi insegno affinché le mettiate in pratica perc hé viviate ed entriate in possesso della terra che il Signore Dio dei vostri padri sta per darvi. Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla; ma osserverete i comandi del Signore vostro Dio che io vi prescrivo. I vostri occhi videro ciò che il Signore fece a Baal-Peor: come il Signore tuo Dio abbia sterminato in mezzo a te quanti avevano seguito Baal-Peor; ma voi che vi manteneste fedeli al Signore vostro Dio siete oggi tutti in vita. Vedete io vi h o insegnato leggi e norme come il Signore mio Dio mi ha ordinato perché le mettiate in pratica nella terra in cui state per entrare per prenderne possesso. Le osserverete dunque e le metteret e in pratica perché quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli i qu ali udendo parlare di tutte queste leggi diranno: “Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente”. Infatti quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé come il Signore nostro Dio è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo? E quale grande nazione ha leggi e norme giuste com e è tutta questa legislazione che io oggi vi do? Ma bada a te e guardati bene dal dimenticare le c ose che i tuoi occhi hanno visto non ti sfuggano dal cuore per tutto il tempo della tua vita: le ins egnerai anche ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli. Il giorno in cui sei comparso davanti al Signore tu o Dio sull’Oreb il Signore mi disse: “Radunami il popolo e io farò loro udire le mie parole perché imparino a temermi per tutti i giorni della loro vita sulla terra e le insegnino ai loro figli”. Voi vi a vvicinaste e vi fermaste ai piedi del monte; il monte ardeva con il fuoco che si innalzava fino alla sommità del cielo fra tenebre nuvole e oscurità. Il Signore vi parlò dal fuoco; voi udivate il suon o delle parole ma non vedevate alcuna figura: vi era soltanto una voce. Egli vi annunciò la sua al leanza che vi comandò di osservare cioè le dieci parole e le scrisse su due tavole di pietra. In qu ella circostanza il Signore mi ordinò di insegnarvi leggi e norme perché voi le metteste in pratica nella terra in cui state per entrare per prenderne possesso. State bene in guardia per la vostra v ita: poiché non vedeste alcuna figura quando il Signore vi parlò sull’Oreb dal fuoco non vi corro mpete dunque e non fatevi l’immagine scolpita di qualche idolo la figura di maschio o di femmi na la figura di qualunque animale che è sopra la terra la figura di un uccello che vola nei cieli la f igura di una bestia che striscia sul suolo la figura di un pesce che vive nelle acque sotto la terra.
Quando alzi gli occhi al cielo e vedi il sole la luna le stelle e tutto l’esercito del cielo tu non lascia
rti indurre a prostrarti davanti a quelle cose e a servirle; cose che il Signore tuo Dio ha dato in so rte a tutti i popoli che sono sotto tutti i cieli. Voi invece il Signore vi ha presi vi ha fatti uscire dal crogiuolo di ferro dall’Egitto perché foste per lui come popolo di sua proprietà quale oggi siete.
Il Signore si adirò contro di me per causa vostra e giurò che io non avrei attraversato il Giordano e non sarei entrato nella buona terra che il Signore tuo Dio sta per darti in eredità. Difatti io mo rirò in questa terra senza attraversare il Giordano; ma voi lo attraverserete e possederete quell a buona terra. Guardatevi dal dimenticare l’alleanza che il Signore vostro Dio ha stabilito con vo i e dal farvi alcuna immagine scolpita di qualunque cosa riguardo alla quale il Signore tuo Dio ti ha dato un comando perché il Signore tuo Dio è fuoco divoratore un Dio geloso. Quando avrete generato figli e nipoti e sarete invecchiati nella terra se vi corromperete, se vi farete un’immagi ne scolpita di qualunque cosa se farete ciò che è male agli occhi del Signore tuo Dio per irritarlo io chiamo oggi a testimone contro di voi il cielo e la terra: voi certo scomparirete presto dalla te rra in cui state per entrare per prenderne possesso attraversando il Giordano. Voi non vi rimarr ete lunghi giorni ma sarete tutti sterminati. Il Signore vi disperderà fra i popoli e non resterete c he un piccolo numero fra le nazioni dove il Signore vi condurrà. Là servirete a dèi fatti da mano d’uomo di legno e di pietra i quali non vedono non mangiano non odorano. Ma di là cercherai il Signore, tuo Dio e lo troverai se lo cercherai con tutto il cuore e con tutta l’anima. Nella tua disp erazione tutte queste cose ti accadranno; negli ultimi giorni però tornerai al Signore tuo Dio e a scolterai la sua voce poiché il Signore tuo Dio è un Dio misericordioso, non ti abbandonerà e no n ti distruggerà non dimenticherà l’alleanza che ha giurato ai tuoi padri. Interroga pure i tempi a ntichi che furono prima di te: dal giorno in cui Dio creò l’uomo sulla terra e da un’estremità all’a ltra dei cieli vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un po polo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco come l’hai udita tu e che rimanesse vivo? O ha mai tentato un dio di andare a scegliersi una nazione in mezzo a un’altra con prove segni prodig i e battaglie con mano potente e braccio teso e grandi terrori come fece per voi il Signore vostro Dio in Egitto, sotto i tuoi occhi? Tu sei stato fatto spettatore di queste cose perché tu sappia ch e il Signore è Dio e che non ve n’è altri fuori di lui. Dal cielo ti ha fatto udire la sua voce per educ arti; sulla terra ti ha mostrato il suo grande fuoco e tu hai udito le sue parole che venivano dal f uoco. Poiché ha amato i tuoi padri ha scelto la loro discendenza dopo di loro e ti ha fatto uscire dall’Egitto con la sua presenza e con la sua grande potenza, scacciando dinanzi a te nazioni più g randi e più potenti di te facendoti entrare nella loro terra e dandotene il possesso com’è oggi. S
appi dunque oggi e medita bene nel tuo cuore che il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra: non ve n’è altro. Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi che oggi ti do, perché sia fe lice tu e i tuoi figli dopo di te e perché tu resti a lungo nel paese che il Signore, tuo Dio ti dà per sempre». In quel tempo Mosè scelse tre città oltre il Giordano a oriente, perché servissero di asi lo all’omicida che avesse ucciso il suo prossimo involontariamente senza averlo odiato prima pe rché potesse aver salva la vita rifugiandosi in una di quelle città. Esse furono Beser nel deserto s ull’altopiano per i Rubeniti, Ramot in Gàlaad per i Gaditi e Golan in Basan per i Manassiti. Quest
a è la legge che Mosè espose agli Israeliti. Queste sono le istruzioni le leggi e le norme che Mosè diede agli Israeliti quando furono usciti dall’Egitto oltre il Giordano nella valle di fronte a Bet-Peor nella terra di Sicon, re degli Amorrei che abitava a Chesbon e che Mosè e gli Israeliti sconfi ssero quando furono usciti dall’Egitto. Essi avevano preso possesso della terra di lui e del paese di Og re di Basan – due re Amorrei che stavano oltre il Giordano a oriente –
da Aroèr che è sulla riva del torrente Arnon fino al monte Sirion cioè l’Ermon, con tutta l’Araba oltre il Giordano a oriente fino al mare dell’Araba sotto le pendici del Pisga. Mosè convocò tutto Israele e disse loro: «Ascolta Israele le leggi e le norme che oggi io proclamo ai vostri orecchi: i mparatele e custoditele per metterle in pratica. Il Signore nostro Dio ha stabilito con noi un’alle anza sull’Oreb. Il Signore non ha stabilito quest’alleanza con i nostri padri ma con noi che siamo qui oggi tutti vivi. Il Signore sul monte vi ha parlato dal fuoco faccia a faccia, mentre io stavo tra il Signore e voi per riferirvi la parola del Signore perché voi avevate paura di quel fuoco e non er avate saliti sul monte. Egli disse: “Io sono il Signore tuo Dio che ti ho fatto uscire dalla terra d’Eg itto dalla condizione servile. Non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alc una di quanto è lassù nel cielo né di quanto è quaggiù sulla terra né di quanto è nelle acque sott o la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io il Signore tuo Dio, sono un Dio geloso che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione per col oro che mi odiano ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni per quelli che mi aman o e osservano i miei comandamenti. Non pronuncerai invano il nome del Signore tuo Dio perch é il Signore non lascia impunito chi pronuncia il suo nome invano. Osserva il giorno del sabato p er santificarlo come il Signore tuo Dio ti ha comandato. Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavor o; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore tuo Dio: non farai alcun lavoro né tu né t uo figlio, né tua figlia né il tuo schiavo né la tua schiava né il tuo bue né il tuo asino né il tuo bes tiame né il forestiero che dimora presso di te perché il tuo schiavo e la tua schiava si riposino co me te. Ricòrdati che sei stato schiavo nella terra d’Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscir e di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno del sabato. Onora tuo padre e tua madre come il Signore tuo Dio ti ha comandato perché si prol unghino i tuoi giorni e tu sia felice nel paese che il Signore tuo Dio ti dà. Non ucciderai. Non com metterai adulterio. Non ruberai. Non pronuncerai testimonianza menzognera contro il tuo pros simo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo. Non bramerai la casa del tuo prossimo né il s uo campo né il suo schiavo né la sua schiava né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che ap partenga al tuo prossimo”. Sul monte il Signore disse con voce possente queste parole a tutta la vostra assemblea in mezzo al fuoco alla nube e all’oscurità. Non aggiunse altro. Le scrisse su du e tavole di pietra e me le diede. Quando udiste la voce in mezzo alle tenebre mentre il monte er a tutto in fiamme i vostri capitribù e i vostri anziani si avvicinarono tutti a me e dissero: “Ecco il Signore nostro Dio ci ha mostrato la sua gloria e la sua grandezza e noi abbiamo udito la sua voc e dal fuoco; oggi abbiamo visto che Dio può parlare con l’uomo e l’uomo restare vivo. Ma ora p erché dovremmo morire? Questo grande fuoco infatti ci consumerà. Se continuiamo a udire anc
ora la voce del Signore nostro Dio moriremo. Chi infatti tra tutti i mortali ha udito come noi la v oce del Dio vivente parlare dal fuoco ed è rimasto vivo? Accòstati tu e ascolta tutto ciò che il Sig nore nostro Dio dirà. Tu ci riferirai tutto ciò che il Signore nostro Dio ti avrà detto: noi lo ascolte remo e lo faremo”. Il Signore udì il suono delle vostre parole mentre mi parlavate e mi disse: “H
o udito le parole che questo popolo ti ha rivolto. Tutto ciò che hanno detto va bene. Oh se aves sero sempre un tal cuore da temermi e da osservare tutti i miei comandi per essere felici loro e i loro figli per sempre! Va’ e di’ loro: Tornate alle vostre tende. Ma tu resta qui con me e io ti de tterò tutti i comandi tutte le leggi e le norme che dovrai insegnare loro perché le mettano in pra tica nella terra che io sto per dare loro in possesso”. Abbiate cura perciò di fare come il Signore vostro Dio vi ha comandato. Non deviate né a destra né a sinistra; camminate in tutto e per tutt o per la via che il Signore vostro Dio vi ha prescritto perché viviate e siate felici e rimaniate a lun go nella terra di cui avrete il possesso. Questi sono i comandi le leggi e le norme che il Signore v ostro Dio ha ordinato di insegnarvi perché li mettiate in pratica nella terra in cui state per entrar e per prenderne possesso; perché tu tema il Signore tuo Dio osservando per tutti i giorni della t ua vita tu, il tuo figlio e il figlio del tuo figlio tutte le sue leggi e tutti i suoi comandi che io ti do e così si prolunghino i tuoi giorni. Ascolta o Israele e bada di metterli in pratica perché tu sia felice e diventiate molto numerosi nella terra dove scorrono latte e miele come il Signore Dio dei tuoi padri ti ha detto. Ascolta Israele: il Signore è il nostro Dio unico è il Signore. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do ti stiano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli ne parlerai quando ti troverai in casa tua quando ca mminerai per via quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segn o ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue po rte. Quando il Signore tuo Dio ti avrà fatto entrare nella terra che ai tuoi padri Abramo Isacco e Giacobbe aveva giurato di darti con città grandi e belle che tu non hai edificato, case piene di og ni bene che tu non hai riempito cisterne scavate ma non da te vigne e oliveti che tu non hai pian tato quando avrai mangiato e ti sarai saziato guàrdati dal dimenticare il Signore che ti ha fatto u scire dalla terra d’Egitto dalla condizione servile. Temerai il Signore tuo Dio lo servirai e giurerai per il suo nome. Non seguirete altri dèi divinità dei popoli che vi staranno attorno, perché il Sign ore tuo Dio che sta in mezzo a te è un Dio geloso; altrimenti l’ira del Signore tuo Dio si accender à contro di te e ti farà scomparire dalla faccia della terra. Non tenterete il Signore vostro Dio co me lo tentaste a Massa. Osserverete diligentemente i comandi del Signore vostro Dio le istruzio ni e le leggi che ti ha date. Farai ciò che è giusto e buono agli occhi del Signore perché tu sia felic e ed entri in possesso della buona terra che il Signore giurò ai tuoi padri di darti, dopo che egli a vrà scacciato tutti i tuoi nemici davanti a te come il Signore ha promesso. Quando in avvenire tu o figlio ti domanderà: “Che cosa significano queste istruzioni queste leggi e queste norme che il Signore nostro Dio vi ha dato?” tu risponderai a tuo figlio: “Eravamo schiavi del faraone in Egitt o e il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente. Il Signore operò sotto i nostri occhi seg ni e prodigi grandi e terribili contro l’Egitto contro il faraone e contro tutta la sua casa. Ci fece u
scire di là per condurci nella terra che aveva giurato ai nostri padri di darci. Allora il Signore ci or dinò di mettere in pratica tutte queste leggi temendo il Signore nostro Dio così da essere sempr e felici ed essere conservati in vita come appunto siamo oggi. La giustizia consisterà per noi nel mettere in pratica tutti questi comandi, davanti al Signore nostro Dio come ci ha ordinato”. Qua ndo il Signore tuo Dio ti avrà introdotto nella terra in cui stai per entrare per prenderne possess o e avrà scacciato davanti a te molte nazioni: gli Ittiti i Gergesei gli Amorrei i Cananei i Perizziti gl i Evei e i Gebusei sette nazioni più grandi e più potenti di te, quando il Signore tuo Dio le avrà m esse in tuo potere e tu le avrai sconfitte tu le voterai allo sterminio. Con esse non stringerai alcu na alleanza e nei loro confronti non avrai pietà. Non costituirai legami di parentela con loro non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli perché allontanerebbero la tua discendenza dal seguire me per farli servire a dèi stranieri e l’ira del Signore si accendere bbe contro di voi e ben presto vi distruggerebbe. Ma con loro vi comporterete in questo modo: demolirete i loro altari spezzerete le loro stele taglierete i loro pali sacri brucerete i loro idoli nel fuoco. Tu infatti sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio: il Signore tuo Dio ti ha scelto per e ssere il suo popolo particolare fra tutti i popoli che sono sulla terra. Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli –
siete infatti il più piccolo di tutti i popoli –
, ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri: il Signore vi ha fatti uscire con mano potente e vi ha riscattati liberandovi dalla condizione servile dalla mano del faraone re d’Egitto. Riconosci dunque il Signore tuo Dio: egli è Dio il Dio fedele c he mantiene l’alleanza e la bontà per mille generazioni con coloro che lo amano e osservano i s uoi comandamenti ma ripaga direttamente coloro che lo odiano, facendoli perire; non concede una dilazione a chi lo odia ma lo ripaga direttamente. Osserverai dunque mettendoli in pratica i comandi le leggi e le norme che oggi ti prescrivo. Se avrete dato ascolto a queste norme e se le avrete osservate e messe in pratica, il Signore tuo Dio conserverà per te l’alleanza e la bontà ch e ha giurato ai tuoi padri. Egli ti amerà ti benedirà ti moltiplicherà benedirà il frutto del tuo seno e il frutto del tuo suolo: il tuo frumento il tuo mosto e il tuo olio i parti delle tue vacche e i nati del tuo gregge nel paese che ha giurato ai tuoi padri di darti. Tu sarai benedetto più di tutti i po poli: non sarà sterile né il maschio né la femmina in mezzo a te e neppure in mezzo al tuo bestia me. Il Signore allontanerà da te ogni infermità e non manderà su di te alcuna di quelle funeste malattie d’Egitto che ben conoscesti ma le manderà a quanti ti odiano. Sterminerai dunque tutti i popoli che il Signore tuo Dio sta per consegnarti. Il tuo occhio non ne abbia compassione e no n servire i loro dèi perché ciò è una trappola per te. Forse dirai in cuor tuo: “Queste nazioni son o più numerose di me; come potrò scacciarle?”. Non temerle! Ricòrdati di quello che il Signore t uo Dio fece al faraone e a tutti gli Egiziani: le grandi prove che hai visto con gli occhi i segni i pro digi la mano potente e il braccio teso con cui il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire. Così farà il Sign ore tuo Dio a tutti i popoli dei quali hai timore. Anche i calabroni manderà contro di loro il Signo re tuo Dio finché non siano periti quelli che saranno rimasti illesi o nascosti al tuo sguardo. Non
tremare davanti a loro perché il Signore tuo Dio è in mezzo a te Dio grande e terribile. Il Signore tuo Dio scaccerà a poco a poco queste nazioni dinanzi a te: tu non le potrai distruggere in fretta altrimenti le bestie selvatiche si moltiplicherebbero a tuo danno; ma il Signore tuo Dio le metter à in tuo potere e le getterà in grande spavento finché siano distrutte. Ti metterà nelle mani i lor o re e tu farai perire i loro nomi sotto il cielo; nessuno potrà resisterti finché tu le abbia distrutt e. Darai alle fiamme le sculture dei loro dèi. Non bramerai e non prenderai per te l’argento e l’o ro che le ricopre altrimenti ne resteresti come preso in trappola perché sono un abominio per il Signore tuo Dio. Non introdurrai un abominio in casa tua perché sarai come esso votato allo ste rminio. Lo detesterai e lo avrai in abominio perché è votato allo sterminio. Abbiate cura di mett ere in pratica tutti i comandi che oggi vi do perché viviate, diveniate numerosi ed entriate in pos sesso della terra che il Signore ha giurato di dare ai vostri padri. Ricòrdati di tutto il cammino ch e il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto per umiliarti e mett erti alla prova per sapere quello che avevi nel cuore se tu avresti osservato o no i suoi comandi.
Egli dunque ti ha umiliato ti ha fatto provare la fame poi ti ha nutrito di manna che tu non cono scevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto per farti capire che l’uomo non vive soltant o di pane ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. Il tuo mantello non ti si è l ogorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni. Riconosci dunque in cuor tuo che come un uomo corregge il figlio così il Signore tuo Dio corregge te. Osserva i co mandi del Signore tuo Dio camminando nelle sue vie e temendolo, perché il Signore tuo Dio sta per farti entrare in una buona terra: terra di torrenti di fonti e di acque sotterranee che scaturis cono nella pianura e sulla montagna; terra di frumento di orzo di viti di fichi e di melograni; terr a di ulivi di olio e di miele; terra dove non mangerai con scarsità il pane dove non ti mancherà n ulla; terra dove le pietre sono ferro e dai cui monti scaverai il rame. Mangerai sarai sazio e bene dirai il Signore tuo Dio a causa della buona terra che ti avrà dato. Guàrdati bene dal dimenticare il Signore tuo Dio così da non osservare i suoi comandi le sue norme e le sue leggi che oggi io ti prescrivo. Quando avrai mangiato e ti sarai saziato quando avrai costruito belle case e vi avrai a bitato quando avrai visto il tuo bestiame grosso e minuto moltiplicarsi accrescersi il tuo argento e il tuo oro e abbondare ogni tua cosa, il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare i l Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto dalla condizione servile; che ti ha cond otto per questo deserto grande e spaventoso luogo di serpenti velenosi e di scorpioni terra asse tata senz’acqua; che ha fatto sgorgare per te l’acqua dalla roccia durissima; che nel deserto ti h a nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri per umiliarti e per provarti per farti felice nel tuo av venire. Guàrdati dunque dal dire nel tuo cuore: “La mia forza e la potenza della mia mano mi ha nno acquistato queste ricchezze”. Ricòrdati invece del Signore tuo Dio perché egli ti dà la forza per acquistare ricchezze al fine di mantenere come fa oggi, l’alleanza che ha giurato ai tuoi padr i. Ma se tu dimenticherai il Signore tuo Dio e seguirai altri dèi e li servirai e ti prostrerai davanti a loro io attesto oggi contro di voi che certo perirete! Perirete come le nazioni che il Signore sta per far perire davanti a voi se non avrete dato ascolto alla voce del Signore vostro Dio. Ascolta I
sraele! Oggi tu stai per attraversare il Giordano per andare a conquistare nazioni più grandi e pi ù potenti di te città grandi e fortificate fino al cielo, un popolo grande e alto di statura i figli degl i Anakiti che tu conosci e dei quali hai sentito dire: “Chi mai può resistere ai figli di Anak?”. Sapp i dunque oggi che il Signore tuo Dio passerà davanti a te come fuoco divoratore li distruggerà e l i abbatterà davanti a te. Tu li scaccerai e li distruggerai rapidamente come il Signore ti ha detto.
Quando il Signore tuo Dio li avrà scacciati davanti a te non pensare: “A causa della mia giustizia i l Signore mi ha fatto entrare in possesso di questa terra”. è invece per la malvagità di queste na zioni che il Signore le scaccia davanti a te. No tu non entri in possesso della loro terra a causa de lla tua giustizia né a causa della rettitudine del tuo cuore; ma il Signore tuo Dio scaccia quelle na zioni davanti a te per la loro malvagità e per mantenere la parola che il Signore ha giurato ai tuo i padri ad Abramo a Isacco e a Giacobbe. Sappi dunque che non a causa della tua giustizia il Sign ore tuo Dio ti dà il possesso di questa buona terra; anzi tu sei un popolo di dura cervice. Ricòrda ti non dimenticare come hai provocato all’ira il Signore tuo Dio nel deserto. Da quando usciste d alla terra d’Egitto fino al vostro arrivo in questo luogo siete stati ribelli al Signore. All’Oreb prov ocaste l’ira del Signore; il Signore si adirò contro di voi fino a volere la vostra distruzione. Quand o io salii sul monte a prendere le tavole di pietra le tavole dell’alleanza che il Signore aveva stabi lito con voi rimasi sul monte quaranta giorni e quaranta notti senza mangiare pane né bere acq ua. Il Signore mi diede le due tavole di pietra scritte dal dito di Dio sulle quali stavano tutte le pa role che il Signore vi aveva detto sul monte in mezzo al fuoco il giorno dell’assemblea. Alla fine dei quaranta giorni e delle quaranta notti il Signore mi diede le due tavole di pietra le tavole dell
’alleanza. Poi il Signore mi disse: “àlzati scendi in fretta di qui perché il tuo popolo che hai fatto uscire dall’Egitto si è traviato; si sono presto allontanati dalla via che io avevo loro indicata: si so no fatti un idolo di metallo fuso”. Il Signore mi aggiunse: “Io ho visto questo popolo; ecco è un p opolo di dura cervice. Lasciami fare: io li distruggerò e cancellerò il loro nome sotto i cieli e farò di te una nazione più potente e più grande di loro”. Così io mi volsi e scesi dal monte. Il monte b ruciava nelle fiamme. Le due tavole dell’alleanza erano nelle mie mani. Guardai ed ecco avevate peccato contro il Signore vostro Dio. Avevate fatto per voi un vitello di metallo fuso: avevate be n presto lasciato la via che il Signore vi aveva prescritto. Allora afferrai le due tavole, le gettai co n le mie mani le spezzai sotto i vostri occhi e mi prostrai davanti al Signore. Come avevo fatto la prima volta per quaranta giorni e per quaranta notti non mangiai pane né bevvi acqua a causa d el grande peccato che avevate commesso facendo ciò che è male agli occhi del Signore per prov ocarlo. Io avevo paura di fronte all’ira e al furore di cui il Signore era acceso contro di voi al punt o di volervi distruggere. Ma il Signore mi esaudì anche quella volta. Anche contro Aronne il Sign ore si era fortemente adirato al punto di volerlo far perire. In quell’occasione io pregai anche pe r Aronne. Poi presi l’oggetto del vostro peccato il vitello che avevate fatto lo bruciai nel fuoco lo feci a pezzi frantumandolo finché fosse ridotto in polvere e buttai quella polvere nel torrente c he scende dal monte. Anche a Taberà a Massa e a Kibrot-Taavà voi provocaste il Signore. Quando il Signore volle farvi partire da Kades-
Barnea dicendo: “Entrate e prendete in possesso la terra che vi do” voi vi ribellaste all’ordine de l Signore vostro Dio non aveste fede in lui e non obbediste alla sua voce. Siete stati ribelli al Sign ore da quando vi ho conosciuto. Io stetti prostrato davanti al Signore per quaranta giorni e per quaranta notti, perché il Signore aveva minacciato di distruggervi. Pregai il Signore e dissi: “Sign ore Dio non distruggere il tuo popolo la tua eredità che hai riscattato nella tua grandezza, che h ai fatto uscire dall’Egitto con mano potente. Ricòrdati dei tuoi servi Abramo Isacco e Giacobbe; non guardare alla caparbietà di questo popolo e alla sua malvagità e al suo peccato perché la te rra da dove ci hai fatto uscire non dica: Poiché il Signore non era in grado di introdurli nella terr a che aveva loro promesso e poiché li odiava li ha fatti uscire di qui per farli morire nel deserto.
Al contrario essi sono il tuo popolo la tua eredità che tu hai fatto uscire dall’Egitto con grande p otenza e con il tuo braccio teso”. In quel tempo il Signore mi disse: “Tàgliati due tavole di pietra simili alle prime e sali da me sul monte. Costruisci anche un’arca di legno. Io scriverò su quelle t avole le parole che erano sulle prime che tu hai spezzato e tu le metterai nell’arca”. Io feci dunq ue un’arca di legno d’acacia e tagliai due tavole di pietra simili alle prime; poi salii sul monte con le due tavole in mano. Il Signore scrisse su quelle tavole come era stato scritto la prima volta ci oè le dieci parole che il Signore aveva promulgato per voi sul monte in mezzo al fuoco il giorno dell’assemblea. Il Signore me le consegnò. Allora mi voltai scesi dal monte e collocai le tavole ne ll’arca che avevo fatto. Là restarono come il Signore mi aveva ordinato. Poi gli Israeliti partirono dai pozzi di Bene-Iaakàn per Moserà. Là morì Aronne e là fu sepolto. Al suo posto divenne sacerdote suo figlio Ele àzaro. Di là partirono alla volta di Gudgoda e da Gudgoda alla volta di Iotbata terra ricca di torre nti d’acqua. In quel tempo il Signore prescelse la tribù di Levi per portare l’arca dell’alleanza del Signore per stare davanti al Signore per servirlo e per benedire nel suo nome come avviene fino ad oggi. Perciò Levi non ha parte né eredità con i suoi fratelli: il Signore è la sua eredità come gl i aveva detto il Signore tuo Dio. Io ero rimasto sul monte come la prima volta quaranta giorni e quaranta notti. Il Signore mi esaudì anche questa volta: il Signore non ha voluto distruggerti. Poi il Signore mi disse: “àlzati mettiti in cammino alla testa del tuo popolo: entrino nella terra che g iurai ai loro padri di dare loro e ne prendano possesso”. Ora Israele che cosa ti chiede il Signore tuo Dio se non che tu tema il Signore tuo Dio, che tu cammini per tutte le sue vie che tu lo ami c he tu serva il Signore tuo Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima che tu osservi i comandi del S
ignore e le sue leggi che oggi ti do per il tuo bene? Ecco al Signore tuo Dio appartengono i cieli i cieli dei cieli la terra e quanto essa contiene. Ma il Signore predilesse soltanto i tuoi padri li amò e dopo di loro ha scelto fra tutti i popoli la loro discendenza cioè voi come avviene oggi. Circonc idete dunque il vostro cuore ostinato e non indurite più la vostra cervice; perché il Signore vostr o Dio è il Dio degli dèi il Signore dei signori il Dio grande forte e terribile che non usa parzialità e non accetta regali, rende giustizia all’orfano e alla vedova ama il forestiero e gli dà pane e vestit o. Amate dunque il forestiero perché anche voi foste forestieri nella terra d’Egitto. Temi il Signo re tuo Dio servilo restagli fedele e giura nel suo nome. Egli è la tua lode egli è il tuo Dio che ha fa
tto per te quelle cose grandi e tremende che i tuoi occhi hanno visto. I tuoi padri scesero in Egitt o in numero di settanta persone; ora il Signore tuo Dio ti ha reso numeroso come le stelle del ci elo. Ama dunque il Signore tuo Dio e osserva ogni giorno le sue prescrizioni: le sue leggi le sue n orme e i suoi comandi. Oggi voi –
non parlo ai vostri figli che non hanno conosciuto né hanno visto le lezioni del Signore vostro Di o –
riconoscete la sua grandezza la sua mano potente il suo braccio teso i suoi portenti le opere ch e ha fatto in mezzo all’Egitto contro il faraone re d’Egitto e contro la sua terra; ciò che ha fatto a ll’esercito d’Egitto ai suoi cavalli e ai suoi carri come ha fatto rifluire su di loro le acque del Mar Rosso quando essi vi inseguivano e come il Signore li ha distrutti per sempre; ciò che ha fatto pe r voi nel deserto fino al vostro arrivo in questo luogo; ciò che ha fatto a Datan e ad Abiràm figli di Eliàb figlio di Ruben, quando la terra spalancò la bocca e li inghiottì con le loro famiglie le loro tende e quanto a loro apparteneva in mezzo a tutto Israele. Davvero i vostri occhi hanno visto l e grandi cose che il Signore ha operato. Osserverete dunque tutti i comandi che oggi vi do perch é siate forti e possiate conquistare la terra che state per invadere al fine di possederla e perché restiate a lungo nel paese che il Signore ha giurato di dare ai vostri padri e alla loro discendenza
: terra dove scorrono latte e miele. Certamente la terra in cui stai per entrare per prenderne po ssesso non è come la terra d’Egitto da cui siete usciti e dove gettavi il tuo seme e poi lo irrigavi c on il tuo piede come fosse un orto di erbaggi; ma la terra che andate a prendere in possesso è u na terra di monti e di valli beve l’acqua della pioggia che viene dal cielo: è una terra della quale i l Signore tuo Dio ha cura e sulla quale si posano sempre gli occhi del Signore tuo Dio dal principi o dell’anno sino alla fine. Ora se obbedirete diligentemente ai comandi che oggi vi do amando il Signore vostro Dio e servendolo con tutto il cuore e con tutta l’anima io darò alla vostra terra la pioggia al suo tempo: la pioggia d’autunno e la pioggia di primavera perché tu possa raccoglier e il tuo frumento il tuo vino e il tuo olio. Darò anche erba al tuo campo per il tuo bestiame. Tu mangerai e ti sazierai. State in guardia perché il vostro cuore non si lasci sedurre e voi vi allonta niate servendo dèi stranieri e prostrandovi davanti a loro. Allora si accenderebbe contro di voi l’
ira del Signore ed egli chiuderebbe il cielo non vi sarebbe più pioggia il suolo non darebbe più i s uoi prodotti e voi perireste ben presto scomparendo dalla buona terra che il Signore sta per dar vi. Porrete dunque nel cuore e nell’anima queste mie parole; ve le legherete alla mano come un segno e le terrete come un pendaglio tra gli occhi; le insegnerete ai vostri figli, parlandone qua ndo sarai seduto in casa tua e quando camminerai per via quando ti coricherai e quando ti alzer ai; le scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte, perché siano numerosi i vostri giorni e i giorni dei vostri figli come i giorni del cielo sopra la terra nel paese che il Signore ha giurato ai v ostri padri di dare loro. Certamente se osserverete con impegno tutti questi comandi che vi do e li metterete in pratica amando il Signore vostro Dio camminando in tutte le sue vie e tenendo vi uniti a lui, il Signore scaccerà dinanzi a voi tutte quelle nazioni e voi v’impadronirete di nazion i più grandi e più potenti di voi. Ogni luogo che la pianta del vostro piede calcherà sarà vostro: i
vostri confini si estenderanno dal deserto al Libano dal fiume il fiume Eufrate al mare occidental e. Nessuno potrà resistere a voi; il Signore vostro Dio come vi ha detto diffonderà la paura e il t errore di voi su tutta la terra che voi calpesterete. Vedete io pongo oggi davanti a voi benedizio ne e maledizione: la benedizione se obbedirete ai comandi del Signore vostro Dio che oggi vi do
; la maledizione se non obbedirete ai comandi del Signore vostro Dio e se vi allontanerete dalla via che oggi vi prescrivo per seguire dèi stranieri che voi non avete conosciuto. Quando il Signor e tuo Dio ti avrà introdotto nella terra in cui stai per entrare per prenderne possesso tu porrai la benedizione sul monte Garizìm e la maledizione sul monte Ebal. Questi monti non si trovano fo rse oltre il Giordano oltre la via verso occidente nella terra dei Cananei che abitano l’Araba di fr onte a Gàlgala presso le Querce di Morè? Voi di fatto state per attraversare il Giordano per pre ndere possesso della terra che il Signore vostro Dio vi dà: voi la possederete e l’abiterete. Avret e cura di mettere in pratica tutte le leggi e le norme che oggi io pongo dinanzi a voi. Queste son o le leggi e le norme che avrete cura di mettere in pratica nella terra che il Signore Dio dei tuoi p adri ti dà perché tu la possegga finché vivrete nel paese. Distruggerete completamente tutti i lu oghi dove le nazioni che state per scacciare servono i loro dèi: sugli alti monti sui colli e sotto og ni albero verde. Demolirete i loro altari spezzerete le loro stele taglierete i loro pali sacri brucer ete nel fuoco le statue dei loro dèi e cancellerete il loro nome da quei luoghi. Non farete così co n il Signore vostro Dio ma lo cercherete nella sua dimora nel luogo che il Signore vostro Dio avrà scelto fra tutte le vostre tribù per stabilirvi il suo nome: là andrete. Là presenterete i vostri oloc austi e i vostri sacrifici le vostre decime quello che le vostre mani avranno prelevato le vostre of ferte votive e le vostre offerte spontanee e i primogeniti del vostro bestiame grosso e minuto; mangerete davanti al Signore vostro Dio e gioirete voi e le vostre famiglie per ogni opera riuscit a delle vostre mani e di cui il Signore vostro Dio vi avrà benedetti. Non farete come facciamo og gi qui dove ognuno fa quanto gli sembra bene, perché ancora non siete giunti al luogo del ripos o e nel possesso che il Signore, vostro Dio sta per darvi. Ma quando avrete attraversato il Giord ano e abiterete nella terra che il Signore vostro Dio vi dà in eredità ed egli vi avrà messo al sicur o da tutti i vostri nemici che vi circondano e abiterete tranquilli allora porterete al luogo che il Si gnore vostro Dio avrà scelto per fissarvi la sede del suo nome quanto vi comando: i vostri oloca usti e i vostri sacrifici le vostre decime quello che le vostre mani avranno prelevato e tutte le off erte scelte che avrete promesso come voto al Signore. Gioirete davanti al Signore vostro Dio voi i vostri figli le vostre figlie i vostri schiavi le vostre schiave e il levita che abiterà le vostre città p erché non ha né parte né eredità in mezzo a voi. Guàrdati bene dall’offrire i tuoi olocausti in qu alunque luogo avrai visto. Offrirai invece i tuoi olocausti nel luogo che il Signore avrà scelto in u na delle tue tribù: là farai quanto ti comando. Ogni volta però che ne sentirai desiderio potrai uc cidere animali e mangiarne la carne in tutte le tue città secondo la benedizione che il Signore ti avrà elargito. Ne potranno mangiare sia l’impuro che il puro come si fa della carne di gazzella e di cervo. Non ne mangerete però il sangue: lo spargerai per terra come acqua. Non potrai mang iare entro le tue città le decime del tuo frumento del tuo mosto del tuo olio né i primogeniti del
tuo bestiame grosso e minuto né ciò che avrai consacrato per voto né le tue offerte spontanee né quello che le tue mani avranno prelevato. Davanti al Signore tuo Dio, nel luogo che il Signore tuo Dio avrà scelto mangerai tali cose tu il tuo figlio la tua figlia il tuo schiavo la tua schiava e il l evita che abiterà le tue città gioirai davanti al Signore tuo Dio di ogni cosa a cui avrai messo man o. Guàrdati bene finché vivrai nel tuo paese dall’abbandonare il levita. Quando il Signore tuo Di o avrà allargato i tuoi confini come ti ha promesso e tu desiderando mangiare la carne dirai: “Vo rrei mangiare la carne” potrai mangiare carne a tuo piacere. Se il luogo che il Signore tuo Dio, av rà scelto per stabilirvi il suo nome sarà lontano da te potrai ammazzare bestiame grosso e minu to che il Signore ti avrà dato come ti ho prescritto. Potrai mangiare entro le tue città a tuo piace re. Soltanto ne mangerete come si mangia la carne di gazzella e di cervo; ne potrà mangiare chi sarà impuro e chi sarà puro. Astieniti tuttavia dal mangiare il sangue perché il sangue è la vita; t u non devi mangiare la vita insieme con la carne. Non lo mangerai. Lo spargerai per terra come l
’acqua. Non lo mangerai perché sia felice tu e i tuoi figli dopo di te: così avrai fatto ciò che è rett o agli occhi del Signore. Ma quanto alle cose che avrai consacrato o promesso in voto le prende rai e andrai al luogo che il Signore avrà scelto e offrirai i tuoi olocausti, la carne e il sangue sull’al tare del Signore tuo Dio. Il sangue delle altre tue vittime dovrà essere sparso sull’altare del Sign ore tuo Dio e tu ne mangerai la carne. Osserva e obbedisci a tutte queste cose che ti comando p erché sia sempre felice tu e i tuoi figli dopo di te, quando avrai fatto ciò che è buono e retto agli occhi del Signore tuo Dio. Quando il Signore tuo Dio avrà distrutto davanti a te le nazioni di cui t u stai per prendere possesso quando le avrai conquistate e ti sarai stanziato nella loro terra, guà rdati bene dal lasciarti ingannare seguendo il loro esempio dopo che saranno state distrutte dav anti a te e dal cercare i loro dèi dicendo: “Come servivano i loro dèi queste nazioni? Voglio fare così anch’io”. Non ti comporterai in tal modo riguardo al Signore tuo Dio; perché esse facevano per i loro dèi ciò che è abominevole per il Signore e ciò che egli detesta: bruciavano nel fuoco p erfino i loro figli e le loro figlie in onore dei loro dèi. Osserverete per metterlo in pratica tutto ci ò che vi comando: non vi aggiungerai nulla e nulla vi toglierai. Qualora sorga in mezzo a te un pr ofeta o un sognatore che ti proponga un segno o un prodigio, e il segno e il prodigio annunciato succeda ed egli ti dica: “Seguiamo dèi stranieri che tu non hai mai conosciuto e serviamoli” tu n on dovrai ascoltare le parole di quel profeta o di quel sognatore perché il Signore vostro Dio vi mette alla prova per sapere se amate il Signore vostro Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima.
Seguirete il Signore vostro Dio temerete lui osserverete i suoi comandi ascolterete la sua voce l o servirete e gli resterete fedeli. Quanto a quel profeta o a quel sognatore egli dovrà essere mes so a morte perché ha proposto di abbandonare il Signore vostro Dio che vi ha fatto uscire dalla t erra d’Egitto e ti ha riscattato dalla condizione servile per trascinarti fuori della via per la quale il Signore tuo Dio ti ha ordinato di camminare. Così estirperai il male in mezzo a te. Qualora il tuo fratello figlio di tuo padre o figlio di tua madre o il figlio o la figlia o la moglie che riposa sul tuo petto o l’amico che è come te stesso t’istighi in segreto, dicendo: “Andiamo serviamo altri dèi”
dèi che né tu né i tuoi padri avete conosciuto divinità dei popoli che vi circondano vicini a te o d
a te lontani da un’estremità all’altra della terra tu non dargli retta non ascoltarlo. Il tuo occhio n on ne abbia compassione: non risparmiarlo non coprire la sua colpa. Tu anzi devi ucciderlo: la tu a mano sia la prima contro di lui per metterlo a morte; poi sarà la mano di tutto il popolo. Lapid alo e muoia perché ha cercato di trascinarti lontano dal Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal la terra d’Egitto dalla condizione servile. Tutto Israele verrà a saperlo ne avrà timore e non com metterà in mezzo a te una tale azione malvagia. Qualora tu senta dire di una delle tue città che i l Signore tuo Dio ti dà per abitarvi che uomini iniqui sono usciti in mezzo a te e hanno sedotto gl i abitanti della loro città dicendo: “Andiamo serviamo altri dèi” dèi che voi non avete mai conos ciuto tu farai le indagini investigherai interrogherai con cura. Se troverai che la cosa è vera che il fatto sussiste e che un tale abominio è stato realmente commesso in mezzo a te, allora dovrai passare a fil di spada gli abitanti di quella città la dovrai votare allo sterminio con quanto contie ne e dovrai passare a fil di spada anche il suo bestiame. Poi radunerai tutto il bottino in mezzo a lla piazza e brucerai nel fuoco la città e l’intero suo bottino sacrificio per il Signore tuo Dio. Dive nterà una rovina per sempre e non sarà più ricostruita. Nulla di ciò che sarà votato allo stermini o si attaccherà alla tua mano perché il Signore desista dalla sua ira ardente ti conceda misericor dia abbia misericordia di te e ti moltiplichi come ha giurato ai tuoi padri. Così tu ascolterai la voc e del Signore tuo Dio: osservando tutti i suoi comandi che oggi ti do e facendo ciò che è retto ag li occhi del Signore tuo Dio. Voi siete figli per il Signore vostro Dio: non vi farete incisioni e non v i raderete tra gli occhi per un morto. Tu sei infatti un popolo consacrato al Signore tuo Dio e il Si gnore ti ha scelto per essere il suo popolo particolare fra tutti i popoli che sono sulla terra. Non mangerai alcuna cosa abominevole. Questi sono gli animali che potrete mangiare: il bue la peco ra e la capra; il cervo la gazzella il capriolo lo stambecco, l’antilope il bufalo e il camoscio. Potret e mangiare di ogni quadrupede che ha l’unghia bipartita divisa in due da una fessura e che rumi na. Ma non mangerete quelli che ruminano soltanto o che hanno soltanto l’unghia bipartita divi sa da una fessura: il cammello la lepre, l’iràce che ruminano ma non hanno l’unghia bipartita. C
onsiderateli impuri. Anche il porco che ha l’unghia bipartita ma non rumina per voi è impuro. N
on mangerete la loro carne e non toccherete i loro cadaveri. Fra tutti gli animali che vivono nell e acque potrete mangiare quelli che hanno pinne e squame; ma non mangerete nessuno di que lli che non hanno pinne e squame. Considerateli impuri. Potrete mangiare qualunque uccello pu ro ma delle seguenti specie non dovete mangiare: l’aquila l’avvoltoio e l’aquila di mare il nibbio e ogni specie di falco ogni specie di corvo lo struzzo la civetta il gabbiano e ogni specie di sparvi ero il gufo l’ibis il cigno il pellicano la fòlaga l’alcione la cicogna ogni specie di airone, l’ù pupa e i l pipistrello. Considererete come impuro ogni insetto alato. Non ne mangiate. Potrete mangiare ogni uccello puro. Non mangerete alcuna bestia che sia morta di morte naturale; la darai al for estiero che risiede nelle tue città perché la mangi o la venderai a qualche straniero perché tu sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio. Non farai cuocere un capretto nel latte di sua madre.
Dovrai prelevare la decima da tutto il frutto della tua semente che il campo produce ogni anno.
Mangerai davanti al Signore tuo Dio nel luogo dove avrà scelto di stabilire il suo nome la decima del tuo frumento del tuo mosto del tuo olio e i primi parti del tuo bestiame grosso e minuto pe rché tu impari a temere sempre il Signore tuo Dio. Ma se il cammino è troppo lungo per te e tu non puoi trasportare quelle decime perché è troppo lontano da te il luogo dove il Signore tuo Di o avrà scelto di stabilire il suo nome – perché il Signore, tuo Dio ti avrà benedetto.

ZARA Semantic EU Solemn JUN 2021

RABBLE. XXIX. THE
TARANTULAS. XXX. THE
FAMOUS WISE ONES. XXXI. THE
NIGHT-SONG. XXXII. THE
DANCE-SONG. XXXIII. THE
GRAVE-SONG. XXXIV. SELF-SURPASSING.
XXXV. THE SUBLIME
ONES. XXXVI. THE
LAND OF CULTURE. XXXVII. IMMACULATE
PERCEPTION. XXXVIII. SCHOLARS.
XXXIX. POETS.
XL. GREAT EVENTS.
XLI. THE SOOTHSAYER.
XLII. REDEMPTION.
XLIII. MANLY PRUDENCE.
XLIV. THE STILLEST HOUR.
THIRD PART.
XLV. THE WANDERER.
XLVI. THE VISION
AND THE ENIGMA. XLVII. INVOLUNTARY
BLISS. XLVIII. BEFORE
SUNRISE. XLIX. THE
BEDWARFING VIRTUE. L. ON
THE OLIVE-MOUNT. LI. ON
PASSING-BY. LII. THE
APOSTATES. LIII. THE
RETURN HOME. LIV. THE
THREE EVIL THINGS. LV. THE
SPIRIT OF GRAVITY. LVI. OLD
AND NEW TABLES. LVII. THE
CONVALESCENT. LVIII. THE
GREAT LONGING. LIX. THE
SECOND DANCE-SONG. LX. THE
SEVEN SEALS. FOURTH AND
LAST PART. LXI. THE HONEY SACRIFICE.
LXII. THE CRY OF DISTRESS.
LXIII. TALK WITH
THE KINGS. LXIV. THE
LEECH. LXV. THE
MAGICIAN. LXVI. OUT
OF SERVICE. LXVII. THE
UGLIEST MAN. LXVIII. THE
VOLUNTARY BEGGAR. LXIX. THE
SHADOW. LXX. NOONTIDE.
LXXI. THE GREETING.
LXXII. THE SUPPER.
LXXIII. THE HIGHER
MAN. LXXIV. THE
SONG OF MELANCHOLY. LXXV. SCIENCE.
LXXVI. AMONG
DAUGHTERS OF THE DESERT. LXXVII.
THE AWAKENING.
LXXVIII. THE ASS-FESTIVAL. LXXIX. THE DRUNKEN SONG.
LXXX. THE SIGN.
APPENDIX.
NOTES ON “THUS SPAKE ZARATHUSTRA” BY ANTHONY M.
LUDOVICI.
PART I. THE PROLOGUE.
Chapter I. The Three Metamorphoses.
Chapter II. The Academic Chairs of Virtue.
Chapter IV. The Despisers of the Body.
Chapter IX. The Preachers of Death.
Chapter XV. The Thousand and One Goals.
Chapter XVIII. Old and Young Women.
Chapter XXI. Voluntary Death.
Chapter XXII. The Bestowing Virtue.
PART II.
Chapter XXIII. The Child with the Mirror.
Chapter XXIV. In the Happy Isles.
Chapter XXIX. The Tarantulas.
Chapter XXX. The Famous Wise Ones.
Chapter XXXIII. The Grave-Song.
Chapter XXXIV. Self-Surpassing.
Chapter XXXV. The Sublime Ones.
Chapter XXXVI. The Land of Culture.
Chapter XXXVII. Immaculate Perception.
Chapter XXXVIII. Scholars.
Chapter XXXIX. Poets.
Chapter XL. Great Events.
Chapter XLI. The Soothsayer.
Chapter XLII. Redemption.
Chapter XLIII. Manly Prudence.
Chapter XLIV. The Stillest Hour.
PART III.
Chapter XLVI. The Vision and the Enigma.
Chapter XLVII. Involuntary Bliss.
Chapter XLVIII. Before Sunrise.
Chapter XLIX. The Bedwarfing Virtue.
Chapter LI. On Passing-by.
Chapter LII. The Apostates.
Chapter LIII. The Return Home.
Chapter LIV. The Three Evil Things.
Chapter LV. The Spirit of Gravity.
Chapter LVI. Old and New Tables. Par. 2.
Chapter LVII. The Convalescent.
Chapter LX. The Seven Seals.
PART IV.
Chapter LXI. The Honey Sacrifice.
Chapter LXII. The Cry of Distress.
Chapter LXIII. Talk with the Kings.
Chapter LXIV. The Leech.
Chapter LXV. The Magician.
Chapter LXVI. Out of Service.
Chapter LXVII. The Ugliest Man.
Chapter LXVIII. The Voluntary Beggar.
Chapter LXIX. The Shadow.
Chapter LXX. Noontide.
Chapter LXXI. The Greeting.
Chapter LXXII. The Supper.
Chapter LXXIII. The Higher Man. Par. 1.
Chapter LXXIV. The Song of Melancholy.
Chapter LXXV. Science.
Chapter LXXVI. Among the Daughters of the
Desert.
Chapter LXXVII. The Awakening.
Chapter LXXVIII. The Ass-Festival.
Chapter LXXIX. The Drunken Song.
Chapter LXXX. The Sign.
INTRODUCTION BY MRS FORSTER-NIETZSCHE.
HOW ZARATHUSTRA CAME INTO BEING.
“Zarathustra” is my brother’s most personal work; it is the history of his most individual experiences, of his friendships, ideals, raptures, bitterest disappointments and sorrows. Above it all, however, there soars, transfiguring it, the image of his greatest hopes and remotest aims. My brother had the figure of Zarathustra in his mind from his very earliest youth: he once told me that even as a child he had dreamt of him. At different periods in his life, he would call this haunter of his dreams by different names; “but in the end,” he declares in a note on the subject,
“I had to do a PERSIAN the honour of identifying him with this creature of my fancy. Persians were the first to take a broad and comprehensive view
of history. Every series of evolutions, according to them, was presided over by a prophet; and every prophet had his ‘Hazar,’—his dynasty of a thousand years.”
All Zarathustra’s views, as also his personality, were early conceptions of my brother’s mind. Whoever reads his posthumously published writings for the years 1869-82 with care, will constantly meet with passages suggestive of Zarathustra’s thoughts and doctrines. For instance, the ideal of the Superman is put forth quite clearly in all his writings during the years 1873-75; and in “We Philologists”, the following remarkable observations occur:—
“How can one praise and glorify a nation as a whole?—Even among the Greeks, it was the INDIVIDUALS that counted.”
“The Greeks are interesting and extremely important because they reared such a vast number of great individuals. How was this possible? The question is one which ought to be studied.
“I am interested only in the relations of a people to the rearing of the individual man, and among the Greeks the conditions were unusually favourable for the development of the individual; not by any means owing to the goodness of the people, but because of the struggles of their evil instincts.
“WITH THE HELP OF FAVOURABLE MEASURES GREAT INDIVIDUALS MIGHT BE REARED
WHO WOULD BE BOTH DIFFERENT FROM AND HIGHER THAN THOSE WHO HERETOFORE HAVE
OWED THEIR EXISTENCE TO MERE CHANCE. Here we may still be hopeful: in the rearing of exceptional men.”
The notion of rearing the Superman is only a new form of an ideal Nietzsche already had in his youth, that “THE OBJECT OF MANKIND SHOULD LIE
IN ITS HIGHEST INDIVIDUALS” (or, as he writes in “Schopenhauer as Educator”: “Mankind ought constantly to be striving to produce great men—this and nothing else is its duty.”) But the ideals he most revered in those days are no longer held to be the highest types of men. No, around this future ideal of a coming humanity—the Superman—the poet spread the veil of becoming. Who can tell to what glorious heights man can still ascend? That is why, after having tested the worth of our noblest ideal—that of the Saviour, in the light of the new valuations, the poet cries with passionate emphasis in “Zarathustra”:
“Never yet hath there been a Superman. Naked have I seen both of them, the greatest and the smallest man:—
All-too-similar are they still to each other. Verily even the greatest found I—all-too-human!”—
The phrase “the rearing of the Superman,” has very often been misunderstood. By the word “rearing,” in this case, is meant the act of modifying by means of new and higher values—values which, as laws and guides of conduct and opinion, are now to rule over mankind. In general the doctrine of the Superman can only be understood correctly in conjunction with other ideas of the author’s, such as:—the Order of Rank, the Will to Power, and the Transvaluation of all Values. He assumes that Christianity, as a product of the resentment of the botched and the weak, has put in ban all that is beautiful, strong, proud, and powerful, in fact all the qualities resulting from strength, and that, in consequence, all forces which tend to promote or elevate life have been seriously undermined. Now, however, a new table of valuations must be placed over mankind—namely, that of the strong, mighty, and magnificent man, overflowing with life and elevated to his zenith—the Superman, who is now put before us with overpowering passion as the aim of our life, hope, and will. And just as the old system of valuing, which only extolled the qualities favourable to the weak, the suffering, and the oppressed, has succeeded in producing a weak, suffering, and “modern”
race, so this new and reversed system of valuing ought to rear a healthy, strong, lively, and courageous type, which would be a glory to life itself. Stated briefly, the leading principle of this new system of valuing would be: “All that proceeds from power is good, all that springs from weakness is bad.”
This type must not be regarded as a fanciful figure: it is not a nebulous hope which is to be realised at some indefinitely remote period, thousands of years hence; nor is it a new species (in the Darwinian sense) of which
we can know nothing, and which it would therefore be somewhat absurd to strive after. But it is meant to be a possibility which men of the present could realise with all their spiritual and physical energies, provided they adopted the new values.
The author of “Zarathustra” never lost sight of that egregious example of a transvaluation of all values through Christianity, whereby the whole of the deified mode of life and thought of the Greeks, as well as strong Romedom, was almost annihilated or transvalued in a comparatively short time. Could not a rejuvenated Graeco-Roman system of valuing (once it had been refined and made more profound by the schooling which two thousand years of Christianity had provided) effect another such revolution within a calculable period of time, until that glorious type of manhood shall finally appear which is to be our new faith and hope, and in the creation of which Zarathustra exhorts us to participate?
In his private notes on the subject the author uses the expression
“Superman” (always in the singular, by-the-bye), as signifying “the most thoroughly well-constituted type,” as opposed to “modern man”; above all, however, he designates Zarathustra himself as an example of the Superman.
In “Ecco Homo” he is careful to enlighten us concerning the precursors and prerequisites to the advent of this highest type, in referring to a certain passage in the “Gay Science”:—
“In order to understand this type, we must first be quite clear in regard to the leading physiological condition on which it depends: this condition is what I call GREAT HEALTHINESS. I know not how to express my meaning more plainly or more personally than I have done already in one of the last chapters (Aphorism 382) of the fifth book of the ‘Gaya Scienza’.”
“We, the new, the nameless, the hard-to-understand,”—it says there,—“we firstlings of a yet untried future—we require for a new end also a new means, namely, a new healthiness, stronger, sharper, tougher, bolder and merrier than all healthiness hitherto. He whose soul longeth to experience the whole range of hitherto recognised values and desirabilities, and to circumnavigate all the coasts of this ideal
‘Mediterranean Sea’, who, from the adventures of his most personal experience, wants to know how it feels to be a conqueror, and discoverer of the ideal—as likewise how it is with the artist, the saint, the legislator, the sage, the scholar, the devotee, the prophet, and the godly non-conformist of the old style:—requires one thing above all for that purpose, GREAT HEALTHINESS—such healthiness as one not only possesses, but also constantly acquires and must acquire, because one unceasingly sacrifices it again, and must sacrifice it!—And now, after having been long on the way in this fashion, we Argonauts of the ideal, more courageous perhaps than prudent, and often enough shipwrecked and brought to grief, nevertheless dangerously healthy, always healthy again,—it would seem as if, in recompense for it all, that we have a still undiscovered country before us, the boundaries of which no one has yet seen, a beyond to all countries and corners of the ideal known hitherto, a world so over-rich in the beautiful, the strange, the questionable, the frightful, and the divine, that our curiosity as well as our thirst for possession thereof, have got out of hand—alas! that nothing will now any longer satisfy us!—
“How could we still be content with THE MAN OF THE PRESENT DAY after such outlooks, and with such a craving in our conscience and consciousness? Sad enough; but it is unavoidable that we should look on the worthiest aims and hopes of the man of the present day with ill-concealed amusement, and perhaps should no longer look at them. Another ideal runs on before us, a strange, tempting ideal full of danger, to which we should not like to persuade any one, because we do not so readily acknowledge any one’s RIGHT
THERETO: the ideal of a spirit who plays naively (that is to say involuntarily and from overflowing abundance and power) with everything that has hitherto been called holy, good, intangible, or divine; to whom the loftiest conception which the people have reasonably made their measure of value, would already practically imply danger, ruin, abasement, or at least relaxation, blindness, or temporary self-forgetfulness; the ideal of a humanly superhuman welfare and benevolence, which will often enough appear INHUMAN, for example, when put alongside of all past
seriousness on earth, and alongside of all past solemnities in bearing, word, tone, look, morality, and pursuit, as their truest involuntary parody—and WITH which, nevertheless, perhaps THE GREAT SERIOUSNESS
only commences, when the proper interrogative mark is set up, the fate of the soul changes, the hour-hand moves, and tragedy begins…”
Although the figure of Zarathustra and a large number of the leading thoughts in this work had appeared much earlier in the dreams and writings of the author, “Thus Spake Zarathustra” did not actually come into being until the month of August 1881 in Sils Maria; and it was the idea of the Eternal Recurrence of all things which finally induced my brother to set forth his new views in poetic language. In regard to his first conception of this idea, his autobiographical sketch, “Ecce Homo”, written in the autumn of 1888, contains the following passage:—
“The fundamental idea of my work—namely, the Eternal Recurrence of all things—this highest of all possible formulae of a Yea-saying philosophy, first occurred to me in August 1881. I made a note of the thought on a sheet of paper, with the postscript: 6,000 feet beyond men and time! That day I happened to be wandering through the woods alongside of the lake of Silvaplana, and I halted beside a huge, pyramidal and towering rock not far from Surlei. It was then that the thought struck me.
Looking back now, I find that exactly two months previous to this inspiration, I had had an omen of its coming in the form of a sudden and decisive alteration in my tastes—more particularly in music. It would even be possible to consider all ‘Zarathustra’ as a musical composition. At all events, a very necessary condition in its production was a renaissance in myself of the art of hearing. In a small mountain resort (Recoaro) near Vicenza, where I spent the spring of 1881, I and my friend and Maestro, Peter Gast—also one who had been born again—discovered that the phoenix music that hovered over us, wore lighter and brighter plumes than it had done theretofore.”
During the month of August 1881 my brother resolved to reveal the teaching of the Eternal Recurrence, in dithyrambic and psalmodic form, through the mouth of Zarathustra. Among the notes of this period, we found a page on which is written the first definite plan of “Thus Spake Zarathustra”:—
“MIDDAY AND ETERNITY.” “GUIDE-POSTS TO A NEW WAY OF LIVING.”
Beneath this is written:—
“Zarathustra born on lake Urmi; left his home in his thirtieth year, went into the province of Aria, and, during ten years of solitude in the mountains, composed the Zend-Avesta.”
“The sun of knowledge stands once more at midday; and the serpent of eternity lies coiled in its light—: It is YOUR time, ye midday brethren.”
In that summer of 1881, my brother, after many years of steadily declining health, began at last to rally, and it is to this first gush of the recovery of his once splendid bodily condition that we owe not only “The Gay Science”, which in its mood may be regarded as a prelude to
“Zarathustra”, but also “Zarathustra” itself. Just as he was beginning to recuperate his health, however, an unkind destiny brought him a number of most painful personal experiences. His friends caused him many disappointments, which were the more bitter to him, inasmuch as he regarded friendship as such a sacred institution; and for the first time in his life he realised the whole horror of that loneliness to which, perhaps, all greatness is condemned. But to be forsaken is something very different from deliberately choosing blessed loneliness. How he longed, in those days, for the ideal friend who would thoroughly understand him, to whom he would be able to say all, and whom he imagined he had found at various periods in his life from his earliest youth onwards. Now, however, that the way he had chosen grew ever more perilous and steep, he found nobody who could follow him: he therefore created a perfect friend for himself in the ideal form of a majestic philosopher, and made this creation the preacher of his gospel to the world.
Whether my brother would ever have written “Thus Spake Zarathustra”
according to the first plan sketched in the summer of 1881, if he had not had the disappointments already referred to, is now an idle question; but perhaps where “Zarathustra” is concerned, we may also say with Master
Eckhardt: “The fleetest beast to bear you to perfection is suffering.”
My brother writes as follows about the origin of the first part of
“Zarathustra”:—“In the winter of 1882-83, I was living on the charming little Gulf of Rapallo, not far from Genoa, and between Chiavari and Cape Porto Fino. My health was not very good; the winter was cold and exceptionally rainy; and the small inn in which I lived was so close to the water that at night my sleep would be disturbed if the sea were high.
These circumstances were surely the very reverse of favourable; and yet in spite of it all, and as if in demonstration of my belief that everything decisive comes to life in spite of every obstacle, it was precisely during this winter and in the midst of these unfavourable circumstances that my
‘Zarathustra’ originated. In the morning I used to start out in a southerly direction up the glorious road to Zoagli, which rises aloft through a forest of pines and gives one a view far out into the sea. In the afternoon, as often as my health permitted, I walked round the whole bay from Santa Margherita to beyond Porto Fino. This spot was all the more interesting to me, inasmuch as it was so dearly loved by the Emperor Frederick III. In the autumn of 1886 I chanced to be there again when he was revisiting this small, forgotten world of happiness for the last time.
It was on these two roads that all ‘Zarathustra’ came to me, above all Zarathustra himself as a type;—I ought rather to say that it was on these walks that these ideas waylaid me.”
The first part of “Zarathustra” was written in about ten days—that is to say, from the beginning to about the middle of February 1883. “The last lines were written precisely in the hallowed hour when Richard Wagner gave up the ghost in Venice.”
With the exception of the ten days occupied in composing the first part of this book, my brother often referred to this winter as the hardest and sickliest he had ever experienced. He did not, however, mean thereby that his former disorders were troubling him, but that he was suffering from a severe attack of influenza which he had caught in Santa Margherita, and which tormented him for several weeks after his arrival in Genoa. As a matter of fact, however, what he complained of most was his spiritual condition—that indescribable forsakenness—to which he gives such heartrending expression in “Zarathustra”. Even the reception which the first part met with at the hands of friends and acquaintances was extremely disheartening: for almost all those to whom he presented copies of the work misunderstood it. “I found no one ripe for many of my thoughts; the case of ‘Zarathustra’ proves that one can speak with the utmost clearness, and yet not be heard by any one.” My brother was very much discouraged by the feebleness of the response he was given, and as he was striving just then to give up the practice of taking hydrate of chloral—a drug he had begun to take while ill with influenza,—the following spring, spent in Rome, was a somewhat gloomy one for him. He writes about it as follows:—“I spent a melancholy spring in Rome, where I only just managed to live,—and this was no easy matter. This city, which is absolutely unsuited to the poet-author of ‘Zarathustra’, and for the choice of which I was not responsible, made me inordinately miserable. I tried to leave it. I wanted to go to Aquila—the opposite of Rome in every respect, and actually founded in a spirit of enmity towards that city (just as I also shall found a city some day), as a memento of an atheist and genuine enemy of the Church—a person very closely related to me,—the great Hohenstaufen, the Emperor Frederick II. But Fate lay behind it all: I had to return again to Rome.
In the end I was obliged to be satisfied with the Piazza Barberini, after I had exerted myself in vain to find an anti-Christian quarter. I fear that on one occasion, to avoid bad smells as much as possible, I actually inquired at the Palazzo del Quirinale whether they could not provide a quiet room for a philosopher. In a chamber high above the Piazza just mentioned, from which one obtained a general view of Rome and could hear the fountains plashing far below, the loneliest of all songs was composed—‘The Night-Song’. About this time I was obsessed by an unspeakably sad melody, the refrain of which I recognised in the words, ‘dead through immortality.’”
We remained somewhat too long in Rome that spring, and what with the
effect of the increasing heat and the discouraging circumstances already described, my brother resolved not to write any more, or in any case, not to proceed with “Zarathustra”, although I offered to relieve him of all trouble in connection with the proofs and the publisher. When, however, we returned to Switzerland towards the end of June, and he found himself once more in the familiar and exhilarating air of the mountains, all his joyous creative powers revived, and in a note to me announcing the dispatch of some manuscript, he wrote as follows: “I have engaged a place here for three months: forsooth, I am the greatest fool to allow my courage to be sapped from me by the climate of Italy. Now and again I am troubled by the thought: WHAT NEXT? My ‘future’ is the darkest thing in the world to me, but as there still remains a great deal for me to do, I suppose I ought rather to think of doing this than of my future, and leave the rest to THEE and the gods.”
The second part of “Zarathustra” was written between the 26th of June and the 6th July. “This summer, finding myself once more in the sacred place where the first thought of ‘Zarathustra’ flashed across my mind, I conceived the second part. Ten days sufficed. Neither for the second, the first, nor the third part, have I required a day longer.”
He often used to speak of the ecstatic mood in which he wrote
“Zarathustra”; how in his walks over hill and dale the ideas would crowd into his mind, and how he would note them down hastily in a note-book from which he would transcribe them on his return, sometimes working till midnight. He says in a letter to me: “You can have no idea of the vehemence of such composition,” and in “Ecce Homo” (autumn 1888) he describes as follows with passionate enthusiasm the incomparable mood in which he created Zarathustra:—
“—Has any one at the end of the nineteenth century any distinct notion of what poets of a stronger age understood by the word inspiration?
If not, I will describe it. If one had the smallest vestige of superstition in one, it would hardly be possible to set aside completely the idea that one is the mere incarnation, mouthpiece or medium of an almighty power. The idea of revelation in the sense that something becomes suddenly visible and audible with indescribable certainty and accuracy, which profoundly convulses and upsets one—describes simply the matter of fact. One hears—one does not seek; one takes—one does not ask who gives: a thought suddenly flashes up like lightning, it comes with necessity, unhesitatingly—I have never had any choice in the matter. There is an ecstasy such that the immense strain of it is sometimes relaxed by a flood of tears, along with which one’s steps either rush or involuntarily lag, alternately. There is the feeling that one is completely out of hand, with the very distinct consciousness of an endless number of fine thrills and quiverings to the very toes;—there is a depth of happiness in which the painfullest and gloomiest do not operate as antitheses, but as conditioned, as demanded in the sense of necessary shades of colour in such an overflow of light. There is an instinct for rhythmic relations which embraces wide areas of forms (length, the need of a wide-embracing rhythm, is almost the measure of the force of an inspiration, a sort of counterpart to its pressure and tension).
Everything happens quite involuntarily, as if in a tempestuous outburst of freedom, of absoluteness, of power and divinity. The involuntariness of the figures and similes is the most remarkable thing; one loses all perception of what constitutes the figure and what constitutes the simile; everything seems to present itself as the readiest, the correctest and the simplest means of expression. It actually seems, to use one of Zarathustra’s own phrases, as if all things came unto one, and would fain be similes: ‘Here do all things come caressingly to thy talk and flatter thee, for they want to ride upon thy back. On every simile dost thou here ride to every truth. Here fly open unto thee all being’s words and word-cabinets; here all being wanteth to become words, here all becoming wanteth to learn of thee how to talk.’ This is MY experience of inspiration. I do not doubt but that one would have to go back thousands of years in order to find some one who could say to me: It is mine also!—”
In the autumn of 1883 my brother left the Engadine for Germany and stayed there a few weeks. In the following winter, after wandering somewhat
erratically through Stresa, Genoa, and Spezia, he landed in Nice, where the climate so happily promoted his creative powers that he wrote the third part of “Zarathustra”. “In the winter, beneath the halcyon sky of Nice, which then looked down upon me for the first time in my life, I found the third ‘Zarathustra’—and came to the end of my task; the whole having occupied me scarcely a year. Many hidden corners and heights in the landscapes round about Nice are hallowed to me by unforgettable moments. That decisive chapter entitled ‘Old and New Tables’ was composed in the very difficult ascent from the station to Eza—that wonderful Moorish village in the rocks. My most creative moments were always accompanied by unusual muscular activity. The body is inspired: let us waive the question of the ‘soul.’ I might often have been seen dancing in those days. Without a suggestion of fatigue I could then walk for seven or eight hours on end among the hills. I slept well and laughed well—I was perfectly robust and patient.”
As we have seen, each of the three parts of “Zarathustra” was written, after a more or less short period of preparation, in about ten days. The composition of the fourth part alone was broken by occasional interruptions. The first notes relating to this part were written while he and I were staying together in Zurich in September 1884. In the following November, while staying at Mentone, he began to elaborate these notes, and after a long pause, finished the manuscript at Nice between the end of January and the middle of February 1885. My brother then called this part the fourth and last; but even before, and shortly after it had been privately printed, he wrote to me saying that he still intended writing a fifth and sixth part, and notes relating to these parts are now in my possession. This fourth part (the original MS. of which contains this note: “Only for my friends, not for the public”) is written in a particularly personal spirit, and those few to whom he presented a copy of it, he pledged to the strictest secrecy concerning its contents. He often thought of making this fourth part public also, but doubted whether he would ever be able to do so without considerably altering certain portions of it. At all events he resolved to distribute this manuscript production, of which only forty copies were printed, only among those who had proved themselves worthy of it, and it speaks eloquently of his utter loneliness and need of sympathy in those days, that he had occasion to present only seven copies of his book according to this resolution.
Already at the beginning of this history I hinted at the reasons which led my brother to select a Persian as the incarnation of his ideal of the majestic philosopher. His reasons, however, for choosing Zarathustra of all others to be his mouthpiece, he gives us in the following words:—“People have never asked me, as they should have done, what the name Zarathustra precisely means in my mouth, in the mouth of the first Immoralist; for what distinguishes that philosopher from all others in the past is the very fact that he was exactly the reverse of an immoralist. Zarathustra was the first to see in the struggle between good and evil the essential wheel in the working of things. The translation of morality into the metaphysical, as force, cause, end in itself, was HIS work. But the very question suggests its own answer. Zarathustra CREATED the most portentous error, MORALITY, consequently he should also be the first to PERCEIVE that error, not only because he has had longer and greater experience of the subject than any other thinker—all history is the experimental refutation of the theory of the so-called moral order of things:—the more important point is that Zarathustra was more truthful than any other thinker. In his teaching alone do we meet with truthfulness upheld as the highest virtue—i.e.: the reverse of the COWARDICE of the ‘idealist’
who flees from reality. Zarathustra had more courage in his body than any other thinker before or after him. To tell the truth and TO AIM STRAIGHT: that is the first Persian virtue. Am I understood?… The overcoming of morality through itself—through truthfulness, the overcoming of the moralist through his opposite—THROUGH ME—: that is what the name Zarathustra means in my mouth.”
ELIZABETH FORSTER-NIETZSCHE.
Nietzsche Archives,
Weimar, December 1905.
THUS SPAKE ZARATHUSTRA.
FIRST PART. ZARATHUSTRA’S DISCOURSES.
ZARATHUSTRA’S PROLOGUE.
1.
When Zarathustra was thirty years old, he left his home and the lake of his home, and went into the mountains. There he enjoyed his spirit and solitude, and for ten years did not weary of it. But at last his heart changed,—and rising one morning with the rosy dawn, he went before the sun, and spake thus unto it:
Thou great star! What would be thy happiness if thou hadst not those for whom thou shinest!
For ten years hast thou climbed hither unto my cave: thou wouldst have wearied of thy light and of the journey, had it not been for me, mine eagle, and my serpent.
But we awaited thee every morning, took from thee thine overflow and blessed thee for it.
Lo! I am weary of my wisdom, like the bee that hath gathered too much honey; I need hands outstretched to take it.
I would fain bestow and distribute, until the wise have once more become joyous in their folly, and the poor happy in their riches.
Therefore must I descend into the deep: as thou doest in the evening, when thou goest behind the sea, and givest light also to the nether-world, thou exuberant star!
Like thee must I GO DOWN, as men say, to whom I shall descend.
Bless me, then, thou tranquil eye, that canst behold even the greatest happiness without envy!
Bless the cup that is about to overflow, that the water may flow golden out of it, and carry everywhere the reflection of thy bliss!
Lo! This cup is again going to empty itself, and Zarathustra is again going to be a man.
Thus began Zarathustra’s down-going.
2.
Zarathustra went down the mountain alone, no one meeting him. When he entered the forest, however, there suddenly stood before him an old man, who had left his holy cot to seek roots. And thus spake the old man to Zarathustra:
“No stranger to me is this wanderer: many years ago passed he by.
Zarathustra he was called; but he hath altered.
Then thou carriedst thine ashes into the mountains: wilt thou now carry thy fire into the valleys? Fearest thou not the incendiary’s doom?
Yea, I recognise Zarathustra. Pure is his eye, and no loathing lurketh about his mouth. Goeth he not along like a dancer?
Altered is Zarathustra; a child hath Zarathustra become; an awakened one is Zarathustra: what wilt thou do in the land of the sleepers?
As in the sea hast thou lived in solitude, and it hath borne thee up.
Alas, wilt thou now go ashore? Alas, wilt thou again drag thy body thyself?”
Zarathustra answered: “I love mankind.”
“Why,” said the saint, “did I go into the forest and the desert? Was it not because I loved men far too well?
Now I love God: men, I do not love. Man is a thing too imperfect for me.
Love to man would be fatal to me.”
Zarathustra answered: “What spake I of love! I am bringing gifts unto men.”
“Give them nothing,” said the saint. “Take rather part of their load, and carry it along with them—that will be most agreeable unto them: if only it be agreeable unto thee!
If, however, thou wilt give unto them, give them no more than an alms, and let them also beg for it!”
“No,” replied Zarathustra, “I give no alms. I am not poor enough for that.”
The saint laughed at Zarathustra, and spake thus: “Then see to it that they accept thy treasures! They are distrustful of anchorites, and do not believe that we come with gifts.
The fall of our footsteps ringeth too hollow through their streets. And
just as at night, when they are in bed and hear a man abroad long before sunrise, so they ask themselves concerning us: Where goeth the thief?
Go not to men, but stay in the forest! Go rather to the animals! Why not be like me—a bear amongst bears, a bird amongst birds?”
“And what doeth the saint in the forest?” asked Zarathustra.
The saint answered: “I make hymns and sing them; and in making hymns I laugh and weep and mumble: thus do I praise God.
With singing, weeping, laughing, and mumbling do I praise the God who is my God. But what dost thou bring us as a gift?”
When Zarathustra had heard these words, he bowed to the saint and said:
“What should I have to give thee! Let me rather hurry hence lest I take aught away from thee!”—And thus they parted from one another, the old man and Zarathustra, laughing like schoolboys.
When Zarathustra was alone, however, he said to his heart: “Could it be possible! This old saint in the forest hath not yet heard of it, that GOD
IS DEAD!”
3.
When Zarathustra arrived at the nearest town which adjoineth the forest, he found many people assembled in the market-place; for it had been announced that a rope-dancer would give a performance. And Zarathustra spake thus unto the people:
I TEACH YOU THE SUPERMAN. Man is something that is to be surpassed. What have ye done to surpass man?
All beings hitherto have created something beyond themselves: and ye want to be the ebb of that great tide, and would rather go back to the beast than surpass man?
What is the ape to man? A laughing-stock, a thing of shame. And just the same shall man be to the Superman: a laughing-stock, a thing of shame.
Ye have made your way from the worm to man, and much within you is still worm. Once were ye apes, and even yet man is more of an ape than any of the apes.
Even the wisest among you is only a disharmony and hybrid of plant and phantom. But do I bid you become phantoms or plants?
Lo, I teach you the Superman!
The Superman is the meaning of the earth. Let your will say: The Superman SHALL BE the meaning of the earth!
I conjure you, my brethren, REMAIN TRUE TO THE EARTH, and believe not those who speak unto you of superearthly hopes! Poisoners are they, whether they know it or not.
Despisers of life are they, decaying ones and poisoned ones themselves, of whom the earth is weary: so away with them!
Once blasphemy against God was the greatest blasphemy; but God died, and therewith also those blasphemers. To blaspheme the earth is now the dreadfulest sin, and to rate the heart of the unknowable higher than the meaning of the earth!
Once the soul looked contemptuously on the body, and then that contempt was the supreme thing:—the soul wished the body meagre, ghastly, and famished. Thus it thought to escape from the body and the earth.
Oh, that soul was itself meagre, ghastly, and famished; and cruelty was the delight of that soul!
But ye, also, my brethren, tell me: What doth your body say about your soul? Is your soul not poverty and pollution and wretched self-complacency?
Verily, a polluted stream is man. One must be a sea, to receive a polluted stream without becoming impure.
Lo, I teach you the Superman: he is that sea; in him can your great contempt be submerged.
What is the greatest thing ye can experience? It is the hour of great contempt. The hour in which even your happiness becometh loathsome unto you, and so also your reason and virtue.
The hour when ye say: “What good is my happiness! It is poverty and pollution and wretched self-complacency. But my happiness should justify existence itself!”
The hour when ye say: “What good is my reason! Doth it long for knowledge as the lion for his food? It is poverty and pollution and wretched
self-complacency!”
The hour when ye say: “What good is my virtue! As yet it hath not made me passionate. How weary I am of my good and my bad! It is all poverty and pollution and wretched self-complacency!”
The hour when ye say: “What good is my justice! I do not see that I am fervour and fuel. The just, however, are fervour and fuel!”
The hour when ye say: “What good is my pity! Is not pity the cross on which he is nailed who loveth man? But my pity is not a crucifixion.”
Have ye ever spoken thus? Have ye ever cried thus? Ah! would that I had heard you crying thus!
It is not your sin—it is your self-satisfaction that crieth unto heaven; your very sparingness in sin crieth unto heaven!
Where is the lightning to lick you with its tongue? Where is the frenzy with which ye should be inoculated?
Lo, I teach you the Superman: he is that lightning, he is that frenzy!—
When Zarathustra had thus spoken, one of the people called out: “We have now heard enough of the rope-dancer; it is time now for us to see him!”
And all the people laughed at Zarathustra. But the rope-dancer, who thought the words applied to him, began his performance.
4.
Zarathustra, however, looked at the people and wondered. Then he spake thus:
Man is a rope stretched between the animal and the Superman—a rope over an abyss.
A dangerous crossing, a dangerous wayfaring, a dangerous looking-back, a dangerous trembling and halting.
What is great in man is that he is a bridge and not a goal: what is lovable in man is that he is an OVER-GOING and a DOWN-GOING.
I love those that know not how to live except as down-goers, for they are the over-goers.
I love the great despisers, because they are the great adorers, and arrows of longing for the other shore.
I love those who do not first seek a reason beyond the stars for going down and being sacrifices, but sacrifice themselves to the earth, that the earth of the Superman may hereafter arrive.
I love him who liveth in order to know, and seeketh to know in order that the Superman may hereafter live. Thus seeketh he his own down-going.
I love him who laboureth and inventeth, that he may build the house for the Superman, and prepare for him earth, animal, and plant: for thus seeketh he his own down-going.
I love him who loveth his virtue: for virtue is the will to down-going, and an arrow of longing.
I love him who reserveth no share of spirit for himself, but wanteth to be wholly the spirit of his virtue: thus walketh he as spirit over the bridge.
I love him who maketh his virtue his inclination and destiny: thus, for the sake of his virtue, he is willing to live on, or live no more.
I love him who desireth not too many virtues. One virtue is more of a virtue than two, because it is more of a knot for one’s destiny to cling to.
I love him whose soul is lavish, who wanteth no thanks and doth not give back: for he always bestoweth, and desireth not to keep for himself.
I love him who is ashamed when the dice fall in his favour, and who then asketh: “Am I a dishonest player?”—for he is willing to succumb.
I love him who scattereth golden words in advance of his deeds, and always doeth more than he promiseth: for he seeketh his own down-going.
I love him who justifieth the future ones, and redeemeth the past ones: for he is willing to succumb through the present ones.
I love him who chasteneth his God, because he loveth his God: for he must succumb through the wrath of his God.
I love him whose soul is deep even in the wounding, and may succumb through a small matter: thus goeth he willingly over the bridge.
I love him whose soul is so overfull that he forgetteth himself, and all things are in him: thus all things become his down-going.
I love him who is of a free spirit and a free heart: thus is his head only
the bowels of his heart; his heart, however, causeth his down-going.
I love all who are like heavy drops falling one by one out of the dark cloud that lowereth over man: they herald the coming of the lightning, and succumb as heralds.
Lo, I am a herald of the lightning, and a heavy drop out of the cloud: the lightning, however, is the SUPERMAN.—
5.
When Zarathustra had spoken these words, he again looked at the people, and was silent. “There they stand,” said he to his heart; “there they laugh: they understand me not; I am not the mouth for these ears.
Must one first batter their ears, that they may learn to hear with their eyes? Must one clatter like kettledrums and penitential preachers? Or do they only believe the stammerer?
They have something whereof they are proud. What do they call it, that which maketh them proud? Culture, they call it; it distinguisheth them from the goatherds.
They dislike, therefore, to hear of ‘contempt’ of themselves. So I will appeal to their pride.
I will speak unto them of the most contemptible thing: that, however, is THE LAST MAN!”
And thus spake Zarathustra unto the people:
It is time for man to fix his goal. It is time for man to plant the germ of his highest hope.
Still is his soil rich enough for it. But that soil will one day be poor and exhausted, and no lofty tree will any longer be able to grow thereon.
Alas! there cometh the time when man will no longer launch the arrow of his longing beyond man—and the string of his bow will have unlearned to whizz!
I tell you: one must still have chaos in one, to give birth to a dancing star. I tell you: ye have still chaos in you.
Alas! There cometh the time when man will no longer give birth to any star. Alas! There cometh the time of the most despicable man, who can no longer despise himself.
Lo! I show you THE LAST MAN.
“What is love? What is creation? What is longing? What is a star?”—so asketh the last man and blinketh.
The earth hath then become small, and on it there hoppeth the last man who maketh everything small. His species is ineradicable like that of the ground-flea; the last man liveth longest.
“We have discovered happiness”—say the last men, and blink thereby.
They have left the regions where it is hard to live; for they need warmth.
One still loveth one’s neighbour and rubbeth against him; for one needeth warmth.
Turning ill and being distrustful, they consider sinful: they walk warily.
He is a fool who still stumbleth over stones or men!
A little poison now and then: that maketh pleasant dreams. And much poison at last for a pleasant death.
One still worketh, for work is a pastime. But one is careful lest the pastime should hurt one.
One no longer becometh poor or rich; both are too burdensome. Who still wanteth to rule? Who still wanteth to obey? Both are too burdensome.
No shepherd, and one herd! Every one wanteth the same; every one is equal: he who hath other sentiments goeth voluntarily into the madhouse.
“Formerly all the world was insane,”—say the subtlest of them, and blink thereby.
They are clever and know all that hath happened: so there is no end to their raillery. People still fall out, but are soon reconciled—otherwise it spoileth their stomachs.
They have their little pleasures for the day, and their little pleasures for the night, but they have a regard for health.
“We have discovered happiness,”—say the last men, and blink thereby.—
And here ended the first discourse of Zarathustra, which is also called
“The Prologue”: for at this point the shouting and mirth of the multitude interrupted him. “Give us this last man, O Zarathustra,”—they called out—“make us into these last men! Then will we make thee a present
of the Superman!” And all the people exulted and smacked their lips.
Zarathustra, however, turned sad, and said to his heart:
“They understand me not: I am not the mouth for these ears.
Too long, perhaps, have I lived in the mountains; too much have I hearkened unto the brooks and trees: now do I speak unto them as unto the goatherds.
Calm is my soul, and clear, like the mountains in the morning. But they think me cold, and a mocker with terrible jests.
And now do they look at me and laugh: and while they laugh they hate me too. There is ice in their laughter.”
6.
Then, however, something happened which made every mouth mute and every eye fixed. In the meantime, of course, the rope-dancer had commenced his performance: he had come out at a little door, and was going along the rope which was stretched between two towers, so that it hung above the market-place and the people. When he was just midway across, the little door opened once more, and a gaudily-dressed fellow like a buffoon sprang out, and went rapidly after the first one. “Go on, halt-foot,” cried his frightful voice, “go on, lazy-bones, interloper, sallow-face!—lest I tickle thee with my heel! What dost thou here between the towers? In the tower is the place for thee, thou shouldst be locked up; to one better than thyself thou blockest the way!”—And with every word he came nearer and nearer the first one. When, however, he was but a step behind, there happened the frightful thing which made every mouth mute and every eye fixed—he uttered a yell like a devil, and jumped over the other who was in his way. The latter, however, when he thus saw his rival triumph, lost at the same time his head and his footing on the rope; he threw his pole away, and shot downwards faster than it, like an eddy of arms and legs, into the depth. The market-place and the people were like the sea when the storm cometh on: they all flew apart and in disorder, especially where the body was about to fall.
Zarathustra, however, remained standing, and just beside him fell the body, badly injured and disfigured, but not yet dead. After a while consciousness returned to the shattered man, and he saw Zarathustra kneeling beside him. “What art thou doing there?” said he at last, “I knew long ago that the devil would trip me up. Now he draggeth me to hell: wilt thou prevent him?”
“On mine honour, my friend,” answered Zarathustra, “there is nothing of all that whereof thou speakest: there is no devil and no hell. Thy soul will be dead even sooner than thy body: fear, therefore, nothing any more!”
The man looked up distrustfully. “If thou speakest the truth,” said he, “I lose nothing when I lose my life. I am not much more than an animal which hath been taught to dance by blows and scanty fare.”
“Not at all,” said Zarathustra, “thou hast made danger thy calling; therein there is nothing contemptible. Now thou perishest by thy calling: therefore will I bury thee with mine own hands.”
When Zarathustra had said this the dying one did not reply further; but he moved his hand as if he sought the hand of Zarathustra in gratitude.
7.
Meanwhile the evening came on, and the market-place veiled itself in gloom. Then the people dispersed, for even curiosity and terror become fatigued. Zarathustra, however, still sat beside the dead man on the ground, absorbed in thought: so he forgot the time. But at last it became night, and a cold wind blew upon the lonely one. Then arose Zarathustra and said to his heart:
Verily, a fine catch of fish hath Zarathustra made to-day! It is not a man he hath caught, but a corpse.
Sombre is human life, and as yet without meaning: a buffoon may be fateful to it.
I want to teach men the sense of their existence, which is the Superman, the lightning out of the dark cloud—man.
But still am I far from them, and my sense speaketh not unto their sense.
To men I am still something between a fool and a corpse.
Gloomy is the night, gloomy are the ways of Zarathustra. Come, thou cold
and stiff companion! I carry thee to the place where I shall bury thee with mine own hands.
8.
When Zarathustra had said this to his heart, he put the corpse upon his shoulders and set out on his way. Yet had he not gone a hundred steps, when there stole a man up to him and whispered in his ear—and lo! he that spake was the buffoon from the tower. “Leave this town, O
Zarathustra,” said he, “there are too many here who hate thee. The good and just hate thee, and call thee their enemy and despiser; the believers in the orthodox belief hate thee, and call thee a danger to the multitude.
It was thy good fortune to be laughed at: and verily thou spakest like a buffoon. It was thy good fortune to associate with the dead dog; by so humiliating thyself thou hast saved thy life to-day. Depart, however, from this town,—or tomorrow I shall jump over thee, a living man over a dead one.” And when he had said this, the buffoon vanished; Zarathustra, however, went on through the dark streets.
At the gate of the town the grave-diggers met him: they shone their torch on his face, and, recognising Zarathustra, they sorely derided him.
“Zarathustra is carrying away the dead dog: a fine thing that Zarathustra hath turned a grave-digger! For our hands are too cleanly for that roast.
Will Zarathustra steal the bite from the devil? Well then, good luck to the repast! If only the devil is not a better thief than Zarathustra!—he will steal them both, he will eat them both!” And they laughed among themselves, and put their heads together.
Zarathustra made no answer thereto, but went on his way. When he had gone on for two hours, past forests and swamps, he had heard too much of the hungry howling of the wolves, and he himself became a-hungry. So he halted at a lonely house in which a light was burning.
“Hunger attacketh me,” said Zarathustra, “like a robber. Among forests and swamps my hunger attacketh me, and late in the night.
“Strange humours hath my hunger. Often it cometh to me only after a repast, and all day it hath failed to come: where hath it been?”
And thereupon Zarathustra knocked at the door of the house. An old man appeared, who carried a light, and asked: “Who cometh unto me and my bad sleep?”
“A living man and a dead one,” said Zarathustra. “Give me something to eat and drink, I forgot it during the day. He that feedeth the hungry refresheth his own soul, saith wisdom.”
The old man withdrew, but came back immediately and offered Zarathustra bread and wine. “A bad country for the hungry,” said he; “that is why I live here. Animal and man come unto me, the anchorite. But bid thy companion eat and drink also, he is wearier than thou.” Zarathustra answered: “My companion is dead; I shall hardly be able to persuade him to eat.” “That doth not concern me,” said the old man sullenly; “he that knocketh at my door must take what I offer him. Eat, and fare ye well!”—
Thereafter Zarathustra again went on for two hours, trusting to the path and the light of the stars: for he was an experienced night-walker, and liked to look into the face of all that slept. When the morning dawned, however, Zarathustra found himself in a thick forest, and no path was any longer visible. He then put the dead man in a hollow tree at his head—for he wanted to protect him from the wolves—and laid himself down on the ground and moss. And immediately he fell asleep, tired in body, but with a tranquil soul.
9.
Long slept Zarathustra; and not only the rosy dawn passed over his head, but also the morning. At last, however, his eyes opened, and amazedly he gazed into the forest and the stillness, amazedly he gazed into himself.
Then he arose quickly, like a seafarer who all at once seeth the land; and he shouted for joy: for he saw a new truth. And he spake thus to his heart:
A light hath dawned upon me: I need companions—living ones; not dead companions and corpses, which I carry with me where I will.
But I need living companions, who will follow me because they want to follow themselves—and to the place where I will.
A light hath dawned upon me. Not to the people is Zarathustra to speak,
but to companions! Zarathustra shall not be the herd’s herdsman and hound!
To allure many from the herd—for that purpose have I come. The people and the herd must be angry with me: a robber shall Zarathustra be called by the herdsmen.
Herdsmen, I say, but they call themselves the good and just. Herdsmen, I say, but they call themselves the believers in the orthodox belief.
Behold the good and just! Whom do they hate most? Him who breaketh up their tables of values, the breaker, the lawbreaker:—he, however, is the creator.
Behold the believers of all beliefs! Whom do they hate most? Him who breaketh up their tables of values, the breaker, the law-breaker—he, however, is the creator.
Companions, the creator seeketh, not corpses—and not herds or believers either. Fellow-creators the creator seeketh—those who grave new values on new tables.
Companions, the creator seeketh, and fellow-reapers: for everything is ripe for the harvest with him. But he lacketh the hundred sickles: so he plucketh the ears of corn and is vexed.
Companions, the creator seeketh, and such as know how to whet their sickles. Destroyers, will they be called, and despisers of good and evil.
But they are the reapers and rejoicers.
Fellow-creators, Zarathustra seeketh; fellow-reapers and fellow-rejoicers, Zarathustra seeketh: what hath he to do with herds and herdsmen and corpses!
And thou, my first companion, rest in peace! Well have I buried thee in thy hollow tree; well have I hid thee from the wolves.
But I part from thee; the time hath arrived. ‘Twixt rosy dawn and rosy dawn there came unto me a new truth.
I am not to be a herdsman, I am not to be a grave-digger. Not any more will I discourse unto the people; for the last time have I spoken unto the dead.
With the creators, the reapers, and the rejoicers will I associate: the rainbow will I show them, and all the stairs to the Superman.
To the lone-dwellers will I sing my song, and to the twain-dwellers; and unto him who hath still ears for the unheard, will I make the heart heavy with my happiness.
I make for my goal, I follow my course; over the loitering and tardy will I leap. Thus let my on-going be their down-going!
10.
This had Zarathustra said to his heart when the sun stood at noon-tide.
Then he looked inquiringly aloft,—for he heard above him the sharp call of a bird. And behold! An eagle swept through the air in wide circles, and on it hung a serpent, not like a prey, but like a friend: for it kept itself coiled round the eagle’s neck.
“They are mine animals,” said Zarathustra, and rejoiced in his heart.
“The proudest animal under the sun, and the wisest animal under the sun,—they have come out to reconnoitre.
They want to know whether Zarathustra still liveth. Verily, do I still live?
More dangerous have I found it among men than among animals; in dangerous paths goeth Zarathustra. Let mine animals lead me!”
When Zarathustra had said this, he remembered the words of the saint in the forest. Then he sighed and spake thus to his heart:
“Would that I were wiser! Would that I were wise from the very heart, like my serpent!
But I am asking the impossible. Therefore do I ask my pride to go always with my wisdom!
And if my wisdom should some day forsake me:—alas! it loveth to fly away!—may my pride then fly with my folly!”
Thus began Zarathustra’s down-going.
ZARATHUSTRA’S DISCOURSES.
I. THE THREE METAMORPHOSES.
Three metamorphoses of the spirit do I designate to you: how the spirit becometh a camel, the camel a lion, and the lion at last a child.
Many heavy things are there for the spirit, the strong load-bearing spirit
in which reverence dwelleth: for the heavy and the heaviest longeth its strength.
What is heavy? so asketh the load-bearing spirit; then kneeleth it down like the camel, and wanteth to be well laden.
What is the heaviest thing, ye heroes? asketh the load-bearing spirit, that I may take it upon me and rejoice in my strength.
Is it not this: To humiliate oneself in order to mortify one’s pride? To exhibit one’s folly in order to mock at one’s wisdom?
Or is it this: To desert our cause when it celebrateth its triumph? To ascend high mountains to tempt the tempter?
Or is it this: To feed on the acorns and grass of knowledge, and for the sake of truth to suffer hunger of soul?
Or is it this: To be sick and dismiss comforters, and make friends of the deaf, who never hear thy requests?
Or is it this: To go into foul water when it is the water of truth, and not disclaim cold frogs and hot toads?
Or is it this: To love those who despise us, and give one’s hand to the phantom when it is going to frighten us?
All these heaviest things the load-bearing spirit taketh upon itself: and like the camel, which, when laden, hasteneth into the wilderness, so hasteneth the spirit into its wilderness.
But in the loneliest wilderness happeneth the second metamorphosis: here the spirit becometh a lion; freedom will it capture, and lordship in its own wilderness.
Its last Lord it here seeketh: hostile will it be to him, and to its last God; for victory will it struggle with the great dragon.
What is the great dragon which the spirit is no longer inclined to call Lord and God? “Thou-shalt,” is the great dragon called. But the spirit of the lion saith, “I will.”
“Thou-shalt,” lieth in its path, sparkling with gold—a scale-covered beast; and on every scale glittereth golden, “Thou shalt!”
The values of a thousand years glitter on those scales, and thus speaketh the mightiest of all dragons: “All the values of things—glitter on me.
All values have already been created, and all created values—do I represent. Verily, there shall be no ‘I will’ any more.” Thus speaketh the dragon.
My brethren, wherefore is there need of the lion in the spirit? Why sufficeth not the beast of burden, which renounceth and is reverent?
To create new values—that, even the lion cannot yet accomplish: but to create itself freedom for new creating—that can the might of the lion do.
To create itself freedom, and give a holy Nay even unto duty: for that, my brethren, there is need of the lion.
To assume the right to new values—that is the most formidable assumption for a load-bearing and reverent spirit. Verily, unto such a spirit it is preying, and the work of a beast of prey.
As its holiest, it once loved “Thou-shalt”: now is it forced to find illusion and arbitrariness even in the holiest things, that it may capture freedom from its love: the lion is needed for this capture.
But tell me, my brethren, what the child can do, which even the lion could not do? Why hath the preying lion still to become a child?
Innocence is the child, and forgetfulness, a new beginning, a game, a self-rolling wheel, a first movement, a holy Yea.
Aye, for the game of creating, my brethren, there is needed a holy Yea unto life: ITS OWN will, willeth now the spirit; HIS OWN world winneth the world’s outcast.
Three metamorphoses of the spirit have I designated to you: how the spirit became a camel, the camel a lion, and the lion at last a child.—
Thus spake Zarathustra. And at that time he abode in the town which is called The Pied Cow.
II. THE ACADEMIC CHAIRS OF VIRTUE.
People commended unto Zarathustra a wise man, as one who could discourse well about sleep and virtue: greatly was he honoured and rewarded for it, and all the youths sat before his chair. To him went Zarathustra, and sat
among the youths before his chair. And thus spake the wise man: Respect and modesty in presence of sleep! That is the first thing! And to go out of the way of all who sleep badly and keep awake at night!
Modest is even the thief in presence of sleep: he always stealeth softly through the night. Immodest, however, is the night-watchman; immodestly he carrieth his horn.
No small art is it to sleep: it is necessary for that purpose to keep awake all day.
Ten times a day must thou overcome thyself: that causeth wholesome weariness, and is poppy to the soul.
Ten times must thou reconcile again with thyself; for overcoming is bitterness, and badly sleep the unreconciled.
Ten truths must thou find during the day; otherwise wilt thou seek truth during the night, and thy soul will have been hungry.
Ten times must thou laugh during the day, and be cheerful; otherwise thy stomach, the father of affliction, will disturb thee in the night.
Few people know it, but one must have all the virtues in order to sleep well. Shall I bear false witness? Shall I commit adultery?
Shall I covet my neighbour’s maidservant? All that would ill accord with good sleep.
And even if one have all the virtues, there is still one thing needful: to send the virtues themselves to sleep at the right time.
That they may not quarrel with one another, the good females! And about thee, thou unhappy one!
Peace with God and thy neighbour: so desireth good sleep. And peace also with thy neighbour’s devil! Otherwise it will haunt thee in the night.
Honour to the government, and obedience, and also to the crooked government! So desireth good sleep. How can I help it, if power like to walk on crooked legs?
He who leadeth his sheep to the greenest pasture, shall always be for me the best shepherd: so doth it accord with good sleep.
Many honours I want not, nor great treasures: they excite the spleen. But it is bad sleeping without a good name and a little treasure.
A small company is more welcome to me than a bad one: but they must come and go at the right time. So doth it accord with good sleep.
Well, also, do the poor in spirit please me: they promote sleep. Blessed are they, especially if one always give in to them.
Thus passeth the day unto the virtuous. When night cometh, then take I good care not to summon sleep. It disliketh to be summoned—sleep, the lord of the virtues!
But I think of what I have done and thought during the day. Thus ruminating, patient as a cow, I ask myself: What were thy ten overcomings?
And what were the ten reconciliations, and the ten truths, and the ten laughters with which my heart enjoyed itself?
Thus pondering, and cradled by forty thoughts, it overtaketh me all at once—sleep, the unsummoned, the lord of the virtues.
Sleep tappeth on mine eye, and it turneth heavy. Sleep toucheth my mouth, and it remaineth open.
Verily, on soft soles doth it come to me, the dearest of thieves, and stealeth from me my thoughts: stupid do I then stand, like this academic chair.
But not much longer do I then stand: I already lie.—
When Zarathustra heard the wise man thus speak, he laughed in his heart: for thereby had a light dawned upon him. And thus spake he to his heart: A fool seemeth this wise man with his forty thoughts: but I believe he knoweth well how to sleep.
Happy even is he who liveth near this wise man! Such sleep is contagious—even through a thick wall it is contagious.
A magic resideth even in his academic chair. And not in vain did the youths sit before the preacher of virtue.
His wisdom is to keep awake in order to sleep well. And verily, if life had no sense, and had I to choose nonsense, this would be the desirablest nonsense for me also.
Now know I well what people sought formerly above all else when they sought teachers of virtue. Good sleep they sought for themselves, and
poppy-head virtues to promote it!
To all those belauded sages of the academic chairs, wisdom was sleep without dreams: they knew no higher significance of life.
Even at present, to be sure, there are some like this preacher of virtue, and not always so honourable: but their time is past. And not much longer do they stand: there they already lie.
Blessed are those drowsy ones: for they shall soon nod to sleep.—
Thus spake Zarathustra.
III. BACKWORLDSMEN.
Once on a time, Zarathustra also cast his fancy beyond man, like all backworldsmen. The work of a suffering and tortured God, did the world then seem to me.
The dream—and diction—of a God, did the world then seem to me; coloured vapours before the eyes of a divinely dissatisfied one.
Good and evil, and joy and woe, and I and thou—coloured vapours did they seem to me before creative eyes. The creator wished to look away from himself,—thereupon he created the world.
Intoxicating joy is it for the sufferer to look away from his suffering and forget himself. Intoxicating joy and self-forgetting, did the world once seem to me.
This world, the eternally imperfect, an eternal contradiction’s image and imperfect image—an intoxicating joy to its imperfect creator:—thus did the world once seem to me.
Thus, once on a time, did I also cast my fancy beyond man, like all backworldsmen. Beyond man, forsooth?
Ah, ye brethren, that God whom I created was human work and human madness, like all the Gods!
A man was he, and only a poor fragment of a man and ego. Out of mine own ashes and glow it came unto me, that phantom. And verily, it came not unto me from the beyond!
What happened, my brethren? I surpassed myself, the suffering one; I carried mine own ashes to the mountain; a brighter flame I contrived for myself. And lo! Thereupon the phantom WITHDREW from me!
To me the convalescent would it now be suffering and torment to believe in such phantoms: suffering would it now be to me, and humiliation. Thus speak I to backworldsmen.
Suffering was it, and impotence—that created all backworlds; and the short madness of happiness, which only the greatest sufferer experienceth.
Weariness, which seeketh to get to the ultimate with one leap, with a death-leap; a poor ignorant weariness, unwilling even to will any longer: that created all Gods and backworlds.
Believe me, my brethren! It was the body which despaired of the body—it groped with the fingers of the infatuated spirit at the ultimate walls.
Believe me, my brethren! It was the body which despaired of the earth—it heard the bowels of existence speaking unto it.
And then it sought to get through the ultimate walls with its head—and not with its head only—into “the other world.”
But that “other world” is well concealed from man, that dehumanised, inhuman world, which is a celestial naught; and the bowels of existence do not speak unto man, except as man.
Verily, it is difficult to prove all being, and hard to make it speak.
Tell me, ye brethren, is not the strangest of all things best proved?
Yea, this ego, with its contradiction and perplexity, speaketh most uprightly of its being—this creating, willing, evaluing ego, which is the measure and value of things.
And this most upright existence, the ego—it speaketh of the body, and still implieth the body, even when it museth and raveth and fluttereth with broken wings.
Always more uprightly learneth it to speak, the ego; and the more it learneth, the more doth it find titles and honours for the body and the earth.
A new pride taught me mine ego, and that teach I unto men: no longer to thrust one’s head into the sand of celestial things, but to carry it freely, a terrestrial head, which giveth meaning to the earth!
A new will teach I unto men: to choose that path which man hath followed
blindly, and to approve of it—and no longer to slink aside from it, like the sick and perishing!
The sick and perishing—it was they who despised the body and the earth, and invented the heavenly world, and the redeeming blood-drops; but even those sweet and sad poisons they borrowed from the body and the earth!
From their misery they sought escape, and the stars were too remote for them. Then they sighed: “O that there were heavenly paths by which to steal into another existence and into happiness!” Then they contrived for themselves their by-paths and bloody draughts!
Beyond the sphere of their body and this earth they now fancied themselves transported, these ungrateful ones. But to what did they owe the convulsion and rapture of their transport? To their body and this earth.
Gentle is Zarathustra to the sickly. Verily, he is not indignant at their modes of consolation and ingratitude. May they become convalescents and overcomers, and create higher bodies for themselves!
Neither is Zarathustra indignant at a convalescent who looketh tenderly on his delusions, and at midnight stealeth round the grave of his God; but sickness and a sick frame remain even in his tears.
Many sickly ones have there always been among those who muse, and languish for God; violently they hate the discerning ones, and the latest of virtues, which is uprightness.
Backward they always gaze toward dark ages: then, indeed, were delusion and faith something different. Raving of the reason was likeness to God, and doubt was sin.
Too well do I know those godlike ones: they insist on being believed in, and that doubt is sin. Too well, also, do I know what they themselves most believe in.
Verily, not in backworlds and redeeming blood-drops: but in the body do they also believe most; and their own body is for them the thing-in-itself.
But it is a sickly thing to them, and gladly would they get out of their skin. Therefore hearken they to the preachers of death, and themselves preach backworlds.
Hearken rather, my brethren, to the voice of the healthy body; it is a more upright and pure voice.
More uprightly and purely speaketh the healthy body, perfect and square-built; and it speaketh of the meaning of the earth.—
Thus spake Zarathustra.
IV. THE DESPISERS OF THE BODY.
To the despisers of the body will I speak my word. I wish them neither to learn afresh, nor teach anew, but only to bid farewell to their own bodies,—and thus be dumb.
“Body am I, and soul”—so saith the child. And why should one not speak like children?
But the awakened one, the knowing one, saith: “Body am I entirely, and nothing more; and soul is only the name of something in the body.”
The body is a big sagacity, a plurality with one sense, a war and a peace, a flock and a shepherd.
An instrument of thy body is also thy little sagacity, my brother, which thou callest “spirit”—a little instrument and plaything of thy big sagacity.
“Ego,” sayest thou, and art proud of that word. But the greater thing—in which thou art unwilling to believe—is thy body with its big sagacity; it saith not “ego,” but doeth it.
What the sense feeleth, what the spirit discerneth, hath never its end in itself. But sense and spirit would fain persuade thee that they are the end of all things: so vain are they.
Instruments and playthings are sense and spirit: behind them there is still the Self. The Self seeketh with the eyes of the senses, it hearkeneth also with the ears of the spirit.
Ever hearkeneth the Self, and seeketh; it compareth, mastereth, conquereth, and destroyeth. It ruleth, and is also the ego’s ruler.
Behind thy thoughts and feelings, my brother, there is a mighty lord, an unknown sage—it is called Self; it dwelleth in thy body, it is thy
body.
There is more sagacity in thy body than in thy best wisdom. And who then knoweth why thy body requireth just thy best wisdom?
Thy Self laugheth at thine ego, and its proud prancings. “What are these prancings and flights of thought unto me?” it saith to itself. “A by-way to my purpose. I am the leading-string of the ego, and the prompter of its notions.”
The Self saith unto the ego: “Feel pain!” And thereupon it suffereth, and thinketh how it may put an end thereto—and for that very purpose it IS MEANT to think.
The Self saith unto the ego: “Feel pleasure!” Thereupon it rejoiceth, and thinketh how it may ofttimes rejoice—and for that very purpose it IS
MEANT to think.
To the despisers of the body will I speak a word. That they despise is caused by their esteem. What is it that created esteeming and despising and worth and will?
The creating Self created for itself esteeming and despising, it created for itself joy and woe. The creating body created for itself spirit, as a hand to its will.
Even in your folly and despising ye each serve your Self, ye despisers of the body. I tell you, your very Self wanteth to die, and turneth away from life.
No longer can your Self do that which it desireth most:—create beyond itself. That is what it desireth most; that is all its fervour.
But it is now too late to do so:—so your Self wisheth to succumb, ye despisers of the body.
To succumb—so wisheth your Self; and therefore have ye become despisers of the body. For ye can no longer create beyond yourselves.
And therefore are ye now angry with life and with the earth. And unconscious envy is in the sidelong look of your contempt.
I go not your way, ye despisers of the body! Ye are no bridges for me to the Superman!—
Thus spake Zarathustra.
V. JOYS AND PASSIONS.
My brother, when thou hast a virtue, and it is thine own virtue, thou hast it in common with no one.
To be sure, thou wouldst call it by name and caress it; thou wouldst pull its ears and amuse thyself with it.
And lo! Then hast thou its name in common with the people, and hast become one of the people and the herd with thy virtue!
Better for thee to say: “Ineffable is it, and nameless, that which is pain and sweetness to my soul, and also the hunger of my bowels.”
Let thy virtue be too high for the familiarity of names, and if thou must speak of it, be not ashamed to stammer about it.
Thus speak and stammer: “That is MY good, that do I love, thus doth it please me entirely, thus only do I desire the good.
Not as the law of a God do I desire it, not as a human law or a human need do I desire it; it is not to be a guide-post for me to superearths and paradises.
An earthly virtue is it which I love: little prudence is therein, and the least everyday wisdom.
But that bird built its nest beside me: therefore, I love and cherish it—now sitteth it beside me on its golden eggs.”
Thus shouldst thou stammer, and praise thy virtue.
Once hadst thou passions and calledst them evil. But now hast thou only thy virtues: they grew out of thy passions.
Thou implantedst thy highest aim into the heart of those passions: then became they thy virtues and joys.
And though thou wert of the race of the hot-tempered, or of the voluptuous, or of the fanatical, or the vindictive; All thy passions in the end became virtues, and all thy devils angels.
Once hadst thou wild dogs in thy cellar: but they changed at last into birds and charming songstresses.
Out of thy poisons brewedst thou balsam for thyself; thy cow, affliction, milkedst thou—now drinketh thou the sweet milk of her udder.
And nothing evil groweth in thee any longer, unless it be the evil that groweth out of the conflict of thy virtues.
My brother, if thou be fortunate, then wilt thou have one virtue and no more: thus goest thou easier over the bridge.
Illustrious is it to have many virtues, but a hard lot; and many a one hath gone into the wilderness and killed himself, because he was weary of being the battle and battlefield of virtues.
My brother, are war and battle evil? Necessary, however, is the evil; necessary are the envy and the distrust and the back-biting among the virtues.
Lo! how each of thy virtues is covetous of the highest place; it wanteth thy whole spirit to be ITS herald, it wanteth thy whole power, in wrath, hatred, and love.
Jealous is every virtue of the others, and a dreadful thing is jealousy.
Even virtues may succumb by jealousy.
He whom the flame of jealousy encompasseth, turneth at last, like the scorpion, the poisoned sting against himself.
Ah! my brother, hast thou never seen a virtue backbite and stab itself?
Man is something that hath to be surpassed: and therefore shalt thou love thy virtues,—for thou wilt succumb by them.—
Thus spake Zarathustra.
VI. THE PALE CRIMINAL.
Ye do not mean to slay, ye judges and sacrificers, until the animal hath bowed its head? Lo! the pale criminal hath bowed his head: out of his eye speaketh the great contempt.
“Mine ego is something which is to be surpassed: mine ego is to me the great contempt of man”: so speaketh it out of that eye.
When he judged himself—that was his supreme moment; let not the exalted one relapse again into his low estate!
There is no salvation for him who thus suffereth from himself, unless it be speedy death.
Your slaying, ye judges, shall be pity, and not revenge; and in that ye slay, see to it that ye yourselves justify life!
It is not enough that ye should reconcile with him whom ye slay. Let your sorrow be love to the Superman: thus will ye justify your own survival!
“Enemy” shall ye say but not “villain,” “invalid” shall ye say but not
“wretch,” “fool” shall ye say but not “sinner.”
And thou, red judge, if thou would say audibly all thou hast done in thought, then would every one cry: “Away with the nastiness and the virulent reptile!”
But one thing is the thought, another thing is the deed, and another thing is the idea of the deed. The wheel of causality doth not roll between them.
An idea made this pale man pale. Adequate was he for his deed when he did it, but the idea of it, he could not endure when it was done.
Evermore did he now see himself as the doer of one deed. Madness, I call this: the exception reversed itself to the rule in him.
The streak of chalk bewitcheth the hen; the stroke he struck bewitched his weak reason. Madness AFTER the deed, I call this.
Hearken, ye judges! There is another madness besides, and it is BEFORE the deed. Ah! ye have not gone deep enough into this soul!
Thus speaketh the red judge: “Why did this criminal commit murder? He meant to rob.” I tell you, however, that his soul wanted blood, not booty: he thirsted for the happiness of the knife!
But his weak reason understood not this madness, and it persuaded him.
“What matter about blood!” it said; “wishest thou not, at least, to make booty thereby? Or take revenge?”
And he hearkened unto his weak reason: like lead lay its words upon him—thereupon he robbed when he murdered. He did not mean to be ashamed of his madness.
And now once more lieth the lead of his guilt upon him, and once more is his weak reason so benumbed, so paralysed, and so dull.
Could he only shake his head, then would his burden roll off; but who shaketh that head?
What is this man? A mass of diseases that reach out into the world through the spirit; there they want to get their prey.
What is this man? A coil of wild serpents that are seldom at peace among themselves—so they go forth apart and seek prey in the world.
Look at that poor body! What it suffered and craved, the poor soul interpreted to itself—it interpreted it as murderous desire, and eagerness for the happiness of the knife.
Him who now turneth sick, the evil overtaketh which is now the evil: he seeketh to cause pain with that which causeth him pain. But there have been other ages, and another evil and good.
Once was doubt evil, and the will to Self. Then the invalid became a heretic or sorcerer; as heretic or sorcerer he suffered, and sought to cause suffering.
But this will not enter your ears; it hurteth your good people, ye tell me. But what doth it matter to me about your good people!
Many things in your good people cause me disgust, and verily, not their evil. I would that they had a madness by which they succumbed, like this pale criminal!
Verily, I would that their madness were called truth, or fidelity, or justice: but they have their virtue in order to live long, and in wretched self-complacency.
I am a railing alongside the torrent; whoever is able to grasp me may grasp me! Your crutch, however, I am not.—
Thus spake Zarathustra.
VII. READING AND WRITING.
Of all that is written, I love only what a person hath written with his blood. Write with blood, and thou wilt find that blood is spirit.
It is no easy task to understand unfamiliar blood; I hate the reading idlers.
He who knoweth the reader, doeth nothing more for the reader. Another century of readers—and spirit itself will stink.
Every one being allowed to learn to read, ruineth in the long run not only writing but also thinking.
Once spirit was God, then it became man, and now it even becometh populace.
He that writeth in blood and proverbs doth not want to be read, but learnt by heart.
In the mountains the shortest way is from peak to peak, but for that route thou must have long legs. Proverbs should be peaks, and those spoken to should be big and tall.
The atmosphere rare and pure, danger near and the spirit full of a joyful wickedness: thus are things well matched.
I want to have goblins about me, for I am courageous. The courage which scareth away ghosts, createth for itself goblins—it wanteth to laugh.
I no longer feel in common with you; the very cloud which I see beneath me, the blackness and heaviness at which I laugh—that is your thunder-cloud.
Ye look aloft when ye long for exaltation; and I look downward because I am exalted.
Who among you can at the same time laugh and be exalted?
He who climbeth on the highest mountains, laugheth at all tragic plays and tragic realities.
Courageous, unconcerned, scornful, coercive—so wisdom wisheth us; she is a woman, and ever loveth only a warrior.
Ye tell me, “Life is hard to bear.” But for what purpose should ye have your pride in the morning and your resignation in the evening?
Life is hard to bear: but do not affect to be so delicate! We are all of us fine sumpter asses and assesses.
What have we in common with the rose-bud, which trembleth because a drop of dew hath formed upon it?
It is true we love life; not because we are wont to live, but because we are wont to love.
There is always some madness in love. But there is always, also, some method in madness.
And to me also, who appreciate life, the butterflies, and soap-bubbles, and whatever is like them amongst us, seem most to enjoy happiness.
To see these light, foolish, pretty, lively little sprites flit about—that moveth Zarathustra to tears and songs.
I should only believe in a God that would know how to dance.
And when I saw my devil, I found him serious, thorough, profound, solemn: he was the spirit of gravity—through him all things fall.
Not by wrath, but by laughter, do we slay. Come, let us slay the spirit of gravity!
I learned to walk; since then have I let myself run. I learned to fly; since then I do not need pushing in order to move from a spot.
Now am I light, now do I fly; now do I see myself under myself. Now there danceth a God in me.—
Thus spake Zarathustra.
VIII. THE TREE ON THE HILL.
Zarathustra’s eye had perceived that a certain youth avoided him. And as he walked alone one evening over the hills surrounding the town called
“The Pied Cow,” behold, there found he the youth sitting leaning against a tree, and gazing with wearied look into the valley. Zarathustra thereupon laid hold of the tree beside which the youth sat, and spake thus:
“If I wished to shake this tree with my hands, I should not be able to do so.
But the wind, which we see not, troubleth and bendeth it as it listeth. We are sorest bent and troubled by invisible hands.”
Thereupon the youth arose disconcerted, and said: “I hear Zarathustra, and just now was I thinking of him!” Zarathustra answered:
“Why art thou frightened on that account?—But it is the same with man as with the tree.
The more he seeketh to rise into the height and light, the more vigorously do his roots struggle earthward, downward, into the dark and deep—into the evil.”
“Yea, into the evil!” cried the youth. “How is it possible that thou hast discovered my soul?”
Zarathustra smiled, and said: “Many a soul one will never discover, unless one first invent it.”
“Yea, into the evil!” cried the youth once more.
“Thou saidst the truth, Zarathustra. I trust myself no longer since I sought to rise into the height, and nobody trusteth me any longer; how doth that happen?
I change too quickly: my to-day refuteth my yesterday. I often overleap the steps when I clamber; for so doing, none of the steps pardons me.
When aloft, I find myself always alone. No one speaketh unto me; the frost of solitude maketh me tremble. What do I seek on the height?
My contempt and my longing increase together; the higher I clamber, the more do I despise him who clambereth. What doth he seek on the height?
How ashamed I am of my clambering and stumbling! How I mock at my violent panting! How I hate him who flieth! How tired I am on the height!”
Here the youth was silent. And Zarathustra contemplated the tree beside which they stood, and spake thus:
“This tree standeth lonely here on the hills; it hath grown up high above man and beast.
And if it wanted to speak, it would have none who could understand it: so high hath it grown.
Now it waiteth and waiteth,—for what doth it wait? It dwelleth too close to the seat of the clouds; it waiteth perhaps for the first lightning?”
When Zarathustra had said this, the youth called out with violent gestures: “Yea, Zarathustra, thou speakest the truth. My destruction I longed for, when I desired to be on the height, and thou art the lightning for which I waited! Lo! what have I been since thou hast appeared amongst us? It is mine envy of thee that hath destroyed me!”—Thus spake the youth, and wept bitterly. Zarathustra, however, put his arm about him, and led the youth away with him.
And when they had walked a while together, Zarathustra began to speak thus:
It rendeth my heart. Better than thy words express it, thine eyes tell me all thy danger.
As yet thou art not free; thou still SEEKEST freedom. Too unslept hath thy seeking made thee, and too wakeful.
On the open height wouldst thou be; for the stars thirsteth thy soul. But thy bad impulses also thirst for freedom.
Thy wild dogs want liberty; they bark for joy in their cellar when thy spirit endeavoureth to open all prison doors.
Still art thou a prisoner—it seemeth to me—who deviseth liberty for himself: ah! sharp becometh the soul of such prisoners, but also deceitful and wicked.
To purify himself, is still necessary for the freedman of the spirit. Much of the prison and the mould still remaineth in him: pure hath his eye still to become.
Yea, I know thy danger. But by my love and hope I conjure thee: cast not thy love and hope away!
Noble thou feelest thyself still, and noble others also feel thee still, though they bear thee a grudge and cast evil looks. Know this, that to everybody a noble one standeth in the way.
Also to the good, a noble one standeth in the way: and even when they call him a good man, they want thereby to put him aside.
The new, would the noble man create, and a new virtue. The old, wanteth the good man, and that the old should be conserved.
But it is not the danger of the noble man to turn a good man, but lest he should become a blusterer, a scoffer, or a destroyer.
Ah! I have known noble ones who lost their highest hope. And then they disparaged all high hopes.
Then lived they shamelessly in temporary pleasures, and beyond the day had hardly an aim.
“Spirit is also voluptuousness,”—said they. Then broke the wings of their spirit; and now it creepeth about, and defileth where it gnaweth.
Once they thought of becoming heroes; but sensualists are they now. A trouble and a terror is the hero to them.
But by my love and hope I conjure thee: cast not away the hero in thy soul! Maintain holy thy highest hope!—
Thus spake Zarathustra.
IX. THE PREACHERS OF DEATH.
There are preachers of death: and the earth is full of those to whom desistance from life must be preached.
Full is the earth of the superfluous; marred is life by the many-too-many.
May they be decoyed out of this life by the “life eternal”!
“The yellow ones”: so are called the preachers of death, or “the black ones.” But I will show them unto you in other colours besides.
There are the terrible ones who carry about in themselves the beast of prey, and have no choice except lusts or self-laceration. And even their lusts are self-laceration.
They have not yet become men, those terrible ones: may they preach desistance from life, and pass away themselves!
There are the spiritually consumptive ones: hardly are they born when they begin to die, and long for doctrines of lassitude and renunciation.
They would fain be dead, and we should approve of their wish! Let us beware of awakening those dead ones, and of damaging those living coffins!
They meet an invalid, or an old man, or a corpse—and immediately they say: “Life is refuted!”
But they only are refuted, and their eye, which seeth only one aspect of existence.
Shrouded in thick melancholy, and eager for the little casualties that bring death: thus do they wait, and clench their teeth.
Or else, they grasp at sweetmeats, and mock at their childishness thereby: they cling to their straw of life, and mock at their still clinging to it.
Their wisdom speaketh thus: “A fool, he who remaineth alive; but so far are we fools! And that is the foolishest thing in life!”
“Life is only suffering”: so say others, and lie not. Then see to it that YE cease! See to it that the life ceaseth which is only suffering!
And let this be the teaching of your virtue: “Thou shalt slay thyself!
Thou shalt steal away from thyself!”—
“Lust is sin,”—so say some who preach death—“let us go apart
and beget no children!”
“Giving birth is troublesome,”—say others—“why still give birth? One beareth only the unfortunate!” And they also are preachers of death.
“Pity is necessary,”—so saith a third party. “Take what I have! Take what I am! So much less doth life bind me!”
Were they consistently pitiful, then would they make their neighbours sick of life. To be wicked—that would be their true goodness.
But they want to be rid of life; what care they if they bind others still faster with their chains and gifts!—
And ye also, to whom life is rough labour and disquiet, are ye not very tired of life? Are ye not very ripe for the sermon of death?
All ye to whom rough labour is dear, and the rapid, new, and strange—ye put up with yourselves badly; your diligence is flight, and the will to self-forgetfulness.
If ye believed more in life, then would ye devote yourselves less to the momentary. But for waiting, ye have not enough of capacity in you—nor even for idling!
Everywhere resoundeth the voices of those who preach death; and the earth is full of those to whom death hath to be preached.
Or “life eternal”; it is all the same to me—if only they pass away quickly!—
Thus spake Zarathustra.
X. WAR AND WARRIORS.
By our best enemies we do not want to be spared, nor by those either whom we love from the very heart. So let me tell you the truth!
My brethren in war! I love you from the very heart. I am, and was ever, your counterpart. And I am also your best enemy. So let me tell you the truth!
I know the hatred and envy of your hearts. Ye are not great enough not to know of hatred and envy. Then be great enough not to be ashamed of them!
And if ye cannot be saints of knowledge, then, I pray you, be at least its warriors. They are the companions and forerunners of such saintship.
I see many soldiers; could I but see many warriors! “Uniform” one calleth what they wear; may it not be uniform what they therewith hide!
Ye shall be those whose eyes ever seek for an enemy—for YOUR enemy.
And with some of you there is hatred at first sight.
Your enemy shall ye seek; your war shall ye wage, and for the sake of your thoughts! And if your thoughts succumb, your uprightness shall still shout triumph thereby!
Ye shall love peace as a means to new wars—and the short peace more than the long.
You I advise not to work, but to fight. You I advise not to peace, but to victory. Let your work be a fight, let your peace be a victory!
One can only be silent and sit peacefully when one hath arrow and bow; otherwise one prateth and quarrelleth. Let your peace be a victory!
Ye say it is the good cause which halloweth even war? I say unto you: it is the good war which halloweth every cause.
War and courage have done more great things than charity. Not your sympathy, but your bravery hath hitherto saved the victims.
“What is good?” ye ask. To be brave is good. Let the little girls say: “To be good is what is pretty, and at the same time touching.”
They call you heartless: but your heart is true, and I love the bashfulness of your goodwill. Ye are ashamed of your flow, and others are ashamed of their ebb.
Ye are ugly? Well then, my brethren, take the sublime about you, the mantle of the ugly!
And when your soul becometh great, then doth it become haughty, and in your sublimity there is wickedness. I know you.
In wickedness the haughty man and the weakling meet. But they misunderstand one another. I know you.
Ye shall only have enemies to be hated, but not enemies to be despised. Ye must be proud of your enemies; then, the successes of your enemies are also your successes.
Resistance—that is the distinction of the slave. Let your
distinction be obedience. Let your commanding itself be obeying!
To the good warrior soundeth “thou shalt” pleasanter than “I will.” And all that is dear unto you, ye shall first have it commanded unto you.
Let your love to life be love to your highest hope; and let your highest hope be the highest thought of life!
Your highest thought, however, ye shall have it commanded unto you by me—and it is this: man is something that is to be surpassed.
So live your life of obedience and of war! What matter about long life!
What warrior wisheth to be spared!
I spare you not, I love you from my very heart, my brethren in war!—
Thus spake Zarathustra.
XI. THE NEW IDOL.
Somewhere there are still peoples and herds, but not with us, my brethren: here there are states.
A state? What is that? Well! open now your ears unto me, for now will I say unto you my word concerning the death of peoples.
A state, is called the coldest of all cold monsters. Coldly lieth it also; and this lie creepeth from its mouth: “I, the state, am the people.”
It is a lie! Creators were they who created peoples, and hung a faith and a love over them: thus they served life.
Destroyers, are they who lay snares for many, and call it the state: they hang a sword and a hundred cravings over them.
Where there is still a people, there the state is not understood, but hated as the evil eye, and as sin against laws and customs.
This sign I give unto you: every people speaketh its language of good and evil: this its neighbour understandeth not. Its language hath it devised for itself in laws and customs.
But the state lieth in all languages of good and evil; and whatever it saith it lieth; and whatever it hath it hath stolen.
False is everything in it; with stolen teeth it biteth, the biting one.
False are even its bowels.
Confusion of language of good and evil; this sign I give unto you as the sign of the state. Verily, the will to death, indicateth this sign!
Verily, it beckoneth unto the preachers of death!
Many too many are born: for the superfluous ones was the state devised!
See just how it enticeth them to it, the many-too-many! How it swalloweth and cheweth and recheweth them!
“On earth there is nothing greater than I: it is I who am the regulating finger of God”—thus roareth the monster. And not only the long-eared and short-sighted fall upon their knees!
Ah! even in your ears, ye great souls, it whispereth its gloomy lies! Ah!
it findeth out the rich hearts which willingly lavish themselves!
Yea, it findeth you out too, ye conquerors of the old God! Weary ye became of the conflict, and now your weariness serveth the new idol!
Heroes and honourable ones, it would fain set up around it, the new idol!
Gladly it basketh in the sunshine of good consciences,—the cold monster!
Everything will it give YOU, if YE worship it, the new idol: thus it purchaseth the lustre of your virtue, and the glance of your proud eyes.
It seeketh to allure by means of you, the many-too-many! Yea, a hellish artifice hath here been devised, a death-horse jingling with the trappings of divine honours!
Yea, a dying for many hath here been devised, which glorifieth itself as life: verily, a hearty service unto all preachers of death!
The state, I call it, where all are poison-drinkers, the good and the bad: the state, where all lose themselves, the good and the bad: the state, where the slow suicide of all—is called “life.”
Just see these superfluous ones! They steal the works of the inventors and the treasures of the wise. Culture, they call their theft—and everything becometh sickness and trouble unto them!
Just see these superfluous ones! Sick are they always; they vomit their bile and call it a newspaper. They devour one another, and cannot even digest themselves.
Just see these superfluous ones! Wealth they acquire and become poorer thereby. Power they seek for, and above all, the lever of power, much
money—these impotent ones!
See them clamber, these nimble apes! They clamber over one another, and thus scuffle into the mud and the abyss.
Towards the throne they all strive: it is their madness—as if happiness sat on the throne! Ofttimes sitteth filth on the throne.—and ofttimes also the throne on filth.
Madmen they all seem to me, and clambering apes, and too eager. Badly smelleth their idol to me, the cold monster: badly they all smell to me, these idolaters.
My brethren, will ye suffocate in the fumes of their maws and appetites!
Better break the windows and jump into the open air!
Do go out of the way of the bad odour! Withdraw from the idolatry of the superfluous!
Do go out of the way of the bad odour! Withdraw from the steam of these human sacrifices!
Open still remaineth the earth for great souls. Empty are still many sites for lone ones and twain ones, around which floateth the odour of tranquil seas.
Open still remaineth a free life for great souls. Verily, he who possesseth little is so much the less possessed: blessed be moderate poverty!
There, where the state ceaseth—there only commenceth the man who is not superfluous: there commenceth the song of the necessary ones, the single and irreplaceable melody.
There, where the state CEASETH—pray look thither, my brethren! Do ye not see it, the rainbow and the bridges of the Superman?—
Thus spake Zarathustra.
XII. THE FLIES IN THE MARKET-PLACE.
Flee, my friend, into thy solitude! I see thee deafened with the noise of the great men, and stung all over with the stings of the little ones.
Admirably do forest and rock know how to be silent with thee. Resemble again the tree which thou lovest, the broad-branched one—silently and attentively it o’erhangeth the sea.
Where solitude endeth, there beginneth the market-place; and where the market-place beginneth, there beginneth also the noise of the great actors, and the buzzing of the poison-flies.
In the world even the best things are worthless without those who represent them: those representers, the people call great men.
Little do the people understand what is great—that is to say, the creating agency. But they have a taste for all representers and actors of great things.
Around the devisers of new values revolveth the world:—invisibly it revolveth. But around the actors revolve the people and the glory: such is the course of things.
Spirit, hath the actor, but little conscience of the spirit. He believeth always in that wherewith he maketh believe most strongly—in HIMSELF!
Tomorrow he hath a new belief, and the day after, one still newer. Sharp perceptions hath he, like the people, and changeable humours.
To upset—that meaneth with him to prove. To drive mad—that meaneth with him to convince. And blood is counted by him as the best of all arguments.
A truth which only glideth into fine ears, he calleth falsehood and trumpery. Verily, he believeth only in Gods that make a great noise in the world!
Full of clattering buffoons is the market-place,—and the people glory in their great men! These are for them the masters of the hour.
But the hour presseth them; so they press thee. And also from thee they want Yea or Nay. Alas! thou wouldst set thy chair betwixt For and Against?
On account of those absolute and impatient ones, be not jealous, thou lover of truth! Never yet did truth cling to the arm of an absolute one.
On account of those abrupt ones, return into thy security: only in the market-place is one assailed by Yea? or Nay?
Slow is the experience of all deep fountains: long have they to wait until they know WHAT hath fallen into their depths.
Away from the market-place and from fame taketh place all that is great:
away from the market-place and from fame have ever dwelt the devisers of new values.
Flee, my friend, into thy solitude: I see thee stung all over by the poisonous flies. Flee thither, where a rough, strong breeze bloweth!
Flee into thy solitude! Thou hast lived too closely to the small and the pitiable. Flee from their invisible vengeance! Towards thee they have nothing but vengeance.
Raise no longer an arm against them! Innumerable are they, and it is not thy lot to be a fly-flap.
Innumerable are the small and pitiable ones; and of many a proud structure, rain-drops and weeds have been the ruin.
Thou art not stone; but already hast thou become hollow by the numerous drops. Thou wilt yet break and burst by the numerous drops.
Exhausted I see thee, by poisonous flies; bleeding I see thee, and torn at a hundred spots; and thy pride will not even upbraid.
Blood they would have from thee in all innocence; blood their bloodless souls crave for—and they sting, therefore, in all innocence.
But thou, profound one, thou sufferest too profoundly even from small wounds; and ere thou hadst recovered, the same poison-worm crawled over thy hand.
Too proud art thou to kill these sweet-tooths. But take care lest it be thy fate to suffer all their poisonous injustice!
They buzz around thee also with their praise: obtrusiveness, is their praise. They want to be close to thy skin and thy blood.
They flatter thee, as one flattereth a God or devil; they whimper before thee, as before a God or devil. What doth it come to! Flatterers are they, and whimperers, and nothing more.
Often, also, do they show themselves to thee as amiable ones. But that hath ever been the prudence of the cowardly. Yea! the cowardly are wise!
They think much about thee with their circumscribed souls—thou art always suspected by them! Whatever is much thought about is at last thought suspicious.
They punish thee for all thy virtues. They pardon thee in their inmost hearts only—for thine errors.
Because thou art gentle and of upright character, thou sayest: “Blameless are they for their small existence.” But their circumscribed souls think:
“Blamable is all great existence.”
Even when thou art gentle towards them, they still feel themselves despised by thee; and they repay thy beneficence with secret maleficence.
Thy silent pride is always counter to their taste; they rejoice if once thou be humble enough to be frivolous.
What we recognise in a man, we also irritate in him. Therefore be on your guard against the small ones!
In thy presence they feel themselves small, and their baseness gleameth and gloweth against thee in invisible vengeance.
Sawest thou not how often they became dumb when thou approachedst them, and how their energy left them like the smoke of an extinguishing fire?
Yea, my friend, the bad conscience art thou of thy neighbours; for they are unworthy of thee. Therefore they hate thee, and would fain suck thy blood.
Thy neighbours will always be poisonous flies; what is great in thee—that itself must make them more poisonous, and always more fly-like.
Flee, my friend, into thy solitude—and thither, where a rough strong breeze bloweth. It is not thy lot to be a fly-flap.—
Thus spake Zarathustra.
XIII. CHASTITY.
I love the forest. It is bad to live in cities: there, there are too many of the lustful.
Is it not better to fall into the hands of a murderer, than into the dreams of a lustful woman?
And just look at these men: their eye saith it—they know nothing better on earth than to lie with a woman.
Filth is at the bottom of their souls; and alas! if their filth hath still spirit in it!
Would that ye were perfect—at least as animals! But to animals
belongeth innocence.
Do I counsel you to slay your instincts? I counsel you to innocence in your instincts.
Do I counsel you to chastity? Chastity is a virtue with some, but with many almost a vice.
These are continent, to be sure: but doggish lust looketh enviously out of all that they do.
Even into the heights of their virtue and into their cold spirit doth this creature follow them, with its discord.
And how nicely can doggish lust beg for a piece of spirit, when a piece of flesh is denied it!
Ye love tragedies and all that breaketh the heart? But I am distrustful of your doggish lust.
Ye have too cruel eyes, and ye look wantonly towards the sufferers. Hath not your lust just disguised itself and taken the name of fellow-suffering?
And also this parable give I unto you: Not a few who meant to cast out their devil, went thereby into the swine themselves.
To whom chastity is difficult, it is to be dissuaded: lest it become the road to hell—to filth and lust of soul.
Do I speak of filthy things? That is not the worst thing for me to do.
Not when the truth is filthy, but when it is shallow, doth the discerning one go unwillingly into its waters.
Verily, there are chaste ones from their very nature; they are gentler of heart, and laugh better and oftener than you.
They laugh also at chastity, and ask: “What is chastity?
Is chastity not folly? But the folly came unto us, and not we unto it.
We offered that guest harbour and heart: now it dwelleth with us—let it stay as long as it will!”—
Thus spake Zarathustra.
XIV. THE FRIEND.
“One, is always too many about me”—thinketh the anchorite. “Always once one—that maketh two in the long run!”
I and me are always too earnestly in conversation: how could it be endured, if there were not a friend?
The friend of the anchorite is always the third one: the third one is the cork which preventeth the conversation of the two sinking into the depth.
Ah! there are too many depths for all anchorites. Therefore, do they long so much for a friend, and for his elevation.
Our faith in others betrayeth wherein we would fain have faith in ourselves. Our longing for a friend is our betrayer.
And often with our love we want merely to overleap envy. And often we attack and make ourselves enemies, to conceal that we are vulnerable.
“Be at least mine enemy!”—thus speaketh the true reverence, which doth not venture to solicit friendship.
If one would have a friend, then must one also be willing to wage war for him: and in order to wage war, one must be CAPABLE of being an enemy.
One ought still to honour the enemy in one’s friend. Canst thou go nigh unto thy friend, and not go over to him?
In one’s friend one shall have one’s best enemy. Thou shalt be closest unto him with thy heart when thou withstandest him.
Thou wouldst wear no raiment before thy friend? It is in honour of thy friend that thou showest thyself to him as thou art? But he wisheth thee to the devil on that account!
He who maketh no secret of himself shocketh: so much reason have ye to fear nakedness! Aye, if ye were Gods, ye could then be ashamed of clothing!
Thou canst not adorn thyself fine enough for thy friend; for thou shalt be unto him an arrow and a longing for the Superman.
Sawest thou ever thy friend asleep—to know how he looketh? What is usually the countenance of thy friend? It is thine own countenance, in a coarse and imperfect mirror.
Sawest thou ever thy friend asleep? Wert thou not dismayed at thy friend looking so? O my friend, man is something that hath to be surpassed.
In divining and keeping silence shall the friend be a master: not
everything must thou wish to see. Thy dream shall disclose unto thee what thy friend doeth when awake.
Let thy pity be a divining: to know first if thy friend wanteth pity.
Perhaps he loveth in thee the unmoved eye, and the look of eternity.
Let thy pity for thy friend be hid under a hard shell; thou shalt bite out a tooth upon it. Thus will it have delicacy and sweetness.
Art thou pure air and solitude and bread and medicine to thy friend? Many a one cannot loosen his own fetters, but is nevertheless his friend’s emancipator.
Art thou a slave? Then thou canst not be a friend. Art thou a tyrant? Then thou canst not have friends.
Far too long hath there been a slave and a tyrant concealed in woman. On that account woman is not yet capable of friendship: she knoweth only love.
In woman’s love there is injustice and blindness to all she doth not love.
And even in woman’s conscious love, there is still always surprise and lightning and night, along with the light.
As yet woman is not capable of friendship: women are still cats, and birds. Or at the best, cows.
As yet woman is not capable of friendship. But tell me, ye men, who of you are capable of friendship?
Oh! your poverty, ye men, and your sordidness of soul! As much as ye give to your friend, will I give even to my foe, and will not have become poorer thereby.
There is comradeship: may there be friendship!
Thus spake Zarathustra.
XV. THE THOUSAND AND ONE GOALS.
Many lands saw Zarathustra, and many peoples: thus he discovered the good and bad of many peoples. No greater power did Zarathustra find on earth than good and bad.
No people could live without first valuing; if a people will maintain itself, however, it must not value as its neighbour valueth.
Much that passed for good with one people was regarded with scorn and contempt by another: thus I found it. Much found I here called bad, which was there decked with purple honours.
Never did the one neighbour understand the other: ever did his soul marvel at his neighbour’s delusion and wickedness.
A table of excellencies hangeth over every people. Lo! it is the table of their triumphs; lo! it is the voice of their Will to Power.
It is laudable, what they think hard; what is indispensable and hard they call good; and what relieveth in the direst distress, the unique and hardest of all,—they extol as holy.
Whatever maketh them rule and conquer and shine, to the dismay and envy of their neighbours, they regard as the high and foremost thing, the test and the meaning of all else.
Verily, my brother, if thou knewest but a people’s need, its land, its sky, and its neighbour, then wouldst thou divine the law of its surmountings, and why it climbeth up that ladder to its hope.
“Always shalt thou be the foremost and prominent above others: no one shall thy jealous soul love, except a friend”—that made the soul of a Greek thrill: thereby went he his way to greatness.
“To speak truth, and be skilful with bow and arrow”—so seemed it alike pleasing and hard to the people from whom cometh my name—the name which is alike pleasing and hard to me.
“To honour father and mother, and from the root of the soul to do their will”—this table of surmounting hung another people over them, and became powerful and permanent thereby.
“To have fidelity, and for the sake of fidelity to risk honour and blood, even in evil and dangerous courses”—teaching itself so, another people mastered itself, and thus mastering itself, became pregnant and heavy with great hopes.
Verily, men have given unto themselves all their good and bad. Verily, they took it not, they found it not, it came not unto them as a voice from heaven.
Values did man only assign to things in order to maintain himself—he
created only the significance of things, a human significance! Therefore, calleth he himself “man,” that is, the valuator.
Valuing is creating: hear it, ye creating ones! Valuation itself is the treasure and jewel of the valued things.
Through valuation only is there value; and without valuation the nut of existence would be hollow. Hear it, ye creating ones!
Change of values—that is, change of the creating ones. Always doth he destroy who hath to be a creator.
Creating ones were first of all peoples, and only in late times individuals; verily, the individual himself is still the latest creation.
Peoples once hung over them tables of the good. Love which would rule and love which would obey, created for themselves such tables.
Older is the pleasure in the herd than the pleasure in the ego: and as long as the good conscience is for the herd, the bad conscience only saith: ego.
Verily, the crafty ego, the loveless one, that seeketh its advantage in the advantage of many—it is not the origin of the herd, but its ruin.
Loving ones, was it always, and creating ones, that created good and bad.
Fire of love gloweth in the names of all the virtues, and fire of wrath.
Many lands saw Zarathustra, and many peoples: no greater power did Zarathustra find on earth than the creations of the loving ones—“good”
and “bad” are they called.
Verily, a prodigy is this power of praising and blaming. Tell me, ye brethren, who will master it for me? Who will put a fetter upon the thousand necks of this animal?
A thousand goals have there been hitherto, for a thousand peoples have there been. Only the fetter for the thousand necks is still lacking; there is lacking the one goal. As yet humanity hath not a goal.
But pray tell me, my brethren, if the goal of humanity be still lacking, is there not also still lacking—humanity itself?—
Thus spake Zarathustra.
XVI. NEIGHBOUR-LOVE.
Ye crowd around your neighbour, and have fine words for it. But I say unto you: your neighbour-love is your bad love of yourselves.
Ye flee unto your neighbour from yourselves, and would fain make a virtue thereof: but I fathom your “unselfishness.”
The THOU is older than the I; the THOU hath been consecrated, but not yet the I: so man presseth nigh unto his neighbour.
Do I advise you to neighbour-love? Rather do I advise you to neighbour-flight and to furthest love!
Higher than love to your neighbour is love to the furthest and future ones; higher still than love to men, is love to things and phantoms.
The phantom that runneth on before thee, my brother, is fairer than thou; why dost thou not give unto it thy flesh and thy bones? But thou fearest, and runnest unto thy neighbour.
Ye cannot endure it with yourselves, and do not love yourselves sufficiently: so ye seek to mislead your neighbour into love, and would fain gild yourselves with his error.
Would that ye could not endure it with any kind of near ones, or their neighbours; then would ye have to create your friend and his overflowing heart out of yourselves.
Ye call in a witness when ye want to speak well of yourselves; and when ye have misled him to think well of you, ye also think well of yourselves.
Not only doth he lie, who speaketh contrary to his knowledge, but more so, he who speaketh contrary to his ignorance. And thus speak ye of yourselves in your intercourse, and belie your neighbour with yourselves.
Thus saith the fool: “Association with men spoileth the character, especially when one hath none.”
The one goeth to his neighbour because he seeketh himself, and the other because he would fain lose himself. Your bad love to yourselves maketh solitude a prison to you.
The furthest ones are they who pay for your love to the near ones; and when there are but five of you together, a sixth must always die.
I love not your festivals either: too many actors found I there, and even
the spectators often behaved like actors.
Not the neighbour do I teach you, but the friend. Let the friend be the festival of the earth to you, and a foretaste of the Superman.
I teach you the friend and his overflowing heart. But one must know how to be a sponge, if one would be loved by overflowing hearts.
I teach you the friend in whom the world standeth complete, a capsule of the good,—the creating friend, who hath always a complete world to bestow.
And as the world unrolled itself for him, so rolleth it together again for him in rings, as the growth of good through evil, as the growth of purpose out of chance.
Let the future and the furthest be the motive of thy to-day; in thy friend shalt thou love the Superman as thy motive.
My brethren, I advise you not to neighbour-love—I advise you to furthest love!—
Thus spake Zarathustra.
XVII. THE WAY OF THE CREATING ONE.
Wouldst thou go into isolation, my brother? Wouldst thou seek the way unto thyself? Tarry yet a little and hearken unto me.
“He who seeketh may easily get lost himself. All isolation is wrong”: so say the herd. And long didst thou belong to the herd.
The voice of the herd will still echo in thee. And when thou sayest, “I have no longer a conscience in common with you,” then will it be a plaint and a pain.
Lo, that pain itself did the same conscience produce; and the last gleam of that conscience still gloweth on thine affliction.
But thou wouldst go the way of thine affliction, which is the way unto thyself? Then show me thine authority and thy strength to do so!
Art thou a new strength and a new authority? A first motion? A self-rolling wheel? Canst thou also compel stars to revolve around thee?
Alas! there is so much lusting for loftiness! There are so many convulsions of the ambitions! Show me that thou art not a lusting and ambitious one!
Alas! there are so many great thoughts that do nothing more than the bellows: they inflate, and make emptier than ever.
Free, dost thou call thyself? Thy ruling thought would I hear of, and not that thou hast escaped from a yoke.
Art thou one ENTITLED to escape from a yoke? Many a one hath cast away his final worth when he hath cast away his servitude.
Free from what? What doth that matter to Zarathustra! Clearly, however, shall thine eye show unto me: free FOR WHAT?
Canst thou give unto thyself thy bad and thy good, and set up thy will as a law over thee? Canst thou be judge for thyself, and avenger of thy law?
Terrible is aloneness with the judge and avenger of one’s own law. Thus is a star projected into desert space, and into the icy breath of aloneness.
To-day sufferest thou still from the multitude, thou individual; to-day hast thou still thy courage unabated, and thy hopes.
But one day will the solitude weary thee; one day will thy pride yield, and thy courage quail. Thou wilt one day cry: “I am alone!”
One day wilt thou see no longer thy loftiness, and see too closely thy lowliness; thy sublimity itself will frighten thee as a phantom. Thou wilt one day cry: “All is false!”
There are feelings which seek to slay the lonesome one; if they do not succeed, then must they themselves die! But art thou capable of it—to be a murderer?
Hast thou ever known, my brother, the word “disdain”? And the anguish of thy justice in being just to those that disdain thee?
Thou forcest many to think differently about thee; that, charge they heavily to thine account. Thou camest nigh unto them, and yet wentest past: for that they never forgive thee.
Thou goest beyond them: but the higher thou risest, the smaller doth the eye of envy see thee. Most of all, however, is the flying one hated.
“How could ye be just unto me!”—must thou say—“I choose your injustice as my allotted portion.”
Injustice and filth cast they at the lonesome one: but, my brother, if
thou wouldst be a star, thou must shine for them none the less on that account!
And be on thy guard against the good and just! They would fain crucify those who devise their own virtue—they hate the lonesome ones.
Be on thy guard, also, against holy simplicity! All is unholy to it that is not simple; fain, likewise, would it play with the fire—of the fagot and stake.
And be on thy guard, also, against the assaults of thy love! Too readily doth the recluse reach his hand to any one who meeteth him.
To many a one mayest thou not give thy hand, but only thy paw; and I wish thy paw also to have claws.
But the worst enemy thou canst meet, wilt thou thyself always be; thou waylayest thyself in caverns and forests.
Thou lonesome one, thou goest the way to thyself! And past thyself and thy seven devils leadeth thy way!
A heretic wilt thou be to thyself, and a wizard and a sooth-sayer, and a fool, and a doubter, and a reprobate, and a villain.
Ready must thou be to burn thyself in thine own flame; how couldst thou become new if thou have not first become ashes!
Thou lonesome one, thou goest the way of the creating one: a God wilt thou create for thyself out of thy seven devils!
Thou lonesome one, thou goest the way of the loving one: thou lovest thyself, and on that account despisest thou thyself, as only the loving ones despise.
To create, desireth the loving one, because he despiseth! What knoweth he of love who hath not been obliged to despise just what he loved!
With thy love, go into thine isolation, my brother, and with thy creating; and late only will justice limp after thee.
With my tears, go into thine isolation, my brother. I love him who seeketh to create beyond himself, and thus succumbeth.—
Thus spake Zarathustra.
XVIII. OLD AND YOUNG WOMEN.
“Why stealest thou along so furtively in the twilight, Zarathustra? And what hidest thou so carefully under thy mantle?
Is it a treasure that hath been given thee? Or a child that hath been born thee? Or goest thou thyself on a thief’s errand, thou friend of the evil?”—
Verily, my brother, said Zarathustra, it is a treasure that hath been given me: it is a little truth which I carry.
But it is naughty, like a young child; and if I hold not its mouth, it screameth too loudly.
As I went on my way alone to-day, at the hour when the sun declineth, there met me an old woman, and she spake thus unto my soul:
“Much hath Zarathustra spoken also to us women, but never spake he unto us concerning woman.”
And I answered her: “Concerning woman, one should only talk unto men.”
“Talk also unto me of woman,” said she; “I am old enough to forget it presently.”
And I obliged the old woman and spake thus unto her: Everything in woman is a riddle, and everything in woman hath one solution—it is called pregnancy.
Man is for woman a means: the purpose is always the child. But what is woman for man?
Two different things wanteth the true man: danger and diversion. Therefore wanteth he woman, as the most dangerous plaything.
Man shall be trained for war, and woman for the recreation of the warrior: all else is folly.
Too sweet fruits—these the warrior liketh not. Therefore liketh he woman;—bitter is even the sweetest woman.
Better than man doth woman understand children, but man is more childish than woman.
In the true man there is a child hidden: it wanteth to play. Up then, ye women, and discover the child in man!
A plaything let woman be, pure and fine like the precious stone, illumined with the virtues of a world not yet come.
Let the beam of a star shine in your love! Let your hope say: “May I bear
the Superman!”
In your love let there be valour! With your love shall ye assail him who inspireth you with fear!
In your love be your honour! Little doth woman understand otherwise about honour. But let this be your honour: always to love more than ye are loved, and never be the second.
Let man fear woman when she loveth: then maketh she every sacrifice, and everything else she regardeth as worthless.
Let man fear woman when she hateth: for man in his innermost soul is merely evil; woman, however, is mean.
Whom hateth woman most?—Thus spake the iron to the loadstone: “I hate thee most, because thou attractest, but art too weak to draw unto thee.”
The happiness of man is, “I will.” The happiness of woman is, “He will.”
“Lo! now hath the world become perfect!”—thus thinketh every woman when she obeyeth with all her love.
Obey, must the woman, and find a depth for her surface. Surface, is woman’s soul, a mobile, stormy film on shallow water.
Man’s soul, however, is deep, its current gusheth in subterranean caverns: woman surmiseth its force, but comprehendeth it not.—
Then answered me the old woman: “Many fine things hath Zarathustra said, especially for those who are young enough for them.
Strange! Zarathustra knoweth little about woman, and yet he is right about them! Doth this happen, because with women nothing is impossible?
And now accept a little truth by way of thanks! I am old enough for it!
Swaddle it up and hold its mouth: otherwise it will scream too loudly, the little truth.”
“Give me, woman, thy little truth!” said I. And thus spake the old woman:
“Thou goest to women? Do not forget thy whip!”—
Thus spake Zarathustra.
XIX. THE BITE OF THE ADDER.
One day had Zarathustra fallen asleep under a fig-tree, owing to the heat, with his arms over his face. And there came an adder and bit him in the neck, so that Zarathustra screamed with pain. When he had taken his arm from his face he looked at the serpent; and then did it recognise the eyes of Zarathustra, wriggled awkwardly, and tried to get away. “Not at all,”
said Zarathustra, “as yet hast thou not received my thanks! Thou hast awakened me in time; my journey is yet long.” “Thy journey is short,” said the adder sadly; “my poison is fatal.” Zarathustra smiled. “When did ever a dragon die of a serpent’s poison?”—said he. “But take thy poison back! Thou art not rich enough to present it to me.” Then fell the adder again on his neck, and licked his wound.
When Zarathustra once told this to his disciples they asked him: “And what, O Zarathustra, is the moral of thy story?” And Zarathustra answered them thus:
The destroyer of morality, the good and just call me: my story is immoral.
When, however, ye have an enemy, then return him not good for evil: for that would abash him. But prove that he hath done something good to you.
And rather be angry than abash any one! And when ye are cursed, it pleaseth me not that ye should then desire to bless. Rather curse a little also!
And should a great injustice befall you, then do quickly five small ones besides. Hideous to behold is he on whom injustice presseth alone.
Did ye ever know this? Shared injustice is half justice. And he who can bear it, shall take the injustice upon himself!
A small revenge is humaner than no revenge at all. And if the punishment be not also a right and an honour to the transgressor, I do not like your punishing.
Nobler is it to own oneself in the wrong than to establish one’s right, especially if one be in the right. Only, one must be rich enough to do so.
I do not like your cold justice; out of the eye of your judges there always glanceth the executioner and his cold steel.
Tell me: where find we justice, which is love with seeing eyes?
Devise me, then, the love which not only beareth all punishment, but also all guilt!
Devise me, then, the justice which acquitteth every one except the judge!
And would ye hear this likewise? To him who seeketh to be just from the heart, even the lie becometh philanthropy.
But how could I be just from the heart! How can I give every one his own!
Let this be enough for me: I give unto every one mine own.
Finally, my brethren, guard against doing wrong to any anchorite. How could an anchorite forget! How could he requite!
Like a deep well is an anchorite. Easy is it to throw in a stone: if it should sink to the bottom, however, tell me, who will bring it out again?
Guard against injuring the anchorite! If ye have done so, however, well then, kill him also!—
Thus spake Zarathustra.
XX. CHILD AND MARRIAGE.
I have a question for thee alone, my brother: like a sounding-lead, cast I this question into thy soul, that I may know its depth.
Thou art young, and desirest child and marriage. But I ask thee: Art thou a man ENTITLED to desire a child?
Art thou the victorious one, the self-conqueror, the ruler of thy passions, the master of thy virtues? Thus do I ask thee.
Or doth the animal speak in thy wish, and necessity? Or isolation? Or discord in thee?
I would have thy victory and freedom long for a child. Living monuments shalt thou build to thy victory and emancipation.
Beyond thyself shalt thou build. But first of all must thou be built thyself, rectangular in body and soul.
Not only onward shalt thou propagate thyself, but upward! For that purpose may the garden of marriage help thee!
A higher body shalt thou create, a first movement, a spontaneously rolling wheel—a creating one shalt thou create.
Marriage: so call I the will of the twain to create the one that is more than those who created it. The reverence for one another, as those exercising such a will, call I marriage.
Let this be the significance and the truth of thy marriage. But that which the many-too-many call marriage, those superfluous ones—ah, what shall I call it?
Ah, the poverty of soul in the twain! Ah, the filth of soul in the twain!
Ah, the pitiable self-complacency in the twain!
Marriage they call it all; and they say their marriages are made in heaven.
Well, I do not like it, that heaven of the superfluous! No, I do not like them, those animals tangled in the heavenly toils!
Far from me also be the God who limpeth thither to bless what he hath not matched!
Laugh not at such marriages! What child hath not had reason to weep over its parents?
Worthy did this man seem, and ripe for the meaning of the earth: but when I saw his wife, the earth seemed to me a home for madcaps.
Yea, I would that the earth shook with convulsions when a saint and a goose mate with one another.
This one went forth in quest of truth as a hero, and at last got for himself a small decked-up lie: his marriage he calleth it.
That one was reserved in intercourse and chose choicely. But one time he spoilt his company for all time: his marriage he calleth it.
Another sought a handmaid with the virtues of an angel. But all at once he became the handmaid of a woman, and now would he need also to become an angel.
Careful, have I found all buyers, and all of them have astute eyes. But even the astutest of them buyeth his wife in a sack.
Many short follies—that is called love by you. And your marriage putteth an end to many short follies, with one long stupidity.
Your love to woman, and woman’s love to man—ah, would that it were sympathy for suffering and veiled deities! But generally two animals alight on one another.
But even your best love is only an enraptured simile and a painful ardour.
It is a torch to light you to loftier paths.
Beyond yourselves shall ye love some day! Then LEARN first of all to love.
And on that account ye had to drink the bitter cup of your love.
Bitterness is in the cup even of the best love: thus doth it cause longing for the Superman; thus doth it cause thirst in thee, the creating one!
Thirst in the creating one, arrow and longing for the Superman: tell me, my brother, is this thy will to marriage?
Holy call I such a will, and such a marriage.—
Thus spake Zarathustra.
XXI. VOLUNTARY DEATH.
Many die too late, and some die too early. Yet strange soundeth the precept: “Die at the right time!”
Die at the right time: so teacheth Zarathustra.
To be sure, he who never liveth at the right time, how could he ever die at the right time? Would that he might never be born!—Thus do I advise the superfluous ones.
But even the superfluous ones make much ado about their death, and even the hollowest nut wanteth to be cracked.
Every one regardeth dying as a great matter: but as yet death is not a festival. Not yet have people learned to inaugurate the finest festivals.
The consummating death I show unto you, which becometh a stimulus and promise to the living.
His death, dieth the consummating one triumphantly, surrounded by hoping and promising ones.
Thus should one learn to die; and there should be no festival at which such a dying one doth not consecrate the oaths of the living!
Thus to die is best; the next best, however, is to die in battle, and sacrifice a great soul.
But to the fighter equally hateful as to the victor, is your grinning death which stealeth nigh like a thief,—and yet cometh as master.
My death, praise I unto you, the voluntary death, which cometh unto me because I want it.
And when shall I want it?—He that hath a goal and an heir, wanteth death at the right time for the goal and the heir.
And out of reverence for the goal and the heir, he will hang up no more withered wreaths in the sanctuary of life.
Verily, not the rope-makers will I resemble: they lengthen out their cord, and thereby go ever backward.
Many a one, also, waxeth too old for his truths and triumphs; a toothless mouth hath no longer the right to every truth.
And whoever wanteth to have fame, must take leave of honour betimes, and practise the difficult art of—going at the right time.
One must discontinue being feasted upon when one tasteth best: that is known by those who want to be long loved.
Sour apples are there, no doubt, whose lot is to wait until the last day of autumn: and at the same time they become ripe, yellow, and shrivelled.
In some ageth the heart first, and in others the spirit. And some are hoary in youth, but the late young keep long young.
To many men life is a failure; a poison-worm gnaweth at their heart. Then let them see to it that their dying is all the more a success.
Many never become sweet; they rot even in the summer. It is cowardice that holdeth them fast to their branches.
Far too many live, and far too long hang they on their branches. Would that a storm came and shook all this rottenness and worm-eatenness from the tree!
Would that there came preachers of SPEEDY death! Those would be the appropriate storms and agitators of the trees of life! But I hear only slow death preached, and patience with all that is “earthly.”
Ah! ye preach patience with what is earthly? This earthly is it that hath too much patience with you, ye blasphemers!
Verily, too early died that Hebrew whom the preachers of slow death honour: and to many hath it proved a calamity that he died too early.
As yet had he known only tears, and the melancholy of the Hebrews, together with the hatred of the good and just—the Hebrew Jesus: then was he seized with the longing for death.
Had he but remained in the wilderness, and far from the good and just!
Then, perhaps, would he have learned to live, and love the earth—and laughter also!
Believe it, my brethren! He died too early; he himself would have disavowed his doctrine had he attained to my age! Noble enough was he to disavow!
But he was still immature. Immaturely loveth the youth, and immaturely also hateth he man and earth. Confined and awkward are still his soul and the wings of his spirit.
But in man there is more of the child than in the youth, and less of melancholy: better understandeth he about life and death.
Free for death, and free in death; a holy Naysayer, when there is no longer time for Yea: thus understandeth he about death and life.
That your dying may not be a reproach to man and the earth, my friends: that do I solicit from the honey of your soul.
In your dying shall your spirit and your virtue still shine like an evening after-glow around the earth: otherwise your dying hath been unsatisfactory.
Thus will I die myself, that ye friends may love the earth more for my sake; and earth will I again become, to have rest in her that bore me.
Verily, a goal had Zarathustra; he threw his ball. Now be ye friends the heirs of my goal; to you throw I the golden ball.
Best of all, do I see you, my friends, throw the golden ball! And so tarry I still a little while on the earth—pardon me for it!
Thus spake Zarathustra.
XXII. THE BESTOWING VIRTUE.
1.
When Zarathustra had taken leave of the town to which his heart was attached, the name of which is “The Pied Cow,” there followed him many people who called themselves his disciples, and kept him company. Thus came they to a crossroad. Then Zarathustra told them that he now wanted to go alone; for he was fond of going alone. His disciples, however, presented him at his departure with a staff, on the golden handle of which a serpent twined round the sun. Zarathustra rejoiced on account of the staff, and supported himself thereon; then spake he thus to his disciples: Tell me, pray: how came gold to the highest value? Because it is uncommon, and unprofiting, and beaming, and soft in lustre; it always bestoweth itself.
Only as image of the highest virtue came gold to the highest value.
Goldlike, beameth the glance of the bestower. Gold-lustre maketh peace between moon and sun.
Uncommon is the highest virtue, and unprofiting, beaming is it, and soft of lustre: a bestowing virtue is the highest virtue.
Verily, I divine you well, my disciples: ye strive like me for the bestowing virtue. What should ye have in common with cats and wolves?
It is your thirst to become sacrifices and gifts yourselves: and therefore have ye the thirst to accumulate all riches in your soul.
Insatiably striveth your soul for treasures and jewels, because your virtue is insatiable in desiring to bestow.
Ye constrain all things to flow towards you and into you, so that they shall flow back again out of your fountain as the gifts of your love.
Verily, an appropriator of all values must such bestowing love become; but healthy and holy, call I this selfishness.—
Another selfishness is there, an all-too-poor and hungry kind, which would always steal—the selfishness of the sick, the sickly selfishness.
With the eye of the thief it looketh upon all that is lustrous; with the craving of hunger it measureth him who hath abundance; and ever doth it prowl round the tables of bestowers.
Sickness speaketh in such craving, and invisible degeneration; of a sickly body, speaketh the larcenous craving of this selfishness.
Tell me, my brother, what do we think bad, and worst of all? Is it not DEGENERATION?—And we always suspect degeneration when the bestowing soul is lacking.
Upward goeth our course from genera on to super-genera. But a horror to us is the degenerating sense, which saith: “All for myself.”
Upward soareth our sense: thus is it a simile of our body, a simile of an
elevation. Such similes of elevations are the names of the virtues.
Thus goeth the body through history, a becomer and fighter. And the spirit—what is it to the body? Its fights’ and victories’ herald, its companion and echo.
Similes, are all names of good and evil; they do not speak out, they only hint. A fool who seeketh knowledge from them!
Give heed, my brethren, to every hour when your spirit would speak in similes: there is the origin of your virtue.
Elevated is then your body, and raised up; with its delight, enraptureth it the spirit; so that it becometh creator, and valuer, and lover, and everything’s benefactor.
When your heart overfloweth broad and full like the river, a blessing and a danger to the lowlanders: there is the origin of your virtue.
When ye are exalted above praise and blame, and your will would command all things, as a loving one’s will: there is the origin of your virtue.
When ye despise pleasant things, and the effeminate couch, and cannot couch far enough from the effeminate: there is the origin of your virtue.
When ye are willers of one will, and when that change of every need is needful to you: there is the origin of your virtue.
Verily, a new good and evil is it! Verily, a new deep murmuring, and the voice of a new fountain!
Power is it, this new virtue; a ruling thought is it, and around it a subtle soul: a golden sun, with the serpent of knowledge around it.
2.
Here paused Zarathustra awhile, and looked lovingly on his disciples. Then he continued to speak thus—and his voice had changed: Remain true to the earth, my brethren, with the power of your virtue! Let your bestowing love and your knowledge be devoted to be the meaning of the earth! Thus do I pray and conjure you.
Let it not fly away from the earthly and beat against eternal walls with its wings! Ah, there hath always been so much flown-away virtue!
Lead, like me, the flown-away virtue back to the earth—yea, back to body and life: that it may give to the earth its meaning, a human meaning!
A hundred times hitherto hath spirit as well as virtue flown away and blundered. Alas! in our body dwelleth still all this delusion and blundering: body and will hath it there become.
A hundred times hitherto hath spirit as well as virtue attempted and erred. Yea, an attempt hath man been. Alas, much ignorance and error hath become embodied in us!
Not only the rationality of millenniums—also their madness, breaketh out in us. Dangerous is it to be an heir.
Still fight we step by step with the giant Chance, and over all mankind hath hitherto ruled nonsense, the lack-of-sense.
Let your spirit and your virtue be devoted to the sense of the earth, my brethren: let the value of everything be determined anew by you! Therefore shall ye be fighters! Therefore shall ye be creators!
Intelligently doth the body purify itself; attempting with intelligence it exalteth itself; to the discerners all impulses sanctify themselves; to the exalted the soul becometh joyful.
Physician, heal thyself: then wilt thou also heal thy patient. Let it be his best cure to see with his eyes him who maketh himself whole.
A thousand paths are there which have never yet been trodden; a thousand salubrities and hidden islands of life. Unexhausted and undiscovered is still man and man’s world.
Awake and hearken, ye lonesome ones! From the future come winds with stealthy pinions, and to fine ears good tidings are proclaimed.
Ye lonesome ones of to-day, ye seceding ones, ye shall one day be a people: out of you who have chosen yourselves, shall a chosen people arise:—and out of it the Superman.
Verily, a place of healing shall the earth become! And already is a new odour diffused around it, a salvation-bringing odour—and a new hope!
3.
When Zarathustra had spoken these words, he paused, like one who had not said his last word; and long did he balance the staff doubtfully in his hand. At last he spake thus—and his voice had changed:
I now go alone, my disciples! Ye also now go away, and alone! So will I have it.
Verily, I advise you: depart from me, and guard yourselves against Zarathustra! And better still: be ashamed of him! Perhaps he hath deceived you.
The man of knowledge must be able not only to love his enemies, but also to hate his friends.
One requiteth a teacher badly if one remain merely a scholar. And why will ye not pluck at my wreath?
Ye venerate me; but what if your veneration should some day collapse? Take heed lest a statue crush you!
Ye say, ye believe in Zarathustra? But of what account is Zarathustra! Ye are my believers: but of what account are all believers!
Ye had not yet sought yourselves: then did ye find me. So do all believers; therefore all belief is of so little account.
Now do I bid you lose me and find yourselves; and only when ye have all denied me, will I return unto you.
Verily, with other eyes, my brethren, shall I then seek my lost ones; with another love shall I then love you.
And once again shall ye have become friends unto me, and children of one hope: then will I be with you for the third time, to celebrate the great noontide with you.
And it is the great noontide, when man is in the middle of his course between animal and Superman, and celebrateth his advance to the evening as his highest hope: for it is the advance to a new morning.
At such time will the down-goer bless himself, that he should be an over-goer; and the sun of his knowledge will be at noontide.
“DEAD ARE ALL THE GODS: NOW DO WE DESIRE THE SUPERMAN TO LIVE.”—Let this be our final will at the great noontide!—
Thus spake Zarathustra.
THUS SPAKE ZARATHUSTRA. SECOND PART.
“—and only when ye have all denied me, will I return unto you.
Verily, with other eyes, my brethren, shall I then seek my lost ones; with another love shall I then love you.”—ZARATHUSTRA, I., “The Bestowing Virtue.”
XXIII. THE CHILD WITH THE MIRROR.
After this Zarathustra returned again into the mountains to the solitude of his cave, and withdrew himself from men, waiting like a sower who hath scattered his seed. His soul, however, became impatient and full of longing for those whom he loved: because he had still much to give them.
For this is hardest of all: to close the open hand out of love, and keep modest as a giver.
Thus passed with the lonesome one months and years; his wisdom meanwhile increased, and caused him pain by its abundance.
One morning, however, he awoke ere the rosy dawn, and having meditated long on his couch, at last spake thus to his heart: Why did I startle in my dream, so that I awoke? Did not a child come to me, carrying a mirror?
“O Zarathustra”—said the child unto me—“look at thyself in the mirror!”
But when I looked into the mirror, I shrieked, and my heart throbbed: for not myself did I see therein, but a devil’s grimace and derision.
Verily, all too well do I understand the dream’s portent and monition: my DOCTRINE is in danger; tares want to be called wheat!
Mine enemies have grown powerful and have disfigured the likeness of my doctrine, so that my dearest ones have to blush for the gifts that I gave them.
Lost are my friends; the hour hath come for me to seek my lost ones!—
With these words Zarathustra started up, not however like a person in anguish seeking relief, but rather like a seer and a singer whom the spirit inspireth. With amazement did his eagle and serpent gaze upon him: for a coming bliss overspread his countenance like the rosy dawn.
What hath happened unto me, mine animals?—said Zarathustra. Am I not transformed? Hath not bliss come unto me like a whirlwind?
Foolish is my happiness, and foolish things will it speak: it is still too
young—so have patience with it!
Wounded am I by my happiness: all sufferers shall be physicians unto me!
To my friends can I again go down, and also to mine enemies! Zarathustra can again speak and bestow, and show his best love to his loved ones!
My impatient love overfloweth in streams,—down towards sunrise and sunset. Out of silent mountains and storms of affliction, rusheth my soul into the valleys.
Too long have I longed and looked into the distance. Too long hath solitude possessed me: thus have I unlearned to keep silence.
Utterance have I become altogether, and the brawling of a brook from high rocks: downward into the valleys will I hurl my speech.
And let the stream of my love sweep into unfrequented channels! How should a stream not finally find its way to the sea!
Forsooth, there is a lake in me, sequestered and self-sufficing; but the stream of my love beareth this along with it, down—to the sea!
New paths do I tread, a new speech cometh unto me; tired have I become—
like all creators—of the old tongues. No longer will my spirit walk on worn-out soles.
Too slowly runneth all speaking for me:—into thy chariot, O storm, do I leap! And even thee will I whip with my spite!
Like a cry and an huzza will I traverse wide seas, till I find the Happy Isles where my friends sojourn;—
And mine enemies amongst them! How I now love every one unto whom I may but speak! Even mine enemies pertain to my bliss.
And when I want to mount my wildest horse, then doth my spear always help me up best: it is my foot’s ever ready servant:—
The spear which I hurl at mine enemies! How grateful am I to mine enemies that I may at last hurl it!
Too great hath been the tension of my cloud: ‘twixt laughters of lightnings will I cast hail-showers into the depths.
Violently will my breast then heave; violently will it blow its storm over the mountains: thus cometh its assuagement.
Verily, like a storm cometh my happiness, and my freedom! But mine enemies shall think that THE EVIL ONE roareth over their heads.
Yea, ye also, my friends, will be alarmed by my wild wisdom; and perhaps ye will flee therefrom, along with mine enemies.
Ah, that I knew how to lure you back with shepherds’ flutes! Ah, that my lioness wisdom would learn to roar softly! And much have we already learned with one another!
My wild wisdom became pregnant on the lonesome mountains; on the rough stones did she bear the youngest of her young.
Now runneth she foolishly in the arid wilderness, and seeketh and seeketh the soft sward—mine old, wild wisdom!
On the soft sward of your hearts, my friends!—on your love, would she fain couch her dearest one!—
Thus spake Zarathustra.
XXIV. IN THE HAPPY ISLES.
The figs fall from the trees, they are good and sweet; and in falling the red skins of them break. A north wind am I to ripe figs.
Thus, like figs, do these doctrines fall for you, my friends: imbibe now their juice and their sweet substance! It is autumn all around, and clear sky, and afternoon.
Lo, what fullness is around us! And out of the midst of superabundance, it is delightful to look out upon distant seas.
Once did people say God, when they looked out upon distant seas; now, however, have I taught you to say, Superman.
God is a conjecture: but I do not wish your conjecturing to reach beyond your creating will.
Could ye CREATE a God?—Then, I pray you, be silent about all Gods!
But ye could well create the Superman.
Not perhaps ye yourselves, my brethren! But into fathers and forefathers of the Superman could ye transform yourselves: and let that be your best creating!—
God is a conjecture: but I should like your conjecturing restricted to the conceivable.
Could ye CONCEIVE a God?—But let this mean Will to Truth unto you, that everything be transformed into the humanly conceivable, the humanly visible, the humanly sensible! Your own discernment shall ye follow out to the end!
And what ye have called the world shall but be created by you: your reason, your likeness, your will, your love, shall it itself become! And verily, for your bliss, ye discerning ones!
And how would ye endure life without that hope, ye discerning ones?
Neither in the inconceivable could ye have been born, nor in the irrational.
But that I may reveal my heart entirely unto you, my friends: IF there were gods, how could I endure it to be no God! THEREFORE there are no Gods.
Yea, I have drawn the conclusion; now, however, doth it draw me.—
God is a conjecture: but who could drink all the bitterness of this conjecture without dying? Shall his faith be taken from the creating one, and from the eagle his flights into eagle-heights?
God is a thought—it maketh all the straight crooked, and all that standeth reel. What? Time would be gone, and all the perishable would be but a lie?
To think this is giddiness and vertigo to human limbs, and even vomiting to the stomach: verily, the reeling sickness do I call it, to conjecture such a thing.
Evil do I call it and misanthropic: all that teaching about the one, and the plenum, and the unmoved, and the sufficient, and the imperishable!
All the imperishable—that’s but a simile, and the poets lie too much.—
But of time and of becoming shall the best similes speak: a praise shall they be, and a justification of all perishableness!
Creating—that is the great salvation from suffering, and life’s alleviation. But for the creator to appear, suffering itself is needed, and much transformation.
Yea, much bitter dying must there be in your life, ye creators! Thus are ye advocates and justifiers of all perishableness.
For the creator himself to be the new-born child, he must also be willing to be the child-bearer, and endure the pangs of the child-bearer.
Verily, through a hundred souls went I my way, and through a hundred cradles and birth-throes. Many a farewell have I taken; I know the heart-breaking last hours.
But so willeth it my creating Will, my fate. Or, to tell you it more candidly: just such a fate—willeth my Will.
All FEELING suffereth in me, and is in prison: but my WILLING ever cometh to me as mine emancipator and comforter.
Willing emancipateth: that is the true doctrine of will and emancipation—so teacheth you Zarathustra.
No longer willing, and no longer valuing, and no longer creating! Ah, that that great debility may ever be far from me!
And also in discerning do I feel only my will’s procreating and evolving delight; and if there be innocence in my knowledge, it is because there is will to procreation in it.
Away from God and Gods did this will allure me; what would there be to create if there were—Gods!
But to man doth it ever impel me anew, my fervent creative will; thus impelleth it the hammer to the stone.
Ah, ye men, within the stone slumbereth an image for me, the image of my visions! Ah, that it should slumber in the hardest, ugliest stone!
Now rageth my hammer ruthlessly against its prison. From the stone fly the fragments: what’s that to me?
I will complete it: for a shadow came unto me—the stillest and lightest of all things once came unto me!
The beauty of the Superman came unto me as a shadow. Ah, my brethren! Of what account now are—the Gods to me!—
Thus spake Zarathustra.
XXV. THE PITIFUL.
My friends, there hath arisen a satire on your friend: “Behold
Zarathustra! Walketh he not amongst us as if amongst animals?”
But it is better said in this wise: “The discerning one walketh amongst men AS amongst animals.”
Man himself is to the discerning one: the animal with red cheeks.
How hath that happened unto him? Is it not because he hath had to be ashamed too oft?
O my friends! Thus speaketh the discerning one: shame, shame, shame—that is the history of man!
And on that account doth the noble one enjoin upon himself not to abash: bashfulness doth he enjoin on himself in presence of all sufferers.
Verily, I like them not, the merciful ones, whose bliss is in their pity: too destitute are they of bashfulness.
If I must be pitiful, I dislike to be called so; and if I be so, it is preferably at a distance.
Preferably also do I shroud my head, and flee, before being recognised: and thus do I bid you do, my friends!
May my destiny ever lead unafflicted ones like you across my path, and those with whom I MAY have hope and repast and honey in common!
Verily, I have done this and that for the afflicted: but something better did I always seem to do when I had learned to enjoy myself better.
Since humanity came into being, man hath enjoyed himself too little: that alone, my brethren, is our original sin!
And when we learn better to enjoy ourselves, then do we unlearn best to give pain unto others, and to contrive pain.
Therefore do I wash the hand that hath helped the sufferer; therefore do I wipe also my soul.
For in seeing the sufferer suffering—thereof was I ashamed on account of his shame; and in helping him, sorely did I wound his pride.
Great obligations do not make grateful, but revengeful; and when a small kindness is not forgotten, it becometh a gnawing worm.
“Be shy in accepting! Distinguish by accepting!”—thus do I advise those who have naught to bestow.
I, however, am a bestower: willingly do I bestow as friend to friends.
Strangers, however, and the poor, may pluck for themselves the fruit from my tree: thus doth it cause less shame.
Beggars, however, one should entirely do away with! Verily, it annoyeth one to give unto them, and it annoyeth one not to give unto them.
And likewise sinners and bad consciences! Believe me, my friends: the sting of conscience teacheth one to sting.
The worst things, however, are the petty thoughts. Verily, better to have done evilly than to have thought pettily!
To be sure, ye say: “The delight in petty evils spareth one many a great evil deed.” But here one should not wish to be sparing.
Like a boil is the evil deed: it itcheth and irritateth and breaketh forth—it speaketh honourably.
“Behold, I am disease,” saith the evil deed: that is its honourableness.
But like infection is the petty thought: it creepeth and hideth, and wanteth to be nowhere—until the whole body is decayed and withered by the petty infection.
To him however, who is possessed of a devil, I would whisper this word in the ear: “Better for thee to rear up thy devil! Even for thee there is still a path to greatness!”—
Ah, my brethren! One knoweth a little too much about every one! And many a one becometh transparent to us, but still we can by no means penetrate him.
It is difficult to live among men because silence is so difficult.
And not to him who is offensive to us are we most unfair, but to him who doth not concern us at all.
If, however, thou hast a suffering friend, then be a resting-place for his suffering; like a hard bed, however, a camp-bed: thus wilt thou serve him best.
And if a friend doeth thee wrong, then say: “I forgive thee what thou hast done unto me; that thou hast done it unto THYSELF, however—how could I forgive that!”
Thus speaketh all great love: it surpasseth even forgiveness and pity.
One should hold fast one’s heart; for when one letteth it go, how quickly doth one’s head run away!
Ah, where in the world have there been greater follies than with the pitiful? And what in the world hath caused more suffering than the follies of the pitiful?
Woe unto all loving ones who have not an elevation which is above their pity!
Thus spake the devil unto me, once on a time: “Even God hath his hell: it is his love for man.”
And lately, did I hear him say these words: “God is dead: of his pity for man hath God died.”—
So be ye warned against pity: FROM THENCE there yet cometh unto men a heavy cloud! Verily, I understand weather-signs!
But attend also to this word: All great love is above all its pity: for it seeketh—to create what is loved!
“Myself do I offer unto my love, AND MY NEIGHBOUR AS MYSELF”—such is the language of all creators.
All creators, however, are hard.—
Thus spake Zarathustra.
XXVI. THE PRIESTS.
And one day Zarathustra made a sign to his disciples, and spake these words unto them:
“Here are priests: but although they are mine enemies, pass them quietly and with sleeping swords!
Even among them there are heroes; many of them have suffered too much—: so they want to make others suffer.
Bad enemies are they: nothing is more revengeful than their meekness. And readily doth he soil himself who toucheth them.
But my blood is related to theirs; and I want withal to see my blood honoured in theirs.”—
And when they had passed, a pain attacked Zarathustra; but not long had he struggled with the pain, when he began to speak thus: It moveth my heart for those priests. They also go against my taste; but that is the smallest matter unto me, since I am among men.
But I suffer and have suffered with them: prisoners are they unto me, and stigmatised ones. He whom they call Saviour put them in fetters:—
In fetters of false values and fatuous words! Oh, that some one would save them from their Saviour!
On an isle they once thought they had landed, when the sea tossed them about; but behold, it was a slumbering monster!
False values and fatuous words: these are the worst monsters for mortals—long slumbereth and waiteth the fate that is in them.
But at last it cometh and awaketh and devoureth and engulfeth whatever hath built tabernacles upon it.
Oh, just look at those tabernacles which those priests have built themselves! Churches, they call their sweet-smelling caves!
Oh, that falsified light, that mustified air! Where the soul—may not fly aloft to its height!
But so enjoineth their belief: “On your knees, up the stair, ye sinners!”
Verily, rather would I see a shameless one than the distorted eyes of their shame and devotion!
Who created for themselves such caves and penitence-stairs? Was it not those who sought to conceal themselves, and were ashamed under the clear sky?
And only when the clear sky looketh again through ruined roofs, and down upon grass and red poppies on ruined walls—will I again turn my heart to the seats of this God.
They called God that which opposed and afflicted them: and verily, there was much hero-spirit in their worship!
And they knew not how to love their God otherwise than by nailing men to the cross!
As corpses they thought to live; in black draped they their corpses; even in their talk do I still feel the evil flavour of charnel-houses.
And he who liveth nigh unto them liveth nigh unto black pools, wherein the toad singeth his song with sweet gravity.
Better songs would they have to sing, for me to believe in their Saviour: more like saved ones would his disciples have to appear unto me!
Naked, would I like to see them: for beauty alone should preach penitence.
But whom would that disguised affliction convince!
Verily, their Saviours themselves came not from freedom and freedom’s seventh heaven! Verily, they themselves never trod the carpets of knowledge!
Of defects did the spirit of those Saviours consist; but into every defect had they put their illusion, their stop-gap, which they called God.
In their pity was their spirit drowned; and when they swelled and o’erswelled with pity, there always floated to the surface a great folly.
Eagerly and with shouts drove they their flock over their foot-bridge; as if there were but one foot-bridge to the future! Verily, those shepherds also were still of the flock!
Small spirits and spacious souls had those shepherds: but, my brethren, what small domains have even the most spacious souls hitherto been!
Characters of blood did they write on the way they went, and their folly taught that truth is proved by blood.
But blood is the very worst witness to truth; blood tainteth the purest teaching, and turneth it into delusion and hatred of heart.
And when a person goeth through fire for his teaching—what doth that prove! It is more, verily, when out of one’s own burning cometh one’s own teaching!
Sultry heart and cold head; where these meet, there ariseth the blusterer, the “Saviour.”
Greater ones, verily, have there been, and higher-born ones, than those whom the people call Saviours, those rapturous blusterers!
And by still greater ones than any of the Saviours must ye be saved, my brethren, if ye would find the way to freedom!
Never yet hath there been a Superman. Naked have I seen both of them, the greatest man and the smallest man:—
All-too-similar are they still to each other. Verily, even the greatest found I—all-too-human!—
Thus spake Zarathustra.
XXVII. THE VIRTUOUS.
With thunder and heavenly fireworks must one speak to indolent and somnolent senses.
But beauty’s voice speaketh gently: it appealeth only to the most awakened souls.
Gently vibrated and laughed unto me to-day my buckler; it was beauty’s holy laughing and thrilling.
At you, ye virtuous ones, laughed my beauty to-day. And thus came its voice unto me: “They want—to be paid besides!”
Ye want to be paid besides, ye virtuous ones! Ye want reward for virtue, and heaven for earth, and eternity for your to-day?
And now ye upbraid me for teaching that there is no reward-giver, nor paymaster? And verily, I do not even teach that virtue is its own reward.
Ah! this is my sorrow: into the basis of things have reward and punishment been insinuated—and now even into the basis of your souls, ye virtuous ones!
But like the snout of the boar shall my word grub up the basis of your souls; a ploughshare will I be called by you.
All the secrets of your heart shall be brought to light; and when ye lie in the sun, grubbed up and broken, then will also your falsehood be separated from your truth.
For this is your truth: ye are TOO PURE for the filth of the words: vengeance, punishment, recompense, retribution.
Ye love your virtue as a mother loveth her child; but when did one hear of a mother wanting to be paid for her love?
It is your dearest Self, your virtue. The ring’s thirst is in you: to reach itself again struggleth every ring, and turneth itself.
And like the star that goeth out, so is every work of your virtue: ever is its light on its way and travelling—and when will it cease to be on its way?
Thus is the light of your virtue still on its way, even when its work is
done. Be it forgotten and dead, still its ray of light liveth and travelleth.
That your virtue is your Self, and not an outward thing, a skin, or a cloak: that is the truth from the basis of your souls, ye virtuous ones!—
But sure enough there are those to whom virtue meaneth writhing under the lash: and ye have hearkened too much unto their crying!
And others are there who call virtue the slothfulness of their vices; and when once their hatred and jealousy relax the limbs, their “justice”
becometh lively and rubbeth its sleepy eyes.
And others are there who are drawn downwards: their devils draw them. But the more they sink, the more ardently gloweth their eye, and the longing for their God.
Ah! their crying also hath reached your ears, ye virtuous ones: “What I am NOT, that, that is God to me, and virtue!”
And others are there who go along heavily and creakingly, like carts taking stones downhill: they talk much of dignity and virtue—their drag they call virtue!
And others are there who are like eight-day clocks when wound up; they tick, and want people to call ticking—virtue.
Verily, in those have I mine amusement: wherever I find such clocks I shall wind them up with my mockery, and they shall even whirr thereby!
And others are proud of their modicum of righteousness, and for the sake of it do violence to all things: so that the world is drowned in their unrighteousness.
Ah! how ineptly cometh the word “virtue” out of their mouth! And when they say: “I am just,” it always soundeth like: “I am just—revenged!”
With their virtues they want to scratch out the eyes of their enemies; and they elevate themselves only that they may lower others.
And again there are those who sit in their swamp, and speak thus from among the bulrushes: “Virtue—that is to sit quietly in the swamp.
We bite no one, and go out of the way of him who would bite; and in all matters we have the opinion that is given us.”
And again there are those who love attitudes, and think that virtue is a sort of attitude.
Their knees continually adore, and their hands are eulogies of virtue, but their heart knoweth naught thereof.
And again there are those who regard it as virtue to say: “Virtue is necessary”; but after all they believe only that policemen are necessary.
And many a one who cannot see men’s loftiness, calleth it virtue to see their baseness far too well: thus calleth he his evil eye virtue.—
And some want to be edified and raised up, and call it virtue: and others want to be cast down,—and likewise call it virtue.
And thus do almost all think that they participate in virtue; and at least every one claimeth to be an authority on “good” and “evil.”
But Zarathustra came not to say unto all those liars and fools: “What do YE know of virtue! What COULD ye know of virtue!”—
But that ye, my friends, might become weary of the old words which ye have learned from the fools and liars:
That ye might become weary of the words “reward,” “retribution,”
“punishment,” “righteous vengeance.”—
That ye might become weary of saying: “That an action is good is because it is unselfish.”
Ah! my friends! That YOUR very Self be in your action, as the mother is in the child: let that be YOUR formula of virtue!
Verily, I have taken from you a hundred formulae and your virtue’s favourite playthings; and now ye upbraid me, as children upbraid.
They played by the sea—then came there a wave and swept their playthings into the deep: and now do they cry.
But the same wave shall bring them new playthings, and spread before them new speckled shells!
Thus will they be comforted; and like them shall ye also, my friends, have your comforting—and new speckled shells!—
Thus spake Zarathustra.
XXVIII. THE RABBLE.
Life is a well of delight; but where the rabble also drink, there all
fountains are poisoned.
To everything cleanly am I well disposed; but I hate to see the grinning mouths and the thirst of the unclean.
They cast their eye down into the fountain: and now glanceth up to me their odious smile out of the fountain.
The holy water have they poisoned with their lustfulness; and when they called their filthy dreams delight, then poisoned they also the words.
Indignant becometh the flame when they put their damp hearts to the fire; the spirit itself bubbleth and smoketh when the rabble approach the fire.
Mawkish and over-mellow becometh the fruit in their hands: unsteady, and withered at the top, doth their look make the fruit-tree.
And many a one who hath turned away from life, hath only turned away from the rabble: he hated to share with them fountain, flame, and fruit.
And many a one who hath gone into the wilderness and suffered thirst with beasts of prey, disliked only to sit at the cistern with filthy camel-drivers.
And many a one who hath come along as a destroyer, and as a hailstorm to all cornfields, wanted merely to put his foot into the jaws of the rabble, and thus stop their throat.
And it is not the mouthful which hath most choked me, to know that life itself requireth enmity and death and torture-crosses:—
But I asked once, and suffocated almost with my question: What? is the rabble also NECESSARY for life?
Are poisoned fountains necessary, and stinking fires, and filthy dreams, and maggots in the bread of life?
Not my hatred, but my loathing, gnawed hungrily at my life! Ah, ofttimes became I weary of spirit, when I found even the rabble spiritual!
And on the rulers turned I my back, when I saw what they now call ruling: to traffic and bargain for power—with the rabble!
Amongst peoples of a strange language did I dwell, with stopped ears: so that the language of their trafficking might remain strange unto me, and their bargaining for power.
And holding my nose, I went morosely through all yesterdays and to-days: verily, badly smell all yesterdays and to-days of the scribbling rabble!
Like a cripple become deaf, and blind, and dumb—thus have I lived long; that I might not live with the power-rabble, the scribe-rabble, and the pleasure-rabble.
Toilsomely did my spirit mount stairs, and cautiously; alms of delight were its refreshment; on the staff did life creep along with the blind one.
What hath happened unto me? How have I freed myself from loathing? Who hath rejuvenated mine eye? How have I flown to the height where no rabble any longer sit at the wells?
Did my loathing itself create for me wings and fountain-divining powers?
Verily, to the loftiest height had I to fly, to find again the well of delight!
Oh, I have found it, my brethren! Here on the loftiest height bubbleth up for me the well of delight! And there is a life at whose waters none of the rabble drink with me!
Almost too violently dost thou flow for me, thou fountain of delight! And often emptiest thou the goblet again, in wanting to fill it!
And yet must I learn to approach thee more modestly: far too violently doth my heart still flow towards thee:—
My heart on which my summer burneth, my short, hot, melancholy, over-happy summer: how my summer heart longeth for thy coolness!
Past, the lingering distress of my spring! Past, the wickedness of my snowflakes in June! Summer have I become entirely, and summer-noontide!
A summer on the loftiest height, with cold fountains and blissful stillness: oh, come, my friends, that the stillness may become more blissful!
For this is OUR height and our home: too high and steep do we here dwell for all uncleanly ones and their thirst.
Cast but your pure eyes into the well of my delight, my friends! How could it become turbid thereby! It shall laugh back to you with ITS purity.
On the tree of the future build we our nest; eagles shall bring us lone
ones food in their beaks!
Verily, no food of which the impure could be fellow-partakers! Fire, would they think they devoured, and burn their mouths!
Verily, no abodes do we here keep ready for the impure! An ice-cave to their bodies would our happiness be, and to their spirits!
And as strong winds will we live above them, neighbours to the eagles, neighbours to the snow, neighbours to the sun: thus live the strong winds.
And like a wind will I one day blow amongst them, and with my spirit, take the breath from their spirit: thus willeth my future.
Verily, a strong wind is Zarathustra to all low places; and this counsel counselleth he to his enemies, and to whatever spitteth and speweth: “Take care not to spit AGAINST the wind!”—
Thus spake Zarathustra.
XXIX. THE TARANTULAS.
Lo, this is the tarantula’s den! Wouldst thou see the tarantula itself?
Here hangeth its web: touch this, so that it may tremble.
There cometh the tarantula willingly: Welcome, tarantula! Black on thy back is thy triangle and symbol; and I know also what is in thy soul.
Revenge is in thy soul: wherever thou bitest, there ariseth black scab; with revenge, thy poison maketh the soul giddy!
Thus do I speak unto you in parable, ye who make the soul giddy, ye preachers of EQUALITY! Tarantulas are ye unto me, and secretly revengeful ones!
But I will soon bring your hiding-places to the light: therefore do I laugh in your face my laughter of the height.
Therefore do I tear at your web, that your rage may lure you out of your den of lies, and that your revenge may leap forth from behind your word
“justice.”
Because, FOR MAN TO BE REDEEMED FROM REVENGE—that is for me the bridge to the highest hope, and a rainbow after long storms.
Otherwise, however, would the tarantulas have it. “Let it be very justice for the world to become full of the storms of our vengeance”—thus do they talk to one another.
“Vengeance will we use, and insult, against all who are not like us”—thus do the tarantula-hearts pledge themselves.
“And ‘Will to Equality’—that itself shall henceforth be the name of virtue; and against all that hath power will we raise an outcry!”
Ye preachers of equality, the tyrant-frenzy of impotence crieth thus in you for “equality”: your most secret tyrant-longings disguise themselves thus in virtue-words!
Fretted conceit and suppressed envy—perhaps your fathers’ conceit and envy: in you break they forth as flame and frenzy of vengeance.
What the father hath hid cometh out in the son; and oft have I found in the son the father’s revealed secret.
Inspired ones they resemble: but it is not the heart that inspireth them—but vengeance. And when they become subtle and cold, it is not spirit, but envy, that maketh them so.
Their jealousy leadeth them also into thinkers’ paths; and this is the sign of their jealousy—they always go too far: so that their fatigue hath at last to go to sleep on the snow.
In all their lamentations soundeth vengeance, in all their eulogies is maleficence; and being judge seemeth to them bliss.
But thus do I counsel you, my friends: distrust all in whom the impulse to punish is powerful!
They are people of bad race and lineage; out of their countenances peer the hangman and the sleuth-hound.
Distrust all those who talk much of their justice! Verily, in their souls not only honey is lacking.
And when they call themselves “the good and just,” forget not, that for them to be Pharisees, nothing is lacking but—power!
My friends, I will not be mixed up and confounded with others.
There are those who preach my doctrine of life, and are at the same time preachers of equality, and tarantulas.
That they speak in favour of life, though they sit in their den, these poison-spiders, and withdrawn from life—is because they would
thereby do injury.
To those would they thereby do injury who have power at present: for with those the preaching of death is still most at home.
Were it otherwise, then would the tarantulas teach otherwise: and they themselves were formerly the best world-maligners and heretic-burners.
With these preachers of equality will I not be mixed up and confounded.
For thus speaketh justice UNTO ME: “Men are not equal.”
And neither shall they become so! What would be my love to the Superman, if I spake otherwise?
On a thousand bridges and piers shall they throng to the future, and always shall there be more war and inequality among them: thus doth my great love make me speak!
Inventors of figures and phantoms shall they be in their hostilities; and with those figures and phantoms shall they yet fight with each other the supreme fight!
Good and evil, and rich and poor, and high and low, and all names of values: weapons shall they be, and sounding signs, that life must again and again surpass itself!
Aloft will it build itself with columns and stairs—life itself: into remote distances would it gaze, and out towards blissful beauties—
THEREFORE doth it require elevation!
And because it requireth elevation, therefore doth it require steps, and variance of steps and climbers! To rise striveth life, and in rising to surpass itself.
And just behold, my friends! Here where the tarantula’s den is, riseth aloft an ancient temple’s ruins—just behold it with enlightened eyes!
Verily, he who here towered aloft his thoughts in stone, knew as well as the wisest ones about the secret of life!
That there is struggle and inequality even in beauty, and war for power and supremacy: that doth he here teach us in the plainest parable.
How divinely do vault and arch here contrast in the struggle: how with light and shade they strive against each other, the divinely striving ones.—
Thus, steadfast and beautiful, let us also be enemies, my friends!
Divinely will we strive AGAINST one another!—
Alas! There hath the tarantula bit me myself, mine old enemy! Divinely steadfast and beautiful, it hath bit me on the finger!
“Punishment must there be, and justice”—so thinketh it: “not gratuitously shall he here sing songs in honour of enmity!”
Yea, it hath revenged itself! And alas! now will it make my soul also dizzy with revenge!
That I may NOT turn dizzy, however, bind me fast, my friends, to this pillar! Rather will I be a pillar-saint than a whirl of vengeance!
Verily, no cyclone or whirlwind is Zarathustra: and if he be a dancer, he is not at all a tarantula-dancer!—
Thus spake Zarathustra.
XXX. THE FAMOUS WISE ONES.
The people have ye served and the people’s superstition—NOT the truth!—all ye famous wise ones! And just on that account did they pay you reverence.
And on that account also did they tolerate your unbelief, because it was a pleasantry and a by-path for the people. Thus doth the master give free scope to his slaves, and even enjoyeth their presumptuousness.
But he who is hated by the people, as the wolf by the dogs—is the free spirit, the enemy of fetters, the non-adorer, the dweller in the woods.
To hunt him out of his lair—that was always called “sense of right”
by the people: on him do they still hound their sharpest-toothed dogs.
“For there the truth is, where the people are! Woe, woe to the seeking ones!”—thus hath it echoed through all time.
Your people would ye justify in their reverence: that called ye “Will to Truth,” ye famous wise ones!
And your heart hath always said to itself: “From the people have I come: from thence came to me also the voice of God.”
Stiff-necked and artful, like the ass, have ye always been, as the advocates of the people.
And many a powerful one who wanted to run well with the people, hath harnessed in front of his horses—a donkey, a famous wise man.
And now, ye famous wise ones, I would have you finally throw off entirely the skin of the lion!
The skin of the beast of prey, the speckled skin, and the dishevelled locks of the investigator, the searcher, and the conqueror!
Ah! for me to learn to believe in your “conscientiousness,” ye would first have to break your venerating will.
Conscientious—so call I him who goeth into God-forsaken wildernesses, and hath broken his venerating heart.
In the yellow sands and burnt by the sun, he doubtless peereth thirstily at the isles rich in fountains, where life reposeth under shady trees.
But his thirst doth not persuade him to become like those comfortable ones: for where there are oases, there are also idols.
Hungry, fierce, lonesome, God-forsaken: so doth the lion-will wish itself.
Free from the happiness of slaves, redeemed from Deities and adorations, fearless and fear-inspiring, grand and lonesome: so is the will of the conscientious.
In the wilderness have ever dwelt the conscientious, the free spirits, as lords of the wilderness; but in the cities dwell the well-foddered, famous wise ones—the draught-beasts.
For, always, do they draw, as asses—the PEOPLE’S carts!
Not that I on that account upbraid them: but serving ones do they remain, and harnessed ones, even though they glitter in golden harness.
And often have they been good servants and worthy of their hire. For thus saith virtue: “If thou must be a servant, seek him unto whom thy service is most useful!
The spirit and virtue of thy master shall advance by thou being his servant: thus wilt thou thyself advance with his spirit and virtue!”
And verily, ye famous wise ones, ye servants of the people! Ye yourselves have advanced with the people’s spirit and virtue—and the people by you! To your honour do I say it!
But the people ye remain for me, even with your virtues, the people with purblind eyes—the people who know not what SPIRIT is!
Spirit is life which itself cutteth into life: by its own torture doth it increase its own knowledge,—did ye know that before?
And the spirit’s happiness is this: to be anointed and consecrated with tears as a sacrificial victim,—did ye know that before?
And the blindness of the blind one, and his seeking and groping, shall yet testify to the power of the sun into which he hath gazed,—did ye know that before?
And with mountains shall the discerning one learn to BUILD! It is a small thing for the spirit to remove mountains,—did ye know that before?
Ye know only the sparks of the spirit: but ye do not see the anvil which it is, and the cruelty of its hammer!
Verily, ye know not the spirit’s pride! But still less could ye endure the spirit’s humility, should it ever want to speak!
And never yet could ye cast your spirit into a pit of snow: ye are not hot enough for that! Thus are ye unaware, also, of the delight of its coldness.
In all respects, however, ye make too familiar with the spirit; and out of wisdom have ye often made an almshouse and a hospital for bad poets.
Ye are not eagles: thus have ye never experienced the happiness of the alarm of the spirit. And he who is not a bird should not camp above abysses.
Ye seem to me lukewarm ones: but coldly floweth all deep knowledge.
Ice-cold are the innermost wells of the spirit: a refreshment to hot hands and handlers.
Respectable do ye there stand, and stiff, and with straight backs, ye famous wise ones!—no strong wind or will impelleth you.
Have ye ne’er seen a sail crossing the sea, rounded and inflated, and trembling with the violence of the wind?
Like the sail trembling with the violence of the spirit, doth my wisdom
cross the sea—my wild wisdom!
But ye servants of the people, ye famous wise ones—how COULD ye go with me!—
Thus spake Zarathustra.
XXXI. THE NIGHT-SONG.
‘Tis night: now do all gushing fountains speak louder. And my soul also is a gushing fountain.
‘Tis night: now only do all songs of the loving ones awake. And my soul also is the song of a loving one.
Something unappeased, unappeasable, is within me; it longeth to find expression. A craving for love is within me, which speaketh itself the language of love.
Light am I: ah, that I were night! But it is my lonesomeness to be begirt with light!
Ah, that I were dark and nightly! How would I suck at the breasts of light!
And you yourselves would I bless, ye twinkling starlets and glow-worms aloft!—and would rejoice in the gifts of your light.
But I live in mine own light, I drink again into myself the flames that break forth from me.
I know not the happiness of the receiver; and oft have I dreamt that stealing must be more blessed than receiving.
It is my poverty that my hand never ceaseth bestowing; it is mine envy that I see waiting eyes and the brightened nights of longing.
Oh, the misery of all bestowers! Oh, the darkening of my sun! Oh, the craving to crave! Oh, the violent hunger in satiety!
They take from me: but do I yet touch their soul? There is a gap ‘twixt giving and receiving; and the smallest gap hath finally to be bridged over.
A hunger ariseth out of my beauty: I should like to injure those I illumine; I should like to rob those I have gifted:—thus do I hunger for wickedness.
Withdrawing my hand when another hand already stretcheth out to it; hesitating like the cascade, which hesitateth even in its leap:—thus do I hunger for wickedness!
Such revenge doth mine abundance think of: such mischief welleth out of my lonesomeness.
My happiness in bestowing died in bestowing; my virtue became weary of itself by its abundance!
He who ever bestoweth is in danger of losing his shame; to him who ever dispenseth, the hand and heart become callous by very dispensing.
Mine eye no longer overfloweth for the shame of suppliants; my hand hath become too hard for the trembling of filled hands.
Whence have gone the tears of mine eye, and the down of my heart? Oh, the lonesomeness of all bestowers! Oh, the silence of all shining ones!
Many suns circle in desert space: to all that is dark do they speak with their light—but to me they are silent.
Oh, this is the hostility of light to the shining one: unpityingly doth it pursue its course.
Unfair to the shining one in its innermost heart, cold to the suns:—thus travelleth every sun.
Like a storm do the suns pursue their courses: that is their travelling.
Their inexorable will do they follow: that is their coldness.
Oh, ye only is it, ye dark, nightly ones, that extract warmth from the shining ones! Oh, ye only drink milk and refreshment from the light’s udders!
Ah, there is ice around me; my hand burneth with the iciness! Ah, there is thirst in me; it panteth after your thirst!
‘Tis night: alas, that I have to be light! And thirst for the nightly! And lonesomeness!
‘Tis night: now doth my longing break forth in me as a fountain,—for speech do I long.
‘Tis night: now do all gushing fountains speak louder. And my soul also is a gushing fountain.
‘Tis night: now do all songs of loving ones awake. And my soul also is the
song of a loving one.—
Thus sang Zarathustra.
XXXII. THE DANCE-SONG.
One evening went Zarathustra and his disciples through the forest; and when he sought for a well, lo, he lighted upon a green meadow peacefully surrounded with trees and bushes, where maidens were dancing together. As soon as the maidens recognised Zarathustra, they ceased dancing; Zarathustra, however, approached them with friendly mien and spake these words:
Cease not your dancing, ye lovely maidens! No game-spoiler hath come to you with evil eye, no enemy of maidens.
God’s advocate am I with the devil: he, however, is the spirit of gravity.
How could I, ye light-footed ones, be hostile to divine dances? Or to maidens’ feet with fine ankles?
To be sure, I am a forest, and a night of dark trees: but he who is not afraid of my darkness, will find banks full of roses under my cypresses.
And even the little God may he find, who is dearest to maidens: beside the well lieth he quietly, with closed eyes.
Verily, in broad daylight did he fall asleep, the sluggard! Had he perhaps chased butterflies too much?
Upbraid me not, ye beautiful dancers, when I chasten the little God somewhat! He will cry, certainly, and weep—but he is laughable even when weeping!
And with tears in his eyes shall he ask you for a dance; and I myself will sing a song to his dance:
A dance-song and satire on the spirit of gravity my supremest, powerfulest devil, who is said to be “lord of the world.”—
And this is the song that Zarathustra sang when Cupid and the maidens danced together:
Of late did I gaze into thine eye, O Life! And into the unfathomable did I there seem to sink.
But thou pulledst me out with a golden angle; derisively didst thou laugh when I called thee unfathomable.
“Such is the language of all fish,” saidst thou; “what THEY do not fathom is unfathomable.
But changeable am I only, and wild, and altogether a woman, and no virtuous one:
Though I be called by you men the ‘profound one,’ or the ‘faithful one,’
‘the eternal one,’ ‘the mysterious one.’
But ye men endow us always with your own virtues—alas, ye virtuous ones!”
Thus did she laugh, the unbelievable one; but never do I believe her and her laughter, when she speaketh evil of herself.
And when I talked face to face with my wild Wisdom, she said to me angrily: “Thou willest, thou cravest, thou lovest; on that account alone dost thou PRAISE Life!”
Then had I almost answered indignantly and told the truth to the angry one; and one cannot answer more indignantly than when one “telleth the truth” to one’s Wisdom.
For thus do things stand with us three. In my heart do I love only Life—and verily, most when I hate her!
But that I am fond of Wisdom, and often too fond, is because she remindeth me very strongly of Life!
She hath her eye, her laugh, and even her golden angle-rod: am I responsible for it that both are so alike?
And when once Life asked me: “Who is she then, this Wisdom?”—then said I eagerly: “Ah, yes! Wisdom!
One thirsteth for her and is not satisfied, one looketh through veils, one graspeth through nets.
Is she beautiful? What do I know! But the oldest carps are still lured by her.
Changeable is she, and wayward; often have I seen her bite her lip, and pass the comb against the grain of her hair.
Perhaps she is wicked and false, and altogether a woman; but when she speaketh ill of herself, just then doth she seduce most.”
When I had said this unto Life, then laughed she maliciously, and shut her eyes. “Of whom dost thou speak?” said she. “Perhaps of me?
And if thou wert right—is it proper to say THAT in such wise to my face! But now, pray, speak also of thy Wisdom!”
Ah, and now hast thou again opened thine eyes, O beloved Life! And into the unfathomable have I again seemed to sink.—
Thus sang Zarathustra. But when the dance was over and the maidens had departed, he became sad.
“The sun hath been long set,” said he at last, “the meadow is damp, and from the forest cometh coolness.
An unknown presence is about me, and gazeth thoughtfully. What! Thou livest still, Zarathustra?
Why? Wherefore? Whereby? Whither? Where? How? Is it not folly still to live?—
Ah, my friends; the evening is it which thus interrogateth in me. Forgive me my sadness!
Evening hath come on: forgive me that evening hath come on!”
Thus sang Zarathustra.
XXXIII. THE GRAVE-SONG.
“Yonder is the grave-island, the silent isle; yonder also are the graves of my youth. Thither will I carry an evergreen wreath of life.”
Resolving thus in my heart, did I sail o’er the sea.—
Oh, ye sights and scenes of my youth! Oh, all ye gleams of love, ye divine fleeting gleams! How could ye perish so soon for me! I think of you to-day as my dead ones.
From you, my dearest dead ones, cometh unto me a sweet savour, heart-opening and melting. Verily, it convulseth and openeth the heart of the lone seafarer.
Still am I the richest and most to be envied—I, the lonesomest one!
For I HAVE POSSESSED you, and ye possess me still. Tell me: to whom hath there ever fallen such rosy apples from the tree as have fallen unto me?
Still am I your love’s heir and heritage, blooming to your memory with many-hued, wild-growing virtues, O ye dearest ones!
Ah, we were made to remain nigh unto each other, ye kindly strange marvels; and not like timid birds did ye come to me and my longing—nay, but as trusting ones to a trusting one!
Yea, made for faithfulness, like me, and for fond eternities, must I now name you by your faithlessness, ye divine glances and fleeting gleams: no other name have I yet learnt.
Verily, too early did ye die for me, ye fugitives. Yet did ye not flee from me, nor did I flee from you: innocent are we to each other in our faithlessness.
To kill ME, did they strangle you, ye singing birds of my hopes! Yea, at you, ye dearest ones, did malice ever shoot its arrows—to hit my heart!
And they hit it! Because ye were always my dearest, my possession and my possessedness: ON THAT ACCOUNT had ye to die young, and far too early!
At my most vulnerable point did they shoot the arrow—namely, at you, whose skin is like down—or more like the smile that dieth at a glance!
But this word will I say unto mine enemies: What is all manslaughter in comparison with what ye have done unto me!
Worse evil did ye do unto me than all manslaughter; the irretrievable did ye take from me:—thus do I speak unto you, mine enemies!
Slew ye not my youth’s visions and dearest marvels! My playmates took ye from me, the blessed spirits! To their memory do I deposit this wreath and this curse.
This curse upon you, mine enemies! Have ye not made mine eternal short, as a tone dieth away in a cold night! Scarcely, as the twinkle of divine eyes, did it come to me—as a fleeting gleam!
Thus spake once in a happy hour my purity: “Divine shall everything be unto me.”
Then did ye haunt me with foul phantoms; ah, whither hath that happy hour now fled!
“All days shall be holy unto me”—so spake once the wisdom of my
youth: verily, the language of a joyous wisdom!
But then did ye enemies steal my nights, and sold them to sleepless torture: ah, whither hath that joyous wisdom now fled?
Once did I long for happy auspices: then did ye lead an owl-monster across my path, an adverse sign. Ah, whither did my tender longing then flee?
All loathing did I once vow to renounce: then did ye change my nigh ones and nearest ones into ulcerations. Ah, whither did my noblest vow then flee?
As a blind one did I once walk in blessed ways: then did ye cast filth on the blind one’s course: and now is he disgusted with the old footpath.
And when I performed my hardest task, and celebrated the triumph of my victories, then did ye make those who loved me call out that I then grieved them most.
Verily, it was always your doing: ye embittered to me my best honey, and the diligence of my best bees.
To my charity have ye ever sent the most impudent beggars; around my sympathy have ye ever crowded the incurably shameless. Thus have ye wounded the faith of my virtue.
And when I offered my holiest as a sacrifice, immediately did your “piety”
put its fatter gifts beside it: so that my holiest suffocated in the fumes of your fat.
And once did I want to dance as I had never yet danced: beyond all heavens did I want to dance. Then did ye seduce my favourite minstrel.
And now hath he struck up an awful, melancholy air; alas, he tooted as a mournful horn to mine ear!
Murderous minstrel, instrument of evil, most innocent instrument! Already did I stand prepared for the best dance: then didst thou slay my rapture with thy tones!
Only in the dance do I know how to speak the parable of the highest things:—and now hath my grandest parable remained unspoken in my limbs!
Unspoken and unrealised hath my highest hope remained! And there have perished for me all the visions and consolations of my youth!
How did I ever bear it? How did I survive and surmount such wounds? How did my soul rise again out of those sepulchres?
Yea, something invulnerable, unburiable is with me, something that would rend rocks asunder: it is called MY WILL. Silently doth it proceed, and unchanged throughout the years.
Its course will it go upon my feet, mine old Will; hard of heart is its nature and invulnerable.
Invulnerable am I only in my heel. Ever livest thou there, and art like thyself, thou most patient one! Ever hast thou burst all shackles of the tomb!
In thee still liveth also the unrealisedness of my youth; and as life and youth sittest thou here hopeful on the yellow ruins of graves.
Yea, thou art still for me the demolisher of all graves: Hail to thee, my Will! And only where there are graves are there resurrections.—
Thus sang Zarathustra.
XXXIV. SELF-SURPASSING.
“Will to Truth” do ye call it, ye wisest ones, that which impelleth you and maketh you ardent?
Will for the thinkableness of all being: thus do I call your will!
All being would ye MAKE thinkable: for ye doubt with good reason whether it be already thinkable.
But it shall accommodate and bend itself to you! So willeth your will.
Smooth shall it become and subject to the spirit, as its mirror and reflection.
That is your entire will, ye wisest ones, as a Will to Power; and even when ye speak of good and evil, and of estimates of value.
Ye would still create a world before which ye can bow the knee: such is your ultimate hope and ecstasy.
The ignorant, to be sure, the people—they are like a river on which a boat floateth along: and in the boat sit the estimates of value, solemn and disguised.
Your will and your valuations have ye put on the river of becoming; it
betrayeth unto me an old Will to Power, what is believed by the people as good and evil.
It was ye, ye wisest ones, who put such guests in this boat, and gave them pomp and proud names—ye and your ruling Will!
Onward the river now carrieth your boat: it MUST carry it. A small matter if the rough wave foameth and angrily resisteth its keel!
It is not the river that is your danger and the end of your good and evil, ye wisest ones: but that Will itself, the Will to Power—the unexhausted, procreating life-will.
But that ye may understand my gospel of good and evil, for that purpose will I tell you my gospel of life, and of the nature of all living things.
The living thing did I follow; I walked in the broadest and narrowest paths to learn its nature.
With a hundred-faced mirror did I catch its glance when its mouth was shut, so that its eye might speak unto me. And its eye spake unto me.
But wherever I found living things, there heard I also the language of obedience. All living things are obeying things.
And this heard I secondly: Whatever cannot obey itself, is commanded. Such is the nature of living things.
This, however, is the third thing which I heard—namely, that commanding is more difficult than obeying. And not only because the commander beareth the burden of all obeyers, and because this burden readily crusheth him:—
An attempt and a risk seemed all commanding unto me; and whenever it commandeth, the living thing risketh itself thereby.
Yea, even when it commandeth itself, then also must it atone for its commanding. Of its own law must it become the judge and avenger and victim.
How doth this happen! so did I ask myself. What persuadeth the living thing to obey, and command, and even be obedient in commanding?
Hearken now unto my word, ye wisest ones! Test it seriously, whether I have crept into the heart of life itself, and into the roots of its heart!
Wherever I found a living thing, there found I Will to Power; and even in the will of the servant found I the will to be master.
That to the stronger the weaker shall serve—thereto persuadeth he his will who would be master over a still weaker one. That delight alone he is unwilling to forego.
And as the lesser surrendereth himself to the greater that he may have delight and power over the least of all, so doth even the greatest surrender himself, and staketh—life, for the sake of power.
It is the surrender of the greatest to run risk and danger, and play dice for death.
And where there is sacrifice and service and love-glances, there also is the will to be master. By by-ways doth the weaker then slink into the fortress, and into the heart of the mightier one—and there stealeth power.
And this secret spake Life herself unto me. “Behold,” said she, “I am that WHICH MUST EVER SURPASS ITSELF.
To be sure, ye call it will to procreation, or impulse towards a goal, towards the higher, remoter, more manifold: but all that is one and the same secret.
Rather would I succumb than disown this one thing; and verily, where there is succumbing and leaf-falling, lo, there doth Life sacrifice itself—for power!
That I have to be struggle, and becoming, and purpose, and cross-purpose—ah, he who divineth my will, divineth well also on what CROOKED paths it hath to tread!
Whatever I create, and however much I love it,—soon must I be adverse to it, and to my love: so willeth my will.
And even thou, discerning one, art only a path and footstep of my will: verily, my Will to Power walketh even on the feet of thy Will to Truth!
He certainly did not hit the truth who shot at it the formula: ‘Will to existence’: that will—doth not exist!
For what is not, cannot will; that, however, which is in existence—how could it still strive for existence!
Only where there is life, is there also will: not, however, Will to Life, but—so teach I thee—Will to Power!
Much is reckoned higher than life itself by the living one; but out of the very reckoning speaketh—the Will to Power!”—
Thus did Life once teach me: and thereby, ye wisest ones, do I solve you the riddle of your hearts.
Verily, I say unto you: good and evil which would be everlasting—it doth not exist! Of its own accord must it ever surpass itself anew.
With your values and formulae of good and evil, ye exercise power, ye valuing ones: and that is your secret love, and the sparkling, trembling, and overflowing of your souls.
But a stronger power groweth out of your values, and a new surpassing: by it breaketh egg and egg-shell.
And he who hath to be a creator in good and evil—verily, he hath first to be a destroyer, and break values in pieces.
Thus doth the greatest evil pertain to the greatest good: that, however, is the creating good.—
Let us SPEAK thereof, ye wisest ones, even though it be bad. To be silent is worse; all suppressed truths become poisonous.
And let everything break up which—can break up by our truths! Many a house is still to be built!—
Thus spake Zarathustra.
XXXV. THE SUBLIME ONES.
Calm is the bottom of my sea: who would guess that it hideth droll monsters!
Unmoved is my depth: but it sparkleth with swimming enigmas and laughters.
A sublime one saw I to-day, a solemn one, a penitent of the spirit: Oh, how my soul laughed at his ugliness!
With upraised breast, and like those who draw in their breath: thus did he stand, the sublime one, and in silence:
O’erhung with ugly truths, the spoil of his hunting, and rich in torn raiment; many thorns also hung on him—but I saw no rose.
Not yet had he learned laughing and beauty. Gloomy did this hunter return from the forest of knowledge.
From the fight with wild beasts returned he home: but even yet a wild beast gazeth out of his seriousness—an unconquered wild beast!
As a tiger doth he ever stand, on the point of springing; but I do not like those strained souls; ungracious is my taste towards all those self-engrossed ones.
And ye tell me, friends, that there is to be no dispute about taste and tasting? But all life is a dispute about taste and tasting!
Taste: that is weight at the same time, and scales and weigher; and alas for every living thing that would live without dispute about weight and scales and weigher!
Should he become weary of his sublimeness, this sublime one, then only will his beauty begin—and then only will I taste him and find him savoury.
And only when he turneth away from himself will he o’erleap his own shadow—and verily! into HIS sun.
Far too long did he sit in the shade; the cheeks of the penitent of the spirit became pale; he almost starved on his expectations.
Contempt is still in his eye, and loathing hideth in his mouth. To be sure, he now resteth, but he hath not yet taken rest in the sunshine.
As the ox ought he to do; and his happiness should smell of the earth, and not of contempt for the earth.
As a white ox would I like to see him, which, snorting and lowing, walketh before the plough-share: and his lowing should also laud all that is earthly!
Dark is still his countenance; the shadow of his hand danceth upon it.
O’ershadowed is still the sense of his eye.
His deed itself is still the shadow upon him: his doing obscureth the doer. Not yet hath he overcome his deed.
To be sure, I love in him the shoulders of the ox: but now do I want to see also the eye of the angel.
Also his hero-will hath he still to unlearn: an exalted one shall he be,
and not only a sublime one:—the ether itself should raise him, the will-less one!
He hath subdued monsters, he hath solved enigmas. But he should also redeem his monsters and enigmas; into heavenly children should he transform them.
As yet hath his knowledge not learned to smile, and to be without jealousy; as yet hath his gushing passion not become calm in beauty.
Verily, not in satiety shall his longing cease and disappear, but in beauty! Gracefulness belongeth to the munificence of the magnanimous.
His arm across his head: thus should the hero repose; thus should he also surmount his repose.
But precisely to the hero is BEAUTY the hardest thing of all. Unattainable is beauty by all ardent wills.
A little more, a little less: precisely this is much here, it is the most here.
To stand with relaxed muscles and with unharnessed will: that is the hardest for all of you, ye sublime ones!
When power becometh gracious and descendeth into the visible—I call such condescension, beauty.
And from no one do I want beauty so much as from thee, thou powerful one: let thy goodness be thy last self-conquest.
All evil do I accredit to thee: therefore do I desire of thee the good.
Verily, I have often laughed at the weaklings, who think themselves good because they have crippled paws!
The virtue of the pillar shalt thou strive after: more beautiful doth it ever become, and more graceful—but internally harder and more sustaining—the higher it riseth.
Yea, thou sublime one, one day shalt thou also be beautiful, and hold up the mirror to thine own beauty.
Then will thy soul thrill with divine desires; and there will be adoration even in thy vanity!
For this is the secret of the soul: when the hero hath abandoned it, then only approacheth it in dreams—the superhero.—
Thus spake Zarathustra.
XXXVI. THE LAND OF CULTURE.
Too far did I fly into the future: a horror seized upon me.
And when I looked around me, lo! there time was my sole contemporary.
Then did I fly backwards, homewards—and always faster. Thus did I come unto you, ye present-day men, and into the land of culture.
For the first time brought I an eye to see you, and good desire: verily, with longing in my heart did I come.
But how did it turn out with me? Although so alarmed—I had yet to laugh! Never did mine eye see anything so motley-coloured!
I laughed and laughed, while my foot still trembled, and my heart as well.
“Here forsooth, is the home of all the paintpots,”—said I.
With fifty patches painted on faces and limbs—so sat ye there to mine astonishment, ye present-day men!
And with fifty mirrors around you, which flattered your play of colours, and repeated it!
Verily, ye could wear no better masks, ye present-day men, than your own faces! Who could—RECOGNISE you!
Written all over with the characters of the past, and these characters also pencilled over with new characters—thus have ye concealed yourselves well from all decipherers!
And though one be a trier of the reins, who still believeth that ye have reins! Out of colours ye seem to be baked, and out of glued scraps.
All times and peoples gaze divers-coloured out of your veils; all customs and beliefs speak divers-coloured out of your gestures.
He who would strip you of veils and wrappers, and paints and gestures, would just have enough left to scare the crows.
Verily, I myself am the scared crow that once saw you naked, and without paint; and I flew away when the skeleton ogled at me.
Rather would I be a day-labourer in the nether-world, and among the shades of the by-gone!—Fatter and fuller than ye, are forsooth the nether-worldlings!
This, yea this, is bitterness to my bowels, that I can neither endure you naked nor clothed, ye present-day men!
All that is unhomelike in the future, and whatever maketh strayed birds shiver, is verily more homelike and familiar than your “reality.”
For thus speak ye: “Real are we wholly, and without faith and superstition”: thus do ye plume yourselves—alas! even without plumes!
Indeed, how would ye be ABLE to believe, ye divers-coloured ones!—ye who are pictures of all that hath ever been believed!
Perambulating refutations are ye, of belief itself, and a dislocation of all thought. UNTRUSTWORTHY ONES: thus do I call you, ye real ones!
All periods prate against one another in your spirits; and the dreams and pratings of all periods were even realer than your awakeness!
Unfruitful are ye: THEREFORE do ye lack belief. But he who had to create, had always his presaging dreams and astral premonitions—and believed in believing!—
Half-open doors are ye, at which grave-diggers wait. And this is YOUR
reality: “Everything deserveth to perish.”
Alas, how ye stand there before me, ye unfruitful ones; how lean your ribs! And many of you surely have had knowledge thereof.
Many a one hath said: “There hath surely a God filched something from me secretly whilst I slept? Verily, enough to make a girl for himself therefrom!
“Amazing is the poverty of my ribs!” thus hath spoken many a present-day man.
Yea, ye are laughable unto me, ye present-day men! And especially when ye marvel at yourselves!
And woe unto me if I could not laugh at your marvelling, and had to swallow all that is repugnant in your platters!
As it is, however, I will make lighter of you, since I have to carry what is heavy; and what matter if beetles and May-bugs also alight on my load!
Verily, it shall not on that account become heavier to me! And not from you, ye present-day men, shall my great weariness arise.—
Ah, whither shall I now ascend with my longing! From all mountains do I look out for fatherlands and motherlands.
But a home have I found nowhere: unsettled am I in all cities, and decamping at all gates.
Alien to me, and a mockery, are the present-day men, to whom of late my heart impelled me; and exiled am I from fatherlands and motherlands.
Thus do I love only my CHILDREN’S LAND, the undiscovered in the remotest sea: for it do I bid my sails search and search.
Unto my children will I make amends for being the child of my fathers: and unto all the future—for THIS present-day!—
Thus spake Zarathustra.
XXXVII. IMMACULATE PERCEPTION.
When yester-eve the moon arose, then did I fancy it about to bear a sun: so broad and teeming did it lie on the horizon.
But it was a liar with its pregnancy; and sooner will I believe in the man in the moon than in the woman.
To be sure, little of a man is he also, that timid night-reveller. Verily, with a bad conscience doth he stalk over the roofs.
For he is covetous and jealous, the monk in the moon; covetous of the earth, and all the joys of lovers.
Nay, I like him not, that tom-cat on the roofs! Hateful unto me are all that slink around half-closed windows!
Piously and silently doth he stalk along on the star-carpets:—but I like no light-treading human feet, on which not even a spur jingleth.
Every honest one’s step speaketh; the cat however, stealeth along over the ground. Lo! cat-like doth the moon come along, and dishonestly.—
This parable speak I unto you sentimental dissemblers, unto you, the “pure discerners!” You do I call—covetous ones!
Also ye love the earth, and the earthly: I have divined you well!—but shame is in your love, and a bad conscience—ye are like the moon!
To despise the earthly hath your spirit been persuaded, but not your
bowels: these, however, are the strongest in you!
And now is your spirit ashamed to be at the service of your bowels, and goeth by-ways and lying ways to escape its own shame.
“That would be the highest thing for me”—so saith your lying spirit unto itself—“to gaze upon life without desire, and not like the dog, with hanging-out tongue:
To be happy in gazing: with dead will, free from the grip and greed of selfishness—cold and ashy-grey all over, but with intoxicated moon-eyes!
That would be the dearest thing to me”—thus doth the seduced one seduce himself,—“to love the earth as the moon loveth it, and with the eye only to feel its beauty.
And this do I call IMMACULATE perception of all things: to want nothing else from them, but to be allowed to lie before them as a mirror with a hundred facets.”—
Oh, ye sentimental dissemblers, ye covetous ones! Ye lack innocence in your desire: and now do ye defame desiring on that account!
Verily, not as creators, as procreators, or as jubilators do ye love the earth!
Where is innocence? Where there is will to procreation. And he who seeketh to create beyond himself, hath for me the purest will.
Where is beauty? Where I MUST WILL with my whole Will; where I will love and perish, that an image may not remain merely an image.
Loving and perishing: these have rhymed from eternity. Will to love: that is to be ready also for death. Thus do I speak unto you cowards!
But now doth your emasculated ogling profess to be “contemplation!” And that which can be examined with cowardly eyes is to be christened
“beautiful!” Oh, ye violators of noble names!
But it shall be your curse, ye immaculate ones, ye pure discerners, that ye shall never bring forth, even though ye lie broad and teeming on the horizon!
Verily, ye fill your mouth with noble words: and we are to believe that your heart overfloweth, ye cozeners?
But MY words are poor, contemptible, stammering words: gladly do I pick up what falleth from the table at your repasts.
Yet still can I say therewith the truth—to dissemblers! Yea, my fish-bones, shells, and prickly leaves shall—tickle the noses of dissemblers!
Bad air is always about you and your repasts: your lascivious thoughts, your lies, and secrets are indeed in the air!
Dare only to believe in yourselves—in yourselves and in your inward parts! He who doth not believe in himself always lieth.
A God’s mask have ye hung in front of you, ye “pure ones”: into a God’s mask hath your execrable coiling snake crawled.
Verily ye deceive, ye “contemplative ones!” Even Zarathustra was once the dupe of your godlike exterior; he did not divine the serpent’s coil with which it was stuffed.
A God’s soul, I once thought I saw playing in your games, ye pure discerners! No better arts did I once dream of than your arts!
Serpents’ filth and evil odour, the distance concealed from me: and that a lizard’s craft prowled thereabouts lasciviously.
But I came NIGH unto you: then came to me the day,—and now cometh it to you,—at an end is the moon’s love affair!
See there! Surprised and pale doth it stand—before the rosy dawn!
For already she cometh, the glowing one,—HER love to the earth cometh! Innocence and creative desire, is all solar love!
See there, how she cometh impatiently over the sea! Do ye not feel the thirst and the hot breath of her love?
At the sea would she suck, and drink its depths to her height: now riseth the desire of the sea with its thousand breasts.
Kissed and sucked WOULD it be by the thirst of the sun; vapour WOULD it become, and height, and path of light, and light itself!
Verily, like the sun do I love life, and all deep seas.
And this meaneth TO ME knowledge: all that is deep shall ascend—to my height!—
Thus spake Zarathustra.
XXXVIII. SCHOLARS.
When I lay asleep, then did a sheep eat at the ivy-wreath on my head,—it ate, and said thereby: “Zarathustra is no longer a scholar.”
It said this, and went away clumsily and proudly. A child told it to me.
I like to lie here where the children play, beside the ruined wall, among thistles and red poppies.
A scholar am I still to the children, and also to the thistles and red poppies. Innocent are they, even in their wickedness.
But to the sheep I am no longer a scholar: so willeth my lot—blessings upon it!
For this is the truth: I have departed from the house of the scholars, and the door have I also slammed behind me.
Too long did my soul sit hungry at their table: not like them have I got the knack of investigating, as the knack of nut-cracking.
Freedom do I love, and the air over fresh soil; rather would I sleep on ox-skins than on their honours and dignities.
I am too hot and scorched with mine own thought: often is it ready to take away my breath. Then have I to go into the open air, and away from all dusty rooms.
But they sit cool in the cool shade: they want in everything to be merely spectators, and they avoid sitting where the sun burneth on the steps.
Like those who stand in the street and gape at the passers-by: thus do they also wait, and gape at the thoughts which others have thought.
Should one lay hold of them, then do they raise a dust like flour-sacks, and involuntarily: but who would divine that their dust came from corn, and from the yellow delight of the summer fields?
When they give themselves out as wise, then do their petty sayings and truths chill me: in their wisdom there is often an odour as if it came from the swamp; and verily, I have even heard the frog croak in it!
Clever are they—they have dexterous fingers: what doth MY simplicity pretend to beside their multiplicity! All threading and knitting and weaving do their fingers understand: thus do they make the hose of the spirit!
Good clockworks are they: only be careful to wind them up properly! Then do they indicate the hour without mistake, and make a modest noise thereby.
Like millstones do they work, and like pestles: throw only seed-corn unto them!—they know well how to grind corn small, and make white dust out of it.
They keep a sharp eye on one another, and do not trust each other the best. Ingenious in little artifices, they wait for those whose knowledge walketh on lame feet,—like spiders do they wait.
I saw them always prepare their poison with precaution; and always did they put glass gloves on their fingers in doing so.
They also know how to play with false dice; and so eagerly did I find them playing, that they perspired thereby.
We are alien to each other, and their virtues are even more repugnant to my taste than their falsehoods and false dice.
And when I lived with them, then did I live above them. Therefore did they take a dislike to me.
They want to hear nothing of any one walking above their heads; and so they put wood and earth and rubbish betwixt me and their heads.
Thus did they deafen the sound of my tread: and least have I hitherto been heard by the most learned.
All mankind’s faults and weaknesses did they put betwixt themselves and me:—they call it “false ceiling” in their houses.
But nevertheless I walk with my thoughts ABOVE their heads; and even should I walk on mine own errors, still would I be above them and their heads.
For men are NOT equal: so speaketh justice. And what I will, THEY may not will!—
Thus spake Zarathustra.
XXXIX. POETS.
“Since I have known the body better”—said Zarathustra to one of his
disciples—“the spirit hath only been to me symbolically spirit; and all the ‘imperishable’—that is also but a simile.”
“So have I heard thee say once before,” answered the disciple, “and then thou addedst: ‘But the poets lie too much.’ Why didst thou say that the poets lie too much?”
“Why?” said Zarathustra. “Thou askest why? I do not belong to those who may be asked after their Why.
Is my experience but of yesterday? It is long ago that I experienced the reasons for mine opinions.
Should I not have to be a cask of memory, if I also wanted to have my reasons with me?
It is already too much for me even to retain mine opinions; and many a bird flieth away.
And sometimes, also, do I find a fugitive creature in my dovecote, which is alien to me, and trembleth when I lay my hand upon it.
But what did Zarathustra once say unto thee? That the poets lie too much?—But Zarathustra also is a poet.
Believest thou that he there spake the truth? Why dost thou believe it?”
The disciple answered: “I believe in Zarathustra.” But Zarathustra shook his head and smiled.—
Belief doth not sanctify me, said he, least of all the belief in myself.
But granting that some one did say in all seriousness that the poets lie too much: he was right—WE do lie too much.
We also know too little, and are bad learners: so we are obliged to lie.
And which of us poets hath not adulterated his wine? Many a poisonous hotchpotch hath evolved in our cellars: many an indescribable thing hath there been done.
And because we know little, therefore are we pleased from the heart with the poor in spirit, especially when they are young women!
And even of those things are we desirous, which old women tell one another in the evening. This do we call the eternally feminine in us.
And as if there were a special secret access to knowledge, which CHOKETH
UP for those who learn anything, so do we believe in the people and in their “wisdom.”
This, however, do all poets believe: that whoever pricketh up his ears when lying in the grass or on lonely slopes, learneth something of the things that are betwixt heaven and earth.
And if there come unto them tender emotions, then do the poets always think that nature herself is in love with them:
And that she stealeth to their ear to whisper secrets into it, and amorous flatteries: of this do they plume and pride themselves, before all mortals!
Ah, there are so many things betwixt heaven and earth of which only the poets have dreamed!
And especially ABOVE the heavens: for all Gods are poet-symbolisations, poet-sophistications!
Verily, ever are we drawn aloft—that is, to the realm of the clouds: on these do we set our gaudy puppets, and then call them Gods and Supermen:—
Are not they light enough for those chairs!—all these Gods and Supermen?—
Ah, how I am weary of all the inadequate that is insisted on as actual!
Ah, how I am weary of the poets!
When Zarathustra so spake, his disciple resented it, but was silent. And Zarathustra also was silent; and his eye directed itself inwardly, as if it gazed into the far distance. At last he sighed and drew breath.—
I am of to-day and heretofore, said he thereupon; but something is in me that is of the morrow, and the day following, and the hereafter.
I became weary of the poets, of the old and of the new: superficial are they all unto me, and shallow seas.
They did not think sufficiently into the depth; therefore their feeling did not reach to the bottom.
Some sensation of voluptuousness and some sensation of tedium: these have as yet been their best contemplation.
Ghost-breathing and ghost-whisking, seemeth to me all the jingle-jangling
of their harps; what have they known hitherto of the fervour of tones!—
They are also not pure enough for me: they all muddle their water that it may seem deep.
And fain would they thereby prove themselves reconcilers: but mediaries and mixers are they unto me, and half-and-half, and impure!—
Ah, I cast indeed my net into their sea, and meant to catch good fish; but always did I draw up the head of some ancient God.
Thus did the sea give a stone to the hungry one. And they themselves may well originate from the sea.
Certainly, one findeth pearls in them: thereby they are the more like hard molluscs. And instead of a soul, I have often found in them salt slime.
They have learned from the sea also its vanity: is not the sea the peacock of peacocks?
Even before the ugliest of all buffaloes doth it spread out its tail; never doth it tire of its lace-fan of silver and silk.
Disdainfully doth the buffalo glance thereat, nigh to the sand with its soul, nigher still to the thicket, nighest, however, to the swamp.
What is beauty and sea and peacock-splendour to it! This parable I speak unto the poets.
Verily, their spirit itself is the peacock of peacocks, and a sea of vanity!
Spectators, seeketh the spirit of the poet—should they even be buffaloes!—
But of this spirit became I weary; and I see the time coming when it will become weary of itself.
Yea, changed have I seen the poets, and their glance turned towards themselves.
Penitents of the spirit have I seen appearing; they grew out of the poets.—
Thus spake Zarathustra.
XL. GREAT EVENTS.
There is an isle in the sea—not far from the Happy Isles of Zarathustra—on which a volcano ever smoketh; of which isle the people, and especially the old women amongst them, say that it is placed as a rock before the gate of the nether-world; but that through the volcano itself the narrow way leadeth downwards which conducteth to this gate.
Now about the time that Zarathustra sojourned on the Happy Isles, it happened that a ship anchored at the isle on which standeth the smoking mountain, and the crew went ashore to shoot rabbits. About the noontide hour, however, when the captain and his men were together again, they saw suddenly a man coming towards them through the air, and a voice said distinctly: “It is time! It is the highest time!” But when the figure was nearest to them (it flew past quickly, however, like a shadow, in the direction of the volcano), then did they recognise with the greatest surprise that it was Zarathustra; for they had all seen him before except the captain himself, and they loved him as the people love: in such wise that love and awe were combined in equal degree.
“Behold!” said the old helmsman, “there goeth Zarathustra to hell!”
About the same time that these sailors landed on the fire-isle, there was a rumour that Zarathustra had disappeared; and when his friends were asked about it, they said that he had gone on board a ship by night, without saying whither he was going.
Thus there arose some uneasiness. After three days, however, there came the story of the ship’s crew in addition to this uneasiness—and then did all the people say that the devil had taken Zarathustra. His disciples laughed, sure enough, at this talk; and one of them said even: “Sooner would I believe that Zarathustra hath taken the devil.” But at the bottom of their hearts they were all full of anxiety and longing: so their joy was great when on the fifth day Zarathustra appeared amongst them.
And this is the account of Zarathustra’s interview with the fire-dog: The earth, said he, hath a skin; and this skin hath diseases. One of these diseases, for example, is called “man.”
And another of these diseases is called “the fire-dog”: concerning HIM men have greatly deceived themselves, and let themselves be deceived.
To fathom this mystery did I go o’er the sea; and I have seen the truth
naked, verily! barefooted up to the neck.
Now do I know how it is concerning the fire-dog; and likewise concerning all the spouting and subversive devils, of which not only old women are afraid.
“Up with thee, fire-dog, out of thy depth!” cried I, “and confess how deep that depth is! Whence cometh that which thou snortest up?
Thou drinkest copiously at the sea: that doth thine embittered eloquence betray! In sooth, for a dog of the depth, thou takest thy nourishment too much from the surface!
At the most, I regard thee as the ventriloquist of the earth: and ever, when I have heard subversive and spouting devils speak, I have found them like thee: embittered, mendacious, and shallow.
Ye understand how to roar and obscure with ashes! Ye are the best braggarts, and have sufficiently learned the art of making dregs boil.
Where ye are, there must always be dregs at hand, and much that is spongy, hollow, and compressed: it wanteth to have freedom.
‘Freedom’ ye all roar most eagerly: but I have unlearned the belief in
‘great events,’ when there is much roaring and smoke about them.
And believe me, friend Hullabaloo! The greatest events—are not our noisiest, but our stillest hours.
Not around the inventors of new noise, but around the inventors of new values, doth the world revolve; INAUDIBLY it revolveth.
And just own to it! Little had ever taken place when thy noise and smoke passed away. What, if a city did become a mummy, and a statue lay in the mud!
And this do I say also to the o’erthrowers of statues: It is certainly the greatest folly to throw salt into the sea, and statues into the mud.
In the mud of your contempt lay the statue: but it is just its law, that out of contempt, its life and living beauty grow again!
With diviner features doth it now arise, seducing by its suffering; and verily! it will yet thank you for o’erthrowing it, ye subverters!
This counsel, however, do I counsel to kings and churches, and to all that is weak with age or virtue—let yourselves be o’erthrown! That ye may again come to life, and that virtue—may come to you!—”
Thus spake I before the fire-dog: then did he interrupt me sullenly, and asked: “Church? What is that?”
“Church?” answered I, “that is a kind of state, and indeed the most mendacious. But remain quiet, thou dissembling dog! Thou surely knowest thine own species best!
Like thyself the state is a dissembling dog; like thee doth it like to speak with smoke and roaring—to make believe, like thee, that it speaketh out of the heart of things.
For it seeketh by all means to be the most important creature on earth, the state; and people think it so.”
When I had said this, the fire-dog acted as if mad with envy. “What!”
cried he, “the most important creature on earth? And people think it so?”
And so much vapour and terrible voices came out of his throat, that I thought he would choke with vexation and envy.
At last he became calmer and his panting subsided; as soon, however, as he was quiet, I said laughingly:
“Thou art angry, fire-dog: so I am in the right about thee!
And that I may also maintain the right, hear the story of another fire-dog; he speaketh actually out of the heart of the earth.
Gold doth his breath exhale, and golden rain: so doth his heart desire.
What are ashes and smoke and hot dregs to him!
Laughter flitteth from him like a variegated cloud; adverse is he to thy gargling and spewing and grips in the bowels!
The gold, however, and the laughter—these doth he take out of the heart of the earth: for, that thou mayst know it,—THE HEART OF THE
EARTH IS OF GOLD.”
When the fire-dog heard this, he could no longer endure to listen to me.
Abashed did he draw in his tail, said “bow-wow!” in a cowed voice, and crept down into his cave.—
Thus told Zarathustra. His disciples, however, hardly listened to him: so great was their eagerness to tell him about the sailors, the rabbits, and
the flying man.
“What am I to think of it!” said Zarathustra. “Am I indeed a ghost?
But it may have been my shadow. Ye have surely heard something of the Wanderer and his Shadow?
One thing, however, is certain: I must keep a tighter hold of it; otherwise it will spoil my reputation.”
And once more Zarathustra shook his head and wondered. “What am I to think of it!” said he once more.
“Why did the ghost cry: ‘It is time! It is the highest time!’
For what is it then—the highest time?”—
Thus spake Zarathustra.
XLI. THE SOOTHSAYER.
“-And I saw a great sadness come over mankind. The best turned weary of their works.
A doctrine appeared, a faith ran beside it: ‘All is empty, all is alike, all hath been!’
And from all hills there re-echoed: ‘All is empty, all is alike, all hath been!’
To be sure we have harvested: but why have all our fruits become rotten and brown? What was it fell last night from the evil moon?
In vain was all our labour, poison hath our wine become, the evil eye hath singed yellow our fields and hearts.
Arid have we all become; and fire falling upon us, then do we turn dust like ashes:—yea, the fire itself have we made aweary.
All our fountains have dried up, even the sea hath receded. All the ground trieth to gape, but the depth will not swallow!
‘Alas! where is there still a sea in which one could be drowned?’ so soundeth our plaint—across shallow swamps.
Verily, even for dying have we become too weary; now do we keep awake and live on—in sepulchres.”
Thus did Zarathustra hear a soothsayer speak; and the foreboding touched his heart and transformed him. Sorrowfully did he go about and wearily; and he became like unto those of whom the soothsayer had spoken.—
Verily, said he unto his disciples, a little while, and there cometh the long twilight. Alas, how shall I preserve my light through it!
That it may not smother in this sorrowfulness! To remoter worlds shall it be a light, and also to remotest nights!
Thus did Zarathustra go about grieved in his heart, and for three days he did not take any meat or drink: he had no rest, and lost his speech. At last it came to pass that he fell into a deep sleep. His disciples, however, sat around him in long night-watches, and waited anxiously to see if he would awake, and speak again, and recover from his affliction.
And this is the discourse that Zarathustra spake when he awoke; his voice, however, came unto his disciples as from afar:
Hear, I pray you, the dream that I dreamed, my friends, and help me to divine its meaning!
A riddle is it still unto me, this dream; the meaning is hidden in it and encaged, and doth not yet fly above it on free pinions.
All life had I renounced, so I dreamed. Night-watchman and grave-guardian had I become, aloft, in the lone mountain-fortress of Death.
There did I guard his coffins: full stood the musty vaults of those trophies of victory. Out of glass coffins did vanquished life gaze upon me.
The odour of dust-covered eternities did I breathe: sultry and dust-covered lay my soul. And who could have aired his soul there!
Brightness of midnight was ever around me; lonesomeness cowered beside her; and as a third, death-rattle stillness, the worst of my female friends.
Keys did I carry, the rustiest of all keys; and I knew how to open with them the most creaking of all gates.
Like a bitterly angry croaking ran the sound through the long corridors when the leaves of the gate opened: ungraciously did this bird cry, unwillingly was it awakened.
But more frightful even, and more heart-strangling was it, when it again became silent and still all around, and I alone sat in that malignant
silence.
Thus did time pass with me, and slip by, if time there still was: what do I know thereof! But at last there happened that which awoke me.
Thrice did there peal peals at the gate like thunders, thrice did the vaults resound and howl again: then did I go to the gate.
Alpa! cried I, who carrieth his ashes unto the mountain? Alpa! Alpa! who carrieth his ashes unto the mountain?
And I pressed the key, and pulled at the gate, and exerted myself. But not a finger’s-breadth was it yet open:
Then did a roaring wind tear the folds apart: whistling, whizzing, and piercing, it threw unto me a black coffin.
And in the roaring, and whistling, and whizzing the coffin burst up, and spouted out a thousand peals of laughter.
And a thousand caricatures of children, angels, owls, fools, and child-sized butterflies laughed and mocked, and roared at me.
Fearfully was I terrified thereby: it prostrated me. And I cried with horror as I ne’er cried before.
But mine own crying awoke me:—and I came to myself.—
Thus did Zarathustra relate his dream, and then was silent: for as yet he knew not the interpretation thereof. But the disciple whom he loved most arose quickly, seized Zarathustra’s hand, and said:
“Thy life itself interpreteth unto us this dream, O Zarathustra!
Art thou not thyself the wind with shrill whistling, which bursteth open the gates of the fortress of Death?
Art thou not thyself the coffin full of many-hued malices and angel-caricatures of life?
Verily, like a thousand peals of children’s laughter cometh Zarathustra into all sepulchres, laughing at those night-watchmen and grave-guardians, and whoever else rattleth with sinister keys.
With thy laughter wilt thou frighten and prostrate them: fainting and recovering will demonstrate thy power over them.
And when the long twilight cometh and the mortal weariness, even then wilt thou not disappear from our firmament, thou advocate of life!
New stars hast thou made us see, and new nocturnal glories: verily, laughter itself hast thou spread out over us like a many-hued canopy.
Now will children’s laughter ever from coffins flow; now will a strong wind ever come victoriously unto all mortal weariness: of this thou art thyself the pledge and the prophet!
Verily, THEY THEMSELVES DIDST THOU DREAM, thine enemies: that was thy sorest dream.
But as thou awokest from them and camest to thyself, so shall they awaken from themselves—and come unto thee!”
Thus spake the disciple; and all the others then thronged around Zarathustra, grasped him by the hands, and tried to persuade him to leave his bed and his sadness, and return unto them. Zarathustra, however, sat upright on his couch, with an absent look. Like one returning from long foreign sojourn did he look on his disciples, and examined their features; but still he knew them not. When, however, they raised him, and set him upon his feet, behold, all on a sudden his eye changed; he understood everything that had happened, stroked his beard, and said with a strong voice:
“Well! this hath just its time; but see to it, my disciples, that we have a good repast; and without delay! Thus do I mean to make amends for bad dreams!
The soothsayer, however, shall eat and drink at my side: and verily, I will yet show him a sea in which he can drown himself!”—
Thus spake Zarathustra. Then did he gaze long into the face of the disciple who had been the dream-interpreter, and shook his head.—
XLII. REDEMPTION.
When Zarathustra went one day over the great bridge, then did the cripples and beggars surround him, and a hunchback spake thus unto him:
“Behold, Zarathustra! Even the people learn from thee, and acquire faith in thy teaching: but for them to believe fully in thee, one thing is still needful—thou must first of all convince us cripples! Here hast thou now a fine selection, and verily, an opportunity with more than one
forelock! The blind canst thou heal, and make the lame run; and from him who hath too much behind, couldst thou well, also, take away a little;—that, I think, would be the right method to make the cripples believe in Zarathustra!”
Zarathustra, however, answered thus unto him who so spake: When one taketh his hump from the hunchback, then doth one take from him his spirit—so do the people teach. And when one giveth the blind man eyes, then doth he see too many bad things on the earth: so that he curseth him who healed him. He, however, who maketh the lame man run, inflicteth upon him the greatest injury; for hardly can he run, when his vices run away with him—so do the people teach concerning cripples. And why should not Zarathustra also learn from the people, when the people learn from Zarathustra?
It is, however, the smallest thing unto me since I have been amongst men, to see one person lacking an eye, another an ear, and a third a leg, and that others have lost the tongue, or the nose, or the head.
I see and have seen worse things, and divers things so hideous, that I should neither like to speak of all matters, nor even keep silent about some of them: namely, men who lack everything, except that they have too much of one thing—men who are nothing more than a big eye, or a big mouth, or a big belly, or something else big,—reversed cripples, I call such men.
And when I came out of my solitude, and for the first time passed over this bridge, then I could not trust mine eyes, but looked again and again, and said at last: “That is an ear! An ear as big as a man!” I looked still more attentively—and actually there did move under the ear something that was pitiably small and poor and slim. And in truth this immense ear was perched on a small thin stalk—the stalk, however, was a man! A person putting a glass to his eyes, could even recognise further a small envious countenance, and also that a bloated soullet dangled at the stalk.
The people told me, however, that the big ear was not only a man, but a great man, a genius. But I never believed in the people when they spake of great men—and I hold to my belief that it was a reversed cripple, who had too little of everything, and too much of one thing.
When Zarathustra had spoken thus unto the hunchback, and unto those of whom the hunchback was the mouthpiece and advocate, then did he turn to his disciples in profound dejection, and said:
Verily, my friends, I walk amongst men as amongst the fragments and limbs of human beings!
This is the terrible thing to mine eye, that I find man broken up, and scattered about, as on a battle- and butcher-ground.
And when mine eye fleeth from the present to the bygone, it findeth ever the same: fragments and limbs and fearful chances—but no men!
The present and the bygone upon earth—ah! my friends—that is MY most unbearable trouble; and I should not know how to live, if I were not a seer of what is to come.
A seer, a purposer, a creator, a future itself, and a bridge to the future—and alas! also as it were a cripple on this bridge: all that is Zarathustra.
And ye also asked yourselves often: “Who is Zarathustra to us? What shall he be called by us?” And like me, did ye give yourselves questions for answers.
Is he a promiser? Or a fulfiller? A conqueror? Or an inheritor? A harvest?
Or a ploughshare? A physician? Or a healed one?
Is he a poet? Or a genuine one? An emancipator? Or a subjugator? A good one? Or an evil one?
I walk amongst men as the fragments of the future: that future which I contemplate.
And it is all my poetisation and aspiration to compose and collect into unity what is fragment and riddle and fearful chance.
And how could I endure to be a man, if man were not also the composer, and riddle-reader, and redeemer of chance!
To redeem what is past, and to transform every “It was” into “Thus would I have it!”—that only do I call redemption!
Will—so is the emancipator and joy-bringer called: thus have I taught you, my friends! But now learn this likewise: the Will itself is still a prisoner.
Willing emancipateth: but what is that called which still putteth the emancipator in chains?
“It was”: thus is the Will’s teeth-gnashing and lonesomest tribulation called. Impotent towards what hath been done—it is a malicious spectator of all that is past.
Not backward can the Will will; that it cannot break time and time’s desire—that is the Will’s lonesomest tribulation.
Willing emancipateth: what doth Willing itself devise in order to get free from its tribulation and mock at its prison?
Ah, a fool becometh every prisoner! Foolishly delivereth itself also the imprisoned Will.
That time doth not run backward—that is its animosity: “That which was”: so is the stone which it cannot roll called.
And thus doth it roll stones out of animosity and ill-humour, and taketh revenge on whatever doth not, like it, feel rage and ill-humour.
Thus did the Will, the emancipator, become a torturer; and on all that is capable of suffering it taketh revenge, because it cannot go backward.
This, yea, this alone is REVENGE itself: the Will’s antipathy to time, and its “It was.”
Verily, a great folly dwelleth in our Will; and it became a curse unto all humanity, that this folly acquired spirit!
THE SPIRIT OF REVENGE: my friends, that hath hitherto been man’s best contemplation; and where there was suffering, it was claimed there was always penalty.
“Penalty,” so calleth itself revenge. With a lying word it feigneth a good conscience.
And because in the willer himself there is suffering, because he cannot will backwards—thus was Willing itself, and all life, claimed—to be penalty!
And then did cloud after cloud roll over the spirit, until at last madness preached: “Everything perisheth, therefore everything deserveth to perish!”
“And this itself is justice, the law of time—that he must devour his children:” thus did madness preach.
“Morally are things ordered according to justice and penalty. Oh, where is there deliverance from the flux of things and from the ‘existence’ of penalty?” Thus did madness preach.
“Can there be deliverance when there is eternal justice? Alas, unrollable is the stone, ‘It was’: eternal must also be all penalties!” Thus did madness preach.
“No deed can be annihilated: how could it be undone by the penalty! This, this is what is eternal in the ‘existence’ of penalty, that existence also must be eternally recurring deed and guilt!
Unless the Will should at last deliver itself, and Willing become non-Willing—:” but ye know, my brethren, this fabulous song of madness!
Away from those fabulous songs did I lead you when I taught you: “The Will is a creator.”
All “It was” is a fragment, a riddle, a fearful chance—until the creating Will saith thereto: “But thus would I have it.”—
Until the creating Will saith thereto: “But thus do I will it! Thus shall I will it!”
But did it ever speak thus? And when doth this take place? Hath the Will been unharnessed from its own folly?
Hath the Will become its own deliverer and joy-bringer? Hath it unlearned the spirit of revenge and all teeth-gnashing?
And who hath taught it reconciliation with time, and something higher than all reconciliation?
Something higher than all reconciliation must the Will will which is the Will to Power—: but how doth that take place? Who hath taught it also to will backwards?
—But at this point in his discourse it chanced that Zarathustra suddenly paused, and looked like a person in the greatest alarm. With terror in his eyes did he gaze on his disciples; his glances pierced as with arrows their thoughts and arrear-thoughts. But after a brief space he
again laughed, and said soothedly:
“It is difficult to live amongst men, because silence is so difficult—
especially for a babbler.”—
Thus spake Zarathustra. The hunchback, however, had listened to the conversation and had covered his face during the time; but when he heard Zarathustra laugh, he looked up with curiosity, and said slowly:
“But why doth Zarathustra speak otherwise unto us than unto his disciples?”
Zarathustra answered: “What is there to be wondered at! With hunchbacks one may well speak in a hunchbacked way!”
“Very good,” said the hunchback; “and with pupils one may well tell tales out of school.
But why doth Zarathustra speak otherwise unto his pupils—than unto himself?”—
XLIII. MANLY PRUDENCE.
Not the height, it is the declivity that is terrible!
The declivity, where the gaze shooteth DOWNWARDS, and the hand graspeth UPWARDS. There doth the heart become giddy through its double will.
Ah, friends, do ye divine also my heart’s double will?
This, this is MY declivity and my danger, that my gaze shooteth towards the summit, and my hand would fain clutch and lean—on the depth!
To man clingeth my will; with chains do I bind myself to man, because I am pulled upwards to the Superman: for thither doth mine other will tend.
And THEREFORE do I live blindly among men, as if I knew them not: that my hand may not entirely lose belief in firmness.
I know not you men: this gloom and consolation is often spread around me.
I sit at the gateway for every rogue, and ask: Who wisheth to deceive me?
This is my first manly prudence, that I allow myself to be deceived, so as not to be on my guard against deceivers.
Ah, if I were on my guard against man, how could man be an anchor to my ball! Too easily would I be pulled upwards and away!
This providence is over my fate, that I have to be without foresight.
And he who would not languish amongst men, must learn to drink out of all glasses; and he who would keep clean amongst men, must know how to wash himself even with dirty water.
And thus spake I often to myself for consolation: “Courage! Cheer up! old heart! An unhappiness hath failed to befall thee: enjoy that as thy—happiness!”
This, however, is mine other manly prudence: I am more forbearing to the VAIN than to the proud.
Is not wounded vanity the mother of all tragedies? Where, however, pride is wounded, there there groweth up something better than pride.
That life may be fair to behold, its game must be well played; for that purpose, however, it needeth good actors.
Good actors have I found all the vain ones: they play, and wish people to be fond of beholding them—all their spirit is in this wish.
They represent themselves, they invent themselves; in their neighbourhood I like to look upon life—it cureth of melancholy.
Therefore am I forbearing to the vain, because they are the physicians of my melancholy, and keep me attached to man as to a drama.
And further, who conceiveth the full depth of the modesty of the vain man!
I am favourable to him, and sympathetic on account of his modesty.
From you would he learn his belief in himself; he feedeth upon your glances, he eateth praise out of your hands.
Your lies doth he even believe when you lie favourably about him: for in its depths sigheth his heart: “What am I?”
And if that be the true virtue which is unconscious of itself—well, the vain man is unconscious of his modesty!—
This is, however, my third manly prudence: I am not put out of conceit with the WICKED by your timorousness.
I am happy to see the marvels the warm sun hatcheth: tigers and palms and rattle-snakes.
Also amongst men there is a beautiful brood of the warm sun, and much that is marvellous in the wicked.
In truth, as your wisest did not seem to me so very wise, so found I also human wickedness below the fame of it.
And oft did I ask with a shake of the head: Why still rattle, ye rattle-snakes?
Verily, there is still a future even for evil! And the warmest south is still undiscovered by man.
How many things are now called the worst wickedness, which are only twelve feet broad and three months long! Some day, however, will greater dragons come into the world.
For that the Superman may not lack his dragon, the superdragon that is worthy of him, there must still much warm sun glow on moist virgin forests!
Out of your wild cats must tigers have evolved, and out of your poison-toads, crocodiles: for the good hunter shall have a good hunt!
And verily, ye good and just! In you there is much to be laughed at, and especially your fear of what hath hitherto been called “the devil!”
So alien are ye in your souls to what is great, that to you the Superman would be FRIGHTFUL in his goodness!
And ye wise and knowing ones, ye would flee from the solar-glow of the wisdom in which the Superman joyfully batheth his nakedness!
Ye highest men who have come within my ken! this is my doubt of you, and my secret laughter: I suspect ye would call my Superman—a devil!
Ah, I became tired of those highest and best ones: from their “height” did I long to be up, out, and away to the Superman!
A horror came over me when I saw those best ones naked: then there grew for me the pinions to soar away into distant futures.
Into more distant futures, into more southern souths than ever artist dreamed of: thither, where Gods are ashamed of all clothes!
But disguised do I want to see YOU, ye neighbours and fellowmen, and well-attired and vain and estimable, as “the good and just;”—
And disguised will I myself sit amongst you—that I may MISTAKE you and myself: for that is my last manly prudence.—
Thus spake Zarathustra.
XLIV. THE STILLEST HOUR.
What hath happened unto me, my friends? Ye see me troubled, driven forth, unwillingly obedient, ready to go—alas, to go away from YOU!
Yea, once more must Zarathustra retire to his solitude: but unjoyously this time doth the bear go back to his cave!
What hath happened unto me? Who ordereth this?—Ah, mine angry mistress wisheth it so; she spake unto me. Have I ever named her name to you?
Yesterday towards evening there spake unto me MY STILLEST HOUR: that is the name of my terrible mistress.
And thus did it happen—for everything must I tell you, that your heart may not harden against the suddenly departing one!
Do ye know the terror of him who falleth asleep?—
To the very toes he is terrified, because the ground giveth way under him, and the dream beginneth.
This do I speak unto you in parable. Yesterday at the stillest hour did the ground give way under me: the dream began.
The hour-hand moved on, the timepiece of my life drew breath—never did I hear such stillness around me, so that my heart was terrified.
Then was there spoken unto me without voice: “THOU KNOWEST IT, ZARATHUSTRA?”—
And I cried in terror at this whispering, and the blood left my face: but I was silent.
Then was there once more spoken unto me without voice: “Thou knowest it, Zarathustra, but thou dost not speak it!”—
And at last I answered, like one defiant: “Yea, I know it, but I will not speak it!”
Then was there again spoken unto me without voice: “Thou WILT not, Zarathustra? Is this true? Conceal thyself not behind thy defiance!”—
And I wept and trembled like a child, and said: “Ah, I would indeed, but how can I do it! Exempt me only from this! It is beyond my power!”
Then was there again spoken unto me without voice: “What matter about thyself, Zarathustra! Speak thy word, and succumb!”
And I answered: “Ah, is it MY word? Who am I? I await the worthier
one; I am not worthy even to succumb by it.”
Then was there again spoken unto me without voice: “What matter about thyself? Thou art not yet humble enough for me. Humility hath the hardest skin.”—
And I answered: “What hath not the skin of my humility endured! At the foot of my height do I dwell: how high are my summits, no one hath yet told me. But well do I know my valleys.”
Then was there again spoken unto me without voice: “O Zarathustra, he who hath to remove mountains removeth also valleys and plains.”—
And I answered: “As yet hath my word not removed mountains, and what I have spoken hath not reached man. I went, indeed, unto men, but not yet have I attained unto them.”
Then was there again spoken unto me without voice: “What knowest thou THEREOF! The dew falleth on the grass when the night is most silent.”—
And I answered: “They mocked me when I found and walked in mine own path; and certainly did my feet then tremble.
And thus did they speak unto me: Thou forgottest the path before, now dost thou also forget how to walk!”
Then was there again spoken unto me without voice: “What matter about their mockery! Thou art one who hast unlearned to obey: now shalt thou command!
Knowest thou not who is most needed by all? He who commandeth great things.
To execute great things is difficult: but the more difficult task is to command great things.
This is thy most unpardonable obstinacy: thou hast the power, and thou wilt not rule.”—
And I answered: “I lack the lion’s voice for all commanding.”
Then was there again spoken unto me as a whispering: “It is the stillest words which bring the storm. Thoughts that come with doves’ footsteps guide the world.
O Zarathustra, thou shalt go as a shadow of that which is to come: thus wilt thou command, and in commanding go foremost.”—
And I answered: “I am ashamed.”
Then was there again spoken unto me without voice: “Thou must yet become a child, and be without shame.
The pride of youth is still upon thee; late hast thou become young: but he who would become a child must surmount even his youth.”—
And I considered a long while, and trembled. At last, however, did I say what I had said at first. “I will not.”
Then did a laughing take place all around me. Alas, how that laughing lacerated my bowels and cut into my heart!
And there was spoken unto me for the last time: “O Zarathustra, thy fruits are ripe, but thou art not ripe for thy fruits!
So must thou go again into solitude: for thou shalt yet become mellow.”—
And again was there a laughing, and it fled: then did it become still around me, as with a double stillness. I lay, however, on the ground, and the sweat flowed from my limbs.
—Now have ye heard all, and why I have to return into my solitude.
Nothing have I kept hidden from you, my friends.
But even this have ye heard from me, WHO is still the most reserved of men—and will be so!
Ah, my friends! I should have something more to say unto you! I should have something more to give unto you! Why do I not give it? Am I then a niggard?—
When, however, Zarathustra had spoken these words, the violence of his pain, and a sense of the nearness of his departure from his friends came over him, so that he wept aloud; and no one knew how to console him. In the night, however, he went away alone and left his friends.
THIRD PART.
“Ye look aloft when ye long for exaltation, and I look downward because I am exalted.
“Who among you can at the same time laugh and be exalted?
“He who climbeth on the highest mountains, laugheth at all tragic plays and tragic realities.”—ZARATHUSTRA, I., “Reading and Writing.”
XLV. THE WANDERER.
Then, when it was about midnight, Zarathustra went his way over the ridge of the isle, that he might arrive early in the morning at the other coast; because there he meant to embark. For there was a good roadstead there, in which foreign ships also liked to anchor: those ships took many people with them, who wished to cross over from the Happy Isles. So when Zarathustra thus ascended the mountain, he thought on the way of his many solitary wanderings from youth onwards, and how many mountains and ridges and summits he had already climbed.
I am a wanderer and mountain-climber, said he to his heart, I love not the plains, and it seemeth I cannot long sit still.
And whatever may still overtake me as fate and experience—a wandering will be therein, and a mountain-climbing: in the end one experienceth only oneself.
The time is now past when accidents could befall me; and what COULD now fall to my lot which would not already be mine own!
It returneth only, it cometh home to me at last—mine own Self, and such of it as hath been long abroad, and scattered among things and accidents.
And one thing more do I know: I stand now before my last summit, and before that which hath been longest reserved for me. Ah, my hardest path must I ascend! Ah, I have begun my lonesomest wandering!
He, however, who is of my nature doth not avoid such an hour: the hour that saith unto him: Now only dost thou go the way to thy greatness!
Summit and abyss—these are now comprised together!
Thou goest the way to thy greatness: now hath it become thy last refuge, what was hitherto thy last danger!
Thou goest the way to thy greatness: it must now be thy best courage that there is no longer any path behind thee!
Thou goest the way to thy greatness: here shall no one steal after thee!
Thy foot itself hath effaced the path behind thee, and over it standeth written: Impossibility.
And if all ladders henceforth fail thee, then must thou learn to mount upon thine own head: how couldst thou mount upward otherwise?
Upon thine own head, and beyond thine own heart! Now must the gentlest in thee become the hardest.
He who hath always much-indulged himself, sickeneth at last by his much-indulgence. Praises on what maketh hardy! I do not praise the land where butter and honey—flow!
To learn TO LOOK AWAY FROM oneself, is necessary in order to see MANY
THINGS:—this hardiness is needed by every mountain-climber.
He, however, who is obtrusive with his eyes as a discerner, how can he ever see more of anything than its foreground!
But thou, O Zarathustra, wouldst view the ground of everything, and its background: thus must thou mount even above thyself—up, upwards, until thou hast even thy stars UNDER thee!
Yea! To look down upon myself, and even upon my stars: that only would I call my SUMMIT, that hath remained for me as my LAST summit!—
Thus spake Zarathustra to himself while ascending, comforting his heart with harsh maxims: for he was sore at heart as he had never been before.
And when he had reached the top of the mountain-ridge, behold, there lay the other sea spread out before him: and he stood still and was long silent. The night, however, was cold at this height, and clear and starry.
I recognise my destiny, said he at last, sadly. Well! I am ready. Now hath my last lonesomeness begun.
Ah, this sombre, sad sea, below me! Ah, this sombre nocturnal vexation!
Ah, fate and sea! To you must I now GO DOWN!
Before my highest mountain do I stand, and before my longest wandering: therefore must I first go deeper down than I ever ascended:
—Deeper down into pain than I ever ascended, even into its darkest flood! So willeth my fate. Well! I am ready.
Whence come the highest mountains? so did I once ask. Then did I learn that they come out of the sea.
That testimony is inscribed on their stones, and on the walls of their summits. Out of the deepest must the highest come to its height.—
Thus spake Zarathustra on the ridge of the mountain where it was cold: when, however, he came into the vicinity of the sea, and at last stood alone amongst the cliffs, then had he become weary on his way, and eagerer than ever before.
Everything as yet sleepeth, said he; even the sea sleepeth. Drowsily and strangely doth its eye gaze upon me.
But it breatheth warmly—I feel it. And I feel also that it dreameth.
It tosseth about dreamily on hard pillows.
Hark! Hark! How it groaneth with evil recollections! Or evil expectations?
Ah, I am sad along with thee, thou dusky monster, and angry with myself even for thy sake.
Ah, that my hand hath not strength enough! Gladly, indeed, would I free thee from evil dreams!—
And while Zarathustra thus spake, he laughed at himself with melancholy and bitterness. What! Zarathustra, said he, wilt thou even sing consolation to the sea?
Ah, thou amiable fool, Zarathustra, thou too-blindly confiding one! But thus hast thou ever been: ever hast thou approached confidently all that is terrible.
Every monster wouldst thou caress. A whiff of warm breath, a little soft tuft on its paw—: and immediately wert thou ready to love and lure it.
LOVE is the danger of the lonesomest one, love to anything, IF IT ONLY
LIVE! Laughable, verily, is my folly and my modesty in love!—
Thus spake Zarathustra, and laughed thereby a second time. Then, however, he thought of his abandoned friends—and as if he had done them a wrong with his thoughts, he upbraided himself because of his thoughts. And forthwith it came to pass that the laugher wept—with anger and longing wept Zarathustra bitterly.
XLVI. THE VISION AND THE ENIGMA.
1.
When it got abroad among the sailors that Zarathustra was on board the ship—for a man who came from the Happy Isles had gone on board along with him,—there was great curiosity and expectation. But Zarathustra kept silent for two days, and was cold and deaf with sadness; so that he neither answered looks nor questions. On the evening of the second day, however, he again opened his ears, though he still kept silent: for there were many curious and dangerous things to be heard on board the ship, which came from afar, and was to go still further. Zarathustra, however, was fond of all those who make distant voyages, and dislike to live without danger. And behold! when listening, his own tongue was at last loosened, and the ice of his heart broke. Then did he begin to speak thus: To you, the daring venturers and adventurers, and whoever hath embarked with cunning sails upon frightful seas,—
To you the enigma-intoxicated, the twilight-enjoyers, whose souls are allured by flutes to every treacherous gulf:
—For ye dislike to grope at a thread with cowardly hand; and where ye can DIVINE, there do ye hate to CALCULATE—
To you only do I tell the enigma that I SAW—the vision of the lonesomest one.—
Gloomily walked I lately in corpse-coloured twilight—gloomily and sternly, with compressed lips. Not only one sun had set for me.
A path which ascended daringly among boulders, an evil, lonesome path, which neither herb nor shrub any longer cheered, a mountain-path, crunched under the daring of my foot.
Mutely marching over the scornful clinking of pebbles, trampling the stone that let it slip: thus did my foot force its way upwards.
Upwards:—in spite of the spirit that drew it downwards, towards the abyss, the spirit of gravity, my devil and arch-enemy.
Upwards:—although it sat upon me, half-dwarf, half-mole; paralysed, paralysing; dripping lead in mine ear, and thoughts like drops of lead into my brain.
“O Zarathustra,” it whispered scornfully, syllable by syllable, “thou stone of wisdom! Thou threwest thyself high, but every thrown stone must—fall!
O Zarathustra, thou stone of wisdom, thou sling-stone, thou
star-destroyer! Thyself threwest thou so high,—but every thrown stone—must fall!
Condemned of thyself, and to thine own stoning: O Zarathustra, far indeed threwest thou thy stone—but upon THYSELF will it recoil!”
Then was the dwarf silent; and it lasted long. The silence, however, oppressed me; and to be thus in pairs, one is verily lonesomer than when alone!
I ascended, I ascended, I dreamt, I thought,—but everything oppressed me. A sick one did I resemble, whom bad torture wearieth, and a worse dream reawakeneth out of his first sleep.—
But there is something in me which I call courage: it hath hitherto slain for me every dejection. This courage at last bade me stand still and say:
“Dwarf! Thou! Or I!”—
For courage is the best slayer,—courage which ATTACKETH: for in every attack there is sound of triumph.
Man, however, is the most courageous animal: thereby hath he overcome every animal. With sound of triumph hath he overcome every pain; human pain, however, is the sorest pain.
Courage slayeth also giddiness at abysses: and where doth man not stand at abysses! Is not seeing itself—seeing abysses?
Courage is the best slayer: courage slayeth also fellow-suffering.
Fellow-suffering, however, is the deepest abyss: as deeply as man looketh into life, so deeply also doth he look into suffering.
Courage, however, is the best slayer, courage which attacketh: it slayeth even death itself; for it saith: “WAS THAT life? Well! Once more!”
In such speech, however, there is much sound of triumph. He who hath ears to hear, let him hear.—
2.
“Halt, dwarf!” said I. “Either I—or thou! I, however, am the stronger of the two:—thou knowest not mine abysmal thought! IT—couldst thou not endure!”
Then happened that which made me lighter: for the dwarf sprang from my shoulder, the prying sprite! And it squatted on a stone in front of me.
There was however a gateway just where we halted.
“Look at this gateway! Dwarf!” I continued, “it hath two faces. Two roads come together here: these hath no one yet gone to the end of.
This long lane backwards: it continueth for an eternity. And that long lane forward—that is another eternity.
They are antithetical to one another, these roads; they directly abut on one another:—and it is here, at this gateway, that they come together. The name of the gateway is inscribed above: ‘This Moment.’
But should one follow them further—and ever further and further on, thinkest thou, dwarf, that these roads would be eternally antithetical?”—
“Everything straight lieth,” murmured the dwarf, contemptuously. “All truth is crooked; time itself is a circle.”
“Thou spirit of gravity!” said I wrathfully, “do not take it too lightly!
Or I shall let thee squat where thou squattest, Haltfoot,—and I carried thee HIGH!”
“Observe,” continued I, “This Moment! From the gateway, This Moment, there runneth a long eternal lane BACKWARDS: behind us lieth an eternity.
Must not whatever CAN run its course of all things, have already run along that lane? Must not whatever CAN happen of all things have already happened, resulted, and gone by?
And if everything have already existed, what thinkest thou, dwarf, of This Moment? Must not this gateway also—have already existed?
And are not all things closely bound together in such wise that This Moment draweth all coming things after it? CONSEQUENTLY—itself also?
For whatever CAN run its course of all things, also in this long lane OUTWARD—MUST it once more run!—
And this slow spider which creepeth in the moonlight, and this moonlight itself, and thou and I in this gateway whispering together, whispering of eternal things—must we not all have already existed?
—And must we not return and run in that other lane out before us, that long weird lane—must we not eternally return?”—
Thus did I speak, and always more softly: for I was afraid of mine own
thoughts, and arrear-thoughts. Then, suddenly did I hear a dog HOWL near me.
Had I ever heard a dog howl thus? My thoughts ran back. Yes! When I was a child, in my most distant childhood:
—Then did I hear a dog howl thus. And saw it also, with hair bristling, its head upwards, trembling in the stillest midnight, when even dogs believe in ghosts:
—So that it excited my commiseration. For just then went the full moon, silent as death, over the house; just then did it stand still, a glowing globe—at rest on the flat roof, as if on some one’s property:—
Thereby had the dog been terrified: for dogs believe in thieves and ghosts. And when I again heard such howling, then did it excite my commiseration once more.
Where was now the dwarf? And the gateway? And the spider? And all the whispering? Had I dreamt? Had I awakened? ‘Twixt rugged rocks did I suddenly stand alone, dreary in the dreariest moonlight.
BUT THERE LAY A MAN! And there! The dog leaping, bristling, whining—now did it see me coming—then did it howl again, then did it CRY:—had I ever heard a dog cry so for help?
And verily, what I saw, the like had I never seen. A young shepherd did I see, writhing, choking, quivering, with distorted countenance, and with a heavy black serpent hanging out of his mouth.
Had I ever seen so much loathing and pale horror on one countenance? He had perhaps gone to sleep? Then had the serpent crawled into his throat—there had it bitten itself fast.
My hand pulled at the serpent, and pulled:—in vain! I failed to pull the serpent out of his throat. Then there cried out of me: “Bite! Bite!
Its head off! Bite!”—so cried it out of me; my horror, my hatred, my loathing, my pity, all my good and my bad cried with one voice out of me.—
Ye daring ones around me! Ye venturers and adventurers, and whoever of you have embarked with cunning sails on unexplored seas! Ye enigma-enjoyers!
Solve unto me the enigma that I then beheld, interpret unto me the vision of the lonesomest one!
For it was a vision and a foresight:—WHAT did I then behold in parable? And WHO is it that must come some day?
WHO is the shepherd into whose throat the serpent thus crawled? WHO is the man into whose throat all the heaviest and blackest will thus crawl?
—The shepherd however bit as my cry had admonished him; he bit with a strong bite! Far away did he spit the head of the serpent—: and sprang up.—
No longer shepherd, no longer man—a transfigured being, a light-surrounded being, that LAUGHED! Never on earth laughed a man as HE
laughed!
O my brethren, I heard a laughter which was no human laughter,—and now gnaweth a thirst at me, a longing that is never allayed.
My longing for that laughter gnaweth at me: oh, how can I still endure to live! And how could I endure to die at present!—
Thus spake Zarathustra.
XLVII. INVOLUNTARY BLISS.
With such enigmas and bitterness in his heart did Zarathustra sail o’er the sea. When, however, he was four day-journeys from the Happy Isles and from his friends, then had he surmounted all his pain—: triumphantly and with firm foot did he again accept his fate. And then talked Zarathustra in this wise to his exulting conscience: Alone am I again, and like to be so, alone with the pure heaven, and the open sea; and again is the afternoon around me.
On an afternoon did I find my friends for the first time; on an afternoon, also, did I find them a second time:—at the hour when all light becometh stiller.
For whatever happiness is still on its way ‘twixt heaven and earth, now seeketh for lodging a luminous soul: WITH HAPPINESS hath all light now become stiller.
O afternoon of my life! Once did my happiness also descend to the valley that it might seek a lodging: then did it find those open hospitable
souls.
O afternoon of my life! What did I not surrender that I might have one thing: this living plantation of my thoughts, and this dawn of my highest hope!
Companions did the creating one once seek, and children of HIS hope: and lo, it turned out that he could not find them, except he himself should first create them.
Thus am I in the midst of my work, to my children going, and from them returning: for the sake of his children must Zarathustra perfect himself.
For in one’s heart one loveth only one’s child and one’s work; and where there is great love to oneself, then is it the sign of pregnancy: so have I found it.
Still are my children verdant in their first spring, standing nigh one another, and shaken in common by the winds, the trees of my garden and of my best soil.
And verily, where such trees stand beside one another, there ARE Happy Isles!
But one day will I take them up, and put each by itself alone: that it may learn lonesomeness and defiance and prudence.
Gnarled and crooked and with flexible hardness shall it then stand by the sea, a living lighthouse of unconquerable life.
Yonder where the storms rush down into the sea, and the snout of the mountain drinketh water, shall each on a time have his day and night watches, for HIS testing and recognition.
Recognised and tested shall each be, to see if he be of my type and lineage:—if he be master of a long will, silent even when he speaketh, and giving in such wise that he TAKETH in giving:—
—So that he may one day become my companion, a fellow-creator and fellow-enjoyer with Zarathustra:—such a one as writeth my will on my tables, for the fuller perfection of all things.
And for his sake and for those like him, must I perfect MYSELF: therefore do I now avoid my happiness, and present myself to every misfortune—for MY final testing and recognition.
And verily, it were time that I went away; and the wanderer’s shadow and the longest tedium and the stillest hour—have all said unto me: “It is the highest time!”
The word blew to me through the keyhole and said “Come!” The door sprang subtlely open unto me, and said “Go!”
But I lay enchained to my love for my children: desire spread this snare for me—the desire for love—that I should become the prey of my children, and lose myself in them.
Desiring—that is now for me to have lost myself. I POSSESS YOU, MY
CHILDREN! In this possessing shall everything be assurance and nothing desire.
But brooding lay the sun of my love upon me, in his own juice stewed Zarathustra,—then did shadows and doubts fly past me.
For frost and winter I now longed: “Oh, that frost and winter would again make me crack and crunch!” sighed I:—then arose icy mist out of me.
My past burst its tomb, many pains buried alive woke up—: fully slept had they merely, concealed in corpse-clothes.
So called everything unto me in signs: “It is time!” But I—heard not, until at last mine abyss moved, and my thought bit me.
Ah, abysmal thought, which art MY thought! When shall I find strength to hear thee burrowing, and no longer tremble?
To my very throat throbbeth my heart when I hear thee burrowing! Thy muteness even is like to strangle me, thou abysmal mute one!
As yet have I never ventured to call thee UP; it hath been enough that I—have carried thee about with me! As yet have I not been strong enough for my final lion-wantonness and playfulness.
Sufficiently formidable unto me hath thy weight ever been: but one day shall I yet find the strength and the lion’s voice which will call thee up!
When I shall have surmounted myself therein, then will I surmount myself also in that which is greater; and a VICTORY shall be the seal of my perfection!—
Meanwhile do I sail along on uncertain seas; chance flattereth me, smooth-tongued chance; forward and backward do I gaze—, still see I no end.
As yet hath the hour of my final struggle not come to me—or doth it come to me perhaps just now? Verily, with insidious beauty do sea and life gaze upon me round about:
O afternoon of my life! O happiness before eventide! O haven upon high seas! O peace in uncertainty! How I distrust all of you!
Verily, distrustful am I of your insidious beauty! Like the lover am I, who distrusteth too sleek smiling.
As he pusheth the best-beloved before him—tender even in severity, the jealous one—, so do I push this blissful hour before me.
Away with thee, thou blissful hour! With thee hath there come to me an involuntary bliss! Ready for my severest pain do I here stand:—at the wrong time hast thou come!
Away with thee, thou blissful hour! Rather harbour there—with my children! Hasten! and bless them before eventide with MY happiness!
There, already approacheth eventide: the sun sinketh. Away—my happiness!—
Thus spake Zarathustra. And he waited for his misfortune the whole night; but he waited in vain. The night remained clear and calm, and happiness itself came nigher and nigher unto him. Towards morning, however, Zarathustra laughed to his heart, and said mockingly: “Happiness runneth after me. That is because I do not run after women. Happiness, however, is a woman.”
XLVIII. BEFORE SUNRISE.
O heaven above me, thou pure, thou deep heaven! Thou abyss of light!
Gazing on thee, I tremble with divine desires.
Up to thy height to toss myself—that is MY depth! In thy purity to hide myself—that is MINE innocence!
The God veileth his beauty: thus hidest thou thy stars. Thou speakest not: THUS proclaimest thou thy wisdom unto me.
Mute o’er the raging sea hast thou risen for me to-day; thy love and thy modesty make a revelation unto my raging soul.
In that thou camest unto me beautiful, veiled in thy beauty, in that thou spakest unto me mutely, obvious in thy wisdom:
Oh, how could I fail to divine all the modesty of thy soul! BEFORE the sun didst thou come unto me—the lonesomest one.
We have been friends from the beginning: to us are grief, gruesomeness, and ground common; even the sun is common to us.
We do not speak to each other, because we know too much—: we keep silent to each other, we smile our knowledge to each other.
Art thou not the light of my fire? Hast thou not the sister-soul of mine insight?
Together did we learn everything; together did we learn to ascend beyond ourselves to ourselves, and to smile uncloudedly:—
—Uncloudedly to smile down out of luminous eyes and out of miles of distance, when under us constraint and purpose and guilt steam like rain.
And wandered I alone, for WHAT did my soul hunger by night and in labyrinthine paths? And climbed I mountains, WHOM did I ever seek, if not thee, upon mountains?
And all my wandering and mountain-climbing: a necessity was it merely, and a makeshift of the unhandy one:—to FLY only, wanteth mine entire will, to fly into THEE!
And what have I hated more than passing clouds, and whatever tainteth thee? And mine own hatred have I even hated, because it tainted thee!
The passing clouds I detest—those stealthy cats of prey: they take from thee and me what is common to us—the vast unbounded Yea- and Amen-saying.
These mediators and mixers we detest—the passing clouds: those half-and-half ones, that have neither learned to bless nor to curse from the heart.
Rather will I sit in a tub under a closed heaven, rather will I sit in the abyss without heaven, than see thee, thou luminous heaven, tainted with passing clouds!
And oft have I longed to pin them fast with the jagged gold-wires of lightning, that I might, like the thunder, beat the drum upon their kettle-bellies:—
—An angry drummer, because they rob me of thy Yea and Amen!—thou heaven above me, thou pure, thou luminous heaven! Thou abyss of light!—because they rob thee of MY Yea and Amen.
For rather will I have noise and thunders and tempest-blasts, than this discreet, doubting cat-repose; and also amongst men do I hate most of all the soft-treaders, and half-and-half ones, and the doubting, hesitating, passing clouds.
And “he who cannot bless shall LEARN to curse!”—this clear teaching dropt unto me from the clear heaven; this star standeth in my heaven even in dark nights.
I, however, am a blesser and a Yea-sayer, if thou be but around me, thou pure, thou luminous heaven! Thou abyss of light!—into all abysses do I then carry my beneficent Yea-saying.
A blesser have I become and a Yea-sayer: and therefore strove I long and was a striver, that I might one day get my hands free for blessing.
This, however, is my blessing: to stand above everything as its own heaven, its round roof, its azure bell and eternal security: and blessed is he who thus blesseth!
For all things are baptized at the font of eternity, and beyond good and evil; good and evil themselves, however, are but fugitive shadows and damp afflictions and passing clouds.
Verily, it is a blessing and not a blasphemy when I teach that “above all things there standeth the heaven of chance, the heaven of innocence, the heaven of hazard, the heaven of wantonness.”
“Of Hazard”—that is the oldest nobility in the world; that gave I back to all things; I emancipated them from bondage under purpose.
This freedom and celestial serenity did I put like an azure bell above all things, when I taught that over them and through them, no “eternal Will”—willeth.
This wantonness and folly did I put in place of that Will, when I taught that “In everything there is one thing impossible—rationality!”
A LITTLE reason, to be sure, a germ of wisdom scattered from star to star—this leaven is mixed in all things: for the sake of folly, wisdom is mixed in all things!
A little wisdom is indeed possible; but this blessed security have I found in all things, that they prefer—to dance on the feet of chance.
O heaven above me! thou pure, thou lofty heaven! This is now thy purity unto me, that there is no eternal reason-spider and reason-cobweb:—
—That thou art to me a dancing-floor for divine chances, that thou art to me a table of the Gods, for divine dice and dice-players!—
But thou blushest? Have I spoken unspeakable things? Have I abused, when I meant to bless thee?
Or is it the shame of being two of us that maketh thee blush!—Dost thou bid me go and be silent, because now—DAY cometh?
The world is deep:—and deeper than e’er the day could read. Not everything may be uttered in presence of day. But day cometh: so let us part!
O heaven above me, thou modest one! thou glowing one! O thou, my happiness before sunrise! The day cometh: so let us part!—
Thus spake Zarathustra.
XLIX. THE BEDWARFING VIRTUE.
1.
When Zarathustra was again on the continent, he did not go straightway to his mountains and his cave, but made many wanderings and questionings, and ascertained this and that; so that he said of himself jestingly: “Lo, a river that floweth back unto its source in many windings!” For he wanted to learn what had taken place AMONG MEN during the interval: whether they had become greater or smaller. And once, when he saw a row of new houses, he marvelled, and said:
“What do these houses mean? Verily, no great soul put them up as its simile!
Did perhaps a silly child take them out of its toy-box? Would that another child put them again into the box!
And these rooms and chambers—can MEN go out and in there? They seem to be made for silk dolls; or for dainty-eaters, who perhaps let others eat with them.”
And Zarathustra stood still and meditated. At last he said sorrowfully:
“There hath EVERYTHING become smaller!
Everywhere do I see lower doorways: he who is of MY type can still go therethrough, but—he must stoop!
Oh, when shall I arrive again at my home, where I shall no longer have to stoop—shall no longer have to stoop BEFORE THE SMALL ONES!”—And Zarathustra sighed, and gazed into the distance.—
The same day, however, he gave his discourse on the bedwarfing virtue.
2.
I pass through this people and keep mine eyes open: they do not forgive me for not envying their virtues.
They bite at me, because I say unto them that for small people, small virtues are necessary—and because it is hard for me to understand that small people are NECESSARY!
Here am I still like a cock in a strange farm-yard, at which even the hens peck: but on that account I am not unfriendly to the hens.
I am courteous towards them, as towards all small annoyances; to be prickly towards what is small, seemeth to me wisdom for hedgehogs.
They all speak of me when they sit around their fire in the evening—they speak of me, but no one thinketh—of me!
This is the new stillness which I have experienced: their noise around me spreadeth a mantle over my thoughts.
They shout to one another: “What is this gloomy cloud about to do to us?
Let us see that it doth not bring a plague upon us!”
And recently did a woman seize upon her child that was coming unto me:
“Take the children away,” cried she, “such eyes scorch children’s souls.”
They cough when I speak: they think coughing an objection to strong winds—they divine nothing of the boisterousness of my happiness!
“We have not yet time for Zarathustra”—so they object; but what matter about a time that “hath no time” for Zarathustra?
And if they should altogether praise me, how could I go to sleep on THEIR
praise? A girdle of spines is their praise unto me: it scratcheth me even when I take it off.
And this also did I learn among them: the praiser doeth as if he gave back; in truth, however, he wanteth more to be given him!
Ask my foot if their lauding and luring strains please it! Verily, to such measure and ticktack, it liketh neither to dance nor to stand still.
To small virtues would they fain lure and laud me; to the ticktack of small happiness would they fain persuade my foot.
I pass through this people and keep mine eyes open; they have become SMALLER, and ever become smaller:—THE REASON THEREOF IS THEIR
DOCTRINE OF HAPPINESS AND VIRTUE.
For they are moderate also in virtue,—because they want comfort.
With comfort, however, moderate virtue only is compatible.
To be sure, they also learn in their way to stride on and stride forward: that, I call their HOBBLING.—Thereby they become a hindrance to all who are in haste.
And many of them go forward, and look backwards thereby, with stiffened necks: those do I like to run up against.
Foot and eye shall not lie, nor give the lie to each other. But there is much lying among small people.
Some of them WILL, but most of them are WILLED. Some of them are genuine, but most of them are bad actors.
There are actors without knowing it amongst them, and actors without intending it—, the genuine ones are always rare, especially the genuine actors.
Of man there is little here: therefore do their women masculinise themselves. For only he who is man enough, will—SAVE THE WOMAN in woman.
And this hypocrisy found I worst amongst them, that even those who command feign the virtues of those who serve.
“I serve, thou servest, we serve”—so chanteth here even the
hypocrisy of the rulers—and alas! if the first lord be ONLY the first servant!
Ah, even upon their hypocrisy did mine eyes’ curiosity alight; and well did I divine all their fly-happiness, and their buzzing around sunny window-panes.
So much kindness, so much weakness do I see. So much justice and pity, so much weakness.
Round, fair, and considerate are they to one another, as grains of sand are round, fair, and considerate to grains of sand.
Modestly to embrace a small happiness—that do they call
“submission”! and at the same time they peer modestly after a new small happiness.
In their hearts they want simply one thing most of all: that no one hurt them. Thus do they anticipate every one’s wishes and do well unto every one.
That, however, is COWARDICE, though it be called “virtue.”—
And when they chance to speak harshly, those small people, then do I hear therein only their hoarseness—every draught of air maketh them hoarse.
Shrewd indeed are they, their virtues have shrewd fingers. But they lack fists: their fingers do not know how to creep behind fists.
Virtue for them is what maketh modest and tame: therewith have they made the wolf a dog, and man himself man’s best domestic animal.
“We set our chair in the MIDST”—so saith their smirking unto me—“and as far from dying gladiators as from satisfied swine.”
That, however, is—MEDIOCRITY, though it be called moderation.—
3.
I pass through this people and let fall many words: but they know neither how to take nor how to retain them.
They wonder why I came not to revile venery and vice; and verily, I came not to warn against pickpockets either!
They wonder why I am not ready to abet and whet their wisdom: as if they had not yet enough of wiseacres, whose voices grate on mine ear like slate-pencils!
And when I call out: “Curse all the cowardly devils in you, that would fain whimper and fold the hands and adore”—then do they shout:
“Zarathustra is godless.”
And especially do their teachers of submission shout this;—but precisely in their ears do I love to cry: “Yea! I AM Zarathustra, the godless!”
Those teachers of submission! Wherever there is aught puny, or sickly, or scabby, there do they creep like lice; and only my disgust preventeth me from cracking them.
Well! This is my sermon for THEIR ears: I am Zarathustra the godless, who saith: “Who is more godless than I, that I may enjoy his teaching?”
I am Zarathustra the godless: where do I find mine equal? And all those are mine equals who give unto themselves their Will, and divest themselves of all submission.
I am Zarathustra the godless! I cook every chance in MY pot. And only when it hath been quite cooked do I welcome it as MY food.
And verily, many a chance came imperiously unto me: but still more imperiously did my WILL speak unto it,—then did it lie imploringly upon its knees—
—Imploring that it might find home and heart with me, and saying flatteringly: “See, O Zarathustra, how friend only cometh unto friend!”—
But why talk I, when no one hath MINE ears! And so will I shout it out unto all the winds:
Ye ever become smaller, ye small people! Ye crumble away, ye comfortable ones! Ye will yet perish—
—By your many small virtues, by your many small omissions, and by your many small submissions!
Too tender, too yielding: so is your soil! But for a tree to become GREAT, it seeketh to twine hard roots around hard rocks!
Also what ye omit weaveth at the web of all the human future; even your naught is a cobweb, and a spider that liveth on the blood of the future.
And when ye take, then is it like stealing, ye small virtuous ones; but even among knaves HONOUR saith that “one shall only steal when one cannot rob.”
“It giveth itself”—that is also a doctrine of submission. But I say unto you, ye comfortable ones, that IT TAKETH TO ITSELF, and will ever take more and more from you!
Ah, that ye would renounce all HALF-willing, and would decide for idleness as ye decide for action!
Ah, that ye understood my word: “Do ever what ye will—but first be such as CAN WILL.
Love ever your neighbour as yourselves—but first be such as LOVE
THEMSELVES—
—Such as love with great love, such as love with great contempt!”
Thus speaketh Zarathustra the godless.—
But why talk I, when no one hath MINE ears! It is still an hour too early for me here.
Mine own forerunner am I among this people, mine own cockcrow in dark lanes.
But THEIR hour cometh! And there cometh also mine! Hourly do they become smaller, poorer, unfruitfuller,—poor herbs! poor earth!
And SOON shall they stand before me like dry grass and prairie, and verily, weary of themselves—and panting for FIRE, more than for water!
O blessed hour of the lightning! O mystery before noontide!—Running fires will I one day make of them, and heralds with flaming tongues:—
—Herald shall they one day with flaming tongues: It cometh, it is nigh, THE GREAT NOONTIDE!
Thus spake Zarathustra.
L. ON THE OLIVE-MOUNT.
Winter, a bad guest, sitteth with me at home; blue are my hands with his friendly hand-shaking.
I honour him, that bad guest, but gladly leave him alone. Gladly do I run away from him; and when one runneth WELL, then one escapeth him!
With warm feet and warm thoughts do I run where the wind is calm—to the sunny corner of mine olive-mount.
There do I laugh at my stern guest, and am still fond of him; because he cleareth my house of flies, and quieteth many little noises.
For he suffereth it not if a gnat wanteth to buzz, or even two of them; also the lanes maketh he lonesome, so that the moonlight is afraid there at night.
A hard guest is he,—but I honour him, and do not worship, like the tenderlings, the pot-bellied fire-idol.
Better even a little teeth-chattering than idol-adoration!—so willeth my nature. And especially have I a grudge against all ardent, steaming, steamy fire-idols.
Him whom I love, I love better in winter than in summer; better do I now mock at mine enemies, and more heartily, when winter sitteth in my house.
Heartily, verily, even when I CREEP into bed—: there, still laugheth and wantoneth my hidden happiness; even my deceptive dream laugheth.
I, a—creeper? Never in my life did I creep before the powerful; and if ever I lied, then did I lie out of love. Therefore am I glad even in my winter-bed.
A poor bed warmeth me more than a rich one, for I am jealous of my poverty. And in winter she is most faithful unto me.
With a wickedness do I begin every day: I mock at the winter with a cold bath: on that account grumbleth my stern house-mate.
Also do I like to tickle him with a wax-taper, that he may finally let the heavens emerge from ashy-grey twilight.
For especially wicked am I in the morning: at the early hour when the pail rattleth at the well, and horses neigh warmly in grey lanes:—
Impatiently do I then wait, that the clear sky may finally dawn for me, the snow-bearded winter-sky, the hoary one, the white-head,—
—The winter-sky, the silent winter-sky, which often stifleth even its sun!
Did I perhaps learn from it the long clear silence? Or did it learn it
from me? Or hath each of us devised it himself?
Of all good things the origin is a thousandfold,—all good roguish things spring into existence for joy: how could they always do so—for once only!
A good roguish thing is also the long silence, and to look, like the winter-sky, out of a clear, round-eyed countenance:—
—Like it to stifle one’s sun, and one’s inflexible solar will: verily, this art and this winter-roguishness have I learnt WELL!
My best-loved wickedness and art is it, that my silence hath learned not to betray itself by silence.
Clattering with diction and dice, I outwit the solemn assistants: all those stern watchers, shall my will and purpose elude.
That no one might see down into my depth and into mine ultimate will—for that purpose did I devise the long clear silence.
Many a shrewd one did I find: he veiled his countenance and made his water muddy, that no one might see therethrough and thereunder.
But precisely unto him came the shrewder distrusters and nut-crackers: precisely from him did they fish his best-concealed fish!
But the clear, the honest, the transparent—these are for me the wisest silent ones: in them, so PROFOUND is the depth that even the clearest water doth not—betray it.—
Thou snow-bearded, silent, winter-sky, thou round-eyed whitehead above me!
Oh, thou heavenly simile of my soul and its wantonness!
And MUST I not conceal myself like one who hath swallowed gold—lest my soul should be ripped up?
MUST I not wear stilts, that they may OVERLOOK my long legs—all those enviers and injurers around me?
Those dingy, fire-warmed, used-up, green-tinted, ill-natured souls—how COULD their envy endure my happiness!
Thus do I show them only the ice and winter of my peaks—and NOT that my mountain windeth all the solar girdles around it!
They hear only the whistling of my winter-storms: and know NOT that I also travel over warm seas, like longing, heavy, hot south-winds.
They commiserate also my accidents and chances:—but MY word saith:
“Suffer the chance to come unto me: innocent is it as a little child!”
How COULD they endure my happiness, if I did not put around it accidents, and winter-privations, and bear-skin caps, and enmantling snowflakes!
—If I did not myself commiserate their PITY, the pity of those enviers and injurers!
—If I did not myself sigh before them, and chatter with cold, and patiently LET myself be swathed in their pity!
This is the wise waggish-will and good-will of my soul, that it CONCEALETH
NOT its winters and glacial storms; it concealeth not its chilblains either.
To one man, lonesomeness is the flight of the sick one; to another, it is the flight FROM the sick ones.
Let them HEAR me chattering and sighing with winter-cold, all those poor squinting knaves around me! With such sighing and chattering do I flee from their heated rooms.
Let them sympathise with me and sigh with me on account of my chilblains:
“At the ice of knowledge will he yet FREEZE TO DEATH!”—so they mourn.
Meanwhile do I run with warm feet hither and thither on mine olive-mount: in the sunny corner of mine olive-mount do I sing, and mock at all pity.—
Thus sang Zarathustra.
LI. ON PASSING-BY.
Thus slowly wandering through many peoples and divers cities, did Zarathustra return by round-about roads to his mountains and his cave. And behold, thereby came he unawares also to the gate of the GREAT CITY. Here, however, a foaming fool, with extended hands, sprang forward to him and stood in his way. It was the same fool whom the people called “the ape of Zarathustra:” for he had learned from him something of the expression and modulation of language, and perhaps liked also to borrow from the store of his wisdom. And the fool talked thus to Zarathustra: O Zarathustra, here is the great city: here hast thou nothing to seek and
everything to lose.
Why wouldst thou wade through this mire? Have pity upon thy foot! Spit rather on the gate of the city, and—turn back!
Here is the hell for anchorites’ thoughts: here are great thoughts seethed alive and boiled small.
Here do all great sentiments decay: here may only rattle-boned sensations rattle!
Smellest thou not already the shambles and cookshops of the spirit?
Steameth not this city with the fumes of slaughtered spirit?
Seest thou not the souls hanging like limp dirty rags?—And they make newspapers also out of these rags!
Hearest thou not how spirit hath here become a verbal game? Loathsome verbal swill doth it vomit forth!—And they make newspapers also out of this verbal swill.
They hound one another, and know not whither! They inflame one another, and know not why! They tinkle with their pinchbeck, they jingle with their gold.
They are cold, and seek warmth from distilled waters: they are inflamed, and seek coolness from frozen spirits; they are all sick and sore through public opinion.
All lusts and vices are here at home; but here there are also the virtuous; there is much appointable appointed virtue:—
Much appointable virtue with scribe-fingers, and hardy sitting-flesh and waiting-flesh, blessed with small breast-stars, and padded, haunchless daughters.
There is here also much piety, and much faithful spittle-licking and spittle-backing, before the God of Hosts.
“From on high,” drippeth the star, and the gracious spittle; for the high, longeth every starless bosom.
The moon hath its court, and the court hath its moon-calves: unto all, however, that cometh from the court do the mendicant people pray, and all appointable mendicant virtues.
“I serve, thou servest, we serve”—so prayeth all appointable virtue to the prince: that the merited star may at last stick on the slender breast!
But the moon still revolveth around all that is earthly: so revolveth also the prince around what is earthliest of all—that, however, is the gold of the shopman.
The God of the Hosts of war is not the God of the golden bar; the prince proposeth, but the shopman—disposeth!
By all that is luminous and strong and good in thee, O Zarathustra! Spit on this city of shopmen and return back!
Here floweth all blood putridly and tepidly and frothily through all veins: spit on the great city, which is the great slum where all the scum frotheth together!
Spit on the city of compressed souls and slender breasts, of pointed eyes and sticky fingers—
—On the city of the obtrusive, the brazen-faced, the pen-demagogues and tongue-demagogues, the overheated ambitious:—
Where everything maimed, ill-famed, lustful, untrustful, over-mellow, sickly-yellow and seditious, festereth pernicious:—
—Spit on the great city and turn back!—
Here, however, did Zarathustra interrupt the foaming fool, and shut his mouth.—
Stop this at once! called out Zarathustra, long have thy speech and thy species disgusted me!
Why didst thou live so long by the swamp, that thou thyself hadst to become a frog and a toad?
Floweth there not a tainted, frothy, swamp-blood in thine own veins, when thou hast thus learned to croak and revile?
Why wentest thou not into the forest? Or why didst thou not till the ground? Is the sea not full of green islands?
I despise thy contempt; and when thou warnedst me—why didst thou not warn thyself?
Out of love alone shall my contempt and my warning bird take wing; but not
out of the swamp!—
They call thee mine ape, thou foaming fool: but I call thee my grunting-pig,—by thy grunting, thou spoilest even my praise of folly.
What was it that first made thee grunt? Because no one sufficiently FLATTERED thee:—therefore didst thou seat thyself beside this filth, that thou mightest have cause for much grunting,—
—That thou mightest have cause for much VENGEANCE! For vengeance, thou vain fool, is all thy foaming; I have divined thee well!
But thy fools’-word injureth ME, even when thou art right! And even if Zarathustra’s word WERE a hundred times justified, thou wouldst ever—DO
wrong with my word!
Thus spake Zarathustra. Then did he look on the great city and sighed, and was long silent. At last he spake thus:
I loathe also this great city, and not only this fool. Here and there—
there is nothing to better, nothing to worsen.
Woe to this great city!—And I would that I already saw the pillar of fire in which it will be consumed!
For such pillars of fire must precede the great noontide. But this hath its time and its own fate.—
This precept, however, give I unto thee, in parting, thou fool: Where one can no longer love, there should one—PASS BY!—
Thus spake Zarathustra, and passed by the fool and the great city.
LII. THE APOSTATES.
1.
Ah, lieth everything already withered and grey which but lately stood green and many-hued on this meadow! And how much honey of hope did I carry hence into my beehives!
Those young hearts have already all become old—and not old even!
only weary, ordinary, comfortable:—they declare it: “We have again become pious.”
Of late did I see them run forth at early morn with valorous steps: but the feet of their knowledge became weary, and now do they malign even their morning valour!
Verily, many of them once lifted their legs like the dancer; to them winked the laughter of my wisdom:—then did they bethink themselves.
Just now have I seen them bent down—to creep to the cross.
Around light and liberty did they once flutter like gnats and young poets.
A little older, a little colder: and already are they mystifiers, and mumblers and mollycoddles.
Did perhaps their hearts despond, because lonesomeness had swallowed me like a whale? Did their ear perhaps hearken yearningly-long for me IN
VAIN, and for my trumpet-notes and herald-calls?
—Ah! Ever are there but few of those whose hearts have persistent courage and exuberance; and in such remaineth also the spirit patient. The rest, however, are COWARDLY.
The rest: these are always the great majority, the common-place, the superfluous, the far-too many—those all are cowardly!—
Him who is of my type, will also the experiences of my type meet on the way: so that his first companions must be corpses and buffoons.
His second companions, however—they will call themselves his BELIEVERS,—will be a living host, with much love, much folly, much unbearded veneration.
To those believers shall he who is of my type among men not bind his heart; in those spring-times and many-hued meadows shall he not believe, who knoweth the fickly faint-hearted human species!
COULD they do otherwise, then would they also WILL otherwise. The half-and-half spoil every whole. That leaves become withered,—what is there to lament about that!
Let them go and fall away, O Zarathustra, and do not lament! Better even to blow amongst them with rustling winds,—
—Blow amongst those leaves, O Zarathustra, that everything WITHERED
may run away from thee the faster!—
2.
“We have again become pious”—so do those apostates confess; and some
of them are still too pusillanimous thus to confess.
Unto them I look into the eye,—before them I say it unto their face and unto the blush on their cheeks: Ye are those who again PRAY!
It is however a shame to pray! Not for all, but for thee, and me, and whoever hath his conscience in his head. For THEE it is a shame to pray!
Thou knowest it well: the faint-hearted devil in thee, which would fain fold its arms, and place its hands in its bosom, and take it easier:—this faint-hearted devil persuadeth thee that “there IS a God!”
THEREBY, however, dost thou belong to the light-dreading type, to whom light never permitteth repose: now must thou daily thrust thy head deeper into obscurity and vapour!
And verily, thou choosest the hour well: for just now do the nocturnal birds again fly abroad. The hour hath come for all light-dreading people, the vesper hour and leisure hour, when they do not—“take leisure.”
I hear it and smell it: it hath come—their hour for hunt and procession, not indeed for a wild hunt, but for a tame, lame, snuffling, soft-treaders’, soft-prayers’ hunt,—
—For a hunt after susceptible simpletons: all mouse-traps for the heart have again been set! And whenever I lift a curtain, a night-moth rusheth out of it.
Did it perhaps squat there along with another night-moth? For everywhere do I smell small concealed communities; and wherever there are closets there are new devotees therein, and the atmosphere of devotees.
They sit for long evenings beside one another, and say: “Let us again become like little children and say, ‘good God!’”—ruined in mouths and stomachs by the pious confectioners.
Or they look for long evenings at a crafty, lurking cross-spider, that preacheth prudence to the spiders themselves, and teacheth that “under crosses it is good for cobweb-spinning!”
Or they sit all day at swamps with angle-rods, and on that account think themselves PROFOUND; but whoever fisheth where there are no fish, I do not even call him superficial!
Or they learn in godly-gay style to play the harp with a hymn-poet, who would fain harp himself into the heart of young girls:—for he hath tired of old girls and their praises.
Or they learn to shudder with a learned semi-madcap, who waiteth in darkened rooms for spirits to come to him—and the spirit runneth away entirely!
Or they listen to an old roving howl- and growl-piper, who hath learnt from the sad winds the sadness of sounds; now pipeth he as the wind, and preacheth sadness in sad strains.
And some of them have even become night-watchmen: they know now how to blow horns, and go about at night and awaken old things which have long fallen asleep.
Five words about old things did I hear yester-night at the garden-wall: they came from such old, sorrowful, arid night-watchmen.
“For a father he careth not sufficiently for his children: human fathers do this better!”—
“He is too old! He now careth no more for his children,”—answered the other night-watchman.
“HATH he then children? No one can prove it unless he himself prove it! I have long wished that he would for once prove it thoroughly.”
“Prove? As if HE had ever proved anything! Proving is difficult to him; he layeth great stress on one’s BELIEVING him.”
“Ay! Ay! Belief saveth him; belief in him. That is the way with old people! So it is with us also!”—
—Thus spake to each other the two old night-watchmen and light-scarers, and tooted thereupon sorrowfully on their horns: so did it happen yester-night at the garden-wall.
To me, however, did the heart writhe with laughter, and was like to break; it knew not where to go, and sunk into the midriff.
Verily, it will be my death yet—to choke with laughter when I see asses drunken, and hear night-watchmen thus doubt about God.
Hath the time not LONG since passed for all such doubts? Who may nowadays awaken such old slumbering, light-shunning things!
With the old Deities hath it long since come to an end:—and verily, a good joyful Deity-end had they!
They did not “begloom” themselves to death—that do people fabricate!
On the contrary, they—LAUGHED themselves to death once on a time!
That took place when the unGodliest utterance came from a God himself—the utterance: “There is but one God! Thou shalt have no other Gods before me!”—
—An old grim-beard of a God, a jealous one, forgot himself in such wise:—
And all the Gods then laughed, and shook upon their thrones, and exclaimed: “Is it not just divinity that there are Gods, but no God?”
He that hath an ear let him hear.—
Thus talked Zarathustra in the city he loved, which is surnamed “The Pied Cow.” For from here he had but two days to travel to reach once more his cave and his animals; his soul, however, rejoiced unceasingly on account of the nighness of his return home.
LIII. THE RETURN HOME.
O lonesomeness! My HOME, lonesomeness! Too long have I lived wildly in wild remoteness, to return to thee without tears!
Now threaten me with the finger as mothers threaten; now smile upon me as mothers smile; now say just: “Who was it that like a whirlwind once rushed away from me?—
—Who when departing called out: ‘Too long have I sat with lonesomeness; there have I unlearned silence!’ THAT hast thou learned now—surely?
O Zarathustra, everything do I know; and that thou wert MORE FORSAKEN
amongst the many, thou unique one, than thou ever wert with me!
One thing is forsakenness, another matter is lonesomeness: THAT hast thou now learned! And that amongst men thou wilt ever be wild and strange:
—Wild and strange even when they love thee: for above all they want to be TREATED INDULGENTLY!
Here, however, art thou at home and house with thyself; here canst thou utter everything, and unbosom all motives; nothing is here ashamed of concealed, congealed feelings.
Here do all things come caressingly to thy talk and flatter thee: for they want to ride upon thy back. On every simile dost thou here ride to every truth.
Uprightly and openly mayest thou here talk to all things: and verily, it soundeth as praise in their ears, for one to talk to all things—directly!
Another matter, however, is forsakenness. For, dost thou remember, O
Zarathustra? When thy bird screamed overhead, when thou stoodest in the forest, irresolute, ignorant where to go, beside a corpse:—
—When thou spakest: ‘Let mine animals lead me! More dangerous have I found it among men than among animals:’—THAT was forsakenness!
And dost thou remember, O Zarathustra? When thou sattest in thine isle, a well of wine giving and granting amongst empty buckets, bestowing and distributing amongst the thirsty:
—Until at last thou alone sattest thirsty amongst the drunken ones, and wailedst nightly: ‘Is taking not more blessed than giving? And stealing yet more blessed than taking?’—THAT was forsakenness!
And dost thou remember, O Zarathustra? When thy stillest hour came and drove thee forth from thyself, when with wicked whispering it said: ‘Speak and succumb!’—
—When it disgusted thee with all thy waiting and silence, and discouraged thy humble courage: THAT was forsakenness!”—
O lonesomeness! My home, lonesomeness! How blessedly and tenderly speaketh thy voice unto me!
We do not question each other, we do not complain to each other; we go together openly through open doors.
For all is open with thee and clear; and even the hours run here on lighter feet. For in the dark, time weigheth heavier upon one than in the light.
Here fly open unto me all being’s words and word-cabinets: here all being wanteth to become words, here all becoming wanteth to learn of me how to talk.
Down there, however—all talking is in vain! There, forgetting and
passing-by are the best wisdom: THAT have I learned now!
He who would understand everything in man must handle everything. But for that I have too clean hands.
I do not like even to inhale their breath; alas! that I have lived so long among their noise and bad breaths!
O blessed stillness around me! O pure odours around me! How from a deep breast this stillness fetcheth pure breath! How it hearkeneth, this blessed stillness!
But down there—there speaketh everything, there is everything misheard. If one announce one’s wisdom with bells, the shopmen in the market-place will out-jingle it with pennies!
Everything among them talketh; no one knoweth any longer how to understand. Everything falleth into the water; nothing falleth any longer into deep wells.
Everything among them talketh, nothing succeedeth any longer and accomplisheth itself. Everything cackleth, but who will still sit quietly on the nest and hatch eggs?
Everything among them talketh, everything is out-talked. And that which yesterday was still too hard for time itself and its tooth, hangeth to-day, outchamped and outchewed, from the mouths of the men of to-day.
Everything among them talketh, everything is betrayed. And what was once called the secret and secrecy of profound souls, belongeth to-day to the street-trumpeters and other butterflies.
O human hubbub, thou wonderful thing! Thou noise in dark streets! Now art thou again behind me:—my greatest danger lieth behind me!
In indulging and pitying lay ever my greatest danger; and all human hubbub wisheth to be indulged and tolerated.
With suppressed truths, with fool’s hand and befooled heart, and rich in petty lies of pity:—thus have I ever lived among men.
Disguised did I sit amongst them, ready to misjudge MYSELF that I might endure THEM, and willingly saying to myself: “Thou fool, thou dost not know men!”
One unlearneth men when one liveth amongst them: there is too much foreground in all men—what can far-seeing, far-longing eyes do THERE!
And, fool that I was, when they misjudged me, I indulged them on that account more than myself, being habitually hard on myself, and often even taking revenge on myself for the indulgence.
Stung all over by poisonous flies, and hollowed like the stone by many drops of wickedness: thus did I sit among them, and still said to myself:
“Innocent is everything petty of its pettiness!”
Especially did I find those who call themselves “the good,” the most poisonous flies; they sting in all innocence, they lie in all innocence; how COULD they—be just towards me!
He who liveth amongst the good—pity teacheth him to lie. Pity maketh stifling air for all free souls. For the stupidity of the good is unfathomable.
To conceal myself and my riches—THAT did I learn down there: for every one did I still find poor in spirit. It was the lie of my pity, that I knew in every one,
—That I saw and scented in every one, what was ENOUGH of spirit for him, and what was TOO MUCH!
Their stiff wise men: I call them wise, not stiff—thus did I learn to slur over words.
The grave-diggers dig for themselves diseases. Under old rubbish rest bad vapours. One should not stir up the marsh. One should live on mountains.
With blessed nostrils do I again breathe mountain-freedom. Freed at last is my nose from the smell of all human hubbub!
With sharp breezes tickled, as with sparkling wine, SNEEZETH my soul—
sneezeth, and shouteth self-congratulatingly: “Health to thee!”
Thus spake Zarathustra.
LIV. THE THREE EVIL THINGS.
1.
In my dream, in my last morning-dream, I stood to-day on a promontory—
beyond the world; I held a pair of scales, and WEIGHED the world.
Alas, that the rosy dawn came too early to me: she glowed me awake, the jealous one! Jealous is she always of the glows of my morning-dream.
Measurable by him who hath time, weighable by a good weigher, attainable by strong pinions, divinable by divine nut-crackers: thus did my dream find the world:—
My dream, a bold sailor, half-ship, half-hurricane, silent as the butterfly, impatient as the falcon: how had it the patience and leisure to-day for world-weighing!
Did my wisdom perhaps speak secretly to it, my laughing, wide-awake day-wisdom, which mocketh at all “infinite worlds”? For it saith: “Where force is, there becometh NUMBER the master: it hath more force.”
How confidently did my dream contemplate this finite world, not new-fangledly, not old-fangledly, not timidly, not entreatingly:—
—As if a big round apple presented itself to my hand, a ripe golden apple, with a coolly-soft, velvety skin:—thus did the world present itself unto me:—
—As if a tree nodded unto me, a broad-branched, strong-willed tree, curved as a recline and a foot-stool for weary travellers: thus did the world stand on my promontory:—
—As if delicate hands carried a casket towards me—a casket open for the delectation of modest adoring eyes: thus did the world present itself before me to-day:—
—Not riddle enough to scare human love from it, not solution enough to put to sleep human wisdom:—a humanly good thing was the world to me to-day, of which such bad things are said!
How I thank my morning-dream that I thus at to-day’s dawn, weighed the world! As a humanly good thing did it come unto me, this dream and heart-comforter!
And that I may do the like by day, and imitate and copy its best, now will I put the three worst things on the scales, and weigh them humanly well.—
He who taught to bless taught also to curse: what are the three best cursed things in the world? These will I put on the scales.
VOLUPTUOUSNESS, PASSION FOR POWER, and SELFISHNESS: these three things have hitherto been best cursed, and have been in worst and falsest repute—these three things will I weigh humanly well.
Well! Here is my promontory, and there is the sea—IT rolleth hither unto me, shaggily and fawningly, the old, faithful, hundred-headed dog-monster that I love!—
Well! Here will I hold the scales over the weltering sea: and also a witness do I choose to look on—thee, the anchorite-tree, thee, the strong-odoured, broad-arched tree that I love!—
On what bridge goeth the now to the hereafter? By what constraint doth the high stoop to the low? And what enjoineth even the highest still—to grow upwards?—
Now stand the scales poised and at rest: three heavy questions have I thrown in; three heavy answers carrieth the other scale.
2.
Voluptuousness: unto all hair-shirted despisers of the body, a sting and stake; and, cursed as “the world,” by all backworldsmen: for it mocketh and befooleth all erring, misinferring teachers.
Voluptuousness: to the rabble, the slow fire at which it is burnt; to all wormy wood, to all stinking rags, the prepared heat and stew furnace.
Voluptuousness: to free hearts, a thing innocent and free, the garden-happiness of the earth, all the future’s thanks-overflow to the present.
Voluptuousness: only to the withered a sweet poison; to the lion-willed, however, the great cordial, and the reverently saved wine of wines.
Voluptuousness: the great symbolic happiness of a higher happiness and highest hope. For to many is marriage promised, and more than marriage,—
—To many that are more unknown to each other than man and woman:—and who hath fully understood HOW UNKNOWN to each other are man and woman!
Voluptuousness:—but I will have hedges around my thoughts, and even around my words, lest swine and libertine should break into my gardens!—
Passion for power: the glowing scourge of the hardest of the heart-hard; the cruel torture reserved for the cruellest themselves; the gloomy flame
of living pyres.
Passion for power: the wicked gadfly which is mounted on the vainest peoples; the scorner of all uncertain virtue; which rideth on every horse and on every pride.
Passion for power: the earthquake which breaketh and upbreaketh all that is rotten and hollow; the rolling, rumbling, punitive demolisher of whited sepulchres; the flashing interrogative-sign beside premature answers.
Passion for power: before whose glance man creepeth and croucheth and drudgeth, and becometh lower than the serpent and the swine:—until at last great contempt crieth out of him—,
Passion for power: the terrible teacher of great contempt, which preacheth to their face to cities and empires: “Away with thee!”—until a voice crieth out of themselves: “Away with ME!”
Passion for power: which, however, mounteth alluringly even to the pure and lonesome, and up to self-satisfied elevations, glowing like a love that painteth purple felicities alluringly on earthly heavens.
Passion for power: but who would call it PASSION, when the height longeth to stoop for power! Verily, nothing sick or diseased is there in such longing and descending!
That the lonesome height may not for ever remain lonesome and self-sufficing; that the mountains may come to the valleys and the winds of the heights to the plains:—
Oh, who could find the right prenomen and honouring name for such longing!
“Bestowing virtue”—thus did Zarathustra once name the unnamable.
And then it happened also,—and verily, it happened for the first time!—that his word blessed SELFISHNESS, the wholesome, healthy selfishness, that springeth from the powerful soul:—
—From the powerful soul, to which the high body appertaineth, the handsome, triumphing, refreshing body, around which everything becometh a mirror:
—The pliant, persuasive body, the dancer, whose symbol and epitome is the self-enjoying soul. Of such bodies and souls the self-enjoyment calleth itself “virtue.”
With its words of good and bad doth such self-enjoyment shelter itself as with sacred groves; with the names of its happiness doth it banish from itself everything contemptible.
Away from itself doth it banish everything cowardly; it saith: “Bad—THAT
IS cowardly!” Contemptible seem to it the ever-solicitous, the sighing, the complaining, and whoever pick up the most trifling advantage.
It despiseth also all bitter-sweet wisdom: for verily, there is also wisdom that bloometh in the dark, a night-shade wisdom, which ever sigheth: “All is vain!”
Shy distrust is regarded by it as base, and every one who wanteth oaths instead of looks and hands: also all over-distrustful wisdom,—for such is the mode of cowardly souls.
Baser still it regardeth the obsequious, doggish one, who immediately lieth on his back, the submissive one; and there is also wisdom that is submissive, and doggish, and pious, and obsequious.
Hateful to it altogether, and a loathing, is he who will never defend himself, he who swalloweth down poisonous spittle and bad looks, the all-too-patient one, the all-endurer, the all-satisfied one: for that is the mode of slaves.
Whether they be servile before Gods and divine spurnings, or before men and stupid human opinions: at ALL kinds of slaves doth it spit, this blessed selfishness!
Bad: thus doth it call all that is spirit-broken, and sordidly-servile—constrained, blinking eyes, depressed hearts, and the false submissive style, which kisseth with broad cowardly lips.
And spurious wisdom: so doth it call all the wit that slaves, and hoary-headed and weary ones affect; and especially all the cunning, spurious-witted, curious-witted foolishness of priests!
The spurious wise, however, all the priests, the world-weary, and those whose souls are of feminine and servile nature—oh, how hath their game all along abused selfishness!
And precisely THAT was to be virtue and was to be called virtue—to
abuse selfishness! And “selfless”—so did they wish themselves with good reason, all those world-weary cowards and cross-spiders!
But to all those cometh now the day, the change, the sword of judgment, THE GREAT NOONTIDE: then shall many things be revealed!
And he who proclaimeth the EGO wholesome and holy, and selfishness blessed, verily, he, the prognosticator, speaketh also what he knoweth:
“BEHOLD, IT COMETH, IT IS NIGH, THE GREAT NOONTIDE!”
Thus spake Zarathustra.
LV. THE SPIRIT OF GRAVITY.
1.
My mouthpiece—is of the people: too coarsely and cordially do I talk for Angora rabbits. And still stranger soundeth my word unto all ink-fish and pen-foxes.
My hand—is a fool’s hand: woe unto all tables and walls, and whatever hath room for fool’s sketching, fool’s scrawling!
My foot—is a horse-foot; therewith do I trample and trot over stick and stone, in the fields up and down, and am bedevilled with delight in all fast racing.
My stomach—is surely an eagle’s stomach? For it preferreth lamb’s flesh. Certainly it is a bird’s stomach.
Nourished with innocent things, and with few, ready and impatient to fly, to fly away—that is now my nature: why should there not be something of bird-nature therein!
And especially that I am hostile to the spirit of gravity, that is bird-nature:—verily, deadly hostile, supremely hostile, originally hostile! Oh, whither hath my hostility not flown and misflown!
Thereof could I sing a song—and WILL sing it: though I be alone in an empty house, and must sing it to mine own ears.
Other singers are there, to be sure, to whom only the full house maketh the voice soft, the hand eloquent, the eye expressive, the heart wakeful:—those do I not resemble.—
2.
He who one day teacheth men to fly will have shifted all landmarks; to him will all landmarks themselves fly into the air; the earth will he christen anew—as “the light body.”
The ostrich runneth faster than the fastest horse, but it also thrusteth its head heavily into the heavy earth: thus is it with the man who cannot yet fly.
Heavy unto him are earth and life, and so WILLETH the spirit of gravity!
But he who would become light, and be a bird, must love himself:—thus do I teach.
Not, to be sure, with the love of the sick and infected, for with them stinketh even self-love!
One must learn to love oneself—thus do I teach—with a wholesome and healthy love: that one may endure to be with oneself, and not go roving about.
Such roving about christeneth itself “brotherly love”; with these words hath there hitherto been the best lying and dissembling, and especially by those who have been burdensome to every one.
And verily, it is no commandment for to-day and to-morrow to LEARN to love oneself. Rather is it of all arts the finest, subtlest, last and patientest.
For to its possessor is all possession well concealed, and of all treasure-pits one’s own is last excavated—so causeth the spirit of gravity.
Almost in the cradle are we apportioned with heavy words and worths:
“good” and “evil”—so calleth itself this dowry. For the sake of it we are forgiven for living.
And therefore suffereth one little children to come unto one, to forbid them betimes to love themselves—so causeth the spirit of gravity.
And we—we bear loyally what is apportioned unto us, on hard shoulders, over rugged mountains! And when we sweat, then do people say to us: “Yea, life is hard to bear!”
But man himself only is hard to bear! The reason thereof is that he carrieth too many extraneous things on his shoulders. Like the camel
kneeleth he down, and letteth himself be well laden.
Especially the strong load-bearing man in whom reverence resideth. Too many EXTRANEOUS heavy words and worths loadeth he upon himself—then seemeth life to him a desert!
And verily! Many a thing also that is OUR OWN is hard to bear! And many internal things in man are like the oyster—repulsive and slippery and hard to grasp;—
So that an elegant shell, with elegant adornment, must plead for them. But this art also must one learn: to HAVE a shell, and a fine appearance, and sagacious blindness!
Again, it deceiveth about many things in man, that many a shell is poor and pitiable, and too much of a shell. Much concealed goodness and power is never dreamt of; the choicest dainties find no tasters!
Women know that, the choicest of them: a little fatter a little leaner—
oh, how much fate is in so little!
Man is difficult to discover, and unto himself most difficult of all; often lieth the spirit concerning the soul. So causeth the spirit of gravity.
He, however, hath discovered himself who saith: This is MY good and evil: therewith hath he silenced the mole and the dwarf, who say: “Good for all, evil for all.”
Verily, neither do I like those who call everything good, and this world the best of all. Those do I call the all-satisfied.
All-satisfiedness, which knoweth how to taste everything,—that is not the best taste! I honour the refractory, fastidious tongues and stomachs, which have learned to say “I” and “Yea” and “Nay.”
To chew and digest everything, however—that is the genuine swine-nature! Ever to say YE-A—that hath only the ass learnt, and those like it!—
Deep yellow and hot red—so wanteth MY taste—it mixeth blood with all colours. He, however, who whitewasheth his house, betrayeth unto me a whitewashed soul.
With mummies, some fall in love; others with phantoms: both alike hostile to all flesh and blood—oh, how repugnant are both to my taste! For I love blood.
And there will I not reside and abide where every one spitteth and speweth: that is now MY taste,—rather would I live amongst thieves and perjurers. Nobody carrieth gold in his mouth.
Still more repugnant unto me, however, are all lickspittles; and the most repugnant animal of man that I found, did I christen “parasite”: it would not love, and would yet live by love.
Unhappy do I call all those who have only one choice: either to become evil beasts, or evil beast-tamers. Amongst such would I not build my tabernacle.
Unhappy do I also call those who have ever to WAIT,—they are repugnant to my taste—all the toll-gatherers and traders, and kings, and other landkeepers and shopkeepers.
Verily, I learned waiting also, and thoroughly so,—but only waiting for MYSELF. And above all did I learn standing and walking and running and leaping and climbing and dancing.
This however is my teaching: he who wisheth one day to fly, must first learn standing and walking and running and climbing and dancing:—one doth not fly into flying!
With rope-ladders learned I to reach many a window, with nimble legs did I climb high masts: to sit on high masts of perception seemed to me no small bliss;—
—To flicker like small flames on high masts: a small light, certainly, but a great comfort to cast-away sailors and ship-wrecked ones!
By divers ways and wendings did I arrive at my truth; not by one ladder did I mount to the height where mine eye roveth into my remoteness.
And unwillingly only did I ask my way—that was always counter to my taste! Rather did I question and test the ways themselves.
A testing and a questioning hath been all my travelling:—and verily, one must also LEARN to answer such questioning! That, however,—is my taste:
—Neither a good nor a bad taste, but MY taste, of which I have no longer either shame or secrecy.
“This—is now MY way,—where is yours?” Thus did I answer those who asked me “the way.” For THE way—it doth not exist!
Thus spake Zarathustra.
LVI. OLD AND NEW TABLES.
1.
Here do I sit and wait, old broken tables around me and also new half-written tables. When cometh mine hour?
—The hour of my descent, of my down-going: for once more will I go unto men.
For that hour do I now wait: for first must the signs come unto me that it is MINE hour—namely, the laughing lion with the flock of doves.
Meanwhile do I talk to myself as one who hath time. No one telleth me anything new, so I tell myself mine own story.
2.
When I came unto men, then found I them resting on an old infatuation: all of them thought they had long known what was good and bad for men.
An old wearisome business seemed to them all discourse about virtue; and he who wished to sleep well spake of “good” and “bad” ere retiring to rest.
This somnolence did I disturb when I taught that NO ONE YET KNOWETH what is good and bad:—unless it be the creating one!
—It is he, however, who createth man’s goal, and giveth to the earth its meaning and its future: he only EFFECTETH it THAT aught is good or bad.
And I bade them upset their old academic chairs, and wherever that old infatuation had sat; I bade them laugh at their great moralists, their saints, their poets, and their Saviours.
At their gloomy sages did I bid them laugh, and whoever had sat admonishing as a black scarecrow on the tree of life.
On their great grave-highway did I seat myself, and even beside the carrion and vultures—and I laughed at all their bygone and its mellow decaying glory.
Verily, like penitential preachers and fools did I cry wrath and shame on all their greatness and smallness. Oh, that their best is so very small!
Oh, that their worst is so very small! Thus did I laugh.
Thus did my wise longing, born in the mountains, cry and laugh in me; a wild wisdom, verily!—my great pinion-rustling longing.
And oft did it carry me off and up and away and in the midst of laughter; then flew I quivering like an arrow with sun-intoxicated rapture:
—Out into distant futures, which no dream hath yet seen, into warmer souths than ever sculptor conceived,—where gods in their dancing are ashamed of all clothes:
(That I may speak in parables and halt and stammer like the poets: and verily I am ashamed that I have still to be a poet!) Where all becoming seemed to me dancing of Gods, and wantoning of Gods, and the world unloosed and unbridled and fleeing back to itself:—
—As an eternal self-fleeing and re-seeking of one another of many Gods, as the blessed self-contradicting, recommuning, and refraternising with one another of many Gods:—
Where all time seemed to me a blessed mockery of moments, where necessity was freedom itself, which played happily with the goad of freedom:—
Where I also found again mine old devil and arch-enemy, the spirit of gravity, and all that it created: constraint, law, necessity and consequence and purpose and will and good and evil:—
For must there not be that which is danced OVER, danced beyond? Must there not, for the sake of the nimble, the nimblest,—be moles and clumsy dwarfs?—
3.
There was it also where I picked up from the path the word “Superman,” and that man is something that must be surpassed.
—That man is a bridge and not a goal—rejoicing over his noontides and evenings, as advances to new rosy dawns:
—The Zarathustra word of the great noontide, and whatever else I
have hung up over men like purple evening-afterglows.
Verily, also new stars did I make them see, along with new nights; and over cloud and day and night, did I spread out laughter like a gay-coloured canopy.
I taught them all MY poetisation and aspiration: to compose and collect into unity what is fragment in man, and riddle and fearful chance;—
—As composer, riddle-reader, and redeemer of chance, did I teach them to create the future, and all that HATH BEEN—to redeem by creating.
The past of man to redeem, and every “It was” to transform, until the Will saith: “But so did I will it! So shall I will it—”
—This did I call redemption; this alone taught I them to call redemption.—
Now do I await MY redemption—that I may go unto them for the last time.
For once more will I go unto men: AMONGST them will my sun set; in dying will I give them my choicest gift!
From the sun did I learn this, when it goeth down, the exuberant one: gold doth it then pour into the sea, out of inexhaustible riches,—
—So that the poorest fisherman roweth even with GOLDEN oars! For this did I once see, and did not tire of weeping in beholding it.—
Like the sun will also Zarathustra go down: now sitteth he here and waiteth, old broken tables around him, and also new tables—half-written.
4.
Behold, here is a new table; but where are my brethren who will carry it with me to the valley and into hearts of flesh?—
Thus demandeth my great love to the remotest ones: BE NOT CONSIDERATE OF
THY NEIGHBOUR! Man is something that must be surpassed.
There are many divers ways and modes of surpassing: see THOU thereto! But only a buffoon thinketh: “man can also be OVERLEAPT.”
Surpass thyself even in thy neighbour: and a right which thou canst seize upon, shalt thou not allow to be given thee!
What thou doest can no one do to thee again. Lo, there is no requital.
He who cannot command himself shall obey. And many a one CAN command himself, but still sorely lacketh self-obedience!
5.
Thus wisheth the type of noble souls: they desire to have nothing GRATUITOUSLY, least of all, life.
He who is of the populace wisheth to live gratuitously; we others, however, to whom life hath given itself—we are ever considering WHAT
we can best give IN RETURN!
And verily, it is a noble dictum which saith: “What life promiseth US, that promise will WE keep—to life!”
One should not wish to enjoy where one doth not contribute to the enjoyment. And one should not WISH to enjoy!
For enjoyment and innocence are the most bashful things. Neither like to be sought for. One should HAVE them,—but one should rather SEEK for guilt and pain!—
6.
O my brethren, he who is a firstling is ever sacrificed. Now, however, are we firstlings!
We all bleed on secret sacrificial altars, we all burn and broil in honour of ancient idols.
Our best is still young: this exciteth old palates. Our flesh is tender, our skin is only lambs’ skin:—how could we not excite old idol-priests!
IN OURSELVES dwelleth he still, the old idol-priest, who broileth our best for his banquet. Ah, my brethren, how could firstlings fail to be sacrifices!
But so wisheth our type; and I love those who do not wish to preserve themselves, the down-going ones do I love with mine entire love: for they go beyond.—
7.
To be true—that CAN few be! And he who can, will not! Least of all, however, can the good be true.
Oh, those good ones! GOOD MEN NEVER SPEAK THE TRUTH. For the spirit, thus to be good, is a malady.
They yield, those good ones, they submit themselves; their heart repeateth, their soul obeyeth: HE, however, who obeyeth, DOTH NOT LISTEN
TO HIMSELF!
All that is called evil by the good, must come together in order that one truth may be born. O my brethren, are ye also evil enough for THIS truth?
The daring venture, the prolonged distrust, the cruel Nay, the tedium, the cutting-into-the-quick—how seldom do THESE come together! Out of such seed, however—is truth produced!
BESIDE the bad conscience hath hitherto grown all KNOWLEDGE! Break up, break up, ye discerning ones, the old tables!
8.
When the water hath planks, when gangways and railings o’erspan the stream, verily, he is not believed who then saith: “All is in flux.”
But even the simpletons contradict him. “What?” say the simpletons, “all in flux? Planks and railings are still OVER the stream!
“OVER the stream all is stable, all the values of things, the bridges and bearings, all ‘good’ and ‘evil’: these are all STABLE!”—
Cometh, however, the hard winter, the stream-tamer, then learn even the wittiest distrust, and verily, not only the simpletons then say: “Should not everything—STAND STILL?”
“Fundamentally standeth everything still”—that is an appropriate winter doctrine, good cheer for an unproductive period, a great comfort for winter-sleepers and fireside-loungers.
“Fundamentally standeth everything still”—: but CONTRARY thereto, preacheth the thawing wind!
The thawing wind, a bullock, which is no ploughing bullock—a furious bullock, a destroyer, which with angry horns breaketh the ice! The ice however—BREAKETH GANGWAYS!
O my brethren, is not everything AT PRESENT IN FLUX? Have not all railings and gangways fallen into the water? Who would still HOLD ON to “good” and
“evil”?
“Woe to us! Hail to us! The thawing wind bloweth!”—Thus preach, my brethren, through all the streets!
9.
There is an old illusion—it is called good and evil. Around soothsayers and astrologers hath hitherto revolved the orbit of this illusion.
Once did one BELIEVE in soothsayers and astrologers; and THEREFORE did one believe, “Everything is fate: thou shalt, for thou must!”
Then again did one distrust all soothsayers and astrologers; and THEREFORE
did one believe, “Everything is freedom: thou canst, for thou willest!”
O my brethren, concerning the stars and the future there hath hitherto been only illusion, and not knowledge; and THEREFORE concerning good and evil there hath hitherto been only illusion and not knowledge!
10.
“Thou shalt not rob! Thou shalt not slay!”—such precepts were once called holy; before them did one bow the knee and the head, and take off one’s shoes.
But I ask you: Where have there ever been better robbers and slayers in the world than such holy precepts?
Is there not even in all life—robbing and slaying? And for such precepts to be called holy, was not TRUTH itself thereby—slain?
—Or was it a sermon of death that called holy what contradicted and dissuaded from life?—O my brethren, break up, break up for me the old tables!
11.
It is my sympathy with all the past that I see it is abandoned,—
—Abandoned to the favour, the spirit and the madness of every generation that cometh, and reinterpreteth all that hath been as its bridge!
A great potentate might arise, an artful prodigy, who with approval and disapproval could strain and constrain all the past, until it became for him a bridge, a harbinger, a herald, and a cock-crowing.
This however is the other danger, and mine other sympathy:—he who is of the populace, his thoughts go back to his grandfather,—with his grandfather, however, doth time cease.
Thus is all the past abandoned: for it might some day happen for the populace to become master, and drown all time in shallow waters.
Therefore, O my brethren, a NEW NOBILITY is needed, which shall be the adversary of all populace and potentate rule, and shall inscribe anew the word “noble” on new tables.
For many noble ones are needed, and many kinds of noble ones, FOR A NEW
NOBILITY! Or, as I once said in parable: “That is just divinity, that there are Gods, but no God!”
12.
O my brethren, I consecrate you and point you to a new nobility: ye shall become procreators and cultivators and sowers of the future;—
—Verily, not to a nobility which ye could purchase like traders with traders’ gold; for little worth is all that hath its price.
Let it not be your honour henceforth whence ye come, but whither ye go!
Your Will and your feet which seek to surpass you—let these be your new honour!
Verily, not that ye have served a prince—of what account are princes now!—nor that ye have become a bulwark to that which standeth, that it may stand more firmly.
Not that your family have become courtly at courts, and that ye have learned—gay-coloured, like the flamingo—to stand long hours in shallow pools:
(For ABILITY-to-stand is a merit in courtiers; and all courtiers believe that unto blessedness after death pertaineth—PERMISSION-to-sit!) Nor even that a Spirit called Holy, led your forefathers into promised lands, which I do not praise: for where the worst of all trees grew—the cross,—in that land there is nothing to praise!—
—And verily, wherever this “Holy Spirit” led its knights, always in such campaigns did—goats and geese, and wryheads and guyheads run FOREMOST!—
O my brethren, not backward shall your nobility gaze, but OUTWARD! Exiles shall ye be from all fatherlands and forefather-lands!
Your CHILDREN’S LAND shall ye love: let this love be your new nobility,—the undiscovered in the remotest seas! For it do I bid your sails search and search!
Unto your children shall ye MAKE AMENDS for being the children of your fathers: all the past shall ye THUS redeem! This new table do I place over you!
13.
“Why should one live? All is vain! To live—that is to thrash straw; to live—that is to burn oneself and yet not get warm.”—
Such ancient babbling still passeth for “wisdom”; because it is old, however, and smelleth mustily, THEREFORE is it the more honoured. Even mould ennobleth.—
Children might thus speak: they SHUN the fire because it hath burnt them!
There is much childishness in the old books of wisdom.
And he who ever “thrasheth straw,” why should he be allowed to rail at thrashing! Such a fool one would have to muzzle!
Such persons sit down to the table and bring nothing with them, not even good hunger:—and then do they rail: “All is vain!”
But to eat and drink well, my brethren, is verily no vain art! Break up, break up for me the tables of the never-joyous ones!
14.
“To the clean are all things clean”—thus say the people. I, however, say unto you: To the swine all things become swinish!
Therefore preach the visionaries and bowed-heads (whose hearts are also bowed down): “The world itself is a filthy monster.”
For these are all unclean spirits; especially those, however, who have no peace or rest, unless they see the world FROM THE BACKSIDE—the backworldsmen!
TO THOSE do I say it to the face, although it sound unpleasantly: the world resembleth man, in that it hath a backside,—SO MUCH is true!
There is in the world much filth: SO MUCH is true! But the world itself is not therefore a filthy monster!
There is wisdom in the fact that much in the world smelleth badly: loathing itself createth wings, and fountain-divining powers!
In the best there is still something to loathe; and the best is still something that must be surpassed!—
O my brethren, there is much wisdom in the fact that much filth is in the world!—
15.
Such sayings did I hear pious backworldsmen speak to their consciences, and verily without wickedness or guile,—although there is nothing more guileful in the world, or more wicked.
“Let the world be as it is! Raise not a finger against it!”
“Let whoever will choke and stab and skin and scrape the people: raise not a finger against it! Thereby will they learn to renounce the world.”
“And thine own reason—this shalt thou thyself stifle and choke; for it is a reason of this world,—thereby wilt thou learn thyself to renounce the world.”—
—Shatter, shatter, O my brethren, those old tables of the pious!
Tatter the maxims of the world-maligners!—
16.
“He who learneth much unlearneth all violent cravings”—that do people now whisper to one another in all the dark lanes.
“Wisdom wearieth, nothing is worth while; thou shalt not crave!”—this new table found I hanging even in the public markets.
Break up for me, O my brethren, break up also that NEW table! The weary-o’-the-world put it up, and the preachers of death and the jailer: for lo, it is also a sermon for slavery:—
Because they learned badly and not the best, and everything too early and everything too fast; because they ATE badly: from thence hath resulted their ruined stomach;—
—For a ruined stomach, is their spirit: IT persuadeth to death! For verily, my brethren, the spirit IS a stomach!
Life is a well of delight, but to him in whom the ruined stomach speaketh, the father of affliction, all fountains are poisoned.
To discern: that is DELIGHT to the lion-willed! But he who hath become weary, is himself merely “willed”; with him play all the waves.
And such is always the nature of weak men: they lose themselves on their way. And at last asketh their weariness: “Why did we ever go on the way?
All is indifferent!”
TO THEM soundeth it pleasant to have preached in their ears: “Nothing is worth while! Ye shall not will!” That, however, is a sermon for slavery.
O my brethren, a fresh blustering wind cometh Zarathustra unto all way-weary ones; many noses will he yet make sneeze!
Even through walls bloweth my free breath, and in into prisons and imprisoned spirits!
Willing emancipateth: for willing is creating: so do I teach. And ONLY for creating shall ye learn!
And also the learning shall ye LEARN only from me, the learning well!—He who hath ears let him hear!
17.
There standeth the boat—thither goeth it over, perhaps into vast nothingness—but who willeth to enter into this “Perhaps”?
None of you want to enter into the death-boat! How should ye then be WORLD-WEARY ones!
World-weary ones! And have not even withdrawn from the earth! Eager did I ever find you for the earth, amorous still of your own earth-weariness!
Not in vain doth your lip hang down:—a small worldly wish still sitteth thereon! And in your eye—floateth there not a cloudlet of unforgotten earthly bliss?
There are on the earth many good inventions, some useful, some pleasant: for their sake is the earth to be loved.
And many such good inventions are there, that they are like woman’s breasts: useful at the same time, and pleasant.
Ye world-weary ones, however! Ye earth-idlers! You, shall one beat with
stripes! With stripes shall one again make you sprightly limbs.
For if ye be not invalids, or decrepit creatures, of whom the earth is weary, then are ye sly sloths, or dainty, sneaking pleasure-cats. And if ye will not again RUN gaily, then shall ye—pass away!
To the incurable shall one not seek to be a physician: thus teacheth Zarathustra:—so shall ye pass away!
But more COURAGE is needed to make an end than to make a new verse: that do all physicians and poets know well.—
18.
O my brethren, there are tables which weariness framed, and tables which slothfulness framed, corrupt slothfulness: although they speak similarly, they want to be heard differently.—
See this languishing one! Only a span-breadth is he from his goal; but from weariness hath he lain down obstinately in the dust, this brave one!
From weariness yawneth he at the path, at the earth, at the goal, and at himself: not a step further will he go,—this brave one!
Now gloweth the sun upon him, and the dogs lick at his sweat: but he lieth there in his obstinacy and preferreth to languish:—
—A span-breadth from his goal, to languish! Verily, ye will have to drag him into his heaven by the hair of his head—this hero!
Better still that ye let him lie where he hath lain down, that sleep may come unto him, the comforter, with cooling patter-rain.
Let him lie, until of his own accord he awakeneth,—until of his own accord he repudiateth all weariness, and what weariness hath taught through him!
Only, my brethren, see that ye scare the dogs away from him, the idle skulkers, and all the swarming vermin:—
—All the swarming vermin of the “cultured,” that—feast on the sweat of every hero!—
19.
I form circles around me and holy boundaries; ever fewer ascend with me ever higher mountains: I build a mountain-range out of ever holier mountains.—
But wherever ye would ascend with me, O my brethren, take care lest a PARASITE ascend with you!
A parasite: that is a reptile, a creeping, cringing reptile, that trieth to fatten on your infirm and sore places.
And THIS is its art: it divineth where ascending souls are weary, in your trouble and dejection, in your sensitive modesty, doth it build its loathsome nest.
Where the strong are weak, where the noble are all-too-gentle—there buildeth it its loathsome nest; the parasite liveth where the great have small sore-places.
What is the highest of all species of being, and what is the lowest? The parasite is the lowest species; he, however, who is of the highest species feedeth most parasites.
For the soul which hath the longest ladder, and can go deepest down: how could there fail to be most parasites upon it?—
—The most comprehensive soul, which can run and stray and rove furthest in itself; the most necessary soul, which out of joy flingeth itself into chance:—
—The soul in Being, which plungeth into Becoming; the possessing soul, which SEEKETH to attain desire and longing:—
—The soul fleeing from itself, which overtaketh itself in the widest circuit; the wisest soul, unto which folly speaketh most sweetly:—
—The soul most self-loving, in which all things have their current and counter-current, their ebb and their flow:—oh, how could THE
LOFTIEST SOUL fail to have the worst parasites?
20.
O my brethren, am I then cruel? But I say: What falleth, that shall one also push!
Everything of to-day—it falleth, it decayeth; who would preserve it!
But I—I wish also to push it!
Know ye the delight which rolleth stones into precipitous depths?—Those men of to-day, see just how they roll into my depths!
A prelude am I to better players, O my brethren! An example! DO according to mine example!
And him whom ye do not teach to fly, teach I pray you—TO FALL
FASTER!—
21.
I love the brave: but it is not enough to be a swordsman,—one must also know WHEREON to use swordsmanship!
And often is it greater bravery to keep quiet and pass by, that THEREBY
one may reserve oneself for a worthier foe!
Ye shall only have foes to be hated; but not foes to be despised: ye must be proud of your foes. Thus have I already taught.
For the worthier foe, O my brethren, shall ye reserve yourselves: therefore must ye pass by many a one,—
—Especially many of the rabble, who din your ears with noise about people and peoples.
Keep your eye clear of their For and Against! There is there much right, much wrong: he who looketh on becometh wroth.
Therein viewing, therein hewing—they are the same thing: therefore depart into the forests and lay your sword to sleep!
Go YOUR ways! and let the people and peoples go theirs!—gloomy ways, verily, on which not a single hope glinteth any more!
Let there the trader rule, where all that still glittereth is—traders’
gold. It is the time of kings no longer: that which now calleth itself the people is unworthy of kings.
See how these peoples themselves now do just like the traders: they pick up the smallest advantage out of all kinds of rubbish!
They lay lures for one another, they lure things out of one another,—that they call “good neighbourliness.” O blessed remote period when a people said to itself: “I will be—MASTER over peoples!”
For, my brethren, the best shall rule, the best also WILLETH to rule! And where the teaching is different, there—the best is LACKING.
22.
If THEY had—bread for nothing, alas! for what would THEY cry! Their maintainment—that is their true entertainment; and they shall have it hard!
Beasts of prey, are they: in their “working”—there is even plundering, in their “earning”—there is even overreaching! Therefore shall they have it hard!
Better beasts of prey shall they thus become, subtler, cleverer, MORE
MAN-LIKE: for man is the best beast of prey.
All the animals hath man already robbed of their virtues: that is why of all animals it hath been hardest for man.
Only the birds are still beyond him. And if man should yet learn to fly, alas! TO WHAT HEIGHT—would his rapacity fly!
23.
Thus would I have man and woman: fit for war, the one; fit for maternity, the other; both, however, fit for dancing with head and legs.
And lost be the day to us in which a measure hath not been danced. And false be every truth which hath not had laughter along with it!
24.
Your marriage-arranging: see that it be not a bad ARRANGING! Ye have arranged too hastily: so there FOLLOWETH therefrom—marriage-breaking!
And better marriage-breaking than marriage-bending, marriage-lying!—Thus spake a woman unto me: “Indeed, I broke the marriage, but first did the marriage break—me!”
The badly paired found I ever the most revengeful: they make every one suffer for it that they no longer run singly.
On that account want I the honest ones to say to one another: “We love each other: let us SEE TO IT that we maintain our love! Or shall our pledging be blundering?”
—“Give us a set term and a small marriage, that we may see if we are fit for the great marriage! It is a great matter always to be twain.”
Thus do I counsel all honest ones; and what would be my love to the Superman, and to all that is to come, if I should counsel and speak otherwise!
Not only to propagate yourselves onwards but UPWARDS—thereto, O my brethren, may the garden of marriage help you!
25.
He who hath grown wise concerning old origins, lo, he will at last seek after the fountains of the future and new origins.—
O my brethren, not long will it be until NEW PEOPLES shall arise and new fountains shall rush down into new depths.
For the earthquake—it choketh up many wells, it causeth much languishing: but it bringeth also to light inner powers and secrets.
The earthquake discloseth new fountains. In the earthquake of old peoples new fountains burst forth.
And whoever calleth out: “Lo, here is a well for many thirsty ones, one heart for many longing ones, one will for many instruments”:—around him collecteth a PEOPLE, that is to say, many attempting ones.
Who can command, who must obey—THAT IS THERE ATTEMPTED! Ah, with what long seeking and solving and failing and learning and re-attempting!
Human society: it is an attempt—so I teach—a long seeking: it seeketh however the ruler!—
—An attempt, my brethren! And NO “contract”! Destroy, I pray you, destroy that word of the soft-hearted and half-and-half!
26.
O my brethren! With whom lieth the greatest danger to the whole human future? Is it not with the good and just?—
—As those who say and feel in their hearts: “We already know what is good and just, we possess it also; woe to those who still seek thereafter!”
And whatever harm the wicked may do, the harm of the good is the harmfulest harm!
And whatever harm the world-maligners may do, the harm of the good is the harmfulest harm!
O my brethren, into the hearts of the good and just looked some one once on a time, who said: “They are the Pharisees.” But people did not understand him.
The good and just themselves were not free to understand him; their spirit was imprisoned in their good conscience. The stupidity of the good is unfathomably wise.
It is the truth, however, that the good MUST be Pharisees—they have no choice!
The good MUST crucify him who deviseth his own virtue! That IS the truth!
The second one, however, who discovered their country—the country, heart and soil of the good and just,—it was he who asked: “Whom do they hate most?”
The CREATOR, hate they most, him who breaketh the tables and old values, the breaker,—him they call the law-breaker.
For the good—they CANNOT create; they are always the beginning of the end:—
—They crucify him who writeth new values on new tables, they sacrifice UNTO THEMSELVES the future—they crucify the whole human future!
The good—they have always been the beginning of the end.—
27.
O my brethren, have ye also understood this word? And what I once said of the “last man”?—
With whom lieth the greatest danger to the whole human future? Is it not with the good and just?
BREAK UP, BREAK UP, I PRAY YOU, THE GOOD AND JUST!—O my brethren, have ye understood also this word?
28.
Ye flee from me? Ye are frightened? Ye tremble at this word?
O my brethren, when I enjoined you to break up the good, and the tables of the good, then only did I embark man on his high seas.
And now only cometh unto him the great terror, the great outlook, the great sickness, the great nausea, the great sea-sickness.
False shores and false securities did the good teach you; in the lies of the good were ye born and bred. Everything hath been radically contorted and distorted by the good.
But he who discovered the country of “man,” discovered also the country of
“man’s future.” Now shall ye be sailors for me, brave, patient!
Keep yourselves up betimes, my brethren, learn to keep yourselves up! The sea stormeth: many seek to raise themselves again by you.
The sea stormeth: all is in the sea. Well! Cheer up! Ye old seaman-hearts!
What of fatherland! THITHER striveth our helm where our CHILDREN’S LAND
is! Thitherwards, stormier than the sea, stormeth our great longing!—
29.
“Why so hard!”—said to the diamond one day the charcoal; “are we then not near relatives?”—
Why so soft? O my brethren; thus do I ask you: are ye then not—my brethren?
Why so soft, so submissive and yielding? Why is there so much negation and abnegation in your hearts? Why is there so little fate in your looks?
And if ye will not be fates and inexorable ones, how can ye one day—
conquer with me?
And if your hardness will not glance and cut and chip to pieces, how can ye one day—create with me?
For the creators are hard. And blessedness must it seem to you to press your hand upon millenniums as upon wax,—
—Blessedness to write upon the will of millenniums as upon brass,—harder than brass, nobler than brass. Entirely hard is only the noblest.
This new table, O my brethren, put I up over you: BECOME HARD!—
30.
O thou, my Will! Thou change of every need, MY needfulness! Preserve me from all small victories!
Thou fatedness of my soul, which I call fate! Thou In-me! Over-me!
Preserve and spare me for one great fate!
And thy last greatness, my Will, spare it for thy last—that thou mayest be inexorable IN thy victory! Ah, who hath not succumbed to his victory!
Ah, whose eye hath not bedimmed in this intoxicated twilight! Ah, whose foot hath not faltered and forgotten in victory—how to stand!—
—That I may one day be ready and ripe in the great noontide: ready and ripe like the glowing ore, the lightning-bearing cloud, and the swelling milk-udder:—
—Ready for myself and for my most hidden Will: a bow eager for its arrow, an arrow eager for its star:—
—A star, ready and ripe in its noontide, glowing, pierced, blessed, by annihilating sun-arrows:—
—A sun itself, and an inexorable sun-will, ready for annihilation in victory!
O Will, thou change of every need, MY needfulness! Spare me for one great victory!—-
Thus spake Zarathustra.
LVII. THE CONVALESCENT.
1.
One morning, not long after his return to his cave, Zarathustra sprang up from his couch like a madman, crying with a frightful voice, and acting as if some one still lay on the couch who did not wish to rise. Zarathustra’s voice also resounded in such a manner that his animals came to him frightened, and out of all the neighbouring caves and lurking-places all the creatures slipped away—flying, fluttering, creeping or leaping, according to their variety of foot or wing. Zarathustra, however, spake these words:
Up, abysmal thought out of my depth! I am thy cock and morning dawn, thou overslept reptile: Up! Up! My voice shall soon crow thee awake!
Unbind the fetters of thine ears: listen! For I wish to hear thee! Up! Up!
There is thunder enough to make the very graves listen!
And rub the sleep and all the dimness and blindness out of thine eyes!
Hear me also with thine eyes: my voice is a medicine even for those born blind.
And once thou art awake, then shalt thou ever remain awake. It is not MY
custom to awake great-grandmothers out of their sleep that I may bid them—sleep on!
Thou stirrest, stretchest thyself, wheezest? Up! Up! Not wheeze, shalt thou,—but speak unto me! Zarathustra calleth thee, Zarathustra the godless!
I, Zarathustra, the advocate of living, the advocate of suffering, the advocate of the circuit—thee do I call, my most abysmal thought!
Joy to me! Thou comest,—I hear thee! Mine abyss SPEAKETH, my lowest depth have I turned over into the light!
Joy to me! Come hither! Give me thy hand—ha! let be! aha!—Disgust, disgust, disgust—alas to me!
2.
Hardly, however, had Zarathustra spoken these words, when he fell down as one dead, and remained long as one dead. When however he again came to himself, then was he pale and trembling, and remained lying; and for long he would neither eat nor drink. This condition continued for seven days; his animals, however, did not leave him day nor night, except that the eagle flew forth to fetch food. And what it fetched and foraged, it laid on Zarathustra’s couch: so that Zarathustra at last lay among yellow and red berries, grapes, rosy apples, sweet-smelling herbage, and pine-cones.
At his feet, however, two lambs were stretched, which the eagle had with difficulty carried off from their shepherds.
At last, after seven days, Zarathustra raised himself upon his couch, took a rosy apple in his hand, smelt it and found its smell pleasant. Then did his animals think the time had come to speak unto him.
“O Zarathustra,” said they, “now hast thou lain thus for seven days with heavy eyes: wilt thou not set thyself again upon thy feet?
Step out of thy cave: the world waiteth for thee as a garden. The wind playeth with heavy fragrance which seeketh for thee; and all brooks would like to run after thee.
All things long for thee, since thou hast remained alone for seven days—step forth out of thy cave! All things want to be thy physicians!
Did perhaps a new knowledge come to thee, a bitter, grievous knowledge?
Like leavened dough layest thou, thy soul arose and swelled beyond all its bounds.—”
—O mine animals, answered Zarathustra, talk on thus and let me listen! It refresheth me so to hear your talk: where there is talk, there is the world as a garden unto me.
How charming it is that there are words and tones; are not words and tones rainbows and seeming bridges ‘twixt the eternally separated?
To each soul belongeth another world; to each soul is every other soul a back-world.
Among the most alike doth semblance deceive most delightfully: for the smallest gap is most difficult to bridge over.
For me—how could there be an outside-of-me? There is no outside! But this we forget on hearing tones; how delightful it is that we forget!
Have not names and tones been given unto things that man may refresh himself with them? It is a beautiful folly, speaking; therewith danceth man over everything.
How lovely is all speech and all falsehoods of tones! With tones danceth our love on variegated rainbows.—
—“O Zarathustra,” said then his animals, “to those who think like us, things all dance themselves: they come and hold out the hand and laugh and flee—and return.
Everything goeth, everything returneth; eternally rolleth the wheel of existence. Everything dieth, everything blossometh forth again; eternally runneth on the year of existence.
Everything breaketh, everything is integrated anew; eternally buildeth itself the same house of existence. All things separate, all things again greet one another; eternally true to itself remaineth the ring of existence.
Every moment beginneth existence, around every ‘Here’ rolleth the ball
‘There.’ The middle is everywhere. Crooked is the path of eternity.”—
—O ye wags and barrel-organs! answered Zarathustra, and smiled once more, how well do ye know what had to be fulfilled in seven days:—
—And how that monster crept into my throat and choked me! But I bit off its head and spat it away from me.
And ye—ye have made a lyre-lay out of it? Now, however, do I lie here, still exhausted with that biting and spitting-away, still sick with mine own salvation.
AND YE LOOKED ON AT IT ALL? O mine animals, are ye also cruel? Did ye like to look at my great pain as men do? For man is the cruellest animal.
At tragedies, bull-fights, and crucifixions hath he hitherto been happiest on earth; and when he invented his hell, behold, that was his heaven on earth.
When the great man crieth—: immediately runneth the little man thither, and his tongue hangeth out of his mouth for very lusting. He, however, calleth it his “pity.”
The little man, especially the poet—how passionately doth he accuse life in words! Hearken to him, but do not fail to hear the delight which is in all accusation!
Such accusers of life—them life overcometh with a glance of the eye.
“Thou lovest me?” saith the insolent one; “wait a little, as yet have I no time for thee.”
Towards himself man is the cruellest animal; and in all who call themselves “sinners” and “bearers of the cross” and “penitents,” do not overlook the voluptuousness in their plaints and accusations!
And I myself—do I thereby want to be man’s accuser? Ah, mine animals, this only have I learned hitherto, that for man his baddest is necessary for his best,—
—That all that is baddest is the best POWER, and the hardest stone for the highest creator; and that man must become better AND badder:—
Not to THIS torture-stake was I tied, that I know man is bad,—but I cried, as no one hath yet cried:
“Ah, that his baddest is so very small! Ah, that his best is so very small!”
The great disgust at man—IT strangled me and had crept into my throat: and what the soothsayer had presaged: “All is alike, nothing is worth while, knowledge strangleth.”
A long twilight limped on before me, a fatally weary, fatally intoxicated sadness, which spake with yawning mouth.
“Eternally he returneth, the man of whom thou art weary, the small man”—so yawned my sadness, and dragged its foot and could not go to sleep.
A cavern, became the human earth to me; its breast caved in; everything living became to me human dust and bones and mouldering past.
My sighing sat on all human graves, and could no longer arise: my sighing and questioning croaked and choked, and gnawed and nagged day and night:
—“Ah, man returneth eternally! The small man returneth eternally!”
Naked had I once seen both of them, the greatest man and the smallest man: all too like one another—all too human, even the greatest man!
All too small, even the greatest man!—that was my disgust at man!
And the eternal return also of the smallest man!—that was my disgust at all existence!
Ah, Disgust! Disgust! Disgust!—Thus spake Zarathustra, and sighed and shuddered; for he remembered his sickness. Then did his animals prevent him from speaking further.
“Do not speak further, thou convalescent!”—so answered his animals,
“but go out where the world waiteth for thee like a garden.
Go out unto the roses, the bees, and the flocks of doves! Especially, however, unto the singing-birds, to learn SINGING from them!
For singing is for the convalescent; the sound ones may talk. And when the sound also want songs, then want they other songs than the convalescent.”
—“O ye wags and barrel-organs, do be silent!” answered Zarathustra, and smiled at his animals. “How well ye know what consolation I devised for myself in seven days!
That I have to sing once more—THAT consolation did I devise for myself, and THIS convalescence: would ye also make another lyre-lay thereof?”
—“Do not talk further,” answered his animals once more; “rather, thou convalescent, prepare for thyself first a lyre, a new lyre!
For behold, O Zarathustra! For thy new lays there are needed new lyres.
Sing and bubble over, O Zarathustra, heal thy soul with new lays: that
thou mayest bear thy great fate, which hath not yet been any one’s fate!
For thine animals know it well, O Zarathustra, who thou art and must become: behold, THOU ART THE TEACHER OF THE ETERNAL RETURN,—that is now THY fate!
That thou must be the first to teach this teaching—how could this great fate not be thy greatest danger and infirmity!
Behold, we know what thou teachest: that all things eternally return, and ourselves with them, and that we have already existed times without number, and all things with us.
Thou teachest that there is a great year of Becoming, a prodigy of a great year; it must, like a sand-glass, ever turn up anew, that it may anew run down and run out:—
—So that all those years are like one another in the greatest and also in the smallest, so that we ourselves, in every great year, are like ourselves in the greatest and also in the smallest.
And if thou wouldst now die, O Zarathustra, behold, we know also how thou wouldst then speak to thyself:—but thine animals beseech thee not to die yet!
Thou wouldst speak, and without trembling, buoyant rather with bliss, for a great weight and worry would be taken from thee, thou patientest one!—
‘Now do I die and disappear,’ wouldst thou say, ‘and in a moment I am nothing. Souls are as mortal as bodies.
But the plexus of causes returneth in which I am intertwined,—it will again create me! I myself pertain to the causes of the eternal return.
I come again with this sun, with this earth, with this eagle, with this serpent—NOT to a new life, or a better life, or a similar life:
—I come again eternally to this identical and selfsame life, in its greatest and its smallest, to teach again the eternal return of all things,—
—To speak again the word of the great noontide of earth and man, to announce again to man the Superman.
I have spoken my word. I break down by my word: so willeth mine eternal fate—as announcer do I succumb!
The hour hath now come for the down-goer to bless himself. Thus—ENDETH
Zarathustra’s down-going.’”—
When the animals had spoken these words they were silent and waited, so that Zarathustra might say something to them: but Zarathustra did not hear that they were silent. On the contrary, he lay quietly with closed eyes like a person sleeping, although he did not sleep; for he communed just then with his soul. The serpent, however, and the eagle, when they found him silent in such wise, respected the great stillness around him, and prudently retired.
LVIII. THE GREAT LONGING.
O my soul, I have taught thee to say “to-day” as “once on a time” and
“formerly,” and to dance thy measure over every Here and There and Yonder.
O my soul, I delivered thee from all by-places, I brushed down from thee dust and spiders and twilight.
O my soul, I washed the petty shame and the by-place virtue from thee, and persuaded thee to stand naked before the eyes of the sun.
With the storm that is called “spirit” did I blow over thy surging sea; all clouds did I blow away from it; I strangled even the strangler called
“sin.”
O my soul, I gave thee the right to say Nay like the storm, and to say Yea as the open heaven saith Yea: calm as the light remainest thou, and now walkest through denying storms.
O my soul, I restored to thee liberty over the created and the uncreated; and who knoweth, as thou knowest, the voluptuousness of the future?
O my soul, I taught thee the contempt which doth not come like worm-eating, the great, the loving contempt, which loveth most where it contemneth most.
O my soul, I taught thee so to persuade that thou persuadest even the grounds themselves to thee: like the sun, which persuadeth even the sea to its height.
O my soul, I have taken from thee all obeying and knee-bending and
homage-paying; I have myself given thee the names, “Change of need” and
“Fate.”
O my soul, I have given thee new names and gay-coloured playthings, I have called thee “Fate” and “the Circuit of circuits” and “the Navel-string of time” and “the Azure bell.”
O my soul, to thy domain gave I all wisdom to drink, all new wines, and also all immemorially old strong wines of wisdom.
O my soul, every sun shed I upon thee, and every night and every silence and every longing:—then grewest thou up for me as a vine.
O my soul, exuberant and heavy dost thou now stand forth, a vine with swelling udders and full clusters of brown golden grapes:—
—Filled and weighted by thy happiness, waiting from superabundance, and yet ashamed of thy waiting.
O my soul, there is nowhere a soul which could be more loving and more comprehensive and more extensive! Where could future and past be closer together than with thee?
O my soul, I have given thee everything, and all my hands have become empty by thee:—and now! Now sayest thou to me, smiling and full of melancholy: “Which of us oweth thanks?—
—Doth the giver not owe thanks because the receiver received? Is bestowing not a necessity? Is receiving not—pitying?”—
O my soul, I understand the smiling of thy melancholy: thine over-abundance itself now stretcheth out longing hands!
Thy fulness looketh forth over raging seas, and seeketh and waiteth: the longing of over-fulness looketh forth from the smiling heaven of thine eyes!
And verily, O my soul! Who could see thy smiling and not melt into tears?
The angels themselves melt into tears through the over-graciousness of thy smiling.
Thy graciousness and over-graciousness, is it which will not complain and weep: and yet, O my soul, longeth thy smiling for tears, and thy trembling mouth for sobs.
“Is not all weeping complaining? And all complaining, accusing?” Thus speakest thou to thyself; and therefore, O my soul, wilt thou rather smile than pour forth thy grief—
—Than in gushing tears pour forth all thy grief concerning thy fulness, and concerning the craving of the vine for the vintager and vintage-knife!
But wilt thou not weep, wilt thou not weep forth thy purple melancholy, then wilt thou have to SING, O my soul!—Behold, I smile myself, who foretell thee this:
—Thou wilt have to sing with passionate song, until all seas turn calm to hearken unto thy longing,—
—Until over calm longing seas the bark glideth, the golden marvel, around the gold of which all good, bad, and marvellous things frisk:—
—Also many large and small animals, and everything that hath light marvellous feet, so that it can run on violet-blue paths,—
—Towards the golden marvel, the spontaneous bark, and its master: he, however, is the vintager who waiteth with the diamond vintage-knife,—
—Thy great deliverer, O my soul, the nameless one—for whom future songs only will find names! And verily, already hath thy breath the fragrance of future songs,—
—Already glowest thou and dreamest, already drinkest thou thirstily at all deep echoing wells of consolation, already reposeth thy melancholy in the bliss of future songs!—
O my soul, now have I given thee all, and even my last possession, and all my hands have become empty by thee:—THAT I BADE THEE SING, behold, that was my last thing to give!
That I bade thee sing,—say now, say: WHICH of us now—oweth thanks?— Better still, however: sing unto me, sing, O my soul! And let me thank thee!—
Thus spake Zarathustra.
LIX. THE SECOND DANCE-SONG.
1.
“Into thine eyes gazed I lately, O Life: gold saw I gleam in thy
night-eyes,—my heart stood still with delight:
—A golden bark saw I gleam on darkened waters, a sinking, drinking, reblinking, golden swing-bark!
At my dance-frantic foot, dost thou cast a glance, a laughing, questioning, melting, thrown glance:
Twice only movedst thou thy rattle with thy little hands—then did my feet swing with dance-fury.—
My heels reared aloft, my toes they hearkened,—thee they would know: hath not the dancer his ear—in his toe!
Unto thee did I spring: then fledst thou back from my bound; and towards me waved thy fleeing, flying tresses round!
Away from thee did I spring, and from thy snaky tresses: then stoodst thou there half-turned, and in thine eye caresses.
With crooked glances—dost thou teach me crooked courses; on crooked courses learn my feet—crafty fancies!
I fear thee near, I love thee far; thy flight allureth me, thy seeking secureth me:—I suffer, but for thee, what would I not gladly bear!
For thee, whose coldness inflameth, whose hatred misleadeth, whose flight enchaineth, whose mockery—pleadeth:
—Who would not hate thee, thou great bindress, inwindress, temptress, seekress, findress! Who would not love thee, thou innocent, impatient, wind-swift, child-eyed sinner!
Whither pullest thou me now, thou paragon and tomboy? And now foolest thou me fleeing; thou sweet romp dost annoy!
I dance after thee, I follow even faint traces lonely. Where art thou?
Give me thy hand! Or thy finger only!
Here are caves and thickets: we shall go astray!—Halt! Stand still!
Seest thou not owls and bats in fluttering fray?
Thou bat! Thou owl! Thou wouldst play me foul? Where are we? From the dogs hast thou learned thus to bark and howl.
Thou gnashest on me sweetly with little white teeth; thine evil eyes shoot out upon me, thy curly little mane from underneath!
This is a dance over stock and stone: I am the hunter,—wilt thou be my hound, or my chamois anon?
Now beside me! And quickly, wickedly springing! Now up! And over!—Alas!
I have fallen myself overswinging!
Oh, see me lying, thou arrogant one, and imploring grace! Gladly would I walk with thee—in some lovelier place!
—In the paths of love, through bushes variegated, quiet, trim! Or there along the lake, where gold-fishes dance and swim!
Thou art now a-weary? There above are sheep and sun-set stripes: is it not sweet to sleep—the shepherd pipes?
Thou art so very weary? I carry thee thither; let just thine arm sink! And art thou thirsty—I should have something; but thy mouth would not like it to drink!—
—Oh, that cursed, nimble, supple serpent and lurking-witch! Where art thou gone? But in my face do I feel through thy hand, two spots and red blotches itch!
I am verily weary of it, ever thy sheepish shepherd to be. Thou witch, if I have hitherto sung unto thee, now shalt THOU—cry unto me!
To the rhythm of my whip shalt thou dance and cry! I forget not my whip?—Not I!”—
2.
Then did Life answer me thus, and kept thereby her fine ears closed:
“O Zarathustra! Crack not so terribly with thy whip! Thou knowest surely that noise killeth thought,—and just now there came to me such delicate thoughts.
We are both of us genuine ne’er-do-wells and ne’er-do-ills. Beyond good and evil found we our island and our green meadow—we two alone!
Therefore must we be friendly to each other!
And even should we not love each other from the bottom of our hearts,—must we then have a grudge against each other if we do not love each other perfectly?
And that I am friendly to thee, and often too friendly, that knowest thou: and the reason is that I am envious of thy Wisdom. Ah, this mad old fool,
Wisdom!
If thy Wisdom should one day run away from thee, ah! then would also my love run away from thee quickly.”—
Thereupon did Life look thoughtfully behind and around, and said softly:
“O Zarathustra, thou art not faithful enough to me!
Thou lovest me not nearly so much as thou sayest; I know thou thinkest of soon leaving me.
There is an old heavy, heavy, booming-clock: it boometh by night up to thy cave:—
—When thou hearest this clock strike the hours at midnight, then thinkest thou between one and twelve thereon—
—Thou thinkest thereon, O Zarathustra, I know it—of soon leaving me!”—
“Yea,” answered I, hesitatingly, “but thou knowest it also”—And I said something into her ear, in amongst her confused, yellow, foolish tresses.
“Thou KNOWEST that, O Zarathustra? That knoweth no one—”
And we gazed at each other, and looked at the green meadow o’er which the cool evening was just passing, and we wept together.—Then, however, was Life dearer unto me than all my Wisdom had ever been.—
Thus spake Zarathustra.
3.
One!
O man! Take heed!
Two!
What saith deep midnight’s voice indeed?
Three!
“I slept my sleep—
Four!
“From deepest dream I’ve woke and plead:—
Five!
“The world is deep,
Six!
“And deeper than the day could read.
Seven!
“Deep is its woe—
Eight!
“Joy—deeper still than grief can be:
Nine!
“Woe saith: Hence! Go!
Ten!
“But joys all want eternity—
Eleven!
“Want deep profound eternity!”
Twelve!
LX. THE SEVEN SEALS.
(OR THE YEA AND AMEN LAY.)
1.
If I be a diviner and full of the divining spirit which wandereth on high mountain-ridges, ‘twixt two seas,—
Wandereth ‘twixt the past and the future as a heavy cloud—hostile to sultry plains, and to all that is weary and can neither die nor live: Ready for lightning in its dark bosom, and for the redeeming flash of light, charged with lightnings which say Yea! which laugh Yea! ready for divining flashes of lightning:—
—Blessed, however, is he who is thus charged! And verily, long must he hang like a heavy tempest on the mountain, who shall one day kindle the light of the future!—
Oh, how could I not be ardent for Eternity and for the marriage-ring of rings—the ring of the return?
Never yet have I found the woman by whom I should like to have children, unless it be this woman whom I love: for I love thee, O Eternity!
FOR I LOVE THEE, O ETERNITY! 2.
If ever my wrath hath burst graves, shifted landmarks, or rolled old shattered tables into precipitous depths:
If ever my scorn hath scattered mouldered words to the winds, and if I have come like a besom to cross-spiders, and as a cleansing wind to old charnel-houses:
If ever I have sat rejoicing where old Gods lie buried, world-blessing, world-loving, beside the monuments of old world-maligners:—
—For even churches and Gods’-graves do I love, if only heaven looketh through their ruined roofs with pure eyes; gladly do I sit like grass and red poppies on ruined churches—
Oh, how could I not be ardent for Eternity, and for the marriage-ring of rings—the ring of the return?
Never yet have I found the woman by whom I should like to have children, unless it be this woman whom I love: for I love thee, O Eternity!
FOR I LOVE THEE, O ETERNITY! 3.
If ever a breath hath come to me of the creative breath, and of the heavenly necessity which compelleth even chances to dance star-dances: If ever I have laughed with the laughter of the creative lightning, to which the long thunder of the deed followeth, grumblingly, but obediently: If ever I have played dice with the Gods at the divine table of the earth, so that the earth quaked and ruptured, and snorted forth fire-streams:—
—For a divine table is the earth, and trembling with new creative dictums and dice-casts of the Gods:
Oh, how could I not be ardent for Eternity, and for the marriage-ring of rings—the ring of the return?
Never yet have I found the woman by whom I should like to have children, unless it be this woman whom I love: for I love thee, O Eternity!
FOR I LOVE THEE, O ETERNITY! 4.
If ever I have drunk a full draught of the foaming spice- and confection-bowl in which all things are well mixed: If ever my hand hath mingled the furthest with the nearest, fire with spirit, joy with sorrow, and the harshest with the kindest: If I myself am a grain of the saving salt which maketh everything in the confection-bowl mix well:—
—For there is a salt which uniteth good with evil; and even the evilest is worthy, as spicing and as final over-foaming:—
Oh, how could I not be ardent for Eternity, and for the marriage-ring of rings—the ring of the return?
Never yet have I found the woman by whom I should like to have children, unless it be this woman whom I love: for I love thee, O Eternity!
FOR I LOVE THEE, O ETERNITY! 5.
If I be fond of the sea, and all that is sealike, and fondest of it when it angrily contradicteth me:
If the exploring delight be in me, which impelleth sails to the undiscovered, if the seafarer’s delight be in my delight: If ever my rejoicing hath called out: “The shore hath vanished,—now hath fallen from me the last chain—
The boundless roareth around me, far away sparkle for me space and time,—well!
cheer up! old heart!”—
Oh, how could I not be ardent for Eternity, and for the marriage-ring of rings—the ring of the return?
Never yet have I found the woman by whom I should like to have children, unless it be this woman whom I love: for I love thee, O Eternity!
FOR I LOVE THEE, O ETERNITY! 6.
If my virtue be a dancer’s virtue, and if I have often sprung with both feet into golden-emerald rapture:
If my wickedness be a laughing wickedness, at home among rose-banks and hedges of lilies:
—For in laughter is all evil present, but it is sanctified and absolved by its own bliss:—
And if it be my Alpha and Omega that everything heavy shall become light, every body a dancer, and every spirit a bird: and verily, that is my Alpha and Omega!—
Oh, how could I not be ardent for Eternity, and for the marriage-ring of rings—the ring of the return?
Never yet have I found the woman by whom I should like to have children, unless it be this woman whom I love: for I love thee, O Eternity!
FOR I LOVE THEE, O ETERNITY! 7.
If ever I have spread out a tranquil heaven above me, and have flown into mine own heaven with mine own pinions:
If I have swum playfully in profound luminous distances, and if my freedom’s avian wisdom hath come to me:—
—Thus however speaketh avian wisdom:—“Lo, there is no above and no below! Throw thyself about,—outward, backward, thou light one! Sing! speak no more!
—Are not all words made for the heavy? Do not all words lie to the light ones? Sing! speak no more!”—
Oh, how could I not be ardent for Eternity, and for the marriage-ring of rings—the ring of the return?
Never yet have I found the woman by whom I should like to have children, unless it be this woman whom I love: for I love thee, O Eternity!
FOR I LOVE THEE, O ETERNITY!
FOURTH AND LAST PART.
Ah, where in the world have there been greater follies than with the pitiful? And what in the world hath caused more suffering than the follies of the pitiful?
Woe unto all loving ones who have not an elevation which is above their pity!
Thus spake the devil unto me, once on a time: “Even God hath his hell: it is his love for man.”
And lately did I hear him say these words: “God is dead: of his pity for man hath God died.”—ZARATHUSTRA, II., “The Pitiful.”
LXI. THE HONEY SACRIFICE.
—And again passed moons and years over Zarathustra’s soul, and he heeded it not; his hair, however, became white. One day when he sat on a stone in front of his cave, and gazed calmly into the distance—one there gazeth out on the sea, and away beyond sinuous abysses,—then went his animals thoughtfully round about him, and at last set themselves in front of him.
“O Zarathustra,” said they, “gazest thou out perhaps for thy happiness?”—“Of what account is my happiness!” answered he, “I have long ceased to strive any more for happiness, I strive for my work.”—“O Zarathustra,” said the animals once more, “that sayest thou as one who hath overmuch of good things. Liest thou not in a sky-blue lake of happiness?”—“Ye wags,”
answered Zarathustra, and smiled, “how well did ye choose the simile! But ye know also that my happiness is heavy, and not like a fluid wave of water: it presseth me and will not leave me, and is like molten pitch.”—
Then went his animals again thoughtfully around him, and placed themselves once more in front of him. “O Zarathustra,” said they, “it is consequently FOR THAT REASON that thou thyself always becometh yellower and darker, although thy hair looketh white and flaxen? Lo, thou sittest in thy pitch!”—“What do ye say, mine animals?” said Zarathustra, laughing;
“verily I reviled when I spake of pitch. As it happeneth with me, so is it with all fruits that turn ripe. It is the HONEY in my veins that maketh my blood thicker, and also my soul stiller.”—“So will it be, O
Zarathustra,” answered his animals, and pressed up to him; “but wilt thou not to-day ascend a high mountain? The air is pure, and to-day one seeth more of the world than ever.”—“Yea, mine animals,” answered he, “ye counsel admirably and according to my heart: I will to-day ascend a high mountain! But see that honey is there ready to hand, yellow, white, good, ice-cool, golden-comb-honey. For know that when aloft I will make the honey-sacrifice.”—
When Zarathustra, however, was aloft on the summit, he sent his animals home that had accompanied him, and found that he was now alone:—then he laughed from the bottom of his heart, looked around him, and spake thus:
That I spake of sacrifices and honey-sacrifices, it was merely a ruse in talking and verily, a useful folly! Here aloft can I now speak freer than in front of mountain-caves and anchorites’ domestic animals.
What to sacrifice! I squander what is given me, a squanderer with a thousand hands: how could I call that—sacrificing?
And when I desired honey I only desired bait, and sweet mucus and
mucilage, for which even the mouths of growling bears, and strange, sulky, evil birds, water:
—The best bait, as huntsmen and fishermen require it. For if the world be as a gloomy forest of animals, and a pleasure-ground for all wild huntsmen, it seemeth to me rather—and preferably—a fathomless, rich sea;
—A sea full of many-hued fishes and crabs, for which even the Gods might long, and might be tempted to become fishers in it, and casters of nets,—so rich is the world in wonderful things, great and small!
Especially the human world, the human sea:—towards IT do I now throw out my golden angle-rod and say: Open up, thou human abyss!
Open up, and throw unto me thy fish and shining crabs! With my best bait shall I allure to myself to-day the strangest human fish!
—My happiness itself do I throw out into all places far and wide
‘twixt orient, noontide, and occident, to see if many human fish will not learn to hug and tug at my happiness;—
Until, biting at my sharp hidden hooks, they have to come up unto MY
height, the motleyest abyss-groundlings, to the wickedest of all fishers of men.
For THIS am I from the heart and from the beginning—drawing, hither-drawing, upward-drawing, upbringing; a drawer, a trainer, a training-master, who not in vain counselled himself once on a time:
“Become what thou art!”
Thus may men now come UP to me; for as yet do I await the signs that it is time for my down-going; as yet do I not myself go down, as I must do, amongst men.
Therefore do I here wait, crafty and scornful upon high mountains, no impatient one, no patient one; rather one who hath even unlearnt patience,—because he no longer “suffereth.”
For my fate giveth me time: it hath forgotten me perhaps? Or doth it sit behind a big stone and catch flies?
And verily, I am well-disposed to mine eternal fate, because it doth not hound and hurry me, but leaveth me time for merriment and mischief; so that I have to-day ascended this high mountain to catch fish.
Did ever any one catch fish upon high mountains? And though it be a folly what I here seek and do, it is better so than that down below I should become solemn with waiting, and green and yellow—
—A posturing wrath-snorter with waiting, a holy howl-storm from the mountains, an impatient one that shouteth down into the valleys: “Hearken, else I will scourge you with the scourge of God!”
Not that I would have a grudge against such wrathful ones on that account: they are well enough for laughter to me! Impatient must they now be, those big alarm-drums, which find a voice now or never!
Myself, however, and my fate—we do not talk to the Present, neither do we talk to the Never: for talking we have patience and time and more than time. For one day must it yet come, and may not pass by.
What must one day come and may not pass by? Our great Hazar, that is to say, our great, remote human-kingdom, the Zarathustra-kingdom of a thousand years—
How remote may such “remoteness” be? What doth it concern me? But on that account it is none the less sure unto me—, with both feet stand I secure on this ground;
—On an eternal ground, on hard primary rock, on this highest, hardest, primary mountain-ridge, unto which all winds come, as unto the storm-parting, asking Where? and Whence? and Whither?
Here laugh, laugh, my hearty, healthy wickedness! From high mountains cast down thy glittering scorn-laughter! Allure for me with thy glittering the finest human fish!
And whatever belongeth unto ME in all seas, my in-and-for-me in all things—fish THAT out for me, bring THAT up to me: for that do I wait, the wickedest of all fish-catchers.
Out! out! my fishing-hook! In and down, thou bait of my happiness! Drip thy sweetest dew, thou honey of my heart! Bite, my fishing-hook, into the belly of all black affliction!
Look out, look out, mine eye! Oh, how many seas round about me, what
dawning human futures! And above me—what rosy red stillness! What unclouded silence!
LXII. THE CRY OF DISTRESS.
The next day sat Zarathustra again on the stone in front of his cave, whilst his animals roved about in the world outside to bring home new food,—also new honey: for Zarathustra had spent and wasted the old honey to the very last particle. When he thus sat, however, with a stick in his hand, tracing the shadow of his figure on the earth, and reflecting—verily!
not upon himself and his shadow,—all at once he startled and shrank back: for he saw another shadow beside his own. And when he hastily looked around and stood up, behold, there stood the soothsayer beside him, the same whom he had once given to eat and drink at his table, the proclaimer of the great weariness, who taught: “All is alike, nothing is worth while, the world is without meaning, knowledge strangleth.” But his face had changed since then; and when Zarathustra looked into his eyes, his heart was startled once more: so much evil announcement and ashy-grey lightnings passed over that countenance.
The soothsayer, who had perceived what went on in Zarathustra’s soul, wiped his face with his hand, as if he would wipe out the impression; the same did also Zarathustra. And when both of them had thus silently composed and strengthened themselves, they gave each other the hand, as a token that they wanted once more to recognise each other.
“Welcome hither,” said Zarathustra, “thou soothsayer of the great weariness, not in vain shalt thou once have been my messmate and guest.
Eat and drink also with me to-day, and forgive it that a cheerful old man sitteth with thee at table!”—“A cheerful old man?” answered the soothsayer, shaking his head, “but whoever thou art, or wouldst be, O
Zarathustra, thou hast been here aloft the longest time,—in a little while thy bark shall no longer rest on dry land!”—“Do I then rest on dry land?”—asked Zarathustra, laughing.—“The waves around thy mountain,” answered the soothsayer, “rise and rise, the waves of great distress and affliction: they will soon raise thy bark also and carry thee away.”—Thereupon was Zarathustra silent and wondered.—“Dost thou still hear nothing?” continued the soothsayer: “doth it not rush and roar out of the depth?”—Zarathustra was silent once more and listened: then heard he a long, long cry, which the abysses threw to one another and passed on; for none of them wished to retain it: so evil did it sound.
“Thou ill announcer,” said Zarathustra at last, “that is a cry of distress, and the cry of a man; it may come perhaps out of a black sea.
But what doth human distress matter to me! My last sin which hath been reserved for me,—knowest thou what it is called?”
—“PITY!” answered the soothsayer from an overflowing heart, and raised both his hands aloft—“O Zarathustra, I have come that I may seduce thee to thy last sin!”—
And hardly had those words been uttered when there sounded the cry once more, and longer and more alarming than before—also much nearer.
“Hearest thou? Hearest thou, O Zarathustra?” called out the soothsayer,
“the cry concerneth thee, it calleth thee: Come, come, come; it is time, it is the highest time!”—
Zarathustra was silent thereupon, confused and staggered; at last he asked, like one who hesitateth in himself: “And who is it that there calleth me?”
“But thou knowest it, certainly,” answered the soothsayer warmly, “why dost thou conceal thyself? It is THE HIGHER MAN that crieth for thee!”
“The higher man?” cried Zarathustra, horror-stricken: “what wanteth HE?
What wanteth HE? The higher man! What wanteth he here?”—and his skin covered with perspiration.
The soothsayer, however, did not heed Zarathustra’s alarm, but listened and listened in the downward direction. When, however, it had been still there for a long while, he looked behind, and saw Zarathustra standing trembling.
“O Zarathustra,” he began, with sorrowful voice, “thou dost not stand there like one whose happiness maketh him giddy: thou wilt have to dance lest thou tumble down!
But although thou shouldst dance before me, and leap all thy side-leaps, no one may say unto me: ‘Behold, here danceth the last joyous man!’
In vain would any one come to this height who sought HIM here: caves would he find, indeed, and back-caves, hiding-places for hidden ones; but not lucky mines, nor treasure-chambers, nor new gold-veins of happiness.
Happiness—how indeed could one find happiness among such buried-alive and solitary ones! Must I yet seek the last happiness on the Happy Isles, and far away among forgotten seas?
But all is alike, nothing is worth while, no seeking is of service, there are no longer any Happy Isles!”—
Thus sighed the soothsayer; with his last sigh, however, Zarathustra again became serene and assured, like one who hath come out of a deep chasm into the light. “Nay! Nay! Three times Nay!” exclaimed he with a strong voice, and stroked his beard—“THAT do I know better! There are still Happy Isles! Silence THEREON, thou sighing sorrow-sack!
Cease to splash THEREON, thou rain-cloud of the forenoon! Do I not already stand here wet with thy misery, and drenched like a dog?
Now do I shake myself and run away from thee, that I may again become dry: thereat mayest thou not wonder! Do I seem to thee discourteous? Here however is MY court.
But as regards the higher man: well! I shall seek him at once in those forests: FROM THENCE came his cry. Perhaps he is there hard beset by an evil beast.
He is in MY domain: therein shall he receive no scath! And verily, there are many evil beasts about me.”—
With those words Zarathustra turned around to depart. Then said the soothsayer: “O Zarathustra, thou art a rogue!
I know it well: thou wouldst fain be rid of me! Rather wouldst thou run into the forest and lay snares for evil beasts!
But what good will it do thee? In the evening wilt thou have me again: in thine own cave will I sit, patient and heavy like a block—and wait for thee!”
“So be it!” shouted back Zarathustra, as he went away: “and what is mine in my cave belongeth also unto thee, my guest!
Shouldst thou however find honey therein, well! just lick it up, thou growling bear, and sweeten thy soul! For in the evening we want both to be in good spirits;
—In good spirits and joyful, because this day hath come to an end!
And thou thyself shalt dance to my lays, as my dancing-bear.
Thou dost not believe this? Thou shakest thy head? Well! Cheer up, old bear! But I also—am a soothsayer.”
Thus spake Zarathustra.
LXIII. TALK WITH THE KINGS.
1.
Ere Zarathustra had been an hour on his way in the mountains and forests, he saw all at once a strange procession. Right on the path which he was about to descend came two kings walking, bedecked with crowns and purple girdles, and variegated like flamingoes: they drove before them a laden ass. “What do these kings want in my domain?” said Zarathustra in astonishment to his heart, and hid himself hastily behind a thicket. When however the kings approached to him, he said half-aloud, like one speaking only to himself: “Strange! Strange! How doth this harmonise? Two kings do I see—and only one ass!”
Thereupon the two kings made a halt; they smiled and looked towards the spot whence the voice proceeded, and afterwards looked into each other’s faces. “Such things do we also think among ourselves,” said the king on the right, “but we do not utter them.”
The king on the left, however, shrugged his shoulders and answered: “That may perhaps be a goat-herd. Or an anchorite who hath lived too long among rocks and trees. For no society at all spoileth also good manners.”
“Good manners?” replied angrily and bitterly the other king: “what then do we run out of the way of? Is it not ‘good manners’? Our ‘good society’?
Better, verily, to live among anchorites and goat-herds, than with our gilded, false, over-rouged populace—though it call itself ‘good society.’
—Though it call itself ‘nobility.’ But there all is false and foul, above all the blood—thanks to old evil diseases and worse curers.
The best and dearest to me at present is still a sound peasant, coarse, artful, obstinate and enduring: that is at present the noblest type.
The peasant is at present the best; and the peasant type should be master!
But it is the kingdom of the populace—I no longer allow anything to be imposed upon me. The populace, however—that meaneth, hodgepodge.
Populace-hodgepodge: therein is everything mixed with everything, saint and swindler, gentleman and Jew, and every beast out of Noah’s ark.
Good manners! Everything is false and foul with us. No one knoweth any longer how to reverence: it is THAT precisely that we run away from. They are fulsome obtrusive dogs; they gild palm-leaves.
This loathing choketh me, that we kings ourselves have become false, draped and disguised with the old faded pomp of our ancestors, show-pieces for the stupidest, the craftiest, and whosoever at present trafficketh for power.
We ARE NOT the first men—and have nevertheless to STAND FOR them: of this imposture have we at last become weary and disgusted.
From the rabble have we gone out of the way, from all those bawlers and scribe-blowflies, from the trader-stench, the ambition-fidgeting, the bad breath—: fie, to live among the rabble;
—Fie, to stand for the first men among the rabble! Ah, loathing!
Loathing! Loathing! What doth it now matter about us kings!”—
“Thine old sickness seizeth thee,” said here the king on the left, “thy loathing seizeth thee, my poor brother. Thou knowest, however, that some one heareth us.”
Immediately thereupon, Zarathustra, who had opened ears and eyes to this talk, rose from his hiding-place, advanced towards the kings, and thus began:
“He who hearkeneth unto you, he who gladly hearkeneth unto you, is called Zarathustra.
I am Zarathustra who once said: ‘What doth it now matter about kings!’
Forgive me; I rejoiced when ye said to each other: ‘What doth it matter about us kings!’
Here, however, is MY domain and jurisdiction: what may ye be seeking in my domain? Perhaps, however, ye have FOUND on your way what I seek: namely, the higher man.”
When the kings heard this, they beat upon their breasts and said with one voice: “We are recognised!
With the sword of thine utterance severest thou the thickest darkness of our hearts. Thou hast discovered our distress; for lo! we are on our way to find the higher man—
—The man that is higher than we, although we are kings. To him do we convey this ass. For the highest man shall also be the highest lord on earth.
There is no sorer misfortune in all human destiny, than when the mighty of the earth are not also the first men. Then everything becometh false and distorted and monstrous.
And when they are even the last men, and more beast than man, then riseth and riseth the populace in honour, and at last saith even the populace-virtue: ‘Lo, I alone am virtue!’”—
What have I just heard? answered Zarathustra. What wisdom in kings! I am enchanted, and verily, I have already promptings to make a rhyme thereon:—
—Even if it should happen to be a rhyme not suited for every one’s ears. I unlearned long ago to have consideration for long ears. Well then!
Well now!
(Here, however, it happened that the ass also found utterance: it said distinctly and with malevolence, Y-E-A.)
‘Twas once—methinks year one of our blessed Lord,—Drunk without wine, the Sybil thus deplored:—“How ill things go! Decline!
Decline! Ne’er sank the world so low! Rome now hath turned harlot and harlot-stew, Rome’s Caesar a beast, and God—hath turned Jew!”
2.
With those rhymes of Zarathustra the kings were delighted; the king on the right, however, said: “O Zarathustra, how well it was that we set out to
see thee!
For thine enemies showed us thy likeness in their mirror: there lookedst thou with the grimace of a devil, and sneeringly: so that we were afraid of thee.
But what good did it do! Always didst thou prick us anew in heart and ear with thy sayings. Then did we say at last: What doth it matter how he look!
We must HEAR him; him who teacheth: ‘Ye shall love peace as a means to new wars, and the short peace more than the long!’
No one ever spake such warlike words: ‘What is good? To be brave is good.
It is the good war that halloweth every cause.’
O Zarathustra, our fathers’ blood stirred in our veins at such words: it was like the voice of spring to old wine-casks.
When the swords ran among one another like red-spotted serpents, then did our fathers become fond of life; the sun of every peace seemed to them languid and lukewarm, the long peace, however, made them ashamed.
How they sighed, our fathers, when they saw on the wall brightly furbished, dried-up swords! Like those they thirsted for war. For a sword thirsteth to drink blood, and sparkleth with desire.”—
—When the kings thus discoursed and talked eagerly of the happiness of their fathers, there came upon Zarathustra no little desire to mock at their eagerness: for evidently they were very peaceable kings whom he saw before him, kings with old and refined features. But he restrained himself. “Well!” said he, “thither leadeth the way, there lieth the cave of Zarathustra; and this day is to have a long evening! At present, however, a cry of distress calleth me hastily away from you.
It will honour my cave if kings want to sit and wait in it: but, to be sure, ye will have to wait long!
Well! What of that! Where doth one at present learn better to wait than at courts? And the whole virtue of kings that hath remained unto them—is it not called to-day: ABILITY to wait?”
Thus spake Zarathustra.
LXIV. THE LEECH.
And Zarathustra went thoughtfully on, further and lower down, through forests and past moory bottoms; as it happeneth, however, to every one who meditateth upon hard matters, he trod thereby unawares upon a man. And lo, there spurted into his face all at once a cry of pain, and two curses and twenty bad invectives, so that in his fright he raised his stick and also struck the trodden one. Immediately afterwards, however, he regained his composure, and his heart laughed at the folly he had just committed.
“Pardon me,” said he to the trodden one, who had got up enraged, and had seated himself, “pardon me, and hear first of all a parable.
As a wanderer who dreameth of remote things on a lonesome highway, runneth unawares against a sleeping dog, a dog which lieth in the sun:
—As both of them then start up and snap at each other, like deadly enemies, those two beings mortally frightened—so did it happen unto us.
And yet! And yet—how little was lacking for them to caress each other, that dog and that lonesome one! Are they not both—lonesome ones!”
—“Whoever thou art,” said the trodden one, still enraged, “thou treadest also too nigh me with thy parable, and not only with thy foot!
Lo! am I then a dog?”—And thereupon the sitting one got up, and pulled his naked arm out of the swamp. For at first he had lain outstretched on the ground, hidden and indiscernible, like those who lie in wait for swamp-game.
“But whatever art thou about!” called out Zarathustra in alarm, for he saw a deal of blood streaming over the naked arm,—“what hath hurt thee?
Hath an evil beast bit thee, thou unfortunate one?”
The bleeding one laughed, still angry, “What matter is it to thee!” said he, and was about to go on. “Here am I at home and in my province. Let him question me whoever will: to a dolt, however, I shall hardly answer.”
“Thou art mistaken,” said Zarathustra sympathetically, and held him fast;
“thou art mistaken. Here thou art not at home, but in my domain, and therein shall no one receive any hurt.
Call me however what thou wilt—I am who I must be. I call myself Zarathustra.
Well! Up thither is the way to Zarathustra’s cave: it is not far,—wilt thou not attend to thy wounds at my home?
It hath gone badly with thee, thou unfortunate one, in this life: first a beast bit thee, and then—a man trod upon thee!”—
When however the trodden one had heard the name of Zarathustra he was transformed. “What happeneth unto me!” he exclaimed, “WHO preoccupieth me so much in this life as this one man, namely Zarathustra, and that one animal that liveth on blood, the leech?
For the sake of the leech did I lie here by this swamp, like a fisher, and already had mine outstretched arm been bitten ten times, when there biteth a still finer leech at my blood, Zarathustra himself!
O happiness! O miracle! Praised be this day which enticed me into the swamp! Praised be the best, the livest cupping-glass, that at present liveth; praised be the great conscience-leech Zarathustra!”—
Thus spake the trodden one, and Zarathustra rejoiced at his words and their refined reverential style. “Who art thou?” asked he, and gave him his hand, “there is much to clear up and elucidate between us, but already methinketh pure clear day is dawning.”
“I am THE SPIRITUALLY CONSCIENTIOUS ONE,” answered he who was asked, “and in matters of the spirit it is difficult for any one to take it more rigorously, more restrictedly, and more severely than I, except him from whom I learnt it, Zarathustra himself.
Better know nothing than half-know many things! Better be a fool on one’s own account, than a sage on other people’s approbation! I—go to the basis:
—What matter if it be great or small? If it be called swamp or sky?
A handbreadth of basis is enough for me, if it be actually basis and ground!
—A handbreadth of basis: thereon can one stand. In the true knowing-knowledge there is nothing great and nothing small.”
“Then thou art perhaps an expert on the leech?” asked Zarathustra; “and thou investigatest the leech to its ultimate basis, thou conscientious one?”
“O Zarathustra,” answered the trodden one, “that would be something immense; how could I presume to do so!
That, however, of which I am master and knower, is the BRAIN of the leech:—that is MY world!
And it is also a world! Forgive it, however, that my pride here findeth expression, for here I have not mine equal. Therefore said I: ‘here am I at home.’
How long have I investigated this one thing, the brain of the leech, so that here the slippery truth might no longer slip from me! Here is MY
domain!
—For the sake of this did I cast everything else aside, for the sake of this did everything else become indifferent to me; and close beside my knowledge lieth my black ignorance.
My spiritual conscience requireth from me that it should be so—that I should know one thing, and not know all else: they are a loathing unto me, all the semi-spiritual, all the hazy, hovering, and visionary.
Where mine honesty ceaseth, there am I blind, and want also to be blind.
Where I want to know, however, there want I also to be honest—namely, severe, rigorous, restricted, cruel and inexorable.
Because THOU once saidest, O Zarathustra: ‘Spirit is life which itself cutteth into life’;—that led and allured me to thy doctrine. And verily, with mine own blood have I increased mine own knowledge!”
—“As the evidence indicateth,” broke in Zarathustra; for still was the blood flowing down on the naked arm of the conscientious one. For there had ten leeches bitten into it.
“O thou strange fellow, how much doth this very evidence teach me—namely, thou thyself! And not all, perhaps, might I pour into thy rigorous ear!
Well then! We part here! But I would fain find thee again. Up thither is the way to my cave: to-night shalt thou there be my welcome guest!
Fain would I also make amends to thy body for Zarathustra treading upon
thee with his feet: I think about that. Just now, however, a cry of distress calleth me hastily away from thee.”
Thus spake Zarathustra.
LXV. THE MAGICIAN.
1.
When however Zarathustra had gone round a rock, then saw he on the same path, not far below him, a man who threw his limbs about like a maniac, and at last tumbled to the ground on his belly. “Halt!” said then Zarathustra to his heart, “he there must surely be the higher man, from him came that dreadful cry of distress,—I will see if I can help him.” When, however, he ran to the spot where the man lay on the ground, he found a trembling old man, with fixed eyes; and in spite of all Zarathustra’s efforts to lift him and set him again on his feet, it was all in vain. The unfortunate one, also, did not seem to notice that some one was beside him; on the contrary, he continually looked around with moving gestures, like one forsaken and isolated from all the world. At last, however, after much trembling, and convulsion, and curling-himself-up, he began to lament thus:
Who warm’th me, who lov’th me still?
Give ardent fingers!
Give heartening charcoal-warmers!
Prone, outstretched, trembling,
Like him, half dead and cold, whose feet one warm’th—
And shaken, ah! by unfamiliar fevers,
Shivering with sharpened, icy-cold frost-arrows,
By thee pursued, my fancy!
Ineffable! Recondite! Sore-frightening!
Thou huntsman ’hind the cloud-banks!
Now lightning-struck by thee,
Thou mocking eye that me in darkness watcheth:
—Thus do I lie,
Bend myself, twist myself, convulsed
With all eternal torture,
And smitten
By thee, cruellest huntsman,
Thou unfamiliar—GOD…
Smite deeper!
Smite yet once more!
Pierce through and rend my heart!
What mean’th this torture
With dull, indented arrows?
Why look’st thou hither,
Of human pain not weary,
With mischief-loving, godly flash-glances?
Not murder wilt thou,
But torture, torture?
For why—ME torture,
Thou mischief-loving, unfamiliar God?—
Ha! Ha!
Thou stealest nigh
In midnight’s gloomy hour?…
What wilt thou?
Speak!
Thou crowdst me, pressest—
Ha! now far too closely!
Thou hearst me breathing,
Thou o’erhearst my heart,
Thou ever jealous one!
—Of what, pray, ever jealous?
Off! Off!
For why the ladder?
Wouldst thou GET IN?
To heart in-clamber?
To mine own secretest
Conceptions in-clamber?
Shameless one! Thou unknown one!—Thief!
What seekst thou by thy stealing?
What seekst thou by thy hearkening?
What seekst thou by thy torturing?
Thou torturer!
Thou—hangman-God!
Or shall I, as the mastiffs do,
Roll me before thee?
And cringing, enraptured, frantical,
My tail friendly—waggle!
In vain!
Goad further!
Cruellest goader!
No dog—thy game just am I,
Cruellest huntsman!
Thy proudest of captives,
Thou robber ’hind the cloud-banks…
Speak finally!
Thou lightning-veiled one! Thou unknown one! Speak!
What wilt thou, highway-ambusher, from—ME?
What WILT thou, unfamiliar—God?
What?
Ransom-gold?
How much of ransom-gold?
Solicit much—that bid’th my pride!
And be concise—that bid’th mine other pride!
Ha! Ha!
ME—wantst thou? me?
—Entire?…
Ha! Ha!
And torturest me, fool that thou art,
Dead-torturest quite my pride?
Give LOVE to me—who warm’th me still?
Who lov’th me still?—
Give ardent fingers,
Give heartening charcoal-warmers,
Give me, the lonesomest,
The ice (ah! seven-fold frozen ice,
For very enemies,
For foes, doth make one thirst),
Give, yield to me,
Cruellest foe,
—THYSELF!—
Away!
There fled he surely,
My final, only comrade,
My greatest foe,
Mine unfamiliar—
My hangman-God!…
—Nay!
Come thou back!
WITH all of thy great tortures!
To me the last of lonesome ones,
Oh, come thou back!
All my hot tears in streamlets trickle
Their course to thee!
And all my final hearty fervour—
Up-glow’th to THEE!
Oh, come thou back,
Mine unfamiliar God! my PAIN!
My final bliss!
2.
—Here, however, Zarathustra could no longer restrain himself; he took his staff and struck the wailer with all his might. “Stop this,”
cried he to him with wrathful laughter, “stop this, thou stage-player!
Thou false coiner! Thou liar from the very heart! I know thee well!
I will soon make warm legs to thee, thou evil magician: I know well how—to make it hot for such as thou!”
—“Leave off,” said the old man, and sprang up from the ground,
“strike me no more, O Zarathustra! I did it only for amusement!
That kind of thing belongeth to mine art. Thee thyself, I wanted to put to the proof when I gave this performance. And verily, thou hast well detected me!
But thou thyself—hast given me no small proof of thyself: thou art HARD, thou wise Zarathustra! Hard strikest thou with thy ‘truths,’ thy cudgel forceth from me—THIS truth!”
—“Flatter not,” answered Zarathustra, still excited and frowning,
“thou stage-player from the heart! Thou art false: why speakest thou—of truth!
Thou peacock of peacocks, thou sea of vanity; WHAT didst thou represent before me, thou evil magician; WHOM was I meant to believe in when thou wailedst in such wise?”
“THE PENITENT IN SPIRIT,” said the old man, “it was him—I represented; thou thyself once devisedst this expression—
—The poet and magician who at last turneth his spirit against himself, the transformed one who freezeth to death by his bad science and conscience.
And just acknowledge it: it was long, O Zarathustra, before thou discoveredst my trick and lie! Thou BELIEVEDST in my distress when thou heldest my head with both thy hands,—
—I heard thee lament ‘we have loved him too little, loved him too little!’ Because I so far deceived thee, my wickedness rejoiced in me.”
“Thou mayest have deceived subtler ones than I,” said Zarathustra sternly.
“I am not on my guard against deceivers; I HAVE TO BE without precaution: so willeth my lot.
Thou, however,—MUST deceive: so far do I know thee! Thou must ever be equivocal, trivocal, quadrivocal, and quinquivocal! Even what thou hast now confessed, is not nearly true enough nor false enough for me!
Thou bad false coiner, how couldst thou do otherwise! Thy very malady wouldst thou whitewash if thou showed thyself naked to thy physician.
Thus didst thou whitewash thy lie before me when thou saidst: ‘I did so ONLY for amusement!’ There was also SERIOUSNESS therein, thou ART
something of a penitent-in-spirit!
I divine thee well: thou hast become the enchanter of all the world; but for thyself thou hast no lie or artifice left,—thou art disenchanted to thyself!
Thou hast reaped disgust as thy one truth. No word in thee is any longer genuine, but thy mouth is so: that is to say, the disgust that cleaveth unto thy mouth.”—
—“Who art thou at all!” cried here the old magician with defiant voice, “who dareth to speak thus unto ME, the greatest man now living?”—and a green flash shot from his eye at Zarathustra. But immediately after he changed, and said sadly:
“O Zarathustra, I am weary of it, I am disgusted with mine arts, I am not GREAT, why do I dissemble! But thou knowest it well—I sought for greatness!
A great man I wanted to appear, and persuaded many; but the lie hath been beyond my power. On it do I collapse.
O Zarathustra, everything is a lie in me; but that I collapse—this my collapsing is GENUINE!”—
“It honoureth thee,” said Zarathustra gloomily, looking down with sidelong glance, “it honoureth thee that thou soughtest for greatness, but it betrayeth thee also. Thou art not great.
Thou bad old magician, THAT is the best and the honestest thing I honour in thee, that thou hast become weary of thyself, and hast expressed it: ‘I am not great.’
THEREIN do I honour thee as a penitent-in-spirit, and although only for the twinkling of an eye, in that one moment wast thou—genuine.
But tell me, what seekest thou here in MY forests and rocks? And if thou hast put thyself in MY way, what proof of me wouldst thou have?—
—Wherein didst thou put ME to the test?”
Thus spake Zarathustra, and his eyes sparkled. But the old magician kept silence for a while; then said he: “Did I put thee to the test? I—seek only.
O Zarathustra, I seek a genuine one, a right one, a simple one, an unequivocal one, a man of perfect honesty, a vessel of wisdom, a saint of knowledge, a great man!
Knowest thou it not, O Zarathustra? I SEEK ZARATHUSTRA.”
—And here there arose a long silence between them: Zarathustra, however, became profoundly absorbed in thought, so that he shut his eyes.
But afterwards coming back to the situation, he grasped the hand of the magician, and said, full of politeness and policy:
“Well! Up thither leadeth the way, there is the cave of Zarathustra. In it mayest thou seek him whom thou wouldst fain find.
And ask counsel of mine animals, mine eagle and my serpent: they shall help thee to seek. My cave however is large.
I myself, to be sure—I have as yet seen no great man. That which is great, the acutest eye is at present insensible to it. It is the kingdom of the populace.
Many a one have I found who stretched and inflated himself, and the people cried: ‘Behold; a great man!’ But what good do all bellows do! The wind cometh out at last.
At last bursteth the frog which hath inflated itself too long: then cometh out the wind. To prick a swollen one in the belly, I call good pastime.
Hear that, ye boys!
Our to-day is of the populace: who still KNOWETH what is great and what is small! Who could there seek successfully for greatness! A fool only: it succeedeth with fools.
Thou seekest for great men, thou strange fool? Who TAUGHT that to thee? Is to-day the time for it? Oh, thou bad seeker, why dost thou—tempt me?”—
Thus spake Zarathustra, comforted in his heart, and went laughing on his way.
LXVI. OUT OF SERVICE.
Not long, however, after Zarathustra had freed himself from the magician, he again saw a person sitting beside the path which he followed, namely a tall, black man, with a haggard, pale countenance: THIS MAN grieved him exceedingly. “Alas,” said he to his heart, “there sitteth disguised affliction; methinketh he is of the type of the priests: what do THEY want in my domain?
What! Hardly have I escaped from that magician, and must another necromancer again run across my path,—
—Some sorcerer with laying-on-of-hands, some sombre wonder-worker by the grace of God, some anointed world-maligner, whom, may the devil take!
But the devil is never at the place which would be his right place: he always cometh too late, that cursed dwarf and club-foot!”—
Thus cursed Zarathustra impatiently in his heart, and considered how with averted look he might slip past the black man. But behold, it came about otherwise. For at the same moment had the sitting one already perceived him; and not unlike one whom an unexpected happiness overtaketh, he sprang to his feet, and went straight towards Zarathustra.
“Whoever thou art, thou traveller,” said he, “help a strayed one, a seeker, an old man, who may here easily come to grief!
The world here is strange to me, and remote; wild beasts also did I hear howling; and he who could have given me protection—he is himself no more.
I was seeking the pious man, a saint and an anchorite, who, alone in his forest, had not yet heard of what all the world knoweth at present.”
“WHAT doth all the world know at present?” asked Zarathustra. “Perhaps that the old God no longer liveth, in whom all the world once believed?”
“Thou sayest it,” answered the old man sorrowfully. “And I served that old God until his last hour.
Now, however, am I out of service, without master, and yet not free; likewise am I no longer merry even for an hour, except it be in recollections.
Therefore did I ascend into these mountains, that I might finally have a festival for myself once more, as becometh an old pope and church-father: for know it, that I am the last pope!—a festival of pious recollections and divine services.
Now, however, is he himself dead, the most pious of men, the saint in the forest, who praised his God constantly with singing and mumbling.
He himself found I no longer when I found his cot—but two wolves found I therein, which howled on account of his death,—for all animals loved him. Then did I haste away.
Had I thus come in vain into these forests and mountains? Then did my heart determine that I should seek another, the most pious of all those who believe not in God—, my heart determined that I should seek Zarathustra!”
Thus spake the hoary man, and gazed with keen eyes at him who stood before him. Zarathustra however seized the hand of the old pope and regarded it a long while with admiration.
“Lo! thou venerable one,” said he then, “what a fine and long hand! That is the hand of one who hath ever dispensed blessings. Now, however, doth it hold fast him whom thou seekest, me, Zarathustra.
It is I, the ungodly Zarathustra, who saith: ‘Who is ungodlier than I, that I may enjoy his teaching?’”—
Thus spake Zarathustra, and penetrated with his glances the thoughts and arrear-thoughts of the old pope. At last the latter began:
“He who most loved and possessed him hath now also lost him most—:
—Lo, I myself am surely the most godless of us at present? But who could rejoice at that!”—
—“Thou servedst him to the last?” asked Zarathustra thoughtfully, after a deep silence, “thou knowest HOW he died? Is it true what they say, that sympathy choked him;
—That he saw how MAN hung on the cross, and could not endure it;—that his love to man became his hell, and at last his death?”—
The old pope however did not answer, but looked aside timidly, with a painful and gloomy expression.
“Let him go,” said Zarathustra, after prolonged meditation, still looking the old man straight in the eye.
“Let him go, he is gone. And though it honoureth thee that thou speakest only in praise of this dead one, yet thou knowest as well as I WHO he was, and that he went curious ways.”
“To speak before three eyes,” said the old pope cheerfully (he was blind of one eye), “in divine matters I am more enlightened than Zarathustra himself—and may well be so.
My love served him long years, my will followed all his will. A good servant, however, knoweth everything, and many a thing even which a master hideth from himself.
He was a hidden God, full of secrecy. Verily, he did not come by his son otherwise than by secret ways. At the door of his faith standeth adultery.
Whoever extolleth him as a God of love, doth not think highly enough of love itself. Did not that God want also to be judge? But the loving one loveth irrespective of reward and requital.
When he was young, that God out of the Orient, then was he harsh and revengeful, and built himself a hell for the delight of his favourites.
At last, however, he became old and soft and mellow and pitiful, more like a grandfather than a father, but most like a tottering old grandmother.
There did he sit shrivelled in his chimney-corner, fretting on account of his weak legs, world-weary, will-weary, and one day he suffocated of his all-too-great pity.”—
“Thou old pope,” said here Zarathustra interposing, “hast thou seen THAT
with thine eyes? It could well have happened in that way: in that way, AND
also otherwise. When Gods die they always die many kinds of death.
Well! At all events, one way or other—he is gone! He was counter to the taste of mine ears and eyes; worse than that I should not like to say against him.
I love everything that looketh bright and speaketh honestly. But he—thou knowest it, forsooth, thou old priest, there was something of thy type in him, the priest-type—he was equivocal.
He was also indistinct. How he raged at us, this wrath-snorter, because we understood him badly! But why did he not speak more clearly?
And if the fault lay in our ears, why did he give us ears that heard him badly? If there was dirt in our ears, well! who put it in them?
Too much miscarried with him, this potter who had not learned thoroughly!
That he took revenge on his pots and creations, however, because they turned out badly—that was a sin against GOOD TASTE.
There is also good taste in piety: THIS at last said: ‘Away with SUCH a God! Better to have no God, better to set up destiny on one’s own account, better to be a fool, better to be God oneself!’”
—“What do I hear!” said then the old pope, with intent ears; “O
Zarathustra, thou art more pious than thou believest, with such an unbelief! Some God in thee hath converted thee to thine ungodliness.
Is it not thy piety itself which no longer letteth thee believe in a God?
And thine over-great honesty will yet lead thee even beyond good and evil!
Behold, what hath been reserved for thee? Thou hast eyes and hands and mouth, which have been predestined for blessing from eternity. One doth not bless with the hand alone.
Nigh unto thee, though thou professest to be the ungodliest one, I feel a hale and holy odour of long benedictions: I feel glad and grieved thereby.
Let me be thy guest, O Zarathustra, for a single night! Nowhere on earth shall I now feel better than with thee!”—
“Amen! So shall it be!” said Zarathustra, with great astonishment; “up thither leadeth the way, there lieth the cave of Zarathustra.
Gladly, forsooth, would I conduct thee thither myself, thou venerable one; for I love all pious men. But now a cry of distress calleth me hastily away from thee.
In my domain shall no one come to grief; my cave is a good haven. And best of all would I like to put every sorrowful one again on firm land and firm legs.
Who, however, could take THY melancholy off thy shoulders? For that I am too weak. Long, verily, should we have to wait until some one re-awoke thy God for thee.
For that old God liveth no more: he is indeed dead.”—
Thus spake Zarathustra.
LXVII. THE UGLIEST MAN.
—And again did Zarathustra’s feet run through mountains and forests, and his eyes sought and sought, but nowhere was he to be seen whom they wanted to see—the sorely distressed sufferer and crier. On the whole way, however, he rejoiced in his heart and was full of gratitude. “What good things,” said he, “hath this day given me, as amends for its bad beginning! What strange interlocutors have I found!
At their words will I now chew a long while as at good corn; small shall my teeth grind and crush them, until they flow like milk into my soul!”—
When, however, the path again curved round a rock, all at once the landscape changed, and Zarathustra entered into a realm of death. Here bristled aloft black and red cliffs, without any grass, tree, or bird’s voice. For it was a valley which all animals avoided, even the beasts of prey, except that a species of ugly, thick, green serpent came here to die when they became old. Therefore the shepherds called this valley:
“Serpent-death.”
Zarathustra, however, became absorbed in dark recollections, for it seemed to him as if he had once before stood in this valley. And much heaviness settled on his mind, so that he walked slowly and always more slowly, and at last stood still. Then, however, when he opened his eyes, he saw something sitting by the wayside shaped like a man, and hardly like a man, something nondescript. And all at once there came over Zarathustra a great shame, because he had gazed on such a thing. Blushing up to the very roots of his white hair, he turned aside his glance, and raised his foot that he might leave this ill-starred place. Then, however, became the dead wilderness vocal: for from the ground a noise welled up, gurgling and rattling, as water gurgleth and rattleth at night through stopped-up water-pipes; and at last it turned into human voice and human speech:—it sounded thus:
“Zarathustra! Zarathustra! Read my riddle! Say, say! WHAT IS THE REVENGE
ON THE WITNESS?
I entice thee back; here is smooth ice! See to it, see to it, that thy pride doth not here break its legs!
Thou thinkest thyself wise, thou proud Zarathustra! Read then the riddle, thou hard nut-cracker,—the riddle that I am! Say then: who am I!”
—When however Zarathustra had heard these words,—what think ye then took place in his soul? PITY OVERCAME HIM; and he sank down all at once, like an oak that hath long withstood many tree-fellers,—heavily, suddenly, to the terror even of those who meant to fell it. But immediately he got up again from the ground, and his countenance became stern.
“I know thee well,” said he, with a brazen voice, “THOU ART THE MURDERER
OF GOD! Let me go.
Thou couldst not ENDURE him who beheld THEE,—who ever beheld thee through and through, thou ugliest man. Thou tookest revenge on this witness!”
Thus spake Zarathustra and was about to go; but the nondescript grasped at a corner of his garment and began anew to gurgle and seek for words.
“Stay,” said he at last—
—“Stay! Do not pass by! I have divined what axe it was that struck thee to the ground: hail to thee, O Zarathustra, that thou art again upon thy feet!
Thou hast divined, I know it well, how the man feeleth who killed him,—the murderer of God. Stay! Sit down here beside me; it is not to no purpose.
To whom would I go but unto thee? Stay, sit down! Do not however look at me! Honour thus—mine ugliness!
They persecute me: now art THOU my last refuge. NOT with their hatred, NOT
with their bailiffs;—Oh, such persecution would I mock at, and be proud and cheerful!
Hath not all success hitherto been with the well-persecuted ones? And he who persecuteth well learneth readily to be OBSEQUENT—when once he is—put behind! But it is their PITY—
—Their pity is it from which I flee away and flee to thee. O
Zarathustra, protect me, thou, my last refuge, thou sole one who divinedst me:
—Thou hast divined how the man feeleth who killed HIM. Stay! And if thou wilt go, thou impatient one, go not the way that I came. THAT way is bad.
Art thou angry with me because I have already racked language too long?
Because I have already counselled thee? But know that it is I, the ugliest man,
—Who have also the largest, heaviest feet. Where I have gone, the way is bad. I tread all paths to death and destruction.
But that thou passedst me by in silence, that thou blushedst—I saw it well: thereby did I know thee as Zarathustra.
Every one else would have thrown to me his alms, his pity, in look and speech. But for that—I am not beggar enough: that didst thou divine.
For that I am too RICH, rich in what is great, frightful, ugliest, most unutterable! Thy shame, O Zarathustra, HONOURED me!
With difficulty did I get out of the crowd of the pitiful,—that I might find the only one who at present teacheth that ‘pity is obtrusive’—
thyself, O Zarathustra!
—Whether it be the pity of a God, or whether it be human pity, it is offensive to modesty. And unwillingness to help may be nobler than the virtue that rusheth to do so.
THAT however—namely, pity—is called virtue itself at present by all petty people:—they have no reverence for great misfortune, great ugliness, great failure.
Beyond all these do I look, as a dog looketh over the backs of thronging flocks of sheep. They are petty, good-wooled, good-willed, grey people.
As the heron looketh contemptuously at shallow pools, with backward-bent head, so do I look at the throng of grey little waves and wills and souls.
Too long have we acknowledged them to be right, those petty people: SO we have at last given them power as well;—and now do they teach that
‘good is only what petty people call good.’
And ‘truth’ is at present what the preacher spake who himself sprang from them, that singular saint and advocate of the petty people, who testified of himself: ‘I—am the truth.’
That immodest one hath long made the petty people greatly puffed up,—he who taught no small error when he taught: ‘I—am the truth.’
Hath an immodest one ever been answered more courteously?—Thou, however, O Zarathustra, passedst him by, and saidst: ‘Nay! Nay! Three times Nay!’
Thou warnedst against his error; thou warnedst—the first to do so—against pity:—not every one, not none, but thyself and thy type.
Thou art ashamed of the shame of the great sufferer; and verily when thou sayest: ‘From pity there cometh a heavy cloud; take heed, ye men!’
—When thou teachest: ‘All creators are hard, all great love is beyond their pity:’ O Zarathustra, how well versed dost thou seem to me in weather-signs!
Thou thyself, however,—warn thyself also against THY pity! For many are on their way to thee, many suffering, doubting, despairing, drowning, freezing ones—
I warn thee also against myself. Thou hast read my best, my worst riddle, myself, and what I have done. I know the axe that felleth thee.
But he—HAD TO die: he looked with eyes which beheld EVERYTHING,—he beheld men’s depths and dregs, all his hidden ignominy and ugliness.
His pity knew no modesty: he crept into my dirtiest corners. This most prying, over-intrusive, over-pitiful one had to die.
He ever beheld ME: on such a witness I would have revenge—or not live myself.
The God who beheld everything, AND ALSO MAN: that God had to die! Man cannot ENDURE it that such a witness should live.”
Thus spake the ugliest man. Zarathustra however got up, and prepared to go on: for he felt frozen to the very bowels.
“Thou nondescript,” said he, “thou warnedst me against thy path. As thanks for it I praise mine to thee. Behold, up thither is the cave of Zarathustra.
My cave is large and deep and hath many corners; there findeth he that is most hidden his hiding-place. And close beside it, there are a hundred lurking-places and by-places for creeping, fluttering, and hopping creatures.
Thou outcast, who hast cast thyself out, thou wilt not live amongst men and men’s pity? Well then, do like me! Thus wilt thou learn also from me; only the doer learneth.
And talk first and foremost to mine animals! The proudest animal and the wisest animal—they might well be the right counsellors for us both!”—
Thus spake Zarathustra and went his way, more thoughtfully and slowly even than before: for he asked himself many things, and hardly knew what to answer.
“How poor indeed is man,” thought he in his heart, “how ugly, how wheezy, how full of hidden shame!
They tell me that man loveth himself. Ah, how great must that self-love be! How much contempt is opposed to it!
Even this man hath loved himself, as he hath despised himself,—a great lover methinketh he is, and a great despiser.
No one have I yet found who more thoroughly despised himself: even THAT is elevation. Alas, was THIS perhaps the higher man whose cry I heard?
I love the great despisers. Man is something that hath to be surpassed.”—
LXVIII. THE VOLUNTARY BEGGAR.
When Zarathustra had left the ugliest man, he was chilled and felt lonesome: for much coldness and lonesomeness came over his spirit, so that even his limbs became colder thereby. When, however, he wandered on and on, uphill and down, at times past green meadows, though also sometimes over wild stony couches where formerly perhaps an impatient brook had made its bed, then he turned all at once warmer and heartier again.
“What hath happened unto me?” he asked himself, “something warm and living quickeneth me; it must be in the neighbourhood.
Already am I less alone; unconscious companions and brethren rove around me; their warm breath toucheth my soul.”
When, however, he spied about and sought for the comforters of his lonesomeness, behold, there were kine there standing together on an eminence, whose proximity and smell had warmed his heart. The kine, however, seemed to listen eagerly to a speaker, and took no heed of him who approached. When, however, Zarathustra was quite nigh unto them, then did he hear plainly that a human voice spake in the midst of the kine, and apparently all of them had turned their heads towards the speaker.
Then ran Zarathustra up speedily and drove the animals aside; for he feared that some one had here met with harm, which the pity of the kine would hardly be able to relieve. But in this he was deceived; for behold, there sat a man on the ground who seemed to be persuading the animals to have no fear of him, a peaceable man and Preacher-on-the-Mount, out of whose eyes kindness itself preached. “What dost thou seek here?” called out Zarathustra in astonishment.
“What do I here seek?” answered he: “the same that thou seekest, thou mischief-maker; that is to say, happiness upon earth.
To that end, however, I would fain learn of these kine. For I tell thee that I have already talked half a morning unto them, and just now were they about to give me their answer. Why dost thou disturb them?
Except we be converted and become as kine, we shall in no wise enter into the kingdom of heaven. For we ought to learn from them one thing: ruminating.
And verily, although a man should gain the whole world, and yet not learn one thing, ruminating, what would it profit him! He would not be rid of his affliction,
—His great affliction: that, however, is at present called DISGUST.
Who hath not at present his heart, his mouth and his eyes full of disgust?
Thou also! Thou also! But behold these kine!”—
Thus spake the Preacher-on-the-Mount, and turned then his own look towards Zarathustra—for hitherto it had rested lovingly on the kine—: then, however, he put on a different expression. “Who is this with whom I talk?” he exclaimed frightened, and sprang up from the ground.
“This is the man without disgust, this is Zarathustra himself, the surmounter of the great disgust, this is the eye, this is the mouth, this is the heart of Zarathustra himself.”
And whilst he thus spake he kissed with o’erflowing eyes the hands of him with whom he spake, and behaved altogether like one to whom a precious gift and jewel hath fallen unawares from heaven. The kine, however, gazed at it all and wondered.
“Speak not of me, thou strange one; thou amiable one!” said Zarathustra, and restrained his affection, “speak to me firstly of thyself! Art thou not the voluntary beggar who once cast away great riches,—
—Who was ashamed of his riches and of the rich, and fled to the poorest to bestow upon them his abundance and his heart? But they received him not.”
“But they received me not,” said the voluntary beggar, “thou knowest it, forsooth. So I went at last to the animals and to those kine.”
“Then learnedst thou,” interrupted Zarathustra, “how much harder it is to give properly than to take properly, and that bestowing well is an ART—the last, subtlest master-art of kindness.”
“Especially nowadays,” answered the voluntary beggar: “at present, that is to say, when everything low hath become rebellious and exclusive and haughty in its manner—in the manner of the populace.
For the hour hath come, thou knowest it forsooth, for the great, evil, long, slow mob-and-slave-insurrection: it extendeth and extendeth!
Now doth it provoke the lower classes, all benevolence and petty giving; and the overrich may be on their guard!
Whoever at present drip, like bulgy bottles out of all-too-small necks:—of such bottles at present one willingly breaketh the necks.
Wanton avidity, bilious envy, careworn revenge, populace-pride: all these struck mine eye. It is no longer true that the poor are blessed. The kingdom of heaven, however, is with the kine.”
“And why is it not with the rich?” asked Zarathustra temptingly, while he kept back the kine which sniffed familiarly at the peaceful one.
“Why dost thou tempt me?” answered the other. “Thou knowest it thyself
better even than I. What was it drove me to the poorest, O Zarathustra?
Was it not my disgust at the richest?
—At the culprits of riches, with cold eyes and rank thoughts, who pick up profit out of all kinds of rubbish—at this rabble that stinketh to heaven,
—At this gilded, falsified populace, whose fathers were pickpockets, or carrion-crows, or rag-pickers, with wives compliant, lewd and forgetful:—for they are all of them not far different from harlots—
Populace above, populace below! What are ‘poor’ and ‘rich’ at present!
That distinction did I unlearn,—then did I flee away further and ever further, until I came to those kine.”
Thus spake the peaceful one, and puffed himself and perspired with his words: so that the kine wondered anew. Zarathustra, however, kept looking into his face with a smile, all the time the man talked so severely—and shook silently his head.
“Thou doest violence to thyself, thou Preacher-on-the-Mount, when thou usest such severe words. For such severity neither thy mouth nor thine eye have been given thee.
Nor, methinketh, hath thy stomach either: unto IT all such rage and hatred and foaming-over is repugnant. Thy stomach wanteth softer things: thou art not a butcher.
Rather seemest thou to me a plant-eater and a root-man. Perhaps thou grindest corn. Certainly, however, thou art averse to fleshly joys, and thou lovest honey.”
“Thou hast divined me well,” answered the voluntary beggar, with lightened heart. “I love honey, I also grind corn; for I have sought out what tasteth sweetly and maketh pure breath:
—Also what requireth a long time, a day’s-work and a mouth’s-work for gentle idlers and sluggards.
Furthest, to be sure, have those kine carried it: they have devised ruminating and lying in the sun. They also abstain from all heavy thoughts which inflate the heart.”
—“Well!” said Zarathustra, “thou shouldst also see MINE animals, mine eagle and my serpent,—their like do not at present exist on earth.
Behold, thither leadeth the way to my cave: be to-night its guest. And talk to mine animals of the happiness of animals,—
—Until I myself come home. For now a cry of distress calleth me hastily away from thee. Also, shouldst thou find new honey with me, ice-cold, golden-comb-honey, eat it!
Now, however, take leave at once of thy kine, thou strange one! thou amiable one! though it be hard for thee. For they are thy warmest friends and preceptors!”—
—“One excepted, whom I hold still dearer,” answered the voluntary beggar. “Thou thyself art good, O Zarathustra, and better even than a cow!”
“Away, away with thee! thou evil flatterer!” cried Zarathustra mischievously, “why dost thou spoil me with such praise and flattery-honey?
“Away, away from me!” cried he once more, and heaved his stick at the fond beggar, who, however, ran nimbly away.
LXIX. THE SHADOW.
Scarcely however was the voluntary beggar gone in haste, and Zarathustra again alone, when he heard behind him a new voice which called out: “Stay!
Zarathustra! Do wait! It is myself, forsooth, O Zarathustra, myself, thy shadow!” But Zarathustra did not wait; for a sudden irritation came over him on account of the crowd and the crowding in his mountains. “Whither hath my lonesomeness gone?” spake he.
“It is verily becoming too much for me; these mountains swarm; my kingdom is no longer of THIS world; I require new mountains.
My shadow calleth me? What matter about my shadow! Let it run after me! I—run away from it.”
Thus spake Zarathustra to his heart and ran away. But the one behind followed after him, so that immediately there were three runners, one after the other—namely, foremost the voluntary beggar, then
Zarathustra, and thirdly, and hindmost, his shadow. But not long had they run thus when Zarathustra became conscious of his folly, and shook off with one jerk all his irritation and detestation.
“What!” said he, “have not the most ludicrous things always happened to us old anchorites and saints?
Verily, my folly hath grown big in the mountains! Now do I hear six old fools’ legs rattling behind one another!
But doth Zarathustra need to be frightened by his shadow? Also, methinketh that after all it hath longer legs than mine.”
Thus spake Zarathustra, and, laughing with eyes and entrails, he stood still and turned round quickly—and behold, he almost thereby threw his shadow and follower to the ground, so closely had the latter followed at his heels, and so weak was he. For when Zarathustra scrutinised him with his glance he was frightened as by a sudden apparition, so slender, swarthy, hollow and worn-out did this follower appear.
“Who art thou?” asked Zarathustra vehemently, “what doest thou here? And why callest thou thyself my shadow? Thou art not pleasing unto me.”
“Forgive me,” answered the shadow, “that it is I; and if I please thee not—well, O Zarathustra! therein do I admire thee and thy good taste.
A wanderer am I, who have walked long at thy heels; always on the way, but without a goal, also without a home: so that verily, I lack little of being the eternally Wandering Jew, except that I am not eternal and not a Jew.
What? Must I ever be on the way? Whirled by every wind, unsettled, driven about? O earth, thou hast become too round for me!
On every surface have I already sat, like tired dust have I fallen asleep on mirrors and window-panes: everything taketh from me, nothing giveth; I become thin—I am almost equal to a shadow.
After thee, however, O Zarathustra, did I fly and hie longest; and though I hid myself from thee, I was nevertheless thy best shadow: wherever thou hast sat, there sat I also.
With thee have I wandered about in the remotest, coldest worlds, like a phantom that voluntarily haunteth winter roofs and snows.
With thee have I pushed into all the forbidden, all the worst and the furthest: and if there be anything of virtue in me, it is that I have had no fear of any prohibition.
With thee have I broken up whatever my heart revered; all boundary-stones and statues have I o’erthrown; the most dangerous wishes did I pursue,—verily, beyond every crime did I once go.
With thee did I unlearn the belief in words and worths and in great names.
When the devil casteth his skin, doth not his name also fall away? It is also skin. The devil himself is perhaps—skin.
‘Nothing is true, all is permitted’: so said I to myself. Into the coldest water did I plunge with head and heart. Ah, how oft did I stand there naked on that account, like a red crab!
Ah, where have gone all my goodness and all my shame and all my belief in the good! Ah, where is the lying innocence which I once possessed, the innocence of the good and of their noble lies!
Too oft, verily, did I follow close to the heels of truth: then did it kick me on the face. Sometimes I meant to lie, and behold! then only did I hit—the truth.
Too much hath become clear unto me: now it doth not concern me any more.
Nothing liveth any longer that I love,—how should I still love myself?
‘To live as I incline, or not to live at all’: so do I wish; so wisheth also the holiest. But alas! how have I still—inclination?
Have I—still a goal? A haven towards which MY sail is set?
A good wind? Ah, he only who knoweth WHITHER he saileth, knoweth what wind is good, and a fair wind for him.
What still remaineth to me? A heart weary and flippant; an unstable will; fluttering wings; a broken backbone.
This seeking for MY home: O Zarathustra, dost thou know that this seeking hath been MY home-sickening; it eateth me up.
‘WHERE is—MY home?’ For it do I ask and seek, and have sought, but have not found it. O eternal everywhere, O eternal nowhere, O eternal—in-vain!”
Thus spake the shadow, and Zarathustra’s countenance lengthened at his words. “Thou art my shadow!” said he at last sadly.
“Thy danger is not small, thou free spirit and wanderer! Thou hast had a bad day: see that a still worse evening doth not overtake thee!
To such unsettled ones as thou, seemeth at last even a prisoner blessed.
Didst thou ever see how captured criminals sleep? They sleep quietly, they enjoy their new security.
Beware lest in the end a narrow faith capture thee, a hard, rigorous delusion! For now everything that is narrow and fixed seduceth and tempteth thee.
Thou hast lost thy goal. Alas, how wilt thou forego and forget that loss?
Thereby—hast thou also lost thy way!
Thou poor rover and rambler, thou tired butterfly! wilt thou have a rest and a home this evening? Then go up to my cave!
Thither leadeth the way to my cave. And now will I run quickly away from thee again. Already lieth as it were a shadow upon me.
I will run alone, so that it may again become bright around me. Therefore must I still be a long time merrily upon my legs. In the evening, however, there will be—dancing with me!”—
Thus spake Zarathustra.
LXX. NOONTIDE.
—And Zarathustra ran and ran, but he found no one else, and was alone and ever found himself again; he enjoyed and quaffed his solitude, and thought of good things—for hours. About the hour of noontide, however, when the sun stood exactly over Zarathustra’s head, he passed an old, bent and gnarled tree, which was encircled round by the ardent love of a vine, and hidden from itself; from this there hung yellow grapes in abundance, confronting the wanderer. Then he felt inclined to quench a little thirst, and to break off for himself a cluster of grapes. When, however, he had already his arm out-stretched for that purpose, he felt still more inclined for something else—namely, to lie down beside the tree at the hour of perfect noontide and sleep.
This Zarathustra did; and no sooner had he laid himself on the ground in the stillness and secrecy of the variegated grass, than he had forgotten his little thirst, and fell asleep. For as the proverb of Zarathustra saith: “One thing is more necessary than the other.” Only that his eyes remained open:—for they never grew weary of viewing and admiring the tree and the love of the vine. In falling asleep, however, Zarathustra spake thus to his heart:
“Hush! Hush! Hath not the world now become perfect? What hath happened unto me?
As a delicate wind danceth invisibly upon parqueted seas, light, feather-light, so—danceth sleep upon me.
No eye doth it close to me, it leaveth my soul awake. Light is it, verily, feather-light.
It persuadeth me, I know not how, it toucheth me inwardly with a caressing hand, it constraineth me. Yea, it constraineth me, so that my soul stretcheth itself out:—
—How long and weary it becometh, my strange soul! Hath a seventh-day evening come to it precisely at noontide? Hath it already wandered too long, blissfully, among good and ripe things?
It stretcheth itself out, long—longer! it lieth still, my strange soul. Too many good things hath it already tasted; this golden sadness oppresseth it, it distorteth its mouth.
—As a ship that putteth into the calmest cove:—it now draweth up to the land, weary of long voyages and uncertain seas. Is not the land more faithful?
As such a ship huggeth the shore, tuggeth the shore:—then it sufficeth for a spider to spin its thread from the ship to the land. No stronger ropes are required there.
As such a weary ship in the calmest cove, so do I also now repose, nigh to the earth, faithful, trusting, waiting, bound to it with the lightest threads.
O happiness! O happiness! Wilt thou perhaps sing, O my soul? Thou liest in the grass. But this is the secret, solemn hour, when no shepherd playeth
his pipe.
Take care! Hot noontide sleepeth on the fields. Do not sing! Hush! The world is perfect.
Do not sing, thou prairie-bird, my soul! Do not even whisper! Lo—hush!
The old noontide sleepeth, it moveth its mouth: doth it not just now drink a drop of happiness—
—An old brown drop of golden happiness, golden wine? Something whisketh over it, its happiness laugheth. Thus—laugheth a God. Hush!—
—‘For happiness, how little sufficeth for happiness!’ Thus spake I once and thought myself wise. But it was a blasphemy: THAT have I now learned. Wise fools speak better.
The least thing precisely, the gentlest thing, the lightest thing, a lizard’s rustling, a breath, a whisk, an eye-glance—LITTLE maketh up the BEST happiness. Hush!
—What hath befallen me: Hark! Hath time flown away? Do I not fall?
Have I not fallen—hark! into the well of eternity?
—What happeneth to me? Hush! It stingeth me—alas—to the heart? To the heart! Oh, break up, break up, my heart, after such happiness, after such a sting!
—What? Hath not the world just now become perfect? Round and ripe?
Oh, for the golden round ring—whither doth it fly? Let me run after it! Quick!
Hush—” (and here Zarathustra stretched himself, and felt that he was asleep.)
“Up!” said he to himself, “thou sleeper! Thou noontide sleeper! Well then, up, ye old legs! It is time and more than time; many a good stretch of road is still awaiting you—
Now have ye slept your fill; for how long a time? A half-eternity! Well then, up now, mine old heart! For how long after such a sleep mayest thou—remain awake?”
(But then did he fall asleep anew, and his soul spake against him and defended itself, and lay down again)—“Leave me alone! Hush! Hath not the world just now become perfect? Oh, for the golden round ball!—
“Get up,” said Zarathustra, “thou little thief, thou sluggard! What! Still stretching thyself, yawning, sighing, falling into deep wells?
Who art thou then, O my soul!” (and here he became frightened, for a sunbeam shot down from heaven upon his face.)
“O heaven above me,” said he sighing, and sat upright, “thou gazest at me?
Thou hearkenest unto my strange soul?
When wilt thou drink this drop of dew that fell down upon all earthly things,—when wilt thou drink this strange soul—
—When, thou well of eternity! thou joyous, awful, noontide abyss!
when wilt thou drink my soul back into thee?”
Thus spake Zarathustra, and rose from his couch beside the tree, as if awakening from a strange drunkenness: and behold! there stood the sun still exactly above his head. One might, however, rightly infer therefrom that Zarathustra had not then slept long.
LXXI. THE GREETING.
It was late in the afternoon only when Zarathustra, after long useless searching and strolling about, again came home to his cave. When, however, he stood over against it, not more than twenty paces therefrom, the thing happened which he now least of all expected: he heard anew the great CRY
OF DISTRESS. And extraordinary! this time the cry came out of his own cave. It was a long, manifold, peculiar cry, and Zarathustra plainly distinguished that it was composed of many voices: although heard at a distance it might sound like the cry out of a single mouth.
Thereupon Zarathustra rushed forward to his cave, and behold! what a spectacle awaited him after that concert! For there did they all sit together whom he had passed during the day: the king on the right and the king on the left, the old magician, the pope, the voluntary beggar, the shadow, the intellectually conscientious one, the sorrowful soothsayer, and the ass; the ugliest man, however, had set a crown on his head, and had put round him two purple girdles,—for he liked, like all ugly ones, to disguise himself and play the handsome person. In the midst, however, of that sorrowful company stood Zarathustra’s eagle, ruffled and
disquieted, for it had been called upon to answer too much for which its pride had not any answer; the wise serpent however hung round its neck.
All this did Zarathustra behold with great astonishment; then however he scrutinised each individual guest with courteous curiosity, read their souls and wondered anew. In the meantime the assembled ones had risen from their seats, and waited with reverence for Zarathustra to speak.
Zarathustra however spake thus:
“Ye despairing ones! Ye strange ones! So it was YOUR cry of distress that I heard? And now do I know also where he is to be sought, whom I have sought for in vain to-day: THE HIGHER MAN—:
—In mine own cave sitteth he, the higher man! But why do I wonder!
Have not I myself allured him to me by honey-offerings and artful lure-calls of my happiness?
But it seemeth to me that ye are badly adapted for company: ye make one another’s hearts fretful, ye that cry for help, when ye sit here together?
There is one that must first come,
—One who will make you laugh once more, a good jovial buffoon, a dancer, a wind, a wild romp, some old fool:—what think ye?
Forgive me, however, ye despairing ones, for speaking such trivial words before you, unworthy, verily, of such guests! But ye do not divine WHAT
maketh my heart wanton:—
—Ye yourselves do it, and your aspect, forgive it me! For every one becometh courageous who beholdeth a despairing one. To encourage a despairing one—every one thinketh himself strong enough to do so.
To myself have ye given this power,—a good gift, mine honourable guests! An excellent guest’s-present! Well, do not then upbraid when I also offer you something of mine.
This is mine empire and my dominion: that which is mine, however, shall this evening and tonight be yours. Mine animals shall serve you: let my cave be your resting-place!
At house and home with me shall no one despair: in my purlieus do I protect every one from his wild beasts. And that is the first thing which I offer you: security!
The second thing, however, is my little finger. And when ye have THAT, then take the whole hand also, yea, and the heart with it! Welcome here, welcome to you, my guests!”
Thus spake Zarathustra, and laughed with love and mischief. After this greeting his guests bowed once more and were reverentially silent; the king on the right, however, answered him in their name.
“O Zarathustra, by the way in which thou hast given us thy hand and thy greeting, we recognise thee as Zarathustra. Thou hast humbled thyself before us; almost hast thou hurt our reverence—:
—Who however could have humbled himself as thou hast done, with such pride? THAT uplifteth us ourselves; a refreshment is it, to our eyes and hearts.
To behold this, merely, gladly would we ascend higher mountains than this.
For as eager beholders have we come; we wanted to see what brighteneth dim eyes.
And lo! now is it all over with our cries of distress. Now are our minds and hearts open and enraptured. Little is lacking for our spirits to become wanton.
There is nothing, O Zarathustra, that groweth more pleasingly on earth than a lofty, strong will: it is the finest growth. An entire landscape refresheth itself at one such tree.
To the pine do I compare him, O Zarathustra, which groweth up like thee—tall, silent, hardy, solitary, of the best, supplest wood, stately,—
—In the end, however, grasping out for ITS dominion with strong, green branches, asking weighty questions of the wind, the storm, and whatever is at home on high places;
—Answering more weightily, a commander, a victor! Oh! who should not ascend high mountains to behold such growths?
At thy tree, O Zarathustra, the gloomy and ill-constituted also refresh themselves; at thy look even the wavering become steady and heal their hearts.
And verily, towards thy mountain and thy tree do many eyes turn to-day; a
great longing hath arisen, and many have learned to ask: ‘Who is Zarathustra?’
And those into whose ears thou hast at any time dripped thy song and thy honey: all the hidden ones, the lone-dwellers and the twain-dwellers, have simultaneously said to their hearts:
‘Doth Zarathustra still live? It is no longer worth while to live, everything is indifferent, everything is useless: or else—we must live with Zarathustra!’
‘Why doth he not come who hath so long announced himself?’ thus do many people ask; ‘hath solitude swallowed him up? Or should we perhaps go to him?’
Now doth it come to pass that solitude itself becometh fragile and breaketh open, like a grave that breaketh open and can no longer hold its dead. Everywhere one seeth resurrected ones.
Now do the waves rise and rise around thy mountain, O Zarathustra. And however high be thy height, many of them must rise up to thee: thy boat shall not rest much longer on dry ground.
And that we despairing ones have now come into thy cave, and already no longer despair:—it is but a prognostic and a presage that better ones are on the way to thee,—
—For they themselves are on the way to thee, the last remnant of God among men—that is to say, all the men of great longing, of great loathing, of great satiety,
—All who do not want to live unless they learn again to HOPE—unless they learn from thee, O Zarathustra, the GREAT hope!”
Thus spake the king on the right, and seized the hand of Zarathustra in order to kiss it; but Zarathustra checked his veneration, and stepped back frightened, fleeing as it were, silently and suddenly into the far distance. After a little while, however, he was again at home with his guests, looked at them with clear scrutinising eyes, and said:
“My guests, ye higher men, I will speak plain language and plainly with you. It is not for YOU that I have waited here in these mountains.”
(“‘Plain language and plainly?’ Good God!” said here the king on the left to himself; “one seeth he doth not know the good Occidentals, this sage out of the Orient!
But he meaneth ‘blunt language and bluntly’—well! That is not the worst taste in these days!”)
“Ye may, verily, all of you be higher men,” continued Zarathustra; “but for me—ye are neither high enough, nor strong enough.
For me, that is to say, for the inexorable which is now silent in me, but will not always be silent. And if ye appertain to me, still it is not as my right arm.
For he who himself standeth, like you, on sickly and tender legs, wisheth above all to be TREATED INDULGENTLY, whether he be conscious of it or hide it from himself.
My arms and my legs, however, I do not treat indulgently, I DO NOT TREAT
MY WARRIORS INDULGENTLY: how then could ye be fit for MY warfare?
With you I should spoil all my victories. And many of you would tumble over if ye but heard the loud beating of my drums.
Moreover, ye are not sufficiently beautiful and well-born for me. I require pure, smooth mirrors for my doctrines; on your surface even mine own likeness is distorted.
On your shoulders presseth many a burden, many a recollection; many a mischievous dwarf squatteth in your corners. There is concealed populace also in you.
And though ye be high and of a higher type, much in you is crooked and misshapen. There is no smith in the world that could hammer you right and straight for me.
Ye are only bridges: may higher ones pass over upon you! Ye signify steps: so do not upbraid him who ascendeth beyond you into HIS height!
Out of your seed there may one day arise for me a genuine son and perfect heir: but that time is distant. Ye yourselves are not those unto whom my heritage and name belong.
Not for you do I wait here in these mountains; not with you may I descend for the last time. Ye have come unto me only as a presage that higher ones
are on the way to me,—
—NOT the men of great longing, of great loathing, of great satiety, and that which ye call the remnant of God;
—Nay! Nay! Three times Nay! For OTHERS do I wait here in these mountains, and will not lift my foot from thence without them;
—For higher ones, stronger ones, triumphanter ones, merrier ones, for such as are built squarely in body and soul: LAUGHING LIONS must come!
O my guests, ye strange ones—have ye yet heard nothing of my children? And that they are on the way to me?
Do speak unto me of my gardens, of my Happy Isles, of my new beautiful race—why do ye not speak unto me thereof?
This guests’-present do I solicit of your love, that ye speak unto me of my children. For them am I rich, for them I became poor: what have I not surrendered,
—What would I not surrender that I might have one thing: THESE
children, THIS living plantation, THESE life-trees of my will and of my highest hope!”
Thus spake Zarathustra, and stopped suddenly in his discourse: for his longing came over him, and he closed his eyes and his mouth, because of the agitation of his heart. And all his guests also were silent, and stood still and confounded: except only that the old soothsayer made signs with his hands and his gestures.
LXXII. THE SUPPER.
For at this point the soothsayer interrupted the greeting of Zarathustra and his guests: he pressed forward as one who had no time to lose, seized Zarathustra’s hand and exclaimed: “But Zarathustra!
One thing is more necessary than the other, so sayest thou thyself: well, one thing is now more necessary UNTO ME than all others.
A word at the right time: didst thou not invite me to TABLE? And here are many who have made long journeys. Thou dost not mean to feed us merely with discourses?
Besides, all of you have thought too much about freezing, drowning, suffocating, and other bodily dangers: none of you, however, have thought of MY danger, namely, perishing of hunger—”
(Thus spake the soothsayer. When Zarathustra’s animals, however, heard these words, they ran away in terror. For they saw that all they had brought home during the day would not be enough to fill the one soothsayer.)
“Likewise perishing of thirst,” continued the soothsayer. “And although I hear water splashing here like words of wisdom—that is to say, plenteously and unweariedly, I—want WINE!
Not every one is a born water-drinker like Zarathustra. Neither doth water suit weary and withered ones: WE deserve wine—IT alone giveth immediate vigour and improvised health!”
On this occasion, when the soothsayer was longing for wine, it happened that the king on the left, the silent one, also found expression for once.
“WE took care,” said he, “about wine, I, along with my brother the king on the right: we have enough of wine,—a whole ass-load of it. So there is nothing lacking but bread.”
“Bread,” replied Zarathustra, laughing when he spake, “it is precisely bread that anchorites have not. But man doth not live by bread alone, but also by the flesh of good lambs, of which I have two:
—THESE shall we slaughter quickly, and cook spicily with sage: it is so that I like them. And there is also no lack of roots and fruits, good enough even for the fastidious and dainty,—nor of nuts and other riddles for cracking.
Thus will we have a good repast in a little while. But whoever wish to eat with us must also give a hand to the work, even the kings. For with Zarathustra even a king may be a cook.”
This proposal appealed to the hearts of all of them, save that the voluntary beggar objected to the flesh and wine and spices.
“Just hear this glutton Zarathustra!” said he jokingly: “doth one go into caves and high mountains to make such repasts?
Now indeed do I understand what he once taught us: Blessed be moderate poverty!’ And why he wisheth to do away with beggars.”
“Be of good cheer,” replied Zarathustra, “as I am. Abide by thy customs, thou excellent one: grind thy corn, drink thy water, praise thy cooking,—if only it make thee glad!
I am a law only for mine own; I am not a law for all. He, however, who belongeth unto me must be strong of bone and light of foot,—
—Joyous in fight and feast, no sulker, no John o’ Dreams, ready for the hardest task as for the feast, healthy and hale.
The best belongeth unto mine and me; and if it be not given us, then do we take it:—the best food, the purest sky, the strongest thoughts, the fairest women!”—
Thus spake Zarathustra; the king on the right however answered and said:
“Strange! Did one ever hear such sensible things out of the mouth of a wise man?
And verily, it is the strangest thing in a wise man, if over and above, he be still sensible, and not an ass.”
Thus spake the king on the right and wondered; the ass however, with ill-will, said YE-A to his remark. This however was the beginning of that long repast which is called “The Supper” in the history-books. At this there was nothing else spoken of but THE HIGHER MAN.
LXXIII. THE HIGHER MAN.
1.
When I came unto men for the first time, then did I commit the anchorite folly, the great folly: I appeared on the market-place.
And when I spake unto all, I spake unto none. In the evening, however, rope-dancers were my companions, and corpses; and I myself almost a corpse.
With the new morning, however, there came unto me a new truth: then did I learn to say: “Of what account to me are market-place and populace and populace-noise and long populace-ears!”
Ye higher men, learn THIS from me: On the market-place no one believeth in higher men. But if ye will speak there, very well! The populace, however, blinketh: “We are all equal.”
“Ye higher men,”—so blinketh the populace—“there are no higher men, we are all equal; man is man, before God—we are all equal!”
Before God!—Now, however, this God hath died. Before the populace, however, we will not be equal. Ye higher men, away from the market-place!
2.
Before God!—Now however this God hath died! Ye higher men, this God was your greatest danger.
Only since he lay in the grave have ye again arisen. Now only cometh the great noontide, now only doth the higher man become—master!
Have ye understood this word, O my brethren? Ye are frightened: do your hearts turn giddy? Doth the abyss here yawn for you? Doth the hell-hound here yelp at you?
Well! Take heart! ye higher men! Now only travaileth the mountain of the human future. God hath died: now do WE desire—the Superman to live.
3.
The most careful ask to-day: “How is man to be maintained?” Zarathustra however asketh, as the first and only one: “How is man to be SURPASSED?”
The Superman, I have at heart; THAT is the first and only thing to me—and NOT man: not the neighbour, not the poorest, not the sorriest, not the best.—
O my brethren, what I can love in man is that he is an over-going and a down-going. And also in you there is much that maketh me love and hope.
In that ye have despised, ye higher men, that maketh me hope. For the great despisers are the great reverers.
In that ye have despaired, there is much to honour. For ye have not learned to submit yourselves, ye have not learned petty policy.
For to-day have the petty people become master: they all preach submission and humility and policy and diligence and consideration and the long et cetera of petty virtues.
Whatever is of the effeminate type, whatever originateth from the servile type, and especially the populace-mishmash:—THAT wisheth now to be master of all human destiny—O disgust! Disgust! Disgust!
THAT asketh and asketh and never tireth: “How is man to maintain himself
best, longest, most pleasantly?” Thereby—are they the masters of to-day.
These masters of to-day—surpass them, O my brethren—these petty people: THEY are the Superman’s greatest danger!
Surpass, ye higher men, the petty virtues, the petty policy, the sand-grain considerateness, the ant-hill trumpery, the pitiable comfortableness, the “happiness of the greatest number”—!
And rather despair than submit yourselves. And verily, I love you, because ye know not to-day how to live, ye higher men! For thus do YE live—best!
4.
Have ye courage, O my brethren? Are ye stout-hearted? NOT the courage before witnesses, but anchorite and eagle courage, which not even a God any longer beholdeth?
Cold souls, mules, the blind and the drunken, I do not call stout-hearted.
He hath heart who knoweth fear, but VANQUISHETH it; who seeth the abyss, but with PRIDE.
He who seeth the abyss, but with eagle’s eyes,—he who with eagle’s talons GRASPETH the abyss: he hath courage.—
5.
“Man is evil”—so said to me for consolation, all the wisest ones.
Ah, if only it be still true to-day! For the evil is man’s best force.
“Man must become better and eviler”—so do I teach. The evilest is necessary for the Superman’s best.
It may have been well for the preacher of the petty people to suffer and be burdened by men’s sin. I, however, rejoice in great sin as my great CONSOLATION.—
Such things, however, are not said for long ears. Every word, also, is not suited for every mouth. These are fine far-away things: at them sheep’s claws shall not grasp!
6.
Ye higher men, think ye that I am here to put right what ye have put wrong?
Or that I wished henceforth to make snugger couches for you sufferers? Or show you restless, miswandering, misclimbing ones, new and easier footpaths?
Nay! Nay! Three times Nay! Always more, always better ones of your type shall succumb,—for ye shall always have it worse and harder. Thus only—
—Thus only groweth man aloft to the height where the lightning striketh and shattereth him: high enough for the lightning!
Towards the few, the long, the remote go forth my soul and my seeking: of what account to me are your many little, short miseries!
Ye do not yet suffer enough for me! For ye suffer from yourselves, ye have not yet suffered FROM MAN. Ye would lie if ye spake otherwise! None of you suffereth from what I have suffered.—
7.
It is not enough for me that the lightning no longer doeth harm. I do not wish to conduct it away: it shall learn—to work for ME.—
My wisdom hath accumulated long like a cloud, it becometh stiller and darker. So doeth all wisdom which shall one day bear LIGHTNINGS.—
Unto these men of to-day will I not be LIGHT, nor be called light. THEM—will I blind: lightning of my wisdom! put out their eyes!
8.
Do not will anything beyond your power: there is a bad falseness in those who will beyond their power.
Especially when they will great things! For they awaken distrust in great things, these subtle false-coiners and stage-players:—
—Until at last they are false towards themselves, squint-eyed, whited cankers, glossed over with strong words, parade virtues and brilliant false deeds.
Take good care there, ye higher men! For nothing is more precious to me, and rarer, than honesty.
Is this to-day not that of the populace? The populace however knoweth not what is great and what is small, what is straight and what is honest: it is innocently crooked, it ever lieth.
9.
Have a good distrust to-day ye, higher men, ye enheartened ones! Ye open-hearted ones! And keep your reasons secret! For this to-day is that of the populace.
What the populace once learned to believe without reasons, who could—
refute it to them by means of reasons?
And on the market-place one convinceth with gestures. But reasons make the populace distrustful.
And when truth hath once triumphed there, then ask yourselves with good distrust: “What strong error hath fought for it?”
Be on your guard also against the learned! They hate you, because they are unproductive! They have cold, withered eyes before which every bird is unplumed.
Such persons vaunt about not lying: but inability to lie is still far from being love to truth. Be on your guard!
Freedom from fever is still far from being knowledge! Refrigerated spirits I do not believe in. He who cannot lie, doth not know what truth is.
10.
If ye would go up high, then use your own legs! Do not get yourselves CARRIED aloft; do not seat yourselves on other people’s backs and heads!
Thou hast mounted, however, on horseback? Thou now ridest briskly up to thy goal? Well, my friend! But thy lame foot is also with thee on horseback!
When thou reachest thy goal, when thou alightest from thy horse: precisely on thy HEIGHT, thou higher man,—then wilt thou stumble!
11.
Ye creating ones, ye higher men! One is only pregnant with one’s own child.
Do not let yourselves be imposed upon or put upon! Who then is YOUR
neighbour? Even if ye act “for your neighbour”—ye still do not create for him!
Unlearn, I pray you, this “for,” ye creating ones: your very virtue wisheth you to have naught to do with “for” and “on account of” and
“because.” Against these false little words shall ye stop your ears.
“For one’s neighbour,” is the virtue only of the petty people: there it is said “like and like,” and “hand washeth hand”:—they have neither the right nor the power for YOUR self-seeking!
In your self-seeking, ye creating ones, there is the foresight and foreseeing of the pregnant! What no one’s eye hath yet seen, namely, the fruit—this, sheltereth and saveth and nourisheth your entire love.
Where your entire love is, namely, with your child, there is also your entire virtue! Your work, your will is YOUR “neighbour”: let no false values impose upon you!
12.
Ye creating ones, ye higher men! Whoever hath to give birth is sick; whoever hath given birth, however, is unclean.
Ask women: one giveth birth, not because it giveth pleasure. The pain maketh hens and poets cackle.
Ye creating ones, in you there is much uncleanliness. That is because ye have had to be mothers.
A new child: oh, how much new filth hath also come into the world! Go apart! He who hath given birth shall wash his soul!
13.
Be not virtuous beyond your powers! And seek nothing from yourselves opposed to probability!
Walk in the footsteps in which your fathers’ virtue hath already walked!
How would ye rise high, if your fathers’ will should not rise with you?
He, however, who would be a firstling, let him take care lest he also become a lastling! And where the vices of your fathers are, there should ye not set up as saints!
He whose fathers were inclined for women, and for strong wine and flesh of wildboar swine; what would it be if he demanded chastity of himself?
A folly would it be! Much, verily, doth it seem to me for such a one, if he should be the husband of one or of two or of three women.
And if he founded monasteries, and inscribed over their portals: “The way
to holiness,”—I should still say: What good is it! it is a new folly!
He hath founded for himself a penance-house and refuge-house: much good may it do! But I do not believe in it.
In solitude there groweth what any one bringeth into it—also the brute in one’s nature. Thus is solitude inadvisable unto many.
Hath there ever been anything filthier on earth than the saints of the wilderness? AROUND THEM was not only the devil loose—but also the swine.
14.
Shy, ashamed, awkward, like the tiger whose spring hath failed—thus, ye higher men, have I often seen you slink aside. A CAST which ye made had failed.
But what doth it matter, ye dice-players! Ye had not learned to play and mock, as one must play and mock! Do we not ever sit at a great table of mocking and playing?
And if great things have been a failure with you, have ye yourselves therefore—been a failure? And if ye yourselves have been a failure, hath man therefore—been a failure? If man, however, hath been a failure: well then! never mind!
15.
The higher its type, always the seldomer doth a thing succeed. Ye higher men here, have ye not all—been failures?
Be of good cheer; what doth it matter? How much is still possible! Learn to laugh at yourselves, as ye ought to laugh!
What wonder even that ye have failed and only half-succeeded, ye half-shattered ones! Doth not—man’s FUTURE strive and struggle in you?
Man’s furthest, profoundest, star-highest issues, his prodigious powers—do not all these foam through one another in your vessel?
What wonder that many a vessel shattereth! Learn to laugh at yourselves, as ye ought to laugh! Ye higher men, O, how much is still possible!
And verily, how much hath already succeeded! How rich is this earth in small, good, perfect things, in well-constituted things!
Set around you small, good, perfect things, ye higher men. Their golden maturity healeth the heart. The perfect teacheth one to hope.
16.
What hath hitherto been the greatest sin here on earth? Was it not the word of him who said: “Woe unto them that laugh now!”
Did he himself find no cause for laughter on the earth? Then he sought badly. A child even findeth cause for it.
He—did not love sufficiently: otherwise would he also have loved us, the laughing ones! But he hated and hooted us; wailing and teeth-gnashing did he promise us.
Must one then curse immediately, when one doth not love? That—seemeth to me bad taste. Thus did he, however, this absolute one. He sprang from the populace.
And he himself just did not love sufficiently; otherwise would he have raged less because people did not love him. All great love doth not SEEK
love:—it seeketh more.
Go out of the way of all such absolute ones! They are a poor sickly type, a populace-type: they look at this life with ill-will, they have an evil eye for this earth.
Go out of the way of all such absolute ones! They have heavy feet and sultry hearts:—they do not know how to dance. How could the earth be light to such ones!
17.
Tortuously do all good things come nigh to their goal. Like cats they curve their backs, they purr inwardly with their approaching happiness,—all good things laugh.
His step betrayeth whether a person already walketh on HIS OWN path: just see me walk! He, however, who cometh nigh to his goal, danceth.
And verily, a statue have I not become, not yet do I stand there stiff, stupid and stony, like a pillar; I love fast racing.
And though there be on earth fens and dense afflictions, he who hath light
feet runneth even across the mud, and danceth, as upon well-swept ice.
Lift up your hearts, my brethren, high, higher! And do not forget your legs! Lift up also your legs, ye good dancers, and better still, if ye stand upon your heads!
18.
This crown of the laughter, this rose-garland crown: I myself have put on this crown, I myself have consecrated my laughter. No one else have I found to-day potent enough for this.
Zarathustra the dancer, Zarathustra the light one, who beckoneth with his pinions, one ready for flight, beckoning unto all birds, ready and prepared, a blissfully light-spirited one:—
Zarathustra the soothsayer, Zarathustra the sooth-laugher, no impatient one, no absolute one, one who loveth leaps and side-leaps; I myself have put on this crown!
19.
Lift up your hearts, my brethren, high, higher! And do not forget your legs! Lift up also your legs, ye good dancers, and better still if ye stand upon your heads!
There are also heavy animals in a state of happiness, there are club-footed ones from the beginning. Curiously do they exert themselves, like an elephant which endeavoureth to stand upon its head.
Better, however, to be foolish with happiness than foolish with misfortune, better to dance awkwardly than walk lamely. So learn, I pray you, my wisdom, ye higher men: even the worst thing hath two good reverse sides,—
—Even the worst thing hath good dancing-legs: so learn, I pray you, ye higher men, to put yourselves on your proper legs!
So unlearn, I pray you, the sorrow-sighing, and all the populace-sadness!
Oh, how sad the buffoons of the populace seem to me to-day! This to-day, however, is that of the populace.
20.
Do like unto the wind when it rusheth forth from its mountain-caves: unto its own piping will it dance; the seas tremble and leap under its footsteps.
That which giveth wings to asses, that which milketh the lionesses:—
praised be that good, unruly spirit, which cometh like a hurricane unto all the present and unto all the populace,—
—Which is hostile to thistle-heads and puzzle-heads, and to all withered leaves and weeds:—praised be this wild, good, free spirit of the storm, which danceth upon fens and afflictions, as upon meadows!
Which hateth the consumptive populace-dogs, and all the ill-constituted, sullen brood:—praised be this spirit of all free spirits, the laughing storm, which bloweth dust into the eyes of all the melanopic and melancholic!
Ye higher men, the worst thing in you is that ye have none of you learned to dance as ye ought to dance—to dance beyond yourselves! What doth it matter that ye have failed!
How many things are still possible! So LEARN to laugh beyond yourselves!
Lift up your hearts, ye good dancers, high! higher! And do not forget the good laughter!
This crown of the laughter, this rose-garland crown: to you my brethren do I cast this crown! Laughing have I consecrated; ye higher men, LEARN, I pray you—to laugh!
LXXIV. THE SONG OF MELANCHOLY.
1.
When Zarathustra spake these sayings, he stood nigh to the entrance of his cave; with the last words, however, he slipped away from his guests, and fled for a little while into the open air.
“O pure odours around me,” cried he, “O blessed stillness around me! But where are mine animals? Hither, hither, mine eagle and my serpent!
Tell me, mine animals: these higher men, all of them—do they perhaps not SMELL well? O pure odours around me! Now only do I know and feel how I love you, mine animals.”
—And Zarathustra said once more: “I love you, mine animals!” The eagle, however, and the serpent pressed close to him when he spake these
words, and looked up to him. In this attitude were they all three silent together, and sniffed and sipped the good air with one another. For the air here outside was better than with the higher men.
2.
Hardly, however, had Zarathustra left the cave when the old magician got up, looked cunningly about him, and said: “He is gone!
And already, ye higher men—let me tickle you with this complimentary and flattering name, as he himself doeth—already doth mine evil spirit of deceit and magic attack me, my melancholy devil,
—Which is an adversary to this Zarathustra from the very heart: forgive it for this! Now doth it wish to conjure before you, it hath just ITS hour; in vain do I struggle with this evil spirit.
Unto all of you, whatever honours ye like to assume in your names, whether ye call yourselves ‘the free spirits’ or ‘the conscientious,’ or ‘the penitents of the spirit,’ or ‘the unfettered,’ or ‘the great longers,’—
—Unto all of you, who like me suffer FROM THE GREAT LOATHING, to whom the old God hath died, and as yet no new God lieth in cradles and swaddling clothes—unto all of you is mine evil spirit and magic-devil favourable.
I know you, ye higher men, I know him,—I know also this fiend whom I love in spite of me, this Zarathustra: he himself often seemeth to me like the beautiful mask of a saint,
—Like a new strange mummery in which mine evil spirit, the melancholy devil, delighteth:—I love Zarathustra, so doth it often seem to me, for the sake of mine evil spirit.—
But already doth IT attack me and constrain me, this spirit of melancholy, this evening-twilight devil: and verily, ye higher men, it hath a longing—
—Open your eyes!—it hath a longing to come NAKED, whether male or female, I do not yet know: but it cometh, it constraineth me, alas!
open your wits!
The day dieth out, unto all things cometh now the evening, also unto the best things; hear now, and see, ye higher men, what devil—man or woman—this spirit of evening-melancholy is!”
Thus spake the old magician, looked cunningly about him, and then seized his harp.
3.
In evening’s limpid air,
What time the dew’s soothings
Unto the earth downpour,
Invisibly and unheard—
For tender shoe-gear wear
The soothing dews, like all that’s kind-gentle—:
Bethinkst thou then, bethinkst thou, burning heart, How once thou thirstedest
For heaven’s kindly teardrops and dew’s down-droppings, All singed and weary thirstedest,
What time on yellow grass-pathways
Wicked, occidental sunny glances
Through sombre trees about thee sported,
Blindingly sunny glow-glances, gladly-hurting?
“Of TRUTH the wooer? Thou?”—so taunted they—
“Nay! Merely poet!
A brute insidious, plundering, grovelling,
That aye must lie,
That wittingly, wilfully, aye must lie:
For booty lusting,
Motley masked,
Self-hidden, shrouded,
Himself his booty—
HE—of truth the wooer?
Nay! Mere fool! Mere poet!
Just motley speaking,
From mask of fool confusedly shouting,
Circumambling on fabricated word-bridges,
On motley rainbow-arches,
‘Twixt the spurious heavenly, And spurious earthly,
Round us roving, round us soaring,—
MERE FOOL! MERE POET!
HE—of truth the wooer?
Not still, stiff, smooth and cold,
Become an image,
A godlike statue,
Set up in front of temples,
As a God’s own door-guard:
Nay! hostile to all such truthfulness-statues,
In every desert homelier than at temples,
With cattish wantonness,
Through every window leaping
Quickly into chances,
Every wild forest a-sniffing,
Greedily-longingly, sniffing,
That thou, in wild forests,
’Mong the motley-speckled fierce creatures,
Shouldest rove, sinful-sound and fine-coloured,
With longing lips smacking,
Blessedly mocking, blessedly hellish, blessedly bloodthirsty, Robbing, skulking, lying—roving:—
Or unto eagles like which fixedly,
Long adown the precipice look,
Adown THEIR precipice:—
Oh, how they whirl down now,
Thereunder, therein,
To ever deeper profoundness whirling!—
Then,
Sudden,
With aim aright,
With quivering flight,
On LAMBKINS pouncing,
Headlong down, sore-hungry,
For lambkins longing,
Fierce ’gainst all lamb-spirits,
Furious-fierce ’gainst all that look
Sheeplike, or lambeyed, or crisp-woolly,
—Grey, with lambsheep kindliness!
Even thus,
Eaglelike, pantherlike,
Are the poet’s desires,
Are THINE OWN desires ‘neath a thousand guises,
Thou fool! Thou poet!
Thou who all mankind viewedst—
So God, as sheep—:
The God TO REND within mankind,
As the sheep in mankind,
And in rending LAUGHING—
THAT, THAT is thine own blessedness!
Of a panther and eagle—blessedness!
Of a poet and fool—the blessedness!—
In evening’s limpid air,
What time the moon’s sickle,
Green, ‘twixt the purple-glowings,
And jealous, steal’th forth:
—Of day the foe,
With every step in secret,
The rosy garland-hammocks
Downsickling, till they’ve sunken
Down nightwards, faded, downsunken:—
Thus had I sunken one day
From mine own truth-insanity,
From mine own fervid day-longings,
Of day aweary, sick of sunshine,
—Sunk downwards, evenwards, shadowwards:
By one sole trueness
All scorched and thirsty:
—Bethinkst thou still, bethinkst thou, burning heart, How then thou thirstedest?—
THAT I SHOULD BANNED BE
FROM ALL THE TRUENESS!
MERE FOOL! MERE POET!
LXXV. SCIENCE.
Thus sang the magician; and all who were present went like birds unawares into the net of his artful and melancholy voluptuousness. Only the spiritually conscientious one had not been caught: he at once snatched the harp from the magician and called out: “Air! Let in good air! Let in Zarathustra! Thou makest this cave sultry and poisonous, thou bad old magician!
Thou seducest, thou false one, thou subtle one, to unknown desires and deserts. And alas, that such as thou should talk and make ado about the TRUTH!
Alas, to all free spirits who are not on their guard against SUCH
magicians! It is all over with their freedom: thou teachest and temptest back into prisons,—
—Thou old melancholy devil, out of thy lament soundeth a lurement: thou resemblest those who with their praise of chastity secretly invite to voluptuousness!”
Thus spake the conscientious one; the old magician, however, looked about him, enjoying his triumph, and on that account put up with the annoyance which the conscientious one caused him. “Be still!” said he with modest voice, “good songs want to re-echo well; after good songs one should be long silent.
Thus do all those present, the higher men. Thou, however, hast perhaps understood but little of my song? In thee there is little of the magic spirit.”
“Thou praisest me,” replied the conscientious one, “in that thou separatest me from thyself; very well! But, ye others, what do I see? Ye still sit there, all of you, with lusting eyes—:
Ye free spirits, whither hath your freedom gone! Ye almost seem to me to resemble those who have long looked at bad girls dancing naked: your souls themselves dance!
In you, ye higher men, there must be more of that which the magician calleth his evil spirit of magic and deceit:—we must indeed be different.
And verily, we spake and thought long enough together ere Zarathustra came home to his cave, for me not to be unaware that we ARE different.
We SEEK different things even here aloft, ye and I. For I seek more SECURITY; on that account have I come to Zarathustra. For he is still the most steadfast tower and will—
—To-day, when everything tottereth, when all the earth quaketh. Ye, however, when I see what eyes ye make, it almost seemeth to me that ye seek MORE INSECURITY,
—More horror, more danger, more earthquake. Ye long (it almost seemeth so to me—forgive my presumption, ye higher men)—
—Ye long for the worst and dangerousest life, which frighteneth ME
most,—for the life of wild beasts, for forests, caves, steep mountains and labyrinthine gorges.
And it is not those who lead OUT OF danger that please you best, but those who lead you away from all paths, the misleaders. But if such longing in you be ACTUAL, it seemeth to me nevertheless to be IMPOSSIBLE.
For fear—that is man’s original and fundamental feeling; through fear everything is explained, original sin and original virtue. Through fear there grew also MY virtue, that is to say: Science.
For fear of wild animals—that hath been longest fostered in man, inclusive of the animal which he concealeth and feareth in himself:—Zarathustra calleth it ‘the beast inside.’
Such prolonged ancient fear, at last become subtle, spiritual and
intellectual—at present, me thinketh, it is called SCIENCE.”—
Thus spake the conscientious one; but Zarathustra, who had just come back into his cave and had heard and divined the last discourse, threw a handful of roses to the conscientious one, and laughed on account of his
“truths.” “Why!” he exclaimed, “what did I hear just now? Verily, it seemeth to me, thou art a fool, or else I myself am one: and quietly and quickly will I put thy ‘truth’ upside down.
For FEAR—is an exception with us. Courage, however, and adventure, and delight in the uncertain, in the unattempted—COURAGE seemeth to me the entire primitive history of man.
The wildest and most courageous animals hath he envied and robbed of all their virtues: thus only did he become—man.
THIS courage, at last become subtle, spiritual and intellectual, this human courage, with eagle’s pinions and serpent’s wisdom: THIS, it seemeth to me, is called at present—”
“ZARATHUSTRA!” cried all of them there assembled, as if with one voice, and burst out at the same time into a great laughter; there arose, however, from them as it were a heavy cloud. Even the magician laughed, and said wisely: “Well! It is gone, mine evil spirit!
And did I not myself warn you against it when I said that it was a deceiver, a lying and deceiving spirit?
Especially when it showeth itself naked. But what can I do with regard to its tricks! Have I created it and the world?
Well! Let us be good again, and of good cheer! And although Zarathustra looketh with evil eye—just see him! he disliketh me—:
—Ere night cometh will he again learn to love and laud me; he cannot live long without committing such follies.
HE—loveth his enemies: this art knoweth he better than any one I have seen. But he taketh revenge for it—on his friends!”
Thus spake the old magician, and the higher men applauded him; so that Zarathustra went round, and mischievously and lovingly shook hands with his friends,—like one who hath to make amends and apologise to every one for something. When however he had thereby come to the door of his cave, lo, then had he again a longing for the good air outside, and for his animals,—and wished to steal out.
LXXVI. AMONG DAUGHTERS OF THE DESERT.
1.
“Go not away!” said then the wanderer who called himself Zarathustra’s shadow, “abide with us—otherwise the old gloomy affliction might again fall upon us.
Now hath that old magician given us of his worst for our good, and lo! the good, pious pope there hath tears in his eyes, and hath quite embarked again upon the sea of melancholy.
Those kings may well put on a good air before us still: for that have THEY
learned best of us all at present! Had they however no one to see them, I wager that with them also the bad game would again commence,—
—The bad game of drifting clouds, of damp melancholy, of curtained heavens, of stolen suns, of howling autumn-winds,
—The bad game of our howling and crying for help! Abide with us, O
Zarathustra! Here there is much concealed misery that wisheth to speak, much evening, much cloud, much damp air!
Thou hast nourished us with strong food for men, and powerful proverbs: do not let the weakly, womanly spirits attack us anew at dessert!
Thou alone makest the air around thee strong and clear! Did I ever find anywhere on earth such good air as with thee in thy cave?
Many lands have I seen, my nose hath learned to test and estimate many kinds of air: but with thee do my nostrils taste their greatest delight!
Unless it be,—unless it be—, do forgive an old recollection!
Forgive me an old after-dinner song, which I once composed amongst daughters of the desert:—
For with them was there equally good, clear, Oriental air; there was I furthest from cloudy, damp, melancholy Old-Europe!
Then did I love such Oriental maidens and other blue kingdoms of heaven, over which hang no clouds and no thoughts.
Ye would not believe how charmingly they sat there, when they did not
dance, profound, but without thoughts, like little secrets, like beribboned riddles, like dessert-nuts—
Many-hued and foreign, forsooth! but without clouds: riddles which can be guessed: to please such maidens I then composed an after-dinner psalm.”
Thus spake the wanderer who called himself Zarathustra’s shadow; and before any one answered him, he had seized the harp of the old magician, crossed his legs, and looked calmly and sagely around him:—with his nostrils, however, he inhaled the air slowly and questioningly, like one who in new countries tasteth new foreign air. Afterward he began to sing with a kind of roaring.
2. THE DESERTS GROW: WOE HIM WHO DOTH THEM HIDE!
—Ha!
Solemnly!
In effect solemnly!
A worthy beginning!
Afric manner, solemnly!
Of a lion worthy,
Or perhaps of a virtuous howl-monkey—
—But it’s naught to you,
Ye friendly damsels dearly loved,
At whose own feet to me,
The first occasion,
To a European under palm-trees,
A seat is now granted. Selah.
Wonderful, truly!
Here do I sit now,
The desert nigh, and yet I am
So far still from the desert,
Even in naught yet deserted:
That is, I’m swallowed down
By this the smallest oasis—:
—It opened up just yawning,
Its loveliest mouth agape,
Most sweet-odoured of all mouthlets:
Then fell I right in,
Right down, right through—in ’mong you,
Ye friendly damsels dearly loved! Selah.
Hail! hail! to that whale, fishlike,
If it thus for its guest’s convenience
Made things nice!—(ye well know,
Surely, my learned allusion?)
Hail to its belly,
If it had e’er
A such loveliest oasis-belly
As this is: though however I doubt about it,
—With this come I out of Old-Europe,
That doubt’th more eagerly than doth any
Elderly married woman.
May the Lord improve it!
Amen!
Here do I sit now,
In this the smallest oasis,
Like a date indeed,
Brown, quite sweet, gold-suppurating,
For rounded mouth of maiden longing,
But yet still more for youthful, maidlike,
Ice-cold and snow-white and incisory
Front teeth: and for such assuredly,
Pine the hearts all of ardent date-fruits. Selah.
To the there-named south-fruits now,
Similar, all-too-similar,
Do I lie here; by little
Flying insects
Round-sniffled and round-played,
And also by yet littler,
Foolisher, and peccabler
Wishes and phantasies,—
Environed by you,
Ye silent, presentientest
Maiden-kittens,
Dudu and Suleika,
—ROUNDSPHINXED, that into one word
I may crowd much feeling:
(Forgive me, O God,
All such speech-sinning!)
—Sit I here the best of air sniffling,
Paradisal air, truly,
Bright and buoyant air, golden-mottled,
As goodly air as ever
From lunar orb downfell—
Be it by hazard,
Or supervened it by arrogancy?
As the ancient poets relate it.
But doubter, I’m now calling it
In question: with this do I come indeed
Out of Europe,
That doubt’th more eagerly than doth any
Elderly married woman.
May the Lord improve it!
Amen.
This the finest air drinking,
With nostrils out-swelled like goblets,
Lacking future, lacking remembrances
Thus do I sit here, ye
Friendly damsels dearly loved,
And look at the palm-tree there,
How it, to a dance-girl, like,
Doth bow and bend and on its haunches bob,
—One doth it too, when one view’th it long!—
To a dance-girl like, who as it seem’th to me,
Too long, and dangerously persistent,
Always, always, just on SINGLE leg hath stood?
—Then forgot she thereby, as it seem’th to me,
The OTHER leg?
For vainly I, at least,
Did search for the amissing
Fellow-jewel
—Namely, the other leg—
In the sanctified precincts,
Nigh her very dearest, very tenderest,
Flapping and fluttering and flickering skirting.
Yea, if ye should, ye beauteous friendly ones,
Quite take my word:
She hath, alas! LOST it!
Hu! Hu! Hu! Hu! Hu!
It is away!
For ever away!
The other leg!
Oh, pity for that loveliest other leg!
Where may it now tarry, all-forsaken weeping?
The lonesomest leg?
In fear perhaps before a
Furious, yellow, blond and curled
Leonine monster? Or perhaps even
Gnawed away, nibbled badly—
Most wretched, woeful! woeful! nibbled badly! Selah.
Oh, weep ye not,
Gentle spirits!
Weep ye not, ye
Date-fruit spirits! Milk-bosoms!
Ye sweetwood-heart
Purselets!
Weep ye no more,
Pallid Dudu!
Be a man, Suleika! Bold! Bold!
—Or else should there perhaps
Something strengthening, heart-strengthening,
Here most proper be?
Some inspiring text?
Some solemn exhortation?—
Ha! Up now! honour!
Moral honour! European honour!
Blow again, continue,
Bellows-box of virtue!
Ha!
Once more thy roaring,
Thy moral roaring!
As a virtuous lion
Nigh the daughters of deserts roaring!
—For virtue’s out-howl,
Ye very dearest maidens,
Is more than every
European fervour, European hot-hunger!
And now do I stand here,
As European,
I can’t be different, God’s help to me!
Amen!
THE DESERTS GROW: WOE HIM WHO DOTH THEM HIDE!
LXXVII. THE AWAKENING.
1.
After the song of the wanderer and shadow, the cave became all at once full of noise and laughter: and since the assembled guests all spake simultaneously, and even the ass, encouraged thereby, no longer remained silent, a little aversion and scorn for his visitors came over Zarathustra, although he rejoiced at their gladness. For it seemed to him a sign of convalescence. So he slipped out into the open air and spake to his animals.
“Whither hath their distress now gone?” said he, and already did he himself feel relieved of his petty disgust—“with me, it seemeth that they have unlearned their cries of distress!
—Though, alas! not yet their crying.” And Zarathustra stopped his ears, for just then did the YE-A of the ass mix strangely with the noisy jubilation of those higher men.
“They are merry,” he began again, “and who knoweth? perhaps at their host’s expense; and if they have learned of me to laugh, still it is not MY laughter they have learned.
But what matter about that! They are old people: they recover in their own way, they laugh in their own way; mine ears have already endured worse and have not become peevish.
This day is a victory: he already yieldeth, he fleeth, THE SPIRIT OF
GRAVITY, mine old arch-enemy! How well this day is about to end, which began so badly and gloomily!
And it is ABOUT TO end. Already cometh the evening: over the sea rideth it hither, the good rider! How it bobbeth, the blessed one, the home-returning one, in its purple saddles!
The sky gazeth brightly thereon, the world lieth deep. Oh, all ye strange ones who have come to me, it is already worth while to have lived with me!”
Thus spake Zarathustra. And again came the cries and laughter of the higher men out of the cave: then began he anew:
“They bite at it, my bait taketh, there departeth also from them their enemy, the spirit of gravity. Now do they learn to laugh at themselves: do I hear rightly?
My virile food taketh effect, my strong and savoury sayings: and verily, I did not nourish them with flatulent vegetables! But with warrior-food,
with conqueror-food: new desires did I awaken.
New hopes are in their arms and legs, their hearts expand. They find new words, soon will their spirits breathe wantonness.
Such food may sure enough not be proper for children, nor even for longing girls old and young. One persuadeth their bowels otherwise; I am not their physician and teacher.
The DISGUST departeth from these higher men; well! that is my victory. In my domain they become assured; all stupid shame fleeth away; they empty themselves.
They empty their hearts, good times return unto them, they keep holiday and ruminate,—they become THANKFUL.
THAT do I take as the best sign: they become thankful. Not long will it be ere they devise festivals, and put up memorials to their old joys.
They are CONVALESCENTS!” Thus spake Zarathustra joyfully to his heart and gazed outward; his animals, however, pressed up to him, and honoured his happiness and his silence.
2.
All on a sudden however, Zarathustra’s ear was frightened: for the cave which had hitherto been full of noise and laughter, became all at once still as death;—his nose, however, smelt a sweet-scented vapour and incense-odour, as if from burning pine-cones.
“What happeneth? What are they about?” he asked himself, and stole up to the entrance, that he might be able unobserved to see his guests. But wonder upon wonder! what was he then obliged to behold with his own eyes!
“They have all of them become PIOUS again, they PRAY, they are mad!”—said he, and was astonished beyond measure. And forsooth! all these higher men, the two kings, the pope out of service, the evil magician, the voluntary beggar, the wanderer and shadow, the old soothsayer, the spiritually conscientious one, and the ugliest man—they all lay on their knees like children and credulous old women, and worshipped the ass. And just then began the ugliest man to gurgle and snort, as if something unutterable in him tried to find expression; when, however, he had actually found words, behold! it was a pious, strange litany in praise of the adored and censed ass. And the litany sounded thus: Amen! And glory and honour and wisdom and thanks and praise and strength be to our God, from everlasting to everlasting!
—The ass, however, here brayed YE-A.
He carrieth our burdens, he hath taken upon him the form of a servant, he is patient of heart and never saith Nay; and he who loveth his God chastiseth him.
—The ass, however, here brayed YE-A.
He speaketh not: except that he ever saith Yea to the world which he created: thus doth he extol his world. It is his artfulness that speaketh not: thus is he rarely found wrong.
—The ass, however, here brayed YE-A.
Uncomely goeth he through the world. Grey is the favourite colour in which he wrappeth his virtue. Hath he spirit, then doth he conceal it; every one, however, believeth in his long ears.
—The ass, however, here brayed YE-A.
What hidden wisdom it is to wear long ears, and only to say Yea and never Nay! Hath he not created the world in his own image, namely, as stupid as possible?
—The ass, however, here brayed YE-A.
Thou goest straight and crooked ways; it concerneth thee little what seemeth straight or crooked unto us men. Beyond good and evil is thy domain. It is thine innocence not to know what innocence is.
—The ass, however, here brayed YE-A.
Lo! how thou spurnest none from thee, neither beggars nor kings. Thou sufferest little children to come unto thee, and when the bad boys decoy thee, then sayest thou simply, YE-A.
—The ass, however, here brayed YE-A.
Thou lovest she-asses and fresh figs, thou art no food-despiser. A thistle tickleth thy heart when thou chancest to be hungry. There is the wisdom of a God therein.
—The ass, however, here brayed YE-A.
LXXVIII. THE ASS-FESTIVAL.
1.
At this place in the litany, however, Zarathustra could no longer control himself; he himself cried out YE-A, louder even than the ass, and sprang into the midst of his maddened guests. “Whatever are you about, ye grown-up children?” he exclaimed, pulling up the praying ones from the ground. “Alas, if any one else, except Zarathustra, had seen you: Every one would think you the worst blasphemers, or the very foolishest old women, with your new belief!
And thou thyself, thou old pope, how is it in accordance with thee, to adore an ass in such a manner as God?”—
“O Zarathustra,” answered the pope, “forgive me, but in divine matters I am more enlightened even than thou. And it is right that it should be so.
Better to adore God so, in this form, than in no form at all! Think over this saying, mine exalted friend: thou wilt readily divine that in such a saying there is wisdom.
He who said ‘God is a Spirit’—made the greatest stride and slide hitherto made on earth towards unbelief: such a dictum is not easily amended again on earth!
Mine old heart leapeth and boundeth because there is still something to adore on earth. Forgive it, O Zarathustra, to an old, pious pontiff-heart!—”
—“And thou,” said Zarathustra to the wanderer and shadow, “thou callest and thinkest thyself a free spirit? And thou here practisest such idolatry and hierolatry?
Worse verily, doest thou here than with thy bad brown girls, thou bad, new believer!”
“It is sad enough,” answered the wanderer and shadow, “thou art right: but how can I help it! The old God liveth again, O Zarathustra, thou mayst say what thou wilt.
The ugliest man is to blame for it all: he hath reawakened him. And if he say that he once killed him, with Gods DEATH is always just a prejudice.”
—“And thou,” said Zarathustra, “thou bad old magician, what didst thou do! Who ought to believe any longer in thee in this free age, when THOU believest in such divine donkeyism?
It was a stupid thing that thou didst; how couldst thou, a shrewd man, do such a stupid thing!”
“O Zarathustra,” answered the shrewd magician, “thou art right, it was a stupid thing,—it was also repugnant to me.”
—“And thou even,” said Zarathustra to the spiritually conscientious one, “consider, and put thy finger to thy nose! Doth nothing go against thy conscience here? Is thy spirit not too cleanly for this praying and the fumes of those devotees?”
“There is something therein,” said the spiritually conscientious one, and put his finger to his nose, “there is something in this spectacle which even doeth good to my conscience.
Perhaps I dare not believe in God: certain it is however, that God seemeth to me most worthy of belief in this form.
God is said to be eternal, according to the testimony of the most pious: he who hath so much time taketh his time. As slow and as stupid as possible: THEREBY can such a one nevertheless go very far.
And he who hath too much spirit might well become infatuated with stupidity and folly. Think of thyself, O Zarathustra!
Thou thyself—verily! even thou couldst well become an ass through superabundance of wisdom.
Doth not the true sage willingly walk on the crookedest paths? The evidence teacheth it, O Zarathustra,—THINE OWN evidence!”
—“And thou thyself, finally,” said Zarathustra, and turned towards the ugliest man, who still lay on the ground stretching up his arm to the ass (for he gave it wine to drink). “Say, thou nondescript, what hast thou been about!
Thou seemest to me transformed, thine eyes glow, the mantle of the sublime covereth thine ugliness: WHAT didst thou do?
Is it then true what they say, that thou hast again awakened him? And why?
Was he not for good reasons killed and made away with?
Thou thyself seemest to me awakened: what didst thou do? why didst THOU
turn round? Why didst THOU get converted? Speak, thou nondescript!”
“O Zarathustra,” answered the ugliest man, “thou art a rogue!
Whether HE yet liveth, or again liveth, or is thoroughly dead—which of us both knoweth that best? I ask thee.
One thing however do I know,—from thyself did I learn it once, O
Zarathustra: he who wanteth to kill most thoroughly, LAUGHETH.
‘Not by wrath but by laughter doth one kill’—thus spakest thou once, O Zarathustra, thou hidden one, thou destroyer without wrath, thou dangerous saint,—thou art a rogue!”
2.
Then, however, did it come to pass that Zarathustra, astonished at such merely roguish answers, jumped back to the door of his cave, and turning towards all his guests, cried out with a strong voice:
“O ye wags, all of you, ye buffoons! Why do ye dissemble and disguise yourselves before me!
How the hearts of all of you convulsed with delight and wickedness, because ye had at last become again like little children—namely, pious,—
—Because ye at last did again as children do—namely, prayed, folded your hands and said ‘good God’!
But now leave, I pray you, THIS nursery, mine own cave, where to-day all childishness is carried on. Cool down, here outside, your hot child-wantonness and heart-tumult!
To be sure: except ye become as little children ye shall not enter into THAT kingdom of heaven.” (And Zarathustra pointed aloft with his hands.)
“But we do not at all want to enter into the kingdom of heaven: we have become men,—SO WE WANT THE KINGDOM OF EARTH.”
3.
And once more began Zarathustra to speak. “O my new friends,” said he,—
“ye strange ones, ye higher men, how well do ye now please me,—
—Since ye have again become joyful! Ye have, verily, all blossomed forth: it seemeth to me that for such flowers as you, NEW FESTIVALS are required.
—A little valiant nonsense, some divine service and ass-festival, some old joyful Zarathustra fool, some blusterer to blow your souls bright.
Forget not this night and this ass-festival, ye higher men! THAT did ye devise when with me, that do I take as a good omen,—such things only the convalescents devise!
And should ye celebrate it again, this ass-festival, do it from love to yourselves, do it also from love to me! And in remembrance of me!”
Thus spake Zarathustra.
LXXIX. THE DRUNKEN SONG.
1.
Meanwhile one after another had gone out into the open air, and into the cool, thoughtful night; Zarathustra himself, however, led the ugliest man by the hand, that he might show him his night-world, and the great round moon, and the silvery water-falls near his cave. There they at last stood still beside one another; all of them old people, but with comforted, brave hearts, and astonished in themselves that it was so well with them on earth; the mystery of the night, however, came nigher and nigher to their hearts. And anew Zarathustra thought to himself: “Oh, how well do they now please me, these higher men!”—but he did not say it aloud, for he respected their happiness and their silence.—
Then, however, there happened that which in this astonishing long day was most astonishing: the ugliest man began once more and for the last time to gurgle and snort, and when he had at length found expression, behold!
there sprang a question plump and plain out of his mouth, a good, deep, clear question, which moved the hearts of all who listened to him.
“My friends, all of you,” said the ugliest man, “what think ye? For the sake of this day—I am for the first time content to have lived mine entire life.
And that I testify so much is still not enough for me. It is worth while living on the earth: one day, one festival with Zarathustra, hath taught me to love the earth.
‘Was THAT—life?’ will I say unto death. ‘Well! Once more!’
My friends, what think ye? Will ye not, like me, say unto death: ‘Was THAT—life?
For the sake of Zarathustra, well! Once more!’”—
Thus spake the ugliest man; it was not, however, far from midnight. And what took place then, think ye? As soon as the higher men heard his question, they became all at once conscious of their transformation and convalescence, and of him who was the cause thereof: then did they rush up to Zarathustra, thanking, honouring, caressing him, and kissing his hands, each in his own peculiar way; so that some laughed and some wept. The old soothsayer, however, danced with delight; and though he was then, as some narrators suppose, full of sweet wine, he was certainly still fuller of sweet life, and had renounced all weariness. There are even those who narrate that the ass then danced: for not in vain had the ugliest man previously given it wine to drink. That may be the case, or it may be otherwise; and if in truth the ass did not dance that evening, there nevertheless happened then greater and rarer wonders than the dancing of an ass would have been. In short, as the proverb of Zarathustra saith:
“What doth it matter!”
2.
When, however, this took place with the ugliest man, Zarathustra stood there like one drunken: his glance dulled, his tongue faltered and his feet staggered. And who could divine what thoughts then passed through Zarathustra’s soul? Apparently, however, his spirit retreated and fled in advance and was in remote distances, and as it were “wandering on high mountain-ridges,” as it standeth written, “‘twixt two seas,
—Wandering ‘twixt the past and the future as a heavy cloud.”
Gradually, however, while the higher men held him in their arms, he came back to himself a little, and resisted with his hands the crowd of the honouring and caring ones; but he did not speak. All at once, however, he turned his head quickly, for he seemed to hear something: then laid he his finger on his mouth and said: “COME!”
And immediately it became still and mysterious round about; from the depth however there came up slowly the sound of a clock-bell. Zarathustra listened thereto, like the higher men; then, however, laid he his finger on his mouth the second time, and said again: “COME! COME! IT IS GETTING
ON TO MIDNIGHT!”—and his voice had changed. But still he had not moved from the spot. Then it became yet stiller and more mysterious, and everything hearkened, even the ass, and Zarathustra’s noble animals, the eagle and the serpent,—likewise the cave of Zarathustra and the big cool moon, and the night itself. Zarathustra, however, laid his hand upon his mouth for the third time, and said:
COME! COME! COME! LET US NOW WANDER! IT IS THE HOUR: LET US WANDER INTO
THE NIGHT!
3.
Ye higher men, it is getting on to midnight: then will I say something into your ears, as that old clock-bell saith it into mine ear,—
—As mysteriously, as frightfully, and as cordially as that midnight clock-bell speaketh it to me, which hath experienced more than one man:
—Which hath already counted the smarting throbbings of your fathers’
hearts—ah! ah! how it sigheth! how it laugheth in its dream! the old, deep, deep midnight!
Hush! Hush! Then is there many a thing heard which may not be heard by day; now however, in the cool air, when even all the tumult of your hearts hath become still,—
—Now doth it speak, now is it heard, now doth it steal into overwakeful, nocturnal souls: ah! ah! how the midnight sigheth! how it laugheth in its dream!
—Hearest thou not how it mysteriously, frightfully, and cordially speaketh unto THEE, the old deep, deep midnight?
O MAN, TAKE HEED! 4.
Woe to me! Whither hath time gone? Have I not sunk into deep wells? The world sleepeth—
Ah! Ah! The dog howleth, the moon shineth. Rather will I die, rather will I die, than say unto you what my midnight-heart now thinketh.
Already have I died. It is all over. Spider, why spinnest thou around me?
Wilt thou have blood? Ah! Ah! The dew falleth, the hour cometh—
—The hour in which I frost and freeze, which asketh and asketh and asketh: “Who hath sufficient courage for it?
—Who is to be master of the world? Who is going to say: THUS shall ye flow, ye great and small streams!”
—The hour approacheth: O man, thou higher man, take heed! this talk is for fine ears, for thine ears—WHAT SAITH DEEP MIDNIGHT’S VOICE
INDEED?
5.
It carrieth me away, my soul danceth. Day’s-work! Day’s-work! Who is to be master of the world?
The moon is cool, the wind is still. Ah! Ah! Have ye already flown high enough? Ye have danced: a leg, nevertheless, is not a wing.
Ye good dancers, now is all delight over: wine hath become lees, every cup hath become brittle, the sepulchres mutter.
Ye have not flown high enough: now do the sepulchres mutter: “Free the dead! Why is it so long night? Doth not the moon make us drunken?”
Ye higher men, free the sepulchres, awaken the corpses! Ah, why doth the worm still burrow? There approacheth, there approacheth, the hour,—
—There boometh the clock-bell, there thrilleth still the heart, there burroweth still the wood-worm, the heart-worm. Ah! Ah! THE WORLD IS
DEEP!
6.
Sweet lyre! Sweet lyre! I love thy tone, thy drunken, ranunculine tone!—how long, how far hath come unto me thy tone, from the distance, from the ponds of love!
Thou old clock-bell, thou sweet lyre! Every pain hath torn thy heart, father-pain, fathers’-pain, forefathers’-pain; thy speech hath become ripe,—
—Ripe like the golden autumn and the afternoon, like mine anchorite heart—now sayest thou: The world itself hath become ripe, the grape turneth brown,
—Now doth it wish to die, to die of happiness. Ye higher men, do ye not feel it? There welleth up mysteriously an odour,
—A perfume and odour of eternity, a rosy-blessed, brown, gold-wine-odour of old happiness,
—Of drunken midnight-death happiness, which singeth: the world is deep, AND DEEPER THAN THE DAY COULD READ!
7.
Leave me alone! Leave me alone! I am too pure for thee. Touch me not! Hath not my world just now become perfect?
My skin is too pure for thy hands. Leave me alone, thou dull, doltish, stupid day! Is not the midnight brighter?
The purest are to be masters of the world, the least known, the strongest, the midnight-souls, who are brighter and deeper than any day.
O day, thou gropest for me? Thou feelest for my happiness? For thee am I rich, lonesome, a treasure-pit, a gold chamber?
O world, thou wantest ME? Am I worldly for thee? Am I spiritual for thee?
Am I divine for thee? But day and world, ye are too coarse,—
—Have cleverer hands, grasp after deeper happiness, after deeper unhappiness, grasp after some God; grasp not after me:
—Mine unhappiness, my happiness is deep, thou strange day, but yet am I no God, no God’s-hell: DEEP IS ITS WOE.
8.
God’s woe is deeper, thou strange world! Grasp at God’s woe, not at me!
What am I! A drunken sweet lyre,—
—A midnight-lyre, a bell-frog, which no one understandeth, but which MUST speak before deaf ones, ye higher men! For ye do not understand me!
Gone! Gone! O youth! O noontide! O afternoon! Now have come evening and night and midnight,—the dog howleth, the wind:
—Is the wind not a dog? It whineth, it barketh, it howleth. Ah! Ah!
how she sigheth! how she laugheth, how she wheezeth and panteth, the midnight!
How she just now speaketh soberly, this drunken poetess! hath she perhaps overdrunk her drunkenness? hath she become overawake? doth she ruminate?
—Her woe doth she ruminate over, in a dream, the old, deep midnight—and still more her joy. For joy, although woe be deep, JOY IS DEEPER STILL
THAN GRIEF CAN BE.
9.
Thou grape-vine! Why dost thou praise me? Have I not cut thee! I am cruel, thou bleedest—: what meaneth thy praise of my drunken cruelty?
“Whatever hath become perfect, everything mature—wanteth to die!” so sayest thou. Blessed, blessed be the vintner’s knife! But everything immature wanteth to live: alas!
Woe saith: “Hence! Go! Away, thou woe!” But everything that suffereth wanteth to live, that it may become mature and lively and longing,
—Longing for the further, the higher, the brighter. “I want heirs,”
so saith everything that suffereth, “I want children, I do not want MYSELF,”—
Joy, however, doth not want heirs, it doth not want children,—joy wanteth itself, it wanteth eternity, it wanteth recurrence, it wanteth everything eternally-like-itself.
Woe saith: “Break, bleed, thou heart! Wander, thou leg! Thou wing, fly!
Onward! upward! thou pain!” Well! Cheer up! O mine old heart: WOE SAITH:
“HENCE! GO!”
10.
Ye higher men, what think ye? Am I a soothsayer? Or a dreamer? Or a drunkard? Or a dream-reader? Or a midnight-bell?
Or a drop of dew? Or a fume and fragrance of eternity? Hear ye it not?
Smell ye it not? Just now hath my world become perfect, midnight is also mid-day,—
Pain is also a joy, curse is also a blessing, night is also a sun,—go away! or ye will learn that a sage is also a fool.
Said ye ever Yea to one joy? O my friends, then said ye Yea also unto ALL
woe. All things are enlinked, enlaced and enamoured,—
—Wanted ye ever once to come twice; said ye ever: “Thou pleasest me, happiness! Instant! Moment!” then wanted ye ALL to come back again!
—All anew, all eternal, all enlinked, enlaced and enamoured, Oh, then did ye LOVE the world,—
—Ye eternal ones, ye love it eternally and for all time: and also unto woe do ye say: Hence! Go! but come back! FOR JOYS ALL WANT—ETERNITY!
11.
All joy wanteth the eternity of all things, it wanteth honey, it wanteth lees, it wanteth drunken midnight, it wanteth graves, it wanteth grave-tears’ consolation, it wanteth gilded evening-red—
—WHAT doth not joy want! it is thirstier, heartier, hungrier, more frightful, more mysterious, than all woe: it wanteth ITSELF, it biteth into ITSELF, the ring’s will writheth in it,—
—It wanteth love, it wanteth hate, it is over-rich, it bestoweth, it throweth away, it beggeth for some one to take from it, it thanketh the taker, it would fain be hated,—
—So rich is joy that it thirsteth for woe, for hell, for hate, for shame, for the lame, for the WORLD,—for this world, Oh, ye know it indeed!
Ye higher men, for you doth it long, this joy, this irrepressible, blessed joy—for your woe, ye failures! For failures, longeth all eternal joy.
For joys all want themselves, therefore do they also want grief! O
happiness, O pain! Oh break, thou heart! Ye higher men, do learn it, that joys want eternity.
—Joys want the eternity of ALL things, they WANT DEEP, PROFOUND
ETERNITY!
12.
Have ye now learned my song? Have ye divined what it would say? Well!
Cheer up! Ye higher men, sing now my roundelay!
Sing now yourselves the song, the name of which is “Once more,” the signification of which is “Unto all eternity!”—sing, ye higher men, Zarathustra’s roundelay!
O man! Take heed!
What saith deep midnight’s voice indeed?
“I slept my sleep—,
“From deepest dream I’ve woke, and plead:—
“The world is deep,
“And deeper than the day could read.
“Deep is its woe—,
“Joy—deeper still than grief can be:
“Woe saith: Hence! Go!
“But joys all want eternity-,
“-Want deep, profound eternity!”
LXXX. THE SIGN.
In the morning, however, after this night, Zarathustra jumped up from his couch, and, having girded his loins, he came out of his cave glowing and strong, like a morning sun coming out of gloomy mountains.
“Thou great star,” spake he, as he had spoken once before, “thou deep eye of happiness, what would be all thy happiness if thou hadst not THOSE for whom thou shinest!
And if they remained in their chambers whilst thou art already awake, and comest and bestowest and distributest, how would thy proud modesty upbraid for it!
Well! they still sleep, these higher men, whilst I am awake: THEY
are not my proper companions! Not for them do I wait here in my mountains.
At my work I want to be, at my day: but they understand not what are the signs of my morning, my step—is not for them the awakening-call.
They still sleep in my cave; their dream still drinketh at my drunken songs. The audient ear for ME—the OBEDIENT ear, is yet lacking in their limbs.”
—This had Zarathustra spoken to his heart when the sun arose: then looked he inquiringly aloft, for he heard above him the sharp call of his eagle. “Well!” called he upwards, “thus is it pleasing and proper to me.
Mine animals are awake, for I am awake.
Mine eagle is awake, and like me honoureth the sun. With eagle-talons doth it grasp at the new light. Ye are my proper animals; I love you.
But still do I lack my proper men!”—
Thus spake Zarathustra; then, however, it happened that all on a sudden he became aware that he was flocked around and fluttered around, as if by innumerable birds,—the whizzing of so many wings, however, and the crowding around his head was so great that he shut his eyes. And verily, there came down upon him as it were a cloud, like a cloud of arrows which poureth upon a new enemy. But behold, here it was a cloud of love, and showered upon a new friend.
“What happeneth unto me?” thought Zarathustra in his astonished heart, and slowly seated himself on the big stone which lay close to the exit from his cave. But while he grasped about with his hands, around him, above him and below him, and repelled the tender birds, behold, there then happened to him something still stranger: for he grasped thereby unawares into a mass of thick, warm, shaggy hair; at the same time, however, there sounded before him a roar,—a long, soft lion-roar.
“THE SIGN COMETH,” said Zarathustra, and a change came over his heart. And in truth, when it turned clear before him, there lay a yellow, powerful animal at his feet, resting its head on his knee,—unwilling to leave him out of love, and doing like a dog which again findeth its old master.
The doves, however, were no less eager with their love than the lion; and whenever a dove whisked over its nose, the lion shook its head and wondered and laughed.
When all this went on Zarathustra spake only a word: “MY CHILDREN ARE
NIGH, MY CHILDREN”—, then he became quite mute. His heart, however, was loosed, and from his eyes there dropped down tears and fell upon his hands. And he took no further notice of anything, but sat there motionless, without repelling the animals further. Then flew the doves to and fro, and perched on his shoulder, and caressed his white hair, and did not tire of their tenderness and joyousness. The strong lion, however, licked always the tears that fell on Zarathustra’s hands, and roared and growled shyly. Thus did these animals do.—
All this went on for a long time, or a short time: for properly speaking, there is NO time on earth for such things—. Meanwhile, however, the
higher men had awakened in Zarathustra’s cave, and marshalled themselves for a procession to go to meet Zarathustra, and give him their morning greeting: for they had found when they awakened that he no longer tarried with them. When, however, they reached the door of the cave and the noise of their steps had preceded them, the lion started violently; it turned away all at once from Zarathustra, and roaring wildly, sprang towards the cave. The higher men, however, when they heard the lion roaring, cried all aloud as with one voice, fled back and vanished in an instant.
Zarathustra himself, however, stunned and strange, rose from his seat, looked around him, stood there astonished, inquired of his heart, bethought himself, and remained alone. “What did I hear?” said he at last, slowly, “what happened unto me just now?”
But soon there came to him his recollection, and he took in at a glance all that had taken place between yesterday and to-day. “Here is indeed the stone,” said he, and stroked his beard, “on IT sat I yester-morn; and here came the soothsayer unto me, and here heard I first the cry which I heard just now, the great cry of distress.
O ye higher men, YOUR distress was it that the old soothsayer foretold to me yester-morn,—
—Unto your distress did he want to seduce and tempt me: ‘O
Zarathustra,’ said he to me, ‘I come to seduce thee to thy last sin.’
To my last sin?” cried Zarathustra, and laughed angrily at his own words:
“WHAT hath been reserved for me as my last sin?”
—And once more Zarathustra became absorbed in himself, and sat down again on the big stone and meditated. Suddenly he sprang up,—
“FELLOW-SUFFERING! FELLOW-SUFFERING WITH THE HIGHER MEN!” he cried out, and his countenance changed into brass. “Well! THAT—hath had its time!
My suffering and my fellow-suffering—what matter about them! Do I then strive after HAPPINESS? I strive after my WORK!
Well! The lion hath come, my children are nigh, Zarathustra hath grown ripe, mine hour hath come:—
This is MY morning, MY day beginneth: ARISE NOW, ARISE, THOU GREAT
NOONTIDE!”—
Thus spake Zarathustra and left his cave, glowing and strong, like a morning sun coming out of gloomy mountains.
APPENDIX.
NOTES ON “THUS SPAKE ZARATHUSTRA” BY ANTHONY M. LUDOVICI.
I have had some opportunities of studying the conditions under which Nietzsche is read in Germany, France, and England, and I have found that, in each of these countries, students of his philosophy, as if actuated by precisely similar motives and desires, and misled by the same mistaken tactics on the part of most publishers, all proceed in the same happy-go-lucky style when “taking him up.” They have had it said to them that he wrote without any system, and they very naturally conclude that it does not matter in the least whether they begin with his first, third, or last book, provided they can obtain a few vague ideas as to what his leading and most sensational principles were.
Now, it is clear that the book with the most mysterious, startling, or suggestive title, will always stand the best chance of being purchased by those who have no other criteria to guide them in their choice than the aspect of a title-page; and this explains why “Thus Spake Zarathustra” is almost always the first and often the only one of Nietzsche’s books that falls into the hands of the uninitiated.
The title suggests all kinds of mysteries; a glance at the chapter-headings quickly confirms the suspicions already aroused, and the sub-title: “A Book for All and None”, generally succeeds in dissipating the last doubts the prospective purchaser may entertain concerning his fitness for the book or its fitness for him. And what happens?
“Thus Spake Zarathustra” is taken home; the reader, who perchance may know no more concerning Nietzsche than a magazine article has told him, tries to read it and, understanding less than half he reads, probably never gets further than the second or third part,—and then only to feel convinced that Nietzsche himself was “rather hazy” as to what he was talking about. Such chapters as “The Child with the Mirror”, “In the Happy
Isles”, “The Grave-Song,” “Immaculate Perception,” “The Stillest Hour”,
“The Seven Seals”, and many others, are almost utterly devoid of meaning to all those who do not know something of Nietzsche’s life, his aims and his friendships.
As a matter of fact, “Thus Spake Zarathustra”, though it is unquestionably Nietzsche’s opus magnum, is by no means the first of Nietzsche’s works that the beginner ought to undertake to read. The author himself refers to it as the deepest work ever offered to the German public, and elsewhere speaks of his other writings as being necessary for the understanding of it. But when it is remembered that in Zarathustra we not only have the history of his most intimate experiences, friendships, feuds, disappointments, triumphs and the like, but that the very form in which they are narrated is one which tends rather to obscure than to throw light upon them, the difficulties which meet the reader who starts quite unprepared will be seen to be really formidable.
Zarathustra, then,—this shadowy, allegorical personality, speaking in allegories and parables, and at times not even refraining from relating his own dreams—is a figure we can understand but very imperfectly if we have no knowledge of his creator and counterpart, Friedrich Nietzsche; and it were therefore well, previous to our study of the more abstruse parts of this book, if we were to turn to some authoritative book on Nietzsche’s life and works and to read all that is there said on the subject. Those who can read German will find an excellent guide, in this respect, in Frau Foerster-Nietzsche’s exhaustive and highly interesting biography of her brother: “Das Leben Friedrich Nietzsche’s” (published by Naumann); while the works of Deussen, Raoul Richter, and Baroness Isabelle von Unger-Sternberg, will be found to throw useful and necessary light upon many questions which it would be difficult for a sister to touch upon.
In regard to the actual philosophical views expounded in this work, there is an excellent way of clearing up any difficulties they may present, and that is by an appeal to Nietzsche’s other works. Again and again, of course, he will be found to express himself so clearly that all reference to his other writings may be dispensed with; but where this is not the case, the advice he himself gives is after all the best to be followed here, viz.:—to regard such works as: “Joyful Science”, “Beyond Good and Evil”, “The Genealogy of Morals”, “The Twilight of the Idols”, “The Antichrist”, “The Will to Power”, etc., etc., as the necessary preparation for “Thus Spake Zarathustra”.
These directions, though they are by no means simple to carry out, seem at least to possess the quality of definiteness and straightforwardness.
“Follow them and all will be clear,” I seem to imply. But I regret to say that this is not really the case. For my experience tells me that even after the above directions have been followed with the greatest possible zeal, the student will still halt in perplexity before certain passages in the book before us, and wonder what they mean. Now, it is with the view of giving a little additional help to all those who find themselves in this position that I proceed to put forth my own personal interpretation of the more abstruse passages in this work.
In offering this little commentary to the Nietzsche student, I should like it to be understood that I make no claim as to its infallibility or indispensability. It represents but an attempt on my part—a very feeble one perhaps—to give the reader what little help I can in surmounting difficulties which a long study of Nietzsche’s life and works has enabled me, partially I hope, to overcome.

Perhaps it would be as well to start out with a broad and rapid sketch of Nietzsche as a writer on Morals, Evolution, and Sociology, so that the reader may be prepared to pick out for himself, so to speak, all passages in this work bearing in any way upon Nietzsche’s views in those three important branches of knowledge.
(A.) Nietzsche and Morality.

THE CASE OF WAGNER

BY

FRIEDRICH NIETZSCHE

And, when we remember, too, that Wagner on his part also declared that he was “alone” after he had lost “that man” (Nietzsche), we begin to perceive that personal bitterness and animosity are out of the question here. We feel we are on a higher plane, and that we must not judge these two men as if they were a couple of little business people who had had a suburban squabble.
[Pg xi]
Nietzsche declares (“Ecce Homo,” p. 24) that he never attacked persons as persons. If he used a name at all, it was merely as a means to an end, just as one might use a magnifying glass in order to make a general, but elusive and intricate fact more clear and more apparent; and if he used the name of David Strauss, without bitterness or spite (for he did not even know the man), when he wished to personify Culture-Philistinism, so, in the same spirit, did he use the name of Wagner, when he wished to personify the general decadence of modern ideas, values, aspirations and Art.
Nietzsche’s ambition, throughout his life, was to regenerate European culture. In the first period of his relationship with Wagner, he thought that he had found the man who was prepared to lead in this direction. For a long while he regarded his master as the Saviour of Germany, as the innovator and renovator who was going to arrest the decadent current of his time and lead men to a greatness which had died with antiquity. And so thoroughly did he understand his duties as a disciple, so wholly was he devoted to this cause, that, in spite of all his unquestioned gifts and the excellence of his original achievements, he was for a long while regarded as a mere “literary lackey” in Wagner’s service, in all those circles where the rising musician was most disliked.
Gradually, however, as the young Nietzsche developed and began to gain an independent view of life and humanity, it seemed to him extremely doubtful whether Wagner actually was pulling the same way with him.
Whereas, theretofore, he had[Pg xii] identified Wagner’s ideals with his own, it now dawned upon him slowly that the regeneration of German culture, of European culture, and the trans-valuation of values which would be necessary for this regeneration, really lay off the track of Wagnerism.
He saw that he had endowed Wagner with a good deal that was more his own than Wagner’s. In his love he had transfigured the friend, and the composer of “Parsifal” and the man of his imagination were not one. The fact was realised step by step; disappointment upon disappointment, revelation after revelation, ultimately brought it home to him, and
though his best instincts at first opposed it, the revulsion of feeling at last became too strong to be scouted, and Nietzsche was plunged into the blackest despair. Had he followed his own human inclinations, he would probably have remained Wagner’s friend until the end. As it was, however, he remained loyal to his cause, and this meant denouncing his former idol.
“Joyful Wisdom,” “Thus Spake Zarathustra,” “Beyond Good and Evil,” “The Genealogy of Morals,” “The Twilight of the Idols,” “The Antichrist”
—all these books were but so many exhortations to mankind to step aside from the general track now trodden by Europeans. And what happened? Wagner began to write some hard things about Nietzsche; the world assumed that Nietzsche and Wagner had engaged in a paltry personal quarrel in the press, and the whole importance of the real issue was buried beneath the human, all-too-human interpretations which were heaped upon it.
[Pg xiii]
Nietzsche was a musician of no mean attainments. For a long while, in his youth, his superiors had been doubtful whether he should not be educated for a musical career, so great were his gifts in this art; and if his mother had not been offered a six-years’ scholarship for her son at the famous school of Pforta, Nietzsche, the scholar and philologist, would probably have been an able composer. When he speaks about music, therefore, he knows what he is talking about, and when he refers to Wagner’s music in particular, the simple fact of his long intimacy with Wagner during the years at Tribschen, is a sufficient guarantee of his deep knowledge of the subject. Now Nietzsche was one of the first to recognise that the principles of art are inextricably bound up with the laws of life, that an æsthetic dogma may therefore promote or depress all vital force, and that a picture, a symphony, a poem or a statue, is just as capable of being pessimistic, anarchic, Christian or revolutionary, as a philosophy or a science is. To speak of a certain class of music as being compatible with the decline of culture, therefore, was to Nietzsche a perfectly warrantable association of ideas, and that is why, throughout his philosophy, so much stress is laid upon æsthetic considerations.
But if in England and America Nietzsche’s attack on Wagner’s art may still seem a little incomprehensible, let it be remembered that the Continent has long known that Nietzsche was actually in the right Every year thousands are now added to the large party abroad who have ceased from believing in the great musical revolutionary of[Pg xiv] the seventies; that he was one with the French Romanticists and rebels has long since been acknowledged a fact in select circles, both in France and Germany, and if we still have Wagner with us in England, if we still consider Nietzsche as a heretic, when he declares that “Wagner was a musician for unmusical people,” it is only because we are more removed than we imagine, from all the great movements, intellectual and otherwise, which take place on the Continent.
In Wagner’s music, in his doctrine, in his whole concept of art, Nietzsche saw the confirmation, the promotion—aye, even the encouragement, of that decadence and degeneration which is now rampant in Europe; and it is for this reason, although to the end of his life he still loved Wagner, the man and the friend, that we find him, on the very eve of his spiritual death, exhorting us to abjure Wagner the musician and the artist.
ANTHONY M. LUDOVICI.
[Pg xv]
PREFACE TO THE THIRD EDITION[1]
In spite of the adverse criticism with which the above preface has met at the hands of many reviewers since the summer of last year, I cannot say that I should feel justified, even after mature consideration, in altering a single word or sentence it contains. If I felt inclined to make any changes at all, these would take the form of extensive additions, tending to confirm rather than to modify the general argument it advances; but, any omissions of which I may have been guilty in the first place, have been so fully rectified since, thanks
to the publication of the English translations of Daniel Halévy’s and Henri Lichtenberger’s works, “The Life of Friedrich Nietzsche,”[2] and
“The Gospel of Superman,”[3] respectively, that, were it not for the fact that the truth about this matter cannot be repeated too often, I should have refrained altogether from including any fresh remarks of my own in this Third Edition.
In the works just referred to (pp. 129 et seq. in Halévy’s book, and pp. 78 et seq. in Lichtenberger’s[Pg xvi] book), the statement I made in my preface to “Thoughts out of Season,” vol. i., and which I did not think it necessary to repeat in my first preface to these pamphlets, will be found to receive the fullest confirmation.
The statement in question was to the effect that many long years before these pamphlets were even projected, Nietzsche’s apparent volte-face in regard to his hero Wagner had been not only foreshadowed, but actually stated in plain words, in two works written during his friendship with Wagner,—the works referred to being “The Birth of Tragedy” (1872), and “Wagner in Bayreuth” (1875) of which Houston Stuart Chamberlain declares not only that it possesses “undying classical worth” but that “a perusal of it is indispensable to all who wish to follow the question [of Wagner] to its roots.”[4]
The idea that runs through the present work like a leitmotif—the idea that Wagner was at bottom more of a mime than a musician—was so far an ever present thought with Nietzsche that it is even impossible to ascertain the period when it was first formulated.
In Nietzsche’s wonderful autobiography (Ecce Homo, p. 88), in the section dealing with the early works just mentioned, we find the following passage: “In the second of the two essays [Wagner in Bayreuth] with a profound certainty of instinct, I already characterised the elementary factor in Wagner’s nature as a theatrical talent which, in all his means and aspirations, draws its final conclusions.”[Pg xvii] And as early as 1874, Nietzsche wrote in his diary:—”Wagner is a born actor. Just as Goethe was an abortive painter, and Schiller an abortive orator, so Wagner was an abortive theatrical genius. His attitude to music is that of the actor; for he knows how to sing and speak, as it were out of different souls and from absolutely different worlds (Tristan and the Meistersinger)”.
There is, however, no need to multiply examples, seeing, as I have said, that in the translations of Halévy’s and Lichtenberger’s books the reader will find all the independent evidence he could possibly desire, disproving the popular, and even the learned belief that, in the two pamphlets before us we have a complete, apparently unaccountable, and therefore “demented” volte-face on Nietzsche’s part. Nevertheless, for fear lest some doubt should still linger in certain minds concerning this point, and with the view of adding interest to these essays, the Editor considered it advisable, in the Second Edition, to add a number of extracts from Nietzsche’s diary of the year 1878 (ten years before “The Case of Wagner,” and “Nietzsche contra Wagner” were written) in order to show to what extent those learned critics who complain of Nietzsche’s “morbid and uncontrollable recantations and revulsions of feeling,” have overlooked even the plain facts of the case when forming their all-too-hasty conclusions. These extracts will be found at the end of “Nietzsche contra Wagner.” While reading them, however, it should not be forgotten that they were never intended for publication by Nietzsche himself—a fact which accounts for their unpolished and sketchy form—and[Pg xviii] that they were first published in vol. xi. of the first German Library Edition (pp. 99-129) only when he was a helpless invalid, in 1897. Since then, in 1901 and 1906 respectively, they have been reprinted, once in the large German Library Edition (vol. xi. pp. 181-202), and once in the German Pocket Edition, as an appendix to “Human-All-too-Human,” Part II.
An altogether special interest now attaches to these pamphlets; for, in the first place we are at last in possession of Wagner’s own account of his development, his art, his aspirations and his struggles, in the amazing self-revelation entitled My Life[5]; and secondly, we now have Ecce Homo, Nietzsche’s autobiography, in which we learn for the
first time from Nietzsche’s own pen to what extent his history was that of a double devotion—to Wagner on the one hand, and to his own life task, the Transvaluation of all Values, on the other.
Readers interested in the Nietzsche-Wagner controversy will naturally look to these books for a final solution of all the difficulties which the problem presents. But let them not be too sanguine. From first to last this problem is not to be settled by “facts.” A good deal of instinctive choice, instinctive aversion, and instinctive suspicion are necessary here. A little more suspicion, for instance, ought to be applied to Wagner’s My Life, especially in England, where critics are not half suspicious enough about a continental artist’s self-revelations, and are too prone, if they have suspicions at all, to apply them in the wrong place.
[Pg xix]
An example of this want of finesse in judging foreign writers is to be found in Lord Morley’s work on Rousseau,—a book which ingenuously takes for granted everything that a writer like Rousseau cares to say about himself, without considering for an instant the possibility that Rousseau might have practised some hypocrisy. In regard to Wagner’s life we might easily fall into the same error—that is to say, we might take seriously all he says concerning himself and his family affairs.
We should beware of this, and should not even believe Wagner when he speaks badly about himself. No one speaks badly about himself without a reason, and the question in this case is to find out the reason. Did Wagner—in the belief that genius was always immoral—wish to pose as an immoral Egotist, in order to make us believe in his genius, of which he himself was none too sure in his innermost heart? Did Wagner wish to appear “sincere” in his biography, in order to awaken in us a belief in the sincerity of his music, which he likewise doubted, but wished to impress upon the world as “true”? Or did he wish to be thought badly of in connection with things that were not true, and that consequently did not affect him, in order to lead us off the scent of true things, things he was ashamed of and which he wished the world to ignore—just like Rousseau (the similarity between the two is more than a superficial one) who barbarously pretended to have sent his children to the foundling hospital, in order not to be thought incapable of having had any children at all? In short, where is the bluff in Wagner’s biography? Let us therefore[Pg xx] be careful about it, and all the more so because Wagner himself guarantees the truth of it in the prefatory note. If we were to be credulous here, we should moreover be acting in direct opposition to Nietzsche’s own counsel as given in the following aphorisms (Nos. 19 and 20, p. 89):—
“It is very difficult to trace the course of Wagner’s development,—no trust must be placed in his own description of his soul’s experiences.
He writes party-pamphlets for his followers.
“It is extremely doubtful whether Wagner is able to bear witness about himself.”
While on p. 37 (the note), we read:—”He [Wagner] was not proud enough to be able to suffer the truth about himself. Nobody had less pride than he. Like Victor Hugo he remained true to himself even in his biography,—he remained an actor.”
However, as a famous English judge has said:— “Truth will come out, even in the witness box,” and, as we may add in this case, even in an autobiography. There is one statement in Wagner’s My Life which sounds true to my ears at least-a statement which, in my opinion, has some importance, and to which Wagner himself seems to grant a mysterious significance. I refer to the passage on p. 93 of vol.
i., in which Wagner says:—”Owing to the exceptional vivacity and innate susceptibility of my nature … I gradually became conscious of a certain power of transporting or bewildering my more indolent companions.”
This seems innocent enough. When, however, it is read in conjunction with Nietzsche’s trenchant[Pg xxi] criticism, particularly on pp. 14, 15, 16, 17 and 18 of this work, and also with a knowledge of Wagner’s music, it becomes one of the most striking passages in Wagner’s autobiography;
for it records how soon he became conscious of his dominant instinct and faculty.
I know perfectly well that the Wagnerites will not be influenced by these remarks. Their gratitude to Wagner is too great for this. He has supplied the precious varnish wherewith to hide the dull ugliness of our civilisation. He has given to souls despairing over the materialism of this world, to souls despairing of themselves, and longing to be rid of themselves, the indispensable hashish and morphia wherewith to deaden their inner discords. These discords are everywhere apparent nowadays. Wagner is therefore a common need, a common benefactor.
As such he is bound to be worshipped and adored in spite of all egotistical and theatrical autobiographies.
Albeit, signs are not wanting—at least among his Anglo-Saxon worshippers who stand even more in need of romanticism than their continental brethren, —which show that, in order to uphold Wagner, people are now beginning to draw distinctions between the man and the artist. They dismiss the man as “human-all-too-human,” but they still maintain that there are divine qualities in his music. However distasteful the task of disillusioning these psychological tyros may be, they should be informed that no such division of a man into two parts is permissible, save in Christianity (—the body and the soul—); but that outside purely religious spheres it is utterly[Pg xxii] unwarrantable.
There can be no such strange divorce between a bloom and the plant on which it blows, and has a black woman ever been known to give birth to a white child?
Wagner, as Nietzsche tells us on p. 19, “was something complete, he was a typical decadent, in whom every sign of ‘free will’ was lacking, in whom every feature was necessary.” Wagner, allow me to add, was a typical representative of the nineteenth century, which was the century of contradictory values, of opposed instincts, and of every kind of inner disharmony. The genuine, the classical artists of that period, such men as Heine, Goethe, Stendhal, and Gobineau, overcame their inner strife, and each succeeded in making a harmonious whole out of himself—not indeed without a severe struggle; for everyone of them suffered from being the child of his age, i.e., a decadent. The only difference between them and the romanticists lies in the fact that they (the former) were conscious of what was wrong with them, and possessed the will and the strength to overcome their illness; whereas the romanticists chose the easier alternative—namely, that of shutting their eyes on themselves.
“I am just as much a child of my age as Wagner—i.e., I am a decadent” says Nietzsche. “The only difference is that I recognised the fact, that I struggled against it.”[6]
What Wagner did was characteristic of all romanticists and contemporary artists: he drowned and overshouted his inner discord by means of[Pg xxiii]
exuberant pathos and wild exaltation. Far be it from me to value Wagner’s music in extenso here—this is scarcely a fitting opportunity to do so;—but I think it might well be possible to show, on purely psychological grounds, how impossible it was for a man like Wagner to produce real art. For how can harmony, order, symmetry, mastery, proceed from uncontrolled discord, disorder, disintegration, and chaos? The fact that an art which springs from such a marshy soil may, like certain paludal plants, be “wonderful,” “gorgeous,” and
“overwhelming,” cannot be denied; but true art it is not. It is so just as little as Gothic architecture is,—that style which, in its efforts to escape beyond the tragic contradiction in its mediæval heart, yelled its hysterical cry heavenwards and even melted the stones of its structures into a quivering and fluid jet, in order to give adequate expression to the painful and wretched conflict then raging between the body and the soul.
That Wagner, too, was a great sufferer, there can be no doubt; not, however, a sufferer from strength, like a true artist, but from weakness—the weakness of his age, which he never overcame. It is for this reason that he should be rather pitied than judged as he is now being judged by his German and English critics, who, with thoroughly
neurotic suddenness, have acknowledged their revulsion of feeling a little too harshly.
“I have carefully endeavoured not to deride, or deplore, or detest …”
says Spinoza, “but to understand”; and these words ought to be our guide, not only in the case of Wagner, but in all things.
Inner discord is a terrible affliction and nothing[Pg xxiv] is so certain to produce that nervous irritability which is so trying to the patient as well as to the outer world, as this so-called spiritual disease.
Nietzsche was probably quite right when he said the only real and true music that Wagner ever composed did not consist of his elaborate arias and overtures, but of ten or fifteen bars which, dispersed here and there, gave expression to the composer’s profound and genuine melancholy. But this melancholy had to be overcome, and Wagner with the blood of a cabotin in his veins, resorted to the remedy that was nearest to hand—that is to say, the art of bewildering others and himself. Thus he remained ignorant about himself all his life; for there was, as Nietzsche rightly points out (p. 37, note), not sufficient pride in the man for him to desire to know or to suffer gladly the truth concerning his real nature. As an actor his ruling passion was vanity; but in his case it was correlated with a semi-conscious knowledge of the fact that all was not right with him and his art. It was this that caused him to suffer. His egomaniacal behaviour and his almost Rousseauesque fear and suspicion of others were only the external manifestations of his inner discrepancies. But, to repeat what I have already said, these abnormal symptoms are not in the least incompatible with Wagner’s music, they are rather its very cause, the root from which it springs.
In reality, therefore, Wagner the man and Wagner the artist were undoubtedly one, and constituted a splendid romanticist. His music as well as his autobiography are proofs of his wonderful gifts in this direction. His success in his time, as in ours,[Pg xxv] is due to the craving of the modern world for actors, sorcerers, bewilderers and idealists who are able to conceal the ill-health and the weakness that prevail, and who please by intoxicating and exalting. But this being so, the world must not be disappointed to find the hero of a preceding age explode in the next. It must not be astonished to find a disparity between the hero’s private life and his “elevating” art or romantic and idealistic gospel. As long as people will admire heroic attitudes more than heroism, such disillusionment is bound to be the price of their error. In a truly great man, life-theory and life-practice, if seen from a sufficiently lofty point of view, must and do always agree; in an actor, in a romanticist, in an idealist, and in a Christian, there is always a yawning chasm between the two, which, whatever well-meaning critics may do, cannot be bridged posthumously by acrobatic feats in psychologicis.
Let anyone apply this point of view to Nietzsche’s life and theory.
Let anyone turn his life inside out, not only as he gives it to us in his Ecce Homo, but as we find it related by all his biographers, friends and foes alike; and what will be the result? Even if we ignore his works—the blooms which blowed from time to time from his life—we absolutely cannot deny the greatness of the man’s private practice, and if we fully understand and appreciate the latter, we must be singularly deficient in instinct and in flair if we do not suspect that some of this greatness is reflected in his life-task.
ANTHONY M. LUDOVICI.
LONDON, JULY 1911.
[1] It should be noted that the first and second editions of these essays on Wagner appeared in pamphlet form, for which the above first preface was written.
[2] Fisher Unwin, 1911.
[3] T. N. Foulis, 1910.
[4] See Richard Wagner, by Houston Stuart Chamberlain (translated by G. A. Hight), pp. 15, 16.
[5] Constable & Co., 1911.
[6] See Author’s Preface to “The Case of Wagner” in this
volume.
[Pg xxvi][Pg xxvii]
THE CASE OF WAGNER
A MUSICIAN’S PROBLEM
A LETTER FROM TURIN, MAY 1888
“RIDENDO DICERE SEVERUM …”
[Pg xxviii][Pg xxix]
PREFACE
I am writing this to relieve my mind. It is not malice alone which makes me praise Bizet at the expense of Wagner in this essay. Amid a good deal of jesting I wish to make one point clear which does not admit of levity. To turn my back on Wagner was for me a piece of fate; to get to like anything else whatever afterwards was for me a triumph.
Nobody, perhaps, had ever been more dangerously involved in Wagnerism, nobody had defended himself more obstinately against it, nobody had ever been so overjoyed at ridding himself of it. A long history!—Shall I give it a name?—If I were a moralist, who knows what I might not call it! Perhaps a piece of self-mastery.—But the philosopher does not like the moralist, neither does he like high-falutin’ words….
What is the first and last thing that a philosopher demands of himself?
To overcome his age in himself, to become “timeless.” With what then does the philosopher have the greatest fight? With all that in him which makes him the child of his time. Very well then! I am just as much a child of my age as Wagner—i.e., I am a decadent. The only difference is that I recognised the fact,[Pg xxx] that I struggled against it.
The philosopher in me struggled against it.
My greatest preoccupation hitherto has been the problem of decadence, and I had reasons for this. “Good and evil” form only a playful subdivision of this problem. If one has trained one’s eye to detect the symptoms of decline, one also understands morality,—one understands what lies concealed beneath its holiest names and tables of values: e.g., impoverished life, the will to nonentity, great exhaustion. Morality denies life…. In order to undertake such a mission I was obliged to exercise self-discipline:—I had to side against all that was morbid in myself including Wagner, including Schopenhauer, including the whole of modern humanity.—A profound estrangement, coldness and soberness towards all that belongs to my age, all that was contemporary: and as the highest wish, Zarathustra’s eye, an eye which surveys the whole phenomenon—mankind—from an enormous distance,—which look down upon it.—For such a goal—what sacrifice would not have been worth while? What “self-mastery”! What
“self-denial”!
The greatest event of my life took the form of a recovery. Wagner belongs only to my diseases.
Not that I wish to appear ungrateful to this disease. If in this essay I support the proposition that Wagner is harmful, I none the less wish to[Pg xxxi] point out unto whom, in spite of all, he is indispensable—to the philosopher. Anyone else may perhaps be able to get on without Wagner: but the philosopher is not free to pass him by. The philosopher must be the evil conscience of his age,—but to this end he must be possessed of its best knowledge. And what better guide, or more thoroughly efficient revealer of the soul, could be found for the labyrinth of the modern spirit than Wagner? Through Wagner modernity speaks her most intimate language: it conceals neither its good nor its evil; it has thrown off all shame. And, conversely, one has almost calculated the whole of the value of modernity once one is clear concerning what is good and evil in Wagner. I can perfectly well understand a musician of to-day who says: “I hate Wagner but I can endure no other music.” But I should also understand a philosopher who said: “Wagner is modernity in concentrated form.” There is no help for it, we must first be Wagnerites….
[Pg xxxii][Pg 1]
THE CASE OF WAGNER
1.
Yesterday—would you believe it?—I heard Bizet’s masterpiece for the
twentieth time. Once more I attended with the same gentle reverence; once again I did not run away. This triumph over my impatience surprises me. How such a work completes one! Through it one almost becomes a “masterpiece” oneself.—And, as a matter of fact, each time I heard Carmen it seemed to me that I was more of a philosopher, a better philosopher than at other times: I became so forbearing, so happy, so Indian, so settled…. To sit for five hours: the first step to holiness!—May I be allowed to say that Bizet’s orchestration is the only one that I can endure now? That other orchestration which is all the rage at present—the Wagnerian—is brutal, artificial and
“unsophisticated” withal, hence its appeal to all the three senses of the modern soul at once. How terribly Wagnerian orchestration affects me! I call it the Sirocco. A disagreeable sweat breaks out all over me. All my fine weather vanishes.
Bizet’s music seems to me perfect. It comes forward lightly, gracefully, stylishly. It is lovable,[Pg 2] it does not sweat. “All that is good is easy, everything divine runs with light feet”: this is the first principle of my æsthetics. This music is wicked, refined, fatalistic: and withal remains popular,—it possesses the refinement of a race, not of an individual. It is rich. It is definite. It builds, organises, completes: and in this sense it stands as a contrast to the polypus in music, to “endless melody.” Have more painful, more tragic accents ever been heard on the stage before? And how are they obtained?
Without grimaces! Without counterfeiting of any kind! Free from the lie of the grand style!—In short: this music assumes that the listener is intelligent even as a musician,—thereby it is the opposite of Wagner, who, apart from everything else, was in any case the most ill-mannered genius on earth (Wagner takes us as if … he repeats a thing so often that we become desperate,—that we ultimately believe it).
And once more: I become a better man when Bizet speaks to me. Also a better musician, a better listener. Is it in any way possible to listen better?—I even burrow behind this music with my ears. I hear its very cause. I seem to assist at its birth. I tremble before the dangers which this daring music runs, I am enraptured over those happy accidents for which even Bizet himself may not be responsible.—And, strange to say, at bottom I do not give it a thought, or am not aware how much thought I really do give it. For quite other ideas are running through my head the while…. Has any one ever observed that music emancipates the spirit? gives wings to thought? and that the[Pg 3] more one becomes a musician the more one is also a philosopher? The grey sky of abstraction seems thrilled by flashes of lightning; the light is strong enough to reveal all the details of things; to enable one to grapple with problems; and the world is surveyed as if from a mountain top.—With this I have defined philosophical pathos.—And unexpectedly answers drop into my lap, a small hailstorm of ice and wisdom, of problems solved. Where am I? Bizet makes me productive. Everything that is good makes me productive. I have gratitude for nothing else, nor have I any other touchstone for testing what is good.
2.
Bizet’s work also saves; Wagner is not the only “Saviour.” With it one bids farewell to the damp north and to all the fog of the Wagnerian ideal. Even the action in itself delivers us from these things. From Mérimée it has this logic even in passion, from him it has the direct line, inexorable necessity; but what it has above all else is that which belongs to sub-tropical zones—that dryness of atmosphere, that limpidezza of the air. Here in every respect the climate is altered.
Here another kind of sensuality, another kind of sensitiveness and another kind of cheerfulness make their appeal. This music is gay, but not in a French or German way. Its gaiety is African; fate hangs over it, its happiness is short, sudden, without reprieve. I envy Bizet for having had the courage of this sensitiveness, which hitherto in the cultured music[Pg 4] of Europe has found no means of expression,—of this southern, tawny, sunburnt sensitiveness…. What a joy the golden afternoon of its happiness is to us! When we look out, with this music
in our minds, we wonder whether we have ever seen the sea so calm.
And how soothing is this Moorish dancing! How, for once, even our insatiability gets sated by its lascivious melancholy!—And finally love, love translated back into Nature! Not the love of a “cultured girl!”—no Senta-sentimentality.[1] But love as fate, as a fatality, cynical, innocent, cruel,—and precisely in this way Nature! The love whose means is war, whose very essence is the mortal hatred between the sexes!—I know no case in which the tragic irony, which constitutes the kernel of love, is expressed with such severity, or in so terrible a formula, as in the last cry of Don José with which the work ends:
“Yes, it is I who have killed her,
I—my adored Carmen!”
—Such a conception of love (the only one worthy of a philosopher) is rare: it distinguishes one work of art from among a thousand others. For, as a rule, artists are no better than the rest of the world, they are even worse—they misunderstand love. Even Wagner misunderstood it. They imagine that they are selfless in it because they appear to be seeking the advantage of another creature often to their own disadvantage. But in return they want to possess the other creature…. Even[Pg 5] God is no exception to this rule, he is very far from thinking “What does it matter to thee whether I love thee or not?”—He becomes terrible if he is not loved in return.
“L’amour—and with this principle one carries one’s point against Gods and men—est de tous les sentiments le plus égoïste, et par conséquent, lorsqu’il est blessé, le moins généreux” (B. Constant).
3.
Perhaps you are beginning to perceive how very much this music improves me?—Il faut méditerraniser la musique: and I have my reasons for this principle (“Beyond Good and Evil,” pp. 216 et seq.).
The return to Nature, health, good spirits, youth, virtue!—And yet I was one of the most corrupted Wagnerites…. I was able to take Wagner seriously. Oh, this old magician! what tricks has he not played upon us! The first thing his art places in our hands is a magnifying glass: we look through it, and we no longer trust our own eyes.—Everything grows bigger, even Wagner grows bigger…. What a clever rattlesnake.
Throughout his life he rattled “resignation,” “loyalty,” and “purity”
about our ears, and he retired from the corrupt world with a song of praise to chastity! !—And we believed it all….
—But you will not listen to me? You prefer even the problem of Wagner to that of Bizet? But neither do I underrate it; it has its charm. The problem of salvation is even a venerable problem.
Wagner pondered over nothing so deeply as over salvation: his opera is the opera of salvation.[Pg 6] Someone always wants to be saved in his operas,—now it is a youth; anon it is a maid,—this is his problem.—And how lavishly he varies his leitmotif! What rare and melancholy modulations! If it were not for Wagner, who would teach us that innocence has a preference for saving interesting sinners? (the case in “Tannhäuser”). Or that even the eternal Jew gets saved and settled down when he marries? (the case in the “Flying Dutchman”).
Or that corrupted old females prefer to be saved by chaste young men?
(the case of Kundry). Or that young hysterics like to be saved by their doctor? (the case in “Lohengrin”). Or that beautiful girls most love to be saved by a knight who also happens to be a Wagnerite? (the case in the “Mastersingers”). Or that even married women also like to be saved by a knight? (the case of Isolde). Or that the venerable Almighty, after having compromised himself morally in all manner of ways, is at last delivered by a free spirit and an immoralist? (the case in the “Ring”). Admire, more especially this last piece of wisdom!
Do you understand it? I—take good care not to understand it….
That it is possible to draw yet other lessons from the works above mentioned,—I am much more ready to prove than to dispute. That one may be driven by a Wagnerian ballet to desperation—and to virtue!
(once again the case in “Tannhäuser”). That not going to bed at the right time may be followed by the worst consequences (once again the case of “Lohengrin”),—That one can never be too sure of the spouse
one actually marries (for the third time, the case of “Lohengrin”).
“Tristan and[Pg 7] Isolde” glorifies the perfect husband who, in a certain case, can ask only one question: “But why have ye not told me this before? Nothing could be simpler than that!” Reply:
“That I cannot tell thee.
And what thou askest,
That wilt thou never learn.”
“Lohengrin” contains a solemn ban upon all investigation and questioning. In this way Wagner stood for the Christian concept,
“Thou must and shalt believe!” It is a crime against the highest and the holiest to be scientific…. The “Flying Dutchman” preaches the sublime doctrine that woman can moor the most erratic soul, or to put it into Wagnerian terms “save” him. Here we venture to ask a question. Supposing that this were actually true, would it therefore be desirable?—What becomes of the “eternal Jew” whom a woman adores and enchains? He simply ceases from being eternal; he marries,—that is to say, he concerns us no longer.—Transferred into the realm of reality, the danger for the artist and for the genius—and these are of course the “eternal Jews”—resides in woman: adoring women are their ruin. Scarcely any one has sufficient character not to be corrupted—”saved” when he finds himself treated as a God:—he then immediately condescends to woman.—Man is a coward in the face of all that is eternally feminine: and this the girls know.—In many cases of woman’s love, and perhaps precisely in the most famous ones, the love is no more than a refined form of parasitism, a making one’s nest in[Pg 8] another’s soul and sometimes even in another’s flesh—Ah! and how constantly at the cost of the host!
We know the fate of Goethe in old-maidish moralin-corroded Germany. He was always offensive to Germans, he found honest admirers only among.
Jewesses. Schiller, “noble” Schiller, who cried flowery words into their ears,—he was a man after their own heart. What did they reproach Goethe with?—with the Mount of Venus, and with having composed certain Venetian epigrams. Even Klopstock preached him a moral sermon; there was a time when Herder was fond of using the word “Priapus” when he spoke of Goethe. Even “Wilhelm Meister” seemed to be only a symptom of decline, of a moral “going to the dogs.” The “Menagerie of tame cattle,” the worthlessness of the hero in this book, revolted Niebuhr, who finally bursts out in a plaint which Biterolf[2] might well have sung: “nothing so easily makes a painful impression as when a great mind despoils itself of its wings and strives for virtuosity in something greatly inferior, while it renounces more lofty aims.” But the most indignant of all was the cultured woman: all smaller courts in Germany, every kind of “Puritanism” made the sign of the cross at the sight of Goethe, at the thought of the “unclean spirit” in Goethe.—This history was what Wagner set to music. He saves Goethe, that goes without saying; but he does so in such a clever way that he also takes the side of the cultured woman.
[Pg 9]
Goethe gets saved: a prayer saves him, a cultured woman draws him out of the mire.
—As to what Goethe would have thought of Wagner?—Goethe once set himself the question, “what danger hangs over all romanticists: the fate of romanticists?” His answer was: “To choke over the rumination of moral and religious absurdities.” In short: Parsifal…. The philosopher writes thereto an epilogue. Holiness—the only remaining higher value still seen by the mob or by woman, the horizon of the ideal for all those who are naturally short-sighted. To philosophers, however, this horizon, like every other, is a mere misunderstanding, a sort of slamming of the door in the face of the real beginning of their world,—their danger, their ideal, their desideratum…. In more polite language: La Philosophie ne suffit pas au grand nombre. Il lui faut la sainteté….
4.
I shall once more relate the history of the “Ring.” This is its proper place. It is also the history of a salvation: except that in this case
it is Wagner himself who is saved,—Half his life-time Wagner believed in the Revolution as only a Frenchman could have believed in it. He sought it in the runic inscriptions of myths, he thought he had found a typical revolutionary in Siegfried.-“Whence arises all the evil in this world?” Wagner asked himself. From “old contracts”: he replied, as all revolutionary ideologists have done. In plain English: from customs, laws,[Pg 10] morals, institutions, from all those things upon which the ancient world and ancient society rests. “How can one get rid of the evil in this world? How can one get rid of ancient society?” Only by declaring war against “contracts” (traditions, morality). This Siegfried does. He starts early at the game, very early: his origin itself is already a declaration of war against morality—he is the result of adultery, of incest…. Not the saga, but Wagner himself is the inventor of this radical feature; in this matter he corrected the saga…. Siegfried continues as he began: he follows only his first impulse, he flings all tradition, all respect, all fear to the winds. Whatever displeases him he strikes down. He tilts irreverently at old god-heads. His principal undertaking, however, is to emancipate woman,—”to deliver Brunnhilda.” … Siegfried and Brunnhilda; the sacrament of free love; the dawn of the golden age; the twilight of the Gods of old morality—evil is got rid of….
For a long while Wagner’s ship sailed happily along this course. There can be no doubt that along it Wagner sought his highest goal.—What happened? A misfortune. The ship dashed on to a reef; Wagner had run aground. The reef was Schopenhauer’s philosophy; Wagner had stuck fast on a contrary view of the world. What had he set to music? Optimism?
Wagner was ashamed. It was moreover an optimism for which Schopenhauer had devised an evil expression,—unscrupulous optimism. He was more than ever ashamed. He reflected for some time; his position seemed desperate…. At last a path of escape[Pg 11] seemed gradually to open before him: what if the reef on which he had been wrecked could be interpreted as a goal, as the ulterior motive, as the actual purpose of his journey? To be wrecked here, this was also a goal. Bene navigavi cum naufragium feci … and he translated the “Ring” into Schopenhauerian language. Everything goes wrong, everything goes to wrack and ruin, the new world is just as bad as the old one:—Nonentity, the Indian Circe beckons…. Brunnhilda, who according to the old plan had to retire with a song in honour of free love, consoling the world with the hope of a socialistic Utopia in which “all will be well”; now gets something else to do. She must first study Schopenhauer. She must first versify the fourth book of “The World as Will and Idea.” Wagner was saved….
Joking apart, this was a salvation. The service which Wagner owes to Schopenhauer is incalculable. It was the philosopher of decadence who allowed the artist of decadence to find himself.—
5.
The artist of decadence. That is the word. And here I begin to be serious. I could not think of looking on approvingly while this décadent spoils our health—and music into the bargain. Is Wagner a man at all? Is he not rather a disease? Everything he touches he contaminates. He has made music sick.
A typical décadent who thinks himself necessary with his corrupted taste, who arrogates to himself[Pg 12] a higher taste, who tries to establish his depravity as a law, as progress, as a fulfilment.
And no one guards against it. His powers of seduction attain monstrous proportions, holy incense hangs around him, the misunderstanding concerning him is called the Gospel,—and he has certainly not converted only the poor in spirit to his cause!
I should like to open the window a little. Air! More air!—
The fact that people in Germany deceive themselves concerning Wagner does not surprise me. The reverse would surprise me. The Germans have modelled a Wagner for themselves, whom they can honour: never yet have they been psychologists; they are thankful that they misunderstand.
But that people should also deceive themselves concerning Wagner in Paris! Where people are scarcely anything else than psychologists. And in Saint Petersburg! Where things are divined, which even Paris has no
idea of. How intimately related must Wagner be to the entire decadence of Europe for her not to have felt that he was decadent! He belongs to it: he is its protagonist, its greatest name…. We bring honour on ourselves by elevating him to the clouds.—For the mere fact that no one guards against him is in itself already a sign of decadence.
Instinct is weakened, what ought to be eschewed now attracts. People actually kiss that which plunges them more quickly into the abyss.—Is there any need for an example? One has only to think of the régime which anæmic, or gouty, or diabetic people[Pg 13] prescribe for themselves.
The definition of a vegetarian: a creature who has need of a corroborating diet. To recognise what is harmful as harmful, to be able to deny oneself what is harmful, is a sign of youth, of vitality. That which is harmful lures the exhausted: cabbage lures the vegetarian.
Illness itself can be a stimulus to life: but one must be healthy enough for such a stimulus!—Wagner increases exhaustion: therefore he attracts the weak and exhausted to him. Oh, the rattlesnake joy of the old Master precisely because he always saw “the little children”
coming unto him!
I place this point of view first and foremost: Wagner’s art is diseased. The problems he sets on the stage are all concerned with hysteria; the convulsiveness of his emotions, his over-excited sensitiveness, his taste which demands ever sharper condimentation, his erraticness which he togged out to look like principles, and, last but not least, his choice of heroes and heroines, considered as physiological types (—a hospital ward!—): the whole represents a morbid picture; of this there can be no doubt. Wagner est une nevrose. Maybe, that nothing is better known to-day, or in any case the subject of greater study, than the Protean character of degeneration which has disguised itself here, both as an art and as an artist. In Wagner our medical men and physiologists have a most interesting case, or at least a very complete one. Owing to the very fact that nothing is more modern than this thorough morbidness, this dilatoriness and excessive irritability of the nervous[Pg 14] machinery, Wagner is the modern artist par excellence, the Cagliostro of modernity. All that the world most needs to-day, is combined in the most seductive manner in his art,—the three great stimulants of exhausted people: brutality, artificiality and innocence (idiocy).
Wagner is a great corrupter of music. With it, he found the means of stimulating tired nerves,—and in this way he made music ill. In the art of spurring exhausted creatures back into activity, and of recalling half-corpses to life, the inventiveness he shows is of no mean order. He is the master of hypnotic trickery, and he fells the strongest like bullocks. Wagner’s success—his success with nerves, and therefore with women—converted the whole world of ambitious musicians into disciples of his secret art. And not only the ambitious, but also the shrewd…. Only with morbid music can money be made to-day; our big theatres live on Wagner.
6.
—Once more I will venture to indulge in a little levity. Let us suppose that Wagner’s success could become flesh and blood and assume a human form; that, dressed up as a good-natured musical savant, it could move among budding artists. How do you think it would then be likely to express itself?—
My friends, it would say, let us exchange a word or two in private.
It is easier to compose bad music than good music. But what, if apart from this it[Pg 15] were also more profitable, more effective, more convincing, more exalting, more secure, more Wagnerian?… Pulchrum est paucorum hominum. Bad enough in all conscience! We understand Latin, and perhaps we also understand which side our bread is buttered.
Beauty has its drawbacks: we know that. Wherefore beauty then? Why not rather aim at size, at the sublime, the gigantic, that which moves the masses?—And to repeat: it is easier to be titanic than to be beautiful; we know that….
We know the masses, we know the theatre. The best of those who assemble there,—German youths, horned Siegfrieds and other Wagnerites, require
the sublime, the profound, and the overwhelming. This much still lies within our power. And as for the others who assemble there,—the cultured crétins, the blasé pigmies, the eternally feminine, the gastrically happy, in short the people—they also require the sublime, the profound, the overwhelming. All these people argue in the same way.
“He who overthrows us is strong; he who elevates us is godly; he who makes us wonder vaguely is profound.”—Let us make up our mind then, my friends in music: we do want to overthrow them, we do want to elevate them, we do want to make them wonder vaguely. This much still lies within our powers.
In regard to the process of making them wonder: it is here that our notion of “style” finds its starting-point. Above all, no thoughts!
Nothing is more compromising than a thought! But the state of mind which precedes thought, the labour[Pg 16] of the thought still unborn, the promise of future thought, the world as it was before God created it
—a recrudescence of chaos…. Chaos makes people wonder …
In the words of the master: infinity but without melody.
In the second place, with regard to the over-throwing,—this belongs at least in part, to physiology. Let us, in the first place, examine the instruments. A few of them would convince even our intestines (—they throw open doors, as Händel would say), others becharm our very marrow. The colour of the melody is all-important here; the melody itself is of no importance. Let us be precise about this point. To what other purpose should we spend our strength? Let us be characteristic in tone even to the point of foolishness! If by means of tones we allow plenty of scope for guessing, this will be put to the credit of our intellects. Let us irritate nerves, let us strike them dead: let us handle thunder and lightning,—that is what overthrows….
But what overthrows best, is passion.—We must try and be clear concerning this question of passion. Nothing is cheaper than passion!
All the virtues of counterpoint may be dispensed with, there is no need to have learnt anything,—but passion is always within our reach!
Beauty is difficult: let us beware of beauty!… And also of melody!
However much in earnest we may otherwise be about the ideal, let us slander, my friends, let us slander,—let us slander melody! Nothing is more dangerous than a beautiful melody! Nothing is[Pg 17] more certain to ruin taste! My friends, if people again set about loving beautiful melodies, we are lost!…
First principle: melody is immoral. Proof: “Palestrina.”
Application: “Parsifal.” The absence of melody is in itself sanctifying….
And this is the definition of passion. Passion—or the acrobatic feats of ugliness on the tight-rope of enharmonic.—My friends, let us dare to be ugly! Wagner dared it! Let us heave the mud of the most repulsive harmonies undauntedly before us. We must not even spare our hands! Only thus, shall we become natural….
And now a last word of advice. Perhaps it covers everything.—Let us be idealists/—If not the cleverest, it is at least the wisest thing we can do. In order to elevate men we ourselves must be exalted.
Let us wander in the clouds, let us harangue eternity, let us be careful to group great symbols all around us! Sursum! Bumbum!—
there is no better advice. The “heaving breast” shall be our argument,
“beautiful feelings” our advocates. Virtue still carries its point against counterpoint. “How could he who improves us, help being better than we?” man has ever thought thus. Let us therefore improve mankind!—in this way we shall become good (in this way we shall even become “classics”—Schiller became a “classic”). The straining after the base excitement of the senses, after so-called beauty, shattered the nerves of the Italians: let us remain German! Even Mozart’s relation to music—Wagner spoke this word of comfort to us—was at bottom frivolous….[Pg 18] Never let us acknowledge that music “may be a recreation,” that it may “enliven,” that it may “give pleasure.” Never let us give pleasure!—we shall be lost if people once again think of music hedonistically…. That belongs to the bad eighteenth century….
On the other hand, nothing would be more advisable (between ourselves)
than a dose of—cant, sit venia verbo. This imparts dignity.—And let us take care to select the precise moment when it would be fitting to have black looks, to sigh openly, to sigh devoutly, to flaunt grand Christian sympathy before their eyes. “Man is corrupt: who will save him? what will save him?” Do not let us reply. We must be on our guard. We must control our ambition, which would bid us found new religions. But no one must doubt that it is we who save him, that in our music alone salvation is to be found…. (See Wagner’s essay,
“Religion and Art”)
7.
Enough! Enough! I fear that, beneath all my merry jests, you are beginning to recognise the sinister truth only too clearly—the picture of the decline of art, of the decline of the artist. The latter, which is a decline of character, might perhaps be defined provisionally in the following manner: the musician is now becoming an actor, his art is developing ever more and more into a talent for telling lies. In a certain chapter of my principal work which bears the title “Concerning the[Pg 19] Physiology of Art,”[3] I shall have an opportunity of showing more thoroughly how this transformation of art as a whole into histrionics is just as much a sign of physiological degeneration (or more precisely a form of hysteria), as any other individual corruption, and infirmity peculiar to the art which Wagner inaugurated: for instance the restlessness of its optics, which makes it necessary to change one’s attitude to it every second. They understand nothing of Wagner who see in him but a sport of nature, an arbitrary mood, a chapter of accidents. He was not the “defective,” “ill-fated,” “contradictory”
genius that people have declared him to be. Wagner was something complete, he was a typical decadent, in whom every sign of “free will” was lacking, in whom every feature was necessary. If there is anything at all of interest in Warner, it is the consistency with which a critical physiological condition may convert itself, step by step, conclusion after conclusion, into a method, a form of procedure, a reform of all principles, a crisis in taste.
At this point I shall only stop to consider the question of style.
How is decadence in literature characterised? By the fact that in it life no longer animates the whole. Words become predominant and leap right out of the sentence to which they belong, the sentences themselves trespass beyond their bounds, and obscure the sense of the whole page, and the page in its turn gains in vigour at[Pg 20] the cost of the whole,—the whole is no longer a whole. But this is the formula for every decadent style: there is always anarchy among the atoms, disaggregation of the will,—in moral terms: “freedom of the individual,”—extended into a political theory: “equal rights for all.” Life, equal vitality, all the vibration and exuberance of life, driven back into the smallest structure, and the remainder left almost lifeless. Everywhere paralysis, dis-tress, and numbness, or hostility and chaos: both striking one with ever increasing force the higher the forms of organisation are into which one ascends. The whole no longer lives at all: it is composed, reckoned up, artificial, a fictitious thing.
In Wagners case the first thing we notice is an hallucination, not of tones, but of attitudes. Only after he has the latter does he begin to seek the semiotics of tone for them. If we wish to admire him, we should observe him at work here: how he separates and distinguishes, how he arrives at small unities, and how he galvanises them, accentuates them, and brings them into pre-eminence. But in this way he exhausts his strength: the rest is worthless. How paltry, awkward, and amateurish is his manner of “developing,” his attempt at combining incompatible parts. His manner in this respect reminds one of two people who even in other ways are not unlike him in style—the brothers Goncourt; one almost feels compassion for so much impotence.
That Wagner disguised his inability to create organic forms, under the cloak of a principle, that he should have con[Pg 21]structed a “dramatic style” out of what we should call the total inability to create any style whatsoever, is quite in keeping with that daring habit, which
stuck to him throughout his life, of setting up a principle wherever capacity failed him. (In this respect he was very different from old Kant, who rejoiced in another form of daring, i.e.: whenever a principle failed him, he endowed man with a “capacity” which took its place….) Once more let it be said that Wagner is really only worthy of admiration and love by virtue of his inventiveness in small things, in his elaboration of details,—here one is quite justified in proclaiming him a master of the first rank, as our greatest musical miniaturist, who compresses an infinity of meaning and sweetness into the smallest space. His wealth of colour, of chiaroscuro, of the mystery of a dying light, so pampers our senses that afterwards almost every other musician strikes us as being too robust. If people would believe me, they would not form the highest idea of Wagner from that which pleases them in him to-day. All that was only devised for convincing the masses, and people like ourselves recoil from it just as one would recoil from too garish a fresco. What concern have we with the irritating brutality of the overture to the “Tannhäuser”?
Or with the Walkyrie Circus? Whatever has become popular in Wagner’s art, including that which has become so outside the theatre, is in bad taste and spoils taste. The “Tannhäuser” March seems to me to savour of the Philistine; the overture to the “Flying Dutchman” is much ado about nothing;[Pg 22] the prelude to “Lohengrin” was the first, only too insidious, only too successful example of how one can hypnotise with music (—I dislike all music which aspires to nothing higher than to convince the nerves). But apart from the Wagner who paints frescoes and practises magnetism, there is yet another Wagner who hoards small treasures: our greatest melancholic in music, full of side glances, loving speeches, and words of comfort, in which no one ever forestalled him,—the tone-master of melancholy and drowsy happiness…. A lexicon of Wagner’s most intimate phrases—a host of short fragments of from five to fifteen bars each, of music which nobody knows…. Wagner had the virtue of décadents,—pity….
8.
—”Very good! But how can this décadent spoil one’s taste if perchance one is not a musician, if perchance one is not oneself a décadent?”—Conversely! How can one help it! Just you try it!—You know not what Wagner is: quite a great actor! Does a more profound, a more ponderous influence exist on the stage? Just look at these youthlets,—all benumbed, pale, breathless! They are Wagnerites: they know nothing about music,—and yet Wagner gets the mastery of them. Wagner’s art presses with the weight of a hundred atmospheres: do but submit, there is nothing else to do…. Wagner the actor is a tyrant, his pathos flings all taste, all resistance, to the winds.[Pg 23]
—Who else has this persuasive power in his attitudes, who else sees attitudes so clearly before anything else! This holding-of-its-breath in Wagnerian pathos, this disinclination to have done with an intense feeling, this terrifying habit of dwelling on a situation in which every instant almost chokes one.——
Was Wagner a musician at all? In any case he was something else to a much greater degree—that is to say, an incomparable histrio, the greatest mime, the most astounding theatrical genius that the Germans have ever had, our scenic artist par excellence. He belongs to some other sphere than the history of music, with whose really great and genuine figure he must not be confounded. Wagner and Beethoven—this is blasphemy—and above all it does not do justice even to Wagner….
As a musician he was no more than what he was as a man: he became a musician, he became a poet, because the tyrant in him, his actor’s genius, drove him to be both. Nothing is known concerning Wagner, so long as his dominating instinct has not been divined.
Wagner was not instinctively a musician. And this he proved by the way in which he abandoned all laws and rules, or, in more precise terms, all style in music, in order to make what he wanted with it, i.e., a rhetorical medium for the stage, a medium of expression, a means of accentuating an attitude, a vehicle of suggestion and of the psychologically picturesque. In this department Wagner may well stand
as an inventor and an innovator of the first order—he increased the powers of speech[Pg 24] of music to an incalculable degree—: he is the Victor Hugo of music as language, provided always we allow that under certain circumstances music may be something which is not music, but speech—instrument—ancilla dramaturgica. Wagner’s music, not in the tender care of theatrical taste, which is very tolerant, is simply bad music, perhaps the worst that has ever been composed. When a musician can no longer count up to three, he becomes “dramatic,” he becomes “Wagnerian.” …
Wagner almost discovered the magic which can be wrought even now by means of music which is both incoherent and elementary. His consciousness of this attains to huge proportions, as does also his instinct to dispense entirely with higher law and style. The elementary factors—sound, movement, colour, in short, the whole sensuousness of music—suffice. Wagner never calculates as a musician with a musician’s conscience: all he strains after is effect, nothing more than effect. And he knows what he has to make an effect upon!—In this he is as unhesitating as Schiller was, as any theatrical man must be; he has also the latter’s contempt for the world which he brings to its knees before him. A man is an actor when he is ahead of mankind in his possession of this one view, that everything which has to strike people as true, must not be true. This rule was formulated by Talma: it contains the whole psychology of the actor, it also contains—and this we need not doubt—all his morality. Wagner’s music is never true.
—But it is supposed to be so: and thus everything is as it should be.
As long as we are young, and[Pg 25] Wagnerites into the bargain, we regard Wagner as rich, even as the model of a prodigal giver, even as a great landlord in the realm of sound. We admire him in very much the same way as young Frenchmen admire Victor Hugo—that is to say, for his
“royal liberality.” Later on we admire the one as well as the other for the opposite reason: as masters and paragons in economy, as prudent amphitryons. Nobody can equal them in the art of providing a princely board with such a modest outlay.—The Wagnerite, with his credulous stomach, is even sated with the fare which his master conjures up before him. But we others who, in books as in music, desire above all to find substance, and who are scarcely satisfied with the mere representation of a banquet, are much worse off. In plain English, Wagner does not give us enough to masticate. His recitative—very little meat, more bones, and plenty of broth—I christened “alia genovese”: I had no intention of flattering the Genoese with this remark, but rather the older recitativo, the recitativo secco.
And as to Wagnerian leitmotif, I fear I lack the necessary culinary understanding for it. If hard pressed, I might say that I regard it perhaps as an ideal toothpick, as an opportunity of ridding one’s self of what remains of one’s meal. Wagner’s “arias” are still left over.
But now I shall hold my tongue.
9.
Even in his general sketch of the action, Wagner is above all an actor.
The first thing that occurs to him is a scene which is certain to produce a[Pg 26] strong effect, a real actio,[4] with a basso-relievo of attitudes; an overwhelming scene, this he now proceeds to elaborate more deeply, and out of it he draws his characters. The whole of what remains to be done follows of itself, fully in keeping with a technical economy which has no reason to be subtle. It is not Corneille’s public that Wagner has to consider, it is merely the nineteenth century.
Concerning the “actual requirements of the stage” Wagner would have about the same opinion as any other actor of to-day: a series of powerful scenes, each stronger than the one that preceded it,—and, in between, all kinds of clever nonsense. His first concern is to guarantee the effect of his work; he begins with the third act, he approves his work according to the quality of its final effect.
Guided by this sort of understanding of the stage, there is not much danger of one’s creating a drama unawares. Drama demands inexorable logic: but what did Wagner care about logic? Again I say, it was not Corneille’s public that he had to consider; but[Pg 27] merely Germans!
Everybody knows the technical difficulties before which the dramatist often has to summon all his strength and frequently to sweat his blood: the difficulty of making the plot seem necessary and the unravelment as well, so that both are conceivable only in a certain way, and so that each may give the impression of freedom (the principle of the smallest expenditure of energy). Now the very last thing that Wagner does is to sweat blood over the plot; and on this and the unravelment he certainly spends the smallest possible amount of energy. Let anybody put one of Wagner’s “plots” under the microscope, and I wager that he will be forced to laugh. Nothing is more enlivening than the dilemma in “Tristan,” unless it be that in the “Mastersingers.” Wagner is no dramatist; let nobody be deceived on this point. All he did was to love the word “drama”—he always loved fine words. Nevertheless, in his writings the word “drama” is merely a misunderstanding (—and a piece of shrewdness: Wagner always affected superiority in regard to the word “opera”—); just as the word “spirit” is a misunderstanding in the New Testament.—He was not enough of a psychologist for drama; he instinctively avoided a psychological plot—but how?—by always putting idiosyncrasy in its place … Very modern—eh? Very Parisian!
very decadent! … Incidentally, the plots that Wagner knows how to unravel with the help of dramatic inventions, are of quite another kind. For example, let us suppose that Wagner requires a female voice.
A whole act without a woman’s voice would be[Pg 28] impossible! But in this particular instance not one of the heroines happens to be free. What does Wagner do? He emancipates the oldest woman on earth, Erda: “Step up, aged grand-mamma! You have got to sing!” And Erda sings. Wagner’s end has been achieved. Thereupon he immediately dismisses the old lady:
“Why on earth did you come? Off with you! Kindly go to sleep again!”
In short, a scene full of mythological awe, before which the Wagnerite wonders all kinds of things….
—”But the substance of Wagner’s texts! their mythical substance, their eternal substance:”—Question: how is this substance, this eternal substance tested? The chemical analyst replies: Translate Wagner into the real, into the modern,—let us be even more cruel, and say: into the bourgeois! And what will then become of him?—Between ourselves, I have tried the experiment. Nothing is more entertaining, nothing more worthy of being recommended to a picnic-party, than to discuss Wagner dressed in a more modern garb: for instance Parsifal, as a candidate in divinity, with a public-school education (—the latter, quite indispensable for pure foolishness). What surprises await one!
Would you believe it, that Wagner’s heroines one and all, once they have been divested of the heroic husks, are almost Indistinguishable from Mdme. Bovary!—just as one can conceive conversely, of Flaubert’s being well able to transform all his heroines into Scandinavian or Carthaginian women, and then to offer them to Wagner in this mythologised form as a libretto. Indeed, generally[Pg 29] speaking, Wagner does not seem to have become interested in any other problems than those which engross the little Parisian decadents of to-day. Always five paces away from the hospital! All very modern problems, all problems which are at home in big cities! do not doubt it!… Have you noticed (it is in keeping with this association of ideas) that Wagner’s heroines never have any children?—They cannot have them,…
The despair with which Wagner tackled the problem of arranging in some way for Siegfried’s birth, betrays how modern his feelings on this point actually were.—”emancipated woman”—but not with any hope of offspring.—And now here is a fact which leaves us speechless: Parsifal is Lohengrin’s father! How ever did he do it?—Ought one at this juncture to remember that “chastity works miracles”?…
Wagnerus dixit princeps in castitate auctoritas.
10.
And now just a word en passant concerning Wagner’s writings: they are among other things a school of shrewdness. The system of procedures of which Wagner disposes, might be applied to a hundred other cases,—he that hath ears to hear let him hear. Perhaps I may lay claim to some public acknowledgment, if I put three ox the most valuable of
these procedures into a precise form.
Everything that Wagner cannot do is bad.
Wagner could do much more than he does; but his strong principles prevent him.
Everything that Wagner can do, no one will[Pg 30] ever be able to do after him, no one has ever done before him, and no one must ever do after him: Wagner is godly….
These three propositions are the quintessence of Wagner’s writings;—the rest is merely—”literature.”
—Not every kind of music hitherto has been in need of literature; and it were well, to try and discover the actual reason of this. Is it perhaps that Wagner’s music is too difficult to understand? Or did he fear precisely the reverse.—that it was too easy,—that people might not understand it with sufficient difficulty?—As a matter of fact, his whole life long, he did nothing but repeat one proposition: that his music did not mean music alone! But something more! Something immeasurably more!… “Not music alone”—no musician would speak in this way. I repeat, Wagner could not create things as a whole; he had no choice, he was obliged to create things in bits; with “motives,”
attitudes, formulæ, duplications, and hundreds of repetitions, he remained a rhetorician in music,—and that is why he was at bottom forced to press “this means” into the foreground. “Music can never be anything else than a means”: this was his theory; but above all it was the only practice that lay open to him. No musician however thinks in this way.—Wagner was in need of literature, in order to persuade the whole world to take his music seriously, profoundly, “because it meant an infinity of things”; all his life he was the commentator of the “Idea.”—What does Elsa stand for? But without a doubt, Elsa is
“the unconscious[Pg 31] mind of the people” (—”when I realised this, I naturally became a thorough revolutionist”—).
Do not let us forget that, when Hegel and Schelling were misleading the minds of Germany, Wagner was still young: that he guessed, or rather fully grasped, that the only thing which Germans take seriously is—”the idea,”—that is to say, something obscure, uncertain, wonderful; that among Germans lucidity is an objection, logic a refutation. Schopenhauer rigorously pointed out the dishonesty of Hegel’s and Schelling’s age,—rigorously, but also unjustly; for he himself, the pessimistic old counterfeiter, was in no way more “honest”
than his more famous contemporaries. But let us leave morality out of the question, Hegel is a matter of taste…. And not only of German but of European taste! … A taste which Wagner understood!—which he felt equal to! which he has immortalised!—All he did was to apply it to music—he invented a style for himself, which might mean an
“infinity of things,”—he was Hegel’s heir…. Music as “Idea.”—
And how well Wagner was understood!—The same kind of man who used to gush over Hegel, now gushes over Wagner; in his school they even write Hegelian.[5] But he who understood Wagner best, was the German youthlet. The two words “infinity” and “meaning” were sufficient for this: at their sound the youthlet immediately began to feel exceptionally happy. Wagner did not conquer these boys with music, but with the “idea”:—it is[Pg 32] the enigmatical vagueness of his art, its game of hide-and-seek amid a hundred symbols, its polychromy in ideals, which leads and lures the lads. It is Wagner’s genius for forming clouds, his sweeps and swoops through the air, his ubiquity and nullibiety—precisely the same qualities with which Hegel led and lured in his time!—Moreover in the presence of Wagner’s multifariousness, plenitude and arbitrariness, they seem to themselves justified—”saved.” Tremulously they listen while the great symbols in his art seem to make themselves heard from out the misty distance, with a gentle roll of thunder, and they are not at all displeased if at times it gets a little grey, gruesome and cold. Are they not one and all, like Wagner himself, on quite intimate terms with bad weather, with German weather! Wotan is their God: but Wotan is the God of bad weather…. They are right, how could these German youths—in their present condition,—miss what we others, we halcyonians, miss in
Wagner? i.e.: la gaya scienza; light feet, wit, fire, grave, grand logic, stellar dancing, wanton intellectuality, the vibrating light of the South, the calm sea—perfection….
11.
—I have mentioned the sphere to which Wagner belongs—certainly not to the history of music. What, however, does he mean historically?—The rise of the actor in music, a momentous event which not only leads me to think but also to fear.
In a word: “Wagner and Liszt.” Never yet[Pg 33] have the “uprightness”
and “genuineness” of musicians been put to such a dangerous test.
It is glaringly obvious: great success, mob success is no longer the achievement of the genuine,—in order to get it a man must be an actor!—Victor Hugo and Richard Wagner—they both prove one and the same thing: that in declining civilisations, wherever the mob is allowed to decide, genuineness becomes superfluous, prejudicial, unfavourable. The actor, alone, can still kindle great enthusiasm.—And thus it is his golden age which is now dawning—his and that of all those who are in any way related to him. With drums and fifes, Wagner marches at the head of all artists in declamation, in display and virtuosity. He began by convincing the conductors of orchestras, the scene-shifters and stage-singers, not to forget the orchestra:—he “delivered” them from monotony…. The movement that Wagner created has spread even to the land of knowledge: whole sciences pertaining to music are rising slowly, out of centuries of scholasticism. As an example of what I mean, let me point more particularly to Riemann’s services to rhythmics; he was the first who called attention to the leading idea in punctuation—even for music (unfortunately he did so with a bad word; he called it
“phrasing”).—All these people, and I say it with gratitude, are the best, the most respectable among Wagner’s admirers—they have a perfect right to honour Wagner. The same instinct unites them with one another; in him they recognise their highest type, and since he has inflamed them with his own ardour they feel[Pg 34] themselves transformed into power, even into great power. In this quarter, if anywhere, Wagner’s influence has really been beneficent. Never before has there been so much thinking, willing, and industry in this sphere.
Wagner endowed all these artists with a new conscience: what they now exact and obtain from themselves, they had never exacted before Wagner’s time—before then they had been too modest. Another spirit prevails on the stage since Wagner rules there: the most difficult things are expected, blame is severe, praise very scarce,—the good and the excellent have become the rule. Taste is no longer necessary, nor even is a good voice. Wagner is sung only with ruined voices: this has a more “dramatic” effect. Even talent is out of the question.
Expressiveness at all costs, which is what the Wagnerian ideal—the ideal of decadence—demands, is hardly compatible with talent. All that is required for this is virtue—that is to say, training, automatism,
“self-denial.” Neither taste, voices, nor gifts; Wagner’s stage requires but one thing: Germans!… The definition of a German: an obedient man with long legs…. There is a deep significance in the fact that the rise of Wagner should have coincided with the rise of the “Empire”: both phenomena are a proof of one and the same thing—obedience and long legs.—Never have people been more obedient, never have they been so well ordered about. The conductors of Wagnerian orchestras, more particularly, are worthy of an age, which posterity will one day call, with timid awe, the classical age of war.[Pg 35] Wagner understood how to command; in this respect, too, he was a great teacher. He commanded as a man who had exercised an inexorable will over himself—as one who had practised lifelong discipline: Wagner was, perhaps, the greatest example of self-violence in the whole of the history of art (—even Alfieri, who in other respects is his next-of-kin, is outdone by him. The note of a Torinese).
12.
This view, that our actors have become more worthy of respect than heretofore, does not imply that I believe them to have become less
dangerous … But who is in any doubt as to what I want,—as to what the three requisitions are concerning which my wrath and my care and love of art, have made me open my mouth on this occasion?
That the stage should not become master of the arts. That the actor should not become the corrupter of the genuine.
That music should not become an art of lying.
FRIEDRICH NIETZSCHE.
[Pg 36]
POSTSCRIPT
The gravity of these last words allows me at this point to introduce a few sentences out of an unprinted essay which will at least leave no doubt as to my earnestness in regard to this question. The title of this essay is: “What Wagner has cost us.”
One pays dearly for having been a follower of Wagner. Even to-day a vague feeling that this is so, still prevails. Even Wagner’s success, his triumph, did not uproot this feeling thoroughly. But formerly it was strong, it was terrible; it was a gloomy hate throughout almost three-quarters of Wagner’s life. The resistance which he met with among us Germans cannot be too highly valued or too highly honoured.
People guarded themselves against him as against an illness,—not with arguments—it is impossible to refute an illness—, but with obstruction, with mistrust, with repugnance, with loathing, with sombre earnestness, as though he were a great rampant danger. The æsthetes gave themselves away when out of three schools of German philosophy they waged an absurd war against Wagner’s principles with “ifs” and
“fors”—what did he care about principles, even his own!—The Germans themselves had enough instinctive good sense to dispense with every
“if” and “for” in this matter. An instinct is weakened when it becomes conscious: for by[Pg 37] becoming conscious it makes itself feeble. If there were any signs that in spite of the universal character of European decadence there was still a modicum of health, still an instinctive premonition of what is harmful and dangerous, residing in the German soul, then it would be precisely this blunt resistance to Wagner which I should least like to see underrated. It does us honour, it gives us some reason to hope: France no longer has such an amount of health at her disposal. The Germans, these loiterers par excellence, as history shows, are to-day the most backward among the civilised nations of Europe: this has its advantages,—for they are thus relatively the youngest.
One pays dearly for having been a follower of Wagner. It is only quite recently that the Germans have overcome a sort of dread of him,—the desire to be rid of him occurred to them again and again.[6]
Does anybody remember a very curious occurrence in which, quite unexpectedly towards the end, this[Pg 38] old feeling once more manifested itself? It happened at Wagner’s funeral. The first Wagner Society, the one in Munich, laid a wreath on his grave with this inscription, which immediately became famous: “Salvation to the Saviour!” Everybody admired the lofty inspiration which had dictated this inscription, as also the taste which seemed to be the privilege of the followers of Wagner. Many also, however (it was singular enough), made this slight alteration in it: “Salvation from the Saviour” —People began to breathe again.—
One pays dearly for having been a follower of Wagner. Let us try to estimate the influence of this worship upon culture. Whom did this movement press to the front? What did it make ever more and more pre-eminent?—In the first place the layman’s arrogance, the arrogance of the art-maniac. Now these people are organising societies, they wish to make their taste prevail, they even wish to pose as judges in rebus musicis et musicantibus. Secondly: an ever increasing indifference towards severe, noble and conscientious schooling in the service of art; and in its place the belief in genius, or in plain English, cheeky dilettantism (—the formula for this is to be found in the Mastersingers). Thirdly, and this is the worst of all: Theatrocracy—, the craziness of a belief in the pre-eminence of the theatre, in the right of the theatre to rule supreme over
the arts, over Art in general…. But this should be shouted into the face of Wagnerites a hundred times over: that the theatre is something lower than art, something secondary, something coarsened,[Pg 39]
above all something suitably distorted and falsified for the mob. In this respect Wagner altered nothing: Bayreuth is grand Opera—and not even good opera…. The stage is a form of Demolatry in the realm of taste, the stage is an insurrection of the mob, a plebiscite against good taste…. The case of Wagner proves this fact: he captivated the masses—he depraved taste, he even perverted our taste for opera!—
One pays dearly for having been a follower of Wagner. What has Wagner-worship made out of spirit? Does Wagner liberate the spirit?
To him belong that ambiguity and equivocation and all other qualities which can convince the uncertain without making them conscious of why they have been convinced. In this sense Wagner is a seducer on a grand scale. There is nothing exhausted, nothing effete, nothing dangerous to life, nothing that slanders the world in the realm of spirit, which has not secretly found shelter in his art; he conceals the blackest obscurantism in the luminous orbs of the ideal. He flatters every nihilistic (Buddhistic) instinct and togs it out in music; he flatters every form of Christianity, every religious expression of decadence.
He that hath ears to hear let him hear: everything that has ever grown out of the soil of impoverished life, the whole counterfeit coinage of the transcendental and of a Beyond found its most sublime advocate in Wagner’s art, not in formulæ (Wagner is too clever to use formulæ), but in the persuasion of the senses which in their turn makes the spirit weary and morbid. Music in the form of Circe … in[Pg 40] this respect his last work is his greatest masterpiece. In the art of seduction
“Parsifal” will for ever maintain its rank as a stroke of genius….
I admire this work. I would fain have composed it myself. Wagner was never better inspired than towards the end. The subtlety with which beauty and disease are united here, reaches such a height, that it casts so to speak a shadow upon all Wagner’s earlier achievements: it seems too bright, too healthy. Do ye understand this? Health and brightness acting like a shadow? Almost like an objection?… To this extent are we already pure fools…. Never was their a greater Master in heavy hieratic perfumes—Never on earth has there been such a connoisseur of paltry infinities, of all that thrills, of extravagant excesses, of all the feminism from out the vocabulary of happiness!
My friends, do but drink the philtres of this art! Nowhere will ye find a more pleasant method of enervating your spirit, of forgetting your manliness in the shade of a rosebush…. Ah, this old magician, mightiest of Klingsors; how he wages war against us with his art, against us free spirits! How he appeals to every form of cowardice of the modern soul with his charming girlish notes! There never was such a mortal hatred of knowledge! One must be a very cynic in order to resist seduction here. One must be able to bite in order to resist worshipping at this shrine. Very well, old seducer! The cynic cautions you—cave canem….
One pays dearly for having been a follower of Wagner. I contemplate the youthlets who have long been exposed to his infection. The first[Pg 41]
relatively innocuous effect of it is the corruption of their taste.
Wagner acts like chronic recourse to the bottle. He stultifies, he befouls the stomach. His specific effect: degeneration of the feeling for rhythm. What the Wagnerite calls rhythmical is what I call, to use a Greek metaphor, “stirring a swamp.” Much more dangerous than all this, however, is the corruption of ideas. The youthlet becomes a moon-calf, an “idealist.” He stands above science, and in this respect he has reached the master’s heights. On the other hand, he assumes the airs of a philosopher; he writes for the Bayreuth Journal; he solves all problems in the name of the Father, the Son, and the Holy Master. But the most ghastly thing of all is the deterioration of the nerves. Let any one wander through a large city at night, in all directions he will hear people doing violence to instruments with solemn rage and fury, a wild uproar breaks out at intervals. What is happening? It is the disciples of Wagner in the act of worshipping
him…. Bayreuth is another word for a Hydro. A typical telegram from Bayreuth would read bereits bereut (I already repent). Wagner is bad for young men; he is fatal for women. What medically speaking is a female Wagnerite? It seems to me that a doctor could not be too serious in putting this alternative of conscience to young women: either one thing or the other. But they have already made their choice. You cannot serve two Masters when one of these is Wagner. Wagner redeemed woman; and in return woman built Bayreuth for him. Every sacrifice, every[Pg 42]
surrender: there was nothing that they were not prepared to give him.
Woman impoverishes herself in favour of the Master, she becomes quite touching, she stands naked before him. The female Wagnerite, the most attractive equivocality that exists to-day: she is the incarnation of Wagner’s cause: his cause triumphs with her as its symbol…. Ah, this old robber! He robs our young men: he even robs our women as well, and drags them to his cell…. Ah, this old Minotaur! What has he not already cost us? Every year processions of the finest young men and maidens are led into his labyrinth that he may swallow them up, every year the whole of Europe cries out “Away to Crete! Away to Crete!” …
[Pg 43]
SECOND POSTSCRIPT
It seems to me that my letter is open to some misunderstanding. On certain faces I see the expression of gratitude; I even hear modest but merry laughter. I prefer to be understood here as in other things. But since a certain animal, the worm of Empire, the famous Rhinoxera, has become lodged in the vineyards of the German spirit, nobody any longer understands a word I say. The Kreuz-Zeitung has brought this home to me, not to speak of the Litterarisches Centralblatt I have given the Germans the deepest books that they have ever possessed—a sufficient reason for their not having understood a word of them…. If in this essay I declare war against Wagner—and incidentally against a certain form of German taste, if I seem to use strong language about the cretinism of Bayreuth, it must not be supposed that I am in the least anxious to glorify any other musician. Other musicians are not to be considered by the side of Wagner. Things are generally bad. Decay is universal. Disease lies at the very root of things. If Wagner’s name represents the ruin of music, just as Bernini’s stands for the ruin of sculpture, he is not on that account its cause. All he did was to accelerate the fall,—though we are quite prepared to admit that he did it in a way which makes one recoil with horror from this almost instantaneous decline[Pg 44] and fall to the depths. He possessed the ingenuousness of decadence: this constituted his superiority. He believed in it. He did not halt before any of its logical consequences.
The others hesitated—that is their distinction. They have no other. What is common to both Wagner and “the others” consists in this: the decline of all organising power; the abuse of traditional means, without the capacity or the aim that would justify this. The counterfeit imitation of grand forms, for which nobody nowadays is strong, proud, self-reliant and healthy enough; excessive vitality in small details; passion at all costs; refinement as an expression of impoverished life, ever more nerves in the place of muscle. I know only one musician who to-day would be able to compose an overture as an organic whole: and nobody else knows him.[7] He who is famous now, does not write better music than Wagner, but only less characteristic, less definite music:—less definite, because half measures, even in decadence, cannot stand by the side of completeness. But Wagner was complete; Wagner represented thorough corruption; Wagner has had the courage, the will, and the conviction for corruption. What does Johannes Brahms matter? … It was his good fortune to be misunderstood by Germany he was taken to be an antagonist of Wagner—people required an antagonist!—But he did not write necessary music, above all he wrote too much music!—When one is not rich one should[Pg 45] at least have enough pride to be poor!… The sympathy which here and there was meted out to Brahms, apart from party interests and party misunderstandings, was for a long time a riddle to me: until one day through an accident, almost, I discovered that he affected a particular type of man. He
has the melancholy of impotence. His creations are not the result of plenitude, he thirsts after abundance. Apart from what he plagiarises, from what he borrows from ancient or exotically modern styles—he is a master in the art of copying,—there remains as his most individual quality a longing…. And this is what the dissatisfied of all kinds, and all those who yearn, divine in him. He is much too little of a personality, too little of a central figure…. The “impersonal,”
those who are not self-centred, love him for this. He is especially the musician of a species of dissatisfied women. Fifty steps further on, and we find the female Wagnerite—just as we find Wagner himself fifty paces ahead of Brahms.—The female Wagnerite is a more definite, a more interesting, and above all, a more attractive type. Brahms is touching so long as he dreams or mourns over himself in private—in this respect he is modern;—he becomes cold, we no longer feel at one with him when he poses as the child of the classics. … People like to call Brahms Beethoven’s heir: I know of no more cautious euphemism.—All that which to-day makes a claim to being the grand style in music is on precisely that account either false to us or false to itself. This alternative is suspicious enough: in itself it contains a[Pg 46] casuistic question concerning the value of the two cases. The instinct of the majority protests against the alternative; “false to us”—they do not wish to be cheated;—and I myself would certainly always prefer this type to the other (“False to itself”). This is my taste.—Expressed more clearly for the sake of the “poor in spirit” it amounts to this: Brahms or Wagner…. Brahms is not an actor.—A very great part of other musicians may be summed up in the concept Brahms.—I do not wish to say anything about the clever apes of Wagner, as for instance Goldmark: when one has “The Queen of Sheba” to one’s name, one belongs to a menagerie,—one ought to put oneself on show.—Nowadays all things that can be done well and even with a master hand are small. In this department alone is honesty still possible. Nothing, however, can cure music as a whole of its chief fault, of its fate, which is to be the expression of general physiological contradiction,—which is, in fact, to be modern.
The best instruction, the most conscientious schooling, the most thorough familiarity, yea, and even isolation, with the Old Masters,—all this only acts as a palliative, or, more strictly speaking, has but an illusory effect, because the first condition of the right thing is no longer in our bodies; whether this first condition be the strong race of a Händel or the overflowing animal spirits of a Rossini. Not everyone has the right to every teacher: and this holds good of whole epochs.—In itself it is not impossible that there are still remains of stronger natures, typical unadapted men, somewhere[Pg 47] in Europe: from this quarter the advent of a somewhat belated form of beauty and perfection, even in music, might still be hoped for. But the most that we can expect to see are exceptional cases. From the rule, that corruption is paramount, that corruption is a fatality,—not even a God can save music.
[Pg 48]
EPILOGUE
And now let us take breath and withdraw a moment from this narrow world which necessarily must be narrow, because we have to make enquiries relative to the value of persons. A philosopher feels that he wants to wash his hands after he has concerned himself so long with the “Case of Wagner.” I shall now give my notion of what is modern. According to the measure of energy of every age, there is also a standard that determines which virtues shall be allowed and which forbidden. The age either has the virtues of ascending life, in which case it resists the virtues of degeneration with all its deepest instincts.
Or it is in itself an age of degeneration, in which case it requires the virtues of declining life,—in which case it hates everything that justifies itself, solely as being the outcome of a plenitude, or a superabundance of strength. Æsthetic is inextricably bound up with these biological principles: there is decadent æsthetic, and classical æsthetic,—”Beauty in itself” is just as much a chimera
as any other kind of idealism.—Within the narrow sphere of the so-called moral values, no greater antithesis could be found than that of master-morality and the morality of Christian valuations: the latter having grown out of a thoroughly morbid soil. (—The gospels present us with the same physiological types, as do the novels of Dostoiewsky),[Pg 49] the master-morality (“Roman,” “pagan,” “classical,”
“Renaissance”), on the other hand, being the symbolic speech of well-constitutedness, of ascending life, and of the Will to Power as a vital principle. Master-morality affirms just as instinctively as Christian morality denies (“God,” “Beyond,” “self-denial,”—all of them negations). The first reflects its plenitude upon things,—it transfigures, it embellishes, it rationalises the world,—the latter impoverishes, bleaches, mars the value of things; it suppresses the world. “World” is a Christian term of abuse. These antithetical forms in the optics of values, are both necessary: they are different points of view which cannot be circumvented either with arguments or counter-arguments. One cannot refute Christianity: it is impossible to refute a diseased eyesight. That people should have combated pessimism as if it had been a philosophy, was the very acme of learned stupidity.
The concepts “true” and “untrue” do not seem to me to have any sense in optics.—That, alone, which has to be guarded against is the falsity, the instinctive duplicity which would fain regard this antithesis as no antithesis at all: just as Wagner did,—and his mastery in this kind of falseness was of no mean order. To cast side-long glances at master-morality, at noble morality (—Icelandic saga is perhaps the greatest documentary evidence of these values), and at the same time to have the opposite teaching, the “gospel of the lowly,” the doctrine of the need of salvation, on one’s lips!… Incidentally, I admire the modesty of Christians who go to Bayreuth. As for myself, I could not[Pg 50]
endure to hear the sound of certain words on Wagner’s lips. There are some concepts which are too good for Bayreuth…. What? Christianity adjusted for female Wagnerites, perhaps by female Wagnerites—for, in his latter days Wagner was thoroughly feminini generis—? Again I say, the Christians of to-day are too modest for me,… If Wagner were a Christian, then Liszt was perhaps a Father of the Church!—The need of salvation, the quintessence of all Christian needs, has nothing in common with such clowns: it is the most straightforward expression of decadence, it is the most convincing and most painful affirmation of decadence, in sublime symbols and practices. The Christian wishes to be rid of himself. Le mot est toujours haïssable. Noble morality, master-morality, on the other hand, is rooted in a triumphant saying of yea to one’s self,—it is the self-affirmation and self-glorification of life; it also requires sublime symbols and practices; but only
“because its heart is too full.” The whole of beautiful art and of great art belongs here: their common essence is gratitude. But we must allow it a certain instinctive repugnance to décadents, and a scorn and horror of the latter’s symbolism: such things almost prove it.
The noble Romans considered Christianity as a fœda superstitio: let me call to your minds the feelings which the last German of noble taste—Goethe—had in regard to the cross. It is idle to look for more valuable, more necessary contrasts….[8]
[Pg 51]
But the kind of falsity which is characteristic of the Bayreuthians is not exceptional to-day. We all know the hybrid concept of the Christian gentleman. This innocence in contradiction, this “clean conscience”
in falsehood, is rather modern par excellence, with it modernity is almost defined. Biologically, modern man represents a contradiction of values, he sits between two stools, he says yea and nay in one breath.
No wonder that it is precisely in our age that falseness itself became flesh and blood, and even genius! No wonder Wagner dwelt amongst us! It was not without reason that I called Wagner the Cagliostro of modernity…. But all of us, though we do not know it, involuntarily have values, words, formulæ, and morals in our bodies, which are quite antagonistic in their origin—regarded from a physiological standpoint, we are false…. How would a diagnosis of the modern
soul begin? With a determined incision into this agglomeration of contradictory instincts, with the total suppression of its antagonistic values, with vivisection applied to its most instructive case. To philosophers the “Case of Wagner” is a windfall—this essay, as you observe, was inspired by gratitude.
[1] Senta is the heroine in the “Flying Dutchman,”—Tr.
[2] A character in “Tannhäuser.”—Tr.
[3] See “The Will to Power,” vol. ii, authorised English edition.—Tr.
[4] Note.—It was a real disaster for æsthetics when the word drama got to be translated by “action.” Wagner is not the only culprit here; the whole world does the same;—even the philologists who ought to know better. What ancient drama had in view was grand pathetic scenes,—it even excluded action (or placed it before the piece or behind the scenes). The word drama is of Doric origin, and according to the usage of the Dorian language it meant
“event,” “history,”—both words in a hieratic sense. The oldest drama represented local legends, “sacred history,” upon which the foundation of the cult rested (—thus it was not “action,” but fatality: dran in Doric has nothing to do with action).
[5] Hegel and his school wrote notoriously obscure German.
—Tr.
[6] Was Wagner a German at all? There are reasons enough for putting this question. It is difficult to find a single German trait in his character. Great learner that he was, he naturally imitated a great deal that was German—but that is all. His very soul contradicts everything which hitherto has been regarded as German; not to mention German musicians!—His father was an actor of the name of Geyer….
That which has been popularised hitherto as “Wagner’s life” is fable convenue if not something worse. I confess my doubts on any point which is vouched for by Wagner alone. He was not proud enough to be able to suffer the truth about himself. Nobody had less pride than he.
Like Victor Hugo he remained true to himself even in his biography,—he remained an actor.
[7] This undoubtedly refers to Nietzsche’s only disciple and friend, Peter Gast.—Tr.
[8] My “Genealogy of Morals” contains the best exposition of the antithesis “noble morality” and “Christian morality”; a more decisive turning point in the history of religious and moral science does not perhaps exist. This book, which is a touchstone by which I can discover who are my peers, rejoices in being accessible only to the most elevated and most severe minds: the others have not the ears to hear me. One must have one’s passion in things, wherein no one has passion nowadays.
[Pg 52][Pg 53]
NIETZSCHE CONTRA WAGNER
THE BRIEF OF A PSYCHOLOGIST
By
FRIEDRICH NIETZSCHE
[Pg 54][Pg 55]
PREFACE
The following chapters have been selected from past works of mine, and not without care. Some of them date back as far as 1877. Here and there, of course, they will be found to have been made a little more intelligible, but above all, more brief. Read consecutively, they can leave no one in any doubt, either concerning myself, or concerning Wagner: we are antipodes. The reader will come to other conclusions, too, in his perusal of these pages: for instance, that this is an essay for psychologists and not for Germans…. I have my readers everywhere, in Vienna, St Petersburg, Copenhagen, Stockholm, Paris, and New York—but 1 have none in Europe’s Flat-land—Germany…. And I might even have something to say to Italians whom I love just as much as I … Quousque tandem, Crispi … Triple alliance: a people can only conclude a misalliance with the “Empire.” …
FRIEDRICH NIETZSCHE.
TURIN, Christmas 1888.
[Pg 56][Pg 57]
NIETZSCHE CONTRA WAGNER
WHEREIN I ADMIRE WAGNER.
I believe that artists very often do not know what they are best able to do. They are much too vain. Their minds are directed to something prouder than merely to appear like little plants, which, with freshness, rareness, and beauty, know how to sprout from their soil with real perfection. The ultimate goodness of their own garden and vineyard is superciliously under-estimated by them, and their love and their insight are not of the same quality. Here is a musician who is a greater master than anyone else in the discovering of tones, peculiar to suffering, oppressed, and tormented souls, who can endow even dumb misery with speech. Nobody can approach him in the colours of late autumn, in the indescribably touching joy of a last, a very last, and all too short gladness; he knows of a chord which expresses those secret and weird midnight hours of the soul, when cause and effect seem to have fallen asunder, and at every moment something may spring out of nonentity. He is happiest of all when creating from out the nethermost depths of human happiness,[Pg 58] and, so to speak, from out man’s empty bumper, in which the bitterest and most repulsive drops have mingled with the sweetest for good or evil at last. He knows that weary shuffling along of the soul which is no longer able either to spring or to fly, nay, which is no longer able to walk; he has the modest glance of concealed suffering, of understanding without comfort, of leave-taking without word or sign; verily as the Orpheus of all secret misery he is greater than anyone, and many a thing was introduced into art for the first time by him, which hitherto had not been given expression, had not even been thought worthy of art—the cynical revolts, for instance, of which only the greatest sufferer is capable, also many a small and quite microscopical feature of the soul, as it were the scales of its amphibious nature—yes indeed, he is the master of everything very small. But this he refuses to be! His tastes are much more in love with vast walls and with daring frescoes! … He does not see that his spirit has another desire and bent—a totally different outlook—that it prefers to squat peacefully in the corners of broken-down houses: concealed in this way, and hidden even from himself, he paints his really great masterpieces, all of which are very short, often only one bar in length—there, only, does he become quite good, great and perfect, perhaps there alone.—Wagner is one who has suffered much—and this elevates him above other musicians.—I admire Wagner wherever he sets himself to music.—
[Pg 59]
WHEREIN I RAISE OBJECTIONS.
With all this I do not wish to imply that I regard this music as healthy, and least of all in those places where it speaks of Wagner himself. My objections to Wagner’s music are physiological objections.
Why should I therefore begin by clothing them in æsthetic formulæ?
Æsthetic is indeed nothing more than applied physiology.—The fact I bring forward, my “petit fait vrai” is that I can no longer breathe with ease when this music begins to have its effect upon me; that my foot immediately begins to feel indignant at it and rebels: for what it needs is time, dance, march: even the young German Kaiser could not march to Wagner’s Imperial March,—what my foot demands in the first place from music is that ecstasy which lies in good walking, stepping and dancing. But do not my stomach, my heart, my circulation also protest? Are not my intestines also troubled? And do I not become hoarse unawares? … in order to listen to Wagner I require Géraudel’s Pastilles…. And then I ask myself, what is it that my whole body must have from music in general? for there is no such thing as a soul…. I believe it must have relief: as if all animal functions were accelerated by means of light, bold, unfettered, self-reliant rhythms; as if brazen and leaden life could lose its weight by means of delicate and smooth melodies. My melancholy would fain rest its head in the haunts and abysses of perfection: for this reason I need music.
But Wagner makes one ill—What do I care about the theatre? What do I care[Pg 60] about the spasms of its moral ecstasies in which the mob—and who is not the mob to-day?—rejoices? What do I care about the whole pantomimic hocus-pocus of the actor? You are beginning to see that I am essentially anti-theatrical at heart. For the stage, this mob art par excellence, my soul has that deepest scorn felt by every artist to-day. With a stage success a man sinks to such an extent in my esteem as to drop out of sight; failure in this quarter makes me prick my ears, makes me begin to pay attention. But this was not so with Wagner; next to the Wagner who created the most unique music that has ever existed there was the Wagner who was essentially a man of the stage, an actor, the most enthusiastic mimomaniac that has perhaps existed on earth, even as a musician. And let it be said en passant that if Wagner’s theory was “drama is the object, music is only a means”—his practice was from beginning to end, the attitude is the end, drama and even music can never be anything else than means.” Music as the manner of accentuating, of strengthening, and deepening dramatic poses and all things which please the senses of the actor; and Wagnerian drama only an opportunity for a host of interesting attitudes!—Alongside of all other instincts he had the dictatorial instinct of a great actor in everything: and, as I have already said, as a musician also.—On one occasion, and not without trouble, I made this clear to a Wagnerite pur sang,—clearness and a Wagnerite! I won’t say another word.
There were reasons for adding; “For heaven’s sake, be a little more true unto yourself! We are not in[Pg 61] Bayreuth now. In Bayreuth people are only upright in the mass; the individual lies, he even lies to himself. One leaves oneself at home when one goes to Bayreuth, one gives up all right to one’s own tongue and choice, to one’s own taste and even to one’s own courage, one knows these things no longer as one is wont to have them and practise them before God and the world and between one’s own four walls. In the theatre no one brings the finest senses of his art with him, and least of all the artist who works for the theatre,—for here loneliness is lacking; everything perfect does not suffer a witness…. In the theatre one becomes mob, herd, woman, Pharisee, electing cattle, patron, idiot—Wagnerite: there, the most personal conscience is bound to submit to the levelling charm of the great multitude, there the neighbour rules, there one becomes a neighbour.”
WAGNER AS A DANGER.
1.
The aim after which more modern music is striving, which is now given the strong but obscure name of “unending melody,” can be clearly understood by comparing it to one’s feelings on entering the sea. Gradually one loses one’s footing and one ultimately abandons oneself to the mercy or fury of the elements: one has to swim. In the solemn, or fiery, swinging movement, first slow and then quick, of old music—one had to do something quite different; one had to dance.
The measure which was required for this and the control of certain[Pg 62]
balanced degrees of time and energy, forced the soul of the listener to continual sobriety of thought.—Upon the counterplay of the cooler currents of air which came from this sobriety, and from the warmer breath of enthusiasm, the charm of all good music rested—Richard Wagner wanted another kind of movement,—he overthrew the physiological first principle of all music before his time. It was no longer a matter of walking or dancing,—we must swim, we must hover…. This perhaps decides the whole matter. “Unending melody” really wants to break all the symmetry of time and strength; it actually scorns these things—Its wealth of invention resides precisely in what to an older ear sounds like rhythmic paradox and abuse. From the imitation or the prevalence of such a taste there would arise a danger for music—so great that we can imagine none greater—the complete degeneration of the feeling for rhythm, chaos in the place of rhythm…. The danger reaches its climax when such music cleaves ever more closely to naturalistic play-acting and pantomime, which governed by no laws of form, aim at effect and nothing more…. Expressiveness at all costs and music a
servant, a slave to attitudes—this is the end….
2.
What? would it really be the first virtue of a performance (as performing musical artists now seem to believe), under all circumstances to attain to a haut-relief which cannot be surpassed?
If this were applied to Mozart, for instance, would[Pg 63] it not be a real sin against Mozart’s spirit,—Mozart’s cheerful, enthusiastic, delightful and loving spirit? He who fortunately was no German, and whose seriousness is a charming and golden seriousness and not by any means that of a German clodhopper…. Not to speak of the earnestness of the “marble statue.” … But you seem to think that all music is the music of the “marble statue”? —that all music should, so to speak, spring out of the wall and shake the listener to his very bowels? …
Only thus could music have any effect! But on whom would the effect be made? Upon something on which a noble artist ought never to deign to act,—upon the mob, upon the immature! upon the blasts! upon the diseased! upon idiots! upon Wagnerites!…
A MUSIC WITHOUT A FUTURE.
Of all the arts which succeed in growing on the soil of a particular culture, music is the last plant to appear; maybe because it is the one most dependent upon our innermost feelings, and therefore the last to come to the surface—at a time when the culture to which it belongs is in its autumn season and beginning to fade. It was only in the art of the Dutch masters that the spirit of mediæval Christianity found its expression—, its architecture of sound is the youngest, but genuine and legitimate, sister of the Gothic. It was only in Handel’s music that the best in Luther and in those like him found its voice, the Judeo-heroic trait which gave the Reformation a touch of[Pg 64] greatness—the Old Testament, not the New, become music. It was left to Mozart, to pour out the epoch of Louis XIV., and of the art of Racine and Claude Lorrain, in ringing gold; only in Beethoven’s and Rossini’s music did the Eighteenth Century sing itself out—the century of enthusiasm, broken ideals, and fleeting joy. All real and original music is a swan song.—Even our last form of music, despite its prevalence and its will to prevail, has perhaps only a short time to live: for it sprouted from a soil which was in the throes of a rapid subsidence,—of a culture which will soon be submerged. A certain Catholicism of feeling, and a predilection for some ancient indigenous (so-called national) ideals and eccentricities, was its first condition. Wagner’s appropriation of old sagas and songs, in which scholarly prejudice taught us to see something German par excellence—now we laugh at it all, the resurrection of these Scandinavian monsters with a thirst for ecstatic sensuality and spiritualisation—the whole of this taking and giving on Wagner’s part, in the matter of subjects, characters, passions, and nerves, would also give unmistakable expression to the spirit of his music provided that this music, like any other, did not know how to speak about itself save ambiguously: for musica is a woman…. We must not let ourselves be misled concerning this state of things, by the fact that at this very moment we are living in a reaction, in the heart itself of a reaction. The age of international wars, of ultramontane martyrdom, in fact, the whole interlude-character which typifies the present condition of Europe, may[Pg 65] indeed help an art like Wagner’s to sudden glory, without, however, in the least ensuring its future prosperity.
The Germans themselves have no future….
WE ANTIPODES.
Perhaps a few people, or at least my friends, will remember that I made my first plunge into life armed with some errors and some exaggerations, but that, in any case, I began with hope in my heart. In the philosophical pessimism of the nineteenth century, I recognised—who knows by what by-paths of personal experience—the symptom of a higher power of thought, a more triumphant plenitude of life, than had manifested itself hitherto in the philosophies of Hume, Kant and Hegel!—I regarded tragic knowledge as the most beautiful luxury of our culture, as its most precious, most noble,
most dangerous kind of prodigality; but, nevertheless, in view of its overflowing wealth, as a justifiable luxury. In the same way, I began by interpreting Wagner’s music as the expression of a Dionysian powerfulness of soul. In it I thought I heard the earthquake by means of which a primeval life-force, which had been constrained for ages, was seeking at last to burst its bonds, quite indifferent to how much of that which nowadays calls itself culture, would thereby be shaken to ruins. You see how I misinterpreted, you see also, what I bestowed upon Wagner and Schopenhauer—myself…. Every art and every philosophy may be regarded either as a cure or as a stimulant to[Pg 66] ascending or declining life: they always presuppose suffering and sufferers. But there are two kinds of sufferers:—those that suffer from overflowing vitality, who need Dionysian art and require a tragic insight into, and a tragic outlook upon, the phenomenon life,—and there are those who suffer from reduced vitality, and who crave for repose, quietness, calm seas, or else the intoxication, the spasm, the bewilderment which art and philosophy provide. Revenge upon life itself—this is the most voluptuous form of intoxication for such indigent souls!… Now Wagner responds quite as well as Schopenhauer to the twofold cravings of these people,—they both deny life, they both slander it but precisely on this account they are my antipodes.—The richest creature, brimming over with vitality,—the Dionysian God and man, may not only allow himself to gaze upon the horrible and the questionable; but he can also lend his hand to the terrible deed, and can indulge in all the luxury of destruction, disaggregation, and negation,—in him evil, purposelessness and ugliness, seem just as allowable as they are in nature—because of his bursting plenitude of creative and rejuvenating powers, which are able to convert every desert into a luxurious land of plenty.
Conversely, it is the greatest sufferer and pauper in vitality, who is most in need of mildness, peace and goodness—that which to-day is called humaneness—in thought as well as in action, and possibly of a God whose speciality is to be a God of the sick, a Saviour, and also of logic or the abstract intelligibility of existence even for idiots (—the typical “free-spirits,”[Pg 67] like the idealists, and “beautiful souls,” are décadents—); in short, of a warm, danger-tight, and narrow confinement, between optimistic horizons which would allow of stultification…. And thus very gradually, I began to understand Epicurus, the opposite of a Dionysian Greek; and also the Christian who in fact is only a kind of Epicurean, and who, with his belief that “faith saves,” carries the principle of Hedonism as far as possible—far beyond all intellectual honesty…. If I am ahead of all other psychologists in anything, it is in this fact that my eyes are more keen for tracing those most difficult and most captious of all deductions, in which the largest number of mistakes have been made,—the deduction which makes one infer something concerning the author from his work, something concerning the doer from his deed, something concerning the idealist from the need which produced this ideal, and something concerning the imperious craving which stands at the back of all thinking and valuing.—In regard to all artists of what kind soever, I shall now avail myself of this radical distinction: does the creative power in this case arise from a loathing of life, or from an excessive plenitude of life? In Goethe, for instance, an overflow of vitality was creative, in Flaubert—hate: Flaubert, a new edition of Pascal, but as an artist with this instinctive belief at heart:
“Flaubert est toujours haïssable, l’homme n’est rien, l’œuvre est tout….” He tortured himself when he wrote, just as Pascal tortured himself when he thought—the feelings of both were inclined to be
“non-egoistic.” … “Disinterestedness”—the[Pg 68] principle of decadence, the will to nonentity in art as well as in morality.
WHERE WAGNER IS AT HOME.
Even at the present day, France is still the refuge of the most intellectual and refined culture in Europe, it remains the high school of taste: but one must know where to find this France of taste. The North-German Gazette, for instance, or who-ever expresses his
sentiments in that paper, thinks that the French are “barbarians,”—as for me, if I had to find the blackest spot on earth, where slaves still required to be liberated, I should turn in the direction of Northern Germany…. But those who form part of that select France take very good care to conceal themselves: they are a small body of men, and there may be some among them who do not stand on very firm legs—a few may be fatalists, hypochondriacs, invalids; others may be enervated, and artificial,—such are those who would fain be artistic,—but all the loftiness and delicacy which still remains to this world, is in their possession. In this France of intellect, which is also the France of pessimism, Schopenhauer is already much more at home than he ever was in Germany; his principal work has already been translated twice, and the second time so excellently that now I prefer to read Schopenhauer in French (—he was an accident among Germans, just as I am—the Germans have no fingers wherewith to grasp us; they haven’t any fingers at all,—but only claws). And I do not mention Heine—l’adorable Heine, as[Pg 69] they say in Paris—who long since has passed into the flesh and blood of the more profound and more soulful of French lyricists. How could the horned cattle of Germany know how to deal with the délicatesses of such a nature!—And as to Richard Wagner, it is obvious, it is even glaringly obvious, that Paris is the very soil for him: the more French music adapts itself to the needs of l’âme moderne, the more Wagnerian it will become,—it is far enough advanced in this direction already.—In this respect one should not allow one’s self to be misled by Wagner himself—it was simply dis-graceful on Wagner’s part to scoff at Paris, as he did, in its agony in 1871…. In spite of it all, in Germany Wagner is only a misapprehension: who could be more incapable of understanding anything about Wagner than the Kaiser, for instance?—To everybody familiar with the movement of European culture, this fact, however, is certain, that French romanticism and Richard Wagner are most intimately related. All dominated by literature, up to their very eyes and ears—the first European artists with a universal literary culture,—most of them writers, poets, mediators and minglers of the senses and the arts, all fanatics in expression, great discoverers in the realm of the sublime as also of the ugly and the gruesome, and still greater discoverers in passion, in working for effect, in the art of dressing their windows,—all possessing talent far above their genius,—virtuosos to their backbone, knowing of secret passages to all that seduces, lures, constrains or overthrows; born enemies of logic and of straight lines, thirsting after the exotic, the[Pg 70] strange and the monstrous, and all opiates for the senses and the understanding. On the whole, a daring dare-devil, magnificently violent, soaring and high-springing crew of artists, who first had to teach their own century—-it is the century of the mob—what the concept “artist” meant. But they were ill….
WAGNER AS THE APOSTLE OF CHASTITY.
1.
Is this the German way?
Comes this low bleating forth from German hearts?
Should Teutons, sin repenting, lash themselves, Or spread their palms with priestly unctuousness, Exalt their feelings with the censer’s fumes, And cower and quake and bend the trembling knee, And with a sickly sweetness plead a prayer?
Then ogle nuns, and ring the Ave-bell,
And thus with morbid fervour out-do heaven?
Is this the German way?
Beware, yet are you free, yet your own Lords.
What yonder lures is Rome, Rome’s faith sung without words.
2.
There is no necessary contrast between sensuality and chastity; every good marriage, every genuine love affair is above this contrast; but in those cases where the contrast exists, it is very far from being necessarily a tragic one. This, at least, ought to hold good of all well-constituted and good-spirited[Pg 71] mortals, who are not in the least
inclined to reckon their unstable equilibrium between angel and petite bête, without further ado, among the objections to existence, the more refined and more intelligent like Hafis and Goethe, even regarded it as an additional attraction. It is precisely contradictions of this kind which lure us to life…. On the other hand, it must be obvious, that when Circe’s unfortunate animals are induced to worship chastity, all they see and worship therein, is their opposite—oh! and with what tragic groaning and fervour, may well be imagined—that same painful and thoroughly superfluous opposition which, towards the end of his life, Richard Wagner undoubtedly wished to set to music and to put on the stage, And to what purpose? we may reasonably ask.
3.
And yet this other question can certainly not be circumvented: what business had he actually with that manly (alas! so unmanly) “bucolic simplicity,” that poor devil and son of nature—Parsifal, whom he ultimately makes a catholic by such insidious means—what?—was Wagner in earnest with Parsifal? For, that he was laughed at, I cannot deny, any more than Gottfried Keller can…. We should like to believe that
“Parsifal” was meant as a piece of idle gaiety, as the closing act and satyric drama, with which Wagner the tragedian wished to take leave of us, of himself, and above all of tragedy, in a way which befitted him and his dignity, that is to say, with an extravagant, lofty and most malicious parody of tragedy itself, of all[Pg 72] the past and terrible earnestness and sorrow of this world, of the most ridiculous form of the unnaturalness of the ascetic ideal, at last overcome. For Parsifal is the subject par excellence for a comic opera…. Is Wagner’s
“Parsifal” his secret laugh of superiority at himself, the triumph of his last and most exalted state of artistic freedom, of artistic transcendence—is it Wagner able to laugh at himself? Once again we only wish it were so; for what could Parsifal be if he were meant seriously? Is it necessary in his case to say (as I have heard people say) that “Parsifal” is “the product of the mad hatred of knowledge, intellect, and sensuality?” a curse upon the senses and the mind in one breath and in one fit of hatred? an act of apostasy and a return to Christianly sick and obscurantist ideals? And finally even a denial of self, a deletion of self, on the part of an artist who theretofore had worked with all the power of his will in favour of the opposite cause, the spiritualisation and sensualisation of his art? And not only of his art, but also of his life? Let us remember how enthusiastically Wagner at one time walked in the footsteps of the philosopher Feuerbach.
Feuerbach’s words “healthy sensuality” struck Wagner in the thirties and forties very much as they struck many other Germans—they called themselves the young Germans—that is to say, as words of salvation.
Did he ultimately change his mind on this point? It would seem that he had at least had the desire of changing his doctrine towards the end…. Had the hatred of life become dominant in him as in Flaubert?
For “Parsifal”[Pg 73] is a work of rancour, of revenge, of the most secret concoction of poisons with which to make an end of the first conditions of life; it is a bad work. The preaching of chastity remains an incitement to unnaturalness: I despise anybody who does not regard
“Parsifal” as an outrage upon morality.—
HOW I GOT RID OF WAGNER.
1.
Already in the summer of 1876, when the first festival at Bayreuth was at its height, I took leave of Wagner in my soul. I cannot endure anything double-faced. Since Wagner had returned to Germany, he had condescended step by step to everything that I despise—even to anti-Semitism. … As a matter of fact, it was then high time to bid him farewell: but the proof of this came only too soon. Richard Wagner, ostensibly the most triumphant creature alive; as a matter of fact, though, a cranky and desperate décadent, suddenly fell helpless and broken on his knees before the Christian cross…. Was there no German at that time who had the eyes to see, and the sympathy in his soul to feel, the ghastly nature of this spectacle? Was I the only one who suffered from it?—Enough, the unexpected event, like a
flash of lightning, made me see only too clearly what kind of a place it was that I had just left,—and it also made me shudder as a man shudders who unawares has just escaped a great danger. As I continued my journey alone, I trembled. Not long after this I[Pg 74] was ill, more than ill—I was tired;—tired of the continual disappointments over everything which remained for us modern men to be enthusiastic about, of the energy, industry, hope, youth, and love that are squandered everywhere; tired out of loathing for the whole world of idealistic lying and conscience-softening, which, once again, in the case of Wagner, had scored a victory over a man who was of the bravest; and last but not least, tired by the sadness of a ruthless suspicion—that I was now condemned to be ever more and more suspicious, ever more and more contemptuous, ever more and more deeply alone than I had been theretofore. For I had no one save Richard Wagner…. I was always condemned to the society of Germans….
2.
Henceforward alone and cruelly distrustful of myself, I then took up sides—not without anger—against myself and for all that which hurt me and fell hard upon me: and thus I found the road to that courageous pessimism which is the opposite of all idealistic falsehood, and which, as it seems to me, is also the road to me—to my mission…. That hidden and dominating thing, for which for long ages we have had no name, until ultimately it comes forth as our mission,—this tyrant in us wreaks a terrible revenge upon us for every attempt we make either to evade him or to escape him, for every one of our experiments in the way of befriending people to whom we do not belong, for every active occupation, however estimable, which may make us diverge from our principal object:—[Pg 75]aye, and even for every virtue which would fain protect us from the rigour of our most intimate sense of responsibility. Illness is always the answer, whenever we venture to doubt our right to our mission, whenever we begin to make things too easy for ourselves. Curious and terrible at the same time! It is for our relaxation that we have to pay most dearly! And should we wish after all to return to health, we then have no choice: we are compelled to burden ourselves more heavily than we had been burdened before….
THE PSYCHOLOGIST SPEAKS.
1.
The oftener a psychologist—a born, an unavoidable psychologist and soul-diviner—turns his attention to the more select cases and individuals, the greater becomes his danger of being suffocated by sympathy: he needs greater hardness and cheerfulness than any other man. For the corruption, the ruination of higher men, is in fact the rule: it is terrible to have such a rule always before our eyes.
The manifold torments of the psychologist who has discovered this ruination, who discovers once, and then discovers almost repeatedly throughout all history, this universal inner “hopelessness” of higher men, this eternal “too late!” in every sense—may perhaps one day be the cause of his “going to the dogs “himself. In almost every psychologist we may see a tell-tale predilection in favour of intercourse with commonplace and well-ordered[Pg 76] men: and this betrays how constantly he requires healing, that he needs a sort of flight and forgetfulness, away from what his insight and incisiveness—from what his “business”—has laid upon his conscience. A horror of his memory is typical of him. He is easily silenced by the judgment of others; he hears with unmoved countenance how people honour, admire, love, and glorify, where he has opened his eyes and seen—or he even conceals his silence by expressly agreeing with some obvious opinion. Perhaps the paradox of his situation becomes so dreadful that, precisely where he has learnt great sympathy, together with great contempt, the educated have on their part learnt great reverence. And who knows but in all great instances, just this alone happened: that the multitude worshipped a God, and that the “God” was only a poor sacrificial animal! Success has always been the greatest liar—and the “work” itself, the deed, is a success too; the great statesman, the conqueror, the discoverer, are disguised in their creations until
they can no longer be recognised; the “work” of the artist, of the philosopher, only invents him who has created it, who is reputed to have created it; the “great men,” as they are reverenced, are poor little fictions composed afterwards; in the world of historical values counterfeit coinage prevails.
2.
Those great poets, for example, such as Byron, Musset, Poe, Leopardi, Kleist, Gogol (I do not dare to mention much greater names, but I imply[Pg 77] them), as they now appear, and were perhaps obliged to be: men of the moment, sensuous, absurd, versatile, light-minded and quick to trust and to distrust; with souls in which usually some flaw has to be concealed; often taking revenge with their works for an internal blemish, often seeking forgetfulness in their soaring from a too accurate memory, idealists out of proximity to the mud:—what a torment these great artists are and the so-called higher men in general, to him who has once found them out! We are all special pleaders in the cause of mediocrity. It is conceivable that it is just from woman—who is clair-voyant in the world of suffering, and, alas!
also unfortunately eager to help and save to an extent far beyond her powers—that they have learnt so readily those outbreaks of boundless sympathy which the multitude, above all the reverent multitude, overwhelms with prying and self-gratifying interpretations. This sympathising invariably deceives itself as to its power; woman would like to believe that love can do everything—it is the superstition peculiar to her. Alas, he who knows the heart finds out how poor, helpless, pretentious, and blundering even the best and deepest love is—how much more readily it destroys than saves….
3.
The intellectual loathing and haughtiness of every man who has suffered deeply—the extent to which a man can suffer, almost determines the order of rank—the chilling uncertainty with which he is thoroughly imbued and coloured, that by[Pg 78] virtue of his suffering he knows more than the shrewdest and wisest can ever know, that he has been familiar with, and “at home” in many distant terrible worlds of which “you know nothing!”—this silent intellectual haughtiness, this pride of the elect of knowledge, of the “initiated,” of the almost sacrificed, finds all forms of disguise necessary to protect itself from contact with gushing and sympathising hands, and in general from all that is not its equal in suffering. Profound suffering makes noble; it separates.—One of the most refined forms of disguise is Epicurism, along with a certain ostentatious boldness of taste which takes suffering lightly, and puts itself on the defensive against all that is sorrowful and profound. There are “cheerful men” who make use of good spirits, because they are misunderstood on account of them—they wish to be misunderstood. There are “scientific minds” who make use of science, because it gives a cheerful appearance, and because love of science leads people to conclude that a person is shallow—they wish to mislead to a false conclusion. There are free insolent spirits which would fain conceal and deny that they are at bottom broken, incurable hearts—this is Hamlet’s case: and then folly itself can be the mask of an unfortunate and alas! all too dead-certain knowledge.
[Pg 79]
EPILOGUE
I have often asked myself whether I am not much more deeply indebted to the hardest years of my life than to any others. According to the voice of my innermost nature, everything necessary, seen from above and in the light of a superior economy, is also useful in itself—not only should one bear it, one should love it…. Amor fati: this is the very core of my being.—And as to my prolonged illness, do I not owe much more to it than I owe to my health? To it I owe a higher kind of health, a sort of health which grows stronger under everything that does not actually kill it!—To it, I owe even my philosophy….
Only great suffering is the ultimate emancipator of spirit; for it teaches one that vast suspiciousness which makes an X out of every U, a genuine and proper X, i.e., the antepenultimate letter: Only
great suffering; that great suffering, under which we seem to be over a fire of greenwood, the suffering that takes its time—forces us philosophers to descend into our nethermost depths, and to let go of all trustfulness, all good-nature, all whittling-down, all mildness, all mediocrity,—on which things we had formerly staked our humanity.
I doubt whether such suffering improves a man; but I know that it makes him deeper…. Supposing we learn to set our pride, our scorn, our strength of will against it, and thus resemble the Indian[Pg 80] who, however cruelly he may be tortured, considers himself revenged on his tormentor by the bitterness of his own tongue. Supposing we withdraw from pain into nonentity, into the deaf, dumb, and rigid sphere of self-surrender, self-forgetfulness, self-effacement: one is another person when one leaves these protracted and dangerous exercises in the art of self-mastery; one has one note of interrogation the more, and above all one has the will henceforward to ask more, deeper, sterner, harder, more wicked, and more silent questions, than anyone has ever asked on earth before…. Trust in life has vanished; life itself has become a problem. —But let no one think that one has therefore become a spirit of gloom or a blind owl! Even love of life is still possible,—but it is a different kind of love…. It is the love for a woman whom we doubt….
2.
The rarest of all things is this: to have after all another taste—a second taste. Out of such abysses, out of the abyss of great suspicion as well, a man returns as though born again, he has a new skin, he is more susceptible, more full of wickedness; he has a finer taste for joyfulness; he has a more sensitive tongue for all good things; his senses are more cheerful; he has acquired a second, more dangerous, innocence in gladness; he is more childish too, and a hundred times more cunning than ever he had been before.
Oh, how much more repulsive pleasure now is to him, that coarse, heavy, buff-coloured pleasure,[Pg 81] which is understood by our pleasure-seekers, our “cultured people,” our wealthy folk and our rulers! With how much more irony we now listen to the hubbub as of a country fair, with which the “cultured” man and the man about town allow themselves to be forced through art, literature, music, and with the help of intoxicating liquor, to “intellectual enjoyments.” How the stage-cry of passion now stings our ears; how strange to our taste the whole romantic riot and sensuous bustle, which the cultured mob are so fond of, together with its aspirations to the sublime, to the exalted and the distorted, have become. No: if we convalescents require an art at all, it is another art-a mocking, nimble, volatile, divinely undisturbed, divinely artificial art, which blazes up like pure flame into a cloudless sky! But above all, an art for artists, only for artists! We are, after all, more conversant with that which is in the highest degree necessary—cheerfulness, every kind of cheerfulness, my friends!…
We men of knowledge, now know something only too well: oh how well we have learnt by this time, to forget, not to know, as artists!…
As to our future: we shall scarcely be found on the track of those Egyptian youths who break into temples at night, who embrace statues, and would fain unveil, strip, and set in broad daylight, everything which there are excellent reasons to keep concealed.[1] No, we are disgusted with this bad taste, this will to truth, this search[Pg 82] after truth “at all costs”: this madness of adolescence, “the love of truth”; we are now too experienced, too serious, too joyful, too scorched, too profound for that…. We no longer believe that truth remains truth when it is unveiled,—we have lived enough to understand this….
To-day it seems to us good form not to strip everything naked, not to be present at all things, not to desire to “know” all. “Tout comprendre c’est tout mépriser.” … “Is it true,” a little girl once asked her mother, “that the beloved Father is everywhere?—I think it quite improper,”—a hint to philosophers…. The shame with which Nature has concealed herself behind riddles and enigmas should be held in higher esteem. Perhaps truth is a woman who has reasons for not revealing her reasons? … Perhaps her name, to use a Greek word is
Baubo?—Oh these Greeks, they understood, the art of living! For this it is needful to halt bravely at the surface, at the fold, at the skin, to worship appearance, and to believe in forms, tones, words, and the whole Olympus of appearance! These Greeks were superficial—from profundity. … And are we not returning to precisely the same thing, we dare-devils of intellect who have scaled the highest and most dangerous pinnacles of present thought, in order to look around us from that height, in order to look down from that height? Are we not precisely in this respect—Greeks? Worshippers of form, of tones, of words? Precisely on that account—artists?
[1] An allusion to Schiller’s poem: “Das verschleierte Bild zu Sais.”—Tr.
[Pg 83][Pg 84][Pg 85]
SELECTED APHORISMS
SELECTED APHORISMS FROM NIETZSCHE’S RETROSPECT
OF HIS YEARS OF FRIENDSHIP WITH WAGNER.
(Summer 1878.)
1.
My blunder was this, I travelled to Bayreuth with an ideal in my breast, and was thus doomed to experience the bitterest disappointment.
The preponderance of ugliness, grotesqueness and strong pepper thoroughly repelled me.
2.
I utterly disagree with those who were dissatisfied with the decorations, the scenery and the mechanical contrivances at Bayreuth.
Far too much industry and ingenuity was applied to the task of chaining the imagination to matters which did not belie their epic origin. But as to the naturalism of the attitudes, of the singing, compared with the orchestra!! What affected, artificial and depraved tones, what a distortion of nature, were we made to hear!
3.
We are witnessing the death agony of the last Art: Bayreuth has convinced me of this.
[Pg 86]
4.
My picture of Wagner, completely surpassed him; I had depicted an ideal monster—one, however, which is perhaps quite capable of kindling the enthusiasm of artists. The real Wagner, Bayreuth as it actually is, was only like a bad, final proof, pulled on inferior paper from the engraving which was my creation. My longing to see real men and their motives, received an extraordinary impetus from this humiliating experience.
5.
This, to my sorrow, is what I realised; a good deal even struck me with sudden fear. At last I felt, however, that if only I could be strong enough to take sides against myself and what I most loved I would find the road to truth and get solace and encouragement from it—and in this way I became filled with a sensation of joy far greater than that upon which I was now voluntarily turning my back.
6.
I was in love with art, passionately in love, and in the whole of existence saw nothing else than art—and this at an age when, reasonably enough, quite different passions usually possess the soul.
7.
Goethe said: “The yearning spirit within me, which in earlier years I may perhaps have fostered too earnestly, and which as I grew older I tried my utmost to combat, did not seem becoming in the[Pg 87] man, and I therefore had to strive to attain to more complete freedom.”
Conclusion?—I have had to do the same.
8.
He who wakes us always wounds us.
9.
I do not possess the talent of being loyal, and what is still worse, I have not even the vanity to try to appear as if I did.
10.
He who accomplishes anything that lies beyond the vision and the experience of his acquaintances,—provokes envy and hatred masked as pity,—prejudice regards the work as decadence, disease, seduction.
Long faces.
11.
I frankly confess that I had hoped that by means of art the Germans would become thoroughly disgusted with decaying Christianity—I regarded German mythology as a solvent, as a means of accustoming people to polytheism.
What a fright I had over the Catholic revival!!
12.
It is possible neither to suffer sufficiently acutely from life, nor to be so lifeless and emotionally weak, as to have need of Wagner’s art, as to require it as a medium. This is the principal reason of one’s opposition to it, and not baser motives: something[Pg 88] to which we are not driven by any personal need, and which we do not require, we cannot esteem so highly.
13.
It is a question either of no longer requiring Wagner’s art, or of still requiring it
Gigantic forces lie concealed in it: it drives one beyond its own domain.
14.
Goethe said: “Are not Byron’s audacity, sprightliness and grandeur all creative? We must beware of always looking for this quality in that which is perfectly pure and moral. All greatness is creative the moment we realise it.” This should be applied to Wagner’s art.
15.
We shall always have to credit Wagner with the fact that in the second half of the nineteenth century he impressed art upon our memory as an important and magnificent thing. True, he did this in his own fashion, and this was not the fashion of upright and far-seeing men.
16.
Wagner versus the cautious, the cold and the contented of the world—in this lies his greatness —he is a stranger to his age—he combats the frivolous and the super-smart.—But he also fights the just, the moderate, those who delight in the world (like Goethe); and the mild, the people of charm, the scientific among men—this is the reverse of the medal.
[Pg 89]
17.
Our youth was up in arms against the soberness of the age. It plunged into the cult of excess, of passion, of ecstasy, and of the blackest and most austere conception of the world.
18.
Wagner pursues one form of madness, the age another form. Both carry on their chase at the same speed, each is as blind and as unjust as the other.
19.
It is very difficult to trace the course of Wagner’s inner development—no trust must be placed in his own description of his soul’s experiences. He writes party-pamphlets for his followers.
20.
It is extremely doubtful whether Wagner is able to bear witness about himself.
21.
There are men who try in vain to make a principle out of themselves.
This was the case with Wagner.
22.
Wagner’s obscurity concerning final aims; his non-antique fogginess.
23.
All Wagner’s ideas straightway become manias; he is tyrannised over by them. How can such a man allow himself to be tyrannised over in this[Pg 90] way! For instance by his hatred of Jews. He kills his themes like his “ideas,” by means of his violent love of repeating them. The
problem of excessive length and breadth; he bores us with his raptures.
24.
“C’est la rage de vouloir penser et sentir au delà de sa force”
(Doudan). The Wagnerites.
25.
Wagner whose ambition far exceeds his natural gifts, has tried an incalculable number of times to achieve what lay beyond his powers—but it almost makes one shudder to see some one assail with such persistence that which defies conquest—the fate of his constitution.
26.
He is always thinking of the most extreme expression,—in every word.
But in the end superlatives begin to pall.
27.
There is something which is in the highest degree suspicious in Wagner, and that is Wagner’s suspicion. It is such a strong trait in him, that on two occasions I doubted whether he were a musician at all.
28.
The proposition: “in the face of perfection there is no salvation save love,”[1] is thoroughly[Pg 91] Wagnerian. Profound jealousy of everything great from which he can draw fresh ideas. Hatred of all that which he cannot approach: the Renaissance, French and Greek art in style.
[1] What Schiller said of Goethe.—TR.
29.
Wagner is jealous of all periods that have shown restraint: he despises beauty and grace, and finds only his own virtues in the
“Germans,” and even attributes all his failings to them.
30.
Wagner has not the power to unlock and liberate the soul of those he frequents: Wagner is not sure of himself, but distrustful and arrogant.
His art has this effect upon artists, it is envious of all rivals.
31.
Plato’s Envy. He would fain monopolise Socrates. He saturates the latter with himself, pretends to adorn him , and tries to separate all Socratists from him in order himself to appear as the only true apostle. But his historical presentation of him is false, even to a parlous degree: just as Wagner’s presentation of Beethoven and Shakespeare is false.
32.
When a dramatist speaks about himself he plays a part: this is inevitable. When Wagner speaks about Bach and Beethoven he speaks like one for whom he would fain be taken. But he impresses[Pg 92] only those who are already convinced, for his dissimulation and his genuine nature are far too violently at variance.
33.
Wagner struggles against the “frivolity” in his nature, which to him the ignoble (as opposed to Goethe) constituted the joy of life.
34.
Wagner has the mind of the ordinary man who prefers to trace things to one cause. The Jews do the same: one aim, therefore one Saviour. In this way he simplifies German and culture; wrongly but strongly.
35.
Wagner admitted all this to himself often enough when in private communion with his soul: I only wish he had also admitted it publicly.
For what constitutes the greatness of a character if it is not this, that he who possesses it is able to take sides even against himself in favour of truth.
Wagner’s Teutonism.
36.
That which is un-German in Wagner. He lacks the German charm and grace of a Beethoven, a Mozart, a Weber; he also lacks the flowing, cheerful fire (Allegro con brio) of Beethoven and Weber. He cannot be free and easy without being grotesque. He lacks modesty, indulges in[Pg 93] big drums, and always tends to surcharge his effect. He is not the good official that Bach was. Neither has he that Goethean calm in regard to his rivals.
37.
Wagner always reaches the high-water mark of his vanity when he speaks of the German nature (incidentally it is also the height of his imprudence); for, if Frederick the Great’s justice, Goethe’s nobility and freedom from envy, Beethoven’s sublime resignation, Bach’s delicately transfigured spiritual life,—if steady work performed without any thought of glory and success, and without envy, constitute the true German qualities, would it not seem as if Wagner almost wished to prove he is no German?
38.
Terrible wildness, abject sorrow, emptiness, the shudder of joy, unexpectedness,—in short all the qualities peculiar to the Semitic race! I believe that the Jews approach Wagner’s art with more understanding than the Aryans do.
39.
A passage concerning the Jews, taken from Taine.—As it happens, I have misled the reader, the passage does not concern Wagner at all.—But can it be possible that Wagner is a Jew? In that case we could readily understand his dislike of Jews.[2]
[2] See note on page 37.
[Pg 94]
40.
Wagner’s art is absolutely the art of the age; an æsthetic age would have rejected it. The more subtle people amongst us actually do reject it even now. The coarsifying of everything Æsthetic.—Compared with Goethe’s ideal it is very far behind. The moral contrast of these self-indulgent burningly loyal creatures of Wagner, acts like a spur, like an irritant: and even this sensation is turned to account in obtaining an effect.
41.
What is it in our age that Wagner’s art expresses? That brutality and most delicate weakness which exist side by side, that running wild of natural instincts, and nervous hyper-sensitiveness, that thirst for emotion which arises from fatigue and the love of fatigue.—All this is understood by the Wagnerites.
42.
Stupefaction or intoxication constitute all Wagnerian art. On the other hand I could mention instances in which Wagner stands higher, in which real joy flows from him.
43.
The reason why the figures in Wagner’s art behave so madly, is because he greatly feared lest people would doubt that they were alive.
44.
Wagner’s art is an appeal to inartistic people; all means are welcomed which help towards obtaining[Pg 95] an effect. It is calculated not to produce an artistic effect but an effect upon the nerves in general.
45.
Apparently in Wagner we have an art for everybody, because coarse and subtle means seem to be united in it. Albeit its pre-requisite may be musico-æsthetic education, and particularly with moral indifference.
46.
In Wagner we find the most ambitious combination of all means with the view of obtaining the strongest effect: whereas genuine musicians quietly develop individual genres.
47.
Dramatists are borrowers—their principal source of wealth—artistic thoughts drawn from the epos. Wagner borrowed from classical music besides. Dramatists are constructive geniuses, they are not inventive and original as the epic poets are. Drama takes a lower rank than the epos: it presupposes a coarser and more democratic public.
48.
Wagner does not altogether trust music. He weaves kindred sensations into it in order to lend it the character of greatness. He measures himself on others; he first of all gives his listeners intoxicating drinks in order to lead them into believing that it was the music that
intoxicated them.
[Pg 96]
49.
The same amount of talent and industry which makes the classic, when it appears some time too late, also makes the baroque artist like Wagner.
50.
Wagner’s art is calculated to appeal to short-sighted people—one has to get much too close up to it (Miniature): it also appeals to long-sighted people, but not to those with normal sight.
Contradictions in the Idea of Musical Drama.
51.
Just listen to the second act of the “Götterdämmerung,” without the drama. It is chaotic music, as wild as a bad dream, and it is as frightfully distinct as if it desired to make itself clear even to deaf people. This volubility with nothing to say is alarming.
Compared with it the drama is a genuine relief.—Is the fact that this music when heard alone, is, as a whole intolerable (apart from a few intentionally isolated parts) in its favour? Suffice it to say that this music without its accompanying drama, is a perpetual contradiction of all the highest laws of style belonging to older music: he who thoroughly accustoms himself to it, loses all feeling for these laws. But has the drama been improved thanks to this addition? A symbolic interpretation has been affixed to it, a sort of philological commentary, which sets fetters upon the inner and free understanding of the imagination—it is tyrannical.[Pg 97] Music is the language of the commentator, who talks the whole of the time and gives us no breathing space. Moreover his is a difficult language which also requires to be explained. He who step by step has mastered, first the libretto (language!), then converted it into action in his mind’s eye, then sought out and understood, and became familiar with the musical symbolism thereto: aye, and has fallen in love with all three things: such a man then experiences a great joy. But how exacting!
It is quite impossible to do this save for a few short moments,—such tenfold attention on the part of one’s eyes, ears, understanding, and feeling, such acute activity in apprehending without any productive reaction, is far too exhausting!—Only the very fewest behave in this way: how is it then that so many are affected? Because most people are only intermittingly attentive, and are inattentive for sometimes whole passages at a stretch; because they bestow their undivided attention now upon the music, later upon the drama, and anon upon the scenery—that is to say they take the work to pieces.—But in this way the kind of work we are discussing is condemned: not the drama but a moment of it is the result, an arbitrary selection. The creator of a new genre should consider this! The arts should not always be dished up together,—but we should imitate the moderation of the ancients which is truer to human nature.
52.
Wagner reminds one of lava which blocks its own course by congealing, and suddenly finds[Pg 98] itself checked by dams which it has itself built.
There is no Allegro con fuoco for him.
53.
I compare Wagner’s music, which would fain have the same effect as speech, with that kind of sculptural relief which would have the same effect as painting. The highest laws of style are violated, and that which is most sublime can no longer be achieved.
54.
The general heaving, undulating and rolling of Wagner’s art.
55.
In regard to Wagner’s rejection of form, we are reminded of Goethe’s remark in conversation with Eckermann: “there is no great art in being brilliant if one respects nothing.”
56.
Once one theme is over, Wagner is always embarrassed as to how to continue. Hence the long preparation, the suspense. His peculiar craftiness consisted in transvaluing his weakness into virtues.—
57.
The lack of melody and the poverty of melody in Wagner. Melody is a whole consisting of many beautiful proportions, it is the reflection of a well-ordered soul. He strives after melody; but if he finds one, he almost suffocates it in his embrace.
[Pg 99]
58.
The natural nobility of a Bach and a Beethoven, the beautiful soul (even of a Mendelssohn) are wanting in Wagner. He is one degree lower.
59.
Wagner imitates himself again and again—mannerisms. That is why he was the quickest among musicians to be imitated. It is so easy.
60.
Mendelssohn who lacked the power of radically staggering one (incidentally this was the talent of the Jews in the Old Testament), makes up for this by the things which were his own, that is to say: freedom within the law, and noble emotions kept within the limits of beauty.
61.
Liszt, the first representative of all musicians, but no musician. He was the prince, not the statesman. The conglomerate of a hundred musicians’ souls, but not enough of a personality to cast his own shadow upon them.
62.
The most wholesome phenomenon is Brahms, in whose music there is more German blood than in that of Wagner’s. With these words I would say something complimentary, but by no means wholly so.[Pg 100] 63.
In Wagner’s writings there is no greatness or peace, but presumption.
Why?
64.
Wagner’s Style.— The habit he acquired, from his earliest days, of having his say in the most important matters without a sufficient knowledge of them, has rendered him the obscure and incomprehensible writer that he is. In addition to this he aspired to imitating the witty newspaper article, and finally acquired that presumption which readily joins hands with carelessness: “and, behold, it was very good.”
65.
I am alarmed at the thought of how much pleasure I could find in Wagner’s style, which is so careless as to be unworthy of such an artist.
66.
In Wagner, as in Brahms, there is a blind denial of the healthy, in his followers this denial is deliberate and conscious.
67.
Wagner’s art is for those who are conscious of an essential blunder in the conduct of their lives. They feel either that they have checked a great nature by a base occupation, or squandered it through idle pursuits, a conventional marriage, &c. &c.
[Pg 101]
In this quarter the condemnation of the world is the outcome of the condemnation of the ego.
68.
Wagnerites do not wish to alter themselves in any way; they live discontentedly in insipid, conventional and brutal circumstances—only at intervals does art have to raise them as by magic above these things. Weakness of will.
69.
Wagner’s art is for scholars who do not dare to become philosophers: they feel discontented with themselves and are generally in a state of obtuse stupefaction—from time to time they take a bath in the opposite conditions.
70.
I feel as if I had recovered from an illness: with a feeling of unutterable joy I think of Mozart’s Requiem. I can once more enjoy simple fare.
71.
I understand Sophocles’ development through and through—it was the repugnance to pomp and pageantry.
72.
I gained an insight into the injustice of idealism, by noticing that I avenged myself on Wagner for the disappointed hopes I had cherished of him.
73.
I leave my loftiest duty to the end, and that is to thank Wagner and Schopenhauer publicly, and[Pg 102] to make them as it were take sides against themselves.
74.
I counsel everybody not to fight shy of such paths (Wagner and Schopenhauer). The wholly unphilosophic feeling of remorse, has become quite strange to me.
Wagner’s Effects.
75.
We must strive to oppose the false after-effects of Wagner’s art. If he, in order to create Parsifal, is forced to pump fresh strength from religious sources, this is not an example but a danger.
76.
I entertain the fear that the effects of Wagner’s art will ultimately pour into that torrent which takes its rise on the other side of the mountains, and which knows how to flow even over mountains.[3]
[3] It should be noted that the German Catholic party is called the Ultramontane Party. The river which can thus flow over mountains is Catholicism, towards which Nietzsche thought Wagner’s art to be tending.—TR.
[Pg 103]
WE PHILOLOGISTS
AUTUMN 1874
(PUBLISHED POSTHUMOUSLY)
TRANSLATED BY J. M. KENNEDY
AUTHOR OF “THE QUINTESSENCE OF NIETZSCHE,” “RELIGIONS AND PHILOSOPHIES
OF THE EAST,” &.
The mussel is crooked inside and rough outside: it is only when we hear its deep note after blowing into it that we can begin to esteem it at its true value.—(Ind. Sprüche, ed.
Böthlingk, i. 335.)
An ugly-looking wind instrument: but we must first blow into it.
[Pg 104][Pg 105]
TRANSLATOR’S INTRODUCTION
The subject of education was one to which Nietzsche, especially during his residence in Basel, paid considerable attention; and his insight into it was very much deeper than that of, say, Herbert Spencer or even Johann Friedrich Herbart, the latter of whom has in late years exercised considerable influence in scholastic circles.
Nietzsche clearly saw that the “philologists” (using the word chiefly in reference to the teachers of the classics in German colleges and universities) were absolutely unfitted for their high task, since they were one and all incapable of entering into the spirit of antiquity.
Although at the first reading, therefore, this book may seem to be rather fragmentary, there are two main lines of thought running through it: an incisive criticism of German professors, and a number of constructive ideas as to what classical culture really should be.
These scattered aphorisms, indeed, are significant as showing how far Nietzsche had travelled along the road over which humanity had been travelling from remote ages, and how greatly he was imbued with the pagan spirit which he recognised in Goethe and valued in Burckhardt.
Even at this early period of his life Nietzsche was convinced that Christianity was the real danger to culture; and not merely modern Christianity, but also the Alexandrian culture, the last gasp of Greek antiquity, which had[Pg 106] helped to bring Christianity about. When, in the later aphorisms of “We Philologists,” Nietzsche appears to be throwing
over the Greeks, it should be remembered that he does not refer to the Greeks of the era of Homer or Æschylus, or even of Aristotle, but to the much later Greeks of the era of Longinus.
Classical antiquity, however, was conveyed to the public through university professors and their intellectual offspring; and these professors, influenced (quite unconsciously, of course) by religious and “liberal” principles, presented to their scholars a kind of emasculated antiquity. It was only on these conditions that the State allowed the pagan teaching to be propagated in the schools; and if, where classical scholars were concerned, it was more tolerant than the Church had been, it must be borne in mind that the Church had already done all the rough work of emasculating its enemies, and had handed down to the State a body of very innocuous and harmless investigators.
A totally erroneous conception of what constituted classical culture was thus brought about Where any distinction was actually made, for example, later Greek thought was enormously over-rated, and early Greek thought equally undervalued. Aphorism 44, together with the first half-dozen or so in the book, may be taken as typical specimens of Nietzsche’s protest against this state of things.
It must be added, unfortunately, that Nietzsche’s observations in this book apply as much to England as to Germany. Classical teachers here may not be rated so high as they are in Germany; but their[Pg 107] influence would appear to be equally powerful, and their theories of education and of classical antiquity equally chaotic. In England as in Germany they are “theologians in disguise.” The danger of modern “values” to true culture may be readily gathered from a perusal of aphorisms that follow: and, if these aphorisms enable even one scholar in a hundred to enter more thoroughly into the spirit of a great past, they will not have been penned in vain.
J. M. KENNEDY.
LONDON, July,1911.
[Pg 108][Pg 109]
1.
To what a great extent men are ruled by pure hazard, and how little reason itself enters into the question, is sufficiently shown by observing how few people have any real capacity for their professions and callings, and how many square pegs there are in round holes: happy and well chosen instances are quite exceptional, like happy marriages, and even these latter are not brought about by reason. A man chooses his calling before he is fitted to exercise his faculty of choice.
He does not know the number of different callings and professions that exist; he does not know himself; and then he wastes his years of activity in this calling, applies all his mind to it, and becomes experienced and practical. When, afterwards, his understanding has become fully developed, it is generally too late to start something new; for wisdom on earth has almost always had something of the weakness of old age and lack of vigour about it.
For the most part the task is to make good, and to set to rights as well as possible, that which was bungled in the beginning. Many will come to recognise that the latter part of their life shows a purpose or design which has sprung from a primary discord: it is hard to live through it Towards the end of his life, however, the average man has become accustomed to it—then he may make a mistake in regard[Pg 110] to the life he has lived, and praise his own stupidity: bene navigavi cum naufragium feci: he may even compose a song of thanksgiving to
“Providence.”
2
On inquiring into the origin of the philologist I find: 1. A young man cannot have the slightest conception of what the Greeks and Romans were.
2. He does not know whether he is fitted to investigate into them; 3. And, in particular, he does not know to what extent, in view of the knowledge he may actually possess, he is fitted to be a teacher.
What then enables him to decide is not the knowledge of himself or his science; but
(a) Imitation.
(b) The convenience of carrying on the kind of work which he had begun at school.
(c) His intention of earning a living.
In short, ninety-nine philologists out of a hundred should not be philologists at all.
3
The more strict religions require that men shall look upon their activity simply as one means of carrying out a metaphysical scheme: an unfortunate choice of calling may then be explained as a test of the individual. Religions keep their eyes fixed only upon the salvation of the individual: whether he is a slave or a free man, a merchant or a scholar, his aim in life has nothing to do with his calling, so that a wrong choice is not such a very great piece[Pg 111] of unhappiness. Let this serve as a crumb of comfort for philologists in general; but true philologists stand in need of a better understanding: what will result from a science which is “gone in for” by ninety-nine such people?
The thoroughly unfitted majority draw up the rules of the science in accordance with their own capacities and inclinations; and in this way they tyrannise over the hundredth, the only capable one among them. If they have the training of others in their hands they will train them consciously or unconsciously after their own image: what then becomes of the classicism of the Greeks and Romans?
The points to be proved are:—
(a) The disparity between philologists and the ancients.
(b) The inability of the philologist to train his pupils, even with the help of the ancients.
(c) The falsifying of the science by the (incapacity of the) majority; the wrong requirements held in view; the renunciation of the real aim of this science.
4
All this affects the sources of our present philology: a sceptical and melancholy attitude. But how otherwise are philologists to be produced?
The imitation of antiquity: is not this a principle which has been refuted by this time?
The flight from actuality to the ancients: does not this tend to falsify our conception of antiquity?
[Pg 112]
5
We are still behindhand in one type of contemplation: to understand how the greatest productions of the intellect have a dreadful and evil background: the sceptical type of contemplation. Greek antiquity is now investigated as the most beautiful example of life.
As man assumes a sceptical and melancholy attitude towards his life’s calling, so we must sceptically examine the highest life’s calling of a nation: in order that we may understand what life is.
6
My words of consolation apply particularly to the single tyrannised individual out of a hundred: such exceptional ones should simply treat all the unenlightened majorities as their subordinates; and they should in the same way take advantage of the prejudice, which is still widespread, in favour of classical instruction—they need many helpers.
But they must have a clear perception of what their actual goal is.
7
Philology as the science of antiquity does not, of course, endure for ever; its elements are not inexhaustible. What cannot be exhausted, however, is the ever-new adaptation of one’s age to antiquity; the comparison of the two. If we make it our task to understand our own age better by means of antiquity, then our task will be an everlasting one.—This is the antinomy of philology: people have always endeavoured to understand antiquity by means of the[Pg 113] present—and shall the present now be understood by-means of antiquity? Better: people have explained antiquity to themselves out of their own experiences; and from the amount of antiquity thus acquired they have assessed the value of their experiences. Experience, therefore, is certainly an essential
pre-requisite for a philologist—that is, the philologist must first of all be a man; for then only can he be productive as a philologist. It follows from this that old men are well suited to be philologists if they were not such during that portion of their life which was richest in experiences.
It must be insisted, however, that it is only through a knowledge of the present that one can acquire an inclination for the study of classical antiquity. Where indeed should the impulse come from if not from this inclination? When we observe how few philologists there actually are, except those that have taken up philology as a means of livelihood, we can easily decide for ourselves what is the matter with this impulse for antiquity: it hardly exists at all, for there are no disinterested philologists.
Our task then is to secure for philology the universally educative results which it should bring about. The means: the limitation of the number of those engaged in the philological profession (doubtful whether young men should be made acquainted with philology at all).
Criticism of the philologist. The value of antiquity: it sinks with you: how deeply you must have sunk, since its value is now so little!
[Pg 114]
8
It is a great advantage for the true philologist that a great deal of preliminary work has been done in his science, so that he may take possession of this inheritance if he is strong enough for it—I refer to the valuation of the entire Hellenic mode of thinking. So long as philologists worked simply at details, a misunderstanding of the Greeks was the consequence. The stages of this under-valuation are: the sophists of the second century, the philologist-poets of the Renaissance, and the philologist as the teacher of the higher classes of society (Goethe, Schiller).
Valuing is the most difficult of all.
In what respect is one most fitted for this valuing?—Not, at all events, when one is trained for philology as one is now. It should be ascertained to what extent our present means make this last object impossible.—Thus the philologist himself is not the aim of philology.
9
Most men show clearly enough that they do not regard themselves as individuals: their lives indicate this. The Christian command that everyone shall steadfastly keep his eyes fixed upon his salvation, and his alone, has as its counterpart the general life of mankind, where every man lives merely as a point among other points—living not only as the result of earlier generations, but living also only with an eye to the future. There are only three forms of existence in which a man remains an individual: as a philosopher, as a Saviour, and as an artist. But just let us consider how a scientific man bungles his life:[Pg 115] what has the teaching of Greek particles to do with the sense of life?—Thus we can also observe how innumerable men merely live, as it were, a preparation for a man: the philologist, for example, as a preparation for the philosopher, who in his turn knows how to utilise his ant-like work to pronounce some opinion upon the value of life.
When such ant-like work is not carried out under any special direction the greater part of it is simply nonsense, and quite superfluous.
10
Besides the large number of unqualified philologists there is, on the other hand, a number of what may be called born philologists, who from some reason or other are prevented from becoming such. The greatest obstacle, however, which stands in the way of these born philologists is the bad representation of philology by the unqualified philologists.
Leopardi is the modern ideal of a philologist: The German philologists can do nothing. (As a proof of this Voss should be studied!) 11
Let it be considered how differently a science is propagated from the way in which any special talent in a family is transmitted. The bodily transmission of an individual science is something very rare. Do the sons of philologists easily become philologists? Dubito. Thus there
is no such accumulation of philological capacity as there was, let us say, in Beethoven’s family of musical capacity.[Pg 116] Most philologists begin from the beginning; and even then they learn from books, and not through travels, &c. They get some training, of course.
12
Most men are obviously in the world accidentally: no necessity of a higher kind is seen in them. They work at this and that; their talents are average. How strange! The manner in which they live shows that they think very little of themselves: they merely esteem themselves in so far as they waste their energy on trifles (whether these be mean or frivolous desires, or the trashy concerns of their everyday calling).
In the so-called life’s calling, which everyone must choose, we may perceive a touching modesty on the part of mankind. They practically admit in choosing thus: “We are called upon to serve and to be of advantage to our equals—the same remark applies to our neighbour and to his neighbour; so everyone serves somebody else; no one is carrying out the duties of his calling for his own sake, but always for the sake of others: and thus we are like geese which support one another by the one leaning against the other. When the aim of each one of us is centred in another, then we have all no object in existing; and this
‘existing for others’ is the most comical of comedies.”
13
Vanity is the involuntary inclination to set one’s self up for an individual while not really being one; that is to say, trying to appear independent when one is dependent. The case of wisdom is the exact[Pg 117]
contrary: it appears to be dependent while in reality it is independent.
14
The Hades of Homer—From what type of existence is it really copied? I think it is the description of the philologist: it is better to be a day-labourer than to have such an anæmic recollection of the past.—[1]
[1] No doubt a reminiscence of the “Odyssey,” Bk. ix.—TR.
15
The attitude of the philologist towards antiquity is apologetic, or else dictated by the view that what our own age values can likewise be found in antiquity. The right attitude to take up, however, is the reverse one, viz., to start with an insight into our modern topsyturviness, and to look back from antiquity to it—and many things about antiquity which have hitherto displeased us will then be seen to have been most profound necessities.
We must make it clear to ourselves that we are acting in an absurd manner when we try to defend or to beautify antiquity: who are we!
16
We are under a false impression when we say that there is always some caste which governs a nation’s culture, and that therefore savants are necessary; for savants only possess knowledge concerning culture (and even this only in exceptional cases). Among learned men themselves there might be a few, certainly not a caste, but even these would indeed be rare.
[Pg 118]
17
One very great value of antiquity consists in the fact that its writings are the only ones which modern men still read carefully.
Overstraining of the memory—very common among philologists, together with a poor development of the judgment.
18
Busying ourselves with the culture-epochs of the past: is this gratitude? We should look backwards in order to explain to ourselves the present conditions of culture: we do not become too laudatory in regard to our own circumstances, but perhaps we should do so in order that we may not be too severe on ourselves.
19
He who has no sense for the symbolical has none for antiquity: let pedantic philologists bear this in mind.
20
My aim is to bring about a state of complete enmity between our present
“culture” and antiquity. Whoever wishes to serve the former must hate the latter.
21
Careful meditation upon the past leads to the impression that we are a multiplication of many pasts: so how can we be a final aim? But why not? In most instances, however, we do not wish to be this. We take up our positions again in the[Pg 119] ranks, work in our own little corner, and hope that what we do may be of some small profit to our successors. But that is exactly the case of the cask of the Danæ: and this is useless, we must again set about doing everything for ourselves, and only for ourselves—measuring science by ourselves, for example with the question: What is science to us? not: what are we to science? People really make life too easy for themselves when they look upon themselves from such a simple historical point of view, and make humble servants of themselves. “Your own salvation above everything”—that is what you should say; and there are no institutions which you should prize more highly than your own soul.—Now, however, man learns to know himself: he finds himself miserable, despises himself, and is pleased to find something worthy of respect outside himself. Therefore he gets rid of himself, so to speak, makes himself subservient to a cause, does his duty strictly, and atones for his existence. He knows that he does not work for himself alone; he wishes to help those who are daring enough to exist on account of themselves, like Socrates. The majority of men are as it were suspended in the air like toy balloons; every breath of wind moves them.—As a consequence the savant must be such out of self-knowledge, that is to say, out of contempt for himself—in other words he must recognise himself to be merely the servant of some higher being who comes after him. Otherwise he is simply a sheep.
[Pg 120]
22
It is the duty of the free man to live for his own sake, and not for others. It was on this account that the Greeks looked upon handicrafts as unseemly.
As a complete entity Greek antiquity has not yet been fully valued: I am convinced that if it had not been surrounded by its traditional glorification, the men of the present day would shrink from it horror stricken. This glorification, then, is spurious; gold-paper.
23
The false enthusiasm for antiquity in which many philologists live.
When antiquity suddenly comes upon us in our youth, it appears to us to be composed of innumerable trivialities; in particular we believe ourselves to be above its ethics. And Homer and Walter Scott—who carries off the palm? Let us be honest! If this enthusiasm were really felt, people could scarcely seek their life’s calling in it. I mean that what we can obtain from the Greeks only begins to dawn upon us in later years: only after we have undergone many experiences, and thought a great deal.
24
People in general think that philology is at an end—while I believe that it has not yet begun.
The greatest events in philology are the appearance of Goethe, Schopenhauer, and Wagner; standing on their shoulders we look far into the distance The fifth and sixth centuries have still to be discovered.
[Pg 121]
25
Where do we see the effect of antiquity? Not in language, not in the imitation of something or other, and not in perversity and waywardness, to which uses the French have turned it. Our museums are gradually becoming filled up: I always experience a sensation of disgust when I see naked statues in the Greek style in the presence of this thought-less philistinism which would fain devour everything.
[Pg 122]
PLANS AND THOUGHTS RELATING TO A WORK ON PHILOLOGY
(1875)
26
Of all sciences philology at present is the most favoured: its progress having been furthered for centuries by the greatest number of scholars in every nation who have had charge of the noblest pupils. Philology has thus had one of the best of all opportunities to be propagated from generation to generation, and to make itself respected. How has it acquired this power?
Calculations of the different prejudices in its favour.
How then if these were to be frankly recognised as prejudices? Would not philology be superfluous if we reckoned up the interests of a position in life or the earning of a livelihood? What if the truth were told about antiquity, and its qualifications for training people to live in the present?
In order that the questions set forth above may be answered let us consider the training of the philologist, his genesis: he no longer comes into being where these interests are lacking.
If the world in general came to know what an unseasonable thing for us antiquity really is,[Pg 123] philologists would no longer be called in as the educators of our youth.
Effect of antiquity on the non-philologist likewise nothing. If they showed themselves to be imperative and contradictory, oh, with what hatred would they be pursued! But they always humble themselves.
Philology now derives its power only from the union between the philologists who will not, or cannot, understand antiquity and public opinion, which is misled by prejudices in regard to it.
The real Greeks, and their “watering down” through the philologists.
The future commanding philologist sceptical in regard to our entire culture, and therefore also the destroyer of philology as a profession.
THE PREFERENCE FOR ANTIQUITY
27
If a man approves of the investigation of the past he will also approve and even praise the fact—and will above all easily understand it—that there are scholars who are exclusively occupied with the investigation of Greek and Roman antiquity: but that these scholars are at the same time the teachers of the children of the nobility and gentry is not equally easy of comprehension—here lies a problem.
Why philologists precisely? This is not altogether such a matter of course as the case of a professor of medicine, who is also a practical physician and surgeon. For, if the cases were identical, preoccupation with Greek and Roman antiquity would be[Pg 124] identical with the “science of education.” In short the relationship between theory and practice in the philologist cannot be so quickly conceived. Whence comes his pretension to be a teacher in the higher sense, not only of all scientific men, but more especially of all cultured men? This educational power must be taken by the philologist from antiquity; and in such a case people will ask with astonishment: how does it come that we attach such value to a far-off past that we can only become cultured men with the aid of its knowledge?
These questions, however, are not asked as a rule: The sway of philology over our means of instruction remains practically unquestioned; and antiquity has the importance assigned to it. To this extent the position of the philologist is more favourable than that of any other follower of science. True, he has not at his disposal that great mass of men who stand in need of him—the doctor, for example, has far more than the philologist. But he can influence picked men, or youths, to be more accurate, at a time when all their mental faculties are beginning to blossom forth—people who can afford to devote both time and money to their higher development. In all those places where European culture has found its way, people have accepted secondary schools based upon a foundation of Latin and Greek as the first and highest means of instruction. In this way philology has found its best opportunity of transmitting itself, and commanding respect: no other science has been so well favoured. As a general rule all those who have passed through such institutions have afterwards borne testimony to the[Pg 125] excellence of their organisation and curriculum, and such people are, of course, unconscious witnesses in favour of
philology. If any who have not passed through these institutions should happen to utter a word in disparagement of this education, an unanimous and yet calm repudiation of the statement at once follows, as if classical education were a kind of witchcraft, blessing its followers, and demonstrating itself to them by this blessing. There is no attempt at polemics: “We have been through it all.” “We know it has done us good.”
Now there are so many things to which men have become so accustomed that they look upon them as quite appropriate and suitable, for habit intermixes all things with sweetness; and men as a rule judge the value of a thing in accordance with their own desires. The desire for classical antiquity as it is now felt should be tested, and, as it were, taken to pieces and analysed with a view to seeing how much of this desire is due to habit, and how much to mere love of adventure—I refer to that inward and active desire, new and strange, which gives rise to a productive conviction from day to day, the desire for a higher goal, and also the means thereto: as the result of which people advance step by step from one unfamiliar thing to another, like an Alpine climber.
What is the foundation on which the high value attached to antiquity at the present time is based, to such an extent indeed that our whole modern culture is founded on it? Where must we look for the origin of this delight in antiquity, and the preference shown for it?
[Pg 126]
I think I have recognised in my examination of the question that all our philology—that is, all its present existence and power—is based on the same foundation as that on which our view of antiquity as the most important of all means of training is based. Philology as a means of instruction is the clear expression of a predominating conception regarding the value of antiquity, and the best methods of education.
Two propositions are contained in this statement: In the first place all higher education must be a historical one; and secondly, Greek and Roman history differs from all others in that it is classical. Thus the scholar who knows this history becomes a teacher. We are not here going into the question as to whether higher education ought to be historical or not; but we may examine the second and ask: in how far is it classic?
On this point there are many widespread prejudices. In the first place there is the prejudice expressed in the synonymous concept, “The study of the humanities”: antiquity is classic because it is the school of the humane.
Secondly: “Antiquity is classic because it is enlightened——”
28
It is the task of all education to change certain conscious actions and habits into more or less unconscious ones; and the history of mankind is in this sense its education. The philologist now practises unconsciously a number of such occupations and habits. It is my object to ascertain how[Pg 127] his power, that is, his instinctive methods of work, is the result of activities which were formerly conscious, but which he has gradually come to feel as such no longer: but that consciousness consisted of prejudices. The present power of philologists is based upon these prejudices, for example the value attached to the ratio as in the cases of Bentley and Hermann. Prejudices are, as Lichtenberg says, the art impulses of men.
29
It is difficult to justify the preference for antiquity since it has arisen from prejudices:
1. From ignorance of all non-classical antiquity.
2. From a false idealisation of humanitarianism, whilst Hindoos and Chinese are at all events more humane.
3. From the pretensions of school-teachers.
4. From the traditional admiration which emanated from antiquity itself.
5. From opposition to the Christian church; or as a support for this church.
6. From the impression created by the century-long work of the philologists, and the nature of this work: it must be a gold mine,
thinks the spectator.
7. The acquirement of knowledge attained as the result of the study.
The preparatory school of science.
In short, partly from ignorance, wrong impressions, and misleading conclusions; and also from the interest which philologists have in raising their science to a high level in the estimation of laymen.
[Pg 128]
Also the preference for antiquity on the part of the artists, who involuntarily assume proportion and moderation to be the property of all antiquity. Purity of form. Authors likewise.
The preference for antiquity as an abbreviation of the history of the human race, as if there were an autochthonous creation here by which all becoming might be studied.
The fact actually is that the foundations of this preference are being removed one by one, and if this is not remarked by philologists themselves, it is certainly being remarked as much as it can possibly be by people outside their circle. First of all history had its effect, and then linguistics brought about the greatest diversion among philologists themselves, and even the desertion of many of them. They have still the schools in their hands: but for how long! In the form in which it has existed up to the present philology is dying out; the ground has been swept from under its feet. Whether philologists may still hope to maintain their status is doubtful; in any case they are a dying race.
30
The peculiarly significant situation of philologists: a class of people to whom we entrust our youth, and who have to investigate quite a special antiquity. The highest value is obviously attached to this antiquity. But if this antiquity has been wrongly valued, then the whole foundation upon which the high position of the philologist is based suddenly collapses. In any case this antiquity has[Pg 129] been very differently valued; and our appreciation of the philologists has constantly been guided by it. These people have borrowed their power from the strong prejudices in favour of antiquity,—this must be made clear.
Philologists now feel that when these prejudices are at last refuted, and antiquity depicted in its true colours, the favourable prejudices towards them will diminish considerably. It is thus to the interest of their profession not to let a clear impression of antiquity come to light: in particular the impression that antiquity in its highest sense renders one “out of season” i.e., an enemy to one’s own time.
It is also to the interest of philologists as a class not to let their calling as teachers be regarded from a higher standpoint than that to which they themselves can correspond.
31
It is to be hoped that there are a few people who look upon it as a problem why philologists should be the teachers of our noblest youths. Perhaps the case will not be always so.—It would be much more natural per se if our children were instructed in the elements of geography, natural science, political economy, and sociology, if they were gradually led to a consideration of life itself, and if finally, but much later, the most noteworthy events of the past were brought to their knowledge. A knowledge of antiquity should be among the last subjects which a student would take up; and would not this position of antiquity in the curriculum of a school be more honourable for it than the present one?—[Pg 130]Antiquity is now used merely as a propædeutic for thinking, speaking, and writing; but there was a time when it was the essence of earthly knowledge, and people at that time wished to acquire by means of practical learning what they now seek to acquire merely by means of a detailed plan of study—a plan which, corresponding to the more advanced knowledge of the age, has entirely changed.
Thus the inner purpose of philological teaching has been entirely altered; it was at one time material teaching, a teaching that taught how to live; but now it is merely formal.[3]
[3] Formal education is that which tends to develop the
critical and logical faculties, as opposed to material education, which is intended to deal with the acquisition of knowledge and its valuation, e.g., history, mathematics, &c. “Material” education, of course, has nothing to do with materialism.—TR.
32
If it were the task of the philologist to impart formal education, it would be necessary for him to teach walking, dancing, speaking, singing, acting, or arguing: and the so-called formal teachers did impart their instruction this way in the second and third centuries.
But only the training of a scientific man is taken into account, which results in “formal” thinking and writing, and hardly any speaking at all.
33
If the gymnasium is to train young men for science, people now say there can be no more[Pg 131] preliminary preparation for any particular science, so comprehensive have all the sciences become. As a consequence teachers have to train their students generally, that is to say for all the sciences—for scientificality in other words; and for that classical studies are necessary! What a wonderful jump! a most despairing justification! Whatever is, is right,[4] even when it is clearly seen that the “right” on which it has been based has turned to wrong.
[4] The reference is not to Pope, but to Hegel.—TR.
34
It is accomplishments which are expected from us after a study of the ancients: formerly, for example, the ability to write and speak. But what is expected now! Thinking and deduction: but these things are not learnt from the ancients, but at best through the ancients, by means of science. Moreover, all historical deduction is very limited and unsafe; natural science should be preferred.
35
It is the same with the simplicity of antiquity as it is with the simplicity of style: it is the highest thing which we recognise and must imitate; but it is also the last Let it be remembered that the classic prose of the Greeks is also a late result 36
What a mockery of the study of the “humanities” lies in the fact that they were also called “belles lettres” (bellas litteras)!
[Pg 132]
37
Wolfs[5] reasons why the Egyptians, Hebrews Persians, and other Oriental nations were not to be set on the same plane with the Greeks and Romans: “The former have either not raised themselves, or have raised themselves only to a slight extent, above that type of culture which should be called a mere civilisation and bourgeois acquirement, as opposed to the higher and true culture of the mind.”
He then explains that this culture is spiritual and literary: “In a well-organised nation this may be begun earlier than order and peacefulness in the outward life of the people (enlightenment).”
He then contrasts the inhabitants of easternmost Asia (“like such individuals, who are not wanting in clean, decent, and comfortable dwellings, clothing, and surroundings; but who never feel the necessity for a higher enlightenment”) with the Greeks (“in the case of the Greeks, even among the most educated inhabitants of Attica, the contrary often happens to an astonishing degree; and the people neglect as insignificant factors that which we, thanks to our love of order, are in the habit of looking upon as the foundations of mental culture itself”).
[5] Friedrich August Wolf (1759-1824), the well-known classical scholar, now chiefly remembered by his “Prolegomena ad Homerum.”—TR.
38
Our terminology already shows how prone we are to judge the ancients wrongly: the exaggerated sense of literature, for example; or, as Wolf, when[Pg 133] speaking of the “inner history of ancient erudition,” calls it,
“the history of learned enlightenment.”
39
According to Goethe, the ancients are “the despair of the emulator.”
Voltaire said: “If the admirers of Homer were honest, they would acknowledge the boredom which their favourite often causes them.”
40
The position we have taken up towards classical antiquity is at bottom the profound cause of the sterility of modern culture; for we have taken all this modern conception of culture from the Hellenised Romans.
We must distinguish within the domain of antiquity itself: when we come to appreciate its purely productive period, we condemn at the same time the entire Romano Alexandrian culture. But at the same time also we condemn our own attitude towards antiquity, and likewise our philology.
41
There has been an age-long battle between the Germans and antiquity, i.e., a battle against the old culture: it is certain that precisely what is best and deepest in the German resists it. The main point, however, is that such resistance is only justifiable in the case of the Romanised culture; for this culture, even at that time, was a falling-off from something more profound and noble. It is this latter that the Germans are wrong in resisting.
[Pg 134]
42
Everything classic was thoroughly cultivated by Charles the Great, whilst he combated everything heathen with the severest possible measures of coercion. Ancient mythology was developed, but German mythology was treated as a crime. The feeling underlying all this, in my opinion, was that Christianity had already overcome the old religion: people no longer feared it, but availed themselves of the culture that rested upon it. But the old German gods were feared.
A great superficiality in the conception of antiquity—little else than an appreciation of its formal accomplishments and its knowledge—must thereby have been brought about. We must find out the forces that stood in the way of increasing our insight into antiquity. First of all, the culture of antiquity is utilised as an incitement towards the acceptance of Christianity: it became, as it were, the premium for conversion, the gilt with which the poisonous pill was coated before being swallowed. Secondly, the help of ancient culture was found to be necessary as a weapon for the intellectual protection of Christianity.
Even the Reformation could not dispense with classical studies for this purpose.
The Renaissance, on the other hand, now begins, with a clearer sense of classical studies, which, however, are likewise looked upon from an anti-Christian standpoint: the Renaissance shows an awakening of honesty in the south, like the Reformation in the north. They could not but clash; for a sincere leaning towards antiquity renders one unchristian.[Pg 135] On the whole, however, the Church succeeded in turning classical studies into a harmless direction: the philologist was invented, representing a type of learned man who was at the same time a priest or something similar. Even in the period of the Reformation people succeeded in emasculating scholarship. It is on this account that Friedrich August Wolf is noteworthy: he freed his profession from the bonds of theology. This action of his, however, was not fully understood; for an aggressive, active element, such as was manifested by the poet-philologists of the Renaissance, was not developed. The freedom obtained benefited science, but not man.
43
It is true that both humanism and rationalism have brought antiquity into the field as an ally; and it is therefore quite comprehensible that the opponents of humanism should direct their attacks against antiquity also. Antiquity, however, has been misunderstood and falsified by humanism: it must rather be considered as a testimony against humanism, against the benign nature of man, &c. The opponents of humanism are wrong to combat antiquity as well; for in antiquity they have a strong ally.
44
It is so difficult to understand the ancients. We must wait patiently until the spirit moves us. The human element which antiquity shows us must not be confused with humanitarianism. This contrast must be strongly emphasised: philology suffers by endeavouring to substitute the humanitarian;[Pg 136] young men are brought forward as students of philology in order that they may thereby become humanitarians. A good deal of history, in my opinion, is quite sufficient for that purpose.
The brutal and self-conscious man will be humbled when he sees things and values changing to such an extent.
The human element among the Greeks lies within a certain naïveté through which man himself is to be seen—state, art, society, military and civil law, sexual relations, education, party. It is precisely the human element which may be seen everywhere and among all peoples; but among the Greeks it is seen in a state of nakedness and inhumanity which cannot be dispensed with for purposes of instruction. In addition to this, the Greeks have created the greatest number of individuals; and thus they give us so much insight into men,—a Greek cook is more of a cook than any other.
45
I deplore a system of education which does not enable people to understand Wagner, and as the result of which Schopenhauer sounds harsh and discordant in our ears: such a system of education has missed its aim.
46
(THE FINAL DRAFT OF THE FIRST CHAPTER.)
Il faut dire la vérité et s’immoler.—VOLTAIRE.
Let us suppose that there were freer and more superior spirits who were dissatisfied with the education now in vogue, and that they summoned it to their tribunal, what would the defendant say to[Pg 137] them? In all probability something like this: “Whether you have a right to summon anyone here or not, I am at all events not the proper person to be called. It is my educators to whom you should apply. It is their duty to defend me, and I have a right to keep silent. I am merely what they have made me.”
These educators would now be haled before the tribunal, and among them an entire profession would be observed: the philologists. This profession consists in the first place of those men who make use of their knowledge of Greek and Roman antiquity to bring up youths of thirteen to twenty years of age, and secondly of those men whose task it is to train specially-gifted pupils to act as future teachers-i.e., as the educators of educators. Philologists of the first type are teachers at the public schools; those of the second are professors at the universities.
The first-named philologists are entrusted with the care of certain specially-chosen youths, those who, early in life, show signs of talent and a sense of what is noble, and whose parents are prepared to allow plenty of time and money for their education. If other boys, who do not fulfil these three conditions, are presented to the teachers, the teachers have the right to refuse them. Those forming the second class, the university professors, receive the young men who feel themselves fitted for the highest and most responsible of callings, that of teachers and moulders of mankind; and these professors, too, may refuse to have anything to do with young men who are not adequately equipped or gifted for the task.[Pg 138] If, then, the educational system of a period is condemned, a heavy censure on philologists is thereby implied: either, as the consequence of their wrong-headed view, they insist on giving bad education in the belief that it is good; or they do not wish to give this bad education, but are unable to carry the day in favour of education which they recognise to be better. In other words, their fault is either due to their lack of insight or to their lack of will.
In answer to the first charge they would say that they knew no better, and in answer to the second that they could do no better. As, however, these philologists bring up their pupils chiefly with the aid of Greek and Roman antiquity, their want of insight in the first case may be
attributed to the fact that they do not understand antiquity; and again to the fact that they bring forward antiquity into the present age as if it were the most important of all aids to instruction, while antiquity, generally speaking, does not assist in training, or at all events no longer does so.
On the other hand, if we reproach our professors with their lack of will, they would be quite right in attributing educational significance and power to antiquity; but they themselves could not be said to be the proper instruments by means of which antiquity could exhibit such power. In other words, the professors would not be real teachers and would be living under false colours: but how, then, could they have reached such an irregular position? Through a misunderstanding of themselves and their qualifications. In order, then, that we may ascribe to philologists their share in this bad educational system of the present time, we may sum up the different[Pg 139] factors of their innocence and guilt in the following sentence: the philologist, if he wishes for a verdict of acquittal, must understand three things: antiquity, the present time, and himself: his fault lies in the fact that he either does not understand antiquity, or the present time, or himself.
47
It is not true to say that we can attain culture through antiquity alone. We may learn something from it, certainly; but not culture as the word is now understood. Our present culture is based on an emasculated and mendacious study of antiquity. In order to understand how ineffectual this study is, just look at our philologists: they, trained upon antiquity, should be the most cultured men. Are they?
48
Origin of the philologist. When a great work of art is exhibited there is always some one who not only feels its influence but wishes to perpetuate it. The same remark applies to a great state—to everything, in short, that man produces. Philologists wish to perpetuate the influence of antiquity: and they can set about it only as imitative artists. Why not as men who form their lives after antiquity?
49
The decline of the poet-scholars is due in great part to their own corruption: their type is continually arising again; Goethe and Leopardi, for example, belong to it. Behind them plod the philologist-savants. This type has its origin in the sophisticism of the second century.
[Pg 140]
50
Ah, it is a sad story, the story of philology! The disgusting erudition, the lazy, inactive passivity, the timid submission.—Who was ever free?
51
When we examine the history of philology it is borne in upon us how few really talented men have taken part in it. Among the most celebrated philologists are a few who ruined their intellect by acquiring a smattering of many subjects, and among the most enlightened of them were several who could use their intellect only for childish tasks. It is a sad story: no science, I think, has ever been so poor in talented followers. Those whom we might call the intellectually crippled found a suitable hobby in all this hair-splitting.
52
The teacher of reading and writing, and the reviser, were the first types of the philologist.
53
Friedrich August Wolf reminds us how apprehensive and feeble were the first steps taken by our ancestors in moulding scholarship—how even the Latin classics, for example, had to be smuggled into the university market under all sorts of pretexts, as if they had been contraband goods. In the “Göttingen Lexicon” of 1737, J. M. Gesner tells us of the Odes of Horace: “ut imprimis, quid prodesse in severioribus studiis possint, ostendat.”
[Pg 141]
54
I was pleased to read of Bentley: “non tam grande pretium emendatiunculis meis statuere soleo, ut singularem aliquam gratiam inde sperem aut exigam.”
Newton was surprised that men like Bentley and Hare should quarrel about a book of ancient comedies, since they were both theological dignitaries.
55
Horace was summoned by Bentley as before a judgment seat, the authority of which he would have been the first to repudiate. The admiration which a discriminating man acquires as a philologist is in proportion to the rarity of the discrimination to be found in philologists.
Bentley’s treatment of Horace has something of the schoolmaster about it. It would appear at first sight as if Horace himself were not the object of discussion, but rather the various scribes and commentators who have handed down the text: in reality, however, it is actually Horace who is being dealt with. It is my firm conviction that to have written a single line which is deemed worthy of being commented upon by scholars of a later time, far outweighs the merits of the greatest critic. There is a profound modesty about philologists. The improving of texts is an entertaining piece of work for scholars, it is a kind of riddle-solving; but it should not be looked upon as a very important task. It would be an argument against antiquity if it should speak less clearly to us because a million words stood in the way!
[Pg 142]
56
A school-teacher said to Bentley: “Sir, I will make your grandchild as great a scholar as you are yourself.” “How can you do that,” replied Bentley, “when I have forgotten more than you ever knew?”
57
Bentley’s clever daughter Joanna once lamented to her father that he had devoted his time and talents to the criticism of the works of others instead of writing something original. Bentley remained silent for some time as if he were turning the matter over in his mind. At last he said that her remark was quite right: he himself felt that he might have directed his gifts in some other channel. Earlier in life, nevertheless, he had done something for the glory of God and the improvement of his fellow-men (referring to his “Confutation of Atheism”), but afterwards the genius of the pagans had attracted him, and, despairing of attaining their level in any other way, he had mounted upon their shoulders so that he might thus be able to look over their heads.
58
Bentley, says Wolf, both as man of letters and individual, was misunderstood and persecuted during the greater part of his life, or else praised maliciously.
Markland, towards the end of his life—as was the case with so many others like him—became imbued with a repugnance for all scholarly reputation, to such an extent, indeed, that he partly tore[Pg 143] up and partly burnt several works which he had long had in hand.
Wolf says: “The amount of intellectual food that can be got from well-digested scholarship is a very insignificant item.”
In Winckelmann’s youth there were no philological studies apart from the ordinary bread-winning branches of the science—people read and explained the ancients in order to prepare themselves for the better interpretation of the Bible and the Corpus Juris.
59
In Wolf’s estimation, a man has reached the highest point of historical research when he is able to take a wide and general view of the whole and of the profoundly conceived distinctions in the developments in art and the different styles of art. Wolf acknowledges, however, that Winckelmann was lacking in the more common talent of philological criticism, or else he could not use it properly: “A rare mixture of a cool head and a minute and restless solicitude for hundreds of
things which, insignificant in themselves, were combined in his case with a fire that swallowed up those little things, and with a gift of divination which is a vexation and an annoyance to the uninitiated.”
60
Wolf draws our attention to the fact that antiquity was acquainted only with theories of oratory and poetry which facilitated production, and artes that formed real orators and poets, “while at the present day we shall soon have theories upon[Pg 144] which it would be as impossible to build up a speech or a poem as it would be to form a thunderstorm upon a brontological treatise.”
61
Wolf’s judgment on the amateurs of philological knowledge is noteworthy: “If they found themselves provided by nature with a mind corresponding to that of the ancients, or if they were capable of adapting themselves to other points of view and other circumstances of life, then, with even a nodding acquaintance with the best writers, they certainly acquired more from those vigorous natures, those splendid examples of thinking and acting, than most of those did who during their whole life merely offered themselves to them as interpreters.”
62
Says Wolf again: “In the end, only those few ought to attain really complete knowledge who are born with artistic talent and furnished with scholarship, and who make use of the best opportunities of securing, both theoretically and practically, the necessary technical knowledge.”
True!
63
Instead of forming our students on the Latin models I recommend the Greek, especially Demosthenes: simplicity! This may be seen by a reference to Leopardi, who is perhaps the greatest stylist of the century
64
“Classical education”: what do people see in it? Something that is useless beyond rendering a period[Pg 145] of military service unnecessary and securing a degree![6]
[6] Students who pass certain examinations need only serve one year in the German Army instead of the usual two or three.—TR.
65
When I observe how all countries are now promoting the advancement of classical literature I say to myself, “How harmless it must be!” and then, “How useful it must be!” It brings these countries the reputation of promoting “free culture.” In order that this “freedom” may be rightly estimated, just look at the philologists!
66
Classical education! Yea, if there were only as much paganism as Goethe found and glorified in Winckelmann, even that would not be much. Now, however, that the lying Christendom of our time has taken hold of it, the thing becomes over-powering, and I cannot help expressing my disgust on the point.—People firmly believe in witchcraft where this
“classical education “is concerned. They, however, who possess the greatest knowledge of antiquity should likewise possess the greatest amount of culture, viz., our philologists; but what is classical about them?
67
Classical philology is the basis of the most shallow rationalism: always having been dishonestly applied, it has gradually become quite ineffective. Its effect is one more illusion of the modern man.
Philologists are nothing but a guild of sky-pilots who are[Pg 146] not known as such: this is why the State takes an interest in them. The utility of classical education is completely used up, whilst, for example, the history of Christianity still shows its power.
68
Philologists, when discussing their science, never get down to the root of the subject: they never set forth philology itself as a problem. Bad conscience? or merely thoughtlessness?
69
We learn nothing from what philologists say about philology: it is all mere tittle-tattle—for example, Jahn’s[7] “The Meaning and Place of the Study of Antiquity in Germany.” There is no feeling for what should be protected and defended: thus speak people who have not even thought of the possibility that any one could attack them.
[7] Otto Jahn (1813-69), who is probably best remembered in philological circles by his edition of Juvenal.—TR.
70
Philologists are people who exploit the vaguely-felt dissatisfaction of modern man, and his desire for “something better,” in order that they may earn their bread and butter.
I know them—I myself am one of them.
71
Our philologists stand in the same relation to true educators as the medicine-men of the wild Indians do to true physicians. What astonishment will be felt by a later age!
[Pg 147]
72
What they lack is a real taste for the strong and powerful characteristics of the ancients. They turn into mere panegyrists, and thus become ridiculous.
73
They have forgotten how to address other men; and, as they cannot speak to the older people, they cannot do so to the young.
74
When we bring the Greeks to the knowledge of our young students, we are treating the latter as if they were well-informed and matured men. What, indeed, is there about the Greeks and their ways which is suitable for the young? In the end we shall find that we can do nothing for them beyond giving them isolated details. Are these observations for young people? What we actually do, however, is to introduce our young scholars to the collective wisdom of antiquity. Or do we not? The reading of the ancients is emphasised in this way.
My belief is that we are forced to concern ourselves with antiquity at a wrong period of our lives. At the end of the twenties its meaning begins to dawn on one.
75
There is something disrespectful about the way in which we make our young students known to the ancients: what is worse, it is unpedagogical; for what can result from a mere acquaintance with[Pg 148]
things which a youth cannot consciously esteem! Perhaps he must learn to “believe,” and this is why I object to it.
76
There are matters regarding which antiquity instructs us, and about which I should hardly care to express myself publicly.
77
All the difficulties of historical study to be elucidated by great examples.
Why our young students are not suited to the Greeks.
The consequences of philology: Arrogant expectation.
Culture-philistinism. Superficiality.
Too high an esteem for reading and writing. Estrangement from the nation and its needs. The philologists themselves, the historians, philosophers, and jurists all end in smoke.
Our young students should be brought into contact with real sciences.
Likewise with real art.
In consequence, when they grew older, a desire for real history would be shown.
78
Inhumanity: even in the “Antigone,” even in Goethe’s “Iphigenia.”
The want of “rationalism” in the Greeks.
Young people cannot understand the political affairs of antiquity.
The poetic element: a bad expectation.
[Pg 149]
79
Do the philologists know the present time? Their judgments on it as Periclean; their mistaken judgments when they speak of Freytag’s[8]
genius as resembling that of Homer, and so on; their following in the lead of the litterateurs; their abandonment of the pagan sense, which was exactly the classical element that Goethe discovered in Winckelmann.
[8] Gustav Freytag: at one time a famous German novelist.
—TR.
80
The condition of the philologists may be seen by their indifference at the appearance of Wagner. They should have learnt even more through him than through Goethe, and they did not even glance in his direction.
That shows that they are not actuated by any strong need, or else they would have an instinct to tell them where their food was to be found.
81
Wagner prizes his art too highly to go and sit in a corner with it, like Schumann. He either surrenders himself to the public (“Rienzi”) or he makes the public surrender itself to him. He educates it up to his music. Minor artists, too, want their public, but they try to get it by inartistic means, such as through the Press, Hanslick,[9] &c.
[9] A well-known anti-Wagnerian musical critic of Vienna.
—TR.
82
Wagner perfected the inner fancy of man: later generations will see a renaissance in sculpture. Poetry must precede the plastic art.
[Pg 150]
83
I observe in philologists:
1. Want of respect for antiquity.
2. Tenderness and flowery oratory; even an apologetic tone.
3. Simplicity in their historical comments.
4. Self-conceit.
5. Under-estimation of the talented philologists.
84
Philologists appear to me to be a secret society who wish to train our youth by means of the culture of antiquity: I could well understand this society and their views being criticised from all sides, A great deal would depend upon knowing what these philologists understood by the term “culture of antiquity.”—If I saw, for example, that they were training their pupils against German philosophy and German music, I should either set about combating them or combating the culture of antiquity, perhaps the former, by showing that these philologists had not understood the culture of antiquity. Now I observe: 1. A great indecision in the valuation of the culture of antiquity on the part of philologists.
2. Something very non-ancient in themselves; something non-free.
3. Want of clearness in regard to the particular type of ancient culture they mean.
4. Want of judgment in their methods of instruction, e.g., scholarship.
5. Classical education is served out mixed up with Christianity.
[Pg 151]
85
It is now no longer a matter of surprise to me that, with such teachers, the education of our time should be worthless. I can never avoid depicting this want of education in its true colours, especially in regard to those things which ought to be learnt from antiquity if possible, for example, writing, speaking, and so on.
86
The transmission of the emotions is hereditary: let that be recollected when we observe the effect of the Greeks upon philologists.
87
Even in the best of cases, philologists seek for no more than mere
“rationalism” and Alexandrian culture—not Hellenism.
88
Very little can be gained by mere diligence, if the head is dull.
Philologist after philologist has swooped down on Homer in the mistaken belief that something of him can be obtained by force. Antiquity speaks to us when it feels a desire to do so; not when we do.
89
The inherited characteristic of our present-day philologists: a certain sterility oi insight has resulted: for they promote the science, but not the philologist.
[Pg 152]
90
The following is one way of carrying on classical studies, and a frequent one: a man throws himself thoughtlessly, or is thrown, into some special branch or other, whence he looks to the right and left and sees a great deal that is good and new. Then, in some unguarded moment, he asks himself: “But what the devil has all this to do with me?” In the meantime he has grown old and has become accustomed to it all; and therefore he continues in his rut—just as in the case of marriage.
91
In connection with the training of the modern philologist the influence of the science of linguistics should be mentioned and judged; a philologist should rather turn aside from it: the question of the early beginnings of the Greeks and Romans should be nothing to him: how can they spoil their own subject in such a way?
92
A morbid passion often makes its appearance from time to time in connection with the oppressive uncertainty of divination, a passion for believing and feeling sure at all costs: for example, when dealing with Aristotle, or in the discovery of magic numbers, which, in Lachmann’s case, is almost an illness.
93
The consistency which is prized in a savant is pedantry if applied to the Greeks.
[Pg 153]
94
(THE GREEKS AND THE PHILOLOGISTS.)
THE GREEKS:
THE PHILOLOGISTS are:
render homage to beauty,
develop the body,
speak clearly,
are religious transfigurers
of everyday occurrences,
are listeners and observers,
have an aptitude for the
symbolical,
are in full possession of
their freedom as men,
can look innocently out
into the world,
are the pessimists of
thought.
babblers and triflers,
ugly-looking creatures,
stammerers,
filthy pedants,
quibblers and scarecrows,
unfitted for the symbolical,
ardent slaves of the State,
Christians in disguise,
philistines.
95
Bergk’s “History of Literature”: Not a spark of Greek fire or Greek sense.
96
People really do compare our own age with that of Pericles, and
congratulate themselves on the reawakening of the feeling of patriotism: I remember a parody on the funeral oration of Pericles by G. Freytag,[10] in which this prim and strait-laced “poet” depicted the happiness now experienced by sixty-year-old men.—All pure and simple caricature![Pg 154] So this is the result! And sorrow and irony and seclusion are all that remain for him who has seen more of antiquity than this.
[10] See note on p. 149.—TR.
97
If we change a single word of Lord Bacon’s we may say: infimarum Græcorum virtutum apud philologos laus est, mediarum admiratio, supremarum sensus nullus.
98
How can anyone glorify and venerate a whole people! It is the individuals that count, even in the case of the Greeks.
99
There is a great deal of caricature even about the Greeks: for example, the careful attention devoted by the Cynics to their own happiness.
100
The only thing that interests me is the relationship of the people considered as a whole to the training of the single individuals: and in the case of the Greeks there are some factors which are very favourable to the development of the individual. They do not, however, arise from the goodwill of the people, but from the struggle between the evil instincts.
By means of happy inventions and discoveries, we can train the individual differently and more highly than has yet been done by mere chance and accident. There are still hopes: the breeding of superior men.
[Pg 155]
101
The Greeks are interesting and quite disproportionately important because they had such a host of great individuals. How was that possible? This point must be studied.
102
The history of Greece has hitherto always been written optimistically.
103
Selected points from antiquity: the power, fire, and swing of the feeling the ancients had for music (through the first Pythian Ode), purity in their historical sense, gratitude for the blessings of culture, the fire and corn feasts.
The ennoblement of jealousy: the Greeks the most jealous nation.
Suicide, hatred of old age, of penury. Empedocles on sexual love.
104
Nimble and healthy bodies, a clear and deep sense for the observation of everyday matters, manly freedom, belief in good racial descent and good upbringing, warlike virtues, jealousy in the , delight in the arts, respect for leisure, a sense for free individuality, for the symbolical.
105
The spiritual culture of Greece an aberration of the amazing political impulse towards . The polis utterly opposed to new education; culture nevertheless existed.
[Pg 156]
106
When I say that, all things considered, the Greeks were more moral than modern men: what do I mean by that? From what we can perceive of the activities of their soul, it is clear that they had no shame, they had no bad conscience. They were more sincere, open-hearted, and passionate, as artists are; they exhibited a kind of child-like naïveté. It thus came about that even in all their evil actions they had a dash of purity about them, something approaching the holy.
A remarkable number of individualities: might there not have been a higher morality in that? When we recollect that character develops slowly, what can it be that, in the long run, breeds individuality?
Perhaps vanity, emulation? Possibly. Little inclination for
conventional things.
107
The Greeks as the geniuses among the nations.
Their childlike nature, credulousness.
Passionate. Quite unconsciously they lived in such a way as to procreate genius. Enemies of shyness and dulness. Pain. Injudicious actions. The nature of their intuitive insight into misery, despite their bright and genial temperament. Profoundness in their apprehension and glorifying of everyday things (fire, agriculture). Mendacious, unhistorical. The significance of the polis in culture instinctively recognised; favourable as a centre and periphery for great men (the facility of surveying a community, and also the possibility of addressing it as a whole). Individuality raised to the highest power through the polis. Envy, jealousy, as among gifted people.
[Pg 157]
108
The Greeks were lacking in sobriety and caution. Over-sensibility; abnormally active condition of the brain and the nerves; impetuosity and fervour of the will.
109
“Invariably to see the general in the particular is the distinguishing characteristic of genius,” says Schopenhauer. Think of Pindar,
&c.—”,” according to Schopenhauer, has its roots in the clearness with which the Greeks saw into themselves and into the world at large, and thence became conscious of themselves.
The “wide separation of will and intellect” indicates the genius, and is seen in the Greeks.
“The melancholy associated with genius is due to the fact that the will to live, the more clearly it is illuminated by the contemplating intellect, appreciates all the more clearly the misery of its condition,” says Schopenhauer. Cf. the Greeks.
110
The moderation of the Greeks in their sensual luxury, eating, and drinking, and their pleasure therein; the Olympic plays and their worship: that shows what they were.
In the case of the genius, “the intellect will point out the faults which are seldom absent in an instrument that is put to a use for which it was not intended.”
“The will is often left in the lurch at an awkward moment: hence genius, where real life is concerned[Pg 158] is more or less unpractical—its behaviour often reminds us of madness.”
111
We contrast the Romans, with their matter-of-fact earnestness, with the genial Greeks! Schopenhauer: “The stern, practical, earnest mode of life which the Romans called gravitas presupposes that the intellect does not forsake the service of the will in order to roam far off among things that have no connection with the will.”
112
It would have been much better if the Greeks had been conquered by the Persians instead of by the Romans.
113
The characteristics of the gifted man who is lacking in genius are to be found in the average Hellene—all the dangerous characteristics of such a disposition and character.
114
Genius makes tributaries of all partly-talented people: hence the Persians themselves sent their ambassadors to the Greek oracles.
115
The happiest lot that can fall to the genius is to exchange doing and acting for leisure; and this was something the Greeks knew how to value. The blessings of labour! Nugari was the Roman name for all the exertions and aspirations of the Greeks.[Pg 159] No happy course of life is open to the genius; he stands in contradiction to his age and must perforce struggle with it. Thus the Greeks: they instinctively made the utmost exertions to secure a safe refuge for themselves (in the
polis). Finally, everything went to pieces in politics. They were compelled to take up a stand against their enemies: this became ever more and more difficult, and at last impossible.
116
Greek culture is based on the lordship of a small class over four to nine times their number of slaves. Judged by mere numbers, Greece was a country inhabited by barbarians. How can the ancients be thought to be humane? There was a great contrast between the genius and the breadwinner, the half-beast of burden. The Greeks believed in a racial distinction. Schopenhauer wonders why Nature did not take it into her head to invent two entirely separate species of men.
The Greeks bear the same relation to the barbarians “as free-moving or winged animals do to the barnacles which cling tightly to the rocks and must await what fate chooses to send them”—Schopenhauer’s simile.
117
The Greeks as the only people of genius in the history of the world.
Such they are even when considered as learners; for they understand this best of all, and can do more than merely trim and adorn themselves with what they have borrowed, as did the Romans.[Pg 160] The constitution of the polls is a Phœnician invention: even this has been imitated by the Hellenes. For a long time they dabbled in everything, like joyful dilettanti. Aphrodite is likewise Phœnician. Neither do they disavow what has come to them through immigration and does not originally belong to their own country.
118
The happy and comfortable constitution of the politico-social position must not be sought among the Greeks: that is a goal which dazzles the eyes of our dreamers of the future! It was, on the contrary, dreadful; for this is a matter that must be judged according to the following standard: the more spirit, the more suffering (as the Greeks themselves prove). Whence it follows: the more stupidity, the more comfort. The philistine of culture is the most comfortable creature the sun has ever shone upon: and he is doubtless also in possession of the corresponding stupidity.
119
The Greek polis and the grew up out of mutual enmity.
Hellenic and philanthropic are contrary adjectives, although the ancients flattered themselves sufficiently.
Homer is, in the world of the Hellenic discord, the pan-Hellenic Greek.
The “” of the Greeks is also manifested in the Symposium in the shape of witty conversation.
120
Wanton, mutual annihilation inevitable: so long as a single polis wished to exist—its envy for[Pg 161] everything superior to itself, its cupidity, the disorder of its customs, the enslavement of the women, lack of conscience in the keeping of oaths, in murder, and in cases of violent death.
Tremendous power of self-control: for example in a man like Socrates, who was capable of everything evil.
121
Its noble sense of order and systematic arrangement had rendered the Athenian state immortal.—The ten strategists in Athens! Foolish! Too big a sacrifice on the altar of jealousy.
122
The recreations of the Spartans consisted of feasting, hunting, and making war: their every-day life was too hard. On the whole, however, their state is merely a caricature of the polis; a corruption of Hellas. The breeding of the complete Spartan—but what was there great about him that his breeding should have required such a brutal state!
123
The political defeat of Greece is the greatest failure of culture; for it has given rise to the atrocious theory that culture cannot be pursued unless one is at the same time armed to the teeth. The rise of Christianity was the second greatest failure: brute force on the one hand, and a dull intellect on the other, won a complete victory over
the aristocratic genius among the nations. To be a Philhellenist now means to be a foe of brute force and stupid intellects. Sparta was the ruin of Athens in so far[Pg 162] as she compelled Athens to turn her entire attention to politics and to act as a federal combination.
124
There are domains of thought where the ratio will only give rise to disorder; and the philologist, who possesses nothing more, is lost through it and is unable to see the truth: e.g., in the consideration of Greek mythology. A merely fantastic person, of course, has no claim either: one must possess Greek imagination and also a certain amount of Greek piety. Even the poet does not require to be too consistent, and consistency is the last thing Greeks would understand.
125
Almost all the Greek divinities are accumulations of divinities: we find one layer over another, soon to be hidden and smoothed down by yet a third, and so on. It scarcely seems to me to be possible to pick these various divinities to pieces in a scientific manner; for no good method of doing so can be recommended: even the poor conclusion by analogy is in this instance a very good conclusion.
126
At what a distance must one be from the Greeks to ascribe to them such a stupidly narrow autochthony as does Ottfried Müller![11] How Christian it is to assume, with Welcker,[12] that the Greeks were[Pg 163]
originally monotheistic! How philologists torment themselves by investigating the question whether Homer actually wrote, without being able to grasp the far higher tenet that Greek art long exhibited an inward enmity against writing, and did not wish to be read at all.
[11] Karl Ottfried Müller (1797-1840), classical archæologist, who devoted special attention to Greece.—TR.
[12] Friedrich Gottlieb Welcker (1784-1868), noted for his ultra-profound comments on Greek poetry.—TR.
127
In the religious cultus an earlier degree of culture comes to light: a remnant of former times. The ages that celebrate it are not those which invent it; the contrary is often the case. There are many contrasts to be found here. The Greek cultus takes us back to a pre-Homeric disposition and culture. It is almost the oldest that we know of the Greeks—older than their mythology, which their poets have considerably remoulded, so far as we know it—Can this cult really be called Greek?
I doubt it: they are finishers, not inventors. They preserve by means of this beautiful completion and adornment.
128
It is exceedingly doubtful whether we should draw any conclusion in regard to nationality and relationship with other nations from languages. A victorious language is nothing but a frequent (and not always regular) indication of a successful campaign. Where could there have been autochthonous peoples! It shows a very hazy conception of things to talk about Greeks who never lived in Greece. That which is really Greek is much less the result of natural aptitude than of adapted institutions, and also of an acquired language.
[Pg 164]
129
To live on mountains, to travel a great deal, and to move quickly from one place to another: in these ways we can now begin to compare ourselves with the Greek gods. We know the past, too, and we almost know the future. What would a Greek say, if only he could see us!
130
The gods make men still more evil; this is the nature of man. If we do not like a man, we wish that he may become worse than he is, and then we are glad. This forms part of the obscure philosophy of hate—a philosophy which has never yet been written, because it is everywhere the pudendum that every one feels.
131
The pan-Hellenic Homer finds his delight in the frivolity of the gods; but it is astounding how he can also give them dignity again. This
amazing ability to raise one’s self again, however, is Greek.
132
What, then, is the origin of the envy of the gods? people did not believe in a calm, quiet happiness, but only in an exuberant one.
This must have caused some displeasure to the Greeks; for their soul was only too easily wounded: it embittered them to see a happy man.
That is Greek. If a man of distinguished talent appeared, the flock of envious people must have become astonishingly large. If any one met with a misfortune, they[Pg 165] would say of him: “Ah! no wonder! he was too frivolous and too well off.” And every one of them would have behaved exuberantly if he had possessed the requisite talent, and would willingly have played the rôle of the god who sent the unhappiness to men.
133
The Greek gods did not demand any complete changes of character, and were, generally speaking, by no means burdensome or importunate: it was thus possible to take them seriously and to believe in them. At the time of Homer, indeed, the nature of the Greek was formed: flippancy of images and imagination was necessary to lighten the weight of its passionate disposition and to set it free.
134
Every religion has for its highest images an analogon in the spiritual condition of those who profess it. The God of Mohammed: the solitariness of the desert, the distant roar of the lion, the vision of a formidable warrior. The God of the Christians: everything that men and women think of when they hear the word “love.” The God of the Greeks: a beautiful apparition in a dream.
135
A great deal of intelligence must have gone to the making up of a Greek polytheism: the expenditure of intelligence is much less lavish when people have only one God.
136
Greek morality is not based on religion, but on the polis.[Pg 166] There were only priests of the individual gods; not representatives of the whole religion: i.e., no guild of priests. Likewise no Holy Writ.
137
The “lighthearted” gods: this is the highest adornment which has ever been bestowed upon the world—with the feeling, How difficult it is to live!
138
If the Greeks let their “reason” speak, their life seems to them bitter and terrible. They are not deceived. But they play round life with lies: Simonides advises them to treat life as they would a play; earnestness was only too well known to them in the form of pain. The misery of men is a pleasure to the gods when they hear the poets singing of it. Well did the Greeks know that only through art could even misery itself become a source of pleasure; vide tragœdiam.
139
It is quite untrue to say that the Greeks only took this life into their consideration—they suffered also from thoughts of death and Hell. But no “repentance” or contrition.
140
The incarnate appearance of gods, as in Sappho’s invocation to Aphrodite, must not be taken as poetic licence: they are frequently hallucinations. We conceive of a great many things, including the will to die, too superficially as rhetorical.
[Pg 167]
141
The “martyr” is Hellenic: Prometheus, Hercules. The hero-myth became pan-Hellenic: a poet must have had a hand in that!
142
How realistic the Greeks were even in the domain of pure inventions!
They poetised reality, not yearning to lift themselves out of it. The raising of the present into the colossal and eternal, e.g., by Pindar.
143
What condition do the Greeks premise as the model of their life in Hades? Anæmic, dreamlike, weak: it is the continuous accentuation of old age, when the memory gradually becomes weaker and weaker, and the body still more so. The senility of senility: this would be our state of life in the eyes of the Hellenes.
144
The naïve character of the Greeks observed by the Egyptians.
145
The truly scientific people, the literary people, were the Egyptians and not the Greeks. That which has the appearance of science among the Greeks, originated among the Egyptians and later on returned to them to mingle again with the old current. Alexandrian culture is an amalgamation of Hellenic and Egyptian: and when our world again founds its culture upon the Alexandrian culture, then …[13]
[13] “We shall once again be shipwrecked.” The omission is in the original.—TR.
[Pg 168]
146
The Egyptians are far more of a literary people than the Greeks. I maintain this against Wolf. The first grain in Eleusis, the first vine in Thebes, the first olive-tree and fig-tree. The Egyptians had lost a great part of their mythology.
147
The unmathematical undulation of the column in Paestum is analogous to the modification of the tempo: animation in place of a mechanical movement.
148
The desire to find something certain and fixed in æsthetic led to the worship of Aristotle: I think, however, that we may gradually come to see from his works that he understood nothing about art; and that it is merely the intellectual conversations of the Athenians, echoing in his pages, which we admire.
149
In Socrates we have as it were lying open before us a specimen of the consciousness out of which, later on, the instincts of the theoretic man originated: that one would rather die than grow old and weak in mind.
150
At the twilight of antiquity there were still wholly unchristian figures, which were more beautiful, harmonious, and pure than those of any Christians: e.g., Proclus. His mysticism and syncretism were things that precisely Christianity cannot reproach him with. In any case, it would be my desire to live together[Pg 169] with such people. In comparison with them Christianity looks like some crude brutalisation, organised for the benefit of the mob and the criminal classes.
Proclus, who solemnly invokes the rising moon.
151
With the advent of Christianity a religion attained the mastery which corresponded to a pre-Greek condition of mankind: belief in witchcraft in connection with all and everything, bloody sacrifices, superstitious fear of demoniacal punishments, despair in one’s self, ecstatic brooding and hallucination; man’s self become the arena of good and evil spirits and their struggles.
152
All branches of history have experimented with antiquity: critical consideration alone remains. By this term I do not mean conjectural and literary-historical criticism.
153
Antiquity has been treated by all kinds of historians and their methods. We have now had enough experience, however, to turn the history of antiquity to account without being shipwrecked on antiquity itself.
154
We can now look back over a fairly long period of human existence: what will the humanity be like which is able to look back at us from
an equally long distance? which finds us lying intoxicated among the debris of old culture! which finds its only consolation in “being good”
and in holding[Pg 170] out the “helping hand,” and turns away from all other consolations!—Does beauty, too, grow out of the ancient culture? I think that our ugliness arises from our metaphysical remnants: our confused morals, the worthlessness of our marriages, and so on, are the cause. The beautiful man, the healthy, moderate, and enterprising man, moulds the objects around him into beautiful shapes after his own image.
155
Up to the present time all history has been written from the standpoint of success, and, indeed, with the assumption of a certain reason in this success. This remark applies also to Greek history: so far we do not possess any. It is the same all round, however: where are the historians who can survey things and events without being hum-bugged by stupid theories? I know of only one, Burckhardt. Everywhere the widest possible optimism prevails in science. The question: “What would have been the consequence if so and so had not happened?” is almost unanimously thrust aside, and yet it is the cardinal question. Thus everything becomes ironical. Let us only consider our own lives. If we examine history in accordance with a preconceived plan, let this plan be sought in the purposes of a great man, or perhaps in those of a sex, or of a party. Everything else is a chaos.—Even in natural science we find this deification of the necessary.
Germany has become the breeding-place of this historical optimism; Hegel is perhaps to blame for this. Nothing, however, is more responsible for[Pg 171] the fatal influence of German culture. Everything that has been kept down by success gradually rears itself up: history as the scorn of the conqueror; a servile sentiment and a kneeling down before the actual fact—”a sense for the State,” they now call it, as if that had still to be propagated! He who does not understand how brutal and unintelligent history is will never understand the stimulus to make it intelligent. Just think how rare it is to find a man with as great an intelligent knowledge of his own life as Goethe had: what amount of rationality can we expect to find arising out of these other veiled and blind existences as they work chaotically with and in opposition to each other?
And it is especially naïve when Hellwald, the author of a history of culture, warns us away from all “ideals,” simply because history has killed them off one after the other
156
To bring to light without reserve the stupidity and the want of reason in human things: that is the aim of our brethren and colleagues.
People will then have to distinguish what is essential in them, what is incorrigible, and what is still susceptible of further improvement. But
“Providence” must be kept out of the question, for it is a conception that enables people to take things too easily. I wish to breathe the breath of this purpose into science. Let us advance our knowledge of mankind! The good and rational in man is accidental or apparent, or the contrary of something very irrational. There will come a time when training will be the only thought.
[Pg 172]
157
Surrender to necessity is exactly what I do not teach—for one must first know this necessity to be necessary. There may perhaps be many necessities; but in general this inclination is simply a bed of idleness.
158
To know history now means: to recognise how all those who believed in a Providence took things too easily. There is no such thing. If human affairs are seen to go forward in a loose and disordered way, do not think that a god has any purpose in view by letting them do so or that he is neglecting them. We can now see in a general way that the history of Christianity on earth has been one of the most dreadful chapters in history, and that a stop must be put to it. True, the influence of antiquity has been observed in Christianity even in our own time; and,
as it diminishes, so will our knowledge of antiquity diminish also to an even greater extent. Now is the best time to recognise it: we are no longer prejudiced in favour of Christianity, but we still understand it, and also the antiquity that forms part of it, so far as this antiquity stands in line with Christianity.
159
Philosophic heads must occupy themselves one day with the collective account of antiquity and make up its balance-sheet. If we have this, antiquity will be overcome. All the shortcomings which now vex us have their roots in antiquity, so that we cannot continue to treat this account with[Pg 173] the mildness which has been customary up to the present.
The atrocious crime of mankind which rendered Christianity possible, as it actually became possible, is the guilt of antiquity. With Christianity antiquity will also be cleared away.—At the present time it is not so very far behind us, and it is certainly not possible to do justice to it. It has been availed of in the most dreadful fashion for purposes of repression, and has acted as a support for religious oppression by disguising itself as “culture.” It was common to hear the saying, “Antiquity has been conquered by Christianity.”
This was a historical fact, and it was thus thought that no harm could come of any dealings with antiquity. Yes; it is so plausible to say that we find Christian ethics “deeper” than Socrates! Plato was easier to compete with! We are at the present time, so to speak, merely chewing the cud of the very battle which was fought in the first centuries of the Christian era—with the exception of the fact that now, instead of the clearly perceptible antiquity which then existed, we have merely its pale ghost; and, indeed, even Christianity itself has become rather ghostlike. It is a battle fought after the decisive battle, a post-vibration. In the end, all the forces of which antiquity consisted have reappeared in Christianity in the crudest possible form: it is nothing new, only quantitatively extraordinary.
160
What severs us for ever from the culture of antiquity is the fact that its foundations have become too shaky for us. A criticism of the Greeks is at[Pg 174] the same time a criticism of Christianity; for the bases of the spirit of belief, the religious cult, and witchcraft, are the same in both.—There are many rudimentary stages still remaining; but they are by this time almost ready to collapse.
This would be a task: to characterise Greek antiquity as irretrievably lost, and with it Christianity also and the foundations upon which, up to the present time, our society and politics have been based.
161
Christianity has conquered antiquity—yes; that is easily said. In the first place, it is itself a piece of antiquity; in the second place, it has preserved antiquity; in the third place, it has never been in combat with the pure ages of antiquity. Or rather: in order that Christianity itself might remain, it had to let itself be overcome by the spirit of antiquity—for example, the idea of empire, the community, and so forth. We are suffering from the uncommon want of clearness and uncleanliness of human things; from the ingenious mendacity which Christianity has brought among men.
162
It is almost laughable to see how nearly all the sciences and arts of modern times grow from the scattered seeds which have been wafted towards us from antiquity, and how Christianity seems to us here to be merely the evil chill of a long night, a night during which one is almost inclined to believe that all is over with reason and honesty among men. The battle waged against the natural man has given rise to the unnatural man.
[Pg 175]
163
With the dissolution of Christianity a great part of antiquity has become incomprehensible to us, for instance, the entire religious basis of life. On this account an imitation of antiquity is a false tendency: the betrayers or the betrayed are the philologists who still think
of such a thing. We live in a period when many different conceptions of life are to be found: hence the present age is instructive to an unusual degree; and hence also the reason why it is so ill, since it suffers from the evils of all its tendencies at once. The man of the future: the European man.
164
The German Reformation widened the gap between us and antiquity: was it necessary for it to do so? It once again introduced the old contrast of
“Paganism” and “Christianity”; and it was at the same time a protest against the decorative culture of the Renaissance—it was a victory gained over the same culture as had formerly been conquered by early Christianity.
In regard to “worldly things,” Christianity preserved the grosser views of the ancients. All the nobler elements in marriage, slavery, and the State are unchristian. It required the distorting characteristics of worldliness to prove itself.
165
The connection between humanism and religious rationalism was emphasised as a Saxonian trait by Köchly: the type of this philologist is Gottfried Hermann.[14]
[14] Johann Gottfried Jakob Hermann (1772-1848), noted for his works on metre and Greek grammar.—TR.
[Pg 176]
166
I understand religions as narcotics: but when they are given to such nations as the Germans, I think they are simply rank poison.
167
All religions are, in the end, based upon certain physical assumptions, which are already in existence and adapt the religions to their needs: for example, in Christianity, the contrast between body and soul, the unlimited importance of the earth as the “world,” the marvellous occurrences in nature. If once the opposite views gain the mastery—for instance, a strict law of nature, the helplessness and superfluousness of all gods, the strict conception of the soul as a bodily process—all is over. But all Greek culture is based upon such views.
168
When we look from the character and culture of the Catholic Middle Ages back to the Greeks, we see them resplendent indeed in the rays of higher humanity; for, if we have anything to reproach these Greeks with, we must reproach the Middle Ages with it also to a much greater extent. The worship of the ancients at the time of the Renaissance was therefore quite honest and proper. We have carried matters further in one particular point, precisely in connection with that dawning ray of light. We have outstripped the Greeks in the clarifying of the world by our studies of nature and men. Our knowledge is much greater, and our judgments are more moderate and just.
[Pg 177]
In addition to this, a more gentle spirit has become widespread, thanks to the period of illumination which has weakened mankind—but this weakness, when turned into morality, leads to good results and honours us. Man has now a great deal of freedom: it is his own fault if he does not make more use of it than he does; the fanaticism of opinions has become much milder. Finally, that we would much rather live in the present age than in any other is due to science; and certainly no other race in the history of mankind has had such a wide choice of noble enjoyments as ours—even if our race has not the palate and stomach to experience a great deal of joy. But one can live comfortably amid all this “freedom” only when one merely understands it and does not wish to participate in it—that is the modern crux. The participants appear to be less attractive than ever: how stupid they must be!
Thus the danger arises that knowledge may avenge itself on us, just as ignorance avenged itself on us during the Middle Ages. It is all over with those religions which place their trust in gods, Providences, rational orders of the universe, miracles, and sacraments; as is also the case with certain types of holy lives, such as ascetics; for we
only too easily conclude that such people are the effects of sickness and an aberrant brain. There is no doubt that the contrast between a pure, incorporeal soul and a body has been almost set aside. Who now believes in the immortality of the soul! Everything connected with blessedness or damnation, which was based upon certain erroneous physiological assumptions, falls to the ground as soon as these[Pg 178]
assumptions are recognised to be errors. Our scientific assumptions admit just as much of an interpretation and utilisation in favour of a besotting philistinism—yea, in favour of bestiality—as also in favour of “blessedness” and soul-inspiration. As compared with all previous ages, we are now standing on a new foundation, so that something may still be expected from the human race.
As regards culture, we have hitherto been acquainted with only one complete form of it, i.e., the city-culture of the Greeks, based as it was on their mythical and social foundations; and one incomplete form, the Roman, which acted as an adornment of life, derived from the Greek. Now all these bases, the mythical and the politico-social, have changed; our alleged culture has no stability, because it has been erected upon insecure conditions and opinions which are even now almost ready to collapse.—When we thoroughly grasp Greek culture, then, we see that it is all over with it. The philologist is thus a great sceptic in the present conditions of our culture and training: that is his mission. Happy is he if, like Wagner and Schopenhauer, he has a dim presentiment of those auspicious powers amid which a new culture is stirring.
169
Those who say: “But antiquity nevertheless remains as a subject of consideration for pure science, even though all its educational purposes may be disowned,” must be answered by the words, What is pure science here! Actions and characteristics must be judged; and those who judge them must stand[Pg 179] above them: so you must first devote your attention to overcoming antiquity. If you do not do that, your science is not pure, but impure and limited: as may now be perceived.
170
To overcome Greek antiquity through our own deeds: this would be the right task. But before we can do this we must first know it!—There is a thoroughness which is merely an excuse for inaction. Let it be recollected how much Goethe knew of antiquity: certainly not so much as a philologist, and yet sufficient to contend with it in such a way as to bring about fruitful results. One should not even know more about a thing than one could create. Moreover, the only time when we can actually recognise something is when we endeavour to make it. Let people but attempt to live after the manner of antiquity; and they will at once come hundreds of miles nearer to antiquity than they can do with all their erudition.—Our philologists never show that they strive to emulate antiquity in any way, and thus their antiquity remains without any effect on the schools.
The study of the spirit of emulation (Renaissance, Goethe), and the study of despair.
The non-popular element in the new culture of the Renaissance: a frightful fact!
171
The worship of classical antiquity, as it was to be seen in Italy, maybe interpreted as the only earnest, disinterested, and fecund worship which has yet fallen to the lot of antiquity. It is a splendid[Pg 180]
example of Don Quixotism; and philology at best is such Don Quixotism.
Already at the time of the Alexandrian savants, as with all the sophists of the first and second centuries, the Atticists, &c., the scholars are imitating something purely and simply chimerical and pursuing a world that never existed. The same trait is seen throughout antiquity: the manner in which the Homeric heroes were copied, and all the intercourse held with the myths, show traces of it. Gradually all Greek antiquity has become an object of Don Quixotism. It is impossible to understand our modern world if we do not take into account the enormous influence of the purely fantastic. This is now confronted by
the principle: there can be no imitation. Imitation, however, is merely an artistic phenomenon, i.e., it is based on appearance: we can accept manners, thoughts, and so on through imitation; but imitation can create nothing. True, the creator can borrow from all sides and nourish himself in that way. And it is only as creators that we shall be able to take anything from the Greeks. But in what respect can philologists be said to be creators! There must be a few dirty jobs, such as knackers’ men, and also text-revisers: are the philologists to carry out tasks of this nature?
172
What, then, is antiquity now, in the face of modern art, science, and philosophy? It is no longer the treasure-chamber of all knowledge; for in natural and historical science we have advanced greatly beyond it. Oppression by the church has[Pg 181] been stopped. A pure knowledge of antiquity is now possible, but perhaps also a more ineffective and weaker knowledge.—This is right enough, if effect is known only as effect on the masses; but for the breeding of higher minds antiquity is more powerful than ever.
Goethe as a German poet-philologist; Wagner as a still higher stage: his clear glance for the only worthy position of art. No ancient work has ever had so powerful an effect as the “Orestes” had on Wagner. The objective, emasculated philologist, who is but a philistine of culture and a worker in “pure science,” is, however, a sad spectacle.
173
Between our highest art and philosophy and that which is recognised to be truly the oldest antiquity, there is no contradiction: they support and harmonise with one another. It is in this that I place my hopes.
174
The main standpoints from which to consider the importance of antiquity: 1. There is nothing about it for young people; for it exhibits man with an entire freedom from shame.
2. It is not for direct imitation, but it teaches by which means art has hitherto been perfected in the highest degree.
3. It is accessible only to a few, and there should be a police des mœurs in charge of it—as there should be also in charge of bad pianists who play Beethoven.
4. These few apply this antiquity to the judgment[Pg 182] of our own time, as critics of it; and they judge antiquity by their own ideals and are thus critics of antiquity.
5. The contrast between the Hellenic and the Roman should be studied, and also the contrast between the early Hellenic and the late Hellenic.
—Explanation of the different types of culture.
175
The advancement of science at the expense of man is one of the most pernicious things in the world. The stunted man is a retrogression in the human race: he throws a shadow over all succeeding generations.
The tendencies and natural purpose of the individual science become degenerate, and science itself is finally shipwrecked: it has made progress, but has either no effect at all on life or else an immoral one.
176
Men not to be used like things!
From the former very incomplete philology and knowledge of antiquity there flowed out a stream of freedom, while our own highly developed knowledge produces slaves and serves the idol of the State.
177
There will perhaps come a time when scientific work will be carried on by women, while the men will have to create, using the word in a spiritual sense: states, laws, works of art, &c.
People should study typical antiquity just as they do typical men: i.e., imitating what they[Pg 183] understand of it, and, when the pattern seems to lie far in the distance, considering ways and means and preliminary preparations, and devising stepping-stones.
178
The whole feature of study lies in this: that we should study only what
we feel we should like to imitate; what we gladly take up and have the desire to multiply. What is really wanted is a progressive canon of the ideal model, suited to boys, youths, and men.
179
Goethe grasped antiquity in the right way: invariably with an emulative soul. But who else did so? One sees nothing of a well-thought-out pedagogics of this nature: who knows that there is a certain knowledge of antiquity which cannot be imparted to youths!
The puerile character of philology: devised by teachers for pupils.
180
The ever more and more common form of the ideal: first men, then institutions, finally tendencies, purposes, or the want of them. The highest form: the conquest of the ideal by a backward movement from tendencies to institutions, and from institutions to men.
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I will set down in writing what I no longer believe—and also what I do believe. Man stands in the midst of the great whirlpool of forces, and imagines[Pg 184] that this whirlpool is rational and has a rational aim in view: error! The only rationality that we know is the small reason of man: he must exert it to the utmost, and it invariably leaves him in the lurch if he tries to place himself in the hands of “Providence.”
Our only happiness lies in reason; all the remainder of the world is dreary. The highest reason, however, is seen by me in the work of the artist, and he can feel it to be such: there may be something which, when it can be consciously brought forward, may afford an even greater feeling of reason and happiness: for example, the course of the solar system, the breeding and education of a man.
Happiness lies in rapidity of feeling and thinking: everything else is slow, gradual, and stupid. The man who could feel the progress of a ray of light would be greatly enraptured, for it is very rapid.
Thinking of one’s self affords little happiness. But when we do experience happiness therein the reason is that we are not thinking of ourselves, but of our ideal. This lies far off; and only the rapid man attains it and rejoices.
An amalgamation of a great centre of men for the breeding of better men is the task of the future. The individual must become familiarised with claims that, when he says Yea to his own will, he also says Yea to the will of that centre—for example, in reference to a choice, as among women for marriage, and likewise as to the manner in which his child shall be brought up. Until now no single individuality, or only the very rarest, have been free: they were influenced by these conceptions, but likewise[Pg 185] by the bad and contradictory organisation of the individual purposes.
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Education is in the first place instruction in what is necessary, and then in what is changing and in-constant. The youth is introduced to nature, and the sway of laws is everywhere pointed out to him; followed by an explanation of the laws of ordinary society. Even at this early stage the question will arise: was it absolutely necessary that this should have been so? He gradually comes to need history to ascertain how these things have been brought about. He learns at the same time, however, that they may be changed into something else. What is the extent of man’s power over things? This is the question in connection with all education. To show how things may become other than what they are we may, for example, point to the Greeks. We need the Romans to show how things became what they were.
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If, then, the Romans had spurned the Greek culture, they would perhaps have gone to pieces completely. When could this culture have once again arisen? Christianity and Romans and barbarians: this would have been an onslaught: it would have entirely wiped out culture. We see the danger amid which genius lives. Cicero was one of the greatest benefactors of humanity, even in his own time.
There is no “Providence” for genius; it is only for the ordinary run of people and their wants that[Pg 186] such a thing exists: they find their
satisfaction, and later on their justification.
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Thesis: the death of ancient culture inevitable. Greek culture must be distinguished as the archetype; and it must be shown how all culture rests upon shaky conceptions.
The dangerous meaning of art: as the protectress and galvanisation of dead and dying conceptions; history, in so far as it wishes to restore to us feelings which we have overcome. To feel “historically” or “just”
towards what is already past, is only possible when we have risen above it. But the danger in the adoption of the feelings necessary for this is very great: let the dead bury their dead, so that we ourselves may not come under the influence of the smell of the corpses.
THE DEATH OF THE OLD CULTURE.
1. The signification of the studies of antiquity hitherto pursued: obscure; mendacious.
2. As soon as they recognise the goal they condemn themselves to death: for their goal is to describe ancient culture itself as one to be demolished.
3. The collection of all the conceptions out of which Hellenic culture has grown up. Criticism of religion, art, society, state, morals.
4. Christianity is likewise denied.
5. Art and history—dangerous.
6. The replacing of the study of antiquity which has become superfluous for the training of our youth.
Thus the task of the science of history is completed,[Pg 187] and it itself has become superfluous, if the entire inward continuous circle of past efforts has been condemned. Its place must be taken by the science of the future.
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“Signs” and “miracles” are not believed; only a “Providence” stands in need of such things. There is no help to be found either in prayer or asceticism or in “vision.” If all these things constitute religion, then there is no more religion for me.
My religion, if I can still apply this name to something, lies in the work of breeding genius: from such training everything is to be hoped.
All consolation comes from art. Education is love for the offspring; an excess of love over and beyond our self-love. Religion is “love beyond ourselves.” The work of art is the model of such a love beyond ourselves, and a perfect model at that
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The stupidity of the will is Schopenhauer’s greatest thought, if thoughts be judged from the standpoint of power. We can see in Hartmann how he juggled away this thought. Nobody will ever call something stupid—God.
187
This, then, is the new feature of all the future progress of the world: men must never again be ruled over by religious conceptions.
Will they be any worse? It is not my experience that they behave well and morally under the yoke of religion; I am not on the side of Demopheles.[15] The fear of a[Pg 188] beyond, and then again the fear of divine punishments will hardly have made men better.
[15] A type in Schopenhauer’s Essay “On Religion.” See
“Parerga and Paralipomena.”—TR.
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Where something great makes its appearance and lasts for a relatively long time, we may premise a careful breeding, as in the case of the Greeks. How did so many men become free among them? Educate educators!
But the first educators must educate themselves! And it is for these that I write.
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The denial of life is no longer an easy matter: a man may become a hermit or a monk—and what is thereby denied! This conception has now become deeper: it is above all a discerning denial, a denial based upon the will to be just; not an indiscriminate and wholesale denial.
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The seer must be affectionate, otherwise men will have no confidence in him: Cassandra.
191
The man who to-day wishes to be good and saintly has a more difficult task than formerly: in order to be “good,” he must not be so unjust to knowledge as earlier saints were. He would have to be a knowledge-saint: a man who would link love with knowledge, and who would have nothing to do with gods or demigods or “Providence,” as the Indian saints likewise had nothing to do with them. He should[Pg 189] also be healthy, and should keep himself so, otherwise he would necessarily become distrustful of himself. And perhaps he would not bear the slightest resemblance to the ascetic saint, but would be much more like a man of the world.
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The better the state is organised, the duller will humanity be.
To make the individual uncomfortable is my task!
The great pleasure experienced by the man who liberates himself by fighting.
Spiritual heights have had their age in history; inherited energy belongs to them. In the ideal state all would be over with them.
193
The highest judgment on life only arising from the highest energy of life. The mind must be removed as far as possible from exhaustion.
In the centre of the world-history judgment will be the most accurate; for it was there that the greatest geniuses existed.
The breeding of the genius as the only man who can truly value and deny life.
Save your genius! shall be shouted unto the people: set him free! Do all you can to unshackle him.
The feeble and poor in spirit must not be allowed to judge life.
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I dream of a combination of men who shall make no concessions, who shall show no consideration, and[Pg 190] who shall be willing to be called
“destroyers”: they apply the standard of their criticism to everything and sacrifice themselves to truth. The bad and the false shall be brought to light! We will not build prematurely we do not know, indeed, whether we shall ever be able to build, or if it would not be better not to build at all There are lazy pessimists and resigned ones in this world—and it is to their number that we refuse to belong!
FINIS.
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Marcel Proust Solemn JUN 2021

Marcel Proust
COMBRAY
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Longtemps, je me suis couché de bonne heure. Parfois, à inaccoutumés, à la causerie récente et aux adieux sous la peine ma bougie éteinte, mes yeux se fermaient si vite que je lampe étrangère qui le suivent encore dans le silence de la n’avais pas le temps de me dire: « Je m’endors. » Et, une nuit, à la douceur prochaine du retour.
demiHheure après, la pensée qu’il était temps de chercher le J’appuyais tendrement mes joues contre les belles joues de sommeil m’éveillait; je voulais poser le volume que je croyais l’oreiller qui, pleines et fraîches, sont comme les joues de avoir dans les mains et souffler ma lumière; je n’avais pas notre enfance. Je frottais une allumette pour regarder ma cessé en dormant de faire des réflexions sur ce que je venais montre. Bientôt minuit. C’est l’instant où le malade, qui a été de lire, mais ces réflexions avaient pris un tour un peu obligé de partir en voyage et a dû coucher dans un hôtel particulier; il me semblait que j’étais moiHmême ce dont inconnu, réveillé par une crise, se réjouit en apercevant sous parlait l’ouvrage: une église, un quatuor, la rivalité de la porte une raie de jour. Quel bonheur! c’est déjà le matin!
François Ier et de CharlesHQuint. Cette croyance survivait Dans un moment les domestiques seront levés, il pourra pendant quelques secondes à mon réveil; elle ne choquait sonner, on viendra lui porter secours. L’espérance d’être pas ma raison, mais pesait comme des écailles sur mes yeux soulagé lui donne du courage pour souffrir. Justement il a et les empêchait de se rendre compte que le bougeoir n’était cru entendre des pas; les pas se rapprochent, puis plus allumé. Puis elle commençait à me devenir inintelligible, s’éloignent. Et la raie de jour qui était sous sa porte a comme après la métempsycose les pensées d’une existence disparu. C’est minuit; on vient d’éteindre le gaz; le dernier antérieure; le sujet du livre se détachait de moi, j’étais libre de domestique est parti et il faudra rester toute la nuit à souffrir m’y appliquer ou non; aussitôt je recouvrais la vue et j’étais sans remède.
bien étonné de trouver autour de moi une obscurité, douce Je me rendormais, et parfois je n’avais plus que de courts et reposante pour mes yeux, mais peutHêtre plus encore pour mon esprit, à qui elle apparaissait comme une chose sans réveils d’un instant, le temps d’entendre les craquements cause, incompréhensible, comme une chose vraiment organiques des boiseries, d’ouvrir les yeux pour fixer le obscure. Je me demandais quelle heure il pouvait être; kaléidoscope de l’obscurité, de goûter grâce à une lueur j’entendais le sifflement des trains qui, plus ou moins momentanée de conscience le sommeil où étaient plongés éloigné, comme le chant d’un oiseau dans une forêt, relevant les meubles, la chambre, le tout dont je n’étais qu’une petite les distances, me décrivait l’étendue de la campagne déserte partie et à l’insensibilité duquel je retournais vite m’unir. Ou où le voyageur se hâte vers la station prochaine; et le petit bien en dormant j’avais rejoint sans effort un âge à jamais chemin qu’il suit va être gravé dans son souvenir par révolu de ma vie primitive, retrouvé telle de mes terreurs l’excitation qu’il doit à des lieux nouveaux, à des actes enfantines comme celle que mon grandHoncle me tirât par Marcel Proust –
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mes boucles et qu’avait dissipée le jour – date pour moi vers le matin après quelque insomnie, le sommeil le prenne d’une ère nouvelle – où on les avait coupées. J’avais oublié en train de lire, dans une posture trop différente de celle où cet événement pendant mon sommeil, j’en retrouvais le il dort habituellement, il suffit de son bras soulevé pour souvenir aussitôt que j’avais réussi à m’éveiller pour arrêter et faire reculer le soleil, et à la première minute de son échapper aux mains de mon grandHoncle, mais par mesure réveil, il ne saura plus l’heure, il estimera qu’il vient à peine de précaution j’entourais complètement ma tête de mon de se coucher. Que s’il s’assoupit dans une position encore oreiller avant de retourner dans le monde des rêves.
plus déplacée et divergente, par exemple après dîner assis dans un fauteuil, alors le bouleversement sera complet dans Quelquefois, comme Ève naquit d’une côte d’Adam, une les mondes désorbités, le fauteuil magique le fera voyager à femme naissait pendant mon sommeil d’une fausse position toute vitesse dans le temps et dans l’espace, et au moment de ma cuisse. Formée du plaisir que j’étais sur le point de d’ouvrir les paupières, il se croira couché quelques mois plus goûter, je m’imaginais que c’était elle qui me l’offrait. Mon tôt dans une autre contrée. Mais il suffisait que, dans mon lit corps qui sentait dans le sien ma propre chaleur voulait s’y même, mon sommeil fût profond et détendît entièrement rejoindre, je m’éveillais. Le reste des humains m’apparaissait mon esprit; alors celuiHci lâchait le plan du lieu où je m’étais comme bien lointain auprès de cette femme que j’avais endormi, et quand je m’éveillais au milieu de la nuit, comme quittée, il y avait quelques moments à peine; ma joue était j’ignorais où je me trouvais, je ne savais même pas au chaude encore de son baiser, mon corps courbaturé par le premier instant qui j’étais; j’avais seulement dans sa poids de sa taille. Si, comme il arrivait quelquefois, elle avait simplicité première le sentiment de l’existence comme il peut les traits d’une femme que j’avais connue dans la vie, j’allais frémir au fond d’un animal; j’étais plus dénué que l’homme me donner tout entier à ce but: la retrouver, comme ceux qui des cavernes; mais alors le souvenir – non encore du lieu où partent en voyage pour voir de leurs yeux une cité désirée et j’étais, mais de quelquesHuns de ceux que j’avais habités et où s’imaginent qu’on peut goûter dans une réalité le charme du j’aurais pu être – venait à moi comme un secours d’en haut songe. Peu à peu son souvenir s’évanouissait, j’avais oublié la pour me tirer du néant d’où je n’aurais pu sortir tout seul; je fille de mon rêve.
passais en une seconde parHdessus des siècles de civilisation, Un homme qui dort tient en cercle autour de lui le fil des et l’image confusément entrevue de lampes à pétrole, puis de heures, l’ordre des années et des mondes. Il les consulte chemises à col rabattu, recomposait peu à peu les traits d’instinct en s’éveillant, et y lit en une seconde le point de la originaux de mon moi.
terre qu’il occupe, le temps qui s’est écoulé jusqu’à son réveil; mais leurs rangs peuvent se mêler, se rompre. Que Marcel Proust –
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PeutHêtre l’immobilité des choses autour de nous leur estH
Bohême, en forme d’urne, suspendue au plafond par des elle imposée par notre certitude que ce sont elles et non pas chaînettes, la cheminée en marbre de Sienne, dans ma d’autres, par l’immobilité de notre pensée en face d’elles.
chambre à coucher de Combray, chez mes grandsHparents, Toujours estHil que, quand je me réveillais ainsi, mon esprit en des jours lointains qu’en ce moment je me figurais actuels s’agitant pour chercher, sans y réussir, à savoir où j’étais, tout sans me les représenter exactement, et que je reverrais mieux tournait autour de moi dans l’obscurité, les choses, les pays, tout à l’heure quand je serais tout à fait éveillé.
les années. Mon corps, trop engourdi pour remuer, Puis renaissait le souvenir d’une nouvelle attitude; le mur cherchait, d’après la forme de sa fatigue, à repérer la position filait dans une autre direction: j’étais dans ma chambre chez de ses membres pour en induire la direction du mur, la place Mme de SaintHLoup, à la campagne. Mon Dieu! Il est au des meubles, pour reconstruire et pour nommer la demeure moins dix heures, on doit avoir fini de dîner! J’aurai trop où il se trouvait. Sa mémoire, la mémoire de ses côtes, de ses prolongé la sieste que je fais tous les soirs en rentrant de ma genoux, de ses épaules, lui présentait successivement promenade avec Mme de SaintHLoup, avant d’endosser mon plusieurs des chambres où il avait dormi, tandis qu’autour de habit. Car bien des années ont passé depuis Combray, où, lui les murs invisibles, changeant de place selon la forme de dans nos retours les plus tardifs, c’était les reflets rouges du la pièce imaginée, tourbillonnaient dans les ténèbres. Et couchant que je voyais sur le vitrage de ma fenêtre. C’est un avant même que ma pensée, qui hésitait au seuil des temps et autre genre de vie qu’on mène à Tansonville, chez Mme de des formes, eût identifié le logis en rapprochant les SaintHLoup, un autre genre de plaisir que je trouve à ne sortir circonstances, lui, – mon corps, – se rappelait pour chacun le qu’à la nuit, à suivre au clair de lune ces chemins où je jouais genre du lit, la place des portes, la prise de jour des fenêtres, jadis au soleil; et la chambre où je me serai endormi au lieu l’existence d’un couloir, avec la pensée que j’avais en m’y de m’habiller pour le dîner, de loin je l’aperçois, quand nous endormant et que je retrouvais au réveil. Mon côté ankylosé, rentrons, traversée par les feux de la lampe, seul phare dans cherchant à deviner son orientation, s’imaginait, par la nuit.
exemple, allongé face au mur dans un grand lit à baldaquin, et aussitôt je me disais: « Tiens, j’ai fini par m’endormir Ces évocations tournoyantes et confuses ne duraient quoique maman ne soit pas venue me dire bonsoir », j’étais à jamais que quelques secondes; souvent, ma brève incertitude la campagne chez mon grandHpère, mort depuis bien des du lieu où je me trouvais ne distinguait pas mieux les unes années; et mon corps, le côté sur lequel je me reposais, des autres les diverses suppositions dont elle était faite, que gardiens fidèles d’un passé que mon esprit n’aurait jamais dû nous n’isolons, en voyant un cheval courir, les positions oublier, me rappelaient la flamme de la veilleuse de verre de successives que nous montre le kinétoscope. Mais j’avais Marcel Proust –
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revu tantôt l’une, tantôt l’autre, des chambres que j’avais hauteur de deux étages et partiellement revêtue d’acajou, où, habitées dans ma vie, et je finissais par me les rappeler toutes dès la première seconde, j’avais été intoxiqué moralement dans les longues rêveries qui suivaient mon réveil; chambres par l’odeur inconnue du vétiver, convaincu de l’hostilité des d’hiver où quand on est couché, on se blottit la tête dans un rideaux violets et de l’insolente indifférence de la pendule qui nid qu’on se tresse avec les choses les plus disparates: un jacassait tout haut comme si je n’eusse pas été là; – où une coin de l’oreiller, le haut des couvertures, un bout de châle, étrange et impitoyable glace à pieds quadrangulaires barrant le bord du lit, et un numéro des Débats roses, qu’on finit par obliquement un des angles de la pièce se creusait à vif dans cimenter ensemble selon la technique des oiseaux en s’y la douce plénitude de mon champ visuel accoutumé un appuyant indéfiniment; où, par un temps glacial, le plaisir emplacement qui n’y était pas prévu; – où ma pensée, qu’on goûte est de se sentir séparé du dehors (comme s’efforçant pendant des heures de se disloquer, de s’étirer en l’hirondelle de mer qui a son nid au fond d’un souterrain hauteur pour prendre exactement la forme de la chambre et dans la chaleur de la terre), et où, le feu étant entretenu toute arriver à remplir jusqu’en haut son gigantesque entonnoir, la nuit dans la cheminée, on dort dans un grand manteau avait souffert bien de dures nuits, tandis que j’étais étendu d’air chaud et fumeux, traversé des lueurs des tisons qui se dans mon lit, les yeux levés, l’oreille anxieuse, la narine rallument, sorte d’impalpable alcôve, de chaude caverne rétive, le cœur battant; jusqu’à ce que l’habitude eût changé creusée au sein de la chambre même, zone ardente et mobile la couleur des rideaux, fait taire la pendule, enseigné la pitié à en ses contours thermiques, aérée de souffles qui nous la glace oblique et cruelle, dissimulé, sinon chassé rafraîchissent la figure et viennent des angles, des parties complètement, l’odeur du vétiver et notablement diminué la voisines de la fenêtre ou éloignées du foyer et qui se sont hauteur apparente du plafond. L’habitude! aménageuse refroidies; – chambres d’été où l’on aime être uni à la nuit habile mais bien lente, et qui commence par laisser souffrir tiède, où le clair de lune appuyé aux volets entr’ouverts, jette notre esprit pendant des semaines dans une installation jusqu’au pied du lit son échelle enchantée, où on dort provisoire; mais que malgré tout il est bien heureux de presque en plein air, comme la mésange balancée par la brise trouver, car sans l’habitude et réduit à ses seuls moyens, il à la pointe d’un rayon –; parfois la chambre Louis XVI, si serait impuissant à nous rendre un logis habitable.
gaie que même le premier soir je n’y avais pas été trop Certes, j’étais bien éveillé maintenant: mon corps avait viré malheureux, et où les colonnettes qui soutenaient légèrement une dernière fois et le bon ange de la certitude avait tout le plafond s’écartaient avec tant de grâce pour montrer et arrêté autour de moi, m’avait couché sous mes couvertures, réserver la place du lit; parfois au contraire celle, petite et si dans ma chambre, et avait mis approximativement à leur élevée de plafond, creusée en forme de pyramide dans la Marcel Proust –
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place dans l’obscurité ma commode, mon bureau, ma la reconnaissais plus et j’y étais inquiet, comme dans une cheminée, la fenêtre sur la rue et les deux portes. Mais j’avais chambre d’hôtel ou de « chalet », où je fusse arrivé pour la beau savoir que je n’étais pas dans les demeures dont première fois en descendant de chemin de fer.
l’ignorance du réveil m’avait en un instant sinon présenté Au pas saccadé de son cheval, Golo, plein d’un affreux l’image distincte, du moins fait croire la présence possible, le dessein, sortait de la petite forêt triangulaire qui veloutait branle était donné à ma mémoire; généralement je ne d’un vert sombre la pente d’une colline, et s’avançait en cherchais pas à me rendormir tout de suite; je passais la plus tressautant vers le château de la pauvre Geneviève de grande partie de la nuit à me rappeler notre vie d’autrefois, à Brabant. Ce château était coupé selon une ligne courbe qui Combray chez ma grand’tante, à Balbec, à Paris, à n’était guère que la limite d’un des ovales de verre ménagés Doncières, à Venise, ailleurs encore, à me rappeler les lieux, dans le châssis qu’on glissait entre les coulisses de la lanterne.
les personnes que j’y avais connues, ce que j’avais vu d’elles, Ce n’était qu’un pan de château, et il avait devant lui une ce qu’on m’en avait raconté.
lande où rêvait Geneviève qui portait une ceinture bleue. Le À Combray, tous les jours dès la fin de l’aprèsHmidi, château et la lande étaient jaunes, et je n’avais pas attendu de longtemps avant le moment où il faudrait me mettre au lit et les voir pour connaître leur couleur, car, avant les verres du rester, sans dormir, loin de ma mère et de ma grand’mère, châssis, la sonorité mordorée du nom de Brabant me l’avait ma chambre à coucher redevenait le point fixe et douloureux montrée avec évidence. Golo s’arrêtait un instant pour de mes préoccupations. On avait bien inventé, pour me écouter avec tristesse le boniment lu à haute voix par ma distraire les soirs où on me trouvait l’air trop malheureux, de grand’tante et qu’il avait l’air de comprendre parfaitement, me donner une lanterne magique, dont, en attendant l’heure conformant son attitude, avec une docilité qui n’excluait pas du dîner, on coiffait ma lampe; et, à l’instar des premiers une certaine majesté, aux indications du texte; puis il architectes et maîtres verriers de l’âge gothique, elle s’éloignait du même pas saccadé. Et rien ne pouvait arrêter substituait à l’opacité des murs d’impalpables irisations, de sa lente chevauchée. Si on bougeait la lanterne, je distinguais surnaturelles apparitions multicolores, où des légendes le cheval de Golo qui continuait à s’avancer sur les rideaux étaient dépeintes comme dans un vitrail vacillant et de la fenêtre, se bombant de leurs plis, descendant dans leurs momentané. Mais ma tristesse n’en était qu’accrue, parce que fentes. Le corps de Golo luiHmême, d’une essence aussi rien que le changement d’éclairage détruisait l’habitude que surnaturelle que celui de sa monture, s’arrangeait de tout j’avais de ma chambre et grâce à quoi, sauf le supplice du obstacle matériel, de tout objet gênant qu’il rencontrait en le coucher, elle m’était devenue supportable. Maintenant je ne prenant comme ossature et en se le rendant intérieur, fûtHce Marcel Proust –
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le bouton de la porte sur lequel s’adaptait aussitôt et beau, dans le petit salon où tout le monde se retirait s’il surnageait invinciblement sa robe rouge ou sa figure pâle faisait mauvais. Tout le monde, sauf ma grand’mère qui toujours aussi noble et aussi mélancolique, mais qui ne trouvait que « c’est une pitié de rester enfermé à la campagne laissait paraître aucun trouble de cette transvertébration.
» et qui avait d’incessantes discussions avec mon père, les jours de trop grande pluie, parce qu’il m’envoyait lire dans Certes je leur trouvais du charme à ces brillantes ma chambre au lieu de rester dehors. « Ce n’est pas comme projections qui semblaient émaner d’un passé mérovingien et cela que vous le rendrez robuste et énergique, disaitHelle promenaient autour de moi des reflets d’histoire si anciens.
tristement, surtout ce petit qui a tant besoin de prendre des Mais je ne peux dire quel malaise me causait pourtant cette forces et de la volonté. » Mon père haussait les épaules et il intrusion du mystère et de la beauté dans une chambre que examinait le baromètre, car il aimait la météorologie, pendant j’avais fini par remplir de mon moi au point de ne pas faire que ma mère, évitant de faire du bruit pour ne pas le plus attention à elle qu’à luiHmême. L’influence anesthésiante troubler, le regardait avec un respect attendri, mais pas trop de l’habitude ayant cessé, je me mettais à penser, à sentir, fixement pour ne pas chercher à percer le mystère de ses choses si tristes. Ce bouton de la porte de ma chambre, qui supériorités. Mais ma grand’mère, elle, par tous les temps, différait pour moi de tous les autres boutons de porte du même quand la pluie faisait rage et que Françoise avait monde en ceci qu’il semblait ouvrir tout seul, sans que précipitamment rentré les précieux fauteuils d’osier de peur j’eusse besoin de le tourner, tant le maniement m’en était qu’ils ne fussent mouillés, on la voyait dans le jardin vide et devenu inconscient, le voilà qui servait maintenant de corps fouetté par l’averse, relevant ses mèches désordonnées et astral à Golo. Et dès qu’on sonnait le dîner, j’avais hâte de grises pour que son front s’imbibât mieux de la salubrité du courir à la salle à manger, où la grosse lampe de la vent et de la pluie. Elle disait: « Enfin, on respire! » et suspension, ignorante de Golo et de BarbeHBleue, et qui parcourait les allées détrempées – trop symétriquement connaissait mes parents et le bœuf à la casserole, donnait sa alignées à son gré par le nouveau jardinier dépourvu du lumière de tous les soirs, et de tomber dans les bras de sentiment de la nature et auquel mon père avait demandé maman que les malheurs de Geneviève de Brabant me depuis le matin si le temps s’arrangerait – de son petit pas rendaient plus chère, tandis que les crimes de Golo me enthousiaste et saccadé, réglé sur les mouvements divers faisaient examiner ma propre conscience avec plus de qu’excitaient dans son âme l’ivresse de l’orage, la puissance scrupules.
de l’hygiène, la stupidité de mon éducation et la symétrie des Après le dîner, hélas, j’étais bientôt obligé de quitter jardins, plutôt que sur le désir inconnu d’elle d’éviter à sa maman qui restait à causer avec les autres, au jardin s’il faisait jupe prune les taches de boue sous lesquelles elle Marcel Proust –
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disparaissait jusqu’à une hauteur qui était toujours pour sa vue desquelles on s’habitue plus tard jusqu’à les considérer femme de chambre un désespoir et un problème.
en riant et à prendre le parti du persécuteur assez résolument et gaiement pour se persuader à soiHmême qu’il ne s’agit pas Quand ces tours de jardin de ma grand’mère avaient lieu de persécution; elles me causaient alors une telle horreur, après dîner, une chose avait le pouvoir de la faire rentrer: que j’aurais aimé battre ma grand’tante. Mais dès que c’était, à un des moments où la révolution de sa promenade j’entendais: « Bathilde, viens donc empêcher ton mari de la ramenait périodiquement, comme un insecte, en face des boire du cognac! » déjà homme par la lâcheté, je faisais ce lumières du petit salon où les liqueurs étaient servies sur la que nous faisons tous, une fois que nous sommes grands, table à jeu – si ma grand’tante lui criait: « Bathilde! viens quand il y a devant nous des souffrances et des injustices: je donc empêcher ton mari de boire du cognac! » Pour la ne voulais pas les voir; je montais sangloter tout en haut de taquiner, en effet (elle avait apporté dans la famille de mon la maison à côté de la salle d’études, sous les toits, dans une père un esprit si différent que tout le monde la plaisantait et petite pièce sentant l’iris, et que parfumait aussi un cassis la tourmentait), comme les liqueurs étaient défendues à mon sauvage poussé au dehors entre les pierres de la muraille et grandHpère, ma grand’tante lui en faisait boire quelques qui passait une branche de fleurs par la fenêtre entr’ouverte.
gouttes. Ma pauvre grand’mère entrait, priait ardemment son Destinée à un usage plus spécial et plus vulgaire, cette pièce, mari de ne pas goûter au cognac; il se fâchait, buvait tout de d’où l’on voyait pendant le jour jusqu’au donjon de même sa gorgée, et ma grand’mère repartait, triste, RoussainvilleHleHPin, servit longtemps de refuge pour moi, découragée, souriante pourtant, car elle était si humble de sans doute parce qu’elle était la seule qu’il me fût permis de cœur et si douce que sa tendresse pour les autres et le peu de fermer à clef, à toutes celles de mes occupations qui cas qu’elle faisait de sa propre personne et de ses réclamaient une inviolable solitude: la lecture, la rêverie, les souffrances, se conciliaient dans son regard en un sourire où, larmes et la volupté. Hélas! je ne savais pas que, bien plus contrairement à ce qu’on voit dans le visage de beaucoup tristement que les petits écarts de régime de son mari, mon d’humains, il n’y avait d’ironie que pour elleHmême, et pour manque de volonté, ma santé délicate, l’incertitude qu’ils nous tous comme un baiser de ses yeux qui ne pouvaient projetaient sur mon avenir, préoccupaient ma grand’mère, au voir ceux qu’elle chérissait sans les caresser passionnément cours de ces déambulations incessantes, de l’aprèsHmidi et du du regard. Ce supplice que lui infligeait ma grand’tante, le soir, où on voyait passer et repasser, obliquement levé vers le spectacle des vaines prières de ma grand’mère et de sa ciel, son beau visage aux joues brunes et sillonnées, devenues faiblesse, vaincue d’avance, essayant inutilement d’ôter à au retour de l’âge presque mauves comme les labours à mon grandHpère le verre à liqueur, c’était de ces choses à la l’automne, barrées, si elle sortait, par une voilette à demi Marcel Proust –
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Din Search OverTime relevée, et sur lesquelles, amené là par le froid ou quelque réelle et le pouvoir de m’endormir. Mais ces soirsHlà, où triste pensée, était toujours en train de sécher un pleur maman en somme restait si peu de temps dans ma chambre, involontaire.
étaient doux encore en comparaison de ceux où il y avait du monde à dîner et où, à cause de cela, elle ne montait pas me Ma seule consolation, quand je montais me coucher, était dire bonsoir. Le monde se bornait habituellement à M.
que maman viendrait m’embrasser quand je serais dans mon Swann, qui, en dehors de quelques étrangers de passage, était lit. Mais ce bonsoir durait si peu de temps, elle redescendait à peu près la seule personne qui vînt chez nous à Combray, si vite, que le moment où je l’entendais monter, puis où quelquefois pour dîner en voisin (plus rarement depuis qu’il passait dans le couloir à double porte le bruit léger de sa avait fait ce mauvais mariage, parce que mes parents ne robe de jardin en mousseline bleue, à laquelle pendaient de voulaient pas recevoir sa femme), quelquefois après le dîner, petits cordons de paille tressée, était pour moi un moment à l’improviste. Les soirs où, assis devant la maison sous le douloureux. Il annonçait celui qui allait le suivre, où elle grand marronnier, autour de la table de fer, nous entendions m’aurait quitté, où elle serait redescendue. De sorte que ce au bout du jardin, non pas le grelot profus et criard qui bonsoir que j’aimais tant, j’en arrivais à souhaiter qu’il vînt le arrosait, qui étourdissait au passage de son bruit ferrugineux, plus tard possible, à ce que se prolongeât le temps de répit intarissable et glacé, toute personne de la maison qui le où maman n’était pas encore venue. Quelquefois quand, déclenchait en entrant « sans sonner », mais le double après m’avoir embrassé, elle ouvrait la porte pour partir, je tintement timide, ovale et doré de la clochette pour les voulais la rappeler, lui dire « embrasseHmoi une fois encore », étrangers, tout le monde aussitôt se demandait: « Une visite, mais je savais qu’aussitôt elle aurait son visage fâché, car la qui cela peutHil être? » mais on savait bien que cela ne concession qu’elle faisait à ma tristesse et à mon agitation en pouvait être que M. Swann; ma grand’tante parlant à haute montant m’embrasser, en m’apportant ce baiser de paix, voix, pour prêcher d’exemple, sur un ton qu’elle s’efforçait agaçait mon père qui trouvait ces rites absurdes, et elle eût de rendre naturel, disait de ne pas chuchoter ainsi; que rien voulu tâcher de m’en faire perdre le besoin, l’habitude, bien n’est plus désobligeant pour une personne qui arrive et à qui loin de me laisser prendre celle de lui demander, quand elle cela fait croire qu’on est en train de dire des choses qu’elle ne était déjà sur le pas de la porte, un baiser de plus. Or la voir doit pas entendre; et on envoyait en éclaireur ma grand’mère, fâchée détruisait tout le calme qu’elle m’avait apporté un toujours heureuse d’avoir un prétexte pour faire un tour de instant avant, quand elle avait penché vers mon lit sa figure jardin de plus, et qui en profitait pour arracher aimante, et me l’avait tendue comme une hostie pour une subrepticement au passage quelques tuteurs de rosiers afin communion de paix où mes lèvres puiseraient sa présence de rendre aux roses un peu de naturel, comme une mère qui, Marcel Proust –
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Din Search OverTime pour les faire bouffer, passe la main dans les cheveux de son parc où il y avait un peu de soleil. Tout d’un coup, M. Swann fils que le coiffeur a trop aplatis.
prenant mon grandHpère par le bras, s’était écrié: « Ah! mon vieil ami, quel bonheur de se promener ensemble par ce Nous restions tous suspendus aux nouvelles que ma beau temps. Vous ne trouvez pas ça joli tous ces arbres, ces grand’mère allait nous apporter de l’ennemi, comme si on aubépines et mon étang dont vous ne m’avez jamais félicité?
eût pu hésiter entre un grand nombre possible d’assaillants, Vous avez l’air comme un bonnet de nuit. SentezHvous ce et bientôt après mon grandHpère disait: « Je reconnais la voix petit vent? Ah! on a beau dire, la vie a du bon tout de même, de Swann. » On ne le reconnaissait en effet qu’à la voix, on mon cher Amédée! » Brusquement le souvenir de sa femme distinguait mal son visage au nez busqué, aux yeux verts, morte lui revint, et trouvant sans doute trop compliqué de sous un haut front entouré de cheveux blonds presque roux, chercher comment il avait pu à un pareil moment se laisser coiffés à la Bressant, parce que nous gardions le moins de aller à un mouvement de joie, il se contenta, par un geste qui lumière possible au jardin pour ne pas attirer les moustiques lui était familier chaque fois qu’une question ardue se et j’allais, sans en avoir l’air, dire qu’on apportât les sirops; présentait à son esprit, de passer la main sur son front, ma grand’mère attachait beaucoup d’importance, trouvant d’essuyer ses yeux et les verres de son lorgnon. Il ne put cela plus aimable, à ce qu’ils n’eussent pas l’air de figurer pourtant pas se consoler de la mort de sa femme, mais d’une façon exceptionnelle, et pour les visites seulement. M.
pendant les deux années qu’il lui survécut, il disait à mon Swann, quoique beaucoup plus jeune que lui, était très lié grandHpère: « C’est drôle, je pense très souvent à ma pauvre avec mon grandHpère qui avait été un des meilleurs amis de femme, mais je ne peux y penser beaucoup à la fois. » «
son père, homme excellent mais singulier, chez qui, paraîtHil, Souvent, mais peu à la fois, comme le pauvre père Swann », un rien suffisait parfois pour interrompre les élans du cœur, était devenu une des phrases favorites de mon grandHpère changer le cours de la pensée. J’entendais plusieurs fois par qui la prononçait à propos des choses les plus différentes. Il an mon grandHpère raconter à table des anecdotes toujours m’aurait paru que ce père de Swann était un monstre, si mon les mêmes sur l’attitude qu’avait eue M. Swann le père, à la grandHpère que je considérais comme meilleur juge et dont la mort de sa femme qu’il avait veillée jour et nuit. Mon grandH
sentence, faisant jurisprudence pour moi, m’a souvent servi père qui ne l’avait pas vu depuis longtemps était accouru dans la suite à absoudre des fautes que j’aurais été enclin à auprès de lui dans la propriété que les Swann possédaient condamner, ne s’était récrié: « Mais comment? c’était un aux environs de Combray, et avait réussi, pour qu’il n’assistât cœur d’or! »
pas à la mise en bière, à lui faire quitter un moment, tout en pleurs, la chambre mortuaire. Ils firent quelques pas dans le Marcel Proust –
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Din Search OverTime Pendant bien des années, où pourtant, surtout avant son anciens de sa famille, comme étaient mes parents, fermaient mariage, M. Swann, le fils, vint souvent les voir à Combray, d’autant plus bienveillamment les yeux qu’il continuait, ma grand’tante et mes grandsHparents ne soupçonnèrent pas depuis qu’il était orphelin, à venir très fidèlement nous voir; qu’il ne vivait plus du tout dans la société qu’avait fréquentée mais il y avait fort à parier que ces gens inconnus de nous sa famille et que sous l’espèce d’incognito que lui faisait chez qu’il voyait, étaient de ceux qu’il n’aurait pas osé saluer si, nous ce nom de Swann, ils hébergeaient – avec la parfaite étant avec nous, il les avait rencontrés. Si l’on avait voulu à innocence d’honnêtes hôteliers qui ont chez eux, sans le toute force appliquer à Swann un coefficient social qui lui fût savoir, un célèbre brigand – un des membres les plus personnel, entre les autres fils d’agents de situation égale à élégants du JockeyHClub, ami préféré du comte de Paris et du celle de ses parents, ce coefficient eût été pour lui un peu prince de Galles, un des hommes les plus choyés de la haute inférieur parce que, très simple de façons et ayant toujours société du faubourg SaintHGermain.
eu une « toquade » d’objets anciens et de peinture, il demeurait maintenant dans un vieil hôtel où il entassait ses L’ignorance où nous étions de cette brillante vie mondaine collections et que ma grand’mère rêvait de visiter, mais qui que menait Swann tenait évidemment en partie à la réserve était situé quai d’Orléans, quartier que ma grand’tante et à la discrétion de son caractère, mais aussi à ce que les trouvait infamant d’habiter. « ÊtesHvous seulement bourgeois d’alors se faisaient de la société une idée un peu connaisseur? Je vous demande cela dans votre intérêt, parce hindoue et la considéraient comme composée de castes que vous devez vous faire repasser des croûtes par les fermées où chacun, dès sa naissance, se trouvait placé dans le marchands », lui disait ma grand’tante; elle ne lui supposait rang qu’occupaient ses parents, et d’où rien, à moins des en effet aucune compétence et n’avait pas haute idée, même hasards d’une carrière exceptionnelle ou d’un mariage au point de vue intellectuel, d’un homme qui dans la inespéré, ne pouvait vous tirer pour vous faire pénétrer dans conversation, évitait les sujets sérieux et montrait une une caste supérieure. M. Swann, le père, était agent de précision fort prosaïque, non seulement quand il nous change; le « fils Swann » se trouvait faire partie pour toute sa donnait, en entrant dans les moindres détails, des recettes de vie d’une caste où les fortunes, comme dans une catégorie de cuisine, mais même quand les sœurs de ma grand’mère contribuables, variaient entre tel et tel revenu. On savait parlaient de sujets artistiques. Provoqué par elles à donner quelles avaient été les fréquentations de son père, on savait son avis, à exprimer son admiration pour un tableau, il donc quelles étaient les siennes, avec quelles personnes il gardait un silence presque désobligeant, et se rattrapait en était « en situation » de frayer. S’il en connaissait d’autres, revanche s’il pouvait fournir sur le musée où il se trouvait, c’étaient relations de jeune homme sur lesquelles des amis sur la date où il avait été peint, un renseignement matériel.
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Din Search OverTime Mais d’habitude il se contentait de chercher à nous amuser nous, à Paris, après nous avoir dit qu’il rentrait se coucher, il en racontant chaque fois une histoire nouvelle qui venait de rebroussait chemin à peine la rue tournée et se rendait dans lui arriver avec des gens choisis parmi ceux que nous tel salon que jamais l’œil d’aucun agent ou associé d’agent ne connaissions, avec le pharmacien de Combray, avec notre contempla, cela eût paru aussi extraordinaire à ma tante cuisinière, avec notre cocher. Certes ces récits faisaient rire qu’aurait pu l’être pour une dame plus lettrée la pensée d’être ma grand’tante, mais sans qu’elle distinguât bien si c’était à personnellement liée avec Aristée dont elle aurait compris cause du rôle ridicule que s’y donnait toujours Swann ou de qu’il allait, après avoir causé avec elle, plonger au sein des l’esprit qu’il mettait à les conter: « On peut dire que vous êtes royaumes de Thétis, dans un empire soustrait aux yeux des un vrai type, monsieur Swann! » Comme elle était la seule mortels, et où Virgile nous le montre reçu à bras ouverts; ou, personne un peu vulgaire de notre famille, elle avait soin de pour s’en tenir à une image qui avait plus de chance de lui faire remarquer aux étrangers, quand on parlait de Swann, venir à l’esprit, car elle l’avait vue peinte sur nos assiettes à qu’il aurait pu, s’il avait voulu, habiter boulevard Haussmann petits fours de Combray, d’avoir eu à dîner AliHBaba, lequel ou avenue de l’Opéra, qu’il était le fils de M. Swann qui avait quand il se saura seul, pénétrera dans la caverne, éblouissante dû lui laisser quatre ou cinq millions, mais que c’était sa de trésors insoupçonnés.
fantaisie. Fantaisie qu’elle jugeait du reste devoir être si Un jour qu’il était venu nous voir à Paris, après dîner, en divertissante pour les autres, qu’à Paris, quand M. Swann s’excusant d’être en habit, Françoise ayant, après son départ, venait le 1er janvier lui apporter son sac de marrons glacés, dit tenir du cocher qu’il avait dîné « chez une princesse », – «
elle ne manquait pas, s’il y avait du monde, de lui dire: « Eh Oui, chez une princesse du demiHmonde! » avait répondu ma bien! M. Swann, vous habitez toujours près de l’Entrepôt des tante en haussant les épaules sans lever les yeux de sur son vins, pour être sûr de ne pas manquer le train quand vous tricot, avec une ironie sereine.
prenez le chemin de Lyon? » Et elle regardait du coin de l’œil, parHdessus son lorgnon, les autres visiteurs.
Aussi, ma grand’tante en usaitHelle cavalièrement avec lui.
Comme elle croyait qu’il devait être flatté par nos invitations, Mais si l’on avait dit à ma grand’mère que ce Swann qui en elle trouvait tout naturel qu’il ne vînt pas nous voir l’été sans tant que fils Swann était parfaitement « qualifié » pour être avoir à la main un panier de pêches ou de framboises de son reçu par toute la « belle bourgeoisie », par les notaires ou les jardin, et que de chacun de ses voyages d’Italie il m’eût avoués les plus estimés de Paris (privilège qu’il semblait rapporté des photographies de chefsHd’œuvre.
laisser tomber en peu en quenouille), avait, comme en cachette, une vie toute différente; qu’en sortant de chez On ne se gênait guère pour l’envoyer quérir dès qu’on avait besoin d’une recette de sauce gribiche ou de salade à Marcel Proust –
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Din Search OverTime l’ananas pour de grands dîners où on ne l’invitait pas, ne lui nous nous représentons, ces notions ont certainement la plus trouvant pas un prestige suffisant pour qu’on pût le servir à grande part. Elles finissent par gonfler si parfaitement les des étrangers qui venaient pour la première fois. Si la joues, par suivre en une adhérence si exacte la ligne du nez, conversation tombait sur les princes de la Maison de France: elles se mêlent si bien de nuancer la sonorité de la voix
« des gens que nous ne connaîtrons jamais ni vous ni moi et comme si celleHci n’était qu’une transparente enveloppe, que nous nous en passons, n’estHce pas », disait ma grand’tante à chaque fois que nous voyons ce visage et que nous Swann qui avait peutHêtre dans sa poche une lettre de entendons cette voix, ce sont ces notions que nous Twickenham; elle lui faisait pousser le piano et tourner les retrouvons, que nous écoutons. Sans doute, dans le Swann pages les soirs où la sœur de ma grand’mère chantait, ayant, qu’ils s’étaient constitué, mes parents avaient omis par pour manier cet être ailleurs si recherché, la naïve brusquerie ignorance de faire entrer une foule de particularités de sa vie d’un enfant qui joue avec un bibelot de collection sans plus mondaine qui étaient cause que d’autres personnes, quand de précautions qu’avec un objet bon marché. Sans doute le elles étaient en sa présence, voyaient les élégances régner Swann que connurent à la même époque tant de clubmen dans son visage et s’arrêter à son nez busqué comme à leur était bien différent de celui que créait ma grand’tante, quand frontière naturelle; mais aussi ils avaient pu entasser dans ce le soir, dans le petit jardin de Combray, après qu’avaient visage désaffecté de son prestige, vacant et spacieux, au fond retenti les deux coups hésitants de la clochette, elle injectait de ces yeux dépréciés, le vague et doux résidu – miHmémoire, et vivifiait de tout ce qu’elle savait sur la famille Swann miHoubli – des heures oisives passées ensemble après nos l’obscur et incertain personnage qui se détachait, suivi de ma dîners hebdomadaires, autour de la table de jeu ou au jardin, grand’mère, sur un fond de ténèbres, et qu’on reconnaissait à durant notre vie de bon voisinage campagnard. L’enveloppe la voix. Mais même au point de vue des plus insignifiantes corporelle de notre ami en avait été si bien bourrée, ainsi que choses de la vie, nous ne sommes pas un tout matériellement de quelques souvenirs relatifs à ses parents, que ce SwannHlà constitué, identique pour tout le monde et dont chacun n’a était devenu un être complet et vivant, et que j’ai qu’à aller prendre connaissance comme d’un cahier des l’impression de quitter une personne pour aller vers une charges ou d’un testament; notre personnalité sociale est une autre qui en est distincte, quand, dans ma mémoire, du création de la pensée des autres. Même l’acte si simple que Swann que j’ai connu plus tard avec exactitude, je passe à ce nous appelons « voir une personne que nous connaissons »
premier Swann – à ce premier Swann dans lequel je retrouve est en partie un acte intellectuel. Nous remplissons les erreurs charmantes de ma jeunesse, et qui d’ailleurs l’apparence physique de l’être que nous voyons de toutes les ressemble moins à l’autre qu’aux personnes que j’ai connues notions que nous avons sur lui, et dans l’aspect total que à la même époque, comme s’il en était de notre vie ainsi que Marcel Proust –
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Din Search OverTime d’un musée où tous les portraits d’un même temps ont un air abaisser Mme de Villeparisis. Il semblait que la considération de famille, une même tonalité – à ce premier Swann rempli que, sur la foi de ma grand’mère, nous accordions à Mme de de loisir, parfumé par l’odeur du grand marronnier, des Villeparisis, lui créât un devoir de ne rien faire qui l’en rendît paniers de framboises et d’un brin d’estragon.
moins digne et auquel elle avait manqué en apprenant l’existence de Swann, en permettant à des parents à elle de le Pourtant un jour que ma grand’mère était allée demander fréquenter. « Comment! elle connaît Swann? Pour une un service à une dame qu’elle avait connue au SacréHCœur (et personne que tu prétendais parente du maréchal de MacH
avec laquelle, à cause de notre conception des castes, elle Mahon! » Cette opinion de mes parents sur les relations de n’avait pas voulu rester en relations, malgré une sympathie Swann leur parut ensuite confirmée par son mariage avec réciproque), la marquise de Villeparisis, de la célèbre famille une femme de la pire société, presque une cocotte que, de Bouillon, celleHci lui avait dit: « Je crois que vous d’ailleurs, il ne chercha jamais à présenter, continuant à venir connaissez beaucoup M. Swann qui est un grand ami de mes seul chez nous, quoique de moins en moins, mais d’après neveux des Laumes ». Ma grand’mère était revenue de sa laquelle ils crurent pouvoir juger – supposant que c’était là visite enthousiasmée par la maison qui donnait sur des qu’il l’avait prise – le milieu, inconnu d’eux, qu’il fréquentait jardins et où Mme de Villeparisis lui conseillait de louer, et habituellement.
aussi par un giletier et sa fille, qui avaient leur boutique dans la cour et chez qui elle était entrée demander qu’on fît un Mais une fois, mon grandHpère lut dans son journal que M.
point à sa jupe qu’elle avait déchirée dans l’escalier. Ma Swann était un des plus fidèles habitués des déjeuners du grand’mère avait trouvé ces gens parfaits, elle déclarait que la dimanche chez le duc de X…, dont le père et l’oncle avaient petite était une perle et que le giletier était l’homme le plus été les hommes d’État les plus en vue du règne de LouisH
distingué, le mieux qu’elle eût jamais vu. Car pour elle, la Philippe. Or mon grandHpère était curieux de tous les petits distinction était quelque chose d’absolument indépendant du faits qui pouvaient l’aider à entrer par la pensée dans la vie rang social. Elle s’extasiait sur une réponse que le giletier lui privée d’hommes comme Molé, comme le duc Pasquier, avait faite, disant à maman: « Sévigné n’aurait pas mieux dit!
comme le duc de Broglie. Il fut enchanté d’apprendre que
» et, en revanche, d’un neveu de Mme de Villeparisis qu’elle Swann fréquentait des gens qui les avaient connus. Ma avait rencontré chez elle: « Ah! ma fille, comme il est grand’tante au contraire interpréta cette nouvelle dans un commun! »
sens défavorable à Swann: quelqu’un qui choisissait ses fréquentations en dehors de la caste où il était né, en dehors Or le propos relatif à Swann avait eu pour effet, non pas de sa « classe » sociale, subissait à ses yeux un fâcheux de relever celuiHci dans l’esprit de ma grand’tante, mais d’y Marcel Proust –
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Din Search OverTime déclassement. Il lui semblait qu’on renonçât d’un coup au l’attention des deux sœurs, il fallait qu’il eût recours à ces fruit de toutes les belles relations avec des gens bien posés, avertissements physiques dont usent les médecins aliénistes à qu’avaient honorablement entretenues et engrangées pour l’égard de certains maniaques de la distraction: coups frappés leurs enfants les familles prévoyantes (ma grand’tante avait à plusieurs reprises sur un verre avec la lame d’un couteau, même cessé de voir le fils d’un notaire de nos amis parce coïncidant avec une brusque interpellation de la voix et du qu’il avait épousé une altesse et était par là descendu pour regard, moyens violents que ces psychiatres transportent elle du rang respecté de fils de notaire à celui d’un de ces souvent dans les rapports courants avec des gens bien aventuriers, anciens valets de chambre ou garçons d’écurie, portants, soit par habitude professionnelle, soit qu’ils croient pour qui on raconte que les reines eurent parfois des tout le monde un peu fou.
bontés). Elle blâma le projet qu’avait mon grandHpère Elles furent plus intéressées quand la veille du jour où d’interroger Swann, le soir prochain où il devait venir dîner, Swann devait venir dîner, et leur avait personnellement sur ces amis que nous lui découvrions. D’autre part les deux envoyé une caisse de vin d’Asti, ma tante, tenant un numéro sœurs de ma grand’mère, vieilles filles qui avaient sa noble du Figaro où à côté du nom d’un tableau qui était à une nature, mais non son esprit, déclarèrent ne pas comprendre Exposition de Corot, il y avait ces mots: « de la collection de le plaisir que leur beauHfrère pouvait trouver à parler de M. Charles Swann », nous dit: « Vous avez vu que Swann a «
niaiseries pareilles. C’étaient des personnes d’aspirations les honneurs » du Figaro? » – « Mais je vous ai toujours dit élevées et qui à cause de cela même étaient incapables de qu’il avait beaucoup de goût », dit ma grand’mère. – «
s’intéresser à ce qu’on appelle un potin, eûtHil même un Naturellement toi, du moment qu’il s’agit d’être d’un autre intérêt historique, et d’une façon générale à tout ce qui ne se avis que nous », répondit ma grand’tante qui, sachant que ma rattachait pas directement à un objet esthétique ou vertueux.
grand’mère n’était jamais du même avis qu’elle, et n’étant pas Le désintéressement de leur pensée était tel, à l’égard de tout bien sûre que ce fût à elleHmême que nous donnions toujours ce qui, de près ou de loin semblait se rattacher à la vie raison, voulait nous arracher une condamnation en bloc des mondaine, que leur sens auditif, – ayant fini par comprendre opinions de ma grand’mère contre lesquelles elle tâchait de son inutilité momentanée dès qu’à dîner la conversation nous solidariser de force avec les siennes. Mais nous prenait un ton frivole ou seulement terre à terre sans que ces restâmes silencieux. Les sœurs de ma grand’mère ayant deux vieilles demoiselles aient pu la ramener aux sujets qui manifesté l’intention de parler à Swann de ce mot du Figaro, leur étaient chers, – mettait alors au repos ses organes ma grand’tante le leur déconseilla. Chaque fois qu’elle voyait récepteurs et leur laissait subir un véritable commencement aux autres un avantage si petit fûtHil qu’elle n’avait pas, elle se d’atrophie. Si alors mon grandHpère avait besoin d’attirer Marcel Proust –
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Din Search OverTime persuadait que c’était non un avantage mais un mal et elle les que se brisât sa douceur, sans que se répandît et s’évaporât plaignait pour ne pas avoir à les envier. « Je crois que vous sa vertu volatile et, justement ces soirsHlà où j’aurais eu ne lui feriez pas plaisir; moi je sais bien que cela me serait besoin de le recevoir avec plus de précaution, il fallait que je très désagréable de voir mon nom imprimé tout vif comme le prisse, que je dérobasse brusquement, publiquement, sans cela dans le journal, et je ne serais pas flattée du tout qu’on même avoir le temps et la liberté d’esprit nécessaires pour m’en parlât. » Elle ne s’entêta pas d’ailleurs à persuader les porter à ce que je faisais cette attention des maniaques qui sœurs de ma grand’mère; car cellesHci par horreur de la s’efforcent de ne pas penser à autre chose pendant qu’ils vulgarité poussaient si loin l’art de dissimuler sous des ferment une porte, pour pouvoir, quand l’incertitude périphrases ingénieuses une allusion personnelle, qu’elle maladive leur revient, lui opposer victorieusement le passait souvent inaperçue de celui même à qui elle souvenir du moment où ils l’ont fermée. Nous étions tous au s’adressait. Quant à ma mère, elle ne pensait qu’à tâcher jardin quand retentirent les deux coups hésitants de la d’obtenir de mon père qu’il consentît à parler à Swann non clochette. On savait que c’était Swann; néanmoins tout le de sa femme, mais de sa fille qu’il adorait et à cause de monde se regarda d’un air interrogateur et on envoya ma laquelle, disaitHon, il avait fini par faire ce mariage. « Tu grand’mère en reconnaissance. « Pensez à le remercier pourrais ne lui dire qu’un mot, lui demander comment elle intelligiblement de son vin, vous savez qu’il est délicieux et la va. Cela doit être si cruel pour lui. » Mais mon père se caisse est énorme », recommanda mon grandHpère à ses deux fâchait: « Mais non! tu as des idées absurdes. Ce serait bellesHsœurs. « Ne commencez pas à chuchoter, dit ma ridicule. »
grand’tante. Comme c’est confortable d’arriver dans une maison où tout le monde parle bas. » – « Ah! voilà M.
Mais le seul d’entre nous pour qui la venue de Swann Swann. Nous allons lui demander s’il croit qu’il fera beau devint l’objet d’une préoccupation douloureuse, ce fut moi.
demain », dit mon père. Ma mère pensait qu’un mot d’elle C’est que les soirs où des étrangers, ou seulement M. Swann, effacerait toute la peine que dans notre famille on avait pu étaient là, maman ne montait pas dans ma chambre. Je dînais faire à Swann depuis son mariage. Elle trouva le moyen de avant tout le monde et je venais ensuite m’asseoir à table, l’emmener un peu à l’écart. Mais je la suivis; je ne pouvais jusqu’à huit heures où il était convenu que je devais monter; me décider à la quitter d’un pas en pensant que tout à l’heure ce baiser précieux et fragile que maman me confiait il faudrait que je la laisse dans la salle à manger et que je d’habitude dans mon lit au moment de m’endormir, il me remonte dans ma chambre sans avoir comme les autres soirs fallait le transporter de la salle à manger dans ma chambre et la consolation qu’elle vînt m’embrasser. « Voyons, monsieur le garder pendant tout le temps que je me déshabillais, sans Swann, lui ditHelle, parlezHmoi un peu de votre fille; je suis Marcel Proust –
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Din Search OverTime sûre qu’elle a déjà le goût des belles œuvres comme son père eutHil posé à Swann une question relative à cet orateur papa. » – « Mais venez donc vous asseoir avec nous tous qu’une des sœurs de ma grand’mère aux oreilles de qui cette sous la véranda », dit mon grandHpère en s’approchant. Ma question résonna comme un silence profond mais mère fut obligée de s’interrompre, mais elle tira de cette intempestif et qu’il était poli de rompre, interpella l’autre: «
contrainte même une pensée délicate de plus, comme les ImagineHtoi, Céline, que j’ai fait la connaissance d’une jeune bons poètes que la tyrannie de la rime force à trouver leurs institutrice suédoise qui m’a donné sur les coopératives dans plus grandes beautés: « Nous reparlerons d’elle quand nous les pays scandinaves des détails tout ce qu’il y a de plus serons tous les deux, ditHelle à miHvoix à Swann. Il n’y a intéressants. Il faudra qu’elle vienne dîner ici un soir. » – « Je qu’une maman qui soit digne de vous comprendre. Je suis crois bien! répondit sa sœur Flora, mais je n’ai pas perdu sûre que la sienne serait de mon avis. » Nous nous assîmes mon temps non plus. J’ai rencontré chez M. Vinteuil un tous autour de la table de fer. J’aurais voulu ne pas penser vieux savant qui connaît beaucoup Maubant, et à qui aux heures d’angoisse que je passerais ce soir seul dans ma Maubant a expliqué dans le plus grand détail comment il s’y chambre sans pouvoir m’endormir; je tâchais de me prend pour composer un rôle. C’est tout ce qu’il y a de plus persuader qu’elles n’avaient aucune importance, puisque je intéressant. C’est un voisin de M. Vinteuil, je n’en savais rien; les aurais oubliées demain matin, de m’attacher à des idées et il est très aimable. » – « Il n’y a pas que M. Vinteuil qui ait d’avenir qui auraient dû me conduire comme sur un pont au des voisins aimables », s’écria ma tante Céline d’une voix que delà de l’abîme prochain qui m’effrayait. Mais mon esprit la timidité rendait forte et la préméditation, factice, tout en tendu par ma préoccupation, rendu convexe comme le jetant sur Swann ce qu’elle appelait un regard significatif. En regard que je dardais sur ma mère, ne se laissait pénétrer par même temps ma tante Flora qui avait compris que cette aucune impression étrangère. Les pensées entraient bien en phrase était le remerciement de Céline pour le vin d’Asti, lui, mais à condition de laisser dehors tout élément de beauté regardait également Swann avec un air mêlé de ou simplement de drôlerie qui m’eût touché ou distrait.
congratulation et d’ironie, soit simplement pour souligner le Comme un malade grâce à un anesthésique assiste avec une trait d’esprit de sa sœur, soit qu’elle enviât Swann de l’avoir pleine lucidité à l’opération qu’on pratique sur lui, mais sans inspiré, soit qu’elle ne pût s’empêcher de se moquer de lui rien sentir, je pouvais me réciter des vers que j’aimais ou parce qu’elle le croyait sur la sellette. « Je crois qu’on pourra observer les efforts que mon grandHpère faisait pour parler à réussir à avoir ce monsieur à dîner, continua Flora; quand on Swann du duc d’AudiffretHPasquier, sans que les premiers le met sur Maubant ou sur Mme Materna, il parle des heures me fissent éprouver aucune émotion, les seconds aucune sans s’arrêter. » – « Ce doit être délicieux », soupira mon gaîté. Ces efforts furent infructueux. À peine mon grandH
grandHpère dans l’esprit de qui la nature avait Marcel Proust –
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Din Search OverTime malheureusement aussi complètement omis d’inclure la c’est dans le volume doré sur tranches que nous n’ouvrons possibilité de s’intéresser passionnément aux coopératives qu’une fois tous les dix ans, ajoutaHtHil en témoignant pour suédoises ou à la composition des rôles de Maubant, qu’elle les choses mondaines ce dédain qu’affectent certains avait oublié de fournir celui des sœurs de ma grand’mère du hommes du monde, que nous lirions que la reine de Grèce petit grain de sel qu’il faut ajouter soiHmême, pour y trouver est allée à Cannes ou que la princesse de Léon a donné un quelque saveur, à un récit sur la vie intime de Molé ou du bal costumé. Comme cela la juste proportion serait rétablie. »
comte de Paris. « Tenez, dit Swann à mon grandHpère, ce que Mais regrettant de s’être laissé aller à parler même je vais vous dire a plus de rapports que cela n’en a l’air avec légèrement de choses sérieuses: « Nous avons une bien belle ce que vous me demandiez, car sur certains points les choses conversation, ditHil ironiquement, je ne sais pas pourquoi n’ont pas énormément changé. Je relisais ce matin dans nous abordons ces « sommets », et se tournant vers mon SaintHSimon quelque chose qui vous aurait amusé. C’est dans grandHpère: « Donc SaintHSimon raconte que Maulevrier le volume sur son ambassade d’Espagne; ce n’est pas un des avait eu l’audace de tendre la main à ses fils. Vous savez, meilleurs, ce n’est guère qu’un journal merveilleusement c’est ce Maulevrier dont il dit: « Jamais je ne vis dans cette écrit, ce qui fait déjà une première différence avec les épaisse bouteille que de l’humeur, de la grossièreté et des assommants journaux que nous nous croyons obligés de lire sottises. » – « Épaisses ou non, je connais des bouteilles où il matin et soir. » – « Je ne suis pas de votre avis, il y a des jours y a tout autre chose », dit vivement Flora, qui tenait à avoir où la lecture des journaux me semble fort agréable… », remercié Swann elle aussi, car le présent de vin d’Asti interrompit ma tante Flora, pour montrer qu’elle avait lu la s’adressait aux deux. Céline se mit à rire. Swann interloqué phrase sur le Corot de Swann dans le Figaro. « Quand ils reprit: « Je ne sais si ce fut ignorance ou panneau, écrit SaintH
parlent de choses ou de gens qui nous intéressent! » enchérit Simon, il voulut donner la main à mes enfants. Je m’en ma tante Céline. « Je ne dis pas non, répondit Swann étonné.
aperçus assez tôt pour l’en empêcher. » Mon grandHpère Ce que je reproche aux journaux, c’est de nous faire faire s’extasiait déjà sur « ignorance ou panneau », mais Mlle attention tous les jours à des choses insignifiantes tandis que Céline, chez qui le nom de SaintHSimon – un littérateur –
nous lisons trois ou quatre fois dans notre vie les livres où il avait empêché l’anesthésie complète des facultés auditives, y a des choses essentielles. Du moment que nous déchirons s’indignait déjà: « Comment? vous admirez cela? Eh bien!
fiévreusement chaque matin la bande du journal, alors on c’est du joli! Mais qu’estHce que cela peut vouloir dire; estHce devrait changer les choses et mettre dans le journal, moi je qu’un homme n’est pas autant qu’un autre? Qu’estHce que ne sais pas, les… Pensées de Pascal! (il détacha ce mot d’un cela peut faire qu’il soit duc ou cocher s’il a de l’intelligence ton d’emphase ironique pour ne pas avoir l’air pédant). Et et du cœur? Il avait une belle manière d’élever ses enfants, Marcel Proust –
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Din Search OverTime votre SaintHSimon, s’il ne leur disait pas de donner la main à tard du reste ce soir. » Et mon père, qui ne gardait pas aussi tous les honnêtes gens. Mais c’est abominable, tout scrupuleusement que ma grand’mère et que ma mère la foi simplement. Et vous osez citer cela? » Et mon grandHpère des traités, dit: « Oui, allons, vas te coucher. » Je voulus navré, sentant l’impossibilité, devant cette obstruction, de embrasser maman, à cet instant on entendit la cloche du chercher à faire raconter à Swann les histoires qui l’eussent dîner. « Mais non, voyons, laisse ta mère, vous vous êtes amusé, disait à voix basse à maman: « RappelleHmoi donc le assez dit bonsoir comme cela, ces manifestations sont vers que tu m’as appris et qui me soulage tant dans ces ridicules. Allons, monte! » Et il me fallut partir sans viatique; momentsHlà. Ah! oui: « Seigneur, que de vertus vous nous il me fallut monter chaque marche de l’escalier, comme dit faites haïr! » Ah! comme c’est bien! »
l’expression populaire, à « contreHcœur », montant contre mon cœur qui voulait retourner près de ma mère parce Je ne quittais pas ma mère des yeux, je savais que quand qu’elle ne lui avait pas, en m’embrassant, donné licence de on serait à table, on ne me permettrait pas de rester pendant me suivre. Cet escalier détesté où je m’engageais toujours si toute la durée du dîner et que, pour ne pas contrarier mon tristement, exhalait une odeur de vernis qui avait en quelque père, maman ne me laisserait pas l’embrasser à plusieurs sorte absorbé, fixé, cette sorte particulière de chagrin que je reprises devant le monde, comme si ç’avait été dans ma ressentais chaque soir, et la rendait peutHêtre plus cruelle chambre. Aussi je me promettais, dans la salle à manger, encore pour ma sensibilité parce que, sous cette forme pendant qu’on commencerait à dîner et que je sentirais olfactive, mon intelligence n’en pouvait plus prendre sa part.
approcher l’heure, de faire d’avance de ce baiser qui serait si Quand nous dormons et qu’une rage de dents n’est encore court et furtif, tout ce que j’en pouvais faire seul, de choisir perçue par nous que comme une jeune fille que nous nous avec mon regard la place de la joue que j’embrasserais, de efforçons deux cents fois de suite de tirer de l’eau ou que préparer ma pensée pour pouvoir grâce à ce commencement comme un vers de Molière que nous nous répétons sans mental de baiser consacrer toute la minute que m’accorderait arrêter, c’est un grand soulagement de nous réveiller et que maman à sentir sa joue contre mes lèvres, comme un peintre notre intelligence puisse débarrasser l’idée de rage de dents, qui ne peut obtenir que de courtes séances de pose, prépare de tout déguisement héroïque ou cadencé. C’est l’inverse de sa palette, et a fait d’avance de souvenir, d’après ses notes, ce soulagement que j’éprouvais quand mon chagrin de tout ce pour quoi il pouvait à la rigueur se passer de la monter dans ma chambre entrait en moi d’une façon présence du modèle. Mais voici qu’avant que le dîner fût infiniment plus rapide, presque instantanée, à la fois sonné mon grandHpère eut la férocité inconsciente de dire: «
insidieuse et brusque, par l’inhalation – beaucoup plus Le petit a l’air fatigué, il devrait monter se coucher. On dîne toxique que la pénétration morale – de l’odeur de vernis Marcel Proust –
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Din Search OverTime particulière à cet escalier. Une fois dans ma chambre, il fallut elle un passé français très ancien, noble et mal compris, boucher toutes les issues, fermer les volets, creuser mon comme dans ces cités manufacturières où de vieux hôtels propre tombeau, en défaisant mes couvertures, revêtir le témoignent qu’il y eut jadis une vie de cour, et où les suaire de ma chemise de nuit. Mais avant de m’ensevelir dans ouvriers d’une usine de produits chimiques travaillent au le lit de fer qu’on avait ajouté dans la chambre parce que milieu de délicates sculptures qui représentent le miracle de j’avais trop chaud l’été sous les courtines de reps du grand lit, saint Théophile ou les quatre fils Aymon. Dans le cas j’eus un mouvement de révolte, je voulus essayer d’une ruse particulier, l’article du code à cause duquel il était peu de condamné. J’écrivis à ma mère en la suppliant de monter probable que sauf le cas d’incendie Françoise allât déranger pour une chose grave que je ne pouvais lui dire dans ma maman en présence de M. Swann pour un aussi petit lettre. Mon effroi était que Françoise, la cuisinière de ma personnage que moi, exprimait simplement le respect qu’elle tante qui était chargée de s’occuper de moi quand j’étais à professait non seulement pour les parents – comme pour les Combray, refusât de porter mon mot. Je me doutais que morts, les prêtres et les rois – mais encore pour l’étranger à pour elle, faire une commission à ma mère quand il y avait qui on donne l’hospitalité, respect qui m’aurait peutHêtre du monde lui paraîtrait aussi impossible que pour le portier touché dans un livre mais qui m’irritait toujours dans sa d’un théâtre de remettre une lettre à un acteur pendant qu’il bouche, à cause du ton grave et attendri qu’elle prenait pour est en scène. Elle possédait à l’égard des choses qui peuvent en parler, et davantage ce soir où le caractère sacré qu’elle ou ne peuvent pas se faire un code impérieux, abondant, conférait au dîner avait pour effet qu’elle refuserait d’en subtil et intransigeant sur des distinctions insaisissables ou troubler la cérémonie. Mais pour mettre une chance de mon oiseuses (ce qui lui donnait l’apparence de ces lois antiques côté, je n’hésitai pas à mentir et à lui dire que ce n’était pas qui, à côté de prescriptions féroces comme de massacrer les du tout moi qui avais voulu écrire à maman, mais que c’était enfants à la mamelle, défendent avec une délicatesse maman qui, en me quittant, m’avait recommandé de ne pas exagérée de faire bouillir le chevreau dans le lait de sa mère, oublier de lui envoyer une réponse relativement à un objet ou de manger dans un animal le nerf de la cuisse). Ce code, qu’elle m’avait prié de chercher; et elle serait certainement si l’on en jugeait par l’entêtement soudain qu’elle mettait à ne très fâchée si on ne lui remettait pas ce mot. Je pense que pas vouloir faire certaines commissions que nous lui Françoise ne me crut pas, car, comme les hommes primitifs donnions, semblait avoir prévu des complexités sociales et dont les sens étaient plus puissants que les nôtres, elle des raffinements mondains tels que rien dans l’entourage de discernait immédiatement, à des signes insaisissables pour Françoise et dans sa vie de domestique de village n’avait pu nous, toute vérité que nous voulions lui cacher; elle regarda les lui suggérer; et l’on était obligé de se dire qu’il y avait en pendant cinq minutes l’enveloppe comme si l’examen du Marcel Proust –
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Din Search OverTime papier et l’aspect de l’écriture allaient la renseigner sur la le but; or, au contraire, comme je l’ai appris plus tard, une nature du contenu ou lui apprendre à quel article de son angoisse semblable fut le tourment de longues années de sa code elle devait se référer. Puis elle sortit d’un air résigné qui vie, et personne aussi bien que lui peutHêtre, n’aurait pu me semblait signifier: « C’estHil pas malheureux pour des parents comprendre; lui, cette angoisse qu’il y a à sentir l’être qu’on d’avoir un enfant pareil! » Elle revint au bout d’un moment aime dans un lieu de plaisir où l’on n’est pas, où l’on ne peut me dire qu’on n’en était encore qu’à la glace, qu’il était pas le rejoindre, c’est l’amour qui la lui a fait connaître, impossible au maître d’hôtel de remettre la lettre en ce l’amour auquel elle est en quelque sorte prédestinée, par moment devant tout le monde, mais que, quand on serait lequel elle sera accaparée, spécialisée; mais quand, comme aux rinceHbouche, on trouverait le moyen de la faire passer à pour moi, elle est entrée en nous avant qu’il ait encore fait maman. Aussitôt mon anxiété tomba; maintenant ce n’était son apparition dans notre vie, elle flotte en l’attendant, vague plus comme tout à l’heure pour jusqu’à demain que j’avais et libre, sans affectation déterminée, au service un jour d’un quitté ma mère, puisque mon petit mot allait, la fâchant sans sentiment, le lendemain d’un autre, tantôt de la tendresse doute (et doublement parce que ce manège me rendrait filiale ou de l’amitié pour un camarade. – Et la joie avec ridicule aux yeux de Swann), me faire du moins entrer laquelle je fis mon premier apprentissage quand Françoise invisible et ravi dans la même pièce qu’elle, allait lui parler de revint me dire que ma lettre serait remise, Swann l’avait bien moi à l’oreille; puisque cette salle à manger interdite, hostile, connue aussi, cette joie trompeuse que nous donne quelque où, il y avait un instant encore, la glace elleHmême – le «
ami, quelque parent de la femme que nous aimons, quand granité » – et les rinceHbouche me semblaient recéler des arrivant à l’hôtel ou au théâtre où elle se trouve, pour plaisirs malfaisants et mortellement tristes parce que maman quelque bal, redoute, ou première où il va la retrouver, cet les goûtait loin de moi, s’ouvrait à moi et, comme un fruit ami nous aperçoit errant dehors, attendant désespérément devenu doux qui brise son enveloppe, allait faire jaillir, quelque occasion de communiquer avec elle. Il nous projeter jusqu’à mon cœur enivré l’attention de maman reconnaît, nous aborde familièrement, nous demande ce que tandis qu’elle lirait mes lignes. Maintenant je n’étais plus nous faisons là. Et comme nous inventons que nous avons séparé d’elle; les barrières étaient tombées, un fil délicieux quelque chose d’urgent à dire à sa parente ou amie, il nous nous réunissait. Et puis, ce n’était pas tout: maman allait sans assure que rien n’est plus simple, nous fait entrer dans le doute venir!
vestibule et nous promet de nous l’envoyer avant cinq minutes. Que nous l’aimons – comme en ce moment j’aimais L’angoisse que je venais d’éprouver, je pensais que Swann Françoise – l’intermédiaire bien intentionné qui d’un mot s’en serait bien moqué s’il avait lu ma lettre et en avait deviné vient de nous rendre supportable, humaine et presque Marcel Proust –
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Din Search OverTime propice la fête inconcevable, infernale, au sein de laquelle de réponse » que depuis j’ai si souvent entendus des nous croyions que des tourbillons ennemis, pervers et concierges de « palaces » ou des valets de pied de tripots, délicieux entraînaient loin de nous, la faisant rire de nous, rapporter à quelque pauvre fille qui s’étonne: « Comment, il celle que nous aimons. Si nous en jugeons par lui, le parent n’a rien dit, mais c’est impossible! Vous avez pourtant bien qui nous a accosté et qui est lui aussi un des initiés des cruels remis ma lettre. C’est bien, je vais attendre encore. » Et – de mystères, les autres invités de la fête ne doivent rien avoir de même qu’elle assure invariablement n’avoir pas besoin du bien démoniaque. Ces heures inaccessibles et suppliciantes bec supplémentaire que le concierge veut allumer pour elle, où elle allait goûter des plaisirs inconnus, voici que par une et reste là, n’entendant plus que les rares propos sur le temps brèche inespérée nous y pénétrons; voici qu’un des moments qu’il fait échangés entre le concierge et un chasseur qu’il dont la succession les aurait composées, un moment aussi envoie tout d’un coup, en s’apercevant de l’heure, faire réel que les autres, même peutHêtre plus important pour rafraîchir dans la glace la boisson d’un client – ayant décliné nous, parce que notre maîtresse y est plus mêlée, nous nous l’offre de Françoise de me faire de la tisane ou de rester le représentons, nous le possédons, nous y intervenons, nous auprès de moi, je la laissai retourner à l’office, je me couchai l’avons créé presque: le moment où on va lui dire que nous et je fermai les yeux en tâchant de ne pas entendre la voix de sommes là, en bas. Et sans doute les autres moments de la mes parents qui prenaient le café au jardin. Mais au bout de fête ne devaient pas être d’une essence bien différente de quelques secondes, je sentis qu’en écrivant ce mot à maman, celuiHlà, ne devaient rien avoir de plus délicieux et qui dût en m’approchant, au risque de la fâcher, si près d’elle que tant nous faire souffrir, puisque l’ami bienveillant nous a dit: j’avais cru toucher le moment de la revoir, je m’étais barré la
« Mais elle sera ravie de descendre! Cela lui fera beaucoup possibilité de m’endormir sans l’avoir revue, et les plus de plaisir de causer avec vous que de s’ennuyer làHhaut.
battements de mon cœur de minute en minute devenaient
» Hélas! Swann en avait fait l’expérience, les bonnes plus douloureux parce que j’augmentais mon agitation en me intentions d’un tiers sont sans pouvoir sur une femme qui prêchant un calme qui était l’acceptation de mon infortune.
s’irrite de se sentir poursuivie jusque dans une fête par Tout à coup mon anxiété tomba, une félicité m’envahit quelqu’un qu’elle n’aime pas. Souvent, l’ami redescend seul.
comme quand un médicament puissant commence à agir et nous enlève une douleur: je venais de prendre la résolution Ma mère ne vint pas, et sans ménagements pour mon de ne plus essayer de m’endormir sans avoir revu maman, de amourHpropre (engagé à ce que la fable de la recherche dont l’embrasser coûte que coûte, bien que ce fût avec la certitude elle était censée m’avoir prié de lui dire le résultat ne fût pas d’être ensuite fâché pour longtemps avec elle, quand elle démentie) me fit dire par Françoise ces mots: « Il n’y a pas remonterait se coucher. Le calme qui résultait de mes Marcel Proust –
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Din Search OverTime angoisses finies me mettait dans un allégresse extraordinaire, les conséquences les plus graves, bien plus graves en vérité non moins que l’attente, la soif et la peur du danger. J’ouvris qu’un étranger n’aurait pu le supposer, de celles qu’il aurait la fenêtre sans bruit et m’assis au pied de mon lit; je ne cru que pouvaient produire seules des fautes vraiment faisais presque aucun mouvement afin qu’on ne m’entendît honteuses. Mais dans l’éducation qu’on me donnait, l’ordre pas d’en bas. Dehors, les choses semblaient, elles aussi, des fautes n’était pas le même que dans l’éducation des figées en une muette attention à ne pas troubler le clair de autres enfants et on m’avait habitué à placer avant toutes les lune, qui doublant et reculant chaque chose par l’extension autres (parce que sans doute il n’y en avait pas contre devant elle de son reflet, plus dense et concret qu’elleHmême, lesquelles j’eusse besoin d’être plus soigneusement gardé) avait à la fois aminci et agrandi le paysage comme un plan celles dont je comprends maintenant que leur caractère replié jusqueHlà, qu’on développe. Ce qui avait besoin de commun est qu’on y tombe en cédant à une impulsion bouger, quelque feuillage de marronnier, bougeait. Mais son nerveuse. Mais alors on ne prononçait pas ce mot, on ne frissonnement minutieux, total, exécuté jusque dans ses déclarait pas cette origine qui aurait pu me faire croire que moindres nuances et ses dernières délicatesses, ne bavait pas j’étais excusable d’y succomber ou même peutHêtre incapable sur le reste, ne se fondait pas avec lui, restait circonscrit.
d’y résister. Mais je les reconnaissais bien à l’angoisse qui les Exposés sur ce silence qui n’en absorbait rien, les bruits les précédait comme à la rigueur du châtiment qui les suivait; et plus éloignés, ceux qui devaient venir de jardins situés à je savais que celle que je venais de commettre était de la l’autre bout de la ville, se percevaient détaillés avec un tel «
même famille que d’autres pour lesquelles j’avais été fini » qu’ils semblaient ne devoir cet effet de lointain qu’à sévèrement puni, quoique infiniment plus grave. Quand leur pianissimo, comme ces motifs en sourdine si bien j’irais me mettre sur le chemin de ma mère au moment où exécutés par l’orchestre du Conservatoire que, quoiqu’on elle monterait se coucher, et qu’elle verrait que j’étais resté n’en perde pas une note, on croit les entendre cependant levé pour lui redire bonsoir dans le couloir, on ne me loin de la salle du concert, et que tous les vieux abonnés – les laisserait plus rester à la maison, on me mettrait au collège le sœurs de ma grand’mère aussi quand Swann leur avait donné lendemain, c’était certain. Eh bien! dusséHje me jeter par la ses places – tendaient l’oreille comme s’ils avaient écouté les fenêtre cinq minutes après, j’aimerais encore mieux cela. Ce progrès lointains d’une armée en marche qui n’aurait pas que je voulais maintenant c’était maman, c’était lui dire encore tourné la rue de Trévise.
bonsoir, j’étais allé trop loin dans la voie qui menait à la réalisation de ce désir pour pouvoir rebrousser chemin.
Je savais que le cas dans lequel je me mettais était de tous celui qui pouvait avoir pour moi, de la part de mes parents, Marcel Proust –
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Din Search OverTime J’entendis les pas de mes parents qui accompagnaient d’amour, pour sa femme. Hé bien! vous voyez, vous ne Swann; et quand le grelot de la porte m’eut averti qu’il venait l’avez pas remercié pour l’Asti », ajouta mon grandHpère en de partir, j’allai à la fenêtre. Maman demandait à mon père se tournant vers ses deux bellesHsœurs. « Comment, nous ne s’il avait trouvé la langouste bonne et si M. Swann avait l’avons pas remercié? je crois, entre nous, que je lui ai même repris de la glace au café et à la pistache. « Je l’ai trouvée bien tourné cela assez délicatement », répondit ma tante Flora. «
quelconque, dit ma mère; je crois que la prochaine fois il Oui, tu as très bien arrangé cela: je t’ai admirée », dit ma faudra essayer d’un autre parfum. » – « Je ne peux pas dire tante Céline. – « Mais toi, tu as été très bien aussi. » – « Oui comme je trouve que Swann change, dit ma grand’tante, il j’étais assez fière de ma phrase sur les voisins aimables. » – «
est d’un vieux! » Ma grand’tante avait tellement l’habitude de Comment, c’est cela que vous appelez remercier! s’écria mon voir toujours en Swann un même adolescent, qu’elle grandHpère. J’ai bien entendu cela, mais du diable si j’ai cru s’étonnait de le trouver tout à coup moins jeune que l’âge que c’était pour Swann. Vous pouvez être sûres qu’il n’a rien qu’elle continuait à lui donner. Et mes parents du reste compris. » – « Mais voyons, Swann n’est pas bête, je suis commençaient à lui trouver cette vieillesse anormale, certaine qu’il a apprécié. Je ne pouvais cependant pas lui dire excessive, honteuse et méritée des célibataires, de tous ceux le nombre de bouteilles et le prix du vin! » Mon père et ma pour qui il semble que le grand jour qui n’a pas de lendemain mère restèrent seuls, et s’assirent un instant; puis mon père soit plus long que pour les autres, parce que pour eux il est dit: « Hé bien! si tu veux, nous allons monter nous coucher. »
vide, et que les moments s’y additionnent depuis le matin
– « Si tu veux, mon ami, bien que je n’aie pas l’ombre de sans se diviser ensuite entre des enfants. « Je crois qu’il a sommeil; ce n’est pas cette glace au café si anodine qui a pu beaucoup de soucis avec sa coquine de femme qui vit au su pourtant me tenir si éveillée; mais j’aperçois de la lumière de tout Combray avec un certain monsieur de Charlus. C’est dans l’office et puisque la pauvre Françoise m’a attendue, je la fable de la ville. » Ma mère fit remarquer qu’il avait vais lui demander de dégrafer mon corsage pendant que tu pourtant l’air bien moins triste depuis quelque temps. « Il fait vas te déshabiller. » Et ma mère ouvrit la porte treillagée du aussi moins souvent ce geste qu’il a tout à fait comme son vestibule qui donnait sur l’escalier. Bientôt, je l’entendis qui père de s’essuyer les yeux et de se passer la main sur le front.
montait fermer sa fenêtre. J’allai sans bruit dans le couloir; Moi je crois qu’au fond il n’aime plus cette femme. » – «
mon cœur battait si fort que j’avais de la peine à avancer, Mais naturellement il ne l’aime plus, répondit mon grandH
mais du moins il ne battait plus d’anxiété, mais d’épouvante père. J’ai reçu de lui il y a déjà longtemps une lettre à ce et de joie. Je vis dans la cage de l’escalier la lumière projetée sujet, à laquelle je me suis empressé de ne pas me conformer, par la bougie de maman. Puis je la vis elleHmême, je et qui ne laisse aucun doute sur ses sentiments, au moins m’élançai. À la première seconde, elle me regarda avec Marcel Proust –
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Din Search OverTime étonnement, ne comprenant pas ce qui était arrivé. Puis sa plus larges octroyés par ma mère et ma grand’mère, parce figure prit une expression de colère, elle ne me disait même qu’il ne se souciait pas des « principes » et qu’il n’y avait pas pas un mot, et en effet pour bien moins que cela on ne avec lui de « Droit des gens ». Pour une raison toute m’adressait plus la parole pendant plusieurs jours. Si maman contingente, ou même sans raison, il me supprimait au m’avait dit un mot, ç’aurait été admettre qu’on pouvait me dernier moment telle promenade si habituelle, si consacrée, reparler et d’ailleurs cela peutHêtre m’eût paru plus terrible qu’on ne pouvait m’en priver sans parjure, ou bien, comme il encore, comme un signe que devant la gravité du châtiment avait encore fait ce soir, longtemps avant l’heure rituelle, il qui allait se préparer, le silence, la brouille, eussent été me disait: « Allons, monte te coucher, pas d’explication! »
puérils. Une parole c’eût été le calme avec lequel on répond à Mais aussi, parce qu’il n’avait pas de principes (dans le sens un domestique quand on vient de décider de le renvoyer; le de ma grand’mère), il n’avait pas à proprement parler baiser qu’on donne à un fils qu’on envoie s’engager alors d’intransigeance. Il me regarda un instant d’un air étonné et qu’on le lui aurait refusé si on devait se contenter d’être fâché, puis dès que maman lui eut expliqué en quelques mots fâché deux jours avec lui. Mais elle entendit mon père qui embarrassés ce qui était arrivé, il lui dit: « Mais va donc avec montait du cabinet de toilette où il était allé se déshabiller, et, lui, puisque tu disais justement que tu n’as pas envie de pour éviter la scène qu’il me ferait, elle me dit d’une voix dormir, reste un peu dans sa chambre, moi je n’ai besoin de entrecoupée par la colère: « SauveHtoi, sauveHtoi, qu’au moins rien. » – « Mais, mon ami, répondit timidement ma mère, que ton père ne t’ait vu ainsi attendant comme un fou! » Mais je j’aie envie ou non de dormir, ne change rien à la chose, on lui répétais: « Viens me dire bonsoir », terrifié en voyant que ne peut pas habituer cet enfant… » – « Mais il ne s’agit pas le reflet de la bougie de mon père s’élevait déjà sur le mur, d’habituer, dit mon père en haussant les épaules, tu vois bien mais aussi usant de son approche comme d’un moyen de que ce petit a du chagrin, il a l’air désolé, cet enfant; voyons, chantage et espérant que maman, pour éviter que mon père nous ne sommes pas des bourreaux! Quand tu l’auras rendu me trouvât encore là si elle continuait à refuser, allait me malade, tu seras bien avancée! Puisqu’il y a deux lits dans sa dire: « Rentre dans ta chambre, je vais venir. » Il était trop chambre, dis donc à Françoise de te préparer le grand lit et tard, mon père était devant nous. Sans le vouloir, je couche pour cette nuit auprès de lui. Allons, bonsoir, moi murmurai ces mots que personne n’entendit: « Je suis perdu!
qui ne suis pas si nerveux que vous, je vais me coucher. »
»
On ne pouvait pas remercier mon père; on l’eût agacé par Il n’en fut pas ainsi. Mon père me refusait constamment ce qu’il appelait des sensibleries. Je restai sans oser faire un des permissions qui m’avaient été consenties dans les pactes mouvement; il était encore devant nous, grand, dans sa robe Marcel Proust –
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Din Search OverTime de nuit blanche sous le cachemire de l’Inde violet et rose cette grâce, la conduite de mon père à mon égard gardait ce qu’il nouait autour de sa tête depuis qu’il avait des névralgies, quelque chose d’arbitraire et d’immérité qui la caractérisait, avec le geste d’Abraham dans la gravure d’après Benozzo et qui tenait à ce que généralement elle résultait plutôt de Gozzoli que m’avait donnée M. Swann, disant à Sarah qu’elle convenances fortuites que d’un plan prémédité. PeutHêtre a à se départir du côté d’Isaac. Il y a bien des années de cela.
même que ce que j’appelais sa sévérité, quand il m’envoyait La muraille de l’escalier où je vis monter le reflet de sa me coucher, méritait moins ce nom que celle de ma mère ou bougie n’existe plus depuis longtemps. En moi aussi bien des de ma grand’mère, car sa nature, plus différente en certains choses ont été détruites que je croyais devoir durer toujours, points de la mienne que n’était la leur, n’avait probablement et de nouvelles se sont édifiées donnant naissance à des pas deviné jusqu’ici combien j’étais malheureux tous les peines et à des joies nouvelles que je n’aurais pu prévoir soirs, ce que ma mère et ma grand’mère savaient bien; mais alors, de même que les anciennes me sont devenues difficiles elles m’aimaient assez pour ne pas consentir à m’épargner de à comprendre. Il y a bien longtemps aussi que mon père a la souffrance, elles voulaient m’apprendre à la dominer afin cessé de pouvoir dire à maman: « Va avec le petit. » La de diminuer ma sensibilité nerveuse et fortifier ma volonté.
possibilité de telles heures ne renaîtra jamais pour moi. Mais Pour mon père, dont l’affection pour moi était d’une autre depuis peu de temps, je recommence à très bien percevoir si sorte, je ne sais pas s’il aurait eu ce courage: pour une fois où je prête l’oreille, les sanglots que j’eus la force de contenir il venait de comprendre que j’avais du chagrin, il avait dit à devant mon père et qui n’éclatèrent que quand je me ma mère: « Va donc le consoler. » Maman resta cette nuitHlà retrouvai seul avec maman. En réalité ils n’ont jamais cessé; dans ma chambre et, comme pour ne gâter d’aucun remords et c’est seulement parce que la vie se tait maintenant ces heures si différentes de ce que j’avais eu le droit davantage autour de moi que je les entends de nouveau, d’espérer, quand Françoise, comprenant qu’il se passait comme ces cloches de couvents que couvrent si bien les quelque chose d’extraordinaire en voyant maman assise près bruits de la ville pendant le jour qu’on les croirait arrêtées de moi, qui me tenait la main et me laissait pleurer sans me mais qui se remettent à sonner dans le silence du soir.
gronder, lui demanda: « Mais Madame, qu’a donc Monsieur à pleurer ainsi? » maman lui répondit: « Mais il ne sait pas luiH
Maman passa cette nuitHlà dans ma chambre; au moment même, Françoise, il est énervé; préparezHmoi vite le grand lit où je venais de commettre une faute telle que je m’attendais et montez vous coucher. » Ainsi, pour la première fois, ma à être obligé de quitter la maison, mes parents m’accordaient tristesse n’était plus considérée comme une faute punissable plus que je n’eusse jamais obtenu d’eux comme récompense mais comme un mal involontaire qu’on venait de reconnaître d’une belle action. Même à l’heure où elle se manifestait par officiellement, comme un état nerveux dont je n’étais pas Marcel Proust –
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Din Search OverTime responsable; j’avais le soulagement de n’avoir plus à mêler de que cette douceur nouvelle que n’avait pas connue mon scrupules à l’amertume de mes larmes, je pouvais pleurer enfance; il me semblait que je venais d’une main impie et sans péché. Je n’étais pas non plus médiocrement fier visHàH
secrète de tracer dans son âme une première ride et d’y faire vis de Françoise de ce retour des choses humaines, qui, une apparaître un premier cheveu blanc. Cette pensée redoubla heure après que maman avait refusé de monter dans ma mes sanglots, et alors je vis maman, qui jamais ne se laissait chambre et m’avait fait dédaigneusement répondre que je aller à aucun attendrissement avec moi, être tout d’un coup devrais dormir, m’élevait à la dignité de grande personne et gagnée par le mien et essayer de retenir une envie de pleurer.
m’avait fait atteindre tout d’un coup à une sorte de puberté Comme elle sentit que je m’en étais aperçu, elle me dit en du chagrin, d’émancipation des larmes. J’aurais dû être riant: « Voilà mon petit jaunet, mon petit serin, qui va rendre heureux: je ne l’étais pas. Il me semblait que ma mère venait sa maman aussi bêtasse que lui, pour peu que cela continue.
de me faire une première concession qui devait lui être Voyons, puisque tu n’as pas sommeil ni ta maman non plus, douloureuse, que c’était une première abdication de sa part ne restons pas à nous énerver, faisons quelque chose, devant l’idéal qu’elle avait conçu pour moi, et que pour la prenons un de tes livres. » Mais je n’en avais pas là. « EstHce première fois, elle, si courageuse, s’avouait vaincue. Il me que tu aurais moins de plaisir si je sortais déjà les livres que semblait que si je venais de remporter une victoire c’était ta grand’mère doit te donner pour ta fête? Pense bien: tu ne contre elle, que j’avais réussi comme auraient pu faire la seras pas déçu de ne rien avoir aprèsHdemain? » J’étais au maladie, des chagrins, ou l’âge, à détendre sa volonté, à faire contraire enchanté et maman alla chercher un paquet de fléchir sa raison, et que cette soirée commençait une ère, livres dont je ne pus deviner, à travers le papier qui les resterait comme une triste date. Si j’avais osé maintenant, enveloppait, que la taille courte et large, mais qui, sous ce j’aurais dit à maman: « Non je ne veux pas, ne couche pas ici.
premier aspect, pourtant sommaire et voilé, éclipsaient déjà
» Mais je connaissais la sagesse pratique, réaliste comme on la boîte à couleurs du Jour de l’An et les vers à soie de l’an dirait aujourd’hui, qui tempérait en elle la nature ardemment dernier. C’était la Mare au Diable, François le Champi, la idéaliste de ma grand’mère, et je savais que, maintenant que Petite Fadette et les Maîtres Sonneurs. Ma grand’mère, aiHje le mal était fait, elle aimerait mieux m’en laisser du moins su depuis, avait d’abord choisi les poésies de Musset, un goûter le plaisir calmant et ne pas déranger mon père. Certes, volume de Rousseau et Indiana; car si elle jugeait les lectures le beau visage de ma mère brillait encore de jeunesse ce soirH
futiles aussi malsaines que les bonbons et les pâtisseries, elles là où elle me tenait si doucement les mains et cherchait à ne pensait pas que les grands souffles du génie eussent sur arrêter mes larmes; mais justement il me semblait que cela l’esprit même d’un enfant une influence plus dangereuse et n’aurait pas dû être, sa colère eût été moins triste pour moi moins vivifiante que sur son corps le grand air et le vent du Marcel Proust –
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Din Search OverTime large. Mais mon père l’ayant presque traitée de folle en plus grande partie, de l’art encore, d’y introduire comme apprenant les livres qu’elle voulait me donner, elle était plusieurs « épaisseurs » d’art: au lieu de photographies de la retournée elleHmême à JouyHleHVicomte chez le libraire pour Cathédrale de Chartres, des Grandes Eaux de SaintHCloud, que je ne risquasse pas de ne pas avoir mon cadeau (c’était du Vésuve, elle se renseignait auprès de Swann si quelque un jour brûlant et elle était rentrée si souffrante que le grand peintre ne les avait pas représentés, et préférait me médecin avait averti ma mère de ne pas la laisser se fatiguer donner des photographies de la Cathédrale de Chartres par ainsi) et elle s’était rabattue sur les quatre romans champêtres Corot, des Grandes Eaux de SaintHCloud par Hubert Robert, de George Sand. « Ma fille, disaitHelle à maman, je ne du Vésuve par Turner, ce qui faisait un degré d’art de plus.
pourrais me décider à donner à cet enfant quelque chose de Mais si le photographe avait été écarté de la représentation mal écrit. »
du chefHd’œuvre ou de la nature et remplacé par un grand artiste, il reprenait ses droits pour reproduire cette En réalité, elle ne se résignait jamais à rien acheter dont on interprétation même. Arrivée à l’échéance de la vulgarité, ma ne pût tirer un profit intellectuel, et surtout celui que nous grand’mère tâchait de la reculer encore. Elle demandait à procurent les belles choses en nous apprenant à chercher Swann si l’œuvre n’avait pas été gravée, préférant, quand notre plaisir ailleurs que dans les satisfactions du bienHêtre et c’était possible, des gravures anciennes et ayant encore un de la vanité. Même quand elle avait à faire à quelqu’un un intérêt au delà d’ellesHmêmes, par exemple celles qui cadeau dit utile, quand elle avait à donner un fauteuil, des représentent un chefHd’œuvre dans un état où nous ne couverts, une canne, elle les cherchait « anciens », comme si pouvons plus le voir aujourd’hui (comme la gravure de la leur longue désuétude ayant effacé leur caractère d’utilité, ils Cène de Léonard avant sa dégradation, par Morgan). Il faut paraissaient plutôt disposés pour nous raconter la vie des dire que les résultats de cette manière de comprendre l’art de hommes d’autrefois que pour servir aux besoins de la nôtre.
faire un cadeau ne furent pas toujours très brillants. L’idée Elle eût aimé que j’eusse dans ma chambre des que je pris de Venise d’après un dessin du Titien qui est photographies des monuments ou des paysages les plus censé avoir pour fond la lagune, était certainement beaucoup beaux. Mais au moment d’en faire l’emplette, et bien que la moins exacte que celle que m’eussent donnée de simples chose représentée eût une valeur esthétique, elle trouvait que photographies. On ne pouvait plus faire le compte à la la vulgarité, l’utilité reprenaient trop vite leur place dans le maison, quand ma grand’tante voulait dresser un réquisitoire mode mécanique de représentation, la photographie. Elle contre ma grand’mère, des fauteuils offerts par elle à de essayait de ruser et, sinon d’éliminer entièrement la banalité jeunes fiancés ou à de vieux époux, qui, à la première commerciale, du moins de la réduire, d’y substituer, pour la tentative qu’on avait faite pour s’en servir, s’étaient Marcel Proust –
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Din Search OverTime immédiatement effondrés sous le poids d’un des éveillent l’inquiétude et la mélancolie, et qu’un lecteur un peu destinataires. Mais ma grand’mère aurait cru mesquin de trop instruit reconnaît pour communs à beaucoup de romans, me s’occuper de la solidité d’une boiserie où se distinguaient paraissaient simples – à moi qui considérais un livre nouveau encore une fleurette, un sourire, quelquefois une belle non comme une chose ayant beaucoup de semblables, mais imagination du passé. Même ce qui dans ces meubles comme une personne unique, n’ayant de raison d’exister répondait à un besoin, comme c’était d’une façon à laquelle qu’en soi – une émanation troublante de l’essence nous ne sommes plus habitués, la charmait comme les particulière à François le Champi. Sous ces événements si vieilles manières de dire où nous voyons une métaphore, journaliers, ces choses si communes, ces mots si courants, je effacée, dans notre moderne langage, par l’usure de sentais comme une intonation, une accentuation étrange.
l’habitude. Or, justement, les romans champêtres de George L’action s’engagea; elle me parut d’autant plus obscure que Sand qu’elle me donnait pour ma fête, étaient pleins, ainsi dans ce tempsHlà, quand je lisais, je rêvassais souvent, qu’un mobilier ancien, d’expressions tombées en désuétude pendant des pages entières, à tout autre chose. Et aux et redevenues imagées, comme on n’en trouve plus qu’à la lacunes que cette distraction laissait dans le récit, s’ajoutait, campagne. Et ma grand’mère les avait achetés de préférence quand c’était maman qui me lisait à haute voix, qu’elle à d’autres, comme elle eût loué plus volontiers une propriété passait toutes les scènes d’amour. Aussi tous les où il y aurait eu un pigeonnier gothique, ou quelqu’une de changements bizarres qui se produisent dans l’attitude ces vieilles choses qui exercent sur l’esprit une heureuse respective de la meunière et de l’enfant et qui ne trouvent influence en lui donnant la nostalgie d’impossibles voyages leur explication que dans les progrès d’un amour naissant me dans le temps.
paraissaient empreints d’un profond mystère dont je me figurais volontiers que la source devait être dans ce nom Maman s’assit à côté de mon lit; elle avait pris François le inconnu et si doux de « Champi » qui mettait sur l’enfant, qui Champi à qui sa couverture rougeâtre et son titre le portait sans que je susse pourquoi, sa couleur vive, incompréhensible donnaient pour moi une personnalité empourprée et charmante. Si ma mère était une lectrice distincte et un attrait mystérieux. Je n’avais jamais lu encore infidèle, c’était aussi, pour les ouvrages où elle trouvait de vrais romans. J’avais entendu dire que George Sand était l’accent d’un sentiment vrai, une lectrice admirable par le le type du romancier. Cela me disposait déjà à imaginer dans respect et la simplicité de l’interprétation, par la beauté et la François le Champi quelque chose d’indéfinissable et de douceur du son. Même dans la vie, quand c’étaient des êtres délicieux. Les procédés de narration destinés à exciter la et non des œuvres d’art qui excitaient ainsi son curiosité ou l’attendrissement, certaines façons de dire qui attendrissement ou son admiration, c’était touchant de voir Marcel Proust –
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Din Search OverTime avec quelle déférence elle écartait de sa voix, de son geste, de Mes remords étaient calmés, je me laissais aller à la ses propos, tel éclat de gaîté qui eût pu faire mal à cette mère douceur de cette nuit où j’avais ma mère auprès de moi. Je qui avait autrefois perdu un enfant, tel rappel de fête, savais qu’une telle nuit ne pourrait se renouveler; que le plus d’anniversaire, qui aurait pu faire penser ce vieillard à son grand désir que j’eusse au monde, garder ma mère dans ma grand âge, tel propos de ménage qui aurait paru fastidieux à chambre pendant ces tristes heures nocturnes, était trop en ce jeune savant. De même, quand elle lisait la prose de opposition avec les nécessités de la vie et le vœu de tous, George Sand, qui respire toujours cette bonté, cette pour que l’accomplissement qu’on lui avait accordé ce soir distinction morale que maman avait appris de ma grand’mère pût être autre chose que factice et exceptionnel. Demain mes à tenir pour supérieures à tout dans la vie, et que je ne devais angoisses reprendraient et maman ne resterait pas là. Mais lui apprendre que bien plus tard à ne pas tenir également quand mes angoisses étaient calmées, je ne les comprenais pour supérieures à tout dans les livres, attentive à bannir de plus; puis demain soir était encore lointain; je me disais que sa voix toute petitesse, toute affectation qui eût pu empêcher j’aurais le temps d’aviser, bien que ce tempsHlà ne pût le flot puissant d’y être reçu, elle fournissait toute la m’apporter aucun pouvoir de plus, puisqu’il s’agissait de tendresse naturelle, toute l’ample douceur qu’elles choses qui ne dépendaient pas de ma volonté et que seul me réclamaient à ces phrases qui semblaient écrites pour sa voix faisait paraître plus évitables l’intervalle qui les séparait et qui pour ainsi dire tenaient tout entières dans le registre de encore de moi.
sa sensibilité. Elle retrouvait pour les attaquer dans le ton C’est ainsi que, pendant longtemps, quand, réveillé la nuit, qu’il faut l’accent cordial qui leur préexiste et les dicta, mais je me ressouvenais de Combray, je n’en revis jamais que que les mots n’indiquent pas; grâce à lui elle amortissait au cette sorte de pan lumineux, découpé au milieu d’indistinctes passage toute crudité dans les temps des verbes, donnait à ténèbres, pareil à ceux que l’embrasement d’un feu de l’imparfait et au passé défini la douceur qu’il y a dans la bengale ou quelque projection électrique éclairent et bonté, la mélancolie qu’il y a dans la tendresse, dirigeait la sectionnent dans un édifice dont les autres parties restent phrase qui finissait vers celle qui allait commencer, tantôt plongées dans la nuit: à la base assez large, le petit salon, la pressant, tantôt ralentissant la marche des syllabes pour les salle à manger, l’amorce de l’allée obscure par où arriverait faire entrer, quoique leurs quantités fussent différentes, dans M. Swann, l’auteur inconscient de mes tristesses, le vestibule un rythme uniforme, elle insufflait à cette prose si commune où je m’acheminais vers la première marche de l’escalier, si une sorte de vie sentimentale et continue.
cruel à monter, qui constituait à lui seul le tronc fort étroit de cette pyramide irrégulière; et, au faîte, ma chambre à coucher Marcel Proust –
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Din Search OverTime avec le petit couloir à porte vitrée pour l’entrée de maman; avons reconnues, l’enchantement est brisé. Délivrées par en un mot, toujours vu à la même heure, isolé de tout ce nous, elles ont vaincu la mort et reviennent vivre avec nous.
qu’il pouvait y avoir autour, se détachant seul sur l’obscurité, Il en est ainsi de notre passé. C’est peine perdue que nous le décor strictement nécessaire (comme celui qu’on voit cherchions à l’évoquer, tous les efforts de notre intelligence indiqué en tête des vieilles pièces pour les représentations en sont inutiles. Il est caché hors de son domaine et de sa province) au drame de mon déshabillage; comme si portée, en quelque objet matériel (en la sensation que nous Combray n’avait consisté qu’en deux étages reliés par un donnerait cet objet matériel), que nous ne soupçonnons pas.
mince escalier et comme s’il n’y avait jamais été que sept Cet objet, il dépend du hasard que nous le rencontrions heures du soir. À vrai dire, j’aurais pu répondre à qui m’eût avant de mourir, ou que nous ne le rencontrions pas.
interrogé que Combray comprenait encore autre chose et existait à d’autres heures. Mais comme ce que je m’en serais Il y avait déjà bien des années que, de Combray, tout ce rappelé m’eût été fourni seulement par la mémoire qui n’était pas le théâtre et la drame de mon coucher volontaire, la mémoire de l’intelligence, et comme les n’existait plus pour moi, quand un jour d’hiver, comme je renseignements qu’elle donne sur le passé ne conservent rien rentrais à la maison, ma mère, voyant que j’avais froid, me de lui, je n’aurais jamais eu envie de songer à ce reste de proposa de me faire prendre, contre mon habitude, un peu Combray. Tout cela était en réalité mort pour moi.
de thé. Je refusai d’abord et, je ne sais pourquoi, me ravisai.
Elle envoya chercher un de ces gâteaux courts et dodus Mort à jamais? C’était possible.
appelés Petites Madeleines qui semblent avoir été moulés Il y a beaucoup de hasard en tout ceci, et un second dans la valve rainurée d’une coquille de SaintHJacques. Et hasard, celui de notre mort, souvent ne nous permet pas bientôt, machinalement, accablé par la morne journée et la d’attendre longtemps les faveurs du premier.
perspective d’un triste lendemain, je portai à mes lèvres une cuillerée du thé où j’avais laissé s’amollir un morceau de Je trouve très raisonnable la croyance celtique que les âmes madeleine. Mais à l’instant même où la gorgée mêlée des de ceux que nous avons perdus sont captives dans quelque miettes du gâteau toucha mon palais, je tressaillis, attentif à être inférieur, dans une bête, un végétal, une chose inanimée, ce qui se passait d’extraordinaire en moi. Un plaisir délicieux perdues en effet pour nous jusqu’au jour, qui pour beaucoup m’avait envahi, isolé, sans la notion de sa cause. Il m’avait ne vient jamais, où nous nous trouvons passer près de aussitôt rendu les vicissitudes de la vie indifférentes, ses l’arbre, entrer en possession de l’objet qui est leur prison.
désastres inoffensifs, sa brièveté illusoire, de la même façon Alors elles tressaillent, nous appellent, et sitôt que nous les qu’opère l’amour, en me remplissant d’une essence Marcel Proust –
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Din Search OverTime précieuse: ou plutôt cette essence n’était pas en moi, elle était cuillerée de thé. Je retrouve le même état, sans une clarté moi. J’avais cessé de me sentir médiocre, contingent, mortel.
nouvelle. Je demande à mon esprit un effort de plus, de D’où avait pu me venir cette puissante joie? Je sentais qu’elle ramener encore une fois la sensation qui s’enfuit. Et, pour était liée au goût du thé et du gâteau, mais qu’elle le dépassait que rien ne brise l’élan dont il va tâcher de la ressaisir, infiniment, ne devait pas être de même nature. D’où venaitH
j’écarte tout obstacle, toute idée étrangère, j’abrite mes elle? Que signifiaitHelle? Où l’appréhender? Je bois une oreilles et mon attention contre les bruits de la chambre seconde gorgée où je ne trouve rien de plus que dans la voisine. Mais sentant mon esprit qui se fatigue sans réussir, première, une troisième qui m’apporte un peu moins que la je le force au contraire à prendre cette distraction que je lui seconde. Il est temps que je m’arrête, la vertu du breuvage refusais, à penser à autre chose, à se refaire avant une semble diminuer. Il est clair que la vérité que je cherche n’est tentative suprême. Puis une deuxième fois, je fais le vide pas en lui, mais en moi. Il l’y a éveillée, mais ne la connaît devant lui, je remets en face de lui la saveur encore récente pas, et ne peut que répéter indéfiniment, avec de moins en de cette première gorgée et je sens tressaillir en moi quelque moins de force, ce même témoignage que je ne sais pas chose qui se déplace, voudrait s’élever, quelque chose qu’on interpréter et que je veux au moins pouvoir lui redemander aurait désancré, à une grande profondeur; je ne sais ce que et retrouver intact à ma disposition, tout à l’heure, pour un c’est, mais cela monte lentement; j’éprouve la résistance et éclaircissement décisif. Je pose la tasse et me tourne vers j’entends la rumeur des distances traversées.
mon esprit. C’est à lui de trouver la vérité. Mais comment?
Certes, ce qui palpite ainsi au fond de moi, ce doit être Grave incertitude, toutes les fois que l’esprit se sent dépassé l’image, le souvenir visuel, qui, lié à cette saveur, tente de la par luiHmême; quand lui, le chercheur, est tout ensemble le suivre jusqu’à moi. Mais il se débat trop loin, trop pays obscur où il doit chercher et où tout son bagage ne lui confusément; à peine si je perçois le reflet neutre où se sera de rien. Chercher? pas seulement: créer. Il est en face de confond l’insaisissable tourbillon des couleurs remuées; mais quelque chose qui n’est pas encore et que seul il peut réaliser, je ne puis distinguer la forme, lui demander comme au seul puis faire entrer dans sa lumière.
interprète possible, de me traduire le témoignage de sa Et je recommence à me demander quel pouvait être cet contemporaine, de son inséparable compagne, la saveur, lui état inconnu, qui n’apportait aucune preuve logique, mais demander
de
m’apprendre
de
quelle
circonstance
l’évidence de sa félicité, de sa réalité devant laquelle les autres particulière, de quelle époque du passé il s’agit.
s’évanouissaient. Je veux essayer de le faire réapparaître. Je ArriveraHtHil jusqu’à la surface de ma claire conscience, ce rétrograde par la pensée au moment où je pris la première souvenir, l’instant ancien que l’attraction d’un instant Marcel Proust –
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Din Search OverTime identique est venue de si loin solliciter, émouvoir, soulever persistantes, plus fidèles, l’odeur et la saveur restent encore tout au fond de moi? Je ne sais. Maintenant je ne sens plus longtemps, comme des âmes, à se rappeler, à attendre, à rien, il est arrêté, redescendu peutHêtre; qui sait s’il remontera espérer, sur la ruine de tout le reste, à porter sans fléchir, sur jamais de sa nuit? Dix fois il me faut recommencer, me leur gouttelette presque impalpable, l’édifice immense du pencher vers lui. Et chaque fois la lâcheté qui nous détourne souvenir.
de toute tâche difficile, de toute œuvre importante, m’a Et dès que j’eus reconnu le goût du morceau de madeleine conseillé de laisser cela, de boire mon thé en pensant trempé dans le tilleul que me donnait ma tante (quoique je simplement à mes ennuis d’aujourd’hui, à mes désirs de ne susse pas encore et dusse remettre à bien plus tard de demain qui se laissent remâcher sans peine.
découvrir pourquoi ce souvenir me rendait si heureux), Et tout d’un coup le souvenir m’est apparu. Ce goût, aussitôt la vieille maison grise sur la rue, où était sa chambre, c’était celui du petit morceau de madeleine que le dimanche vint comme un décor de théâtre s’appliquer au petit pavillon matin à Combray (parce que ce jourHlà je ne sortais pas avant donnant sur le jardin, qu’on avait construit pour mes parents l’heure de la messe), quand j’allais lui dire bonjour dans sa sur ses derrières (ce pan tronqué que seul j’avais revu jusqueH
chambre, ma tante Léonie m’offrait après l’avoir trempé là); et avec la maison, la ville, la Place où on m’envoyait dans son infusion de thé ou de tilleul. La vue de la petite avant déjeuner, les rues où j’allais faire des courses depuis le madeleine ne m’avait rien rappelé avant que je n’y eusse matin jusqu’au soir et par tous les temps, les chemins qu’on goûté; peutHêtre parce que, en ayant souvent aperçu depuis, prenait si le temps était beau. Et comme dans ce jeu où les sans en manger, sur les tablettes des pâtissiers, leur image Japonais s’amusent à tremper dans un bol de porcelaine avait quitté ces jours de Combray pour se lier à d’autres plus rempli d’eau de petits morceaux de papier jusqueHlà récents; peutHêtre parce que, de ces souvenirs abandonnés si indistincts qui, à peine y sontHils plongés s’étirent, se longtemps hors de la mémoire, rien ne survivait, tout s’était contournent, se colorent, se différencient, deviennent des désagrégé; les formes – et celle aussi du petit coquillage de fleurs, des maisons, des personnages consistants et pâtisserie, si grassement sensuel sous son plissage sévère et reconnaissables, de même maintenant toutes les fleurs de dévot – s’étaient abolies, ou, ensommeillées, avaient perdu la notre jardin et celles du parc de M. Swann, et les nymphéas force d’expansion qui leur eût permis de rejoindre la de la Vivonne, et les bonnes gens du village et leurs petits conscience. Mais, quand d’un passé ancien rien ne subsiste, logis et l’église et tout Combray et ses environs, tout cela qui après la mort des êtres, après la destruction des choses, prend forme et solidité, est sorti, ville et jardins, de ma tasse seules, plus frêles mais plus vivaces, plus immatérielles, plus de thé.
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une chambre rue de l’Oiseau – à la vieille hôtellerie de l’Oiseau Flesché, des soupiraux de laquelle montait une Combray de loin, à dix lieues à la ronde, vu du chemin de odeur de cuisine qui s’élève encore par moments en moi fer quand nous y arrivions la dernière semaine avant Pâques, aussi intermittente et aussi chaude – serait une entrée en ce n’était qu’une église résumant la ville, la représentant, contact avec l’AuHdelà plus merveilleusement surnaturelle parlant d’elle et pour elle aux lointains, et, quand on que de faire la connaissance de Golo et de causer avec approchait, tenant serrés autour de sa haute mante sombre, Geneviève de Brabant.
en plein champ, contre le vent, comme une pastoure ses brebis, les dos laineux et gris des maisons rassemblées qu’un La cousine de mon grandHpère – ma grand’tante – chez qui reste de remparts du moyen âge cernait çà et là d’un trait nous habitions, était la mère de cette tante Léonie qui, depuis aussi parfaitement circulaire qu’une petite ville dans un la mort de son mari, mon oncle Octave, n’avait plus voulu tableau de primitif. À l’habiter, Combray était un peu triste, quitter, d’abord Combray, puis à Combray sa maison, puis sa comme ses rues dont les maisons construites en pierres chambre, puis son lit et ne « descendait » plus, toujours noirâtres du pays, précédées de degrés extérieurs, coiffées de couchée dans un état incertain de chagrin, de débilité pignons qui rabattaient l’ombre devant elles, étaient assez physique, de maladie, d’idée fixe et de dévotion. Son obscures pour qu’il fallût dès que le jour commençait à appartement particulier donnait sur la rue SaintHJacques qui tomber relever les rideaux dans les « salles »; des rues aux aboutissait beaucoup plus loin au GrandHPré (par opposition graves noms de saints (desquels plusieurs se rattachaient à au PetitHPré, verdoyant au milieu de la ville, entre trois rues), l’histoire des premiers seigneurs de Combray): rue SaintH
et qui, unie, grisâtre, avec les trois hautes marches de grès Hilaire, rue SaintHJacques où était la maison de ma tante, rue presque devant chaque porte, semblait comme un défilé SainteHHildegarde, où donnait la grille, et rue du SaintHEsprit pratiqué par un tailleur d’images gothiques à même la pierre sur laquelle s’ouvrait la petite porte latérale de son jardin; et où il eût sculpté une crèche ou un calvaire. Ma tante ces rues de Combray existent dans une partie de ma n’habitait plus effectivement que deux chambres contiguës, mémoire si reculée, peinte de couleurs si différentes de celles restant l’aprèsHmidi dans l’une pendant qu’on aérait l’autre.
qui maintenant revêtent pour moi le monde, qu’en vérité C’étaient de ces chambres de province qui – de même qu’en elles me paraissent toutes, et l’église qui les dominait sur la certains pays des parties entières de l’air ou de la mer sont Place, plus irréelles encore que les projections de la lanterne illuminées ou parfumées par des myriades de protozoaires magique; et qu’à certains moments, il me semble que que nous ne voyons pas – nous enchantent des mille odeurs pouvoir encore traverser la rue SaintHHilaire, pouvoir louer qu’y dégagent les vertus, la sagesse, les habitudes, toute une Marcel Proust –
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Din Search OverTime vie secrète, invisible, surabondante et morale que les appétissantes odeurs dont l’air de la chambre était tout l’atmosphère y tient en suspens; odeurs naturelles encore, grumeleux et qu’avait déjà fait travailler et « lever » la certes, et couleur du temps comme celles de la campagne fraîcheur humide et ensoleillée du matin, il les feuilletait, les voisine, mais déjà casanières, humaines et renfermées, gelée dorait, les godait, les boursouflait, en faisant un invisible et exquise, industrieuse et limpide de tous les fruits de l’année palpable gâteau provincial, un immense « chausson » où, à qui ont quitté le verger pour l’armoire; saisonnières, mais peine goûtés les arômes plus croustillants, plus fins, plus mobilières et domestiques, corrigeant le piquant de la gelée réputés, mais plus secs aussi du placard, de la commode, du blanche par la douceur du pain chaud, oisives et ponctuelles papier à ramages, je revenais toujours avec une convoitise comme une horloge de village, flâneuses et rangées, inavouée m’engluer dans l’odeur médiane, poisseuse, fade, insoucieuses et prévoyantes, lingères, matinales, dévotes, indigeste et fruitée du couvreHlit à fleurs.
heureuses d’une paix qui n’apporte qu’un surcroît d’anxiété Dans la chambre voisine, j’entendais ma tante qui causait et d’un prosaïsme qui sert de grand réservoir de poésie à toute seule à miHvoix. Elle ne parlait jamais qu’assez bas celui qui la traverse sans y avoir vécu. L’air y était saturé de la parce qu’elle croyait avoir dans la tête quelque chose de cassé fine fleur d’un silence si nourricier, si succulent que je ne m’y et de flottant qu’elle eût déplacé en parlant trop fort, mais avançais qu’avec une sorte de gourmandise, surtout par ces elle ne restait jamais longtemps, même seule, sans dire premiers matins encore froids de la semaine de Pâques où je quelque chose, parce qu’elle croyait que c’était salutaire pour le goûtais mieux parce que je venais seulement d’arriver à sa gorge et qu’en empêchant le sang de s’y arrêter, cela Combray: avant que j’entrasse souhaiter le bonjour à ma rendrait moins fréquents les étouffements et les angoisses tante on me faisait attendre un instant dans la première pièce dont elle souffrait; puis, dans l’inertie absolue où elle vivait, où le soleil, d’hiver encore, était venu se mettre au chaud elle prêtait à ses moindres sensations une importance devant le feu, déjà allumé entre les deux briques et qui extraordinaire; elle les douait d’une motilité qui lui rendait badigeonnait toute la chambre d’une odeur de suie, en faisait difficile de les garder pour elle, et à défaut de confident à qui comme un de ces grands « devants de four » de campagne, les communiquer, elle se les annonçait à elleHmême, en un ou de ces manteaux de cheminée de châteaux, sous lesquels perpétuel monologue qui était sa seule forme d’activité.
on souhaite que se déclarent dehors la pluie, la neige, même Malheureusement, ayant pris l’habitude de penser tout haut, quelque catastrophe diluvienne pour ajouter au confort de la elle ne faisait pas toujours attention à ce qu’il n’y eût réclusion la poésie de l’hivernage; je faisais quelques pas du personne dans la chambre voisine, et je l’entendais souvent prieHDieu aux fauteuils en velours frappé, toujours revêtus se dire à elleHmême: « Il faut que je me rappelle bien que je d’un appuiHtête au crochet; et le feu cuisant comme une pâte Marcel Proust –
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Din Search OverTime n’ai pas dormi » (car ne jamais dormir était sa grande doubles, mais ellesHmêmes et qu’elles avaient vieilli. Et prétention dont notre langage à tous gardait le respect et la chaque caractère nouveau n’y étant que la métamorphose trace: le matin Françoise ne venait pas « l’éveiller », mais «
d’un caractère ancien, dans de petites boules grises je entrait » chez elle; quand ma tante voulait faire un somme reconnaissais les boutons verts qui ne sont pas venus à dans la journée, on disait qu’elle voulait « réfléchir » ou «
terme; mais surtout l’éclat rose, lunaire et doux qui faisait se reposer »; et quand il lui arrivait de s’oublier en causant détacher les fleurs dans la forêt fragile des tiges où elles jusqu’à dire: « ce qui m’a réveillée » ou « j’ai rêvé que », elle étaient suspendues comme de petites roses d’or – signe, rougissait et se reprenait au plus vite).
comme la lueur qui révèle encore sur une muraille la place d’une fresque effacée, de la différence entre les parties de Au bout d’un moment, j’entrais l’embrasser; Françoise l’arbre qui avaient été « en couleur » et celles qui ne l’avaient faisait infuser son thé; ou, si ma tante se sentait agitée, elle pas été – me montrait que ces pétales étaient bien ceux qui demandait à la place sa tisane, et c’étais moi qui étais chargé avant de fleurir le sac de pharmacie avaient embaumé les de faire tomber du sac de pharmacie dans une assiette la soirs de printemps. Cette flamme rose de cierge, c’était leur quantité de tilleul qu’il fallait mettre ensuite dans l’eau couleur encore, mais à demi éteinte et assoupie dans cette vie bouillante. Le desséchement des tiges les avait incurvées en diminuée qu’était la leur maintenant et qui est comme le un capricieux treillage dans les entrelacs duquel s’ouvraient crépuscule des fleurs. Bientôt ma tante pouvait tremper dans les fleurs pâles, comme si un peintre les eût arrangées, les eût l’infusion bouillante dont elle savourait le goût de feuille fait poser de la façon la plus ornementale. Les feuilles, ayant morte ou de fleur fanée une petite madeleine dont elle me perdu ou changé leur aspect, avaient l’air des choses les plus tendait un morceau quand il était suffisamment amolli.
disparates, d’une aile transparente de mouche, de l’envers blanc d’une étiquette, d’un pétale de rose, mais qui eussent D’un côté de son lit était une grande commode jaune en été empilées, concassées ou tressées comme dans la bois de citronnier et une table qui tenait à la fois de l’officine confection d’un nid. Mille petits détails inutiles – charmante et du maîtreHautel, où, auHdessus d’une statuette de la Vierge prodigalité du pharmacien – qu’on eût supprimés dans une et d’une bouteille de VichyHCélestins, on trouvait des livres préparation factice, me donnaient, comme un livre où on de messe et des ordonnances de médicaments, tous ce qu’il s’émerveille de rencontrer le nom d’une personne de fallait pour suivre de son lit les offices et son régime, pour ne connaissance, le plaisir de comprendre que c’était bien des manquer l’heure ni de la pepsine, ni des Vêpres. De l’autre tiges de vrais tilleuls, comme ceux que je voyais avenue de la côté, son lit longeait la fenêtre, elle avait la rue sous les yeux Gare, modifiées, justement parce que c’étaient non des et y lisait du matin au soir, pour se désennuyer, à la façon des Marcel Proust –
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Din Search OverTime princes persans, la chronique quotidienne mais immémoriale C’était Françoise, immobile et debout dans l’encadrement de de Combray, qu’elle commentait ensuite avec Françoise.
la petite porte du corridor comme une statue de sainte dans sa niche. Quand on était un peu habitué à ces ténèbres de Je n’étais pas avec ma tante depuis cinq minutes, qu’elle chapelle, on distinguait sur son visage l’amour désintéressé me renvoyait par peur que je la fatigue. Elle tendait à mes de l’humanité, le respect attendri pour les hautes classes lèvres son triste front pâle et fade sur lequel, à cette heure qu’exaltait dans les meilleures régions de son cœur l’espoir matinale, elle n’avait pas encore arrangé ses faux cheveux, et des étrennes. Maman me pinçait le bras avec violence et où les vertèbres transparaissaient comme les pointes d’une disait d’une voix forte: « Bonjour Françoise. » À ce signal couronne d’épines ou les grains d’un rosaire, et elle me disait: mes doigts s’ouvraient et je lâchais la pièce qui trouvait pour
« Allons, mon pauvre enfant, vaHt’en, va te préparer pour la la recevoir une main confuse, mais tendue. Mais depuis que messe; et si en bas tu rencontres Françoise, disHlui de ne pas nous allions à Combray je ne connaissais personne mieux s’amuser trop longtemps avec vous, qu’elle monte bientôt que Françoise; nous étions ses préférés, elle avait pour nous, voir si je n’ai besoin de rien. »
au moins pendant les premières années, avec autant de Françoise, en effet, qui était depuis des années à son considération que pour ma tante, un goût plus vif, parce que service et ne se doutait pas alors qu’elle entrerait un jour tout nous ajoutions, au prestige de faire partie de la famille (elle à fait au nôtre, délaissait un peu ma tante pendant les mois avait pour les liens invisibles que noue entre les membres où nous étions là. Il y avait eu dans mon enfance, avant que d’une famille la circulation d’un même sang, autant de nous allions à Combray, quand ma tante Léonie passait respect qu’un tragique grec), le charme de n’être pas ses encore l’hiver à Paris chez sa mère, un temps où je maîtres habituels. Aussi, avec quelle joie elle nous recevait, connaissais si peu Françoise que, le 1er janvier, avant nous plaignant de n’avoir pas encore plus beau temps, le jour d’entrer chez ma grand’tante, ma mère me mettait dans la de notre arrivée, la veille de Pâques, où souvent il faisait un main une pièce de cinq francs et me disait: « Surtout ne te vent glacial, quand maman lui demandait des nouvelles de sa trompe pas de personne. Attends pour donner que tu fille et de ses neveux, si son petitHfils était gentil, ce qu’on m’entendes dire: « Bonjour Françoise »; en même temps je te comptait faire de lui, s’il ressemblerait à sa grand’mère.
toucherai légèrement le bras. » À peine arrivionsHnous dans Et quand il n’y avait plus de monde là, maman qui savait l’obscure antichambre de ma tante que nous apercevions que Françoise pleurait encore ses parents morts depuis des dans l’ombre, sous les tuyaux d’un bonnet éblouissant, raide années, lui parlait d’eux avec douceur, lui demandait mille et fragile comme s’il avait été de sucre filé, les remous détails sur ce qu’avait été leur vie.
concentriques d’un sourire de reconnaissance anticipé.
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Din Search OverTime Elle avait deviné que Françoise n’aimait pas son gendre et déplaisent le plus au premier abord à un étranger, peutHêtre qu’il lui gâtait le plaisir qu’elle avait à être avec sa fille, avec parce qu’ils ne prennent pas la peine de faire sa conquête et qui elle ne causait pas aussi librement quand il était là. Aussi, n’ont pas pour lui de prévenance, sachant très bien qu’ils quand Françoise allait les voir, à quelques lieues de Combray, n’ont aucun besoin de lui, qu’on cesserait de le recevoir maman lui disait en souriant: « N’estHce pas Françoise, si plutôt que de les renvoyer; et qui sont en revanche ceux à Julien a été obligé de s’absenter et si vous avez Marguerite à qui tiennent le plus les maîtres qui ont éprouvé leur capacités vous toute seule pour toute la journée, vous serez désolée, réelles, et ne se soucient pas de cet agrément superficiel, de mais vous vous ferez une raison? » Et Françoise disait en ce bavardage servile qui fait favorablement impression à un riant: « Madame sait tout; madame est pire que les rayons X
visiteur, mais qui recouvre souvent une inéducable nullité.
(elle disait x avec une difficulté affectée et un sourire pour se Quand Françoise, après avoir veillé à ce que mes parents railler elleHmême, ignorante, d’employer ce terme savant), eussent tout ce qu’il leur fallait, remontait une première fois qu’on a fait venir pour Mme Octave et qui voient ce que chez ma tante pour lui donner sa pepsine et lui demander ce vous avez dans le cœur », et disparaissait, confuse qu’on qu’elle prendrait pour déjeuner, il était bien rare qu’il ne s’occupât d’elle, peutHêtre pour qu’on ne la vît pas pleurer; fallût pas donner déjà son avis ou fournir des explications maman était la première personne qui lui donnât cette douce sur quelque événement d’importance: émotion de sentir que sa vie, ses bonheurs, ses chagrins de paysanne pouvaient présenter de l’intérêt, être un motif de
– Françoise, imaginezHvous que Mme Goupil est passée joie ou de tristesse pour une autre qu’elleHmême. Ma tante se plus d’un quart d’heure en retard pour aller chercher sa sœur; résignait à se priver un peu d’elle pendant notre séjour, pour peu qu’elle s’attarde sur son chemin cela ne me sachant combien ma mère appréciait le service de cette surprendrait point qu’elle arrive après l’élévation.
bonne si intelligente et active, qui était aussi belle dès cinq
– Hé! il n’y aurait rien d’étonnant, répondait Françoise.
heures du matin dans sa cuisine, sous son bonnet dont le tuyautage éclatant et fixe avait l’air d’être en biscuit, que pour
– Françoise, vous seriez venue cinq minutes plus tôt, vous aller à la grand’messe; qui faisait tout bien, travaillant comme auriez vu passer Mme Imbert qui tenait des asperges deux un cheval, qu’elle fût bien portante ou non, mais sans bruit, fois grosses comme celles de la mère Callot; tâchez donc de sans avoir l’air de rien faire, la seule des bonnes de ma tante savoir par sa bonne où elle les a eues. Vous qui, cette année, qui, quand maman demandait de l’eau chaude ou du café nous mettez des asperges à toutes les sauces, vous auriez pu noir, les apportait vraiment bouillants; elle était un de ces en prendre de pareilles pour nos voyageurs.
serviteurs qui, dans une maison, sont à la fois ceux qui Marcel Proust –
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– Il n’y aurait rien d’étonnant qu’elles viennent de chez M.
– Mais non, madame Octave, mon temps n’est pas si cher; le Curé, disait Françoise.
celui qui l’a fait ne nous l’a pas vendu. Je vas seulement voir si mon feu ne s’éteint pas.
– Ah! je vous crois bien, ma pauvre Françoise, répondait ma tante en haussant les épaules. Chez M. le Curé! Vous Ainsi Françoise et ma tante appréciaientHelles ensemble au savez bien qu’il ne fait pousser que de petites méchantes cours de cette séance matinale, les premiers événements du asperges de rien. Je vous dis que cellesHlà étaient grosses jour. Mais quelquefois ces événements revêtaient un comme le bras. Pas comme le vôtre, bien sûr, mais comme caractère si mystérieux et si grave que ma tante sentait qu’elle mon pauvre bras qui a encore tant maigri cette année.
ne pourrait pas attendre le moment où Françoise monterait, et quatre coups de sonnette formidables retentissaient dans
– Françoise, vous n’avez pas entendu ce carillon qui m’a la maison.
cassé la tête?
– Mais, madame Octave, ce n’est pas encore l’heure de la
– Non, madame Octave.
pepsine, disait Françoise. EstHce que vous vous êtes senti
– Ah! ma pauvre fille, il faut que vous l’ayez solide votre une faiblesse?
tête, vous pouvez remercier le Bon Dieu. C’était la
– Mais non, Françoise, disait ma tante, c’estHàHdire, si, vous Maguelone qui était venue chercher le docteur Piperaud. Il savez bien que maintenant les moments où je n’ai pas de est ressorti tout de suite avec elle et ils ont tourné par la rue faiblesse sont bien rares; un jour je passerai comme Mme de l’Oiseau. Il faut qu’il y ait quelque enfant de malade.
Rousseau sans avoir eu le temps de me reconnaître; mais ce
– Eh! là, mon Dieu, soupirait Françoise, qui ne pouvait pas n’est pas pour cela que je sonne. CroyezHvous pas que je entendre parler d’un malheur arrivé à un inconnu, même viens de voir comme je vous vois Mme Goupil avec une dans une partie du monde éloignée, sans commencer à fillette que je ne connais point. Allez donc chercher deux gémir.
sous de sel chez Camus. C’est bien rare si Théodore ne peut
– Françoise, mais pour qui donc aHtHon sonné la cloche des pas vous dire qui c’est.
morts? Ah! mon Dieu, ce sera pour Mme Rousseau. VoilàHtH
– Mais ça sera la fille de M. Pupin, disait Françoise qui il pas que j’avais oublié qu’elle a passé l’autre nuit. Ah! il est préférait s’en tenir à une explication immédiate, ayant été temps que le Bon Dieu me rappelle, je ne sais plus ce que j’ai déjà deux fois depuis le matin chez Camus.
fait de ma tête depuis la mort de mon pauvre Octave. Mais je
– La fille de M. Pupin! Oh! je vous crois bien, ma pauvre vous fais perdre votre temps, ma fille.
Françoise! Avec cela que je ne l’aurais pas reconnue?
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– Mais je ne veux pas dire la grande, madame Octave, je s’amusait à chaque repas à lire la légende de celle qu’on lui veux dire la gamine, celle qui est en pension à Jouy. Il me servait ce jourHlà. Elle mettait ses lunettes, déchiffrait: ressemble de l’avoir déjà vue ce matin.
Alibaba et quarante voleurs, Aladin ou la Lampe merveilleuse, et disait en souriant: Très bien, très bien.
– Ah! à moins de ça, disait ma tante. Il faudrait qu’elle soit venue pour les fêtes. C’est cela! Il n’y a pas besoin de
– Je serais bien allée chez Camus… disait Françoise en chercher, elle sera venue pour les fêtes. Mais alors nous voyant que ma tante ne l’y enverrait plus.
pourrions bien voir tout à l’heure Mme Sazerat venir sonner
– Mais non, ce n’est plus la peine, c’est sûrement Mlle chez sa sœur pour le déjeuner. Ce sera ça! J’ai vu le petit de Pupin. Ma pauvre Françoise, je regrette de vous avoir fait chez Galopin qui passait avec une tarte! Vous verrez que la monter pour rien.
tarte allait chez Mme Goupil.
Mais ma tante savait bien que ce n’était pas pour rien
– Dès l’instant que Mme Goupil a de la visite, madame qu’elle avait sonné Françoise, car, à Combray, une personne Octave, vous n’allez pas tarder à voir tout son monde rentrer
« qu’on ne connaissait point » était un être aussi peu croyable pour le déjeuner, car il commence à ne plus être de bonne qu’un dieu de la mythologie, et de fait on ne se souvenait pas heure, disait Françoise qui, pressée de redescendre s’occuper que, chaque fois que s’était produite, dans la rue de SaintH
du déjeuner, n’était pas fâchée de laisser à ma tante cette Esprit ou sur la place, une de ces apparitions stupéfiantes, distraction en perspective.
des recherches bien conduites n’eussent pas fini par réduire
– Oh! pas avant midi, répondait ma tante d’un ton résigné, le personnage fabuleux aux proportions d’une « personne tout en jetant sur la pendule un coup d’œil inquiet, mais qu’on connaissait », soit personnellement, soit abstraitement, furtif pour ne pas laisser voir qu’elle, qui avait renoncé à dans son état civil, en tant qu’ayant tel degré de parenté avec tout, trouvait pourtant, à apprendre que Mme Goupil avait à des gens de Combray. C’était le fils de Mme Sauton qui déjeuner, un plaisir aussi vif, et qui se ferait rentrait du service, la nièce de l’abbé Perdreau qui sortait de malheureusement attendre encore un peu plus d’une heure.
couvent, le frère du curé, percepteur à Châteaudun qui Et encore cela tombera pendant mon déjeuner! ajoutaHtHelle venait de prendre sa retraite ou qui était venu passer les à miHvoix pour elleHmême. Son déjeuner lui était une fêtes. On avait eu en les apercevant l’émotion de croire qu’il distraction suffisante pour qu’elle n’en souhaitât pas une y avait à Combray des gens qu’on ne connaissait point autre en même temps. « Vous n’oublierez pas au moins de simplement parce qu’on ne les avait pas reconnus ou me donner mes œufs à la crème dans une assiette plate? »
identifiés tout de suite. Et pourtant, longtemps à l’avance, C’étaient les seules qui fussent ornées de sujets, et ma tante Mme Sauton et le curé avaient prévenu qu’ils attendaient Marcel Proust –
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Din Search OverTime leurs « voyageurs ». Quand le soir, je montais, en rentrant,
– Ah! ce sera le nouveau chien que M. Galopin a rapporté raconter notre promenade à ma tante, si j’avais l’imprudence de Lisieux.
de lui dire que nous avions rencontré près du PontHVieux,
– Ah! à moins de ça.
un homme que mon grandHpère ne connaissait pas: « Un homme que grandHpère ne connaissait point, s’écriaitHelle.
– Il paraît que c’est une bête bien affable, ajoutait Ah! je te crois bien! » Néanmoins un peu émue de cette Françoise qui tenait le renseignement de Théodore, nouvelle, elle voulait en avoir le cœur net, mon grandHpère spirituelle comme une personne, toujours de bonne humeur, était mandé. « Qui donc estHce que vous avez rencontré près toujours aimable, toujours quelque chose de gracieux. C’est du PontHVieux, mon oncle? un homme que vous ne rare qu’une bête qui n’a que cet âgeHlà soit déjà si galante.
connaissiez point? » – « Mais si, répondait mon grandHpère, Madame Octave, il va falloir que je vous quitte, je n’ai pas le c’était Prosper le frère du jardinier de Mme Bouillebœuf. » –
temps de m’amuser, voilà bientôt dix heures, mon fourneau
« Ah! bien », disait ma tante, tranquillisée et un peu rouge; n’est seulement pas éclairé, et j’ai encore à plumer mes haussant les épaules avec un sourire ironique, elle ajoutait: «
asperges.
Aussi il me disait que vous aviez rencontré un homme que
– Comment, Françoise, encore des asperges! mais c’est vous ne connaissiez point! » Et on me recommandait d’être une vraie maladie d’asperges que vous avez cette année, vous plus circonspect une autre fois et de ne plus agiter ainsi ma allez en fatiguer nos Parisiens!
tante par des paroles irréfléchies. On connaissait tellement bien tout le monde, à Combray, bêtes et gens, que si ma
– Mais non, madame Octave, ils aiment bien ça. Ils tante avait vu par hasard passer un chien « qu’elle ne rentreront de l’église avec de l’appétit et vous verrez qu’ils ne connaissait point », elle ne cessait d’y penser et de consacrer les mangeront pas avec le dos de la cuiller.
à ce fait incompréhensible ses talents d’induction et ses
– Mais à l’église, ils doivent y être déjà; vous ferez bien de heures de liberté.
ne pas perdre de temps. Allez surveiller votre déjeuner.
– Ce sera le chien de Mme Sazerat, disait Françoise, sans Pendant que ma tante devisait ainsi avec Françoise, grande conviction, mais dans un but d’apaisement et pour j’accompagnais mes parents à la messe. Que je l’aimais, que que ma tante ne se « fende pas la tête ».
je la revois bien, notre église! Son vieux porche par lequel
– Comme si je ne connaissais pas le chien de Mme Sazerat!
nous entrions, noir, grêlé comme une écumoire, était dévié répondait ma tante donc l’esprit critique n’admettait pas si et profondément creusé aux angles (de même que le bénitier facilement un fait.
où il nous conduisait) comme si le doux effleurement des Marcel Proust –
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Din Search OverTime mantes des paysannes entrant à l’église et de leurs doigts instant Mme Sazerat, posant sur le prieHDieu voisin un timides prenant de l’eau bénite, pouvait, répété pendant des paquet tout ficelé de petits fours qu’elle venait de prendre siècles, acquérir une force destructive, infléchir la pierre et chez le pâtissier d’en face et qu’elle allait rapporter pour le l’entailler de sillons comme en trace la roue des carrioles déjeuner); dans un autre une montagne de neige rose, au dans la borne contre laquelle elle bute tous les jours. Ses pied de laquelle se livrait un combat, semblait avoir givré à pierres tombales, sous lesquelles la noble poussière des même la verrière qu’elle boursouflait de son trouble grésil abbés de Combray, enterrés là, faisait au chœur comme un comme une vitre à laquelle il serait resté des flocons éclairés pavage spirituel, n’étaient plus ellesHmêmes de la matière par quelque aurore (par la même sans doute qui empourprait inerte et dure, car le temps les avait rendues douces et fait le retable de l’autel de tons si frais qu’ils semblaient plutôt couler comme du miel hors des limites de leur propre posés là momentanément par une lueur du dehors prête à équarrissure qu’ici elles avaient dépassées d’un flot blond, s’évanouir que par des couleurs attachées à jamais à la entraînant à la dérive une majuscule gothique en fleurs, pierre); et tous étaient si anciens qu’on voyait çà et là leur noyant les violettes blanches du marbre; et en deçà vieillesse argentée étinceler de la poussière des siècles et desquelles, ailleurs, elles s’étaient résorbées, contractant montrer brillante et usée jusqu’à la corde la trame de leur encore l’elliptique inscription latine, introduisant un caprice douce tapisserie de verre. Il y en avait un qui était un haut de plus dans la disposition de ces caractères abrégés, compartiment divisé en une centaine de petits vitraux rapprochant deux lettres d’un mot dont les autres avaient été rectangulaires où dominait le bleu, comme un grand jeu de démesurément distendues. Ses vitraux ne chatoyaient jamais cartes pareil à ceux qui devaient distraire le roi Charles VI; tant que les jours où le soleil se montrait peu, de sorte que, mais soit qu’un rayon eût brillé, soit que mon regard en fîtHil gris dehors, on était sûr qu’il ferait beau dans l’église; bougeant eût promené à travers la verrière tour à tour éteinte l’un était rempli dans toute sa grandeur par un seul et rallumée un mouvant et précieux incendie, l’instant personnage pareil à un Roi de jeu de cartes, qui vivait làH
d’après elle avait pris l’éclat changeant d’une traîne de paon, haut, sous un dais architectural, entre ciel et terre; (et dans le puis elle tremblait et ondulait en une pluie flamboyante et reflet oblique et bleu duquel, parfois les jours de semaine, à fantastique qui dégouttait du haut de la voûte sombre et midi, quand il n’y a pas d’office – à l’un de ces rares rocheuse, le long des parois humides, comme si c’était dans moments où l’église aérée, vacante, plus humaine, luxueuse, la nef de quelque grotte irisée de sinueux stalactites que je avec du soleil sur son riche mobilier, avait l’air presque suivais mes parents, qui portaient leur paroissien; un instant habitable comme le hall de pierre sculptée et de verre peint, après les petits vitraux en losange avaient pris la transparence d’un hôtel de style moyen âge – on voyait s’agenouiller un profonde, l’infrangible dureté de saphirs qui eussent été Marcel Proust –
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Din Search OverTime juxtaposés sur quelque immense pectoral, mais derrière Dagobert, le tombeau des fils de Louis le Germanique, en lesquels on sentait, plus aimé que toutes ces richesses, un porphyre et en cuivre émaillé), à cause de quoi je m’avançais sourire momentané de soleil; il était aussi reconnaissable dans l’église, quand nous gagnions nos chaises, comme dans dans le flot bleu et doux dont il baignait les pierreries que sur une vallée visitée des fées, où le paysan s’émerveille de voir le pavé de la place ou la paille du marché; et, même à nos dans un rocher, dans un arbre, dans une mare, la trace premiers dimanches quand nous étions arrivés avant Pâques, palpable de leur passage surnaturel; tout cela faisait d’elle il me consolait que la terre fût encore nue et noire, en faisant pour moi quelque chose d’entièrement différent du reste de épanouir, comme en un printemps historique et qui datait la ville: un édifice occupant, si l’on peut dire, un espace à des successeurs de saint Louis, ce tapis éblouissant et doré quatre dimensions – la quatrième étant celle du Temps –
de myosotis en verre.
déployant à travers les siècles son vaisseau qui, de travée en travée, de chapelle en chapelle, semblait vaincre et franchir, Deux tapisseries de haute lice représentaient le non pas seulement quelques mètres, mais des époques couronnement d’Esther (la tradition voulait qu’on eût donné successives d’où il sortait victorieux; dérobant le rude et à Assuérus les traits d’un roi de France et à Esther ceux farouche XIe siècle dans l’épaisseur de ses murs, d’où il d’une dame de Guermantes dont il était amoureux) n’apparaissait avec ses lourds cintres bouchés et aveuglés de auxquelles leurs couleurs, en fondant, avaient ajouté une grossiers moellons que par la profonde entaille que creusait expression, un relief, un éclairage: un peu de rose flottait aux près du porche l’escalier du clocher, et, même là, dissimulé lèvres d’Esther au delà du dessin de leur contour; le jaune de par les gracieuses arcades gothiques qui se pressaient sa robe s’étalait si onctueusement, si grassement, qu’elle en coquettement devant lui comme de plus grandes sœurs, pour prenait une sorte de consistance et s’enlevait vivement sur le cacher aux étrangers, se placent en souriant devant un l’atmosphère refoulée; et la verdure des arbres restée vive jeune frère rustre, grognon et mal vêtu; élevant dans le ciel dans les parties basses du panneau de soie et de laine, mais auHdessus de la Place, sa tour qui avait contemplé saint Louis ayant « passé » dans le haut, faisait se détacher en plus pâle, et semblait le voir encore; et s’enfonçant avec sa crypte dans auHdessus des troncs foncés, les hautes branches une nuit mérovingienne où, nous guidant à tâtons sous la jaunissantes, dorées et comme à demi effacées par la brusque voûte obscure et puissamment nervurée comme la et oblique illumination d’un soleil invisible. Tout cela, et plus membrane d’une immense chauveHsouris de pierre, encore les objets précieux venus à l’église de personnages qui Théodore et sa sœur nous éclairaient d’une bougie le étaient pour moi presque des personnages de légende (la tombeau de la petite fille de Sigebert, sur lequel une croix d’or travaillée, disaitHon, par saint Éloi et donnée par profonde valve – comme la trace d’un fossile – avait été Marcel Proust –
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Din Search OverTime creusée, disaitHon, « par une lampe de cristal qui, le soir du séparation; simple citoyenne de Combray qui aurait pu avoir meurtre de la princesse franque, s’était détachée d’elleHmême son numéro dans la rue si les rues de Combray avaient eu des chaînes d’or où elle était suspendue à la place de des numéros, et où il semble que le facteur aurait dû s’arrêter l’actuelle abside, et, sans que le cristal se brisât, sans que la le matin quand il faisait sa distribution, avant d’entrer chez flamme s’éteignît, s’était enfoncée dans la pierre et l’avait fait Mme Loiseau et en sortant de chez M. Rapin, il y avait mollement céder sous elle ».
pourtant entre elle et tout ce qui n’était pas elle une démarcation que mon esprit n’a jamais pu arriver à franchir.
L’abside de l’église de Combray, peutHon vraiment en Mme Loiseau avait beau avoir à sa fenêtre des fuchsias, qui parler? Elle était si grossière, si dénuée de beauté artistique et prenaient la mauvaise habitude de laisser leurs branches même d’élan religieux. Du dehors, comme le croisement des courir toujours partout tête baissée, et dont les fleurs rues sur lequel elle donnait était en contreHbas, sa grossière n’avaient rien de plus pressé, quand elles étaient assez muraille s’exhaussait d’un soubassement en moellons grandes, que d’aller rafraîchir leurs joues violettes et nullement polis, hérissés de cailloux, et qui n’avait rien de congestionnées contre la sombre façade de l’église, les particulièrement ecclésiastique, les verrières semblaient fuchsias ne devenaient pas sacrés pour cela pour moi; entre percées à une hauteur excessive, et le tout avait plus l’air d’un les fleurs et la pierre noircie sur laquelle elles s’appuyaient, si mur de prison que d’église. Et certes, plus tard, quand je me mes yeux ne percevaient pas d’intervalle, mon esprit réservait rappelais toutes les glorieuses absides que j’ai vues, il ne me un abîme.
serait jamais venu à la pensée de rapprocher d’elles l’abside de Combray. Seulement, un jour, au détour d’une petite rue On reconnaissait le clocher de SaintHHilaire de bien loin, provinciale, j’aperçus, en face du croisement de trois ruelles, inscrivant sa figure inoubliable à l’horizon où Combray une muraille fruste et surélevée, avec des verrières percées en n’apparaissait pas encore; quand du train qui, la semaine de haut et offrant le même aspect asymétrique que l’abside de Pâques, nous amenait de Paris, mon père l’apercevait qui Combray. Alors je ne me suis pas demandé comme à filait tour à tour sur tous les sillons du ciel, faisant courir en Chartres ou à Reims avec quelle puissance y était exprimé le tous sens son petit coq de fer, il nous disait: « Allons, prenez sentiment religieux, mais je me suis involontairement écrié: «
les couvertures, on est arrivé. » Et dans une des plus grandes L’Église! »
promenades que nous faisions de Combray, il y avait un endroit où la route resserrée débouchait tout à coup sur un L’église! Familière; mitoyenne, rue SaintHHilaire, où était sa immense plateau fermé à l’horizon par des forêts porte nord, de ses deux voisines, la pharmacie de M. Rapin déchiquetées que dépassait seul la fine pointe du clocher de et la maison de Mme Loiseau, qu’elle touchait sans aucune Marcel Proust –
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Din Search OverTime SaintHHilaire, mais si mince, si rose, qu’elle semblait savoir pourquoi, ma grand’mère trouvait au clocher de SaintH
seulement rayée sur le ciel par un ongle qui aurait voulu Hilaire cette absence de vulgarité, de prétention, de donner à ce paysage, à ce tableau rien que de nature, cette mesquinerie, qui lui faisait aimer et croire riches d’une petite marque d’art, cette unique indication humaine. Quand influence bienfaisante la nature quand la main de l’homme on se rapprochait et qu’on pouvait apercevoir le reste de la ne l’avait pas, comme faisait le jardinier de ma grand’tante, tour carrée et à demi détruite qui, moins haute, subsistait à rapetissée, et les œuvres de génie. Et sans doute, toute partie côté de lui, on était frappé surtout du ton rougeâtre et de l’église qu’on apercevait la distinguait de tout autre édifice sombre des pierres; et, par un matin brumeux d’automne, on par une sorte de pensée qui lui était infuse, mais c’était dans aurait dit, s’élevant auHdessus du violet orageux des son clocher qu’elle semblait prendre conscience d’elleHmême, vignobles, une ruine de pourpre presque de la couleur de la affirmer une existence individuelle et responsable. C’était lui vigne vierge.
qui parlait pour elle. Je crois surtout que, confusément, ma grand’mère trouvait au clocher de Combray ce qui pour elle Souvent sur la place, quand nous rentrions, ma grand’mère avait le plus de prix au monde, l’air naturel et l’air distingué.
me faisait arrêter pour le regarder. Des fenêtres de sa tour, Ignorante en architecture, elle disait: « Mes enfants, moquezH
placées deux par deux les unes auHdessus des autres, avec vous de moi si vous voulez, il n’est peutHêtre pas beau dans cette juste et originale proportion dans les distances qui ne les règles, mais sa vieille figure bizarre me plaît. Je suis sûre donne pas de la beauté et de la dignité qu’aux visages que s’il jouait du piano, il ne jouerait pas sec. » Et en le humains, il lâchait, laissait tomber à intervalles réguliers des regardant, en suivant des yeux la douce tension, l’inclinaison volées de corbeaux qui, pendant un moment, tournoyaient fervente de ses pentes de pierre qui se rapprochaient en en criant, comme si les vieilles pierres qui les laissaient s’élevant comme des mains jointes qui prient, elle s’unissait s’ébattre sans paraître les voir, devenues tout d’un coup si bien à l’effusion de la flèche, que son regard semblait inhabitables et dégageant un principe d’agitation infinie, les s’élancer avec elle; et en même temps elle souriait avait frappés et repoussés. Puis, après avoir rayé en tous sens amicalement aux vieilles pierres usées dont le couchant le velours violet de l’air du soir, brusquement calmés ils n’éclairait plus que le faîte et qui, à partir du moment où elles revenaient s’absorber dans la tour, de néfaste redevenue entraient dans cette zone ensoleillée, adoucies par la lumière, propice, quelquesHuns posés çà et là, ne semblant pas paraissaient tout d’un coup montées bien plus haut, bouger, mais happant peutHêtre quelque insecte, sur la pointe lointaines, comme un chant repris « en voix de tête » une d’un clocheton, comme une mouette arrêtée avec octave auHdessus.
l’immobilité d’un pêcheur à la crête d’une vague. Sans trop Marcel Proust –
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Din Search OverTime C’était le clocher de SaintHHilaire qui donnait à toutes les faudrait tout à l’heure dire bonsoir à ma mère et ne plus la occupations, à toutes les heures, à tous les points de vue de voir, il était au contraire si doux, dans la journée finissante, la ville, leur figure, leur couronnement, leur consécration. De qu’il avait l’air d’être posé et enfoncé comme un coussin de ma chambre, je ne pouvais apercevoir que sa base qui avait velours brun sur le ciel pâli qui avait cédé sous sa pression, été recouverte d’ardoises; mais quand, le dimanche, je les s’était creusé légèrement pour lui faire sa place et refluait sur voyais, par une chaude matinée d’été, flamboyer comme un ses bords; et les cris des oiseaux qui tournaient autour de lui soleil noir, je me disais: « Mon Dieu! neuf heures! il faut se semblaient accroître son silence, élancer encore sa flèche et préparer pour aller à la grand’messe si je veux avoir le temps lui donner quelque chose d’ineffable.
d’aller embrasser tante Léonie avant », et je savais Même dans les courses qu’on avait à faire derrière l’église, exactement la couleur qu’avait le soleil sur la place, la chaleur là où on ne la voyait pas, tout semblait ordonné par rapport et la poussière du marché, l’ombre que faisait le store du au clocher surgi ici ou là entre les maisons, peutHêtre plus magasin où maman entrerait peutHêtre avant la messe, dans émouvant encore quand il apparaissait ainsi sans l’église. Et une odeur de toile écrue, faire emplette de quelque mouchoir certes, il y en a bien d’autres qui sont plus beaux vus de cette que lui ferait montrer, en cambrant la taille, le patron qui, façon, et j’ai dans mon souvenir des vignettes de clochers tout en se préparant à fermer, venait d’aller dans l’arrièreH
dépassant les toits, qui ont un autre caractère d’art que celles boutique passer sa veste du dimanche et se savonner les que composaient les tristes rues de Combray. Je n’oublierai mains qu’il avait l’habitude, toutes les cinq minutes, même jamais dans une curieuse ville de Normandie voisine de dans les circonstances les plus mélancoliques, de frotter l’une Balbec, deux charmants hôtels du XVIIIe siècle, qui me sont contre l’autre d’un air d’entreprise, de partie fine et de à beaucoup d’égards chers et vénérables et entre lesquels, réussite.
quand on la regarde du beau jardin qui descend des perrons Quand après la messe, on entrait dire à Théodore vers la rivière, la flèche gothique d’une église qu’ils cachent d’apporter une brioche plus grosse que d’habitude parce que s’élance, ayant l’air de terminer, de surmonter leurs façades, nos cousins avaient profité du beau temps pour venir de mais d’une matière si différente, si précieuse, si annelée, si Thiberzy déjeuner avec nous, on avait devant soi le clocher rose, si vernie, qu’on voit bien qu’elle n’en fait pas plus partie qui, doré et cuit luiHmême comme une plus grande brioche que de deux beaux galets unis, entre lesquels elle est prise sur bénie, avec des écailles et des égouttements gommeux de la plage, la flèche purpurine et crénelée de quelque coquillage soleil, piquait sa pointe aiguë dans le ciel bleu. Et le soir, fuselé en tourelle et glacé d’émail. Même à Paris, dans un des quand je rentrais de promenade et pensais au moment où il quartiers les plus laids de la ville, je sais une fenêtre où on Marcel Proust –
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Din Search OverTime voit après un premier, un second et même un troisième plan sommant les maisons d’un pinacle inattendu, levé devant fait des toits amoncelés de plusieurs rues, une cloche moi comme le doigt de Dieu dont le corps eût été caché violette, parfois rougeâtre, parfois aussi, dans les plus nobles dans la foule des humains sans que je le confondisse pour
« épreuves » qu’en tire l’atmosphère, d’un noir décanté de cela avec elle. Et aujourd’hui encore si, dans une grande ville cendres, laquelle n’est autre que le dôme SaintHAugustin et de province ou dans un quartier de Paris que je connais mal, qui donne à cette vue de Paris le caractère de certaines vues un passant qui m’a « mis dans mon chemin » me montre au de Rome par Piranesi. Mais comme dans aucune de ces loin, comme un point de repère, tel beffroi d’hôpital, tel petites gravures, avec quelque goût que ma mémoire ait pu clocher de couvent levant la pointe de son bonnet les exécuter, elle ne put mettre ce que j’avais perdu depuis ecclésiastique au coin d’une rue que je dois prendre, pour longtemps, le sentiment qui nous fait non pas considérer une peu que ma mémoire puisse obscurément lui trouver chose comme un spectacle, mais y croire comme en un être quelque trait de ressemblance avec la figure chère et sans équivalent, aucune d’elles ne tient sous sa dépendance disparue, le passant, s’il se retourne pour s’assurer que je ne toute une partie profonde de ma vie, comme fait le souvenir m’égare pas, peut, à son étonnement, m’apercevoir qui, de ces aspects du clocher de Combray dans les rues qui sont oublieux de la promenade entreprise ou de la course obligée, derrière l’église. Qu’on le vît à cinq heures, quand on allait reste là, devant le clocher, pendant des heures, immobile, chercher les lettres à la poste, à quelques maisons de soi, à essayant de me souvenir, sentant au fond de moi des terres gauche, surélevant brusquement d’une cime isolée la ligne de reconquises sur l’oubli qui s’assèchent et se rebâtissent; et faîte des toits; que si, au contraire, on voulait entrer sans doute alors, et plus anxieusement que tout à l’heure demander des nouvelles de Mme Sazerat, on suivît des yeux quand je lui demandais de me renseigner, je cherche encore cette ligne redevenue basse après la descente de son autre mon chemin, je tourne une rue… mais… c’est dans mon versant en sachant qu’il faudrait tourner à la deuxième rue cœur…
après le clocher; soit qu’encore, poussant plus loin, si on En rentrant de la messe, nous rencontrions souvent M.
allait à la gare, on le vît obliquement, montrant de profil des Legrandin qui, retenu à Paris par sa profession d’ingénieur, arêtes et des surfaces nouvelles comme un solide surpris à ne pouvait, en dehors des grandes vacances, venir à sa un moment inconnu de sa révolution; ou que, des bords de propriété de Combray que du samedi soir au lundi matin.
la Vivonne, l’abside musculeusement ramassée et remontée C’était un de ces hommes qui, en dehors d’une carrière par la perspective semblât jaillir de l’effort que le clocher scientifique où ils ont d’ailleurs brillamment réussi, faisait pour lancer sa flèche au cœur du ciel; c’était toujours à possèdent une culture toute différente, littéraire, artistique, lui qu’il fallait revenir, toujours lui qui dominait tout, Marcel Proust –
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Din Search OverTime que leur spécialisation professionnelle n’utilise pas et dont d’ardeur à la flétrir. De plus, elle ne trouvait pas de très bon profite leur conversation. Plus lettrés que bien des goût que M. Legrandin, dont la sœur était mariée près de littérateurs (nous ne savions pas à cette époque que M.
Balbec avec un gentilhomme basHnormand, se livrât à des Legrandin eût une certaine réputation comme écrivain et attaques aussi violentes contre les nobles, allant jusqu’à nous fûmes très étonnés de voir qu’un musicien célèbre avait reprocher à la Révolution de ne les avoir pas tous guillotinés.
composé une mélodie sur des vers de lui), doués de plus de «
– Salut, amis! nous disaitHil en venant à notre rencontre.
facilité » que bien des peintres, ils s’imaginent que la vie Vous êtes heureux d’habiter beaucoup ici; demain il faudra qu’ils mènent n’est pas celle qui leur aurait convenu et que je rentre à Paris, dans ma niche.
apportent à leurs occupations positives soit une insouciance mêlée de fantaisie, soit une application soutenue et hautaine,
– Oh! ajoutaitHil, avec ce sourire doucement ironique et méprisante, amère et consciencieuse. Grand, avec une belle déçu, un peu distrait, qui lui était particulier, certes il y a dans tournure, un visage pensif et fin aux longues moustaches ma maison toutes les choses inutiles. Il n’y manque que le blondes, au regard bleu et désenchanté, d’une politesse nécessaire, un grand morceau de ciel comme ici. Tâchez de raffinée, causeur comme nous n’en avions jamais entendu, il garder toujours un morceau de ciel auHdessus de votre vie, était aux yeux de ma famille, qui le citait toujours en petit garçon, ajoutaitHil en se tournant vers moi. Vous avez exemple, le type de l’homme d’élite, prenant la vie de la une jolie âme, d’une qualité rare, une nature d’artiste, ne la façon la plus noble et la plus délicate. Ma grand’mère lui laissez pas manquer de ce qu’il lui faut.
reprochait seulement de parler un peu trop bien, un peu trop Quand, à notre retour, ma tante nous faisait demander si comme un livre, de ne pas avoir dans son langage le naturel Mme Goupil était arrivée en retard à la messe, nous étions qu’il y avait dans ses cravates lavallière toujours flottantes, incapables de la renseigner. En revanche nous ajoutions à dans son veston droit presque d’écolier. Elle s’étonnait aussi son trouble en lui disant qu’un peintre travaillait dans l’église des tirades enflammées qu’il entamait souvent contre à copier le vitrail de Gilbert le Mauvais. Françoise, envoyée l’aristocratie, la vie mondaine, le snobisme, « certainement le aussitôt chez l’épicier, était revenue bredouille par la faute de péché auquel pense saint Paul quand il parle du péché pour l’absence de Théodore à qui sa double profession de chantre lequel il n’y a pas de rémission. »
ayant une part de l’entretien de l’église, et de garçon épicier L’ambition mondaine était un sentiment que ma donnait, avec des relations dans tous les mondes, un savoir grand’mère était si incapable de ressentir et presque de universel.
comprendre, qu’il lui paraissait bien inutile de mettre tant Marcel Proust –
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– Ah! soupirait ma tante, je voudrais que ce soit déjà la doctrine subversive qu’une petite promenade au soleil et l’heure d’Eulalie. Il n’y a vraiment qu’elle qui pourra me dire un bon bifteck saignant (quand elle gardait quatorze heures cela.
sur l’estomac deux méchantes gorgées d’eau de Vichy!) lui feraient plus de bien que son lit et ses médecines. L’autre Eulalie était une fille boiteuse, active et sourde qui s’était «
catégorie se composait des personnes qui avaient l’air de retirée » après la mort de Mme de la Bretonnerie où elle avait croire qu’elle était plus gravement malade qu’elle ne pensait, été en place depuis son enfance, et qui avait pris à côté de qu’elle était aussi gravement malade qu’elle le disait. Aussi, l’église une chambre, d’où elle descendait tout le temps soit ceux qu’elle avait laissé monter après quelques hésitations et aux offices, soit, en dehors des offices, dire une petite prière sur les officieuses instances de Françoise et qui, au cours de ou donner un coup de main à Théodore; le reste du temps leur visite, avaient montré combien ils étaient indignes de la elle allait voir des personnes malades comme ma tante faveur qu’on leur faisait en risquant timidement un: « Ne Léonie à qui elle racontait ce qui s’était passé à la messe ou croyezHvous pas que si vous vous secouiez un peu par un aux vêpres. Elle ne dédaignait pas d’ajouter quelque casuel à beau temps », ou qui, au contraire, quand elle leur avait dit: «
la petite rente que lui servait la famille de ses anciens maîtres Je suis bien bas, bien bas, c’est la fin, mes pauvres amis », lui en allant de temps en temps visiter le linge du curé ou de avaient répondu: « Ah! quand on n’a pas la santé! Mais vous quelque autre personnalité marquante du monde clérical de pouvez durer encore comme ça », ceuxHlà, les uns comme les Combray. Elle portait auHdessus d’une mante de drap noir autres, étaient sûrs de ne plus jamais être reçus. Et si un petit béguin blanc, presque de religieuse, et une maladie Françoise s’amusait de l’air épouvanté de ma tante quand de de peau donnait à une partie de ses joues et à son nez son lit elle avait aperçu dans la rue du SaintHEsprit une de ces recourbé, les tons rose vif de la balsamine. Ses visites étaient personnes qui avait l’air de venir chez elle ou quand elle avait la grande distraction de ma tante Léonie qui ne recevait plus entendu un coup de sonnette, elle riait encore bien plus, et guère personne d’autre, en dehors de M. le Curé. Ma tante comme d’un bon tour, des ruses toujours victorieuses de ma avait peu à peu évincé tous les autres visiteurs parce qu’ils tante pour arriver à les faire congédier et de leur mine avaient le tort à ses yeux de rentrer tous dans l’une ou l’autre déconfite en s’en retournant sans l’avoir vue, et, au fond, des deux catégories de gens qu’elle détestait. Les uns, les admirait sa maîtresse qu’elle jugeait supérieure à tous ces pires et dont elle s’était débarrassée les premiers, étaient ceux gens puisqu’elle ne voulait pas les recevoir. En somme, ma qui lui conseillaient de ne pas « s’écouter » et professaient, tante exigeait à la fois qu’on l’approuvât dans son régime, fûtHce négativement et en ne la manifestant que par certains qu’on la plaignît pour ses souffrances et qu’on la rassurât sur silences de désapprobation ou par certains sourires de doute, son avenir.
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Din Search OverTime C’est à quoi Eulalie excellait. Ma tante pouvait lui dire couronne sonore, avait retenti autour de notre table, auprès vingt fois en une minute: « C’est la fin, ma pauvre Eulalie », du pain bénit venu lui aussi familièrement en sortant de vingt fois Eulalie répondait: « Connaissant votre maladie l’église, quand nous étions encore assis devant les assiettes comme vous la connaissez, madame Octave, vous irez à cent des Mille et une Nuits, appesantis par la chaleur et surtout ans, comme me disait hier encore Mme Sazerin. » (Une des par le repas. Car, au fond permanent d’œufs, de côtelettes, plus fermes croyances d’Eulalie, et que le nombre imposant de pommes de terre, de confitures, de biscuits, qu’elle ne des démentis apportés par l’expérience n’avait pas suffi à nous annonçait même plus, Françoise ajoutait – selon les entamer, était que Mme Sazerat s’appelait Mme Sazerin.) travaux des champs et des vergers, le fruit de la marée, les hasards du commerce, les politesses des voisins et son
– Je ne demande pas à aller à cent ans, répondait ma tante, propre génie, et si bien que notre menu, comme ces quatreH
qui préférait ne pas voir assigner à ses jours un terme précis.
feuilles qu’on sculptait au XIIIe siècle au portail des Et comme Eulalie savait avec cela comme personne cathédrales, reflétait un peu le rythme des saisons et des distraire ma tante sans la fatiguer, ses visites qui avaient lieu épisodes de la vie –: une barbue parce que la marchande lui régulièrement tous les dimanches sauf empêchement en avait garanti la fraîcheur, une dinde parce qu’elle en avait inopiné, étaient pour ma tante un plaisir dont la perspective vu une belle au marché de RoussainvilleHleHPin, des cardons l’entretenait ces joursHlà dans un état agréable d’abord, mais à la moelle parce qu’elle ne nous en avait pas encore fait de bien vite douloureux comme une faim excessive, pour peu cette manièreHlà, un gigot rôti parce que le grand air creuse et qu’Eulalie fût en retard. Trop prolongée, cette volupté qu’il avait bien le temps de descendre d’ici sept heures, des d’attendre Eulalie tournait en supplice, ma tante ne cessait de épinards pour changer, des abricots parce que c’était encore regarder l’heure, bâillait, se sentait des faiblesses. Le coup de une rareté, des groseilles parce que dans quinze jours il n’y sonnette d’Eulalie, s’il arrivait tout à la fin de la journée, en aurait plus, des framboises que M. Swann avait apportées quand elle ne l’espérait plus, la faisait presque se trouver mal.
exprès, des cerises, les premières qui vinssent du cerisier du En réalité, le dimanche, elle ne pensait qu’à cette visite et jardin après deux ans qu’il n’en donnait plus, du fromage à la sitôt le déjeuner fini, Françoise avait hâte que nous quittions crème que j’aimais bien autrefois, un gâteau aux amandes la salle à manger pour qu’elle pût monter « occuper » ma parce qu’elle l’avait commandé la veille, une brioche parce tante. Mais (surtout à partir du moment où les beaux jours que c’était notre tour de l’offrir. Quand tout cela était fini, s’installaient à Combray) il y avait bien longtemps que composée expressément pour nous, mais dédiée plus l’heure altière de midi, descendue de la tour de SaintHHilaire spécialement à mon père qui était amateur, une crème au qu’elle armoriait des douze fleurons momentanés de sa chocolat, inspiration, attention personnelle de Françoise, Marcel Proust –
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Din Search OverTime nous était offerte, fugitive et légère comme une œuvre de son faîte était toujours couronné du roucoulement d’une circonstance où elle avait mis tout son talent. Celui qui eût colombe.
refusé d’en goûter en disant: « J’ai fini, je n’ai plus faim », se Autrefois, je ne m’attardais pas dans le bois consacré qui serait immédiatement ravalé au rang de ces goujats qui, l’entourait, car, avant de monter lire, j’entrais dans le petit même dans le présent qu’un artiste leur fait d’une de ses cabinet de repos que mon oncle Adolphe, un frère de mon œuvres, regardent au poids et à la matière alors que n’y grandHpère, ancien militaire qui avait pris sa retraite comme valent que l’intention et la signature. Même en laisser une commandant, occupait au rezHdeHchaussée, et qui, même seule goutte dans le plat eût témoigné de la même quand les fenêtres ouvertes laissaient entrer la chaleur, sinon impolitesse que se lever avant la fin du morceau au nez du les rayons du soleil qui atteignaient rarement jusqueHlà, compositeur.
dégageait inépuisablement cette odeur obscure et fraîche, à la Enfin ma mère me disait: « Voyons, ne reste pas ici fois forestière et ancien régime, qui fait rêver longuement les indéfiniment, monte dans ta chambre si tu as trop chaud narines quand on pénètre dans certains pavillons de chasse dehors, mais va d’abord prendre l’air un instant pour ne pas abandonnés. Mais depuis nombre d’années je n’entrais plus lire en sortant de table. » J’allais m’asseoir près de la pompe dans le cabinet de mon oncle Adolphe, ce dernier ne venant et de son auge, souvent ornée, comme un fond gothique, plus à Combray à cause d’une brouille qui était survenue d’une salamandre, qui sculptait sur la pierre fruste le relief entre lui et ma famille, par ma faute, dans les circonstances mobile de son corps allégorique et fuselé, sur le banc sans suivantes:
dossier ombragé d’un lilas, dans ce petit coin du jardin qui Une ou deux fois par mois, à Paris, on m’envoyait lui faire s’ouvrait par une porte de service sur la rue du SaintHEsprit une visite, comme il finissait de déjeuner, en simple vareuse, et de la terre peu soignée duquel s’élevait par deux degrés, en servi par son domestique en veste de travail de coutil rayé saillie de la maison, et comme une construction violet et blanc. Il se plaignait en ronchonnant que je n’étais indépendante, l’arrièreHcuisine. On apercevait son dallage pas venu depuis longtemps, qu’on l’abandonnait; il m’offrait rouge et luisant comme du porphyre. Elle avait moins l’air de un massepain ou une mandarine, nous traversions un salon l’antre de Françoise que d’un petit temple de Vénus. Elle dans lequel on ne s’arrêtait jamais, où on ne faisait jamais de regorgeait des offrandes du crémier, du fruitier, de la feu, dont les murs étaient ornés de moulures dorées, les marchande de légumes, venus parfois de hameaux assez plafonds peints d’un bleu qui prétendait imiter le ciel et les lointains pour lui dédier les prémices de leurs champs. Et meubles capitonnés en satin comme chez mes grandsH
parents, mais jaune; puis nous passions dans ce qu’il appelait Marcel Proust –
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Din Search OverTime son cabinet de « travail » aux murs duquel étaient accrochées désintéressé et plus heureux que les rêves offerts à mon de ces gravures représentant sur fond noir une déesse imagination par chaque pièce annoncée, et qui étaient charnue et rose conduisant un char, montée sur un globe, ou conditionnés à la fois par les images inséparables des mots une étoile au front, qu’on aimait sous le second Empire qui en composaient le titre et aussi de la couleur des affiches parce qu’on leur trouvait un air pompéien, puis qu’on encore humides et boursouflées de colle sur lesquelles il se détesta, et qu’on recommence à aimer pour une seule et détachait. Si ce n’est une de ces œuvres étranges comme le même raison, malgré les autres qu’on donne, et qui est Testament de César Girodot et OedipeHRoi lesquelles qu’elles ont l’air second Empire. Et je restais avec mon oncle s’inscrivaient, non sur l’affiche verte de l’OpéraHComique, jusqu’à ce que son valet de chambre vînt lui demander, de la mais sur l’affiche lie de vin de la ComédieHFrançaise, rien ne part du cocher, pour quelle heure celuiHci devait atteler. Mon me paraissait plus différent de l’aigrette étincelante et oncle se plongeait alors dans une méditation qu’aurait craint blanche des Diamants de la Couronne que le satin lisse et de troubler d’un seul mouvement son valet de chambre mystérieux du Domino Noir, et, mes parents m’ayant dit que émerveillé, et dont il attendait avec curiosité le résultat, quand j’irais pour la première fois au théâtre j’aurais à choisir toujours identique. Enfin, après une hésitation suprême, entre
ces
deux
pièces,
cherchant
à
approfondir
mon oncle prononçait infailliblement ces mots: « Deux successivement le titre de l’une et le titre de l’autre, puisque heures et quart », que le valet de chambre répétait avec c’était tout ce que je connaissais d’elles, pour tâcher de saisir étonnement, mais sans discuter: « Deux heures et quart?
en chacun le plaisir qu’il me promettait et de le comparer à bien…je vais le dire… »
celui que recélait l’autre, j’arrivais à me représenter avec tant de force, d’une part une pièce éblouissante et fière, de l’autre À cette époque j’avais l’amour du théâtre, amour une pièce douce et veloutée, que j’étais aussi incapable de platonique, car mes parents ne m’avaient encore jamais décider laquelle aurait ma préférence, que si, pour le dessert, permis d’y aller, et je me représentais d’une façon si peu on m’avait donné à opter entre du riz à l’Impératrice et de la exacte les plaisirs qu’on y goûtait que je n’étais pas éloigné de crème au chocolat.
croire que chaque spectateur regardait comme dans un stéréoscope un décor qui n’était que pour lui, quoique Toutes mes conversations avec mes camarades portaient semblable au millier d’autres que regardait, chacun pour soi, sur ces acteurs dont l’art, bien qu’il me fût encore inconnu, le reste des spectateurs.
était la première forme, entre toutes celles qu’il revêt, sous laquelle se laissait pressentir par moi l’Art. Entre la manière Tous les matins je courais jusqu’à la colonne Moriss pour que l’un ou l’autre avait de débiter, de nuancer une tirade, les voir les spectacles qu’elle annonçait. Rien n’était plus Marcel Proust –
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Din Search OverTime différences les plus minimes me semblaient avoir une m’intéressaient. Or mon oncle en connaissait beaucoup et importance incalculable. Et, d’après ce que l’on m’avait dit aussi des cocottes que je ne distinguais pas nettement des d’eux, je les classais par ordre de talent, dans des listes que je actrices. Il les recevait chez lui. Et si nous n’allions le voir me récitais toute la journée, et qui avaient fini par durcir qu’à certains jours c’est que, les autres jours, venaient des dans mon cerveau et par le gêner de leur inamovibilité.
femmes avec lesquelles sa famille n’aurait pas pu se rencontrer, du moins à son avis à elle, car, pour mon oncle, Plus tard, quand je fus au collège, chaque fois que pendant au contraire, sa trop grande facilité à faire à de jolies veuves les classes je correspondais, aussitôt que le professeur avait la qui n’avaient peutHêtre jamais été mariées, à des comtesses de tête tournée, avec un nouvel ami, ma première question était nom ronflant, qui n’était sans doute qu’un nom de guerre, la toujours pour lui demander s’il était déjà allé au théâtre et s’il politesse de les présenter à ma grand’mère ou même à leur trouvait que le plus grand acteur était bien Got, le second donner des bijoux de famille, l’avait déjà brouillé plus d’une Delaunay, etc. Et si, à son avis, Febvre ne venait qu’après fois avec mon grandHpère. Souvent, à un nom d’actrice qui Thiron, ou Delaunay qu’après Coquelin, la soudaine motilité venait dans la conversation, j’entendais mon père dire à ma que Coquelin, perdant la rigidité de la pierre, contractait dans mère, en souriant: « Une amie de ton oncle »; et je pensais mon esprit pour y passer au deuxième rang, et l’agilité que le stage que peutHêtre pendant des années des hommes miraculeuse, la féconde animation dont se voyait doué importants faisaient inutilement à la porte de telle femme qui Delaunay pour reculer au quatrième, rendait la sensation du ne répondait pas à leurs lettres et les faisait chasser par le fleurissement et de la vie à mon cerveau assoupli et fertilisé.
concierge de son hôtel, mon oncle aurait pu en dispenser un Mais si les acteurs me préoccupaient ainsi, si la vue de gamin comme moi en le présentant chez lui à l’actrice, Maubant sortant un aprèsHmidi du ThéâtreHFrançais m’avait inapprochable à tant d’autres, qui était pour lui une intime causé le saisissement et les souffrances de l’amour, combien amie.
le nom d’une étoile flamboyant à la porte d’un théâtre, Aussi – sous le prétexte qu’une leçon qui avait été déplacée combien, à la glace d’un coupé qui passait dans la rue avec tombait maintenant si mal qu’elle m’avait empêché plusieurs ses chevaux fleuris de roses au frontail, la vue du visage fois et m’empêcherait encore de voir mon oncle – un jour, d’une femme que je pensais être peutHêtre une actrice laissait autre que celui qui était réservé aux visites que nous lui en moi un trouble plus prolongé, un effort impuissant et faisions, profitant de ce que mes parents avaient déjeuné de douloureux pour me représenter sa vie. Je classais par ordre bonne heure, je sortis et au lieu d’aller regarder la colonne de talent les plus illustres: Sarah Bernhardt, la Berma, Bartet, d’affiches, pour quoi on me laissait aller seul, je courus Madeleine
Brohan,
Jeanne
Samary,
mais
toutes
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Din Search OverTime jusqu’à lui. Je remarquai devant sa porte une voiture attelée possible d’éviter tout trait d’union entre sa famille et ce genre de deux chevaux qui avaient aux œillères un œillet rouge de relations.
comme avait le cocher à sa boutonnière. De l’escalier
– Comme il ressemble à sa mère, ditHelle.
j’entendis un rire et une voix de femme, et dès que j’eus sonné, un silence, puis le bruit de portes qu’on fermait. Le
– Mais vous n’avez jamais vu ma nièce qu’en valet de chambre vint ouvrir, et en me voyant parut photographie, dit vivement mon oncle d’un ton bourru.
embarrassé, me dit que mon oncle était très occupé, ne
– Je vous demande pardon, mon cher ami, je l’ai croisée pourrait sans doute pas me recevoir, et, tandis qu’il allait dans l’escalier l’année dernière quand vous avez été si pourtant le prévenir, la même voix que j’avais entendue malade. Il est vrai que je ne l’ai vue que le temps d’un éclair disait: « Oh, si! laisseHle entrer; rien qu’une minute, cela et que votre escalier est bien noir, mais cela m’a suffi pour m’amuserait tant. Sur la photographie qui est sur ton bureau, l’admirer. Ce petit jeune homme a ses beaux yeux et aussi ça, il ressemble tant à sa maman, ta nièce, dont la photographie ditHelle, en traçant avec son doigt une ligne sur le bas de son est à côté de la sienne, n’estHce pas? Je voudrais le voir rien front. EstHce que madame votre nièce porte le même nom qu’un instant, ce gosse. »
que vous, ami? demandaHtHelle à mon oncle.
J’entendis mon oncle grommeler, se fâcher; finalement le
– Il ressemble surtout à son père, grogna mon oncle qui ne valet de chambre me fit entrer.
se souciait pas plus de faire des présentations à distance en Sur la table, il y avait la même assiette de massepains que disant le nom de maman que d’en faire de près. C’est tout à d’habitude; mon oncle avait sa vareuse de tous les jours, fait son père et aussi ma pauvre mère.
mais en face de lui, en robe de soie rose avec un grand collier
– Je ne connais pas son père, dit la dame en rose avec une de perles au cou, était assise une jeune femme qui achevait légère inclinaison de tête, et je n’ai jamais connu votre de manger une mandarine. L’incertitude où j’étais s’il fallait pauvre mère, mon ami. Vous vous souvenez, c’est peu après dire madame ou mademoiselle me fit rougir et, n’osant pas votre grand chagrin que nous nous sommes connus.
trop tourner les yeux de son côté de peur d’avoir à lui parler, j’allai embrasser mon oncle. Elle me regardait en souriant, J’éprouvais une petite déception, car cette jeune dame ne mon oncle lui dit: « Mon neveu », sans lui dire mon nom, ni différait pas des autres jolies femmes que j’avais vues me dire le sien, sans doute parce que, depuis les difficultés quelquefois dans ma famille, notamment de la fille d’un de qu’il avait eues avec mon grandHpère, il tâchait autant que nos cousins chez lequel j’allais tous les ans le premier janvier.
Mieux habillée seulement, l’amie de mon oncle avait le Marcel Proust –
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Din Search OverTime même regard vif et bon, elle avait l’air aussi franc et aimant.
d’inscriptions étrangères et dorées. « Mais si, repritHelle tout Je ne lui trouvais rien de l’aspect théâtral que j’admirais dans d’un coup, je dois avoir rencontré chez vous le père de ce les photographies d’actrices, ni de l’expression diabolique qui jeune homme. N’estHce pas votre neveu? Comment aiHje pu eût été en rapport avec la vie qu’elle devait mener. J’avais l’oublier? Il a été tellement bon, tellement exquis pour moi », peine à croire que ce fût une cocotte et surtout je n’aurais ditHelle d’un air modeste et sensible. Mais en pensant à ce pas cru que ce fût une cocotte chic si je n’avais pas vu la qu’avait pu être l’accueil rude, qu’elle disait avoir trouvé voiture à deux chevaux, la robe rose, le collier de perles, si je exquis, de mon père, moi qui connaissais sa réserve et sa n’avais pas su que mon oncle n’en connaissait que de la plus froideur, j’étais gêné, comme par une indélicatesse qu’il haute volée. Mais je me demandais comment le millionnaire aurait commise, de cette inégalité entre la reconnaissance qui lui donnait sa voiture et son hôtel et ses bijoux pouvait excessive qui lui était accordée et son amabilité insuffisante.
avoir du plaisir à manger sa fortune pour une personne qui Il m’a semblé plus tard que c’était un des côtés touchants du avait l’air si simple et comme il faut. Et pourtant, en pensant rôle de ces femmes oisives et studieuses, qu’elles consacrent à ce que devait être sa vie, l’immoralité m’en troublait peutH
leur générosité, leur talent, un rêve disponible de beauté être plus que si elle avait été concrétisée devant moi en une sentimentale – car, comme les artistes, elles ne le réalisent apparence spéciale – d’être ainsi invisible comme le secret de pas, ne le font pas entrer dans le cadre de l’existence quelque roman, de quelque scandale qui avait fait sortir de commune – et un or qui leur coûte peu, à enrichir d’un chez ses parents bourgeois et voué à tout le monde, qui avait sertissage précieux et fin la vie fruste et mal dégrossie des fait épanouir en beauté et haussé jusqu’au demiHmonde et à hommes. Comme celleHci, dans le fumoir où mon oncle était la notoriété, celle que ses jeux de physionomie, ses en vareuse pour la recevoir, répandait son corps si doux, sa intonations de voix, pareils à tant d’autres que je connaissais robe de soie rose, ses perles, l’élégance qui émane de l’amitié déjà, me faisaient malgré moi considérer comme une jeune d’un grandHduc, de même elle avait pris quelque propos fille de bonne famille, qui n’était plus d’aucune famille.
insignifiant de mon père, elle l’avait travaillé avec délicatesse, lui avait donné un tour, une appellation précieuse et y On était passé dans le « cabinet de travail », et mon oncle, enchâssant un de ses regards d’une si belle eau, nuancé d’un air un peu gêné par ma présence, lui offrit des d’humilité et de gratitude, elle le rendait changé en un bijou cigarettes.
artiste, en quelque chose de « tout à fait exquis ».
– Non, ditHelle, cher, vous savez que je suis habituée à
– Allons, voyons, il est l’heure que tu t’en ailles, me dit celles que le grandHduc m’envoie. Je lui ai dit que vous en mon oncle.
étiez jaloux. Et elle tira d’un étui des cigarettes couvertes Marcel Proust –
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Din Search OverTime Je me levai, j’avais une envie irrésistible de baiser la main
– J’adore les artistes, répondit la dame en rose, il n’y a de la dame en rose, mais il me semblait que c’eût été quelque qu’eux qui comprennent les femmes… Qu’eux et les êtres chose d’audacieux comme un enlèvement. Mon cœur battait d’élite comme vous. Excusez mon ignorance, ami. Qui est tandis que je me disais: « FautHil le faire, fautHil ne pas le faire Vaulabelle? EstHce les volumes dorés qu’il y a dans la petite
», puis je cessai de me demander ce qu’il fallait faire pour bibliothèque vitrée de votre boudoir? Vous savez que vous pouvoir faire quelque chose. Et d’un geste aveugle et m’avez promis de me les prêter, j’en aurai grand soin.
insensé, dépouillé de toutes les raisons que je trouvais il y Mon oncle qui détestait prêter ses livres ne répondit rien et avait un moment en sa faveur, je portai à mes lèvres la main me conduisit jusqu’à l’antichambre. Éperdu d’amour pour la qu’elle me tendait.
dame en rose, je couvris de baisers fous les joues pleines de
– Comme il est gentil! il est déjà galant, il a un petit œil tabac de mon vieil oncle, et tandis qu’avec assez d’embarras pour les femmes: il tient de son oncle. Ce sera un parfait il me laissait entendre sans oser me le dire ouvertement qu’il gentleman, ajoutaHtHelle en serrant les dents pour donner à la aimerait autant que je ne parlasse pas de cette visite à mes phrase un accent légèrement britannique. EstHce qu’il ne parents, je lui disais, les larmes aux yeux, que le souvenir de pourrait pas venir une fois prendre a cup of tea, comme sa bonté était en moi si fort que je trouverais bien un jour le disent nos voisins les Anglais; il n’aurait qu’à m’envoyer un «
moyen de lui témoigner ma reconnaissance. Il était si fort en bleu » le matin.
effet que deux heures plus tard, après quelques phrases mystérieuses et qui ne me parurent pas donner à mes parents Je ne savais pas ce que c’était qu’un « bleu ». Je ne une idée assez nette de la nouvelle importance dont j’étais comprenais pas la moitié des mots que disait la dame, mais la doué, je trouvai plus explicite de leur raconter dans les crainte que n’y fut cachée quelque question à laquelle il eût moindres détails la visite que je venais de faire. Je ne croyais été impoli de ne pas répondre, m’empêchait de cesser de les pas ainsi causer d’ennuis à mon oncle. Comment l’auraisHje écouter avec attention, et j’en éprouvais une grande fatigue.
cru, puisque je ne le désirais pas. Et je ne pouvais supposer
– Mais non, c’est impossible, dit mon oncle, en haussant que mes parents trouveraient du mal dans une visite où je les épaules, il est très tenu, il travaille beaucoup. Il a tous les n’en trouvais pas. N’arriveHtHil pas tous les jours qu’un ami prix à son cours, ajoutaHtHil, à voix basse pour que je nous demande de ne pas manquer de l’excuser auprès d’une n’entende pas ce mensonge et que je n’y contredise pas. Qui femme à qui il a été empêché d’écrire, et que nous négligions sait? ce sera peutHêtre un petit Victor Hugo, une espèce de de le faire, jugeant que cette personne ne peut pas attacher Vaulabelle, vous savez.
d’importance à un silence qui n’en a pas pour nous. Je Marcel Proust –
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Din Search OverTime m’imaginais, comme tout le monde, que le cerveau des Mme Octave », je me décidais à rentrer et montais autres était un réceptacle inerte et docile, sans pouvoir de directement lire chez moi. La fille de cuisine était une réaction spécifique sur ce qu’on y introduisait; et je ne personne morale, une institution permanente à qui des doutais pas qu’en déposant dans celui de mes parents la attributions invariables assuraient une sorte de continuité et nouvelle de la connaissance que mon oncle m’avait fait faire, d’identité, à travers la succession des formes passagères en je ne leur transmisse en même temps comme je le souhaitais lesquelles elle s’incarnait, car nous n’eûmes jamais la même le jugement bienveillant que je portais sur cette présentation.
deux ans de suite. L’année où nous mangeâmes tant Mes parents malheureusement s’en remirent à des principes d’asperges, la fille de cuisine habituellement chargée de les «
entièrement différents de ceux que je leur suggérais plumer » était une pauvre créature maladive, dans un état de d’adopter, quand ils voulurent apprécier l’action de mon grossesse déjà assez avancé quand nous arrivâmes à Pâques, oncle. Mon père et mon grandHpère eurent avec lui des et on s’étonnait même que Françoise lui laissât faire tant de explications violentes; j’en fus indirectement informé.
courses et de besogne, car elle commençait à porter Quelques jours après, croisant dehors mon oncle qui passait difficilement devant elle la mystérieuse corbeille, chaque jour en voiture découverte, je ressentis la douleur, la plus remplie, dont on devinait sous ses amples sarraus la reconnaissance, le remords que j’aurais voulu lui exprimer. À
forme magnifique. CeuxHci rappelaient les houppelandes qui côté de leur immensité, je trouvai qu’un coup de chapeau revêtent certaines des figures symboliques de Giotto dont M.
serait mesquin et pourrait faire supposer à mon oncle que je Swann m’avait donné des photographies. C’est luiHmême qui ne me croyais pas tenu envers lui à plus qu’à une banale nous l’avait fait remarquer et quand il nous demandait des politesse. Je résolus de m’abstenir de ce geste insuffisant et je nouvelles de la fille de cuisine, il nous disait: « Comment va détournai la tête. Mon oncle pensa que je suivais en cela des la Charité de Giotto? » D’ailleurs elleHmême, la pauvre fille, ordres de mes parents, il ne le leur pardonna pas, et il est engraissée par sa grossesse, jusqu’à la figure, jusqu’aux joues mort bien des années après sans qu’aucun de nous l’ait qui tombaient droites et carrées, ressemblait en effet assez à jamais revu.
ces vierges, fortes et hommasses, matrones plutôt, dans lesquelles les vertus sont personnifiées à l’Arena. Et je me Aussi je n’entrais plus dans le cabinet de repos maintenant rends compte maintenant que ces Vertus et ces Vices de fermé de mon oncle Adolphe, et, après m’être attardé aux Padoue lui ressemblaient encore d’une autre manière. De abords de l’arrièreHcuisine, quand Françoise, apparaissant sur même que l’image de cette fille était accrue par le symbole le parvis, me disait: « Je vais laisser ma fille de cuisine servir ajouté qu’elle portait devant son ventre, sans avoir l’air d’en le café et monter l’eau chaude, il faut que je me sauve chez comprendre le sens, sans que rien dans son visage en Marcel Proust –
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Din Search OverTime traduisît la beauté et l’esprit, comme un simple et pesant cette Envie qui avait l’air d’une planche illustrant seulement fardeau, de même c’est sans paraître s’en douter que la dans un livre de médecine la compression de la glotte ou de puissante ménagère qui est représentée à l’Arena auHdessous la luette par une tumeur de la langue ou par l’introduction de du nom « Caritas » et dont la reproduction était accrochée au l’instrument de l’opérateur, une Justice, dont le visage mur de ma salle d’études, à Combray, incarne cette vertu, grisâtre et mesquinement régulier était celuiHlà même qui, à c’est sans qu’aucune pensée de charité semble avoir jamais Combray, caractérisait certaines jolies bourgeoises pieuses et pu être exprimée par son visage énergique et vulgaire. Par sèches que je voyais à la messe et dont plusieurs étaient une belle invention du peintre elle foule aux pieds les trésors enrôlées d’avance dans les milices de réserve de l’Injustice.
de la terre, mais absolument comme si elle piétinait des Mais plus tard j’ai compris que l’étrangeté saisissante, la raisins pour en extraire le jus ou plutôt comme elle aurait beauté spéciale de ces fresques tenait à la grande place que le monté sur des sacs pour se hausser; et elle tend à Dieu son symbole y occupait, et que le fait qu’il fût représenté non cœur enflammé, disons mieux, elle le lui « passe », comme comme un symbole puisque la pensée symbolisée n’était pas une cuisinière passe un tireHbouchon par le soupirail de son exprimée, mais comme réel, comme effectivement subi ou sousHsol à quelqu’un qui le lui demande à la fenêtre du rezH
matériellement manié, donnait à la signification de l’œuvre deHchaussée. L’Envie, elle, aurait eu davantage une certaine quelque chose de plus littéral et de plus précis, à son expression d’envie. Mais dans cette fresqueHlà encore, le enseignement quelque chose de plus concret et de plus symbole tient tant de place et est représenté comme si réel, frappant. Chez la pauvre fille de cuisine, elle aussi, l’attention le serpent qui siffle aux lèvres de l’Envie est si gros, il lui n’étaitHelle pas sans cesse ramenée à son ventre par le poids remplit si complètement sa bouche grande ouverte, que les qui le tirait; et de même encore, bien souvent la pensée des muscles de sa figure sont distendus pour pouvoir le contenir, agonisants est tournée vers le côté effectif, douloureux, comme ceux d’un enfant qui gonfle un ballon avec son obscur, viscéral, vers cet envers de la mort qui est souffle, et que l’attention de l’Envie – et la nôtre du même précisément le côté qu’elle leur présente, qu’elle leur fait coup – tout entière concentrée sur l’action de ses lèvres, n’a rudement sentir et qui ressemble beaucoup plus à un fardeau guère de temps à donner à d’envieuses pensées.
qui les écrase, à une difficulté de respirer, à un besoin de boire, qu’à ce que nous appelons l’idée de la mort.
Malgré toute l’admiration que M. Swann professait pour ces figures de Giotto, je n’eus longtemps aucun plaisir à Il fallait que ces Vertus et ces Vices de Padoue eussent en considérer dans notre salle d’études, où on avait accroché les eux bien de la réalité puisqu’ils m’apparaissaient comme copies qu’il m’en avait rapportées, cette Charité sans charité, aussi vivants que la servante enceinte, et qu’elleHmême ne me Marcel Proust –
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Din Search OverTime semblait pas beaucoup moins allégorique. Et peutHêtre cette reposait pas » et qu’on pouvait faire du bruit) contre des nonHparticipation (du moins apparente) de l’âme d’un être à caisses
poussiéreuses,
mais
qui,
retentissant
dans
la vertu qui agit par lui a aussi en dehors de sa valeur l’atmosphère sonore, spéciale aux temps chauds, semblaient esthétique une réalité sinon psychologique, au moins, faire voler au loin des astres écarlates; et aussi par les comme on dit, physiognomonique. Quand, plus tard, j’ai eu mouches qui exécutaient devant moi, dans leur petit concert, l’occasion de rencontrer, au cours de ma vie, dans des comme la musique de chambre de l’été: elle ne l’évoque pas couvents par exemple, des incarnations vraiment saintes de à la façon d’un air de musique humaine, qui, entendu par la charité active, elles avaient généralement un air allègre, hasard à la belle saison, vous la rappelle ensuite; elle est unie positif, indifférent et brusque de chirurgien pressé, ce visage à l’été par un lien plus nécessaire: née des beaux jours, ne où ne se lit aucune commisération, aucun attendrissement renaissant qu’avec eux, contenant un peu de leur essence, devant la souffrance humaine, aucune crainte de la heurter, elle n’en réveille pas seulement l’image dans notre mémoire, et qui est le visage sans douceur, le visage antipathique et elle en certifie le retour, la présence effective, ambiante, sublime de la vraie bonté.
immédiatement accessible.
Pendant que la fille de cuisine – faisant briller Cette obscure fraîcheur de ma chambre était au plein soleil involontairement la supériorité de Françoise, comme de la rue ce que l’ombre est au rayon, c’estHàHdire aussi l’Erreur, par le contraste, rend plus éclatant le triomphe de la lumineuse que lui et offrait à mon imagination le spectacle Vérité – servait du café qui, selon maman, n’était que de total de l’été dont mes sens, si j’avais été en promenade, l’eau chaude, et montait ensuite dans nos chambres de l’eau n’auraient pu jouir que par morceaux; et ainsi elle s’accordait chaude qui était à peine tiède, je m’étais étendu sur mon lit, bien à mon repos qui (grâce aux aventures racontées par mes un livre à la main, dans ma chambre qui protégeait en livres et qui venaient l’émouvoir) supportait pareil au repos tremblant sa fraîcheur transparente et fragile contre le soleil d’une main immobile au milieu d’une eau courante, le choc de l’aprèsHmidi derrière ses volets presque clos où un reflet et l’animation d’un torrent d’activité.
de jour avait pourtant trouvé moyen de faire passer ses ailes Mais ma grand’mère, même si le temps trop chaud s’était jaunes, et restait immobile entre le bois et le vitrage, dans un gâté, si un orage ou seulement un grain était survenu, venait coin, comme un papillon posé. Il faisait à peine assez clair me supplier de sortir. Et ne voulant pas renoncer à ma pour lire, et la sensation de la splendeur de la lumière ne lecture, j’allais du moins la continuer au jardin, sous le m’était donnée que par les coups frappés dans la rue de la marronnier, dans une petite guérite en sparterie et en toile au Cure par Camus (averti par Françoise que ma tante ne «
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Din Search OverTime fond de laquelle j’étais assis et me croyais caché aux yeux des l’avais reconnu pour m’avoir été cité comme un ouvrage personnes qui pourraient venir faire visite à mes parents.
remarquable par le professeur ou le camarade qui me paraissait à cette époque détenir le secret de la vérité et de la Et ma pensée n’étaitHelle pas aussi comme une autre beauté à demi pressenties, à demi incompréhensibles, dont la crèche au fond de laquelle je sentais que je restais enfoncé, connaissance était le but vague mais permanent de ma même pour regarder ce qui se passait au dehors? Quand je pensée.
voyais un objet extérieur, la conscience que je le voyais restait entre moi et lui, le bordait d’un mince liseré spirituel Après cette croyance centrale qui, pendant ma lecture, qui m’empêchait de jamais toucher directement sa matière; exécutait d’incessants mouvements du dedans au dehors, elle se volatilisait en quelque sorte avant que je prisse contact vers la découverte de la vérité, venaient les émotions que me avec elle, comme un corps incandescent qu’on approche donnait l’action à laquelle je prenais part, car ces aprèsHmidiH
d’un objet mouillé ne touche pas son humidité parce qu’il se là étaient plus remplis d’événements dramatiques que ne l’est fait toujours précéder d’une zone d’évaporation. Dans souvent toute une vie. C’était les événements qui survenaient l’espèce d’écran diapré d’états différents que, tandis que je dans le livre que je lisais; il est vrai que les personnages qu’ils lisais, déployait simultanément ma conscience, et qui allaient affectaient n’étaient pas « réels », comme disait Françoise.
des aspirations les plus profondément cachées en moiHmême Mais tous les sentiments que nous font éprouver la joie ou jusqu’à la vision tout extérieure de l’horizon que j’avais, au l’infortune d’un personnage réel ne se produisent en nous bout du jardin, sous les yeux, ce qu’il y avait d’abord en moi que par l’intermédiaire d’une image de cette joie ou de cette de plus intime, la poignée sans cesse en mouvement qui infortune; l’ingéniosité du premier romancier consista à gouvernait le reste, c’était ma croyance en la richesse comprendre que dans l’appareil de nos émotions, l’image philosophique, en la beauté du livre que je lisais, et mon étant le seul élément essentiel, la simplification qui désir de me les approprier, quel que fût ce livre. Car, même consisterait à supprimer purement et simplement les si je l’avais acheté à Combray, en l’apercevant devant personnages réels serait un perfectionnement décisif. Un être l’épicerie Borange, trop distante de la maison pour que réel, si profondément que nous sympathisions avec lui, pour Françoise pût s’y fournir comme chez Camus, mais mieux une grande part est perçu par nos sens, c’estHàHdire nous achalandée comme papeterie et librairie, retenu par des reste opaque, offre un poids mort que notre sensibilité ne ficelles dans la mosaïque des brochures et des livraisons qui peut soulever. Qu’un malheur le frappe, ce n’est qu’en une revêtaient les deux vantaux de sa porte plus mystérieuse, plus petite partie de la notion totale que nous avons de lui que semée de pensées qu’une porte de cathédrale, c’est que je nous pourrons en être émus; bien plus, ce n’est qu’en une Marcel Proust –
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Din Search OverTime partie de la notion totale qu’il a de soi qu’il pourra l’être luiH
Déjà moins intérieur à mon corps que cette vie des même. La trouvaille du romancier a été d’avoir l’idée de personnages, venait ensuite, à demi projeté devant moi, le remplacer ces parties impénétrables à l’âme par une quantité paysage où se déroulait l’action et qui exerçait sur ma pensée égale de parties immatérielles, c’estHàHdire que notre âme une bien plus grande influence que l’autre, que celui que peut s’assimiler. Qu’importe dès lors que les actions, les j’avais sous les yeux quand je les levais du livre. C’est ainsi émotions de ces êtres d’un nouveau genre nous apparaissent que pendant deux étés, dans la chaleur du jardin de comme vraies, puisque nous les avons faites nôtres, puisque Combray, j’ai eu, à cause du livre que je lisais alors, la c’est en nous qu’elles se produisent, qu’elles tiennent sous nostalgie d’un pays montueux et fluviatile, où je verrais leur dépendance, tandis que nous tournons fiévreusement les beaucoup de scieries et où, au fond de l’eau claire, des pages du livre, la rapidité de notre respiration et l’intensité de morceaux de bois pourrissaient sous des touffes de cresson: notre regard. Et une fois que le romancier nous a mis dans non loin montaient le long de murs bas des grappes de fleurs cet état, où comme dans tous les états purement intérieurs violettes et rougeâtres. Et comme le rêve d’une femme qui toute émotion est décuplée, où son livre va nous troubler à m’aurait aimé était toujours présent à ma pensée, ces étésHlà la façon d’un rêve mais d’un rêve plus clair que ceux que ce rêve fut imprégné de la fraîcheur des eaux courantes; et nous avons en dormant et dont le souvenir durera quelle que fût la femme que j’évoquais, des grappes de fleurs davantage, alors, voici qu’il déchaîne en nous pendant une violettes et rougeâtres s’élevaient aussitôt de chaque côté heure tous les bonheurs et tous les malheurs possibles dont d’elle comme des couleurs complémentaires.
nous mettrions dans la vie des années à connaître quelquesH
Ce n’était pas seulement parce qu’une image dont nous uns, et dont les plus intenses ne nous seraient jamais révélés rêvons reste toujours marquée, s’embellit et bénéficie du parce que la lenteur avec laquelle ils se produisent nous en reflet des couleurs étrangères qui par hasard l’entourent dans ôte la perception; (ainsi notre cœur change, dans la vie, et notre rêverie; car ces paysages des livres que je lisais n’étaient c’est la pire douleur; mais nous ne la connaissons que dans la pas pour moi que des paysages plus vivement représentés à lecture, en imagination: dans la réalité il change, comme mon imagination que ceux que Combray mettait sous mes certains phénomènes de la nature se produisent assez yeux, mais qui eussent été analogues. Par le choix qu’en avait lentement pour que, si nous pouvons constater fait l’auteur, par la foi avec laquelle ma pensée allait auH
successivement chacun de ses états différents, en revanche, devant de sa parole comme d’une révélation, ils me la sensation même du changement nous soit épargnée).
semblaient être – impression que ne me donnait guère le pays où je me trouvais, et surtout notre jardin, produit sans Marcel Proust –
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Din Search OverTime prestige de la correcte fantaisie du jardinier que méprisait ma d’eau irisé et en apparence immobile – dans un même et grand’mère – une part véritable de la Nature elleHmême, infléchissable jaillissement de toutes les forces de ma vie.
digne d’être étudiée et approfondie.
Enfin, en continuant à suivre du dedans au dehors les états Si mes parents m’avaient permis, quand je lisais un livre, simultanément juxtaposés dans ma conscience, et avant d’aller visiter la région qu’il décrivait, j’aurais cru faire un pas d’arriver jusqu’à l’horizon réel qui les enveloppait, je trouve inestimable dans la conquête de la vérité. Car si on a la des plaisirs d’un autre genre, celui d’être bien assis, de sentir sensation d’être toujours entouré de son âme, ce n’est pas la bonne odeur de l’air, de ne pas être dérangé par une visite: comme d’une prison immobile: plutôt on est comme et, quand une heure sonnait au clocher de SaintHHilaire, de emporté avec elle dans un perpétuel élan pour la dépasser, voir tomber morceau par morceau ce qui de l’aprèsHmidi pour atteindre à l’extérieur, avec une sorte de était déjà consommé, jusqu’à ce que j’entendisse le dernier découragement, entendant toujours autour de soi cette coup qui me permettait de faire le total et après lequel, le sonorité identique qui n’est pas écho du dehors, mais long silence qui le suivait semblait faire commencer, dans le retentissement d’une vibration interne. On cherche à ciel bleu, toute la partie qui m’était encore concédée pour lire retrouver dans les choses, devenues par là précieuses, le jusqu’au bon dîner qu’apprêtait Françoise et qui me reflet que notre âme a projeté sur elles; on est déçu en réconforterait des fatigues prises, pendant la lecture du livre, constatant qu’elles semblent dépourvues dans la nature, du à la suite de son héros. Et à chaque heure il me semblait que charme qu’elles devaient, dans notre pensée, au voisinage de c’était quelques instants seulement auparavant que la certaines idées; parfois on convertit toutes les forces de cette précédente avait sonné; la plus récente venait s’inscrire tout âme en habileté, en splendeur pour agir sur des êtres dont près de l’autre dans le ciel et je ne pouvais croire que nous sentons bien qu’ils sont situés en dehors de nous et que soixante minutes eussent tenu dans ce petit arc bleu qui était nous ne les atteindrons jamais. Aussi, si j’imaginais toujours compris entre leurs deux marques d’or. Quelquefois même autour de la femme que j’aimais les lieux que je désirais le cette heure prématurée sonnait deux coups de plus que la plus alors, si j’eusse voulu que ce fût elle qui me les fît visiter, dernière; il y en avait donc une que je n’avais pas entendue, qui m’ouvrît l’accès d’un monde inconnu, ce n’était pas par quelque chose qui avait eu lieu n’avait pas eu lieu pour moi; le hasard d’une simple association de pensée; non, c’est que l’intérêt de la lecture, magique comme un profond sommeil, mes rêves de voyage et d’amour n’étaient que des moments avait donné le change à mes oreilles hallucinées et effacé la
– que je sépare artificiellement aujourd’hui comme si je cloche d’or sur la surface azurée du silence. Beaux aprèsHmidi pratiquais des sections à des hauteurs différentes d’un jet du dimanche sous le marronnier du jardin de Combray, Marcel Proust –
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Din Search OverTime soigneusement vidés par moi des incidents médiocres de
– Pauvres enfants, disait Françoise à peine arrivée à la mon existence personnelle que j’y avais remplacés par une grille et déjà en larmes; pauvre jeunesse qui sera fauchée vie d’aventures et d’aspirations étranges au sein d’un pays comme un pré; rien que d’y penser j’en suis choquée, arrosé d’eaux vives, vous m’évoquez encore cette vie quand ajoutaitHelle en mettant la main sur son cœur, là où elle avait je pense à vous et vous la contenez en effet pour l’avoir peu reçu ce choc.
à peu contournée et enclose – tandis que je progressais dans
– C’est beau, n’estHce pas, madame Françoise, de voir des ma lecture et que tombait la chaleur du jour – dans le cristal jeunes gens qui ne tiennent pas à la vie? disait le jardinier successif, lentement changeant et traversé de feuillages, de pour la faire « monter ».
vos heures silencieuses, sonores, odorantes et limpides.
Il n’avait pas parlé en vain:
Quelquefois j’étais tiré de ma lecture, dès le milieu de l’aprèsHmidi, par la fille du jardinier, qui courait comme une
– De ne pas tenir à la vie? Mais à quoi donc qu’il faut tenir, folle, renversant sur son passage un oranger, se coupant un si ce n’est pas à la vie, le seul cadeau que le bon Dieu ne doigt, se cassant une dent et criant: « Les voilà, les voilà! »
fasse jamais deux fois. Hélas! mon Dieu! C’est pourtant vrai pour que Françoise et moi nous accourions et ne manquions qu’ils n’y tiennent pas! Je les ai vus en 70; ils n’ont plus peur rien du spectacle. C’était les jours où, pour des manœuvres de la mort, dans ces misérables guerres; c’est ni plus ni de garnison, la troupe traversait Combray, prenant moins des fous; et puis ils ne valent plus la corde pour les généralement la rue SainteHHildegarde. Tandis que nos pendre, ce n’est pas des hommes, c’est des lions. (Pour domestiques assis en rang sur des chaises en dehors de la Françoise la comparaison d’un homme à un lion, qu’elle grille regardaient les promeneurs dominicaux de Combray et prononçait liHon, n’avait rien de flatteur.) se faisaient voir d’eux, la fille du jardinier, par la fente que La rue SainteHHildegarde tournait trop court pour qu’on laissaient entre elles deux maisons lointaines de l’avenue de pût voir venir de loin, et c’était par cette fente entre les deux la Gare, avait aperçu l’éclat des casques. Les domestiques maisons de l’avenue de la gare qu’on apercevait toujours de avaient rentré précipitamment leurs chaises, car quand les nouveaux casques courant et brillant au soleil. Le jardinier cuirassiers
défilaient
rue
SainteHHildegarde,
ils
en
aurait voulu savoir s’il y en avait encore beaucoup à passer, remplissaient toute la largeur, et le galop des chevaux rasait et il avait soif, car le soleil tapait. Alors tout d’un coup sa fille les maisons, couvrant les trottoirs submergés comme des s’élançait comme d’une place assiégée, faisait une sortie, berges qui offrent un lit trop étroit à un torrent déchaîné.
atteignait l’angle de la rue, et après avoir bravé cent fois la mort, venait nous rapporter, avec une carafe de coco, la Marcel Proust –
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Din Search OverTime nouvelle qu’ils étaient bien un mille qui venaient sans arrêter celui des algues et des coquilles dont une forte marée laisse du côté de Thiberzy et de Méséglise. Françoise et le jardinier, le crêpe et la broderie au rivage, après qu’elle s’est éloignée.
réconciliés, discutaient sur la conduite à tenir en cas de Sauf ces joursHlà, je pouvais d’habitude, au contraire, lire guerre:
tranquille. Mais l’interruption et le commentaire qui furent
– VoyezHvous, Françoise, disait le jardinier, la révolution apportés une fois par une visite de Swann à la lecture que vaudrait mieux, parce que quand on la déclare il n’y a que j’étais en train de faire du livre d’un auteur tout nouveau ceux qui veulent partir qui y vont.
pour moi, Bergotte, eut cette conséquence que, pour longtemps, ce ne fut plus sur un mur décoré de fleurs
– Ah! oui, au moins je comprends cela, c’est plus franc.
violettes en quenouille, mais sur un fond tout autre, devant Le jardinier croyait qu’à la déclaration de guerre on arrêtait le portail d’une cathédrale gothique, que se détacha tous les chemins de fer.
désormais l’image d’une des femmes dont je rêvais.
– Pardi, pour pas qu’on se sauve, disait Françoise.
J’avais entendu parler de Bergotte pour la première fois Et le jardinier: « Ah! ils sont malins », car il n’admettait pas par un de mes camarades plus âgé que moi et pour qui j’avais que la guerre ne fût pas une espèce de mauvais tour que une grande admiration, Bloch. En m’entendant lui avouer l’État essayait de jouer au peuple et que, si on avait eu le mon admiration pour la Nuit d’Octobre, il avait fait éclater moyen de le faire, il n’est pas une seule personne qui n’eût un rire bruyant comme une trompette et m’avait dit: « DéfieH
filé.
toi de ta dilection assez basse pour le sieur de Musset. C’est un coco des plus malfaisants et une assez sinistre brute. Je Mais Françoise se hâtait de rejoindre ma tante, je dois confesser, d’ailleurs, que lui et même le nommé Racine, retournais à mon livre, les domestiques se réinstallaient ont fait chacun dans leur vie un vers assez bien rythmé, et devant la porte à regarder tomber la poussière et l’émotion qui a pour lui, ce qui est selon moi le mérite suprême, de ne qu’avaient soulevées les soldats. Longtemps après que signifier absolument rien. C’est: « La blanche Oloossone et la l’accalmie était venue, un flot inaccoutumé de promeneurs blanche Camire » et « La fille de Minos et de Pasiphaé ». Ils noircissait encore les rues de Combray. Et devant chaque m’ont été signalés à la décharge de ces deux malandrins par maison, même celles où ce n’était pas l’habitude, les un article de mon très cher maître, le père Lecomte, agréable domestiques ou même les maîtres, assis et regardant, aux Dieux immortels. À propos voici un livre que je n’ai pas festonnaient le seuil d’un liséré capricieux et sombre comme le temps de lire en ce moment qui est recommandé, paraîtHil, par cet immense bonhomme. Il tient, m’aHtHon dit, l’auteur, Marcel Proust –
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Din Search OverTime le sieur Bergotte, pour un coco des plus subtils; et bien qu’il mais j’avais peur que mon camarade ne le connût et ne fasse preuve, des fois, de mansuétudes assez mal explicables, rétablît les paroles.
sa parole est pour moi oracle delphique. Lis donc ces proses Avant de les avoir vus, rien qu’en entendant leur nom qui, lyriques, et si le gigantesque assembleur de rythmes qui a bien souvent, n’avait rien de particulièrement israélite, il écrit Bhagavat et le Levrier de Magnus a dit vrai, par Apollon devinait non seulement l’origine juive de ceux de mes amis tu goûteras, cher maître, les joies nectaréennes de l’Olympos.
qui l’étaient en effet, mais même ce qu’il y avait quelquefois
» C’est sur un ton sarcastique qu’il m’avait demandé de de fâcheux dans leur famille.
l’appeler « cher maître » et qu’il m’appelait luiHmême ainsi.
Mais en réalité nous prenions un certain plaisir à ce jeu, étant
– Et comment s’appelleHtHil ton ami qui vient ce soir?
encore rapprochés de l’âge où on croit qu’on crée ce qu’on
– Dumont, grandHpère.
nomme.
– Dumont! Oh! je me méfie.
Malheureusement, je ne pus pas apaiser en causant avec Bloch et en lui demandant des explications, le trouble où il Et il chantait:
m’avait jeté quand il m’avait dit que les beaux vers (à moi qui
« Archers, faites bonne garde!
n’attendais d’eux rien moins que la révélation de la vérité) Veillez sans trêve et sans bruit; »
étaient d’autant plus beaux qu’ils ne signifiaient rien du tout.
Bloch en effet ne fut pas réinvité à la maison. Il y avait Et après nous avoir posé adroitement quelques questions d’abord été bien accueilli. Mon grandHpère, il est vrai, plus précises, il s’écriait: « À la garde! À la garde! » ou, si prétendait que chaque fois que je me liais avec un de mes c’était le patient luiHmême déjà arrivé qu’il avait forcé à son camarades plus qu’avec les autres et que je l’amenais chez insu, par un interrogatoire dissimulé, à confesser ses origines, nous, c’était toujours un juif, ce qui ne lui eût pas déplu en alors, pour nous montrer qu’il n’avait plus aucun doute, il se principe – même son ami Swann était d’origine juive – s’il contentait
de
nous
regarder
en
fredonnant
n’avait trouvé que ce n’était pas d’habitude parmi les imperceptiblement:
meilleurs que je le choisissais. Aussi quand j’amenais un
« De ce timide Israëlite
nouvel ami, il était bien rare qu’il ne fredonnât pas: « Ô Dieu de nos Pères » de la Juive ou bien « Israël romps ta chaîne », Quoi! vous guidez ici les pas! »
ne chantant que l’air naturellement (Ti la lam ta lam, talim), ou:
« Champs paternels, Hébron, douce vallée. »
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Din Search OverTime ou encore:
Et enfin il avait mécontenté tout le monde parce que, étant venu déjeuner une heure et demie en retard et couvert de
« Oui, je suis de la race élue. »
boue, au lieu de s’excuser, il avait dit: Ces petites manies de mon grandHpère n’impliquaient
– Je ne me laisse jamais influencer par les perturbations de aucun sentiment malveillant à l’endroit de mes camarades.
l’atmosphère ni par les divisions conventionnelles du temps.
Mais Bloch avait déplu à mes parents pour d’autres raisons.
Je réhabiliterais volontiers l’usage de la pipe d’opium et du Il avait commencé par agacer mon père qui, le voyant kriss malais, mais j’ignore celui de ces instruments infiniment mouillé, lui avait dit avec intérêt: plus pernicieux et d’ailleurs platement bourgeois, la montre
– Mais, monsieur Bloch, quel temps faitHil donc? estHce et le parapluie.
qu’il a plu? Je n’y comprends rien, le baromètre était Il serait malgré tout revenu à Combray. Il n’était pas excellent.
pourtant l’ami que mes parents eussent souhaité pour moi; Il n’en avait tiré que cette réponse: ils avaient fini par penser que les larmes que lui avait fait
– Monsieur, je ne puis absolument vous dire s’il a plu. Je verser l’indisposition de ma grand’mère n’étaient pas feintes; vis si résolument en dehors des contingences physiques que mais ils savaient d’instinct ou par expérience que les élans de mes sens ne prennent pas la peine de me les notifier.
notre sensibilité ont peu d’empire sur la suite de nos actes et la conduite de notre vie, et que le respect des obligations
– Mais, mon pauvre fils, il est idiot ton ami, m’avait dit morales, la fidélité aux amis, l’exécution d’une œuvre, mon père quand Bloch fut parti. Comment! il ne peut même l’observance d’un régime, ont un fondement plus sûr dans pas me dire le temps qu’il fait! Mais il n’y a rien de plus des habitudes aveugles que dans ces transports momentanés, intéressant! C’est un imbécile.
ardents et stériles. Ils auraient préféré pour moi à Bloch des Puis Bloch avait déplu à ma grand’mère parce que, après le compagnons qui ne me donneraient pas plus qu’il n’est déjeuner comme elle disait qu’elle était un peu souffrante, il convenu d’accorder à ses amis, selon les règles de la morale avait étouffé un sanglot et essuyé des larmes.
bourgeoise; qui ne m’enverraient pas inopinément une corbeille de fruits parce qu’ils auraient ce jourHlà pensé à moi
– Comment veuxHtu que ça soit sincère, me ditHelle, avec tendresse, mais qui, n’étant pas capables de faire puisqu’il ne me connaît pas; ou bien alors il est fou.
pencher en ma faveur la juste balance des devoirs et des exigences de l’amitié sur un simple mouvement de leur imagination et de leur sensibilité, ne la fausseraient pas Marcel Proust –
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Din Search OverTime davantage à mon préjudice. Nos torts même font pouvais pas quitter le roman que je lisais de lui, mais me difficilement départir de ce qu’elles nous doivent ces natures croyais seulement intéressé par le sujet, comme dans ces dont ma grand’tante était le modèle, elle qui brouillée depuis premiers moments de l’amour où on va tous les jours des années avec une nièce à qui elle ne parlait jamais, ne retrouver une femme à quelque réunion, à quelque modifia pas pour cela le testament où elle lui laissait toute sa divertissement par les agréments desquels on se croit attiré.
fortune, parce que c’était sa plus proche parente et que cela «
Puis je remarquai les expressions rares, presque archaïques se devait ».
qu’il aimait employer à certains moments où un flot caché d’harmonie, un prélude intérieur, soulevait son style; et Mais j’aimais Bloch, mes parents voulaient me faire plaisir, c’était aussi à ces momentsHlà qu’il se mettait à parler du «
les problèmes insolubles que je me posais à propos de la vain songe de la vie », de « l’inépuisable torrent des belles beauté dénuée de signification de la fille de Minos et de apparences », du « tourment stérile et délicieux de Pasiphaé me fatiguaient davantage et me rendaient plus comprendre et d’aimer », des « émouvantes effigies qui souffrant que n’auraient fait de nouvelles conversations avec anoblissent à jamais la façade vénérable et charmante des lui, bien que ma mère les jugeât pernicieuses. Et on l’aurait cathédrales », qu’il exprimait toute une philosophie nouvelle encore reçu à Combray si, après ce dîner, comme il venait de pour moi par de merveilleuses images dont on aurait dit que m’apprendre – nouvelle qui plus tard eut beaucoup c’était elles qui avaient éveillé ce chant de harpes qui s’élevait d’influence sur ma vie, et la rendit plus heureuse, puis plus alors et à l’accompagnement duquel elles donnaient quelque malheureuse – que toutes les femmes ne pensaient qu’à chose de sublime. Un de ces passages de Bergotte, le l’amour et qu’il n’y en a pas dont on ne pût vaincre les troisième ou le quatrième que j’eusse isolé du reste, me résistances, il ne m’avait assuré avoir entendu dire de la donna une joie incomparable à celle que j’avais trouvée au façon la plus certaine que ma grand’tante avait eu une premier, une joie que je me sentis éprouver en une région jeunesse orageuse et avait été publiquement entretenue. Je ne plus profonde de moiHmême, plus unie, plus vaste, d’où les pus me tenir de répéter ces propos à mes parents, on le mit à obstacles et les séparations semblaient avoir été enlevés.
la porte quand il revint, et quand je l’abordai ensuite dans la C’est que, reconnaissant alors ce même goût pour les rue, il fut extrêmement froid pour moi.
expressions rares, cette même effusion musicale, cette même Mais au sujet de Bergotte il avait dit vrai.
philosophie idéaliste qui avait déjà été les autres fois, sans Les premiers jours, comme un air de musique dont on que je m’en rendisse compte, la cause de mon plaisir, je n’eus raffolera, mais qu’on ne distingue pas encore, ce que je plus l’impression d’être en présence d’un morceau particulier devais tant aimer dans son style ne m’apparut pas. Je ne d’un certain livre de Bergotte, traçant à la surface de ma Marcel Proust –
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Din Search OverTime pensée une figure purement linéaire, mais plutôt du «
alors par les ondulations de la surface, plus douces peutHêtre morceau idéal » de Bergotte, commun à tous ses livres et encore, plus harmonieuses quand elles étaient ainsi voilées et auquel tous les passages analogues qui venaient se confondre qu’on n’aurait pu indiquer d’une manière précise où naissait, avec lui auraient donné une sorte d’épaisseur, de volume, où expirait leur murmure. Ces morceaux auxquels il se dont mon esprit semblait agrandi.
complaisait étaient nos morceaux préférés. Pour moi, je les savais par cœur. J’étais déçu quand il reprenait le fil de son Je n’étais pas tout à fait le seul admirateur de Bergotte; il récit. Chaque fois qu’il parlait de quelque chose dont la était aussi l’écrivain préféré d’une amie de ma mère qui était beauté m’était restée jusqueHlà cachée, des forêts de pins, de très lettrée; enfin pour lire son dernier livre paru, le docteur la grêle, de NotreHDame de Paris, d’Athalie ou de Phèdre, il du Boulbon faisait attendre ses malades; et ce fut de son faisait dans une image exploser cette beauté jusqu’à moi.
cabinet de consultation, et d’un parc voisin de Combray, que Aussi sentant combien il y avait de parties de l’univers que s’envolèrent quelquesHunes des premières graines de cette ma perception infirme ne distinguerait pas s’il ne les prédilection pour Bergotte, espèce si rare alors, aujourd’hui rapprochait de moi, j’aurais voulu posséder une opinion de universellement répandue, et dont on trouve partout en lui, une métaphore de lui, sur toutes choses, surtout sur Europe, en Amérique, jusque dans le moindre village, la fleur celles que j’aurais l’occasion de voir moiHmême, et entre idéale et commune. Ce que l’amie de ma mère et, paraîtHil, le cellesHlà, particulièrement sur d’anciens monuments français docteur du Boulbon aimaient surtout dans les livres de et certains paysages maritimes, parce que l’insistance avec Bergotte c’était, comme moi, ce même flux mélodique, ces laquelle il les citait dans ses livres prouvait qu’il les tenait expressions anciennes, quelques autres très simples et pour riches de signification et de beauté. Malheureusement connues, mais pour lesquelles la place où il les mettait en sur presque toutes choses j’ignorais son opinion. Je ne lumière semblait révéler de sa part un goût particulier; enfin, doutais pas qu’elle ne fût entièrement différente des dans les passages tristes, une certaine brusquerie, un accent miennes, puisqu’elle descendait d’un monde inconnu vers presque rauque. Et sans doute luiHmême devait sentir que là lequel je cherchais à m’élever: persuadé que mes pensées étaient ses plus grands charmes. Car dans les livres qui eussent paru pure ineptie à cet esprit parfait, j’avais tellement suivirent, s’il avait rencontré quelque grande vérité, ou le fait table rase de toutes, que quand par hasard il m’arriva nom d’une célèbre cathédrale, il interrompait son récit et d’en rencontrer, dans tel de ses livres, une que j’avais déjà dans une invocation, une apostrophe, une longue prière, il eue moiHmême, mon cœur se gonflait comme si un Dieu donnait un libre cours à ces effluves qui dans ses premiers dans sa bonté me l’avait rendue, l’avait déclarée légitime et ouvrages restaient intérieurs à sa prose, décelés seulement belle. Il arrivait parfois qu’une page de lui disait les mêmes Marcel Proust –
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Din Search OverTime choses que j’écrivais souvent la nuit à ma grand’mère et à ma ami M. Legrandin (remarques sur Françoise et M. Legrandin mère quand je ne pouvais pas dormir, si bien que cette page qui étaient certes de celles que j’eusse le plus délibérément de Bergotte avait l’air d’un recueil d’épigraphes pour être sacrifiées à Bergotte, persuadé qu’il les trouverait sans placées en tête de mes lettres. Même plus tard, quand je intérêt), il me sembla soudain que mon humble vie et les commençai de composer un livre, certaines phrases dont la royaumes du vrai n’étaient pas aussi séparés que j’avais cru, qualité ne suffit pas pour décider à le continuer, j’en qu’ils coïncidaient même sur certains points, et de confiance retrouvai l’équivalent dans Bergotte. Mais ce n’était qu’alors, et de joie je pleurai sur les pages de l’écrivain comme dans quand je les lisais dans son œuvre, que je pouvais en jouir; les bras d’un père retrouvé.
quand c’était moi qui les composais, préoccupé qu’elles D’après ses livres j’imaginais Bergotte comme un vieillard reflétassent exactement ce que j’apercevais dans ma pensée, faible et déçu qui avait perdu des enfants et ne s’était jamais craignant de ne pas « faire ressemblant », j’avais bien le consolé. Aussi je lisais, je chantais intérieurement sa prose, temps de me demander si ce que j’écrivais était agréable!
plus « dolce », plus « lento » peutHêtre qu’elle n’était écrite, et Mais en réalité il n’y avait que ce genre de phrases, ce genre la phrase la plus simple s’adressait à moi avec une intonation d’idées que j’aimais vraiment. Mes efforts inquiets et attendrie. Plus que tout j’aimais sa philosophie, je m’étais mécontents étaient euxHmêmes une marque d’amour, donné à elle pour toujours. Elle me rendait impatient d’amour sans plaisir mais profond. Aussi quand tout d’un d’arriver à l’âge où j’entrerais au collège, dans la classe coup je trouvais de telles phrases dans l’œuvre d’un autre, appelée Philosophie. Mais je ne voulais pas qu’on y fît autre c’estHàHdire sans plus avoir de scrupules, de sévérité, sans chose que vivre uniquement par la pensée de Bergotte, et si avoir à me tourmenter, je me laissais enfin aller avec délices l’on m’avait dit que les métaphysiciens auxquels je au goût que j’avais pour elles, comme un cuisinier qui pour m’attacherais alors ne lui ressembleraient en rien, j’aurais une fois où il n’a pas à faire la cuisine trouve enfin le temps ressenti le désespoir d’un amoureux qui veut aimer pour la d’être gourmand. Un jour, ayant rencontré dans un livre de vie et à qui on parle des autres maîtresses qu’il aura plus tard.
Bergotte, à propos d’une vieille servante, une plaisanterie que le magnifique et solennel langage de l’écrivain rendait encore Un dimanche, pendant ma lecture au jardin, je fus dérangé plus ironique, mais qui était la même que j’avais si souvent par Swann qui venait voir mes parents.
faite à ma grand’mère en parlant de Françoise, une autre fois
– Qu’estHce que vous lisez, on peut regarder? Tiens, du que je vis qu’il ne jugeait pas indigne de figurer dans un de Bergotte? Qui donc vous a indiqué ses ouvrages?
ces miroirs de la vérité qu’étaient ses ouvrages une remarque analogue à celle que j’avais eu l’occasion de faire sur notre Je lui dis que c’était Bloch.
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– Ah! oui, ce garçon que j’ai vu une fois ici, qui ressemble quand il parlait de choses sérieuses, quand il employait une tellement au portrait de Mahomet II par Bellini. Oh! c’est expression qui semblait impliquer une opinion sur un sujet frappant, il a les mêmes sourcils circonflexes, le même nez important, il avait soin de l’isoler dans une intonation recourbé, les mêmes pommettes saillantes. Quand il aura une spéciale, machinale et ironique, comme s’il l’avait mise entre barbiche ce sera la même personne. En tout cas il a du goût, guillemets, semblant ne pas vouloir la prendre à son compte, car Bergotte est un charmant esprit. Et voyant combien et dire: « la hiérarchie, vous savez, comme disent les gens j’avais l’air d’admirer Bergotte, Swann qui ne parlait jamais ridicules »? Mais alors, si c’était ridicule, pourquoi disaitHil la des gens qu’il connaissait fit, par bonté, une exception et me hiérarchie?). Un instant après il ajouta: « Cela vous donnera dit:
une vision aussi noble que n’importe quel chefHd’œuvre, je ne sais pas moi… que – et il se mit à rire – les Reines de
– Je le connais beaucoup, si cela pouvait vous faire plaisir Chartres! » JusqueHlà cette horreur d’exprimer sérieusement qu’il écrive un mot en tête de votre volume, je pourrais le lui son opinion m’avait paru quelque chose qui devait être demander.
élégant et parisien et qui s’opposait au dogmatisme Je n’osai pas accepter, mais posai à Swann des questions provincial des sœurs de ma grand’mère; et je soupçonnais sur Bergotte. « EstHce que vous pourriez me dire quel est aussi que c’était une des formes de l’esprit dans la coterie où l’acteur qu’il préfère? »
vivait Swann et où par réaction sur le lyrisme des générations
– L’acteur, je ne sais pas. Mais je sais qu’il n’égale aucun antérieures on réhabilitait à l’excès les petits faits précis, artiste homme à la Berma qu’il met auHdessus de tout.
réputés vulgaires autrefois, et on proscrivait les « phrases ».
L’avezHvous entendue?
Mais maintenant je trouvais quelque chose de choquant dans cette attitude de Swann en face des choses. Il avait l’air de ne
– Non monsieur, mes parents ne me permettent pas d’aller pas oser avoir une opinion et de n’être tranquille que quand au théâtre.
il pouvait donner méticuleusement des renseignements
– C’est malheureux. Vous devriez leur demander. La précis. Mais il ne se rendait donc pas compte que c’était Berma dans Phèdre, dans le Cid, ce n’est qu’une actrice si professer l’opinion, postuler que l’exactitude de ces détails vous voulez, mais vous savez je ne crois pas beaucoup à la «
avait de l’importance. Je repensai alors à ce dîner où j’étais si hiérarchie! » des arts.
triste parce que maman ne devait pas monter dans ma chambre et où il avait dit que les bals chez la princesse de (Et je remarquai, comme cela m’avait souvent frappé dans Léon n’avaient aucune importance. Mais c’était pourtant à ce ses conversations avec les sœurs de ma grand’mère, que genre de plaisirs qu’il employait sa vie. Je trouvais tout cela Marcel Proust –
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Din Search OverTime contradictoire. Pour quelle autre vie réservaitHil de dire enfin
– Je crois dans sa petite plaquette sur Racine, mais elle doit sérieusement ce qu’il pensait des choses, de formuler des être épuisée. Il y a peutHêtre eu cependant une réimpression.
jugements qu’il pût ne pas mettre entre guillemets, et de ne Je m’informerai. Je peux d’ailleurs demander à Bergotte tout plus se livrer avec une politesse pointilleuse à des ce que vous voulez, il n’y a pas de semaine dans l’année où il occupations dont il professait en même temps qu’elles sont ne dîne à la maison. C’est le grand ami de ma fille. Ils vont ridicules? Je remarquai aussi dans la façon dont Swann me ensemble visiter les vieilles villes, les cathédrales, les parla de Bergotte quelque chose qui en revanche ne lui était châteaux.
pas particulier, mais au contraire était dans ce tempsHlà Comme je n’avais aucune notion sur la hiérarchie sociale, commun à tous les admirateurs de l’écrivain, à l’amie de ma depuis longtemps l’impossibilité que mon père trouvait à ce mère, au docteur du Boulbon. Comme Swann, ils disaient de que nous fréquentions Mme et Mlle Swann avait eu plutôt Bergotte: « C’est un charmant esprit, si particulier, il a une pour effet, en me faisant imaginer entre elles et nous de façon à lui de dire les choses un peu cherchée, mais si grandes distances, de leur donner à mes yeux du prestige. Je agréable. On n’a pas besoin de voir la signature, on reconnaît regrettais que ma mère ne se teignît pas les cheveux et ne se tout de suite que c’est de lui. » Mais aucun n’aurait été mît pas de rouge aux lèvres comme j’avais entendu dire par jusqu’à dire: « C’est un grand écrivain, il a un grand talent. »
notre voisine Mme Sazerat que Mme Swann le faisait pour Ils ne disaient même pas qu’il avait du talent. Ils ne le plaire, non à son mari, mais à M. de Charlus, et je pensais disaient pas parce qu’ils ne le savaient pas. Nous sommes que nous devions être pour elle un objet de mépris, ce qui très longs à reconnaître dans la physionomie particulière me peinait surtout à cause de Mlle Swann qu’on m’avait dit d’un nouvel écrivain le modèle qui porte le nom de « grand être une si jolie petite fille et à laquelle je rêvais souvent en talent » dans notre musée des idées générales. Justement lui prêtant chaque fois un même visage arbitraire et parce que cette physionomie est nouvelle, nous ne la charmant. Mais quand j’eus appris ce jourHlà que Mlle Swann trouvons pas tout à fait ressemblante à ce que nous appelons était un être d’une condition si rare, baignant comme dans talent. Nous disons plutôt originalité, charme, délicatesse, son élément naturel au milieu de tant de privilèges, que force; et puis un jour nous nous rendons compte que c’est quand elle demandait à ses parents s’il y avait quelqu’un à justement tout cela le talent.
dîner, on lui répondait par ces syllabes remplies de lumière,
– EstHce qu’il y a des ouvrages de Bergotte où il ait parlé par le nom de ce convive d’or qui n’était pour elle qu’un vieil de la Berma? demandaiHje à Swann.
ami de sa famille: Bergotte; que, pour elle, la causerie intime à table, ce qui correspondait à ce qu’était pour moi la Marcel Proust –
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Din Search OverTime conversation de ma grand’tante, c’étaient des paroles de étrangers qu’il visite, n’a pas besoin du profil régulier qui Bergotte, sur tous ces sujets qu’il n’avait pu aborder dans ses serait peutHêtre indispensable à un coulissier.
livres, et sur lesquels j’aurais voulu l’écouter rendre ses Tandis que je lisais au jardin, ce que ma grand’tante oracles; et qu’enfin, quand elle allait visiter des villes, il n’aurait pas compris que je fisse en dehors du dimanche, cheminait à côté d’elle, inconnu et glorieux, comme les jour où il est défendu de s’occuper à rien de sérieux et où elle Dieux qui descendaient au milieu des mortels; alors je sentis ne cousait pas (un jour de semaine, elle m’aurait dit «
en même temps que le prix d’un être comme Mlle Swann, comment tu t’amuses encore à lire, ce n’est pourtant pas combien je lui paraîtrais grossier et ignorant, et j’éprouvai si dimanche » en donnant au mot amusement le sens vivement la douceur et l’impossibilité qu’il y aurait pour moi d’enfantillage et de perte de temps), ma tante Léonie devisait à être son ami, que je fus rempli à la fois de désir et de avec Françoise en attendant l’heure d’Eulalie. Elle lui désespoir. Le plus souvent maintenant quand je pensais à annonçait qu’elle venait de voir passer Mme Goupil « sans elle, je la voyais devant le porche d’une cathédrale, parapluie, avec la robe de soie qu’elle s’est fait faire à m’expliquant la signification des statues, et, avec un sourire Châteaudun. Si elle a loin à aller avant vêpres elle pourrait qui disait du bien de moi, me présentant comme son ami, à bien la faire saucer ».
Bergotte. Et toujours le charme de toutes les idées que faisaient naître en moi les cathédrales, le charme des coteaux
– PeutHêtre, peutHêtre (ce qui signifiait peutHêtre non) disait de l’IleHdeHFrance et des plaines de la Normandie faisait Françoise pour ne pas écarter définitivement la possibilité refluer ses reflets sur l’image que je me formais de Mlle d’une alternative plus favorable.
Swann: c’était être tout prêt à l’aimer. Que nous croyions
– Tiens, disait ma tante en se frappant le front, cela me fait qu’un être participe à une vie inconnue où son amour nous penser que je n’ai point su si elle était arrivée à l’église après ferait pénétrer, c’est, de tout ce qu’exige l’amour pour naître, l’élévation. Il faudra que je pense à le demander à Eulalie…
ce à quoi il tient le plus, et qui lui fait faire bon marché du Françoise, regardezHmoi ce nuage noir derrière le clocher et reste. Même les femmes qui prétendent ne juger un homme ce mauvais soleil sur les ardoises, bien sûr que la journée ne que sur son physique, voient en ce physique l’émanation se passera pas sans pluie. Ce n’était pas possible que ça reste d’une vie spéciale. C’est pourquoi elles aiment les militaires, comme ça, il faisait trop chaud. Et le plus tôt sera le mieux, les pompiers; l’uniforme les rend moins difficiles pour le car tant que l’orage n’aura pas éclaté, mon eau de Vichy ne visage; elles croient baiser sous la cuirasse un cœur différent, descendra pas, ajoutait ma tante dans l’esprit de qui le désir aventureux et doux; et un jeune souverain, un prince héritier, de hâter la descente de l’eau de Vichy l’emportait infiniment pour faire les plus flatteuses conquêtes, dans les pays sur la crainte de voir Mme Goupil gâter sa robe.
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– PeutHêtre, peutHêtre.
Françoise revenait:
– Et c’est que, quand il pleut sur la place, il n’y a pas grand
– C’est Mme Amédée (ma grand’mère) qui a dit qu’elle abri.
allait faire un tour. Ça pleut pourtant fort.
– Comment, trois heures? s’écriait tout à coup ma tante en
– Cela ne me surprend point, disait ma tante en levant les pâlissant, mais alors les vêpres sont commencées, j’ai oublié yeux au ciel. J’ai toujours dit qu’elle n’avait point l’esprit fait ma pepsine! Je comprends maintenant pourquoi mon eau de comme tout le monde. J’aime mieux que ce soit elle que moi Vichy me restait sur l’estomac.
qui soit dehors en ce moment.
Et se précipitant sur un livre de messe relié en velours
– Mme Amédée, c’est toujours tout l’extrême des autres, violet, monté d’or, et d’où, dans sa hâte, elle laissait disait Françoise avec douceur, réservant pour le moment où s’échapper de ces images, bordées d’un bandeau de dentelle elle serait seule avec les autres domestiques de dire qu’elle de papier jaunissante, qui marquent les pages des fêtes, ma croyait ma grand’mère un peu « piquée ».
tante, tout en avalant ses gouttes, commençait à lire au plus
– Voilà le salut passé! Eulalie ne viendra plus, soupirait ma vite les textes sacrés dont l’intelligence lui était légèrement tante; ce sera le temps qui lui aura fait peur.
obscurcie par l’incertitude de savoir si, prise aussi longtemps après l’eau de Vichy, la pepsine serait encore capable de la
– Mais il n’est pas cinq heures, madame Octave, il n’est rattraper et de la faire descendre. « Trois heures, c’est que quatre heures et demie.
incroyable ce que le temps passe! »
– Que quatre heures et demie? et j’ai été obligée de relever Un petit coup au carreau, comme si quelque chose l’avait les petits rideaux pour avoir un méchant rayon de jour. À
heurté, suivi d’une ample chute légère comme de grains de quatre heures et demie! Huit jours avant les Rogations! Ah!
sable qu’on eût laissé tomber d’une fenêtre auHdessus, puis la ma pauvre Françoise, il faut que le bon Dieu soit bien en chute s’étendant, se réglant, adoptant un rythme, devenant colère après nous. Aussi, le monde d’aujourd’hui en fait trop!
fluide, sonore, musicale, innombrable, universelle: c’était la Comme disait mon pauvre Octave, on a trop oublié le bon pluie.
Dieu et il se venge.
– Eh bien! Françoise, qu’estHce que je disais? Ce que cela Une vive rougeur animait les joues de ma tante, c’était tombe! Mais je crois que j’ai entendu le grelot de la porte du Eulalie. Malheureusement, à peine venaitHelle d’être jardin, allez donc voir qui estHce qui peut être dehors par un introduite que Françoise rentrait et avec un sourire qui avait temps pareil.
pour but de se mettre elleHmême à l’unisson de la joie qu’elle Marcel Proust –
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Din Search OverTime ne doutait pas que ses paroles allaient causer à ma tante, copier un vitrail. Je peux dire que je suis arrivée à mon âge articulant les syllabes pour montrer que, malgré l’emploi du sans avoir jamais entendu parler d’une chose pareille! Qu’estH
style indirect, elle rapportait, en bonne domestique, les ce que le monde aujourd’hui va donc chercher! Et ce qu’il y paroles mêmes dont avait daigné se servir le visiteur: a de plus vilain dans l’église!
– M. le Curé serait enchanté, ravi, si Madame Octave ne
– Je n’irai pas jusqu’à dire que c’est ce qu’il y a de plus repose pas et pouvait le recevoir. M. le Curé ne veut pas vilain, car s’il y a à SaintHHilaire des parties qui méritent déranger. M. le Curé est en bas, j’y ai dit d’entrer dans la d’être visitées, il y en a d’autres qui sont bien vieilles dans ma salle.
pauvre basilique, la seule de tout le diocèse qu’on n’ait pas restaurée! Mon Dieu, le porche est sale et antique, mais enfin En réalité, les visites du curé ne faisaient pas à ma tante un d’un caractère majestueux; passe même pour les tapisseries aussi grand plaisir que le supposait Françoise et l’air de d’Esther dont personnellement je ne donnerais pas deux jubilation dont celleHci croyait devoir pavoiser son visage sous, mais qui sont placées par les connaisseurs tout de suite chaque fois qu’elle avait à l’annoncer ne répondait pas après celles de Sens. Je reconnais d’ailleurs, qu’à côté de entièrement au sentiment de la malade. Le curé (excellent certains détails un peu réalistes, elles en présentent d’autres homme avec qui je regrette de ne pas avoir causé davantage, qui témoignent d’un véritable esprit d’observation. Mais car s’il n’entendait rien aux arts, il connaissait beaucoup qu’on ne vienne pas me parler des vitraux. Cela aHtHil du bon d’étymologies), habitué à donner aux visiteurs de marque des sens de laisser des fenêtres qui ne donnent pas de jour et renseignements sur l’église (il avait même l’intention d’écrire trompent même la vue par ces reflets d’une couleur que je ne un livre sur la paroisse de Combray), la fatiguait par des saurais définir, dans une église où il n’y a pas deux dalles qui explications infinies et d’ailleurs toujours les mêmes. Mais soient au même niveau et qu’on se refuse à me remplacer quand elle arrivait ainsi juste en même temps que celle sous prétexte que ce sont les tombes des abbés de Combray d’Eulalie, sa visite devenait franchement désagréable à ma et des seigneurs de Guermantes, les anciens comtes de tante. Elle eût mieux aimé bien profiter d’Eulalie et ne pas Brabant. Les ancêtres directs du Duc de Guermantes avoir tout le monde à la fois. Mais elle n’osait pas ne pas d’aujourd’hui et aussi de la Duchesse puisqu’elle est une recevoir le curé et faisait seulement signe à Eulalie de ne pas demoiselle de Guermantes qui a épousé son cousin. » (Ma s’en aller en même temps que lui, qu’elle la garderait un peu grand’mère qui à force de se désintéresser des personnes seule quand il serait parti.
finissait par confondre tous les noms, chaque fois qu’on
– Monsieur le Curé, qu’estHce que l’on me disait qu’il y a prononçait celui de la Duchesse de Guermantes prétendait un artiste qui a installé son chevalet dans votre église pour Marcel Proust –
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Din Search OverTime que ce devait être une parente de Mme de Villeparisis. Tout
– ComptezHy, madame Octave, répondait le curé. Mais le monde éclatait de rire; elle tâchait de se défendre en c’est justement Monseigneur qui a attaché le grelot à cette alléguant une certaine lettre de faire part: « Il me semblait me malheureuse verrière en prouvant qu’elle représente Gilbert rappeler qu’il y avait du Guermantes là dedans. » Et pour le Mauvais, sire de Guermantes, le descendant direct de une fois j’étais avec les autres contre elle, ne pouvant Geneviève de Brabant qui était une demoiselle de admettre qu’il y eût un lien entre son amie de pension et la Guermantes, recevant l’absolution de SaintHHilaire.
descendante de Geneviève de Brabant.) – « Voyez
– Mais je ne vois pas où est saint Hilaire?
Roussainville, ce n’est plus aujourd’hui qu’une paroisse de fermiers, quoique dans l’antiquité cette localité ait dû un
– Mais si, dans le coin du vitrail vous n’avez jamais grand essor au commerce de chapeaux de feutre et des remarqué une dame en robe jaune? Hé bien! c’est saint pendules. (Je ne suis pas certain de l’étymologie de Hilaire qu’on appelle aussi, vous le savez, dans certaines Roussainville. Je croirais volontiers que le nom primitif était provinces, saint Illiers, saint Hélier, et même, dans le Jura, Rouville (Radulfi villa) comme Châteauroux (Castrum saint Ylie. Ces diverses corruptions de sanctus Hilarius ne Radulfi), mais je vous parlerai de cela une autre fois.) Hé sont pas du reste les plus curieuses de celles qui se sont bien! l’église a des vitraux superbes, presque tous modernes, produites dans les noms des bienheureux. Ainsi votre et cette imposante Entrée de LouisHPhilippe à Combray qui patronne, ma bonne Eulalie, sancta Eulalia, savezHvous ce serait mieux à sa place à Combray même, et qui vaut, ditHon, qu’elle est devenue en Bourgogne? saint Éloi tout la fameuse verrière de Chartres. Je voyais même hier le frère simplement: elle est devenue un saint. VoyezHvous, Eulalie, du docteur Percepied qui est amateur et qui la regarde qu’après votre mort on fasse de vous un homme? » – «
comme d’un plus beau travail.
Monsieur le Curé a toujours le mot pour rigoler. » – « Le frère de Gilbert, Charles le Bègue, prince pieux mais qui,
« Mais, comme je le lui disais à cet artiste qui semble du ayant perdu de bonne heure son père, Pépin l’Insensé, mort reste très poli, qui est paraîtHil, un véritable virtuose du des suites de sa maladie mentale, exerçait le pouvoir suprême pinceau, que lui trouvezHvous donc d’extraordinaire à ce avec toute la présomption d’une jeunesse à qui la discipline a vitrail, qui est encore un peu plus sombre que les autres? »
manqué; dès que la figure d’un particulier ne lui revenait pas
– Je suis sûre que si vous le demandiez à Monseigneur, dans une ville, il y faisait massacrer jusqu’au dernier habitant.
disait mollement ma tante qui commençait à penser qu’elle Gilbert voulant se venger de Charles fit brûler l’église de allait être fatiguée, il ne vous refuserait pas un vitrail neuf.
Combray, la primitive église alors, celle que Théodebert, en quittant avec sa cour la maison de campagne qu’il avait près Marcel Proust –
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Din Search OverTime d’ici, à Thiberzy (Theodeberciacus), pour aller combattre les dimanche prochain, si le temps se maintient, vous trouveriez Burgondes, avait promis de bâtir auHdessus du tombeau de certainement du monde, comme ce sont les Rogations. Il saint Hilaire si le Bienheureux lui procurait la victoire. Il n’en faut avouer du reste qu’on jouit de là d’un coup d’œil reste que la crypte où Théodore a dû vous faire descendre, féerique, avec des sortes d’échappées sur la plaine qui ont un puisque Gilbert brûla le reste. Ensuite il défit l’infortuné cachet tout particulier. Quand le temps est clair on peut Charles avec l’aide de Guillaume le Conquérant (le curé distinguer jusqu’à Verneuil. Surtout on embrasse à la fois des prononçait Guilôme), ce qui fait que beaucoup d’Anglais choses qu’on ne peut voir habituellement que l’une sans viennent pour visiter. Mais il ne semble pas avoir su se l’autre, comme le cours de la Vivonne et les fossés de SaintH
concilier la sympathie des habitants de Combray, car ceuxHci AssiseHlèsHCombray, dont elle est séparée par un rideau de se ruèrent sur lui à la sortie de la messe et lui tranchèrent la grands arbres, ou encore comme les différents canaux de tête. Du reste Théodore prête un petit livre qui donne les JouyHleHVicomte (Gaudiacus vice comitis comme vous explications.
savez). Chaque fois que je suis allé à JouyHleHVicomte, j’ai bien vu un bout du canal, puis quand j’avais tourné une rue
« Mais ce qui est incontestablement le plus curieux dans j’en voyais un autre, mais alors je ne voyais plus le précédent.
notre église, c’est le point de vue qu’on a du clocher et qui J’avais beau les mettre ensemble par la pensée, cela ne me est grandiose. Certainement, pour vous qui n’êtes pas très faisait pas grand effet. Du clocher de SaintHHilaire c’est autre forte, je ne vous conseillerais pas de monter nos quatreH
chose, c’est tout un réseau où la localité est prise. Seulement vingtHdixHsept marches, juste la moitié du célèbre dôme de on ne distingue pas d’eau, on dirait de grandes fentes qui Milan. Il y a de quoi fatiguer une personne bien portante, coupent si bien la ville en quartiers, qu’elle est comme une d’autant plus qu’on monte plié en deux si on ne veut pas se brioche dont les morceaux tiennent ensemble mais sont déjà casser la tête, et on ramasse avec ses effets toutes les toiles découpés. Il faudrait pour bien faire être à la fois dans le d’araignées de l’escalier. En tous cas il faudrait bien vous clocher de SaintHHilaire et à JouyHleHVicomte.
couvrir, ajoutaitHil (sans apercevoir l’indignation que causait à ma tante l’idée qu’elle fût capable de monter dans le clocher), Le curé avait tellement fatigué ma tante qu’à peine étaitHil car il fait un de ces courants d’air une fois arrivé làHhaut!
parti, elle était obligée de renvoyer Eulalie.
Certaines personnes affirment y avoir ressenti le froid de la
– Tenez, ma pauvre Eulalie, disaitHelle d’une voix faible, en mort. N’importe, le dimanche il y a toujours des sociétés qui tirant une pièce d’une petite bourse qu’elle avait à portée de viennent même de très loin pour admirer la beauté du sa main, voilà pour que vous ne m’oubliiez pas dans vos panorama et qui s’en retournent enchantées. Tenez, prières.
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– Ah! mais, madame Octave, je ne sais pas si je dois, vous savait incurablement généreuse, se fût laissée aller à donner, savez bien que ce n’est pas pour cela que je viens! disait si au moins ç’avait été à des riches. PeutHêtre pensaitHelle que Eulalie avec la même hésitation et le même embarras, chaque ceuxHlà, n’ayant pas besoin des cadeaux de ma tante, ne fois, que si c’était la première, et avec une apparence de pouvaient être soupçonnés de l’aimer à cause d’eux.
mécontentement qui égayait ma tante mais ne lui déplaisait D’ailleurs offerts à des personnes d’une grande position de pas, car si un jour Eulalie, en prenant la pièce, avait un air un fortune, à Mme Sazerat, à M. Swann, à M. Legrandin, à Mme peu moins contrarié que de coutume, ma tante disait: Goupil, à des personnes « de même rang » que ma tante et qui « allaient bien ensemble », ils lui apparaissaient comme
– Je ne sais pas ce qu’avait Eulalie; je lui ai pourtant donné faisant partie des usages de cette vie étrange et brillante des la même chose que d’habitude, elle n’avait pas l’air contente.
gens riches qui chassent, se donnent des bals, se font des
– Je crois qu’elle n’a pourtant pas à se plaindre, soupirait visites et qu’elle admirait en souriant. Mais il n’en allait plus Françoise, qui avait une tendance à considérer comme de la de même si les bénéficiaires de la générosité de ma tante menue monnaie tout ce que lui donnait ma tante pour elle étaient de ceux que Françoise appelait « des gens comme ou pour ses enfants, et comme des trésors follement moi, des gens qui ne sont pas plus que moi » et qui étaient gaspillés pour une ingrate les piécettes mises chaque ceux qu’elle méprisait le plus à moins qu’ils ne l’appelassent «
dimanche dans la main d’Eulalie, mais si discrètement que Madame Françoise » et ne se considérassent comme étant «
Françoise n’arrivait jamais à les voir. Ce n’est pas que moins qu’elle ». Et quand elle vit que, malgré ses conseils, l’argent que ma tante donnait à Eulalie, Françoise l’eût voulu ma tante n’en faisait qu’à sa tête et jetait l’argent – Françoise pour elle. Elle jouissait suffisamment de ce que ma tante le croyait du moins – pour des créatures indignes, elle possédait, sachant que les richesses de la maîtresse du même commença à trouver bien petits les dons que ma tante lui coup élèvent et embellissent aux yeux de tous sa servante; et faisait en comparaison des sommes imaginaires prodiguées à qu’elle, Françoise, était insigne et glorifiée dans Combray, Eulalie. Il n’y avait pas dans les environs de Combray de JouyHleHVicomte et autres lieux, pour les nombreuses fermes ferme si conséquente que Françoise ne supposât qu’Eulalie de ma tante, les visites fréquentes et prolongées du curé, le eût pu facilement l’acheter, avec tout ce que lui nombre singulier des bouteilles d’eau de Vichy consommées.
rapporteraient ses visites. Il est vrai qu’Eulalie faisait la Elle n’était avare que pour ma tante; si elle avait géré sa même estimation des richesses immenses et cachées de fortune, ce qui eût été son rêve, elle l’aurait préservée des Françoise. Habituellement, quand Eulalie était partie, entreprises d’autrui avec une férocité maternelle. Elle n’aurait Françoise prophétisait sans bienveillance sur son compte.
pourtant pas trouvé grand mal à ce que ma tante, qu’elle Elle la haïssait, mais elle la craignait et se croyait tenue, Marcel Proust –
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Din Search OverTime quand elle était là, à lui faire « bon visage ». Elle se rattrapait Mais Françoise revenait n’ayant pu rattraper Eulalie.
après son départ, sans la nommer jamais à vrai dire, mais en
– C’est contrariant, disait ma tante en hochant la tête. La proférant, en oracles sibyllins, des sentences d’un caractère seule chose importante que j’avais à lui demander!
général telles que celles de l’Ecclésiaste, mais dont l’application ne pouvait échapper à ma tante. Après avoir Ainsi passait la vie pour ma tante Léonie, toujours regardé par le coin du rideau si Eulalie avait refermé la porte: identique, dans la douce uniformité de ce qu’elle appelait
« Les personnes flatteuses savent se faire bien venir et avec un dédain affecté et une tendresse profonde, son « petit ramasser les pépettes; mais patience, le bon Dieu les punit traintrain ». Préservé par tout le monde, non seulement à la toutes par un beau jour », disaitHelle, avec le regard latéral et maison, où chacun ayant éprouvé l’inutilité de lui conseiller l’insinuation de Joas pensant exclusivement à Athalie quand une meilleure hygiène, s’était peu à peu résigné à le respecter, il dit:
mais même dans le village où, à trois rues de nous, l’emballeur, avant de clouer ses caisses, faisait demander à Le bonheur des méchants comme un torrent s’écoule.
Françoise si ma tante ne « reposait pas » – ce traintrain fut Mais quand le curé était venu aussi et que sa visite pourtant troublé une fois cette annéeHlà. Comme un fruit interminable avait épuisé les forces de ma tante, Françoise caché qui serait parvenu à maturité sans qu’on s’en aperçût sortait de la chambre derrière Eulalie et disait: et se détacherait spontanément, survint une nuit la délivrance de la fille de cuisine. Mais ses douleurs étaient intolérables, et
– Madame Octave, je vous laisse reposer, vous avez l’air comme il n’y avait pas de sageHfemme à Combray, Françoise beaucoup fatiguée.
dut partir avant le jour en chercher une à Thiberzy. Ma tante, Et ma tante ne répondait même pas, exhalant un soupir à cause des cris de la fille de cuisine, ne put reposer, et qui semblait devoir être le dernier, les yeux clos, comme Françoise, malgré la courte distance, n’étant revenue que très morte. Mais à peine Françoise étaitHelle descendue que tard, lui manqua beaucoup. Aussi, ma mère me ditHelle dans quatre coups donnés avec la plus grande violence la matinée: « Monte donc voir si ta tante n’a besoin de rien. »
retentissaient dans la maison et ma tante, dressée sur son lit, J’entrai dans la première pièce et, par la porte ouverte, vis ma criait:
tante, couchée sur le côté, qui dormait; je l’entendis ronfler
– EstHce qu’Eulalie est déjà partie? CroyezHvous que j’ai légèrement. J’allais m’en aller doucement, mais sans doute le oublié de lui demander si Mme Goupil était arrivée à la bruit que j’avais fait était intervenu dans son sommeil et en messe avant l’élévation! Courez vite après elle!
avait « changé la vitesse », comme on dit pour les automobiles, car la musique du ronflement s’interrompit une Marcel Proust –
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Din Search OverTime seconde et reprit un ton plus bas, puis elle s’éveilla et tourna une heure plus tôt. Et ma tante avait si bien pris l’habitude à demi son visage que je pus voir alors; il exprimait une sorte de cette dérogation hebdomadaire à ses habitudes, qu’elle de terreur; elle venait évidemment d’avoir un rêve affreux; tenait à cette habitudeHlà autant qu’aux autres. Elle y était si elle ne pouvait me voir de la façon dont elle était placée, et je bien « routinée », comme disait Françoise, que s’il lui avait restais là ne sachant si je devais m’avancer ou me retirer; fallu un samedi, attendre pour déjeuner l’heure habituelle, mais déjà elle semblait revenue au sentiment de la réalité et cela l’eût autant « dérangée » que si elle avait dû, un autre avait reconnu le mensonge des visions qui l’avaient effrayée; jour, avancer son déjeuner à l’heure du samedi. Cette avance un sourire de joie, de pieuse reconnaissance envers Dieu qui du déjeuner donnait d’ailleurs au samedi, pour nous tous, permet que la vie soit moins cruelle que les rêves, éclaira une figure particulière, indulgente, et assez sympathique. Au faiblement son visage, et avec cette habitude qu’elle avait moment où d’habitude on a encore une heure à vivre avant prise de se parler à miHvoix à elleHmême quand elle se croyait la détente du repas, on savait que, dans quelques secondes, seule, elle murmura: « Dieu soit loué! nous n’avons comme on allait voir arriver des endives précoces, une omelette de tracas que la fille de cuisine qui accouche. VoilàHtHil pas que faveur, un bifteck immérité. Le retour de ce samedi je rêvais que mon pauvre Octave était ressuscité et qu’il asymétrique était un de ces petits événements intérieurs, voulait me faire faire une promenade tous les jours! » Sa locaux, presque civiques qui, dans les vies tranquilles et les main se tendit vers son chapelet qui était sur la petite table, sociétés fermées, créent une sorte de lien national et mais le sommeil recommençant ne lui laissa pas la force de deviennent le thème favori des conversations, des l’atteindre: elle se rendormit, tranquillisée, et je sortis à pas plaisanteries, des récits exagérés à plaisir: il eût été le noyau de loup de la chambre sans qu’elle ni personne eût jamais tout prêt pour un cycle légendaire si l’un de nous avait eu la appris ce que j’avais entendu.
tête épique. Dès le matin, avant d’être habillés, sans raison, pour le plaisir d’éprouver la force de la solidarité, on se disait Quand je dis qu’en dehors d’événements très rares, les uns aux autres avec bonne humeur, avec cordialité, avec comme cet accouchement, le traintrain de ma tante ne patriotisme: « Il n’y a pas de temps à perdre, n’oublions pas subissait jamais aucune variation, je ne parle pas de celles que c’est samedi! » cependant que ma tante, conférant avec qui, se répétant toujours identiques à des intervalles réguliers, Françoise et songeant que la journée serait plus longue que n’introduisaient au sein de l’uniformité qu’une sorte d’habitude, disait: « Si vous leur faisiez un beau morceau de d’uniformité secondaire. C’est ainsi que tous les samedis, veau, comme c’est samedi. » Si à dix heures et demie un comme Françoise allait dans l’aprèsHmidi au marché de distrait tirait sa montre en disant: « Allons, encore une heure RoussainvilleHleHPin, le déjeuner était, pour tout le monde, et demie avant le déjeuner », chacun était enchanté d’avoir à Marcel Proust –
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Din Search OverTime lui dire: « Mais voyons, à quoi pensezHvous, vous oubliez que qu’elle éprouvait, elle prolongeait le dialogue, inventait ce c’est samedi! »; on en riait encore un quart d’heure après et qu’avait répondu le visiteur à qui ce « samedi » n’expliquait on se promettait de monter raconter cet oubli à ma tante rien. Et bien loin de nous plaindre de ses additions, elles ne pour l’amuser. Le visage du ciel même semblait changé.
nous suffisaient pas encore et nous disions: « Mais il me Après le déjeuner, le soleil, conscient que c’était samedi, semblait qu’il avait dit aussi autre chose. C’était plus long la flânait une heure de plus au haut du ciel, et quand quelqu’un, première fois quand vous l’avez raconté. » Ma grand’tante pensant qu’on était en retard pour la promenade, disait: «
elleHmême laissait son ouvrage, levait la tête et regardait parH
Comment, seulement deux heures? » en voyant passer les dessus son lorgnon.
deux coups du clocher de SaintHHilaire (qui ont l’habitude de Le samedi avait encore ceci de particulier que ce jourHlà, ne rencontrer encore personne dans les chemins désertés à pendant le mois de mai, nous sortions après le dîner pour cause du repas de midi ou de la sieste, le long de la rivière aller au « mois de Marie ».
vive et blanche que le pêcheur même a abandonnée, et passent solitaires dans le ciel vacant où ne restent que Comme nous y rencontrions parfois M. Vinteuil, très quelques nuages paresseux), tout le monde en chœur lui sévère pour « le genre déplorable des jeunes gens négligés, répondait: « Mais ce qui vous trompe, c’est qu’on a déjeuné dans les idées de l’époque actuelle », ma mère prenait garde une heure plus tôt, vous savez bien que c’est samedi! » La que rien ne clochât dans ma tenue, puis on partait pour surprise d’un barbare (nous appelions ainsi tous les gens qui l’église. C’est au mois de Marie que je me souviens d’avoir ne savaient pas ce qu’avait de particulier le samedi) qui, étant commencé à aimer les aubépines. N’étant pas seulement venu à onze heures pour parler à mon père, nous avait dans l’église, si sainte, mais où nous avions le droit d’entrer, trouvés à table, était une des choses qui, dans sa vie, avaient posées sur l’autel même, inséparables des mystères à la le plus égayé Françoise. Mais si elle trouvait amusant que le célébration desquels elles prenaient part, elles faisaient courir visiteur interloqué ne sût pas que nous déjeunions plus tôt le au milieu des flambeaux et des vases sacrés leurs branches samedi, elle trouvait plus comique encore (tout en attachées horizontalement les unes aux autres en un apprêt sympathisant du fond du cœur avec ce chauvinisme étroit) de fête, et qu’enjolivaient encore les festons de leur feuillage que mon père, lui, n’eût pas eu l’idée que ce barbare pouvait sur lequel étaient semés à profusion, comme sur une traîne l’ignorer et eût répondu sans autre explication à son de mariée, de petits bouquets de boutons d’une blancheur étonnement de nous voir déjà dans la salle à manger: « Mais éclatante. Mais, sans oser les regarder qu’à la dérobée, je voyons, c’est samedi! » Parvenue à ce point de son récit, elle sentais que ces apprêts pompeux étaient vivants et que c’était essuyait des larmes d’hilarité et pour accroître le plaisir la nature elleHmême qui, en creusant ces découpures dans les Marcel Proust –
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Din Search OverTime feuilles, en ajoutant l’ornement suprême de ces blancs buissonneux, où je m’étais caché, je m’étais trouvé de plainH
boutons, avait rendu cette décoration digne de ce qui était à pied avec le salon du second étage, à cinquante centimètres la fois une réjouissance populaire et une solennité mystique.
de la fenêtre. Quand on était venu lui annoncer mes parents, Plus haut s’ouvraient leurs corolles çà et là avec une grâce j’avais vu M. Vinteuil se hâter de mettre en évidence sur le insouciante, retenant si négligemment comme un dernier et piano un morceau de musique. Mais une fois mes parents vaporeux atour le bouquet d’étamines, fines comme des fils entrés, il l’avait retiré et mis dans un coin. Sans doute avaitHil de la Vierge, qui les embrumait tout entières, qu’en suivant, craint de leur laisser supposer qu’il n’était heureux de les voir qu’en essayant de mimer au fond de moi le geste de leur que pour leur jouer de ses compositions. Et chaque fois que efflorescence, je l’imaginais comme si ç’avait été le ma mère était revenue à la charge au cours de la visite, il mouvement de tête étourdi et rapide, au regard coquet, aux avait répété plusieurs fois: « Mais je ne sais qui a mis cela sur pupilles diminuées, d’une blanche jeune fille, distraite et vive.
le piano, ce n’est pas sa place », et avait détourné la M. Vinteuil était venu avec sa fille se placer à côté de nous.
conversation sur d’autres sujets, justement parce que ceuxHlà D’une bonne famille, il avait été le professeur de piano des l’intéressaient moins. Sa seule passion était pour sa fille et sœurs de ma grand’mère et quand, après la mort de sa celleHci, qui avait l’air d’un garçon, paraissait si robuste qu’on femme et un héritage qu’il avait fait, il s’était retiré auprès de ne pouvait s’empêcher de sourire en voyant les précautions Combray, on le recevait souvent à la maison. Mais d’une que son père prenait pour elle, ayant toujours des châles pudibonderie excessive, il cessa de venir pour ne pas supplémentaires à lui jeter sur les épaules. Ma grand’mère rencontrer Swann qui avait fait ce qu’il appelait « un mariage faisait remarquer quelle expression douce, délicate, presque déplacé, dans le goût du jour ». Ma mère, ayant appris qu’il timide passait souvent dans les regards de cette enfant si composait, lui avait dit par amabilité que, quand elle irait le rude, dont le visage était semé de taches de son. Quand elle voir, il faudrait qu’il lui fît entendre quelque chose de lui. M.
venait de prononcer une parole, elle l’entendait avec l’esprit Vinteuil en aurait eu beaucoup de joie, mais il poussait la de ceux à qui elle l’avait dite, s’alarmait des malentendus politesse et la bonté jusqu’à de tels scrupules que, se mettant possibles et on voyait s’éclairer, se découper comme par toujours à la place des autres, il craignait de les ennuyer et de transparence, sous la figure hommasse du « bon diable », les leur paraître égoïste s’il suivait ou seulement laissait deviner traits plus fins d’une jeune fille éplorée.
son désir. Le jour où mes parents étaient allés chez lui en Quand, au moment de quitter l’église, je m’agenouillai visite, je les avais accompagnés, mais ils m’avaient permis de devant l’autel, je sentis tout d’un coup, en me relevant, rester dehors et, comme la maison de M. Vinteuil, s’échapper des aubépines une odeur amère et douce Montjouvain,
était
en
contreHbas
d’un
monticule
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Din Search OverTime d’amandes, et je remarquai alors sur les fleurs de petites considérer comme la prouesse d’un génie stratégique. Parfois places plus blondes, sous lesquelles je me figurai que devait nous allions jusqu’au viaduc, dont les enjambées de pierre être cachée cette odeur comme sous les parties gratinées le commençaient à la gare et me représentaient l’exil et la goût d’une frangipane, ou sous leurs taches de rousseur celui détresse hors du monde civilisé, parce que chaque année en des joues de Mlle Vinteuil. Malgré la silencieuse immobilité venant de Paris, on nous recommandait de faire bien des aubépines, cette intermittente ardeur était comme le attention, quand ce serait Combray, de ne pas laisser passer murmure de leur vie intense dont l’autel vibrait ainsi qu’une la station, d’être prêts d’avance, car le train repartait au bout haie agreste visitée par de vivantes antennes, auxquelles on de deux minutes et s’engageait sur le viaduc au delà des pays pensait en voyant certaines étamines presque rousses qui chrétiens dont Combray marquait pour moi l’extrême limite.
semblaient avoir gardé la virulence printanière, le pouvoir Nous revenions par le boulevard de la gare, où étaient les irritant, d’insectes aujourd’hui métamorphosés en fleurs.
plus agréables villas de la commune. Dans chaque jardin le clair de lune, comme Hubert Robert, semait ses degrés Nous causions un moment avec M. Vinteuil devant le rompus de marbre blanc, ses jets d’eau, ses grilles porche en sortant de l’église. Il intervenait entre les gamins entr’ouvertes. Sa lumière avait détruit le bureau du qui se chamaillaient sur la place, prenait la défense des petits, télégraphe. Il n’en subsistait plus qu’une colonne à demi faisait des sermons aux grands. Si sa fille nous disait de sa brisée, mais qui gardait la beauté d’une ruine immortelle. Je grosse voix combien elle avait été contente de nous voir, traînais la jambe, je tombais de sommeil, l’odeur des tilleuls aussitôt il semblait qu’en elleHmême une sœur plus sensible qui embaumait m’apparaissait comme une récompense rougissait de ce propos de bon garçon étourdi qui avait pu qu’on ne pouvait obtenir qu’au prix des plus grandes fatigues nous faire croire qu’elle sollicitait d’être invitée chez nous.
et qui n’en valait pas la peine. De grilles fort éloignées les Son père lui jetait un manteau sur les épaules, ils montaient unes des autres, des chiens réveillés par nos pas solitaires dans un petit buggy qu’elle conduisait elleHmême et tous faisaient alterner des aboiements comme il m’arrive encore deux retournaient à Montjouvain. Quant à nous, comme quelquefois d’en entendre le soir, et entre lesquels dut venir c’était le lendemain dimanche et qu’on ne se lèverait que (quand sur son emplacement on créa le jardin public de pour la grand’messe, s’il faisait clair de lune et que l’air fût Combray) se réfugier le boulevard de la gare, car, où que je chaud, au lieu de nous faire rentrer directement, mon père, me trouve, dès qu’ils commencent à retentir et à se répondre, par amour de la gloire, nous faisait faire par le calvaire une je l’aperçois, avec ses tilleuls et son trottoir éclairé par la longue promenade, que le peu d’aptitude de ma mère à lune.
s’orienter et à se reconnaître dans son chemin, lui faisait Marcel Proust –
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Din Search OverTime Tout d’un coup mon père nous arrêtait et demandait à ma bonheur a fait taire comme une harpe oisive, veut résonner mère: « Où sommesHnous? » Épuisée par la marche, mais sous une main, même brutale, et dûtHelle en être brisée; où la fière de lui, elle lui avouait tendrement qu’elle n’en savait volonté, qui a si difficilement conquis le droit d’être livrée absolument rien. Il haussait les épaules et riait. Alors, comme sans obstacle à ses désirs, à ses peines, voudrait jeter les s’il l’avait sortie de la poche de son veston avec sa clef, il rênes entre les mains d’événements impérieux, fussentHils nous montrait debout devant nous la petite porte de derrière cruels. Sans doute, comme les forces de ma tante, taries à la de notre jardin qui était venue avec le coin de la rue du SaintH
moindre fatigue, ne lui revenaient que goutte à goutte au sein Esprit nous attendre au bout de ces chemins inconnus. Ma de son repos, le réservoir était très long à remplir, et il se mère lui disait avec admiration: « Tu es extraordinaire! » Et à passait des mois avant qu’elle eût ce léger tropHplein que partir de cet instant, je n’avais plus un seul pas à faire, le sol d’autres dérivent dans l’activité et dont elle était incapable de marchait pour moi dans ce jardin où depuis si longtemps savoir et de décider comment user. Je ne doute pas qu’alors mes actes avaient cessé d’être accompagnés d’attention
– comme le désir de la remplacer par des pommes de terre volontaire: l’Habitude venait de me prendre dans ses bras et béchamel finissait au bout de quelque temps par naître du me portait jusqu’à mon lit comme un petit enfant.
plaisir même que lui causait le retour quotidien de la purée dont elle ne se « fatiguait » pas – elle ne tirât de Si la journée du samedi, qui commençait une heure plus l’accumulation de ces jours monotones auxquels elle tenait tôt, et où elle était privée de Françoise, passait plus tant l’attente d’un cataclysme domestique, limité à la durée lentement qu’une autre pour ma tante, elle en attendait d’un moment, mais qui la forcerait d’accomplir une fois pour pourtant le retour avec impatience depuis le commencement toutes un de ces changements dont elle reconnaissait qu’ils de la semaine, comme contenant toute la nouveauté et la lui seraient salutaires et auxquels elle ne pouvait d’elleHmême distraction que fût encore capable de supporter son corps se décider. Elle nous aimait véritablement, elle aurait eu affaibli et maniaque. Et ce n’est pas cependant qu’elle plaisir à nous pleurer; survenant à un moment où elle se n’aspirât parfois à quelque plus grand changement, qu’elle sentait bien et n’était pas en sueur, la nouvelle que la maison n’eût de ces heures d’exception où l’on a soif de quelque était la proie d’un incendie où nous avions déjà tous péri et chose d’autre que ce qui est, et où ceux que le manque qui n’allait plus bientôt laisser subsister une seule pierre des d’énergie ou d’imagination empêche de tirer d’euxHmêmes un murs, mais auquel elle aurait eu tout le temps d’échapper principe de rénovation demandent à la minute qui vient, au sans se presser, à condition de se lever tout de suite, a dû facteur qui sonne, de leur apporter du nouveau, fûtHce du souvent hanter ses espérances comme unissant aux pire, une émotion, une douleur; où la sensibilité, que le avantages secondaires de lui faire savourer dans un long Marcel Proust –
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Din Search OverTime regret toute sa tendresse pour nous, et d’être la stupéfaction murmurant à miHvoix elle ne leur eût donné plus de réalité.
du village en conduisant notre deuil, courageuse et accablée, Quelquefois, ce « spectacle dans un lit » ne suffisait même moribonde debout, celui bien plus précieux de la forcer au pas à ma tante, elle voulait faire jouer ses pièces. Alors, un bon moment, sans temps à perdre, sans possibilité dimanche, toutes portes mystérieusement fermées, elle d’hésitation énervante, à aller passer l’été dans sa jolie ferme confiait à Eulalie ses doutes sur la probité de Françoise, son de Mirougrain, où il y avait une chute d’eau. Comme n’était intention de se défaire d’elle, et une autre fois, à Françoise jamais survenu aucun événement de ce genre, dont elle ses soupçons de l’infidélité d’Eulalie, à qui la porte serait méditait certainement la réussite quand elle était seule bientôt fermée; quelques jours après elle était dégoûtée de sa absorbée dans ses innombrables jeux de patience (et qui l’eût confidente de la veille et racoquinée avec le traître, lesquels désespérée au premier commencement de réalisation, au d’ailleurs, pour la prochaine représentation, échangeraient premier de ces petits faits imprévus, de cette parole leurs emplois. Mais les soupçons que pouvait parfois lui annonçant une mauvaise nouvelle et dont on ne peut plus inspirer Eulalie n’étaient qu’un feu de paille et tombaient jamais oublier l’accent, de tout ce qui porte l’empreinte de la vite, faute d’aliment, Eulalie n’habitant pas la maison. Il n’en mort réelle, bien différente de sa possibilité logique et était pas de même de ceux qui concernaient Françoise, que abstraite), elle se rabattait pour rendre de temps en temps sa ma tante sentait perpétuellement sous le même toit qu’elle, vie plus intéressante, à y introduire des péripéties imaginaires sans que, par crainte de prendre froid si elle sortait de son lit, qu’elle suivait avec passion. Elle se plaisait à supposer tout elle osât descendre à la cuisine se rendre compte s’ils étaient d’un coup que Françoise la volait, qu’elle recourait à la ruse fondés. Peu à peu son esprit n’eut plus d’autre occupation pour s’en assurer, la prenait sur le fait; habituée, quand elle que de chercher à deviner ce qu’à chaque moment pouvait faisait seule des parties de cartes, à jouer à la fois son jeu et le faire, et chercher à lui cacher, Françoise. Elle remarquait les jeu de son adversaire, elle se prononçait à elleHmême les plus furtifs mouvements de physionomie de celleHci, une excuses embarrassées de Françoise et y répondait avec tant contradiction dans ses paroles, un désir qu’elle semblait de feu et d’indignation que l’un de nous, entrant à ces dissimuler. Et elle lui montrait qu’elle l’avait démasquée, d’un momentsHlà, la trouvait en nage, les yeux étincelants, ses faux seul mot qui faisait pâlir Françoise et que ma tante semblait cheveux déplacés laissant voir son front chauve. Françoise trouver, à enfoncer au cœur de la malheureuse, un entendit peutHêtre parfois dans la chambre voisine de divertissement cruel. Et le dimanche suivant, une révélation mordants sarcasmes qui s’adressaient à elle et dont d’Eulalie – comme ces découvertes qui ouvrent tout d’un l’invention n’eût pas soulagé suffisamment ma tante s’ils coup un champ insoupçonné à une science naissante et qui étaient restés à l’état purement immatériel, et si en les se traînait dans l’ornière – prouvait à ma tante qu’elle était Marcel Proust –
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Din Search OverTime dans ses suppositions bien auHdessous de la vérité. « Mais son lever, son déjeuner, son repos, prendre par leur Françoise doit le savoir maintenant que vous y avez donné singularité despotique un peu de l’intérêt de ce que SaintH
une voiture. » – « Que je lui ai donné une voiture! » s’écriait Simon appelait la « mécanique » de la vie à Versailles, et ma tante. – « Ah! mais je ne sais pas, moi, je croyais, je l’avais pouvait croire aussi que ses silences, une nuance de bonne vue qui passait maintenant en calèche, fière comme Artaban, humeur ou de hauteur dans sa physionomie, étaient de la pour aller au marché de Roussainville. J’avais cru que c’était part de Françoise l’objet d’un commentaire aussi passionné, Mme Octave qui lui avait donné. » Peu à peu Françoise et aussi craintif que l’étaient le silence, la bonne humeur, la ma tante, comme la bête et le chasseur, ne cessaient plus de hauteur du Roi quand un courtisan, ou même les plus grands tâcher de prévenir les ruses l’une de l’autre. Ma mère seigneurs, lui avaient remis une supplique, au détour d’une craignait qu’il ne se développât chez Françoise une véritable allée, à Versailles.
haine pour ma tante qui l’offensait le plus durement qu’elle Un dimanche, où ma tante avait eu la visite simultanée du le pouvait. En tous cas Françoise attachait de plus en plus curé et d’Eulalie, et s’était ensuite reposée, nous étions tous aux moindres paroles, aux moindres gestes de ma tante une montés lui dire bonsoir, et maman lui adressait ses attention extraordinaire. Quand elle avait quelque chose à lui condoléances sur la mauvaise chance qui amenait toujours demander, elle hésitait longtemps sur la manière dont elle ses visiteurs à la même heure:
devait s’y prendre. Et quand elle avait proféré sa requête, elle observait ma tante à la dérobée, tâchant de deviner dans
– Je sais que les choses se sont encore mal arrangées l’aspect de sa figure ce que celleHci avait pensé et déciderait.
tantôt, Léonie, lui ditHelle avec douceur, vous avez eu tout Et ainsi – tandis que quelque artiste lisant les Mémoires du votre monde à la fois.
XVIIe siècle, et désirant de se rapprocher du grand Roi, croit Ce que ma grand’tante interrompit par: « Abondance de marcher dans cette voie en se fabriquant une généalogie qui biens… » car depuis que sa fille était malade elle croyait le fait descendre d’une famille historique ou en entretenant devoir la remonter en lui présentant toujours tout par le bon une correspondance avec un des souverains actuels de côté. Mais mon père prenant la parole: l’Europe, tourne précisément le dos à ce qu’il a le tort de chercher sous des formes identiques et par conséquent
– Je veux profiter, ditHil, de ce que toute la famille est mortes – une vieille dame de province qui ne faisait qu’obéir réunie pour vous faire un récit sans avoir besoin de le sincèrement à d’irrésistibles manies et à une méchanceté née recommencer à chacun. J’ai peur que nous ne soyons fâchés de l’oisiveté, voyait sans avoir jamais pensé à Louis XIV les avec Legrandin: il m’a à peine dit bonjour ce matin.
occupations les plus insignifiantes de sa journée, concernant Marcel Proust –
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Din Search OverTime Je ne restai pas pour entendre le récit de mon père, car que Legrandin, à ce momentHlà, était absorbé par quelque j’étais justement avec lui après la messe quand nous avions pensée. D’ailleurs la crainte de mon père fut dissipée dès le rencontré M. Legrandin, et je descendis à la cuisine lendemain soir. Comme nous revenions d’une grande demander le menu du dîner qui tous les jours me distrayait promenade, nous aperçûmes près du PontHVieux, Legrandin, comme les nouvelles qu’on lit dans un journal et m’excitait à qui à cause des fêtes restait plusieurs jours à Combray. Il vint la façon d’un programme de fête. Comme M. Legrandin à nous la main tendue: « ConnaissezHvous, monsieur le liseur, avait passé près de nous en sortant de l’église, marchant à me demandaHtHil, ce vers de Paul Desjardins: côté d’une châtelaine du voisinage que nous ne connaissions Les bois sont déjà noirs, le ciel est encor bleu…
que de vue, mon père avait fait un salut à la fois amical et réservé, sans que nous nous arrêtions; M. Legrandin avait à N’estHce pas la fine notation de cette heureHci? Vous peine répondu, d’un air étonné, comme s’il ne nous n’avez peutHêtre jamais lu Paul Desjardins. LisezHle, mon reconnaissait pas, et avec cette perspective du regard enfant; aujourd’hui il se mue, me ditHon, en frère prêcheur, particulière aux personnes qui ne veulent pas être aimables et mais ce fut longtemps un aquarelliste limpide…
qui, du fond subitement prolongé de leurs yeux, ont l’air de Les bois sont déjà noirs, le ciel est encor bleu…
vous apercevoir comme au bout d’une route interminable et à une si grande distance qu’elles se contentent de vous Que le ciel reste toujours bleu pour vous, mon jeune ami; adresser un signe de tête minuscule pour le proportionner à et même à l’heure, qui vient pour moi maintenant, où les vos dimensions de marionnette.
bois sont déjà noirs, où la nuit tombe vite, vous vous consolerez comme je fais en regardant du côté du ciel. » Il Or, la dame qu’accompagnait Legrandin était une sortit de sa poche une cigarette, resta longtemps les yeux à personne vertueuse et considérée; il ne pouvait être question l’horizon, « Adieu, les camarades », nous ditHil tout à coup, et qu’il fût en bonne fortune et gêné d’être surpris, et mon père il nous quitta.
se demandait comment il avait pu mécontenter Legrandin. «
Je regretterais d’autant plus de le savoir fâché, dit mon père, À cette heure où je descendais apprendre le menu, le dîner qu’au milieu de tous ces gens endimanchés il a, avec son était déjà commencé, et Françoise, commandant aux forces petit veston droit, sa cravate molle, quelque chose de si peu de la nature devenues ses aides, comme dans les féeries où apprêté, de si vraiment simple, et un air presque ingénu qui les géants se font engager comme cuisiniers, frappait la est tout à fait sympathique. » Mais le conseil de famille fut houille, donnait à la vapeur des pommes de terre à étuver et unanimement d’avis que mon père s’était fait une idée ou faisait finir à point par le feu les chefsHd’œuvre culinaires d’abord préparés dans des récipients de céramistes qui Marcel Proust –
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Din Search OverTime allaient des grandes cuves, marmites, chaudrons et autour du front ou piquées dans la corbeille de la Vertu de poissonnières, aux terrines pour le gibier, moules à pâtisserie, Padoue. Et cependant, Françoise tournait à la broche un de et petits pots de crème en passant par une collection ces poulets, comme elle seule savait en rôtir, qui avaient complète de casserole de toutes dimensions. Je m’arrêtais à porté loin dans Combray l’odeur de ses mérites, et qui, voir sur la table, où la fille de cuisine venait de les écosser, les pendant qu’elle nous les servait à table, faisaient prédominer petits pois alignés et nombrés comme des billes vertes dans la douceur dans ma conception spéciale de son caractère, un jeu; mais mon ravissement était devant les asperges, l’arôme de cette chair qu’elle savait rendre si onctueuse et si trempées d’outreHmer et de rose et dont l’épi, finement tendre n’étant pour moi que le propre parfum d’une de ses pignoché de mauve et d’azur, se dégrade insensiblement vertus.
jusqu’au pied – encore souillé pourtant du sol de leur plant –
Mais le jour où, pendant que mon père consultait le conseil par des irisations qui ne sont pas de la terre. Il me semblait de famille sur la rencontre de Legrandin, je descendis à la que ces nuances célestes trahissaient les délicieuses créatures cuisine, était un de ceux où la Charité de Giotto, très malade qui s’étaient amusées à se métamorphoser en légumes et qui, de son accouchement récent, ne pouvait se lever; Françoise, à travers le déguisement de leur chair comestible et ferme, n’étant plus aidée, était en retard. Quand je fus en bas, elle laissaient apercevoir en ces couleurs naissantes d’aurore, en était en train, dans l’arrièreHcuisine qui donnait sur la basseH
ces ébauches d’arcHenHciel, en cette extinction de soirs bleus, cour, de tuer un poulet qui, par sa résistance désespérée et cette essence précieuse que je reconnaissais encore quand, bien naturelle, mais accompagnée par Françoise hors d’elle, toute la nuit qui suivait un dîner où j’en avais mangé, elles tandis qu’elle cherchait à lui fendre le cou sous l’oreille, des jouaient, dans leurs farces poétiques et grossières comme cris de « sale bête! sale bête! », mettait la sainte douceur et une féerie de Shakespeare, à changer mon pot de chambre l’onction de notre servante un peu moins en lumière qu’il en un vase de parfum.
n’eût fait, au dîner du lendemain, par sa peau brodée d’or La pauvre Charité de Giotto, comme l’appelait Swann, comme une chasuble et son jus précieux égoutté d’un chargée par Françoise de les « plumer », les avait près d’elle ciboire. Quand il fut mort, Françoise recueillit le sang qui dans une corbeille, son air était douloureux, comme si elle coulait sans noyer sa rancune, eut encore un sursaut de ressentait tous les malheurs de la terre; et les légères colère, et regardant le cadavre de son ennemi, dit une couronnes d’azur qui ceignaient les asperges auHdessus de dernière fois: « Sale bête! » Je remontai tout tremblant; leurs tuniques de rose étaient finement dessinées, étoile par j’aurais voulu qu’on mît Françoise tout de suite à la porte.
étoile, comme le sont dans la fresque les fleurs bandées Mais qui m’eût fait des boules aussi chaudes, du café aussi Marcel Proust –
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Din Search OverTime parfumé, et même… ces poulets?… Et en réalité, ce lâche crut qu’elle s’était recouchée et me dit d’aller voir moiHmême calcul, tout le monde avait eu à le faire comme moi. Car ma dans la bibliothèque. J’y trouvai Françoise qui, ayant voulu tante Léonie savait – ce que j’ignorais encore – que regarder ce que le signet marquait, lisait la description Françoise qui, pour sa fille, pour ses neveux, aurait donné sa clinique de la crise et poussait des sanglots maintenant qu’il vie sans une plainte, était pour d’autres êtres d’une dureté s’agissait d’une maladeHtype qu’elle ne connaissait pas. À
singulière. Malgré cela ma tante l’avait gardée, car si elle chaque symptôme douloureux mentionné par l’auteur du connaissait sa cruauté, elle appréciait son service. Je traité, elle s’écriait: « Hé là! Sainte Vierge, estHil possible que m’aperçus peu à peu que la douceur, la componction, les le bon Dieu veuille faire souffrir ainsi une malheureuse vertus de Françoise cachaient des tragédies d’arrièreHcuisine, créature humaine? Hé! la pauvre! »
comme l’histoire découvre que le règne des Rois et des Mais dès que je l’eus appelée et qu’elle fut revenue près du Reines qui sont représentés les mains jointes dans les vitraux lit de la Charité de Giotto, ses larmes cessèrent aussitôt de des églises, furent marqués d’incidents sanglants. Je me couler; elle ne put reconnaître ni cette agréable sensation de rendis compte que, en dehors de ceux de sa parenté, les pitié et d’attendrissement qu’elle connaissait bien et que la humains excitaient d’autant plus sa pitié par leurs malheurs, lecture des journaux lui avait souvent donnée, ni aucun qu’ils vivaient plus éloignés d’elle. Les torrents de larmes plaisir de même famille; dans l’ennui et dans l’irritation de qu’elle versait en lisant le journal sur les infortunes des s’être levée au milieu de la nuit pour la fille de cuisine, et à la inconnus se tarissaient vite si elle pouvait se représenter la vue des mêmes souffrances dont la description l’avait fait personne qui en était l’objet d’une façon un peu précise. Une pleurer, elle n’eut plus que des ronchonnements de mauvaise de ces nuits qui suivirent l’accouchement de la fille de humeur, même d’affreux sarcasmes, disant, quand elle crut cuisine, celleHci fut prise d’atroces coliques: maman l’entendit que nous étions partis et ne pouvions plus l’entendre: « Elle se plaindre, se leva et réveilla Françoise qui, insensible, n’avait qu’à ne pas faire ce qu’il faut pour ça! ça lui a fait déclara que tous ces cris étaient une comédie, qu’elle voulait plaisir! qu’elle ne fasse pas de manières maintenant. FautHil
« faire la maîtresse ». Le médecin, qui craignait ces crises, tout de même qu’un garçon ait été abandonné du bon Dieu avait mis un signet, dans un livre de médecine que nous pour aller avec ça. Ah! c’est bien comme on disait dans le avions, à la page où elles sont décrites et où il nous avait dit patois de ma pauvre mère:
de nous reporter pour trouver l’indication des premiers soins à donner. Ma mère envoya Françoise chercher le livre en lui
« Qui du cul d’un chien s’amourose
recommandant de ne pas laisser tomber le signet. Au bout Il lui paraît une rose. »
d’une heure, Françoise n’était pas revenue; ma mère indignée Marcel Proust –
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Din Search OverTime Si, quand son petitHfils était un peu enrhumé du cerveau, chargée de les éplucher des crises d’asthme d’une telle elle partait la nuit, même malade, au lieu de se coucher, pour violence qu’elle fut obligée de finir par s’en aller.
voir s’il n’avait besoin de rien, faisant quatre lieues à pied Hélas! nous devions définitivement changer d’opinion sur avant le jour afin d’être rentrée pour son travail, en revanche Legrandin. Un des dimanches qui suivit la rencontre sur le ce même amour des siens et son désir d’assurer la grandeur PontHVieux après laquelle mon père avait dû confesser son future de sa maison se traduisait dans sa politique à l’égard erreur, comme la messe finissait et qu’avec le soleil et le bruit des autres domestiques par une maxime constante qui fut de du dehors quelque chose de si peu sacré entrait dans l’église n’en jamais laisser un seul s’implanter chez ma tante, qu’elle que Mme Goupil, Mme Percepied (toutes les personnes qui mettait d’ailleurs une sorte d’orgueil à ne laisser approcher tout à l’heure, à mon arrivée un peu en retard, étaient restées par personne, préférant, quand elleHmême était malade, se les yeux absorbés dans leur prière et que j’aurais même pu relever pour lui donner son eau de Vichy plutôt que de croire ne m’avoir pas vu entrer si, en même temps, leurs permettre l’accès de la chambre de sa maîtresse à la fille de pieds n’avaient repoussé légèrement le petit banc qui cuisine. Et comme cet hyménoptère observé par Fabre, la m’empêchait de gagner ma chaise) commençaient à guêpe fouisseuse, qui pour que ses petits après sa mort aient s’entretenir avec nous à haute voix de sujets tout temporels de la viande fraîche à manger, appelle l’anatomie au secours comme si nous étions déjà sur la place, nous vîmes sur le de sa cruauté et, ayant capturé des charançons et des seuil brûlant du porche, dominant le tumulte bariolé du araignées, leur perce avec un savoir et une adresse marché, Legrandin, que le mari de cette dame avec qui nous merveilleux le centre nerveux d’où dépend le mouvement l’avions dernièrement rencontré était en train de présenter à des pattes, mais non les autres fonctions de la vie, de façon la femme d’un autre gros propriétaire terrien des environs.
que l’insecte paralysé près duquel elle dépose ses œufs, La figure de Legrandin exprimait une animation, un zèle fournisse aux larves, quand elles écloront un gibier docile, extraordinaires; il fit un profond salut avec un renversement inoffensif, incapable de fuite ou de résistance, mais secondaire en arrière, qui ramena brusquement son dos au nullement faisandé, Françoise trouvait pour servir sa volonté delà de la position de départ et qu’avait dû lui apprendre le permanente de rendre la maison intenable à tout mari de sa sœur, Mme de Cambremer. Ce redressement domestique, des ruses si savantes et si impitoyables que, bien rapide fit refluer en une sorte d’onde fougueuse et musclée la des années plus tard, nous apprîmes que si cet étéHlà nous croupe de Legrandin que je ne supposais pas si charnue; et je avions mangé presque tous les jours des asperges, c’était ne sais pourquoi cette ondulation de pure matière, ce flot parce que leur odeur donnait à la pauvre fille de cuisine tout charnel, sans expression de spiritualité et qu’un Marcel Proust –
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Din Search OverTime empressement plein de bassesse fouettait en tempête, paupières et qui, n’intéressant pas les muscles de son visage, éveillèrent tout d’un coup dans mon esprit la possibilité d’un put passer parfaitement inaperçu de son interlocutrice; mais, Legrandin tout différent de celui que nous connaissions.
cherchant à compenser par l’intensité du sentiment le champ Cette dame le pria de dire quelque chose à son cocher, et un peu étroit où il en circonscrivait l’expression, dans ce coin tandis qu’il allait jusqu’à la voiture, l’empreinte de joie timide d’azur qui nous était affecté il fit pétiller tout l’entrain de la et dévouée que la présentation avait marquée sur son visage bonne grâce qui dépassa l’enjouement, frisa la malice; il y persistait encore. Ravi dans une sorte de rêve, il souriait, subtilisa les finesses de l’amabilité jusqu’aux clignements de puis il revint vers la dame en se hâtant et, comme il marchait la connivence, aux demiHmots, aux sousHentendus, aux plus vite qu’il n’en avait l’habitude, ses deux épaules mystères de la complicité; et finalement exalta les assurances oscillaient de droite et de gauche ridiculement, et il avait l’air d’amitié jusqu’aux protestations de tendresse, jusqu’à la tant il s’y abandonnait entièrement en n’ayant plus souci du déclaration d’amour, illuminant alors pour nous seuls, d’une reste, d’être le jouet inerte et mécanique du bonheur.
langueur secrète et invisible à la châtelaine, une prunelle Cependant, nous sortions du porche, nous allions passer à énamourée dans un visage de glace.
côté de lui, il était trop bien élevé pour détourner la tête, Il avait précisément demandé la veille à mes parents de mais il fixa de son regard soudain chargé d’une rêverie m’envoyer dîner ce soirHlà avec lui: « Venez tenir compagnie profonde un point si éloigné de l’horizon qu’il ne put nous à votre vieil ami, m’avaitHil dit. Comme le bouquet qu’un voir et n’eut pas à nous saluer. Son visage restait ingénu auH
voyageur nous envoie d’un pays où nous ne retournerons dessus d’un veston souple et droit qui avait l’air de se sentir plus, faitesHmoi respirer du lointain de votre adolescence ces fourvoyé malgré lui au milieu d’un luxe détesté. Et une fleurs des printemps que j’ai traversés moi aussi il y a bien lavallière à pois qu’agitait le vent de la Place continuait à des années. Venez avec la primevère, la barbe de chanoine, flotter sur Legrandin comme l’étendard de son fier isolement le bassin d’or, venez avec le sédum dont est fait le bouquet et de sa noble indépendance. Au moment où nous arrivions de dilection de la flore balzacienne, avec la fleur du jour de la à la maison, maman s’aperçut qu’on avait oublié le saintH
Résurrection, la pâquerette et la boule de neige des jardins honoré et demanda à mon père de retourner avec moi sur qui commence à embaumer dans les allées de votre nos pas dire qu’on l’apportât tout de suite. Nous croisâmes grand’tante, quand ne sont pas encore fondues les dernières près de l’église Legrandin qui venait en sens inverse boules de neige des giboulées de Pâques. Venez avec la conduisant la même dame à sa voiture. Il passa contre nous, glorieuse vêture de soie du lis digne de Salomon, et l’émail ne s’interrompit pas de parler à sa voisine, et nous fit du coin polychrome des pensées, mais venez surtout avec la brise de son œil bleu un petit signe en quelque sorte intérieur aux Marcel Proust –
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Din Search OverTime fraîche encore des dernières gelées et qui va entr’ouvrir, pour nuit comme celleHci prépare et distille avec l’obscurité, où les les deux papillons qui depuis ce matin attendent à la porte, la oreilles ne peuvent plus écouter de musique que celle que première rose de Jérusalem. »
joue le clair de lune sur la flûte du silence. » J’écoutais les paroles de M. Legrandin qui me paraissaient toujours si On se demandait à la maison si on devait m’envoyer tout agréables; mais troublé par le souvenir d’une femme que de même dîner avec M. Legrandin. Mais ma grand’mère j’avais aperçue dernièrement pour la première fois, et refusa de croire qu’il eût été impoli. « Vous reconnaissez pensant, maintenant que je savais que Legrandin était lié vousHmême qu’il vient là avec sa tenue toute simple qui n’est avec plusieurs personnalités aristocratiques des environs, que guère celle d’un mondain. » Elle déclarait qu’en tous cas, et à peutHêtre il connaissait celleHci, prenant mon courage, je lui tout mettre au pis, s’il l’avait été, mieux valait ne pas avoir dis: « EstHce que vous connaissez, monsieur, la… les l’air de s’en être aperçu. À vrai dire mon père luiHmême, qui châtelaines de Guermantes? », heureux aussi en prononçant était pourtant le plus irrité contre l’attitude qu’avait eue ce nom de prendre sur lui une sorte de pouvoir, par le seul Legrandin, gardait peutHêtre un dernier doute sur le sens fait de le tirer de mon rêve et de lui donner une existence qu’elle comportait. Elle était comme toute attitude ou action objective et sonore.
où se révèle le caractère profond et caché de quelqu’un: elle ne se relie pas à ses paroles antérieures, nous ne pouvons pas Mais à ce nom de Guermantes, je vis au milieu des yeux la faire confirmer par le témoignage du coupable qui bleus de notre ami se ficher une petite encoche brune n’avouera pas; nous en sommes réduits à celui de nos sens comme s’ils venaient d’être percés par une pointe invisible, dont nous nous demandons, devant ce souvenir isolé et tandis que le reste de la prunelle réagissait en sécrétant des incohérent, s’ils n’ont pas été le jouet d’une illusion; de sorte flots d’azur. Le cerne de sa paupière noircit, s’abaissa. Et sa que de telles attitudes, les seules qui aient de l’importance, bouche marquée d’un pli amer se ressaissant plus vite sourit, nous laissent souvent quelques doutes.
tandis que le regard restait douloureux, comme celui d’un beau martyr dont le corps est hérissé de flèches: « Non, je ne Je dînai avec Legrandin sur sa terrasse; il faisait clair de les connais pas », ditHil, mais au lieu de donner à un lune: « Il y a une jolie qualité de silence, n’estHce pas, me ditH
renseignement aussi simple, à une réponse aussi peu il; aux cœurs blessés comme l’est le mien, un romancier que surprenante le ton naturel et courant qui convenait, il le vous lirez plus tard prétend que conviennent seulement débita en appuyant sur les mots, en s’inclinant, en saluant de l’ombre et le silence. Et voyezHvous, mon enfant, il vient la tête, à la fois avec l’insistance qu’on apporte, pour être cru, dans la vie une heure dont vous êtes bien loin encore où les à une affirmation invraisemblable – comme si ce fait qu’il ne yeux las ne tolèrent plus qu’une lumière, celle qu’une belle Marcel Proust –
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Din Search OverTime connût pas les Guermantes ne pouvait être l’effet que d’un de leur déplaire qu’il n’osait pas leur laisser voir qu’il avait hasard singulier – et aussi avec l’emphase de quelqu’un qui, pour amis des bourgeois, des fils de notaires ou d’agents de ne pouvant pas taire une situation qui lui est pénible, préfère change, préférant, si la vérité devait se découvrir, que ce fût la proclamer pour donner aux autres l’idée que l’aveu qu’il en son absence, loin de lui et « par défaut »; il était snob.
fait ne lui cause aucun embarras, est facile, agréable, Sans doute il ne disait jamais rien de tout cela dans le langage spontané, que la situation elleHmême – l’absence de relations que mes parents et moiHmême nous aimions tant. Et si je avec les Guermantes – pourrait bien avoir été non pas subie, demandais: « ConnaissezHvous les Guermantes? », Legrandin mais voulue par lui, résulter de quelque tradition de famille, le causeur répondait: « Non, je n’ai jamais voulu les principe de morale ou vœu mystique lui interdisant connaître. » Malheureusement il ne le répondait qu’en nommément la fréquentation des Guermantes. « Non, second, car un autre Legrandin qu’il cachait soigneusement repritHil, expliquant par ses paroles sa propre intonation, au fond de lui, qu’il ne montrait pas, parce que ce LegrandinH
non, je ne les connais pas, je n’ai jamais voulu, j’ai toujours là savait sur le nôtre, sur son snobisme, des histoires tenu à sauvegarder ma pleine indépendance; au fond je suis compromettantes, un autre Legrandin avait déjà répondu par une tête jacobine, vous le savez. Beaucoup de gens sont la blessure du regard, par le rictus de la bouche, par la gravité venus à la rescousse, on me disait que j’avais tort de ne pas excessive du ton de la réponse, par les mille flèches dont aller à Guermantes, que je me donnais l’air d’un malotru, notre Legrandin s’était trouvé en un instant lardé et alangui, d’un vieil ours. Mais voilà une réputation qui n’est pas pour comme un saint Sébastien du snobisme: « Hélas! que vous m’effrayer, elle est si vraie! Au fond, je n’aime plus au monde me faites mal, non je ne connais pas les Guermantes, ne que quelques églises, deux ou trois livres, à peine davantage réveillez pas la grande douleur de ma vie. » Et comme ce de tableaux, et le clair de lune quand la brise de votre Legrandin enfant terrible, ce Legrandin maître chanteur, s’il jeunesse apporte jusqu’à moi l’odeur des parterres que mes n’avait pas le joli langage de l’autre, avait le verbe infiniment vieilles prunelles ne distinguent plus. » Je ne comprenais pas plus prompt, composé de ce qu’on appelle « réflexes », bien que, pour ne pas aller chez des gens qu’on ne connaît quand Legrandin le causeur voulait lui imposer silence, pas, il fût nécessaire de tenir à son indépendance, et en quoi l’autre avait déjà parlé et notre ami avait beau se désoler de la cela pouvait vous donner l’air d’un sauvage ou d’un ours.
mauvaise impression que les révélations de son alter ego Mais ce que je comprenais, c’est que Legrandin n’était pas avaient dû produire, il ne pouvait qu’entreprendre de la tout à fait véridique quand il disait n’aimer que les églises, le pallier.
clair de lune et la jeunesse; il aimait beaucoup les gens des châteaux et se trouvait pris devant eux d’une si grande peur Marcel Proust –
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Din Search OverTime Et certes cela ne veut pas dire que M. Legrandin ne fût pas vous offrira de vous mettre en rapport avec sa sœur. Il ne sincère quand il tonnait contre les snobs. Il ne pouvait pas doit pas se souvenir nous avoir dit qu’elle demeurait à deux savoir, au moins par luiHmême, qu’il le fût, puisque nous ne kilomètres de là. » Ma grand’mère qui trouvait qu’aux bains connaissons jamais que les passions des autres, et que ce que de mer il faut être du matin au soir sur la plage à humer le sel nous arrivons à savoir des nôtres, ce n’est que d’eux que et qu’on n’y doit connaître personne, parce que les visites, les nous avons pu l’apprendre. Sur nous, elles n’agissent que promenades sont autant de pris sur l’air marin, demandait au d’une façon seconde, par l’imagination qui substitue aux contraire qu’on ne parlât pas de nos projets à Legrandin, premiers mobiles des mobiles de relais qui sont plus décents.
voyant déjà sa sœur, Mme de Cambremer, débarquant à Jamais le snobisme de Legrandin ne lui conseillait d’aller voir l’hôtel au moment où nous serions sur le point d’aller à la souvent une duchesse. Il chargeait l’imagination de pêche et nous forçant à rester enfermés pour la recevoir.
Legrandin de lui faire apparaître cette duchesse comme parée Mais maman riait de ses craintes, pensant à part elle que le de toutes les grâces. Legrandin se rapprochait de la duchesse, danger n’était pas si menaçant, que Legrandin ne serait pas si s’estimant de céder à cet attrait de l’esprit et de la vertu pressé de nous mettre en relations avec sa sœur. Or, sans qu’ignorent les infâmes snobs. Seuls les autres savaient qu’il qu’on eût besoin de lui parler de Balbec, ce fut luiHmême, en était un; car, grâce à l’incapacité où ils étaient de Legrandin, qui, ne se doutant pas que nous eussions jamais comprendre le travail intermédiaire de son imagination, ils l’intention d’aller de ce côté, vint se mettre dans le piège un voyaient en face l’une de l’autre l’activité mondaine de soir où nous le rencontrâmes au bord de la Vivonne.
Legrandin et sa cause première.
– Il y a dans les nuages ce soir des violets et des bleus bien Maintenant, à la maison, on n’avait plus aucune illusion sur beaux, n’estHce pas, mon compagnon, ditHil à mon père, un M. Legrandin, et nos relations avec lui s’étaient fort espacées.
bleu surtout plus floral qu’aérien, un bleu de cinéraire, qui Maman s’amusait infiniment chaque fois qu’elle prenait surprend dans le ciel. Et ce petit nuage rose n’aHtHil pas aussi Legrandin en flagrant délit du péché qu’il n’avouait pas, qu’il un teint de fleur, d’œillet ou d’hydrangéa? Il n’y a guère que continuait à appeler le péché sans rémission, le snobisme.
dans la Manche, entre Normandie et Bretagne, que j’ai pu Mon père, lui, avait de la peine à prendre les dédains de faire de plus riches observations sur cette sorte de règne Legrandin avec tant de détachement et de gaîté; et quand on végétal de l’atmosphère. LàHbas, près de Balbec, près de ces pensa une année à m’envoyer passer les grandes vacances à lieux sauvages, il y a une petite baie d’une douceur Balbec avec ma grand’mère, il dit: « Il faut absolument que charmante où le coucher de soleil du pays d’Auge, le coucher j’annonce à Legrandin que vous irez à Balbec, pour voir s’il de soleil rouge et or que je suis loin de dédaigner, d’ailleurs, Marcel Proust –
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Din Search OverTime est sans caractère, insignifiant; mais dans cette atmosphère de ne pas craindre de le regarder en face, il sembla lui avoir humide et douce s’épanouissent le soir en quelques instants traversé la figure comme si elle fût devenue transparente, et de ces bouquets célestes, bleus et roses, qui sont voir en ce moment bien au delà derrière elle un nuage incomparables et qui mettent souvent des heures à se faner.
vivement coloré qui lui créait un alibi mental et qui lui D’autres s’effeuillent tout de suite, et c’est alors plus beau permettrait d’établir qu’au moment où on lui avait demandé encore de voir le ciel entier que jonche la dispersion s’il connaissait quelqu’un à Balbec, il pensait à autre chose et d’innombrables pétales soufrés ou roses. Dans cette baie, n’avait pas entendu la question. Habituellement de tels dite d’opale, les plages d’or semblent plus douces encore regards font dire à l’interlocuteur: « À quoi pensezHvous pour être attachées comme de blondes Andromèdes à ces donc? » Mais mon père curieux, irrité et cruel, reprit: terribles rochers des côtes voisines, à ce rivage funèbre,
– EstHce que vous avez des amis de ce côtéHlà, que vous fameux par tant de naufrages, où tous les hivers bien des connaissez si bien Balbec?
barques trépassent au péril de la mer. Balbec! la plus antique ossature géologique de notre sol, vraiment ArHmor, la mer, la Dans un dernier effort désespéré, le regard souriant de fin de la terre, la région maudite qu’Anatole France – un Legrandin atteignit son maximum de tendresse, de vague, de enchanteur que devrait lire notre petit ami – a si bien peinte, sincérité et de distraction, mais, pensant sans doute qu’il n’y sous ses brouillards éternels, comme le véritable pays des avait plus qu’à répondre, il nous dit: Cimmériens, dans l’Odyssée. De Balbec surtout, où déjà des
– J’ai des amis partout où il y a des groupes d’arbres hôtels se construisent, superposés au sol antique et charmant blessés, mais non vaincus, qui se sont rapprochés pour qu’ils n’altèrent pas, quel délice d’excursionner à deux pas implorer ensemble avec une obstination pathétique un ciel dans ces régions primitives et si belles.
inclément qui n’a pas pitié d’eux.
– Ah! estHce que vous connaissez quelqu’un à Balbec? dit
– Ce n’est pas cela que je voulais dire, interrompit mon mon père. Justement ce petitHlà doit y aller passer deux mois père, aussi obstiné que les arbres et aussi impitoyable que le avec sa grand’mère et peutHêtre avec ma femme.
ciel. Je demandais pour le cas où il arriverait n’importe quoi à Legrandin pris au dépourvu par cette question à un ma belleHmère et où elle aurait besoin de ne pas se sentir làH
moment où ses yeux étaient fixés sur mon père, ne put les bas en pays perdu, si vous y connaissez du monde?
détourner, mais les attachant de seconde en seconde avec
– Là comme partout, je connais tout le monde et je ne plus d’intensité – et tout en souriant tristement – sur les yeux connais personne, répondit Legrandin qui ne se rendait pas de son interlocuteur, avec un air d’amitié et de franchise et si vite; beaucoup les choses et fort peu les personnes. Mais Marcel Proust –
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Din Search OverTime les choses ellesHmêmes y semblent des personnes, des Mon père lui en reparla dans nos rencontres ultérieures, le personnes rares, d’une essence délicate et que la vie aurait tortura de questions, ce fut peine inutile: comme cet escroc déçues. Parfois c’est un castel que vous rencontrez sur la érudit qui employait à fabriquer de faux palimpsestes un falaise, au bord du chemin où il s’est arrêté pour confronter labeur et une science dont la centième partie eût suffi à lui son chagrin au soir encore rose où monte la lune d’or et assurer une situation plus lucrative, mais honorable, M.
dont les barques qui rentrent en striant l’eau diaprée hissent Legrandin, si nous avions insisté encore, aurait fini par à leurs mâts la flamme et portent les couleurs; parfois c’est édifier toute une éthique de paysage et une géographie une simple maison solitaire, plutôt laide, l’air timide mais céleste de la basse Normandie, plutôt que de nous avouer romanesque, qui cache à tous les yeux quelque secret qu’à deux kilomètres de Balbec habitait sa propre sœur, et impérissable de bonheur et de désenchantement. Ce pays d’être obligé à nous offrir une lettre d’introduction qui n’eût sans vérité, ajoutaHtHil avec une délicatesse machiavélique, ce pas été pour lui un tel sujet d’effroi s’il avait été absolument pays de pure fiction est d’une mauvaise lecture pour un certain – comme il aurait dû l’être en effet avec l’expérience enfant, et ce n’est certes pas lui que je choisirais et qu’il avait du caractère de ma grand’mère – que nous n’en recommanderais pour mon petit ami déjà si enclin à la aurions pas profité.
tristesse, pour son cœur prédisposé. Les climats de
* * *
confidence amoureuse et de regret inutile peuvent convenir au vieux désabusé que je suis, ils sont toujours malsains pour Nous rentrions toujours de bonne heure de nos un tempérament qui n’est pas formé. CroyezHmoi, repritHil promenades pour pouvoir faire une visite à ma tante Léonie avec insistance, les eaux de cette baie, déjà à moitié bretonne, avant le dîner. Au commencement de la saison où le jour peuvent exercer une action sédative, d’ailleurs discutable, sur finit tôt, quand nous arrivions rue du SaintHEsprit, il y avait un cœur qui n’est plus intact comme le mien, sur un cœur encore un reflet du couchant sur les vitres de la maison et un dont la lésion n’est plus compensée. Elles sont contreH
bandeau de pourpre au fond des bois du Calvaire qui se indiquées à votre âge, petit garçon. « Bonne nuit, voisin », reflétait plus loin dans l’étang, rougeur qui, accompagnée ajoutaHtHil en nous quittant avec cette brusquerie évasive souvent d’un froid assez vif, s’associait, dans mon esprit, à la dont il avait l’habitude et, se retournant vers nous avec un rougeur du feu auHdessus duquel rôtissait le poulet qui ferait doigt levé de docteur, il résuma sa consultation: « Pas de succéder pour moi au plaisir poétique donné par la Balbec avant cinquante ans, et encore cela dépend de l’état promenade, le plaisir de la gourmandise, de la chaleur et du du cœur », nous criaHtHil.
repos. Dans l’été au contraire, quand nous rentrions, le soleil ne se couchait pas encore; et pendant la visite que nous Marcel Proust –
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Din Search OverTime faisions chez ma tante Léonie, sa lumière qui s’abaissait et desséché après ce qu’il a attendu. Aussi estHce une heure touchait la fenêtre était arrêtée entre les grands rideaux et les pour rentrer! comment, vous êtes allés du côté de embrasses, divisée, ramifiée, filtrée, et incrustant de petits Guermantes!
morceaux d’or le bois de citronnier de la commode,
– Mais je croyais que vous le saviez, Léonie, disait maman.
illuminait obliquement la chambre avec la délicatesse qu’elle Je pensais que Françoise nous avait vus sortir par la petite prend dans les sousHbois. Mais certains jours fort rares, porte du potager.
quand nous rentrions, il y avait bien longtemps que la commode avait perdu ses incrustations momentanées, il n’y Car il y avait autour de Combray deux « côtés » pour les avait plus quand nous arrivions rue du SaintHEsprit nul reflet promenades, et si opposés qu’on ne sortait pas en effet de de couchant étendu sur les vitres et l’étang au pied du chez nous par la même porte, quand on voulait aller d’un calvaire avait perdu sa rougeur, quelquefois il était déjà côté ou de l’autre: le côté de MéségliseHlaHVineuse, qu’on couleur d’opale et un long rayon de lune qui allait en appelait aussi le côté de chez Swann parce qu’on passait s’élargissant et se fendillait de toutes les rides de l’eau le devant la propriété de M. Swann pour aller par là, et le côté traversait tout entier. Alors, en arrivant près de la maison, de Guermantes. De MéségliseHlaHVineuse, à vrai dire, je n’ai nous apercevions une forme sur le pas de la porte et maman jamais connu que le « côté » et des gens étrangers qui me disait:
venaient le dimanche se promener à Combray, des gens que, cette fois, ma tante elleHmême et nous tous ne « connaissions
– Mon dieu! voilà Françoise qui nous guette, ta tante est point » et qu’à ce signe on tenait pour « des gens qui seront inquiète; aussi nous rentrons trop tard.
venus de Méséglise ». Quant à Guermantes je devais un jour Et sans avoir pris le temps d’enlever nos affaires, nous en connaître davantage, mais bien plus tard seulement; et montions vite chez ma tante Léonie pour la rassurer et lui pendant toute mon adolescence, si Méséglise était pour moi montrer que, contrairement à ce qu’elle imaginait déjà, il ne quelque chose d’inaccessible comme l’horizon, dérobé à la nous était rien arrivé, mais que nous étions allés « du côté de vue, si loin qu’on allât, par les plis d’un terrain qui ne Guermantes » et, dame, quand on faisait cette promenadeHlà, ressemblait déjà plus à celui de Combray, Guermantes, lui, ma tante savait pourtant bien qu’on ne pouvait jamais être ne m’est apparu que comme le terme plutôt idéal que réel de sûr de l’heure à laquelle on serait rentré.
son propre « côté », une sorte d’expression géographique abstraite comme la ligne de l’équateur, comme le pôle,
– Là, Françoise, disait ma tante, quand je vous le disais, comme l’orient. Alors, « prendre par Guermantes » pour qu’ils seraient allés du côté de Guermantes! Mon Dieu! ils aller à Méséglise, ou le contraire, m’eût semblé une doivent avoir une faim! et votre gigot qui doit être tout Marcel Proust –
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Din Search OverTime expression aussi dénuée de sens que prendre par l’est pour promenade n’était pas bien longue et n’entraînait pas trop) aller à l’ouest. Comme mon père parlait toujours du côté de comme pour aller n’importe où, par la grande porte de la Méséglise comme de la plus belle vue de la plaine qu’il maison de ma tante sur la rue du SaintHEsprit. On était salué connût et du côté de Guermantes comme du type de par l’armurier, on jetait ses lettres à la boîte, on disait en paysage de rivière, je leur donnais, en les concevant ainsi passant à Théodore, de la part de Françoise, qu’elle n’avait comme deux entités, cette cohésion, cette unité qui plus d’huile ou de café, et l’on sortait de la ville par le chemin n’appartiennent qu’aux créations de notre esprit; la moindre qui passait le long de la barrière blanche du parc de M.
parcelle de chacun d’eux me semblait précieuse et manifester Swann. Avant d’y arriver, nous rencontrions, venue auH
leur excellence particulière, tandis qu’à côté d’eux, avant devant des étrangers, l’odeur de ses lilas. EuxHmêmes, d’entre qu’on fût arrivé sur le sol sacré de l’un ou de l’autre, les les petits cœurs verts et frais de leurs feuilles, levaient chemins purement matériels au milieu desquels ils étaient curieusement auHdessus de la barrière du parc leurs panaches posés comme l’idéal de la vue de plaine et l’idéal du paysage de plumes mauves ou blanches que lustrait, même à l’ombre, de rivière, ne valaient pas plus la peine d’être regardés que le soleil où elles avaient baigné. QuelquesHuns, à demi cachés par le spectateur épris d’art dramatique les petites rues qui par la petite maison en tuiles appelée maison des Archers, où avoisinent un théâtre. Mais surtout je mettais entre eux, bien logeait le gardien, dépassaient son pignon gothique de leur plus que leurs distances kilométriques, la distance qu’il y rose minaret. Les Nymphes du printemps eussent semblé avait entre les deux parties de mon cerveau où je pensais à vulgaires, auprès de ces jeunes houris qui gardaient dans ce eux, une de ces distances dans l’esprit qui ne font pas jardin français les tons vifs et purs des miniatures de la Perse.
qu’éloigner, qui séparent et mettent dans un autre plan. Et Malgré mon désir d’enlacer leur taille souple et d’attirer à cette démarcation était rendue plus absolue encore parce que moi les boucles étoilées de leur tête odorante, nous passions cette habitude que nous avions de n’aller jamais vers les deux sans nous arrêter, mes parents n’allant plus à Tansonville côtés un même jour, dans une seule promenade, mais une depuis le mariage de Swann, et, pour ne pas avoir l’air de fois du côté de Méséglise, une fois du côté de Guermantes, regarder dans le parc, au lieu de prendre le chemin qui longe les enfermait pour ainsi dire loin l’un de l’autre, sa clôture et qui monte directement aux champs, nous en inconnaissables l’un à l’autre, dans les vases clos et sans prenions un autre qui y conduit aussi, mais obliquement, et communication entre eux d’aprèsHmidi différents.
nous faisait déboucher trop loin. Un jour, mon grandHpère dit à mon père:
Quand on voulait aller du côté de Méséglise, on sortait (pas trop tôt et même si le ciel était couvert, parce que la Marcel Proust –
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– Vous rappelezHvous que Swann a dit hier que, comme sa dominait l’étang artificiel, s’était composée sur deux rangs, femme et sa fille partaient pour Reims, il en profiterait pour tressés de fleurs de myosotis et de pervenches, la couronne aller passer vingtHquatre heures à Paris? Nous pourrions naturelle, délicate et bleue qui ceint le front clairHobscur des longer le parc, puisque ces dames ne sont pas là, cela nous eaux, et que le glaïeul, laissant fléchir ses glaives avec un abrégerait d’autant.
abandon royal, étendait sur l’eupatoire et la grenouillette au pied mouillé les fleurs de lis en lambeaux, violettes et jaunes, Nous nous arrêtâmes un moment devant la barrière. Le de son sceptre lacustre.
temps des lilas approchait de sa fin; quelquesHuns effusaient encore en hauts lustres mauves les bulles délicates de leurs Le départ de Mlle Swann qui – en m’ôtant la chance fleurs, mais dans bien des parties du feuillage où déferlait, il y terrible de la voir apparaître dans une allée, d’être connu et avait seulement une semaine, leur mousse embaumée, se méprisé par la petite fille privilégiée qui avait Bergotte pour flétrissait, diminuée et noircie, une écume creuse, sèche et ami et allait avec lui visiter des cathédrales – me rendait la sans parfum. Mon grandHpère montrait à mon père en quoi contemplation de Tansonville indifférente la première fois l’aspect des lieux était resté le même, et en quoi il avait où elle m’était permise, semblait au contraire ajouter à cette changé, depuis la promenade qu’il avait faite avec M. Swann propriété, aux yeux de mon grandHpère et de mon père, des le jour de la mort de sa femme, et il saisit cette occasion pour commodités, un agrément passager, et, comme fait, pour une raconter cette promenade une fois de plus.
excursion en pays de montagnes, l’absence de tout nuage, rendre cette journée exceptionnellement propice à une Devant nous, une allée bordée de capucines montait en promenade de ce côté; j’aurais voulu que leurs calculs plein soleil vers le château. À droite, au contraire, le parc fussent déjoués, qu’un miracle fît apparaître Mlle Swann avec s’étendait en terrain plat. Obscurcie par l’ombre des grands son père, si près de nous que nous n’aurions pas le temps de arbres qui l’entouraient, une pièce d’eau avait été creusée par l’éviter et serions obligés de faire sa connaissance. Aussi, les parents de Swann; mais dans ses créations les plus quand tout d’un coup, j’aperçus sur l’herbe, comme un signe factices, c’est sur la nature que l’homme travaille; certains de sa présence possible, un koufin oublié à côté d’une ligne lieux font toujours régner autour d’eux leur empire dont le bouchon flottait sur l’eau, je m’empressai de particulier, arborent leurs insignes immémoriaux au milieu détourner d’un autre côté les regards de mon père et de mon d’un parc comme ils auraient fait loin de toute intervention grandHpère. D’ailleurs Swann nous ayant dit que c’était mal à humaine, dans une solitude qui revient partout les entourer, lui de s’absenter, car il avait pour le moment de la famille à surgie des nécessités de leur exposition et superposée à demeure, la ligne pouvait appartenir à quelque invité. On l’œuvre humaine. C’est ainsi qu’au pied de l’allée qui Marcel Proust –
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Din Search OverTime n’entendait aucun bruit de pas dans les allées. Divisant la bouquet d’étamines, fines et rayonnantes nervures de style hauteur d’un arbre incertain, un invisible oiseau s’ingéniait à flamboyant comme celles qui à l’église ajouraient la rampe faire trouver la journée courte, explorait d’une note du jubé ou les meneaux du vitrail et qui s’épanouissaient en prolongée la solitude environnante, mais il recevait d’elle une blanche chair de fleur de fraisier. Combien naïves et réplique si unanime, un choc en retour si redoublé de silence paysannes en comparaison sembleraient les églantines qui, et d’immobilité qu’on aurait dit qu’il venait d’arrêter pour dans quelques semaines, monteraient elles aussi en plein toujours l’instant qu’il avait cherché à faire passer plus vite.
soleil le même chemin rustique, en la soie unie de leur La lumière tombait si implacable du ciel devenu fixe que l’on corsage rougissant qu’un souffle défait.
aurait voulu se soustraire à son attention, et l’eau dormante Mais j’avais beau rester devant les aubépines à respirer, à elleHmême, dont des insectes irritaient perpétuellement le porter devant ma pensée qui ne savait ce qu’elle devait en sommeil, rêvant sans doute de quelque Maelstrôm faire, à perdre, à retrouver leur invisible et fixe odeur, à imaginaire, augmentait le trouble où m’avait jeté la vue du m’unir au rythme qui jetait leurs fleurs, ici et là, avec une flotteur de liège en semblant l’entraîner à toute vitesse sur les allégresse juvénile et à des intervalles inattendus comme étendues silencieuses du ciel reflété; presque vertical il certains intervalles musicaux, elles m’offraient indéfiniment paraissait prêt à plonger et déjà je me demandais, si, sans le même charme avec une profusion inépuisable, mais sans tenir compte du désir et de la crainte que j’avais de la me laisser approfondir davantage, comme ces mélodies connaître, je n’avais pas le devoir de faire prévenir Mlle qu’on rejoue cent fois de suite sans descendre plus avant Swann que le poisson mordait – quand il me fallut rejoindre dans leur secret. Je me détournais d’elles un moment, pour en courant mon père et mon grandHpère qui m’appelaient, les aborder ensuite avec des forces plus fraîches. Je étonnés que je ne les eusse pas suivis dans le petit chemin poursuivais jusque sur le talus qui, derrière la haie, montait qui monte vers les champs et où ils s’étaient engagés. Je le en pente raide vers les champs, quelques coquelicots perdus, trouvai tout bourdonnant de l’odeur des aubépines. La haie quelques bluets restés paresseusement en arrière, qui le formait comme une suite de chapelles qui disparaissaient décoraient çà et là de leurs fleurs comme la bordure d’une sous la jonchée de leurs fleurs amoncelées en reposoir; auH
tapisserie où apparaît clairsemé le motif agreste qui dessous d’elles, le soleil posait à terre un quadrillage de triomphera sur le panneau; rares encore, espacés comme les clarté, comme s’il venait de traverser une verrière; leur maisons isolées qui annoncent déjà l’approche d’un village, parfum s’étendait aussi onctueux, aussi délimité en sa forme ils m’annonçaient l’immense étendue où déferlent les blés, que si j’eusse été devant l’autel de la Vierge, et les fleurs, où moutonnent les nuages, et la vue d’un seul coquelicot aussi parées, tenaient chacune d’un air distrait son étincelant Marcel Proust –
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Din Search OverTime hissant au bout de son cordage et faisant cingler au vent sa riche encore, car les fleurs attachées sur la branche, les unes flamme rouge, auHdessus de sa bouée graisseuse et noire, me auHdessus des autres, de manière à ne laisser aucune place qui faisait battre le cœur, comme au voyageur qui aperçoit sur ne fût décorée, comme des pompons qui enguirlandent une une terre basse une première barque échouée que répare un houlette rococo, étaient « en couleur », par conséquent d’une calfat, et s’écrie, avant de l’avoir encore vue: « La Mer! »
qualité supérieure selon l’esthétique de Combray, si l’on en jugeait par l’échelle des prix dans le « magasin » de la Place Puis je revenais devant les aubépines comme devant ces ou chez Camus où étaient plus chers ceux des biscuits qui chefsHd’œuvre dont on croit qu’on saura mieux les voir étaient roses. MoiHmême j’appréciais plus le fromage à la quand on a cessé un moment de les regarder, mais j’avais crème rose, celui où l’on m’avait permis d’écraser des fraises.
beau me faire un écran de mes mains pour n’avoir qu’elles Et justement ces fleurs avaient choisi une de ces teintes de sous les yeux, le sentiment qu’elles éveillaient en moi restait chose mangeable, ou de tendre embellissement à une toilette obscur et vague, cherchant en vain à se dégager, à venir pour une grande fête, qui, parce qu’elles leur présentent la adhérer à leurs fleurs. Elles ne m’aidaient pas à l’éclaircir, et raison de leur supériorité, sont celles qui semblent belles je ne pouvais demander à d’autres fleurs de le satisfaire.
avec le plus d’évidence aux yeux des enfants, et à cause de Alors me donnant cette joie que nous éprouvons quand cela, gardent toujours pour eux quelque chose de plus vif et nous voyons de notre peintre préféré une œuvre qui diffère de plus naturel que les autres teintes, même lorsqu’ils ont de celles que nous connaissions, ou bien si l’on nous mène compris qu’elles ne promettaient rien à leur gourmandise et devant un tableau dont nous n’avions vu jusqueHlà qu’une n’avaient pas été choisies par la couturière. Et certes, je esquisse au crayon, si un morceau entendu seulement au l’avais tout de suite senti, comme devant les épines blanches piano nous apparaît ensuite revêtu des couleurs de mais avec plus d’émerveillement, que ce n’était pas l’orchestre, mon grandHpère m’appelant et me désignant la facticement, par un artifice de fabrication humaine, qu’était haie de Tansonville, me dit: « Toi qui aimes les aubépines, traduite l’intention de festivité dans les fleurs, mais que regarde un peu cette épine rose; estHelle jolie! » En effet c’était la nature qui, spontanément, l’avait exprimée avec la c’était une épine, mais rose, plus belle encore que les naïveté d’une commerçante de village travaillant pour un blanches. Elle aussi avait une parure de fête, de ces seules reposoir, en surchargeant l’arbuste de ces rosettes d’un ton vraies fêtes que sont les fêtes religieuses, puisqu’un caprice trop tendre et d’un pompadour provincial. Au haut des contingent ne les applique pas comme les fêtes mondaines à branches, comme autant de ces petits rosiers aux pots cachés un jour quelconque qui ne leur est pas spécialement destiné, dans des papiers en dentelles, dont aux grandes fêtes on qui n’a rien d’essentiellement férié – mais une parure plus faisait rayonner sur l’autel les minces fusées, pullulaient mille Marcel Proust –
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Din Search OverTime petits boutons d’une teinte plus pâle qui, en s’entr’ouvrant,
« d’esprit d’observation » pour dégager la notion de leur laissaient voir, comme au fond d’une coupe de marbre rose, couleur, pendant longtemps, chaque fois que je repensai à de rouges sanguines, et trahissaient, plus encore que les elle, le souvenir de leur éclat se présentait aussitôt à moi fleurs, l’essence particulière, irrésistible, de l’épine, qui, comme celui d’un vif azur, puisqu’elle était blonde: de sorte partout où elle bourgeonnait, où elle allait fleurir, ne le que, peutHêtre si elle n’avait pas eu des yeux aussi noirs – ce pouvait qu’en rose. Intercalé dans la haie, mais aussi qui frappait tant la première fois qu’on la voyait – je n’aurais différent d’elle qu’une jeune fille en robe de fête au milieu de pas été, comme je le fus, plus particulièrement amoureux, en personnes en négligé qui resteront à la maison, tout prêt elle, de ses yeux bleus.
pour le mois de Marie, dont il semblait faire partie déjà, tel Je la regardai, d’abord de ce regard qui n’est pas que le brillait en souriant dans sa fraîche toilette rose l’arbuste porteHparole des yeux, mais à la fenêtre duquel se penchent catholique et délicieux.
tous les sens, anxieux et pétrifiés, le regard qui voudrait La haie laissait voir à l’intérieur du parc une allée bordée de toucher, capturer, emmener le corps qu’il regarde et l’âme jasmins, de pensées et de verveines entre lesquelles des avec lui; puis, tant j’avais peur que d’une seconde à l’autre giroflées ouvraient leurs bourses fraîches du rose odorant et mon grandHpère et mon père, apercevant cette jeune fille, me passé d’un cuir ancien de Cordoue, tandis que sur le gravier fissent éloigner en me disant de courir un peu devant eux, un long tuyau d’arrosage peint en vert, déroulant ses circuits, d’un second regard, inconsciemment supplicateur, qui tâchait dressait aux points où il était percé auHdessus des fleurs, dont de la forcer à faire attention à moi, à me connaître! Elle jeta il imbibait les parfums, l’éventail vertical et prismatique de en avant et de côté ses pupilles pour prendre connaissance ses gouttelettes multicolores. Tout à coup, je m’arrêtai, je ne de mon grand’père et de mon père, et sans doute l’idée pus plus bouger, comme il arrive quand une vision ne qu’elle en rapporta fut celle que nous étions ridicules, car elle s’adresse pas seulement à nos regards, mais requiert des se détourna, et d’un air indifférent et dédaigneux, se plaça de perceptions plus profondes et dispose de notre être tout côté pour épargner à son visage d’être dans leur champ entier. Une fillette d’un blond roux, qui avait l’air de rentrer visuel; et tandis que continuant à marcher et ne l’ayant pas de promenade et tenait à la main une bêche de jardinage, aperçue, ils m’avaient dépassé, elle laissa ses regards filer de nous regardait, levant son visage semé de taches roses. Ses toute leur longueur dans ma direction, sans expression yeux noirs brillaient et, comme je ne savais pas alors, ni ne particulière, sans avoir l’air de me voir, mais avec une fixité l’ai appris depuis, réduire en ses éléments objectifs une et un sourire dissimulé, que je ne pouvais interpréter d’après impression forte, comme je n’avais pas, ainsi qu’on dit, assez les notions que l’on m’avait données sur la bonne éducation Marcel Proust –
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Din Search OverTime que comme une preuve d’outrageant mépris; et sa main toute cette infamie! ») l’impression laissée en moi par le ton esquissait en même temps un geste indécent, auquel quand il despotique avec lequel la mère de Gilberte lui avait parlé était adressé en public à une personne qu’on ne connaissait sans qu’elle répliquât, en me la montrant comme forcée pas, le petit dictionnaire de civilité que je portais en moi ne d’obéir à quelqu’un, comme n’étant pas supérieure à tout, donnait qu’un seul sens, celui d’une intention insolente.
calma un peu ma souffrance, me rendit quelque espoir et diminua mon amour. Mais bien vite cet amour s’éleva de
– Allons, Gilberte, viens; qu’estHce que tu fais, cria d’une nouveau en moi comme une réaction par quoi mon cœur voix perçante et autoritaire une dame en blanc que je n’avais humilié voulait se mettre de niveau avec Gilberte ou pas vue, et à quelque distance de laquelle un monsieur habillé l’abaisser jusqu’à lui. Je l’aimais, je regrettais de ne pas avoir de coutil et que je ne connaissais pas fixait sur moi des yeux eu le temps et l’inspiration de l’offenser, de lui faire mal, et qui lui sortaient de la tête; et cessant brusquement de sourire, de la forcer à se souvenir de moi. Je la trouvais si belle que la jeune fille prit sa bêche et s’éloigna sans se retourner de j’aurais voulu pouvoir revenir sur mes pas, pour lui crier en mon côté, d’un air docile, impénétrable et sournois.
haussant les épaules: « Comme je vous trouve laide, Ainsi passa près de moi ce nom de Gilberte, donné grotesque, comme vous me répugnez! » Cependant je comme un talisman qui me permettait peutHêtre de retrouver m’éloignais, emportant pour toujours, comme premier type un jour celle dont il venait de faire une personne et qui, d’un bonheur inaccessible aux enfants de mon espèce de par l’instant d’avant, n’était qu’une image incertaine. Ainsi passaH
des lois naturelles impossibles à transgresser, l’image d’une tHil, proféré auHdessus des jasmins et des giroflées, aigre et petite fille rousse, à la peau semée de taches roses, qui tenait frais comme les gouttes de l’arrosoir vert; imprégnant, irisant une bêche et qui riait en laissant filer sur moi de longs la zone d’air pur qu’il avait traversée – et qu’il isolait – du regards sournois et inexpressifs. Et déjà le charme dont son mystère de la vie de celle qu’il désignait pour les êtres nom avait encensé cette place sous les épines roses où il heureux qui vivaient, qui voyageaient avec elle; déployant avait été entendu ensemble par elle et par moi, allait gagner, sous l’épinier rose, à hauteur de mon épaule, la quintessence enduire, embaumer tout ce qui l’approchait, ses grandsH
de leur familiarité, pour moi si douloureuse, avec elle, avec parents que les miens avaient eu l’ineffable bonheur de l’inconnu de sa vie où je n’entrerais pas.
connaître, la sublime profession d’agent de change, le Un instant (tandis que nous nous éloignions et que mon douloureux quartier des ChampsHÉlysées qu’elle habitait à grandHpère murmurait: « Ce pauvre Swann, quel rôle ils lui Paris.
font jouer: on le fait partir pour qu’elle reste seule avec son Charlus, car c’est lui, je l’ai reconnu! Et cette petite, mêlée à Marcel Proust –
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« Léonie, dit mon grandHpère en rentrant, j’aurais voulu communiqueront plus en ce monde. Ma tante devait t’avoir avec nous tantôt. Tu ne reconnaîtrais pas Tansonville.
parfaitement savoir qu’elle ne reverrait pas Swann, qu’elle ne Si j’avais osé, je t’aurais coupé une branche de ces épines quitterait plus jamais la maison, mais cette réclusion roses que tu aimais tant. » Mon grandHpère racontait ainsi définitive devait lui être rendue assez aisée pour la raison notre promenade à ma tante Léonie, soit pour la distraire, même qui, selon nous, aurait dû la lui rendre plus soit qu’on n’eût pas perdu tout espoir d’arriver à la faire douloureuse: c’est que cette réclusion lui était imposée par la sortir. Or elle aimait beaucoup autrefois cette propriété, et diminution qu’elle pouvait constater chaque jour dans ses d’ailleurs les visites de Swann avaient été les dernières qu’elle forces, et qui, en faisant de chaque action, de chaque avait reçues, alors qu’elle fermait déjà sa porte à tout le mouvement, une fatigue, sinon une souffrance, donnait pour monde. Et de même que, quand il venait maintenant prendre elle à l’inaction, à l’isolement, au silence, la douceur de ses nouvelles (elle était la seule personne de chez nous réparatrice et bénie du repos.
qu’il demandât encore à voir), elle lui faisait répondre qu’elle Ma tante n’alla pas voir la haie d’épines roses, mais à tous était fatiguée, mais qu’elle le laisserait entrer la prochaine moments je demandais à mes parents si elle n’irait pas, si fois, de même elle dit ce soirHlà: « Oui, un jour qu’il fera autrefois elle allait souvent à Tansonville, tâchant de les faire beau, j’irai en voiture jusqu’à la porte du parc. » C’est parler des parents et grandsHparents de Mlle Swann qui me sincèrement qu’elle le disait. Elle eût aimé revoir Swann et semblaient grands comme des Dieux. Ce nom, devenu pour Tansonville; mais le désir qu’elle en avait suffisait à ce qui lui moi presque mythologique, de Swann, quand je causais avec restait de forces; sa réalisation les eût excédées. Quelquefois mes parents, je languissais du besoin de le leur entendre dire, le beau temps lui rendait un peu de vigueur, elle se levait, je n’osais pas le prononcer moiHmême, mais je les entraînais s’habillait; la fatigue commençait avant qu’elle fût passée sur des sujets qui avoisinaient Gilberte et sa famille, qui la dans l’autre chambre et elle réclamait son lit. Ce qui avait concernaient, où je ne me sentais pas exilé trop loin d’elle; et commencé pour elle – plus tôt seulement que cela n’arrive je contraignais tout d’un coup mon père, en feignant de d’habitude – c’est ce grand renoncement de la vieillesse qui croire par exemple que la charge de mon grandHpère avait été se prépare à la mort, s’enveloppe dans sa chrysalide, et qu’on déjà avant lui dans notre famille, ou que la haie d’épines peut observer, à la fin des vies qui se prolongent tard, même roses que voulait voir ma tante Léonie se trouvait en terrain entre les anciens amants qui se sont le plus aimés, entre les communal, à rectifier mon assertion, à me dire, comme amis unis par les liens les plus spirituels, et qui, à partir d’une malgré moi, comme de luiHmême: « Mais non, cette chargeHlà certaine année cessent de faire le voyage ou la sortie était au père de Swann, cette haie fait partie du parc de nécessaire pour se voir, cessent de s’écrire et savent qu’ils ne Marcel Proust –
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Din Search OverTime Swann. » Alors j’étais obligé de reprendre ma respiration, tous ces nœuds avait pris soin sur mon front d’assembler tant, en se posant sur la place où il était toujours écrit en mes cheveux, foulant aux pieds mes papillotes arrachées et moi, pesait à m’étouffer ce nom qui, au moment où je mon chapeau neuf. Ma mère ne fut pas touchée par mes l’entendais, me paraissait plus plein que tout autre, parce larmes, mais elle ne put retenir un cri à la vue de la coiffe qu’il était lourd de toutes les fois où, d’avance, je l’avais défoncée et de la douillette perdue. Je ne l’entendis pas: « Ô
mentalement proféré. Il me causait un plaisir que j’étais mes pauvres petites aubépines, disaisHje en pleurant, ce n’est confus d’avoir osé réclamer à mes parents, car ce plaisir était pas vous qui voudriez me faire du chagrin, me forcer à si grand qu’il avait dû exiger d’eux pour qu’ils me le partir. Vous, vous ne m’avez jamais fait de peine! Aussi je procurassent beaucoup de peine, et sans compensation, vous aimerai toujours. » Et, essuyant mes larmes, je leur puisqu’il n’était pas un plaisir pour eux. Aussi je détournais la promettais, quand je serais grand, de ne pas imiter la vie conversation par discrétion. Par scrupule aussi. Toutes les insensée des autres hommes et, même à Paris, les jours de séductions singulières que je mettais dans ce nom de Swann, printemps, au lieu d’aller faire des visites et écouter des je les retrouvais en lui dès qu’ils le prononçaient. Il me niaiseries, de partir dans la campagne voir les premières semblait alors tout d’un coup que mes parents ne pouvaient aubépines.
pas ne pas les ressentir, qu’ils se trouvaient placés à mon Une fois dans les champs, on ne les quittait plus pendant point de vue, qu’ils apercevaient à leur tour, absolvaient, tout le reste de la promenade qu’on faisait du côté de épousaient mes rêves, et j’étais malheureux comme si je les Méséglise. Ils étaient perpétuellement parcourus, comme par avais vaincus et dépravés.
un chemineau invisible, par le vent qui était pour moi le Cette annéeHlà, quand, un peu plus tôt que d’habitude, mes génie particulier de Combray. Chaque année, le jour de notre parents eurent fixé le jour de rentrer à Paris, le matin du arrivée, pour sentir que j’étais bien à Combray, je montais le départ, comme on m’avait fait friser pour être photographié, retrouver qui courait dans les sayons et me faisait courir à sa coiffer avec précaution un chapeau que je n’avais encore suite. On avait toujours le vent à côté de soi du côté de jamais mis et revêtir une douillette de velours, après m’avoir Méséglise, sur cette plaine bombée où pendant des lieues il cherché partout, ma mère me trouva en larmes dans le petit ne rencontre aucun accident de terrain. Je savais que Mlle raidillon contigu à Tansonville, en train de dire adieu aux Swann allait souvent à Laon passer quelques jours et, bien aubépines, entourant de mes bras les branches piquantes, et, que ce fût à plusieurs lieues, la distance se trouvant comme une princesse de tragédie à qui pèseraient ces vains compensée par l’absence de tout obstacle, quand, par les ornements, ingrat envers l’importune main qui en formant chauds aprèsHmidi, je voyais un même souffle, venu de Marcel Proust –
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Din Search OverTime l’extrême horizon, abaisser les blés les plus éloignés, se son image dans des tableaux et dans des livres, mais ces propager comme un flot sur toute l’immense étendue et œuvres d’art étaient bien différentes – du moins pendant les venir se coucher, murmurant et tiède, parmi les sainfoins et premières années, avant que Bloch eût accoutumé mes yeux les trèfles, à mes pieds, cette plaine qui nous était commune et ma pensée à des harmonies plus subtiles – de celles où la à tous deux semblait nous rapprocher, nous unir, je pensais lune me paraîtrait belle aujourd’hui et où je ne l’eusse pas que ce souffle avait passé auprès d’elle, que c’était quelque reconnue alors. C’était, par exemple, quelque roman de message d’elle qu’il me chuchotait sans que je pusse le Saintine, un paysage de Gleyre où elle découpe nettement comprendre, et je l’embrassais au passage. À gauche était un sur le ciel une faucille d’argent, de ces œuvres naïvement village qui s’appelait Champieu (Campus Pagani, selon le incomplètes comme étaient mes propres impressions et que curé). Sur la droite, on apercevait par delà les blés les deux les sœurs de ma grand’mère s’indignaient de me voir aimer.
clochers ciselés et rustiques de SaintHAndréHdesHChamps, Elles pensaient qu’on doit mettre devant les enfants, et qu’ils euxHmêmes effilés, écailleux, imbriqués d’alvéoles, guillochés, font preuve de goût en aimant d’abord les œuvres que jaunissants et grumeleux, comme deux épis.
parvenu à la maturité, on admire définitivement. C’est sans doute qu’elles se figuraient les mérites esthétiques comme À intervalles symétriques, au milieu de l’inimitable des objets matériels qu’un œil ouvert ne peut faire autrement ornementation de leurs feuilles qu’on ne peut confondre que de percevoir, sans avoir eu besoin d’en mûrir lentement avec la feuille d’aucun autre arbre fruitier, les pommiers des équivalents dans son propre cœur.
ouvraient leurs larges pétales de satin blanc ou suspendaient les timides bouquets de leurs rougissants boutons. C’est du C’est du côté de Méséglise, à Montjouvain, maison située côté de Méséglise que j’ai remarqué pour la première fois au bord d’une grande mare et adossée à un talus l’ombre ronde que les pommiers font sur la terre ensoleillée, buissonneux que demeurait M. Vinteuil. Aussi croisaitHon et aussi ces soies d’or impalpable que le couchant tisse souvent sur la route sa fille, conduisant un buggy à toute obliquement sous les feuilles, et que je voyais mon père allure. À partir d’une certaine année on ne la rencontra plus interrompre de sa canne sans les faire jamais dévier.
seule, mais avec une amie plus âgée, qui avait mauvaise réputation dans le pays et qui un jour s’installa Parfois dans le ciel de l’aprèsHmidi passait la lune blanche définitivement à Montjouvain. On disait: « FautHil que ce comme une nuée, furtive, sans éclat, comme une actrice dont pauvre M. Vinteuil soit aveuglé par la tendresse pour ne pas ce n’est pas l’heure de jouer et qui, de la salle, en toilette de s’apercevoir de ce qu’on raconte, et permettre à sa fille, lui ville, regarde un moment ses camarades, s’effaçant, ne qui se scandalise d’une parole déplacée, de faire vivre sous voulant pas qu’on fasse attention à elle. J’aimais à retrouver Marcel Proust –
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Din Search OverTime son toit une femme pareille. Il dit que c’est une femme Pour ceux qui comme nous virent à cette époque M.
supérieure, un grand cœur et qu’elle aurait eu des Vinteuil éviter les personnes qu’il connaissait, se détourner dispositions extraordinaires pour la musique si elle les avait quand il les apercevait, vieillir en quelques mois, s’absorber cultivées. Il peut être sûr que ce n’est pas de musique qu’elle dans son chagrin, devenir incapable de tout effort qui n’avait s’occupe avec sa fille. » M. Vinteuil le disait; et il est en effet pas directement le bonheur de sa fille pour but, passer des remarquable combien une personne excite toujours journées entières devant la tombe de sa femme – il eût été d’admiration pour ses qualités morales chez les parents de difficile de ne pas comprendre qu’il était en train de mourir toute autre personne avec qui elle a des relations charnelles.
de chagrin, et de supposer qu’il ne se rendait pas compte des L’amour physique, si injustement décrié, force tellement tout propos qui couraient. Il les connaissait, peutHêtre même y être à manifester jusqu’aux moindres parcelles qu’il possède ajoutaitHil foi. Il n’est peutHêtre pas une personne, si grande de bonté, d’abandon de soi, qu’elles resplendissent jusqu’aux que soit sa vertu, que la complexité des circonstances ne yeux de l’entourage immédiat. Le docteur Percepied à qui sa puisse amener à vivre un jour dans la familiarité du vice grosse voix et ses gros sourcils permettaient de tenir tant qu’elle condamne le plus formellement – sans qu’elle le qu’il voulait le rôle de perfide dont il n’avait pas le physique, reconnaisse d’ailleurs tout à fait sous le déguisement de faits sans compromettre en rien sa réputation inébranlable et particuliers qu’il revêt pour entrer en contact avec elle et la imméritée de bourru bienfaisant, savait faire rire aux larmes faire souffrir: paroles bizarres, attitude inexplicable, un le curé et tout le monde en disant d’un ton rude: « Hé bien! il certain soir, de tel être qu’elle a par ailleurs tant de raisons paraît qu’elle fait de la musique avec son amie, Mlle Vinteuil.
pour aimer. Mais pour un homme comme M. Vinteuil il Ça a l’air de vous étonner. Moi je sais pas. C’est le père devait entrer bien plus de souffrance que pour un autre dans Vinteuil qui m’a encore dit ça hier. Après tout, elle a bien le la résignation à une de ces situations qu’on croit à tort être droit d’aimer la musique, c’te fille. Moi je ne suis pas pour l’apanage exclusif du monde de la bohème: elles se contrarier les vocations artistiques des enfants. Vinteuil non produisent chaque fois qu’a besoin de se réserver la place et plus à ce qu’il paraît. Et puis lui aussi il fait de la musique la sécurité qui lui sont nécessaires un vice que la nature elleH
avec l’amie de sa fille. Ah! sapristi on en fait une musique même fait épanouir chez un enfant, parfois rien qu’en dans c’te boîteHlà. Mais qu’estHce que vous avez à rire; mais mêlant les vertus de son père et de sa mère, comme la ils font trop de musique ces gens. L’autre jour j’ai rencontré couleur de ses yeux. Mais de ce que M. Vinteuil connaissait le père Vinteuil près du cimetière. Il ne tenait pas sur ses peutHêtre la conduite de sa fille, il ne s’ensuit pas que son jambes. »
culte pour elle en eût été diminué. Les faits ne pénètrent pas dans le monde où vivent nos croyances, ils n’ont pas fait Marcel Proust –
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Din Search OverTime naître cellesHci, ils ne les détruisent pas; ils peuvent leur Tansonville. C’était une invitation qui, il y a deux ans, eût infliger les plus constants démentis sans les affaiblir, et une indigné M. Vinteuil, mais qui, maintenant, le remplissait de avalanche de malheurs ou de maladies se succédant sans sentiments si reconnaissants qu’il se croyait obligé par eux à interruption dans une famille ne la fera pas douter de la ne pas avoir l’indiscrétion de l’accepter. L’amabilité de bonté de son Dieu ou du talent de son médecin. Mais quand Swann envers sa fille lui semblait être en soiHmême un appui M. Vinteuil songeait à sa fille et à luiHmême du point de vue si honorable et si délicieux qu’il pensait qu’il valait peutHêtre du monde, du point de vue de leur réputation, quand il mieux ne pas s’en servir, pour avoir la douceur toute cherchait à se situer avec elle au rang qu’ils occupaient dans platonique de le conserver.
l’estime générale, alors ce jugement d’ordre social, il le
– Quel homme exquis, nous ditHil, quand Swann nous eut portait exactement comme l’eût fait l’habitant de Combray quittés, avec la même enthousiaste vénération qui tient de qui lui eût été le plus hostile, il se voyait avec sa fille dans le spirituelles et jolies bourgeoises en respect et sous le charme dernier basHfond, et ses manières en avaient reçu depuis peu d’une duchesse, fûtHelle laide et sotte. Quel homme exquis!
cette humilité, ce respect pour ceux qui se trouvaient auH
Quel malheur qu’il ait fait un mariage tout à fait déplacé.
dessus de lui et qu’il voyait d’en bas (eussentHils été fort auH
dessous de lui jusqueHlà), cette tendance à chercher à Et alors, tant les gens les plus sincères sont mêlés remonter jusqu’à eux, qui est une résultante presque d’hypocrisie et dépouillent en causant avec une personne mécanique de toutes les déchéances. Un jour que nous l’opinion qu’ils ont d’elle et expriment dès qu’elle n’est plus marchions avec Swann dans une rue de Combray, M.
là, mes parents déplorèrent avec M. Vinteuil le mariage de Vinteuil qui débouchait d’une autre s’était trouvé trop Swann au nom de principes et de convenances auxquels (par brusquement en face de nous pour avoir le temps de nous cela même qu’ils les invoquaient en commun avec lui, en éviter; et Swann avec cette orgueilleuse charité de l’homme braves gens de même acabit) ils avaient l’air de sousH
du monde qui, au milieu de la dissolution de tous ses entendre qu’il n’était pas contrevenu à Montjouvain. M.
préjugés moraux, ne trouve dans l’infamie d’autrui qu’une Vinteuil n’envoya pas sa fille chez Swann. Et celuiHci fût le raison d’exercer envers lui une bienveillance dont les premier à le regretter. Car, chaque fois qu’il venait de quitter témoignages chatouillent d’autant plus l’amourHpropre de M. Vinteuil, il se rappelait qu’il avait depuis quelque temps celui qui les donne, qu’il les sent plus précieux à celui qui les un renseignement à lui demander sur quelqu’un qui portait le reçoit, avait longuement causé avec M. Vinteuil, à qui jusqueH
même nom que lui, un de ses parents, croyaitHil. Et cette là il n’adressait pas la parole, et lui avait demandé avant de foisHlà il s’était bien promis de ne pas oublier ce qu’il avait à nous quitter s’il n’enverrait pas un jour sa fille jouer à lui dire, quand M. Vinteuil enverrait sa fille à Tansonville.
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Din Search OverTime Comme la promenade du côté de Méséglise était la moins feuillages, et la terre était déjà presque séchée que plus d’une longue des deux que nous faisions autour de Combray et s’attardait à jouer sur les nervures d’une feuille, et suspendue qu’à cause de cela on la réservait pour les temps incertains, le à la pointe, reposée, brillant au soleil, tout d’un coup se climat du côté de Méséglise était assez pluvieux et nous ne laissait glisser de toute la hauteur de la branche et nous perdions jamais de vue la lisière des bois de Roussainville tombait sur le nez.
dans l’épaisseur desquels nous pourrions nous mettre à Souvent aussi nous allions nous abriter, pêleHmêle avec les couvert.
saints et les patriarches de pierre sous le porche de SaintH
Souvent le soleil se cachait derrière une nuée qui déformait AndréHdesHChamps. Que cette église était française! AuH
son ovale et dont il jaunissait la bordure. L’éclat, mais non la dessus de la porte, les saints, les roisHchevaliers une fleur de clarté, était enlevé à la campagne où toute vie semblait lys à la main, des scènes de noces et de funérailles, étaient suspendue, tandis que le petit village de Roussainville représentés comme ils pouvaient l’être dans l’âme de sculptait sur le ciel le relief de ses arêtes blanches avec une Françoise. Le sculpteur avait aussi narré certaines anecdotes précision et un fini accablants. Un peu de vent faisait envoler relatives à Aristote et à Virgile de la même façon que un corbeau qui retombait dans le lointain, et, contre le ciel Françoise à la cuisine parlait volontiers de saint Louis blanchissant, le lointain des bois paraissait plus bleu, comme comme si elle l’avait personnellement connu, et peint dans ces camaïeux qui décorent les trumeaux des généralement pour faire honte par la comparaison à mes anciennes demeures.
grandsHparents moins « justes ». On sentait que les notions que l’artiste médiéval et la paysanne médiévale (survivant au Mais d’autres fois se mettait à tomber la pluie dont nous XIXe siècle) avaient de l’histoire ancienne ou chrétienne, et avait menacés le capucin que l’opticien avait à sa devanture; qui se distinguaient par autant d’inexactitude que de les gouttes d’eau, comme des oiseaux migrateurs qui bonhomie, ils les tenaient non des livres, mais d’une tradition prennent leur vol tous ensemble, descendaient à rangs à la fois antique et directe, ininterrompue, orale, déformée, pressés du ciel. Elles ne se séparent point, elles ne vont pas à méconnaissable et vivante. Une autre personnalité de l’aventure pendant la rapide traversée, mais chacune tenant Combray que je reconnaissais aussi, virtuelle et prophétisée, sa place attire à elle celle qui la suit et le ciel en est plus dans la sculpture gothique de SaintHAndréHdesHChamps obscurci qu’au départ des hirondelles. Nous nous réfugiions c’était le jeune Théodore, le garçon de chez Camus.
dans le bois. Quand leur voyage semblait fini, quelquesHunes, Françoise sentait d’ailleurs si bien en lui un pays et un plus débiles, plus lentes, arrivaient encore. Mais nous contemporain que, quand ma tante Léonie était trop malade ressortions de notre abri, car les gouttes se plaisent aux Marcel Proust –
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Din Search OverTime pour que Françoise pût suffire à la retourner dans son lit, à la par une confrontation avec la nature, de juger de la vérité de porter dans son fauteuil, plutôt que de laisser la fille de l’œuvre d’art. Devant nous, dans le lointain, terre promise ou cuisine monter se faire « bien voir » de ma tante, elle appelait maudite, Roussainville, dans les murs duquel je n’ai jamais Théodore. Or ce garçon, qui passait et avec raison pour si pénétré, Roussainville, tantôt, quand la pluie avait déjà cessé mauvais sujet, était tellement rempli de l’âme qui avait pour nous, continuait à être châtié comme un village de la décoré
SaintHAndréHdesHChamps
et
notamment
des
Bible par toutes les lances de l’orage qui flagellaient sentiments de respect que Françoise trouvait dus aux «
obliquement les demeures de ses habitants, ou bien était déjà pauvres malades », à « sa pauvre maîtresse », qu’il avait pour pardonné par Dieu le Père qui faisait descendre vers lui, soulever la tête de ma tante sur son oreiller la mine naïve et inégalement longues, comme les rayons d’un ostensoir zélée des petits anges des basHreliefs, s’empressant, un cierge d’autel, les tiges d’or effrangées de son soleil reparu.
à la main, autour de la Vierge défaillante, comme si les Quelquefois le temps était tout à fait gâté, il fallait rentrer visages de pierre sculptée, grisâtres et nus, ainsi que sont les et rester enfermé dans la maison. Çà et là au loin dans la bois en hiver, n’étaient qu’un ensommeillement, qu’une campagne que l’obscurité et l’humidité faisaient ressembler à réserve, prête à refleurir dans la vie en innombrables visages la mer, des maisons isolées, accrochées au flanc d’une colline populaires, révérends et futés comme celui de Théodore, plongée dans la nuit et dans l’eau, brillaient comme des petits enluminés de la rougeur d’une pomme mûre. Non plus bateaux qui ont replié leurs voiles et sont immobiles au large appliquée à la pierre comme ces petits anges, mais détachée pour toute la nuit. Mais qu’importait la pluie, qu’importait du porche, d’une stature plus qu’humaine, debout sur un l’orage! L’été, le mauvais temps n’est qu’une humeur socle comme sur un tabouret qui lui évitât de poser ses pieds passagère, superficielle, du beau temps sousHjacent et fixe, sur le sol humide, une sainte avait les joues pleines, le sein bien différent du beau temps instable et fluide de l’hiver et ferme et qui gonflait la draperie comme une grappe mûre qui, au contraire, installé sur la terre où il s’est solidifié en dans un sac de crin, le front étroit, le nez court et mutin, les denses feuillages sur lesquels la pluie peut s’égoutter sans prunelles enfoncées, l’air valide, insensible et courageux des compromettre la résistance de leur permanente joie, a hissé paysannes de la contrée. Cette ressemblance, qui insinuait pour toute la saison, jusque dans les rues du village, aux dans la statue une douceur que je n’y avais pas cherchée, murs des maisons et des jardins, ses pavillons de soie violette était souvent certifiée par quelque fille des champs, venue ou blanche. Assis dans le petit salon, où j’attendais l’heure du comme nous se mettre à couvert, et dont la présence, dîner en lisant, j’entendais l’eau dégoutter de nos pareille à celle de ces feuillages pariétaires qui ont poussé à marronniers, mais je savais que l’averse ne faisait que vernir côté des feuillages sculptés, semblait destinée à permettre, Marcel Proust –
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Din Search OverTime leurs feuilles et qu’ils promettaient de demeurer là, comme avait développé chez elle un sentiment que nous avions pris des gages de l’été, toute la nuit pluvieuse, à assurer la pour de la haine et qui était de la vénération et de l’amour. Sa continuité du beau temps; qu’il avait beau pleuvoir, demain, véritable maîtresse, aux décisions impossibles à prévoir, aux auHdessus de la barrière blanche de Tansonville, ruses difficiles à déjouer, au bon cœur facile à fléchir, sa onduleraient, aussi nombreuses, de petites feuilles en forme souveraine, son mystérieux et toutHpuissant monarque n’était de cœur; et c’est sans tristesse que j’apercevais le peuplier de plus. À côté d’elle nous comptions pour bien peu de chose.
la rue des Perchamps adresser à l’orage des supplications et Il était loin le temps où, quand nous avions commencé à des salutations désespérées; c’est sans tristesse que venir passer nos vacances à Combray, nous possédions j’entendais au fond du jardin les derniers roulements du autant de prestige que ma tante aux yeux de Françoise. Cet tonnerre roucouler dans les lilas.
automneHlà, tout occupés des formalités à remplir, des entretiens avec les notaires et avec les fermiers, mes parents, Si le temps était mauvais dès le matin, mes parents n’ayant guère de loisir pour faire des sorties que le temps renonçaient à la promenade et je ne sortais pas. Mais je pris d’ailleurs contrariait, prirent l’habitude de me laisser aller me ensuite l’habitude d’aller, ces joursHlà, marcher seul du côté promener sans eux du côté de Méséglise, enveloppé dans un de MéségliseHlaHVineuse, dans l’automne où nous dûmes grand plaid qui me protégeait contre la pluie et que je jetais venir à Combray pour la succession de ma tante Léonie, car d’autant plus volontiers sur mes épaules que je sentais que elle était enfin morte, faisant triompher à la fois ceux qui ses rayures écossaises scandalisaient Françoise, dans l’esprit prétendaient que son régime affaiblissant finirait par la tuer, de qui on n’aurait pu faire entrer l’idée que la couleur des et non moins les autres qui avaient toujours soutenu qu’elle vêtements n’a rien à faire avec le deuil et à qui d’ailleurs le souffrait d’une maladie non pas imaginaire mais organique, à chagrin que nous avions de la mort de ma tante plaisait peu, l’évidence de laquelle les sceptiques seraient bien obligés de parce que nous n’avions pas donné de grand repas funèbre, se rendre quand elle y aurait succombé; et ne causant par sa que nous ne prenions pas un son de voix spécial pour parler mort de grande douleur qu’à un seul être, mais à celuiHlà, d’elle, que même parfois je chantonnais. Je suis sûr que dans sauvage. Pendant les quinze jours que dura la dernière un livre – et en cela j’étais bien moiHmême comme Françoise maladie de ma tante, Françoise ne la quitta pas un instant, ne
– cette conception du deuil d’après la Chanson de Roland et se déshabilla pas, ne laissa personne lui donner aucun soin, le
portail
de
SaintHAndréHdesHChamps
m’eût
été
et ne quitta son corps que quand il fut enterré. Alors nous sympathique. Mais dès que Françoise était auprès de moi, un comprîmes que cette sorte de crainte où Françoise avait vécu démon me poussait à souhaiter qu’elle fût en colère, je des mauvaises paroles, des soupçons, des colères de ma tante saisissais le moindre prétexte pour lui dire que je regrettais Marcel Proust –
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Din Search OverTime ma tante parce que c’était une bonne femme, malgré ses recevaient des coups de parapluie ou de canne, entendaient ridicules, mais nullement parce que c’était ma tante, qu’elle des cris joyeux, qui n’étaient, les uns et les autres, que des eût pu être ma tante et me sembler odieuse, et sa mort ne me idées confuses qui m’exaltaient et qui n’ont pas atteint le faire aucune peine, propos qui m’eussent semblé ineptes repos dans la lumière, pour avoir préféré à un lent et difficile dans un livre.
éclaircissement, le plaisir d’une dérivation plus aisée vers une issue immédiate. La plupart des prétendues traductions de ce Si alors Françoise, remplie comme un poète d’un flot de que nous avons ressenti ne font ainsi que nous en pensées confuses sur le chagrin, sur les souvenirs de famille, débarrasser, en le faisant sortir de nous sous une forme s’excusait de ne pas savoir répondre à mes théories et disait: indistincte qui ne nous apprend pas à le connaître. Quand
« Je ne sais pas m’esprimer », je triomphais de cet aveu avec j’essaye de faire le compte de ce que je dois au côté de un bon sens ironique et brutal digne du docteur Percepied; Méséglise, des humbles découvertes dont il fût le cadre et si elle ajoutait: « Elle était tout de même de la parentèse, il fortuit ou le nécessaire inspirateur, je me rappelle que c’est reste toujours le respect qu’on doit à la parentèse », je cet automneHlà, dans une de ces promenades, près du talus haussais les épaules et je me disais: « Je suis bien bon de broussailleux qui protège Montjouvain, que je fus frappé discuter avec une illettrée qui fait des cuirs pareils », adoptant pour la première fois de ce désaccord entre nos impressions ainsi pour juger Françoise le point de vue mesquin et leur expression habituelle. Après une heure de pluie et de d’hommes dont ceux qui les méprisent le plus dans vent contre lesquels j’avais lutté avec allégresse, comme l’impartialité de la méditation, sont fort capables de tenir le j’arrivais au bord de la mare de Montjouvain devant une rôle, quand ils jouent une des scènes vulgaires de la vie.
petite cahute recouverte en tuiles où le jardinier de M.
Mes promenades de cet automneHlà furent d’autant plus Vinteuil serrait ses instruments de jardinage, le soleil venait agréables que je les faisais après de longues heures passées de reparaître, et ses dorures lavées par l’averse reluisaient à sur un livre. Quand j’étais fatigué d’avoir lu toute la matinée neuf dans le ciel, sur les arbres, sur le mur de la cahute, sur dans la salle, jetant mon plaid sur mes épaules, je sortais: son toit de tuile encore mouillé, à la crête duquel se mon corps obligé depuis longtemps de garder l’immobilité, promenait une poule. Le vent qui soufflait tirait mais qui s’était chargé sur place d’animation et de vitesse horizontalement les herbes folles qui avaient poussé dans la accumulées, avait besoin ensuite, comme une toupie qu’on paroi du mur, et les plumes de duvet de la poule, qui, les lâche, de les dépenser dans toutes les directions. Les murs unes et les autres se laissaient filer au gré de son souffle des maisons, la haie de Tansonville, les arbres du bois de jusqu’à l’extrémité de leur longueur, avec l’abandon de Roussainville, les buissons auxquels s’adosse Montjouvain, choses inertes et légères. Le toit de tuile faisait dans la mare, Marcel Proust –
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Din Search OverTime que le soleil rendait de nouveau réfléchissante, une marbrure paysanne que je pourrais serrer dans mes bras. Né rose, à laquelle je n’avais encore jamais fait attention. Et brusquement, et sans que j’eusse eu le temps de le rapporter voyant sur l’eau et à la face du mur un pâle sourire répondre exactement à sa cause, au milieu de pensées très différentes, au sourire du ciel, je m’écriai dans mon enthousiasme en le plaisir dont il était accompagné ne me semblait qu’un brandissant mon parapluie refermé: « Zut, zut, zut, zut. »
degré supérieur de celui qu’elles me donnaient. Je faisais un Mais en même temps je sentis que mon devoir eût été de ne mérite de plus à tout ce qui était à ce momentHlà dans mon pas m’en tenir à ces mots opaques et de tâcher de voir plus esprit, au reflet rose du toit de tuile, aux herbes folles, au clair dans mon ravissement.
village de Roussainville où je désirais depuis longtemps aller, aux arbres de son bois, au clocher de son église, de cet émoi Et c’est à ce momentHlà encore – grâce à un paysan qui nouveau qui me les faisait seulement paraître plus désirables passait, l’air déjà d’être d’assez mauvaise humeur, qui le fut parce que je croyais que c’était eux qui le provoquaient, et davantage quand il faillit recevoir mon parapluie dans la qui semblait ne vouloir que me porter vers eux plus figure, et qui répondit sans chaleur à mes « beau temps, rapidement quand il enflait ma voile d’une brise puissante, n’estHce pas, il fait bon marcher » – que j’appris que les inconnue et propice. Mais si ce désir qu’une femme apparût mêmes émotions ne se produisent pas simultanément, dans ajoutait pour moi aux charmes de la nature quelque chose de un ordre préétabli, chez tous les hommes. Plus tard, chaque plus exaltant, les charmes de la nature, en retour, fois qu’une lecture un peu longue m’avait mis en humeur de élargissaient ce que celui de la femme aurait eu de trop causer, le camarade à qui je brûlais d’adresser la parole venait restreint. Il me semblait que la beauté des arbres c’était justement de se livrer au plaisir de la conversation et désirait encore la sienne, et que l’âme de ces horizons, du village de maintenant qu’on le laissât lire tranquille. Si je venais de Roussainville, des livres que je lisais cette annéeHlà, son penser à mes parents avec tendresse et de prendre les baiser me la livrerait; et mon imagination reprenant des décisions les plus sages et les plus propres à leur faire plaisir, forces au contact de ma sensualité, ma sensualité se ils avaient employé le même temps à apprendre une répandant dans tous les domaines de mon imagination, mon peccadille que j’avais oubliée et qu’ils me reprochaient désir n’avait plus de limites. C’est qu’aussi – comme il arrive sévèrement au moment où je m’élançais vers eux pour les dans ces moments de rêverie au milieu de la nature où embrasser.
l’action de l’habitude étant suspendue, nos notions abstraites Parfois à l’exaltation que me donnait la solitude, s’en des choses mises de côté, nous croyons d’une foi profonde à ajoutait une autre que je ne savais pas en départager l’originalité, à la vie individuelle du lieu où nous nous nettement, causée par le désir de voir surgir devant moi une trouvons – la passante qu’appelait mon désir me semblait Marcel Proust –
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Din Search OverTime être non un exemplaire quelconque de ce type général: la réduit à une notion générale qui les fait considérer dès lors femme, mais un produit nécessaire et naturel de ce sol. Car comme des instruments interchangeables d’un plaisir en ce tempsHlà tout ce qui n’était pas moi, la terre et les êtres, toujours identique. Il n’existe même pas, isolé, séparé et me paraissait plus précieux, plus important, doué d’une formulé dans l’esprit, comme le but qu’on poursuit en existence plus réelle que cela ne paraît aux hommes faits. Et s’approchant d’une femme, comme la cause du trouble la terre et les êtres, je ne les séparais pas. J’avais le désir d’une préalable qu’on ressent. À peine y songeHtHon comme un paysanne de Méséglise ou de Roussainville, d’une pêcheuse plaisir qu’on aura; plutôt, on l’appelle son charme à elle; car de Balbec, comme j’avais le désir de Méséglise et de Balbec.
on ne pense pas à soi, on ne pense qu’à sortir de soi.
Le plaisir qu’elles pouvaient me donner m’aurait paru moins Obscurément attendu, immanent et caché, il porte seulement vrai, je n’aurais plus cru en lui, si j’en avais modifié à ma à un tel paroxysme au moment où il s’accomplit les autres guise les conditions. Connaître à Paris une pêcheuse de plaisirs que nous causent les doux regards, les baisers de celle Balbec ou une paysanne de Méséglise, c’eût été recevoir des qui est auprès de nous, qu’il nous apparaît surtout à nousH
coquillages que je n’aurais pas vus sur la plage, une fougère même comme une sorte de transport de notre que je n’aurais pas trouvée dans les bois, c’eût été retrancher reconnaissance pour la bonté de cœur de notre compagne et au plaisir que la femme me donnerait tous ceux au milieu pour sa touchante prédilection à notre égard que nous desquels l’avait enveloppée mon imagination. Mais errer mesurons aux bienfaits, au bonheur dont elle nous comble.
ainsi dans les bois de Roussainville sans une paysanne à Hélas, c’était en vain que j’implorais le donjon de embrasser, c’était ne pas connaître de ces bois le trésor Roussainville, que je lui demandais de faire venir auprès de caché, la beauté profonde. Cette fille que je ne voyais que moi quelque enfant de son village, comme au seul confident criblée de feuillages, elle était elleHmême pour moi comme que j’avais eu de mes premiers désirs, quand au haut de notre une plante locale d’une espèce plus élevée seulement que les maison de Combray, dans le petit cabinet sentant l’iris, je ne autres et dont la structure permet d’approcher de plus près voyais que sa tour au milieu du carreau de la fenêtre qu’en elles la saveur profonde du pays. Je pouvais d’autant entr’ouverte, pendant qu’avec les hésitations héroïques du plus facilement le croire (et que les caresses par lesquelles voyageur qui entreprend une exploration ou du désespéré elle m’y ferait parvenir seraient aussi d’une sorte particulière qui se suicide, défaillant, je me frayais en moiHmême une et dont je n’aurais pas pu connaître le plaisir par une autre route inconnue et que je croyais mortelle, jusqu’au moment qu’elle), que j’étais pour longtemps encore à l’âge où on ne où une trace naturelle comme celle d’un colimaçon s’ajoutait l’a pas encore abstrait ce plaisir de la possession des femmes aux feuilles du cassis sauvage qui se penchaient jusqu’à moi.
différentes avec lesquelles on l’a goûté, où on ne l’a pas Marcel Proust –
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Din Search OverTime En vain je le suppliais maintenant. En vain, tenant l’étendue ma vie qu’un cadre conventionnel, comme l’est à la fiction dans le champ de ma vision, je la drainais de mes regards qui d’un roman le wagon sur la banquette duquel le voyageur le eussent voulu en ramener une femme. Je pouvais aller lit pour tuer le temps.
jusqu’au porche de SaintHAndréHdesHChamps; jamais ne s’y C’est peutHêtre d’une impression ressentie aussi auprès de trouvait la paysanne que je n’eusse pas manqué d’y Montjouvain, quelques années plus tard, impression restée rencontrer si j’avais été avec mon grandHpère et dans obscure alors, qu’est sortie, bien après, l’idée que je me suis l’impossibilité de lier conversation avec elle. Je fixais faite du sadisme. On verra plus tard que, pour de tout autres indéfiniment le tronc d’un arbre lointain, de derrière lequel raisons, le souvenir de cette impression devait jouer un rôle elle allait surgir et venir à moi; l’horizon scruté restait désert, important dans ma vie. C’était par un temps très chaud; mes la nuit tombait, c’était sans espoir que mon attention parents qui avaient dû s’absenter pour toute la journée, s’attachait, comme pour aspirer les créatures qu’ils pouvaient m’avaient dit de rentrer aussi tard que je voudrais; et étant recéler, à ce sol stérile, à cette terre épuisée; et ce n’était plus allé jusqu’à la mare de Montjouvain où j’aimais revoir les d’allégresse, c’était de rage que je frappais les arbres du bois reflets du toit de tuile, je m’étais étendu à l’ombre et endormi de Roussainville d’entre lesquels ne sortait pas plus d’êtres dans les buissons du talus qui domine la maison, là où j’avais vivants que s’ils eussent été des arbres peints sur la toile d’un attendu mon père autrefois, un jour qu’il était allé voir M.
panorama, quand, ne pouvant me résigner à rentrer à la Vinteuil. Il faisait presque nuit quand je m’éveillai, je voulus maison avant d’avoir serré dans mes bras la femme que me lever, mais je vis Mlle Vinteuil (autant que je pus la j’avais tant désirée, j’étais pourtant obligé de reprendre le reconnaître, car je ne l’avais pas vue souvent à Combray, et chemin de Combray en m’avouant à moiHmême qu’était de seulement quand elle était encore une enfant, tandis qu’elle moins en moins probable le hasard qui l’eût mise sur mon commençait d’être une jeune fille) qui probablement venait chemin. Et s’y fûtHelle trouvée, d’ailleurs, eusséHje osé lui de rentrer, en face de moi, à quelques centimètres de moi, parler? Il me semblait qu’elle m’eût considéré comme un dans cette chambre où son père avait reçu le mien et dont fou; je cessais de croire partagés par d’autres êtres, de croire elle avait fait son petit salon à elle. La fenêtre était vrais en dehors de moi, les désirs que je formais pendant ces entr’ouverte, la lampe était allumée, je voyais tous ses promenades et qui ne se réalisaient pas. Ils ne mouvements sans qu’elle me vît, mais en m’en allant j’aurais m’apparaissaient plus que comme les créations purement fait craquer les buissons, elle m’aurait entendu et elle aurait subjectives, impuissantes, illusoires, de mon tempérament.
pu croire que je m’étais caché là pour l’épier.
Ils n’avaient plus de lien avec la nature, avec la réalité qui dès lors perdait tout charme et toute signification et n’était plus à Marcel Proust –
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Din Search OverTime Elle était en grand deuil, car son père était mort depuis Au fond du salon de Mlle Vinteuil, sur la cheminée, était peu. Nous n’étions pas allés la voir, ma mère ne l’avait pas posé un petit portrait de son père que vivement elle alla voulu à cause d’une vertu qui chez elle limitait seule les effets chercher au moment où retentit le roulement d’une voiture de la bonté: la pudeur; mais elle la plaignait profondément.
qui venait de la route, puis elle se jeta sur un canapé, et tira Ma mère se rappelant la triste fin de vie de M. Vinteuil, tout près d’elle une petite table sur laquelle elle plaça le portrait, absorbée d’abord par les soins de mère et de bonne d’enfant comme M. Vinteuil autrefois avait mis à côté de lui le qu’il donnait à sa fille, puis par les souffrances que celleHci lui morceau qu’il avait le désir de jouer à mes parents. Bientôt avait causées; elle revoyait le visage torturé qu’avait eu le son amie entra. Mlle Vinteuil l’accueillit sans se lever, ses vieillard tous les derniers temps; elle savait qu’il avait deux mains derrière la tête et se recula sur le bord opposé du renoncé à jamais à achever de transcrire au net toute son sofa comme pour lui faire une place. Mais aussitôt elle sentit œuvre des dernières années, pauvres morceaux d’un vieux qu’elle semblait ainsi lui imposer une attitude qui lui était professeur de piano, d’un ancien organiste de village dont peutHêtre importune. Elle pensa que son amie aimerait peutH
nous imaginions bien qu’ils n’avaient guère de valeur en euxH
être mieux être loin d’elle sur une chaise, elle se trouva mêmes, mais que nous ne méprisions pas, parce qu’ils en indiscrète, la délicatesse de son cœur s’en alarma; reprenant avaient tant pour lui dont ils avaient été la raison de vivre toute la place sur le sofa elle ferma les yeux et se mit à bâiller avant qu’il les sacrifiât à sa fille, et qui pour la plupart pas pour indiquer que l’envie de dormir était la seule raison pour même notés, conservés seulement dans sa mémoire, laquelle elle s’était ainsi étendue. Malgré la familiarité rude et quelquesHuns inscrits sur des feuillets épars, illisibles, dominatrice qu’elle avait avec sa camarade, je reconnaissais resteraient inconnus; ma mère pensait à cet autre les gestes obséquieux et réticents, les brusques scrupules de renoncement plus cruel encore auquel M. Vinteuil avait été son père. Bientôt elle se leva, feignit de vouloir fermer les contraint, le renoncement à un avenir de bonheur honnête et volets et de n’y pas réussir.
respecté pour sa fille; quand elle évoquait toute cette détresse
– Laisse donc tout ouvert, j’ai chaud, dit son amie.
suprême de l’ancien maître de piano de mes tantes, elle éprouvait un véritable chagrin et songeait avec effroi à celui,
– Mais c’est assommant, on nous verra, répondit Mlle autrement amer, que devait éprouver Mlle Vinteuil, tout Vinteuil.
mêlé du remords d’avoir à peu près tué son père. « Pauvre Mais elle devina sans doute que son amie penserait qu’elle M. Vinteuil, disait ma mère, il a vécu et il est mort pour sa n’avait dit ces mots que pour la provoquer à lui répondre par fille, sans avoir reçu son salaire. Le recevraHtHil après sa mort certains autres, qu’elle avait en effet le désir d’entendre, mais et sous quelle forme? Il ne pourrait lui venir que d’elle. »
que par discrétion elle voulait lui laisser l’initiative de Marcel Proust –
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Din Search OverTime prononcer. Aussi son regard, que je ne pouvais distinguer, Et le peu qu’elle s’en permettait était dit sur un ton guindé dutHil prendre l’expression qui plaisait tant à ma grand’mère, où ses habitudes de timidité paralysaient ses velléités quand elle ajouta vivement:
d’audace, et s’entremêlait de: « Tu n’as pas froid, tu n’as pas trop chaud, tu n’as pas envie d’être seule et de lire? »
– Quand je dis nous voir, je veux dire nous voir lire; c’est assommant, quelque chose insignifiante qu’on fasse, de
– Mademoiselle me semble avoir des pensées bien penser que des yeux vous voient.
lubriques, ce soir, finitHelle par dire, répétant sans doute une phrase qu’elle avait entendue autrefois dans la bouche de son Par une générosité instinctive et une politesse involontaire amie.
elle taisait les mots prémédités qu’elle avait jugés indispensables à la pleine réalisation de son désir. Et à tous Dans l’échancrure de son corsage de crêpe, Mlle Vinteuil moments au fond d’elleHmême une vierge timide et sentit que son amie piquait un baiser, elle poussa un petit cri, suppliante implorait et faisait reculer un soudard fruste et s’échappa, et elles se poursuivirent en sautant, faisant voleter vainqueur.
leurs larges manches comme des ailes et gloussant et piaillant comme des oiseaux amoureux. Puis Mlle Vinteuil finit par
– Oui, c’est probable qu’on nous regarde à cette heureHci, tomber sur le canapé, recouverte par le corps de son amie.
dans cette campagne fréquentée, dit ironiquement son amie.
Mais celleHci tournait le dos à la petite table sur laquelle était Et puis quoi? ajoutaHtHelle (en croyant devoir accompagner placé le portrait de l’ancien professeur de piano. Mlle d’un clignement d’yeux malicieux et tendre ces mots qu’elle Vinteuil comprit que son amie ne le verrait pas si elle récita par bonté, comme un texte qu’elle savait être agréable n’attirait pas sur lui son attention, et elle lui dit, comme si à Mlle Vinteuil, d’un ton qu’elle s’efforçait de rendre elle venait seulement de le remarquer: cynique), quand même on nous verrait, ce n’en est que meilleur.
– Oh! ce portrait de mon père qui nous regarde, je ne sais pas qui a pu le mettre là, j’ai pourtant dit vingt fois que ce Mlle Vinteuil frémit et se leva. Son cœur scrupuleux et n’était pas sa place.
sensible ignorait quelles paroles devaient spontanément venir s’adapter à la scène que ses sens réclamaient. Elle cherchait Je me souvins que c’étaient les mots que M. Vinteuil avait le plus loin qu’elle pouvait de sa vraie nature morale, à dits à mon père à propos du morceau de musique. Ce trouver le langage propre à la fille vicieuse qu’elle désirait portrait leur servait sans doute habituellement pour des d’être, mais les mots qu’elle pensait que celleHci eût profanations rituelles, car son amie lui répondit par ces prononcés sincèrement lui paraissaient faux dans sa bouche.
paroles qui devaient faire partie de ses réponses liturgiques: Marcel Proust –
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– Mais laisseHle donc où il est, il n’est plus là pour nous Mlle Vinteuil et le désir de mettre quelque distraction dans la embêter. CroisHtu qu’il pleurnicherait, qu’il voudrait te mettre vie si triste maintenant de l’orpheline.
ton manteau, s’il te voyait là, la fenêtre ouverte, le vilain
– SaisHtu ce que j’ai envie de lui faire à cette vieille horreur?
singe.
ditHelle en prenant le portrait.
Mlle Vinteuil répondit par des paroles de doux reproche: «
Et elle murmura à l’oreille de Mlle Vinteuil quelque chose Voyons, voyons », qui prouvaient la bonté de sa nature, non que je ne pus entendre.
qu’elles fussent dictées par l’indignation que cette façon de parler de son père eût pu lui causer (évidemment, c’était là
– Oh! tu n’oserais pas.
un sentiment qu’elle s’était habituée, à l’aide de quels
– Je n’oserais pas cracher dessus? sur ça? dit l’amie avec sophismes? à faire taire en elle dans ces minutesHlà), mais une brutalité voulue.
parce qu’elles étaient comme un frein que pour ne pas se montrer égoïste elle mettait elleHmême au plaisir que son Je n’en entendis pas davantage, car Mlle Vinteuil, d’un air amie cherchait à lui procurer. Et puis cette modération las, gauche, affairé, honnête et triste, vint fermer les volets et souriante en répondant à ces blasphèmes, ce reproche la fenêtre, mais je savais maintenant, pour toutes les hypocrite et tendre, paraissaient peutHêtre à sa nature franche souffrances que pendant sa vie M. Vinteuil avait supportées et bonne une forme particulièrement infâme, une forme à cause de sa fille, ce qu’après la mort il avait reçu d’elle en doucereuse de cette scélératesse qu’elle cherchait à salaire.
s’assimiler. Mais elle ne put résister à l’attrait du plaisir qu’elle Et pourtant j’ai pensé depuis que si M. Vinteuil avait pu éprouverait à être traitée avec douceur par une personne si assister à cette scène, il n’eût peutHêtre pas encore perdu sa implacable envers un mort sans défense; elle sauta sur les foi dans le bon cœur de sa fille, et peutHêtre même n’eûtHil genoux de son amie, et lui tendit chastement son front à pas eu en cela tout à fait tort. Certes, dans les habitudes de baiser comme elle aurait pu faire si elle avait été sa fille, Mlle Vinteuil l’apparence du mal était si entière qu’on aurait sentant avec délices qu’elles allaient ainsi toutes deux au bout eu de la peine à la rencontrer réalisée à ce degré de de la cruauté en ravissant à M. Vinteuil, jusque dans le perfection ailleurs que chez une sadique; c’est à la lumière de tombeau, sa paternité. Son amie lui prit la tête entre ses la rampe des théâtres du boulevard plutôt que sous la lampe mains et lui déposa un baiser sur le front avec cette docilité d’une maison de campagne véritable qu’on peut voir une fille que lui rendait facile la grande affection qu’elle avait pour faire cracher une amie sur le portrait d’un père qui n’a vécu que pour elle; et il n’y a guère que le sadisme qui donne un Marcel Proust –
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Din Search OverTime fondement dans la vie à l’esthétique du mélodrame. Dans la qu’elle profanait, ce qu’elle faisait servir à ses plaisirs mais réalité, en dehors des cas de sadisme, une fille aurait peutH
qui restait entre eux et elle et l’empêchait de les goûter être des manquements aussi cruels que ceux de Mlle Vinteuil directement, c’était la ressemblance de son visage, les yeux envers la mémoire et les volontés de son père mort, mais elle bleus de sa mère à lui qu’il lui avait transmis comme un bijou ne les résumerait pas expressément en un acte d’un de famille, ces gestes d’amabilité qui interposaient entre le symbolisme aussi rudimentaire et aussi naïf; ce que sa vice de Mlle Vinteuil et elle une phraséologie, une mentalité conduite aurait de criminel serait plus voilé aux yeux des qui n’était pas faite pour lui et l’empêchait de le connaître, autres et même à ses yeux à elle qui ferait le mal sans se comme quelque chose de très différent des nombreux l’avouer. Mais, auHdelà de l’apparence, dans le cœur de Mlle devoirs de politesse auxquels elle se consacrait d’habitude.
Vinteuil, le mal, au début du moins, ne fut sans doute pas Ce n’est pas le mal qui lui donnait l’idée du plaisir, qui lui sans mélange. Une sadique comme elle est l’artiste du mal, ce semblait agréable; c’est le plaisir qui lui semblait malin. Et qu’une créature entièrement mauvaise ne pourrait être, car le comme chaque fois qu’elle s’y adonnait il s’accompagnait mal ne lui serait pas extérieur, il lui semblerait tout naturel, pour elle de ces pensées mauvaises qui le reste du temps ne se distinguerait même pas d’elle; et la vertu, la mémoire étaient absentes de son âme vertueuse, elle finissait par des morts, la tendresse filiale, comme elle n’en aurait pas le trouver au plaisir quelque chose de diabolique, par l’identifier culte, elle ne trouverait pas un plaisir sacrilège à les profaner.
au Mal. PeutHêtre Mlle Vinteuil sentaitHelle que son amie Les sadiques de l’espèce de Mlle Vinteuil sont des êtres si n’était pas foncièrement mauvaise, et qu’elle n’était pas purement sentimentaux, si naturellement vertueux que sincère au moment où elle lui tenait ces propos même le plaisir sensuel leur paraît quelque chose de mauvais, blasphématoires. Du moins avaitHelle le plaisir d’embrasser le privilège des méchants. Et quand ils se concèdent à euxH
sur son visage des sourires, des regards, feints peutHêtre, mais mêmes de s’y livrer un moment, c’est dans la peau des analogues dans leur expression vicieuse et basse à ceux méchants qu’ils tâchent d’entrer et de faire entrer leur qu’aurait eus non un être de bonté et de souffrance, mais un complice, de façon à avoir eu un moment l’illusion de s’être être de cruauté et de plaisir. Elle pouvait s’imaginer un évadés de leur âme scrupuleuse et tendre, dans le monde instant qu’elle jouait vraiment les jeux qu’eût joués, avec une inhumain du plaisir. Et je comprenais combien elle l’eût complice aussi dénaturée, une fille qui aurait ressenti en effet désiré en voyant combien il lui était impossible d’y réussir.
ces sentiments barbares à l’égard de la mémoire de son père.
Au moment où elle se voulait si différente de son père, ce PeutHêtre n’eûtHelle pas pensé que le mal fût un état si rare, si qu’elle me rappelait, c’était les façons de penser, de dire, du extraordinaire, si dépaysant, où il était si reposant d’émigrer, vieux professeur de piano. Bien plus que sa photographie, ce si elle avait su discerner en elle, comme en tout le monde, Marcel Proust –
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Din Search OverTime cette indifférence aux souffrances qu’on cause et qui, (semblable à ces architectes élèves de ViolletHleHDuc, qui, quelques autres noms qu’on lui donne, est la forme terrible croyant retrouver sous un jubé Renaissance et un autel du et permanente de la cruauté.
XVIIe siècle les traces d’un chœur roman, remettent tout l’édifice dans l’état où il devait être au VIIe siècle) ne laisse S’il était assez simple d’aller du côté de Méséglise, c’était pas une pierre du bâtiment nouveau, reperce et « restitue » la une autre affaire d’aller du côté de Guermantes, car la rue des Perchamps. Elle a d’ailleurs pour ces reconstitutions promenade était longue et l’on voulait être sûr du temps qu’il des données plus précises que n’en ont généralement les ferait. Quand on semblait entrer dans une série de beaux restaurateurs: quelques images conservées par ma mémoire, jours; quand Françoise désespérée qu’il ne tombât pas une les dernières peutHêtre qui existent encore actuellement, et goutte d’eau pour les « pauvres récoltes », et ne voyant que destinées à être bientôt anéanties, de ce qu’était le Combray de rares nuages blancs nageant à la surface calme et bleue du du temps de mon enfance; et parce que c’est luiHmême qui ciel s’écriait en gémissant: « Ne diraitHon pas qu’on voit ni les a tracées en moi avant de disparaître, émouvantes – si on plus ni moins des chiens de mer qui jouent en montrant làH
peut comparer un obscur portrait à ces effigies glorieuses haut leurs museaux? Ah! ils pensent bien à faire pleuvoir dont ma grand’mère aimait à me donner des reproductions –
pour les pauvres laboureurs! Et puis quand les blés seront comme ces gravures anciennes de la Cène ou ce tableau de poussés, alors la pluie se mettra à tomber tout à petit Gentile Bellini, dans lesquels l’on voit en un état qui n’existe patapon, sans discontinuer, sans plus savoir sur quoi elle plus aujourd’hui le chefHd’œuvre de Vinci et le portail de tombe que si c’était sur la mer »; quand mon père avait reçu SaintHMarc.
invariablement les mêmes réponses favorables du jardinier et du baromètre, alors on disait au dîner: « Demain s’il fait le On passait, rue de l’Oiseau, devant la vieille hôtellerie de même temps, nous irons du côté de Guermantes. » On l’Oiseau flesché dans la grande cour de laquelle entrèrent partait tout de suite après déjeuner par la petite porte du quelquefois au XVIIe siècle les carrosses des duchesses de jardin et on tombait dans la rue des Perchamps, étroite et Montpensier, de Guermantes et de Montmorency, quand formant un angle aigu, remplie de graminées au milieu elles avaient à venir à Combray pour quelque contestation desquelles deux ou trois guêpes passaient la journée à avec leurs fermiers, pour une question d’hommage. On herboriser, aussi bizarre que son nom d’où me semblaient gagnait le mail entre les arbres duquel apparaissait le clocher dériver ses particularités curieuses et sa personnalité revêche, de SaintHHilaire. Et j’aurais voulu pouvoir m’asseoir là et et qu’on chercherait en vain dans le Combray d’aujourd’hui rester toute la journée à lire en écoutant les cloches; car il où sur son tracé ancien s’élève l’école. Mais ma rêverie faisait si beau et si tranquille que, quand sonnait l’heure, on Marcel Proust –
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Din Search OverTime aurait dit non qu’elle rompait le calme du jour, mais qu’elle le devait connaître mes parents, car il soulevait son chapeau débarrassait de ce qu’il contenait et que le clocher, avec quand nous passions; je voulais alors demander son nom, l’exactitude indolente et soigneuse d’une personne qui n’a mais on me faisait signe de me taire pour ne pas effrayer le rien d’autre à faire, venait seulement – pour exprimer et poisson. Nous nous engagions dans le sentier de halage qui laisser tomber les quelques gouttes d’or que la chaleur y avait dominait le courant d’un talus de plusieurs pieds; de l’autre lentement et naturellement amassées – de presser, au côté la rive était basse, étendue en vastes prés jusqu’au moment voulu, la plénitude du silence.
village et jusqu’à la gare qui en était distante. Ils étaient semés des restes, à demi enfouis dans l’herbe, du château des Le plus grand charme du côté de Guermantes, c’est qu’on anciens comtes de Combray qui au moyen âge avait de ce y avait presque tout le temps à côté de soi le cours de la côté le cours de la Vivonne comme défense contre les Vivonne. On la traversait une première fois, dix minutes attaques des sires de Guermantes et des abbés de Martinville.
après avoir quitté la maison, sur une passerelle dite le PontH
Ce n’étaient plus que quelques fragments de tours bossuant Vieux. Dès le lendemain de notre arrivée, le jour de Pâques, la prairie, à peine apparents, quelques créneaux d’où jadis après le sermon s’il faisait beau temps, je courais jusqueHlà, l’arbalétrier lançait des pierres, d’où le guetteur surveillait voir dans ce désordre d’un matin de grande fête où quelques Novepont, Clairefontaine, MartinvilleHleHSec, BailleauH
préparatifs somptueux font paraître plus sordides les l’Exempt, toutes terres vassales de Guermantes entre ustensiles de ménage qui traînent encore, la rivière qui se lesquelles Combray était enclavé, aujourd’hui au ras de promenait déjà en bleu ciel entre les terres encore noires et l’herbe, dominés par les enfants de l’école des frères qui nues, accompagnée seulement d’une bande de coucous venaient là apprendre leurs leçons ou jouer aux récréations –
arrivés trop tôt et de primevères en avance, cependant que passé presque descendu dans la terre, couché au bord de çà et là une violette au bec bleu laissait fléchir sa tige sous le l’eau comme un promeneur qui prend le frais, mais me poids de la goutte d’odeur qu’elle tenait dans son cornet. Le donnant fort à songer, me faisant ajouter dans le nom de PontHVieux débouchait dans un sentier de halage qui à cet Combray à la petite ville d’aujourd’hui une cité très endroit se tapissait l’été du feuillage bleu d’un noisetier sous différente, retenant mes pensées par son visage lequel un pêcheur en chapeau de paille avait pris racine. À
incompréhensible et d’autrefois qu’il cachait à demi sous les Combray où je savais quelle individualité de maréchal ferrant boutons d’or. Ils étaient fort nombreux à cet endroit qu’ils ou de garçon épicier était dissimulée sous l’uniforme du avaient choisi pour leurs jeux sur l’herbe, isolés, par couples, suisse ou le surplis de l’enfant de chœur, ce pêcheur est la par troupes, jaunes comme un jaune d’œuf, brillants d’autant seule personne dont je n’aie jamais découvert l’identité. Il plus, me semblaitHil, que ne pouvant dériver vers aucune Marcel Proust –
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Din Search OverTime velléité de dégustation le plaisir que leur vue me causait, je têtards inanitiés qu’elle tenait sans doute jusqueHlà en l’accumulais dans leur surface dorée, jusqu’à ce qu’il devînt dissolution, invisibles, tout près d’être en voie de assez puissant pour produire de l’inutile beauté; et cela dès cristallisation.
ma plus petite enfance, quand du sentier de halage je tendais Bientôt le cours de la Vivonne s’obstrue de plantes d’eau.
les bras vers eux sans pouvoir épeler complètement leur joli Il y en a d’abord d’isolées comme tel nénufar à qui le courant nom de Princes de contes de fées français, venus peutHêtre il au travers duquel il était placé d’une façon malheureuse y a bien des siècles d’Asie, mais apatriés pour toujours au laissait si peu de repos que, comme un bac actionné village, contents du modeste horizon, aimant le soleil et le mécaniquement, il n’abordait une rive que pour retourner à bord de l’eau, fidèles à la petite vue de la gare, gardant celle d’où il était venu, refaisant éternellement la double encore pourtant comme certaines de nos vieilles toiles traversée. Poussé vers la rive, son pédoncule se dépliait, peintes, dans leur simplicité populaire, un poétique éclat s’allongeait, filait, atteignait l’extrême limite de sa tension d’orient.
jusqu’au bord où le courant le reprenait, le vert cordage se Je m’amusais à regarder les carafes que les gamins repliait sur luiHmême et ramenait la pauvre plante à ce qu’on mettaient dans la Vivonne pour prendre les petits poissons, peut d’autant mieux appeler son point de départ qu’elle n’y et qui, remplies par la rivière, où elles sont à leur tour restait pas une seconde sans en repartir par une répétition de encloses, à la fois « contenant » aux flancs transparents la même manœuvre. Je la retrouvais de promenade en comme une eau durcie, et « contenu » plongé dans un plus promenade, toujours dans la même situation, faisant penser grand contenant de cristal liquide et courant, évoquaient à certains neurasthéniques au nombre desquels mon grandH
l’image de la fraîcheur d’une façon plus délicieuse et plus père comptait ma tante Léonie, qui nous offrent sans irritante qu’elles n’eussent fait sur une table servie, en ne la changement au cours des années le spectacle des habitudes montrant qu’en fuite dans cette allitération perpétuelle entre bizarres qu’ils se croient chaque fois à la veille de secouer et l’eau sans consistance où les mains ne pouvaient la capter et qu’ils gardent toujours; pris dans l’engrenage de leurs le verre sans fluidité où le palais ne pourrait en jouir. Je me malaises et de leurs manies, les efforts dans lesquels ils se promettais de venir là plus tard avec des lignes; j’obtenais débattent inutilement pour en sortir ne font qu’assurer le qu’on tirât un peu de pain des provisions du goûter; j’en fonctionnement et faire jouer le déclic de leur diététique jetais dans la Vivonne des boulettes qui semblaient suffire étrange, inéluctable et funeste. Tel était ce nénufar, pareil pour y provoquer un phénomène de sursaturation, car l’eau aussi à quelqu’un de ces malheureux dont le tourment se solidifiait aussitôt autour d’elles en grappes ovoïdes de singulier, qui se répète indéfiniment durant l’éternité, excitait Marcel Proust –
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Din Search OverTime la curiosité de Dante et dont il se serait fait raconter plus et glacées sur l’obliquité transparente de ce parterre d’eau; de longuement les particularités et la cause par le supplicié luiH
ce parterre céleste aussi: car il donnait aux fleurs un sol d’une même, si Virgile, s’éloignant à grands pas, ne l’avait forcé à le couleur plus précieuse, plus émouvante que la couleur des rattraper au plus vite, comme moi mes parents.
fleurs ellesHmêmes; et, soit que pendant l’aprèsHmidi il fît étinceler sous les nymphéas le kaléidoscope d’un bonheur Mais plus loin le courant se ralentit, il traverse une attentif, silencieux et mobile, ou qu’il s’emplît vers le soir, propriété dont l’accès était ouvert au public par celui à qui comme quelque port lointain, du rose et de la rêverie du elle appartenait et qui s’y était complu à des travaux couchant, changeant sans cesse pour rester toujours en d’horticulture aquatique, faisant fleurir, dans les petits étangs accord, autour des corolles de teintes plus fixes, avec ce qu’il que forme la Vivonne, de véritables jardins de nymphéas.
y a de plus profond, de plus fugitif, de plus mystérieux –
Comme les rives étaient à cet endroit très boisées, les avec ce qu’il y a d’infini – dans l’heure, il semblait les avoir grandes ombres des arbres donnaient à l’eau un fond qui fait fleurir en plein ciel.
était habituellement d’un vert sombre mais que parfois, quand nous rentrions par certains soirs rassérénés d’aprèsH
Au sortir de ce parc, la Vivonne redevient courante. Que midi orageux, j’ai vu d’un bleu clair et cru, tirant sur le violet, de fois j’ai vu, j’ai désiré imiter quand je serais libre de vivre à d’apparence cloisonnée et de goût japonais. Çà et là, à la ma guise, un rameur, qui, ayant lâché l’aviron, s’était couché surface, rougissait comme une fraise une fleur de nymphéa à plat sur le dos, la tête en bas, au fond de sa barque, et la au cœur écarlate, blanc sur les bords. Plus loin, les fleurs plus laissant flotter à la dérive, ne pouvant voir que le ciel qui nombreuses étaient plus pâles, moins lisses, plus grenues, filait lentement auHdessus de lui, portait sur son visage plus plissées, et disposées par le hasard en enroulements si l’avantHgoût du bonheur et de la paix.
gracieux qu’on croyait voir flotter à la dérive, comme après Nous nous asseyions entre les iris au bord de l’eau. Dans le l’effeuillement mélancolique d’une fête galante, des roses ciel férié flânait longuement un nuage oisif. Par moments, mousseuses en guirlandes dénouées. Ailleurs un coin oppressée par l’ennui, une carpe se dressait hors de l’eau semblait réservé aux espèces communes qui montraient le dans une aspiration anxieuse. C’était l’heure du goûter.
blanc et rose proprets de la julienne, lavés comme de la Avant de repartir nous restions longtemps à manger des porcelaine avec un soin domestique, tandis qu’un peu plus fruits, du pain et du chocolat, sur l’herbe où parvenaient loin, pressées les unes contre les autres en une véritable jusqu’à nous, horizontaux, affaiblis, mais denses et plateHbande flottante, on eût dit des pensées des jardins qui métalliques encore, des sons de la cloche de SaintHHilaire qui étaient venues poser comme des papillons leur ailes bleuâtres ne s’étaient pas mélangés à l’air qu’ils traversaient depuis si Marcel Proust –
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Din Search OverTime longtemps, et côtelés par la palpitation successive de toutes abstraite, si idéale, que j’avais été aussi surpris quand on leurs lignes sonores, vibraient en rasant les fleurs, à nos m’avait dit qu’elles se trouvaient dans le département, à une pieds.
certaine distance kilométrique de Combray, que le jour où j’avais appris qu’il y avait un autre point précis de la terre où Parfois, au bord de l’eau entourée de bois, nous s’ouvrait, dans l’antiquité, l’entrée des Enfers. Jamais non rencontrions une maison dite de plaisance, isolée, perdue, plus nous ne pûmes pousser jusqu’au terme que j’eusse tant qui ne voyait rien du monde que la rivière qui baignait ses souhaité d’atteindre, jusqu’à Guermantes. Je savais que là pieds. Une jeune femme dont le visage pensif et les voiles résidaient des châtelains, le duc et la duchesse de élégants n’étaient pas de ce pays et qui sans doute était Guermantes, je savais qu’ils étaient des personnages réels et venue, selon l’expression populaire « s’enterrer » là, goûter le actuellement existants, mais chaque fois que je pensais à eux, plaisir amer de sentir que son nom, le nom surtout de celui je me les représentais tantôt en tapisserie, comme était la dont elle n’avait pu garder le cœur, y était inconnu, comtesse de Guermantes, dans le « Couronnement d’Esther s’encadrait dans la fenêtre qui ne lui laissait pas regarder plus
» de notre église, tantôt de nuances changeantes comme était loin que la barque amarrée près de la porte. Elle levait Gilbert le Mauvais dans le vitrail où il passait du vert chou au distraitement les yeux en entendant derrière les arbres de la bleu prune, selon que j’étais encore à prendre de l’eau bénite rive la voix des passants dont avant qu’elle eût aperçu leur ou que j’arrivais à nos chaises, tantôt tout à fait impalpables visage, elle pouvait être certaine que jamais ils n’avaient comme l’image de Geneviève de Brabant, ancêtre de la connu, ni ne connaîtraient l’infidèle, que rien dans leur passé famille de Guermantes, que la lanterne magique promenait ne gardait sa marque, que rien dans leur avenir n’aurait sur les rideaux de ma chambre ou faisait monter au plafond l’occasion de la recevoir. On sentait que, dans son
– enfin toujours enveloppés du mystère des temps renoncement, elle avait volontairement quitté des lieux où mérovingiens et baignant comme dans un coucher de soleil elle aurait pu du moins apercevoir celui qu’elle aimait, pour dans la lumière orangée qui émane de cette syllabe: « antes ».
ceuxHci qui ne l’avaient jamais vu. Et je la regardais, revenant Mais si malgré cela ils étaient pour moi, en tant que duc et de quelque promenade sur un chemin où elle savait qu’il ne duchesse, des êtres réels, bien qu’étranges, en revanche leur passerait pas, ôter de ses mains résignées de longs gants personne
ducale
se
distendait
démesurément,
d’une grâce inutile.
s’immatérialisait, pour pouvoir contenir en elle ce Jamais dans la promenade du côté de Guermantes nous ne Guermantes dont ils étaient duc et duchesse, tout ce « côté pûmes remonter jusqu’aux sources de la Vivonne auxquelles de Guermantes » ensoleillé, le cours de la Vivonne, ses j’avais souvent pensé et qui avaient pour moi une existence si nymphéas et ses grands arbres, et tant de beaux aprèsHmidi.
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Din Search OverTime Et je savais qu’ils ne portaient pas seulement le titre de duc avec moi. Et le soir me tenant par la main, en passant devant et de duchesse de Guermantes, mais que depuis le XIVe les petits jardins de ses vassaux, elle me montrait, le long des siècle où, après avoir inutilement essayé de vaincre leurs murs bas, les fleurs qui y appuient leurs quenouilles violettes anciens seigneurs ils s’étaient alliés à eux par des mariages, ils et rouges et m’apprenait leurs noms. Elle me faisait lui dire le étaient comtes de Combray, les premiers des citoyens de sujet des poèmes que j’avais l’intention de composer. Et ces Combray par conséquent et pourtant les seuls qui n’y rêves m’avertissaient que, puisque je voulais un jour être un habitassent pas. Comtes de Combray, possédant Combray au écrivain, il était temps de savoir ce que je comptais écrire.
milieu de leur nom, de leur personne, et sans doute ayant Mais dès que je me le demandais, tâchant de trouver un sujet effectivement en eux cette étrange et pieuse tristesse qui était où je pusse faire tenir une signification philosophique infinie, spéciale à Combray; propriétaires de la ville, mais non d’une mon esprit s’arrêtait de fonctionner, je ne voyais plus que le maison particulière, demeurant sans doute dehors, dans la vide en face de mon attention, je sentais que je n’avais pas de rue entre ciel et terre, comme ce Gilbert de Guermantes, génie ou peutHêtre une maladie cérébrale l’empêchait de dont je ne voyais aux vitraux de l’abside de SaintHHilaire que naître. Parfois je comptais sur mon père pour arranger cela.
l’envers de laque noire, si je levais la tête quand j’allais Il était si puissant, si en faveur auprès des gens en place qu’il chercher du sel chez Camus.
arrivait à nous faire transgresser les lois que Françoise m’avait appris à considérer comme plus inéluctables que Puis il arriva que sur le côté de Guermantes je passai celles de la vie et de la mort, à faire retarder d’un an pour parfois devant de petits enclos humides où montaient des notre maison, seule de tout le quartier, les travaux de «
grappes de fleurs sombres. Je m’arrêtais, croyant acquérir ravalement », à obtenir du ministre, pour le fils de Mme une notion précieuse, car il me semblait avoir sous les yeux Sazerat qui voulait aller aux eaux, l’autorisation qu’il passât le un fragment de cette région fluviatile, que je désirais tant baccalauréat deux mois d’avance, dans la série des candidats connaître depuis que je l’avais vue décrite par un de mes dont le nom commençait par un A au lieu d’attendre le tour écrivains préférés. Et ce fut avec elle, avec son sol imaginaire des S. Si j’étais tombé gravement malade, si j’avais été traversé de cours d’eau bouillonnants, que Guermantes, capturé par des brigands, persuadé que mon père avait trop changeant d’aspect dans ma pensée, s’identifia, quand j’eus d’intelligences avec les puissances suprêmes, de trop entendu le docteur Percepied nous parler des fleurs et des irrésistibles lettres de recommandation auprès du bon Dieu, belles eaux vives qu’il y avait dans le parc du château. Je pour que ma maladie ou ma captivité pussent être autre rêvais que Mme de Guermantes m’y faisait venir, éprise pour chose que de vains simulacres sans danger pour moi, j’aurais moi d’un soudain caprice; tout le jour elle y pêchait la truite attendu avec calme l’heure inévitable du retour à la bonne Marcel Proust –
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Din Search OverTime réalité, l’heure de la délivrance ou de la guérison; peutHêtre cérémonie. » C’était du reste par le docteur Percepied que cette absence de génie, ce trou noir qui se creusait dans mon j’avais le plus entendu parler de Mme de Guermantes, et il esprit quand je cherchais le sujet de mes écrits futurs, n’étaitH
nous avait même montré le numéro d’une revue illustrée où il aussi qu’une illusion sans consistance, et cesseraitHelle par elle était représentée dans le costume qu’elle portait à un bal l’intervention de mon père qui avait dû convenir avec le travesti chez la princesse de Léon.
Gouvernement et avec la Providence que je serais le premier Tout d’un coup pendant la messe de mariage, un écrivain de l’époque. Mais d’autres fois, tandis que mes mouvement que fit le suisse en se déplaçant me permit de parents s’impatientaient de me voir rester en arrière et ne pas voir assise dans une chapelle une dame blonde avec un grand les suivre, ma vie actuelle, au lieu de me sembler une création nez, des yeux bleus et perçants, une cravate bouffante en artificielle de mon père et qu’il pouvait modifier à son gré, soie mauve, lisse, neuve et brillante, et un petit bouton au m’apparaissait au contraire comme comprise dans une réalité coin du nez. Et parce que dans la surface de son visage qui n’était pas faite pour moi, contre laquelle il n’y avait pas rouge, comme si elle eût eu très chaud, je distinguais, diluées de recours, au cœur de laquelle je n’avais pas d’allié, qui ne et à peine perceptibles, des parcelles d’analogie avec le cachait rien au delà d’elleHmême. Il me semblait alors que portrait qu’on m’avait montré, parce que surtout les traits j’existais de la même façon que les autres hommes, que je particuliers que je relevais en elle, si j’essayais de les énoncer, vieillirais, que je mourrais comme eux, et que parmi eux se formulaient précisément dans les mêmes termes: un grand j’étais seulement du nombre de ceux qui n’ont pas de nez, des yeux bleus, dont s’était servi le docteur Percepied dispositions pour écrire. Aussi, découragé, je renonçais à quand il avait décrit devant moi la duchesse de Guermantes, jamais à la littérature, malgré les encouragements que m’avait je me dis: cette dame ressemble à Mme de Guermantes; or la donnés Bloch. Ce sentiment intime, immédiat, que j’avais du chapelle où elle suivait la messe était celle de Gilbert le néant de ma pensée, prévalait contre toutes les paroles Mauvais, sous les plates tombes de laquelle, dorées et flatteuses qu’on pouvait me prodiguer, comme chez un distendues comme des alvéoles de miel, reposaient les méchant dont chacun vante les bonnes actions, les remords anciens comtes de Brabant, et que je me rappelais être, à ce de sa conscience.
qu’on m’avait dit, réservée à la famille de Guermantes quand Un jour ma mère me dit: « Puisque tu parles toujours de quelqu’un de ses membres venait pour une cérémonie à Mme de Guermantes, comme le docteur Percepied l’a très Combray; il ne pouvait vraisemblablement y avoir qu’une bien soignée il y a quatre ans, elle doit venir à Combray pour seule femme ressemblant au portrait de Mme de assister au mariage de sa fille. Tu pourras l’apercevoir à la Guermantes, qui fût ce jourHlà, jour où elle devait justement Marcel Proust –
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Din Search OverTime venir, dans cette chapelle: c’était elle! Ma déception était un tremblement de son petit doigt, dénoncent la présence grande. Elle provenait de ce que je n’avais jamais pris garde, matérielle d’une actrice vivante, là où nous étions incertains quand je pensais à Mme de Guermantes, que je me la si nous n’avions pas devant les yeux une simple projection représentais avec les couleurs d’une tapisserie ou d’un vitrail, lumineuse.
dans un autre siècle, d’une autre matière que le reste des Mais en même temps, sur cette image que le nez personnes vivantes. Jamais je ne m’étais avisé qu’elle pouvait proéminent, les yeux perçants, épinglaient dans ma vision avoir une figure rouge, une cravate mauve comme Mme (peutHêtre parce que c’était eux qui l’avaient d’abord atteinte, Sazerat, et l’ovale de ses joues me fit tellement souvenir de qui y avaient fait la première encoche, au moment où je personnes que j’avais vues à la maison que le soupçon n’avais pas encore le temps de songer que la femme qui m’effleura, pour se dissiper d’ailleurs aussitôt après, que cette apparaissait devant moi pouvait être Mme de Guermantes), dame en son principe générateur, en toutes ses molécules, sur cette image toute récente, inchangeable, j’essayais n’était peutHêtre pas substantiellement la duchesse de d’appliquer l’idée: « C’est Mme de Guermantes » sans Guermantes, mais que son corps, ignorant du nom qu’on lui parvenir qu’à la faire manœuvrer en face de l’image, comme appliquait, appartenait à un certain type féminin, qui deux disques séparés par un intervalle. Mais cette Mme de comprenait aussi des femmes de médecins et de Guermantes à laquelle j’avais si souvent rêvé, maintenant commerçants. « C’est cela, ce n’est que cela, Mme de que je voyais qu’elle existait effectivement en dehors de moi, Guermantes! » disait la mine attentive et étonnée avec en prit plus de puissance encore sur mon imagination qui, un laquelle je contemplais cette image qui, naturellement, n’avait moment paralysée au contact d’une réalité si différente de ce aucun rapport avec celles qui sous le même nom de Mme de qu’elle attendait, se mit à réagir et à me dire: « Glorieux dès Guermantes étaient apparues tant de fois dans mes songes, avant Charlemagne, les Guermantes avaient le droit de vie et puisque, elle, elle n’avait pas été comme les autres de mort sur leurs vassaux; la duchesse de Guermantes arbitrairement formée par moi, mais qu’elle m’avait sauté aux descend de Geneviève de Brabant. Elle ne connaît, ni ne yeux pour la première fois, il y a un moment seulement, dans consentirait à connaître aucune des personnes qui sont ici. »
l’église; qui n’était pas de la même nature, n’était pas colorable à volonté comme elles qui se laissaient imbiber de Et – ô merveilleuse indépendance des regards humains, la teinte orangée d’une syllabe, mais était si réelle que tout, retenus au visage par une corde si lâche, si longue, si jusqu’à ce petit bouton qui s’enflammait au coin du nez, extensible qu’ils peuvent se promener seuls loin de lui –
certifiait son assujettissement aux lois de la vie, comme dans pendant que Mme de Guermantes était assise dans la une apothéose de théâtre, un plissement de la robe de la fée, chapelle auHdessus des tombes de ses morts, ses regards Marcel Proust –
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Din Search OverTime flânaient çà et là, montaient le long des piliers, s’arrêtaient si elle leur eût été comparable. Et mes regards s’arrêtant à ses même sur moi comme un rayon de soleil errant dans la nef, cheveux blonds, à ses yeux bleus, à l’attache de son cou et mais un rayon de soleil qui, au moment où je reçus sa omettant les traits qui eussent pu me rappeler d’autres caresse, me sembla conscient. Quant à Mme de Guermantes visages, je m’écriais devant ce croquis volontairement elleHmême, comme elle restait immobile, assise comme une incomplet: « Qu’elle est belle! Quelle noblesse! Comme c’est mère qui semble ne pas voir les audaces espiègles et les bien une fière Guermantes, la descendante de Geneviève de entreprises indiscrètes de ses enfants qui jouent et Brabant, que j’ai devant moi! » Et l’attention avec laquelle interpellent des personnes qu’elle ne connaît pas, il me fut j’éclairais son visage l’isolait tellement, qu’aujourd’hui si je impossible de savoir si elle approuvait ou blâmait, dans le repense à cette cérémonie, il m’est impossible de revoir une désœuvrement de son âme, le vagabondage de ses regards.
seule des personnes qui y assistaient sauf elle et le suisse qui répondit affirmativement quand je lui demandai si cette Je trouvais important qu’elle ne partît pas avant que j’eusse dame était bien Mme de Guermantes. Mais elle, je la revois, pu la regarder suffisamment, car je me rappelais que depuis surtout au moment du défilé dans la sacristie qu’éclairait le des années je considérais sa vue comme éminemment soleil intermittent et chaud d’un jour de vent et d’orage, et désirable, et je ne détachais pas mes yeux d’elle, comme si dans laquelle Mme de Guermantes se trouvait au milieu de chacun de mes regards eût pu matériellement emporter et tous ces gens de Combray dont elle ne savait même pas les mettre en réserve en moi le souvenir du nez proéminent, des noms, mais dont l’infériorité proclamait trop sa suprématie joues rouges, de toutes ces particularités qui me semblaient pour qu’elle ne ressentît pas pour eux une sincère autant de renseignements précieux, authentiques et singuliers bienveillance, et auxquels du reste elle espérait imposer sur son visage. Maintenant que me le faisaient trouver beau davantage encore à force de bonne grâce et de simplicité.
toutes les pensées que j’y rapportais – et peutHêtre surtout, Aussi, ne pouvant émettre ces regards volontaires, chargés forme de l’instinct de conservation des meilleures parties de d’une signification précise, qu’on adresse à quelqu’un qu’on nousHmêmes, ce désir qu’on a toujours de ne pas avoir été connaît, mais seulement laisser ses pensées distraites déçu – la replaçant (puisque c’était une seule personne s’échapper incessamment devant elle en un flot de lumière qu’elle et cette duchesse de Guermantes que j’avais évoquée bleue qu’elle ne pouvait contenir, elle ne voulait pas qu’il pût jusqueHlà) hors du reste de l’humanité dans laquelle la vue gêner, paraître dédaigner ces petites gens qu’il rencontrait au pure et simple de son corps me l’avait fait un instant passage, qu’il atteignait à tous moments. Je revois encore, auH
confondre, je m’irritais en entendant dire autour de moi: «
dessus de sa cravate mauve, soyeuse et gonflée, le doux Elle est mieux que Mme Sazerat, que Mlle Vinteuil », comme étonnement de ses yeux auxquels elle avait ajouté sans oser Marcel Proust –
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Din Search OverTime le destiner à personne, mais pour que tous pussent en Combien depuis ce jour, dans mes promenades du côté de prendre leur part, un sourire un peu timide de suzeraine qui Guermantes, il me parut plus affligeant encore qu’auparavant a l’air de s’excuser auprès de ses vassaux et de les aimer. Ce de n’avoir pas de dispositions pour les lettres, et de devoir sourire tomba sur moi qui ne la quittais pas des yeux. Alors renoncer à être jamais un écrivain célèbre. Les regrets que me rappelant ce regard qu’elle avait laissé s’arrêter sur moi, j’en éprouvais, tandis que je restais seul à rêver un peu à pendant la messe, bleu comme un rayon de soleil qui aurait l’écart, me faisaient tant souffrir, que pour ne plus les traversé le vitrail de Gilbert le Mauvais, je me dis: « Mais sans ressentir, de luiHmême par une sorte d’inhibition devant la doute elle fait attention à moi. » Je crus que je lui plaisais, douleur, mon esprit s’arrêtait entièrement de penser aux qu’elle penserait encore à moi quand elle aurait quitté l’église, vers, aux romans, à un avenir poétique sur lequel mon qu’à cause de moi elle serait peutHêtre triste le soir à manque de talent m’interdisait de compter. Alors, bien en Guermantes. Et aussitôt je l’aimai, car s’il peut quelquefois dehors de toutes ces préoccupations littéraires et ne s’y suffire pour que nous aimions une femme qu’elle nous rattachant en rien, tout d’un coup un toit, un reflet de soleil regarde avec mépris comme j’avais cru qu’avait fait Mlle sur une pierre, l’odeur d’un chemin me faisaient arrêter par Swann et que nous pensions qu’elle ne pourra jamais nous un plaisir particulier qu’ils me donnaient, et aussi parce qu’ils appartenir, quelquefois aussi il peut suffire qu’elle nous avaient l’air de cacher au delà de ce que je voyais, quelque regarde avec bonté comme faisait Mme de Guermantes et chose qu’ils m’invitaient à venir prendre et que malgré mes que nous pensions qu’elle pourra nous appartenir. Ses yeux efforts je n’arrivais pas à découvrir. Comme je sentais que bleuissaient comme une pervenche impossible à cueillir et cela se trouvait en eux, je restais là, immobile, à regarder, à que pourtant elle m’eût dédiée; et le soleil menacé par un respirer, à tâcher d’aller avec ma pensée au delà de l’image ou nuage mais dardant encore de toute sa force sur la place et de l’odeur. Et s’il me fallait rattraper mon grandHpère, dans la sacristie, donnait une carnation de géranium aux tapis poursuivre ma route, je cherchais à les retrouver, en fermant rouges qu’on y avait étendus par terre pour la solennité, et les yeux; je m’attachais à me rappeler exactement la ligne du sur lesquels s’avançait en souriant Mme de Guermantes, et toit, la nuance de la pierre qui, sans que je pusse comprendre ajoutait à leur lainage un velouté rose, un épiderme de pourquoi, m’avaient semblé pleines, prêtes à s’entr’ouvrir, à lumière, cette sorte de tendresse, de sérieuse douceur dans la me livrer ce dont elles n’étaient qu’un couvercle. Certes ce pompe et dans la joie qui caractérisent certaines pages de n’était pas des impressions de ce genre qui pouvaient me Lohengrin, certaines peintures de Carpaccio, et qui font rendre l’espérance que j’avais perdue de pouvoir être un jour comprendre que Baudelaire ait pu appliquer au son de la écrivain et poète, car elles étaient toujours liées à un objet trompette l’épithète de délicieux.
particulier dépourvu de valeur intellectuelle et ne se Marcel Proust –
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Din Search OverTime rapportant à aucune vérité abstraite. Mais du moins elles me découvrir. Une fois pourtant – où notre promenade s’étant donnaient un plaisir irraisonné, l’illusion d’une sorte de prolongée fort au delà de sa durée habituelle, nous avions été fécondité et par là me distrayaient de l’ennui, du sentiment bien heureux de rencontrer à miHchemin du retour, comme de mon impuissance que j’avais éprouvés chaque fois que l’aprèsHmidi finissait, le docteur Percepied qui passait en j’avais cherché un sujet philosophique pour une grande voiture à bride abattue, nous avait reconnus et fait monter œuvre littéraire. Mais le devoir de conscience était si ardu –
avec lui – j’eus une impression de ce genre et ne que m’imposaient ces impressions de forme, de parfum ou l’abandonnai pas sans un peu l’approfondir. On m’avait fait de couleur – de tâcher d’apercevoir ce qui se cachait derrière monter près du cocher, nous allions comme le vent parce elles, que je ne tardais pas à me chercher à moiHmême des que le docteur avait encore avant de rentrer à Combray à excuses qui me permissent de me dérober à ces efforts et de s’arrêter à MartinvilleHleHSec chez un malade à la porte m’épargner cette fatigue. Par bonheur mes parents duquel il avait été convenu que nous l’attendrions. Au m’appelaient, je sentais que je n’avais pas présentement la tournant d’un chemin j’éprouvai tout à coup ce plaisir spécial tranquillité nécessaire pour poursuivre utilement ma qui ne ressemblait à aucun autre, à apercevoir les deux recherche, et qu’il valait mieux n’y plus penser jusqu’à ce que clochers de Martinville, sur lesquels donnait le soleil je fusse rentré, et ne pas me fatiguer d’avance sans résultat.
couchant et que le mouvement de notre voiture et les lacets Alors je ne m’occupais plus de cette chose inconnue qui du chemin avaient l’air de faire changer de place, puis celui s’enveloppait d’une forme ou d’un parfum, bien tranquille de Vieuxvicq qui, séparé d’eux par une colline et une vallée, puisque je la ramenais à la maison, protégée par le et situé sur un plateau plus élevé dans le lointain, semblait revêtement d’images sous lesquelles je la trouverais vivante, pourtant tout voisin d’eux.
comme les poissons que, les jours où on m’avait laissé aller à En constatant, en notant la forme de leur flèche, le la pêche, je rapportais dans mon panier, couverts par une déplacement de leurs lignes, l’ensoleillement de leur surface, couche d’herbe qui préservait leur fraîcheur. Une fois à la je sentais que je n’allais pas au bout de mon impression, que maison je songeais à autre chose et ainsi s’entassaient dans quelque chose était derrière ce mouvement, derrière cette mon esprit (comme dans ma chambre les fleurs que j’avais clarté, quelque chose qu’ils semblaient contenir et dérober à cueillies dans mes promenades ou les objets qu’on m’avait la fois.
donnés), une pierre où jouait un reflet, un toit, un son de cloche, une odeur de feuilles, bien des images différentes Les clochers paraissaient si éloignés et nous avions l’air de sous lesquelles il y a longtemps qu’est morte la réalité si peu nous rapprocher d’eux, que je fus étonné quand, pressentie que je n’ai pas eu assez de volonté pour arriver à quelques instants après, nous nous arrêtâmes devant l’église Marcel Proust –
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Din Search OverTime de Martinville. Je ne savais pas la raison du plaisir que j’avais Sans me dire que ce qui était caché derrière les clochers de eu à les apercevoir à l’horizon et l’obligation de chercher à Martinville devait être quelque chose d’analogue à une jolie découvrir cette raison me semblait bien pénible; j’avais envie phrase, puisque c’était sous la forme de mots qui me de garder en réserve dans ma tête ces lignes remuantes au faisaient plaisir que cela m’était apparu, demandant un soleil et de n’y plus penser maintenant. Et il est probable que crayon et du papier au docteur, je composai malgré les si je l’avais fait, les deux clochers seraient allés à jamais cahots de la voiture, pour soulager ma conscience et obéir à rejoindre tant d’arbres, de toits, de parfums, de sons, que mon enthousiasme, le petit morceau suivant que j’ai retrouvé j’avais distingués des autres à cause de ce plaisir obscur qu’ils depuis et auquel je n’ai eu à faire subir que peu de m’avaient procuré et que je n’ai jamais approfondi. Je changements:
descendis causer avec mes parents en attendant le docteur.
« Seuls, s’élevant du niveau de la plaine et comme perdus Puis nous repartîmes, je repris ma place sur le siège, je en rase campagne, montaient vers le ciel les deux clochers de tournai la tête pour voir encore les clochers qu’un peu plus Martinville. Bientôt nous en vîmes trois: venant se placer en tard j’aperçus une dernière fois au tournant d’un chemin. Le face d’eux par une volte hardie, un clocher retardataire, celui cocher, qui ne semblait pas disposé à causer, ayant à peine de Vieuxvicq, les avait rejoints. Les minutes passaient, nous répondu à mes propos, force me fut, faute d’autre allions vite et pourtant les trois clochers étaient toujours au compagnie, de me rabattre sur celle de moiHmême et loin devant nous, comme trois oiseaux posés sur la plaine, d’essayer de me rappeler mes clochers. Bientôt, leurs lignes immobiles et qu’on distingue au soleil. Puis le clocher de et leurs surfaces ensoleillées, comme si elles avaient été une Vieuxvicq s’écarta, prit ses distances, et les clochers de sorte d’écorce, se déchirèrent, un peu de ce qui m’était caché Martinville restèrent seuls, éclairés par la lumière du en elles m’apparut, j’eus une pensée qui n’existait pas pour couchant que même à cette distance, sur leurs pentes, je moi l’instant avant, qui se formula en mots dans ma tête, et voyais jouer et sourire. Nous avions été si longs à nous le plaisir que m’avait fait tout à l’heure éprouver leur vue s’en rapprocher d’eux, que je pensais au temps qu’il faudrait trouva tellement accru que, pris d’une sorte d’ivresse, je ne encore pour les atteindre quand, tout d’un coup, la voiture pus plus penser à autre chose. À ce moment et comme nous ayant tourné, elle nous déposa à leurs pieds; et ils s’étaient étions déjà loin de Martinville, en tournant la tête je les jetés si rudement auHdevant d’elle, qu’on n’eut que le temps aperçus de nouveau, tout noirs cette fois, car le soleil était d’arrêter pour ne pas se heurter au porche. Nous déjà couché. Par moments les tournants du chemin me les poursuivîmes notre route; nous avions déjà quitté Martinville dérobaient, puis ils se montrèrent une dernière fois et enfin depuis un peu de temps et le village après nous avoir je ne les vis plus.
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Din Search OverTime accompagnés quelques secondes avait disparu, que restés Pendant toute la journée, dans ces promenades, j’avais pu seuls à l’horizon à nous regarder fuir, ces clochers et celui de rêver au plaisir que ce serait d’être l’ami de la duchesse de Vieuxvicq agitaient encore en signe d’adieu leurs cimes Guermantes, de pêcher la truite, de me promener en barque ensoleillées. Parfois l’un s’effaçait pour que les deux autres sur la Vivonne, et, avide de bonheur, ne demander en ces pussent nous apercevoir un instant encore; mais la route momentsHlà rien d’autre à la vie que de se composer toujours changea de direction, ils virèrent dans la lumière comme d’une suite d’heureux aprèsHmidi. Mais quand sur le chemin trois pivots d’or et disparurent à mes yeux. Mais, un peu plus du retour j’avais aperçu sur la gauche une ferme, assez tard, comme nous étions déjà près de Combray, le soleil distante de deux autres qui étaient au contraire très étant maintenant couché, je les aperçus une dernière fois de rapprochées, et à partir de laquelle pour entrer dans très loin, qui n’étaient plus que comme trois fleurs peintes Combray il n’y avait plus qu’à prendre une allée de chênes sur le ciel auHdessus de la ligne basse des champs. Ils me bordée d’un côté de prés appartenant chacun à un petit clos faisaient penser aussi aux trois jeunes filles d’une légende, et plantés à intervalles égaux de pommiers qui y portaient, abandonnées dans une solitude où tombait déjà l’obscurité; quand ils étaient éclairés par le soleil couchant, le dessin et tandis que nous nous éloignions au galop, je les vis japonais de leurs ombres, brusquement mon cœur se mettait timidement chercher leur chemin et après quelques gauches à battre, je savais qu’avant une demiHheure nous serions trébuchements de leurs nobles silhouettes, se serrer les uns rentrés, et que, comme c’était de règle les jours où nous contre les autres, glisser l’un derrière l’autre, ne plus faire sur étions allés du côté de Guermantes et où le dîner était servi le ciel encore rose qu’une seule forme noire, charmante et plus tard, on m’enverrait me coucher sitôt ma soupe prise, résignée, et s’effacer dans la nuit. « Je ne repensai jamais à de sorte que ma mère, retenue à table comme s’il y avait du cette page, mais à ce momentHlà, quand, au coin du siège où monde à dîner, ne monterait pas me dire bonsoir dans mon le cocher du docteur plaçait habituellement dans un panier lit. La zone de tristesse où je venais d’entrer était aussi les volailles qu’il avait achetées au marché de Martinville, distincte de la zone où je m’élançais avec joie il y avait un j’eus fini de l’écrire, je me trouvai si heureux, je sentais moment encore que dans certains ciels une bande rose est qu’elle m’avait si parfaitement débarrassé de ces clochers et séparée comme par une ligne d’une bande verte ou d’une de ce qu’ils cachaient derrière eux, que comme si j’avais été bande noire. On voit un oiseau voler dans le rose, il va en moiHmême une poule et si je venais de pondre un œuf, je me atteindre la fin, il touche presque au noir, puis il y est entré.
mis à chanter à tueHtête.
Les désirs qui tout à l’heure m’entouraient, d’aller à Guermantes, de voyager, d’être heureux, j’étais maintenant tellement en dehors d’eux que leur accomplissement ne Marcel Proust –
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Din Search OverTime m’eût fait aucun plaisir. Comme j’aurais donné tout cela nous que du jour, de la minute où elles nous sont devenues pour pouvoir pleurer toute la nuit dans les bras de maman!
visibles. Les fleurs qui jouaient alors sur l’herbe, l’eau qui Je frissonnais, je ne détachais pas mes yeux angoissés du passait au soleil, tout le paysage qui environna leur apparition visage de ma mère, qui n’apparaîtrait pas ce soir dans la continue à accompagner leur souvenir de son visage chambre où je me voyais déjà par la pensée, j’aurais voulu inconscient ou distrait; et certes quand ils étaient longuement mourir. Et cet état durerait jusqu’au lendemain, quand les contemplés par cet humble passant, par cet enfant qui rêvait rayons du matin, appuyant, comme le jardinier, leurs
– comme l’est un roi, par un mémorialiste perdu dans la barreaux au mur revêtu de capucines qui grimpaient jusqu’à foule – ce coin de nature, ce bout de jardin n’eussent pu ma fenêtre, je sauterais à bas du lit pour descendre vite au penser que ce serait grâce à lui qu’ils seraient appelés à jardin, sans plus me rappeler que le soir ramènerait jamais survivre en leurs particularités les plus éphémères; et l’heure de quitter ma mère. Et de la sorte c’est du côté de pourtant ce parfum d’aubépine qui butine le long de la haie Guermantes que j’ai appris à distinguer ces états qui se où les églantiers le remplaceront bientôt, un bruit de pas sans succèdent en moi, pendant certaines périodes, et vont écho sur le gravier d’une allée, une bulle formée contre une jusqu’à se partager chaque journée, l’un revenant chasser plante aquatique par l’eau de la rivière et qui crève aussitôt, l’autre, avec la ponctualité de la fièvre; contigus, mais si mon exaltation les a portés et a réussi à leur faire traverser extérieurs l’un à l’autre, si dépourvus de moyens de tant d’années successives, tandis qu’alentour les chemins se communication entre eux, que je ne puis plus comprendre, sont effacés et que sont morts ceux qui les foulèrent et le plus même me représenter, dans l’un, ce que j’ai désiré, ou souvenir de ceux qui les foulèrent. Parfois ce morceau de redouté, ou accompli dans l’autre.
paysage amené ainsi jusqu’à aujourd’hui se détache si isolé de tout, qu’il flotte incertain dans ma pensée comme une Délos Aussi le côté de Méséglise et le côté de Guermantes fleurie, sans que je puisse dire de quel pays, de quel temps –
restentHils pour moi liés à bien des petits événements de celle peutHêtre tout simplement de quel rêve – il vient. Mais c’est de toutes les diverses vies que nous menons parallèlement, surtout comme à des gisements profonds de mon sol mental, qui est la plus pleine de péripéties, la plus riche en épisodes, comme aux terrains résistants sur lesquels je m’appuie je veux dire la vie intellectuelle. Sans doute elle progresse en encore, que je dois penser au côté de Méséglise et au côté de nous insensiblement et les vérités qui en ont changé pour Guermantes. C’est parce que je croyais aux choses, aux êtres, nous le sens et l’aspect, qui nous ont ouvert de nouveaux tandis que je les parcourais, que les choses, les êtres qu’ils chemins, nous en préparions depuis longtemps la m’ont fait connaître sont les seuls que je prenne encore au découverte; mais c’était sans le savoir; et elles ne datent pour sérieux et qui me donnent encore de la joie. Soit que la foi Marcel Proust –
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Din Search OverTime qui crée soit tarie en moi, soit que la réalité ne se forme que ne possède jamais leur cœur comme je recevais dans un dans la mémoire, les fleurs qu’on me montre aujourd’hui baiser celui de ma mère, tout entier, sans la réserve d’une pour la première fois ne me semblent pas de vraies fleurs. Le arrèreHpensée, sans le reliquat d’une intention qui ne fût pas côté de Méséglise avec ses lilas, ses aubépines, ses bluets, ses pour moi – c’est que ce fût elle, c’est qu’elle inclinât vers moi coquelicots, ses pommiers, le côté de Guermantes avec sa ce visage où il y avait auHdessous de l’œil quelque chose qui rivière à têtards, ses nymphéas et ses boutons d’or, ont était, paraîtHil, un défaut, et que j’aimais à l’égal du reste; de constitué à tout jamais pour moi la figure des pays où même ce que je veux revoir, c’est le côté de Guermantes que j’aimerais vivre, où j’exige avant tout qu’on puisse aller à la j’ai connu, avec la ferme qui est peu éloignée des deux pêche, se promener en canot, voir des ruines de suivantes serrées l’une contre l’autre, à l’entrée de l’allée des fortifications gothiques et trouver au milieu des blés, ainsi chênes; ce sont ces prairies où, quand le soleil les rend qu’était SaintHAndréHdesHChamps, une église monumentale, réfléchissantes comme une mare, se dessinent les feuilles des rustique et dorée comme une meule; et les bluets, les pommiers, c’est ce paysage dont parfois, la nuit dans mes aubépines, les pommiers qu’il m’arrive quand je voyage de rêves, l’individualité m’étreint avec une puissance presque rencontrer encore dans les champs, parce qu’ils sont situés à fantastique et que je ne peux plus retrouver au réveil. Sans la même profondeur, au niveau de mon passé, sont doute pour avoir à jamais indissolublement uni en moi des immédiatement en communication avec mon cœur. Et impressions différentes, rien que parce qu’ils me les avaient pourtant, parce qu’il y a quelque chose d’individuel dans les fait éprouver en même temps, le côté de Méséglise ou le côté lieux, quand me saisit le désir de revoir le côté de de Guermantes m’ont exposé, pour l’avenir, à bien des Guermantes, on ne le satisferait pas en me menant au bord déceptions et même à bien des fautes. Car souvent j’ai voulu d’une rivière où il y aurait d’aussi beaux, de plus beaux revoir une personne sans discerner que c’était simplement nymphéas que dans la Vivonne, pas plus que le soir en parce qu’elle me rappelait une haie d’aubépines, et j’ai été rentrant – à l’heure où s’éveillait en moi cette angoisse qui induit à croire, à faire croire à un regain d’affection, par un plus tard émigre dans l’amour, et peut devenir à jamais simple désir de voyage. Mais par là même aussi, et en restant inséparable de lui – je n’aurais souhaité que vînt me dire présents en celles de mes impressions d’aujourd’hui bonsoir une mère plus belle et plus intelligente que la auxquelles ils peuvent se relier, ils leur donnent des assises, mienne. Non; de même que ce qu’il me fallait pour que je de la profondeur, une dimension de plus qu’aux autres. Ils pusse m’endormir heureux, avec cette paix sans trouble leur ajoutent aussi un charme, une signification qui n’est que qu’aucune maîtresse n’a pu me donner depuis, puisqu’on pour moi. Quand par les soirs d’été le ciel harmonieux doute d’elles encore au moment où on croit en elles et qu’on gronde comme une bête fauve et que chacun boude l’orage, Marcel Proust –
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Din Search OverTime c’est au côté de Méséglise que je dois de rester seul en extase reconstruite autour de moi dans l’obscurité, et – soit en à respirer, à travers le bruit de la pluie qui tombe, l’odeur m’orientant par la seule mémoire, soit en m’aidant, comme d’invisibles et persistants lilas.
indication, d’une faible lueur aperçue, au pied de laquelle je plaçais les rideaux de la croisée – je l’avais reconstruite tout
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entière et meublée comme un architecte et un tapissier qui C’est ainsi que je restais souvent jusqu’au matin à songer gardent leur ouverture primitive aux fenêtres et aux portes, au temps de Combray, à mes tristes soirées sans sommeil, à j’avais reposé les glaces et remis la commode à sa place tant de jours aussi dont l’image m’avait été plus récemment habituelle. Mais à peine le jour – et non plus le reflet d’une rendue par la saveur – ce qu’on aurait appelé à Combray le «
dernière braise sur une tringle de cuivre que j’avais pris pour parfum » – d’une tasse de thé, et par association de souvenirs lui – traçaitHil dans l’obscurité, et comme à la craie, sa à ce que, bien des années après avoir quitté cette petite ville, première raie blanche et rectificative, que la fenêtre avec ses j’avais appris, au sujet d’un amour que Swann avait eu avant rideaux quittait le cadre de la porte où je l’avais située par ma naissance, avec cette précision dans les détails plus facile erreur, tandis que pour lui faire place, le bureau que ma à obtenir quelquefois pour la vie de personnes mortes il y a mémoire avait maladroitement installé là se sauvait à toute des siècles que pour celle de nos meilleurs amis, et qui vitesse, poussant devant lui la cheminée et écartant le mur semble impossible comme semblait impossible de causer mitoyen du couloir; une courette régnait à l’endroit où il y a d’une ville à une autre – tant qu’on ignore le biais par lequel un instant encore s’étendait le cabinet de toilette, et la cette impossibilité a été tournée. Tous ces souvenirs ajoutés demeure que j’avais rebâtie dans les ténèbres était allée les uns aux autres ne formaient plus qu’une masse, mais non rejoindre les demeures entrevues dans le tourbillon du réveil, sans qu’on ne pût distinguer entre eux – entre les plus mise en fuite par ce pâle signe qu’avait tracé auHdessus des anciens, et ceux plus récents, nés d’un parfum, puis ceux qui rideaux le doigt levé du jour.
n’étaient que les souvenirs d’une autre personne de qui je les avais appris – sinon des fissures, des failles véritables, du moins ces veinures, ces bigarrures de coloration, qui, dans certaines roches, dans certains marbres, révèlent des différences d’origine, d’âge, de « formation ».
Certes quand approchait le matin, il y avait bien longtemps qu’était dissipée la brève incertitude de mon réveil. Je savais dans quelle chambre je me trouvais effectivement, je l’avais Marcel Proust –
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Pour faire partie du « petit noyau », du « petit groupe », du
« petit clan » des Verdurin, une condition était suffisante UN AMOUR DE SWANN
mais elle était nécessaire: il fallait adhérer tacitement à un Credo dont un des articles était que le jeune pianiste, protégé par Mme Verdurin cette annéeHlà et dont elle disait: « Ça ne devrait pas être permis de savoir jouer Wagner comme ça! »,
« enfonçait » à la fois Planté et Rubinstein et que le docteur Cottard avait plus de diagnostic que Potain. Toute « nouvelle recrue » à qui les Verdurin ne pouvaient pas persuader que les soirées des gens qui n’allaient pas chez eux étaient ennuyeuses comme la pluie, se voyait immédiatement exclue.
Les femmes étant à cet égard plus rebelles que les hommes à déposer toute curiosité mondaine et l’envie de se renseigner par soiHmême sur l’agrément des autres salons, et les Verdurin sentant d’autre part que cet esprit d’examen et ce démon de frivolité pouvaient par contagion devenir fatal à l’orthodoxie de la petite église, ils avaient été amenés à rejeter successivement tous les « fidèles » du sexe féminin.
En dehors de la jeune femme du docteur, ils étaient réduits presque uniquement cette annéeHlà (bien que Mme Verdurin fût elleHmême vertueuse et d’une respectable famille bourgeoise excessivement riche et entièrement obscure avec laquelle elle avait peu à peu cessé toute relation) à une personne presque du demiHmonde, Mme de Crécy, que Mme Verdurin appelait par son petit nom, Odette, et déclarait être
« un amour », et à la tante du pianiste, laquelle devait avoir tiré le cordon; personnes ignorantes du monde et à la naïveté Marcel Proust –
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Din Search OverTime de qui il avait été si facile de faire accroire que la princesse de garait comme de la peste et qu’on n’invitait qu’aux grandes Sagan et la duchesse de Guermantes étaient obligées de soirées, données le plus rarement possible et seulement si payer des malheureux pour avoir du monde à leurs dîners, cela pouvait amuser le peintre ou faire connaître le musicien.
que si on leur avait offert de les faire inviter chez ces deux Le reste du temps, on se contentait de jouer des charades, de grandes dames, l’ancienne concierge et la cocotte eussent souper en costumes, mais entre soi, en ne mêlant aucun dédaigneusement refusé.
étranger au petit « noyau ».
Les Verdurin n’invitaient pas à dîner: on avait chez eux «
Mais au fur et à mesure que les « camarades » avaient pris son couvert mis ». Pour la soirée, il n’y avait pas de plus de place dans la vie de Mme Verdurin, les ennuyeux, les programme. Le jeune pianiste jouait, mais seulement si « ça réprouvés, ce fut tout ce qui retenait les amis loin d’elle, ce lui chantait », car on ne forçait personne et comme disait M.
qui les empêchait quelquefois d’être libres, ce fut la mère de Verdurin: « Tout pour les amis, vivent les camarades! » Si le l’un, la profession de l’autre, la maison de campagne ou la pianiste voulait jouer la chevauchée de la Walkyrie ou le mauvaise santé d’un troisième. Si le docteur Cottard croyait prélude de Tristan, Mme Verdurin protestait, non que cette devoir partir en sortant de table pour retourner auprès d’un musique lui déplût, mais au contraire parce qu’elle lui causait malade en danger: « Qui sait, lui disait Mme Verdurin, cela trop d’impression. « Alors vous tenez à ce que j’aie ma lui fera peutHêtre beaucoup plus de bien que vous n’alliez pas migraine? Vous savez bien que c’est la même chose chaque le déranger ce soir; il passera une bonne nuit sans vous; fois qu’il joue ça. Je sais ce qui m’attend! Demain quand je demain matin vous irez de bonne heure et vous le trouverez voudrai me lever, bonsoir, plus personne! » S’il ne jouait pas, guéri. » Dès le commencement de décembre, elle était on causait, et l’un des amis, le plus souvent leur peintre malade à la pensée que les fidèles « lâcheraient » pour le jour favori d’alors, « lâchait », comme disait M. Verdurin, « une de Noël et le 1er janvier. La tante du pianiste exigeait qu’il grosse faribole qui faisait s’esclaffer tout le monde », Mme vînt dîner ce jourHlà en famille chez sa mère à elle: Verdurin surtout, à qui, – tant elle avait l’habitude de
– Vous croyez qu’elle en mourrait, votre mère, s’écria prendre au propre les expressions figurées des émotions durement Mme Verdurin, si vous ne dîniez pas avec elle le qu’elle éprouvait – le docteur Cottard (un jeune débutant à jour de l’an, comme en province!
cette époque) dut un jour remettre sa mâchoire qu’elle avait décrochée pour avoir trop ri.
Ses inquiétudes renaissaient à la semaine sainte: L’habit noir était défendu parce qu’on était entre « copains
– Vous, docteur, un savant, un esprit fort, vous venez
» et pour ne pas ressembler aux « ennuyeux » dont on se naturellement le Vendredi saint comme un autre jour? ditH
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Din Search OverTime elle à Cottard la première année, d’un ton assuré comme si la requête à sa femme. (Il n’avait jamais d’avis qu’après sa elle ne pouvait douter de la réponse. Mais elle tremblait en femme, dont son rôle particulier était de mettre à exécution attendant qu’il l’eût prononcée, car s’il n’était pas venu, elle les désirs, ainsi que les désirs des fidèles, avec de grandes risquait de se trouver seule.
ressources d’ingéniosité.)
– Je viendrai le Vendredi saint… vous faire mes adieux car
– Voici Mme de Crécy qui a quelque chose à te demander.
nous allons passer les fêtes de Pâques en Auvergne.
Elle désirerait te présenter un de ses amis, M. Swann. Qu’en disHtu?
– En Auvergne? pour vous faire manger par les puces et la vermine, grand bien vous fasse!
– Mais voyons, estHce qu’on peut refuser quelque chose à une petite perfection comme ça. TaisezHvous, on ne vous Et après un silence:
demande pas votre avis, je vous dis que vous êtes une
– Si vous nous l’aviez dit au moins, nous aurions tâché perfection.
d’organiser cela et de faire le voyage ensemble dans des
– Puisque vous le voulez, répondit Odette sur un ton de conditions confortables.
marivaudage, et elle ajouta: vous savez que je ne suis pas «
De même si un « fidèle » avait un ami, ou une « habituée »
fishing for compliments ».
un flirt qui serait capable de le faire « lâcher » quelquefois, les
– Eh bien! amenezHle votre ami, s’il est agréable.
Verdurin, qui ne s’effrayaient pas qu’une femme eût un amant pourvu qu’elle l’eût chez eux, l’aimât en eux, et ne le Certes le « petit noyau » n’avait aucun rapport avec la leur préférât pas, disaient: « Eh bien! amenezHle votre ami. »
société où fréquentait Swann, et de purs mondains auraient Et on l’engageait à l’essai, pour voir s’il était capable de ne trouvé que ce n’était pas la peine d’y occuper comme lui une pas avoir de secrets pour Mme Verdurin, s’il était susceptible situation exceptionnelle pour se faire présenter chez les d’être agrégé au « petit clan ». S’il ne l’était pas, on prenait à Verdurin. Mais Swann aimait tellement les femmes, qu’à part le fidèle qui l’avait présenté et on lui rendait le service de partir du jour où il avait connu à peu près toutes celles de le brouiller avec son ami ou avec sa maîtresse. Dans le cas l’aristocratie et où elles n’avaient plus rien eu à lui apprendre, contraire, le « nouveau » devenait à son tour un fidèle. Aussi il n’avait plus tenu à ces lettres de naturalisation, presque des quand cette annéeHlà, la demiHmondaine raconta à M.
titres de noblesse, que lui avait octroyées le faubourg SaintH
Verdurin qu’elle avait fait la connaissance d’un homme Germain, que comme à une sorte de valeur d’échange, de charmant, M. Swann, et insinua qu’il serait très heureux lettre de crédit dénuée de prix en elleHmême, mais lui d’être reçu chez eux, M. Verdurin transmitHil séance tenante permettant de s’improviser une situation dans tel petit trou Marcel Proust –
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Din Search OverTime de province ou tel milieu obscur de Paris, où la fille du fois qu’ils sont parvenus à s’y habituer, les divertissements hobereau ou du greffier lui avait semblé jolie. Car le désir ou médiocres ou les supportables ennuis qu’elle renferme.
l’amour lui rendait alors un sentiment de vanité dont il était Swann, lui, ne cherchait pas à trouver jolies les femmes avec maintenant exempt dans l’habitude de la vie (bien que ce fût qui il passait son temps, mais à passer son temps avec les lui sans doute qui autrefois l’avait dirigé vers cette carrière femmes qu’il avait d’abord trouvées jolies. Et c’était souvent mondaine où il avait gaspillé dans les plaisirs frivoles les des femmes de beauté assez vulgaire, car les qualités dons de son esprit et fait servir son érudition en matière d’art physiques qu’il recherchait sans s’en rendre compte étaient à conseiller les dames de la société dans leurs achats de en complète opposition avec celles qui lui rendaient tableaux et pour l’ameublement de leurs hôtels), et qui lui admirables les femmes sculptées ou peintes par les maîtres faisait désirer de briller, aux yeux d’une inconnue dont il qu’il préférait. La profondeur, la mélancolie de l’expression, s’était épris, d’une élégance que le nom de Swann à lui tout glaçaient ses sens que suffisait au contraire à éveiller une seul n’impliquait pas. Il le désirait surtout si l’inconnue était chair saine, plantureuse et rose.
d’humble condition. De même que ce n’est pas à un autre Si en voyage il rencontrait une famille qu’il eût été plus homme intelligent qu’un homme intelligent aura peur de élégant de ne pas chercher à connaître, mais dans laquelle paraître bête, ce n’est pas par un grand seigneur, c’est par un une femme se présentait à ses yeux parée d’un charme qu’il rustre qu’un homme élégant craindra de voir son élégance n’avait pas encore connu, rester dans son « quant à soi » et méconnue. Les trois quarts des frais d’esprit et des tromper le désir qu’elle avait fait naître, substituer un plaisir mensonges de vanité, qui ont été prodigués depuis que le différent au plaisir qu’il eût pu connaître avec elle, en monde existe par des gens qu’ils ne faisaient que diminuer, écrivant à une ancienne maîtresse de venir le rejoindre, lui l’ont été pour des inférieurs. Et Swann, qui était simple et eût semblé une aussi lâche abdication devant la vie, un aussi négligent avec une duchesse, tremblait d’être méprisé, posait, stupide renoncement à un bonheur nouveau, que si au lieu quand il était devant une femme de chambre.
de visiter le pays, il s’était confiné dans sa chambre en Il n’était pas comme tant de gens qui, par paresse, ou regardant des vues de Paris. Il ne s’enfermait pas dans sentiment résigné de l’obligation que crée la grandeur sociale l’édifice de ses relations, mais en avait fait, pour pouvoir le de rester attaché à un certain rivage, s’abstiennent des plaisirs reconstruire à pied d’œuvre sur de nouveaux frais partout où que la réalité leur présente en dehors de la position une femme lui avait plu, une de ces tentes démontables mondaine où ils vivent cantonnés jusqu’à leur mort, se comme les explorateurs en emportent avec eux. Pour ce qui contentant de finir par appeler plaisirs, faute de mieux, une n’en était pas transportable ou échangeable contre un plaisir Marcel Proust –
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Din Search OverTime nouveau, il l’eût donné pour rien, si enviable que cela parût à Ce n’était pas seulement d’ailleurs la brillante phalange de d’autres. Que de fois son crédit auprès d’une duchesse, fait vertueuses douairières, de généraux, d’académiciens, avec du désir accumulé depuis des années que celleHci avait eu de lesquels il était particulièrement lié, que Swann forçait avec lui être agréable sans en avoir trouvé l’occasion, il s’en était tant de cynisme à lui servir d’entremetteurs. Tous ses amis défait d’un seul coup en réclamant d’elle par une indiscrète avaient l’habitude de recevoir de temps en temps des lettres dépêche une recommandation télégraphique qui le mît en de lui où un mot de recommandation ou d’introduction leur relation sur l’heure avec un de ses intendants dont il avait était demandé avec une habileté diplomatique qui, persistant remarqué la fille à la campagne, comme ferait un affamé qui à travers les amours successives et les prétextes différents, troquerait un diamant contre un morceau de pain. Même accusait, plus que n’eussent fait les maladresses, un caractère après coup, il s’en amusait, car il y avait en lui, rachetée par permanent et des buts identiques. Je me suis souvent fait de rares délicatesses, une certaine muflerie. Puis, il raconter bien des années plus tard, quand je commençai à appartenait à cette catégorie d’hommes intelligents qui ont m’intéresser à son caractère à cause des ressemblances qu’en vécu dans l’oisiveté et qui cherchent une consolation et peutH
de tout autres parties il offrait avec le mien, que quand il être une excuse dans l’idée que cette oisiveté offre à leur écrivait à mon grandHpère (qui ne l’était pas encore, car c’est intelligence des objets aussi dignes d’intérêt que pourrait vers l’époque de ma naissance que commença la grande faire l’art ou l’étude, que la « Vie » contient des situations liaison de Swann et elle interrompit longtemps ces pratiques) plus intéressantes, plus romanesques que tous les romans. Il celuiHci, en reconnaissant sur l’enveloppe l’écriture de son l’assurait du moins et le persuadait aisément aux plus affinés ami, s’écriait: « Voilà Swann qui va demander quelque chose: de ses amis du monde, notamment au baron de Charlus qu’il à la garde! » Et soit méfiance, soit par le sentiment s’amusait à égayer par le récit des aventures piquantes qui lui inconsciemment diabolique qui nous pousse à n’offrir une arrivaient, soit qu’ayant rencontré en chemin de fer une chose qu’aux gens qui n’en ont pas envie, mes grandsH
femme qu’il avait ensuite ramenée chez lui, il eût découvert parents opposaient une fin de nonHrecevoir absolue aux qu’elle était la sœur d’un souverain entre les mains de qui se prières les plus faciles à satisfaire qu’il leur adressait, comme mêlaient en ce moment tous les fils de la politique de le présenter à une jeune fille qui dînait tous les dimanches européenne, au courant de laquelle il se trouvait ainsi tenu à la maison, et qu’ils étaient obligés, chaque fois que Swann d’une façon très agréable, soit que par le jeu complexe des leur en reparlait, de faire semblant de ne plus voir, alors que circonstances, il dépendît du choix qu’allait faire le conclave, pendant toute la semaine on se demandait qui on pourrait s’il pourrait ou non devenir l’amant d’une cuisinière.
bien inviter avec elle, finissant souvent par ne trouver Marcel Proust –
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Din Search OverTime personne, faute de faire signe à celui qui en eût été si à l’office elle trouva une lettre de lui qui traînait par mégarde heureux.
dans le livre de comptes de la cuisinière. Il y annonçait à cette femme qu’il allait quitter Paris, qu’il ne pourrait plus Quelquefois tel couple ami de mes grandsHparents et qui venir. Elle était sa maîtresse, et au moment de rompre, c’était jusqueHlà s’était plaint de ne jamais voir Swann leur elle seule qu’il avait jugé utile d’avertir.
annonçait avec satisfaction et peutHêtre un peu le désir d’exciter l’envie, qu’il était devenu tout ce qu’il y a de plus Quand sa maîtresse du moment était au contraire une charmant pour eux, qu’il ne les quittait plus. Mon grandHpère personne mondaine ou du moins une personne qu’une ne voulait pas troubler leur plaisir mais regardait ma extraction trop humble ou une situation trop irrégulière grand’mère en fredonnant:
n’empêchait pas qu’il fît recevoir dans le monde, alors pour elle il y retournait, mais seulement dans l’orbite particulier où
« Quel est donc ce mystère
elle se mouvait ou bien où il l’avait entraînée. « Inutile de Je n’y puis rien comprendre. »
compter sur Swann ce soir, disaitHon, vous savez bien que ou:
c’est le jour d’Opéra de son Américaine. » Il la faisait inviter dans les salons particulièrement fermés où il avait ses
« Vision fugitive… »
habitudes, ses dîners hebdomadaires, son poker; chaque soir, ou:
après qu’un léger crépelage ajouté à la brosse de ses cheveux roux avait tempéré de quelque douceur la vivacité de ses
« Dans ces affaires
yeux verts, il choisissait une fleur pour sa boutonnière et Le mieux est de ne rien voir. »
partait pour retrouver sa maîtresse à dîner chez l’une ou l’autre des femmes de sa coterie; et alors, pensant à Quelques mois après, si mon grandHpère demandait au l’admiration et à l’amitié que les gens à la mode, pour qui il nouvel ami de Swann: « Et Swann, le voyezHvous toujours faisait la pluie et le beau temps et qu’il allait retrouver là, lui beaucoup? » la figure de l’interlocuteur s’allongeait: « Ne prodigueraient devant la femme qu’il aimait, il retrouvait du prononcez jamais son nom devant moi! » – « Mais je croyais charme à cette vie mondaine sur laquelle il s’était blasé, mais que vous étiez si liés… » Il avait été ainsi pendant quelques dont la matière, pénétrée et colorée chaudement d’une mois le familier de cousins de ma grand’mère, dînant flamme insinuée qui s’y jouait, lui semblait précieuse et belle presque chaque jour chez eux. Brusquement il cessa de venir, depuis qu’il y avait incorporé un nouvel amour.
sans avoir prévenu. On le crut malade, et la cousine de ma grand’mère allait envoyer demander de ses nouvelles, quand Marcel Proust –
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Din Search OverTime Mais tandis que chacune de ces liaisons, ou chacun de ces pour lui qui l’était tant ». Et après qu’il l’eut laissée venir, en flirts, avait été la réalisation plus ou moins complète d’un le quittant, elle lui avait dit son regret d’être restée si peu rêve né de la vue d’un visage ou d’un corps que Swann avait, dans cette demeure où elle avait été heureuse de pénétrer, spontanément, sans s’y efforcer, trouvés charmants, en parlant de lui comme s’il avait été pour elle quelque chose de revanche, quand un jour au théâtre il fut présenté à Odette plus que les autres êtres qu’elle connaissait, et semblant de Crécy par un de ses amis d’autrefois, qui lui avait parlé établir entre leurs deux personnes une sorte de trait d’union d’elle comme d’une femme ravissante avec qui il pourrait romanesque qui l’avait fait sourire. Mais à l’âge déjà un peu peutHêtre arriver à quelque chose, mais en la lui donnant désabusé dont approchait Swann, et où l’on sait se contenter pour plus difficile qu’elle n’était en réalité afin de paraître luiH
d’être amoureux pour le plaisir de l’être sans trop exiger de même avoir fait quelque chose de plus aimable en la lui réciprocité, ce rapprochement des cœurs, s’il n’est plus faisant connaître, elle était apparue à Swann non pas certes comme dans la première jeunesse le but vers lequel tend sans beauté, mais d’un genre de beauté qui lui était nécessairement l’amour, lui reste uni en revanche par une indifférent, qui ne lui inspirait aucun désir, lui causait même association d’idées si forte, qu’il peut en devenir la cause, s’il une sorte de répulsion physique, de ces femmes comme tout se présente avant lui. Autrefois on rêvait de posséder le cœur le monde a les siennes, différentes pour chacun, et qui sont de la femme dont on était amoureux; plus tard sentir qu’on l’opposé du type que nos sens réclament. Pour lui plaire elle possède le cœur d’une femme peut suffire à vous en rendre avait un profil trop accusé, la peau trop fragile, les amoureux. Ainsi, à l’âge où il semblerait, comme on cherche pommettes trop saillantes, les traits trop tirés. Ses yeux surtout dans l’amour un plaisir subjectif, que la part du goût étaient beaux, mais si grands qu’ils fléchissaient sous leur pour la beauté d’une femme devrait y être la plus grande, propre masse, fatiguaient le reste de son visage et lui l’amour peut naître – l’amour le plus physique – sans qu’il y donnaient toujours l’air d’avoir mauvaise mine ou d’être de ait eu, à sa base, un désir préalable. À cette époque de la vie, mauvaise humeur. Quelque temps après cette présentation on a déjà été atteint plusieurs fois par l’amour; il n’évolue au théâtre, elle lui avait écrit pour lui demander à voir ses plus seul suivant ses propres lois inconnues et fatales, devant collections qui l’intéressaient tant, « elle, ignorante qui avait notre cœur étonné et passif. Nous venons à son aide, nous le le goût des jolies choses », disant qu’il lui semblait qu’elle le faussons par la mémoire, par la suggestion. En reconnaissant connaîtrait mieux, quand elle l’aurait vu dans « son home »
un de ses symptômes, nous nous rappelons, nous faisons où elle l’imaginait « si confortable avec son thé et ses livres », renaître les autres. Comme nous possédons sa chanson, quoiqu’elle ne lui eût pas caché sa surprise qu’il habitât ce gravée en nous tout entière, nous n’avons pas besoin qu’une quartier qui devait être si triste et « qui était si peu smart femme nous en dise le début – rempli par l’admiration Marcel Proust –
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Din Search OverTime qu’inspire la beauté – pour en trouver la suite. Et si elle consistance de leur étoffe, la ligne qui les conduisait aux commence au milieu – là où les cœurs se rapprochent, où nœuds, aux bouillons de dentelle, aux effilés de jais l’on parle de n’exister plus que l’un pour l’autre – nous avons perpendiculaires, ou qui les dirigeait le long du busc, mais ne assez l’habitude de cette musique pour rejoindre tout de s’attachaient nullement à l’être vivant, qui selon que suite notre partenaire au passage où elle nous attend.
l’architecture de ces fanfreluches se rapprochait ou s’écartait trop de la sienne, s’y trouvait engoncé ou perdu.
Odette de Crécy retourna voir Swann, puis rapprocha ses visites; et sans doute chacune d’elles renouvelait pour lui la Mais, quand Odette était partie, Swann souriait en pensant déception qu’il éprouvait à se retrouver devant ce visage qu’elle lui avait dit combien le temps lui durerait jusqu’à ce dont il avait un peu oublié les particularités dans l’intervalle, qu’il lui permît de revenir; il se rappelait l’air inquiet, timide, et qu’il ne s’était rappelé ni si expressif ni, malgré sa jeunesse, avec lequel elle l’avait une fois prié que ce ne fût pas dans si fané; il regrettait, pendant qu’elle causait avec lui, que la trop longtemps, et les regards qu’elle avait eus à ce momentH
grande beauté qu’elle avait ne fût pas du genre de celles qu’il là, fixés sur lui en une imploration craintive, et qui la aurait spontanément préférées. Il faut d’ailleurs dire que le faisaient touchante sous le bouquet de fleurs de pensées visage d’Odette paraissait plus maigre et plus proéminent artificielles fixé devant son chapeau rond de paille blanche, à parce que le front et le haut des joues, cette surface unie et brides de velours noir. « Et vous, avaitHelle dit, vous ne plus plane était recouverte par la masse de cheveux qu’on viendriez pas une fois chez moi prendre le thé? » Il avait portait, alors, prolongés en « devants », soulevés en « crêpés allégué des travaux en train, une étude – en réalité
», répandus en mèches folles le long des oreilles; et quant à abandonnée depuis des années – sur Ver Meer de Delft. « Je son corps qui était admirablement fait, il était difficile d’en comprends que je ne peux rien faire, moi chétive, à côté de apercevoir la continuité (à cause des modes de l’époque et grands savants comme vous autres, lui avaitHelle répondu. Je quoiqu’elle fût une des femmes de Paris qui s’habillaient le serais comme la grenouille devant l’aréopage. Et pourtant mieux), tant le corsage, s’avançant en saillie comme sur un j’aimerais tant m’instruire, savoir, être initiée. Comme cela ventre imaginaire et finissant brusquement en pointe doit être amusant de bouquiner, de fourrer son nez dans de pendant que par en dessous commençait à s’enfler le ballon vieux papiers », avaitHelle ajouté avec l’air de contentement des doubles jupes, donnait à la femme l’air d’être composée de soiHmême que prend une femme élégante pour affirmer de pièces différentes mal emmanchées les unes dans les que sa joie est de se livrer sans crainte de se salir à une autres; tant les ruchés, les volants, le gilet suivaient en toute besogne malpropre, comme de faire la cuisine en « mettant indépendance, selon la fantaisie de leur dessin ou la elleHmême les mains à la pâte ». « Vous allez vous moquer de Marcel Proust –
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Din Search OverTime moi, ce peintre qui vous empêche de me voir (elle voulait Et sans doute, en se rappelant ainsi leurs entretiens, en parler de Ver Meer), je n’avais jamais entendu parler de lui; pensant ainsi à elle quand il était seul, il faisait seulement vitHil encore? EstHce qu’on peut voir de ses œuvres à Paris, jouer son image entre beaucoup d’autres images de femmes pour que je puisse me représenter ce que vous aimez, dans des rêveries romanesques; mais si, grâce à une deviner un peu ce qu’il y a sous ce grand front qui travaille circonstance quelconque (ou même peutHêtre sans que ce fût tant, dans cette tête qu’on sent toujours en train de réfléchir, grâce à elle, la circonstance qui se présente au moment où un me dire: voilà, c’est à cela qu’il est en train de penser. Quel état, latent jusqueHlà, se déclare, pouvant n’avoir influé en rêve ce serait d’être mêlée à vos travaux! » Il s’était excusé rien sur lui) l’image d’Odette de Crécy venait à absorber sur sa peur des amitiés nouvelles, ce qu’il avait appelé, par toutes ces rêveries, si cellesHci n’étaient plus séparables de galanterie, sa peur d’être malheureux. « Vous avez peur d’une son souvenir, alors l’imperfection de son corps ne garderait affection? comme c’est drôle, moi qui ne cherche que cela, plus aucune importance, ni qu’il eût été, plus ou moins qu’un qui donnerais ma vie pour en trouver une, avaitHelle dit d’une autre corps, selon le goût de Swann, puisque devenu le corps voix si naturelle, si convaincue, qu’il en avait été remué.
de celle qu’il aimait, il serait désormais le seul qui fût capable Vous avez dû souffrir par une femme. Et vous croyez que de lui causer des joies et des tourments.
les autres sont comme elle. Elle n’a pas su vous comprendre; Mon grandHpère avait précisément connu, ce qu’on vous êtes un être si à part. C’est cela que j’ai aimé d’abord en n’aurait pu dire d’aucun de leurs amis actuels, la famille de vous, j’ai bien senti que vous n’étiez pas comme tout le ces Verdurin. Mais il avait perdu toute relation avec celui monde. » – « Et puis d’ailleurs vous aussi, lui avaitHil dit, je qu’il appelait le « jeune Verdurin » et qu’il considérait, un peu sais bien ce que c’est que les femmes, vous devez avoir des en gros, comme tombé – tout en gardant de nombreux tas d’occupations, être peu libre. »
millions – dans la bohème et la racaille. Un jour il reçut une
– « Moi, je n’ai jamais rien à faire! Je suis toujours libre, je lettre de Swann lui demandant s’il ne pourrait pas le mettre le serai toujours pour vous. À n’importe quelle heure du jour en rapport avec les Verdurin: « À la garde! à la garde! s’était ou de la nuit où il pourrait vous être commode de me voir, écrié mon grandHpère, ça ne m’étonne pas du tout, c’est bien faitesHmoi chercher, et je serai trop heureuse d’accourir. Le par là que devait finir Swann. Joli milieu! D’abord je ne peux ferezHvous? SavezHvous ce qui serait gentil, ce serait de vous pas faire ce qu’il me demande parce que je ne connais plus ce faire présenter à Mme Verdurin chez qui je vais tous les monsieur. Et puis ça doit cacher une histoire de femme, je soirs. CroyezHvous! si on s’y retrouvait et si je pensais que ne me mêle pas de ces affairesHlà. Ah bien! nous allons avoir c’est un peu pour moi que vous y êtes! »
de l’agrément si Swann s’affuble des petits Verdurin. »
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Din Search OverTime Et sur la réponse négative de mon grandHpère, c’est Odette C’est ainsi que, sur les conseils qu’une mère prévoyante lui qui avait amené elleHmême Swann chez les Verdurin.
avait donnés quand il avait quitté sa province, il ne laissait jamais passer soit une locution ou un nom propre qui lui Les Verdurin avaient eu à dîner, le jour où Swann y fit ses étaient inconnus sans tâcher de se faire documenter sur eux.
débuts, le docteur et Mme Cottard, le jeune pianiste et sa tante, et le peintre qui avait alors leur faveur, auxquels Pour les locutions, il était insatiable de renseignements, s’étaient joints dans la soirée quelques autres fidèles.
car, leur supposant parfois un sens plus précis qu’elles n’ont, il eût désiré savoir ce qu’on voulait dire exactement par celles Le docteur Cottard ne savait jamais d’une façon certaine qu’il entendait le plus souvent employer: la beauté du diable, de quel ton il devait répondre à quelqu’un, si son du sang bleu, une vie de bâtons de chaise, le quart d’heure de interlocuteur voulait rire ou était sérieux. Et à tout hasard il Rabelais, être le prince des élégances, donner carte blanche, ajoutait à toutes ses expressions de physionomie l’offre d’un être réduit à quia, etc., et dans quels cas déterminés il pouvait sourire conditionnel et provisoire dont la finesse expectante à son tour les faire figurer dans ses propos. À leur défaut il le disculperait du reproche de naïveté, si le propos qu’on lui plaçait des jeux de mots qu’il avait appris. Quant aux noms avait tenu se trouvait avoir été facétieux. Mais comme pour de personnes nouveaux qu’on prononçait devant lui, il se faire face à l’hypothèse opposée il n’osait pas laisser ce contentait seulement de les répéter sur un ton interrogatif sourire s’affirmer nettement sur son visage, on y voyait qu’il pensait suffisant pour lui valoir des explications qu’il flotter perpétuellement une incertitude où se lisait la n’aurait pas l’air de demander.
question qu’il n’osait pas poser: « DitesHvous cela pour de bon? » Il n’était pas plus assuré de la façon dont il devait se Comme le sens critique qu’il croyait exercer sur tout lui comporter dans la rue, et même en général dans la vie, que faisait complètement défaut, le raffinement de politesse qui dans un salon, et on le voyait opposer aux passants, aux consiste à affirmer à quelqu’un qu’on oblige, sans souhaiter voitures, aux événements un malicieux sourire qui ôtait d’en être cru, que c’est à lui qu’on a obligation, était peine d’avance à son attitude toute impropriété, puisqu’il prouvait, perdue avec lui, il prenait tout au pied de la lettre. Quel que si elle n’était pas de mise, qu’il le savait bien et que s’il avait fût l’aveuglement de Mme Verdurin à son égard, elle avait adopté celleHlà, c’était par plaisanterie.
fini, tout en continuant à le trouver très fin, par être agacée de voir que quand elle l’invitait dans une avantHscène à Sur tous les points cependant où une franche question lui entendre Sarah Bernhardt, lui disant, pour plus de grâce: «
semblait permise, le docteur ne se faisait pas faute de Vous êtes trop aimable d’être venu, docteur, d’autant plus s’efforcer de restreindre le champ de ses doutes et de que je suis sûre que vous avez déjà souvent entendu Sarah compléter son instruction.
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Din Search OverTime Bernhardt, et puis nous sommes peutHêtre trop près de la prenait toujours plus au dépourvu que quiconque cet scène », le docteur qui était entré dans la loge avec un sourire homme qui se croyait perpétuellement préparé à tout. Et qui attendait pour se préciser ou pour disparaître que voyant qu’on ne lui répondait pas: « Swann? Qui ça, Swann!
quelqu’un d’autorisé le renseignât sur la valeur du spectacle,
» hurlaHtHil au comble d’une anxiété qui se détendit soudain lui répondait: « En effet on est beaucoup trop près et on quand Mme Verdurin eut dit: « Mais l’ami dont Odette nous commence à être fatigué de Sarah Bernhardt. Mais vous avait parlé. » – « Ah! bon, bon, ça va bien », répondit le m’avez exprimé le désir que je vienne. Pour moi vos désirs docteur apaisé. Quant au peintre il se réjouissait de sont des ordres. Je suis trop heureux de vous rendre ce petit l’introduction de Swann chez Mme Verdurin, parce qu’il le service. Que ne feraitHon pas pour vous être agréable, vous supposait amoureux d’Odette et qu’il aimait à favoriser les êtes si bonne! » Et il ajoutait: « Sarah Bernhardt, c’est bien la liaisons. « Rien ne m’amuse comme de faire des mariages, Voix d’Or, n’estHce pas? On écrit souvent aussi qu’elle brûle confiaHtHil, dans l’oreille, au docteur Cottard, j’en ai déjà les planches. C’est une expression bizarre, n’estHce pas? »
réussi beaucoup, même entre femmes! »
dans l’espoir de commentaires qui ne venaient point.
En disant aux Verdurin que Swann était très « smart »,
« Tu sais, avait dit Mme Verdurin à son mari, je crois que Odette leur avait fait craindre un « ennuyeux ». Il leur fit au nous faisons fausse route quand par modestie nous contraire une excellente impression dont à leur insu sa déprécions ce que nous offrons au docteur. C’est un savant fréquentation dans la société élégante était une des causes qui vit en dehors de l’existence pratique, il ne connaît pas par indirectes. Il avait en effet sur les hommes même intelligents luiHmême la valeur des choses et il s’en rapporte à ce que qui ne sont jamais allés dans le monde une des supériorités nous lui en disons. » – « Je n’avais pas osé te le dire, mais je de ceux qui y ont un peu vécu, qui est de ne plus le l’avais remarqué », répondit M. Verdurin. Et au jour de l’an transfigurer par le désir ou par l’horreur qu’il inspire à suivant, au lieu d’envoyer au docteur Cottard un rubis de l’imagination, de le considérer comme sans aucune trois mille francs en lui disant que c’était bien peu de chose, importance. Leur amabilité, séparée de tout snobisme et de M. Verdurin acheta pour trois cents francs une pierre la peur de paraître trop aimable, devenue indépendante, a reconstituée en laissant entendre qu’on pouvait difficilement cette aisance, cette grâce des mouvements de ceux dont les en voir d’aussi belle.
membres assouplis exécutent exactement ce qu’ils veulent, sans participation indiscrète et maladroite du reste du corps.
Quand Mme Verdurin avait annoncé qu’on aurait, dans la La simple gymnastique élémentaire de l’homme du monde soirée, M. Swann: « Swann? » s’était écrié le docteur d’un tendant la main avec bonne grâce au jeune homme inconnu accent rendu brutal par la surprise, car la moindre nouvelle Marcel Proust –
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Din Search OverTime qu’on lui présente et s’inclinant avec réserve devant que je vous ai demandé c’est le portrait de son sourire. » Et l’ambassadeur à qui on le présente, avait fini par passer sans comme cette expression lui sembla remarquable elle la répéta qu’il en fût conscient dans toute l’attitude sociale de Swann, très haut pour être sûre que plusieurs invités l’eussent qui visHàHvis de gens d’un milieu inférieur au sien comme entendue, et même, sous un prétexte vague, en fit d’abord étaient les Verdurin et leurs amis, fit instinctivement montre rapprocher quelquesHuns. Swann demanda à faire la d’un empressement, se livra à des avances, dont, selon eux, connaissance de tout le monde, même d’un vieil ami des un ennuyeux se fût abstenu. Il n’eut un moment de froideur Verdurin, Saniette, à qui sa timidité, sa simplicité et son bon qu’avec le docteur Cottard: en le voyant lui cligner de l’œil et cœur avaient fait perdre partout la considération que lui lui sourire d’un air ambigu avant qu’ils se fussent encore avaient value sa science d’archiviste, sa grosse fortune, et la parlé (mimique que Cottard appelait « laisser venir »), Swann famille distinguée dont il sortait. Il avait dans la bouche, en crut que le docteur le connaissait sans doute pour s’être parlant, une bouillie qui était adorable parce qu’on sentait trouvé avec lui en quelque lieu de plaisir, bien que luiHmême qu’elle trahissait moins un défaut de la langue qu’une qualité y allât pourtant fort peu, n’ayant jamais vécu dans le monde de l’âme, comme un reste de l’innocence du premier âge qu’il de la noce. Trouvant l’allusion de mauvais goût, surtout en n’avait jamais perdue. Toutes les consonnes qu’il ne pouvait présence d’Odette qui pourrait en prendre une mauvaise idée prononcer figuraient comme autant de duretés dont il était de lui, il affecta un air glacial. Mais quand il apprit qu’une incapable. En demandant à être présenté à M. Saniette, dame qui se trouvait près de lui était Mme Cottard, il pensa Swann fit à Mme Verdurin l’effet de renverser les rôles (au qu’un mari aussi jeune n’aurait pas cherché à faire allusion point qu’en réponse, elle dit en insistant sur la différence: «
devant sa femme à des divertissements de ce genre; et il Monsieur Swann, voudriezHvous avoir la bonté de me cessa de donner à l’air entendu du docteur la signification permettre de vous présenter notre ami Saniette »), mais qu’il redoutait. Le peintre invita tout de suite Swann à venir excita chez Saniette une sympathie ardente que d’ailleurs les avec Odette à son atelier, Swann le trouva gentil. « PeutHêtre Verdurin ne révélèrent jamais à Swann, car Saniette les qu’on vous favorisera plus que moi, dit Mme Verdurin, sur agaçait un peu, et ils ne tenaient pas à lui faire des amis, mais un ton qui feignait d’être piqué, et qu’on vous montrera le en revanche Swann les toucha infiniment en croyant devoir portrait de Cottard (elle l’avait commandé au peintre).
demander tout de suite à faire la connaissance de la tante du Pensez bien, « monsieur » Biche, rappelaHtHelle au peintre, à pianiste. En robe noire comme toujours, parce qu’elle croyait qui c’était une plaisanterie consacrée de dire monsieur, à qu’en noir on est toujours bien et que c’est ce qu’il y a de rendre le joli regard, le petit côté fin, amusant, de l’œil. Vous plus distingué, elle avait le visage excessivement rouge savez que ce que je veux surtout avoir, c’est son sourire, ce comme chaque fois qu’elle venait de manger. Elle s’inclina Marcel Proust –
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Din Search OverTime devant Swann avec respect, mais se redressa avec majesté.
plus, ce mot se trouvait figurer par hasard dans ce qu’il Comme elle n’avait aucune instruction et avait peur de faire appelait un vieux cliché, si courant que ce mot fût d’ailleurs, des fautes de français, elle prononçait exprès d’une manière le docteur supposait que la phrase commencée était ridicule confuse, pensant que si elle lâchait un cuir il serait estompé et la terminait ironiquement par le lieu commun qu’il d’un tel vague qu’on ne pourrait le distinguer avec certitude, semblait accuser son interlocuteur d’avoir voulu placer, alors de sorte que sa conversation n’était qu’un graillonnement que celuiHci n’y avait jamais pensé.
indistinct duquel émergeaient de temps à autre les rares
– Un bonheur pour la France! s’écriaHtHil malicieusement vocables dont elle se sentait sûre. Swann crut pouvoir se en levant les bras avec emphase.
moquer légèrement d’elle en parlant à M. Verdurin, lequel au contraire fut piqué.
M. Verdurin ne put s’empêcher de rire.
« C’est une si excellente femme, réponditHil. Je vous
– Qu’estHce qu’ils ont à rire toutes ces bonnes gensHlà, on a accorde qu’elle n’est pas étourdissante; mais je vous assure l’air de ne pas engendrer la mélancolie dans votre petit coin qu’elle est agréable quand on cause seul avec elle. » – « Je làHbas, s’écria Mme Verdurin. Si vous croyez que je m’amuse, n’en doute pas, s’empressa de concéder Swann. Je voulais moi, à rester toute seule en pénitence, ajoutaHtHelle sur un ton dire qu’elle ne me semblait pas « éminente », ajoutaHtHil en dépité, en faisant l’enfant.
détachant cet adjectif, et en somme c’est plutôt un Mme Verdurin était assise sur un haut siège suédois en compliment! » – « Tenez, dit M. Verdurin, je vais vous sapin ciré, qu’un violoniste de ce pays lui avait donné et étonner, elle écrit d’une manière charmante. Vous n’avez qu’elle conservait, quoiqu’il rappelât la forme d’un escabeau jamais entendu son neveu? c’est admirable, n’estHce pas, et jurât avec les beaux meubles anciens qu’elle avait, mais elle docteur? VoulezHvous que je lui demande de jouer quelque tenait à garder en évidence les cadeaux que les fidèles avaient chose, Monsieur Swann? »
l’habitude de lui faire de temps en temps, afin que les
– Mais ce sera un bonheur…, commençait à répondre donateurs eussent le plaisir de les reconnaître quand ils Swann, quand le docteur l’interrompit d’un air moqueur. En venaient. Aussi tâchaitHelle de persuader qu’on s’en tînt aux effet, ayant retenu que dans la conversation l’emphase, fleurs et aux bonbons, qui du moins se détruisent; mais elle l’emploi de formes solennelles, était suranné, dès qu’il n’y réussissait pas et c’était chez elle une collection de entendait un mot grave dit sérieusement comme venait de chauffeHpieds, de coussins, de pendules, de paravents, de l’être le mot « bonheur », il croyait que celui qui l’avait baromètres, de potiches, dans une accumulation de redites et prononcé venait de se montrer prudhommesque. Et si, de un disparate d’étrennes.
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Din Search OverTime De ce poste élevé elle participait avec entrain à la
– Allons, voyons, ne l’ennuie pas, il n’est pas ici pour être conversation des fidèles et s’égayait de leurs « fumisteries », tourmenté, s’écria Mme Verdurin, je ne veux pas qu’on le mais depuis l’accident qui était arrivé à sa mâchoire, elle avait tourmente, moi!
renoncé à prendre la peine de pouffer effectivement et se
– Mais pourquoi veuxHtu que ça l’ennuie, dit M. Verdurin, livrait à la place à une mimique conventionnelle qui signifiait, M. Swann ne connaît peutHêtre pas la sonate en fa dièse que sans fatigue ni risques pour elle, qu’elle riait aux larmes. Au nous avons découverte; il va nous jouer l’arrangement pour moindre mot que lâchait un habitué contre un ennuyeux ou piano.
contre un ancien habitué rejeté au camp des ennuyeux – et pour le plus grand désespoir de M. Verdurin qui avait eu
– Ah! non, non, pas ma sonate! cria Mme Verdurin, je n’ai longtemps la prétention d’être aussi aimable que sa femme, pas envie à force de pleurer de me fiche un rhume de mais qui riant pour de bon s’essoufflait vite et avait été cerveau avec névralgies faciales, comme la dernière fois; distancé et vaincu par cette ruse d’une incessante et fictive merci du cadeau, je ne tiens pas à recommencer; vous êtes hilarité – elle poussait un petit cri, fermait entièrement ses bons vous autres, on voit bien que ce n’est pas vous qui yeux d’oiseau qu’une taie commençait à voiler, et garderez le lit huit jours!
brusquement, comme si elle n’eût eu que le temps de cacher Cette petite scène qui se renouvelait chaque fois que le un spectacle indécent ou de parer à un accès mortel, pianiste allait jouer enchantait les amis aussi bien que si elle plongeant sa figure dans ses mains qui la recouvraient et n’en avait été nouvelle, comme une preuve de la séduisante laissaient plus rien voir, elle avait l’air de s’efforcer de originalité de la « Patronne » et de sa sensibilité musicale.
réprimer, d’anéantir un rire qui, si elle s’y fût abandonnée, Ceux qui étaient près d’elle faisaient signe à ceux qui plus l’eût conduite à l’évanouissement. Telle, étourdie par la gaîté loin fumaient ou jouaient aux cartes, de se rapprocher, qu’il des fidèles, ivre de camaraderie, de médisance et se passait quelque chose, leur disant comme on fait au d’assentiment, Mme Verdurin, juchée sur son perchoir, Reichstag dans les moments intéressants: « Écoutez, écoutez.
pareille à un oiseau dont on eût trempé le colifichet dans du
» Et le lendemain on donnait des regrets à ceux qui n’avaient vin chaud, sanglotait d’amabilité.
pas pu venir en leur disant que la scène avait été encore plus Cependant, M. Verdurin, après avoir demandé à Swann la amusante que d’habitude.
permission d’allumer sa pipe (« ici on ne se gêne pas, on est
– Eh bien! voyons, c’est entendu, dit M. Verdurin, il ne entre camarades »), priait le jeune artiste de se mettre au jouera que l’andante.
piano.
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– Que l’andante, comme tu y vas! s’écria Mme Verdurin.
être puissant, qui, sans qu’ils aient aucune peine à prendre, C’est justement l’andante qui me casse bras et jambes. Il est d’un mot ou d’une pilule, les remettra sur pied.
vraiment superbe le Patron! C’est comme si dans la «
Odette était allée s’asseoir sur un canapé de tapisserie qui Neuvième » il disait: nous n’entendrons que le finale, ou était près du piano:
dans « les Maîtres » que l’ouverture.
– Vous savez, j’ai ma petite place, ditHelle à Mme Verdurin.
Le docteur, cependant, poussait Mme Verdurin à laisser jouer le pianiste, non pas qu’il crût feints les troubles que la CelleHci, voyant Swann sur une chaise, le fit lever: musique lui donnait – il y reconnaissait certains états
– Vous n’êtes pas bien là, allez donc vous mettre à côté neurasthéniques – mais par cette habitude qu’ont beaucoup d’Odette, n’estHce pas Odette, vous ferez bien une place à M.
de médecins de faire fléchir immédiatement la sévérité de Swann?
leurs prescriptions dès qu’est en jeu, chose qui leur semble beaucoup plus importante, quelque réunion mondaine dont
– Quel joli beauvais, dit avant de s’asseoir Swann qui ils font partie et dont la personne à qui ils conseillent cherchait à être aimable.
d’oublier pour une fois sa dyspepsie, ou sa grippe, est un des
– Ah! je suis contente que vous appréciiez mon canapé, facteurs essentiels.
répondit Mme Verdurin. Et je vous préviens que si vous
– Vous ne serez pas malade cette foisHci, vous verrez, ditHil voulez en voir d’aussi beau, vous pouvez y renoncer tout de en cherchant à la suggestionner du regard. Et si vous êtes suite. Jamais ils n’ont rien fait de pareil. Les petites chaises malade nous vous soignerons.
aussi sont des merveilles. Tout à l’heure vous regarderez cela. Chaque bronze correspond comme attribut au petit
– Bien vrai? répondit Mme Verdurin, comme si devant sujet du siège; vous savez, vous avez de quoi vous amuser si l’espérance d’une telle faveur il n’y avait plus qu’à capituler.
vous voulez regarder cela, je vous promets un bon moment.
PeutHêtre aussi, à force de dire qu’elle serait malade, y avaitHil Rien que les petites frises des bordures, tenez là, la petite des moments où elle ne se rappelait plus que c’était un vigne sur fond rouge de l’Ours et les Raisins. EstHce dessiné?
mensonge et prenait une âme de malade. Or ceuxHci, fatigués Qu’estHce que vous en dites, je crois qu’ils le savaient plutôt, d’être toujours obligés de faire dépendre de leur sagesse la dessiner! EstHelle assez appétissante cette vigne? Mon mari rareté de leurs accès, aiment se laisser aller à croire qu’ils prétend que je n’aime pas les fruits parce que j’en mange pourront faire impunément tout ce qui leur plaît et leur fait moins que lui. Mais non, je suis plus gourmande que vous mal d’habitude, à condition de se remettre en les mains d’un tous, mais je n’ai pas besoin de me les mettre dans la bouche Marcel Proust –
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Din Search OverTime puisque je jouis par les yeux. Qu’est ce que vous avez tous à Or quand le pianiste eut joué, Swann fut plus aimable rire? Demandez au docteur, il vous dira que ces raisinsHlà me encore avec lui qu’avec les autres personnes qui se trouvaient purgent. D’autres font des cures de Fontainebleau, moi je là. Voici pourquoi:
fais ma petite cure de Beauvais. Mais, monsieur Swann, vous L’année précédente, dans une soirée, il avait entendu une ne partirez pas sans avoir touché les petits bronzes des œuvre musicale exécutée au piano et au violon. D’abord, il dossiers. EstHce assez doux comme patine? Mais non, à n’avait goûté que la qualité matérielle des sons sécrétés par pleines mains, touchezHles bien.
les instruments. Et ç’avait déjà été un grand plaisir quand auH
– Ah! si madame Verdurin commence à peloter les dessous de la petite ligne du violon mince, résistante, dense bronzes, nous n’entendrons pas de musique ce soir, dit le et directrice, il avait vu tout d’un coup chercher à s’élever en peintre.
un clapotement liquide, la masse de la partie de piano, multiforme, indivise, plane et entrechoquée comme la mauve
– TaisezHvous, vous êtes un vilain. Au fond, ditHelle en se agitation des flots que charme et bémolise le clair de lune.
tournant vers Swann, on nous défend à nous autres femmes Mais à un moment donné, sans pouvoir nettement distinguer des choses moins voluptueuses que cela. Mais il n’y a pas un contour, donner un nom à ce qui lui plaisait, charmé tout une chair comparable à cela! Quand M. Verdurin me faisait d’un coup, il avait cherché à recueillir la phrase ou l’honneur d’être jaloux de moi – allons, sois poli au moins, l’harmonie – il ne savait luiHmême – qui passait et qui lui ne dis pas que tu ne l’as jamais été…
avait ouvert plus largement l’âme, comme certaines odeurs
– Mais je ne dis absolument rien. Voyons, docteur, je vous de roses circulant dans l’air humide du soir ont la propriété prends à témoin: estHce que j’ai dit quelque chose?
de dilater nos narines. PeutHêtre estHce parce qu’il ne savait Swann palpait les bronzes par politesse et n’osait pas pas la musique qu’il avait pu éprouver une impression aussi cesser tout de suite.
confuse, une de ces impressions qui sont peutHêtre pourtant les seules purement musicales, inétendues, entièrement
– Allons, vous les caresserez plus tard; maintenant c’est originales, irréductibles à tout autre ordre d’impressions. Une vous qu’on va caresser, qu’on va caresser dans l’oreille; vous impression de ce genre, pendant un instant, est pour ainsi aimez cela, je pense; voilà un petit jeune homme qui va s’en dire sine materia. Sans doute les notes que nous entendons charger.
alors, tendent déjà, selon leur hauteur et leur quantité, à couvrir devant nos yeux des surfaces de dimensions variées, à tracer des arabesques, à nous donner des sensations de Marcel Proust –
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Din Search OverTime largeur, de ténuité, de stabilité, de caprice. Mais les notes les lui faire connaître, et il avait éprouvé pour elle comme un sont évanouies avant que ces sensations soient assez formées amour inconnu.
en nous pour ne pas être submergées par celles qu’éveillent D’un rythme lent elle le dirigeait ici d’abord, puis là, puis déjà les notes suivantes ou même simultanées. Et cette ailleurs, vers un bonheur noble, inintelligible et précis. Et impression continuerait à envelopper de sa liquidité et de tout d’un coup, au point où elle était arrivée et d’où il se son « fondu » les motifs qui par instants en émergent, à peine préparait à la suivre, après une pause d’un instant, discernables, pour plonger aussitôt et disparaître, connus brusquement elle changeait de direction, et d’un mouvement seulement par le plaisir particulier qu’ils donnent, nouveau, plus rapide, menu, mélancolique, incessant et doux, impossibles à décrire, à se rappeler, à nommer, ineffables – si elle l’entraînait avec elle vers des perspectives inconnues.
la mémoire, comme un ouvrier qui travaille à établir des Puis elle disparut. Il souhaita passionnément la revoir une fondations durables au milieu des flots, en fabriquant pour troisième fois. Et elle reparut en effet mais sans lui parler nous des facHsimilés de ces phrases fugitives, ne nous plus clairement, en lui causant même une volupté moins permettait de les comparer à celles qui leur succèdent et de profonde. Mais rentré chez lui il eut besoin d’elle, il était les différencier. Ainsi à peine la sensation délicieuse que comme un homme dans la vie de qui une passante qu’il a Swann avait ressentie étaitHelle expirée, que sa mémoire lui aperçue un moment vient de faire entrer l’image d’une en avait fourni séance tenante une transcription sommaire et beauté nouvelle qui donne à sa propre sensibilité une valeur provisoire, mais sur laquelle il avait jeté les yeux tandis que le plus grande, sans qu’il sache seulement s’il pourra revoir morceau continuait, si bien que, quand la même impression jamais celle qu’il aime déjà et dont il ignore jusqu’au nom.
était tout d’un coup revenue, elle n’était déjà plus insaisissable. Il s’en représentait l’étendue, les groupements Même cet amour pour une phrase musicale sembla un symétriques, la graphie, la valeur expressive; il avait devant instant devoir amorcer chez Swann la possibilité d’une sorte lui cette chose qui n’est plus de la musique pure, qui est du de rajeunissement. Depuis si longtemps il avait renoncé à dessin, de l’architecture, de la pensée, et qui permet de se appliquer sa vie à un but idéal et la bornait à la poursuite de rappeler la musique. Cette fois il avait distingué nettement satisfactions quotidiennes, qu’il croyait, sans jamais se le dire une phrase s’élevant pendant quelques instants auHdessus des formellement, que cela ne changerait plus jusqu’à sa mort; ondes sonores. Elle lui avait proposé aussitôt des voluptés bien plus, ne se sentant plus d’idées élevées dans l’esprit, il particulières, dont il n’avait jamais eu l’idée avant de avait cessé de croire à leur réalité, sans pouvoir non plus la l’entendre, dont il sentait que rien autre qu’elle ne pourrait nier tout à fait. Aussi avaitHil pris l’habitude de se réfugier dans des pensées sans importance et qui lui permettaient de Marcel Proust –
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Din Search OverTime laisser de côté le fond des choses. De même qu’il ne se qu’il avait entendue, il n’avait pu se la procurer et avait fini demandait pas s’il n’eût pas mieux fait de ne pas aller dans le par l’oublier. Il avait bien rencontré dans la semaine quelques monde, mais en revanche savait avec certitude que s’il avait personnes qui se trouvaient comme lui à cette soirée et les accepté une invitation il devait s’y rendre, et que s’il ne faisait avait interrogées; mais plusieurs étaient arrivées après la pas de visite après il lui fallait laisser des cartes, de même musique ou parties avant; certaines pourtant étaient là dans sa conversation il s’efforçait de ne jamais exprimer avec pendant qu’on l’exécutait, mais étaient allées causer dans un cœur une opinion intime sur les choses, mais de fournir des autre salon, et d’autres restées à écouter n’avaient pas détails matériels qui valaient en quelque sorte par euxHmêmes entendu plus que les premières. Quant aux maîtres de et lui permettaient de ne pas donner sa mesure. Il était maison, ils savaient que c’était une œuvre nouvelle que les extrêmement précis pour une recette de cuisine, pour la date artistes qu’ils avaient engagés avaient demandé à jouer; ceuxH
de la naissance ou de la mort d’un peintre, pour la ci étant partis en tournée, Swann ne put pas en savoir nomenclature de ses œuvres. Parfois, malgré tout, il se davantage. Il avait bien des amis musiciens, mais tout en se laissait aller à émettre un jugement sur une œuvre, sur une rappelant le plaisir spécial et intraduisible que lui avait fait la manière de comprendre la vie, mais il donnait alors à ses phrase, en voyant devant ses yeux les formes qu’elle paroles un ton ironique comme s’il n’adhérait pas tout entier dessinait, il était pourtant incapable de la leur chanter. Puis il à ce qu’il disait. Or, comme certains valétudinaires chez qui, cessa d’y penser.
tout d’un coup, un pays où ils sont arrivés, un régime Or, quelques minutes à peine après que le petit pianiste différent, quelquefois une évolution organique, spontanée et avait commencé de jouer chez Mme Verdurin, tout d’un mystérieuse, semblent amener une telle régression de leur coup après une note longuement tendue pendant deux mal qu’ils commencent à envisager la possibilité inespérée de mesures, il vit approcher, s’échappant de sous cette sonorité commencer sur le tard une vie toute différente, Swann prolongée et tendue comme un rideau sonore pour cacher le trouvait en lui, dans le souvenir de la phrase qu’il avait mystère de son incubation, il reconnut, secrète, bruissante et entendue, dans certaines sonates qu’il s’était fait jouer, pour divisée, la phrase aérienne et odorante qu’il aimait. Et elle voir s’il ne l’y découvrirait pas, la présence d’une de ces était si particulière, elle avait un charme si individuel et réalités invisibles auxquelles il avait cessé de croire et qu’aucun autre n’aurait pu remplacer, que ce fut pour Swann auxquelles, comme si la musique avait eu sur la sécheresse comme s’il eût rencontré dans un salon ami une personne morale dont il souffrait une sorte d’influence élective, il se qu’il avait admirée dans la rue et désespérait de jamais sentait de nouveau le désir et presque la force de consacrer retrouver. À la fin, elle s’éloigna, indicatrice, diligente, parmi sa vie. Mais n’étant pas arrivé à savoir de qui était l’œuvre Marcel Proust –
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Din Search OverTime les ramifications de son parfum, laissant sur le visage de qu’avait pu signifier pour lui la petite phrase, c’est cela Swann le reflet de son sourire. Mais maintenant il pouvait surtout qu’il aurait voulu savoir.
demander le nom de son inconnue (on lui dit que c’était Mais tous ces gens qui faisaient profession d’admirer ce l’andante de la sonate pour piano et violon de Vinteuil,) il la musicien (quand Swann avait dit que sa sonate était vraiment tenait, il pourrait l’avoir chez lui aussi souvent qu’il voudrait, belle, Mme Verdurin s’était écriée: « Je vous crois un peu essayer d’apprendre son langage et son secret.
qu’elle est belle! Mais on n’avoue pas qu’on ne connaît pas la Aussi quand le pianiste eut fini, Swann s’approchaHtHil de sonate de Vinteuil, on n’a pas le droit de ne pas la connaître lui pour lui exprimer une reconnaissance dont la vivacité plut
», et le peintre avait ajouté: « Ah! c’est tout à fait une très beaucoup à Mme Verdurin.
grande machine, n’estHce pas? Ce n’est pas, si vous voulez, la chose « cher » et « public », n’estHce pas? mais c’est la très
– Quel charmeur, n’estHce pas, ditHelle à Swann; la grosse impression pour les artistes »), ces gens semblaient ne comprendHil assez, sa sonate, le petit misérable? Vous ne s’être jamais posé ces questions, car ils furent incapables d’y saviez pas que le piano pouvait atteindre à ça. C’est tout, répondre.
excepté du piano, ma parole! Chaque fois j’y suis reprise, je crois entendre un orchestre. C’est même plus beau que Même à une ou deux remarques particulières que fit l’orchestre, plus complet.
Swann sur sa phrase préférée:
Le jeune pianiste s’inclina, et, souriant, soulignant les mots
– Tiens, c’est amusant, je n’avais jamais fait attention; je comme s’il avait fait un trait d’esprit: vous dirai que je n’aime pas beaucoup chercher la petite bête et m’égarer dans des pointes d’aiguille; on ne perd pas son
– Vous êtes très indulgente pour moi, ditHil.
temps à couper les cheveux en quatre ici, ce n’est pas le Et tandis que Mme Verdurin disait à son mari: « Allons, genre de la maison, répondit Mme Verdurin, que le docteur donneHlui de l’orangeade, il l’a bien méritée », Swann Cottard regardait avec une admiration béate et un zèle racontait à Odette comment il avait été amoureux de cette studieux se jouer au milieu de ce flot d’expressions toutes petite phrase. Quand Mme Verdurin, ayant dit d’un peu loin: faites. D’ailleurs lui et Mme Cottard, avec une sorte de bon
« Eh bien! il me semble qu’on est en train de vous dire de sens comme en ont aussi certaines gens du peuple, se belles choses, Odette », elle répondit: « Oui, de très belles », gardaient bien de donner une opinion ou de feindre Swann trouva délicieuse sa simplicité. Cependant il l’admiration pour une musique qu’ils s’avouaient l’un à demandait des renseignements sur Vinteuil, sur son œuvre, l’autre, une fois rentrés chez eux, ne pas plus comprendre sur l’époque de sa vie où il avait composé cette sonate, sur ce que la peinture de « M. Biche ». Comme le public ne connaît Marcel Proust –
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Din Search OverTime du charme, de la grâce, des formes de la nature que ce qu’il une école de tendances très avancées, mais était entièrement en a puisé dans les poncifs d’un art lentement assimilé, et inconnue du grand public.
qu’un artiste original commence par rejeter ces poncifs, M.
– Je connais bien quelqu’un qui s’appelle Vinteuil, dit et Mme Cottard, image en cela du public, ne trouvaient ni Swann, en pensant au professeur de piano des sœurs de ma dans la sonate de Vinteuil, ni dans les portraits du peintre, ce grand’mère.
qui faisait pour eux l’harmonie de la musique et la beauté de la peinture. Il leur semblait quand le pianiste jouait la sonate
– C’est peutHêtre lui, s’écria Mme Verdurin.
qu’il accrochait au hasard sur le piano des notes que ne
– Oh! non, répondit Swann en riant. Si vous l’aviez vu reliaient pas en effet les formes auxquelles ils étaient deux minutes, vous ne vous poseriez pas la question.
habitués, et que le peintre jetait au hasard des couleurs sur ses toiles. Quand, dans cellesHci, ils pouvaient reconnaître
– Alors poser la question, c’est la résoudre? dit le docteur.
une forme, ils la trouvaient alourdie et vulgarisée (c’estHàHdire
– Mais ce pourrait être un parent, reprit Swann, cela serait dépourvue de l’élégance de l’école de peinture à travers assez triste, mais enfin un homme de génie peut être le laquelle ils voyaient, dans la rue même, les êtres vivants), et cousin d’une vieille bête. Si cela était, j’avoue qu’il n’y a pas sans vérité, comme si M. Biche n’eût pas su comment était de supplice que je ne m’imposerais pour que la vieille bête construite une épaule et que les femmes n’ont pas les me présentât à l’auteur de la sonate: d’abord le supplice de cheveux mauves.
fréquenter la vieille bête, et qui doit être affreux.
Pourtant les fidèles s’étant dispersés, le docteur sentit qu’il Le peintre savait que Vinteuil était à ce moment très y avait là une occasion propice et pendant que Mme malade et que le docteur Potain craignait de ne pouvoir le Verdurin disait un dernier mot sur la sonate de Vinteuil, sauver.
comme un nageur débutant qui se jette à l’eau pour
– Comment, s’écria Mme Verdurin, il y a encore des gens apprendre, mais choisit un moment où il n’y a pas trop de qui se font soigner par Potain!
monde pour le voir:
– Ah! madame Verdurin, dit Cottard, sur un ton de
– Alors, c’est ce qu’on appelle un musicien di primo marivaudage, vous oubliez que vous parlez d’un de mes cartello! s’écriaHtHil avec une brusque résolution.
confrères, je devrais dire un de mes maîtres.
Swann apprit seulement que l’apparition récente de la Le peintre avait entendu dire que Vinteuil était menacé sonate de Vinteuil avait produit une grande impression dans d’aliénation mentale. Et il assurait qu’on pouvait s’en Marcel Proust –
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Din Search OverTime apercevoir à certains passages de sa sonate. Swann ne trouva
– Vous savez que votre ami nous plaît beaucoup, dit Mme pas cette remarque absurde, mais elle le troubla; car une Verdurin à Odette au moment où celleHci lui souhaitait le œuvre de musique pure ne contenant aucun des rapports bonsoir. Il est simple, charmant; si vous n’avez jamais à nous logiques dont l’altération dans le langage dénonce la folie, la présenter que des amis comme cela, vous pouvez les amener.
folie reconnue dans une sonate lui paraissait quelque chose M. Verdurin fit remarquer que pourtant Swann n’avait pas d’aussi mystérieux que la folie d’une chienne, la folie d’un apprécié la tante du pianiste.
cheval, qui pourtant s’observent en effet.
– Il s’est senti un peu dépaysé, cet homme, répondit Mme
– LaissezHmoi donc tranquille avec vos maîtres, vous en Verdurin, tu ne voudrais pourtant pas que, la première fois, il savez dix fois autant que lui, répondit Mme Verdurin au ait déjà le ton de la maison comme Cottard qui fait partie de docteur Cottard, du ton d’une personne qui a le courage de notre petit clan depuis plusieurs années. La première fois ne ses opinions et tient bravement tête à ceux qui ne sont pas compte pas, c’était utile pour prendre langue. Odette, il est du même avis qu’elle. Vous ne tuez pas vos malades, vous au convenu qu’il viendra nous retrouver demain au Châtelet. Si moins!
vous alliez le prendre?
– Mais, madame, il est de l’Académie, répliqua le docteur
– Mais non, il ne veut pas.
d’un ton ironique. Si un malade préfère mourir de la main d’un des princes de la science… C’est beaucoup plus chic de
– Ah! enfin, comme vous voudrez. Pourvu qu’il n’aille pas pouvoir dire: « C’est Potain qui me soigne. »
lâcher au dernier moment!
– Ah! c’est plus chic? dit Mme Verdurin. Alors il y a du À la grande surprise de Mme Verdurin, il ne lâcha jamais.
chic dans les maladies, maintenant? je ne savais pas ça… Ce Il allait les rejoindre n’importe où, quelquefois dans les que vous m’amusez, s’écriaHtHelle tout à coup en plongeant sa restaurants de banlieue où on allait peu encore, car ce n’était figure dans ses mains. Et moi, bonne bête qui discutais pas la saison, plus souvent au théâtre, que Mme Verdurin sérieusement sans m’apercevoir que vous me faisiez monter aimait beaucoup; et comme un jour, chez elle, elle dit devant à l’arbre.
lui que pour les soirs de première, de gala, un coupefile leur eût été fort utile, que cela les avait beaucoup gênés de ne pas Quant à M. Verdurin, trouvant que c’était un peu fatigant en avoir le jour de l’enterrement de Gambetta, Swann qui ne de se mettre à rire pour si peu, il se contenta de tirer une parlait jamais de ses relations brillantes, mais seulement de bouffée de sa pipe en songeant avec tristesse qu’il ne pouvait celles mal cotées qu’il eût jugé peu délicat de cacher, et au plus rattraper sa femme sur le terrain de l’amabilité.
nombre desquelles il avait pris dans le faubourg SaintH
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Din Search OverTime Germain l’habitude de ranger les relations avec le monde
– Je le connais un peu, nous avons des amis communs (il officiel, répondit:
n’osa pas dire que c’était le prince de Galles), du reste il invite très facilement et je vous assure que ces déjeuners
– Je vous promets de m’en occuper, vous l’aurez à temps n’ont rien d’amusant, ils sont d’ailleurs très simples, on n’est pour la reprise des Danicheff, je déjeune justement demain jamais plus de huit à table, répondit Swann qui tâchait avec le Préfet de police à l’Élysée.
d’effacer ce que semblaient avoir de trop éclatant, aux yeux
– Comment ça, à l’Élysée? cria le docteur Cottard d’une de son interlocuteur, des relations avec le Président de la voix tonnante.
République.
– Oui, chez M. Grévy, répondit Swann, un peu gêné de Aussitôt Cottard, s’en rapportant aux paroles de Swann, l’effet que sa phrase avait produit.
adopta cette opinion, au sujet de la valeur d’une invitation Et le peintre dit au docteur en manière de plaisanterie: chez M. Grévy, que c’était chose fort peu recherchée et qui courait les rues. Dès lors, il ne s’étonna plus que Swann,
– Ça vous prend souvent?
aussi bien qu’un autre, fréquentât l’Élysée, et même il le Généralement, une fois l’explication donnée, Cottard plaignait un peu d’aller à des déjeuners que l’invité avouait disait: « Ah! bon, bon, ça va bien » et ne montrait plus trace luiHmême être ennuyeux.
d’émotion.
– Ah! bien, bien, ça va bien, ditHil sur le ton d’un douanier, Mais cette foisHci, les derniers mots de Swann, au lieu de méfiant tout à l’heure, mais qui, après vos explications, vous lui procurer l’apaisement habituel, portèrent au comble son donne son visa et vous laisse passer sans ouvrir vos malles.
étonnement qu’un homme avec qui il dînait, qui n’avait ni
– Ah! je vous crois qu’ils ne doivent pas être amusants ces fonctions officielles, ni illustration d’aucune sorte, frayât déjeuners, vous avez de la vertu d’y aller, dit Mme Verdurin, avec le Chef de l’État.
à qui le Président de la République apparaissait comme un
– Comment ça, M. Grévy? vous connaissez M. Grévy? ditH
ennuyeux particulièrement redoutable parce qu’il disposait il à Swann de l’air stupide et incrédule d’un municipal à qui de moyens de séduction et de contrainte qui, employés à un inconnu demande à voir le Président de la République et l’égard des fidèles, eussent été capables de les faire lâcher. Il qui, comprenant par ces mots « à qui il a affaire », comme paraît qu’il est sourd comme un pot et qu’il mange avec ses disent les journaux, assure au pauvre dément qu’il va être doigts.
reçu à l’instant et le dirige sur l’infirmerie spéciale du dépôt.
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– En effet, alors cela ne doit pas beaucoup vous amuser
– Et Mme Verdurin?
d’y aller, dit le docteur avec une nuance de commisération;
– Oh! ce serait bien simple. Je n’aurais qu’à dire que ma et, se rappelant le chiffre de huit convives: « SontHce des robe n’a pas été prête, que mon cab est venu en retard. Il y a déjeuners intimes? » demandaHtHil vivement avec un zèle de toujours moyen de s’arranger.
linguiste plus encore qu’une curiosité de badaud.
– Vous êtes gentille.
Mais le prestige qu’avait à ses yeux le Président de la République finit pourtant par triompher et de l’humilité de Mais Swann se disait que s’il montrait à Odette (en Swann et de la malveillance de Mme Verdurin, et à chaque consentant seulement à la retrouver après dîner), qu’il y avait dîner, Cottard demandait avec intérêt: « VerronsHnous ce soir des plaisirs qu’il préférait à celui d’être avec elle, le goût M. Swann? Il a des relations personnelles avec M. Grévy.
qu’elle ressentait pour lui ne connaîtrait pas de longtemps la C’est bien ce qu’on appelle un gentleman? » Il alla même satiété. Et, d’autre part, préférant infiniment à celle d’Odette jusqu’à lui offrir une carte d’invitation pour l’exposition la beauté d’une petite ouvrière fraîche et bouffie comme une dentaire.
rose et dont il était épris, il aimait mieux passer le commencement de la soirée avec elle, étant sûr de voir
– Vous serez admis avec les personnes qui seront avec Odette ensuite. C’est pour les mêmes raisons qu’il vous, mais on ne laisse pas entrer les chiens. Vous n’acceptait jamais qu’Odette vînt le chercher pour aller chez comprenez, je vous dis cela parce que j’ai eu des amis qui ne les Verdurin. La petite ouvrière l’attendait près de chez lui à le savaient pas et qui s’en sont mordu les doigts.
un coin de rue que son cocher Rémi connaissait, elle montait Quant à M. Verdurin, il remarqua le mauvais effet qu’avait à côté de Swann et restait dans ses bras jusqu’au moment où produit sur sa femme cette découverte que Swann avait des la voiture l’arrêtait devant chez les Verdurin. À son entrée, amitiés puissantes dont il n’avait jamais parlé.
tandis que Mme Verdurin montrant des roses qu’il avait envoyées le matin lui disait: « Je vous gronde » et lui indiquait Si l’on n’avait pas arrangé une partie au dehors, c’est chez une place à côté d’Odette, le pianiste jouait, pour eux deux, les Verdurin que Swann retrouvait le petit noyau, mais il ne la petite phrase de Vinteuil qui était comme l’air national de venait que le soir, et n’acceptait presque jamais à dîner leur amour. Il commençait par la tenue des trémolos de malgré les instances d’Odette.
violon que pendant quelques mesures on entend seuls,
– Je pourrais même dîner seule avec vous, si vous aimiez occupant tout le premier plan, puis tout d’un coup ils mieux cela, lui disaitHelle.
semblaient s’écarter et comme dans ces tableaux de Pieter de Hooch, qu’approfondit le cadre étroit d’une porte Marcel Proust –
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Din Search OverTime entr’ouverte, tout au loin, d’une couleur autre, dans le Souvent il se trouvait qu’il s’était tant attardé avec la jeune velouté d’une lumière interposée, la petite phrase ouvrière avant d’aller chez les Verdurin, qu’une fois la petite apparaissait, dansante, pastorale, intercalée, épisodique, phrase jouée par le pianiste, Swann s’apercevait qu’il était appartenant à un autre monde. Elle passait à plis simples et bientôt l’heure qu’Odette rentrât. Il la reconduisait jusqu’à la immortels, distribuant çà et là les dons de sa grâce, avec le porte de son petit hôtel, rue La Pérouse, derrière l’Arc de même ineffable sourire; mais Swann y croyait distinguer Triomphe. Et c’était peutHêtre à cause de cela, pour ne pas maintenant du désenchantement. Elle semblait connaître la lui demander toutes les faveurs, qu’il sacrifiait le plaisir vanité de ce bonheur dont elle montrait la voie. Dans sa moins nécessaire pour lui de la voir plus tôt, d’arriver chez grâce légère, elle avait quelque chose d’accompli, comme le les Verdurin avec elle, à l’exercice de ce droit qu’elle lui détachement qui succède au regret. Mais peu lui importait, il reconnaissait de partir ensemble et auquel il attachait plus de la considérait moins en elleHmême – en ce qu’elle pouvait prix, parce que, grâce à cela, il avait l’impression que exprimer pour un musicien qui ignorait l’existence et de lui personne ne la voyait, ne se mettait entre eux, ne l’empêchait et d’Odette quand il l’avait composée, et pour tous ceux qui d’être encore avec lui, après qu’il l’avait quittée.
l’entendraient dans des siècles – que comme un gage, un Ainsi revenaitHelle dans la voiture de Swann; un soir, souvenir de son amour qui, même pour les Verdurin ou pour comme elle venait d’en descendre et qu’il lui disait à demain, le petit pianiste, faisait penser à Odette en même temps qu’à elle cueillit précipitamment dans le petit jardin qui précédait lui, les unissait; c’était au point que, comme Odette, par la maison un dernier chrysanthème et le lui donna avant qu’il caprice, l’en avait prié, il avait renoncé à son projet de se fût reparti. Il le tint serré contre sa bouche pendant le retour, faire jouer par un artiste la sonate entière, dont il continua à et quand au bout de quelques jours la fleur fut fanée, il ne connaître que ce passage. « Qu’avezHvous besoin du reste?
l’enferma précieusement dans son secrétaire.
lui avaitHelle dit. C’est ça notre morceau. » Et même, souffrant de songer, au moment où elle passait si proche et Mais il n’entrait jamais chez elle. Deux fois seulement, pourtant à l’infini, que tandis qu’elle s’adressait à eux, elle ne dans l’aprèsHmidi, il était allé participer à cette opération les connaissait pas, il regrettait presque qu’elle eût une capitale pour elle, « prendre le thé ». L’isolement et le vide de signification, une beauté intrinsèque et fixe, étrangère à eux, ces courtes rues (faites presque toutes de petits hôtels comme en des bijoux donnés, ou même en des lettres écrites contigus, dont tout à coup venait rompre la monotonie par une femme aimée, nous en voulons à l’eau de la gemme quelque sinistre échoppe, témoignage historique et reste et aux mots du langage, de ne pas être faits uniquement de sordide du temps où ces quartiers étaient encore mal famés), l’essence d’une liaison passagère et d’un être particulier.
la neige qui était restée dans le jardin et aux arbres, le négligé Marcel Proust –
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Din Search OverTime de la saison, le voisinage de la nature, donnaient quelque avait dit: « Vous n’êtes pas confortable comme cela, chose de plus mystérieux à la chaleur, aux fleurs qu’il avait attendez, moi je vais bien vous arranger », et avec le petit rire trouvées en entrant.
vaniteux qu’elle aurait eu pour quelque invention particulière à elle, avait installé derrière la tête de Swann, sous ses pieds, Laissant à gauche, au rezHdeHchaussée surélevé, la chambre des coussins de soie japonaise qu’elle pétrissait comme si elle à coucher d’Odette qui donnait derrière sur une petite rue avait été prodigue de ces richesses et insoucieuse de leur parallèle, un escalier droit entre des murs peints de couleur valeur. Mais quand le valet de chambre était venu apporter sombre et d’où tombaient des étoffes orientales, des fils de successivement les nombreuses lampes qui, presque toutes chapelets turcs et une grande lanterne japonaise suspendue à enfermées dans des potiches chinoises, brûlaient isolées ou une cordelette de soie (mais qui, pour ne pas priver les par couples, toutes sur des meubles différents comme sur visiteurs des derniers conforts de la civilisation occidentale, des autels et qui dans le crépuscule déjà presque nocturne de s’éclairait au gaz) montait au salon et au petit salon. Ils cette fin d’aprèsHmidi d’hiver avaient fait reparaître un étaient précédés d’un étroit vestibule dont le mur quadrillé coucher de soleil plus durable, plus rose et plus humain –
d’un treillage de jardin, mais doré, était bordé dans toute sa faisant peutHêtre rêver dans la rue quelque amoureux arrêté longueur d’une caisse rectangulaire où fleurissaient comme devant le mystère de la présence que décelaient et cachaient dans une serre une rangée de ces gros chrysanthèmes encore à la fois les vitres rallumées – elle avait surveillé sévèrement rares à cette époque, mais bien éloignés cependant de ceux du coin de l’œil le domestique pour voir s’il les posait bien à que les horticulteurs réussirent plus tard à obtenir. Swann leur place consacrée. Elle pensait qu’en en mettant une seule était agacé par la mode qui depuis l’année dernière se portait là où il ne fallait pas, l’effet d’ensemble de son salon eût été sur eux, mais il avait eu plaisir, cette fois, à voir la pénombre détruit, et son portrait, placé sur un chevalet oblique drapé de la pièce zébrée de rose, d’oranger et de blanc par les de peluche, mal éclairé. Aussi suivaitHelle avec fièvre les rayons odorants de ces astres éphémères qui s’allument dans mouvements de cet homme grossier et le réprimandaHtHelle les jours gris. Odette l’avait reçu en robe de chambre de soie vivement parce qu’il avait passé trop près de deux jardinières rose, le cou et les bras nus. Elle l’avait fait asseoir près d’elle qu’elle se réservait de nettoyer elleHmême dans sa peur qu’on dans un des nombreux retraits mystérieux qui étaient ne les abîmât et qu’elle alla regarder de près pour voir s’il ne ménagés dans les enfoncements du salon, protégés par les avait pas écornées. Elle trouvait à tous ses bibelots d’immenses palmiers contenus dans des cacheHpot de Chine, chinois des formes « amusantes », et aussi aux orchidées, aux ou par des paravents auxquels étaient fixés des catleyas surtout, qui étaient, avec les chrysanthèmes, ses photographies, des nœuds de rubans et des éventails. Elle lui fleurs préférées, parce qu’ils avaient le grand mérite de ne Marcel Proust –
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Din Search OverTime pas ressembler à des fleurs, mais d’être en soie, en satin. «
pour rentrer chez lui s’habiller, pendant tout le trajet qu’il fit CelleHlà a l’air d’être découpée dans la doublure de mon dans son coupé, ne pouvant contenir la joie que cet aprèsH
manteau », ditHelle à Swann en lui montrant une orchidée, midi lui avait causée, il se répétait: « Ce serait bien agréable avec une nuance d’estime pour cette fleur si « chic », pour d’avoir ainsi une petite personne chez qui on pourrait cette sœur élégante et imprévue que la nature lui donnait, si trouver cette chose si rare, du bon thé. » Une heure après, il loin d’elle dans l’échelle des êtres et pourtant raffinée, plus reçut un mot d’Odette, et reconnut tout de suite cette grande digne que bien des femmes qu’elle lui fît une place dans son écriture dans laquelle une affectation de raideur britannique salon. En lui montrant tour à tour des chimères à langues de imposait une apparence de discipline à des caractères feu décorant une potiche ou brodées sur un écran, les informes qui eussent signifié peutHêtre pour des yeux moins corolles d’un bouquet d’orchidées, un dromadaire d’argent prévenus le désordre de la pensée, l’insuffisance de niellé aux yeux incrustés de rubis qui voisinait sur la l’éducation, le manque de franchise et de volonté. Swann cheminée avec un crapaud de jade, elle affectait tour à tour avait oublié son étui à cigarettes chez Odette. « Que n’y d’avoir peur de la méchanceté, ou de rire de la cocasserie des avezHvous oublié aussi votre cœur, je ne vous aurais pas monstres, de rougir de l’indécence des fleurs et d’éprouver laissé le reprendre. »
un irrésistible désir d’aller embrasser le dromadaire et le Une seconde visite qu’il lui fit eut plus d’importance peutH
crapaud qu’elle appelait: « chéris ». Et ces affectations être. En se rendant chez elle ce jourHlà comme chaque fois contrastaient avec la sincérité de certaines de ses dévotions, qu’il devait la voir, d’avance il se la représentait; et la notamment à NotreHDame du Laghet qui l’avait jadis, quand nécessité où il était pour trouver jolie sa figure de limiter aux elle habitait Nice, guérie d’une maladie mortelle, et dont elle seules pommettes roses et fraîches, les joues qu’elle avait si portait toujours sur elle une médaille d’or à laquelle elle souvent jaunes, languissantes, parfois piquées de petits attribuait un pouvoir sans limites. Odette fit à Swann « son »
points rouges, l’affligeait comme une preuve que l’idéal est thé, lui demanda: « Citron ou crème? » et comme il répondit inaccessible et le bonheur médiocre. Il lui apportait une
« crème », lui dit en riant: « Un nuage! » Et comme il le gravure qu’elle désirait voir. Elle était un peu souffrante; elle trouvait bon: « Vous voyez que je sais ce que vous aimez. »
le reçut en peignoir de crêpe de Chine mauve, ramenant sur Ce thé en effet avait paru à Swann quelque chose de sa poitrine, comme un manteau, une étoffe richement précieux comme à elleHmême, et l’amour a tellement besoin brodée. Debout à côté de lui, laissant couler le long de ses de se trouver une justification, une garantie de durée, dans joues ses cheveux qu’elle avait dénoués, fléchissant une des plaisirs qui au contraire sans lui n’en seraient pas et jambe dans une attitude légèrement dansante pour pouvoir finissent avec lui, que quand il l’avait quittée à sept heures Marcel Proust –
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Din Search OverTime se pencher sans fatigue vers la gravure qu’elle regardait, en caractéristiques individuelles lui causassent du plaisir en inclinant la tête, de ses grands yeux, si fatigués et maussades prenant une signification plus générale, dès qu’il les quand elle ne s’animait pas, elle frappa Swann par sa apercevait déracinées, délivrées, dans la ressemblance d’un ressemblance avec cette figure de Zéphora, la fille de Jéthro, portrait plus ancien avec un original qu’il ne représentait pas.
qu’on voit dans une fresque de la chapelle Sixtine. Swann Quoi qu’il en soit, et peutHêtre parce que la plénitude avait toujours eu ce goût particulier d’aimer à retrouver dans d’impressions qu’il avait depuis quelque temps, et bien la peinture des maîtres non pas seulement les caractères qu’elle lui fût venue plutôt avec l’amour de la musique, avait généraux de la réalité qui nous entoure, mais ce qui semble enrichi même son goût pour la peinture, le plaisir fut plus au contraire le moins susceptible de généralité, les traits profond et devait exercer sur Swann une influence durable individuels des visages que nous connaissons: ainsi, dans la qu’il trouva à ce momentHlà dans la ressemblance d’Odette matière d’un buste du doge Loredan par Antoine Rizzo, la avec la Zéphora de ce Sandro di Mariano auquel on ne saillie des pommettes, l’obliquité des sourcils, enfin la donne plus volontiers son surnom populaire de Botticelli ressemblance criante de son cocher Rémi; sous les couleurs depuis que celuiHci évoque au lieu de l’œuvre véritable du d’un Ghirlandajo, le nez de M. de Palancy; dans un portrait peintre l’idée banale et fausse qui s’en est vulgarisée. Il de Tintoret, l’envahissement du gras de la joue par n’estima plus le visage d’Odette selon la plus ou moins l’implantation des premiers poils des favoris, la cassure du bonne qualité de ses joues et d’après la douceur purement nez, la pénétration du regard, la congestion des paupières du carnée qu’il supposait devoir leur trouver en les touchant docteur du Boulbon. PeutHêtre ayant toujours gardé un avec ses lèvres si jamais il osait l’embrasser, mais comme un remords d’avoir borné sa vie aux relations mondaines, à la écheveau de lignes subtiles et belles que ses regards conversation, croyaitHil trouver une sorte d’indulgent pardon dévidèrent, poursuivant la courbe de leur enroulement, à lui accordé par les grands artistes, dans ce fait qu’ils avaient rejoignant la cadence de la nuque à l’effusion des cheveux et eux aussi considéré avec plaisir, fait entrer dans leur œuvre, à la flexion des paupières, comme en un portrait d’elle en de tels visages qui donnent à celleHci un singulier certificat de lequel son type devenait intelligible et clair.
réalité et de vie, une saveur moderne; peutHêtre aussi s’étaitHil Il la regardait; un fragment de la fresque apparaissait dans tellement laissé gagner par la frivolité des gens du monde son visage et dans son corps, que dès lors il chercha toujours qu’il éprouvait le besoin de trouver dans une œuvre ancienne à y retrouver, soit qu’il fût auprès d’Odette, soit qu’il pensât ces allusions anticipées et rajeunissantes à des noms propres seulement à elle, et bien qu’il ne tînt sans doute au chefH
d’aujourd’hui. PeutHêtre au contraire avaitHil gardé d’œuvre florentin que parce qu’il le retrouvait en elle, suffisamment une nature d’artiste pour que ces Marcel Proust –
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Din Search OverTime pourtant cette ressemblance lui conférait à elle aussi une inestimable, coulé pour une fois dans une matière différente beauté, la rendait plus précieuse. Swann se reprocha d’avoir et particulièrement savoureuse, en un exemplaire rarissime méconnu le prix d’un être qui eût paru adorable au grand qu’il contemplait tantôt avec l’humilité, la spiritualité et le Sandro, et il se félicita que le plaisir qu’il avait à voir Odette désintéressement d’un artiste, tantôt avec l’orgueil, l’égoïsme trouvât une justification dans sa propre culture esthétique. Il et la sensualité d’un collectionneur.
se dit qu’en associant la pensée d’Odette à ses rêves de Il plaça sur sa table de travail, comme une photographie bonheur, il ne s’était pas résigné à un pisHaller aussi imparfait d’Odette, une reproduction de la fille de Jéthro. Il admirait qu’il l’avait cru jusqu’ici, puisqu’elle contentait en lui ses les grands yeux, le délicat visage qui laissait deviner la peau goûts d’art les plus raffinés. Il oubliait qu’Odette n’était pas imparfaite, les boucles merveilleuses des cheveux le long des plus pour cela une femme selon son désir, puisque joues fatiguées, et adaptant ce qu’il trouvait beau jusqueHlà précisément son désir avait toujours été orienté dans un sens d’une façon esthétique à l’idée d’une femme vivante, il le opposé à ses goûts esthétiques. Le mot d’« œuvre florentine transformait en mérites physiques qu’il se félicitait de trouver
» rendit un grand service à Swann. Il lui permit, comme un réunis dans un être qu’il pourrait posséder. Cette vague titre, de faire pénétrer l’image d’Odette dans un monde de sympathie qui nous porte vers un chefHd’œuvre que nous rêves où elle n’avait pas eu accès jusqu’ici et où elle regardons, maintenant qu’il connaissait l’original charnel de s’imprégna de noblesse. Et tandis que la vue purement la fille de Jéthro, elle devenait un désir qui suppléa désormais charnelle qu’il avait eue de cette femme, en renouvelant à celui que le corps d’Odette ne lui avait pas d’abord inspiré.
perpétuellement ses doutes sur la qualité de son visage, de Quand il avait regardé longtemps ce Botticelli, il pensait à son corps, de toute sa beauté, affaiblissait son amour, ces son Botticelli à lui qu’il trouvait plus beau encore et, doutes furent détruits, cet amour assuré quand il eut à la approchant de lui la photographie de Zéphora, il croyait place pour base les données d’une esthétique certaine; sans serrer Odette contre son cœur.
compter que le baiser et la possession qui semblaient naturels et médiocres s’ils lui étaient accordés par une chair Et cependant ce n’était pas seulement la lassitude d’Odette abîmée, venant couronner l’adoration d’une pièce de musée, qu’il s’ingéniait à prévenir, c’était quelquefois aussi la sienne lui parurent devoir être surnaturels et délicieux.
propre; sentant que depuis qu’Odette avait toutes facilités pour le voir, elle semblait n’avoir pas grand’chose à lui dire; il Et quand il était tenté de regretter que depuis des mois il craignait que les façons un peu insignifiantes, monotones, et ne fît plus que voir Odette, il se disait qu’il était raisonnable comme définitivement fixées, qui étaient maintenant les de donner beaucoup de son temps à un chefHd’œuvre siennes quand ils étaient ensemble, ne finissent par tuer en Marcel Proust –
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Din Search OverTime lui cet espoir romanesque d’un jour où elle voudrait déclarer abatHjour translucide dont les autres feuillets ne sont que sa passion, qui seul l’avait rendu et gardé amoureux. Et pour clarté. Il cherchait à distinguer la silhouette d’Odette. Puis, renouveler un peu l’aspect moral, trop figé, d’Odette, et dont dès qu’il était arrivé, sans qu’il s’en rendit compte, ses yeux il avait peur de se fatiguer, il lui écrivait tout d’un coup une brillaient d’une telle joie que M. Verdurin disait au peintre: «
lettre pleine de déceptions feintes et de colères simulées qu’il Je crois que ça chauffe. » Et la présence d’Odette ajoutait en lui faisait porter avant le dîner. Il savait qu’elle allait être effet pour Swann à cette maison ce dont n’était pourvue effrayée, lui répondre, et il espérait que dans la contraction aucune de celles où il était reçu: une sorte d’appareil sensitif, que la peur de le perdre ferait subir à son âme, jailliraient des de réseau nerveux qui se ramifiait dans toutes les pièces et mots qu’elle ne lui avait encore jamais dits; et en effet – c’est apportait des excitations constantes à son cœur.
de cette façon qu’il avait obtenu les lettres les plus tendres Ainsi le simple fonctionnement de cet organisme social qu’elle lui eût encore écrites dont l’une, qu’elle lui avait fait qu’était le petit « clan » prenait automatiquement pour porter à midi de la « Maison Dorée » (c’était le jour de la fête Swann des rendezHvous quotidiens avec Odette et lui de ParisHMurcie donnée pour les inondés de Murcie), permettait de feindre une indifférence à la voir, ou même un commençait par ces mots: « Mon ami, ma main tremble si désir de ne plus la voir, qui ne lui faisait pas courir de grands fort que je peux à peine écrire », et qu’il avait gardée dans le risques, puisque, quoi qu’il lui eût écrit dans la journée, il la même tiroir que la fleur séchée du chrysanthème. Ou bien si verrait forcément le soir et la ramènerait chez elle.
elle n’avait pas eu le temps de lui écrire, quand il arriverait chez les Verdurin, elle irait vivement à lui et lui dirait: « J’ai à Mais une fois qu’ayant songé avec maussaderie à cet vous parler », et il contemplerait avec curiosité sur son visage inévitable retour ensemble, il avait emmené jusqu’au Bois sa et dans ses paroles ce qu’elle lui avait caché jusqueHlà de son jeune ouvrière pour retarder le moment d’aller chez les cœur.
Verdurin, il arriva chez eux si tard, qu’Odette, croyant qu’il ne viendrait plus, était partie. En voyant qu’elle n’était plus Rien qu’en approchant de chez les Verdurin, quand il dans le salon, Swann ressentit une souffrance au cœur; il apercevait, éclairées par des lampes, les grandes fenêtres tremblait d’être privé d’un plaisir qu’il mesurait pour la dont on ne fermait jamais les volets, il s’attendrissait en première fois, ayant eu jusqueHlà cette certitude de le trouver pensant à l’être charmant qu’il allait voir épanoui dans leur quand il le voulait, qui pour tous les plaisirs nous diminue ou lumière d’or. Parfois les ombres des invités se détachaient même nous empêche d’apercevoir aucunement leur minces et noires, en écran, devant les lampes, comme ces grandeur.
petites gravures qu’on intercale de place en place dans un Marcel Proust –
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Din Search OverTime
– AsHtu vu la tête qu’il a fait quand il s’est aperçu qu’elle qu’elle ne l’aime pas de cette manièreHlà, que c’est un être n’était pas là? dit M. Verdurin à sa femme, je crois qu’on idéal, qu’elle a peur de déflorer le sentiment qu’elle a pour peut dire qu’il est pincé!
lui, estHce que je sais, moi? Ce serait pourtant absolument ce qu’il lui faut.
– La tête qu’il a fait? demanda avec violence le docteur Cottard qui, étant allé un instant voir un malade, revenait
– Tu me permettras de ne pas être de ton avis, dit M.
chercher sa femme et ne savait pas de qui on parlait.
Verdurin, il ne me revient qu’à demi ce monsieur; je le trouve poseur.
– Comment, vous n’avez pas rencontré devant la porte le plus beau des Swann…
Mme Verdurin s’immobilisa, prit une expression inerte comme si elle était devenue une statue, fiction qui lui permit
– Non. M. Swann est venu?
d’être censée ne pas avoir entendu ce mot insupportable de
– Oh! un instant seulement. Nous avons eu un Swann très poseur qui avait l’air d’impliquer qu’on pouvait « poser »
agité, très nerveux. Vous comprenez, Odette était partie.
avec eux, donc qu’on était « plus qu’eux ».
– Vous voulez dire qu’elle est du dernier bien avec lui,
– Enfin, s’il n’y a rien, je ne pense pas que ce soit que ce qu’elle lui a fait voir l’heure du berger, dit le docteur, monsieur la croit vertueuse, dit ironiquement M. Verdurin.
expérimentant avec prudence le sens de ces expressions.
Et après tout, on ne peut rien dire, puisqu’il a l’air de la
– Mais non, il n’y a absolument rien, et entre nous, je croire intelligente. Je ne sais si tu as entendu ce qu’il lui trouve qu’elle a bien tort et qu’elle se conduit comme une débitait l’autre soir sur la sonate de Vinteuil; j’aime Odette de fameuse cruche, qu’elle est du reste.
tout mon cœur, mais pour lui faire des théories d’esthétique, il faut tout de même être un fameux jobard!
– Ta, ta, ta, dit M. Verdurin, qu’estHce que tu en sais qu’il n’y a rien! nous n’avons pas été y voir, n’estHce pas?
– Voyons, ne dites pas du mal d’Odette, dit Mme Verdurin en faisant l’enfant. Elle est charmante.
– À moi, elle me l’aurait dit, répliqua fièrement Mme Verdurin. Je vous dis qu’elle me raconte toutes ses petites
– Mais cela ne l’empêche pas d’être charmante; nous ne affaires! Comme elle n’a plus personne en ce moment, je lui disons pas du mal d’elle, nous disons que ce n’est pas une ai dit qu’elle devrait coucher avec lui. Elle prétend qu’elle ne vertu ni une intelligence. Au fond, ditHil au peintre, tenezH
peut pas, qu’elle a bien eu un fort béguin pour lui, mais qu’il vous tant que ça à ce qu’elle soit vertueuse? Elle serait peutH
est timide avec elle, que cela l’intimide à son tour, et puis être beaucoup moins charmante, qui sait?
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Din Search OverTime Sur le palier, Swann avait été rejoint par le maître d’hôtel ménagements comme avec un maître ou avec une maladie.
qui ne se trouvait pas là au moment où il était arrivé et avait Et pourtant depuis un moment qu’il sentait qu’une nouvelle été chargé par Odette de lui dire – mais il y avait bien une personne s’était ainsi ajoutée à lui, sa vie lui paraissait plus heure déjà – au cas où il viendrait encore, qu’elle irait intéressante. C’est à peine s’il se disait que cette rencontre probablement prendre du chocolat chez Prévost avant de possible chez Prévost (de laquelle l’attente saccageait, rentrer. Swann partit chez Prévost, mais à chaque pas sa dénudait à ce point les moments qui la précédaient qu’il ne voiture était arrêtée par d’autres ou par des gens qui trouvait plus une seule idée, un seul souvenir derrière lequel traversaient, odieux obstacles qu’il eût été heureux de il pût faire reposer son esprit), il était probable pourtant, si renverser si le procèsHverbal de l’agent ne l’eût retardé plus elle avait lieu, qu’elle serait comme les autres, fort peu de encore que le passage du piéton. Il comptait le temps qu’il chose. Comme chaque soir dès qu’il serait avec Odette, mettait, ajoutait quelques secondes à toutes les minutes pour jetant furtivement sur son changeant visage un regard être sûr de ne pas les avoir faites trop courtes, ce qui lui eût aussitôt détourné de peur qu’elle n’y vît l’avance d’un désir et laissé croire plus grande qu’elle n’était en réalité sa chance ne crût plus à son désintéressement, il cesserait de pouvoir d’arriver assez tôt et de trouver encore Odette. Et à un penser à elle, trop occupé à trouver des prétextes qui lui moment, comme un fiévreux qui vient de dormir et qui permissent de ne pas la quitter tout de suite et de s’assurer, prend conscience de l’absurdité des rêvasseries qu’il ruminait sans avoir l’air d’y tenir, qu’il la retrouverait le lendemain sans se distinguer nettement d’elles, Swann tout d’un coup chez les Verdurin: c’estHàHdire de prolonger pour l’instant et aperçut en lui l’étrangeté des pensées qu’il roulait depuis le de renouveler un jour de plus la déception et la torture que moment où on lui avait dit chez les Verdurin qu’Odette était lui apportait la vaine présence de cette femme qu’il déjà partie, la nouveauté de la douleur au cœur dont il approchait sans oser l’étreindre.
souffrait, mais qu’il constata seulement comme s’il venait de Elle n’était pas chez Prévost; il voulut chercher dans tous s’éveiller. Quoi? toute cette agitation parce qu’il ne verrait les restaurants des boulevards. Pour gagner du temps, Odette que demain, ce que précisément il avait souhaité, il y pendant qu’il visitait les uns, il envoya dans les autres son a une heure, en se rendant chez Mme Verdurin. Il fut bien cocher Rémi (le doge Loredan de Rizzo) qu’il alla attendre obligé de constater que dans cette même voiture qui ensuite – n’ayant rien trouvé luiHmême – à l’endroit qu’il lui l’emmenait chez Prévost il n’était plus le même, et qu’il avait désigné. La voiture ne revenait pas et Swann se n’était plus seul, qu’un être nouveau était là avec lui, représentait le moment qui approchait, à la fois comme celui adhérent, amalgamé à lui, duquel il ne pourrait peutHêtre pas où Rémi lui dirait: « cette dame est là », et comme celui où se débarrasser, avec qui il allait être obligé d’user de Marcel Proust –
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Din Search OverTime Rémi lui dirait: « cette dame n’était dans aucun des cafés. »
temps de rompre avec l’inquiétude et de se donner au Et ainsi il voyait la fin de la soirée devant lui, une et pourtant bonheur.
alternative, précédée soit par la rencontre d’Odette qui Mais le cocher revint lui dire qu’il ne l’avait trouvée nulle abolirait son angoisse, soit par le renoncement forcé à la part, et ajouta son avis, en vieux serviteur: trouver ce soir, par l’acceptation de rentrer chez lui sans l’avoir vue.
– Je crois que Monsieur n’a plus qu’à rentrer.
Le cocher revint, mais, au moment où il s’arrêta devant Mais l’indifférence que Swann jouait facilement quand Swann, celuiHci ne lui dit pas: « AvezHvous trouvé cette Rémi ne pouvait plus rien changer à la réponse qu’il dame? » mais: « FaitesHmoi donc penser demain à apportait tomba, quand il le vit essayer de le faire renoncer à commander du bois, je crois que la provision doit son espoir et à sa recherche:
commencer à s’épuiser. » PeutHêtre se disaitHil que si Rémi
– Mais pas du tout, s’écriaHtHil, il faut que nous trouvions avait trouvé Odette dans un café où elle l’attendait, la fin de cette dame; c’est de la plus haute importance. Elle serait la soirée néfaste était déjà anéantie par la réalisation extrêmement ennuyée, pour une affaire, et froissée, si elle ne commencée de la fin de soirée bienheureuse et qu’il n’avait m’avait pas vu.
pas besoin de se presser d’atteindre un bonheur capturé et en lieu sûr, qui ne s’échapperait plus. Mais aussi c’était par
– Je ne vois pas comment cette dame pourrait être force d’inertie; il avait dans l’âme le manque de souplesse froissée, répondit Rémi, puisque c’est elle qui est partie sans que certains êtres ont dans le corps, ceuxHlà qui au moment attendre Monsieur, qu’elle a dit qu’elle allait chez Prévost et d’éviter un choc, d’éloigner une flamme de leur habit, qu’elle n’y était pas.
d’accomplir un mouvement urgent, prennent leur temps, D’ailleurs on commençait à éteindre partout. Sous les commencent par rester une seconde dans la situation où ils arbres des boulevards, dans une obscurité mystérieuse, les étaient auparavant comme pour y trouver leur point d’appui, passants plus rares erraient, à peine reconnaissables. Parfois leur élan. Et sans doute si le cocher l’avait interrompu en lui l’ombre d’une femme qui s’approchait de lui, lui murmurant disant: « Cette dame est là », il eut répondu: « Ah! oui, c’est un mot à l’oreille, lui demandant de la ramener, fit tressaillir vrai, la course que je vous avais donnée, tiens je n’aurais pas Swann. Il frôlait anxieusement tous ces corps obscurs cru », et aurait continué à lui parler provision de bois pour comme si parmi les fantômes des morts, dans le royaume lui cacher l’émotion qu’il avait eue et se laisser à luiHmême le sombre, il eût cherché Eurydice.
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Din Search OverTime De tous les modes de production de l’amour, de tous les tard que n’ayant pas trouvé de place chez Prévost, elle était agents de dissémination du mal sacré, il est bien l’un des plus allée souper à la Maison Dorée dans un enfoncement où il efficaces, ce grand souffle d’agitation qui parfois passe sur ne l’avait pas découverte, et elle regagnait sa voiture.
nous. Alors l’être avec qui nous nous plaisons à ce momentH
Elle s’attendait si peu à le voir qu’elle eut un mouvement là, le sort en est jeté, c’est lui que nous aimerons. Il n’est d’effroi. Quant à lui, il avait couru Paris non parce qu’il même pas besoin qu’il nous plût jusqueHlà plus ou même croyait possible de la rejoindre, mais parce qu’il lui était trop autant que d’autres. Ce qu’il fallait, c’est que notre goût pour cruel d’y renoncer. Mais cette joie que sa raison n’avait cessé lui devînt exclusif. Et cette conditionHlà est réalisée quand –
d’estimer, pour ce soir, irréalisable, ne lui en paraissait à ce moment où il nous a fait défaut – à la recherche des maintenant que plus réelle; car, il n’y avait pas collaboré par plaisirs que son agrément nous donnait, s’est brusquement la prévision des vraisemblances, elle lui restait extérieure; il substitué en nous un besoin anxieux qui a pour objet cet être n’avait pas besoin de tirer de son esprit pour la lui fournir –
même, un besoin absurde que les lois de ce monde rendent c’est d’elleHmême qu’émanait, c’est elleHmême qui projetait impossible à satisfaire et difficile à guérir – le besoin insensé vers lui – cette vérité qui rayonnait au point de dissiper et douloureux de le posséder.
comme un songe l’isolement qu’il avait redouté, et sur Swann se fit conduire dans les derniers restaurants; c’est la laquelle il appuyait, il reposait, sans penser, sa rêverie seule hypothèse du bonheur qu’il avait envisagée avec calme; heureuse. Ainsi un voyageur arrivé par un beau temps au il ne cachait plus maintenant son agitation, le prix qu’il bord de la Méditerranée, incertain de l’existence des pays attachait à cette rencontre et il promit en cas de succès une qu’il vient de quitter, laisse éblouir sa vue, plutôt qu’il ne leur récompense à son cocher, comme si, en lui inspirant le désir jette des regards, par les rayons qu’émet vers lui l’azur de réussir qui viendrait s’ajouter à celui qu’il en avait luiH
lumineux et résistant des eaux.
même, il pouvait faire qu’Odette, au cas où elle fût déjà Il monta avec elle dans la voiture qu’elle avait et dit à la rentrée se coucher, se trouvât pourtant dans un restaurant du sienne de suivre.
boulevard. Il poussa jusqu’à la Maison Dorée, entra deux fois chez Tortoni et, sans l’avoir vue davantage, venait de Elle tenait à la main un bouquet de catleyas et Swann vit, ressortir du Café Anglais, marchant à grands pas, l’air sous sa fanchon de dentelle, qu’elle avait dans les cheveux hagard, pour rejoindre sa voiture qui l’attendait au coin du des fleurs de cette même orchidée attachées à une aigrette en boulevard des Italiens, quand il heurta une personne qui plumes de cygnes. Elle était habillée sous sa mantille, d’un venait en sens contraire: c’était Odette; elle lui expliqua plus flot de velours noir qui, par un rattrapé oblique, découvrait en un large triangle le bas d’une jupe de faille blanche et Marcel Proust –
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Din Search OverTime laissait voir un empiècement, également de faille blanche, à chatouille peutHêtre un peu? mais c’est que je ne voudrais pas l’ouverture du corsage décolleté, où étaient enfoncées toucher le velours de la robe pour ne pas le friper. Mais, d’autres fleurs de catleyas. Elle était à peine remise de la voyezHvous, il était vraiment nécessaire de les fixer, ils frayeur que Swann lui avait causée quand un obstacle fit faire seraient tombés; et comme cela, en les enfonçant un peu un écart au cheval. Ils furent vivement déplacés, elle avait moiHmême… Sérieusement, je ne vous suis pas désagréable?
jeté un cri et restait toute palpitante, sans respiration.
Et en les respirant pour voir s’ils n’ont vraiment pas d’odeur non plus? Je n’en ai jamais senti, je peux? dites la vérité?
– Ce n’est rien, lui ditHil, n’ayez pas peur.
Souriant, elle haussa légèrement les épaules, comme pour Et il la tenait par l’épaule, l’appuyant contre lui pour la dire « vous êtes fou, vous voyez bien que ça me plaît ».
maintenir; puis il lui dit:
Il élevait son autre main le long de la joue d’Odette; elle le
– Surtout, ne me parlez pas, ne me répondez que par regarda fixement, de l’air languissant et grave qu’ont les signes pour ne pas vous essouffler encore davantage. Cela ne femmes du maître florentin avec lesquelles il lui avait trouvé vous gêne pas que je remette droites les fleurs de votre de la ressemblance; amenés au bord des paupières, ses yeux corsage qui ont été déplacées par le choc. J’ai peur que vous brillants, larges et minces, comme les leurs, semblaient prêts ne les perdiez, je voudrais les enfoncer un peu.
à se détacher ainsi que deux larmes. Elle fléchissait le cou Elle, qui n’avait pas été habituée à voir les hommes faire comme on leur voit faire à toutes, dans les scènes païennes tant de façons avec elle, dit en souriant: comme dans les tableaux religieux. Et, en une attitude qui
– Non, pas du tout, ça ne me gêne pas.
sans doute lui était habituelle, qu’elle savait convenable à ces momentsHlà et qu’elle faisait attention à ne pas oublier de Mais lui, intimidé par sa réponse, peutHêtre aussi pour prendre, elle semblait avoir besoin de toute sa force pour avoir l’air d’avoir été sincère quand il avait pris ce prétexte, retenir son visage, comme si une force invisible l’eût attiré ou même, commençant déjà à croire qu’il l’avait été, s’écria: vers Swann. Et ce fut Swann, qui, avant qu’elle le laissât
– Oh! non, surtout, ne parlez pas, vous allez encore vous tomber, comme malgré elle, sur ses lèvres, le retint un essouffler, vous pouvez bien me répondre par gestes, je vous instant, à quelque distance, entre ses deux mains. Il avait comprendrai bien. Sincèrement je ne vous gêne pas? Voyez, voulu laisser à sa pensée le temps d’accourir, de reconnaître il y a un peu… je pense que c’est du pollen qui s’est répandu le rêve qu’elle avait si longtemps caressé et d’assister à sa sur vous; vous permettez que je l’essuie avec ma main? Je ne réalisation, comme une parente qu’on appelle pour prendre vais pas trop fort, je ne suis pas trop brutal? Je vous sa part du succès d’un enfant qu’elle a beaucoup aimé. PeutH
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Din Search OverTime être aussi Swann attachaitHil sur ce visage d’Odette non
– survécut dans leur langage, où elle le commémorait, à cet encore possédée, ni même encore embrassée par lui, qu’il usage oublié. Et peutHêtre cette manière particulière de dire «
voyait pour la dernière fois, ce regard avec lequel, un jour de faire l’amour » ne signifiaitHelle pas exactement la même départ, on voudrait emporter un paysage qu’on va quitter chose que ses synonymes. On a beau être blasé sur les pour toujours.
femmes, considérer la possession des plus différentes comme toujours la même et connue d’avance, elle devient au Mais il était si timide avec elle, qu’ayant fini par la posséder contraire un plaisir nouveau s’il s’agit de femmes assez ce soirHlà, en commençant par arranger ses catleyas, soit difficiles – ou crues telles par nous – pour que nous soyons crainte de la froisser, soit peur de paraître rétrospectivement obligés de la faire naître de quelque épisode imprévu de nos avoir menti, soit manque d’audace pour formuler une relations avec elles, comme avait été la première fois pour exigence plus grande que celleHlà (qu’il pouvait renouveler Swann l’arrangement des catleyas. Il espérait en tremblant, ce puisqu’elle n’avait pas fâché Odette la première fois), les soirHlà (mais Odette, se disaitHil, si elle était dupe de sa ruse, jours suivants il usa du même prétexte. Si elle avait des ne pouvait le deviner), que c’était la possession de cette catleyas à son corsage, il disait: « C’est malheureux, ce soir, femme qui allait sortir d’entre leurs larges pétales mauves; et les catleyas n’ont pas besoin d’être arrangés, ils n’ont pas été le plaisir qu’il éprouvait déjà et qu’Odette ne tolérait peutH
déplacés comme l’autre soir; il me semble pourtant que celuiH
être, pensaitHil, que parce qu’elle ne l’avait pas reconnu, lui ci n’est pas très droit. Je peux voir s’ils ne sentent pas plus semblait, à cause de cela – comme il put paraître au premier que les autres? » Ou bien, si elle n’en avait pas: « Oh! pas de homme qui le goûta parmi les fleurs du paradis terrestre – un catleyas ce soir, pas moyen de me livrer à mes petits plaisir qui n’avait pas existé jusqueHlà, qu’il cherchait à créer, arrangements. » De sorte que, pendant quelque temps, ne fut un plaisir – ainsi que le nom spécial qu’il lui donna en garda pas changé l’ordre qu’il avait suivi le premier soir, en la trace – entièrement particulier et nouveau.
débutant par des attouchements de doigts et de lèvres sur la gorge d’Odette, et que ce fut par eux encore que Maintenant, tous les soirs, quand il l’avait ramenée chez commençaient chaque fois ses caresses; et, bien plus tard elle, il fallait qu’il entrât et souvent elle ressortait en robe de quand l’arrangement (ou le simulacre d’arrangement) des chambre et le conduisait jusqu’à sa voiture, l’embrassait aux catleyas, fut depuis longtemps tombé en désuétude, la yeux du cocher, disant: « Qu’estHce que cela peut me faire, métaphore « faire catleya » devenue un simple vocable qu’ils que me font les autres? » Les soirs où il n’allait pas chez les employaient sans y penser quand ils voulaient signifier l’acte Verdurin (ce qui arrivait parfois depuis qu’il pouvait la voir de la possession physique – où d’ailleurs l’on ne possède rien autrement), les soirs de plus en plus rares où il allait dans le Marcel Proust –
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Din Search OverTime monde, elle lui demandait de venir chez elle avant de rentrer, ont une affaire amoureuse dans leur existence, et en qui le quelque heure qu’il fût. C’était le printemps, un printemps sacrifice qu’ils font de leur repos et de leurs intérêts à une pur et glacé. En sortant de soirée, il montait dans sa victoria, rêverie voluptueuse fait naître un charme intérieur. Puis sans étendait une couverture sur ses jambes, répondait aux amis qu’il s’en rendît compte, cette certitude qu’elle l’attendait, qui s’en allaient en même temps que lui et lui demandaient qu’elle n’était pas ailleurs avec d’autres, qu’il ne reviendrait de revenir avec eux qu’il ne pouvait pas, qu’il n’allait pas du pas sans l’avoir vue, neutralisait cette angoisse oubliée, mais même côté, et le cocher partait au grand trot sachant où on toujours prête à renaître, qu’il avait éprouvée le soir où allait. Eux s’étonnaient, et de fait, Swann n’était plus le Odette n’était plus chez les Verdurin, et dont l’apaisement même. On ne recevait plus jamais de lettre de lui où il actuel était si doux que cela pouvait s’appeler du bonheur.
demandât à connaître une femme. Il ne faisait plus attention PeutHêtre étaitHce à cette angoisse qu’il était redevable de à aucune, s’abstenait d’aller dans les endroits où on en l’importance qu’Odette avait prise pour lui. Les êtres nous rencontre. Dans un restaurant, à la campagne, il avait sont d’habitude si indifférents, que quand nous avons mis l’attitude inverse de celle à quoi, hier encore, on l’eût dans l’un d’eux de telles possibilités de souffrance et de joie, reconnu et qui avait semblé devoir toujours être la sienne.
pour nous il nous semble appartenir à un autre univers, il Tant une passion est en nous comme un caractère s’entoure de poésie, il fait de notre vie comme une étendue momentané et différent qui se substitue à l’autre et abolit les émouvante où il sera plus ou moins rapproché de nous.
signes jusqueHlà invariables par lesquels il s’exprimait! En Swann ne pouvait se demander sans trouble ce qu’Odette revanche ce qui était invariable maintenant, c’était que où deviendrait pour lui dans les années qui allaient venir.
que Swann se trouvât, il ne manquât pas d’aller rejoindre Parfois, en voyant, de sa victoria, dans ces belles nuits Odette. Le trajet qui le séparait d’elle était celui qu’il froides, la lune brillante qui répandait sa clarté entre ses yeux parcourait inévitablement et comme la pente même, et les rues désertes, il pensait à cette autre figure claire et irrésistible et rapide, de sa vie. À vrai dire, souvent resté tard légèrement rosée comme celle de la lune, qui, un jour, avait dans le monde, il aurait mieux aimé rentrer directement chez surgi dans sa pensée et, depuis projetait sur le monde la lui sans faire cette longue course et ne la voir que le lumière mystérieuse dans laquelle il le voyait. S’il arrivait lendemain; mais le fait même de se déranger à une heure après l’heure où Odette envoyait ses domestiques se anormale pour aller chez elle, de deviner que les amis qui le coucher, avant de sonner à la porte du petit jardin, il allait quittaient se disaient: « Il est très tenu, il y a certainement d’abord dans la rue, où donnait au rezHdeHchaussée, entre les une femme qui le force à aller chez elle à n’importe quelle fenêtres toutes pareilles, mais obscures, des hôtels contigus, heure », lui faisait sentir qu’il menait la vie des hommes qui la fenêtre, seule éclairée, de sa chambre. Il frappait au Marcel Proust –
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Din Search OverTime carreau, et elle, avertie, répondait et allait l’attendre de l’autre humaines et valables pour tous, elle les avait laissées vacantes côté, à la porte d’entrée. Il trouvait ouverts sur son piano et en blanc, et il était libre d’y inscrire le nom d’Odette. Puis quelquesHuns des morceaux qu’elle préférait: la Valse des à ce que l’affection d’Odette pouvait avoir d’un peu court et Roses ou Pauvre fou de Tagliafico (qu’on devait, selon sa décevant, la petite phrase venait ajouter, amalgamer son volonté écrite, faire exécuter à son enterrement), il lui essence mystérieuse. À voir le visage de Swann pendant qu’il demandait de jouer à la place la petite phrase de la sonate de écoutait la phrase, on aurait dit qu’il était en train d’absorber Vinteuil, bien qu’Odette jouât fort mal, mais la vision la plus un anesthésique qui donnait plus d’amplitude à sa belle qui nous reste d’une œuvre est souvent celle qui s’éleva, respiration. Et le plaisir que lui donnait la musique et qui auHdessus des sons faux tirés par des doigts malhabiles, d’un allait bientôt créer chez lui un véritable besoin, ressemblait piano désaccordé. La petite phrase continuait à s’associer en effet, à ces momentsHlà, au plaisir qu’il aurait eu à pour Swann à l’amour qu’il avait pour Odette. Il sentait bien expérimenter des parfums, à entrer en contact avec un que cet amour, c’était quelque chose qui ne correspondait à monde pour lequel nous ne sommes pas faits, qui nous rien d’extérieur, de constatable par d’autres que lui; il se semble sans forme parce que nos yeux ne le perçoivent pas, rendait compte que les qualités d’Odette ne justifiaient pas sans signification parce qu’il échappe à notre intelligence, qu’il attachât tant de prix aux moments passés auprès d’elle.
que nous n’atteignons que par un seul sens. Grand repos, Et souvent, quand c’était l’intelligence positive qui régnait mystérieuse rénovation pour Swann – pour lui dont les yeux, seule en Swann, il voulait cesser de sacrifier tant d’intérêts quoique délicats amateurs de peinture, dont l’esprit, quoique intellectuels et sociaux à ce plaisir imaginaire. Mais la petite fin observateur des mœurs portaient à jamais la trace phrase, dès qu’il l’entendait, savait rendre libre en lui l’espace indélébile de la sécheresse de sa vie – de se sentir transformé qui pour elle était nécessaire, les proportions de l’âme de en une créature étrangère à l’humanité, aveugle, dépourvue Swann s’en trouvaient changées; une marge y était réservée à de facultés logiques, presque une fantastique licorne, une une jouissance qui elle non plus ne correspondait à aucun créature chimérique ne percevant le monde que par l’ouïe. Et objet extérieur et qui pourtant, au lieu d’être purement comme dans la petite phrase il cherchait cependant un sens individuelle comme celle de l’amour, s’imposait à Swann où son intelligence ne pouvait descendre, quelle étrange comme une réalité supérieure aux choses concrètes. Cette ivresse il avait à dépouiller son âme la plus intérieure de tous soif d’un charme inconnu, la petite phrase l’éveillait en lui, les secours du raisonnement et à la faire passer seule dans le mais ne lui apportait rien de précis pour l’assouvir. De sorte couloir, dans le filtre obscur du son. Il commençait à se que ces parties de l’âme de Swann où la petite phrase avait rendre compte de tout ce qu’il y avait de douloureux, peutH
effacé le souci des intérêts matériels, les considérations être même de secrètement inapaisé au fond de la douceur de Marcel Proust –
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Din Search OverTime cette phrase, mais il ne pouvait pas en souffrir. Qu’importait dans son souvenir quelque particularité de son odeur ou de qu’elle lui dît que l’amour est fragile, le sien était si fort! Il ses traits, il revenait dans sa victoria, bénissant Odette de lui jouait avec la tristesse qu’elle répandait, il la sentait passer sur permettre ces visites quotidiennes, dont il sentait qu’elles ne lui, mais comme une caresse qui rendait plus profond et plus devaient pas lui causer à elle une bien grande joie, mais qui doux le sentiment qu’il avait de son bonheur. Il la faisait en le préservant de devenir jaloux – en lui ôtant l’occasion de rejouer dix fois, vingt fois à Odette, exigeant qu’en même souffrir de nouveau du mal qui s’était déclaré en lui le soir où temps elle ne cessât pas de l’embrasser. Chaque baiser il ne l’avait pas trouvée chez les Verdurin – l’aideraient à appelle un autre baiser. Ah! dans ces premiers temps où l’on arriver, sans avoir plus d’autres de ces crises dont la première aime, les baisers naissent si naturellement! Ils foisonnent si avait été si douloureuse et resterait la seule, au bout de ces pressés les uns contre les autres; et l’on aurait autant de heures singulières de sa vie, heures presque enchantées, à la peine à compter les baisers qu’on s’est donnés pendant une façon de celles où il traversait Paris au clair de lune. Et, heure que les fleurs d’un champ au mois de mai. Alors elle remarquant, pendant ce retour, que l’astre était maintenant faisait mine de s’arrêter, disant: « Comment veuxHtu que je déplacé par rapport à lui, et presque au bout de l’horizon, joue comme cela si tu me tiens? je ne peux tout faire à la sentant que son amour obéissait, lui aussi, à des lois fois; sache au moins ce que tu veux; estHce que je dois jouer immuables et naturelles, il se demandait si cette période où il la phrase ou faire des petites caresses? »; lui se fâchait et elle était entré durerait encore longtemps, si bientôt sa pensée ne éclatait d’un rire qui se changeait et retombait sur lui, en une verrait plus le cher visage qu’occupant une position lointaine pluie de baisers. Ou bien elle le regardait d’un air maussade, et diminuée, et près de cesser de répandre du charme. Car il revoyait un visage digne de figurer dans la Vie de Moïse de Swann en trouvait aux choses, depuis qu’il était amoureux, Botticelli, il l’y situait, il donnait au cou d’Odette l’inclinaison comme au temps où, adolescent, il se croyait artiste; mais ce nécessaire; et quand il l’avait bien peinte à la détrempe, au n’était plus le même charme; celuiHci, c’est Odette seule qui XVe siècle, sur la muraille de la Sixtine, l’idée qu’elle était le leur conférait. Il sentait renaître en lui les inspirations de sa cependant restée là, près du piano, dans le moment actuel, jeunesse qu’une vie frivole avait dissipées, mais elles prête à être embrassée et possédée, l’idée de sa matérialité et portaient toutes le reflet, la marque d’un être particulier; et, de sa vie venait l’enivrer avec une telle force que, l’œil égaré, dans les longues heures qu’il prenait maintenant un plaisir les mâchoires tendues comme pour dévorer, il se précipitait délicat à passer chez lui, seul avec son âme en convalescence, sur cette vierge de Botticelli et se mettait à lui pincer les il redevenait peu à peu luiHmême, mais à une autre.
joues. Puis, une fois qu’il l’avait quittée, non sans être rentré pour l’embrasser encore parce qu’il avait oublié d’emporter Marcel Proust –
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Din Search OverTime Il n’allait chez elle que le soir, et il ne savait rien de Certains jours pourtant, mais rares, elle venait chez lui l’emploi de son temps pendant le jour, pas plus que de son dans l’aprèsHmidi, interrompre sa rêverie ou cette étude sur passé, au point qu’il lui manquait même ce petit Ver Meer à laquelle il s’était remis dernièrement. On venait renseignement initial qui, en nous permettant de nous lui dire que Mme de Crécy était dans son petit salon. Il allait imaginer ce que nous ne savons pas, nous donne envie de le l’y retrouver, et quand il ouvrait la porte, au visage rosé connaître. Aussi ne se demandaitHil pas ce qu’elle pouvait d’Odette, dès qu’elle avait aperçu Swann, venait – changeant faire, ni quelle avait été sa vie. Il souriait seulement la forme de sa bouche, le regard de ses yeux, le modelé de quelquefois en pensant qu’il y a quelques années, quand il ne ses joues – se mélanger un sourire. Une fois seul, il revoyait la connaissait pas, on lui avait parlé d’une femme qui, s’il se ce sourire, celui qu’elle avait eu la veille, un autre dont elle rappelait bien, devait certainement être elle, comme d’une l’avait accueilli telle ou telle fois, celui qui avait été sa fille, d’une femme entretenue, une de ces femmes auxquelles réponse, en voiture, quand il lui avait demandé s’il lui était il attribuait encore, comme il avait peu vécu dans leur désagréable en redressant les catleyas; et la vie d’Odette société, le caractère entier, foncièrement pervers, dont les pendant le reste du temps, comme il n’en connaissait rien, lui dota longtemps l’imagination de certains romanciers. Il se apparaissait avec son fond neutre et sans couleur, semblable disait qu’il n’y a souvent qu’à prendre le contreHpied des à ces feuilles d’études de Watteau, où on voit çà et là, à réputations que fait le monde pour juger exactement une toutes les places, dans tous les sens, dessinés aux trois personne quand à un tel caractère il opposait celui d’Odette, crayons sur le papier chamois, d’innombrables sourires.
bonne, naïve, éprise d’idéal, presque si incapable de ne pas Mais, parfois, dans un coin de cette vie que Swann voyait dire la vérité, que l’ayant un jour priée, pour pouvoir dîner toute vide, si même son esprit lui disait qu’elle ne l’était pas, seul avec elle, d’écrire aux Verdurin qu’elle était souffrante, parce qu’il ne pouvait pas l’imaginer, quelque ami, qui, se le lendemain, il l’avait vue, devant Mme Verdurin qui lui doutant qu’ils s’aimaient, ne se fût pas risqué à lui rien dire demandait si elle allait mieux, rougir, balbutier et refléter d’elle que d’insignifiant, lui décrivait la silhouette d’Odette, malgré elle, sur son visage, le chagrin, le supplice que cela lui qu’il avait aperçue, le matin même, montant à pied la rue était de mentir, et, tandis qu’elle multipliait dans sa réponse Abbatucci dans une « visite » garnie de skunks, sous un les détails inventés sur sa prétendue indisposition de la veille, chapeau « à la Rembrandt » et un bouquet de violettes à son avoir l’air de faire demander pardon par ses regards corsage. Ce simple croquis bouleversait Swann parce qu’il lui suppliants et sa voix désolée de la fausseté de ses paroles.
faisait tout d’un coup apercevoir qu’Odette avait une vie qui n’était pas tout entière à lui; il voulait savoir à qui elle avait cherché à plaire par cette toilette qu’il ne lui connaissait pas; Marcel Proust –
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Din Search OverTime il se promettait de lui demander où elle allait, à ce momentH
d’écouter, disant: « Oui… je ne me figurais pas que c’était là, comme si dans toute la vie incolore – presque inexistante, comme cela. » Et il sentait qu’elle éprouvait une telle parce qu’elle lui était invisible – de sa maîtresse, il n’y avait déception qu’il préférait mentir en lui disant que tout cela qu’une seule chose en dehors de tous ces sourires adressés à n’était rien, que ce n’était encore que des bagatelles, qu’il lui: sa démarche sous un chapeau à la Rembrandt, avec un n’avait pas le temps d’aborder le fond, qu’il y avait autre bouquet de violettes au corsage.
chose. Mais elle lui disait vivement: « Autre chose? quoi?…
DisHle alors », mais il ne le disait pas, sachant combien cela Sauf en lui demandant la petite phrase de Vinteuil au lieu lui paraîtrait mince et différent de ce qu’elle espérait, moins de la Valse des Roses, Swann ne cherchait pas à lui faire sensationnel et moins touchant, et craignant que, jouer plutôt des choses qu’il aimât, et pas plus en musique désillusionnée de l’art, elle ne le fût en même temps de qu’en littérature, à corriger son mauvais goût. Il se rendait l’amour.
bien compte qu’elle n’était pas intelligente. En lui disant qu’elle aimerait tant qu’il lui parlât des grands poètes, elle Et en effet, elle trouvait Swann, intellectuellement, s’était imaginé qu’elle allait connaître tout de suite des inférieur à ce qu’elle aurait cru. « Tu gardes toujours ton couplets héroïques et romanesques dans le genre de ceux du sangHfroid, je ne peux te définir. » Elle s’émerveillait vicomte de Borelli, en plus émouvant encore. Pour Ver Meer davantage de son indifférence à l’argent, de sa gentillesse de Delft, elle lui demanda s’il avait souffert par une femme, pour chacun, de sa délicatesse. Et il arrive en effet souvent si c’était une femme qui l’avait inspiré, et Swann lui ayant pour de plus grands que n’était Swann, pour un savant, pour avoué qu’on n’en savait rien, elle s’était désintéressée de ce un artiste, quand il n’est pas méconnu par ceux qui peintre. Elle disait souvent: « Je crois bien, la poésie, l’entourent, que celui de leurs sentiments qui prouve que la naturellement, il n’y aurait rien de plus beau si c’était vrai, si supériorité de son intelligence s’est imposée à eux, ce n’est les poètes pensaient tout ce qu’ils disent. Mais bien souvent, pas leur admiration pour ses idées, car elles leur échappent, il n’y a pas plus intéressé que ces gensHlà. J’en sais quelque mais leur respect pour sa bonté. C’est aussi du respect chose, j’avais une amie qui a aimé une espèce de poète. Dans qu’inspirait à Odette la situation qu’avait Swann dans le ses vers il ne parlait que de l’amour, du ciel, des étoiles. Ah!
monde, mais elle ne désirait pas qu’il cherchât à l’y faire ce qu’elle a été refaite! Il lui a croqué plus de trois cent mille recevoir. PeutHêtre sentaitHelle qu’il ne pourrait pas y réussir, francs. » Si alors Swann cherchait à lui apprendre en quoi et même craignaitHelle que rien qu’en parlant d’elle il ne consistait la beauté artistique, comment il fallait admirer les provoquât des révélations qu’elle redoutait. Toujours estHil vers ou les tableaux, au bout d’un instant elle cessait qu’elle lui avait fait promettre de ne jamais prononcer son Marcel Proust –
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Din Search OverTime nom. La raison pour laquelle elle ne voulait pas aller dans le goût, de tact, si bien que Swann par exemple, sans avoir monde, lui avaitHelle dit, était une brouille qu’elle avait eue besoin de faire appel à son savoir mondain, s’il lisait dans un autrefois avec une amie qui, pour se venger, avait ensuite dit journal les noms des personnes qui se trouvaient à un dîner du mal d’elle. Swann objectait: « Mais tout le monde n’a pas pouvait dire immédiatement la nuance du chic de ce dîner, connu ton amie. » – « Mais si, ça fait la tache d’huile, le comme un lettré, à la simple lecture d’une phrase, apprécie monde est si méchant. » D’une part Swann ne comprit pas exactement la qualité littéraire de son auteur. Mais Odette cette histoire, mais d’autre part il savait que ces propositions: faisait partie des personnes (extrêmement nombreuses quoi
« Le monde est si méchant » et « un propos calomnieux fait qu’en pensent les gens du monde, et comme il y en a dans la tache d’huile », sont généralement tenues pour vraies; il toutes les classes de la société) qui ne possèdent pas ces devait y avoir des cas auxquels elles s’appliquaient. Celui notions, imaginent un chic tout autre, qui revêt divers d’Odette étaitHil l’un de ceuxHlà? Il se le demandait, mais pas aspects selon le milieu auquel elles appartiennent, mais a longtemps, car il était sujet, lui aussi, à cette lourdeur d’esprit pour caractère particulier – que ce soit celui dont rêvait qui s’appesantissait sur son père, quand il se posait un Odette, ou celui devant lequel s’inclinait Mme Cottard –
problème difficile. D’ailleurs, ce monde qui faisait si peur à d’être directement accessible à tous. L’autre, celui des gens Odette ne lui inspirait peutHêtre pas de grands désirs, car du monde, l’est à vrai dire aussi, mais il y faut quelque délai.
pour qu’elle se le représentât bien nettement, il était trop Odette disait de quelqu’un:
éloigné de celui qu’elle connaissait. Pourtant, tout en étant
– Il ne va jamais que dans les endroits chics.
restée à certains égards vraiment simple (elle avait par exemple gardé pour amie une petite couturière retirée dont Et si Swann lui demandait ce qu’elle entendait par là, elle elle grimpait presque chaque jour l’escalier raide, obscur et lui répondait avec un peu de mépris: fétide), elle avait soif de chic, mais ne s’en faisait pas la
– Mais les endroits chics, parbleu! Si, à ton âge, il faut même idée que les gens du monde. Pour eux, le chic est une t’apprendre ce que c’est que les endroits chics, que veuxHtu émanation de quelques personnes peu nombreuses qui le que je te dise, moi? par exemple, le dimanche matin, l’avenue projettent jusqu’à un degré assez éloigné – et plus ou moins de l’Impératrice, à cinq heures le tour du Lac, le jeudi l’Éden affaibli dans la mesure où l’on est distant du centre de leur Théâtre, le vendredi l’Hippodrome, les bals…
intimité – dans le cercle de leurs amis ou des amis de leurs amis dont les noms forment une sorte de répertoire. Les
– Mais quels bals?
gens du monde le possèdent dans leur mémoire, ils ont sur
– Mais les bals qu’on donne à Paris, les bals chics, je veux ces matières une érudition d’où ils ont extrait une sorte de dire. Tiens, Herbinger, tu sais, celui qui est chez un Marcel Proust –
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Din Search OverTime coulissier? mais si, tu dois savoir, c’est un des hommes les faudrait me payer bien cher pour me faire sortir nippée plus lancés de Paris, ce grand jeune homme blond qui est comme ça!
tellement snob, il a toujours une fleur à la boutonnière, une Elle ne comprenait pas que Swann habitât l’hôtel du quai raie dans le dos, des paletots clairs; il est avec ce vieux d’Orléans que, sans oser le lui avouer, elle trouvait indigne tableau qu’il promène à toutes les premières. Eh bien! il a de lui.
donné un bal, l’autre soir, il y avait tout ce qu’il y a de chic à Paris. Ce que j’aurais aimé y aller! mais il fallait présenter sa Certes, elle avait la prétention d’aimer les « antiquités » et carte d’invitation à la porte et je n’avais pas pu en avoir. Au prenait un air ravi et fin pour dire qu’elle adorait passer toute fond j’aime autant ne pas y être allée, c’était une tuerie, je une journée à « bibeloter », à chercher « du bricHàHbrac », des n’aurais rien vu. C’est plutôt pour pouvoir dire qu’on était choses « du temps ». Bien qu’elle s’entêtât dans une sorte de chez Herbinger. Et tu sais, moi, la gloriole! Du reste, tu peux point d’honneur (et semblât pratiquer quelque précepte bien te dire que sur cent qui racontent qu’elles y étaient, il y a familial) en ne répondant jamais aux questions et en ne «
bien la moitié dont ça n’est pas vrai… Mais ça m’étonne que rendant pas de comptes » sur l’emploi de ses journées, elle toi, un homme si « pschutt », tu n’y étais pas.
parla une fois à Swann d’une amie qui l’avait invitée et chez qui tout était « de l’époque ». Mais Swann ne put arriver à lui Mais Swann ne cherchait nullement à lui faire modifier faire dire quelle était cette époque. Pourtant, après avoir cette conception du chic; pensant que la sienne n’était pas réfléchi, elle répondit que c’était « moyenâgeux ». Elle plus vraie, était aussi sotte, dénuée d’importance, il ne entendait par là qu’il y avait des boiseries. Quelque temps trouvait aucun intérêt à en instruire sa maîtresse, si bien après elle lui reparla de son amie et ajouta, sur le ton hésitant qu’après des mois elle ne s’intéressait aux personnes chez qui et de l’air entendu dont on cite quelqu’un avec qui on a dîné il allait que pour les cartes de pesage, de concours hippique, la veille et dont on n’avait jamais entendu le nom, mais que les billets de première qu’il pouvait avoir par elles. Elle vos amphitryons avaient l’air de considérer comme souhaitait qu’il cultivât des relations si utiles mais elle était quelqu’un de si célèbre qu’on espère que l’interlocuteur saura par ailleurs, portée à les croire peu chic, depuis qu’elle avait bien de qui vous voulez parler: « Elle a une salle à manger…
vu passer dans la rue la marquise de Villeparisis en robe de du… dixHhuitième! » Elle trouvait du reste cela affreux, nu, laine noire, avec un bonnet à brides.
comme si la maison n’était pas finie, les femmes y
– Mais elle a l’air d’une ouvreuse, d’une vieille concierge, paraissaient affreuses et la mode n’en prendrait jamais.
darling! Ça, une marquise! Je ne suis pas marquise, mais il Enfin, une troisième fois, elle en reparla et montra à Swann l’adresse de l’homme qui avait fait cette salle à manger et Marcel Proust –
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Din Search OverTime qu’elle avait envie de faire venir, quand elle aurait de l’argent, pas à l’argent, mais elle ajoutait d’un air boudeur: « Mais lui, pour voir s’il ne pourrait pas lui en faire, non pas certes une ça n’est pas la même chose »; et en effet, ce qui parlait à son pareille, mais celle qu’elle rêvait et que, malheureusement, les imagination, ce n’était pas la pratique du désintéressement, dimensions de son petit hôtel ne comportaient pas, avec de c’en était le vocabulaire.
hauts dressoirs, des meubles Renaissance et des cheminées Sentant que souvent il ne pouvait pas réaliser ce qu’elle comme au château de Blois. Ce jourHlà, elle laissa échapper rêvait, il cherchait du moins à ce qu’elle se plût avec lui, à ne devant Swann ce qu’elle pensait de son habitation du quai pas contrecarrer ces idées vulgaires, ce mauvais goût qu’elle d’Orléans; comme il avait critiqué que l’amie d’Odette avait en toutes choses, et qu’il aimait d’ailleurs comme tout donnât non pas dans le Louis XVI, car, disaitHil, bien que ce qui venait d’elle, qui l’enchantaient même, car c’était cela ne se fasse pas, cela peut être charmant, mais dans le autant de traits particuliers grâce auxquels l’essence de cette faux ancien: « Tu ne voudrais pas qu’elle vécût comme toi au femme lui apparaissait, devenait visible. Aussi, quand elle milieu de meubles cassés et de tapis usés », lui ditHelle, le avait l’air heureux parce qu’elle devait aller à la Reine respect humain de la bourgeoise l’emportant encore chez elle Topaze, ou que son regard devenait sérieux, inquiet et sur le dilettantisme de la cocotte.
volontaire, si elle avait peur de manquer la fête des fleurs ou De ceux qui aimaient à bibeloter, qui aimaient les vers, simplement l’heure du thé, avec muffins et toasts, au « Thé méprisaient les bas calculs, rêvaient d’honneur et d’amour, de la Rue Royale » où elle croyait que l’assiduité était elle faisait une élite supérieure au reste de l’humanité. Il n’y indispensable pour consacrer la réputation d’élégance d’une avait pas besoin qu’on eût réellement ces goûts pourvu femme, Swann, transporté comme nous le sommes par le qu’on les proclamât; d’un homme qui lui avait avoué à dîner naturel d’un enfant ou par la vérité d’un portrait qui semble qu’il aimait à flâner, à se salir les doigts dans les vieilles sur le point de parler, sentait si bien l’âme de sa maîtresse boutiques, qu’il ne serait jamais apprécié par ce siècle affleurer à son visage qu’il ne pouvait résister à venir l’y commercial, car il ne se souciait pas de ses intérêts et qu’il toucher avec ses lèvres. « Ah! elle veut qu’on la mène à la était pour cela d’un autre temps, elle revenait en disant: «
fête des fleurs, la petite Odette, elle veut se faire admirer, eh Mais c’est une âme adorable, un sensible, je ne m’en étais bien, on l’y mènera, nous n’avons qu’à nous incliner. »
jamais doutée! » et elle se sentait pour lui une immense et Comme la vue de Swann était un peu basse, il dut se résigner soudaine amitié. Mais, en revanche ceux, qui comme Swann, à se servir de lunettes pour travailler chez lui, et à adopter, avaient ces goûts, mais n’en parlaient pas, la laissaient froide.
pour aller dans le monde, le monocle qui le défigurait moins.
Sans doute elle était obligée d’avouer que Swann ne tenait La première fois qu’elle lui en vit un dans l’œil, elle ne put Marcel Proust –
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Din Search OverTime contenir sa joie: « Je trouve que pour un homme, il n’y a pas qu’avaient les ouvrages ou les lieux qu’elle aimait, lui à dire, ça a beaucoup de chic! Comme tu es bien ainsi! tu as semblait plus mystérieux que celui qui est intrinsèque à de l’air d’un vrai gentleman. Il ne te manque qu’un titre! »
plus beaux, mais qui ne la lui rappelaient pas. D’ailleurs, ajoutaHtHelle, avec une nuance de regret. Il aimait qu’Odette ayant laissé s’affaiblir les croyances intellectuelles de sa fût ainsi, de même que s’il avait été épris d’une Bretonne, il jeunesse, et son scepticisme d’homme du monde ayant à son aurait été heureux de la voir en coiffe et de lui entendre dire insu pénétré jusqu’à elles, il pensait (ou du moins il avait si qu’elle croyait aux revenants. JusqueHlà, comme beaucoup longtemps pensé cela qu’il le disait encore) que les objets de d’hommes chez qui leur goût pour les arts se développe nos goûts n’ont pas en eux une valeur absolue, mais que tout indépendamment de la sensualité, une disparate bizarre avait est affaire d’époque, de classe, consiste en modes, dont les existé entre les satisfactions qu’il accordait à l’un et à l’autre, plus vulgaires valent celles qui passent pour les plus jouissant, dans la compagnie de femmes de plus en plus distinguées. Et comme il jugeait que l’importance attachée grossières, des séductions d’œuvres de plus en plus raffinées, par Odette à avoir des cartes pour le vernissage n’était pas en emmenant une petite bonne dans une baignoire grillée à la soi quelque chose de plus ridicule que le plaisir qu’il avait représentation d’une pièce décadente qu’il avait envie autrefois à déjeuner chez le prince de Galles, de même, il ne d’entendre ou à une exposition de peinture impressionniste, pensait pas que l’admiration qu’elle professait pour MonteH
et persuadé d’ailleurs qu’une femme du monde cultivée n’y Carlo ou pour le Righi fût plus déraisonnable que le goût eût pas compris davantage, mais n’aurait pas su se taire aussi qu’il avait, lui, pour la Hollande qu’elle se figurait laide et gentiment. Mais, au contraire, depuis qu’il aimait Odette, pour Versailles qu’elle trouvait triste. Aussi, se privaitHil d’y sympathiser avec elle, tâcher de n’avoir qu’une âme à eux aller, ayant plaisir à se dire que c’était pour elle, qu’il voulait deux lui était si doux, qu’il cherchait à se plaire aux choses ne sentir, n’aimer qu’avec elle.
qu’elle aimait, et il trouvait un plaisir d’autant plus profond Comme tout ce qui environnait Odette et n’était en non seulement à imiter ses habitudes, mais à adopter ses quelque sorte que le mode selon lequel il pouvait la voir, opinions, que, comme elles n’avaient aucune racine dans sa causer avec elle, il aimait la société des Verdurin. Là, comme propre intelligence, elles lui rappelaient seulement son au fond de tous les divertissements, repas, musique, jeux, amour, à cause duquel il les avait préférées. S’il retournait à soupers costumés, parties de campagne, parties de théâtre, Serge Panine, s’il recherchait les occasions d’aller voir même les rares « grandes soirées » données pour les «
conduire Olivier Métra, c’était pour la douceur d’être initié ennuyeux », il y avait la présence d’Odette, la vue d’Odette, dans toutes les conceptions d’Odette, de se sentir de moitié la conversation avec Odette, dont les Verdurin faisaient à dans tous ses goûts. Ce charme de le rapprocher d’elle, Marcel Proust –
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Din Search OverTime Swann, en l’invitant, le don inestimable; il se plaisait mieux Décidément, sauf quelques rares exceptions, je n’irai plus que partout ailleurs dans le « petit noyau », et cherchait à lui jamais que dans ce milieu. C’est là que j’aurai de plus en plus attribuer des mérites réels, car il s’imaginait ainsi que par mes habitudes et ma vie. »
goût il le fréquenterait toute sa vie. Or, n’osant pas se dire, Et comme les qualités qu’il croyait intrinsèques aux par peur de ne pas le croire, qu’il aimerait toujours Odette, Verdurin n’étaient que le reflet sur eux de plaisirs qu’avait du moins en cherchant á supposer qu’il fréquenterait goûtés chez eux son amour pour Odette, ces qualités toujours les Verdurin (proposition qui, a priori, soulevait devenaient plus sérieuses, plus profondes, plus vitales, quand moins d’objections de principe de la part de son ces plaisirs l’étaient aussi. Comme Mme Verdurin donnait intelligence), il se voyait dans l’avenir continuant à parfois à Swann ce qui seul pouvait constituer pour lui le rencontrer chaque soir Odette; cela ne revenait peutHêtre pas bonheur; comme, tel soir où il se sentait anxieux parce tout à fait au même que l’aimer toujours, mais, pour le qu’Odette avait causé avec un invité plus qu’avec un autre, et moment, pendant qu’il l’aimait, croire qu’il ne cesserait pas où, irrité contre elle, il ne voulait pas prendre l’initiative de un jour de la voir, c’est tout ce qu’il demandait. « Quel lui demander si elle reviendrait avec lui, Mme Verdurin lui charmant milieu, se disaitHil. Comme c’est au fond la vraie apportait la paix et la joie en disant spontanément: « Odette, vie qu’on mène là! Comme on y est plus intelligent, plus vous allez ramener M. Swann, n’estHce pas »? comme cet été artiste que dans le monde! Comme Mme Verdurin, malgré qui venait et où il s’était d’abord demandé avec inquiétude si de petites exagérations un peu risibles, a un amour sincère de Odette ne s’absenterait pas sans lui, s’il pourrait continuer à la peinture, de la musique! Quelle passion pour les œuvres, la voir tous les jours, Mme Verdurin allait les inviter à le quel désir de faire plaisir aux artistes! Elle se fait une idée passer tous deux chez elle à la campagne – Swann laissant à inexacte des gens du monde; mais avec cela que le monde son insu la reconnaissance et l’intérêt s’infiltrer dans son n’en a pas une plus fausse encore, des milieux artistes! PeutH
intelligence et influer sur ses idées, allait jusqu’à proclamer être n’aiHje pas de grands besoins intellectuels à assouvir dans que Mme Verdurin était une grande âme. De quelques gens la conversation, mais je me plais parfaitement bien avec exquis ou éminents que tel de ses anciens camarades de Cottard, quoiqu’il fasse des calembours ineptes. Et quant au l’école du Louvre lui parlât: « Je préfère cent fois les peintre, si sa prétention est déplaisante quand il cherche à Verdurin », lui répondaitHil. Et, avec une solennité qui était étonner, en revanche c’est une des plus belles intelligences nouvelle chez lui: « Ce sont des êtres magnanimes, et la que j’aie connues. Et puis surtout, là, on se sent libre, on fait magnanimité est, au fond, la seule chose qui importe et qui ce qu’on veut sans contrainte, sans cérémonie. Quelle distingue iciHbas. VoisHtu, il n’y a que deux classes d’êtres: les dépense de bonne humeur il se fait par jour dans ce salonHlà!
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Din Search OverTime magnanimes et les autres; et je suis arrivé à un âge où il faut s’ils l’avaient connue, ne se seraient pas souciés de la prendre parti, décider une fois pour toutes qui on veut aimer rapprocher de lui.
et qui on veut dédaigner, se tenir à ceux qu’on aime et, pour Ainsi il n’y avait sans doute pas, dans tout le milieu réparer le temps qu’on a gâché avec les autres, ne plus les Verdurin, un seul fidèle qui les aimât ou crût les aimer autant quitter jusqu’à sa mort. Eh bien! ajoutaitHil avec cette légère que Swann. Et pourtant, quand M. Verdurin avait dit que émotion qu’on éprouve quand, même sans bien s’en rendre Swann ne lui revenait pas, non seulement il avait exprimé sa compte, on dit une chose non parce qu’elle est vraie, mais propre pensée, mais il avait deviné celle de sa femme. Sans parce qu’on a plaisir à la dire et qu’on l’écoute dans sa propre doute Swann avait pour Odette une affection trop voix comme si elle venait d’ailleurs que de nousHmêmes, le particulière et dont il avait négligé de faire de Mme Verdurin sort en est jeté, j’ai choisi d’aimer les seuls cœurs la confidente quotidienne; sans doute la discrétion même magnanimes et de ne plus vivre que dans la magnanimité. Tu avec laquelle il usait de l’hospitalité des Verdurin, s’abstenant me demandes si Mme Verdurin est véritablement souvent de venir dîner pour une raison qu’ils ne intelligente. Je t’assure qu’elle m’a donné les preuves d’une soupçonnaient pas et à la place de laquelle ils voyaient le noblesse de cœur, d’une hauteur d’âme où, que veuxHtu, on désir de ne pas manquer une invitation chez des « ennuyeux n’atteint pas sans une hauteur égale de pensée. Certes elle a
», sans doute aussi, et malgré toutes les précautions qu’il la profonde intelligence des arts. Mais ce n’est peutHêtre pas avait prises pour la leur cacher, la découverte progressive là qu’elle est le plus admirable; et telle petite action qu’ils faisaient de sa brillante situation mondaine, tout cela ingénieusement, exquisement bonne, qu’elle a accomplie contribuait à leur irritation contre lui. Mais la raison pour moi, telle géniale attention, tel geste familièrement profonde en était autre. C’est qu’ils avaient très vite senti en sublime, révèlent une compréhension plus profonde de lui un espace réservé, impénétrable, où il continuait à l’existence que tous les traités de philosophie. »
professer silencieusement pour luiHmême que la princesse de Il aurait pourtant pu se dire qu’il y avait des anciens amis Sagan n’était pas grotesque et que les plaisanteries de Cottard de ses parents aussi simples que les Verdurin, des camarades n’étaient pas drôles, enfin et bien que jamais il ne se départît de sa jeunesse aussi épris d’art, qu’il connaissait d’autres êtres de son amabilité et ne se révoltât contre leurs dogmes, une d’un grand cœur, et que, pourtant, depuis qu’il avait opté impossibilité de les lui imposer, de l’y convertir entièrement, pour la simplicité, les arts et la magnanimité, il ne les voyait comme ils n’en avaient jamais rencontré une pareille chez plus jamais. Mais ceuxHlà ne connaissaient pas Odette, et, personne. Ils lui auraient pardonné de fréquenter des ennuyeux (auxquels d’ailleurs, dans le fond de son cœur, il Marcel Proust –
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Din Search OverTime préférait mille fois les Verdurin et tout le petit noyau) s’il différences, fit ressortir ses qualités et précipita la disgrâce de avait consenti, pour le bon exemple, à les renier en présence Swann.
des fidèles. Mais c’est une abjuration qu’ils comprirent qu’on Il y avait, à ce dîner, en dehors des habitués, un professeur ne pourrait pas lui arracher.
de la Sorbonne, Brichot, qui avait rencontré M. et Mme Quelle différence avec un « nouveau » qu’Odette leur avait Verdurin aux eaux et, si ses fonctions universitaires et ses demandé d’inviter, quoiqu’elle ne l’eût rencontré que peu de travaux d’érudition n’avaient pas rendu très rares ses fois, et sur lequel ils fondaient beaucoup d’espoir, le comte moments de liberté, serait volontiers venu souvent chez eux.
de Forcheville! (Il se trouva qu’il était justement le beauHfrère Car il avait cette curiosité, cette superstition de la vie, qui de Saniette, ce qui remplit d’étonnement les fidèles: le vieil unie à un certain scepticisme relatif à l’objet de leurs études, archiviste avait des manières si humbles qu’ils l’avaient donne dans n’importe quelle profession, à certains hommes toujours cru d’un rang social inférieur au leur et ne intelligents, médecins qui ne croient pas à la médecine, s’attendaient pas à apprendre qu’il appartenait à un monde professeurs de lycée qui ne croient pas au thème latin, la riche et relativement aristocratique.) Sans doute Forcheville réputation d’esprits larges, brillants, et même supérieurs. Il était grossièrement snob, alors que Swann ne l’était pas; sans affectait, chez Mme Verdurin, de chercher ses comparaisons doute il était bien loin de placer, comme lui, le milieu des dans ce qu’il y avait de plus actuel quand il parlait de Verdurin auHdessus de tous les autres. Mais il n’avait pas philosophie et d’histoire, d’abord parce qu’il croyait qu’elles cette délicatesse de nature qui empêchait Swann de s’associer ne sont qu’une préparation à la vie et qu’il s’imaginait aux critiques trop manifestement fausses que dirigeait Mme trouver en action dans le petit clan ce qu’il n’avait connu Verdurin contre des gens qu’il connaissait. Quant aux tirades jusqu’ici que dans les livres, puis peutHêtre aussi parce que, prétentieuses et vulgaires que le peintre lançait à certains s’étant vu inculquer autrefois, et ayant gardé à son insu, le jours, aux plaisanteries de commis voyageur que risquait respect de certains sujets, il croyait dépouiller l’universitaire Cottard et auxquelles Swann, qui les aimait l’un et l’autre, en prenant avec eux des hardiesses qui, au contraire, ne lui trouvait facilement des excuses mais n’avait pas le courage et paraissaient telles, que parce qu’il l’était resté.
l’hypocrisie d’applaudir, Forcheville était au contraire d’un Dès le commencement du repas, comme M. de niveau intellectuel qui lui permettait d’être abasourdi, Forcheville, placé à la droite de Mme Verdurin qui avait fait émerveillé par les unes, sans d’ailleurs les comprendre, et de pour le « nouveau » de grands frais de toilette, lui disait: «
se délecter aux autres. Et justement le premier dîner chez les C’est original, cette robe blanche », le docteur qui n’avait Verdurin auquel assista Forcheville mit en lumière toutes ces cessé de l’observer tant il était curieux de savoir comment Marcel Proust –
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Din Search OverTime était fait ce qu’il appelait un « de », et qui cherchait une poigne. Si fait, mon cher hôte, si fait, repritHil de sa voix bien occasion d’attirer son attention et d’entrer plus en contact timbrée qui détachait chaque syllabe, en réponse à une avec lui, saisit au vol le mot « blanche », et sans lever le nez objection de M. Verdurin. La Chronique de SaintHDenis de son assiette, dit: « blanche? Blanche de Castille? », puis dont nous ne pouvons contester la sûreté d’information ne sans bouger la tête lança furtivement de droite et de gauche laisse aucun doute à cet égard. Nulle ne pourrait être mieux des regards incertains et souriants. Tandis que Swann, par choisie comme patronne par un prolétariat laïcisateur que l’effort douloureux et vain qu’il fit pour sourire, témoigna cette mère d’un saint à qui elle en fit d’ailleurs voir de qu’il jugeait ce calembour stupide, Forcheville avait montré à saumâtres, comme dit Suger et autres saint Bernard; car avec la fois qu’il en goûtait la finesse et qu’il savait vivre, en elle chacun en prenait pour son grade.
contenant dans de justes limites une gaieté dont la franchise
– Quel est ce monsieur? demanda Forcheville à Mme avait charmé Mme Verdurin.
Verdurin, il a l’air d’être de première force.
– Qu’estHce que vous dites d’un savant comme cela? avaitH
– Comment, vous ne connaissez pas le fameux Brichot? il elle demandé à Forcheville. Il n’y a pas moyen de causer est célèbre dans toute l’Europe.
sérieusement deux minutes avec lui. EstHce que vous leur en dites comme cela, à votre hôpital? avaitHelle ajouté en se
– Ah! c’est Bréchot, s’écria Forcheville qui n’avait pas bien tournant vers le docteur, ça ne doit pas être ennuyeux tous entendu, vous m’en direz tant, ajoutaHtHil tout en attachant les jours, alors. Je vois qu’il va falloir que je demande à m’y sur l’homme célèbre des yeux écarquillés. C’est toujours faire admettre.
intéressant de dîner avec un homme en vue. Mais, ditesHmoi, vous nous invitezHlà avec des convives de choix. On ne
– Je crois avoir entendu que le docteur parlait de cette s’ennuie pas chez vous.
vieille chipie de Blanche de Castille, si j’ose m’exprimer ainsi.
N’estHil pas vrai, madame? demanda Brichot à Mme
– Oh! vous savez ce qu’il y a surtout, dit modestement Verdurin qui, pâmant, les yeux fermés, précipita sa figure Mme Verdurin, c’est qu’ils se sentent en confiance. Ils dans ses mains d’où s’échappèrent des cris étouffés.
parlent de ce qu’ils veulent, et la conversation rejaillit en fusées. Ainsi Brichot, ce soir, ce n’est rien: je l’ai vu, vous
– Mon Dieu, madame, je ne voudrais pas alarmer les âmes savez, chez moi, éblouissant, à se mettre à genoux devant; eh respectueuses s’il y en a autour de cette table, sub rosa… Je bien! chez les autres, ce n’est plus le même homme, il n’a reconnais d’ailleurs que notre ineffable république plus d’esprit, il faut lui arracher les mots, il est même athénienne – ô combien! – pourrait honorer en cette ennuyeux.
capétienne obscurantiste le premier des préfets de police à Marcel Proust –
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– C’est curieux! dit Forcheville étonné.
avant de l’épouser », voulut s’en faire demander la suite par Swann en lui disant: « n’estHce pas monsieur Swann? » – sur Un genre d’esprit comme celui de Brichot aurait été tenu le ton martial qu’on prend pour se mettre à la portée d’un pour stupidité pure dans la coterie où Swann avait passé sa paysan ou pour donner du cœur à un troupier, Swann coupa jeunesse, bien qu’il soit compatible avec une intelligence l’effet de Brichot à la grande fureur de la maîtresse de la réelle. Et celle du professeur, vigoureuse et bien nourrie, maison, en répondant qu’on voulût bien l’excuser de aurait probablement pu être enviée par bien des gens du s’intéresser si peu à Blanche de Castille, mais qu’il avait monde que Swann trouvait spirituels. Mais ceuxHci avaient quelque chose à demander au peintre. CeluiHci, en effet, était fini par lui inculquer si bien leurs goûts et leurs répugnances, allé dans l’aprèsHmidi visiter l’exposition d’un artiste, ami de au moins en tout ce qui touche à la vie mondaine et même M. Verdurin, qui était mort récemment, et Swann aurait en celle de ses parties annexes qui devrait plutôt relever du voulu savoir par lui (car il appréciait son goût) si vraiment il domaine de l’intelligence: la conversation, que Swann ne put y avait dans ces dernières œuvres plus que la virtuosité qui trouver les plaisanteries de Brichot que pédantesques, stupéfiait déjà dans les précédentes.
vulgaires et grasses à écœurer. Puis il était choqué dans l’habitude qu’il avait des bonnes manières, par le ton rude et
– À ce point de vueHlà, c’était extraordinaire, mais cela ne militaire qu’affectait, en s’adressant à chacun, l’universitaire semblait pas d’un art, comme on dit, très « élevé », dit Swann cocardier. Enfin, peutHêtre avaitHil surtout perdu, ce soirHlà, en souriant.
de son indulgence en voyant l’amabilité que Mme Verdurin
– Élevé… à la hauteur d’une institution, interrompit déployait pour ce Forcheville qu’Odette avait eu la singulière Cottard en levant les bras avec une gravité simulée.
idée d’amener. Un peu gênée visHàHvis de Swann, elle lui avait demandé en arrivant:
Toute la table éclata de rire.
– Comment trouvezHvous mon invité?
– Quand je vous disais qu’on ne peut pas garder son sérieux avec lui, dit Mme Verdurin à Forcheville. Au Et lui, s’apercevant pour la première fois que Forcheville moment où on s’y attend le moins, il vous sort une qu’il connaissait depuis longtemps pouvait plaire à une calembredaine.
femme et était assez bel homme, avait répondu: « Immonde!
» Certes, il n’avait pas l’idée d’être jaloux d’Odette, mais il ne Mais elle remarqua que seul Swann ne s’était pas déridé.
se sentait pas aussi heureux que d’habitude et quand Brichot, Du reste il n’était pas très content que Cottard fît rire de lui ayant commencé à raconter l’histoire de la mère de Blanche devant Forcheville. Mais le peintre, au lieu de répondre de Castille qui « avait été avec Henri Plantagenet des années d’une façon intéressante à Swann, ce qu’il eût probablement Marcel Proust –
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Din Search OverTime fait s’il eût été seul avec lui, préféra se faire admirer des Verdurin qui tenait « la Ronde » pour le plus grand chefH
convives en plaçant un morceau sur l’habileté du maître d’œuvre de l’univers avec « la Neuvième » et « la Samothrace disparu.
», et à: « fait avec du caca », qui avait fait jeter à Forcheville un coup d’œil circulaire sur la table pour voir si le mot
– Je me suis approché, ditHil, pour voir comment c’était passait et avait ensuite amené sur sa bouche un sourire prude fait, j’ai mis le nez dessus. Ah! bien ouiche! on ne pourrait et conciliant, tous les convives, excepté Swann, avaient pas dire si c’est fait avec de la colle, avec du rubis, avec du attaché sur le peintre des regards fascinés par l’admiration.
savon, avec du bronze, avec du soleil, avec du caca!
– Ce qu’il m’amuse quand il s’emballe comme ça, s’écria,
– Et un font douze, s’écria trop tard le docteur dont quand il eut terminé, Mme Verdurin, ravie que la table fût personne ne comprit l’interruption.
justement si intéressante le jour où M. de Forcheville venait
– Ça a l’air fait avec rien, reprit le peintre, pas plus moyen pour la première fois. Et toi, qu’estHce que tu as à rester de découvrir le truc que dans la Ronde ou les Régentes et comme cela, bouche bée comme une grande bête? ditHelle à c’est encore plus fort comme patte que Rembrandt et que son mari. Tu sais pourtant qu’il parle bien; on dirait que c’est Hals. Tout y est, mais non, je vous jure.
la première fois qu’il vous entend. Si vous l’aviez vu pendant Et comme les chanteurs parvenus à la note la plus haute que vous parliez, il vous buvait. Et demain il nous récitera qu’ils puissent donner continuent en voix de tête, piano, il se tout ce que vous avez dit sans manger un mot.
contenta de murmurer, et en riant, comme si en effet cette
– Mais non, c’est pas de la blague, dit le peintre, enchanté peinture eût été dérisoire à force de beauté: de son succès, vous avez l’air de croire que je fais le
– Ça sent bon, ça vous prend à la tête, ça vous coupe la boniment, que c’est du chiqué; je vous y mènerai voir, vous respiration, ça vous fait des chatouilles, et pas mèche de direz si j’ai exagéré, je vous fiche mon billet que vous savoir avec quoi c’est fait, c’en est sorcier, c’est de la rouerie, revenez plus emballée que moi!
c’est du miracle (éclatant tout à fait de rire): c’en est
– Mais nous ne croyons pas que vous exagérez, nous malhonnête! » En s’arrêtant, redressant gravement la tête, voulons seulement que vous mangiez et que mon mari prenant une note de basse profonde qu’il tâcha de rendre mange aussi; redonnez de la sole normande à Monsieur, harmonieuse, il ajouta: « et c’est si loyal! »
vous voyez bien que la sienne est froide. Nous ne sommes Sauf au moment où il avait dit: « plus fort que la Ronde », pas si pressés, vous servez comme s’il y avait le feu, attendez blasphème qui avait provoqué une protestation de Mme donc un peu pour donner la salade.
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Din Search OverTime Mme Cottard, qui était modeste et parlait peu, savait nous », « une de mes amies », par « distinction », sur un ton pourtant ne pas manquer d’assurance quand une heureuse factice, et avec l’air d’importance d’une personne qui ne inspiration lui avait fait trouver un mot juste. Elle sentait nomme que qui elle veut) qui ont souvent des loges et ont la qu’elle aurait du succès, cela la mettait en confiance, et ce bonne idée de nous emmener à toutes les nouveautés qui en qu’elle en faisait était moins pour briller que pour être utile à valent la peine, je suis toujours sûre de voir Francillon un la carrière de son mari. Aussi ne laissaHtHelle pas échapper le peu plus tôt ou un peu plus tard, et de pouvoir me former mot de salade que venait de prononcer Mme Verdurin.
une opinion. Je dois pourtant confesser que je me trouve assez sotte, car, dans tous les salons où je vais en visite, on
– Ce n’est pas de la salade japonaise? ditHelle à miHvoix en ne parle naturellement que de cette malheureuse salade se tournant vers Odette.
japonaise. On commence même à en être un peu fatigué, Et ravie et confuse de l’àHpropos et de la hardiesse qu’il y ajoutaHtHelle en voyant que Swann n’avait pas l’air aussi avait à faire ainsi une allusion discrète, mais claire, à la intéressé qu’elle aurait cru par une si brûlante actualité. Il nouvelle et retentissante pièce de Dumas, elle éclata d’un rire faut avouer pourtant que cela donne quelquefois prétexte à charmant d’ingénue, peu bruyant, mais si irrésistible qu’elle des idées assez amusantes. Ainsi j’ai une de mes amies qui est resta quelques instants sans pouvoir le maîtriser. « Qui est très originale, quoique très jolie femme, très entourée, très cette dame? elle a de l’esprit », dit Forcheville.
lancée, et qui prétend qu’elle a fait faire chez elle cette salade
– Non, mais nous vous en ferons si vous venez tous dîner japonaise, mais en faisant mettre tout ce qu’Alexandre vendredi.
Dumas fils dit dans la pièce. Elle avait invité quelques amies à venir en manger. Malheureusement je n’étais pas des élues.
– Je vais vous paraître bien provinciale, monsieur, dit Mme Mais elle nous l’a raconté tantôt, à son jour; il paraît que Cottard à Swann, mais je n’ai pas encore vu cette fameuse c’était détestable, elle nous a fait rire aux larmes. Mais vous Francillon dont tout le monde parle. Le docteur y est allé (je savez, tout est dans la manière de raconter, ditHelle en voyant me rappelle même qu’il m’a dit avoir eu le très grand plaisir que Swann gardait un air grave.
de passer la soirée avec vous) et j’avoue que je n’ai pas trouvé raisonnable qu’il louât des places pour y retourner Et supposant que c’était peutHêtre parce qu’il n’aimait pas avec moi. Évidemment, au ThéâtreHFrançais, on ne regrette Francillon:
jamais sa soirée, c’est toujours si bien joué, mais comme
– Du reste, je crois que j’aurai une déception. Je ne crois nous avons des amis très aimables (Mme Cottard prononçait pas que cela vaille Serge Panine, l’idole de Mme de Crécy.
rarement un nom propre et se contentait de dire « des amis à Voilà au moins des sujets qui ont du fond, qui font réfléchir; Marcel Proust –
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Din Search OverTime mais donner une recette de salade sur la scène du ThéâtreH
chemin faisant quelques mots un peu réalistes, mais c’est le Français! Tandis que Serge Panine! Du reste, comme tout ce goût du jour, je n’ai pas souvent vu tenir le crachoir avec une qui vient de la plume de Georges Ohnet, c’est toujours si pareille dextérité, comme nous disions au régiment, où bien écrit. Je ne sais pas si vous connaissez le Maître de pourtant j’avais un camarade que justement monsieur me Forges que je préférerais encore à Serge Panine.
rappelait un peu. À propos de n’importe quoi, je ne sais que vous dire, sur ce verre, par exemple, il pouvait dégoiser
– PardonnezHmoi, lui dit Swann d’un air ironique, mais pendant des heures; non, pas à propos de ce verre, ce que je j’avoue que mon manque d’admiration est à peu près égal dis est stupide; mais à propos de la bataille de Waterloo, de pour ces deux chefsHd’œuvre.
tout ce que vous voudrez et il nous envoyait chemin faisant
– Vraiment, qu’estHce que vous leur reprochez? EstHce un des choses auxquelles vous n’auriez jamais pensé. Du reste parti pris? TrouvezHvous peutHêtre que c’est un peu triste?
Swann était dans le même régiment; il a dû le connaître.
D’ailleurs, comme je dis toujours, il ne faut jamais discuter
– Vous voyez souvent M. Swann? demanda Mme sur les romans ni sur les pièces de théâtre. Chacun a sa Verdurin.
manière de voir et vous pouvez trouver détestable ce que j’aime le mieux.
– Mais non, répondit M. de Forcheville et comme pour se rapprocher plus aisément d’Odette, il désirait être agréable à Elle fut interrompue par Forcheville qui interpellait Swann, voulant saisir cette occasion, pour le flatter, de parler Swann. En effet, tandis que Mme Cottard parlait de de ses belles relations, mais d’en parler en homme du monde Francillon, Forcheville avait exprimé à Mme Verdurin son sur un ton de critique cordiale et n’avoir pas l’air de l’en admiration pour ce qu’il avait appelé le petit « speech » du féliciter comme d’un succès inespéré: « N’estHce pas, Swann?
peintre.
je ne vous vois jamais. D’ailleurs, comment faire pour le
– Monsieur a une facilité de parole, une mémoire! avaitHil voir? Cet animalHlà est tout le temps fourré chez les La dit à Mme Verdurin quand le peintre eut terminé, comme Trémoïlle, chez les Laumes, chez tout ça!… » Imputation j’en ai rarement rencontré. Bigre! je voudrais bien en avoir d’autant plus fausse d’ailleurs que depuis un an Swann autant. Il ferait un excellent prédicateur. On peut dire n’allait plus guère que chez les Verdurin. Mais le seul nom de qu’avec M. Bréchot, vous avez là deux numéros qui se personnes qu’ils ne connaissaient pas était accueilli chez eux valent, je ne sais même pas si comme platine, celuiHci ne par un silence réprobateur. M. Verdurin, craignant la pénible damerait pas encore le pion au professeur. Ça vient plus impression que ces noms d’« ennuyeux », surtout lancés ainsi naturellement, c’est moins recherché. Quoi qu’il ait dit sans tact à la face de tous les fidèles, avaient dû produire sur Marcel Proust –
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Din Search OverTime sa femme, jeta sur elle à la dérobée un regard plein d’inquiète
– On me paierait bien cher que je ne laisserais pas entrer sollicitude. Il vit alors que dans sa résolution de ne pas ça chez moi, conclut Mme Verdurin, en regardant Swann prendre acte, de ne pas avoir été touchée par la nouvelle qui d’un air impérieux.
venait de lui être notifiée, de ne pas seulement rester muette, Sans doute elle n’espérait pas qu’il se soumettrait jusqu’à mais d’avoir été sourde comme nous l’affectons quand un imiter la sainte simplicité de la tante du pianiste qui venait de ami fautif essaye de glisser dans la conversation une excuse s’écrier:
que ce serait avoir l’air d’admettre que de l’avoir écoutée sans protester, ou quand on prononce devant nous le nom
– VoyezHvous ça? Ce qui m’étonne, c’est qu’ils trouvent défendu d’un ingrat, Mme Verdurin pour que son silence encore des personnes qui consentent à leur causer! il me n’eût pas l’air d’un consentement, mais du silence ignorant semble que j’aurais peur: un mauvais coup est si vite reçu!
des choses inanimées, avait soudain dépouillé son visage de Comment y aHtHil encore du peuple assez brute pour leur toute vie, de toute motilité; son front bombé n’était plus courir après.
qu’une belle étude de ronde bosse où le nom de ces La Que ne répondaitHil du moins comme Forcheville: « Dame, Trémoïlle, chez qui était toujours fourré Swann, n’avait pu c’est une duchesse! il y a des gens que ça impressionne pénétrer; son nez légèrement froncé laissait voir une encore », ce qui aurait permis au moins à Mme Verdurin de échancrure qui semblait calquée sur la vie. On eût dit que sa répliquer: « Grand bien leur fasse! » Au lieu de cela, Swann bouche entr’ouverte allait parler. Ce n’était plus qu’une cire se contenta de rire d’un air qui signifiait qu’il ne pouvait perdue, qu’un masque de plâtre, qu’une maquette pour un même pas prendre au sérieux une pareille extravagance. M.
monument, qu’un buste pour le Palais de l’Industrie, devant Verdurin, continuant à jeter sur sa femme des regards furtifs, lequel le public s’arrêterait certainement pour admirer voyait avec tristesse et comprenait trop bien qu’elle comment le sculpteur, en exprimant l’imprescriptible dignité éprouvait la colère d’un grand inquisiteur qui ne parvient pas des Verdurin opposée à celle des La Trémoïlle et des à extirper l’hérésie, et pour tâcher d’amener Swann à une Laumes qu’ils valent certes ainsi que tous les ennuyeux de la rétractation, comme le courage de ses opinions paraît terre, était arrivé à donner une majesté presque papale à la toujours un calcul et une lâcheté aux yeux de ceux à blancheur et à la rigidité de la pierre. Mais le marbre finit par l’encontre de qui il s’exerce, M. Verdurin l’interpella: s’animer et fit entendre qu’il fallait ne pas être dégoûté pour aller chez ces gensHlà, car la femme était toujours ivre et le
– Dites donc franchement votre pensée, nous n’irons pas mari si ignorant qu’il disait collidor pour corridor.
le leur répéter.
À quoi Swann répondit:
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– Mais ce n’est pas du tout par peur de la duchesse (si c’est
– Pour vous, reprit Forcheville, l’intelligence, estHce le des La Trémoïlle que vous parlez). Je vous assure que tout le bagout du monde, les personnes qui savent s’insinuer?
monde aime aller chez elle. Je ne vous dis pas qu’elle soit «
– Finissez votre entremets qu’on puisse enlever votre profonde » (il prononça profonde, comme si ç’avait été un assiette, dit Mme Verdurin d’un ton aigre en s’adressant à mot ridicule, car son langage gardait la trace d’habitudes Saniette, lequel absorbé dans des réflexions, avait cessé de d’esprit qu’une certaine rénovation, marquée par l’amour de manger. Et peutHêtre un peu honteuse du ton qu’elle avait la musique, lui avait momentanément fait perdre – il pris: « Cela ne fait rien, vous avez votre temps, mais, si je exprimait parfois ses opinions avec chaleur – mais, très vous le dis, c’est pour les autres, parce que cela empêche de sincèrement, elle est intelligente et son mari est un véritable servir. »
lettré. Ce sont des gens charmants.
– Il y a, dit Brichot en martelant les syllabes, une définition Si bien que Mme Verdurin sentant que, par ce seul bien curieuse de l’intelligence dans ce doux anarchiste de infidèle, elle serait empêchée de réaliser l’unité morale du Fénelon…
petit noyau, ne put pas s’empêcher dans sa rage contre cet obstiné qui ne voyait pas combien ses paroles la faisaient
– Écoutez! dit à Forcheville et au docteur Mme Verdurin, souffrir, de lui crier du fond du cœur: il va nous dire la définition de l’intelligence par Fénelon, c’est intéressant, on n’a pas toujours l’occasion d’apprendre cela.
– TrouvezHle si vous voulez, mais du moins ne nous le dites pas.
Mais Brichot attendait que Swann eût donné la sienne.
CeluiHci ne répondit pas et en se dérobant fit manquer la
– Tout dépend de ce que vous appelez intelligence, dit brillante joute que Mme Verdurin se réjouissait d’offrir à Forcheville qui voulait briller à son tour. Voyons, Swann, Forcheville.
qu’entendezHvous par intelligence?
– Naturellement, c’est comme avec moi, dit Odette d’un
– Voilà! s’écria Odette, voilà les grandes choses dont je lui ton boudeur, je ne suis pas fâchée de voir que je ne suis pas demande de me parler, mais il ne veut jamais.
la seule qu’il ne trouve pas à la hauteur.
– Mais si… protesta Swann.
– Ces de La Trémouaille que Mme Verdurin nous a
– Cette blague! dit Odette.
montrés comme si peu recommandables, demanda Brichot, en articulant avec force, descendentHils de ceux que cette
– Blague à tabac? demanda le docteur.
bonne snob de Mme de Sévigné avouait être heureuse de Marcel Proust –
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Din Search OverTime connaître parce que cela faisait bien pour ses paysans? Il est réfutation désormais inutile: « C’est bon, c’est bon; en tous vrai que la marquise avait une autre raison, et qui pour elle cas, même si je me trompe, ce n’est pas un crime, je pense »
devait primer celleHlà, car gendelettre dans l’âme, elle faisait que Swann aurait voulu pouvoir dire que l’histoire était vraie passer la copie avant tout. Or dans le journal qu’elle envoyait et délicieuse. Le docteur qui les avait écoutés eut l’idée que régulièrement à sa fille, c’est Mme de la Trémouaille, bien c’était le cas de dire: « Se non è vero », mais il n’était pas documentée par ses grandes alliances, qui faisait la politique assez sûr des mots et craignit de s’embrouiller.
étrangère.
Après le dîner, Forcheville alla de luiHmême vers le
– Mais non, je ne crois pas que ce soit la même famille, dit docteur.
à tout hasard Mme Verdurin.
– Elle n’a pas dû être mal, Mme Verdurin, et puis c’est une Saniette qui, depuis qu’il avait rendu précipitamment au femme avec qui on peut causer, pour moi tout est là.
maître d’hôtel son assiette encore pleine, s’était replongé Évidemment elle commence à avoir un peu de bouteille.
dans un silence méditatif, en sortit enfin pour raconter en Mais Mme de Crécy, voilà une petite femme qui a l’air riant l’histoire d’un dîner qu’il avait fait avec le duc de La intelligente, ah! saperlipopette, on voit tout de suite qu’elle a Trémoïlle et d’où il résultait que celuiHci ne savait pas que l’œil américain, celleHlà! Nous parlons de Mme de Crécy, ditH
George Sand était le pseudonyme d’une femme. Swann, qui il à M. Verdurin qui s’approchait, la pipe à la bouche. Je me avait de la sympathie pour Saniette, crut devoir lui donner figure que comme corps de femme…
sur la culture du duc des détails montrant qu’une telle
– J’aimerais mieux l’avoir dans mon lit que le tonnerre, dit ignorance de la part de celuiHci était matériellement précipitamment Cottard qui depuis quelques instants impossible; mais tout d’un coup il s’arrêta, il venait de attendait en vain que Forcheville reprît haleine pour placer comprendre que Saniette n’avait pas besoin de ces preuves et cette vieille plaisanterie dont il craignait que ne revînt pas l’àH
savait que l’histoire était fausse pour la raison qu’il venait de propos si la conversation changeait de cours, et qu’il débita l’inventer il y avait un moment. Cet excellent homme avec cet excès de spontanéité et d’assurance qui cherche à souffrait d’être trouvé si ennuyeux par les Verdurin; et ayant masquer la froideur et l’émoi inséparables d’une récitation.
conscience d’avoir été plus terne encore à ce dîner que Forcheville la connaissait, il la comprit et s’en amusa. Quant d’habitude, il n’avait voulu le laisser finir sans avoir réussi à à M. Verdurin, il ne marchanda pas sa gaieté, car il avait amuser. Il capitula si vite, eut l’air si malheureux de voir trouvé depuis peu pour la signifier un symbole autre que manqué l’effet sur lequel il avait compté et répondit d’un ton celui dont usait sa femme, mais aussi simple et aussi clair. À
si lâche à Swann pour que celuiHci ne s’acharnât pas à une peine avaitHil commencé à faire le mouvement de tête et Marcel Proust –
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Din Search OverTime d’épaules de quelqu’un qui s’esclaffle qu’aussitôt il se mettait empêchera pas de venir dîner, naturellement, nous espérons à tousser comme si, en riant trop fort, il avait avalé la fumée vous avoir très souvent. Avec la belle saison qui vient, nous de sa pipe. Et la gardant toujours au coin de sa bouche, il allons souvent dîner en plein air. Cela ne vous ennuie pas, les prolongeait indéfiniment le simulacre de suffocation et petits dîners au Bois? bien, bien, ce sera très gentil. EstHce d’hilarité. Ainsi lui et Mme Verdurin, qui en face, écoutant le que vous n’allez pas travailler de votre métier, vous! criaHtH
peintre qui lui racontait une histoire, fermait les yeux avant elle au petit pianiste, afin de faire montre, devant un de précipiter son visage dans ses mains, avaient l’air de deux nouveau de l’importance de Forcheville, à la fois de son masques de théâtre qui figuraient différemment la gaieté.
esprit et de son pouvoir tyrannique sur les fidèles.
M. Verdurin avait d’ailleurs fait sagement en ne retirant pas
– M. de Forcheville était en train de me dire du mal de toi, sa pipe de sa bouche, car Cottard qui avait besoin de dit Mme Cottard à son mari quand il rentra au salon.
s’éloigner un instant fit à miHvoix une plaisanterie qu’il avait Et lui, poursuivant l’idée de la noblesse de Forcheville qui apprise depuis peu et qu’il renouvelait chaque fois qu’il avait l’occupait depuis le commencement du dîner, lui dit: à aller au même endroit: « Il faut que j’aille entretenir un instant le duc d’Aumale », de sorte que la quinte de M.
– Je soigne en ce moment une baronne, la baronne Verdurin recommença.
Putbus, les Putbus étaient aux Croisades, n’estHce pas? Ils ont, en Poméranie, un lac qui est grand comme dix fois la
– Voyons, enlève donc ta pipe de ta bouche, tu vois bien place de la Concorde. Je la soigne pour de l’arthrite sèche, que tu vas t’étouffer à te retenir de rire comme ça, lui dit c’est une femme charmante. Elle connaît du reste Mme Mme Verdurin qui venait offrir des liqueurs.
Verdurin, je crois.
– Quel homme charmant que votre mari, il a de l’esprit Ce qui permit à Forcheville, quand il se retrouva, un comme quatre, déclara Forcheville à Mme Cottard. Merci moment après, seul avec Mme Cottard, de compléter le madame. Un vieux troupier comme moi ça ne refuse jamais jugement favorable qu’il avait porté sur son mari: la goutte.
– Et puis il est intéressant, on voit qu’il connaît du monde.
– M. de Forcheville trouve Odette charmante, dit M.
Dame, ça sait tant de choses, les médecins.
Verdurin à sa femme.
– Je vais jouer la phrase de la Sonate pour M. Swann? dit le
– Mais justement elle voudrait déjeuner une fois avec vous.
pianiste.
Nous allons combiner ça, mais il ne faut pas que Swann le sache. Vous savez, il met un peu de froid. Ça ne vous Marcel Proust –
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Din Search OverTime
– Ah! bigre! ce n’est pas au moins le « Serpent à Sonates »?
fois que vous vous rencontriez avec lui, ditHelle pour lui faire demanda M. de Forcheville pour faire de l’effet.
remarquer que c’était à elle qu’il devait de le connaître. N’estH
ce pas, il a été délicieux, notre Brichot?
Mais le docteur Cottard, qui n’avait jamais entendu ce calembour, ne le comprit pas et crut à une erreur de M. de Swann s’inclina poliment.
Forcheville. Il s’approcha vivement pour la rectifier:
– Non? il ne vous a pas intéressé? lui demanda sèchement
– Mais non, ce n’est pas serpent à sonates qu’on dit, c’est Mme Verdurin.
serpent à sonnettes, ditHil d’un ton zélé, impatient et
– Mais si, madame, beaucoup, j’ai été ravi. Il est peutHêtre triomphal.
un peu péremptoire et un peu jovial pour mon goût. Je lui Forcheville lui expliqua le calembour. Le docteur rougit.
voudrais parfois un peu d’hésitations et de douceur, mais on sent qu’il sait tant de choses et il a l’air d’un bien brave
– Avouez qu’il est drôle, docteur?
homme.
– Oh! je le connais depuis si longtemps, répondit Cottard.
Tour le monde se retira fort tard. Les premiers mots de Mais ils se turent; sous l’agitation des trémolos de violon Cottard à sa femme furent:
qui la protégeaient de leur tenue frémissante à deux octaves
– J’ai rarement vu Mme Verdurin aussi en verve que ce de là – et comme dans un pays de montagne, derrière soir.
l’immobilité apparente et vertigineuse d’une cascade, on aperçoit, deux cents pieds plus bas, la forme minuscule d’une
– Qu’estHce que c’est exactement que cette Mme Verdurin?
promeneuse – la petite phrase venait d’apparaître, lointaine, un demiHcastor? dit Forcheville au peintre à qui il proposa de gracieuse, protégée par le long déferlement du rideau revenir avec lui.
transparent, incessant et sonore. Et Swann, en son cœur, Odette le vit s’éloigner avec regret, elle n’osa pas ne pas s’adressa à elle comme à une confidente de son amour, revenir avec Swann, mais fut de mauvaise humeur en comme à une amie d’Odette qui devrait bien lui dire de ne voiture, et quand il lui demanda s’il devait entrer chez elle, pas faire attention à ce Forcheville.
elle lui dit: « Bien entendu », en haussant les épaules avec
– Ah! vous arrivez tard, dit Mme Verdurin à un fidèle impatience. Quand tous les invités furent partis, Mme qu’elle n’avait invité qu’en « cureHdents », nous avons eu « un Verdurin dit à son mari:
» Brichot incomparable, d’une éloquence! Mais il est parti.
N’estHce pas, monsieur Swann? Je crois que c’est la première Marcel Proust –
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Din Search OverTime
– AsHtu remarqué comme Swann a ri d’un rire niais quand monde, au champion des duchesses, au moins l’autre a son nous avons parlé de Mme La Trémoïlle?
titre; il est toujours comte de Forcheville, ajoutaHtHil d’un air délicat, comme si, au courant de l’histoire de ce comté, il en Elle avait remarqué que devant ce nom Swann et soupesait minutieusement la valeur particulière.
Forcheville avaient plusieurs fois supprimé la particule. Ne doutant pas que ce fût pour montrer qu’ils n’étaient pas
– Je te dirai, dit Mme Verdurin, qu’il a cru devoir lancer intimidés par les titres, elle souhaitait d’imiter leur fierté, contre Brichot quelques insinuations venimeuses et assez mais n’avait pas bien saisi par quelle forme grammaticale elle ridicules. Naturellement, comme il a vu que Brichot était se traduisait. Aussi sa vicieuse façon de parler l’emportant aimé dans la maison, c’était une manière de nous atteindre, sur son intransigeance républicaine, elle disait encore les de de bêcher notre dîner. On sent le bon petit camarade qui La Trémoïlle ou plutôt par une abréviation en usage dans les vous débinera en sortant.
paroles des chansons de caféHconcert et les légendes des
– Mais je te l’ai dit, répondit M. Verdurin, c’est le raté, le caricaturistes et qui dissimulait le de, les d’La Trémoïlle, mais petit individu envieux de tout ce qui est un peu grand.
elle se rattrapait en disant: « Madame La Trémoïlle. » « La Duchesse, comme dit Swann », ajoutaHtHelle ironiquement En réalité il n’y avait pas un fidèle qui ne fût plus avec un sourire qui prouvait qu’elle ne faisait que citer et ne malveillant que Swann; mais tous ils avaient la précaution prenait pas à son compte une dénomination aussi naïve et d’assaisonner leurs médisances de plaisanteries connues, ridicule.
d’une petite pointe d’émotion et de cordialité; tandis que la moindre réserve que se permettait Swann, dépouillée des
– Je te dirai que je l’ai trouvé extrêmement bête.
formules de convention telles que: « Ce n’est pas du mal que Et M. Verdurin lui répondit:
nous disons » et auxquelles il dédaignait de s’abaisser, paraissait une perfidie. Il y a des auteurs originaux dont la
– Il n’est pas franc, c’est un monsieur cauteleux, toujours moindre hardiesse révolte parce qu’ils n’ont pas d’abord entre le zist et le zest. Il veut toujours ménager la chèvre et le flatté les goûts du public et ne lui ont pas servi les lieux chou. Quelle différence avec Forcheville! Voilà au moins un communs auxquels il est habitué; c’est de la même manière homme qui vous dit carrément sa façon de penser. Ça vous que Swann indignait M. Verdurin. Pour Swann comme pour plaît ou ça ne vous plaît pas. Ce n’est pas comme l’autre qui eux, c’était la nouveauté de son langage qui faisait croire à la n’est jamais ni figue ni raisin. Du reste Odette a l’air de noirceur de ses intentions.
préférer joliment le Forcheville, et je lui donne raison. Et puis enfin, puisque Swann veut nous la faire à l’homme du Marcel Proust –
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Din Search OverTime Swann ignorait encore la disgrâce dont il était menacé chez idée de l’amour qu’il avait pour elle, ou simplement une les Verdurin et continuait à voir leurs ridicules en beau, au grande idée de son influence, de l’utilité dont il pouvait lui travers de son amour.
être. Sans doute si on lui avait dit au début: « c’est ta situation qui lui plaît », et maintenant: « c’est pour ta fortune Il n’avait de rendezHvous avec Odette, au moins le plus qu’elle t’aime », il ne l’aurait pas cru, et n’aurait pas été souvent, que le soir; mais le jour, ayant peur de la fatiguer de d’ailleurs très mécontent qu’on se la figurât tenant à lui –
lui en allant chez elle, il aurait aimé du moins ne pas cesser qu’on les sentît unis l’un à l’autre – par quelque chose d’aussi d’occuper sa pensée, et à tous moments il cherchait à trouver fort que le snobisme ou l’argent. Mais, même s’il avait pensé une occasion d’y intervenir, mais d’une façon agréable pour que c’était vrai, peutHêtre n’eûtHil pas souffert de découvrir à elle. Si, à la devanture d’un fleuriste ou d’un joaillier, la vue l’amour d’Odette pour lui cet état plus durable que d’un arbuste ou d’un bijou le charmait, aussitôt il pensait à l’agrément ou les qualités qu’elle pouvait lui trouver: l’intérêt, les envoyer à Odette, imaginant le plaisir qu’ils lui avaient l’intérêt qui empêcherait de venir jamais le jour où elle aurait procuré, ressenti par elle, venant accroître la tendresse qu’elle pu être tentée de cesser de le voir. Pour l’instant, en la avait pour lui, et les faisait porter immédiatement rue La comblant de présents, en lui rendant des services, il pouvait Pérouse, pour ne pas retarder l’instant où, comme elle se reposer sur des avantages extérieurs à sa personne, à son recevrait quelque chose de lui, il se sentirait en quelque sorte intelligence, du soin épuisant de lui plaire par luiHmême. Et près d’elle. Il voulait surtout qu’elle les reçût avant de sortir cette volupté d’être amoureux, de ne vivre que d’amour, de pour que la reconnaissance qu’elle éprouverait lui valût un la réalité de laquelle il doutait parfois, le prix dont en somme accueil plus tendre quand elle le verrait chez les Verdurin, ou il la payait, en dilettante, de sensations immatérielles, lui en même, qui sait? si le fournisseur faisait assez diligence, peutH
augmentait la valeur – comme on voit des gens incertains si être une lettre qu’elle lui enverrait avant le dîner, ou sa venue le spectacle de la mer et le bruit de ses vagues sont délicieux, à elle en personne chez lui, en une visite supplémentaire, s’en convaincre ainsi que de la rare qualité de leurs goûts pour le remercier. Comme jadis quand il expérimentait sur la désintéressés, en louant cent francs par jour la chambre nature d’Odette les réactions du dépit, il cherchait par celles d’hôtel qui leur permet de les goûter.
de la gratitude à tirer d’elle des parcelles intimes de sentiment qu’elle ne lui avait pas révélées encore.
Un jour que des réflexions de ce genre le ramenaient encore au souvenir du temps où on lui avait parlé d’Odette Souvent elle avait des embarras d’argent et, pressée par comme d’une femme entretenue, et où une fois de plus il une dette, le priait de lui venir en aide. Il en était heureux s’amusait à opposer cette personnification étrange: la femme comme de tout ce qui pouvait donner à Odette une grande Marcel Proust –
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Din Search OverTime entretenue – chatoyant amalgame d’éléments inconnus et l’avait repris pour l’envoyer avec quatre autres à Odette) et si diaboliques, serti, comme une apparition de Gustave on ne pouvait pas appliquer à Odette, depuis qu’il la Moreau, de fleurs vénéneuses entrelacées à des joyaux connaissait (car il ne soupçonna pas un instant qu’elle eût précieux – et cette Odette sur le visage de qui il avait vu jamais pu recevoir d’argent de personne avant lui), ce mot passer les mêmes sentiments de pitié pour un malheureux, qu’il avait cru si inconciliable avec elle, de « femme de révolte contre une injustice, de gratitude pour un bienfait, entretenue ». Il ne put approfondir cette idée, car un accès qu’il avait vu éprouver autrefois par sa propre mère, par ses d’une paresse d’esprit, qui était chez lui congénitale, amis, cette Odette dont les propos avaient si souvent trait intermittente et providentielle, vint à ce moment éteindre aux choses qu’il connaissait le mieux luiHmême, à ses toute lumière dans son intelligence, aussi brusquement que, collections, à sa chambre, à son vieux domestique, au plus tard, quand on eut installé partout l’éclairage électrique, banquier chez qui il avait ses titres, il se trouva que cette on put couper l’électricité dans une maison. Sa pensée dernière image du banquier lui rappela qu’il aurait à y tâtonna un instant dans l’obscurité, il retira ses lunettes, en prendre de l’argent. En effet, si ce moisHci il venait moins essuya les verres, se passa la main sur les yeux, et ne revit la largement à l’aide d’Odette dans ses difficultés matérielles lumière que quand il se retrouva en présence d’une idée qu’il n’avait fait le mois dernier où il lui avait donné cinq toute différente, à savoir qu’il faudrait tâcher d’envoyer le mille francs, et s’il ne lui offrait pas une rivière de diamants mois prochain six ou sept mille francs à Odette au lieu de qu’elle désirait, il ne renouvellerait pas en elle cette cinq, à cause de la surprise et de la joie que cela lui causerait.
admiration qu’elle avait pour sa générosité, cette Le soir, quand il ne restait pas chez lui à attendre l’heure reconnaissance, qui le rendaient si heureux, et même il de retrouver Odette chez les Verdurin ou plutôt dans un des risquerait de lui faire croire que son amour pour elle, comme restaurants d’été qu’ils affectionnaient au Bois et surtout à elle en verrait les manifestations devenir moins grandes, avait SaintHCloud, il allait dîner dans quelqu’une de ces maisons diminué. Alors, tout d’un coup, il se demanda si cela, ce élégantes dont il était jadis le convive habituel. Il ne voulait n’était pas précisément l’« entretenir » (comme si, en effet, pas perdre contact avec des gens qui – savaitHon? –
cette notion d’entretenir pouvait être extraite d’éléments non pourraient peutHêtre un jour être utiles à Odette, et grâce pas mystérieux ni pervers, mais appartenant au fond auxquels en attendant il réussissait souvent à lui être quotidien et privé de sa vie, tels que ce billet de mille francs, agréable. Puis l’habitude qu’il avait eue longtemps du monde, domestique et familier, déchiré et recollé, que son valet de du luxe, lui en avait donné, en même temps que le dédain, le chambre, après lui avoir payé les comptes du mois et le besoin, de sorte qu’à partir du moment où les réduits les plus terme, avait serré dans le tiroir du vieux bureau où Swann Marcel Proust –
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Din Search OverTime modestes lui étaient apparus exactement sur le même pied d’ancolies. Se sentant souffrant et triste depuis quelque que les plus princières demeures, ses sens étaient tellement temps, surtout depuis qu’Odette avait présenté Forcheville accoutumés aux secondes qu’il eût éprouvé quelque malaise aux Verdurin, Swann aurait aimé aller se reposer un peu à la à se trouver dans les premiers. Il avait la même considération campagne. Mais il n’aurait pas eu le courage de quitter Paris
– à un degré d’identité qu’ils n’auraient pu croire – pour des un seul jour pendant qu’Odette y était. L’air était chaud; petits bourgeois qui faisaient danser au cinquième étage d’un c’étaient les plus beaux jours du printemps. Et il avait beau escalier D, palier à gauche, que pour la princesse de Parme traverser une ville de pierre pour se rendre en quelque hôtel qui donnait les plus belles fêtes de Paris; mais il n’avait pas la clos, ce qui était sans cesse devant ses yeux, c’était un parc sensation d’être au bal en se tenant avec les pères dans la qu’il possédait près de Combray, où, dès quatre heures, avant chambre à coucher de la maîtresse de la maison, et la vue des d’arriver au plant d’asperges, grâce au vent qui vient des lavabos recouverts de serviettes, des lits transformés en champs de Méséglise, on pouvait goûter sous une charmille vestiaires, sur le couvreHpied desquels s’entassaient les autant de fraîcheur qu’au bord de l’étang cerné de myosotis pardessus et les chapeaux lui donnait la même sensation et de glaïeuls, et où, quand il dînait, enlacées par son d’étouffement que peut causer aujourd’hui à des gens jardinier, couraient autour de la table les groseilles et les habitués à vingt ans d’électricité l’odeur d’une lampe qui roses.
charbonne ou d’une veilleuse qui file.
Après dîner, si le rendezHvous au Bois ou à SaintHCloud Le jour où il dînait en ville, il faisait atteler pour sept était de bonne heure, il partait si vite en sortant de table –
heures et demie; il s’habillait tout en songeant à Odette et surtout si la pluie menaçait de tomber et de faire rentrer plus ainsi il ne se trouvait pas seul, car la pensée constante tôt les « fidèles » – qu’une fois la princesse des Laumes (chez d’Odette donnait aux moments où il était loin d’elle le même qui on avait dîné tard et que Swann avait quittée avant qu’on charme particulier qu’à ceux où elle était là. Il montait en servît le café pour rejoindre les Verdurin dans l’île du Bois) voiture, mais il sentait que cette pensée y avait sauté en dit:
même temps et s’installait sur ses genoux comme une bête
– Vraiment, si Swann avait trente ans de plus et une aimée qu’on emmène partout et qu’il garderait avec lui à maladie de la vessie, on l’excuserait de filer ainsi. Mais tout table, à l’insu des convives. Il la caressait, se réchauffait à de même il se moque du monde.
elle, et éprouvant une sorte de langueur, se laissait aller à un léger frémissement qui crispait son cou et son nez, et était Il se disait que le charme du printemps qu’il ne pouvait pas nouveau chez lui, tout en fixant à sa boutonnière le bouquet aller goûter à Combray, il le trouverait du moins dans l’île des Cygnes ou à SaintHCloud. Mais comme il ne pouvait Marcel Proust –
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Din Search OverTime penser qu’à Odette, il ne savait même pas s’il avait senti devant tous, avec cette tranquille impudeur, leurs rendezH
l’odeur des feuilles, s’il y avait eu du clair de lune. Il était vous quotidiens du soir, la situation privilégiée qu’il avait accueilli par la petite phrase de la sonate jouée dans le jardin chez elle et la préférence pour lui qui y était impliquée.
sur le piano du restaurant. S’il n’y en avait pas là, les Certes Swann avait souvent pensé qu’Odette n’était à aucun Verdurin prenaient une grande peine pour en faire descendre degré une femme remarquable, et la suprématie qu’il exerçait un d’une chambre ou d’une salle à manger: ce n’est pas que sur un être qui lui était si inférieur n’avait rien qui dût lui Swann fût rentré en faveur auprès d’eux, au contraire. Mais paraître si flatteur à voir proclamer à la face des « fidèles », l’idée d’organiser un plaisir ingénieux pour quelqu’un, même mais depuis qu’il s’était aperçu qu’à beaucoup d’hommes pour quelqu’un qu’ils n’aimaient pas, développait chez eux, Odette semblait une femme ravissante et désirable, le pendant les moments nécessaires à ces préparatifs, des charme qu’avait pour eux son corps avait éveillé en lui un sentiments éphémères et occasionnels de sympathie et de besoin douloureux de la maîtriser entièrement dans les cordialité. Parfois il se disait que c’était un nouveau soir de moindres parties de son cœur. Et il avait commencé printemps de plus qui passait, il se contraignait à faire d’attacher un prix inestimable à ces moments passés chez attention aux arbres, au ciel. Mais l’agitation où le mettait la elle le soir, où il l’asseyait sur ses genoux, lui faisait dire ce présence d’Odette, et aussi un léger malaise fébrile qui ne le qu’elle pensait d’une chose, d’une autre, où il recensait les quittait guère depuis quelque temps, le privait du calme et du seuls biens à la possession desquels il tînt maintenant sur bienHêtre qui sont le fond indispensable aux impressions que terre. Aussi, après ce dîner, la prenant à part, il ne manqua peut donner la nature.
pas de la remercier avec effusion, cherchant à lui enseigner selon les degrés de la reconnaissance qu’il lui témoignait, Un soir où Swann avait accepté de dîner avec les Verdurin, l’échelle des plaisirs qu’elle pouvait lui causer, et dont le comme pendant le dîner il venait de dire que le lendemain il suprême était de le garantir, pendant le temps que son amour avait un banquet d’anciens camarades, Odette lui avait durerait et l’y rendrait vulnérable, des atteintes de la jalousie.
répondu en pleine table, devant Forcheville, qui était maintenant un des fidèles, devant le peintre, devant Cottard: Quand il sortit le lendemain du banquet, il pleuvait à verse, il n’avait à sa disposition que sa victoria; un ami lui proposa
– Oui, je sais que vous avez votre banquet; je ne vous de le reconduire chez lui en coupé, et comme Odette, par le verrai donc que chez moi, mais ne venez pas trop tard.
fait qu’elle lui avait demandé de venir, lui avait donné la Bien que Swann n’eût encore jamais pris bien sérieusement certitude qu’elle n’attendait personne, c’est l’esprit tranquille ombrage de l’amitié d’Odette pour tel ou tel fidèle, il et le cœur content que, plutôt que de partir ainsi dans la éprouvait une douceur profonde à l’entendre avouer ainsi Marcel Proust –
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Din Search OverTime pluie, il serait rentré chez lui se coucher. Mais peutHêtre, si à peu près une heure et demie qu’il l’avait quittée, il ressortit, elle voyait qu’il n’avait pas l’air de tenir à passer toujours prit un fiacre et se fit arrêter tout près de chez elle, dans une avec elle, sans aucune exception, la fin de la soirée, petite rue perpendiculaire à celle sur laquelle donnait derrière négligeraitHelle de la lui réserver, justement une fois où il son hôtel et où il allait quelquefois frapper à la fenêtre de sa l’aurait particulièrement désiré.
chambre à coucher pour qu’elle vînt lui ouvrir; il descendit de voiture, tout était désert et noir dans ce quartier, il n’eut Il arriva chez elle après onze heures, et, comme il que quelques pas à faire à pied et déboucha presque devant s’excusait de n’avoir pu venir plus tôt, elle se plaignit que ce chez elle. Parmi l’obscurité de toutes les fenêtres éteintes fût en effet bien tard, l’orage l’avait rendue souffrante, elle se depuis longtemps dans la rue, il en vit une seule d’où sentait mal à la tête et le prévint qu’elle ne le garderait pas débordait – entre les volets qui en pressaient la pulpe plus d’une demiHheure, qu’à minuit, elle le renverrait; et, peu mystérieuse et dorée – la lumière qui remplissait la chambre après, elle se sentit fatiguée et désira s’endormir.
et qui, tant d’autres soirs, du plus loin qu’il l’apercevait, en
– Alors, pas de catleyas ce soir? lui ditHil, moi qui espérais arrivant dans la rue, le réjouissait et lui annonçait: « elle est là un bon petit catleya.
qui t’attend » et qui maintenant, le torturait en lui disant: «
Et d’un air un peu boudeur et nerveux, elle lui répondit: elle est là avec celui qu’elle attendait ». Il voulait savoir qui; il se glissa le long du mur jusqu’à la fenêtre, mais entre les
– Mais non, mon petit, pas de catleyas ce soir, tu vois bien lames obliques des volets il ne pouvait rien voir; il entendait que je suis souffrante!
seulement dans le silence de la nuit le murmure d’une
– Cela t’aurait peutHêtre fait du bien, mais enfin je n’insiste conversation. Certes, il souffrait de voir cette lumière dans pas.
l’atmosphère d’or de laquelle se mouvait derrière le châssis le couple invisible et détesté, d’entendre ce murmure qui Elle le pria d’éteindre la lumière avant de s’en aller, il révélait la présence de celui qui était venu après son départ, referma luiHmême les rideaux du lit et partit. Mais quand il la fausseté d’Odette, le bonheur qu’elle était en train de fut rentré chez lui, l’idée lui vint brusquement que peutHêtre goûter avec lui.
Odette attendait quelqu’un ce soir, qu’elle avait seulement simulé la fatigue et qu’elle ne lui avait demandé d’éteindre Et pourtant il était content d’être venu: le tourment qui que pour qu’il crût qu’elle allait s’endormir, qu’aussitôt qu’il l’avait forcé de sortir de chez lui avait perdu de son acuité en avait été parti, elle l’avait rallumée, et fait rentrer celui qui perdant de son vague, maintenant que l’autre vie d’Odette, devait passer la nuit auprès d’elle. Il regarda l’heure. Il y avait dont il avait eu, à ce momentHlà, le brusque et impuissant Marcel Proust –
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Din Search OverTime soupçon, il la tenait là, éclairée en plein par la lampe, l’individuel prend quelque chose de si profond, que cette prisonnière sans le savoir dans cette chambre où, quand il le curiosité qu’il sentait s’éveiller en lui à l’égard des moindres voudrait, il entrerait la surprendre et la capturer; ou plutôt il occupations d’une femme, c’était celle qu’il avait eue allait frapper aux volets comme il faisait souvent quand il autrefois pour l’Histoire. Et tout ce dont il aurait eu honte venait très tard; ainsi du moins, Odette apprendrait qu’il jusqu’ici, espionner devant une fenêtre, qui sait? demain avait su, qu’il avait vu la lumière et entendu la causerie, et lui, peutHêtre, faire parler habilement les indifférents, soudoyer qui tout à l’heure, se la représentait comme se riant avec les domestiques, écouter aux portes, ne lui semblait plus, l’autre de ses illusions, maintenant, c’était eux qu’il voyait, aussi bien que le déchiffrement des textes, la comparaison confiants dans leur erreur, trompés en somme par lui qu’ils des témoignages et l’interprétation des monuments, que des croyaient bien loin d’ici et qui, lui, savait déjà qu’il allait méthodes d’investigation scientifique d’une véritable valeur frapper aux volets. Et peutHêtre, ce qu’il ressentait en ce intellectuelle et appropriées à la recherche de la vérité.
moment de presque agréable, c’était autre chose aussi que Sur le point de frapper contre les volets, il eut un moment l’apaisement d’un doute et d’une douleur: un plaisir de de honte en pensant qu’Odette allait savoir qu’il avait eu des l’intelligence. Si, depuis qu’il était amoureux, les choses soupçons, qu’il était revenu, qu’il s’était posté dans la rue.
avaient repris pour lui un peu de l’intérêt délicieux qu’il leur Elle lui avait dit souvent l’horreur qu’elle avait des jaloux, des trouvait autrefois, mais seulement là où elles étaient éclairées amants qui espionnent. Ce qu’il allait faire était bien par le souvenir d’Odette, maintenant, c’était une autre faculté maladroit, et elle allait le détester désormais, tandis qu’en ce de sa studieuse jeunesse que sa jalousie ranimait, la passion moment encore, tant qu’il n’avait pas frappé, peutHêtre, de la vérité, mais d’une vérité, elle aussi, interposée entre lui même en le trompant, l’aimaitHelle. Que de bonheurs et sa maîtresse, ne recevant sa lumière que d’elle, vérité tout possibles dont on sacrifie ainsi la réalisation à l’impatience individuelle qui avait pour objet unique, d’un prix infini et d’un plaisir immédiat! Mais le désir de connaître la vérité presque d’une beauté désintéressée, les actions d’Odette, ses était plus fort et lui sembla plus noble. Il savait que la réalité relations, ses projets, son passé. À toute autre époque de sa de circonstances, qu’il eût donné sa vie pour restituer vie, les petits faits et gestes quotidiens d’une personne exactement, était lisible derrière cette fenêtre striée de avaient toujours paru sans valeur à Swann: si on lui en faisait lumière, comme sous la couverture enluminée d’or d’un de le commérage, il le trouvait insignifiant, et, tandis qu’il ces manuscrits précieux à la richesse artistique elleHmême l’écoutait, ce n’était que sa plus vulgaire attention qui y était desquels le savant qui les consulte ne peut rester indifférent.
intéressée; c’était pour lui un des moments où il se sentait le Il éprouvait une volupté à connaître la vérité qui le plus médiocre. Mais dans cette étrange période de l’amour, Marcel Proust –
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Din Search OverTime passionnait dans cet exemplaire unique, éphémère et donné, par sa jalousie, cette preuve qu’il l’aimait trop, qui, précieux, d’une matière translucide, si chaude et si belle. Et entre deux amants, dispense, à tout jamais, d’aimer assez, puis l’avantage qu’il se sentait – qu’il avait tant besoin de se celui qui la reçoit. Il ne lui parla pas de cette mésaventure, sentir – sur eux, était peutHêtre moins de savoir, que de luiHmême n’y songeait plus. Mais, par moments, un pouvoir leur montrer qu’il savait. Il se haussa sur la pointe mouvement de sa pensée venait en rencontrer le souvenir des pieds. Il frappa. On n’avait pas entendu, il refrappa plus qu’elle n’avait pas aperçu, le heurtait, l’enfonçait plus avant et fort, la conversation s’arrêta. Une voix d’homme dont il Swann avait ressenti une douleur brusque et profonde.
chercha à distinguer auquel de ceux des amis d’Odette qu’il Comme si ç’avait été une douleur physique, les pensées de connaissait elle pouvait appartenir, demanda: Swann ne pouvaient pas l’amoindrir; mais du moins la douleur physique, parce qu’elle est indépendante de la
– Qui est là?
pensée, la pensée peut s’arrêter sur elle, constater qu’elle a Il n’était pas sûr de la reconnaître. Il frappa encore une diminué, qu’elle a momentanément cessé. Mais cette fois. On ouvrit la fenêtre, puis les volets. Maintenant, il n’y douleurHlà, la pensée, rien qu’en se la rappelant, la recréait.
avait plus moyen de reculer et, puisqu’elle allait tout savoir, Vouloir n’y pas penser, c’était y penser encore, en souffrir pour ne pas avoir l’air trop malheureux, trop jaloux et encore. Et quand, causant avec des amis, il oubliait son mal, curieux, il se contenta de crier d’un air négligent et gai: tout d’un coup un mot qu’on lui disait le faisait changer de
– Ne vous dérangez pas, je passais par là, j’ai vu de la visage, comme un blessé dont un maladroit vient de toucher lumière, j’ai voulu savoir si vous n’étiez plus souffrante.
sans précaution le membre douloureux. Quand il quittait Odette, il était heureux, il se sentait calme, il se rappelait les Il regarda. Devant lui, deux vieux messieurs étaient à la sourires qu’elle avait eus, railleurs en parlant de tel ou tel fenêtre, l’un tenant une lampe, et alors, il vit la chambre, une autre, et tendres pour lui, la lourdeur de sa tête qu’elle avait chambre inconnue. Ayant l’habitude, quand il venait chez détachée de son axe pour l’incliner, la laisser tomber, Odette très tard, de reconnaître sa fenêtre à ce que c’était la presque malgré elle, sur ses lèvres, comme elle avait fait la seule éclairée entre les fenêtres toutes pareilles, il s’était première fois en voiture, les regards mourants qu’elle lui trompé et avait frappé à la fenêtre suivante qui appartenait à avait jetés pendant qu’elle était dans ses bras, tout en la maison voisine. Il s’éloigna en s’excusant et rentra chez lui, contractant frileusement contre l’épaule sa tête inclinée.
heureux que la satisfaction de sa curiosité eût laissé leur amour intact et qu’après avoir simulé depuis si longtemps Mais aussitôt sa jalousie, comme si elle était l’ombre de visHàHvis d’Odette une sorte d’indifférence, il ne lui eût pas son amour, se complétait du double de ce nouveau sourire Marcel Proust –
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Din Search OverTime qu’elle lui avait adressé le soir même – et qui, inverse gêné à certains moments rien que de sa présence, Forcheville maintenant, raillait Swann et se chargeait d’amour pour un répondit à ce propos maladroit de Saniette avec une telle autre – de cette inclinaison de sa tête mais renversée vers grossièreté, se mettant à l’insulter, s’enhardissant, au fur et à d’autres lèvres, et, données à un autre, toutes les marques de mesure qu’il vociférait, de l’effroi, de la douleur, des tendresse qu’elle avait eues pour lui. Et tous les souvenirs supplications de l’autre, que le malheureux, après avoir voluptueux qu’il emportait de chez elle étaient comme autant demandé à Mme Verdurin s’il devait rester, et n’ayant pas d’esquisses, de « projets » pareils à ceux que vous soumet un reçu de réponse, s’était retiré en balbutiant, les larmes aux décorateur, et qui permettaient à Swann de se faire une idée yeux. Odette avait assisté impassible à cette scène, mais des attitudes ardentes ou pâmées qu’elle pouvait avoir avec quand la porte se fut refermée sur Saniette, faisant descendre d’autres. De sorte qu’il en arrivait à regretter chaque plaisir en quelque sorte de plusieurs crans l’expression habituelle de qu’il goûtait près d’elle, chaque caresse inventée et dont il son visage, pour pouvoir se trouver dans la bassesse, de avait eu l’imprudence de lui signaler la douceur, chaque grâce plainHpied avec Forcheville, elle avait brillanté ses prunelles qu’il lui découvrait, car il savait qu’un instant après, elles d’un sourire sournois de félicitations pour l’audace qu’il avait allaient enrichir d’instruments nouveaux son supplice.
eue, d’ironie pour celui qui en avait été victime; elle lui avait jeté un regard de complicité dans le mal, qui voulait si bien CeluiHci était rendu plus cruel encore quand revenait à dire: « voilà une exécution, ou je ne m’y connais pas. AvezH
Swann le souvenir d’un bref regard qu’il avait surpris, il y vous vu son air penaud, il en pleurait », que Forcheville, avait quelques jours, et pour la première fois, dans les yeux quand ses yeux rencontrèrent ce regard, dégrisé soudain de la d’Odette. C’était après dîner, chez les Verdurin. Soit que colère ou de la simulation de colère dont il était encore Forcheville sentant que Saniette, son beauHfrère, n’était pas chaud, sourit et répondit:
en faveur chez eux, eût voulu le prendre comme tête de Turc et briller devant eux à ses dépens, soit qu’il eût été irrité par
– Il n’avait qu’à être aimable, il serait encore ici, une bonne un mot maladroit que celuiHci venait de lui dire, et qui, correction peut être utile à tout âge.
d’ailleurs, passa inaperçu pour les assistants qui ne savaient Un jour que Swann était sorti au milieu de l’aprèsHmidi pas quelle allusion désobligeante il pouvait renfermer, bien pour faire une visite, n’ayant pas trouvé la personne qu’il contre le gré de celui qui le prononçait sans malice aucune, voulait rencontrer, il eut l’idée d’entrer chez Odette à cette soit enfin qu’il cherchât depuis quelque temps une occasion heure où il n’allait jamais chez elle, mais où il savait qu’elle de faire sortir de la maison quelqu’un qui le connaissait trop était toujours à la maison à faire sa sieste ou à écrire des bien et qu’il savait trop délicat pour qu’il ne se sentît pas lettres avant l’heure du thé, et où il aurait plaisir à la voir un Marcel Proust –
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Din Search OverTime peu sans la déranger. Le concierge lui dit qu’il croyait qu’elle c’était un détail véritable qui n’offrait pas les mêmes dangers était là; il sonna, crut entendre du bruit, entendre marcher, qu’un détail faux. « Ça du moins, c’est vrai, se disaitHelle, c’est mais on n’ouvrit pas. Anxieux, irrité, il alla dans la petite rue toujours autant de gagné, il peut s’informer, il reconnaîtra où donnait l’autre face de l’hôtel, se mit devant la fenêtre de que c’est vrai, ce n’est toujours pas ça qui me trahira. » Elle la chambre d’Odette; les rideaux l’empêchaient de rien voir, se trompait, c’était cela qui la trahissait, elle ne se rendait pas il frappa avec force aux carreaux, appela; personne n’ouvrit.
compte que ce détail vrai avait des angles qui ne pouvaient Il vit que des voisins le regardaient. Il partit, pensant s’emboîter que dans les détails contigus du fait vrai dont elle qu’après tout, il s’était peutHêtre trompé en croyant entendre l’avait arbitrairement détaché et qui, quels que fussent les des pas; mais il en resta si préoccupé qu’il ne pouvait penser détails inventés entre lesquels elle le placerait, révéleraient à autre chose. Une heure après, il revint. Il la trouva; elle lui toujours par la matière excédante et les vides non remplis, dit qu’elle était chez elle tantôt quand il avait sonné, mais que ce n’était pas d’entre ceuxHlà qu’il venait. « Elle avoue dormait; la sonnette l’avait éveillée, elle avait deviné que qu’elle m’avait entendu sonner, puis frapper, et qu’elle avait c’était Swann, elle avait couru après lui, mais il était déjà cru que c’était moi, qu’elle avait envie de me voir, se disait parti. Elle avait bien entendu frapper aux carreaux. Swann Swann. Mais cela ne s’arrange pas avec le fait qu’elle n’ait pas reconnut tout de suite dans ce dire un de ces fragments d’un fait ouvrir. »
fait exact que les menteurs pris de court se consolent de faire Mais il ne lui fit pas remarquer cette contradiction, car il entrer dans la composition du fait faux qu’ils inventent, pensait que, livrée à elleHmême, Odette produirait peutHêtre croyant y faire sa part et y dérober sa ressemblance à la quelque mensonge qui serait un faible indice de la vérité; elle Vérité. Certes quand Odette venait de faire quelque chose parlait; il ne l’interrompait pas, il recueillait avec une piété qu’elle ne voulait pas révéler, elle le cachait bien au fond avide et douloureuse ces mots qu’elle lui disait et qu’il sentait d’elleHmême. Mais dès qu’elle se trouvait en présence de celui (justement, parce qu’elle la cachait derrière eux tout en lui à qui elle voulait mentir, un trouble la prenait, toutes ses parlant) garder vaguement, comme le voile sacré, idées s’effondraient, ses facultés d’invention et de l’empreinte, dessiner l’incertain modelé, de cette réalité raisonnement étaient paralysées, elle ne trouvait plus dans sa infiniment précieuse et hélas introuvable: – ce qu’elle faisait tête que le vide, il fallait pourtant dire quelque chose, et elle tantôt à trois heures, quand il était venu – de laquelle il ne rencontrait à sa portée précisément la chose qu’elle avait posséderait jamais que ces mensonges, illisibles et divins voulu dissimuler et qui étant vraie, était seule restée là. Elle vestiges, et qui n’existait plus que dans le souvenir receleur en détachait un petit morceau, sans importance par luiH
de cet être qui la contemplait sans savoir l’apprécier, mais ne même, se disant qu’après tout c’était mieux ainsi puisque Marcel Proust –
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Din Search OverTime la lui livrerait pas. Certes il se doutait bien par moments sage de faire dans sa vie la part de la souffrance qu’il qu’en ellesHmêmes les actions quotidiennes d’Odette éprouvait à ignorer ce qu’avait fait Odette, aussi bien que la n’étaient pas passionnément intéressantes, et que les part de la recrudescence qu’un climat humide causait à son relations qu’elle pouvait avoir avec d’autres hommes eczéma; de prévoir dans son budget une disponibilité n’exhalaient pas naturellement d’une façon universelle et importante pour obtenir sur l’emploi des journées d’Odette pour tout être pensant une tristesse morbide, capable de des renseignements sans lesquels il se sentirait malheureux, donner la fièvre du suicide. Il se rendait compte alors que cet aussi bien qu’il en réservait pour d’autres goûts dont il savait intérêt, cette tristesse n’existaient qu’en lui comme une qu’il pouvait attendre du plaisir, au moins avant qu’il fût maladie, et que quand celleHci serait guérie, les actes amoureux, comme celui des collections et de la bonne d’Odette, les baisers qu’elle aurait pu donner redeviendraient cuisine.
inoffensifs comme ceux de tant d’autres femmes. Mais que la Quand il voulut dire adieu à Odette pour rentrer, elle lui curiosité douloureuse que Swann y portait maintenant n’eût demanda de rester encore et le retint même vivement, en lui sa cause qu’en lui n’était pas pour lui faire trouver prenant le bras, au moment où il allait ouvrir la porte pour déraisonnable de considérer cette curiosité comme sortir. Mais il n’y prit pas garde, car, dans la multitude des importante et de mettre tout en œuvre pour lui donner gestes, des propos, des petits incidents qui remplissent une satisfaction. C’est que Swann arrivait à un âge dont la conversation, il est inévitable que nous passions, sans y rien philosophie – favorisée par celle de l’époque, par celle aussi remarquer qui éveille notre attention, près de ceux qui du milieu où Swann avait beaucoup vécu, de cette coterie de cachent une vérité que nos soupçons cherchent au hasard, et la princesse des Laumes où il était convenu qu’on est que nous nous arrêtions au contraire à ceux sous lesquels il intelligent dans la mesure où on doute de tout et où on ne n’y a rien. Elle lui redisait tout le temps: « Quel malheur que trouvait de réel et d’incontestable que les goûts de chacun –
toi, qui ne viens jamais l’aprèsHmidi, pour une fois que cela n’est déjà plus celle de la jeunesse, mais une philosophie t’arrive, je ne t’aie pas vu. » Il savait bien qu’elle n’était pas positive, presque médicale, d’hommes qui au lieu assez amoureuse de lui pour avoir un regret si vif d’avoir d’extérioriser les objets de leurs aspirations, essayent de manqué sa visite, mais comme elle était bonne, désireuse de dégager de leurs années déjà écoulées un résidu fixe lui faire plaisir, et souvent triste quand elle l’avait contrarié, il d’habitudes, de passions qu’ils puissent considérer en eux trouva tout naturel qu’elle le fût cette fois de l’avoir privé de comme caractéristiques et permanentes et auxquelles, ce plaisir de passer une heure ensemble qui était très grand, délibérément, ils veilleront d’abord que le genre d’existence non pour elle, mais pour lui. C’était pourtant une chose assez qu’ils adoptent puisse donner satisfaction. Swann trouvait Marcel Proust –
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Din Search OverTime peu importante pour que l’air douloureux qu’elle continuait Quel mensonge déprimant étaitHelle en train de faire à d’avoir finît par l’étonner. Elle rappelait ainsi, plus encore Swann pour qu’elle eût ce regard douloureux, cette voix qu’il ne le trouvait d’habitude, les figures de femmes du plaintive qui semblaient fléchir sous l’effort qu’elle peintre de la Primavera. Elle avait en ce moment leur visage s’imposait, et demander grâce? Il eut l’idée que ce n’était pas abattu et navré qui semble succomber sous le poids d’une seulement la vérité sur l’incident de l’aprèsHmidi qu’elle douleur trop lourde pour elles, simplement quand elles s’efforçait de lui cacher, mais quelque chose de plus actuel, laissent l’enfant Jésus jouer avec une grenade ou regardent peutHêtre de non encore survenu et de tout prochain, et qui Moïse verser de l’eau dans une auge. Il lui avait déjà vu une pourrait l’éclairer sur cette vérité. À ce moment, il entendit fois une telle tristesse, mais ne savait plus quand. Et tout un coup de sonnette. Odette ne cessa plus de parler, mais ses d’un coup, il se rappela: c’était quand Odette avait menti en paroles n’étaient qu’un gémissement: son regret de ne pas parlant à Mme Verdurin le lendemain de ce dîner où elle avoir vu Swann dans l’aprèsHmidi, de ne pas lui avoir ouvert, n’était pas venue sous prétexte qu’elle était malade et en était devenu un véritable désespoir.
réalité pour rester avec Swann. Certes, eûtHelle été la plus On entendit la porte d’entrée se refermer et le bruit d’une scrupuleuse des femmes qu’elle n’aurait pu avoir de remords voiture, comme si repartait une personne – celle d’un mensonge aussi innocent. Mais ceux que faisait probablement que Swann ne devait pas rencontrer – à qui on couramment Odette l’étaient moins et servaient à empêcher avait dit qu’Odette était sortie. Alors en songeant que rien des découvertes qui auraient pu lui créer avec les uns ou avec qu’en venant à une heure où il n’en avait pas l’habitude, il les autres, de terribles difficultés. Aussi quand elle mentait, s’était trouvé déranger tant de choses qu’elle ne voulait pas prise de peur, se sentant peu armée pour se défendre, qu’il sût, il éprouva un sentiment de découragement, presque incertaine du succès, elle avait envie de pleurer, par fatigue, de détresse. Mais comme il aimait Odette, comme il avait comme certains enfants qui n’ont pas dormi. Puis elle savait l’habitude de tourner vers elle toutes ses pensées, la pitié que son mensonge lésait d’ordinaire gravement l’homme à qu’il eût pu s’inspirer à luiHmême, ce fut pour elle qu’il la qui elle le faisait, et à la merci duquel elle allait peutHêtre ressentit, et il murmura: « Pauvre chérie! » Quand il la quitta, tomber si elle mentait mal. Alors elle se sentait à la fois elle prit plusieurs lettres qu’elle avait sur sa table et lui humble et coupable devant lui. Et quand elle avait à faire un demanda s’il ne pourrait pas les mettre à la poste. Il les mensonge insignifiant et mondain, par association de emporta et, une fois rentré, s’aperçut qu’il avait gardé les sensations et de souvenirs, elle éprouvait le malaise d’un lettres sur lui. Il retourna jusqu’à la poste, les tira de sa poche surmenage et le regret d’une méchanceté.
et avant de les jeter dans la boîte regarda les adresses. Elles Marcel Proust –
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Din Search OverTime étaient toutes pour des fournisseurs, sauf une pour avait bien lu au commencement de la ligne: « J’ai eu raison », Forcheville. Il la tenait dans sa main. Il se disait: « Si je voyais mais ne comprenait pas ce qu’Odette avait eu raison de faire, ce qu’il y a dedans, je saurais comment elle l’appelle, quand soudain, un mot qu’il n’avait pas pu déchiffrer comment elle lui parle, s’il y a quelque chose entre eux. PeutH
d’abord, apparut et éclaira le sens de la phrase tout entière: «
être même qu’en ne la regardant pas, je commets une J’ai eu raison d’ouvrir, c’était mon oncle. » D’ouvrir! alors indélicatesse à l’égard d’Odette, car c’est la seule manière de Forcheville était là tantôt quand Swann avait sonné et elle me délivrer d’un soupçon peutHêtre calomnieux pour elle, l’avait fait partir, d’où le bruit qu’il avait entendu.
destiné en tous cas à la faire souffrir et que rien ne pourrait Alors il lut toute la lettre; à la fin elle s’excusait d’avoir agi plus détruire, une fois la lettre partie. »
aussi sans façon avec lui et lui disait qu’il avait oublié ses Il rentra chez lui en quittant la poste, mais il avait gardé sur cigarettes chez elle, la même phrase qu’elle avait écrite à lui cette dernière lettre. Il alluma une bougie et en approcha Swann une des premières fois qu’il était venu. Mais pour l’enveloppe qu’il n’avait pas osé ouvrir. D’abord il ne put Swann elle avait ajouté: « puissiezHvous y avoir laissé votre rien lire, mais l’enveloppe était mince, et en la faisant adhérer cœur, je ne vous aurais pas laissé le reprendre ». Pour à la carte dure qui y était incluse, il put à travers sa Forcheville rien de tel: aucune allusion qui pût faire supposer transparence, lire les derniers mots. C’était une formule une intrigue entre eux. À vrai dire d’ailleurs, Forcheville était finale très froide. Si, au lieu que ce fût lui qui regardât une en tout ceci plus trompé que lui, puisque Odette lui écrivait lettre adressée à Forcheville, c’eût été Forcheville qui eût lu pour lui faire croire que le visiteur était son oncle. En une lettre adressée à Swann, il aurait pu voir des mots somme, c’était lui, Swann, l’homme à qui elle attachait de autrement tendres. Il maintint immobile la carte qui dansait l’importance et pour qui elle avait congédié l’autre. Et dans l’enveloppe plus grande qu’elle, puis, la faisant glisser pourtant, s’il n’y avait rien entre Odette et Forcheville, avec le pouce, en amena successivement les différentes lignes pourquoi n’avoir pas ouvert tout de suite, pourquoi avoir dit: sous la partie de l’enveloppe qui n’était pas doublée, la seule
« J’ai bien fait d’ouvrir, c’était mon oncle »; si elle ne faisait à travers laquelle on pouvait lire.
rien de mal à ce momentHlà, comment Forcheville pourraitHil même s’expliquer qu’elle eût pu ne pas ouvrir? Swann restait Malgré cela il ne distinguait pas bien. D’ailleurs cela ne là, désolé, confus et pourtant heureux, devant cette faisait rien, car il en avait assez vu pour se rendre compte enveloppe qu’Odette lui avait remise sans crainte, tant était qu’il s’agissait d’un petit événement sans importance et qui absolue la confiance qu’elle avait en sa délicatesse, mais à ne touchait nullement à des relations amoureuses; c’était travers le vitrage transparent de laquelle se dévoilait à lui, quelque chose qui se rapportait à un oncle d’Odette. Swann Marcel Proust –
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Din Search OverTime avec le secret d’un incident qu’il n’aurait jamais cru possible assemblées nombreuses, on le voyait sauvage, fuyant la de connaître, un peu de la vie d’Odette, comme dans une société des hommes comme si elle l’eût cruellement blessé.
étroite section lumineuse pratiquée à même l’inconnu. Puis Et comment n’auraitHil pas été misanthrope, quand dans tout sa jalousie s’en réjouissait, comme si cette jalousie eût eu une homme il voyait un amant possible pour Odette? Et ainsi sa vitalité indépendante, égoïste, vorace de tout ce qui la jalousie, plus encore que n’avait fait le goût voluptueux et nourrirait, fûtHce aux dépens de luiHmême. Maintenant elle riant qu’il avait d’abord pour Odette, altérait le caractère de avait un aliment et Swann allait pouvoir commencer à Swann et changeait du tout au tout, aux yeux des autres, s’inquiéter chaque jour des visites qu’Odette avait reçues l’aspect même des signes extérieurs par lesquels ce caractère vers cinq heures, à chercher à apprendre où se trouvait se manifestait.
Forcheville à cette heureHlà. Car la tendresse de Swann Un mois après le jour où il avait lu la lettre adressée par continuait à garder le même caractère que lui avait imprimé Odette à Forcheville, Swann alla à un dîner que les Verdurin dès le début à la fois l’ignorance où il était de l’emploi des donnaient au Bois. Au moment où on se préparait à partir, il journées d’Odette et la paresse cérébrale qui l’empêchait de remarqua des conciliabules entre Mme Verdurin et plusieurs suppléer à l’ignorance par l’imagination. Il ne fut pas jaloux des invités et crut comprendre qu’on rappelait au pianiste de d’abord de toute la vie d’Odette, mais des seuls moments où venir le lendemain à une partie à Chatou; or, lui, Swann, n’y une circonstance, peutHêtre mal interprétée, l’avait amené à était pas invité.
supposer qu’Odette avait pu le tromper. Sa jalousie, comme une pieuvre qui jette une première, puis une seconde, puis Les Verdurin n’avaient parlé qu’à demiHvoix et en termes une troisième amarre, s’attacha solidement à ce moment de vagues, mais le peintre, distrait sans doute, s’écria: cinq heures du soir, puis à un autre, puis à un autre encore.
– Il ne faudra aucune lumière et qu’il joue la sonate Clair Mais Swann ne savait pas inventer ses souffrances. Elles de lune dans l’obscurité pour mieux voir s’éclairer les choses.
n’étaient que le souvenir, la perpétuation d’une souffrance qui lui était venue du dehors.
Mme Verdurin, voyant que Swann était à deux pas, prit cette expression où le désir de faire taire celui qui parle et de Mais là tout lui en apportait. Il voulut éloigner Odette de garder un air innocent aux yeux de celui qui entend, se Forcheville, l’emmener quelques jours dans le Midi. Mais il neutralise en une nullité intense du regard, où l’immobile croyait qu’elle était désirée par tous les hommes qui se signe d’intelligence du complice se dissimule sous les trouvaient dans l’hôtel et qu’elleHmême les désirait. Aussi lui sourires de l’ingénu et qui enfin, commune à tous ceux qui qui jadis en voyage recherchait les gens nouveaux, les s’aperçoivent d’une gaffe, la révèle instantanément sinon à Marcel Proust –
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Din Search OverTime ceux qui la font, du moins à celui qui en est l’objet. Odette
– Voyons, vous pouvez bien revenir seul, nous vous eut soudain l’air d’une désespérée qui renonce à lutter contre l’avons laissée assez de fois, dit Mme Verdurin.
les difficultés écrasantes de la vie, et Swann comptait
– Mais c’est que j’avais une chose importante à dire à anxieusement les minutes qui le séparaient du moment où, Madame.
après avoir quitté ce restaurant, pendant le retour avec elle, il allait pouvoir lui demander des explications, obtenir qu’elle
– Eh bien! vous la lui écrirez…
n’allât pas le lendemain à Chatou ou qu’elle l’y fît inviter, et
– Adieu, lui dit Odette en lui tendant la main.
apaiser dans ses bras l’angoisse qu’il ressentait. Enfin on demanda leurs voitures. Mme Verdurin dit à Swann: Il essaya de sourire, mais il avait l’air atterré.
– Alors, adieu, à bientôt, n’estHce pas? tâchant par
– AsHtu vu les façons que Swann se permet maintenant l’amabilité du regard et la contrainte du sourire de avec nous? dit Mme Verdurin à son mari quand ils furent l’empêcher de penser qu’elle ne lui disait pas, comme elle eût rentrés. J’ai cru qu’il allait me manger, parce que nous toujours fait jusqu’ici:
ramenions Odette. C’est d’une inconvenance, vraiment!
Alors, qu’il dise tout de suite que nous tenons une maison de
« À demain à Chatou, à aprèsHdemain chez moi. »
rendezHvous! Je ne comprends pas qu’Odette supporte des M. et Mme Verdurin firent monter avec eux Forcheville, la manières pareilles. Il a absolument l’air de dire: vous voiture de Swann s’était rangée derrière la leur dont il m’appartenez. Je dirai ma manière de penser à Odette, attendait le départ pour faire monter Odette dans la sienne.
j’espère qu’elle comprendra.
– Odette, nous vous ramenons, dit Mme Verdurin, nous Et elle ajouta encore un instant après, avec colère: avons une petite place pour vous à côté de M. de
– Non, mais voyezHvous, cette sale bête! employant sans Forcheville.
s’en rendre compte, et peutHêtre en obéissant au même
– Oui, madame, répondit Odette.
besoin obscur de se justifier – comme Françoise à Combray quand le poulet ne voulait pas mourir – les mots
– Comment, mais je croyais que je vous reconduisais, qu’arrachent les derniers sursauts d’un animal inoffensif qui s’écria Swann, disant sans dissimulation les mots nécessaires, agonise au paysan qui est en train de l’écraser.
car la portière était ouverte, les secondes étaient comptées, et il ne pouvait rentrer sans elle dans l’état où il était.
– Mais Mme Verdurin m’a demandé…
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Din Search OverTime Et quand la voiture de Mme Verdurin fut partie et que de campagne, « car elle est si vulgaire et surtout, la pauvre celle de Swann s’avança, son cocher le regardant lui demanda petite, elle est tellement bête!!! »
s’il n’était pas malade ou s’il n’était pas arrivé de malheur.
Il entendit les plaisanteries que ferait Mme Verdurin après Swann le renvoya, il voulait marcher et ce fut à pied, par le dîner, les plaisanteries qui, quel que fût l’ennuyeux qu’elles Bois, qu’il rentra. Il parlait seul, à haute voix, et sur le même eussent pour cible, l’avaient toujours amusé parce qu’il voyait ton un peu factice qu’il avait pris jusqu’ici quand il détaillait Odette en rire, en rire avec lui, presque en lui. Maintenant il les charmes du petit noyau et exaltait la magnanimité des sentait que c’était peutHêtre de lui qu’on allait faire rire Verdurin. Mais de même que les propos, les sourires, les Odette. « Quelle gaieté fétide! disaitHil en donnant à sa baisers d’Odette lui devenaient aussi odieux qu’il les avait bouche une expression de dégoût si forte qu’il avait luiH
trouvés doux, s’ils étaient adressés à d’autres que lui, de même la sensation musculaire de sa grimace jusque dans son même, le salon des Verdurin, qui tout à l’heure encore lui cou révulsé contre le col de sa chemise. Et comment une semblait amusant, respirant un goût vrai pour l’art et même créature dont le visage est fait à l’image de Dieu peutHelle une sorte de noblesse morale, maintenant que c’était un trouver matière à rire dans ces plaisanteries nauséabondes?
autre que lui qu’Odette allait y rencontrer, y aimer librement, Toute narine un peu délicate se détournerait avec horreur lui exhibait ses ridicules, sa sottise, son ignominie.
pour ne pas se laisser offusquer par de tels relents. C’est vraiment incroyable de penser qu’un être humain peut ne pas Il se représentait avec dégoût la soirée du lendemain à comprendre qu’en se permettant un sourire à l’égard d’un Chatou. « D’abord cette idée d’aller à Chatou! Comme des semblable qui lui a tendu loyalement la main, il se dégrade merciers qui viennent de fermer leur boutique! Vraiment ces jusqu’à une fange d’où il ne sera plus possible à la meilleure gens sont sublimes de bourgeoisisme, ils ne doivent pas volonté du monde de jamais le relever. J’habite à trop de exister réellement, ils doivent sortir du théâtre de Labiche! »
milliers de mètres d’altitude auHdessus des basHfonds où Il y aurait là les Cottard, peutHêtre Brichot. « EstHce assez clapotent et clabaudent de tels sales papotages, pour que je grotesque cette vie de petites gens qui vivent les uns sur les puisse être éclaboussé par les plaisanteries d’une Verdurin, autres, qui se croiraient perdus, ma parole, s’ils ne se s’écriaHtHil, en relevant la tête, en redressant fièrement son retrouvaient pas tous demain à Chatou! » Hélas! il y aurait corps en arrière. Dieu m’est témoin que j’ai sincèrement aussi le peintre, le peintre qui aimait à « faire des mariages », voulu tirer Odette de là, et l’élever dans une atmosphère plus qui inviterait Forcheville à venir avec Odette à son atelier. Il noble et plus pure. Mais la patience humaine a des bornes, et voyait Odette avec une toilette trop habillée pour cette partie la mienne est à bout », se ditHil, comme si cette mission Marcel Proust –
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Din Search OverTime d’arracher Odette à une atmosphère de sarcasmes datait de tangere » du faubourg SaintHGermain. » Il avait quitté depuis plus longtemps que de quelques minutes, et comme s’il ne se bien longtemps les allées du Bois, il était presque arrivé chez l’était pas donnée seulement depuis qu’il pensait que ces lui, que, pas encore dégrisé de sa douleur et de la verve sarcasmes l’avaient peutHêtre luiHmême pour objet et d’insincérité dont les intonations menteuses, la sonorité tentaient de détacher Odette de lui.
artificielle de sa propre voix lui versaient d’instant en instant plus abondamment l’ivresse, il continuait encore à pérorer Il voyait le pianiste prêt à jouer la sonate Clair de lune et tout haut dans le silence de la nuit: « Les gens du monde ont les mines de Mme Verdurin s’effrayant du mal que la leurs défauts que personne ne reconnaît mieux que moi, musique de Beethoven allait faire à ses nerfs: « Idiote, mais enfin ce sont tout de même des gens avec qui certaines menteuse! s’écriaHtHil, et ça croit aimer l’Art! ». Elle dira à choses sont impossibles. Telle femme élégante que j’ai Odette, après lui avoir insinué adroitement quelques mots connue était loin d’être parfaite, mais enfin il y avait tout de louangeurs pour Forcheville, comme elle avait fait si souvent même chez elle un fond de délicatesse, une loyauté dans les pour lui: « Vous allez faire une petite place à côté de vous à procédés qui l’auraient rendue, quoi qu’il arrivât, incapable M. de Forcheville. » « Dans l’obscurité! maquerelle, d’une félonie et qui suffisent à mettre des abîmes entre elle et entremetteuse! » « Entremetteuse », c’était le nom qu’il une mégère comme la Verdurin. Verdurin! quel nom! Ah! on donnait aussi à la musique qui les convierait à se taire, à rêver peut dire qu’ils sont complets, qu’ils sont beaux dans leur ensemble, à se regarder, à se prendre la main. Il trouvait du genre! Dieu merci, il n’était que temps de ne plus bon à la sévérité contre les arts, de Platon, de Bossuet, et de condescendre à la promiscuité avec cette infamie, avec ces la vieille éducation française.
ordures. »
En somme la vie qu’on menait chez les Verdurin et qu’il Mais, comme les vertus qu’il attribuait tantôt encore aux avait appelée si souvent « la vraie vie » lui semblait la pire de Verdurin, n’auraient pas suffi, même s’ils les avaient toutes, et leur petit noyau le dernier des milieux. « C’est vraiment possédées, mais s’ils n’avaient pas favorisé et vraiment, disaitHil, ce qu’il y a de plus bas dans l’échelle protégé son amour, à provoquer chez Swann cette ivresse où sociale, le dernier cercle de Dante. Nul doute que le texte il s’attendrissait sur leur magnanimité et qui, même propagée auguste ne se réfère aux Verdurin! Au fond, comme les gens à travers d’autres personnes, ne pouvait lui venir que du monde dont on peut médire, mais qui tout de même sont d’Odette – de même, l’immoralité, eûtHelle été réelle, qu’il autre chose que ces bandes de voyous, montrent leur trouvait aujourd’hui aux Verdurin aurait été impuissante, s’ils profonde sagesse en refusant de les connaître, d’y salir même n’avaient pas invité Odette avec Forcheville et sans lui, à le bout de leurs doigts! Quelle divination dans ce « Noli me Marcel Proust –
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Din Search OverTime déchaîner son indignation et à lui faire flétrir « leur infamie ».
en bon ordre jusqu’au fond de luiHmême, le long d’une Et sans doute la voix de Swann était plus clairvoyante que gamme descendante, tout le registre de sa voix. Et il ne fut luiHmême, quand elle se refusait à prononcer ces mots pleins plus question de Swann chez les Verdurin.
de dégoût pour le milieu Verdurin et de la joie d’en avoir fini Alors ce salon qui avait réuni Swann et Odette devint un avec lui, autrement que sur un ton factice et comme s’ils obstacle à leurs rendezHvous. Elle ne lui disait plus comme étaient choisis plutôt pour assouvir sa colère que pour au premier temps de leur amour: « Nous nous verrons en exprimer sa pensée. CelleHci, en effet, pendant qu’il se livrait tous cas demain soir, il y a un souper chez les Verdurin »
à ces invectives, était probablement, sans qu’il s’en aperçût, mais: « Nous ne pourrons pas nous voir demain soir, il y a occupée d’un objet tout à fait différent, car une fois arrivé un souper chez les Verdurin. » Ou bien les Verdurin chez lui, à peine eutHil refermé la porte cochère, que devaient l’emmener à l’OpéraHComique voir « Une nuit de brusquement il se frappa le front, et, la faisant rouvrir, Cléopâtre » et Swann lisait dans les yeux d’Odette cet effroi ressortit en s’écriant d’une voix naturelle cette fois: « Je crois qu’il lui demandât de n’y pas aller, que naguère il n’aurait pu que j’ai trouvé le moyen de me faire inviter demain au dîner se retenir de baiser au passage sur le visage de sa maîtresse, de Chatou! » Mais le moyen devait être mauvais, car Swann et qui maintenant l’exaspérait. « Ce n’est pas de la colère, ne fut pas invité: le docteur Cottard qui, appelé en province pourtant, se disaitHil à luiHmême, que j’éprouve en voyant pour un cas grave, n’avait pas vu les Verdurin depuis l’envie qu’elle a d’aller picorer dans cette musique stercoraire.
plusieurs jours et n’avait pu aller à Chatou, dit, le lendemain C’est du chagrin, non pas certes pour moi, mais pour elle; du de ce dîner, en se mettant à table chez eux: chagrin de voir qu’après avoir vécu plus de six mois en
– Mais, estHce que nous ne verrons pas M. Swann, ce soir?
contact quotidien avec moi, elle n’a pas su devenir assez une Il est bien ce qu’on appelle un ami personnel du…
autre pour éliminer spontanément Victor Massé! Surtout pour ne pas être arrivée à comprendre qu’il y a des soirs où
– Mais j’espère bien que non! s’écria Mme Verdurin, Dieu un être d’une essence un peu délicate doit savoir renoncer à nous en préserve, il est assommant, bête et mal élevé.
un plaisir, quand on le lui demande. Elle devrait savoir dire «
Cottard à ces mots manifesta en même temps son je n’irai pas », ne fûtHce que par intelligence, puisque c’est sur étonnement et sa soumission, comme devant une vérité sa réponse qu’on classera une fois pour toutes sa qualité contraire à tout ce qu’il avait cru jusqueHlà, mais d’une d’âme. » Et s’étant persuadé à luiHmême que c’était évidence irrésistible; et, baissant d’un air ému et peureux son seulement en effet pour pouvoir porter un jugement plus nez dans son assiette, il se contenta de répondre: « Ah! ah!
favorable sur la valeur spirituelle d’Odette qu’il désirait que ah! ah! ah! » en traversant à reculons, dans sa retraite repliée Marcel Proust –
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Din Search OverTime ce soirHlà elle restât avec lui au lieu d’aller à l’OpéraH
effet que je cesserai de t’aimer immédiatement, bien entendu, Comique, il lui tenait le même raisonnement, au même degré mais te rendra moins séduisante à mes yeux quand je d’insincérité qu’à soiHmême, et même, à un degré de plus, car comprendrai que tu n’es pas une personne, que tu es auH
alors il obéissait aussi au désir de la prendre par l’amourH
dessous de toutes les choses et ne sais te placer auHdessus propre.
d’aucune? Évidemment j’aurais mieux aimé te demander comme une chose sans importance, de renoncer à « Une nuit
– Je te jure, lui disaitHil, quelques instants avant qu’elle de Cléopâtre » (puisque tu m’obliges à me souiller les lèvres partît pour le théâtre, qu’en te demandant de ne pas sortir, de ce nom abject) dans l’espoir que tu irais cependant. Mais, tous mes souhaits, si j’étais égoïste, seraient pour que tu me décidé à tenir un tel compte, à tirer de telles conséquences de refuses, car j’ai mille choses à faire ce soir et je me trouverai ta réponse, j’ai trouvé plus loyal de t’en prévenir.
moiHmême pris au piège et bien ennuyé si contre toute attente tu me réponds que tu n’iras pas. Mais mes Odette depuis un moment donnait des signes d’émotion et occupations, mes plaisirs, ne sont pas tout, je dois penser à d’incertitude. À défaut du sens de ce discours, elle toi. Il peut venir un jour où me voyant à jamais détaché de comprenait qu’il pouvait rentrer dans le genre commun des «
toi tu auras le droit de me reprocher de ne pas t’avoir avertie laïus », et scènes de reproches ou de supplications dont dans les minutes décisives où je sentais que j’allais porter sur l’habitude qu’elle avait des hommes lui permettait, sans toi un de ces jugements sévères auxquels l’amour ne résiste s’attacher aux détails des mots, de conclure qu’ils ne les pas longtemps. VoisHtu, « Une nuit de Cléopâtre » (quel prononceraient pas s’ils n’étaient pas amoureux, que du titre!) n’est rien dans la circonstance. Ce qu’il faut savoir, moment qu’ils étaient amoureux, il était inutile de leur obéir, c’est si vraiment tu es cet être qui est au dernier rang de qu’ils ne le seraient que plus après. Aussi auraitHelle écouté l’esprit, et même du charme, l’être méprisable qui n’est pas Swann avec le plus grand calme si elle n’avait vu que l’heure capable de renoncer à un plaisir. Alors, si tu es cela, passait et que pour peu qu’il parlât encore quelque temps, comment pourraitHon t’aimer, car tu n’es même pas une elle allait, comme elle le lui dit avec un sourire tendre, personne, une créature définie, imparfaite, mais du moins obstiné et confus, « finir par manquer l’Ouverture! »
perfectible? Tu es une eau informe qui coule selon la pente D’autres fois il lui disait que ce qui plus que tout ferait qu’il qu’on lui offre, un poisson sans mémoire et sans réflexion cesserait de l’aimer, c’est qu’elle ne voulût pas renoncer à qui tant qu’il vivra dans son aquarium se heurtera cent fois mentir. « Même au simple point de vue de la coquetterie, lui par jour contre le vitrage qu’il continuera à prendre pour de disaitHil, ne comprendsHtu donc pas combien tu perds de ta l’eau. ComprendsHtu que ta réponse, je ne dis pas aura pour séduction en t’abaissant à mentir? Par un aveu, combien de Marcel Proust –
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Din Search OverTime fautes tu pourrais racheter! Vraiment tu es bien moins Quand les Verdurin l’emmenaient à SaintHGermain, à intelligente que je ne croyais! » Mais c’est en vain que Swann Chatou, à Meulan, souvent, si c’était dans la belle saison, ils lui exposait ainsi toutes les raisons qu’elle avait de ne pas proposaient, sur place, de rester à coucher et de ne revenir mentir; elles auraient pu ruiner chez Odette un système que le lendemain. Mme Verdurin cherchait à apaiser les général du mensonge; mais Odette n’en possédait pas; elle se scrupules du pianiste dont la tante était restée à Paris.
contentait seulement, dans chaque cas où elle voulait que
– Elle sera enchantée d’être débarrassée de vous pour un Swann ignorât quelque chose qu’elle avait fait, de ne pas le jour. Et comment s’inquiéteraitHelle, elle vous sait avec nous; lui dire. Ainsi le mensonge était pour elle un expédient d’ailleurs je prends tout sous mon bonnet.
d’ordre particulier; et ce qui seul pouvait décider si elle devait s’en servir ou avouer la vérité, c’était une raison d’ordre Mais si elle n’y réussissait pas, M. Verdurin partait en particulier aussi, la chance plus ou moins grande qu’il y avait campagne, trouvait un bureau de télégraphe ou un messager pour que Swann pût découvrir qu’elle n’avait pas dit la et s’informait de ceux des fidèles qui avaient quelqu’un à vérité.
faire prévenir. Mais Odette le remerciait et disait qu’elle n’avait de dépêche à faire pour personne, car elle avait dit à Physiquement, elle traversait une mauvaise phase: elle Swann une fois pour toutes qu’en lui en envoyant une aux épaississait; et le charme expressif et dolent, les regards yeux de tous, elle se compromettrait. Parfois c’était pour étonnés et rêveurs qu’elle avait autrefois semblaient avoir plusieurs jours qu’elle s’absentait, les Verdurin l’emmenaient disparu avec sa première jeunesse. De sorte qu’elle était voir les tombeaux de Dreux, ou à Compiègne admirer, sur le devenue si chère à Swann au moment pour ainsi dire où il la conseil du peintre, des couchers de soleil en forêt et on trouvait précisément bien moins jolie. Il la regardait poussait jusqu’au château de Pierrefonds.
longuement pour tâcher de ressaisir le charme qu’il lui avait connu, et ne le retrouvait pas. Mais savoir que sous cette
– Penser qu’elle pourrait visiter de vrais monuments avec chrysalide nouvelle, c’était toujours Odette qui vivait, moi qui ai étudié l’architecture pendant dix ans et qui suis toujours la même volonté fugace, insaisissable et sournoise, tout le temps supplié de mener à Beauvais ou à SaintHLoupH
suffisait à Swann pour qu’il continuât de mettre la même deHNaud des gens de la plus haute valeur et ne le ferais que passion à chercher à la capter. Puis il regardait des pour elle, et qu’à la place elle va avec les dernières des brutes photographies d’il y avait deux ans, il se rappelait comme elle s’extasier successivement devant les déjections de LouisH
avait été délicieuse. Et cela le consolait un peu de se donner Philippe et devant celles de ViolletHleHDuc! Il me semble qu’il tant de mal pour elle.
n’y a pas besoin d’être artiste pour cela et que, même sans flair particulièrement fin, on ne choisit pas d’aller Marcel Proust –
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Din Search OverTime villégiaturer dans des latrines pour être plus à portée de Ce n’était vraiment pas de chance qu’elle lui défendît le respirer des excréments.
seul endroit qui le tentait aujourd’hui. Aujourd’hui! S’il y allait, malgré son interdiction, il pourrait la voir aujourd’hui Mais quand elle était partie pour Dreux ou pour même! Mais, alors que, si elle eût retrouvé à Pierrefonds Pierrefonds – hélas, sans lui permettre d’y aller, comme par quelque indifférent, elle lui eût dit joyeusement: « Tiens, hasard, de son côté, car « cela ferait un effet déplorable », vous ici! », et lui aurait demandé d’aller la voir à l’hôtel où disaitHelle – il se plongeait dans le plus enivrant des romans elle était descendue avec les Verdurin, au contraire si elle l’y d’amour, l’indicateur des chemins de fer, qui lui apprenait les rencontrait, lui, Swann, elle serait froissée, elle se dirait moyens de la rejoindre, l’aprèsHmidi, le soir, ce matin même!
qu’elle était suivie, elle l’aimerait moins, peutHêtre se Le moyen? presque davantage: l’autorisation. Car enfin détourneraitHelle avec colère en l’apercevant. « Alors, je n’ai l’indicateur et les trains euxHmêmes n’étaient pas faits pour plus le droit de voyager! » lui diraitHelle au retour, tandis des chiens. Si on faisait savoir au public, par voie qu’en somme c’était lui qui n’avait plus le droit de voyager!
d’imprimés, qu’à huit heures du matin partait un train qui arrivait à Pierrefonds à dix heures, c’est donc qu’aller à Il avait eu un moment l’idée, pour pouvoir aller à Pierrefonds était un acte licite, pour lequel la permission Compiègne et à Pierrefonds sans avoir l’air que ce fût pour d’Odette était superflue; et c’était aussi un acte qui pouvait rencontrer Odette, de s’y faire emmener par un de ses amis, avoir un tout autre motif que le désir de rencontrer Odette, le marquis de Forestelle, qui avait un château dans le puisque
des
gens
qui
ne
la
connaissaient
pas
voisinage. CeluiHci, à qui il avait fait part de son projet sans l’accomplissaient chaque jour, en assez grand nombre pour lui en dire le motif, ne se sentait pas de joie et s’émerveillait que cela valût la peine de faire chauffer des locomotives.
que Swann, pour la première fois depuis quinze ans, consentît enfin à venir voir sa propriété et, puisqu’il ne En somme elle ne pouvait tout de même pas l’empêcher voulait pas s’y arrêter, lui avaitHil dit, lui promît du moins de d’aller à Pierrefonds s’il en avait envie! Or, justement, il faire ensemble des promenades et des excursions pendant sentait qu’il en avait envie, et que s’il n’avait pas connu plusieurs jours. Swann s’imaginait déjà làHbas avec M. de Odette, certainement il y serait allé. Il y avait longtemps qu’il Forestelle. Même avant d’y voir Odette, même s’il ne voulait se faire une idée plus précise des travaux de réussissait pas à l’y voir, quel bonheur il aurait à mettre le restauration de ViolletHleHDuc. Et par le temps qu’il faisait, il pied sur cette terre où ne sachant pas l’endroit exact, à tel éprouvait l’impérieux désir d’une promenade dans la forêt de moment, de sa présence, il sentirait palpiter partout la Compiègne.
possibilité de sa brusque apparition: dans la cour du château, Marcel Proust –
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Din Search OverTime devenu beau pour lui parce que c’était à cause d’elle qu’il circulation, n’était qu’une des formes de cet esclavage, de cet était allé le voir; dans toutes les rues de la ville, qui lui amour qui lui était si cher. Décidément il valait mieux ne pas semblait romanesques; sur chaque route de la forêt, rosée risquer de se brouiller avec elle, patienter, attendre son par un couchant profond et tendre; – asiles innombrables et retour. Il passait ses journées penché sur une carte de la forêt alternatifs, où venait simultanément se réfugier, dans de Compiègne comme si ç’avait été la carte du Tendre, l’incertaine ubiquité de ses espérances, son cœur heureux, s’entourait de photographies du château de Pierrefonds. Dès vagabond et multiplié. « Surtout, diraitHil à M. de Forestelle, que venait le jour où il était possible qu’elle revînt, il rouvrait prenons garde de ne pas tomber sur Odette et les Verdurin; l’indicateur, calculait quel train elle avait dû prendre, et si elle je viens d’apprendre qu’ils sont justement aujourd’hui à s’était attardée, ceux qui lui restaient encore. Il ne sortait pas Pierrefonds. On a assez le temps de se voir à Paris, ce ne de peur de manquer une dépêche, ne se couchait pas, pour le serait pas la peine de le quitter pour ne pas pouvoir faire un cas où, revenue par le dernier train, elle aurait voulu lui faire pas les uns sans les autres. » Et son ami ne comprendrait pas la surprise de venir le voir au milieu de la nuit. Justement il pourquoi une fois làHbas il changerait vingt fois de projets, entendait sonner à la porte cochère, il lui semblait qu’on inspecterait les salles à manger de tous les hôtels de tardait à ouvrir, il voulait éveiller le concierge, se mettait à la Compiègne sans se décider à s’asseoir dans aucune de celles fenêtre pour appeler Odette si c’était elle, car malgré les où pourtant on n’avait pas vu trace de Verdurin, ayant l’air recommandations qu’il était descendu faire plus de dix fois de rechercher ce qu’il disait vouloir fuir et du reste le fuyant luiHmême, on était capable de lui dire qu’il n’était pas là.
dès qu’il l’aurait trouvé, car s’il avait rencontré le petit C’était un domestique qui rentrait. Il remarquait le vol groupe, il s’en serait écarté avec affectation, content d’avoir incessant des voitures qui passaient, auquel il n’avait jamais vu Odette et qu’elle l’eût vu, surtout qu’elle l’eût vu ne se fait attention autrefois. Il écoutait chacune venir au loin, souciant pas d’elle. Mais non, elle devinerait bien que c’était s’approcher, dépasser sa porte sans s’être arrêtée et porter pour elle qu’il était là. Et quand M. de Forestelle venait le plus loin un message qui n’était pas pour lui. Il attendait chercher pour partir, il lui disait: « Hélas! non, je ne peux pas toute la nuit, bien inutilement, car les Verdurin ayant avancé aller aujourd’hui à Pierrefonds, Odette y est justement. » Et leur retour, Odette était à Paris depuis midi; elle n’avait pas Swann était heureux malgré tout de sentir que, si seul de tous eu l’idée de l’en prévenir; ne sachant que faire, elle avait été les mortels il n’avait pas le droit en ce jour d’aller à passer sa soirée seule au théâtre et il y avait longtemps qu’elle Pierrefonds, c’était parce qu’il était en effet pour Odette était rentrée se coucher et dormait.
quelqu’un de différent des autres, son amant, et que cette restriction apportée pour lui au droit universel de libre Marcel Proust –
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Din Search OverTime C’est qu’elle n’avait même pas pensé à lui. Et de tels apprécié autrefois la bonne cuisine et où maintenant il moments, où elle oubliait jusqu’à l’existence de Swann n’allait plus que pour une de ces raisons à la fois mystiques et étaient plus utiles à Odette, servaient mieux à lui attacher saugrenues, qu’on appelle romanesques; c’est que ce Swann, que toute sa coquetterie. Car ainsi Swann vivait dans restaurant (lequel existe encore) portait le même nom que la cette agitation douloureuse qui avait déjà été assez puissante rue habitée par Odette: Lapérouse. Quelquefois, quand elle pour faire éclore son amour, le soir où il n’avait pas trouvé avait fait un court déplacement, ce n’est qu’après plusieurs Odette chez les Verdurin et l’avait cherchée toute la soirée.
jours qu’elle songeait à lui faire savoir qu’elle était revenue à Et il n’avait pas, comme j’eus à Combray dans mon enfance, Paris. Et elle lui disait tout simplement, sans plus prendre des journées heureuses pendant lesquelles s’oublient les comme autrefois la précaution de se couvrir à tout hasard souffrances qui renaîtront le soir. Les journées, Swann les d’un petit morceau emprunté à la vérité, qu’elle venait d’y passait sans Odette; et par moments il se disait que laisser rentrer à l’instant même par le train du matin. Ces paroles une aussi jolie femme sortir ainsi seule dans Paris était aussi étaient mensongères; du moins pour Odette elles étaient imprudent que de poser un écrin plein de bijoux au milieu de mensongères, inconsistantes, n’ayant pas, comme si elles la rue. Alors il s’indignait contre tous les passants comme avaient été vraies, un point d’appui dans le souvenir de son contre autant de voleurs. Mais leur visage collectif et informe arrivée à la gare; même elle était empêchée de se les échappant à son imagination ne nourrissait pas sa jalousie. Il représenter au moment où elle les prononçait, par l’image fatiguait la pensée de Swann, lequel, se passant la main sur contradictoire de ce qu’elle avait fait de tout différent au les yeux, s’écriait: « À la grâce de Dieu », comme ceux qui moment où elle prétendait être descendue du train. Mais après s’être acharnés à étreindre le problème de la réalité du dans l’esprit de Swann au contraire, ces paroles qui ne monde extérieur ou de l’immortalité de l’âme accordent la rencontraient aucun obstacle venaient s’incruster et prendre détente d’un acte de foi à leur cerveau lassé. Mais toujours la l’inamovibilité d’une vérité si indubitable que, si un ami lui pensée de l’absente était indissolublement mêlée aux actes disait être venu par ce train et ne pas avoir vu Odette, il était les plus simples de la vie de Swann – déjeuner, recevoir son persuadé que c’était l’ami qui se trompait de jour ou d’heure, courrier, sortir, se coucher – par la tristesse même qu’il avait puisque son dire ne se conciliait pas avec les paroles à les accomplir sans elle, comme ces initiales de Philibert le d’Odette. CellesHci ne lui eussent paru mensongères que s’il Beau que dans l’église de Brou, à cause du regret qu’elle avait s’était d’abord défié qu’elles le fussent. Pour qu’il crût qu’elle de lui, Marguerite d’Autriche entrelaça partout aux siennes.
mentait, un soupçon préalable était une condition nécessaire.
Certains jours, au lieu de rester chez lui, il allait prendre son C’était d’ailleurs aussi une condition suffisante. Alors tout ce déjeuner dans un restaurant assez voisin dont il avait que disait Odette lui paraissait suspect. L’entendaitHil citer un Marcel Proust –
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Din Search OverTime nom, c’était certainement celui d’un de ses amants; une fois causait à Swann plus de jalousie que l’union charnelle même cette supposition forgée, il passait des semaines à se désoler; parce qu’il l’imaginait plus difficilement; il était déjà prêt à il s’aboucha même une fois avec une agence de passer la porte de l’atelier quand il s’entendait rappeler par renseignements pour savoir l’adresse, l’emploi du temps de ces mots (qui en retranchant de la fête cette fin qui l’inconnu qui ne le laisserait respirer que quand il serait parti l’épouvantait, la lui rendaient rétrospectivement innocente, en voyage, et dont il finit par apprendre que c’était un oncle faisaient du retour d’Odette une chose non plus d’Odette mort depuis vingt ans.
inconcevable et terrible, mais douce et connue et qui tiendrait à côté de lui, pareille à un peu de sa vie de tous les Bien qu’elle ne lui permît pas en général de la rejoindre jours, dans sa voiture, et dépouillait Odette elleHmême de dans des lieux publics, disant que cela ferait jaser, il arrivait son apparence trop brillante et gaie, montraient que ce que dans une soirée où il était invité comme elle – chez n’était qu’un déguisement qu’elle avait revêtu un moment, Forcheville, chez le peintre, ou à un bal de charité dans un pour luiHmême, non en vue de mystérieux plaisirs, et duquel ministère – il se trouvât en même temps qu’elle. Il la voyait elle était déjà lasse), par ces mots qu’Odette lui jetait, comme mais n’osait pas rester de peur de l’irriter en ayant l’air il était déjà sur le seuil: « Vous ne voudriez pas m’attendre d’épier les plaisirs qu’elle prenait avec d’autres et qui – tandis cinq minutes, je vais partir, nous reviendrions ensemble, qu’il rentrait solitaire, qu’il allait se coucher anxieux comme vous me ramèneriez chez moi.
je devais l’être moiHmême quelques années plus tard les soirs où il viendrait dîner à la maison, à Combray – lui semblaient Il est vrai qu’un jour Forcheville avait demandé à être illimités parce qu’il n’en avait pas vu la fin. Et une fois ou ramené en même temps, mais comme, arrivé devant la porte deux il connut par de tels soirs de ces joies qu’on serait tenté, d’Odette, il avait sollicité la permission d’entrer aussi, Odette si elles ne subissaient avec tant de violence le choc en retour lui avait répondu en montrant Swann: « Ah! cela dépend de de l’inquiétude brusquement arrêtée, d’appeler des joies ce monsieurHlà, demandezHlui. Enfin, entrez un moment si calmes, parce qu’elles consistent en un apaisement: il était vous voulez, mais pas longtemps, parce que je vous préviens allé passer un instant à un raout chez le peintre et s’apprêtait qu’il aime causer tranquillement avec moi, et qu’il n’aime pas à le quitter; il y laissait Odette muée en une brillante beaucoup qu’il y ait des visites quand il vient. Ah! si vous étrangère au milieu d’hommes à qui ses regards et sa gaieté, connaissiez cet êtreHlà autant que je le connais; n’estHce pas, qui n’étaient pas pour lui, semblaient parler de quelque my love, il n’y a que moi qui vous connaisse bien? »
volupté, qui serait goûtée là ou ailleurs (peutHêtre au « Bal des Et Swann était peutHêtre encore plus touché de la voir ainsi Incohérents » où il tremblait qu’elle n’allât ensuite) et qui lui adresser en présence de Forcheville, non seulement ces Marcel Proust –
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Din Search OverTime paroles de tendresse, de prédilection, mais encore certaines le monde habité par Odette n’était pas cet autre monde critiques comme: « Je suis sûre que vous n’avez pas encore effroyable et surnaturel où il passait son temps à la situer et répondu à vos amis pour votre dîner de dimanche. N’y allez qui n’existait peutHêtre que dans son imagination, mais pas si vous ne voulez pas, mais soyez au moins poli », ou: «
l’univers réel, ne dégageant aucune tristesse spéciale, AvezHvous laissé seulement ici votre essai sur Ver Meer pour comprenant cette table où il allait pouvoir écrire et cette pouvoir l’avancer un peu demain? Quel paresseux! Je vous boisson à laquelle il lui serait permis de goûter; tous ces ferai travailler, moi! », qui prouvaient qu’Odette se tenait au objets qu’il contemplait avec autant de curiosité et courant de ses invitations dans le monde et de ses études d’admiration que de gratitude, car si en absorbant ses rêves d’art, qu’ils avaient bien une vie à eux deux. Et en disant ils l’en avaient délivré, eux en revanche, s’en étaient enrichis, cela, elle lui adressait un sourire au fond duquel il la sentait ils lui en montraient la réalisation palpable, et ils intéressaient toute à lui.
son esprit, ils prenaient du relief devant ses regards, en même temps qu’ils tranquillisaient son cœur. Ah! si le destin Alors à ces momentsHlà, pendant qu’elle leur faisait de avait permis qu’il pût n’avoir qu’une seule demeure avec l’orangeade, tout d’un coup, comme quand un réflecteur mal Odette et que chez elle il fût chez lui, si en demandant au réglé d’abord promène autour d’un objet, sur la muraille, de domestique ce qu’il y avait à déjeuner, c’eût été le menu grandes ombres fantastiques, qui viennent ensuite se replier d’Odette qu’il avait appris en réponse, si quand Odette et s’anéantir en lui, toutes les idées terribles et mouvantes voulait aller le matin se promener avenue du BoisHdeH
qu’il se faisait d’Odette s’évanouissaient, rejoignaient le corps Boulogne, son devoir de bon mari l’avait obligé, n’eûtHil pas charmant que Swann avait devant lui. Il avait le brusque envie de sortir, à l’accompagner, portant son manteau quand soupçon que cette heure passée chez Odette, sous la lampe, elle avait trop chaud, et le soir après le dîner si elle avait n’était peutHêtre pas une heure factice, à son usage à lui envie de rester chez elle en déshabillé, s’il avait été forcé de (destinée à masquer cette chose effrayante et délicieuse à rester là près d’elle, à faire ce qu’elle voudrait; alors combien laquelle il pensait sans cesse sans pouvoir bien se la tous les riens de la vie de Swann qui lui semblaient si tristes, représenter, une heure de la vraie vie d’Odette, de la vie au contraire parce qu’ils auraient en même temps fait partie d’Odette quand lui n’était pas là), avec des accessoires de de la vie d’Odette auraient pris, même les plus familiers – et théâtre et des fruits de carton, mais était peutHêtre une heure comme cette lampe, cette orangeade, ce fauteuil qui pour de bon de la vie d’Odette; que s’il n’avait pas été là, elle contenaient tant de rêve, qui matérialisaient tant de désir –
eût avancé à Forcheville le même fauteuil et lui eût versé non une sorte de douceur surabondante et de densité un breuvage inconnu, mais précisément cette orangeade; que mystérieuse.
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Din Search OverTime Pourtant il se doutait bien que ce qu’il regrettait ainsi, Verdurin, au Bois, la veille de la fête de Chatou, où il n’avait c’était un calme, une paix qui n’auraient pas été pour son pas été invité, la prier vainement, avec cet air de désespoir amour une atmosphère favorable. Quand Odette cesserait qu’avait remarqué jusqu’à son cocher, de revenir avec lui, d’être pour lui une créature toujours absente, regrettée, puis s’en retourner de son côté, seul et vaincu, elle avait dû imaginaire; quand le sentiment qu’il aurait pour elle ne serait avoir pour le désigner à Forcheville et lui dire: « Hein! ce plus ce même trouble mystérieux que lui causait la phrase de qu’il rage! » les mêmes regards brillants, malicieux, abaissés et la sonate, mais de l’affection, de la reconnaissance; quand sournois, que le jour où celuiHci avait chassé Saniette de chez s’établiraient entre eux des rapports normaux qui mettraient les Verdurin.
fin à sa folie et à sa tristesse, alors sans doute les actes de la Alors Swann la détestait. « Mais aussi, je suis trop bête, se vie d’Odette lui paraîtraient peu intéressants en euxHmêmes –
disaitHil, je paie avec mon argent le plaisir des autres. Elle comme il avait déjà eu plusieurs fois le soupçon qu’ils fera tout de même bien de faire attention et de ne pas trop étaient, par exemple le jour où il avait lu à travers tirer sur la corde, car je pourrais bien ne plus rien donner du l’enveloppe la lettre adressée à Forcheville. Considérant son tout. En tous cas, renonçons provisoirement aux gentillesses mal avec autant de sagacité que s’il se l’était inoculé pour en supplémentaires! Penser que pas plus tard qu’hier, comme faire l’étude, il se disait que, quand il serait guéri, ce que elle disait avoir envie d’assister à la saison de Bayreuth, j’ai eu pourrait faire Odette lui serait indifférent. Mais du sein de la bêtise de lui proposer de louer un des jolis châteaux du roi son état morbide, à vrai dire, il redoutait à l’égal de la mort de Bavière pour nous deux dans les environs. Et d’ailleurs une telle guérison, qui eût été en effet la mort de tout ce qu’il elle n’a pas paru plus ravie que cela, elle n’a encore dit ni oui était actuellement.
ni non; espérons qu’elle refusera, grand Dieu! Entendre du Après ces tranquilles soirées, les soupçons de Swann Wagner pendant quinze jours avec elle qui s’en soucie étaient calmés; il bénissait Odette et le lendemain, dès le comme un poisson d’une pomme, ce serait gai! » Et sa haine, matin, il faisait envoyer chez elle les plus beaux bijoux, parce tout comme son amour, ayant besoin de se manifester et que ces bontés de la veille avaient excité ou sa gratitude, ou d’agir, il se plaisait à pousser de plus en plus loin ses le désir de les voir se renouveler, ou un paroxysme d’amour imaginations mauvaises, parce que, grâce aux perfidies qu’il qui avait besoin de se dépenser.
prêtait à Odette, il la détestait davantage et pourrait si – ce qu’il cherchait à se figurer – elles se trouvaient être vraies, Mais, à d’autres moments, sa douleur le reprenait, il avoir une occasion de la punir et d’assouvir sur elle sa rage s’imaginait qu’Odette était la maîtresse de Forcheville et que grandissante. Il alla ainsi jusqu’à supposer qu’il allait recevoir quand tous deux l’avaient vu, du fond du landau des Marcel Proust –
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Din Search OverTime une lettre d’elle où elle lui demanderait de l’argent pour louer Swann, qui le paierait! – Ah! s’il avait pu l’empêcher, si elle ce château près de Bayreuth, mais en le prévenant qu’il n’y avait pu se fouler le pied avant de partir, si le cocher de la pourrait pas venir, parce qu’elle avait promis à Forcheville et voiture qui l’emmènerait à la gare avait consenti, à n’importe aux Verdurin de les inviter. Ah! comme il eût aimé qu’elle quel prix, à la conduire dans un lieu où elle fût restée quelque pût avoir cette audace. Quelle joie il aurait à refuser, à rédiger temps séquestrée, cette femme perfide, aux yeux émaillés par la réponse vengeresse dont il se complaisait à choisir, à un sourire de complicité adressé à Forcheville, qu’Odette énoncer tout haut les termes, comme s’il avait reçu la lettre était pour Swann depuis quaranteHhuit heures.
en réalité!
Mais elle ne l’était jamais pour très longtemps; au bout de Or, c’est ce qui arriva le lendemain même. Elle lui écrivit quelques jours le regard luisant et fourbe perdait de son éclat que les Verdurin et leurs amis avaient manifesté le désir et de sa duplicité, cette image d’une Odette exécrée disant à d’assister à ces représentations de Wagner, et que, s’il voulait Forcheville: « Ce qu’il rage! » commençait à pâlir, à s’effacer.
bien lui envoyer cet argent, elle aurait enfin, après avoir été si Alors, progressivement reparaissait et s’élevait en brillant souvent reçue chez eux, le plaisir de les inviter à son tour.
doucement, le visage de l’autre Odette, de celle qui adressait De lui, elle ne disait pas un mot, il était sousHentendu que aussi un sourire à Forcheville, mais un sourire où il n’y avait leur présence excluait la sienne.
pour Swann que de la tendresse, quand elle disait: « Ne restez pas longtemps, car ce monsieurHlà n’aime pas Alors cette terrible réponse dont il avait arrêté chaque mot beaucoup que j’aie des visites quand il a envie d’être auprès la veille sans oser espérer qu’elle pourrait servir jamais, il de moi. Ah! si vous connaissiez cet êtreHlà autant que je le avait la joie de la lui faire porter. Hélas! il sentait bien qu’avec connais! », ce même sourire qu’elle avait pour remercier l’argent qu’elle avait, ou qu’elle trouverait facilement, elle Swann de quelque trait de sa délicatesse qu’elle prisait si fort, pourrait tout de même louer à Bayreuth puisqu’elle en avait de quelque conseil qu’elle lui avait demandé dans une de ces envie, elle qui n’était pas capable de faire de différence entre circonstances graves où elle n’avait confiance qu’en lui.
Bach et Clapisson. Mais elle y vivrait malgré tout plus chichement. Pas moyen, comme s’il lui eût envoyé cette fois Alors, à cette OdetteHlà, il se demandait comment il avait quelques billets de mille francs, d’organiser chaque soir, dans pu écrire cette lettre outrageante dont sans doute jusqu’ici un château, de ces soupers fins après lesquels elle se serait elle ne l’eût pas cru capable, et qui avait dû le faire descendre peutHêtre passé la fantaisie – qu’il était possible qu’elle n’eût du rang élevé, unique, que par sa bonté, sa loyauté, il avait jamais eue encore – de tomber dans les bras de Forcheville.
conquis dans son estime. Il allait lui devenir moins cher, car Et puis du moins, ce voyage détesté, ce n’était pas lui, c’était pour ces qualitésHlà, qu’elle ne trouvait ni à Forcheville Marcel Proust –
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Din Search OverTime ni à aucun autre, qu’elle l’aimait. C’était à cause d’elles comprendrait que c’était sa jalousie seule qui lui avait fait qu’Odette lui témoignait si souvent une gentillesse qu’il trouver quelque chose d’atroce, d’impardonnable, à ce désir, comptait pour rien au moment où il était jaloux, parce au fond si naturel, provenant d’un peu d’enfantillage et aussi qu’elle n’était pas une marque de désir, et prouvait même d’une certaine délicatesse d’âme, de pouvoir à son tour, plutôt de l’affection que de l’amour, mais dont il puisqu’une occasion s’en présentait, rendre des politesses recommençait à sentir l’importance au fur et à mesure que la aux Verdurin, jouer à la maîtresse de maison.
détente spontanée de ses soupçons, souvent accentuée par la Il revenait à ce point de vue – opposé à celui de son amour distraction que lui apportait une lecture d’art ou la et de sa jalousie, et auquel il se plaçait quelquefois par une conversation d’un ami, rendait sa passion moins exigeante de sorte d’équité intellectuelle et pour faire la part des diverses réciprocités.
probabilités – d’où il essayait de juger Odette comme s’il ne Maintenant qu’après cette oscillation, Odette était l’avait pas aimée, comme si elle était pour lui une femme naturellement revenue à la place d’où la jalousie de Swann comme les autres, comme si la vie d’Odette n’avait pas été, l’avait un moment écartée, dans l’angle où il la trouvait dès qu’il n’était plus là, différente, tramée en cachette de lui, charmante, il se la figurait pleine de tendresse, avec un regard ourdie contre lui.
de consentement, si jolie ainsi, qu’il ne pouvait s’empêcher Pourquoi croire qu’elle goûterait làHbas avec Forcheville ou d’avancer les lèvres vers elle comme si elle avait été là et qu’il avec d’autres des plaisirs enivrants qu’elle n’avait pas connus eût pu l’embrasser; et il lui gardait de ce regard enchanteur et auprès de lui et que seule sa jalousie forgeait de toutes bon autant de reconnaissance que si elle venait de l’avoir pièces? À Bayreuth comme à Paris, s’il arrivait que réellement et si cela n’eût pas été seulement son imagination Forcheville pensât à lui, ce n’eût pu être que comme à qui venait de le peindre pour donner satisfaction à son désir.
quelqu’un qui comptait beaucoup dans la vie d’Odette, à qui Comme il avait dû lui faire de la peine! Certes il trouvait il était obligé de céder la place, quand ils se rencontraient des raisons valables à son ressentiment contre elle, mais elles chez elle. Si Forcheville et elle triomphaient d’être làHbas n’auraient pas suffi à le lui faire éprouver s’il ne l’avait pas malgré lui, c’est lui qui l’aurait voulu en cherchant autant aimée. N’avaitHil pas eu des griefs aussi graves contre inutilement à l’empêcher d’y aller, tandis que s’il avait d’autres femmes, auxquelles il eût néanmoins volontiers approuvé son projet, d’ailleurs défendable, elle aurait eu l’air rendu service aujourd’hui, étant contre elles sans colère parce d’être làHbas d’après son avis, elle s’y serait sentie envoyée, qu’il ne les aimait plus? S’il devait jamais un jour se trouver logée par lui, et le plaisir qu’elle aurait éprouvé à recevoir ces dans le même état d’indifférence visHàHvis d’Odette, il Marcel Proust –
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À MONSIEUR GASTON CALMETTE
Première partie COMBRAY
Deuxième partie UN AMOUR DE SWANN

Ziba Solemn JUN 2021

Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Zibaldone
di pensieri
di Giacomo Leopardi
Letteratura italiana Einaudi
1
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Edizione di riferimento:
in Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, Le Monnier, Firenze 1921
Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia
[1]Palazzo bello. Cane di notte dal casolare, al passar del viandante.
Era la luna nel cortile, un lato
Tutto ne illuminava, e discendea
Sopra il contiguo lato obliquo un raggio…
Nella (dalla) maestra via s’udiva il carro Del passegger, che stritolando i sassi, Mandava un suon, cui precedea da lungi
Il tintinnìo de’ mobili sonagli.
Onde Aviano raccontando una favoletta dice che una donna di contado piangendo un suo bambolo, minacciogli se non taceva che l’avrebbe dato mangiare a un lupo. E
che un lupo che a caso di là passava, udendo dir questo alla donna credettele che dicesse vero, e messosi innanzi all’uscio di casa così stette quivi tutto quel giorno ad aspettare che la donna gli portasse quella vivanda. Come poi vi stesse tutto quel tempo e la donna non se n’accorgesse e non n’avesse paura e non gli facesse motto con sasso o altro, Aviano lo saprà che lo dice. E aggiugne che il lupo non ebbe niente perchè il fanciullo s’addormentò, e quando bene non l’avesse fatto non ci sarìa stato pericolo. E
fatto tardi, tornato alla moglie senza preda perchè s’era baloccato ad aspettare fino a sera, disse quello che nell’autore puoi vedere.
(Luglio o Agosto 1817).
Una Dama vecchia avendo chiesto a un giovane di leggere alcuni suoi versi pieni di parole antiche, e avutili, poco dopo rendendoglieli disse che non gl’intendeva perchè quelle parole non s’usavano al tempo suo. Rispose il giovane: Anzi credea che s’usassero perchè sono molto antiche.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Tutta la notte piove
E ritornan le feste a la dimane:
Fan del regno a metà Cesare e Giove.
Dal niente in letteratura si passa al mezzo e al vero, quindi al raffinamento: da questo non c’è esempio che si sia tornato al vero. Greci e latini italiani. Lo squisito gusto del volgo de’ letterati non può essere se non quando ei non è ancora corrotto. P.E. i cinquecentisti volgari non peccavano d’altro che di poco, non di troppo, e però erano attissimi a giudicar bene del molto, o sia del vero bello, come faceano.
Il trecento fu il principio della nostra letteratura, non già il colmo, imperocchè non ebbe se non tre scrittori grandi: il quattrocento non fu corruzione nè
[2]raffinamento del trecento, ma un sonno della letteratura (che avea dato luogo all’erudizione) la quale restava ancora incorrotta e peccava ancora più tosto di poco.
Poliziano, Pulci. Il cinquecento fu vera continuazione del trecento e il colmo della nostra letteratura. Di poi venne il raffinamento del seicento, che nel settecento s’è solamente mutato in corruzione d’altra specie, ma il buon gusto nel volgo dei letterati non è tornato più, nè tornerà secondo me, perchè dal niente si può passare al buono, ma dal troppo buono o sia dal corrotto stimo che non si possa.
Non il Bello ma il Vero o sia l’imitazione della Natura qualunque, si è l’oggetto delle Belle arti. Se fosse il Bello, piacerebbe più quello che fosse più bello e così si andrebbe alla perfezion metafisica, la quale in vece di piacere fa stomaco nelle arti. Non vale il dire che è il solo bello dentro i limiti della natura, perchè questo stesso mostra che è l’imitazione della natura dunque che fa il diletto delle belle arti, imperocchè se fosse il bello per se, Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia vedesi che dovrebbe come ho detto più piacere il maggior bello, e così più piacere la descrizione di un bel mondo ideale che del nostro. E che non sia il solo bello naturale lo scopo delle Belle Arti vedesi in tutti i poeti specialmente in Omero, perchè se questo fosse, avrebbe dovuto ogni gran poeta cercare il più gran bello naturale che si potesse, dove Omero ha fatto Achille infinitamente men bello di quello che potea farlo, e così gli Dei ec. e sarebbe maggior poeta Anacreonte che Omero ec. e noi proviamo che ci piace più Achille che Enea ec. onde è falso anche che quello di Virgilio sia maggior poema ec.
Passioni morti tempeste ec. piacciono egregiamente benchè sian brutte per questo solo che son bene imitate, e se è vero quel che dice il Parini nella Oraz. della poesia, perchè l’uomo niente tanto odia quanto la noia, e però gli piace di veder qualche novità ancorchè brutta. Tragedia.
Commedia. Satira han per oggetto il brutto ed è una mera quistion di nome il contrastar se questa sia poesia. Basta che tutti la intendono per poesia Aristotele e Orazio singolarmente e che io dicendo poesia intendo anche questi generi. V. Dati Pittori ed. Siena 1795. p.57.66.
Il brutto come tutto il resto deve star nel suo luogo: e nell’Epica e lirica avrà luogo più di raro ma spessissimo nella Commedia Tragedia Satira ed è quistion di parole ec. come sopra. Il vile di raro si dee descrivere perchè di raro può star nel suo luogo nella poesia (eccetto nelle Satire Commedie e poesia bernesca) non perchè non possa essere oggetto della poesia. Ancora potendo esser molti generi di una cosa e questi qual più qual meno degno,
[3]niente vieta che dei diversi generi di poesia altro abbia per oggetto più particolarmente il bello altro il doloroso altro anche il brutto e il vile, e però qual sia più nobile e degno qual meno e non per tanto tutti sieno generi di poesia, nè ci sia oggetto di veruno di essi che non possa essere oggetto della poesia e delle arti imitative ec.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia La perfezione di un’opera di Belle Arti non si misura dal più Bello ma dalla più perfetta imitazione della natura. Ora se è vero che la perfezione delle cose in sostanza consiste nel perfetto conseguimento del loro oggetto, quale sarà l’oggetto delle Belle Arti?
L’utile non è il fine della poesia benchè questa possa giovare. E può anche il poeta mirare espressamente al-l’utile o ottenerlo (come forse avrà fatto Omero) senza che però l’utile sia il fine della poesia, come può l’agricoltore servirsi della scure a segar biade o altro senza che il segare sia il fine della scure. La poesia può esser utile indirettamente, come la scure può segare, ma l’utile non è il suo fine naturale, senza il quale essa non possa stare, come non può senza il dilettevole, imperocchè il dilettare è l’ufficio naturale della poesia.
Sentìa del canto risuonar le valli
D’agricoltori ec.
Più ci diletterebbe una pianta o un animale veduto nel vero che dipinto o in altro modo imitato, perchè non è possibile che nella imitazione non resti niente a desiderare. Ma il contrario manifestamente avviene: da che apparisce che il fonte del diletto nelle arti non è il bello, ma l’imitazione.
Il quattrocento restò dal fare, ma conservava l’idea del bello incorrotta; però benchè non facesse, pure apprez-zava il fatto anzi lo cercava: quindi l’infinito studio de’
Classici e l’erudizione dominante nel secolo. Il cinquecento col capitale acquistato nel 400 e coll’istradamento del 300 tornò a fare. Ma il seicento perchè era non debole ma corrotto, non solamente non sapea far bene, ma disprezzava il ben fatto anzi gli dispiacea. Quindi la dimenticanza di Dante del Petrarca ec. che non si stampa-Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia vano più. Nel principio del settecento ripigliammo non le forze, ma solo il buon gusto e l’amore degli studi classici, e la prima metà di questo secolo somiglia però al quattrocento, nè si fa molto conto di quest’epoca di risorgimento perchè non produsse (come il 400) nessun lavoro d’arte fuorchè la Merope, e durò tanto poco che un uomo stesso potè aver veduto il tempo di corruzione il risorgimento e il ricadimento. Ricadute le nostre lettere (nella imitazione e studio degli stranieri) son comparsi nella seconda metà del 700 e principio dell’800 i nostri
[4]ultimi lavori d’arte. Questi sono di quegli scrittori che nella corruzione si conservano illesi, non possono essere stimati da molti ec. Ma adesso l’arte è venuta in un incredibile accrescimento, tutto è arte e poi arte, non c’è più quasi niente di spontaneo, la stessa spontaneità si cerca a tutto potere ma con uno studio infinito senza il quale non si può avere, e senza il quale a gran pezza l’aveano (spezialmente nella lingua) Dante il Petrarca l’Ariosto ec.
e tutti i bravi trecentisti e cinquecentisti. Questo avviene perchè ora si viene da un tempo corrotto (oltrechè si sta pure tra’ corrotti) e bisogna porre il più grande studio per evitare la corruzione, principalmente quella del tempo la quale prima che abbiamo pensato a guardarcene s’è impadronita di noi, e poi quella dei tempi passati, perchè adesso conosciamo tutti i vizi delle arti e ce ne vogliamo guardare, e non siamo più semplici come erano i greci e i latini e i trecentisti e i cinquecentisti perchè siamo passati pel tempo di corruzione e siamo divenuti astuti nell’arte, e schiviamo i vizi con questa astuzia e coll’arte non colla natura come faceano gli antichi i quali senza saperne più che tanto pure perchè l’arte era in sul principio e non ancora corrotta non gli schivavano ma non ci cadevano.
Erano come fanciulli che non conoscono i vizi, noi siamo come vecchi che li conosciamo ma pel senno e l’esperienza gli schiviamo. E però abbiamo moltissimo più senno e arte che gli antichi, i quali per questo cadevano in infiniti Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia difetti (non conoscendoli) in cui adesso non cadrebbe uno scolaro. Vizi d’Omero concetti del Petrarca, grossezze di Dante, seicentisterie dell’Ariosto del Tasso del Caro traduzione dell’Eneide ec. E però adesso le nostre opere grandi (pochissime perchè ancora siamo nella corruzione onde pochissimi emergono) saranno tutte senza difetti, perfettissime, ma in somma non più originali, non avremo più Omero Dante l’Ariosto. Esempio manifesto del Parini Alfieri Monti ec. Onde apparisce quel che io disopra ho detto che dopo che le arti di fanciulle e incorrotte si son fatte mature e corrotte, (come gli uomini di mezza età viziosi) invecchiando e ravvedendosi, non potranno più ripigliare il vigore della fanciullezza e giovinezza. Le arti presso i Greci e i latini corrotte una volta non risorsero più presso noi van risorgendo: primo esempio finora al mondo, dal quale solo si possono cavare le prove pratiche della mia sentenza. Se non che i poeti e altri scrittori grandi d’oggi stanno in certo modo agli antichi del 300 e 500 come i greci dei secoli d’Augusto e degli imperatori, p.e. Dionigi Alicarnasseo, Dione, Arriano ad Erodoto Tucidide Senofonte: ma questi eran passati per un’età e si trovavano ancora in un’età più tosto di debolezza che di corruzione.
[5]Come i fanciulli e i giovinetti benchè di buona indole pure per la malizia naturale, di quando in quando scappano in qualche difetto e non per tanto sono differentissimi dagli uomini grandi e cattivi, così gli antichi senza conoscere nè amare i vizi delle arti, per la naturale tendenza dell’ingegno alla ricercatezza e cose tali di quando in quando vi cadeano non riflettendo che fossero vizi, e non per tanto infinitamente differivano dagli adulti artefici del 600 e 700 radicati nella corruzione. E adesso chiunque, per pochissimo che abbia studiato a prima giunta vede che quelli sono errori e che gli antichi hanno errato.
P.E. chi non vede adesso che è cosa ridicola e affettatissima Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia il lamento d’Olimpia ec. nell’Ariosto, quello d’Erminia ec. nel Tasso? E pure questi grandissimi poeti perchè l’arte era giovane e senza esperienza in buona fede cascavano in questi errori, e noi perchè siamo vecchi nell’arte col nostro senno e coll’esperienza de’ tempi corrotti, ce ne ridiamo e li fuggiamo. Ma questo senno e questa esperienza sono la morte della poesia ec. Come però si dovrà dire che l’Ariosto per esempio avesse somma arte se cadeva spessissimo in difetti che il più meschino artefice d’oggidì conosce a prima vista? Non avea somma arte ma sommo ingegno, pulitissimo, ma non corrotto, e meno poi ripulito.
Per guardarci dai vizi e dalla corruzione dello scrivere adesso è necessario un infinito studio e una grandissima imitazione dei Classici, molto molto maggiore di quella che agli antichi non bisognava, senza le quali cose non si può essere insigne scrittore, e colle quali non si può diventar grande come i grandi imitati. Come il cocchiere fa guidando i cavalli per la china, che poco concede loro perchè troppo non gli rapiscano.
Padron, se con lamenti e con rammarichi Si rimediasse a le nostre miserie,
Bisognerebbe comperar le lagrime
A peso d’or: ma queste tanto possono
Le disgrazie scemar, quanto le prefiche Svegliare i morti con le loro istorie:
Ne’ guai non ci vuol pianto ma consiglio.
[6]Messer tale domandato da alcuni che disputavano sopra una statua antica di Giove in terra cotta che ne sentisse, rispose: Maravigliomi come non vi siate accorti che questo è un Giove in Creta: volendo dire in terra cotta, ma in sembianza, nell’isola di Creta, dove Giove fu alle-vato.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Sistema di Belle Arti.
Fine – il diletto; secondario alle volte, l’utile. – Oggetto o mezzo di ottenere il fine – l’imitazione della natura, non del bello necessariamente. – Cagione primaria del fine prodotto da questo oggetto o sia con questo mezzo – la maraviglia: forza del mirabile e desiderio di esso innato nell’uomo: tendenza a credere il mirabile: la maraviglia così è prodotta dalla imitazione del bello come da quella di qualunque altra cosa reale o verisimile: quindi il diletto delle tragedie ec. prodotto non dalla cosa imitata ma dall’imitazione che fa maraviglia. – Cagioni secondarie e relative ai diversi oggetti imitati – la bellezza, la rimembranza, l’attenzione che si pone a cose che tuttogiorno si vedono senza badarci ec. – Cagione primitiva del diletto destato dalla maraviglia ec. e però conseguentemente del diletto destato dalle belle arti – l’orrore della noia naturale all’uomo, ricerche sopra le cagioni di quest’orrore ec. – Cagioni dei difetti nelle belle arti – Sproporzione, sconvenevolezza, cose poste fuor di luogo, al che solo (contro l’opinione di chi pensa che provenga dall’avere le arti per oggetto il bello) si riducono i difetti della bassezza della bruttezza deformità crudeltà sporchezza tristizia tutte cose che rappresentate o impie-gate nei loro luoghi non sono difetti giacchè piacciono e per mezzo dell’imitazione producono la maraviglia, ma sono difetti fuor di luogo p.e. in un’anacreontica l’imagine di un ciclopo, (per lo più) in un’epopea per lo più la figura di un deforme ec. Altri difetti e vizi; affettazione ec.
quasi tutti si riducono alla sconvenevolezza e inverisimiglianza che proviene dallo sconvenirsi tra loro in natura quegli attributi della cosa inverisimile, onde la mente che comprende la [7]sconvenienza degli attributi concepisce l’inverisimiglianza. – Diversi rami della imitazione che formano i diversi oggetti delle belle arti e i diversi generi p.e. di poesia, i quali tanto più son degni e nobili quanto più degni ec. sono gli oggetti, onde un ge-Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia nere che abbia per oggetto il deforme, sarà un genere poco stimabile e da non mettersi p.e. coll’epopea, benchè an-ch’esso sia un genere di poesia destando la maraviglia e quindi il diletto col mezzo dell’imitazione.
Del Bello
Del Sublime
Del terribile
Del ridicolo e
vizioso ec.
Epopea Lirica ec.Lirica Epopea ec.Tragica ec.
Commedia
satira poesia
Bernesca ec.
Vari rami del bello.
Bello delicato – grazio-
so – ameno – elegante.
V. Martignoni ec. An-
nali di scienze e lettere
n.8. p.252-54. Ci può
essere il bello delicato
e il non delicato.
Ercole, Apollo. Bello
sublime. Giove.
[8]Provatevi a respirare artificialmente, e a fare pensatamente qualcuno di quei moltissimi atti che si fanno per natura; non potrete, se non a grande stento e men bene. Così la tropp’arte nuoce a noi: e quello che Omero diceva ottimamente per natura, noi pensatamente e con infinito artifizio non possiamo dirlo se non mediocremente, e in modo che lo stento più o meno quasi sempre si scopra. V. p.461.
Difficoltà d’imitare: più facile il far più che quel medesimo: quanto sia difficile l’essere uguale: quanto rara in natura l’uguaglianza perfetta: quindi la maraviglia nata dall’imitazione e il diletto nato dalla maraviglia. V.
Quintiliano, l.10.c.11. quindi la maggior facilità di esprimere un bello ideale che il proprio bello naturale anche minore dell’ideale.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Due gran dubbi mi stanno in mente circa le belle arti.
Uno se il popolo sia giudice ai tempi nostri dei lavori di belle arti. L’altro se il prototipo del bello sia veramente in natura, e non dipenda dalle opinioni e dall’abito che è una seconda natura. Della prima quistione se mi verrà in mente qualche pensiero lo scriverò poi: della seconda, osservo che a noi par conveniente a un soggetto (e la bellezza sta tutta si può dire nella convenienza) quello che siamo assueffatti a vederci, e viceversa sconveniente ec. e però ci par bello quello che ha queste tali cose e brutto o difettoso quello che non le ha: benchè in natura non debba averle o viceversa. P.e. ci par deforme una certa razza di cani quando ha l’orecchie non tagliate ec.
potenza della moda specialmente intorno alla bellezza delle donne ec. Mi pare che in natura non ci siano quasi altro che i lineamenti del bello, come sono l’armonia la proporzione e cose tali che secondo il solo lume naturale debbono trovarsi in ogni cosa bella: e che l’ombreggiare gli oggetti belli dipenda tutto dalle nostre opinioni. Per questo si possono addurre infiniti esempi. E li distinguo in due classi: l’una di quelli che provano la diversità di opinioni intorno agli oggetti in natura; l’altra ec. intorno agli oggetti nell’imitazione ossia nelle belle arti.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Natura
Belle Arti
Occhi azzurri belli tra’ greci: Pittura ec. de’ cinesi. Musica de’
neri tra noi. Capelli biondi belli turchi. V. Martignoni Annal. di in Italia nel cinquecento: neri al Scienze e lett. n.8. p.245. nota, ove presente. Diversissime opinioni anche della musica francese e ita-de’ barbari intorno alla bellez- liana. Presso noi non disdicono le za che pur mostrano che in na- fabbriche a mattoni nudi, anzi son tura non ce n’è idea fissa. V. ridicole imbiancate e colorite. Il Camper Diss. sur le beau contrario de’ Cinesi ai quali le physique. Cavalli scodati. Cani nostre facciate parrebbero cosa colle orecchie tagliate. Opinio- affatto greggia e rozza.
ne e senso de’ nostri contadini
circa la bellezza, e vedi quelle
descritte nella Beca e nella
Nencia non già da scherzo, ma
perchè di quella sorta piaccio-
no ai villani. Bello ideale
ch’esprimerebbe p.e. un pitto-
re moro di qualunque genio ed
entusiasmo si fosse. Il bello ide-
ale non è [9]altro che l’idea del-
la convenienza che un artista si
forma secondo le opinioni e gli
usi del suo tempo, e della sua
nazione. Barba, e capelli taglia-
ti o no.
I francesi hanno certe esagerazioni familiari così usitate che sono vere frasi proprie della lingua e non di questo o di quello scrittore o parlatore; le quali danno un’idea della sempiterna affettazione e del tuono esaltato quando in uno quando in altro modo, con cui sono scritti si può dir tutti i loro libri. Giammai persona non fu più fedele al suo re. Nessun altro fu sì ricordevole del benefizio. (Aucun ne fut ec.) Non si vide mai tanto amore nè tanta costanza.
E nota che questo medesimo lo diranno a un bisogno di due o tre persone o più in uno stesso libro. Troverai spessissimo che parlando di qualche scrittore dozzinale ti diranno per esempio: egli ha tutta la tenerezza di Racine e Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tutto lo spirito di Voltaire, egli è sublime come Corneille e semplice come la Fontaine, egli stringe come Bourdaloue, commuove come Massillon, trasporta come Bossuet: e ti maraviglierai come uno scrittore in cui si trovano unite le qualità principali di più altri (secondo loro) grandi, che ne hanno ciascheduno, una sola, non sia più grande di questi, nè celebre presso tutta la nazione, e forse tu ne legga il nome per la prima volta.
In molte opere di mano dove c’è qualche pericolo (o di fallare o di rompere ec.) una delle cose più necessarie perchè riescano bene è non pensare al pericolo e portarsi con franchezza. Così i poeti antichi non solamente non pensavano al pericolo in cui erano di [10]errare, ma (specialmente Omero) appena sapevano che ci fosse, e però franchissimamente si diportavano, con quella bellissima negligenza che accusa l’opera della natura e non della fatica. Ma noi timidissimi, non solamente sapendo che si può errare, ma avendo sempre avanti gli occhi l’esempio di chi ha errato e di chi erra, e però pensando sempre al pericolo (e con ragione perchè 1. vediamo il gusto corrotto del secolo che facilissimamente ci trasporterebbe in sommi errori, 2. osserviamo le cadute di molti che per certa libertà di pensare e di comporre partoriscono mostri, come sono al presente p.e. i romantici) non ci arri-schiamo di scostarci non dirò dall’esempio degli antichi e dei Classici, che molti pur sapranno abbandonare, ma da quelle regole (ottime e Classiche ma sempre regole) che ci siamo formate in mente, e diamo in voli bassi, nè mai osiamo di alzarci con quella negligente e sicura e non curante e dirò pure ignorante franchezza, che è necessaria nelle somme opere dell’arte, onde pel timore di non fare cose pessime, non ci attentiamo di farne delle ottime, e ne facciamo delle mediocri, non dico già mediocri di quella mediocrità che riprende Orazio, e che in poesia è insopportabile, ma mediocri nel genere delle buone cioè Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia lavorate, studiate, pulitissime, armonia espressiva, bel verso, bella lingua, Classici ottimamente imitati, belle imagini, belle similitudini, somma proprietà di parole, (la quale soprattutto tradisce l’arte) insomma tutto, ma che non son quelle, non sono quelle cose secolari e mondiali, insomma non c’è più Omero Dante l’Ariosto, insomma il Parini il Monti sono bellissimi ma non hanno nessun difetto. V. p.461.
In Plauto il sommo pregio è quello della forza comica che non è altro se non quella certa vivacità dei personaggi ottenuta col mezzo del ridicolo, che nel mentre che vivifica l’azione (a differenza delle Commedie di Terenzio dove c’è gran serietà e però dice Cesare ch’egli manca di forza comica, a ragione, perchè l’azione importando poco per se e non avendo la importanza della tragedia, se non è continuamente rallegrata e rinforzata dal ridicolo, resta debole, e come morta) ottiene il fine della Commedia che è di distogliere [11]dal vizio il che principalmente è operato dal ridicolo. Ma i costumi ´ϑh presso Plauto sono poco insigni. Ciascuno opera, è vero come dee (almeno per l’ordinario) ma 1. tutte le fisonomie si rassomigliano: sempre appresso a poco è lo stesso parassito, lo stesso padre, lo stesso servo traditore, lo stesso figlio scapestra-to, la stessa meretrice, ec.; 2. i tratti che qualche volta distinguono un volto dall’altro sono grossolani: per esempio questa innamorata sarà leale, quest’altra perfida; questo padre pieghevole, questo duro; questo figlio tempe-rante quest’altro lussurioso, ed ecco tutto; ec.; 3. c’è qualche volta molta naturalezza ora in qualche scena bellissima che innamora, ora in qualche Commedia intera, ma quivi le persone dicono quello che ogni uomo in quella situazione direbbe, e benchè le parlate siano naturalissime, cavate dal vero, e ritratte con grandissima finezza dalla natura, pure non sono modificate secondo il carattere e il costume particolare della persona: insomma non si vede Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia in Plauto una figura tutta perfettamente delineata e om-breggiata, e i costumi che egli dipinge sono del genere, p.e., del padre, o della specie, p.e., del padre buono o del padre iracondo, e non dell’individuo, la qual cosa osservo anche in Terenzio, il quale per altro è molto superiore a Plauto per li costumi e la naturalezza, essendo penetrato più addentro nel cuore umano ec. Qualche volta anche non è conservata in Plauto la naturalezza e la verisimiglianza, specialmente nel fine delle Commedie, dove talvolta i personaggi si risolvono troppo d’improvviso e a grado del poeta, essendo stati fin allora di animo diversissimo e anche contrarissimo a quella tale risoluzione. Ma egli pare che Plauto talora non volendo altro che far ridere e satireggiare, della verisimiglianza non si curasse, anzi a bello studio cercasse l’inaspettato, non già l’inaspettato verisimile che si raccomanda in poesia, ma l’inaspettato inverisimile e grossolano che però appunto è più ridicolo, come nel fine delle Bacchidi dove fa innamorare all’improvviso per istrazio quei due vecchi venuti all’opposto per bravare quelle meretrici, e in quella scena del Canapo dove mette una tenzone di licet licet e di altre tali risposte sempre ripetute, in un momento caldo e importante, dov’è impossibile che i personaggi badassero a questi giuochi.
[12]L’arte di Ovidio di metter le cose sotto gli occhi, non si chiama efficacia, ma pertinacia. ec.
I francesi colla loro pronunzia tolgono a infinite parole che han prese dai latini italiani ec. quel suono espressivo che aveano in origine, e che è uno dei più grandi pregi nelle lingue ec. ec. Per esempio nausea in latino e in italiano con quell’au e con quel’ea imita a maraviglia quel gesto che l’uomo fa e quella voce che manda scontorcendo la bocca e il naso quando è stomacato. Ma noséé non imita niente, ed è come quelle cose che spogliate degli spiriti Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia e dei sali, umori, grasso ec. restano tanti capomorti.
(capogatti ec. non capigatti) V. questi pensieri p.95.
Un’osservazione importantissima intorno alle traduzioni, e che non so se altri abbia fatta, e di cui non ho in mente alcuno che abbia profittato, è questa. Molte volte noi troviamo nell’autore che traduciamo p.e. greco, un composto una parola che ci pare ardita, e nel renderla ci studiamo di trovargliene una che equivalga, e fatto questo siamo contenti. Ma spessissimo quel tal composto o parola comechè sia, non solamente era ardita, ma l’autore la formava allora a bella posta, e però nei lettori greci faceva quell’impressione e risaltava nello scritto come fanno le parole nuove di zecca, e come in noi italiani fanno quelle tante parole dell’Alfieri p.e. spiemontizzare ec. ec.
Onde tu che traduci, posto ancora che abbi trovato una parola corrispondentissima proprissima equivalentissima, tuttavia non hai fatto niente se questa parola non è nuova e non fa in noi quell’impressione che facea ne’ greci. E
qui è così comune l’inavvertenza che nulla più. Perchè se traducendo trovi quella parola e non l’intendi, tu cerchi ne’ Dizionari, e per esser quella, parola di un classico, tu ce la trovi colla spiegazione in parole ordinarie, e con parole ordinarie la rendi e non guardi, prima se quell’autore che traduci è il solo che l’abbia usata; secondo se è il primo; perchè potrebbe anche dopo lui esser passata in uso e nondimeno non essere stato meno ardito nè nuovo nè esprimente il suo primo usarla. Ecco un esempio. Luciano ne’ Dial. de’ morti; Ercole e Diogene; usa la parola
�ntandron. Cerca ne’ Lessici: spiegano: succedaneus ec.
ma se tu volti: sostituto, o che so io, non arrivi per niente all’efficacia burlesca e satirica di quella nuova parola di Luciano che vuol dire: contrappersona, e colla sua novità ha una vaghezza e una forza particolare specialmente di deridere. (N.B. bene, io non so se questa voce di Luciano sia di lui solo: la trovo ne’ Dizionari senza esempio, onde Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia potrebbe anche esser propria della lingua: e bisogna cercare migliori dizionari che io per ora non ho; perchè cadrebbe a terra quest’esempio, per altro sufficiente a dare ad intendere, vero o no che sia, la mia proposizione e osservazione.) Quello che io ho detto delle parole va inteso anche dei modi frasi, ec. ec. ec.
[13]Non credo che siano molto da ascoltare quelli che credono che certi passi sublimi della Bibbia avanzino ogni altro passo sublime di qualsivoglia autore; e lo provano colla grandezza materiale dell’imagine; p.e., dicono, il misurare le acque colla mano e pesare i cieli colla palma, (Is.40.12.) è ben più che scagliar la folgore dall’alto di Ato e di Rodope e riempier di spavento i cuori de’ mortali, crollar l’Olimpo coll’accennar del capo, ec. ec. Senza dubbio non si può dir niente di Dio che non sia infinitamente al di sotto del vero, e però la Bibbia (e la Bibbia molto meno che qualunque altro) non dice mai cosa che appetto al vero non sia strapiccolissima, e pure io ardirò di affermare che quelle tali espressioni della Bibbia, nella poesia umana sono esagerazioni, e che in essa poesia vale assolutamente più in rigore di pregio poetico, quel Giove accennante col capo e scuotente l’Olimpo; quel Nettuno che in quattro passi traversa provincie; quel grido di Marte ferito che pareggia il grido di diecimila combattenti e d’improvviso atterrisce ambedue gli eserciti, Greco e troiano; (Il.5); quella caduta dello stesso Dio che disteso occupa sette iugeri di terreno; (Il.21.407.) di quelle tante imagini sublimissime della Bibbia, perchè nella poesia umana ci vuole il mezzo dappertutto, il mezzo, che è il gran luogo di verità e di natura, e che nè anche col vero si dee oltrepassare: e il sublime dee scuotere fortemente il lettore, ma non subbissarlo con cose che oltrepassino la capacità nostra. E questo della poesia umana. Ma la poesia divina come la Scrittura, dee veramente subbissare e oltrepassare la capacità umana, e però quelle imagini (essendo poi Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia per se stesse lontanissime dall’essere esagerate) convengono ottimamente a questa sorta di poesia tutta essenzialissimamente diversa dalla nostra; e però da noi non imitanda senza colpa poetica. Del resto, io dico bene che quelle imagini convengono a quella poesia, ma non già credo come dicono alcuni, che esse più tosto che al gusto orientale, si debbano al più vivamente sentire la maestà divina che faceano i lirici Ebrei: (Borgno, Diss.
sopra i Sepolcri del Foscolo Milano 1813.p.86. nota 1.) che per esser subito persuasi del contrario basta osservare i luoghi della Bibbia dove non si parla di Dio nè di cose affatto sublimi, come p.e. tutta la Cantica dove anzi si parla di amore e cose delicate, e pure vi si vedono le stesse metaforone e traslatoni e cose eccessive: però veramente e assolutamente derivate dal gusto orientale, a cui tuttavia non negherò che l’ispirazione così poetica come divina non accrescesse forza quanto alle imagini e frasi dette di sopra ec.
L’efficacia dell’espressioni bene spesso è il medesimo che la novità. Accadrà molte volte che l’espressione usitata sia più robusta più vera più energica, e nondimeno l’esser ella usitata le tolga la forza e la snervi; e il poeta sostituendo in suo luogo un’altra espressione men robusta, forse anche men propria ma nuova, otterrà un buon effetto sulla fantasia del lettore, ci sveglierà quell’immagine che l’altra espressione non avrebbe potuto eccitare; e la sua frase sarà veramente più efficace, non per se stessa, ma per la circostanza dell’esser nuova.
Nelle poesie del Monti (specialmente nelle Cantiche) sono osservabili la [14]bellezza novità efficacia delle imagini, particolarmente sublimi, ma anche di ogni altro genere, la mollezza e dirò così sveltezza, agilità, disinvoltura dell’espressione; la gran felicità nell’esprimere cose e imagini difficilissime, la disinvolta e spedita nobiltà dello Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia stile, e quella data colla scelta e collocamento delle parole (o coll’uno o l’altra separatamente) a cose e imagini per se stesse ignobili o quasi; la sublimità e grandezza delle imaginazioni fantastiche, la grazia e forza del dipingere, la facilità e felicità di certe rime disparatissime, come di qualche nome proprio, lontanissimo dell’argomento, con-dottovi con mirabile franchezza e disinvoltura, (nella qual facilità ebbe il Monti gran precursore, oltre a Dante il Menzini nelle Satire); l’efficacia di molte espressioni acquistata colla novità ec. ec. le quali cose tutte fanno uno stile suo proprio, elegante, (la quale eleganza, la qual nobiltà ec. è anche molto spesso acquistata con acconce parole latine destrissimamente, disinvoltamente, e mor-bidamente insinuate nella composizione) efficace, nobile, proprio, e un genere di poesia che si può dire originale, avendo molte tinte che non si vedono in quello di Dante sempre più feroce, e quanto allo stile, di raro così molle e pieghevole e armonioso e disinvolto e grazioso e anche delicato ec. ec.; la sicurezza e franchezza del tocco sia quanto all’espressione sia quanto al concetto alle immagini ec.
Gran verità, ma bisogna ponderarle bene. La ragione è nemica d’ogni grandezza: la ragione è nemica della natura: la natura è grande, la ragione è piccola. Voglio dire che un uomo tanto meno o tanto più difficilmente sarà grande quanto più sarà dominato dalla ragione: che pochi possono esser grandi (e nelle arti e nella poesia forse nessuno) se non sono dominati dalle illusioni. Queste viene che quelle cose che noi chiamiamo grandi per es. un’impresa, d’ordinario sono fuori dell’ordine, e consistono in un certo disordine: ora questo disordine è condannato dalla ragione. Esempio: l’impresa d’Alessandro: tutta illusione. Lo straordinario ci par grande: se sia poi più grande dell’ordinario astrattamente parlando, non lo so: forse anche qualche volta sarà più piccolo assai in riga astratta, Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia e quest’uomo strano e celebre messo a tutto rigore a confronto con un altro ordinario ed oscuro si troverà minore: nondimeno, perchè è straordinario si chiama grande: anche la piccolezza quando è straordinaria si crede e si chiama grandezza. Tutto questo la ragione non lo comporta: e noi siamo nel secolo della ragione: (non per altro se non perchè il mondo più vecchio ha più sperienza e freddezza) e pochi ora possono essere e sono gli uomini grandi, segnatamente nelle arti. Anche chi è veramente grande, sa pesare adesso e conoscere la sua grandezza, sa sviscerare a sangue freddo il suo carattere, esaminare il merito delle sue azioni, pronosticare sopra di se, scrivere minutamente colle più argute e profonde riflessioni la sua vita: nemici grandissimi, ostacoli terribili alla grandezza: che anche l’illusioni ora si conoscono chiarissimamente esser tali, e si fomentano con una certa [15]compiacenza di se stesse, sapendo però benissimo quello che sono. Ora come è possibile che sieno durevoli e forti quanto basta, essendo così scoperte? e che muovano a grandi cose? e senza le illusioni qual grandezza ci può essere o sperarsi?
(Un esempio di quando la ragione è in contrasto colla natura. Questo malato è assolutamente sfidato e morrà di certo fra pochi giorni. I suoi parenti per alimentarlo come richiede la malattia in questi giorni, si scomoderanno realmente nelle sostanze: essi ne soffriranno danno vero anche dopo morto il malato: e il malato non ne avrà nessun vantaggio e forse anche danno perchè soffrirà più tempo. Che cosa dice la nuda e secca ragione? Sei un pazzo se l’alimenti. Che cosa dice la natura? Sei un barbaro e uno scellerato se per alimentarlo non fai e non soffri il possibile. È da notare che la religione si mette dalla parte della natura). La natura dunque è quella che spinge i grandi uomini alle grandi azioni. Ma la ragione li ritira: e però la ragione è nemica della natura; e la natura è grande, e la ragione è piccola. Altra prova che la ragione è spesso nemica della natura, si cava dall’utilità (così Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia per la salute come per tutto il resto) della fatica a cui la natura ripugna e così dalla ripugnanza della natura a cento altre cose o necessarie o utilissime e però consigliate dalla ragione, e per lo contrario dall’inclinazione della natura a moltissime altre o dannose o inutili o proibite, illecite, e condannate dalla ragione: e la natura spesso tende con questi appetiti a danneggiare e a distrugger se stessa.
Finisco in questo punto di leggere nello Spettatore n.91, le Osservazioni di Lodovico di Breme sopra la poesia moderna o romantica che la vogliamo chiamare, e perchè ci ho veduto una serie di ragionamenti che può imbro-gliare e inquietare, e io per mia natura non sono lontano dal dubbio anche sopra le cose credute indubitabili, però avendo nella mente le risposte che a quei ragionamenti si possono e debbono fare, per mia quiete le scrivo. Vuole lo scrittore (come tutti i romantici) che la poesia moderna sia fondata sull’ideale che egli chiama patetico e più comunemente si dice sentimentale, e distingue con ragione il patetico dal malinconico, essendo il patetico, co-m’egli dice, quella profondità di sentimento che si prova dai cuori sensitivi, col mezzo dell’impressione che fa sui sensi qualche cosa della natura, p.e. la campana del luogo natìo, (così dic’egli) e io aggiungo la vista di una campagna, di una torre diroccata ec. ec. Questa è insomma la differenza che egli vuol che sia tra la poesia moderna e l’antica, chè gli antichi non provavano questi sentimenti, o molto meno di noi; onde noi secondo lui siamo in questo superiori agli antichi, e siccome in questo, secondo lui consiste veramente la poesia, però noi siamo più poeti infinitamente che gli antichi. (E questa è la poesia dello Chateaubriand del Delille del Saint-Pierre ec. ec. per non parlare dei romantici, che forse anche in qualche cosa differiscono ec. E questo patetico è quello che i francesi chiamano sensibilité e noi potremmo chiamare sensitività).
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Or dunque bisogna eccitare questo patetico, questa profondità di sentimento nei cuori: e qui, com’è naturale, consisterà la somma arte del poeta. E qui è dove il Breme e tutti quanti i romantici e i Chateaubriandisti ec. ec. scappano di strada. Che cosa è che eccita questi sentimenti negli uomini? La natura, purissima, tal qual’è, tal quale la vedevano gli antichi: le circostanze, naturali, non proccurate mica a bella posta, ma venute spontaneamente: quell’albero, quell’uccello, quel canto, quell’edifizio, quella selva, quel monte, [16]tutto da per se, senz’artifizio, e senza che questo monte sappia in nessunissimo modo di dover eccitare questi sentimenti, nè ch’altri ci aggiunga perchè li possa eccitare, nessun’arte ec. ec. In somma questi oggetti, insomma la natura da per se e per propria forza insita in lei, e non tolta in prestito da nessuna cosa, sveglia questi sentimenti. Ora che faceano gli antichi?
dipingevano così semplicissimamente la natura, e quegli oggetti e quelle circostanze che svegliano per propria forza questi sentimenti, e li sapevano dipingere e imitare in maniera che noi li vediamo questi stessi oggetti nei versi loro, cioè ci pare di vederli, per quanto è possibile, quali sono in natura, e perchè in natura ci destano quei sentimenti, anche dipinti e imitati con tanta perfezione ce li destano egualmente, tanto più che il poeta ha scelti gli oggetti, gli ha posti nel loro vero lume, e coll’arte sua ci ha preparati a riceverne quell’impressione, dovechè in natura, e gli oggetti di qualunque specie sono confusi insieme, e in vederli spessissimo non ci si bada, (qui cade la gran facoltà delle arti imitative di fare per lo straordinario modo in cui presentano gli oggetti comuni, vale a dire così imitati, che si considerino nella poesia, dovechè nella realtà non si consideravano, e se ne traggano quelle riflessioni ec. ec. che nella realtà per esser comuni non somministravano ec. ec. come il Gravina nella Ragion poet.) e bisogna poi perchè producano quei tali sentimenti andarli a prendere pel loro verso: ed ecco ottenuto Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia dagli antichi il grand’effetto, che domandano i romantici, ed ottenuto in modo che ci rapiscono e ci sublimano e c’immergono in un mare di dolcezza, e tutte le età e tutti i secoli, e tutti i grandi uomini e poeti che son venuti dopo di loro, ne sono testimoni. Ma che? quando questi poeti, imitavano così la natura, e preparavano questa piena di sentimenti ai lettori, essi stessi o non la provavano, o non dicevano di provarla; semplicissimamente, come pastorelli, descrivevano quel che vedevano, e non ci aggiugnevano niente del loro; ecco il gran peccato della poesia antica, per cui, non è più poesia, e i moderni vincono a cento doppi gli antichi ec. ec. E non si avvedono i romantici, che se questi sentimenti son prodotti dalla nuda natura, per destarli bisogna imitare la nuda natura, e quei semplici e innocenti oggetti, che per loro propria forza, inconsapevoli producono nel nostro animo quegli effetti, bisogna trasportarli come sono nè più nè meno nella poesia, e che così bene e divinamente imitati, aggiuntaci la maraviglia e l’attenzione alle minute parti loro che nella realtà non si notavano, e nella imitazione si notano, è forza che destino in noi questi stessissimi sentimenti che costoro vanno cercando, questi sentimenti che costoro non ci sanno di grandissima lunga destare; e che il poeta quanto più parla in persona propria e quanto più aggiunge di suo, tanto meno imita, (cosa già notata da Aristotele, al quale volendo o non volendo senz’avvedersene si ritorna) e che il sentimentale non è prodotto dal sentimentale, ma dalla natura, qual ella è, e la natura qual ella è bisogna imitare, ed hanno imitata gli antichi, onde una similitudine d’Omero semplicissima senza spasimi e senza svenimenti, e un’ode d’Anacreonte, vi destano una folla di fantasie, e vi riempiono la mente e il cuore senza paragone più che cento mila versi sentimentali; perchè quivi parla la natura, e qui parla il poeta: e non si [17]avvedono che appunto questo grand’ideale dei tempi nostri, questo conoscere così intimamente il cuor nostro, questo analiz-Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia zarne, prevederne, distinguerne ad uno ad uno tutti i più minuti affetti, quest’arte insomma psicologica, distrugge l’illusione senza cui non ci sarà poesia in sempiterno, distrugge la grandezza dell’animo e delle azioni; (v. quel che ho detto in altro pensiero) e che mentre l’uomo (preso in grande) si allontana da quella puerizia, in cui tutto è singolare e maraviglioso, in cui l’immaginazione par che non abbia confini, da quella puerizia che così era propria del mondo a tempo degli antichi, come è propria di ciascun uomo al suo tempo, perde la capacità di esser sedotto, diventa artificioso e malizioso, non sa più palpitare per una cosa che conosce vana, cade tra le branche della ragione, e se anche palpita ( perchè il cuor nostro non è cangiato ma la mente sola), questa benedetta mente gli va a ricercare tutti i secreti di questo palpito, e svanisce ogn’ispirazione, svanisce ogni poesia; e non si avvedono che s’è perduto il linguaggio della natura, e che questo sentimentale non è altro che l’invecchiamento dell’animo nostro, e non ci permette più di parlare se non con arte, e che quella santa semplicità, che dalla natura non può sparire perchè la natura coll’uomo non invecchia, e la qual sola ci può destare quei veri e dolci sentimenti che andiamo cercando, non è più propria di noi come era propria degli antichi, e che però per parlare come questa semplicità parla, e come insegna la natura, e destare quei sentimenti che la sola natura può destare, è forza in questo tristissimo secolo di ragione e di lume, che fuggiamo da noi stessi, e vediamo come parlavano gli antichi che erano ancora fanciulli, e con occhi non maliziosi nè curiosacci ma ingenui e purissimi vedevano la santa natura e la dipingevano: e insomma non si avvedono che essi amici della natura sola, vengono in effetto a predicar l’arte, e noi amici dell’arte veniamo verissimamente a predicar la natura. Qui cadrebbe in acconcio il discorrere dell’affettazione che è il vizio generale nelle arti belle e abbraccia quasi tutti i vizi, e come il sentimentale sia Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia facilissimamente pura affettazione, e come spessissimo invece di destare quei sentimenti che vorrebbe, gli spenga, quando forse quel tale oggetto naturale o veduto o descritto li veniva destando, e come questi sentimenti sieno d’infinita verecondia ec. ec. Ma quel ridurre che fa il Breme la poesia moderna al solo patetico (distinguete-lo pur quanto volete dal malinconico come di sopra ho detto), quasi che il sublime, l’impetuoso, l’esultante, il giubilante (so bene che anche la gioja può esser patetica, ma non nei casi ch’io dico) il grazioso disinvolto e insomma quasi tutta la poesia degli antichi, l’epopea, la lirica quando non è sentimentale, i cantici di trionfo, le descrizioni delle battaglie, i salmi di Davidde le odi di Anacreonte ec. ec. ec. non fosse poesia, o almeno ai moderni non paresse più tale, o almeno (non si sa poi perchè, quando non si ammettano le due cose precedenti) dai moderni non dovesse più esser coltivata; come non deve parere una pazzia difficile a credere che sia caduta in testa d’un uomo savio? Dunque Virgilio non è poeta altro che nel quarto dell’Eneide, e nell’episodio di Niso ed Eurialo, e che so io? dunque [18]non ci sarà più altro che un solo genere di poesia? e in uno stesso componimento non si dovrà più tenere altro che un tuono solo? (E dopo tutto questo ci rinfacciano la monotonia delle favole antiche.) Ma che? abbiamo mutato natura affatto? non c’è più gioia se non mezzo malinconica, non c’è più ira, non c’è più grandezza e altezza di pensieri, senza quel condi-mento di patetico ec. ec.? (E se la poesia è arte imitativa e il suo fine è il dilettare, nè deve imitare una cosa sola, nè una sola cosa diletta ec. E in genere non pare che il Breme faccia gran caso della natura e del fine della poesia che consiste in dilettare col mezzo della maraviglia prodotta dall’imitazione ec.) Ma queste son follie, di cui è soverchio parlare. A tener dietro con diligenza ai ragionamenti del Breme ci si scopre una contraddizione nascosta, ma rea-lissima e fondamentale così del suo sistema come del ro-Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia mantico. Da principio dice che gli antichi credevano tutto e si persuadevano di mille pazzie, che l’ignoranza il timore i pregiudizi e somministravano allora gran materia alla loro poesia, e non possono più somministrarne ai tempi nostri; insomma evidentemente par che venga a conchiudere, che la poesia nostra bisogna che sia ragionevole, e in proporzione coi lumi dell’età nostra, e in fatti dice che ce la debbono somministrare la religione, la filosofia, le leggi di società ec. ec. E così dicono i romantici.
Ma se così è, ecco l’illusione sparita, e se il poeta non può illudere non è più poeta, e una poesia ragionevole, è lo stesso che dire una bestia ragionevole ec. ec. E i romantici, non che facciano la poesia ragionevole, vanno in cerca di mille superstizioni e delle più pazze cose che si possano mai pensare: il Breme poi dice che l’immaginazione anche al presente ha la sua piena forza, e desidera di essere invasa rapita ec. e ANCHE sedotta (qui vi voleva) purchè non da cose AL TUTTO arbitrarie nè lontane da quel Vero ec. In queste parole e specialmente in quell’ anche e in quell’ al tutto, mi par di scorgere chiarissimamente l’angustia del metafisico, che vedendo la linea del suo ragionamento torcersi e piegare, cerca di rimediarci colle parole. Ma poichè finalmente affermate che la nostra immaginazione ha bisogno d’esser sedotta, (e in seguito poi lo conferma il Breme senza nessuna dubitazione in parecchi altri luoghi) il vostro ragionamento va tutto a terra: chè quando uno di noi si mette a leggere una poesia sapendo di dover esser sedotto e desiderando di esserlo, tanto crede al più falso quanto al meno falso, tanto crede al Milton quanto a Omero, tanto agli spettri del Bürger quanto all’inferno dell’Odissea e dell’Eneide; e quel dire che le finzioni non debbono essere al tutto arbitrarie è una miseria, quasi che la immaginativa dei moderni potesse essere ingannata di tanto solo, e non più, e l’intelletto nostro nel mezzo della lettura e dell’inganno della fantasia non comprendesse egualmente la falsità delle inven-Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia zioni del Klopstock e di quelle di Omero e di Virgilio. Il tutto sta se l’immaginazione nostra possa e debba esser sedotta dalla poesia o no, se sì tutti i vostri ragionamenti seguenti sono attaccati collo sputo, e il poeta deve pensare a sedurre come crede meglio, e s’egli non sa sedurre, la colpa è sua, e non del genere che ha scelto. Un’altra svista del Breme (e probabilmente di tutti i suoi settari) è dove parlando della mitologia greca, dice che la natura è vita, che la fantasia umana e la poesia si compiace in immaginare che tutto viva, cioè conosca di essere, e qui si diffonde in magnificare [19]questa sorgente della poesia moderna che consiste in non guardare nessuna cosa con noncuranza, in attribuir senso a ogni cosa e riconoscer vita sotto tutte le possibili forme, in avvivare insomma la natura col mezzo d’ idee poeticamente analoghe ec. ec. Dunque non solo concede che la natura si avvivi, ma essenzialmente lo vuole, e dice di contrapporre questo sistema vitale al mitologico ec. e per esempio di questo avvivamento diverso da quello che faceano i mitologi, si serve di un passo di lord Byron dove attribuisce sospiri fragranti alla rosa innamorata. Ma che? non vuole che si avvivi la natura così individualmente, diremo, e mediatamente, come i mitologi faceano, personificando affetti e numi e piante ec. ma la natura immediatamente, senza convertirla in individui, e riconoscendo vita sotto tutte le forme e non esclusivamente sotto l’umana, in somma che tutto sia animato e sensitivo, non che siano uomini dappertutto. Ma non si avvede il Breme, non si avvedono i romantici che questi che debbono avvivare la natura, questi poeti, son uomini, e non possono naturalmente e per intimo impulso concepir vita nelle cose, se non umana, e che questo dare agli oggetti inanimati, agli Dei, e fino ai propri affetti, pensieri e forme e affetti umani, è così naturale all’uomo che per levargli questo vizio bisognerebbe rifarlo; non si avvede che il suppor vita nelle cose, p.e. inanimate, diversa dalla nostra, ripugna di ma-Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia niera al nostro istinto e alla nostra natura, che appartiene appuntino a quello che si chiama cattivo gusto, al gusto che si chiama gotico, che si chiama cinese; che il poeta non deve seguir nè la ragione nè la metafisica (posto pur che la ragione ami meglio nelle cose che non vivono, una vita diversa dalla nostra che uguale, e così discorrete degli Dei ec.), ma la natura e l’istinto, e che per quanto si può argomentare da questo istinto, il cavallo p.e. se avesse ragione e immaginativa, attribuirebbe a Dio, (il cavallo sarebbe allora ragionevole, onde nessuno si scandalizzi di quel che dirò) e alle cose inanimate ec. ec. la figura e gli affetti e i pensieri del cavallo, e così gli altri animali; (e questo pensiero non è mio ma dell’antico Senofane, perchè molte cose son vecchie che si credono nuove, e molta sapienza è antica alla quale si crede che quei cer-velli non arrivassero) non si avvede che se la rosa sospira ed è innamorata, la rosa nella mente del poeta non è mica altro che una donna; e che voler supporre che questa rosa viva, e non viva come noi, se è possibile al metafisico, è impossibilissimo al poeta e agli uditori del poeta, che non sono mica i metafisici ma il volgo; e non si avvede che lo stesso lord Byron non ha saputo alla sua rosa e tutti i romantici non sapranno in eterno a nessunissima cosa dare altri affetti o sensi che umani, perchè diversi affetti o sensi appena ci sappiamo persuadere che ci possano essere, non che possiamo immaginarci quali siano. ec. ec. Quanto all’arte di poetare e di scrivere che il Breme pare che disprezzi per la maggior parte, mi sbrigo in due parole.
Questo imitar la natura questo destare i sentimenti che voi altri volete, è facile o difficile? ognuno che li sente è sicuro purchè si metta a scrivere di comunicarli subito agli altri, o no? Se sì, me ne rallegro, e avrò piacere di vederne l’esperimento; se no, se questa cosa è tra le difficili difficilissima, [20]se quand’uno ha concepito, non ha fatto appena metà del cammino, se mille e centomila che provando affetti e sentendo vivamente, hanno scritto, non Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia sono riusciti a muovere negli altri gli stessi affetti, e non si leggono da nessuno, se infiniti esempi e ragioni provano quanta sia la forza dello stile, e come una stessa immagine esposta da un poeta di vaglia faccia grand’effetto, e da un inferiore nessuno, se Virgilio senz’arte non sarebbe stato Virgilio, se in poesia un bel corpo con vesti di cencio, dico, bei sensi senza bello stile ordine scelta ec.
non si soffrono e non si leggono e sono condannati non mica dai pregiudizi ma dal tempo giudice incorrotto e inappellabile, se colla proprietà eleganza nobiltà ec. ec.
ec. delle parole e della lingua e delle idee, colla scelta coll’ordine colla collocazione ec. ec. infinite necessarissime doti si procacciano alla poesia; c’è bisogno dell’arte, e di grandissimo studio dell’arte, in questo nostro tempo massimamente, per le ragioni che più volte in questi pensieri ho scritto. E noi vediamo che i grandi scrittori quelli che tutto il mondo venera, quelli così infinitamente superiori ai pregiudizi, quelli finalmente i quali se non sono veramente ed eternamente grandi, non c’è più cosa grande nè speranza di diventar grande, noi vediamo che Cicerone (e l’eloquenza è cosa molto simile alla poesia) studiò profondissimamente l’arte sua e la sua lingua e la gramatica e gli esemplari greci quanto mai si può pensare, ec. e con tutto questo studio non diventò già un uomo da nulla nè un pedante nè un imitatore e che so io, ma diventò un Cicerone: e se Cicerone come scrittore e oratore, o signor Breme, non vi quadra, come nè anche Pindaro nè Orazio, vi do subito la buona notte, e mi dispiace di non averlo saputo prima. (E già di sopra s’è osservato che il primitivo bisogna impararlo dagli antichi.) Non si ricorda il Breme di quella osservazione filosofica che è pur vecchia, dico, che i mezzi più semplici e veri e sicuri sono gli ultimi che gli uomini trovano, così nelle arti e nei mestieri come nelle cose usuali della vita, e così in tutto. E così chi sente e vuol esprimere i moti del suo cuore ec. l’ultima cosa a cui arriva è la semplicità, e la naturalezza, e la pri-Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ma cosa è l’artifizio e l’affettazione, e chi non ha studiato e non ha letto, e insomma come costoro dicono è immu-ne dai pregiudizi dell’arte, è innocente ec. non iscrive mica con semplicità, ma tutto all’opposto: e lo vediamo nei fanciulli che per le prime volte si mettono a comporre: non iscrivono mica con semplicità e naturalezza, che se questo fosse, i migliori scritti sarebbero quelli dei fanciulli: ma per contrario non ci si vede altro che esagerazioni e affettazioni e ricercatezze benchè grossolane, e quella semplicità che v’è, non è semplicità ma fanciullaggine: così dite di certe canzoni volgari ec. ec. che per un certo verso son semplici, ma mettete un poco quella semplicità con quella di Anacreonte che pare il non plus ultra, e vedete se vi pare che si possa pur chiamare semplicità. Onde il fine dell’arte che costoro riprovano, non è mica l’arte, ma la natura, e il sommo dell’arte è la naturalezza e il nasconder l’arte, che i principianti, o gl’ignoranti non sanno nascondere, benchè n’hanno pochissima, ma quella pochissima trasparisce, e tanto fa più stomaco quanto è più rozza: e i nove anni d’Orazio dei quali il Breme si fa bef-fe, non sono mica per accrescer gli artifizi del componimento, ma per diminuirli, o meglio, per celarli accrescen-doli, e insomma per avvicinarsi sempre più alla natura, che è il fine di tutti quegli studi e di quelle emendazioni ec. di cui il Breme si burla, di cui si burlano i romantici, contraddicendo a se stessi; che mentre [21]bestemmiano l’arte e predicano la natura, non s’accorgono che la minor arte è minor natura.
Non solamente bisogna che il poeta imiti e dipinga a perfezione la natura, ma anche che la imiti e dipinga con naturalezza, anzi non imita la natura chi non la imita con naturalezza. Però Ovidio che senza naturalezza la dipinge, cioè va tanto dietro a quegli oggetti, che finalmente ce li presenta, e ce li fa anche vedere e toccare e sentire, ma dopo infinito stento suo, (così che a lui bisogna una pagi-Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia na per farci veder quello che Dante ci fa vedere in una terzina) e con una più tosto pertinacia ch’efficacia; presto sazia, e inoltre non è molto piacevole, perchè non sa nasconder l’arte, e con quel tanto aggirarsi intorno agli oggetti (non solo per una pericolosa intemperanza e incontentabilità, ma anche perchè egli senza molti tratti non ci sa subito disegnar la figura, e se non fosse lungo non sarebbe evidente) fa manifesta la diligenza, e la diligenza nei poeti è contraria alla naturalezza. Quello che nei poeti dee parer di vedere, oltre gli oggetti imitati, è una bella negligenza, e questa è quella che vediamo negli antichi, maestri di questa necessarissima e sostanziale arte, questa è quella che vediamo nell’Ariosto, Petrarca ec.
questa è quella che pur troppo manca anche ai migliori e classici tra i moderni, questa è quella che col sentimentale e col sistema del Breme, e nelle poesie moderne de’
francesi, non si ottiene, e poi non si ottiene; chè questo stesso sentimentale scopre una certa diligenza ec. scopre insomma il poeta che parla ec. In Ovidio si vede in somma che vuol dipingere, e far quello che colle parole è così difficile, mostrar la figura ec. e si vede che ci si mette; in Dante nò: pare che voglia raccontare e far quello che colle parole è facile ed è l’uso ordinario delle parole, e dipinge squisitamente, e tuttavia non si vede che ci si metta, non indica questa circostanziola e quell’altra, e alzava la mano e la stringeva e si voltava un tantino e che so io, (come fanno i romantici descrittori, e in genere questi poeti descrittivi francesi o inglesi, così anche prose ec.
tanto in voga ultimamente) insomma in lui c’è la negligenza, in Ovidio no.
Sì come dopo la procella oscura
Canticchiando gli augelli escon del loco Dove cacciogli il vento (nembo) e la paura; E il villanel che presso al patrio foco Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Sta sospirando il sol, si riconforta (si rasserena) Sentendo il dolce canto e il dolce gioco; Grandissima parte dell’opere utili proccurano il piacere mediatamente, cioè mostrando come ce lo possiamo proccurare: la poesia immediatamente, cioè somministran-docelo.
Cercava Longino (nel fine del trattato del Sublime) perchè al suo tempo ci fosse tanta scarsezza di anime grandi e portava per ragione parte la fine delle repubbliche e della libertà, parte l’avarizia, la lussuria e l’ignavia. Ora queste non sono madri ma sorelle di quell’effetto di cui parliamo. E questo e quelle derivano dai progressi della ragione e della civiltà, e dalla mancanza o indebolimento delle illusioni, senza le quali non ci sarà quasi mai grandezza di pensieri nè forza e impeto e ardore d’animo, nè grandi azioni che per lo più sono pazzie. Quando ognuno è bene illuminato in vece dei diletti e dei beni vani come sono la gloria l’amor della patria la libertà ec. ec.
cerca i solidi cioè i piaceri carnali osceni [22]ec. in somma terrestri, cerca l’utile suo proprio sia consistente nel danaro o altro, diventa egoista necessariamente, nè si vuol sacrificare per sostanze immaginarie nè comprometter se per gli altri nè mettere a ripentaglio un bene maggiore come la vita le sostanze ec. per un minore, come la lode ec. (lasciamo stare che la civiltà fa gli uomini tutti simili gli uni agli altri, togliendo e perseguitando la singolarità, e distribuendo i lumi e le qualità buone non accresce la massa, ma la sparte, sì che ridotta in piccole porzioni fa piccoli effetti.) Quindi l’avarizia, la lussuria e l’ignavia, e da queste la barbarie che vien dopo l’eccesso dell’incivilimento. E però non c’è dubbio che i progressi della ragione e lo spegnimento delle illusioni producono la barbarie, e un popolo oltremodo illuminato non diventa mica civilissimo, come sognano i filosofi del nostro tempo, la Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Staël ec. ma barbaro; al che noi c’incamminiamo a gran passi e quasi siamo arrivati. La più gran nemica della barbarie non è la ragione ma la natura: (seguìta però a dovere) essa ci somministra le illusioni che quando sono nel loro punto fanno un popolo veramente civile, e certo nessuno chiamerà barbari i Romani combattenti i Cartaginesi, nè i Greci alle Termopile, quantunque quel tempo fosse pieno di ardentissime illusioni, e pochissimo filosofico presso ambedue i popoli. Le illusioni sono in natura, inerenti al sistema del mondo, tolte via affatto o quasi affatto, l’uomo è snaturato; ogni popolo snaturato è barbaro, non potendo più correre le cose come vuole il sistema del mondo. La ragione è un lume; la Natura vuol essere illuminata dalla ragione non incendiata. Come io dico accadde appresso i Greci e i Romani: al tempo di Longino già erano quasi barbari, eppure non c’era stata nessuna irruzione straniera; dalla terra stessa loro nacque la barbarie, da quelle civilissime terre, perchè la civiltà era eccessiva. Cicerone era il predicatore delle illusioni. Vedete le Filippiche principalmente, ma poi tutte le altre Orazioni sue politiche; sempre sta in persuadere i Romani a operare illusamente, sempre l’esempio de’ maggiori, la gloria, la libertà, la patria, meglio la morte che il servizio; che vergogna è questa? Antonio un tiranno di questa razza ancora vive ec. E intanto Antonio che sarebbe stato pugnalato nel foro o nella curia in altri tempi, tiranno vergognosissimo, non si poteva ottenere in Roma, essendoci tante armate contro di lui, tanto motivo di sperare che sarebbe vinto, che fosse dichiarato nemico della patria: calcolavano cercavano ec. quello che in altri tempi senza un istante di deliberazione sarebbe stato deciso a pieni voti. Cicerone predicava indarno, non c’erano più le illusioni d’una volta, era venuta la ragione, non importava un fico la patria la gloria il vantaggio degli altri dei posteri ec. eran fatti egoisti, pesavano il proprio utile, consideravano quello che in un caso poteva succedere, Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia non più ardore, non impeto, non grandezza d’animo, l’esempio de’ maggiori era una frivolezza [23]in quei tempi tanto diversi: così perderono la libertà, non si arrivò a conservare e difendere quello che pur Bruto per un avanzo d’illusioni aveva fatto, vennero gl’imperatori, crebbe la lussuria e l’ignavia, e poco dopo con tanto più filosofia, libri scienza esperienza storia, erano barbari.
E la ragione facendo naturalmente amici dell’utile proprio, e togliendo le illusioni che ci legano gli uni agli altri, scioglie assolutamente la società, e inferocisce le persone.
Anche l’amore della maraviglia par che si debba ridurre all’amore dello straordinario e all’odio della noia ch’è prodotta dall’uniformità.
Vedendo meco viaggiar la luna.
Non è favoloso ma ragionevole e vero il porre i tempi Eroici tra gli antichissimi. L’eroismo e il sagrifizio di se stesso e la gloriosa morte ec. di cui parla il Breme, Spettatore, p. 47, finiscono colle illusioni, e non è un minchione che le voglia in se, in tempi di ragione e di filosofia, come sono questi, ch’essendo tali, sono anche quello ch’io dico cioè privi affatto di eroismo. ec.
Quell’affetto nella lirica che cagiona l’eloquenza, e abbagliando meno persuade e muove più, e più dolcemente massime nel tenero, non si trova in nessun lirico, nè antico nè moderno se non nel Petrarca, almeno almeno in quel grado: e Orazio quantunque forse sia superiore nelle immagini e nelle sentenze, in questo affetto ed eloquenza e copia non può pur venire al paragone col Petrarca: il cui stile ha in oltre (io non parlo qui solo delle canzoni amorose ma anche singolarmente e
nominatamente delle tre liriche: O aspettata in ciel beata e bella, Spirto gentil che quelle membra reggi, Italia mia Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ec.) ha una semplicità e candidezza sua propria, che però si piega e si accomoda mirabilmente alla nobiltà e magni-ficenza del dire, (come in quel: Pon mente al temerario ardir di Serse ec.) così in tutto il corpo e continuatamente, come nelle varie parti e in quelle dove egli si alza a maggior sublimità e nobiltà che per l’ordinario: si piega alle sentenze (come in quel: Rade volte addivien che a l’alte imprese ec.) quantunque di quelle spiccate non n’abbia gran fatto in quelle tre canzoni: si piega ottimamente alle immagini delle quali le tre canzoni abbondano e sono innestate nello stile e formanti il sangue di esso ec. (come: Al qual come si legge, Mario aperse sì ‘l fianco ec. Di lor vene ove il nostro ferro mise ec. Le man le avess’io avvolte entro i capegli ec.)
Il Testi ha dicitura competentemente poetica ed elegante, non manca d’immagini, ha anche qualche immaginetta graziosa (come dove dice di Davidde: E allor che in Oriente il dì nascea Usciva a pascer l’agne Su la costa del monte o lungo il rio, nella Canzone Nelle squallide spiagge ove Acheronte) ha sufficiente grandiosità ed anche qualche eloquenza, le sentenze non sono mal collo-cate nè esposte, quantunque non nuove, riesce anche benino assai nelle Canzone filosofiche all’Oraziana, imita spesso e qualche volta quasi traduce Orazio, ma non ha l’animatezza la scolpitezza, e la concisa nervosità e muscolosità ed energia e lo spirito del suo stile, nè molta originalità e novità, nè proprio proprio sublimità di concetti e d’invenzioni. Ma tutti i pregi che ho detto, salvo solamente la grandiosità e l’eloquenza, risplendono massimamente nelle Canzoni della prima parte, che sono per la più parte filosofiche e Oraziane, dove lo stile è castiga-to e non manca leggiadria di maniere e di concetti, perchè nelle altre parti, quantunque s’innalzi maggiormente, e metta fuori più forza, e facondia, e più energiche immagini e in somma sia più pindarico, è difficile trovar can-Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia zone che non sia malamente e sporcamente e visibilmente e tenacemente imbrattata della pece del suo secolo, che nella prima parte appena appena si scorge qua e là come macchiuzze, e forse qualche canzona n’è libera affatto e può parere d’un altro secolo. In oltre la dicitura
[24]diventa meno elegante e pulita e spesso le voci e le locuzioni le metafore i traslati sono prosaici. In somma si vede molto il febbricitante e il mal lavorato e mal limato del seicento.
Son proprio esclusivamente del Petrarca, in quanto al-l’affetto, non solo la copia, ma anche quei movimenti pieni toè p�ϑouw e quelle immagini affettuose (come: E la povera gente sbigottita ec.) e tutto quello che forma la vera e animata e calda eloquenza. E dall’influsso che ha il cuore nella poesia del Petrarca viene la mollezza e quasi untuosità come d’olio soavissimo delle sue Canzoni, (anche nominatamente quelle sull’Italia) e che le odi degli altri appetto alle sue paiano asciutte e dure e aride, non mancando a lui la sublimità degli altri e di più avendo quella morbidezza e pastosità che è cagionata dal cuore.
Il Filicaia va dietro al sublime e anche l’arriva, ma parlando sempre di cose della nostra Religione ha tolto a imitare quel sommo sublime della scrittura, e per questo sommo sublime si fa pregiare, che del resto, quando o non lo cerca o non lo arriva, non ha quasi cosa ch’esca gran fatto dall’ordinario, non ha punto di leggiadria mai, non ha in nessun modo la varietà del Testi ec. ma anche dove ha quel sommo sublime di stile simile allo scrittura-le e profetico, non è molto piacevole per cagione della monotonia delle sue Canzoni e perchè le impressioni di quel sommo sublime essendo troppo veementi non possono durar gran tempo e si spengono, e il lettore ci si assuefà, sì che con quella monotonia, viene a rendersi il sublime inefficace, e le odi stucchevolucce. Le migliori Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia sono quelle per l’assedio e la liberazione di Vienna, e tra queste a mio giudizio quella che incomincia Le corde d’oro elette. Sono anche queste macchiate qua e là del seicentismo. Le parole, locuzioni, metafore prosaiche non mancano, come quello: A tua Pietà m’appello della prima Canzone, e nella seconda: E al tuo soldo arrolata è la vittoria.
Nuova strada per gl’italiani s’aperse il Chiabrera, solo veramente Pindarico, non escluso punto Orazio, sublime alla greca Omerica e Pindarica, cioè dentro grandi ma giusti limiti, e non all’orientale come il Filicaja, sublime, colla conveniente e greca semplicità, per mezzo dell’accozzamento tÇn lhmm�tvn, come dice Longino, cioè di certe parti della cosa che unite tutte insieme formano rapidamente il sublime, e un sublime come dico, rapido inaffettato e in somma pindarico; robusto nelle immagini, sufficientemente fecondo nell’invenzione e nelle novità, facile appunto come Pindaro a riscaldarsi infiammarsi, sublimarsi anche per le cose tenui, e dar loro al primo tocco un’aria grande ed eccelsa. Fu ardito caldo veemente urtantesi nelle cose, ardito nelle voci (come instellarsi inarenare) nelle locuzioni nelle costruzioni, nel trarre dal greco e latino le forme così de’ sentimenti, (come: Canz. 70, Eroica: Meco non vo’ che vaglia sì scon-sigliata voce, e altrove: A me non scenda in cor sì ria parola: e nota ch’io dico le forme de’ sentimenti e non i sentimenti) come delle parole, nel che alle volte fu felice, come: Canz. Eroica 23: Qual non fe scempio sanguinoso acerbo L’aspro cor dell’Eacide superbo? Canz. Eroica 71: Sol fe contrasto il gran sangue di Guisa ec. Imitò anche bene i greci e Pindaro e Orazio nell’economia del comportamen-to. E certo alle volte è nobilissimo tanto pel sentimento quanto per le parole: ma pochissimi pezzi finiscono di piacere; non arriva quasi mai non ostante quello che s’è detto del suo stile estrinseco alla felicità d’espressione, e Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia alla bellezza della composizione delle parole d’Orazio, è oscuro assai spesso per le costruzioni gli equivoci (non già voluti, come i seicentisti, ma non avvertiti o trascurati) la soppressione delle idee intermedie ne’ passaggi (se ben questa è naturale, perchè [25]il poeta fervido quantunque non passi mai da un pensiero all’altro senza una qualche cagione e occasione che è come il legame delle diverse idee, nondimeno questo legame essendo sottilissimo lo salta facilmente, o anche non saltandolo affatto, il lettore non lo arriva a vedere) e anche nel passare p.e.
dalle premesse alla conseguenza ec. insomma è sovente sconnesso, (ma questa potrebbe anche essere una lode per la verità dell’imitazione dell’affetto e dell’estro, e tutto questo difetto dell’oscurità lo ha comune con Pindaro) ha qualche macchia di seicentisteria, che però è rara e non farebbe gran caso; ha qualche metafora non seicentesca affatto, ma troppo ardita, alla pindarica sì, ma soverchiamente ardita, come Canz. Eroica 14, dice dell’armi di Toscana: Elle non tra i confin del patrio lito, Quasi belve in covili, Ma fero udir gentili Per le strane foreste aspro ruggito: Canz. Eroica 41, chiama le vele: le tessute penne; (se ben quella del ruggito si potrebbe difendere colla similitudine che precede, delle belve, onde si riferisse a quella, cioè la metafora non fosse più semplicemente delle armi ruggenti, ma cambiate in fiere o asso-migliate alle fiere e così ruggenti, per una enallage pindarica) fa forza alla lingua nelle voci (come le composte alla greca: ondisonante ec. che la nostra lingua non ama) nelle forme trasportate dal greco e latino infelicemente, (giacchè non sempre anzi non sovente è felice come ho detto di qualche volta) nelle locuzioni nelle costruzioni; e quel ch’è più e che l’uccide, è disugualissimo ridon-dante di pezzi deboli pel sentimento anzi anche di Canzoni o intere o quasi; di stile per l’ordinario infelice lingua incolta ( neglexit linguae cultum, dice il Gravina nella lettera latina al Maffei, e così è) sì che non sono se non Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia rarissimi quei pezzi dei quali si possa dire tutto il bene, e in cui, quando anche l’immagini e i sentimenti sieno perfetti il che non è tanto raro, l’esteriore dello stile non abbia difetti che saltano grandissimamente all’occhio e disgustano. Che s’egli avesse avuto scelta ( delectum rerum et limam amisit, dice verissimamente il Gravina l. c.) e lima (delle quali forse e massime della seconda non era capace) sarebbe il più gran lirico pindarico che abbia qualunque nazione antica e moderna, da non potersegli paragonare nè Orazio nè verun altro eccetto lo stesso Pindaro. Questi difetti principalmente (di scelta e di lima tanto per le cose che per le parole, giacchè gli altri accen-nati di sopra non son tanto gravi, e già si sa che un gran poeta deve aver grandi difetti, sì che se non fossero altro che quelli, io non dubiterei di tenerlo tuttavia per un gran lirico) fecero che siccome era nato effettivamente il suo lirico all’Italia, così anche le venne meno, giacchè non si può dire che sieno buone poesie liriche i versi del Chiabrera, ma solamente che questi fu vero poeta lirico.
Una considerazion fina intorno all’arte dello scrivere è questa che alle volte, la collocazione, diremo, fortuita delle parole, quantunque il senso dell’autore [26]sia chiaro tuttavia a prima vista produca ne’ lettori un’altra idea, il che, quando massime quest’idea non sia conveniente bisogna schivarlo, massime in poesia dove il lettore è più sull’immaginare e più facile a creder di vedere e che il poeta voglia fargli vedere quello ancora che il poeta non pensa o anche non vorrebbe. Ecco un esempio Chiabrera Canz. lugubre 15. In morte di Orazio Zanchini che comincia: Benchè di Dirce al fonte, strofe 3. verso della Canz.
38, della strofa duodecimo e penultimo: Ora il bel crin si frange, E sul tuo sasso piange. Si frange qui vuol dire si percuote, e intende il poeta, colle mani ec. Il senso è chiaro, e quel si frange non ha che far niente con sul tuo sasso, e n’è distinto quanto meglio si può dire. Ma la collocazio-Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ne casuale delle parole è tale, ch’io metto pegno che quanti leggono la Canz. del Chiabrera colla mente così sull’aspettare immagini, a prima giunta si figurano Firenze personificata (che di Firenze personificata parla il Chiabrera) che percuota la testa e si franga il crine sul sasso del Zanchini, quantunque immediatamente poi venga a rav-vedersi e a comprendere senza fatica l’intenzione del poeta ch’è manifesta. Ora, lasciando se l’immagine ch’io dico sia conveniente o no, certo è che non è voluta dal poeta, e ch’egli perciò deve schivare questa illusione quantunque momentanea (bastando che queste parole del Chiabrera servano d’esempio senza bisogno che l’immagine sia sconveniente) eccetto s’ella non gli piacesse come forse si potrebbe dare il caso, ma questo non dev’essere se non quando l’immagine illusoria non nocia alla vera e non ci sia bisogno di ravvedimento per veder questa seconda, giacchè due immagini in una volta non si possono vedere, ma bensì una dopo l’altra il che quando fosse, potrebbe anche il poeta lasciare e anche proccurare questa illusione, dove pure non noccia al restante del contesto, perch’ella non fa danno, e d’altra parte è bene che il lettore stia sempre tra le immagini. Quello che dico del poeta s’intenda proporzionatamente anche degli altri scrittori. Anzi questa sarebbe la sorgente di una grand’arte e di un grandissimo effetto proccurando quel vago e quell’incerto ch’è tanto propriamente e sommamente poetico, e destando immagini delle quali non sia evidente la ragione, ma quasi nascosta, e tale ch’elle paiano accidentali, e non proccurate dal poeta in nessun modo, ma quasi ispirate da cosa invisibile e incomprensibile e da quell’ineffabile ondeggiamento del poeta che quando è veramente inspirato dalla natura dalla campagna e da checchessia, non sa veramente com’esprimere quello che sente, se non in modo vago e incerto, ed è perciò naturalissimo che le immagini che destano le sue parole appariscano accidentali.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Le più belle canzoni del Chiabrera non sono per la maggior parte altro che bellissimi abbozzi.
Che il Filicaja seguisse lo stile profetico (così appunto dicevano quei due che ora citerò) lo scrive anche il Redi nelle sue lettere, e similmente del Guidi dice il Crescimbeni nella sua Vita che quantunque paia come il Chiabrera, aver bevuto ai fonti greci, nondimeno molto sembra aver preso dall’Ebraico; talchè la sua apparenza ha assai più del Profetico che del Pindarico, [27]e soggiunge che in un certo libro si dice di lui che da alcune forme di Dante, e del Chiabrera accoppiate con certi modi delle Orientali favelle ha preso il suo stile. E aggiunge egli subito: E questa senza fallo è la cagione, per la quale vien dato al carattere del Guidi il pregio di nuovo nel nostro Idioma.
E finalmente riferisce l’intenzione dello stesso Guidi, intesa dalla di lui stessa bocca da esso Crescimbeni, e massime rispetto alla traduzione delle sei Omelie che il Guidi fece per lasciare a’ posteri almeno in ombra l’IMITAZIONE totale del carattere profetico anche rispetto agli argomenti; cioè un genere di Poesia sacra, che si vedesse trattata col gusto Davidico, e con l’entusiasmo de’ Profeti.
Emulo impotente di Pindaro il Guidi cercò la grandezza e per trovarla si raccomandò anche agli Orientali e tolse più forme e immagini dalla scrittura, ma gli mancò la forza sufficiente di fantasia, nè in lui trovo nessuna novità se non per rispetto al suo secolo, avendo sfuggito benchè non affatto le seicentisterie. Nudo
intierissimamente d’affetto, in verità non si può dire che abbia disuguaglianze perchè tutte quante le sue canzoni sono coperte si può dire ugualmente di uno strato di perfetta e formale mediocrità, e freddezza. Io non so come si possa dire che abbia trasportato ne’ suoi versi il fuoco e l’entusiasmo di Pindaro, (così la Biblioteca Italiana num.
8. Bibliografia) quando io, lette tutte le sue canzoni mi Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia trovo come un marmo: e si vede bene ch’egli cerca di grandeggiare e d’innalzarsi, ma la sua grandezza nè si communica col lettore innalzandolo, nè lo percuote e stor-disce, restando non dico gonfia (perchè in verità il suo difetto non è la turgidezza) ma vota e senza effetto e questo per due cagioni. L’una la debolezza della sua fantasia, che non gli suggeriva spontaneamente e copiosamente cose grandi, l’altra (che in parte o tutta si riferisce alla prima e solamente è più speciale) che i suoi sublimi che sono sparsi a larghissima mano per tutte le sue Canzoni non sono formati rapidamente dalla scelta tÇn �krvn lhmm�tvn, come dice Longino, come fa Pindaro e Omero e il Chiabrera, con che vengono ad ¤pipl®ttein il Lettore e te lo strascinano e sbalzano qua e là stordito e confuso a voglia loro, ma è composto placidissimamente di lunghe enumerazioni di cose di parti d’immagini accozzate e messe una dopo l’altra ordinatamente e in simmetria senza rapidità di stile e freddamente sì che quantunque le immagini metafore ec. stieno in regola e però non ci sia turgidezza, contuttociò non fanno altro che un gran fresco perchè il sublime non si può formare in quel modo. In somma ha bisogno di una pagina per formare un quadro o pezzo qualunque sublime, dove Pindaro e il Chiabrera di pochi versi, questi come Dante è nel dipingere, quello com’è Ovidio. La dicitura non ha altro pregio che una purgatezza competente, senz’ombra di proprietà nè d’efficacia; [28]nè anche ha quegli ardiri spessissimo infelici, ma pure alle volte felici del Chiabrera, nè l’oscurità nè veruno di quei difetti, che comunque tali pur paiono aver che fare colla lirica ed esser quasi naturali a un vero lirico, sì come a Pindaro. Lo stesso dico dell’intrinseco dello stile, tanto rispetto all’oscurità quanto all’ardire che nel Guidi non si trova si può dire altro ardire se non qualche cosa presa dalla Scrittura, come di sopra ho detto, e quanto a queste cose prese dalla Scrittura io parlo delle canzoni, non della traduzione delle sei Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Omelie, dove prese un po’ più, tenendo dietro al testo di esse, anzi le scelse apposta per tener dietro allo stile Davidico, (quantunque l’abbia fatto senz’ombra di forza annacquatissimamente) che questa traduzione è un vero mostro (per motivo dei pensieri del modo ec. mentre sono Omelie in versi, con citazioni di Padri debolissime stiracchiate schifose) e non merita che se ne dica altro: e pure son l’ultima e più studiata cosa ch’egli facesse. Del resto il verso è sonante, e dico sonante perchè non posso dire armonioso se per armonia vogliamo intendere la finezza dell’arte di verseggiare trovata dagl’italiani dopo, il ritmo analogo ai sentimenti, la varietà ec. ec.
Io solea dire ch’era una follia il credere e scrivere che ci fosse o in Italia o altrove qualche poeta che somigliasse ad Anacreonte. Ma leggendo il Zappi trovo in lui veramente i semi di un Anacreonte, e al tutto Anacreontica l’invenzione e in parte anche lo stile dei Sonetti 24.34.41, e dello scherzo: il Museo d’Amore. Anche le altre sue poesie sono lodevoli non poco per novità de’ pensieri (giacchè non c’è quasi componimento suo dove non si veda qualche lampo di bella novità) con dignitoso garbo e composta vivacità e certa leggiadria propria di lui (così anche il Rubbi) per la quale si può chiamare originale, benchè di piccola originalità. I Sonetti Amorosi ed hanno le doti sopraddette, e qual più qual meno s’accostano all’Anacreontico.
Il Manfredi non ha altro che chiarezza e facilità e gentilezza ed eleganza, senz’ombra ombra di forza in nessun luogo, sì che quando il soggetto la richiede resta veramente compassionevole e misero e impotente come nelle Quartine per Luigi XIV. Del resto la gentilezza sua, ch’io dico è diversa dalla grazia e leggiadria e venustà, ch’è cosa più interiore intima nel componimento e indefinibile. Nè ha il Manfredi punto che fare coll’Anacreontico e la gen-Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tilezza sopraddetta l’ha in ogni sorta di soggetti, gravi dolci leggiadri sublimi ec. Nei Canti del Paradiso c’è mirabile chiarezza e facilità di esprimere e di spiegare e dare ad intendere in versi lucidissimamente e senza dare nel prosaico o nel basso, cose intralciate e difficili. Nelle Canzoni massimamente ha imitato il Petrarca e anche affettata-mente e servilmente come dove dice: Canzone O tra quante il sol mira altera e bella Pel giorno natalizio di Ferdinando di Toscana: Rade volte addivien, ch’altrui sublimi Fortuna ad alto onor senza contrasti, (Rade volte addivien ch’all’alte imprese Fortuna ingiuriosa non contrasti: Petrarca Spirto gentil ec.) e altrove.
Dei quattro lirici ch’io ho mentovati di sopra oltre il Manfredi e il Zappi che sono di un’altra classe, mentre questi appartengono a quella de’ Pindarici e Alcaici e Simonidei ed Oraziani, ossia Eroici e Morali principalmente, io do il primo luogo al Chiabrera, il secondo al Testi de’ quali se avessero avuto più studio e più fino gusto, e giudizio più squisito quegli avrebbe potuto essere effettivamente il Pindaro, e questi effettivamente l’Orazio italiano. Tra il Filicaia e il Guidi non so a chi dare la preferenza; mi basta che tutti e due sieno gli ultimi e a gran distanza degli altri due, mentre, secondo me, quando anche fossero stati in tempi migliori, non aveano elementi di lirici più che mediocri anzi forse non si sarebbero levati a quella fama ch’ebbero e in parte hanno.
[29]Tutto è o può esser contento di se stesso, eccetto l’uomo, il che mostra che la sua esistenza non si limita a questo mondo, come quella dell’altre cose.
Canzonette popolari che si cantavano al mio tempo a Recanati.
(Decembre 1818.)
Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Fàcciate alla finestra, Luciola,
Decco che passa lo ragazzo tua,
E porta un canestrello pieno d’ova
Mantato colle pampane dell’uva.
I contadì fatica e mai non lenta
E ‘l miglior pasto sua è la polenta.
È già venuta l’ora di partire
In santa pace vi voglio lasciare.
Nina, una goccia d’acqua se ce l’hai:
Se non me la vôi dà padrona sei.
(Aprile 1819.)
Io benedico chi t’ha fatto l’occhi
Che te l’ha fatti tanto ‘nnamorati.
(Maggio 1819.)
Una volta mi voglio arrisicare
Nella camera tua voglio venire.
(Maggio 1820.)
Ottimamente il Paciaudi come riferisce e loda l’Alfieri nella sua propria Vita, chiamava la prosa la nutrice del verso, giacchè uno che per far versi si nutrisse solamente di versi sarebbe come chi si cibasse di solo grasso per ingrassare, quando il grasso degli animali è la cosa meno atta a formare il nostro, e le cose più atte sono appunto le carni succose ma magre, e la sostanza cavata dalle parti più secche, quale si può considerare la prosa rispetto al verso.
Una giovane nubile educata parte in monastero parte in casa con massime da monastero, esortava la sorella di un giovane parimente libero, a volergli bene, e le ripeteva questo più volte, e con premura, cosa di ch’io informato credetti che questo potesse essere un artifizio dell’amore che non potendo a cagione della di lei educazione mona-Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia stica operare direttamente, operava indirettamente facendole consigliare altrui un amor lecito, verso quell’oggetto, ch’ella forse si sentiva portata ad amare con amore ch’ella avrà stimato illecito.
Un villano del territorio di Recanati avendo portato un suo bue, già venduto, al macellaio compratore per essere ammazzato, e questo sul punto dell’operazione, da principio dimorò sospeso e incerto di partire o di restare, di guardare o di torcere il viso, e finalmente avendo vinto la curiosità, e veduto stramazzare il bue, si mise a piangere dirottamente. L’ho udito da un testimonio di vista.
Chi mi chiedesse qual sia secondo me il più eloquente pezzo italiano, direi le due canzoni del Petrarca Spirto gentil ec. e Italia mia ec. se concedessi qualche cosa al Tasso ch’era in verità eloquente, e principalmente parlando di se stesso, ed eccetto il Petrarca, è il solo italiano veramente eloquente. La sventura in gran parte lo fece tale, e l’occorrergli spessissimo di difendersi ec. e in qualunque modo parlar di se, perch’io sosterrò sempre che gli uomini grandi quando parlano di se diventano maggiori di se stessi, e i piccoli diventano qualche cosa, essendo questo un campo dove le passioni e l’interesse e la profonda cognizione ec. non lasciano campo all’affettazione e alla sofisticheria cioè alla massima corrompitrice dell’eloquenza e della poesia, non potendosi cercare i luoghi comuni quando si parla di cosa propria, dove necessariamente detta la natura e il cuore, e si parla di vena, e di pienezza di cuore. Onde quello che si dice della utilità derivante agli scrittori dal trattare materie presenti, a miglior dritto si dee dire del parlare di se stesso comunque paia a prima vista che il parlar di se non debba interessar gran fatto gli uditori, [30]cosa falsissima: e si veda nel migliore e più celebre pezzo del Bossuet, quello in fine all’Oraz. di Condé che effetto fa l’introduzione di se stes-Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia so, al qual pezzo io paragono quello di Cicerone nella Miloniana (ch’è forse la sua migliore Orazione come questo è forse il più gran pezzo di essa) il quale si combina parimente ch’è nel fine, dove per intenerire i giudici introduce menzione di se stesso, e mi par che faccia un effetto incredibile, come e più di quello che fa il Bossuet, tanto può l’introdurre se stesso nei discorsi eloquenti, al contrario di quello che si crede.
La duttilità della lingua francese si riduce a potersi fare intendere, la facilità di esprimersi nella lingua italiana ha di più il vantaggio di scolpir le cose coll’efficacia dell’espressione, di maniera ch’il francese può dir quello che vuole, e l’italiano può metterlo sotto gli occhi, quegli ha gran facilità di farsi intendere, questi di far vedere. Però quella lingua che purchè faccia intendere non cerca altro nè cura la debolezza dell’espressione, la miseria di certi tours (per li quali la lodano di duttilità) che esprimono la cosa ma freddissimamente e slavatissimamente e annacquatamente è buona pel matematico e per le scienze; nulla per l’immaginazione la quale è la vera provincia della lingua italiana: dove però è chiaro che l’efficacia non toglie la precisione anzi l’accresce, mettendo quasi sotto i sensi quello che i francesi mettono solo sotto l’intelletto, ond’ella non è men buona per le scienze che per l’eloquenza e la poesia, come si vede nella precisa efficacia e scolpitezza evidente del Redi del Galilei ec.
Nella quistione se [si] debba dire be ce de ec. o bi ec. e però abbiccì o abbeccè della quale v. il Manni Lez. di lingua toscana, io senza cercare l’uso di qual città debba far legge ma quale sia più ragionevole preferisco l’ abbeccè ch’è anche nostro marchegiano, per ragioni cavate dalla natura la quale pare che quel riposo vocale per la cui necessità soltanto si dà il nome alle consonanti, lasciando le vocali sole come sono, (quantunque gli antichi greci ebrei ec. nominassero anche le vocali) l’abbia ristretto all’ e onde Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia provatevi a pronunziar sola una consonante p.e. l’f o l’n: (metto queste sulle quali non cade la quistione nè l’uso di pronunziare piuttosto in un modo che in un altro) vedrete che la pronunzia non potendo star sospesa e finita nella pura consonante, e dovendo cascare in vocale vi casca nell’ e: così vediamo che i fanciulli nel leggere e chiunque strascina la pronunzia delle parole, a quelle lettere che non hanno vocale dopo aggiunge un mezzo e, come in aredenetemenete ine pace ec. Però gli ebrei (e credo che così sia in tutte le lingue orientali) ponendo sempre un riposo dopo ogni consonante o espresso o sottinteso, quando manca la vocale, ci mettono o ci suppongono lo sceva tanto in mezzo che in fine delle parole, il quale talora si pronunzia talora no, e in genere si può molto propriamente rassomigliare all’ e muta dei francesi, i quali non hanno altra vocale muta che l’ e, nuova prova di quel ch’io dico.
Io1 per esprimere l’effetto indefinibile che fanno in noi le odi di Anacreonte non so trovare similitudine ed esempio più adattato di un [31]alito passeggero di venticello fresco nell’estate odorifero e ricreante, che tutto in un momento vi ristora in certo modo e v’apre come il respiro e il cuore con una certa allegria, ma prima che voi pos-siate appagarvi pienamente di quel piacere, ovvero ana-lizzarne la qualità, e distinguere perchè vi sentiate così refrigerato già quello spiro è passato, conforme appunto avviene in Anacreonte, che e quella sensazione indefinibile è quasi istantanea, e se volete analizzarla vi sfugge, non la sentite più, tornate a leggere, vi restano in mano le parole sole e secche, quell’arietta per così dire, è fuggita, e appena vi potete ricordare in confuso la sensazione che v’hanno prodotta un momento fa quelle stesse parole che avete sotto gli occhi. Questa sensazione mi è parso di sentirla, leggendo (oltre Anacreonte) il solo Zappi.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Il gusto presente per la filosofia non si dee stimare passeggero nè casuale, come fu varie volte anticamente p.e.
appresso i Greci al tempo di Platone dopo Socrate, e appresso i Romani in altri tempi ancora, ma fra i nobili e gli scioli come presentemente al tempo di Luciano, quando mantenevano il filosofo come ingrediente di corte e di famiglia illustre, e si trattenevano benchè scioccamente con lui ec. V. Luciano fra le altre opere nel trattato De mercede conductis. In questi tali tempi era effetto di moda, e non avendo il suo principio radicale nello stato dei popoli poteva passare e passava come ogni altra moda, sicch’era cosa accidentale che sopravvenisse questo gusto piuttosto che un altro. Ma presentemente il commercio scambievole dei popoli, la stampa ec. e tutto quello che ha tanto avanzato l’incivilimento cagiona questo amore dei lumi e per conseguenza della filosofia, e questo gusto filosofico che si manifesta nelle opere più alla moda e quello spirito senza il quale si può dire che nessun’opera moderna incontra: onde questo gusto avendo la sua ferma radice nella condizione presente dei popoli si dee stimare durevole e non casuale nè passeggero e molto differente da una moda.
La prosa per esser veramente bella (conforme era quella degli antichi) e conservare quella morbidezza e pastosità composta anche fra le altre cose di nobiltà e dignità, che comparisce in tutte le prose antiche e in quasi nessuna moderna, bisogna che abbia sempre qualche cosa del poetico, non già qualche cosa particolare, ma una mezza tinta generale, onde ci sono certe espressioni tecniche p.e.
che essendo bassissime nella poesia sono basse nella prosa; (giacchè qui non parlo di quelle che son basse e ple-bee assolutamente le quali anche talvolta sconverranno meno alla buona prosa di quelle ch’io dico qui) come altre che sono basse nella poesia, alla prosa non disconvengono affatto: p.e. quei versi del Voltaire: Je Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia chante le héros qui régna sur la France Et par droit de conquête, et par droit de naissance. Quel tecnicismo pessimo in questi versi, non disdice in prosa. Da questo ch’io ho detto si vede quanto debba diventare come infatti diventa geometrica arida sparuta dura, asciutta ossuta, e dirò così, somigliante a una persona magra che abbia le punte dell’ossa tutte in fuori, quella prosa tutta sparsa d’espressioni metafore frasi locuzioni modi tecnici che usa presentemente massime in Francia, e quanto lontana da quella freschezza e carnosità morbida sana vermiglia vegeta florida, e da quella pieghevolezza e da quella dignità che s’ammira in tutte quelle prose che sanno d’antico.
[32]La tartaruga lunghissima nelle sue operazioni ha lunghissima vita. Così tutto è proporzionato nella natura, e la pigrizia della tartaruga di cui si potrebbe accusar la natura non è veramente pigrizia assoluta cioè considerata nella tartaruga ma rispettiva. Da ciò si possono cavare molte considerazioni.
Che il popolo latino non chiamasse testam il capo, come il nostro lo chiama burlescamente la Coccia, e da questo non sia venuta la voce italiana testa e la francese tête?
Quello che dice il Metastasio negli Estratti della poet.
d’Aristot. il Gravina nel Trattato della tragedia dove parla del numero cap.26. e ho detto io nel Discorso sul Breme intorno alla materia dell’imitazione la quale può esser ad arbitrio, come imitare in marmo in bronzo in verso in prosa ec. è vero: e quello che ho detto io specialmente mi par che sia vero senza eccezione: ma quanto al Metastasio poich’egli lo dice per difender l’Opera, bisogna notare che gli elementi della materia non debbon esser discordanti, che allora la imitazione è barbara: come forse si può dir dell’Opera dove da una parte è l’uomo vero Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia e reale per imitar l’uomo, cioè la persona rappresentata, dall’altra è il canto in bocca dell’uomo, per imitare non il canto ma il discorso della stessa persona. Questa osservazione (considerazione) si può estendere a molte altre materie d’imitazione mal composte. Quanto al canto però si osservi che anche gli antichi cantavano le tragedie come dice il loro nome, se ben questo fu forse ne’ primi tempi quando la tragedia era veramente in mano di gentaglia sua sciocca inventrice e il costume o non durò, o se durò, fu perchè avea cominciato così e non si ardì o non si volle mutare, e questa forse fu la cagione ancora che fece fare la tragedia e la commedia in verso, di maniera che da questa pratica venuta da vile origine non si dee stimare il giudizio de’ greci e degli antichi su questo particolare: i quali forse avrebbero fatto ambedue in prosa se l’una o l’altra fosse stata invenzione del gusto, e non parto sten-tato di diversissime circostanze e usanze vecchie ec.
È osservabile che [in] Celso nel quale è singolarmente notata (e lodata) la semplicità e facilità dello stile per le quali si sarà discostato meno degli altri dal latino volgare, sono frequentissime e moltissime frasi costruzioni, usi di parole, locuzioni ec. ed anche parole assolutamente o prette italiane o che si accostano alle italiane io dico di quelle che comunemente non s’hanno per derivate dal latino nè per comuni alle due lingue ma proprie della nostra, e che trovandole non presso Celso ma presso qualche scrittore latino moderno, le stimeressimo poco meno che barbarismi, anche presentemente, cioè non ostante che in effetto si trovino appresso Celso eccetto se non ci ricordassimo espressamente, o ci fosse citata l’autorità di lui. Per es. dice nel libro 1. capo 3. dopo il mezzo: interdum valetudinis causa recte fieri, experimentisbcredo; CUM EO
TAMEN NE quis qui valere et senescere volet, hoc quotidianum habeat. (Con questo però che ec. cioè, purchè locuzione pretta italiana.) E nel lib.2.c.8. circa il fine: quos Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia lienis male habet, si tormina prehenderunt, deinde versa sunt vel in aquam inter cutem, vel in intestinorum laevitatem, vix ulla medicina periculo subtrahit. Si trova però frase simile cioè prehendo in significato di cogliere, ma presso i Comici latini. E parimente l.2. c.11. nel fine: huc potius confugiendum est, cum eo tamen ut sciamus, hic ut nullum periculum, ita levius auxilium esse. E c.17.
alquanto sopra il mezzo: recte medicina ista tentatur, cum eo tamen ne praecordia dura sint, neve etc. e lib.3. c.5.
sul fine: scire
licet… satius esse consistente jam incremento febris aliquid offerre, quam increscente… cum eo tamen ut nullo tempore is qui deficit non sit sustinendus. Così c.22.
mezzo e c.24. fine e l.4. c.6. E c.6. dopo il mezzo: in vicem ejus dari potest vel intrita ex aqua ec. (in vece di questa), e così altrove usa questa stessa frase; nota che qui non vuol dire alternativamente, ma [33]assolutamente in vece, cioè escluso l’altro cibo ec. L’altro luogo dove l’usa è lib.4.
c.6. nello stesso modo assoluto. E lib.4. c.2. fine: post quae vix fieri potest ut idem incommodum maneat. (semplicemente come noi diciamo incomodo per piccola malattia.) E c.22. quod fere post longos morbos vis pestifera huc se inclinat, quae ut alias partes liberat, sic hanc ipsam (nimirum coxas) quoque affectam prehendit. E c.28. del lib.5. sect.17. nam et rubet (impetiginis genus primum) et durior est, et exulcerata est, et rodit. (come diciamo noi volgarmente talvolta neutro e spesso anche imperso-nale, per prurire). E così ivi poco dopo: squamulae ex summa cute discedunt, rosio major est. E poco dopo di un altro genere d’impetigine dice: in summa cute finditur, et vehementius rodit. Dove s’ingannerebbe chi credesse che Celso volesse per rodere intendere lo stesso che ero-dere, poichè 1. egli usa sempre questo secondo quando si tratta di significare corrosione, 2. negli esempi che addurrò dove si vede il passivo di rodere, l’accompagnamento delle altre parole, mostra che non si tratta di corrosio-Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ne ma di prurito; e dice dunque ib. Sect. seguente di un altro male simigliante: in quo per minimas pustulas cutis exasperatur et rubet leviterque roditur: e poco sotto di un altro genere del sopraddetto male: in qua similiter quidem, sed magis cutis exasperaturque exulceraturque ac vehementius et roditur et rubet et interdum etiam pilos remittit, 3. nella sez. precedente la 17. dice della scabbia o rogna per tutta definizione queste parole: Scabies vero est durior cutis, rubicunda; ex qua pustulae oriuntur, quaedam humidiores, quaedam sicciores. Exit ex quibusdam sanies, fitque ex his continuata exulceratio PRURIENS, serpitque in quibusdam cito. Atque in aliis quidem ex toto desinit, in aliis vero certo tempore anni revertitur. Quo asperior est, quoque PRURIT magis, eo difficilius tollitur. Itaque eam quae talis est, �agrÛan, id est feram, Graeci appellant. Poi passa ai rimedi che sbriga in poche righe senza far altro motto della natura del male. Ora nella sez. seguente dice del primo genere d’impetigine, che similitudine scabiem repraesentat, nam et rubet etc. come sopra; dove egli ha la mira a quello che ha detto di sopra della scabbia com’è evidente: ma ch’el-la sia rossa, dura, esulcerata l’ha detto come io ho notato con lineette, che corroda non l’ha detto punto: ora come sarà simile alla scabbia la impetigine nam rodit, perchè rode? Bensì ha detto che la scabbia prurit, e questo segno sostanziale mancherebbe alla impetigine se il rodit non si prendesse in questo senso, che d’altronde non si può prendere per corrodere. Vedi se il Forcellini o l’Appendice ha nulla di rodere in significato di prurire2 . E
lib.6. c.2. fine: Si parum per haec proficitur, vehementioribus uti licet, cum eo ut sciamus, (senza il tamen) utique in recenti vitio id inutile esse. E ib. c.18.
sect.7. [34]Si quidquid laesum est, extra est, neque intus reconditum, eodem medicamento tinctum linamentum superdandum est, et quidquid ante adhibuimus cerato contegendum. In hoc autem casu neque acribus cibis Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia utendum neque asperis nec alvum comprimentibus. Così altrove spesso, in primo casu, in eo casu ec. come noi diciamo: in questo caso, nel primo caso ec. E lib.7. c.2.
dopo il mezzo: Semper autem ubi scalpellus admovetur, id agendum est ut et quam minimae et quam paucissimae plagae sint, cum eo tamen ut necessitati succurramus et in modo et in numero. E c.7. sect.7. At quibus id in angulo est, potest adhiberi curatio, cum eo ne (senza il tamen) ignotum sit esse difficilem. E c.16. quia et rumpi facilius motu ventris potest, et non aeque magnis inflammationibus pars ea (venter), exposita est. E c.22. adurendus est tenuibus et acutis ferramentis quae ipsis venis infigantur, cum eo ne amplius quam has urant (senza il tamen) E c.27.
circa il mezzo: Sub quibus perveniri ad sanitatem potest, cum eo tamen quod non (nota il quod non in vece del ne ch’è anche più conforme alla frase italiana) ignoremus, orto cancro saepe affici stomachum (l’ediz. di cui mi servo non ha la virgola dopo orto cancro quantunque abbondantissima nell’interpunzione). E lib.8. c.10. sect.7.
ab init. Quibus periculis etiam magis id expositum quod juxta ipsos articulos ictum est. In somma tutta la struttura della prosa di Celso è tale che accostandosi infinitamente per la maniera il giro la costruzione la frase i modi e le parole alla italiana, dà a conoscere più che forse qualunque altra prosa latina dei buoni secoli, anche a chi non lo sapesse per altra parte, che la lingua italiana deriva dalla latina. Onde non dubito che questa prosa non si accostasse ancora e non fosse presa in grandissima parte quanto al modo, e anche in qualche parte rispetto alle parole, dal volgare di Roma, o latino.
Il Libellus de Arte dicendi pubblicato sotto il nome di Celso da Sisto a Popma in Colonia nel 1569 e ristampato come rarissimo dal Fabricio in fondo alla Bibl. Lat. Lo giudico un compendio o uno spoglio o un pezzo com-pendiato dell’opera di Celso sull’Eloquenza ch’era parte Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia della grand’opera sulle arti di cui c’è rimasta la medicina.
E raccolgo che sia di Celso dalla facile eleganza o piuttosto facilità elegante tutta propria di Celso che si trova in vari luoghetti sparsi per tutto il brevissimo libricciuolo misti a un rimanente confuso, o inelegante, e anche barbaro e inintelligibile, il che dimostra l’altra parte del mio giudizio, cioè che questa non sia l’opera intera di Celso, come pare ch’abbia creduto il Fabricio l.4. c.8. fine p.506.
fine, oltrechè come vedo nel Tiraboschi qui non si trova
[35]tutto quello che Quintiliano cita dell’opera di Celso.
Anche Curio Fortunaziano Retore nei Rettorici latini del Pithou, p.69. cita Celso. Trovo poi anche parecchi modi e parole che mi persuadono che il libretto sia cavato veramente da Celso, perchè sono frequenti e familiari sue nei libri della Medicina, p.e. §.3. Oratoris artibus nemo instrui potest, nisi cui ingenium et frequens studium est.
Primum animi sit (assoluto) oportet quaedam naturalis ad videndas ediscendasque res potentia. Tum vox, (nota l’omissione del sit oportet, e la dipendenza di questo periodo dal precedente familiarissimo a Celso) latus, decor, valetudo, frugalitas, laboris patientia. E tutto il §. È di maniera affatto Celsiana. E §.4. Super hoc, per oltre a ciò, usitato da Celso, e la particella ubi per quando, allorchè, se, familiarissimo a Celso, e usata spesso qui pure, cioè
§.9. e 10. tre volte, 11. Due volte, e 17. due volte. E §.10.
Neque alienum est, ubi longior fuerit expositio vel narratio, extrema ita finire, ut admoneas quaecumque dixeris. E ivi poco dopo: Nec semper debet orator veterum se praeceptis addicere, sed scire debet incidere novam materiam quae novi aliquid postulet. E quanto all ’incidere, si trova anche in simile maniera §.11. Evenit ut ante sit respondendum quam sit ponenda narratio, ut pro Milone: Incidit caussae genus quod summam habet quaestionis. E ib. più sopra: Alterum genus est in quo utique (modo familiarissimo a Celso) aeque supervacua narratio est e così §.12. haec enim verisimilia sunt, non Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia utique vera. E §.13. Cum autem diu dicere volet, omne argumentum ornatius exequetur. E ivi: Si unum argumentum validum est et unum frivolum, a valido incipies, frivolum persequeris, rursum validum repetes.
E ivi: Cum aliquibus partibus causa laborat, utilius ordinem quaestionum confundimus, quas ex toto tractare non expedit. Modo totalmente celsiano, al quale è familiarissimo quando appo gli altri è se non altro, raro, a mio parere, e che quasi solo basterebbe appresso me per farmi credere che il libretto sia cavato veramente da Celso.
Modo del resto levato di peso dal greco ¢j �pantow, alla qual lingua s’accosta anche moltissimo e la maniera di Celso in generale, e molti modi frasi locuzioni ec. in particolare (e la semplicità e la forma della costruzione tanto del tutto, quanto dei periodi, del collegamento loro ec.), come a lingua madre, nel modo che alla italiana s’accosta come a lingua figlia. Si trova anche nel §.3. l’avverbio in totum per totalmente, che se ben mi ricorda, [36]si trova anche frequentemente appresso Celso.
Sento dal mio letto suonare (battere) l’orologio della torre. Rimembranze di quelle notti estive nelle quali essendo fanciullo e lasciato in letto in camera oscura, chiuse le sole persiane, tra la paura e il coraggio sentiva battere un tale orologio. Oppure situazione trasportata alla profondità della notte, o al mattino: ancora silenzioso, e all’età consistente.
Nel Monti è pregiabilissima e si può dire originale e sua propria la volubilità armonia mollezza cedevolezza eleganza dignità graziosa, o dignitosa grazia del verso, e tutte queste proprietà parimente nelle immagini, alle quali aggiungete scelta felice, evidenza, scolpitezza ec. E dico tutte giacchè anche le sue immagini hanno un certo che di volubile molle pieghevole facile ec. Ma tutto quello che spetta all’anima al fuoco all’affetto all’impeto vero e Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia profondo sia sublime, sia massimamente tenero gli manca affatto. Egli è un poeta veramente dell’orecchio e dell’immaginazione, del cuore in nessun modo, e ogni volta che o per iscelta come nel Bardo, o per necessità ed incidenza come nella Basvilliana è portato ad esprimer cose affettuose, è così manifesta la freddezza del suo cuore che non vale punto a celarla l’elaboratezza del suo stile e della sua composizione anche nei luoghi ch’io dico, nei quali pure egli va bene spesso anzi per l’ordinario con ribut-tante freddezza e aridità in traccia di luoghi di classici greci e latini, di espressioni di concetti di movimenti classici per esprimerli elegantemente lasciando con ciò freddissimo l’uditore, che non trova ancor quivi se non quella coltura (la quale in questi casi più quasi nuoce di quello giovi) che trova per tutto il resto della composizione sparso anch’esso di traduzioni di pezzi de’ Classici.
Giacchè questo è il costume del Monti e nella Basvilliana e per tutto di tradurre (ottimamente bensì, ma quasi formalmente tradurre) frequenti luoghi, modi frasi pensieri immagini similitudini metafore [37]ec. ec. d’autori classici: e la Musogonia segnatamente si può dire che sia un vero centone di pezzi (nota bene) di Omero Esiodo Callimaco Virgilio Orazio Ovidio, i cui nomi (con forse quello di qualcun altro antico o italiano classico) se ve li scrivessero in margine a modo delle Catenae patrum, non credo che ci sarebbe non dico pag. ma appena stanza che non fosse compresa sotto quei nomi, di maniera ch’io non mi fiderei di trovare in tutto il canto una diecina di ottave intieramente originali. Lascio poi che il poemetto non ha nessun fine soddisfacente, non è se non stiracchiatamente adattato alle circostanze d’allora, e un centone di pezzi antichi per cantare quello che cantarono quegli stessi antichi è una cosa ben miserabile.
La natura, come ho detto è grande, la ragione è piccola e nemica di quelle grandi azioni che la natura ispira. Questa nimicizia di queste due gran madri delle cose non è Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia stata accordata se non dalla Religione la qual sola propo-nendo l’amore delle cose invisibili di Dio ec. e la speranza di premio nella vita futura ha conciliato con mirabile armonia la grandezza generosità sublimità, apparente pazzia delle azioni (come son quelle dei martiri, il distac-co dai beni terreni da’ parenti dalla patria ec. il disprezzo della morte, il sacrifizio de’ piaceri e di tutto all’amor di Dio al dovere ec.) colla ragione: armonia che fuor della religione non si può trovare se non a parole, perchè tolta la speranza della vita futura, l’immortalità dell’anima, l’esistenza della virtù della sapienza della verità della beltà personificata in Dio, la cura di questo essere intorno ai portamenti nostri ec. l’amor di lui ec. non ci sarà mai si può dire, azione eroica e generosa e sublime, e concetti e sentimenti alti, che non sieno vere e prette illusioni e che non debbano scadere di prezzo quanto più cresce l’impero della ragione, come già vediamo e che sono illusioni quelle grandezze anche presenti nelle quali la religione non ha parte, e che collo indebolirsi la forza della fede negli animi, scemano presentemente quelle azioni sublimi delle quali erano molto più fecondi i secoli passati ignoranti che il nostro illuminato. Similmente si può dire della dolcezza e amabilità di tante idee ed opinioni che senza la religione sono chimere, e colla religione sono verità, e alle quali la ragione per se ripugnerebbe, la quale com’è nemica della grandezza così è nemica della profonda e vera bellezza, e con lei, come tutto è piccolo così tutto è brutto e arido in questo mondo.
Uno dei casi nei quali il seguir la ragione è barbaro, e il seguir la natura è irragionevole, ma religioso però, è di un padre p.e. che veda il figlio così affetto da dover essere assolutamente infelice vivendo, da dover penare sempre e senza riparo, tra dolori acuti, tra la mancanza di tutti i piaceri, tra una noia perenne, tra una vergogna co-cente per le imperfezioni fisiche ec. Desiderar la morte a Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia questo figlio, poniamo caso anche malato, anche disperato da’ medici, anche moribondo, o vero non solo desiderarla ma non dolersene consolarsene non piangerne ama-ramente, è ragionevole e barbaro, e come barbaro e snaturato, così anche contrario ai principi della religione.
[38]Non so se si possa far cosa più dispiacevole altrui quanto ad uno che v’abbia fatto un dono splendido, of-frirne goffamente un altro molto inferiore, col che si viene a mostrare di stimar poco quel dono comparandolo con quello che si presenta quasi fosse atto a compensar-lo, e di credere che il dono ricevuto si sia già compensato sgravandosi dell’obbligo della gratitudine, e il donatore che nel donarvi si compiaceva in se stesso aspettandosi da voi e la cognizione del benefizio, e la gratitudine (quantunque dovesse essere anche necessariamente e prevedutamente infruttuosa) si vede nell’atto della sua maggior compiacenza privo del premio del suo sacrifizio, e di più senza potersene lagnare se non altro fra se così altamente e generosamente come possono quelli che trovano ingratitudine. La qual frustrazione di speranza dopo un sacrifizio e forse anche uno sforzo fatto per conseguirla effettivamente, produce nell’uomo un senso disgustosissimo.
Uomini singolari che si siano distinti o data opera, o per sola natura, o, com’è infatti, se non altro, più comune, per l’una e per l’altra maniera, dall’universale dei loro contemporanei nelle operazioni, vita, istituto ec. metodo ec. ci furono anticamente e ci sono stati ultimamente, e ci saranno stati in tutte le età, ma è una cosa curiosa l’osservare la differenza dei tempi nella misura della differenza tra i costumi di questi uomini singolari e quelli de’ contemporanei. Giacchè Rousseau p.e. e l’Alfieri sono passati in questi ultimi tempi per uomini singolari quanto passarono un tempo in Grecia, Democrito Diogene ec. e Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia gli altri tanti filosofi che durarono anche in Roma sino a M. Aurelio e dopo. E questa uguaglianza d’effetto è assoluta. Ma se misureremo la cagion sua, cioè la differenza tra i costumi dell’Alfieri e i presenti, messa in paragone con quella tra i costumi di Diogene e de’ greci suoi contemporanei troveremo una disparità infinita tra la misura dell’una differenza e dell’altra essendo senza paragone maggiore quella di Diogene, dal che avviene che queste due differenze assolutamente parlando siano diversissime di peso quantunque rispettivamente considerate abbiano un’intensità e misura e valore uguale. Il che mostra che i costumi presenti non solo variano dagli antichi nella qualità in maniera che i costumi formali di Diogene passerebbero oggi per pazzie, ma ancora in questo che a segnalarsi fra essi ci bisogna una molto minore quantità di stravaganza (prendendo questo termine in buona parte e per singolarità, stranezza ec.) che non bisognava una volta, sicchè se qualcuno differisse ne’ suoi costumi dai presenti tanto, assolutamente parlando, quanto Diogene differiva dai greci, passerebbe anche così, non per singolare, come passava Diogene, ma per matto, quantunque relativamente alla qualità, la differenza fosse consentanea e proporzionale ai costumi presenti. Bisognava più dose anticamente per fare un effetto che ora si ottiene con molto meno, e la successiva e proporzionale diminuzione o accrescimento di questa dose si può calcolare anche nei tempi che sono di mezzo fra questi due estremi gli antichi e i moderni, che sono veramente estremi, non solo cronologicamente ma anche filosoficamente parlando, e questa dose calcolata può servire di termometro ai costumi [39]anche trasportandolo dai tempi alle nazioni, giacchè non è dubbio che la dose non sia presentemente molto minore in Francia che in qualunque altro paese ec.
e così anticamente e in ciascuna età differente presso questo o quel popolo.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Dice Bacone da Verulamio che tutte le facoltà ridotte ad arte steriliscono. Della quale verissima sentenza farò un breve commento applicandolo in particolare alla poesia.
Steriliscono le facoltà ridotte ad arte, vale a dire gli uomini non trovano altro che le amplifichi, come trovavano quando ell’erano ancora informi e senza nome e senza leggi proprie ec. e di ciò mi sovvengono (verbo usato in questo significato dal Tasso) 4. ragioni. La 1. che quasi nessuno pensa più ad accrescere una facoltà già stabilita ordinata composta e che si ha per perfetta, perchè ognuno si contenta e si acquieta stimando la cosa già compita il che non accadeva prima della sua riduzione ad arte, ma ciascuno che capitava a coltivare questa facoltà, si lam-biccava il cervello per ampliarla perchè non avea nome d’esser arte; quando l’ha avuto quando anche in fatti non sia più ricca di prima, par ch’ell’abbia già il tutto. La 2. (e questa è relativa particolarmente alla poesia) perchè moltissimi anzi quasi tutto il volgo di quelli che si applicano alla poesia (dite lo stesso proporzionatamente delle altre facoltà) non ardiscono di violare nessuna delle regole stabilite di mettere il piede un dito fuori della traccia segnata dai predecessori, credendo pedantescamente che il poetare non si possa eseguire senza stare a quelle leggi, insomma la seconda ragione è la pedanteria. La 3. più comune alle persone di senno e giudiziose e capaci, e anche esimie, è il costume e l’abitudine dal quale non si sanno staccare parte relativamente a se, parte agli altri. A se, perchè coll’abito preso di leggere di sentire di scrivere quella tal sorta di poemi di tragedie ec. non sanno fare altrimenti quantunque non siano ritenuti da nessuna superstizione. Agli altri, perchè non ardiscono di abbandonare la consuetudine corrente, e quantunque non sieno schiavi dei pregiudizi tuttavia dovendo comporre qualche poesia non si risolvono a parere stravaganti ideando cose non più sentite, dovendo pubblicare un’azione dram-matica ed esporla agli occhi del popolo, se la facessero di Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia capriccio e senz’adattarsi alla forma usata crederebbero meritarsi le risa o il biasimo universale, se componessero un poema epico di forma differente da quella che si costuma da tutto il mondo stimano e in certo modo con ragione che dovrebbero essere ripresi d’aver barattati i nomi, non ricevendosi per poema epico se non quello che è in questa forma consueta. E così è in fatti che se uno intitola la sua opera tragedia, il pubblico si aspetta quello che si suole intendere per
tragedia, e trovando cosa tutta differente se ne ride. Nè senza ragione perchè il danno dell’età nostra è che la poesia si sia già ridotta ad arte, in maniera che per essere veramente originale bisogna rompere violare disprezzare lasciare da parte intieramente i costumi e le abitudini e le nozioni di nomi di generi ec. ricevute da tutti, cosa difficile a fare, e dalla quale si astiene ragionevolmente anche il savio, perchè le consuetudini vanno rispettate massimamente nelle cose fatte pel popolo come sono le poesie, nè va ingannato il pubblico con nomi falsi. [40]E dare una nuova poesia senza nome affatto e che non possa averne dai generi conosciuti è ragionevole bensì, ma di un ardire difficile a trovarsi, e che anche ha infiniti ostacoli reali, e non solamente immaginari nè pedanteschi. La 4. e la più forte, e la più considerabile, che quando anche un bravo poeta voglia effettivamente astrarre da ogni idea ricevuta da ogni forma da ogni consuetudine, e si metta a immaginare una poesia tutta sua propria, senza nessun rispetto, difficilissimamente riesce ad essere veramente originale, o almeno ad esserlo come gli antichi, perchè a ogni momento anche senz’avvedersene, senza volerlo, sdegnandosene ancora, ricadrebbe in quelle forme, in quegli usi, in quelle parti, in quei mezzi, in quegli artifizi, in quelle immagini, in quei generi ec. ec. come un riozzolo d’acqua che corra per un luogo dov’è passata altr’acqua: avete bel distornarlo, sempre tenderà e ricadrà nella strada ch’è restata bagnata dall’acqua precedente. Giacchè Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia la natura somministra ben da se idee sempre differenti e sempre nuove, e se un poeta non fosse stato conosciuto dall’altro appena si sarebbero trovati due poeti che avessero fatti poemi somiglianti perchè questo non sarebbe stato se non opera del caso, il quale difficilmente produce simili combinazioni che ognuno vede quanto sian rare in ogni genere. Perciò quando gli esempi erano o scarsi o nulli, Eschilo per es. inventando ora una ora un’altra tragedia senza forme senza usi stabiliti, e seguendo la sua natura, variava naturalmente a ogni composizione. Così Omero scrivendo i suoi poemi, vagava liberamente per li campi immaginabili, e sceglieva quello che gli pareva giacchè tutto gli era presente effettivamente, non avendoci esempi anteriori che glieli circoscrivessero e gliene chiudessero la vista. In questo modo i poeti antichi difficilmente s’imbattevano a non essere originali, o piuttosto erano sempre originali, e s’erano simili era caso. Ma ora con tanti usi con tanti esempi, con tante nozioni, definizioni, regole, forme, con tante letture ec. per quanto un poeta si voglia allontanare dalla strada segnata a ogni poco ci ritorna, mentre la natura non opera più da se, sempre naturalmente e necessariamente influiscono sulla mente del poeta le idee acquistate che circoscrivono l’efficacia della natura e scemano la facoltà inventiva, la quale se ciò non fosse, malgrado i tanti poeti che ci sono stati, saprebbe ben da se ritrovar naturalmente e senza sforzo (parlo della facoltà inventiva di un vero poeta) cose sempre nuove, e non tocche da altri, almeno non in quella maniera ec.
Una delle grandi prove dell’immortalità dell’anima è la infelicità dell’uomo paragonato alle bestie che sono felici o quasi felici, quando la previdenza de’ mali (che nelle bestie non è) le passioni, la scontentezza del presente, l’impossibilità di appagare i propri desideri e tutte le altre sorgenti d’infelicità ci fanno miseri inevitabilmente Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ed essenzialmente per natura nostra che lo porta, nè si può mutare. Cosa la quale dimostra che la nostra esistenza non è finita dentro questo spazio temporale come quella dei bruti, perchè ripugna alle leggi che si osservano seguite costantemente in tutte le opere della natura, che vi sia un animale, e questo il più perfetto di tutti, anzi il padrone di tutti gli altri e di questo intiero globo, il quale racchiuda in se una sostanziale infelicità, e una specie di contraddizione colla sua esistenza al compimento della quale non è dubbio che si richieda la felicità proporzionata all’essere di quella tale sostanza (che per l’uomo è impossibile di conseguire) e una contraddizione formale col desiderio di esistere ingenito in lui come in tutti gli animali, anzi proporzionatamente in tutte le cose; giacchè un uomo disperato della vita futura
ragionevolissimamente detesta la presente, se n’annoia, ne patisce (cosa snaturata) e s’uccide come vediamo che fa (impossibile ne’ bruti). L’uccidersi dell’uomo è una gran prova della sua immortalità. Verri Notte Romana 5. col-loquio 6.
[41]La prima donna (del teatro, attempata) non vuol recedere dagli antichi suoi diritti.
Quello che ho detto qui sopra della difficoltà d’astenersi dall’imitare è confermato e dall’esempio del Metastasio che se è vero quello che dice il Calsabigi nella lettera all’Alfieri non volle mai leggere tragedie francesi, e da quello che scrive l’Alfieri di se nella sua Vita, e tra l’altro del Caluso che gli negò una tragedia del Voltaire ch’egli volea leggere mentre stava per comporne un’altra sullo stesso argomento.
C’è una differenza grandissima tra il ridicolo degli antichi comici greci e latini di Luciano ec. e quello de’ moderni massimamente francesi. La differenza si conosce Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia benissimo e dà negli occhi immediatamente. Ma quanto all’analizzarla e diffinire in che consista, a me pare che sia questo, che quello degli antichi consistea principalmente nelle cose, e il moderno nelle parole (e quando dico moderno intendo principalmente le più moderne commedie satire e altri scritti ridicoli giacchè il Goldoni p.e. ne aveva di quel ridicolo antico e attico e così le più antiche nostre commedie e il Berni ec. a differenza credo dei francesi anche antichi come il Boileau ec.). Quello degli antichi era veramente sostanzioso, esprimeva sempre e mettea sotto gli occhi per dir così un corpo di ridicolo, e i moderni mettono un’ombra uno spirito un vento un soffio un fumo. Quello empieva di riso, questo appena lo fa gustare e sorridere, quello era solido, questo fugace, quello durevole materia di riso inestinguibile, questo al contrario. Quello consisteva in immagini, similitudini paragoni, racconti insomma cose ridicole, questo in parole, generalmente e sommariamente parlando, e nasce da quella tal composizione di voci da quell’equivoco, da quella tale allusione di parole, da quel giucolino di parole, da quella tal parola appunto, di maniera che togliete quella allusione, scomponete e ordinate diversamente quelle parole, levate quell’equivoco, sostituite una parola in cambio d’un’altra, svanisce il ridicolo. Ma quel de’ greci e latini è solido, stabile, sodo, consiste in cose meno sfuggevoli, vane, aeriformi, come quando Luciano nel Zeçw �elegkñmenow paragona gli Dei sospesi al fuso della Parca ai pesciolini sospesi alla canna del pescatore. Ed erano i greci e latini inventori acerrimi e solertissimi di queste immagini, di queste fonti di ridicolo e ne trovavano delle così recondite, e nel tempo stesso così feconde di riso ch’è incredibile come in quel frammento di Filemone Comico appo il Vettori Var. Lect. l.18. c.17. E
la novità era cosa ordinarissima nel ridicolo degli antichi comici secondo la forza comica di ciascheduno. E quando anche non ci fossero immagini similitudini ec. sempre Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia quel motteggiare era più consistente più corputo, e con più cose che non il moderno. Ma forse e senza forse presentemente, e massime ai francesi par grossolano quel che una volta si chiamava sale attico, e piacque ai greci, popolo il più civile dell’antichità, e a’ latini. E può essere che anche Orazio avesse una simile opinione quando disse male de’ sali di Plauto (esemplare di quel ridicolo ch’io dico tra’ latini) e [42]infatti le Satire e l’Epistole d’Orazio non sono di così solido ridicolo come l’antico comico greco e latino, ma nè anche di gran lunga, così sottile come il moderno. Ora a forza di motti s’è renduto spirituale anche il ridicolo, assottigliato tanto che omai non è più nè pur liquore ma un etere un vapore, e questo solo si stima ridicolo degno delle persone di buon gusto e di spirito e di vero buon tuono, e degno del bel mondo e della civile conversazione. Il ridicolo nelle antiche commedie nasceva anche molto dalle operazioni stesse ch’erano introdotti a fare i personaggi sulla scena, e quivi ancora era non piccola sorgente di sale, nella pura azione, come nelle Cerimonie del Maffei commedia piena di vero e antico ridicolo, quel salire di Orazio per la finestra a fine d’evitare i complimenti alle porte. Un’altra gran differenza tra il ridicolo antico e il moderno è che quello era preso da cose popolari o domestiche o almeno non della più fina conversazione, la quale poi non esisteva allora per lo meno così raffinata; ma il moderno massime il francese versa principalmente intorno al più squisito mondo, alle cose dei nobili più raffinati alle vicende domestiche delle famiglie più mondane ec. ec. (come anche proporzionatamente era il ridicolo d’Orazio) sicchè quello era un ridicolo che avea corpo, e come il filo d’un’arma che non sia troppo aguzzo, dura lungo tempo, dove quello come ha una punta sottilissima, (più o meno, secondo i tempi e le nazioni) così anche in un batter d’occhio si logora e si consuma, e dal volgo poi non si sente, come il taglio del rasoio a prima giunta.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Un’altra prova dell’esser la nostra lingua italiana derivata dal volgare di Roma del buon tempo si trae dalle parole antichissime Latine poi andate in disuso presso gli scrittori, che ora si trovano nell’italiano, le quali è manifesto che con una successione continuata sono passate da quegli antichissimi tempi sino a noi, perchè nessuno certo l’è andato a pescare negli scrittori antichissimi latini perduti poi ancora prima del nascere della nostra lingua, come Lucilio Ennio Nevio ec. Di maniera che tra questi antichi che le usavano e noi che le usiamo non bisogna lasciare nessun intervallo voto, perchè non sarebbero più rinate, se non vogliamo dire che sia un caso, il che non si lascerà credere appena agli Epicurei. Dunque non essendoci altra catena tra quegli scrittori e noi che il volgare Latino, giacchè gli scrittori le aveano dismesse, resta che questo si riconosca per conservatore e propagatore all’italiano di quelle voci. Come pausa usata dagli antichi scrittori latini, poi disusata, poi tornata in uso a’ tempi bassi e quindi nell’italiano, (v. il Du Cange) certo non saltò da quei secoli antichi ai bassi così per miracolo, (giacchè certo quei miserabili scrittori Latino barbari non la trassero dagli antichissimi autori forse già perduti e certo a loro o ignoti, o tutt’altro che letti e studiati) ma discese per una via continuata la quale non può esser altro che il popolare latino. E questo credo che si possa parimente dire di moltissime altre voci.
[43]Diceva un marito geloso alla moglie: Non t’accorgi, Diavolo che sei, che tu sei bella come un Angelo?
Quanto più del tempo si tiene a conto, tanto più si dispera d’averne che basti, quanto più se ne gitta, tanto par che n’avanzi.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Non vorrei parer di detrarre al valore delle lodi colle quali V.S. s’è compiaciuta d’ornarmi pubblicamente, se dirò che più dell’onore che me ne viene, mi rallegra la benevolenza di V.S. che mi dimostrano, e questa tanto maggiore quanto essendo più scarso il merito mio, conviene che abbondi quello che ha supplito al suo difetto.
Proprietà, efficacia, ricchezza, varietà, disinvoltura, eleganza ancora e morbidezza e facilità, e soavità e mollezza e fluidità ec. sono cose diverse e possono stare senza la x�riw �Attik¯, lepos atticum, quella grazia che non si potrà mai trarre se non da un dialetto popolare (capace di somministrarla) che gli antichi greci traevano dall’Attico i latini massimamente antichi come Plauto Terenzio ec. dal puro e volgare e nativo Romano, e noi possiamo e dobbiamo derivare dal Toscano usato giudiziosamente.
Non si trova in verun Dizionario italiano ch’io abbia potuto consultare ma è comune fra noi la parola blitri o blittri o blitteri che significa, un niente, cosa da nulla ec.
Questa casa è un blitri; questa città è un blitri a misurarla con Roma ec. ec. Ora questa parola è totalmente e interamente greca: blÛtri, che anche si diceva blÛturi e bl®turi e blÛthri (come anche noi) e forse anche brÛturi, e non significava nulla. V. Laerz. l.7. segm.57. e quivi le note del Casaub. e del Menag. e il Du Fresne Glossar. Graec. in blÛthri, e nell’appendice 1. in blÛthri parimente. Tutti gli altri libri immaginabili che poteano fare al caso sono stati da me consultati scrupolosamente, senza trovarci ombra di questa voce, e nominatamente i Dizionari Greci tutti quanti n’ho, dove manca affatto, in tutte le sue maniere.
Il cantare che facciamo quando abbiamo paura non è per farci compagnia da noi stessi come comunemente si dice, nè per distrarci puramente, ma (come trovo Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia incidentemente e finissimamente notato anche nella seconda lettera del Magalotti contro gli Atei) per mostrare e dare ad intendere a noi stessi di non temere. La quale osservazione potrebbe forse applicarsi a molte cose, e dare origine a parecchi pensieri. E già è manifesto che all’aspetto del male noi cerchiamo d’ingannarci e di credere che non sia tale, o minore che non è, e però cerchiamo chi se ne mostri o ne sia persuaso, e per ultimo grado, per per-suaderlo a noi stessi, fingiamo d’esserne già persuasi, operando e discorrendo tra noi come tali. E questo è quello che accade nel caso detto di sopra. E già è costume di moltissimi il detrarre quanto più possono colle parole e colla fantasia a’ mali che loro sovrastanno, e con ciò si consolano e fortificano, mendicando il coraggio non dal disprezzo del male, ma dalla sua immaginata falsità o piccolezza, onde son molti che non si sgomentano se non di rarissimo perchè quando vien loro annunziato o prevedono qualche male, prima non lo credono affatto, (cioè si nascondono o impiccoliscono tutti i motivi di credere) e così se il male non ha luogo effettivamente essi non han temuto, e gli altri sì, e con ragione; poi lo scemano immaginando quanto possono, e così non temono se non in quei rari casi nei quali sopraggiunge un male così evidente e reale e che li tocchi in modo che non possano ingannarsi, giacchè anche sopraggiunto che sia, molte volte non lo credono affatto male, cioè non lo voglion credere. E
questi che [44]forse spesso passano per coraggiosi, sono i più vigliacchi che mai, giacchè non sanno sostenere non solo la realtà ma neppur l’idea dell’avversità, e quando hanno sentore di qualche disgrazia che loro sovrasti o sia accaduta, subito corrono col pensiero, ad arroccarsi e trin-cerarsi e chiudersi e incatenacciarsi poltronescamente in dire fra se che non sarà nulla. Onde si vede alla prova delle evidenti disgrazie, come sieno codardi e si disperi-no, e dieno in frenesie e smanie da femminucce con urli pianti preghiere, tutte cose vedute e notate effettivamen-Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia te da me in uno di cui ho e naturalmente doveva avere una gran pratica, del quale per l’altra parte è un perfettissimo e appropriatissimo ritratto quello che ho detto di sopra. Del resto è cosa pur troppo evidente che l’uomo inclina a dissimularsi il male, e a nasconderlo a se stesso come può meglio, onde è nota l’eçfhmÛa degli antichi greci che nominavano le cose dispiacevoli t� dein� con nomi atti a nascondere o dissimulare questo dispiacevole, (del che v. Elladio appo il Meursio) la qual cosa certo non faceano solamente per cagione del mal augurio. E
anche in italiano si dice, se Dio facesse altro di me, per dire, s’io morissi, (v. la Crusca in Altro) e in latino in questo istesso caso, si quid humanum paterer, mihi accideret etc. e così in cento altri casi.
Un argomento chiaro di quanto poco i greci studiasse-ro il latino così assolutamente, come in particolare rispetto a quello che i latini studiavano il greco, è quello che dicono Plutarco nel principio del Demostene, e Longino dove parla di Cicerone quando i latini scrittori senza nessunissima esitazione nata dall’esser di diversa lingua, parlavano e giudicavano degli scrittori greci.
Anche in nostra lingua le mutazioni della pronunzia latina ec. hanno guasto parecchie parole, come da raucus espressivissima del suono che significa, roco che perde quasi tutta l’espressione.
L’infelicità nostra è una prova della nostra immortalità, considerandola per questo verso che i bruti e in certo modo tutti gli esseri della natura possono esser felici e sono, noi soli non siamo nè possiamo. Ora è cosa evidente che in tutto il nostro globo la cosa più nobile, e che è padrona del resto, anzi quello a cui servizio pare a mille segni incontrastabili che sia fatto non dico il mondo ma certo la terra è l’uomo. E quindi è contro le leggi costanti Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia che possiamo notare osservate dalla natura che l’essere principale non possa godere la perfezione del suo essere ch’è la felicità, senza la quale anzi è grave l’istesso essere cioè esistere, mentre i subalterni e senza paragone di minor pregio possono tutto ciò, e lo conseguono, il che è chiaro a mille segni e per le ragioni ancora indicate in un altro pensiero.
La costanza dei 300. alle Termopile e in particolare di quei due che Leonida voleva salvare, e non consentirono ma vollero evidentemente morire, come anche la solita gioia delle madri o padri Spartani (ma è più notabile delle madri) in sentire i loro figliuoli morti per la patria, è similissima anzi egualissima a quella dei martiri e in particolare di quelli che potendo fuggire il martirio non vollero assolutamente desiderandolo come gli spartani desideravan di cuore di morire per la patria. E un esempio recente di un martire che potendo fuggir la morte, non volle, si può vedere nel Bartoli, Missione al gran Mogol. E la stessa applicazione [45]fo pure di quelle madri e padri cristiani che godevano sentendo de’ loro figli martiri, e ancora esortandoli vedendoli portandoli accom-pagnandoli offrendoli al martirio e nel supplizio confor-tandoli a non cedere, come le spartane che esortavano ec.
e quella che disse presentando lo scudo al figlio, o con questo o su questo, e quelle che abbominavano i figli mac-chiati di qualche viltà come parimente le cristiane ec. Da questo confronto risulta una conformità non solita a considerarsi fra questi due generi di eroismi, ed apparisce quello che ho detto altrove in questi pensieri che la religione è la sola che abbia riunito l’eroismo e la grandezza delle azioni e il valore e il coraggio e la forza d’animo ec. colla ragione ec. e che abbia anzi risuscitato l’eroismo già quasi svanito allo scemare delle illusioni: e quanto sia simile alle cose nostre quello che non si crede che abbia esempio fuor delle circostanze della libertà, amor pa-Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia trio ec. de’ greci de’ Romani, in somma degli antichi e principalmente degli antichissimi, quando come ho detto noi ne abbiamo anche esempi recenti ne’ nostri ultimi martiri, non solo ne’ primi e antichi.
Soleva considerar come una pazzia quello che dicono i Cappuccini per iscusarsi del trattar male i loro novizzi, il che fanno con gran soddisfazione, e con intimo sentimento di piacere, cioè che anch’essi sono stati trattati così. Ora l’esperienza mi ha mostrato che questo è un sentimento naturale, giacch’io giunto appena per l’età a svilupparmi dai legami di una penosa e strettissima educazione e tuttavia convivendo ancora nella casa paterna con un fratello minore di parecchi anni, ma non tanti ch’egli non fosse nel pienissimo uso di tutte le sue facoltà vizi ec. siccome non per altro (giacchè non era punto per predilezione de’ genitori) se non perch’era mutato il genere della vita nostra che convivevamo con lui, anch’egli partecipava non poco alla nostra larghezza, ed avea molto più comodi e piaceruzzi che non avevamo noi in quella età, e molto meno incomodi e noie e lacci e strettezze e gastighi, ed era perciò molto più petulante ed ardito di noi in quell’età, perciò io ne risentiva naturalmente una verissima invidia, cioè non di quei beni giacch’io gli avea allora, e pel tempo passato non li potea più avere, ma mero e solo dispiacere ch’ei gli avesse, e desiderio che fosse incomodato e tormentato come noi, ch’è la pura e legittima invidia del pessimo genere, e io la sentiva naturalmente e senza volerla sentire, ma in somma compresi allora (e allora appunto scrissi queste parole) che tale è la natura umana, onde mi erano men cari quei beni ch’io aveva qualunque fossero, perch’io li comunicava con lui, forse parendomi che non fossero più degno termine di tanti stenti dopo che non costavano niente a un altro che si trovava nelle mie circostanze, e con meno merito di me, ec. Quindi applico ai Cappuccini, i quali trovando la Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia sorte dei fratelli minori che sono i novizzi dipendente da loro, seguono gl’impulsi di questa inclinazione che ho detto, e non soffrono che si possano dire a se stessi essere scarso quel bene a cui son giunti poichè altri gli acquista con assai meno travaglio di loro, nè che abbiano a provare il dispiacere che questi tali non soffrano quegl’incomodi ch’essi in quelle circostanze hanno sofferti.
[46]Quando colla lettura col tratto col discorso coi trattenimenti o letterari o di qualunque genere (ma massime coi libri in quanto al gusto dello scrivere, e colla conversazione degli uomini in quanto al costume) ci siamo formati un abito cattivo, crediamo che quello sia natura, giacchè non c’è cosa tanto simile e facile ad esser confuso colla natura anche da’ più oculati e da’ filosofi, quanto l’abito; e pretendiamo di dover seguire quell’abito p.e.
nello scrivere, (giacchè di questo io voglio qui parlare specialmente come quelli a cui pare che lo scrivere in un italiano francese sia natura, e così la corruzione del gusto in ogni genere e parte di scrittura e di stile) dicendo ch’è natura, e che così vi viene spontaneamente e che la poesia deve fluire dalla natura e cose tali. Ma non è natura, è abito, e abitaccio pessimo, e volete vederlo? se siete veramente di buona indole per le Belle Arti leggete i veri poeti e scrittori, particolarmente i greci, e vedrete subito che quella è natura, e vi maraviglierete (come infatti succede, che quasi paiano due naturalezze e non si sappia capir come, e dall’altra parte questa duplicità ci faccia stupire) come sia tanto differente da quella che voi credete che sia natura, eppur non potete negare che questa non sia perch’è troppo evidente. Ed ecco se volete esser poeta e servirvi di quello che vi somministra la natura, naturalmente, e rettamente, cominciate, se siete uomo di giudizio, a conoscer la necessità assolutissima dello studio, (oh bestemmia! necessario lo studio per iscrivere e poetar bene) e della lezione dei classici e delle arti poeti-Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia che e dei trattati ec. ec. e vedete appoco appoco la somma difficoltà d’imitare e seguir quella natura che prima confondendola coll’abito giudicavate così facile a esprimere, perchè infatti non c’è cosa più facile a seguire che l’abito, nè più difficile a contrariare, il che appunto fa la somma difficoltà del seguir la natura vera, e ciò non si ottiene senza un contrabito tanto più difficile del primo quanto bisogna erigerlo dai fondamenti, (del che in quell’altro essendo venuto su appoco appoco, nell’età fresca, e da se, senza nostra fatica, non ci eravamo accorti) erigerlo sbarbando prima l’altro, e questa è la gran fatica che in quell’altro non ci fu punto, e finalmente erigerlo continuarlo e finito conservarlo in mezzo a infinite cose (come letture necessarie, discorsi, commercio usuale per negozi ec. trattenimenti conversazioni corrotte secondo il solito, corrispondenze ascoltazione di discorsi altrui ec.
ec.) che lo contrastano, tanto più pericolose quanto vi richiamano a quell’altro abito prima già fatto, onde il luogo resta sempre lubrico, ed è facile lo scivolare nel cattivo. E
così è necessarissimo lo studio per ben servirsi di quella natura, senza la quale bensì non si fa niente, ma colla quale sola avreste ben forse potuto quasi tutto, ma non potete più nulla, anzi meno del nulla, giacchè non potete non far male, a cagione dell’abito inevitabile fatto contro di lei.
La grazia non può venire altro che dalla natura, e la natura non istà mai secondo il compasso della gramatica della geometria dell’analisi della matematica ec. Quindi la scarsezza di grazia nella lingua francese tutta analitica e tecnica e regolare, e diremo angolare, massima scarsezza nell’esteriore dello stile, e poi anche nell’interiore ec.
se bene se ne compensano col nominar la grazia 20. Volte per pagina, e [47]non c’è un libro francese dove non troviate a ogni occhiata grace, grace massime parlando dei libri della loro nazione, encomiandoli ec. Grace grace, mi Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia viene allora in bocca, et non erat grace (pax pax et non erat pax, ma non so se così veramente dica S. Paolo, o qual altro Scrittor sacro). V. questi pensieri p.92-94.
Stridore notturno delle banderuole traendo il vento.
Si suol dire che la resistenza stimola e dà forze di compire, e condurre a fine quello che si è tentato. Ora io soggiungo che spessissimo se io senza resistenza avrei fatto dieci, sopraggiunta la resistenza farò quindici e venti. E
questo spesso di assoluta e determinata volontà, non già per soprabbondanza meccanica degli effetti della forza impiegata maggiore del bisognevole per la resistenza incontrata, e non contrappesata diligentemente alla resistenza, come se io voglio spingere una cosa da un luogo all’altro, provo che non cede alla prima spinta, accresco la forza, e questa me la caccia più lontano ch’io non voleva. Ma dico per deliberata volontà: p.e. do una spinta e non giova, un’altra e non fa, la terza parimente, alla fine mi piglia la rabbia, acchiappo la cosa colle mani, e la strascino molto più in là ch’io non voleva prima ch’ella andasse, e volendo ch’ella stia dove dee, bisogna che la riporti indietro al luogo conveniente, e così fo. E la distanza alla quale l’ho portata è spesso più che doppia ed anche tripla di quella a cui la voleva spingere. Questo accade perch’io allora non considero più e non ho per fine della mia azione, di farla andare in quel tal luogo, ma propriamente di vincere e vendicare quella resistenza, e mostrare la superiorità del mio volere e della mia forza sopra il suo volere e la sua forza, la quale tanto più si dimostra, e la vendetta e la vittoria è tanto maggiore quanto io la porto più lontano, e insomma volti allora a quel fine miriamo alla perfezione di esso che così si conseguisce, e perciò non c’importa che veniamo a nuocere a quel primo fine del quale effettivamente in quel punto siamo dimenticati. Applico ora questo caso fisico ai morali.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Perciò si vuole che le parole che si hanno da aggiungere alla nostra lingua o per arricchirla, o per necessità ec.
si prendano dal latino e non dal francese nè dal tedesco ec. chiamando quelle buone e approvandole, e queste barbare, perchè quelle ordinariamente o almeno assai più spesso e facilmente consentono coll’indole della lingua nostra, e le lasciano la sua forma e sembianza nativa e la sua grazia ec. ma queste dissuonano manifestissimamente e sconvengono, e sconvenendo fanno la barbarie, e se son molte guastano le forme native, e la venustà e grazia propria e primitiva della lingua. E questa sconvenienza si scorge anche nelle semplici parole, com’è chiaro, vedendosi subito che vengono da un’altra fonte, laddove le latine non possono venire da un’altra fonte, essendo da quella stessa fonte venuta si può dir tutta intera la lingua italiana, e benchè da essa sia venuta anche la francese, non però la italiana è venuta dalla francese, e quindi per quanto la sorgente sia la stessa, nel corso si può bene il rivo essere, anzi s’è mutato, e alterato, ed ha acquistato proprietà tali, che non ha più nessun diritto di dare ad un altro rivo nato dalla stessa sorgente, le sue acque, come
[48]a lui convenienti. Laddove la fonte non essendo alterata, restiamo sempre in diritto d’attingerne, e anche quivi con giudizio, e quanto è permesso dalle alterazioni che ha sofferte il nostro proprio rivo, per cagione delle quali alcune acque della stessa sorgente non ci si potrebbero mescolare senza sconvenienza. Ed ecco la cagione del diverso diritto, e delle diverse conseguenze che si devono dedurre dalla fratellanza delle lingue e dalla figliolanza.
Quello poi che ho detto delle parole va inteso e molto più intensamente delle frasi che corrompono più e sconvengono più, avendo faccia più manifestamente straniera e dissimile. E che questa non sia pedanteria e cieca venerazione dell’antichità si vede chiaro da questo che non solo non amiamo ma detestiamo le parole greche, quantunque la lingua latina ne prendesse in tanta copia, Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia e appunto per uso d’arricchirsi, e per le diverse necessità d’esprimer questa o quella cosa mancante di parola latina dove senza crearla di nuovo la levavano di peso dal greco ed è costume usitatissimo dei latini come di Cicerone di Celso ec. quantunque principalmente di chi scriveva di scienze come Plinio ec. ma anche Orazio com’è notissimo ec. Ora perchè queste hanno viso per noi straniero le fuggiamo di cuore, ed anche gran parte delle frasi strettamente prese, giacchè dei modi più largamente, infiniti ne convengono a maraviglia alla nostra lingua. Al contrario però di noi la lingua francese non fa una difficoltà al mondo di spogliare la lingua greca secondo i suoi bisogni e in questi ultimi tempi se n’è empiuta e satollata strabocchevolmente, onde già fanno dizionari delle parole francesi derivate dal greco cosa per altro scellerata che guasta quella lingua orrendamente (come guasta in-degnamente la nostra la barbarie comunissima di usar queste stesse parole greche massime le moderne piglian-dole non dal greco ma dal francese colla stessa barbarie però, quantunque i più neppur sappiano che siano interamente greche ma le abbiano per pure francesi, come despota, demagogo, anarchia, aristocrazia, democrazia, colle terminazioni greche sole p.e. civismo, filosofismo ec. ec. che in gran parte son politiche messe fuori dalla repubblica francese ma ce ne ha di tutti i generi) e in principal modo perch’essendo adottata da tutti gli scrittori di scienze la nomenclatura tratta dal greco onde non c’è scienza, anzi neppure arte, mestiere, rettorica gramatica ec. che non sia piena di greco, e perfino nel suo nome e in quello delle sue parti non sia intieramente greca, le parole greche essendo necessariamente di quel sembiante che tutti siamo soliti di vedere nelle usate dagli scienziati, danno alla lingua francese (e darebbero a qualunque lingua e daranno all’italiana se dalla francese saranno trasportate stabilmente nella nostra) un’aria indegna di tecnicismo (per usare una di queste belle parole) Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia e di geometrico e di matematico e di scientifico che ischeletrisce la lingua, riducendola in certo modo ad angoli e perchè non c’è cosa più nemica della natura che l’arida geometria, le toglie tutta la naturalezza e la naïveté, e la popolarità (onde nasce la bellezza) e la grazia e la venustà, e proprietà, ed anche la forza e robustezza ed efficacia mancando anche questa assolutamente al linguaggio tecnico che non fa forza col linguaggio, ma con quello che risulta dalle parole cioè col significato loro e coll’argomento e ragione, o col concetto spiegato freddamente con esse.
[49]La favola del pavone vergognoso delle sue zampe pecca d’inverisimile anzi d’impossibile, giacchè non ci può esser parte naturale e comune in verun genere d’animale, che a quello stesso genere non paia conveniente, e quando sia nel suo genere ben conformata non paia bella: giacchè la bellezza è convenienza, e questa è idea ingenita nella natura; quali cose però si convengano, questo è quello che varia nelle idee non solo dei diversi generi di animali, ma eziandio degl’individui di uno stesso genere, come negli uomini, agli Etiopi (per non uscire dalla bellezza del corpo) par bello il color nero, il naso camoscio, le labbra tumide, e brutti i contrari che a noi paion belli, e tra i bianchi questa e quella nazione si diversifica assaissimo nel valutar come bella questa o quella forma che all’altra nazione dispiacerà. Ma che la natura abbia fatto parte stabile ed essenziale di verun genere animale-sco che a quello stesso genere paia brutta è impossibile, giacchè non è possibile che un genere non abbia nessuno cui stimi bello, e questo vediamo parimente nella specie, e le stesse differenze ch’io ho notate nei giudizi degli uomini provengono dalla differente forma loro come negli Etiopi, Lapponi, Selvaggi, isolani di cento figure ec. E le altre differenze, come nello stimar più l’occhio ceruleo che il nero, ec. versano non intorno a cose stabili e immu-Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tabili, ma, com’è chiaro da questo esempio, mutabili, e differenti in una stessa specie secondo gl’individui, giacchè altrimenti la natura avrebbe fatto una specie di bruttezza assoluta, se parendo bruttezza a noi, paresse anche a quel tal genere o specie. Ma la bruttezza assoluta ben noi ce la figuriamo che vedendo le zampacce del pavone, e paren-doci sconvenienti al resto del suo corpo, non crediamo che possano parer belle a nessuno animale, ma il fatto non istà così, anzi al pavone parebbono brutte nel proprio genere quelle zampe più grosse carnose morbide ornate vestite ec. che a noi parrebbono più belle, e giudica brutto quello del suo genere (o specie che la vogliamo dire) che non ha le zampe perfettamente secche asciutte ec.
Quello che ho detto nel principio di questo pensiero me ne porge un altro, cioè che infatti quella favola non pecca d’inverisimile non essendo scritta per li pavoni ma per noi, i quali naturalmente siamo portati a credere che quelle zampe bruttissime agli occhi nostri sieno tali anche agli occhi dei pavoni. E quantunque il filosofo facilmente conosca il contrario, tuttavia scrive il poeta pel volgo, al quale non è inverisimile il dir p.e. che le stelle cadano, anzi lo dice Virgilio e si dice da’ villani e da’ poeti tuttogiorno, benchè a qualunque non ignorante sia cosa impossibile.
[50]A quello che ho detto nel 3. pensiero avanti al presente si aggiunga che le parole nuove si devono anche cavare dalle radici che sono nella propria lingua, e questa è una fonte principalissima e dalla quale Dante che passa pel creatore della lingua derivò una grandissima, e forse la massima parte delle voci ch’egli introdusse. E i derivati da questa fonte serbando com’è naturale il colore nativo della lingua più che qualunque altro, se son fatti con giudizio, vengono a formare il miglior genere di voci nuove Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia che si possano creare ec. ec. Ma questa fonte è tanto più scarsa quanto meno sono le radici cioè quanto la lingua è meno ricca, onde la lingua francese cedendo in questo senza paragone all’italiana non è dubbio che di voci nuove secondo il bisogno, che non alterino la fisonomia della lingua ma consuonino ec. dev’essere molto più atta a produrne la lingua italiana che la francese. E infatti questa che passa per ricchissima in vocaboli delle arti e scienze ec. è infatti poverissima, giacchè questi vocaboli non li piglia dal suo fondo, ma di peso dalle altre lingue come dalla greca onde disdicono e stuonano manifestamente col resto della lingua e l’alterano e imbastardiscono, e ciò perchè non sono lingue di uno stesso genere ma diversissime, il cui genio anche nelle pure voci non ha che fare con quello della francese, all’opposto della latina rispetto all’italiana principalmente. Ora questa ricchezza tanto è loro quanto nostra, perchè è chiaro che non trattandosi di ricchezza aétñxϑvn ma di roba presa altrove, tutti possono prenderla egualmente e colla stessa spesa, massime noi italiani, ai quali non è niente più difficile da stereotupÛa di fare stereotipia, di quello che ai francesi stéréotypie ec. ec. e di formar nuovi composti greci co-m’è questo ec. sì che è ricchezza fittizia, non propria, ascita, misera, comune a tutti, e dannosa. Oltracciò i derivati dalle proprie radici sono subito di noto significato, e intesi da tutti, così in massima parte dalla lingua latina (dalla quale già non si dee prendere quello che non sarebbe comunemente inteso) ma questi altri non si capiscono da nessuno se non ci mettete la spiegazione etimo-logica ec. ovvero se non li mettete nel vocabolario col loro significato, quando non sieno appoco appoco passati in uso, ma ciò non può esser successo senza il detto massimo inconveniente nel principio.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Anche la stessa negligenza e noncuranza e sprezzatura e la stessa inaffettazione può essere affettata, risaltare ec.
Anche la semplicità la naturalezza la spontaneità. V. p.160.
Dolor mio nel sentire a tarda notte seguente al giorno di qualche festa il canto notturno de’ villani passeggeri.
Infinità del passato che mi veniva in mente, ripensando ai Romani così caduti dopo tanto romore e ai tanti avvenimenti ora passati ch’io paragonava dolorosamente con quella profonda quiete e silenzio della notte, a [51]farmi avvedere del quale giovava il risalto di quella voce o canto villanesco.
Il più solido piacere di questa vita è il piacer vano delle illusioni. Io considero le illusioni come cosa in certo modo reale stante ch’elle sono ingredienti essenziali del sistema della natura umana, e date dalla natura a tutti quanti gli uomini, in maniera che non è lecito spregiarle come sogni di un solo, ma propri veramente dell’uomo e voluti dalla natura, e senza cui la vita nostra sarebbe la più misera e barbara cosa ec. Onde sono necessari ed entrano sostanzialmente nel composto ed ordine delle cose.
La varietà è tanto nemica della noia che anche la stessa varietà della noia è un rimedio o un alleviamento di essa, come vediamo tutto giorno nelle persone di mondo. Al-l’opposto la continuità è così amica della noia che anche la continuità della stessa varietà annoia sommamente, come nelle dette persone, e in chicchessia, e, per portare un esempio, ne’ viaggiatori avvezzi a mutar sempre luogo e oggetti e compagni e alla continua novità, i quali non è dubbio che dopo un certo non lungo tempo, non deside-rino una vita uniforme, appunto per variare, colla uniformità dopo la continua varietà. V. Montesquieu Essai sur le Goût. De la variété. Amsterd. 1781. p.378. lin. ult. et des Contrastes. p.384-385.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Intendo per innocente non uno incapace di peccare, ma di peccare senza rimorso. V. p.276.
Può mai stare che il non esistere sia assolutamente meglio ad un essere che l’esistere? Ora così accadrebbe appunto all’uomo senza una vita futura.
Non mi maraviglio nè che gli antichi Ebrei e, credo, gran parte o tutti gli orientali (v. le lettere premesse aux principes discutés de la société Hébreo-Capucine etc.) e così i greci mancassero p.e. del v. nè che avessero alcune lettere che noi non abbiamo, come gli Ebrei p.e. il u i greci il ϑ il x ec. Le lettere che noi crediamo comunemente essere proprio tante e non più quanto le nostre, o almeno in genere, sono in effetto moltissime giacchè non vengono dalla natura ma dall’assuefazione io dico in particolare, cioè la facoltà del parlare e articolare e formare diversi suoni viene dalla natura, ma la qualità e differenza di questi suoni ossia delle lettere viene dall’assuefazione.
E infatti sono infiniti i modi [52]di collocare ec. la lingua i denti le labbra ec. quelle parti che formano i detti suoni, e noi vediamo come piccole differenze di collocazione formino suoni diversissimi come il p. e il b. per esempio.
Ora perchè noi da fanciulli non abbiamo sentito altro che i suoni del nostro alfabeto abbiamo solo imparato quelle tali collocazioni, e a quelle assuefatti e incapaci d’ogni altra crediamo 1. che altre non ve ne siano in natura, 2.
che tutte sieno appresso a poco comuni per natura a tutti. Ma la prima cosa è mostrata falsa dalle tante lettere degli alfabeti antichi o stranieri che noi non sappiamo pronunziare o ignorandone il suono, come spesso negli antichi (quantunque più spesso crediamo di saperlo), o il mezzo, come negli stranieri; e da molte altre prove. L’altra cosa da quello che ho detto di sopra e dall’esperienza continua di tanti che per minime circostanze piuttosto Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia accidentali ed estrinseche che organiche restan privi di certe lettere. Ora non è dunque maraviglia che gli alfabeti dei popoli siano differenti secondo la differente assuefazione tradizionale, da cui si dee rimontare alla origine d’essi alfabeti. E se ne deduce che in natura o non c’è alfabeto, o molto più ricco che non si crede volgarmente.
Un esempio di quanto fosse naturale e piena di amabili e naturali illusioni la mitologia greca, è la personificazione dell’eco.
Non ogni proposito deve nascondere il poeta, come p.e.
non dee nascondere il proposito d’istruire nel poema didascalico ec. in somma i propositi manifesti e che si espongono p.e. nello stesso principio del poema. Canto l’armi pietose ec. Ma sì bene quelli che non vanno naturalmente col proposito manifesto, come col narrare il dipingere, coll’istruire il dilettare, cose che il poeta si propone, ma non dee mostrare di proporselo quantunque debba mostrare quegli altri propositi manifesti, i quali servono più che altro di pretesto e manto ai propositi occulti. E questo perchè questi ultimi non sono naturali come è naturale che uno narri ec. ma deve parer che quel diletto, quella viva rappresentazione ec. venga spontanea e senza ch’il poeta l’abbia cercata, il che mostrerebbe l’arte e lo studio e la diligenza, e in somma non sarebbe naturale, giacchè figurandoci il poeta nello stato naturale è un uomo che preso il suo tema, e questo è il proposito manifesto, venga giù dicendo quello che gli si somministra spontaneamente come fanno tutti quelli che parlano, e quantunque egli qui metta un’immagine, qui un affetto, qui un suono espressivo, qui ec. e tutto a bella posta e pensatamente, non deve parer ch’egli lo faccia così, ma solo naturalmente, e così portando il filo del suo discorso, e l’accaloramento [53]della sua fantasia e il suo cuore Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ec. Altrimenti la natura non è imitata naturalmente e questi sono i propositi diremo così secondari, quantunque spessissimo in realtà sieno primari, (come ne’ poemi didascalici dove il fine primario par l’istruire, e deve parere, quando in verità è solo un mezzo essendo il vero fine il dilettare) i quali bisogna nascondere. E oltre il poeta s’intenda l’oratore lo storico, ed ogni qualunque scrittore. Affettazione in latino viene a dir lo stesso che proposito, e presso noi lo stesso che proposito manifesto, anzi questa può esserne la definizione
Spesso ho notato negli scritti de’ moderni psicologi che in molti effetti e fenomeni del cuore ec. umano, nell’ana-lizzarli che fanno e mostrarne le cagioni, si fermano molto più presto del fine a cui potrebbero arrivare, assegnandone certe ragioni particolari solamente, e questo perchè vogliono farli parere maravigliosi, come il Saint-Pierre negli studi della natura lo Chateaubriand ec., e non vanno alla prima o quasi prima cagione che troverebbero semplice e in piena corrispondenza col resto del sistema di nostra natura. Questo ridurre i diversi fenomeni dell’animo umano a principii semplici scema la maraviglia, e anche la varietà perchè moltissimi si vedrebbero derivati da un solo principio modificato leggermente. Costoro parlano sempre enfaticamente, notano con molta acutezza il fenomeno, ma datane (se la danno, perchè spesso credono e fanno credere ch’il fenomeno sia inesplicabile, vale a dire senza rapporto conosciuto al resto del sistema giacchè da ciò solo nasce la maraviglia in qualunque cosa del mondo) una ragione immediata e secondaria ed egualmente maravigliosa, non rimontano come sarebbe pur facile alla sorgente che ridurrebbe il fenomeno e le sue ragioni secondarie alle classi consuete. Io credo che chi istituisse quest’analisi ultima farebbe cosa nuova (sia per la mala fede, o la minore acutezza degli antecessori) e semplificherebbe d’assai la scienza dell’animo umano, Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia rapportando gl’infiniti fenomeni che sembrano anomalie (perchè infatti la scienza non è ancora stabile nè ordinata e ridotta in corpo) a principii universali o poco lontani da essi. Opera principale e formatrice di tutte le scienze e scopo ordinario di chi ricerca le cagioni delle cose. P.e. il desiderio naturale degli uomini di supporre animate le cose inanimate tanto manifesto ne’ fanciulli deriva dal desiderio e propensione nostra verso i nostri simili, principio capitale, e primitivo, e fecondissimo. V. il mio discorso sui romantici.
[54]Quando la poesia per tanto tempo sconosciuta en-trò nel Lazio e in Roma, che magnifico e immenso campo di soggetti se le aperse avanti gli occhi! Essa stessa già padrona del mondo, le sue infinite vicende passate, le speranze, ec. ec. ec. Argomenti d’infinito entusiasmo e da accendere la fantasia e ‘l cuore di qualunque poeta anche straniero e postero, quanto più romano o latino, e contemporaneo o vicino proporzionatamente ai tempi di quelle gesta? Eppure non ci fu epopea latina che avesse per soggetto le cose latine così eccessivamente grandi e poetiche, eccetto quella d’Ennio che dovette essere una misera cosa. La prima voce della tromba epica che fu di Lucrezio, trattò di filosofia. In somma l’imitazione dei greci fu per questa parte mortifera alla poesia latina, come poi alla letteratura e poesia italiana nel suo vero principio, cioè nel 500. l’imitazione servile de’ greci e latini.
Onde con tanto immensa copia di fatti nazionali, cantavano, lasciati questi, i fatti greci, nè io credo che si trovi indicata tragedia d’Ennio o d’Accio ec. d’argomento latino e non greco. Cosa tanto dannosa, massime in quella somma abbondanza di gran cose nazionali, quanto ognuno può vedere. E lo vide ben Virgilio col suo gran giudizio, non però la schivò affatto anzi l’argomento suo fu pure in certo modo greco, (così le Buccoliche e le Georgiche di titolo e derivazione greca) oltre le tante Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia imitazioni d’Omero ec. ma proccurò quanto più potè di tirarlo al nazionale, e spesso prese occasione di cantare ex professo i fatti di Roma. Similmente Orazio uomo però di poco valore in quanto poeta, fra tanti argomenti delle sue odi derivate dal greco, prese parecchie volte a celebrare le gesta romane. Ovidio nel suo gran poema cioè le Metamorfosi prese argomento tutto greco. Scrisse però i fasti di Roma ma era opera piuttosto da versificatore che da poeta, trattandosi di narrare le origini, s’io non erro, di quelle cerimonie feste ec. in somma non prese quei fatti a cantare, ma così, come a trastullarcisi. Del resto la letteratura latina si risentì bene dello stato di Roma colla magniloquenza che, si può dire, aggiunse alle altre proprietà dell’orazione ricevute da’ greci, e a qualcune sostituì, qualità tutta propria de’ latini, come nota l’Algarotti, colla nobiltà e la coltura dell’orazione del periodo ec.
molto maggiore che non appresso gli antichi greci classici, eccetto, e forse neppure, Isocrate.
Una prova di quello che ho detto di sopra intorno alle lettere, o piuttosto un esempio, è l’u gallico (fino una vocale) sconosciuto a noi italiani [55]settentrionali, e non so se ai latini, e a quali altri stranieri presentemente. Il quale fu proprio interamente dell’alfabeto greco (e non so se dicano lo stesso del vau ebreo) come ora è proprio del francese, e come l’u nostro appresso questi è formato dall’ou, così appuntino fra i greci (eccetto che questi l’hanno anche ne’ dittonghi au eu hu vu dove i francesi in nessun altro). Il che, se non c’è altra ragione in contrario credo che i francesi (dico tanto quest’u detto gallico quanto esso dittongo ou) l’abbiano avuto dalla Grecia nelle spedizioni che fecero colà quando fondarono la gallogrecia ec. (e credo da S. Ireneo gallo che scrisse in greco, e Favorino parimente ec. che la lingua greca fosse veramente comune nella Gallia, v. gli Storici) onde reso
¢pixÅrion, sia poi rimasto in Francia e anche nella Gal-Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia lia transalpina cioè in Lombardia, malgrado delle mutazioni d’abitatori di queste provincie ec. E il c e il g schiacciato non sono evidentemente due lettere diverse dagli aperti ch e gh? E non mancarono e mancano ai greci? (ai latini non so che dicano gli eruditi) ed ora ai francesi, e credo agli spagnuoli agl’inglesi ec.?
Se tu domanderai piacere ad uno che non possa fartisi senza ch’egli s’acquisti l’odio d’un altro, difficilissimamente (in parità di condizione) l’otterrai non ostante che ti sia amicissimo. E pure per quell’odio si guadagnerebbe o si crescerebbe il vostro amore e forse grandissimo, sì che le partite par che sarebbero uguali.
Ma infatti pesa molto più l’odio che l’amore degli uomini, essendo quello molto più operoso. Qui si fermerebbe-ro gli psicologi moderni lasciando di cercare il principio di questa differenza, ch’è manifestissimo, cioè l’amor proprio. Giacchè chi segue il suo odio fa per se, chi l’amore per altrui, chi si vendica giova a se, chi benefica, giova altrui, nè alcuno è mai tanto infiammato per giovare altrui quanto a se.
Vita tranquilla delle bestie nelle foreste, paesi deserti e sconosciuti ec. dove il corso della loro vita non si compie meno interamente colle sue vicende, operazioni, morte, successione di generazioni ec. perchè nessun uomo ne sia spettatore o disturbatore nè sanno nulla de’ casi del mondo perchè quello che noi crediamo del mondo è solamente degli uomini.
A. S’io fossi ricco ti vorrei donar tesori. B. Oibò, non vorrei ch’ella se ne privasse per me. Prego Dio che non la faccia mai ricca.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Linguaggio mutuo delle bestie descritto secondo le qualità manifeste di ciascuna potrebbe essere una cosa originale e poetica introdotta così in qualche poesia, come, ma poi scioccamente se ne serve, il Sanazzaro nell’Arcadia prosa 9. ad imitazione di quella favola, s’io non erro, circa Esiodo.
Voce e canto dell’erbe rugiadose in sul mattino ringra-zianti e lodanti Iddio, e così delle piante ec. Sanazzaro ib.
e mi pare immagine notabile e simile a quella dei rabbini dell’inno mattutino del sole ec. come anche l’altra immagine del Sanazzaro ivi, di un [56]paese molto strano, dove nascon le genti tutte nere, come matura oliva, e correvi sì basso il Sole, che si potrebbe di leggiero, se non cuocesse, con la mano toccare.
Com’è costantissimo e indivisibile istinto di tutti gli esseri la cura di conservare la propria esistenza, così non è dubbio che quasi il compimento di questa non sia l’esserne contento, e l’odiarla o non soddisfarsene non sia un principio contraddittorio il quale non può stare in natura e molto meno in quell’essere il quale senza entrare nella teologia, è chiaro ch’essendo l’ordine animale il primo in questo globo e probabilmente in tutta la natura cioè in tutti i globi, ed egli essendo evidentemente il sommo grado di quest’ordine, viene a essere il primo di tutti gli esseri nel nostro globo. Ora vediamo che in questo è tanta la scontentezza dell’esistenza, che non solo si oppone al-l’istinto della conservazione di lei, ma giunge a troncarla volontariamente, cosa diametralmente contraria al costume di tutti gli altri esseri, e che non può stare in natura se non corrotta totalmente. Ma pur vediamo che chiunque in questa nostra età sia di qualche ingegno deve necessariamente dopo poco tempo cadere in preda a questa scontentezza. Io credo che nell’ordine naturale l’uomo possa anche in questo mondo esser felice, vivendo naturalmen-Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia te, e come le bestie, cioè senza grandi nè singolari e vivi piaceri, ma con una felicità e contentezza sempre, più o meno, uguale e temperata (eccetto gl’infortuni che possono essere nella sua vita, come gli aborti le tempeste e tanti altri disordini (accidentali, ma non sostanziali) in natura) insomma come sono felici le bestie quando non hanno sventure accidentali ec. Ma non già credo che noi siamo più capaci di questa felicità da che abbiamo conosciuto il voto delle cose e le illusioni e il niente di questi stessi piaceri naturali del che non dovevamo neppur so-spettare: tout homme qui pense est un être corrompu, dice il Rousseau, e noi siamo già tali. E pure vediamo che questi piccoli diletti non ostante che noi siamo già guasti pur ci appagano meglio che qualunque altro come dice Verter ec. e vediamo il minore scontento dei contadini, ignoranti ec. (quantunque essi pure assai lontani dallo stato naturale), che dei culti, e dei fanciulli massimamente, che dei grandi. E l’esser l’uomo buono per natura, e guastarsi necessariamente nella società, può servir di prova a questo sistema, e il veder che le bestie non hanno tra loro altra società che per certi bisogni, del resto vivono insieme senza pensar l’una all’altra, e che l’istinto si vien perdendo a proporzione che la natura è alterata dall’arte onde è grande nelle bestie e nei fanciulli, piccolo negli uomini fatti, ma ciò non prova che l’uomo sia fatto per l’arte ec. giacchè la natura gli aveva dato quegl’istinti ch’egli perde poi ec. Sì che si potrebbe pensare che la differenza di vita fra le bestie e l’uomo sia nata da circostanze accidentali e dalla diversa conformazione del corpo umano più atta alla società ec.
[57]S’è osservato che è proprietà degli antichi poeti ed artisti il lasciar molto alla fantasia ed al cuore del lettore o spettatore. Questo però non si deve prendere per una proprietà isolata ma per un effetto semplicissimo e naturale e necessario della naturalezza con cui nel descrivere Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia imitare ec. lasciano le minuzie e l’enumerazione delle parti tanto familiare ai moderni descrivendo solo il tutto con disinvoltura, e come chi narra non come chi vuole manifestamente dipingere muovere ec. Nella stessa maniera Ovidio il cui modo di dipingere è l’enumerare (come i moderni descrittivi sentimentali ec.) non lascia quasi niente a fare al lettore, laddove Dante che con due parole desta un’immagine lascia molto a fare alla fantasia, ma dico fare non già faticare, giacchè ella spontaneamente concepisce quell’immagine e aggiunge quello che manca ai tratti del poeta che son tali da richiamar quasi necessariamente l’idea del tutto. E così presso gli antichi in ogni genere d’imitazione della natura.
I nostri veri idilli teocritei non sono nè le egloghe del Sanazzaro nè ec. ec. ma le poesie rusticali come la Nencia, Cecco da Varlungo ec. bellissimi e similissimi a quelli di Teocrito nella bella rozzezza e mirabile verità, se non in quanto sono più burleschi di quelli che pur di burlesco hanno molto spesso una tinta.
Circa le immaginazioni de’ fanciulli comparate alla poesia degli antichi vedi la verissima osservazione di Verter sul fine della lettera 50. Una terza sorgente degli stessi diletti e delle stesse romanzesche idee sono i sogni.
Il principio universale dei vizi umani è l’amor proprio in quanto si rivolge sopra lo stesso essere, delle virtù, lo stesso amore in quanto si ripiega sopra altrui, sia sopra gli altrui, sia sopra la virtù, sia sopra Dio. ec.
Di alcuni principi che si sieno uccisi per evitare qualche grande sventura o per non saperne sopportare qualcuna già sopraggiunta loro, si legge, come di Cleopatra Mitridate ec. e più, anzi forse solamente fra gli antichi.
Ma di quelli che si sieno uccisi per le altre cagioni che Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia producono ora il suicidio, come la malinconia l’amore ec. non si legge ch’io sappia in nessuna storia. Eppure lo scontento della vita e la noia e la disperazione dovrebb’essere tanto maggiore in loro [58]che negli altri, in quanto questi possono supporre se non colla ragione (la quale è ben persuasa del contrario) almeno coll’immaginazione (che non si persuade mai) che ci sia uno stato miglior del loro, ma quelli già nell’apice dell’umana felicità, trovandola vana anzi miserabilissima, non possono più ricorrere neppur col pensiero in nessun luogo, arrivati per così dire al confine e al muro, e quindi dovrebbono guardar questa vita come abitazione veramente orribile per ogni parte e disperata, se già i loro desideri non si volgono ai gradi e condizioni inferiori, ovvero a quei miserabili accrescimenti di felicità che un principe si può sognare, come conquiste ec.
Disse la Dama: Voi mi avete rappacificata colla poesia: Godo assai, rispose quegli, d’avere riconciliate insieme due belle cose.
Non ci sarebbe tanto bisogno della viva voce del maestro nelle scienze se i trattatisti avessero la mente più poetica. Pare ridicolo il desiderare il poetico p.e. in un matematico; ma tant’è: senza una viva e forte immaginazione non è possibile di mettersi nei piedi dello studente e preveder tutte le difficoltà ch’egli avrà e i dubbi e le igno-ranze ec. che pure è necessarissimo e da nessuno si fa nè anche da’ più chiari, che però non s’impara mai pienamente una scienza difficile p.e. le matematiche dai soli libri.
Tutto si è perfezionato da Omero in poi, ma non la poesia.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Per un’Ode lamentevole sull’Italia può servire quel pensiero di Foscolo nell’Ortis lett.19 e 20 Febbraio 1799.
p.200. ediz. di Napoli 1821.
Una facezia del genere ch’io ho detto in un altro pensiero essere stato proprio degli antichi è quella degli Antiocheni che dicevano dell’imperatore Giuliano che aveva una barba da farne corde, (Iulian. in Misopogone) la qual facezia allora applaudita e sparsa per tutta la città e capace di muover Giuliano a scrivere un libro ironico e giocoso (certo elegante e negli scherzi si può dir Attico e Lucianesco e infinite volte superiore ai suoi Caesares, senza sofistumi nello stile nè in altro, e senza affettazioni nè pur nella lingua per altro elegante e ricca e ciò perchè questo è un libro scritto per circostanza e non
¡pideiktikòw come i Caesares) contro gli Antiocheni, ora ai nostri delicati, francesi ec. parrebbe grossolana, e di pessimo gusto. V. p.312.
E tanto è miser l’uom quant’ei si reputa, disse eccellentemente il Sanazzaro egloga ottava. Ora in quello stato ch’io diceva in un pensiero poco sopra, egli non riputandosi misero nè anche sarebbe stato, come ora tanti in condizione alquanto [59]simile a quella che i’ho detto, poco riputandosi miseri, lo sono meno degli altri, e così tutti secondo che si stimano infelici.
Quando l’uomo concepisce amore tutto il mondo si dilegua dagli occhi suoi, non si vede più se non l’oggetto amato, si sta in mezzo alla moltitudine alle conversazioni ec. come si stasse in solitudine, astratti e facendo quei gesti che v’ispira il vostro pensiero sempre immobile e potentissimo senza curarsi della maraviglia nè del disprezzo altrui, tutto si dimentica e riesce noioso ec. fuorchè quel solo pensiero e quella vista. Non ho mai provato pensiero che astragga l’animo così potentemente da tutte Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia le cose circostanti, come l’amore, e dico in assenza dell’oggetto amato, nella cui presenza non accade dire che cosa avvenga, fuor solamente alcuna volta il gran timore che forse forse gli potrà essere paragonato.
Io soglio sempre stomacare delle sciocchezze degli uomini e di tante piccolezze e viltà e ridicolezze ch’io vedo fare e sento dire massime a questi coi quali vivo che ne abbondano. Ma io non ho mai provato un tal senso di schifo orribile e propriamente tormentoso (come chi è mosso al vomito) per queste cose, quanto allora ch’io mi sentiva o amore o qualche aura di amore, dove mi bisognava rannicchiarmi ogni momento in me stesso, fatto sensibilissimo oltre ogni mio costume, a qualunque piccolezza e bassezza e rozzezza sia di fatti sia di parole, sia morale sia fisica, sia anche solamente filologica, come motti insulsi, ciarle insipide, scherzi grossolani, maniere ruvide e cento cose tali.
Io non ho mai sentito tanto di vivere quanto amando, benchè tutto il resto del mondo fosse per me come morto. L’amore è la vita e il principio vivificante della natura, come l’odio il principio distruggente e mortale. Le cose son fatte per amarsi scambievolmente, e la vita nasce da questo. Odiandosi, benchè molti odi sono anche naturali, ne nasce l’effetto contrario, cioè distruzioni scambievoli, e anche rodimento e consumazione interna dell’odiatore.
Quella miserabile lussuria di epiteti, sinonimi, riempiture, chevilles, ec. che forma il comunissimo or-pello de’ nostri classici cinquecentisti (e credo anche del Poliziano) però non paragonabili ai latini ma più ai greci quanto allo stile, non si trova o più rara assai in Dante e nel Petrarca dove anzi trovi una misuratezza infinita di parole e castigatezza di ornati e significazione convenien-Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia te e opportunità di tutte le voci ec. come [60]in quello del Petrarca messo dall’Alfieri avanti alla sua Virginia: Virginia appresso al fero padre armato Di disdegno di ferro e di pietate. Trionfo Castità. Così anche le rime del Petrarca sono molto più spontanee, e con ciò tutto quello che dipende nel verso dalla necessità della rima che alle volte fa aggiungere intieri versi che si potrebbono torre di netto ec. come nei cinquecentisti.
Una bella e notabile similitudine è quella dell’Alamanni nel Girone Canto 17. di un mastino e un lupo che si scon-trino a caso (così dice) per una selva, o ec. e la loro sorpresa scambievole e timore e rabbia subita e azzuffamento: come pur quella del Martelli (non mi ricordo quale) di una villanella cercante funghi e corrente dove vede biancheggiare una foglia secca ec. prendendola per un fungo.
È pure un bella illusione quella degli anniversari per cui quantunque quel giorno non abbia niente più che fare col passato che qualunque altro, noi diciamo, come oggi accadde il tal fatto, come oggi ebbi la tal contentezza, fui tanto sconsolato ec. e ci par veramente che quelle tali cose che son morte per sempre nè possono più tornare, tuttavia rivivano e sieno presenti come in ombra, cosa che ci consola infinitamente allontanandoci l’idea della distruzione e annullamento che tanto ci ripugna e illudendoci sulla presenza di quelle cose che vorremmo presenti effettivamente o di cui pur ci piace di ricordarci con qualche speciale circostanza, come [chi] va sul luogo ove sia accaduto qualche fatto memorabile, e dice qui è successo, gli pare in certo modo di vederne qualche cosa di più che altrove non ostante che il luogo sia p.e. mutato affatto da quel ch’era allora ec. Così negli anniversari. Ed io mi ricordo di aver con indicibile affetto aspettato e notato e scorso come sacro il giorno della settimana e poi del Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia mese e poi dell’anno rispondente a quello dov’io provai per la prima volta un tocco di una carissima passione.
Ragionevolezza benchè illusoria ma dolce delle istituzioni feste ec. civili ed ecclesiastiche in questo riguardo.
A ciò che ho detto in altro pensiero intorno all’eloquenza di chi parla di se stesso si può aggiungere e l’esempio continuo di Cicerone che piglia nuove forze ogni volta che parla di se come fa tuttora, e quello di Lorenzino de’
Medici nella sua Apologia che Giordani crede il più gran pezzo d’eloquenza italiana e non vinto da nessuno
[61]straniero. Ora questo è un’Apologia di se stesso. Ed è mirabile com’egli che scriveva per se e non poteva andar dietro alle sofisticherie, abbia trasportata come un Atlante l’eloquenza greca e latina tutta nel suo scritto dove la vedete viva e tal quale, e tuttavia vi par nativa e non punto traslatizia con una disinvoltura negli artifizi più fini dell’eloquenza insegnati e praticati ugualmente dagli antichi, una padronanza negligenza ec. così nello stile e condotta ordine ec. interno, come nell’esterno, cioè la lingua ec. inaffettatissima e tutta italiana nella costruzione ec. quando lo stile e la composizione e i modi anche particolari e tutto è latino e greco. E ciò mentre gli altri miserabili cinquecentisti volendo seguire la stessa eloquenza e maestri ec. come il Casa, facevano quelle miserie di composizione di stile di lingua affettatissima e più latina che italiana. Onde i due soli eloquenti del cinquecento sono Lorenzino qui e il Tasso qua e là per tutte le sue opere che ambedue parlano sempre di se e il Tasso più dov’è più eloquente e bello e nobile ec. cioè nelle lettere che sono il suo meglio. La migliore orazione di Demostene è quella per la corona.
Gli ardiri rispetto a certi modi epiteti frasi metafore, tanto commendati in poesia e anche nel resto della letteratura e tanto usati da Orazio non sono bene spesso altro Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia che un bell’uso di quel vago e in certo modo quanto alla costruzione, irragionevole, che tanto è necessario al poeta. Come in Orazio dove chiama mano di bronzo quella della necessità (ode alla fortuna) ch’è un’idea chiara, ma espressa vagamente (errantemente) così tirando l’epiteto come a caso a quello di cui gli avvien di parlare senza badare se gli convenga bene cioè se le due idee che gli si affacciano l’una sostantiva e l’altra di qualità ossia aggettiva si possano così subito mettere insieme, come chi chiama duro il vento perchè difficilmente si rompe la sua piena quando se gli va incontro ec.
[62]Quel tanto trasportar parole greche di netto in latino che fu di moda ai buoni secoli del Lazio (anche appresso i più antichi latini scrittori, come dal francese parimente assai i nostri antichi italiani) dovea pur produrre l’istesso senso che produce ora in noi la moda di usar parole francesi in lingua italiana moda tanto antica fra noi quanto appresso i latini cioè cominciata coi primi nostri scrittori, ma ora tornata in voga come ai tempi d’Orazio e massimamente di Seneca Plinio ec. dove pare (e v. quello che dice Seneca della voce, analogia) che fosse considerata come una barbarie siccome presentemente, quantunque avesse per se tanti esempi antichi, come fra noi anche di parole ora risibili p.e. frappare per battere, vengianza nell’Alamanni Girone più volte e senza necessità di rima, e parecchie altre di questo andare nello stesso poema ec. Se non che forse allora come adesso sarà cresciuto quel gusto e divenuto senza giudizio e diffusosi alle forme ec. e divenuto nocevole al genio nativo della lingua. V. p.312.
Si suol dire che leggendo certi autori semplici piani spontanei fluidi facili disinvolti naturali ec. pare a tutti di saper far così che poi alla prova si vede come sia falso.
Ma leggendo Senofonte par proprio che tutti scrivano Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia così e che non si possa nè sappia scrivere altrimenti, se non quando si passa da lui a un altro scrittore o da un altro scrittore alla lettura di esso. Perchè gli altri scrittori si capisce che son semplici, in Senofonte non si scorge neppur ciò.
Nella gran battaglia dell’Isso, Dario collocò i soldati greci mercenari nella fronte della battaglia, (Arriano l.2.
c.8. sez.9. Curzio l.3. c.9. sez.2.) Alessandro i suoi mercenari greci proprio nella coda, (Arriano c.9. sez.5.) Curiosa e notabilissima differenza e da pronosticare da questo solo l’esito della battaglia. Perchè era chiaro che tutta la confidenza dei Persiani stava in quei 30m. greci, e pure eran greci anche i mercenari d’Alessandro (Arriano c.9.
sez.7.) ed egli li poneva alla coda. Quindi è chiaro ch’egli confidava più nel resto che in questi, e quello che era il più forte dell’esercito Persiano era il più debole del Macedone. E Dario si fidava più del valore dei mercenari che di coloro che combattevano per la loro patria e avea ragione: Alessandro avendo gli stessi mercenari [63]sapeva che sarebbero stati più valorosi gli altri che combattevano per l’onor loro e di lui e la vendetta della patria ed avea somma ragione. E infatti la propria falange Macedone venuta alle mani essa coi 30m. mercenari, combatterono ma furon vinti. E però da questa sola diversità delle due ordinanze da cui si poteva arguire l’infinita differenza fra gli animi de’ due eserciti, era da congetturare quello che avvenne.
Della distinzione del ridicolo in quello che consiste in cose e quello che in parole, data da me in altro pensiero vedi il Costa della elocuzione p.70. e segg.
Una similitudine nuova può esser quella dell’agricoltore che nel mentre che miete ed ha i fasci sparsi pel campo, vede oscurarsi il tempo ed una grandine terribile ra-Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia pirgli irreparabilmente il grano di sotto la falce: ed egli quivi tutto accinto a raccoglierlo, se lo vede come strappar di mano senza poter contrastare.
La Commedia allora principalmente è utile quando fa conoscere il mondo, i suoi pericoli, vizi, vanità, seduzio-ni, tradimenti, illusioni, ec. ai giovani alle giovanette ec.
giacchè ai vecchi che già lo conoscono non serve gran cosa, e quanto alle massime di morale e gli esempi dei tristi puniti, delle virtù, dei buoni premiati ec. sono miserabili cose e della cui utilità, se non alquanto nel basso volgo, non si può disputare in buona fede, che certo nessun giovane o persona qualunque di un certo mondo e in somma civile, è tornata dalla commedia più virtuosa per le prediche o gli esempi morali che ci ha sentite e vedute, bensì è facile che sia (almeno in parte) disingannata dallo svelamento di tante trame che si tendono alla povera gioventù, e dalla semplice imitazione e rappresentazione di quello che succede nel mondo e che la gioventù ignora e crede molto diverso, come appunto servono le storie più che tanti altri libri, colla differenza che la commedia mostra la cosa più al vivo e al naturale e la mette sotto gli occhi in luogo di narrarla, ond’è più persuasiva. Diciamo in proporzione lo stesso degli altri generi di dramma.
Che bel tempo era quello nel quale ogni cosa era viva secondo l’immaginazione umana e viva umanamente cioè abitata o formata di esseri [64]uguali a noi, quando nei boschi desertissimi si giudicava per certo che abitassero le belle Amadriadi e i fauni e i silvani e Pane ec. ed en-trandoci e vedendoci tutto solitudine pur credevi tutto abitato e così de’ fonti abitati dalle Naiadi ec. e stringen-doti un albero al seno te lo sentivi quasi palpitare fra le mani credendolo un uomo o donna come Ciparisso ec. e così de’ fiori ec. come appunto i fanciulli.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Quello che ho detto p.32. di questi pensieri della tartaruga si potrà forse dire anche del Pigro della cui vita bisogna vedere presso i naturalisti se sia lunga.
Molti sono che dalla lettura de’ romanzi libri sentimentali ec. o acquistano una falsa sensibilità non avendone, o corrompono quella vera che avevano. Io sempre nemico mortalissimo dell’affettazione massimamente in tutto quello che spetta agli effetti dell’animo e del cuore mi sono ben guardato dal contrarre questa sorta d’infermità, e ho sempre cercato di lasciar la natura al tutto libera e spontanea operatrice ec. A ogni modo mi sono avveduto che la lettura de’ libri non ha veramente prodotto in me nè affetti o sentimenti che non avessi, nè anche verun effetto di questi, che senza esse letture non avesse dovuto nascer da se: ma pure gli ha accelerati, e fatti sviluppare più presto, in somma sapendo io dove quel tale affetto moto sentimento ch’io provava, doveva andare a finire, quantunque lasciassi intieramente fare alla natura, nondimeno trovando la strada come aperta, correvo per quella più speditamente.
Per esempio nell’amore la disperazione mi portava più volte a desiderar vivamente di uccidermi: mi ci avrebbe portato senza dubbio da se, ed io sentivo che quel desiderio veniva dal cuore ed era nativo e mio proprio non tolto in prestito, ma egualmente mi parea di sentire che quello mi sorgea così tosto perchè dalla lettura recente del Verter, sapevo che quel genere di amore ec. finiva così, in somma la disperazione mi portava là, ma s’io fossi stato nuovo in queste cose, non mi sarebbe venuto in mente quel desiderio così presto, dovendolo io come inventare, laddove (non ostante ch’io fuggissi quanto mai si può dire ogni imitazione ec.) me lo trovava già inventato.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia A quel pensiero dell’Algarotti che è nel t.8. delle sue Op. Cremona Manini 1778-1784. p.96. si può aggiungere il kalok�gaϑow dei greci ch’è la [65]parola corrispondente dov’è notabile l’indole di quella gentilissima e amabilissima nazione che un uomo onesto e probo (quantunque non fosse bello, giacchè questo nome come il suo astratto kalok�gaϑÛa si usurpava per significare la sola perfetta probità e integrità in qualunque si trovasse) lo chiamava buono e bello; tanto facea conto della bellezza, che non volea scompagnar l’elogio e l’indicazione della virtù da quella della beltà e ciò costantemente e per proprietà di lingua in maniera che si dava questo titolo anche a chi fosse tutt’altro che bello. Popolo amante del bello e dilicato e sensibile, conoscitore di quanto possa l’esterno e quello che cade sotto i sensi per ornare l’interno, e quanto sia sublime l’idea della bellezza che non dovrebbe mai essere scompagnata dalla virtù. Parimente si può aggiungere la parola corrispondente latina frugi, che viene a dire, utile dimostrante la qualità dell’antico popolo romano dove un uomo tanto si stimava quanto giovava al comune, ed era obbligo e costume dei buoni il non vivere per se ma per la repubblica, onde per indicare un uomo di garbo, un uomo buono, si considerava la sua qualità relativa al ben pubblico, cioè in genere la sua utilità e quello che si poteva far di lui, onde lo chiamavano, frugi, uomo da profitto, da cavarne costrutto.
Diceva una volta mia madre a Pietrino che piangeva per una cannuccia gittatagli per la finestra da Luigi: non piangere non piangere che a ogni modo ce l’avrei gittata io. E quegli si consolava perchè anche in altro caso l’avrebbe perduta. Osservazioni intorno a questo effetto comunissimo negli uomini, e a quell’altro suo affine, cioè che noi ci consoliamo e ci diamo pace quando ci persuadiamo che quel bene non era in nostra balìa d’ottenerlo, nè quel male di schivarlo, e però cerchiamo di persuaderce-Letteratura italiana Einaudi 101
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ne, e non potendo, siamo disperati, quantunque il male in tutti i modi si rimanga lo stesso. V. p.188. V. a questo proposito il Manuale di Epitteto.
[66]Io mi trovava orribilmente annoiato della vita e in grandissimo desiderio di uccidermi, e sentii non so quale indizio di male che mi fece temere in quel momento in cui io desiderava di morire: e immediatamente mi posi in apprensione e ansietà per quel timore. Non ho mai con più forza sentita la discordanza assoluta degli elementi de’ quali è formata la presente condizione umana forzata a temere per la sua vita e a proccurare in tutti i modi di conservarla, proprio allora che l’è più grave, e che facilmente si risolverebbe a privarsene di sua volontà (ma non per forza d’altre cagioni). E vidi come sia vero ed evidente che (se non vogliamo supporre la natura tanto savia e coerente in tutto il resto, che l’analogia è uno de’ fondamenti della filosofia moderna e anche della stessa nostra cognizione e discorso, affatto pazza e contraddittoria nella sua principale opera) l’uomo non doveva per nessun conto accorgersi della sua assoluta e necessaria infelicità in questa vita, ma solamente delle accidentali (come i fanciulli e le bestie): e l’essersene accorto è contro natura, ripugna ai suoi principii costituenti comuni anche a tutti gli altri esseri (come dire l’amor della vita), e turba l’ordine delle cose (poichè spinge infatti al suicidio la cosa più contro natura che si possa immaginare).
Se tu hai un nemico mortale nella tal città e vedi che v’è sopra un temporale, ti passa pur per la mente la speranza ch’egli ne possa restare ucciso? Or come dunque ti spaventi se quel temporale viene sopra di te, quando la probabilità ch’egli uccida è tanto piccola che tu non ci sai neppur fondare quella cosa che ha pur bisogno di sì poco fondamento per sorgere in noi, dico la speranza? Lo stesso intendo dire di cento altri pericoli, i quali se in vece Letteratura italiana Einaudi 102
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia fossero probabilità di bene, ci parrebbe ridicolo il porci per esse in nessuna speranza, e pure ci poniamo per quei pericoli in timore. Tant’è: bisogna bene che per quanto la speranza sia facile a nascere, e insussistente, il timore lo sia di più. Ma questa riflessione mi pare molto atta a temperarlo. Il timore è dunque più fecondo d’illusioni che la speranza.
Di un calcolatore che ad ogni cosa che udiva si metteva a computare, disse un tale: Gli altri fanno le cose, ed egli le conta.
[67]Qualunque domestico entra nella mia famiglia non n’esce mai finchè non muore, come potete sentire da quelli che ci sono stati, diceva un padrone di casa al nuovo suo cuoco, dopo che due altri se n’erano licenziati spontaneamente.
Nelle favole del Pignotti (e forse in altre ancora) per la più parte, è svanito il fine della favola, ch’è l’istruire i fanciulli ec. col mezzo del dolce, della similitudine ec. e non si conserva nemmeno in apparenza (come ne’ poemi didascalici), giacchè sono dirette a significar certi vizi del gran mondo, certe massime di politica, certe fine qualità del carattere umano, che non giova punto nè è possibile ai fanciulli di conoscere e comprendere: come p.e. quella dell’asino del cavallo e del bue. Piuttosto quelle favole dalla loro prima istituzione Esopiana si son ridotte a satirette non inurbane, o a meri giuochi d’ingegno, cioè similitudini o novellette piacevoli, e alquanto istruttive per gli uomini maturi, come i contes moraux di Marmontel, e le altre opere di questo genere, eccetto che qui si parla di animali, piante ec. ec.
Notano (v. Roberti favola 62. nota) che le femmine degli uccelli generalmente son meno belle dei maschi e se ne fanno maraviglia: e ciò perchè nell’uomo pare il con-Letteratura italiana Einaudi 103
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia trario. Poca riflessione. Noi siamo uomini e la femmina ci par più bella del maschio, alle donne pare il contrario, agli uccelli maschi certo par più bella la femmina, e alle femmine l’opposto. Che se ci fosse un altro animale ragionevole che come noi giudichiamo degli uccelli, così potesse giudicare della specie umana, non è dubbio che per perfezione vistosità ec. rispettiva di forme ec. ec. darebbe la preferenza al maschio, e chiamerebbe più bello l’uomo che la donna, che da noi tuttavia si chiama il bel sesso.
Moltissime volte anzi la più parte si prende l’amor della gloria per l’amor della patria. P.e. si attribuisce a questo la costanza dei greci alle termopile, il fatto d’Attilio Regolo (se è vero) ec. ec. le quali cose furono puri effetti dell’amor della gloria, cioè dell’amor proprio immediato ed evidente, non trasformato ec. Il gran mobile degli antichi popoli era la gloria che si prometteva a chi si sacrifi-cava per la patria, e la vergogna a chi ricusava questo sacrifizio, e però come i maomettani si espongono alla morte, anzi la [68]cercano per la speranza del paradiso che gliene viene secondo la loro opinione, così gli antichi per la speranza, anzi certezza della gloria cercavano la morte i patimenti ec. ed è evidente che così facendo erano spinti da amor di se stessi e non della patria, dal vedere che alle volte cercavano di morire anche senza necessità nè utile, (come puoi vedere nei dettagli che dà il Barthélemy sulle Termopile) e da quegli Spartani accusati dall’opinione pubblica d’aver fuggito la morte alle Termopile che si uccisero da se, non per la patria ma per la vergogna. Ed esaminando bene si vedrà che l’amor puramente della patria, anche presso gli antichi era un mobile molto più raro che non si crede. Piuttosto quello della libertà, l’odio di quelle tali nazioni nemiche ec. affetti che poi si comprendono generalmente sotto il nome di amor di patria, nome che bisogna ben intendere, perchè Letteratura italiana Einaudi 104
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia il sacrifizio precisamente per altrui non è possibile all’uo-mo.
Guardate di dietro due, tre, o più persone delle quali una parli. Voi discernete subito qual è quella che parla, ma se non le vedrete, con tutto che siate alla stessa distanza, non la discernerete punto, quando non la conosciate alla voce o per altra circostanza ec. E questo è accaduto a me di non discernerla non vedendola, e discernerla poi al primo sguardo veduta di dietro. Tanto è vero che il parlare anche delle persone più modeste (com’era questa) è sempre accompagnato dai moti del corpo. V.
p.206.
Il gran giudizio e gusto e bella immaginazione dei greci si dimostra fra mille altre cose anche nell’aver fatto vecchio il barcaiuolo dell’inferno (cruda deo viridisque senectus, dice Virgilio divinamente) cosa che conviene sommamente alla ruvidezza e squallore di quel luogo. E
nota che tutti gli altri uffizi attribuiti dalla mitologia alle divinità, sono attribuiti a Dei giovani. Qui solamente, perchè si trattava dell’inferno, l’uffizio è dato ad un vecchio.
Il nascere istesso dell’uomo cioè il cominciamento della sua vita, è un pericolo della vita, come apparisce dal gran numero di coloro per cui la nascita è cagione di morte, non reggendo al travaglio e ai disagi che il bambino prova nel nascere. E nota [69]ch’io credo che esaminando si troverà che fra le bestie un molto minor numero proporzionatamente perisce in questo pericolo, colpa probabilmente della natura umana guasta e indebolita dall’incivilimento.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Invenies allum si te hic fastidit Alexis. Quest’è uno sbaglio formale. Nessun vero amante crede di poter trovare un altro oggetto d’amore che lo compensi.
Oh infinita vanità del vero!
Quanto è più dolce l’odio che la indifferenza verso alcuno! Perciò la natura intenta a proccurare la nostra felicità individuale nello stato primitivo, ci avea lasciata l’indifferenza verso pochissime cose, come vediamo nei fanciulli sempre proclivi a odiare o ad amare, temere ec.
A quello che ho detto in altro pensiero si può aggiungere che gli stessi fiorentini pronunziano effe elle emme esse ec. e non effi elli ec. tanto è chiaro che la lingua umana dove manca l’appoggio della vocale, cade naturalmente in un’e.
Beati voi se le miserie vostre / Non sapete. Detto p.e. a qualche animale, alle api ec.
Dev’esser cosa già notata che come l’allegrezza ci porta a communicarci cogli altri (onde un uomo allegro diventa loquace quantunque per ordinario sia taciturno, e s’accosta facilmente a persone che in altro tempo avrebbe o schivate, o non facilmente trattate ec.) così la tristezza a fuggire il consorzio altrui e rannicchiarci in noi stessi co’
nostri pensieri e col nostro dolore. Ma io osservo che questa tendenza al dilatamento nell’allegrezza, e al ristringimento nella tristezza, si trova anche negli atti dell’uomo occupato dall’[70]uno di questi affetti, e come nell’allegrezza egli passegia muove e allarga le braccia le gambe, dimena la vita, e in certo modo si dilata col trasportarsi velocemente qua e là, come cercando una certa ampiezza; così nella tristezza si rannicchia, piega la testa, serra le braccia incrociate contro il petto, cammina lento, Letteratura italiana Einaudi 106
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia e schiva ogni moto vivace e per così dire, largo. Ed io mi ricordo, (e l’osservai in quell’istesso momento) che stando in alcuni pensieri o lieti o indifferenti, mentre sedeva, al sopravvenirmi di un pensier tristo, immediatamente strinsi l’una contro l’altra le ginocchia che erano abbandonate e in distanza, e piegai sul petto il mento ch’era elevato.
La semplicità del Petrarca benchè naturalissima come quella dei greci, tuttavia differisce da quella in un modo che si sente ma non si può spiegare. E forse ciò consiste in una maggior familiarità, e più vicina alla prosa, di cui il Petrarca veste mirabilmente i suoi versi così nobilissimi come sono. I greci poeti forse sono un poco più eleganti, come Omero che cercava in ogni modo un linguaggio diverso dal familiare come apparisce da’ suoi continui epiteti ec. quantunque sia rimasto semplicissimo. Forse anche la lingua italiana, essendo la nostra fa che noi sentiamo questa familiarità dello stile più che ne’ greci, ma parmi pure che vi sia una qualche differenza reale.
Non v’ha forse cosa tanto conducente al suicidio quanto il disprezzo di se medesimo. Esempio di quel mio amico [71]che andò a Roma deliberato di gittarsi nel Tevere perchè sentiva dirsi ch’era un da nulla. Esempio mio stimolatissimo ad espormi a quanti pericoli potessi e anche uccidermi, la prima volta che mi venni in disprezzo.
Effetto dell’amor proprio che preferisce la morte alla cognizione del proprio niente, ec. onde quanto più uno sarà egoista tanto più fortemente e costantemente sarà spinto in questo caso ad uccidersi. E infatti l’amor della vita è l’amore del proprio bene; ora essa non parendo più un bene, ec. ec.
A un cavallo turco. Oh quanto tu sei meglio degli uomini del tuo paese.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Colle persone colle quali penso di poter convenire, non amo di parlare in compagnia, parte perchè i circostanti non conoscendomi bene (giacchè io non soglio farmi conoscer da tutti) darebbero di me a queste persone sia direttamente sia indirettamente una idea falsa; parte perchè io stesso per non entrare in dispute ch’io sfuggo a più potere con quelli che hanno diversi principii, e per non obbligare quella stessa tal persona ch’io stimassi, ad en-trarvi, dissimulerei necessariamente, e così cercando d’ingannar gli altri, ingannerei anche colui, il quale mi crederebbe uno di quei tanti coi quali egli non può convenire.
Io credo che la moltitudine assoluta di ciascuna specie di animali sia in ragion diretta della loro piccolezza. Senza dubbio una sola pianticella in una campagna contiene bene spesso più formiche assai che non v’ha uomini in tutto quel campo. Così discorriamola. Vedi i naturalisti, e se questa osservazione sia stata fatta da nessuno di loro.
Osservo anche la moltitudine degli uccelli i cui stormi sono innumerabili, e nondimeno son vinti dalla folla degli animali più [72]piccoli che si ritrova in questo o in quel luogo secondo le circostanze rispettive.
Anche il delitto bene spesso è un eroismo, cioè p.e.
quando il farlo torna in danno o pericolo, e nondimeno si vuol fare per soddisfare quella tal passione ec. tanto più eroismo quanto che bisogna superare tutta la forza della natura reclamante, e dell’abitudine (se si tratta p.e. di un giovane, di un innocente ec.) ec. E però è un eroismo anche senza il danno o il pericolo tutte le volte che è com-messo da persona non solita a commetterlo, costando sempre uno sforzo e una vittoria di se stesso, nel che consiste l’eroismo. Quindi da un delitto di questa sorta si può sempre argomentar bene o almeno alquanto straordinariamente di una persona. In somma ogni sacrifizio di cosa Letteratura italiana Einaudi 108
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia cara ogni sacrifizio difficile è un eroismo, anche quello della virtù, e dei sentimenti più sacri, quando questo sacrifizio ancora costa.
Anche il dolore che nasce dalla noia e dal sentimento della vanità delle cose è più tollerabile assai che la stessa noia.
Il sentimento della vendetta è così grato che spesso si desidera d’essere ingiuriato per potersi vendicare, e non dico già solamente da un nemico abituale, ma da un indifferente, o anche (massime in certi momenti d’umor nero) da un amico.
Tutto è nulla al mondo, anche la mia disperazione, della quale ogni uomo anche savio, ma più tranquillo, ed io stesso certamente in un’ora più quieta conoscerò, la vanità e l’irragionevolezza e l’immaginario. Misero me, è vano, è un nulla anche questo mio dolore, che in un certo tempo passerà e s’annullerà, lasciandomi in un vôto universale, e in un’indolenza terribile che mi farà incapace anche di dolermi.
[73]Io non ho mai provato invidia nelle cose in cui mi son creduto abile, come nella letteratura, dove anzi sono stato proclivissimo a lodare. L’ho provata posso dire per la prima volta (e verso una persona a me prossimissima) quando ho desiderato di valer qualche cosa in un genere in cui capiva d’esser debolissimo. Ma bisogna che mi renda giustizia confessando che questa invidia era molto indistinta e non al tutto e per tutto vile, e contraria al mio carattere. Tuttavia mi dispiaceva assolutamente di sentire le fortune di quella tal persona in quel tal genere, e raccontandomele essa, la trattava da illusa, ec.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia La cagione per cui il bene inaspettato e casuale, c’è più grato dello sperato, è che questo patisce un confronto cioè quello del bene immaginato prima, e perchè il bene immaginato è maggiore a cento doppi del reale, perciò è necessario che sfiguri e paia quasi un nulla. Al contrario dell’inaspettato che non perde nulla del suo qualunque valore reale per la forza del confronto troppo disuguale.
L’ame est si mal à l’aise dans ce lieu, (dice la Staël delle catacombe liv.5 ch.2. de la Corinne) qu’il n’en peut ré-
sulter aucun bien pour elle. L’homme est une partie de la création, il faut qu’il trouve son harmonie morale dans l’ensemble de l’univers, dans l’ordre habituel [74]de la destinée; et de certaines exceptions violentes et redouta-bles peuvent étonner la pensée, mais effraient tellement l’imagination, que la disposition habituelle de l’ame ne saurait y gagner. Queste parole sono una solennissima condanna degli orrori e dell’eccessivo terribile tanto caro ai romantici, dal quale l’immaginazione e il sentimento in vece d’essere scosso è oppresso e schiacciato, e non trova altro partito a prendere che la fuga, cioè chiuder gli occhi della fantasia e schivar quell’immagine che tu gli presenti.
Nell’autunno par che il sole e gli oggetti sieno d’un altro colore, le nubi d’un’altra forma, l’aria d’un altro sapore. Sembra assolutamente che tutta la natura abbia un tuono un sembiante tutto proprio di questa stagione più distinto e spiccato che nelle altre anche negli oggetti che non cangiano gran cosa nella sostanza, e parlo ora riguardo a un certo aspetto superficiale e in parità di oggetti, circostanze ec. e per rispetto a certe minuzie e non alle cose più essenziali giacchè in queste è manifesto che la faccia dell’inverno è più marcata e distinta dalle altre che quella dell’autunno ec.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Una delle cagioni del gran contrasto delle qualità degli abitanti del mezzogiorno notata dalla Staël, Corinne liv.6.
ch.2. p.246. troisieme édition 1812., (oltre quella, qu’ils ne perdent aucune force de l’ame dans la société, com’el-la dice ivi, onde la natura anche per questo capo resta più varia, e non così obbligata e avvezzata alla continua uniformità, come succede per lo spirito di società e d’eccessivo incivilimento in Francia) è che il clima meridionale essendo [75]il più temperato, e la natura quivi (come dice la stessa più volte) in grande armonia, essa si trova più spedita, più dégagée, più sviluppata, onde siccome le circostanze della vita son diversissime, così trovandosi i caratteri meridionali per la detta cagione pieghevolissimi, e suscettibili d’ogni impressione, ne segue il contrasto delle qualità che si dimostrano nelle contrarie circostanze, e il rapido passaggio ec. Laddove negli altri climi la natura trovandosi meno mobile più inceppata e dura, il violento difficilmente mostra pacatezza, e l’indolente non divien quasi mai attivo, insomma la qualità dominante, domina più assolutamente e tirannicamente di quello che faccia nel mezzogiorno, dove non perciò si dee credere che manchino le qualità dominanti nel tale e tale individuo, ma che in proporzione lascino più luogo alle altre qualità, alla varietà loro ec.
Il sentimento che si prova alla vista di una campagna o di qualunque altra cosa v’ispiri idee e pensieri vaghi e indefiniti quantunque dilettosissimo, è pur come un diletto che non si può afferrare, e può paragonarsi a quello di chi corra dietro a una farfalla bella e dipinta senza poterla cogliere: e perciò lascia sempre nell’anima un gran desiderio: pur questo è il sommo de’ nostri diletti, e tutto quello ch’è determinato e certo è molto più lungi dall’appagarci, di questo che per la sua incertezza non ci può mai appagare.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia
[76]La somma felicità possibile dell’uomo in questo mondo, è quando egli vive quietamente nel suo stato con una speranza riposata e certa di un avvenire molto migliore, che per esser certa, e lo stato in cui vive, buono, non lo inquieti e non lo turbi coll’impazienza di goder di questo immaginato bellissimo futuro. Questo divino stato l’ho provato io di 16 e 17 anni per alcuni mesi ad intervalli, trovandomi quietamente occupato negli studi senz’altri disturbi, e colla certa e tranquilla speranza di un lietissimo avvenire. E non lo proverò mai più, perchè questa tale speranza che sola può render l’uomo contento del presente, non può cadere se non in un giovane di quella tale età, o almeno, esperienza.
L’incivilimento ha posto in uso le fatiche fine ec. che consumano e logorano ed estinguono le facoltà umane, come la memoria, la vista, le forze in genere ec. le quali non erano richieste dalla natura, e tolte quelle che le conservano e le accrescono, come quelle dell’agricoltore del cacciatore ec. e della vita primitiva, le quali erano volute dalla natura e rese necessarie alla detta vita.
Un corollario del pensiero posto qui sopra possono essere delle osservazioni sulla vita degli anacoreti senza disturbi e colla speranza quieta e non impaziente del paradiso.
L’espressione del dolore antico, p.e. nel Laocoonte, nel gruppo di Niobe, nelle descrizioni di Omero ec. doveva essere per necessità differente da quella del dolor moderno. Quello era un dolore senza medicina come ne ha il nostro, non sopravvenivano le sventure agli antichi come necessariamente dovute alla nostra natura, ed anche come un nulla in questa misera vita, ma [77]come impedimenti e contrasti a quella felicità che agli antichi non pareva un sogno, come a noi pare, (ed effettivamente non era tale Letteratura italiana Einaudi 112
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia per essi, certamente speravano, mentre noi disperiamo, di poterla conseguire) come mali evitabili e non evitati.
Perciò la vendetta del cielo, le ingiustizie degli uomini, i danni, le calamità, le malattie, le ingiurie della fortuna, pareano mali tutti propri di quello a cui sopravvenivano.
(infatti il disgraziato al contrario di adesso solea per la superstizione che si mescolava ai sentimenti e alle opinioni naturali, esser creduto uno scellerato e in odio agli Dei, e destar più l’odio che la compassione) Quindi il dolor loro era disperato, come suol essere in natura, e come ora nei barbari e nelle genti di campagna, senza il conforto della sensibilità, senza la rassegnazion dolce alle sventure da noi, non da loro, conosciute inevitabili, non poteano conoscere il piacer del dolore, nè l’affanno di una madre, perduti i suoi figli, come Niobe, era mescola-to di nessuna amara e dolce tenerezza di se stesso ec. ma intieramente disperato. Somma differenza tra il dolore antico e il moderno per cui con ragione si raccomanda al poeta artista ec. moderno di trattar soggetti moderni, non potendo a meno trattando soggetti antichi di cadere in una di queste due, o violare il vero, dipingendo i fatti antichi con prestare ai suoi personaggi sentimenti e affetti moderni, o non interessare nè farsi [78]intendere dai moderni col far sentire e parlare quei personaggi all’antica. Se non che l’offendere il vero, nel primo caso non mi par così da schivare, purchè si salvi il verosimile, divenendo cosa da puro erudito, quando l’effetto di quella mescolanza è buono, il rilevare che gli antichi non avrebbero potuto provare quei sentimenti, come io soglio anche dire dei vestimenti e delle attitudini nella pittura, ec.
dove purchè l’offesa del vero non salti agli occhi, vale a dire si salvi il verisimile, sarà sempre meglio farsi intendere e colpire i moderni, che assoggettarsi ad una miserabile esattezza erudita che non farebbe nessuno effetto.
Quindi non condanno punto anzi lodo p.e. Racine che avendo scelto soggetti antichi (che colla loro natura non Letteratura italiana Einaudi 113
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia erano incompatibili coi sentimenti moderni, e d’altronde erano per la loro bellezza, tragicità, forza ec. preferibili ad altri soggetti de’ giorni più bassi) gli ha trattati alla moderna. La sensibilità era negli antichi in potenza, ma non in atto come in noi, e però una facoltà naturalissima (v. il mio discorso sui romantici), ma è cosa provata che le diverse circostanze sviluppano le diverse facoltà naturali dell’anima, che restano nascose e inoperose mancando quelle tali circostanze, fisiche, politiche, morali, e soprattutto, nel nostro caso, intellettuali, giacchè lo sviluppo del sentimento e della melanconia, è venuto soprattutto dal progresso della filosofia, e della cognizione dell’uomo, e del mondo, e della vanità delle cose, e della infelicità umana, [79]cognizione che produce appunto questa infelicità, che in natura non dovevamo mai conoscere. Gli antichi in cambio di quel sentimento che ora è tutt’uno col malinconico, avevano altri sentimenti entu-siasmi ec. più lieti e felici, ed è una pazzia l’accusare i loro poeti di non esser sentimentali, e anche il preferire a quei sentimenti e piaceri loro che erano spiritualissimi anch’es-si, e destinati dalla natura all’uomo non fatto per essere infelice, i sentimenti e le dolcezze nostre, benchè naturali anch’esse, cioè l’ultima risorsa della natura per contrastare (com’è suo continuo scopo) alla infelicità prodotta dalla innaturale cognizione della nostra miseria. La consolazione degli antichi non era nella sventura, per es. un morto si consolava cogli emblemi della vita, coi giuochi i più energici, colla lode di avere incontrata una sventura minore o nulla morendo per la patria, per la gloria, per passioni vive, morendo dirò quasi per la vita. La consolazione loro anche della morte non era nella morte ma nella vita. V. p.105. di questi pensieri.
Le altre arti imitano ed esprimono la natura da cui si trae il sentimento, ma la musica non imita e non esprime che lo stesso sentimento in persona, ch’ella trae da se stessa Letteratura italiana Einaudi 114
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia e non dalla natura, e così l’uditore. Ecco perchè la Staël (Corinne liv.9. ch.2.) dice: De tous les beaux-arts c’est (la musique) celui qui agit le plus immédiatement sur l’ame.
Les autres la dirigent vers telle ou telle idée, celui-là seul s’adresse à la source intime de l’existence, et change en entier la disposition intérieure. La [80]parola nella poesia ec. non ha tanta forza d’esprimere il vago e l’infinito del sentimento se non applicandosi a degli oggetti, e perciò producendo un’impressione sempre secondaria e meno immediata, perchè la parola come i segni e le immagini della pittura e scultura hanno una significazione determinata e finita. L’architettura per questo lato si accosta un poco più alla musica, ma non può aver tanta subitaneità, ed immediatezza.
La speme che rinasce in un col giorno.
Dolor mi preme del passato, e noia
Del presente, e terror de l’avvenire.
Si può osservare che il Cristianesimo, senza perciò fargli nessun torto ha per un verso effettivamente peggiora-to gli uomini. Basta considerare l’effetto che produce sopra i lettori della storia il carattere dei principi cristiani scellerati in comparazione degli scellerati pagani, e così dei privati, dei Patriarchi, Vescovi, e monaci greci (v.
Montesquieu Grandeur ec. Amsterd. 1781. ch.22.) o latini. Le scelleratezze dei secondi non erano per nessun modo in tanta opposizione coi loro principii. Morto il fanatismo della pietà, e il primo fervore di una religione che si considera come un’opinione propria, e una setta e cosa propria, e di cui perciò si è più gelosi (anche per li sacrifizi che costava il professarla) l’uomo in società ritorna naturalmente malvagio, colla differenza che quando gli antichi scellerati operavano o secondo i loro principii, o in opposizione di massime confuse poco note e controverse, i cristiani operavano contro massime certe Letteratura italiana Einaudi 115
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia stabilite definite, e di cui erano intimamente persuasi, e l’uomo è sempre tanto più [81]scellerato quanto più sforzo costa l’esserlo, massimamente contro se stesso, come per contrario accade della pietà. E infatti da quando il cristianesimo fu corrotto nei cuori, cioè presso a poco da quando divenne religione imperiale e riconosciuta per nazionale, e passò in uomini posti in circostanze da esser malvagi, è incontrastabile che le scelleratezze mutaron faccia e il carattere di Costantino e degli altri scellerati imperatori cristiani, vescovi ec. è evidentemente più odioso di quello dei Tiberi dei Caligola ec. e dei Marii e dei Cinna ec. e di una tempra di scelleraggine tutta nuova e più terribile. E secondo me a questo cioè al cristianesimo si deve in gran parte attribuire (giacchè il guasto cristianesimo era una parte di guasto incivilimento) la nuova idea della scelleratezza dell’età media molto differente e più orribile di quella dell’età antiche anche più barbare: e questa nuova idea si è mantenuta più o meno sino a questi ultimi tempi nei quali l’incredulità avendo fatti tanti progressi, il carattere delle malvagità si è un poco ravvicinato all’antico, se non quanto i gran progressi e il gran divulgamento dei lumi chiari e determinati della morale universale molto più tenebrosa presso gli antichi anche più civili, non lascia tanto campo alla scelleraggine di seguire più placidamente il suo corso. V. p.710. capoverso 1.
[82]Citerò un luogo delle Notti romane, non perch’io creda che quel libro si possa prendere per modello di stile, ma per addurre un esempio che mi cade in acconcio. Ed è quello dove la Vestale dice che diede disperatamente del capo in una parete, e giacque. La soppressione del verbo intermedio tra il battere il capo e il giacere, che è il cadere, produce un effetto sensibilissimo, facendo sentire al lettore tutta la violenza e come la scossa di quella caduta, per la mancanza di quel verbo, che par che ti Letteratura italiana Einaudi 116
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia manchi sotto ai piedi, e che tu cada di piombo dalla prima idea nella seconda che non può esser collegata colla prima se non per quella di mezzo che ti manca. E queste sono le vere arti di dar virtù ed efficacia allo stile, e di far quasi provare quello che tu racconti.
Io era oltremodo annoiato della vita, sull’orlo della va-sca del mio giardino, e guardando l’acqua e curvandomi-ci sopra con un certo fremito, pensava: s’io mi gittassi qui dentro, immediatamente venuto a galla, mi arrampiche-rei sopra quest’orlo, e sforzandomi di uscir fuori dopo aver temuto assai di perdere questa vita, ritornato illeso, proverei qualche istante di contento per essermi salvato, e di affetto a questa vita che ora tanto disprezzo, e che allora mi parrebbe più pregevole. La tradizione intorno al salto di Leucade poteva avere per fondamento un’osservazione simile a questa.
[83]La cagione per cui trovo nelle osservazioni di Mad.
Di Staël del libro 14. della Corinna anche più intima e singolare e tutta nuova naturalezza e verità, è (oltre al trovarmi io presentemente nello stessissimo stato ch’ella descrive) il rappresentare ella quivi il genio considerante se stesso e non le cose estrinseche nè sublimi, ma le piccolezze stesse e le qualità che il genio poche volte ravvisa in se, e forse anche se ne vergogna e non se le confessa (o le crede aliene da se e provenienti da altre qualità più basse, e perciò se n’affligge) onde con minore sublime ed astratto, ha maggior verità e profondità familiare in tutto quello che dice Corinna di se giovanetta.
Quantunque io mi trovi appunto nella condizione che ho detta qui sopra pur leggendo il detto libro, ogni volta che madame parla dell’invidia di quegli uomini volgari, e del desiderio di abbassar gli uomini superiori, e presso loro e presso gli altri e presso se stessi, non ci trovava la solita certissima e precisa applicabilità alle mie circostan-Letteratura italiana Einaudi 117
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ze. E rifletto che infatti questa invidia, e questo desiderio non può trovarsi in quei tali piccoli spiriti ch’ella descrive, perchè non hanno mai considerato il genio e l’entusiasmo come una superiorità, anzi come una pazzia, come fuoco giovanile, difetto di prudenza, di esperienza di senno, ec. e si stimano molto più essi, onde non possono provare invidia, perchè nessuno invidia la follia degli altri, bensì compassione, o disprezzo, e anche malvolenza, come a persone che non vogliono pensare come voi, e come credete che si debba pensare. Del resto credono che ancor esse fatte più mature si ravvedranno, tanto sono lontane dall’invidiarle. E così precisamente [84]porta l’esperienza che ho fatta e fo. Ben è vero che se mai si affacciasse loro il dubbio che questi uomini di genio fossero spiriti superiori, ovvero se sapranno che son tenuti per tali, come anime basse che sono e amanti della loro quiete ec. faranno ogni sforzo per deprimerli, e potranno concepirne invidia, ma come di persone di un merito falso e considerate contro al giusto, e invidia non del loro genio, ma della stima che ne ottengono, giacchè non solamente non li credono superiori a se, ma molto al di sotto.
Una prova in mille di quanto influiscano i sistemi puramente fisici sugl’intellettuali e metafisici, è quello di Copernico che al pensatore rinnuova interamente l’idea della natura e dell’uomo concepita e naturale per l’antico sistema detto tolemaico, rivela una pluralità di mondi mostra l’uomo un essere non unico, come non è unica la collocazione il moto e il destino della terra, ed apre un immenso campo di riflessioni, sopra l’infinità delle creature che secondo tutte le leggi d’analogia debbono abitare gli altri globi in tutto analoghi al nostro, e quelli anche che saranno benchè non ci appariscano intorno agli altri soli cioè le stelle, abbassa l’idea dell’uomo, e la sublima, scuopre nuovi misteri della creazione, del destino della Letteratura italiana Einaudi 118
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia natura, della essenza delle cose, dell’esser nostro, dell’onnipotenza del creatore, dei fini del creato ec. ec.
Nella mia somma noia e scoraggimento intiero della vita talvolta riconfortato alquanto e alleggerito io mi metteva a piangere la sorte umana e la miseria del mondo. Io ri-fletteva allora: io piango perchè sono più lieto, e così è che allora il nulla delle cose pure mi lasciava forza d’ad-dolorarmi, e quando io lo sentiva maggiormente e ne era pieno, non mi lasciava il vigore di dolermene.
[85] Cum pietatem funditus amiserint
Pi tamen dici nunc maxime reges volunt.
Quo res magis labuntur, haerent nomina.
Io era spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare considerando e sentendo che tutto è nulla, solido nulla.
Prima di provare la felicità, o vogliamo dire un’apparenza di felicità viva e presente, noi possiamo alimentarci delle speranze, e se queste son forti e costanti, il tempo loro è veramente il tempo felice dell’uomo, come nella età fra la fanciullezza e la giovanezza. Ma provata quella felicità che ho detto, e perduta, le speranze non bastano più a contentarci, e la infelicità dell’uomo è stabilita. Oltre che le speranze dopo la trista esperienza fatta sono assai più difficili, ma in ogni modo la vivezza della felicità provata, non può esser compensata dalle lusinghe e dai diletti limitati della speranza, e l’uomo in comparazione di questa piange sempre quello che ha perduto e che ben difficilmente può tornare, perchè il tempo delle grandi illusioni è finito.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Uomo colto in piena campagna da una grandine micidiale e da essa ucciso o malmenato rifugiantesi sotto gli alberi, difendentesi il capo colle mani ec. soggetto di una similitudine.
Quando le sensazioni d’entusiasmo ec. che noi proviamo non sono molto profonde, allora cerchiamo di avere un compagno con cui comunicarle, e ci piace il poterne discorrere in quel momento, (secondo quella osservazione di Marmontel che vedendo una bella campagna non siamo contenti se non abbiamo con chi dire: la belle campagne!) perchè in certo modo speriamo di accrescere
[86]il diletto di quel sentimento e il sentimento medesimo con quello degli altri. Ma quando l’impressione è profonda accade tutto l’opposto perchè temiamo, e così è, di scemarla e svaporarla partecipandola, e cavandola dal chiuso delle nostre anime, per esporla all’aria della conversazione. Oltre ch’ella ci riempie in modo, che occupando tutta la nostra attenzione, non ci lascia campo di pensare ad altri, nè modo di esprimerla, volendosi a ciò una certa attenzione che ci distrarrebbe, quando la distrazione ci è non solamente importuna, ma impossibile.
Dice la Staël, (Corinne liv.18. ch.4.) parlando de la statue de Niobé: sans doute dans une semblable situation la figure d’une véritable mère serait entièrement boulever-sée; mais l’idéal des arts conserve la beauté dans le déses-poir; et ce qui touche profondément dans les ouvrages du génie, ce n’est pas le malheur même, c’est la puissance que l’ame conserve sur ce malheur. Bellissima condanna del sistema romantico che per conservare la semplicità e la naturalezza e fuggire l’affettazione che dai moderni è stata pur troppo sostituita alla dignità, (facile agli antichi ad unire colla semplicità che ad essi era sì presente e nota e propria e viva) rinunzia ad ogni nobiltà, così che le loro opere di genio non hanno punto questa gran nota della Letteratura italiana Einaudi 120
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia loro origine, ed essendo una pura imitazione del vero, come una statua di cenci con parrucca e viso di cera ec.
colpisce molto meno di quella che insieme colla semplicità e naturalezza conserva l’ideale del bello, e rende straordinario quello ch’è comune, cioè mostra ne’ suoi eroi un’anima grande e un’attitudine dignitosa, il che muove la maraviglia e [87]il sentimento profondo colla forza del contrasto, mentre nel romantico non potete esser commosso se non come dagli avvenimenti ordinari della vita, che i romantici esprimono fedelmente, ma senza dargli nulla di quello straordinario e sublime, che innalza l’immaginazione, e ispira la meditazione profonda e la intimità e durevolezza del sentimento. E così ancora si verifica che gli antichi lasciavano a pensare più di quello ch’esprimessero, e l’impressione delle loro opere era più durevole.
Quando l’uomo veramente sventurato si accorge e sente profondamente l’impossibilità d’esser felice, e la somma e certa infelicità dell’uomo, comincia dal divenire indifferente intorno a se stesso, come persona che non può sperar nulla, nè perdere e soffrire più di quello ch’ella già preveda e sappia. Ma se la sventura arriva al colmo l’indifferenza non basta, egli perde quasi affatto l’amor di se, (ch’era già da questa indifferenza così violato) o piuttosto lo rivolge in un modo tutto contrario al consueto degli uomini, egli passa ad odiare la vita l’esistenza e se stesso, egli si abborre come un nemico, e allora è quando l’aspetto di nuove sventure, o l’idea e l’atto del suicidio gli danno una terribile e quasi barbara allegrezza, massimamente se egli pervenga ad uccidersi essendone impedito da altrui; allora è il tempo di quel maligno amaro e ironico sorriso simile a quello della vendetta eseguita da un uomo crudele dopo forte lungo e irritato desiderio, il qual sorriso è l’ultima espressione della estrema dispera-Letteratura italiana Einaudi 121
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia zione e della somma infelicità. V. Staël Corinne l.17. c.4.
5me édition Paris, 1812. p.184.185. t.3.
[88]Je vous l’ai dit souvent, la douleur me tuerait; il y a trop de lutte en moi contre elle; il faut lui céder pour n’en pas mourir, dice Corinna presso la Staël liv.14. ch.3.
t.2. p.361. dell’edizione citata qui dietro. E da questo venia che gli antichi al carattere dei quali l’autrice ha voluto ravvicinare quello di Corinna quanto era compatibile coi costumi e la filosofia moderna di cui l’arricchisce a piena mano, erano vinti dall’infelicità in modo che esprimevano la loro disperazione cogli atti e le azioni più terribili, e la sventura li mandava fuori di se stessi, e gli uccideva. Quel se réposer sur sa douleur, quel piacere perfino provato dai moderni per la stessa sventura e per la considerazione di essere sventurato, era cosa ignota a quelli che secondo l’istinto della natura non ancora del tutto alterata, correvano sempre dritto alla felicità, non come a un fantasma, ma cosa reale, e trovavano il loro diletto dove la natura primitivamente l’ha posto, cioè nella buona e non nella cattiva fortuna, la quale quando loro sopravvenniva, la riguardavano come propria, non come universale e inevitabile. Nè il desiderio della felicità era in essi temperato e rintuzzato e illanguidito da nessuna considerazione e da nessuna filosofia. Perciò tanto più formidabile era l’effetto di quanto impediva loro l’adempimento di questo desiderio.
Les habitans du Midi craignant beaucoup la mort, l’on s’étonne d’y trouver des institutions qui la rappellent à ce point; mais il est dans la nature d’aimer à se livrer à l’idée même de ce que l’on redoute. Il y a comme un enivre-ment de tristesse qui fait à l’ame le bien de la remplir tout entière. Corinne l.10. ch.1 t.2. p.115. edizione citata qui dietro [89]. A questo proposito si può notare quella indistinta e pur vera voglia che noi proviamo avendo p.e.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia in mano una cosa fetente di sentirne fuggitivamente l’odore. Così se ti abbatti a passare, poniamo, per un luogo dove si faccia giustizia, tu senti ribrezzo di quella esecuzione, e pure io metto pegno che non ti puoi tenere che non alzi gli occhi per vederla così di sfuggita, e poi rivolgerli immediatamente altrove. V. a tal proposito un luogo notabile di Platone, Opp. Ed. Astii, t.4. p.236. lin.8-16. E così di ogni cosa che ci faccia ribrezzo, così se tu hai corso un pericolo che ti spaventi, ti si stringe il cuore in pensarci, non hai forza di fermarti in quel pensiero di quel momento di quel caso di quella vicinanza della morte ec. ma neanche hai forza di cacciarlo, anzi bisogna pur che tra il volere e il non volere ci lasci andare un’occhiata.
Similmente se ti si affaccia qualche pensiero che ti addolori, la ricordanza di qualche cosa che ti faccia vergognare teco stesso ec. La ragione di questo effetto non è certo quell’inebbriamento che dice la Staël, e nemmeno la curiosità come può vedere chiunque ci faccia un poco di considerazione. Piuttosto direi che quell’ignoto ci fa più pena che il noto, e siccome quell’oggetto ci spaventa o ci abbrividisce o ci attrista, non sappiamo lasciarlo stare così intatto, e anche con ribrezzo, abbiamo pure una certa voglia di dargli una tal quale squadrata che ce lo faccia conoscere alquanto. Forse anche, e così credo, proviene dall’amore dello straordinario, e odio naturale della monotonia e della noia ch’è ingenito in tutti gli uomini, e offrendosi un oggetto che rompe questa monotonia, ed esce dell’ordine comune, quantunque ci paia [90]più grave assai della noia, di cui forse anche, in quel punto non ci accorgiamo e non abbiamo nessun pensiero, pur troviamo un certo piacere in quella scossa in quell’agitazione, che ci produce la vista fuggitiva di esso oggetto. La quale spiegazione si ravvicina a quella della Staël, giacchè la noia non è altro che il vuoto dell’anima, ch’è riempito, come ella dice da quel pensiero, e occupato intieramente per quel punto. E in fine può Letteratura italiana Einaudi 123
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia anche derivare, e penso che almeno in parte derivi dallo stesso timore che abbiamo di quel pensiero, per la ragione che in tutte le cose fisiche e morali, il voler troppo intensamente e il timore di non conseguire, distorna le nostre azioni dal loro fine, e il mettersi ad un’operazione di mano p.e. chirurgica con troppa intenzion d’animo e timore di non riuscire, la manda a male, e nelle lettere, o belle arti, il cercar la semplicità con troppa cura, e paura di non trovarla, la fa perdere ec.
L’orrore e il timore della fatalità e del destino si prova più (anche oggidì che la superstizione è quasi bandita dal mondo) nelle anime forti e grandi, che nelle mediocri per cagione che i desideri e i fini di quelle sono fissi, e ch’elle li seguono con ardore, con costanza, e risoluzione invariabile. Così era più ordinariamente presso gli antichi, appo i quali la fermezza e la costanza e la forza e la magnanimità erano virtù molto più ordinarie che fra i moderni. E vedendo essi che spesse volte anzi frequentissimamente i casi della vita si oppongono ai desideri dell’uomo, erano compresi da terrore per la ragione della loro immobilità nel desiderare o nel diriggere le loro azioni a quel tale scopo che forse e probabilmente non avrebbero [91]potuto conseguire. Infatti nella infinita varietà dei casi è molto più improbabile che segua precisamente quello a cui tu miri invariabilmente, che gl’infiniti altri possibili. Ora accadendone piuttosto un altro non è effetto di destino fisso che ti perseguiti, ma di cieco accidente. Essi tuttavia com’è naturale come per un’illusione ottica o meccanica confondevano (e gli animi forti ed ardenti tuttora confondono) l’immobilità loro propria con quella degli avvenimenti, e perchè non erano spiriti da secondarli e adattarvisi, immaginavano che l’immobilità stesse non in se ma nei medesimi avvenimenti già stabiliti dal destino. Laddove gli spiriti mediocri, senza fermezza nè certezza di mire, nella moltiplicità dei loro fini, e si abbattono più facilmente a uno o più di quelli Letteratura italiana Einaudi 124
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia che desiderano, e anche nel caso opposto cedono senza difficoltà all’andamento delle cose, e da questo si lasciano trasportare, piegare, regolare, andando a seconda degli avvenimenti. Così essi non avendo immobilità in loro, nè vedendo la somma difficoltà di concordare i loro disegni cogli avvenimenti hanno l’intelletto più libero, e non pensano che la fortuna opponga loro un’opposizione forte e stabile, (la qual forza e stabilità non è veramente se non nella resistenza che le anime grandi oppongono agl’insta-bilissimi e casuali avvenimenti) ma considerano tutto come effetto del caso, e delle combinazioni, siccom’è infatti.
Aggiungi l’invariabilità non solo dei fini, ma anche dei mezzi nei primi, (cioè ne’ magnanimi) che non permette loro di cambiar principii, nè di regolare le loro azioni a norma degli avvenimenti, ma li conserva sempre costanti nel loro proposito e nel modo di seguitarlo, mentre il contrario accade nei secondi. E anche senza nessun proposito nè scopo, si vedrà che la sola fermezza e immutabilità del carattere, fa illusione sulla forza del destino ch’essendo [92]così vario pare immutabile a quelli che non vedono se non una sola via, una sola maniera di contenersi di pensare e operare, una sola sorta di avvenimenti, e come questi dovrebbero o pare a loro che dovrebbero accadere. E questo timore del destino si trova in conseguenza più o meno anche negli spiriti mediocri, o puramente ragionevoli e filosofici ec. quando provano qualche desiderio o mirano a qualche fine in modo che divengano immobili intorno a quel punto. V. Staël Corinne l.13. c.4.
p.306. t.2. edizione citata poco sopra. L’illusione che ho detto si può in qualche modo paragonare a quella che noi proviamo credendo la terra immobile perchè noi siam fermi su di lei, quantunque ella giri e voli rapidissimamente. E già si sa che anche nei magnanimi ella è più viva e presente secondo che essi si trovano in circostanze di desideri e mire più vive, determinate e focose forti ferme ec. nelle grandi passioni ec.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia La società francese la quale fa che l’esprit naturel se tourne en épigrammes plutôt qu’en poésie, dice la Staël, (vedila, Corinne, liv.15. chap.9. p.80. t.3. edizione citata da me alla p.87.) rende ancora epigrammatica tutta la loro scrittura, ed abituati come sono a dare a tutti i loro detti nella conversazione, une tournure che li renda gradevoli, un’aria di novità, una grazia ascitizia, un garbo proccurato ec. ponendosi a scrivere, e stimando naturalmente che la scrittura non li disobblighi da quello a cui gli obbliga la raffinatezza della conversazione, (naturale nel paese dove lo spirito di società è così grande, anzi è l’anima e lo scopo e il tutto della vita) e per lo contrario credendo che quest’obbligo sia maggiore nello scrivere che nel parlare (e con ragione avuto riguardo al gusto de’ lettori nazionali che altrimenti li disprezzerebbero) si abbandonano a quello stesso studio che adoprano nella conversazione per renderla aggradevole e piccante ec. e però il loro stile è così diverso da [93]quello de’ greci e de’ latini e degl’italiani, non essendo possibile ch’essi accettino quella prima frase che si presenta naturalmente e da se a chi vuole esprimere un sentimento. E però le grazie naturali sono affatto sbandite dal loro stile, anzi è curioso il vedere quello ch’essi chiamino naturalezza e semplicità, come p.e. in La Fontaine tanto decantato per queste doti. In luogo delle grazie naturali il loro stile è tutto composto delle grazie di società e di conversazione, e quando queste sono conseguite essi chiamano il loro stile, semplice, come fanno sempre anche in astratto quando paragonano lo stil francese all’italiano p.e. o al latino ec. parte avuto riguardo alla collocazione materiale delle parole e alla costruzione del periodo, e divisione del discorso ec. paragonata con quella delle altre lingue, parte alla mancanza delle ampollosità delle gonfiezze, delle figure troppo evidenti, dei giri e rigiri per dire una stessa cosa ec. ec. che si trovano nei cattivi stili delle altre lingue, e che nel francese Letteratura italiana Einaudi 126
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia sono affatto straordinari e sarebbero fischiati. E questa chiamano purezza di gusto, ed hanno ragione da un lato, ma dall’altro non conoscono quella semplicità così intrinseca come estrinseca dello stile che non ha niente di comune coll’eleganza la politezza la tournure la raffinatezza il limato il ricercato della conversazione, ma sta tutta nella natura, nella pura espressione de’ sentimenti che è presentata dalla cosa stessa, e che riceve novità e grazia piuttosto dalla cosa, se ne ha, che da se medesima e dal lavoro dello scrittore, quella schiettezza di frase le cui grazie sono ingenite e non ascitizie, quel modo di parlare che non viene dall’abitudine della conversazione e che par naturale solamente a chi vi è accostumato (cioè ai francesi e agli altri nutriti sempre di cose francesi) ma dalla natura universale, e dalla stessa materia, quello insomma ch’era [94]proprio dei greci, e con una certa proporzione, de’ latini, e degl’italiani, di Senofonte di Erodoto de’
trecentisti ec. i quali sono intraducibili nella lingua francese. Cosa strana che una lingua di cui essi sempre vantano la semplicità non abbia mezzi per tradurre autori semplicissimi, e di uno stile il più naturale, libero, inaffettato, disinvolto, piano, facile che si possa immaginare. E pur la cosa è rigorosamente vera, e basta osservar le traduzioni francesi da classici antichi per veder come stentino a ridurre nel loro stile di società e di conversazione ch’essi chiamano semplice (e ch’è divenuto inseparabile dalla loro lingua anzi si è quasi confuso con lei) quei prototipi di manifesta e incontrastabile semplicità; e come esse sieno lontane dal conservare in nessun modo il carattere dello stile originale. Qui comprendo anche le Georgiche di Delille intese da orecchie non francesi, e quella generale osservazione fatta anche dalla Staël nella Biblioteca Italiana che le traduzioni francesi da qualunque lingua hanno sempre un carattere nazionale e diverso dallo stile originale e anche dalle parti più essenziali di esso, e anche da’ sentimenti. E basta anche notare come le traduzioni e Letteratura italiana Einaudi 127
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia lo stile d’Amyot veramente semplicissimo (e non però suo proprio ma similissimo a quello de’ suoi originali, e tra le lingue moderne, all’italiano) si allontanino dall’indole della presente lingua francese, non solo quanto alle parole e ai modi antiquati, ma principalmente nelle forme sostanziali, e nell’insieme dello stile, che ora di francese non può avere altro che il nome, e che sarebbe chiamato barbaro in un moderno, levato anche ogni vestigio d’arcaismo. E scommetto ch’egli riesce più facile a intendere agl’italiani, che ai francesi non dotti, massime nelle lingue classiche.
Il posseder più lingue dona una certa maggior facilità e chiarezza di pensare seco stesso, perchè noi [95]pensia-mo parlando. Ora nessuna lingua ha forse tante parole e modi da corrispondere ed esprimere tutti gl’infiniti particolari del pensiero. Il posseder più lingue e il potere perciò esprimere in una quello che non si può in un’altra, o almeno così acconciamente, o brevemente, o che non ci viene così tosto trovato da esprimere in un’altra lingua, ci dà una maggior facilità di spiegarci seco noi e d’intenderci noi medesimi, applicando la parola all’idea che senza questa applicazione rimarrebbe molto confusa nella nostra mente. Trovata la parola in qualunque lingua, siccome ne sappiamo il significato chiaro e già noto per l’uso altrui, così la nostra idea ne prende chiarezza e stabilità e consistenza e ci rimane ben definita e fissa nella mente, e ben determinata e circoscritta. Cosa ch’io ho provato molte volte, e si vede in questi stessi pensieri scritti a penna corrente, dove ho fissato le mie idee con parole greche francesi latine, secondo che mi rispondevano più precisamente alla cosa, e mi venivano più presto trovate. Perchè un’idea senza parola o modo di esprimerla, ci sfugge, o ci erra nel pensiero come indefinita e mal nota a noi medesimi che l’abbiamo concepita. Colla parola prende corpo, e quasi forma visibile, e sensibile, e circoscritta.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Spesse volte il caso ha renduto espressivissima una parola che parrebbe perciò originale e derivata dalla cosa, mentre non è che una pura figlia d’etimologia. P.e. nausea quella parola sì espressiva presso i latini e gl’italiani (v. questi pensieri p.12.) deriva dal greco naèw nave, onde nautÛa, ionicamente nausÛa, e in latino nausea perch’ella suole accadere ai naviganti.
Bisognerebbe vedere se quell’oracolo della porca bianca da trovarsi da Enea all’imboccatura del Tevere per buono ed ultimo augurio secondo Virgilio, avesse qualche altro significato ed origine nota e verisimile, non fattizia e arbitraria, perchè non avendone, io suppongo che derivi dal nome di troia che noi diamo alle [96]porche, e che a cagione di questo oracolo mi par ben da sospetta-re che fosse anche voce antica e popolare latina nello stesso significato, e così la porca venisse popolarmente considerata come un emblema di Troia, nella stessa guisa che presentemente parecchie città e famiglie hanno per insegna quell’animale o quell’oggetto materiale ch’è chiamato con un nome simile al loro. V. la Cron. d’Euseb. l.1.
c.46. e nota che quel racconto benchè da scrittor greco è preso anche quivi e attribuito intieramente a un latino.
V. p.511. capoverso 1.
In proposito di quello che ho detto p.76. e segg. In questi pensieri si può osservare che quando noi per qualche circostanza ci troviamo in istato di straordinario e passeggero vigore, come avendo fatto uso di liquori che esaltino le forze del corpo senza però turbar la ragione, ci sentiamo proclivissimi all’entusiasmo, nè però questo entusiasmo ha nulla di malinconico, ma è tutto sublime nel lieto, anzi le idee dolorose, ed una soave mestizia e la pietà non trova luogo allora nel cuor nostro o almeno non son questi i sentimenti ch’ei preferisce, ma il vigore che proviamo dà Letteratura italiana Einaudi 129
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia un risalto straordinario alle nostre idee, ed abbellisce e sublima ogni oggetto agli occhi nostri, e quello è il tempo di sentir gli stimoli della gloria, dell’amor patrio, dei sacrifizi generosi (ma considerati come bene non come sventura) e delle altre passioni antiche. Quindi possiamo congetturare quale dovesse essere ordinariamente l’entusiasmo degli antichi che si trovavano incontrastabilmente in uno stato di vigor fisico abituale, superiore al nostro ordinario; il quale quanto noceva e nuoce alla ragione, tanto favorisce l’immaginazione, e i sentimenti focosi gagliardi ed alti. Colla differenza che noi avvezzi nel corso della nostra vita a compiacerci, al contrario degli antichi, nelle idee dolorose, anche in quel vigore, sentendoci delle spinte al sentimento, ci potremo compiacere molto più facilmente che non faceano gli antichi di qualcuna di queste tali idee, quantunque non cercata allora di preferenza. Ma osservo che in quei momenti anche le idee malinconiche ci si presentano come un aria di festa che la felicità non ci pare un’illusione, [97]anzi ancora le dette idee ci si offrono come conducenti alla felicità, e la sventura come un bene sublime che ci fa palpitar e d’entusiasmo e di speranza, e sentiamo una gran confidenza in noi stessi e nella fortuna e nella natura, quando anche ella non sia nel nostro carattere, o nell’abitudine contratta colla sperienza della vita.
Una delle cose più dispiacevoli, è il sentir parlare di un soggetto che c’interessi, senza potervi interloquire. E
molto più se ne parlano a sproposito, o ignorando una circostanza un fatto ec. che noi potremmo narrar loro, o in contraddizione coi nostri sentimenti, in maniera che vengano a concludere il contrario di quello che noi stimiamo o sappiamo. Il che è penoso anche quando la cosa non ci riguardi in nessun modo personalmente, nè anche c’interessi. Ma soprattutto s’ella ci riguarda o interessa, è veramente opera da uomo riflessivo lo schivare questi tali Letteratura italiana Einaudi 130
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia discorsi in presenza p.e. di domestici che non vi potrebbero metter bocca, o di altri inferiori, i quali sentendo toccare il tasto che è loro a cuore, senza potervi avere nessuna parte attiva, ne proverebbero molta pena, attaccandosi come farebbero intieramente e con grande studio alla passiva di ascoltare, non ostante l’inquietudine che sfuggirebbero rinunziando anche a questa parte, il che però non ci è possibile.
Si suol dire che per ottenere qualche grazia è opportuno il tempo dell’allegrezza di colui che si prega. E quando questa grazia si possa far sul momento, o non costi impegno ed opera al supplicato, convengo anch’io in questa opinione. Ma per interessar chicchessia in vostro favore, ed impegnarlo a prendersi qualche benchè piccola premura di un vostro affare, non c’è tempo più assolutamente inopportuno di quello della gioia viva. Ogni volta che l’uomo è occupato da qualche passion forte, è incapace di pensare ad altro, ogni volta che o la sua propria infelicità o la sua propria fortuna l’interessano vivamente, e lo riempiono, è incapace di pigliar premura de’ negozi delle infelicità dei desiderii altrui. Nei [98]momenti di gioia viva o di dolor vivo l’uomo non è suscettibile nè di compassione, nè d’interesse per gli altri, nel dolore perchè il suo male l’occupa più dell’altrui, nella gioia perchè il suo bene l’inebbria, e gli leva il gusto e la forza di occuparsi in verun altro pensiero. E massimamente la compassione è incompatibile col suo stato quando egli o è tutto pieno della pietà di se stesso, o prova un’esaltazio-ne di contento che gli dipinge a festa tutti gli oggetti e gli fa considerar la sventura come un’illusione, per lo meno odiarla come cosa alienissima da quello che lo anima e lo riempie tutto in quel punto. Solamente gli stati di mezzo, sono opportuni all’interesse per le cose altrui, o anche un certo stato di entusiasmo senza origine e senza scopo reale, che gli faccia abbracciar con piacere l’occasione di Letteratura italiana Einaudi 131
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia operare dirittamente, di beneficare, di sostituir l’azione all’inazione, di dare un corpo ai suoi sentimenti, e di rivolgere alla realtà quell’impeto di entusiasmo virtuoso, magnanimo generoso ec. che si aggirava intorno all’astratto e all’indefinito. Ma quando il nostro animo è già occupato dalla realtà, ossia da quell’apparenza che noi riguar-diamo come realtà, il rivolgerlo ad un altro scopo, è impresa difficilissima e quello è il tempo più inopportuno di sollecitar l’interesse altrui per la vostra causa, quand’esso è già tutto per la propria, e lo staccarnelo riuscirebbe penosissimo al supplicato. Molto più se la gioia sia di quelle rare che occorrono nella vita pochissime volte, e che ci pongono quasi in uno stato di pazzia, sarebbe da stolto il farsi allora avanti a quel tale, ed esponendogli con qualsivoglia eloquenza i propri bisogni e le proprie miserie, sperare di distorlo dal pensiero ch’è padrone dell’animo suo, e che gli è sì caro, e quel ch’è più, condurlo ad operare o a risolvere efficacemente d’operare per un fine alieno da quel pensiero, al quale egli è così intento anche in udirvi, che appena vi ascolta, e se vi ascolta, cerca di abbreviare il discorso, di ridur tutto in compendio, (per poi dimenticarlo affatto) ed ogni suo desiderio è rivolto al momento in cui avrete finito, e lo lasce-rete pascere di quel pensiero che lo signoreggia, ed anche parlarvene, e rivolgere immediatamente la [99]conversazione sopra quel soggetto.
Udrai dire sovente che per esser compatito o per interessare, giova indirizzarsi a chi abbia provato le stesse sventure, o sia stato nella stessa tua condizione. Se intendono del passato, andrà bene. Ma non c’è uomo da cui tu possa sperar meno che da chi si ritrova presentemente nella stessa calamità o nelle stesse circostanze tue. L’interesse ch’egli prova per se, soffoca tutto quello che potrebbe ispirargli il caso tuo. Ad ogni circostanza, ad ogni minuzia del tuo racconto, egli si rivolge sopra di se, e le Letteratura italiana Einaudi 132
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia considera applicandole alla sua persona. Lo vedrai commosso, crederai che senta pietà di te, ma la sente di se stesso unicamente. T’interromperà ad ogni tratto con dirti: appunto ancor io: oh per l’appunto se sapessi quello ch’io provo: questo è propriamente il caso mio. Fa al proposito l’esempio d’Achille piangente i suoi mali mentre ha Priamo a’ suoi ginocchi. Si proverà anche d’estenuare la tua miseria, il tuo bisogno, la ragionevolezza de’ tuoi desideri, per ingrandire quello che lo riguarda: Va bene, ma abbi pazienza, tu hai pure questo tal conforto: io all’opposto, e così discorrendo. In somma sarà sempre impossibile di rivolger l’interesse vivo e presente che uno ha per se, sopra i negozi altrui, (parlo anche, serbata una certa proporzione, degli uomini di cuore e d’entusiasmo) e quando l’uomo è occupato intieramente del suo dolore, (o anche della sua gioia e di qualunque passion viva) in-durlo ad interessarsi per quello d’un altro, massimamente se sia della stessa specie. Sarà sempre impossibile attaccar l’egoismo così di fronte, quando anche da lato è così difficile a spetrare. E soprattutto trattandosi di azione non isperar mai nulla da un giovane che come te si trovi disgustato della vita domestica, e come te senta il bisogno di proccurarsi i mezzi di troncarla, da un militare disgraziato come te, o che corra collo stesso impegno e colla stessa vivezza di desiderio agli onori, da un malato che sia tutto occupato ed afflitto da una malattia simile alla tua ec. ec.
Pare un assurdo, e pure è esattamente vero che tutto il reale essendo un nulla, non v’è altro di reale nè altro di sostanza al mondo che le illusioni.
[100]È cosa osservata degli antichi poeti ed artefici, massimamente greci, che solevano lasciar da pensare allo spettatore o uditore più di quello ch’esprimessero. (V.
p.86-87. di questi pensieri) E quanto alla cagione di ciò, non è altra che la loro semplicità e naturalezza, per cui Letteratura italiana Einaudi 133
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia non andavano come i moderni dietro alle minuzie della cosa, dimostrando evidentemente lo studio dello scrittore, che non parla o descrive la cosa come la natura stessa la presenta, ma va sottilizzando, notando le circostanze, sminuzzando e allungando la descrizione per desiderio di fare effetto, cosa che scuopre il proposito, distrugge la naturale disinvoltura e negligenza, manifesta l’arte e l’affettazione, ed introduce nella poesia a parlare più il poeta che la cosa. Del che v. il mio discorso sopra i romantici, e vari di questi pensieri. Ma tra gli effetti di questo costume, dico effetti e non cagioni, giacchè gli antichi non pensavano certamente a questo effetto, e non erano portati se non dalla causa che ho detto, è notabilissimo quello del rendere l’impressione della poesia o dell’arte bella, infinita, laddove quella de’ moderni è finita. Perchè descrivendo con pochi colpi, e mostrando poche parti dell’oggetto, lasciavano l’immaginazione errare nel vago e indeterminato di quelle idee fanciullesche, che nascono dall’ignoranza dell’intiero. Ed una scena campestre p.e.
dipinta dal poeta antico in pochi tratti, e senza dirò così, il suo orizzonte, destava nella fantasia quel divino ondeggiamento d’idee confuse, e brillanti di un indefinibile romanzesco, e di quella eccessivamente cara e soave stravaganza e maraviglia, che ci solea rendere estatici nella nostra fanciullezza. Dove che i moderni, determinan-do ogni oggetto, e mostrandone tutti i confini, son privi quasi affatto di questa emozione infinita, e invece non destano se non quella finita e circoscritta, che nasce dalla cognizione dell’oggetto intiero, e non ha nulla di stravagante, ma è propria dell’età matura, che è priva di quegl’inesprimibili diletti della vaga immaginazione provati nella fanciullezza.
(8. Gen. 1820.)
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia
[101]La cagione per cui gli uomini di gusto e di sentimento provano una sensazione dolorosa nel leggere p.e.
le continuazioni o le imitazioni dove si contraffanno le bellezze gli stili ec. delle opere classiche, (v. quello che dice il Foscolo della continuazione del Viaggio di Sterne) è che queste in certo modo avviliscono presso noi stessi l’idea di quelle opere, per cui ci eravamo sentiti così af-fettuosi, e verso cui proviamo una specie di tenerezza. Il vederle così imitate e spesso con poca diversità, e tuttavia in modo ridicolo, ci fa quasi dubitare della ragionevolezza della nostra ammirazione per quei grandi originali, ce la fa quasi parere un’illusione, ci dipinge come facili triviali e comuni quelle doti che ci aveano destato tanto entusiasmo, cosa acerbissima di vedersi quasi in procinto di dover rinunziare all’idolo della nostra fantasia, e rapire in certo modo, e denudare, e avvilire agli occhi nostri l’oggetto del nostro amore e della nostra venerazione ed ammirazione. Perchè in ogni sentimento dolce e sublime entra sempre l’illusione, ch’è il più acerbo dolore il vedersi togliere e svelare. Perciò quelle tali imitazioni ci sarebbero gravi quando anche gareggiassero cogli originali, togliendoci l’inganno di quell’unico e impareggiabile che forma il caro prestigio dell’amore e della maraviglia.
Nella stessa guisa che ci riesce dolorosissimo il vedere o porre in ridicolo, o travisare, o imitare gli oggetti de’ nostri sentimenti del cuore; (v. Staël Corinne liv. Penult. ch.
[6.] p. [328.] ediz. quinta di Parigi) cosa che ci fa o dubitare o certificare della loro vanità reale, e della nostra illusione, e ci strappa a quei soavi inganni che costituiscono la nostra vita: nè c’è cosa che abbia questa forza più della precisa imitazione o somiglianza di un altro oggetto che non possiamo pregiare nè amare (sia per qualche grado di inferiorità reale, di ridicolo, di travisamento ec. sia anche quando la somiglianza non abbia niente [102]o poco d’inferiore) con quello che pregiamo ed amiamo, e che occupa il cuore e l’immaginazione nostra in modo Letteratura italiana Einaudi 135
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia che ne siamo gelosissimi e paurosi, e cerchiamo in tutti i modi di custodirlo. (8. Gen. 1820.)
È pure un tristo frutto della società e dell’incivilimento umano anche quell’essere precisamente informato dell’età propria e de’ nostri cari, e quel sapere con precisione che di qui a tanti anni finirà necessariamente la mia o la loro giovinezza ec. ec. invecchierò necessariamente o invec-chieranno, morrò senza fallo o morranno, perchè la vita umana non potendosi estendere più di tanto, e sapendo formalmente la loro età o la mia io veggo chiaro che dentro un definito tempo essi o io non potremo più viver goder della giovinezza ec. ec. Facciamoci un’idea dell’ignoranza della propria età precisa ch’è naturale, e si trova ancora comunemente nelle genti di campagna, e vedremo quanto ella tolga a tutti i mali
ordinari e certi che il tempo reca alla nostra vita, mancando la previdenza sicura che determina il male e lo anticipa smisuratamente, rendendoci avvisati del quando dovranno finire indubitatamente questi e quei vantaggi della tale e tale età di cui godo ec. Tolta la quale l’idea confusa del nostro inevitabile decadimento e fine, non ha tanta forza di attristarci, nè di dileguare le illusioni che d’età in età ci consolano. Ed osserviamo quanto sia terribile in un vecchio p.e. d’80. anni, quel sapere determinatamente che dento 10. anni al più egli sarà sicuramente estinto, cosa che ravvicina la sua condizione a quella di un condannato, e toglie infinitamente a quel gran benefizio della natura d’averci nascosto l’ora precisa della nostra morte che veduta con precisione basterebbe per istupidire di spavento, e scoraggiare tutta la nostra vita.
Ci sono tre maniere di vedere le cose. L’una e la più beata, di quelli per li quali esse hanno anche più spirito che corpo, e voglio dire degli [103]uomini di genio e sensibili, ai quali non c’è cosa che non parli all’immaginazio-Letteratura italiana Einaudi 136
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ne o al cuore, e che trovano da per tutto materia di sublimarsi e di sentire e di vivere, e un rapporto continuo delle cose coll’infinito e coll’uomo, e una vita indefinibile e vaga, in somma di quelli che considerano il tutto sotto un aspetto infinito e in relazione cogli slanci dell’animo loro. L’altra e la più comune di quelli per cui le cose hanno corpo senza aver molto spirito, e voglio dire degli uomini volgari (volgari sotto il rapporto dell’immaginazione e del sentimento, e non riguardo a tutto il resto, p.e. alla scienza, alla politica ec. ec.) che senza essere sublimati da nessuna cosa, trovano però in tutte una realtà, e le considerano quali elle appariscono, e sono stimate comunemente e in natura, e secondo questo si regolano.
Questa è la maniera naturale, e la più durevolmente felice, che senza condurre a nessuna grandezza, e senza dar gran risalto al sentimento dell’esistenza, riempie però la vita, di una pienezza non sentita, ma sempre uguale e uniforme, e conduce per una strada piana e in relazione colle circostanze dalla nascita al sepolcro. La terza e la sola funesta e miserabile, e tuttavia la sola vera, di quelli per cui le cose non hanno nè spirito nè corpo, ma son tutte vane e senza sostanza, e voglio dire dei filosofi e degli uomini per lo più di sentimento che dopo l’esperienza e la lugubre cognizione delle cose, dalla prima maniera passano di salto a quest’ultima senza toccare la seconda, e trovano e sentono da per tutto il nulla e il vuoto, e la vanità delle cure umane e dei desideri e delle speranze e di tutte le illusioni inerenti alla vita per modo che senza esse non è vita. E qui voglio notare come la ragione umana di cui facciamo tanta pompa sopra gli altri animali, e nel di cui perfezionamento facciamo consistere quello dell’uomo, sia miserabile e incapace di farci non dico felici ma meno infelici, anzi di condurci alla stessa saviezza, che par tutta consistere nell’uso intero della ragione.
Perchè chi si fissasse nella considerazione e nel sentimento continuo del nulla verissimo e certissimo delle cose, in Letteratura italiana Einaudi 137
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia maniera [104]che la successone e varietà degli oggetti e dei casi non avesse forza di distorlo da questo pensiero, sarebbe pazzo assolutamente e per ciò solo, giacchè volendosi governare secondo questo incontrastabile principio ognuno vede quali sarebbero le sue operazioni. E pure è certissimo che tutto quello che noi facciamo lo facciamo in forza di una distrazione e di una dimenticanza, la quale è contraria direttamente alla ragione. E tuttavia quella sarebbe una verissima pazzia, ma la pazzia la più ragionevole della terra, anzi la sola cosa ragionevole, e la sola intera e continua saviezza, dove le altre non sono se non per intervalli. Da ciò si vede come la saviezza comunemente intesa, e che possa giovare in questa vita, sia più vicina alla natura che alla ragione, stando fra ambedue e non mai come si dice volgarmente con questa sola, e come essa ragione pura e senza mescolanza, sia fonte immediata e per sua natura di assoluta e necessaria pazzia.
Dopo che l’eroismo è sparito dal mondo, e in vece v’è entrato l’universale egoismo, amicizia vera e capace di far sacrificare l’uno amico all’altro, in persone che ancora abbiano interessi e desideri, è ben difficilissimo. E perciò quantunque si sia sempre detto che l’uguaglianza è l’una delle più certe fautrici dell’amicizia, io trovo oggidì meno verisimile l’amicizia fra due giovani che fra un giovane, e un uomo di sentimento già disingannato del mondo, e disperato della sua propria felicità. Questo non avendo più desideri forti è capace assai più di un giovane d’unirsi ad uno che ancora ne abbia, e concepire vivo ed efficace interesse per lui, formando così un’amicizia reale e solida quando l’altro abbia anima da corrispondergli. E questa circostanza mi pare anche più favorevole all’amicizia, che quella di due persone egualmente disingannate, perchè non restando desideri nè interessi in veruno, non resterebbe materia all’amicizia e questa rimarrebbe limitata alle parole e ai sentimenti, ed esclusa dall’azione. Appli-Letteratura italiana Einaudi 138
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia cate questa osservazione al caso mio col mio degno e singolare amico, e al non averne trovato altro tale, quantunque conoscessi ed amassi e fossi amato da uomini d’ingegno e di ottimo cuore.
(20. Gen. 1820.)
[105]E una delle gran cagioni del cangiamento nella natura del dolore antico messo col moderno, è il Cristianesimo, che ha solennemente dichiarata e stabilita e per così dire attivata la massima della certa infelicità e nullità della vita umana, laddove gli antichi come non doveano considerarla come cosa degna delle loro cure, se gli stessi Dei secondo la loro mitologia s’interessavano sì grandemente alle cose umane per se stesse (e non in relazione a un avvenire), erano animati dalle stesse passioni nostre, esercitavano particolarmente le nostre stesse arti (la musica, la poesia ec.), e in somma si occupavano intieramente delle stesse cose di cui noi ci occupiamo? Non è però ch’io consideri intieramente il cristianesimo come cagion prima di questo cangiamento, potendo anzi esserne stato in parte prodotto esso stesso (come opina Beniamino Constant in un articolo sui PP. della Chiesa riferito nello Spettatore) ma solamente come propagatore principale di tale rivoluzione del cuore.
Non per questo che il piacere del dolore è conforto al-l’infelicità moderna, l’ignoranza di esso piacere era difetto alla felicità antica.
Come nella speranza o in qualunque altra disposizione dell’animo nostro, il bene lontano è sempre maggiore del presente, così per l’ordinario nel timore è più terribile il male.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Per le grandi azioni che la maggior parte non possono provenire se non da illusione, non basta ordinariamente l’inganno della fantasia come sarebbe quello di un filosofo, e come sono le illusioni de’ nostri giorni tanto scarsi di grandi fatti, ma si richiede l’inganno della ragione, come presso gli antichi. E un grande esempio di questo è ciò che accade ora in Germania dove se qualcuno si sacrifica per la libertà (come quel Sand uccisore di Cotzebue) non accade come potrebbe parere, per effetto della semplice antica illusione di libertà, e d’amor patrio e grandezza di azioni, ma per le fanfaluche mistiche di cui quegli
[106]studenti tedeschi hanno piena la testa, e ingombra la ragione come apparisce dalle gazzette di questi giorni dove anche si recano le loro lettere piene di opinioni stravaganti e ridicole, che fanno dell’amor della libertà una nuova religione, tutta nuovi misteri.
(26. Marzo 1820. e v. le Gaz. di Mil. del principio di questo mese.)
Quando io era fanciullo, diceva talvolta a qualcuno de’
miei fratellini, tu mi farai da cavallo. E legatolo a una cordicella, lo venia conducendo come per la briglia e toc-candolo con una frusta. E quelli mi lasciavano fare con diletto, e non per questo erano altro che miei fratelli. Io mi ricordo spesso di questo fatto, quando io vedo un uomo (sovente di nessun pregio) servito riverentemente da questo e da quello in cento minuzie, ch’egli potrebbe farsi da se, o fare ugualmente a quelli che lo servono, e forse n’hanno più bisogno di lui, che alle volte sarà più sano e gagliardo di quanti ha dintorno. E dico fra me, nè i miei fratelli erano cavalli, ma uomini quanto me, e questi servitori sono uomini quanto il padrone e simili a lui in ogni cosa; e tuttavia quelli si lasciavano guidare benchè fossero tanto cavalli quant’era io, e questi si lasciano comandare; e tra questi e quelli non vedo nessun divario.
(26. Marzo 1820.)
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Le genti per la città dai loro letti nelle lor case in mezzo al silenzio della notte si risvegliavano e udivano con ispavento per le strade il suo orribil pianto ec.
Stile francese. Stile di conversazione. Stile ordinario de’
nostri pittori. Stile arcadico, o frugoniano.
Come potrà essere che la materia senta e si dolga e si disperi della sua propria nullità? E questo certo e profondo sentimento (massime nelle anime grandi) della vanità e insufficienza di tutte le cose che si misurano coi sensi, sentimento non di solo raziocinio, ma vero e per modo di dire sensibilissimo sentimento e dolorosissimo, come non dovrà [107]essere una prova materiale, che quella sostanza che lo concepisce e lo sperimenta, è di un’altra natura? Perchè il sentire la nullità di tutte le cose sensibili e materiali suppone essenzialmente una facoltà di sentire e comprendere oggetti di natura diversa e contraria, ora questa facoltà come potrà essere nella materia? E si noti ch’io qui non parlo di cosa che si concepisca colla ragione, perchè infatti la ragione è la facoltà più materiale che sussista in noi, e le sue operazioni materialissime e matematiche si potrebbero attribuire in qualche modo anche alla materia, ma parlo di un sentimento ingenito e proprio dell’animo nostro che ci fa sentire la nullità delle cose indipendentemente dalla ragione, e perciò presumo che questa prova faccia più forza, manifestando in parte la natura di esso animo. La natura non è materiale come la ragione.
Il riso dell’uomo sensitivo e oppresso da fiera calamità è segno di disperazione già matura. V. p.188.
Mi diedi tutto alla gioia barbara e fremebonda della disperazione.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Se noi diciamo tomba e i greci dicevano tæmbow nello stesso significato chi non vorrà credere che gli antichi latini abbian detto tumbus o tumba dal greco, onde noi tomba mutato l’u in o secondo il solito? Perchè dal greco immediatamente non è possibile che il volgare l’abbia preso, (e notate che in greco moderno si pronunzia timbos, sicchè se questa derivazione non fosse antichissima noi non diremmo tomba, ma timba) e d’altronde le due parole sono troppo somiglianti, e nello stesso valore, perchè l’una non derivi evidentemente dall’altra. V. il Du Fresne e il Forcellini sì per questa come per tutte le altre parole ch’io credo antiche e latine in questi pensieri.
(15. Apr. 1820.)
Kam�ra espressamente per cubiculum si trova in Arriano Stor. di Alessandro l.7. verso il fine. Transversare per attraversare è voce non solamente de’ bassi tempi ma antica, e sta nel Moretum. Camminare la bugia su pel naso, si diceva anche ai tempi di Teocrito. Della voce Kam�ra v. Fabric. B. G. in nota ad Phot. Cod.213. ed. vet. t.9.
p.449.
[108]Vedi come la debolezza sia cosa amabilissima a questo mondo. Se tu vedi un fanciullo che ti viene incontro con un passo traballante e con una cert’aria d’impotenza, tu ti senti intenerire da questa vista, e innamorare di quel fanciullo. Se tu vedi una bella donna inferma e fievole, o se ti abbatti ad esser testimonio a qualche sforzo inutile di qualunque donna, per la debolezza fisica del suo sesso, tu ti sentirai commuovere, e sarai capace di prostrarti innanzi a quella debolezza e riconoscerla per signora di te e della tua forza, e sottomettere e sacrificare tutto te stesso all’amore e alla difesa sua. Cagione di questo effetto è la compassione, la quale io dico che è l’unica qualità e passione umana che non abbia nessunissima Letteratura italiana Einaudi 142
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia mescolanza di amor proprio. L’unica, perchè lo stesso sacrifizio di se all’eroismo alla patria alla virtù alla persona amata, e così qualunque altra azione la più eroica e più disinteressata (e qualunque altro affetto il più puro) si fa sempre perchè la mente nostra trova più soddisfacente quel sacrifizio che qualunque guadagno in quella occasione. Ed ogni qualunque operazione dell’animo nostro ha sempre la sua certa e inevitabile origine nell’egoismo, per quanto questo sia purificato, e quella ne sembri lontana. Ma la compassione che nasce nell’animo nostro alla vista di uno che soffre è un miracolo della natura che in quel punto ci fa provare un sentimento affatto indipendente dal nostro vantaggio o piacere, e tutto relativo agli altri, senza nessuna mescolanza di noi medesimi.
E perciò appunto gli uomini compassionevoli sono sì rari, e la pietà è posta, massimamente in questi tempi, fra le qualità le più riguardevoli e distintive dell’uomo sensibile e virtuoso. [109]Se già la compassione non avesse qualche fondamento nel timore di provar noi medesimi un male simile a quello che vediamo. (Perchè l’amor proprio è sottilissimo, e s’insinua da per tutto, e si trova nascosto ne’ luoghi i più reconditi del nostro cuore, e che paiono più impenetrabili a questa passione). Ma tu vedrai, considerando bene, che c’è una compassione spontanea, del tutto indipendente da questo timore, e intieramente rivolta al misero.
Baggeo deriva altresì dal latino. V. il mio discorso sulla fama di Orazio. E il francese planer dal greco pl�nomai, onde anche in latino le stelle erranti si chiamano planetae cioè errabundi, ed è ben verisimile che la parola francese sia derivata (non essendo probabile dal greco) da planari detto forse volgarmente in latino nello stesso senso. E nota in questo proposito i due participi palans, tis, e palatus, a, um errante, segno certo di un antico verbo palari, fatto da pl�nomai colla metatesi della l (come da �rpv rapio Letteratura italiana Einaudi 143
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia da morf¯ forma) e colla conseguente elisione della n.
Buonus per bonus è in Frontone, e vedi le ortografie del Cellario e del Manuzio.
Da §rpv serpo, da �lw sal, da �llv salio e salto (ora non si trova altro che �llomai), da ²mi semi- (onde forse i francesi demi), da ìdvr sudor, benchè con altro significato.
L’ubbriachezza è madre dell’allegrezza, così il vigore.
Che segno è questo? Perchè l’ubbriachezza non cagiona la malinconia? Prima perchè questa deriva dal vero e non dal falso, e l’ubbriachezza cagiona la dimenticanza del vero, dalla quale sola può nascere l’allegrezza. Secondo, che gli uomini nello stato di natura, cioè di vigore molto maggiore del presente, eran fatti per esser felici, e abbandonarsi alle illusioni, e vederle e sentirle come cose vive e corporee e presenti.
Le parole come osserva il Beccaria (trattato dello stile) non presentano la sola idea dell’oggetto significato, ma quando più quando meno [110]immagini accessorie. Ed è pregio sommo della lingua l’aver di queste parole. Le voci scientifiche presentano la nuda e circoscritta idea di quel tale oggetto, e perciò si chiamano termini perchè determinano e definiscono la cosa da tutte le parti. Quanto più una lingua abbonda di parole, tanto più è adattata alla letteratura e alla bellezza ec. ec. e per lo contrario quanto più abbonda di termini, dico quando questa abbondanza noccia a quella delle parole, perchè l’abbondanza di tutte due le cose non fa pregiudizio. Giacchè sono cose ben diverse la proprietà delle parole e la nudità o secchezza, e se quella dà efficacia ed evidenza al discorso, questa non gli dà altro che aridità. Il pericolo grande che corre ora la lingua francese è di diventar lingua al tutto matematica e scientifica, per troppa abbondanza di termini in ogni sorta di cose, e dimenticanza delle antiche Letteratura italiana Einaudi 144
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia parole. Benchè questo la rende facile e comune, perch’è la lingua più artifiziale e geometricamente nuda ch’esista oramai. Perciò ha bisogno di grandi scrittori che appoco appoco la tornino ad assuefare allo stile e alle voci del Bossuet del Fenelon e degli altri sommi prosatori del loro buon secolo, e così nella poesia. Mad. di Staël mostra col fatto di averlo conosciuto, e il suo stile ha molto della pastosità dell’antico a confronto dell’aridità moderna e di quegli scheletri (regolari ma puri scheletri) di stile d’oggidì. Ed anche non farebbe male ad attingere alle antiche sue fonti d’Amyot e degli altri tali che usati con discrezione ridarebbero alla lingua quel sugo ch’ella oramai ha perduto anche per la monotona e soverchia regolarità della sua costruzione (che anch’essa contribuisce massimamente a renderla comune in Europa) di cui tanto si lagnava il Fenelon ed altri insigni. (V. l’Algarotti Saggio sulla lingua francese.) Adattiamo questa osservazione a cose meno materiali. [111]V. p.100. di questi pensieri. E riducendo l’osservazione al generale troveremo il suo fondamento nella natura delle cose, vedendo come la filosofia e l’uso della pura ragione che si può paragonare ai termini e alla costruzione regolare, abbia istecchito e isterilito questa povera vita, e come tutto il bello di questo mondo consista nella immaginazione che si può paragonare alle parole e alla costruzione libera varia ardita e figurata. Le voci greche (le voci non i modi) di cui s’è tanto ingombrata la lingua francese in questi tempi, non possono nelle nostre lingue esser altro che termini, con significazione nuda e circoscritta, e aria tecnica e geometrica senza grazia e senza eleganza. E quanto più ne ab-bonderemo con pregiudizio delle nostre parole, tanto più toglieremo alla grazia e alla forza nativa della nostra lingua. Perchè la forza e l’evidenza consiste nel destar l’immagine dell’oggetto, e non mica nel definirlo dialetticamente, come fanno quelle parole trasportate nella nostra lingua. Le metafore d’ogni sorta sono adattatissime Letteratura italiana Einaudi 145
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia per questa cagione alla bellezza naturale e al colorito del discorso. E la lingua italiana studiata di tanti scrittorelli d’oggidì che ancorchè sia piena di modi e parole native, riesce sì misera e dissonante, vien tale (oltre all’affettazione che si manifesta per troppo superficiale perizia del vero linguaggio italiano, e stentata ricerca di parole e frasi antiche, piuttosto che gusto e stile modellato giudiziosamente sull’antico, e ridotti in succo e sangue proprio gli antichi scrittori) perchè fa bruttissimo vedere l’aridità moderna che questi non sanno schivare, colla freschezza il colorito la morbidezza la vistosità l’embonpoint la floridezza il vigore ec. antico.
Gridare a testa o quanto se n’ha in testa è frase antichissima e greca. Manca ne’ Lessici gr. e lat. ma si trova in Arriano (ind. c. 30.): ÷son aß kefalaÜ açtoÝsn ¡xÅreon
�lal�jai quantum capita ferre poterant acclamasse interpreta il traduttore.
(30. Aprile 1820.)
[112]Quanto i greci facessero caso della bellezza, oltre alla parola kalok�gaϑòw notata già in questi pensieri, vedi un luogo singolare di un antico in Clem. Aless.
Cohort. ad gentes c.4. dopo il mezzo ediz. di Venez. t.1.
p.49. lin. ult. p.17. nel marg. lat. e p.37. nel marg. gr.
Qual è ora quel genitore che domandi a Dio quella grazia come un bene principale e suo proprio e dei figli? Intorno ai quali domanderanno piuttosto tutt’altro, sanità, ingegno, docilità, virtù, abilità nei negozi, favore dei grandi, ricchezza ec. ec. ma bellezza quando mai? Vedo che m’ha ingannato quella bestia del traduttore, il quale dice formosos liberos, e il greco t¯n eæteknÛan. Vi so dir io che la differenza è piccola da vero.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Gesù Cristo fu il primo che personificasse e col nome di mondo circoscrivesse e definisse e stabilisse l’idea del perpetuo nemico della virtù dell’innocenza dell’eroismo della sensibilità vera, d’ogni singolarità dell’animo della vita e delle azioni, della natura in somma, che è quanto dire la società, e così mettesse la moltitudine degli uomini fra i principali nemici dell’uomo, essendo pur troppo vero che come l’individuo per natura è buono e felice, così la moltitudine (e l’individuo in essa) è malvagia e infelice. (V. p.611. capoverso 1.)
La pazienza è la più eroica delle virtù giusto perchè non ha nessuna apparenza d’eroico.
Impertinente è una parola tutta latina, derivata da un verbo latino ec. però è naturale che gli antichi o volgari latini dicessero impertinens.
(31. Maggio 1820.)
La gran diversità fra il Petrarca e gli altri poeti d’amore, specialmente stranieri, per cui tu senti in lui solo quella unzione e spontaneità e unisono al tuo cuore che ti fa piangere, laddove forse niun altro in pari circostanze del Petrarca ti farà lo stesso effetto, è ch’egli versa il suo cuore, e gli altri l’anatomizzano (anche i più [113]eccellenti) ed egli lo fa parlare, e gli altri ne parlano.
La cagione di quello che dice Montesquieu (Grandeur ec. c.4. Amsterdam 1781. p.31. fine) è non solamente che nessun privato perde quanto il principe nella rovina di uno stato, ma eziandio che nessuno crede di poter cagionare quella rovina che non può impedire.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Agevole viene da agere come facile da facere, e questo agere essendo ignoto alla nostra lingua, non è verisimile che il suo derivato agevole non ci sia venuto già bello e formato dagli antichi latini che avranno detto agibilis.
A colui che occupa una nuova provincia o per armi o per trattato è molto più vantaggioso il suscitarci e il man-tenerci due fazioni, l’una favorevole e l’altra contraria al nuovo governo, di quello che averla tutta ubbidiente e sottomessa e indifferente dell’animo. Perchè la prima fazione essendo ordinariamente più forte della seconda, e perciò questa non potendo nuocere, si cavano da ciò due vantaggi. L’uno d’indebolire i paesani e renderli molto più incapaci di riunirsi insieme per intraprender nulla, di quello che se tutti fossero indifferenti, il che poi viene a dire tacitamente malcontenti. L’altro di avere un partito per se molto più energico e infervorato di quello che se non esistesse un partito contrario, perchè i principi non dovendo aspettarsi di essere amati nè favoriti dai sudditi per se stessi nè per ragione, debbono cercare di esserlo per odio degli altri, e per passione. Giacchè il contrasto eccita anche quei sentimenti che in altro caso appena si proverebbero, e quello che non si farebbe mai per affetto proprio, si fa per l’opposizione [114]altrui, come i migliori cattolici sono quelli che vivono in paese eretico, e così l’opposto, nè ci ebbe mai tanto ostinati e infocati partigiani del papa come a tempo dei Ghibellini. V.
Montesquieu l. c. ch.6. p.68. (5 Giugno 1820.) E neanche dai benefizi i principi possono aspettar tanto quanto dallo spirito di parte e dal contrasto che rende l’affare come proprio di colui che lo sostiene, laddove la gratitudine è un debito verso altrui. E l’esperienza di tutti i secoli dimostra quanta gratitudine ispirino i benefizi de’ regnanti e dei grandi. E se bene gli uomini hanno imparato a regolare i capricci e le passioni loro, queste però naturalmente possono in loro molto più dell’interesse.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia (5. Giugno 1820.)
Tanto è vero che l’anarchia conduce dirittamente al dispotismo, e che la libertà dipende da un’armonia delle parti, e da una forza costante delle leggi e delle istituzioni della repubblica, che Roma non fu mai tanto libera nel senso comune di questa parola, quanto nei tempi immediatamente precedenti la tirannia. Vedete gli affari di Clodio, e Montesquieu l. c. p.115. lin. ult. e 116. lin.1. e 5. chapit.11.
(6. Giugno 1820.)
E lo stesso si può dir della Francia passata di salto da una libertà furiosa al dispotismo di Buonaparte.
La civiltà delle nazioni consiste in un temperamento della natura colla ragione, dove quella cioè la natura abbia la maggior parte. Consideriamo tutte le nazioni antiche, la persiana a tempo di Ciro, la greca, la romana. I romani non furono mai così filosofi come quando inclinarono alla barbarie, cioè a tempo della tirannia. E
[115]parimente negli anni che la precedettero, i romani aveano fatti infiniti progressi nella filosofia e nella cognizione delle cose, ch’era nuova per loro. Dal che si deduce un altro corollario, che la salvaguardia della libertà delle nazioni non è la filosofia nè la ragione, come ora si pretende che queste debbano rigenerare le cose pubbliche, ma le virtù, le illusioni, l’entusiasmo, in somma la natura, dalla quale siamo lontanissimi. E un popolo di filosofi sarebbe il più piccolo e codardo del mondo. Perciò la nostra rigenerazione dipende da una, per così dire, ultrafilosofia, che conoscendo l’intiero e l’intimo delle cose, ci ravvicini alla natura. E questo dovrebb’essere il frutto dei lumi straordinari di questo secolo.
(7. Giugno 1820.)
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia La barbarie non consiste principalmente nel difetto della ragione ma della natura.
(7. Giugno 1820.)
Gli esercizi con cui gli antichi si procacciavano il vigore del corpo non erano solamente utili alla guerra, o ad eccitare l’amor della gloria ec. ma contribuivano, anzi erano necessari a mantenere il vigor dell’animo, il coraggio, le illusioni, l’entusiasmo che non saranno mai in un corpo debole (vedete gli altri miei pensieri) in somma quelle cose che cagionano la grandezza e l’eroismo delle nazioni. Ed è cosa già osservata che il vigor del corpo nuoce alle facoltà intellettuali, e favorisce le immaginative, e per lo contrario l’imbecillità del corpo è favorevolissima al riflettere, (7. Giugno 1820.) e chi riflette non opera, e poco immagina, e le grandi illusioni non son fatte per lui.
[116]La superiorità della natura sulla ragione si dimostra anche in questo che non si fa mai cosa con calore che si faccia per ragione e non per passione, e la stessa religion cristiana che pare ed è alienissima dalla passione, tuttavia perchè l’umano si mescola in tutto, non è stata mai seguita e difesa con vero interesse se non quando ci erano portati da spirito di parte, da entusiasmo ec. Ed anche ora i divoti fanno come un corpo, e una classe la quale s’interessa per la religione solamente per ispirito di partito, e quindi le loro malignità verso i non divoti o gl’irreligiosi, e l’astio ec. e le derisioni, tutte cose umane e passionate, e non divine nè ragionate nè fatte con posatezza e freddezza d’animo.
(7. Giugno 1820.)
Gli antichi supponevano che i morti non avessero altri pensieri che de’ negozi di questa vita, e la rimembranza de’ loro fatti gli occupasse continuamente, e s’attristassero o rallegrassero secondo che aveano goduto o patito quas-Letteratura italiana Einaudi 150
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia sù, in maniera che secondo essi, questo mondo era la patria degli uomini, e l’altra vita un esilio, al contrario de’
cristiani.
(8. Giugno 1820.) V. p.253.
Dovunque si formano le scienze o le arti o qualunque disciplina, quivi se ne creano i vocaboli. Se noi italiani non volevamo usar parole straniere nella filosofia moderna, dovevamo formarla noi. Quelle discipline che noi abbiamo formate (p.e. l’architettura) hanno i nostri vocaboli anche presso le altre nazioni.
La cagione di quello che dice Montesquieu, l. c. ch.11.
p.124. fine è che l’uomo s’offende più del disprezzo che del danno. E la cagione di questo è l’amor proprio il quale considera più noi stessi che i nostri comodi. Vero è che certe anime basse non si curano del disprezzo, e non si dolgono che [117]dei danni. La cagione è che in questi l’amor proprio essendo più basso, ha per oggetto prima i beni materiali che la stima l’onore la dignità della persona, i quali diremmo in certo modo beni spirituali. Per lo contrario ci sono ancora degli uomini superiori i quali disprezzando il disprezzo, si guardano però dai danni, perchè questi son cose reali, e il disprezzo appresso a poco ci nuoce tanto quanto noi lo stimiamo.
In quello che dice Montesquieu, l. c. ch.13. p.138. e nella nota, osservate la differenza de’ tempi e vedete l’esito de’ regicidi francesi a’ tempi nostri. La cagione è che lo spirito del tempo è, come si dice, di moderazione, vale a dire d’indolenza e noncuranza, che ora si allega come per tutta difesa la differenza delle opinioni, quando una volta due persone differenti d’opinioni in certi punti, erano lo stesso che due nemici mortali, e che ancora considerando un uomo come reo e scellerato, la virtù ora non interessa tanto come una volta, da volerlo punito a tutti i Letteratura italiana Einaudi 151
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia patti. Questa vendetta della virtù si voleva e si cercava una volta in contemplazione di essa virtù. Ora che questa si è conosciuta per un fantasma, nessuno si cura di far male agli altri, e procacciarsi odii e nimicizie che son cose reali, per la causa di un ente illusorio.
In proposito di quello che dice Montesquieu della co-dardia fortunata e propizia di Ottaviano (l. c. ch.13. p.139.
fine) considerate che se il Senato l’avesse veduto [118]coraggioso l’avrebbe creduto intraprendente. Ora chi intraprende, intraprende per se, e l’intraprendere per se in Ottaviano ch’era l’erede e il figlio adottivo di Cesare, non poteva esser altro che il cercare la monarchia. Il vederlo debole fece credere che avrebbe preso il partito dei buoni ch’è il meno pericoloso, perchè ha per se l’opinione pubblica, ed è la strada retta e ordinaria. Gli arditi per lo più son cattivi, e il partito buono è quello dei più deboli, perchè non ci vuole ardire per abbracciare il partito ov-vio e inculcato dalle leggi dalla natura e dall’opinione sociale, cioè quello della virtù, ma bensì per entrare nel partito odioso del vizio. Il fatto però sta che era già venuto anche per Roma il tempo che la politica dovea prevalere al coraggio come ora, e in tutti i tempi corrotti.
(9. Giugno 1820.)
Altro è primitivo altro è barbaro. Il barbaro è già guasto, il primitivo ancora non è maturo.
Non bisogna credere che un popolo non sia barbaro perchè non somiglia ad altri barbari (come se i maomettani non fossero barbari perchè non sono antropofagi). Vedete quante sorte di barbarie si trovano al mondo, laddove la natura è una sola. Perchè questa ha leggi immutabili e fisse, ma la corruttela varia infinitamente secondo le cagioni, e le circostanze vale a dire i costumi le opinioni i climi i caratteri nazionali ec. ec.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia (9. Giugno 1820.)
Una gran differenza tra la legge di natura e le leggi civili, è questa che la legge civile o umana si può dimenticare o per [119]distrazione o per altro, e infrangerla senza leder la coscienza, (come s’io mangio carne non ricordandomi che sia giorno di magro, o anche ricordandomene, ma per distrazione) laddove la legge naturale non ammette distrazione, e non può accadere che uno la infranga non credendo, perch’ella ci sta sempre nel cuore come un istinto che ci avverte continuamente, e il quale non è soggetto a dimenticanze.
La naturalezza dello scrivere è così comandata che posto il caso che per conservarla bisognasse mancare alla chiarezza, io considero che questa è come di legge civile, e quella come di legge naturale, la qual legge non esclude caso nessuno, e va osservata quando anche ne debba soffrire la società o l’individuo, come non è straordinario che accada.
È osservabile come i francesi mentre sono la nazione più moderna del mondo per costumi ec. abbiano tuttavia quella disposizione antica che ora tutte le nazioni civili hanno abbandonata, voglio dire il disprezzo e quasi odio degli stranieri. Il quale non può tornar loro a nessuna lode, perchè contrasta assurdamente coll’eccessivo moderno di tutte le altre loro opinioni costumi ec. Ed è tanto più ridicola, quanto nei greci finalmente era ragionevole, perchè non avendo conosciuto i romani se non tar-dissimo, (v. Montesquieu Grandeur ec. ch.5. p.48. e la nota) non c’era effettivamente altra nazione che gli uguagliasse di grandissima lunga. E quanto ai Romani è noto che non ostante il loro sommo amor patrio, furono sempre imparzialissimi [120]nel giudicare degli stranieri, anzi ebbero per istituto di adottar sempre tutte quelle novità Letteratura italiana Einaudi 153
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia forestiere che giudicavano utili, quando anche per adottar queste bisognasse lasciare o correggere le loro proprie usanze.
Nelle repubbliche le cagioni degli avvenimenti appresso a poco erano manifeste, si pubblicavano le orazioni che aveano indotto il popolo o il consiglio a venire in quella tal deliberazione, le ambascerie si eseguivano in pubblico, ec. e poi dovendosi tutto fare colla moltitudine le parole e le azioni erano palesi, ed essendoci molti di egual potere, ciascuno era intento a scoprire i motivi e i fini dell’altro e tutto si divulgava. Vedete p.e. le lettere di Cicerone che contengono quasi tutta la storia di quei tempi. Ma ora che il potere è ridotto in pochissimi, si vedono gli avvenimenti e non si sanno i motivi, e il mondo è come quelle macchine che si muovono per molle occulte, o quelle statue fatte camminare da persone nascostevi dentro. E il mondo umano è divenuto come il naturale, bisogna studiare gli avvenimenti come si studiano i fenomeni, e immaginare le forze motrici andando tastoni come i fisici. Dal che si può vedere quanto sia scemata l’utilità della storia. V. Montesquieu l.c. ch.13. fine. V. p.709.
capoverso 1.
La cagione principale di ciò che dice Montesquieu ch.14.
p.155. è che il popolo quantunque sia composto d’individui tutti animati da passioni basse, contuttociò queste essendo particolari e infinite, non si può cattivare se non per le passioni generali, cioè con quelle cose che la
[121]natura ha fatte piacevoli generalmente, amabilità, virtù, coraggio, servigi prestati, abilità negli affari, integrità, onestà, onoratezza ec. Sicchè le elezioni del popolo non possono costringere il candidato ad abbassarsi se non in piccole cose, anzi per lo contrario, ad ingrandirsi. Ma le passioni dell’individuo sono piccole e basse, e quando l’elezione dipende da lui, per cattivarselo è necessario Letteratura italiana Einaudi 154
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia coll’abbiezione dell’animo farsi indegno di qualunque onore o vantaggio, e così le dignità è naturale che tocchi-no per lo più agl’indegni. Oltre la grande spinta che dà all’ingegno all’eloquenza e a tutte le nobili facoltà il desiderio di cattivarsi la moltitudine, che ordinariamente non può giudicare se non colle regole vere, perchè queste sole sono comuni.
(10. Giugno 1820.)
Perciò i giudizi ec. del tempo, e del pubblico sono sempre giusti riguardo a qualunque oggetto.
La cagion vera secondo me di quello che dice Montesquieu loc. cit. ch.14. p.157. di uno fatto accusare da Tiberio per aver venduta colla sua casa la statua dell’imperatore, e di un altro che ec. è che il materiale e il sensibile, avea molto più forza sugli antichi, ed era molto più considerato in quei tempi d’immaginazione, che in questi nostri tutti intellettuali.
Le cagioni di quello che nota Montesquieu ch.14. fine, e se ne maraviglia, sono 1. che ciascuno è tanto infelice quanto esso crede, e i poveri e ignoranti si credono assai meno infelici di quello che fanno i ricchi e istruiti, non già che quelli non si credano molto più sventurati di questi, ma misurando e ragguagliando l’opinione [122]della propria infelicità quale ambedue la concepiscono si trova molto maggiore in questi che in quelli. 2. che di un popolo mezzo barbaro è tutto proprio il timore. 3. che per disprezzar la vita e le sventure non basta essere infelici, ma si richiede magnanimità e profondità di sentimenti, e forza d’animo, cose ignote alla plebe, altrimenti prevale il desiderio naturale e cieco della propria conservazione.
4. che la prosperità dà confidenza, ma le continue sventure primieramente in luogo di far l’uomo generoso, l’avviliscono col sentimento della propria debolezza, e gli levano il coraggio, massime se egli non è magnanimo per Letteratura italiana Einaudi 155
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia natura o per coltura; poi la trista esperienza rende l’uo-mo tremebondo a causa del nessuno sperare, e dell’aspettar sempre male. 5. finalmente che chi ha pochissimo, teme più per quel poco, perchè non è avvezzo a confida-re, nè a immaginar nessuna risorsa, avendone sempre mancato, quando sia un popolo vissuto sempre nella inazione come i moderni, e non avvezzo a continue imprese e vicissitudini di fortuna, come gli antichi romani ancorchè poveri.
La cagione che adduce Montesquieu dell’esser sovente il principio de’ cattivi regni, come il fine dei buoni, (ch.15.
p.160.) non è buona, perchè va a terra quando un cattivo principe succede a un buono. Io credo che la vera sia, prima, che il suo fine essendo di regnar male, egli fa bene nel principio per inesperienza, e male nell’ultimo, al contrario dei buoni, poi, che una certa generosità naturale
[123]nei primi momenti della prosperità e del potere è verisimile anche nei cattivi, anzi sarebbe inverisimile il contrario. Poi coll’assuefazione a quello stato si torna a riprendere il proprio carattere, interrotto da quella novità straordinaria, come avviene spessissimo nella vita.
(11. Giugno 1820.)
L’efficacia del materiale e dello straordinario anche a questi tempi si può arguire fra le mille altre cose dal fatto ultimamente accaduto di quei giovani alunni di S. Michele di Roma usciti tutti in folla e andati al palazzo pa-pale a reclamare sotto le finestre del Ministro contro gli abusi dell’amministrazione dell’ospizio. Un memoriale presentato in nome di tutti loro, sarebbe stato indizio dello stessissimo malcontento, ma non avrebbe fatto lo stesso effetto. Da questo caso si può anche argomentare quanto il complotto sia più facile nei convitti e nella milizia, dove ciascuno considerando gli altri come compagni e camerate, ci pone più confidenza.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Lo spatrio cioè il trapiantarsi d’un paese in un altro era possiamo dire ignoto agli antichi popoli civili, finchè durò la loro civiltà, segno di quanto fosse il loro amor patrio, e l’odio o disprezzo degli stranieri. Al contrario quando declinarono alla barbarie. (V. Montesquieu Grandeur ec.
ch.2. p.20. fine e ch.16. p.179. e la nota 6.) Le colonie non erano altro che ampliazioni della patria, dove ciascuno restava fra’ suoi compatriotti, colle stesse leggi, costumi ec.
[124]La cagione di quella contentezza di noi stessi che proviamo nel leggere le vite o le gesta dei grandi e virtuosi (v. Montesquieu l.c. ch.16. p.176.) è che (eccetto i malvagi di professione e di coscienza, i quali certo non provano questo effetto) l’uomo o è buono, o mezzo buono mezzo cattivo, come la maggior parte, nel qual caso ciascuno sente che l’istinto suo naturale e la sua destinazione è la virtù, e si considera appresso a poco come virtuoso. Ora quello che gli dà una grande idea della virtù e gli mostra coll’esempio a che cosa porti, e come si faccia ammirare, accresce l’idea di se stesso, ancorchè uno non vi rifletta, cioè ingrandisce l’opinione e la stima di quella qualità, che ciascuno, anche senza avvedersene distintamente, sente esser naturale in lui, e propria del suo essere. Così dico del coraggio, e dell’eroismo ec. Oltre che quell’esempio e la lode e la fama risultatane a quei grandi uomini, servendo come di sprone ad imitarli, ciascuno in quel momento perchè prova un certo desiderio benchè ordinariamente inefficace di fare altrettanto, si crede capace confusamente di farlo se si presentasse l’occasione, la quale è lontana, e in lontananza si vedono molte belle cose, e si fanno molti bei propositi. Omero farà sempre in tutti questo effetto, e un francese diceva che gli uomini gli parevano un palmo più alti quando leggeva Omero.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Per questo lato anche i cattivi sono suscettibili del detto effetto.
(12. Giugno 1820.)
[125]Per li fatti magnanimi è necessaria una persuasione che abbia la natura di passione, e una passione che abbia l’aspetto di persuasione appresso quello che la prova.
In proposito di quello ch’io dico nei miei pensieri p.112.
e nel luogo quivi citato, osservate che ora in uno stile sostenuto sarebbe vergogna il dare all’uditore un epiteto che ricordasse un pregio del corpo. Non così presso i greci, sia in ordine alla bellezza, sia alla robustezza ec. Il corpo non era in così basso luogo presso gli antichi come presso noi. Par che questo sia un vantaggio nostro, ma pur troppo le cose spirituali non hanno su di noi quella forza che hanno le materiali, ed osservatelo nella poesia ch’è la imitatrice della natura, e vedete ch’effetto facciano i poeti metafisici, rispetto agli altri poeti.
La filosofia indipendente dalla religione, in sostanza non è altro che la dottrina della scelleraggine ragionata; e dico questo non parlando cristianamente, e come l’hanno detto tutti gli apologisti della religione, ma moralmente.
Perchè tutto il bello e il buono di questo mondo essendo pure illusioni, e la virtù, la giustizia, la magnanimità ec.
essendo puri fantasmi e sostanze immaginarie, quella scienza che viene a scoprire tutte queste verità che la natura aveva nascoste sotto un profondissimo arcano, se non sostituisce in loro luogo le rivelate, per necessità viene a concludere che il vero partito in questo mondo, è l’essere un perfetto egoista, e il far sempre quello che ci torna in maggior comodo o piacere.
(16. Giugno 1820.)
Letteratura italiana Einaudi 158
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia
[126]Arriano ancorchè detto il secondo Senofonte, e vicinissimo certamente a lui nella semplicità e purità dello stile, e nella negligente varietà e irregolarità della costruzione ec. tuttavia si distingue da lui in questo ch’egli (forse come uomo vissuto lungo tempo fra i romani, forse per istudio di Tucidide, forse che la qualità ch’io dirò di Senofonte non era propria di quel tempo tanto alieno dall’antica candidezza) è più grave di Senofonte, e non ha quell’amabile familiarità e quasi affabilità di Senofonte che tratta il lettore come suo amico, e gli racconta o gli parla come se fosse presente. Così nelle orazioni storiche, Arriano va sempre un mezzo tuono più alto di Senofonte, il quale nelle stesse orazioni è piuttosto espositore della cosa che oratore.
L’impressione che produce l’annunzio improvviso di una grave sventura, non si accresce in proporzione della maggiore o minor gravità di essa. L’uomo in quel punto la considera quasi come somma, e tutto l’impeto del dolore si scarica sopra di essa, in maniera che non avrebbe potuto raddoppiarsi, se la sventura annunziatagli fosse stata del doppio maggiore, voglio dire però, se sin da principio gli fosse stata annunziata così, perchè sopravvenen-do un altro annunzio, la successione della cosa lascia luogo all’accrescimento del dolore, sebbene neanche allora l’accrescimento sarebbe in proporzione del raddoppia-mento della sventura, perchè l’anima è già esaurita e come intorpidita dal [127]dolore passato. Ieri in mezzo a una festa, due fanciulli restano oppressi da una pietra caduta da un tetto. Si sparge voce che tutti due sieno figliuoli di una stessa madre. Poi la gente si consola perchè viene in chiaro che sono di due donne. Che altro è questo se non rallegrarsi perchè il dolore si raddoppia veramente, essendo ugualmente grave in ambedue? quando in una sola appresso a poco sarebbe stato lo stesso in tutti due i casi.
E quella che tramortì all’annunzio, non avrebbe potuto Letteratura italiana Einaudi 159
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia soffrir di più se la sventura per se stessa fosse stata doppia. Prescindendo dal caso che la morte di due figli la privasse di tutta la figliuolanza, il che muterebbe la specie della disgrazia, ed è fuor del caso. E potrebbe anche darsi che quel solo figlio ch’ella perdè, fosse unico, laonde questa considerazione qui non ha luogo.
(16. Giugno 1820.)
La gloria non è una passione dell’uomo primitivo affatto e solitario, ma la prima volta che una truppa d’uomini s’unì per uccidere qualche fiera, o per qualche altro fatto dov’ebbero mestieri dell’aiuto scambievole, quegli che mostrò più valore, sentì dirsi bravo schiettamente e senza adulazione da quella gente che ancora non conoscea questo vizio. La qual parola gli piacque forte, e così egli come qualche altro spirito magnanimo che sarà stato presente, sentirono per la prima volta il desiderio della lode. E così
[128]nacque l’amor della gloria.
(18. Giugno 1820.)
La qual passione è così propria dell’uomo in società, e così naturale, che anche ora in tanta morte del mondo, e mancanza di ogni sorta di eccitamenti, nondimeno i giovani sentono il bisogno di distinguersi, e non trovando altra strada aperta come una volta, consumano le forze della loro giovanezza, e studiano tutte le arti, e gettano la salute del corpo, e si abbreviano la vita, non tanto per l’amor del piacere, quanto per esser notati e invidiati, e vantarsi di vittorie vergognose, che tuttavia il mondo ora appalude, non restando a un giovane altra maniera di far valere il suo corpo, e procacciarsene lode, che questa.
Giacchè ora pochissimo anche all’animo, ma tuttavia al-l’animo resta qualche via di gloria, ma al corpo ch’è quella parte che fa il più, e nella quale consiste per natura delle cose, il valore della massima parte degli uomini, non resta altra strada.
Letteratura italiana Einaudi 160
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia La varietà che la natura ha posta nelle cose e negl’ingegni, è tanta, che fino gli stessi filosofi, quantunque tutti cerchino la stessa verità, nondimeno a cagione dei diversissimi aspetti nei quali una stessa proposizione si presenta ai diversi ingegni, sarebbero tutti originali, se non leggessero gli altri filosofi, e non [129]osservassero le cose cogli occhi altrui. Ed è facile a scoprire che una grandissima parte delle verità dette ai nostri tempi da quegli scrittori che s’hanno per originali, ancorchè queste verità passino per nuove, non hanno altro di nuovo che l’aspetto, e sono già state esposte in altro modo. (18. Giugno 1820.).
E vedete come tutti gli scrittori non europei, come gli orientali, Confucio ec. quantunque dicano appresso a poco le stesse cose che i nostri, a ogni modo paiono originali, perchè non avendo letto i nostri filosofi europei, non hanno potuto imitarli, o seguirli e conformarcisi non volendo, come accade a tutti noi.
Dei nostri poeti d’oggidì altri non sentono e non pensano, e così scrivono, altri sentono e pensano ma non sanno dire quello che vorrebbero, e mettendosi a scrivere, per mancanza di arte, si trovano subito voti, e di tutto quello che avevano in mente, non trovano più nulla, e volendo pure scrivere si danno al fraseggiare, e all’epitetare e se la passano in luoghi comuni e così chiudono la poesia, perchè una cosa nuova da dire gli spaventa, non sapendo trovare l’espressione che le corrisponda; altri finalmente sentendo e pensando e non sapendo dir quello che vogliono, tuttavia lo vogliono dire, e questi sono ridicoli per lo stento l’affettazione la durezza l’oscurità, e la fanciullaggine della maniera, quando anche [130]i sentimenti non fossero dispregevoli.
(21. Giugno 1820.)
Letteratura italiana Einaudi 161
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia In proposito di quello che ho detto p.96. osservate come ragionevolmente gli antichi usassero la musica e la danza nei conviti, e segnatamente dopo il pranzo, come dice Omero nel primo dell’Odissea, e forse anche dove parla di Demodoco. L’uomo non è mai più disposto che in quel punto ad essere infiammato dalla musica e dalla bellezza, e da tutte le illusioni della vita.
A quello che ho detto p.128. aggiungi. Il giovane che entra nel mondo vuol diventarci qualche cosa. Questo è un desiderio comune e certo di tutti. Ma oggidì il giovane privato non ha altra strada a conseguirlo fuorchè quella che ho detto, o l’altra della letteratura che rovina parimente il corpo. Così la gloria d’oggidì è posta negli esercizi che nuocciono alla salute, in luogo che una volta era posta nei contrarii. E così per conseguenza s’infiac-chiscono sempre più le generazioni degli uomini, e questo effetto della mancanza d’illusioni esistent c nel mondo come una volta, divien cagione di questa stessa mancanza, a motivo del poco vigore secondo quello che ho detto negli altri pensieri, della necessità del vigor del corpo alle grandi illusioni dell’animo. Sono poi troppo noti gli spa-ventosi effetti della ordinaria vita giovanile d’oggidì, che a poco a poco ridurranno il mondo a uno spedale. Ma che rimedio ci trovereste? Che altra occupazione resta oggi a un giovane privato, o che altra speranza? E credete che un giovane si possa contentare di una vita inattiva,
[131]senza nessuna vista, e nessuna aspettativa fuorchè di un’eterna monotonia, e di una noia immutabile? Anticamente la vanità era considerata come propria delle donne, perchè anche nelle donne c’è lo stesso desiderio di distinguersi, e ordinariamente non ne hanno avuto altro mezzo che quello della bellezza. Quindi il loro cultus sui, il quale diceva Celso che adimi feminis non potest. Ora resta intorno alla vanità la stessa opinione, che sia propria delle donne, ma a torto, perchè è propria degli uo-Letteratura italiana Einaudi 162
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia mini quasi egualmente, essendo anche gli uomini ridotti alla condizione appresso a poco delle femmine, rispetto alla maniera di figurare nel mondo, e l’uomo vecchio per la massima parte, è divenuto inutile e spregevole, e senza vita nè piaceri nè speranze, come la donna comunemente soleva e suol divenire, che dopo aver fatto molto parlar di se, sopravvive alla sua fama invecchiando.
(22. Giugno 1820.)
Bisogna escludere dai sopraddetti, i negozianti gli agricoltori, gli artigiani, e in breve gli operai, perchè in fatti la strage del mal costume non si manifesta altro che nelle classi disoccupate.
Una conseguenza del materiale delle religioni antiche e dell’importanza che davano a questa vita, era che il sacer-dozio presso i romani fosse come un grado secolare, e presso le altre nazioni, i sacerdoti, come i Druidi presso i Galli, si mescolassero moltissimo negli affari civili, e nelle guerre e nelle paci, e combattessero ancora negli eserciti [132]per la loro patria, l’amor della quale tanto è lungi che fosse sbandito dalla religion loro, che anzi n’era uno de’ fondamenti. E così a un di presso fra gli antichi Ebrei, dove anzi il governo civile e militare era tutto fondato sopra la religione. E così dirò degli oracoli consultati per le cose pubbliche, e di tutto l’apparato delle religioni antiche, sempre ordinato ai negozi di questo mondo.
Relativamente a quello che ho detto p.80. si può considerare che la barbarie cupa ed oscura, e vilmente e stra-namente crudele de’ bassi tempi, non proveniva solamente dall’ignoranza, ma da questa mescolata alla religion cristiana. Se fosse stata una barbarie pagana, quella religione aperta, chiara, materiale, senza misteri, avrebbe dato a quella ignoranza un colore più allegro, e a quei costumi un carattere meno profondo. Male menti erano tutte pie-Letteratura italiana Einaudi 163
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ne di quel sombre, di quel misterioso, di quel lugubre, di quello spaventoso della religion cristiana massimamente guasta dalla superstizione; lo spirito del tempo era modellato sopra queste forme metafisiche e astratte; l’uomo era malvagio per natura della società, come sempre; aggiunta alla malvagità l’ignoranza la superstizione, e lo spirito cupo del tempo, il vizio prese il carattere di metafisica, cosa notabile, e ben diversa dagli antichi vizi che generalmente erano più naturali, e quantunque gravi e dannosi, tuttavia si soddisfacevano apertamente, o al più sotto un velo di politica superficialissima. E quindi [133]la barbarie prese quel carattere tenebroso, e la malvagità divenne scelleraggine profondissima.
(23. Giugno 1820.)
Aggiungete che la religion pagana come più naturale che ragionevole, avrebbe servito a conservar qualche poco di natura in quella barbarie. E la natura è un gran contrav-veleno e medicamento in ogni corruzione umana, e un gran faro in mezzo alle tenebre dell’ignoranza, quando non sia spento da una ragione corrotta, come allora.
Dice Luciano nelle Lodi della patria (t.2. p.479.): KaÜ
toçw kat� tòn t°w �podhmÛaw xrñnon lamproçw genom¡nouw µ di� xrhm�tvn kt°sin, µ di� tim°w dñjan ( vel ob honoris glriam), µ di� paideÛaw marturÛan, µ di��ndreÛaw ¦painon, ¦stin ÞdeÝn eÞw t¯n patrÛda p�ntaw ¢peigom¡nouw ( properantes), Éw oék
�n ¤n �lloiw beltÛosin ¤pideijom¡nouw t� aétÇn kal� kaÜ tosoætÄ ge m�llon §kastow speædei lab¡sϑai t°w patrÛdow, ôsÄper �n faÛnhtai
meizñnvn par� �lloiw ±jivm¡now. Questo è vero, e quando anche tu viva in una città molto maggiore della tua patria, non ostante il gran cambiamento delle opinioni antiche a questo riguardo, desidererai anche adesso, se non altro che la gloria o qualunque altro bene che tu hai acquistato sia ben noto, e faccia romore particolare nella Letteratura italiana Einaudi 164
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tua patria. Ma la cagione non è mica l’amor della patria, come stima Luciano, e come pare a prima vista. E infatti stando nella tua stessa patria, tu provi lo stesso effetto
[134]riguardo alla tua famiglia, e a’ tuoi più intimi conoscenti. La ragione è che noi desideriamo che i nostri onori o pregi siano massimamente noti a coloro che ci conoscono più intieramente, e che ne sieno testimoni quelli che sanno più per minuto le nostre qualità, i nostri mezzi, la nostra natura, i nostri costumi ec. E come non ti contenteresti di una fama anonima, cioè di esser celebrato senza che si sapesse il tuo nome, perchè quella fama, ti parrebbe piuttosto generica che tua propria, così proporzionatamente desideri ch’ella sia sulle bocche di quelli presso i quali, conoscendoti più intimamente e particolarmente, la tua stima viene ad essere più individuale e propria tua, perchè si applica a tutto te, che sei loro noto minutamente. E viene anche ciò dalla inclinazione che tutti abbiamo per li nostri simili, onde non saremmo soddisfatti di una fama acquistata appresso una specie di animali diversa dall’umana, e così venendo per gradi, poco ci cureremmo di esser famosi fra i Lapponi o gl’irocchesi, essendo ignoti ai popoli colti, e non saremmo contenti di una celebrità francese o inglese, essendo sconosciuti ai nostri italiani, e così finalmente arriveremo ai nostri propri cittadini, e anche alla nostra famiglia. Aggiungete le tante relazioni che si hanno o si sono avute colle persone più attenenti alla nostra, le emulazioni, le gare, le invidie, le contrarietà avute, le amicizie fatte ec. ec. alle quali cose tutte applichiamo il sentimento che ci cagiona la nostra gloria, o qualunque vantaggio acquistato. In somma
[135]la cagione è l’amore immediato di noi stessi, e non della nostra patria. V. p.536. capoverso 2.
Io non credo molto a quello che dice Montesquieu Dialogue de Sylla et d’Eucrate, particolarmente p.293-295. per ispiegare il carattere e le azioni di Silla. Questo è Letteratura italiana Einaudi 165
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia il solito errore di creder che gli uomini si formino da principio un piano seguito di condotta, e seguano sempre un filo di azioni, quando la nostra natura composta di cento passioni, è sempre piena d’incongruenze, secondo che questa passione o quell’altra piglia il di sopra. E anche i ragionamenti dell’uomo sono pieni di variazioni, per cui ora ci par conveniente uno scopo, ed ora un altro, o volendo arrivare allo stesso scopo, cambiamo strada del continuo. Solamente serve a mostrar l’ingegno dello scrittore il condurre tutte le azioni disparatissime di un personaggio famoso, come tante linee a uno stesso punto, e per questo capo è stimabile e ingegnoso il celebre Manuscrit venu de Sainte-Helène, attribuito alla Staël.
Io credo che Silla avesse veramente una grandissima ambizione, e questa di comandare, come tutti gli altri, poi, siccome il fantasma della gloria era ancor grande e potente nelle menti romane, stimò più ambizioso il rinunziare al comando che il ritenerlo, e così volle andare allo stesso fine per un’altra strada. Forse ancora il pensiero di farsi tiranno della patria, non era per anche maturo negli animi romani, nutriti in così smisurato amore e pregio della libertà: ma la passione di Silla, fu l’odio civile, e la ferocia [136]verso i suoi competitori, e per isfogarla, volle il supremo comando, non ostante che per se stesso non lo bramasse, e che dopo sfogata lo deponesse. Perchè il piacere della vendetta, e del calpestare i suoi nemici, e vederli intieramente oppressi domati e annientati, è un piacere anzi un’ambizione che in molti può più che quella del comando in genere. E così Silla contraddisse ai suoi principii romani e liberali, e diede un esempio fatale alla libertà, per soddisfare a una passione particolare.
(24. Giugno 1820.)
La poesia malinconica e sentimentale è un respiro dell’anima. L’oppressione del cuore, o venga da qualunque passione, o dallo scoraggiamento della vita, e dal senti-Letteratura italiana Einaudi 166
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia mento profondo della nullità delle cose, chiudendolo affatto, non lascia luogo a questo respiro. Gli altri generi di poesia molto meno sono compatibili con questo stato.
Ed io credo che le continue sventure del Tasso sieno il motivo per cui egli in merito di originalità e d’invenzione restò inferiore agli altri tre sommi poeti italiani, quando il suo animo per sentimenti, affetti, grandezza, tenerezza ec. certamente gli uguagliava se non li superava, come apparisce dalle sue lettere e da altre prose. Ma quantunque chi non ha provato la sventura non sappia nulla, è certo che l’immaginazione e anche la sensibilità malinconica non ha forza senza un’aura di prosperità, e senza un vigor d’animo che non può stare senza un crepuscolo un raggio un barlume di allegrezza.
(24. Giugno 1820.)
Oggidì le menti superiori hanno questa proprietà che sono facilissime a concepire illusioni, e facilissime e pron-tissime a perderle, (parlo anche delle piccole illusioni della
[137]giornata) a concepirle, per la molta forza dell’immaginazione a perderle, per la molta forza della ragione.
Mentre io stava disgustatissimo della vita, e privo affatto di speranza, e così desideroso della morte, che mi disperava per non poter morire, mi giunge una lettera di quel mio amico, che m’avea sempre confortato a sperare, e pregato a vivere, assicurandomi come uomo di somma intelligenza e gran fama, ch’io diverrei grande, e glorioso all’Italia, nella qual lettera mi diceva di concepir troppo bene le mie sventure, (Piacenza 18. Giugno) che se Dio mi mandava la morte l’accettassi come un bene, e ch’egli l’augurava pronta a se ed a me per l’amore che mi portava. Credereste che questa lettera invece di staccarmi maggiormente dalla vita, mi riaffezionò a quello ch’io aveva già abbandonato? E ch’io pensando alle speranze passate, e ai conforti e presagi fattimi già dal mio amico, che Letteratura italiana Einaudi 167
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ora pareva non si curasse più di vederli verificati, nè di quella grandezza che mi aveva promessa, e rivedendo a caso le mie carte e i miei studi, e ricordandomi la mia fanciullezza e i pensieri e i desideri e le belle viste e le occupazioni dell’adolescenza, mi si serrava il cuore in maniera ch’io non sapea più rinunziare alla speranza, e la morte mi spaventava? non già come morte, ma come annullatrice di tutta la bella aspettativa passata. E pure quella lettera non mi avea detto nulla ch’io non [138]mi dicessi già tuttogiorno, e conveniva nè più nè meno colla mia opinione. Io trovo le seguenti ragioni di questo effetto. 1. Che le cose che da lontano paiono tollerabili, da vicino mutano aspetto. Quella lettera e quell’augurio mi metteva come in una specie di superstizione, come se le cose si stringessero, e la morte veramente si avvicinasse, e quella che da lontano m’era parsa facilissima a sopportare, anzi la sola cosa desiderabile, da vicino mi pareva dolorosissima e formidabile. 2. Io considerava quel desiderio della morte come eroico. Sapeva bene che in fatti non mi restava altro, ma pure mi compiaceva nel pensiero della morte come in un’immaginazione. Credeva certo che i miei pochissimi amici, ma pur questi pochi, e nominatamente quel tale mi volessero pure in vita, e non consentissero alla mia disperazione e s’io morissi, ne sarebbero rimasti sorpresi e abbattuti, e avrebbero detto.
Dunque tutto è finito? Oh Dio, tante speranze, tanta grandezza d’animo, tanto ingegno senza frutto nessuno. Non gloria, non piaceri, tutto è passato, come non fosse mai stato. Ma il pensar che dovessero dire, Lode a Dio, ha finito di penare, ne godo per lui, che non gli restava altro bene: riposi in pace; questo chiudersi come spontaneo della tomba sopra di me, questa subita e intiera consolazione della mia morte ne’ miei cari, quantunque ragionevole, mi affogava, col sentimento di un mio intiero an-nullarmi. La previdenza della tua morte ne’ tuoi amici, che li consola anticipatamente, è la cosa più spaventosa Letteratura italiana Einaudi 168
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia che tu possa immaginare. [139]3. Lo stato non della mia ragione la quale vedeva il vero, ma della mia immaginazione era questo. La necessità e il vantaggio della morte ch’era reale faceva in me l’effetto di un’illusione, a cui l’immaginazione si affeziona, e il vantaggio e le speranze della vita ch’erano illusorie, stavano nel fondo del cuor mio come la realtà. Quella lettera di un tale amico, mise queste cose viceversa. Insomma questa vita è una carnificina senza l’immaginazione, e la sventura più estrema diventa anche peggiore e somiglia a un vero inferno quando sei spogliato di quell’ombra d’illusione, che la natura ci suol sempre lasciare. Se ti sopravviene una calamità senza rimedio, e in qualunque affar doloroso, il communicarti con un amico, e il sentir che questo ti conferma intieramente quello che già la tua ragione vedeva troppo chiaro, ti toglie ogni residuo di speranza, e pa-rendoti di accertarti allora della totalità e irreparabilità del tuo male, cadi nella piena disperazione.
Da queste considerazioni impara come tu debba rego-larti nel consolare una persona afflitta. Non ti mostrare incredulo al suo male, se è vero. Non la persuaderesti, e l’abbatteresti davantaggio, privandola della compassione. Ella conosce bene il suo male, e tu confessandolo con-verrai con lei. Ma nel fondo ultimo del suo cuore le resta una goccia d’illusione. I più disperati credi certo che la conservano, per benefizio costante della natura. Guarda di non seccargliela, e vogli piuttosto peccare nell’attenuare il suo male e mostrarti poco compassionevole, che nell’accertarlo di quello [140]in cui la sua immaginazione contraddice ancora alla sua ragione. Se anche egli ti esagera la sua calamità, sii certo che nell’intimo del suo cuore fa tutto l’opposto, dico nell’intimo, cioè in un fondo nascosto anche a lui. Tu devi convenire non colle sue parole ma col suo cuore, e come secondando il suo cuore tu darai una certa realtà a quell’ombra d’illusione che gli resta, così nel caso contrario tu gli porterai un colpo estre-Letteratura italiana Einaudi 169
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia mo e mortale. La solitudine e il deserto l’avrebbero consolato meglio di te, perchè avrebbe avuto con se la natura sempre intenta a felicitare o a consolare. Parlo delle calamità gravissime e reali che riducono alla disperazione della vita, e non delle leggere, nelle quali anzi si desidera di esser creduto esagerando, nè di quelle provenienti da grandi illusioni e passioni, dove l’uomo forse cerca e vuole la disperazione e fugge il conforto.
(26. Giugno 1820.)
Il dolore o la disperazione che nasce dalle grandi passioni e illusioni o da qualunque sventura della vita, non è paragonabile all’affogamento che nasce dalla certezza e dal sentimento vivo della nullità di tutte le cose, e della impossibilità di esser felice a questo mondo, e dalla immensità del vuoto che si sente nell’anima. Le sventure o d’immaginazione o reali, potranno anche indurre il desiderio della morte, o anche far morire, ma quel dolore ha più della vita, anzi, massimamente se proviene da immaginazione e passione, è pieno di vita, e quest’altro dolore ch’io dico è tutto morte; e quella [141]medesima morte prodotta immediatamente dalle sventure è cosa più viva, laddove quest’altra è più sepolcrale, senz’azione senza movimento senza calore, e quasi senza dolore, ma piuttosto con un’oppressione smisurata e un accoramento simile a quello che deriva dalla paura degli spettri nella fanciullezza o dal pensiero dell’inferno. Questa condizione dell’anima è l’effetto di somme sventure reali, e di una grand’anima piena una volta d’immaginazione e poi spo-gliatane affatto, e anche di una vita così evidentemente nulla e monotona, che renda sensibile e palpabile la vanità delle cose, perchè senza ciò la gran varietà delle illusioni che la misericordiosa natura ci mette innanzi tuttogiorno, impedisce questa fatale e sensibile evidenza.
E perciò non ostante che questa condizione dell’anima sia ragionevolissima anzi la sola ragionevole, con tutto Letteratura italiana Einaudi 170
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ciò essendo contrarissima anzi la più dirittamente contraria alla natura, non si sa se non di pochi che l’abbiano provata, come del Tasso.
La parola è un’arte imparata dagli uomini. Lo prova la varietà delle lingue. Il gesto è cosa naturale e insegnata dalla natura. Un’arte 1. non può mai uguagliar la natura, 2. per quanto sia familiare agli uomini, si danno certi momenti in cui questi non la sanno adoperare. Perciò negli accessi delle grandi passioni, 1. come la forza della natura è straordinaria, quella della parola non arriva ad esprimerla, 2. l’uomo è così occupato, che l’uso di un’arte per quanto familiarissima, [142]gli è impossibile. Ma il gesto essendo naturale, lo vedrete facilmente dar segno di quello che prova con gesti e moti spesso vivissimi, o con grida inarticolate, fremiti, muggiti ec. che non hanno che fare colla parola, e si possono considerare come gesti. Eccetto se quella passione non produrrà in lui l’immobilità che suol essere effetto delle grandi passioni ne’ primi momenti in cui egli non è buono a nessun’azione. Nei momenti successivi non essendo buono all’uso della parola cioè dell’arte, pur è capace degli atti e del movimento. Del resto lo vedrete sempre in silenzio. Il silenzio è il linguaggio di tutte le forti passioni, dell’amore (anche nei momenti dolci) dell’ira, della maraviglia, del timore ec.
(27. Giugno 1820.). V. al fine della pagina.
Nei trasporti d’amore, nella conversazione coll’amata, nei favori che ne ricevi, anche negli ultimi, tu vai piuttosto in cerca della felicità di quello che provarla, il tuo cuore agitato, sente sempre una gran mancanza, un non so che di meno di quello che sperava, un desiderio di qualche cosa anzi di molto di più. I migliori momenti dell’amore sono quelli di una quieta e dolce malinconia dove tu piangi e non sai di che, e quasi ti rassegni riposatamente a una sventura e non sai quale. In quel ri-Letteratura italiana Einaudi 171
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia poso la tua anima meno agitata, è quasi piena, e quasi gusta la felicità. (V. Montesquieu Temple de Gnide canto 5. dopo il mezzo. p.342.). Così anche nell’amore, ch’è lo stato dell’anima il più ricco di piaceri e d’illusioni, la miglior parte, la più dritta strada al piacere, e a un’ombra di felicità, è il dolore.
(27. Giugno 1820.)
Curae leves loquuntur, ingentes stupent sta per epigrafe del n.95. dello Spectator inglese, senza nome d’autore.
[143]Che vuol dire che fra tanti imitatori che si sono trovati di opere e di scrittori classici, nessuno è pervenuto ad occupare un grado di fama non dico uguale, ma neppur vicino a quello dell’imitato? Non è già verisimile che essendo più facile l’inventis addere, e il perfezionare una cosa inventata, che l’inventarla già perfetta, ed essendoci stati molti imitatori di sommo ingegno, massimamente in Italia in un tempo dove l’imitare era cosa di moda, e perciò diveniva occupazione anche dei migliori (come Sanazzaro imitator di Virgilio, il Tasso del Petrarca ec.), non si sia mai data nessun’imitazione che almeno agguagli l’opera imitata, e per conseguenza meritasse un posto compagno a quello dell’originale. Ma il fatto sta che in materia di letteratura o di arti, basta accorgersi dell’imitazione, per metter quell’opera infinitamente al di sotto del modello, e che in questo caso, come in molti altri, la fama non ha tanto riguardo al merito assoluto ed intrinseco dell’opera, quanto alla circostanza dello scrittore o dell’artefice. Laonde, o imitatori qualunque vi siate, disperate affatto di arrivare all’immortalità, quando bene le vostre copie valessero effettivamente molto più dell’originale.
Letteratura italiana Einaudi 172
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Nella carriera poetica il mio spirito ha percorso lo stesso stadio che lo spirito umano in generale. Da principio il mio forte era la fantasia, e i miei versi erano pieni d’immagini, e delle mie letture poetiche io cercava sempre di profittare riguardo alla immaginazione. Io era bensì sensibilissimo anche agli affetti, ma esprimerli in poesia non sapeva. Non aveva ancora meditato intorno alle cose, e della filosofia non avea che un barlume, e questo in grande, e con quella solita illusione che noi ci facciamo, cioè che nel mondo e nella vita ci debba esser sempre un’eccezione a favor nostro. Sono stato sempre sventurato, ma le mie sventure d’allora erano piene di vita, e mi disperavano perchè mi pareva (non veramente alla ragione, ma ad una saldissima immaginazione) che m’impedissero la felicità, della quale gli altri credea che godessero. In somma il mio stato era allora in tutto e per tutto come quello degli antichi. [144]Ben è vero che anche allora, quando le sventure mi stringevano e mi travagliavano assai, io diveniva capace anche di certi affetti in poesia, come nell’ultimo canto della Cantica. La mutazione totale in me, e il passaggio dallo stato antico al moderno, seguì si può dire dentro un anno, cioè nel 1819. dove privato dell’uso della vista, e della continua distrazione della lettura, cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai più tenebroso, cominciai ad abbandonar la speranza, a riflettere profondamente sopra le cose (in questi pensieri ho scritto in un anno il doppio quasi di quello che avea scritto in un anno e mezzo, e sopra materie appartenenti sopra tutto alla nostra natura, a differenza dei pensieri passati, quasi tutti di letteratura), a divenir filosofo di professione (di poeta ch’io era), a sentire l’infelicità certa del mondo, in luogo di conoscerla, e questo anche per uno stato di languore corporale, che tanto più mi allontanava dagli antichi e mi avvicinava ai moderni. Allora l’immaginazione in me fu sommamente infiacchita, e quantunque la facoltà dell’invenzione allora appunto crescesse in me Letteratura italiana Einaudi 173
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia grandemente, anzi quasi cominciasse, verteva però principalmente, o sopra affari di prosa, o sopra poesie sentimentali. E s’io mi metteva a far versi, le immagini mi venivano a sommo stento, anzi la fantasia era quasi dissec-cata (anche astraendo dalla poesia, cioè nella contemplazione delle belle scene naturali ec. come ora ch’io ci resto duro come una pietra); bensì quei versi traboccavano di sentimento.
(1. Luglio 1820.)
Così si può ben dire che in rigor di termini, poeti non erano se non gli antichi, e non sono ora se non i fanciulli o giovanetti, e i moderni che hanno questo nome, non sono altro che filosofi. Ed io infatti non divenni sentimentale, se non quando perduta la fantasia divenni insensibile alla natura, e tutto dedito alla ragione e al vero, in somma filosofo.
È cosa già molte volte osservata che come le Accademie scientifiche forse hanno giovato alle scienze, promosse e facilitate le [145]scoperte ec. così le letterarie hanno piuttosto pregiudicato alla letteratura. Infatti le Accademie scientifiche non hanno quasi mai seguito un sistema di filosofia, ma lasciato il campo libero al ritrovamento della verità, qualunque sistema ne dovesse esser favorito, e massimamente nelle cose naturali era difficile seguire un sistema, dovendo promuovere le scoperte che non possono derivare se non dal vero, e non si può prevedere che cosa riveleranno, e a che sistema si adatteranno. Se avessero seguito un sistema, avrebbero pregiudicato alle scienze, come le Accademie letterarie alla letteratura. Il fatto sta che questa benchè abbia le sue regole, tuttavia il porre in chiaro queste regole, e il decretarle e il farne un codice, non le ha mai giovato. Tutti i grandi poeti greci sono stati prima di Aristotele, e tutti i latini prima o contemporaneamente ad Orazio. Ma dunque non giova che Letteratura italiana Einaudi 174
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia il buon gusto sia promosso e promulgato, e costituito per norma delle opere letterarie? Certamente ci vuole il buon gusto in una nazione ma questo dev’essere negl’individui e nella nazione intiera, e non in un’adunanza cattedratica, e legislatrice, e in una dittatura. Primieramente non è facile il promuovere le opere di genio. Gli onori la gloria gli applausi i vantaggi sono mezzi efficacissimi per promuo-verle, ma non quegli onori e quella gloria che derivano dagli applausi di un’Accademia. Gli antichi greci e anche i romani avevano le loro gare pubbliche letterarie, ed Erodoto scrisse la sua storia per leggerla al popolo. Questo era ben altro stimolo che quello di una piccola società tutta di persone coltissime e istruitissime dove l’effetto non può esser mai quello che si fa nel popolo, e per piacere ai critici si scrive 1. con timore, cosa mortifera, 2. si cercano cose straordinarie, finezze, spirito, mille bagattelle. Il solo popolo ascoltatore può far nascere l’originalità la grandezza e la [146]naturalezza della composizione. In secondo luogo se il promuovere il genio non giova, se gli sproni non l’aiutano, il freno l’ammazza, intendo un freno messogli dagli altri e non dal proprio giudizio.
Se questo manca, non ci è rimedio, ma la magistratura letteraria non fa nascere le virtù letterarie, se non ci sono i buoni costumi, intendo il retto giudizio e il buon gusto.
Ma se il gusto è corrotto non gioverà il promulgarlo, il ristabilirlo ec.? Gioverà, voglio dire che le Accademie riusciranno a fare che non si scriva più male, ma non che si scriva bene. L’Arcadia fu stabilita per isbandire il seicentismo. Fu sbandito, ma lo stile Arcadico è un nome derisorio che si dà in Italia a quelle poesie che non sanno di carne nè pesce. Ora che rimedio trovereste al cattivo gusto? Ripeto quello che ho detto nel principio dei miei pensieri. Quasi tutte le nazioni colte dopo il loro secol d’oro, hanno avuto quello della corruzione, e ne sono risorte. Ma dopo questo, un numero di scrittori veramente grandi e paragonabili ai primi (dico in letteratura, non in Letteratura italiana Einaudi 175
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia fatto di pensieri, filosofia ec.), insomma un altro secol d’oro è un esempio che ancora mi resta da vedere. Negli ottimi secoli i grandi scrittori avevano modelli del buono da seguire, ma non del cattivo da fuggire. Quelli possono giovare, questi nocciono. Dico che i cattivi scrittori che si avevano, sì come non formavano classe, perchè il gusto universale era buono, si dimenticavano affatto, e si sapeva a un di presso in generale che non piacevano, piuttosto che perchè non piacevano. Certamente l’idea de’ loro vizi non era specificata, nè i difetti notati per minuto, e si vede infatti che anche sommi scrittori cadevano in difetti puerili. In somma la scienza del buono e del cattivo non era organizzata, nè sminuzzata. Il gusto naturale tenea luogo di tutto. Dopo la corruzione i letterati si rialzano tutti sbigottiti. Entrano gli scrupoli, le paure, le sottigliezze. Si pesa [147]ogni cosa, si aguzzano gli occhi, si va col piede di piombo, ogni legge ogni regola ogni idea è ben definita e circoscritta, si prevedono tutti i casi, il gusto non è più naturale ma artefatto, o lo diviene, perchè nessuno crede di potersi contentare del gusto naturale, l’arte e la critica vanno al sommo, la natura si perde (forse ella può più nel secolo guasto che nel seguente), nascono opere perfette ma non belle.
(2. Luglio 1820.)
Tutto quello, si può dire, che i moderni viaggiatori osservano e raccontano di curioso e singolare nei costumi e nelle usanze delle nazioni incivilite, non è altro che un avanzo di antiche istituzioni, massimamente se quelle particolarità spettano alle classi colte. Perchè la natura quando è più libera, come anticamente, e ora in gran parte appresso il popolo, è sempre varia. Ma certamente nel moderno non troveranno niente di singolare nè di curioso, e tutto quello che c’è da vedere negli altri paesi possono far conto di averlo veduto nel proprio senza viaggiare.
Eccetto le piccole differenze provenienti dal clima e dal Letteratura italiana Einaudi 176
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia carattere di ciaschedun popolo, i quali però vanno sempre cedendo all’impulso moderno di uguagliare ogni cosa, e certamente da per tutto, massime nelle classi colte, si ha cura di allontanare tutto quello che c’è di singolare e di proprio nei costumi della nazione, e di non distinguersi dagli altri se non per una maggior somiglianza col resto degli uomini. E in genere si può dire che la tendenza dello spirito moderno è di ridurre tutto il mondo una nazione, e tutte le nazioni una sola persona. Non c’è più vestito proprio di nessun popolo, e le mode in vece d’esser nazionali, sono europee ec.: anche la lingua oramai divien tutt’una per la gran propagazione del francese, la quale io non riprendo in quanto all’utile, ma bene in quanto al bello.
[148]Ora quell’¦row che Esiodo dice essere un dono degli Dei per promuovere il bene e l’accrescimento degli uomini, si può dire che sia tolta di mezzo fra le nazioni, e quasi anche fra gl’individui. Una volta le nazioni cercavano di superar le altre, ora cercano di somigliarle, e non sono mai così superbe come quando credono di esserci riuscite. Così gl’individui. A che scopo, a che grandezza a che incremento può portare questa bella gara? Anche l’imitare è una tendenza naturale, ma ella giova, quando ci porta a cercar la somiglianza coi grandi e cogli ottimi.
Ma chi cerca di somigliare a tutti? anzi perciò appunto sfugge di somigliare ai grandi e agli ottimi, perchè questi si distinguono dagli altri? Quando saremo tutti uguali, lascio stare che bellezza che varietà troveremo nel mondo, ma domando io che utile ce ne verrà? Massimamente alle nazioni (perchè il male è naturalmente più grande nei rapporti di nazione a nazione, che d’individuo a individuo) che stimolo resterà alle grandi cose, e che speranza di grandezza, quando il suo scopo non sia altro che l’uguagliarsi a tutte le altre? Non era questo lo scopo delle nazioni antiche. E non si creda che l’uguagliarsi nei Letteratura italiana Einaudi 177
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia costumi e nelle usanze, senza però volersi uguagliare nel potere nella ricchezza nell’industria nel commercio ec.
non debba influire sommamente anche sopra queste altre cose, influendo sullo spirito generale della nazione.
Poco dopo che Roma fu divenuta una specie di colonia greca in fatto di costumi e letteratura, divenne serva come greci.
Ma questa è una bella curiosità, che mentre le nazioni per l’esteriore vanno a divenire tutta una persona, e oramai non si distingue più uomo da uomo, ciascun uomo poi nell’interiore è divenuto una nazione, vale a dire che non hanno più interesse comune con chicchessia, non formano più corpo, non hanno più patria, e l’egoismo gli ristringe dentro il solo circolo de’ propri interessi, senza amore nè cura [149]degli altri, nè legame nè rapporto nessuno interiore col resto degli uomini. Al contrario degli antichi, che mentre le nazioni per l’esteriore erano composte di diversissimi individui, nella sostanza poi, e nell’importante, o in quel punto in cui giova l’unità della nazione, erano in fatti tutta una persona, per l’amor patrio, le virtù, le illusioni ec. che riunivano tutti gl’individui a far causa comune, e ad essere i membri di un sol corpo. E per questo capo si può dire che ora ci son tante nazioni quanti individui, bensì tutti uguali anche in questo che non hanno altro amore nè idolo che se stessi.
Ed ecco un’altra bella curiosità della filosofia moderna.
Questa signora ha trattato l’amor patrio d’illusione. Ha voluto che il mondo fosse tutta una patria, e l’amore fosse universale di tutti gli uomini: (contro natura, e non ne può derivare nessun buono effetto, nessuna grandezza ec. L’amor di corpo, e non l’amor degli uomini ha sempre cagionato le grandi azioni, anzi spessissimo a molti spiriti ristretti, la patria come corpo troppo grande non ha fatto effetto, e perciò si sono scelti altri corpi, come sette, ordini, città, provincie ec.). L’effetto è stato che in Letteratura italiana Einaudi 178
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia fatti l’amor di patria non c’è più, ma in vece che tutti gl’individui del mondo riconoscessero una patria, tutte le patrie si son divise in tante patrie quanti sono gl’individui, e la riunione universale promossa dalla egregia filosofia s’è convertita in una separazione individuale.
(3. Luglio 1820.)
Quello che ho detto qui sopra dell’amore o spirito di corpo, deriva da questo. Tutti gli affetti umani derivano dall’amor proprio conformato in diversissime guise. L’efficacia loro è tanto maggiore, quanto derivano da un amor proprio più sensibile, [150]e gli recano maggiore soddisfazione. Ora nello spirito di corpo la soddisfazione dell’amor proprio è in ragione inversa della grandezza del circolo. Gli spiriti elevati sono suscettibili di un circolo più grande, ma se questo è smisurato, la detta soddisfazione svanisce prima di arrivare alla periferia ch’è in tanta distanza dal centro, cioè l’individuo, come il suono, gli odori, i raggi luminosi si estinguono a una certa distanza dal centro della sfera.
(3. Luglio 1820.)
Quantum ad in vece di quod attinet ad, come noi diciamo quanto a, e i francesi quant à, è usato da Tacito, Agricol. cap.44. Et ipse quidem, quamquam medio in spatio integrae aetatis ereptus, QUANTUM AD
GLORIAM, longissimum aevum peregit. Esempio e significato omesso nel Forcellini e nell’Appendice.
(3. Luglio 1820.)
Quel che ho detto qui sopra non è l’ultima delle cagioni per cui il fervore del Cristianesimo s’indebolì colla dilatazione di essa religione, di quella religione istessa, che (senza però condannare l’amor della patria, dimostrato dallo stesso Cristo piangente sopra Gerusalemme) tuttavia ha per uno de’ fondamenti l’amore universale verso Letteratura italiana Einaudi 179
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tutti gli uomini. E contuttociò fintanto ch’ella fu come una setta, il zelo e l’ardore per sostenerla fu infinito ne’
suoi seguaci. Quando divenne cosa comune, non fu più riguardato come proprio quello ch’era di tutti, e lo spirito di corpo essendosi dileguato per la sua grandezza, l’individuo non ci trovò più la soddisfazione sua particolare, e il Cristianesimo illanguidì.
Aggiungete che lo spirito di corpo ci porta a proccurare i vantaggi di esso corpo, e a compiacerci di quelli che ha, perchè l’individuo che gli appartiene resta con ciò distinto e superiore agli altri che non gli appartengono. L’amor di patria, l’amor di setta, di fazione ec. vedete che è tutto fondato sopra l’ambizione, più o meno nascosta. Per gli spiriti piccoli non [151]è fatto l’amore della nazione, perchè non arrivano a desiderare nè a compiacersi di so-vrastare a persone così lontane e fuori della loro portata come sono i forestieri. L’amor poi universale, manca affatto di questo fondamento dell’ambizione, che è la gran molla che renda operoso l’amor di corpo, e perciò resta naturalmente inefficace in quasi tutti, non essendoci speranza di distinguersi dagli altri col mezzo dei vantaggi del suo corpo. E così spento quell’amore ch’è utile per le ragioni sopraddette, quest’altro non gli subentra, e se anche gli subentra resta inutile, non movendo efficacemente l’uomo a nessuna intrapresa.
(4. Luglio 1820.)
Anche nell’interiore quasi tutti gli uomini oggidì sono uguali nei principii nei costumi nel vizio nell’egoismo ec.
Sono tutti uguali e tutti separati, laddove anticamente erano tutti diversi e tutti uniti, e perciò atti alle grandi cose, alle quali noi siamo inettissimi trovandoci tutti soli.
E la stessa nostra uguaglianza è (cosa curiosa) il motivo della nostra disunione, che nasce dall’universale egoismo.
(4. Luglio 1820.)
Letteratura italiana Einaudi 180
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia L’amore universale toglie l’emulazione e la gara del suo corpo coll’altrui, la qual gara è la cagione dell’accrescimento e dei vantaggi e pregi che gl’individui cercano di proccurare alla patria, al partito ec. Gli uomini grandi sono suscettibili di una emulazione grande, come con quelli delle altre nazioni. Gli uomini piccoli al contrario non sentono emulazione se non coi cittadini de’ paesi d’intorno, con quelli delle altre famiglie, coi suoi propri cittadini ec. ec. ec.
(4. Luglio 1820.)
Al levarsi da letto, parte pel vigore riacquistato col riposo, parte per la dimenticanza dei mali avuta nel sonno, parte per una certa rinnuovazione della vita, cagionata da quella specie d’interrompimento datole, tu ti senti ordinariamente o più lieto o meno tristo, di quando ti cori-casti. Nella mia vita infelicissima l’ora meno trista è quella [152]del levarmi. Le speranze e le illusioni ripigliano per pochi momenti un certo corpo, ed io chiamo quell’ora la gioventù della giornata per questa similitudine che ha colla gioventù della vita. E anche riguardo alla stessa giornata, si suol sempre sperare di passarla meglio della precedente. E la sera che ti trovi fallito di questa speranza e disingannato, si può chiamare la vecchiezza della giornata.
(4. Luglio 1820.). V. p.193. capoverso 1.
L’ubbriachezza mette in fervore tutte le passioni, e rende l’uomo facile a tutte, all’ira, alla sensualità ec. massime alle dominanti in ciascheduno. Così proporzionatamente il vigore del corpo. È famoso quello di S. Paolo, castigo corpus meum et in servitutem redigo. In fatti in un corpo debole non ha forza nessuna passione.
Letteratura italiana Einaudi 181
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Altro è la forza altro la fecondità dell’immaginazione e l’una può stare senza l’altra. Forte era l’immaginazione di Omero e di Dante, feconda quella di Ovidio e dell’Ariosto. Cosa che bisogna ben distinguere quando si sente lodare un poeta o chicchessia per l’immaginazione.
Quella facilmente rende l’uomo infelice per la profondità delle sensazioni, questa al contrario lo rallegra colla varietà e colla facilità di fermarsi sopra tutti gli oggetti e di abbandonarli, e conseguentemente colla copia delle distrazioni. E ne seguono diversissimi caratteri. Il primo grave, passionato, ordinariamente (ai nostri tempi) malinconico, profondo nel sentimento e nelle passioni, e tutto proprio a soffrir grandemente della vita. L’altro scherzevole, leggiero, vagabondo, incostante nell’amore, bello spirito, incapace di forti e durevoli passioni e dolori d’animo, facile a consolarsi anche nelle più grandi sventure ec. Riconoscete in questi due caratteri i verissimi ritratti di Dante e di Ovidio, e vedete come la differenza della loro poesia [153]corrisponda appuntino alla differenza della vita. Osservate ancora in che diverso modo Dante ed Ovidio sentissero e portassero il loro esilio. Così una stessa facoltà dell’animo umano è madre di effetti contrarii, secondo le sue qualità che quasi la distinguono in due facoltà diverse. L’immaginazione profonda non credo che sia molto adattata al coraggio, rappresentando al vivo il pericolo, il dolore, ec. e tanto più al vivo della riflessione, quanto questa racconta e quella dipinge. E io credo che l’immaginazione degli uomini valorosi (che non debbono esserne privi, perchè l’entusiasmo è sempre compagno dell’immaginazione e deriva da lei) appartenga più all’altro genere.
(5. Luglio 1820.)
Tutti più o meno parlano e gestiscono da se soli, ma principalmente gli uomini di grande immaginazione, sempre facili a considerar l’immaginato come presente. Così Letteratura italiana Einaudi 182
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia l’Alfieri nei pareri sulle sue tragedie, racconta di questo suo costume, massime nei punti di passione o di calore. Il qual costume è proprio più che mai de’ fanciulli, dove l’immaginazione può molto più che negli uomini.
(5. Luglio 1820.)
Io stimo che molte parole antiche che si credono di diversissima origine, non sieno derivate da altro che da antichissimo errore di scrittura, che le ha diversificate, mentre erano una sola. Mi porta a crederlo la somiglianza materiale delle lettere o sia dei caratteri, e l’uniformità del significato. Per esempio dasç vuol dire lo stesso che l�sion, e il l�mbda L e il d¡lta D sono due caratteri somigliantissimi, e facilissimi a esser confusi nelle scritture. Io non posso pensare che queste due parole di uno stessissimo significato, e uguali eccetto nella terminazione che non fa caso, e nella prima lettera di cui si disputa, non abbiano che far niente fra loro. E credo che si potrebbero addurre molti altri esempi simili sì greci come latini, dove la mutazione di una lettera o due, [154]con altre compagne nella figura, ha tolto ai grammatici il sospetto della loro unicità nell’origine.
(5. Luglio 1820.)
Da quello che dice Montesquieu Essai sur le Goût. Des plaisirs de l’ame. p.369-370. deducete che le regole della letteratura e belle arti non possono affatto essere universali, e adattate a ciascheduno. Bensì è vero che la maniera di essere di un uomo nelle cose principali e sostanziali è comune a tutti, e perciò le regole capitali delle lettere e arti belle, sono universali. Ma alcune piccole o mediocri differenze sussistono tra popolo e popolo tra individuo e individuo, e massimamente fra secolo e secolo. Se tutti gli uomini fossero di vista corta, come sono molti l’architettura in molte sue parti sarebbe difettosa, e converrebbe riformarla. Così al contrario. Intanto ella è difettosa Letteratura italiana Einaudi 183
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia veramente rispetto a quei tali. Gli orientali aveano ed hanno più rapidità, vivacità, fecondia ec. di spirito che gli europei. Perciò quella soprabbondanza che notiamo nelle loro poesie ec. se sarebbe difetto tra noi, poteva non esserlo, o esser minore appresso un popolo più capace per sua natura di seguire e di comprendere coll’animo suo quella maniera del poeta. Lo stesso dite dell’oscurità, del metaforico eccessivo per noi, delle sottigliezze, delle troppe minuzie, dell’ampolloso ec. ec. E questa distinzione fatela anche tra i popoli europei, e non condannate una letteratura perchè è diversa da un’altra stimata classica. Il tipo o la forma del bello non esiste, e non è altro che l’idea della convenienza. Era un sogno di Platone che le idee delle cose esistessero innanzi a queste, in maniera che queste non potessero esistere altrimenti (v. Montesq.
ivi. capo 1. p.366.) quando la loro maniera di esistere è affatto arbitraria e dipendente dal creatore, come dice Montesquieu e non ha nessuna ragione per esser piuttosto così che in un altro modo, se non la volontà di chi le ha fatte. E chi sa che non esista un altro, o più, o infiniti altri sistemi di cose così diversi dal nostro che noi non li possiamo neppur concepire? [155]Ma noi che abbiamo rigettato il sogno di Platone conserviamo quello di un tipo immaginario del bello. (V. il discorso di G. Bossi nella B. Italiana). Ora l’idea della convenienza essendo universale, ma dipendendo dalle opinioni caratteri costumi ec. il giudizio e il discernimento di quali cose convengano insieme, ne deriva che la letteratura e le arti, quantunque pel motivo sopraddetto siano soggette a regole universali nella sostanza principale, tuttavia in molti particolari debbano cangiare infinitamente secondo non solamente le diverse nature, ma anche le diverse qualità mutabili, vale a dire opinioni, gusti, costumi ec. degli uomini, che danno loro diverse idee della convenienza relativa.
Letteratura italiana Einaudi 184
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia E similmente osservate quanto sia vano il pensare così assolutamente che la musica perchè diletta sommamente l’uomo debba fare effetto sulle bestie. Distinguete suono (sotto questo nome intendo ora anche il canto) e armonia. Il suono è la materia della musica, come i colori della pittura, i marmi della scoltura ec. L’effetto naturale e generico della musica in noi, non deriva dall’armonia ma dal suono, il quale ci elettrizza e scuote al primo tocco quando anche sia monotono. Questo è quello che la musica ha di speciale sopra le altre arti, sebbene anche un color bello e vivo ci fa effetto, ma molto minore. Questi sono effetti e influssi naturali, e non bellezza. L’armonia modifica l’effetto del suono, e in questo (che solo appartiene all’arte) la musica non si distingue dalle altre arti, giacchè i pregi dell’armonia consistono nella imitazione della natura quando esprimono qualche cosa, e in seguire quell’idea della convenienza dei suoni ch’è arbitraria e diversa in diverse nazioni. Ora il suono non è difficile che faccia effetto anche nelle bestie, ma non è necessario, e massimamente quegli stessi suoni che fanno effetto nell’uomo (quando vediamo anche tra gli uomini che certe nazioni si dilettano di suoni tutti diversi da’ nostri, e per noi insopportabili). [156]I loro organi, e indipendentemente da questi, la loro maniera d’essere è differente dalla nostra, e non possiamo sapere qual sia l’effetto di questa differenza. Tuttavia se questa non sarà molto grande, o almeno avrà qualche rapporto con noi in questo punto, il suono farà colpo in quei tali animali, come leggiamo dei delfini e dei serpenti (V. Chateaubriand). Ma l’armonia è bellezza. La bellezza non è assoluta, dipendendo dalle idee che ciascuno si forma della convenienza di una cosa con un’altra, laonde se l’astratto dell’armonia può esser concepito dalle bestie, non perciò per loro sarà armonia e bellezza quello ch’è per noi. E così non è la musica come arte ma la sua materia cioè il suono che farà effetto in certe bestie. E infatti come vogliamo prentendere Letteratura italiana Einaudi 185
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia che le bestie gustino la nostra armonia, se tanti uomini si trovano che non la gustano? Parlo di molti individui che sono tra noi, e parlo di nazioni, come dei turchi che hanno una musica che a noi par dissonantissima e disarmonica. Eccetto il caso che qualche animale si trovasse in disposizione così somigliante alla nostra, che nella musica potesse sentire se non tutta almeno in parte l’armonia che noi ci sentiamo, vale a dire giudicare armonico quello che noi giudichiamo. Il quale effetto è più difficile assai dell’altro sopraddetto del suono, tuttavia non è affatto inverisimile.
(6. Luglio 1820.)
Con questa distinzione di suono e armonia, l’uno cagione di effetto naturale e indipendente dall’arte e generale nell’uomo, (effetto arbitrario della natura, e non già necessario astrattamente) l’altra di effetto naturale in astratto, ma dipendente dall’arte in concreto, compren-derete perchè le bestie essendo talvolta influite dalla musica, non lo sieno dalle altre arti. Ed è perchè la materia della musica, è così efficace nell’uomo e così generalmente e per natura, che non è maraviglia se la sua forza si estende anche ad altri animali forse più analoghi degli altri all’uomo per questa parte della loro natura. Ma non così la materia delle altre arti, eccetto i colori, i quali
[157]come fanno effetto naturale nell’uomo, così per legge di analogia (che va ammessa non perchè fosse necessario alla natura di osservarla, ma perchè la vediamo osservata) congetturo che possano dar qualche diletto anche alle bestie, e forse se ne avrebbero delle prove. Del resto nelle altre arti le bestie non essendo influite dalla materia che nella musica ha influsso naturale e indipendente dall’ar-te, non possono essere influite dall’arte stessa, non avendo la stessa idea della bellezza che abbiamo noi, e che è tanto diversa anche tra noi. E quanto all’imitazione del vero che in noi cagiona una maraviglia naturale, Letteratura italiana Einaudi 186
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia potrebb’essere che la producesse anche in loro senza che noi ce ne accorgessimo, e potrebb’essere che non la ca-pissero, ma prendessero gli oggetti imitati per veri, o finalmente (che dev’essere il più ordinario) si formassero di quegli oggetti d’arte un’idea confusa tra l’oggetto vero, e un altro che lo somigli, non potendo sapere quelle cose che sappiamo noi intorno all’artefice, e alla maniera e alla difficoltà d’imitare in quel modo ec. ec. cose tutte che producono la maraviglia. E infatti vedrete in molti barbari che le belle imitazioni delle nostre arti in vece di destare maggior maraviglia, appena li commuovono.
Del rimanente anche intorno alla bellezza e a qualunque altra cosa appartenente alle arti, bisogna sempre ricordarsi della differente maniera di esistere, differente capacità di comprendere, di rapportare, di esser commossi ec. e così regolarsi nell’istituire il paragone tra l’uomo e gli altri animali, e anche tra un uomo e un altr’uomo, non riputando necessario e assoluto e perciò universale quello ch’è arbitrario e relativo o nell’uomo o in qualunque animale, e perciò può non trovarsi o trovarsi differentemente negli altri.
Il piacere che ci dà il suono non va sotto la categoria del bello, ma è come quello del gusto dell’odorato ec. La natura ha dato i suoi piaceri a tutti i sensi. Ma la particolarità del suono è di produrre per se stesso un effetto più spirituale [158]dei cibi dei colori degli oggetti tastabili ec. E tuttavia osservate che gli odori, in grado bensì molto più piccolo, ma pure hanno una simile proprietà, ri-svegliando l’immaginazione ec. Laonde quello stesso spirituale del suono è un effetto fisico di quella sensazione de’ nostri organi, e infatti non ha bisogno dell’attenzione dell’anima, perchè il suono immediatamente la tira a se, e la commozione vien tutta da lui, quando anche l’anima appena ci avverta. Laddove la bellezza o naturale o artifiziale non fa effetto se l’anima non si mette in una Letteratura italiana Einaudi 187
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia certa disposizione da riceverlo, e perciò il piacere che dà, si riconosce per intellettuale. Ed ecco la principal cagione dell’essere l’effetto della musica immediato, a differenza delle altre arti, e v. questi pens. p.79.
Osservate come non si legga ch’io sappia di nessun effetto prodotto nelle bestie dal canto. (In verità anticamente si diceva, excantare, ora incantare i serpenti, e Frigidus in pratis CANTANDO rumpitur anguis dice Virgilio, ma son favole che non hanno esperienze moderne a favore. D’Arione si legge che innamorò i delfini col suono. Chateaubriand racconta di quel serpente ammansato dal suono ec. ec. Del resto i poeti dicevano favolosamente che le bestie si fermassero a udire il canto di questo o di quello). La ragione è perchè questo è cosa più umana del suono, e perciò di un effetto più relativo, come anche la differenza dei suoni cagiona diversi effetti secondo la natura degli organi dove opera. Così nè più nè meno i diversi odori, i diversi sapori, i diversi colori de’ quali l’uno diletterà principalmente questa persona, e l’altro quest’altra. Il canto umano fa effetto grande nell’uomo.
Al contrario quello degli uccelli non molto. Grandissimo però dev’essere il diletto che cagiona negli uccelli, giacchè si vede che questi cantano per diletto, [159]e che la loro voce non è diretta ad altro fine come quella degli altri animali. (eccetto le cicale i grilli e altri tali che nel continuo uso della loro voce non par che possano avere altro fine che il diletto) Ed io sono persuaso che il canto degli uccelli li diletti non solo come canto, ma come contenen-te bellezza, cioè armonia, che noi non possiamo sentire non avendo la stessa idea della convenienza de’ tuoni.
(7. Luglio 1820.)
Osservate ancora un finissimo magistero della natura.
Gli uccelli ha voluto che fossero per natura loro i cantori della terra e come ha posto i fiori per diletto dell’odora-Letteratura italiana Einaudi 188
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia to, così gli uccelli per diletto dell’udito. Ora perchè la loro voce fosse bene intesa, che cosa ha fatto? Gli ha resi volatili, acciocchè il loro canto venendo dall’alto, si spar-gesse molto in largo. Questa combinazione del volo e del canto non è certamente accidentale. E perciò la voce degli uccelli reca a noi più diletto che quella degli altri animali (fuorchè l’uomo) perchè era espressamente ordinata al diletto dell’udito. E credo che ne rechi anche più agli altri animali che sono in uno stato naturale, e forse perciò più capaci di trovarci o tutta o in parte quell’armonia che ci trovano gli stessi uccelli, e che noi non ci troviamo, perchè allontanandoci dalla natura, abbiamo perduto certe idee primitive intorno alla convenienza, non assolute e necessarie, ma tuttavia dateci forse arbitraria-mente dalla natura. Io credo che i selvaggi trovino il canto degli uccelli molto più dolce, e mi pare che si potrebbe provar lo stesso degli antichi, i quali è noto che sentivano maggior diletto di noi nel canto delle cicale ec. delle quali pure e simili si può notare che cantano sopra gli alberi.
Da tutte le cose dette nei pensieri qui sopra, inferite che le nostre cognizioni intorno alla natura o dell’uomo o delle cose, e le nostre deduzioni, raziocini, e conclusioni, per la maggior parte non sono assolute ma relative,
[160]cioè sono vere in quanto alla maniera di essere delle cose esistenti, e da noi conosciute per tali, ma era in arbitrio della natura che fossero altrimenti. E intendo anche della maggior parte degli assiomi astratti, pochi de’ quali sono veramente assoluti e necessari in qualunque sistema di cose possibili (benchè paiano), eccetto forse in matematica. E apprendiamo a formarci della possibilità un’idea più estesa della comune, e della necessità e verità un’idea più limitata assai. Vedete in questo proposito il fine del primo Libro del Zanotti sopra le forze che chiamano vive.
Letteratura italiana Einaudi 189
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Applicate le cose dette nel pensiero che incomincia Anche la stessa negligenza ec. (p.50.) alle produzioni francesi riputate da quella nazione, modelli di semplicità naïveté ec. p.e. al Tempio di Gnido di Montesquieu, sebbene in questo il male deriva piuttosto dal contrasto della semplicità delle cose col ricercato e manierato dello stile.
La rivoluzione Francese posto che fosse preparata dalla filosofia, non fu eseguita da lei, perchè la filosofia specialmente moderna, non è capace per se medesima di operar nulla. E quando anche la filosofia fosse buona ad eseguire essa stessa una rivoluzione, non potrebbe man-tenerla. È veramente compassionevole il vedere come quei legislatori francesi repubblicani, credevano di conservare, e assicurar la durata, e seguir l’andamento la natura e lo scopo della rivoluzione, col ridur tutto alla pura ragione, e pretendere per la prima volta ab orbe condito di geometrizzare tutta la vita. Cosa non solamente lagrimevole in tutti i casi se riuscisse, e perciò stolta a desiderare, ma impossibile a riuscire anche in questi tempi matematici, perchè dirittamente contraria alla natura dell’uomo e del mondo. Le Comité d’instruction publique réçut ordre de présenter un projet tendant à substituer un culte raisonnable au culte catholique! (Lady Morgan, France [161]l.8. 3me édit. française, Paris 1818. t.2. p.284.
note de l’auteur) E non vedevano che l’imperio della pura ragione è quello del dispotismo per mille capi, ma eccone sommariamente uno. La pura ragione dissipa le illusioni e conduce per mano l’egoismo. L’egoismo spoglio d’illusioni, estingue lo spirito nazionale, la virtù ec. e divide le nazioni per teste, vale a dire in tante parti quanti sono gl’individui. Divide et impera. Questa divisione della moltitudine, massimamente di questa natura, e prodotta da questa cagione, è piuttosto gemella che madre della servitù. Qual altra è la cagione sostanziale della universa-Letteratura italiana Einaudi 190
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia le e durevole servitù presente a differenza de’ tempi antichi? Vedete che cosa avvenne ai Romani quando s’introdusse fra loro la filosofia e l’egoismo, in luogo del patriotismo. Il qual egoismo è così forte che dopo la morte di Cesare, quando parea naturalissimo, che le antiche idee si risvegliassero ne’ romani, fa pietà il vederli così torpidi, così indifferenti, così tartarughe, così marmorei verso le cose pubbliche. E Cicerone nelle filippiche il cui grande scopo era di render utile la morte di Cesare, vedete se predica la ragione, e la filosofia, o non piuttosto le pure illusioni, e quelle gran vanità che aveano creata e conservata la grandezza romana. (8. Luglio 1820.). V.
p.357. capoverso 1.
In proposito di quello che ho detto p.145. osservate come infatti l’eloquenza vera non abbia fiorito mai se non quando ha avuto il popolo per uditore. Intendo un popolo padrone di se, e non servo, un popolo vivo e non un popolo morto, sia per la sua condizione in genere, sia in quella tal congiuntura, come alle nostre prediche il popolo non è vivo, non ha azione ec. ec. Oltre che il soggetto delle prediche non ha il movimento, l’azione, la vita necessarie alla grande eloquenza, e perciò quella del per-gamo, quando anche sia somma e perfetta, è tutt’altra eloquenza che l’antica, e forma [162]un genere a parte. Del resto appena le repubbliche e la libertà si sono spente, le assemblee, le società, i tribunali, le corti, non hanno mai sentito la vera eloquenza, non essendo uditorii capaci di suscitarla. E questo probabilmente è uno de’ motivi per cui la repubblica di Venezia non ha avuto mai eloquenza, perch’era una repubblica aristocratica e non democrati-ca. Vedete quello che dice Cicerone nell’oraz. pro Deiotaro capo 2.
Letteratura italiana Einaudi 191
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Racconta Diogene Laerzio di Chilone Lacedemonio il quale interrogato in che differissero i dotti dagl’indotti, rispose: nelle buone speranze (¤lpÛsin �gaϑaÝw). Io non so dire se avesse riguardo alle cose di questo mondo o di una vita avvenire. Certamente rispetto a quelle, oggidì avviene appunto il contrario. In che differisce l’ignorante dal savio? Nella speranza.
Lo scopo dell’incivilimento moderno doveva essere di ricondurci appresso a poco alla civiltà antica offuscata ed estinta dalla barbarie dei tempi di mezzo. Ma quanto più considereremo l’antica civiltà, e la paragoneremo alla presente, tanto più dovremo convenire ch’ella era quasi nel giusto punto, e in quel mezzo tra i due eccessi, il quale solo poteva proccurare all’uomo in società una certa felicità. La barbarie de’ tempi bassi non era una rozzezza primitiva, ma una corruzione del buono, perciò dannosissima e funestissima. Lo scopo dell’incivilimento dovea esser di togliere la ruggine alla spada già bella, o accre-scergli solamente un poco di lustro. Ma siamo andati tanto oltre volendola raffinare e aguzzare che siamo presso a romperla. E osservate che l’incivilimento ha conservato in grandissima parte il cattivo dei tempi bassi, ch’essendo proprio loro, era più moderno, e tolto tutto quello che restava [163]loro di buono dall’antico per la maggior vicinanza (del quale antico in tutto e per tutto abbiam fatto strage), come l’esistenza e un certo vigore del popolo, e dell’individuo, uno spirito nazionale, gli esercizi del corpo, un’originalità e varietà di caratteri costumi usanze ec. L’incivilimento ha mitigato la tirannide de’ bassi tempi, ma l’ha resa eterna, laddove allora non durava, tanto a cagione dell’eccesso, quanto per li motivi detti qui sopra.
Spegnendo le commozioni e le turbolenze civili, in luogo di frenarle com’era scopo degli antichi (Montesquieu ripete sempre che le divisioni sono necessarie alla conservazione delle repubbliche, e ad impedire lo squilibrio dei Letteratura italiana Einaudi 192
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia poteri, ec. e nelle repubbliche ben ordinate non sono contrarie all’ordine, perchè questo risulta dall’armonia e non dalla quiete e immobilità delle parti, nè dalla gravitazione smoderata e oppressiva delle une sulle altre, e che per regola generale, dove tutto è tranquillo non c’è libertà), non ha assicurato l’ordine ma la perpetuità tranquillità e immutabilità del disordine, e la nullità della vita umana. In somma la civiltà moderna ci ha portati al lato opposto dell’antica, e non si può comprendere come due cose opposte debbano esser tutt’uno, vale a dire civiltà tutt’e due. Non si tratta di piccole differenze, si tratta di contrarietà sostanziali: o gli antichi non erano civili, o noi non lo siamo.
(10. Luglio 1820.)
Io riguardo l’indebolimento corporale delle generazioni umane, come l’una delle principali cause del gran cangiamento del mondo e dell’animo e cuore umano dall’antico al moderno. Così anche della barbarie de’ secoli di mezzo, stante la depravazione de’ costumi sotto i primi imperatori e in seguito, la quale è certa cagione d’infiacchimento corporale, come [164]appresso i Persiani divenuti fiacchissimi (e perciò barbari e privi di libertà) per la depravazione degli antichi costumi e istituti che li rendevano vigorosissimi. V. la Ciroped. cap. ult.
art.5. e segg. sino al fine.
In proposito di quello che ho detto p.108. notate come ci muova a compassione e c’intenerisca il veder qualunque persona che nell’atto di provare un dispiacere, una sventura, un dolore ec. dà segno della propria debolezza, e impotenza di liberarsene. Come anche il veder maltrat-tare anche leggermente una persona che non possa resistere.
(11. Luglio 1820.)
Letteratura italiana Einaudi 193
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Il racconto è uffizio della parola, la descrizione del disegno (eseguito in qualunque modo). Quindi non è maraviglia che quello sia più facile di questa al parlatore.
E questa è una delle primarie cagioni per cui era falso ed assurdo quel genere di poesia poco fa tanto in pregio e in uso appresso gli stranieri massimamente, che chiamavano descrittiva. Perchè quantunque il poeta o lo scrittore possa bene assumere anche l’uffizio di descrivere, è da stolto il farne professione, non essendo uffizio proprio della poesia, e quindi non è possibile che non ne risulti affettazione e ricercatezza, e stento, volendolo fare per istituto e per argomento, lasciando stare la noia che deve nascere dalla lettura di una poesia tutta diretta a un uffizio proprio di un’altra arte, e perciò e inferiore a questa, malgrado qualunque studio, e stentata, e tediosa per la continuazione di una cosa che non appartenendole non può esser troppo lunga, al contrario di quelle che le appartengono, nelle quali nessuno biasima che [la] poesia si ravvolga tutta intera.
(12. Luglio 1820.)
[165]Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempierci l’animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e più materiale che spirituale. L’anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benchè sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt’uno col piacere.
Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perch’è ingenita o congenita coll’esistenza, e perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita. E non ha limiti 1. nè per durata, 2. nè per estensione. Quindi non ci può essere nessun piacere che uguagli 1. nè la sua durata, perchè nessun piacere è eterno, 2. nè la sua estensione, perchè Letteratura italiana Einaudi 194
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia nessun piacere è immenso, ma la natura delle cose porta che tutto esista limitatamente e tutto abbia confini, e sia circoscritto. Il detto desiderio del piacere non ha limiti per durata, perchè, come ho detto non finisce se non coll’esistenza, e quindi l’uomo non esisterebbe se non provasse questo desiderio. Non ha limiti per estensione perch’è sostanziale in noi, non come desiderio di uno o più piaceri, ma come desiderio del piacere. Ora una tal natura porta con se materialmente l’infinità, perchè ogni piacere è circoscritto, ma non il piacere la cui estensione è indeterminata, e l’anima amando sostanzialmente il piacere, abbraccia tutta l’estensione immaginabile di questo sentimento, senza poterla neppur concepire, perchè non si può formare idea chiara di una cosa ch’ella desidera illimitata. Veniamo alle conseguenze. Se tu desideri un cavallo, ti pare di desiderarlo come cavallo, e come un tal piacere, ma in fatti lo desideri come piacere astratto e illimitato. Quando giungi a possedere il cavallo, [166]trovi un piacere necessariamente circoscritto, e senti un vuoto nell’anima, perchè quel desiderio che tu avevi effettivamente, non resta pago. Se anche fosse possibile che restasse pago per estensione, non potrebbe per durata, perchè la natura delle cose porta ancora che niente sia eterno. E posto che quella material cagione che ti ha dato un tal piacere una volta, ti resti sempre (p.e. tu hai desiderato la ricchezza, l’hai ottenuta, e per sempre), resterebbe materialmente, ma non più come cagione neppure di un tal piacere, perchè questa è un’altra proprietà delle cose, che tutto si logori, e tutte le impressioni appoco a poco svaniscano, e che l’assuefazione, come toglie il dolore, così spenga il piacere. Aggiungete che quando anche un piacere provato una volta ti durasse tutta la vita, non perciò l’animo sarebbe pago, perchè il suo desiderio è anche infinito per estensione, così che quel tal piacere quando uguagliasse la durata di questo desiderio, non potendo uguagliarne l’estensione, il desiderio resterebbe Letteratura italiana Einaudi 195
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia sempre, o di piaceri sempre nuovi, come accade in fatti, o di un piacere che riempiesse tutta l’anima. Quindi potrete facilmente concepire come il piacere sia cosa vanissima sempre, del che ci facciamo tanta maraviglia, come se ciò venisse da una sua natura particolare, quando il dolore la noia ec. non hanno questa qualità. Il fatto è che quando l’anima desidera una cosa piacevole, desidera la soddisfazione di un suo desiderio infinito, desidera veramente il piacere, e non un tal piacere; ora nel fatto trovando un piacere particolare, e non astratto, e che com-prenda tutta l’estensione del piacere, ne segue che il suo desiderio non essendo soddisfatto di gran lunga, il piacere appena è piacere, perchè non si tratta di una piccola ma di una somma [167]inferiorità al desiderio e oltracciò alla speranza. E perciò tutti i piaceri debbono esser misti di dispiacere, come proviamo, perchè l’anima nell’otte-nerli cerca avidamente quello che non può trovare, cioè una infinità di piacere, ossia la soddisfazione di un desiderio illimitato.
Veniamo alla inclinazione dell’uomo all’infinito. Indipendentemente dal desiderio del piacere, esiste nell’uo-mo una facoltà immaginativa, la quale può concepire le cose che non sono, e in un modo in cui le cose reali non sono. Considerando la tendenza innata dell’uomo al piacere, è naturale che la facoltà immaginativa faccia una delle sue principali occupazioni della immaginazione del piacere. E stante la detta proprietà di questa forza immaginativa, ella può figurarsi dei piaceri che non esistano, e figurarseli infiniti 1. in numero, 2. in durata, 3. e in estensione. Il piacere infinito che non si può trovare nella realtà, si trova così nella immaginazione, dalla quale derivano la speranza, le illusioni ec. Perciò non è maraviglia 1.
che la speranza sia sempre maggior del bene, 2. che la felicità umana non possa consistere se non se nella immaginazione e nelle illusioni. Quindi bisogna considerare la gran misericordia e il gran magistero della natura, che da Letteratura italiana Einaudi 196
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia una parte non potendo spogliar l’uomo e nessun essere vivente, dell’amor del piacere che è una conseguenza immediata e quasi tutt’uno coll’amor proprio e della propria conservazione necessario alla sussistenza delle cose, dall’altra parte non potendo fornirli di piaceri reali infiniti, ha voluto supplire 1. colle illusioni, e di queste è stata loro liberalissima, e bisogna considerarle come cose arbitrarie in natura, la quale poteva ben farcene senza, 2.
coll’immensa varietà [168]acciocchè l’uomo stanco o disingannato di un piacere ricorresse all’altro, o anche disingannato di tutti i piaceri fosse distratto e confuso dalla gran varietà delle cose, ed anche non potesse così facilmente stancarsi di un piacere, non avendo troppo tempo di fermarcisi, e di lasciarlo logorare, e dall’altro canto non avesse troppo campo di riflettere sulla incapacità di tutti i piaceri a soddisfarlo. Quindi deducete le solite conseguenze della superiorità degli antichi sopra i moderni in ordine alla felicità. 1. L’immaginazione come ho detto è il primo fonte della felicità umana. Quanto più questa regnerà nell’uomo, tanto più l’uomo sarà felice. Lo vediamo nei fanciulli. Ma questa non può regnare senza l’ignoranza, almeno una certa ignoranza come quella degli antichi. La cognizione del vero cioè dei limiti e definizioni delle cose, circoscrive l’immaginazione. E osservate che la facoltà immaginativa essendo spesse volte più grande negl’istruiti che negl’ignoranti, non lo è in atto come in potenza, e perciò operando molto più negl’ignoranti, li fa più felici di quelli che da natura avrebbero sortito una fonte più copiosa di piaceri. E notate in secondo luogo che la natura ha voluto che l’immaginazione non fosse considerata dall’uomo come tale, cioè non ha voluto che l’uomo la considerasse come facoltà ingannatrice, ma la confondesse colla facoltà conoscitrice, e perciò avesse i sogni dell’immaginazione per cose reali e quindi fosse animato dall’immaginario come dal vero (anzi più, perchè l’immaginario ha forze più naturali, e la natura è sempre Letteratura italiana Einaudi 197
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia superiore alla ragione). Ma ora le persone istruite, quando anche sieno fecondissime d’illusioni le hanno per tali, e le seguono più per volontà che per persuasione, al contrario degli antichi [169]degl’ignoranti de’ fanciulli e dell’ordine della natura. 2. Tutti i piaceri, come tutti i dolori ec. essendo tanto grandi quanto si reputano, ne segue che in proporzione della grandezza e copia delle illusioni va la grandezza e copia de’ piaceri, i quali sebbene neanche gli antichi li trovassero infiniti, tuttavia li trovavano grandissimi, e capaci se non di riempierli, almeno di tratte-nerli a bada. La natura non volea che sapessimo, e l’uo-mo primitivo non sa che nessun piacere lo può soddisfare. Quindi e trovando ciascun piacere molto più grande che noi non facciamo, e dandogli coll’immaginazione un’estensione quasi illimitata, e passando di desiderio in desiderio, colla speranza di piaceri maggiori e di un’intera soddisfazione, conseguivano il fine voluto dalla natura, che è di vivere se non paghi intieramente di quella tal vita, almeno contenti della vita in genere. Oltre la detta varietà che li distraeva infinitamente, e li faceva passare rapidamente da una cosa all’altra senz’aver tempo di conoscerla a fondo, nè di logorare il piacere coll’assuefazione. 3. La speranza è infinita come il desiderio del piacere, ed ha di più la forza se non di soddisfar l’uomo, almeno di riempierlo di consolazione, e di mantenerlo in piena vita. La speranza propria dell’uomo, degli antichi, fanciulli, ignoranti, è quasi annullata per il moderno sapiente. V. il pensiero che incomincia Racconta, p.162.
Del resto il desiderio del piacere essendo materialmente infinito in estensione (non solamente nell’uomo ma in ogni vivente), la pena dell’uomo nel provare un piacere è di veder subito i limiti della sua estensione, i quali l’uo-mo non molto profondo gli scorge solamente da presso.
Quindi è manifesto 1. perchè tutti [170]i beni paiano bellissimi e sommi da lontano, e l’ignoto sia più bello del Letteratura italiana Einaudi 198
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia noto; effetto della immaginazione determinato dalla inclinazione della natura al piacere, effetto delle illusioni voluto dalla natura. 2. perchè l’anima preferisca in poesia e da per tutto, il bello aereo, le idee infinite. Stante la considerazione qui sopra detta, l’anima deve naturalmente preferire agli altri quel piacere ch’ella non può abbracciare. Di questo bello aereo, di queste idee abbondavano gli antichi, abbondano i loro poeti, massime il più antico cioè Omero, abbondano i fanciulli veramente Omerici in questo, (v. il pensiero Circa l’immaginazione, p.57. e l’altro p.100.) gl’ignoranti ec. in somma la natura. La cognizione e il sapere ne fa strage, e a noi riesce difficilissimo il provarne. La malinconia, il sentimentale moderno ec.
perciò appunto sono così dolci, perchè immergono l’anima in un abbisso di pensieri indeterminati de’ quali non sa vedere il fondo nè i contorni. E questa pure è la cagione perchè nell’amore ec. come ho detto p.142. Perchè in quel tempo l’anima si spazia in un vago e indefinito. Il tipo di questo bello e di queste idee non esiste nel reale, ma solo nella immaginazione, e le illusioni sole ce le possono rappresentare, nè la ragione ha verun potere di farlo. Ma la natura nostra n’era fecondissima, e voleva che componessero la nostra vita. 3. perchè l’anima nostra odi tutto quello che confina le sue sensazioni. L’anima cercando il piacere in tutto, dove non lo trova, già non può esser soddisfatta. Dove lo trova, abborre i confini per le sopraddette ragioni. Quindi vedendo la bella natura, ama che l’occhio si spazi quanto è possibile. La qual cosa il Montesquieu (Essai sur le goût, De la curiosité.
p.374.375.) attribuisce alla curiosità. Male. La curiosità non è altro che una determinazione [171]dell’anima a desiderare quel tal piacere, secondo quello che dirò poi.
Perciò ella potrà esser la cagione immediata di questo effetto, (vale a dire che se l’anima non provasse piacere nella vista della campagna ec. non desidererebbe l’estensione di questa vista), ma non la primaria, nè questo effetto è Letteratura italiana Einaudi 199
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia speciale e proprio solamente delle cose che appartengono alla curiosità, ma di tutte le cose piacevoli, e perciò si può ben dire che la curiosità è cagione immediata del piacere che si prova vedendo una campagna, ma non di quel desiderio che questo piacere sia senza limiti. Eccetto in quanto ciascun desiderio di ciascun piacere può essere illimitato e perpetuo nell’anima, come il desiderio generale del piacere. Del rimanente alle volte l’anima desidererà ed effettivamente desidera una veduta ristretta e confinata in certi modi, come nelle situazioni romanti-che. La cagione è la stessa, cioè il desiderio dell’infinito, perchè allora in luogo della vista, lavora l’immaginazione e il fantastico sottentra al reale. L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe se la sua vista si estendes-se da per tutto, perchè il reale escluderebbe l’immaginario. Quindi il piacere ch’io provava sempre da fanciullo, e anche ora nel vedere il cielo ec. attraverso una finestra, una porta, una casa passatoia, come chiamano. Al contrario la vastità e moltiplicità delle sensazioni diletta moltissimo l’anima. Ne deducono ch’ella è nata per il grande ec. Non è questa la ragione. Ma proviene da ciò, che la moltiplicità delle sensazioni, confonde l’anima,
[172]gl’impedisce di vedere i confini di ciascheduna, toglie l’esaurimento subitaneo del piacere, la fa errare d’un piacere in un altro senza poterne approfondare nessuno, e quindi si rassomiglia in certo modo a un piacere infinito. Parimente la vastità quando anche non sia moltiplice, occupa nell’anima un più grande spazio, ed è più difficilmente esauribile. La maraviglia similmente, rende l’anima attonita, l’occupa tutta e la rende incapace in quel momento di desiderare. Oltre che la novità (inerente alla maraviglia) è sempre grata all’anima, la cui maggior pena è la stanchezza dei piaceri particolari.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Da questa teoria del piacere deducete che la grandezza anche delle cose non piacevoli per se stesse, diviene un piacere per questo solo ch’è grandezza. E non attribuite questa cosa alla grandezza immaginaria della nostra natura. Posta la detta teoria, si viene a conoscere (quello ch’è veramente) che il desiderio del piacere diviene una pena, e una specie di travaglio abituale dell’anima. Quindi 1. un assopimento dell’anima è piacevole. I turchi se lo proccurano coll’oppio, ed è grato all’anima perchè in quei momenti non è affannata dal desiderio, perchè è come un riposo dal desiderio tormentoso, e impossibile a soddisfar pienamente; un intervallo come il sonno nel quale se ben l’anima forse non lascia di pensare, tuttavia non se n’avvede. 2. la vita continuamente occupata è la più felice, quando anche non sieno occupazioni e sensazioni vive, e varie. L’animo occupato è distratto da quel desiderio innato che non lo lascerebbe in pace, o lo rivolge a quei piccoli fini della giornata (il terminare un lavoro il provvedere ai suoi bisogni ordinari ec. ec. ec.) giacchè li considera allora come piaceri (essendo piacere tutto quello che l’anima desidera), e conseguitone uno, passa a un altro, così che è distratto da desideri maggiori, e non ha campo di affliggersi della vanità e del vuoto delle cose, e la speranza di quei [173]piccoli fini, e i piccoli disegni sulle occupazioni avvenire o sulle speranze di un esito generale lontano e desiderato, bastano a riempierlo, e a trattenerlo nel tempo del suo riposo, il quale non è troppo lungo perchè sottentri la noia; oltre che il riposo dalla fatica è un piacere per se. Questa dovea esser la vita dell’uomo, ed era quella dei primitivi, ed è quella dei selvaggi, degli agricoltori ec. e gli animali non per altra cagione se non per questa principalmente, vivono felici. Ed osservate come lo spettacolo della vita occupata laboriosa e domestica, sembri anche oggidì, a chi vive nel mondo, lo spettacolo della felicità, anche per la mancanza dei dolori, e delle cure e afflizioni reali. 3. il maraviglioso, lo stra-Letteratura italiana Einaudi 201
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ordinario è piacevole, quantunque la sua qualità particolare non appartenga a nessuna classe delle cose piacevoli.
L’anima prova sempre piacere quando è piena (purchè non sia di dolore), e la distrazione viva ed intera è un piacere rispetto a lei assolutamente, come il riposo dalla fatica è piacere, perchè una tal distrazione è riposo dal desiderio. E come è piacevole lo stupore cagionato dall’oppio (anche relativamente alla dimenticanza dei mali positivi), così quello cagionato dalla maraviglia, dalla novità, e dalla singolarità. Quando anche la maraviglia non sia tanta che riempia l’anima, se non altro l’occupa sempre fortemente, ed è piacevole per questa parte. Notate che la natura aveva voluto che la maraviglia 1. fosse cosa ordinarissima all’uomo, 2. fosse spessissimo intera, cioè capace di riempier tutta l’anima. Così accade ne’ fanciulli, e accadeva ne’ primitivi, e ora negl’ignoranti, ma non può accadere senza l’ignoranza, e l’ignoranza d’oggi non può mai esser come quella dell’uomo che non vive in società, perchè vivendo in società, [174]l’esperienza de’
passati e de’ presenti l’istruisce, più o meno, ma sempre l’istruisce, e la novità diventa rara. 4. anche l’immagine del dolore e delle cose terribili ec. è piacevole, come ne’
drammi e poesie d’ogni sorta, spettacoli ec. Purchè l’uo-mo non tema o non si dolga per se, la forza della distrazione gli è sempre piacevole. Non è bisogno che quelle immagini siano di cose straordinarie: in questo caso ca-drebbero sotto la categoria precedente. Ma la semplice immagine del dolore ec. è sufficiente a riempier l’animo e distrarlo. 5. la grandezza di ogni qualsivoglia genere (eccetto del proprio male) è piacevole. Naturalmente il grande occupa più spazio del piccolo, salvo se la piccolezza è straordinaria, nel qual caso occupa più della grandezza ordinaria. Questo ch’io dico della grandezza è un effetto materiale derivante dalla inclinazione dell’uomo al piacere, e non dalla inclinazione alla grandezza. Si potrebbe forse dir lo stesso del sublime, il quale è cosa diversa dal Letteratura italiana Einaudi 202
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia bello ch’è piacevole all’uomo per se stesso. In somma la noia non è altro che una mancanza del piacere che è l’elemento della nostra esistenza, e di cosa che ci distragga dal desiderarlo. Se non fosse la tendenza imperiosa dell’uomo al piacere sotto qualunque forma, la noia, quest’affezione tanto comune, tanto frequente, e tanto abborrita non esisterebbe. E infatti per che motivo l’uo-mo dovrebbe sentirsi male, quando non ha male nessuno? Poniamo un uomo isolato senza nessuna occupazione spirituale o corporale, e senza nessuna cura o afflizio-ne o dolor positivo, o annoiato [175]dalla uniformità di una cosa non penosa nè dispiacevole per sua natura, e ditemi per che motivo quest’uomo deve soffrire. E pur vediamo che soffre, e si dispera, e preferirebbe qualunque travaglio a quello stato. (Anzi è famosa la risposta affermativa data dai medici consultati dal duca di Brancas, se la noia potesse uccidere. Lady Morgan France l.8. notes). Non per altro se non per un desiderio ingenito e compagno inseparabile dell’esistenza, che in quel tempo non è soddisfatto, non ingannato, non mitigato, non addormentato. E la natura è certo che ha provveduto in tutti i modi contro questo male, all’orrore e ripugnanza del quale nell’uomo, si può paragonare quell’orrore del vuoto che gli antichi fisici supponevano nella natura, per ispiegare alcuni effetti naturali. Ha provveduto col dare all’uomo molti bisogni, e nella soddisfazione del bisogno (come della fame e della sete, freddo, caldo ec.) porre il piacere, quindi col volerlo occupato; colla gran varietà, colla immaginazione che l’occupa anche del nulla, ed anche col timore (il quale sebbene è un effetto naturale e spontaneo anch’esso dell’amor proprio, tuttavia bisogna considerare il sistema della natura in genere, e la mirabile armonia e corrispondenza di diversi effetti a questo o quello scopo), coi pericoli i quali affezionano maggiormente alla vita, e sciolgono la noia, colle turbazioni degli elementi, coi dolori e coi mali istessi, perchè è più dolce il Letteratura italiana Einaudi 203
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia guarir dai mali, che il vivere senza mali; e con tali altri disastri, che si considerano come mali, e quasi difetti della natura, scusandola col definirli per accidenti fuori dell’ordine; ma che forse essendo tali ciascuno, non lo sono tutti insieme; ed appartengono anch’essi al gran sistema universale. In somma il sistema della natura rispetto al-l’uomo è sempre diretto ad allontanar da lui questo male formidabile della noia, che a detta di tutti i filosofi essendo così frequente all’uomo moderno, è quasi sconosciuto al primitivo (e così agli animali). E osservate come i fanciulli anche in una quasi perfetta inazione, pur di rado o non mai sentano [176]il vero tormento della noia, perchè ogni minima bagattella basta ad occuparli tutti interi, e la forza della loro immaginazione dà corpo e vita e azione ad ogni fantasia che si affacci loro alla mente ec. e trovano in somma in se stessi una sorgente inesauribile di occupazioni e sempre varie. Questo senza cognizioni, senza esperienze, senza viaggi, senz’aver veduto udito ec. in un mondo ristrettissimo e uniforme. E laddove parrebbe che quanto più questo mondo e questo campo si accresce e diversifica, tanto più ampio e vario per l’uomo dovesse essere il fondo delle occupazioni interne come son quelle dei fanciulli, e la noia tanto più rara, nondimeno vediamo accadere tutto il contrario. Gran lezione per chi non vuol riconoscere la natura come sorgente quasi unica di felicità, e l’alterazione di lei, come certa cagione d’infelicità. Del resto che la forza e fecondità dell’immaginazione 1. come rende facilissima l’azione, così spessissimo renda facile l’inazione, 2. sia cosa ben diversa dalla profondità della mente, la quale per lo contrario conduce all’infelicità, è manifesto per l’esempio de’ popoli meridionali, segnatamente degl’italiani, rispetto ai settentrionali. Giacchè gl’italiani 1. come una volta per il loro entusiasmo figlio di un’immaginazione viva e più ricca che profonda, erano attivissimi, così ora una delle cagioni per cui non si accorgono o almeno non si disperano affatto di Letteratura italiana Einaudi 204
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia una vita sempre uniforme, e di una perfetta inazione, è la stessa immaginazione ugualmente ricca e varia, e la soprabbondanza delle sensazioni che ne deriva, la quale gl’immerge senza che se n’avvedano in una specie di rêve, come i fanciulli quando son soli ec. cosa continuamente inculcata dalla Staël, laddove i settentrionali non avendo tal sorgente di occupazione interna atta a consolarli, per necessità ricorrono all’esterna, e divengono attivissimi. 2.
la profondità della mente, [177]e la facoltà di penetrare nei più intimi recessi del vero dell’astratto ec. quantunque non sia loro ignota a cagione della loro sottigliezza, prontezza e penetrazione, (che rende loro più facile il concepimento e la scoperta del vero, laddove agli altri bisogna più fatica, e perciò spesso sbagliano con tutta la profondità) contuttociò non è il loro forte, e per lo contrario forma tutta l’occupazione e quindi l’infelicità dei settentrionali colti (osservate perciò la frequenza de’ suicidi in Inghilterra) i quali non hanno cosa che li distragga dalla considerazione del vero. E quantunque paia che l’immaginazione anche appresso loro sia caldissima origina-lissima ec. tuttavia quella è piuttosto filosofia e profondità, che immaginazione, e la loro poesia piuttosto metafisica che poesia, venendo più dal pensiero che dalle illusioni. E il loro sentimentale è piuttosto disperazione che consolazione. E la poesia antica perciò appunto non è stata mai fatta per loro; perciò appunto hanno gusti tutti differenti, e si compiacciono degli enti allegorici, delle astrazioni ec. (v. p.154.) perciò appunto sarà sempre vero che la nostra è propriamente la patria della poesia, e la loro quella del pensiero. (V. p.143-144.)
Dopo che la natura ha posto nell’uomo una inclinazione illimitata al piacere, è rimasta libera di fare che questa o quella cosa fosse considerata come piacere. Perciò le cagioni per cui una cosa è piacevole, sono indipendenti dalla sovresposta teoria, dipendendo dall’arbitrio della Letteratura italiana Einaudi 205
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia natura il determinare in qual cosa dovessero consistere i piaceri, e conseguentemente quali particolari dovessero esser l’oggetto della sopraddetta inclinazione dell’uomo.
Esclusi quei piaceri che ho annoverati poco sopra (p.172.
segg.), i quali sono piaceri, non perch’è piaciuto alla natura di volerli tali indipendentemente dalla inclinazione dell’uomo al piacere, ma solamente o principalmente per questo, che l’uomo desidera [178]illimitatamente il piacere. Del resto la virtù, i piaceri corporali, quelli della curiosità (v. se vuoi Montesquieu nel luogo citato p.170.
qui sopra) (giacchè, come ho detto, per piacere intendo e vanno intese tutte le cose che l’uomo desidera) ec. ec.
sono piaceri perchè la natura ha voluto, e potevano non essere con tutta la inclinazione dell’uomo al piacere, come l’idea assoluta che l’uomo ha della convenienza non è ragione perchè queste o quelle cose gli paiano convenienti, e belle. E dei piaceri altri sono comuni, altri particolari di questa o quella nazione, altri di questa o quella classe d’uomini, come i piaceri appartenenti all’avarizia all’ambizione ec., altri anche individuali, secondo le assuefazioni, le opinioni, le costituzioni corporali, i climi ec. come l’idea rispettiva della bellezza dipende dalle assuefazioni costumi opinioni ec. (V. Montesquieu l.c. De la sensibilité.
p.392.) E la natura ha posto nell’uomo diverse qualità delle quali altre si sviluppano necessariamente, altre o si sviluppano o restano chiuse e inattive secondo le circostanze. E di queste seconde altre la natura voleva, o non proibiva che si sviluppassero, altre non voleva, e svilup-pandosi, rendono l’uomo infelice. E la cagione per cui le ha poste nell’uomo non volendo che sviluppassero, starà nel sistema profondo della natura, e probabilmente si potrebbe scoprire, se non ci fermassimo adesso sul generale. Secondo queste diverse qualità, l’uomo trova piacevoli diverse cose, e l’uomo incivilito prova diversi piaceri dal primitivo, e sentirà dei piaceri che il primitivo non provava, e non proverà molti di quelli che il primitivo Letteratura italiana Einaudi 206
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia provava. E perciò dall’esserci ora piacevole una cosa il cui piacere dipenda dal nostro eccessivo incivilimento, non deduciamo che questo era voluto dalla natura. E se ora [179]p.e. l’eccessiva curiosità del vero ci proccura molti piaceri quando arriviamo a conoscerlo, non perciò dobbiamo stimare che la natura ci volesse così curiosi, nè che questi piaceri sieno naturali, nè che l’uomo naturale ne avesse gran vaghezza, o non sapesse benissimo contenersi in questo desiderio, nè per conseguenza che l’infelicità dell’uomo fosse necessaria, e provenga dalla natura assoluta dell’uomo, quando proviene dalla nostra rispettiva e corrotta. Perchè molte circostanze che hanno sviluppato in noi questa o quella qualità non erano volute dalla natura, e provengono dall’uomo e non da lei. Del resto atteso la detta teoria de’ piaceri particolari, potrebbe anche essere che l’idea dell’infinito, la maraviglia e qualcuna delle cose piacevoli che ho annoverate come tali a cagione solamente dell’inclinazione nostra al piacere, fossero piacevoli anche indipendentemente da questa; e la ragione fosse l’arbitrio della natura, come negli altri piaceri. Mi sembra però che la ragione della loro piacevolezza sia bastantemente spiegata nel modo che ho fatto, e che tutti i loro accidenti possano cadere sotto quelle considerazioni.
L’infinità della inclinazione dell’uomo al piacere è un’infinità materiale, e non se ne può dedur nulla di grande o d’infinito in favore dell’anima umana, più di quello che si possa in favore dei bruti nei quali è naturale ch’esista lo stesso amore e nello stesso grado, essendo conseguenza immediata e necessaria dell’amor proprio, come spiegherò poco sotto. Quindi nulla si può dedurre in questo particolare dalla inclinazione dell’uomo all’infinito, e dal sentimento della nullità delle cose (sentimento non naturale nell’uomo, e che perciò non si trova nelle bestie, come neanche nell’uomo [180]primitivo, ed è nato da circo-Letteratura italiana Einaudi 207
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia stanze accidentali che la natura non voleva). E il desiderio del piacere essendo una conseguenza della nostra esistenza per se, e per ciò solo infinito, e compagno inseparabile dell’esistenza come il pensiero, tanto può servire a dimostrare la spiritualità dell’anima umana, quanto la facoltà di pensare. Anzi è notabile come quel sentimento che pare a prima giunta la cosa più spirituale dell’animo nostro (v. p.106-107.), sia una conseguenza immediata e necessaria (nella nostra condizione presente) della cosa più materiale che sia negli esseri viventi cioè dell’amor proprio e della propria conservazione, di quella cosa che abbiamo affatto comune coi bruti, e che per quanto possiamo comprendere può parer propria in certo modo di tutte le cose esistenti. Certamente non c’è vita senza amor di se stesso, e amor della vita. Quanto poi alla facoltà che ha l’immaginazione nostra di concepire un certo infinito, un piacere che l’anima non possa abbracciare, cagione vera per cui l’infinito le piace, quanto dico a questa facoltà, la quale è indipendente dalla inclinazione al piacere, e stava in arbitrio della natura di darcela o non darcela, giudichi ciascuno quanto possa provare in favore della nostra grandezza. Io per me credo 1. che la natura l’abbia posta in noi solamente per la nostra felicità temporale, che non poteva stare senza queste illusioni. 2. osservo che questa facoltà è grandissima nei fanciulli, primitivi, ignoranti, barbari ec. Quindi congetturo e mi par ben verisimile che esista anche nelle bestie in un certo grado, e relativamente a certe idee, come son quelle dei fanciulli ec. 3. considero che la ragione, la quale si vuole avere per fonte della nostra grandezza, e cagione della nostra superiorità sopra gli altri animali, qui non ha che far niente, se non per [181]distruggere; per distruggere quello che v’ha di più spirituale nell’uomo, perchè non c’è cosa più spirituale del sentimento nè più materiale della ragione, giacchè il raziocinio è un’operazione matematica dell’intelletto, e materializza e geometrizza anche le nozioni più Letteratura italiana Einaudi 208
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia astratte. 4. che le illusioni sono anzi affatto naturali, animali, atti dell’uomo e non umani secondo il linguaggio scolastico, ed appartenenti all’istinto, il quale abbiamo comune cogli altri animali, se non fosse affogato dalla ragione. Applicate queste considerazioni a quello che soglion dire gli scrittori religiosi, che il non poter noi trovarci mai soddisfatti in questo mondo, i nostri slanci verso un infinito che non comprendiamo, i sentimenti del nostro cuore, e cose tali che appartengono veramente alle illusioni, formino una delle principali prove di una vita futura.
Tutto il sopraddetto intorno alla teoria del piacere è un nuovo argomento del quanto si potrebbe semplificare la teoria dell’uomo e delle cose, (v. p.53.) e del come il sistema intero della natura si aggiri sopra pochissimi principii i quali producono gl’infiniti e variatissimi effetti che vediamo, e stabiliti i quali, si direbbe che la natura ha avuto poco da faticare, perchè le conseguenze ne son derivate necessariamente e come spontaneamente. I fenomeni dell’animo umano notati dai moderni psicologi perderebbero tutta la maraviglia, la quale deriva ordinariamente dall’ignoranza della relazione e dipendenza che hanno gli effetti particolari colle cause generali. P.e. quei fenomeni che ho analizzati e spiegati di sopra, derivano immediatamente da un principio notissimo, che è l’amor del piacere. E questo amor del piacere è [182]una conseguenza spontanea dell’amor di se e della propria conservazione. Questo è un principio anche più noto e universale, e quasi finale. Tuttavia quantunque la natura potesse separar queste due cose, esistenza e amor di lei, e perciò l’amor proprio sia una qualità posta da lei arbitraria-mente nell’essere vivente, a ogni modo la nostra maniera di concepir le cose appena ci permette d’intendere come una cosa che è, non ami di essere, parendo che il contrario di questo amore, sarebbe come una contraddizione Letteratura italiana Einaudi 209
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia coll’esistenza – Perciò l’amor proprio si può considerare ancor esso (nella natura quale la vediamo) come una conseguenza dell’esistere, e questo in certo modo anche negli esseri inanimati. Ora discendiamo. Esistenza. amore dell’esistenza (quindi della conservazione di lei, e di se stesso) – amor del piacere (è una conseguenza immediata dell’amor proprio, perchè chi si ama, naturalmente è determinato a desiderarsi il bene che è tutt’uno col piacere, a volersi piuttosto in uno stato di godimento che in uno stato indifferente o penoso, a volere il meglio dell’esistenza ch’è l’esistenza piacevole, invece del peggio, o del mediocre ec.) – amore dell’infinito ec. colle altre qualità considerate di sopra. Così queste qualità che paiono disparatissime e particolarissime vengono dirittamente dal principio generale dell’amor proprio, e tanto necessariamente e materialmente, che si può dire che la natura, dato che ebbe all’uomo l’amor proprio, e secondo la nostra maniera di concepire, data che gli ebbe l’esistenza, non ebbe da far altro, e le dette qualità (delle quali ci facciamo tanta maraviglia), senza opera sua, vennero da loro.
[183]Conseguito un piacere, l’anima non cessa di desiderare il piacere, come non cessa mai di pensare, perchè il pensiero e il desiderio del piacere sono due operazioni egualmente continue e inseparabili dalla sua esistenza.
(12-23. Luglio 1820.)
Noi supponiamo sempre negli altri una grande e straordinaria penetrazione per rilevare i nostri pregi veri o immaginari che sieno, e profondità di riflessione per considerarli, quando anche ricusiamo di riconoscere in loro queste qualità rispetto a qualunque altra cosa.
(23. Luglio 1820.)
Letteratura italiana Einaudi 210
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia La speranza non abbandona mai l’uomo in quanto alla natura. Bensì in quanto alla ragione. Perciò parlano stol-tamente quelli che dicono (gli autori della Morale universelle t.3.) che il suicidio non possa seguire senza una specie di pazzia, essendo impossibile senza questa il rinunziare alla speranza ec. Anzi tolti i sentimenti religiosi, è una felice e naturale, ma vera e continua pazzia, il seguitar sempre a sperare, e a vivere, ed è contrarissimo alla ragione, la quale ci mostra troppo chiaro che non v’è speranza nessuna per noi. (23. Luglio 1820.) Se nella giornata tu hai veduto o fatto qualche cosa non ordinaria per te, la sera nell’addormentarti o per qualunque altra cagione, e in qualunque stato, chiudendo gli occhi, ti vedi subito innanzi, non dico al pensiero, ma alla vista, le immagini sensibili di quello che hai veduto.
E ciò quando anche tu pensi a tutt’altro, e neanche ti ricordi più di quello che avevi veduto forse molte ore addietro, nel quale intervallo ti sarai dato a tutte altre occupazioni. In maniera [184]che questa vista, quantunque appartenga intieramente alle facoltà dell’anima, e in nessun modo ai sensi, tuttavia non dipende affatto dalla volontà, e se pure appartiene alla memoria, le appartiene, possiamo dire esternamente, perchè tu in quel punto neanche ti ricordavi delle cose vedute, ed è piuttosto quella vista che te le richiama alla memoria, di quello che la stessa memoria te le richiami al pensiero. Effettivamente molte volte neanche pensandoci apposta, ci ricorderem-mo di alcune cose, che all’improvviso ci vengono in immagine viva e vera dinanzi agli occhi. E notate che ciò accade senza nessun motivo e nessuna occasione presente, che tocchi nella memoria quel tasto, perchè del rimanente molte volte accade che una leggerissima circostanza, quasi movendo una molla della nostra memoria, ci richiami idee e ricordanze anche lontanissime, senza nes-Letteratura italiana Einaudi 211
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia suno intervento della volontà, e senza che i nostri pensieri d’allora ci abbiano alcuna parte.
Più volte m’è accaduto di addormentarmi con alcuni versi o parole in bocca, ch’io avrò ripetute spesso dentro la giornata, o dentro qualche ora prima del sonno, o vero coll’aria di qualche cantilena in mente; dormire pensando o sognando tutt’altro, e risvegliarmi ripetendo fra me gli stessi versi o parole, o colla stess’aria nella fantasia.
Pare che l’anima nell’addormentarsi deponga i suoi pensieri e immagini d’allora, come deponiamo i vestimenti, in un luogo alla mano e vicinissimo, affine di ripigliarli, subito svegliata. E questo pure senza operazione della volontà. Parimente s’io dentro la giornata aveva letto per un certo tempo del greco o latino o francese o italiano elegante ec. quando la mia memoria era più pronta, (perchè ora [185]che nello svegliarmi la trovo ottusissima, non mi accade così facilmente) mi risvegliava con varie frasi di quelle lingue in mente, e quasi parlando quelle lingue fra me, non ostante che nel sonno, nessuna idea me le avesse richiamate. Questo pure involontariamente.
E così si può dire di cento altre idee d’ogni sorta, che al risvegliarti si presentano spontaneamente affatto.
(24. Luglio 1820.)
Qualunque cosa ci richiama l’idea dell’infinito è piacevole per questo, quando anche non per altro. Così un filareo un viale d’alberi di cui non arriviamo a scoprire il fine. Questo effetto è come quello della grandezza, ma tanto maggiore quanto questa è determinata, e quella si può considerare come una grandezza incircoscritta. Ci piacerà anche più quel viale quanto sarà più spazioso, più se sarà scoperto, arieggiato e illuminato, che se sarà chiuso al di sopra, o poco arieggiato, ed oscuro, almeno quando l’idea di una grandezza infinita che ci deve presentare deriva da quella grandezza che cade sotto i sensi, Letteratura italiana Einaudi 212
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia e non è opera totalmente dell’immaginazione, la quale come ho detto, si compiace alcune volte del circoscritto, e di non vedere più che tanto per potere immaginare ec.
(25. Luglio 1820.)
In ordine alle donne, diceva taluno, ho già perdute due virtù teologali, la fede e la speranza. Resta l’amore, cioè la terza virtù, della quale per anche non mi posso spogliare, con tutto che non creda nè speri più niente. Ma presto mi verrà fatto, e allora finalmente mi appiglierò alla con-trizione.
(25. Luglio 1820.)
[186]La ragione che reca Montesquieu (Essai sur le goût.
Des plaisirs de la symétrie) perchè l’anima amando la varietà, tuttavia dans la plupart des choses elle aime à voir une espèce de symétrie, il che sembra che renferme quelque contradiction, non mi capacita. Une des principales causes des plaisirs de notre ame, lorsqu’elle voit des objets, c’est la facilité qu’elle a à les appercevoir; et la raison qui fait que la symétrie plaît à l’ame, c’est qu’elle lui épargne de la peine, qu’elle la soulage, et qu’elle coupe, pour ainsi dire, l’ouvrage par la moitié. De-là suit une règle générale: par-tout où la symétrie est utile à l’ame et peut aider ses fonctions, elle lui est agréable; mais, par-tout où elle est inutile, elle est fade, parce qu’elle ôte la variété. Or les choses que nous voyons successivement doivent avoir de la variété; car notre ame n’a aucune difficulté à les voir: celles, au contraire, que nous appercevons d’un coup d’oeil doivent avoir de la symétrie. Ainsi, comme nous appercevons d’un coup d’oeil la façade d’un bâtiment, un parterre, un temple, on y met de la symétrie, qui plaît à l’ame par la facilité qu’elle lui donne d’embrasser d’abord tout l’objet. Ora io domando perchè noi vedendo una campagna, un paesaggio dipinto o reale ec. d’un colpo d’occhio come un parterre, e gli oggetti di quella e di questa vista, essendo i medesimi, Letteratura italiana Einaudi 213
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia noi vogliamo in quella la varietà, e in questa la simmetria.
E perchè ne’ giardini inglesi parimente la varietà ci piaccia [187]in luogo della simmetria. La ragion vera è questa. I detti piaceri, e gran parte di quelli che derivano dalla vista, e tutti quelli che derivano dalla simmetria, appartengono al bello. Il bello dipende dalla convenienza. La simmetria non è tutt’uno colla convenienza ma solamente una parte o specie di essa, dipendente essa pure dalle opinioni gusti ec. che determinano l’idea delle proporzioni, corrispondenze, ec. La convenienza relativa dipende dalle stesse opinioni gusti, ec. Così che dove il nostro gusto indipendentemente da nessuna cagione innata e generale, giudica conveniente la simmetria, quivi la richiede, dove no non la richiede, e se giudica conveniente la varietà, richiede la varietà. E questo è tanto vero, che quantunque si dica comunemente che la varietà è il primo pregio di una prospettiva campestre, contuttociò essendo relativo anche questo gusto, si troveranno di quelli che anche nella prospettiva campestre amino una certa simmetria, come i toscani che sono avvezzi a veder nella campagna tanti giardini. E così noi per l’assuefazione amiamo la regolarità dei vigneti, filari d’alberi, piantagio-ni solchi ec. ec. e ci dorremmo della regolarità di una catena di montagne ec. Che ha che far qui l’utile o l’inutile? perchè quando sì, quando no negli oggetti della stessa natura? perchè in queste persone sì, in quelle no? Di più quegli stessi alberi che ci piacciono collocati regolarmente in una piantagione, ci piaceranno ancora collocati senz’ordine in una selva, boschetto ec. La simmetria e la varietà, gli effetti dell’arte e quelli della natura, sono due generi di bellezze. Tutti [188]due ci piacciono, ma purchè non sieno fuor di luogo. Perciò l’irregolarità in un’opera dell’arte ci choque ordinariamente (eccetto quando sia pura imitazione della natura, come ne’ giardini inglesi) perchè quivi si aspetta il contrario; e la regolarità ci dispiace in quelle cose che si vorrebbero naturali, non pa-Letteratura italiana Einaudi 214
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia rendo ch’ella convenga alla natura, quando però non ci siamo assuefatti come i toscani.
Notate che ne’ pazzi i più malinconici e disperati, è naturalissimo e frequente un riso stupido e vuoto, che non viene da più lontano che dalle labbra. Vi prenderan-no per la mano con guardatura profondissima, e nel la-sciarvi vi diranno addio con un sorriso che parrà più disperato e più pazzo della stessa disperazione e pazzia. Cosa però notabilissima anche nei savi ridotti alla intiera disperazione della vita, e massimamente dopo concepita una risoluzione estrema, che li fa riposare appunto in questa estremità d’orrore, e li placa, come già sicuri della vendetta sopra la fortuna e se stessi.
(26. Luglio 1820.)
Nessun dolore cagionato da nessuna sventura, è paragonabile a quello che cagiona una disgrazia grave e irrimediabile, la quale sentiamo ch’è venuta da noi, e che potevamo schivarla, in somma al pentimento vivo e vero.
Così il bene come il male aspettato sono ordinariamente più grandi che il bene o il male presente. La cagione di tutte due le cose è la stessa, cioè l’immaginazione determinata dall’amor proprio occupato nel primo caso dalla speranza, nel secondo dal timore.
Perchè una cosa non piacevole per se stessa, tuttavia
[189]piaccia quando riesce inaspettata, in somma da che derivi il piacere della sorpresa considerata puramente come sorpresa, si spiega colla teoria della noia esposta di sopra in questi pensieri. Perchè l’uomo prova piacere ogni volta ch’è mosso potentemente, purchè non dal timore o dal male. Perchè poi il piacere inaspettato riesca ordinariamente maggiore dell’aspettato, si spiega parte colla detta ragione, parte con quella che ho notata, p.73. E v.
Letteratura italiana Einaudi 215
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia se vuoi Montesquieu Essai sur le goût. Des plaisirs de la surprise. Amsterdam 1781. p.386. Du je ne sais quoi.
p.394. progression de la surprise p.398.
L’affettazione ordinariamente è madre dell’uniformità.
Da ciò viene che sazia ben presto. In tutti gli scritti di un gusto falso e affettato, come in tante poesie straniere, come nelle poesie orientali, osservate che voi sentirete sempre un senso di monotonia, come guardando quelle figure gotiche che dice Montesquieu, l.c. des Contrastes p.383.
E questo quando anche il poeta o lo scrittore abbia cercato la varietà a più potere. Ragioni. 1. L’arte non può mai uguagliare la ricchezza della natura, anzi vediamo quante varietà svaniscano quando l’arte se ne impaccia, come nei caratteri e costumi e opinioni dell’uomo e in tutto il gran sistema della natura umana già pieno di varietà, sia nelle idee e nell’immaginazione sia nel materiale, ed ora dall’arte reso tanto uniforme. Così dunque l’affettazione. 2. L’affettazione continua è una uniformità da se sola, cioè in quanto è una qualità continua dell’opera d’arte. Non dite che in questo caso anche la naturalezza continua dovrebbe riuscire uniforme. 1. la naturalezza non risalta nè stanca [190]nè dà negli occhi come l’affettazione (ch’è una qualità estranea alla cosa), eccetto s’ella pure fosse ricercata e affettata, nel qual caso non è più naturalezza ma affettazione, come spessissimo nelle dette poesie. 2. la naturalezza appena si può chiamar qualità o maniera, non essendo qualità o maniera estranea alle cose, ma la maniera di trattar le cose naturalmente, e com’elle sono, vale a dire in mille diversissime maniere, laonde le cose sono varie nella poesia, nello scrivere, in qualunque imitazion vera, come nella realtà. Applicate queste osservazioni anche alle arti, p.e. ai paesaggi fiamminghi paragonati a quelli del Canaletto veneziano (v. la Dionigi Pittura de’ paesi), alle stampe di Alberto Duro, dove lo stento e l’accuratezza manifesta del taglio dà un colore uguale e Letteratura italiana Einaudi 216
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia monotono alla più gran varietà di oggetti imitati nel resto eccellentemente e variatissimamente. Così accade che la negligenza apparente, e l’abbandono, lasciando cader tutte le cose nella scrittura come cadono naturalmente (o in pittura ec.) sia certa origine di varietà, e quindi non istanchi come le altre qualità della scrittura ec. p.e. anche l’eleganza: giacchè nessuna stancherà meno della disinvoltura.
Dalle due sopraddette ragioni intendete perchè la massima parte delle scritture e specialmente poesie francesi stanchino sopra modo. Il loro eterno stile di conversazione 1. dev’essere infinitamente meno vario del naturale, come l’arte della natura. 2. dà un colore uniforme alle cose più varie, ed un colore ch’essendo estraneo alla cosa, risalta, e stanca a brevissimo andare. In fatti osservate che le poesie francesi paiono tutte d’un pezzo, per la grande monotonia, e il senso che producono è questo, d’una cosa dura dura e non pieghevole, nè adattabile [191]a niente.
Il suono dello j, e ge e gi francese è un suono distintissimo che manca alla nostra lingua, e forma effettivamente un’altra lettera dell’alfabeto. Nè si può chiamare un composto di g, ed s. 1. perchè è distintissimo dal suono di ciascuna di queste due lettere, 2. perchè si pronunzia tutto in un solo istante, e non successivamente come noi italiani pronunzieremmo sgi o sghi o gsi, ma sibbene come il z il quale è una lettera bella e buona distintissima dalle altre, e non un composto di t ed s. Osservate anche le due diverse pronunzie del z l’una o l’altra delle quali manca io credo a parecchie nazioni, e la s schiacciata dei francesi che manca parimente a noi.
(28. Luglio 1820.)
Letteratura italiana Einaudi 217
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Il primo autore delle città vale a dire della società, secondo la Scrittura, fu il primo riprovato, cioè Caino, e questo dopo la colpa la disperazione e la riprovazione.
Ed è bello il credere che la corruttrice della natura umana e la sorgente della massima parte de’ nostri vizi e scelleraggini sia stata in certo modo effetto e figlia e consolazione della colpa. E come il primo riprovato fu il primo fondatore della società, così il primo che definitamente la combattè e maledisse, fu il redentore della colpa, cioè Gesù Cristo, secondo quello che ho detto p.112.
Con quello che dice Montesquieu, Essai sur le Goût.
Des diverses causes qui peuvent produire un sentiment.
De la sensibilité. De la délicatesse p.389-393. spiegate la cagione per cui c’interessino tanto le Storie romana e greca, i fatti cantati da Omero e da Virgilio ec. le tragedie ec.
composte [192]sopra quegli argomenti ec. ec. E come quell’interesse non ci possa esser suscitato da nessun’altra storia, o poema sopra altri fatti ancorchè benissimo cantati, come dall’Ossian, o tragedia d’altri argomenti, quando anche appartengano alla nostra storia patria più immediata, come agli avvenimenti de’ bassi tempi ec. e molto meno dalle poesie orientali, e da cento altre belle cose volute e messe in voga dai nostri romantici, che di vera psicologia non s’intendono un fico. Tutto proviene dalla moltiplicità delle cause che producono in noi un sentimento, e sono, rispetto alle dette cose, ricordanze della fanciullezza, abitudine presa, fama universale di quelle nazioni e di quei poeti, affezionamento ancorchè involontario, continuo uso di sentirne parlare, rispetto venerazione ammirazione amore per quelli che ne hanno parlato, tutte ragioni la mancanza delle quali rende difficilissimo, e forse impossibile il fare ugualmente interessante un soggetto nuovo, massime in poesia, dove tutto il diletto proviene dall’interesse, e non può stare colla sola curiosità, o desiderio d’istruirsi ec. come nelle storie e Letteratura italiana Einaudi 218
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia simili. E v. il mio discorso sui romantici. Souvent notre ame se compose elle-même des raisons de plaisir, et elle y réussit surtout par les liaisons qu’elle met aux choses. Questo e tutto l’altro che dice Montesquieu è notabilissimo, e applicabile a diversissimi casi e condizioni nelle quali ci riesce piacevole quello che ad altri non riesce, e a noi
[193]stessi non riusciva in altre circostanze. P.e. fu un tempo non breve in cui la poesia classica non mi dava nessun piacere, e io non ci trovava nessuna bellezza. Fu un tempo in cui io non trovava altro studio piacevole che la pura e secca filologia, che ad altri par noiosissima. Fu un tempo in cui le scienze mi parevano studi intollerabili. E quanti nelle loro professioni trovano piaceri, che agli altri parranno maravigliosi, non potendo comprendere che diletto si trovi in quelle occupazioni! E
nominatamente in quello che appartiene alle lettere e belle arti, chi non sa e non vede tuttogiorno che il letterato e l’artista trova piaceri incredibili e sempre nuovi nella lettura o nella contemplazione di questa o di quell’opera, che letta o contemplata dai volgari, non sanno comprendere che diascolo di gusto ci si trovi? E piuttosto lo troveranno in cento altre operacce di pessima lega. Con questo spiegate ancora la diversità de’ gusti ne’ diversi tempi, classi, nazioni, climi ec.
(29. Luglio 1820.)
Gran magistero della natura fu quello d’interrompere, per modo di dire, la vita col sonno. Questa interruzione è quasi una rinnovazione, e il risvegliarsi come un rinascimento. Infatti anche la giornata ha la sua gioventù ec. v. p.151. Oltre alla gran varietà che nasce da questi continui interrompimenti, che fanno di una vita sola come tante vite. E lo staccare una giornata dall’altra è un sommo rimedio contro la monotonia dell’esistenza. Nè questa si poteva diversificare e variare maggiormente, che Letteratura italiana Einaudi 219
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia componendola in [194]gran parte quasi del suo contrario, cioè di una specie di morte.
Il ritrovare e procacciare la felicità destinata dalla natura all’uomo, non è più opera del privato neanche per se solo. Non in società, perchè ognuno vede come ci si vive, e il privato non può migliorare le nostre istituzioni. Non nella vita domestica solitaria e primitiva, perchè i piaceri suoi non possono più cadere in persone disingannate ed esaurite nella immaginazione. Il dare al mondo distrazioni vive, occupazioni grandi, movimento, vita; il rinnuovare le illusioni perdute ec. ec. e opera solo de’ potenti.
La politica non deve considerar solamente la ragione, ma la natura, dico la natura vera e non artefatta nè alterata. Il codice de’ Cristiani in quante cose si scosta dalla fredda ragione per accostarsi alla natura! Esempio poco o nulla imitato dai legislatori moderni.
Oltre che il virtuoso è per l’ordinario sconosciuto e non voluto conoscere e confessare dalla moltitudine che è formata dai tristi, tale è la misera condizione dell’uomo in società, e dell’intrigo delle circostanze, ch’egli è sovente sconosciuto e pigliato per tutt’altro, anche dagli altri pochissimi virtuosi. Io mi sono abbattuto a dovere stimare ed amare due persone di rettissimo cuore, che per alcuni incontri datisi tra loro, si stimavano scambievolmente con intima persuasione, pessimi di carattere e di cuore. Tant’è, noi giudichiamo del carattere degli uomini dal modo nel quale si sono portati verso noi o perchè credessero di dovere, e anche dovessero portarsi così, o arbitrariamen-te, o per forza di congiunture, o anche per colpa. E il
[195]più scellerato del mondo, se non ci avrà nociuto, e per qualunque motivo, avrà avuto occasione di benefi-carci, anche semplicemente di trattarci bene, di mostrar-cisi affabile manieroso rispettoso ec. basterà questo Letteratura italiana Einaudi 220
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia perch’egli nell’animo nostro abbia un posto non cattivo, ed anche di uomo onesto. E quando anche l’intelletto ripugni, il cuore e la fantasia ne terranno sempre questo concetto. Questa dovrebb’essere regola generale per qualunque senta dir bene o male di chicchessia. Se quegli che parla, parla per altrui relazione, o se parla di mala fede può avere altri motivi. Ma tolti questi due casi, ordinariamente nella vita privata, tu devi supporre che quegli che ti parla ha ricevuto bene o male da quella tal persona, e da tutto il suo discorso non credere di restare informato se non di questo.
(31. Luglio 1820.)
Gli uomini sono come i cavalli. Per tenergli in dovere e farsi stimare bisogna sparlare bravare minacciare e far chiasso. Bisogna adoperar l’espediente di quelle monache del Tristram Shandy.
(1 Agosto 1820.)
Sebbene è spento nel mondo il grande e il bello e il vivo, non ne è spenta in noi l’inclinazione. Se è tolto l’ottenere, non è tolto nè possibile a togliere il desiderare.
Non è spento nei giovani l’ardore che li porta a procacciarsi una vita, e a sdegnare la nullità e la monotonia. Ma tolti gli oggetti ai quali anticamente si era rivolto questo ardore, vedete a che cosa li debba portare e li porti effettivamente. L’ardor giovanile, cosa naturalissima, universale, importantissima, una volta entrava grandemente nella considerazione [196]degli uomini di stato. Questa materia vivissima e di sommo peso, ora non entra più nella bilancia dei politici e dei reggitori, ma è considerata appunto come non esistente. Frattanto ella esiste ed opera senza direzione nessuna, senza provvidenza, senza esser posta a frutto (opera perchè quantunque tutte le istituzioni tendano a distruggerla, la natura non si distrugge, e la natura in un vigor primo freschissimo e sommo com’è Letteratura italiana Einaudi 221
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia in quell’età) e laddove anticamente era una materia impiegata e ordinata alle grandi utilità pubbliche, ora questa materia così naturale, e inestinguibile, divenuta estranea alla macchina e nociva, circola e serpeggia e divora sordamente come un fuoco elettrico, che non si può sopire nè impiegare in bene nè impedire che non iscoppi in temporali in tremuoti ec. (1. Agosto 1820.).
Alla p.164. pensiero primo, aggiungi. Se tu vedi un fanciullo, una donna, un vecchio affaticarsi impotentemente per qualche operazione in cui la loro debolezza impedisca loro di riuscire, è impossibile che tu non ti muova a compassione, e non proccuri, potendo, d’aiutarli. E se tu vedi che tu dai incomodo o dispiacere ec. ad uno il quale soffre senza poterlo impedire, sei di marmo, o di una irriflessione bestiale, se ti dà il cuore di continuare.
Anche gli uomini già sazi della lode, e persuasi della loro fama che non guadagna per le espressioni particolari di questo o di quello, sono sensibili alla lode che riguarda qualche pregio diverso da quelli per cui sono famosi. E
però, eccetto le persone avvezze a essere adulate in ogni cosa, nessuno diviene indifferente alla lode in [197]genere, ma alla lode di quelle tali sue qualità. Di più la lode più cara è spesso quella che cade sopra una cosa nella quale tu desideri, ma dubiti o stimi di non esser lodevole, o che altri non ti abbia per tale.
Dice Diogene Laerzio di Chilone che prow¡tatte…
Þsxuròn önta pr�on eänai, ôpvw oß plhsÛon
aidÇntai m�llon µ fobÇntai. E questo precetto si deve estendere, massimamente oggidì in tanta propagazione dell’egoismo, a tutti i vantaggi particolari di cui l’individuo può godere. Perchè se tu sei bello non ti resta altro mezzo per non essere odiosissimo agli uomini che un’affabilità particolare, e come una certa noncuranza di Letteratura italiana Einaudi 222
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia te stesso, che plachi l’amor proprio altrui offeso dall’avvantaggio che tu hai sopra di loro, o anche dall’uguaglianza. Così se tu sei ricco, dotto, potente ec. Quanto maggiore è l’avvantaggio che tu hai sopra gli altri, tanto più per fuggir l’odio, t’è necessaria una maggiore amabilità, e quasi dimenticanza e disprezzo di te stesso in faccia agli altri, perchè tu devi medicare una cagione d’odio che tu hai in te stesso e che gli altri non hanno: una cagione assoluta, che ti fa odioso per se sola, senza che tu sia nè ingiusto nè superbo nè ec. Ed era questa una cosa notissima agli antichi, tanto persuasi della odiosità dei vantaggi individuali, che ne credevano invidiosi gli stessi dei, e nella prosperità avevano cura dell’ invidiam deprecari tanto divina che umana, e quindi un [198]seguito non interrotto di felicità li rendeva paurosi di gravi sciagure. V.
Frontone de Bello Parthico.
(4. Agosto 1820.). V. p.453. capoverso ult.
Montesquieu ( Essai sur le Goût. Du je ne sais quoi) fa consistere la grazia e il non so che, principalmente nella sorpresa, nel dar più di quello che si prometta ec. In questa materia della grazia così astrusa nella teoria delle arti, come quella della grazia divina nella teologia, noterò 1. L’effetto della grazia non è di sublimar l’anima, o di riempierla, o di renderla attonita come fa la bellezza, ma di scuoterla, come il solletico scuote il corpo, e non già fortemente come la scintilla elettrica. Bensì appoco appoco può produrre nell’anima una commozione e un incendio vastissimo, ma non tutto a un colpo. Questo è piuttosto effetto della bellezza che si mostra tutta a un tratto, e non ha successione di parti. E forse anche per questo motivo accade quello che dice Montesquieu, che le grandi passioni di rado sono destate dalle grandi bellezze, ma ordinariamente dalla grazia, perchè l’effetto della bellezza si compie tutto in un attimo, e all’anima dopo che s’è appagata di quella vista non rimane altro da desiderare Letteratura italiana Einaudi 223
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia nè da sperare, se però la bellezza non è accompagnata da spirito, virtù ec. Al contrario la grazia ha successione di parti, anzi non si dà grazia senza successione. Quindi veduta una parte, resta desiderio e speranza delle altre. 2.
Perciò la grazia ordinariamente consiste nel movimento: e diremo così, la bellezza è nell’istante, e la grazia nel tempo. Per movimento intendo anche tutto quello che spetta alla parola. 3. Veramente non è grazia [199]tutto quello ch’è sorpresa. Già si sa quante sorprese non abbiano che far colla grazia, ma anche in punto di donne, e di bello, la sorpresa non è sempre grazia. Ponete una bellissima donna mascherata, o col viso coperto, e supponete di non conoscerla, e ch’ella improvvisamente vi scopra il viso, e che quella bellezza vi giunga affatto inaspettata. Quest’è una bella e piacevole sorpresa, ma non è grazia. E per tener dietro precisamente a quello che dice Montesquieu, che la grazia deriva principalmente da questo che nous sommes touchés de ce qu’une personne nous plaît plus qu’elle ne nous a paru d’abord devoir nous plaire; et nous sommes agréablement surpris de ce qu’elle a su vaincre des défauts, que nos yeux nous montrent et que le coeur ne croit plus, supponete di vedere una donna o un giovane di persona disavvenente, e all’improvviso mirandolo in volto, trovarlo bellissimo; questa pure è sorpresa, ma non grazia. 4. Pare che la grazia consista in certo modo nella naturalezza, e non possa star senza questa. Tuttavia primieramente, siccome la natura, secondo che osserva anche Montesquieu, è ora più difficile a seguire, e più rara assai che l’arte, così notate che quelle grazie che consistono in pura naturalezza, non si danno ordinariamente senza sorpresa. Se tu senti o vedi un fanciullo che parla o vero opera, le sue parole e le sue azioni e movimenti, ti riescono sempre come straordinari, hanno un non so che di nuovo e d’inaspettato che ti punge, e fa una certa maraviglia, e tocca la curiosità. Così in qualunque altro soggetto di naïveté. In secondo luogo ci Letteratura italiana Einaudi 224
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia sono anche delle cose non naturali, che pur sono graziose; o vero naturali, ma graziose non per questo che sono naturali. P.e. [200]alcuni difettuzzi in un viso, piacciono assai, e paiono grazie a molti. Chi s’innamora di un naso rincagnato (come quel Sultano di Marmontel), chi di un occhio un po’ falso ec. Un parlar bleso ec. a molti par grazia. E si vedono tuttogiorno, amori nati appunto da stranezze o difetti della persona amata. Così nello spirito e nel morale. Il primo amore dell’Alfieri fu per una giovane di una certa protervia che mi faceva, dic’egli, moltissima forza. E di questo genere si potrebbero annoverare infinite cose che paiono graziosissime e destano fiamma in questo o in quello, e ad altri parranno tutto il contrario. Così un viso di quel genere che chiamano piccante, vale a dire imperfetto, e irregolare, fa ordinariamente più fortuna di un viso regolare e perfetto. Par cosa riconosciuta che la grazia appartenga piuttosto al piccolo che al grande, e che se al grande conviene la maestà, la bellezza, la forza ec. la grazia e la vivacità non gli possa convenire. Questo in qualsivoglia cosa, e astrattamente parlando, uomini, statue, manifatture, poesie ec. ec. ec. Un piccolin si mette Di buona grazia in tutto dice il Frugoni. Ed è cosa ordinaria di chiamar graziosa una persona piccola, e spesso in maniera come se piccolezza fosse sinonimo di grazia. 5. Da queste cose deducete che in somma la definizione della grazia non si può dare, e Montesquieu non l’ha data, benchè paia crederlo, e bisogna sempre ricorrere al non so che. Perchè 1. se la sorpresa è spesso compagna della grazia, è certo che questa è ben diversa dalla sorpresa, cioè perchè una cosa sia graziosa, non basta che sorprenda, bisogna che sia di quel tal genere, [201]e questo genere che cos’è? 2. non la sola naturalezza, come abbiamo veduto; non il perfetto, anzi spesso il difettoso, l’irregolare, e lo straordinario; non tutto l’imperfetto, l’irregolare, e lo straordinario, com’è manifesto: che cosa dunque? 3.
Concedo che spesso il sentimento della grazia contenga Letteratura italiana Einaudi 225
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia sorpresa, ma non è grazioso per questo che sorprende, altrimenti tutto il sorprendente sarebbe grazioso, ma perch’è un certo non so che. 4. Quel modo in cui Montesquieu spiega questo non so che nelle parole riportate di sopra, non sussiste se non in alcuni casi. Un viso piccante ed irregolare nous plaît veramente d’abord e senz’altro, e qui non c’entra l’aver saputo vincere il difetto ec. Si vede ch’esso stesso contiene propriamente in se una qualità piacevole distinta da tutto il resto. È vero che un viso irregolare piace con una certa sorpresa, ma quel che piace non è solamente nè principalmente la sorpresa, altrimenti un viso mostruoso piacerebbe di più. Applicate queste considerazioni agli altri esempi riportati di sopra, in tutti i quali non ha che far niente il dare più di quello che si prometta, o non è la cagion principale ed intima di quel tal piacere, ma piuttosto estrinseca e accidentale. 5.
Il grazioso è relativo come il bello, cioè ad uno sì, a un altro no ec. L’esperienza lo mostra, che come non c’è tipo della bellezza, così neanche della grazia. E quantunque paia che l’idea della naturalezza debba essere universale, tuttavia non è, e presso noi passano per naturali infinite cose che sono tutt’altro, e ai villani parranno naturali e graziose cento maniere che a noi parranno grossolane ec.
Così secondo le diverse nazioni costumi abitudini opinioni ec. Non che la natura non abbia le sue maniere
[202]proprie, certe e determinate, ma succede qui come nel bello. Un cavallo scodato, un cane colle orecchie tagliate, è contro natura, una donna coi pendenti infilzati nelle orecchie, un uomo colla barba tagliata ec. eppur piacciono. Molto più discordano i gusti intorno alla grazia indipendente dalla naturalezza. 6. Quantunque questo non so che, non si possa definire, se ne possono notare alcune qualità 1mo Spessissimo la semplicità è fonte, o proprietà della grazia. 2do. Quantunque la grazia ordinarissimamente consista nell’azione, tuttavia può stare qualche volta anche senza questa, come appunto molte Letteratura italiana Einaudi 226
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia grazie derivanti dalla semplicità, p.e. nelle opere di belle arti, nell’abito di una pastorella, citato anche da Montesquieu come grazioso, insieme colle pitture di Raffaello e Correggio. Anche un viso piccante ma non bello, si può dire che contenga questo non so che, e punga, senza bisogno di azione, come p.e. veduto in un ritratto, quantunque d’ordinario prenda risalto dal movimento.
3zo. La naturalezza non è la sola fonte della grazia, e pure non c’è grazia, dove c’è affettazione. Il fatto è che quantunque una cosa non sia graziosa per questo ch’è naturale, tuttavia non può esser graziosa se non è, o non par naturale, e il minimo segno di stento, o di volontà, ec.
ec. basta per ispegnere ogni grazia. Dico, se non pare, perchè le grazie della poesia, del discorso, delle arti ec.
per lo più paiono naturali e non sono. 4to La piccolezza abbiamo veduto come abbia che far colla grazia. 5to Lo svelto, il leggero, parimente ha che far colla grazia. E
notate che i movimenti molli e leggeri di una persona di taglio svelto, sono graziosi senza sorpresa, giacchè non è strano che i moti di una tal persona sieno facili e leggeri.
Bensì muovono una certa maraviglia o ammirazione
[203]diversa dalla sorpresa, la quale nasce dall’inaspettato, o dall’aspettazione del contrario. Così la maraviglia prodotta dalle belle arti, con tutto che appartenga al bello, non ha che far colla grazia. 6to L’effetto della grazia ordinariamente è quello che ho detto, di scuotere e solleticare e pungere, puntura che spesso arriva dirittamente al cuore, come se tu vedi due occhi furbi di una donna rivolti sopra di te, nel qual caso la scossa si può paragonare anche all’elettrica. Ma in quella grazia che spetta p.e. alla semplicità pare che se l’effetto è di solleticare, non sia di pungere, e forse si può fare su questa considerazione una distinzione di due grazie, l’una piccante, l’altra molle, insinuante, glissante dolcemente nell’anima. E forse la prima si chiama più propriamente il non so che. 7mo La vivacità ha che far colla prima specie Letteratura italiana Einaudi 227
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia di grazia. Ma con tutto ciò la vivacità non è grazia. 8vo Nei cibi parimente si dà una certa grazia, ora della prima, ora anche della seconda specie. Quelli che chiamano ragoûts appartengono alla prima. E qui pure discordano i gusti infinitamente.
In somma non saprei che dire. Si potrebbe conchiudere che la grazia consiste in un certo irritamento nelle cose che appartengono al bello e al piacere. Così si verrebbe ad escludere un viso mostruoso ec. e dall’altra parte, il piacere troppo spiccato e sfacciato, come quello della bellezza, dei godimenti corporali, del desiderio soddisfatto; potendo la grazia chiamarsi piuttosto uno stuzzica-appetito, che una soddisfazione di esso.
(4-9. Agosto 1820.)
L’affettazione nuoce anche alla maraviglia, capital cagione del diletto nelle arti. Primieramente il conoscere il proposito toglie [204]la sorpresa. Poi, e questo è il principale, non vedi somma difficoltà in una figura somigliantissima al vero, ma stentata. Oltre che lo stento detrae al vero, perchè non appartiene al vero se non la naturalezza, non è maraviglia, che con fatica ti sia riuscito, quello che volevi. E non è maraviglia che tu facci una cosa volendo, come che tu la facci, senza che gli altri si accorgono che tu l’abbi voluto. E non è difficile il fare una cosa difficile, difficilmente, ma in modo che paia facile. Così c’è il contrasto fra la nota difficoltà della cosa, e l’apparente difficoltà del modo. L’affettazione toglie il contrasto ec. ec. V. se vuoi Montesquieu, Essai sur le goût.
Amsterdam 1781. du je ne sais quoi. p.396-397.
(9. Agosto 1820.)
In proposito di quello che ho detto p.197. io so di una donna desiderosa di concepire che bastonava fieramente una cavalla pregna, dicendo, tu gravida e io no. L’invidia e l’odio altrui per le felicità che hanno, cade ordinaria-Letteratura italiana Einaudi 228
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia mente sopra quei beni che noi desideriamo di avere e non abbiamo, o de’ quali vorremmo esser gli unici o i principali possessori ed esempi. Sopra gli altri beni non è cosa ordinaria l’invidia, ancorchè sieno beni grandissimi.
Del resto quantunque l’invidia riguardi per lo più i nostri simili, coi quali solamente sogliamo entrare in competenza, nondimeno si vede che il furore di questa passione può condurre all’invidia e all’odio anche delle altre cose.
(10. Agosto 1820.)
Tutti i caratteri principali dello spirito antico, che si trovano in Omero, e negli altri greci e latini, si trovano anche [205]in Ossian, e nella sua nazione. Lo stesso pregio del vigor del corpo, della giovanezza, del coraggio, di tutte le doti corporali. La stessa divinizzazione della bellezza. Lo stesso entusiasmo per la gloria e per la patria. In somma tutti i beati distintivi di una civilizzazione che sta nel suo vero punto fra la natura e la ragione. Del resto, pietà filiale, e paterna, e tutti gli altri sentimenti doverosi e naturali, hanno fra i caledoni tutta la loro forza. Il divario tra i greci ed Ossian consiste principalmente in una malinconia generata dalle disgrazie particolari, e non dalla disperante filosofia, ma più propriamente e generalmente dal clima. Questa cagione non solo si conosce ma si sente nell’Ossian, e perciò rende la sua malinconia molto inferiore a quella dei meridionali, Petrarca, Virgilio, ec.
nei quali si conosce e sente anche una potenza di allegria, come pure in Omero ec. cosa necessaria alla varietà, al-l’ampiezza della poesia composta di diversissimi generi, e quasi anche al sentimento.
Ossian prevedeva il deterioramento degli uomini e della sua nazione. V. Cesarotti osservazione ultima al poemetto della guerra di Caroso. Ma certo quando egli diceva ec. (v. gli ultimi versi d’esso poemetto) non preve-Letteratura italiana Einaudi 229
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia deva che la generazione degl’imbelli si dovesse chiamar civile, e barbara la sua, e le altre che la somigliarono.
Oste albergatore, ed anche ospite, ossia albergato, appresso gli antichi italiani. V. la Crusca. Hostis aveva appunto questa seconda significazione appresso gli antichi latini. V. il Forcellini. [206]Ed ecco una parola latina disusata ai tempi di Cicerone, ricomparisce nei principii della nostra lingua. E forse hostis avrà avuto anche il significato di albergatore, come oste oggidì, e come hospes ed ospite in latino ed in italiano hanno lo stesso doppio senso di albergatore e albergato.
(10. Agosto 1820.)
Straniero ossia ospite si prendeva per nemico anche nell’antica lingua celtica. V. Cesarotti note al Fingal, Canto primo. Bassano 1789. t.1. p.17. E così appoco appoco si sarà cambiato il significato di hostis, cioè considerando lo straniero come nemico.
Cleobulo, dice Diog. Laerz, suneboæleue… gunaikÜ
(uxori) m¯ filofroneÝsϑai mhd¢ m�xesϑai,
�llotrÛvn parñntvn : tò m¢n g�r �noi-an, tò d¢
manÛan shmaÛnei. V. p.233.
Il medesimo, m¯ ¤pigel�n toÝw skvptom¡noiw :
�pexϑ®sesϑai g�r toætoiw..
In proposito di quello che ho detto p.68. nel pensiero, Guardate, Chilone, dice il Laerz. pros¡tatte… l¡gonta m¯ kineÝn t¯n xeÝra : manikòn. V. la nota d’Is. Casaubono al Laerz. Vit. Polemon. l.4. segm.16.
La grazia propriamente non ha luogo se non nei piaceri che appartengono al bello. Una novità, un racconto curioso, una nuova piccante, tutto quello che punge o muove o solletica la curiosità, sono irritamenti piacevoli ma non hanno che far colla grazia. E quelli che appartengo-Letteratura italiana Einaudi 230
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia no ai cibi, o a qualunque altro piacere parimente, somigliano alla grazia, e possono esserne esempi, ma non confondersi con lei. Perciò la grazia va definita semplicemente, un irritamento nelle cose che appartengono al bello, tanto sensibile, quanto intellettuale, come il bello poetico ec.
[207]Le grazie della lingua sono più che mai relative a quelle persone che la intendono perfettamente ec. e non mai assolute. Così le grazie attiche, toscane ec. forse più graziose per gli altri italiani che per gli stessi toscani, a cagione di una certa sorpresa ec. ma poco o nulla agli stranieri.
Oggidì è cosa molto ordinaria che un uomo veramente singolare e grande si distingua al di fuori per un volto o un occhio assai vivo, ma del resto per un corpo esilissimo e sparutissimo e anche difettoso. Pope, Canova, Voltaire, Descartes, Pascal. Tant’è: la grandezza appartenente al-l’ingegno non si può ottenere oggidì senza una continua azione logoratrice dell’anima sopra il corpo, della lama sopra il fodero. Non così anticamente, dove il genio e la grandezza era più naturale e spontanea, e con meno ostacoli a svilupparsi, oltre la minor forza della distruttrice cognizione del vero inseparabile oggidì dai grandi talenti, e il maggior esercizio del corpo riputato cosa nobile e necessaria, e come tale usato anche dalle persone di gran genio, come Socrate ec. E Chilone uno de’ sette savi non credeva alieno dalla sapienza il consigliare come faceva, eï tò sÇma �skeÝn (Laerz.), e questo consiglio si trova registrato fra i documenti della sua sapienza. In particolare poi quanto alla politica, oggidì l’uomo di stato si può dir che sia come l’uomo di lettere, sempre occupato alle insaluberrime fatiche del gabinetto. Ma nelle antiche repubbliche chi aspirava agli affari civili, e nella sua giovanezza fortificava necessariamente il corpo cogli eser-Letteratura italiana Einaudi 231
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia cizi la milizia ec. senza i quali sarebbe stato quasi infame; e lo stesso esercizio della politica era pieno di azione corporale, trattandosi di agire col popolo, clienti, impegni ec. ec. Così anche la vita di qualunque altro uomo di genio era sempre piena di azione nell’esercizio stesso delle sue facoltà. [208]Esempio ne può essere Omero, secondo quello che si racconta della sua vita, viaggi ec. Di Cicerone che tanto incredibilmente affaticò la mente e la penna, e che nacque di quell’ingegno e natura unica che ognun sa, niun dice che fosse di corpo, non che infermiccio, ma gracile, le quali qualità oggi s’hanno per segni caratteristici, e condizioni indispensabili de’ talenti non pur sommi ma notabili, e massime di chi avesse coltivato e occupato tanto la mente negli studi letterari e nello scrivere, come Cicerone anzi per una metà. Quel che dico di Cicerone può dirsi di Platone, e di quasi tutti i grandissimi ingegni e laboriosissimi letterati e scrittori antichi. V. però Plutarco Vita di Cic.
(11. Agosto 1820.). V. p.233. capoverso 3.
La grazia appena io credo che possa esser concepita dai francesi con idea vera. Certo i loro scrittori non la conoscono. Lo confessa pienamente Thomas Essai sur les Éloges ch.9. Infatti manca loro cette sensibilité tendre et pure, cioè inaffettata e naturale (l’avrebbero per natura, ma la società non vuole che la conservino: l’avevano i loro antichi scrittori) e cet instrument facile et souple vale a dire una lingua come la greca e l’italiana. V. senza fallo quel passo di Thomas.
(13. Agosto 1820.)
Non solamente il bello ma forse la massima parte delle cose e delle verità che noi crediamo assolute e generali, sono relative e particolari. L’assuefazione è una seconda natura, e s’introduce quasi insensibilmente, e porta o distrugge delle qualità innumerabili, che acquistate o per-Letteratura italiana Einaudi 232
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia dute, ci persuadiamo ben presto di non potere avere, o di non poter non avere, e ascriviamo a leggi eterne e immutabili, a sistema naturale, a Provvidenza ec. l’opera del caso e delle circostanze accidentali e arbitrarie. Aggiungete all’assuefazione, le opinioni i climi i temperamenti corporali o spirituali, e persuadetevi che molto ma molto poche verità sono assolute e inerenti al sistema delle cose.
Oltre all’indipendenza da queste verità che può trovarsi in altri sistemi di cose.
(13. Agosto 1820.)
In somma dal detto qui sopra e da mille altre [209]cose che si potrebbero dire, si deduce quanto giustamente i moderni ideologisti abbiano abolite le idee innate.
Archelao diceva secondo Diogene Laerzio che tò dÛkaion kaÜ tò aÞsxròn non è determinato dalla natura ma dalla legge. E così la legge naturale ancora potrà esser considerata come un sogno. Abbiamo si può dire innata l’idea astratta della convenienza, ma quali cose si convengano in morale, appartiene alle idee relative. Considerate la morale dei diversi popoli, massimamente barbari. E mettetevi nello stato primitivo dell’uomo. Vedrete che il far male agli altri per vostro bene non vi ripugna. Il vostro simile in natura non è una cosa così inviolabile, come credete. L’uomo solitario e selvaggio fa mondo da se, e il suo simile è come un’altra fiera del bosco. Bensì l’uomo è naturalmente più inclinato al suo simile, come rispettivamente le altre bestie. Ma anche il leone combatte col leone, e il toro col toro per li suoi diletti e vantaggi. Ho detto p.178. che la natura ha poste negli esseri diverse qualità che si sviluppano o no, secondo le circostanze. P.e. la facoltà di compatire. In natura è molto meno operosa.
Ma non è già propria del solo uomo. In casa mia v’era un cane che da un balcone gittava del pane a un altro cane sulla strada. V. quello che racconta il Magalotti di una cagna nelle Lettere sull’Ateismo. In natura si ristringe a Letteratura italiana Einaudi 233
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia quegli esseri che ci toccano più da vicino. Così gli uccelli coi loro figliuolini, vedendoseli rapire ec. Se vedranno un [210]altro uccello della specie loro, travagliato o moribondo, non se ne daranno pensiero. Secondo lo sviluppo delle diverse qualità per le diverse circostanze, è nata la legge detta naturale. Il rubare l’altrui non ripugna assolutamente alla natura. Costume degli Spartani. Differenze dalle leggi antiche alle moderne. La società non è già propria del solo uomo. Le formiche la fanno per trasportar pesi. Le api hanno anche un governo. In somma considerando la natura dell’uomo e delle cose, si vedrà che tolte alcune idee astratte e indeterminate, ossia non applicate, ma da applicarsi, tutto il resto è relativo, e dipende dalle circostanze, e che negli altri esseri come nell’uomo ci sono diverse qualità ingenite che sviluppando-si o no, ci fanno poi giudicare vanamente della somiglianza assoluta della nostra razza colle altre.
(14. Agosto 1820.)
Diciamo male che il tal desiderio è stato soddisfatto.
Non si soddisfanno i desideri, conseguito che abbiamo l’oggetto, ma si spengono, cioè si perdono ed abbandonano per la certezza acquistata di non poterli mai soddisfare. E tutto quello che si guadagna conseguito l’oggetto desiderato, è di conoscerlo intieramente.
(14. Agosto 1820.)
Come l’amore così l’odio si rivolge principalmente sopra i nostri simili, nè si desidera mai così intensamente la vendetta di una bestia come di un nemico. E notate: quando altri ci abbia fatto del male non volendo, tuttavia il risentimento che [211]ne proviamo è maggiore che per una bestia la quale volendo ci abbia fatto un maggior male.
Letteratura italiana Einaudi 234
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Alla p.196. capoverso primo, aggiungi. Ci commuove molto più una rondinella che vede strapparsi i suoi figli, e si travaglia impotentemente a difenderli, di quello che una tigre, o altra tal fiera nello stesso caso. V. Virg. Georg.
4. Qualis populea moerens philomela sub umbra ec.
È curioso che si riprenda (dagli stranieri particolarmente) Michelangelo per aver troppo voluto dimostrare la sua scienza anatomica nelle scolture, e si dia per regola di nasconder sempre questa scienza nell’arte dello scolpire o del dipingere, ed esser meglio ignorarla affatto che osten-tarla (come si dice, mi pare, di Raffaello, che non si curò di studiarla); e che frattanto gli stranieri massimamente non sieno mai così contenti come quando hanno inzeppato le loro poesie di tecnicismi, di formole, di nozioni astratte e metafisiche, di psicologia, d’ideologia, di storia naturale, di scienza, di viaggi, di geografia, di politica, e d’erudizione, scienza, arte, mestiero d’ogni sorta.
E mentre non vogliono l’erudizione antica, lodano e abu-sano vituperosamente della moderna.
(15. Agosto 1820.). V. la p.238. capoverso 8.
A proposito di quello che ho detto p.152. pens. ult.
notate che l’immaginazione dei fanciulli ha ordinariamente tutte due queste qualità, ma l’una, cioè la fecondità, in maggior grado. E perciò come sono facili a fissarsi in un’idea, così anche a distrarsi, nel mezzo di un discorso, dello studio, di qualsivoglia occupazione onde si suol dire che i fanciulli non sono buoni allo studio non solo pel poco intelletto, ma perchè son pieni di distrazioni.
[212]Giacchè la loro fantasia ha gran facilità di staccarsi subito da un oggetto per attaccarsi a un altro. Eccetto alcuni fanciulli d’immaginazione destinata a grandi cose, e a fargli infelici quando saranno maturi, la profondità della quale li fissa fortemente in questa o in quella idea, ordinariamente paurosa o dolorosa, e li tormenta nella Letteratura italiana Einaudi 235
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia stessa fanciullezza, com’è accaduto a me. Ed è notabile come questa profondità della immaginazione li renda gelosissimi del metodo e del consueto, fuor del quale non trovano pace, spaventandosi dello straordinario, e contando per disgrazia insopportabile l’aver tralasciato di fare una cosa loro solita ec. Es. di Pietrino, e mio. Del resto l’effetto della immaginazione dei fanciulli qual sia, v.
p.172. fine.
Domandava una donna (un cortigiano) a un viaggiatore, avendogli a dire una cosa poco piacevole; volete ch’io vi parli sinceramente? Rispose il viaggiatore, anzi ve ne prego. Noi altri viaggiatori cerchiamo le rarità.
(16. Agosto 1820.)
La soprabbondanza della immaginazione è quella che tormenta i fanciulli detti qui sopra, e perciò in luogo di cercarla nello straordinario, cercano di spegnerla o ad-dormentarla col metodo. Cosa che accade anche agli uomini. V. il carattere di Lord Nelvil nella Corinna.
(16. Agosto 1820.)
L’irritamento della grazia è piacevole come un irritamento corporale nel gusto nel tatto, ec. E come una maggiore irritabilità e dilicatezza del palato, fibre [213]ec.
rende più suscettibili e di più fino discernimento rispetto a questi irritamenti corporali, così nella grazia riguardo allo spirito. V. se vuoi Montesquieu l. più volte cit. De la délicatesse. Che se l’effetto rispettivo della grazia de’ due sessi è molto maggiore di un irritamento, la cagione non è la sola grazia, come non la sola bellezza negli stessi casi.
Ma la grazia irrita allora una parte sensibilissima dell’uo-mo, che è l’inclinazione scambievole all’uno de’ due sessi, la quale svegliata e infiammata produce effetti che la grazia per se, ed in qualunque altro caso non produrrebbe, quando anche fosse in molto maggior grado. Così nella Letteratura italiana Einaudi 236
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia pittura farà molto più effetto la grazia di una donna ec.
che di un uomo, la grazia anche di un uomo, che quella di un bel cavallo, perchè sempre la inclinazione che abbiamo ai nostri simili viene ad essere stuzzicata naturalmente più da quello che da questo oggetto. Lo stesso dite di una pianta rispetto a un cavallo dipinto o scolpito, o di un edifizio dipinto, sebbene in questo caso agisce molto la considerazione in cui noi prendiamo quell’oggetto, cioè di opera umana, e perciò forse più efficace in noi. Del resto tutto il medesimo accade in materia del bello.
(17. Agosto 1820.)
Le illusioni per quanto sieno illanguidite e smascherate dalla ragione, tuttavia restano ancora nel mondo, e compongono la massima parte della nostra vita. E non basta conoscer tutto per perderle, ancorchè sapute vane. E perdute una volta, nè si perdono in modo che non ne resti
[214]una radice vigorosissima, e continuando a vivere, tornano a rifiorire in dispetto di tutta l’esperienza, e certezza acquistata. Io ho veduto persone savissime, esper-tissime, piene di cognizioni di sapere e di filosofia, infelicissime, perdere tutte le illusioni, e desiderar la morte come unico bene, e augurarla ancora come tale, agli amici loro: poco dopo, bensì svogliatamente, ma tuttavia ri-conciliarsi colla vita, formare progetti sul futuro, impe-gnarsi per alcuni vantaggi temporali di quegli stessi loro amici ec. Nè poteva più essere per ignoranza o non persuasione certa e sperimentale della nullità delle cose. Ed a me pure è avvenuto lo stesso cento volte, di disperarmi propriamente per non poter morire, e poi riprendere i soliti disegni e castelli in aria intorno alla vita futura, e anche un poco di allegria passeggera. E quella disperazione e quel ritorno, non avevano cagion sufficiente di alternarsi, giacchè la disperazione era prodotta da cause che duravano quasi intieramente nel tempo ch’io ripren-deva le mie illusioni. Tuttavia qualche piccolo motivo di Letteratura italiana Einaudi 237
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia consolarmi, bastava all’effetto, ed è cosa indubitata che le illusioni svaniscono nel tempo della sventura, (e perciò è verissimo, e l’ho provato anch’io, che chi non è stato mai sventurato, non sa nulla. Io sapeva, perchè oggidì non si può non sapere, ma quasi come non sapessi, e così mi sarei regolato nella vita.) e ritornano dopo che questa è passata, o mitigata dal tempo e dall’assuefazione. Ritornano con più o meno forza secondo le circostanze, il carattere, il temperamento corporale, e le qualità spirituali tanto ingenite come acquisite. Quasi tutti gli scrittori di vero e squisito sentimentale, dipingendo la disperazione e lo scoraggiamento totale della vita, hanno cavato i colori dal proprio cuore, e dipinto uno stato nel quale [215]essi stessi appresso a poco si sono trovati. Ebbene? con tutta la loro disperazione passata, con tutto che scrivendo sentissero vivamente la natura e la forza di quelle acerbe verità e passioni che esprimevano, anzi dovessero proccurarsene attualmente una intiera persuasione ec. per potere rappresentare efficacemente quello stato dell’uo-mo, e per conseguenza sentissero ed avessero quasi per le mani il nulla delle cose, tuttavia si prevalevano del sentimento stesso di questo nulla per mendicar gloria, e quanto più era vivo in loro il sentimento della vanità delle illusioni, tanto più si prefiggevano e speravano di conseguire un fine illusorio, e col desiderio della morte vivamente sentito, e vivamente espresso, non cercavano altro che di proccurarsi alcuni piaceri della vita. E così tutti i filosofi che scrivono e trattano le miserabili verità della nostra natura e ch’essendo privi d’illusioni in fondo, non cercano poi altro veramente col loro libro che di crearsi, e go-dersi alcuni illusorii vantaggi della vita (v. Cic. pro Archia c.11.) Tant’è: la natura è così smisuratamente più forte della ragione, che ancorchè depressa e indebolita oltre a ogni credere, pure gli resta abbastanza per vincere quella sua nemica, e questo negli stessi seguaci suoi, e in quello stesso momento in cui la predicano e la divulgano; anzi Letteratura italiana Einaudi 238
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia con questo stesso predicare e divulgar la ragione contro la natura, la danno vinta alla natura sopra la ragione.
[216]L’uomo non vive d’altro che di religione o d’illusioni. Questa è proposizione esatta e incontrastabile: Tolta la religione e le illusioni radicalmente, ogni uomo, anzi ogni fanciullo alla prima facoltà di ragionare (giacchè i fanciulli massimamente non vivono d’altro che d’illusioni) si ucciderebbe infallibilmente di propria mano, e la razza nostra sarebbe rimasta spenta nel suo nascere per necessità ingenita, e sostanziale. Ma le illusioni, come ho detto, durano ancora a dispetto della ragione e del sapere. È da sperare che durino anche in progresso: ma certo non c’è più dritta strada a quello che ho detto, di questa presente condizione degli uomini, dell’incremento e divulgamento della filosofia da una parte, la quale ci va assottigliando e disperdendo tutto quel poco che ci rimane; e dall’altra parte della mancanza positiva di quasi tutti gli oggetti d’illusione, e della mortificazione reale, uniformità, inattività, nullità ec. di tutta la vita. Le quali cose se ridurranno finalmente gli uomini a perder tutte le illusioni, e le dimenticanze, a perderle per sempre, ed avere avanti gli occhi continuamente e senza intervallo la pura e nuda verità, di questa razza umana non resteranno altro che le ossa, come di altri animali di cui si parlò nel secolo addietro. Tanto è possibile che l’uomo viva staccato affatto dalla natura, dalla quale sempre più ci andiamo allontanando, quanto che un albero tagliato dalla radice fiorisca e fruttifichi. Sogni [217]e visioni. A riparlarci di qui a cent’anni. Non abbiamo ancora esempio nelle passate età, dei progressi di un incivilimento smisurato, e di un snaturamento senza limiti. Ma se non torneremo indietro, i nostri discendenti lasceranno questo esempio ai loro posteri, se avranno posteri.
(18-20. Agosto 1820.)
Letteratura italiana Einaudi 239
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Ripetono tutto giorno i francesi che Bossuet ha soggiogato la sua lingua al suo genio. Io dico che il suo genio è stato soggiogato dalla lingua costumi gusti del suo paese. I francesi che scrivono sempre come conver-sano, timidissimi per conseguenza, o piuttosto codardi, come dev’esser quella nazione presso cui un tratto di ridicolo scancella qualunque più grave e seria impressione, e fa più romore degli affari e pericoli di Stato, si maravigliano d’ogni minimo ardire, e stimano sforzi da Ercole quelli che in Italia e nel resto d’Europa sono soltanto deboli argomenti d’ingegno robusto, libero, inventore e originale. E per una parte hanno ragione, perchè l’osar poco in Francia, dove la regola è di vivre et faire comme tout monde, costa assai più che l’osar molto altrove. Ma in fatti poi cercando in Bossuet questo grande ardire, e questa robustissima eloquenza, trovate piuttosto impotenza che forza, e vedrete che appena alzato si abbassa. Questo senza fallo è il [218]sentimento ch’io provo sempre leggendolo; appena mi ha dato indizio di un movimento forte, sublime, e straordinario, ed io son tutto sulle mosse per seguitarlo, trovo che non c’è da far altro, e ch’egli è già tornato a parler comme tout le monde.
Cosa che produce una grande pena e disgusto e secchezza nella lettura. Questo non ha che fare colle inuguaglianze proprie dei grandi geni. Nessun genio si ferma così presto come Bossuet. Si vede propriamente ch’egli è come incatenato, e fa sforzi più penosi che grandiosi per liberarsi. E il lettore prova appunto questo medesimo stato.
E perciò volendo convenire che Bossuet sia stato veramente un genio, bisogna confessare che tentando di domar la sua lingua e la sua nazione, n’è stato domato. Me ne appello a tutti gli stranieri e italiani. Se non che la voce di tutta la Francia ha tanta forza, che forma il giudizio d’Europa. E il ridirsi è quasi impossibile. Sicchè queste parole intorno a Bossuet sieno dette inutilmente.
(20. Agosto 1820.)
Letteratura italiana Einaudi 240
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Non è cosa così dispiacevole come il vedere uno scrittore dopo intrapreso un gran movimento, immagine, sublimità ec. mancar come di fiato. È cosa che in certo modo rassomiglia agli sforzi impotenti di chi si vede che vorrebbe esser grande, bello ec. nello scrivere, e non può.
Ma questa è più ridicola, quella più penosa. In Bossuet l’incontri a ogni momento. Una grande spinta; credi che seguiterà l’impulso, ma è già finito. Quando anche [219]il seguito del suo parlare sia forte magnifico ec. non è più fuoco naturale, ma artifiziale, e preso dai soliti luoghi.
Lascio quando Bossuet non ha niente di vita neppur momentanea, e queste lagune sono immense e frequentissime. Perchè se la morale ch’egli sempre predica è sublime, sono sublimità ordinarie, e appartengono al consueto stile degli oratori, non hanno che fare coll’entusiasmo proprio e presente. Ma tu vorresti ch’egli esaurisse l’affetto ec. Non mi state a insegnare quello che tutti sanno. Dall’eccesso al difetto ci corre un gran divario. Ed è contro natura che un uomo quando si è abbandonato al-l’entusiasmo, ritorni in calma, appena incominciata l’agitazione. E non c’è cosa più dispettosa che l’essere arre-stato in un movimento vivo e intrapreso con tutte le forze dell’animo o del corpo. Leggendo i passi più vivi di Bossuet il passaggio istantaneo e l’alternativa continua e brusca del moto brevissimo, e della quiete perfetta, vi fa sudare, e travagliare. Si accerti lo scrittore o l’oratore, che finattanto che non si stancano le sue forze naturali (non dico artifiziali ma naturali) nemmeno il lettore o uditore si stanca. E fino a quel punto non tema di peccare in eccesso. Il quale anzi è forse meno penoso del difetto, in quanto il lettore sentendosi stanco, lascia di seguir lo scrittore, e anche leggendo, riposa. Ma obbligato [220]a fermarsi prima del tempo, non può, come nell’altro caso, disubbidire allo scrittore, il quale per forza gli taglia le ali. In somma se l’eloquenza è composta di movimenti ed Letteratura italiana Einaudi 241
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia affetti della specie descritta, e di freddezze e trivialità mortali nel resto, allora Bossuet sarà veramente eloquente in mezzo agli eleganti del suo secolo, come dice Voltaire.
(21. Agosto 1820.)
Si dice con ragione che al mondo si rappresenta una Commedia dove tutti gli uomini fanno la loro parte. Ma non era così dell’uomo in natura, perchè le sue operazioni non avevano in vista gli spettatori e i circostanti, ma erano reali e vere.
Della natura abbiamo tutto perduto fuorchè i vizi. Veramente molti di questi non sono naturali, molti sono peggiorati e accresciuti, ma molti saranno ancora primitivi, e in ogni modo non c’è vizio primitivo che non ci rimanga. E tanto più malvagi quanto non sono contemperati colle virtù e con altre qualità che la natura avea poste in noi.
La compassione spesso è fonte di amore, ma quando cade sopra oggetti amabili o per se stessi, o in modo che aggiunta la compassione lo possano divenire. E questa è la compassione che interessa e dura e si riaffaccia più volte all’anima. Maggiori calamità in un oggetto anche inno-centissimo ma non amabile, come in persona vecchia e brutta, non destano che una compassione passeggera, la quale [221]finisce ordinariamente colla presenza dell’oggetto, o dell’immagine che ce ne fanno i racconti ec. (E
l’anima non se ne compiace, e non la richiama.) I quali ancora bisogna che sieno ben vivi ed efficaci per com-muoverci momentaneamente, laddove poche parole bastano per farci compatire una giovane e bella, ancorchè non conosciuta, al semplice racconto della sua disgrazia.
Perciò Socrate sarà sempre più ammirato che compianto, ed è un pessimo soggetto per tragedia. E peccherebbe grandemente quel romanziere che fingesse dei brutti sven-Letteratura italiana Einaudi 242
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia turati. Così il poeta ec. Il quale ancora in qualsivoglia caso o genere di poesia, si deve ben guardare dal dar sospetto ch’egli sia brutto, perchè nel leggere una bella poesia noi subito ci figuriamo un bel poeta. E quel contrasto ci sarebbe disgustosissimo. Molto più s’egli parla di se, delle sue sventure, de’ suoi amori sfortunati, come il Petrarca ec.
La vispezza e tutti i movimenti, e la struttura di quasi tutti gli uccelli, sono cose graziose.
(21. Agosto 1820.)
E però gli uccelli ordinariamente sono amabili.
Quella tal compassione che ho detto per oggetti non amabili, si rassomiglia molto e partecipa del ribrezzo, come se noi vediamo tormentare una bestia ec. E perciò a destarla ci vogliono grandi calamità, altrimenti la compassione per li piccoli mali di quei tali oggetti, appena, o forse neppur si desta negli stessi animi ben fatti.
(21. Agosto 1820.).
[222] Ses héros aiment mieux étre écrasés par la foudre que de faire une bassesse, ET LEUR COURAGE EST
PLUS INFLEXIBLE QUE LA LOI FATALE DE LA NÉCESSITÉ. Barthélemy dove discorre di Eschilo.
(22. Agosto 1820.)
La lettura per l’arte dello scrivere è come l’esperienza per l’arte di viver nel mondo, e di conoscer gli uomini e le cose. Distendete e applicate questa osservazione, specialmente a quello che è avvenuto a voi stesso nello studio della lingua e dello stile, e vedrete che la lettura ha prodotto in voi lo stesso effetto dell’esperienza rispetto al mondo.
(22. Agosto 1820.)
Letteratura italiana Einaudi 243
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Dice Macchiavelli che a voler conservare un regno una repubblica o una setta, è necessario ritirarli spesso verso i loro principii. Così tutti i politici. V. Montesquieu, Grandeur etc. ch.8. dalla metà in poi, dove parla dei Cen-sori. Giordani sulle poesie di M. di Montrone applica questo detto alle arti imitatrici. Ai principii s’intende, non quando erano bambine, ma a quel primo tempo in cui ebbero consistenza. (Così anche si potrebbe applicare alle lingue.) Ed io dico nello stesso senso; a voler conservare gli uomini, cioè farli felici, bisogna richiamarli ai loro principii, vale a dire alla natura. – Oh pazzia. Tu non sai che la perfettibilità dell’uomo è dimostrata. – Io vedo che di tutte le altre opere della natura è dimostrato tutto l’opposto, cioè che non si possono perfezionare, ma alteran-dole, si può solamente corromperle, e questo principalmente per nostra mano. Ma l’uomo si considera quasi come fuori della natura, e non sottomesso alle leggi naturali che governano tutti gli esseri, e appena si riguarda come [223]opera della natura. – Frattanto l’uomo è più perfetto di prima. – Tanto perfetto che, tolta la religione, gli è più spediente il morire di propria mano che il vivere.
Se la perfezione degli esseri viventi si misura dall’infelicità, va bene. Ma che altro indica il grado della loro perfezione se non la felicità? E qual altro è il fine, anzi la perfezione dell’esistenza? in fatto sta che oggidì pare assurdo il richiamare gli uomini alla natura, e lo scopo vero e costante anche dei più savi e profondi filosofi, è di allontanarneli sempre più, quantunque alle volte credano il contrario, confondendo la natura colla ragione. Ma anche non confondendola, credono che l’uomo sarà felice quando si regolerà intieramente secondo la pura ragione. Ed allora si ammazzerà da se stesso.
(23. Agosto 1820.). V. p.358.
Letteratura italiana Einaudi 244
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia T¯n svmatik¯n �skhsin sumb�llesϑai pròw
�ret°w �n�lhcin, conferre ad virtutem capessendam, era insegnamento della setta Cirenaica, o sia de’ seguaci puri di Aristippo. Laerz. in Aristippo l.2. segm.91.
(23. Agosto 1820.)
Mhd¡n te eänai fæsei dÛkaion µ kalòn µ aÞsxròn,
�ll� nñmÄ kaÜ ¦ϑei. Insegnamento della stessa setta.
Ivi segm.93.
(24. Agosto 1820.)
Lord Byron nelle annotazioni al Corsaro (forse anche ad altre sue opere) cita esempi storici, di quegli effetti delle [224]passioni, e di quei caratteri ch’egli descrive.
Male. Il lettore deve sentire e non imparare la conformità che ha la tua descrizione ec. colla verità e colla natura, e che quei tali caratteri e passioni in quelle tali circostanze producono quel tale effetto; altrimenti il diletto poetico è svanito, e la imitazione cadendo sopra cose ignote, non produce maraviglia, ancorchè esattissima. Lo vediamo anche nelle commedie e tragedie, dove certi caratteri straordinari affatto, benchè veri, non fanno nessun colpo. V.
il discorso sui romantici, intorno agli altri oggetti d’imitazione. E come non produce maraviglia, così neanche affetti e sentimenti, e corrispondenza del cuore a ciò che si legge o si vede rappresentare. E la poesia si trasforma in un trattato, e l’azione sua dall’immaginazione e dal cuore passa all’intelletto. Effettivamente la poesia di Lord Byron sebbene caldissima, tuttavia per la detta ragione, la quale fa che quel calore non sia communicabile, è nella massima parte un trattato oscurissimo di psicologia, ed anche non molto utile, perchè i caratteri e passioni ch’egli descrive sono così strani che non combaciano in verun modo col cuore di chi legge, ma ci cascano sopra disadattamente, come per angoli e spicoli, e l’impressione che ci fanno è molto più esterna che interna. E noi Letteratura italiana Einaudi 245
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia non c’interessiamo vivamente se non per li nostri simili, e come gli enti allegorici, o le piante o le bestie ec. così gli uomini [225]di carattere affatto straordinario non sono personaggi adattati alla poesia. Già diceva Aristotele che il protagonista della tragedia non doveva essere nè affatto scellerato nè affatto virtuoso. Schernite pure Aristotele quanto volete, anche per questo insegnamento (come credo che abbian fatto); alla fine la vostra psicologia, s’è vera, vi deve ricondurre allo stesso luogo, e a ritrovare il già trovato.
(24. Agosto 1820.). V. p.238. pensiero 1.
La sola cosa che deve mostrare il poeta è di non capire l’effetto che dovranno produrre in chi legge, le sue immagini, descrizioni, affetti ec. Così l’oratore, e ogni scrittore di bella letteratura, e si può dir quasi in genere, ogni scrittore. Il ne paraît point chercher à vous attendrir:, dice di Demostene il Card. Maury Discours sur l’Éloquence, écoutez-le cependant, et il vous fera pleurer par réflexion.
E quantunque anche la disinvoltura possa essere affettata, e da ciò guasta, tuttavia possiamo dire iperbolicamente, che se veruna affettazione è permessa allo scrittore, non è altra che questa di non accorgersi nè prevedere i begli effetti che le sue parole faranno in chi leggerà, o ascolterà, e di non aver volontà nè scopo nessuno, eccetto quello ch’è manifesto e naturale, di narrare, di celebrare, compiangere ec. Laonde è veramente miserabile e barbaro quell’uso moderno di tramezzare tutta la scrittura o poesia di segnetti e [226]lineette, e punti ammirativi doppi, tripli, ec. Tutto il Corsaro di Lord Byron (parlo della traduzione non so del testo nè delle altre sue opere) è tramezzato di lineette, non solo tra periodo e periodo, ma tra frase e frase, anzi spessissimo la stessa frase è spez-zata, e il sostantivo è diviso dall’aggettivo con queste lineette (poco manca che le stesse parole non siano così divise), le quali ci dicono a ogni tratto come il ciarlatano Letteratura italiana Einaudi 246
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia che fa veder qualche bella cosa; fate attenzione, avvertite che questo che viene è un bel pezzo, osservate questo epiteto ch’è notabile, fermatevi sopra questa espressione, ponete mente a questa immagine ec. ec. cosa che fa dispetto al lettore, il quale quanto più si vede obbligato a fare avvertenza, tanto più vorrebbe trascurare, e quanto più quella cosa gli si dà per bella, tanto più desidera di trovarla brutta, e finalmente non fa nessun caso di quella segnatura, e legge alla distesa, come non ci fosse. Lascio l’incredibile, continuo e manifestissimo stento con cui il povero Lord suda e si affatica perchè ogni minima frase, ogni minimo aggiunto sia originale e nuovo, e non ci sia cosa tanti milioni di volte detta, ch’egli non la ridica in un altro modo, affettazione più chiara del sole, che disgusta eccessivamente, e oltracciò stanca per l’uniformità, e per la continua fatica dell’intelletto necessaria a capire quella studiatissima oscurissima e perenne originalità.
(25. Agosto 1820.)
[227]Come le persone di poca immaginazione e sentimento non sono atte a giudicare di poesia, o scritture di tal genere, e leggendole, e sapendo che sono famose, non capiscono il perchè, a motivo che non si sentono trasportare, e non s’immedesimano in verun modo collo scrittore, e questo, quando anche siano di buon gusto e giudizio, così vi sono molte ore, giorni, mesi, stagioni, anni, in cui le stesse persone di entusiasmo ec. non sono atte a sentire, e ad essere trasportate, e però a giudicare rettamente di tali scritture. Ed avverrà spesso per questa ragione, che un uomo per altro, capacissimo giudice di bella letteratura, e d’arti liberali, concepisca diversissimo giudizio di due opere egualmente pregevoli. Io l’ho provato spesse volte. Mettendomi a leggere coll’animo disposto, trovava tutto gustoso, ogni bellezza mi risaltava all’occhio, tutto mi riscaldava, e mi riempieva d’entusiasmo, e lo scrittore da quel momento mi diventava Letteratura italiana Einaudi 247
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ammirabile, ed io continuava sempre ad averlo in gran concetto. In questa tal disposizione, forse il giudizio può anche peccare attribuendo al libro ec. quel merito che in gran parte spetta al lettore. Altre volte mi poneva a leggere coll’animo freddissimo, e le più belle, più tenere, più profonde cose non erano capaci di commuovermi: per giudicare non mi restava altro [228]che il gusto e il tatto già formato. Ma il mio giudizio si ristringeva così alle cose esterne, e nelle interne a una congettura dell’effetto che l’opera potesse produrre in altrui. E l’opera non mi restava per conseguenza in grande ammirazione. E noterò ancora che alle volte un’altra persona che si trovava in circostanza da esser commosso, mi diceva mari e monti di quel libro, ch’egli leggeva nel medesimo tempo. Questa considerazione deve servire 1. a spiegare la diversità dei giudizi in persone ugualmente capaci, diversità che s’attribuisce sempre a tutt’altro. 2. a non fidarsi troppo dei giudizi anche dei più competenti e di se stesso, ed introdurre un pirronismo necessario anche in questa parte.
Il pubblico, e il tempo non vanno soggetti nei loro giudizi a questo inconveniente.
(25. Agosto 1820.)
Torno, tornio, tornire, torno torno, intorno, attorno derivano dal greco tornñu, torneæv, tñrnow ec. da ter¡v; onde anche in latino, tornus, tornare ec.
(26. Agosto 1820.)
Uomo o uccello o quadrupede ucciso in campagna dalla grandine. V. p.85.
Il volume delle frutta de’ nostri paesi va, non esattamente, ma in genere, appresso a poco in ragione inversa della grandezza delle piante fruttifere. Piccoli arboscelli producono la zucca, il cocomero (uno in quest’anno se n’è veduto [229]fra noi del peso di 28 libbre), il mellone Letteratura italiana Einaudi 248
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ec.: un arboscello un poco più grande produce il pesco, più grande la ciriegia, la mandorla, la noce, l’avellana, ec.: e finalmente la quercia produce la ghianda.
(30. Agosto 1820.)
L’abuso e la disubbidienza alla legge, non può essere impedita da nessuna legge.
Il sistema di Napoleone metteva in somma le sostanze dei privati inabili e inerti fra le mani degli abili e attivi, e il suo governo, contuttochè dispotico, perciò appunto conservava una vita interna, che non si trova mai ne’ governi dispotici, e non sempre nelle repubbliche, perchè l’uomo di talento e volontà di operare, era quasi sicuro di trovare il suo posto di onore e di guadagno. Al che contribuiva la moltiplicità infinita degl’impieghi la quale faceva che ogni uomo abile ed operoso potesse essere man-tenuto e arricchito a spese dei privati inabili e pigri. (Oltre una certa sagacità ed equità nella scelta dei talenti e delle persone). E per una parte non aveva il torto, perchè il privato incapace e indolente, nè beneficato giova, nè maltrattato nuoce alle cose pubbliche. E ne seguiva che tutto il corpo che sotto qualunque governo sarebbe stato morto, si lagnasse di lui, e tutto quello che parte sarebbe stato vivo in qualunque circostanza, parte lo era per la natura e l’efficacia del suo governo, se ne lodasse.
(31. Agosto 1820.)
[230]Dice il Casa (Galateo c.3.) che non è dicevol costume, quando ad alcuno vien veduto per via, come occorse alle volte, cosa stomachevole, il rivolgersi a’ compagni, e mostrarla loro. E molto meno il porgere altrui a fiutare alcuna cosa puzzolente, come alcuni soglion fare, con grandissima istanza pure accostandocela al naso, e dicendo: Deh sentite di grazia come questo pute. Non solo dunque il piacere che si prova, ma anche alcuni incomodi (oltre i Letteratura italiana Einaudi 249
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia dolori delle sventure ec.) si vogliono quasi per naturale inclinazione partecipare agli altri, e questa partecipazione ci diletta, e ci dà pena il non conseguirla. Ne inferirai che dunque l’uomo è fatto per vivere in società. Ma io dico anzi che questa inclinazione o desiderio, benchè paia naturale, è un effetto della società, bensì effetto prontissimo e facile, perchè si dimostra anche ne’ fanciulli, e forse più spesso che negli adulti. V. p.208. e 85. fine.
(4. Settembre 1820.)
Intertenere è composto di una preposizione totalmente latina inter, che gl’italiani dicono tra, onde trattenere ch’è quasi una traduzione d’intertenere. E come trattenere manifesta origine italiana, così l’altro verbo si dimostra palesemente per derivato dal latino a noi, non essendo verisimile che gli antichi italiani inventassero una parola di questa forma. Interporre, intercedere, interregno, sono parimente derivate dall’antico latino.
[231]�Edege (Socrate) kaÜ mñnon �gaϑòn eänai, t¯n
¤pist®mhn, kaÜ ©n mñnon kakòn, t¯n �maϑÛan, dice il Laer. in Socr. l.2. segm.31. Oggidì possiamo dire tutto l’opposto, e questa considerazione può servire a definire la differenza che passa tra l’antica e la moderna sapienza.
Omero e Dante per l’età loro seppero moltissime cose, e più di quelle che sappiano la massima parte degli uomini colti d’oggidì, non solo in proporzione dei tempi, ma anche assolutamente. Bisogna distinguere la cognizione materiale dalla filosofica, la cognizione fisica dalla matematica, la cognizione degli effetti dalla cognizione delle cause. Quella è necessaria alla fecondità e varietà dell’immaginativa, alla proprietà verità evidenza ed efficacia dell’imitazione. Questa non può fare che non pregiudichi al poeta. Allora giova sommamente al poeta l’erudizione, quando l’ignoranza delle cause, concede al Letteratura italiana Einaudi 250
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia poeta, non solamente rispetto agli altri ma anche a se stesso, l’attribuire gli effetti che vede o conosce, alle cagioni che si figura la sua fantasia.
(5. Settembre 1820.)
C’est que cela me donnera un battement de coeur, répon-dit – elle NAÎVEMENT; et je suis si heureuse quand le coeur me bat! dice Lady Morgan (France. l.3. 1818. t.1
p.218.) di una Dama francese [232]e civetta. Queste naï-
vetés negli scrittori francesi, come p.e. nel Tempio di Gnido, contrastano in maniera col carattere del loro stile, della loro lingua quale è ridotta presentemente, (giacchè nel francese antico avrebbero fatto diversissima figura) e anche col carattere nazionale, che sono piuttosto affettazioni che naturalezze, e non fanno verun buono effetto, ma semplicemente risaltano, come una singolarità ricercata, nello stesso modo che p.e. nello stile greco risalterebbero le eleganze e il manierato del francese, e contrasterebbero col rimanente.
L’origine del sentimento profondo dell’infelicità, ossia lo sviluppo di quella che si chiama sensibilità, ordinariamente procede dalla mancanza o perdita delle grandi e vive illusioni; e infatti l’espressione di questo sentimento, comparve nel Lazio col mezzo di Virgilio, appunto nel tempo che le grandi e vive illusioni erano svanite pel privato romano che n’era vissuto sì lungo tempo, e la vita e le cose pubbliche aveano preso l’andamento dell’ordine e della monotonia. La sensibilità che si trova nei giovani ancora inesperti del mondo e dei mali, sebbene tinto di malinconia, è diverso da questo sentimento, e promette e dà a chi lo prova, non dolore ma piacere e felicità.
(6. settembre 1820.)
Letteratura italiana Einaudi 251
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia
[233]A un gran fautore della monarchia assoluta che diceva, La costituzione d’Inghilterra è cosa vecchia e adattata ad altri tempi, e bisognerebbe rimodernarla, rispose uno degli astanti, È più vecchia la tirannia.
(7. Settembre 1820.)
Al capoverso primo della p.206. aggiungi: Et si elles (les Françoises) ont un amant, elles ont autant de soin de ne pas donner à l’heureux mortel des marques de prédi-lection en public, qu’un Anglois du bon ton de ne pas paroître amoureux de sa femme en compagnie. Morgan, France. t.1.1818. p.253. liv.3.
A quello che ho detto p.207. si può aggiungere quello che dice Algarotti dell’immenso studio che bisogna oggidì per divenir letterato di qualche pregio nel mondo, dove non passa più per vero letterato chi non è enciclopedico, studio al quale solo basta appena la vita dell’uomo innanzi di poterlo mettere a frutto coi parti del proprio ingegno, a differenza del poco studio che bisognava agli antichi.
(8. settembre 1820.)
La compassione come è determinata in gran parte dalla bellezza rispetto ai nostri simili, così anche rispetto agli altri animali, quando noi li vediamo soffrire. Che poi oltre la bellezza, una grande e somma origine di compassione sia la differenza [234]del sesso, è cosa troppo evidente, quando anche l’amore non ci prenda nessuna parte. P.e. ci sono molte sventure reali e tuttavia ridicole, delle quali vedrete sempre ridere molto più quella parte degli spettatori che è dello stesso sesso col paziente, di quello che faccia o sia disposta o inclinata a fare l’altra parte, massimamente se questa è composta di donne, perchè l’uomo com’è più profondo nei suoi sentimenti, così è molto più duro e brutale nelle sue insensibilità e Letteratura italiana Einaudi 252
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia irriflessioni. E questo, tanto nel caso della bellezza, quanto della bruttezza o mediocrità del paziente. Del resto è così vero che le piccole sventure dei non belli non ci commuovono quasi affatto, che bene spesso siamo inclinati a riderne.
Come la debolezza è un grande eccitamento alla compassione, anche rispetto ai non belli, così non è forse cosa tanto contraria alla compassione, quanto il veder l’impazienza del male, la malignità dello spirito, pronto a scher-nire lo stesso o altro male o difetto in altrui, il cattivo umore, la collera di chi soffre. E pochissima o nessuna compassione può sperare chi non ha sortito dalla [235]natura o acquistato dalla disgrazia una dolcezza e mansue-tudine di carattere, almeno apparente. E questo deve servir di regola ai poeti ed artisti nel formare i personaggi che si vogliono compassionevoli. Sebbene l’eroismo, e il disprezzo del male che si soffre possa ancora produrre un buon effetto, contuttociò relativamente al muover la compassione non c’è miglior qualità della sopraddetta, qualità la quale io so per esperienza che si acquista quasi per forza coll’uso delle sventure, non ostante che naturalmente fossimo dominati dalla qualità contraria.
Non è cosa tanto nemica della compassione quanto il vedere uno sventurato che non è stato in niente migliorato, nè ha punto appreso dalle lezioni della sventura, maestra somma della vita. Perchè la prosperità abbagliando e distraendo l’intelletto, è madre e conservatrice d’illusioni, e la sventura dissipatrice degl’inganni, e introduttrice della ragione e della certezza del nulla delle cose. E uno sventurato che non ha goccia di sentimento, che non arriva a sublimare un istante l’anima sua colla considerazione dei mali, che non ha acquistato nelle sue parole, almeno quando parla di se, niente di eloquenza e di affetto, che non mostra una certa grandezza d’animo, Letteratura italiana Einaudi 253
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia non per disprezzare, ma per nobilitare la sua sventura
[236]quasi col sentimento di esserne indegno, e di non lasciarsene abbattere senza una magnanima compassione di se; uno sventurato che vi parla delle sue sventure, coll’amor proprio il più basso, col dolore il più egoista, e vi fa capire che egli è tanto afflitto del male che soffre, che voi non potreste mai arrivare (notate) ad uguagliare l’afflizion sua colla vostra compassione (l’uomo veramente penetrato di compassione si persuade che il paziente non sia più addolorato di lui, in somma non fa differenza fra il paziente e se stesso, essendo pronto a tutto per aiutar-lo, e perciò non mette divario tra il dolore del paziente e il suo proprio); questo sventurato non otterrà forse un’ombra di compassione, e il suo male sarà dimenticato, appena saremo lontani da lui.
Tutto quello che ho detto in parecchi luoghi dell’affettazione dei francesi, della loro impossibilità di esser graziosi ec. bisogna intenderlo relativamente alle idee che le altre nazioni o tutte o in parte, o riguardo al genere, o solamente ad alcune particolarità, hanno dell’affettazione grazia ec. perchè riflette molto bene Morgan France l.3. t.1 p.257. Il faut pourtant accorder beaucoup à la différence des manières nationales; et celles de la femme françoise la plus amie du naturel doivent porter avec elle ce qu’un Anglois, dans le premier moment, jugera une teinte d’affectation, jusqu’à ce que l’expérience en fasse mieux juger.
(9. settembre 1820.)
[237]Anche l’affettazione è relativa, e la tal cosa parrà affettazione in un paese e in un altro no, in una lingua e in un’altra no, o maggiore in questa e minore in quella, dipendendo dalle abitudini, opinioni ec. L’espressione del sentimentale conveniente in Francia sarà affettata per noi, quella conveniente per noi, sarebbe parsa affettazio-Letteratura italiana Einaudi 254
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ne agli antichi. La grazia francese affettata per noi, non lo sarà per loro. Tuttavia è certo che la naturalezza ha un non so che di determinato e di comune, e che si fa conoscere e gustare da chicchessia, ma com’ella si conosce quando si trova, così le assuefazioni ec. impediscono spessissimo di essere choqués della sua mancanza, e di avvedercene. V. p.201. fine.
La semplicità dev’esser tale che lo scrittore, o chiunque l’adopra in qualsivoglia caso, non si accorga, o mostri di non accorgersi di esser semplice, e molto meno di esser pregevole per questo capo. Egli dev’esser come inconsa-pevole non solo di tutte le altre bellezze dello scrivere, ma della stessa semplicità. Homme d’une simplicité rare, dice La Harpe di La Fontaine ( Éloge de La Fontaine), qui sans doute ne pouvait pas ignorer son genie, mais ne l’appréciait pas, et qui même, s’il pouvait être témoin des honneurs qu’on lui rend aujourd’hui, serait étonné de sa gloire, et aurait besoin qu’on lui révélât le secret de son mérite. La stessa cosa [238]in molto maggior grado si può dire degli scritti di Senofonte, e caratterizzarne la semplicità.
(10. settembre 1820.)
Sono state sempre derise quelle poesie che aveano bisogno di note per farsi intendere. E tuttavia queste note riguardavano cose accessorie o secondarie, nomi, allusio-ni, fatti poco noti e male espressi ec. Che si dirà di quei poemi che hanno bisogno di note dichiarative delle cose sostanziali e principali, vale a dire dei caratteri, e delle proprietà ed operazioni del cuore umano che descrivono, come sono i poemi di Lord Byron? Questi sono i riformatori della poesia? Questi sono i grandi psicologi?
Ma senza psicologia sapevamo già da gran tempo che in questo modo non si fa effetto in chi legge. V. le p.223-225.
Letteratura italiana Einaudi 255
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia La negligenza e l’irriflessione spessissimo ha l’apparenza e produce gli effetti della malvagità e brutalità. E merita di esser considerata come una delle principali e più frequenti cagioni della tristizia degli uomini e delle azioni. Passeggiando con un amico assai filosofo e sensibile, vedemmo un giovanastro che con un grosso bastone, passando sbadatamente e come per giuoco, menò un buon colpo a un povero cane che se ne stava pe’ fatti suoi senza infastidir nessuno. E parve segno all’amico di pessimo carattere in quel giovane. A me parve segno di brutale irriflessione. [239]Questa molte volte c’induce a far cose dannosissime o penosissime altrui, senza che ce ne accorgiamo (parlo anche della vita più ordinaria e giornaliera, come di un padrone che per trascuraggine lasci penare il suo servitore alla pioggia ec.) e avvedutici, ce ne duole; molte altre volte, come nel caso detto di sopra, sappiamo bene quello che facciamo, ma non ci curiamo di considerarlo, e lo facciamo così alla buona, e considerandolo bene non lo faremmo. Così la trascuranza prende tutto l’aspetto, e produce lo stessissimo effetto della malvagità e crudeltà, non ostante che ogni volta che tu riflettessi, fossi molto alieno dalla volontà di produrre quel tale effetto, e che la malvagità e crudeltà non abbia
che fare col tuo carattere.
(11 settembre 1820.)
Non per altro che per odio della noia vediamo oggidì concorrere avidamente il popolo agli spettacoli sangui-nosi delle esecuzioni pubbliche, e a tali altri, che non hanno niente di piacevole in se (come potevano averne quelli de’ gladiatori e delle bestie nel circo, per la gara, l’apparato ec.) ma solamente in quanto fanno un vivo contrasto colla monotonia della vita. Così tutte le altre cose straordinarie, e perciò gradite, benchè non solo non piacevoli, ma dispiacevolissime in se.
Letteratura italiana Einaudi 256
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Dall’orazione di M. Tullio pro Archia si vede che la lingua greca era considerata allora come [240]universale, nello stesso modo che la francese oggidì, e l’uso e intelligenza della lingua latina era ristretta a pochi, Latina suis finibus, exiguis sane, continentur. Perciocchè le scritture greche si leggono in quasi tutte le genti, le latine restano dentro a’ loro confini così stretti come sono. Cic. l.c. E nondimeno l’impero romano fu forse il maggiore di quanti mai si viddero, e i romani al tempo di Cicerone, erano già padroni del mare, ed esercitavano gran commercio. Così ora si vede che gl’inglesi sono padroni del mare e del commercio, e sebbene la loro lingua, è perciò più diffusa di molte altre, nondimeno non è nè conosciuta nè usata universalmente, ma da pochi in ciascun paese, e cede di gran lunga alla francese, che non s’è mai trovata favorita da un commercio così vasto. Onde si può ben dedurre, che la diffusione di una lingua, se ha bisogno di una certa grandezza e influenza della nazione che la parla (perchè la lingua francese, per quanto adattata alla universalità, non sarebbe divenuta universale, se avesse appartenuto a una piccola, e impotente nazione p.e. alla Svizzera), contuttociò dipende principalmente dalla natura di essa lingua. Non vale il dire che i greci erano diffusissimi per le colonie. Molto più lo erano i romani in quel tempo, e non solo per le colonie, ma per le armate, governi, tribunali ec. ec. Ma quando una lingua si diffonde per mezzo delle colonie, si può dire che si diffonda piuttosto la nazione che la lingua, essendo [241]ben naturale che una città di romani in qualunque luogo del mondo, parli la lingua romana, e così un’armata ec. Ma questo non ha che fare coll’adottarsi generalmente una lingua dagli stranieri, coll’essere tutti gli uomini colti di qualunque nazione, quasi dÛglvttoi, (v. p.684.) e col potere un viaggiatore farsi intendere con quella lingua in qualunque luogo. Ora in questo consiste l’universalità di una lingua, Letteratura italiana Einaudi 257
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia e non 1. nell’esser parlata da’ nazionali suoi, in molte parti del mondo, 2. nell’essere anche introdotta presso molte nazioni col mezzo di quelli che la parlano naturalmente, sia coll’abolire la lingua dei vari paesi (quando anzi la diglvttÛa suppone che questa si conservi), sia coll’alterarla o corromperla più o meno per mezzo della mescolanza. Cosa che vediamo accaduta nel latino, del quale si trovano vestigi notabilissimi in molte parti d’Europa (forse anche di fuori) (come se non erro in Transilvania, in Polonia, in Russia ec.) e si vede ch’ella si era stabilita nella Spagna e la Francia dove poi ne derivarono, corrompendosi la latina, le lingue spagnuola e francese; e nell’Affrica Cartaginese e Numidica ec.; quando della greca forse non si troveranno, o meno; e contuttociò la lingua latina non è stata mai universale nel senso spiegato di sopra, come non è universale oggi la lingua inglese perciò ch’ella è stabilita e si parla come lingua materna in tutte quattro le parti del mondo. (in ciascuna delle quattro parti). È noto poi come i greci l’ignorassero sempre, il che forse contribuì a conservar più a lungo la purità della loro lingua, la sola che conoscessero. E quanto [242]alle colonie la Francia ha sempre o quasi sempre ceduto all’Inghilterra, alla Spagna, e fino al Portogallo, come nel commercio. Neanche la letteratura è cagione principale della universalità di una lingua. La letteratura italiana primeggiò lungo tempo in Europa, ed era conosciuta e studiata per tutto, anche dalle dame, come in Francia da Mad. di Sévigné ec.
senza che perciò la lingua italiana fosse mai universale. E
se gl’italianismi guastavano la lingua francese al tempo delle Medici, come ora i francesismi guastano l’italiano, questo va messo nella stessa categoria della corruzione che producono le colonie, le armate ec. (corruzione facilissima e sensibilissima. Pochi soldati napoletani stanziati nella mia patria al mio tempo per uno o due anni, aveano introdotto nel volgo parecchie parole ed espressioni del loro dialetto. Perchè il volgo 1. era colpito da quella no-Letteratura italiana Einaudi 258
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia vità. 2 si faceva un pregio o un capriccio d’imitare quei forestieri ec.). La letteratura, lingua e costumi spagnuoli si divulgarono molto, quando la Spagna acquistò una certa preponderanza in Europa, e massime in Italia (dove restano ancora alcune parole derivate credo allora dallo spagnuolo), ma l’influenza loro finì con quella della nazione. Laonde sebbene la letteratura greca, massime al tempo di Cicerone cioè [243]prima del secolo di Augusto, era infinitamente superiore alla latina, e più divulgata e famosa, questa ragione non basta. L’universalità di una lingua deriva principalmente, dalla regolarità geometrica e facilità della sua struttura, dall’esattezza, chiarezza materiale, precisione, certezza de’ suoi significati ec. cose che si fanno apprezzare da tutti, essendo fondate nella secca ragione, e nel puro senso comune, ma non hanno che far niente colla bellezza, ricchezza (anzi la ricchezza confonde, difficulta, e pregiudica), dignità, varietà, armonia, grazia, forza, evidenza, le quali tanto meno conferiscono o importano alla universalità di una lingua, quanto 1. non possono esser sentite intimamente, e pregiate se non dai nazionali, 2. ricercano abbondanza d’idiotismi, figure, insomma irregolarità, che quanto sono necessarie alla bellezza e al piacere, il quale non può mai stare colla monotonia, e collo scheletro dell’ordine matematico, tanto nocciono alla mera utilità, alla facilità ec. La lingua greca sebbene ricchissima ec. ec. ec. tuttavia era semplicissima nella sua nativa costruzione (dico nativa, perchè poi fu alterata dagli scrittori più bassi che pretendevano all’eleganza), laddove la latina era estremamente figurata, e la proprietà de’ suoi composti le dava una facilità e precisione materialissima di significati, sebbene nuocesse non poco alla varietà la quale non può risultare [244]dalla copia de’ composti ma delle radici, come nel latino e italiano. E di queste pure la lingua greca abbonda sommamente, ma può anche fare a meno della massima parte, e con poche radici, e infiniti composti formare tutto il di-Letteratura italiana Einaudi 259
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia scorso. Tale infatti era il costume degli antichi scrittori greci (Luciano e gli altri più bassi, sono molto più vari e ricchi di radici). Perchè il vocabolario di ciascheduno, osservandolo bene, si compone di molto poche parole, che ritornano a ogni tratto, essendo raro che quegli antichi varino la parola o la frase per esprimere una stessa cosa. Onde segue che siccome la lingua greca per se stessa è immensa, così passando da uno scrittore all’altro, ritrovate un altro piccolo vocabolario suo proprio, del quale parimente si contenta, e le espressioni familiari di ciascuno autor greco sono moltissime e continue, ma diverse quelle dell’uno da quelle dell’altro, quasi fossero più lingue. Dal che si può dedurre che la lingua greca benchè ricchissima nondimeno con un piccolo vocabolario può comporre tutto il discorso, e questi vocabolari possono esser molti e diversi, cosa dimostrata dal fatto, e dal vedersi negli scrittori greci più che in quelli d’altra lingua, che la facilità acquistata nel leggere e intendere uno scrittore, non vi giova interamente nel passare a un altro, do-vendovi quasi familiarizzare con un altro linguaggio.
Questo appartiene esclusivamente alla lingua, ma anche bisogna [245]notare che la lingua greca come l’italiana, si presta a ogni sorta di stili, e non ha carattere determinato, ma lo riceve dal soggetto e dallo scrittore, laonde il suo carattere varia, anche in questo senso, e per questo motivo, secondo le diverse opere, come la lingua di Dante o dell’Alfieri paragonata con quella del Petrarca ec.
(12-13-14. settembre 1820.). V. p.1029. fine.
L’irresoluzione è peggio della disperazione. Questa massima mi venne profferita nettamente e letteralmente in sogno l’altro ieri a notte, in occasione che mio fratello mi pareva deliberato per disperazione di farsi Cappucci-no, e io ricusava di allegargli quelle ragioni che gli avrebbero sospeso l’animo, adducendo la detta massima.
(14. Settembre 1820.)
Letteratura italiana Einaudi 260
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia La lirica si può chiamare la cima il colmo la sommità della poesia, la quale è la sommità del discorso umano.
Però i francesi che sono rimasti molte miglia indietro del sublime nell’epica, molto meno possono mai sperare una vera lirica, alla quale si richiede un sublime d’un genere tanto più alto. Il Say nei Cenni sugli uomini e la società, chiama l’ode, la sonata della letteratura. È un pazzo se stima che l’ode non possa esser altro, ma ha gran ragione e intende parlare delle odi che esistono, massime delle francesi.
[246]I francesi non solamente non sono atti al sublime, nè avvezzi a sentirlo dai loro nazionali, o a produrlo in qualunque forma (applicate questa osservazione ch’è anche letteralmente di Lady Morgan, e universale, ai miei pensieri sopra Bossuet), ma disublimano ancora le cose veramente sublimi, come nelle traduzioni ec.
Dalla teoria del piacere esposta in questi pensieri si comprende facilmente quanto e perchè la matematica sia contraria al piacere, e siccome la matematica, così tutte le cose che le rassomigliano o appartengono, esattezza, secchezza, precisione, definizione, circoscrizione, sia che appartengano al carattere e allo spirito dell’individuo, sia a qualunque cosa corporale o spirituale.
Tant’è. Le cose per se stesse non sono piccole. Il mondo non è una piccola cosa, anzi vastissima e massimamente rispetto all’uomo. Anche l’organizzazione de’ più minuti e invisibili animaluzzi è una gran cosa. La varietà della natura solamente in questa terra è infinita; che diremo poi degli altri infiniti mondi? Sicchè per una parte si può dire che non la grandezza delle cose, ma anzi la loro nullità così evidente e sensibile all’uomo, è una pura illusione. Ma basta che l’uomo abbia veduto la misura di Letteratura italiana Einaudi 261
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia una cosa ancorchè smisurata, basta che sia giunto a cono-scerne [247]le parti, o a congetturarle secondo le regole della ragione; quella cosa immediatamente gli par piccolissima, gli diviene insufficiente, ed egli ne rimane scon-tentissimo. Quando il Petrarca poteva dire degli antipodi, e che ‘l dì nostro vola A gente che di là FORSE l’aspetta, quel forse bastava per lasciarci concepir quella gente e quei paesi come cosa immensa, e dilettosissima all’immaginazione. Trovati che si sono, certamente non sono impiccoliti, nè quei paesi son piccola cosa, ma appena gli antipodi si son veduti sul mappamondo, è sparita ogni grandezza ogni bellezza ogni prestigio dell’idea che se ne aveva. Perciò la matematica la quale misura quando il piacer nostro non vuol misura, definisce e circoscrive quando il piacer nostro non vuol confini (sieno pure vastissimi, anzi sia pur vinta l’immaginazione dalla verità), analizza, quando il piacer nostro non vuole analisi nè cognizione intima ed esatta della cosa piacevole ( quando anche questa cognizione non riveli nessun difetto nella cosa, anzi ce la faccia giudicare più perfetta di quello che credevamo, come accade nell’esame delle opere di genio, che scoprendo [248] tutte le bellezze, le fa sparire), la matematica, dico, dev’esser necessariamente l’opposto del piacere.
(18. settembre 1820.)
L’occupazione della società, come quella che offre la società francese, riempie veramente la vita, la riempie dico materialmente, ma non lascia così poco vuoto nell’animo come la occupazione destinata a provvedere ai propri bisogni, ch’era quella dell’uomo primitivo. E la sera, l’uo-mo che ha passata la giornata tutta intera nel mondo il più vivo, vario, e pieno, e ne’ divertimenti anche meno noiosi, e che si trova anche senza cure e dispiaceri, ripensando alla giornata passata, e considerando la futura, non si trova di gran lunga così contento e pieno, come colui che considera i bisogni ai quali ha provveduto, e fa i suoi Letteratura italiana Einaudi 262
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia disegni sopra quelli a’ quali provvederà l’indomani. Qualche cosa di serio è necessario che formi la base della nostra occupazione per condurci ad una certa felicità (più o meno serio, secondo gl’individui), e se bene tutte le cose sono ugualmente importanti per se stesse, e il nostro fine sia sempre il piacere, nondimeno il puro spasso non è mai capace di soddisfarci. La cagione è che ci bisogna un fine dell’occupazione, uno scopo al quale mirare, acciocchè al piacere dell’occupazione si aggiunga quello della speranza, che bene spesso forma essa sola il piacere dell’occupazione V. gli altri miei pensieri in questo proposito.
[249]Gli Egesiaci (ramo della setta Cirenaica) dicevano secondo il Laerzio (in Aristippo l.2. segm.95.) tñn te sofòn ¥autoè §neka p�nta pr�jein. Questa
potrebb’esser la divisa di tutti i sapienti moderni, in quanto sapienti.
La natura in quanto natura assoluta e primitiva non ci ha dato idea di altri doveri che verso noi stessi, ed ha limitato le norme del giusto ai rapporti che l’animale ha con se stesso. Già verso gli animali d’altra specie non è dubbio che la natura non ha dettato nessuna regola di onestà e di rettitudine, perchè l’uomo non prova nessuna ripugnanza nel far male agli altri animali anche senza suo vantaggio e per mero diletto, come a uccidere una formica ec. E gli altri animali si pascono bene spesso di animali di altra specie. Ma eziandio nella propria specie, l’uomo assolutamente primitivo, non sente ingenitamente nessuna colpa a far male a’ suoi simili per suo vantaggio, come non la sentono gli altri animali, che maltrattano, combattono, e alle volte anche si cibano dei loro simili, ed anche (sento dire) dei propri figli. In quanto però alla figliuolanza è certo che la natura ha dettato alcune leggi, o siano di semplice amore e inclinazione libera, o sieno Letteratura italiana Einaudi 263
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia anche sentimenti di dovere; ma non perpetui; solo fino a un certo tempo, come vediamo negli animali, [250]che dopo alcun tempo è verisimile che non riconoscano affatto i propri figli, massime quegli animali che ogni anno ne producono più d’uno. E così avverrebbe all’uomo se il figlio arrivato all’età di provvedersi da se, si separasse dai genitori, e questi l’uno dall’altro, come fanno gli animali. Giacchè la necessità del concubitu prohihere vago, non prova nulla in favore della società, perchè anche gli uccelli si fabbricano il talamo espressamente e convivono con legge di matrimonio finchè bisogna all’educazione sufficiente dei prodotti di quel tal matrimonio, e nulla più; e non per questo hanno società. Nè la detta necessità, riguardo all’uomo, si estende più oltre di questo naturalmente, ma artifizialmente, e a posteriori, cioè posta la società, la quale necessita la perpetuità de’ matrimoni, e la distinzione delle famiglie e delle possidenze.
(19. settembre 1820.)
Una prova evidente e popolare, frequente nella vita, e giornaliera, che il piccolo è considerato come grazioso, si è il vezzo dei diminutivi che si sogliono applicare alle persone o cose che si amano, o si vogliono vezzeggiare, pregare, addolcire, descrivere come graziose ec. E così al contrario volendo mettere in ridicolo qualche persona o cosa tutt’altro che graziosa, se le applica il diminutivo perchè la renda ridicola colla forza del contrasto. Quest’uso è così antico [251](nel latino, greco ec.) e così universale oggidì che si può considerare come originato dalla natura, e non dal costume o dalla proprietà di questa o quella lingua. E i francesi che non hanno se non pochissimi diminutivi, nei casi detti di sopra, fanno grand’uso di questi pochissimi, o suppliscono col petit, dimostrando che l’inclinazione ad attribuire ed esprimer piccolezza in quelle tali circostanze, non è capriccio o assuefazione, ma natura, ed effetto di un’opinione innata che la piccolezza Letteratura italiana Einaudi 264
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia sia quasi compagna della grazia e piacevolezza, cose ben distinte dalla bellezza colla quale non ha che fare questo attributo. E nello stesso modo, volendo ingiuriare, dipingere come sgraziato, discacciare, ec. ec. qualunque persona o cosa, si adopera l’accrescitivo; e in genere l’accrescitivo par che sempre tolga grazia al soggetto, anzi sia l’opposto della grazia, e piacevolezza.
(22. settembre 1820.)
Bonaparte per isnidare i malandrini da una contrada di Parigi v’introdusse i giullari e i giocolieri per richiamarvi il popolo, e frequentarla. (V. Lady Morgan, France liv.5.
principio). Il Papa alcuni mesi addietro per isnidare i malviventi da Sonnino luogo di loro rifugio nei confini del suo stato verso Napoli, decretò la distruzione di quel paese. Bonaparte popolò il nido dei ladroni per cacciarneli, e ottenne [252]l’intento; il Papa giudicò di non potere ottenerlo fuorchè colla distruzione di quel luogo. Dice Cicerone che si devastano e distruggono le città nemiche, ma che se distruggiamo le nostre proprie, ci caviamo gli occhi di nostra mano.
Alla tirannia fondata sopra l’assoluta barbarie, superstizione, e intera bestialità de’ sudditi, giova l’ignoranza, e nuoce definitivamente e mortalmente l’introduzione dei lumi. Perciò Maometto, con buona ragione proibì gli studi. Alle tirannie esercitate sopra popoli inciviliti fino a un certo punto, fino a quel mezzo, nel quale consiste la vera perfezione dell’incivilimento e della natura, l’incremento e propagazione dei lumi, delle arti, mestieri, lusso ec. non solamente non pregiudica, ma giova sommamente, anzi assicura e consolida la tirannia, perchè i sudditi da quello stato di mediocre incivilimento che lascia la natura ancor libera, e le illusioni, e il coraggio, e l’amor di gloria e di patria, e gli altri eccitamenti alle grandi azioni, passa al-l’egoismo, all’oziosità riguardo all’operare, all’inattività, Letteratura italiana Einaudi 265
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia alla corruttela, alla freddezza, alla mollezza ec. La sola natura è madre della grandezza e del disordine. La ragione tutto all’opposto. La tirannia non è mai sicura se non quando il popolo non è capace di grandi azioni. Di queste non può esser capace per ragione, ma per natura.
Augusto, Luigi 14. ed altri tali mostrano di aver bene inteso queste verità.
(28. settembre 1820.)
[253]Dal 2. pensiero della p.116. inferite come, anche secondo questa sola considerazione, il Cristianesimo debba aver reso l’uomo inattivo e ridottolo invece ad esser contemplativo, e per conseguenza com’egli sia favorevole al dispotismo, non per principio (perchè il cristianesimo nè loda la tirannia, nè vieta di combatterla, o di fuggirla, o d’impedirla), ma per conseguenza materiale, perchè se l’uomo considera questa terra come un esilio, e non ha cura se non di una patria situata nell’altro mondo, che gl’importa della tirannia? Ed i popoli abituati (massime il volgo) alla speranza di beni d’un’altra vita, divengono inetti per questa, o se non altro, incapaci di quei grandi stimoli che producono le grandi azioni. Laonde si può dire generalmente anche astraendo dal dispotismo, che il cristianesimo ha contribuito non poco a distruggere il bello il grande il vivo il vario di questo mondo, riducendo gli uomini dall’operare al pensare e al pregare, o vero all’operar solamente cose dirette alla propria santificazione ec. sopra la quale specie di uomini è impossibile che non sorga immediatamente un padrone. Non è veramente che la religion cristiana condanni o non lodi l’attività. Esempio un San Carlo Borromeo, un San Vincenzo de Paolis.
Ma in primo luogo l’attività di questi santi [254]se bene li portava ad azioni eroiche (e per questa parte grandi) ed utili, non dava gran vita al mondo, perchè la grandezza delle loro azioni era piuttosto relativa ad essi stessi che assoluta, e piuttosto intima e metafisica, che materiale. In Letteratura italiana Einaudi 266
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia secondo luogo, parendo che il cristianesimo faccia consistere la perfezione piuttosto nell’oscurità nel silenzio, e in somma nella totale dimenticanza di quanto appartiene a questo esilio, egli ha prodotto e dovuto produrre cento Pacomi e Macari per un San Carlo Borromeo, ed è certo che lo spirito del Cristianesimo in genere portando gli uomini, come ho detto, alla noncuranza di questa terra, se essi sono conseguenti, debbono tendere necessariamente ad essere inattivi in tutto ciò che spetta a questa vita, e così il mondo divenir monotono e morto. Paragonate ora queste conseguenze, a quelle della religione antica, secondo cui questa era la patria, e l’altro mondo l’esilio.
(29. settembre 1820.)
Il costume e la massima di macerare la carne, e indebolire il corpo per ridurlo, come dice S. Paolo, in servitù, dovea necessariamente illanguidire le passioni e l’entusiasmo, e render soggetti anche gli animi di chi cercava di soggiogare il corpo, e così per una parte contribuire infinitamente a spegner la vita del mondo, per l’altra ad appianar la strada al dispotismo, perchè non ci son forse uomini così atti ad esser tiranneggiati [255]come i deboli di corpo, da qualunque cagione provenga questa debolezza, o da lascivia e mollezza, come presso i Persiani, che dopo il tempo di Ciro divennero l’esempio dell’avvilimen-to e della servitù; o da macerazione ec. Nel corpo debole non alberga coraggio, non fervore, non altezza di sentimenti, non forza d’illusioni ec.
(30. settembre 1820.)
Nel corpo servo anche l’anima è serva.
L’allegria bene spesso è madre di benignità e d’indul-genza, al contrario delle cure e dei mali umori. Questa è cosa nota e osservata, sicchè non mi fermerò a cercarne la ragione, ch’è facile a trovare. Ma solamente considererò Letteratura italiana Einaudi 267
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia l’armonia della natura, la quale mirando sempre alla felicità degli esseri, e per conseguenza l’allegria nel sistema naturale dovendo essere la condizione più frequente della vita, ha voluto che fosse compagna della piacevolezza verso i suoi simili, virtù somma nella società, e per conseguenza che l’allegria fosse utile non solo all’individuo, ma anche agli altri, e servisse alla società, e rendesse l’uo-mo verso altrui, tale quale dev’essere.
L’uomo superiore, oggidì colla cognizione e sperienza del mondo, si può dire, benchè sembri un paradosso, che si avvezzi a pregiare piuttosto che a dispregiare. Dico riguardo alle cose reali. Perchè [256]mentre egli è inesperto del mondo, i piccoli pregi, i principii di virtù, le piccole bellezze o bontà o grandezze in qualsivoglia genere di cose, gli paiono dispregevoli, paragonando sempre gli altri a se stesso, com’è costume degli uomini, o paragonando le cose alla sua immaginativa. Ma colla sperienza, trovandosi sempre in mezzo ad eccessive piccolezze, malvagità, sciocchezze, bruttezze ec. appoco appoco si avvezza a stimare quei piccoli pregi che prima spregiava, a contentarsi del poco, a rinunziare alla speranza dell’ottimo o del buono, e a lasciar l’abitudine di misurar gli uomini e le cose con se stesso, e colla immaginazion sua. Laonde siccome prima egli non istimava se non le cose lontane, le quali, in quel modo in cui egli le concepiva, non erano reali, si può dire che il numero delle cose reali ch’egli stima vada sempre crescendo, se bene diminuisca la misura della stima assoluta, e il numero assoluto delle cose ch’egli stimava, perchè sono molte più quelle cose ch’egli pregiava lontane, e disprezza vicine, di quelle che da principio non curava, ed ora è necessitato a pregiare.
(30. settembre 1820.)
Si mise un paio di occhiali fatti della metà del meridia-no co’ due cerchi polari.
Letteratura italiana Einaudi 268
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Una casa pensile in aria sospesa con funi a una stella.
(1 Ottobre 1820.)
[257]Alle volte la vivacità (sia del viso, o dei movimenti, o delle azioni ec.), alle volte la languidezza e flemma è madre di grazia. E chi è preso più da quella, chi più da questa.
Bisogna distinguere in fatto di belle arti, entusiasmo, immaginazione, calore ec. da invenzione massimamente di soggetti. La vista della bella natura desta entusiasmo.
Se questo entusiasmo sopraggiunge ad uno che abbia già per le mani un soggetto, gli gioverà per la forza della esecuzione, ed anche per la invenzione ed originalità secondaria, cioè delle parti, dello stile, delle immagini, insomma di tutto ciò che spetta all’esecuzione. Ma difficilmente, o non mai, giova all’invenzione del soggetto. Perchè l’entusiasmo giovi a questo, bisogna che si aggiri appunto e sia cagionato dallo stesso soggetto, come l’entusiasmo di una passione. Ma l’entusiasmo astratto, vago, indefinito, che provano spesse volte gli uomini di genio, all’udire una musica, allo spettacolo della natura ec. non è favorevole in nessun modo all’invenzione del soggetto, anzi appena delle parti, perchè in quei momenti l’uomo è quasi fuor di se, si abbandona come ad una forza estranea che lo trasporta, non è capace di raccogliere nè di fissare le sue idee, tutto quello che vede, è infinito, indeterminato, sfuggevole, e così vario e copioso, che non ammette nè ordine, nè regola, nè [258]facoltà di annoverare, o disporre, o scegliere, o solamente di concepire in modo chiaro e completo, e molto meno di saisir un punto (vale a dire un soggetto) intorno al quale possa ridurre tutte le sensazioni e immaginazioni che prova, le quali non hanno nessun centro. Anzi provando pure, come ho detto, l’entusiasmo di una passione, e volendo scegliere Letteratura italiana Einaudi 269
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia per soggetto la stessa passione, se l’entusiasmo è veramente vivo e vero, non saprete determinarvi a veruna forma trattabile di questo soggetto. In sostanza per l’invenzione dei soggetti formali e circoscritti, ed anche primitivi (voglio dire per la prima loro concezione) ed originali, non ci vuole, anzi nuoce, il tempo dell’entusiasmo, del calore e dell’immaginazione agitata. Ci vuole un tempo di forza, ma tranquilla; un tempo di genio attuale piuttosto che di entusiasmo attuale (o sia, piuttosto un atto di genio che di entusiasmo); un influsso dell’entusiasmo passato o futuro o abituale, piuttosto che la sua presenza, e possiamo dire il suo crepuscolo, piuttosto che il mezzogiorno. Spesso è adattatissimo un momento in cui dopo un entusiasmo, o un sentimento provato, l’anima sebbene in calma, pure ritorna come a mareggiare dopo la tempesta, e richiama con piacere la sensazione passata. Quello forse è il tempo più atto, e il più frequente della concezione di un soggetto originale, o delle parti originali di esso. E generalmente [259]si può dire che nelle belle arti e poesia, le dimostrazioni di entusiasmo d’immaginazione e di sensibilità, sono il frutto immediato piuttosto della memoria dell’entusiasmo, che dello stesso entusiasmo, riguardo all’autore. (2. Ottobre 1820.). Laddove insomma l’opinione comune che par vera a prima vista, considera l’entusiasmo come padre dell’invenzione e concezione, e la calma come necessaria alla buona esecuzione; io dico che l’entusiasmo nuoce o piuttosto impedisce affatto l’invenzione (la quale dev’essere determinata, e l’entusiasmo è lontanissimo da qualunque sorta di determinazione), e piuttosto giova all’esecuzione, riscaldando il poeta o l’artefice, avvivando il suo stile, e aiutandolo sommamente nella formazione, disposizione, ec. delle parti, le quali cose tutte facilmente riescon fredde e monotone quando l’autore ha perduto i primi sproni dell’originalità.
(3. ottobre 1820.)
Letteratura italiana Einaudi 270
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Hanno questo di proprio le opere di genio, che quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire l’inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia ad un’anima grande che si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e scoraggimento della vita, o nelle più acerbe e mortifere disgrazie (sia che appartengano alle alte e forti passioni, sia a qualunque altra cosa); servono sempre di consolazione, [260]raccendono l’entusiasmo, e non trattando nè rappresentando altro che la morte, le rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta. E così quello che veduto nella realtà delle cose, accora e uccide l’anima, veduto nell’imitazione o in qualunque altro modo nelle opere di genio (come p.e. nella lirica che non è propriamente imitazione), apre il cuore e ravviva. Tant’è, siccome l’autore che descriveva e sentiva così fortemente il vano delle illusioni, pur conservava un gran fondo d’illusione, e ne dava una gran prova, col descrivere così studiosamente la loro vanità (v. p.214-215.), nello stesso modo il lettore quantunque disingannato, e per se stesso e per la lettura, pur è tratto dall’autore, in quello stesso inganno e illusione nascosta ne’ più intimi recessi dell’animo, ch’egli provava. E lo stesso conoscere l’irreparabile vanità e falsità di ogni bello e di ogni grande è una certa bellezza e grandezza che riempie l’anima, quando questa conoscenza si trova nelle opere di genio.
E lo stesso spettacolo della nullità, è una cosa in queste opere, che par che ingrandisca l’anima del lettore, la innalzi, e la soddisfaccia di se stessa e della propria disperazione. (Gran cosa, e certa madre di piacere e di entusiasmo, e magistrale effetto della poesia, quando giunge a fare che il lettore acquisti maggior concetto di se, e delle sue disgrazie, e del suo stesso abbattimento e annichilamento di spirito). Oltracciò [261]il sentimento Letteratura italiana Einaudi 271
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia del nulla, è il sentimento di una cosa morta e mortifera.
Ma se questo sentimento è vivo, come nel caso ch’io dico, la sua vivacità prevale nell’animo del lettore alla nullità della cosa che fa sentire, e l’anima riceve vita (se non altro passeggiera) dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua delle cose, e sua propria. Giacchè non è piccolo effetto della cognizione del gran nulla, nè poco penoso, l’indifferenza e insensibilità che inspira
ordinarissimamente e deve naturalmente ispirare, sopra lo stesso nulla. Questa indifferenza e insensibilità è ri-mossa dalla detta lettura o contemplazione di una tal opera di genio: ella ci rende sensibili alla nullità delle cose, e questa è la principal cagione del fenomeno che ho detto.
Osserverò che il detto fenomeno occorre molto più difficilmente nelle poesie tetre e nere del Settentrione, massimamente moderne, come in quelle di Lord Byron, che nelle meridionali, le quali conservano una certa luce negli argomenti più bui, dolorosi e disperanti; e la lettura del Petrarca, p.e. de’ Trionfi e della conferenza di Achille e di Priamo, dirò ancora di Verter, produce questo effetto molto più che il Giaurro, o il Corsaro ec. non ostante che trattino e dimostrino la stessa infelicità degli uomini, e vanità delle cose.
(4. ottobre 1820.)
Io so che letto Verter mi sono trovato caldissimo nella mia disperazione letto Lord Byron, freddissimo, e senza entusiasmo nessuno; molto meno consolazione. [262]E
certo Lord Byron non mi rese niente più sensibile alla mia disperazione: piuttosto mi avrebbe fatto più insensibile e marmoreo.
L’uomo si disannoia per lo stesso sentimento vivo della noia universale e necessaria.
Letteratura italiana Einaudi 272
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Bisogna ricordarsi che l’invenzione della polvere contribuì non poco all’indebolimento delle generazioni 1.
disavvezzando dal portare armatura, (v. Montesquieu ch.2. in proposito del gran vigore de’ soldati romani) 2.
rendendo l’atto della guerra non più opera della forza individuale o generale, ma quasi intieramente dell’arte; certamente rendendo l’arte molto più arbitra della guerra che non era stata per l’addietro ec. 3. sopprimendo o togliendo per conseguenza la necessità di quegli esercizi che o direttamente o indirettamente come i giuochi atletici, servivano a render gli uomini vigorosi ed atti alla guerra.
Lo spavento e il terrore sebbene di un grado maggior del timore, contuttociò bene spesso sono molto meno vili, anzi talvolta non contengono nessuna viltà: e possono cadere anche negli uomini perfettamente coraggiosi, al contrario del timore. P.e. lo spavento che cagiona l’aspetto di una vita infelicissima o noiosissima e lunga, che ci aspetti ec. Lo spavento degli spiriti, così puerile esso, e fondato in opinione così puerile, è stato (ed ancora è) comune ad uomini coraggiosissimi. V. la p.531, e 535.
[263]L’intrigo può star molte volte colla chiarezza, come anche si può essere strigato ed oscuro. L’intrigo può venire o dallo scrittore, o dalla necessità della materia, ed allora la chiarezza è difficilissima allo scrittore, e il luogo può riuscir difficile al lettore, sebbene sia chiaro. Ma spessissimo si confonde l’intrigo coll’oscurità, e si chiama oscuro quello ch’è solamente intrigato, e intrigato quello ch’è solamente oscuro. Applicate quest’osservazione ai cinquecentisti che bene spesso sono intrigati e contuttociò chiari, ai trecentisti che per lo più sono strigatissimi e sovente oscurissimi, agli scrittori scientifici, tecnici, gramatici ec.
Letteratura italiana Einaudi 273
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Una cosa stimabile non può essere apprezzata degnamente se non da quelli che ne conoscono il valore. Perciò la rarità non porta sempre con se la stima della cosa, anzi spessissimo l’impedisce. Un uomo di grande ingegno fra gl’ignoranti o è disprezzato, o apprezzato
senz’ammirazione senza entusiasmo senza nessuno di quegli affetti che paiono conseguenze infallibili dello straordinario, e che debbano crescere tanto più quanto la cosa è più straordinaria relativamente. Il conto che se ne fa, è come di uno che abbia un utensile migliore degli altri, i quali talvolta lo chiedono in prestito o se ne servono presso chi lo possiede, e non perciò stimano che quell’uomo [264]sia una gran cosa, o superiore agli altri a cagione di quel piccolo vantaggio compensabile e paragonabile con tanti altri. Così le scritture di buon gusto in un secolo o paese corrotto o ignorante, così la sensibilità massimamente e l’entusiasmo, il quale anzi dalle persone ordinarie sarà stimato piuttosto un meion¡kthma, che un pleon¡kthma, e deriso come pazzia. Così si è veduto che eccetto i pregi sensibili, o de’ quali tutti sanno giudicare naturalmente, tutti gli altri sono stati assai meno stimati nei secoli e nei luoghi dove sono stati più rari. Ed è cosa certa che un grande ingegno non può essere intimamente conosciuto, e però degnamente apprezzato e ammirato se non da un altro grande ingegno; e così le sue opere; così tutto quello che spetta a discipline, arti, abilità particolari, onde p.e. un grand’uomo di guerra non riscuoterà degna ammirazione che da un altro grand’uo-mo dello stesso mestiere.
(5. ottobre 1820.). V. p.273.
Anticamente il cercare e istruirsi in diverse scuole non serviva come ora ad imparar sempre più, giacchè tutte le scuole seguono gli stessi principii, e non si diversificano se non per la diversa disciplina che professano. Ma allora per imparare le dottrine di una scuola, bisognava disim-Letteratura italiana Einaudi 274
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia parare quelle [265]dell’altra, e scegliere quale si voleva seguire, giacchè ciascuna contraddiceva alle altre. E perciò gli uomini di un certo ingegno mediocre si attaccava-no ad una setta, imparavano i dogmi di una sola scuola, di quelli erano contenti, e si chiamavano col nome della loro setta. Altri un poco maggiori d’ingegno o di presunzione introducevano qualche cangiamento nelle dottrine de’ loro maestri, o vi aggiungevano qualche cosa, e si facevano capi di un nuovo ramo della setta stessa. Gl’ingegni superiori, non si servivano della istruzione che prendevano in diverse scuole se non per isceglierne il meglio, o quello che credessero tale, e fondere insieme i dogmi scelti da varie sette, per formare o di essi soli, o di altri che v’aggiungessero del proprio, o di un nuovo sistema cavato dalle varie e discordanti idee acquistate, una nuova scuola e setta, come fece Platone che amò d’istruirsi in varie scuole, e ascoltò Socrate, (altri due subito dopo la sua morte, nominati dal Laerzio nel principio della vita di Platone), i Pitagorici, gli Egiziani, e voleva anche ascoltare i maghi di Persia, ma non potè a cagione delle guerre d’Asia. E [266]delle varie dottrine imparate e scelte da queste sette compose il suo nuovo sistema.
(6. Ottobre 1820.)
Le passioni e i sentimenti dell’uomo si può dire che da principio stessero nella superficie, poi si rannicchiassero nel fondo più cupo dell’anima, e finalmente siano venuti e rimasti nel mezzo. Perchè l’uomo naturale, sebbene sensibilissimo, tuttavia si può dire che abbia le sue passioni nella superficie, sfogandole con ogni sorta di azioni esterne, suggerite e volute dalla natura per aprire una strada alla soverchia fuga ed impeto del sentimento, il quale appunto perchè violentissimo nel dimostrarsi, e perchè richiamato subito al di fuori, dopo un grand’empito esterno, presto veniva meno, se bene fosse molto più frequente. L’uomo non più naturale, ma che tuttavia conserva Letteratura italiana Einaudi 275
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia un poco di natura, risentendo tutta o quasi tutta la forza della passione, come l’uomo primitivo, la contiene tutta al di dentro, non ne dà segni se non leggeri ed equivoci, e però il sentimento si rannicchia tutto nel profondo, ed acquista maggior forza e durevolezza, e se il sentimento è doloroso, non avendo lo sfogo voluto dalla natura, diventa capace anche di uccidere o di tormentare più o meno, secondo la qualità sua e dell’individuo. Di queste persone si trovano anche oggidì, [267]perchè, tolto qualche parte del volgo, nessuno conserva tanta natura da lasciar tutta la passione lanciarsi alla superficie (eccetto in alcuni casi eccessivi, dove la natura trionfa); ma molti ne hanno quanto basta per sentirla vivamente, e poterla provare contenuta e chiusa nel fondo dell’animo. Tuttavia è certo che questi tali appartengono ad un’epoca di mezza natura, a quel tempo in cui la vera sensibilità non era nè così ordinaria nelle parole, nè così straordinaria nel fatto, come presentemente. L’uomo perfettamente moderno, non prova quasi mai passione o sentimento che si lanci all’esterno o si rannicchi nell’interno, ma quasi tutte le sue passioni si contengono per così dire nel mezzo del suo animo, vale a dire che non lo commuovono se non mediocremente, gli lasciano il libero esercizio di tutte le sue facoltà naturali, abitudini ec. In maniera che la massima parte della sua vita si passa nell’indifferenza e conseguentemente nella noia, mancando d’impressioni forti e straordinarie. Esempio. Un amico o persona desiderata che ritorni dopo lungo tempo, o che vediate per la prima volta. Il fanciullo e l’uomo selvaggio l’abbraccerà, lo carezzerà, salterà, darà mille segni esterni di quella gioia che l’anima veramente e vivamente; segni non fallaci, ma verissimi [268]e naturalissimi. L’uomo di sentimento, senza gesti nè moti forti, lo prenderà per la mano, o al più l’abbraccerà lentamente, e resterà qualche tempo in questo abbracciamento, o in altra positura, non dando segno della gioia che prova se non colla immobilità della Letteratura italiana Einaudi 276
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia persona e dello sguardo, e forse con qualche lacrima, e mentre il di dentro è diversissimo, il di fuori sarà quasi quello di prima. L’uomo ordinario, o l’uomo di sentimento affievolito e intorpidito dall’esperienza del mondo, e dalla misera cognizione delle cose, insomma l’uomo moderno, conserverà di dentro e di fuori il suo stato giornaliero, non proverà emozione se non piccola, minore ancora di quello che forse si aspettava, ed o che lo prevedesse o no, quello sarà per lui un avvenimento ordinario della vita, uno di quei piaceri che si gustano con indifferenza, e che appena arrivati, quando anche voi lo deside-raste ansiosamente, vi par freddo e ordinario e incapace di riempiervi o di scuotervi. V. p.270. capoverso 1.
Chi non ha uno scopo non prova quasi mai diletto in nessuna operazione. Eccetto quelle che sono piacevoli per se stesse, e nell’atto, (e sono ben poche, e il piacere che danno è sommamente inferiore all’aspettazione) tutte le altre non sono dilettevoli se non fatte con uno scopo e una speranza, e un’aspettativa [269]di cosa non presente e che debba seguirne. Se bene molte di queste, o perchè lo scopo si venga conseguendo a ogni tratto, come nello studio, o perchè lo scopo sia tanto inerente e immedesimato con lei, che appena si lasci distinguere, sogliono esser confuse colle azioni dilettevoli per se stesse, quando non dilettano se non in quanto sono indiriz-zate a quel fine, e a quella speranza, tolte le quali cose restano indifferenti o noiose, come si può vedere considerando la stessa azione in due diversi individui.
La pura bellezza risultante da un’esatta e regolare convenienza, desta di rado le grandi passioni (come dice Montesquieu), per lo stesso motivo per cui la ragione è infinitamente meno forte ed efficace della natura. Quella bellezza è come una ragione, perciò non suppone vita nè calore, sia in se medesima, sia in chi la riguarda. Al con-Letteratura italiana Einaudi 277
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia trario un volto o una persona difettosa ma viva, graziosa ec. o fornita di un animo capriccioso, sensibile ec. sorprende, riscalda, affetta e tocca il capriccio di chi la riguarda, senza regola, senza esattezza, senza ragione ec.
ec. e così le grandi passioni nascono per lo più dal capriccio, dallo straordinario ec. e non si ponno giustificare colla ragione.
(10. ottobre 1820.)
[270]Quello che ho detto p.266.-268. deve servir di regola agli scrittori drammatici nell’esprimere e modellare i caratteri dei diversi tempi.
(10. ottobre 1820.)
La semplice bellezza rispetto alla grazia ec. è nella categoria del bello, quello ch’è la ragione rispetto alla natura nel sistema delle cose umane. Questa considerazione può applicarsi a spiegare l’arcana natura e gli effetti della grazia.
La ragione è debolissima e inattiva al contrario della natura. Laonde quei popoli e quei tempi nei quali prevale più o meno la ragione saranno stati e saranno sempre inattivi in proporzione della influenza di essa ragione. Al contrario dico della natura. Ed un popolo tutto ragionevole o filosofo non potrebbe sussistere per mancanza di movimento e di chi si prestasse agli uffizi scambievoli e necessari alla vita. ec. ec. E infatti osservate quegli uomini (che non sono rari oggidì) stanchi del mondo e disingannati per lunga esperienza, e possiamo dire, renduti perfettamente ragionevoli. Non sono capaci d’impegnar-si in nessun’azione, e neanche desiderio. Simili al march.
D’Argens, di cui dice Federico nelle Lettere, che per pigrizia, non avrebbe voluto pur respirare, se avesse potuto. La conseguenza della loro stanchezza, esperienza, e cognizione delle cose è una perfetta indifferenza che li fa Letteratura italiana Einaudi 278
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia seguire il moto altrui senza muoversi da se stessi, anche nelle cose che li riguardano. Laonde se questa indifferenza potesse divenire universale [271]in un popolo, non esistendovi moto altrui, non vi sarebbe movimento di nessuna sorta.
La gloria per lo più, massimamente la letteraria, allora è dolce quando l’uomo se ne pasce nel silenzio del suo gabinetto, e se ne serve di sprone a nuove imprese glorio-se, e di fondamento a nuove speranze. Perchè allora ella conserva la forza dell’illusione, sola forza ch’essa abbia.
Ma goduta nel mondo e nella società, ordinariamente si trova esser cosa o nulla, o piccolissima, o insomma incapace di riempier l’animo e soddisfarlo. Come tutti i piaceri da lontano sono grandi, e da vicino minimi, aridi, voti, e nulli.
Coloro che dicono per consolare una persona priva di qualche considerabile vantaggio della vita: non ti afflig-gere; assicurati che sono pure illusioni: parlano scioccamente. Perchè quegli potrà e dovrà rispondere: ma tutti i piaceri sono illusioni o consistono nell’illusione, e di queste illusioni si forma e si compone la nostra vita. Ora se io non posso averne, che piacere mi resta? e perchè vivo?
Nella stessa maniera dico io delle antiche istituzioni ec.
tendenti a fomentare l’entusiasmo, le illusioni, il coraggio, l’attività, il movimento, la vita. Erano illusioni, ma toglietele, [272]come son tolte. Che piacere rimane? e la vita che cosa diventa? Nella stessa maniera dico: la virtù, la generosità, la sensibilità, la corrispondenza vera in amore, la fedeltà, la costanza, la giustizia, la magnanimità ec. umanamente parlando sono enti immaginari. E tuttavia l’uomo sensibile se ne trovasse frequentemente nel mondo, sarebbe meno infelice, e se il mondo andasse più dietro a questi enti immaginari (astraendo ancora da una vita futura), sarebbe molto meno infelice. Seguirebbe delle Letteratura italiana Einaudi 279
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia illusioni, perchè nessuna cosa è capace di riempier l’animo umano, ma non è meglio una vita con molti piaceri illusorii, che senza nessun piacere? non si vivrebbe meglio se nel mondo si trovassero queste illusioni più realizzate, e se l’uomo di cuore non si dovesse persuadere non solo che sono enti immaginari, ma che nel mondo non si trovano più neanche così immaginari come sono? in maniera che manchi affatto il pascolo e il sostegno all’illusione. E dall’altro lato, non c’è maggiore illusione ovvero apparenza di piacere che quello che deriva dal bello dal tenero dal grande dal sublime dall’onesto. Laonde quanto più queste cose abbondassero, sebbene illusorie, tanto meno l’uomo sarebbe infelice.
(11. ottobre 1820.). V. p.338. capoverso 2.
[273]Di un ricco avaro al quale era stata rubata una piccolissima somma in un suo stanzino pieno di danaio, disse taluno, S’è mostrato avaro (È stato avaro) anche nel lasciarsi rubare.
(13. ottobre 1820.)
La maggior parte degli uomini vive per abito, senza piaceri, nè speranze formali, senza ragion sufficiente di conservarsi in vita, e di fare il necessario per sostenerla. Che se riflettessero, astraendo dalla religione, non troverebbero motivo di vivere, e contro natura, ma secondo ragione, conchiuderebbero che la vita loro è un assurdo, perchè l’aver cominciato a vivere, secondo natura sibbene, ma secondo ragione non è motivo giusto di continuare.
Alla p.263. pensiero 2. aggiungi. Spessissimo quelli che sono incapaci di giudicare di un pregio, se ne formeran-no un concetto molto più grande che non dovrebbero, lo crederanno maggiore assolutamente, e contuttociò la stima che ne faranno sarà infinitamente minor del giusto, sicchè relativamente considereranno quel tal pregio come Letteratura italiana Einaudi 280
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia molto minore. Nella mia patria dove sapevano ch’io era dedito agli studi, credevano ch’io possedessi tutte le lingue, e m’interrogavano indifferentemente sopra qualunque di esse. Mi stimavano poeta, rettorico, fisico, matematico, politico, medico, teologo ec. insomma enciclopedicissimo. E non perciò mi credevano una gran cosa, e per l’ignoranza, non sapendo che cosa sia un letterato, non mi credevano paragonabile ai letterati forestieri, malgrado la detta opinione che [274]avevano di me. Anzi uno di coloro, volendo lodarmi, un giorno mi disse, A voi non disconverrebbe di vivere qualche tempo in una buona città, perchè quasi quasi possiamo dire che siate un letterato. Ma s’io mostrava che le mie cognizioni fossero un poco minori ch’essi non credevano, la loro stima scemava ancora, e non poco, e finalmente io passava per uno del loro grado. È vero però che talvolta può succedere il contrario, e per un’opinione simile, in tempi o luoghi ignoranti, un uomo o un pregio piccolo conseguire una somma stima.
Alla p.252. capoverso 1. Vedi in questo proposito la p.114. pensiero ultimo, e considera la gran contrarietà di Catone ai progressi dello studio presso i Romani, i quali sono un vivissimo esempio di quello ch’io dico, cioè dell’esser gli studi, tanto ameni quanto seri e filosofici, favo-revolissimi alla tirannia. V. anche Montesquieu Grandeur etc. ch.10. principio. Certo la profonda filosofia di Seneca, di Lucano, di Trasea Peto, di Erennio Senecione, di Elvidio Prisco, di Aruleno Rustico, di Tacito ec. non impedì la tirannia, anzi laddove i Romani erano stati liberi senza filosofi, quando n’ebbero in buon numero, e così profondi come questi, e come non ne avevano avuti mai, furono schiavi. E come giovano tali studi alla tirannia, sebbene paiano suoi nemici, così scambievolmente la
[275]tirannia giova loro, 1. perchè il tiranno ama e proccura che il popolo si diverta, o pensi (quando non si Letteratura italiana Einaudi 281
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia possa impedire) in vece che operi, 2. perchè l’inoperosità del suddito lo conduce naturalmente alla vita del pensiero, mancando quella dell’azione, 3. perchè l’uomo sner-vato e ammollito è più capace e più voglioso o di pensare, o di spassarsi coll’amenità ec. degli studi eleganti, che di operare, 4. perchè il peso, la infelicità, la monotonia, il sombre della tirannia fomenta e introduce la riflessione, la profondità del pensare, la sensibilità, lo scriver malinconico; l’eloquenza non più viva ed energica, ma lugubre, profonda, filosofica ec. 5. perchè la mancanza delle vive e grandi illusioni spegnendo l’immaginazione lieta aerea brillante e insomma naturale come l’antica, introduce la considerazione del vero, la cognizione della realtà delle cose, la meditazione ec. e dà anche luogo all’immaginazione tetra astratta metafisica, e derivante più dalle verità, dalla filosofia, dalla ragione, che dalla natura, e dalle vaghe idee proprie naturalmente della immaginazione primitiva. Come è quella de’ settentrionali, massime oggidì, fra’ quali la poca vita della natura, dà luogo all’immaginativa fondata sul pensiero, [276]sulla metafisica, sulle astrazioni, sulla filosofia, sulle scienze, sulla cognizione delle cose, sui dati esatti ec. Immaginativa che ha piuttosto che fare colla matematica sublime che colla poesia.
(14. ottobre 1820.)
P.51 capoverso 4. aggiungi. Nello stesso modo io non chiamo malvagio propriamente colui che pecca (molti non peccano per viltà, per ignoranza del male, per imperizia e mancanza d’arte nell’eseguirlo, per impotenza fisica o morale o di circostanza, per torpidezza, per abitudine, per vergogna, per interesse, per politica, per cento tali ragioni), ma colui che pecca o peccherebbe senza rimorso.
(14. ottobre 1820.)
Letteratura italiana Einaudi 282
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia La convenienza che cagiona la bellezza non è solamente nelle parti della cosa. Molte cose possono esser così semplici che quasi non abbiano parti. E il bello morale, e tutto quel bello che non appartiene ai sensi, non ha parti.
Ma la convenienza della cosa si considera anche rispetto alle relazioni del tutto, o delle parti coll’estrinseco. P.e.
coll’uso, col fine, coll’utilità, col luogo, col tempo, con ogni sorta di circostanza, coll’effetto che produce o deve produrre ec. Una spada con una gemma sulla [277]punta, la qual gemma corrispondesse perfettamente all’ornato, alle proporzioni, alla configurazione, alla materia del resto, a ogni modo sarebbe brutta. Questa bruttezza non è sconvenienza di parti, non di una parte coll’altre, ma di una parte col suo uso o fine. Di questo genere sono infinite bruttezze o bellezze tanto sensibili, che intelligibili, morali, letterarie ec.
(14. ottobre 1820.)
Quel vecchio che non ha presente nè futuro, non è privo perciò di vita. Se non è stato mai uomo, non ha bisogno se non di quel nonnulla che gli somministra la sua situazione, e tutto gli basta per vivere. Se è stato uomo, ha un passato, e vive in quello. La mancanza del presente, non è la cosa più grave per gli uomini, anzi atteso la nullità di tutto quello che si vede nella realtà e da vicino, si può dire che il presente sia nullo per tutti, e che ogni uomo manchi del presente. Il vuoto del futuro non è gran cosa per lui, 1. perch’è già sazio della vita, che ha già provata, gustata, adoperata ec. 2. perchè i suoi desideri, passioni, affetti, sentimenti, sono rintuzzati e [278]intorpiditi, e ristretti, e non esigono più grandi beni, piaceri, movimenti, azioni presenti, nè grandi speranze, gran vita attuale o avvenire: 3. perchè l’estensione materiale del suo futuro è piccola, e non lo può spaventare gran fatto il vuoto di un piccolo spazio. Ma il giovane senza presente nè futuro, cioè senza nè beni, attività, piaceri, vita ec. nè Letteratura italiana Einaudi 283
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia speranze e prospettiva dell’avvenire, dev’essere infelicissimo e disperato, mancare affatto di vita, e spaventarsi e inorridire della sua sorte e del futuro. 1. Il giovane non ha passato. Tutto quello che ne ha, non serve altro che ad attristarlo e stringergli il cuore. Le rimembranze della fanciullezza e della prima adolescenza, dei godimenti di quell’età perduti irreparabilmente, delle speranze fiorite, delle immaginazioni ridenti, dei disegni aerei di prosperità futura, di azioni, di vita, di gloria, di piacere, tutto svanito. 2. I desideri e le passioni sue, sono ardentissime ed esigentissime. Non basta il poco; hanno bisogno di moltissimo. Quanto è maggiore la sua vita interna, tanto maggiore è il bisogno e l’estensione e intensità ec. della vita esterna che si desidera. E mancando questa, quanto maggiore è la vita interna, tanto maggiore è il senso di
[279]morte, di nullità, di noia ch’egli prova: insomma tanto meno egli vive in tali circostanze, quanto la sua vita interiore è più energica. 3. Il giovane non ha provato nè veduto. Non può esser sazio. I suoi desideri e passioni sono più ardenti e bisognosi, come ho detto, non solo assolutamente per l’età, ma anche materialmente, per non avere avuto ancora di che cibarsi e riempiersi. Non può esser disingannato nell’intimo fondo e nella natura, quando anche lo sia in tutta l’estensione della sua ragione. 4. Il suo futuro è materialmente lunghissimo, e l’immensità dello spazio vuoto che resta a percorrere, fa orrore, massime paragonandolo con quel poco che ha avuto tanta pena a passare. Il giovane a questa considerazione si spaventa e dispera eccessivamente, sembrandogli quel futuro più lungo e terribile di un’eternità. Di più tutta la sua vita consiste nel futuro. L’età passata non è stata altro che un’introduzione alla vita. Dunque egli è nato senza dover vivere. Il giovane prova disperazioni mortali, considerando che una sola volta deve passare per questo mondo, e che questa volta non godrà della vita, non vi-vrà, avrà perduto e gli sarà inutile la sua unica esistenza.
Letteratura italiana Einaudi 284
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Ogn’istante che passa della sua gioventù in questa guisa, gli sembra [280]una perdita irreparabile fatta sopra un’età che per lui non può più tornare.
(16. ottobre 1820.)
Il suo divertimento era di passeggiare contando le stelle (e simili).
(16. ottobre 1820.)
Anche la mancanza sola del presente è più dolorosa al giovine che a qualunque altro. Le illusioni in lui sono più vive, e perciò le speranze più capaci di pascerlo. Ma l’ardor giovanile non sopporta la mancanza intera di una vita presente, non è soddisfatto del solo vivere nel futuro, ma ha bisogno di un’energia attuale, e la monotonia e l’inattività presente gli è di una pena di un peso di una noia maggiore che in qualunque altra età, perchè l’assuefazione alleggerisce qualunque male, e l’uomo col lungo uso si può assuefare anche all’intera e perfetta noia, e trovarla molto meno insoffribile che da principio. L’ho provato io, che della noia da principio mi disperava, poi questa crescendo in luogo di scemare, tuttavia l’assuefazione me la rendeva appoco appoco meno spaventosa, e più suscettibile di pazienza. La qual pazienza della noia in me divenne finalmente affatto eroica. Esempio de’ carcerati, i quali talvolta si sono anche affezionati a quella vita.
L’abito dell’eroismo può essere in un corpo debole, ma l’atto difficilmente, e non senza un grande [281]sforzo, nè senza ripugnanza, e quasi contro natura. E perciò vediamo moltissimi che per abito sono tutt’altro che eroi, far non di rado azioni eroiche; e viceversa. Anzi si può dire che gli uomini d’abito di principii e d’animo eroico, lo sono di rado nel fatto; e gli uomini eroici nel fatto, lo sono di rado nell’abito nei sentimenti e nell’animo. Esten-dete queste osservazioni all’entusiasmo.
Letteratura italiana Einaudi 285
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Quell’usignuolo di cui dice Virgilio nell’episodio d’Orfeo, che accovacciato su d’un ramo, va piangendo tutta notte i suoi figli rapiti, e colla miserabile sua canzone, esprime un dolor profondo, continuo, ed acerbissimo, senza moti di vendetta, senza cercare riparo al suo male, senza proccurar di ritrovare il perduto ec. è
compassionevolissimo, a cagione di quell’impotenza ch’esprime, secondo quello che ho detto in altri pensieri.
Il Buffon Hist. nat. de l’homme, combatte coloro i quali credono che la separazione dell’anima dal corpo debba essere dolorosissima per se stessa. A’ suoi argomenti aggiungi questo, che forse è il più concludente. Se volessimo considerar l’anima come materiale, già non si tratte-rebbe più di separazione, e la morte non sarebbe altro che un’[282]estinzione della forza vitale, in qualunque cosa consista, certo facilissima a spegnersi. Ma considerandola come spirituale, è ella forse un membro del corpo, che s’abbia a staccare, e perciò con gran dolore? O
non piuttosto i legami tra lo spirito e la materia, qualunque sieno, certo non sono materiali, e l’anima non si svelle come un membro, ma parte naturalmente quando non può più rimanere, nello stesso modo che una fiamma si estingue e parte da quel corpo dove non trova più alimento, nel che, per dire un’immagine, noi non vediamo nè ci figuriamo neanche astrattamente nessuna violenza e nessun dolore sia nel combustibile sia nella fiamma. La morte nell’ipotesi della spiritualità dell’anima, non è una cosa positiva ma negativa, non una forza che la stacchi dal corpo, ma un impedimento che le vieta di più rima-nervi, posto il quale impedimento, l’anima parte da se, perchè manca il come abitare nel corpo, non perchè una forza violenta ne la sradichi e rapisca. Giacchè se l’anima è spirito, non bisogna considerarla come parte del corpo, ma come ospite di esso corpo, e tale che l’entrata e l’usci-Letteratura italiana Einaudi 286
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ta sua sia facilissima leggerissima e dolcissima, non essendoci mica nervi nè membrane nè ec. che ve la tengano attaccata, o [283]catene che ve la tirino quando deve en-trarvi. E quando v’entra, la cosa è insensibile, e l’uomo certamente non se ne avvede; così la sua uscita dev’essere insensibile, e tutta diversa dalla nostra maniera di concepire. Come l’uomo non s’accorge nè sente il principio della sua esistenza, così non sente nè s’accorge del fine, nè v’è istante determinato per la prima conoscenza e sentimento di quello nè di questo. V. p.290.
Qualunque uomo nuovo tu veda, purch’egli viva nel mondo, tu sei certo di non errare, tenendolo subito per un malvagio, qualunque sia la sua fisonomia, le maniere, il portamento, le parole, le azioni ec. E chi vuol mettersi al sicuro deve subito giudicarlo per tale, e appresso a poco non troverà mai di avere sbagliato veramente, non ostante che tutte le apparenze gli possano dimostrare il contrario per lunghissimo tempo. Nello stesso modo, e per la stessa ragione è pur troppo acerbissima oggidì la condizione dell’uomo da bene che si unisce in matrimonio. Perchè s’egli non intende di portare e far sempre vivere i suoi figli nelle selve, deve tenere per indubitatissimo [284]fino da quel primo punto, che il suo matrimonio non frutterà al mondo altro che qualche malvagio di più. E questo non ostante qualunque indole, qualunque cura o arte di educazione ec. Perchè da che un uomo qualunque dovrà entrare nella società, è quasi matematicamente certo che dovrà divenire un malvagio, se non tutto a un tratto, certo a poco a poco; se non del tutto, certo in gran parte, a proporzione degli ostacoli ch’esso gli opporrà, ma che in tutti i modi certamente saranno vinti. E parimente dovrebb’esser dolorosissimo per l’uomo da bene il considerare nel mentre che alleva i suoi figli, che qualunque sua cura, qualunque immaginabile speranza di virtù, ch’egli ne possa concepire, è certissimo per infallibile e Letteratura italiana Einaudi 287
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia continua esperienza, che saranno, almeno in gran parte, inutili e vane. Sicchè tutto quello che può ragionevolmente sperare e cercare il buon educatore, è d’istillare ne’ suoi figli tanta dose di virtù, che venendo senza fallo a scemare, pur ne resti qualche poco, a proporzione della prima quantità. Questa sarebbe ben altra risposta da darsi a chi vi consigliasse d’ammogliarvi, o v’interrogasse perchè non l’abbiate fatto. Al che Talete interrogato [285]da Solone, dicono che rispondesse col mostrargli le inquietudini e i dolori del padre per li pericoli o le sventure della sua prole.
Ma ora si potrebbe rispondere: per non procreare dei malvagi: per non dare al mondo altri malvagi.
(17. ottobre 1820.)
La speranza, cioè una scintilla, una goccia di lei, non abbandona l’uomo, neppur dopo accadutagli la disgrazia la più diametralmente contraria ad essa speranza, e la più decisiva.
(18. ottobre 1820.)
Si può applicare alla poesia (come anche alle cose che hanno relazione o affinità con lei) quello che ho detto altrove: che alle grandi azioni è necessario un misto di persuasione e di passione o illusione. Così la poesia tanto riguardo al maraviglioso, quanto alla commozione o impulso di qualunque genere, ha bisogno di un falso che pur possa persuadere, non solo secondo le regole ordinarie della verisimiglianza, ma anche rispetto ad un certo tal quale convincimento che la cosa stia o possa stare effettivamente così. Perciò l’antica mitologia, o [286]qualunque altra invenzione poetica che la somigli, ha tutto il necessario dalla parte dell’illusione, passione ec. ma mancando affatto dalla parte della persuasione, non può più produrre gli effetti di una volta, e massime negli argomenti moderni, perchè negli antichi, l’abitudine ci proccura una tal quale persuasione, principalmente quan-Letteratura italiana Einaudi 288
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia do anche il poeta sia antico, perchè immedesimatasi in noi l’idea di quei fatti, di quei tempi, di quelle poesie ec.
con quelle finzioni, queste ci paiono naturali e quasi ci persuadono, perchè l’assuefazione c’impedisce quasi di distinguerle da quei poeti, tempi, avvenimenti ec. e così machinalmente ci lasciamo persuadere quanto basta al-l’effetto, che la cosa potesse star così. Ma applicate nuovamente le stesse o altre tali finzioni, sia ad altri argomenti antichi, sia massimamente a soggetti moderni o de’
bassi tempi ec. ci troviamo sempre un non so che di arido e di falso, perchè manca la tal quale persuasione, quando anche la parte del bello immaginario, maraviglioso ec. sia perfetta. Ed anche per questa parte il Tasso non produrrà mai l’effetto dei poeti antichi, [287]sebbene il suo favoloso e maraviglioso è tratto dalla religion Cristiana. Ma oggidì in tanta propagazione e incremento di lumi, nessuna finzione o nuova [o] nuovamente applicata, trova il menomo luogo nell’intelletto, mancando la detta assuefazione, la quale supplisce al resto ne’ poeti antichi.
E questa è una gran ragione per cui la poesia oggidì non può più produrre quei grandi effetti nè riguardo alla maraviglia e al diletto, nè riguardo all’eccitamento degli animi, delle passioni ec. all’impulso a grandi azioni ec.
Tanto più che la religion cristiana non si presta alla finzione persuadibile, come la pagana. A ogni modo è certo appunto per le sopraddette osservazioni, che la pagana oggidì non potendo aver più effetto, il poeta deve appi-gliarsi alla cristiana; e che questa maneggiata con vero giudizio, scelta, e abilità, può tanto per la maraviglia che per gli affetti ec. produrre impressioni sufficienti e notabili.
(19. ottobre 1820.)
Anche gli animali si associano in molti casi, e sempre per lo vantaggio comune. Oltre le formiche e le api che ho notate altrove, si può osservare [288]la così detta ruo-Letteratura italiana Einaudi 289
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ta che fanno i cavalli e altri animali per difendersi da comuni aggressori. Dalla quale s’inferisce ancora che gli animali hanno idee sufficienti di ordinanza o tattica, cioè del modo di accrescere e rendere più profittevoli le forze individuali 1. coll’unione di molti individui, 2. colla disposizione e figura di tutta la torma, 3. colla conveniente collocazione degl’individui. Di tali società guerriere offensive e difensive, credo che la storia naturale fornisca moltissimi esempi. Come anche in altri casi; p.e. se è vero quello che si racconta dell’ordinanza delle grù nei viaggi che fanno, della sentinella o svegliatrice che tengono. Così la catena delle scimmie per passare i fiumi, così cento altri esempi dell’aiuto scambievole che le bestie si presta-no per vantaggio comune, e forse anche talvolta per vantaggio del solo bisognoso e aiutato.
Tutte le cose si desiderano perfette relativamente al loro genere. Tuttavia perchè il perfetto è rarissimo in tutte le specie di cose, coloro che imitano o contraffanno, sogliono mescolare alla imitazione qualche difetto, cioè imitare piuttosto [289]e figurare e scegliere l’individuo difettoso che il perfetto, per render la imitazione più verisimile e credibile, e fare inganno, e persuadere che il finto sia vero.
E laddove il difetto scema pregio all’imitato e vi si biasima, accresce pregio all’imitazione e vi si loda. Così se tu vuoi contraffare un filo di perle, non le fai tutte tonde perfettamente, sebbene in un filo vero le vorresti tutte così. Ed imiti piuttosto una gemma di un prezzo mediocre, di quello che contraffarne una inestimabile. Così dunque loderemo sempre più l’Achille difettoso di Omero, che l’Enea, il perfetto eroe di Virgilio, a cagione della credibilità, del vantaggio che ne cava l’illusione e la persuasione. Ed estenderemo questa osservazione a regolamento di tutti i poeti, quando scelgono qualche oggetto da imitare, acciocchè rifiutino gli eccessi tanto di perfezione quanto d’imperfezione, intorno alla quale sia-Letteratura italiana Einaudi 290
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia mo pure nello stesso caso. Applicate quest’ultima riflessione ai protagonisti di Lord Byron.
(20. ottobre 1820.)
[290]Alla p.283. aggiungi. L’uomo non si avvede mai precisamente del punto in cui egli si addormenta, per quanto voglia proccurarlo. Ora il sonno non è il fine della vita, ma certo un interrompimento, e quasi un’immagine di esso fine; e se l’uomo non può sentire il punto in cui le sue facoltà vitali restano come sospese, molto meno quando sono distrutte. Forse anche si potrà dire che l’addormentarsi non è un punto, ma uno spazio progressivo più o meno breve, un appoco appoco più o meno rapido; e lo stesso si dovrà dir della morte. Di più è certo che i momenti i quali precedono immediatamente il sonno, e il punto o lo spazio dell’addormentarsi definitivamente (sebbene impercettibile), è dilettevole. Questo quando anche la cagione del sonno, come il languore, il travaglio, la malattia, la semplice debolezza, non siano dilettevoli, anzi l’opposto; e però i momenti più lontani dal sonno siano penosi. Anzi anche il letargo proveniente da infermità, anche mortale, è dilettevole. Che il torpore sia dilettevole l’ho notato già in questi pensieri nella teoria del piacere, e assegnatane la ragione. Credo che su questo fondamento il Napoletano [291]Cirillo abbia opinato che la morte abbia un non so che di dilettevole. Nel che sono interamente con lui, e non dubito che l’uomo (e qualunque animale) non provi un certo conforto, e un tal qual piacere nella morte. Non già che le cagioni di lei, e perciò i momenti più lontani da lei, siano dilettevoli; ma sibbene i momenti che la precedono immediatamente, e quello stesso punto o spazio impercettibile, e insensibile, in cui ella consiste. E ciò in qualunque malattia, anche nelle acutissime, nelle quali il Buffon pare che convenga che la morte possa esser dolorosa. Anzi il torpore della morte dev’esser tanto più dilettevole, quanto maggiori sono le Letteratura italiana Einaudi 291
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia pene che lo precedono, e da cui esso per conseguenza ci libera. E però generalmente e sempre, il torpore della morte dev’essere più grato di quello del sonno, perchè succede a molto maggior travaglio. Il qual sonno come ho detto non è mai penoso, quando anche sia cagionato da pene, anche da angoscie vive, come da febbre ardente ec. Quanto alle malattie dove l’uomo si estingue appoco appoco, e con piena conoscenza fino all’ultimo, è certo che non v’è momento così immediatamente vicino alla morte, dove l’uomo anche il meno illuso non si prometta un’ora almeno di vita, come si dice de’ vecchi ec. E così la morte non è mai troppo vicina al pensiero del moribondo, per la solita misericordia della natura. Vedi p.599.
capoverso 2. Io bene spesso trovandomi in gravi travagli o corporali o morali, ho desiderato non solamente il riposo, ma la mia anima senza sforzo, e senza eroismo, si compiaceva [292]naturalmente nell’idea di un’insensibilità illimitata e perpetua, di un riposo, di una continua inazione dell’anima e del corpo, la qual cosa desiderata in quei momenti dalla mia natura, mi era nominata dalla ragione col nome espresso di morte, nè mi spaventava punto. E moltissimi malati non eroi, nè coraggiosi anzi timidissimi, hanno desiderato e desiderano la morte in mezzo ai grandi dolori, e sentono un riposo in quell’idea, il quale sarebbe molto maggiore, se l’idea della morte non fosse accompagnata dai timori del futuro, e da cento altre cose estranee, e d’altro genere. Del resto il riposo ch’io desiderava allora mi piaceva più che dovesse esser perpetuo, acciò non avessi dovuto ripigliare svegliandomi gli stessi travagli de’ quali era così stanco.
Se la morte e il sonno siano un punto o uno spazio, non si ricerca riguardo a quei momenti nei quali l’uomo conserva ancora una cognizione di se, che va scemando a poco a poco, giacchè questo non si dubita che non sia uno spazio progressivo, ma riguardo al tempo non sensi-Letteratura italiana Einaudi 292
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia bile, nè conoscibile, nè ricordabile. Il quale pare che debba essere istantaneo, giacchè il passaggio dal conoscere al non conoscere, [293]dall’essere al non essere, dalla cosa quantunque menoma al nulla, non ammette gradazione, ma si fa necessariamente per salto, e istantaneamente.
(21. ottobre 1820.)
Ho detto altrove; (p.55.) domandate piacere ad uno, che non vi si possa fare senza incorrere nell’odio di un altro ec. La cagione di questo è che l’odio è passione, la gratitudine ragione e dovere, eccetto il caso che il benefizio produca l’amore passione, giacchè questa non si può dubitare che spesso non sia più efficace ed attiva dell’odio e di tutte le altre. Ma la semplice gratitudine è tutta relativa ad altrui, laddove l’amore passione, benchè sembri, non è tale, ma è fondata sommamente nell’amor proprio, giacchè si ama quell’oggetto come cosa che c’interessa, ci piace, e la nostra persona entra in questo affetto per grandissima parte. Ma la ragione non è mai efficace come la passione. Sentite i filosofi. Bisogna fare che l’uomo si muova per la ragione come, anzi più assai che per la passione, anzi si muova per la sola ragione e dovere. Bubbole.
La natura degli uomini e delle cose, può ben [294]esser corrotta, ma non corretta. E se lasciassimo fare alla natura, le cose andrebbero benissimo, non ostante la detta superiorità della passione sulla ragione. Non bisogna estinguer la passione colla ragione, ma convertir la ragione in passione; fare che il dovere la virtù l’eroismo ec. diventino passioni. Tali sono per natura. Tali erano presso gli antichi, e le cose andavano molto meglio. Ma quando la sola passione del mondo è l’egoismo, allora si ha ben ragione di gridar contro la passione. Ma come spegner l’egoismo colla ragione che n’è la nutrice, dissipando le illusioni? E senza ciò, l’uomo privo di passioni, non si muo-verebbe per loro, ma neanche per la ragione, perchè le cose son fatte così, e non si possono cambiare, chè la ra-Letteratura italiana Einaudi 293
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia gione non è forza viva nè motrice, e l’uomo non farà altro che divenirne indolente, inattivo, immobile, indifferente, infingardo, com’è divenuto in grandissima parte.
(22. ottobre 1820.)
Le cagioni dell’amore dei vecchi alla vita e del timor della morte, i quali par che crescano in proporzione che la vita è meno amabile, e che la morte può [295]privarci di minore spazio di tempo, e di minori godimenti, anzi di maggiori mali (fenomeno discusso ultimamente dai filosofi tedeschi che ne hanno recato mille ragioni fuorchè le vere: v. lo Spettatore di Milano), sono, oltre quella che ho recata, mi pare, negli abbozzi della Vita di Lorenzo Sarno, queste altre. 1. Che coll’ardore e la forza della vitalità e dell’esistenza, si estingue o scema il coraggio, e quindi a proporzione che l’esistenza è meno gagliarda, l’uomo è meno forte per poterla disprezzare, e incontrarne o considerarne la perdita. Anche i giovani più facili a disprezzar la vita, coraggiosissimi nelle battaglie e in ogni rischio, sono bene spesso paurosissimi nelle malattie, tanto per la detta cagione della minor forza del corpo, e quindi dell’animo, quanto perchè non possono opporre alla morte quell’irriflessione, quel movimento, quell’energia, che gl’impedisce di fissarla nel viso, in mezzo ai rischi attivi. 2. Che molte cose vedute da lungi paiono facilissime ad incontrare, e niente spaventose, e in vicinanza riescono terribili, e poi ci si trovano mille difficoltà, mille crepacuori; affezioni, progetti ec. che da lontano pareano facili ad abbandonare [296]per forza di ardore di entusiasmo, o di passione, disperazione ec. e da vicino rincrescono infinitamente quando la passione è sparita, e le cose si considerano quietamente. 3. Che la natura ha posto negli esseri viventi sommo amor della vita, e quindi odio della morte, e queste passioni ha voluto e fatto che fossero cieche, e non dipendessero dal calcolo delle utilità, della maggiore o minor perdita ec. Quindi è naturale Letteratura italiana Einaudi 294
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia che gli effetti di questo amore e di quest’odio crescano in proporzione che la cosa amata è più in pericolo, e più bisognosa di cure per conservarla, e la cosa odiata più vicina. 4. Che i beni si disprezzano quando si possiedono sicuramente, e si apprezzano quando sono perduti, o si corre pericolo o si è in procinto di perderli. E come quel disprezzo era maggiore del giusto, così anche questa stima suol eccedere i limiti in qualsivoglia cosa. Ora il giovane, per quanto è concesso all’uomo, è il vero possessor della vita; il vecchio la possiede come precariamente. 5.
Che la felicità o infelicità non si misura dall’esterno ma dall’interno. Il vecchio per l’assuefazione è meno suscettibile [297]di mali, e meno sensibile a quelli che gli av-vengono; per l’estinzione dell’impeto e dell’inquietudine giovanile, meno bisognoso dei beni che gli mancano, meno vivo nei desideri, più facile a soffrir la privazione di ciò che desidera, e a desiderar cose dove possa agevolmente esser soddisfatto. Laonde la vita del vecchio non è più infelice di quella del giovane, anzi forse più felice secondo la sesta considerazione. 6. Che la vita metodica, tranquilla e inattiva non è penosa ma piacevole, quando s’accordi col metodo, calma, e inattività dell’individuo. Certo il giovane muore in una tal condizione, ma la condizione ch’egli desidera, specialmente nello stato presente del mondo, è difficilissima o impossibile a conseguire.
Egli non trova altro che il nulla da cui fugge; il vecchio lo desidera, lo cerca, lo trova come tutti gli altri di qualunque età, e a differenza delle altre età, se ne compiace, o almeno non se ne duole, o certo lo soffre con pazienza, e quando l’uomo è perfettamente paziente, allora non può non amar la vita, perchè questa è amabile per natura.
Aggiungete la tempesta delle passioni, dalla [298]quale il vecchio è libero, la tempesta del mondo, della società, degli affari, delle azioni, degli stessi diletti, quella tempesta nella quale il giovane, anche dopo averla sospirata in mezzo alla noia, sospira il riposo e la calma. Anzi è certo Letteratura italiana Einaudi 295
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia che lo stato naturale è il riposo e la quiete, e che l’uomo anche più ardente, più bisognoso di energia, tende alla calma e all’ INAZIONE continuamente in quasi tutte le sue operazioni. Osservate ancora che la vita metodica era quella dell’uomo primitivo, e la più felice vita, non sociale, ma naturale. Osservate anche oggidì l’impressione che fa l’aspetto di essa vita rurale o domestica, nelle persone più dissipate, o più occupate, e com’ella par loro la più felice che si possa menare. È vero che ella ordinariamente è tale quando consiste in un metodo di occupazioni, e tale era nei primitivi, e nei selvaggi sempre occupati ai loro bisogni, o ad un riposo figlio e padre della fatica e dell’azione. Ma in ogni modo l’uomo avvezzandosi anche alla pura inazione, ci si affeziona talmente che l’attività gli riuscirebbe [299]penosissima. Si vedono bene spesso de’ carcerati ingrassare e prosperare, ed esser pieni di allegria, nella stessa aspettazione di una sentenza che decida della loro vita. Dove anzi l’imminenza del male, accresce il piacere del presente, cosa già osservata dagli antichi (come da Orazio), anzi famosa tra loro, e provata da me, che non ho mai sperimentato tal piacere della vita, e tali furo-ri di gioia maniaca ma schiettissima, come in alcuni tempi ch’io aspettava un male imminente, e diceva a me stesso; ti resta tanto a godere e non più, e mi rannicchiava in me stesso, cacciando tutti gli altri pensieri, e soprattutto di quel male, per pensare solamente a godere, non ostante la mia indole malinconica in tutti gli altri tempi, e riflessivissima. Anzi forse questa accresceva allora l’intensità del godimento, o della risoluzione di godere. Applicate anche questa settima considerazione ai vecchi. V.
p.121. pensiero 3. e confrontalo, rettificalo, ed accrescilo con questo, e questo con quello.
(23. ottobre 1820.)
Letteratura italiana Einaudi 296
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia I principi non possono essere amati per altra passione che per quella che consiste nell’amor di parte. [300]L’ambizione, l’avarizia ec. cadono sotto la categoria dell’interesse, consistono nel freddo calcolo dell’egoismo, e perciò spettano alla ragione, tutto l’opposto del fervido, irriflessivo e cieco impeto della passione. E chi sacrifica se stesso al principe per ambizione, avarizia, o altre mire di propria utilità, non si sacrifica veramente al principe ma a se stesso, e tanto quanto lo crede utile a se stesso, e in caso diverso, abbandona la sua causa. Ma l’amor di parte conduce a sacrificarsi furiosamente, e senza riserva nè condizione nè ritegno nè calcolo veruno, all’oggetto di questo amore, e così la passione primieramente è più forte della ragione e dell’interesse, e conduce ad affrontare molto maggiori ostacoli e pericoli; in secondo luogo non è soggetta a cambiar di strada secondo le circostanze, come l’interesse che da una causa porta a difenderne un’altra, secondo che meglio torna. I principi dunque non potendo esser favoriti dai sudditi per altra passione che per la sopraddetta, e l’interesse non essendo nè così forte, nè molto meno così costante, la ragione poi essendo inoperosissima (giacchè vediamo tutto giorno che quella parte [301]dei sudditi la quale ama o favorisce il suo governo per mera persuasione, come anche quella che lo odia nello stesso modo, è la parte più immobile e più passiva del popolo), debbono fomentare l’amor di parte. E
siccome questo non è attivo anzi non esiste, se non v’è parte contraria, perciò, quantunque sembri un paradosso, si può affermare che giova al principe il dar luogo a una fazione contraria alla sua, quando esista la favorevole, e sia più forte com’è il più naturale e ordinario. Questa fu la pratica dei romani la quale riuscì loro così bene come nessuno ignora. E i realisti di Francia, e le provincie o città realiste non sarebbero così ardenti sostenitori del re, se non avessero lo spirito di parte, e se non esistesse un partito contrario considerabile, il quale non è più Letteratura italiana Einaudi 297
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia forte, ma se fosse, l’affare sarebbe fuor del caso. E cento altri esempi e prove simili può fornire la storia antica e moderna e presente. Quello dunque che ho detto p.113.
de’ conquistatori, si può estendere a tutti i principi e governi.
(27. ottobre 1820.)
massime monarchici, oligarchici, aristocratici ec. perchè nelle repubbliche [302]il caso è alquanto diverso, e le fazioni sono utili per altre ragioni, ma non però che anche questa non si possa applicare ad esse pure. V. p.1242.
Nelle estreme sventure tutte le altre età ammettono la consolazione o filosofica, o qualunque. Solamente la giovanezza non ammette e non vede altra consolazione che della morte. Il libro di Crantore perÜ p¡nϑouw lodatissimo dagli antichi, il libro di Cicerone de Consolatione dove espresse in gran parte quello di Crantore, saranno stati utili alle altre età. Pel giovane estremamente sventurato, o che si creda tale, non si può scriver libro consolatorio.
La corruttela de’ costumi è mortale alle repubbliche, e utile alle tirannie, e monarchie assolute. Questo solo basta a giudicare della natura e differenza di queste due sorte di governi.
(3. novembre 1820.)
La plus grande marque qu’on est né avec de grandes qualités, c’est d’être sans envie Madame la Marquise de Lambert, Avis d’une mère à son fils. À Paris et à Lyon 1808. p.67.
Letteratura italiana Einaudi 298
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Une résistance inutile (aux malheurs) retarde l’habitude qu’elle (l’ame) contracteroit avec son état. Il faut céder aux malheurs. Renvoyez-les à la patience: c’est à elle seule à les adoucir [303]. La même, ibid. p.88. (5 Nov. 1820.).
Bione Boristenite ¤rvthϑeÛw pote tÛw m�llon
�gvni� (anxietate maiore detineatur), ¦fh, õ t�
m¡gista boulñmenow eéhmereÝn, colui che cerca le su-preme felicità (Laerz. in Bione, l.4 segm.48.). Chi sa pascersi delle piccole felicità, raccogliere nell’animo suo i piccoli piaceri che ha provato nella giornata, dar peso presso
se medesimo alle piccole fortune, facilmente passa la vita, e se non è felice, può crederlo, e non accorgersi del contrario. Ma chi non dà mente se non alle grandi felicità, non considera come guadagno, e non proccura di pascersi e ruminare seco stesso i piccoli accidenti piacevoli, le piccole riuscite, soddisfazioni, conseguimenti ec. e tiene tutto per nulla, se non ottiene quel grande e difficile scopo che si propone; vivrà sempre cruccioso, ansioso, senza godimenti, e in vece della gran felicità, ritroverà una continua infelicità. Massimamente che, conseguito ancora quel grande scopo, lo troverà molto inferiore alla speranza, come sempre accade nelle cose lungamente desidera-te e cercate.
(6. Nov. 1820.). V. poco sotto.
Osservano i giuristi che nel Cod. Giustin. non si trova legge contro i duelli (perlochè moltissimi si sforzano di tirarci scioccamente quella di Costantino M. [304]contro i Gladiatori). Così accade a chi fa il ritratto o la copia avanti che abbia veduto l’originale, o ad un fanciullo che si faccia le vesti per quando sarà cresciuto.
Letteratura italiana Einaudi 299
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Il faut s’arrêter et séjourner sur les goûts et sur les plaisirs, pour en jouir: il faut de repos pour le bonheur. Il n’y a point de présent pour une ame agitée: la soif des richesses ne laisse jamais assez de calme pour sentir ce que l’on possède (lo stesso dite di qualunque altro desiderio difficile a conseguire, e vivissimo tuttavia)… Ils passent leur vie en désirs et en espérances: ainsi, ils ne vivent pas, mais ils espérent de vivre. Madame de Lambert, Réflexions sur les richesses. Paris 1808. à la suite des Avis d’une mère à son fils. p.153.154.
Quel detto scherzevole di un francese Glissez, mortels, n’appuyez pas a me pare che contenga tutta la sapienza umana, tutta la sostanza e il frutto e il risultato della più sublime e profonda e sottile e matura filosofia. Ma questo insegnamento ci era già stato dato dalla natura, e non al nostro intelletto nè alla ragione, ma all’istinto ingenito ed intimo, e tutti noi l’avevamo messo in pratica da
[305]fanciulli. Che cosa adunque abbiamo imparato con tanti studi, tante fatiche, esperienza, sudori, dolori? e la filosofia che cosa ci ha insegnato? Quello che da fanciulli ci era connaturale, e che poi avevamo dimenticato e perduto a forza di sapienza; quello che i nostri incolti e selvaggi bisavoli, sapevano ed eseguivano senza sognarsi d’esser filosofi, e senza stenti nè fatiche nè ricerche nè osservazioni nè profondità ec. Sicchè la natura ci aveva già fatto saggi quanto qualunque massimo saggio del nostro o di qualsivoglia tempo; anzi tanto più, quanto il saggio opera per massima, che è cosa quasi fuori di se; noi ope-ravamo per istinto e disposizione ch’era dentro di noi, ed immedesimata colla nostra natura, e però più certamente e immancabilmente e continuamente efficace. Così l’apice del sapere umano e della filosofia consiste a conoscere la di lei propria inutilità se l’uomo fosse ancora qual era da principio, consiste a correggere i danni ch’essa medesima ha fatti, a rimetter l’uomo in quella condizione in Letteratura italiana Einaudi 300
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia cui sarebbe sempre stato, s’ella non fosse mai nata. E perciò solo è utile la sommità della filosofia, perchè ci libera e disinganna dalla filosofia.
(7. Nov. 1820.)
[306]Aristotele, o secondo altri, Diogene, tò k�llow pantòw ¦legen ¤pistolÛou sustatikÅteron. (Laerz.
in Aristot. l.5. seg.18.) Teofrasto definiva la bellezza sivpÇsan �p�thn (ib. 19.). Pur troppo bene: perchè tutto quello che la bellezza promette, e par che dimostri, virtù, candore di costumi, sensibilità, grandezza d’animo, è tutto falso. E così la bellezza è una tacita menzogna.
Avverti però che il detto di Teofrasto è più ordinario, perchè �p�th non è propriamente menzogna, ma inganno, frode, seduzione, ed è relativo all’effetto che la bellezza fa sopra altrui, non al mentire assolutamente.
Appelliamo tutto giorno ai posteri. Nelle cose dove alla giustizia, al retto giudizio, alle retribuzioni dovute ec.
nuocono i difetti o vizi de’ contemporanei in quanto contemporanei, va bene. Ma in tutto il resto, in tutto quello che spetta ai vizi degli uomini come uomini, o come animali depravati, non so quanto ci gioverà
quest’appellazione. Se potessimo appellare ai passati, saremmo più fortunati, ma il costume del mondo è stato sempre di peggiorare, e che il futuro fosse peggiore del presente e del passato. Le generazioni migliori non sono quelle davanti, ma quelle di dietro; e non c’è speranza che [307]il mondo cambi costume, e rinculi in vece di avanzare; e avanzando già non può far altro che peggiorare. Massime a questi tempi e costumi presenti, non par che possa succedere nè derivare altro che tempi e costumi peggiori. Vediamo dunque che cosa ci resti a sperare dalla posterità. V. p.593. capoverso 1.
Letteratura italiana Einaudi 301
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia È un curioso andamento degli studi umani, che i geni più sublimi liberi e irregolari, quando hanno acquistato fama stabile e universale, diventino classici, cioè i loro scritti entrino nel numero dei libri elementari, e si mettano in mano de’ fanciulli, come i trattati più secchi e regolari delle cognizioni esatte.
Omero che scriveva innanzi ad ogni regola, non si sognava certo d’esser gravido delle regole come Giove di Minerva o di Bacco, nè che la sua irregolarità sarebbe stata misurata, analizzata, definita, e ridotta in capi ordinati per servir di regola agli altri, e impedirli di esser liberi, irregolari, grandi, e originali come lui. E si può ben dire che l’originalità di un grande scrittore, producendo la sua fama, (giacchè senza quella, sarebbe rimato oscuro, e non avrebbe servito di norma [308]e di modello) impedisce l’originalità de’ successori. Io compatisco tutti, ma in ispecie i poveri gramatici, i quali dovendo formare la prosodia greca sopra Omero, hanno dovuto popolare il Parnaso greco di eccezioni, di sillabe comuni ec.
o almeno avvertire che molti esempi di Omero ripugnavano ai loro insegnamenti, perchè Omero innocentemen-te, non sapendo il gran feto delle regole del quale erano pregni i suoi poemi, adoperava le sillabe a suo talento, e fino nello stesso piede, adoperava la stessa sillaba una volta lunga, e un’altra breve.
�Arew, �Arew, brotoloig¢, miaifñne,
teixesibl°ta.
Il Parnaso latino creato dopo che gli studi aveano preso forma regolare, se non intieramente presso i latini (quantunque la vera creazione del Parnaso latino si possa porre nel secolo di Augusto, perchè i poeti antecedenti erano di pochissimo conto), certo però presso i greci, dai quali Letteratura italiana Einaudi 302
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tutta la letteratura latina derivò immediatamente; non fu soggetto a questa difficoltà.
(8. Nov. 1820.)
Ma la poesia greca ebbe la disgrazia di trovarsi tutta bella e formata prima della nascita delle regole. Dal che non solo intorno alla prosodia, ma a tutto il rimanente, si possono [309]osservare quelle conseguenze che sono naturali, e quelle differenze che ne dovevano nascere, rispetto alla poesia latina.
Il faut être bien grand pour avoir la force de ne l’être qu’à ses propres yeux. Madame de Lambert, Portrait de M. de S. Paris 1808. à la suite des Avis d’une mère à son fils. p.226.
Il est dans l’âge où les sentimens deviennent plus délicats, parce qu’on échappe à l’empire des sens: dans cet âge où l’on vit encore pour ce qui plaît, et où l’on se retire pour ce qui incommode, il jouit des plaisirs purs. Ib. p.227.
Di uno sciocco che sempre vien fuori colla logica, dove ha gran presunzione, e la caccia in tutti i discorsi. Egli è propriamente l’uomo definito alla greca; un ANIMALE
logico.
Il gusto decisamente di preferenza che ha questo secolo per le materie politiche, è una conseguenza immediata e naturale, della semplice diffusione dei lumi, ed estinzione dei pregiudizi. Perchè quando per una parte non si pensa più colla mente altrui, e le opinioni non dipendono più dalla tradizione, [310]per l’altra il sapere non è più proprio solamente di pochi, i quali non potrebbero formare il gusto comune; allora le considerazioni cadono necessariamente sopra le cose che c’interessano più da vicino, più fortemente, più universalmente. L’uomo pre-Letteratura italiana Einaudi 303
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia giudicato o irriflessivo, segue l’abitudine, lascia andar le cose come vanno, e perchè vanno e sono andate così, non pensa che possano andar meglio. Ma l’uomo spregiudicato e avvezzo a riflettere, com’è possibile che essendo la politica in relazione continua colla sua vita, non la renda l’oggetto principale delle sue riflessioni, e per conseguenza del suo gusto? Nei secoli passati, come in quello di Luigi 14. anche gli uomini abili, non essendo nè spregiudicati, nè principalmente riflessivi, della politica conservavano l’antica idea, cioè che stesse bene come stava, e toccasse a pensarvi solamente a chi aveva in mano gli affari. Più tardi, gli uomini spregiudicati non mancavano, ma eran pochi: pensavano e parlavano di politica, ma il gusto non poteva essere universale. Aggiungete che i letterati e i sapienti per lo più vivono in una certa lontananza dal mondo; perciò la politica non toccava il sapiente così dap-presso, non gli stava tanto avanti gli occhi, non era in tanta relazione [311]colla sua vita, come ora che tutto il mondo è sapiente, e le cognizioni son proprie di tutte le classi. Del resto, sebbene la morale per se stessa è più importante, e più strettamente in relazione con tutti, di quello che sia la politica, contuttociò a considerarla bene, la morale è una scienza puramente speculativa, in quanto è separata dalla politica: la vita, l’azione, la pratica della morale, dipende dalla natura delle istituzioni sociali, e del reggimento della nazione: ella è una scienza morta, se la politica non cospira con lei, e non la fa regnare nella nazione. Parlate di morale quanto volete a un popolo mal governato; la morale è un detto, e la politica un fatto: la vita domestica, la società privata, qualunque cosa umana prende la sua forma dalla natura generale dello stato pubblico di un popolo. Osservatelo nella differenza tra la morale pratica degli antichi e de’ moderni sì differentemente governati.
(9 Nov. 1820.)
Letteratura italiana Einaudi 304
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Oltracciò il comune è bensì illuminato e riflessivo al dì d’oggi, ma non profondo, e sebbene la politica domanda forse maggior profondità di lumi e di riflessioni che la morale, contuttociò il suo aspetto e superficie offre un campo più facile agl’intelletti volgari, e generalmente la politica si presta [312]davantaggio ai sogni alle chimere alle fanciullaggini. Finalmente il volgo preferisce il brillante e il vasto al solido ed utile, ma in certo modo più ristretto e meno nobile, perchè la morale spetta all’individuo, e la politica alla nazione e al mondo. E la superbia degli uomini è lusingata dal parlare e discutere i pubblici interessi, dall’esaminare e criticare quelli che gli ammini-strano ec. e il volgare si crede capace e degno del comando, allorchè parla della maniera di comandare.
Alla p.62. pensiero 1. Osservate però che c’è una differenza in questo fra la letteratura latina e l’italiana, in quanto non le sole cognizioni filosofiche o filologiche, le quali esigevano l’uso delle parole greche, ma tutta la letteratura latina era derivata dalla greca. Non così l’italiana dalla francese, eccetto nella filosofia ec. anzi per lo contrario.
Sicchè l’introdur parole greche in latino doveva essere un poco più facile e naturale. Del resto la stessa cognazione e fratellanza ch’era tra la greca e la latina esiste tra la lingua italiana e la francese, e se la greca si vuol considerare per anteriore, se non altro nella formazione e sistemazio-ne, anche la lingua provenzale ci ha preceduto quasi nello stesso modo.
Alla p.58. pensiero penultimo. Aggiungete che il
[313]tempo di Giuliano era tutto sofistico, e tale egli è in tutte le altre sue opere, tali sono Libanio, Temistio ec.
suoi più famosi scrittori contemporanei. Ma nessuno è sofista quando parla di se stesso e per se stesso, e in un’occasione che mette in vero movimento l’animo suo.
Letteratura italiana Einaudi 305
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Come la forza della natura giovanile, forza che non può esser vinta in fatto da nessuna ragionevolezza, studio, filosofia, precoce maturità di pensare ec. fa che il giovane s’inebbri facilmente della felicità, così anche dell’infelicità, quando questa è tanto grave che superi la naturale inclinazione del giovane all’allegrezza, al divagarsi, a sperare, a noncurare il male. E perciò il giovane è incapace d’altra consolazione che della morte, come ho detto p.302.
Nè religione, nè ragione, nè altro che sia, non è sufficiente a consolare il giovane sommamente sventurato, s’egli ha una certa forza d’animo, la quale tutta s’impiega in consolidare, e fargli sentire profondamente e ostinatamen-te il suo male.
La letteratura francese si può chiamare originale per la sua somma e singolare inoriginalità.
[314]Alla p.252. La Spagna è una prova e un esempio vivo e presente di quello ch’io dico. Nella Spagna barbara di barbarie non primitiva ma corrotta per la superstizione, la decadenza da uno stato molto più florido, civile, colto e potente, gli avanzi de’ costumi moreschi ec. nella Spagna, dico, l’ignoranza sosteneva la tirannia. Questa dunque doveva cadere ai primi lampi di una certa filosofia, derivati dall’invasione e dimora de’ francesi, e dalla rivoluzione del mondo. L’ignoranza è come il gelo che assopisce i semi e gl’impedisce di germogliare, ma non gli uccide, come l’incivilimento, e passato l’inverno, quei semi germogliano alla primavera. Così è accaduto nella Spagna, dove quel popolo, tornato quasi vergine ha sentito le scosse dell’entusiasmo, e l’avea già dimostrato nell’ultima guerra. E perciò s’è veduto quivi il contrario delle altre nazioni, come osserva l’autore del Manuscrit venu de Sainte Hèlene, cioè che lo spirito rivoluzionario esisteva solamente in quelli che pel loro stato erano più colti, preti, frati, nobili, tutti quelli che nella rivoluzione non Letteratura italiana Einaudi 306
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia aveano che a perdere: [315]perchè il torpore della nazione non derivava da eccesso d’incivilimento, ma da difetto; e i pochi colti, probabilmente non lo erano all’eccesso, come altrove, ma quanto basta e conviene, e non più.
Quando la Spagna sarà bene incivilita ricadrà sotto la tirannia, sostenuta non più dall’ignoranza, ma per lo contrario dall’eccesso del sapere, dalla freddezza della ragione, dall’egoismo filosofico, dalla mollezza, dal genio per le arti e gli studi pacifici. E questa tirannia sarà tanto più durevole quanto più moderata della precedente. E se il re di Spagna avrà vera politica dovrà promuovere a tutto potere l’incivilimento del suo popolo (e in questi tempi vi potrà riuscire più facilmente e più presto). E con ciò non consoliderà la loro indipendenza, come si crede comunemente, ma gli assoggetterà di nuovo, e ricupererà quello che ha perduto. Non c’è altro stato intollerante di tirannia, o capace di esserne esente, fuorchè lo stato naturale e primitivo, o una civilizzazione media, com’è ora quella della Spagna, com’era quella de’ Romani ec. Atene e la Grecia quando furono sommamente civili, non furono mai libere veramente.
(10 Nov. 1820.)
[316]Teofrasto notato dagli antichi per uomo laboriosissimo e infaticabile negli studi, venuto a morte nell’estrema vecchiezza per l’assiduità dello scrivere, secondo ch’è riferito da Suida, e interrogato dagli scolari se lasciasse loro nessun precetto o ricordo, rispose, Nient’altro se non che l’uomo disprezza molti piaceri a causa della gloria. Ma non così tosto incomincia a vivere che la morte gli sopravviene. Però l’amor della gloria è così svan-taggioso come checchessia. Vivete felici, e lasciate gli studi che vogliono gran fatica, o coltivategli a dovere, che portano gran fama. Se non che la vanità della vita è maggiore dell’utilità. Per me non è più tempo a deliberare: voi altri considerate quello che vada fatto. E così dicendo Letteratura italiana Einaudi 307
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia spirò. (Queste sono le sue proprie parole come le riporta il Laerzio, in Theophrasto l.5 segm.41.)
Del rimanente mi pare che Teofrasto forse solo fra gli antichi o più di qualunque altro, amando la gloria e gli studi, sentisse peraltro l’infelicità inevitabile della natura umana, l’inutilità de’ travagli, e soprattutto l’impero della fortuna, e la sua preponderanza sopra la virtù relativamente alla felicità dell’uomo e anche del saggio, al contrario degli altri filosofi tanto [317]meno profondi, quanto più superbi, i quali ordinariamente si compiacevano di credere il filosofo felice per se, e la virtù sola o la sapienza, bastanti per se medesime alla felicità. Laonde Teofrasto non ebbe giustizia dagli antichi incapaci di conoscere quella profondità di tristo e doloroso sentimento che lo faceva parlare. Vexatur Theophrastus et libris et scholis omnium philosophorum, quod in Callisthene suo laudarit illam sententiam: Vitam regit fortuna non sapientia. Cic.
Tuscul. 3. et 5. (vedilo perchè contiene qualche altra cosa).
Quod maxime efficit Theophrasti de beata vita liber, in quo multum admodum fortunae datur. Id. de Finibus l.4. Neanche ha ottenuto dai moderni quella stima che meritava, essendo smarrite quasi tutte le sue moltissime opere, nè restando altro che alcune fisiche, eccetto i Caratteri; e io credo di essere il primo a notare che Teofrasto essendo filosofo e maestro di scuola (e scuola eccessivamente numerosa), anteriore oltracciò ad Epicuro, e certamente non Epicureo nè per vita nè per massime, si accostò forse più di qualunque altro alla cognizione di quelle triste verità che solamente gli ultimi secoli hanno veramente distinte e poste in chiaro, e della falsità di quelle illusioni che solamente a’ dì nostri hanno perduto il loro splendore e vigor naturale. Ma così anche si vede che Teofrasto conoscendo le illusioni, non però [318]le fuggiva o le proscriveva come i nostri pazzi filosofi, ma le cercava e le amava, anzi si faceva biasimare dagli altri Letteratura italiana Einaudi 308
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia antichi filosofi, appunto perchè onorava le illusioni molto più di loro. Itaque miror quid in mentem [venerit]
Theophrasto in eo libro quem De divitiis scripsit: in quo multa praeclare, illud absurde. Est enim multus in laudanda magnificentia et apparatione popularium munerum, taliumque sumtuum facultatem, fructum divitiarum putat. Cic. de offic.
Così si vede che appunto chi conosce e sente più profondamente e dolorosamente la vanità delle illusioni, le onora e desidera e predica più di tutti gli altri, come Rousseau, la Staël ec.
Che se Teofrasto vicino a morte le abbandonò e quasi le rinegò come Bruto, questo stesso è una prova di quanto le avesse amate perchè non si ripudia quello che non s’è mai amato, nè si abbandona quello che non s’è mai seguito. Nè si mente senza vantaggio in punto di morte ec.
(11. Nov. 1820.)
[319]Sovente ho desiderato con impazienza di possedere e gustare un bene già sicuro, non per avidità di esso bene, ma per solo timore di concepirne troppa speranza, e guastarlo coll’aspettativa. E questa tale impazienza, ho osservato che non veniva da riflessione, ma naturalmente, nel tempo ch’io andava fantasticando e congetturan-do sopra quel bene o diletto. E così anche naturalmente proccurava di distrarmi da quel pensiero. Se però l’abito generale di riflettere, o vero l’esperienza e la riflessione che mi aveano già precedentemente resa naturale la cognizione della vanità dei piaceri, e la diffidenza dell’aspettativa, non operavano allora in me
senz’avvedermene, e non mi parvero natura.
(11 Nov. 1820.)
Letteratura italiana Einaudi 309
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Dice Quintiliano l.10. c.1. Quid ego commemorem Xenophontis iucunditatem illam inaffectatam, sed quam nulla possit affectatio consequi? E certo ogni bellezza principale nelle arti e nello scrivere deriva dalla natura e non dall’affettazione o ricerca. Ora il traduttore necessariamente affetta, cioè si sforza di esprimere il carattere e lo stile altrui, e ripetere il detto di un altro alla maniera e gusto del medesimo. Quindi osservate quanto sia difficile una buona traduzione in genere di bella letteratura,
[320]opera che dev’esser composta di proprietà che paiono discordanti e incompatibili e contraddittorie. E similmente l’anima e lo spirito e l’ingegno del traduttore.
Massime quando il principale o uno de’ principali pregi dell’originale consiste appunto nell’inaffettato, naturale e spontaneo, laddove il traduttore per natura sua non può essere spontaneo. Ma d’altra parte quest’affettazione che ho detto è così necessaria al traduttore, che quando i pregi dello stile non sieno il forte dell’originale, la traduzione inaffettata in quello che ho detto, si può chiamare un dimezzamento del testo, e quando essi pregi formino il principale interesse dell’opera, (come in buona parte degli antichi classici) la traduzione non è traduzione, ma come un’imitazione sofistica, una compilazione, un capo morto, o se non altro un’opera nuova. I francesi si sbriga-no facilmente della detta difficoltà, perchè nelle traduzioni non affettano mai. Così non hanno traduzione veruna (e lasciateli pur vantare il Delille, e credere che possa mai essere un Virgilio), ma quasi relazioni del con-tenuto nelle opere straniere; ovvero opere originali composte de’ pensieri altrui.
[321]Una delle prime cagioni della universalità della lingua francese, è la sua unicità. Perchè la lingua italiana (così sento anche la tedesca, e forse più) è piuttosto un complesso di lingue che una lingua sola, potendo tanto variare secondo i vari soggetti, e stili, e caratteri degli scrit-Letteratura italiana Einaudi 310
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tori ec. che quei diversi stili paiono quasi diverse lingue, non avendo presso che alcuna relazione scambievole.
Dante – Petrarca e Parini ec. Davanzati – Boccaccio, Casa ec. V. p.244. Dal che come seguono infiniti e principalissimi vantaggi, così anche parecchi svantaggi.
1. che lo straniero trova la nostra lingua difficilissima, e intendendo un autore, e passando a un altro, non l’intende. (Così nei greci) 2. che potendosi scrivere o parlare italiano senza essere elegante ec. ec. ec. lo scrittore italiano volgare scrive ordinariamente malissimo; così il parlatore ec. Al contrario del francese, dove la strada essendo una, e chiusa da parte e parte, non parla francese chi non parla bene; e perciò quasi tutti i francesi scrivono e parlano elegantemente, ma sempre di una stessa eleganza, e quanto al più e il meno, le differenze sono così piccole,
[322]che se i francesi le sentono nei loro diversi scrittori, agli esteri son quasi impercettibili. Laddove le differenze de’ buoni stili italiani, saltano agli occhi di chicchessia.
Così anche dei greci.
E notate di passaggio che la lingua latina ha una strada molto più segnata e definita, e rassomiglia in questo alla francese. La cagione è che la lingua latina scritta, fu opera dell’arte (onde il volgar latino differiva sommamente dal letterale) come è noto, e come dimostra a prima vista la sua artificiosissima e figuratissima costruzione. Laddove la forma della lingua greca e italiana fu opera della natura, vale a dire che ambedue queste lingue si formarono prima della nascita, o almeno della formazione e definizione delle regole, e prima che gli scrittori fossero legati da’ precetti dell’arte. Così la natura è sempre varia, e l’ar-te sempre uniforme, o se non altro sommamente inferiore alla natura in varietà.
Letteratura italiana Einaudi 311
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia In somma lo straniero e il francese parla facilmente bene la sua lingua, dove la varietà non genera confusione o difficoltà all’imperito.
[323]E l’unicità della lingua francese, e la moltiplicità dell’italiana apparisce più chiaro che mai dalla facoltà rispettiva nelle traduzioni. La lingua tedesca ancora, passa per sommamente suscettibile di prendere il carattere e la forma di qualunque lingua, scrittore, e stile, e quindi per ricchissima in traduzioni vivamente simili agli originali.
Non so peraltro se questa facoltà consista veramente nello spirito dello stile, o solamente nel materiale, come par che dubiti la Staël nell’articolo sulle traduzioni.
Il fatto sta che i francesi vantandosi dell’universalità della loro lingua si vantano della sua poca bellezza, della sua povertà, uniformità, ed aridità, perchè s’ella avesse quanto si richiede per esser bella, e se fosse ricca e varia, e se non fosse piuttosto geometria che lingua, non sarebbe universale. Ma il mondo se ne serve come delle formole o dei termini di una scienza, noti e facili a tutti, perchè formati sullo sterile modello della ragione, o come di un’ar-te o scienza pratica, di una geometria, di un’aritmetica, ec. comuni a tutti i popoli, perchè tutti dalle stesse maggiori deducono le stesse conseguenze.
(13. Nov. 1820.)
[324]Dalle sopraddette considerazioni osserverai quanto sia giusta la maraviglia e degna la lode di quelli che dicono che in Francia da Luigi 14. in poi non si disputa più della lingua, e si scrive bene, laddove in Italia si disputa sempre della lingua e si scrive male. Prima di Luigi 14. quando la lingua francese non era ancora geometrizzata, e ridotta a una processione di collegiali, come dice Fénélon, siccome si poteva scriver meglio di adesso, così anche si potea scriver male.
Letteratura italiana Einaudi 312
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Demetrio Falereo tÇn tetufvm¡nvn �ndrÇn ¦fh tò m¢n ìcow deÝn periaireÝn, tò d¢ frñnhma
katalipeÝn. (Laerz. in Demetr. l.5. seg.82.). Cioè, hominum fastu turgidorum aiebat circumcidi oportere altitudinem, opinionem autem de se relinquere. Così l’interprete benissimo. Scioccamente Merico Casaubono nella nota ad alcune parole dello stesso segm. poco addietro.
Toçw fÛlouw ¢pÜ m¢n t� �gaϑ� parakaloum¡nouw
�pi¡nai, ¢pÜ d¢ t�w sumfor�w, aétom�touw. (subint.
deÝn, quod est in superioribus) Detto dello stesso, appo il Laerz. l.c. segm.83.
Il vino è il più certo, e (senza paragone) il più efficace consolatore. Dunque il vigore; dunque la natura.
A quello che ho detto poco sopra di Teofrasto, [325]aggiungi i suoi Caratteri, dove com’è noto, e forse superior-mente a qualunque scrittore antico, massimamente greco e prosatore, si dimostra molto avanzato nella scienza del cuore umano. Ora chi conosce intimamente il cuore umano e il mondo, conosce la vanità delle illusioni, e inclina alla malinconia, tanto più che la base di questa scienza è la sensibilità e suscettibilità del proprio cuore, nel quale principalmente si esamina la natura dell’uomo e delle cose.
(V. quello ch’io dirò in questi pensieri intorno al Massillon). Del rimanente Teofrasto liberò due volte la sua patria dalla tirannide. Plutarco, adversus Colot. in fine. p.1126. f. Non se n’ha altra testimonianza che questa, come apparisce dal Fabricio.
Come i più ardenti zelatori delle illusioni sono forse quelli che ne conoscono e sentono più vivamente e universalmente la vanità, così i loro più ardenti impugnatori son quelli che non la conoscono bene, o se la conoscono bene, non la sentono intimamente e in tutta l’estensione Letteratura italiana Einaudi 313
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia della vita; cioè la conoscono in teoria, ma non in pratica.
Tali sono gli spregiudicati e gl’intolleranti filosofici de’
nostri giorni. [326]Perchè se la conoscessero e sentissero, e ne comprendessero tutta l’immensa estensione, se ne spaventerebbero, la mancanza di esse illusioni torrebbe loro quasi il respiro, cercherebbero di rifugiarsi un’altra volta nel seno dell’ignoranza o dimenticanza del vero, e del crudelissimo dubbio (dimenticanza che non gli alie-nerebbe, anzi li ricondurrebbe alla religione), di richiamar l’attività ec. Se non altro non sarebbero così ardenti nel combattere le illusioni, non cercherebbero gloria nel dimostrar la vanità di tutte le glorie, non porrebbero molta importanza nel dimostrare e persuadere che nulla importa, e per conseguenza neanche questa dimostrazione.
Dicono che la felicità dell’uomo non può consistere fuorchè nella verità. Così parrebbe, perchè qual felicità in una cosa che sia falsa? E come, se il mondo è diretto alla felicità, il vero non deve render felice? Eppure io dico che la felicità consiste nell’ignoranza del vero. E questo, appunto perchè il mondo è diretto alla felicità, e perchè la natura ha fatto l’uomo felice. Ora essa l’ha fatto anche ignorante, come gli altri animali. Dunque l’avrebbe fatto
[327]infelice esso, e le altre creature; dunque l’uomo per se stesso sarebbe infelice (eppure le altre creature sono felici per se stesse); dunque sarebbero stati necessari moltissimi secoli perchè l’uomo acquistasse il complemen-to, anzi il principale dell’esistenza, ch’è la felicità (giacchè nemmeno ora siam giunti all’intiera cognizione nel vero); dunque gli antichi sarebbero stati necessariamente infelici; dunque tutti i popoli non colti, parimente lo saranno anche oggidì; dunque noi pure necessariamente per quella parte che ci manca della cognizione del vero. Laddove tutti gli esseri (parlo dei generi e non degl’individui) sono usciti perfetti nel loro genere dalle mani della natura.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia E la perfezione consiste nella felicità quanto all’individuo, e nella retta corrispondenza all’ordine delle cose, quanto al rimanente. Ma noi consideriamo quest’ordine in un modo, e la natura in un altro. Noi in un modo con cui l’ignoranza è incompatibile: la natura in un modo col quale è incompatibile la scienza. E se la natura ha voluto incontrastabilmente la felicità degli esseri, perchè, supponendo che l’abbia posta riguardo all’uomo nella cognizione del vero, ha nascosto questo vero così gelosamente che secoli e secoli non bastano a discoprirlo?
[328]Non sarebbe questo un vizio organico, fondamentale, radicale, e una contraddizione nel suo sistema? Come ha reso così difficile il solo mezzo di ottener quello ch’el-la voleva soprattutto, e si prefiggeva per fine, cioè la felicità? e la felicità dell’uomo, il quale tiene evidentemente il primo rango nell’ordine delle cose di quaggiù? Come ha ripugnato con ogni sorta di ostacoli a quello ch’ella cercava? Ma l’uomo dovea ben tenere il primo rango, e lo terrebbe anche in quello stato naturale che noi consideriamo come brutale; non però dovea mettersi in un al-tr’ordine di cose, e considerarsi come appartenente ad un’altra categoria, e porre la sua dignità, non nel primeg-giare tra gli esseri, come avrebbe sempre fatto, ma nel collocarsi assolutamente fuori della loro sfera, e regolarsi con leggi apparte, e indipendenti dalle leggi universali della natura.
(14. Nov. 1820.)
È osservabile nella differenza tra i giuochi greci e i romani, la naturalezza dei primi che combattevano nella lotta nel corso ec. appresso a poco coi soli istrumenti da-tici dalla natura, laddove i romani colle spade e altri istrumenti artifiziali. E quindi la diversa destinazione di quei giuochi, [329]diretti presso gli uni ad ingrandir quasi la natura ed eccitare le grandi immagini, sentimenti ec.: presso gli altri o al semplice sollazzo, o all’addestramento Letteratura italiana Einaudi 315
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia militare. Così che quelli andavano alla sorgente universale delle grandi imprese, questi si fermavano ad un mezzo particolare. E questa differenza è anche più notabile in ciò che gli spettacoli greci erano eseguiti da uomini liberi per amor di gloria. Quindi l’effetto favorevole all’entusiasmo, l’eccitamento, l’emulazione, gli esercizi preparatorii ec. Gli spettacoli romani erano eseguiti da’
servi. Quindi non altro effetto utile che l’avvezzar gli occhi e l’animo agli spettacoli e pericoli della guerra: utilità parziale e secondaria, non generale e primitiva come l’altra. Nel che forse si potrà anche notare la differenza tra un popolo libero e padrone, e un popolo libero bensì, ma non padrone, se non di se stesso, com’era il greco. V.
p.360. capoverso 2.
Quello che ho detto altrove della necessità di una persuasione per le grandi imprese, è applicabile soprattutto alla massa del popolo, e combina con quello che dice Pascal che l’opinione è la regina [330]del mondo, e gli stati dei popoli e i loro cangiamenti, fasi, rovesciamenti provengono da lei. 1. Le passioni son varie, l’opinione è una, e il popolo non può esser mosso in uno stesso senso, se non da una cagione comune e conforme. 2. L’individuo potrà essere strascinato dalle sue illusioni, o conoscendole per tali, e nondimeno seguendole (cosa impossibile al popolo, giacchè il capriccio, o un entusiasmo non fondato sopra basi vere o false, ma stabili, non può essere universale); ovvero non conoscendole; e questo è più difficile al popolo, perchè la cosa più varia è l’illusione, la più uniforme e costante è la ragione, e perciò il popolo ha bisogno di un’opinione decisa, non dico vera, ma pur logica, e apparentemente vera, in somma conseguente e ragionata, perchè tutto il resto non può essere un movente universale. Così Maometto produsse i cangiamenti, e spinse gli Arabi alle imprese, che tutti sanno. Così Lutero cagionò le guerre della riforma; così gli Albigesi ec. così i Letteratura italiana Einaudi 316
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Martiri sparsero il sangue pel Cristianesimo, così gli antichi morivano per la patria e la gloria. V. in questo proposito il principio del Capo 1. dell’Essai sur l’indifférence en matière de Religion.
(15 Nov. 1820.)
[331]Quello ch’io dico della filosofia de’ romani, e in genere di ogni filosofia, si conferma dall’esser cosa già osservata che la religione si ritrova presso la culla di tutti i popoli, in quella guisa che la filosofia si è trovata sempre vicina alla lor tomba. (Essai sur l’indifférence en matière de Religion. nelle prime linee del Capo 2. E poco dopo il principio del C.1. dopo aver detto che la filosofia greca, tanto temuta da Catone, e nondimeno insinuatasi fra i romani, fu la cagione della rovina di Roma vincitrice del mondo, soggiunge ch’ è un fatto degno della più seria considerazione che tutti gl’imperi, la cui storia è da noi conosciuta, e che erano stati consolidati dal tempo e dalla prudenza, si videro rovesciati dai Sofisti. Nel capo secondo si estende maggiormente in provare che la filosofia fu la distruttrice di Roma, e conviene con Montesquieu il quale non teme di attribuire la caduta di quest’impero alla filosofia di Epicuro, aggiungendo in nota che Bolinghbroke pensa in questo punto assolutamente come Montesquieu:
«L’obblio ed il disprezzo della Religione furono la cagione principale dei mali che [332] provò Roma in seguito: la Religione e lo Stato decaddero nella medesima proporzione.». T.4 p.428.). Colla differenza che laddove gli apologisti della religione ne deducono che gli stati sono stabiliti e conservati dalla verità, e distrutti dall’errore, io dico che sono stabiliti e conservati dall’errore, e distrutti dalla verità. La verità non si è mai trovata nel principio, ma nel fine di tutte le cose umane; e il tempo e l’esperienza non sono mai stati distruttori del vero, e introduttori del falso, ma distruttori del falso e insegnatori del vero. E
chi considera le cose al rovescio, va contro la conosciuta Letteratura italiana Einaudi 317
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia natura delle cose umane. Questo è il controsenso fondamentale in cui è caduto l’autore sopracitato. Egli avrebbe difesa molto meglio la Religione se l’avesse difesa non come dettame dell’intelligenza, ma come dettame del cuore. E quando egli dice che dunque l’esistenza e la felicità, la perfezione e la vita dell’uomo sarebbero contro natura, perchè la natura è il complesso delle perpetue verità, s’inganna, perchè la natura è il complesso delle verità in tal modo che tutto quello ch’esiste sia vero, ma non tutto quello ch’è vero sia conosciuto da ciascuna delle di lei parti. Ed una di queste verità che son comprese
[333]nel sistema della natura, è che l’errore e l’ignoranza è necessaria alla felicità delle cose, perchè l’ignoranza e l’errore è voluto, dettato, e stabilito fortemente da lei, e perch’ella in somma ha voluto che l’uomo vivesse in quel tal modo in cui ella l’ha fatto. E non perchè l’uomo ha voluto speculare il fondo delle cose, contro quello che doveva anzi poteva fare naturalmente, perciò è meno vero ch’egli doveva ignorare quello che ha scoperto, e che la sua felicità sarebbe stata vera, se egli avesse errato, e ignorato quelle verità che così considerate riescono indifferenti all’uomo, e che la natura ha seguite (ma segreta-mente) nel suo sistema, perchè gli erano necessarie, (16.
Nov. 1820.) o perchè così gli è piaciuto.
La natura può supplire e supplisce alla ragione infinite volte, ma la ragione alla natura non mai, neanche quando sembra produrre delle grandi azioni: cosa assai rara: ma anche allora la forza impellente e movente, non è della ragione ma della natura. Al contrario togliete le forze som-ministrate dalla natura, e la ragione sarà sempre inoperosa e impotente.
[334]Non c’è uomo costituito in carica o dignità, il quale confessi di averla cercata, e non dica o voglia fare intendere d’esserne stato rivestito spontaneamente, anzi con-Letteratura italiana Einaudi 318
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tro sua voglia ec. Gl’incarichi, le dignità, gli onori, ciascuno li cerca, e nessuno gli ha cercati.
Laerzio, Vit. Speusippi, l.4, seg.2, dice di Speusippo: Oðtow prÇtow, kaϑ� fhsi Diñdvrow ¤n
�pomnhmoneum�tvn prÅtÄ, ¤n toÝw maϑ®masin
¤ϑe�sato tò ko-inñn kaÜ sunÄkeÛvse kaϑ� ôson ¸n dunatòn �ll®loiw. Questo è notabile nei progressi dello spirito umano. Ma non so quanto sia vero perchè Platone aveva già riunite e legate nel suo sistema filosofico la fisica (compresa l’astronomia), la metafisica, la morale, la politica e le matematiche. È noto fra le altre cose il motto della sua scuola: non entri nessuno se non è geometra. V.
la nota d’Is. Casaubono al detto passo.
(17. Nov. 1820.)
Ripetono spesso gli apologisti della Religione che il mondo era in uno stato di morte all’epoca della prima comparsa del Cristianesimo; che questo lo ravvivò, cosa, dicon essi che pareva impossibile. Quindi
[335]conchiudono che questo non poteva essere effetto se non dell’onnipotenza divina, che prova chiaramente la sua verità, che l’errore perdeva il mondo, la verità lo salvò. Solito controsenso. Quello che uccideva il mondo, era la mancanza delle illusioni; il Cristianesimo lo salvò non come verità, ma come una nuova illusione. E gli effetti ch’egli produsse, entusiasmo, fanatismo, sagrifizi magnanimi, eroismo, sono i soliti effetti di una grande illusione. Non consideriamo adesso s’egli sia vero o falso, ma solamente che questo non prova nulla in suo favore.
Ma come si stabilì con tanti ostacoli, ripugnando a tutte le passioni, contraddicendo ai governi ec.? Quasi che quella fosse la prima volta che il fanatismo di una grande illusione trionfa di tutto. Non ha considerato menomamente il cuore umano, chi non sa di quante illusioni egli sia capace, quando anche contrastino ai suoi Letteratura italiana Einaudi 319
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia interessi, e come egli ami spessissimo quello stesso che gli pregiudica visibilmente. Quante pene corporali non soffrono per false opinioni i sacerdoti dell’India ec. ec.! E la setta dei flagellanti nata sui principii del Cristianesimo, che illusione era? E i sacrifizi infiniti che facevano gli antichi filosofi p.e. i Cinici alla professione della loro setta, spogliandosi di tutto il loro nella ricchezza ec.? E il sacrifizio de’ 300. alle Termopili? Ma come [336]trionfò il Cristianesimo della filosofia, dell’apatia che aveva spento tutti gli errori passati? I lumi di quel tempo non erano 1.
nè stabili, definiti e fissi, 2. nè estesi e divulgati, 3. nè profondi come ora; conseguenza naturale della maggiore esperienza, della stampa, del commercio universale, delle scoperte geografiche, che non lasciano più luogo a nessun errore d’immaginazione, dei progressi delle scienze i quali si danno la mano in modo, che si può dire che ogni nuova verità scoperta in qualunque genere influisca sopra lo spirito umano. Quei lumi erano bastati a spegnere l’error grossolano delle antiche religioni, ma non solamente permettevano, anzi si prestavano ad un error sottile. E
quel tempo appunto per li suoi lumi inclinava al metafisico, all’astratto, al mistico, e quindi Platone trion-fava in quei tempi. V. Plotino, Porfirio, Giamblico, e i seguaci di Pitagora, anch’esso astratto e metafisico.
L’Oriente poi, non solo allora, ma antichissimamente, aveva inclinato alla sottigliezza, ed anche alla profondità e verità, nella morale e nel resto. Egiziani, Cinesi, Vecchio Testamento ec. ec. A distrugger l’error più [337]sottile vi volevano lumi molto più profondi, sottili e universali di quelli d’allora. Tali sono quelli d’oggidì, così perfetti che sono interamente sterili d’errore, e da essi non può derivare error più sottile, come dai lumi antichi, il quale pur dia qualche vita al mondo. Ai mali della filosofia presente, non c’è altro rimedio che la dimenticanza, e un pascolo materiale alle illusioni.
Letteratura italiana Einaudi 320
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Del resto è vero che il Cristianesimo ravvivò il mondo illanguidito dal sapere, ma siccome, anche considerandolo com’errore, era appunto un errore nato dai lumi, e non dall’ignoranza e dalla natura, perciò la vita e la forza ch’ei diede al mondo, fu come la forza che un corpo debole e malato riceve da’ liquori spiritosi, forza non solamente effimera, ma nociva, e produttrice di maggior debolezza. Applicate quest’osservazione 1. alla poca durata della vera e primitiva forza del Cristianesmo sotto ogni rapporto, in paragone dell’infinita durata della forza de-gl’istituti e religioni antiche, p.e. presso i romani. 2. alla qualità di questa forza, tutta tetra, malinconica ec. in paragone della freschezza, della bellezza, allegria, varietà ec.
della vita antica: conseguenza naturale della [338]differenza dei dogmi. 3. all’aspetto lugubre che presero tanto i vizi quanto le virtù dopo la propagazione intera del Cristianesimo, cioè dopo estinto quel primo fuoco febbrile della nuova dottrina (cosa da me osservata altrove): in maniera che si può dire che il mondo (quanto alla vita, e al bello) deteriorasse infinitamente se non a cagione del Cristianesimo, almeno a cagione della tendenza che lo produsse e doveva produrlo, e dopo la sua introduzione: giacchè prima restavano ancora molti errori più naturali, e quindi più vitali e nutritivi, non ostante la filosofia.
(17. Nov. 1820.)
Un pensiero degno di essere sviluppato intorno alla perpetua superiorità degli antichi sopra i moderni a causa della maggior forza della natura, per anche non corrotta, o meno corrotta, sta nelle notes historiques de l’Éloge historique de l’Abbé de Mably, par l’abbé Brizard, avanti le Observations sur l’hist. de France. Kehll. 1789. t.1. p.114.
Note II.
(17. Nov. 1820.)
Letteratura italiana Einaudi 321
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Alla p.271. pensiero ult. Tale era l’idea che gli antichi si formavano della felicità ed infelicità. Cioè l’uomo privo di quei tali vantaggi della vita [339]benchè illusorii, lo consideravano come infelice realmente, e così viceversa.
E non si consolavano mai col pensiero che queste fossero illusioni, conoscendo che in esse consiste la vita, o considerandole come tali, o come realtà. E non tenevano la felicità e l’infelicità, per cose immaginare e chimeriche, ma solide, e solidamente opposte fra loro.
(18. Nov. 1820.)
Il Laerzio Vit. Platon. l.3. seg.79-80. dice di Platone.
�En d¢ toÝw dialñgoiw kaÜ t¯n dikaiosænhn ϑeoè nñmon êpel�mbanen, ( arbitratus est. Interpr.) Éw Þsxurot¡ran protr¡cai t� dÛkaia pr�ttein, ána m¯ kaÜ met�
ϑ�naton dÛkaw êpñsxoien oß kakoèrgoi. ÷ϑen kaÜ
muϑikÅterow ¢nÛoiw êpel®fϑh, toÝw suggr�mmasin
¤gkatamÛjaw t�w toiaætaw dihg®seiw, ( narrationes.
Interpr.) ôpvw di� toè �d®lou trñpou toè ¦xein t�
met� tòn ϑ�naton, ( ut, quod incertum sit ista post mortem sic se habere, ad moniti mortales etc. Interpr. ma non bene) oìtvw �p¡xvntai tÇn �dikhm�tvn.
Alla inclinazione degli uomini di partecipare altrui il piacere e il dolore, notata in altri pensieri, si dee riferire in gran parte la smania (attribuita principalmente alle donne, e propria soprattutto de’ fanciulli, insomma degli uomini più leggeri e naturali) di rivelare il segreto [340]o la cosa che si dovrebbe, e spesso anche d’altronde si vorrebbe tener nascosta, di raccontar subito una nuova, una cosa scoperta, un piacere un timore un dolore una noia provata ec. e tutta la loquacità che appartiene al riferire, (20. Nov. 1820.) o al dir quello che si pensa nel momento, o si è pensato ec. come i fanciulli non si possono tenere di ciarlare su qualunque soggetto.
Letteratura italiana Einaudi 322
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia In somma considerate gli antichi e i moderni: vedrete evidentemente una gradazione incontrastabile e notabilissima di grandezza, sempre in ragion diretta dell’antichità. Cominciando dagli uomini di Omero, un palmo più alti dei moderni, come dicea quel francese, e dalle piramidi di Egitto ec. discendete alle imprese nobilissime e grandiosissime, ai lavori immensi, alle fabbriche, alla solidità delle loro costruzioni fatte per l’eternità (cosa propria anche de’ tempi bassi, e fino al cinque o secento), alla profondissima impronta delle monete, all’eroismo, e a tutti gli altri generi di grandezza che distinguono i greci, i romani ec. E poi venendo ai tempi bassi e gradatamente ai moderni, vedete come l’uomo si vada sensibilmente impiccolendo, finchè giunge a quest’ultimo grado di piccolezza generale e individuale, e d’impotenza in cui lo vediamo oggidì. In maniera che l’eterna fonte del grande (come del bello) sono gli scrittori, le opere d’ogni sorta, gli esempi, i costumi, i sentimenti degli antichi; e degli antichi si pasce ogni anima straordinaria de’
nostri tempi. (V. p.338. capoverso 1.) Che segno è questo? La ragione ingrandisce o [341]impiccolisce? La natura era grande o piccola?
(20 Nov. 1820.)
Una grandissima e universalissima fonte di errori, con-trosensi, oscurità, sviste, contraddizioni, dubbi, confusioni ec. negli scrittori e filosofi tanto antichi che modernissimi, è il non aver considerata, e definita, e posta nelle basi del sistema dell’uomo, la nemicizia scambievole della ragione e della natura. Posta la quale, che è tanto evidente, e universale, si rischiarano, e determinano, e risolvono infiniti misteri e problemi nell’ordine e composto delle cose umane. Ma confondendo la ragione colla natura, il vero col bello, i progressi dell’intelligenza coi progressi della felicità e col perfezionamento dell’uomo, le nozioni e la natura dell’utile, il fine o scopo dell’intelli-Letteratura italiana Einaudi 323
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia genza (ch’è la verità) col fine e scopo vero dell’uomo e della natura sua ec. non si viene mai a capo di diciferare il mistero dell’uomo, e di accordare le infinite contraddizioni che par che s’incontrino in questa principalissima parte del sistema universale, cioè in quella che riguarda la nostra specie. Il combattimento della carne e dello spirito, dei sensi e della mente, notato già dagli scrittori, massimamente religiosi, o non è sufficiente, o non e stato bene inteso ed applicato, [342]ed esteso quanto doveva; o è stato torto in senso contrario al giusto, e dedottene conseguenze della stessa specie. ec. ec. ec.
(20. Nov. 1820.)
Il lavoro della terra era la principal fatica e occupazione destinata all’uomo. Ora è curioso l’osservare che la parte più oziosa della società è appunto quella la cui sostanza consiste in terre.
Quanto sia vero che i doveri e la morale determinata, non provengano da legge naturale nè sieno fondate sopra idee innate e comuni a tutti gli uomini, si può anche vedere per questo esempio. Il rispetto e l’immunità degli araldi, considerati antichissimamente come persone sacre e inviolabili, e da Omero chiamati cari a Giove, entra nel diritto così detto universale delle genti, e l’abitudine ce la fa riguardare come un dover naturale. Ora mettia-moci coll’immaginazione nello stato di natura, e vedremo che l’uomo non ha nessuna ripugnanza di far male al suo nemico, sotto qualunque aspetto se gli presenti, come non l’hanno gli altri animali, perchè il nemico è sempre nemico, e l’uomo inclina a nuocergli quanto e come e quando e dove mai possa. Così che l’inviolabilità degli araldi non è fondata sull’istinto, non è insegnata dalla natura, ma è legge [343]di pura convenzione, cagionata dall’utilità e necessità sua, utilità e necessità riconosciuta dalla ragione e per via d’argomento, non istillata e ingenita Letteratura italiana Einaudi 324
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia negli animi dalla natura senza bisogno di riflessione. E
così il diritto delle genti, che si crede naturale, vediamo per questo esempio, che contiene una legge di pura convenzione, la quale prima ch’esistesse, non era colpa il con-travvenirle, come si sarà mille volte fatto. In questo proposito ecco alcune parole dell’Essai sur l’indifférence en matière de religion, alquanto dopo la metà del Capo 4.
Diciamolo pure, giacchè non v’ha verità più sconosciuta e più importante: la Religione dei popoli è tutta la loro morale. Questo (per notarlo di passaggio) dopo aver nei capi precedenti voluto provar la religione colla morale, come fondamento di essa morale, e deriso Hobbes che toglie la coscienza, e dice che in natura non ci sono doveri. E qui viene a dire che la morale non si può provare se non colla religione. In ogni modo puoi veder gli esempi ch’egli adduce prima e dopo il detto luogo, per dimostrare la varietà delle coscienze, secondo la varietà delle religioni.
(21 Nov. 1820.). V. p.356. fine.
La lingua italiana non si è mai tolto il potere di adoperar quelle parole, frasi, modi, che sebbene antichi e non usati, sieno però intesi da tutti senza difficoltà, e possano
[344]cadere nel discorso senza affettazione: i quali sono infiniti per chi conosce la lingua, ma bene a fondo; e questi sono pochissimi o nessuno. La lingua francese si è spogliata affatto di questa facoltà, e ammettendo facilmente vocaboli e modi nuovi (intorno ai quali si sgridano gl’italiani perchè non gli ammettono) non si è legate le mani se non per gli antichi, cioè per quelli ch’ella già possedeva, e ha creduto di far progressi quando ha perduto l’infinito che aveva (giacchè veramente era ricca), e guadagnato il poco che non aveva. Nel che 1. io non vedo come una lingua si possa accrescere, perchè anche in parità di partite, se quanto si guadagna, tanto si perde, la lingua sarà sempre stazionaria in fatto di ricchezza e varietà. 2. se, com’è certissimo, infinite cose che non si sono potute Letteratura italiana Einaudi 325
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia esprimere se non con parole nuove, forestiere ec. si potevano esprimere colle antiche, io non vedo perchè queste dovessero esser posposte. Il caso è lo stesso in Italia, chi ben considera la ricchezza immensa de’ nostri antichi scrittori. 3. Le parole e modi che maggiormente conferiscono alla evidenza, efficacia, forza, grazia ec. delle lingue sono sempre, e incontrastabilmente le antiche, siccome quelle che erano cavate più da presso dalla natura, e dall’oggetto significato (come deve necessariamente accadere nella formazione delle lingue), e però lo rappresentavano al
[345]vivo, e ne destavano più fortemente, sensibilmente, facilmente e prontamente l’idea, secondo però 1° i diversi aspetti o parti più o meno vivi, principali, caratteristici, esprimibili; il diverso numero di aspetti, parti, o relazioni della cosa, considerato dagl’inventori della parola: 2° la diversa forza d’immaginazione, sentimento, delicatezza ec. nei detti inventori: 3° la diversa loro facoltà di applicare il suono alia cosa: 4° il diverso carattere della nazione, clima, circostanze naturali, morali, politiche, geografiche intellettuali ec.: la dolcezza, o l’asprezza, la ruvidezza o gentilezza ec. 5° la diversa impressione prodotta dagli stessi oggetti ne’ diversi popoli o individui. Solamente quella grazia che non deriva dalla naturalezza, semplicità ec. l’eleganza ec. può guadagnare; ma quella che deriva dai detti fonti, (massime nelle frasi e modi) ed è la principale, e più solida e durevole; la forza poi assolutamente, l’evidenza e l’efficacia, non possono altro che perdere infinitamente coll’abolizione delle parole antiche, e peggio colla sostituzione delle nuove. Qui ancora ha luogo la grande inferiorità dell’arte e della ragione alla natura, in tutto il bello, il grande, il forte, il grazioso ec.
(21. Nov. 1820.)
Tutte le cose vengono a noia colla durata, anche i diletti più grandi: lo dice Omero, lo vediamo tuttogiorno. La monotonia è insoffribile. Ma un grande e forse sommo Letteratura italiana Einaudi 326
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia rimedio di questo male, è lo scopo. Quando l’uomo si
[346]propone uno scopo o dell’azione, o anche dell’inazione, trova diletto anche nelle cose non dilettevoli, anche nelle spiacevoli, quasi anche nella stessa monotonia; e quanto alle cose dilettevoli, l’uniformità e durata loro non nuoce al piacere di chi le dirigge a un fine. Io non credo che per altra più capitale, universale ed intima ragione, gli studi sieno agli studiosi come un’eccezione dalla regola generale, cioè la continuazione di essi non pregiudichi quasi mai al piacere. Vedete tutto giorno delle persone che non leggono per altro fine che di passare il tempo, trovar gran diletto nelle prime pagine di un libro, e non poterne arrivare al fine senza noia, quando anche quel libro abbia per se stesso tutti i mezzi per dilettare in seguito come nel principio. Ma l’uniformità del diletto, senza uno scopo, produce inevitabilmente la noia, e perciò queste tali persone che leggono per solo divertimento, si stancano così presto, che non sanno concepire come nella lettura si trovi tanto divertimento, e cercano del continuo di variare e passare nauseosamente da un libro a un altro, senza trovar mai diletto in veruno, se non lieve e passeggero. Al contrario lo studioso che della lettura si prefigge sempre uno scopo, quando anche leggesse per ozio e passatempo. E così tutte le altre occupazioni [347]a cui l’uomo si affeziona, applicandoci un interesse, e uno scopo più o meno determinato, e più o meno grave e importante; dove la continuazione, la lunghezza e la monotonia non arrivano mai ad annoiare.
(22. Nov. 1820.). V. p.359. capoverso 1.
Le buone poesie sono ugualmente intelligibili agli uomini d’immaginazione e di sentimento, e a quelli che ne son privi. E contuttociò quelli le gustano, e questi no, anzi non comprendono come si possano gustare, primieramente perchè non sono capaci nè disposti ad esser commossi, sublimati ec. dal poeta; e oltracciò perchè seb-Letteratura italiana Einaudi 327
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia bene intendano le parole, non intendono la verità, l’evidenza di quei sentimenti: il cuore non dimostra loro che quelle passioni, quegli effetti, quei fenomeni morali ec.
che il poeta descrive, vanno veramente così: e per tal modo le parole del poeta, benchè chiare, e da loro bene intese non rappresentano loro quelle cose e quelle verità che rappresentano altrui, ed intendendo le parole, non intendono il poeta. Bisogna bene osservare che questo accade anche negli scritti filosofici, profondi, metafisici, psicologici ec. affine di non maravigliarsi dei diversissimi, e spesso contrarissimi effetti che producono in diversi individui, e classi, e quindi del diverso concetto in cui son tenuti.
Perchè, ponete uno scritto di questo genere, pienissimo di verità, e composto con [348]tutta quella chiarezza d’espressioni, della quale possa mai esser suscettibile. Le parole dicono lo stesso all’uomo profondo, e al superficiale: tutti comprendono ugualmente il senso materiale dello scritto, e in somma tutti intendono perfettamente quello che l’autore vuol dire. E non perciò quello scritto è compreso da tutti, come si crede comunemente. Perchè l’uomo superficiale; l’uomo che non sa mettere la sua mente nello stato in cui era quella dell’autore; insomma l’uomo che appresso a poco non è capace di pensare colla stessa profondità dell’autore, intende materialmente quello che legge, ma non vede i rapporti che hanno quei detti col vero, non sente che la cosa sta così, non iscuoprendo il campo che l’autore scopriva, non conosce i rapporti e legami delle cose ch’egli vedeva, e dai quali deduceva quelle conseguenze ec. che per lui, e per chiunque gli somigli sono incontrastabili, per questi altri non sono neppur verità: vedranno le stesse cose, ma non conosceranno nè sentiranno che abbiano relazione insieme, e con quelle conseguenze che l’autore ne cava; non vedranno la relazione scambievole delle parti del sillogismo (giacchè ogni umana cognizione è un sillogismo): brevemente, intenderanno appuntino lo scrit-Letteratura italiana Einaudi 328
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia to, e non capiranno la verità di quello che dice, verità che esisterà realmente, e sarà compresa da altri. Così pure non avranno tanta forza di mente da poter dubitare, e sentire la ragionevolezza e la verità del dubbio intorno alle cose che la natura o l’abito danno per certe. Non basta intendere una proposizion vera, bisogna sentirne la verità. C’è un senso della verità, come delle passioni, de’
sentimenti, bellezze, ec.: del vero, come del bello. Chi la intende, ma non la sente, intende ciò che significa quella verità, ma non intende che sia verità, perchè non ne prova il senso, cioè la persuasione. In questo numero di persone va posta la maggior parte dei moderni apologisti della religione, uomini senza cuore, senza sentimento, senza tatto fino e profondo nelle cose della natura, insomma senza esperienza della verità, come quei lettori de’ poeti che sono senza esperienza di passioni, entusiasmo, sentimenti ec.; i quali, [349]posto che intendano anche perfettamente il senso dei filosofi profondissimi che combattono, non intendono la verità che quivi si contiene, e vi danno nettamente, precisamente e consideratamente per falso, quello che voi saprete e sentirete ch’è vero, o viceversa. Del resto per intendere i filosofi, e quasi ogni scrittore, è necessario, come per intendere i poeti, aver tanta forza d’immaginazione, e di sentimento, e tanta capacità di riflettere, da potersi porre nei panni dello scrittore, e in quel punto preciso di vista e di situazione, in cui egli si trovava nel considerare le cose di cui scrive; altrimenti non troverete mai ch’egli sia chiaro abbastanza, per quanto lo sia in effetto. E ciò, tanto quando in voi ne debba risultare la persuasione e l’assenso allo scrittore, quanto nel caso contrario. Io so che con questo metodo non ho trovato mai oscuri, o almeno inintelligibili, gli scritti della Staël, che tutti danno per oscurissimi. (22 Nov.
1820.)
Letteratura italiana Einaudi 329
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia L’Essai sur l’indifférence en matière de religion, alquanto dopo il principio del capo V. nel luogo dove tratta delle origini storiche del Deismo, dimostra i neri presen-timenti che agitavano i Capi della Riforma intorno al futuro stato delle opinioni, della religione, e dei popoli. Buon Dio, qual tragedia, esclamava uno di essi, vedrà mai la posterità! Pur troppo bene. Essi cominciavano [350]a sentire e prevedere la febbre divorante e consuntiva della ragione, e della filosofia; la distruzione di tutto il bello il buono il grande, e di tutta la vita; l’opera micidiale e le stragi di quella ragione e filosofia che aveva avuto il primo impulso, e cominciò la sua trista devastazione in Germania, patria del pensiero, (come la chiama la Staël) non inducendo gli uomini da principio se non ad esaminar la religione, e negarne alcuni punti, per poi condurli alla scoperta di tutte le verità più dannose, e all’abbandono di tutti gli errori più vitali e necessari. I lumi cagionati dal risorgimento delle lettere, erano appunto allora giunti a quel grado che bastava per cominciare l’infelicità e il tormento di un popolo, al quale la natura era stata meno larga dei mezzi di felicità, che sono l’immaginazione ricca e varia, e le illusioni. Ne avevano naturalmente quanto bastava (e così gl’inglesi ai tempi di Ossian, come gli stessi germani ai tempi de’ Bardi e di Tacito), ma non tanti, nè tanto forti da resistere ai lumi così lungamente, come i paesi meridionali, e soprattutto (la Spagna e) l’Italia, dove anche oggidì si vive poco, è vero, perchè manca il corpo e il pascolo materiale e sociale delle illusioni, ma si pensa anche ben poco.
(23. Nov. 1820.)
La Spagna s’è trovata finora nello stesso caso. Il suo clima, e la situazione geografica, e il governo ec. [351]pro-teggevano le illusioni come in Italia, senza però lasciarnela profittare, nè proccurarsene punto di vita, massime esterna e sociale.
Letteratura italiana Einaudi 330
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia A tutto quello che ho detto di Teofrasto, si può aggiungere come altra cagione della qualità che ho notato in lui, il suo sapere enciclopedico, che apparisce dal catalogo delle sue opere, la massima parte perdute. Il qual sapere, e la quale speculazione intorno ad ogni genere di scibile, egli non lo faceva servire, come Platone, all’immaginativa, per fabbricarne un sistema fondato sul brillante e sul fantastico, ma, come Aristotele, alla ragione, per discorrere delle cose sul fondamento del vero e dell’esperienza.
Nel qual caso l’estensione, e varietà del sapere, influisce necessariamente sulla profondità dell’intelletto, e il disinganno del cuore.
In somma conviene che il filosofo si ponga bene in mente, che la vita per se stessa non importa nulla, ma il passarla bene e felicemente, o se non altro, anzi soprattutto, il non passarla male e infelicemente. E perciò non riponga l’utilità in quelle cose che semplicemente aiutano, conservano ec. la vita, considerata quasi fosse un bene per se stessa, ma in quelle che la rendono [352]un bene, cioè felice da vero. Ma felice da vero non la rende altro che il falso, ed ogni felicità fondata sul vero, è falsissima, o vogliamo dire, ogni felicità si trova falsa e vana, quando l’oggetto suo giunge ad esser conosciuto nella sua realtà e verità.
Ho veduto le lezioni di un tedesco, il sig. Hufeland, dell’arte di prolungare la vita, lezioni dettate da lui per una cattedra ch’egli occupava, dedicata espressamente a quest’arte. Prima bisognava insegnare a render la vita felice, e quindi a prolungarla. Infelicissima com’è, stimerei molto più chi m’insegnasse ad abbreviarla, perchè non ho mai saputo che sia degno di lode, e giovi al pubblico colui che insegna a prolungare l’infelicità. In vece di fondare queste cattedre che sono al tutto straniere anzi con-Letteratura italiana Einaudi 331
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia trarie alla natura dei tempi, i principi dovrebbero proccurare che la vita dell’uomo fosse più felice, ed allora saremmo grati a chi c’insegnasse a prolungarla. Se la durata fosse un bene per se stessa, allora sarebbe ragionevole il desiderio di viver lungamente in qualunque caso.
Nominando i nostri antenati, sogliamo dire, i buoni antichi, i nostri buoni antichi. Tutto il mondo ha opinione che gli antichi fossero migliori di noi, tanto i vecchi che perciò gli lodano, quanto i giovani che perciò li disprezzano. Il certo [353]è che il mondo in questo non s’inganna: il certo è che, senza però pensarvi, egli riconosce e confessa tutto giorno il suo deterioramento. E ciò non solamente con questa frase, ma in cento altri modi; e tuttavia neppur gli viene in pensiero di tornare indietro, anzi non crede onorevole se non l’andare sempre più avanti, e per una delle solite contraddizioni, si persuade e tiene per indubitato, che avanzando migliorerà, e non potrà migliorare se non avanzando; e stimerebbe di esser perduto retrocedendo.
Quanto anche la religion cristiana sia contraria alla natura, quando non influisce se non sul semplice e rigido raziocinio, e quando questo solo serve di norma, si può vedere per questo esempio. Io ho conosciuto intimamente una madre di famiglia che non era punto superstiziosa, ma saldissima ed esattissima nella credenza cristiana, e negli esercizi della religione. Questa non solamente non compiangeva quei genitori che perdevano i loro figli bambini, ma gl’invidiava intimamente e sinceramente, perchè questi eran volati al paradiso senza pericoli, e avean liberato i genitori dall’incomodo di mantenerli. Trovandosi più volte in pericolo di perdere i suoi figli nella stessa
[354]età, non pregava Dio che li facesse morire, perchè la religione non lo permette, ma gioiva cordialmente; e vedendo piangere o affliggersi il marito, si rannicchiava Letteratura italiana Einaudi 332
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia in se stessa, e provava un vero e sensibile dispetto. Era esattissima negli uffizi che rendeva a quei poveri malati, ma nel fondo dell’anima desiderava che fossero inutili, ed arrivò a confessare che il solo timore che provava nell’interrogare o consultare i medici, era di sentirne opinioni o ragguagli di miglioramento. Vedendo ne’ malati qualche segno di morte vicina, sentiva una gioia profonda (che si sforzava di dissimulare solamente con quelli che la condannavano); e il giorno della loro morte, se accadeva, era per lei un giorno allegro ed ameno, nè sapeva comprendere come il marito fosse sì poco savio da attristarsene.
Considerava la bellezza come una vera disgrazia, e vedendo i suoi figli brutti o deformi, ne ringraziava Dio, non per eroismo, ma di tutta voglia. Non proccurava in nessun modo di aiutarli a nascondere i loro difetti, anzi pretendeva che in vista di essi, rinunziassero intieramente alla vita nella loro prima gioventù: se resistevano, se cercavano il contrario, se vi riuscivano in qualche minima parte, n’era indispettita, scemava quanto poteva colle parole e coll’opinion sua i loro successi (tanto de’ brutti quanto de’ belli, perchè n’ebbe molti), e non lasciava
[355]passare anzi cercava studiosamente l’occasione di rinfacciar loro, e far loro ben conoscere i loro difetti, e le conseguenze che ne dovevano aspettare, e persuaderli della loro inevitabile miseria, con una veracità spietata e feroce. Sentiva i cattivi successi de’ suoi figli in questo o simili particolari, con vera consolazione, e si tratteneva di preferenza con loro sopra ciò che aveva sentito in loro disfavore. Tutto questo per liberarli dai pericoli dell’anima, e nello stesso modo si regolava in tutto quello che spetta all’educazione dei figli, al produrli nel mondo, al collocarli, ai mezzi tutti di felicità temporale. Sentiva infinita compassione per li peccatori, ma pochissima per le sventure corporali o temporali, eccetto se la natura talvolta la vinceva. Le malattie, le morti le più compassionevoli de’ giovanetti estinti nel fior dell’età, fra le più belle Letteratura italiana Einaudi 333
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia speranze, col maggior danno delle famiglie o del pubblico ec. non la toccavano in verun modo. Perchè diceva che non importa l’età della morte, ma il modo: e perciò soleva sempre informarsi curiosamente se erano morti bene secondo la religione, o quando erano malati, se mostravano rassegnazione ec. E parlava di queste disgrazie con una freddezza marmorea. Questa donna aveva sortito dalla natura un carattere sensibilissimo, ed era stata così ridotta dalla sola religione. Ora questo che altro è se non barbarie? E tuttavia non è altro che un calcolo matematico, e una conseguenza immediata e necessaria dei
[356]principii di religione esattamente considerati; di quella religione che a buon diritto si vanta per la più misericordiosa ec. Ma la ragione è così barbara che dovunque ella occupa il primo posto, e diventa regola assoluta, da qualunque principio ella parta, e sopra qualunque base ella sia fondata, tutto diventa barbaro. Così vediamo le tante barbarie delle religioni antiche, se ben queste fossero figlie dell’immaginazione. E anche senza i principii religiosi, è pur troppo evidente che la sola stretta ragione, ci porta alle conseguenze specificate di sopra. Non c’è che la pura natura la quale ci scampi dalla barbarie, con quegli errori ch’ella ispira, e dove la ragione non entra. S’ella ci fa piangere la morte dei figli, non è che per un’illusione, perchè perdendo la vita non hanno perduto nulla, anzi hanno guadagnato. Ma il non piangerne è barbaro, e molto più il rallegrarsene, benchè sia conforme all’esatta ragione. Tutto ciò conferma quello ch’io voglio dire che la ragione spesso è fonte di barbarie (anzi barbarie da se stessa), l’eccesso della ragione sempre; la natura non mai, perchè finalmente non è barbaro se non ciò che è contro natura, (25. Nov. 1820.) sicchè natura e barbarie son cose contraddittorie, e la natura non può esser barbara per essenza.
Letteratura italiana Einaudi 334
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Alla p.343. Vedilo ancora sulla fine del Capo 5. da quel passo abbastanza lungo di Rousseau, Tutto ciò che sento esser bene, [357] è bene, in poi. Dove l’autore insomma viene a concludere che non esiste legge naturale, o secondo i Deisti che combatte, o anche, come pare, secondo la propria persuasione, giacch’egli ne vuol dedurre che non esiste regola di condotta, esclusa la religione, solo canone dei doveri morali. E nel principio propriamente del Capo 6. dice, l’uomo ha riconosciuto dovunque ed in qualunque tempo la distinzione essenziale del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto; e malgrado i vari errori nella estimazione degli atti liberi considerati come virtuosi o viziosi, non v’ebbe mai alcun popolo che confondesse le nozioni opposte del delitto e della virtù. Siamo d’accordo.
Così nel bello, tutti hanno la nozione della convenienza, e nessuno ne ha il tipo. Ma stando così la cosa, le diverse opinioni non si possono chiamare errori, come voi fate; perchè non esiste il tipo del buono morale; e perchè non erra quell’etiope che crede la figura della sua nazione, la più perfetta e la sola bella nel genere umano.
Alla p.161. I fasti della rivoluzione abbondano di altre prove di quello ch’io dico, e dimostrano qual fosse l’assunto dei riformatori. Si eressero altari alla Dea ragione: Condorcet nel piano di educazione presentato all’Assem-blea legislativa ai 21 e 22 Aprile 1792 proponeva l’abolizione e proscrizione anche della religion naturale, come irragionevole e contraria alla filosofia, e così di tutte le altre religioni. (Essai sur l’indifférence en matière de religion Ch.5. presso alla fine, nota) Non parlo del
[358]nuovo Calendario, della festa all’Essere Supremo di Robespierre ec. In somma lo scopo non solo dei fanatici, ma dei sommi filosofi francesi o precursori, o attori, o in qualunque modo complici della rivoluzione, era precisamente di fare un popolo esattamente filosofo e ragionevole. Dove io non mi maraviglio e non li compiango prin-Letteratura italiana Einaudi 335
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia cipalmente per aver creduto alla chimera del potersi rea-lizzare un sogno e un utopia, ma per non aver veduto che ragione e vita sono due cose incompatibili, anzi avere stimato che l’uso intiero, esatto, e universale della ragione e della filosofia, dovesse essere il fondamento e la cagione e la fonte della vita e della forza e della felicità di un popolo.
(27. Nov. 1820.)
Il vigore e il ben essere del corpo conferisce alla serenità dell’animo, e la serenità dell’animo al vigore e al ben essere del corpo. Come per lo contrario la debolezza o mal essere del corpo, e la tristezza dell’animo. Così la natura aveva congegnata e ordinata ogni cosa alla più felice condizione dell’uomo.
Alla p.223. Le dottrine non rimontano mai verso la loro sorgente, e la Riforma invano si sforzava d’arrestare il corso del fiume che la trascinava, dice l’Essai sur l’indifférence en matière de religion, a poco più di un terzo del Capo 6.
Così tutte le sette, istituzioni, corporazioni, ogni cosa umana si guasta e perde quando s’allontana da’ suoi principii, e non c’è altro rimedio che richiamarvela, cosa ben difficile, perchè l’uomo non torna indietro senza qualche ragione universale, necessaria ec. come sovversioni del globo, o di [359]nazioni, barbarie simile a quella che rinculò il mondo ne’ tempi bassi, ec.: ma di spontanea volontà, e ad occhi aperti, e per sola ragione e riflessione, non mai; non essendo possibile che la causa del male, cioè la corruzione, la ragione, i lumi eccessivi ec. siano anche la causa del rimedio. Del resto la religion Cattolica non si mantiene meglio delle altre, dopo tanti secoli, se non per la somma cura dell’antichità, e del conservare lo stato primitivo, e bandire la novità, nello stesso modo che dice Montesquieu (l. cit. nel pensiero, a cui questo si riferisce) della costituzione d’Inghilterra custodita e osserva-Letteratura italiana Einaudi 336
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ta e protetta e richiamata sempre gelosamente dalla camera.
Alla p.347. Questa pure è una cagione della gran differenza che passa fra i letterati e gl’illetterati, e anche fra i letterati di professione, e i letterati di semplice genio, ornamento, divertimento ec. nel gustare gli scritti anche i più popolari, e adattati all’intelligenza e al diletto di chicchessia.
L’eloquenza massimamente giudiziaria, ma anche d’ogni altro genere, consiste in gran parte nell’appianare le sca-brosità, riempiere i voti e le valli, agguagliare la superficie, e raddrizzare le storture delle cose. E però succede bene spesso che ascoltando o leggendo un pezzo eloquente tu sei persuaso di una cosa, della quale da te stesso non ti saresti mai persuaso, e della quale dubiterai forse nel seguito, o la condannerai; credi fattibile, e facile una cosa, che ti pareva e tornerà a parerti impossibile [360]o difficile; ti svaniscono quelle incertezze, quelle difficoltà ec. e tu sei costretto a non vedere e dimenticare quello che vedevi, a contraddire e condannare te stesso, anzi sovente a vedere e non vedere, ricordarti e dimenticare nello stesso tempo. Tale è la proprietà non solo dell’eloquenza che strascina, ma anche di quella secca eloquenza, fondata sopra uno stretto ragionamento, e una dialettica per lo più ingannatrice (se non quanto al tutto, almeno quanto alle parti): eloquenza della quale fra gli antichi sono modelli i così detti Oratori attici, fra i moderni (parlo almeno degli oratori di professione) forse il solo Bourdaloue, oratore veramente e propriamente attico, il quale convince l’uomo di cose non sempre vere, se non altro, non interamente vere.
(27. Nov. 1820.)
Letteratura italiana Einaudi 337
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Non eadem omnibus esse honesta atque turpia, sed omnia maiorum institutis iudicari. Corn. Nep. praef.
Alla p.329. fine. Nulla Lacedaemoni tam est nobilis vidua quae non ad scenam eat mercede conducta. Magnis in laudibus totâ fuit Graeciâ, victorem Olympiae citari.
In scenam vero prodire, et populo esse spectaculo, nemini in eisdem gentibus fuit turpitudini. Quae omnia apud nos partim infamia, partim humilia, atque ab honestate remota ponuntur. Corn. Nep. praef.
(27. Nov. 1820.)
L’uomo senza la cognizione di una favella, non può concepire l’idea di un numero determinato. Immaginate-vi di contare trenta o quaranta pietre, senz’avere una denominazione da dare a ciascheduna, vale a dire, una, due, tre, [361]fino all’ultima denominazione, cioè trenta o quaranta, la quale contiene la somma di tutte le pietre, e desta un’idea che può essere abbracciata tutta in uno stesso tempo dall’intelletto e dalla memoria, essendo complessiva ma definita ed intera. Voi nel detto caso, non mi saprete dire, nè concepirete in nessun modo fra voi stesso la quantità precisa delle dette pietre; perchè quando siete arrivato all’ultima, per sapere e concepire detta quantità, bisogna che l’intelletto concepisca, e la memoria abbia presenti in uno stesso momento tutti gl’individui di essa quantità, la qual cosa è impossibile all’uomo. Neanche giova l’aiuto dell’occhio, perchè volendo sapere il numero di alcuni oggetti presenti, e non sapendo contarli, è necessaria la stessa operazione simultanea e individuale della memoria. E così se tu non sapessi fuorchè una sola denominazione numerica, e contando non potessi dir altro che uno, uno, uno; per quanta attenzione vi ponessi, affine di raccogliere progressivamente coll’animo e la memoria, la somma precisa di queste unità, fino all’ultimo; tu saresti sempre nello stesso caso. Così se non Letteratura italiana Einaudi 338
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia sapessi altro che due denominazioni ec. Eccetto una piccolissima quantità, come cinque o sei, che la memoria e l’intelletto può concepire senza favella, perchè arriva ad aver presenti simultaneamente tutti i pochi individui di essa quantità. Nello stesso modo e per la stessa ragione
[362]i numeri che rappresentano una quantità troppo grande, come centomila, un milione e simili, e più, un bilione, non ci destano se non un’idea confusa, quantunque noi sappiamo benissimo il loro significato, e l’estensione o quantità precisa e misurata, che comprendono: ma in questo caso non basta sapere interamente il significato della parola, per concepire l’idea significata (cosa che forse non accade in altro caso, se non in parole indefinite, o che esprimono idee indefinite): e ciò perchè l’operazione della mente non si può estendere in un medesimo tempo sopra tutte le parti di questa quantità, ed ab-bracciarle e concepirle chiaramente tutte in una volta, malgrado il soccorso della favella, il quale non basta quando le parti son troppe. Per parti intendo p. es. le diecine, o anche le centinaia la somma delle quali, quando può esser concepita chiaramente ci desta un’idea abbastanza chiara della data quantità, a cagione dell’abitudine contratta coll’esercizio del discorso, la quale abitudine ci fa concepir facilmente e prontamente gl’individui compresi in ciascuna diecina. In genere l’idea precisa del numero, o coll’aiuto della favella o senza, non è mai istantanea, ma composta di successione, più o meno lunga, più o meno difficile, secondo la misura della quantità.
(28. Nov. 1820.). V. p.1072. fine.
L’Essai sur l’indifférence en matière de Religion, Capo 7. verso la fine, dice, Da una dottrina indigente nasce un culto indigente al par di essa. Quindi quant’è maggiore il numero dei dogmi che una setta ha conservato, tanto maggior vita e pompa e grandezza ha il suo culto. E vedilo in quello che segue perchè fa al mio proposito. Questa os-Letteratura italiana Einaudi 339
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia servazione di fatto si può addurre fra le tante altre in conferma di quello ch’io dico, che senza illusioni di cui l’uo-mo sia persuaso, non c’è vita ne azione, giacchè l’uomo
[363]non opera senza persuasione, e se la persuasone non è illusoria, ma viene dalla ragione, l’uomo non opera, perchè la ragione non lo persuade ad operare, anzi ne lo distoglie, e lo getta nell’indifferenza. La pompa e la vita del culto senza una persuasione della sua necessità, doverosità, importanza, non ha potuto durare. Limitate le credenze, allargato il dubbio, allargata la ragione e l’indifferenza, e la secca speculazione delle cose, il culto è svanito, laddove si mantiene presso i cattolici, i quali ne conservano tutte le basi, cioè tutti i dogmi, le credenze ec. tanto relative ad esso culto, quanto generalmente alla Religione. Se non ch’egli va languendo anche tra noi, sia nel fatto, sia nell’impressione e l’effetto che produce, e il modo e l’animo con cui è considerato, e veduto o eseguito: e ciò in proporzione dei progressi dell’incredulità, o diminuzione della fede, perchè non si può dar gran cura, nè coltivare, nè promuovere, nè esser molto affetti e toc-cati, da quello che si considera come poco importante, e che non è in relazione colla nostra opinione.
(29. Nov. 1820.)
I doveri dipendono dalle credenze; quanti saranno dunque i simboli, tante saranno le morali… Chi non comprende che dal momento che si rigetta ogni autorità vivente (dunque la morale determinata deriva dall’autorità
[364]non dalla natura), la regola de’ costumi addiviene tanto variabile e tanto incerta quanto la regola della fede?
Essai ec. poco sotto al luogo citato nel pensiero precedente.
Ogni uomo ha diritto di giudicare di per se stesso, e la diversità delle opinioni è tanto naturale quanto la diversità de’ gusti. Dott. Midleton (Middleton) Introductory Letteratura italiana Einaudi 340
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Discourse to a free Enquiry into the miraculous powers.
(Discorso preliminare alla libera Disquisizione sopra i poteri miracolosi) p.38.
Quegli stessi che credono grave, o maggiore che non è, ogni leggera malattia che loro sopravviene, caduti in qualche malattia grave o mortale, la credono leggera, o minore che non è. E la cagione d’ambedue le cose è la codar-dia che gli sforza a temere dove non è timore, e a sperare dove non è speranza.
La filosofia e la natura de’ tempi e della vita presente s’ha per capital nemica della Religione, ed è vero.
Contuttociò se l’uomo doveva esser filosofo, far della ragione quell’uso che ora ne fa, conoscere tutto quello che ora conosce, e generalmente s’egli doveva vivere come ora vive, e se i tempi dovevano essere quali ora sono, o il sistema della natura e delle cose è totalmente assurdo e contraddittorio, o bisogna necessariamente ammettere una Religione. Perchè se l’uomo doveva essere inevitabilmente infelice, come ora accade, ne [365]segue che al primo nell’ordine degli enti, è meglio il non essere che l’essere, ne segue che l’uomo non solo non deve amare nè conservare la sua esistenza, ma distruggerla; in maniera che la sua stessa esistenza rinchiuda non dirò un germe nè un principio di distruzione, ma quasi una distruzione formale e completa; ne segue che la vita ripugna alla vita, l’esistenza all’esistenza, giacchè l’uomo non verrebbe ad esistere se non per cercare di non esistere, quando conoscesse il suo vero destino. La qual cosa è un’assurdità e una contraddizione sostanziale e capitale nel sistema della natura. Per lo contrario se l’uomo non doveva essere quale ora è, se la natura l’aveva fatto diversamente, se gli aveva opposto ogni possibile ostacolo al conoscere quello che ha conosciuto e al divenire quello ch’è divenuto, allora dallo stato presente dell’uomo, e dalle assurdità che Letteratura italiana Einaudi 341
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ne risultano, non si può dedur nulla intorno al vero, naturale, primitivo ed immutabile ordine delle cose; come se un animale si rompe una gamba, non se ne può dedur nulla intorno all’ordine generale, perchè questo è un inconveniente particolare. Così lo stato presente dell’uo-mo, e le assurdità sue, dovranno esser considerate come una particolarità indipendente dall’ordine e dal sistema generale e [366]destinato, e costante, e primordiale. Che se anche non c’è più rimedio per l’uomo, nemmeno per chi si tagli una gamba, o sia schiacciato da una pietra, c’è più rimedio. Basta che il male non sia colpa della natura, non derivi necessariamente dall’ordine delle cose, non sia inerente al sistema universale; ma sia come un’eccezione, un inconveniente, un errore accidentale nel corso e nell’uso del detto sistema. V. p.370. e 1079. fine.
Hanter frequentare, visitare spesso, aver familiarità ec.
verbo che Girard nei Sinonimi fa derivare da hant (se ben mi ricordo) che nelle lingue del nord significa con-giungere o darsi le mani, non potrebbe piuttosto derivare da �nt�v? Ma bisognerebbe anche vedere se quella parola settentrionale abbia nessuna relazione con questo verbo greco.
L’idea di una grave sventura (come anche di qualunque grande e strana mutazione di cose in bene come in male) che ci sopraggiunga, massimamente improvvisa, non si può concepire intera, se non altro ne’ primi momenti; anzi è sempre confusissima, debolissima, oscurissima, e difettosa. Non considero adesso l’impressione e la sorpresa e il dolore ec. che deve naturalmente oscurar l’anima, e intorpidirla. Ma ponete che vi si annunzi la morte di uno de’ vostri cari e familiari, anche preveduta. Il dispiacere, [367]la rimembranza delle relazioni avute con lui, la novità che introduce nella vostra vita, vale a dire il troncamento di tutte quelle relazioni, e il dover consi-Letteratura italiana Einaudi 342
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia derare quella persona in un modo tutto diverso dal passato, cioè come morta, come incapace di essere amata o beneficata, di amare e beneficare ec. ec. tutte queste cose che si presentano in folla alla vostra mente, vi cagionano una confusione un imbarazzo uno stupore tale, che voi in luogo di considerare ciascuna parte della cosa, non ne considerate nessuna, non siete capace di valutare nè l’estensione nè la profondità nè la natura della cosa, nè di formarvene un concetto preciso, e restandovi solamente l’idea in genere e confusamente, non siete capace di pensarvi, nè vi pensate formalmente, non dirò perchè non vogliate pensarvi, ma perchè non sapete pensarvi. E quindi accade quella cosa osservatissima che le grandi mutazioni, sieno disgrazie, sieno fortune, al primo momento istupidiscono, e non è se non col tempo, che voi conside-randone ciascuna parte, ne cominciate a piangere o ralle-grarvene separatamente. Giacchè questo pure è notabile, che l’atto del piangere o rallegrarsi ec. in somma l’espressione toè p�ϑouw cade sempre sopra una parte della cosa, non già sul tutto, perchè l’anima non è capace di abbracciar questo tutto, in uno stesso tempo. P.e. nel
[368]caso detto di sopra, voi comincerete a piangere per una determinata rimembranza, per una tal riflessione sopra il futuro o il presente, e per simili cose, che non potete ravvisare, e separare, e concepire nel primo momento, nè durante la prima impressione. Ma finattanto che l’idea o la cosa vi si presenterà tutta intera, e voi non potrete distinguerne, e noverarne le parti, voi non piangerete mai, nè sarete commosso determinatamente, ma solo confusamente. E neanche dopo lungo tempo, voi non piangerete mai per la considerazione totale e generale della disgrazia intera. (1. Dec. 1820.).
Si suol dire che la monotonia fa parere i giorni più lunghi. Così è quanto alle parti del tempo considerate separatamente. Ma quanto al complesso è tutto l’oppo-Letteratura italiana Einaudi 343
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia sto, perchè un giorno pieno di varietà, terminato che sia ti parrà lunghissimo, anzi spesso ti avverrà di credere a prima giunta che una cosa fatta, accaduta, veduta, ec. oggi, appartenga al giorno di ier o ier l’altro, perchè la moltiplicità delle cose allunga nella tua memora lo spazio, e il maggior numero degli accidenti, accresce l’apparenza del tempo. All’opposto in una vita tutta uniforme, spesso ti avverrà (e m’è avvenuto) di credere che l’accaduto ieri o ier l’altro appartenga al giorno d’oggi, o quello di più giorni fa, al giorno di ieri. E ciò per la ragione contraria, e perchè l’uniformità impiccolisce l’immagine delle distanze. Così la monotonia [369]prolunga la vita in quanto la lunghezza è penosa, e l’abbrevia in quanto la lunghezza è piacevole e desiderata; e la tua vita passata nell’uniformità ti par brevissima e momentanea, quando ne sei giunto al fine. (1. Dec. 1820.).
Non è forse cosa che tanto promuova l’attività e l’impazienza di ottenere il fine che si desidera, quanto l’incertezza di ottenerlo, quando però questo vi prema, e l’idea di non ottenerlo vi attristi. Non già solamente perchè l’incertezza, obbliga all’azione (laddove la certezza può dar luogo alla pigrizia) in quanto un fine incerto domanda maggior cura per ottenerlo. Ma quando anche non domandi maggior cura, il che può ben accadere (perchè un fine può esser certo, posta però una grande attività per conseguirlo) e indipendentemente affatto dall’utilità e dal bisogno delle cure, tu sarai attivissimo e impazientissimo di ottenerlo, per questo solo che tu non puoi sopportare quell’incertezza, e che tu spasimi di liberarti dall’angustia che ti deriva dal dubbio di non riuscire ad un fine che tu desideri grandemente. Angustia alla quale forse preferirai la certezza di non poterlo conseguire. Anche materialmente m’è accaduto più volte di dubitare se alcuni miei sforzi corporali avrebbero potuto ottenere un fine che [370]mi premeva, e perciò raddoppiarli impa-Letteratura italiana Einaudi 344
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia zientemente, sebbene altri mi consigliava di riposare perchè la dilazione non faceva alcun danno. Ma io non poteva sostenere l’incertezza di una cosa che m’importava, laddove se non avessi dubitato non avrei avuto difficoltà di aspettare. E così la stessa mia impazienza poteva pregiudicare al fine, togliendomi il riposo necessario ec.
Così nel comporre ec. Parimenti se tu devi compire una tale operazione in un dato spazio, e temi di non riuscirvi, l’impazienza e la sollecitudine tua non cresce in ragione del bisogno, ma ben da vantaggio, e, s’è possibile, tu vieni a capo dell’opera prima del termine prefisso. (1. Dec.
1820.). V. p.712. capoverso 2.
Alla p.366. pensiero 1. Perciò coloro che deducono la necessità assoluta della Religione dallo stato presente dell’uomo, e dalla sua miseria, nihil agunt, se non provano ancora che questo stato gli era destinato, e ch’egli vivendo così, segue i suoi destini, e l’ordine assoluto delle cose, non arbitrario. Perchè anche gli animali, p.e. le formiche, le api, i castori, hanno fra loro tanta società quanto basta ai loro bisogni o comodi, e non per questo hanno Religione, o legge di sorta alcuna. Anche gli animali hanno un uso sufficientissimo di ragione, hanno il principio toè logismoè, il principio di conoscenza innato in tutti gli esseri viventi, non già nel solo uomo; e non per questo se ne servono come l’uomo, nè sono infelici. E non è provato che la società, quale ora è, sia lo stato naturale dell’uo-mo, [371]come per lo contrario è provato che l’uomo senza società, non ha per natura o istinto, nessuna idea di Religione, e non ne ha verun bisogno, tutti i suoi doveri non riguardando che se stesso, ed avendo il loro immobile fondamento nell’istinto che lo porta ad amarsi e conservarsi. (2. Dec. 1820.).
Letteratura italiana Einaudi 345
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Sostengono come indubitato che l’uomo è perfettibile.
Vale a dire ch’egli può perfezionare se stesso, perfezionar l’opera della natura. Considerate il sistema materiale del mondo, tanto nelle minime che nelle massime cose, tanto nell’organizzazione di un animale appena visibile, quanto nell’ordine degli astri, e voi troverete da per tutto un artifizio, una sapienza, una maestria tale, che non solamente non si può perfezionar nulla di quanto la natura ha fatto, non solamente non vi si può nè aggiungere nè levarne cosa alcuna, nè alterare in nessun modo senza guastare, ma quando anche noi avessimo quella stessa potenza di fare che ha avuto la natura, non c’è uomo d’ingegno così sottile e profondo e sublime, che fosse capace non dico di condurre a termine, ma di concepir solamente un piano così magistrale, così minuto, così strettamente legato insieme e corrispondente, così perfetto in ogni menomissima parte, come quello che vediamo eseguito dalla natura. Io dunque dico all’uomo [372]il quale asse-risce d’essere perfettibile, e di potersi, anzi doversi perfezionare da se: perfeziona il tuo corpo, la tua notomia, la tua costruzione organica, o almeno qualche parte di lei: se non puoi questo, almeno immagina un disegno più perfetto, più completo, più giusto, più conveniente, più esatto, più squisito di quello della natura, relativamente alla organizzazione ec. del tuo corpo. L’uomo si mette a ridere, e confessa che non solo non c’è cosa più perfetta, ma ch’egli con lunghissimo studio, dal principio del mondo in poi, ancora non è arrivato a comprenderne interamente tutta la perfezione, e ogni giorno rivela qualche altra cosa da ammirare, ed accresce la sua maraviglia. Or come dunque non potendo perfezionare il tuo corpo, anzi non potendo neppur comprendere tutta la misura della sua perfezione naturale, presumi di perfezionare una parte tanto più nobile, astrusa, e difficile, qual’è lo spirito? Come dunque la natura tanto perfetta maestra, tanto accurata e puntuale e finita e intera in tutto il resto, e nominatamente Letteratura italiana Einaudi 346
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia nel tuo corpo, è stata così stupida e manchevole e difettosa nella parte più rilevante di te, in quella parte da cui dipendeva l’uso di quel tuo corpo così perfetto, e che anche doveva molto influire sugli altri ordini di enti?
Come ti ha lasciato da far tanto in quella parte che più le doveva premere, non avendoti lasciato nulla da fare in quella che importava meno, e ch’era subordinata alla prima? Come soprattutto presumi di perfezionare, non solo il tuo spirito, [373]ma anche l’ordine vastissimo delle altre cose terrestri, in quanto ha stretta relazione e connessione e dipendenza cogli andamenti e lo stato della tua specie? (2. Dec. 1820.).
La poesia e la prosa francese si confondono insieme, e la Francia non ha vera distinzione di prosa e di poesia, non solamente perchè il suo stile poetico non è distinto dal prosaico, e perch’ella non ha vera lingua poetica, e perchè anche relativamente alle cose, i suoi poeti (massime moderni) sono più scrittori, e pensatori e filosofi che poeti, e perchè Voltaire p.e. nell’Enriade, scrive con quello stesso enjouement, con quello stesso esprit, con quella stess’aria di conversazione, con quello stesso tour e giuoco di parole di frasi di maniere e di sentimenti e sentenze, che adopra nelle sue prose: non solamente, dico, per tutto questo, ma anche perchè la prosa francese, oramai è una specie di poesia. Filosofi, oratori, scienziati, scrittori d’ogni sorta, non sanno essere e non si chiamano eleganti, se non per uno stile enfatico, similitudini, metafore, insomma stile continuamente poetico, e montato principalmente sul tuono lirico. E ciò massimamente è accaduto dopo l’introduzione de’ poemi in prosa, siano poemi propriamente detti, siano romanzi, opere descrittive, sentimentali ec. Ma [374]i francesi che si credono i soli maestri e modelli e conservatori, e zelatori dello scriver classico a’ tempi moderni, non so in qual classico antico abbiano trovato questo costume, per cui non si sa essere Letteratura italiana Einaudi 347
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia elegante nè eloquente, senza andare a quella perpetua, dirò così, traslazione e metevrÛa e concitazione di stile, ch’è propria della poesia. (L’eloquenza di Bossuet, è appunto di questo tenore; tutta Biblica, tutta in un gergo di convenzione; e lo stile biblico, e questo gergo forma l’eloquenza e l’eleganza ordinaria d’ogni sorta di scrittori francesi oggidì.) Non mai sedatezza, non mai posatezza, non semplicità, non familiarità. Non dico semplicità nè familiarità distintiva di uno stile o di uno scrittore particolare, ma dico quella ch’è propria universalmente e naturalmente della prosa, che non è uno scrivere ispirato. Osservino Cicerone, osservino gli scrittori più energici dell’antichità, e mi dicano se c’è uomo così cieco che non distingua subito come quella è prosa non poesia; se ridotta questa prosa in misura, avrebbe mai niente di comune colla poesia (come accadrebbe nelle loro prose); se la prosa antica la più elegante, eloquente, energica, consiste, o no, in uno stile separatissimo dal poetico. Anche i loro scrittori de’ buoni secoli, sebbene la lingua francese ha sempre inclinato a questo difetto, [375]nondimeno hanno un gusto e un sapore di prosa molto maggiore e più distinto (eccetto pochi), hanno non dico austerità, neanche gravità nè verecondia (pregi ignoti ai francesi) ma pur tanta posatezza e castigatezza di stile quanta è indispensabile alla prosa: come la Sévigné, Mme Lambert, Racine e Boileau nelle prose, Pascal ec. Anzi letto Pascal, e passando ai filosofi e pensatori moderni, si nota e sente il passaggio e la differenza in questo punto.
(2. Dic. 1820.). V. p.477. capoverso 1.
La ragione è nemica della natura, non già quella ragione primitiva di cui si serve l’uomo nello stato naturale, e di cui partecipano gli altri animali, parimente liberi, e perciò necessariamente capaci di conoscere. Questa l’ha posta nell’uomo la stessa natura, e nella natura non si trovano contraddizioni. Nemico della natura è quell’uso della Letteratura italiana Einaudi 348
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ragione che non è naturale, quell’uso eccessivo ch’è proprio solamente dell’uomo, e dell’uomo corrotto: nemico della natura, perciò appunto che non è naturale, nè proprio dell’uomo primitivo.
Spesso gli uomini irresoluti, preso che hanno un partito, sono costantissimi nel mantenerlo, a fronte delle maggiori difficoltà, appunto per irresoluzione, e perchè non si sanno risolvere a lasciar quello, e prenderne un altro; perchè ciò par loro più difficoltoso; perchè si spaventano di tornare un’altra volta a risolvere. Forse questo effetto accade principalmente in quelli che sono irresoluti per infingardaggine, e che trovano più infingardo [376]e facile il proseguire che il tornare indietro. Ma è comune, s’io non erro, a tutti gl’irresoluti.
(3. Dic. 1820.)
L’Essai sur l’indifférence en matière de religion, prima o seconda pagina del Capo 9. Ed è rimarcabile che tutti gli uomini… uniscono costantemente all’idea della felicità, l’idea del riposo, che non è altro fuorchè quella pace profonda, inalterabile, di cui gode necessariamente un essere pervenuto alla sua perfezione, e che S. Agostino chiama per eccellenza, la tranquillità dell’ordine… In una parola non si trova felicità fuorchè nel seno dell’ordine; e l’ordine è la sorgente del bene, come il disordine è la sorgente del male, tanto nel mondo morale, quanto nel mondo fisico; tanto pei popoli, quanto per gl’Individui. L’amore dell’ordine, o l’idea della necessità dell’ordine, che è quanto dire dell’armonia e convenienza, è innata, assoluta, universale, giacchè è il fondamento del raziocinio, e il principio della cognizione o del giudizio falso o vero. Ma l’idea di un tal ordine, è variabile, dipendente dall’abitudine, opinione, ec. è relativa, e particolare. Il desiderio del riposo, non è in quanto riposo, o quiete, ma 1. in quanto convenienza, armonia ec. colle qualità e la natura della specie o Letteratura italiana Einaudi 349
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia dell’individuo. 2. in quanto stabilità, o capacità di durare. L’uomo e nessun altro essere, non può trovar bene se non se in [377]uno stato che armonizzi colle sue qualità e natura. Senza questo stato, egli è in una condizione di contrasto, di sconvenienza, e perciò travaglioso, non per l’assenza della quiete assolutamente, ma dell’armonia relativa. Se alla sua natura convenisse la guerra, il moto perpetuo, l’azione continua, egli sarebbe in istato di pena, e violento, quando fosse costretto al riposo propriamente detto, e non riposerebbe, vale a dire, non troverebbe felicità, se non che nella guerra o fatica. Il riposo e la pace per lui sarebbe disordine, e la fatica e la guerra ordine.
Sicchè il riposo che noi desideriamo, non è riposo o quiete assolutamente, ma armonia colla nostra natura tanto specifica, quanto individuale. Così diremo della stabilità, perchè quello che contrasta colla nostra natura, se anche ha l’atto della durata, non ha la potenza o il diritto, cosicchè l’uomo non ci può trovar quiete. Al contrario nel caso opposto. Ma questa quiete non è quiete assoluta, quasi che la quiete fosse essenzialmente e primordialmente buona; bensì è quiete relativa, o vogliamo dire armonia.
Non bisogna dunque usare le proposizioni astratte nelle cose relative, nè pretendere di aver dimostrato che noi amiamo naturalmente un tal ordine, perciò che amiamo l’ordine. Amiamo l’ordine, l’amano tutti gli esseri; ma qual ordine? Odiamo il disordine, ma qual è questo disordine? Ciò bisogna [378]cercare, qui di nuovo i filosofi si dividono, e dal principio antecedente, incontrastabile e confessato, invano si presume di ricavar nulla di definito e concreto, circa la questione, dello stato e perfezione destinata particolarmente all’uomo, e desiderata da lui ardentemente. Io dico dunque: lo stato di perfezione, quello stato di ordine, fuori del quale non c’è riposo, fuor del quale non c’è la tranquillità dell’ordine, nè la felicità, è per l’uomo, come per tutte le altre cose esistenti, quello stato in cui la natura l’ha posto di sua propria mano, e Letteratura italiana Einaudi 350
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia non quello in cui egli o si sia posto, o si debba porre da se.
Il Capo 9. dell’Essai ec. qui sopra citato è il più forte profondo e concludente forse di tutta l’opera, perchè le prove della Religione non sono dedotte dalla considerazione dell’uomo qual egli è, dalle opinioni ec. ma dalla natura dell’uomo. Farai bene a rileggerlo. Ma ecco il suo raziocinio. La felicità non si trova se non nella perfezione di cui l’essere è capace. Un essere non è perfetto se le sue facoltà non sono perfettamente d’accordo fra loro, perfettamente sviluppate secondo la loro natura, e se non godono ciascuna del suo proprio oggetto secondo tutta l’estensione della sua capacità. Non è perfetto s’egli non è in conformità colle leggi che risultano dalla sua natura.
Ma per conformarcisi [379]bisogna conoscerle. Dunque l’uomo non sarà felice se non quando conosca se stesso, e i rapporti necessari che ha con altri esseri. E deve poterli conoscere, altrimenti sarebbe un essere contraddittorio, perchè avendo un fine, cioè la perfezione o la felicità, non avrebbe alcun mezzo di pervenirvi. L’uomo dunque incli-nando alla perfezione o felicità, inclina sommamente alla cognizione del vero. Dalla cognizione deriva l’amore o l’odio, ossia il giudizio relativo alla qualità buona o cattiva. Dall’amore o l’odio deriva l’azione, perchè l’uomo non si può determinare se non a quello che crede bene. L’ignoranza assoluta è uno stato di morte, perchè, supponendo che l’uomo non abbia un motivo per creder le cose buone o cattive, la sua indifferenza è totale, e non potendo amare nè odiare, non può scegliere, dunque non può agire, dunque non può vivere. Sicchè conoscere, amare, operare; ecco tutto l’uomo. L’oggetto della facoltà di conoscere, è la verità. L’estensione di questa facoltà si misura dal desiderio. L’uomo sente un desiderio infinito di conoscere e così di amare. Dunque la sua facoltà conoscitiva, o l’intelligenza è capace di conoscere la verità infinita; Letteratura italiana Einaudi 351
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia la sua facoltà di amare, è capace di amare il Bene infinito.
Laddove la sua facoltà di agire essendo limitata, egli non sente un desiderio infinito di agire, come essere fisico.
Dunque la felicità dell’uomo [380]consiste nella perfezione della conoscenza; dell’amore, o sia disposizione dell’anima verso gli oggetti; e dell’azione che deriva da questi due principii. Dunque consiste nel vero: perchè 1.
l’ignoranza assoluta è lo stesso che mancanza intera di cognizione, amore, e azione. 2. l’errore ingannandolo sui suoi rapporti, e sull’accordo e sviluppo delle sue facoltà, contraddice alla perfezione, ossia distrugge l’armonia dell’uomo e delle sue facoltà colle leggi che risultano dalla sua natura, e quindi distrugge la sua felicità. Ecco l’ar-gomentazione. Ecco le risposte.
Primieramente quanto alla verità, che cosa si debba intendere per verità, rispetto alla felicità dell’uomo, e per conseguenza qual sia il fine e lo scopo e l’oggetto vero della sua facoltà di conoscere, vedilo chiaramente esposto p.326. di questi pensieri, capoverso 1. Quello solo basterebbe a rispondere a tutto questo raziocinio.
Secondariamente, qual sia l’ordine, la perfezione l’accordo delle facoltà dell’uomo, la sua corrispondenza co’
suoi rapporti, e colle leggi che risultano dalla sua natura, vedilo p.376-378. donde rileverai che questo principio astratto, benchè vero, e confessato, non ha forza di provar nulla nella questione delle vere leggi, dei veri rapporti, e della vera natura particolare dell’uomo.
Veniamo al desiderio di conoscere. Certamente bisogna che l’uomo conosca, cioè si possa determinare, perch’egli è libero. Così accade anche al bruto. [381]Bisogna che conosca bene per determinarsi bene. Dunque bisogna che conosca il vero, e l’errore toglie la sua felicità.
Falsa conseguenza. Bisogna che conosca quello che fa per lui. La verità assoluta, e per così dire il tipo della verità, è indifferente per l’uomo. La sua felicità può consistere nella Letteratura italiana Einaudi 352
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia cognizione e giudizio vero o falso. Il necessario è che questo giudizio, convenga veramente alla sua natura.
La facoltà di formare questo giudizio non manca al-l’uomo ignorante, perchè tutto quello ch’egli deve sapere gli è insegnato dalla natura. Bisogna esser bene stupido per ammetter l’ipotesi di un’ignoranza che lasci l’uomo nell’intera indifferenza, come quell’asino delle scuole, posto tra due cibi distanti e moventi d’un modo, il quale si morria di fame. L’ignorante ignora il vero, ma non i motivi di determinarsi. Anzi l’ignorante naturale, come il fanciullo, si determina molto più presto, facilmente e vivamente, risolutamente e certamente dell’uomo istruito o saggio. Di più le stesse cose per natura loro indifferenti all’uomo, per poco che abbia perduto della natura, quelle cose che non possono essere oggetti di azione, come piante, sassi, e che so io, non sono indifferenti all’uomo primitivo nè al fanciullo, il quale da piccolissime minuzie, cava argomento di amarle o di odiarle, e trova notabili benchè immaginarie differenze, nelle cose più[382]indifferenti, ed esagera e ingrandisce le piccole differenze reali: sicchè non gli manca ma motivo di determinazione. Anzi la ragione e la scienza è indifferentissima, e la natura e l’ignoranza è tutto l’opposto dell’indifferenza. (V. il mio discorso sui romantici, e la p.69. di questi pensieri, capoverso 3.) Perchè l’immaginazione e l’errore dà molto più peso alle minuzie, che la ragione, e non ammette nè dubbi, nè freddezze nella stessa certezza, come la ragione che conosce la poca importanza di tutto, e perciò la poca differenza dell’utilità o bontà rispettiva. Oltracciò la ragione e la scienza, tende evidentemente ad agguagliare il mondo sotto ogni rispetto, ed estinguere o scemare la varietà, perchè non c’è cosa più uniforme della ragione, nè più varia della natura; e così la scienza promuove sommamente l’indifferenza, perchè toglie o scema anche le differenze reali, e quindi i motivi di determinazione.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia E quanto al dubbio, cagione principalissima d’indifferenza, lo stesso libro ch’io discuto reca un passo di Pascal, dove fra le altre cose (degne d’esser lette) si dice: conviene che ciascuno prenda il suo partito, e si collochi necessariamente o al dogmatismo, o al pirronismo… Sostengo che non ha mai esistito un pirronista effettivo e perfetto.
La natura sostiene la ragione impotente, e l’impedisce di delirare fino a questo punto… [383] La natura confonde i pirronisti, e la ragione confonde i dogmatizzanti (vale a dire quelli che ammettono e sostengono delle opinioni come certe). (Pensées de Pascal, Ch.21) Infatti il dubbio non ha quasi esistito se non dopo la ragione e la scienza, e non c’è cosa così sicura in quello che crede come l’ignoranza; e l’uomo naturale, tutto quello che sa o crede sapere (e ciò per dettato della natura), lo tiene per certissimo e non ci prova ombra di dubbio. Tanto è vero che l’ignoranza conduce alla totale indifferenza, e quindi all’inazione e alla morte: o piuttosto tanto è vero che si dia un’ignoranza assoluta, ossia uno stato dell’anima privo affatto di credenza, e di giudizi: tanto è stolto il confondere la mancanza della verità, colla mancanza dei giudizi, quasi non si dassero giudizi se non veri, o quasi dal detto principio risultasse la necessità di un giudizio vero assolutamente, e non piuttosto di un giudizio veramente utile e adattato alla natura dell’uomo.
Quanto al desiderio che ha l’uomo di conoscere, desiderio che si pretende infinito, come quello di amare, e a differenza di quello di operare
1° Non è vero ch’egli sia infinito per se, ma solo materialmente, e come desiderio del piacere, ch’è tutt’uno coll’amor proprio. E non è vero che l’uomo [384]naturale sia tormentato da un desiderio infinito precisamente di conoscere. Neanche l’uomo corrotto e moderno si trova in questo caso. Egli è tormentato da un desiderio infinito del piacere. Il piacere non consiste se non che nelle sensazioni, perchè quando non si sente, non si prova nè Letteratura italiana Einaudi 354
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia piacere nè dispiacere. Le sensazioni non le prova il corpo, ma l’anima, qualunque cosa s’intenda per anima. La sensazione dell’intelligenza, è il concepire. Dunque l’oggetto della facoltà intellettiva, è il concepire. (non il vero, come dirò poi.) L’uomo desidera un piacere infinito in tutte le cose, ma non può provare una certa infinità, se non se nella concezione, perchè tutto il materiale è limitato. V. la pag.388. di questi pensieri, fine. L’uomo dunque prova piacere nella maggior estensione possibile della concezione, ossia dell’atto della facoltà intellettiva. V.
questi pensieri p.170. fine, e p.178. fine – 179. principio.
Questo è indipendente dal vero. L’uomo non desidera di conoscere, ma di sentire infinitamente. Sentire infinitamente non può, se non colle facoltà mentali in qualche modo, ma principalmente coll’immaginazione, non colla scienza o cognizione, la quale anzi circoscrive gli oggetti, e quindi esclude l’infinito. E da queste cose si potrà dedurre che anche la curiosità, o desiderio di conoscere, o piuttosto di concepire, [385]derivi [non] da una determinazione arbitraria della natura, a fare che il conoscere o concepire sia piacere, ma da questo stesso, che l’uomo desidera illimitatamente il piacere, contro quello che ho inclinato a credere nella teoria del piacere. Del resto questo desiderio infinito di concepire, dev’essere essenzialmente comune anche ai bruti. V. p.180. fine.
2° E tanto è miser l’uomo quant’ei si reputa, e tanto è beato quant’ei si reputa. Così tanto è soddisfatto il desiderio di conoscere o concepire, dalla credenza di conoscere, quanto dalla vera conoscenza, e la verità assoluta è totalmente indifferente all’uomo anche per questo capo.
Anzi il desiderio infinito di concepire può ben essere in qualche modo e spesso appagato dalla natura col mezzo della immaginazione e delle persuasioni false ossiano errori; ma non mai dalla ragione col mezzo della scienza, nè dai sensi col mezzo degli oggetti reali. Che se l’uomo avesse questa tendenza infinita non al concepire, ma pre-Letteratura italiana Einaudi 355
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia cisamente al conoscere, cioè al vero, perchè la natura avrebbe posto tanti ostacoli a questa cognizione necessaria alla sua felicità? Perchè avrebbe radicate nella sua mente tante illusioni che appena il sommo incivilimento, e abito di ragionare, può estirpare, e non del tutto? Perchè la verità sarebbe così difficile a scoprire? Da che l’uomo tende infinitamente alla precisa cognizione, nessuna verità è indifferente per lui. [386]Non solo la cognizione delle verità religiose, morali ec. ma di qualunque verità fisica ec. ec. diviene necessaria alla sua felicità. Ora quando anche si voglia supporre che l’uomo primitivo avesse mezzi sufficienti per conoscere le verità religiose e morali, (come par che supponga il nostro libro) è certo che non gli ebbe per infinite altre, è certo che infinite se ne ignorano ancora, che infinite se ne ignoreranno sempre, che la massima parte degli uomini è (tolto nella religione rivelata) ignorante quanto i primitivi, che i fanciulli lo sono parimente, anche quanto alla religione. È certo che quantunque l’uomo conosca Dio ch’è infinito, non lo conosce nè lo può conoscere infinitamente (come neanche amare, quantunque l’autore presuma che la nostra facoltà di amare sia infinita, essendo infinito il desiderio); anzi limitatissimamente. Dunque la sua cognizione non è infinita; dunque se la sua facoltà di conoscere è infinita, manca del suo oggetto, e perciò della sua felicità.
Dunque l’uomo non può esser felice: dunque ripeterò coll’autore egli è un essere contraddittorio, perchè avendo un fine, cioè la perfezione o la felicità, non ha alcun mezzo di pervenirvi. E le illusioni che la natura ha poste saldissimamente in tutti noi, perchè ce le ha poste? Per contendergli espressamente la sua felicità? E se l’ignoranza è infelicità, perchè l’uomo esce dalle mani della natura, così strettamente infelice? In somma [387]le assurdità sono infinite quando non si vuol riconoscere che l’uomo esce perfetto dalle mani della natura, come tutte le altre cose; che la verità assoluta è indifferente all’uomo Letteratura italiana Einaudi 356
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia (quanto al bene, ma non sempre, anzi di rado, quanto al nuocergli); che lo scopo della sua facoltà intellettiva, non è la cognizione, in quanto cognizione derivata dalla realtà, ma la concezione, o l’opinione di conoscere, sia vera, sia falsa. Che vuol dire che gl’ignoranti in luogo di esser più infelici, sono evidentemente i più felici?
Posti questi principii, dice l’autore, (cioè i sovresposti p.378-380.) consideriamo la filosofia e la Religione ne’ loro rapporti colla felicità. E segue mostrando che la filosofia non rivela nè prescrive nulla fuorchè il dubbio, tanto ne’
principii o nelle verità, quanto ne’ doveri: e la Religione tutto l’opposto. Siamo d’accordo, ma la natura? l’avete dimenticata? Non c’è altra maestra che la filosofia o la religione? tutte due ascitizie e non inerenti alla natura dell’uomo. Laddove tutti gli altri esser viventi, che hanno lo stesso desiderio infinito della felicità, ne hanno la maestra, gl’insegnamenti, e i mezzi in se stessi. La natura non insegna nulla? non prescrive nulla? Concedo la vostra definizione della felicità, ammetto le facoltà dell’uo-mo che voi ammettere, dico che debbono esser d’accordo [388]fra loro, d’accordo colle leggi che risultano dalla loro natura, perfettamente sviluppate secondo la loro natura, godere del loro oggetto secondo la loro natura. I principii son veri, l’applicazione è falsa. Voi continuate a stare sull’assoluto invece di passare al relativo. Cioè, la natura dell’uomo non è quella che voi dite. Del resto so anch’io che la filosofia è più contraria alla natura che la religione, ma non ne segue che non ci siano altri insegnamenti se non della Religione o della filosofia, che non ci siano altre cognizioni, altri amori, altre azioni, cioè quelli che la natura ci ha ispirati e dettati; nè molto meno che questi non sieno analoghi alle nostre facoltà, ed alle leggi della nostra natura; nè che l’uomo naturale sia infelice ec.
ec. ec. e che le leggi della nostra natura non sieno quelle della nostra natura. Convien conoscerle, dic’egli, per conformarcisi. E io dico che l’uomo le conosce dal suo na-Letteratura italiana Einaudi 357
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia scere, e dovea necessariamente conoscerle per non essere un ente contraddittorio, e bisognoso per esser felice, di cose che non possiede essenzialmente e primordialmente, al contrario di tutti gli altri enti.
(7. Dic. 1820.)
Alla p.384. Così il desiderio che ha l’uomo di amare, è infinito non per altro se non perchè l’uomo si ama di un amore senza limiti. E conseguentemente desidera di trovare [389]oggetti che gli piacciano, di trovare il buono (intendendo per buono anche il bello, e tutto ciò che affetta gradevolmente qualunque delle nostre facoltà); desidera dunque di amare, ossia di determinarsi piacevolmente verso gli oggetti. E lo desidera senza confini, tanto rispetto al numero di questi oggetti, quanto rispetto alla misura della loro bontà, amabilità, piacevolezza. Questo è desiderio innato, inerente, indivisibile dalla natura non solo dell’uomo, ma di ogni altro vivente, perchè è necessaria conseguenza dell’amor proprio, il quale è necessaria conseguenza della vita. Ma non prova che la facoltà di amare sia infinita nell’uomo: e così il desiderio infinito di conoscere non prova che la sua facoltà di conoscere sia infinita: prova solamente che il suo amor proprio è illimitato o infinito. E infatti come si potrà dire che la facoltà nostra di conoscere o di amare sia infinita? – Ma noi possiamo conoscere un Bene infinito ed amarlo. Bisognerebbe che lo potessimo conoscere infinitamente ed amare infinitamente. Allora la conseguenza sarebbe in regola.
Ma non lo possiamo nè conoscere nè amare, se non imperfettissimamente. Dunque la nostra cognizione e il nostro amore, benchè cadano sopra un Essere infinito, non sono infinite, nè possono mai [390]essere. Dunque le nostre facoltà di conoscere e di amare sono essenzialmente ed effettivamente limitate come la facoltà di agire fisicamente, perchè non sono capaci nè di cognizione nè di amore infinito, nè in numero nè in misura, come non Letteratura italiana Einaudi 358
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia siamo capaci di azione infinita fisica. (E se noi avessimo delle facoltà precisamente infinite, la nostra essenza si confonderebbe con quella di Dio). Dunque il nostro desiderio infinito di conoscere (cioè concepire), e di amare, non può esser mai soddisfatto dalla realtà, ossia da questo, che la nostra facoltà di conoscere e di amare possieda realmente un oggetto infinito in quanto è infinito, e in quanto si possa mai possedere (altrimenti la possessione non sarebbe infinita): ma solamente può esser soddisfatto dalle illusioni (o false concezioni, o false persuasioni di conoscenza e di amore, e di possesso e godimento) e dalle distrazioni ovvero occupazioni (v. p.168. 172-173.175.
ivi, fine-176. principio): due grandi istrumenti adoperati dalla natura per la nostra felicità. (8. Dicembre. 1820.).
L’immaginarsi di essere il primo ente della natura e che il mondo sia fatto per noi, è una conseguenza naturale dell’amor proprio necessariamente coesistente con noi, e necessariamente illimitato. Onde è naturale che ciascuna specie d’animali s’immagini, se non chiaramente, certo confusamente e fondamentalmente la stessa cosa. Questo accade nelle specie o generi rispetto agli altri generi o specie. Ma proporzionatamente lo vediamo accadere anche negl’individui, riguardo, non solo alle altre specie o generi, ma agli altri individui della medesima specie.
[391]Il bene non è assoluto ma relativo. Non è assoluto nè primariamente o assolutamente nè secondariamente o relativamente. Non assolutamente perchè la natura delle cose poteva esser tutt’altra da quella che è; non relativamente, perchè in questa medesima natura tal qual esiste, quello ch’è bene per questa cosa non è bene per quella, quello che è male per questa è bene per quell’altra, cioè gli conviene. La convenienza è quella che costituisce il bene. L’idea astratta della convenienza si può credere la sola idea assoluta, e la sola base delle cose in qualunque Letteratura italiana Einaudi 359
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ordine e natura. Ma l’idea concreta di essa convenienza è relativa. Non si può dunque dire che un essere sia più buono di un altro, cioè abbia o contenga maggior quantità o somma di bene, perchè il bene non è bene se non in quanto conviene alla natura degli esseri rispettivi. Solamente, questo si può dire degl’individui rispetto agli altri individui della stessa specie. Ogni specie dunque, ed ogni individuo in quanto è conforme alla natura della sua specie, è perfetto, e possiede la perfezione: (perfezione relativa, ma non essendoci perfezione assoluta, cioè tipo di perfezione, nessun essere o specie è più perfetta di un’altra) possiede tutto il bene che è bene per [392]lui, perchè il resto non sarebbe bene: è tanto buono quanto può essere, perchè per lui non c’è buono fuori della sua natura; anzi fuori di questa, tutto è per lui cattivo, perchè non c’è bene assoluto. Tutto ciò tanto nel fisico che nel morale.
(8. Dicembre. 1820.). Questo io credo che sia il sistema (Leibniziano se non erro) dell’Ottimismo.
Oltre il progresso dei lumi esatti; dello studio e imitazione degli esemplari tanto nazionali che antichi; della regolarità della lingua, dello scrivere e della poesia ridotti ad arte ec. un’altra gran cagione dell’estinguersi che fece subitamente l’originalità vera e la facoltà creatrice nella letteratura italiana, originalità finita con Dante e il Petrarca, cioè subito dopo la nascita di essa letteratura, può essere l’estinzione della libertà, e il passaggio dalla forma repubblicana, alla monarchica, la quale costringe lo spirito impedito, e scacciato o limitato nelle idee e nelle cose, a rivolgersi alle parole. Il cinquecento fu, si può dir, tutto monarchico in Italia e fuori, quanto al governo.
E le lettere italiane risorsero dal sonno del quattrocento, sotto Cosimo e Lorenzo de’ Medici fondatori della monarchia toscana e distruttori di quella repubblica. E in questo risorgimento (come poi sotto Leon X.) le lettere presero una forma regolare, una forma tutta diversa da Letteratura italiana Einaudi 360
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia quella del trecento, e (quel che è più) da quella che sogliono sempre prendere nel loro risorgimento [393]o nascere. La letteratura italiana non è stata più propriamente originale e inventiva. L’Alfieri è un’eccezione, dovuta al suo spirito libero, e contrario a quello del tempo, e alla natura de’ governi sotto cui visse. (8. Dicembre.
1820.).
A quello che ho detto p.175. fine- 176. principio, riferi-sci quello che ho detto p.153. capoverso primo. I fanciulli parlano ad alta voce da se delle cose che faranno, delle speranze che hanno, si raccontano le cose che hanno fatte, vedute ec. o che loro sono accadute, si lodano, si compiacciono, predicano ed ammirano ad alta voce le cose che fanno, e non v’è per loro tanta solitudine ed inazione materiale, che non sia piena società conversazione, ed azione spirituale; società ed azione non languida nè passeggera, ma energica, presente, simile al vero, accompagnata anche da gesti e movimenti fisici d’ogni sorta, durevole ed inesauribile.
(9. Dic. 1820.)
Il mio sistema intorno alle cose ed agli uomini, e l’attribuir ch’io fo tutto o quasi tutto alla natura, e pochissimo o nulla alla ragione, ossia all’opera dell’uomo o della creatura, non si oppone al Cristianesimo.
1° La natura è lo stesso che Dio. Quanto più attribuisco alla natura, tanto più a Dio: quanto più tolgo alla ragione, tanto più alla creatura. Quanto più [394]esalto e predico la natura, tanto più Dio. Stimando perfetta l’opera della natura, stimo perfetta quella di Dio; condanno la presunzione dell’uomo di perfezionar egli l’opera del creatore; asserisco che qualunque alterazione fatta all’opera tal qual è uscita dalle mani di Dio non può esser altro che corruzione. Laddove coloro che si credono più amici della religione; attribuendo tutto o quasi tutto alla ragione, fan-Letteratura italiana Einaudi 361
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia no dipendere la massima e principal parte dell’ordine umano ed universale, dalle facoltà della creatura. Soste-nendo la perfettibilità dell’uomo, sostengono che l’opera della natura, cioè di Dio, era imperfetta; che l’uomo può essere perfezionato non già da Dio, ma da se stesso; che per conseguenza la perfezione o felicità della prima delle creature terrestri derivi e debba derivare da essa e non da Dio.
2° Io ammetto anzi sostengo la corruzione dell’uomo, e il suo decadimento dallo stato primitivo, stato di felicità; come appunto fa il Cristianesimo. S’io dico che l’uomo fu corrotto dall’abuso della ragione, dal sapere, e dalla società, questi sono i mezzi, o le cagioni secondarie della corruzione, e non tolgono che la causa originale non sia stata il peccato. Io non credo che nessuna vera e soda ragion di fede provi la scienza infusa in Adamo. S’egli ebbe subito un linguaggio, si può stimare, ed è ben verosimile che n’abbiano anche le bestie per servire a
[395]quella tal società di cui abbisognano; a quella che sarebbe convenuta anche all’uomo nello stato primitivo, come conviene alle bestie che sono ancora in esso stato; a quella che Dio volle indicare (e non altro) quando disse: Non est bonum esse hominem solum: faciamus ei adiutorium simile sibi (Gen. 2.18.); a quella della quale ho detto bastantemente altrove. E contuttociò le bestie non hanno scienza infusa, e dalla Genesi non risulta niente di questo, riguardo ad Adamo, anzi il contrario. Giacchè qualunque cosa si voglia intendere per l’albero della scienza del bene e del male, è certo che il solo comando che Dio diede all’uomo dopo averlo posto in paradiso voluptatis (Gen. c.2. v.8.15.23.24.) (s’intende voluttà e felicità terrena, contro quello che si vuol sostenere, che all’uomo non sia destinata naturalmente se non se una felicità spirituale e d’un’altra vita), fu De ligno autem scientiae honi et mali ne comedas, in quocumque enim die comederis ex eo, morte morieris (Gen. 2.17.). Non è que-Letteratura italiana Einaudi 362
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia sto un interdir chiaramente all’uomo il sapere? un voler porre soprattutte le altre cose (giacchè questo fu il solo comando o divieto) un ostacolo agl’incrementi della ragione, come quella che Dio conosceva essere per sua natura e dover essere la distruttrice della felicità, e vera perfezione [396]di quella tal creatura, tal quale egli l’aveva fatta, e in quanto era così fatta? Il serpente disse alla donna Scit enim Deus quod in quocumque die comederitis ex eo, aperientur oculi vestri, et eritis sicut dii, scientes bonum et malum. (Gen. 3.5.) In maniera che la sola prova a cui Dio volle esporre la prima delle sue creature terrestri, per donargli quella felicità che gli era destinata, fu appunto ed evidentemente il vedere s’egli avrebbe saputo contenere la sua ragione, ed astenersi da quella scienza, da quella cognizione, in cui pretendono che consista, e da cui vogliono che dipenda la felicità umana: fu appunto il vedere s’egli avrebbe saputo conservarsi quella felicità che gli era destinata, e vincere il solo ostacolo o pericolo che allora se le opponesse, cioè quello della ragione e del sapere. Questa fu la prova a cui Dio volle assoggettar l’uo-mo, se bene lo fece in un modo o materiale, o misterioso.
Di che cosa poi si trattava [?] È egli assurdo o cattivo per sua natura il desiderio di conoscere e discernere il bene ed il male? (che in somma è quanto dire la cognizione) Secondo voi altri apologisti della Religione, non è. Ma all’autor della Religione parve che fosse, perchè l’uomo già sapeva abbastanza per natura, cioè per opera propria, immediata e primitiva di Dio, tutto ciò che gli conveniva sapere. La colpa dell’uomo fu volerlo sapere per opera sua, cioè non [397]più per natura, ma per ragione, e conseguentemente saper più di quello che gli conveniva, cioè entrare colle sue proprie facoltà nei campi dello scibile, e quindi non dipendendo più dalle leggi della sua natura nella cognizione, scoprir quello, che alle leggi della sua natura, era contrario che si scoprisse. Questo e non altro fu il peccato di superbia che gli scrittori sacri rimprove-Letteratura italiana Einaudi 363
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia rano ai nostri primi padri; peccato di superbia nell’aver voluto sapere quello che non dovevano, e impiegare alla cognizione, un mezzo e un’opera propria, cioè la ragione, in luogo dell’istinto, ch’era un mezzo e un’azione immediata di Dio: peccato di superbia che a me pare che sia rinnuovato precisamente da chi sostiene la perfettibilità dell’uomo. I primi padri finalmente peccarono appunto per aver sognata questa perfettibilità, e cercata questa perfezione fattizia, ossia derivata da essi. Il loro peccato, la loro superbia, non consiste in altro che nella ragione: ragione assoluta: ragione, parlando assolutamente, non male adoperata, giacchè non cercava se non la scienza del bene e del male. Or questo appunto fu peccato e superbia. Condannato ch’ebbe la donna e l’uomo, disse Iddio: Ecce Adam quasi unus ex nobis factus [398] est, sciens bonum et malum. (Gen. 3.22.) E non aggiunse altro in questo proposito. Dunque egli non tolse alla ragione umana quell’incremento che l’uomo indebitamente gli aveva proccurato. Dunque l’uomo restò veramente simile a Dio per la ragione, restò più sapiente assai di quando era stato creato. Dunque il decadimento dell’uomo, non consistè nel decadimento della ragione, anzi nell’incremento. V. p.433. capoverso 1. E sebben l’uomo ottenne precisamente quello che il serpente aveva promesso ad Eva, cioè la scienza del bene e del male, non però questa accrebbe la sua felicità, anzi la distrusse. Questi mi paiono discorsi concludenti, e raziocini non istiracchiati ma solidi, e dedotti naturalmente e da dedursi dalle parole e dallo spirito bene inteso della narrazione Mosaica, e se ne può efficacemente concludere che lo spirito di questa narrazione, è di attribuire formalmente la corruzione e decadenza dell’uomo all’aumento della sua ragione, e al-l’acquisto della sapienza; considerar come corruttrice dell’uomo la ragione e il sapere: cioè come mezzi espressi di corruzione, perchè la causa primaria fu la disubbidienza, ma la disubbidienza a un divieto che proibiva appun-Letteratura italiana Einaudi 364
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia to all’uomo di proccurarsi e di rendere efficaci questi mezzi di corruzione e d’infelicità.
[399]3° Avanti il peccato, ossia avanti il sapere, erat autem uterque nudus, Adam scilicet et uxor eius, et non erubescebant. (Gen. 2.25.) Ma come prima Adamo ebbe mangiato del frutto, ET APERTI SUNT OCULI
AMBORUM: cumque COGNOVISSENT se esse nudos, consuerunt folia ficus et fecerunt sibi perizomata. (3.7.) E
Dio disse loro: QUIS enim INDICAVIT TIBI quod nudus esses, nisi quod ex ligno de quo praeceperam tibi ne comederes, comedisti? (3.11.) Questi luoghi suggerireb-bero vaste osservazioni sulla legge naturale, pretesa innata. In sostanza è chiaro 1. che la decadenza dell’uomo consistè nella decadenza dallo stato naturale o primitivo, giacchè subito dopo il peccato l’uomo provò una contraddizione colla sua natura, vergognandosi della nudità, ossia del modo nel quale era stato fatto: vergogna, e per conseguente dovere, che non esisteva innanzi alla corruzone. 2. Che questa decadenza o corruzione in luogo di consistere in quella della ragione, fu anzi cagionata dal sapere, giacchè l’uomo allora seppe quello che prima non sapeva, e non avrebbe saputo nè dovuto sapere, cioè di esser nudo. Quando aprirono gli occhi, come dice la Genesi, allora conobbero di esser nudi, e si vergognarono della loro natura (contro quello che prima era [400]avvenuto); e decaddero dallo stato naturale, o si corruppero.
Dunque l’ aprir gli occhi, dunque il conoscere fu lo stesso che decadere o corrompersi; dunque questa decadenza fu decadenza di natura, non di ragione o di cognizione.
3. Che l’uomo naturale sarebbe vissuto come gli altri animali senza vestimenti. Questo è un gran colpo, tanto alla pretesa legge di natura, ingenita ed essenziale: quanto alla pretesa necessità, o naturale o primordiale e sostanziale disposizione dell’uomo alla società. Una gran parte del bisogno che l’uomo ha dell’aiuto scambievole, che il bambino ha per lungo tempo de’ genitori, consiste ne’
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia vestimenti. Di più, una gran parte del bisogno che l’uo-mo ha di una certa arte, di un certo uso della sua ragione, consiste nel bisogno de’ vestimenti.
4° Quanto alla società, non quella primitiva, e tenue e comune anche agli animali, che ho definita di sopra, ma quella intera, e bisognosa di leggi, di costumi, di riti, di potere e sudditi, di comando e ubbidienza ec. ec. vedi quello che ne pensi la religion Cristiana p.112. capoverso 1.191. capoverso 2.
5° La descrizione che fa Mosè del paradiso terrestre, prova che i piaceri destinati all’uomo naturale in questa vita, erano piaceri di questa vita, materiali, sensibili, [401]e corporali, e così per tanto la felicità. Oltracciò Dio pose Adamo in paradiso voluptatis ut OPERARETUR et custodiret illum. (2.15.) Dunque sebben l’uomo fu condannato dopo il peccato a lavorar la terra maledetta nell’opera di esso, (3.17.) e scacciato dal paradiso di voluttà (3.23.) ut operaretur terram de qua sumptus est (ib.), si deve intendere a lavorarla con sudore, e con ingratitudine d’essa terra, secondo il contesto della Genesi, e non che la sua vita avanti il peccato, e la sua felicità dovesse consistere nella contemplazione, ed essere inattiva, ossia senza opere e occupazioni corporali ed esterne, e piacere di queste opere. Infatti chi non vede che l’uomo corrotto, ossia l’uomo tal qual è oggi ha molto più bisogni degli altri viventi, molto più ostacoli a proccurarsi il necessario, e quindi ha mestieri di molto più fatica per la sua conservazione? Fatica di stento, comandata dalla ragione e dalla necessità, ma ripugnante alla natura: fatica non piacevole ec. Laddove gli altri animali con poca fatica, e quasi nessuno stento si procacciano il bisognevole; non lavorano la terra, nè questa produce loro spinas et tribulos, (3.18.) cioè non contrasta ai loro desideri, ma somministra loro il necessario spontaneamente; ed essi raccolgo-no e non [402]seminano. Intendo parlare di qualunque cibo del quale si pascano. Del vestire, l’uomo abbisogna Letteratura italiana Einaudi 366
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia nello stato presente, essi no, ma nascono vestiti dalla natura. La società primitiva qual è usata anche dagli animali; il raziocinio primitivo, ossia il principio di cognizione comune a tutti gli esseri capaci di scelta, erano destinati a supplire ai bisogni dell’uomo. La società qual è, la ragione qual è ridotta, accresce smisuratamente questi bisogni: il mezzo di servire ai bisogni e di estinguerli, è divenuto padre, e cagione, e fonte perenne e abbondantissima di bisogni. I bisogni naturali dell’uomo sarebbero pochissimi, come quelli degli altri anmali; ma la società e la ragione aumentano il numero e la misura de’ suoi bisogni eccessivamente. Questa distinzione fra’ bisogni naturali, e sociali o fattizi, e nonpertanto inevitabili nel nostro stato, formava il fondamento della setta Cinica, la quale si prefiggeva di mostrare col fatto, di quanto poco abbisogni l’uomo naturalmente. V. l’epitaffio di Diogene nel Laerzio. L’uomo fu dunque veramente condannato alla fatica, e fatica di stento; vi fu condannato a differenza degli altri animali; ed essendovi stato condannato sotto l’aspetto che ho esposto, non ne segue che la sua vita innanzi la corruzione dovesse essere inattiva, cioè dovesse
[403]contenere meno attività ed occupazione fisica, di quello che ne contenga la vita degli altri animali.
6° Se la Religione ha poi divinizzato la ragione e il sapere; dato la preferenza allo spirito sopra i sensi; fatto consistere la perfezione dell’uomo nella ragione a differenza dei bruti; e in somma dato alla ragione il primato nell’uo-mo sopra la natura: tutto ciò non si oppone al mio sistema. L’uomo era corrotto, cioè, come ho dimostrato, la ragione aveva preso il disopra sulla natura: e quindi l’uo-mo era divenuto sociale: quindi l’uomo era divenuto infelice, perchè prevalendo la ragione, la sua natura primitiva era alterata e guasta, ed egli era, decaduto dalla sua perfezione primigenia, la quale non consisteva in altro che nella sua essenza o condizione propria e primordiale.
Da questo stato di corruzione, l’esperienza prova che l’uo-Letteratura italiana Einaudi 367
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia mo non può tornare indietro senza un miracolo: lo prova anche la ragione, perchè quello che si è imparato non si dimentica. In fatti la storia dell’uomo non presenta altro che un passaggio continuo da un grado di civiltà ad un altro, poi all’eccesso di civiltà, e finalmente alla barbarie, e poi da capo. Barbarie, s’intende, di corruzione, non già stato primitivo [404]assolutamente e naturale, giacchè questo non sarebbe barbarie. Ma la storia non ci presenta mai l’uomo in questo stato preciso. Bensì ci dimostra che l’uomo tal quale è ridotto, non può godere maggior felicità che in uno stato di civiltà media, dove prevalga la natura, quanto è compatibile colla sua ragione già radicata in un posto più alto del primitivo. Questo stato non è il naturale assoluto, ma è quello stabilito appresso a poco dalla religione, come dirò poi. Lo stato naturale assoluto non poteva dunque tornare senza un miracolo. Il discorso de’ miracoli, è sopraumano, e non entra in filosofia.
Perchè dunque l’uomo corrotto com’è, non abbia mai ricuperato nè sia per ricuperare lo stato puramente naturale, e la felicità di cui godono tutti gli altri esseri, rimane, colla detta ragione, spiegato in filosofia. In religione anche meglio; perchè Dio in pena del peccato, avendo condannato l’uomo all’infelicità della corruzione derivata da esso peccato, non voleva nè doveva fare questo miracolo.
Volendo mostrargli la sua misericordia, e dare al suo stato una perfezione compatibile colla sua condanna, cioè colla sua infelicità, non restava altro che perfezionare la sua ragione, cioè quella parte che aveva prevaluto immu-tabilmente nell’uomo [405]per la sua disubbidienza, e con ciò causata la sua corruzione. La perfezion della ragione non è la perfezione dell’uomo assolutamente, ma bensì dell’uomo tal qual è dopo la corruzione. Perchè la perfezione di un essere non è altro che l’intiera conformità colla sua essenza primigenia. Ora l’essenza primigenia dell’uomo supponeva e conteneva l’ubbidienza della ragione, in somma tutto l’opposto della perfezion della ra-Letteratura italiana Einaudi 368
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia gione. Questa perfezione dunque non poteva essere la sua felicità in questa vita, non essendo la perfezione dell’ente. Non poteva dunque se non formare la sua felicità in un’altra vita, dove la natura dell’ente in certo modo si cambiasse. La ragione (massime relativamente all’altra vita) non può essere perfezionata se non dalla rivelazione. Fu dunque necessario che Dio rivelasse all’uomo la sua origine, e i suoi destini; quei destini che avrebbe con-seguiti rimanendo nello stato naturale, e gli avrebbe con-seguiti insieme colla felicità terrena. Laddove il Cristianesimo chiama beato chi piange, predica i patimenti, li rende utili e necessari; in una parola suppone essenzialmente l’infelicità di questa vita, per conseguenza [406]naturale degli addotti principj. Ma da questi segue ancora che la maggior felicità possibile dell’uomo in questa vita, ossia il maggior conforto possibile, e il più vero ed intero, all’infelicità naturale, è la religione. Perchè (riassumendo il discorso) la perfezione primitiva o umana assolutamente, e quindi la felicità naturale, e quindi la felicità temporale, è impossibile all’uomo dopo la corruzione. La ragione autrice di essa corruzione, avendo prevaluto per sempre, il miglior grado dell’uomo corrotto è la perfezione di essa ragione, che forma oggi la sua parte principale. La perfezion della ragione non può condurre se non alla felicità di un’altra vita. Quindi, e anche senza ciò, la perfezion della ragione e della cognizione, non può stare senza la rivelazione. Dunque il migliore stato dell’uomo corrotto, è la Religione, e siccome è il migliore, cioè quello che più gli conviene, perciò, sebben suppone l’infelicità di questa vita, contiene però il maggior conforto, e quindi la maggior felicità, e quindi la maggior perfezione possibile dell’uomo in questa vita. Ecco come la Religione si accorda mirabilmente col mio sistema, e quasi ne riceve una nuova prova.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia
[407]7° La perfezion della ragione consiste in conoscere la sua propria insufficienza a felicitarci, anzi l’opposizione intrinseca ch’ella ha colla nostra felicità. V. p.304.
capoverso 2. Questa è tutta la perfettibilità dell’uomo, conoscersi incapace affatto a perfezionarsi, anzi ch’essendo egli uscito perfetto sostanzialmente dalle mani della natura, alterandosi non può altro che guastarsi. Ora la Religione confonde appunto la nostra ragione, gli mostra la sua insufficienza, la corruttela che ha introdotto nell’uomo, e l’impossibilità ch’ell’ha di felicitarci: ed ecco la perfezion della ragione. Perchè queste cose l’uomo non le avrebbe conosciute nel suo stato primitivo, ma prevaluta la ragione, egli non può giungere a maggior perfezione che di conoscere l’impotenza e il danno della ragione. La perfezion della ragione consiste a richiamar l’uomo quanto è possibile al suo stato naturale; ritorno ch’essendo fatto mediante quella ragione stessa che ha corrotto l’uomo, ed avendo il suo fondamento in questa medesima corruttrice, non può più equivalere allo stato naturale, nè per conseguenza alla nostra perfezion primitiva, nè quindi proccurarci quella felicità che ci era destinata. Ma contuttociò, riguardo a questa vita, è la miglior condizione che l’uomo possa sperare. Ed ecco che la Religione favorisce infinitamente [408]la natura, come ho detto in parecchi altri luoghi, stabilisce moltissime di quelle qualità ch’eran proprie degli uomini antichi o più vicini alla natura, appaga la nostra immaginazione coll’idea dell’infinito, predica l’eroismo, dà vita, corpo, ragione e fondamento a mille di quelle illusioni che costituiscono lo stato di civiltà media, il più felice stato dell’uomo sociale e corrotto insanabilmente, stato dove si concede tanto alla natura, quanto è compatibile colla società. Osservate infatti che lo stato di un popolo Cristiano, è precisamente lo stato di un popolo mezzanamente civile. Vita, attività, piaceri della vita domestica, eroismo, sacrifizi, amor pubblico, fedeltà privata e pubblica degl’individui e delle Letteratura italiana Einaudi 370
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia nazioni, virtù pubbliche e private, importanza data alle cose, compassione e carità ec. ec. Tutte le illusioni che sublimavano gli antichi popoli, e sublimano il fanciullo e il giovane, acquistano vita e forza nel Cristianesimo. Esempio della Spagna fino al 1820. del suo eroismo contro i francesi ec. Le sue stesse superstizioni non erano altro che illusioni, e però vita. Osservate ancora che tutto quello che v’è di meno della civiltà media nello stato di un popolo, è contrario al Cristianesimo, o deriva da corruzione di esso, come nello stato de’ bassi tempi, della Spagna ec.
Perchè il Cristianesimo puro, conduce, anzi equivale a una sufficiente e giusta civiltà, quanta nè più nè meno conviene all’uomo sociale. D’altra parte osservate che nessun popolo al di qua della civiltà media, nessun popolo al di là, è stato mai cristiano, e viceversa nessun popolo cristiano veramente, è stato mai al [409]di qua nè al di là della civiltà media. Le società o barbare assolutamente, o corrotte e barbare per corruzione, sono incivilite dal Cristianesimo, e portate al detto stato di civiltà media. Esempio de’ popoli barbari convertiti dalla predicazione del Vangelo. All’opposto le società eccessivamente incivilite, e strettamente ragionevoli, (come anche gl’individui) non sono state mai cristiane. Esempio de’ nostri tempi. In luogo delle qualità dette di sopra, i distintivi di queste società, sono l’egoismo, la morte, il tedio, l’indifferenza, l’inazione, la mala fede pubblica e privata, l’assenza di ogni eroismo, sacrifizio, virtù, di ogni illusione ispirata dalla natura nello stato primitivo, o sviluppatasi naturalmente nello stato sociale; di ogni illusione che forma la sostanza e la ragione della vita, e ch’essendo ispirata dalla natura è confermata dal Cristianesimo.
8° La detta perfezion della ragione è relativa a questa vita. Ma la ragione non può esser perfetta se non è relativa all’altra vita. Perchè quel richiamarci ch’ella deve fare alla natura, e alle illusioni naturali, essendo un richiamo fatto dalla ragione, non può esser altro che persuasione Letteratura italiana Einaudi 371
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia di esse illusioni. Dopo ch’esse son conosciute, come ci torneremmo, se non [410]ci persuadessimo di nuovo che fossero vere? Un ritorno della ragione, non ragionato, ma solamente volontario, non può esser che vano, istabile e passeggero, come quello de’ moderni filosofi sensibili, che cercando a più potere di riprendere le illusioni perdute, ci riescono, al più, momentaneamente, e del resto passano la vita nella freddezza, indifferenza e morte. Dopo la cognizione pertanto, non possiamo tornare alle illusioni, cioè ripersuadercene, se non conoscendo che son vere.
Ma non son vere se non rispetto a Dio e ad un’altra vita.
Rispetto a Dio ch’è la virtù, la bellezza ec. personificata; la virtù sostanza, e non fantasma, come nell’ordine delle cose create. Rispetto a un’altra vita, dove la speranza sarà realizzata, la virtù e l’eroismo premiato ec. dove insomma le illusioni non saranno più illusioni ma realtà. Dunque la perfezion della ragione (tanto rispetto a questa come all’altra vita, perchè ho mostrato che la perfezione rispetto a questa vita dipende dalla perfezione rispetto all’altra) consiste formalmente nella cognizione di un altro mondo. In questa cognizione dunque consiste la perfezione, e quindi la felicità dell’uomo corrotto. Dunque l’uo-mo corrotto non poteva esser perfezionato nè felicitato se non dalla rivelazione, ossia dalla Religione. Ed ecco strettamente [411]dimostrato e dichiarato come all’uo-mo corrotto sia necessaria quella cognizione, ch’era contraria alla natura dell’uomo primitivo; e come il Cristianesimo divinizzando la ragione e il sapere, non si opponga al mio sistema che divinizza la natura nemica della ragione e del sapere.
9° L’esperienza conferma che l’uomo qual è ridotto, non può esser felice sodamente e durevolmente (quanto può esserlo quaggiù) se non in uno stato (ma veramente) religioso, cioè che dia un corpo e una verità alle illusioni, senza le quali non c’è felicità, ma ch’essendo conosciute dalla ragione, non possono più parer vere all’uomo, come Letteratura italiana Einaudi 372
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia paiono agli altri viventi, se non per la relazione e il fondamento e la realtà che si suppongano avere in un’altra vita.
A questo effetto contribuirono anche le Religioni antiche, il Maomettismo, le sette d’ogni genere, e tutte quelle opinioni che hanno dato vita a un popolo o ad una società, e indottala ad operare. Riferite a questo tutto quello che ho detto altrove della necessità di una persuasone per condurre alle azioni, e di una persuasione che abbia l’aspetto d’illusione e di passione, ec. Giacchè la persuasione che tutto sia nullo, non conduce all’azione. E la persuasione che le cose sieno cose, non può [412]aver fondamento nè ragione, se non se nell’idea e persuasione di un’altra vita. Ma questa ci deve persuadere: dunque bisogna che la religione ci persuada, e non si può essere indifferenti circa la sua qualità e verità. Altrimenti se la Religione si considera e si segue come una delle altre illusioni, questa non sarà più persuasione, e tanto le altre illusioni, quanto questa, mancheranno di nuovo del loro fondamento, e non ci potranno quindi condurre all’azione durevole, alla perfezione, alla felicità. Ecco perchè la Religione si trova presso la culla di tutti i popoli; ecco perchè gl’imperi o stati fondati o conservati dalle opinioni religiose, sono distrutti dalla filosofia; ecco perchè la decadenza di Roma fu compagna della decadenza della sua Religione ec. ec. V. gli altri pensieri. Perchè indebolendoo mancando le credenze Religiose, indebolisce, o manca il principio di azione, cioè la credenza alle illusioni, o sia la persuasione della realtà delle cose, le quali non possono essere reali ed importanti se non rispetto ad un’altra vita. E nello stesso modo, mancando quella tal Religione che realizza quelle tali illusioni, manca quel tale stato di un popolo, e la sostituzione di un’altra Religione, non riconduce quello stesso stato, anzi lo cambia. E così avvenne del Cristianesimo rispetto al paganesimo in Roma. Perchè l’uomo credendo [413](non dico conoscendo ma credendo) diversamente, opera di-Letteratura italiana Einaudi 373
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia versamente. Quindi resta giustificata anzi lodata la gelo-sia che gli antichi politici greci e Romani manifestarono sempre per le loro antiche credenze, colle quali doveva mancare e mancò il loro stato.
10° Dal sopraddetto segue che il Cristianesimo non prova che la verità assoluta non sia indifferente per l’uo-mo, non prova che la felicità dell’uomo consista nel conoscere. Col prevaler della ragione e del sapere, l’uomo non potendo più credere quello che credeva naturalmente, bisognava ch’egli tornasse a crederlo mediante questa medesima ragione e questo sapere che non si poteva più estinguere. La cognizione del vero gli era dunque necessaria, non come indirizzata al vero, ma come solo fonte di quella credenza che gli bisognava per riacquistare quella felicità che la stessa cognizione gli avea tolta. Verità o errore, bastava ed importava solamente che l’uomo credesse quelle cose, senza le quali non poteva esser felice.
Ma l’errore l’avrebbe potuto credere stabilmente nello stato naturale, nello stato di ragione, non poteva credere stabilmente altro che il vero. Bisognava dunque ch’egli trovasse verità reali in quelle opinioni e in [414]quei giudizi che formano e servono di base alla vita umana. Ma queste opinioni e giudizi, non poteva trovarli realmente veri, se non supposta una Religione, e una Religion vera, cioè universalmente e stabilmente credibile. Ecco dunque come la ragione non poteva condurre alla felicità senza la rivelazione. La verità non era necessaria all’uomo in quanto verità, ma in quanto stabile credibilità. Ora la verità sola è stabilmente credibile nello stato di ragione e di sapere. E l’uomo senza credenza stabile, non ha stabile motivo di determinarsi, quindi di agire, quindi di vivere.
Ma siccome la verità era necessaria all’uomo, soltanto come unico fondamento di quelle credenze che sono necessarie alla sua vita, perciò tutta quella parte di verità che non serve di fondamento a queste credenze, è indifferente all’uomo, anzi nociva, anche nello stato presente Letteratura italiana Einaudi 374
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia di corruzione. Al contrario di quello che accadrebbe se la felicità dell’uomo o naturale o corrotto dovesse necessariamente consistere nella cognizione assoluta; il cui oggetto essendo la verità assolutamente, nessuna minima verità sarebbe indifferente all’uomo, e l’uomo sarebbe infelice finchè non avesse conosciuta tutta la generale e particolare estensione della verità, perch’egli prima di questo punto, non sarebbe arrivato alla [415]sua perfezione. Al qual punto però gli è formalmente impossibile di arrivare, come ho detto altrove. V. p.385-386. e p.389-390. Dove che la Religione, avendo insegnato all’uomo quelle verità che realizzano le credenze necessarie alla sua felicità, non solo non insegna, o suppone le altre verità, ma anzi, come ho detto di sopra, e come prova l’esperienza, non c’è maggior nemico della Religione che un secolo pieno di cognizioni. E la Religion Cristiana si adatta e si deve adattare alla capacità dell’ignorante, e conviene, anzi trova il suo miglior posto nell’ignoranza delle altre verità. Le quali anche astraendo dalla religione, pregiudicano alla felicità dell’uomo, quantunque già ragionevole, perchè non sono altro che un’estensione di questa ragione e sapere che distruggono la umana felicità, e un più vasto eccidio di quelle opinioni e illusioni parziali, che anche dopo prevaluta la ragione, possono esser credute stabilmente, se il sapere, l’esperienza ec. non si applicano parzialmente a sradicarle, cioè finchè dura l’ignoranza parziale. La quale può occupare maggiore o minore spazio, e quanto più ne occupa tanto più l’uomo è felice. P.e.
le scoperte geografiche sono indifferenti alla religione.
Ma geometrizzando l’idea del mondo, distruggono quelle belle illusioni che ancora restavano a causa dell’ignoranza parziale intorno a questo capo. [416]E la perfezione della ragione non consiste nella cognizione di queste verità, perchè non consiste nella cognizione della verità in quanto verità, ma in quanto stabile fondamento delle credenze necessarie o utili alla vita. E ci deve richiamare Letteratura italiana Einaudi 375
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia alla natura o alla felicità naturale per una strada diversa dalla primitiva, la quale è irrevocabilmente perduta. Ora se alcune delle dette credenze hanno già un fondamento stabile nell’ignoranza parziale, la ragione e il sapere, di-struggendole nuocono alla nostra felicità, e non corrispondono alla loro perfezione la quale consiste in richiamarci alla natura. Laddove scoprendo queste verità parziali ch’erano stabilmente nascoste, ci allontanano maggiormente dalla natura, e quindi dalla felicità. V. p.420.
capoverso 1.
11° Il mio sistema non si fonda sul Cristianesimo, ma si accorda con lui, sicchè tutto il fin qui detto suppone essenzialmente la verità reale del Cristianesimo: ma tolta questa supposizione il mio sistema resta intatto. Frattanto osserverò che il Cristianesimo legandosi col mio sistema può supplire a spiegare quella parte della natura delle cose che nel mio sistema resta intatta, ovvero oscura e difficile. 1. L’origine del mondo e dell’uomo, che [417]mediante il Cristianesimo resta spiegata colla creazione. 2.
Col Cristianesimo resta spiegato perchè l’uomo sia così facile a perdere il suo stato primitivo, e non si trovi, si può dir, popolo nè individuo che perfettamente conservi questo stato, ch’io predico pel solo perfetto, felice, desti-natogli, e proprio suo: laddove tutti gli altri viventi appresso a poco (escluse alcune cause accidentali, e provenienti per lo più dall’uomo) conservano il loro primo stato. (Sebbene si potrebbero forse addurre parecchi esempi di nazioni che conservano quasi interamente lo stato naturale, e ne sono felici e contente: nè hanno se non quanta società conviene ai loro bisogni, come ne hanno gli animali; peraltro con quel di più che conviene alla nostra specie, a causa dell’organizzazione, specialmente riguardo agli organi della favella. Anche gli animali hanno più o meno società, proporzionatamente alla natura rispettiva, e le scimie più degli altri, perchè più si accostano alla nostra organizzazione). Questo fenomeno si può Letteratura italiana Einaudi 376
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia naturalmente spiegare colla diversità dell’organizzazione, la quale in noi è tale che ci dà somma facilità di sperimentare, e quindi conoscere, e quindi alterare il nostro primo stato: giacchè l’esperienza è la sola madre della cognizione [418]e del sapere, come anche delle immaginazioni determinate (non della facoltà immaginativa): e questo in tutti i viventi: essendo riconosciute per favola le idee assolutamente innate. Così forse anche la nostra diversa organizzazione interna, come del cervello ec. Ma da questa spiegazione si potrebbe conchiudere che l’uomo dunque, in vece d’essere il primo degli enti nell’ordine delle cose terrestri, è anzi l’infimo, perch’è il più facile a perdere la sua felicità, ossia la perfezione; e quasi impossibi-litato a conservarla. (Questa conseguenza già non sarebbe assurda se non per chi si forma della perfezione un’idea assoluta, ossia considera la perfezione assolutamente secondo le nostre idee nello stato presente. Chi considera la perfezione e ogni altra cosa come relativa, non avrebbe difficoltà di creder l’uomo l’infimo degli enti terrestri). Il Cristianesimo spiega chiaramente perchè la ragione e il sapere corruttori dell’uomo, siano in lui così facili a prevalere, giacchè attribuisce la cagione originale e radicale della sua corruzione, al peccato, il quale introdusse lo squilibrio fra la ragione e la natura sua, ragione e natura ottimamente equilibrate o subordinate l’una all’altra, insomma combinate negli altri esseri viventi. Ed è ben conforme alla ragione, e ben verisimile il supporre che Dio volendo manifestare la sua misericordia e tutta la sua gloria alla terra, e avendo scelto [419]di farlo, com’era naturale, nella più nobile delle creature terrestri, abbia voluto assoggettarla ad una prova, e permettere la sua corruzione e infelicità temporale, la quale ha dato luogo a tutta quella manifestazion di Dio, ch’è seguita dall’incremento della ragione umana, alla Redenzione ec. Manifestazione che non avrebbe avuto luogo se l’uomo avesse conservato il suo grado e felicità naturale, ancorchè più perfetto, Letteratura italiana Einaudi 377
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia relativamente alla sua natura. Questa supposizione è conforme non solo alla ragione, ma espressamente al Cristianesimo, il quale insegna (e non può altrimenti) che Dio permise il peccato dell’uomo per sua maggior gloria. Ora, secondo lo stesso Cristianesimo, era certamente meglio che l’uomo non peccasse: ed egli sarebbe rimasto più perfetto e più buono non peccando, e non corrompendosi, e questo gli era destinato primordialmente. Eppure Iddio permise che peccasse. Dunque secondo lo stesso Cristianesimo, Dio permise un effettivo male, per un bene: permise una cosa contraria alla destinazione dell’uomo.
Dunque questa destinazione era meno atta alla gloria di Dio, secondo i suoi misteriosi giudizi. [420]Altrimenti Dio avrebbe permesso un male (e sommo male qual è il peccato) senza motivo: avrebbe lasciato violare e guastare l’ordine da lui stabilito senza motivo; e non avrebbe fatto il meglio ma il peggio.
Così il Cristianesimo aiuta il mio sistema riempiendone le necessarie lagune nelle cose dove non arriva il nostro ragionamento: e di più l’appoggia precisamente; come apparisce dal sopraddetto, massime dalla esposizione di quei luoghi della Genesi, i quali somministrano una formale e stretta dimostrazion religiosa del punto principale del mio sistema, cioè che la corruzione e l’infelicità conseguente dell’uomo, è stata operata dalla ragione e dalla cognizione, (9-15. Dic. 1820.) e consiste immediatamente nell’esso incremento loro.
Alla p.416. L’ignoranza parziale può sussistere, come ho detto, anche nell’uomo alterato dalla ragione, anche nell’uomo ridotto in società. Può dunque servire di stabile fondamento a un maggiore o minor numero di credenze naturali; dunque tener l’uomo più o meno vicino allo stato primitivo, dunque conservarlo più o meno felice.
Per [421]conseguenza quanto maggiore per estensione, e per profondità sarà questa ignoranza parziale, tanto più Letteratura italiana Einaudi 378
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia l’uomo sarà felice. Questo è chiarissimo in fatto, per l’esperienza de’ fanciulli, de’ giovani, degl’ignoranti, de’ selvaggi. S’intende però un’ignoranza la quale serva di fondamento alle credenze, giudizi, errori, illusioni naturali, non a quegli errori che non sono primitivi e derivano da corruzione dell’uomo, o delle nazioni. Altro è ignoranza naturale, altro ignoranza fattizia. Altro gli errori ispirati dalla natura, e perciò convenienti all’uomo, e conducenti alla felicità; altro quelli fabbricati dall’uomo. Questi non conducono alla felicità, anzi all’opposto, com’essendo un’alterazione del suo stato naturale, e come tutto quello che si oppone a esso stato. Perciò le superstizioni, le barbarie ec. non conducono alla felicità, ma all’infelicità. V.
p.314. Quindi è che dopo lo stato precisamente naturale, il più felice possibile in questa vita, è quello di una civiltà media, dove un certo equilibrio fra la ragione e la natura, una certa mezzana ignoranza, [422]mantengano quanto è possibile delle credenze ed errori naturali (e quindi costumi consuetudini ed azioni che ne derivano); ed esclu-dano e scaccino gli errori artifiziali, almeno i più gravi, importanti, e barbarizzanti. Tale appunto era lo stato degli antichi popoli colti, pieni perciò di vita, perchè tanto più vicini alla natura, e alla felicità naturale. Le Religioni antiche pertanto (eccetto negli errori non naturali e perciò dannosi e barbari, i quali non erano in gran numero, nè gravissimi) conferivano senza dubbio alla felicità temporale molto più di quello che possa fare il Cristianesimo; perchè contenendo un maggior numero e più importante di credenze naturali, fondate sopra una più estesa e più profonda ignoranza, tenevano l’uomo più vicino allo stato naturale: erano insomma più conformi alla natura, e minor parte davano alla ragione. (All’opposto la barbarie de’ tempi bassi derivata da ignoranza non naturale ma di corruzione, non da ignoranza negativa ma positiva. Questa non poteva conferire alla felicità, ma all’infelicità, allontanando maggiormente l’uomo dalla natura: se non in Letteratura italiana Einaudi 379
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia
[423]quanto quell’ignoranza qualunque richiamava parte delle credenze e abitudini naturali, perchè la natura trionfa ordinariamente, facilmente, e naturalmente quando manca il suo maggiore ostacolo ch’è la scienza. E però quella barbarie produceva una vita meno lontana dalla natura, e meno infelice, più attiva ec. di quella che produce l’incivilimento non medio ma eccessivo del nostro secolo. Del resto v. in questo proposito p.162. capoverso 1. Tra la barbarie e la civiltà eccessiva non è dubbio che quella non sia più conforme alla natura, e meno infelice, quando non per altro, per la minor conoscenza della sua infelicità. Del rimanente per lo stesso motivo della barbarie de’ bassi tempi, è opposta alla felicità e natura, la barbarie e ignoranza degli Asiatici generalmente, barbareschi Affricani, Maomettani, persiani antichi dopo Ciro, sibariti, ec. ec. Così proporzionatamente quella della Spagna e simili più moderne ed europee.).
Ma il detto effetto delle antiche religioni non poteva durare, se non quanto durasse la credenza della verità reale di esse religioni: vale a dire, quanto durasse quella tal misura e profondità d’ignoranza che permettesse di credere veramente [424]e stabilmente dette religioni, e gli errori e illusioni naturali che vi erano fondate. Prevalendo sempre più la ragione e il sapere, e scemando l’ignoranza parziale, quelle religioni più naturali e felici, ma perciò appunto più rozze, non potevano più esser credute, nè servire di fondamento a illusioni reali e stabili, alle azioni che ne derivano, e quindi alla felicità. Le nazioni pertanto disingannandosi appoco appoco, perdevano colle illusioni ogni vita. Bisognava richiamare quelle illusioni. Ma come, se restavano e non potevano più allontanarsi la ragione e il sapere che le avevano distrutte, e la ragione e il sapere erano padroni dell’uomo? (qui osservate gl’inutili sforzi di Cicerone nelle Filippiche, dove si studiava di richiamare le illusioni come illusioni, non più Letteratura italiana Einaudi 380
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia come verità, perchè tali non erano più credute; e com’egli non avendo altro fondamento di esse illusioni, cercava di persuadersi dell’immortalità dell’anima, e del premio delle buone azioni nell’altra vita; insomma proccurava di farsi nuovamente una ragione delle illusioni col mezzo di una tal qual religione, e v. gli altri pensieri). Bisognava dunque richiamare quelle illusioni col consentimento, anzi col mezzo della [425]stessa ragione e sapere. Dico col mezzo, perchè non c’era altro modo di richiamarle, se non tornare a giudicarle vere, e questo giudizio non poteva farlo se non la ragione e il sapere già stabilito. Ma come quella stessa ragione e sapere che le avevano distrutte, potevano permettere che risorgessero, anzi intro-durle di nuovo nell’anima? Sarebbe convenuto che la ragione rinegasse se stessa. (come conviene ora a qualunque filosofo vuol vivere). Non c’era altro mezzo se non che una nuova religione, ammessa e creduta per vera dalla ragione, e conforme ai lumi di quel tempo: la qual religione tornasse a far la base delle illusioni perdute: (altrimenti a che valeva nel nostro caso?) in maniera che queste ripigliassero l’aspetto stabile di verità agli occhi degli uomini. In somma bisognava che questa religione, nuova base delle illusioni naturali e necessarie, fosse il parto della ragione e del sapere. O parlando cristianamente, bisognava che una espressa rivelazione assicurasse la ragione, che quelle credenze ch’ella aveva ripudiate, erano vere.
Ecco dunque arrivata la necessità di una religione perfettamente ragionevole [426](cioè rivelata, perchè senza il fondamento della rivelazione, come può una perfetta ragione credere o tornare a credere quello che, umanamente parlando, è veramente falso?) o almeno perfettamente conforme a quella tal misura della ragione e sapere di quei tali tempi. Ed ecco il punto in cui comparve il Cristianesimo, cioè quel momento in cui l’eccessivo progresso della ragione e del sapere, negando tutto o dubitando di tutto (perchè tutto è veramente falso o dubbio senza la Letteratura italiana Einaudi 381
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia rivelazione), spegnendo tutte le illusioni o credenze primitive, gettava l’uomo nell’inazione, nell’indifferenza, nell’egoismo (e quindi nella malvagità); riduceva la vita affatto morta, e barbara di quella orrenda barbarie nella quale, in maggior grado però, siamo caduti in questi ultimi secoli: quel momento in cui la virtù, l’eroismo, l’amor patrio, l’amore scambievole ec. erano considerati per quei fantasmi che sono (umanamente parlando): quel momento in cui per conseguenza erano rotti tutti i legami sociali, e anche individuali, cioè dell’uomo con se stesso e con la vita: quel momento in cui non solo le illusioni primitive, ma anche quelle che si sviluppano naturalmente nell’uo-mo ridotto in società, (quali sono quasi tutte le illusioni sopraddette), erano pure estinte: [427]quel momento a cui forse si dee riferire il maggior progresso della setta scettica o Pirroniana. (V. Diog. Laerz. l.9. Luciano passim, e Sesto Empirico, i quali furono bensì sotto Aurelio, e Comodo, cioè dopo nato il Cristianesimo, ma non però divulgato, anzi bambino).
Con ciò si potrà spiegare perchè il Cristianesimo fosse rivelato in quel tempo, e non prima nè dopo: e per la pienezza de’ tempi famosa nel Vecchio Testamento si po-trà ingegnosamente e sodamente intendere quel punto in cui la ragione e il sapere divenuti affatto soverchianti e preponderanti, aveano incominciato una devastazione, e una rivoluzione micidiale nell’uomo, e una mortificazione generale dei popoli colti e degl’individui. In maniera che quello era il punto in cui (se esiste un Dio che curi le cose umane) una grande rivelazione del vero relativo al-l’uomo diveniva precisamente, e per la prima volta necessaria.
E il Cristianesimo fece certo un gran bene, e sostenne il mondo crollante, sovvenendo con una medicina composta della ragione, alla malattia mortale cagionata da essa ragione. Ma appunto perchè la medicina era composta di ragione, e perchè le origini del Cristianesimo furono quelle Letteratura italiana Einaudi 382
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia che ho spiegate, cioè il guasto fatto dalla ragione e la necessità di un rimedio ragionevole, perciò [428]quel rimedio era bensì l’unico applicabile a quei tempi, e giovò, ma relativamente al peggiore stato in cui si era, non a quello anteriore al male. Giacchè questo era necessariamente più naturale, e quindi più conducente alla felicità di quaggiù. E infatti la vita, sebben tornò ad esser vita, fu però molto minore, meno attiva, meno bella, meno varia, e precisamente più infelice, giacchè il Cristianesimo non aveva insegnato all’uomo che la vita è ragionevole, e ch’egli deve vivere, se non insegnandogli che deve indirizzar questa ad un’altra vita, rispetto alla quale solamente, è ragionevole questa vita: e che questa sarebbe necessariamente infelice.
Ma il detto effetto non fu colpa del Cristianesimo, ma delle cause che aveano, come si è detto, prodotta la necessità di questo rimedio; cause che presto o tardi doveano necessariamente emergere dall’andamento che avea preso la ragione (ossia dalla superiorità che aveva acquistata, e che dovea naturalmente crescere e portar gli uomini a quel punto) e dallo stato di società, a cui l’uomo era irrevocabilmente ridotto. Sicchè presto o tardi era indispensabile e certa la nascita del Cristianesimo, o di una
[429]Religione ammissibile dalla ragione, anzi prodotta in certo modo da essa, e molto più ragionevole delle antiche le quali non erano conformi nè adattabili se non ad un grado di ragione e di sapere molto minore. Quindi, posta la corruzione dell’uomo operata dalla ragione e dal sapere, l’uomo doveva necessariamente arrivare una volta, a quella poca felicità di vita, che il Cristianesimo stabilisce dogmaticamente, e anche produce attivamente, ma come seconda e necessaria, non come prima e libera cagione. Era dico indispensabile presto o tardi il Cristianesimo, posta la corruzione operata dalla ragione, e lo era 1. umanamente: perchè la ragione prima di arrivare a quell’estremo al quale è giunta oggidì, doveva natural-Letteratura italiana Einaudi 383
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia mente spaventarsi di se stessa; e vedendosi sparir dagli occhi la realtà delle cose, e quindi venirsi a distruggere la vita e il mondo, doveva considerar se stessa come assurda, e concludere che ci doveva esser qualche verità ignota la quale dasse alle cose quella realtà ch’essa non poteva più scoprire nè ammettere. Quindi anche da se stessa
[430]dovea rifugiarsi nel seno di una religione astratta e metafisica, adattata alla sua natura speculativa; di una religione misteriosa, e perciò appunto ragionevole, perchè la realtà delle cose di cui la ragione non poteva persuadersi chiaramente nè particolarmente colle sue forze, veniva stabilita dall’opinione verisimile, e creduta vera, di un Dio infallibile, e rivelatore di arcani, conducenti a stabilire in genere la detta realtà. Così che la ragione sopra un fondamento oscuro, ma creduto vero, veniva a creder quelle cose, che dall’una parte non poteva credere sopra un fondamento chiaro e dettagliato; dall’altra parte le sembrava ancora assurdo il negare, a dispetto della natura e del sentimento intimo che le asseriva. Sicchè la ragione anche da se, nel suo corso naturale, prima di distrugger tutto, doveva necessariamente immaginare, e persuadersi di una religion rivelata. 2. molto più divinamente.
Perchè supposto un Dio, e che questi abbia cura delle sue creature, quando per non veder perire [431]il primo degli enti terrestri, e distruggersi immancabilmente la sua vita quaggiù, o ridursi all’ultima infelicità, non rimase altro mezzo che la credenza di una rivelazione, era troppo conveniente alla sua misericordia l’adoperarlo, e perchè questa credenza fosse stabile e certa, fare che fosse vera, cioè rivelar da vero.
Del resto sebbene io dico che la civiltà media è il migliore stato dell’uomo corrotto e sociale, e che il Cristianesimo lo mette nè più nè meno in questo stato, ciò non contraddice a quello ch’io soggiungo, che l’uomo era più felice prima che dopo il Cristianesimo. Perchè questo stato di civiltà media può avere diversi gradi, cioè contener più Letteratura italiana Einaudi 384
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia o meno di natura, o di ragione; di credenze naturali o non naturali; e quindi essere più o meno felice. Ma oggidì non essendo più possibile tornare allo stato di civiltà antica, pel maggiore incremento della ragione, sostengo che il più felice possibile in questa vita, è lo stato di vero e puro Cristianesimo. V. poi gli altri miei pensieri circa gli effetti del Cristianesimo (o delle cause che lo produsse-ro) [432]sulla società, sulla qualità e sulla felicità di questa vita.
Del resto osservate che il Cristianesimo limita estremamente l’esercizio della ragione, di quella facoltà distruttrice della vita; di quella facoltà che l’aveva reso necessario; di quella al cui guasto egli è venuto a riparare; di quella che in certo modo l’invocò e lo produsse. Perchè, tranne alcune proposizioni generali fondamentali, che hanno bisogno della ragione per esser giudicate e credute, vale a dire, l’esistenza, la provvidenza, la manifesta-zione, e l’infallibilità di un Dio, tutte le altre proposizioni particolari che la religione insegna, sono indipendenti dall’esame e dall’intervento della ragione. E sebben questa, credendole, e regolando con esse le azioni e la vita, opera ragionevolmente e conseguentemente, in vista di quelle proposizioni generali, contuttociò, l’uso e l’esercizio suo resta scarsissimo nella vita cristiana, limitandosi al solo fondamento, e al solo generale, il quale esclude essenzialmente ogni operazion della ragione in tutti i particolari, che sono il [433]più, e che formano e regolano la vita. Anche per questo capo il Cristianesimo conduce l’uo-mo alla civiltà media, ingiungendo l’inazione e l’acciecamento della ragione nella vita, sebbene essa ragione sia la fonte di questa inazione ec. dipendente dalla persuasione attiva ch’ella ha, delle proposizioni fondamentali.
(18. Dic. 1820.)
Letteratura italiana Einaudi 385
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Alla p.398. Di più, soggiunse Iddio: nunc ergo ne forte mittat manum suam, et sumat etiam de ligno vitae, et comedat, et vivat in aeternum. (Gen. 3.22.) Dunque il ragionamento è chiaro. S’egli mangerà del frutto dell’albero di vita, vivrà realmente in eterno: dunque avendo colto e mangiato dell’albero della scienza, aveva realmente acquistato essa scienza. E Dio non gliel’aveva tolta, perchè nello stesso modo gli poteva togliere l’immortalità, se avesse mangiato dell’albero della vita. Ora egli tanto non giudicava di togliergli quest’immortalità, nel caso che ne avesse mangiato, che anzi perchè non ne mangiasse (non per il peccato, ma per questo espresso motivo, secondo la chiarissima narrazione della Genesi) lo cacciò dal paradiso, dov’era quell’albero di vita. Et emisit eum (segue immediatamente [434]la Gen.) Dominus Deus de paradiso voluptatis… et collocavit ante paradisum voluptatis Cherubim, et flammeum gladium atque versatilem, AD
CUSTODIENDAM VIAM LIGNI VITAE. (23.24.) Vengano adesso i teologi, e mi dicano che la corruzione dell’uomo consistè nella ribellione della carne allo spirito, e nella superiorità acquistata da quella, ossia nell’assoggettamento della parte ragionevole e intellettiva. Ovvero che questo fu il proprio effetto della corruzione e del peccato. È vero, e dico anch’io, che allora incominciò quella nemicizia della ragione e della natura ch’io sempre predico, nemicizia che non ha luogo negli altri viventi, provveduti per altro di raziocinio, e del principio di cognizione. Ma questa nemicizia, questo squilibrio, questo contrasto di due qualità divenute allora incompatibili, provenne e consistè nell’incremento e preponderanza acquistata dalla ragione; e la degradazione dell’uomo non fu quella della ragione nè della cognizione, nè l’offuscazione dell’intelletto. Anzi dopo il peccato, e mediante il peccato l’uomo ebbe l’intelletto rischiaratissimo, acquistò la scienza del bene e del male, e divenne effettivamente per questa, quasi unus ex nobis, Letteratura italiana Einaudi 386
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia disse Iddio. [435]Tutto ciò lo dice la Scrittura a lettere cubitali. Allora insomma la ragione dell’uomo cominciò a contraddire alle sue 1. inclinazioni, 2. credenze primitive, cosa che per l’avanti non aveva fatto; e questa fu una ribellione della ragione alla natura, o dello spirito al corpo, non della natura alla ragione nè del corpo allo spirito.
Osservate che il mio sistema è l’unico che possa dare alla narrazion della Genesi, una spiegazione quanto nuova, tanto letterale, facile, spontanea, anzi tale che non può esser diversa, senza o far forza al testo, o considerarlo come assurdo. E infatti secondo i teologi i quali considerano l’incremento della ragione e sapere come un bene assoluto per l’uomo, e la parte ragionevole come primaria in lui assolutamente ed essenzialmente (non accidentalmente, cioè posta la corruzione); secondo i teologi dico, il senso chiarissimo della Genesi, resta assurdissimo, giacchè pone l’incremento della ragione e l’acquisto della scienza come effetto preciso e diretto del peccato.
Laddove il mio sistema che pone la perfezion vera ed essenziale dell’uomo, nel suo stato primitivo, cioè in
[436]quello stato in cui fu creato, ed uscì immediatamente dalle mani di Dio, e la sua corruzione nella preponderanza della ragione e del sapere, trova il senso letterale e incontrovertibile della Genesi, profondissimo, e conforme alla più sublime ed ultima filosofia.
(19. Dic. 1820.)
Nella Genesi non si trova nulla in favore della pretesa scienza infusa in Adamo, eccetto quello che appartiene ad un certo linguaggio, come ho detto p.394. fine. Dio, dice la Genesi, adduxit ea (gli animali) ad Adam, ut videret quid vocaret ea: omne enim quod vocavit Adam animae viventis, (che forse è quanto dire: omnis enim anima vivens, quam vocavit Adam, cioè omne animal vivens) ipsum est nomen eius. Appellavitque Adam nominibus suis cuncta Letteratura italiana Einaudi 387
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia animantia, et universa volatilia caeli, et omnes bestias terrae. (Gen. 2.19. et 20.) Questo non suppone mica una storia naturale infusa in Adamo, nè la scienza di quelle qualità degli animali che non si conoscono senza studio, ma solamente di quelle che appariscono a prima giunta agli occhi, all’orecchio ec.: qualità dalle quali ordinariamente son derivati i nomi di tutti gli oggetti sensibili
[437]nei primordi di qualunque lingua; quei nomi dico e quelle parole che formano le radici degl’idiomi.
Del resto sostengo anch’io, anzi fa parte essenziale del mio sistema la proposizione che Adamo ebbe una scienza infusa: ma in questo modo. Ogni essere capace di scelta, anzi tale che non si può determinare all’azione (neppure a quella necessaria per conservarsi, eccetto le azioni che chiamano hominis, se ce ne ha veramente) e per conseguenza non può vivere, senza un atto elettivo e definito della sua volontà, ha bisogno di credenze, cioè deve credere che le cose siano buone o cattive, e che quella tal cosa sia buona o cattiva, altrimenti la sua volontà non avrà motivo per determinarsi ad abbracciarla o fuggirla, per decidersi a fare o non fare, all’affermativo o al negativo. E l’uomo e l’animale in questa indifferenza diverrebbe necessariamente come quell’asino delle scuole, di cui vedi p.381. Le piante e i sassi che non si muovono da se, nè dipendono da se nell’azione e nella vita, non hanno bisogno di credenze, ma l’animale che dipende da se nell’azione e nella vita, ha bisogno di credere, giacchè non c’è altro motivo [438]nè mobile, nè altra forza, (eccetto l’estrinseche) che lo possa determinare, e definirne la scelta. Qualunque essere non è macchina, ha bisogno di credenze per vivere. Dunque anche gli animali, se non sono purissime macchine: dunque hanno anch’essi il principio di ragionamento, senza cui non v’è credenza, perchè il credere non è altro che tirare una conseguenza.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Ma io dico credenze, non cognizioni. L’oggetto della cognizione è la verità; l’oggetto della credenza è una proposizione credibile, e dico credibile relativamente in tutto e per tutto alle qualità generali o individuali, essenziali o accidentali dell’essere che crede, perchè una cosa può esser credibile a una specie o genere, e non ad un’altra; a un individuo di quella specie o genere, e non ad un altro; a questo medesimo individuo oggi, e non domani.
La verità dunque non entra in questo discorso, ma solo bisogna sapere quali determinazioni a credere siano atte a produrre una determinazione ad operare, vantaggiosa (e questo veramente) all’essere pensante e vivente; e perciò quali determinazioni a credere, o sia quali credenze, sieno atte a produrre la sua felicità.
Io dunque dico che queste credenze determinanti l’uo-mo bene (cioè non altro che convenientemente alla sua propria e particolare essenza), e perciò conducenti
[439]alla felicità, sono (come negli altri animali) le credenze ingenite, primitive, e naturali.
In questo modo io sostengo che Adamo ebbe non una scienza propriamente, ma delle credenze infuse: non la cognizione del vero, indifferente per lui, ma delle opinioni credute veramente vere da lui, opinioni di credere il vero (senza di che non v’è credenza), e opinioni veramente convenienti alla sua natura, e alla sua felicità, e quindi conducenti alla perfezione. E Adamo ne dovette avere necessariamente, come gli altri animali, perchè senza credenze non c’è vita per quegli esseri che dipendono nell’operare dalla determinazione della propria volontà, come ho dimostrato.
Queste credenze ingenite, primitive e naturali, non sono altro se non quello che si chiama istinto, idee innate ec.
Gli animali ne hanno: non si contrasta: ma non perciò non son liberi: se non fossero liberi sarebbono macchine pure: l’istinto non è altro che quello che ho detto, cioè Letteratura italiana Einaudi 389
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia credenze ingenite. Queste non tolgono la libertà, perchè non fanno altro che determinare la volontà, e non già forzare macchinalmente gli organi: nello stesso modo
[440]che una credenza qualunque, o ingenita o acquistata, non toglie la libertà o la scelta all’uomo. Che il ragionamento necessario per iscegliere sia determinato da principii naturali ed innati, o da principii acquistati colla cognizione, da principii veri, o da principii falsi ma cre-duti naturalmente veri; questo è indifferente alla libertà, com’è indifferente alla felicità relativa che ne dipende, il vero o il falso assoluto. E il ragionamento della scelta, è ragionamento nello stessissimo modo, da qualunque principio parta. Sicchè i bruti hanno istinto e insieme libertà piena. L’uomo dunque che aveva libertà piena, aveva ancora ed ha tuttavia istinto. Considerate l’uomo naturale, il fanciullo ec. e vedrete quante sieno le sue azioni determinate da principii ingeniti, sieno principii di sola credenza, sieno anche di vera cognizione delle cose come sono. P.e. il bambino, applicategli le labbra alla mam-mella, ne succhia il latte senza maestro. Ma è cosa già osservata, e quanto naturale ad accadere, tanto perciò appunto difficile ad esser notata dai più, e tuttavia degnissima d’esser sempre meglio osservata, che la forza dell’istinto, scema in proporzione che crescono le altre forze determinatrici dell’uomo, cioè la ragione e la cognizione; e così [441]in proporzione che l’uomo si allontana dalla natura, per la società, l’alterazione o sostituzione di altri mezzi a quelli che la natura ci aveva dato per gli stessi fini ec. ec. E come l’uomo perde la felicità naturale, così pure, anzi precedentemente, perde la forza attuale dell’istinto, e dei mezzi ingeniti di ottener questa felicità.
Perciò è un vero acciecamento il dire che il bruto ha dalla natura tutta quella istruzione che gli bisogna per esistere: l’uomo no: e dedurne ch’egli dunque ha bisogno di am-maestramento, di società ec. insomma ch’egli esce imperfetto dalle mani della natura, e conviene che si perfezioni Letteratura italiana Einaudi 390
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia da se. Anche l’uomo aveva naturalmente tutto il necessario; se ora non sente più d’averlo, viene che l’ha perduto; ha perduto la perfezione volendosi perfezionare, e quindi alterandosi e guastandosi. Osserviamo l’uomo primitivo, il bambino, e proporzionatamente l’ignorante, e vedremo quanto essi o sappiano di quello che noi abbiamo scoperto; o credano di quello che noi non crediamo più, ma dovevamo credere, e avrebbe servito ai nostri bisogni veramente, ed era l’istrumento che ci conveniva, e che
[442]la natura ci avea posto in mano; e sebben falso in assoluto, era vero in relativo, e pienamente sufficiente al suo fine, cioè insomma, alla nostra esistenza perfetta secondo la nostra particolare essenza, e quindi alla nostra felicità.
Ma bisogna ben intendere che cosa siano queste credenze ingenite, o vero istinto, e idee innate. Idee precisamente innate non esistono in alcun vivente, e sono un sogno delle antiche scuole. La natura influisce sulle idee o credenze di qualunque animale, non ponendoci identicamente e immediatamente quelle tali idee e credenze, ma mediatamente, cioè disponendo l’animale, e l’ordine delle cose relativo a lui, in tal maniera, che l’animale si determini naturalmente a credere questo e non quello.
Così che la credenza non è neppur essa determinata primitivamente, non più della volontà, ma deve anch’essa determinarsi prima di determinare la volontà. Ma come le azioni o determinazioni della volontà sono naturali quando vengono da credenze naturali, così le credenze o determinazioni dell’intelletto sono naturali, quando sono conformi al modo in cui la natura avea disposto e provveduto che l’intelletto si determinasse; cioè ai mezzi di credenza che [443]la natura ci ha dati, come nelle credenze ci ha dato i mezzi di azione.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Tutti i moderni ideologi hanno stabilito che le idee o credenze, le più primitive, le più necessarie all’azione la più vitale, e quindi tutte le idee o credenze moventi del bambino appena nato, (e così d’ogni altro animale): tutte le idee o credenze determinanti o non determinanti, cioè relative o no all’azione, non vengono altro che dall’esperienza, e quindi non sono se non tante conseguenze tirate col mezzo di un raziocinio e di un’operazione sillogistica, da una maggiore ec. (E qui osservate la necessità del raziocinio ne’ bruti.)
Questa esperienza che deve necessariamente formare la base o come chiamano, le antecedenti del sillogismo, senza il qual sillogismo non v’è idea nè credenza, può esser di due sorte. L’una è quella che deriva dalle inclinazioni naturali, passioni affetti ec. tutte cose veramente ingenite, e assolutamente primitive, sebbene molte di esse possano svilupparsi più o meno, o nulla; possono alterarsi, corrompersi ec. L’uomo che sente fame (quest’è un’esperienza) e si sente portato dalla natura al cibo (questa non è idea, ma inclinazione), ne deduce che bisogna cibarsi, che il cibo è cosa buona. Ecco la conseguenza, cioè la [444]credenza. Dunque si determina e risolve a cibarsi. Ecco la determinazione della volontà prodotta dalla previa determinazione dell’intelletto, ossia dalla credenza. Segue il cibarsi, cioè l’azione, che deriva dalla volontà determinata in quel modo.
L’altro genere di esperienza, è quello che appartiene ai sensi esterni. E l’uno e l’altro genere di esperienza sono i soli fonti della cognizione in atto (non in potenza); i soli fonti o del credere o del sapere. Qual conseguenza poi si debba tirare da una data esperienza, questo è ciò ch’è relativo, perchè l’uomo naturale, ne tira una; l’uomo sociale, istruito ec. un’altra; quell’animale di diversa specie, un’altra: e via discorrendo. E così son relative e si diversificano le credenze.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Sicchè la credenza è naturale, quando l’animale tira da quella esperienza, quella conseguenza che la natura ha provveduto che ne tirasse, e viceversa. E quindi l’azione che ne deriva è naturale, quando proviene da una credenza naturale, ossia da una conseguenza tirata naturalmente, e viceversa. E quindi la vita è naturale quando le azioni derivano da credenze naturali, e viceversa. E quindi finalmente l’uomo è perfetto e felice come ogni altro vivente, quando la sua vita si compone di azioni naturali, e viceversa.
[445]Non sono dunque precisamente innate nè le idee nè le credenze, ma è innata nell’uomo la disposizione a determinarsi dietro quella tale esperienza, inclinazione ec. a quella tal credenza o giudizio. E in questo senso io nomino le idee innate e l’istinto. E così appunto avviene nei bruti, i quali non hanno altre idee innate che in questo senso, e tuttavia generalmente parlando, tutti gli animali della stessa specie, hanno le stesse credenze cioè si determinano a credere nello stesso modo; e operando giusta tali credenze, sono tutti perfetti e felici relativamente alla loro essenza. Tali credenze pertanto sono effettivamente naturali, e figlie legittime della natura, sebbene non partono immediatamente dalla sua mano. Ma quod est caussa caussae, est etiam caussa caussati. Nello stesso modo che le azioni conformi a dette credenze, sono naturali, sebbene eseguite immediatamente dall’individuo, e non dalla natura: sebben libere, e non forzate; come non sono forzate le azioni che derivano da credenze religiose, filosofiche ec. le quali tuttavia, senza esser forzate, si chiamano e sono azioni religiose, filosofiche ec.
[446]L’uomo si allontana dalla natura, e quindi dalla felicità, quando a forza di esperienze di ogni genere, ch’egli non doveva fare, e che la natura aveva provveduto che non facesse (perchè s’è mille volte osservato ch’ella si nasconde al possibile, e oppone milioni di ostacoli alla Letteratura italiana Einaudi 393
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia cognizione della realtà); a forza di combinazioni, di tradizioni, di conversazione scambievole ec. la sua ragione comincia ad acquistare altri dati, comincia a confrontare, e finalmente a dedurre altre conseguenze sia dai dati naturali, sia da quelli che non doveva avere. E così alterandosi le credenze, o ch’elle arrivino al vero, o che diano in errori non più naturali, si altera lo stato naturale dell’uo-mo; le sue azioni non venendo più da credenze naturali non sono più naturali; egli non ubbidisce più alle sue primitive inclinazioni, perchè non giudica più di doverlo fare, nè più ne cava la conseguenza naturale ec. E per tal modo l’uomo alterato, cioè divenuto imperfetto relativamente alla sua propria natura, diviene infelice. (L’uomo può essere anche infelice accidentalmente per forze esterne, che gl’impediscano di conformar le azioni alle credenze, cioè di far quello ch’egli giudica buono per lui, o non far quello ch’egli giudica e crede [447]cattivo. Tali forze sono le malattie, le violenze fattegli da altri individui, o da altre specie, o dagli elementi ec. ec. ec. Quest’infelicità non entra nel nostro discorso. Essa è appresso a poco l’infelicità antica.)
Da queste osservazioni deducete che propriamente la nemica della natura non è la ragione, ma la scienza e cognizione, ossia l’esperienza che n’è la madre. Perchè anche le operazioni e tutta la vita dell’uomo naturale, e degli altri viventi, è perfettamente ragionevole, giacchè deriva da credenze tirate in forma di conseguenza, per via di sillogismo, da quei tali dati. L’esperienza, crescendo oltre il dovere, cambia, altera, moltiplica soverchiamente le basi di questi sillogismi produttori delle credenze, e quindi alterando dette conseguenze o credenze, fa che non sia più ragionevole il determinarsi a credere quelle tali cose naturalmente credibili, e quindi a fare o fuggire quelle tali cose naturalmente da farsi o da fuggirsi. Ma la ragione assolutamente in se stessa, è innocente; ed ha la sua intera azione anche [448]nello stato naturale; vale a Letteratura italiana Einaudi 394
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia dire, anche nello stato naturale l’uomo (e così nè più nè meno il bruto) è conseguente, e si determina a credere quello che gli par vero, per via di perfetto raziocinio; e si determina ad abbracciare o fuggire quello che crede veramente buono o cattivo per lui, rispetto alla sua natura generale e individuale, e alle sue circostanze di quel tal momento in cui si determina.
Del resto, come l’indifferenza assoluta, ossia la mancanza di ogni determinazione dell’intelletto, cioè di ogni credenza, sarebbe mortifera per l’animale libero, e dipendente dalla sua propria determinazione; così anche appresso a poco il dubbio, ch’è quasi tutt’uno col detto stato. Così anche sarà cattiva e dannosa la difficoltà o lentezza al determinarsi (riferite a questo capo l’angoscia e il tormento dell’irresoluzione): e quindi lo stato dell’uomo sarà tanto più felice, quanto egli avrà maggior facilità e prontezza a determinarsi a credere (dal che poi segue l’operare); cioè a tirare una conseguenza da un tal dato; e con quanto maggior forza, ossia certezza, egli si determinerà al credere. (s’intende già che la credenza sia buona per lui, perchè la supposizione contraria [449]è fuor del caso). Ora è cosa dimostrata dalla continua esperienza, che l’uomo si determina al credere, tanto più facilmente, prontamente, e certamente, quanto più è vicino allo stato naturale, come appunto accade negli animali, che non hanno nè difficoltà nè lentezza nè dubbio intorno alle loro idee o credenze, innate nel senso detto di sopra. E
così il fanciullo, l’ignorante, ec. E per lo contrario, quanto più si è lontani dallo stato naturale, cioè quanto più si sa, tanto maggior difficoltà e lentezza si prova alla determinazione dell’intelletto, e tanto minor forza, ossia certezza, ha questa determinazione o credenza. Così che la certezza degli uomini nel credere (e quindi la determinazione e forza nell’operare, ch’è in ragion diretta colla certezza del credere) è in ragione inversa del loro sapere.
Hoc unum scio, me nihil scire: famoso detto di quell’anti-Letteratura italiana Einaudi 395
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia co sapiente. E questa è la conclusione, la sostanza, il ristretto, la sommità, la meta, la perfezione della sapienza.
Laddove il fanciullo e l’ignorante, si può dire che crede di non ignorar nulla: e se non altro, crede di saper di certo tutto quello che crede. E questa è la sommità dell’ignoranza. (Onde credendo quello ch’è conforme alla natura, e credendolo in questo modo, ne viene a esser felice e
[450]perfetto.) In maniera che, dove alla determinazione dell’uomo, non è necessario, anzi non può servir altro che la credenza; la cognizione la quale si vuol che sola sia capace a determinarlo, viene a esser nemica della credenza, e però della determinazione. E in vece che l’ignoranza, tal qual è in natura, (non l’assoluta, cioè la negazione di ogni credenza, o determinazione dell’intelletto, che in natura non si dà) conduca l’uomo o l’animale all’indifferenza, come pretendono; ve lo conduce anzi il sapere (e l’eterna esperienza lo prova). E l’uomo tanto meno, tanto più difficilmente, lentamente, e dubbiamente si determina, quanto più sa. Tanto minore è la determinazione, quanto maggiore è il sapere. E tanto è lungi che la credenza sia incompatibile coll’ignoranza, che per lo contrario è molto più compatibile coll’ignoranza che col sapere.
Se poi ancora dubitaste di quello ch’io dico, cioè che in Adamo fu primitivamente infusa la credenza come negli altri animali, e non la scienza propria; basta che osservia-te quello che dice la Scrittura, che dopo il peccato egli acquistò la scienza del bene e del male. La scienza del bene e del male, non è altro che la cognizione assoluta,
[451]la credenza vera non più relativamente ma assolutamente, la cognizione delle cose come sono, cioè buone o cattive, non relativamente all’uomo, ma indipendentemente e assolutamente; la cognizione della realtà, della verità assoluta che per se stessa è indifferente all’uomo, e nociva quando il conoscerla è contrario alla natura del conoscente. Se dunque Adamo l’acquistò dopo il pecca-Letteratura italiana Einaudi 396
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia to, non l’aveva per l’avanti. In fatti la Scrittura dice espressamente che non l’aveva, e il serpente persuase alla donna di peccare per acquistarla. Questo è un argomento vittorioso, ultimo, e decisivo. Come poteva essere infusa primitivamente la scienza in Adamo, se dopo e mediante il peccato egli acquistò la scienza del bene e del male? E
qual fosse l’effetto di questa precisa scienza, vedilo p.446-447.
(22. Dic. 1820.)
È cosa mille volte osservata che gl’individui naturalmente son portati a misurar gli altri individui da se stessi, cioè a creder vero assolutamente quello ch’è vero soltanto relativamente a loro. Anzi naturalmente, l’individuo appena può concepire formalmente un altro individuo di diverso carattere, indole, pensare, fare ec. Al più concepirà che questo sia, perchè lo vede, ma non il come sia, non la espressa e definita costituzione di quell’individuo, diversa dalla sua. Neanche nelle menome e accidentali differenze, e quotidiane e usuali. Se dunque gl’individui, quanto più naturalmente le specie e i generi, rispetto alle altre specie e generi! se dunque le specie e i generi di uno stess’ordine di cose, quanto più tutto quest’ordine di cose complessivamente, rispetto a un altr’ordine, o esistente o possibile! [452]Ella è cosa certa e incontrastabile. La verità, che una cosa sia buona, che un’altra sia cattiva, vale a dire il bene e il male, si credono naturalmente assoluti, e non sono altro che relativi. Quest’è una fonte immensa di errori e volgari e filosofici. Quest’è un’osservazione vastissima che distrugge infiniti sistemi filosofici ec.; e appiana e toglie infinite contraddizioni e difficoltà nella gran considerazione delle cose, massimamente generale, e appartenente ai loro rapporti. Non v’è quasi altra verità assoluta se non che Tutto è relativo. Questa dev’esser la base di tutta la metafisica.
(22. Dic. 1820.)
Letteratura italiana Einaudi 397
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia In proposito della pretesa legge naturale, come in natura non esista idea nè legge di contratto, e come non ci possa assolutamente esser contratto obbligatorio in natura, ancorchè fatto realmente, e con tutta la possibile perfezione, vedilo nell’Essai sur l’indifférence en matière de Religion, una ventina di pagg. dopo il principio del Capo X.
(22. Dic. 1820.)
Tanto è vero che lo straordinario è fonte di [453]grazia, che gli uomini malvagi, purchè la loro malvagità abbia un carattere deciso, aperto, franco, coraggioso, sia una malvagità schietta forte e costante, non timida, indecisa, nascosta, variabile ec. come quella di tutti: questi tali fanno per lo più fortuna colle donne a preferenza dei buoni.
Non già solamente perchè i malvagi sono più furbi dei buoni, ma propriamente per questo che sono malvagi, e perchè quel non so che di coraggioso, di fiero ec. insomma di straordinario che ha quella tale malvagità, picca e piace, e rende amabile. Così che lo stesso odioso diventa amabile, perciò appunto ch’essendo decisamente odioso, viene a essere straordinario.
(22. Dic. 1820.)
Clarissimum deinde omnium ludicrum certamen, et ad excitandam (alii legunt exercitandum, sed non probatur) corporis animique virtutem efficacissimum, Olympiorum, initium habuit. Velleius hist. rom. l.1. c.8.
(22 Dic. 1820.)
Quale idea avessero gli antichi della felicità (e quindi dell’infelicità) dell’uomo in questa vita, della sua gloria, delle sue imprese; e come tutto ciò paresse loro solido e reale, [454]si può arguire anche da questo, che delle grandi felicità ed imprese umane, ne credevano invidiosi gli Letteratura italiana Einaudi 398
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia stessi Dei, e temevano perciò l’invidia loro, ed era lor cura in tali casi deprecari la divina invidia, in maniera che stimavano anche fortuna, e (se ben mi ricordo) si proccuravano espressamente qualche leggero male, per dare soddisfazione agli Dei, e mitigare l’invidia loro. Deos immortales precatus est, ut, si quis eorum invideret OPERIBUS ac fortunae suae, in ipsum potius saevirent, quam in remp. Velleio l.1. c.10. di Paolo Emilio. E così avvenne essendogli morti due figli, l’uno 4 giorni avanti il suo trionfo, e l’altro 3 giorni dopo esso trionfo. E v. quivi le note Variorum. V. pure Dionigi Alicarnasseo l.12 c.20.
e 23. ediz. di Milano, e la nota del Mai al c.20. V. ancora questi pensieri p.197. fine. Così importanti stimavano gli antichi le cose nostre, che non davano ai desideri divini, o alle divine operazioni altri fini che i nostri, mettevano i Dei in comunione della nostra vita e de’ nostri beni, e quindi gli stimavano gelosi delle nostre felicità ed imprese, come i nostri simili, [455]non dubitando ch’elle non fossero degne della invidia degl’immortali.
(23. Dic. 1820.). V. p.494. capoverso 1.
Come in quei popoli che non conoscono o non pregia-no oro nè argento, il più ricco de’ nostri, profondendo danaio, non sarebbe in onore, anzi se non avesse altro mezzo per esser pregiato, sarebbe posposto all’infimo di quella gente, e per danari non otterrebbe neanche il necessario; così dove l’ingegno o lo spirito non è in pregio, o non si sa valutare, l’uomo il più ingegnoso, il più spiri-toso, il più grande, se non avrà altre doti, sarà dispregiato, e posposto agli ultimi. Così s’egli avrà un certo ingegno o un certo spirito, che in quel paese non si pregi. Così relativamente ai tempi. In ciascun luogo e in ciascun tempo, bisogna spendere la moneta corrente. Chi non è provveduto di questa, è povero, per molto ch’egli sia ricco d’altra moneta.
(23. Dic. 1820.).
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Tityrus et segetes, Aeneiaque arma legentur Roma triumphati dum caput orbis erit.
Ovid. Amorum l.1.
Fortunati ambo! si quid mea carmina possunt, Nulla dies umquam memori vos eximet aevo:
[456] Dum domus Aeneae Capitoli immobile saxum Adcolet, imperiumque pater Romanus habebit.
Virg. Aen. IX. 446.
sque ego postera
Crescam laude recens, dum Capitolium
Scandet cum tacita virgine pontifex.
Hor. Carm. III. od.30. v.7.
Roma non è più la Regina del mondo, nè il padre Romano tiene le redini dell’imperio, nè il pontefice ascende più al Campidoglio colla Vestale, e questo da lunghissimo tempo; e tuttavia si leggono ancora i versi di Virgilio, e Niso ed Eurialo non son caduti dalla memoria degli uomini, e dura la fama di Orazio. La fortuna giuoca nel mondo, e certo questi poeti non s’immaginavano che il tempo dovesse penar più a distruggere i versi loro, che l’immenso e saldissimo imperio Romano, opera di tanti secoli. Ma quelle carte sono sopravvissute a quella gran mole, per mero giuoco della fortuna la quale ha distrutte infinite altre opere degli antichi ingegni, e conservate queste oltre allo spazio segnato dalla stessa speranza, dallo stesso amor proprio, dalla stessa forza immaginativa de’ loro autori.
(23. Dic. 1820.)
[457]Quanto sia vero che l’amore universale distruggendo l’amor patrio non gli sostituisce verun’altra passione attiva, e che quanto più l’amor di corpo guadagna Letteratura italiana Einaudi 400
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia in estensione, tanto perde in intensità ed efficacia, si può considerare anche da questo, che i primi sintomi della malattia mortale che distrusse la libertà e quindi la grandezza di Roma, furono contemporanei alla cittadinanza data all’Italia dopo la guerra sociale, e alla gran diffusione delle colonie spedite per la prima volta fuori d’Italia per legge di Gracco o di Druso, 30 anni circa dopo l’affare di C. Gracco, e 40 circa dopo quello di Tiberio Gracco, del quale dice Velleio, (II. 3.) Hoc initium in urbe Roma civilis sanguinis, gladiorumque impunitatis fuit. col resto, dove viene a considerarlo come il principio del guasto e della decadenza di Roma. Vedilo l.2. c.2. c.6. c.8. init. et c.15. et l.1. c.15. fine. colle note Varior. Le quali colonie portando con se la cittadinanza Romana, diffondevano Roma per tutta l’Italia, e poi per tutto l’impero. V. in particolare Montesquieu, Grandeur etc. ch.9. p.99-101. e quivi le note. Ainsi Rome n’étoit pas proprement une Monarchie [458] ou une République, mais la tête d’un corps formé par tous les peuples du monde… Les peuples… ne faisoient un corps que par une obéissance commune; et sans être compatriotes, ils étoient tous Romains. (ch.6. fin. p.80.
dove però egli parla sotto un altro rapporto.) Quando tutto il mondo fu cittadino Romano, Roma non ebbe più cittadini; e quando cittadino Romano fu lo stesso che Cosmopolita, non si amò nè Roma nè il mondo: l’amor patrio di Roma divenuto cosmopolita, divenne indifferente, inattivo e nullo: e quando Roma fu lo stesso che il mondo, non fu più patria di nessuno, e i cittadini Romani, avendo per patria il mondo, non ebbero nessuna patria, e lo mostrarono col fatto.
(24. Dic. 1820.)
Quanta parte abbia nell’uomo il timore più della speranza si deduce anche da questo, che la stessa speranza è madre di timore, tanto che gli animi meno inclinati a temere, e più forti, sono resi timidi dalla speranza, massime Letteratura italiana Einaudi 401
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia s’ella è notabile. E l’uomo non può quasi sperare senza temere, e tanto più quanto la speranza è maggiore. Chi spera teme, e il disperato non teme nulla. Ma viceversa la speranza non [459]deriva dal timore, benchè chi teme speri sempre che il soggetto del suo timore non si verifi-chi.
(26. Dic. 1820.)
Osservate che la passione direttamente opposta al timore, è la speranza. E nondimeno ella non può sussistere senza produrre il suo contrario.
Le Filippiche di Cicerone, contengono l’ultima voce romana, sono l’ultimo monumento della libertà antica, le ultime carte dov’ella sia difesa e predicata apertamente e senza sospetto ai contemporanei. D’allora in poi la libertà non fu più l’oggetto di culto pubblico, nè delle lodi, e insinuazioni degli scrittori (non solo romani, ma quasi possiamo dire di qualunque nazione, se non de’ francesi ultimamente. E infatti colla libertà romana spirò per sempre la libertà delle nazioni civilizzate.) Quelli che vennero dopo, la celebrarono nel passato come un bene, la bia-simarono e detestarono nel presente come un male. I suoi fautori antichi furono esaltati nelle storie, nelle orazioni, nei versi, come Eroi: i moderni biasimati ed esecrati come traditori. Si alzarono statue e monumenti agli antichi liberali, si citarono, condannarono e proscrissero i moderni. L’elogio della libertà, per una strana contraddizione, fu permesso ne’ discorsi negli scritti e nelle azioni, fino ad un certo tempo. Passato quel termine, gli scrittori mutano linguaggio, e maledicono nei contemporanei, quello che hanno divinizzato, [460]e divinizzano allo stesso tempo, negli antenati. Tale è fra gli altri Velleio, grandissimo lodatore degli antichi fatti, libertà ec. esecratore degli antichi nemici della libertà, e de’ moderni amici; lodatore di Nasica ed Opimio uccisori di Tiberio e Caio Gracchi, (uomini per altro, secondo lui, egregi anzi som-Letteratura italiana Einaudi 402
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia mi, se non in quanto attentarono alla libertà) ed esecratore della congiura contro Cesare ec. Perchè appena egli arriva a costui, si cambia scena manifestamente e tutto a un tratto, e il suo linguaggio liberalissimo fino a quel punto, diviene abbiettissimo e servilissimo nel seguito. Ed è tanto improvvisa e sensibile questa mutazione, ch’egli è anche gran panegirista di Pompeo l’immediato antagonista di Cesare: e di Pompeo repubblicano, perchè lo biasima dovunque egli manca ai doveri verso una patria libera.
(27. Dic. 1820.). V. p.463. capov.1.
Quelle rare volte ch’io ho incontrato qualche piccola fortuna, o motivo di allegrezza, in luogo di mostrarla al di fuori, io mi dava naturalmente alla malinconia, quanto all’esterno, sebbene l’interno fosse contento. Ma quel contento placido e riposto, io temeva di turbarlo, alterarlo, guastarlo, e perderlo [461]col dargli vento. E dava il mio contento in custodia alla malinconia.
(27. Dic. 1820.)
Alla p.8. capoverso 1 e p.10. fine. Non solamente nelle azioni naturali, o manuali, insomma materiali, ma in tutte quante le cose umane, è necessario l’abbandono o la confidenza: e per lo contrario la diffidenza, o il troppo desiderio, premura, attenzione e studio di riuscire è cagione che non si riesca. Se tu non hai nulla da perdere ti diporterai franchissimamente nel mondo. E acquisterai facilmente il buon tratto e la stima, quando non avrai più stima da conservare: o in proporzione. E viceversa. Che se ti troverai in un luogo, occasione ec. dove ti prema assai di figurare, probabilmente sfigurerai. E se parlando con una persona, ne avrai guadagnata la stima ti costerà moltissimo il non perderla, quando ti sarai accorto di possederla, e ti premerà di conservarla. La qual cosa succede massimamente nell’amore, o anche nella galanteria, che cercando di conservare, si perde quella stima e quel-Letteratura italiana Einaudi 403
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia l’amore di una persona che si è guadagnato senza cercarlo. Così discorrete di cento altri generi di cose. La natura insomma è la sola potente, e l’arte non solo non l’aiuta, ma spesso la lega; e lasciando [462]fare si ottiene quello che non si può ottenere volendo fare. La noncuranza dell’esito, e la sicurezza di riuscire è il più sicuro mezzo di ottenerlo, come la troppa cura, e il troppo timore di non riuscire, è cagione del contrario. Nè si può nelle cose umane acquistar facilmente questa sicurezza, e schivar questo timore, senza una certa noncuranza, o senza esser preparato in alterutram partem. E perciò i disperati, o quelli che hanno tutto perduto, e niente da perdere nè da conservare, riescono meglio degli altri nella vita. Nè c’è un disperato così povero e impotente che non sia buono a qualche cosa nel mondo, da che è disperato. E questo è il motivo per cui naturalmente, e non a caso, audaces fortuna iuvat.
(28. Dic. 1820.).
Chiunque conosce intimamente il Tasso, se non riporrà lo scrittore o il poeta fra i sommi, porrà certo l’uomo fra i primi, e forse nel primo luogo del suo tempo.
Quanto a, preposizione italiana, usata anche in latino da Tacito, come ho detto in altro pensiero, deriva intieramente dal greco: ôson pròw, ôson m¢n pròw ec.
si dice nello stesso significato, e negli stessi casi.
[463]Alla p.460. Se non altro non si potè più nè lodare nè insinuare e inculcare la libertà ai contemporanei espressamente, e la libertà non fu più un nome pronunziabile con lode, riguardo al presente o al moderno. Quando anche non tutti si macchiassero della vile adulazione di Velleio, e Livio fosse considerato come Pompeiano nella sua storia, e sieno celeberrimi i sensi generosi di Tacito, ec. Ma neppur egli troverete che, sebbene condanna la Letteratura italiana Einaudi 404
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tirannia, lodi mai la libertà in persona propria. Dei poeti, come Virgilio, Orazio, Ovidio non discorro. Adulatori per lo più de’ tiranni presenti, sebben lodatori degli antichi repubblicani. Il più libero è Lucano.
(28. Dic. 1820.)
L’egoismo comune cagiona e necessita l’egoismo di ciascuno. Perchè quando nessuno fa per te, tu non puoi vivere se non t’adopri tutto per te solo. E quando gli altri ti tolgono quanto possono, e per li loro vantaggi non bada-no al danno tuo, se vuoi vivere, conviene che tu combatta per te, e contrasti agli altri tutto quello che puoi. Perchè di qualunque cosa tu voglia cedere, non devi aspettare nè gratitudine nè compenso, essendo abolito il commercio de’ sacrifizi e liberalità e benefizi scambievoli: anzi se tu cedi un passo gli altri ti cacciano indietro venti passi, ado-perandosi ciascuno per se con tutte le sue forze; onde bisogna che ciascuno [464]contrasti agli altri quanto può, e combatta per se fino all’ultimo, e con tutto il potere: essendo necessario che la reazione sia proporzionata al-l’azione, se ne deve seguire l’effetto, cioè se vuoi vivere. E
l’azione essendo eccessiva, dev’esserlo anche la reazione.
E quanto l’una è maggiore, tanto l’altra dee crescere necessariamente. Come in una truppa di fiere affollate intorno a una preda, dove ciascuna è risoluta di non lasciare alle altre se non quanto sarà costretta; quella fiera che o restasse inattiva, o cedesse alle altre, o aspettasse che queste pensassero a lei, o finalmente non adoperasse tutte le sue forze; o resterebbe a digiuno, o perderebbe tanto, quanto meno forza avesse adoperata, o potuto adoperare. Tutto quello che si cede è perduto, posto il sistema dell’egoismo universale. Anche per altra parte, questo egoismo cagiona l’egoismo individuale, cioè non solo per l’esempio, ma pel disinganno che cagiona in un uomo virtuoso, la trista esperienza della inutilità, anzi nocevolezza della virtù e de’ sacrifizi magnanimi: e per la Letteratura italiana Einaudi 405
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia misantropia che ispira il veder tutti occupati per se stessi, e non curanti del vostro vantaggio, non grati ai vostri benefizi, e pronti a danneggiarvi o beneficati o no. [465]La qual cosa cambia il carattere delle persone, e introduce non solo materialmente, ma radicalmente l’egoismo, anche negli animi più ben fatti. Anzi principalmente in questi, perchè l’egoismo non vi entra come passione bassa e vile, ma come alta e magnanima, cioè come passione di vendetta, e odio de’ malvagi e degl’ingrati. Si nocentem innocentemque idem exitus maneat, acrioris viri esse, merito perire: diceva Ottone Imp. appresso Tacito Hist. l.1.
c.21.
(2. Gen. 1821.). V. p.607. fine.
Velleio II. 76. sect.3. Adventus deinde in Italiam Antonii, praeparatusque (cioè apparatusque substantive) Caesaris contra eum, habuit belli metum: sed pax contra Brundisium composita. Che vuol dire contra Brundisium?
Gl’interpreti si storcono, e chi legge circa, chi difende la volgata. Leggete: sed pax contra Brundisii composita.
Contra è avverbio. Si temeva la guerra, ma all’incontro fu fatta la pace a Brindisi. V. però gl’istorici, e le edizioni di Velleio, posteriori a quella del Burmanno seconda e po-stuma, Lugd. Bat. 1744. ap. Sam. Luchtmans.
(2. Gen. 1821.). Post Brundisinam pacem. Vel. II. 86.
sect.3.
[466]Sopra ogni dolore d’ogni sventura si può riposare, fuorchè sopra il pentimento. Nel pentimento non c’è riposo nè pace, e perciò è la maggiore o la più acerba di tutte le disgrazie, come ho detto in altri pensieri.
(2. Gen. 1821.). V. p.476. capoverso 1.
È cosa notata e famosa presso gli antichi (non credo però gli antichissimi, ma più secoli dopo Senofonte) che Senofonte non premise nessun preambolo alla Kærou Letteratura italiana Einaudi 406
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia
�nab�sei, sebbene dal secondo libro in poi, premetta libro per libro, il Laerzio dice un proemio, ma veramente un epilogo o riassunto brevissimo delle cose dette prima.
Vedi il Laerz. in Xenoph. Luciano, de scribenda histor.
ec. E Luciano dice che molti per imitarlo non ponevano alcun proemio alle loro istorie. Ed aggiunge, oék eÞdñtew Éw dun�mei (potentiâ) tin� prooÛmi� ¤sti kelhϑñta toçw polloçw. Io qui non vedo maraviglia nessuna. Esaminate bene quell’opera: non è una storia, ma un Diario o Giornale (si può dire, e per la massima parte militare) di quella Spedizione. Infatti procede giorno per giorno, segnando le marce, contando le parasanghe ec. ec. infatti l’opera si chiude con una lista effettiva o somma dei giorni, spazi percorsi, nazioni ec. lista indipendente dal resto, per la sintassi. E di queste enumerazioni ne [467]sono sparse per tutta l’opera. Non doveva dunque avere un proemio, non essendo propriamente in forma d’opera, ma di Commentario o Memoriale, ossiano ricordi, e materiali. Chi si vuol far maraviglia di Senofonte, perchè non se la fa di Cesare? Il quale comincia i suoi Commentari de bello G. e C. ex abrupto, appunto come Senofonte. E
questo perchè non erano Storia ma commentari. Nè pone alcun preambolo a nessuno de’ libri in cui sono divisi.
Così Irzio. Eccetto una specie di avvertimento indirizza-to a Balbo e premesso al lib.8. de b. G. (il quale era necessario non per l’opera in se, ma per la circostanza, ch’egli n’era il continuatore) nè quel libro, nè quello de b.
Alexandrino, nè quello de b. Africano, nè quello d’autore incerto de b. Hispaniensi non hanno alcun preambolo, ed entrano subito in materia. Da queste osservazioni deducete 1. un’altra prova che Senofonte è il vero autore della K. A. non Temistogene ec. trattandosi di un giornale, che non poteva essere scritto o almeno abbozzato se non in praesentia, e dallo stesso Generale (come i commentarii di Cesare), o almeno da qualche suo intimo confidente.
Questa proprietà, di essere cioè scritta da un testimonio Letteratura italiana Einaudi 407
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia di [468]vista, anzi dal principale attore e centro degli avvenimenti non è comune a nessun’altra opera storica greca, che ci rimanga, anzi a nessun’antica, fuorchè ai commentarii di Cesare. Perciò ella è singolarmente pre-ziosa anche per questo capo, e propria più delle altre a darci la vera idea de’ costumi, pensieri, natura degli antichi, e de’ loro fatti; come le lettere di Cicerone in altro genere di scrittura, sono la più recondita e intima sorgente della storia di quei tempi. V. p.519. capoverso 2.
2. Che poco saggiamente Arriano volle scrivere l’Alej�ndrou �n�basin (in 7. libri perchè 7. son quelli di Senofonte) a imitazione della detta opera. Perch’egli non poteva scrivere, nè scrisse, nè intese o pensò di scrivere un giornale. Quindi le due opere sono essenzialmente di diverso genere, cioè l’una un diario, l’altra una storia.
Meno male Onesicrito, in quello che scrisse d’Alessandro a imitazione pure di Senofonte. Perch’egli fu compagno di Alessandro nella sua spedizione, come Senofonte di Ciro. V. il Laerz. l.6. in Onesicrito. Del resto, se la storia �EllhnikÇn di Senofonte non ha proemio, ciò viene perch’era destinata a continuare e far tutto un corpo con quella di Tucidide. Infatti gli antichi notando la mancanza del proemio nella K. A. non parlano di quest’altra.
[469]E v. le ultime parole tÇn EllhnikÇn e Dionigi Alicarnasseo nelle testimonianze de Xenophonte.
È osservabile che Senofonte in quest’altra opera riesce minor di se stesso, perchè si sforza d’imitar Tucidide, e ciò servilmente, volendo che il suo stile non si distinguesse da quello di Tucidide, e le due opere sembrassero tutt’una. E tanto peggio, quanto lo stile di Tucidide è quasi l’opposto di quello ch’era proprio di Senofonte. Infatti chi ha un poco di criterio, può facilmente notare nei libri tÇn EllhnikÇn. una brevità forzata, una differenza sensibile dallo stile delle altre opere Senofontee, uno studio impotente di esser efficace, rapido, forte ec. Cosa contra-Letteratura italiana Einaudi 408
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ria all’indole di Senofonte: e v. Cicerone nei testimoni de Xenophonte ec. e Dionigi Alicarnasseo parimente nelle testimonianze de Xenophonte. Anzi nelle stesse frasi, parole, modi, insomma nell’esterno e materiale dello stile, Senofonte abbandona spesso il suo costume per seguir quello di Tucidide, così che anche l’esteriore dello stile riesce alquanto nuovo a chi ha l’orecchio assuefatto alle altre opere di Senofonte. Fino nell’ortografia, Senofonte volendo assomigliarsi a Tucidide, scrive (contro quello che suole nelle altre [470]opere) jçn per sçn, e così nei composti dov’entra questa preposizione: consuetudine ch’io credo familiare a Tucidide.
(2. Gen. 1821.)
Quello che si è detto di sopra intorno ai proemi particolari di ciascun libro K. A. eccetto il primo, non è vero nel 6to… il quale non ha proemio nessuno. Se non che il capo 3. cominciando con un breve epilogo, ho creduto lungo tempo che i due capi precedenti appartenessero al 5 libro, e il sesto cominciasse col 3zo capo. E però vero che il detto epilogo non rinchiude se non le cose dette ne’ due capi antecedenti, e non tutto il detto nella parte superiore dell’opera, come ciascun altro proemio premesso ai diversi libri.
(3. Gen. 1821.)
La natura non è perfetta assolutamente parlando, ma la sola natura è grande, e fonte di grandezza. Perciò tutto quello che è, o si accosta al perfetto, secondo la nostra maniera astratta di considerare, non è grande. Osservatelo in tutte le cose: nelle opere di genio, poesia, belle arti ec. nelle azioni, nei caratteri, nei costumi, nei popoli, nei governi ec. Un uomo perfetto, non è mai grande. Un uomo grande, non è mai perfetto. [471]L’eroismo e la perfezione sono cose contraddittorie. Ogni eroe è imperfetto. Tali erano gli eroi antichi (i moderni non ne hanno); tali ce li Letteratura italiana Einaudi 409
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia dipingono gli antichi poeti ec. tale era l’idea ch’essi avevano del carattere eroico; al contrario di Virgilio, del Tasso ec. tanto meno perfetti, quanto più perfetti sono i loro eroi, ed anche i loro poemi.
(3. Gen. 1821.)
Venga un filosofo, e mi dica. Se ora si trovassero le ossa o le ceneri di Omero o di Virgilio ec. il sepolcro ec. quelle ceneri che merito avrebbero realmente, e secondo la secca ragione? Che cosa parteciperebbero dei pregi, delle virtù, della gloria ec. di Omero ec.? Tolte le illusioni, e gl’inganni, a che servirebbero? Che utile reale se ne trarrebbe? Se dunque, trovatele, qualcuno, le dispergesse e perdesse, o profanasse disprezzasse ec. che torto avrebbe in realtà? anzi non oprerebbe secondo la vera ed esatta ragione? Come dunque meriterebbe il biasimo, l’esecrazione degli uomini civili? E pur quella si chiamerebbe barbarie. Dunque la ragione non è barbara? Dunque la civiltà dell’uomo sociale e delle nazioni, non si fonda, non si compone, non consiste essenzialmente negli errori e nelle illusioni? Lo stesso [472]dite generalmente della cura de’ cadaveri, dell’onore de’ sepolcri ec.
(3. Gen. 1821.)
Velleio II. 98. sect.2. Quippe legatus Caesaris triennio cum his bellavit; gentesque ferocissimas, plurimo cum earum excidio, nunc acie, nunc expugnationibus, in pristinum pacis redegit modum; ejusque patratione, Asiae securitatem, Macedoniae pacem reddidit. Eiusque patratione a che si riporta? Spiegano eiusque pacis Patratione (così l’indice Velleiano). Ottimamente: fatta la pace, o con quella PACE, rendè LA PACE alla Macedonia. Leggo: eiusque belli patratione, (4. Gen. 1821.), ovvero eiusque patratione belli. V. p.477. capoverso 2.
Letteratura italiana Einaudi 410
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Non solo la facoltà conoscitiva, o quella di amare, ma neanche l’immaginativa è capace dell’infinito, o di concepire infinitamente, ma solo dell’indefinito, e di concepire indefinitamente. La qual cosa ci diletta perchè l’anima non vedendo i confini, riceve l’impressione di una specie d’infinità, e confonde l’indefinito coll’infinito; non però comprende nè concepisce effettivamente nessuna infinità. Anzi nelle immaginazioni le più vaghe e indefinite, e quindi le più sublimi e dilettevoli, l’anima sente espressamente una certa angustia, una certa difficoltà, un certo desiderio insufficiente, un’impotenza decisa di abbracciar tutta la misura di quella sua [473]immaginazione, o concezione o idea. La quale perciò, sebbene la riempia e diletti e soddisfaccia più di qualunque altra cosa possibile in questa terra, non però la riempie effettivamente, nè la soddisfa, e nel partire non la lascia mai contenta, perchè l’anima sente e conosce o le pare, di non averla concepita e veduta tutta intiera, o che creda di non aver potuto, o di non aver saputo, e si persuada che sarebbe stato in suo potere di farlo, e quindi provi un certo pentimento, nel che ha torto in realtà, non essendo colpevole.
(4. Gen. 1821.)
Velleio II. 90. sect.4. ut quae maximis bellis numquam vacaverant, eae sub C. Antistio, ac deinde P. Silio legato, ceterisque, postea etiam latrociniis vacarent. Leggo, ceterisque postea, etiam etc. Parla delle Spagne.
Velleio II. 102. sect.2. Mox in conloquium (cui se temere crediderat) circa Artageram graviter a quodam, nomine Adduo vulneratus. Come non si ha da correggere: in conloquio?
Letteratura italiana Einaudi 411
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Del vigore del corpo, quanto influisca sopra l’animo, e in genere come lo stato dell’animo corrisponda a quello del corpo, v. alcune sentenze degli antichi nella nota del Grutero a Velleio II. 102. sect.2.
[474]Di un francese di nazione o di costume, ch’a ogni tratto si buttava in ginocchio avanti alle donne. Se raccontava loro, poniamo caso, una storietta galante, o una nuova di gazzetta, e quelle non ci credevano, per dimostrazione, per supplicarle a credere, come per impetrar fede o credenza, si buttava in ginocchio.
(5. Gen. 1821.)
Dai tempi di Giulio Cesare in poi, Velleio nel tracciare, come suole, i caratteri delle persone illustri che descrive, trovate spessissimo che dopo aver detto come quel tale era pazientissimo de’ travagli e de’ pericoli, attivo nei negozi, vigilante al bisogno, atto alla guerra, o ai maneggi politici, soggiunge poi, che nell’ozio era molle ed effemi-nato, o almeno si compiaceva anche dell’ozio, e dei diletti pacifici, e insomma delle frivolezze, e che tanto era pi-gro e voluttuoso nell’ozio, quanto laborioso diligente e tollerante nel negozio. V. il libro II. c.88. sect.2. c.98.
sect.3. c.102. sect.3. c.105. sect.3. Dappertutto fa menzione dell’ozio, e sempre li trova inclinati anche a questo e non poco, sebbene sieno gli uomini più attivi di quel secolo. Cosa ignota agli antichi Eroi romani, i quali nell’ozio non trovavano nè potevano trovare nessun piacere.
E infatti questo lineamento [475]nei ritratti sbozzati da Velleio non si trova prima del detto tempo che fu l’epoca della decisa e sviluppata corruzione de’ Romani. Di Lucullo e di Antonio è cosa ben nota in questo proposito. (Di Scipione Emiliano parla bensì Velleio riguardo all’ozio, 1.13. sect.3. ma molto diversamente.) Notate dunque gli effetti dell’incivilimento e della corruzione.
Notate quanto ella porti per sua natura all’inazione, al-Letteratura italiana Einaudi 412
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia l’ozio, e alla pigrizia: che anche gli uomini più splendidi e attivi, in questa condizione della società, inclinano naturalmente all’inazione. La causa è il piacere che nell’antico stato di Roma non si poteva trovar nell’ozio, e perciò l’uomo desiderando il piacere e la vita si dava necessariamente all’azione: e così accade in tutte le nazioni non ancora o mediocremente incivilite. La causa è pure l’egoismo, per cui l’uomo non si vuole scomodare a profitto altrui, se non quanto è necessario, o quanto giova a se stesso. La causa è la mancanza delle illusioni, delle idee di gloria, di grandezza di virtù di eroismo, ec. tolte le quali idee, deve sottentrar quella di non far nulla, lasciar correre le cose, e godere del presente. La causa [476]per ultimo nelle monarchie (come sotto Augusto) è la mancanza non solo delle illusioni, ma del principio di esse, non solo della vita dell’animo, ma della vita delle cose, cioè la mancanza di cose che realizzino e fomentino queste illusioni; la difficoltà o impossibilità di far cose grandi o importanti, e di essere o considerarsi come importante; la nullità, o piccolezza, e ristretta esistenza del suddito ancorchè innalzato a posti sublimi. Del resto paragonate questo tratto del carattere Romano a quei tempi, col carattere francese oggidì, nazione snervata dall’eccessiva civiltà, col carattere de’ loro uomini più insigni per l’azione; e ci troverete un’evidente conformità.
(5. Gen. 1821). V. p.620. fine. e 629. capoverso 1.
Alla p.466. pensiero 1. Quippe ita se res habet, ut plerumque, qui fortunam mutaturus Deus, (Voss. leg. cui fortunam. al. delent tò qui, et melius) consilia corrumpat, efficiatq., QUOD MISERRIMUM EST, ut quod accidit, etiam merito accidisse videatur, et casus in culpam transeat.
Velleio II. 118. sect.4.
(6. Gen. 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 413
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Non punir mai l’ingiuria che non hai meritata, nè lasciare impunita quella che hai meritata. [477]Perdona al tuo calunniatore, punisci il tuo detrattore. Non far caso di chi ti schernisce a torto, ma piglia vendetta di chi ti motteggia a ragione.
(7. Gen. 1821.)
Alla p.375. principio. In questo proposito, la differenza o dell’ingegno o del giudizio, si può vedere in Livio, il quale è il poeta della storia, poeta vero e grande, e degno di servir di studio e di maestro ai poeti; e nondimeno è il modello splendidissimo della più perfetta prosa. Laddove costoro, e pessimi prosatori, (7. Gen. 1821.) e non perciò migliori poeti ordinariamente. V. p.526. capoverso 1.
Alla p.472. Tanto più che quella guerra, come consistente in domar popoli affatto barbari, non pare che fosse finita con trattato, nè con altri mezzi artifiziali, ma solamente con quel semplice fine che deriva dalla forza. V.
Floro IV. 12. sect.17. e Dione LIV. 34. p.764-765. dove nella nota 316. citandosi questo passo di Velleio, pare che si sia letto appunto nel modo ch’io suggerisco.
(8. Gen. 1821.)
Velleio I. 2. sect.2. di Codro: Immixtusque castris hostium, de industria, imprudenter, rixam ciens,
[478] interemptus est. È vero che, secondo la storia o la favola, Codro fu ucciso imprudenter, cioè senza sapere ch’egli fosse il Re degli Ateniesi e v. il passo di Val. Mas.
citato nelle note a questo luogo. Ma che razza di costruzione è questa? De industria si riferisce al rixam ciens che vien dopo l’ imprudenter; l’ imprudenter all’ interemptus est che vien dopo il rixam ciens. Chi traspone e legge, de ind.
rix. ciens, impr. inter. est. Chi emenda oltracciò, de ind., ab imprudente, rix. ciens, inter. est. A me pare che il luogo sia chiarissimo, la costruzione piana e facile, togliendo Letteratura italiana Einaudi 414
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia la virgola dopo de industria e dopo imprudenter, e tra-sportandola dopo hostium. Giacchè il de industria, non ha nè deve aver niente che fare coll’ immixtusq. castris host.
il che già s’intende ch’era fatto de industria; ma solo col rixam ciens. Ma ille imprudenter? grida il Lipsio. Signor sì, de industria imprudenter, con istudiata imprudenza, pensatamente incauto. Ed è una delle solite antitesi e giuocherelli Velleiani. Imprudenter per imprudentemen-te, incaute, improvide si usa benissimo da ottimi scrittori.
(come imprudens, imprudentia, e così prudenter ec.) Il Forcellini cita Terenzio, [479]Nepote, Cesare.
(8. Gen. 1821.)
Il veder morire una persona amata, è molto meno lace-rante che il vederla deperire e trasformarsi nel corpo e nell’animo da malattia (o anche da altra cagione). Perchè?
Perchè nel primo caso le illusioni restano, nel secondo svaniscono, e vi sono intieramente annullate e strappate a viva forza. La persona amata, dopo la sua morte, sussiste ancora tal qual’era e così amabile come prima, nella nostra immaginazione. Ma nell’altro caso, la persona amata si perde
affatto, sottentra un’altra persona, e quella di prima, quella persona amabile e cara, non può più sussistere neanche per nessuna forza d’illusione, perchè la presenza della realtà, e di quella stessa persona trasformata per malattia cronica, pazzia, corruttela di costumi ec. ec. ci disinganna violentemente, e crudelmente: e la perdita dell’oggetto amato non è risarcita neppur dall’immaginazione. Anzi neanche dalla disperazione, o dal riposo sopra lo stesso eccesso del dolore, come nel caso di morte.
Ma questa perdita è tale, che il pensiero e il sentimento non vi si può adagiar sopra in nessuna maniera. [480]Da ogni lato ella presenta acerbissime punte.
(8. Gen. 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 415
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Che il nostro pensare non sia altro che il pensare latino, perduto il significato proprio, e conservato il metaforico di ponderare col pensiero, come appunto il ponderare latino e italiano oggidì non ritiene se non la significazione traslata di considerare o meditare; e come gli antichi latini adoperassero veramente il loro pensare in maniera similissima alla presente italiana, vedilo in una nota dell’Heinsio a Velleio II. 129. sect.2. Consulta ancora il Forcellini, e l’Appendice.
Naturale nella maniera che noi ed i francesi lo sogliamo adoperare frequentemente: è naturale che questo succeda; il est bien naturel ec. si adoperava anche in latino, sebbene i Lessicografi non l’abbiano osservato (nè il Forcellini, nè l’Appendice). Asconio in Orat. contra L. Pison.
Argumento: Sed ut ego ab eo dissentiam, facit primum, quod Piso etc. deinde, quod magis NATURALE est, ut in ipso recenti reditu invectus sit in Ciceronem (Piso), responderitque insectationi eius, qua revocatus erat ex provincia, quam [481](in altra edizione trovo prius quam, e vorrebbe dire potius quam, o magis quam, nel qual significato prius quam si trova in ottimi esempi appresso il Forcellini: e notate anche qui la somiglianza coll’italiano prima che, avanti innanzi anzi che, per piuttosto che; e similmente più presto che ec.) post anni intervallum. Questo esempio è veramente notabile e forse unico ne’ buoni scrittori. V. però la nota del Burmanno alle prime parole della sezione 4. del capo 128. lib. II. di Velleio, dove peraltro t� poll� �prosdiñnusa.
(9. Gen. 1821.)
Quanta sia la forza d’immaginazione nei fanciulli, e com’ella sia tale che le concezioni derivatene nella prima età, influiscono grandemente anche nel resto della vita, si può vedere ancora in questa osservazione minuziosa. Noi da fanciulli per lo più concepiamo una certa idea, un cer-Letteratura italiana Einaudi 416
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia to tipo di ciascun nome di uomo: e la natura di questo tipo deriva dalle qualità delle prime o a noi più cognite e familiari persone che hanno portato quei tali nomi. For-matoci nella fantasia questo tipo (il quale ancora corrisponde alle circostanze particolari di quelle persone relativamente [482]a noi, alle nostre simpatie, antipatie ec.) sentendo dare lo stesso nome ad un’altra persona diversa da quella su cui ci siamo formati il detto tipo, noi concepiamo subito di quella persona un’idea conforme al detto tipo. E il nome può essere elegantissimo, e quella tal persona bellissima: se quel tipo è stato da noi immaginato e formato sopra una persona odiosa o brutta; anche quell’altra bellissima, ci pare che di necessità debba esser tale: almeno troviamo una contraddizione tra il nome e il soggetto; o proviamo una ripugnanza a credere quel soggetto diverso da quel tipo e da quell’idea ec. Così viceversa e relativamente alle varie qualità dei nomi e delle persone. Ed anche da grandi, e dopo che l’immaginazione ha perduto il suo dominio, dura per lungo tempo e forse sempre questo tale effetto, almeno riguardo ai primi momenti, e proporzionatamente alla forza dell’impressione ricevuta da fanciulli, e dell’immagine concepita. Io da fanciullo ho conosciuto familiarmente una Teresa vecchia, e secondo che mi pareva, odiosa. Ed allora e oggi che son grande provo una certa ripugnanza a persuader-mi che il nome di Teresa possa appartenere [483]ad una giovane, o bella, o amabile: o che quella che porta questo nome, possa aver questa qualità: e insomma sentendo questo nome, provo sempre un impressione e prevenzione sfavorevole alla persona che lo porta. E ordinariamente l’idea che noi abbiamo dell’eleganza, grazia, dolcezza, amabilità di un nome, non deriva dal suono materiale di esso nome, nè dalle sue qualità proprie e assolute, ma da quelle delle prime persone chiamate con quel nome, conosciute o trattate da noi nella prima età. Anche però viceversa potrà accadere che noi da fanciulli concepiamo Letteratura italiana Einaudi 417
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia idea della persona, dal nome che porta, massime se si tratta di persone lontane, o da noi conosciute solamente per nome: e giudichiamo della persona, secondo l’effetto che ci produce il nome, col suono materiale, o col significato che può avere, o con certe relazioni con altre idee. E questo ci avviene ancora da grandi, sia per conseguenza dell’idea concepita nella fanciullezza, sia anche assolutamente: perchè è certo che noi non ascoltiamo il nome, ovvero il cognome di persona a noi tanto ignota, che sopra quella denominazione non ci [484]formiamo una tal quale idea sì dell’esterno che dell’interno di quella persona. Idea più o meno confusa, più o meno viva, secondo le circostanze; ma ordinariamente chiarissima e vivissima ne’ fanciulli, sebbene per lo più falsissima. E massimamente i fanciulli (sempre lontani dall’indifferenza), secondo questa idea, si determinano all’odio o all’amore, a un certo genio o contraggenio verso quelle tali persone, non conosciute se non per nome.
(10. Gen. 1821.)
Non si è mai letto di nessun antico che si sia ucciso per noia della vita, laddove si legge di molti moderni, e v. il Suicidio ragionato di Buonafede. Nè perchè questo accade oggidì massimamente in Inghilterra, si creda che questo fosse comune in quel paese anche anticamente, senza che ne rimanga memoria. Dai poemi di Ossian si vede quanto gli antichi abitatori di quel paese fossero lontani dal concepire la nullità e noia necessaria della vita assolutamente; e molto più dal disperarsi e uccidersi per questo. Gli antichi Celti e gli altri antichi si uccidevano per disperazioni [485]nate da passioni e sventure, non mai considerate come inevitabili e necessarie assolutamente all’uomo, ma come proprie dell’individuo, perciò disgraziato e infelice, e disperantesi. La disperazione e scoraggimento della vita in genere, l’odio della vita come vita umana (non come individualmente e accidentalmen-Letteratura italiana Einaudi 418
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia te infelice), la miseria destinata e inevitabile alla nostra specie, la nullità e noia inerente ed essenziale alla nostra vita, in somma l’idea che la vita nostra per se stessa non sia un bene, ma un peso e un male, non è mai entrata in intelletto antico, nè in intelletto umano avanti questi ultimi secoli. Anzi gli antichi si uccidevano o disperavano appunto per l’opinione e la persuasione di non potere, a causa di sventure individuali, conseguire e godere quei beni ch’essi stimavano ch’esistessero.
(10. Gen. 1821.)
[486]Il desiderio di mettere gli altri a parte delle proprie sensazioni (o piacevoli o dispiacevoli come ho detto in altri pensieri) si può notare massimamente, ed ha tanto maggior forza quanto ciascun individuo è più vicino alla natura. I fanciulli non lo possono frenare in nessun modo, tanto che per amore, per preghiere, o per forza d’importunità, [487]non communichino ai circostanti, o a quelli ch’essi vanno a cercare a posta, quei piaceri, quei dispiaceri, in somma quelle sensazioni notabili, e per loro alquanto straordinarie, che hanno sperimentato o speri-mentano; come udendo una buona o cattiva musica, o suono o canto di qualunque sorta, che li colpisca: vedendo qualunque oggetto che faccia loro impressione ec. e tanto in bene quanto in male. Gli uomini poi più rozzi e ignoranti e incolti, e generalmente il volgo, non si può tenere che in simili circostanze, non gridi al vicino, vedi vedi, senti senti. E questa esclamazione è così naturale che anche in una gran moltitudine presente allo stesso spettacolo ec. tutti o moltissimi esclameranno lo stesso, senza o essere ascoltati da nessuno in particolare, o anche curarsi precisamente di farsi udire da questo o da quello.
Ma nessuno si può tenere dall’esclamare in quel modo, dando evidente indizio della inclinazione naturale che li porta al desiderio e voglia di partecipare. E osservate che questa esclamazione si pronunzia bene spesso anche Letteratura italiana Einaudi 419
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia
[488]nella solitudine e senza nessuno uditore, quando l’uomo provi simili sensazioni in tal circostanza: e noi diciamo vedi e senti quando anche non c’è chi possa vedere o sentire, e cerchiamo così in tutti i modi di soddisfare illusoriamente una voglia che non può essere soddisfatta realmente. E sebben questo accade tanto più, quanto l’individuo tiene del primitivo, e tanto più frequentemente, quanto più spesso egli è suscettibile di maravigliarsi, o di provar sensazioni forti e vive; contuttociò è frequentissimo anche negli uomini più colti ec. e basterebbe fare attenzione per vedere quanto spesso ci avvenga nella giornata senza che noi ce ne accorgiamo. Ci avvenga, dico, o in solitudine e fra noi stessi, o in compagnia. Ed io non credo che vi sia uomo sì taciturno, e nemico del parlare, del conversare, e del communicarsi altrui, che provando una sensazione straordinariamente forte e viva, non sia costretto quasi suo malgrado, o senza riflessione, e senza avvedersene, a prorompere in simili esclamazioni, dinotanti il desiderio e l’intenzione di communicare e far parte altrui di ciò ch’egli prova.
(10 Gen. 1821.)
[489]Floro I. 8. Haec est prima aetas populi Romani et quasi infantia, quam habuit sub regibus septem, quadam fatorum industria. Tam variis ingenio, ut Reipublicae ratio et utilitas postulabat. Quel quadam fatorum industria a che ha relazione? All’avere avuto il popolo Romano una prima età ovvero un’infanzia? Cosa veramente straordinaria e bisognosa di molto ingegno dei destini. Leggi continuamente, quadam fatorum industria tam variis ingenio ec. perchè le dette parole non si possono riportare se non a queste che seguono; e queste dipendono intieramente da quelle. V. però
le ultime ediz. di Floro.
(11. Gen. 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 420
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Floro I. 12. Veientium quanta res fuerit, indicat decennis obsidio. Tunc primum hiematum sub pellibus: taxata stipendio hiberna: adactus miles sua sponte iureiurando,
„nisi capta urbe remeare.“ Spolia de Larte Tolumnio rege ad Feretrium reportata. Denique non scalis, nec irruptione, sed cuniculo, et subterraneis dolis peractum urbis excidium. [490]Tutto questo fa un periodo solo, e non va distinto se non colle minori interpunzioni.
L’hiematum sub pellibus, il taxata hiberna, l’adactus miles, lo spolia reportata, il peractum excidium, non istanno da se, ma dipendono dal Veientium quanta res fuerit, indicat; come apparisce sì dalle cose stesse, come quello che Floro soggiunge immediatamente: Ea denique visa est praedae magnitudo, cuius decimae Apollini Pythio mitterentur: universusque populus Romanus ad direptionem urbis vocaretur. HOC TUNC VEII FUERE.
Le quali parole chiudono la dimostrazione dell’antica grandezza e forza di Veio. V. però le ult. edizioni di Floro.
(11 Gen. 1821.)
Sç g�r, Î Yal°, t� ¤n posÜn oé dun�menow ideÝn, t� ¤pÜ toè oéranoè oàei gnÅsesϑai; disse quella vecchia fantesca a Talete caduto in una fossa mentre andava contemplando le stelle. (Laerz. 1.34. in Thalete.)
[491]�Ùsper kaÜ Yal°n �stronomoènta, Î
Yeñdvre, (dum coelum suspiceret. Ficin.) kaÜ �nv bl¡ponta, pesñnta eÞw fr¡ar, (in foveam. id.) Yr�+tt� tiw ¤mmel¯w kaÜ xarÛessa ϑerainÛw (Thracia quaedam eius ancilla concinna et lepida. id.) �poskÇcai l¡getai, Éw t� m¢n ¤n oéranÒ proϑumoÝto eÞd¡nai,(pervidere contenderet. id.), t� d� ¦mprosϑen aétoè kaÜ par� pñdaw, lanϑ�noi aétñn. Tétòn d¢
�rkeÝ, (obiici potest. id. aptius, cadit, convenit) skÇmma
¤pÜ p�ntaw ôsoi ¤n filosofÛ& di�gousi: (in philosophia versantur. id.) Platone nel Teeteto, µ perÜ
¤pist®mhw, alquanto prima della metà. (p.127. f. Lugduni Letteratura italiana Einaudi 421
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia 1590.) E v. il Menag. ad Laert. I. 34. E Diogene Cinico si maravigliava ¤ϑaæmaze… toçw maϑhmatikoçw (cioè gli astronomi) �pblepein m¢n pròw tòn ĺion kaÜ t¯n sel®nhn, t� d� ¤n posÜ pr�gmata paror�+n (Laerz.
VI. 28. in Diogene Cynico.).
Tutto questo si può dire non solo dei sapienti ma degli uomini in generale, e compiangere non solo l’impotenza del sapere umano, non solo il cattivo giudizio nello scegliere, cioè il [492]curarsi delle cose poste fuori della nostra sfera, e a noi straniere, e lasciar le vicine, e importanti per noi; ma anche la cecità, la miseria, l’inutilità, la dannosità del sapere umano: quando tutte le cose che noi dovevamo sapere, ed ancora che possiamo sapere, sono veramente ¦mprosϑen ²mÇn kaÜ par� pñdaw, e finalmente la sommità, l’ultimo grado del sapere, consiste in conoscere che tutto quello che noi cercavamo era davanti a noi, ci stava tra’ piedi, l’avressimo saputo, e lo sapevamo già, senza studio: anzi lo studio solo e il voler sapere, ci ha impedito di saperlo e di vederlo; il cercarlo ci ha impedito di trovarlo. E guardando in alto per informarci delle cose nostre, che ci stavano tra’ piedi visibilissime, chiarissime, e ordinatissime, non le abbiamo vedute, e non le vediamo; e siamo per conseguenza caduti e cadia-mo in tante fosse, primieramente di errori, secondariamente, che peggio è, di mali e infelicità. Quanto non si è studiato, che cosa non si è consultata, quali confronti non si son fatti, quali rapporti non osservati, quali secreti, quali misteri [493]scoperti o cercati di scoprire, quante scienze, quante arti, quante discipline inventate, quante istituzioni fatte, o politiche o morali o religiose ec. per iscoprire la nostra origine, i nostri destini, la natura delle cose, l’ordine universale, la nostra felicità! Ma noi eravamo felici naturalmente, e tali quali eravamo nati, l’ordine delle cose era quello nè più nè meno che ci stava innanzi agli occhi, quello ch’esisteva prima dei nostri studi i quali non han-Letteratura italiana Einaudi 422
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia no fatto altro che turbarlo; la natura era quella che noi sentivamo senza studiarla, trovavamo senza cercarla, se-guivamo senza osservarla, ci parlava senza interrogarla: il bene e il male era veramente quello che noi credevamo naturalmente tale: i nostri destini erano quelli ai quali correvamo naturalmente, come il fiume al mare: la verità reale era quella che sapevamo senz’avvedercene, e senza pensare o credere di sapere. Tutto era relativo, e noi abbiamo creduto tutto assoluto: noi stavamo bene come stavamo, e perciò appunto ch’eravamo fatti così; ma noi abbiamo cercato il bene, come diviso dalla nostra essenza, [494]separato dalla nostra facoltà intellettiva naturale e primigenia, riposto nelle astrazioni, e nelle forme universali. Si è ricorso al cielo e alla terra, ai sistemi i più difficili (siano chimerici o sodi), in milioni di guise, per trovare quella felicità, quella condizione conveniente a noi, nella quale eravamo già stati posti nascendo: e non s’è trovata, se non quanto si è potuto conoscere ch’ella era appunto quella che avevamo prima di pensare a cercarla.
(12. Gen. 1821.)
Hic sive invidia deum, sive fato, rapidissimus procurrentis imperii cursus parumper Gallorum Senonum incursione subprimitur. Floro I. 13. principio, entrando a raccontare la prima guerra gallica.
Floro 1. 13. ed. Manhem. Adeo tum quoque in ultimis religio publica privatis adfectibus antecellebat. Perchè tum quoque? Forse ne’ tempi seguenti, e massime in quelli di Floro, cioè di Traiano, la religione pubblica fu più a cuor de’ Romani, che ne’ primi tempi di Roma? O non più tosto ella venne indebolendo a proporzione del tempo, e all’età di Floro, era, si può dire, estinta nel fatto? [495]E
non solo ai Romani, ma a tutti i popoli è sempre avvenuto e avviene lo stesso. Questa era cosa confessata da tutti Letteratura italiana Einaudi 423
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia anche allora, e la somma religiosità dell’antica Roma era notissima e famosissima. Leggi: Adeo tum in ultimis quoque: allora anche nell’infima plebe la religione pubblica prevaleva alle affezioni private, laddove in seguito fu tutto l’opposto. Io credo però che in ultimis l’abbiano inteso per in ultimis rebus o casibus, negli estremi fran-genti, e così abbiano spiegato: Tanto anche in quel tempo, cioè nell’ultima calamità. Male. In ultimis vuol dire ne-gl’infimi, come apparisce dalle parole di Floro che precedono. V. il Forcellini, e le ult. ediz. di Floro. V. p.510.
capoverso 2.
Floro 1. 13. avendo detto che i Romani distrussero la gente dei Galli Senoni in maniera che hodie nulla Senonum vestigia supersint, soggiunge con breve intervallo: ne quis exstaret in ea gente, quae incensam a se Romam urbem gloriaretur. Che vada letto qui per quae non par da dubitare, e sarà già osservato. Ma e così, [496]e in ogni modo, come avea da restare alcuno in quella gente, se questa era tutta distrutta? Leggo: ex ea gente: acciò non restasse nessuno DI quella gente. Chiunque ha senso o di latinità o solamente di ragione, conoscerà che la preposizione in qui non ha luogo.
(12. Gen. 1821.)
Chiunque è sommo in qualsivoglia professione per triviale o leggera o poco rilevante ch’ella sia, certo è che poteva esser grande in altra professione di più alto affare.
Perchè non si arriva alla perfezione in veruna cosa per piccola ch’ella sia, senza molta e singolare virtù, forza, capacità, facilità, e idoneità d’indole e d’ingegno.
(13. Gen. 1821.)
Dicono e suggeriscono che volendo ottener dalle donne quei favori che si desiderano, giova prima il ber vino, ad oggetto di rendersi coraggioso, non curante, pensar Letteratura italiana Einaudi 424
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia poco alle conseguenze, e se non altro brillare nella compagnia coi vantaggi della disinvoltura. Voltaire consiglia scherzosamente di bere, per dimenticare o liberarsi dall’amore. [497] Ou bien buvez: c’est un parti fort sage. Non so quanto bene. Il vino, ossia la forza del corpo, come ho detto altrove, ed è vero, sebbene inclini all’allegrezza, e sopisca i dolori dell’animo, contuttociò dà risalto alle passioni dominanti o abituali di ciascheduno. Bensì le rallegrerà, e darà speranza anche allo sventurato o disperato in amore. V. p.501 capoverso 1
Favella e favellare derivano evidentemente da fabula e fabulari mutato al solito il b in v, come da fabula diciamo pure favola; onde è come se dicessimo fabella e fabellare.
Qui non c’è niente di notabile o strano: la cosa va da se, e sarà stata notata da tutti gli Etimologi. Ma che ha da far la favella e il favellare col favoleggiare e colle favole? Qui appunto consiste il singolare e l’osservabile in questa derivazione. Perocchè l’antico e primitivo significato di fabula, non era favola, ma discorso, da for faris, quasi piccolo discorso, onde poi si trasferì al significato di ciancia
[498] nugae, e finalmente di finzione e racconto falso. Appunto come il greco mèϑow nel suo significato proprio, valeva lo stesso che lñgow, verbum dictum oratio sermo colloquium, e da Omero non si trova, cred’io, adoperato se non in questa o simili significazioni, così esso come i suoi derivati. Poi fu trasferito alla significazione di favola. Il detto senso di fabula, fabulator, fabulo, fabulor, confabulor etc. è evidente negli scrittori latini di tutti i buoni secoli, massime però ne’ più antichi e più puri. V.
il Forcellini in tutte queste voci. Ma dopo, e massimamente ne’ bassi tempi il significato usuale e comune di fabula nelle scritture non era altro che favola. E tuttavia la nostra lingua ha ritenuto espressamente questa parola (la quale, come ho detto, è la stessa nostra di favella) nel suo antichissimo, primitivo e proprio valore. Certo non è Letteratura italiana Einaudi 425
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia andata a pescare questo significato nelle antichissime memorie, e nei primi scrittori. Bisogna dunque che la detta significazione tal qual era da principio sia pervenuta di mano in mano, e conservata e continuata senza [499]interruzione fino alla nascita e alle origini della nostra lingua. Ora ciò non può essere stato se non per mezzo del volgo latino; tanto più che gli scrittori, quando anche avessero conservata in uso la detta significazione sino all’ultimo, non avrebbero mai potuto essi soli comunicarla al volgo, e renderla volgare, usuale, comune, propria e primitiva in una lingua nascente, quando il significato più comune di quella parola fose stato un altro. E tale era infatti appresso gli scrittori. Del resto come mèϑow e fabula vuol dire al tempo stesso discorso e favola, e da quel primo significato fu trasferito al secondo così viceversa nella nostra lingua novella e novellare, dal significato di favola o racconto, trasferiti a quello di ciance o di favella, hanno parimente nel tempo stesso il valore di favola e di discorso. V. la Crusca.
(13. Gen. 1821.). V. p.871. fine.
La fecondità e istabilità e velocità della immaginazione e concezione (vera o falsa, che [500]ciò non monta) ne’
fanciulli, apparisce ancora da una osservazione che ho fatta in quelli che trovandosi in età di mezzana fanciullezza (6. 7. 8. anni, o cosa simile), e sapendo già tanto e più di lingua da potere infilare un discorso, nondimeno sebbene sieno loquaci, anzi quanto più sono loquaci, (il che è segno di fecondità) tanto più esitano e stentano, nel fare un discorso continuato, un racconto ec. Ho dunque notato che ciò non deriva principalmente dalla difficoltà di trovare o combinar le parole (anzi come ho detto, i più loquaci sono più soggetti a questo: i meno loquaci riescono molto meglio in un discorso abbastanza lungo e seguìto); ma dalla moltiplicità delle idee che si affollano loro in mente. Onde non sanno scegliere, si confondono, Letteratura italiana Einaudi 426
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia saltano di palo in frasca, mutano anche totalmente e improvvisamente soggetto; i loro discorsi non hanno nè capo nè coda, e avendo incominciato colla testa dell’uomo, finiscono colla coda del pesce. Quanta dunque non de-v’essere l’attività interna, la moltiplicità delle occupazioni ancorchè disoccupatissimi, la facilità di distrarsi, e alleggerire o spegnere [501]i pensieri o le sensazioni dolorose, la varietà, e nel tempo stesso la vivacità delle immagini e concezioni (giacchè ciascuna è capace di strapparli intieramente da quella che presentemente gli occupa); in somma la vita dell’animo, e per conseguenza la felicità de’ fanciulli anche i meno felici rispetto alle circostanze esteriori!
Alla p.497.
�Ervta paæeilimòw: eÞ d¢ m¯, xrñnow:
�E�n d¢ toætoiw m¯ dænú xr°sϑai, brñxow.
Amorem sedat fames; sin minus, tempus:
Eis vero si uti non vales, laqueus.
Detto di Crate Cinico presso il Laerzio (VI. 86. in Cratete Thebano) mentovato anche da altri scrittori, e riferito con qualche diversità da Stobeo, e da Suida. V. il Menagio e l’Aldobrandini.
(13. Gen. 1821.).
Come gl’italiani per proprietà di lingua dicono muovere in maniera neutra per muoversi, andare, camminare ec.
così fra’ latini, oltre i citati dal Forcellini, Floro 1. 13. Sed quod ius apud barbaros? ferocius agunt. Movent, et inde certamen. Parla dei Galli Senoni conversis a Clusio, Romamque venientibus, come [502]soggiunge immediatamente. E II. 8. quum ingenti strepitu ac tumultu movisset Letteratura italiana Einaudi 427
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ex Asia (Antiochus). (14. Gen. 1821.) V. Sveton. in D.
Julio c.60.1. e quivi le note degli eruditi.
Come dice Dante Quinci si va, CHI vuole andar per pace, idiotismo assai comune e usitato nella nostra lingua, così anche i latini. Floro II. 15. sul principio: Atque SI QUIS
trium temporum momenta consideret, primo commissum bellum, profligatum secundo, tertio vero confectum est.
Parla delle 3. guerre Puniche. (14. Gen. 1821.). Più manifesto, e conforme all’uso italiano è questo idiotismo (vero idiotismo, perchè non è locuzioneregolare, anzi falsa secondo la dialettica e la costruzione) in Orazio Od.
16. l. .2. v.13. VIVITUR parvo bene, CUI paternum ec.
cioè si cui (che neppur essa sarebbe locuzione regolarissima) ma è omesso il si, come appunto in italiano.
Floro II. 15. Sed huius caussa belli (tertii Punici) (scil.
fuit), quod contra foederis legem (Carthago) adversus Numidas quidem semel parasset classem et exercitum, frequens autem Masinissae fines territabat. Sed huic bono socioque regi favebatur. Questa enallage o transizione da parasset a territabat qui non conviene. Trovo però in altre edizioni territaret. Ma di più quel quidem e quell’ autem sono particelle avversative, o disgiuntive. Ma come ora si legge, queste particelle non possono servire, ed effettivamente non servono ad altro, che a distinguere i Numidi da Massinissa. [503]Laddove erano la stessa cosa, e contro Massinissa era stato quel preparativo di Cartagine che Floro dice contro i Numidi. V. gli storici. Leggo: Masinissa (v. però gli Storici, se ciò è vero di lui) e volentieri ancora trasferirei il quidem dopo semel. La cagione di questa guerra fu che contro i patti Cartagine aveva una volta preparato esercito e flotta contro i Numidi. Massinissa però frequentemente (vedete il frequens autem opposto al semel quidem, e così mi pare che debba essere in qualunque modo si voglia intendere questo luogo, perchè l’ adversus Numidas Letteratura italiana Einaudi 428
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia quidem che opposizione o forza disgiuntiva ha con frequens autem?) infestava i di lei confini. Ma (notate quel ma, che intendendo il luogo in altro senso, non istà convenientemente) i Romani favorivano questo buono e alleato principe.
(14. Gen. 1821.)
In luogo che un’anima grande ceda alla necessità, non è forse cosa che tanto la conduca all’odio atroce, dichiarato, e selvaggio contro se stessa, e la vita, quanto la considerazione della necessità e irreparabilità de’ suoi mali, infelicità, disgrazie [504]ec. Soltanto l’uomo vile, o debole, o non costante, o senza forza di passioni, sia per natura, sia per abito, sia per lungo uso ed esercizio di sventure e patimenti, ed esperienza delle cose e della natura del mondo, che l’abbia domato e mansuefatto; soltanto costoro cedono alla necessità, e se ne fanno anzi un conforto nelle sventure, dicendo che sarebbe da pazzo il ripugnare e combatterla ec. Ma gli antichi, sempre più grandi, magnanimi, e forti di noi, nell’eccesso delle sventure, e nella considerazione della necessità di esse, e della forza invincibile che li rendeva infelici e gli stringeva e legava alla loro miseria senza che potessero rimediarvi e sottrarsene, concepivano odio e furore contro il fato, e bestemmiavano gli Dei, dichiarandosi in certo modo nemici del cielo, impotenti bensì, e incapaci di vittoria o di vendetta, ma non perciò domati, nè ammansati, nè meno, anzi tanto più desiderosi di vendicarsi, quanto la miseria e la necessità era maggiore. Di ciò si hanno molti esempi nelle storie. Il fatto di Giuliano moribondo, non so se sia storia o favola. Di Niobe, dopo la sua sventura, [505]si racconta, se non fallo, come bestemmiava gli Dei, e si professava vinta, ma non cedente. Noi che non ricono-sciamo nè fortuna nè destino, nè forza alcuna di necessità personificata che ci costringa, non abbiamo altra persona da rivolger l’odio e il furore (se siamo magnanimi, e Letteratura italiana Einaudi 429
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia costanti, e incapaci di cedere) fuori di noi stessi; e quindi concepiamo contro la nostra persona un odio veramente micidiale, come del più feroce e capitale nemico, e ci com-piaciamo nell’idea della morte volontaria, dello strazio di noi stessi, della medesima infelicità che ci opprime, e che arriviamo a desiderarci anche maggiore, come nell’idea della vendetta, contro un oggetto di odio e di rabbia somma. Io ogni volta che mi persuadeva della necessità e perpetuità del mio stato infelice, e che volgendomi disperatamente e freneticamente per ogni dove, non trovava rimedio possibile, nè speranza nessuna; in luogo di cedere, o di consolarmi colla considerazione dell’impossibile, e della necessità indipendente da me, [506]concepiva un odio furioso di me stesso, giacchè l’infelicità ch’io odiava non risiedeva se non in me stesso; io dunque era il solo soggetto possibile dell’odio, non avendo nè riconoscendo esternamente altra persona colla quale potessi ir-ritarmi de’ miei mali, e quindi altro soggetto capace di essere odiato per questo motivo. Concepiva un desiderio ardente di vendicarmi sopra me stesso e colla mia vita della mia necessaria infelicità inseparabile dall’esistenza mia, e provava una gioia feroce ma somma nell’idea del suicidio. L’immobilità delle cose contrastando colla immobilità mia; nell’urto, non essendo io capace di cedere, ammollirmi e piegare; molto meno le cose; la vittima di questa battaglia non poteva essere se non io. Oggidì (eccetto nei mali derivati dagli uomini) non si riconosce persona colpevole delle nostre miserie, o tale che la Religione c’impedisce in tutti i modi di creder colpevole, e quindi degna di odio. Tuttavia anche nella Religione di oggidì, l’eccesso dell’infelicità indipendente [507]dagli uomini e dalle persone visibili, spinge talvolta all’odio e alle be-stemmie degli enti invisibili e superiori: e questo, tanto più quanto più l’uomo (per altra parte costante e magnanimo) è credente e religioso. Giobbe si rivolse a lagnarsi Letteratura italiana Einaudi 430
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia e quasi bestemmiare tanto Dio, quanto se stesso, la sua vita, la sua nascita ec.
(15. Gen. 1821.)
Gli adulatori e gli amici dei tiranni non guadagnano altro se non di essere esclusi dalla misericordia che le generazioni future porteranno all’età e generazioni loro. E
di partecipare all’odio senza essere stati esenti dai pericoli e dai mali, anzi tutto l’opposto, e spesso più degli altri.
(15. Gen. 1821.)
Qual è la più grata compagnia? Quella che rileva l’idea che abbiamo di noi medesimi; quella che ci fa compiacere di noi stessi, che ci persuade di valer più che non credevamo, che ci mostra come lodevoli alcune qualità, dove non credevamo di meritar lode, o non tanta; [508]quella da cui partiamo con maggiore stima di noi, che ci lascia più soddisfatti di noi stessi. Tutto è amor proprio nell’uomo e in qualunque vivente. Amabile non pare e non è, se non quegli che lusinga, giova ec. l’amor proprio degli altri. Questa è una delle principali osservazioni ed artifizi per farsi stimare di buona compagnia, rendersi piacevole e amabile, farsi desiderare e far fortuna: nominatamente nella galanteria. Cosa ben conosciuta dai professori di quest’ultima arte. V. quello che Lord Nelvil
[dice] di Mad. d’Arbigny presso la Staël nella Corinna.
Si desidera bene spesso la compagnia di qualcuno, ci si trova un pascolo un piacere nuovo e straordinario: nè si vede bene perchè, ma si attribuisce all’amabilità delle sue maniere e del suo carattere. La ragion vera [è] ch’egli sa fare che noi ci stimiamo da più di quello che facessimo, o confermarci nella buona opinione che avevamo di noi.
(15. Gen. 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 431
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Come noi diciamo in paragone, in comparazione per rispetto, appetto, verso, appresso, così Floro II. 15. della terza Punica: et in comparatione priorum, [509] minimum labore. Il Forcellini non ha esempio di questa locuzione, eccetto uno di Curzio che la contiene materialmente, ma non equivale nel senso; quas in comparatione meliorum, avaritia contempserat. L’Appendice nulla.
(15 Gen. 1821.)
Il Petrarca nella canzone Italia mia.
Ed è questo del seme,
Per più dolor, del popol senza legge
Al qual, come si legge,
Mario aperse sì ‘l fianco,
Che memoria de l’opra anco non langue,
Quando assetato e stanco,
Non più bevve del fiume acqua che sangue.
Non è stato osservato, ch’io sappia, che quest’ultima iperbole è levata di peso da Floro III. 3. nel racconto che fa di quella medesima battaglia contro i Teutoni, della quale il Petrarca. Ut victor Romanus de cruento flumine non plus aquae biberit quam sanguinis Barbarorum.
Giacchè l’armata Romana era assetata, e combattè quasi per l’acqua. E forse Floro ha preso questa immagine da quel luogo di Tucidide nell’assedio di Siracusa, riferito ed esaminato da Longino. (15. Gen. 1821.). V. p.724.
principio.
[510]Floro III. 3. Iam diem pugnae a nostro Imperatore petierunt, et sic proximum dedit. In patentissimo, quem Raudium vocant, campo concurrere. Leggerei: et hic p.
d..
(15. Gen. 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 432
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Alla p.495. Così II. 14. vir ULTIMAE sortis Andriscus.
Così Velleio I. II. sect.1 qui se Philippum, regiaeque stirpis ferebat, cum esset ULTIMAE. Del resto o sia sbaglio dei Codd. o proprietà di Floro, e figura grammaticale a lui familiare, io trovo anche altre volte il quoque messo da lui piuttosto prima che dopo quello a cui pare che si dovrebbe effettivamente riferire, considerando il sentimento.
Così II. 14. fine. Sebbene quivi si potrà forse spiegare e tollerare. Ma III. 6. dove dice di Pompeo destinato alla guerra Piratica, Sic ille quoque ante felix, dignus nunc victoria Pompeius visus est. Il quoque non par che si possa riportare se non all’ ante e non all’ ille (quantunque i pirati fossero stati già combattuti e vinti da P. Servilio l’Isaurico) perchè la forza di questo luogo par che consista nella contrapposizione dell’ ante felix, col dignus nunc victoria. Onde pare che il luogo vada corretto. V. il Forcellini dove parla del quoque congiunto coll’ et [511]o etiam. V. pure le ult. ediz. di Floro.
Alla p.96. Dalla bianchezza di quella porca si crede che derivasse il nome di Alba dato alla città fondata da Ascanio, e questo pure può confermare il mio sospetto, avendola fondata Ascanio quasi nuova troia.
(15 Gen. 1821.)
In questi luoghi di Floro: Postquam rogationis dies aderat, ingenti stipatus agmine (Tib. Gracchus) rostra conscendit: nec deerat obvia manu tota INDE (e non ha detto, nè anche accennato da che luogo) nobilitas, et tribuni in partibus (III. 14.): e: Quum se in Aventinum recepisset (C. Gracchus), INDE quoque obvia Senatus manu, ab Opimio consule oppressus est (III. 15.) l’inde non par che si possa intendere se non per ibi o illuc, eo, ec. E in questo senso si può paragonare l’uso di questa particella fatto da Floro, a quello che i nostri antichi fecero dell’onde, quinci, quindi. V. la Crusca. e allo Spagnuolo Letteratura italiana Einaudi 433
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia donde che val sempre dove. E bisogna notare che in questo senso Floro congiunge la particella inde col nome obvius. E non perciò pare che significhi, o possa significare moto da luogo, ma stato, o moto a luogo. (come gli antichi italiani, onde vai, per dove vai) QUO LOCO inter
[512]se OBVII fuissent. Sallust. Cui mater MEDIÂ se se tulit OBVIA SILVÂ. Virgil. Questi esempi recati dal Forcellini fanno per l’uso di obvius in luogo. Esempi di obvius unito a particelle o casi che indichino moto da luogo, non ne ha nè il Forcellini, nè l’Appendice, e in ogni modo qui non par che farebbero al caso. Neanche ne hanno di obvius con particelle o casi indicanti moto a luogo, come illuc obvius, ovvero eo obvius, ovvero ad eum obvius o simili. Solamente questo di Virgilio: Audeo TYRRHENOS EQUITES ire obvia CONTRA. Del resto obvius negli esempi del Forcellini è assoluto, o unito al solito col dativo: obvius illi, mihi, ec. Nè alla voce inde nè alla voce unde, il Forcellini o l’Appendice non hanno questi luoghi di Floro, nè altro esempio o cenno veruno nè pur lontano di questo significato. (16. Gen. 1821) V.
pur nella Crusca altronde per altrove, ed aggiungi questo esempio di Bernardino Baldi, egloga 10. Melibea, verso il fine, (Versi e prose di Mons. Bern. Baldi. Venetia 1590.
p.204.) Fuggiam fuggiamo altronde, Ch’a noi sen vien a volo Di vespe horrido stuolo, E sotto aurato manto il ferro asconde. V. nel Forc. aliunde in un esempio per alibi. V.
pure il Dufresne in inde, unde, aliunde, alicunde ec. se ha nulla al caso. V. p.1421.
Difficilmente il dolor solo dell’animo, ha forza di uccidere, o cagionare un’estrema malattia, ed è più facile il fingere questi casi nei romanzi, che trovarne esempi reali nella vita: sebbene [513]molte volte si attribuiscono a dolor d’animo quelle infermità che vengono da tutt’altro, o almeno, anche da altre cause. E massimamente è difficile e strano che il dolor d’animo, una sventura non Letteratura italiana Einaudi 434
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia corporale ec. cagionino morte o malattia lungo tempo dopo nato, o avvenuta la detta sventura ec. e che in somma la vita dell’uomo si vada consumando e si spenga a poco a poco per le sole malattie particolari dell’animo.
(non dico le generali, perchè certamente il cattivo stato del nostro animo influisce in genere moltissimo sulla durata della vita, la salute il vigore ec.) Qual è la cagione?
Che il tempo medica tutte le piaghe dell’animo. Ma come?
Coll’assuefazione, lo so, e grandemente, ma non già con questa sola. Una gran cagione del detto effetto, è ancora che le illusioni poco stanno a riprender possesso e ricon-quistare l’animo nostro, anche malgrado noi; e l’uomo (purchè viva) torna infallibilmente a sperare quella felicità che avea disperata; prova quella consolazione [514]che avea creduta e giudicata impossibile; dimentica e discrede quell’acerba verità, che avea poste nella sua mente altissime radici; e il disinganno più fermo, totale, e ripetuto, e anche giornaliero, non resiste alle forze della natura che richiama gli errori e le speranze.
(16. Gen. 1821.)
Da fanciulli, se una veduta, una campagna, una pittura, un suono ec. un racconto, una descrizione, una favola, un’immagine poetica, un sogno, ci piace e diletta, quel piacere e quel diletto è sempre vago e indefinito: l’idea che ci si desta è sempre indeterminata e senza limiti: ogni consolazione, ogni piacere, ogni aspettativa, ogni disegno, illusione ec. (quasi anche ogni concezione) di quell’età tien sempre all’infinito: e ci pasce e ci riempie l’anima indicibilmente, anche mediante i minimi oggetti. Da grandi, o siano piaceri e oggetti maggiori, o quei medesimi che ci allettavano da fanciulli, come una bella prospettiva, campagna, pittura ec. proveremo un piacere, ma non sarà più simile in nessun modo all’infinito, o certo non sarà così intensamente, sensibilmente, durevolmente ed essenzialmente vago e indeterminato. Il piacere di Letteratura italiana Einaudi 435
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia quella sensazione si determina subito e si circoscrive: appena comprendiamo [515]qual fosse la strada che prendeva l’immaginazione nostra da fanciulli, per arrivare con quegli stessi mezzi, e in quelle stesse circostanze, o anche in proporzione, all’idea ed al piacere indefinito, e dimo-rarvi. Anzi osservate che forse la massima parte delle immagini e sensazioni indefinite che noi proviamo pure dopo la fanciullezza e nel resto della vita, non sono altro che una rimembranza della fanciullezza, si riferiscono a lei, dipendono e derivano da lei, sono come un influsso e una conseguenza di lei; o in genere, o anche in ispecie; vale a dire, proviamo quella tal sensazione, idea, piacere, ec. perchè ci ricordiamo e ci si rappresenta alla fantasia quella stessa sensazione immagine ec. provata da fanciulli, e come la provammo in quelle stesse circostanze. Così che la sensazione presente non deriva immediatamente dalle cose, non è un’immagine degli oggetti, ma della immagine fanciullesca; una ricordanza, una ripetizione, una ripercussione o riflesso della immagine antica. E ciò accade frequentissimamente. (Così io, nel rivedere quelle stampe piaciutemi vagamente da fanciullo, [516]quei luoghi, spettacoli, incontri, ec. nel ripensare a quei racconti, favole, letture, sogni ec. nel risentire quelle cantilene udite nella fanciullezza o nella prima gioventù ec.) In maniera che, se non fossimo stati fanciulli, tali quali siamo ora, saremmo privi della massima parte di quelle poche sensazioni indefinite che ci restano, giacchè la proviamo se non rispetto e in virtù della fanciullezza.
E osservate che anche i sogni piacevoli nell’età nostra, sebbene ci dilettano assai più del reale, tuttavia non ci rappresentano più quel bello e quel piacevole indefinito come nell’età prima spessissimo.
(16. Gen. 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 436
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Oltre la compassione, si può notare come indipendente affatto dall’amor proprio, un altro moto naturale, che sebbene somiglia alla compassione, non per ciò è la stessa cosa. Ed è quella certa sensibilissima pena che noi proviamo nel vedere p.e. un fanciullo fare una cosa la quale noi sappiamo che gli farà male: un uomo che si esponga a un manifesto pericolo; una persona vicina a cadere in qualche precipizio, senz’avvedersene. [517]E simili. Questo dei mali non ancora accaduti. Allora proviamo ancora un’assoluta necessità d’impedirlo, se possiamo, e se no una pena assai maggiore. Certo è che il veder uno che si fa male o sta per soffrire, o volontariamente, o non sapendo ec. il vederlo, e non impedirlo, o non sentirsi ac-corare non potendo, è contro natura. Nell’atto dei mali parimente, vedendo qualcuno cadere ec. ancorchè quel male non sia degli orribili e stomachevoli all’apparenza, contuttociò ne proviamo naturalmente e
indeliberatamente gran pena. E chi osserverà bene, questi moti sono distinti dalla compassione, la quale vien dietro al male, e non lo precede, o accompagna. Anche nelle cose inanimate, o negli esseri d’altra specie dalla nostra, vedendo a perire, o in pericolo di perire o guastarsi, un oggetto bello, prezioso, raro, utile, e che so io, un animale ec. proviamo lo stesso sentimento doloroso, la stessa necessità di esclamare, d’impedirlo potendo. ec. E ciò, quantunque quella cosa [518]non appartenga a veruno in particolare, e la sua perdita o guasto non danneggi nessuno in particolare. Così che quel sentimento dispiacevole che noi proviamo allora, si riferisce immediatamente al-l’oggetto paziente, forse ancora quand’esso abbia un pos-sessore, e che questo c’interessi. Dicono che la donna è ben forte, quando può vedere a rompere la sua porcella-na senza turbarsi. Ma non solamente le donne; anche gli uomini; e non solamente nelle cose proprie, anche nelle altrui, o comuni, o di nessuno, purch’elle sieno di un certo conto, provano nei detti casi la detta sensazione, indi-Letteratura italiana Einaudi 437
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia pendentemente dalla volontà. La radice di questo sentimento non par che si possa trovare nell’amor proprio.
Par che la natura nostra abbia una certa cura di ciò ch’è degno di considerazione, e una certa ripugnanza a vederlo perire, sebbene affatto alieno da noi. V. la pagina seguente. L’orrore della distruzione (il quale si potrebbe in ultima analisi riportare all’amor proprio) non par che
[519]abbia parte in questo, almeno principalmente. Noi vediamo perire tuttogiorno senza ripugnanza, o cura d’impedirlo, mille cose di cui non facciamo conto.
(17. Gen. 1821.)
Alla pagina superiore. Par ch’ella ci abbia tutti incari-cati in solido, di provvedere per parte nostra alla conservazione di tutto il buono, (osservate queste parole, le quali potrebbero estender di molto questo pensiero, p.e. al morale, al bello di ogni genere e immateriale ec.), e im-pedirne la distruzione, e che questa danneggi positivamente ciascuno per la sua parte. In questo aspetto forse si potrebbe riferire alla lunga all’amor proprio, e forse no.
Alla p.468. Oltre che nella Salita di Ciro l’autore parla di Senofonte con un tale temperamento di modestia, e di amore, col quale chiunque conosca il cuore umano, leggendo la detta opera, riconosce a prima vista che l’uomo non parla nè può parlare se non di se stesso.
(17. Gen. 1821)
[520]L’intiera filosofia è del tutto inattiva, e un popolo di filosofi perfetti non sarebbe capace di azione. In questo senso io sostengo che la filosofia non ha mai cagionato nè potuto cagionare alcuna rivoluzione, o movimento, o impresa ec. pubblica o privata; anzi ha dovuto per natura sua piuttosto sopprimerli, come fra i Romani, i greci ec. Ma la mezza filosofia è compatibile coll’azione, anzi Letteratura italiana Einaudi 438
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia può cagionarla. Così la filosofia avrà potuto cagionare o immediatamente o mediatamente la rivoluzione di Francia, di Spagna ec. perchè la moltitudine, e il comune degli uomini anche istruiti, non è stato nè in Francia nè altrove mai perfettamente filosofo, ma solo a mezzo. Ora la mezza filosofia è madre di errori, ed errore essa stessa; non è pura verità nè ragione, la quale non potrebbe cagionar movimento. E questi errori semifilosofici, possono esser vitali, massime sostituiti ad altri errori per loro particolar natura mortificanti, come quelli derivati da un’ignoranza barbarica e diversa dalla naturale; anzi contrari ai dettami ed alle [521]credenze della natura, o primitiva, o ridotta a stato sociale ec. Così gli errori della mezza filosofia, possono servire di medicina ad errori più anti-vitali, sebben derivati anche questi in ultima analisi dalla filosofia, cioè dalla corruzione prodotta dall’eccesso dell’incivilimento, il quale non è mai separato dall’eccesso relativo dei lumi, dal quale anzi in gran parte deriva. E infatti la mezza filosofia è la molla di quella poca vita e movimento popolare d’oggidì. Trista molla, perchè, sebbene errore, e non perfettamente ragionevole, non ha la sua base nella natura, come gli errori e le molle dell’antica vita, o della fanciullesca, o selvaggia ec.: ma anzi finalmente nella ragione, nel sapere, in credenze o cognizioni non naturali e contrarie alla natura: ed è piuttosto imperfettamente ragionevole e vera, che irragionevole e falsa. E la sua tendenza è parimente alla ragione, e quindi alla morte, alla distruzione, e all’inazione. E presto o tardi, ci [522]deve arrivare, perchè tale è l’essenza sua, al contrario degli errori naturali. E l’azione presente non può essere se non effimera, e finirà nell’inazione come per sua natura è sempre finito ogni impulso, ogni cangiamento operato nelle nazioni da principio e sorgente filosofica, cioè da principio di ragione e non di natura inerente sostanzialmente e primordialmente all’uomo. Del resto la mezza filosofia, non già la perfetta filosofia, ca-Letteratura italiana Einaudi 439
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia gionava o lasciava sussistere l’amor patrio e le azioni che ne derivano, in Catone, in Cicerone in Tacito, Lucano, Trasea Peto, Elvidio Prisco, e negli altri antichi filosofi e patrioti allo stesso tempo. Quali poi fossero gli effetti de’
progressi e perfezionamento della filosofia presso i Romani è ben noto.
Osservate ancora che il movimento e il fervore cagionato oggidì dalla mezza filosofia, va perdendo di giorno in giorno necessariamente tanti fautori e promotori ec.
quanti si vanno di mano in mano perfezionando nella filosofia coll’esperienza ec. e quanti di semifilosofi, divengono o diverranno appoco appoco filosofi.
(17. Gen. 1821.)
Nisi quod magnae indolis signum est, sperare
[523]semper. Floro IV. 8.
Sed quanto efficacior est fortuna quam virtus! et quam verum est quod moriens (Brutus) efflavit, «non in re, sed in verbo tantum esse virtutem.» Floro IV. 7.
Floro IV. 6. Quid contra duos exercitus necesse fuit venire in cruentissimi foederis societatem? Trasponete l’in-terrogativo dopo exercitus. Così vuole il contesto, e anche la semplice osservazione di questo passo, perch’io non so come il venire in foederis societatem con due eserciti (di Antonio e di Lepido), s’abbia da poter dire contra duos exercitus. V. le ult. ediz. di Floro.
(18. Gen. 1821.)
Molto acutamente Floro dice di Antonio il triumviro: Desciscit in regem: nam aliter salvus esse non potuit, nisi confugisset ad servitutem. (IV. 3.) Ottimamente di un uomo corrotto e depravato come Antonio: non poteva essere se non signore o servo: libero e uguale agli [524]altri, non poteva. E così quasi tutti i Romani di quello e de’
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia seguenti tempi: così la massima parte degli uomini d’oggidì. Non c’è altro stato che non convenga loro, fuorchè l’uguaglianza e la libertà. Non saprebbero se non regnare, o come fanno, servire. Ma servendo, sarebbero più adattati al regno che alla libertà. E tale è la natura degli uomini servi per carattere, e corrotti dall’incivilimento, spogli di virtù, di magnanimità, di entusiasmo, di sentimenti e passioni grandi forti e nobili, d’integrità, di coraggio, d’ingegno, di eroismo, capacità di sacrifizi, ec.
ec. Tutte cose necessarie a mantenersi individualmente, e a mantenere relativamente e generalmente lo stato uguale e libero di un popolo. In chi domina l’egoismo, non può che servire o regnare. Così i nostri principi. Regnano, e saprebbero servire. (Così i nostri magistrati, ministri, grandi. Regnano e servono. Sanno riunir l’una cosa all’altra. Le mettono effettivamente in opera ambedue.) Ma come sarebbero capacissimi di servitù (e perciò appunto che regnano come fanno, e che son tali signori), così sarebbero incapaci di libertà e di uguaglianza. Questa non può nè convenire particolarmente, nè conservarsi in una nazione, senza le qualità e le forze della natura.
Un uomo o una nazione snaturata, non può esser libera, nè [525]molto meno uguale: non può se non regnare o servire. La libertà richiede homines non mancipia, �ndraw kaÜ oçk �ndr�poda, e chi è schiavo o dei padroni servendo, o di se stesso, dell’egoismo, e delle basse inclinazioni regnando, non può comportare lo stato libero, nè uguale. L’amor di se stesso è inseparabile dall’uomo.
Questo lo porta ad innalzarsi. Dove l’innalzamento ec. in somma la soddisfazione dell’amor proprio è impossibile, quivi l’uomo non può vivere. Ora nello stato di perfetta libertà ed uguaglianza, l’individuo non fa progressi senza virtù e pregi veri, perchè la sua fortuna, gli onori, le ricchezze, i vantaggi ec. dipendono dalla moltitudine, la quale non potendo giudicare secondo gli affetti e inclinazioni particolari, perchè queste son varie e infinite, e non Letteratura italiana Einaudi 441
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia si accordano insieme, bisogna che giudichi secondo le regole e le opinioni universali, cioè le vere. Chi dunque manca di virtù e pregi veri (e tali sono gli uomini corrotti), non può sopportare la libertà e l’uguaglianza, nè trovar vita in questo stato.
(18. Gen. 1821.)
Sane quod Poematis delectari se ait, id [526] non abhorret ab huius compendii scriptore, quando stylus eius est in historia declamatorius, ac Poetico propior, adeo ut etiam hemistichia Virgilii profundat: dice G. G. Vossio di Floro.
(de Historic. latt. l.1.) Nel lib. IV. c.11. dove Floro dice di Antonio il triumviro: patriae, nominis, togae, fascium oblitus, pare che questa sia un’imitazione di Orazio: (Od.
5. l.3. v.10.)
Anciliorum, NOMINIS et TOGAE
BLITUS aeternaeque Vestae.
(18. Gen. 1821.). V. p.723. fine.
Alla p.477. Floro è noto per il molto che ha di poetico, non solo nell’invenzione, nell’immaginazione, evidenza, fecondità, come Livio, ma nella sentenza e nella frase, anzi non tanto nella facoltà, quanto nella maniera, nello stile, e nella volontà. E in ogni modo Floro ha tanto di gravità, nobiltà, posatezza, ed ancora castigatezza, in somma tanto sapor di prosa, quanto non si troverà facilmente in nessun moderno, se non forse, ma dico forse, in qualcuno de’ nostri cinquecentisti. E quella stessa dose di pregi (senza [527]i quali però non ci può esser buona nè vera prosa) basterebbe per fare ammirare uno scrittore de’
nostri tempi, e farlo giudicare sommo ed unico. (Aggiungete tutto quello che spetta alla lingua: eleganza, purità sufficientissima, armonia, varietà ec. forma de’ periodi, e loro disposizione e connessione ec.) Ora i migliori e sommi prosatori francesi, in ordine a questi pregi, non sono Letteratura italiana Einaudi 442
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia degni di venir nemmeno in confronto con uno de’ peggiori ed infimi classici latini.
(19. Gen. 1821.)
I fanciulli trovano il tutto nel nulla, gli uomini il nulla nel tutto. T¡tartow (Ξenokr�thw), filñsofow,
�ElegeÛan gegrafÆw oçk ¤pituxÇw. (Elegiae scriptor non satis probatus) �Idion3 d¢. (Ita enim se habet res) PoihtaÜ m¢n g�r ¤piballñmenoi pezoirafeÝn,
¤pitugx�nousi: (si quid prosa oratione scribere velint, praestant) pezogr�foi d¢ ¤pitiϑ¡menoi poihtik», ptaÛousi. (si poeticae sibi partes vindicare velint, non assequuntur) D°lon tò m¢n fæsevw eänai (scil. tò t°w poihtik°w) tò d¢ t¡xnhw ¦rgon. Laerz. in Xenocrate, l.4. segm. [528]15. E v. se ha nulla in questo proposito il Menagio.
(19. Gen. 1821.)
Come i piaceri così anche i dolori sono molto più grandi nello stato primitivo e nella fanciullezza, che nella nostra età e condizione. E ciò per le stesse ragioni per le quali è maggiore il diletto. Primieramente (massime ne’
fanciulli) manca l’assuefazione al bene e al male. Il bene dunque e il male dev’essere molto più sensibile ed energico relativamente all’animo loro, che al nostro. Poi (e questo è il punto principale, e comune a tutti gli uomini naturali) il dolore, la disgrazia ec. nel fanciullo, e nel primitivo, sopravviene all’opinione della felicità possibile, o anche presente; contrasta vivissimamente coll’aspetto del bene, creduto e reale e grande, del bene o già provato, o sperato con ferma speranza, o veduto attualmente negli altri; è l’opposto e la privazione di quella felicità che si crede vera, importante, possibilissima, anzi destinata al-l’uomo, posseduta dagli altri, [529]e che sarebbe posseduta da noi, se quell’ostacolo non ce l’impedisse, o per ora, o per sempre. Ed anche l’idea del male assoluto, cioè Letteratura italiana Einaudi 443
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia indipendentemente dalla comparazione del bene, è forse maggiore in natura, che nello stato di civiltà e di sapere.
Osservate ancora che dolor cupo e vivo sperimentava-mo noi da fanciulli, terminato un divertimento, passata una giornata di festa ec. Ed è ben naturale che il dolore seguente dovesse corrispondere all’aspettativa, al giubilo precedente. E che il dolore della speranza delusa sia proporzionato alla misura di detta speranza. Non dico alla misura del piacere provato, realmente, perchè infatti neanche i fanciulli provano mai soddisfazione nell’atto del piacere, non potendo nessun vivente esser soddisfatto se non da un piacere infinito, come ho detto altrove. Anzi il nostro dolore, dopo tali circostanze, era inconsolabile, non tanto perchè il piacere fosse passato, quanto perchè non avea corrisposto alla speranza. Dal che seguiva talvolta una specie di rimorso o pentimento, come se non avessimo goduto [530]per nostra colpa. Giacchè l’esperienza non ci aveva ancora istruiti a sperar poco, preparati a veder la speranza delusa, assuefatti a consolarci facilmente di tali e maggiori perdite ec.
Insomma considerando in quella età le cose come importanti, o più importanti di quello che le consideriamo in altra età, (così relativamente e in particolare, come in generale e assolutamente) è naturale che come i piaceri, così i dolori di quell’età sieno maggiori in proporzione dell’importanza che gli oggetti del dolore o del piacere hanno nella nostra opinione.
Così nella speranza di qualche bene, quale non era la nostra inquietudine, i nostri timori, i nostri palpiti, le nostre angosce ad ogni piccolo ostacolo, o apparenza di difficoltà, che si opponesse al conseguimento della detta speranza!
E se poi l’oggetto stesso della speranza (ancorchè minimo, rispetto alle nostre opinioni presenti) non si conseguiva, quale non era la nostra disperazione! In maniera Letteratura italiana Einaudi 444
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia che forse in seguito, nelle più grandi sventure della vita, non abbiamo provato, nè proveremo mai tanto dolore e accoramento, come per quelle minime sventure fanciullesche.
[531]Lascio stare il timore e lo spavento proprio di quell’età (per mancanza di esperienza e sapere, e per forza d’immaginazione ancor vergine e fresca): timor di pericoli di ogni sorta, timore di vanità e chimere proprio solamente di quell’età, e di nessun’altra; timor delle larve, sogni, cadaveri, strepiti notturni, immagini reali, spaventose per quell’età e indifferenti poi, come maschere ec. ec. (V. il Saggio sugli Errori popolari degli antichi.) Quest’ultimo timore era così terribile in quell’età, che nessuna sventura, nessuno spavento, nessun pericolo per formidabile che sia, ha forza in altra età, di produrre in noi angosce, smanie, orrori, spasimi, travaglio insomma paragonabile a quello dei detti timori fanciulleschi. L’idea degli spettri, quel timore spirituale, soprannaturale, sacro, e di un altro mondo, che ci agitava frequentemente in quell’età, aveva un non so che di sì formidabile e sma-nioso, che non può esser paragonato con verun altro sentimento dispiacevole dell’uomo. Nemmeno il timor dell’inferno in un moribondo, credo che possa essere così intimamente terribile. Perchè la ragione e l’esperienza rendono inaccessibili a qualunque sorta di sentimento, quell’ultima e profondissima [532]parte e radice dell’animo e del cuor nostro, alla quale penetrano e arrivano, e la quale scuotono e invadono le sensazioni fanciullesche o primitive, e in ispecie il detto timore.
(20. Gen. 1821.). V. p.535 capoverso 1.
Quid dulcius, quam habere, quicum omnia audeas sic loqui, ut tecum? Quis esset tantus fructus in prosperis rebus, nisi haberes, qui illis aeque, ac tu ipse, gauderet?
Cic. Lael. sive de Amicitia. Cap.6.
(20. Gen. 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 445
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Il piacere umano (così probabilmente quello di ogni essere vivente, in quell’ordine di cose che noi conosciamo) si può dire ch’è sempre futuro, non è se non futuro, consiste solamente nel futuro. L’atto proprio del piacere non si dà. Io spero un piacere; e questa speranza in moltissimi casi si chiama piacere. Io ho provato un piacere, ho avuto una buona ventura: questo non è piacevole se non perchè ci dà una buona idea del futuro; ci fa sperare qualche godimento più o meno grande; ci apre un nuovo campo di speranze; ci persuade di poter godere; ci fa conoscere la possibilità di arrivare a certi desideri; ci mette
[533]in migliori circostanze pel futuro, sia riguardo al fatto e alla realtà, sia riguardo all’opinione e persuasone nostra, ai successi, alle prosperità che ci promettiamo dietro quella prova, quel saggio fattone. ec. Io provo un piacere: come? ciascuno individuale istante dell’atto del piacere, è relativo agl’istanti successivi; e non è piacevole se non relativamente agl’istanti che seguono, vale a dire al futuro. In questo istante il piacere ch’io provo, non mi soddisfa, e siccome non appaga il mio desiderio, così non è ancora piacere, ma ecco che senza fallo io lo proverò immediatamente; ecco che il piacere crescerà, ed io sarò intieramente soddisfatto. Andiamo più avanti: ancora non provo vero piacere, ma ora (chi ne dubita?) sono per provarlo. Questo è il discorso, il cammino, l’occupazione, l’operazione, e la sensazione dell’animo nell’atto di qualunque siasi piacere. Giunto l’ultimo istante, e terminato l’atto del piacere, l’uomo non ha provato ancora il piacere: resta dunque o scontento: o soddisfatto comunque per una opinione debole, falsa, e poco, anzi niente persuasiva, [534]di averlo provato; e va ruminando, e com-piacendosi di quello che ha sentito, e provando così un altro piacere, il di cui oggetto è bensì passato, ma non il piacere (perchè come può esser passato quello che non è mai stato, e che è sempre futuro?) e l’atto di questo nuo-Letteratura italiana Einaudi 446
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia vo piacere è composto di una successione d’istanti della stessa natura che l’altro atto; e quindi parimente futuro: o finalmente resta con una certa letizia e si rallegra, perchè quantunque non possa il suo piacere riferirsi più agl’istanti successivi di quell’atto, ch’è già finito, si riferisce ad altri atti; l’idea del così detto piacere provato, gli dà un’idea di quelli ch’egli crede di poter provare; concepisce una migliore idea del futuro, una speranza, un disegno, una risoluzione o di proccurarsi altri piaceri, o qualunque ella sia. Così prova un piacere, ma sempre ed ugualmente futuro. Così p.e. se tu sei stato lodato, o ti sei trovato in una occasione di brillare, di gloria, ec. L’atto di quel piacere è stato quale l’ho descritto: ma finito l’atto, lo vai ruminando a parte a parte, e torna un altro atto di piacere composto alla stessa guisa, e fondato o sul semplice gusto della
[535]ricordanza, o sulla relazione che quel preteso piacere ha col futuro, con quei piaceri o beni che tu (come credi) puoi dunque o devi provare, coll’idea che ti dà della futura vita, coi disegni, coll’idea di te stesso, delle tue forze ec. colle speranze o reali, o rispetto all’opinione e immaginazione tua; insomma tutto futuro, tanto riguardo all’atto del nuovo piacere presente, quanto agli oggetti di esso piacere. Così il piacere non è mai nè passato nè presente, ma sempre e solamente futuro. E la ragione è, che non può esserci piacer vero per un essere vivente, se non è infinito; (e infinito in ciascuno istante, cioè attualmente) e infinito non può mai essere, benchè confusamente ciascuno creda che può essere, e sarà, o che anche non essendo infinito, sarà piacere: e questa credenza (naturalissima, essenziale ai viventi, e voluta dalla natura) è quello che si chiama piacere; è tutto il piacer possibile.
Quindi il piacer possibile non è altro che futuro, o relativo al futuro, e non consiste che nel futuro. (20. Gen.
1821.). V. p.612. capoverso 1.
Letteratura italiana Einaudi 447
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Alla p.532. Questo si può osservare [536]anche negli effetti fisici o esterni delle dette sensazioni interne, sieno relativi alla salute, sieno ai moti, ai gesti, sieno alle risolu-zioni e azioni alle quali strascinano i fanciulli e i primitivi, e ciò con tale irresistibilità, e violenza infallibile, quale non ha verun’altra sensazione interna nelle altre età e condizioni, ma solamente alcune delle esterne e fisiche. Tant’è, l’immaginazione, o le sensazioni interne, hanno, si può dire nella fanciullezza, e nello stato naturale, la stessa o simile forza e certezza, delle sensazioni e forze esterne e meccaniche in quella e nelle altre età o condizioni.
(20. Gen. 1821.)
Nihil est enim appetentius similium sui, nihil rapacius, quam natura. Cic. Lael. sive de Amicit. c.14.
(21 Gen. 1821.)
Alla p.135. Fructus enim ingenii et virtutis, omnisque praestantiae, tum maximus capitur, cum in proximum quemque confertur. Cic. Lael. sive de Amicit. c.19. fine.
E v. il capoverso superiore.
(21. Gen. 1821.)
È degna di esser veduta, consultata, e anche [537]tra-dotta e riportata all’occasione, la bella disputazione di Tullio (Lael. sive de Amicitia c.13. Nam quibusdam etc.
sino alla fine) contro quei filosofi greci i quali dicevano caput esse ad beate vivendum, securitatem; qua frui non possit animus, si tamquam parturiat unus pro pluribus: e quindi venivano a prescrivere il curam fugere, e l’ honestam rem actionemve, NE SOLLICITUS SIS, aut non suscipere, aut susceptam deponere. La qual filosofia, è presso a poco la filosofia dell’inazione e del nulla, la filosofia perfettamente ragionevole, la filosofia de’ nostri giorni. E quella disputazione di Tullio si può avere per una disputazione contro l’egoismo, sebbene, a quei tempi, ancora ignoto Letteratura italiana Einaudi 448
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia di nome. Quae est enim ista securitas? dice Cicerone; e segue facendo vedere a che cosa porti. Ma il principale è, che non solamente porta a mille assurdità e scelleraggini (secondo natura, non secondo ragione, ma Cicerone chiama la natura, optimam bene vivendi ducem. c.5.): ma non ottiene neanche il suo fine, ch’è la felicità dell’individuo
[538]in qualunque modo ottenuta. Anzi al contrario, l’impedisce, e la toglie di natura sua, ed è contraddittoria e incompatibile colla felicità dell’individuo nello stato sociale. Eccoci tutti seguaci di quella setta o dogma che Cicerone impugna. Eccoci tutti filosofi a quella maniera.
Eccoci tutti egoisti. Ebbene? siamo noi felici? che cosa godiamo noi? Tolto il bello, il grande, il nobile, la virtù dal mondo, che piacere, che vantaggio, che vita rimane?
Non dico in genere, e nella società, ma in particolare, e in ciascuno. Chi è o fu più felice? Gli antichi coi loro sacrifizi, le loro cure, le loro inquietudini, negozi, attività, imprese, pericoli: o noi colla nostra sicurezza, tranquillità, non curanza, ordine, pace, nazione, amore del nostro bene, e non curanza di quello degli altri, o del pubblico ec.? Gli antichi col loro eroismo, o noi col nostro egoismo?
(21. Gen. 1821.).
È cosa evidente e osservata tuttogiorno, che gli uomini di maggior talento, sono i più difficili a risolversi tanto al credere, quanto all’operare; i più incerti, i più barcollan-ti, e temporeggianti, i più tormentati da quell’eccessiva pena dell’irresoluzione: i più inclinati e soliti a lasciar le cose [539]come stanno; i più tardi, restii, difficili a mutar nulla del presente, malgrado l’utilità o necessità conosciuta. E quanto è maggiore l’abito di riflettere, e la profondità dell’indole, tanto è maggiore la difficoltà e l’angustia di risolvere.
(21. Gen. 1821.)
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Ma non perciò è segno di molto talento il soler sempre e subito determinarsi a non credere (come anche a non fare). Anzi perciò appunto è indizio di piccolo spirito. Il non credere, è una determinazione: e gli uomini veramente sapienti, e profondi, ed esperti, sanno quante cose possano essere, quanto sia difficile il negare, quanto sia vero che dall’incertezza e oscurità delle cose, dalla difficoltà di affermare, deriva necessariamente anche quella di negare, cioè affermare che una cosa non è, genere anch’esso di affermazione. E però se una cosa non manca affatto di prova, o di prova sufficiente a muover dubbio, o s’ella non è del tutto assurda, o riconosciuta evidentemente da lui stesso per falsa o col fatto, o colla ragione; eccetto in questi casi, [540]il vero saggio e filosofo e conoscitore delle cose in quanto (sono conoscibili), ¤p¡xei kaÜ
diask¡ptetai, e ritiene come l’assenso così anche il dis-senso. Ma uomini di non molto ingegno, bensì di molta apparenza, o desiderio di essa apparenza, credono mostrar talento quando al primo aspetto di una proposizione o cosa non ordinaria, o difficile a credere (o non concorde colle loro opinioni e principii, o non ben dimostrata o fondata), si determinano subito a non credere. E se ne compiacciono seco stessi, e si credono forti di spirito, perchè sanno determinatamente e prontamente non credere, quando è tutto l’opposto. E se bene in questo si mescola spesse volte l’ostentazione, non è però che non lo facciano ordinariamente di buona fede, e con verità, e che l’interno non corrisponda alle parole. Giacchè hanno veramente questa facilità di risolversi a non credere.
Perchè appunto sono lontani dalla vera e perfetta sapienza, e cognizione delle cose.
(22. Gen. 1821.)
Sic enim mihi perspicere videor, ita natos esse nos,
[541]ut inter omnes esset societas quaedam; (ecco l’amore universale, notato anche da Cicerone, e naturale, perchè Letteratura italiana Einaudi 450
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia la natura, e tutti gli animali tendono più che ad altro al loro simile; preferiscono nella inclinazione, nell’amore, nella società, il loro simile, allo straniero e diverso. Questo è il vero confine dell’amore universale secondo natura, non quelli che gli assegnano i nostri filosofi. Ma segui-tiamo) maior autem, ut quisque proxime accederet. Itaque cives, potiores, quam peregrini; et propinqui quam alieni. (Così che nel conflitto degl’interessi di coloro che nobis proxime accedunt, cogl’interessi degli stranieri, alieni, lontani, quelli vincono nell’animo, nella inclinazione, e nella natura nostra: e non già nella sola parità di circostanze, ma quando anche o il bene, o la salute e incolumità de’
vicini, porti agli strani un danno sproporzionato; quando anche si tratti di un solo o pochi vicini, e di molti lontani; quando si tratti della sola sua patria in comparazione di tutto il mondo. E tali sono realmente gli effetti e la misura dell’amore dei bruti verso i loro [542]figli ec. rispetto agli altri loro simili: delle api di un alveare, rispetto alle altre ec. E v. il pensiero seguente.) Cum his enim amicitiam NATURA IPSA peperit. Cic. Lael. sive de Amicitia c.5.
sulla fine.
(22. Gen. 1821.)
Quapropter a natura mihi videtur potius, quam ab indigentia, orta amicitia, et applicatione magis animi cum quodam sensu amandi, quam cogitatione, quantum illa res utilitatis esset habitura. Quod quidem quale sit, etiam in bestiis quibusdam animadverti potest; quae ex se natos ita amant ad quoddam tempus, et ab eis ita amantur, ut facile earum sensus appareat. Quod in homine multo est evidentius. Cic. Lael. sive de Amicitia c.8.
(22. Gen. 1821.)
Della superiorità delle forze della natura, della fortuna, dello spontaneo, dell’amor naturale e fortuito (materia del pensiero precedente), sopra quelle della ragione, del-Letteratura italiana Einaudi 451
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia la provvidenza (umana), dell’arte, dell’amore ragionato e proccurato, cose sempre deboli, e più eleganti (a tutto dire) che forti e potenti; è degno di esser veduto un luogo insigne ed elegante di [543]Frontone (Ad M. Caes. l.1.
epist.8. ediz. principe. pag.58-61.) simile in parte ad un altro nelle Lodi della Negligenza. (p.371.).
(22. Gen. 1821.)
La superiorità della natura su la ragione e l’arte, l’assoluta incapacità di queste a poter mai supplire a quella, la necessità della natura alla felicità dell’uomo anche sociale, e l’impossibilità precisa di rimediare alla mancanza o depravazione di lei, si può vedere anche nella considerazione dei governi. Più si considera ed esamina a fondo la natura, le qualità, gli effetti di qualsivoglia immaginabile governo; più l’uomo è saggio, profondo, riflessivo, osser-vatore, istruito, esperto; più conchiude e risolve con piena certezza, che nello stato in cui l’uomo è ridotto, non già da poco, ma da lunghissimo tempo, e dall’alterazione, depravazione, e perdita della società (non dico natura) primitiva in poi, non c’è governo possibile, che non sia imperfettissimo, che non racchiuda essenzialmente i germi del male e della infelicità maggiore o minore de’
popoli e degli individui: non c’è nè c’è stato [544]nè sarà mai popolo, nè forse individuo, a cui non derivino inconvenienti, incomodi, infelicità (e non poche nè leggere) dalla natura e dai difetti intrinseci e ingeniti del suo governo, qualunque sia stato, o sia, o possa essere. Insomma la perfezione di un governo umano è cosa totalmente impossibile e disperata, e in un grado maggiore di quello che sia disperata la perfezione di ogni altra cosa umana.
Eppure è certo che, se non tutti, certo molti governi sarebbono per se stessi buoni, e possiamo dire perfetti, e l’imperfezione loro sebbene oggidì è innata ed essenziale per le qualità irrimediabili e immutabili degli uomini nelle cui mani necessariamente è riposto (giacchè il governo Letteratura italiana Einaudi 452
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia non può camminar da se, nè per molle e macchine, nè per ministerio d’Angeli, o per altre forze naturali o soprannaturali, ma per ministerio d’uomini); tuttavia non è imperfezione primitiva, e inerente all’idea del governo stesso, indipendentemente dalla considerazione de’ suoi ministri, nè inerente alla natura dell’uomo, ancorchè ridotto in società. Consideriamo.
[545]Il governo monarchico assoluto e dispotico, ossia giustamente e con verità, ossia che l’uomo odia naturalmente la servitù, e soffre di miglior animo i mali della cattiva e sregolata libertà; o che questo è il peccato, il flagello, il difetto, la sventura dominante del nostro secolo, e de’ passati, dall’estinzione, possiamo dire, della libertà Romana, in poi: per qualunque ragione, è considerato come il più imperfetto e barbaro e contrario al buon senso, alla retta ragione, alla natura, in somma per il peggiore di tutti i governi. Tale sarà oggidì; non mica in principio: anzi in principio, lo giudico e credo il più perfetto, e posso dire il solo perfetto, e ragionevole e naturale. Cioè, posto che v’abbia ad essere un governo, io dico che questo, nello stato primitivo della società, non doveva nè poteva esser altro che il monarchico assoluto; e non volendo questo, non c’era ragione di volere un governo.
L’uomo per natura è libero, e uguale a qualunque altro della sua specie. Ma nello [546]stato di società, non è così. La ragione, il principio, lo scopo della società, non è altro che il ben comune di coloro che la compongono e si uniscono in un corpo più o meno esteso. Senza questo fine, la società manca della sua ragione. E siccome ella è non solamente irragionevole se non ha questo fine, ma è ancora non pure inutile ma dannosa all’uomo, se sussiste senza conseguirlo; perciò se il detto fine non si realizza, conviene sciorre la società, perchè questa per se stessa, e indipendentemente dal detto fine, porta all’uomo più nocumento che vantaggio, anzi solo nocumento.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Ora il ben commune di un corpo o società, non si può ottenere, se non per la cospirazione di tutti i membri di lei a questo fine. Così accade in tutte le cose: che un effetto, il quale deve risultare da molte cagioni, e da molte forze, operanti ciascuna per la sua parte; non può realiz-zarsi senza l’accordo e cospirazione congiunta e convenevole di tutte queste forze, verso il detto effetto.
Ecco il principio d’unità: principio che risulta necessariamente dallo scopo della società, ch’è il ben comune. E
perciò, come nel ben [547]comune, e non in altro, consiste la ragione della società; così questa rinchiude essenzialmente il principio di unità. A segno che società, considerandola bene, importa per sua natura, unità, vale a dire unione di molti: la quale unione è imperfetta, se non è perfettamente una, in quello che concerne la sua ragione e il suo scopo: giacchè nel rimanente, dove la società non ha bisogno di unità, l’uomo sebbene associato, è come fuori della società, e conserva le sue qualità naturali, vale a dire la sua libertà, la cura di se stesso, e de’ suoi negozi ec. In somma nelle altre parti indipendenti dal ben comune, la società non sussiste, e non è società, sebbene ella sussista nel medesimo tempo, in quello che spetta alla sua ragione e destinazione e scopo.
Ma le volontà degl’individui riuniti in corpo, gl’interessi, o le opinioni che ciascuno ha sopra i suoi vantaggi, e così sopra qualunque altra cosa, sono infinite, e diversissime. Quindi le forze di ciascuno, non possono cospi-rare ad un solo fine, tra perchè non tutti si curano di proccurarlo; e perchè le opinioni, le volontà ec. quando
[548]anche si accordino nel cercarlo assolutamente, non si accordano relativamente nel determinarlo, sia in genere e totalmente; sia in parte, e in particolare; sia riguardo ai tempi, alle opportunità di cercarlo e proccurarlo ec. E
l’uno crede o vuole che questo sia o debba essere il fine; l’altro che sia o debba esser quello: l’uno che questo giovi al fine convenuto e stabilito; l’altro che noccia o non gio-Letteratura italiana Einaudi 454
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia vi: l’uno che bisogni cercare il detto fine, oggi, o in questa maniera; l’altro che bisogni aspettare fino a domani, o cercarlo in quest’altro modo. E così, chi non si cura del ben comune, non corrisponde al fine della società, è inutile e dannoso alla società. Chi se ne cura, non cospira, nè può cospirar cogli altri, sia positivamente, sia negativa-mente, cioè col fare, o coll’astenersi dal fare, secondo i bisogni, e i fini ec. Dunque neppur egli corrisponde al fine della società, il quale non può risultare se non dall’accordo dei membri verso il ben comune: altrimenti ciascuno poteva senza società, proccurarlo da se; e la società era inutile.
[549]In un corpo dunque perfettamente libero e uguale, manca affatto l’unità, solo mezzo di ottenere il solo scopo della società; anzi solo costituente della società: e però in un corpo libero ed uguale, non esiste se non il nome e la sembianza della società; vale a dire che più persone si trovano insieme di luogo, ma non in società.
Come dunque lo scopo della società è il ben comune; e il mezzo di ottenerlo, è la cospirazione degl’individui al detto bene, ossia l’unità; così l’ordine, lo stato vero, la perfezione della società, non può essere se non quello che produce e cagiona perfettamente questa cospirazione e unità. Giacchè la perfezione di qualunque cosa, non è altro che la sua intera corrispondenza al suo fine.
Come dunque riunire ad un sol centro le opinioni, gl’interessi, le volontà di molti? Non c’è altro mezzo che su-bordinarle, e farle dipendere e regolare da una sola opinione, volontà, interesse; vale a dire dalle opinioni, volontà, interessi di un solo. L’unità è ottenuta; ma perch’ella sia vera unità, bisogna che questo solo, sia veramente solo; cioè possa pienamente [550]diriggere e regolare e determinare le opinioni interessi volontà di ciascuno; e disporre per conseguenza delle forze di ciascuno: in somma che tutti i membri di quella tal società, dipendano intieramente da lui solo, in tutto quello che concerne lo scopo di detta Letteratura italiana Einaudi 455
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia società, cioè il di lei bene comune. Ecco dunque la monarchia assoluta e dispotica. Eccola dimostrata, non solamente buona per se stessa, ma inerente all’essenza, alla ragione della società umana, cioè composta d’individui per se stessi discordanti.
Colla monarchia assoluta e dispotica, l’unità è, come dissi, ottenuta. Questo è il mezzo per conseguire il bene comune. Ma esso bene, cioè il fine, sarà ottenuto? Tanto sarà ottenuto, quanto le opinioni, le volontà di quel solo corrisponderanno e tenderanno effettivamente al detto fine; e quanto i suoi interessi saranno tutta una cosa cogl’interessi comuni.
Ecco la necessità di un principe quasi perfetto: irreprensibile nei giudizi e opinioni [551]prudenza ec.
per discernere e determinare il vero bene universale e i veri mezzi di ottenerlo; irreprensibile nelle volontà, e quindi nei costumi, nella coscienza, nelle inclinazioni, nelle opere, nella vita (in quanto concerne il detto fine), per diriggere effettivamente le sue forze e quelle de’ sudditi a quel fine, nel quale egli giudica riposto il comun bene.
Se il principe non è tale, siamo da capo. Siccome egli è divenuto l’anima e la testa, e in somma la forza movente della società, anzi si può dire che la forza attiva e negativa della società sia tutta riposta e rinchiusa in lui; così quanto egli non mira al ben comune (o per difetto di giudizio, o di volontà), tanto la società manca di nuovo della sua ragione, si allontana dal suo fine, e diventa di nuovo inutile e dannosa. E tanto più dannosa, quanto maggiori sono i mali che derivano dalla servitù, dall’esser tutti destinati al bene di un solo, dall’impiegare le loro forze non più pel loro bene, nè pubblico, nè pure individuale, ma per li capricci, e le soddisfazioni di un solo, il quale può anche volere, e spesso vuole il danno comune, e così tutti sono obbligati non solo a non proccurare il loro bene, ma il loro [552]male. In somma tutte le calamità che derivano Letteratura italiana Einaudi 456
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia dalla tirannia, stato direttamente contrario alla natura di tutti i viventi d’ogni specie, e quindi certa sorgente d’infelicità. Così la società diviene un male infinito, diviene formalmente l’infelicità degli uomini che la compongono: infelicità maggiore o minore, in proporzione che il principe, il quale viene a racchiudere in se stesso la società, si allontana per qualunque motivo dal di lei fine, ch’è divenuto in diritto e in dovere il suo proprio fine.
Se dunque la società non può stare, anzi non esiste senza unità; e la perfetta unità non può stare senza un principe assoluto; nè questo principe corrisponde al fine di essa unità, e società, e di se stesso, se non è perfetto; perchè il governo monarchico e la società sia perfetta, è necessario che il principe sia perfetto. Perfezione ancorchè relativa, non si dà fra gli uomini, nè fra gli animali, nè fra le cose. Ed ecco lo stato di società necessariamente imperfetto. Ma parlando di quella perfezione che è nell’uso e nella vita comune (Cic. de Amicit. c.5.); un principe
[553]perfetto in questo senso si poteva trovare nei principii della società. 1. Perchè la virtù, le illusioni che la producono e conservano, esistevano allora: oggi non più. 2. Perchè la scelta può cadere sopra il più degno e il più capace, tanto per ingegno e giudizio, quanto per buona e retta volontà, di corrispondere al fine del principato e della società, ossia 1° di conoscere, 2° di proccurare il ben comune di quel corpo che lo sceglieva.
Se dunque i primi popoli, le prime società, scelsero al principato quell’uomo che eminebat per doti dell’animo e del corpo, vere e convenienti alla detta dignità, o piuttosto uffizio e incarico; certo i primi popoli provviddero quanto può l’uomo, al fine della società, vale a dire al bene comune; e quindi alla perfezione della società.
Se questa scelta, questo patto sociale, di ubbidire pel comune vantaggio ad un solo che fosse degno e capace di conoscerlo e proccurarlo, abbia mai avuto luogo effettivamente; non [554]appartiene al mio proposito. Questo Letteratura italiana Einaudi 457
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia discorso non considera nè deve considerare altro che la ragione delle cose, e quindi come avrebbero dovuto andare, e avrebbero potuto andare da principio, e secondo natura; non come sono andate, o vanno. Del resto negli scarsi vestigi storici che rimangono delle antichissime monarchie (e questo discorso non appartiene se non alle antichissime e primitive), non mancherebbero esempi e argomenti di effettiva e realizzata corrispondenza del primitivo governo monarchico, col pubblico bene delle rispettive società. Così nei popoli Americani, così nei selvaggi (dove la tirannia par che s’ignori, sebbene si conosca la monarchia, o militare, o civile), così negli antichi Germani, de’ quali Tacito ed altri; così fra i Celti, de’
quali Ossian; così fra i greci Omerici, sebben questi appartengono precisamente a un grado di monarchia posteriore al primitivo. Insomma considerando le storie de’
primi tempi, si può vedere che l’idea della tirannia, sebbene antica, non è però antichissima: [555]bensì antichissima e primordiale nella società è l’idea della monarchia assoluta. V. Goguet, Origine delle scienze e delle arti.
Assoluta s’intende, non mica in modo che questa parola fosse pronunziata, e stabilita, e riconosciuta per costituente la natura di quel tale governo. Ma senza tante definizioni, e sanzioni, e formole, e spirito geometrico, gli antichi popoli si sottomettevano col fatto al reggimento di un solo assolutamente; senza però neppur pensare ch’egli dovesse esser padrone della vita, dell’opera, e delle sostanze loro a capriccio, ma in vantaggio di tutti; giacchè le esattezze, le definizioni, le circoscrizioni, le formole chiare e precise, non sono in natura, ma inventate e rese necessarie dalla corruzione degli uomini, i quali oggidì hanno bisogno di stringere ed essere stretti con leggi, patti, obbligazioni (o morali o materiali) distintissime, minutissime, specificatissime, numerosissime, matematiche ec.
perchè si tolga alla malizia ogni sutterfugio, ogni scanso, Letteratura italiana Einaudi 458
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ogni equivoco, ogni libertà, ogni campo aperto e indeterminato. E già vengo a quesa corruzione.
[556]Essendo gli uomini quali ho detto di sopra, si poteva trovare un principe e capace e buono. Essendo la società nello stato primitivo e naturale, senza troppe regole, senza troppa ambizione, senza impegni, senz’altre corruzioni e impedimenti; si poteva e scegliere il detto uomo, e morto, sceglierne altro similmente degno.
Ridotti gli uomini allo stato di depravazione (e il nostro discorso comprende tanto l’antica, quanto la moderna depravazione, perchè anche l’antica bastava all’effetto che dirò), non fu più possibile trovare un principe perfetto.
Quando anche si fosse trovato, non fu più possibile, ch’egli divenuto principe, si conservasse tale: sì per la corruzione individuale degli uomini; sì per la generale della società; i costumi mutati, le illusioni cominciate a scoprire, la virtù cominciata a conoscere inutile o meno utile di certi vizi, gli esempi che hanno forza di guastare qualunque divina indole. In somma non fu più possibile che l’uomo anche più perfetto, avuto in mano il potere, non se ne abusasse. Quando anche [557]fosse stato possibile questo ancora, la depravazione della società, la malizia nata e cresciuta, l’ambizione ec. e quindi la necessità di regole fisse, strette, e indipendenti dall’arbitrio, rendevano impossibile la scelta del successore. Bisognò dunque, perch’ella fosse certa e invariabile commetterla al caso, e stabilire il regno ereditario. E dove questo non fu stabilito, non si guadagnò altro che un aumento di mali nelle turbolenze della scelta, perchè la società ridotta com’era, non poteva più scegliere nè senza turbolenza, nè un principe degno.
Dacchè il monarca non fu più o eleggibile, o bene scelto, la monarchia divenne il peggiore di tutti gli stati. Perchè un uomo veramente perfetto per quell’incarico, essendo raro da principio, rarissimo in seguito, com’era possibile, che senza una scelta accurata, si potesse trovare quest’uo-Letteratura italiana Einaudi 459
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia mo rarissimo, capace del principato? Com’era possibile che [558]l’azzardo della nascita, o di una scelta parimente, si può dir casuale, perchè diretta da tutt’altro che dal vero, si combinasse a cadere appunto in quest’uomo sommo e quasi unico, difficilissimo a trovare anche mediante la più matura considerazione e cura? Tanto più che la corruzione della società, esigeva allora in un perfetto principe, maggiori e più difficili qualità che per l’addietro: così che non solo il buono era più straordinario di prima, ma inoltre un principe che sarebbe stato perfetto una volta, non era più sufficientemente perfetto per allora.
La perfezione dunque del principe cosa essenziale alla monarchia, non fu più nè considerata, nè possibile, nè effettiva, e non entrò più nell’ordine della società. E siccome, oltre che la perfezione era rarissima, il principe era tale in forza non della perfezione, ma del caso, perciò, egli poteva non solo non essere il migliore, ma anche il peggiore degl’individui: e ciò non solo per accidente, ma anche perchè la natura della sua condizione, il potere, l’adulazione ec. contribuivano [559]positivamente, definitamente, e necessariamente a farlo tale.
Da che dunque il principe fu cattivo, o non perfetto, la monarchia perdè la sua ragione, perchè non poteva più corrispondere al suo scopo, cioè al ben comune. L’unità restava, ma non il di lei fine: anzi l’unità in vece di condurre al detto fine, era un mezzo di allontanarlo, e renderlo impossibile. Così anche la società, perduta la sua ragione e il suo scopo, cioè il comun bene, tornava ad essere inutile e dannosa, con quel di più che risultava dall’assurdità, barbarie, e pregiudizio sommo, dell’esser tutti nelle mani di un solo, inteso a danneggiarli.
In questo stato tornava meglio, o sciorre affatto la società, o diminuire, laxare, quell’unità, ch’essendo da principio e in natura il massimo e più necessario de’ beni sociali, così dopo la corruzione, è il sommo de’ mali, e l’istrumento e sorgente delle più terribili infelicità.
Letteratura italiana Einaudi 460
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia
[560]Allora fu che i popoli abbandonando, e distruggendo il loro primo, vero, e naturale governo, inerente alla vera natura della società, si rivolsero ad altri governi, alle repubbliche ec. divisero i poteri, divisero in certo modo l’unità; ripigliando quella parte di libertà e di uguaglianza, che restava loro sotto la primitiva monarchia, andarono anche più oltre, e ne ripigliarono tanta, quanta non era compatibile colla natura e ragione della società.
Ed era ben naturale, perchè quel monarca assoluto che doveva disporre di quest’altra porzione di libertà ec. non esistendo più pel comun bene, non doveva più sussistere, nè sussisteva.
Così le repubbliche d’ogni qualsivoglia sorta, e in ragione e in fatto sono posteriori alla monarchia assoluta, e l’idea e l’esistenza della tirannia non è antichissima, ma nella teoria, ed effettivamente nella storia, precede immediatamente l’idea e l’esistenza degli stati liberi. Giacchè l’antichissima e primitiva forma e idea di governo, non è altra che quella dell’assoluta monarchia. Osservate la storia greca, osservate la romana. V. Goguet loc. cit. Dovunque e sempre la monarchia [561]precede la libertà, e la libertà nasce dalla corrotta monarchia, come dalla libertà anche più corrotta successivamente, e più cattiva di quello che fosse nel suo primo rinascimento, nasce una nuova monarchia: libertà e nuova monarchia tutte due cattive, perchè tutte due derivate da cattivo principio. Eccetto che la libertà ed uguaglianza naturale precede la monarchia primitiva, o nello stato dell’uomo insociale e solitario, o in quella prima infanzia della società, dov’ella è piuttosto un’adunanza materiale d’uomini che una società.
Riprendendo il filo del discorso: coll’influenza, la forza, la viridità, l’osservanza della natura, era finita la perfezione e l’utilità dell’assoluta monarchia: coll’assoluta monarchia era finito lo stato vero ed essenziale della società. Lungi dunque dalla natura, e lungi dall’essenza di se stessa, la società non poteva esser più felice. Nè vi po-Letteratura italiana Einaudi 461
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia teva più esser governo perfetto, non solo perchè l’uomo era allontanato dalla natura, fuor della [562]quale non v’è perfezione in qualunque stato; ma anche e principalmente perchè quel solo governo che potesse da principio esser perfetto, perchè il solo conveniente all’essenza della società, era da circostanze irrimediabili e perpetue escluso per sempre dalla perfezione; ed anche (presso questo o quel popolo) escluso effettivamente ed intieramente dalla società.
La natura, sola fonte possibile di felicità anche all’uo-mo sociale, è sparita. Ecco l’arte, la ragione, la meditazione, il sapere, la filosofia si fanno avanti per supplire al-l’assenza o corruzone della natura, rimediarci, sostituire i loro (pretesi) mezzi di felicità, ai mezzi della natura; occupare in somma il luogo da cui la natura era cacciata, e far le di lei veci; condurre l’uomo cioè a quella felicità, a cui la natura lo conduceva. Quante forme di governo non sono state ideate! quante messe in pratica! quanti sogni, quante chimere, quante utopie ne’ pensieri de’ filosofi!
certo essi erravano ne’ principii, giacchè pretendevano d’immaginare un governo perfetto, e [563](lasciando tutto il resto, lasciando le assurdità e impossibilità nell’applicazione delle loro teoriche al fatto) la perfezione possibile del governo non è altra che quella che ho detta; perfezione semplicissima, e che non ha bisogno di studi, meditazioni, esperienze, complicazioni per esser trovata e conseguita; anzi non è perfezione se è complicata, ma non può esser altro che semplicissima.
Fra tante miserie di governi che quasi facevano a gara, qual fosse il più imperfetto e cattivo, e il meglio adattato a proccurare l’infelicità degli uomini; egli è certo ed evidente, che lo stato libero e democratico, fino a tanto che il popolo conservò tanto di natura da esser suscettibile in potenza ed in atto, di virtù di eroismo, di grandi illusioni, di forza d’animo, di buoni costumi; fu certamente il migliore di tutti. L’uomo non era più tanto naturale, da po-Letteratura italiana Einaudi 462
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tersi trovar uno che reggesse al dominio senza corrompersi, e senza abusarne: e dopo inventata la malizia, il potere senza limiti, non poteva più sussistere, nè per parte del principe che ne [564]abusava inevitabilmente, nè per parte del popolo. Perchè se questo non era costretto e circoscritto da freni, da leggi, da forze, in somma da catene, non era più capace di ubbidire spontaneamente, di badare tranquillamente alla sua parte, di non usurpare, non sacrificare il vicino, o il pubblico a se stesso, non aspirare all’occasione anche al principato, in somma non era capace di non tendere alla pleonejÛa in ogni cosa.
L’ubbidienza e sommissione totale al principe, e l’esser pronto a servirlo, non è insomma altro che un sacrifizio al ben comune, un esser pronto a sacrificarsi per gli altri, un contribuire pro virili parte al pubblico bene. Dico quando la detta sommissione è spontanea. Ma l’egoismo non è capace di sacrifizi. Dunque la detta sommissione spontanea non era più da sperare; la comunione degl’interessi d’ogni individuo coll’interesse pubblico era impossibile.
Nato dunque l’egoismo, nè il popolo poteva ubbidir più se non era servo, nè il principe comandare senza esser tiranno. (V. p.523. capoverso ult.) Le cose non andavano più alla buona, nè secondo natura, e questo o quello non andava in questo o quel modo, se non per una necessità certa e definita: ed era divenuta indispensabile, quella che ora lo è molto più, in proporzione della maggior corruttela, cioè la matematica delle cose, delle regole, delle forze.
[565]Ma restava ancora nel mondo tanta natura, tanta forza di credenze naturali o illusioni, da poter sostenere lo stato democratico, e conseguirne una certa felicità e perfezione di governo. Uno stato favorevolissimo alle illusioni, all’entusiasmo ec. uno stato che esigge grand’azione e movimento: uno stato dove ogni azione pubblica degl’individui è sottoposta al giudizio, e fatta sotto gli occhi della moltitudine, giudice, come ho detto altrove, Letteratura italiana Einaudi 463
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia per lo più necessariamente giusto; uno stato dove per conseguenza la virtù e il merito non poteva mancar di premio; uno stato dove anzi era d’interesse del popolo il premiare i meritevoli, giacchè questi non erano altro che servitori suoi, ed i meriti loro, non altro che benefizi fatti al popolo, il quale conveniva che incoraggisse gli altri ad imitarli; uno stato dove, se non altro, e malgrado le ultime sventure individuali, non può quasi mancare al merito, ed alle grandi azioni il premio della gloria, quel fantasma immenso, quella molla onnipotente nella società; uno stato, del [566]quale ciascuno sente di far parte, e al quale però ciascuno è affezionato, e interessato dal proprio egoismo, e come a se stesso; uno stato dove non c’è molto da invidiare, perchè tutti sono appresso a poco uguali, i vantaggi sono distribuiti equabilmente, le preminenze non sono che di merito e di gloria, cose poco soggette all’invidia, e perchè la strada per ottenerle è aperta a ciascheduno, e perchè non si ottengono se non per mezzo e volontà di ciascheduno, e perchè ridondano in vantaggio della moltitudine; in somma uno stato che sebbene non è il primitivo della società, è però il primitivo dell’uomo, naturalmente libero, e padrone di se stesso, e uguale agli altri (come ogni altro animale), e quindi moltissimo della natura sola sorgente di perfezione e felicità: un simile stato finchè restava tanta natura da sostenerlo, e quanta bastava perch’egli fosse ancora compatibile colla società; era certamente dopo la monarchia primitiva, il più conveniente all’uomo, il più fruttuoso alla vita, il più felice.
[567]Tale fu appresso a poco lo stato delle repubbliche greche fino alle guerre persiane, della romana fino alle puniche.
Ma come l’uguaglianza è incompatibile con uno stato il cui principio è l’unità, dal quale vengono necessariamente le gerarchie; così la disuguaglianza è incompatibile con quello stato, il cui principio è l’opposto dell’unità, cioè il potere diviso fra ciascheduno, ossia la libertà e democra-Letteratura italiana Einaudi 464
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia zia. La perfetta uguaglianza è la base necessaria della libertà. Vale a dire, è necessario che fra quelli fra’ quali il potere è diviso, non vi sia squilibrio di potere; e nessuno ne abbia più nè meno di un altro. Perchè in questo e non in altro è riposta l’idea, l’essenza e il fondamento della libertà. Ed oltre che senza questo, la libertà non è più vera, nè intera; non può neanche durare in questa imperfezione. Perchè, come l’unità del potere porta il monarca ad abusarsene, e passare i limiti; così la maggioranza del potere, porta il maggiore ad abusarsene, e cercare di accrescerlo; e così le [568]democrazie vengono a ricadere nella monarchia. Nè solamente la pleonejÛa del potere, ma ogni sorta di pleonejÛa, è incompatibile e mortifera alla libertà. Nella libertà non bisogna che l’uno abbia sopra l’altro nessun avvantaggio se non di merito o di stima, in somma di cose che non possano essere nè invidia-te per parte degli altri, nè abusate, e portate oltre i limiti da chi le possiede. Altrimenti nascono le invidie negli uni, il desiderio di maggior superiorità negli altri. Questi cercano d’innalzarsi, quelli di non restare al di sotto, o di conseguire gli stessi vantaggi. Quindi fazioni, discordie, partiti, clientele, risse, guerre, e alla fine vittoria e preponderanza di un solo, e monarchia. Perciò gli antichi legislatori, come Licurgo, o i savi repubblicani, come Fabrizio, Catone ec. proibivano le ricchezze, gastigavano chi possedeva troppo più degli altri (come fece Fabrizio nella censura), proscrivevano il sapere, le scienze, le arti, la coltura dello spirito, insomma ogni sorta di pleonejÛa.
Perciò tutte le repubbliche e democrazie vere, sono state povere e ignoranti [569]finchè ha durato il loro ben essere. Perciò gli Ateniesi arrivavano ad esser gelosissimi anche del troppo merito, della virtù segnalata, della mera gloria, ancorchè spoglia di onori esterni; ed è osservabile che la superiorità del merito anche fra i Romani fu tanto più sfortunata, quanto la democrazia era più perfetta, cioè ne’ primi tempi, come in Coriolano, in Camillo ec. Colle Letteratura italiana Einaudi 465
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ricchezze, il lusso, le aderenze, la coltura degl’ingegni, la troppa disuguaglianza delle dignità, ed onori esteriori, del potere ec. ed anche la sola eccessiva sproporzione del merito e della pura gloria, perirono, e sempre periranno tutte le democrazie.
Ma siccome è impossibile la durevole conservazione della perfetta uguaglianza, e la perfetta uguaglianza è il fondamento essenziale, e la conservatrice sola e indispensabile della democrazia, così questo stato non può durar lungo tempo, e si risolve naturalmente nella monarchia, se non è abbastanza fortunato per cader piuttosto nell’oligarchia, o nel governo degli ottimati, cioè nell’aristocrazia, le quali [570]però non sono ordinariamente, anzi si può dir sempre, fuori che un altro gradino alla monarchia. V. p.608. capoverso 1.
Il solo preservativo contro la troppa e nocevole disuguaglianza nello stato libero, è la natura, cioè le illusioni naturali, le quali diriggono l’egoismo e l’amor proprio, appunto a non voler nulla più degli altri, a sacrificarsi al comune, a mantenersi nell’uguaglianza, a difendere il presente stato di cose, e rifiutare ogni singolarità e maggioranza, eccetto quella dei sacrifizi, dei pericoli, e delle virtù conducenti alla conservazione della libertà ed uguaglianza di tutti. Il solo rimedio contro le disuguaglianze che pur nascono, è la natura, cioè parimente le illusioni naturali, le quali fanno e che queste disuguaglianze non derivino se non dalla virtù e dal merito, e che la virtù e l’eroismo comune della nazione, le tolleri, anzi le veda di buon occhio, e senza invidia, e con piacere, come effetto del merito, e non si sforzi di arrivare a quella superiorità, se non per lo stesso mezzo della virtù e del merito. E che quelli che hanno conseguita la detta superiorità, sia di gloria, sia di uffizi e dignità (giacchè quella di ricchezze, e altri tali vantaggi, non ha luogo finchè dura nella [571]repubblica l’influenza della natura), non se ne abusino, non cerchino di passar oltre, sieno contenti, anzi impieghino Letteratura italiana Einaudi 466
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia il poter loro a mantener l’uguaglianza e libertà, si comu-nichino agli altri, diminuiscano l’invidia de’ loro vantaggi col fuggire l’orgoglio, la cupidigia, il disprezzo o l’oppressione degli inferiori ec. ec. ec. E tutto questo accadeva effettivamente nei primi e migliori tempi delle antiche democrazie, cioè ne’ più vicini alla natura, e per gli effetti e le opere e i costumi, e materialmente per l’età. Ma spente le illusioni, scemata o tolta la natura, tornato in campo il basso egoismo fomentato dai vantaggi e dai mezzi d’in-grandimento nei superiori, irritato negl’inferiori dalla stessa inferiorità, aggiunte le ricchezze, il lusso, le clientele, gl’impegni, le ambitiones, la filosofia, l’eloquenza, le arti, e le altre infinite corruzioni e pleonejÛai della società, le democrazie s’indebolirono, crollarono e finalmente caddero. E qui torniamo al principio del nostro discorso,
[572]cioè come i governi che paiono e si trovano oggi imperfettissimi, e talora insostenibili, fossero o perfetti, o buoni, ed anche utilissimi da principio, e durante i costumi naturali. E come non vi sia peste, nè maggiore nè più certa a qualsivoglia stato pubblico, che la corruzione, e l’estinzione della natura. E come quei governi che durando la natura erano buoni, cessata la natura divengono senz’altro pessimi. E come alla natura non si può supplire, e la mancanza di lei non ha rimedio nessuno; nè senza lei si può mai sperare perfezione o felicità di governo fino alla fine dei secoli; ma tutto (e sia pure il governo il più profondamente studiato, combinato, e perfettamente filosofico) sarà sempre imperfettissimo, pieno di elementi discordanti, mal adattato all’uomo (al quale nulla si può più adattare, quand’egli non è più quello che dovrebb’essere), inetto alla vera felicità; e quindi o in fatto, o certo nella vera teorica, precario, istabile, mal situato, mal piantato, barcollante, incongruente, incoerente,
[573]falso ec. Il che si potrà anche vedere da quello che segue.
Letteratura italiana Einaudi 467
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Tutti i vari governi per li quali andò successivamente o simultaneamente errando o lo spirito umano, o il caso, o la forza delle circostanze particolari, non servirono ad altro che a disperare i veri filosofi (certamente pochi), convinti dall’esperienza della necessaria imperfezione, infelicità, contraddizione e sconvenienza di tutto quello che 1°
mancava di natura sola norma vera e invariabile d’ogni istituzione mondana; 2° non corrispondeva all’essenza e alla ragione della società, la quale richiede la monarchia assoluta.
Quasi tutte però le diverse aberrazioni della società in ordine ai governi, vennero a ricadere in questa monarchia, stato naturale della società, e il mondo, massime in questi ultimi secoli, era divenuto, si può dir, tutto monarchico assoluto. Specialmente poi dall’abuso e corruzione della libertà e democrazia, nata immediatamente dall’abuso e corruzione della [574]monarchia assoluta, era nata pure immediatamente una nuova monarchia assoluta. Ma non già quella primitiva, quella ch’era buona ed utile e conveniente alla società durante l’influenza della natura, e mediante questa sola: ma quella che può essere nell’assenza della natura; cioè quella tanto essenzialmente pessima, quanto la primitiva è sostanzialmente e solamente ottima: Insomma la tirannia, perchè la monarchia assoluta senza natura, non può esser altro che tirannia, più o meno grave, e quindi forse il pessimo di tutti i governi. E la ragione è, che tolte le credenze e illusioni naturali, non c’è ragione, non è possibile nè umano, che altri sacrifichi un suo minimo vantaggio al bene altrui, cosa essenzialmente contraria all’amor proprio, essenziale a tutti gli animali. Sicchè gli interessi di tutti e di ciascuno, sono sempre infallibilmente posposti a quelli di un solo, quando questi ha il pieno potere di servirsi degli altri, e delle cose loro, per li vantaggi e piaceri suoi, sieno anche capricci, insomma per qualunque soddisfazione sua.
Letteratura italiana Einaudi 468
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Il mondo ha marcito appresso a poco in questo stato dal principio dell’impero romano, fino al nostro secolo.
Nell’ultimo secolo, la filosofia, la cognizione delle cose, l’esperienza, lo studio, l’esame delle storie, degli uomini, i confronti, i paralelli, il commercio scambievole d’ogni sorta d’uomini, di nazioni, di costumi, le scienze d’ogni qualità, le arti ec. ec. hanno fatto progressi tali, che tutto il mondo rischiarato e istruito, si è rivolto a considerar se stesso, e lo stato suo, e quindi principalmente [575]alla politica ch’è la parte più interessante, più valevole, di maggiore e più generale influenza nelle cose umane. Ecco finalmente che la filosofia, cioè la ragione umana, viene in campo con tutte le sue forze, con tutto il suo possibile potere, i suoi possibili mezzi, lumi, armi, e si pone alla grande impresa di supplire alla natura perduta, rimediare ai mali che ne son derivati, e ricondurre quella felicità ch’è sparita da secoli immemorabili insieme colla natura.
Giacchè insomma la felicità e non altro, è o dev’esser lo scopo di questa nostra oramai perfetta ragione, in qualunque sua opera: come questo è lo scopo di tutte le facoltà ed azioni umane.
Che saprà fare questa ragione umana venuta finalmente tutta intiera al paragone della natura, intorno al punto principale della società? Lascio gli esperimenti fatti in Francia negli ultimi del passato, e nei primi anni di questo secolo. Riconosciuta per indispensabile la monarchia, e d’altronde la monarchia [576]assoluta per tutt’uno colla tirannia, la filosofia moderna s’è appigliata (e che altro poteva?) al partito di puntellare. Non idee di perfetto governo, non ritrovati, scoperte, forme di essenziale e necessaria perfezione. Modificazioni, aggiunte, distinzioni, accrescere da una parte, scemare dall’altra, dividere, e poi lambiccarsi il cervello per equilibrare le parti di questa divisione, toglier di qua, aggiunger di là: insomma miserabili risarcimenti, e sostegni, e rattoppature e chiavi, e ingegni d’ogni sorta, per mantenere un edifizio, che Letteratura italiana Einaudi 469
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia perduto il suo ben essere, e il suo stato primitivo, non si può più reggere senza artifizi che non entrano affatto nell’idea primaria della sua costruzione. La monarchia assoluta s’è cangiata in molti paesi (ora mentre io scrivo s’aspetta che lo stesso accada in tutta Europa) in costitutiva. Non nego che nello stato presente del mondo civile, questo non sia forse il miglior partito. Ma insomma questa non è un’istituzione che abbia il suo fondamento e la sua ragione nell’idea e nell’essenza o della società in generale e assolutamente, o [577]del governo monarchico in particolare. È un’istituzione arbitraria, ascitizia, derivante dagli uomini e non dalle cose: e quindi necessariamente dev’essere istabile, mutabile, incerta e nella sua forma, e nella durata, e negli effetti che ne dovrebbero emergere perch’ella corrispondesse al suo scopo, cioè alla felicità della nazione.
1° Tutto quello che non ha il suo fondamento nella natura della cosa, ha un’esistenza sostanzialmente precaria.
La cosa può restare, e la modificazione perire, alterarsi, dimenticarsi abbandonarsi, diversificarsi in mille guise, non ottenere il suo scopo, restare quanto al nome e al-l’apparenza, non quanto al fatto. Insomma le convengono tutte quelle proprietà, che nelle scuole si attribuiscono all’ accidente, e che lo definiscono. Di più, ancorchè resti, e resti in tutta la sua relativa perfezione o integrità, difficilmente può giovare, e valere, e tornare in bene, non avendo la sua propria ragione nell’essenza e natura della cosa.
2° La ragione e l’essenza della monarchia consiste in questo, che alla società è necessaria [578]l’unità. L’unità non è vera se il capo o principe non è propriamente e interamente uno. Questo non vuol dir altro se non che essere assoluto, cioè padrone egli solo di tutto quello che concerne il suo fine, cioè il bene comune. Quanto più si divide il potere, tanto più si pregiudica all’unità, dunque Letteratura italiana Einaudi 470
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tanto più si viola, si allontana e si esclude la ragione e la perfezione e della monarchia e della società.
Così che lo stato costituzionale non corrisponde alla natura e ragione nè della società in genere, nè della monarchia in specie. Ed è manifesto che la costituzione non è altro che una medicina a un corpo malato. La qual medicina sarebbe aliena da quel corpo, ma questo non potrebbe vivere senza lei. Dunque bisogna compensare l’imperfezione della malattia, con un’altra imperfezione. E
così appunto la costituzione non è altro che una necessaria imperfezione del governo. Un male indispensabile per rimediare o impedire un maggior male. Come un cauterio in un individuo affetto da reumi ec. Che sebbene quell’individuo vive [579]mediante quel cauterio, altrimenti non vivrebbe; e sebbene è libero da quel male, contro il quale è diretto quel rimedio: contuttociò quello stesso rimedio è un male, un vizio, un’imperfezione: e sebbene non nuoce più il primo male, nuoce il rimedio: e quell’individuo non è mica perfetto nè sano. Così una gamba di legno a chi ha perduto la naturale. Il quale cammina bensì con quella gamba, che altrimenti non potrebbe soste-nersi: ma non perciò resta ch’egli non sia imperfetto.
Ed ecco (per conclusione del mio discorso) come quei governi e quelle cose d’ogni genere, che da principio e secondo natura, sarebbero ed erano perfette, tolta la natura, non possono più esserlo malgrado qualunque sforzo della ragione, del sapere, dell’arte: e queste non possono mai riempiere il luogo della natura, e fare perfettamente le di lei veci: anzi rimediando a un male, ne introducono necessariamente un altro: perchè esse stesse introdotte che sono in qualunque genere di cose, ne formano un’imperfezione, e rendono quella tal cosa imperfetta per ciò solo che le contiene.
(22-29. Gen. 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 471
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Da tutto il sopraddetto deducete questo corollario.
L’uomo è naturalmente, primitivamente, [580]ed essenzialmente libero, indipendente, uguale agli altri, e queste qualità appartengono inseparabilmente all’idea della natura e dell’essenza costitutiva dell’uomo, come degli altri animali. La società è nello stesso modo primitivamente ed essenzialmente dipendente e disuguale, e senza queste qualità la società non è perfetta, anzi non è vera società. Pertanto l’uomo in società bisogna che necessariamente si spogli e perda delle qualità essenziali, naturali, ingenite, costitutive, e inseparabili da se stesso. Le quali egli può ben perdere in fatto, ma non in ragione, perchè come si può considerare un essere spoglio di una sua qualità intrinseca, costitutiva, e indipendente affatto dalle circostanze e dalle forze, o esterne o accidentali, perch’essendo primitiva e naturale, è necessaria, e durevole in ragione, quanto dura quell’essere che la contiene, e ne è composto? Sarebbe lo stesso che voler considerare un uomo senza la facoltà del pensiero, la quale è parimente indipendente dagli accidenti. In questa ipotesi, sarà un altro
[581]essere, ma non un uomo. Dunque un uomo privo della libertà e della uguaglianza in ragione, sarebbe privo dell’essenza umana, e non sarebbe un uomo, ch’è impossibile. Nè egli si può condannare a perdere realmente e radicalmente questa qualità, neppure spontaneamente: e nessuna promessa, contratto, volontà propria e libera, lo può mai spogliare in minima parte del diritto di seguire in tutto e per tutto la sua volontà, oggi in un modo, domani in un altro: e come egli ha potuto adesso volontariamente ubbidire, e promettere di ubbidire per sempre; così l’istante appresso egli può disubbidire in diritto, e non può non poterlo fare. V. p.452. capoverso 1. Dunque la società, spogliando l’uomo in fatto, di alcune sue qualità essenziali e naturali, è uno stato che non conviene all’uo-mo, non corrisponde alla sua natura; quindi essenzialmente e primitivamente imperfetto, ed alieno per conse-Letteratura italiana Einaudi 472
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia guenza dalla sua felicità: e contraddittorio nell’ordine delle cose.
Del resto tutto quello ch’io dico della necessità dell’unità, e quindi dipendenza [582]soggezione e disuguaglianza nella società, non appartiene e non ha forza in quanto a quella società veramente primordiale, che entra nell’essenza, ordine e natura della specie umana e degli animali: società imperfetta in quanto società; perfetta in quanto all’essenza vera e primitiva dell’uomo e degli animali, e all’ordine delle cose, dove nulla è perfetto assolutamente, ma relativamente. Volendo appurare l’idea della società, ne risulta direttamente la conseguenza che ho detto, cioè la necessità dell’unità, e quindi della monarchia ec. Ma questi appuramenti, queste circoscrizioni, queste esattezze, queste strettezze, queste sottigliezze, queste dialettiche queste matematiche non sono in natura, e non devono entrare nella considerazione dell’ordine naturale, perchè la natura effettivamente non le ha seguite. E
non solo non è imperfetto quello che non corrisponde geometricamente alle dette idee, purchè però sia naturale; ma anzi non può esser perfetto tutto quello che vien ridotto e conformato alle dette idee, perchè non è più conforme al suo [583]stato essenziale e primitivo. E dovunque ha luogo la perfezione matematica, ha luogo una vera imperfezione (quando anche questa rimedii ad altri più gravi inconvenienti e corruzioni), cioè discordanza dalla natura, e dall’ordine primitivo delle cose, il quale era combinato in altro modo, e fuor del quale non v’è perfezione, benchè questa non sia mai assoluta, ma relativa. La stretta precisione entra nella ragione e deriva da lei, non entrava nel piano della natura, e non si trovava nell’effetto. È necessaria ai nostri tempi, dove l’ordine delle cose è corrotto, ed è come degnissimo d’osservazione altrettanto evidente e osservato, che la stretta precisione delle leggi, istituzioni, statuti governi ec. insomma delle cose, è sempre cresciuta in proporzione che gli uo-Letteratura italiana Einaudi 473
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia mini e i secoli sono stati più guasti: ed ora è venuta al colmo, perchè anche la corruzione è eccessiva, e ha passato tutti i limiti. L’ appresso a poco, il facilmente e simili altre idee, non convengono ai sistemi presenti, dove nulla è, se può non essere: convengono ottimamente [584]alla natura, dove infinite cose erano, e potevano non essere, ma la natura aveva provveduto bastantemente, quando avea provveduto che non fossero, e non erano in fatto.
Altrimenti come si sarebbe potuta corromper la natura, e l’ordine delle cose, in quel modo in cui vediamo che ha fatto? Della qual corruzione, tutti, più o meno, bisogna che convengano. Ma ciò non avrebbe potuto accadere se tutto quello che era, non avesse potuto non essere, nè essere nè andare altrimenti. Il qual effetto è lo scopo della ragione e de’ presenti sistemi, sempre diretti a rendere impossibile il contrario, se il sistema appartiene alla pratica, e a dimostrare impossibile il contrario, se il sistema appartiene alla speculativa.
Questa pure è una gran fonte di errori ne’ filosofi, massime moderni, i quali assuefatti all’esattezza e precisione matematica, tanto usuale e di moda oggidì, considerano e misurano la natura con queste norme, credono che il sistema della natura debba corrispondere a questi principii; e non credono naturale quello che non è preciso e matematicamente esatto: quando anzi per lo contrario, [585]si può dir tutto il preciso non è naturale: certo è un gran carattere del naturale il non esser preciso. Ma il detto errore è fratello di quello che suppone nelle cose il vero, il bello, il buono, la perfezione assoluta.
Nella natura e nell’ordine delle cose bisogna considerare la disposizion primitiva, l’intenzione, il come le cose andassero da principio, il come piaccia alla natura che vadano, il come dovrebbero andare; non la necessità, nè il come non possano non andare. Ed egli è certissimo che, sebben l’ordine delle cose andava naturalmente nell’otti-Letteratura italiana Einaudi 474
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia mo modo possibile, e regolarissimamente, contuttociò andava alla buona; e la massima parte delle cagioni corrispondeva agli effetti sufficientemente (che questo si richiede alla provvidenza dell’effetto voluto: la sufficienza della causa), non necessariamente. E ciò non solo negli uomini, ma negli animali, e in tutti gli altri ordini di cose.
E perciò appunto si trovano e accadono tuttogiorno nel mondo tanti inconvenienti, aberrazioni, accidenti particolari contrari all’ordine generale: e non parlo già di quelli soli che derivano da noi, ma di quelli indipendenti [586]affatto dall’azione e dall’ordine nostro. I quali accidenti che si chiamano mali, disastri, ec. danno tanto che fare ai filosofi, i quali non vedono come possano aver luogo nell’opera della natura: ed alcuni sono stati così temerari, che siccome la ragione nelle sue piccole opere si sforza di escludere la possibilità d’ogni accidente particolare contrario a quel tal ordine generale; così hanno creduto che se la ragione umana avesse presieduto all’opera della natura, questi accidenti non avrebbero avuto luogo. Ma le dette imperfezioni accidentali non entrano nel piano della natura, (sebbene neppur questo possiamo dire non conoscendo l’intero ordine ed armonia delle cose): non ne sono però matematicamente e necessariamente esclusi; e sono da lei quasi permessi, in quel modo come dicono i Teologi che Dio permette il peccato, ch’è sommo male e imperfezione, ma accidentale: e in ogni modo il piano, il sistema, la macchina della natura, è composta e organizzata in altra maniera da quella della ragione, e non risponde all’esattezza matematica.
[587]Così dunque la società veramente primordiale, e naturale alla specie umana, come a quelle dei bruti, senza principato, senza soggezione, senza disuguaglianza, senza gradi, senza regole, poteva benissimo corrispondere al fine, cioè al comun bene, come vi corrisponde quella delle formiche: al qual fine non può mai corrispondere una società più stretta e formata, se manca di unità. Ma quel-Letteratura italiana Einaudi 475
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia la primissima società camminava alla buona, e così alla buona conseguiva l’intento della natura, e la sua destinazione. Nè per questo era necessario opporsi alla natura, e introdurre una contraddizione tra il fatto e il diritto, una contraddizione nell’ordine delle cose umane, introducendo qualità contrarie alle qualità ingenite ed essenziali dell’uomo; vale a dire la soggezione e disuguaglianza contrarie alla libertà ed uguaglianza naturale.
Che se le api hanno un capo, e quindi soggezione e disparità, questo non fa obbiezione veruna. Tutto essendo relativo, la natura che ha fatto gli uomini liberi e uguali, e così infinite altre specie di animali; poteva far le api (e altre tali specie, [588]se ve ne ha) disuguali e soggette. E
siccome ella lo ha fatto, dando una superiorità ingenita e naturale a certi individui di quella specie, sopra gli altri individui; perciò, come lo stato dell’uomo e degli altri animali non può esser perfetto senza libertà ed uguaglianza, perchè queste sono naturali in loro; così per lo contrario lo stato delle api non è perfetto senza soggezione e disuguaglianza, perchè la loro specie è così fatta e ordinata da natura, e la perfezione consiste nello stato naturale.
Negli uomini dunque non c’è nulla di simile, nè si può dedur nulla in proposito loro, dall’esempio delle api.
Perchè le piccole (certo piccole in proporzione della disparità delle api), dico le piccole disparità o superiorità di forze, di statura, d’ingegno ec. che s’incontrano negli uomini, sono disparità o superiorità accidentali, e provenienti da cause subalterne; come sono inferiorità accidentali quelle che vengono da malattie, da cadute, disgrazie d’ogni genere ec. Sono dico accidentali queste o superiorità, o inferiorità, cioè non sono regolari, e non appartengono all’ordine primitivo, costante, invariabile,
[589]essenzale della specie, come la disparità delle api.
Che se queste tali superiorità dessero a chi le possiede, un diritto di comandare e di essere ubbidito, 1. dove molti Letteratura italiana Einaudi 476
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia le possedessero in ugual grado, o non si saprebbe a chi ubbirire, o tutti quei tali dovrebbero comandare, ed ecco svanita l’idea dell’unità: 2. dove non ci fosse disparità nessuna, il principato non sarebbe naturale, dove ci fosse, sarebbe naturale: 3. e di più siccome le disparità possono nascere accidentalmente in diversi tempi, perciò in una stessa società anzi generazione di uomini, oggi non sarebbe naturale il principato, domani sì: 4. il fanciullo futuro superiore di forze ec. siccome ancora non è tale, e forse non diverrà tale, se non per cause accidentalissime, e imprevedibili; così non avrebbe ancora nessun’ombra di quel diritto al comando, che avrà poi per natura: 5.
questo diritto supposto naturale, non dovrebbe tuttavia durare se non quanto durasse la superiorità in quello o in quei tali; sicchè questi perdendo il vigore del corpo, o dell’ingegno, o dell’animo, la virtù, il coraggio ec. per malattie, per disgrazie, per circostanze, per cangiamento e corruzione di [590]opinioni, di costumi ec. per abuso fatto del corpo, o in ogni modo invecchiando, il che è inevitabile; perderebbero essenzialmente non solo in fatto ma in diritto quel comando, che si suppone avessero naturalmente e per se. V. p.609. capoverso 1. Insomma gli accidenti sono del tutto fuori d’ogni considerazione, intorno all’ordine primitivo e stabile, e alla natura di qualunque cosa.
(29-31 Gen. 1821.)
Del resto quanto sia facile, ovvia, e primitiva l’idea che a qualunque società, per poco ch’ella sia formata, e che declini dalla primissima forma di società, comune si può dire a tutte le specie di viventi, è necessaria l’unità, cioè un capo, e questo veramente uno, cioè assoluto, si può vedere e nelle storie d’ogni nazione, e in ogni genere di società, pubblica, privata ec. nelle milizie, nelle compagnie di cacciatori, o in qualunque compagnia, che abbia uno scopo comune, e sia destinata tutta insieme a un og-Letteratura italiana Einaudi 477
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia getto qualunque. Io mi sono abbattuto a sentire un uomo di nessuna o coltura, o acutezza naturale d’ingegno, il quale a una compagnia di negoziatori, che si mettevano a girare il mondo, per far guadagno [591]mediante un capitale comune e indivisibile (cioè un panorama), dava questo consiglio: Sceglietevi e riconoscete un capo, e ubbiditelo in tutto. (che altro è questo se non l’idea precisa della necessità della monarchia assoluta?) Altrimenti ciascuno cercando il suo interesse più dell’altrui, cosa contrarissima all’interesse e allo scopo comune, l’uno farà pregiudizio all’altro, e al tutto; e così ciascuno sarà pregiudicato, e la discordia (cioè il contrario dell’unità) v’impedirà di conseguire quello che cercate.
(31. Gen. 1821.). V. p.598. capoverso 1.2.3.
Quod si hoc apparet in bestiis, volucribus, nantibus, agrestibus, cicuribus, feris, primum ut se ipsae diligant; (id enim pariter cum omni animante nascitur) (dunque Cicerone riconosceva le bestie per dotate di libertà) deinde, ut requirant, atque appetant, ad quas se applicent, eiusdem generis animantes; idque faciunt cum desiderio, et cum quadam similitudine amoris humani: quanto id magis in homine fit natura, qui et se ipse diligit, et alterum anquirit, cuius animum [592]ita cum suo misceat, ut efficiat paene unum ex duobus? Cic. Lael. sive de Amicit.
c.21. fine.
Della nostra naturale inclinazione di partecipare agli altri le nostre alquanto straordinarie sensazioni o piacevoli o dispiacevoli, v. un luogo insigne di Cic. (Lael. sive de Amicit. tutto il c.23.) il qual passo, io credo che sia stata la prima fonte di questa osservazione, tanto familiare e nota ai moderni.
(31. Gen. 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 478
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Cic. Lael. sive de Amicit. c. II. Quod si rectum statuerimus, vel concedere amicis, quidquid velint, vel impetrare ab iis, quidquid velimus, PERFECTA QUIDEM SAPIENTIA SIMUS, SI NIHIL HABEAT
RES VITII; sed loquimur de iis amicis, qui ante oculos sunt, quos videmus, aut de quibus memoriam accepimus, aut quos novit vita communis. Leggi si perfecta q. s. simus, nihil h. r. v. come richiede evidentemente il senso, che altrimenti zoppica, e sibi non constat.
(31. Gen. 1821.).
Communicare per particeps fieri, essere, o venire a parte, del qual significato il Forcellini [593]non reca esempi, se non tre di cattiva lega, e di bassa latinità ed autorità (l’Appendice nulla) si trova presso Cicerone: (Lael. sive de Amicit. c.7.) Itaque, si quando aliquod officium exstitit amici in periculis aut adeundis, aut communicandis, (cioè nel prender parte ai pericoli dell’amico) quis est, qui id non maximis efferat laudibus? V. un non so che di simile nella Crusca.
Alla p.307. Quid autem interest, ab iis, qui postea nascentur sermonem fore de te, cum ab iis nullus fuerit, qui ante nati sint, qui nec pauciores, et certe meliores fuerunt viri? L’Affricano maggiore al minore, presso Cicerone, Somn. Scipion. c.7. V. p.643. capoverso 3.
Quid autem est horum in voluptate? melioremne efficit, aut laudabiliorem virum? an quisquam in potiundis voluptatibus gloriando sese, et praedicatione effert? (Cic.
Paradox. I. c.3. fine) Oggi sibbene, o M. Tullio, nè c’è maggior gloria per la gioventù, nè scopo alla carriera loro più brillantemente, manifestamente e concordemente proposto, nè mezzo di ottener lode e stima più sicuro e comune, che quello [594]di seguire e conseguire le voluttà, ed abbondarne, e ciò più degli altri. L’oggetto delle Letteratura italiana Einaudi 479
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia gare ed emulazioni della più florida parte della gioventù, non è altro che la voluttà, e il trionfo e la gloria è di colui che ne conseguisce maggior porzione, e che sa e può godere e immergersi nei vili piaceri più degli altri. Le voluttà sono lo stadio della gioventù presente: tanto che già non si cercano principalmente per se stesse, ma per la gloria che ridonda dall’averle cercate e conseguite. E se non di tutte le voluttà si può gloriare colui che le ottiene, in quel momento medesimo, in cui le gode, (sebbene di moltissimi generi di voluttà accade tuttogiorno ancor questo) certo desidererebbe di poterlo fare, di aver testimoni del suo godimento: anzi questo godimento consiste per la massima parte nella considerazione e aspettativa del vanto che gliene risulterà: e subito dopo, non ha maggior cura, che di divulgare e vantarsi della voluttà provata; e questo anche a rischio di chiudersi l’adito a nuove voluttà; e colla certezza di nuocere, tradire, essere [595]ingiusto e ingrato verso coloro onde ha ottenuta la voluttà che cercava. E sebbene certamente neanche oggi la voluttà rende l’uomo migliore, lo rende però più lodevole agli occhi della presente generazone, il che tu o Marco Tullio, sti mavi che non potesse avvenire.
(1 Feb. 1821.)
Quella frase o metafora nostra volgarissima e familiare di cuocere per molestare, travagliare, tormentare, e affligger l’animo (così la Crusca v. Cuocere §.3.), fu parimente presso i latini nel verbo coquere, e ciò anche ne’ più antichi.
O Tite, si quid ego adiuvero, CURAMQUE levasso, QUAE nunc TE COQUIT, et versat in pectore fixa, Ecquid erit pretii?
Ennio presso Cicerone (Cato maior seu de Senect. c.1.) Il Forcellini ne porta anche altri due esempi, l’uno di Virgilio, l’altro di Stazio. L’Appendice nulla.
Letteratura italiana Einaudi 480
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia
�AmaϑÛa m¢n ϑr�sow, logismñw d� öknon f¡rei.
L’ignoranza fa l’uomo pronto, [596] la considerazione ritenuto; L’ignoranza fa che l’uomo si risolva facilmente, la ragione difficilmente. In latino traducono così: Inscitia quidem audaciam, consideratio autem tarditatem fert. Sentenza di Tucidide, lib.2. nell’orazione funebre detta da Pericle, che incomincia, oß m¢n polloÜ tÇn ¤nϑ�de ³dh eÞrhkñtvn. Sentenza celebre presso gli antichi. Luciano: (in Epist. ad Nigrinum, quae praemittitur Nigrino, seu de Philosophi moribus) �Apofeægoig� �n (scamperò) eÞkñtvw kaÜ tò YoukudÛdou l¡gontow, ôti ²
�maϑÛa m¢n ϑraseÝw, ôknhroæw d¢ tò lelogis¡non
�perg�zetai. Imperitia audaces, res autem considerata timidos efficit. Plinio (Epist. IV. 7.): Hanc ille vim, (seu quo alio nomine vocanda est intentio quicquid velis obtinendi) si ad potiora vertisset, quantum boni efficere potuisset? quamquam minor vis bonis, quam malis inest, ac sicut �maϑÛa m¢n ϑr�sow, logismòw d¢ öknon f¡rei, ita recta ingenia debilitat verecundia, perversa
[597] confirmat audacia. S. Girolamo: (Epist. 126. ad Evagr.) (così è numerata nella mia ediz. t.3. p.31. a.) Tuum certe spiritualem illum interpretem non recipies; qui imperitus sermone et scientia, tanto supercilio et auctoritate Melchisedek Spiritum Sanctum pronunciavit, ut illud verissimum comprobarit, quod apud Graecos canitur: imperitia confidentiam, eruditio timorem creat.
Stupeo, o stupesco, stupefacio, stupefio, stupidus, ec. coi composti, non solo si sono conservati materialmente nel verbo stupire, stupefare, stupidire ec. ec. ma se ben questi sono restati nella nostra lingua seccamente e nudamente, e senza il significato etimologico (che vuol dire, diventar di stoppa), come infinite altre parole delle quali resta quasi il corpo e non l’anima, tuttavia la nostra lingua conserva ancora per altra parte quella prima metafora, diventar di Letteratura italiana Einaudi 481
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia stoppa, e l’usa familiarmente per istupire ec. sebbene non sia registrata nella Crusca.
(1. Feb. 1821.)
[598]Alla p.591 Igitur initio reges ( nam in terris nomen imperii id primum fuit) (cioè, il primo governo, le premier pouvoir, come traduce Dureau-Delamalle, la più antica signoria, come traduce Alfieri, fu regia, vale a dire assoluta) diversi, pars ingenium, alii corpus exercebant: etiam tum vita hominum sine cupiditate agitabatur, sua cuique satis placebant. (Cioè, l’egoismo non turbava l’ordine pubblico). Sallustio, Bell. Catilinar. c.2.
Ius bonumque apud eos, (i romani de’ primi tempi della repubblica) non legibus magis quam naturâ valebat.
Sallustio, Bell. Catilinar. c.9.
Regium imperium, quod initio conservandae libertatis atque augendae reipublicae fuerat. Sallustio, Bell.
Catilinar. c.6. fine.
At populo romano nunquam ea copia fuit, (praeclari ingenii scriptorum) quia prudentissimus quisque (cioè, ceux qui avaient le plus de lumières, Dureau-Delamalle, qual più saggio vi era, Alfieri) negotiosus maxume erat: ingenium nemo sine corpore exercebat: (luogo degno di essere riportato qualunque volta io discorrerò di questa materia) optimus quisque facere quam dicere, [599]sua ab aliis benefacta laudari, quam ipse aliorum narrare, malebat. Sallustio, Bell. Catilinar. c.8. fine.
In hoc sumus sapientes, quod naturam optimam ducem, tanquam deum, sequimur, eique paremus… Quid enim est aliud, gigantum modo bellare cum diis, nisi naturae repugnare? Cic. Cato mai. seu de Senect. c.2. Sentenze Letteratura italiana Einaudi 482
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia attissime o congiunte o separate, a servire di epigrafe o motto a qualche mio libro. V. p.601 capoverso 1.
Alla p.291. margine. Nemo enim est tam senex, qui se annum non putet posse vivere. Cic. Cato mai. seu de Senect. c.7. fine. E lo dice in proposito dei contadini che seminano ancorchè vecchissimi per l’anno futuro.
Qual cosa è più lontana dal noto e comune significato del verbo latino defendere, quanto il significato di proibire nel francese défendre, nello spagnuolo defender e nel difendere italiano presso gli antichi? E pure il significato proprio e primitivo del latino defendere ( admodum propria et Latina huius verbi significatio, [600] ut ait Gell. l.9.
c.1. dice il Forcellini) è molto simile, e si accosta moltissimo alla detta significazione francese, e antica italiana: ed è questa, arceo, prohibeo, depello, propulso, come dice il Forcellini, il quale ne porta molti esempi di diverse età di scrittori. Ora, come il verbo prohibeo, che ha questa medesima significazione, aveva ancora presso i latini espressamente quella di proibire o défendre (v. il Forcellini) così è ben verisimile che il verbo defendere unisse (se non presso i noti scrittori, presso gli antichissimi, e presso il volgo) questo significato al sopraddetto. In ogni modo è chiaro [che] l’uso del defendere in francese e nel vecchio italiano, per proibire, deriva dall’antichissimo, primo, e proprio significato di quel verbo latino; il quale, se anche è stato ridotto al significato di proibire, solamente nelle origini della nostra lingua, lo è stato però certo in forza della conservazione costante di quell’antichissimo significato, non più noto agli scrittori di quei tempi, e quindi necessariamente al solo volgo, e che si crederebbe perduto da lunghissimo tempo, se non [601]avessimo questa prova della sua costante conservazione fino all’ultima età della lingua latina.
(2 Feb. 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 483
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Alla p.599 Omnia vero, quae secundum naturam fiunt, sunt habenda in bonis. Cic. Cato mai. seu de Senect. c.19.
in proposito della morte dei vecchi.
(3. Feb. 1821.)
Cic. Cato mai. seu de Senect. c.23. Et ex vita ita discedo, tamquam ex hospitio, non tamquam ex domo. Il contesto vuol che si legga: At ex vita.
Quid enim habet vita commodi? quid non potius laboris? Sed habeat sane: habet certe tamen, aut satietatem, aut modum. Non lubet enim mihi deplorare vitam, quod multi, et ii docti, saepe fecerunt; neque me vixisse poenitet; quoniam ita vixi, ut non frustra me natum existimem. Cic. Cato mai. seu de Senect. c.23. in persona di Catone.
La mente nostra non può non solamente conoscere, ma neppur concepire alcuna cosa oltre i limiti della materia.
Al di là, non possiamo con qualunque possibile sforzo, immaginarci una [602]maniera di essere, una cosa diversa dal nulla. Diciamo che l’anima nostra è spirito. La lingua pronunzia il nome di questa sostanza, ma la mente non ne concepisce altra idea, se non questa, ch’ella ignora che cosa e quale e come sia. Immagineremo un vento, un etere, un soffio (e questa fu la prima idea che gli antichi si formarono dello spirito, quando lo chiamarono in greco pneèma da pn¡v, e in latino spiritus da spiro: ed anche anima presso i latini si prende per vento, come presso i greci cux¯ derivante da cæxv, flo spiro, ovvero re-frigero); immagineremo una fiamma; assottiglieremo l’idea della materia quanto potremo, per formarci un’immagine e una similitudine di una sostanza immateriale; ma una similitudine sola: alla sostanza medesima non arriva nè l’immaginazione, nè la concezione dei viventi, di quella Letteratura italiana Einaudi 484
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia medesima sostanza, che noi diciamo immateriale, giacchè finalmente è l’anima appunto e lo spirito che non può concepir se stesso. In così perfetta oscurità pertanto ed ignoranza su tutto quello che è, o si suppone fuor della materia, con che [603]fronte, o con qual menomo fondamento ci assicuriamo noi di dire che l’anima nostra è perfettamente semplice, e indivisibile, e perciò non può perire? Chi ce l’ha detto? Noi vogliamo l’anima immateriale, perchè la materia non ci par capace di quegli effetti che notiamo e vediamo operati dall’anima. Sia. Ma qui finisce ogni nostro raziocinio; qui si spengono tutti i lumi.
Che vogliamo noi andar oltre, e analizzar la sostanza immateriale, che non possiamo concepir quale nè come sia, e quasi che l’avessimo sottoposta ad esperimenti chimici, pronunziare ch’ella è del tutto semplice e indivisibile e senza parti? Le parti non possono essere immateriali? Le sostanze immateriali non possono essere di diversissimi generi? E quindi esservi gli elementi immateriali de’ quali sieno composte le dette sostanze, come la materia è composta di elementi materiali. Fuor della materia non possiamo concepir nulla, la negazione e l’affermazione sono egualmente assurde: ma domando io: come dunque sappiamo che l’immateriale è indivisibile? Forse l’immateriale, e l’indivisibile nella nostra mente sono tutt’uno? sono gli attributi di una stessa idea? [604]Primieramente ho già dimostrato come l’idea delle parti non ripugni in nessun modo all’idea dell’immateriale. Secondariamente, se l’immateriale è indivisibile e uno per essenza, non è egli diviso, non ha egli parti, quando le sostanze immateriali, ancorchè tutte uguali, sono pur molte e distinte? Dunque non vi sarà pluralità di spiriti, e tutte le anime saranno una sola.
Dopo tutto ciò, come possiamo noi dire che l’anima, posto che sia immateriale, non può perire per essenza sua propria? Se lo spirito non può perire per ciò che non si può sciogliere, così anche perchè non si può comporre, Letteratura italiana Einaudi 485
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia non potrà cominciare. Meglio quei filosofi antichi i quali negando che le anime fossero composte, e potessero mai perire, negavano parimente che avessero potuto nascere, e volevano che sempre fossero state. Il fatto sta che l’anima incomincia, e nasce evidentemente, e nasce appoco appoco, come tutte le cose composte di parti.
Oltracciò non osserviamo noi nell’anima [605]diversissime facoltà? la memoria, l’intelletto, la volontà, l’immaginazione? Delle quali l’una può scemare, o perire anche del tutto, restando le altre, restando la vita, e quindi l’anima. Delle quali altri son più, altri meno forniti: come dunque la sostanza dell’anima è per natura, uguale tutta quanta?
Ma queste sono facoltà, non parti dell’anima. Primo, l’anima stessa non ci è nota, se non come una facoltà.
Secondo, se l’anima è perfettamente semplice, e, per maniera di dire, in ciascheduna parte uguale alle altre parti, e a tutta se stessa, come può perdere una facoltà, una proprietà, conservando un’altra, e continuando ad essere? Come può accader questo, se noi pretendiamo cum simplex animi natura esset, neque haberet in se quidquam admistum dispar sui, atque dissimile, non posse eum dividi: quod si non possit, non posse interire? (Cic. Cato mai.
seu de Senect. c.21. fine, ex Platone.) V. p.629. capoverso 2.
In somma fuori della espressa volontà e [606]forza di un Padrone dell’esistenza, non c’è ragione veruna perchè l’anima, o qualunque altra cosa, supposta anche e non ostante l’immaterialità debba essere immortale; non potendo noi discorrere in nessun modo della natura di quegli esseri che non possiamo concepire; e non avendo nessun possibile fondamento per attribuire ad un essere posto fuori della materia, una proprietà piuttosto che un’altra, una maniera di esistere, la semplicità o la composizione, l’incorruttibilità o la corruttibilità.
(4. Feb. 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 486
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Cum proelium inibitis, (moneo vos ut) memineritis vos divitias, decus, gloriam, praeterea libertatem atque patriam in dextris vestris portare. Parole che Sallustio (B. Catilinar.
c.61 al.58.) mette in bocca a Catilina nell’esortazione ai soldati prima della battaglia. Osservate la differenza dei tempi. Questa è quella figura rettorica che chiamano Gradazione. Volendo andar sempre crescendo, Sallustio mette prima le ricchezze, poi l’onore, poi la gloria, poi la libertà, [607]e finalmente la patria, come la somma e la più cara di tutte le cose. Oggidì, volendo esortare un’armata in simili circostanze, ed usare quella figura si disporrebbero le parole al rovescio: prima la patria, che nessuno ha, ed è un puro nome; poi la libertà che il più delle persone amerebbe, anzi ama per natura, ma non è avvezzo neanche a sognarla, molto meno a darsene cura; poi la gloria, che piace all’amor proprio, ma finalmente è un vano bene; poi l’onore, del quale si suole aver molta cura, ma si sacrifica volentieri per qualche altro bene; finalmente le ricchezze, per le quali onore, gloria, libertà, patria e Dio, tutto si sacrifica e s’ha per nulla: le ricchezze, il solo bene veramente solido secondo i nostri valorosi contemporanei: il più capace anzi di tutti questi beni il solo capace di stuzzicar l’appetito, e di spinger davvero a qualche impresa anche i vili.
(4. Feb. 1821.)
Alla p.465. Bisogna combattere ad armi uguali, chi non vuol restare sicuramente inferiore. Dunque [608]tutto il mondo oggidì essendo armato di egoismo, bisogna che ciascuno si provveda della medesima arma, anche i più virtuosi e magnanimi, se voglion far qualche cosa.
Alla p.570. principio. Perchè come gli oligarchi e gli ottimati a forza di fazioni, di clientele, di largizioni, di artifizi di ogni sorta, hanno vinto la plebe in cui risiedeva Letteratura italiana Einaudi 487
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia il potere, e l’hanno vinta colle forze comuni: così questi pochi nei quali risiede ora il potere; mediante l’egoismo e la pleonejÛa, inevitabile quando la virtù e la natura è sparita dal mondo, non si accordano neppure intorno agl’interessi comuni di questa piccola società, il cui solo bene era divenuto loro scopo: e ciascuno cercando il ben proprio, si dividono di nuovo in partiti; il partito vincitore, si suddivide di nuovo per gli stessi motivi; finattanto che più presto o più tardi, la vittoria e il potere resta in mano di un solo, il quale essendo indivisibile, finalmente il governo divenuto monarchia, piglia [609]una forma stabile. Così accadde in Roma. Gli uomini chiari per gloria militare o domestica, per ricchezze, potere, eloquenza ec. esercitavano già una specie di oligarchia, quando questa, abbassati tutti gli altri, si venne a ristringere nei primi Triumviri, finattanto che Cesare tolti di mezzo gli altri triumviri, ristrinse tutto in lui solo. Così nel secondo triumvirato.
(4. Feb. 1821.)
Alla p.590./6. Anche durando in quel tale che si suppone monarca per diritto di natura, tutte le qualità che gli davano questo diritto; posto il caso che un altro membro di quella medesima società, arrivasse o coll’età, o coll’esercizio del corpo o dello spirito ec. ec. a possedere quelle stesse qualità in maggior grado, o anche maggiori, o più numerose qualità; il primo monarca perderebbe il suo diritto che si suppone naturale, alla monarchia, e non solo ancora vivendo, ma essendo ancor tale, quale incominciò a regnare, e per se medesimo in tutto e per tutto lo stesso, a ogni modo non dovrebbe più [610]regnare.
(4. Feb. 1821.)
Neanche l’amor proprio è infinito, ma solamente indefinito. Non è infinito, dico io non già secondo l’origine e il significato proprio di questa voce, ma secondo la forza Letteratura italiana Einaudi 488
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia che le sogliamo attribuire: come diciamo che Dio è infinito, perchè contiene perfettamente e realmente in se stesso tutta l’infinità. Laddove sebbene l’uomo, e qualunque vivente, si ama senza confine veruno, e l’amor proprio non ha limiti nè misura, nè per durata nè per estensione, contuttociò l’animo umano o di qualunque vivente non è capace di un sentimento il quale contenga la totalità dell’infinito, e in questo senso dico io che l’amor proprio non è infinito: e che quantunque non abbia limiti, non deriva da questo che l’animo nostro abbia niente d’infinito, non più che quello di qualsivoglia animale. E così non si può dedur nulla in questo proposito, dalla infinità dei nostri desideri, conseguenza della sopraddetta e spiegata [611]infinità dell’amor proprio. Nè dalla nostra infinita, o vogliamo dire indefinita capacità di amare, cioè di essere piacevolmente affetti e inclinati verso gli oggetti; conseguenza dell’infinito amor del piacere, il quale deriva immediatamente e necessariamente dall’amor proprio infinito, o senza limiti nè misura.
(4. Feb. 1821.)
Alla p.112. Prima di Gesù Cristo, o fino a quel tempo, e ancor dopo, da’ pagani, non si era mai considerata la società come espressamente, e per sua natura, nemica della virtù, e tale che qualunque individuo il più buono ed onesto, trovi in lei senza fallo e inevitabilmente, o la corruzione, o il sommo pericolo di corrompersi. E infatti sino a quell’ora, la natura della società, non era stata espressamente e perfettamente tale. Osservate gli scrittori antichi, e non ci troverete mai quest’idea del mondo nemico del bene, che si trova a ogni passo nel Vangelo, e negli scrittori moderni ancorchè profani. Anzi (ed avevano
[612]ragione in quei tempi) consideravano la società e l’esempio come naturalmente capace di stimolare alla virtù, e di rendere virtuoso anche chi non lo fosse: e in som-Letteratura italiana Einaudi 489
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ma il buono e la società, non solo non parevano incompatibili, ma cose naturalmente amiche e compagne.
(4. Feb. 1821.)
Alla p.535. fine. Così anche il piacere della speranza, non è mai piacere presente, nemmeno in quanto speranza; cioè l’atto del piacere della speranza, cammina in quel medesimo modo che ho notato nell’atto del piacere presente, o della rimembranza o considerazione del piacere passato.
(5. Feb. 1821.)
Non è veramente furbo chi non teme, o presume e confida con certezza, di non poter essere ingannato, trappolato ec.: perchè non conosce dunque e non apprezza a dovere le forze della sua stessa furberia.
E per la stessa ragione non è sommo in veruna professione chi non è modesto; e la modestia, e lo stimarsi da non molto, e il credere intimamente e sinceramente di non aver conseguito tutto quel merito che si potrebbe e dovrebbe conseguire, questi dico sono segni e [613]distintivi dell’uomo grande, o certo sono qualità inseparabili da lui. Perchè quanto più si possiede e si conosce a fondo una qualunque (ancorchè piccola) professione, tanto più se ne sentono e valutano le difficoltà; si conosce quanto la perfezione e la sommità sia difficile in essa: perchè le difficoltà della perfezione si sanno e si conoscono generalmente in ogni cosa, ma non si sentono così vivamente e precisamente, come in una professione intimamente posseduta: tanto più si comprende e vede e tocca con mano, quanto sia facile l’andar sempre più oltre, e il perfezionare anche ciò che si crede perfetto. In somma quanto più l’uomo apprezza e stima una buona professione: e l’apprezza e stima quanto meglio la conosce; tanto meno apprezza se stesso. Perchè mettendosi in confronto non già cogli altri cultori di quella professione (i Letteratura italiana Einaudi 490
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia quali forse gli cederanno), ma colla professione stessa; resta sempre malcontento del paragone, si trova lontano dall’uguaglianza, e riabbassa sempre più l’idea di se stesso.
(5. Feb. 1821.)
[614]�A toÝw paisÜ toÝw ¥autoè �n sumbouleæsieaw, toætoiw aétòw ¤mm¡nein �jÛon. Isocrate, pròw Nikñklea perÜ BasileÛaw lñgow. Detto convenientissimo a quasi tutti i padri, le madri, e gli educatori de’ nostri tempi.
(5. Feb. 1821.)
È cosa notabile come l’uomo sommamente sventurato, o scoraggito della vita, e deposta già e complorata la speranza della propria felicità, ma non perciò ridotto a quella disperazione che non si acquieta se non colla morte; naturalmente, e senza veruno sforzo sia portato a servire e beneficar gli altri, anche quelli che o gli sono del tutto indifferenti, o anche odiosi. E non già per vigore di eroismo, chè l’uomo in tale stato non è capace di nessun vigore d’animo; ma in certo modo, come non avendo più interesse nè speranza per te, trasporti l’interesse e la speranza agli affari altrui, e così cerchi di riempiere l’animo tuo, di occuparlo, e di rendergli i due sopraddetti sentimenti, cioè cura di qualche cosa, ossia scopo, e speranza, senza [615]i quali la vita non è vita, non si conosce, manca del senso di se stessa. Il fatto sta che quando l’uomo si trova in tali circostanze, cioè disperato in maniera, non da odiarsi, (ch’è la ferocia della disperazione) ma da noncurarsi, e metter se stesso fuori della sfera de’ suoi pensieri; non solo prova compiacenza nel servir gli altri, ma prende anche per gli affari loro (ancorchè, come ho detto di persone indifferenti) una certa affezione, un certo impegno, un desiderio ec. tutto languido bensì, perchè l’animo suo non è più capace di sentimento vivo e forte, ma pur tale, ch’egli non è stato mai animato verso il bene Letteratura italiana Einaudi 491
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia altrui così sensibilmente. E ciò accade anche appena l’uo-mo si riduce alla detta condizione, così che avviene in lui come un cangiamento improvviso: ed accade anche negli uomini stati infetti di egoismo. In somma la persona degli altri sottentra nell’animo suo, quasi intieramente, alla persona propria, ch’è sparita, e messa in non cale e per perduta, come quella che non può più sperare, e non è più capace della felicità, senza cui la vita manca del suo fine, e scopo. E il desiderio e la cura [616]e la speranza della felicità, che non possono più diriggersi alla felicità propria, riconosciuta impossibile, e nel cercar la quale sarebbero vane, e quindi non più sufficienti all’animo umano; si rivolgono alla felicità altrui: e ciò spontaneamente, e senz’ombra di eroismo. E l’animo dell’uomo che mancatogli lo scopo della felicità, è moralmente morto, risorge a una languida vita, ma tuttavia risorge e vive in altrui, cioè nello scopo dell’altrui felicità, divenuto lo scopo suo. Come quei corpi di sangue corrotto e malsano, e quindi incapaci di vita, che alcuni medici spogliavano (o proponevano di spogliare) del sangue proprio, e restitui-vano ad una certa salute, colla introduzione del sangue altrui, o di qualche animale; quasi cangiando la persona, e trasformando quella che non poteva più vivere, in un’altra capace di vita: e così conservando la vita di una persona, per se stessa inetta a vivere.
Ed è anche una cagione del detto effetto, quella ch’io son per dire. L’uomo che sebbene disperato, non perciò si odia (cosa che avviene per [617]lo più, non mica, come parrebbe, prima che l’uomo cominci ad odiarsi, ma dopo che si è sommamente, ed inutilmente odiato, e così l’amor proprio, tentato ogni mezzo di soddisfarsi, resta del tutto mortificato, e l’animo esaurito d’ogni forza, si riduce alla calma, e alla quiete dello spossamento, e perde affatto la capacità di ogni sentimento vivo) l’uomo dico il quale senza odiarsi, solamente considera se stesso, e la vita sua come inutile, prova una compiacenza e soddisfazione, una Letteratura italiana Einaudi 492
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia (ma leggerissima) consolazione, nel trovar dove adoprare se stesso e la vita, che altrimenti non servirebbe più a nulla; e l’uso qualunque di se stesso e della vita, gittata già come cosa inutilissima, sebbene a lui non giovi nulla, sebbene egli non sia più capace d’illusioni, nè di credersi buono a gran cose; tuttavia lo conforta, rappresentando-lo a se stesso, come alquanto meno inutile; o se non altro (e piuttosto) col pensiero di avere almeno adoprato, e non gittato affatto, quell’avanzo di esistenza, e di forza viva e materiale.
(5. Feb. 1821.).
[618]Vedendosi esclusi essi dalla vita, cercano di vivere in certo modo in altrui, non per amor loro, e quasi neanche per amor proprio, ma perchè, sebben tolta la vita, resta però loro l’esistenza da occupare e da sentire in qualche maniera.
(6. Feb. 1821.)
La disperazione della natura è sempre feroce, frenetica, sanguinaria, non cede alla necessità, alla fortuna, ma la vuol vincere in se stesso, cioè coi propri danni, colla propria morte ec. Quella disperazione placida, tranquilla, rassegnata, colla quale l’uomo, perduta ogni speranza di felicità, o in genere per la condizione umana, o in particolare per le circostanze sue; tuttavolta si piega, e si adatta a vivere e a tollerare il tempo e gli anni; cedendo alla necessità riconosciuta; questa disperazione, sebbene deriva dalla prima, in quel modo che ho spiegato di sopra p.616. fine, 617. principio, tuttavia non è quasi propria se non della ragione e della filosofia, e quindi specialmente e singolarmente propria de’ tempi moderni. Ed ora infatti, si può dir che qualunque ha [619]un certo grado d’ingegno e di sentimento, fatta che ha l’esperienza del mondo, e in particolare poi tutti quelli ch’essendo tali, e giunti a un’età matura, sono sventurati; cadono e rimangono sino alla morte in questo stato di tranquilla Letteratura italiana Einaudi 493
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia disperazione. Stato quasi del tutto sconosciuto agli antichi, ed anche oggi alla gioventù sensibile, magnanima, e sventurata. Conseguenza della prima disperazione è l’odio di se stesso, (perchè resta ancora all’uomo tanta forza di amor proprio, da potersi odiare) ma cura e stima delle cose. Della seconda, la noncuranza e il disprezzo e l’indifferenza verso le cose; verso se stesso un certo languido amore (perchè l’uomo non ha più tanto amor proprio da aver forza di odiarsi) che somiglia alla noncuranza, ma pure amore, tale però che non porta l’uomo ad angustiar-si, addolorarsi, sentir compassione delle proprie sventure, e molto meno a sforzarsi, ed intraprender nulla per se, considerando le cose come indifferenti, ed avendo quasi perduto il tatto e il senso dell’animo, e coperta di un callo tutta la facoltà sensitiva, desiderativa ec. insomma le passioni e gli affetti d’ogni sorta; e quasi perduta per lungo uso, e forte e lunga pressione, quasi tutta l’elasticità delle
[620]molle e forze dell’anima. Ordinariamente la maggior cura di questi tali è di conservare lo stato presente, di tenere una vita metodica, e di nulla mutare o innovare, non già per indole pusillanime o inerte, che anzi ella sarà stata tutto l’opposto, ma per una timidità derivata dall’esperienza delle sciagure, la quale porta l’uomo a temere di perdere a causa delle novità, quel tal quale riposo o quiete o sonno, in cui dopo lunghi combattimenti e resistenze, l’animo suo finalmente s’è addormentato e rac-colto, e quasi accovacciato. Il mondo è pieno oggidì di disperati di questa seconda sorta (come fra gli antichi erano frequentissimi quelli della prima specie). Quindi si può facilmente vedere quanto debba guadagnare l’attività, la varietà, la mobilità, la vita di questo mondo; quando tutti, si può dire, i migliori animi, giunti a una certa maturità, divengono incapaci di azione, ed inutili a se medesimi, e agli altri.
(6. Feb. 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 494
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Floro IV. 12. verso la fine: Hic finis [621] Augusto bellicorum certaminum fuit: idem rebellandi finis Hispaniae. Certa mox fides et aeterna; CUM IPSORUM
INGENIO IN PACIS PARTES PROMTIORE: tum
consilio Caesaris. Dopo aver letto tutto ciò che Floro dice delle virtù guerriere degli Spagnuoli II. 17. 18. III. 22. e in quel medesimo capo che ho citato, nelle cose che precedono immediatamente il riferito passo; (notate che Floro, si crede per congettura dai critici, oriundo Spagnuolo) considerando l’assedio famosissimo di Sagunto; ricordandosi di quel luogo di Velleio dove fra le altre molte cose del valore Spagnuolo, arriva a dire che la Spagna in tantum Sertorium armis extulit, ut per quinquennium dijudicari non potuerit, Hispanis Romanisne in armis plus esset roboris, et uter populus alteri pariturus foret; (II.90 sect.3.) dopo, dico, tutto questo e le altre infinite prove che si hanno del singolar valore Spagnuolo antico e moderno, fa maraviglia che Floro chiami l’indole [622]e l’ingegno degli Spagnuoli, promtius in pacis partes. Ma questa è appunto la proprietà dei popoli meridionali, famosa presso gli scrittori filosofici moderni, massime stranieri. Somma disposizione all’attività, ed al riposo: egualmente atti a guerreggiare valorosamente e disperatamente, ed a trovar piacevole e cara la pace, ed anche abusarne, ed esserne ridotti alla mollezza, e all’inerzia. Tante risorse trovano questi popoli nella loro immaginazione, nel loro clima, nella loro natura, che la loro vita è occupata internamente, ancorchè neghittosa e nulla all’esterno. Leur vie n’est qu’un rêve, dice la Staël. Tanta è l’attività della loro anima, che questa come è capacissima di condurli ad una somma attività nel corpo (anzi alla sola vera attività esterna, perchè la sola che abbia il suo principio nell’attività interiore, come si vede nel paragone fra i soldati meridionali, e i settentrionali, che sono operosi piuttosto come macchine ubbidienti ad ogni impulso, che come viventi) così anche li dispensa dall’attivi-Letteratura italiana Einaudi 495
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tà del corpo, e ne li compensa, ogni volta che questa manca: trovando essi bastante vita nel [623]loro interno, nel loro individuo. Anzi questa proprietà, pregiudica bene spesso all’attività esterna, e per una soprabbondanza di vita interiore rende il mezzogiorno rêveur, indolente, insouciant (quantunque, offerta l’occasione, l’attività del corpo, ch’è l’effetto dell’entusiasmo e dell’immaginazione, o che allora è forte e viva, quando proviene da questi principii, prorompe vivamente; eccetto se l’assuefazione non ha di troppo intorpiditi certi popoli, come l’italiano). Ailleurs, c’est la vie qui, telle quelle est, ne suffit pas aux facultés de l’ame; ici, (parla dei contorni di Napoli) ce sont les facultés de l’ame qui ne suffisent pas à la vie, et la surabondance des sensations inspire une rêveuse indolence dont on se rend à peine compte en l’éprouvant. (Staël, Corinne l. II. ch.1. Paris 1812. 5me édit. t.2. p.176.) Così infatti vediamo accaduto negl’italiani terribili anticamente, ed anche modernamente nella guerra, e oziosissimi e negligentissimi, e nulla curanti di novità e di movimento nella pace. Così negli [624]Spagnuoli, popolo intieramente pacifico nell’ultimo secolo, e fortissimo guer-riero e belligero nei due precedenti; e così anticamente bellicosissimo, o certo valorosissimo in difendersi fino ad Augusto; e da indi in poi, eternamente pacifico e fedele, come dice Floro: e similmente nel principio di questo secolo, passato in un attimo da un lunghissimo e profondissimo riposo, a una guerra possiamo dire spontanea, certo nazionale, e vivissima, e generale, ed atrocissima.
Così nei francesi valorosi in guerra, ed effeminati e molli nella pace.
Come appunto i fanciulli, giacchè anche questo effetto deriva dalle stesse cagioni, i quali sebbene attivissimi naturalmente, con tutto ciò obbligati dalle circostanze, all’inazione esterna, la suppliscono e compensano ed occupano intieramente, con una vivissima azione interna. E
per azione interna, intendo sì nei fanciulli, come nei detti Letteratura italiana Einaudi 496
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia popoli, anche quella che si dimostra al di fuori, ma che si occupa di bagattelle, e di nullità, ed in queste ritrova bastante pascolo e vita all’anima: e per conseguenza non deriva, [625]non si fonda, non è sufficiente all’uomo, se non in forza dell’energia, dell’immaginazione, delle facoltà insomma e della vita interna.
Tutto l’opposto accade nei Settentrionali, bisognosi di attività e di movimento e di novità e varietà esterna, se vogliono vivere, giacchè non hanno altra vita, mancando dell’interna. E perciò in apparenza molto più attivi degli altri popoli, ma in realtà, e se vince la naturale tendenza ed indole, torpidissimi.
Gli orientali si possono, cred’io, mettere insieme coi meridionali in questo punto.
(7. Feb. 1821.)
Lo scopo dei governi (siccome quello dell’uomo) è la felicità dei governati. Forse che la felicità e la diuturnità della vita, sono la stessa cosa? Hanno sempre che dire delle turbolenze e pericoli degli antichi stati, e pretendono che costassero all’umanità molto più sangue e molte più vite, che non costano i governi ordinati e regolari e monarchici, ancorchè guerrieri, ancorchè tirannici. Sia pure: che ora non voglio contrastarlo. [626]Orsù, rag-guagliamo le partite, dirò così, delle vite. Poniamo che negli stati presenti, che si chiamano ordinati e quieti, la gente viva, un uomo per l’altro, 70 anni l’uno: negli antichi che si chiamano disordinati e turbolenti, vivessero 50
soli anni, a distribuir tutta la somma delle vite, ugualmente fra ciascheduno. E che quei 70 anni sieno tutti pieni di noia e di miseria in qualsivoglia condizione individuale, che così pur troppo accade oggidì; quei cinquanta pieni di attività e varietà ch’è il solo mezzo di felicità per l’uo-mo sociale. Domando io, quale dei due stati è il migliore?
quale dei due corrisponde meglio allo scopo, che è la felicità pubblica e privata, in somma la felicità possibile de-Letteratura italiana Einaudi 497
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia gli uomini come uomini? cioè felicità relativa e reale, e adattata e realizzabile in natura, tal qual ella è, non riposta nelle chimeriche e assolute idee, di ordine, e perfezione matematica. Oltracciò domando: la somma vera della vita, dov’è maggiore? in quello stato dove ancorchè gli uomini vivessero cent’anni l’uno, quella vita monotona e inattiva, sarebbe (com’è realmente) esistenza, ma non vita,
[627]anzi nel fatto, un sinonimo di morte? ovvero in quello stato, dove l’esistenza ancorchè più breve, tutta però sarebbe vera vita? Anche ponendo dall’una parte 100 anni di esistenza, e dall’altra non più che 40, o 30 di vita, la somma della vita, non sarebbe maggiore in quest’ultima?
30 anni di vita non contengono maggior vita che 100 di morta esistenza? Questi sono i veri calcoli convenienti al filosofo, che non si contenti di misurar le cose, ma le pesi, e ne stimi il valore. E non faccia come il secco matematico che calcola le quantità in genere e in astratto, ma relativamente alla loro sostanza, e qualità, e natura, e peso, e forza specifica e reale.
Aggiungo poi questo ancora. Nego che la mortalità negli stati antichi fosse maggiore altro che in apparenza.
Lascio i tiranni, lascio i capricci, le passioni, le voglie de’
principi, e non cerco se queste costino alla umanità più sangue, che non i disordini e le turbolenze di un popolo libero. Dico che la vitalità negli stati antichi era tanto maggiore che nei presenti, non solo da compensare abbondantemente ogni cagione o principio di mortalità, ma da preponderare, [628]e far pendere la bilancia dalla parte della vita: brevemente, dico che la somma della vita negli stati antichi era maggiore che nei presenti; e questo non già per cause accidentali, o in maniera che potesse non essere: ma per cause essenziali, e inerenti alla natura di quegli stati; anzi tali, che tolti quegli stati, o simili a quelli, la somma della vita non può essere se non molto minore; la vitalità fuori di quelli o simili stati, non può esser tanta. Gli esercizi e l’attività continua del corpo Letteratura italiana Einaudi 498
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia primieramente, e poi (che non poco, anzi sommamente contribuisce al ben essere fisico, e alla durata della vita) gli esercizi ed attività dell’anima, la varietà, il movimento, la forza delle azioni ed occupazioni, la rarità della noia, dell’inerzia ec. conseguenze necessarie degli stati antichi, erano cause così grandi e certe di vitalità, come sono grandissime e certissime cause di mortalità (e mortalità ben più vasta, insita, e necessaria che non quella che deriva dalle turbolenze) i contrari delle predette cose, e nominatamente la mollezza, il lusso, i vizi corporali e spirituali ec. ec. conseguenze tutte necessarie degli stati presenti: insomma la corruzione fisica e morale, la continua noia, o mal essere [629]dell’animo ec. Così che non è vero che le cagioni di morte (e così dico, le cagioni di miserie, di sventure, dolori ec.) fossero maggiori anticamente, anzi all’opposto sono maggiori oggidì. Ed intendendo anche per vita, l’esistenza strettamente, si viene a conchiudere che la somma di questa, era maggiore negli antichi governi, e a causa degli antichi governi, che ne’ presenti, e a causa de’ presenti.
(8. Feb. 1821.)
Alla p.476. Vedi il ritratto di Silla in Sallustio Bell.
Iugurthin. c.99.
Alla p.605. fine. Ma quando anche si supponga lo spirito, assolutamente semplice e senza parti, non segue ch’egli non possa perire. Conosciamo noi la natura di un tal essere cosiffatto, per poter pronunziare s’egli è immortale o mortale? Non c’è che una maniera di perire, cioè il di-sciogliersi? Nella materia non ce n’è altra, e però noi non conosciamo se non questa maniera; ma parimente non conosciamo altra maniera d’essere che quella della materia. Se una cosa può essere in maniera a noi del tutto
[630]ignota e inconcepibile, anche può perire in maniera del tutto ignota e inconcepibile all’uomo. Dico può peri-Letteratura italiana Einaudi 499
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia re, non dico perisce, perchè non posso, come non si può dire umanamente il contrario, non perisce, ovvero, non può perire perchè la materia perisce in altro modo, ed ella non può perire come la materia. Dico può perire, perchè non è più difficile nè inverisimile una tal maniera di perire, che una tal maniera di essere; (una maniera, dico, inconcepibile all’uomo) una tal morte, che una tale esistenza. Tutte due sono ugualmente fuori della nostra portata, la quale non si estende una mezza linea al di là della materia.
Vo anche più avanti, e dico, che se la semplicità è principio necessario d’immortalità, neanche la materia può perire. Se la materia è composta, sarà composta di elementi che non sieno composti. Non cerco ora se questi elementi sieno quelli de’ chimici, o altri più remoti e primitivi; ma andiamo pur oltre quanto vogliamo, dovremo sempre arrivare e fermarci in alcune sostanze veramente semplici, e che non abbiano in se quidquam admistum dispar [631] sui, atque dissimile. Queste sostanze dunque, se non c’è altra maniera di perire, fuorchè il risolversi, in che si risolveranno, o si possono risolvere? Dunque non potranno perire. Direte, che anche queste, essendo pur sempre materia, hanno parti, e quindi sono divisibili e risolvibili, e possono perire, ancorchè tutte le parti sieno tra loro uguali, e di una stessa sostanza. Bene; ma queste parti come possono perire? – Anch’esse avranno parti, finattanto che sono materia – Or via, suddividiamo queste parti, quanto mai si voglia; se non si arriverà mai a fare ch’elle non abbiano altre parti, e non sieno materia (come certo non si arriverà); neanche si arriverà a fare che la materia perisca. Perchè questa ancorchè ridotta a menomissime parti, una di queste minime particelle, è si può dir tanto lontana dal nulla, quanto tutta la materia o qualunque altra cosa esistente, cioè tra essa e il nulla, ci corre un divario, e uno spazio infinito: chè dall’esistenza Letteratura italiana Einaudi 500
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia nel nulla, come dal nulla nell’esistenza, non si può andar mica per gradi, ma solamente per salto, e salto infinito.
[632]Dunque in un essere semplicissimo e senza parti, non c’è maggior principio nè ragione d’immortalità, di quello che sia nella materia, e nell’essere il più composto possibile.
Ma se per principio d’immortalità in un ente semplice e senza parti, intendono l’impossibilità di cangiar natura, e per perire non intendono l’annullarsi, giacchè neanche la materia si può naturalmente annullare, e tanta materia esiste oggi nè più nè meno, quanta è mai esistita; ma intendono il risolversi nei suoi elementi; dico io che quelle semplicissime sostanze delle quali la materia e qualunque cosa composta, deve necessariamente costare, non possono neppur esse risolversi, nè cangiar natura, ancorchè divise in quante parti, e quanto menome si voglia. E la quantità di queste parti sarà sempre la stessa, e però di quelle primitive sostanze, ancorchè materiali ancorchè divise quanto si voglia, esisterà sempre la stessissima quantità, o divisa o congiunta che sia; e tutta questa quantità, e perciò tutta quella sostanza sarà sempre della stessissima natura. In maniera che anche per questa parte, una sostanza supposta semplicissima e immateriale, non può contenere [633]maggiore immortalità, cioè immutabilità e incorruttibilità che i principii della materia, i quali non sono una supposizione, ma debbono necessariamente e realmente esistere.
(9. Feb. 1821.)
Quand on est jeune, on ne songe qu’à vivre dans l’idée d’autrui: il faut établir sa réputation, et se donner une place honorable dans l’imagination des autres, et être heureux même dans leur idée: notre bonheur n’est point réel; ce n’est pas nous que nous consultons, ce sont les autres. Dans un autre âge, nous revenons a nous; et ce retour a ses douceurs, nous commençons à nous consul-Letteratura italiana Einaudi 501
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ter et à nous croire. Mme. la Marquise de Lambert, Traité de la Vieillesse, verso la fine: dans ses Oeuvres complè-
tes, Paris 1808. 1re édit. complète. p.150. Il vient un temps dans la vie qui est consacré à la vérite, qui est destiné à connoître les choses selon leur juste valeur. La jeunesse et les passions fardent tout. Alors nous revenons aux plaisirs simples; nous commençons à nous consulter [634]et à nous croire sur notre bonheur. Ib. p.153. Queste riflessioni sono osservabili. Non solo nella vecchiezza, ma nelle sventure, ogni volta che l’uomo si trova senza speranza, o almeno disgraziato nelle cose che dipendono dagli uomini, comincia a contentarsi di se stesso, e la sua felicità, e soddisfazione, o almeno consolazione a dipender da lui. Questo ci accade anche in mezzo alla società, o agli affari del mondo. Quando l’uomo vi si trova male accolto, o annoiato, o disgraziato, o in somma trova quello che non vorrebbe, ricorre a se stesso, e cerca il bene e il piacere nell’anima sua. L’uomo sociale, finch’egli può, cerca la sua felicità e la ripone nelle cose al di fuori e appartenenti alla società, e però dipendenti dagli altri.
Questo è inevitabile. Solamente o principalmente l’uomo sventurato, e massime quegli che lo è senza speranza, si compiace della sua compagnia, e di riporre la sua felicità nelle cose sue proprie, e indipendenti dagli altri; e insomma segregare la sua felicità, dall’opinione e dai vantaggi che ci risultano dalla società, e ch’egli non può conseguire, o sperare. Forse per questo, o anche [635]per questo, si è detto che l’uomo che non è stato mai sventurato non sa nulla. L’anima, i desideri, i pensieri, i trattenimenti dell’uomo felice, sono tutti al di fuori, e la solitudine non è fatta per lui: dico la solitudine o fisica, o morale e del pensiero. Vale a dire che se anche egli si compiace nella solitudine, questo piacere, e i suoi pensieri e trattenimenti in quello stato, sono tutti in relazioni colle cose esteriori, e dipendenti dagli altri, non mai con quelle riposte in lui solo. Non è però che la felicità o consolazione Letteratura italiana Einaudi 502
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia dell’uomo sventurato o vecchio, sieno riposte nella verità, e nella meditazione e cognizione di lei. Che piacere o felicità o conforto ci può somministrare il vero, cioè il nulla? (se escludiamo la sola Religione). Ma altre illusioni, forse più savie perchè meno dipendenti, e perciò anche più durevoli, sottentrano a quelle relative alla società. E
questo è in somma quello che si chiama contentarsi di se stesso, e omnia tua in te posita ducere, con che Cicerone (Lael. sive de Amicit. c.2.) definisce la sapienza. Un sistema, [636]un complesso, un ordine, una vita d’illusioni indipendenti, e perciò stabili: non altro.
(9. Feb. 1821.)
«La solitude» dit un grand homme, «est l’infirmerie des ames.» Mme. Lambert, lieu cité ci-dessus, p.153. fine.
Nous ne vivons que pour perdre et pour nous détacher.
Mme Lambert, lieu cité ci-dessus, p.145. alla metà del Traité de la Vieillesse. Così è. Ciascun giorno perdiamo qualche cosa, cioè perisce, o scema qualche illusione, che sono l’unico nostro avere. L’esperienza e la verità ci spogliano alla giornata di qualche parte dei nostri possedimenti. Non si vive se non perdendo. L’uomo nasce ricco di tutto, crescendo impoverisce, e giunto alla vecchiezza si trova quasi senza nulla. Il fanciullo è più ricco del giovane, anzi ha tutto; ancorchè poverissimo e nudo e sventuratissimo, ha più del giovane più fortunato; il giovane è più ricco dell’uomo maturo, la maturità più ricca della vecchiezza. Ma Mad. Lambert dice questo in altro senso, cioè rispetto alle perdite così dette reali, che si fanno coll’avanzar dell’età. (9. Feb. 1821.) Ma siccome nessuna cosa si possiede realmente, così nulla si può perdere. Bensì quel detto è vero per quest’altra parte, relativamente alla condizione presente degli uomini, e
[637]dello spirito umano, e della società.
(10. Feb. 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 503
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Io non soglio credere alle allegorie, nè cercarle nella mitologia, o nelle invenzioni dei poeti, o credenze del volgo. Tuttavia la favola di Psiche, cioè dell’Anima, che era felicissima senza conoscere, e contentandosi di godere, e la cui infelicità provenne dal voler conoscere, mi pare un emblema così conveniente e preciso, e nel tempo stesso così profondo, della natura dell’uomo e delle cose, della nostra destinazion vera su questa terra, del danno del sapere, della felicità che ci conveniva, che unendo questa considerazione, al manifesto significato del nome di Psiche, appena posso discredere che quella favola non sia un parto della più profonda sapienza, e cognizione della natura dell’uomo e di questo mondo. V. quest’alle-goria notata, e sebbene non profondamente, tuttavia bastantemente spiegata nel morceau détaché di Mad.
Lambert intitolato Psyché en grec. Ame. (così) dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus p.284-285. E forse l’al-legoria sopraddetta sarà stata osservata anche dagli altri, e così credo. Certo è che, o la non la significa nulla, o significa quel ch’io dico, e mostra che il mio sistema piacque agli antichissimi: con altro sistema la non si spiega.
Del resto combinando quest’osservazione, col racconto della Genesi, [638]dove l’origine immediata della infelicità e decadimento dell’uomo, si attribuisce manifestamente al sapere, come ho dimostrato altrove; mi si fa verisimile che in somma queste gran massime: l’uomo non è fatto per sapere, la cognizione del vero è nemica della felicità, la ragione è nemica della natura, ultimo frutto ed apice della più moderna e profonda, e della più perfetta o perfettibile filosofia che possa mai essere; fossero non solamente note, ma proprie, e quasi fondamentali dell’antichissima sapienza, se non altro di quella arcana e misteriosa, come l’orientale, e come l’egiziana dalla quale è chi pretende derivata, almeno in parte, la mitologia e la sapienza greca.
Letteratura italiana Einaudi 504
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia (10. Feb. 1821.)
Vorranno i puristi che quando manca alla lingua nostra il vocabolo di una tal cosa, piuttosto che formarne uno nuovo, o adottarne uno straniero, o derivarne uno da lingue antiche, si usino circollocuzioni. Lascio quanto le circollocuzioni troppo frequenti (e converrebbe che fossero frequentissime) tolgano di grazia, di forza, di proprietà, di rapidità al discorso, ed inceppino, ritardino,
[639]impaccino, infastidiscano lo scrittore e il lettore, in qualunque caso. Ma dico primieramente che si daranno infinite occorrenze, dove una di quelle cose che non hanno vocabolo italiano, accada di esprimerla
frequentissimamente, tratto tratto, più volte nello stesso periodo. Ora quando a grande stento si sarà trovata una circollocuzione che equivalga veramente, al che sarà spesso necessario ch’ella sia lunghissima, come ripeterla a ogni tratto, e in un periodo stesso più volte? come variarla, se appena se n’è trovata una che equivalga? come abbreviarla, se tolta qualche parola, ella non ha più la stessa forza, e non dice tutto, non esprime più quella tale idea, se non è tutta distesa ed intera? Una parola si adatta a prendere tutte le positure, s’introduce da per tutto, si maneggia facilmente, speditamente, e a beneplacito. Ma una circollocuzione, un corpo grosso e disadatto, che se non ha tanto di luogo, non può entrare o giacere, come troverà sito, dirò così, in quelle pieghe, in quei cantoni, in quegli spicoli, in quegli spazietti, [640]in quei passaggetti, in quelle rivolte (rivolture, rivoltatine, che in tutti questi modi si può dire, come dice il Firenzuola, le rivolture degli orecchi) in quelle giratine, in quelle tortuo-sità, in quelle angustie e stretture del discorso o del periodo, così frequenti, dove spessissimo vorrà e dovrà entrare quella tale idea, ed entrerebbe la parola, la circollocuzione non già?
Letteratura italiana Einaudi 505
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Dico in secondo luogo che infinite cose vi sono, le quali non si possono esprimere mediante veruna
circollocuzione. Verbigrazia quello che i francesi intendono così spesso per la parola génie (usata nello stesso senso dal Magalotti, come dice il Monti nella Biblioteca Italiana). Come esprimere per circollocuzione quello che non si può definire? Dove manca la facoltà della definizione, manca parimente della circollocuzione. E queste tali cose che s’intendono chiaramente, facilmente, e pienamente, per via di una parola convenuta, ma non si potrebbero nè definire adequatamente, nè dare ad intendere per nessuna circollocuzione, sono infinite in ogni genere, massimamente poi nelle materie filosofiche della natura ch’elle sono oggidì, nelle materie astratte ec. Ed è ben naturale, [641]perchè le parole son fatte per le cose: a quella tal cosa, corrisponde quella tal parola; altre parole, ancorchè molte non corrispondono. Sussiste la cosa, sussiste l’idea, sussiste la maniera di significarla e definir-la, ma quella maniera, quel mezzo, e non altro.
Ogni volta che qualunque disciplina o cognizione, o speculazione umana, ma specialmente la filosofia, e la metafisica che considera i principii e gli elementi delle cose, i quali poco o nulla cadono nel sermone e nell’uso comune, le intimità, i secreti, le parti delle cose rimote e segregate dai sensi e dal pensiero dei più; ogni volta, dico, che questa ha ricevuto qualche incremento, o preso qualche nuovo sentiero, o cercata o trovata qualche novità, è stata necessaria, ed effettivamente adoperata la novità delle parole in qualunque lingua. Lascio la latina che prima di Lucrezio e Cicerone era affatto impotente nelle materie filosofiche, e che tuttavolta aveva, come abbiamo noi nella francese, il sussidio e la miniera di una lingua sorella, ricchissima in questo genere, come negli altri. La novità della filosofia di Platone, domandava la novità delle parole in quella medesima [642]lingua gre-Letteratura italiana Einaudi 506
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ca, sì ricca per ogni capo, e segnatamente nelle materie filosofiche tanto familiari alla Grecia da lunghissimo tempo. E Platone inventava nuove parole, e tali, che in quella stessa lingua, così pieghevole, e trattabile; così non solamente ricca, ma feconda; così avvezza alle novità delle parole; così facile così suscettibile così spontaneamente adattabile alla formazione di nuove voci, riuscivano strane, assurde e ridicole ai volgari, al comune, alla gente che considera l’effetto, cioè la novità della voce, e non pesa la cagione, cioè la novità delle cose, e delle speculazioni.
Come trapezñthw che noi possiamo dire mensalità, e kuaϑñthw calicità. (non c’è di meglio per esprimere in italiano questa parola: così mi sono accertato.) V. Laerz.
(in Diog. Cyn. l.6. segm.53.) e il Menag. se ha nulla, e potrai anche riportare quel fatto che il Laerz. riferisce in proposito. Tanto le astrazioni ec. sono lontane dall’uso comune. E queste e altre tali parole le formava Platone, certo non più lodato per la sapienza di quello che fosse per la purità ed eleganza della favella Attica, e dello stile, e per tutti i pregi della eloquenza, [643]della elocuzione, e del bello scrivere e dire.
(10. Feb. 1821.)
Non è bisogno che una lingua sia definitamente poetica, ma certo è bruttissima e inanimata quella lingua che è definitamente matematica. La migliore di tutte le lingue è quella che può esser l’uno e l’altro, e racchiudere eziandio tutti i gradi che corrono fra questi due estremi.
(11. Feb. 1821.)
Les enfans aiment à être traités en personnes raisonnables. Mme. de Lambert, Lettre à madame la supérieure de la Madeleine de Tresnel, sur l’éducation d’une jeune de-moiselle; ou Lettre III. dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus, (p.633.) p.356.
Letteratura italiana Einaudi 507
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Che rileva dunque che tu sia famoso tra coloro che na-sceranno, se fosti ignoto a coloro che nacquero prima?
(tra coloro, o quei che verranno, se fosti ignoto a coloro, o quelli che furono?) I quali non cedono alla posterità rispetto al numero, e indubitatamente la vincono rispetto alla virtù. [644](Il numero dei quali non cede a quello de’ posteri, e la virtù indubitatamente prevale, o senza fallo prevale.).
(11. Feb. 1821.)
Non c’è forse persona tanto indifferente per te, la quale salutandoti nel partire per qualunque luogo, o lasciarti in qualsivoglia maniera, e dicendoti, non ci rivedremo mai più, per poco d’anima che tu abbia, non ti commuova, non ti produca una sensazione più o meno trista. L’orrore e il timore che l’uomo ha, per una parte, del nulla, per l’altra, dell’eterno, si manifesta da per tutto, e quel mai più non si può udire senza un certo senso. Gli effetti naturali bisogna ricercarli nelle persone naturali, e non ancora, o poco, o quanto meno si possa, alterate. Tali sono i fanciulli: quasi l’unico soggetto dove si possano esplora-re, notare, e notomizzare oggidì, le qualità, le inclinazioni, gli affetti veramente naturali. Io dunque da fanciullo aveva questo costume. Vedendo partire una persona, quantunque a me indifferentissima, considerava [645]se era possibile o probabile ch’io la rivedessi mai. Se io giudicava di no, me le poneva intorno a riguardarla, ascol-tarla, e simili cose, e la seguiva o cogli occhi o cogli orecchi quanto più poteva, rivolgendo sempre fra me stesso, e addentrandomi nell’animo, e sviluppandomi alla mente questo pensiero: ecco l’ultima volta, non lo vedrò mai più, o, forse mai più. E così la morte di qualcuno ch’io conoscessi, e non mi avesse mai interessato in vita, mi dava una certa pena, non tanto per lui, o perch’egli mi interessasse allora dopo morte, ma per questa considerazione ch’io ruminava profondamente: è partito per sem-Letteratura italiana Einaudi 508
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia pre – per sempre? sì: tutto è finito rispetto a lui: non lo vedrò mai più: e nessuna cosa sua avrà più niente di comune colla mia vita. E mi poneva a riandare, s’io poteva, l’ultima volta ch’io l’aveva o veduto, o ascoltato ec. e mi doleva di non avere allora saputo che fosse l’ultima volta, e di non [646]essermi regolato secondo questo pensiero.
(11. Feb. 1821.)
Nessun secolo de’ più barbari si è creduto mai barbaro, anzi nessun secolo è stato mai, che non credesse di essere il fiore dei secoli, e l’epoca più perfetta dello spirito umano e della società. Non ci fidiamo dunque di noi stessi nel giudicare del tempo nostro, e non consideriamo l’opinione presente, ma le cose, e quindi congetturiamo il giudizio della posterità, se questa sarà tale da poter giudicar-ci rettamente.
(12. Feb. 1821.)
La somma della teoria del piacere, e si può dir anche, della natura dell’animo nostro e di qualunque vivente, è questa. Il vivente si ama senza limite nessuno, e non cessa mai di amarsi. Dunque non cessa mai di desiderarsi il bene, e si desidera il bene senza limiti. Questo bene in sostanza non è altro che il piacere. Qualunque piacere ancorchè grande, ancorchè reale, ha limiti. Dunque nessun piacere possibile è proporzionato ed uguale alla
[647]misura dell’amore che il vivente porta a se stesso.
Quindi nessun piacere può soddisfare il vivente. Se non lo può soddisfare, nessun piacere, ancorchè reale astrattamente e assolutamente, è reale relativamente a chi lo prova. Perchè questi desidera sempre di più, giacchè per essenza si ama, e quindi senza limiti. Ottenuto anche di più, quel di più similmente non gli basta. Dunque nell’at-to del piacere, o nella felicità, non sentendosi soddisfatto, non sentendo pago il desiderio, il vivente non può provar pieno piacere; dunque non vero piacere, perchè Letteratura italiana Einaudi 509
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia inferiore al desiderio, e perchè il desiderio soprabbonda.
Ed eccoti la tendenza naturale e necessaria dell’animale all’indefinito, a un piacere senza limiti. Quindi il piacere che deriva dall’indefinito, piacere sommo possibile, ma non pieno, perchè l’indefinito non si possiede, anzi non è. E bisognerebbe possederlo pienamente, e al tempo stesso indefinitamente, perchè l’animale fosse pago, cioè felice, cioè l’amor proprio suo che non ha limiti, fosse definitamente soddisfatto: cosa [648]contraddittoria e impossibile. Dunque la felicità è impossibile a chi la desidera, perchè il desiderio, sì come è desiderio assoluto di felicità, e non di una tal felicità, è senza limiti necessariamente, perchè la felicità assoluta è indefinita, e non ha limiti. Dunque questo desiderio stesso è cagione a se medesimo di non poter essere soddisfatto. Ora questo desiderio è conseguenza necessaria, anzi si può dir tutt’uno coll’amor proprio. E questo amore è conseguenza necessaria della vita, in quell’ordine di cose che esiste, e che noi concepiamo, e altro non possiamo concepire, ancorchè possa essere, ancorchè fosse realmente. Dunque ogni vivente, per ciò stesso che vive (e quindi si ama, e quindi desidera assolutamente la felicità, vale a dire una felicità senza limiti, e questa è impossibile, e quindi il desiderio suo non può esser soddisfatto) perciò stesso, dico, che vive, non può essere attualmente felice. E la felicità ed il piacere è sempre futuro, cioè non esistendo, nè potendo esistere realmente, esiste solo nel desiderio del vivente, e nella speranza, o aspettativa che ne segue.
Le [649] présent n’est jamais notre but; le passé et le présent sont nos moyens; le seul avenir est notre objet: ainsi nous ne vivons pas, mais nous espérons de vivre, dice Pascal.
Quindi segue che il più felice possibile, è il più distratto dalla intenzione della mente alla felicità assoluta. Tali sono gli animali, tale era l’uomo in natura. Nei quali il desiderio della felicità cangiato nei desiderii di questa o di quella felicità, o fine, e soprattutto mortificato e dissipato dal-Letteratura italiana Einaudi 510
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia l’azione continua, da’ presenti bisogni ec. non aveva e non ha tanta forza di rendere il vivente infelice. Quindi l’attività massimamente, è il maggior mezzo di felicità possibile. Oltre l’attività, altri mezzi meno universali o durevoli o valevoli, ma pur mezzi, sono gli altri da me notati nella teoria del piacere, p.e. (ed è uno de’ principali) lo stupore 1. di carattere e d’indole: gli uomini così fatti sono i più felici: gli uomini incapaci di questa qualità, sono i più infelici: sii grande e infelice, detto di D’Alembert, Éloges de l’Académie Françoise (così, Françoise) dice la natura agli uomini grandi, agli uomini sensibili, passionati ec.: il senso vivo del desiderio di felicità li tormenta: questo desiderio [650]bisogna sentirlo il meno possibile, quantunque innato, e continuo necessariamente. 2. derivato da languore o torpore ec. artefatto, come per via dell’oppio, o proveniente da lassezza ec. ec.
3. derivato da impressioni straordinarie, dalla maraviglia di qualunque sorta, da avvenimenti, da cose vedute, udite ec. insomma da sensazioni straordinarie di qualsivoglia genere: 4. dalla immaginazione, dall’estasi che deriva dalla fantasia, da un sentimento indefinito, dalla bella natura ec. e v. la teoria del piacere. Notate che l’immaginazione la vivacità, la sensibilità, le quali nocciono alla felicità per la parte dello stupore, giovano per la parte dell’attività. E
perciò sono piuttosto un dono della natura (ancorchè spesso doloroso), di quello che un danno; perchè effettivamente l’attività è il mezzo di distrazione il più facile, più sicuro e forte, più durevole, più frequente e generale e realizzabile nella vita. (12. Feb. 1828.).
Les passions même les plus vives ont besoin de la pudeur pour se montrer dans une forme séduisante: elle doit se répandre sur toutes vos actions; elle doit parer et em-bellir [651]toute votre personne. On dit que Jupiter, en formant les passions, leur donna à chacune sa demeure; la pudeur fut oubliée, et quand elle se présenta, on ne Letteratura italiana Einaudi 511
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia savoit plus où la placer; on lui permit de se mêler avec toutes les autres. Depuis ce temps-là, elle en est insépara-ble. Mme de Lambert, Avis d’une mère à sa fille, dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus, (p.633.), p.60-61. Che vuol dir questo, se non che niente è buono senza la naturalezza? Applicate questi detti della Marchesa anche alla letteratura, inseparabile parimente dal pudore, e a quello ch’io dico del sentimento, e del genere sentimentale nel Discorso sui romantici.
(13. Feb. 1821.)
La curiosité est une connoissance commencée, qui vous fait aller plus loin et plus vite dans le chemin de la vérité.
Mme de Lambert, lieu cité ci-dessus, p.72. Non intendo pienamente il sentimento della marchesa, ma il fatto è questo. La curiosità o il desiderio di conoscere, non è per la massima parte, se non l’effetto della conoscenza.
Esaminate la natura, e [652]vedrete quanto la curiosità sia piccola, leggera e debole nell’uomo primitivo; come non gli cada mai nella testa il desiderio di saper quelle cose che non gli appartengono, o che sono state nascoste dalla natura (p.e. le cose fisiche, astronomiche ec. le origini i destini dell’uomo, degli animali, delle piante, del mondo); com’egli sia incapace d’intraprendere qualche seria operazione per informarsi di cosa veruna, e molto meno di cosa difficile a conoscersi (e queste sono appunto quelle che non si dovevano conoscere, e l’ignoranza delle quali, basta alla felicità dell’uomo, ancorchè informato di altre cose facili ed ovvie). Piuttosto l’immaginazione sua supplisce, e gli fa credere di sapere una causa, che realmente non è quella ec. In somma non è niente vero, che l’uomo sia portato irresistibilmente verso la verità e la cognizione. La curiosità, qual è oggidì, e da gran tempo, è una di quelle qualità corrotte, con uno sviluppo e un andamento non dovuto, come tante altre qualità, passioni ec. buone ed utili, anzi necessarie in [653]quel grado che Letteratura italiana Einaudi 512
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia la natura aveva dato loro, ma pessime e mortifere, quando sono passate ad altri gradi, e sviluppatesi più del dovere, e modificatesi diversamente. Così che sebbene queste qualità e passioni sieno naturali in radice, ed umane, non perciò sono naturali, quali si trovano oggidì, nè dal loro stato presente si deve giudicare della natura e costituzione dell’uomo, nè dedurne intorno ai nostri destini quelle conseguenze che se ne deducono.
(13. Feb. 1821.). V. p.657. capoverso 1.
Les femmes apprennent volontiers l’Italien, qui me paroît dangereux, c’est la langue de l’Amour. Les Auteurs Italiens sont peu châtiés; il règne dans leurs ouvrages un jeu de mots, une imagination sans règle, qui s’oppose à la justesse de l’esprit. Mme Lambert, lieu cité ci-dessus, p.73-74.
(13. Feb. 1821.)
Plus il y a de monde, (cioè, più gente ci sta d’intorno, più ci troviamo in mezzo al mondo attualmente) et plus les passions acquièrent d’autorité. Ib. p.81. Un philosophe
[654]assuroit: «… que plus il avoit vu de monde, plus les passions acquéroient d’autorité…» Mme Lambert, Lettre à madame de ***, ou Lettre XV. dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus, p.395. Così è generalmente: ma all’uomo veramente sventurato accade tutto il contrario. Ogni volta ch’egli si presenta nel mondo, vedendosi respinto, il suo amor proprio mortificato, i suoi desideri frustrati, o contrariati, le sue speranze deluse, non solamente non concepisce veruna passione fuorchè quella della disperazione, ma per lo contrario, le sue passioni si spengono. E nella solitudine, essendo lontane le cose e la realtà, le passioni, i desiderii, le speranze se gli ridestano.
(13. Feb. 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 513
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Modérez votre goût pour les sciences extraordinaires, elles sont dangereuses, et elles ne donnent ordinairement que beaucoup d’orgueil; elles démontent les ressorts de l’ame… Notre ame a bien plus de quoi jouir, qu’elle n’a de quoi connoître: (i mezzi di godere che quelli di conoscere: questo è il senso, [655]come apparisce dal contesto, e da altri luoghi delle sue opere paralleli a questo) nous avons les lumières propres et nécessaires à notre bien être; mais nous ne voulons pas nous en tenir là; nous courons après des vérités qui ne sont pas faites pour nous…
Ces réflexions dégoûtent des sciences abstraites. Mme de Lambert, Avis d’une mère à sa fille, dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus, p.74-75-76.
Nous avons en nous de quoi jouir, mais nous n’avons pas de quoi connoître. Nous avons les lumières propres et nécessaires à notre bien être; mais nous courons après des vérités qui ne sont pas faites pour nous… Ces réflexions dégoûtent des vérités abstraites. La même, Traité de la Vieillesse, l. c. p.146-147.
(13. Feb. 1821.)
Examinez votre caractère, et mettez à profit vos défauts; il n’y en a point qui ne tienne à quelques vertus, et qui ne les favorise. La Morale n’a pas pour objet de détruire la nature, mais de la perfectionner. Mme Lambert, Avis d’une Mère a sa fille, lieu cité ci-dessus, p.84. E segue mostrando con parecchi esempi, come ciascuna
[656]imperfezione conduca, serva, e quasi racchiuda qualche virtù, conchiudendo: Il n’y a pas une foiblesse, dont, si vous voulez, la vertu ne puisse faire quelque usage.
ib. p. citée. Da queste osservazioni fatte anche da molti altri, si può dedurre una verità molto generale ed importante, cioè con quanto leggere modificazioni quelle qualità umane che si chiamano viziose, e si presumono vizi naturali e inerenti, si riducano e si trovino, non esser altro che buone e giovevoli qualità, e come in origine e nella Letteratura italiana Einaudi 514
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia prima costituzione dell’uomo fosse buono ancor quello che ora pare essenzialmente e primitivamente cattivo, perciocchè essendosi facilmente corrotte quelle prime qualità naturali, e distoltesi dal loro fine, e non conoscendosi più a qual buon fine potessero esser destinate; la depravazione nostra ch’è opera dell’uomo, si prende per vizio naturale ed innato; e si confonde il mal uso delle qualità che si chiamano naturali, col buon uso a cui la natura le aveva destinate, e che ora non si scuopre più facilmente. [657]In somma da tutto ciò si conferma la dottrina della perfezione naturale, e primitiva dell’uomo, considerando come sieno originalmente buone anche quelle qualità, che per una parte si hanno per naturali ed innate, e sono; per l’altra, si hanno per naturalmente cattive, e non sono: ma questo errore fa che la natura si creda viziosa, e bisognosa della ragione. La qual ragione, anch’essa, abbiamo spessissimo dimostrato ch’è un sommo vizio, e contuttociò ell’è innata. Ma tal quale era innata, non era vizio; bensì è vizio tal quale ella si trova, ed è adoperata oggidì.
(14. Feb. 1821.)
Alla p.653. Effettivamente la curiosità naturale, porta l’uomo, il fanciullo ec. a voler vedere, sentire ec. una cosa o bella, o straordinaria, o notabile relativamente all’individuo. Ma non lo stimola mica e non lo tormenta, per saper la cagione di quel tale effetto che gli è piaciuto di vedere, udire ec. Anzi l’uomo naturale ordinariamente, si contiene nella maraviglia, [658]gode del piacere che deriva da lei, e se ne contenta. Così che la curiosità primitiva non porta l’uomo naturalmente, se non a desiderare e proccurarsi la cognizione di quelle cose, ch’essendo facili a conoscere (e l’uomo naturale desidera di conoscerle fino a quel punto fino al quale son facili), e quindi non essendo state nascoste dalla natura; la cognizione loro non nuoce all’ordine primitivo, non altera l’uomo, non Letteratura italiana Einaudi 515
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia isconviene alla sua natura, non pregiudica alla sua felicità e perfezione: non entrando quei tali oggetti nell’ordine delle cose che la natura ha voluto fossero sconosciute e ignorate. Così si vede anche negli altri animali.
(14. Feb. 1821.)
La ragione di quanto ho più volte osservato circa la difficoltà anzi impossibilità di riuscire in quelle cose che si fanno con troppo impegno, e tanto più quanto queste cose sono naturali, e quanto la perfezione loro consiste nella naturalezza, è questa. Non riesce bene e secondo natura, se non quello che si fa naturalmente. [659]Ma i detti mezzi non sono naturali, e il servirsi di essi non è secondo natura. Dunque ec. Non basta che un’operazione sia naturale: ma quanto più è o dev’esser naturale, tanto più bisogna farla naturalmente. Anzi non è naturale, se non è fatta naturalmente.
(14. Feb. 1821.)
L’invenzione e l’uso delle armi da fuoco, ha combinato perfettamente colla tendenza presa dal mondo in ordine a qualunque cosa, e derivata naturalmente dalla preponderanza della ragione e dell’arte, colla tendenza, dico, di uguagliar tutto. Così le armi da fuoco, hanno uguagliato il forte al debole, il grande al piccolo, il valoroso al vile, l’esercitato all’inesperto, i modi di combattere delle varie nazioni: e la guerra ancor essa ha preso un equilibrio, un’uguaglianza che sembrava contraria direttamente alla sua natura. E l’artifizio, sottentrando alla virtù, [660]ed agguagliandola, e anche superandola, e rendendola inutile, ha pareggiato gl’individui, tolta la varietà, spento quindi anche nella guerra, l’entusiasmo quasi del tutto, spenta l’emulazione, e toltale la materia, spento l’eroismo, giacchè tanto vale un soldato eroe, quanto un Martano, o se anche non l’ha spento, l’ha confuso colla viltà, e reso indistinguibile, e quindi senza eccitamento e senza pre-Letteratura italiana Einaudi 516
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia mio: in fine ha contribuito sommamente anche per questa parte a mortificare il mondo e la vita. Tanto è vero che il bello, il grande, il vario, non si trova se non che nella natura, e si perde subito appena si esce da lei, appena sottentrano l’arte e la ragione, in qualunque cosa.
(14 Feb. 1821.)
Diogene, ¤rvthϑeÜz eÞ kakòw ñ ϑ�natow, pÇw, eäpe, kakòw, oð parñntow oçk aÞsϑanñmeϑa; Laerz. in Diog.
Cyn. 6.68. Dalla nota del Menag. si rileva ch’egli l’ha inteso della insensibilità dell’atto della morte.
[661]Delle diverse opinioni intorno alla pretesa legge naturale, v. alcuni sentimenti e dommi di Diogene, ap.
Laert. in Diog. Cyn. VI. 72-73. e quivi il Menagio, il quale riporta in proposito alcune parole di Sesto Empirico, la cui opera Pyrronianarum Hypotyposeon, e l’altra Adversus Mathematicos, ossia adversus cuiusvis generis dogmaticos, è tutta relativa a questo argomento, ed a quello ch’io sostengo, che non c’è verità nessuna assoluta.
(14. Feb. 1821.)
Dell’influenza del corpo sull’animo, e dell’esercizio sulla virtù, v. le sentenze di Diogene, ap. Laert. in Diog. Cyn.
VI. 70. e quivi il Menag. se ha nulla.
(14. Feb. 1821.)
On aime à savoir les foiblesses des personnes estimables, non già solamente di quelle che si odiano o invidiano, ma di quelle che si amano, si ammirano, si trattano, ci obbli-gano e ci giovano coi loro benefizi, consigli ec. e in questo senso lo dice Mad. Lambert, La Femme Hermite.
Nouvelle Nouvelle. [662]dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus (p.633.), p.229. Tu puoi però applicarti questo pensiero, e rendertelo proprio, giacchè Mad. lo stende, lo spiega, e l’applica in maniera ordinaria, così che il pensiero sembra comune, non fa gran colpo e non se ne os-Letteratura italiana Einaudi 517
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia serva l’originalità. Essa lo applica principalmente alla confidenza che ne deriva verso quelle tali persone: et j’étois trop heureuse de trouver en elle, non-seulement des conseils, mais de ces foiblesses aimables qui nous rendent plus indulgens pour celles d’autrui. Ma si può considerare questa verità molto più in grande, dilatarla, osservarne i rapporti, applicarla anche al teatro, alla poesia, a’ romanzi ec. ed alle arti imitatrici, e confermarne quella regola di Aristotele, che il protagonista non sia perfetto.
(15. Feb. 1821.)
Je crois que son estime (si parla di una persona amata, ma da cui non si spera nulla, e alla quale non si è mai dichiarato il proprio amore) doit être le prix de tout ce que je fais de bien; et je fais encore plus [663] grand cas d’elle (de son estime) que de tous les sentimens les plus tendres que je pourrois lui supposer. (Quella che parla è una donna, e l’amato è un uomo). Mme. Lambert, Lieu cité ci-dessus, p.234.
Messer tale sentendo dire che la vita è una commedia, disse che oggidì è piuttosto una prova di commedia, ovvero una di quelle rappresentazioni, che talvolta i collegiali, o simili fanno per loro soli. Perchè non ci sono più spettatori, tutti recitano, e la virtù e le buone qualità che si fingono, nessuno le ha, e nessuno le crede negli altri.
Anzi proponeva questo mezzo di fare che il mondo ces-sasse finalmente di essere un teatro, e la vita diventasse per la prima volta, almeno dopo lunghissimo tempo, un azion vera. S’ella fu mai tale, fu perchè gli uomini, se non altro la maggior parte, erano veramente buoni, o tendevano alla virtù. Questo ora è impossibile, e non è [664]più da sperare. Dunque si cercasse il detto fine per un altro verso, quasi opposto. Si riformassero il Galateo, le leggi, gl’insegnamenti pubblici e privati, l’educazione de’ fan-Letteratura italiana Einaudi 518
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ciulli, i libri di Morale, i vocabolari ec. In maniera che quello che non è più necessario, anzi è disutile e dannoso in sostanza, non fosse più necessario neanche in apparenza. Così si toglierebbe agli uomini la necessità di mentir sempre, e inutilmente, perchè non ingannano più nessuno; l’imbarazzo in cui questa li pone tante volte; la contraddizione fra l’esteriore, e l’interiore; la falsità ec. si ricondurrebbe la verità nel mondo; la vita resterebbe nè più nè meno la stessa qual è oggidì, ma solamente tolto questo linguaggio e queste maniere di convenzione, e questo genere aereo ed inutile di bienséances, e di onore, e di riguardi a un pubblico che pensa ed opera come te, si toglierebbero agli uomini molti incomodi, e fatiche, e attenzioni, e sollecitudini [665]vane; e la vita sarebbe un fatto e non una rappresentazione: finalmente si concor-derebbero una volta insieme quelle due cose discordi ab eterno, i detti e i fatti degli uomini.
Sperava e prognosticava che il mondo si sarebbe stan-cato di tante apparenze divenute inutili da che non servono più ad ingannare, e da che la commedia non è più spettacolo, e tutti sono attori. Che avrebbe messo d’accordo la sostanza coll’apparenza, non già cambiando la sostanza, che Dio ce ne scampi, ma lasciandola intatta, e cambiando l’apparenza, les bienséances, il linguaggio ec.
cioè facendo che apparisca e si dica quello ch’è vero. E
notava che il mondo sembra che già inclini a questo, e non i fatti coi detti, ma i detti si comincino ad accomodare, ad accordare, a pacificare coi fatti; ed oramai vengano a trattato con questi loro nemici, e domandino essi le condizioni di pace. E che forse [666]anche oggidì l’esteriore coll’interiore, i detti coi fatti sono più d’accordo che non furono da grantempo.
(16. Feb. 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 519
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Je sentis que c’étoit quelque chose de bien douloureux, que de savoir ce que l’on aime attaché à quelque chose de parfait: (cioè la persona amata, a qualche altra persona perfetta, e degna dell’amor suo: e in questo senso lo dice Mad. Lambert) mais loin que mon intérêt ait pris sur la justice que je devois à mon amie, (amata da colui ch’era amato dalla persona che parla, ed è una donna) ma délicatesse et la crainte de lui manquer ont augmenté son mérite à mes yeux. Mme. de Lambert lieu cité ci-dessus, (p.661. fine), p.265. fine.
Elle (l’imagination) nous donne de ces joies sérieuses qui ne font rire que l’esprit. (cioè, il bello spirito, il bell’umore).
Mme de Lambert, Réflexions nouvelles sur les [667] femmes, dans ses Oeuvres complètes citées ci-dessus, (p.633.), p.166.
(16. Feb. 1821.)
Quello che ho detto in altro pensiero intorno all’idea che i fanciulli si formano dei nomi, si deve estendere assai, perchè ordinariamente e generalmente, il fanciullo dal primo individuo che vede, si forma l’idea di tutta la specie o genere, in ogni sorta di cose; dal primo soldato, l’idea di tutti i soldati, dal primo tempio, l’idea di tutti i tempii ec. E se la forma vivamente e durevolmente, se però altri individui della stessa specie, non vengono frequentemente o nella stessa fanciullezza, o poi, a scancellare l’idea concepita sul primo individuo. Senza ciò, e massimamente se le idee di altri individui non sottentrano a quella del primo durante la fanciullezza, l’idea del primo si conserva per lunghissimo tempo anche nelle altre età, e serve nella nostra mente di tipo, a tutti gli altri individui della stessa specie di cui ci dobbiamo formare un’idea per relazione o cosa tale, e che non ci cadono sotto i sensi. P.e. avendo io di due anni veduto un colonnello, l’idea
[668]ch’io mi formo naturalmente della persona di que-Letteratura italiana Einaudi 520
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia sto o di quel colonnello, ch’io non conosco di veduta, e in astratto, del colonnello, è ancora modellata su quella figura, quelle maniere ec. Anche da ciò si deve inferire quanto sieno importanti le benchè minime impressioni della fanciullezza, e quanto gran parte della vita dipenda da quell’età; e quanto sia probabile che i caratteri degli uomini, le loro inclinazioni, questa o quell’altra azione ec. derivino bene spesso da minutissime circostanze della loro fanciullezza, e come i caratteri ec. e le opinioni massimamente (dalle quali poi dipendono le azioni, e quasi tutta la vita) si diversifichino bene spesso per quelle minime circostanze, e accidenti, e differenze appartenenti alla fanciullezza, mentre se ne cercherà la cagione e l’origine in tutt’altro, anche dai maggiori conoscitori dell’uo-mo.
(16. Feb. 1821.). V. p.675. principio
Quella maravigliosa facilità che hanno [669]i fanciulli di passare immediatamente dal più profondo dolore alla gioia, dal pianto al riso ec. e viceversa, e ciò per minime cagioni; questa somma volubilità e versatilità d’indole e d’immaginazione, non dev’ella esser causa di una molto maggiore felicità, o molto minore miseria che nelle altre età?
(16. Feb. 1821.)
L’orgueil nous sépare de la société: notre amour-propre nous donne un rang à part qui nous est toujours disputé: l’estime de soi-même qui se fait trop sentir est presque toujours punie par le mépris universel. Mme de Lambert, Avis d’une mère à sa fille, dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus, (p.633.), p.99. fine. Così è naturalmente nella società, così porta la natura di questa istituzione umana, la quale essendo diretta al comun bene e piacere, non sussiste veramente, se l’individuo non accomuna [670]più o meno cogli altri la sua stima, i suoi interessi, i suoi fini, Letteratura italiana Einaudi 521
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia pensieri, opinioni, sentimenti ed affetti, inclinazioni, ed azioni; e se tutto questo non è diretto se non a se stesso.
Quanto più si trova nell’individuo il se stesso, tanto meno esiste veramente la società. Così se l’egoismo è intero, la società non esiste se non di nome. Perchè ciascun individuo non avendo per fine se non se medesimo, non curando affatto il ben comune, e nessun pensiero o azione sua essendo diretta al bene o piacere altrui, ciascuno individuo forma da se solo una società a parte, ed intera, e perfettamente distinta, giacchè è perfettamente distinto il suo fine; e così il mondo torna qual era da principio, e innanzi all’origine della società, la quale resta sciolta quanto al fatto e alla sostanza, e quanto alla ragione ed essenza sua. Perciò l’egoismo è sempre stata la peste della società, e quanto è stato maggiore, tanto peggiore è stata
[671]la condizione della società; e quindi tanto peggiori essenzialmente quelle istituzioni che maggiormente lo favoriscono o direttamente o indirettamente, come fa soprattutto il dispotismo. (Sotto il quale stato la Francia era divenuta la patria del più pestifero egoismo, mitigato assai dalla rivoluzione, non ostante gl’immensi suoi danni, come è stato osservato da tutti i filosofi.) L’egoismo è inseparabile dall’uomo, cioè l’amor proprio, ma per egoismo, s’intende più propriamente un amor proprio mal diretto, male impiegato, rivolto ai propri vantaggi reali, e non a quelli che derivano dall’eroismo, dai sacrifizi, dalle virtù, dall’onore, dall’amicizia ec. Quando dunque questo egoismo è giunto al colmo, per intensità, e per universalità; e quando a motivo e dell’intensità, e massime dell’universalità si è levata la maschera (la quale non serve più a nasconderlo, perchè troppo vivo, e perchè tutti sono animati dallo stesso sentimento), allora la natura del commercio sociale (sia relativo alla conversazione, [672]sia generalmente alla vita) cangia quasi intieramente. Perchè ciascuno pensando per se (tanto per sua propria inclinazione, quanto perchè nessun altro vi pensa più, e Letteratura italiana Einaudi 522
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia perchè il bene di ciascheduno è confidato a lui solo), si superano tutti i riguardi, l’uno toglie la preda dalla bocca e dalle unghie dell’altro; gl’individui di quella che si chiama società, sono ciascuno in guerra più o meno aperta, con ciascun altro, e con tutti insieme; il più forte sotto qualunque riguardo, la vince; il cedere agli altri qualsivoglia cosa, o per creanza, o per virtù, onore ec. è inutile, dannoso e pazzo, perchè gli altri non ti son grati, non ti rendono nulla, e di quanto tu cedi loro, o di quella minore resistenza che opponi loro, profittano in loro vantaggio solamente, e quindi in danno tuo. E così, per togliere un esempio dal passo cit. di Mad. di Lambert, si vede nel fatto che oggidì, il disprezzo degli altri, e la stima aperta e ostentata di se stesso, non solamente non è più così dannosa come [673]una volta, ma bene spesso è necessaria, e chi non sa farne uso non guadagna nulla in questo mondo presente. Perchè gli altri non sono disposti ad accordarti spontaneamente, e in forza del vero, e del merito nulla, come di nessuna altra cosa, così neanche di stima, e bisogna quindi che tu la conquisti come per forza, e con guerra aperta e ostilmente, mostrandoti persuasissimo del tuo merito, ad onta di chicchessia, disprezzando e calpestando gli altri, deridendoli, profittando d’ogni menomo loro difetto, rinfacciandolo loro, non perdonando nulla agli altri, cercando in somma di abbassarli e di renderteli inferiori, o nella conversazione o dovunque con tutti i mezzi più forti. Che se oggidì ti vuoi procacciare la stima degli altri, col rispetto, buona maniera verso loro, col lusingare il loro amor proprio, dissimulare i loro difetti ec. e quanto a te, colla modestia, col silenzio ec. ti succede tutto l’opposto. Essi profittano di te e de’ tuoi riguardi verso loro, per innalzarsi, e della tua poca resistenza quanto a te, per deprimerti. Quello che concedi [674]loro, l’adoprano in loro mero vantaggio, e danno tuo; quello che non ti arroghi o non pretendi, o quel merito che tu dissimuli, te lo negano e tolgono, per Letteratura italiana Einaudi 523
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia vederti inferiore ec. Così, nel modo che ho detto ritornano effettivamente nel mondo i costumi selvaggi, e di quella prima età, quando la società non esistendo, ciascuno era amico di se solo, e nemico di tutti gli altri esseri o dissimili o simili suoi, in quanto si opponevano a qualunque suo menomo interesse o desiderio, o in quanto egli poteva godere a spese loro. Costumi che nello stato di società son barbari, perchè distruttivi della società, e contrari direttamente all’essenza ragione, e scopo suo. Quindi si veda quanto sia vero, che lo stato presente del mondo, è propriamente barbarie, o vicino alla barbarie quanto mai fosse. Ogni così detta società dominata dall’egoismo individuale, è barbara, e barbara della maggior barbarie.
(17. Feb. 1821.)
[675]Alla pag.668. fine. E questa non è forse una delle minime cagioni di quella verità Quot homines, tot sententiae, detto di Terenzio, (Phorm. Act. 2. sc.4. ver.14.) Quot homines, tot sententiae: suus cuique mos. (Negli adagi del Manuzio questo proverbio è riportato così, quot homines, non capita. ) E similmente Oraz. (Sat. l.2. sat.1.
v.27-28.) Quot capitum vivunt, totidem studiorum Millia.
Ed Euripide (in Phoenissis):
Ei p�si taétò kalòn ¦fu, sofñn ϑ� �ma,
Oék ·n �n �mfÛlektow �nϑrÅpoiw ¦riw.
Nèn d� oëϑ� ÷moion oéd¢n oët� àson brotoÝw
Pl¯n ônom�sai: tò d� ¦rgon oék ¦sti tñde.
Cunctis idem si pulchrum, et egregium foret, Nulla esset anceps hominibus contentio.
At nunc simile nil, nil idem mortalibus: Nisi verba forsan inter istos concinunt, At re tamen, factisque convenit nihil.
Letteratura italiana Einaudi 524
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia
[676]E Cicerone (de Fin. bon. et mal. c.5. verso il fine): sed quot homines, tot sententiae: falli igitur possumus.
Luogo omesso dal Manuzio.
Riferite le dette sentenze alla opinione comune, che si dia verità assoluta, anche tra gli uomini.
(17. Feb. 1821.)
Non siamo dunque nati fuorchè per sentire, qual felicità sarebbe stata se non fossimo nati?
(18. Feb. 1821.)
ENFIN ELLES AIMENT L’AMOUR, ET NON PAS
L’AMANT. Ces personnes se livrent à toutes les passions les plus ardentes. Vous les voyez occupées du jeu, de la table: tout ce qui porte la livrée du plaisir est bien reçu.
Parla di quelle donne galanti qui ne cherchent et ne veu-lent que les plaisirs de l’amour, di quelle che ne cherchent dans l’amour que les plaisirs des sens, (o della galanteria dell’ambizione ec.) que celui d’être fortement occupées et entraînées, et que celui d’être aimées; di quelle che [677]possono associer d’autres passions à l’amour, e lasciare du vide dans (leur) son coeur, e che après avoir tout donné, possono non essere uniquement (occupées) occupé de ce qu’on aime; di quelle che se font une habitude de galanterie, et NE SAVENT POINT JOINDRE
LA QUALITÉ D’AMIE A CELLE D’AMANT; di quelle che NE CHERCHENT QUE LES PLAISIRS, ET NON
PAS L’UNION DES COEURS, e conseguentemente
ÉCHAPPENT A TOUS LES DEVOIRS DE L’AMITIÉ:
in somma delle donne d’oggidì tutte quante, e in fatti ancor ella sebbene distingue le donne amanti in tre specie, conchiude il discorso di questa specie, così: Voilà l’amour d’usage et d’à-présent, et où les conduit une vie frivole e dissipée. Mme. de Lambert, Réflexions nouvelles sur les femmes, dans ses oeuvres complètes, citées ci-dessus (p.633.) p.179.
Letteratura italiana Einaudi 525
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia (18. Febbraio 1821.)
[678]Il faut convenir que les femmes sont plus délicates que les hommes en fait d’attachement. Il n’appartient qu’à elles de faire sentir par un seul mot, par un seul re-gard, tout un sentiment. Mme. de Lambert, lieu cité ci-dessus, p.187.
Gli esercizi della persona che egli faceva in compagnia di cotali gentili uomini, non solamente per allora li furon cagione della fermezza e gagliardìa del corpo, ma eziandio dell’animo. – Lo dice di Antonio Giacomini Tebalducci Malespini, famoso militare fiorentino, ancor giovane, Jacopo Nardi, Vita d’Antonio Giacomini Tebalducci Malespini, ediz. di Lucca, Francesco Bertini, 1818. [in]
8. p.19..
(18 Feb. 1821.)
Nous n’avons qu’une portion d’attention et de sentiment; dès que nous nous livrons aux objets extérieurs, le sentiment dominant s’affoiblit: nos desirs ne sont-ils pas plus vifs et plus forts dans la retraite? Mme. de Lambert, lieu cité ci-derrière (p.677. fine) p.188. [679]La solitudine è lo stato naturale di gran parte, o piuttosto del più degli animali, e probabilmente dell’uomo ancora. Quindi non è maraviglia se nello stato naturale, egli ritrovava la sua maggior felicità nella solitudine, e neanche se ora ci trova un conforto, giacchè il maggior bene degli uomini deriva dall’ubbidire alla natura, e secondare quanto oggi si possa, il nostro primo destino. Ma anche per altra cagione la solitudine è oggi un conforto all’uomo nello stato sociale al quale è ridotto. Non mai per la cognizione del vero in quanto vero. Questa non sarà mai sorgente di felicità, nè oggi; nè era allora quando l’uomo primitivo se la passava in solitudine, ben lontano certamente dalle meditazioni filosofiche; nè agli animali la felicità della solitudine deriva dalla cognizione del vero. Ma anzi per lo contrario questa Letteratura italiana Einaudi 526
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia consolazione della solitudine deriva all’uomo oggidì, e derivava primitivamente dalle illusioni. Come ciò fosse primitivamente, in quella vita occupata o da continua
[680]sebben solitaria azione, o da continua attività interna e successione d’immagini disegni ec. ec. e come questo accada parimente ne’ fanciulli, l’ho già spiegato più volte. Come poi accada negli uomini oggidì, eccolo.
La società manca affatto di cose che realizzino le illusioni per quanto sono realizzabili. Non così anticamente, e anticamente la vita solitaria fra le nazioni civili, o non esisteva, o era ben rara. Ed osservate che quanto si racconta de’ famosi solitari cristiani, cade appunto in quell’epoca, dove la vita, l’energia, la forza, la varietà originata dalle antiche forme di reggimento e di stato pubblico, e in somma di società, erano svanite o sommamente illanguidite, col cadere del mondo sotto il despotismo. Così dunque torna per altra cagione ad esser proprio degli stati e popoli corrotti, quello ch’era proprio dell’uomo primitivo, dico la tendenza dell’uomo alla solitudine: tendenza stata interrotta dalla prima energia della vita sociale. Perchè oggidì è così la cosa. La presenza e l’atto della società spegne le illusioni, [681]laddove anticamente le fomentava e accendeva, e la solitudine le fomenta o le risveglia, laddove non primitivamente, ma anticamente le sopiva. Il giovanetto ancora chiuso fra le mura domestiche, o in casa di educazione, o soggetto all’altrui comando, è felice nella solitudine per le illusioni, i disegni, le speranze di quelle cose che poi troverà vane o acerbe: e questo ancorchè egli sia d’ingegno penetrante, e istruito, ed anche, quanto alla ragione, persuaso della nullità del mondo. L’uomo disingannato, stanco, esperto, esaurito di tutti i desideri, nella solitudine appoco appoco si rifà, ricupera se stesso, ripiglia quasi carne e lena, e più o meno vivamente, a ogni modo risorge, ancorchè penetrantissimo d’ingegno, e sventuratissimo. Come questo? forse per la cognizione del vero? Anzi per la Letteratura italiana Einaudi 527
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia dimenticanza del vero, pel diverso e più vago aspetto che prendono per lui, quelle cose già sperimentate e vedute, ma che ora essendo lontane dai sensi e dall’intelletto, tornano a passare per la immaginazione sua, e quindi abbellirsi. Ed egli torna a sperare [682]e desiderare, e vivere, per poi tutto riperdere, e morire di nuovo, ma più presto assai di prima, se rientra nel mondo.
Dalle dette considerazioni segue che oggi l’uomo quanto è più savio e sapiente, cioè quanto più conosce, e sente l’infelicità del vero, tanto più ama la solitudine che glielo fa dimenticare, o glielo toglie dagli occhi, laddove nello stato primitivo l’uomo amava tanto più la solitudine, quanto maggiormente era ignorante ed incolto. E così l’ama oggidì, quanto più è sventurato, laddove anticamente, e primitivamente la sventura spingeva a cercare la conversazione degli uomini, per fuggire se stesso. La qual fuga di se stesso oggi è impossibile nella società all’uomo profondamente sventurato, e profondamente sensibile, e conoscente; perchè la presenza della società, non è altro che la presenza della miseria, e del vuoto. Perchè il vuoto non potendo essere riempiuto mai se non dalle illusioni, e queste non trovandosi nella società quale è oggi, resta che sia meglio riempiuto dalla solitudine, dove le illusioni
[683]sono oggi più facili per la lontananza delle cose, divenute loro contrarie e mortifere, all’opposto di quello ch’erano anticamente.
(20. Feb. 1821.)
La sua compagnia (di Antonio Giacomini) ne’ collegi de’ magistrati fu qualche volta ad alcuni non molto gioconda. Nondimeno il suo parere le più volte prevaleva agli altri, e specialmente nel consiglio degli ottanta e de’ richiesti e pratiche, nelle quali PIÙ LARGHE consul-tazioni l’autorità de’ PARTICOLARI cittadini cede e dà luogo alle vere e ferme ragioni molto più facilmente, che non fa ne’ magistrati DI MINOR NUMERO D’UOMI-Letteratura italiana Einaudi 528
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia NI. Jacopo Nardi, Vita d’Antonio Giacomini. Lucca per Francesco Bertini 1818. p.85-86.
(22. Feb. 1821.)
Nardi ec. l. cit. qui sopra p.83. Di quelle doti e di quelle virtù che o per natura o per instituto e lezione tutte furono sue. Che ha da far qui la lezione? oltre che lo stesso Nardi p.102. dice ch’egli non aveva dato opera alle scienze. Leggi ed elezione, opposto a natura. Ma v. l’altra ediz. del 1597.
Firenze, Sermartelli, in 4°
(23. Feb. 1821.)
[684]Lorenzo de’ Medici, Apologia ec. nel fine: Non mi sarebbe TANTA fatica. Leggi STATA. L’errore è nell’ediz. di Lucca per Francesco Bertini dietro il Nardi, Vita del Giacomini, p. ult. 136. Non so delle altre stampe.
Di.4 �EkeÝno d� oé boæloi� �n, ²suxÛan ¦xvn Z»n �rgòw;
Su.5 �All� probatÛou bÛon l¡geiw,
EÞ m¯ faneÝtai diatrib® tiw tÒ bÛÄ.
Aristofane, Pluto, o la Ricchezza, Atto 4. Scena 3.
(23. Feb. 1821.).
Alla p.241 …che il mondo, o qualche buona parte del mondo sia quello che in greco si dice diglottos, e noi possiamo dire bilingue. Come veramente oggidì quasi tutto il mondo civile è bilingue, cioè parla tanto le sue lingue particolari, quanto, al bisogno, la francese. Eccettuato la stessa Francia, la quale non è bilingue, non solamente rispetto al grosso della nazione, ma anche de’ letterati e dotti, pochi sono [685]quelli che intendono bene, o sanno veramente parlare altra lingua fuori della propria loro.
Il che se derivi da superbia nazionale, o da questo che Letteratura italiana Einaudi 529
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia usandosi la loro favella per tutto il mondo, non hanno bisogno d’altra per ispiegarsi con chicchessia, o vero, quanto alla intelligenza ed uso de’ libri forestieri, dalla facilità e copia delle traduzioni che hanno, questo non è luogo da ricercarlo.
(23. Feb. 1821.)
La lingua italiana porta pericolo, non solo quanto alle voci o locuzioni o modi forestieri, e a tutto quello ch’è barbaro, ma anche, (e questo è il principale) di cadere in quella timidità povertà, impotenza, secchezza, geometricità, regolarità eccessiva che abbiamo considerata più volte nella lingua francese. In fatti da un secolo e più, ella ha perduto, non solamente l’uso, ma quasi anche la memoria di quei tanti e tanti idiotismi, e irregolarità felicissime della lingua nostra, nelle quali principalmente consisteva la facilità, l’onnipotenza, la varietà, [686]la volubilità, la forza, la naturalezza, la bellezza, il genio, il gusto la proprietà (ÞdiÅthw), la pieghevolezza sua. Non parlo mica di quelle inversioni e trasposizioni di parole, e intralciamenti di periodi alla latina, sconvenientissimi alla lingua nostra, e che dal Boccaccio e dal Bembo in fuori, e più moderatamente dal Casa, non trovo che sieno stati adoperati e riconosciuti da nessun buono scrittore italiano. Ma parlo di quella libertà, di quelle tanto e diversissime figure della dizione, per le quali la lingua nostra si diversificava dalla francese dell’Accademia, era suscettibile di tutti gli stili, era così lontana dal pericolo di cadere nell’arido, nel monotono, nel matematico, e in somma di quelle che la rendevano similissima nel genio, nell’indole, nella facoltà, nel pregio alle lingue antiche, e specificatamente alla greca, alla quale si accostava da vicino anche nelle forme particolari e speciali, cioè non solamente nel genere, ma anche nella specie: siccome alla latina si accosta sommamente per la qualità individuale de’ vocaboli e delle frasi. Ma oggidì ella va a perdere, Letteratura italiana Einaudi 530
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia anzi ha già perduto presso [687]il più degli scrittori, le dette qualità che sono sue vere, proprie, intime, e native; e dico anche presso quegli scrittori che a gran fatica arrivano pure a preservarsi dai barbarismi. (e qui riferite quello che ho detto altrove, come in detti scrittori facciano pessima comparsa le parole e modi italiani, in una tessi-tura di lingua che per quanto non sia barbara, non è l’italiana: e gli antichi accidenti in una sostanza tutta moderna e diversa.) E così anche la lingua nostra si riduceva ad essere una processione di collegiali, come diceva, se non erro, il Fénélon, della francese. Del che mi pare che bisogni stare in somma guardia, tanto più, quanto la inclinazione, lo spirito, l’andamento dei tempi, essendo tutto geometrico, la lingua nostra corre presentissimo rischio di geometrizzarsi stabilmente e per sempre, di inaridirsi, di perdere ogni grazia nativa (ancorchè conservi le parole e i modi, e scacci i barbarismi), di diventare unica come la francese, laddove ora ella si può chiamare un aggregato di più lingue, ciascuna adattata al suo soggetto, o anche a questo [688]e a quello scrittore; e così divenuta impotente, in luogo di contenere virtualmente tutti gli stili (secondo la sua natura, e quella di tutte le belle e naturali lingue, come le antiche, non puramente ragionevoli), ne contenga uno solo, cioè il linguaggio magrissimo ed asciuttissimo della ragione, e delle scienze che si chiamano esatte, e non sia veramente adattata se non a queste, che tale infatti ella va ad essere, e lo possiamo vedere in ogni sorta di soggetti, e fino nella poesia italiana moderna de’ volgari poeti. Come appunto è accaduto alla lingua francese, perchè ancor ella da principio, ed innanzi all’Accademia, e massime al secolo di Luigi 14. non era punto unica, ma l’indole sua primitiva e propria somigliava moltissimo all’indole della vera lingua italiana, e delle antiche; era piena d’idiotismi, e di belle e naturalissime irregolarità; piena di varietà; subordinatissima allo scrittore (notate questo, che forma la difficoltà dello scri-Letteratura italiana Einaudi 531
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia vere, come pure dell’intendere la nostra lingua a differenza della francese) e suscettibile di prendere quella forma e quell’abito che il soggetto richiedesse, o il carattere dello scrittore, o che questi volesse darle; adattata [689]a diversissimi stili; piena di nerbo, o di grazia, di verità, di proprietà, di evidenza, di espressione; coraggiosa; niente schiva degli ardiri com’è poi divenuta; parlante ai sensi ed alla immaginativa, e non solamente, come oggi, all’intelletto; (sebbene anche al solo intelletto può parlare la lingua italiana, se vuole) pieghevole, robusta, o delicata secondo l’occorrenza; piena di sève, di sangue e di colorito ec. ec. Delle quali proprietà qualche avanzo se ne può notare nella Sévigné, e nel Bossuet e in altri scrittori di quel tempo. Talmente che s’ella fosse rimasta quale ho detto, non sarebbe mai stata universale, con che vengo a dir tutto. E s’ella prima della sua mortifera riforma, avesse avuto tanto numero di cultori quanto n’ebbe l’italiana, che l’avessero condotta secondo il suo carattere primitivo, e d’allora, alla perfezione, come fu condotta la nostra, sarebbe anche più evidente questo ch’io dico [690]della prima e originale natura della lingua francese, la quale ben si congettura efficacemente dalla considerazione de’
loro antichi scrittori, ma non si può pienamente sentire perch’ella non ebbe scrittore perfetto in quel primo genere, o non ne ebbe quanto basta. Nè quel primo genere prese mai stabilità, ma quando le fu data forma stabile e universale nella nazione, fu ridotta, quale oggi si trova, ad essere in ogni possibile genere di scrittura, piuttosto una serie di sentenze e di pensieri esattissimamente esposti e ordinati, che un discorso. Dove l’intelletto e l’utilità non desidera nulla, ma l’immaginazione il bello, il dilettevole la natura, i sensi ec. desiderano tutto.
(24. Feb. 1821.)
Il secolo del cinquecento è il vero e solo secolo aureo e della nostra lingua e della nostra letteratura.
Letteratura italiana Einaudi 532
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Quanto alla lingua moltissimi disconvengono da questo ch’io dico, volendo che il suo vero secol d’oro, fosse il trecento. Ma osservino. Quasi tutti gli scrittori del cinquecento, toscani o non toscani, hanno bene e convenientemente [691]adoperata la nostra lingua, e tutti più o meno possono servire di norma al bello scrivere, e sarebbe ammirato e studiato uno scrittore d’oggidì che avesse tanti pregi di lingua quanto l’infimo de’ mediocri scrittori di quel tempo. Questo è ben altro che ammirare la felicità della Francia dove tutti appresso a poco scrivono bene quanto alla lingua. Considerate quello che ho detto altrove del sommo divario fra la nostra lingua e la francese, e non vi parrà poca meraviglia che una lingua così difficile, varia, ricca, immensa, pieghevole e subordinata allo scrittore, come l’italiana, trovasse un secolo, dove tutti o la massima parte la scrivessero bene, e questo in ogni sorta di soggetti e di stili, in ogni qualità di scrittori, e anche in quelle cose che si scrivevano e si scrivono correntemente e senza studio, come lettere e cose tali, dove il cinquecento è sempre quasi [692]perfetto modello della buona lingua italiana a tutti i secoli. Diranno che anche nel trecento accadeva lo stesso. Voglio lasciar passare questa proposizione, che ben considerata parrà forse falsissima. Ma supponendo che sia verissima, che maraviglia che scriva bene, chi in questo medesimo, che egli scrive, porta inseparabilmente la ragione dello scriver bene? Giacchè noi diciamo che i trecentisti scrivevano bene, perciò appunto ch’erano trecentisti; e indistintamente tutto quello ch’è del trecento, o imita e somiglia la scrittura di quel secolo, si approva e si dice bene scritto, perchè appartiene al trecento. E si dà a quel secolo autorità di regolare il nostro giudizio intorno alla bella lingua italiana, non a noi di giudicare se quel secolo usasse una bella lingua. Io so e dico che la usava bellissima, e do ragione e lodo quelli che colle debite restrizioni e condizioni fanno degli scrittori del trecento i modelli [693]o il fondamento e la sor-Letteratura italiana Einaudi 533
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia gente della buona lingua italiana di tutti i secoli. Quest’autorità l’hanno avuta tutti i padri di tutte le buone e belle lingue (come della latina ec.): e l’hanno avuta non già per capriccio o pregiudicata opinione de’ successori, ma per la forza della natura che operava in quei padri effettivamente, e perchè la natura è la massima fonte del bello. Ma non perciò le dette qualità derivavano in quei padri da merito loro, nè essi ponevano (eccetto pochissimi) veruno studio alla bellezza e all’ordine della lingua.
Nel modo che Omero certamente non sudava per seguire e praticare le regole del poema epico, le quali non esistevano, anzi sono derivate dal suo poema, e quella maniera ch’egli ha tenuto è poi divenuta regola. Ma Omero come ingegno sovrano ch’egli era, studiava la natura e gli uomini e il bello per creare le regole che ancora non esistevano: laddove i trecentisti erano quasi tutti uomini da poco e ignorantissimi, e scrivevano quello che veniva loro nella [694]penna. E quanto è venuto loro nella penna, tanto si è giudicato che fosse il più bel fiore della nostra lingua, non dico ingiustamente, ma certo senza merito loro. V. p.705. Aggiungete che fuori de’ Toscani, pochissimi in quel secolo scrivevano la lingua nostra in modo che si potesse sopportare, all’opposto del cinquecento dove tutta l’Italia scriveva correttamente e leggiadramente, così che il trecento, quando anche non valessero le suddette ragioni, non si potrebbe riputare il migliore della nostra lingua, nè paragonare al cinquecento se non quanto alla Toscana.
Quanto alla letteratura nessuno disconviene da quello ch’io dico, perchè il trecento ebbe tre o quattro letterati famosi, ma nel resto ebbe non letteratura ma ignoranza.
Quello però ch’io dico, sarebbe molto più riconosciuto in Italia e fuori, e si giudicherebbe meglio, e con maggiore convincimento, quanto sia vero che il cinquecento
[695]sia l’ottimo ed aureo secolo della letteratura italiana, anzi in questo pregio superi non solo tutti gli altri Letteratura italiana Einaudi 534
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia secoli italiani, ma anche tutti i migliori secoli delle letterature straniere; se si ponesse mente a questo ch’io son per dire.
Primieramente la stessa universalità che ho notata in quel secolo rispetto alla buona lingua, si deve anche notare rispetto al buono stile: e ciò in tutti i generi e di soggetti, e di scrittori nelle scritture più familiari e usuali ec.
insomma con tutte quelle particolarità che ho notate quanto alla lingua p.691. Collo studio, e la giusta applicazione delle norme greche e latine, lo stile del cinquecento generalmente aveva acquistato tal nobiltà e dignità, e tant’altra copia di pregi, che quasi era venuto alla perfezione, eccetto principalmente una certa oscurità ed intralciamento, derivante in gran parte dalla troppa lunghezza de’ periodi, e dalla troppa copia [696]delle figure di dizione, e dall’eccessivo ed eccessivamente continuato concatenamento delle sentenze; vizio tutto proprio di quel secolo, il quale voleva forse con ciò dare al discorso quella gravità che ammirava ne’ latini, ma che si doveva conseguire con altri mezzi (quali sono quegli altri molti che lo stesso secolo ha ottimamente adoperati): vizio ignoto si può dire al trecento, e a tutti gli altri secoli ancorchè viziosissimi: vizio provenuto anche dal soverchio studio dei latini, la cui imitazione è pericolosa per questa parte ancora, come per le trasposizioni; vizio che avrebbe potuto molto correggersi con un maggiore studio de’ greci, ma principalmente degli ottimi e primi, perchè i più moderni declinarono anch’essi (sebbene valenti) a questo difetto, e ad un’indole di scrittura più latina che greca: vizio che non saprei se appartenga più allo stile ovvero alla lingua: vizio finalmente che se non togliere, certo si può moltissimo [697]alleggerire con una diversa punteg-giatura, come si è fatto da molti presso i latini, i quali pure ne avevano gran bisogno, tanto per la lunghezza de’
periodi talvolta, i quali si sono divisi col mezzo de’ punti, quanto massimamente e sempre per la qualità della loro Letteratura italiana Einaudi 535
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia costruzione. La detta perfezione prima o dopo quel secolo non si è mai veduta in nessunissimo stile nè italiano nè forestiero, dai latini in poi (dico quanto allo stile non ai pensieri): nessun’altra nazione ci è pervenuta in veruno de’ suoi migliori secoli; e forse quello stesso maggior grado di perfezione che lo stile forestiero ha conseguito ne’
suoi secoli d’oro, non si troverà che fosse così universale negli scrittori nazionali di quel tempo, com’era la detta perfezione in Italia nel cinquecento.
Secondariamente il pregio letterario del cinquecento è meno [698]conosciuto, e stimato assai meno del vero, perchè non si conosce la somma e singolare ricchezza di quel secolo. Eccetto gli scrittori toscani registrati in buona parte dalla Crusca fra’ testi di lingua, e perciò ricercati per farne serie, e per lusso, e simili motivi, e ristampati per uso di lingua, gli altri toscani, non adoperati dall’antica Crusca, e la massima parte de’ cinquecentisti non toscani, non sono letti quasi da nessuno, conosciuti di pregio da pochissimi dotti, di nome solo da pochissimi altri, e ignorati di nome e di tutto dalla moltitudine dei letterati, da tutto il resto degli odierni italiani, e da tutti quanti gli stranieri. E tuttavia è somma la copia di quegli scrittori che essendo così ignorati, sono tuttavia o più degli altri, o quanto gli altri che si conoscono, pregevolissimi e degnissimi di considerazione, di studio, e d’immortalità.
E giacciono in quelle vecchie stampe, in preda ai tarli, e alla polvere [699](se però sono stati mai stampati, come p.e. la storia del Baldi, di cui parla il Perticari, è ms.), in fondo alle librerie, scorrettissimamente, e sordidamente stampati, senza veruno che si curi di guardarli. Da quelle poche operette insigni del cinquecento ristampate in questi ultimi anni, e da quelle che si è proposto di ristampa-re, e che si è veduto come non cedano forse a veruna delle già note e famose, si può conoscere quanta ricchezza di quel secolo, quanta gloria nostra, sia oscurata e se-polta dalla dimenticanza, dall’ignoranza, dalla pigrizia, Letteratura italiana Einaudi 536
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia dalla noncuranza di questo secolo. Che se porrete mente quanto minore sia il numero de’ buoni cinquecentisti noti alla universalità degl’italiani, rispetto a quelli conosciuti dai letterati, i quali pur tanti ne ignorano; e quanto pochi fra quei medesimi conosciuti universalmente fra noi, si conoscano fuori d’Italia; non vi farete più maraviglia se la fama del [700]cinquecento letterato è oramai nell’Europa, piuttosto nome che fatto; piuttosto un avanzo di antica tradizione, che opinione presente; potendosi contar sulle dita i cinquecentisti noti fuori d’Italia. E così dico proporzionatamente di tutta l’altra nostra letteratura. Ma gli stranieri hanno ben ragione, se non ne sanno più, di quello che ne sappiamo noi stessi, i quali generalmente ci troviamo appresso a poco nel medesimo caso.
Del resto quello ch’io dico della perfezione di stile nei cinquecentisti si deve intendere dei prosatori, non dei poeti. Anzi io mi maraviglio come quella tanta gravità e dignità che risplende ne’ prosatori, si cerchi invano in quasi tutti i poeti di quel secolo, e bene spesso anche negli ottimi. I difetti dello stile poetico di quel secolo, anche negli ottimi, sono infiniti, massime la ridondanza, gli epiteti, i sinonimi accumulati (al contrario delle prose) ec. lasciando i più essenziali difetti di arguzie, insipidezze ec. anche nell’Ariosto e nel Tasso. E non è dubbio che Dante e Petrarca (sebbene non senza gran difetti di stile) furono nello stile più vicini alla [701]perfezione che i cinquecentisti, e così lo stile poetico del trecento (riguardo a questi due poeti) è superiore al cinquecento: (tanto è vero che la poesia migliore è la più antica, all’opposto della prosa, dove l’arte può aver più luogo). E dal trecento in poi lo stil poetico italiano non è stato richiamato agli antichi esemplari, massime latini, nè ridotto a una forma perfetta e finita, prima del Parini e del Monti. V.
gli altri miei pensieri in questo proposito. Parlo però del stile poetico, perchè nel resto se si eccettuano quanto agli affetti il Metastasio e l’Alfieri (il quale però fu piuttosto Letteratura italiana Einaudi 537
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia filosofo che poeta), quanto ad alcune (e di rado nuove) immagini il Parini e il Monti (i quali sono piuttosto letterati di finissimo giudizio, che poeti); l’Italia dal cinquecento in poi non solo non ha guadagnato in poesia, ma ha avuto solamente [702]versi senza poesia. Anzi la vera poetica facoltà creatrice, sia quella del cuore o quella della immaginativa, si può dire che dal cinquecento in qua non si sia più veduta in Italia; e che un uomo degno del nome di poeta (se non forse il Metastasio) non sia nato in Italia dopo il Tasso.
(27. Feb. 1821.)
Camillo Porzio, La congiura de’ Baroni del Regno di Napoli contra il Re Ferdinando I. ediz. terza, cioè Lucca 1816. per Franc. Bertini, p.23. E vedeva ciascuno che indugiava più l’occasione che il lor animo, ad offendersi, e che con ogni picciola scintilla di fuoco infra di loro si poteva eccitare grandissimo incendio. Che vuol dire, l’occasione indugiava ad offenderti? oltre che il lor animo era già offeso, e gravissimamente, come viene dal dire. Leggi ad accendersi, lezione confermata ancora dal seguito del surriferito passo.
Ivi, p.24. Affermando il Re essergli stato rimesso da’ suoi predecessori (il tributo alla Chiesa) [703] e che si doveva per il regno di Napoli e di Sicilia; ma che egli allora solo quello di Napoli possedeva. Rimesso potrebbe valer con-donato, e predecessori riferirsi al Papa: potrebbe valer mandato, e predecessori riferirsi al Re. Senso sempre oscurissimo. Io leggerei: predecessori che e’ o ch’e’. V. p.708.
capoverso 2.
Ivi, p.37. Suavissima riputo e verissima la sentenza che c’insegna li costumi de’ soggetti andar sempre dietro al-l’usanze de’ dominatori. Leggi savissima.
(27. Feb. 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 538
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Non possiamo nè contare tutti gli sventurati, nè piangerne uno solo degnamente.
Allo sviluppo ed esercizio della immaginazione è necessaria la felicità o abituale o presente e momentanea; del sentimento, la sventura. Esempio me stesso: e il mio passaggio dalla facoltà immaginativa, alla sensitiva, essendo quella in me presso ch’estinta.
(28. Feb. 1821.)
[704]L’uomo dev’esser libero e franco nel maneggiare la sua lingua, non come i plebei si contengono liberal-mente e disinvoltamente nelle piazze, per non sapere stare decentemente e con garbo, ma come quegli ch’essendo esperto ed avvezzo al commercio civile, si diporta fran-camente e scioltamente nelle compagnie, per cagione di questa medesima esperienza e cognizione. Laonde la libertà nella lingua dee venire dalla perfetta scienza e non dall’ignoranza. La quale debita e conveniente libertà manca oggigiorno in quasi tutti gli scrittori. Perchè quelli che vogliono seguire la purità e l’indole e le leggi della lingua, non si portano liberamente, anzi da schiavi. Perchè non possedendola intieramente e fortemente, e sempre sospettosi di offendere, vanno così legati che pare che camminino fra le uova. E quelli che si portano liberamente, hanno quella libertà de’ plebei, che deriva dall’ignoranza della lingua, dal non saperla maneggiare, e dal non curarsene. E questi in comparazione [705]degli altri sopraddetti, si lodano bene spesso come scrittori senza presunzione. Quasi che da un lato fosse presunzione lo scriver bene (e quindi anche l’operar bene, e tutto quello che si vuol fare convenientemente, fosse presunzione); dall’altro lato scrivesse bene chi ne dimostra presunzione. Quando anzi il dimostrarla, non solamente in ordine alla buona lingua, ma a qualunque altra dote della scrit-Letteratura italiana Einaudi 539
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tura, è il massimo vizio nel quale scrivendo si possa incorrere. Perchè in somma è la stessa cosa che l’affettazione; e l’affettazione è la peste d’ogni bellezza e d’ogni bontà, perciò appunto che la prima e più necessaria dote sì dello scrivere, come di tutti gli atti della vita umana, è la naturalezza.
(28. Feb. 1821.)
Alla p.694. Perchè la lingua non era ancora formata nè stabilita, nè il suo corpo ordinato, e neppure la sua gramatica. Essi la formavano, ma per forza del tempo, e
[706]di circostanze accidentali ed estrinseche, non come Omero per forza del suo proprio ingegno formava l’Epopea. (Eccettuo però Dante Petrarca e il Boccaccio: e nel secondo massimamente ritrovo una forma ammirabilmente stabile, completa, ordinata, adulta, uguale, e quasi perfetta di lingua, degnissima di servire di modello a tutti i secoli quasi in ogni parte.) Quindi non è maraviglia se quel trecentista andava per una strada, quest’altro per un’altra; se non ci è maggiore difficoltà che mettergli d’accordo tra loro, e coll’ordine della lingua, anche in cose essenziali, e ordinare la forma e i precetti della lingua sopra i trecentisti; se formicano d’imperfezioni e di scorrezioni; se non sono uguali neppure, nè in verun modo a se stessi ec. ec. ec. Formata che fu la lingua, allora divenne possibile, necessaria e difficilissima la perfezion sua: la qual perfezione da nessun secolo è stata portata nè in così alto grado, nè in tanta universalità come nel cinquecento. [707]Ed ecco in qual senso e per quali ragioni io dico che il cinquecento fu il vero ed unico secol d’oro della nostra lingua; cioè rispetto all’adoprarla, dove che il trecento l’avea preparata; rispetto allo spendere quel tesoro che il trecento avea magnificamente e larghissimamente accumulato; e in tal maniera che della lingua sarà sempre poverissimo chi non si provvederà immediatamente a quel tesoro: essendo veramente il tre-Letteratura italiana Einaudi 540
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia cento la sorgente ricchissima inesausta e perenne della nostra lingua; sorgente aperta e necessaria a tutti i secoli.
(28. Feb. 1821.)
Perchè in fatti il secol d’oro di una lingua o di qualunque altra disciplina, non è quello che la prepara, ma quello che l’adopra, la compone de’ materiali già pronti, e la forma; giacchè realmente quel secolo che formò e determinò la lingua italiana fu più veramente il cinquecento che il trecento, lasciando stare che i primi precetti della lingua nostra furono dati, s’io non erro, in quel secolo, dal Bembo. Ma il cinquecento [708]formò e determinò la lingua italiana in maniera ch’ella guadagnando nella coltura e nell’ordine, non perdè nulla affatto nella naturalezza, nella copia, nella varietà, nella forza, e neanche nella libertà, (quanta è compatibile colla chiarezza e bellezza, e colla necessità di essere intesi, e quindi convenientemente ordinati nel favellare): in somma e soprattutto, non mutò in verun conto l’indole e natura sua primitiva, come la cambiò interamente la francese, nella formazione e determinazione fattane dall’Accademia e dal secolo di Luigi 14.
(1. Marzo 1821.)
Camillo Porzio l. cit. (p.702.) p.80. In un tratto di ciascuno il sacco, il fuoco e la morte si temeva. Leggi da ciascuno. (1 Marzo 1821.).
Alla p.703. Che se rimesso in questo senso (di traditum che in latino viene e metaforicamente, e quasi anche propriamente a dire la stessa cosa) paresse strano, questo non avverrà se non a coloro che non conosceranno l’usanza
[709]e lo stile di questo scrittore.
(2. Marzo 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 541
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Alla p.120. Aggiungete che nelle monarchie, o reggi-menti di un solo o di pochi (che reggimento di pochi si può veramente chiamare ogni monarchia, dove non è possibile che tutto effettivamente dipenda, derivi, e si regoli secondo la volontà di uno solo, massime quanto più ella è grande) le cagioni degli avvenimenti sono molto più menome e moltiplici che negli stati liberi e popolari, ancorchè paia l’opposto. Perchè le cagioni che operano in tutto un popolo, o nella massima, o in buona parte di quello, o in somma in molti, non sono nè così piccole, nè tante, nè così varie, nè così difficili a congetturare, quando anche fossero nascoste, come quelle che operano in uno o in diversi individui particolarmente. E si vede in fatti, chi conosce un tantino la storia de’ regni, come i massimi avvenimenti sieno spesso derivati da piccolissimi affettacci di quel re, di quel ministro ec. da menome circostanze, da una passioncella, da una parola, da una ricordanza, da un’assuefazione individuale, [710]da un carattere particolare, da inclinazioni; da qualità, accidenti della vita, amicizie o nimicizie ec. contratte dal principe o dal ministro ec. nello stato privato. Quindi si può vedere, quanto la storia oggidì sia oscura e difficile allo scrittore, e come spesso debba riuscire in gran parte falsa, e quindi inutile ai lettori; consistendo la chiave di sommi avvenimenti, la spiegazione di somme maraviglie, nella cognizione di aneddoti sempre difficili, spesso impossibili a sapere. E così oggi gli scrittori di aneddoti e baz-zecole di corte, sono più benemeriti forse della storia, che i sommi storici, e scrittori delle massime cose.
(2. Marzo 1821.)
Alla p.81. fine. L’uomo in tanto è malvagio nè più nè meno, in quanto le azioni sue contrastano co’ suoi principii. Quanto più dunque da un lato i principii 1.
sono meglio stabiliti, definiti, divulgati, chiariti, specificati, e formati; 2. l’uomo n’è imbevuto profondamente, e Letteratura italiana Einaudi 542
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia radicatamente persuaso: dall’altro lato quanto più le opere contrastano a questi principii; [711]tanto più l’uomo è malvagio. E tanto peggiori realmente sono i popoli e i secoli, quanto più le dette circostanze e de’ principii, e delle azioni sono universali, come per mezzo del Cristianesimo, e ne’ suoi primi secoli massimamente. Questa è la misura con cui bisogna definire la malvagità degl’individui, e delle nazioni e de’ tempi; e considerare l’odio che meritano e che realmente ispirano. E per questa parte il nostro secolo si può giudicare meno malvagio.
(2. Marzo 1821.)
Lettere diverse da quelle del nostro alfabeto sono pure il ϑ°ta greco, e la zediglia spagnuola, analoghe fra loro, ma che non si possono confondere col nostro z, o t, o s, e si pronunziano con una conformazione di organi appro-priata loro. E si troverà più differenza tra questa conformazione di organi, e quella che si richiede per la pronunzia del nostro z, o t, o s, di quella che si possa trovare fra la conformazione di organi nella pronunzia del d, e l’altra nella pronunzia del t: le quali però nessuno dubita
[712]che non sieno lettere diverse, benchè la lingua e i denti le producano ambedue, con leggerissimo e quasi insensibile divario di collocazione. Così che dalla piccola differenza di collocazione non si può dedurre che due o più lettere sieno le stesse, perchè basta un nulla a diversi-ficarle, come se ne potrebbero addurre altri esempi. Del resto dico lo stesso del thau ebraico, e del th inglese.
(3. Marzo 1821.)
Non vale il dire che i piaceri, i beni, le felicità di questo mondo, sono tutti inganni. Che resta levati via questi inganni? E chi per le sue sventure manca di questi benchè ingannosi piaceri e beni, che altro gode o spera quaggiù?
In somma l’infelice è veramente e positivamente infelice; quando anche il suo male non consista che in assenza di Letteratura italiana Einaudi 543
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia beni; laddove è pur troppo vero che non si dà vera nè soda felicità, e che l’uomo felice, non è veramente tale.
(3. Marzo 1821.)
Alla p.370. Ma osservate che spessissime volte questa impazienza pregiudica al fine. Perchè tu, volendo veder l’esito in qualunque [713]modo, per liberarti dal timore di non ottenere il tuo fine, perdi quello che avresti conseguito se non avessi temuto, e se quindi ti fossi diportato più quietamente, con meno confusione ec. Insomma avessi sostenuto di aspettare che la cosa andasse come doveva, e nel tempo conveniente ec. Insomma spessissimo nei negozi dubbi, ancorchè non di somma importanza, af-frettando l’esito, non tanto per ismania di conseguire, quanto per impazienza di dubitare, perdiamo il nostro intento: e questo ci accade anche nelle menome e giornaliere e materiali operazioni della vita. Notate quelle parole non tanto per ismania ec. nelle quali consiste la novità e proprietà di questo pensiero, perchè il detto effetto dell’impazienza è comunemente notato, ma si attribuisce al-l’impazienza di conseguire.
(3. Marzo 1821.)
[714]Spesse volte il troppo o l’eccesso è padre del nulla. Avvertono anche i dialettici che quello che prova troppo non prova niente. Ma questa proprietà dell’eccesso si può notare ordinariamente nella vita. L’eccesso delle sensazioni o la soprabbondanza loro, si converte in insensibilità. Ella produce l’indolenza e l’inazione, anzi l’abito ancora dell’inattività negl’individui e ne’ popoli; e vedi in questo proposito quello che ho notato con Mad. di Staël, Floro ec. p.620 fine – 625 principio. Il poeta nel colmo dell’entusiasmo della passione ec. non è poeta, cioè non è in grado di poetare. All’aspetto della natura, mentre tutta l’anima sua è occupata dall’immagine dell’infinito, mentre le idee segli affollano al pensiero, egli non è capa-Letteratura italiana Einaudi 544
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ce di distinguere, di scegliere, di afferrarne veruna: in somma non è capace di nulla, nè di cavare nessun frutto dalle sue sensazioni: dico nessun frutto o di considerazione e di massima, ovvero di uso e di scrittura; di teoria nè di pratica. L’infinito non si [715]può esprimere se non quando non si sente: bensì dopo sentito: e quando i sommi poeti scrivevano quelle cose che ci destano le ammirabili sensazioni dell’infinito, l’animo loro non era occupato da veruna sensazione infinita; e dipingendo l’infinito non lo sentiva. I sommi dolori corporali non si sentono, perchè o fanno svenire, o uccidono. Il sommo dolore non si sente, cioè finattanto ch’egli è sommo; ma la sua proprietà, è di render l’uomo attonito, confondergli, sommergergli, oscurargli l’animo in guisa, ch’egli non conosce nè se stesso, nè la passione che prova, nè l’oggetto di essa; rimane immobile, e senza azione esteriore, nè si può dire, interiore. E perciò i sommi dolori non si sentono nei primi momenti, nè tutti interi, ma nel successo dello spazio e de’ momenti, e per parti, come ho detto p.366-368. Anzi non solo il sommo dolore, ma ogni somma passione, ed anche ogni sensazione, ancorchè non somma, tuttavia tanto straordinaria, e, per qualunque verso, grande, che l’animo nostro non sia capace di con-tenerla [716]tutta intera simultaneamente. Così sarebbe anche la somma gioia.
Ma bisogna osservare che di rado avviene che la gioia ancorchè grande e straordinaria, ci renda attoniti, e quasi senza senso, e che la sua grandezza ne renda impossibile il pieno e distinto sentimento. Questo ci accadeva forse e senza forse da fanciulli, e sarà pure senza fallo avvenuto negli uomini primitivi; ma oggidì per poco che l’uomo abbia di esperienza e di cognizione, è ben difficile che sia suscettibile di una gioia, la quale sia tanta da non poter essere contenuta pienamente nell’animo suo, e da ridondare. Bensì egli è suscettibilissimo (almeno il più degli uomini) di un tal dolore. Ma la somma gioia del-Letteratura italiana Einaudi 545
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia l’uomo di oggidì, è sempre o certo ordinariamente tale che l’animo n’è capacissimo; e questo, non ostante ch’egli vi debba necessariamente esser poco assuefatto, laddove quanto al dolore o a qualunque passione dispiacevole, non è così. Ma il fatto [717]sta che il male, soggetto del dolore e delle passioni dispiacevoli, è reale; il bene, soggetto della gioia, non è altro che immaginario: e perchè la gioia fosse tale da superare la capacità dell’animo nostro, si richiederebbe, come ne’ fanciulli e ne’ primitivi, una forza e freschezza d’immaginazione persuasiva, e d’illusione, che non è più compatibile colla vita di oggidì.
(4. Marzo 1821.)
Porzio l. cit. (p.702.) p.126. E se egli ec. a cui fa dubbio che ec. non l’abbia ad osservare? Leggi a cui fia.
Ivi, p.134. ed i Principi allora affermano di aver perdona-to i falli quando han potere di castigargli; ma se sopraffatti da’ pericoli maggiori differiscono la vendetta, non perciò la cancellano. Non c’è senso. Leggi quando non han potere.
(4. Marzo 1821.).
Nunquam minus solus quam cum solus. Ottimamente vero: ma (contro quello che si usa [718]credere e dire) perchè oggidì colui che si trova in compagnia degli uomini, si trova in compagnia del vero (cioè del nulla, e quindi non c’è maggior solitudine); chi lontano dagli uomini, in compagnia del falso. Laonde questo detto sebbene antico e riferito al sapiente, conviene molto più a’ nostri secoli, e non al sapiente solo, ma alla universalità degli uomini, e massime agli sventurati.
(4. Marzo 1821.)
L’uomo d’immaginazione di sentimento e di entusiasmo, privo della bellezza del corpo, è verso la natura appresso a poco quello ch’è verso l’amata un amante Letteratura italiana Einaudi 546
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ardentissimo e sincerissimo, non corrisposto nell’amore.
Egli si slancia fervidamente verso la natura, ne sente profondissimamente tutta la forza, tutto l’incanto, tutte le attrattive, tutta la bellezza, l’ama con ogni trasporto, ma quasi che egli non fosse punto corrisposto, sente ch’egli non è partecipe di questo bello che ama ed ammira, si vede fuor della sfera della bellezza, come l’amante
[719]escluso dal cuore, dalle tenerezze, dalle compagnie dell’amata. Nella considerazione e nel sentimento della natura e del bello, il ritorno sopra se stesso gli è sempre penoso. Egli sente subito e continuamente che quel bello, quella cosa ch’egli ammira ed ama e sente, non gli appartiene. Egli prova quello stesso dolore che si prova nel considerare o nel vedere l’amata nelle braccia di un altro, o innamorata di un altro, e del tutto noncurante di voi.
Egli sente quasi che il bello e la natura non è fatta per lui, ma per altri (e questi, cosa molto più acerba a considerare, meno degni di lui, anzi indegnissimi del godimento del bello e della natura, incapaci di sentirla e di conoscerla ec.): e prova quello stesso disgusto e finissimo dolore di un povero affamato, che vede altri cibarsi dilicatamente, largamente, e saporitamente, senza speranza nessuna di poter mai gustare altrettanto. Egli insomma [720]si vede e conosce escluso senza speranza, e non partecipe dei favori di quella divinità che non solamente, ma gli è anzi così presente così vicina, ch’egli la sente come dentro se stesso, e vi s’immedesima, dico la bellezza astratta, e la natura.
(5. Marzo 1821.)
Oggidì i viaggi più curiosi e più interessanti che si possono fare in Europa cioè nel paese incivilito, sono quelli de’ paesi meno inciviliti, cioè la Svizzera, la Spagna e simili, che tuttavia conservano qualche natura e proprietà.
Le descrizioni de’ costumi, de’ caratteri, delle opinioni, delle usanze di questi paesi hanno sempre della varietà, Letteratura italiana Einaudi 547
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia della singolarità, della importanza, della curiosità. Quelle degli altri paesi Europei (salvo nelle usanze, costumi, opinioni popolari, come ho detto in altro pensiero p.147.
perchè il popolo è sempre più tenace della natura) i quali non hanno oramai proprietà, cioè carattere proprio, si rassomigliano tutte fra loro, e col carattere de’ costumi,
[721]opinioni ec. di quella tal nazione, alla quale quelle altre si descrivono, così che pochissimo possono aver di curioso, eccetto nelle minute particolarità di usanze sociali, ec. nelle quali l’incivilimento e il commercio universale, non è per anche arrivato ad agguagliare interamente il mondo. Ma in grosso, e nella sostanza, e nelle cose principali, e per natura loro, non per capriccio, importanti, possiamo oramai dire, che di queste tali nazioni, conosciuta una, son conosciute tutte. (5. Marzo 1820.).
Dovunque l’arte tiene la principal parte in luogo della natura, manca la varietà, sebbene sottentri una sterile curiosità. P.e. gli Stati uniti si diversificano molto dal governo, costumi ec. degli altri paesi civili, ma quella è una differenza d’arte, non di natura, è parto della ragione, della filosofia del sapere, è cosa artifiziale, non naturale.
[722]Quindi la curiosità che ne deriva, è una curiosità secca, e quella varietà, è quasi falsa, ascitizia, non propria delle cose, non sostanziale, non inerente alla nazione, e alla natura di lei, e per così dire, una varietà monotona.
Al contrario di quella curiosità e varietà che deriva dalla considerazione della Svizzera, della Spagna ec. curiosità e varietà, naturale, propria, innata. V. il pensiero precedente.
(5. Marzo 1821.)
Lo sventurato non bello, e maggiormente se vecchio, potrà esser compatito, ma difficilmente pianto. Così nelle tragedie, ne’ poemi, ne’ romanzi ec. come nella vita.
(6. Marzo 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 548
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Porzio l. cit. (p.702.) p.145. principio. ciascun vedeva che quella prima dell’altre gli anderebbe ad oppugnare.
Leggi egli anderebbe, altrimenti non regge il senso.
Ivi p.155. Che se nell’altre rocche [723] de’ Baroni fusse stata la metà di provvisione ec. Manca una qualche parola, come di detta, di questa, di tale provvisione, conforme apparisce dagli antecedenti, dove riferisce le provvisioni che si trovarono nel castello di Sarno, quando fu avuto dal Re.
(6. Marzo 1821.)
Post ignem aetheria domo
Subductum, macies, et nova febrium
Terris incubuit cohors,
Semotique prius tarda necessitas
Leti corripuit gradum.
Orazio, od.3. v.29-33. l. I. Questo effetto, attribuendo-lo Orazio favolosamente alla violazione delle leggi degli Dei, ed alla temerità degli uomini verso il cielo, viene ad attribuirlo nel vero significato, alla violazione e corruzione delle leggi naturali e della natura; verissima cagione dell’incremento che l’imperio della morte ha guadagnato sopra gli uomini.
(7. Marzo 1821.)
Alla p.526. Florum, perpetuum Horatii imitatorem observat Rosellus Baumon in Massoni Hist. Critica Rei literar. Tom.14. p.222. Fabricio, B. Lat. l.2. c.23. §.2. t.1.
p.626.
[724]Alla p.509. Da questa osservazione deducete che Floro, stampato la prima volta in 4. a Parigi in Sorbonae domo, senza nota di anno o di luogo, ma circa il 1470.
Letteratura italiana Einaudi 549
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia (Fabric.) era uno de’ non molti classici conosciuti e letti al tempo del Petrarca.
(7. Marzo 1821.)
L’uomo è così inclinato alla lode, che anche in quelle cose dov’egli non ha mai nè cercato nè curato di esser lodevole, e ch’egli stima di nessun pregio, ancora in queste l’esser lodato lo compiace. Anzi spesso lo indurrà a cercar di rialzare presso se stesso il pregio e l’opinione di quella tal cosa minima nella quale è stato lodato; e a persuadersi che essa, o l’essere lodevole in essa, non sia del tutto minimo nell’opinione altrui.
(7. Marzo 1821.)
I poeti, oratori, storici, scrittori in somma di bella letteratura, oggidì in Italia, non manifestano mai, si può dire, la menoma forza d’animo ( vires animi, e non intendo dire la magnanimità), ancorchè il soggetto, o l’occasione ec.
contenga [725]grandissima forza, sia per [se] stesso fortissimo, abbia gran vita, grande sprone. Ma tutte le opere letterarie italiane d’oggidì sono inanimate, esangui, senza moto, senza calore, senza vita (se non altrui). Il più che si possa trovar di vita in qualcuno, come in qualche poeta, è un poco d’immaginazione. Tale è il pregio del Monti, e dopo il Monti, ma in assai minor grado, dell’Arici. Ma oltre che questo pregio è rarissimo nei nostri odierni o poeti o scrittori, oltre che in questi rarissimi è anche scarso (perchè il più de’ loro pregi appartengono allo stile), osservo inoltre che non è veramente spontaneo nè di vena, e soggiungo che non solamente non è, ma non può essere, se non in qualche singolarissima indole.
La forza creatrice dell’animo appartenente alla immaginazione, è esclusivamente propria degli antichi. Dopo che l’uomo è divenuto stabilmente infelice, e, che peggio è, l’ha conosciuto, [726]e così ha realizzata e confermata Letteratura italiana Einaudi 550
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia la sua infelicità; inoltre dopo ch’egli ha conosciuto se stesso e le cose, tanto più addentro che non doveva, e dopo che il mondo è divenuto filosofo, l’immaginazione veramente forte, verde, feconda, creatrice, fruttuosa, non è più propria se non de’ fanciulli, o al più de’ poco esperti e poco istruiti, che son fuori del nostro caso. L’animo del poeta o scrittore ancorchè nato pieno di entusiasmo di genio e di fantasia, non si piega più alla creazaone delle immagini, se non di mala voglia, e contro la sottentrata o vogliamo dire la rinnuovata natura sua. Quando vi si pieghi, vi si piega ex instituto, ¤pithd¢w, per forza di volontà, non d’inclinazione, per forza estrinseca alla facoltà immaginativa, e non intima sua. La forza di un tal animo ogni volta che si abbandona all’entusiasmo (il che non è più così frequente) si rivolge all’affetto, [727]al sentimento, alla malinconia, al dolore. Un Omero, un Ariosto non sono per li nostri tempi, nè, credo, per gli avvenire. Quindi molto e giudiziosamente e naturalmente le altre nazioni hanno rivolto il nervo e il forte e il principale della poesia dalla immaginazione all’affetto, cangiamento necessario, e derivante per se stesso dal cangiamento dell’uomo. Così accadde proporzionatamente anche ai latini, eccetto Ovidio. E anche l’Italia ne’ principii della sua poesia, cioè quando ebbe veri poeti, Dante, il Petrarca, il Tasso, (eccetto l’Ariosto) sentì e seguì questo cangiamento, anzi ne diede l’esempio alle altre nazioni. Perchè dunque ora torna indietro? Vorrei che anche i tempi ritornassero indietro.
Ma la nostra infelicità, e la cognizione che abbiamo, e non dovremmo aver, delle cose, in vece di scemare, si accresce. Che smania è questa dunque di voler fare quello stesso che facevano i nostri avoli, quando noi siamo così mutati? di ripugnare alla natura delle cose? di voler fingere una [728]facoltà che non abbiamo, o abbiamo perduta, cioè l’andamento delle cose ce l’ha renduta infruttuosa e sterile, e inabile a creare? di voler essere Omeri, in tanta diversità di tempi? Facciamo dunque quello che Letteratura italiana Einaudi 551
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia si faceva ai tempi di Omero, viviamo in quello stesso modo, ignoriamo quello che allora s’ignorava, proviamo-ci a quelle fatiche a quegli esercizi corporali che si usavano in quei tempi. E se tutto questo ci è impossibile, impa-riamo che insieme colla vita e col corpo, è cambiato anche l’animo, e che la mutazione di questo è un effetto necessario, perpetuo, e immancabile della mutazione di quelli. Diranno che gl’italiani sono per clima e natura più immaginosi delle altre nazioni, e che perciò la facoltà creatrice della immaginativa, ancorchè quasi spenta negli altri, vive in loro. Vorrei che così fosse, come sento in me dalla fanciullezza e dalla prima giovanezza in poi, e vedo negli [729]altri, anche ne’ poeti più riputati, che questo non è vero. Se anche gli stranieri l’affermano, o s’ingannano, come in cose lontane, e come il lontano suol parere bellissimo o notabilissimo; ovvero intendono solamente di parlare in proporzione degli altri popoli, non mai nè assolutamente, nè in comparazione degli antichi, perchè anche l’immaginativa italiana, in vigore dell’andamento universale delle cose umane, è illanguidita e spossata in maniera, che per quel che spetta al creare, non ha quasi più se non quella disposizione che gli deriva dalla volontà e dal comando dell’uomo, non da sua propria ed intrinseca virtù, ed inclinazione.
Ma la vera causa per cui gl’italiani, a differenza di tutti gli altri, non conoscono oggidì altra poesia che la immaginativa, e della sentimentale sono affatto digiuni, ve la dirò io. In quest’ozio, in [730]questa noia, in questa frivolezza di occupazioni, o piuttosto dissipazioni, senza scopo, senza vita, in somma senza nè patria nè guerre nè carriere civili o letterarie nè altro oggetto di azioni o di pensieri costanti, l’italiano non è capace di sentir nulla profondamente, nè difatto egli sente nulla. Tutto il mondo essendo filosofo, anche l’italiano ha tanto di filosofia che basta e per farlo sempre più infelice, e per ispegnergli o vero intorpidirgli l’immaginazione, di cui la natura Letteratura italiana Einaudi 552
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia l’avrebbe dotato; ma non quanta si richiede a conoscere intimamente le passioni, gli affetti, il cuore umano, e di-pingerlo al vivo; oltre che quando anche potesse cono-scergli, non saprebbe dipingergli, giacchè bisogna convenire che all’italiano d’oggidì manca la massima parte di quello studio ch’è duopo per iscriver cose, come son queste, difficilissime. Sicchè l’italiano, ancorchè si metta a scrivere col cuore profondamente commosso, o sullo stesso incominciare non trova più nulla, e non sapendo che si dire, ricorre ai generali; [731]ovvero volendo esprimere proprio quello ch’ei sente, non sa farlo, e scrive come un fanciullo.
Per tutte queste ragioni dunque l’italiano non essendo oggidì capace di poesia affettuosa, ricorre e si dedica interamente alla immaginosa, non per natura o per voca-zione, ma per volontà ed elezione. E appunto perciò o non vi riesce punto, o solamente coll’imitare, e tener dietro agli antichi, come un fanciullo alla mamma; nel modo che (sia detto fra noi) ha fatto il Monti: il quale non è poeta, ma uno squisitissimo traduttore, se ruba ai latini o greci; se agl’italiani, come a Dante, uno avvedutissimo e finissimo rimodernatore del vecchio stile e della vecchia lingua.
Ma gl’italiani contuttociò, e contro la natura de’ tempi e della poesia, si gittano ad un genere che oggi non può essere se non o forzato o imitativo, e lo fanno perchè questo riesce loro molto più facile del sentimentale. [732]1.
nessuno dubita che l’imitare a certi ingegni massimamente, che hanno pochissima o forza, o abitudine ed esercizio di forza, e d’impazienza e di calore ec. non sia molto più facile che il creare. E gl’italiani d’oggidì, poetando, appresso a poco, sempre imitano, anche quando non tra-scrivono, come spesso fanno, e come fa l’Arici, che quello si chiama copiare. 2. Come è più facile un racconto che un dramma, perchè nel dramma ogni errore d’imitazione è palese, e si richiede una molto più esatta corrisponden-Letteratura italiana Einaudi 553
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia za alla natura ed al vero; così agl’italiani d’oggidì, persone, come ho detto, che non sentono, e non hanno bastante cognizione del cuore umano, è molto più facile il genere immaginativo, che alla fine è cosa arbitraria, e dove si può anche abbagliare, come ha fatto l’Ariosto, di quello che il sentimentale dove bisogna seguire esattamente e passo passo la natura ed il vero, e dove il cuor di ciascuno, è prontissimo [733]e acutissimo e rigoroso giudice della verità o falsità, della proprietà o improprietà, della naturalezza, o forzatura, della efficacia o languidezza ec.
delle invenzioni, delle situazioni de’ sentimenti, delle sentenze, delle espressioni ec. E la facoltà immaginativa si può in qualche modo fingere, o forzare, o almeno comandare: la sensitiva non mai. E perciò non è maraviglia se quei moderni italiani i quali, nelle circostanze che ho esposte di sopra, hanno pur voluto pubblicare opere sentimentali, sono stati fischiati, o degni di esserlo. Tanto più che la imitazione, (e questi tali si son dati tutti e totalmente alla imitazione degli stranieri) se disdice all’immaginativo, molto più al sentimentale, per la stessa ragione per cui il sentimento non si può nè fingere nè proccurare, almeno forzatamente. E così tutti i sensati italiani e forestieri, si accordano in dire che l’Italia manca del genere sentimentale. [734]Ma non osservano che con ciò vengono a dire e confessare che l’odierna Italia manca di letteratura, certo di poesia. Quasi che il detto genere fosse proprio di questa o quella nazione, e non del tempo. Quasi che oggidì la condizione generale degli uomini ammet-tesse altro genere di poesia, e che il mancare di questo genere non fosse lo stesso che mancar di poesia.
La poesia sentimentale è unicamente ed esclusivamente propria di questo secolo, come la vera e semplice (voglio dire non mista) poesia immaginativa fu unicamente ed esclusivamente propria de’ secoli Omerici, o simili a quelli in altre nazioni. Dal che si può ben concludere che la poesia non è quasi propria de’ nostri tempi, e non farsi Letteratura italiana Einaudi 554
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia maraviglia, s’ella ora langue come vediamo, e se è così raro non dico un vero poeta, ma una vera poesia. Giacchè il sentimentale è fondato e sgorga dalla filosofia, dall’esperienza, dalla cognizione [735]dell’uomo e delle cose, in somma dal vero, laddove era della primitiva essenza della poesia l’essere ispirata dal falso. E considerando la poesia in quel senso nel quale da prima si usurpava, appena si può dire che la sentimentale sia poesia, ma piuttosto una filosofia, un’eloquenza, se non quanto è più splendi-da, più ornata della filosofia ed eloquenza della prosa.
Può anche esser più sublime e più bella, ma non per altro mezzo che d’illusioni, alle quali non è dubbio che anche in questo genere di poesia si potrebbe molto concedere, e più di quello che facciano gli stranieri.
(8. Marzo 1821.)
La lingua greca da’ suoi principii fino alla fine, non lasciò mai di arricchirsi, e acquistar sempre, massimamente nuovi vocaboli. Non è quasi scrittor greco di qualsivoglia secolo, che venga nuovamente in luce, il quale non possa servire ad impinguare il vocabolario greco di qualche novità. [736]Non è secolo della buona lingua greca (la quale si stende molto innanzi, cioè almeno a Costantino, giacchè credo che S. Basilio e S. Crisostomo si citino nel Glossario sebbene anche nel Vocabolario) ne’ cui scrittori la lingua non si trovi arricchita di nuove voci e anche modi, che non si osservano ne’ più antichi.
E questi incrementi erano tutti della propria sostanza e del proprio fondo, giacchè la lingua greca fu oltremodo schiva d’ogni cosa forestiera, ma trovava nelle sue radici e nella immensa facilità e copia de’ suoi composti, la facoltà di dir tutto quello che bisognava, e di conformare la novità delle parole alla novità delle cose, senza ricorrere ad aiuti stranieri. Insomma il tesoro e la natura, e non solamente ricchezza, ma fertilità naturale e propria della lingua greca, era tale da bastare da per se sola, a tutte le Letteratura italiana Einaudi 555
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia novità che occorresse di esprimere, come un paese così fertile che fosse sufficiente ad alimentare [737]qualunque numero di nuovi abitatori o di forestieri. E questo si può vedere manifestamente anche per quello che inter-viene oggidì. Giacchè in tanta diversità di tempi e di costumi e di opinioni, in tanta novità di conoscenze e di ritrovati, e fino d’intere scienze e dottrine, qualunque novità massimamente scientifica occorra di significare e denominare, si ha ricorso alla lingua greca. Nessuna lingua viva, ancorchè pure le lingue vive sieno contempora-nee alle nostre cognizioni e scoperte, si stima in grado di bastare a questo effetto, e s’invoca una lingua morta e antichissima per servire alla significazione ed enunziazione di quelle cose a cui le lingue viventi e fiorenti non arrivano. La rivoluzione francese, richiedendosi alla novità delle cose, la novità delle parole, ha popolato il vocabolario francese ed anche europeo di nuove voci greche. La fisica, la Chimica, la storia naturale, le matematiche, [738]l’ar-te militare, la nautica, la medicina, la metafisica, la politica, ogni sorta di scienze o discipline, ancorchè rinnovellate e diversissime da quelle che si usavano o conoscevano dagli antichi greci, ancorchè nuove di pianta, hanno trovato in quella lingua il capitale sufficiente ai bisogni delle loro nomenclature. Ogni scienza o disciplina nuova, comincia subito dal trarre il suo nome dal greco. E questa lingua ancorchè da tanti secoli spenta, resta sempre inesauribile, e provvede a tutto, e si può dire che prima mancherà all’uomo la facoltà di sapere di conoscere e di scoprire, prima saranno esaurite tutte le fonti dello scibile, di quello che manchi alla lingua greca la facoltà di esprimerlo, e sia inaridita la fonte delle sue denominazioni e parole. Il qual uso, ancorchè io lo biasimi e condanni per le ragioni che ho dette altrove, non è però che non renda evidente e palpabile l’onnipotenza immortale di quella lingua.
Letteratura italiana Einaudi 556
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia
[739]Così la lingua greca che non avea nè Accademie nè Vocabolari, senza perder mai la facoltà di arricchirsi, e di far fruttare il suo terreno ubertosissimo, costantemente però e tenacemente nemica delle merci straniere (o per carattere nazionale, o per la stessa ricchezza sua che bastava a tutto) si mantenne sempre come fertile e prolifica e viva e vegeta e copiosa, così pura e sincera, fino ai tempi che Costantino trasportando quasi l’Italia nella Grecia, e l’occidente in oriente, con quella infinita e subitanea novità di costumi, di abitatori, di corte, ec. introducendo e stabilendo, ed erigendo per così dire la lingua latina nel bel mezzo delle provincie greche e della lingua greca, forzò quell’idioma per sì lungo spazio indo-mito e vittorioso di tutti gli assalti forestieri, e illeso fra tutti i pericoli di barbarie che aveva incontrati, a ricevere voci straniere, e mescolarle colle proprie (non per bisogno, ma per uso e [740]commercio quotidiano, e presenza di gente straniera, e questa numerosa, e padrona) e finalmente imbarbarire suo malgrado e a viva forza. V.
p.981. capoverso 1. La qual mescolanza e quasi fusione di usi costumi opinioni linguaggi occidentali e orientali, sebbene il mondo inclinava già fortemente alla barbarie, anzi vi aveva già messo il piede, tuttavia credo che contri-buisse ancor ella ad imbarbarire scambievolmente, le une colle altre nazioni, inducendole e forzandole a guastare, o dismettere i loro primitivi istituti e costumi, assai più di quello che avessero fatto per l’addietro, il quale allonta-namento e declinazione dal primitivo, è l’ordinaria e certa sorgente di barbarie e di corruzione fra gli uomini.
Della lingua latina non si può dire la stessa cosa che ho detto della greca. E tuttavia mi par di vedere che la primitiva proprietà, natura, essenza ed organizzazione della lingua latina, fosse ottimamente ordinata e disposta a produrre lo stesso effetto. Ma questo [741]non seguì per le ragioni che son per dire. Non andrò ora cercando se le radici latine (dico primitive e pure latine) sieno così Letteratura italiana Einaudi 557
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia copiose come le greche. Il commercio e la diffusione dei greci, il molto maggior tempo ch’essi durarono e con essi i loro studi, e la loro lingua, li pose in grado di accrescer le loro cognizioni, e quindi le loro radici, molto più che i latini, popolo ristretto in brevi limiti finattanto che col resto del mondo non conquistò anche la Grecia: ma allora i progressi delle sue cognizioni, del suo dominio, del suo commercio, non giovarono a quello delle sue radici; certamente questo non corrispose a quell’altro, per la ragione che dirò poi. V. in questo proposito Senofonte
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Lasciando le radici, osserverò che la stessa immensa facoltà dei composti che si ammira, e rende più che altra cosa inesauribile la lingua greca, l’aveva ancora ne’ suoi principii la lingua latina, e l’ebbe per lungo tempo, cioè per lo meno sino a Cicerone il quale principalmente
[742]fissò, ordinò, stabilì, compose, formò e determinò la lingua latina. Ponete mente a ciascuna delle antiche e primitive radici latine, e vedrete in quante maniere, con quanto piccole giunte e variazioni, sieno ridotte a significare diversissime cose per mezzo di composti, sopraccomposti, ossia decomposti, e derivati, o di metafore, nello stesso modo appunto che la lingua greca per gli stessi mezzi si rende atta a dir tutto e chiaramente e propriamente e puramente e facilissimamente. Osservate per esempio il verbo duco o facio e consideratelo in tutti i suoi derivati o composti, e sopraccomposti, e in tutti i loro e suoi significati ed usi o propri o metaforici, ma però sempre così usitati, che benchè metaforici, son come propri. Con ogni esame mi sono accertato che il verbo duco e il verbo facio per la copia de’ composti, sopraccomposti, con preposizione e senza, derivati e loro composti, significati ed usi propri e traslati, tanto di questi che suoi, è adattattissimo a servire di esempio. ( Ludifico, carnifex, sacrificium, labefacto ed altri infiniti sono i composti del verbo facere senza preposizione nè particelle ec.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ma con altri nomi, alla greca.) E con queste considerazioni vedrete quanto la primitiva natura della lingua latina fosse disposta, a somiglianza della greca, alla onnipotenza di esprimer tutto facilmente, e tutto del suo ed a sue spese; alla pieghevolezza, trattabilità, duttilità ec. Come questa facoltà di servirsi così bene delle sue radici, di estendersi, dilatarsi guadagnare conquistare con sì [743]poca fatica, metter così bene e a sì gran frutto il suo proprio capitale, coltivare con sì gran profitto il proprio terreno; questa facoltà dico, che nella lingua greca durò sino alla fine, come venisse così presto a mancare nella lingua latina, alla quale abbiamo veduto ch’era non meno naturale e caratteristica che alla greca, a cui poi si attribuì e si attribuisce come esclusivamente sua, verrò esponendolo e assegnandone le ragioni che mi parranno verisimili.
La lingua greca nel tempo in cui ella pigliava forma, consistenza, ordine, e stabilità (giacchè prima o dopo questo tempo la cosa non avrebbe avuto lo stesso effetto) non ebbe uno scrittore nel quale per la copia, varietà, importanza, pregio e fama singolarissima degli scritti, si riputasse che la lingua tutta fosse contenuta. L’ebbe la lingua latina, l’ebbe appunto nel tempo che ho detto, e l’ebbe in Cicerone. Questi per tutte le dette condizioni, per l’eminenza del suo ingegno, e lo splendore [744]delle sue gesta, del suo grado, della sua vita, e di tutta la sua fama, per aver non solo introdotta ma formata e perfezionata non solo la lingua, ma la letteratura, l’eloquenza, la filosofia latina, trasportando il tutto dalla Grecia, per essere in somma senza contrasto il primo il sommo letterato e scrittore latino in quasi tutti i generi, soprastava tanto agli altri, che la lingua latina scritta, si riputò tutta chiusa nelle sue opere, queste tennero luogo di Accademia e di Vocabolario, l’autorità e l’esempio suo presso i successori, non si limitò ad insegnare, e servir di norma e di modello, ma, come accade, a circoscrivere; la lingua si riputò giunta al suo termine; gl’incrementi di essa si sti-Letteratura italiana Einaudi 559
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia marono già finiti; si credè giunto il colmo del suo accrescimento; si temè la novità; si ebbe dubbio e scrupolo di guastare e far degenerare in luogo di arricchire; le fonti della ricchezza della lingua si stimarono chiuse. ec. E così Cicerone fra gl’infiniti benefizi fatti alla sua [745]lingua, gli fece anche indirettamente per la troppa superiorità e misura della sua fama e merito, troppo soverchiante e primeggiante, questo danno di arrestarla, come arrivata già alla perfezione, e come in pericolo di degenerare se fosse passata oltre: e quindi togliergli l’ardire, la forza generativa, e produttrice, la fertilità, e inaridirla. Nello stesso modo che avvenne alla eloquenza e letteratura latina, per lo stesso motivo, e per la stessa persona (v. Velleio nel fine del 1mo libro). Che siccome per la letteratura si stimò quasi giunta l’ora del riposo, tanto egli l’aveva perfezionata (v. p.801. fine) (cosa che non accadde mai nella Grecia, giacchè a nessuno scrittore in particolare compe-teva questa qualità, e la perfezione di un secolo il quale s’intreccia e addentella col seguente, non ispaventa tanto quanto quella di un solo, che in se stesso racchiude e definisce e circoscrive la perfezione) così appunto interven-ne anche alla lingua, la quale similmente, [746]come già matura e perfetta, cessò di crescere e isterilì. Questa può essere una ragione. Quest’altra mi sembra la principale.
Da qualunque origine derivasse la lingua e la letteratura e filosofia e sapienza greca, certo è che la Grecia, se non fu l’inventrice delle sue lettere, scienze, ed arti, le ricevè informi, ed instabili, e imperfette, e indeterminate, e così ricevute, le formò, stabilì, perfezionò, determinò essa medesima, e nel suo proprio seno, e di sua propria mano ed ingegno, così che vennero la sua letteratura ed il suo sapere ad essere sue proprie, ed opera si può dir sua: quindi non ebbe bisogno di ricorrere ad altre lingue per esprimere le sue cognizioni (se non se, come tutte le lingue, nei primordi, e nelle primissime derivazioni delle sue radici, giacchè nessuna lingua è nata coll’uomo, ma Letteratura italiana Einaudi 560
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia derivata l’una dall’altra più o meno anticamente, finchè si arriva ad una lingua assolutamente madre e primitiva, che nessuno conosce): non ebbe dico bisogno di queste, ma formando le sue cognizioni, formò insieme la lingua; e [747]quindi pose sempre a frutto, e coltivò il suo proprio fondo, e trasse da se stessa tutto il tesoro della favella. Ma ai latini non accadde lo stesso. La loro letteratura, le loro arti, le loro scienze vennero dalla Grecia, e tutto in un tratto, e belle e formate. Essi le ricevettero già ordinate, composte, determinate, provvedute intieramente del loro linguaggio, trattate da scrittori famosissimi: in somma i latini non ebbero e non fecero altra opera che traspiantare di netto le scienze, arti, lettere greche nel loro terreno. Quindi era ben naturale che quelle discipline ch’essi non avevano formate, portassero seco anche un linguaggio non latino, perchè dovunque le discipline si formano, e ricevono ordine e corpo stabile e determinato, quivi se ne forma il linguaggio, e questo passa naturalmente alle altre nazioni insieme con esse discipline. Non avendole dunque i latini nè create nè formate, ma ricevute quasi per manus belle e fatte, neanche ne crearono nè formarono, [748]ma riceverono parimente il linguaggio.
Lucrezio volendo trattar materie filosofiche s’era lagnato della novità delle cose e della povertà della lingua, come potremmo far noi oggidì, volendo trattare la moderna filosofia. Cicerone, da grande e avveduto uomo, il quale benchè gelosissimo della purità della favella, conosceva che alla novità delle cose era necessaria la novità delle parole, e che queste non sarebbero 1. intese e chiare, 2.
inaffettate e naturali, se non fossero appresso a poco quelle medesime che erano in comune e confermato uso in quelle tali discipline; fu ardito, e trattando materie si può dir greche popolò il latino di parole greche, certo di essere inteso, e di non riuscire affettato, perchè la lingua greca era divulgatissima e familiare fra’ suoi, come appunto oggi la francese, e quelle parole notissime, e usitatissime anzi Letteratura italiana Einaudi 561
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia proprie di quelle discipline, come oggi le francesi nelle moderne materie filosofiche e simili. E di più erano necessarie. Così dunque la lingua latina si pose in grado di discorrer delle [749]cose, e di essere scritta, ma vi si pose per mezzi alieni e non propri. Bisogna anche osservare che non questa o quella disciplina, ma si può dir tutte le discipline, e cognizioni umane, tutto quello che scrivendo si può trattare, anzi anche conversando urbanamente, cioè tutta la coltura tutti i soggetti regolati e ordinati, erano venuti dalla Grecia in Roma, immediatamente e interamente. Quindi successe quel che doveva, che la lingua latina, affogata ed oppressa tutto in un tratto dalla copia delle cose nuove, disperata di poterla subito (come sarebbe bisognato) pareggiare colla novità delle parole tirate dal proprio fondo, abbandonò il suo terreno, abbracciò la suppellettile straniera di linguaggio, che trovava già pronta, e da tutti intesa ed usata: e così la facoltà generativa della lingua latina, rimase o estinta o indebolita, e si trasformò nella facoltà adottiva. Cicerone ne aveva usato
[750]da suo pari con discrezione e finissimo giudizio e gusto, non lasciando in nessun modo di coltivare il fondo della sua lingua, di accrescerla, e di cavarne quanto era possibile in quella strettezza, in quella tanta copia di nuove cose, accompagnate da parole straniere già divulgate ed usitate. Ma dopo Cicerone si passarono i limiti: parte perch’essendo (com’è oggi relativamente al francese) molto più facile il tirar dalla lingua greca già ben provve-duta di tutto, e a tutti nota, le parole e modi occorrenti, di quello che dalla latina che non le dava senza studio, e profonda cognizione di tutte le sue risorse; quelli che non erano così periti della loro lingua (perizia ben rara e difficile trattandosi di una tal lingua, come della nostra oggidì: e pochi o nessuno la possedè così a fondo come Cicerone) senza troppo curare di accertarsi s’ella avesse o non avesse come esprimere convenientemente e pianamente il bisognevole, [751]davan sacco alla lingua greca che Letteratura italiana Einaudi 562
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia l’aveva tutto alla mano. Parte perchè non la sola necessità, o la difficoltà dell’uso del latino in quei casi, o finalmente l’ignoranza della propria lingua, ma anche il vezzo spingeva i romani (come oggi ec.) ad usare le parole e modi greci in iscambio delle parole e modi latini, e me-scolarli insieme, come che quelli dessero grazia e spirito alla favella gentile, e in somma ci entrò di mezzo oltre la letteratura e la filosofia, anche la moda. Orazio già avea dato poco buon esempio. Uomo in ogni cosa libertino e damerino e cortigiano, in somma tutto l’opposto del carattere Romano, e nelle opere tanto seguace della sapienza fra’ cortigiani, quanto Federigo II tra i re. Non è maraviglia se la lingua romana gli parve inferiore alla sua propria eleganza e galanteria. Sono noti e famosi quei versi della poetica, dov’egli difende e ragiona su questo suo costume. Egli però come uomo di basso ma sottile ingegno, se nocque coll’esempio, non pregiudicò grandemente colla pratica; anzi io non voglio contendere s’egli, quanto a se, giovasse piuttosto o pregiudicasse alla sua lingua, perchè i suoi ardimenti paiono a tutti, e li credo anch’io, se non altro, in massima parte, felicissimi; ma poco
[752]tempo dopo la sua morte, cioè al tempo di Seneca ec. per ambedue le dette ragioni la cosa era ita tant’oltre che la lingua latina impoveriva dall’un canto e dall’altro imbarbariva effettivamente per grecismo come oggi l’italiana per francesismo. Ed è curioso come tristo l’osservare che siccome la lingua latina rendè poi con usura il contraccambio di questo danno e di questa barbarie alla greca, quando già mezzo barbara le si riversò tutta, per così dire, nel seno, sotto Costantino e successori, così oggidì la lingua francese rende con eccessiva usura alla nostra quella corruttela che ne ricevè al tempo dei Medici in Francia ec. La lingua latina fu (per poco spazio) re-stituita, se non all’antica indole, certo a uno splendore somigliante all’antico (insieme colla letteratura parimente corrotta) da parecchi scrittori del secolo tra Nerva e Letteratura italiana Einaudi 563
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Marcaurelio, fra’ quali Tacito ec. del che non è ora luogo a parlare. Solamente noterò per incidenza, e perchè fa a questo discorso delle lingue, un parallelo curiosissimo che si può fare tra Frontone e i presenti ristoratori della lingua italiana. [753]Il qual Frontone, come apparisce ora dalle reliquie de’ suoi scritti ultimamente scoperte, merita un posto distinto, fra i ristauratori e zelatori della purità come della letteratura così della lingua latina. Nel qual pregio egli forse e senza forse, cred’io, è l’ultimo di tempo, che si conosca, o abbia almeno qualche distinta rinomanza. Ma egli (colpa della nostra natura) volendo rifor-mare il troppo libertinaggio, e castigare la viziosa novità della lingua, cadde, come appunto gran parte de’ nostri, nell’eccesso contrario. Giacchè una riforma di questa natura, deve consistere nel mondar la lingua dalle brut-ture, distoglierla dal cattivo cammino, e rimetterla sul buono. Non già ricondurla a’ suoi principii, e molto meno voler che di quivi non si muova. Perchè la lingua e naturalmente e ragionevolmente cammina sempre finch’è viva, e come è assurdissimo il voler ch’ella stia ferma, contra la natura delle cose, così è pregiudizievole e porta discapito il volerla riporre più indietro che non bisogna, e obbli-garla a rifare quel cammino [754]che avea già fatto dirittamente e debitamente. Laddove bisogna riporla nè più nè meno in quel luogo che conviene al tempo e alle circostanze, osservando solamente che questo luogo sia proprio suo e conveniente alla sua natura. Ma Frontone in luogo di purificare la lingua, la volle antiquare, richiamando in uso parole e modi, per necessaria vicenda delle cose umane, dimenticati, ignorati e stantii, e fino come pare, l’antica ortografia, volendo quasi immedesimare, in dispetto della natura e del vero, il suo tempo coll’antico.
Come che quei secoli che son passati, e quelle mutazioni che sono accadute e nella lingua, e in tutto quello che la modifica, dipendesse dalla volontà dell’uomo il fare che non fossero passati e non fossero accadute, e il cancellare Letteratura italiana Einaudi 564
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tutto l’intervallo di tempo ed altro che sta fra il presente e l’antico. Nè osservò che siccome la lingua cammina sempre, perch’ella segue le cose le quali sono istabilissime e variabilissime, così ogni secolo anche il più buono e casto ha la sua lingua modificata in una maniera propria, la quale allora solo è cattiva, [755]quando è contraria all’indole della lingua, scema o distrugge 1. la sua potenza e facoltà, 2. la sua bellezza e bontà naturale e propria, altera perde guasta la sua proprietà, la sua natura, il suo carattere, la sua essenziale struttura e forma ec. Fuori di questo, com’è altrettanto vano, che dannoso e micidiale l’assunto d’impedire ch’ella si arricchisca, così è impossibile e dannoso l’impedire che si modifichi secondo i tempi e gli uomini e le cose, dalle quali la lingua dipende e per le quali è fatta, non per qualche ente immaginario, come la virtù o la giustizia ch’è immutabile o si suppone.
E perchè Cicerone non iscrisse come il vecchio Catone ec. non perciò resta ch’egli non sia, come in ordine a tutto il rimanente, così pure alla lingua, il sommo scrittor latino: nè che Virgilio non sia il primo poeta latino, e lim-pidissimo specchio di latinità (riconosciuto dallo stesso Frontone negli Exempla elocutionum), perciò che la sua lingua è ben diversa [756]da quella di Ennio di Livio Andronico, ec. e anche di Lucrezio. Bisogna però ch’io renda giustizia a Frontone, perchè se egli cadde in quel difetto che ho notato, vi cadde con molto più discrezione giudizio e discernimento sì nelle massime o nella ragione, che nella pratica, di quello che facciano molti degli odierni italiani, avendo anche molto riguardo a fuggir l’affettazione, per la quale massimamente e per la oscurità si rende assurdo e barbaro l’uso di molte parole antiquate; e possedendo la sua lingua veramente, e quindi, sebben peccasse nella troppa imitazione degli antichi, non però cercando, come fanno i nostri, di dar colore di antichità a’ suoi scritti, col solo materiale e parziale uso delle parole e modi vecchi, senza osservare se la scrittura sapesse Letteratura italiana Einaudi 565
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia poi veramente di antico, e se quelle parole e modi vi ca-dessero acconciamente e naturalmente, o forzatamente, e dissonando dal corpo della composizione. Frontone non sognò neppure la massima di vietare la conveniente e giudiziosa novità e formazione delle parole o modi, anzi egli stesso ne dà esempio di tratto in tratto. Il che [757]fanno i nostri per impotenza, ignoranza, povertà, e niun possesso di lingua; credendo di esser buoni scrittori italiani quando hanno imparato e usato a sproposito e come capita, un certo numero di parole e modi antichi, non curandosi poi, o non sapendo vedere se corrispondano al resto e all’insieme del colorito e dell’andamento, e testura del discorso, ovvero sieno come un ritaglio di porpora cucito sopra un panno vile, o certo d’altro colore ed opera. Ma conviene ch’io dica quello ch’è vero, che non mi è riuscito mai di trovare negli antichi scrittori latini o greci, per difettosi che sieno, tanta goffaggine, e incapacità, e piccolezza di giudizio, e debolezza e scarsezza di mezzi, e decisa insufficienza alle imprese, agli assunti ec. quanto negli odierni italiani: e Frontone del resto non fu niente povero d’ingegno. Il suo peccato si può ridurre all’aver considerato come modelli di buona lingua, piuttosto Ennio che Virgilio e che lo stesso Lucrezio (che tanto l’arricchì nella parte filosofica) piuttosto Catone che Tullio; all’aver creduto che in quelli e non in questi fosse la perfezione della lingua latina, all’avere attinto più da quelli che da questi, e consideratili come fonti più ricchi o più sicuri ec.; o certo aver loro attribuita senza veruna ragione (conforme però all’ordinario rispetto per l’antico) maggiore autorità in fatto di lingua. ec. ec. Questo sia detto in trascorso e per digressione.
Tornando al proposito, cioè all’arricchire [758]la lingua del prodotto delle sue proprie sostanze, e dalla greca e latina, passando alle vive, questa è sempre stata e sarà sempre facoltà inseparabile dalla vita delle lingue, e da non finire se non colla loro morte. Tutte le lingue vive la Letteratura italiana Einaudi 566
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia conservano, eccetto quelli che vorrebbero che la italiana la deponesse. La francese, la quale a differenza dell’italiana, si è spogliata della facoltà di usare quelle delle sue parole e modi antichi e primitivi, che le potessero tornare in acconcio (come ho detto altrove); parimente a differenza di ciò che si esigerebbe dalla italiana, ha conservato sempre ed usato la facoltà di mettere a frutto e molti-plico il suo presente tesoro. E la stessa lingua latina, la quale per le ragioni che ho detto, perdè in parte questa facoltà dopo Cicerone, non la perdè, se non in quanto a quella felicissima ed immensa facoltà di composti e sopraccomposti o con preposizione o particella, ovvero di più parole insieme; facoltà che la metteva quasi
[759](cioè in proporzione della quantità delle radici e de’
semplici) al paro della greca; facoltà che si può vedere e nelle primitive parole latine composte nei detti modi, o con avverbi (come propemodum e mille altre), in somma come le greche, e che sono durate nell’uso della latinità sino alla fine, ma non però imitate nè accresciute; e in quelle che poi caddero dall’uso, e si possono veder ne’
più antichi latini (come in Plauto lectisterniator, legirupus, lucrifugae e mille altre, e prendo le primissime che ho incontrate subito), e servono a far conoscere la primitiva costituzione, forma, usanza, e potenza di quella lingua: facoltà in fine, ch’è la massima e più ricca sorgente della copia delle parole, e della onnipotenza di tutto esprimere, ancorchè nuovissimo; il che si ammira nel greco, e si potè una volta notare anche nel latino. I primi scrittori latini, il loro linguaggio sacro o governativo ec. antico (come lectisternium antica festa romana) abbondano siffattamente di parole composte alla greca di due o più voci, che non si può forse leggere un passo di detti autori ec. senza trovarne, ma la più parte andate in disuso. Spesso eran proprie di quel solo che le inventava. Talvolta anche di eccessiva lunghezza, come clamydeclupetrabracchium parola di antico poeta riferita da Varrone (De L. L. lib.4.) Letteratura italiana Einaudi 567
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia (p.3. della mia ediz. del 400.) Quest’uso ottimo e felicissimo, e questa facoltà, fu o trascurata, o comunque [760]lasciata trasandare, abbandonare, dismettere, dimenticare alla lingua latina, che era per forza d’essa facoltà così bene istradata alla onnipotenza, ne’ suoi principii. Ma la facoltà di arricchire la propria lingua col prodotto delle sue proprie radici in ogni altro genere, coi derivati ec. non fu mai abbandonata finch’ella visse, e non poteva esserlo, stante ch’ella vivesse. Non solamente i cattivi o mediocri, ma anche i buoni ed ottimi scrittori dopo Cicerone, se ne prevalsero tutti, e tutti scrivendo aumentarono il tesoro della lingua, e questa non lasciò mai di far buoni e dovuti progressi, finchè fu adoperata da buoni e degni scrittori.
Così deve tenersi per fermissimo, ch’è indispensabile di fare a tutte le lingue finch’elle vivono. La facoltà de’
composti pur troppo non è propria delle nostre lingue.
Colpa non già di esse lingue, ma principalmente dell’uso che non li sopporta, non riconosce nelle nostre lingue meridionali [761](delle settentrionali non so) questa facoltà, delle orecchie o non mai assuefatteci, o dissuefattene da lungo tempo. Perchè del resto 1. le nostre preposizioni, massimamente nella lingua italiana, sarebbero per la più parte, appresso a poco non meno atte alla composizione di quello che fossero le greche e latine, e noi non manchiamo di particelle attissime allo stesso uso, anzi molte ritrovate espressamente per esso (come ri, o re, tra o stra, arci, dis, o s, in negativo o privativo, e affermativo, mis, di, de ec. E di queste abbondiamo anzi più de’ latini, e forse anche dei greci stessi, e credo certo anche de’ francesi e degli spagnuoli.) V. il Monti, Proposta alla voce Nonuso, e se vuoi p.2078. 2. anche ai composti di più parole la lingua massimamente italiana, sarebbe dispostissima, come già si può vedere in alcuni ch’ella usa comunemente ( valentuomo, passatempo, tuttavolta, capomorto, capogatto, tagliaborse, beccafico, falegname, granciporro, e molti e molti altri); v. p.1076. e Monti, Pro-Letteratura italiana Einaudi 568
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia posta ec. v. guardamacchie ed anche la lingua francese ( emportepièce, gobemouche, fainéant coi derivati ec.) 3.
non manchiamo neppure di avverbi atti a servire alla composizione. 4. la nostra lingua benchè non si pieghi e non ami in questo genere la novità, ha però non poco in questo genere, come i composti colla preposizione in, tra, fra, oltra, [762] sopra, su, sotto, contra, anzi ec. ec. e Dante fra gli altri antichi aveva introdotto subito nel quasi creare la nostra lingua, la facoltà, il coraggio, ed anche l’ardire de’ composti, de’ quali egli abbonda (come indiare, intuare, immiare, disguardare ec. ec.) massime con preposizioni avverbi, e particelle. E così gli altri antichi nostri.
Ma a noi pure è avvenuto, come ai latini, che questa onnipotente facoltà, propria della primitiva natura della nostra lingua, (sebbene allora pure in minor grado che, non solo della greca, ma anche della latina) s’è lasciata malamente e sfortunatamente perdere quasi del tutto, ancorchè si conservino buona parte di quelli che si sono trovati in uso, e si adoprino come recentissimi, attestando continuamente la primiera facoltà e natura della nostra lingua; ma de’ veramente nuovi e recenti non si gradisco-no. E tutto questo appresso a poco è avvenuto anche alla lingua francese. V. p.805. Dei composti dunque, gli scrittori di oggidì non hanno gran facoltà, ma non però nessuna (tanto in italiano che in francese): anzi ce ne resta ancor tanta da potere, senza [763]la menoma affettazione formare e introdurre molti nuovi composti chiarissi-mi, facilissimi, naturalissimi, mollissimi per l’una parte; e per l’altra utilissimi; specialmente con preposizioni e particelle ec. Quanto poi ai derivati d’ogni specie (purchè sieno secondo l’indole e le regole della lingua, e non riescano nè oscuri nè affettati) e a qualunque parola nuova che si possa cavare dalle esistenti nella nostra lingua, che stoltezza è questa di presumere che una parola di origine e d’indole italianissima, di significazione chiarissima, di uso non affettata nè strana ma naturalissima, di suono Letteratura italiana Einaudi 569
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia finalmente non disgrata all’orecchio, non sia italiana ma barbara, e non si possa nè pronunziare ne scrivere, per questo solo, che non è registrata nel Vocabolario? (E quello che dico delle parole dico anche delle locuzioni e modi, e dei nuovi usi qualunque delle parole o frasi ec. già correnti, purchè questi abbiano le dette condizioni.) Quasi che la lingua italiana sola, a differenza di tutte le altre esistenti, e di qualunque ha mai esistito, si debba, mentre ancor vive nell’uso quotidiano della nazione, considerar come morta e morire vivendo, ed essere a un tempo viva e morta. Converrebbe che anche questa nazione vivesse come morta, cioè che nella sua esistenza non [764]accadesse mai novità, divario, mutazione veruna, nè di opinioni, nè di usi, nè di cognizioni (come, e più di quello che si dice della China, la cui lingua in tal caso potrà essere immobile): e di più che sia in tutto e per tutto conforme alla vita e alle condizioni de’ nostri antichi, e di que’
secoli dopo i quali non vogliono che sia più lecita la novità delle parole.
E infatti che differenza troveremo fra la lingua italiana viva, e le morte, ammesso questo pazzo principio? Che libertà che facoltà avremo noi nello scrivere la lingua nostra presente, più di quello che nell’adoprare la greca e latina che sono antiche ed altrui? e le cui fonti sono dis-seccate e chiuse da gran tempo, restando solo quel tanto ch’elle versarono mentre furono aperte, e quelle lingue vissero. Anzi io tengo per fermo che quegli scrittori italiani i quali nel cinquecento maneggiarono la lingua latina in maniera da far quasi dubbio se ella fosse loro artifiziale o naturale, furono assai meno superstiziosi di quello che molti vorrebbero che fossimo noi trattando la lingua nostra. E noi medesimi oggidì (parlo degli scienziati o letterati di tutta Europa) derivando, come facciamo spessissimo, [765]dal greco le parole che ci occorrono per li nostri usi presenti, e per novità di cose ignotissime ai parlatori di quella lingua, non formiamo voci parimente Letteratura italiana Einaudi 570
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ignote all’antica lingua greca? Ci facciamo scrupolo se non sono registrate nel Lessico, o se non hanno per se l’autorità degli antichi scrittori? Non innuoviamo noi in una lingua morta, stranierissima, e al tutto fuori d’ogni nostro diritto? Il che, sebbene si facesse con buon giudizio, e coi dovuti rispetti all’indole di quella lingua (al che per verità pochi hanno l’occhio nella formazione di tali voci), a ogni modo vi si potrebbe sofisticar sopra, e dire che la eredità che ci è pervenuta delle antiche lingue, è come di beni infruttiferi, dai quali non si può nè ricavare nè pretendere altro servigio che dell’usarli identicamente. Ma la nostra lingua propria è un’eredità, un capitale fruttifero, che abbiamo ricevuto da’ nostri maggiori, i quali come l’hanno fatto fruttare, così ce l’hanno [766]trasmesso perchè facessimo altrettanto, e non mica perchè lo sep-pellissimo come il talento del Vangelo, ne abbandonassi-mo affatto la coltivazione, credessimo di custodirlo, e di-fenderlo, quando gli avessimo impedito ogni prodotto, la vegetazione, il prolificare; lo considerassimo e ce ne ser-vissimo come di un capitale morto ec.
Osservo anche questo. Noi ci vantiamo con ragione della somma ricchezza, copia, varietà, potenza della nostra lingua, della sua pieghevolezza, trattabilità, attitudine a ri-vestirsi di tutte le forme, prender abito diversissimo secondo qualunque soggetto che in essa si voglia trattare, adattarsi a tutti gli stili; insomma della quasi moltiplicità di lingue contenute o possibili a contenersi nella nostra favella. Ma da che cosa stimiamo noi che sieno derivate in lei queste qualità? Forse dalla sua primitiva ed ingenita natura ed essenza? Così ordinariamente si dice, ma c’inganniamo di gran lunga. Le dette qualità, le lingue non
[767]le hanno mai per origine nè per natura. Tutte a presso a poco sono disposte ad acquistarle, e possono non acquistarle mai, e restarsene poverissime e debolissime, e impotentissime, e uniformi, cioè senza nè ricchezza, nè copia, nè varietà. Tale sarebbe restata la lingua nostra, Letteratura italiana Einaudi 571
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia senza quello ch’io dirò. Tutte lo sono nei loro principii, e non intendo mica nei loro primissimi nascimenti, ma finattanto che non sono coltivate, e con molto studio ed impegno, e da molti, e assiduamente, e per molto tempo.
Quello che proccura alle lingue le dette facoltà e buone qualità, è principalmente (lasciando l’estensione, il commercio, la mobilità, l’energia, la vivacità, gli avvenimenti, le vicende, la civiltà, le cognizioni, le circostanze politiche, morali, fisiche delle nazioni che le parlano) è, dico, principalmente e più stabilmente e durevolmente che qualunque altra cosa, la copia e la varietà degli scrittori che l’adoprano e coltivano. (V. p.1202.) Questa siccome, per ragione della maggior durata, e di altre molte circostanze, fu maggiore nella Grecia che nel Lazio, perciò la lingua greca possedè le dette [768]qualità, in maggior grado che la latina; ma non prima le possedè che fosse coltivata e adoperata da buon numero di scrittori, e sempre (come accade universalmente) in proporzione che il detto numero e la varietà o de’ soggetti o degli stili o de-gl’ingegni degli scrittori, fu maggiore, e s’accrebbe. La lingua latina similmente non le possedè (sebben meno della greca, pure in alto grado) se non quando ebbe copia e varietà di scrittori. Tutte le lingue antiche e moderne che hanno mancato di questo mezzo, hanno anche mancato di queste qualità. Per portare un esempio (oltre le lingue Europee meno colte) la lingua Spagnuola, nobilissima, e di genio al tutto classico, e somigliantissima poi alla nostra particolarmente, sì per lo genio, come per molti altri capi, e sorella nostra non meno di ragione che di fatto, e di nascita che di sembianza, costume, indole, non è inferiore alla nostra nelle dette qualità, se non perchè l’è inferiore principalmente nella copia e varietà degli scrittori. Se la lingua francese, non ostante la gran quantità degli scrittori, e degli [769]ottimi scrittori, si giudica ed è tuttavolta inferiore alla nostra ed alle antiche per questo verso, ciò è avvenuto per le ragioni particolari che ho più Letteratura italiana Einaudi 572
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia volte accennate. La riforma di essa lingua, la regolarità prescrittale, la figura datale, avendo uniformato tutti gli stili, la poesia alla prosa; impedita la varietà e moltiplicità della lingua, secondo i vari soggetti e i vari ingegni; tolta la libertà, e la facoltà inventiva agli scrittori, in questo particolare; tolto loro l’ardire, anzi rendutinegli affatto schivi e timidi ec. ec. la Francia è venuta a mancare della varietà degli scrittori, non ostante che n’abbia la copia, ed abbia la varietà de’ soggetti, perchè tutti i soggetti da tutti gl’ingegni si trattano, possiamo dire, in un solo modo.
E ciò deriva anche dalla natura e forza della eccessiva civiltà di quella nazione, e della influenza della società: così stretta e legata, che tutti gl’individui francesi fanno quasi un solo individuo. E laddove [770]nelle altre nazioni, si cerca ed è pregio il distinguersi, in quello è pregio e necessità il rassomigliarsi anzi l’uguagliarsi agli altri, e ciascuno a tutti e tutti a ciascuno. Queste ragioni rendendogli timidi dell’opinione del ridicolo ec. e scrupolosi osservatori delle norme prescritte e comuni nella vita, li rende anche superstiziosi, timidi, schivi affatto di novità nella lingua. Ma tutto ciò quanto alle sole forme e modi, perchè questi soli, sono stati fra loro determinati, e prescritti i termini (assai ristretti) dentro i quali convenga contenersi, e fuor de’ quali sia interdetto ogni menomo passo. E così quanto allo stile uniforme si può dire in tutti, e in tutti i generi di scrittura, anche nelle traduzioni ec. tirate per forza allo stile comune francese, ancorchè dallo stile il più renitente e disperato; e quanto in somma all’unità del loro stile, e del loro linguaggio che ho notata altrove. Ma non quanto alle parole, nelle quali, restata libera in Francia la facoltà inventiva, e il derivare novellamente dalle proprie fonti, sempre aperte sinchè la lingua vive; la lingua francese cresce di parole ogni giorno e crescerà. Che se le cavassero sempre dalle proprie fonti, o con quei rispetti che si dovrebbe, non avrei luogo a riprenderli, come ho fatto altrove, e della corruzione e Letteratura italiana Einaudi 573
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia dell’aridità a cui vanno portando la loro lingua. [771]La quale inoltre, da principio, era, come la nostra, attissima alla novità ed al bell’ardire, anche nei modi, secondo che ho detto altrove. La lingua tedesca, rimasa per tanti secoli impotente ed umile, ancorchè parlata da tanta e sì estesa moltitudine di popoli, non per altro che per avere avuto nell’ultimo secolo e ne’ pochi anni di questo, immensa copia e varietà di scrittori, è sorta a sì alto grado di facoltà e di ricchezza e potenza.
La lingua italiana dunque, scritta per sei secoli fino al 18vo. inclusivamente, e scritta da una infinità di autori d’ogni soggetto, d’ogni stile, d’ogni carattere, d’ogni ingegno, oltracciò abbondantissima, quanto e più, certo prima di qualunque altra lingua viva, non solo di scrittori comunque, ma scrittori peritissimi nel linguaggio, coltivatori assidui, ed espressamente dedicati allo studio della lingua, maestri e modelli del bel parlare, studiosissimi delle lingue antiche per derivarne nella nostra tutto il buono e l’adattato, liberi, coraggiosi, e felicemente arditi nell’uso della lingua; questa lingua [772]dico, da piccoli anzi vili e rozzi e informi principii, come tutte le altre, e da barbare origini; di più, cresciuta e fatta se non matura certo adulta e vigorosissima fra le tenebre dell’ignoranza, della superstizione, degli errori della barbarie; non per altro che per li detti motivi, e prima e sola fra le viventi, è venuta in tal fiore di bellezza, di forza, di copia, di varietà, ec. che giunge quasi a pareggiare le due grandi antiche (chi bene ed intimamente e in tutta la sua estensione la conosce), non avendo rivale fra le moderne. Se dunque abbiamo veduto come le doti delle lingue, e in ispecie la copia e la varietà, non derivano principalmente se non dalla copia e varietà degli scrittori, e non da natura di essa; ne segue che quando gli scrittori lasceranno per trascuraggine o ignoranza, di arricchirla, e peggio se saranno impediti di farlo, la lingua non arricchirà, non crescerà, non monterà più, e siccome le cose umane, non si Letteratura italiana Einaudi 574
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia fermano mai in un punto, ma vanno sempre innanzi o retrocedono, così la lingua non avanzando più, retrocederà, [773]e dopo essere isterilita, impoverirà ancora, perderà quello che avea guadagnato, e finalmente si ridurrà a tal grado di miseria e d’impotenza, che non sarà più sufficiente all’uso e al bisogno, e allora sì che le converrà domandare soccorso alle lingue straniere e imbarbarire del tutto, per quel motivo appunto il quale si credeva doverla preservare dalla corruzione, e mantener-la pura e sana. Forse che non vediamo già accadere tutto questo? Quante ricchezze delle già guadagnate, e per così dire, incamerate, ha ella perduto quasi e senza quasi del tutto! Ma di questo dirò poi.
Vogliamo noi dunque ridurre la lingua italiana e nelle parole e nei modi, a quella stessa paura, scrupolosità, superstizione, schiavitù, grettezza, uniformità della lingua francese nei soli modi? Almeno i francesi hanno una scusa nella natura della loro nazione, a cui la società è vita, alimento, diletto, e spavento, sanguisuga, tormento, morte.
[774]A noi manca questa scusa, se già non vogliamo infrancesire interamente anche nei costumi, usi, vita, gusti, idee, inclinazioni ec. e perdere fino alla sembianza, aspetto, forma d’italiani, come abbiamo più che incominciato.
Diranno che la lingua, benchè per lo mezzo, e l’ardire e libertà degli scrittori, è giunta però a quella perfezione, la quale non possa oltrepassare senza guastarsi. Vi giunse, cred’io, nè più nè meno in quel punto in cui finì di pub-blicarsi l’ultimo Vocabolario della Crusca, giacchè in questo o certo nei precedenti, sono riportate moltissime parole coll’autorità di scrittori ancora viventi e scriventi.
Anzi il Buonarroti scrisse la Fiera appostatamente per somministrar parole al Vocabolario. L’ultimo tomo dunque di questo, e quell’anno, quel mese, quel giorno in cui fu pubblicato chiuse per sempre le fonti della lingua italiana, state aperte da cinque secoli. Ma lasciando le bur-Letteratura italiana Einaudi 575
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia le, do e non concedo che la lingua italiana, sia stata già
[775]portata dagli scrittori a quella somma perfezione a cui possa pervenire in ordine a tutte le altre qualità, (errore manifestissimo, ma lasciamolo passare). Nella ricchezza, copia, e varietà nego che veruna lingua del mondo, o attuale o possibile, possa mai essere perfetta finchè non muore. E ciò nasce che le cose ancora vivono sempre, e si modificano sempre novellamente, e si moltiplicano le conosciute: ora una lingua non è mai perfettamente ricca, anzi perfettamente fornita del necessario, finch’ella non può esprimere perfettamente, e convenientemente tutte le cose, e tutte le possibili modificazioni delle cose di questo mondo. Sicchè una lingua non avrà più mestieri di accrescimento, allora solo quando o essa o il mondo sarà finito.
Quali effetti produca poi, e quanto sia pericoloso il volere arrestare una lingua, come già perfetta, e lo scoraggirsi di accrescerla, per la persuasione [776]che ciò non sia più necessario, nè lecito e giovevole, nè possibile, si può vedere in quello che ho detto della lingua latina.
E prima di partire da questo soggetto della ricchezza e copia e bontà generale e potenza delle lingue proccurata principalmente dalla copia e varietà ed ingegno degli scrittori, osserverò che quella medesima superiorità di circostanza ch’ebbe la lingua greca sulla latina, e che fu seguita dall’effetto di restarle realmente e sempre superiore nella sostanza, l’abbiamo noi pure sopra tutte le altre lingue viventi, e colte. Perchè siccome la coltura della lingua greca, e gli scrittori suoi, incominciati assai per tempo, abbracciarono lunghissimo spazio, e il loro numero fu grande in ciascun tempo; e siccome in proporzione di questo spazio e di questo numero, la ricchezza e varietà e potenza della lingua greca, crebbe in modo che non potè mai essere agguagliata dalla latina: così la lingua italiana
[777]scritta già come ho detto da sei secoli in qua, e, si può dire, in ciascun secolo, abbondantissima di diversis-Letteratura italiana Einaudi 576
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia simi scrittori e cultori, ha su tutte le altre lingue moderne e colte quello stesso vantaggio di circostanza ch’ebbe la greca sulla latina. Vantaggio che per nessuno ingegno e nessuno sforzo e studio di nessuna nazione ci potrà mai esser levato, se noi non vorremo. Ma ecco che noi siamo fermati, e la lingua nostra non fa più progressi. La lingua francese infaticabilmente si accresce di tutte le parole che le occorrono. La lingua tedesca avanza e precipita come un torrente, e guadagna tuttogiorno vastissimi spazi, in ogni genere di accrescimento. Noi da qualche tempo ar-restati, neghittosi, ed immobili, manchiamo del bisognevole per esprimere e per trattare la massima parte delle cognizioni e delle discipline e dottrine moderne, ed usi e opinioni ec. ec. oggi più rapide nel crescere e propagarsi, e variare ec. di quello che mai [778]fossero, e in proporzione che la nostra indolenza e infingardaggine presente, è opposta alla energia ed attività passata. Così la lingua italiana perde il vantaggio dello spazio che avea guadagnato per valore de’ suoi antichi e primi padri, sopra le altre lingue, e queste correndo più velocemente che mai, fra tanto che la nostra siede e dorme, riguadagneranno tutto lo spazio perduto per la inerzia de’ loro antichi, arriveranno ben presto la nostra e la passeranno. E la nostra non solo non sarà più nè superiore nè uguale alle altre colte moderne, ma tanto inferiore, che divenuta impotente, e buona solo a parlare o scrivere ai bisavoli; o non saprà esprimer niente del bisognevole, nè parlare e scrivere in nessun modo ai contemporanei; o lo farà (come già lo fa per quel poco che parla e scrive delle cose e cognizioni moderne, o per quello che ne dice non del suo, ma copiando o seguendo gli stranieri) invo-cando l’altrui soccorso, servendosi degl’istrumenti e mezzi altrui, e quasi trasformandosi [779]in un’altra, o vogliamo dire, facendosi provincia e suddita di un regno straniero (come i piccoli e deboli confederati de’ grandi e potenti) essa ch’era capo di tutte le lingue viventi. Laddove Letteratura italiana Einaudi 577
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia siccome le altre lingue (come anche le altre letterature, e repubbliche scientifiche) raddoppiano l’energia e la veemenza e gagliardia del loro corso, così che in breve riguadagneranno lo spazio perduto da’ loro maggiori in confronto nostro, e, se noi non ci moviamo, ci paregge-ranno finalmente ben presto, e poi ci passeranno (che in quanto a moltissimi rami del sapere è già accaduto): così conviene che ancor noi pareggiamo i nostri ai loro sforzi, e così non perdendo il vantaggio acquistato, restiamo perpetuamente superiori a tutti, se non nel presente valore, certo pel detto vantaggio acquistato dagli avi, e man-tenuto da noi.
Conchiuderò con una osservazione che benchè fatta, io credo, da altri, tuttavia merita di essere ripetuta, perchè sia sempre più [780]considerata e sempre meglio svolta.
Non solamente i bisogni della lingua aumentano e si rinnuovano tuttogiorno, ma i mezzi della lingua, senza la novità delle parole, tuttogiorno diminuiscono. Quante voci e modi e frasi che una volta erano e usitatissime, e naturalissime, e chiarissime, e comunissime, ed utilissime efficacissime espressivissime frequentissime nel discorso, ora per essere antiquate, o non son chiare, o anche potendosi intendere, anche essendo chiarissime, non si debbono nè possono usare perchè non riescono e non cadono naturalmente, e manifestano e sentono quello che sopra ogni cosa si deve occultare, lo studio e la fatica dello scrittore. Questo accade in ogni lingua; tutte si vanno rin-novando, cioè dismettendo delle vecchie, e adottando delle nuove voci e locuzioni. Se questa seconda parte viene a mancare, la lingua non solamente col tempo non crescerà nè acquisterà, come hanno sempre fatto tutte le lingue colte o non colte, e come si è sempre inculcato a tutte le lingue [781]colte, ma per lo contrario perderà continuamente, e scemerà, e finalmente si ridurrà così piccola e povera e debole, che o non saprà più parlare nè bastare ai bisogni, o ricorrerà alle straniere; ed eccoti per Letteratura italiana Einaudi 578
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia un altro verso che quello stesso preteso preservativo contro la barbarie, cioè la intolleranza della giudiziosa novità, la condurrebbe alla barbarie a dirittura. E per parlare particolarmente della lingua italiana non vediamo noi negli effetti 1. quanto le lingue sieno soggette a perdere delle ricchezze loro: 2. come perdendo da una parte e non guadagnando dall’altra, la lingua non più per vezzo (che oramai il vezzo del francesismo è fuggito, anzi temutone da tutti gli scrittori italiani il biasimo e il ridicolo) ma per decisa povertà e necessità imbarbarisca? Prendiamoci il piacere di leggere a caso un foglio qualunque del Vocabolario e notiamo tutte quelle parole e frasi ec. che sono uscite fuor d’uso, e che non si potrebbero usare, o non senza difficoltà. Io credo che nè meno due terzi del vocabolario [782]sieno più adoperabili effettivamente nè servibili in nessuna occasione, nè merce mai più realizzabile. Queste perdute, infinite altre che sebbene dimenticate e fuor d’uso, sono però ricchezza viva e rea-lissima (come spesso necessarissima) perchè chiare a chiunque, e ricevute facilmente e naturalmente dal discorso e dagli orecchi di chi si voglia, ma tuttavia sono abbandonate e dismesse per ignoranza della lingua (la quale in chi maggiore in chi minore, in quasi tutti si trova, perchè il pieno possesso dell’immenso tesoro della lingua non appartiene oggi a nessuno neanche de’ più stimati per questo); finalmente la mancanza delle voci nuove adatte e necessarie alla novità delle cose, costringono gli scrittori d’oggidì a ricorrere alla barbarie, trovando la lingua loro del tutto insufficiente ai loro concetti, benchè sempre poverissimi, triti, ordinari, triviali, ristrettissimi, scarsissimi; e benchè spesso anzi per lo più vecchissimi e canuti.
Conchiudo che la giudiziosa novità, (e massime tutta quella che si può derivare dalle nostre stesse fonti) l’ar-ruolare al nostro esercito [783]nuove truppe, l’accrescere la nostra città di nuove cittadinanze, in luogo che pre-Letteratura italiana Einaudi 579
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia giudichi per natura sua, e quando si faccia nei debiti modi, alla purità della lingua, è anzi l’unico mezzo sufficiente di difesa, di far testa, di resistere alla irruzione della barbarie, la quale sovrasta inevitabilmente a tutte le lingue che mentre il mondo, e le cose, e gli uomini, e i suoi stessi parlatori camminano, e avanzano, o certo si muovono; non vogliono più, o sono impedite di più camminare nè progredire, nè muoversi in verun lato o modo: e vogliono, o son forzate a volere (inutilmente) quella stabilità, che non ebbero mai nè avranno gli uomini e le cose umane, al cui servigio elle son destinate, e al cui seguito le costringe in ogni modo la natura. Conchiudo che impedire alle lingue la giudiziosa e conveniente novità, non è preservarle, ma tutt’uno col guidarle per mano, e con-dannarle, e strascinarle forzatamente alla barbarie.
(8-14. Marzo 1821.)
[784]Da torvo parola italianissima e di Crusca, il Caro nell’Eneide (l.2. dove parla del simulacro di Pallade) fece torvamente, parola che non si trova nel Vocabolario. Ci può esser voce più chiara, più naturale, e ad un tempo più italiana di questa? Ma perchè non istà scritta nella Crusca, e perchè a quegli Accademici non piacque di porre la famosissima Eneide del Caro fra i testi, avendoci messo tanti libracci, però quella voce non si potrà usare?
Questo lo dico per un esempio, Éw ¤n tæpÄ. Del resto questo è un derivato senza ardire nessuno, e sebbene anche di questa specie se ne danno infiniti, e così anche giovano moltissimo alla lingua, sì per la moltitudine, sì anche individualmente; nondimeno sono forse di maggior utile i derivati, o usi nuovi di parole o modi già correnti, fatti con un certo ardire. Ma ho portato questo esempio per dimostrare come si possano far nuovi derivati dalle nostre proprie radici, che sebbene nuovi, abbiano lo stessissimo aspetto delle parole vecchie e usitate, sì per la chiarezza che per la naturalezza, per la forma, suono ec. e Letteratura italiana Einaudi 580
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia quindi sieno tanto italiane quanto la stessa Italia. Del qual genere se ne danno, come ho detto, infiniti a ogni passo.
(15. Marzo 1821.)
[785]Tutto quello che ho detto della derivazione di nuove parole o modi ec. dalle proprie radici, o dei nuovi usi delle parole o modi già correnti, lo voglio estendere anche alle nuove radici, non già straniere, non già prese dalle lingue madri, ma italiane, e non già d’invenzione dello scrittore, ma venute in uso nel linguaggio della nazione, o anche nelle scritture anche più rozze ed impure, purchè quelle tali radici abbiano le condizioni dette di sopra in ordine ai nuovi derivati ec. E queste nuove radici possono esser nuove in due sensi, o nuove nella scrittura, ma antiche nell’uso quotidiano; o nuove ancora in questo. V. p.800. fine. Qui non voglio entrare nelle antichissime quistioni, qual popolo d’Italia, qual classe ec.
abbia diritto di somministrar nuovi incrementi alla lingua degli scrittori. Osserverò solamente 1. quel luogo di Senofonte circa la lingua attica che ho citato p.741. in marg. notando che la Grecia si trovava appunto nella circostanza dell’Italia per la varietà dei dialetti, e che quello che prevalse [786]fu quello che tutti gli abbracciò (come dice quivi Senofonte) cioè l’attico, come quello che fra noi si chiama propriamente italiano. Giacchè c’è gran differenza tra quell’attico usitato da’ buoni scrittori greci, divulgato per tutto, quello di cui parla Senofonte ec.
ec. e l’attico proprio. Nello stesso modo fra il toscano proprio, e il toscano sinonimo d’italiano. V. p.961.
capoverso 1. 2. Che senza entrare in discussioni è ben facile il distinguere (almeno agli uomini giudiziosi, perchè già senza buon giudizio non si scriverà mai bene per nessun verso) se una parola usitata in questa o quella parte d’Italia, non però ammessa ancora o nelle scritture o nel vocabolario, ec. abbia le dette condizioni, cioè sia chiara, facile, inaffettata, di sapore di suono di forma italiana.
Letteratura italiana Einaudi 581
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia (Giacchè di origine italiana, è sempre ch’ella è usata in Italia da molti, purchè non sia manifestamente straniera, e questo di recente venuta; mentre infinite sono le antiche parole straniere domiciliate, e fatte cittadine della nostra lingua.) In questo caso qualunque sia la parte d’Italia che la usa, una voce, una frase qualsivoglia sarà sempre [787]italiana, e salva quanto alla purità, restando che per usarla nelle scritture si considerino le altre qualità necessarie oltre la purità ad una voce o frase per essere ammessa nelle scritture, e in questo o quel genere di scrittura, in questa o quella occasione ec. 3. Che tutte le lingue crescono in questo modo, cioè coll’accogliere, e porre nel loro tesoro le nuove voci create dall’uso della nazione; e che come quest’uso è sempre fecondo, così le porte della scrittura e della cittadinanza, sono sempre aperte, per diritto naturale, a’ suoi novelli parti, in tutte le lingue, fuorchè nella nostra, secondo i pedanti. E questa è una delle massime, e più naturali e legittime e ragionevoli fonti, della novità, e degl’incrementi necessari della favella. Perchè cogl’incrementi delle cognizioni, e col successivo variar degli usi, opinioni, idee, circostanze intrinseche o estrinseche ec. ec. crescono le parole e il tesoro della lingua nell’uso quotidiano, e da quest’uso debbono passare nella scrittura, se questa ha da parlare ai contemporanei, e da contemporanea, e delle cose del tempo ec. Così cresce ogni momento di parole proprissime e francesissime [788]la lingua francese, mediante quel fervore e quella continua vita di società e di conversazione, che non lascia esser cosa bisognosa di nome, senza nominarla; massime se appartiene all’uso del viver civile, o alle comuni cognizioni della parte colta della nazione: e per l’altra parte mediante quella debita e necessaria libertà, che non fa loro riguardare come illecita una parola in ogni altro riguardo buona, e francese, ed utile, e necessaria, per questo solo che non è registrata nel vocabolario, o non anche adoperata sia nelle scritture in genere, sia nel-Letteratura italiana Einaudi 582
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia le riputate e classiche. 4. Ripeterò quello che ho detto della necessità di ammettere la giudiziosa novità a fine appunto di impedire che la lingua non diventi barbara.
Perchè la novità delle cose necessitando la novità delle parole, quegli che non avrà parole proprie e riconosciute dalla sua lingua, per esprimerle; forzato dall’imperioso bisogno ricorrerà alle straniere, e appoco appoco si romperà ogni riguardo, e trascurata la purità della lingua, si cadrà del tutto nella barbarie. [789]Il che si può vedere, oltre l’esempio nostro, per quello della lingua latina, perchè questa parimente, dopo Cicerone, mancata, o per trascuraggine e ignoranza, come ho detto altrove, e per non trovarsi nè così perfetti possessori, e assoluti padroni della lingua, nè così industriosi, oculati, giudiziosi, solerti, artifiziosi coltivatori del di lei fondo, e negoziatori della sua merce e capitali, come Cicerone; o per timidità, scoraggimento, falsa e dannosa opinione che la ricchezza della lingua fosse già perfetta, o ch’ella in quanto a se non fosse più da crescere nè da muovere, nè da toccare; o per superstizione di pedanti che sbandissero le nuove voci tratte dall’uso, o dalle radici della lingua, come mancanti di autorità competente di scrittori (il che veramente accadeva, come si vede in Gellio); o anche per falsa opinione che le radici o l’uso, o insomma il capitale proprio della lingua non avessero effettivamente più nulla da dare, che facesse al caso, o convenisse alle scritture ec. ec.: mancata dico per tutte queste ragioni alla lingua latina la debita libertà, e la [790]giudiziosa novità, ebbe ricorso, per bisogno, allo straniero, e degenerò in barbaro grecismo. E come, per fuggir questo male, è necessario dar giusta e ragionata (non precipitata, e illegittima, e ingiudicata e anarchica) cittadinanza anche alle parole straniere, se sono necessarie, molto più bisogna e ricercare con ogni diligenza, e trovate accogliere con buon viso, e ricevere nel tesoro della buona e scrivibile e legittima favella, sì i derivati delle buone e già riconosciute radici, Letteratura italiana Einaudi 583
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia sì le radici che non essendo ancora riconosciute, vanno così vagando per l’uso della nazione, senza studio nè osservazione, di chi le fermi, le cerchi, le chiami, le inviti, e le introduca a far parte delle voci o modi riconosciuti, e a partecipare degli onori dovuti ai cittadini della buona lingua. 5. In ultimo osserverò che non si hanno da avere per forestiere quelle voci o frasi, che benchè tali di origine hanno acquistato già stabile e comune domicilio nell’uso quotidiano, e molto più se nelle scritture di vaglia. Queste voci o frasi sono [791]come naturalizzate, e debbono partecipare ai diritti e alle considerazioni delle sopraddette. Altrimenti siamo da capo, perchè una grandissima parte delle nuove voci e frasi di cui s’accresce l’uso quotidiano, vengono dallo straniero. E tutte le lingue ancorchè ottime, ancorchè conservate nella loro purità, ancorchè ricchissime, si accrescono col commercio degli stranieri, e per conseguenza con una moderata partecipazione delle loro lingue. Le cognizioni, le cose di qualunque genere che ci vengono dall’estero, e accrescono il numero degli oggetti che cadono nel discorso, o scritto o no, e quindi i bisogni della denominazione e della favella, portano naturalmente con se, i nomi che hanno presso quella nazione da cui vengono, e da cui le riceviamo. Come elle son nuove, così nella lingua nostra, non si trova bene spesso come esprimerle appositamente e adequatamente in nessun modo. L’inventar di pianta nuove radici nella nostra lingua, è impossibile all’individuo, e difficilissimamente e rarissimamente accade nella nazione, come si può facilmente osservare: [792]e questo in tutte le lingue, perchè ogni nuova parola deve aver qualche immediata e precisa ragione per venire in uso, e per esser tale e non altra, e per esser subito e generalmente e facilmente intesa e applicata a quel tale oggetto, e ricevuta in quella tal significazione; il che non può avvenire mediante il capriccio di un’invenzione arbitraria. Di più, c’è forse lingua che ne’ suoi principii e di mano in mano non sia stata Letteratura italiana Einaudi 584
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia composta di voci straniere e d’altre lingue? Quante ne ha la lingua nostra prese dal francese, dallo spagnuolo, dalle lingue settentrionali, e tuttavia riconosciute, e necessariamente, e legittimamente divenute da gran tempo italiane? Come in fatti si formerebbe una lingua senza ciò?
colla sola invenzione a capriccio, o mediante un trattato, un accordo fatto espressamente, e individuo per individuo, da tutta la nazione? Perchè dunque quello ch’era lecito anzi necessario ne’ principii e dopo, non sarà lecito ora nel caso della stessa necessità relativamente a questa o quella parola? Così fa tuttogiorno la lingua francese, così [793]hanno fatto e fanno necessariamente e per natura tutte le lingue antiche e moderne. E sebbene la lingua greca fosse così schiva d’ogni foresteria, anche per carattere nazionale, come si è veduto dall’aver essa mantenuta la sua purità forse più lungo tempo di tutte le altre, e anche in mezzo alla corruzione totale della sua letteratura, ec. e alla schiavitù straniera della nazione, al commercio ai viaggi antichi e moderni, alla dimora di tanti suoi nazionali in Roma ec. ec. (come Plutarco) nondimeno la lingua attica, riconosciuta più universalmente di qualunque altra dagli scrittori per lingua propriamente greca, e fra le greche elegantissima, bellissima e purissima, attesta Senofonte nel luogo citato da me p.741. ch’era un misto non solo di ogni sorta di voci greche, ma anche prese da ogni sorta di barbari, mediante il commercio marittimo degli Ateniesi, e la cognizione ed uso di oggetti stranieri, che questo commercio proccurava loro, come dice pure Senofonte. Che se la necessità, naturale come ho [794]detto, e comune a tutte le lingue, porta a ricevere per buone anche le voci straniere, entrate recentemente nell’uso quotidiano, o non ancora entratevi nemmeno (purchè siano intelligibili), tanto più quelle che colla molta dimora fra noi, si sono familiarizzate e domesticate co’
nostri orecchi, ed hanno quasi perduto l’abito, e il portamento, e la sembianza, e il costume straniero, o certo l’opi-Letteratura italiana Einaudi 585
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia nione di straniere. Anzi queste pure vanno cercate solle-citamente, ed accolte, e preferite, per sostituirle, quanto sia possibile alle intieramente estranee. Giacchè ripeto che con ogni cura bisogna arricchir la lingua del bisognevole, e farlo con buon giudizio, ed esplorate le circostanze e la necessità ec. ec. acciocchè non sia fatto senza giudizio, e senza previo esame, ma alla ventura e illegittimamente; perocchè quella lingua che non si accresce, mentre i soggetti della lingua moltiplicano, cade inevitabilmente, e a corto andare nella barbarie.
Per aver poco bisogno [795]di voci straniere, è necessario che una nazione, non solo abbia coltivatori di ogni sorta di cognizioni e nel tempo stesso diligenti, studiosi e coltivatori della lingua, ed in se stessa una vita piena di varietà, di azione, di movimento ec. ec. ma ancora ch’ella sia l’inventrice o di tutte o di quasi tutte le cognizioni, e di tutti gli oggetti della vita che cadono nella lingua, e non solo pura inventrice, ma anche perfezionatrice, perchè dove le discipline, e le cose s’inventano, si formano, si perfezionano, quivi se ne creano i vocaboli, e questi con quelle discipline e con quegli oggetti, passano agli stranieri. Così appunto è avvenuto alla Grecia, e però appunto la sua lingua si fe’ così ricca, e potè mantenersi così pura, a differenza della latina. Perchè la greca abbi-sognava di poco dagli stranieri, da’ quali poche notizie e nessuna disciplina (si può dire) ricevea (eccetto negli antichissimi tempi, cioè intanto che la lingua diveniva tale): la latina viceversa. All’Italia da principio veniva ad accader quasi lo stesso, essendo ella inventrice di tutte quasi le discipline che si conobbero in quei tempi, [796]ab-bondandone nel suo seno i coltivatori, e questi diligenti, studiosi e padroni della lingua; ed avendo anche molta vita e varietà e riputazione al di fuori, e spirito patriotico, sebben disunito, pure e forse anche più valevole, a for-nirla di molti oggetti di lingua. Ma essendosi fermata nel momento che le discipline e sono cresciute di numero, e Letteratura italiana Einaudi 586
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tutte portate a un perfezionamento rapidissimo, e vastissimo; non essendo intervenuta per nessuna parte ai travagli immensi di questi ultimi secoli, tanto nel perfezionamento delle cognizioni, quanto nel resto; di più avendo nello stesso tempo per diverse cagioni, trascurata affatto la sua lingua, in maniera che anche quegli italiani scrittori che hanno cooperato alquanto (e ben poco, e pochi) col resto dell’Europa, al progresso ultimo delle cognizioni, non hanno niente accresciuta la lingua del suo, avendo scritto non italiano, ma barbaro, ed avendo adottate di pianta le rispettive nomenclature o linguaggi che aveano trovate presso gli stranieri nello stesso genere, o in generi simili al loro (se per avventura essi ne fossero stati gl’inventori): è doloroso, ma necessario il dire, che s’ella d’ora innanzi non vuol esser la sola parte d’Europa meramente ascoltatrice, o ignorare affatto le nuove universalissime cognizioni, s’ella vuol parlare a’ contemporanei, e di cose adattate al tempo, come tutti i buoni scrittori han fatto, e come bisogna pur fare in ogni modo; le conviene ricevere [797]nella cittadinanza della lingua (bisogna pur dirlo) non poche, anzi buona quantità di parole affatto straniere. Si consoli però che tutte le nazioni, quando più quando meno hanno avuto il medesimo bisogno, quale in un tempo, quale in un altro; l’ha avuto anche la sua antica lingua, cioè la latina; l’abbiamo avuto noi stessi nei principii della nostra lingua (e se ora ci bisogna ritornare a quella necessità che si prova nei principii, nostra colpa): e non creda di diventar barbara, se saprà far quello ch’io dico con retto e maturo e accurato e posato giudizio. Anzi si dia fretta a introdurre e scegliere queste medesime voci straniere se non vuole che la lingua imbarbarisca del tutto, e senza rimedio. Perchè l’unica via di arrestare i progressi della corruttela è questa.
Proclamare lo studio profondo e vasto della lingua, e nel tempo stesso la libertà che ciascun scrittore impadroni-tosi bene della lingua e conosciutone a fondo l’indole e le Letteratura italiana Einaudi 587
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia risorse, usi il suo giudizio nell’introdurre, e impiegare e spendere la novità necessaria, anche straniera. Finchè uno scrittore qualunque (che non sia da bisavoli) [798]sarà privo di questa libertà, sarà stimato impuro se vorrà usare la necessaria novità si vedrà costretto a scegliere fra quella che si chiama e se le presenta e prescrive come purità di lingua, e tra la facoltà di trattare il suo soggetto e di esprimere i suoi pensieri (originali e propri, o no, ma solamente moderni): disperando di una purità nella quale sia non solamente difficile, (come sempre sarà ed in ogni caso) ma del tutto impossibile di esprimere i suoi pensieri, la trascurerà affatto, e diverrà (malgrado ancora la buona intenzione) colpevole per la forza del bisogno, ricorrendo a quella barbarie la quale sola gli fornirà il modo di farsi intendere e di scrivere. Ovvero al più seguirà quella miserabile separazione fra gli scrittori vuo-tissimi e nulli ma puri, e fra gli scrittori di cose ma barbari; quando nessun de’ due può mai sperare l’immortalità, ma molto meno i primi, senza riunire le due qualità e i due pregi che consistono nelle parole e nelle cose. Disordini però tutti già tanto inoltrati in Italia, e bisognosi di sì lunga opera, e di tanto ingegno e [799]giudizio, e di tanta difficoltà a ripararli, che io con dolore predico che non se ne verrà certo a capo in questa generazione, e chi sa quando. (Giacchè per rimetter davvero in piedi la lingua italiana, bisognerebbe prima in somma rimettere in piedi l’Italia, e gl’italiani, e rifare le teste e gl’ingegni loro, come lo stesso bisognerebbe per la letteratura, e per tutti gli altri pregi e parti di una buona e brava e valorosa nazione; che con questi ingegni, con queste razze di giudizi e di critica, faremo altro che ristaurare la lingua.) Perchè se si presume di averlo conseguito collo sbandire e interdire e precludere affatto la novità delle cose e del pensiero, lasciando stare che in fatti non si è conseguito un fico, perchè eccetto pochissimi i più puri e vuoti scrivono barbarissimamente, dico, non ostante l’amore ch’io por-Letteratura italiana Einaudi 588
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia to a questa purità, e lo stimarla necessarissima, che il rimedio è peggio del male. Vero è che da gran tempo gli scrittori italiani puri ed impuri si sono egualmente di-spensati dal pensare, e anche dal [800]dire, talmente che se alcuno de’ nostri scritti ci fosse pericolo che potesse passare di là da’ monti o dal mare, gli stranieri si maraviglierebbero sodamente come, in questo secolo, in una nazione posta nel mezzo d’Europa si possa scrivere in modo, che l’aver letto, si può dire, qualunque de’ libri italiani che ora vengono in luce, sia lo stesso nè più nè meno che non aver letto nulla. Del resto il punto sta che la novità ch’io dico (e parlo in particolare della straniera) si sappia convenevolmente introdurre. Perchè tutte le lingue antiche e moderne sono composte di elementi stranieri, e pur tutte hanno avuto il tempo della loro purità e naturalezza; e potrà riaverlo anche l’italiana, non ostante l’aggiunta de’ molti nuovi e necessari elementi stranieri, purchè si sappia fare, e non si trascuri, anzi si coltivi profondamente, e sempre più il proprio terreno.
(16. Marzo 1820.)
Alla p.785. Oltre di queste due sorte di novità ce ne sono altre simili delle quali intendo pur di parlare. Cioè una voce italianissima e di buona lega può esser nuova per questo [801]solo, che non si trova nel vocabolario trovandosi ne’ testi; o non trovarsi nè in questi nè in quello, ma bensì ne’ buoni libri di lingua non citati (che sono infiniti, massime de’ buoni tempi ed hanno in diritto la stessissima autorità che i citati) o finalmente trovarsi solo nelle scritture mediocri o pessime in lingua, ma pure aver tutte le condizioni richieste per esser legittima. E di queste parole o frasi ce ne ha moltissime. Massimamente poi se si trovino nelle scritture non buone de’ buoni tempi, dove a ogni modo la natura e l’indole vera e prima della lingua italiana la conosceva e la sentiva ciascun italiano molto meglio che oggidì, e l’Italia aveva la mente e le orec-Letteratura italiana Einaudi 589
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia chie molto meno inclinate e meno avvezze alle parole ai modi al genio straniero delle lingue.
(16. Marzo 1821.)
Alla p.745. Difficilmente si vedrà che una qualunque nazione una qualunque letteratura abbia avuto in due diversi tempi (eccetto se il tempo e la nazione è del tutto rinnuovata, come l’italiana rispetto alla latina) due scrittori eccellenti e sommi in [802]uno stesso genere. Da che quel genere ne ha avuto uno perfetto, e riguardato come perpetuo modello, sebbene quel genere possa avere diverse specie, gl’ingegni grandi e superiori, o sdegnando di non poter essere se non uguali a quello, e di dovere avere un compagno, o per la naturale modestia e diffidenza di chi conosce bene e sente la difficoltà delle imprese, temendo di restare inferiori in un assunto, di cui già è manifesta, sperimentata, conseguita, la perfezione, e posta negli occhi di tutti e nei propri loro; si sono sempre rivolti ad altro, e solamente i piccoli ingegni de’ quali è propria la confidenza e temerità sono entrati nell’arringo, spronati dalle lodi di quell’eccellente, e dalla gola di quella celebrità, quasi fosse facile a conseguire, e misurando l’impresa non da se stessa e dalla sua difficoltà, ma dal loro desiderio di riuscirci, e dal premio che era proposto al buon successo. Un’altra ragione, e fortissima è, che quando il genere ha già avuto uno sommo, il genere non è più nuovo; non vi si può più essere originale, senza che, è impossibile esser sommo. O se vi si potrebbe pur essere originale, v’è quella eterna difficoltà, che anche gl’ingegni sommi, vedendo una strada già fatta, in un modo o in un altro s’imbattono in quella; o confondono il genere con quella tale strada, quasi fosse l’unica a convenirgli, benchè mille ve ne siano da poter fare, e forse migliori assai. La stessa Grecia in tanta copia di scrittori e poeti d’ogni genere, [803]e di buoni secoli letterati dopo Omero, e, quel ch’è forse più, in tanta distanza da lui, Letteratura italiana Einaudi 590
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia non ebbe mai più nessun epico, se non dappoco, come Apollonio Rodio. E lo stesso Omero (se è vero che l’Odissea è posteriore all’Iliade, come dice Longino) non aggiunse niente alla sua fama pubblicando l’Odissea. Sebbene, chiunque si fosse quest’Omero, io congetturo e credo che l’Iliade e l’Odissea non sieno di uno stesso autore, ma questa imitata dallo stile, dalla lingua, dal fare, e dall’Argomento di quella, con quel languore, e sovente noia che ognuno può vedere. La qual congettura io rimetto a quei critici che sono profondamente versati nelle antichità omeriche, e di quei tempi antichissimi, e conoscono intimamente i due poemi: purchè oltre a questo, siano anche persone di buon gusto e giudizio. Taccio de’ latini e degl’infelici loro tentativi di Epopea dopo Virgilio, così prestante ed eminente in essa fra loro, come Cicerone nell’eloquenza. Sebbene il Tasso non si può veramente nel [804]suo genere dire perfetto, neppur sommo come Omero (che sommo fu egli, ma non il suo poema, nè egli quivi), contuttociò l’Italia dopo lui non ebbe poema epico degno di memoria, sebbene molti o piccoli o mediocri ingegni, tentassero la stessa carriera. Anzi quantunque vi sia tanta differenza fra il genere del poema dell’Ariosto e quello del Tasso, pure sembrò strano ch’egli si accinges-se a quel travaglio dopo l’Ariosto, e pubblicata la Gerusalemme, i suoi nemici non mancarono di paragonarla all’Orlando, di posporla, di accusare il Tasso di temerità ec. Dopo Molière la Francia non ha avuto grandi comici, nè l’Italia dopo Goldoni. Tutto questo, sebbene apparisca forse principalmente nella letteratura, tuttavia si può applicare a molti altri rami del sapere, o di altri pregi umani. Si possono però citare in contrario il Racine dopo il Corneille, e il Voltaire dopo lui, e qualche tragico inglese dopo Shakespeare, ma nessuno però di quella eccellenza e fama. La quale per cadere nel mio discorso, dev’essere assolutamente prestante, sorpassante e somma sì nel modello, come nel successore o successori.
Letteratura italiana Einaudi 591
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia (17. Marzo 1821.). V. p.810. capoverso 1.
[805]Alla p.762. Per poco che si osservi facilmente si scuopre che tutte le lingue colte, da principio hanno avuto e adoperato estesamente la facoltà dei composti, come poi tutte, cred’io, (eccetto la greca che la conservò fino alla fine) l’hanno quale in maggiore quale in minor parte perduta. Tutte però hanno conservato o tutti, o maggiore o minor parte dei loro primi composti, divenuti bene spesso così familiari, che han preso come apparenza e opinione di radici, e forse così hanno servito di materia essi stessi a nuove composizioni. La lingua Spagnuola ha composti, e derivati da’ composti (come pure le altre lingue, chè anche questi derivati sono un bellissimo e fecondissimo genere di parole): ed alcuni bellissimi e utilissimi e felicissimi altrettanto che arditi, come tamaño, demàs, e da questo ademàs, demasìa, demasiado, demasiadamente, sinrazon, sinjusticia, sinsabor, pordiosear cioè limosinare, e pordioseria mendicità, ec. che sono di grande uso e servigio. Tutte le lingue colte hanno ancora avuto delle particelle destinate espressamente alla composizione e che non si trovano fuor de’ composti. Così la greca, così la latina, così la francese, la spagnuola ( des ec. ec.), l’inglese
[806]( mis ec. ec.) ec. Ed è tanta la necessità de’ composti che senza questi nessuna lingua sarebbe mai pervenuta a quello che si chiama o ricchezza, o coltura, o anche semplice potenza di discorrere di molte cose, o di alcune cose particolarmente e specificatamente. Perchè le radici converrebbe che fossero infinite per esprimere e tutte le cose occorrenti, e tutte le piccole gradazioni, e differenze e nuances e accidenti di una cosa, per ciascuna delle quali gradazioncelle si richiederebbe una diversa radice, altrimenti il discorso non sarà mai nè espressivo nè proprio, e neanche chiaro, anzi per lo più equivoco, improprio, dubbio, oscuro, generico, indeterminato. Così appunto avviene alla lingua ebraica (la quale non par che si possa Letteratura italiana Einaudi 592
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia mettere fra le colte) perchè con bastanti radici e derivati, è priva di composti: o quasi priva: non avendo che fare i suoi suffissi ed affissi colla composizione, ma essendo come casi o inflessioni o accidenti o affezioni (p�ϑh) de’
nomi e de’ verbi, o segnacasi ec. e non variando punto il significato essenziale, nè la sostanza della parola; come presso noi batterlo, uccidermi, dargli, andarvi, uscirne ec.
che non si chiamano, nè sono composti nel nostro senso.
Dal che segue ch’ella ed è soggetta alle dette difficoltà, e disordini; e resta poverissima; ed io dico che tale ci parrebbe eziandio quando anche in quella lingua esistessero altri libri, oltre la Bibbia, se però questi libri mancassero parimente de’ composti. Ci vorrebbero, ho detto, infinite radici. Ora [807]una più che tanta moltitudine di radici, è difficilissima per natura, giacchè un composto, subito s’intende, ma perchè una radice, sia subito e comunissimamente intesa (com’è necessario), e passi nell’uso universale, ci vuol ben altro. Perciò la invenzione delle radici in qualunque società d’uomini parlanti, o primitiva o no, è sempre naturalmente scarsa, e povera quella lingua che non può esprimersi senza radici, perch’ella non si esprimerà mai se non indefinitamente, ed ogni parola (come accade nell’Ebraico) avrà una quantità di significati. V. se vuoi, Soave, append. al Capo 1. Lib.3.
del Compendio di Locke, Venezia 37a ediz. 1794. t.2. p.12.
fine-13. e Scelta di opusc. interess. Milano 1775. volume 4. p.54. e questi pensieri p.1070. capoverso ult. E se, volete vedere facilmente, perchè una lingua appena è cominciata a divenire un poco colta, e ad aver bisogno di esprimere molte cose, e queste specificatamente e chiaramente e distintamente e le loro differenze ec. perchè, dico, abbia subito avuto ricorso e trovati i composti, osservate.
Che sarebbe l’aritmetica se ogni numero si dovesse significare con cifra diversa, e non colla diversa composizione di pochi elementi? Che sarebbe la scrittura se ogni parola dovesse esprimersi colla sua cifra o figura particolare, Letteratura italiana Einaudi 593
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia come dicono della scrittura Cinese? La stessa [808]facilità e semplicità di metodo, e nel tempo stesso fecondità anzi infinità di risultati e combinazioni, che deriva dall’uso degli elementi nella scrittura e nell’aritmetica, anzi in tutte le operazioni della vita umana, anzi pure della natura (giacchè, secondo i chimici tutto il mondo e tutti i diversissimi corpi si compongono di un certo tal numero di elementi diversamente combinati, e noi medesimi siamo così composti e fatti anche nell’ordine morale come ho dimostrato in molti pensieri sulla semplicità del sistema dell’uomo); deriva anche dall’uso degli elementi nella lingua. Al che si ponga mente per giudicarne quanto sia necessario anche oggidì ritenere più che si possa, e nella nostra e in qualunque lingua, la facoltà de’ nuovi composti, atteso l’immenso numero delle nuove cose bisognose di denominazione (massime nella lingua nostra); numero che ogni giorno necessariamente e naturalmente si accresce: e d’altra parte l’impossibilità della troppa moltiplicità delle radici, sì al fatto, o all’invenzione, sì all’uso, intelligenza, e diffusione, sì anche alle facoltà della memoria e dell’intelletto umano, ed alla chiarezza delle idee che debbono risultare dalla parola, chiarezza quasi incompatibile colle nuove radici (v. p.951.), e compatibilissima coi nuovi composti; oltre alla mancanza di gusto che deriva dalle nuove radici, le quali sono sempre termini, come ho spiegato altrove: non così i composti derivati dalla propria lingua. Lo dico senza dubitare. La lingua più ricca sarà sempre quella che avrà conservata [809]più lungamente, e più largamente adoperata la facoltà dei composti, e oggidì quella che la conserverà maggiore, e maggiormente l’adoprerà. L’esempio della lingua greca, ricchissima fra quante furono sono e saranno, anzi sempre e anche oggi inesauribile, conferma abbondantemente col fatto questa mia sentenza, già sì evidente in ragione. E
d’altra parte la mia teoria serve a spiegare il secreto e il fenomeno di una tal lingua sempre uguale alla copia qua-Letteratura italiana Einaudi 594
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia lunque delle cose. Se dunque vogliamo che una lingua sia veramente onnipotente quanto alle parole, conserviamo-le o rendiamole, e se è possibile, accresciamole la facoltà de’ nuovi composti e derivati, cioè l’uso degli elementi ch’essa ha, e il modo, la facoltà di combinarli quanto più diversamente, e moltiplicemente si possa. Questo, e non la moltiplicità degli elementi forma la vera e sostanziale ricchezza copia e onnipotenza delle lingue (quanto alle parole) come la forma di tutte le altre cose umane e naturali. Generalizziamo un [810]poco le nostre idee, e facilmente ci persuaderemo di questo ch’io dico, e come, per natura universale delle cose umane, la detta facoltà sia non solo la principale e fondamentale, ma necessaria e indispensabile sorgente della ricchezza copia e potenza di qualunque lingua, e della proprietà, definitezza, e chiarezza dell’espressione: dico quanto alle parole.
(18. Marzo 1821.)
Alla p.804. Bisogna osservare che quanto agli autori drammatici la cosa va diversamente, sì perchè infinite e diversissime sono le circostanze che decidono de’ successi del teatro, massime in certe nazioni, e secondo la differenza di queste; sì massimamente perchè il teatro di qualunque nazione benchè abbia già il suo sommo drammatico, vuol sempre novità, anzi non domanda tanto la perfezione quanto la novità degli scritti; questa richiede sopra ogni altra cosa, a questa fa bene spesso più plauso che ai capi d’opera dei sommi autori già conosciuti. Così che ad un drammatico resta sempre [811]il suo posto da guadagnarsi, la sua parte di lode da proccurarsi, il suo eccitamento all’impresa, e il suo premio proposto al buon successo, e tutte queste cose son tali, che anche un autore di grande ingegno ne può essere soddisfatto e stimolato: oltre ai piccoli incidenti di società che eccitano a composizioni teatrali, oltre coloro che per mestiere ed interesse ricercano e stimolano scrittori di tal genere, oltre gl’inte-Letteratura italiana Einaudi 595
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ressi o i bisogni degli autori, gl’impegni, il desiderio di certe lodi di certi successi diremo così cittadineschi, o di partito, o di conversazione, e di amici ec. oltre massimamente la varietà successiva de’ costumi e delle usanze non meno teatrali e appartenenti alle rappresentazione quanto di quelle che occorrono nella vita e nelle cose da rap-presentarsi. Così che allo scrittore drammatico, resta sempre un campo sufficiente. E la gran fama di Sofocle non impedì che gli succedesse un Euripide. La differenza tra questo e gli altri generi di componimento, consiste che gli effetti, l’uso, la destinazione di questo è come viva,
[812]e sempre viva, e cammina, laddove degli altri è come morta ed immobile. Non sarebbe così se esistessero come anticamente quelle radunanze del popolo, dove Erodoto leggeva la sua storia, e se le poesie fossero scritte come i poemi d’Omero per esser cantati alla nazione, e se i tempi de’ Tirtei e de’ Bardi non fossero svaniti. Perchè tali componimenti non essendo più di uso, ci contentiamo di quello che in quel tal genere è già perfetto, e appena desideriamo altro nuovo modello di perfezione. Altrimenti accade di quello che è sempre di uso vivo, e se tale avesse continuato ad essere l’eloquenza latina dopo Cicerone ella avrebbe forse avuto nuovi sommi oratori.
(18. Marzo 1821)
In quelle parole che incominciano per s impura, la lingua par che abbia bisogno di un appoggio avanti la s, ossia avanti la parola. La lingua francese e la spagnuola amano questo appoggio nelle così fatte parole che hanno ricevute da’ latini o da chicchessia, ovvero formate da loro.
E la spagnuola principalmente che non ha se non pochissime parole cominciate da s impura. [813](Il Franciosini ne riporta solo 16, e tutte cominciate da sc con dietro varie vocali). Ora dovendo dare alla lingua questo appoggio di una vocale non si è scelta altra che la e. Così da sperare gli spagnuoli hanno fatto esperar, i francesi espérer, Letteratura italiana Einaudi 596
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia da species gli spagnuoli especie, i francesi espèce, da spiritus gli spagnuoli espiritu i francesi esprit, da studium gli spagnuoli estudio i francesi estude che poi tolta via la s hanno fatto étude, da scribere gli spagnuoli escrivir, gli antichi francesi escrire, da stomachus estomago estomac ec. ec. Tanto è vero che dove la lingua ha bisogno di un appoggio o gradisce un appoggio per pronunziare una consonante, e riposarla nella vocale, senza che questa sia determinata, la lingua sceglie naturalmente e cade e si riposa nella e. E così anche, come si vede per la detta osservazione, quando questa vocale le ha da servire come di gradino alla pronunzia di consonanti. L’Italia quanto alla s impura non è stata più delicata dei latini e de’ latini.
[814]Vero è però che quando la s impura, sarebbe preceduta da consonante, l’Italia per usanza non naturale, ma gramaticale, artifiziale, acquisita, e particolare sua, v’in-terpone la i non la e ( in ispirito ec.). Credo però che il contrario facessero scrivendo i primi italiani. Del resto riferite alla suddetta osservazione il nostro dire ef el ec. e non if il.
(18. Marzo 1821.)
La nostra condizione oggidì è peggiore di quella de’
bruti anche per questa parte. Nessun bruto desidera certamente la fine della sua vita, nessuno per infelice che possa essere, o pensa a torsi dalla infelicità colla morte, o avrebbe il coraggio di proccurarsela. La natura che in loro conserva tutta la sua primitiva forza, li tiene ben lontani da tutto ciò. Ma se qualcuno di essi potesse desiderar mai di morire, nessuna cosa gl’impedirebbe questo desiderio.
Noi siamo del tutto alienati dalla natura, e quindi infelicissimi. Noi desideriamo bene spesso la morte, e ardentemente, e come unico evidente e calcolato rimedio delle nostre infelicità, in maniera che noi la desideriamo spesso, e con piena ragione, e siamo costretti a desiderarla
[815]e considerarla come il sommo nostro bene. Ora stan-Letteratura italiana Einaudi 597
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia do così la cosa ed essendo noi ridotti a questo punto, e non per errore, ma per forza di verità, qual maggior miseria che il trovarsi impediti di morire, e di conseguire quel bene che siccome è sommo, così d’altra parte sarebbe intieramente in nostra mano; impediti, dico, o dalla Religione, o dall’inespugnabile, invincibile, inesorabile, inevitabile incertezza della nostra origine, destino, ultimo fine, e di quello che ci possa attendere dopo la morte? Io so bene che la natura ripugna con tutte le sue forze al suicidio, so che questo rompe tutte le di lei leggi più gravemente che qualunque altra colpa umana; ma da che la natura è del tutto alterata, da che la nostra vita ha cessato di esser naturale, da che la felicità che la natura ci avea destinata è fuggita per sempre, e noi siam fatti incu-rabilmente infelici, da che quel desiderio della morte, che non dovevamo mai, secondo natura, neppur concepire, in dispetto della natura, e per forza di ragione, s’è anzi impossessato di noi; [816]perchè questa stessa ragione c’impedisce di soddisfarlo, e di riparare nell’unico modo possibile ai danni ch’ella stessa e sola ci ha fatti? Se il nostro stato è cambiato, se le leggi stabilite dalla natura non hanno più forza su di noi, perchè non seguendole in nessuna di quelle cose dov’elle ci avrebbero giovato e felicitato, dobbiamo seguirle in quella dove oggidì ci nocciono, e sommamente? Perchè dopo che la ragione ha combattuta e sconfitta la natura per farci infelici, stringe poi seco alleanza, per porre il colmo all’infelicità nostra, coll’impedirci di condurla a quel fine che sarebbe in nostra mano? Perchè la ragione va d’accordo colla natura in questo solo, che forma l’estremo delle nostre disgrazie?
La ripugnanza naturale alla morte è distrutta negli estremamente infelici, quasi del tutto. Perchè dunque debbono astenersi dal morire per ubbidienza alla natura? Il fatto è questo. Se la Religione non è vera, s’ella non è se non un’idea concepita dalla [817]nostra misera ragione, quest’idea è la più barbara cosa che possa esser nata nella Letteratura italiana Einaudi 598
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia mente dell’uomo: è il parto mostruoso della ragione il più spietato; è il massimo dei danni di questa nostra capitale nemica, dico la ragione, la quale avendo scancellato dalla mente dall’immaginativa e dal cuor nostro tutte le illusioni che ci avrebbero fatti e ci faceano beati; questa sola ne conserva, questa sola non potrà mai cancellare se non con un intiero dubbio (che è tutt’uno, e ragionevolmente deve produrre in tutta la vita umana gli stessi effetti nè più nè meno che la certezza), questa sola che mette il colmo alla disperata disperazione dell’infelice. La nostra sventura il nostro fato ci fa miseri, ma non ci toglie, anzi ci lascia nelle mani il finir la miseria nostra quando ci piaccia. L’idea della religione ce lo vieta, e ce lo vieta inesorabilmente, e irrimediabilmente, perchè nata una volta quest’idea nella mente nostra, come [818]accertarsi che sia falsa? e anche nel menomo dubbio come arrischiare l’infinito contro il finito? Non è mai paragonabile la sproporzione che è tra il dubbio e il certo con quella che è tra l’infinito e il finito, ancorchè questo certo, e quello quanto si voglia dubbio. Così che siccome l’infelicità per quanto sia grave, nondimeno si misura principalmente dalla durata, essendo sempre piccola cosa quella che può durare, volendo, un momento solo, e di più servendo infinitamente ad alleggerire qualunque male il saper di certo ch’è in nostra mano il sottrarcene ogni volta che ci piaccia; così possiamo dire che oggi in ultima analisi la cagione della infelicità dell’uomo misero, ma non istupido nè codardo, è l’idea della Religione, e che questa, se non è vera, è finalmente il più gran male dell’uomo, e il sommo danno che gli abbiano fatto le sue disgraziate ricerche e ragionamenti e meditazione; o i suoi pregiudizi.
(19. Marzo 1821.)
[819]Che cosa è barbarie in una lingua? Forse quello che si oppone all’uso corrente di essa? Dunque una lingua non imbarbarisce mai, perchè ogni volta ch’ella Letteratura italiana Einaudi 599
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia imbarbarisse, quella barbarie non potendo essere in altro che nell’uso corrente (altrimenti sarà barbarie parziale di questo o di quello, e non della lingua), non sarebbe barbarie essendo conforme all’uso. Barbaro nella lingua non è dunque altro se non quello che si oppone all’indole sua primitiva: e chiunque ponga mente, converrà in questo: giacchè in fatti una parola, uno scrittore barbaro ordinarissimamente sono conformi all’uso di quel tempo, lo seguono, ne derivano, e così accade oggidì nella lingua italiana. Di più, nessun secolo sarebbe mai, o sarebbe [820]mai stato barbaro per nessuna lingua. Al più si potrebbe dire se quella lingua di quel tal secolo fosse più o meno bella, ricca, buona, ec. confrontando fra loro i secoli di una stessa lingua, come si confrontano le diverse lingue fra loro, delle quali se questa o quella si giudica men pregevole, non perciò si giudica barbara. Anzi si chiamerebbe barbara se contro l’indole sua, volesse adottare e accomodarsi all’andamento di una lingua migliore più bella ec. come se la lingua inglese volesse adottare le forme della greca ec. Insomma barbarie in qualunque lingua non è nè la mancanza di qualsivoglia pregio, nè quello che contraddice all’uso corrente, ma quello solo che contraddice all’indole sua primitiva, per conservar la quale ella deve conservarsi anche meno pregevole, se tale è la sua natura, perchè i pregi essendo relativi, sarebbe vizio e bruttezza in lei, quello ch’è virtù e bellezza in un’altra, se si oppone alla sua natura in cui consiste la perfezion vera [821](benchè relativa) non solo di una llngua, ma di ciascuna cosa che sia.
Da queste osservazioni particolari; facili, chiare, e di cui tutti convengono, salite dunque ad una più generale, ma tanto vera quanto le precedenti, e che non si può negare se queste si riconoscono, e concedono. Che cosa è barbarie nell’uomo? Quello che si oppone all’uso corrente? Dunque nessun popolo, nessun secolo barbaro.
Barbarie è quel solo che si oppone alla natura primitiva Letteratura italiana Einaudi 600
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia dell’uomo. Ora domando io se i nostri costumi, istituti, opinioni ec. presenti sarebbero stati compatibili colla nostra prima natura. Come potevano esserlo, quando anzi la natura ci ha posti evidentemente i possibili ostacoli?
Che non siano compatibili colla nostra primitiva natura, è così manifesto, anche per la osservazione sì di ciascuno di noi, sì de’ fanciulli, selvaggi, ignoranti ec. ec. che non ha bisogno di dimostrazione. Dunque se non sono compatibili, è quanto dire che le ripugnano e contrastano.
Dunque? dunque son barbari. [822]Che sieno conformi all’uso e all’abitudine, non val più di quello che vaglia la stessa circostanza a scusare un secolo depravato nella lingua. Che si stimino buoni assolutamente, e più buoni de’
naturali e primitivi, primieramente non val più di quello che vaglia nella lingua, come ho detto; poi, siccome nella lingua, questa opinione è erronea, e deriva dall’inganno parte dell’abitudine, parte della immaginaria perfezione assoluta, là dove è sostanzialmente imperfezione e vizio tutto ciò che si oppone all’indole e natura particolare e primitiva di una specie, quando anche questo medesimo sia virtù e perfezione in altra specie.
(20. Marzo 1821.)
Non solamente ciascuna specie di bruti stima o esplici-tamente e distintamente, o certo implicitamente e confusamente, di esser la prima e più perfetta nella natura, e nell’ordine delle cose, e che tutto sia fatto per lei, ma anche nello stesso modo ciascun individuo. E così accade tra gli uomini, che implicitamente [823]e naturalmente ciascuno si persuade la stessa cosa.
Parimente non v’è popolo sì barbaro che non si creda implicitamente migliore, più perfetto, superiore a qualunque altro, e non si stimi il modello delle nazioni.
Parimente non v’è stato secolo sì guasto e depravato, che non si sia creduto nel colmo della civiltà, della perfezione sociale, l’esemplare degli altri secoli, e massimamen-Letteratura italiana Einaudi 601
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia te superiore per ogni verso a tutti i secoli passati, e nell’ultimo punto dello spazio percorso fino allora dallo spirito umano.
Con questa differenza però, che sebbene tutto è relativo in natura, è relativo peraltro alle specie, così che le idee che una specie ha della perfezione ec. appresso a poco sono comuni agl’individui tutti di essa (massime se sono le idee naturali alla specie). Quindi è naturale e conseguente che un individuo, sebben portato naturalmente a credersi superiore al resto della sua specie, e tutto il mondo destinato all’uso [824]e vantaggio suo, contuttociò con poco di raziocinio facilmente possa riconoscere la superiorità di altri individui della stessa specie, e credere il mondo avere per fine la sua specie intera, e questa essere tutta la più perfetta delle cose esistenti, e l’apice della natura. Quindi parimente un popolo, un secolo (ho parlato e parlo degli uomini, e si può applicare proporzionatamente agli altri viventi) o qualche individuo in essi, possono ben riconoscere la superiorità di altri popoli e secoli, perchè le idee relative del bello e del buono sono però, almeno in gran parte, generali in ciascuna specie, quando non derivino da pregiudizi, da circostanze particolari, o da alterazione qualunque di questa o di quella parte della specie, com’è avvenuto fra gli uomini, essendo alterata la loro natura, e diversamente alterata, e quindi anche alterate le idee naturali, e diversificate le opinioni ec.
Questo, dico, accade facilmente all’individuo umano, rispettivamente alla sua propria specie. Ma rispetto ad un’altra specie non [825]così. 1. Perchè le idee che son vere relativamente alla specie nostra, noi (e così ciascuna specie di viventi) le crediamo (e ciò per natura) vere assolutamente: quello ch’è buono e perfetto per noi, lo crediamo buono e perfetto assolutamente; e quindi misurando le altre specie sulla nostra misura, le stimiamo tutte inferiori d’assai; nè possiamo mai credere che in una Letteratura italiana Einaudi 602
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia specie diversa dalla nostra ci sia tanta bontà e perfezione quanta in essa nostra, perchè la perfezione essendo relativa e particolare, noi la crediamo assoluta, e norma universale. 2. Perchè non ci possiamo mai porre nei piedi e nella mente di un’altra specie (come nessun bruto), per concepire le idee ch’essa ha del buono, del bello, del perfetto, e misurare quella specie secondo queste idee, le quali sono diversissime dalle nostre, e non entrano nella capacità della nostra natura, e nel genere della nostra facoltà nè intellettiva, nè immaginativa, nè ragionatrice, nè concettiva [826]ec. ec.
(20. Marzo 1821.)
An censes (ut de me ipso aliquid more senum glorier) me tantos labores diurnos nocturnosque domi militiaeque suscepturum fuisse, si iisdem finibus gloriam meam, quibus vitam, essem terminaturus? nonne melius multo fuisset, otiosam aetatem, et quietam, sine ullo labore et contentione traducere? SED, NESCIO QUOMODO, ANIMUS
ERIGENS SE, POSTERITATEM SEMPER ITA
PROSPICIEBAT, QUASI, CUM EXCESSISSET E
VITA, TUM DENIQUE VICTURUS ESSET; quod
quidem ni ita se haberet, ut animi immortales essent, haud optimi cuiusque animus maxime ad immortalitatem gloriae niteretar. Catone maggiore appresso Cic. Cato maior seu de Senect. c. ult. 23. Tanto è vero che il piacere è sempre futuro, e non mai presente, come ho detto in altri pensieri. Con la quale osservazione io spiego questo che Cicerone dice, e quello che vediamo negli uomini di certa fruttuosa ambizione; dico quella speranza riposta
[827]nella posterità, quel riguardare, quel proporsi per fine delle azioni dei desideri delle speranze nostre la lode ec. di coloro che verranno dopo di noi. L’uomo da principio desidera il piacer della gloria nella sua vita, cioè presso a’ contemporanei. Ottenutala, anche interissima e somma, sperimentato che questo che si credeva piacere, Letteratura italiana Einaudi 603
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia non solo è inferiore alla speranza (quando anche la gloria in effetto fosse stata maggiore della speranza), ma non piacere, e trovatosi non solo non soddisfatto, ma come non avendo ottenuto nulla, e come se il suo fine restasse ancora da conseguire (cioè il piacere, infatti non ottenuto, perchè non è mai se non futuro, non mai presente); allora l’animo suo erigens se quasi fuori di questa vita, posteritatem respicit, come che dopo morte tum denique victurus sit, cioè debba conseguire il fine, il complemen-to essenziale della vita, che è la felicità, vale a dire il piacere, non conseguito ancora, e già troppo evidentemente non conseguibile da lui in questa vita; allora la speranza del piacere, non avendo [828]più luogo dove posarsi, nè oggetto al quale indirizzarsi dentro a’ confini di questa vita, passa finalmente al di là, e si ferma ne’ posteri, sperando l’uomo da loro e dopo morte quel piacere, che vede sempre fuggire, sempre ritrarsi, sempre impossibile e disperato di conseguire, di afferrare in questa vita. E si riduce l’uomo a questo estremo, perchè come il fine della vita è la felicità, e questa qui non si può conseguire, ma d’altra parte una cosa non può mancare di tendere al suo fine necessario, e mancherebbe se mancasse del tutto la speranza, così questa non trovando più dimora in questa vita arriva finalmente a collocarsi al di là di lei, colla illusione della posterità. Illusione appunto più comune negli uomini grandi, perchè laddove gli altri, conoscendo meno le cose, o ragionando meno, ed essendo meno conseguenti, dopo infiniti parziali disinganni e delusioni, continuano pure a sperare dentro i limiti della lor vita; essi al contrario ben persuasi, e ben presto, cioè con poche esperienze, disperati dell’attuale e vero piacere in questa vita, e d’altronde [829]bisognosi di scopo, e quindi della speranza di conseguirlo, e spronati pure dall’animo alle grandi azioni, ripongono il loro scopo, e speranza, al di là dell’esistenza, e si sostentano con questa ultima illusione.
Quantunque non solo dopo morte o non saremo capaci Letteratura italiana Einaudi 604
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia di felicità nessuna, o di tutt’altra da quella che possa derivare dai posteri; ma quando anche fossimo allora tanto capaci di godere della fama nostra appo i futuri, quanto siamo ora di quella appo i contemporanei, quella fama (durando le stesse condizioni dell’animo nostro e del piacere) ci riuscirebbe, siccome questa presente, del tutto insipida, e vuota, e incapace di soddisfare, e proccurare un piacere altro che futuro, dico un piacere attuale e presente. (20. Marzo 1821.). Applicate questi pensieri alla speranza di felicità futura in un altro mondo.
La ingiuria eccita in tutti gli animi il desiderio di vederla punita, ma negli alti il desiderio di punirla.
(20. Marzo 1821.)
Desiderar la vita, in qualunque caso, e in tutta l’estensione di questo desiderio, [830]non è insomma altro che desiderare l’infelicità; desiderar di vivere è quanto desiderare di essere infelice.
(20. Marzo 1821.)
Non solamente è ridicolo che si pretenda la perfettibilità dell’uomo, in quanto alla mente, o a quello che vi ha riguardo, come ho detto in altro pensiero, ma anche in quanto ai comodi corporali6 . Paiono oggi così necessari quelli che sono in uso, che si crede quasi impossibile la vita umana, senza di questi, o certo molto più misera, e si stimano i ritrovamenti di tali comodità, tanti passi verso la perfezione e la felicità della nostra specie, massime di certe comodità che sebbene lontanissime dalla natura, contuttociò si stimano essenziali e indispensabili all’uo-mo. Ora io non domanderò a costoro come abbian fatto gli uomini a viver tanto tempo privi di cose indispensabili; come facciano oggi tanti popoli di selvaggi; parecchi ancora de’ nostrali e sotto a’ nostri occhi, tuttogiorno.
(anzi ancora quegli stessi più che mai assuefatti a tali cose Letteratura italiana Einaudi 605
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia pretese indispensabili, quando per mille diversità di accidenti, si trovano in circostanza di mancarne, alle volte anche volontariamente.) I quali tutti, in luogo di accorgersi della loro infelicità, hanno anzi creduto [831]e credono e si accorgono molto meno di essere infelici, di quello che noi facciamo a riguardo nostro: e molto meno lo erano e lo sono, sì per questa credenza, come anche indipendentemente. Non chiamerò in mio favore la setta ci-nica, e l’esempio e l’istituto loro, diretto a mostrare col fatto, di quanto poco, e di quante poche invenzioni e sottigliezze abbisogni la vita naturale dell’uomo. Non ripeterò che, siccome l’abitudine è una seconda natura, così noi crediamo primitivo quel bisogno che deriva dalla nostra corruzione. E che molti anzi infiniti bisogni nostri sono oggi reali, non solamente per l’assuefazione, la quale, com’è noto, dà o toglie la capacità di questo o di quello, e di astenersi da questo o da quello; ma anche senza essa per lo indebolimento ed alterazione formale delle generazioni umane, divenute oggidì bisognose di certi aiuti, soggette a certi inconvenienti, e quindi necessitose di certi rimedi, che non avevano alcun luogo nella umanità primitiva. Così la medicina, così l’uso di certi cibi, di vesti diversificate secondo le stagioni, di [832]preservati-vi contra il caldo, il freddo ec. di chirurgia ec. ec. Lascerò tutte queste cose e perchè sono state dette da altri, e perchè potrebbero deridermi come partigiano dell’uomo a quattro gambe. Solamente ripeterò quel ragionamento che ho usato nella materia della perfettibilità mentale. Dunque se tutto questo era necessario o conveniente alla perfezione e felicità dell’uomo, come mai la natura tanto accurata e finita maestra in tutto, glielo ha non solo lasciato ignorare, ma nascosto, quanto era in lei? Diranno che la natura avendo dato a un vivente le facoltà necessarie, ha lasciato a lui che con queste facoltà ritrovasse e si procac-ciasse il bisognevole, e che all’uomo ha lasciato più che al bruto, perchè a lui diede maggiori facoltà, e così propor-Letteratura italiana Einaudi 606
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia zionatamente ha fatto secondo le maggiori o minori facoltà negli altri bruti. Altro è questo, altro è mettere una specie di viventi in una infinita distanza da quello che si suppone necessario al suo ben essere, e alla perfezione della sua esistenza. Altro è permettere anzi volere e disporre che infinito [833]numero, che moltissime generazioni di questi viventi restassero prive o affatto o in massima parte di cose necessarie alla loro perfezione. Altro è mettere nel mondo il detto vivente tutto nudo, tutto povero, tutto infelice e misero, col solo compenso di certe facoltà, per le quali, solamente dopo un gran numero di secoli, sarebbe arrivato a conseguire qualche parte del bisognevole a minorare l’infelicità di una vita il cui scopo non è assolutamente altro che la felicità. Altro è ordinare le cose in modo che gran parte di questa specie (come tanti selvaggi poco fa scoperti, o da scoprirsi) dovesse restare fino al tempo nostro, e chi sa fino a quando, appresso a poco nella stessa imperfezione e infelicità primitiva (il che si può applicare anche alla pretesa perfettibilità della mente e delle varie facoltà dell’uomo). E tutto ciò in una specie privilegiata, e che si suppone la prima nell’ordine di tutti gli esseri. Bel privilegio davvero, ch’è quello di veder tutti gli altri viventi conseguire immediatamente la loro relativa perfezione [834]e felicità, senza stenti, nè sbagli, ed essa intanto per conseguire la propria, stentare, tentare mille strade, sbagliare mille volte, e tornare indietro, e finalmente dovere aspettare lunghissimo ordine di secoli, per conseguire in parte il detto fine. Osserviamo quanti studi, quante invenzioni, quante ricerche, quanti viaggi per terra e per mare a remotissime parti, e combattendo infiniti ostacoli, sì della fortuna, sì (ch’è più notabile) e massimamente della natura, per ridurci, quanto al corpo, nello stato presente, e proccurarci di quelle stesse cose che ora si stimano essenziali alla nostra vita. Osserviamo quante di queste, ancorchè già ritrovate, abbiano bisogno ancora dei medesimi travagli infiniti per esserci Letteratura italiana Einaudi 607
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia procacciate. Osserviamo quanto ancora ci manchi, quanto sia di scoperta recentissima o assolutamente o in comparazione dell’antichità della specie umana; quanto ogni giorno si ritrovi, e quanto si accrescano le cognizioni pretese utili alla vita, anche delle più essenziali (come in chirurgia, medicina ec.); quante cose si ritroveranno e verranno poi in uso, che a noi avranno mancato, e che i nostri [835]posteri giudicheranno tanto indispensabili, quanto noi giudichiamo quelle che abbiamo. Domando se tutta questa serie di difficilissimi mezzi conducenti al fine primario della natura ch’è la felicità e perfezione delle cose esistenti e il loro ben essere, e massime de’ viventi, e de’ primi tra’ viventi, entravano nel sistema, nel disegno, nel piano della natura, nell’ordine delle cose, nella primordiale disposizione e calcolo relativamente alla specie umana. Domando se nel piano nell’ordine nel calcolo de’ mezzi conducenti al fine essenziale e primario, ch’è la felicità e perfezione, mezzi per conseguenza necessari ancor essi, v’entrava anche il caso. Ora è noto quante scoperte delle più sostanziali in questo genere, e dell’uso il più quotidiano, e di effetti e applicazioni rilevantissime, non le debba l’uomo se non al puro e semplice caso. Dunque il puro e semplice caso entrava nel sistema primordiale della natura; dunque ella lo ha calcolato come mezzo necessario; dunque [836]ella ne ha fatto dipendere il fine essenziale e primario; dunque si è contentata che non accadendo il tale e tale altro caso, o non accadendo in quel tal modo ec. ec. o accadendo bensì quello ma non questo ec. la specie umana, la maggiore delle sue opere, restasse imperfetta e infelice, e priva del fine della sua esistenza, e similmente tutte quelle parti dell’ordine delle cose che dipendono o hanno stretta connessione colla specie umana.
Bisogna osservare che la sfera del caso si stende molto più che non si crede. Un’invenzione venuta dall’ingegno e meditazione di un uomo profondo, non si considera Letteratura italiana Einaudi 608
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia come accidentale. Ma quante circostanze accidentalissime sono bisognate perchè quell’uomo arrivasse a quella capacità. Circostanze relative alla coltura dell’ingegno suo; relative alla nascita, agli studi, ai mezzi estrinseci d’infiniti generi, che colla loro combinazione l’han fatto tale, e mancando lo avrebbero reso diversissimo (onde è stato detto che l’uomo è opera del caso); relative alle scoperte e cognizioni acquistate da altri prima [837]di lui, acquistate colle medesime accidentalità, ma senza le quali egli non sarebbe giunto a quel fine; relative all’applicazione determinata della sua mente a quel tale individuato oggetto ec. ec. ec. Nello stessissimo modo discorrete di una scoperta fatta p.e. mediante un viaggio, mediante un’Accademia, una intrapresa pubblica, o regia ec. la quale scoperta si suol mettere del tutto fuori della sfera degli accidenti. E vedrete che siccome da una parte la sfera del caso, in tutte le cose, massime umane, si stende assai più che non si crede, così d’altra parte, o tutte o il più di quelle invenzioni ec. che ora sono d’uso creduto di prima necessità, ed essenziale alla vita umana, sono effettivamente dovute al caso. Paragonate ora questa incredibile negligenza della natura, nell’abbandonare a un mezzo sì incerto lo scopo primario della primaria specie di viventi, cioè la felicità dell’uomo; con quella certezza e immancabilità di mezzi che la natura ha adoperata per tutti gli altri suoi fini, ancorchè di minore importanza: e giudicate se si possa mai supporre [838]per vera.
(21. Marzo 1821.). V. p.870. fine.
Quanto più l’indole, la struttura, l’andamento di una lingua, è conforme alle regole naturali, semplice, diritto ec. tanto più quella lingua è adattata alla universalità. E
per lo contrario tanto meno, quanto più ella è figurata, composta, contorta, quanto più v’ha nella sua forma di arbitrario, di particolare e proprio suo, o de’ suoi scrittori ec. non della natura comune delle cose. Le prime qua-Letteratura italiana Einaudi 609
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia lità spettano per eccellenza alla lingua francese, quantunque la lingua italiana le possieda molto più della latina, anzi senza confronto; tuttavia in esse (e felicemente) cede alla francese, come tutte le lingue moderne Europee, quantunque nessuna di queste ceda in esse qualità alla latina, anzi la vinca di gran lunga, e neppure alla greca.
Come queste qualità giovino alla universalità di una lingua, è manifesto già per se stesso, ma lo sarà anche più per le segg. considerazioni. Un effetto naturale di dette qualità, è che il linguaggio degli scrittori, o nulla [839][o]
poco differisca dal familiare, e comune alla nazione. Così accade alla Francia, il contrario in Italia, il contrarissimo nel latino. Questo effetto cagiona che, quella stessa lingua che si parla trovandosi scritta, 1. se ne dimezzi per così dire la difficoltà: 2. le persone volgari, o la conversazione qualunque alta o bassa dei parlatori di quella lingua, sia tanto buona maestra e propagatrice di essa presso gli stranieri, fuori o dentro il paese, come lo possano essere gli scrittori: 3. e per lo contrario gli scrittori lo siano tanto, quanto i negozianti, i viaggiatori, e chiunque parla quella lingua cogli stranieri, sì nel suo proprio paese come fuori: 4. quindi e i parlatori e gli scrittori propa-ghino tutti unitamente una sola e stessa lingua ovvero linguaggio; o vogliamo dire due linguaggi così poco differenti, che inteso qualsivoglia de’ due, senza nessuna fatica s’intenda e si parli anche l’altro. Effetto notabilissimo: perchè l’influenza degli scrittori è somma nel propagare una lingua; ma d’altra parte per mezzo degli scrittori, non può mai divenire [840]universale, se da essi non s’impara a parlarla cioè usarla; ed allora potrà esser divulgata per solo studio e ornamento, com’era una volta l’italiana: l’influenza de’ parlatori è somma, ma minore assai, se non cospira con quella degli scrittori, se per mezzo di essa non si viene a capo di mettersi in relazione col resto della nazione, colla totalità per così dire di essa, il che non si può fare se non per mezzo degli scrittori, e Letteratura italiana Einaudi 610
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tanto più, quanto più questi sono divulgati intesi e letti dalla totalità della nazione, e non dalla sola classe letterata. La unione di queste due influenze, partorisce dunque un effetto massimo. Lo straniero di qualunque condizione, per qualunque circostanza, per qualunque inclinazione, per qualunque professione, per qualunque mezzo, per qualunque fine, abbia dovuto, abbia voluto, si sia abbattuto ad apprendere quella lingua, è padrone di tutta quanta ella è, di parlarla e intender chi la parla, di leggerla, di scriverla, di usarla comunque le aggrada, nella conversazione, nel commercio, e al tavolino; di mettersi in communicazione con tutta [841]quella nazione che la parla o scrive, e con tutti quegli stranieri che l’adoprano in qualunque modo e per qualunque motivo. Il letterato che l’ha appresa per istruirsi, e per conoscere quella letteratura; il negoziante che l’ha appresa per usi di mercatura; quegli che l’ha appresa senza studio, e per sola pratica o de’ nazionali, o de’ forestieri ec. ec. tutti sono appresso a poco nello stesso grado, ed hanno gli stessi vantaggi.
Questi effetti risultano dalla parità di linguaggio fra gli scrittori e la nazione, e risultano in maggiore o minor grado, in proporzione che la causa è maggiore o minore. In Francia è grandissima, e non solo la detta parità di linguaggio, ma anche la effettiva popolarità e nazionalità degli scrittori e della letteratura. In Italia oggidì (che nel trecento era tutto l’opposto) la lingua scritta degli scrittori, sebbene differisca dalla parlata molto meno che fra’
latini, tuttavia differisce, credo, più che in qualunque altro paese culto, certamente Europeo. [842]E questo forse in parte cagiona la nessuna popolarità della nostra letteratura, e l’essere gli ottimi libri nelle mani di una sola classe, e destinati a lei sola, ancorchè pel soggetto non abbiano a far niente con lei. Il che però deriva ancora dalla nessuna coltura, e letteratura, e dalla intera noncuranza degli studi anche piacevoli, che regna nelle altre Letteratura italiana Einaudi 611
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia classi d’Italia; noncuranza che deriva finalmente dal mancare in Italia ogni vita, ogni spirito di nazione, ogni attività, ed anche dalla nessuna libertà, e quindi nessuna originalità degli scrittori ec. Queste cagioni influiscono parimente l’una sull’altra, e nominatamente sulla disparità della lingua scritta e parlata, e tutte con iscambievoli effetti contribuiscono sì a tener lontano dall’Italia ogni spirito di patria, ogni vita, ogni azione; sì ad impedire ogni originalità degli scrittori; sì finalmente a mantenere la intera divisione che sussiste fra la classe letterata e le altre, fra la letteratura e la nazione italiana. Nel cinquecento, e anche durante il seicento, sebbene la lingua scritta italiana, si [843]fosse allontanata dalla parlata, molto più che nel trecento (non però quanto oggidì), tuttavia la letteratura continuava ancora in grandissima relazione colle classi, se non volgari, certo non di professione letterata, e quindi anche passava agli stranieri. E ciò, parte perchè la nazione conservava ancora un sentimento, uno spirito patrio, un’azione, una vita, e gli scrittori bastante libertà ed originalità; parte perchè l’italiano che si parlava, era italiano ancora, più o meno, e non barbaro, come oggidì, che volendo scrivere come si parla, non si scriverebbe italiano, anzi appena si riuscirebbe a farsi intendere alla stessa nazione. Ed allora lo studio della lingua era più diffuso, e la letteratura parimente, e più viva e in movimento, e maggiore il numero dei letterati di professione, e degli scrittori buoni, e di quelli che senza esser letterati, aveano tanta letteratura quanto basta per essere buon lettore, e per curarsi di leggere. E gli argomenti che si tratta-vano erano più nazionali, più importanti, più nuovi,
[844]più propri dello scrittore ec. brevemente c’era un altro spirito letterario e negli scrittori e nella nazione.
Dall’applicazione di questi principii alle lingue moderne, passiamo alle lingue antiche. Che la forma e struttura di una lingua fosse così ragionevole, così conforme alla stretta verità ed ordine delle cose, come lo può essere in Letteratura italiana Einaudi 612
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia qualche lingua moderna, non era possibile fra gli antichi, dove regnava molto più l’immaginazione, che la secca e infelice ragione. Non bisogna dunque nelle ragioni della universalità di una lingua antica, ricercar troppa conformità, con quelle che richiedonsi allo stesso effetto in una lingua moderna. Una lingua antica poteva essere adattata alla universalità fino a un certo segno, e conseguirla, ma non mai quanto una moderna. La lingua greca sebbene più figurata non solo della francese, ma della italiana (dico della italiana che non pecchi di troppa, e a lei non naturale conformità col latino andamento, come peccò alle volte nel 500. al contrario [845]del 300, e della sua vera indole) contuttociò era nella sua primitiva qualità, di una forma, se non ragionevole, naturalissima però, e semplicissima, e facilissima. Sino a tanto ch’ella mantenne il suo vero genio, mantenne anche queste proprietà. Le mantenne in Erodoto, in Senofonte, negli Oratori Attici, e generalmente più o meno in tutti gli scrittori degli ottimi suoi secoli sempre appresso a poco, in proporzione dell’antichità rispettiva. Gli scrittori che successero a questi, benchè buoni ancor essi, benchè lontani dalla turgidezza, dall’arguzia, dalla decisa oscurità, dalla soverchia intralciatura, dalla immodestia dello stile e della lingua, allontanarono però moltissimo la lingua greca, da quella nativa, nuda, schietta, spontanea, facile bellezza e grazia de’ suoi ottimi e primi scrittori, e sforzarono la sua primitiva natura ed indole, accostandola piuttosto alla struttura latina, che alla propria sua. Questo si nota in Polibio, in Dionigi d’Alicarnasso, ma molto più ne’ susseguenti, come in Luciano, molto più e soprattutto in Longino.
Scrittori elegantissimi, [846]di eleganza non affettata, non impura, non corrotta, non malsana, ma diversa da quella semplicissima eleganza dell’antica lingua greca, e se non contraria e ripugnante, certo rimota dall’indole e dal costume suo primitivo: nello stesso modo che si può dire di alcuni cinquecentisti modellatisi forse troppo sui latini, e Letteratura italiana Einaudi 613
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia non perciò corrotti, nè affettati, nè ripugnanti all’indole della lingua italiana, ma diversi dal di lei primitivo costume manifestato nei trecentisti; appresso i quali la lingua italiana, come somiglia moltissimo nell’andamento alla greca, così ebbe poi a patire quella stessa, benchè per se medesima non cattiva, diversificazione che patì, come ho detto, la lingua greca; e come questa, cessare appoco appoco da quella parità di linguaggio ch’era tra gli scrittori e la nazione, nell’una e nell’altra lingua, come della greca lo dirò poi. Di facilissima ch’era l’antica scrittura greca, divenne appoco a poco, se non oscura, certo difficile, essendo declinata in quell’idioma lavorato ed ornato, che o nello stesso [847]tempo, o poco prima o dopo, divenne proprio de’ latini, da’ quali io non discrederei che fosse passato quel costume e quel gusto ai greci (ma bisognerebbe esaminare gli scrittori greci intermedii fra Demostene, e quelli che furono ai tempi Romani); sebben potesse molto naturalmente nascere dallo studio, dagli Atticisti che uscivan fuori, dal ridursi la cosa a regola, e la eleganza a misura e meditazione, e ricerca ec. Longino, sebbene fioritissimo delle possibili eleganze e gentilezze della lingua greca, le ricerca tanto, e le accumola (senza però affettazione), che si trovano più frasi e modi figurati in lui che in dieci antichi greci tutti insieme; e sì per questo sì per la struttura intrecciata, composta, manipolata dell’orazione; la lunghezza, e strettissima e fortissima legatura de’ periodi, le ambagi ec. riesce tanto difficile quanto i più difficili e lavorati scrittori latini. Ai quali egli somiglia tanto, che, massime vedendolo studioso di Cicerone, non dubito, quanto a lui, che quello scrivere non gli sia derivato dai latini, e ch’egli non abbia o voluto trasportare, [848]o (come si fosse) trasportato l’indole e gli spiriti latini nella lingua greca, quanto però questa lo comportava; perchè a ogni modo, come faranno sempre tutte le lingue, ella conserva anche presso lui, il suo sembiante diverso dall’altrui. Non dirò niente de’ Sofisti, e degli al-Letteratura italiana Einaudi 614
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tri scrittori dell’infima letteratura greca, anche di quella letteratura già moriente e disperata (come ai tempi di Teofilatto Arcivescovo di Bulgaria). I quali quando volevano stare davvero sull’attillato, scrivevano in modo che unita alla viziosa e corrotta ricercatezza, arguzia, e oscurità dello stile, la ricercatezza, e attortigliamento, e tor-tuosità della lingua, sono di tanta difficoltà ad intenderli, di quanto poco uso ad averli intesi.
Questa declinazione della lingua greca dal suo primo sentiero, e costume ed indole, si può far manifesto ancora considerando la lingua d’Isocrate. Il quale è tanto famoso per la delicatissima cura che poneva nella scelta e collocazione delle parole, nella struttura ed armonia de’
periodi, che si potrebbe credere ch’egli, quantunque pel tempo appartenga a quegli [849]antichi scrittori ch’io ho distinto da’ più moderni, pel carattere però della sua lingua appartenesse piuttosto a quegli ultimi. E pure la sua cura, qualunque fosse, è così nascosta, la sua lingua, la collocazione e l’ordine delle sue parole, la struttura de’
periodi, e dell’orazione, così facile, piana, semplice, naturale, spontanea, che non solo non si allontana dalla primitiva indole della sua lingua, ma riesce anche più chiaro e facile e stralciato di parecchi altri degli ottimi; e certo non meno di veruno di essi. Tanto che a paragonare Isocrate stimato l’elegantissimo e l’accuratissimo degli ottimi scrittori greci, col meno elegante e lavorato de’
buoni, si troverà questo, molto più difficile, e men piano e svolto di lui. Sicchè, come da Senofonte ed Erodoto conosciamo qual fosse la semplicità e la soavità, da Tucidide e Demostene la forza e il nervo di quella antica lingua greca, così da Isocrate conosciamo qual ne fosse la eleganza, e la galanteria; e quanto diversa da quella che sotto questo nome fu introdotta [850]ne’ secoli e dagli scrittori ancor buoni e notabilissimi, ma non ottimi, della greca letteratura.
Letteratura italiana Einaudi 615
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Finchè questa dunque durò nel suo primo ed ottimo stato, la diversità fra la lingua parlata e scritta, fu piccola, e, credo io, non molto maggiore di quella che ora sia in Francia. Prova ne può essere fra le altre molte l’aver letto Erodoto la sua storia al popolo, e averne riscosso quegli applausi nazionali che tutti sanno. Cosa che non sarebbe avvenuta, se (posta nel rimanente la parità delle circostanze) il Guicciardini avesse letta la sua storia alla moltitudine. E se T. Livio o Tacito avessero fatto lo stesso, non al cospetto di giudici scelti e intelligenti, ma avendo per giudice, o anche avendo ad esser giudicati da alcuni pochi, ma applauditi però con entusiasmo dalla moltitudine, crediamo noi che vi sarebbero riusciti? Quanto alle Orazioni de’ famosi oratori latini, dette nella concione, ognuno sa, che le scritte erano diverse dalle recitate, e però da quelle che abbiamo di Cicerone non possiamo argomentare che [851]quello stesso linguaggio egli usasse col popolo.
Sì dunque la naturalezza, semplicità e facilità di forma della lingua greca, tanto negli antichi scrittori, quanto nella nazione; sì la quasi uniformità di linguaggio che ne seguiva fra i detti scrittori, e il popolo, come questa era effetto di quella, così ambedue unitamente contribuivano a rendere la lingua greca adattata alla universalità; adattata dico in proporzione dei tempi, non quanto bisognerebbe esserlo oggidì, nè quanto lo è la francese, chè oggidì una lingua per essere universale, ha bisogno di essere arida e geometrica, e la greca era floridissima e naturalissima; di essere ristretta, e la greca era larghissima e ricchissima; di essere non bella, e la greca era bellissima. Perciò la greca non era, e nessuna bella e naturale lingua lo potrà esser mai, pienamente nè stabilmente universale; ma, sì per le dette ragioni, sì per le recate in altro pensiero, serviva a quella universalità lassamente [852]considerata, e non assolutamente, che poteva convenire ad un tempo, dove nè la ragione, nè le cognizioni esatte, nè la filosofia, nè Letteratura italiana Einaudi 616
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia l’esattezza assolutamente, nè il commercio scambievole delle nazioni, e de’ loro individui fra essi, avevano fatto progressi paragonabili in grandezza nè in estensione agli odierni. E si può anche notare, che siccome erano ancora i tempi della immaginazione e non della ragione, così (sebben quella è varia, e questa monotona, e uniforme dappertutto) contuttociò quella stessa immaginazione che regolava quella lingua fra i greci, poneva anche gli altri popoli, ancora governati dalla immaginazione, in grado di adattarsi senza troppa difficoltà a quella lingua, come conforme al carattere di que’ secoli, e di trovare corrispondente alla propria inclinazione, la naturalezza di quella lingua (parola che io intendo qui di opporre alla ragionevolezza e geometria, e di adoperarla in questo senso).
Egli è evidente che quanto più l’andamento di una lingua è naturale semplice facile, e non capriccioso presso gli scrittori, [853]tanto più si conforma al carattere della favella usuale e popolare. E che siccome queste qualità di una lingua, la rendono più o meno atta alla universalità, così anche alla detta conformità fra il parlato e lo scritto, conformità dalla quale di nuovo nasce una grande attitudine alla universalità. Perchè la favella del popolo, sebbene immaginosa ordinariamente e in qualunque nazione, è però sempre semplice, piana, facile, o inclina sempre a queste qualità, ed alla naturalezza dell’ordine, e si allontana dal lavorato, dall’arbitrario, da tutto quello che deriva puramente dall’individuo o da una data classe d’individui, e non dalla natura e delle cose e del popolo: natura che sebben diversa dalla ragione, e molto più varia e copiosa e rigogliosa della ragione; tuttavia presso a poco si rassomiglia da per tutto e in tutti i popoli. Onde il linguaggio comune di qualunque popolo, massime relativamente a quelle nazioni che appartengono ad una stessa classe (come le nazioni colte di Europa) e formano quasi una famiglia; un tal linguaggio [854], dich’io, per lo meno Letteratura italiana Einaudi 617
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia dentro i limiti di quella tal famiglia di nazioni, è sempre per se medesimo, e astraendo dalle circostanze particolari, adattato più o meno alla universalità. Non così quello degli scrittori, i quali bene spesso allontanandosi appoco appoco dall’andamento popolare della loro lingua, si allontanano altresì dal carattere universale. E così la lingua scritta di questa o quella nazione, prendendo appoco appoco un andamento proprio, e qualità proprie e speciali, per questa proprietà e specialità, si viene allontanando più o meno dalla linea universalmente riconosciuta, ed allontana dalla universalità la loro lingua che vi era naturalmente adattata. Giacchè siccome la lingua della nazione influisce su quella dello scrittore, così anche la scritta sulla parlata. Talmente che anche la lingua popolare di una nazione, sebbene senza fallo adattata da principio alla universalità, può e viene effettivamente perdendo più o meno, o scemando la sua disposizione a questa qualità.
[855]Il detto effetto degli scrittori, e diversificazione della lingua scritta, dall’andamento naturale della lingua, accadde in Grecia, ma tardi, e dopo i loro sommi scrittori. Non è accaduto in Francia. È seguito in Italia dal cinquecento in poi. Seguì in Roma, nella prima stabile formazione della lingua latina scritta, e per opera de’ primi veramente classici di quella nazione. Del che resta a parlare.
I primi scrittori latini, ancorchè perduti, pur si conosce dai loro frammenti, o da quel poco che ne resta comunque, che, al pari di tutti i primi scrittori di qualunque lingua, avevano un andamento naturale e semplice, che si accosta al vero e antico genio della lingua greca, a quello dell’antica lingua italiana, ossia del trecento; e per conseguenza anche al loro linguaggio nazionale e parlato. Il che si dimostra anche per altre ragioni, quando non ba-stasse la semplice e facile loro andatura per convincere che non si scostavano molto dal latino volgare. [856]Una Letteratura italiana Einaudi 618
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia delle quali ragioni, o argomenti e conghietture (giacchè del latino non ci resta il parlato, ma il solo scritto), si è il trovare in essi buon numero di parole, modi, forme, che non si trovano negli autori dell’aurea latinità, e che pure son passate, o somigliano alle passate nella nostra lingua, derivata in gran parte (come con grandi ragioni si prova) dal volgare latino. E in genere si trova ne’ detti antichi latini gran conformità (anche in piccole minuzie e materialità, fino di ortografia) coll’italiano, e molto maggiore, che ne’ seguenti latini scrittori.
Ma o provenisse dalla differenza dei tempi fra l’ottima letteratura greca e la latina (che certo la greca venne a tempi di maggior naturalezza, anzi gli ottimi suoi secoli furono compagni degli ottimi tempi della greca repubblica, laddove quelli della latina furono contemporanei precisamente della declinazione e corruzione morale e politica del popolo romano, avvenuta per l’eccesso di civiltà, e questo per l’eccesso di potere); o provenisse da
[857]questo che i greci formarono da se la loro letteratura e il loro gusto, e quindi più naturalmente, laddove i latini la formarono sopra quella dei greci (onde ella fu tutto parto di studio, trovò al suo stesso nascere l’arte già formata e insignorita dello scrivere, e fece per l’aiuto l’esempio, e l’insegnamento di una nazione straniera, così rapidi progressi, che la natura appena ebbe scarsissimo tempo di precedere l’arte, e la letteratura latina fu subito e intieramente in balia delle regole, e dichiaratamente artifiziale, e polita: oltre che la stessa arte anche in Grecia, piuttosto declinava già all’eccessivo, di quello che lasciasse più niente alla natura: onde la letteratura latina superò immantinente a gran distanza, quella della Grecia contemporanea, com’è naturale che in un paese dove la letteratura è recente, ella non declini prima di essere stata ottima, e l’eccesso dell’arte non abbia luogo, prima
[858]che lo abbia avuto il di lei giusto grado: nel quale però durò poco appo i latini, e la loro letteratura come fu Letteratura italiana Einaudi 619
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia rapida in salire, così nello scendere: e ciò per la condizione de’ tempi già precipitanti lungi dalla natura, il torrente della civiltà che ingrossava e tagliava i nervi alla grandezza e alla forza della specie umana; il contagio dell’arte già passata nella Grecia al di là della maturità, sì nel resto, come nello scrivere; e la circostanza che la letteratura latina tardò tanto da cominciare quando restava poco tempo a poter durare in buon essere, poco tempo alla forza alla grandezza, alla vera vita degli uomini, poco tempo all’imperio della natura, e delle facoltà vitali dell’uomo, quando era imminente la corruzione e il precipizio della società, di Roma, delle nazioni civili, della libertà, del mondo) da quale di queste cagioni provenisse, o da ambedue insieme, il fatto sta che appena la lingua latina scritta prese forma stabile, e acquistò [859]perfezione, si allontanò dalla parlata più di quello che mai facesse lingua colta del mondo; pose e creò una somma distinzione fra la lingua degli scrittori, e quella del popolo; si allontanò quanto mai si possa dire dall’andamento e struttura naturale e comune e universale del discorso (senza però opporsi alla natura): e per tutte queste ragioni la lingua latina, non ostante l’estesissima diffusion della nazione, divenne la meno adattata alla universalità che mai si vedesse: e non ottenne, seppur vogliamo credere o dire che mai l’ottenesse, questa universalità, se non quando fu imbarbarita; e perduta la sua proprietà, la lingua scritta si confuse un’altra volta colla parlata, prese tante forme e caratteri, quanti popoli e scrittori l’adoperarono, e divenne piuttosto una famiglia di lingue tutte barbare, che una lingua universale nè colta. Il che presto accadde, e durò fino al nascere [860]delle sue figlie, o piuttosto fino al crescere che queste fecero, e al separarsi da lei, perchè per lungo tempo (siccome accade in tutte le lingue figlie) non si poterono considerare se non come parte di quella famiglia di lingue barbare contenute nella latina, smembrandosi questa e facendosi in brani, come il gran-Letteratura italiana Einaudi 620
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia de imperio della sua nazione, e contemporaneamente al di lui misero diflusso.
Del resto la lingua latina scritta ne’ primi veri e formati classici di essa, fu ridotta a tale artifizio, squisitezza, tor-tuosità, intrecciatura, composizione, lavoro, circuito, tes-situra di periodi, obliquità di costruzione ec.; acquistò subito così stretta proprietà di modi, di frasi, di voci, proprietà inviolabile senza offesa formale della lingua; tanto precisa distinzione nell’uso de’ suoi sinonimi, ossia delle innumerabili voci destinate alla significazione delle nuances di uno stesso oggetto; che quella lingua contenne il più di eleganza arbitraria che mai si vedesse, fu opera espressa dello scrittore più che qualunque altra; abbisognò di sì [861]profonda, sottile, minuta, esatta, e determinata cognizione non solo della sua indole, ma di ciascun modo, frase, parola, a volerla trattare senza offendere la sua sì propria e individuale e arbitraria altrettanto che definita proprietà; che allontanandosi estremamente dal volgare, e formando subito due lingue separate, cioè la scritta e la parlata, s’impossibilitò ancora, sì per questa, sì per quelle ragioni, alla universalità. Alcuni scrittori latini, che anche nel tempo della perfezionata loro lingua letterata, si accostarono un poco più degli altri ai loro antichi scrittori, o al popolo, e conservarono maggiormente l’antico carattere della lingua; si accostarono altresì più degli altri agli ottimi greci, furono più semplici, più facili e piani, meno contorti e lavorati ec. e si avvicinarono ancora al genio futuro della lingua italiana. Tali furono Cesare, Cornelio Nipote, e sopra tutti Celso, del quale vedi quello che ho notato altrove, [862]della gran somiglianza che ha, sì col greco, sì massimamente coll’italiano, tanto nell’andamento, come nelle minute forme, frasi, voci. E
dovunque si trova nei latini scrittori, un tantino di quel candore e di quella grazia nativa, che non fu mai proprio della loro letteratura (eccetto i primi e non perfetti scrittori); si trova altresì maggiore e notabile somiglianza col Letteratura italiana Einaudi 621
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia carattere della lingua greca, e della nostra, e quindi anche del volgare latino, da cui la nostra è derivata, e a cui non dubito che Celso non si accostasse notabilmente, e più che ogni altro Classico conosciuto del secolo d’oro o d’argento. Tuttavia anche in questi scrittori medesimi, si trova sempre un’aria di maggior coltura, una lingua più lavorata, più nitida, meno semplice, meno piana e naturale che quella degli ottimi greci, anzi in tal grado che non è possibile mai di confonderli con questi. E certo quel candore, quella nuda venustà de’ greci, e anche
[863](ma quanto alla sola lingua) de’ nostri trecentisti, non fu mai propria della scrittura e letteratura latina, se non forse della primitiva. E verisimilmente non la comportava il carattere della nazione romana, assai più grave che graziosa, e quantunque naturale e semplice anch’essa (come tutte le antiche, non ancora, o non del tutto corrotte, e massime come tutte le nazioni libere e forti e grandi) tuttavia, padrona piuttosto della natura, di quello che amante e vagheggiatrice, come la nazione greca.
(21-24. Marzo 1821.)
Come la proprietà delle parole è ben altro che la secchezza e nudità di ciascuna, così anche la semplicità e naturalezza e facilità della struttura di una lingua e di un discorso, è ben altro che l’aridità e geometrica esattezza di esso. Così distinguete il carattere dell’ottima e antica scrittura greca da quello della moderna e riformata francese. Così quello dell’ottima e antica e propria lingua e scrittura italiana, sì da quello della [864]francese, sì da quello dell’odierna italiana. La quale quando anche non fosse barbara per le parole, modi ec. è barbara pel geometrico, sterile, secco, esatto dell’andamento e del carattere. Barbara per questo, tanto assolutamente, quanto relativamente all’essere del tutto straniera e francese, e diversa dall’indole della nostra lingua; ben altra cosa che lo straniero de’ vocaboli o frasi, le quali ancorchè stranie-Letteratura italiana Einaudi 622
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia re non sono essenzialmente inammissibili, nè cagione assoluta di barbarie; bensì l’indole straniera in qualunque lingua è sostanzialmente barbara, e la vera cagione della barbarie di una lingua, che non può non esser barbara, quando si allontana, non dalle frasi o parole, ma dal carattere e dall’indole sua. E tanto più barbaro è l’odierno italiano scritto, quanto il sapore italiano di certi vocaboli e modi per lo più ricercati ed antichi, e la cui italianità risalta e dà negli occhi; contrasta colla innazionalità ed anche coll’assoluta differenza del carattere totale della scrittura.
(24. Marzo 1821.)
[865]Lodo che si distornino gl’italiani dal cieco amore e imitazione delle cose straniere, e molto più che si ri-chiamino e invitino a servirsi e a considerare le proprie; lodo che si proccuri ridestare in loro quello spirito nazionale, senza cui non v’è stata mai grandezza a questo mondo, non solo grandezza nazionale, ma appena grandezza individuale; ma non posso lodare che le nostre cose presenti, e parlando di studi, la nostra presente letteratura, la massima parte de’ nostri scrittori, ec. ec. si celebrino, si esaltino tutto giorno quasi superiori a tutti i sommi stranieri, quando sono inferiori agli ultimi: che ci si propon-gano per modelli; e che alla fine quasi ci s’inculchi di seguire quella strada in cui ci troviamo. Se noi dobbiamo risvegliarci una volta, e riprendere lo spirito di nazione, il primo nostro moto dev’essere, non la superbia nè la stima delle nostre cose presenti, ma la vergogna. E questa ci deve spronare a cangiare strada del tutto, e rinnovellare ogni cosa. Senza ciò non faremo [866]mai nulla. Com-memorare le nostre glorie passate, è stimolo alla virtù, ma mentire e fingere le presenti è conforto all’ignavia, e argomento di rimanersi contenti in questa vilissima condizione. Oltre che questo serve ancora ad alimentare e confermare e mantenere quella miseria di giudizio, o piut-Letteratura italiana Einaudi 623
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tosto quella incapacità d’ogni retto giudizio, e mancanza d’ogni arte critica, di cui lagnavasi l’Alfieri (nella sua vita) rispetto all’Italia, e che oggidì è così evidente per la continua esperienza sì delle grandi scempiaggini lodate, sì dei pregi (se qualcuno per miracolo ne occorre) o sconosciuti, o trascurati, o negati, o biasimati.
(24. Marzo 1821.)
Che vuol dire che i così detti barbari, o popoli non ancora arrivati se non ad una mezza o anche inferiore civiltà, hanno sempre trionfato de’ popoli civili, e del mondo? I Persiani degli Assiri inciviliti, i greci de’ Persiani già corrotti, i Romani de’ greci giunti al colmo della civiltà, i settentrionali de’ Romani nello [867]stesso caso? Anzi che vuol dire che i Romani non furono grandi se non fino a tanto che furono quasi barbari? Vuol dire che tutte le forze dell’uomo sono nella natura e illusioni; che la civiltà, la scienza ec. e l’impotenza sono compagne inseparabili; vuol dire che il fare non è proprio nè facoltà che della natura, e non della ragione; e siccome quegli che fa è sempre signore di chi solamente pensa, così i popoli o naturali o barbari che si vogliano chiamare, saranno sempre signori dei civili, per qualunque motivo e scopo agi-scano. Non dubito di pronosticarlo. L’Europa, tutta civilizzata, sarà preda di quei mezzi barbari che la minaccia-no dai fondi del Settentrione; e quando questi di conquistatori diverranno inciviliti, il mondo si tornerà ad equilibrare. Ma finattanto però che resteranno barbari al mondo, o nazioni nutrite di forti e piene e persuasive, e costanti, e non ragionate, e grandi illusioni, i popoli civili saranno lor preda. Dopo quel tempo, quando à son tour la civiltà divenuta oggi sì rapida vasta e potente conquistatrice, non avrà più nulla da conquistare, allora o si tornerà alla barbarie, e se sarà possibile, alla natura per una nuova strada, e tutta opposta al naturale, cioè la strada dell’universale corruzione come ne’ bassi tempi; o io non Letteratura italiana Einaudi 624
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia so pronosticare più oltre quello che si dovrà aspettare. Il mondo allora comincerà un altro andamento, e quasi un’altra essenza ed esistenza.
(24. Marzo 1821.)
[868]Quella sentenza che gli uomini sono sempre i medesimi in tutti i tempi e paesi, non è vera se non in questo senso. I periodi che l’uomo percorre, e quelli di ciascuna nazione paragonati insieme, come i periodi de’
tempi fra loro, sono sempre appresso a poco uguali o somigliantissimi; ma le diverse epoche che compongono questi periodi, sono fra loro diversissime, e quindi anche gli uomini di quest’epoca, rispetto a quelli di quell’altra, e questa nazione oggi trovandosi in un’epoca, rispetto a quell’altra nazione che si trova in altra epoca. Come chi dicesse che l’orbita de’ pianeti è sempre la stessa, non però verrebbe a dire che il punto, l’apparenza in cui essi si trovano, fosse sempre una. I periodi della società si rassomigliano in tutti i tempi. Questo è un vero assioma. E
l’eccessiva civiltà avendo sempre condotto i popoli alla barbarie, anzi precedutala immediatamente, anzi partecipato di essa; così accadrà anche ora, o il detto assioma riuscirà falso per la prima volta. Del resto che gli uomini sieno gli stessi in tutti i tempi, a non volerlo intendere, o emendare come io dico, è proposizione o falsa o ridicola.
Falsa se si vuole estendere agli effetti delle facoltà umane, che ora sviluppate, ora [869]no, ora più, ora meno, ora attivissime, ora così sepolte nel fondo dell’animo da non lasciarsi scoprire nemmeno ai filosofi (come p.e. la sensibilità odierna negli antichi, e peggio ne’ primitivi, la ragione ec. ec.), hanno diversificato la faccia del mondo in maniera infinita, e in moltissime guise. Domando io se questi italiani d’oggi sono o paiono i medesimi che gli antichi; se il secolo presente si rassomiglia a quello delle guerre Persiane, o peggio, della Troiana. Domando se i selvaggi si rassomigliano ai francesi, se Adamo ci ricono-Letteratura italiana Einaudi 625
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia scerebbe per uomini, e suoi discendenti ec. Ridicola se non vuole significare fuorchè questo, che l’uomo fu sempre composto degli stessi elementi e fisici e morali in tutti i tempi. (ma elementi diversamente sviluppati e combinati, come i fisici, così i morali). Cosa che tutti sanno. Le qualità essenziali non sono mutate, nè mutabili, dal principio della natura in poi, in nessuna creatura, bensì le accidentali, e queste per la diversa disposizione delle essenziali, che partorisce una diversità [870]rilevantissima, e quanto possa esser, notabile, in quelle cose, che sole naturalmente, possono variare. Questa proposizione dunque in quest’ultimo senso, sarebbe tanto importante quanto il dire che il mare, il sole, la luna sono le stesse in tutti i tempi ec. (lasciando ora una fisica trascendente che potrebbe negarlo, e ponendolo per vero, com’è conforme all’opinione universale).
(25. Marzo 1821.)
Intorno alla ragione proclamata, e alla tentata geometrizzazione del mondo, nella rivoluzione francese v. anche parecchie cose notabili, e qualche notizia e fatto nell’ Essai sur l’indifférence en matière de Religion nell’ultima parte del capo 10. (che abbraccierà una 20na di pagg.) dove riduce le dottrine che ha esposte, all’esempio formale della rivoluzione francese, da quel periodo che incomincia Esisteva, sono già trent’anni, una nazione governata da una stirpe antica di re ec. sino alla fine del capo.
(26. Marzo 1821.)
Alla p.838. principio. Osservate ancora [871]quanti di quei mestieri che servono alla preparazione di cose anche usualissime, e stimate necessarie alla vita oggidì, sieno per natura loro nocivi alla salute e alla vita di coloro che gli esercitano. Che ve ne pare? Che la natura abbia molte volte disposto alla sussistenza o al comodo di una specie, la distruzione o il danno di un’altra specie, o parte di lei, Letteratura italiana Einaudi 626
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia questo è vero, ed evidente nella storia naturale. Ma che abbia disposta ed ordinata precisamente la distruzione di una parte della stessa specie, al comodo, anzi alla perfezione essenziale dell’altra parte (certo niente più nobile per natura, ma uguale in tutto e per tutto alla parte sopraddetta), questo chi si potrà indurre a crederlo? E questi tali mestieri, ancorchè usualissimi, e comunissimi, e riputati necessari alla vita, non saranno barbari, essendo manifestamente contro natura? E quella vita che li richiede e li suppone, ancorchè comoda, e stimata civilissima, non verrà dunque ella pure ad essere evidentemente contro natura? Non sarà dunque barbara?
(30. Marzo 1821.)
Alla p.499. fine. A quello che ho detto della derivazione di favellare ec. da fabulari ec. aggiungete lo spagnuolo hablar, habla ec. cioè fablar, [872] fabla ec. da fabula ec.
secondo il costume spagnuolo di scambiare la f nell’ h, come in herir per ferir, in hembra per fembra, in hazer o hacer per facer, e mille altre parole.
(30. Marzo 1821.)
L’amor proprio dell’uomo, e di qualunque individuo di qualunque specie, è un amore di preferenza. Cioè l’individuo amandosi naturalmente quanto può amarsi, si preferisce dunque agli altri, dunque cerca di soverchiarli in quanto può, dunque effettivamente l’individuo odia l’altro individuo, e l’odio degli altri è una conseguenza necessaria ed immediata dell’amore di se stesso, il quale essendo innato, anche l’odio degli altri viene ad essere innato in ogni vivente. V. p.926. capoverso 1.
Dal che segue per primo corollario, che dunque nessun vivente, è destinato precisamente alla società, il cui scopo non può essere se non il ben comune degl’individui che la compongono: cosa opposta all’amore esclusivo e di preferenza, che ciascuno inseparabilmente [873]ed essen-Letteratura italiana Einaudi 627
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia zialmente porta a se stesso, ed all’odio degli altri, che ne deriva immediatamente, e che distrugge per essenza la società. Così che la natura non può nel suo primitivo disegno aver considerata, nè ordinata altra società nella specie umana, se non simile più o meno a quella che ha posta in altre specie, vale a dire una società accidentale, e nata e formata dalla passeggera identità d’interessi, e sciolta col mancare di questa; ovvero durevole, ma lassa o vogliamo dir larga e poco ristretta, cioè di tal natura che giovando agli interessi di ciascuno individuo in quello che hanno tutti di comune, non pregiudichi agl’interessi o inclinazioni particolari in quello che si oppongono ai generali.
Cosa che accade nelle società de’ bruti, e non può mai accadere in una società, così unita, ristretta, precisa, e determinata da tutte le parti, come è quella degli uomini.
È cosa notabilissima che la società tanto più per una parte si è allargata, quanto più si è ristretta, dico fra gli uomini. E quanto più si è ristretta, tanto più è mancato
[874]il suo scopo, cioè il ben comune, e il suo mezzo, cioè la cospirazione di ciascuno individuo al detto fine.
Conseguenza naturale, ma niente osservata, del corollario precedente, e della proposizione da cui questo deriva.
Osservate.
Ridotto l’uomo dallo stato solitario a quello di società, le prime società furono larghissime. Poco ristrette fra gl’individui di ciascuna società, e scarse nella rispettiva estensione e numero; niente o pochissimo ristrette fra le diverse società. Ma in questo modo il ben comune di ciascuna società era effettivamente cercato dagl’individui, perchè da un lato non pregiudicava, dall’altro favoriva, anzi spesso costituiva il ben proprio. E il ben comune risultava effettivamente da dette società, simili più o meno alle naturali, e conforme alle considerazioni fatte nel precedente corollario. Le società si sono ristrette di mano in mano che veniamo giù discendendo dai tempi naturali; e ristrette per due capi: 1. tra gl’individui di una stessa so-Letteratura italiana Einaudi 628
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia cietà: 2. tra le diverse società. Oggi questa ristrettezza è al colmo in tutti due questi capi. Ciascuna società è così vincolata 1. dall’obbedienza che deve per tutti i versi, in tutte le minuzie, con ogni matematica esattezza al suo capo, o governo, 2. dall’esattissimo [875]regolamento, determinazione, precisazione di tutti i doveri e osservan-ze, morali, politiche, religiose, civili, pubbliche, private, domestiche ec. che legano l’individuo agli altri individui; è, dico, tanto vincolata, e stretta e circoscritta, che maggior precisione e strettezza non si potrebbe forse immaginare per questa parte. Le diverse società poi, sono così strette fra loro (dico le civili massimamente, ma non solamente), che l’Europa forma una sola famiglia, tanto nel fatto, quanto rispetto all’opinione, e ai portamenti rispettivi de’ governi, delle nazioni, e degl’individui delle diverse nazioni. In questo momento poi, l’Europa è piuttosto una nazione governata da una dieta assoluta; o vogliamo dire sottoposta ad una quasi perfetta oligarchia; o vogliamo dire comandati da diversi governatori, la cui potestà e facoltà deriva e risiede nel corpo intero di essi ec. di quello che si possa chiamare composta di diverse nazioni.
Che è derivato e deriva da tutto ciò? [876]1.
L’incamminamento espresso della società ad un senso tutto e diametralmente opposto al sopraddetto, cioè ad allargarsi tanto anzi sciogliersi per una parte, ch’è la più importante, quanto per l’altra si stringe. Cosa ch’è sempre accaduta dal principio della società in poi, in proporzione del maggiore stringimento di essa. Considerate le antiche lassissime società, e vedrete che amor di patria, ossia di essa società, si trovava in ciascun individuo, che calore in difenderla, in proccurare il suo bene, in sacrificarsi per gli altri ec. Venite giù di mano in mano, e troverete le società sempre più ristrette e legate in proporzione dell’incivilimento. Ma che? Osservate i nostri tempi.
Non solo non c’è più amor patrio, ma neanche patria.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Anzi neppur famiglia. L’uomo, in quanto allo scopo, è tornato alla solitudine primitiva. L’individuo solo, forma tutta la sua società. Perchè trovandosi in gravissimo conflitto gl’interessi e le passioni, a causa della strettezza e vicinanza, svanisce l’utile della società in massima parte; resta il danno, cioè il detto conflitto, nel quale l’uno individuo, e gl’interessi [877]suoi, nocciono a quelli dell’altro, e non essendo possibile che l’uomo sacrifichi intieramente e perpetuamente se stesso ad altrui, (cosa che ora si richiederebbe per conservare la società) e prevalendo naturalmente l’amor proprio, questo si converte in egoismo, e l’odio verso gli altri, figlio naturale dell’amor proprio, diventa nella gran copia di occasioni che ha, più intenso, e più attivo. 2. Si è perduto in gran parte e si va sempre perdendo lo scopo della società, ch’è il bene comune, e ciò per la stessa ragione per cui se n’è perduto il mezzo, cioè la cospirazione degl’individui al detto fine.
Dilatiamo ora queste considerazioni, e seguendo ad applicarle ai fatti, ed alla storia dell’uomo, paragoniamo principalmente gli antichi coi moderni, cioè la società poco stretta e legata, e poco grande, cioè di pochi, con la società strettissima, e grandissima, cioè di moltissimi.
Ho detto che l’amor proprio è inseparabile [878]dall’uomo, e così l’odio verso gli altri ch’è inseparabile da esso, e che per conseguenza esclude primitivamente ed essenzialmente la stretta comunione e società sì degli uomini, che degli altri viventi. Ma siccome l’amor proprio può prendere diversissimi aspetti, in maniera, ch’essendo egli l’unico motore delle azioni animali, esso stesso che è ora egoismo, un tempo fu eroismo, e da lui derivano tutte le virtù non meno che tutti i vizi; così nelle antiche e poche ristrette società (come pure accade anche oggi in parecchie delle popolazioni selvagge che si scoprono, o quando furono scoperte, come alcune America-ne) l’amor proprio fu ridotto ad amore di quella società dove l’individuo si trovava, ch’è quanto dire amor di cor-Letteratura italiana Einaudi 630
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia po o di patria. Cosa ben naturale, perchè quella società giovava effettivamente all’individuo, e tendeva formalmente al suo scopo vero e dovuto, così che l’individuo se le affezionava, e trasformando se stesso in lei, trasformava l’amor di se stesso nell’amore di lei. Come appunto accade nei partiti, nelle congregazioni, negli ordini ec.
massime quando sono nel primitivo [879]vigore, e conservano la prima lor forma. Nel qual tempo gl’individui che compongono quel tal corpo, fanno causa comune con lui, e considerano i suoi vantaggi, gloria, progressi, interessi ec. come propri: e quindi amandolo, amano se stessi, e lo favoriscono come se stessi. Che questo in ultima analisi è l’unico principio dell’amor di corpo, di patria, di Religione, universale o dell’umanità, e di qualunque possibile amore in qualunque animale.
Dunque l’amor proprio si trasformava in amor di patria. E l’odio verso gli altri individui? Non già spariva, ch’è sempre ed eternamente inseparabile dall’amor proprio, e quindi dal vivente: ma si trasformava in odio verso le altre società o nazioni. Cosa naturale e conseguente, se quella tal società o patria, era per ciascuno individuo come un altro se stesso. Quindi desiderio di soverchiarle, invidia de’ loro beni, passione di render la propria patria signora delle altre nazioni, ingordigia altresì de’ loro beni e robe, e finalmente odio ed astio dichiarato; tutte cose che nell’individuo trovandosi verso gli altri individui, lo rendono per natura, [880]incompatibile colla società.
Dovunque si è trovato amor vero di patria, si è trovato odio dello straniero: dovunque lo straniero non si odia come straniero, la patria non si ama. Lo vediamo anche presentemente in quelle nazioni, dove resta un avanzo dell’antico patriotismo.
Ma quest’odio accadeva massimamente nelle nazioni libere. Una nazione serva al di dentro, non ha vero amor di patria, o solamente inattivo e debole, perchè l’individuo non fa parte della nazione se non materialmente.
Letteratura italiana Einaudi 631
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia L’opposto succede nelle nazioni libere, dove ciascuno considerandosi come immedesimato e quasi tutt’uno colla patria, odiava personalmente gli stranieri sì in massa, come uno per uno.
Con queste osservazioni spiegate la gran differenza che si scorge nella maniera antica di considerare gli stranieri, e di operare verso le altre nazioni, paragonata colla maniera moderna. Lo straniero non aveva nessun diritto sopra l’opinione, l’amore, il favore degli antichi. E parlo degli antichi nelle nazioni più colte e civili, e in queste, degli uomini più grandi, colti, ed anche illuminati e filosofi. Anzi la filosofia di allora (che dava molto più nel segno della presente) insegnava e inculcava l’odio nazionale e individuale dello straniero, come di prima necessità alla conservazione [881]dello stato, della indipendenza, e della grandezza della patria. Lo straniero non era considerato come proprio simile. La sfera dei prossimi, la sfera dei doveri, della giustizia, dell’onesto, delle virtù, dell’onore, della gloria stessa, e dell’ambizione; delle leggi ec. tutto era rinchiuso dentro i limiti della propria patria, e questa sovente non si estendeva più che una città.
Il diritto delle genti non esisteva, o in piccolissima parte, e per certi rapporti necessari, e dove il danno sarebbe stato comune se non avesse esistito.
La nazione Ebrea così giusta, anzi scrupolosa nell’interno, e rispetto a’ suoi, vediamo nella scrittura come si portasse verso gli stranieri. Verso questi ella non avea legge; i precetti del Decalogo non la obbligavano se non verso gli Ebrei: ingannare, conquistare, opprimere, uccidere, sterminare, derubare lo straniero, erano oggetti di valore e di gloria in quella nazione, come in tutte le altre; anzi era oggetto anche di legge, giacchè si sa che la conquista di Canaan fu fatta per ordine Divino, e così cento altre guerre, spesso nell’apparenza ingiuste, co’ forestieri. Ed anche oggidì gli Ebrei conservano, e con ragione e congruenza, questa opinione, che non sia peccato l’in-Letteratura italiana Einaudi 632
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia gannare, o far male comunque all’esterno, che chiamano (e specialmente il Cristiano) Goi ywg [882]ossia gentile, e che presso loro suona lo stesso che ai greci barbaro: (v. il Zanolini, il quale dice che, nel plurale però si deve intendere, chiamano oggi i Cristiani \ywg goiìm) riputando peccato, solamente il far male a’ loro nazionali.
E con queste osservazioni si deve spiegare una cosa che può far maraviglia nella Ciropedia. Dove Senofonte vuol dare certamente il modello del buon re, piuttosto che un’esatta istoria di Ciro. E nondimeno questo buon re, dopo conquistato l’impero Assirio, diventa modello e maestro della più fina, fredda, e cupa tirannide. Ma bisogna notare che questo è verso gli Assiri, laddove verso i suoi Persiani, Senofonte lo fa sempre umanissimo e liberalissimo. Ma egli stima che sia tanto da buon re l’opprimere lo straniero, e l’assicurarsi in tutti i modi della sua soggezione, come il conservare una giusta libertà a’
nazionali. Senza la qual distinzione e osservazione, si potrebbe quasi confondere Senofonte con Machiavello, e prendere un grosso abbaglio intorno alla sua vera intenzione, e all’idea ch’egli ebbe del buon Principe. Nel qual proposito osserverò che la regola e il metodo di Ciro (o di Senofonte) di preferire in tutto e per tutto i Persiani ai nuovi sudditi, e dichiarare per tutti i versi, quella,
[883]nazion dominante, e queste, soggette e dipendenti, non fu seguito da Alessandro, il quale anzi a costo d’ini-micarsi i Macedoni, pare che tra’ suoi sudditi di qualunque nazione volesse stabilire una perfetta uguaglianza, e quasi preferir fino i conquistati adottando le vesti e le usanze loro. Il suo scopo fu certo quello di conservarli piuttosto coll’amore che col timore, e colla forza: e non li stimò schiavi (secondo il costume di quei tempi), ma sudditi. E quanto ai Romani, vedi in questo particolare la fine del Capo 6. di Montesquieu, Grandeur etc. Oltre che i Romani accordando la cittadinanza a ogni sorta di stranieri conquistati, gli agguagliavano più che mai potesse-Letteratura italiana Einaudi 633
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ro ai cittadini e compatrioti: ma questa cosa non riuscì loro niente bene, com’è noto, e come ho detto in altro pensiero p.457.
Tornando al proposito, Platone nella Repubblica l.5.
(vedilo) dice: i Greci non distruggeranno certo i greci, non li faranno schiavi, non desoleranno le campagne, nè bruceranno le case loro; ma in quella vece faranno tutto questo ai Barbari. E le Orazioni d’Isocrate tutte piene di misericordia verso i mali de’ Greci, sono spietate verso i barbari, o Persiani, ed esortano continuamente la nazione e Filippo, a sterminarli. Sono notabilissime in questo proposito le sue due Orazioni Panhgurikòw, e pròw FÛlippon, dove inculca di proposito l’odio de’ Barbari nello stesso tempo e per le stesse ragioni che l’amore dei greci, e come conseguenza di questo. V. specialmente quel luogo del panegirico, che comincia EçmolpÛdai d¢ kaÜ
K®rukew, e finisce tÇn aétÇn ¦rgvn ¤keÛnoiw
¤piϑumÇmen, dove parla di Omero e de’ Troiani, p.175-176. della ediz. del Battie, Cambridge 1729. molto dopo la metà dell’orazione ma ancor lungi dal fine. E questa opposizione di misericordia e giustizia verso i propri, e fierezza e ingiustizia verso gli stranieri, è il [884]carattere costante di tutti gli antichi greci e romani, e massime de’
più cittadini, e assolutamente de’ più grandi e famosi: nominatamente poi degli scrittori, anche i più misericor-diosi, umani e civili.
È insigne a questo proposito un luogo di Temistio nell’Orazione scoperta dal Mai pròw tow aÞtiasam¡nouw
¤pÜ tÒ d¡jasϑai t¯n �rx¯n In eos a quibus ob praefecturam susceptam fuerat vituperatus cap.25. Eccolo KaÜ toèton �n tiw ¤n dÛkú proseÛpoi tòn fil�nϑrvpon �lhϑÇw. TÇn d¢ �llvn Kèron m¢n
filop¡rshn kaloÝ, �ll� oé fil�nϑrvpon.
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fil�nϑrvpon: AghsÛlaon d¢ fil¡llhna, kaÜ tòn Sebastòn filorÅmaion, �llon d¢ �llou g¡nouw µ
Letteratura italiana Einaudi 634
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia
¦ϑnouw ¤rast¯n o kaÜ basileçw ¤nomÛsϑh. (regium dominatum exercuit. Maius.) fil�nϑrvpow d¢ �plÇw kaÜ basileçw �plÇw, õ toèto zhtÇn mñnon eÞ
�nϑrvpow õ xr®zvn¤pieikeÛaw: (qui clementia indiget.
Maius.) kaÜ m¯ eÞ Skæϑhw µ Masag¡thw, µ t� kaÜ t�
prohdÛkhse (Mediol. regiis typis. 1816. inventore et interprete Angelo Maio p.66. V. tutto quel capo, e parte del resto, che tutto fa a questo proposito, ma, il luogo riferito principalmente, e dà gran luce e tutta appropria-ta, al mio discorso. V. anche l’oraz.10. di Temistio dell’ediz. Harduin. p.132. B-C. e l’Oraz. 1. p.[885]6. B.
citt. qui in margine dal Mai, come contenenti luoghi paralleli al riportato.) Così egli lodando Teodosio magno. E
infatti la filantropia, o amore universale e della umanità, non fu proprio mai nè dell’uomo nè de’ grandi uomini, e non si nominò se non dopo che parte a causa del Cristianesimo, parte del naturale andamento dei tempi, sparito affatto l’amor di patria, e sottentrato il sogno dell’amore universale, (ch’è la teoria del non far bene a nessuno) l’uomo non amò veruno fuorchè se stesso, ed odiò meno le nazioni straniere, per odiar molto più i vicini e compagni, in confronto dei quali lo straniero gli dovea naturalmente essere (com’è oggi) meno odioso, perchè si oppone meno a’ suoi interessi, e perch’egli non ha interesse di soverchiare, invidiare ec. i lontani, quanto i vicini.
Da tutte queste osservazioni e fatti, risulta un’altra osservazione e un altro fatto conosciutissimo, e caratteristi-co dell’antichità; o piuttosto risulta la spiegazione di questo fatto. Perchè amando l’individuo la patria sua, e conseguentemente odiando gli stranieri, ne seguiva che le guerre fossero sempre nazionali. E tanto più accanite, quanto l’individuo era da ambe le parti più infiammato della sua causa, cioè dell’amor patrio. Massimamente dunque lo erano quelle de’ popoli liberi, o fatte a un popolo libero, [886]per la stessa ragione, per cui, come ho Letteratura italiana Einaudi 635
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia detto, un popolo libero ama maggiormente la patria, e maggiormente odia lo straniero. Così che sì la nazione e l’armata straniera, sì l’individuo straniero, era come nemico privato dell’individuo che combatteva pel suo popolo libero, e per la sua patria. E questa è una delle principali e più manifeste ragioni per cui i popoli più amanti della patria loro, e fra questi i liberi, sono stati sempre i più forti, i più formidabili al di fuori, i più bellicosi, i più intrepidi, i più atti alle conquiste, ed effettivamente, per così dire, i più conquistatori.
Dall’esser le guerre, nazionali, dovea risultare quest’altro effetto, che avea luogo realmente fra gli antichi, ed ha luogo in tutte le nazioni selvagge, e proporzionatamente in quelle che conservano maggiore spirito di nazione, e maggior primitivo, come gli Spagnuoli. Cioè le guerre dovevano essere, a morte, e senza perdono (giacchè tutti e ciascuno erano nimici fra loro), senza distinzione ec. E
l’effetto della vittoria doveva essere il cattivare intieramente non solo il governo, ma la nazione intiera; (come si vide principalmente in Asia a tempo de’ monarchi Assiri nelle lor guerre co’ Giudei ec. e al tempo di Tito Vespasiano) [887]o certo spogliarla de’ costumi, leggi, governatori propri, dei tempii, de’ sepolcri, della roba, del danaio, delle proprietà, delle mogli, dei figli ec. e ridurla se non in ischiavitù, come si costumò antichissimamente, spogliando il vinto anche del suo paese; certo però in servitù: e considerarla come nazione dipendente, soggiogata, non partecipe di nessun vantaggio della nazion dominante, e non appartenente a lei, se non come suddita, nè avente con lei altro di comune, nè diritti, nè ec. come se fosse di altra razza d’uomini. E conseguentemente e congruentemente: perchè insomma tutta quanta la nazione essendo stata ed essendo nemica del vincitore, tutta si trattava come nemica vinta e domata, e tutta era preda del nemico trionfante. Quindi la disperazione delle guerre l’ostinazione delle resistenze le più inu-Letteratura italiana Einaudi 636
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tili, lo scannarsi scambievolmente le popolazioni intiere, piuttosto che aprir le porte al nemico, perchè in fatti il vinto andava nelle mani e nell’assoluta balìa di un nemico mortale, com’egli lo era del vincitore. Quindi anche il combattere le nazioni intere, e l’essere tutti soldati, quanti potevano portar armi, e ciò sempre: cioè tanto in guerra quanto (se non in atto certo in potenza e disposizione) nel tempo di pace. Perchè le nazioni, massime vicine, erano sempre in istato di guerra, odiandosi tutte scambievolmente, e cercando l’una di sorpassar l’altra in [888]qualunque modo per conseguenza necessaria del vero amor patrio. (V. in questo proposito, se però vuoi, l’ Essai sur l’indifférence en matière de Religion ch.10. dove discorre di proposito in questa materia, sebbene in senso opposto al mio, durante 9. pagg. della traduz. di Bigoni cioè dalla p.160. alla 169. ossia dal periodo che comincia: Ma questo non è tutto ancora. Quando i rapporti sociali ec. sino a quello che incomincia: INCEDO PER IGNES. Egli trova anche una conformità di quest’ultimo costume nella moltitudine delle armate odierne, che fa derivare dalla nazionalità delle guerre di questi ultimi anni. Osservo però che questo derivò in principio dalla sola ambizione e dispotismo di Luigi 14.)
Conchiudo che l’indipendenza, la libertà, l’uguaglianza di un popolo antico, non solo non importava l’indipendenza, la libertà, l’uguaglianza degli altri popoli, rispetto a lui, e per quanto era in lui; ma per lo contrario importava la soggezione e servitù degli altri popoli, massime vicini, e l’obbedienza de’ più deboli. E un popolo libero al di dentro era sempre tiranno al di fuori, se aveva forze per esserlo, e questa forza nasceva sovente dalla sua libertà. Nel modo stesso che un principe, per esser egli indipendente e libero, e non aver legami nè ostacoli alla sua volontà, non perciò lascia di tiranneggiare il suo popolo. Anzi quanto più è geloso della sua libertà, tanto più ne toglie a’ sudditi, o a’ più deboli di lui. Così quanto Letteratura italiana Einaudi 637
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia
[889]più una nazione sentiva ed amava se stessa, che avviene massimamente ai popoli liberi, tanto più era nemica delle straniere, e desiderosa di elevarsi sopra loro, di farsene ubbidire, e conquistate, opprimerle; tanto più invidiosa de’ loro beni, ingorda del loro ec. effetto naturale dell’amor nazionale, come lo è dell’amor proprio rispetto agl’individui: essendo insomma l’amor patrio, non altro che egoismo nazionale, e rispetto alla nazione intera, egoismo della nazione. E così dite di qualunque amore o spirito di corpo, di parte ec. Quella nazione dove regna fortemente e vivacemente ed efficacemente l’amor nazionale, è come un grande individuo: e alla maniera dell’individuo, amando se stessa, si ama di preferenza, e desidera, e cerca di superare le altre in qualunque modo.
E quanto all’essere un popolo tanto più tiranno di fuori, quanto più geloso della libertà propria, e nemico della tirannia di dentro, v. l’esempio moderno, che pare all’autore dell’ Essai ec. di vedere nell’Inghilterra rispetto a’ suoi stabilimenti fuor d’Europa. Vedilo, dico, al luogo citato nella pagina precedente.
Questi quadri paiono non solamente disgustosi, anzi terribili, ma tali che nessun male, nessun cattivo stato si possa paragonare col detto stato delle nazioni antiche. E
ciò avverrà massimamente a quelli che considerano la vita come un bene per se stessa, qualunque ella sia. Ma passiamo ora ai moderni, e consideriamo il rovescio della medaglia.
1. L’uomo non si potrà mai (come nessun vivente) spogliare dell’amor di se stesso, nè questo dell’odio verso
[890]altrui. Riconcentrato il potere, tolto agl’individui quasi del tutto il far parte della nazione, di più, spente le illusioni, l’individuo ha trovato e veduto il ben comune come diviso e differente dal ben proprio. Dovendo scegliere, non ha esitato a lasciar quello per questo. E non poteva altrimenti, essendo uomo, e vivendo. Sparite effettivamente le nazioni, e l’amor nazionale, s’è spento Letteratura italiana Einaudi 638
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia anche l’odio nazionale, e l’essere straniero non è più colpa agli occhi dell’uomo. S’è perciò spento l’odio verso altrui, l’amor proprio? allora si spegnerà quando la natura farà un altro ordine di cose e di viventi. La fola dell’amore universale, del bene universale, col qual bene ed interesse, non può mai congiungersi il bene e l’interesse dell’individuo, che travagliando per tutti non travaglierebbe per se, nè per superar nessuno, come la natura vuol ch’ei travagli; ha prodotto l’egoismo universale. Non si odia più lo straniero? ma si odia il compagno, il concittadino, l’amico, il padre, il figlio; ma l’amore è sparito affatto dal mondo, sparita la fede, la giustizia, l’amicizia, l’eroismo, ogni virtù, fuorchè l’amor di se stesso. Non si hanno più nemici nazionali? ma si hanno nemici privati, e tanti quanti son gli uomini; ma non si hanno più amici di sorta alcuna, nè doveri se non verso se stesso. Le nazioni sono in pace al di fuori? [891]ma in guerra al di dentro, e in guerra senza tregua, e in guerra d’ogni giorno, ora, momento, e in guerra di ciascuno contro ciascuno, e senza neppur l’apparenza della giustizia, e senz’ombra di magnanimità, o almeno di valore, insomma senz’una goccia di virtù qualunque, e senz’altro che vizio e viltà; in guerra senza quartiere; in guerra tanto più atroce e terribile, quanto è più sorda, muta, nascosta; in guerra perpetua e senza speranza di pace. Non si odiano, non si opprimono i lontani e gli alieni? ma si odiano, si perseguitano, si sterminano a tutto potere i vicini, gli amici, i parenti; si calpestano i vincoli più sacri; e la guerra essendo fra persone che convivono, non c’è un istante di calma, nè di sicurezza per nessuno. Qual nemicizia dunque è più terribile? Quella che si ha co’ lontani, e che si esercita solo nelle occasioni, certo non giornaliere; o quella ch’essendo co’ vicini si esercita sempre e del continuo, perchè continue sono le occasioni? Quale è più contraria alla natura, alla morale, alla società? Gl’interessi de’ lontani non sono in tanta opposizione coi nostri (e per quan-Letteratura italiana Einaudi 639
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia to lo sono, si odia adesso il lontano, come e più che anticamente, bensì meno apertamente e più vilmente). Ma gl’interessi de’ vicini essendo co’ nostri in continuo urto, la guerra più terribile è quella che deriva dall’egoismo, e dall’odio naturale verso altrui, rivolto non più verso lo straniero, [892]ma verso il concittadino, il compagno ec.
2. Per qual cagione l’amore universale sia un sogno, non mai realizzabile, risulta dalle cose dette in questo discorso, e l’ho esposto già in altri pensieri. Ora non potendo il vivente senza cessar di vivere, spogliarsi nè dell’amor proprio, nè dell’odio verso altrui, resta che queste passioni prendano un aspetto, quanto si può migliore; resta che l’amor proprio dilati quanto più può il suo oggetto (ma non può troppo dilatarlo senza perdersi il se stesso ch’è indivisibile dall’uomo, e quindi ricadere inevitabilmente nell’amor di se solo); e che l’odio verso altrui si allontani quanto più si può, cioè scelga uno scopo lontano. Questo avviene per la prima parte, quando l’individuo trova una comunione e medesimezza d’interesse con quelli che lo circondano; e per la seconda, quando egli non trova la principale opposizione a questo interesse se non ne’ lontani. Ecco dunque l’amor patrio, e l’odio degli stranieri.
E per tutte queste ragioni, io dico, che stante l’amor proprio, e l’odio naturale dell’uomo verso altrui, passioni che lo rendono per natura indisposto alla società, una società non può sussistere veramente, cioè essere effettivamente ordinata al suo scopo ch’è il ben comune di tutta lei, se le dette passioni non prendono il detto aspetto; cioè: la società non può sussistere senz’amor patrio, ed odio degli stranieri. Ed essendo l’uomo essenzialmente ed [893]eternamente egoista, la società per conseguenza, non può essere ordinata al ben comune, cioè sussistere con verità, se l’uomo non diventa egoista di essa società, cioè della sua nazione o patria, e quindi naturalmente nemico delle altre. E per tutte queste ragioni, ed altre che ho spiegato Letteratura italiana Einaudi 640
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia altrove, dico, e segue evidentemente, che la società ed esisteva fra gli antichi, ed oggi non esiste.
3. Come senz’amor patrio non c’è società, dico ancora che senz’amor patrio non c’è virtù, se non altro, grande, e di grande utilità. La virtù non è altro in somma, che l’applicazione e ordinazione dell’amor proprio (solo mobile possibile delle azioni e desiderii dell’uomo e del vivente) al bene altrui, considerato quanto più si possa come altrui, perchè in ultima analisi, l’uomo non lo cerca o desidera, nè lo può cercare o desiderare se non come bene proprio. Ora se questo bene altrui, è il bene assolutamente di tutti, non confondendosi questo mai col ben proprio, l’uomo non lo può cercare. Se è il bene di pochi, l’uomo può cercarlo, ma allora la virtù ha poca estensione, poca influenza, poca utilità, poco splendore, poca grandezza.
Di più, e per queste stesse ragioni, poco eccitamento e premio, così che è rara e difficile; giacchè siamo da capo, mancando allora o essendo poco efficace lo sprone che muove l’uomo ad abbracciar la virtù, cioè il ben proprio.
Talchè anche per questo capo [894]è dannosa la soverchia ristrettezza e piccolezza, o poca importanza e pregio delle società, dei corpi, dei partiti ec. E riguardo all’altro capo, cioè la poca utilità delle virtù che si rapportano al bene o agl’interessi qualunque di pochi, o poco importanti ec. questa è la ragione per cui non sono lodevoli, anzi spesso dannosi i piccoli corpi, società, ordini, partiti, corporazioni, e l’amore e spirito di questi negl’individui. Giacchè le virtù e i sacrifizi a cui questi amori conducono l’individuo, sono piccoli, ristretti, bassi, umili, e di poca importanza, vantaggio, ed entità. In oltre nuocono alla società maggiore, perchè siccome l’amor di patria produce il desiderio e la cura di soverchiare lo straniero, così l’amore de’ piccoli corpi, essendo parimente di preferenza, produce la cattiva disposizione degl’individui verso quelli che non appartengono a quella tal corpo-razione, e il desiderio di superarli in qualunque modo.
Letteratura italiana Einaudi 641
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Così che nasce la solita disunione d’interessi, e quindi di scopo, e così queste piccole società, distruggono le grandi, e dividono i cittadini dai cittadini, e i nazionali dai nazionali, restando tra loro la società sola di nome. Dal che potete intendere il danno delle sette, sì di qualunque genere, come particolarmente di queste famose moderne e presenti, le quali ancorchè studiose o in apparenza, o, poniamo anche, in sostanza del bene di tutta la patria, si vede per esperienza, che non hanno mai fatto alcun bene, e sempre gran male, e maggiore ne farebbero, se arrivassero a prevalere, e conseguire i loro intenti; e ciò per le dette ragioni, e perchè l’amor della setta (fosse pur questa purissima) nuoce all’amore della nazione ec. V. p.1092.
principio. Resta dunque che l’ egoismo sociale, abbia per oggetto una società di tal grandezza ed estensione, che senza cadere negl’inconvenienti delle piccole, non sia tanto grande, che l’uomo per cercare il di lei bene, sia costretto a perdere di vista se stesso; [895]il che egli non potendo fare mentre vive, ricadrebbe nell’ egoismo individuale. L’egoismo universale (giacchè anche questo non potrebb’essere altro che egoismo, come tutte le passioni e tutti gli amori dei viventi) è contraddittorio nella sua stessa nozione, giacchè l’ egoismo è un amore di preferenza, che si applica a se stesso, o a chi si considera come se stesso: e l’ universale esclude l’idea della preferenza. Molto più poi è stravagante l’amore sognato da molti filosofi, non solo di tutti gli uomini, ma di tutti i viventi, e quanto si possa, di tutto l’esistente: cosa contraddittoria alla natura, che ha congiunto indissolubilmente all’amor proprio una qualità esclusiva, per cui l’individuo si antepone agli altri, e desidera esser più felice degli altri, e da cui nasce l’odio, passione così naturale e indistruggibile in tutti i viventi, come l’amor proprio. Ma tornando al proposito, la detta società di mezzana grandezza, non è altro che una nazione. Perchè l’amore delle particolari città native è dannoso oggi, come l’amore de’ piccoli corpi, Letteratura italiana Einaudi 642
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia non producendo niente di grande, come non dà eccitamento nè premio a virtù grandi; e d’altra parte, stac-cando l’individuo dalla società nazionale, e dividendo le nazioni in tante parti, tutte intente a superarsi l’una coll’altra, e quindi nemiche scambievoli. Del che non si può dare maggior pregiudizio. Le città antiche, se anche erano piccole come le moderne, e tuttavia servivano [896]di patria, erano però più importanti assai, per la somma forza d’illusioni che vi regnava, e che somministrando grandi eccitamenti, e premi grandi ancorchè illusorii, bastava alle grandi virtù. Ma questa forza d’illusioni non è propria se non degli antichi, che come il fanciullo, sapevano trar vita vera da tutto, ancorchè menomo. La patria moderna dev’essere abbastanza grande, ma non tanto che la comunione d’interessi non vi si possa trovare, come chi ci volesse dare per patria l’Europa. La propria nazione, coi suoi confini segnati dalla natura, è la società che ci conviene. E conchiudo che senza amor nazionale non si dà virtù grande. Da tutto ciò deducete il gran vantaggio del moderno stato, che ha tolto assolutamente il fondamento, anzi la possibilità della virtù, certo della virtù grande, e grandemente utile; della virtù stabile e solida, e che abbia una base e una fonte durevole e ricca.
4. Lascio la gran vita che nasce dall’amor patrio, e in proporzione della sua forza, ch’è massima ne’ popoli liberi, e che gli antichi godevano mediante questo; e la morte del mondo, sparito che sia l’amor patrio, morte che noi sperimentiamo da gran tempo.
5. Le guerre moderne sono certo meno accanite delle antiche, e la vittoria meno terribile e dannosa al vinto.
Questo è naturalissimo. Non esistendo più nazioni, [897]e quindi nemicizie nazionali, nessun popolo è vinto, nessuno vincitore. Chi vince non vince quel tal popolo, ma quel tal governo. I soli governi sono nemici fra loro. Dunque la vittoria non si esercita sopra la nazione (la quale come l’asino di Fedro cambia solamente la soma, o Letteratura italiana Einaudi 643
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia l’asinaio); ma sopra il solo governo. Una nazione conqui-stata perde il suo governo, e ne riceve un altro che presso a poco è il medesimo. Non essendo nemica della conquistatrice, non avendo avuto guerra con essa, nè questa con lei, partecipa ai di lei vantaggi, alle cariche pubbliche ec.
Non perde le proprietà, nè la libertà civile, nè i costumi ec. (Alle volte non perderà neppure le sue leggi). Ma come tutto il suo, non era suo, ma del suo padrone, così tutto questo, senza nuovo danno de’ suoi individui, come presso gli antichi, passa di peso e senza scomporsi ad essere di un altro padrone.
Anticamente il privato perdeva individualmente le sue proprietà perchè individualmente ne aveva. Ora non egli che non le ha individualmente, e non le può perdere, ma il suo principe vinto perde tutte insieme le proprietà de’
suoi sudditi, ch’erano generalmente ed unitamente sue; e questo per conseguenza accade senza cangiamenti nello stato de’ particolari, e senza nuove violazioni de’ diritti privati e individuali. S’ella diviene dipendente al di fuori, lo era già al di dentro. La sua dipendenza non è nuova se non di nome, perchè la sua indipendenza era pur tale. E
se ora dipende dallo straniero, lo straniero è per lei tutt’uno che il nazionale; perchè la nazione non esisteva neppur prima della conquista; ed ella non amando se stessa, non avendo amor patrio, non odia dunque lo straniero, se non come il nazionale, e come l’uomo odia l’altro uomo. Il diritto delle nazioni [898] è nato dopo che non vi sono state più nazioni. Ella dunque gode gli stessi diritti, che godeva prima della conquista, e gli gode ora come la conquistatrice. Quanto alle guerre, elle non sono già nè meno frequenti, nè meno ingiuste delle antiche. Perchè la sorgente delle guerre, che una volta era l’ egoismo nazionale, ora è l’ egoismo individuale di chi comanda alle nazioni, anzi costituisce le nazioni. E questo egoismo, non è nè meno cupido, nè meno ingiusto di quello. Dunque, come quello, misura i suoi desiderii dalle sue forze; (spesso Letteratura italiana Einaudi 644
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia anche oltre le forze) e la forza è l’arbitra del mondo oggidì, come anticamente, non già la giustizia, perchè la natura degli uomini non si cambia, ma solo gli accidenti. Questi che esagerano l’ingiustizia e frequenza delle guerre antiche prima del Cristianesimo, del diritto delle genti, e del preteso amore universale; mostra che abbiano bensì letto la storia antica, ma non quella de’ secoli Cristiani fino a noi. Quella storia e questa presentano appuntino le stesse ingiustizie, le stesse guerre, lo stesso trionfo della forza ec. nè il Cristianesimo ha migliorato in ciò il mondo di un punto; colla differenza che allora le esercitavano, allora combattevano le nazioni, ora gl’individui, o vogliamo dire i governi; allora per conseguenza i combattenti o gl’ingiusti, erano giusti e virtuosi verso qualcuno, cioè verso i proprii, adesso verso nessuno; allora le nimicizie [899]par-torivano le grandi virtù, e l’eroismo in ciascuna nazione, adesso i grandi vizi e la viltà; allora una nazione opprime-va l’altra, adesso tutte sono oppresse, la vinta come la vincitrice; allora serviva il vinto, adesso la servitù è comune a lui col vincitore; allora i vinti erano miseri e schiavi, cosa naturalissima in tutte le specie di viventi, oggi lo sono nè più nè meno anche i vincitori e fortunati, cosa barbara e assurda; allora chi moveva la guerra, era spesso ingiusto colla nazione a cui la moveva, adesso chi la muove è ingiusto, appresso a poco, tanto con quella a cui la move, quanto con quella per cui mezzo e forza la muove: e ciò tanto nel muoverla, quanto in tutto il resto delle sue azioni pubbliche. E i governi oggi tra loro, sono in istato di guerra (o aperta o no) tanto continua, quanto le nazioni anticamente.
Lascio le atrocità commesse anche ne’ primi e più fervorosi tempi Cristiani sopra i Capi delle nazioni vinte: cosa conseguente, perch’essi erano i vinti, e non le nazioni. E così costumavasi, per naturale effetto, anche anticamente, nella vittoria di nazioni serve al di dentro e monarchiche. Nè mancano esempi più recenti nelle sto-Letteratura italiana Einaudi 645
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia rie, di questa naturale conseguenza dello stato presente dei popoli, cioè dell’odio privato o pubblico fra’ loro capi, e delle sevizie usate sopra i principi vinti o prigioni ec.
Vengo all’atto della guerra. Anticamente, dicono, combattevano le nazioni intere: le guerre de’ tempi [900]Cristiani fatte con piccoli eserciti, hanno meno sangue, e meno danni. Ma anticamente combatteva il nemico contro il nemico, oggi l’indifferente coll’indifferente, forse anche coll’amico, il compagno, il parente; anticamente nessuno era che non combattesse per la causa propria, oggi nessuno che non combatta per causa altrui; anticamente il vantaggio della vittoria era di chi avea combat-tuto, oggi di chi ha ordinato che si combatta. È in natura che il nemico combatta il suo nemico, e per li suoi vantaggi; e ciò si vede anche nei bruti, certo non corrotti, anche dentro la loro propria specie, e co’ loro simili. Ma non è cosa tanto opposta alla natura, quanto che un individuo senza nè odio abituale, nè ira attuale, con nessuno o quasi nessuno vantaggio ed interesse suo, per comando di persona che certo non ama gran fatto, e probabilmente non conosce, uccide un suo simile che non l’ha offeso in nessuna maniera, e che, per dir poco, non conosce neppure e non è conosciuto dall’uccisore. Anzi di più, un individuo ch’egli odia per lo più molto meno di quello che gli comanda di ucciderlo, e certo molto meno di gran parte fra’ suoi stessi compagni d’arme, e fra’ suoi concittadini. Perchè oggi gli odi, le invidie, le nimicizie, si esercitano coi vicini, e nulla ordinariamente coi lontani: l’egoismo individuale ci [901]fa nemici di quelli che ci circondano, o che noi conosciamo, ed hanno attenenza con noi; e massime di quelli che battono la nostra stessa carriera, e aspirano allo stesso scopo che noi cerchiamo, e dove vorremmo esser preferiti; di quelli che essendo più elevati di noi, destano per conseguenza l’invidia nostra, e pungono il nostro amor proprio. Lo straniero al contrario ci è per lo meno indifferente, e spesso più stimato dei conoscen-Letteratura italiana Einaudi 646
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ti, perchè la stima ec. è fomentata dalla lontananza, e dalla ignoranza della realtà, e dallo immaginario che ne deriva: ed infatti in un paese dove non regni amor patrio, il forestiero è sempre gradito, e i costumi, i modi ec. ec.
tanto suoi, come di qualunque nazione straniera, sono sempre preferiti ai nazionali, ed egli lo è parimente. Così che il soldato oggidì è molto più nemico sì di quelli in cui compagnia combatte, sì di quelli in cui vantaggio, per cui volere, sotto di cui combatte, che di coloro ch’egli combatte ed uccide. E tutto ciò per natura delle cose, e non per capriccio. Talchè, se vorremo una volta considerar bene le cose, non le apparenze, troveremo molta più barbarie oggidì nella uccisione di un nemico solo, che anticamente nel guasto di un popolo: perchè questo era del tutto secondo natura; quello è per tutti i versi contrario alla natura.
[902]Voglio andare anche più avanti, e mostrare che questo preteso vantaggio del poco numero de’ combattenti, ha sussistito finora non per altro se non perchè le nazioni hanno conservato qualche cosa di antico, e continuato ad essere in qualche modo nazioni; e che ora che hanno cessato affatto di esserlo, il detto vantaggio non può più sussistere.
Certo che le nazioni non essendo più nemiche l’una dell’altra, e gli eserciti essendo come truppe di operai pagati perchè lavorino il campo del padrone, e il numero di un esercito non richiedendosi che sia se non quanto è quello dell’altro, le guerre si potrebbero sbrigare con pochissimo numero di combattenti, e anche con un com-promesso, dove due sole persone pagate combattessero insieme per decider la causa. Ma l’egoismo dell’uomo porta ch’egli impieghi ad ottenere il suo fine tutte quante le forze ch’egli può impiegare a tale effetto.
Un grand’esercito, sì per se stesso, sì per le imposte che bisognano a mantenerlo, non si mantiene senza incomodo e danno e spesa dei sudditi. Finchè i sudditi non sono Letteratura italiana Einaudi 647
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia stati affatto servi, finchè la moltitudine è stata qualche cosa, finchè la voce della nazione si è fatta sentire, finchè la carne umana, eccetto quella di un solo per nazione, non è stata ad intierissima disposizione di questo solo che comanda, e come la carne, così tutto il resto, e la nazione per tutti i versi; fino, dico, [903]ad un tal punto, il principe non potendo adoperare la nazione a’ suoi propri fini, se non sino ad un certo segno, le armate non furono più che tanto numerose. La nazione, che era ancora in qualche modo nazione, non tollerava facilmente 1. di guerreggiare pel puro capriccio del suo capo, e in bene di lui solo, 2. le leve forzate, o almeno eccessive, 3. l’eccesso delle imposte per far la guerra. Non tollerava, dico, tutto questo, o poneva il principe in gravissimi pericoli e disturbi al di dentro. Così che era dell’interesse del principe di risparmiare la nazione, che ancora tanto o quanto esisteva, e risparmiarla, sì nelle altre cose, sì massimamente dove si trattava del suo sangue, e delle sue proprietà più care, che sono i figli, i congiunti ec. Dal tempo della distruzione della libertà, fino ai principii o alla metà del seicento, i sovrani se anche erano più tiranni d’oggidì, cioè più violenti e sanguinarii, appunto per l’urto in cui erano colla nazione, non sono stati però mai padroni così assoluti de’ popoli, come in appresso. Basta legger le storie e vedere come fossero frequenti e facili e pericolose in quei tempi le sedizioni, i tumulti popolari ec. che per qualunque cagione nascessero, mostravano pur certo che la nazione era ancor viva, ed esisteva. E non era strano in quei tempi, come dopo, [904]il vedere scorrere il sangue de’ principi per mano de’ suoi soggetti. Di più il potere era assai più diviso, tanto colle baronie, signorie, feudi, ch’era il sistema monarchico d’allora, quanto colle particolari legislazioni, privilegii, governi in parte indipendenti delle città o provincie componenti le monarchie. Così che il re, non trovando tutto a sua sola disposizioine, e non potendo servirsi della nazione per le sue voglie, se non Letteratura italiana Einaudi 648
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia con molti ostacoli, le armate venivano ad esser necessariamente piccole: ed è cosa manifesta che quando la signoria di una nazione è divisa in molte signorie, il signore di tutte, non può prendere da ciascuna se non poco, e infinitamente meno di quello che prenderebbe s’egli fosse il signore immediato, e se tutto dipendesse intieramente dall’arbitrio suo. Cosa dimostrata dalla storia, ed osservata dai politici. Ed anche per questo si stima nella guerra come principalissimo vantaggio, l’assoluta padronanza di un solo, e la intera monarchia, come quella di Macedonia in mezzo alla Grecia divisa ne’ suoi poteri. (Il che però ne’ miei principii si deve intendere solamente nel caso che quelle nazioni combattute da una potenza dispotica non siano dominate da vero amor di patria, o meno, se è possibile, di quella nazione soggetta al dispotismo. E tale era la Grecia ai tempi Macedonici, laddove la sola Atene aveva una volta resistito alla potenza dispotica della Persia, e vintala. Perchè del resto è certo che un solo vero soldato della patria, val più di dieci soldati di un despota, se in quella nazione monarchica non esiste altrettanto o simile patriotismo. E appunto nella battaglia di Maratona, uno si trovò contro dieci, cioè 10.m contro 100.m e vinsero.) Sono anche note le costituzioni di quei tempi, le carte nazionali, l’uso degli stati generali, corti ec. come in Francia, in Ispagna ec. con che o la moltitudine faceva ancora sentir la sua voce, o certo il potere restava meno indipendente ed uno, e il monarca più legato.
[905]Ma da che il progresso dell’incivilimento o sia corruzione, e le altre cause che ho tante volte esposte, hanno estinto affatto il popolo e la moltitudine, fatto sparire le nazioni, tolta loro ogni voce, ogni forza, ogni senso di se stesse, e per conseguenza concentrato il potere intierissimamente nel monarca, e messo tutti i sudditi e ciascuno di essi, e tutto quello che loro in qualunque modo appartiene, in piena disposizione del principe; allora e le Letteratura italiana Einaudi 649
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia guerre son divenute più arbitrarie, e le armate immediatamente cresciute. Ed è cosa ben naturale, e non già casuale, ma conseguenza immancabile e diretta della natura delle cose e dell’uomo. Perchè quanto un uomo può adoperare in vantaggio suo, tanto adopera; ed ora che il principe può adoperare al suo qualunque scopo o desiderio, tutta quanta è, e tutto quanto può la nazione, segue ch’egli l’adopri effettivamente senz’altri limiti che quelli di lei stessa, e delle sue possibili forze. Il fatto lo prova. Luigi 14. o primo, o uno de’ primi di quei regnanti che appartengono all’epoca della perfezione del dispotismo, diede subito l’esempio al mondo, della moltitudine delle armate. Dato che sia questo esempio il seguirlo è necessario. Perchè siccome oggi la grandezza di un’armata è arbitraria bensì, ma dipende, e deve corrispondere quanto si possa a quella del nemico, [906]così se quella del nemico è grande, bisogna che ancor voi, se potete, ancorchè non voleste, facciate che la vostra sia grande, e superi, potendo, in grandezza la nemica; nello stesso modo che la potreste far piccola, anzi menomissima per le stesse ragioni, nel caso opposto, come ho detto p.902. Infatti l’esempio di Luigi 14. fu seguito sì da’ principi suoi nemici, sì da Federico secondo, il filosofo despota, e l’autore di molti nuovi progressi del despotismo, da lui felicemente coltivato e promosso. Ed egli parimente obbligò alla stessa cosa i suoi nemici. Finalmente la cosa è stata portata all’eccesso da Napoleone, per ciò appunto ch’egli è stato l’esemplare della forse ultima perfezione del despotismo. Non però quest’eccesso è l’ultimo a cui vedremo naturalmente e inevitabilmente arrivare la cosa.
Dico inevitabilmente, supposti i progressi o la durata del dispotismo, e del presente stato delle nazioni, le quali due cose, secondo l’andamento dei tempi, il sapere che regna ec. non pare che per ora, possano far altro che nuovi progressi, o pigliar nuove radici. E in questo caso, dico inevitabilmente, sì per l’egoismo naturale dell’uomo, e Letteratura italiana Einaudi 650
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia conseguentemente del principe, egoismo il cui effetto è sempre necessariamente proporzionato al potere dell’egoista; sì ancora perchè dato che sia l’esempio, e preso il costume questo andamento, la cosa si rende necessaria anche a chi non la volesse. E [907]che ciò sia vero, osservate. Come si potrebbe rimediare a questo costume, ancorchè egli sia in ultima analisi arbitrario e dipendente dalla volontà? Con un accordo generale dei principi, di tutti coloro che possono mai guerreggiare? Non ignoro che questo accordo si tentò, o si suppose che si tentasse o proponesse al Congresso di Vienna. E certo l’occasione era l’ottima che potesse mai darsi, ed altra migliore non si darà mai. So però che nulla se n’è fatto. Forse avranno conosciuta l’impossibilità, che realmente vi si oppone.
Primo, qual è oggi la guarentia de’ trattati, se non la forza o l’interesse? Qual forza dunque o quale interesse vi può costringere a non cercare il vostro interesse con tutte le forze che potete? Secondo, (e questo prova più immediatamente che, anche volendo, non si può rimediare) chi si fida di un trattato precedente, in tempo di guerra? Chi non conosce quello che ho detto qui sopra nel primo luogo? e generalmente, chi non conosce la natura universale e immutabile dell’uomo? Se dunque il principe conosce tutto ciò, dunque sospetta del suo nemico; dunque anche non volendo, è obbligato a tenersi e provvedersi in modo ch’egli sappia resistere quanto più si può, a qualunque forza che il nemico voglia impiegare per attaccar-lo. Chi è colui che possa levar mille uomini, e ne levi cento, non sapendo se il nemico l’assalterà [908]con cento o con mille, anzi avendo più da creder questo che quello?
E quando si fosse fatto l’accordo generale, e osservatolo per lungo tempo, tanto maggiore sarebbe il vantaggio proposto a chi improvvisamente rompesse il patto: e quindi presto o tardi questo tale non mancherebbe. Ciò lo metterebbe in pieno possesso del suo nemico, e dopo un esempio solo di questa sorta, ognuno diffiderebbe, nes-Letteratura italiana Einaudi 651
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia suno vorrebbe sull’incertezza arrischiare il tutto, e tutti ritornerebbero al primo costume. E ciò si deve intendere non meno in tempo di guerra che di pace, essendo sempre continuo il pericolo che i governi portano l’uno dall’altro. E ciò ancora è manifesto dal fatto, e dalle grandi forze che si tengono ora in tempo di pace, così che non c’è ora un tempo dove un paese resti disarmato, anzi non bene armato, a differenza sì de’ tempi antichi, sì de’ secoli cristiani anteriori a questi ultimi.
Da tutto ciò segue che le armate non solo non iscemeranno più, ma cresceranno sempre, cercando naturalmente ciascuno di superare l’altro con tutte le sue forze, e le sue forze stendendosi quanto quelle della nazione: che quindi le nazioni intiere, come fra gli antichi, si scanneranno scambievolmente, ma non, come fra gli antichi, spontaneamente, e di piena volonterosità, anzi vi saranno cacciate per marcia forza; non odiandosi scambievolmente, anzi essendo in piena indifferenza, e forse anche bramando di esser vinte (perchè, ed anche questo è notabile, perduto l’amor di patria, e l’indipendenza interna, la novità del padrone, e delle leggi, governo ec.
non solo non è odiata nè temuta, ma spesso desiderata e preferita) non per il proprio bene, ma per l’altrui; non per il ben comune, ma di uno solo; anzi di quei soli che abborriranno più di qualunque altro, [909]e più assai di chi combatteranno; insomma non secondo natura, nè per effetto naturale, ma contro natura assolutamente. E lo stesso dite di tutte le altre conseguenze del dispotismo, sì rispetto alla guerra, come indipendentemente da essa.
Cioè i popoli, sì per causa delle proprie e delle altrui armate, sì astraendo da ciò, saranno smunti, impoveriti, disanguati, privati delle loro comodità, impedita o illanguidita l’agricoltura, collo strapparle i coltivatori, e collo spogliarla del prodotto delle sue fatiche; inceppato e sco-raggiato il commercio e l’industria, collo impadronirsi che farà del loro frutto, il sempre crescente dispotismo ec. ec.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ec. In somma le nazioni, senza odiarsi come anticamente, saranno però come anticamente desolate, benchè senza tumulto, e senza violenza straordinaria; lo saranno dall’interno più che dall’estero, e da questo ancora, secondo le circostanze ec. ec. E tutto ciò non già verisimilmente, o senza una stabile e necessaria cagione, ma per conseguenza immancabile della natura umana, la quale non perchè sia diversa e peggiore ne’ principi, ma semplicemente come natura umana, li porterà inevitabilmente a tutto questo; e il fatto già lo dimostra in moltissime e grandissime parti.
E tutto ciò senza ricavarne quell’entusiasmo, quel movimento, quelle virtù, quel valore, quel coraggio, quella tolleranza dei mali e delle fatiche, quella costanza, quella forza, quella vita pubblica e individuale, che derivava agli antichi anche dalle stesse grandi calamità: anzi per lo contrario, crescendo in proporzione delle moderne calamità,
[910]il torpore, la freddezza, l’inazione, la viltà, i vizi, la monotonia, il tedio, lo stato di morte individuale, e generale delle nazioni. Ecco i vantaggi dell’incivilimento, dello spirito filosofico e di umanità, del diritto delle genti creato, dell’amore universale immaginato, dell’odio scambievole delle nazioni distrutto, dell’antica barbarie aboli-ta.
Queste mie osservazioni sono in senso tutto contrario a quello dell’ Essai ec. loc. cit. da me p.888. il quale fa derivare la moltitudine delle armate moderne dallo spirito ed odio nazionale, ed egoismo delle nazioni, ed io (credo molto più giustamente) dalla totale ed ultima estinzione di questo spirito, e quindi di quest’odio, e di questo egoismo.
6. Non solamente le virtù pubbliche, come ho dimostrato, ma anche le private, e la morale e i costumi delle nazioni, sono distrutti dal loro stato presente. Dovunque ha esistito vero e caldo amor di patria, e massime dove più, cioè ne’ popoli liberi, i costumi sono stati sempre quanto fieri, altrettanto gravi, fermi, nobili, virtuosi, one-Letteratura italiana Einaudi 653
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia sti, e pieni d’integrità. Quest’è una conseguenza naturale dell’amor patrio, del sentimento che le nazioni, e quindi gl’individui hanno di se stessi, della libertà, del valore, della forza delle nazioni, della rivalità che hanno colle straniere, e di quelle illusioni grandi e costanti e persuasive che nascono da tutto ciò, e che vicendevolmente lo producono: ed ella è cosa evidente che la virtù non ha fondamento se non se nelle illusioni, e che dove mancano le illusioni, manca la virtù, e regna il vizio, nello stesso modo che la dappocaggine e la viltà. Queste son cose evidenti nelle storie, ed osservate da tutti i filosofi, e politici.
Ed è tanto vero; che le virtù private si trovano sempre in proporzione coll’amor patrio, e colla forza e magnanimità di una nazione; e l’indebolimento di queste [911]cose, colla corruttela dei costumi; e la perdita della morale si trova nella storia sempre compagna della perdita dell’amor patrio, della indipendenza, delle nazioni, della libertà interna, e di tutte le antiche e moderne repubbliche: influendo sommamente e con perfetta scambievolezza, la morale e le illusioni che la producono, sull’amor patrio, e l’amor patrio sulle illusioni e sulla morale. È cosa troppo nota qual fosse la depravazione interna de’ costumi in Francia da Luigi 14. il cui secolo, come ho detto, fu la prima epoca vera della perfezione del dispotismo, ed estinzione e nullità delle nazioni e della moltitudine, sino alla rivoluzione. La quale tutti notano che ha molto giovato alla perduta morale francese, quanto era possibile 1. in questo secolo così illuminato, e munito contro le illusioni, e quindi contro le virtù: 2. in tanta, e tanto radicata e vecchia depravazione, a cui la Francia era assuefatta: 3.
in una nazione particolarmente ch’è centro dell’incivilimento, e quindi del vizio: 4. col mezzo di una rivoluzione operata in gran parte dalla filosofia, che volere o non volere, in ultima analisi è nemica mortale della virtù, perch’è amica anzi quasi la stessa cosa colla ragione, ch’è nemica della natura, sola sorgente della virtù.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia (30. Marzo-4. Aprile 1821.)
Analogo al pensiero precedente è questo che segue.
[912]È cosa osservata dai filosofi e da’ pubblicisti che la libertà vera e perfetta di un popolo non si può mantenere, anzi non può sussistere senza l’uso della schiavitù interna. (Così il Linguet, credo anche il Rousseau, Contrat social l.3. ch.15. ed altri. Puoi vedere anche l’ Essai sur l’indifférence en matière de Religion, ch.10. nel passo dove cita in nota il detto luogo di Rousseau insieme con due righe di questo autore.) Dal che deducono che l’abolizione della libertà è derivata dall’abolizione della schiavitù, e che se non vi sono popoli liberi, questo accade perchè non vi sono più schiavi. Cosa, che strettamente presa, è falsa, perchè la libertà s’è perduta per ben altre ragioni, che tutti sanno, e che ha toccate in cento luoghi. Con molto maggior verità si potrebbe dire che l’abolizione della schiavitù è provenuta dall’abolizione della libertà; o vogliamo, che tutte due son provenute dalle stesse cause, ma però in maniera che questa ha preceduto quella e per ragione e per fatto.
La conseguenza, dico, è falsa: ma il principio della necessità della schiavitù ne’ popoli precisamente liberi, è verissimo. Ecco in ristretto il fondamento e la sostanza di questa proposizione.
L’uomo nasce libero ed uguale agli altri, e tale egli è per natura, e nella stato primitivo. Non così nello [913]stato di società. Perchè in quello di natura, ciascuno provvede a ciascuno de’ suoi bisogni e presta a se medesimo quegli ufficii che gli occorrono, ma nella società ch’è fatta pel ben comune, o ella non sussiste se non di nome, ed è al tutto inutile che gli uomini si trovano insieme, ovvero conviene ch’essi si prestino uffizi scambievoli, e provve-dano mutuamente a’ loro bisogni. Ma ciascuno a ciascun bisogno degli altri non può provvedere: ovvero sarebbe cosa ridicola, e inutile, che io p.e. pensassi intieramente a Letteratura italiana Einaudi 655
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia te, tu intieramente a me, potendo nello stesso modo viver separati, e far ciascuno per noi. Dunque segue la necessità delle diverse professioni e mestieri, alcuni necessari alla vita assolutamente, ovvero tali quali li avrebbe esercitati l’individuo anche nella condizione naturale; altri non necessari, ma derivati appoco appoco dalla società e conducenti ai comodi e vantaggi che si godono (o si pretende godere) nella vita sociale, e intendo anche quei comodi primi primi, che ora passano per necessità; altri finalmente resi effettivamente necessari dalla stessa società come sono i mestieri che provvedono a cose divenuteci indispensabili per l’assuefazione, quello di chi insegna, quello massimamente di chi provvede alle cose pubbliche e veglia al bene e all’esistenza precisa di essa società; quello delle persone che difendono il buono dal cattivo (giacchè nata [914]la società nasce il pericolo del debole rispetto al forte) e la società istessa dalle altre società ec.
ec. ec. In somma, o la società non esiste assolutamente, o in essa esiste necessariamente la differenza dei mestieri e dei gradi.
Questo porterebbe le nazioni alle gerarchie, e così accadde infatti da principio, e accade ne’ popoli ancora non inciviliti, siccome ne’ civili. Ma corrotta appoco appoco la società, e introdotto l’abuso del potere; e quindi i popoli avendo scosso il giogo e ripigliata la libertà naturale, ripigliarono con ciò anche l’uguaglianza. Ed oltre che questa naturalmente vien dietro alla libertà, ho dimostrato altrove che la vera e precisa libertà non può mantenersi in una repubblica, senza tutta quella uguaglianza di cui mai possa esser capace la società.
Ma la libertà ed uguaglianza dell’uomo gli è bensì naturale nello stato primitivo; ma non conviene nè si compa-tisce, massime nella sua stretta nazione, collo stato di società, per le ragioni sopraddette. Restava dunque, che richiedendosi nella società che l’uomo serva all’uomo, e questo opponendosi alla uguaglianza, l’uomo di una tal Letteratura italiana Einaudi 656
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia società fosse servito da uomini di un’altra, o di più altre società o nazioni, ovvero da una parte di quella medesima società, posta fuori de’ diritti, de’ vantaggi, delle proprietà, della uguaglianza, della libertà di questa, insomma considerata come estranea alla [915]nazione, e quasi come un’altra razza e natura di uomini dipendente, subalterna, e subordinata alla razza libera e uguale. Ecco l’uso della schiavitù interna ne’ popoli liberi e uguali; uso tanto più inerente alla costituzione di un popolo, quanto egli è più intollerante della propria servitù, come si è veduto negli antichi. In questo modo la disuguaglianza in quel tal popolo libero veniva ad esser minore che fosse possibile, essendo le fatiche giornaliere, i servigi bassi, che avrebbero degradata l’uguaglianza dell’uomo libero, la coltura della terra ec. destinata agli schiavi: e l’uomo libero, chiunque si fosse, e per povero che fosse, restando padrone di se, per non essere obbligato ai quotidiani servigi mercenarii, che vengono necessariamente a togliere in sostanza la sua indipendenza e libertà; e non partecipando quasi, in benefizio comune della società, se non della cura delle cose pubbliche, e del suo proprio governo, della conservazione o accrescimento della patria col mezzo della guerra ec. colle sole differenze che nasceva-no dal merito individuale ec.
Tale infatti era la schiavitù nelle antiche repubbliche.
Tale in Grecia, tale quella degl’Iloti, stirpe tutta schiava presso i Lacedemoni, oriunda di Elos (�Elow) terra (oppidum) o città (casi Strabone presso il Cellar. 1.967.) del Peloponneso, presa a forza da’ Lacedemoni nelle guerre, credo, Messeniache, e ridottane tutta la popolazione in ischiavitù, sì essa come i suoi discendenti in perpetuo.
V. l’Encyclopéd. Antiquités, art. Ilotes, e il Cellario 1.973.
Tale la schiavitù presso i Romani, della quale v. fra gli altri il Montesquieu, [916] Grandeur etc. ch.17. innanzi alla metà. Floro 3.19. Terra frugum ferax, (Sicilia) et quodammodo suburbana provincia, latifundiis civium Letteratura italiana Einaudi 657
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Romanorum tenebatur. Hic AD CULTUM AGRI frequentia ergastula, CATENATIQUE CULTORES, materiam bello praebuere. E quanta fosse la moltitudine degli schiavi presso ai Romani si può congetturare dalla guerra servile, e dal pericolo che ne risultò. Ne avevano i Romani, cred’io, d’ogni genere di nazioni; e Floro l.c.
nomina un servo Siro cagione e capo della guerra servile; Frontone nell’ultima epist. greca, una serva Sira ec. ec.
cose che si possono vedere in tutti gli scrittori delle antichità Romane. V. il Pignorio De Servis, e, se vuoi, l’articolo originale del Cav. Hager nello Spettatore di Milano 1. Aprile 1818. Quaderno 97. p.244. fine-245. principio, dove si tocca questo argomento della gran moltitudine de’ servi romani, e se ne adducono alcuni esempi e prove, e si cita il detto Pignorio che dovrebbe trovarsi nel Grevio ec. Cibale schiava Affricana è nominata nel Moretum.
E qual fosse l’idea morale che gli antichi avevano degli schiavi, si può dedurre da cento altri scrittori e luoghi, e fatti, e costumi degli antichi, ma segnatamente da questo luogo di Floro 3.20. Enimvero servilium armorum dedecus feras. Nam et ipsi per fortunam IN OMNIA OBNOXII (scil. nobis) tamen QUASI SECUNDUM HOMINUM
GENUS SUNT, et in bona libertatis nostrae adoptantur.
Questa seconda razza di uomini serviva dunque alla uguaglianza e libertà de’ popoli antichi, in proporzione di essa libertà ed uguaglianza, e delle forze rispettive di questo o quel popolo, guerriere o pecunarie ec. per [917]fare o comperare degli schiavi. E l’antica uguaglianza e libertà, si manteneva effettivamente coll’aiuto e l’appoggio della schiavitù, ma della schiavitù di persone, che non avevano nulla di comune col corpo e la repubblica e la società di quelli che formavano la nazione libera ed uguale. Così che la libertà ed uguaglianza di una nazione, aveva bisogno, e supponeva la disuguaglianza delle nazioni, e l’una Letteratura italiana Einaudi 658
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia non era indipendente neppure al di dentro, se non per la soggezione di altre, o parti di altre ec.
E la verità di tutte queste cose, e come l’uso o la necessità della schiavitù in un popolo libero abbia la sua ragione immediata non nella libertà, ma precisamente nella uguaglianza interna di esso popolo, si può vedere manifestamente per questa osservazione, la quale dà molta luce a questo discorso. Arriano (Histor. Indica, cap.10. sect.8-9. edit. Wetsten. cum Expedit. Alexand. Amstelaed. 1757.
cura Georg. Raphelii, p.571.) dice fra le cose che si rac-contavano degl’Indiani: Eänai d¢ (l¡getai) kaÜ tñde m¡ga ¤n t» � IndÇn g», p�ntaw � Indoçw eänai
¤leuϑ¡rouw, oéd¡ tina doèlon eänai � Indon: toèto m¢n LakedaimonÛoisin ¤w tautò sumbaÛnei kaÜ �indoÝsin: (qua quidem in re Indis cum Lacedaemoniis convenit.
Interpres.) LakedaimonÛoiw m¡n ge oß eálvtew doèloÛ
eÞsin, kaÜ t� doælvn ¤rg�zontai: �IndoÝsi d¢, oéd¢
�llow doèlñw ¤sti, m®ti ge � IndÇn tiw. (m®toige nedum. Index vocum.) [918]Osservate subito che questa cosa pare ad Arriano maravigliosa e singolare. Poi osservate, che gl’indiani erano liberi, cioè parte avevano monarchie, ma somiglianti a quella primitiva di Roma ch’era una specie di Repubblica e alle antichissime monarchie greche; parte erano pñliew aétñnomoi città libere e indipendenti assolutamente. (Id. ibid. c.12. sect.6. et 5.
p.574.) Qual era dunque la cagione di questa singolarità?
Sebbene Arriano non l’osserva, ella si trova però in quello ch’egli soggiunge immediatamente. Ed è questo: Nen¡mhntai d¢ oß p�ntew � IndoÜ ¤w ¥pt� m�lista gene�w Distinguuntur autem Indi omnes in septem potissimum genera hominum (interpres.), ossia, caste. (Id.
ib. c.11. sect.1. p.571.) La prima de’ sofisti (sofistaÜ), la seconda degli agricoltori (gevrgoÜ), la terza de’ pa-stori e bifolchi (nom¡ew, oi poim¡new te kaÜ boukñloi), la 4ta opificum et negotiatorum (dhmiourgikñn te kaÜ
kaphlikòn g¡now), la quinta dei militari (oß polemistaÜ) Letteratura italiana Einaudi 659
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia i quali non avevano che a far la guerra quando bisognava, pensando gli altri a fornirli di armi, mantenerli, pagarli (tanto in tempo di guerra che di pace) e prestar loro tutti quanti gli uffizi castrensi, come custodire i cavalli, condurre gli elefanti, nettare le armi, fornire e guidare i cocchi, sicchè non restava loro che le pure funzioni guerriere; la sesta episcoporum sive inquisitorum (oi ¤pÛskopoi kaleñmenoi), specie d’ispettori di polizia, i quali non potevano [919]riferir niente di falso, e nessun indiano fu incolpato mai di menzogna oéd¡ tiw �IndÇn aÞtÛhn ¦sxe ceæsasϑai (c.12. sect.5. p.574. fine); la settima finalmente oß êp¢r tÇn koinÇn bouleuðmenoi õmoè tÒ basileÝ, µ kat� pñliaw ôsai aétñnomoi, (liberae. interpres) sçn t»sin �rx»sin: casta per sapienza e giustizia (sofÛh+ kaÜ
dikaiñthti) sopra tutti prestante, dalla quale si sceglie-vano i magistrati, i regionum praesides (nom�rxai), i pre-fetti (ìparxoi), i quaestores (ϑhsaurofælakew), i stratofælakew ( copiarum duces), naæarxoÛ te, kaÜ
tamÛai, kaÜ tÇn kat� gevrgÛhn ¦rgvn ¤pist�tai.
(ib. c.12. sect.6-7.) Ecco dunque la ragione perchè gl’indiani non usavano schiavitù. Perchè sebben liberi, non avevano l’uguaglianza.
Ma come dunque senza l’uguaglianza conservavano la libertà? Neppur questo l’osserva Arriano, ma la cagione si deduce da quello ch’egli immediatamente soggiunge: (ib. sect.8-9) Gam¡ein d¢ ¤j ¤t¡rou g¡neow, oé ϑ¡miw: oåon toÝsi gevrgoÝsin ¤k toè dhmiourgikoè, µ ¦mpalin: oéd¢ dæo t¡xnaw ¤pithdeæein tòn aétòn, oéd¢ toèto ϑ¡miw: oéd¢ �meÛbein ¤j ¥t¡rou g¡neow eÞw §teron: oåon gevrgikòn ¤k nom¡vw g¡nesϑai µ nom¡a ¤k chmiorgikoè. Moènon ofÛsin �neÝtai, sofist¯n ¤k pantòw g¡neow gen¡sϑai: ôti oé malϑak� toÝsi sofist»sin eÞsÜ t� pr®gmata, �ll� p�ntvn talaipvrñtata (non mollis vita sed omnium
laboriosissima. interpres.)
Letteratura italiana Einaudi 660
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Questa costituzione, che si vede ancora sussistere fra
[920]gl’indiani quanto alla distinzione in caste, e al divieto di passare dall’una all’altra o per matrimonii, o comunque; a questa costituzione che sussiste, credo, in parte anche nella Cina, dove il figlio è obbligato ad esercitare la professione del padre, e dove i ranghi sono con molta precisione distinti; questa costituzione, di cui, se ben ricordo, si trova qualche traccia fra gli antichi Persiani nel primo o ne’ primi libri della Ciropedia; questa costituzione, di cui si trova pure qualche indizio nel popolo Ebreo, dove una sola tribù era destinata esclusivamente al Sacerdozio; questa costituzione che pare che in tutto o in parte, fosse comune, fino dagli antichissimi tempi, ai popoli dell’Asia, e si vede, se non erro, anche oggidì, in alcune nazioni delle coste dell’Affrica; questa costituzione di cui forse si potrebbero trovare molte somiglianze anche nelle altre conosciute, e massime nelle più antiche, come nell’antica costituzione di Roma ec.; questa costituzione, dico, è forse la migliore, forse l’unica capace di conservare, quanto è possibile, la libertà senza l’uguaglianza.
Perocchè, ponendo un freno e un limite all’ambizione, e alla cupidigia degl’individui, e togliendo [921]loro la facoltà di cangiare, e di avanzare più che tanto la loro condizione, viene a togliere in gran parte la collisione dei poteri, e le discordie interne; viene a conservare l’equilibrio, a mantenere lo stato primitivo della repubblica (che dev’essere il principale scopo degl’istituti politici), a perpetuare l’ordine stabilito ec. ec.
Vero è però, anzi troppo vero, che in questa costituzione io dubito che si possano trovare i grandi vantaggi della libertà. Si troverà la quiete, e la detta costituzione sarà adattata ad un popolo, che per qualunque cagione, sia capace di contentarsi di questo vantaggio, e contenere i suoi desideri dentro i limiti del tranquillo e libero ben essere, e ben vivere, senza curarsi del meglio che in verità Letteratura italiana Einaudi 661
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia è sempre nemico del bene. Ma l’entusiasmo, la vita, le virtù splendide dei popoli liberi, non pare che si possano compatire con questa costituzione. Tolte le due molle dell’ambizione e della cupidigia, vale a dire dell’interesse proprio; tolta quasi la molla della speranza, almeno della grande speranza; deve seguirne l’inattività, e il poco valore in tutto il significato di questa parola, la poca forza nazionale ec. L’interesse proprio non essendo legato con quello della patria, o per lo meno, con quello del di lei avanzamento, giacchè questo avanzamento non sarebbe
[922]legato, o certo poco legato, coll’avanzamento individuale, e di quello stesso che avesse procurato l’avanzamento della patria; di più non partecipando, se non pochissimi al governo, e quindi la moltitudine, non sentendo intimamente di far parte della patria, e d’esser compatriota de’ suoi capi; l’amor patrio in questo tal popolo, o non deve formalmente e sensibilmente esistere, o certo non dev’esser molto forte, nè cagione di grandi effetti, nè capace di spingere l’individuo a grandi sacrifizi.
Il fatto dimostra queste mie osservazioni. Perchè una conseguenza immancabile di questa costituzione, dev’essere, secondo il mio discorso, che un tal popolo, ancorchè libero, e quanto all’interno, durevole nella sua libertà, e nel suo stato pubblico, tuttavia non possa essere conquistatore. Ora ecco appunto che Arriano ci dice, come gl’indiani non solo non furono mai conquistatori, ma per una parte, da Bacco e da Ercole in poi era opinione oéd¡na
¤mbaleÝn ¤w g°n tÇn �IndÇn ¤pÜ pol¡mÄ fino ad Alessandro (l.c. c.9. sect.10. p.569); ed ecco la cagione per cui anche senza troppa forza nazionale, ed interna, il loro stato potè durare lungamente: per l’altra parte era pure opinione (sect.12. p. cit.) oé m¢n d¯ oéd¢ �IndÇn tina
¦jv t°w oÞkeÛhw stal°nai ¤pÜ pol¡mÄ, di� dikaiñthta (ad bellum missum [923]esse. interpres). E altrove più brevemente: (c.5. sect.4. p.558.) Otow În õ Megasϑ¡nhw l¡gei, oëte �Indoçw ¤pistrateèsai oédamoÝsin Letteratura italiana Einaudi 662
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia
�nϑrÅpoisin, oëte �IndoÝsin �llouw �nϑrÅpouw.
Cioè fino ad Alessandro. Conseguenza naturale della detta costituzione, sebbene Arriano lo riferisce staccatamente, e come indipendente, e non vede la relazione che hanno queste cose tra loro. V. p.943. capoverso 2.
Il fatto sta che siccome nessuna nazione è così atta alla qualità di conquistatrice, come una nazione libera, il che apparisce dal fatto, e da quello che ho ragionato nel pensiero antecedente ec.; così anche è pur troppo vero che il maggior pericolo della libertà di un popolo nasce dalle sue conquiste e da’ suoi qualunque ingrandimenti, che distruggono appoco [appoco] l’uguaglianza, senza cui non c’è vera libertà, e cangiano i costumi, lo stato primitivo, l’ordine della repubblica; sicchè finalmente la precipita-no nella obbedienza. Cosa anche questa dimostrata dal fatto.
(4-6. Aprile 1821.)
Siccome l’amor patrio o nazionale non è altro che una illusione, ma facilmente derivante dalla natura, posta la società, com’è naturale l’amor proprio nell’individuo, e posta la famiglia, l’amor di famiglia, che si vede anche ne’
bruti; così esso non si mantiene, e non produce buon frutto senza le illusioni e i pregiudizi che naturalmente ne derivano, o che anche ne sono il fondamento. L’uomo non è sempre ragionevole, ma sempre conseguente in un modo o nell’altro. Come dunque amerà [924]la sua patria sopra tutte, e come sarà disposto nei fatti, a tutte le conseguenze che derivano da questo amore di preferenza, se effettivamente egli non la crederà degna di essere amata sopra tutte, e perciò la migliore di tutte; e molto più s’egli crederà le altre, o qualcun’altra, migliore di lei?
Come sarà intollerante del giogo straniero, e geloso della nazionalità per tutti i versi, e disposto a dar la vita e la roba per sottrarsi al dominio forestiero, se egli crederà lo straniero uguale al compatriota, e peggio, se lo crederà Letteratura italiana Einaudi 663
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia migliore? Cosa indubitata: da che il nazionale ha potuto o voluto ragionare sulle nazioni, e giudicarle; da che tutti gli uomini sono stati uguali nella sua mente; da che il merito presso lui non ha dipenduto dalla comunanza della patria ec. ec.; da che egli ha cessato di persuadersi che la sua nazione fosse il fiore delle nazioni, la sua razza, la cima delle razze umane; dopo, dico, che questo ha avuto luogo, le nazioni sono finite, e come nella opinione, così nel fatto, si sono confuse insieme; passando inevitabilmente la indifferenza dello spirito e del giudizio e del concetto, alla indifferenza del sentimento, della inclinazione, e dell’azione. E questi pregiudizi che si rimpro-verano alla Francia, perchè offendono l’amor proprio degli stranieri, sono la somma salvaguardia della sua nazionale indipendenza, come lo furono presso gli antichi; [925]la causa di quello spirito nazionale che in lei sussiste, di quei sacrifizi che i francesi son pronti a fare ed hanno sempre fatto, per conservarsi nazione, e per non dipendere dallo straniero; e il motivo per cui quella nazione, sebbene così colta ed istruita (cose contrarissime all’amor patrio), tuttavia serba ancora, forse più che qualunque altra, la sembianza di nazione. E non è dubbio che dalla forza di questi pregiudizi, come presso gli antichi, così nella Francia, doveva seguire quella preponderanza sulle altre nazioni d’Europa, ch’ella ebbe finora, e che riacquisterà verisimilmente.
(6. Aprile 1821.)
Si considera come sola cosa necessaria la vita, la quale anzi è la cosa meno necessaria di tutte le altre. Perchè tutte le necessità o desiderabilità hanno la loro ragione nella vita, la quale, massime priva delle cose o necessarie o desiderabili, non ha la ragione della sua necessità o desiderabilità in nessuna cosa.
(6. Aprile 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 664
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia La superiorità della natura sopra tutte le opere umane, o gli effetti delle azioni dell’uomo, si può vedere anche da questo, che tutti i filosofi del secolo passato, e tutti coloro che oggi portano questo nome, e in genere tutte le persone istruite di questo secolo, che è indubitatamente
[926]il più istruito che mai fosse, non hanno altro scopo rispetto alla politica (parte principale del sapere umano), e non sanno trovar di meglio che quello che la natura aveva già trovato da se nella società primitiva, cioè rendere all’uomo sociale quella giusta libertà ch’era il cardine di tutte le antiche politiche presso tutte le nazioni non corrotte, e così oggi presso tutte le popolazioni non incivilite, e allo stesso tempo non barbarizzate, cioè tutte quelle che si chiamano barbare, di quella barbarie primitiva, e non di corruzione.
(6. Aprile 1821.)
Alla p.872. E non per altra cagione sono odiose e riputate contrarie alla buona creanza le lodi di se medesimo, se non perchè offendono l’amor proprio di chi le ascolta. E perciò la superbia è vizio nella società, e perciò l’umiltà è cara, e stimata virtù.
(7 Aprile 1821.)
In qualunque nazione o antica o moderna s’incontrano grandi errori contrari alla natura, come dovunque grandi cognizioni contrarie alla natura; quivi non s’incontra niente o ben poco di grande di bello di buono. E questo è l’uno de’ principali motivi per cui le nazioni orientali, ancorchè grandi, ancorchè la loro storia rimonti a tempi antichissimi, tempi ordinariamente compagni del grande e del bello; ancorchè ignorantissime in ultima analisi, e quindi prive dei grandi ostacoli della ragione e del vero, e questo anche oggidì; tuttavia non offrano quasi niente di vero grande nè di vero bello, e ciò tanto [927]riguardo alle azioni, ai costumi, all’entusiasmo e virtù della vita, Letteratura italiana Einaudi 665
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia quanto alle produzioni dell’ingegno e della immaginazione. E la causa per la quale i Greci e i Romani soprastanno a tutti i popoli antichi, è in gran parte questa, che i loro errori e illusioni furono nella massima parte conformissime alla natura, sicchè si trovarono egualmente lontani dalla corruzione dell’ignoranza, e dal difetto di questa. Al contrario de’ popoli orientali le cui superstizioni ed errori, che sebbene moderni e presenti, si trovano per lo più di antichissima data, furono e sono in gran parte contrarie alla natura, e quindi con verità si possono chiamar barbare. E si può dire che nessun popolo antico, nell’ordine del grande e del bello, può venire in paragone de’ greci e de’ Romani. Il che può derivare anche da questo, che forse i secoli d’oro degli altri popoli, come degli Egiziani, degl’Indiani, de’ Cinesi, de’ Persiani ec.
ec. essendo venuti più per tempo, giacchè questi popoli sono molto più antichi, la memoria loro non è passata fino a noi, ma rimasta nel buio dell’antichità, col quale viene a coincidere la epoca dei detti secoli; e per lo contrario ci è pervenuta la memoria sola della loro corruzione e barbarie, succeduta naturalmente alla civiltà, e ab-battutasi ad esser contemporanea della grandezza e del fiore dei popoli greco e Romano, la qual grandezza occupa [928]e signoreggia le storie nostre, alle quali per la maggior vicinanza de’ tempi ha potuto pervenire, e perch’ella signoreggiò effettivamente in tempi più vicini a noi. Anzi si può dire che quanto ci ha di grande e di bello rispetto all’antichità nelle storie, e generalmente in qualunque memoria nostra, tutto appartiene all’ultima epoca dell’antichità, della quale i greci e i Romani furono effettivamente gli ultimi popoli. �Ù �Ellhnew �eÜ paÝdew
¤ot¢ ec. Platone in persona di quel sacerdote Egiziano.
(10. Aprile 1821.). V. p.2331.
Letteratura italiana Einaudi 666
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Spegnere parola tutta propria oggi degl’italiani, non pare che possa derivare da altro che da sbennæein mutato, oltre la desinenza, il b in p, mutazione ordinaria per esser due lettere dello stesso organo, cioè labiali, e il doppio n in gn, questo pure ordinario, e ordinarissimo presso gli spagnuoli che da annus fanno año ec. ec. Se dunque spegnere deriva dalla detta parola greca, è necessario supporre ch’ella fosse usitata nell’antico latino, (sia che le dette mutazioni, o vogliamo, diversità di lettere esistessero già nello stesso latino, sia che vi fossero introdotte, nel passare questa parola dal latino in italiano) tanto più che l’uso del detto verbo spegnere è limitato, (cred’io) alla sola Italia. Il Forcellini non ha niente di simile nelle parole comincianti per exb, exp, exsb, exsp, sb, sp. Parimente il Ducange, che ho ricercato accuratamente.
(10. Aprile 1821.)
La lingua Sascrita, quell’antichissima lingua indiana, che quantunque diversamente alterata e corrotta, e distinta in moltissimi dialetti, vive ancora e si parla in tutto l’Indostan, [929](Annali di Scienze e Lettere Milano.
1811. Gennaio. vol.5. n.13. Vilkins, Gramatica della lingua Sanskrita: articolo tradotto da quello di un cospicuo letterato nell’Edinburgh Review. p.28-29-31. fine-32. principio. e 32. mezzo. 35. fine-36. principio) e altre parti dell’India, (ivi 28. fine) e segnatamente sotto nome di lingua Pali in tutte le nazioni poste all’oriente della medesima India (ivi 36.); quella lingua che Sir William (Guglielmo) Jones famosissimo per la cognizione sì delle cose orientali, sì delle lingue orientali e occidentali (ivi 37. princip. e fine), non dubitò di dichiarare essere più perfetta della greca, più copiosa della Latina, e dell’una e dell’altra più sapientemente raffinata (ivi 52.); quella lingua dalla quale è opinione di alcuni dotti inglesi del nostro secolo, non senza appoggio di notabili argomenti e confronti, che sieno derivate, o abbiano avuto origine Letteratura italiana Einaudi 667
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia comune con lei, le lingue Greca, Latina, Gotica, e l’antica Egiziana o Etiopica (come pure i culti popolari primitivi di tutte queste nazioni) (ivi. 37.38. princip. e fine); questa lingua, dico, antichissima, ricchissima, perfettissima, avendo otto casi, non si serve delle preposizioni coi nomi ( i suoi otto casi rendono superfluo l’uso delle preposizioni. ivi 52. fine), ma le adopera esclusivamente da pre-figgersi ai verbi, come si fa in greco, laddove, sole, rimangonsi prive affatto d’ogni significato. (ivi.) Così che tutte le sue preposizioni sono destinate espressamente ed unicamente alla composizione, e a variare e moltiplicare col mezzo di questa, i significati [930]dei verbi. (Altre particolarità di quella lingua, analoghe affatto alle particolarità e pregi delle nostre lingue antiche, come formalmente l’osserva l’Estensore dell’articolo, puoi vederle, se ti piacesse, nel fine d’esso articolo, cioè dalla metà della p.52. a tutta la p.53.).
(11. Aprile 1821.)
Oggi l’uomo è nella società quello ch’è una colonna d’aria rispetto a tutte le altre e a ciascuna di loro. S’ella cede, o per rarefazione, o per qualunque conto, le colonne lontane premendo le vicine, e queste premendo nè più nè meno in tutti i lati, tutte accorrono ad occupare e riempiere il suo posto. Così l’uomo nella società egoista.
L’uno premendo l’altro, quell’individuo che cede in qualunque maniera, o per mancanza di abilità, o di forza, o per virtù, e perchè lasci un vuoto di egoismo, dev’esser sicuro di esser subito calpestato dall’ egoismo che ha dintorno per tutti i lati: e di essere stritolato come una macchina pneumatica dalla quale, senza le debite precauzio-ni, si fosse sottratta l’aria.
(11. Aprile 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 668
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia A quello che ho detto delle guerre antiche paragonate colle moderne, aggiungete che una nazione intera potrà muover guerra per qualche causa ingiusta, (e ciò ancora più difficilmente che il principe), ma non mai per un assoluto capriccio. Al contrario il principe. Perchè molti non possono avere uno stesso capriccio, essendo il capriccio una cosa relativa, e variabile, secondo le [931]teste, e senza una causa uniforme di esistere. Così che la nazione non si può accordare tutta intiera in un capriccio. Ma s’ella non ha bisogno di convenirci, dipendendo già tutta intera da un solo, e questo solo avendo capricci come gli altri perchè uomo, e più degli altri perchè padrone, e potendo il suo capriccio disporre della guerra e della pace, e di tutto quello che spetta a’ suoi sudditi; vedete quali sono le conseguenze; osservate se combini-no coi fatti, e poi anche ditemi se dalla possibilità del capriccio nel mover guerra, segua che queste debbano esser più rare o più frequenti delle antiche.
(11. Aprile 1821.)
Non è cosa più dispiacevole e dispettosa all’uomo afflitto, e oppresso dalla malinconia, dalla sventura presente, o dal presente sentimento di lei, quanto il tuono della frivolezza e della dissipazione in coloro che lo circondano, e l’aspetto comunque della gioia insulsa. Molto più se questo è usato con lui, e soprattutto s’egli è obbligato per creanza, o per qualunque ragione a prendervi parte.
(12. Aprile 1821.)
La stessa proporzionata disparità ch’è fra gli antichi e i moderni, in ordine al bello, alla immaginazione, alla letizia, alla felicità per l’una parte, e al vero, alla ragione, alla malinconia, alla infelicità per l’altra parte; la stessa, dico, si trova proporzionatamente in ciascheduna età antica o moderna, fra i popoli meridionali e i settentrionali. Sebbene l’antichità era il tempo del bello, [932]e della imma-Letteratura italiana Einaudi 669
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ginazione, tuttavia anche allora la Grecia e l’Italia ne erano la patria, e il luogo. E quantunque non fossero quei tempi adattati alla profondità dell’intelletto, al vero, alla malinconia, contuttociò ne’ Settentrionali si vede l’inclinazione loro naturale a queste qualità, e negl’inni, nei canti, nelle sentenze staccate dei Bardi, si nota, oltre alla famosa malinconia, una certa profondità di pensiero, e la osservazione di certe verità che anche oggi in tanto progresso della filosofia, non sono le più triviali. Insomma vi si nota un carattere di pensiero diversissimo nella profondità, da quello de’ meridionali degli stessi tempi. (V.
se vuoi, gli Annali di Scienze e Lettere, Milano. vol.6.
n.18. Giugno 1811. Memoria intorno ai Druidi e ai Bardi Britanni, p.376-378. e 383 fine – 385. dove si riportano parecchi aforismi e documenti de’ Bardi.) Così per lo contrario, sebbene l’età moderna è il tempo del pensiero, nondimeno il settentrione ne è la patria, e l’Italia conserva tuttavia qualche poco della sua naturale immaginazione, del suo bello, della sua naturale disposizione alla letizia ed alla felicità. In quello dunque che ho detto de’ miei diversi stati, rispetto alla immaginazione e alla filosofia, paragonandomi col successo de’ tempi moderni agli antichi, si può anche aggiungere il paragone coi popoli meridionali e settentrionali.
(12. Aprile 1821.)
L’estensione reale e strettamente considerata, della quale è capace una lingua, in quanto lingua [933]usuale, quotidiana, propria, e materna, è piccolissima; e molto minore che non si crede. Una stretta conformità di linguaggio, e per conseguenza una medesima lingua strettamente considerata, non è comune se non ad un numero ben piccolo di persone, e non occupa se non un piccolo tratto geo-grafico.
Letteratura italiana Einaudi 670
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia 1. Ognuno sa e vede in quante lingue riconosciute, e scritte, e distinte con precisione, sia divisa l’Europa, e il mondo, e come ciascuna nazione usi una lingua differente precisamente dalle altre, e propria sua, sebbene possa aver qualche maggiore o minore affinità colle forestiere.
2. Diffondendosi una nazione, ed occupando un troppo largo tratto di paese, e crescendo a un soverchio numero d’individui, l’esperienza continua dei secoli, e la fede di tutte le storie, dimostra che la lingua di quella nazione si divide, la conformità del linguaggio si perde, e per quanto quella nazione sia veramente ed originariamente la stessissima, la sua lingua non è più una. Così è accaduto alla lingua de’ Celti, diffusi per la Gallia, la Spagna, la Bretagna, e l’Italia ec. con che la lingua celtica s’è divisa in tante lingue, quanti paesi ha occupato la nazione. Così alla teutonica, alla slava ec. e fra le orientali all’arabica, colla diffusione de’ maomettani.
3. Sebbene un popolo conquistatore trasporti e pianti la sua lingua nel paese conquistato, e distrugga anche del tutto la lingua paesana, la sua lingua in quel tal paese appoco appoco si altera, finattanto che torna a diventare una lingua diversa dalla introdottaci. Testimoni i Romani, [934]la cui lingua piantata colla conquista nella Francia e nella Spagna, (per non estenderci ora ad altro) e distrutta intieramente la lingua indigena (giacchè quei minimi avanzi che ne potessero ancora restare, non fanno caso), non fece altro che alterandosi a poco a poco, finalmente emettere dal suo seno due lingue da lei formalmente diverse, la francese, e la spagnuola. Lo stesso si potrebbe dire d’infinite altre famiglie di lingue Europee, e non Europee, che uscite ciascuna da una lingua sola, colla diffusione dei loro parlatori, si sono moltiplicate e divise in tante lingue quante compongono quella tal famiglia.
Letteratura italiana Einaudi 671
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia 4. Anche dalle osservazioni precedenti si può dedurre, che questa impossibilità naturale e positiva dello estendersi una lingua più che tanto, in paese, e in numero di parlatori (o provenga dal clima che diversifichi naturalmente le lingue, o da qualunque cagione), non è solamente dipendente dalla mescolanza di altre lingue che guastino quella tal lingua che si estende, a misura che trova occupato il posto da altre, e ne le caccia: ma che è un’impossibilità materiale, innata, assoluta, per cui, quando anche tutto il resto del mondo fosse vuoto, o muto, quella tal lingua, dilatandosi più che tanto, si dividereb-be appoco appoco in più lingue. E ciò intendo di confermare anche colle osservazioni seguenti.
5. Le colonie che trasportano di pianta una lingua in diversi luoghi, portandovi i di lei stessi parlatori [935]naturali, sono soggette alla stessa condizione. Testimoni i tre famosi e principali dialetti delle colonie greche, Jonico, Dorico, Eolico, per tacere d’infiniti altri esempi.
6. Ciò non basta. Solamente che una nazione, senza occupare paesi discosti, e forestieri, senza trasportarsi in altri luoghi, si dilati, e formi un corpo più che tanto grande, la sua lingua, dentro la stessa nazione, e nelle sue proprie viscere, si divide, e si diversifica più o meno dalla sua primitiva, in proporzione della distanza dal primo e limitato seggio della nazione, dalla prima fonte della nazione e della lingua, la quale non si conserva pura se non in quel preciso e ristretto luogo dov’ella fu primieramente parlata. Testimoni i moltissimi dialetti minori ne’ quali era divisa la lingua greca dentro la stessa Grecia, paese di sì poca estensione geografica, il Beotico, il Laconico, il Macedonico, lo Spartano, il Tessalico: e parimente suddivisi i di lei dialetti principali negli altri minori, Cretese, Sciotto, Cipriotto, Cirenese, Delfico, Efesio, Lidio, Licio, Megarese, Panfilio, Fenicio, Regino, Siciliano, Siracusano, Tarentino ec. (V. Sisti, Introduz. alla lingua greca §.211.) Testimoni i dialetti della lingua italiana, della francese, Letteratura italiana Einaudi 672
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia della spagnuola, della tedesca, e di tutte le lingue antiche o moderne, purchè i loro parlatori siano più che tanto estesi di numero e di paese. Che la lingua Ebraica fosse distinta in dialetti nelle stesse tribù Ebraiche, dentro la stessa Cananea. v. Iudic. c.12. vers.5-6. e quivi i comentatori. La lingua Caldaica ec. non è che un Dialetto dell’Ebraica. La samaritana parimente; o l’ebraica è un dial. della Samarit. o figlia o corruzione di essa. ec. De’
tre dialetti egiziani-coptici tutti tre scritti, v. il Giorgi.
7. Neppur questo è tutto. Ma dentro i confini di un medesimo ed unico dialetto, non v’è città, il cui linguaggio non differisca più o meno, da quello medesimo della città più immediatamente vicina. Non differisca dico, nel tuono e inflessione e modulazione della pronunzia, nella inflessione e modificazione diversa delle [936]parole, e in alcune parole, frasi, maniere, intieramente sue proprie e particolari. Questo si vede nelle città di Toscana (tanto che il Varchi vuole perciò che la lingua scritta italiana, non solo non si chiami italiana, ma neppur toscana, bensì fiorentina), si vede nelle altre città di qualunque provincia italiana, e dappertutto. Di più in ciascuna città, il linguaggio cittadinesco è diverso dal campestre. Di più senza uscire dalla città medesima, è noto che nella stessa Firenze si parla più di un dialetto, secondo la diversità delle contrade: (e di ciò pure il Varchi). Così che una lingua non arriva ad essere strettamente conforme e comune, neppure ad una stessa città, s’ella è più che tanto estesa, e popolata. E così credo che avverrà pure in Parigi ec. V.
p.1301. fine.
Da questi dati caviamo alcune conseguenze più alte ed importanti. 1. Che la diversità de’ linguaggi è naturale e inevitabile fra gli uomini, e che la propagazione del genere umano portò con se la moltiplicità delle lingue, e la divisione e suddivisione dell’idioma primitivo, e finalmente il non potersi intendere, nè per conseguenza comunicare scambievolmente più che tanto numero di uomini.
Letteratura italiana Einaudi 673
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia La confusione de’ linguaggi che dice la Scrittura essere stato un gastigo dato da Dio agli uomini, è dunque effettivamente radicata nella natura, e inevitabile nella generazione umana, e fatta proprietà essenziale delle nazioni ec.
2. Che il progetto di una lingua universale, (seppure per questa s’è mai voluta intendere una lingua propria e nativa e materna e quotidiana di tutte le nazioni) è una chimera non solo materialmente, e relativamente, e per le circostanze e le difficoltà che risultano dalle cose quali ora sono, [937]ossia dalla loro condizione attuale, ma anche in ordine all’assoluta natura degli uomini; vale a dire non solamente in pratica, ma anche in ragione.
3. Considerando per l’una parte la naturale e inevitabile ristrettezza, che ho detto, de’ confini di una lingua assolutamente uniforme; per l’altra parte, che la lingua è il principalissimo istrumento della società, e che per distintivo principale delle nazioni si suole assegnare la uniformità della lingua; ne inferiremo
I. Una prova di quello che ho detto p.873. fine-877.
intorno alla ristrettezza delle società primitive quanto al-l’estensione; cioè si conoscerà come la natura avesse effettivamente provveduto anche per questa parte alla detta ristrettezza.
II. Una nuova considerazione intorno agli ostacoli che la natura avea posto all’incivilimento. Giacchè l’incivilimento essendo opera della società, e andando i suoi progressi in proporzione della estensione di essa società e del commercio scambievole ec.; e per l’altra parte, l’istrumento principale della società essendo la lingua, e questa avendo fatto la natura che non potesse essere uniforme se non fra pochissimi; si viene a conoscere come anche per questa parte la natura si sia opposta alla soverchia dilatazione e progresso della società, ed all’alterazione [938]degli uomini che ne aveva a seguire. Opposizione che non si è vinta, se non con infinite difficol-Letteratura italiana Einaudi 674
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tà, con gli studi, e con cento mezzi niente naturali, facendo forza alla natura, come si sono superate tutte le altre barriere che la natura avea poste all’incivilimento e alla scienza.
III. Come la società, così anche la lingua fa progressi coll’estensione: e la lingua di un piccolo popolo, è sempre rozza, povera, e bambina balbettante, se non in quanto ella può essere influita dal commercio coi forestieri, che è fuori anzi contro il caso. Si vede dunque che la natura coll’impedire l’estensione di una lingua uniforme, ne ha voluto anche impedire il perfezionamento, anzi anche la semplice maturità o giovanezza. Da ciò segue che la lingua destinata dalla natura primitivamente e sostanzialmente agli uomini, era una lingua di ristrettissime facoltà, e quindi di ristrettissima influenza. Dunque segue che essendo la lingua l’istrumento principale della società, la società destinata agli uomini dalla natura, era una società di pochissima influenza, una società lassa, e non capace di corromperli, una società poco maggiore di quella ch’esiste fra i bruti, come ho detto in altri pensieri.
IV. Colla debolezza della lingua destinataci, la natura avea provveduto alla conservazione del nostro stato primitivo, non solo in ordine alla generazione contemporanea, [939]ma anche alle passate e future. Mediante una lingua impotente, è impotente la tradizione; e le esperienze, cognizioni ec. degli antenati arrivano ai successori, oscurissime incertissime debolissime e più ristrette assai di quelle ristrettissime che con una tal lingua e una tal società avrebbero potuto acquistare i loro antenati; cioè quasi nulle. Perchè i bruti non avendo lingua, non hanno tradizione, cioè comunicazione di generazioni, perciò il bruto d’oggidì è freschissimo e naturalissimo come il primo della sua specie uscito dalle mani del Creatore. Tali dunque saremmo noi appresso a poco, con una lingua limitatissima nelle sue facoltà. Il fatto lo conferma. Tutti i popoli che non hanno una lingua perfetta, sono propor-Letteratura italiana Einaudi 675
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia zionatamente lontani dall’incivilimento. V. p.942.
capoverso 1. E finchè il mondo non l’ebbe, conservò proporzionatamente lo stato primitivo. Così pure in proporzione, dopo l’uso della scrittura dipinta, e della geroglifica.
L’incivilimento, ossia l’alterazione dell’uomo, fece grandi progressi dopo l’invenzione della scrittura per cifre, ma però sino a un certo segno, fino all’invenzione della stampa, ch’essendo la perfezione della tradizione, ha portato al colmo l’incivilimento. Invenzioni tutte difficilissime, e soprattutto la scrittura per cifre; onde si vede quanto la natura fosse lontana dal supporle, e quindi dal volere e ordinare i loro effetti.
E questo si può riferire a quello che ho detto [940]in altri pensieri contro coloro che considerano l’incivilimento come perfezionamento, e quindi sostengono la perfettibilità dell’uomo. Il quale incivilimento apparisce e dalla ragione e dal fatto che non si poteva conseguire, e molto meno perfezionare senza l’invenzione della scrittura per cifre; invenzione astrusissma, e mirabile a chi un momento la consideri, e della quale gli uomini hanno dovuto mancare, non già casualmente, ma necessariamente per lunghissima serie di secoli, com’è accaduto. Torno dunque a domandare se è verisimile che la natura alla perfezione di un essere privilegiato fra tutti, abbia supposto e ordinato un tal mezzo ec. ec. Lo stesso dico del perfezionamento di una lingua, cosa anch’essa difficilissima e tardissima a conseguirsi, e intendo ora, non quello che riguarda la bellezza, ma la semplice utilità di una lingua. Lo stesso altresì della stampa inventata 4 soli secoli fa, non intieri. ec. ec. V. p.955. capoverso 1. e il mio pensiero circa la diversità degli alfabeti naturali.
Altro è la perfettibilità della società, altro quella dell’uomo ec. ec. ec.
(12-13. Aprile 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 676
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Quello che ho detto in parecchi pensieri della compassione che eccita la debolezza, si deve considerare massimamente in quelli che sono forti, e che sentono in quel momento la loro forza, e ne’ quali questo sentimento contrasta coll’aspetto della debolezza o impotenza di quel tale oggetto amabile o compassionevole: amabilità che in
[941]questo caso deriva dalla sorgente della compassione, quantunque quel tale oggetto in quel punto non soffra, o non abbia mai sofferto, nè provato il danno della sua debolezza. Al qual proposito si ha una sentenza o documento de’ Bardi Britanni rinchiusa in certi versi che suonano così: Il soffrire con pazienza e magnanimità, è indizio sicuro di coraggio e d’anima sublime; e l’abusare della propria forza è segno di codarda ferocia. (Annali di Scienze e Lettere l. cit. di sopra (p.932.) p.378.) L’uomo forte ma nel tempo stesso magnanimo, deriva senza sforzo e naturalmente dal sentimento della sua forza un sentimento di compassione per l’altrui debolezza, e quindi anche una certa inclinazione ad amare, e una certa facoltà di sentire l’amabilità, trovare amabile un oggetto, maggiore che gli altri. Ed egli suol sempre soffrire con pazienza dai deboli, piuttosto che soverchiarli, ancorchè giustamente.
(13. Aprile 1821.)
A quello che ho detto altrove della derivazione del verbo tornare, si aggiunga, che questo verbo è lo stesso che il tourner dei francesi, il quale significa la stessa cosa che in latino volvere. Giacchè appunto nello stesso modo, da volvere, gli spagnuoli hanno fatto bolver che significa tornare.
(13. Aprile 1821.)
[942]Alla p.939. La maravigliosa e strana immobilità ed immutabilità (così la chiama l’Edinburgh Review negli Annali di Scien. e Lettere vol.8. Dicembre 1811. n.24
Staunton, Traduz. del Ta-Tsing-Leu-Lee. p.300.) della Letteratura italiana Einaudi 677
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia nazione Chinese, dev’esser derivata certo in grandissima parte, e derivare dal non aver essi alfabeto nè lettere, (l.
cit. Rémusat, Saggio sulla lingua e letteratura Chinese, dal Magasin Encyclopédique, p.324. fine) ma caratteri esprimenti le cose e le idee cioè un dato numero di caratteri elementari e principali rappresentanti le principali idee, i quali si chiamano chiavi, e sono nel sistema di alcuni dotti Chinesi 214, (ivi p.313.319) in altri sistemi molto più, in altri molto meno, (ivi p.319.) ma il sistema delle 214 è il più comune e il più seguito da’ letterati chinesi nella compilazione de’ loro dizionarii. I quali caratteri elementari o chiavi diversamente combinati fra loro (come ponendo sopra la chiave che rappresenta i campi, l’abbre-viatura di quella che rappresenta le piante, si fa il segno o carattere che significa o rappresenta primizia dell’erbe e delle messi; e ponendo questo medesimo carattere sotto la chiave che rappresenta gli edifizi, si fa il carattere che significa tempio, cioè luogo dove si offrono le primizie (l.
cit. p.314.)) servono ad esprimere o rappresentare le altre idee: essendo però le dette combinazioni convenute, e gramaticali, come lo sono le chiavi elementari; altrimenti non s’intenderebbero. (p.319. fine.)
Nel qual modo e senso un buon dizionario chinese, secondo Abel-Rémusat (Essai sur la langue et la littérature chinoise. Paris 1811. l. cit. p.320.) dovrebbe contenere 35,000 [943] caratteri come ne contiene il Tching-tseu-toung, uno de’ migliori Dizionari che hanno i chinesi; secondo il Dott. Hager, (Panthéon Chinois. Paris 1806.
in-fol. Préface.) basterebbero 10,000 (ivi, e p.311. nota.) La quale scrittura in somma appresso a poco è la stessa che la ieroglifica. Paragonate gli Annali ec. sopracitati, vol.5. num.14. Hammer, Alfabeti antichi e caratteri ieroglifici spiegati, artic. del Crit. Rew. p.144.-147. col vol.8. n.24. p.297.-298. e p.313. 320. Questo paragone l’ho già fatto, e trovatolo giusto.
(14. Aprile 1821.). V. p.944. capoverso 2.
Letteratura italiana Einaudi 678
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia La lingua chinese è tutta architettata e fabbricata sopra un sistema di composti, non solo quanto ai caratteri, de’
quali v. il pensiero precedente ma parimente alla pronunzia, ossia a’ vocaboli. Giacchè i loro vocaboli radicali esprimenti i caratteri non sono più di 352. secondo il Bayer, e 383. secondo il Fourmont. Ed eccetto che il valore di alcuni di questi vocaboli si diversifica talvolta per via di quattro toni, dell’uno dei quali si appone loro il segno (Annali ec. p.317.-318. e 320. lin.7.), tutti gli altri vocaboli Chinesi sono composti; come si vede anche nella maniera in cui si scrivono quando si trasportano originalmente nelle nostre lingue. Annali ec. l. cit. nel pensiero anteced. Rémusat p.319. mezzo-320. mezzo.
(14. Aprile 1821.). V. p.944. capoverso 1.
Alla p.923. marg. Un tal popolo dev’essere insomma necessariamente stazionario. E qual popolo infatti è più maravigliosamente stazionario del Chinese, (v. qui dietro p.942. princip.) nel quale abbiamo osservato una somigliante costituzione? Sir George (Giorgio) Staunton, Se-gretario d’Ambasciata nella missione di Lord Macartney presso l’Imperatore della China, nella introduzione alla sua versione inglese del Codice penale dei Chinesi, nota in questa nazione, come [944]fra le cause di certi ragguardevoli vantaggi morali e politici posseduti, secondo lui, da essa nazione, vantaggi che non possono, secondo lui, essere agguagliati con esattezza in alcuna società Europea, nota, dico, la quasi totale mancanza di dritti e privilegi feudali; la equabile distribuzione della proprietà fondiaria; e LA NATURALE INCAPACITÀ ED AVVERSIONE
E DEL POPOLO E DEL GOVERNO AD ESSERE
SEDOTTI DA MIRE D’AMBIZIONE, E DA DESIO
D’ESTERE CONQUISTE. Edinburgh Review loco citato qui dietro (p.942. principio.) p.295. Lo stesso Edinburgh Review nella continuazione dello stesso arti-Letteratura italiana Einaudi 679
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia colo (Annali di Sc. e Lettere. Milano. Gennaio 1812. vol.
IX. n.25. p.42. mezzo) nomina (ad altro proposito) la istituzione delle caste dell’India, dove io l’ho già notata nel pensiero a cui questo si riferisce, e di più nell’antico Egitto. Questo lo fa incidentemente, sicchè non ha verun’altra parola su questo punto.
(14. Aprile 1821.)
Alla p.943. Così che la lingua Chinese quanto supera le altre lingue nella moltiplicità, complicazione, e confusione degli elementi e della costruttura della scrittura, tanto le avanza nella semplicità e piccolo numero degli elementi dell’idioma.
(14. Aprile 1821.)
Alla p.943. In somma la scrittura Chinese non rappresenta veramente le parole (che le nostre son quelle che le rappresentano, e ciò per via delle lettere, che sono ordinate e dipendenti in tutto dalla parola) ma le cose; e perciò tutti osservano [945]che il loro sistema di scrittura è quasi indipendente dalla parola: (Annali ec. p.316. p.297.) così che si potrebbe trovare qualcuno che intendesse pienamente il senso della scrittura chinese, senza sapere una sillaba della lingua, e leggendo i libri chinesi nella lingua propria, o in qual più gli piacesse, cioè applicando ai caratteri cinesi quei vocaboli che volesse, senza detrimento nessuno della perfetta intelligenza della scrittura, e neanche del suo gusto, giacchè le opere chinesi non hanno nè possono avere nè versificazione, nè ritmo, nè stile, e conviene prescindere affatto dalle parole nel giudicarle; le loro poesie non sono composte di versi, nè le prose oratorie di periodi; (p.297.) il genio della lingua non ammette il soccorso delle comuni particelle di connessione, e presenta meramente una fila d’immagini sconnesse, i cui rapporti debbono essere indovinati dal lettore, secondo le intrinseche loro qualità. ([p.] 298.) E così viceversa bene spesso Letteratura italiana Einaudi 680
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia taluni, dopo avere soggiornato venti anni alla China, non sono tampoco in grado di leggere il libro più facile, benchè sappiano essi parlar bene il chinese, e farsi comprendere.
(p.316.).
(14. Aprile 1821.)
Si condanna, e con gran ragione, l’amor de’ sistemi, siccome dannosissimo al vero, e questo danno tanto più si conosce, e più intimamente se ne resta convinti, quanto più si conoscono e si esaminano le opere dei pensatori.
Frattanto però io dico che qualunque uomo ha forza di pensare da se, qualunque s’interna colle sue proprie facoltà e, dirò così, co’ suoi propri passi, nella considerazione delle cose, in somma qualunque vero pensatore, non può assolutamente a meno di non formarsi, o di non seguire, o generalmente di non avere un sistema.
[946]1. Questo è chiaro dal fatto. Qualunque pensatore, e i più grandi massimamente, hanno avuto ciascuno il loro sistema, e sono stati o formatori o sostenitori di qualche sistema, più o meno ardenti e impegnati. Lasciando gli antichi filosofi, considerate i moderni più grandi. Cartesio, Malebranche, Newton, Leibnizio, Locke, Rousseau, Cabanis, Tracy, De Vico, Kant, in somma tutti quanti.
Non v’è un solo gran pensatore che non entri in questa lista. E intendo pensatori di tutti i generi: quelli che sono stati pensatori nella morale, nella politica, nella scienza dell’uomo, e in qualunque delle sue parti, nella fisica, nella filosofia d’ogni genere, nella filologia, nell’antiquaria, nell’erudizione critica e filosofica, nella storia filosoficamente considerata ec. ec.
2. Come dal fatto così è chiaro anche dalla ragione. Chi non pensa da se, chi non cerca il vero co’ suoi propri lumi, potrà forse credere in una cosa a questo, in un’altra a quello, e non curandosi di rapportare le cose insieme, e di considerare come possano esser vere relativamente fra loro, restare affatto senza sistema, e contentarsi delle ve-Letteratura italiana Einaudi 681
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia rità particolari, e staccate, e indipendenti l’una dall’altra.
E questo ancora è difficilissimo, perchè il fatto e la ragione dimostra, che anche questi tali si formano sempre un sistema comunque, sebbene possano forse talvolta esser pronti a cangiarlo, secondo le nuove cognizioni, o nuove opinioni che loro sopraggiungano. Ma il pensatore non è così. Egli cerca naturalmente e necessariamente un filo nella considerazione delle cose. È impossibile [947]ch’egli si contenti delle nozioni e delle verità del tutto isolate. E
se se ne contentasse, la sua filosofia sarebbe trivialissima, e meschinissima, e non otterrebbe nessun risultato. Lo scopo della filosofia (in tutta l’estensione di questa parola) è il trovar le ragioni delle verità. Queste ragioni non si trovano se non se nelle relazioni di esse verità, e col mezzo del generalizzare. Non è ella, cosa notissima che la facoltà di generalizzare costituisce il pensatore? Non è confessato che la filosofia consiste nella speculazione de’ rapporti? Ora chiunque dai particolari cerca di passare ai generali, chiunque cerca il legame delle verità (cosa inseparabile dalla facoltà del pensiero) e i rapporti delle cose; cerca un sistema; e chiunque è passato ai generali, ed ha trovato o creduto di trovare i detti rapporti, ha trovato o creduto di trovare un sistema, o la conferma e la prova, o la persuasione di un sistema già prima trovato o proposto: un sistema più o meno esteso, più o meno completo, più o meno legato, armonico, e consentaneo nelle sue parti.
3. Il male è quando dai generali si passa ai particolari, cioè dal sistema alla considerazione delle verità che lo debbono formare. Ovvero quando da pochi ed incerti, e mal connessi, ed infermi particolari, da pochi ed oscuri rapporti, si passa al sistema, ed ai generali. Questi sono i vizi de’ piccoli spiriti, parte per la loro stessa piccolezza, e la facilità che hanno di persuadersi; parte per la pestifera smania di formare sistemi, inventar paradossi, creare ipotesi in qualunque maniera, affine [948]d’imporre alla Letteratura italiana Einaudi 682
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia moltitudine, e parer d’assai. Allora l’amor di sistema, o finto, o vero e derivante da persuasione, è dannosissimo al vero; perchè i particolari si tirano per forza ad accomodarsi al sistema formato prima della considerazione di essi particolari, dalla quale il sistema dovea derivare, ed a cui doveva esso accomodarsi. Allora le cose si travisano, i rapporti si sognano, si considerano i particolari in quell’aspetto solo che favorisce il sistema, in somma le cose servono al sistema, e non il sistema alle cose, come dovrebb’essere. Ma che le cose servano ad un sistema, e che la considerazione di esse conduca il filosofo e il pensatore ad un sistema (sia proprio, sia d’altri), è non solamente ragionevole e comune, ma indispensabile, naturale all’uomo, necessario; è inseparabile dalla filosofia; costituisce la sua natura ed il suo scopo: e concludo che non solamente non ci fu, ma non ci può esser filosofo nè pensatore per grande, e spregiudicato, ed amico del puro vero, ch’ei possa essere, il quale non si formi o non segua un sistema (più o meno vasto secondo la materia, e secondo che l’ingegno del filosofo è sublime, e secondo ch’è acuto e penetrante nella investigazione speculazione e ritrovamento de’ rapporti) e ch’egli non sarebbe filosofo nè pensatore, se questo non gli accadesse, ma si confonderebbe con chi non pensa, e si contenta di non avere idea nè concetto chiaro e stabile intorno a veruna cosa. (I quali pure hanno sempre un sistema, più o meno chiaro, anzi più esteso, e per loro più persuasivo e più chiaro e certo, che non l’hanno i pensatori.) Sia [949]pure un sistema il quale consista nell’esclusione di tutti i sistemi, come quello di Pirrone, e quello che fa quasi il carattere del nostro secolo.
(16. Aprile 1821.). V. p.950. capoverso 2.
Dalla sciocca idea che si ha del bello assoluto deriva quella sciocchissima opinione che le cose utili non debbano esser belle, o possano non esser belle. Poniamo per Letteratura italiana Einaudi 683
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia esempio un’opera scientifica. Se non è bella, la scusano perciò ch’è utile, anzi dicono che la bellezza non le conviene. Ed io dico che se non è bella, e quindi è brutta, è dunque cattiva per questo verso, quando anche pregevo-lissima in tutto il resto. Per qual ragione è bello il Trattato di Celso, ch’è un trattato di Medicina? Forse perchè ha ornamenti poetici o rettorici? Anzi prima di tutto perchè ne manca onninamente, e perchè ha quel nudo candore e semplicità che conviene a siffatte opere. Poi perchè è chiaro, preciso, perchè ha una lingua ed uno stile puro. Questi pregi o bellezze convengono a qualunque libro. Ogni libro ha obbligo di esser bello in tutto il rigore di questo termine: cioè di essere intieramente buono. Se non è bello, per questo lato è cattivo, e non v’è cosa di mezzo tra il non esser bello, e il non essere perfettamente buono, e l’esser quindi per questa parte cattivo.
E ciò che dico dei libri, si deve estendere a tutti [950]gli altri generi di cose chiamate utili, e generalmente a tutto.
(16. Aprile 1821.)
Rassegnato e sommesso, perchè l’indole degli abitatori determinata dall’influenza del clima, è composta a un tempo di bontà e di trascuratezza, l’Indiano, dice l’Autore (Collin di Bar, Storia dell’India antica e moderna, ossia l’Indostan considerato relativamente alle sue antichità ec.
Parigi 1815.), è capace de’ più magnanimi sforzi. I popoli del nord della penisola, meno ammolliti dalle voluttà e dal clima, sono da lungo tempo il terrore della compagnia inglese, e saranno forse col tempo i liberatori delle regioni gangetiche. (Fra questi deve intender certo i Maratti.) Spettatore di Milano, Quaderno 43. p.113. Parte Straniera. 30. Dicemb. 1815. Dello stato e genio pacifico degli antichi Indiani v. p.922. De’ Cinesi parimente meridionali v. p.943. capoverso ultimo.
(16. Aprile 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 684
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Alla p.949. Mancare assolutamente di sistema (qualunque esso sia), è lo stesso che mancare di un ordine di una connessione d’idee, e quindi senza sistema, non vi può esser discorso sopra veruna cosa. Perciò quelli appunto che non discorrono, quelli mancano di sistema, o non ne hanno alcuno preciso. Ma il sistema, cioè la connessione e dipendenza delle idee, de’ pensieri, delle riflessioni, delle opinioni, è il distintivo certo, e nel tempo stesso indispensabile del filosofo.
(17. Aprile 1821.)
Lo Spettatore di Milano 15. Febbraio 1816. Quaderno 46. p.244. Parte Straniera, in un articolo estratto dal Leipziger Litter. Zeitung, rendendo brevissimo conto di un opuscolo [951]tedesco di Pietro Enrico Holthaus, intitolato Anche nella nostra lingua possiamo e dobbiamo essere Tedeschi, pubblicato a Schwelm, presso Scherz, 1814. in 8° grande, dice che, fra le altre cose, l’autore intende provare Che il miscuglio di parole straniere reca nocumento alla chiarezza delle idee. (L’opuscolo è diretto principalmente contro il francesismo introdotto e trionfante nella lingua tedesca, come nell’italiana.) Questo sentimento combina con quello che ho svolto in altri pensieri, dove ho detto che le parole greche nelle nostre lingue sono sempre termini, e così si deve dire delle altre parole straniere affatto alla nostra lingua; e spiegato che cosa sieno termini e come si distinguano dalle parole. E infatti i termini, e le parole prese da una lingua straniera del tutto, potranno essere precise, ma non chiare, e così l’idea che risvegliano sarà precisa ed esatta, senza esser chiara, perchè quelle parole non esprimono la natura della cosa per noi, non sono cavate dalle qualità della cosa, come le parole originali di qualunque lingua, così che l’oggetto che esprimono, sebbene ci si possa per mezzo loro affacciare alla mente con precisione e determinazione, non lo potranno però con chiarezza: perchè le parole non Letteratura italiana Einaudi 685
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia derivanti immediatamente dalle qualità della cosa, o che almeno per l’assuefazione non ci paiano tali, non hanno forza di suscitare nella nostra mente un’idea sensibile della cosa, non hanno [952]forza di farci sentire la cosa in qualunque modo, ma solamente di darcela precisamente ad intendere, come si fa di quelle cose che non si possono formalmente esprimere. Che tale appunto è il caso degli oggetti significatici con parole del tutto straniere. Dal che è manifesto quanto danno riceva sì la chiarezza delle idee, come la bellezza e la forza del discorso, che consistono massimamente nella sua vita, e questa vita del discorso, consiste nella efficacia, vivacità, e sensibilità, con cui esso ci fa concepire le cose di cui tratta.
(17. Aprile 1821.)
Lo stesso autore nel medesimo opuscolo, come si vede nel luogo citato, alla fine della detta pag.244. critica Herder che tante parole ha introdotto tolte dal latino e dal greco.
Questa critica è forse giusta anche rispetto al latino, nella lingua tedesca, la quale non si trova nella circostanza della italiana, non essendo figlia, come questa, della latina; come neanche rispetto alla francese, non essendole sorella, come la nostra. E quanto alla latina, le deve bastare quello che per le circostanze de’ tempi antichi ec. ella ne ha tolto, colle comunicazioni avute coi romani ec. ma questa fonte si deve ora ben ragionevolmente stimar chiusa per lei, come quella che non ne deriva originariamente, e vi ha solo attinto per cause accidentali. La lingua inglese sarebbe la più atta a comunicare le sue fonti colla tedesca, e viceversa. V. p.1011. capoverso 2. Ma rispetto alla lingua italiana, la cosa sta diversamente, perchè derivando ella dalla latina, non si dee stimare che la fonte sia chiusa, mentre il fiume corre e non istagna. Anzi non volendo che stagni e impaludi, bisogna riguardare soprattutto di non chiudergli la sorgente; che questo è il mezzo più sicuro e più breve di farlo corrompere e inaridire.
Letteratura italiana Einaudi 686
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Quella lingua che ha prodotta, e non solo prodotta, ma formata e cresciuta sì largamente la nostra. come si
[953]dovrà stimare che non possa nutrirla ed accrescerla, che non abbia più niente che le convenga di ricavarne? Quel terreno che ha prodotto una pianta della sua propria sostanza, e del proprio succo, e di più l’ha alleva-ta, e condotta a perfettissima maturità e robustezza e vigore ec. come si dovrà credere e affermare che non sia adattato a nutrirla e crescerla mentre ella non è spiantata? che il di lui succo non sia conveniente nè vitale nè nutritivo nè sano a quella pianta, mentre il terreno abbia ancora succo, e in abbondanza? Perchè poi vorremmo spiantare la nostra lingua? Forse perch’ella non possa più nutrirsi, e le sue radici non le servano più, e così venga ad inaridire? O forse per trapiantarla? E dove? in qual terreno migliore, e più appropriato di quello che l’ha prodotta e cresciuta a tanta grandezza, prosperità, floridezza ec.?
Osservo ancora che l’italiano è derivato dalla corruzione del latino, così che le parole e i modi della bassa latinità, se sono barbare rispetto al latino, nol sono all’italiano; e la bassa latinità è una fonte ricchissima e adattatissima anch’essa alla nostra lingua, ed io posso dirlo con fondamento per osservazione ed esperienza particolare che ne ho fatto, e cura che ci ho posto. Quante parole infatti dell’ottima lingua italiana, appartengono precisamente alla bassa latinità! Nè bisogna discorrere pregiudicatamente e considerar come barbaro assoluto quello ch’è solo barbaro relativo. Per esempio [954]l’antica lingua persiana, cioè prima che fosse inondata da parole arabe per effetto della conquista della Persia fatta dai Califi e dagl’immediati successori di Maometto7 , fu lingua purissima, fu scritta purissimamente ebbe gran cura della purità nella scrittura, ed ebbe autori Classici non meno stimati in Oriente una volta per la purità della lingua, di quello che il fosse Menandro fra i greci. ( ma de’ cui scritti la più gran parte è Letteratura italiana Einaudi 687
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia perita. ) E Firdosi nel suo Shahnamah, e molti de’ suoi contemporanei, si vantano di usare il pretto Persiano, e di esser mondi da ogni parola araba o forestiera (così che nel Dizionario di Richardson mancano nove decimi delle parole da essi usate, per esser questo Dizionario fatto per la lingua e i dialetti persiani moderni.) Ora qualunque purissima parola persiana, o di qualunque purissima lingua d’oriente, antica o moderna, parrebbe a noi, non solo impura, o barbara, ma intollerabile, suonerebbe peggio che barbaramente, e ci saprebbe più che barbara nelle lingue nostre. Così dunque se le parole della bassa latinità riescono barbare nel latino, non si debbono stimare nè barbare nè impure in italiano, il quale deriva dalla bassa latinità più immediatamente che dalla alta. Altrimenti si dovranno stimar barbare tante parole purissime e italianissime che derivano dalla bassa latinità (e così dico francesi ec.), e come tali sono registrate ne’ Glossari latinobarbari.
Bensì bisogna distinguere i diversi generi che ci sono di bassa latinità. Giacchè la bassa latinità germanica per esempio, in quanto è piena di voci germaniche ec. sarà adattata a somministrar materia ad altre lingue, ma non alla nostra. E perciò bisogna considerare che l’indole
[955]delle parole e frasi ec. del medio evo, sia conforme all’indole di quel linguaggio dal quale è derivata la lingua italiana precisamente.
(17. Aprile 1821.)
Alla p.940. Quello che ho detto delle lingue rispetto ai luoghi, si deve applicare proporzionatamente anche ai tempi, essendo certo ed evidente che le lingue vanno sempre variando, non già leggermente, ma in modo che alla fine muoiono, e loro ne sottentrano altre, secondo la variazione dei costumi, usi, opinioni ec. e delle circostanze fisiche, politiche, morali, ec. proprie dei diversi secoli della Letteratura italiana Einaudi 688
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia società. In maniera che si può dire che come nessuna lingua è stata, così neanche nessun’altra sarà perpetua.
(18. Aprile 1821.)
L’antichità e l’eccellenza della lingua sacra degl’indiani (sascrita), hanno naturalmente chiamato a se l’attenzione e destato la curiosità degli Europei. I ragguardevoli suoi titoli ad essere considerata come la più antica lingua che l’uman genere conosca, muovono in noi quell’interesse da cui le vetustissime età del mondo sono circondate.
Costruita secondo il disegno più perfetto forse che dall’ingegno umano sia stato immaginato giammai, essa c’invita a ricercare se la sua perfezione si restringa ne’ limiti della sua struttura, o se i pregi delle composizioni indiane partecipino della bellezza del linguaggio in cui sono dettate. Spettatore di Milano 15. Luglio 1817. Quaderno 80. parte straniera. p.273. articolo di D. Bertolotti sopra la traduzione inglese del Megha [956]Duta, poema sascrittico di Calidasa, Calcutta 1814. estratto però senza fallo da un giornale forestiero, e non dalla stessa traduzione, come apparisce in parecchi luoghi, e fra l’altro da’
puntini che il Bertolotti pone dopo alcuni paragrafi di esso articolo, come p.274.275. ec.
(18. Aprile 1821.)
La lingua greca va considerata rispetto all’italiana nell’ordine di lingua madre, (o nonna) quanto ai modi, ma non quanto alle parole. Dico quanto ai modi, massimamente per la sua conformità naturale o somiglianza in questa parte colla lingua latina sua sorella, e madre della nostra, e di più perchè gli scrittori latini, dal nascimento della loro letteratura, modellarono sulla greca le forme della loro lingua, e così hanno tramandata a noi una lingua formata in grandissima parte sui modi della greca.
Del che vedi un ell’articolo del Barone Winspear (Bibliot.
Ital. t.8. p.163.) nello Spettatore di Milano, 1. Settembre Letteratura italiana Einaudi 689
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia 1817. Parte italiana, Quaderno 83. p.442. dal mezzo al fine della pagina. E così pure, parte per lo studio immediato de’ greci esemplari, (del che vedi ivi p.443. dal principio al mezzo) parte per lo studio de’ latini, e la derivazione della lingua italiana dalla latina, parte e massimamente per una naturale conformità, che forse per accidente, ha la struttura e costruzione della lingua nostra colla greca (come dice espressamente la Staël nella B. Italiana [957]vol.1. p.15. la costruzione gramaticale di quella lingua è capace di una perfetta imitazione de’ concetti greci, a differenza della tedesca della quale ha detto il contrario), per tutte queste ragioni si trova una evidentissima e somma affinità fra l’andamento greco e l’italiano, massime nel più puro italiano, e più nativo e vero, cioè in quello del trecento. Da tutto ciò segue che la lingua greca, come madre della nostra rispetto ai modi, sia e per ragione e per fatto adattatissima ad arricchire e rifiorire la lingua italiana d’infinite e variatissime forme e frasi e costrutti (Cesari) e idiotismi ec. Non così quanto alle parole, che non possiamo derivare dalla lingua greca che non è madre della nostra rispetto ad esse; fuorchè in ordine a quelle che gli scrittori o l’uso latino ne derivarono, e divenute precisamente latine, passarono all’idioma nostro come latine e con sapore latino, non come greche.
Le quali però ancora, sebbene incontrastabili all’uso dell’italiano, tuttavia soggiacciono in parte, malgrado la lunga assuefazione che ci abbiamo, ai difetti notati da me p.951-952. Che p.e. chi dice filosofia eccita un’idea meno sensibile di chi dice sapienza, non vedendosi in quella parola e non sentendosi come in questa seconda, l’etimologia, cioè la derivazione della parola dalla cosa, il qual sentimento è quello che produce la vivezza ed efficacia,
[958]e limpida evidenza dell’idea, quando si ascolta una parola.
(19. Aprile 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 690
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Una delle principali cagioni per cui l’infelicità rende l’uomo inetto al fare, e lo debilita e snerva, onde l’infelicità toglie la forza, non è altra se non che l’infelicità debilita l’amor di se stesso. E intendo massimamente della infelicità grave e lunga. La quale col continuo contrasto che oppone all’amor di se stesso che era nel paziente, colla battaglia ostinatissima e fortissima che gli fa, e coll’obbli-garlo ad uno stato contrario del tutto a quello ch’è scopo, oggetto e desiderio di questo amore, finalmente illangui-disce questo amore, rende l’uomo meno tenero di se stesso, siccome avvezzo a sentirsi infelice malgrado gli sforzi che ci opponeva. Anzi una tale infelicità, se non riduce l’uomo alla disperazion viva, e al suicidio o all’odio di se stesso ch’è il sommo grado, e la somma intensità dell’amor proprio in tali circostanze, lo deve ridurre per necessità ad uno stato opposto, cioè alla freddezza e indifferenza verso se stesso; giacchè s’egli continuasse ad essere così infiammato verso se medesimo, com’era da principio, in che modo potrebbe sopportare la vita, o contentarsi di sopravvivere, vedendo e sentendo sempre infelice questo oggetto del suo sommo amore, e di tutta la sua vita sotto tutti i rispetti?
Ma l’amor di se stesso è l’unica possibile molla delle azioni e dei sentimenti umani, secondo ch’è applicato a questo o quello scopo virtuoso o vizioso, grande o basso ec. [959]Diminuita dunque, e depressa, e ridotta a pochissimo (cioè a quanto meno è possibile mentre l’uomo vive) l’elasticità e la forza di molla, l’uomo non è più capace nè di azioni, nè di sentimenti vivi e forti ec. nè verso se stesso, nè verso gli altri, giacchè anche verso gli altri, anche ai sacrifizi ec. non lo può spingere altra forza che l’amor proprio, in quella tal guisa applicato e diretto. E
così l’uomo ch’è divenuto per forza indifferente verso se stesso, è indifferente verso tutto, è ridotto all’inazione fisica e morale. E l’indebolimento dell’amor proprio, in quanto amor proprio e radicalmente, (non in quanto è Letteratura italiana Einaudi 691
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia diretto a questa o quella parte) cioè il vero indebolimento di questo amore, è cagione dell’indebolimento della virtù, dell’entusiasmo, dell’eroismo, della magnanimità, di tutto quello che sembra a prima vista il più nemico dell’amor proprio, il più bisognoso del suo abbassamen-to per trionfare e manifestarsi, il più contrariato e dan-neggiato dalla forza dell’amore individuale. Così il detto indebolimento secca la vena della poesia, e dell’immaginazione, e l’uomo non amando, se non poco, se stesso, non ama più la natura; non sentendo il proprio affetto, non sente più la natura, nè l’efficacia della bellezza ec.
Una nebbia grevissima d’indifferenza sorgente immediata d’inazione e insensibilità, si spande su tutto l’animo suo, e su tutte le sue facoltà, da che [960]egli è divenuto indifferente, o poco sensibile verso quell’oggetto ch’è il solo capace d’interessarlo e di muoverlo moralmente o fisicamente verso tutti gli altri oggetti in qualunque modo, dico se stesso.
Altra cagione dello snervamento prodotto nell’uomo dall’infelicità, è la diffidenza di se stesso o delle cose, affezione mortifera, com’è vivifica e principalissima nel mondo e nei viventi la confidenza, e massime in se stesso: e questa è una qualità primitiva e naturale nell’uomo e nel vivente, innanzi all’esperienza. ec. ec. Così pure l’uo-mo che ha perduto, o per viltà e vizio, o per forza delle avversità e delle contraddizioni e avvilimenti e disprezzi sofferti, la stima di se stesso, non è più buono a niente di grande nè di magnanimo. E dicendo la stima, distinguo questa qualità dalla confidenza, ch’è cosa ben diversa considerandola bene.
(19. Aprile 1821.)
Le sopraddette considerazioni possono portare ad una gran generalità, e semplicizzare l’idea che abbiamo del sistema delle cose umane, o la teoria dell’uomo, facendo conoscere come sotto tutti i riguardi, ed in tutte le circo-Letteratura italiana Einaudi 692
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia stanze possibili della vita, agisca quell’unico principio ch’è l’amor proprio, e come tutti gli effetti della vita umana sieno proporzionati alla maggiore o minor forza, maggiore o minor debolezza, e diversa direzione di quel solo movente: per quanto i detti effetti si presentino a prima vista, come derivati da diverse cagioni.
(19. Aprile 1821.)
[961]Alla p.786. E prima della potenza Ateniese e de-gl’incrementi di quella repubblica, essendo il dialetto ionico il più copioso, come pare, di tutti gli altri nello stato d’allora, per lo molto commercio della nazione o nazioni e repubbliche che l’usavano, prevalse il dialetto ionico nella letteratura greca, usato da Omero, da Ecateo Milesio istorico antichissimo, ed anteriore ad Erodoto che molto prese da lui, da Erodoto, da Ippocrate, da Democrito e da molti altri di gran fama. Così che Giordani crede (B. Ital. vol. 2. p.20.) che Empedocle (il quale parimente scrisse in quel dialetto) lasciasse di adoperare il dialetto (dorico) della sua patria e della sua scuola (Pitagorica) non perchè fosse o più difficile o meno gradito ai greci, ma perchè vedesse più frequentato fuori della Grecia l’ionico, al quale Omero, Erodoto e Ippocrate avevano acquistata più universale celebrità. Di maniera che ancor dopo prevaluto l’attico si seguitò da alcuni a scrivere ionico, non come dialetto proprio, ma come vezzo, e quasi in memoria della sua antica fama. Come fece Arriano, il quale continuò i 7 libri della Impresa di Alessandro scritti in puro attico, colla storia indiana, o libro delle cose indiane scritto in dialetto ionico, per puro capriccio. Ora questo dialetto ionico tutti sanno qual sia presso Omero, cioè una mescolanza di tutti i dialetti, e di voci estere, solamente prevalendo lo ionico, ed Ermogene perÜ ÞdeÇn lib. II. p.513. notat Hecataeum Milesium a quo plurima accepit Herodotus ( notante etiam Porphyr. ap.
Eus. l.10. praep. c.2. p.466. ) usum �kr�tÄ �I�di, Letteratura italiana Einaudi 693
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Herodotum poikÛlh+:. (Fabric. B. G. II. c.20. §.2. t. I. 697.
nota K.) cioè l’uno del dialetto ionico puro, l’altro del dialetto ionico variato o misto. E contuttociò Erodoto è chiamato [962]dal suo concittadino Dionigi d’Alicarnasso ( Epist. ad Cneium Pompeium p.130. Fabric.) �I�dow
�ristow kanÆn.
(20. Aprile. Venerdì Santo. 1821.)
Sono perciò rare tra’ francesi le buone traduzioni poetiche; eccetto le Georgiche volgarizzate dall’abate De-Lille. I nostri traduttori imitan bene; tramutano in francese ciò che altronde pigliano, cosicchè nol sapresti discernere, ma non trovo opera di poesia che faccia riconoscere la sua origine, e serbi le sue sembianze forestiere: credo anzi che tale opera non possa mai farsi. E se degnamente ammiriamo la georgica dell’abate De-Lille, n’è cagione quella maggior somiglianza che la nostra lingua tiene colla romana onde nacque, di cui mantiene la maestà e la pompa. Ma le moderne lingue sono tanto disformi dalla francese, che se questa volesse conformarsi a quelle, ne perderebbe ogni decoro. Staël, B. Ital. vol.1. p.12. Esaminiamo.
Che la traduzione del Delille sia migliore d’ogni altra traduzione francese qualunque (in quanto traduzione), di questo ne possono e debbono giudicare i francesi meglio che gli stranieri. Se poi fatto il paragone tra la detta traduzione e l’originale, vi si trovi tutta quella conformità ed equivalenza che i francesi stimano di ravvisarvi (quantunque concederò che se ne trovi tanta, quanta mai si possa trovare in versione francese) questo giudizio spetta piuttosto agli stranieri che a’ francesi, e noi italiani massimamente siamo meglio [963]a portata, che qualsivoglia altra nazione, di giudicarne.
Siccome ciascuno pensa nella sua lingua, o in quella che gli è più familiare, così ciascuno gusta e sente nella stessa lingua le qualità delle scritture fatte in qualunque Letteratura italiana Einaudi 694
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia lingua. Come il pensiero, così il sentimento delle qualità spettanti alla favella, sempre si concepisce, e inevitabilmente, nella lingua a noi usuale. I modi, le forme, le parole, le grazie, le eleganze, gli ardimenti felici, i traslati, le inversioni, tutto quello mai che può spettare alla lingua in qualsivoglia scrittura o discorso straniero, (sia in bene, sia in male) non si sente mai nè si gusta se non in relazione colla lingua familiare, e paragonando più o meno distintamente quella frase straniera a una frase nostrale, trasportando quell’ardimento, quella eleganza ec. in nostra lingua. Di maniera che l’effetto di una scrittura in lingua straniera sull’animo nostro, è come l’effetto delle prospettive ripetute e vedute nella camera oscura, le quali tanto possono essere distinte e corrispondere veramente agli oggetti e prospettive reali, quanto la camera oscura è adattata a renderle con esattezza; sicchè tutto l’effetto dipende dalla camera oscura piuttosto che dall’oggetto reale.
Così dunque accadendo rispetto alle lingue (eccetto in coloro che sono già arrivati o a rendersi familiare un’altra lingua invece della propria, o a rendersene familiare e quasi propria più d’una, con grandissimo uso [964]di parlarla, o scriverla, o leggerla, cosa che accade a pochissimi, e rispetto alle lingue morte, forse a nessuno) tanto adequatamente si potranno sentire le qualità delle lingue altrui, quanta sia nella propria, la facoltà di esprimerle. E
l’effetto delle lingue altrui sarà sempre in proporzione di questa facoltà nella propria. Ora la facoltà di adattarsi alle forme straniere essendo tenuissima e minima nella lingua francese, pochissimo si può stendere la facoltà di sentire e gustare le lingue straniere, in coloro che adoprano la francese.
Notate ch’io dico, gustare e sentire, non intendere nè conoscere. Questo è opera dell’intelletto il quale si serve di altri mezzi. E quindi i francesi potranno intendere e conoscer benissimo le altre lingue, senza però gustarle nè sentirle più che tanto.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Ho detto che gl’italiani in questo caso possono dar giudizio meglio che qualunque altro. 1. La lingua italiana, come ho detto altrove, è piuttosto un aggregato di lingue che una lingua, laddove la francese è unica. Quindi nell’italiana è forse maggiore che in qualunque altra la facoltà di adattarsi alle forme straniere, non già sempre rice-vendole identicamente, ma trovando la corrispondente, e servendo come di colore allo studioso della lingua straniera, per poterla dipingere, rappresentare, ritrarre nella propria [965]comprensione e immaginazione. E per lo contrario nella lingua francese questa facoltà è certo minore che in qualunque altra. 2. Queste considerazioni rispetto alla detta facoltà della nostra lingua, si accrescono quando si tratta della lingua latina, o della greca. Perchè alle forme di queste lingue, la nostra si adatta anche identicamente, più che qualunque altra lingua del mondo: e non è maraviglia, avendo lo stesso genio, ed essendosi sempre conservata figlia vera di dette lingue, non solo per ragione di genealogia e di fatto, ma per vera e reale somiglianza e affinità di natura e di carattere. Laddove la lingua francese sebbene nata dalla latina, se n’è allontanata più che qualunque altra sorella o affine. E il genio della lingua francese è tanto diverso da quello della latina, quanta differenza mai si possa trovare fra le lingue di popoli che appartengono ad uno stesso clima, ad una stessa famiglia, ed hanno una storia comune ec. La somiglianza delle parole, cioè l’essere grandissima parte delle parole francesi derivata dal latino, non fa nessun caso, essendo una somiglianza materialissima, e di suono, non di struttura: anzi neppur di suono, per la somma differenza della pronunzia. Ma in ogni caso il suono e la struttura sono cose indipendenti, così che ci potrebbero esser due lingue, tutte le cui parole avessero un’etimologia comune,
[966]e nondimeno esser lingue diversissime.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia In conseguenza se ai francesi pare di ravvisare il gusto, l’andamento, il carattere di Virgilio nel Delille, e a noi italiani pare tutto l’opposto, io dico che in ciò siamo più degni di credenza noi, che col mezzo della lingua propria (solo mezzo di sentire le altre) possiamo meglio di tutti sentire le qualità della francese e (più ancora) della latina; di quello che i francesi che col mezzo della loro renitentissima ed unica lingua, non hanno se non ristretta facoltà di sentire veramente Virgilio e gustarlo in tutto ciò che spetta alla lingua.
Passo anche più avanti, e dico esser più difficile ai francesi che a qualunque altra nazione Europea, non solo il gustare e il sentire, ma anche il formarsi un’idea precisa e limpida, il familiarizzarsi, e finalmente anche l’imparare le lingue altrui. Dice ottimamente Giordani (B. Italiana vol.3. p.173.) che Niuna lingua, nè viva nè morta, si può imparare se non per mezzo d’un’altra lingua già ben saputa. Questo è certissimo. S’impara la lingua che non sappiamo, barattando parola per parola e frase per frase con quella che già possediamo. Ora se questa lingua che già possediamo, non si presta se non pochissimo e di pessima voglia e difficilissimamente a questi baratti, è manifesto che la difficoltà d’imparare le altre lingue, dovrà essere in proporzione. E siccome questa lingua già posseduta è
[967]l’unico strumento che abbiamo a formare il concetto della natura forza e valore delle frasi e delle parole straniere, se lo strumento è insufficiente o scarso, scarso e insufficiente sarà anche l’effetto.
Ciò è manifesto 1. dal fatto. La gran difficoltà di certe lingue affatto diverse dal carattere delle nostrali, consiste in ciò, che cercando nella propria lingua parole o frasi corrispondenti, non le troviamo, e non trovandole non intendiamo, o stentiamo a intendere, o certo a concepire con distinzione ed esattezza la forza e la natura di quelle voci o frasi straniere. 2. da una ragione anche più intimamente filosofica e psicologica delle accennate. Le idee, i Letteratura italiana Einaudi 697
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia pensieri per se stessi non si fanno vedere nè conoscere, non si potrebbero vedere nè conoscere per se stessi. A far ciò non c’è altro mezzo che i segni di convenzione. Ma se i segni di convenzione son diversi, è lo stesso che non ci fosse convenzione, e che quelli non fossero segni, e così in una lingua non conosciuta, le idee e pensieri che esprime non s’intendono. Per intendere dunque questi segni come vorreste fare? a che cosa riportarli? alle idee e pensieri vostri immediatamente? come? se non sapete quali idee e quali pensieri significhino. Bisogna che lo intendiate per mezzo di altri segni, della cui convenzione siete partecipe, cioè per mezzo di un’altra lingua da voi conosciuta; e quindi riportiate quei segni sconosciuti, ai segni
[968]conosciuti, i quali sapendo voi bene a quali idee si riportino, venite a riportare i segni sconosciuti alle idee, e per conseguenza a capirli. Ma se il numero dei segni da voi conosciuti è limitato, come farete a intendere quei segni sconosciuti che non avranno gli equivalenti fra i noti a voi? Non vale che quei segni sconosciuti corrispondano a delle idee, e che voi siate capacissimo di queste idee.
Bisogna che sappiate quali sono e che lo sappiate precisamente, e non lo potete sapere se non per via di segni noti. Bisogna che se p.e. (e questo è il principale in questo argomento) quei segni sconosciuti esprimono un accidente, una gradazione, una menoma differenza, una nuance di qualche idea che voi già conoscete e tenete, e sapete esprimere con segni noti, voi intendiate perfettamente, e vi formiate un concetto chiaro e limpido di quella tale ancorchè menoma gradazione; e se questa non si può esprimere con verun segno a voi noto, come giungerete al detto effetto? Solamente a forza di conghietture, o spiegandovisi la cosa a forza di circollocuzioni. Con che non è possibile, o certo è difficilissimo che voi giungiate a formarvi un’idea chiara, distinta ec. di quella precisa idea, o mezza idea ec. espressa da quel tal segno. E perciò dico che i francesi non sono ordinariamente capaci di conce-Letteratura italiana Einaudi 698
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia pire le proprietà delle altre lingue, se non in maniera più o meno oscura, ma che [969]sempre conservi qualche cosa di confuso e di non perfetto. Ciascuna lingua (lasciando ora le parole, delle quali la francese, sebbene inferiore anche in ciò ad altre lingue, tuttavia non è povera, e in certi generi è ricca) ha certe forme, certi modi particolari e propri che per l’una parte sono difficilissimi a trovare perfetta corrispondenza in altra lingua; per l’altra parte costituiscono il principal gusto di quell’idioma, sono le sue più native proprietà, i distintivi più caratteristici del suo genio, le grazie più intime, recondite, e più sostanziali di quella favella. Nessuna lingua dunque è uno strumento così perfetto che possa servire bastantemente per concepire con perfezione le proprietà tutte e ciascuna di ciascun’altra lingua. Ma la cosa va in proporzione, e quella lingua ch’è più povera d’inversioni (Staël l.c. p.11. fine) chiusa in giro più angusto (ib.), più monotona, (ib. p.12.
principio), più timida, più scarsa di ardiri, più legata, più serva di se stessa, meno arrendevole, meno libera, meno varia, più strettamente conforme in ogni parte a se stessa; questa lingua dico è lo strumento meno atto, meno valido, più insufficiente, più grossolano, per elevarci alla cognizione delle altre lingue, e delle loro particolarità.
Che se ciò vale quanto al perfetto intendere, [970]molto più quanto al perfetto gustare, che risulta dal senso intero e preciso e completo di qualità tanto più numerose, e tanto più menome e sfuggevoli, e tanto più proprie ed intime e arcane e riposte e peculiari di quella tal lingua. Una lingua, che come confessa un francese (Thomas, il cui luogo ho riportato altrove) se refuse peut-être (à la grâce), parce quelle ne peut nous donner ni cette sensibilité tendre et pure qui la fait naître, ni cet instrument facile et souple qui la peut rendre; una tal lingua dico, che è la francese, come potrà essere perfetto istrumento per concepire e sentire come conviene, le grazie ec. delle altre lingue? trattandosi poi, come ho dimostrato, che a que-Letteratura italiana Einaudi 699
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia sto effetto, gli uomini non hanno altro istrumento che la loro propria lingua, come potranno il più de’ francesi, ancorchè dotti e dilicati, sentire profondamente e perfettamente, e formarsi idea netta di queste tali grazie, e vestirsi in somma intieramente, com’è necessario, delle altre lingue, e del genio loro?
Il fatto conferma queste mie obbiezioni. Ciascun popolo ama di preferenza, e gusta e sente la propria letteratura meglio di ogni altra. Questo è naturale. Ma ciò accade sommamente ne’ francesi, i quali generalmente non conoscono in verità altra letteratura che la loro (dico letteratura, e non scienze, filosofia ec.). [971]Le altre non le conoscono, se non per mezzo di quelle traduzioni, che essendo fatte come ognun sa, e come comportano i limiti, il genio, la nessuna adattabilità della loro lingua, trasportano le opere straniere non solo nella lingua, ma nella letteratura loro, e le fanno parte di letteratura francese.
Così che questa resta sempre l’unica che si conosca in Francia universalmente, anche dalla universalità degli studiosi. Ed è anche vero generalmente, che non solo non conoscono, ma noncurano, e disprezzano, o certo sono inclinatissimi a disprezzare le letterature straniere. Che se non disprezzano la latina e la greca, viene che non sempre gli uomini sono conseguenti, viene ch’essi parlano come parla tutto il mondo che esalta quelle letterature, viene ch’essi stimano quelle letterature come compagne o madri della loro, e nel mentre che stimano la loro come la più perfetta possibile, anzi la sola vera e perfetta, non vedono, o non vogliono vedere ch’è diversissima, e in molte parti contraria a quelle due, le quali non isdegnano di proporsi per modello e norma, e citare al loro tribuna-le e confronto ec. ec.; viene ch’essi credono di gustarle pienamente, e di giudicarne perfettamente ec.
Ciascuno straniero è soggetto a cadere in errore giudicando dei pregi o difetti di una lingua altrui, morta o viva, massime de’ più intimi e reconditi e particolari. E così Letteratura italiana Einaudi 700
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia giudicando di quei pregi o difetti [972]di un’opera di letteratura straniera, che appartengono alla lingua, e di tutta quella parte dello stile (ed è grandissima e rilevantissima parte) che spetta alla lingua, o ci ha qualche relazione per qualunque verso. Ma i giudizi de’ francesi sopra questi soggetti, e de’ francesi anche più grandi e acuti e stimabili, sono quasi sempre falsi: in maniera che per lo più la falsità loro, va in ragione diretta della temerità ed assurance con cui sono ordinariamente pronunziati; vale a dire ch’è somma. E ordinariamente i francesi, quando parlano di certe intimità delle letterature straniere, appartenenti a lingua, fanno un arrosto di granciporri.
Questo quanto al gustare. Quanto all’intendere, il fatto non è meno conforme alle mie osservazioni. Perchè la francese insieme coll’italiana, è senza contrasto, la nazione meno letterata in materia di lingue, sia lingue antiche classiche, cioè greca e latina, (nelle quali la Francia non può in nessun modo paragonarsi all’Inghilterra, Germania, Olanda ec.) sia lingue vive, delle quali la maggior parte dei francesi si contenta di essere ignorantissima, o di saperne quanto basta per usurpare il diritto di sparlar-ne, e giudicarne a sproposito e al rovescio. Nell’Italia (dove però l’ignoranza non è tanto compagna della temerità)
[973]il poco studio delle lingue morte o vive, nasce dalla misera costituzione del paese, e dalla generale inerzia che non senza troppo naturali e necessarie cagioni, vi regna.
Ed ella non è più al di sotto in genere, di quello che in ogni altro, o di studi, o di qualsivoglia disciplina, e professione della vita. Ma nella Francia le circostanze sono opposte: in luogo che vi regni l’inerzia, vi regna l’attività e le ragioni di lei; in luogo che vi regni l’ignoranza, vi regnano tutte le altre maniere di coltura; tutti gli altri studi, e tutte le buone discipline e professioni fioriscono in Francia da lungo tempo; la sua posizione geografica, e tutte le altre sue circostanze la pongono in continua e viva ed orale relazione co’ forestieri, tanto nell’interno Letteratura italiana Einaudi 701
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia della Francia stessa, quanto fuori. Perchè dunque ella si distingue assolutamente dalle altre nazioni nella poca e poco generale coltura delle lingue altrui, vive o morte?
Fra le altre cagioni che si potrebbero addurre, io stimo una delle principali quella che ho detto, cioè la difficoltà che oppone la loro stessa lingua all’intelligenza e sentimento delle altre, e l’insufficienza dello strumento che hanno per procacciarsi e la cognizione, e il gusto delle lingue altrui.
[974]Una celebre Dama Irlandese morta pochi anni fa (Lady Morgan) riferisce come cosa notabile che di tanti emigrati francesi che soggiornarono sì lungo tempo in Inghilterra, nessuno o quasi nessuno, quando tornarono in Francia coi Borboni, aveva imparato veramente l’inglese, nè poteva portar giudizio se non incompleto, ine-satto, anzi spesso stravagantissimo e ridicolo, sopra la lingua e letteratura inglese; sebbene tutte erano persone ottimamente allevate, e ornate, qual più qual meno, di buoni studi.
Io non intendo con ciò di detrarre, anzi di aggiungere alla gloria di quei dottissimi e sommi letterati francesi che malgrado tutte le dette difficoltà, facendosi scala da una ad altra lingua, mediante lunghi, assidui, profondi studi delle altrui lingue e letterature, mediante i viaggi, le conversazioni ec. sono divenuti così padroni delle lingue e letterature straniere che hanno coltivate, ne hanno penetrato così bene il gusto ec. quanto mai possa fare uno straniero, e forse anche talvolta quanto possa fare un nazionale. (Cosa per altro rara, che, eccetto il Ginguené, non credo che si trovi autore francese, massime oggidì, che abbia saputo o sappia giudicare con verità della lingua e letteratura italiana: e così discorrete delle altre). E
non ignoro quanto debbano massimamente le lingue e letterature orientali ai [975]dotti francesi di questo e del passato secolo. Ma questi tali dotti presenti o passati hanno parlato o parlano e più modestamente della lingua e let-Letteratura italiana Einaudi 702
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia teratura loro, e più cautamente e con più riguardo delle altrui, siccome è costume naturale di chiunque meglio e maturamente ed intimamente conosce ed intende.
(20-22. Aprile. Giorno di Pasqua. 1821.). V. p.978.
capoverso 3.
Tra i libri diversi si annunziano le Lettere sull’India di Maria Graham, autrice di un Giornale del suo soggiorno nell’India, nelle quali campeggia un curioso paragone del Sanscritto col latino, col persiano, col tedesco, coll’inglese, col francese e coll’italiano, e si parla pure a lungo delle principali opere composte in Sanscritto. Bibl. Italiana vol.4. p.358. Novembre 1816. n.11. Appendice. Parte italiana. rendendo conto del Giornale Enciclopedico di Napoli n. V.
(22. Aprile 1821.)
Il sistema di Copernico insegnò ai filosofi l’uguaglianza dei globi che compongono il sistema solare (uguaglianza non insegnata dalla natura, anzi all’opposto), nel modo che la ragione e la natura insegnavano agli uomini ed a qualunque vivente l’uguaglianza naturale degl’individui di una medesima specie.
(22. Aprile 1821.)
La scrittura dev’essere scrittura e non algebra; [976]deve rappresentar le parole coi segni convenuti, e l’esprimere e il suscitare le idee e i sentimenti, ovvero i pensieri e gli affetti dell’animo, è ufficio delle parole così rappresentate. Che è questo ingombro di lineette, di puntini, di spazietti, di punti ammirativi doppi e tripli, che so io?
Sto a vedere che torna alla moda la scrittura geroglifica, e i sentimenti e le idee non si vogliono più scrivere ma rappresentare, e non sapendo significare le cose colle parole, le vorremo dipingere o significare con segni, come fanno i cinesi la cui scrittura non rappresenta le parole, Letteratura italiana Einaudi 703
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ma le cose e le idee. Che altro è questo se non ritornare l’arte dello scrivere all’infanzia? Imparate imparate l’arte dello stile, quell’arte che possedevano così bene i nostri antichi, quell’arte che oggi è nella massima parte perduta, quell’arte che è necessario possedere in tutta la sua profondità, in tutta la sua varietà, in tutta la sua perfezione, chi vuole scrivere. E così obbligherete il lettore alla sospensione, all’attenzione, alla meditazione, alla posatezza nel leggere, agli affetti che occorreranno, ve l’obbligherete, dico, con le parole, e non coi segnetti, nè collo spendere due pagine in quella scrittura che si potrebbe contenere in una sola pagina, togliendo le lineette, e le divisioni ec. Che maraviglia risulta da questa sorta d’imitazioni? Non consiste nella maraviglia uno de’
principalissimi pregi dell’imitazione, una [977]delle somme cause del diletto ch’ella produce? Or dunque non è meglio che lo scrittore volendo scrivere in questa maniera, si metta a fare il pittore? Non ha sbagliato mestiere?
non produrrebbe egli molto meglio quegli effetti che vuol produrre scrivendo così? Non c’è maraviglia, dove non c’è difficoltà. E che difficoltà nell’imitare in questo modo?
Che difficoltà nell’esprimere il calpestio dei cavalli col trap trap trap, e il suono de’ campanelli col tin tin tin, come fanno i romantici? (Bürger nell’Eleonora. B. Ital.
tomo 8. p.365.) Questa è l’imitazione delle balie, e de’
saltimbanchi, ed è tutt’una con quella che si fa nella detta maniera di scrivere, e coi detti segni, sconosciutissimi, e con ragione a tutti gli antichi e sommi.
(22. Aprile. Giorno di Pasqua 1821.)
Quanto più qualsivoglia imitazione trapassa i limiti dello strumento che l’è destinato, e che la caratterizza e qualifi-ca, tanto più esce della sua natura e proprietà, e tanto più si scema la maraviglia, come se nella scultura che imita col marmo s’introducessero gli occhi di vetro, o le par-rucche invece delle chiome scolpite. E così appunto si Letteratura italiana Einaudi 704
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia deve dire in ordine alla scrittura, la quale imita colle parole, e non deve uscire del suo strumento. Massime se questi nuovi strumenti son troppo facili e ovvi, [978]cosa contraria alla dignità e alla maraviglia dell’imitazione, e che confonde la imitazione del poeta o dell’artefice colla misera imitazione delle balie, de’ mimi, de’ ciarlatani, delle scimie, e con quella imitazione che si fa tutto giorno o con parole, o con gesti, o con lavori triviali di mano, senza che alcuno si avvisi di maravigliarsene, o di crederla opera del genio, e divina.
(23. Aprile. 1821.)
Oggi non può scegliere il cammino della virtù se non il pazzo, o il timido e vile, o il debole e misero.
(23. Aprile. 1821.)
Per l’invenzione della polvere l’energia che prima avevano gli uomini si trasportò alle macchine, e si trasforma-rono in macchine gli uomini, cosicchè ella ha cangiato essenzialmente il modo di guerreggiare. B. Italiana t.5.
p.31. Prospetto Storico-filosofico ec. del Conte Emanue-le Bava di S. Paolo, 2° ed ult. estratto.
(23. Aprile 1821.)
Alla p.975. Una lingua timidissima non è buono nè perfetto strumento a gustare una lingua coraggiosa ed ardita, a gustare gli ardimenti e il coraggio; nè una lingua tutta regola, e matematica, ed esattezza e ragione, a gustare una lingua naturalmente e felicemente irregolare, (come sono tutte le antiche, orientali come occidentali), una lingua regolata dalla immaginazione ec.; nè una lingua che non ha, si può dire, nessuna proprietà quanto ai modi ec.
(oêd¡n ti àdion) a gustare le proprietà [979]delle altre lingue.
(24. Aprile. 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 705
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Passa rapidamente sulla ricerca del linguaggio de’ primi abitatori dell’Italia, e sembra persuaso che la lingua di quelle genti, siccome pure la greca e la latina, derivassero dall’ indiana, giacchè i popoli indiani dalle spiagge dell’Oriente, passarono in turme alle Occidentali, e posero sede nella Grecia ed in Italia. Formata, ossia ridotta ad eleganza la lingua latina (cioè quella derivata, secondo il Ciampi, dall’indiana), non perciò perirono l’etrusca, l’osca, la volsca, la latina antica più rozza; ma benchè queste non formassero la lingua della capitale e del governo, continuarono forse a parlarsi dal volgo, in quella maniera medesima che il volgo delle diverse provincie d’Italia è tuttora tenace dei propri dialetti. Infatti alcune voci toscane sono ancora probabilmente di origine etrusca. Biblioteca Italiana tomo 7. pag.215. rendendo conto dell’opera del Ciampi intitolata De usu linguae italicae saltem a saeculo quinto R. S. Acroasis. Accedit etc. Pisis.
Prosperi. 1817.
(24. Aprile 1821.)
Trae perfino un argomento a suo favore dalla lingua valacca, la quale derivata dai soldati romani che vi si lasciarono stazionarii da Traiano, conviene in molte parole ed in molte frasi colla italiana, e ne [980]mette fuori di dubbio la rimota antichità. Bibl. Ital. l. cit. nel pensiero antecedente, rendendo conto della stessa opera. p.217.
fine.
(24. Aprile 1821.)
La lingua del Lazio adunque si dovette propagare nel contiguo Illirico e all’Oriente, non meno che si propagò in amendue le Gallie all’Occidente; e il nome Romania, che fino a’ nostri dì si è conservato; e la lingua chiamata dai Valacchi: ROMANESKI, che tanto somiglia alla latina (come un viaggiatore recente ce lo conferma) (vedi Caronni in Dacia. Milano, 1812. pag.32.) non che il gran Letteratura italiana Einaudi 706
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia numero di antichità romane disotterrate in quelle parti, ne sono una prova convincente. Articolo originale del Cav.
Hager nello Spettatore di Milano. 1. Aprile 1818. Quaderno 97. p.245. fine. (25. Aprile 1821.).
Basta che la voce OCO che significa anch’essa OCCHIO
in russo, (cioè oltre la voce Glass che significa lo stesso) sia tanto simile all’ OCULUS de’ latini, onde dimostrare che questa voce non è meno affine alla voce latina, che la parola OCCHIO in italiano, non essendo OCULUS che il diminutivo della parola OCCUS o OCCOS che significava un OCCHIO in greco antico, come lo attestano Esichio ed Isidoro. Luogo citato qui sopra, p.244. principio. Sì dunque la voce russa Oco derivata dal latino mediante la propagazione [981]della lingua latina nell’Illirico, avvenuta in bassi tempi, (Hager, ivi, p.244. verso il mezzo ec.
e Bibl. Italiana vol. 8. p.208. rendendo conto dell’opera dello stesso Hager: Observations sur la ressemblance frappante que l’on découvre entre la langue des Russes et celle des Romains. Milan. 1817. chez Stella, en 4°. gr. dove l’autore dimostra questa propagazione.) essendo la lingua russa figlia dell’illirica (ivi); sì ancora la voce ojo spagnuola (che si pronunzia oco, aspirando il c all’uso spagnuolo) dimostrano che quell’antichissima voce occus, benchè sparita dalle scritture latine, si conservò nel latino volgare. (25. Aprile 1821.). Occhio però viene da oculus come da somniCULosus, sonnaCCHIoso, e l’antico sonnoCCHIoso, da auricula, orecchia, da geniculum o genuculum, ginocchio (v. pag.1181. marg.), da foeniculum, finocchio, da macula, macchia, da apicula o apecula, pecchia, da stipula, stoppia, (bisogna notare che anche gli spagnuoli dicono ojo da oculus, come oreja, oveja da auricula, ovicula ec.) da ungula, unghia ec. V. p.2375. (e la p.2281. e segg.).
Letteratura italiana Einaudi 707
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Alla p.740. La lingua greca si era conservata sempre pura, in gran parte per la grande ignoranza in cui erano i greci del latino. La quale si fa chiara sì da altri esempi che ho allegati in altro pensiero (cioè quelli di Longino nel giudizio timidissimo che dà di Cicerone, e di Plutarco nella prefazione alla Vita di Demostene, della quale vedi il Toup ad Longin. p.134.) sì ancora da questo, che laddove i latini citavano ad ogni momento parole e passi greci, colle lettere greche, gli scrittori greci non mai citavano o usavano parole latine se non con elementi greci, e con maraviglia, e come cosa unica notò il Mingarelli in un’opera di Didimo Alessandrino, Teologo del quarto secolo, da lui per la prima volta pubblicata, due o tre parole latine barbaramente scritte in caratteri latini.
(Didym. Alexandr. De Trinitate Lib.1. cap.15. Bonon.
typis Laelii a Vulpe 1769. fol. p.18. gr. et lat. cura Johannis Aloysii Mingarellii. Vide ib. eius not.3. e la Lettera a Mons.
Giovanni Archinto Sopra un’opera inedita di un antico teologo stampata già in Venezia nella Nuova Raccolta del Calogerà 1763. tomo XI. e ristampata nell’Appendice alla detta opera: Cap.3. pag.465. fine-466. principio. del che non si troverà [982] così facilmente altro esempio in altro scrittore greco. ) Il che dimostra sì che gli stessi scrittori sì che i lettori greci erano ignorantissimi del latino, da che gli scrittori non giudicavano di poter citare parole latine, com’elle erano scritte; e di rado anche le usavano in lettere greche, al contrario de’ latini rispetto alle voci greche e passi greci in caratteri latini ec. Quanto poi i greci dovessero lottare colle circostanze per mantenersi in questa verginità anche prima di Costantino, e dopo la conquista della Grecia fatta dai Romani si può raccogliere da queste parole del Cav. Hager, nel luogo cit. qui dietro (p.980.) p.245. Basta consultare la celebre opera di S. Agostino, DE
CIVITATE DEI, onde vedere quanto i Romani al medesimo tempo erano solleciti d’imporre non solo il loro giogo, ma anche la loro lingua a’ popoli da loro sottomessi: Opera Letteratura italiana Einaudi 708
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia data est, ut imperiosa civitas, non solum iugum, verum etiam linguam suam, domitis gentibus per pacem societatis, imponeret (Lib. XIX, cap.7.) Ai Greci medesimi, dice Valerio Massimo, non davano giammai risposta che in lingua latina: illud quoque magna perseverantia custodiebant, ne Graecis unquam nisi latine responsa darent, (Lib. II., c.2. n.2.) e ciò quantunque la lingua greca fosse tanto famigliare a’ Romani; nulla dimeno per diffon-dere la lingua latina obbligavano perfino que’ Greci, che non la sapevano, a spiegarsi per mezzo di un interprete in latino: Quin etiam… per interpretem loqui cogebant… quo scilicet latinae vocis honos per omnes gentes venerabilior diffunderetur. (ibid.) [983]E tuttavia la Grecia resistè. Ma dopo Costantino, alla Corte Bizantina, segue lo stesso autore l.c. come si osserva da S. Crisostomo (adv.
oppugnatores vitae monasticae. Lib. III. tom. I., p.34. Paris.
1718, edit Montfaucon.) era un mezzo di far fortuna il sapere il latino; e fino a’ tempi di Giustiniano, le leggi degli imperatori greci si pubblicavano nella Grecia medesima in latino. E soggiunge subito in una nota: Le PANDETTE
furono pubblicate a Costantinopoli in latino.
(25. Aprile 1821.)
Nelle Mémoires de l’Acad. des Inscriptions, Tom.24. si trova: Bonamy, Réflexions sur la langue latine vulgaire.
(25. Aprile 1821.). E son pur da vedere in questo proposito le memorie di Trévoux, anno 1711. p.914.
Un nostro missionario (cioè italiano) il P. Paolino da S.
Bartolomeo, mostrò l’affinità della lingua tedesca con una lingua indiana non solo, ma che da una lunga serie di secoli ha cessato di essere vernacola, con la samscrdamica (cioè sascrita: così la nomina anche p.208. samscrdamica) che è la madre di tutte le lingue delle Indie. Bibliot. Ital.
vol.8. p.206.
(25. Aprile 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 709
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Che il verbo latino serpo sia lo stesso che il greco §rpv, è cosa evidente, come pure i derivati, serpyllum etc. Ma che gli antichi latini, e successivamente il volgo latino, usassero ancora, almeno in composizione, lo stesso verbo senza la [984] s, come in greco, lo raccolgo dal verbo neutro italiano inerpicare o innerpicare che significa appunto lo stesso che il greco �n¡rpv, composto di §rpv, cioè sursum repo, come anche �neræzv. (Del verbo �n¡rpv non ha esempio lo Scapula, ma lo spiega sursum repo. Ve n’è però esempio in Arriano, Expedit. lib.6. c.10. sect.6. e nell’indice è spiegato sursum serpo.) Il qual verbo siccome non ha radice veruna nella nostra lingua, nè nella latina conosciuta, così l’ha evidentissima nel detto verbo
§rpv, dal quale non può esser derivato, se non mediante il latino, cioè mediante l’uso del volgo romano, differente in questo dagli scrittori.
(25 Aprile 1821.)
Delle qualità e pregi della lingua Sascrita, v. alcune cose estratte da un articolo di Jones nelle Notizie letterarie di Cesena 1791. 24. Nov. p.365. colonna 1. Dell’abuso ch’ella fa talvolta de’ composti v. ib. p.363. colonna 2. fine. Abuso simile a quello che ne facevano talvolta gli antichi scrittori, e massime poeti, latini, ma assai maggiore, secondo la natura de’ popoli orientali che sogliono sempre e in ogni genere spingersi fino all’ultimo e intollerabile eccesso delle cose.
(25. Aprile 1821.)
La scoperta e l’uso delle armi da fuoco oltre agli effetti da me notati negli altri pensieri, ha scemato ancora notabilissimamente il coraggio ne’ soldati, e generalmente negli uomini. La victoire… s’obtient aujourd’hui par la regularité et la précision des manoeuvres, souvent sans en venir aux mains. Nos guerres ne se décident plus guère que Letteratura italiana Einaudi 710
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia de loin, à coups de canon et de fusil; et nos timides fantassins, sans armes défensives, effrayés par le bruit et l’effet de
[985] nos armes à feu, n’osent plus s’aborder: les combats à l’armes blanches sont devenus fort rares. Così il Barone Rogniat, Considérations sur l’Art de la guerre, Paris, de l’imprimerie de Firmin Didot, 1817. Introduction, p.1. E
come i soldati, così gli altri uomini che si servono delle armi da fuoco invece delle bianche, riducendosi ora ogni battaglia o pubblica o privata, a tradimenti, e a fatti di lontano, senza mai venire corpo a corpo: oltre l’influenza che ha l’educazione militare, e la natura delle guerre sopra l’intero delle nazioni. Sarà bene ch’io legga tutta intera l’opera citata, dove l’arte della guerra è chiarissimamente esposta, congiunta a molta filosofia, paragonati continuamente gli antichi coi moderni, e i diversi popoli fra loro, applicata alla detta arte la scienza dell’uomo ec. E certo la guerra appartiene al filosofo, tanto come cagione di sommi e principalissimi avvenimenti, quanto come connessa con infiniti rami della teoria della società, e dell’uomo e dei viventi.
(25. Aprile 1821.)
La soverchia ristrettezza e superstizione e tirannia in ordine alla purità della lingua, ne produce dirittamente la barbarie e licenza, come la eccessiva servitù produce la soverchia e smoderata libertà dei popoli. I quali ora perciò non divengono liberi, perchè [986]non sono eccessivamente servi, e perchè la tirannia è perfetta, e peggiore che mai fosse, essendo più moderata che fosse mai.
(25. Aprile 1821.)
Come non si dà mai l’atto nè il possesso del diletto, così neanche dell’utilità, giacchè utile non è se non quello che conduce alla felicità, la quale non è riposta in altro che nel piacere, con qualunque nome ei venga chiamato.
(25. Aprile 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 711
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Dal confronto delle poesie di Ossian, vere naturali e indigene dell’Inghilterra, colle poesie orientali, si può dedurre (ironico) quanto sia naturale all’Inghilterra la sua presente poesia (come quella di Lord Byron) derivata in gran parte dall’oriente, come dice il riputatissimo giornale dell’Edinburgh Review in proposito del Lalla Roca di Tommaso Moore (Londra 1817.) intitolato Romanzo orientale. (Spettatore di Milano. 1. Giugno 1818. Parte Straniera. Quaderno 101. p.233. e puoi vederlo.) Infatti le poesie d’Ossian sebben sublimi e calde, hanno però quella sublimità malinconica, e quel carattere triste e grave, e nel tempo stesso, semplice e bello, e quegli spiriti marziali ed eroici, che derivano naturalmente dal clima settentrionale. Non già quella sublimità eccessiva, quelle esagerazioni, quelle spaccamontate delle pazze fantasie orientali; nè quel sapore aromatico; nè quello splendore abbagliante, come dice il citato giornale, nè quel fa-sto, nè quella voluttà, nè quei profumi (sono espressioni dello stesso); nè quel colore vivo e sfacciato, ed ardente; nè quella estrema raffinatezza, e squisitezza strabocchevole in ogni genere e parte di letteratura e poesia; nè quella mollezza, quella effeminatezza, quel languore, quella delicatezza (per noi) eccessiva e nauseosa e vile e sibaritica, che deriva dai climi meridionali. Ed è veramente maraviglioso, come il paese de’ più settentrionali d’Europa, stimi naturale e propria e [987]adattata alla sua indole la poesia de’ paesi più meridionali e ardenti del mondo. Un paese poi come l’Inghilterra, così pieno di filosofia, e cognizioni dell’uomo, e de’ caratteri nazionali e fisici ec. ec. Meno male se l’orientalismo fa progressi in Francia, (come negli scritti di Chateaubriand) paese più meridionale che settentrionale. Ma non c’era popolo colto, a cui l’orientalismo convenisse meno che all’Inghilterra, dove però trionfa, e donde io credo che sia passato in Francia sulla fine del secolo passato, e donde Letteratura italiana Einaudi 712
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia si va diramando per l’Europa la detta scuola. Il fatto sta che tutto il mondo è paese, e da per tutto si crede naturale e nazionale quello che fa effetto per la cagione appunto contraria, cioè per la novità, pel forestiero, pel contrasto col carattere e l’indole propria e nazionale; e come la poesia [in] Italia ha corso rischio, (e non ne è forse fuori) di una nuova corruzione mediante il settentrionalismo, l’Ossianismo ec. così viceversa l’inglese, mediante il meridionale e l’orientale. E certo se la poesia settentrionale pecca in qualche cosa al gusto nostro, egli è nell’eccesso del sombre, del buio, del tetro; e la orientale al contrario, nell’eccesso del vivo, del chiaro, del ridente, del lucido anzi abbarbagliante ec. Vedete quanta conformità di carattere fra queste due poesie!
(25. Aprile 1821.)
Il diletto è sempre il fine, e di tutte le cose, l’utile non è che il mezzo. Quindi il piacevole, è vicinissimo al fine delle cose umane, o quasi lo stesso con lui; l’utile che si suole stimar più del piacevole, non ha altro pregio che d’esser più lontano da esso fine, o di condurlo non immediatamente ma mediatamente. [988]
(26. Aprile 1821.)
I latini erano veramente dÛglvttoi rispetto alla lingua loro e alla greca 1. perchè parlavano l’una come l’altra, ma non così i greci generalmente, anzi ordinariamente: 2. perchè scrivendo citavano del continuo parole e passi greci, in lingua e caratteri greci, ovvero usavano parole o frasi greche nella stessa maniera; ma non i greci viceversa, del che vedi p.981. e p.1052. capoverso 3. e p.2165.
3. Resta memoria di parecchie traduzioni fatte dal greco in latino anche ne’ buoni tempi, e fino dagli ottimi scrittori latini, come Cicerone. Ed anche restano di queste traduzioni, o intere o in frammenti, come quelle di Arato fatte da Cicerone e da Germanico, quella del Timeo Letteratura italiana Einaudi 713
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia di Cicerone, quelle di Menandro fatte da Terenzio, quelle fatte da Apuleio o attribuite a lui, quelle dell’Odissea fatta da Livio Andronico, dell’Iliade da Accio Labeone, da Cneo Mattio o Mazzio, da Ninnio Crasso (Fabric. B.
Gr. 1.297.) ec. tutte anteriori a Costantino. V. Andrès Stor.
della letteratura, ediz. di Venezia, Vitto. t.9. p.328 329.
cioè Parte 2. lib.4. c.3. principio. Non così nessuna traduzione, che sappia io, si rammenta dal latino in greco, se non dopo Costantino, e quasi tutte di opere teologiche o ecclesiastiche o sacre, cioè scientifiche e appartenenti a quella scienza che allora prevaleva. Non mai letterarie.
(V. Andrès, t.9. p.330. fine.) La traslazione di Eutropio fatta da Peanio che ci rimane, e l’altra perduta di un Ca-pitone Licio, non pare che si possano riferire a letteratura, trattandosi di un compendio ristrettissimo di storia, fatto a solo uso, possiamo dire, elementare. [989]E si può dire con verità quanto alla letteratura, che la comunicazione che v’ebbe fra la greca e la romana, non fu mai per nessunissimo conto reciproca, neppur dopo che la letteratura Romana era già grandissima e nobilissima, anzi superiore assai alla letteratura greca contemporanea. 4°, I latini scrivevano bene spesso in greco del loro. Così fa molte volte Cicerone nelle epistole ad Attico (forse anche nelle altre); dove forse per non essere inteso dal por-talettere, la qual gente, com’egli dice, soleva alleviare la fatica e la noia del viaggio leggendo le lettere che portava; ovvero per evitare gli altri pericoli di lettere vertenti sopra negozi pubblici, politici ec. dal contesto latino passa bene spesso a lunghi squarci scritti in greco, e tramezzati al latino, e scritti anche in maniera enigmatica e difficile.
Restano parecchie lettere greche di Frontone. Resta l’opera greca di Marcaurelio, il quale imperatore scriveva parimente, com’è naturale, in latino, e così bene, come si può vedere nelle sue lettere ultimamente scoperte8 .
Eliano, conosciuto solamente come scrittor greco, fu di Preneste, e quindi cittadino Romano, ed appena si mosse Letteratura italiana Einaudi 714
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia mai d’Italia. Nondimeno dice di lui Filostrato: �RvmaÝoiw m¢n ·n, ±ttÛkize d¢ Ësper oß ¤n t» mesogeÛ& �AϑhnaÝoi (Fabric. 3.696. not.). Intorno a Marcaurelio puoi vedere la p. 2166. Non così i greci sapevano mai scrivere in latino. Anzi Appiano in Roma scrivendo a Frontone, uomo latino, sebbene di origine affricana, scriveva in greco, e Frontone rispondeva parimente in greco, non in latino.
E così molti libri di autori greci si trovano, scritti in greco, sebbene indirizzati a personaggi [990]romani o latini.
Le stesse cose appresso a poco si possono notare avvenute a noi riguardo al francese. Giacchè fino a tanto che la nostra letteratura prevalse o per merito reale, o per continuazione di fama e di opinione generale, e la nostra lingua era per tutti i versi più studiata, più conosciuta, più dilatata fra i francesi ed altrove, e la nostra letteratura parimente, sì nella nazione, che fra’ suoi letterati e scrittori; e si trovarono di quei francesi che scrivevano in ambedue le lingue francese e italiana. Ora accade tutto l’opposto: e si trovano degl’italiani, come anche non pochi d’altre nazioni, che scrivono e stampano così nella lingua francese, come nella loro: libri, parole, testi francesi si allegano continuamente in tutti i paesi di Europa: non così viceversa in Francia, dove difficilmente si troverà un francese che sappia scrivere altra lingua che la sua, e scrivendo a’ forestieri scriveranno in francese, e riceveranno risposta nella stessa lingua; e dove è più necessario che in qualunque altro paese colto, che i passi o parole che si citano di libri forestieri, (e massime italiani) si citino in francese, o se n’aggiunga la traduzione.
Osservo ancor questo. Ridotti in provincie romane i diversi paesi dell’impero, tutti gli scrittori che uscirono di queste provincie, qualunque lingua fosse in esse originaria o propria, scrissero in latino. I Seneca, Quintiliano, Marziale, [991]Lucano, Columella, Prudenzio, Draconzio, Giovenco, ed altri Spagnuoli; Ausonio, Letteratura italiana Einaudi 715
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Sidonio Apollinare, S. Prospero, S. Ilario, Latino Pacato, Eumenio, Sulpizio Severo ed altri Galli; Terenzio, Marziano Capella, Frontone, Apuleio, Nemesiano, Tertulliano, Arnobio, S. Ottato, Mario Vittorino, S.
Agostino, S. Cipriano, Lattanzio ed altri Affricani; Sedulio Scozzese. V. p.1014. Parecchi de’ quali arrivarono ancora all’eccellenza nella lingua latina. Non così i greci. E
dico tanto i greci Europei, quanto quelli nativi delle colonie greche nell’Asia Minore, o delle altre parti dell’Asia divenute greche di lingua e di costumi dopo la conquista di Alessandro, e così dell’Egitto, o di qualunque luogo dove la lingua greca prevalesse nell’uso quotidiano, ovvero anche solamente come lingua degli scrittori e della letteratura. Nessuno di questi scrisse in latino, ma tutti in greco, eccetto pochissimi (come Claudiano, e Igino Alessandrini, Petronio Marsigliese ec.); che son quasi nulla rispetto al numero ed estensione delle dette provincie greche, massime paragonandoli alla gran copia degli altri scrittori latini forestieri di ciascuna provincia, ancorchè minore. E di questi pochissimi nessuno arrivò, non dico all’eccellenza, ma appena alla mediocrità nella lingua latina. V. p.1029. E Macrobio, che si stima uno di questi pochissimi, si scusa se ec. (v. il Fabricio, B. Latina t.2.
p.113. l.3. c.12. §.9. nota (a.)) e di lui dice Erasmo (in Ciceroniano) Graeculum latine balbutire credas. (Fabric.
ivi) Cosa applicabilissima agli odierni francesi per lo più balbettanti nelle altrui lingue, e massime nella nostra. E
di Ammiano Marcellino, altro di questi pochissimi, e più antico di Macrobio, dice il Salmasio (Praef. de Hellenistica p.39.) ec. V. il Fabricio l.c. p.99.nota(b) l.3. c.12
[992]Ma del resto i greci di qualunque parte, ancorchè sudditi romani, ancorchè cittadini romani, ancorchè vissuti lungo tempo in Roma o in Italia, ancorchè scrivendo precisamente in Italia o in Roma, e in mezzo ai latini, ancorchè scrivendo ai romani tanto gelosi del predominio del loro linguaggio, come sì è veduto p.982-983.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ancorchè nel tempo dell’assoluta padronanza, ed intiera estensione del dominio della nazione latina, ancorchè impiegati in cariche, in onori ec. al servizio de’ Romani, e nella stessa Roma, ancorchè finalmente nominati con nomi e prenomi latini, scrissero sempre in greco, e non mai altrimenti che in greco. Così Polibio, familiare, compagno, e commilitone del minore Scipione; così Dionigi d’Alicarnasso, vissuto 22 anni in Roma; così Arriano prenominato Flavio (Fabric. B. G. 3.269. not. b.) fatto cittadino Romano, senatore, Console, caro all’imperatore Adriano, e mandato prefetto di provincia armata in Cappadocia; così Dione Grisostomo, cognominato Cocceiano dall’Imperatore Cocceio Nerva, vissuto gran tempo in Roma, e familiare del detto Imperatore e di Traiano; così l’altro Dione prenominato Cassio e cognominato parimente Cocceiano ec.; così Plutarco ec.; così Appiano ec. così Flegone, ec.; così Galeno prenominato Claudio ec.; così Erode Attico prenominato Tiberio Claudio, ec.; così Plotino ec.; (v. per ciascuno di questi il Fabricio) così quell’Archia poeta ec. (v. Cic. pro Archia).
Da tutto ciò si deduce in primo luogo, quanto, e con quanta differenza dalle altre nazioni, i greci [993]di qualunque paese fossero tenaci della lingua e letteratura loro, e noncuranti della latina, anche durante e dopo il suo massimo splendore. Considerando ancora che generalmente gli scrittori greci di qualunque età, e nominatamente i sopraddetti e loro simili, che per le loro circostanze, parrebbono non solo a portata ma in necessità di aver conosciuto la letteratura latina, non danno si può dir mai segno veruno di conoscerla, nè la nominano ec. e se citano talvolta qualche autore latino, li citano e se ne servono per usi di storia, di notizie, di scienze, di teologia ec. non mai di letteratura. Questa è cosa universale negli scrittori greci.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia In secondo luogo risulta dalle sopraddette cose, che i mezzi usati dai romani per far prevalere la loro lingua, come nelle altre nazioni, così in Grecia, e ne’ moltissimi paesi dove il greco era usato, (v. p.982-83.) laddove riuscirono in tutti gli altri luoghi, non riuscirono e furon vani in questi. Ed osservo che la lingua latina non prevalse mai alla greca in nessun paese dov’ella fosse stabilita, sia come lingua parlata, sia come lingua scritta: laddove la greca avea prevaluto a tutte le altre in questi tali (vastissimi e numerosissimi) paesi, e in quasi mezzo mondo; e quello che [994]non potè mai la lingua nè la potenza nè la letteratura latina, lo potè, a quel che pare, in poco spazio, l’arabo, e le altre lingue o dialetti maomettani, (come il turco ec.) e così perfettamente, come vediamo anche oggidì. Ma la lingua latina, (eccetto nella Magna Grecia e in Sicilia) non solo non estirpò, ma non prevalse mai in nessun modo e in nessun luogo alla lingua e letteratura greca, se non come pura lingua della diplomazia: quella lingua latina, dico, la quale nelle Gallie aveva, se non distrutta, certo superata quell’antichissima lingua Celtica così varia, così dolce, così armoniosa, così maestosa, così pieghevole, (Annali 1811. n.18. p.386. Notiz. letterar. di Cesena 1792. p.142.) e che al Cav. Angiolini che se la fece parlare da alcuni montanari Scozzesi, parve somigliante ne’ suoni alla greca: (Lettere sopra l’Inghilterra, Scozia, ed Olanda. vol.2do. Firenze 1790. Allegrini. 8vo anonime, ma del Cav. Angiolini) (Notizie ec. l.c.) lingua della cui purità erano depositarii e custodi gelosissimi quei famosi Bardi che avevano e conservarono per sì lungo tempo, ancor dopo la conquista fatta da’ Romani, tanta influenza sulla nazione, e massime poi la letteratura: (Annali ec.
l.c. p.385.386. principio.) quella lingua così ricca, e ogni giorno più ricca di tanti poemi, parte de’ quali anche
[995]oggi si ammirano. Questa lingua e letteratura cedette alla romana; v. p.1012. capoverso 1. la greca non mai; neppur quando Roma e l’Italia spiantata dalle sue Letteratura italiana Einaudi 718
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia sedi, si trasportò nella stessa Grecia. Perocchè sebbene allora la lingua greca fu corrotta finalmente di latinismi, ed altre barbarie, (scolastiche ec.) imbarbarì è vero, ma non si cangiò; e in ultimo, piuttosto i latini vincitori e signori si ridussero a parlare quotidianamente e scrivere il greco, e divenir greci, di quello che la Grecia vinta e suddita a divenir latina e parlare o scrivere altra lingua che la sua. Ed ora la lingua latina non si parla in veruna parte del mondo, la greca, sebbene svisata, pur vive ancora in quell’antica e prima sua patria. Tanta è l’influenza di una letteratura estesissima in ispazio di tempo, e in quantità di cultori e di monumenti; sebbene ella già fosse cadente a’ tempi romani, e a’ tempi di Costantino, possiamo dire, spenta. Ma i greci se ne ricordavano sempre, e non da altri imparavano a scrivere che da’ loro sommi e numerosissimi scrittori passati, siccome non da altri a parlare, che dalle loro madri. V. p.996. capoverso 1. Certo è che la letteratura influisce sommamente sulla lingua.
(V. p.766. segg.) Una lingua senza letteratura, o poca, non difficilmente si spegne, o si travisa in maniera non riconoscibile, non potendo ella esser formata, nè per conseguenza troppo radicata e confermata, siccome immatura e imperfetta. E questo accadde alla lingua Celtica, forse perch’ella scarseggiava sommamente di scritture, sebbene abbondasse di componimenti, che per lo più passavano solo di bocca in bocca. Non così una lingua abbondante di scritti. Testimonio ne sia la Sascrita, [996]la quale essendo ricca di scritture d’ogni genere, e di molto pregio secondo il gusto orientale, e della nazione, vive ancora (comunque corrotta) dopo lunghissima serie di secoli, in vastissimi tratti dell’India, malgrado le tante e diversissime vicende di quelle contrade, in sì lungo spazio di tempo. E sebbene anche i latini ebbero una letteratura, e grande, e che sommamente contribuì a formare la loro lingua, tuttavia si vede ch’essa letteratura, venuta, per così dire, a lotta colla greca, in questo particolare, dovè cedere, Letteratura italiana Einaudi 719
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia giacchè non solamente non potè snidare la lingua e letteratura greca, da nessun paese ch’ella avesse occupato, ma neanche introdursi nè essa nè la sua lingua in veruno di questi tanti paesi.
(29. Aprile. 1821.). V. p.999. capoverso 1.
Alla p.995. Infatti i greci anche nel tempo della barbarie, conservarono sempre la memoria, l’uso, la cognizione delle loro ricchezze letterarie, e la venerazione e la stima de’ loro sommi antichi scrittori. E questo a differenza de’ latini, dove ne’ secoli barbari, non si sapeva più, possiamo dir, nulla, di Virgilio, di Cicerone ec. L’erudizione e la filologia non si spensero mai nella Grecia, mente erano ignotissime in Italia; anzi nella Grecia essendo suben-trate alle altre buone e grandi discipline, durarono tanto che la loro letteratura sebbene spenta già molto innanzi, quanto al fare, non si spense mai quanto alla memoria, alla cognizione e [997]allo studio, fino alla caduta totale dell’impero greco. Ciò si vede primieramente da’ loro scrittori de’ bassi tempi, in molti de’ quali anzi in quasi tutti (mentre in Italia il latino scritto non era più riconoscibile, e nessuno sognava d’imitare i loro antichi) la lingua greca, sebbene imbarbarita, conserva però visibilissime le sue proprie sembianze: ed in parecchi è scritta con bastante purità, e si riconosce evidentemente in alcuni di loro l’imitazione e lo studio de’ loro classici e quanto alla lingua e quanto allo stile; sebbene degenerante l’una e l’altro nel sofistico, il che non toglie la purità quanto alla lingua. Arrivo a dire che in taluni di loro, e ciò fino agli ultimissimi anni dell’impero greco, si trova perfino una certa notabile eleganza e di lingua e di stile. In Gemisto è maravigliosa l’una e l’altra. Tolti alcuni piccoli erroruzzi di lingua (non tali che sieno manifesti se non ai dottissimi) le sue opere o molte di loro si possono sicuramente paragonare e mettere con quanto ha di più bello la più classica letteratura greca e il suo miglior secolo. Oltre a Letteratura italiana Einaudi 720
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ciò l’erudizione e la dottrina filologica, e lo studio de’
classici è manifesto negli scrittori greci più recenti, a differenza de’ latini. Gli antichi classici, e singolarmente Omero, benchè il più antico di tutti, non lasciarono mai di esser citati negli scritti greci, finchè la Grecia ebbe chi scrivesse. E vi si alludeva spessissimo ec. Non domanderò ora qual uomo latino nel terzo secolo si possa paragonare a un Longino o a un Porfirio. Non chiederò che mi si mostri nel nono secolo, anzi in tutto lo spazio che corse dopo il 2do secolo fino al 14mo, un latino, non dico uguale, ma somigliante [998]di lontano a Fozio, uomo nei pregi della lingua e dello stile non dissimile dagli antichi, e superiore agli stessi antichi nell’erudizione e nel giudizio e critica letteraria, doti proprie di tempi più moderni. Te-nendomi però a’ tempi bassissimi, e potendo recare infiniti esempi, mi contenterò degli scritti di quel Giovanni Tzetze, che fu nel 12mo secolo, e di Teodoro Metochita che viveva nel 14mo; scritti pieni di indigesta ma immensa erudizione classica.
Secondariamente la mia proposizione apparisce da quei greci che vennero in Italia nel trecento, e dopo la caduta dell’impero greco, nel quattrocento. E mentre in Italia si risuscitavano gli antichi scrittori latini che giacevano se-polti e dimenticati da tanto tempo nella loro medesima patria, i greci portavano qua il loro Omero, il loro Platone e gli altri antichi, non come risorti o disseppelliti fra loro, ma come sempre vissuti. Della erudizione e dottrina di quei greci, delle cose che fecero in Italia, delle cognizioni che introdussero, delle opere che scrissero, parte in greco, ed alcune proprio eleganti; parte in latino, riducendosi allora finalmente per la prima volta ad usare il linguaggio de’ loro antichi e già distrutti vincitori; essendo cose notissime, non accade se non accennarle.
(29. Aprile. 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 721
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia
[999]Alla p.996. E la letteratura latina non potè impedire che la sua lingua non si spegnesse, laddove la greca ancor vive, benchè corrotta, perchè sapendo il greco antico, si arriva anche senza preciso studio a capire il greco moderno. Non così sapendo il latino, a capir l’italiano ec.
Onde la presente lingua greca non si può distinguere dall’antica, come l’italiano ec. dal latino, che son lingue precisamente diverse, benchè parenti. E neppure si capisce l’italiano sapendo il francese, nè ec.
(29. Aprile. 1821.). V. p.1013. capoverso 1.
In prova di quanto la lingua greca, fosse universale, e giudicata per tale, ancor dopo il pieno stabilimento, e durante la maggiore estensione del dominio romano e de’
romani pel mondo; si potrebbe addurre il Nuovo Testamento, Codice della nuova religione sotto i primi imperatori, scritto tutto in greco, quantunque da scrittori Giudei (così tutti chiamano gli Ebrei di que’ tempi), quantunque l’Evangelio di S. Marco si creda scritto in Roma e ad uso degl’italiani, giacchè è rigettata da tutti i buoni critici l’opinione che quell’Evangelio fosse scritto originariamente in latino; (Fabric. B. G. 3. 131.) quantunque v’abbia un’Epistola di S. Paolo cittadino Romano, diretta a’ Romani, un’altra agli Ebrei; quantunque v’abbiano le Epistole dette Cattoliche, cioè universali, di S. Giacomo, e di S. Giuda Taddeo. Ma senza entrare nelle quistioni intorno alla lingua originale del nuovo testamento, o delle diverse sue parti, osserverò quello che dice il Fabric. B.
G. edit. vet. t.3. p.153. lib.4. c.5 §.9 parlando dell’Epistola di S. Paolo a’ Romani: graece scripta est, non latine, etsi Scholiastes Syrus notat scriptam esse ROMANE t}amwr, quo vocabulo Graecam [1000] linguam significari, Romae tunc et in omni fere Romano imperio vulgatissimam, Seldenus ad Eutychium observavit. E p.131. nota (d) §.3.
parlando delle testimonianze Orientalium recentiorum che dicono essere stato scritto il Vangelo di S. Marco in lin-Letteratura italiana Einaudi 722
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia gua romana, dice che furono o ingannati, o male intesi dagli altri, nam per Romanam linguam etiam ab illis Graecam quandoque intelligi observavit Seldenus. Intendi l’opera di Giovanni Selden intitolata: Eutychii Aegyptii Patriarchae Orthodoxorum Alexandrini Ecclesiae suae Origines ex eiusdem Arabico nunc primum edidit ac Versione et Commentario auxit Joannes Seldenus. Per lo contrario Giuseppe Ebreo nel proem. dell’Archeol. §.2. principio e fine, chiama Greci tutti coloro che non erano Giudei, o sia gli Etnici, compresi per conseguenza anche i romani. E così nella Scrittura �Ellhnew passim opponuntur Iudaeis, et vocantur ethnici, a Christo alieni (Scapula). Così ne’ Padri antichi. Il che pure ridonda a provare la mia proposizione. E Gioseffo avendo detto di scrivere per tutti i Greci (cioè i non ebrei), scrive in greco. V. anche il Forcell. v. Graecus in fine.
Osservo ancora che Giuseppe Ebreo avendo scritto primieramente i suoi libri della Guerra Giudaica nella lingua sua patria, qualunque fosse questa lingua, o l’Ebraica, come crede l’Ittigio, (nel Giosef. dell’Havercamp, t.2.
appendice p.80. colonna 2.) o la Sirocaldaica, come altri, (v. Basnag. Exercit. ed. Baron. p.388. Fabric. 3. 230. not.
p), in uso, com’egli dice, de’ barbari dell’Asia superiore, cioè, com’egli stesso spiega (de Bello Iud. Proem. art.2.
edit. Haverc. t.2. p.48.) de’ Parti, de’ Babilonesi, degli Arabi più lontani dal mare, de’ Giudei di là dall’Eufrate, e degli Adiabeni; (Fabric. l.c. Gioseffo l.c. p.47. not. h.) volendo poi, com’egli dice, accomodarla all’uso de’ sudditi dell’imperio [1001]Romano, toÝw kat� t¯n
�RvmaÛvn ²gemonÛan, e scrivendo in Roma, giudicò, come pur dice, (Fabric. 3. 229. fine e 230. principio.) e come fece, di traslatarla (non in latino) in greco, �Ell�dow glÅssh+ metabaleÝn. (Idem, l.c. art.1. p.47.) E così traslatata la presentò a Vespasiano e a Tito, Impp. Romani. (Ittigio l.c. Fabric. 3.231. lin.8. Tillemont, Empereurs t.1. p.582.).
Letteratura italiana Einaudi 723
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia (30. Aprile. 1821.)
La lingua greca, benchè a noi sembri a prima vista il contrario, e ciò in gran parte a cagione delle circostanze in cui siamo tutti noi Europei ec. rispetto alla latina, è più facile della latina; dico quella lingua greca antica quale si trova ne’ classici ottimi, e quella lingua latina quale si trova ne’ classici del miglior tempo; e l’una e l’altra comparativamente, qual’è presso gli scrittori dell’ottima età dell’una e dell’altra lingua. E ciò malgrado la maggiore ricchezza grammaticale ed elementare della lingua greca.
Questa dunque è la cagione perch’ella fosse più atta della latina ad essere universale: e n’è la cagione sì per se stessa e immediatamente, sì per la somiglianza che produce fra la lingua volgare e quella della letteratura, fra la parlata e la scritta.
(1. Maggio 1821.)
Quello che ho detto della difficoltà naturale che hanno e debbono avere i francesi a conoscere e molto più a gustare le altrui lingue, cresce se si applica alle lingue antiche, e fra le moderne Europee e colte, alla lingua nostra.
Giacchè la lingua [1002]francese è per eccellenza, lingua moderna; vale a dire che occupa l’ultimo degli estremi fra le lingue nella cui indole ec. signoreggia l’immaginazione, e quelle dove la ragione. (Intendo la lingua francese qual è ne’ suoi classici, qual è oggi, qual è stata sempre da che ha preso una forma stabile, e quale fu ridotta dall’Accademia). Si giudichi dunque quanto ella sia propria a servire d’istrumento per conoscere e gustare le lingue antiche, e molto più a tradurle: e si veda quanto male Mad. di Staël (vedi p.962.) la creda più atta ad esprimere la lingua romana che le altre, perciocch’è nata da lei. Anzi tutto all’opposto, se c’è lingua difficilissima a gustare ai francesi, e impossibile a rendere in francese, è la latina, la quale occupa forse l’altra estremità o grado nella detta Letteratura italiana Einaudi 724
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia scala delle lingue, ristringendoci alle lingue Europee.
Giacchè la lingua latina è quella fra le dette lingue (almeno fra le ben note, e colte, per non parlare adesso della Celtica poco nota ec.) dove meno signoreggia la ragione.
Generalmente poi le lingue antiche sono tutte suddite della immaginazione, e però estremamente separate dalla lingua francese. Ed è ben naturale che le lingue antiche fossero signoreggiate dall’immaginazione più che qualunque moderna, e quindi siano senza contrasto, le meno adattabili alla lingua francese, all’indole sua, ed alla conoscenza e molto più al gusto de’ francesi. [1003]Nella scala poi e proporzione delle lingue moderne, la lingua italiana, (alla quale tien subito dietro la Spagnuola) occupa senza contrasto l’estremità della immaginazione, ed è la più simile alle antiche, ed al carattere antico. Parlo delle lingue moderne colte, se non altro delle Europee: giacchè non voglio entrare nelle Orientali, e nelle incolte regna sempre l’immaginazione più che in qualunque colta, e la ragione vi ha meno parte che in qualunque lingua formata. Proporzionatamente dunque dovremo dire della lingua francese rispetto all’italiana, quello stesso che diciamo rispetto alle antiche. E il fatto lo conferma, giacchè nessuna lingua moderna colta, è tanto o ignorata, o malissimo e assurdamente gustata dai francesi, quanto l’italiana: di nessuna essi conoscono meno lo spirito e il genio, che dell’italiana; di nessuna discorrono con tanti spro-positi non solo di teorica, ma anche di fatto e di pratica; non ostante che la lingua italiana sia sorella della loro, e similissima ad essa nella più gran parte delle sue radici, e nel materiale delle lettere componenti il radicale delle parole (siano radici, o derivati, o composti); e non ostante che p.e. la lingua inglese e la tedesca, nelle quali essi riescono molto meglio, (anche nel tradurre ec. mentre una traduzione francese dall’italiano dal latino o dal greco non è riconoscibile) appartengano a tutt’altra famiglia di lingue.
Letteratura italiana Einaudi 725
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia (1 Maggio 1821.). V. p.1007. capoverso 1.
[1004]Uno dei principali dogmi del Cristianesimo è la degenerazione dell’uomo da uno stato primitivo più perfetto e felice: e con questo dogma è legato quello della Redenzione, e si può dir, tutta quanta la Religion Cristiana. Il principale insegnamento del mio sistema, è appunto la detta degenerazione. Tutte, per tanto, le infinite osservazioni e prove generali o particolari, ch’io adduco per dimostrare come l’uomo fosse fatto primitivamente alla felicità, come il suo stato perfettamente naturale (che non si trova mai nel fatto) fosse per lui il solo perfetto, come quanto più ci allontaniamo dalla natura, tanto più dive-niamo infelici ec. ec.: tutte queste, dico, sono altrettante prove dirette di uno dei dogmi principali del Cristianesimo, e possiamo dire, della verità dello stesso Cristianesimo.
(1. Maggio 1821.)
Tanto era l’odio degli antichi (quanti aveano una patria e una società) verso gli stranieri, e verso le altre patrie e società qualunque; che una potenza minima, o anche una città solo assalita da una nazione intera (come Numanzia da’ Romani), non veniva mica a patti, ma resisteva con tutte le sue forze, e la resistenza si misurava dalle dette forze, non già da quelle del nemico; e la deliberazione di resistere era immancabile, e immediata, e senza consulta-zione vervna; e dipendeva dall’essere assaliti, non
[1005]già dalla considerazione delle forze degli assalitori e delle proprie, dei mezzi di resistenza, delle speranze che potevano essere nella difesa ec. E questa era, come ho detto, una conseguenza naturale dell’odio scambievole delle diverse società, dell’odio che esisteva nell’assalitore, e che obbligava l’assalito a disperare de’
patti; dell’odio che esisteva nell’assalito, e che gl’impediva di consentire a soggettarsi in qualunque modo, mal-Letteratura italiana Einaudi 726
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia grado qualunque utilità nel farlo, e qualunque danno nel ricusarlo, ed anche la intera distruzione di se stessi e della propria patria, come si vede nel fatto presso gli antichi, e fra gli altri, nel citato esempio di Numanzia.
Oggi per lo contrario, la resistenza dipende dal calcolo, delle forze, dei mezzi, delle speranze, dei danni, e dei vantaggi, nel cedere o nel resistere. E se questo calcolo decide pel cedere, non solamente una città ad una nazione, ma una potenza si sottomette ad un’altra potenza, ancorchè non eccessivamente più forte; ancorchè una resistenza vera ed intera potesse avere qualche fondata speranza. Anzi oramai si può dire che le guerre o i piati politici, si decidono a tavolino col semplice calcolo delle forze e de’ mezzi: io posso impiegar tanti uomini, tanti danari ec. il nemico tanti: resta dalla parte mia tanta inferiorità, o superiorità: dunque assaliamo o no, cediamo ovvero non cediamo. [1006]E senza venire alle mani, nè far prova effettiva di nulla, le provincie, i regni, le nazioni, pigliano quella forma, quelle leggi, quel governo ec. che comanda il più forte: e in computisteria si decidono le sorti del mondo. Così discorretela proporzionatamente anche riguardo alle potenze di un ordine uguale.
In questo modo oggi il forte, non è forte in atto, ma in potenza: le truppe, gli esercizi militari ec. non servono perchè si faccia esperienza di chi deve ubbidire o comandare ec. ec. ma solamente perchè si possa sapere e conoscere e calcolare, a che bisogni determinarsi: e se non servissero al calcolo sarebbero inutili, giacchè in ultima analisi il risultato delle cose politiche, e i grandi effetti, sono come se quelle truppe ec. non avessero esistito.
Ed è questa una naturale conseguenza della misera spiritualizzazione delle cose umane, derivata dall’esperienza, dalla cognizione sì propagata e cresciuta, dalla ragione, e dall’esilio della natura, sola madre della vita, e del fare. Conseguenza che si può estendere a cose molto più generali, e trovarla egualmente vera, sì nella teorica, Letteratura italiana Einaudi 727
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia come nella pratica. Dalla quale spiritualizzazione che è quasi lo stesso coll’annullamento, risulta che oggi in luogo di fare, si debba computare; e laddove gli antichi facevano le cose, i moderni le contino; e i risultati una volta delle azioni, oggi sieno [1007]risultati dei calcoli; e così senza far niente, si viva calcolando e supputando quello che si debba fare, o che debba succedere; aspettando di fare effettivamente, e per conseguenza di vivere, quando saremo morti. Giacchè ora una tal vita non si può distinguere dalla morte, e dev’essere necessariamente tutt’uno con questa.
(1. Maggio 1821.)
Alla p.1003. fine. Oltre le dette considerazioni la lingua francese, è anche estremamente distinta dall’Italiana, perciò ch’ella è fra le moderne colte (e per conseguenza fra tutte le lingue) senza contrasto la più serva, e meno libera; naturale conseguenza dell’essere sopra tutte le altre, modellata sulla ragione. Al contrario l’italiana è forse e senza forse, fra le dette lingue la più libera, cosa la quale mi consentiranno tutti quelli che conoscono a fondo la vera indole della lingua italiana, conosciuta per verità da pochissimi, e ignorata dalla massima parte degl’italiani, e degli stessi linguisti. Nella quale libertà la lingua italiana somiglia sommamente alla greca; ed è questa una delle principali e più caratteristiche somiglianze che si trovano fra la nostra lingua e la greca. A differenza della latina, la quale, secondo che fu ridotta da’ suoi ottimi scrittori, e da’ suoi formatori e costitutori, è sommamente ardita, e sommamente varia, non perciò sommamente [1008]libera, anzi forse meno di qualunque altra lingua antica, uno de’ primi distintivi delle quali è la libertà. Ma la lingua latina sebbene non suddita in nessun modo della ragione, è però suddita, dirò così, di se stessa, e del suo proprio costume, più di qualunque antica: il qual costume fisso e determinato per tutti i versi, ancorchè ardito, ella Letteratura italiana Einaudi 728
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia non può però trasgredirlo, nè alterarlo, nè oltrepassarlo ec. in verun modo; così che sebbene ella è ricchissima di forme in se stessa, non è però punto adattabile a verunissima altra forma, nè pieghevole se non ai modi determinati dalla sua propria usanza. E perciò appunto, come ho detto altrove, ella non era punto adattata alla universalità, perchè l’ardire non era accompagnato dalla libertà. E la perfetta attitudine alla universalità consiste nel non essere nè ardita nè varia nè libera, come la francese. Un’altra attitudine meno perfetta nell’essere e ardita e varia, e nel tempo stesso libera, come la greca. L’ardire e la varietà, sebbene per lo più sono compagne della libertà, non però sempre; nè sono la stessa cosa colla libertà, come si vede nell’esempio della lingua latina, e bisogna perciò distinguere queste qualità.
Del resto la servilità e timidezza della lingua francese, la distingue dunque più che da qualunque altra, dalle antiche, e fra le moderne dall’italiana.
[1009]E queste sono le ragioni per cui la lingua italiana, benchè tanto affine alla francese, come ho detto p.1003. tuttavia n’è tanto lontana e dissimile, massimamente nell’indole; e per cui la lingua italiana perde tutta la sua naturalezza, e la sua proprietà, o forma propria e nativa, adattandosi alla francese, che l’è pur sorella: e per cui i francesi sono meno adattati che verun altro a conoscere e gustar l’italiano, cosa che apparisce dal fatto; e finalmente per cui la lingua francese è meno adattabile alle lingue antiche, e alle stesse lingue madri sue e della sua letteratura, come il latino e il greco, di quello che alle lingue moderne da lei divise di cognazione, di parentela, di famiglia, di sangue, di origine, di stirpe.
Quello che ho detto qui sopra dell’ardire, della varietà, della libertà, si deve estendere a tutte le altre qualità caratteristiche delle lingue antiche, e dell’italiana, e conseguenti dall’esser esse modellate sull’immaginazione e sulla natura, come dire la forza, l’efficacia, l’evidenza ec. ec.
Letteratura italiana Einaudi 729
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia qualità che in parte derivano pure dalle altre sopraddette, e scambievolmente l’una dall’altra, e perciò mancano essenzialmente alla lingua francese.
Nè queste qualità, che dico proprie delle lingue
[1010]antiche, si deve credere ch’io lo dica solamente in vista della greca e della latina, ma di tutte; ed alcune (come la varietà, ricchezza ec.) delle colte massimamente. Esse qualità infatti sono state notate nella lingua Celtica, (v.
p.994.) nella Sascrita, (v. Annali di scienze e lettere. Milano. Gennaio 1811. n.13. p.54. fine-55.) (lingue coltissime) benchè sieno diversissime dalle nostrali; e così in tante altre. Nè bisognano esempi e prove di fatto, a chi sa che le dette e simili qualità derivano immancabilmente dalla natura, maestra e norma e signora e governatrice degli antichi e delle cose loro.
(2. Maggio 1821.)
Della lingua volgare latina antica v. Andrès, Dell’Orig.
d’ogni letteratura ec. Parte 1. c.11. Ediz. Veneta del Vitto. t.2. p.256-257. nota. La qual nota è del Loschi. Che però egli s’inganni, lo mostrano le mie osservazioni sopra la lingua di Celso, scrittore non dell’antica e mal formata, ma della perfetta ed aurea latinità.
(4. Maggio 1821.)
Se i tedeschi oggidì hanno tanto a cuore, e stimano così utile l’investigare e il conoscere fondatamente le origini della loro lingua, e se il Morofio (Polyhist. lib.4. cap.4.) si lagnava che al suo tempo i suoi tedeschi fossero trascurati nello studiare le dette origini; Dolendum ec. v. Andrès luogo cit. qui sopra, p.249. quanto più dobbiamo noi italiani studiare e mettere a profitto la lingua latina (che sono le nostre origini); lingua così suscettibile di perfetta
[1011]cognizione; lingua così ricca, così colta, così letterata ec. ec.; lingua così copiosa di monumenti d’ogni genere e di tanto pregio: laddove per lo contrario la lingua Letteratura italiana Einaudi 730
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia teutonica originaria della tedesca (Andrès, ivi, p.249.251.253. lin.6.14.18. paragonando anche questi ult.
tre luoghi colla p.266. lin.9) è difficilissima a conoscere con certezza, e impossibile a conoscere se non in piccola parte, è lingua illetterata ed incolta, e scarsissima di monumenti, e quelli che ne restano sono per se stessi di nessun pregio. (Andrès, 249-254.) Aggiungete che l’esser la lingua latina universalmente conosciuta, e stata in uso nel mondo, ed ancora in uso in parecchie parti della vita civile, non solo giova alla ricchezza della fonte ec. ma anche al poterne noi attingere con assai più franchezza. Se la lingua teutonica fosse pure stata altrettanto grande e ricca, ed a forza di studio si potesse pur tutta conoscere ec.
che cosa si potrebbe attingere da una lingua dimenticata, e nota ai soli dotti ec. ec.? chi potrebbe intendere a prima giunta le parole che se ne prendessero? ec. V. p.3196.
(4. Maggio 1821.)
Il sentimento moderno è un misto di sensuale e di spirituale, di carne e di spirito; è la santificazione della carne (laddove la religion Cristiana è la santificazione dello spirito); e perciò siccome il senso non si può mai escludere dal vivente, questa sensibilità che lo santifica e purifica, è riconosciuto pel più valevole rimedio e preservativo contro di lui, e contro delle sue bassezze.
(4. Maggio 1821.)
Alla p.952. Meno straniera è la lingua francese all’inglese (e perciò meno inetta ad esserle fonte di vocaboli ec.) a cagione dell’affinità che questa seconda lingua prese colla prima, dopo l’introduzione della lingua francese in Inghilterra, mediante la conquista fattane dai Normanni (Andrès, luogo cit. poco sopra, p.252. fine, 255. fine-256.
principio. Annali di Scienze e lettere. Milano. Gennaio 1811. n. 13. p.30. fine.) [1012]Laddove la lingua tedesca, secondo che il Tercier ha ben ragione di asserire, (Ac. des Letteratura italiana Einaudi 731
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Inscr. tome 41.) fra tutte le lingue che attualmente parlansi in Europa, più d’ogni altra conserva i vestigi della sua anzianità (Andrès, ivi p.251-252); e più tenace e costante di tutte le altre, ha saputo conservare dell’antica sua madre maggior numero di vocaboli, maggior somiglianza nell’andamento, e maggiore affinità nella costruzione. (ivi p.253.
principio.).
(4. Maggio 1821.)
Alla p.995. principio. Cedette alla romana in modo che nella moderna lingua francese, per confessione del Bonamy (Discours sur l’introduction de la langue latine dans les Gaules: dans les Mémoires de l’Ac. des inscr. tome 41.), pochissime parole celtiche sono rimase; e nella provenzale, al dire dell’Astruc. (Ac. des Inscr. tome 41.), appena trovasi una trentesima parte di voci gallesi; siccome la lingua spagnuola tutta figlia della latina, non più conserva alcun vestigio dell’antico parlare di quelle genti. (Andrès, luogo cit. di sopra, p.252.).
(4. Maggio 1821.)
Che la lingua latina a’ suoi buoni tempi, e quando ella era formata, si distinguesse in due lingue, l’una [1013]volgare, e l’altra nobile, usata da’ patrizi, e dagli scrittori (i quali neppur credo che scrivessero come parlavano i patrizi) (Andrès, l.c. p.256. nota), che Roma al tempo della sua grandezza avesse una lingua rustica, plebeia, vulgaris, un sermo barbarus, pedestris, militaris, (Spettatore di Milano, Quaderno 97. p.242.) è noto e certo, senza entrare in altre quistioni, per la espressa testimonianza di Cicerone. (Andrès, l.c.) Del quale antico volgare latino parlerò forse quando che sia, di proposito. Ora si veda quanto fosse impossibile che la lingua latina divenisse universale, mentre i soldati, i negozianti, i viaggiatori, i governan-ti, le colonie ec. diffondevano una lingua diversa dalla letterata, che sola avendo consistenza e forma, sola è ca-Letteratura italiana Einaudi 732
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia pace di universalità; e mentre l’unicità di una lingua, come ho detto altrove, è la prima condizione per poter essere universale. Laddove la latina, non solo non era unica nella sua costituzione e nella sua indole, dirò così, interiore, come lo è la francese; ma era divisa perfino esteriormente in lingue diverse, e, si può dir, doppia ec.
(4. Maggio 1821.). V. p.1020. capoverso 1.
Alla p.999. Così chi sapesse l’antica lingua teutonica, non intenderebbe perciò la tedesca, senza espresso e fondato studio. (Andrès, loco cit. di sopra, p.1010; non ostante che la tedesca, secondo il Tercier, ec. v. p.
[1014]1012. principio.
(5. Maggio 1821.)
La vantata duttilità della lingua francese (Spettatore di Milano. Quaderno 93. p.115. lin.14) oltre alle qualità notate in altro pensiero, ha questa ancora, che non è punto compagna della varietà: e la lingua francese benchè duttilissima, è sempre e in qualunque scrittore paragonato cogli altri, uniforme e monotona. Cosa che a prima vista non par compatibile colla duttilità, ma in vero questa è una qualità diversissima dalla ricchezza, dall’ardire, e dalla varietà.
(5. Maggio 1821.)
Alla p.991. Così Beda inglese, nonostante che la sua lingua nazionale (cioè l’anglo-sassone: (Andrès, loc. cit., p.1010, p.255. fine) diversa dalla Celtica, stabilita nella Scozia e nel paese di Galles) fosse adoperata anche in usi letterarii, come si rileva da quello ch’egli stesso riferisce di un Cedmone monaco Benedettino, illustre poeta improvvisatore nella sua lingua. (Andrès, p.254.) Cosa la quale, se non altro, dimostra ch’ella era una lingua già ridotta a una certa forma (lo riferirà forse il Beda nella Storia Ecclesiastica degli Angli.).
Letteratura italiana Einaudi 733
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia (5. Maggio 1821.)
L’ u francese, del quale ho discorso in altro pensiero, potè essere introdotto in Francia mediante le Colonie greche, come Marsiglia ec. [1015]Mediante le quali colonie ec. la lingua e letteratura greca si stabilì, com’è noto, in varie parti delle Gallie. V. il Cellar. dove parla di Marsiglia. E le Gallie ebbero scrittori greci, come Favorino Arelatense, S. Ireneo (sebben forse nato greco) ec. ec. V.
anche il Fabric. dove parla di Luciano, B. Gr. lib.4. c.16.
§.1 t.3. p.486. edit. vet.
Dalle quali osservazioni si potrebbe anche dedurre che le parole francesi derivate dal greco, e che non si trovano negli scrittori latini, e che io in parecchi pensieri, ho supposto che fossero nel volgare latino, come planer ec. fossero venute nella lingua francese immediatamente dalle antiche communicazioni avute colla lingua e letteratura greca. Questo però non mi par molto probabile, trattandosi che la lingua greca fu spenta nelle Gallie lunghissimo tempo innanzi la nascita della francese: che la latina vi prevalse interamente; e che della celtica ch’era pur la nazionale, appena si trova vestigio nella francese (v.
p.1012. capoverso 1.). Quanto meno dunque si dovrebbero trovar della greca! Laddove se ne trovano tanti che han fatto un dizionario apposta, delle parole francesi derivate dal greco. Inoltre questo argomento non può valer di più di quello che vaglia [1016]per le parole italiane dello stesso genere, le quali si potrebbero suppor derivate dalla magnagrecia, e dalla Sicilia, piuttosto che dal latino: mentre però la lingua greca si spense in quei paesi tanto innanzi al sorgere della lingua italiana, e vi si stabilì la latina: che per conseguenza vi è tanto più vicina alla nostra, in ordine di tempo: anzi immediatamente vicina.
V. p.1040. fine. Del resto anche in Sicilia durò la letteratura greca (se non anche la lingua) lungo tempo dopo il dominio romano. Diodoro fu siciliano, e così altri scritto-Letteratura italiana Einaudi 734
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ri greci. E vedi Porfir. Vit. Plotin. cap.11. donde par che apparisca che in Sicilia a quel tempo vi fossero cattedre o scuole greche di sofisti, come si può dire, in tutte le parti dell’imperio romano, in Roma, nelle Gallie a tempo di Luciano ec. Cecilio Siculo, benchè romano di nome, e vissuto in Roma ec. scrisse in greco. V. Costantino Lascaris nel Fabricio, B. Gr. t.14. p.22-35. edit. vet. (6. Maggio 1821.). Ma nel terzo secolo T. Giulio Calpurnio Siciliano, poeta Bucolico, contemporaneo di Nemesiano, scrisse in latino. E così altri Siciliani ec.
Un effetto dell’antico sistema di odio nazionale, era in Roma il costume del trionfo, costume che nel presente sistema dell’uguaglianza delle nazioni, anche delle vinte colle vincitrici, sarebbe intollerabile; costume, fra tanto, che dava sì gran vita alla nazione, che produceva sì grandi effetti, e sì utili per lei, e che forse fu la cagione di molte sue vittorie, e felicità militari e politiche.
(6. Maggio 1821.)
[1017]Dalla mia teoria del piacere seguita che l’uomo, desiderando sempre un piacere infinito e che lo soddisfi intieramente, desideri sempre e speri una cosa ch’egli non può concepire. E così è infatti. Tutti i desiderii e le speranze umane, anche dei beni ossia piaceri i più determinati, ed anche già sperimentati altre volte, non sono mai assolutamente chiari e distinti e precisi, ma contengono sempre un’idea confusa, si riferiscono sempre ad un oggetto che si concepisce confusamente. E perciò e non per altro, la speranza è meglio del piacere, contenendo quell’indefinito, che la realtà non può contenere. E ciò può vedersi massimamente nell’amore, dove la passione e la vita e l’azione dell’anima essendo più viva che mai, il desiderio e la speranza sono altresì più vive e sensibili, e risaltano più che nelle altre circostanze. Ora osservate che per l’una parte il desiderio e la speranza del vero amante Letteratura italiana Einaudi 735
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia è più confusa, vaga, indefinita che quella di chi è animato da qualunque altra passione: ed è carattere (già da molti notato) dell’amore, il presentare all’uomo un’idea infinita (cioè più sensibilmente indefinita di quella che presentano le altre passioni), e ch’egli può concepir meno di qualunque [1018]altra idea ec. Per l’altra parte notate, che appunto a cagione di questo infinito, inseparabile dal vero amore, questa passione in mezzo alle sue tempeste, è la sorgente de’ maggiori piaceri che l’uomo possa provare.
(6. Maggio 1821.)
I filosofi moderni, anche i più veri ed effettivi, e quelli che più mettono in pratica la loro filosofia, sono persuasi che il mondo non potendo mai esser filosofo, bisogna che chi lo è, dissimuli questa sua qualità, e nel commercio sociale si diporti per lo più nello stesso modo, come se non fosse filosofo. All’opposto i filosofi antichi. All’opposto Socrate, il quale si mostrò nel teatro al popolo che rideva di lui; i Cinici, gli Stoici e tutti gli altri. Così che i filosofi antichi formavano una classe e una professione formalmente distinta dalle altre, ed anche dalle altre sette di filosofi: a differenza de’ moderni, che eccetto nel proprio interiore, si confondono appresso a poco intieramente colla moltitudine e colla universalità. Conseguenza necessaria del predominio della natura fra gli antichi, e della sua nessuna influenza sui moderni. Dalla qual natura deriva il fare: e il dare una vita, una realtà, un corpo visibile, una forma sensibile, un’azione allo
[1019]stesso pensiero, alla stessa ragione. Laddove i moderni pensatori e ragionevoli, si contentano dello stesso pensiero, il quale resta nell’interno, e non ha veruna o poca influenza sul loro esterno; e non produce quasi nulla nell’esteriore. E generalmente, e per la detta ragione della naturalezza, l’apparenza e la sostanza erano assai meno discordi fra gli antichi i più istruiti, e per conse-Letteratura italiana Einaudi 736
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia guenza allontanati dalla natura; di quello che sia fra i moderni i più ignoranti e inesperti, o più naturali.
(6. Maggio 1821.)
La lingua cinese può perire senza che periscano i suoi caratteri: può perire la lingua, e conservarsi la letteratura che non ha quasi niente che far colla lingua; bensì è strettissimamente legata coi caratteri. Dal che si vede che la letteratura cinese poco può avere influito sulla lingua, e che questa non ostante la ricchezza della sua letteratura, può tuttavia e potrà forse sempre considerarsi come lingua non colta, o poco colta.
(7. Maggio 1821.)
Dalle osservazioni fatte da me sulla poca attitudine dei francesi a conoscere e gustare le altre lingue, risulta che per lo contrario gl’italiani sono forse i più atti del mondo al detto oggetto. E ciò stante la moltitudine, dirò così, delle lingue che la loro lingua contiene (laddove la francese [1020]è unica); stante la sua copia, la sua ricchezza, la sua varietà; stante la sua libertà singolare fra tutte le lingue colte, come ho detto altrove, e inerente al suo carattere; stante la sua arrendevolezza, la quale produce l’arrendevolezza del gusto e della facoltà conoscitiva rispetto a quanto appartiene alle altre lingue; mentre l’arrendevolezza della propria lingua, viene ad essere l’arrendevolezza e adattabilità dell’istrumento che serve a conoscere e gustare le altre lingue. E ciò tanto più si deve dire degl’italiani rispetto alle lingue antiche, massime la latina e la greca, sì per la conformità d’indole ec. che hanno colla nostra; sì ancora perchè precisamente le dette qualità sono comuni a queste lingue (e generalmente alle antiche colte) colla nostra.
(7. Maggio 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 737
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Alla p.1013. fine. Si potrebbe dire che anche la lingua greca pativa lo stesso inconveniente, e ancor peggio, stante la moltiplicità de’ suoi dialetti. Ma ne’ dialetti era divisa anche la lingua latina, come tutte le lingue, massimamente molto estese e divulgate, e molto più, diffuse, come la latina, fra tanta diversità di nazioni e di lingue. Il che apparisce non tanto dalla Patavinità rimproverata a Livio, (dalla quale sebbene altri lo difendono, pure apparisce che questa differenza di linguaggio, o dialetto, se non in lui, certo però esisteva); non tanto dalle diverse maniere e idiotismi degli scrittori latini di diverse nazioni e parti, (v. Fabric. [1021]B. G. l.5. c.1. §.17. t.5. p.67. edit. vet. e il S. Ireneo del Massuet); le quali si possono anche inferire dalle diverse lingue nate dalla latina ne’ diversi paesi, ed ancora viventi (che dimostrano una differenza d’inflessioni, di costrutti, di locuzioni ec. che se anticamente non fu tanta quanta oggidì, certo però è verisimile che fosse qualche cosa, e che appoco appoco sia cresciuta, derivando dalla differenza antica) quanto da questo, che è nella natura degli uomini che una perfetta conformità di favella non sussista mai se non fra piccolissimo numero di persone. (V. p.932. fine.) Così che io non dubito che la lingua latina non fosse realmente distinta in più e più dialetti, come la greca, sebbene meno noti, e meno legittimati, e riconosciuti dagli scrittori, e applicati alla letteratura. V. qui sotto.
Del resto la lingua italiana patisce ora (serbata la proporzione) l’inconveniente della lingua latina, forse più che qualunque altra moderna colta. Ond’ella è per questa parte meno adattata di tutte alla universalità, distinguen-dosi sommamente, non solo il suo volgare, ma il suo parlato dal suo scritto. Non era così anticamente, ed allora l’italiano era più acconcio alla universalità, come lo prova anche il fatto. Nel trecento lo scritto e il parlato quasi si confondevano. In Toscana, accadeva questo anche nel cinquecento appresso a poco: e forse potrebbero ancora Letteratura italiana Einaudi 738
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia confondersi, se i toscani scrivessero l’italiano o il toscano, siccome lo parlano; laddove nel resto d’Italia, l’italiano non si parla.
(7. Maggio 1821.). V. p.1024. capoverso ult.
Al capoverso superiore. E perciò appunto meno noti oggidì, a differenza dei greci. Nel modo che i dialetti d’Italia o di Francia, posto il caso che la lingua italiana o francese uscisse dell’uso, come la latina, non sarebbero conosciuti dai posteri, se non confusissimamente; per non
[1022]essere stati ridotti a forma, nè applicati (eccetto il Toscano) alla letteratura, salvo qualche poco in Italia. Ma così poco e insufficientemente, che si può credere che gli scritti italiani vernacoli, non passerebbero, e onninamente non passeranno (se non forse pochissimi, come quelli del Goldoni e del Meli) alla posterità.
(8. Maggio 1821.)
Quanto la natura abbia proccurata la varietà, e l’uomo e l’arte l’uniformità, si può dedurre anche da quello che ho detto della naturale, necessaria e infinita varietà delle lingue, p.952. segg. Varietà maggiore di quella che paia a prima vista, giacchè non solo produce p.e. al viaggiatore, una continua novità rispetto alla sola lingua, ma anche rispetto agli uomini, parendo diversissimi quelli che si esprimono diversamente; cosa favorevolissima alla immaginazione, considerandosi quasi come esseri di diversa specie quelli che non sono intesi da noi, nè c’intendono: perchè la lingua è una cosa somma, principalissima, caratteristica degli uomini, sotto tutti i rapporti della vita sociale. Per lo contrario, lasciando le altre cure degli uomini per uniformare, stabilire, regolare ed estendere le diverse lingue; oggi, in tanto e così vivo commercio di tutte, si può dir, le nazioni insieme, si è introdotta, ed è divenuta necessaria, una lingua comune, cioè la francese; la quale [1023]stante il detto commercio, e l’andamento Letteratura italiana Einaudi 739
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia presente della società, si può predire che non perderà più la sua universalità, nemmeno cessando l’influenza o politica, o letteraria, o civile, o morale ec. della sua nazione. E certo, se la stessa natura non lo impedisse, si otterrebbe appoco appoco che tutto il mondo parlasse quotidianamente il francese, e l’imparasse il fanciullo come lingua materna; e si verificherebbe il sogno di una lingua strettamente universale.
(8. Maggio 1821.)
In proposito di quello che ho detto altrove, che la lingua italiana non si è mai spogliata della facoltà di usare la sua ricchezza antica, e la francese all’opposto, v. Andrès, Stor. d’ogni letteratura. Venez. Vitto. t.3. p.95. fine-99.
principio, cioè Parte 1. c.3. e t.4. p.17. cioè Parte II. introduzione.
(8. Maggio 1821.)
Alcuni scrittori greci degli ultimissimi tempi dell’impero greco, furono anche superiori in eleganza a molti de’
tempi più antichi ma corrotti, come gli scrittori latini del cinquecento in Italia superarono bene spesso gli antichi latini posteriori a Cicerone e a Virgilio. Dopo il secolo d’Augusto non è stato mai tempo in cui sì generalmente (come nel 500.) si scrivesse con coltura e con pulitezza la lingua de’ romani. Andrès, l. cit. qui sopra, p.96.
(8. Maggio 1821.)
[1024]Sebbene la lingua Celtica fosse così bella ed atta alla letteratura, e per conseguenza, formata, e stabilita e ferma (espressioni del Buommattei in simil senso), come si vede oggidì ne’ monumenti che ne avanzano, e come ho detto p.994. fine; sebben fosse così antica e radicata ec. nondimeno laddove i greci ancorchè sudditi romani, e vivendo in Roma o in Italia, scrivevano sempre in greco e non mai in latino, nessuno scrittor gallo, nelle medesi-Letteratura italiana Einaudi 740
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia me circostanze, scrisse mai che si sappia in lingua celtica, ma in latino.
(9. Maggio 1821.)
Da Demostene in poi la Grecia non ebbe altro scrittore che in ordine alla lingua e allo stile, somigliasse, anzi uguagliasse gli ottimi antichi, se non Arriano (e questo senza la menoma affettazione, o sembianza d’imitazione, o di lingua o stile antiquato, come i nostri moderni imitatori del trecento o del cinquecento). Nè Polibio, nè Dionigi Alicarnasseo (sebben questi più degli altri, e gli può venir dopo), nè Plutarco, nè lo stesso Luciano atticissimo ed elegantissimo (di eleganza però ben diversa dalla nativa eleganza degli antichi, e della perfetta e propria lingua e stile greco) non possono essergli paragonati per questo capo.
(9. Maggio 1821.)
Alla p.1021. Così che la presente corruzione della lingua italiana e parlata e scritta, aggiunge un nuovo e fortissimo ostacolo alla sua universalità. Giacchè gli stranieri non conoscono, si può dire, altra letteratura nè lingua italiana scritta, se non l’antica, non passando [1025]e non meritando di passare le Alpi i nostri libri moderni, e non avendo noi propriamente letteratura (non dico scienze) moderna, e neppur lingua moderna stabilita, formata, riconosciuta e propria. D’altra parte non conoscono nè possono conoscere altra lingua italiana parlata, se non quella che oggi si parla, tanto diversa dall’antica e parlata e scritta, e dalla buona e vera e propria favella italiana.
Lo stesso appresso a poco si può dire dello spagnuolo.
(9. Maggio 1821.)
La cognizione stessa che i greci di qualunque tempo, ebbero de’ padri e teologi latini ec. soli scrittori latini ch’essi conoscessero, non fu (se non forse ne’ più barbari Letteratura italiana Einaudi 741
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia secoli di mezzo) paragonabile a quella che ebbero i latini dei padri, ed autori ecclesiastici greci, massime nei primi secoli del cristianesimo, e negli ultimi anni dell’impero greco (Andrès, loc. cit. da me p.1023. t.3. p.55.), quando la dimostrarono principalmente in occasione del concilio di Firenze. (ivi).
(9. Maggio 1821.)
Sebben l’uomo desidera sempre un piacere infinito, egli desidera però un piacer materiale e sensibile, quantunque quella infinità, o indefinizione ci faccia velo per credere che si tratti di qualche cosa spirituale. Quello spirituale che noi concepiamo confusamente nei nostri desiderii, o nelle nostre sensazioni [1026]più vaghe, indefinite, vaste, sublimi, non è altro, si può dire, che l’infinità, o l’indefinito del materiale. Così che i nostri desiderii e le nostre sensazioni, anche le più spirituali, non si estendono mai fuori della materia, più o meno definitamente concepita, e la più spirituale e pura e immaginaria e indeterminata felicità che noi possiamo o assaggiare o desiderare, non è mai nè può esser altro che materiale: perchè ogni qualunque facoltà dell’animo nostro finisce assolutamente sull’ultimo confine della materia, ed è confinata intieramente dentro i termini della materia.
(9. Maggio 1821.)
Se i principi risuscitassero le illusioni, dessero vita e spirito ai popoli, e sentimento di se stessi; rianimassero con qualche sostanza, con qualche realtà gli errori e le immaginazioni costitutrici e fondamentali delle nazioni e delle società; se ci restituissero una patria; se il trionfo, se i concorsi pubblici, i giuochi, le feste patriotiche, gli onori renduti al merito, ed ai servigi prestati alla patria tornassero in usanza; tutte le nazioni certamente acquiste-rebbero, o piuttosto risorgerebbero a vita, e diverrebbe-ro grandi e forti e formidabili. Ma le nazioni meridionali Letteratura italiana Einaudi 742
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia massimamente, e fra queste singolarmente l’Italia e la Grecia (purchè tornassero ad esser nazioni) diverrebbe-ro un’altra volta invincibili. Ed allora [1027]si tornerebbe a conoscere la vera ed innata eminenza della natura meridionale sopra la settentrionale, eminenza che le nostre nazioni ebbero sempre, mentre non mancarono di forti, grandi, e generali illusioni, e de’ motivi e dell’alimento di esse; eminenza che da gran tempo, ma specialmente oggi, sembra per lo contrario, con vergogna, dirò così, della natura, appartenere (e non solo nella guerra, ma in ogni genere di azione, di energia, e di vita) agli abitatori dei ghiacci e delle nebbie, alle regioni meno favorite, anzi quasi odiate dalla natura:
Quod latus mundi nebulae malusque
Juppiter urget.
Notabile che come gli antichi si rassomigliano al carattere meridionionale e i moderni al settentrionale, così la civiltà ec. antica fu principalmente meridionale, la moderna settentrionale. È già notato che la civiltà progredisce da gran tempo (sin da’ tempi indiani) dal sud al nord, lasciando via via i paesi del sud. Le capitali del mondo antico furono Babilonia, Menfi, Atene, Roma; del moderno, Parigi, Londra, Pietroburgo! che climi! Conseguenza naturale dell’esser tolta ai popoli meridionali l’attività e l’uso della molla principale della loro vita, cioè della immaginazione; molla che quando è capace di azione (e non può esserlo senza le circostanze corrispondenti) vince la forza di tutte le altre molle che possono fare agire i popoli settentrionali, e qualunque popolo. Anzi veramente i popoli settentrionali, massime i più bellicosi e terribili, non agiscono per nessuna molla, per nessuna forza propria del loro meccanismo, ed interna; ma per mero impulso altrui, per mera influenza di coloro, ai quali Letteratura italiana Einaudi 743
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia essi ubbidiscono, se anche sono comandati di mangiar della paglia.
(10. Maggio 1821.)
[1028]La cosa più durevolmente e veramente piacevole è la varietà delle cose, non per altro se non perchè nessuna cosa è durevolmente e veramente piacevole.
(10. Maggio 1821.
Delle prime grammatiche italiane v. Andrès, Stor. della letteratura, ediz. di Venezia del Vitto. t.9. p.316. fine. cioè Parte 2. lib.4. c.2.
(10. Maggio 1821.)
Del sogno d’istituire una lingua universale v. Andrès, loc. cit. qui sopra, p.320. e il Locke del Soave t.2. p.62-76. ediz. terza di Venezia 1794.
(10 Maggio 1821.)
La Bibbia ed Omero sono i due gran fonti dello scrivere, dice l’Alfieri nella sua Vita. Così Dante nell’italiano, ec. Non per altro se non perch’essendo i più antichi libri, sono i più vicini alla natura, sola fonte del bello, del grande, della vita, della varietà. Introdotta la ragione nel mondo tutto a poco a poco, e in proporzione de’ suoi progressi, divien brutto, piccolo, morto, monotono.
(11. Maggio 1821.)
Se la universalità di una lingua dipendesse dalla diffusione di coloro a’ quali essa è naturale, nessuna lingua avrebbe oggi questa proprietà più dell’inglese, giacchè gli stabilimenti inglesi occupano più gran parte del mondo, e sono più numerosi di quelli d’ogni altra nazione europea; e la nazione inglese è la più viaggiatrice del mondo.
(11. Maggio 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 744
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia
[1029]La lingua latina superò per esempio la lingua antica Spagnuola, la Celtica ec. mediante la semplice introduzione nella Spagna, nelle Gallie ec. del governo, leggi, costumi Romani. Ma a superar la greca non le bastò neppure il trasportar nella Grecia la stessa Roma, e quasi la stessa Italia.
(11. Maggio 1821.)
Alla p.991. Eccetto il solo Fedro, o ch’egli fosse Trace, come è creduto comunemente, (la lingua della letteratura in Tracia era la greca, come mostrano Lino, Orfeo Traci, e il più recente Dionigi famoso gramatico detto il Trace) o Macedone come vuole il Desbillons. (Disputat. 1. de Vita Phaedri, praemissa Phaedri fabulis, Manhemii 1786.
p. v. seq.) La cui latinità, sebbene a molti non pare eccellente e perfettissima certo però è superiore al mediocre.
(11. Maggio 1821.)
Alla p.245. La lingua francese si mantiene e si manterrà lungo tempo universale, a cagione della sua struttura ed indole. E certo però che l’introduzione di questa lingua nell’uso comune, e il principio materiale della sua universalità, si deve ripetere e dalla somma influenza politica della Francia nel tempo passato; e dalla sua influenza morale come la più civilizzata nazione del mondo, e per conseguenza dalle sue mode, ec. o vogliamo dire dalla moda di esser francese, [1030]dal regno e dittatura della moda, che la Francia ha tenuto e tiene ec.; e principalissimamente ancora dalla sua letteratura, dalla estensione di lei, e dalla superiorità ed influenza che ella ha acquistata sopra le altre letterature, non per altro, se
[non] per essere esclusivamente e propriamente moderna, e perchè la letteratura precisamente moderna è nata (a causa delle circostanze politiche, morali, civili ec.) prima che in qualunque altra nazione, in Francia, e quivi è Letteratura italiana Einaudi 745
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia stata coltivata più che in qualunque altro luogo, e più modernamente o alla moderna che in qualunque altro paese. Ma la durata di questa universalità, quando anche cessino le dette ragioni, (come in parte sono cessate) essa la dovrà alla sua propria indole; laddove quella tal quale universalità acquistata già dalle lingue spagnuola, italiana ec. sono finite insieme colle ragioni estrinseche che la producevano, non avendo esse lingue disposizione intrinseca alla universalità. Con queste osservazioni rettifica quello che ho detto p.240-245. E in quanto alla letteratura, ed alla influenza morale ec. ec. è certo che queste furono le ragioni estrinseche della universalità della lingua greca, la quale però ne aveva anche le sue ragioni intrinseche, mancanti affatto alla latina, che perciò non fu mai veramente universale, [1031]nè durò, come la greca ancor dura, non ostante che abbondasse delle ragioni estrinseche di universalità.
(11. Maggio 1821.). V. p.1039. fine.
Che la lingua italiana massimamente e proporzionatamente la spagnuola ancora e la francese, come spiegherò poi, sieno derivate dall’antico volgare latino, si dimostra non solo coi fatti oscuri, e coll’erudizione recondita, ma col semplice ragionamento sopra i fatti notissimi e certi, e sopra la natura delle cose. La lingua italiana è derivata dall’antica latina, e questo è palpabile. La lingua italiana è una lingua volgare. Ma nessuna lingua volgare deriva da una lingua scritta e propria della letteratura, se non in quanto questa lingua scritta partecipa della medesima lingua parlata, e parlata volgarmente. La lingua latina scritta differiva moltissimo dalla parlata, e ciò si rileva sì dall’indole del latino scritto che non poteva mai esser volgare, sì dalla testimonianza espressa di Cicerone. Dunque se la lingua italiana è derivata dalla latina, e la italiana non è semplicemente scritta o letterata, ma volgare e par-Letteratura italiana Einaudi 746
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia lata, non può esser derivata dal latino scritto, ma è derivata dal latino volgare.
Da che ci era un latino volgare assai differente dallo scritto, è costante che l’italiano volgare derivato dal latino, non può esser derivato dallo scritto, ma da quello volgare e parlato.
[1032]Questo ragionamento serve per tutte le lingue derivate dal latino, e per tutte quelle derivate da qualunque altra lingua antica, dove lo scritto differisse notabilmente dal parlato. Ma serve specialmente per l’italiano, ch’è la lingua volgare di quello stesso paese a cui fu naturale il latino.
Qual lingua avrà parlato l’Italia ne’ secoli bassi? forse il latino scritto? Chi può credere quest’assurdità che i secoli barbari parlassero meglio de’ civili? Forse le lingue de’ popoli settentrionali, suoi conquistatori? 1. È noto e costante da testimonianze e osservazioni di fatto che questi popoli in luogo d’introdurre la loro lingua fra i conquistati, imparavano anzi e adoperavano quella di costoro.
V. Andrès, t.2. p.330.
2. Di parole settentrionali ognuno sa quanto poche ne rimangano nell’italiano, e così pure nel francese e nello spagnuolo, e come il corpo, la sostanza, il grosso, il fondo principale e capitale di queste lingue, e massime dell’italiano, derivi dal latino, e sia latino.
Dunque l’Italia ne’ secoli bassi parlò certamente il latino. Latino corrotto, ma latino. Qual latino dunque? Lo scritto no: dunque il volgare, cioè la sua lingua di prima, il suo volgare di prima. Giacchè la sua lingua, il suo volgare di prima, non era il latino [1033]scritto, nè poteva essere, ma il latino volgare. Anche questo volgare si sarà parlato corrottamente, ma la sostanza, il grosso ec. della lingua allora parlata, doveva esser quello di detto volgare, da che oggi il grosso dell’italiano è derivato dal latino, ed è latino.
Letteratura italiana Einaudi 747
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Comunemente pare che si supponga che s’interrompes-se o affatto o quasi affatto l’uso volgare del latino in Italia, restandone solo l’uso civile, religioso e letterario, e che da quest’uso, e dal latino scritto ec. rinascesse poi di nuovo l’uso di una lingua volgare latina, o derivata dal latino, cioè dell’italiana; e così questa venga ad essere derivata dal latino scritto, sia per mezzo del provenzale che nascesse prima dell’italiano, o per qualunque altro mezzo.
Queste sono favole assurdissime e (oltre che non hanno alcun fondamento) contrarie alla natura delle cose.
Dovunque il latino non è stato in uso se non come lingua civile, religiosa, scritta, letteraria ec. le lingue nazionali e volgari sono rimaste; e in luogo che dal latino scritto ec. derivasse e nascesse in questi luoghi una lingua figlia della latina, la lingua volgare ha per lo contrario scac-ciata la latina anche dalla scrittura, e dall’uso letterario e civile. In Germania, [1034]in Inghilterra, in Polonia dove ne’ secoli bassi si usava il latino (ed in Polonia anche dopo), ma non mai come lingua parlata, e solo come civile, religiosa, letteraria; non vi è nata dal latino nessuna lingua; restano le antiche lingue nazionali, restano le lingue volgari; o vogliamo dire, restano le lingue derivate dalle dette naturali e volgari, e la latina è sparita dall’uso civile e dal letterario. Lo stesso dirò della Grecia, dove il latino fu introdotto solamente come lingua del governo ec. v. p.982.983. Lo stesso pure dell’italiano, dello Spagnuolo, del Francese, i quali parimente scacciarono la stessa lingua lor madre, dall’uso civile, politico, letterario. E questo si può vedere pure nell’esempio della lingua francese introdotta come civile ec. in Inghilterra per la conquista de’ Normanni (v. p.1011. fine); dell’arabica introdotta già nello stesso modo in parte della Spagna (Andrès 2. 263.-273.), e poi similmente scacciate dalla letteratura e da ogni luogo. V. pure gli Ann. di Sc. e lett.
num.11. p.29.32. E così porta la natura delle cose, che Letteratura italiana Einaudi 748
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia non la lingua degli scrittori cambi quella del popolo, e s’introduca nel popolo, ma quella del popolo vinca quella degli scrittori, i quali scrivono pure pel popolo e per la moltitudine; non la scritta scacci la parlata, ma la parlata superi presto o tardi, ed uniformi più o meno la scritta a se medesima. V. p.1062.
Se la lingua gotica o qualunque altra lingua settentrionale o no, si fosse stabilita veramente in Italia come lingua volgare e parlata, restando ancora la latina come scritta ec.; oggi noi parleremmo e scriveremmo quella o quelle tali lingue, e non una lingua derivata dalla latina.
Ma accadendo il contrario è manifesto che la lingua volgare d’Italia, fu senza interruzione latina; e se fu tale senza interruzione fino a noi, dunque fu senza interruzione quel latino volgare più o meno alterato, che si parlava anticamente, e non già lo [1035]scritto; dunque noi oggi parliamo una lingua derivata da esso volgare, e il cui fondo capitale appartiene, anzi è lo stesso che quello dell’antico volgare latino.
Discorro allo stesso modo dello Spagnuolo e del francese. Se queste lingue sono volgari, e derivano dal latino, dunque dal latino parlato, e non dallo scritto; dunque dal latino volgare; dunque la lingua latina si stabilì nella Spagna e nella Francia come lingua parlata, e non solamente come lingua civile, governativa, letteraria (e così è infatti, e nella lingua francese restano pochissime parole Celtiche, nella spagnuola nessun vestigio dell’antica lingua di Spagna: Andrès, 2. 252.); dunque il volgare latino più o meno alterato da mescolanza straniera, si mantenne senza interruzione in Ispagna e in Francia (siccome in Valacchia) dalla sua prima introduzione, sino al nascimento della lingua spagnuola e francese, e per mezzo di queste sino al dì d’oggi. Dell’antica origine della presente lingua spagnuola, e come i più vecchi monumenti che ne restano, siano, come quelli della lingua provenzale, francese Letteratura italiana Einaudi 749
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ec. conformissimi al latino, v. un esempio recato in quella lingua dall’Andrès 2.286.fine.
Conchiudo. Se la lingua italiana, ch’è volgare, è derivata dal latino, ella dunque non può essere [1036]derivata dal latino scritto sì diverso dal parlato, ma dirittamente viene dall’antico volgare latino, ed è nella sostanza e nel suo fondo principale, lo stesso che il detto volgare. E lo è per la circostanza della località (lasciando ora le prove di fatto e di erudizione) più di quello che lo siano lo spagnuolo e il francese. Questo ragionamento però vale per qualunque lingua derivata sì dal latino, sì da qualunque altra lingua antica: e ciascuna lingua moderna derivata da qualunque lingua antica, è derivata dal volgare di essa lingua, e non dallo scritto. Che se la lingua tedesca, a detta del Tercier, è fra tutte ec. v. p.1012. principio, questo accade perchè la lingua antica teutonica scritta, come lingua incolta, o non bene determinata e formata alla scrittura, come lingua illetterata ancorchè scritta, pochissimo o nulla differiva dalla parlata e volgare. Ma altrettanta e forse maggiore uniformità si vedrebbe fra l’italiano e l’antico volgare latino, se di questo si avesse maggior notizia.
E dico maggiore uniformità non senza ragione di fatto, considerando la molta differenza che passa poi realmente fra l’odierno tedesco e il teutonico (Andrès, 2. 249-254.); e la somma rassomiglianza che io in molti luoghi ho cercato di provare, fra l’italiano, [1037]e il latino volgare antico. Così che la lingua italiana in vece di essere la più moderna di tutte le viventi Europee, come pretendono, (Andrès, 2.256. e passim) si verrebbe a conoscere o la più antica, o delle più antiche, perdendosi l’origine di essa, e del suo uso, (non mai nel seguito interrotto, sebbene alterato) nella oscurità delle origini dell’antichissimo e primo latino. A differenza dello spagnuolo e del francese, perchè in queste nazioni l’uso del volgare latino, fu certo molti e molti secoli più tardo che in Italia.
(12. Maggio 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 750
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Basta vedere il principio dell’Orazione �Epit�fiow attribuita a Demostene, dove discorre della nobiltà del popolo Ateniese, per conoscere come fosse fermo fra gli antichi il dogma della disuguaglianza delle nazioni, e come si aiutassero delle favole, delle tradizioni ec. per persuadersi, e tener come cosa non arbitraria, ma ragionata e fondata, che la propria nazione fosse di genere e di natura, e quindi di diritti ec. ec. diversa dalle altre. Persuasione utilissima e necessaria, come altrove ho dimostrato.
(12. Maggio 1821.)
Una lingua non si forma nè stabilisce mai, se non applicandola alla letteratura. Questo è chiaro dall’esempio di tutte. Nessuna lingua non applicata alla letteratura è stata mai formata nè stabilita, [1038]e molto meno perfetta.
Come dunque la perfezione dell’italiana starà nel 300?
Altro è scrivere una lingua (come si scriveva l’antica teutonica, non mai ben formata nè perfetta) altro è applicarla alla letteratura. Alla quale l’italiano non fu applicato che nel 500. Nel 300. veramente e propriamente da tre soli (lasciando le barbare traduzioni di quel secolo), il che ognun vede se si possa chiamare, perfetta applicazione alla letteratura. Se lo scrivere una lingua fosse lo stesso che l’applicarla alla letteratura, l’epoca della perfezione della latina si dovrebbe porre non nel secolo di Cicerone ec. ma nel tempo dei primi scrittorelli latini; ovvero con molto più ragione in quello d’Ennio ec. e degli scrittori anteriori a Lucrezio, a Catullo, a Cicerone (contemporanei) giacchè allora il latino fu applicato generalmente a lavori molto più letterarii, che nella universalità del 300.
E così dico pure delle altre lingue o morte, o viventi.
(12. Maggio 1821.). V. p.1056.
Letteratura italiana Einaudi 751
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Nei tempi bassi furono veramente dÛglvttoi i tedeschi e gl’inglesi, ossia la parte colta di queste nazioni, che scrivevano il latino, se ne servivano per le corrispondenze, lettere ec. e parlavano le lingue nazionali. E così pure gl’italiani, i francesi, gli spagnuoli, che parlavano già un volgare assai diverso dal latino scritto. Ma questa: 1.E una diglvttÛa che appartenendo allo scritto e non al parlato, non entra nel mio discorso. E la [1039]universalità del latino, ch’era allora universale in occidente, era universalità che appartenendo alla sola scrittura, non ha che fare con quella che rende gli uomini parlatori di due lingue, cioè veramente dÛglvttoi, della quale sola io discorro.
2. La lingua latina era allora veramente morta, appresso a poco come oggi, non essendo parlata, ma solo scritta. E una lingua solamente scritta è lingua morta. Ora, quantunque l’uso di una tal lingua morta fosse allora più comune che oggidì, e così anche fosse dopo il risorgimento delle lettere; la universalità delle lingue morte che si studiavano e si studiano o per usi letterarii, o per vecchia costumanza, non entra nel mio discorso, il quale tratta solo della universalità delle lingue vive. Così anche oggi si potrebbe chiamare presso a poco universale la lingua greca in Europa, e ne’ paesi colti, ma come lingua morta.
(12. Maggio 1821.)
Alla p.1031. principio. Come la letteratura, così la lingua francese è precisamente moderna, sì per l’influenza somma nella lingua della letteratura che la forma (e nel nostro caso l’ha singolarmente formata e determinata, mutandola assai da quella ch’era da principio, e dalla sua stessa indole primitiva); sì per l’influenza immediata sulla lingua francese delle stesse cagioni che hanno influito sulla letteratura francese, e formatala. [1040]Or come la lingua francese è strettamente moderna, e quindi strettamente propria all’odierna universalità, per esser model-Letteratura italiana Einaudi 752
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia lata sulla ragione, e oggi (secondo il vero andamento del secolo) quasi sulla matematica; così la lingua greca era propria alla universalità de’ tempi suoi, massime fra’ popoli del meriggio orientali e occidentali, che sono e furono sempre più immaginosi; e ciò per essere strettamente antica, e questo per essere strettamente modellata (nel perfetto) sulla natura. A differenza della latina modellata piuttosto sull’arte. E si può dire che la perfezione della lingua greca era conforme, ed aveva il suo fondamento nella natura, non essendo perciò meno perfetta, nè artificiata; e la perfezione della latina era conforme, ed aveva il suo modello, il suo tipo, il suo fondamento, la sua norma nell’arte.
(12. Maggio 1821.)
Alla p.1016. In ogni modo le parole greche che si trovano nell’uso familiare e popolare, italiano o francese, (massime se non si trovano presso gli scrittori latini) non possono esser derivate se non dall’antico volgare latino, da qualunque parte esso le abbia ricevute, o dalla Grecia direttamente, e ab antico, per qualunque mezzo; o da un’origine comune con quella della lingua greca, ovvero dalle colonie greche d’Italia o delle Gallie, o da qualunque [1041]comunicazione avuta colla lingua greca. Come infatti le dette parole avrebbero potuto pervenire a noi, senza passare pel volgare latino? Quando la lingua greca si spense nelle Gallie assai per tempo, e così pure in Italia (sebben forse più tardi p.e. in Sicilia, che nelle Gallie); ed all’incontro il volgare latino stabilitosi in detti luoghi, ha durato con maggiore o minore alterazione, e dura dal suo stabilimento fino ad oggidì? In qualunque maniera dunque, le parole greche che oggi sono volgari (non dico le scientifiche, o proprie de’ soli scrittori) nell’italiano o nel francese, (e così nello spagnuolo); quelle che appartengono propriamente a queste lingue, e possono considerarsi come loro primitive; dovettero essere necessariamen-Letteratura italiana Einaudi 753
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia te nell’antico volgare latino, che sta di mezzo fra l’uso del greco in alcuni paesi d’Italia o di Francia, e l’uso dell’italiano o del francese: in maniera che le dette parole hanno dovuto passare necessariamente pel detto canale, e quindi appartenere all’antico volgare latino. Nè dopo la grande e principale alterazione di questo volgare, e il nascimento de’ volgari moderni che ne derivano, l’Italia o la Francia hanno avuto colla lingua greca, (e massime coll’antica, o anche antichissima, alla quale appartengono parecchie delle dette parole o modi) [1042]comunicazione veruna sufficiente a introdurre nel nostro uso quotidiano, e comune parole e modi greci, e spesso di prima necessità, o di frequentissimo uso; qualità osservatissima dagli etimologisti filosofi, e di gran rilievo presso loro.
Resta dunque inconcusso il mio discorso, e la mia proposizione, che le parole o modi italiani o francesi o spagnuoli, che derivano dal greco, che spettano all’uso volgare, al capitale antico, primitivo, proprio di dette lingue, che non si trovano presso gli scrittori latini, debbono essere stati indispensabilmente ed esserci venuti dal volgare antico latino, derivando le dette lingue dal latino, anzi da esso volgare, e non potendo aver preso nessuna parola o modo volgare, o primitivo loro, immediatamente dalla lingua greca.
Il qual discorso, se si tratta di parole o modi italiani, ha la sua piena forza, e dimostra l’esistenza di dette parole o modi nell’antico volgare latino proprio, cioè in quello che si parlava anticamente in Italia. Trattandosi di parole francesi, lo può solamente dimostrare, rispetto all’antico volgare latino che si parlava nelle Gallie, il quale poteva differire alquanto (e certo differiva, come dialetto) da quello parlato in Roma o in Italia. Vale a dire che in quel volgare, vi poteva essere qualche parola o modo greco, derivato dalle colonie greco-galliche, il quale non [1043]si trovasse nel volgare latino di Roma, o d’Italia. Massima-Letteratura italiana Einaudi 754
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia mente se le dette parole non si trovano oggi se non se nella lingua francese, e se mancano all’italiana. E così anche viceversa, se qualche parola greca passò in quest’ultimo volgare dalle Colonie greco-italiane, o da altra comunicazione coi greci viaggiatori ec. ec. dopo l’introduzione del volgare latino nelle Gallie. (13. Maggio 1821.).
Giacchè le altre parole greche introdotte già nel latino prima di quel tempo, ancorchè venute dalle colonie greche d’Italia, non fa maraviglia se passarono col latino anche in Francia ed altrove.
L’Inghilterra in dispetto del suo clima, della sua posizione geografica, credo anche dell’origine de’ suoi abitanti, appartiene oggi piuttosto al sistema meridionale che al settentrionale. Essa ha del settentrionale tutto il buono (l’attività, il coraggio, la profondità del pensiero e dell’immaginazione, l’indipendenza, ec. ec.) senz’averne il cattivo. E così del meridionale ha la vivacità, la politezza, la sottigliezza (attribuita già a’ Greci: v. Montesquieu Grandeur etc. ch.22. p.264.) raffinatezza di civilizzazione e di carattere (a cui non si trova simile se non in Francia o in Italia), ed anche bastante amenità e fecondità d’immaginazione, e simili buone qualità, senz’averne il torpore, la inclinazione all’ozio o alla inerte voluttà, la mollezza, l’effeminatezza, la corruzione debole, sibaritica, vile, francese; il genio pacifico ec. ec. Basta paragonare un soldato inglese a un soldato tedesco o russo ec. per conoscere l’enorme differenza che passa fra il carattere inglese e il settentrionale. E siccome l’Italia non ha milizia, e la Spagna non la sa più adoperare, ec. non v’è milizia in Europa più somigliante alla francese dell’inglese, più competente colla francese, per l’ardore e la vita individuale, la forza morale [1044]la suscettibilità ec. del soldato, e non la semplice forza materiale, come quella de’ tedeschi, de’ russi ec. V. p.1046.
Letteratura italiana Einaudi 755
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Tutto ciò verrà forse da altre cagioni, ma forse anche dal loro governo e costituzione politica, stata sempre più simile alle antiche di qualunque altra Europea, fino al dì d’oggi ch’è stata appresso a poco adottata da’ francesi, dov’è troppo presto per vederne gli effetti. Ora egli è certo che l’antico è sempre superiore al moderno in quanto spetta alla immaginazione, e che in questa, anche gli antichi settentrionali che cedevano ai meridionali antichi, erano però ben superiori ai meridionali moderni.
(13. Maggio 1821.)
La rimembranza del piacere, si può paragonare alla speranza, e produce appresso a poco gli stessi effetti. Come la speranza, ella piace più del piacere; è assai più dolce il ricordarsi del bene (non mai provato, ma che in lontananza sembra di aver provato) che il goderne, come è più dolce lo sperarlo, perchè in lontananza sembra di poterlo gustare. La lontananza giova egualmente all’uomo nell’una e nell’altra situazione; e si può conchiudere che il peggior tempo della vita è quello del piacere, o del godimento.
(13. Maggio 1821.)
[1045]Chi vuol vedere quanto abbia la natura provveduto alla varietà, consideri quanto l’immaginazione sia più varia della ragione, e come tutti si accordino in ciò che spetta o è fondato su questa, e viceversa. Per esempio osservi come fossero varie le lingue antiche architettate sul modello della immaginazione, e quanto monotone quelle moderne che più sono architettate sulla ragione.
Osservi come una lingua universale debba esser modellata e regolata in tutto e perfettamente dalla ragione, appunto perchè questa è comune a tutti, ed uguale e uniforme in tutti.
(13. Maggio 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 756
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia La Francia è per geografia la più settentrionale delle regioni Europee che si comprendono sotto la categoria delle meridionali. Così dunque la sua lingua partecipa di quella esattezza, di quella, per così dire, pazienza, di quella monotonia, di quella regolarità, di quella rigorosa ragionevolezza che forma parte del carattere settentrionale. E
così pure la sua letteratura in gran parte filosofica, e generalmente il suo gusto letterario, sebben ciò derivi in gran parte dall’epoca della sua lingua e letteratura; epoca moderna, e per conseguenza epoca di ragione. Come per lo contrario l’Inghilterra ch’è per carattere la regione meno settentrionale di tutte le settentrionali, (v. p.1043.) ha una lingua delle [1046]più libere d’Europa colta per indole; e per fatto la più libera di tutte (Andrès, t.9. 290 291.
315-316.); e parimente la letteratura forse più libera d’Europa, e il gusto letterario ec. Parlo della sua letteratura propria, cioè della moderna, e dell’antica di Shakespeare ec. e non di quella intermedia presa da lei in prestito dalla Francia. E parlo ancora delle letterature formate e stabilite ed adulte; e non delle informi o nascenti.
(13. Maggio 1821.)
Alla p.1044. Ciò è manifesto anche dal fatto, dalla continua e famosa gara della nazione inglese colla francese, dalle molte vittorie, e talvolta formidabili, degl’inglesi sopra i francesi, riportate massime anticamente ec. ec. e dall’essere stata forse l’Inghilterra (fino agli ultimi tempi) quasi l’unica potenza che si sia battuta a solo a solo colla francese, con costante competenza, ancorchè tanto inferiore di popolazione, e considerando specialmente le altre potenze di forze uguali all’Inghilterra, fra le quali essa si troverà l’unica capace di far fronte per lo passato alla Francia.
(14. Maggio 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 757
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Principalissime cagioni dell’essersi la lingua greca per sì lungo tempo mantenuta incorrotta (v. Giordani nel fine della lettera sul Dionigi) furono indubitatamente la sua ricchezza, e la sua libertà d’indole e di fatto. La qual libertà produce in buona parte la ricchezza; la qual libertà è la più [1047]certa, anzi necessaria, anzi unica salvaguardia della purità di qualunque lingua. La quale se non è libera primitivamente e per indole, stante l’inevitabile mutazione e novità delle cose, deve infallibilmente declinare dalla sua indole primitiva, e per conseguenza alterarsi, perdere la sua naturalezza e corrompersi: laddove ella conserva l’indole sua primitiva, se fra le proprietà di questa è compresa la libertà. E quindi si veda quanto bene provveggano alla conservazione della purità del nostro idioma, coloro che vogliono togliergli la libertà, che per buona fortuna, non solo è nella sua indole, ma ne costituisce una delle principali parti, e uno de’ caratteri distintivi. E ciò è naturale ad una lingua che ricevè buona parte di formazione nel trecento, tempo liberissimo, perchè antichissimo, e quindi naturale, e l’antichità e la natura non furono mai soggette alle regole minuziose e scrupolose della ragione, e molto meno della matematica. Dico antichissimo, rispetto alle lingue moderne, nessuna delle quali data da sì lontano tempo il principio vero di una formazione molto inoltrata, e di una notabilissima coltura, ed applicazione alla scrittura: nè può di gran lunga mostrare in un secolo così remoto sì grande universalità e numero di scrittori e di parlatori ec. che le servano anche oggi di modello. E questa antichità [1048]di formazione e di coltura, antichità unica fra le lingue moderne, è forse la cagione per cui l’indole primitiva della lingua italiana formata, è più libera forse di quella d’ogni altra lingua moderna colta (siccome pure dell’esser più naturale, più immaginosa, più varia, più lontana dal geometrico ec.).
Letteratura italiana Einaudi 758
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Tutte le lingue non formate sono libere per indole, e per fatto. Tutte le lingue nella loro formazione primitiva, sono parimente libere, qual più qual meno, e per indole e per fatto. La quale libertà vengono poi perdendo appoco appoco secondo le circostanze della loro formazione.
Tutte ne perdono alquanto (e giustamente) coll’essere ridotte a forma stabile, ma qual più qual meno, e ciò dipende dal carattere sì dei tempi come delle nazioni e degli scrittori che le formano.
Parlando dunque delle lingue dopo che sono perfettamente formate, io trovo rispetto alla libertà, tre generi di lingue. Altre libere per natura e per fatto, come l’inglese.
Altre libere per natura, ma non in fatto, come si vuole oggi ridurre la nostra lingua da’ pedanti, non per altro se non perchè i pedanti non possono mai conoscere fuorchè la superficie delle cose, e susseguentemente non hanno mai conosciuto nè conosceranno l’indole della lingua italiana. Una [1049]tal lingua, malgrado la libertà primitiva e propria della sua formazione, e del suo carattere formato, è soggetta niente meno a corrompersi, non usando nel fatto, di questa libertà, secondo il genio proprio suo; ed a perdere la prima e nativa libertà, per usurparne poi necessariamente una spuria ed impropria ed aliena dal suo carattere, come oggi ci accade. E già nel 500. si era cominciata a dimenticare da alcuni (come dal Castelvetro ec.) questa qualità della nostra lingua, dico la libertà, cosa veramente accaduta a quasi tutte le lingue, e spesso ne’
loro migliori secoli, appena vi s’è cominciata a introdurre, la sterile e nuda arte gramaticale, in luogo del gusto, del tatto, del giudizio, del sentimento naturale e dell’orecchio ec.
Il terzo genere è delle lingue non libere nè per natura nè in fatto, come la francese. Lingue che vanno necessariamente a corrompersi. La lingua latina, la cui formazione non le diede un’indole libera (v. p.1007. fine-1008.), si corruppe con maravigliosa prestezza. Ed osservo nella Letteratura italiana Einaudi 759
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia poetica d’Orazio che a’ suoi tempi la novità delle parole era contrastata agli scrittori latini, come oggi agli italiani da’ pedanti, cosa che io non mi ricordo [1050]mai di aver notato in nessun scrittor greco in ordine alla lingua greca (e lo stesso dico d’ogni altra lingua antica). Al più i gramatici e filologi greci non molto antichi nè degli ottimi tempi della favella, faranno gli smorfiosi intorno alla purità dell’Atticismo, e all’escludere questa o quella parola o frase da questo o quel dialetto, riconoscendola però per greca, e non escludendola dalla scrittura greca, come fanno i toscani rispetto all’italiana.
Diranno che la lingua francese, la più timida, serva, legata di tutte quante le lingue antiche e moderne, colte o incolte, si mantiene tuttavia pura. Rispondo 1. La lingua francese schiava rispetto ai modi è liberissima (sia per legge o per fatto) nelle parole.
2. La servilità di una lingua è incompatibile colla durata della sua purità, a causa della inevitabile mutazione e novità delle cose. Ma la lingua francese formata com’è oggi, è ancor nuova. Le circostanze hanno voluto che ella ricevesse una forma stabile in un tempo moderno, e da questa forma fosse ridotta ad esser lingua precisamente di carattere moderno. Non è dunque maraviglia se le cose moderne non la corrompono. La quale modernità
[1051]di formazione, fu anche la causa della sua servilità.
Se fosse stato possibile che la lingua francese ricevesse una forma di genere simile a quella che ha presentemente, e divenisse così servile, al tempo in cui fu formata p.e.
la lingua italiana; ella sarebbe oggi così barbara, e sformata; avrebbe talmente perduta quella tal forma ed indole, che non si potrebbe più riconoscere. Come infatti la lingua francese così formata come fu dall’Accademia, non si riconosce dall’antica; e gli Accademici (o l’età e il genio d’allora) per ridurla così doverono trasformarla affatto dall’antica sua natura (v. Algarotti Saggio sulla lingua francese); il che sarebbe stato insomma lo stesso che guastar-Letteratura italiana Einaudi 760
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia la, e la lingua francese si chiamerebbe oggi corrotta, se prima di quel tempo ella avesse mai ricevuta una forma stabile. E quantunque non l’avesse ricevuta, e gli scritti anteriori non sieno per lo più di gran pregio, nondimeno il solo Amyot, tenuto anche oggi per classico, mostra che differenza passi tra l’antica e primitiva e propria indole della lingua francese e la moderna; mostra che se quella lingua fosse stata mai classica, (il che non mancò se non dalla copia di tali scrittori) la presente sarebbe barbara; mostra quanto quella lingua fosse libera nelle forme e nei modi ec. mostra la differenza delle nature de’ tempi anche in Francia ec. E notate che anche Amiot, come pure Montagne, Charron ec. furono nel secolo del 500. epoca della vera formazione delle lingue italiana e spagnuola, e della letteratura di queste nazioni. E ben credo che lo stile d’Amyot formi la disperazione de’ moderni francesi
[1052]che si studino d’imitarlo (v. Andrès, t.3. p.97. nota del Loschi), giacchè la loro lingua ne ha perduta interamente la facoltà, e v. il luogo di Thomas che ho citato altrove.
3. Ho già detto in altri luoghi come la lingua francese vada effettivamente degenerando dagli stessi scrittori classici del tempo di Luigi 14. in proporzione della diversità de’ tempi, naturalmente assai minore di quella che corre fra il tempo presente, e quello della formazione p.e. della lingua italiana, e qual sia il pericolo che corre massimamente l’odierna lingua francese, pericolo veramente non di lei sola, ma di tutte le lingue; e non delle lingue sole, ma delle letterature ugualmente; e non solo di queste, ma degli uomini e delle nazioni e della vita del nostro tempo; cioè il pericolo di divenir matematici di filosofici e ragionevoli che sono stati da qualche tempo fino ad ora, e di naturali che furono anticamente. (14. Maggio 1821.).
Dell’ignoranza del latino presso i greci v. Luciano, Come vada scritta la storia.
Letteratura italiana Einaudi 761
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia (14. Maggio 1821.)
Alla p.988. Citavano ancora non rare volte i latini (come Cicerone nel libro de Senectute) passi anche lunghi di scrittori greci recati da essi in latino. Non così i greci viceversa, se non talvolta (e in tempi assai posteriori anche ai principii della Chiesa greca) qualche passo di Padri o scrittori ecclesiastici latini rivolto in greco; ma ben di rado, massime in proporzione delle molte autorità di padri greci ec. che recavano i latini, [1053]voltandoli nel loro linguaggio. E generalmente l’uso de’ padri ec. latini nella Chiesa e scrittori greci, fu sempre senza paragone minore di quello delle autorità greche nella Chiesa e Scrittori ecclesiastici latini, non ostante la riconosciuta supremazia della Chiesa Romana.
(15. Maggio 1821.)
Considerando per una parte quello che ho detto p.937.
seguenti, intorno alla naturale ristrettezza e povertà delle lingue, e come la natura avesse fortemente provveduto che l’uomo non facesse fuorchè picciolissimi progressi nel linguaggio, e che il linguaggio umano fosse limitato a pochissimi segni per servire alle sole necessità estrinseche e corporali della vita; e per l’altra parte considerando le verissime osservazioni del Soave (Appendice 1. al capo 11. Lib.3. del Saggio di Locke) e del Sulzer (Osservaz.
intorno all’influenza reciproca della ragione sul linguaggio, e del linguaggio sulla ragione, nelle Memorie della R.
Accadem. di Prussia, e nella Scelta di Opusc. interessanti, Milano 1775. vol.4. p.42-102.) intorno alla quasi impossibilità delle cognizioni senza il linguaggio, e proporzionatamente della estensione e perfezione ec. delle cognizioni, senza la perfezione, ricchezza ec. del linguaggio; considerando, dico, tutto ciò, si ottiene una nuova e principalissima prova, di quanto il nostro presente
[1054]stato e le nostre cognizioni sieno direttamente e Letteratura italiana Einaudi 762
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia violentemente contrarie alla natura, e di quanti ostacoli la natura vi avesse posti.
(15. Maggio 1821.)
Come senza una lingua sono quasi impossibili le cognizioni e nozioni, massime non corporee, o immateriali, e senza una lingua ricca e perfetta, la moltitudine e perfezione delle dette cognizioni ed idee, e il perfezionamento o il semplice incremento delle lingue conferisce assolutamente a quello delle idee, conforme ha evidentemente dimostrato, oltre a tanti altri e più antichi da Locke in poi, (Sulzer, l. cit. qui dietro, p.101. nota del Soave) e massime più moderni, il Sulzer nelle Osservazioni citate nella pag. qui dietro; così proporzionatamente senza una lingua (propria) arrendevole, varia, libera ec. è difficilissima la perfetta cognizione, e il perfetto sentimento e gusto dei segni proprii delle altre lingue, mancando o scarseggiando l’istrumento della concezione dei segni, come nell’altro caso sopraddetto, l’istrumento della concezione chiara e fissa, determinata e formata delle cose e delle idee, e della memoria di dette concezioni.
(15. Maggio 1821.)
Non solo la greca parola ux®, come dissi altrove, deriva da spirare ec. ma anche la latina animus e quindi anima da �nemow vento. V. Sulzer, luogo cit. alla pag. qui dietro, p.62. E l’antico significato di vento nella parola anima fu spesso usato da’ latini. (Credo massime i più antichi, o loro imitatori.) V. il Forcellini, e il Saggio sugli Errori popol. degli antichi.
(15. Maggio 1821.)
[1055] Couper dee venire da kñptein.
(16. Maggio 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 763
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Quanto sia vero che la scrittura Chinese si possa quasi perfettamente intendere, senza saper punto la lingua, v.
se vuoi, Soave, Append. 2. al Capo 11. Lib.3. del Compendio di Locke, Venez. 3a ediz. t.2. p.63. principio. (16.
Maggio 1821.).
L’incredulità in qualunque genere è spesso propria di chi poco sa, e poco ha pensato, per lo stesso motivo per cui questi tali non conoscono o si trovano imbrogliati nel trovar la cagione o il modo come possano esser vere tante cose che non possono negare. Conoscendo poche cose conoscono un piccol numero di cagioni, un piccol numero di possibilità, un piccol numero di maniere di essere, o di accadere ec. un piccol numero di verisimiglianze. Chi oltre il sapere e il pensar poco, non ragiona, facilmente crede, perchè non si cura di cercare come quella cosa possa essere. Ma chi, quantunque sapendo e pensando poco, tuttavia ragiona, o si picca di ragionare, non vedendo come una cosa possa essere, e sapendo che quello che non può essere, non è, non la crede; e questo non in sola apparenza, o per orgoglio, affettazione di spirito ec. ma bene spesso in buona coscienza, e naturalmente.
(17. Maggio 1821.)
[1056]Alla p.1038. La lingua latina prima del detto tempo, ebbe anzi alcuni scrittori veramente insigni, e come scrittori di letteratura, e come scrittori di lingua; alcuni eziandio che nel loro genere furono così perfetti che la letteratura romana non ebbe poi nessun altro da vincerli.
Lasciando gli Oratori nominati da Cicerone e principalmente i Gracchi (o C. Gracco), lasciando tanti altri scrittori perduti, come alcuni comici elegantissimi, basterà nominar Plauto e Terenzio che ancora ammiriamo, l’uno non mai superato in seguito da nessun latino nella forza comica, l’altro parimente non mai agguagliato nella più pura e perfetta e nativa eleganza. E certo (se non erro) la Comedia latina dopo Cicerone e al suo stesso tempo, andò Letteratura italiana Einaudi 764
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia piuttosto indietro, di quello che oltrepassasse il grado di perfezione a cui era stata portata da’ suoi antenati. E pure chi mette la perfezione della lingua latina, o la sua formazione ec. piuttosto nel secolo di Terenzio, che in quello di Cicerone e di Virgilio? E Lucrezio un secolo dopo Terenzio, si lagnava, com’è noto, della povertà della lingua latina.
Quanto più dunque dovrà valere il mio argomento per gli scrittori del 300. De’ quali eccetto 3. soli, nessuno appartiene alla letteratura.
Ma non ostante la vastissima letteratura del 500. non però la lingua italiana si potè ancora nè si può dire perfetta. Non basta l’applicazione di una lingua [1057]alla letteratura per perfezionarla, ed interamente formarla.
Bisogna ancora che sia applicata ad una letteratura perfetta, e perfetta non in questo o quel genere, ma in tutti.
Altrimenti ripeto che il secolo principale della lingua latina, non sarà quello di Cicerone, ma di Plauto o di Terenzio, come secolo più antico e primitivo, e meno influito da commercio straniero.
Ora lascerò stare che in quelle medesime parti di letteratura che più soprastanno, e più furono coltivate in Italia; in quelle medesime dove noi primeggiamo su tutti i forestieri, la nostra letteratura è ben lungi ancora dalla perfezione e raffinatezza della greca e latina, che in queste tali parti sono, e furon prese effettivamente a modelli, da’ nostri scrittori: e per conseguenza propriamente parlando, sono ancora imperfette. Ma la nostra eloquenza, e più la nostra filosofia (e nella filosofia trovava povera la lingua latina Lucrezio) non sono solamente imperfette, ma neppure incominciate. Quanti altri generi di letteratura, (prendendo questa parola nel più largo senso), e di poesia come di prosa, o ci mancano affatto, o sono in culla, o sono difettosissimi! Lasciando gl’infiniti altri, la lirica italiana, quella parte in cui l’Italia, a parere del Verri (Pref. al Senof. del Giacomelli), [1058]e della universali-Letteratura italiana Einaudi 765
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tà degl’italiani, è senza emola, eccetto il Petrarca che spetta piuttosto all’elegia, chi può mostrare all’Europa senza vergogna? Gli sforzi del Parini (veri sforzi e stenti, secondo me) mostrano e quanto ci mancasse, e quanto poco si sia guadagnato.
Oltracciò supponendo che i generi coltivati da noi nel 500. o anche nel 300. fossero tutti perfetti, chi non sa che uno stesso genere cambiando forma ed abito, e quasi genio e natura, col cambiamento inevitabile degli uomini e de’ secoli, la perfezione antica non basta ad una lingua nè ad una letteratura, s’ella non ha pure una perfezione moderna in quello stesso genere? Se Lisia fu perfetto oratore al tempo de’ 30. tiranni, Demostene ed Eschine non meno perfetti oratori a’ tempi di Filippo e di Alessandro, appartengono ad una specie del genere oratorio sì diversa da quella di Lisia, che si può dire opposta (isxnòw, e il deinòw); e certo assolutamente parlando, lo vincono di molto in pregio ed in fama. E potremmo recare infiniti esempi di tali rinnuovate e rimodernate perfezioni di uno stesso genere, nelle medesime letterature antiche, e nella stessa italiana dal 300 al 500, e forse anche dentro i limiti dello stesso 500. Ora se la letteratura italiana non ha perfezione [1059]moderna in nessun genere, anzi se l’Italia non ha letteratura che si possa chiamar moderna, se ec.
(ricapitolate il sopraddetto) come dunque la lingua italiana si dovrà stimare perfetta, e così perfetta che non le si possa niente aggiungere di perfezione nè di ricchezza (cosa che non accade a nessuna cosa umana che pur si possa chiamare degnamente perfetta); quando è costantissimo che nessuna lingua si perfeziona se non per mezzo della letteratura? e che la perfezione delle lingue dipende capitalmente dalla letteratura?
(17. Maggio 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 766
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia La scrittura chinese non è veramente lingua scritta, giacchè quello che non ha che fare (si può dir nulla) colle parole, non è lingua, ma un altro genere di segni; come non è lingua la pittura, sebbene esprime e significa le cose, e i pensieri del pittore. Sicchè la letteratura chinese poco o nulla può influir sulla lingua, e quindi la lingua chinese non può fare grandi progressi.
(18. Maggio 1821.)
Non è egli un paradosso che la Religion Cristiana in gran parte sia stata la fonte dell’ateismo, o generalmente, della incredulità religiosa? Eppure io così la penso. L’uo-mo naturalmente non è incredulo, perchè non ragiona molto, e non cura gran fatto delle [1060]cagioni delle cose.
(V. p.1055. ed altro pensiero simile, in altro luogo.) L’uo-mo naturalmente per lo più immagina, concepisce e crede una religione, cosa dimostrata dall’esperienza, nello stesso modo che immagina, concepisce e crede tante illusioni, ed alcune di queste, uniformi in tutti; laddove la religione è immaginata da’ diversi uomini naturali in diversissime forme. La metafisica che va dietro alle ragioni occulte delle cose, che esamina la natura, le nostre immaginazioni, ed idee ec.; lo spirito profondo e filosofico, e ragionatore, sono i fonti della incredulità. Ora queste cose furono massimamente propagate dalla religione Giudaica e Cristiana, che insegnarono ed avvezzarono gli uomini a guardar più alto del campanile, a mirar più giù del pavi-mento, insomma alla riflessione, alla ricerca delle cause occulte, all’esame e spesso alla condanna ed abbandono delle credenze naturali, delle immaginazioni spontanee e malfondate ec. V. p.1065. capoverso 2. E sebben tutte le religioni sono una specie di metafisica, e quindi tutte le religioni un poco formate si possono considerare come cause dell’irreligione, ossia del loro contrario, (mirabile congegnazione del sistema dell’uomo, il quale non sarebbe irreligioso se non fosse stato religioso); contuttociò Letteratura italiana Einaudi 767
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia questa qualità principalmente, come ognun vede, appartiene alla Religione giudaica [1061]e Cristiana.
Ed è veramente curioso il considerare in questa medesima Religione, ed in questo medesimo nostro tempo, le fasi, le epoche, e le gradazioni dello spirito umano, tutte ancor sussistenti, ed accumulate in un medesimo secolo; e quasi una serie di generazioni, delle quali nessuna è peranche estinta, e tutte seguitano a vivere, senza lasciar di produrne delle nuove, che vivono insieme colle primitive. Eccone quasi un albero genealogico.
Letteratura italiana Einaudi 768
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia RELIGIONE MAOMETTANA
RELIGIONE GIUDAICA
conservantesi ancora presso gli Ebrei, che rigettano la modificazione fattane da Gesù Cristo, e si attengono e conservano appresso a poco la sua forma primitiva RELIGION CATTOLICA,
che conserva la forma primitiva della detta modificazione fatta da Gesù Cristo alla Religione Giudaica.
RELIGIONI
LUTERANA,
CALVINISTA,
ed altre sussistenti, e chia-
mate ereticali, che sono
nuove modificazioni della
detta modificazione, oltre le
molte altre già estinte nello
spazio di tempo intermedio
fra questa e quelle, e che si
sono rifuse, o perdute, par-
te nella primitiva Religion
Cristiana, ossia nella
[1062]Cattolica, parte in
qualcuna delle dette
ereticali.
NUOVE MODIFICAZIONI, ALTERAZIONI,
SUDDIVISIONI
Letteratura italiana Einaudi 769
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ancora esistenti, del
Luteranismo, del
Calvinismo, e d’altre simili
sette.
INCREDULITÀ RELIGIOSA
che deriva primitivamente
dalla Religione Giudaica (e
questa ancora esistente), ma
via via per mezzo delle det-
te successive modificazioni
e quasi generazioni di essa
Religione.
(18. Maggio 1821.). v.
p.1065. capoverso 1.
Alla p.1034. Altro è che la letteratura influisca sulla lingua del popolo, la modifichi, la formi, la perfezioni, quando questa lingua è sostanzialmente la stessa che la scritta; altro è che possa cambiare affatto la lingua del popolo, e fargli parlare una lingua sostanzialmente o grandemente diversa da quella che parlava; (quantunque ella possa alterare e corrompere la lingua popolare introducendoci parole e frasi appoco appoco) e ciò in tempi ne’ quali la letteratura ed era debolissima, scarsissima e barbara per se stessa, e non aveva quasi alcuna influenza sulla moltitudine, e i letterati, anzi pure gli studiosi, e sopratutto gli scrittori erano rarissimi e pochissimi.
(18. Maggio 1821.)
Quanto giovi la riflessione alla vita; quanto il sistema di profondità, di ragione, di esame, sia conforme alla natura; quanto sia favorevole, anzi compatibile [1063]coll’azione vediamolo anche da questo. Considerando un poco, troveremo che l’abito di franchezza, disinvoltura, ec. che tanto si raccomanda nella società, che è indispensabile Letteratura italiana Einaudi 770
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia pel maneggio degli affari d’ogni genere, e che costituisce una gran parte dell’abilità degli individui a questo maneggio, non è altro che l’abito di non riflettere. Abito che il giovane alterato dall’educazione, non riesce a ricuperare se non appoco appoco, e spesso mai, specialmente s’egli ha grande ingegno, e di genere profondo e riflessivo (come quello di Goethe, il cui primo abordo dice Mad. di Staël, ch’è sempre un peu roide finch’egli non si mette à son aise. )
Il fanciullo è sempre franco e disinvolto, e perciò pronto ed attissimo all’azione, quanto portano le forze naturali dell’età. Le quali egli adopera in tutta la loro estensione. Se però non è alterato dall’educazione, il che può succedere più presto o più tardi. E tutti notano che la timidità, la diffidenza di se stesso, la vergogna, la difficoltà insomma di operare, è segno di riflessione in un fanciullo. Ecco il bello effetto della riflessione: impedir l’azione; la confidenza; l’uso di se stesso, e delle sue forze; tanta parte di vita. Il giovanetto alterato [1064]dall’educazione è timido, legato, irresoluto, diffidentissimo di se stesso. Bisogna che col frequente e lungo uso del mondo, egli ricuperi quella stessa qualità che aveva già di natura, ed ebbe da fanciullo, cioè l’abito di non riflettere, senza il quale è impossibile la franchezza, e la facoltà di usar di se stesso, secondo tutta la misura del suo valore. E ciò si vede in tutti i casi della vita, e non già nelle sole occasioni che abbisognano di coraggio, e che spettano a pericoli corporali. Ma chi non ha ricuperato fino a un certo punto l’abito di non riflettere, non val nulla nelle conversazioni, non può nulla colle donne, nulla negli affari, e massime in quelle circostanze che portano, dirò così, un certo pericolo, non fisico, ma morale, e che abbisognano di franchezza e disinvoltura, e di una, dirò così, intrepidezza sociale. Qualità impossibile a chi per abito riflette, e non può deporre al bisogno la riflessione, e non può abban-Letteratura italiana Einaudi 771
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia donarsi, e lasciar fare a se stesso, che sono le cose e più ricercate e pregiate, e più necessarie a chi vive nella società, e generalmente in quasi ogni sorta e parte di vita. E
v. gli altri miei pensieri sulla impossibilità delle stesse azioni fisiche senza l’abito di non riflettere, [1065]abito che rispetto a queste azioni, avendolo tutti da natura, pochi lo perdono, ma perduto, rende impossibili le operazioni più materiali, e giornaliere, e naturali.
(19. Maggio 1821.)
Alla p.1062. La Religion Cristiana, quando anche si voglia considerare come parto della ragione umana posta nelle circostanze di quei tempi, di quei luoghi ec. è innegabile che ha vicendevolmente influito assaissimo sopra la stessa ragione, rivoltala al profondo, all’astruso, al metafisico; propagatala forse più di quello che abbia fatto qualunque altro mezzo; e cagionato grandissima e principalissima parte de’ suoi progressi. Ora è manifesto che l’incredulità religiosa deriva dai progressi della ragione, e che quando o l’uomo, o le nazioni non ragiona-vano, credevano, ed erano religiose.
(19. Maggio 1821.)
Alla p.1060. Le religioni sono il principio, e nel tempo stesso la parte principale e più rilevante della metafisica, ed oltracciò la parte la più intensamente metafisica della medesima metafisica; appartenendo alla natura, all’ordine, alle cagioni più remote, più nascoste, e più generali delle cose.
(19. Maggio 1821.)
Dalle mie osservazioni sulla necessaria varietà delle lingue, risulta che non solo le lingue furono naturalmente molte e diverse anche da principio, per le [1066]impressioni che le medesime cose fanno ne’ diversi uomini; le diverse facoltà imitative, o le diverse maniere d’imitazio-Letteratura italiana Einaudi 772
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ne usate da’ primi creatori e inventori della favella; le diverse parti, forme, generi, accidenti di una medesima cosa, presi ad imitare e ad esprimere da’ diversi uomini colla parola significante quella tal cosa; (v. Scelta di Opuscoli interessanti, Milano. Vol.4. p.56-57. e p.44. nota) ma eziandio che introdotta e stabilita una medesima favella, cioè un medesimo sistema di suoni significativi, uniformi e comuni in una medesima società; questa favella ancora, inevitabilmente si diversifica e divide appoco appoco in differenti favelle.
(19. Maggio 1821.)
Lampa, lampo, lampare, lampante, come pure
lampeggio, lampeggiare, lampeggiamento derivano manifestamente dal greco l�mpein ec. co’ suoi derivati ec.
del quale, e de’ quali non resta nel latino scritto altro vestigio (ch’io sappia), fuorchè la voce lampas, gr. lamp�w, ital. lampada, lampade, lampana, co’ suoi derivati, lampada ae, lampadion, lampadias, lampadarius. V. il Forcellini, e il Du Cange.
(20. Maggio 1821.)
Quanta sia la superiorità degl’italiani nell’attitudine a conoscere e gustare la lingua latina, si può argomentare proporzionatamente dalla superiorità riconosciuta in loro, nel bello scriver latino, ossia nella imitazione [1067]degli scrittori latini, quanto alla vera e propria ed ottima lingua latina. E certo chi è superiore nell’imitare, chi è superiore nel maneggiare e adoperare, è necessario che lo sia pure nel conoscere e nel gustare, e quella prima superiorità, suppone questa seconda. Ora di questa superiorità degl’italiani nello scriver latino, dal Petrarca fino a oggidì, v. Andrès t.3. p.247-248. e quivi le note del Loschi, p.89-92. p.99-102. t.4. p.16. e le Epist. del Vannetti al Giorgi.
(20. Maggio 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 773
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Le parole di qualunque genere, (cioè particelle, come re, preposizioni, come ad ec., nomi ec.) che si prepongo-no ai verbi nella composizione, li chiama Varrone, e dietro lui Gellio, praeverbia. V. Forcellini.
(20. Maggio 1821.)
Le cause per cui la lingua greca formata fu liberissima d’indole e di fatto, a differenza della latina, sono 1. Che la sua formazione accadde in tempi antichissimi, o si vogliano considerare quelli di Omero, o quelli di Pindaro, di Erodoto ec. o anche quelli di Platone ec. tempi che sebbene assai colti e civili (dico questi ultimi) anzi il fiore della civiltà greca, nondimeno conservavano ancora assai di natura. A differenza della lingua latina formata in un tempo di piena [1068]adulta e matura, anzi corrotta civiltà, universale nella nazione; negli ultimi tempi di Roma, nella sua decadenza morale, nel tempo ch’era già cominciata la servitù degli animi romani; nell’ultima epoca dell’ antichità.
2. Anche la lingua latina si andò formando appoco appoco, ed ebbe buoni ed insigni scrittori prima del suo secolo d’oro. Ma la lingua greca non ebbe propriamente secolo d’oro. I suoi scrittori antichissimi non furono inferiori ai moderni, nè i moderni agli antichi. Da Omero a Demostene non v’è differenza di autorità o di fama rispetto alla letteratura greca in genere, ed alla lingua. Questo fece che nessun secolo della Grecia (finch’ella fu qualche cosa) dipendesse da un altro secolo passato in fatto di letteratura. Non vi fu secol d’oro, tutti i secoli letterati e non corrotti della Grecia competerono fra loro, e nel fatto e nell’opinione. Quindi la perpetua conservazione, la radicazione profonda della libertà della loro letteratura, e della loro lingua. Dico della libertà sì d’indole che di fatto. Non così è accaduto alla lingua italiana, sebben libera per indole della sua formazione. Ma ella ebbe i suoi Letteratura italiana Einaudi 774
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia secoli d’oro come la latina. Laddove la lingua e letteratura greca, si andò [1069]via via perfezionando e formando e crescendo insensibilmente, e quasi con egual misura in ciascun tempo, così che nessun secolo potè vantarsi di averla formata, come succede all’italiano, al francese ec. e come successe al latino. In maniera che non si stimò mai che i suoi progressi dovessero esser finiti, perchè non s’erano veduti tutti raccolti con soverchio splendore e superiorità in una sola epoca.
3. È già noto che le regole nascono quando manca chi faccia. Ma in Grecia non mancò fino agli ultimi tempi della sua esistenza politica. E sebbene allora nacquero (o almeno si propagarono e crebbero) anche fra’ greci le regole, e le arti gramatiche, ec. ec. nondimeno il lungo uso e consolidamento della sua libertà rispetto alla lingua, impedì che le regole le nuocessero, sebbene non così accadde alla letteratura. Laddove la letteratura latina quasi spirata con Virgilio, e col di lei secolo d’oro, e parimente l’italiana, lasciarono largo e libero campo alle regole, ed a tutti i beatissimi effetti loro. Giacchè sebbene il 500. non mancava di regole (ne mancò però del tutto il 300.), quelle non aveano che fare coll’esattezza e finezza ec. [1070]e servilità delle posteriori, e si possono paragonare (massime in fatto di lingua) a quelle che in fatto di rettorica o di poetica ec. ebbero anche i greci ne’ migliori tempi. Che se i latini n’ebbero di molte e precise, perchè le riceverono dai greci già fatti gramatici e rettorici, questa è pure una delle ragioni della poca libertà della loro lingua formata ec. ec. e resta compresa nella soverchia civiltà di quel tempo, che ho già addotta da principio, come cagione di detta poca libertà.
(20. Maggio 1821.). V. p.743-746. principio.
Quello che ho detto intorno alla novità delle parole cavate dalla propria lingua, si deve anche applicare alla novità de’ sensi e significati d’una parola già usitata, alla Letteratura italiana Einaudi 775
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia novità delle metafore ec. V. Scelta di opuscoli interessanti. Milano. vol.4. p.54.58-61. I quali nuovi e diversi significati d’una stessa parola, non denno però esser tanti che dimostrino povertà, e producano confusione, ed ambi-guità, come nell’Ebraico.
(20. Maggio 1821.)
Alla p.807. marg. Dice Varrone che gli uomini (in sermones non solum latinos, sed omnium hominum necessaria de causa) Imposita nomina esse voluerunt quam paucissima, quo citius ediscere possent, intendendo per nomi imposti, le parole radicali (Varro, De ling. lat. lib.7.) (p.2. del I. libro de Analogia nella ediz. che ho del 400).
[1071]
(21. Maggio 1821.)
Un antichissimo significato della parola inter che ordinariamente è preposizione, e in questo caso sembra essere stata usata avverbialmente, significato non osservato dai Gramatici nè da’ Lessicografi (il Forcellini non ne fa parola alla v. Inter, benchè citi molti gramatici), fu quello di quasi, mezzo, e simili. Del qual significato resta un evidente vestigio nelle parole intermorior, intermortuus, mezzo morto, che anche noi diciamo tramortire, tamortito, e quindi tramortigione, tramortimento. Ora questo antichissimo significato, dimenticato fino dai gramatici latini, e di cui negli scrittori latini non si trova, ch’io sappia, altra ricordanza che la sopraddetta, si conservò alla voce inter, nel latino volgare, sino a passar nella lingua francese, che nello stessissimo senso l’adopra nella composizione di alcuni verbi come entr’ouvrir, entrevoir ec.
Ell’signifie aussi dans la composition de quelques verbes une action diminutive, dice l’Alberti della preposizione entre, che è lo stesso che inter. Nè si creda che questo significato sia rimasto in francese alla detta parola, solamente in alcuni verbi che questa lingua abbia presi dal Letteratura italiana Einaudi 776
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia latino, già così composti e formati, e colla detta significazione. [1072]Giacchè 1. i detti verbi così composti, e col detto senso non si trovano nel latino, se non ci volessimo tirare il verbo interviso, che ha veramente un altro significato da quello di voir imparfaitement ec.
dell’ entrevoir (v. l’Alberti.). Sicchè in ogni modo questi verbi non trovandosi negli scrittori latini, si verrebbero a dimostrar derivati dall’uso latino volgare. 2. La parola entre nel detto senso si trova anche, nella composizione, unita a parole non latine affatto, come in entre-baillé, mezzo chiuso, o socchiuso. Laonde è manifesto che il detto significato passò dall’antichissimo latino al francese, (certo non per altro mezzo che del volgare latino) come propriamente aderente alla parola entre, quantunque nella sola composizione. Si potrebbono anche riferir qua le nostre parole traudire, e travedere, (co’ derivati) che vagliono ingannarsi nell’udire o nel vedere, cioè vedere a mezzo, vedere imperfettamente, come entrevoir, sebbene fissate ad un senso derivativo da questo primo.
(21. Maggio 1821.). V. il Du Cange, se ha nulla al proposito.
Alla p.362. Immaginiamoci un pastore primitivo o selvaggio, privo di favella, o di nomi numerali che volesse, com’è naturale, rassegnare la sera il suo gregge. Non potrebbe assolutamente farlo se non in maniera materialissima; come porre la mattina tutte le pecore in
[1073]fila, e misurato o segnato lo spazio che occupano, riordinarle la sera nello stesso luogo, e così ragguagliarle.
Ovvero, che è più verisimile, raccorre, poniamo caso, tanti sassi quante sono le pecore: il che fatto, non potrebbe mica ragguagliarle esattamente coi sassi mediante veruna idea di quantità. Perchè non potendo contare nè quelle nè questi, molto meno potrebbe formare nessun concetto della relazione scambievole o del ragguaglio di due quantità numeriche determinate: anzi non conoscerebbe Letteratura italiana Einaudi 777
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia quantità numerica determinata. Converrebbe che si servisse di un’altra maniera materialissima, come porre da parte prima una pecora ed un sasso, indi un’altra pecora e un altro sasso, e così di mano sino all’ultima pecora, e sino all’ultimo sasso. V. p.2186. principio.
Certo è che l’invenzione dei nomi numerali fu delle più difficili, e l’una delle ultime invenzioni de’ primi trovatori del linguaggio. L’idea di quantità, non solo assoluta e indeterminata (anzi questa è meno difficile, essendo materiale e sensibile l’idea del più e del meno, e quindi della quantità indeterminata), ma anche determinata, anche relativa a cose materialissime, considerandola bene, è quasi totalmente astratta e metafisica. Quando noi vediamo le cinque dita della mano, ne concepiamo subito il numero,
[1074]perchè l’idea del numero è collegata nella mente nostra mediante l’abito, e l’uso della favella, coll’idea che ci suscita il vedere una quantità d’individui facili a contare, o di cui già sappiamo il numero. E l’idea di contare vien dietro alla detta vista, per la detta ragione. Non così l’uomo privo de’ nomi numerali. Egli vede quelle cinque dita come tante unità, che non hanno fra loro alcuna relazione o attinenza numerica (come in fatti non l’hanno per se stesse), componenti una quantità indefinita (della quale non concepisce se non se un’idea confusa, com’è naturale trattandosi d’indefinito) e non gli si affaccia neppure al pensiero l’idea di poterla determinare, o di contare quelle dita. Meno metafisica è l’idea dell’ordine.
Giacchè (seguitando a servirci dell’esempio della mano) che il pollice, ossia il primo dito, stia nel principio della serie, che l’indice, cioè il secondo dito, venga dopo quello che è nel principio della mano, cioè il pollice, e che il medio cioè il terzo succeda a questo dito, e sia distante dal pollice un dito d’intervallo; sono cose che cadono sotto i sensi, e che destano facilmente l’idea di primo di secondo e di terzo e via discorrendo. Lo stesso potremmo dire di un filare d’alberi ec.
Letteratura italiana Einaudi 778
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Così che io non credo che le denominazioni de’ numeri ordinativi non abbiano preceduto nelle lingue primitive quelle de’ cardinali (contro ciò che pare a prima vista, e che forse è seguito nelle lingue colte ec.); e che in dette lingue [1075]la parola secondo si sia pronunziata prima che la parola due. Perchè la parola secondo esprime un’idea materiale, e derivata da’ sensi, e naturale, cioè quella cosa che sta dopo ciò che è nel principio, laonde la forma di quest’idea sussiste fuori dell’intelletto. Infatti nel latino, posterior vuol dire secundus ordine, loco, tempore (Forcellini), e così propriamente il greco ìsterow: kuriÅtera t� ìstera nomÛzetai kaÜ bebaiñtera tÇn prÅtvn. Plutarco, Convival. Disputat. l.8. (Scapula) quantunque possa venir dopo, o dietro, anche quello che non è secondo. Così pure nell’italiano posteriore ec. Ma la parola due significa un’idea la cui forma non sussiste se non che nel nostro intelletto, quando anche sussistano fuori di esso le cose che compongono questa quantità, colla quale tuttavia non hanno alcuna relazione sensibile, materiale, intrinseca o propria loro, ed estrinseca alla concezione umana. V. l’Encyclopédie méthodique.
Métaphisique. art. nombres, preso, io credo, da Locke.
Quella cosa che è nel principio, ha una ragione propria per esser chiamata prima, e quella che gli sta dopo, per esser chiamata seconda, cioè posteriore: così che questi nomi ordinali sono relativi alle cose. Ma quella non ha ragione propria perchè l’uomo nel contare la chiami uno, e quest’altra due; e questi nomi cardinali non sono relativi alle cose reali, ma alla quantità, che è solamente idea, ed è separata dalle cose, nè sussiste fuori dell’intelletto.
(22. Maggio 1821.). V. p.1101. fine.
Quelli che non sogliono mai far nulla, e che per conseguenza hanno più tempo libero, e da potere impiegare, sono ordinariamente i più difficili a trovare il tempo per una [1076]occupazione, ancorchè di loro premura, a ri-Letteratura italiana Einaudi 779
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia cordarsi di una cosa che bisogni fare, di una commissio-ne che loro sia stata data, e che anche prema loro di eseguire. Al contrario quelli che hanno la giornata piena, e quindi meno tempo libero, e più cose da ricordarsi. La cagione è chiara, cioè l’abito di negligenza nei primi, e di diligenza nei secondi (22. Maggio 1821.). E lo stesso differente effetto si vede anche in una stessa persona, secondo i diversi abiti e metodi temporanei di attività e diligenza, o inattività e negligenza.
Alla p.761. Anzi questa facoltà de’ composti di due o più voci, è proprissima anche oggidì del linguaggio italiano familiare (e credo anzi del linguaggio familiare di tutte le nazioni, massime popolare): e specialmente del toscano lo è stato sempre, e lo è. Il qual dialetto vi ha molta e facilità e grazia; e il discorso ne riceve una elegante e pura novità, ed una singolare efficacia; come tagliacantoni, ammazzasette, pascibietola, (del Passavanti) frustamattoni, perdigiorno, pappalardo e simili voci burlesche o familiari antiche e moderne. Sicchè non si può dire che questa medesima facoltà sia neppur oggi perduta: (giacchè sarebbe ridicolo l’impedire di fare altri composti simili ec.) nè che la nostra lingua non ci abbia attitudine; e neppure che non si possano estendere oltre al burlesco o familiare, giacchè il burlesco o familiare di questi composti deriva non tanto dalla composizione, quanto dalla natura delle voci che li formano. Ma altre voci, purchè fosse fatto con giudizio, e senza eccesso [1077]di lunghezza, nè forzatura delle parti componenti, si potrebbero benissimo comporre allo stesso modo, senza toglier nulla alla gravità, nè indurre nessuna apparenza di buffonesco o di plebeo. E
così fece giudiziosamente il Cesarotti nell’Iliade, e credo anche nell’Ossian. Omero, Dante, e tutti i grandi formano nomi dalle cose. Quintiliano, e tutti i Gramatici l’approva-no: quando calzino appunto, come qui, dove Tiberio schernisce la cinquannaggine, che Gallo voleva, de’ magistrati.
Letteratura italiana Einaudi 780
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Davanzati (Annali di Tacito Lib.2. c.36. postilla 3.) in proposito del verbo incinquare da lui formato per rendere il latino quinquiplicare di Tacito. (23. Maggio 1821.).
Era però già stato usato da Dante.
Il tempo di Luigi decimoquarto e tutto il secolo passato, fu veramente l’epoca della corruzione barbarica delle parti più civili d’Europa, di quella corruzione e barbarie, che succede inevitabilmente alla civiltà, di quella che si vide ne’ Persiani e ne’ Romani, ne’ Sibariti, ne’ Greci ec.
E tuttavia la detta epoca si stimava allora, e per esser fre-schissima, si stima anche oggi, civilissima, e tutt’altro che barbara. Quantunque il tempo [1078]presente, che si stima l’apice della civiltà, differisca non poco dal sopraddetto, e si possa considerare come l’epoca di un risorgimento dalla barbarie. Risorgimento incominciato in Europa dalla rivoluzione francese, risorgimento debole, imperfettissimo, perchè derivato non dalla natura, ma dalla ragione, anzi dalla filosofia, ch’è debolissimo, tristo, falso, non durevole principio di civiltà. Ma pure è una specie di risorgimento; ed osservate che malgrado la insufficienza de’ mezzi per l’una parte, e per l’altra la contrarietà ch’essi hanno colla natura; tuttavia la rivoluzione francese (com’è stato spesso notato), ed il tempo presente hanno ravvicinato gli uomini alla natura, sola fonte di civiltà, hanno messo in moto le passioni grandi e forti, hanno restituito alle nazioni già morte, non dico una vita, ma un certo palpito, una certa lontana apparenza vitale.
Quantunque ciò sia stato mediante la mezza filosofia, strumento di civiltà incerta, insufficiente, debole, e passeggera per natura sua, perchè la mezza filosofia, tende naturalmente a crescere, e divenire perfetta filosofia, ch’è fonte di barbarie. Applicate a questa osservazione le barbare e ridicolissime e mostruose mode (monarchiche e feudali), come guardinfanti, pettinature d’uomini e donne ec. ec.
che regnarono, almeno in Italia, fino agli ultimissimi anni Letteratura italiana Einaudi 781
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia del secolo passato, e furono distrutte in un colpo dalla rivoluzione (V. la lettera di Giordani a Monti §.4.) E vedrete che il secolo presente è l’epoca di un vero risorgimento da una vera barbarie, anche nel gusto; e qui può anche notarsi quel tale raddrizzamento della letteratura in Italia oggidì.
(23. Maggio 1821.). V. p.1084.
Altro esempio e conseguenza dell’odio nazionale presso gli antichi. Ai tempi antichissimi, quando il mondo non era sì popolato, che non si trovasse [1079]facilmente da cambiar sede, le nazioni vinte, non solo perdevano libertà, proprietà ec. ma anche quel suolo che calpestava-no. E se non erano portate schiave; o tutte intere, o quella parte che avanzava alla guerra, alla strage susseguente, e alla schiavitù, se n’andava in esilio. E ciò tanto per volontà loro, non sopportando in nessun modo di obbedire al vincitore, e volendo piuttosto mancar di tutto, e rinunziare ad ogni menoma proprietà passata, che dipendere dallo straniero: parte per forza, giacchè il vincitore occupava le terre e i paesi vinti non solo col governo e colle leggi, non solo colla proprietà o de’ campi o de’ tributi ec. ma interamente e pienamente col venirci ad abitare, colle colonie ec. col mutare insomma nome e natura al paese conquistato, spiantandone affatto la nazione vinta, e trapiantandovi parte della vincitrice. Così accadde alla Frigia, ad Enea ec. o se non vogliamo credere quello che se ne racconta, questo però dimostra qual fosse il costume di que’ tempi.
(23. Maggio 1821.)
Alla p.366. In una macchina vastissima e composta d’infinite parti, per quanto sia bene e studiosamente fabbricata e congegnata, non possono non accadere dei disordini, massime in lungo spazio di tempo; disordini
[1080]che non si possono imputare all’artefice, nè all’ar-Letteratura italiana Einaudi 782
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tifizio; e ch’egli non poteva nè prevedere distintamente nè impedire. V. p.1087. fine. Di questo genere sono quelli che noi chiamiamo inconvenienti accidentali nell’immenso e complicatissimo sistema della natura, e nella sua lunghissima durata. Che sebben questi non ci paiano sempre minimi, bisogna considerarli in proporzione della detta immensità, e complicazione, e della gran durata del tempo.
Per iscusarne da una parte la natura, e dall’altra parte, per conoscere se sieno veramente accidentali e contrari al sistema e non derivati da esso, basta vedere se si oppongono all’andamento prescritto e ordinato primitivamente dalla natura alle cose, e se ella vi ha opposti tutti gli ostacoli compatibili, che spesso possono riuscire insufficienti come nella macchina la meglio immaginata e lavorata. Quando noi dunque nella infelicità dell’uomo troviamo una opposizione diretta col sistema primitivo, e scopriamo che la natura vi aveva opposti infiniti e studiatissimi ostacoli, e che ci è bisognato far somma forza alla natura, all’ordine primitivo ec. e lunghissima serie di secoli per ridurci a questa infelicità; allora essa infelicità per grande, e universale, e durevole, ed anche irrimediabile ch’ella sia, non si può considerare
[1081]come inerente al sistema, nè come naturale. Nè dobbiamo lambiccarci il cervello per metterla in concordia col sistema delle cose (il che è impossibile), nè immaginare un sistema sopra questi inconvenienti, un sistema fondato sopra gli accidenti, un sistema che abbia per base e forma le alterazioni accidentalmente fatteci, un sistema diretto a considerare come necessarie e primitive, delle cose accidentali e contrarie all’ordine primordiale: ma dobbiamo riconoscere formalmente l’opposizione che ha la nostra infelicità col sistema della natura; e la differenza che corre fra esso, fra gli effetti suoi, e gli effetti della sua alterazione e depravazione parziale e accidentale.
Letteratura italiana Einaudi 783
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Lasciando che molti inconvenienti che son tali per alcuni esseri, non lo sono per altri; e molti che lo sono per alcuni sotto un aspetto, non lo sono per li medesimi sotto un altro aspetto ec. ec.
Dimostrando dunque i diversissimi e gagliardissimi ostacoli opposti dalla natura al nostro stato presente, io vengo a dimostrare che questo (e l’infelicità dell’uomo che ne deriva) è accidentale, e indipendente dal sistema della natura, e contrario all’ordine delle cose, e non essenziale ec.
(23. Maggio 1821.). V. p.1082.
[1082]Se fosse veramente utile, anzi necessario alla felicità e perfezione dell’uomo il liberarsi dai pregiudizi naturali (dico i naturali, e non quelli figli di una corrotta ignoranza), perchè mai la natura gli avrebbe tanto radicati nella mente dell’uomo, opposti tanti ostacoli alla loro estirpazione, resa necessaria sì lunga serie di secoli ad estirparli, anzi solamente a indebolirli; resa anche impossibile l’estirpazione assoluta di tutti, anche negli uomini più istruiti, e in quelli stessi che meglio li conoscono; e finalmente ordinato in guisa che anche oggi (lasciando i popoli incolti) in una grandissima, anzi massima parte degli stessi popoli coltissimi, dura grandissima parte di tali pregiudizi che si stimano direttamente contrari al ben essere ed alla perfezione dell’uomo? Anzi perchè mai gli avrebbe solamente posti nella mente dell’uomo da principio?
(24. Maggio 1821.).
Alla p.1081. fine. Per lo contrario, dimostrando come le illusioni ec. ec. ec. sieno state direttamente favorite dalla natura, come risultino dall’ordine delle cose ec. ec. vengo a dimostrare ch’elle appartengono sostanzialmente al sistema naturale, e all’ordine delle cose, e sono essenziali e necessarie alla felicità e perfezione dell’uomo.
Letteratura italiana Einaudi 784
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia (24. Maggio 1821.)
[1083]Alla considerazione della grazia derivante dallo straordinario, spetta in parte il vedere che uno de’ mezzi più frequenti e sicuri di piacere alle donne, è quello di trattarle con dispregio e motteggiarle ec. Il che anche deriva da un certo contrasto ec. che forma il piccante. E
ancora dall’amor proprio messo in movimento, e renduto desideroso dell’amore e della stima di chi ti dispregia, perch’ella ti pare più difficile, e quindi la brami di più ec.
E così accade anche agli uomini verso le donne o ritrose, o motteggianti ec.
(24. Maggio 1821.)
Stante l’antico sistema di odio nazionale, non esistevano, massime ne’ tempi antichissimi, le virtù verso il nemico, e la crudeltà verso il nemico vinto, l’abuso della vittoria ec. erano virtù, cioè forza di amor patrio. Da ciò si vede quanto profondi filosofi e conoscitori della storia dell’uomo, sieno quelli che riprendono Omero d’aver fatto i suoi Eroi troppo spietati e accaniti col nemico vinto.
Egli gli ha fatti grandissimi e virtuosissimi nel senso di quei tempi, dove il nemico della nazione era lo stesso, che oggi è per li Cristiani il Demonio, il peccato ec. Nondimeno Omero che pel suo gran genio ed anima sublime e poetica, concepiva anche in que’ suoi tempi antichissimi la bellezza della misericordia verso il nemico, della generosità verso il vinto ec. considerava però questo bello come figlio della sua immaginazione, e fece che Achille con grandissima difficoltà si piegasse ad usar misericordia a Priamo supplichevole nella sua tenda, e al corpo di Ettore. Difficoltà che a noi pare assurda. (E quindi incidentemente inferite l’autenticità [1084]di quell’Episodio, tanto controverso ec.) Ma a lui, ed a’ suoi tempi pareva nobile, naturale e necessaria. E notate in questo proposito la differenza fra Omero e Virgilio.
Letteratura italiana Einaudi 785
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia (24. Maggio 1821.)
Alla p.1078. Riferite a questo (per altro effimero e debole e falso) risorgimento della civiltà, la mitigazione del dispotismo, e la intolleranza del medesimo più propagata: il perfezionamento di quello che si chiama sentimentale, perfezionamento che data dalla rivoluzione: il risorgimento di certe idee cavalleresche, che come tali si mettevano in pieno ridicolo nel 700, e in parte del 600 (come nei romanzi di Marivaux ec.); al qual proposito è noto che il Mariana attribuisce al Don Chisciotte (che è quanto dire al ridicolo sparso sulle forti e vivaci e dolci illusioni) l’indebolimento del valore (e quindi della vita nazionale, e gli orribili progressi del dispotismo) fra gli spagnuoli. Ho detto il Mariana, e così mi pare. Trovo però lo stesso pensiero nel P. d’Orléans Rivoluz. di Spagna lib.9. Ma il Mariana mi par citato a questo proposito dalla march. Lambert, Réflex. nouvelles sur les femmes.
e così di tante altre opinioni e pregiudizi sociali, ma nobili, dolci e felici ec. che ora non si ardisce di porre in ridicolo, com’era moda in quei tempi: un certo maggiore rispetto alla religione de’ nostri avi ec. ec. Cose tutte che dimostrano un certo ravvicinamento del mondo alla natura, ed alle opinioni e sentimenti naturali, ed alcuni passi fatti indietro, sebbene languidamente, e per miseri e non vitali, anzi mortiferi principii, cioè il progresso della ragione, della filosofia, de’ lumi.
(24. Maggio 1821.)
Una delle prove evidenti e giornaliere che il bello non sia assoluto, ma relativo, è l’essere da tutti riconosciuto che la bellezza non si può dimostrare [1085]a chi non la vede o sente da se: e che nel giudicare della bellezza differiscono non solo i tempi da’ tempi, e le nazioni dalle nazioni, ma gli stessi contemporanei e concittadini, gli stessi compagni differiscono sovente da’ compagni, giu-Letteratura italiana Einaudi 786
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia dicando bello quello che a’ compagni par brutto, e viceversa. E convenendo tutti che non si può convincere alcuno in materia di bellezza, vengono in somma a convenire che nessuno de’ due che discordano nell’opinione, può pretendere di aver più ragione dell’altro, quando anche dall’una parte stieno cento o mille, e dall’altra un solo. Tutto ciò avviene sì nelle cose che cadono sotto i sensi, e queste o naturali, o, massimamente, artificiali, sì nella letteratura ec. ec. V. a questo proposito il P. Cesari, Discorso ai lettori premesso al libro De ratione regendae provinciae, Epistola M. T. Cic. ad Q. Fratrem, cum adnott.
et italica interpretat. Jacobi Facciolati; accedit nupera eiusdem interpretatio A. C. . Verona, Ramanzini. Ovvero lo Spettatore di Milano, Quaderno 75. p.177. dove è riportato il passo di detto discorso che fa al mio proposito.
(25. Maggio 1821.)
Parecchi filosofi hanno acquistato l’abito [1086]di guardare come dall’alto il mondo, e le cose altrui, ma pochissimi quello di guardare effettivamente e perpetuamente dall’alto le cose proprie. Nel che si può dire che sia riposta la sommità pratica, e l’ultimo frutto della sapienza.
(25. Maggio 1821.)
Della difficilissima invenzione di una lingua che avesse pure qualche forma sufficiente al discorso, e come questa debbe essere stata opera quasi interamente del caso, v. le Osservazioni ec. del Sulzer nella Scelta di Opusc. interessanti. Milano. 1775. Vol.4. p.90-100.
(25. Maggio 1821.)
Siccome la perfezione gramaticale di una lingua dipende dalla ragione e dal GENIO (la lingua francese è perfetta dalla parte della ragione, ma non da quella del genio), così ella può servire di scala per misurare il grado della ragione e del GENIO ne’ vari popoli. (Con questa scala il Letteratura italiana Einaudi 787
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia genio francese sarà trovato così scarso e in così basso grado, come in alto grado la ragione di quel popolo.) Se per esempio non avessimo altri monumenti che attestassero il GENIO FELICE de’ Greci, la loro lingua pur basterebbe.
(Lo stesso potremo dire degl’italiani avuto riguardo alla proporzione de’ tempi moderni, che [1087]non sono quelli del genio, coi tempi antichi.) Quando una lingua, generalmente parlando, (cioè non di una o più frasi, di questa o quella finezza in particolare, ma di tutte in grosso) è insufficiente a rendere in una traduzione le finezze di un’altra lingua, egli è una prova sicura che il popolo per cui si traduce ha lo spirito men coltivato che l’altro. (Che diremo dunque dello spirito de’ francesi dalla parte del genio? La cui lingua è insufficiente a rendere le finezze non di una sola, ma di tutte le altre lingue? Che la Francia non abbia avuto mai, v. p.1091. nè sia disposta per sua natura ad avere geni veri ed onnipotenti, e grandemente sovrastanti al resto degli uomini, non è cosa dubbia per me, e lo viene a confessare implicitamente il Raynal. Dico geni sviluppati, perchè nascerne potrà certo anche in Francia, ma svilupparsi non già, stante le circostanze sociali di quella nazione.) Sulzer ec. l. cit. qui dietro. p.97.
(25. Maggio 1821.)
Alla p.1080. marg. Lo stesso diremo delle costituzioni, de’ regolamenti, delle legislazioni, de’ governi, degli statuti (o pubblici o particolari di qualche corpo o società ec.); i quali per ottimamente e minutamente formati che possano essere, e dagli uomini i più esperti e previdenti, non può mai fare che nella pratica non soggiacciano a più o meno inconvenienti; [1088]che non s’incontrino dei casi dalle dette legislazioni ec. non preveduti, o non provveduti, o non potuti prevedere o provvedere; e che anche supposto che il tutto fosse provveduto, e prevedu-to tutto il possibile, la pratica non corrisponda perfettamente all’intenzione, allo spirito e alla stessa disposizio-Letteratura italiana Einaudi 788
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ne dei detti stabilimenti. Insomma non v’è ordine nè disposizione nè sistema al mondo, così perfetto, che nella sua pratica non accadano molti inconvenienti, e disordini, cioè contrarietà con esso ordine. Ed uno degli errori più facili e comuni, e al tempo stesso principali, è di credere che le cose, come vanno, così debbano andare, e così sieno ordinate perchè così vanno; e dedurre interamente l’idea di quel tal ordine o sistema, da quanto spetta ed apparisce nel suo uso, andamento, esecuzione ec.
Nella quale non possono mancare moltissimi accidenti e sconvenienze, non per questo imputabili al sistema. Accidenti e sconvenienze che sono molto maggiori, e più gravi e sostanziali, e più numerose nei sistemi, ordini, macchine ec. che son opera dell’uomo (per ottima che possa essere), artefice tanto inferiore alla natura e per arte e per potenza. Maggiori però e più numerosi proporzionatamente, cioè rispetto alla piccolezza e poca importanza, [1089]durata ec. di detti sistemi umani, paragonati colla immensità ec. del sistema della natura. Nel quale, assolutamente parlando, possono occorrere e occorrono inconvenienti accidentali molto maggiori e numerosi che in qualunque sistema umano, sebbene assai minori relativamente.
(26. Maggio 1821.)
A quello che ho detto altrove della ragionevolezza, anzi necessità di un sistema a chiunque pensi, e consideri le cose; si può aggiungere, che infatti poi le cose hanno certo un sistema, sono ordinate secondo un sistema, un disegno, un piano. Sia che si voglia supporre tutta la natura ordinata secondo un sistema, tutto legato ed armonico, e corrispondente in ciascuna sua parte; ovvero divisa in tanti particolari sistemi, indipendenti l’uno dall’altro, ma però ben armonici e collegati e corrispondenti nelle loro parti rispettive; certo è che l’idea del sistema, cioè di armonia, di convenienza, di corrispondenza, di relazioni, di rap-Letteratura italiana Einaudi 789
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia porti, è idea reale, ed ha il suo fondamento, e il suo soggetto nella sostanza, e in ciò ch’esiste. Così che gli specu-latori della natura, e delle cose, se vogliono arrivare al vero, bisogna che trovino sistemi, giacchè le cose e la natura sono infatti sistemate, e ordinate armonicamente.
Potranno errare, prendendo per sistema reale e naturale, un sistema immaginario, o anche [1090]arbitrario, ma non già nel cercare un sistema. Sarà falso quel tal sistema, non però l’idea ch’esso include, che la natura e le cose sieno regolate e ordinate in sistema. Chi sbandisce affatto l’idea del sistema, si oppone all’evidenza del modo di esistere delle cose. Chi dispera di trovare il sistema o i sistemi veri della natura, e però si contenta di considerare le cose staccatamente (se pur v’ha nessun pensatore che, non dico si contenga, ma si possa contenere in questo modo), sarà compatibile, ed anche lodevole. Ma oltre ch’egli ponendo per base la disperazione di conoscere il vero sistema, ha posto per base la disperazione di conoscere la somma della natura, e il più rilevante delle cose, si ponga mente al pensiero seguente, che farà vedere un altro capitalissimo inconveniente del rinunziare alla ricerca del sistema naturale e vero delle cose.
(26. Maggio 1821.)
Non si conoscono mai perfettamente le ragioni, nè tutte le ragioni di nessuna verità, anzi nessuna verità si conosce mai perfettamente, se non si conoscono perfettamente tutti i rapporti che ha essa verità colle altre. E siccome tutte le verità e tutte le cose esistenti, sono legate fra loro assai più strettamente ed intimamente ed essenzialmente, di quello che creda o possa credere [1091]e concepire il comune degli stessi filosofi; così possiamo dire che non si può conoscere perfettamente nessuna verità, per piccola, isolata, particolare che paia, se non si conoscono perfettamente tutti i suoi rapporti con tutte le verità sussistenti. Che è come dire, che nessuna (ancorchè Letteratura italiana Einaudi 790
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia menoma, ancorchè evidentissima e chiarissima e facilissima) verità, è stata mai nè sarà mai perfettamente ed interamente e da ogni parte conosciuta.
(26. Maggio 1821.)
Così, senza la condizione detta qui sopra, non si conoscono mai, nè tutte le premesse che conducono a una conseguenza, cioè alla cognizione di una tal verità, nè tutta la relazione e connessione, o tutte le relazioni e connes-sioni che hanno le premesse anche conosciute, colla detta conseguenza.
(26. Maggio 1821.)
Alla p.1087. Eccetto alcuni ben pochi, come Descartes, Pascal ec. ed altri tali, nessuno de’ quali appartiene propriamente alla provincia del genio, anzi a quelle cose che lo distruggono, cioè alle scienze, ed al vero, tanto più nemico del genio, quanto più profondo e riposto, benchè non iscavato nè scoperto, se non dal genio.
(26. Maggio 1821.)
[1092]Alla p.894. marg. Riferite pure agli stessi principii il danno, le stragi, la miseria, l’impotenza p.e. dell’Italia ne’ bassi tempi, di quell’Italia ch’era per altro animata di sì vivo, sì attivo, e spesso sì eroico amor di patria. Ma di patria oscura, debole, piccola, cioè le repubblichette, e le città, e le terre nelle quali era divisa allora la nazione, formando tante nazioni, tutte, com’è naturale, nemiche scambievoli. Dal che nasceva l’oscurità, la debolezza, la piccolezza delle virtù patrie, e il poco splendore dello stesso eroismo esistente. Riferite agli stessi principii, cioè alla soverchia divisione e piccolezza, e alla conseguente moltiplicità delle nimicizie, il famosissimo danno, e l’estrema miseria del sistema feudale. Riferitevi parimente il danno riconosciuto da tutti i savi oggidì nel soverchio amore delle patrie private, cioè delle città, ovvero anche Letteratura italiana Einaudi 791
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia delle provincie natali. Danno pur troppo ed evidente e gravissimo oggi in Italia, per naturale conseguenza della sua divisione non solo statistica o territoriale, (come ogni regno ec.) ma politica. Ed è osservabile che l’amor patrio (intendo delle patrie private) regna oggi in Italia tanto più fortemente e radicatamente, quanto è maggiore o l’ignoranza, o il poco commercio, o la piccolezza di ciascuna città, o terra, o provincia (come la Toscana); insomma in proporzione [1093]del rispettivo grado di civiltà e di coltura. E in alcune delle più piccole città d’Italia l’amor patrio, e l’odio de’ forestieri è veramente acca-nito. E così proporzionatamente in Toscana, paese pur troppo rimaso indietro nella coltura artificiale, non si sa come. E lo stesso dico degl’individui più ignoranti ec.
(26. Maggio 1821.)
La letteratura di una nazione, la quale ne forma la lingua, e le dà la sua impronta, e le comunica il suo genio, corrompendosi, corrompe conseguentemente anche la lingua, che le va sempre a fianco e a seconda. E la corruzione della letteratura non è mai scompagnata dalla corruzione della lingua, influendo vicendevolmente anche questa sulla corruzione di quella, come senza fallo, anche lo spirito della lingua contribuisce a determinare e formare lo spirito della letteratura. Così è accaduto alla lingua latina, così all’italiana nel 400, nel 600, e negli ultimi tempi, così pure nel 600, e negli ultimi tempi alla spagnuola: tutte corrotte al corrompersi della rispettiva letteratura. Eppure la lingua greca, con esempio forse unico, corrotta, anzi, dirò, imputridita la letteratura, si mantenne incorrotta [1094]più secoli, e molto altro spazio poco alterata, come si può vedere in Libanio, in Imerio, in S. Gregorio Nazianzeno, e altri tali sofisti più antichi o più moderni di questi, che sono corrottissimi nel gusto, e non corrotti o leggermente corrotti nella lingua. Tanta era per una parte la libertà, la pieghevolezza, e dirò così Letteratura italiana Einaudi 792
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia la capacità della lingua greca formata, che poteva anche essere applicata a pessimi stili, senza allontanarsi dall’indole della sua formazione, e senza perdere le sue forme proprie, e il suo naturale; ed essere adoperata da una letteratura guasta senza guastarsi essa stessa, adattandosi tanto al buono come al cattivo, e ricevendo nella immensa capacità delle sue forme, e nella sua varietà, copia e ricchezza, sì l’uno come l’altro. Simile in ciò all’italiana, dove si può scrivere purissimamente cose di pessimo gusto, ed usare un pessimo stile, in ottima o non corrotta lingua, come ho detto altrove. Dal che nasce la difficoltà di scriver bene in italiano, a differenza del francese, che avendo una sola lingua, ha anche un solo stile, e chiunque scrive in francese, non può non iscrivere in istile appresso a poco, buono. E però non dobbiamo farci maraviglia di quello che dicono, che tutti i francesi più o meno scrivono bene.
[1095]Tanta per l’altra parte (ritornando al proposito) era l’alienazione della letteratura greca da ogni cosa straniera. Giacchè anche la corruzione della lingua italiana che accadde nel 400. e poi nel 500. siccom’era corruzione italiana, non mutò le forme sostanziali, e il genio proprio della lingua; com’è accaduto per lo contrario in questi ultimi tempi, dove la corruzione è derivata da influsso straniero.
E se vogliamo vedere l’influenza straniera sulla lingua greca, e come subito la corruppe, per incorruttibile che paia, come abbiamo dimostrato; sebbene è difficile trovar cosa straniera in detta letteratura, consideriamo l’unico (si può dir) libro straniero che introdotto in Grecia (o ne’
paesi greci) abbia influito sopra i suoi scrittori, e che sia stato ai greci oggetto di studio. Lasciamo l’influenza del latino nel greco dopo Costantino, influenza che tardò molto a propagarsi e a guastare definitamente la lingua, perchè si esercitò piuttosto sul parlato che sullo scritto, e Letteratura italiana Einaudi 793
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia dal parlato arrivò solo dentro lungo spazio, alla letteratura. Io voglio parlare della Bibbia. Esaminiamo i padri greci da’ primi fino agli ultimi, e vi troveremo immediatamente una visibilissima e sostanziale corruzione di lingua e di stile, derivata dagli ebraismi, dall’uso dello stile profetico, salmistico, apostolico, dalla brutta e barbara [1096]e spesso continua imitazione della scrittura, dal misticismo della Religion Cristiana. Corruttela che è comune anche agli scrittori cristiani che non avevano punto che fare colla Palestina, o con altri paesi, dove la lingua greca volgare fosse guasta da mescolanza di ebraico, o d’altro dialetto propagato fra’ giudei ec.; non erano giudei di stirpe, ec.
ec. Ma erano stranieri di setta, e quindi anche barbari di gusto. Lascio la traduzione dei Settanta, e il Nuovo Testamento. Le stesse cause di corruzione influirono pure sulla lingua e sullo stile de’ padri latini. Ma da queste, com’è naturale, si preservarono gli scrittori profani contemporanei, sì greci che latini, e non pochi degli stessi scrittori cristiani, o trattando materie profane, o anche più volte nelle stesse materie ecclesiastiche, secondo la coltura, gli studi e l’eleganza degli scrittori.
(27. Maggio 1821.)
Non si stimino esagerazioni le lodi ch’io fo dello stato antico, e delle antiche repubbliche. So bene ancor io, com’erano soggette a molte calamità, molti dolori, molti mali. Inconvenienti inevitabili nello stesso sistema magistrale della natura; quanto più negli ordini che finalmente sono, più o meno, opera umana! Ma il mio argomento consiste nella proporzione e nel paragone della felicità, o se vogliamo, [1097]infelicità degli uomini antichi, con quella de’ moderni, nel bilancio e nell’analisi della massa de’ beni e de’ mali presso gli uni e presso gli altri. Converrò che l’uomo, specialmente uscito dei limiti della natura primitiva, non sia stato mai capace di piena felicità, sia anche stato sempre infelice. Ma l’opinione comune e quel-Letteratura italiana Einaudi 794
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia la della indefinita perfettibilità dell’uomo, e che quindi egli sia tanto più felice o meno infelice, quanto più s’allontana dalla natura; per conseguenza, che l’infelicità moderna sia minore dell’antica. Io dimostro che l’uomo essendo perfetto in natura, quanto più s’allontana da lei, più cresce l’infelicità sua: dimostro che la perfettibilità dello stato sociale è definitissima, e benchè nessuno stato sociale possa farci felici, tanto più ci fa miseri, quanto più colla pretesa sua perfezione ci allontana dalla natura; dimostro che l’antico stato sociale aveva toccato i limiti della sua perfettibilità, limiti tanto poco distanti dalla natura, quanto è compatibile coll’essenza di stato sociale, e coll’alterazione inevitabile che l’uomo ne riceve da quello ch’era primitivamente: dimostro infine con prove teoriche, e con prove storiche e di fatto, [1098]che l’antico stato sociale, stimato dagli altri imperfettissimo, e da me perfetto, era meno infelice del moderno.
(27. Maggio 1821.)
Altra prova che il bello è sempre relativo. Dice il Monti (Proposta ec. vol.1. par.2. p.8. fine) che l’orecchio è unico e superbissimo giudice della bellezza esterna delle parole. Ora per quest’orecchio, parlando di parole italiane, non possiamo intendere se non l’orecchio italiano, e il giudizio di detta bellezza esterna, varia secondo le nazioni, e le lingue.
(28. Maggio 1821.)
La formazione intera e principale della lingua latina, accade in un tempo similissimo (serbata la proporzione de’ tempi) a quello della francese, cioè nel secolo più civile ed artifiziato di Roma, e (dentro i limiti della civiltà) più corrotto: dico nel secolo tra Cicerone e Ovidio. Ecco la cagione per cui la lingua latina, come la francese, perdè nella formazione la sua libertà, ed ecco la cagione di tutti Letteratura italiana Einaudi 795
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia gli effetti di questa mancanza, simili nelle dette due lingue ec.
(28. Maggio 1821.)
Odio gli arcaismi, e quelle parole antiche, ancorchè chiarissime, ancorchè espressivissime, bellissime,
[1099]utilissime, riescono sempre affettate, ricercate, sten-tate, massime nella prosa. Ma i nostri scrittori antichi, ed antichissimi, abbondano di parole e modi oggi disusati, che oltre all’essere di significato apertissimo a chicchessia, cadono così naturalmente, mollemente, facilmente nel discorso, sono così lontani da ogni senso di affettazione o di studio ad usarli, e in somma così freschi, (e al tempo stesso bellissimi ec.) che il lettore il quale non sa da che parte vengano, non si può accorgere che sieno antichi, ma deve stimarli modernissimi e di zecca. Parole e modi, dove l’antichità si può conoscere, ma per nessun conto sentire. E laddove quegli altri si possono paragonare alle cose stantivite, rancidite, ammuffite col tempo; questi rassomigliano a quelle frutta che intonacate di cera si conservano per mangiarle fuor di stagione, e allora si cavano dall’intonacatura vivide e fresche e belle e colorite, come si cogliessero dalla pianta. E sebbene dismessi e ciò da lunghissimo tempo, o nello scrivere, o nel parlare, o in ambedue, non paiono dimenticati, ma come riposti in disparte, e custoditi, per poi ripigliarli.
(28. Maggio 1821.)
[1100]L’uomo non si può muovere neanche alla virtù, se non per solo e puro amor proprio, modificato in diverse guise. Ma oggi quasi nessuna modificazione dell’amor proprio può condurre alla virtù. E così l’uomo non può esser virtuoso per natura. Ecco come l’egoismo universale, rendendo per ogni parte inutile anzi dannoso ogni genere di virtù all’individuo, e la mancanza delle illusioni e di cose che le destino, le mantengano, le realizzino, pro-Letteratura italiana Einaudi 796
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ducono inevitabilmente l’egoismo individuale, anche nell’uomo per indole più fortemente e veramente e vivamente virtuoso. Perchè l’uomo non può assolutamente scegliere quello che si oppone evidentemente e per ogni parte all’amor proprio suo. E perciò gli resta solo l’egoismo, cioè la più brutta modificazione dell’amor proprio, e la più esclusiva d’ogni genere di virtù.
(28. Maggio 1821.)
Chiamano moderne le massime liberali, e si
scandalezzano, e ridono che il mondo creda di essere oggi solo arrivato al vero. Ma elle sono antiche quanto Adamo, e di più hanno sempre durato e dominato, più o meno, e sotto differenti aspetti sino a circa un secolo e mezzo fa, epoca vera e sola della perfezione del dispotismo, consistente in gran parte in una certa moderazione che lo rende universale, [1101]intero, e durevole. Dunque tutta l’antichità delle massime dispotiche, cioè del loro vero ed universale dominio nei popoli (generalmente e non individualmente parlando), non rimonta più in là della metà del seicento. Ed ecco come quel tempo che corse da quest’epoca sino alla rivoluzione, fu veramente il tempo più barbaro dell’Europa civile, dalla restaurazione della civiltà in poi. Barbarie dove inevitabilmente vanno a cadere i tempi civili: barbarie che prende diversi aspetti, secondo la natura di quella civiltà da cui deriva, e a cui sottentra, e secondo la natura de’ tempi e delle nazioni.
Per esempio la barbarie di Roma sottentrata alla sua civiltà e libertà, fu più feroce e più viva: quella dei Persiani fu simile nella mollezza e nella inazione e torpore, alla nostra. Ed ecco come il tempo presente si può considerare come epoca di un nuovo (benchè debole) risorgimento della civiltà. E così le massime liberali si potranno chiamare risorte (almeno la loro universalità e dominio); ma non mica inventate nè moderne. Anzi elle sono essenzialmente e caratteristicamente antiche, ed è forse l’unica Letteratura italiana Einaudi 797
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia parte in cui l’età presente somiglia all’antichità. Puoi vedere in tal proposito la lettera di Giordani a Monti nella Proposta ec. vol.1. part.2. alla voce Effemeride, dove Giordani discorre delle barbarie antiche rinnovate oggi.
(28. Maggio 1821.)
Alla p.1075. Da queste osservazioni risulta che l’uomo senza favella è altresì incapace di concepire definitamente e chiaramente una quantità misurata [1102]in questo modo: p.e. una lunghezza di cento passi. Giacch’egli non può concepire questo numero definito di cento passi. Così discorrete di tutte le altre cose o idee (e sono infinite) che l’uomo concepisce chiaramente mediante l’idea de’ numeri. E da ciò solo potrete argomentare l’immensa necessità ed influenza del linguaggio, e di un linguaggio distinto e preciso ne’ segni, sulle idee e le cognizioni dell’uomo.
(28. Maggio 1821.). V. p.1394. capoverso 1.
Dal pensiero precedente e dagli altri miei sulla influenza somma del linguaggio nella ragione e nelle cognizioni, deducete che una delle cause principalissime e generalis-sime, e contuttociò puramente fisiche, della inferiorità delle bestie rispetto all’uomo, e della immutabilità del loro stato, è la mancanza degli organi necessari ad un linguaggio perfetto, o ad un sistema perfetto di segni di qualunque genere. E mancando degli organi mancano anche della inclinazione naturale ad esprimersi per via di segni, e nominatamente per via della voce, e de’ suoni. Inclinazione materiale e innata nell’uomo, e che tuttavia fu la prima origine del linguaggio. Essendo certo per esperienza che l’uomo, ancorchè privo di linguaggio, tende ad esprimersi con suoni inarticolati ec.
(28. Maggio 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 798
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia
[1103]La poca memoria de’ bambini e de’ fanciulli, che si conosce anche dalla dimenticanza in cui tutti siamo de’
primi avvenimenti della nostra vita, e giù giù proporzionatamente e gradatamente, non potrebbe attribuirsi (almeno in gran parte) alla mancanza di linguaggio ne’ bambini, e alla imperfezione e scarsezza di esso ne’ fanciulli?
Essendo certo che la memoria dell’uomo è impotentissima (come il pensiero e l’intelletto) senza l’aiuto de’ segni che fissino le sue idee, e reminiscenze. (V. Sulzer ec. nella Scelta di Opusc. interessanti. Milano 1775. p.65. fine, e segg.) Ed osservate che questa poca memoria non può derivare da debolezza di organi, mentre tutti sanno che l’uomo si ricorda perpetuamente, e più vivamente che mai, delle impressioni della infanzia, ancorchè abbia perduto la memoria per le cose vicinissime e presenti. E le più antiche reminiscenze sono in noi le più vive e durevoli. Ma elle cominciano giusto da quel punto dove il fanciullo ha già acquistato un linguaggio sufficiente, ovvero da quelle prime idee, che noi concepimmo unitamente ai loro segni, e che noi potemmo fissare colle parole. Come la prima mia ricordanza è di alcune pere moscadelle che io vedeva, e sentiva nominare al tempo stesso.
(28. Maggio 1821.)
[1104]Il verbo spagnuolo traher o traer che è manifestamente il trahere latino, si adopra alcune volte in significati somigliantissimi a quelli del latino tractare, e de’ suoi composti attrectare, contrectare ec. Come traer con la mano, traer entre las manos e simili. Significati ed usi che non hanno niente che fare coi significati o usi noti del latino trahere, nè con quelli dell’italiano trarre o tirare (ch’è tutt’uno), nè del francese tirer. Traher vale alle volte dimenare e muovere dice il Franciosini in traher. Ora per dimenare appunto o in senso simile si adopra spesso il verbo tractare, o l’italiano trattare, come in Dante ec. V.
la Crusca in Trattare e specialmente §.5. Ora io penso Letteratura italiana Einaudi 799
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia che questi significati gli avesse antichissimamente il verbo trahere, perduti poi nell’uso dello scrivere, e conservati però nel volgare, sino a passare ad una lingua vivente, figlia d’esso volgare. Ecco com’io la discorro.
Io dico che il verbo tractare al quale sono effettivamente rimasti i detti significati, deriva da trahere, e per conseguenza gli aveva da principio ancor questo verbo; e ne deriva così. I latini dal participio in tus (o dal supino) di molti e molti verbi, soleano, troncando la desinenza in us, e ponendo quella in are (o in ari se deponente) formare un nuovo verbo, che avea forza di esprimere una continuazione, una maggior durata di quell’azione ch’era espressa dal verbo primitivo. E in questo modo io dico che tractare deriva da tractus, participio di trahere, e significando fra le altre cose manu [1105] versare, significa (almeno nell’uso suo primitivo) un’azione più continuata di quella che significava, secondo me, il verbo trahere preso in questo medesimo senso. Veniamo alle prove.
Prima di tutto, che tractare venga da trahere è indubitato, perchè, massime ne’ più antichi scrittori, quel verbo ha la significazione nota di trahere, cioè trarre, tirare, strascinare.
Così anche quella di distrahere, dilaniare. (V. il Forcellini.) Dunque derivando da trahere, ed avendo le sue significazioni note, io dico che quelle altre che ha, e che non paiono appartenere al verbo trahere, furono significazioni primitive, ed oggi ignote, di questo verbo.
Colla differenza che tractare propriamente significa sempre un’azione più continuata di quelle significate da trahere, come si può, volendo, osservare anche nei detti significati ch’esso ebbe di tirare ec.
In secondo luogo che i latini avessero questo costume di formare nuovi verbi dai participi in tus di altri verbi primitivi, e questi nuovi verbi significassero la medesima azione che i primitivi, ma più continuata e durevole, lo farò chiaro con esempi.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Da adspicere (verbo composto), participio,
[1106] adspectus, i latini fecero adspectare. Ognuno può sentire la maggior durata dell’azione espressa da adspectare rispetto a quella di adspicere.
Cunctaeque profundum
Pontum adspectabant flentes.
dice Virgilio (Aen. 5-614. seq.) delle donne Troiane solitarie sul lido Siciliano. Non avrebbe già in questo senso potuto dire adspiciebant. Così dal semplice di adspicere (cioè specere o spicere, verbo antico), participio spectus, fecero spectare. Azione evidentemente continuatissima perchè spectantur quelle cose che domandano lungo tempo ad essere o vedute o esaminate, come gli spettacoli ec., che non videntur, nè adspiciuntur (propriamente), ma spectantur (e notate che adspicere, e specere o spicere negli antichi, significano azione più lunga di intueri ec. ma adspectare e spectare anche più lunga di loro; e così respectare dal quale abbiamo rispettare che non è atto, ma abito, o azione abituale ec. e così gli altri composti di spectare). V. p.2275. ed Aen. 6.186. adspectans, e osserva-ne la forza, e nota che poteva egualmente dire adspiciens.
Così dico dei derivati e composti di spectare, come appunto spectaculum, come exspectare azione continuata per sua natura, e che deriva da spectare, ed esprime quasi il guardare lungamente e da lontano, che fa talvolta quegli che aspetta, nello stessissimo modo che lo spagnuolo aguardar, aspettare. (V. se vuoi la p.1388. fine.) Da raptus participio di rapere viene raptare cioè strascinare, azione come ognuno vede, ben più continuata e lunga di rapere.
Così da captus participio di capere, si fa [1107] captare, che non importa continuazione di capere o prendere, perchè l’azione del prendere non si può continuare, ma vale cercar di prendere, cioè in somma cercare, accattare e Letteratura italiana Einaudi 801
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia simili; azione continuata. V. il Forcellini. E da acceptus di accipere, acceptare, il cui significato continuativo si può vedere nel secondo e 3° esempio del Forcellini, che significano, non il semplice ricevere, ma il costume continuato di ricevere, e dico continuato, e ben diverso dal frequente. V. p.1148. V. Exceptare in Virg. Georg. 3.274. e p.2348.
Da saltus antico participio di salire9 (o dal supino saltum ch’è tutt’uno) viene saltare. E qui la forza (dirò così) continuativa di questa formazione di verbi, è manifestissima.
Perchè salire propriamente vale saltum edere, e saltare, vale ballare ch’è una continuazione del salire, una serie di salti.
Così da cantus antico participio di canere, abbiamo cantare, verbo che significava primitivamente un’azione ben più continuata che il canere.
Da adventus antico participio di advenire procede adventare, che significa l’azione continuata di avvicinarsi, o stare per arrivare, laddove advenire significa l’atto del giungere o del sopravvenire.
[1108]Del verbo tentare dice il Forcellini che deriva a sup. TENTUM verbi TENEO. Est enim (notate) diu et multum tenere ac tractare, ut solent quippiam exploraturi.
V. p.2344. e p.1992. principio.
Così rictare da rictus di ringi, dictare da dictus participio del verbo dicere, e ductare da ductus del verbo ducere, e nuptare da nuptus di nubere, e flexare del vecchio Catone da flexus ec. adfectare da adfectus participio di adficere, e adflictare da adflictus di adfligere; e volutare da volutus di volvere; e consultare da consultus di consulere; commentari e commentare da commentus di comminisci e comminiscere; natare dall’antico natus o natum di nare; e reptare (di cui v. se vuoi, Forcellini) da reptus o reptum di repere; e offensare da offensus di offendere; e argutare ed argutari (v. Forcell.) da argutus di arguere; e occultare da occultus di occulere; e pressare da pressus di premere (gl’ital. i franc.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ec. e il glossar. hanno anche oppressare da oppressus); v.
p.2052. 2349. e vectare da vectus di vehere. V. nel Forcellini gli es. i quali dimostrano che subvectare e convectare denotano propriamente il costume e il mestiere di subvehere ec.
Sectari che importa (chi ben l’osserva) un’azione più continuata e durevole che il verbo sequi, deriva senza fallo da secutus, participio di questo verbo, contratto in sectus. O piuttosto da principio dissero secutari, e poi per contrazione sectari. E acciò che questa sincope non si stimi un mio supposto (un ritrovato, un’immaginazione), ecco il verbo francese exécuter, e lo spagnuolo executar, vale a dire in latino executari, composto di secutari. Anzi io credo che questa prima forma del verbo sectari abbia durato nel volgare latino fino all’ultimo; e lo credo tanto a cagione dei detti verbi francese e spagnuolo, quanto perchè il nostro seguitare non par che derivi da altro che da secutari o sequutari, come seguire da sequi. Giacchè da sectari non avremmo fatto seguitare, ma settare, come af-fettare da adfectare, [1109]e così altre infinite parole. Del resto anche seguitare presso noi ha propriamente un senso più continuato che seguire. V. p.2117. fine.
Sia poi che l’antico volgare latino, o che quello de’ tempi bassi, o quelli finalmente che ne derivarono, li ponessero in uso; certo è che le nostre lingue figlie della latina abbondano di verbi formati dal participio di altri verbi simili latini antichi, laddove questi nuovi verbi non si trovano nella buona latinità; come usare (Glossar.) abusare ec. da usus di uti, ec., inventare da inventus participio d’invenio, infettare da infectus participio d’ inficio, traslatare da translatus di transferre, benchè da questo verbo gl’italiani abbiano anche trasferire; ( translatare è nel Glossario.) fissare e ficcare ( fixer, fixar) da fixus ec.
(Glossar. fixare oculos.); disertare, déserter ec.; despertar da experrectus di expergiscere; v. p.2194; votare da votus di vovere; (Glossar.) da junctus di jungere lo spagnuolo Letteratura italiana Einaudi 803
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia juntar, (non è nel Glossar. bensì Juncta per Giunta, voce presa da scrittori spagnuoli latinobarbarici); invasare da invasus di invadere; (il Gloss. ha invasatus, cioè obsessus a daemone) confessare (Glossar.) da confessus di confiteri; e così mille altri. V. p.1527. e 2023. (I due primi verbi non si trovano nel Du Fresne). V. p.1142. Parecchi de’ quali stanno nelle lingue nostre in cambio de’ loro primitivi latini, usciti d’uso, e pare che nel formarli non si avesse più riguardo alla natura de’ verbi continuativi.
A questo proposito tornerà bene di avvertire una svista del Monti (Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocab. della Crusca. vol.1. par.2. Milano 1818. alla v. allettare. p.42. seg.), il quale dice e sostiene che il nostro ALLETTARE (e per conseguenza il latino adlectare ch’è lo stesso che il nostro, come afferma lo stesso Monti p.43.) viene da LETTO, come da LATTE ALLATTARE, da ESCA ADESCARE, da LENA ALLENARE ed altri a man piena; che significa Dar letto, e Perchè poi il letto è riposo, e il riposarsi è soavissima e giocondissima cosa, [1110] ne seguì che ALLETTARE, ossia APPRESTARE IL LETTO, divenne subito per metafora INVITAR CON LUSINGHE; e a poco a poco la prepotente forza dell’uso fe’ sì che il senso traslato si mise in luogo del proprio e ne usurpò le funzioni. Questa etimologia, se per avventura non è tortamente dedotta, potrebbe di leggieri aprire la strada a trovare anche l’altra di DILETTARE e DILETTO con tutti i lor derivati, per conseguenza(dico io) del latino delectare, illectare, oblectare e simili. E nega che questi verbi abbiano niente che fare con allicere al quale dà tutt’altra etimologia. (p.44.)
Lascio stare che quel significato metaforico, e la successiva metamorfosi del significato di allettare, se a lui par naturale, a me pare del solito conio delle etimologie famosissime, e che tutto il filo de’ suoi ragionamenti si romperebbe e troncherebbe facilmente per esser troppo sottile e debole in questo punto. Ma egli non ha veduto Letteratura italiana Einaudi 804
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia che adlectare (e quindi allettare) fu formato da adlectus participio di adlicio nello stessissimo modo che i tanti verbi soprammentovati, e i tanti altri che si potrebbero mentovare. Ora allettare è azione continuata, e così oblectare che significa trastullare ec. e così dilettare ec.
Laddove adlicere è propriamente l’atto del tirare, prendere, [1111]indurre colle lusinghe. E il suo semplice lacio che significa ingannare, indurre in fraude è parimente si-gnificativo di azione non continuata. Laddove lactare formato da lacere (diverso da quello formato da lac) significa propriamente un’azione continuata, appresso a poco la stessa che adlectare o allettare. V. p.2078. Giacchè anche nell’etimologia del verbo adlicere s’inganna il Monti (p.44.) facendolo derivare dal licium o liccio degl’incantamenti amorosi. La sua etimologia, dic’egli, di cui non trovo chi sappia darmi un sol cenno, a tutto mio credere è questa. Ma avrebbe trovata la vera etimologia nel Forcellini v. allicio, e v. lacio. Adlicio dunque (come inlicio ec. ec.) è composto di ad e lacio (che deriva da lax, fraus) mutata per la composizione la a in i, come in adficio da facio, in adjicio da jacio ec. ec. Del resto sebben diciamo volgarmente e comunemente allettare per porre a letto, e allettarsi per mettersi a letto, questo è un verbo tanto differente dall’ adlectare, sebbene uniforme nel suono, quanto è differente nel significato e nell’origine, e uniforme nel suono, letto participio di leggere, da letto nome sostantivo. V. il passo di Cicerone addotto dal Monti, e provati di sostituirvi adlicere ad adlectare, se il puoi. In luogo che adlectare venga da lectus, (Festo) dubito che lectus (sustantivo) venga da adlicere. Forcell. in Lectus i.
Non bisogna confondere questo genere di verbi che io chiamo continuativi, e che significano continuazione o maggior durata dell’azione espressa da’ loro verbi originari, con quello de’ verbi frequentativi, [1112]che importano frequenza della medesima azione, e hanno al tempo stesso una certa forza diminutiva. Questi (lasciando i Letteratura italiana Einaudi 805
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia frequentativi coll’infinito in essere che non possono esser confusi co’ nostri continuativi) si formano essi pure dal participio in us o dal supino in um, di altri verbi, troncan-done la desinenza, ma sostituendo in sua vece non la semplice terminazione infinita are, o ari, bensì quella d’ itare, o itari se il verbo da cui si formano è deponente (o passivo.) Così da lectus participio di legere, lectitare; così da victus o victum di vivere, victitare; da missus di mittere, missitare; da scriptus di scribere, scriptitare; da esus di edere, esitare; da sessus o sessum di sedere, sessitare; da emptus di emere, emptitare; da factus di facio, factitare; da territus di terreo, territare; da ventus di venio, (o dal sup. ventum), ventitare; da lusus di ludere, lusitare; da haesus o haesum di haerere, haesitare; da sumptus di sumere, sumptitare; da risus di ridere, risitare di Nevio. Eccetto però il caso che il participio o supino di quel verbo dal quale si doveva formare il frequentativo, cadesse in itus o itum, che allora sarebbe stato assai duro aggiungendo la terminazione itare, o itari, fare ititare, o ititari. In questo caso dunque troncata la desinenza us o um del participioo del supino aggiungevano la semplice desinenza are o ari, con che però il frequentativo veniva nè più nè meno a cadere in itare o itari. Così da venditus di vendere facevano venditare (non vendititare); da meritus di merere, merita-re; (il quale par continuativo e talora denotante costume), da pavitus antico part. di pavere, pavitare; da solitus ec. solitare; da latitus, antico participio, o da latitum antico sup. di latere, fecero latitare; [1113]da monitus di monere, monitare; da domitus di domare, domitare; da dormitus o dormitum di dormire, dormitare; da licitus di liceri, licitari; da vomitus di vomere, vomitare; da territus, territare; da itus o itum del verbo ire, itare; da pollicitus di polliceri, pollicitari; da exercitus part. di exercere, exercitare; da citus part. di cieo, citare, e i suoi composti; da strepitus o strepitum antico supino o participio di strepere, e da crepitus o crepitum di crepare, strepitare e Letteratura italiana Einaudi 806
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia crepitare; da scitus di sciscere o di scire scitari, sciscitare e sciscitari; da noscitus o noscitum antico sup. o part. di noscere, noscitare; da agitus antico particip. di agere, contratto poscia in agtus, e finalmente mutato in actus, agitare. La quale eccezione merita d’esser notata, giacchè in questi casi la formazione de’ frequentativi non differisce da quella de’ continuativi, e si potrebbero confonder tra loro. Ed anche qualche verbo terminato in itare o itari, ma formato da un participio o sup. in itus o itum, appar-terrà o sempre o talvolta ai continuativi, (come p.e. agitare, domitare ec. e v. Forcellini in tinnito) vale a dire non cadrà in detta desinenza, se non per esser derivato da un tal participio o supino. V. p.1338. principio. Minitari e minitare formati da minatus di minari e minare, sono così fatti o per contrazione, e troncamento non solo dell’ us ma dell’ atus del participio, affine di sfuggire il cattivo suono atitare; o per mutazione dell’ a del participio in i, fatta allo stesso effetto. Similmente rogitare da rogatus di rogare, coenitare da coenatus di coenare. V. p.1154. V.
p.1656. capoverso 1.
Mi sono allungato in questo discorso, ed ho voluto spiegare distintamente tutte queste cose, perchè non mi paiono osservate dai Gramatici nè da’ vocabolaristi. Il Forcellini chiama indifferentemente frequentativi, tanto i verbi in itare o itari, come quelli che io chiamo continuativi. E s’inganna, perchè [1114]la differenza sì della formazione sì del significato, fa chiara la differenza di queste due sorte di verbi. P.e. raptare, ch’egli chiama frequentativo di rapere e che significa strascinare, ognun vede che quest’azione non è frequente ma continuata. E
se i latini avessero voluto fare un frequentativo di rapere, dal participio raptus avrebbero fatto raptitare e non raptare, anzi Gellio fa menzione effettivamente di tal verbo raptitare, 9.6. nel qual luogo puoi vedere molti esempi di tali frequentativi in itare formati (com’egli pur nota) da’ participii de’ verbi originarii. E i verbi augere, salire, Letteratura italiana Einaudi 807
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia jacere, prehendere o prendere, currere, mergere, defendere, capere, dicere, ducere, facere, vehere, venire, pendere, gerere e altri tali che hanno i loro continuativi, auctare, saltare, iactare, prehensare o prensare, cursare, mersare, defensare, captare, dictare, ductare (che i gramatici chiamano contrazione di ductitare e sbagliano), v. p.2340. factare, vectare, ventare, pensare, gestare, formati tutti dal loro participio o supino, secondo le leggi da noi osservate; hanno pure i frequentativi auctitare, saltitare, iactitare, prensitare, cursitare, mersitare, defensitare, captitare, dictitare, ductitare, factitare, vectitare, ventitare, pensitare, gestitare, distinti per forma e per significato proprio dai detti continuativi, e non derivati (certo ordinariamente) da questi, (come va dicendo qua e là il Forcellini) ma immediatamente da’ verbi originarii. V. p.1201. Il verbo videre, da cui nasce il verbo continuativo anomalo visere (in luogo di visare), ha pure il suo frequentativo visitare, dal participio [1115] visus comune a videre col suo continuativo visere, e ciò per anomalia. Legere e scribere, che hanno i loro frequentativi ec. si crede ancora che abbiano i continuativi lectare e scriptare de’ quali v. il Forcellini v. Lecto, che non sono frequentativi, nè lo stesso che lectitare e scriptitare, come dice esso Forcellini ib. e v. Scripto. Così pure del verbo vivere che ha il frequentativo victitare, credono alcuni di trovare in Plauto victare (Captiv.
1.1.V.15.) Da prandere che ha il frequentativo pransitare, noi abbiamo pransare che oggi si dice pranzare, ma pranso agg. o partic. e sost. si trova nel Caro e in Dante. (Alberti) V. i Diz. spagnuoli. V. p.2194. V. p.1140. e 2021. Da mansus di manere si ha mantare (per mansare), e mansitare.
V. p.2149. fine.
Anzi non solo i gramatici non distinguono ch’io sappia il frequentativo dal continuativo, ma neppur conoscono, per quello ch’io sappia, questo genere di verbi, che è pur così numeroso, e importante, e che io chiamo continuativo con voce nuova, perchè nuova è l’osservazione.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Ben è tanto vero, quanto naturale e inevitabile che le significazioni e proprietà primitive de’ verbi continuativi, frequentativi, originarii, furono molte volte confuse nell’uso, non solo della barbara latinità, o delle lingue figlie, ma degli stessi buoni ed ottimi scrittori, massime da’ non antichissimi. E si adoperò p.e. il continuativo nel significato del suo primo verbo; o perduto il primo verbo restò solo il continuativo, e s’adoprò in vece di quello (come noi italiani, francesi ec. diciamo saltare ec. per quello che i buoni latini dicevano salire, verbo oggi perduto in questa significazione, e trasferito ad un’altra ec. ec. v.
p.1162. e per lo latino saltare, diciamo ballare, danzare ec.); o forse anche il continuativo talvolta prese la forza del [1116]frequentativo, o qualche volta viceversa; o finalmente il verbo positivo si adoprò in vece del continuativo disusato o no. Differenze menome, e quasi metafisiche, difficilissime o impossibili a conservarsi nelle lingue anche coltissime, e studiatissime; e gelosissime, anzi severissime della proprietà, come la latina; e che di-leguandosi appoco appoco, danno luogo alla nascita de’
sinonimi, de’ quali v. p.1477. segg. E il Forcellini nota molte volte che il tale e tale frequentativo è spesso ed anche sempre usato nel senso medio del suo positivo, nè perciò veruno dubita o dell’esistenza di questo genere di verbi, o che quei tali non sieno frequentativi propriamente e originariamente. I verbi formati nuovamente da’ participi nelle lingue figlie della latina, non hanno ordinariamente se non la forza del positivo latino. V. p.2022.
Questa facoltà de’ continuativi, è una delle bellissime facoltà, non ancora osservata, con cui la lingua latina diversificando regolarmente i suoi verbi e le sue parole, le adattava ad esprimere con precisione le minute differenze delle cose, e traeva dal suo fondo tutto il possibile partito, applicandolo con diverse e stabilite inflessioni e modificazioni a tutti i bisogni del linguaggio; e si serviva delle sue radici per cavarne molte e diverse significazioni, Letteratura italiana Einaudi 809
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia distintissime, chiare, certe, e senza confusione; e molti-plicava con sommo artifizio e poca spesa la sua ricchezza, e accresceva la sua potenza. Questa facoltà manca alla lingua italiana, la qual pure si è fatti i suoi nuovi verbi frequentativi e diminutivi, formandoli da’ verbi originarii con modificazioni di desinenza. Verbi derivati, che ora hanno la sola forza frequentativa, come appunto spesseggiare e pazzeggiare, passeggiare ec. punteggiare, da punto o da pungere ec. ora la sola diminutiva, come tagliuzzare, sminuzzolare, albeggiare [1117](formato però non da altro verbo, ma da nome, come altri pure de’ precedenti; che così pure usa felicemente l’italiano),10
arsicciare (siccome in lat. ustulare, che anche i latini hanno i loro verbi puramente diminutivi); ora l’una e l’altra insieme al modo de’ verbi latini in itare, come canticchiare, canterellare, formicolare ec. (v. il Monti a questa voce, e alla v. frequentativo). E di altre tali formazioni di verbi e d’altre voci; formazioni arditissime, utilissime a significare le differenze delle cose, e moltiplicare l’uso delle radici, senza confondere i significati, abbonda la lingua italiana in modo singolare, e più (credo io) che la latina, e la stessa greca. Ma de’ continuativi manca affatto, se alle volte non dà (come mi pare) questo o simile significato a qualche frequentativo, o vogliamo spesseggiativo. V.
p.1155. Manca pure, cred’io, la detta facoltà alla lingua greca, sì gran maestra nel diversificare e modificare le sue radici, e moltiplicare le significazioni; ma per affermarlo mi bisognerebbe più lunga considerazione. E nella stessa lingua latina, ch’ebbe questa bella facoltà da principio, sembra che poi andasse in disuso, e in dimenticanza, continuando forse talvolta ad usarsi, con formare nuovi verbi di tal fatta, ma con una nozione confusa e non precisa del valore di tal formazione, e con significato non ben distinto dagli altri verbi; come fecero pure de’ continuativi già formati e introdotti. [1118]Giacchè negli stessi antichi gramatici o filologi latini de’ migliori secoli, non Letteratura italiana Einaudi 810
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia trovo notizia nè osservazione positiva di questa proprietà della loro lingua. V. p.1160.
Vo anche più avanti e dico che, secondo me, quasi tutti i verbi latini terminati nell’infinito in tare o tari (dico tare, non itare) non sono altro che continuativi di un verbo positivo o noto o ignoto oggidì, e spesso andato anticamente in disuso, restando solo i suoi derivati, o il suo continuativo, adoperato quindi bene spesso in vece sua.
E credo che l’infinito di detti verbi in tare o tari, indichino il participio del verbo positivo, o il supino, troncando la desinenza in are o ari, e ponendo quella in us o in um.
Come optare, secondo me, dinota un participio optus di un verbo primitivo e sconosciuto, di cui optare sia il continuativo. E mi conferma in questa opinione il vedere in alcuni di questi verbi conservato per anomalia come abbiamo notato in visere, un participio che non pare appartenente se non ad un altro verbo primitivo, e dal qual participio medesimo io credo formato quel verbo che rimane. Per esempio il verbo potare, che, oltre potatus, ha il participio potus. Io credo che questo participio anomalo in detto [1119]verbo, non sia contrazione di potatus, come dicono i gramatici, ma participio regolare di un verbo che avesse il perfetto povi, come motus ha il perfetto movi, fotus ha fovi, votus vovi, notus novi da nosco, di cui notare è continuativo, e fa nel participio non già notus ma notatus. E la prima voce indicativa di detto verbo originario di potare, sarebbe stata poo, chè appunto da pñv verbo greco antico e disusato in questa e nella più parte delle sue voci, stimano i gramatici che derivi potare.
(Forcellini.) Ed osservo che la propria significazione di potare è infatti continuativa, e denota azione più lunga che il verbo bibere, come può sentire ogni orecchio avvezzo alla buona e vera latinità. Saepe est largius vino in-dulgere, poculis deditum esse, dice il Forcellini di esso verbo. Onde potatio non è propriamente il bere ma beveria ec. cioè un bere continuato, come si può vedere ne’ due Letteratura italiana Einaudi 811
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia primi esempi del Forcellini, che sono di Plauto e Cicerone laddove nel terzo ch’è di Seneca, vale lo stesso che potio, cioè bevuta, per la improprietà di quello scrittore più moderno, e meno accurato. E vedete appunto che potio parola derivata da potus participio del verbo perduto ch’io dico, significa azione poco continuata, cioè una semplice bevuta: Cum ipse poculum dedisset, [1120] subito illa in media potione exclamavit, (Cic.) cioè nell’atto di bere. Laddove potatio formata da potatus di potare, significa beveria, come ho detto, e non si potrebbe propriamente e convenientemente esprimere con una voce formata dal verbo bibere. Osservazione, secondo me, assai forte, e che serve a dimostrare e confermare sì l’esistenza del detto verbo originario di potare, ed avente il participio potus, sì tutta la mia teoria de’ verbi continuativi.
Rechiamo un altro esempio di tali participi anomali dinotanti l’esistenza di un verbo primitivo, di cui quel verbo che resta ed ha detto participio, è, al mio credere, il continuativo. Auctare, come vedemmo p.1114. è continuativo di augere dal suo participio auctus, ed ha il participio auctatus. Mactare è lo stesso che magis auctare, ma oltre mactatus, ha il participio mactus. E siccome mactatus è magis auctatus, così mactus (e lo dice espressamente Festo) è magis auctus. Ecco dunque evidente un antico e disusato verbo magere o maugere cioè magis augere, di cui mactus è il participio, e mactare il continuativo formato dal participio mactus che impropriamente se gli attribuisce. V. p.1938. capoverso 1. e p.2136. e 2341.
Il verbo stare, secondo me, indubitatamente è continuativo del verbo esse formato da un antico participio o supino di questo verbo, come stus o stum, [1121]piuttosto da situs o situm, contratto in stus o stum. O forse da prima si disse sitare, come secutari, e solutare da cui soltar per solvere, come ho detto p.1527. e voltare per volutare ec. L’analogia fra il verbo essere e stare si vede nel nostro particolare stato di essere, e nel franc. été, sebbene i fran-Letteratura italiana Einaudi 812
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia cesi non hanno il verbo stare. Del qual participio situs abbiamo un indizio manifesto nel sido spagnuolo, ch’è participio appunto di ser essere. E forse sussiste ancora il detto participio nel situs dei latini che significa collocato, ma che spesso è usurpato dagli scrittori in significato somigliantissimo a quello di un participio del verbo essere, e che il Vossio con pessima grazia fa derivare da sinere.
È noto che presso Plauto (Curcul. 1.1.89.) alcuni leggono site in significato di este, dal che verrebbe situs, così naturalmente come auditus da audite; e che l’antica congiugazione del presente indicativo di esse, era, secondo Varrone, (de L. L. l.8. c.57.) esum, esis, esit; esumus, esitis, esunt. Del rimanente lo stesso Forcellini avverten-do che il verbo stare si trova adoperato più volte in luogo di esse, soggiunge, cum aliqua significatione diuturnitatis (v. sto), (e ne reca gli esempi), cioè, dico io, secondo la primitiva proprietà di esso verbo che è continuativo di esse. Adsentari che il Forcell. dice esser lo stesso che adsentiri, forse non è altro che un suo continuativo o frequentativo anomalo o contratto da adsentitari o per adsensari. Nel Glossario Isidoriano (op. Isid. t. ult. p.487.) si trova: SENTITARE, in animo sensim diiudicare. V.
p.2200. V. p.1155. e p.2145. fine e p.2324. fine.
A me par di poter asserire, 1. che tutti o quasi tutti i verbi latini radicali (intendo non composti, non derivati, non formati da nomi, come populo da [1122] populus, o da altre voci), e regolari, cioè non soggetti ad anomalie, constano sempre di una sola sillaba radicale e perpetua, e la più parte di tre sole lettere radicali (al modo appunto de’ verbi ebraici); come parare, docere, legere, facere, dicere, dove le lettere radicali e costanti sono par, doc, leg, fac, dic. Talvolta di più lettere radicali, ma pure di una sola sillaba, come scribere (che anticamente facea scribsi e scribtum ec. e così gli altri verbi simili, mutato il b in p o viceversa ec. come puoi vedere nel Frontone), dove le lettere radicali sono cinque: scrib, e la sillaba è nondime-Letteratura italiana Einaudi 813
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia no una sola. Talvolta di una sillaba parimente, e di sole due lettere come amare le cui lettere radicali sono am, e così anche ponere, cedere e simili, dove le lettere perpetue sono solamente po e ce, facendo posui, positum, positus; cessi, cessum, cessus: ma questi tali anderebbero piuttosto fra’ verbi anomali. Potranno dire che il g di legere non si conserva nel supino lectum e nel participio; che l’ a di facere si perde nel perfetto feci, e il c di dicere in dixi. Ma dixi contiene evidentemente il c, essendo lo stesso che dicsi; e il g di legere si muta nel supino e participio in c per più dolcezza; non però si perde nè si trascura come l’ o di lego, e come le altre lettere e sillabe che servono alla sola inflessione de’ verbi. E così [1123]dite dell’ a di facere, mutata nel perfetto in e, o per dolcezza, o per arbitrio, o per innovazioni introdotte dal tempo, e non primitive; ma in ogni modo, mutata e non omessa. Così texi e tectum di tegere, sono lo stesso che tegsi e tegtum. V. p.1153.
2. Dico che tutti i suddetti verbi radicali e regolari, avendo una sola sillaba radicale, hanno due sole sillabe nella prima persona presente singolare indicativa, due parimente nella terza persona, (come i verbi ebraici nella terza persona del perfetto ch’è la loro radice) e tre nell’infinito.
3. Dico che tutti, o almeno quasi tutti i verbi latini regolari che hanno più di una sillaba radicale, più di due sillabe nella prima e terza persona presente singolare indicativa, più di tre sillabe nell’infinito; non sono radicali, ancorchè paiano, ma derivati, ancorchè non si trovi da che fonte.
Bisogna eccettuare da queste regole i verbi regolari della quarta congiugazione che hanno due sillabe radicali e perpetue, come audi in audire. Bisogna, dico, eccettuarli quanto alla regola di una sola sillaba radicale, non quanto a quella di due sole [1124]sillabe nella prima e terza persona indicativa, e di tre sole nell’infinito. Nell’infinito, audire, sentire ec. è chiaro che hanno tre sole sillabe.
Letteratura italiana Einaudi 814
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Così nella terza persona indicativa è chiaro che ne hanno due sole, audit, sentit. Nella prima persona audio, sentio pare che n’abbiano tre. Ma io non dubito che anticamente non si contassero queste e siffatte voci per composte di due sole sillabe, considerando e pronunziando per esempio l’ io di audio, come dittongo. Al modo stesso che queste vocali così congiunte sono effettivi dittonghi nella lingua italiana, tanto più somigliante nelle forme sì del discorso, sì delle parole, sì della pronunzia, alla lingua latina antica, di quello che somigli all’aurea latinità.
Così l’antica pronunzia de’ dittonghi greci che si pronunziavano sciolti, non impediva che si considerassero come formanti una sola sillaba. De’ quali dittonghi parlerò poco appresso. V. p.1151. fine. e 2247.
Queste considerazioni indeboliscono assai anche l’eccezione che abbiamo riconosciuta ne’ verbi della 4.
congiugazione e provano che se questi pare che abbiano 2. sillabe radicali, ella è piuttosto una differenza accidentale d’inflessione, che proprietà essenziale del verbo assolutamente considerato, e non influisce sul numero intiero delle sue sillabe radicali o no: numero che ne’ luoghi specificati, è lo stesso in questi che negli altri verbi.
Lo stesso dico de’ verbi della seconda congiugazione, dove doceo, secondo la prosodia latina conosciuta, è trisillabo. Lo stesso di facio, e simili. Lo stesso de’ verbi suadere, suescere e simili, (verbi per altro anomali) i quali senza essere della quarta congiugazione, hanno oggi due sillabe radicali, sua e sue, che anticamente, secondo me, erano una sola sillaba.
Secondo la quale opinione, io penso che si potrebbe anche notare come costante nella lingua latina antichissima, che la prima e terza persona singolare [1125]presente indicativa del perfetto, fossero parimente dissillabe in tutti i verbi radicali e regolari, al modo appunto che in ebraico la terza persona di detto tempo e numero. V.
p.1231. capoverso 2. Dei verbi della terza congiugazione, Letteratura italiana Einaudi 815
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia questo è manifesto, come in legi e legit, feci e fecit, dixi e dixit. Dei verbi della seconda, non si può disputare, ammessa la suddetta opinione, ch’io credo certissima, (essendo naturale all’orecchio rozzo il considerare due vocali unite come una sillaba sola, e proprio di un certo raffinamento e delicatezza il distinguerla in due sillabe): perchè secondo essa opinione, docui e docuit anticamente furono dissillabi. Restano la prima e la quarta congiugazione, dove amavi ed amavit, audivi ed audivit sono trisillabi. Ora della quarta congiugazione io penso che il perfetto primitivo fosse in ii cioè audii e audiit, perfetto che ancora dura, ed è ancora comune a tutti o quasi tutti i verbi regolari d’essa congiugazione, a molti de’ quali manca il perfetto in ivi, come a sentire che fa sensi. Audii ed audiit (che troverete spessissimo scritti all’antica audi ed audit, come altre tali i che ora si scrivono doppi) erano, secondo quello che ho detto, dissillabi. La lettera v, io penso che fosse frapposta posteriormente alle due i di detto perfetto, per più dolcezza. E [1126]tanto sono lungi dal credere che la desinenza in ivi di quel perfetto, fosse primitiva, che anzi stimo che anche la desinenza antichissima del perfetto indicativo della prima congiugazione, non fosse avi, ma ai, nè si dicesse amavi, ma amai, dissillabo secondo il sopraddetto. Nel che mi conferma per una parte l’esempio dell’italiano che dice appunto amai, (e richiamate in questo proposito quello che ho detto p.1124. mezzo), (come anche udii), e del francese che dice j’aimai; per l’altra parte, e molto più, l’esser nota fra gli eruditi la non grande antichità della lettera v, consonne que l’ancien Orient n’a jamais connue. (Villefroy, Lettres à ses Elèves pour servir d’introduction à l’intelligence des divines Écritures. Lettre 6. à Paris 1751. t.1. p.167.) V.
p.2069. principio. E lasciando gli argomenti che si adducono a dimostrare la maggiore antichità de’ popoli Orientali rispetto agli Occidentali, e la derivazione di questi e delle loro lingue da quelli, osserverò solamente che la detta Letteratura italiana Einaudi 816
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia lettera manca alla lingua greca, colla quale la latina ha certo comune l’origine, o derivi dalla greca, o le sia, come credo, sorella. E di più dice Prisciano (l. I. p.554. ap.
Putsch.) (così lo cita il Forcell. init. litt. u nella mia ediz.
del 400. sta p.16. fine) che anticamente la lettera u multis italiae populis in usu non erat. E che il v consonante fosse da principio appo i latini una semplice [1127]aspirazione, e questa leggera, si conosce, secondo me dal vedere ch’esso sta nel principio di parecchie parole latine gemelle di altre greche, che in luogo d’essa lettera hanno lo spirito lene o tenue, come öów ovis, vinum oänow, video eàdv, viscus o viscum Þjòw. (Talora anche in luogo di spirito denso come nßòw, onde gli Eoli ??uiòw, i latini filius.) V. Encyclop. Grammaire. in H. pag.214. col.2. sul principio, e in F. ec. E ch’elle sieno parole gemelle, è consenso di tutti i gramatici. Laddove lo spirito denso dei greci solevano i latini cangiarlo in s (e così per un sigma lo scrivevano i greci anticamente), come in ìpnow che presso i latini si disse prima sumnus (Gell.) e poi somnus ec. V.
p.2196. Anzi di questa cosa non resterà più dubbio nessuno se si leggerà quello che dice il Forcellini (v. Digamma.
e vedilo), e Prisciano (p.9. fine-11. e vedilo). Da’ quali apparisce che il v consonante appresso gli antichi latini fu lo stessissimo che il digamma eolico (giacchè dagli eoli prese assai, com’è noto, la lingua lat.). Il qual digamma presso gli Eoli era un’aspirazione, o specie di aspirazione che si preponeva alle parole comincianti per vocale, in vece dello spirito, e (nota bene) si frapponeva alle vocali in mezzo alle parole per ischifare l’iato, come in amai, amplia ? it termina ? itque ha un’iscrizione presso il Grutero (V. Encyclop. Grammaire, art. F. Cellario, Orthograph.
Patav. Comin. 1739. p.11-15.). E v. il luogo di Servio nel Forcellini circa il perfetto della quarta congiugazione.
Dalle quali osservazioni essendo chiaro che l’antico v latino fu (come oggi fra’ tedeschi) lo stesso che una f, non resta dubbio che non fosse aspirazione, giacchè la f non Letteratura italiana Einaudi 817
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia fu da principio lettera, ma aspirazione, e lieve. E così viceversa gli spagnuoli che da prima dicevano fazer, ferido, afogar, fuso, figo, fuìr, fierro, filo, furto, fumo, fondo, formiga, forno, forca, fender, ora dicono hazer, herido, ahogar, huso, higo, huìr, hierro, hilo, hurto, humo, hondo, hormiga, horno, horca, hender ec. V. p.1139. e 1806. In somma si vede chiaro che la primitiva e regolare uscita de’ perfetti 1. e 4. congiug. era ai ed ii, trasmutata in avi ed [1128] ivi per capriccio, per dolcezza, per forza di dialetto, e pronunzia irregolare, corrotta e popolare, che suole sempre e continuamente cambiar faccia alle parole, col successo del tempo, e introdursi finalmente nelle scritture, e convertirsi in regola, come vediamo nella nostra e in tutte le lingue. V. p.1155. capoverso ult. e p.2242. capov.1.
e 2327.
Queste osservazioni ci porterebbero anche più avanti non poco, ed avendo veduto che tutti i verbi radicali e regolari latini hanno una sola sillaba radicale, verremmo a dedurne che la lingua latina da principio fu tutta composta di monosillabi, come è probabile e naturale che fossero tutte le lingue primitive (balbettanti come fanno i fanciulli che da principio non pronunziano mai se non monosillabi; (come pa, ma, ta) poi due sole sillabe per parola, accorciando, e contraendo, o troncando quelle che sono più lunghe; e finalmente, ma solo per gradi, si avvezzano a pronunziar parole d’ogni misura, in forza per altro della imitazione, e dell’esempio che hanno di chi le pronunzia, il che non avevano i primi formatori delle lingue) e come è tuttavia la cinese, meno forse discosta di qualunque altra lingua nota, dal suo primo stato, a causa della maravigliosa immutabilità di quel popolo. Ecco come bisogna discorrere.
Ho detto che intendeva per verbi radicali, fra le altre cose, quelli non composti e non derivati da nomi. Ma voleva dire da nomi noti, e da nomi non primitivi, perchè tutti i metafisici moderni s’accordano, che tutte le lingue Letteratura italiana Einaudi 818
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia son cominciate e derivano da’ nomi, e il vocabolario primitivo di tutti i popoli, fu sempre una semplice nomenclatura (Sulzer). È dunque indubitato che anche quei verbi latini che paiono radicali, derivano da nomi sconosciuti, giacchè le radici d’ogni lingua furono i nomi soli, e volendo esprimere azioni, [1129]non s’inventarono certo nuove radici, che non sarebbero state intese (giacchè gran tempo dovè passare prima che si pensasse a formare i verbi, e la lingua, cioè la nomenclatura era già stabilita); ma si derivarono dalle radici esistenti, cioè da’
nomi. Ora vedendo che i verbi latini che chiamiamo radicali, ossia che non hanno veruna derivazione nota, nè composizione ec. hanno una sola sillaba radicale, si conchiude che le loro radici vere, che certo furono nomi, tutte furono monosillabe, e che il primitivo linguaggio latino, la fonte di tutta la lingua latina, fu tutto monosillabo. Osserviamo per esempio i verbi pacare, regere, vocare, ducere, lucere, necare. Questi cadono tutti, e perfettamente sotto le osservazioni che ho stabilite: hanno una sola sillaba e 3. sole lettere radicali, 3. sillabe all’infinito ec. E tuttavia non gli possiamo chiamare radicali perchè resta notizia de’ nomi da cui sono formati, e son tutti monosillabi: pax, rex, vox, dux, lux, nex. E notate che di questi monosillabi, alcuni esprimono delle cose che debbono essere state fra le prime ad esprimersi in ogni linguaggio, come vox, lux, e similmente rex, e dux nella prima società. Così l’antico precare e lacere, che cadrebbono sotto la stessa categoria, sappiamo che vengono da prex e lax monosillabi. Così sperare da spes. Così arcere da arx che significa luogo alto, cima, altezza (idea certo primitiva nelle lingue) e quindi rocca, fortezza. V.
p.1204. Così quiescere da quies, partire e partiri da pars, tutte idee primitive. Lactare da lac. V. p.2106. principio.
[1130]Se così discorressimo intorno agli altri verbi (dico latini propri ed antichi, e non presi poi manifestamente dal greco, o d’altronde) che hanno una sola sillaba radi-Letteratura italiana Einaudi 819
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia cale, e che non si vede da qual nome sieno derivate, potremmo forse più volte ritrovare di questi nomi perduti o mal noti, e tutti monosillabi. Legere lo fanno derivare da l¡gv; e lex Cicerone e Varrone a legendo. Ma la natura delle cose porta che il nome sia prima del verbo. Oltre ch’è più facile, più conforme al meccanico dell’etimologia, ed al solito progresso delle parole il derivare legere da lex che viceversa. Io penso che lex sia la radice di legere ed avesse primitivamente un significato perduto, diverso da quello di legge, ed atto a produr quelli di legere. Fax vale face, e deriva, come pare, dal greco, ed è tutt’altra parola da quella ch’io voglio dire. Penso cioè che facere derivi da un antichissimo monosillabo fax di significato analogo, e ne trovo un vestigio, anzi lo trovo intero in artifex, pontifex, carnifex ed altri tali composti. La prima parola è composta di ars e fax, la seconda di pons e fax, la terza di caro e fax, cambiato in fex per forza della composizione, come factus diviene fectus ne’ composti, adfectus, effectus, confectus ec. e facere [1131]nel perfetto ha feci, e così iacere ha ieci, e jactus fa adiectus, deiectus ec. Similmente che capere derivi da un antico monosillabo caps si può dedurre dai composti particeps, anceps, auceps ec. Fra’
quali anceps, io credo assai più con Festo che sia derivato dall’antica preposizione amphi rispondente alla greca
�mfÜ, e troncata in am, e quindi in an dalla composizione (nel che tutti convengono), e da caps appartenente a capere, di quello che a caput, come piace ad altri, fra’ quali il Forcellini. Giacchè mi pare che risponda letteralmente al greco �mfilaf¯w composto appunto di �amfÜ e di lamb�nv capio, piuttosto che ad �mfik�rhnow, come lo spiega il Forcellini, sebbene sia stato poi adoperato in significazioni più conformi a questa seconda voce. Ma io credo poi che questo caps sia la radice tanto di capere quanto di caput (ne’ di cui composti parimente si ravvisa, come biceps, triceps, praeceps). La qual parola Varrone fa derivare da capere (ap. Lact. de Opif. Dei c.5.) ed io per Letteratura italiana Einaudi 820
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia lo contrario capere da caput, o dalla stessa radice; dalla quale però io credo derivato prima caput, e poi capere, o che essa radice, significasse da principio caput. Giacchè, lasciando che questo è nome, e quello è verbo, è ben più naturale, [1132]che prima sia stata nominata la parte principale del corpo umano, e poi l’azione del prendere. E
non so se possa qui aver niente che fare il nostro cappare (volgarmente capare), che significa pigliare a scelta, e deriva da capo, quasi scegliere capo per capo, cioè cosa per cosa, o scegliere un capo, ossia una cosa, fra altri capi o cose. E così capere da principio avrebbe voluto dire pigliare pel capo, o pigliare un capo cioè una cosa, nominan-do la parte principale pel tutto, o prendendo la metafora dall’essere il capo la parte principale dell’uomo: onde i latini, (ed anche oggi gl’italiani testa, e i francesi tant par tête, cioè tant par chaque personne. Alberti) dicevano caput per uomo, o persona, o individuo umano. V. ancora il §.6.7
e 10. della Crusca, voce Capo, e i vocabolari francese e spagnuolo ec. V. chef etc. e il lat. caput nelle significazioni di detti §§. della Crusca, e così anche i Lessici greci. V.
p.1691.
La radice monosillaba dell’antico specere o spicere si troverebbe similmente ne’ composti auspex, haruspex, cioè spex o spax. Così di iungere in coniux o coniunx, cioè iux o iunx ec. V. p.1166. fine. 2367. principio.
E così si scoprirebbe come da pochi monosillabi radicali, o tutti nomi, o quasi tutti, che formavano da principio tutto il linguaggio, allungandoli diversamente, e dif-ferenziandoli con variazioni di significato, e con innumerabili inflessioni, composizioni, modificazioni di ogni sorta, giungessero i latini a cavare infinite parole, infinite significazioni, esprimerne le minime differenze delle cose che da principio si confondevano e accumula-vano [1133]in ciascuna delle dette poche parole radicali, trarne tutto ciò che doveva servire tanto alla necessità quanto all’utilità ed alla bellezza e a tutti i pregi del di-Letteratura italiana Einaudi 821
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia scorso, e in somma da un piccolo vocabolario monosillabo (anzi nomenclatura) cavare tutta una lingua delle più ricche, varie, belle, e perfette che sieno state. E così denno essersi formate tutte le lingue colte del mondo ec. Così la Chinese ec. E sarebbe utile e curiosa cosa il formare un albero genealogico di tutte le parole latine derivate, composte ec. da uno di questi monosillabi, come p.e. dux, che somministrerebbe un’infinita figliuolanza, senza contare le tante inflessioni particolari di ciascuno de’ verbi o nomi derivati o composti ec. ne’ loro diversi casi, o persone e numeri e tempi e modi, e voci (attiva e passiva); e si vedrebbe per l’una parte quanto le vere radici sien poche nella latina come in tutte le lingue, per la naturale difficoltà di porle in uso, e di far nascere la convenzione che sola le può fare intendere e servire; per l’altra parte quanta sia l’immensa fecondità di una sola radice, e le diversissime cose, e differenze loro, ch’ella si adatta ad esprimere mediante i suoi figli ec. in una lingua giudiziosa e ben coltivata.
Raccogliendo il sin qui detto, io penso che se tali osservazioni si facessero in maggior numero e con più diligenza che non si è fatto finora, (della qual diligenza e profondità gl’inglesi e i tedeschi ci hanno già dato l’esempio anche in questi particolari, massime negli [1134]ultimi tempi, come Thiersch ec.) si semplificherebbe infinitamente la classificazione derivativa delle parole, ossia delle famiglie loro; l’analisi delle lingue si spingerebbe quasi sino agli ultimi loro elementi; si giungerebbe forse a conoscere gran parte delle lingue primitive; (v. Scelta di opusc. interess. Milano 1775. vol.4. p.61-64.) lo studio dell’etimologie diverrebbe infinitamente più filosofico, utile ec. e giungerebbe tanto più in là di quello che soglia arrestarsi; facendosi una strada illuminata e sicura per arrivare fin quasi ai primi principii delle parole, e le etimologie stesse particolari, sarebbero meno frivole; si co-noscerebbero assai meglio le origini remotissime, le vi-Letteratura italiana Einaudi 822
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia cende, le gradazioni, i progressi, le formazioni delle lingue e delle parole, e la loro primitiva (e spesso la loro vera) natura e proprietà; e si scoprirebbero moltissime bellissime ed utilissime verità, non solamente sterili e filologiche, ma fecondissime e filosofiche, atteso che la storia delle lingue è poco meno (per consenso di tutti i moderni e veri metafisici) che la storia della mente umana; e se mai fosse perfetta, darebbe anche infinita e vivissima luce alla storia delle nazioni. V. p.1263.
capoverso 2.
Osservo che la lingua latina è più atta a queste speculazioni che la greca, contro quello che può parere a prima giunta, per causa della sua minore antichità vera o supposta.
1. L’infinità e l’immensa varietà delle modificazioni che la lingua greca poteva dare alle sue radici, e continuò sempre nel lunghissimo spazio della sua letteratura, e nel grandissimo numero de’ suoi scrittori, a poterlo ed a farlo, (principal causa della sua potenza e ricchezza), reca un grande impedimento a scoprire [1135]i primitivi elementi, e le vere ed ultime radici di essa lingua, in mezzo alla confusione alla selva delle innumerabili e differentissime diversificazioni di significato, di forma ec. che hanno continuamente ricevuto, e con cui ci rimangono. Puoi vedere la p.1242. marg. fine.
2. Le diversissime relazioni ch’ebbero i popoli greci con popoli stranieri d’ogni sorta, mediante il commercio, le guerre, le colonie, le spedizioni d’ogni genere ec. ec. relazioni antichissime ed anteriori a quei primi tempi che noi possiamo conoscere della lingua greca; relazioni che hanno certo influito assaissimo su detta lingua, e moltiplicate le sue ricchezze per l’una parte, per l’altra mandate molte sue proprie ed antichissime radici in disuso, ed altre svi-satene ed alteratene (v. in questo proposito il luogo di Senofon. della lingua Attica); recano altro gravissimo impedimento al nostro fine. Trattandosi massimamente Letteratura italiana Einaudi 823
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia di relazioni con popoli le cui lingue sono quali del tutto sconosciute, quali malissimo note. I latini ebbero altrettante e forse maggiori relazioni con forse maggior numero di popoli, ma in tempi più moderni. Il che 1° diminu-isce la difficoltà delle ricerche: 2° la lingua latina essendo già formata, anzi sul punto di essere la più colta del mondo dopo la greca, (dico quando incominciarono [1136]le grandi ed estese relazioni de’ latini cogli stranieri) era meno soggetta ad esserne alterata, se non altro, nel suo fondo principale: 3° conoscendo noi bastantemente i tempi della lingua latina anteriori a dette relazioni, le alterazioni che poterono poi sopravvenire a essa lingua non pregiudicano alle nostre ricerche, le quali riguardano gli antichissimi elementi di quella lingua che si parlava quando Roma o non era ancor nata, o era fanciulla. Infatti gli eruditi inglesi che hanno cercato di provare l’affinità del sascrito colle lingue antiche Europee, sebben credono la greca derivata dall’origine stessa che la latina, hanno tuttavia scelto piuttosto questa per le loro osservazioni, dicendo che la penisola d’Italia vorrà probabilmente riputarsi più favorevole (della Grecia) alla pura trasmissione della lingua originale, potendo essa essersi tenuta più lontana dalla mescolanza di nazioni circonvicine, e di linguaggi diversi. (Edinburgh Review. Annali di Scienze e lett. Milano 1811. Gennaio. n.13. p.38. fine.) E si trova effettivamente maggiore analogia fra certe voci ec. latine e sascrite, che fra le stesse greche e sascrite, e pare che la lingua lat.
ne abbia meglio conservate le prime forme. L’H derivata dall’Heth dell’alfabeto fenicio, samaritano ed Ebraico, il quale Heth era un’aspirazione densa o aspra (Encyclop.
planches des caractères) simile all’j spagnuolo (Villefroy), ha conservata nel latino la sua qualità di carattere aspirativo, laddove è passata a dinotare una e lunga nel greco, dove antichissimamente era pur segno d’aspirazione o spirito. La f e il v mancanti all’alfabeto Fenicio Letteratura italiana Einaudi 824
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia (Encyclop. l.c.) mancarono pure come vedemmo all’antico alfabeto latino V. p.2004-2329. (e la p.2371. fine) 3. E questa che son per dire è la ragione principale.
Tutti sanno, e dalle cose ancora che abbiamo dette, si può vedere, quanto le lingue si allontanino [1137]immensamente dalla loro prima e rozza forma mediante la coltura. Una lingua non colta, e parlata da un popolo poco in relazione cogli altri, può conservarsi lunghissimo tempo o qual era da principio, o poco diversa, tanto che il primitivo facilmente vi si possa ripescare. La lingua latina fu veramente formata e stabilita e perfezionata solo negli ultimi tempi dell’antichità. Giacchè l’epoca del suo perfezionamento è quella di Cicerone. Ed oltre parecchi monumenti rozzi, ed anteriori non poco a questa perfezione, vale a dire, totale trasformazione della lingua latina primitiva, ci restano ancora molti scrittori di lingua assai meno rozza della prima, e meno colta della Ciceroniana. Mediante le quali cose, come per gradi, possiamo risalire, se non altro, assai vicino ai principii della lingua latina.
Ora per lo contrario la formazione e quasi perfezione della lingua greca appartiene non solo alla più lontana epoca dell’antichità che noi conosciamo distintamente, ma anzi ad un’epoca ancora tenebrosa e favolosa. E il più antico monumento della scrittura greca che ci rimanga, è forse anche (eccetto i libri sacri) la più antica scrittura
[1138]che si conosca: dico Omero. E questo scrittore non solamente non è rozzo, ma tale che non ha pari di pregio in veruno de’ secoli susseguenti. Nè tale avrebbe potuto essere senza una lingua o perfetta, o quasi. Bisogna dunque supporre (come tutti fanno) avanti Omero, una lunga serie di tempi e di scrittori ne’ quali la lingua di rozza e impotente divenisse appoco appoco quale si vede in Omero. Ma i Catoni, i Plauti, i Lucrezi che precederono Omero, non ci restano, come quelli che precederono Cicerone e Virgilio, e neppure si ha certa memoria di nes-Letteratura italiana Einaudi 825
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia suno di loro. Anzi da Omero in su ci si spegne ogni lume intorno alla lingua greca. V. dunque la gran differenza degli ostacoli allo scoprimento della prima lingua greca, paragonati con quelli per la prima lingua latina. Possiamo dire che nella lingua latina abbiamo la stessa antichità della greca, e contuttociò un’antichità meno antica e più vicina a noi.
Io credo però che la ricerca di questa, ci farà strada alla ricerca delle origini greche. Stante che la lingua latina è sorella della greca, ed arrivando alla fonte di quella, si giunge dunque alla fonte di questa. O se il latino è derivato dal greco, certo n’è derivato in antichissima età, e così verremo ad illuminare mediante le origini latine, quest’antichissima età della lingua greca. V. p.1295.
Se è vera l’opinione del Lanzi che la lingua [1139]Etrusca non sia fuori che un misto dell’antichissimo latino e dell’antichissimo greco, detta lingua, e il suo studio potrà molto giovare a queste nostre ricerche. E vicendevolmente le osservazioni che abbiam fatto, dovranno poter giovare notabilmente alla intelligenza e rischiaramento della lingua Etrusca ancora sì tenebrosa, e per l’altra parte altrettanto interessante.
(29. Maggio-5. Giugno 1821.)
Alla p.1127. E lo pronunziavano così leggermente, che ora sebbene ne resta un vestigio nella scrittura, converti-to nel segno dell’aspirazione, è svanito però del tutto dalla pronunzia, anche come semplice aspirazione. Similmente i francesi, per quello che noi diciamo fuori o fuora e gli spagnuoli fuera dal lat. foras o foris, dicono hors, aspirando però l’ h. In luogo di voce i Veneziani dicono ose dileguato il v. Il f greco, non è, come si sa, che un p aspirato, come si vede anche nelle mutazioni gramaticali e sostitu-zioni dell’una di tali lettere all’altra. Mancava, come si dice, al primitivo alfabeto greco detto Cadmeo o Fenicio, e vi fu aggiunto, come dicono, da Palamede (Plin. 7.56.) Letteratura italiana Einaudi 826
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia insieme col x e col ϑ che sono un k ed un t aspirati (Servius ad Aen. 2. vers.81.) V. Fabric. B. G. I. 23. §.2. e il Lessico dell’Hofmanno, v. Literae. È anche probabile che mancasse all’Alfabeto ebraico e che il b non fosse che un p. lettera che oggi manca a detto alfabeto. V. p.1168.
L’alfabeto chiamato Devanagari ossia quello della lingua sascrita, (dalla quale alcuni dotti inglesi fanno derivar la latina) sebbene composto di 50 lettere manca, della f, e invece la detta lingua adopera un b, o un p aspirati. (Annali di Scienze e lettere. Milano 1811, n.13, p.43.) ec. ec.
(5. Giugno 1821.). Considera ancora il nome greco di Giapeto, da Jafet, ebreo o fenicio ec.
[1140]Alla p.1115. E perchè meglio si veda la differenza reale tra i frequentativi e i continuativi, ogni volta che questi verbi erano usati dagli scrittori, secondo il loro valor proprio, consideriamo quel passo di Virgilio (Aen. 2.458.
seq.) dove dice Enea che salì alla sommità della reggia di Priamo assediata da’ Greci:
Evado ad summi fastigia culminis: unde
Tela manu miseri IACTABANT irrita Teucri.
Per poco che s’abbia l’orecchio avvezzo al latino, facilmente si vede come impropria e debole in questo luogo sarebbe la parola iaciebant invece di iactabant. Ma quanto male vi starebbe anche iactitabant, cioè il frequentativo di iacere, si vedrà ponendo mente che detta parola avrebbe significato lanciare spesso, ed anche languidamente; laddove iactabant, continuativo, significa lanciavano assiduamente, e a distesa senza veruna intermissione. E così questo verbo riesce proprissimo, ed ottimamente quadra al bisogno. E l’azione qui viene ad essere continuativa, e non frequentativa, che è troppo poco ad una resistenza ostinata quale Virgilio voleva esprimere. V. dunque la Letteratura italiana Einaudi 827
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia differenza fra il continuativo e il frequentativo, e se iactare sia frequentativo come dicono i gramatici. Nè mi si dica che Virgilio voleva esprimere una resistenza debole e inutile, e però volle usare una parola che esprimesse certo languore di azione. Debole e inutile, [1141]rispetto alle forze superiori de’ greci, non già debole rispetto alle forze degli assediati, anzi tanta quanta più si poteva. E Virgilio vuol descrivere una resistenza quanto più vana, tanto più disperata. E così quel miseri e quell’ irrita che esprimono l’inutilità della resistenza fanno un bello e vivo con-trapposto collo iactabant che esprime lo sforzo, l’infaticabilità, l’affanno, l’ostinazione, la ferocia, la fermezza, la pienezza della resistenza, e rende questo luogo sommamente espressivo in virtù della proprietà delle parole, al solito di Virgilio. La qual bellezza, e la piena forza e il vero senso di questo verbo nel detto luogo e in altri simili, come ancora di altri tali verbi in tali usi, e le bellezze d’altri siffatti luoghi, non credo che sieno state mai sentite da nessun moderno, per non essersi mai posto mente alla vera proprietà, alla propria forza, natura, indole di questo genere di verbi che chiamo continuativi.
Servio spiega, IACTABANT: Spargebant, quasi nihil profutura, senso che non ha che far niente con quello che abbiamo osservato, e che deriva dal credere iactare un verbo tra frequentativo e diminutivo, come iactitare o presso a poco; e che tuttavia credo essere il senso nel quale questo e mille altri luoghi simili ed analoghi sono stati e sono intesi da tutti.
(6. Giugno 1821.). V. p.2343.
[1142]Alla p.1109. Fra’ quali da depositus di deponere il verbo depositare o dipositare italiano, e lo spagnuolo depositar e il latinobarbaro depositare, verbo che continua quanto si può l’azione del deporre, significando il deporre una cosa che non si debba ripigliare così tosto, o il deporla raccomandandola, e commettendola alla fede, Letteratura italiana Einaudi 828
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia o ponendo in cura e custodia altrui, che ognun vede essere azione più lunga del deporre, e quanto il deporre sia più semplice. Il Glossar. latino barbaro ha similmente assertare ec. da assertus ec. usitare frequentativo ec. da usus ec. conservato in italiano, come pure il suo participio in francese ec. V. il detto Glossar.
Molti di così fatti verbi che si stimano di origine o barbara o recente, e nati ne’ tempi della bassa latinità, o ne’
principii delle lingue nostre, io credo che sieno antichi continuativi latini o perduti o non ammessi nell’uso de’
buoni scrittori, e pervenuti alla lingue nostre mediante il latino volgare. Portiamone alcune prove.
Versare è continuativo di vertere dal suo participio versus. Il Forcellini lo chiama frequentativo. E io domando se in questi esempi ch’egli adduce (v. gli esempi del primo §.) versare importa frequenza o continuazione. E
così quando Orazio disse
Vos exemplaria graeca
Nocturna versate manu, versate diurna
facilmente si vede che dicendo vertite avrebbe detto assai meno, e significata l’ assiduità molto impropriamente. Così discorrete del passivo versari che [1143]significa un’azione o passione della quale non so qual possa essere di sua natura più continua. Così di conversari, adversari ec. Da versare o da transversus, participio di transvertere, deriva transversare, e da questo il traversare, l’ attraversare, e l’ intraversare italiano, il francese traverser, e lo spagnuolo travessar e atravessar. Ma il verbo transversare escluso dagli onori del Vocabolario sta relegato ne’ Glossari, come in quello del Du Cange che l’interpreta transire, trajicere; e il Forcellini lo rigetta appiè del suo Vocabolario nello spurgo delle voci trovate senza autorità competente ne vecchi Dizionari latini, e lo spiega transverse ponere. Nè la recente Appendice al Forcellini lo toglie di Letteratura italiana Einaudi 829
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia quel posto o lo ricorda in veruna guisa. Ora ecco questa parola barbara in un gentilissimo poemetto o idillio del secolo di Augusto o del susseguente, dico in quel poemetto che s’intitola Moretum, (attribuito da alcuni a Virgilio, da altri ad un A. Settimio Sereno o Severo, poeta Falisco del tempo de’ Vespasiani) ad imitazione del quale, (cosa finora, ch’io sappia, non osservata) il nostro Baldi scrisse il famoso Celeo, dove quasi traduce i primi versi del poemetto latino. Dice dunque l’autore d’esso poemetto
[1144] Contrahit admistos nunc fontes atque farinas: TRANSVERSAT durata MANU, liquidoque coactos Interdum grumos spargit sale.
(v.45. seqq.)
Cioè vi passa e ripassa sopra colla mano, attraversa quella pasta già sodetta colla mano. Ecco dunque il verbo transversare, e le nostre parole ec. di origine antica, e latina pura.
Potrebbe darsi che transversare volesse dire a un dipresso versare, cioè rivolgere e dimenare fra le mani.
Nondimeno la spiegazione che danno il Gloss. e il Forcell.
a transversare, la prep. trans, e il significato della voce transversus ec. par che confermino la mia interpretazione. C’è anche il verbo transvertere di cui v. Forcell. e di cui transversare par che debba essere il continuativo.
Tiriamo innanzi con altro esempio. Da arctus o arcitus antico participio di arcere preso nel significato di coercere, continere (del quale v. Festo e il Forcellini che ne dà buoni esempi), viene il continuativo arctare che significa stringere constringere, non già momentaneamente come quando stringiamo la mano ad uno; ma stringere
continuatamente, ed in modo che l’azione dello stringere non sia un puro atto, ma un’ azione. O da arctare, o da coercere deriva il verbo coarctare che significa ne’ buoni scrittori latini ristringere. Ma ne’ Glossari latino barbari Letteratura italiana Einaudi 830
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia questo verbo si trova in significato di costringere o forzare, e in questo senso l’adoperò Paolo giureconsulto l’esempio del quale è registrato negli stessi vocabolari latini: e in questo senso assai più che in quello di ristringere (oggi, si può dire dimenticato) s’adopera in Italia coartare e coartazione, quantunque la Crusca non dia questo significato a coartare, [1145]e dandolo a coartazione, s’inganni credendo che nell’unico esempio che riporta, questa parola sia presa in detto senso, giacchè v’è presa nel senso di restrizione; conforme ha dimostrato il Monti (Proposta ec. alla voce Coartazione. vol.1. par.2. p.166.). Il quale condanna come barbare le parole coartare e coartazione prese in forza di Costrignimento, Sforzamento.
Ora io credo che questo significato non sia nè barbaro in italiano, nè moderno nel latino, ma antico ed usitato nel latino volgare, quantunque non ammesso nelle buone scritture.
Primieramente osservo che coarctare è continuativo di coercere, e coercere, come ognun sa, ha ne’ buoni latini un significato metaforico (più comune forse del proprio) che somiglia molto a quello di forzare. Anzi alcuni gramatici gli danno anche questo significato, sebbene sopra autorità incompetente, cioè quella del libricciuolo De progenie Augusti attribuito a Messala Corvino, dove si legge: Superatos hostes Romae cohabitare COERCUIT, cioè costrinse. Il quale libretto sebbene dagli eruditi è creduto apocrifo, e dell’età mezzana, tuttavia non è forse d’autorità nè di tempo inferiore a molti e molti altri che sono pur citati nel Vocabolario latino. Laonde, se coercere
[1146]significava forzare, o cosa somigliante, è naturalissimo che il suo continuativo coarctare avesse, almeno nel volgare latino, lo stesso o simile significato.
In secondo luogo osservo che la metafora dallo stringere al forzare è così naturale che si trova e nel latino stesso, e (lasciando le altre) in tutte le lingue che ne derivano.
Quae tibi scripsi, primum, ut te non sine exemplo monerem: Letteratura italiana Einaudi 831
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia deinde ut in posterum ipse AD EANDEM
TEMPERANTIAM ADSTRINGERER, cum me hac epi-stola quasi pignore obligavissem, dice Plinio minore (l.7.
ep.1.). Che altro vuol dire se non costringersi, forzarsi, obbligarsi (com’egli poi spiega) alla temperanza? Altri usi di adstringere (e parimente di obstringere, constringere, e del semplice stringere latino) similissimi a quelli di forzare sono noti ai gramatici. E cogere che in senso metaforico (più comune ancora del proprio) significa forzare, ed è contrazione di coagere, che altro significa propriamente se non se in unum colligere, congregare, condensare, spissare, colligare, constringere? Il suo continuativo coactare si adopra pure da Lucrezio nel significato di forzare. Presso noi stringere, astringere, costringere, [1147]oltre i significati propri hanno anche il metaforico di sforzare. Presso i francesi astreindre e contraindre si sono talmente appropriato il detto senso, che astreindre manca del primitivo significato di stringere, e in contraindre si considera questa significazione propria, come figurata. Il che avviene ancora al secondo e terzo dei detti verbi italiani. Presso gli spagnuoli apretar che significa stringere, vale ancora comunemente hacer fuerza, ossia sforzare; e constreñir o costreñir (da estreñir che significa stringere) non serba altro significato che di sforzare. Estrechar ha quello di stringere per significato proprio e comune, e quello di costringere o sforzare per metaforico. Il legare è una maniera di stringere. Ora, lasciando le significazioni metaforiche del latino obligare, somiglianti a quelle di forzare11 in italiano, in francese, [1148]in ispagnuolo ognuno sa che obligare, obliger, obligar si adopra continuamente nell’espresso significato di costringere. Mi par dunque ben verisimile che il verbo coarctare (continuativo di coercere), oltre il senso proprio di ristringere, avesse anche, non solo nella bassa latinità, ma nell’antico volgare latino, il senso di forzare.
(6-8. Giu. 1821.). V. p.1155.
Letteratura italiana Einaudi 832
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Alla p.1107. Quantunque il Forcellini chiama acceptare frequentativo di accipere, sed, aggiunge, eiusdem fere significationis. Ora la differenza della significazione la può sentire ne’ detti esempi ogni buon orecchio, sostituendo-vi il verbo accipere. E quanto al frequentativo, osservi ciascuno che differenza passi dal ricevere annualmente una tale o tale entrata, ch’è azione continua rispettivamente alla natura del ricevere, al ricevere frequentemente; azione che non importa ordine, nè regola, nè determina il come, nè il quando nè con quali intervalli si riceva.
Ed a questo proposito porterò un luogo di Plauto, dove Arpage venuto per pagare un debito [1149]del suo padrone, dice a Seudolo servo del creditore Tibi ego dem?
Risponde Seudolo
Mihi hercle vero, qui res rationesque, heri Ballionis curo, argentum adcepto, expenso, et cui debet, dato. (Pseud. 2.2. v.31. seq.)
Ecco tre continuativi, e nella loro piena forza e proprietà: adceptare da adceptus di adcipere, expensare da expensus di expendere, e datare da datus di dare. Crediamo noi che Plauto abbia posti a caso questi tre verbi in fila, tutti d’una forma, in cambio de’ loro positivi? Ma qui stanno e debbono stare i continuativi in luogo de’
positivi, perchè questi esprimono una semplice azione, laddove qui s’aveva a significare il costume di far quelle tali azioni. Datare alcuni dicono ch’è lo stesso che dare.
(Indice a Plauto). Vedete come s’ingannino, e sbaglino la proprietà dell’idioma latino. Il Forcellini lo chiama frequentativo di dare, e portando un passo di Plinio maggiore, Themison (medico) binas non amplius drachmas (di elelboro) datavit, spiega dare consuevit. Ma il costume è cosa continua (quando anche l’azione non è continua) e non già frequente, e la frequenza viceversa non importa Letteratura italiana Einaudi 833
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia costume. E quando Plauto in altro luogo (Mostell. 3.1.
v.73.) dice Tu solus, credo, foenore argentum datas; [1150]e Sidonio (lib.5. ep.13.), ne tum quidem domum laboriosos redire permittens, cum tributum annuum DATAVERE, usano il continuativo in luogo del positivo, perchè hanno a significare non il semplice atto di dare, ma il costume di dare, che è cosa nè semplice nè frequente, ma continua.
Da sputus o sputum di spuere, sputare. Iamdudum sputo sanguinem, dice Plauto, cioè soglio sputar sangue, e non avrebbe potuto dire spuo. V. in tal proposit. Virgil. (Georg.
1.336.) receptet. Ricettare e raccettare in italiano non è azione venti volte più continua, o durevole ec. di ricevere? V. anche resultat Georg. 4. 50. ed osserva il risultare ital. franc. e spagn. Puoi vedere p.2349.
Da ostentus di ostendere, participio, a quel che pare, più antico di ostensus, ebbero i latini il continuativo ostentare.
Altera manu fert lapidem, panem OSTENTAT altera disse Plauto (Aulul. 2.2. v.18.), e non avrebbe potuto dir propriamente ostendit, volendo significar uno che quasi ti mette quel pane sotto gli occhi, perchè tu non solamente lo veda, ma lo guardi. E Cicerone metaforicamente (Agrar. 2. c.28.): Agrum Campanum quem vobis OSTENTANT, ipsi cuncupiverunt. Ponete ostendunt invece di ostentant, e vedrete come l’azione diventa più breve, e la sentenza snervata e inopportuna.
Lo stesso dico delle altre metafore di ostentare per iactare, gloriari, venditare e simili, tutti significati continuati.
(8-9. Giu. 1821.). V. p.2355. principio.
Alla p.1166. Quello che dico de’ verbi in tare si deve anche estendere ad altri verbi terminati in altro modo, massimamente in sare per anomalia de’ participi o supini da cui derivano; come pulsare (che anticamente, e soprattutto, come nota Quintiliano, presso i Comici, si scrisse anche pultare) [1151]è continuativo di pellere dall’ano-Letteratura italiana Einaudi 834
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia malo participio pulsus, e così versare di vertere, ed altri che abbiamo veduto. Voglio però notare che forse pultare creduto lo stesso che pulsare, è contrazione di pulsitare, e diverso originariamente da pulsare quanto è diverso il frequentativo dal continuativo. E quanto a pulsare s’egli sia propriamente continuativo o frequentativo, come lo chiamano, vedilo in questo luogo di Cicerone (De Nat.
Deor. 1. c.41.) cum SINE ULLA INTERMISSIONE
PULSETUR. Così da responsus o responsum di respondere, viene responsare continuativo.
Num ancillae aut servi tibi
Responsant? eloquere: impune non erit.
(Plaut. Menaechm. 4.2. v.56. seq.)
Cioè ti sogliono rispondere arrogantemente, non già ti rispondono semplicemente ovvero ti rispondono spesso.
E nel significato metaforico di resistere il verbo responsare è parimente continuativo, e così quando significa eccheggiare, che è cosa più continuata del rispondere, e per nulla frequente, come ognun vede. (9. Giugno 1821.).
Così da cessus di cedere viene cessare, il quale chiamano frequentativo, sebbene io non sappia veder cosa più continuata di quella ch’esprime questo verbo. V. p.2076.
Alla p.1124. marg. E chiunque porrà mente ai versi de’
comici, e altresì di Fedro, e degli altri Giambici latini, o se n’abbiano opere intere (come Catullo, le tragedie di Seneca) o frammenti, ci troverà molte altre licenze proprie di quelle sorte di versi, e note agli eruditi; ma anche
[1152]potrà di leggeri avvertire che dovunque s’incontrano due o più vocali alla fila, o nel principio o nel mezzo o nel fine delle parole, quelle vocali per lo più e quasi regolarmente stanno per una sillaba sola, come formassero un dittongo, quantunque non lo formino, secondo le Letteratura italiana Einaudi 835
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia leggi ordinarie della prosodia. Fuorchè se dette vocali si trovano appiè de’ versi, dove bene spesso (come ne’ versi italiani) stanno per due sillabe, ma spesso ancora per una sola, come in questo verso di Fedro:
Repente vocem sancta misit Religio.
(lib.2. fab.11 al.10. vers.4.) Questo è un giambo trimetro acataletto, cioè di sei piedi puri, e la penultima breve, non è la sillaba gi di Religio, ma la sillaba li. Similmente in quel verso di Catullo, sebbene in questo e nelle leggi metriche, più diligente assai degli altri, (Carm.18. al.17.
vers.1.)
O Colonia quae cupis ponte ludere ligneo la penultima dovendo esser lunga, non è la sillaba gne di ligneo, ma la sillaba li, s’è vera questa lezione di ligneo per longo come altri leggono. Oltre che questo verso trocaico stesicoreo, dovendo essere di quindici sillabe, sarebbe di sedici, se ligneo fosse trisillabo. (La parola ligneo è qui un trocheo, piede di una lunga e una breve, detto anche coreo). E quello che dico de’ latini, dico anche dei greci. Nel primo verso della Ricchezza di Aristofane
�Ùw �rgal¡on pr�gm� ¤stÜn Î Zeè kaÜ YeoÜ,
[1153]la parola �rgal¡on è trisillaba. E notate che scrivendo
�Ùw �rgal¡on pr�gm� ¤st� Î Zeè kaÜ YeoÜ,
senza nessuna fatica questo verso riusciva giambo trimetro o senario puro, secondo le regole della prosodia greca. Dal che si vede che quei poeti i quali scrivevano, come dice Tullio dei Comici, a somiglianza del discorso, (Oratoris cap.55.) adoperavano quasi regolarmente siffatte Letteratura italiana Einaudi 836
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia vocali doppie ec. come dittonghi, e conseguentemente che l’uso quotidiano della favella (tenace dell’antichità molto più che la scrittura) le stimava e pronunziava per dittonghi, o sillabe uniche, sì nella Grecia come nel Lazio.
Puoi vedere la nota del Faber al 2. verso del prologo di Fedro, lib.1. e quella pure del Desbillons nelle Addenda ad notas, p. LI. fine.
(10. Giugno, dì di Pentecoste. 1821.).V. p.2330.
Alla p.1123. Anzi, secondo me, da principio si diceva legitus, tegitus, agitus, quindi per contrazione, legtus, tegtus, agtus, e finalmente per più dolcezza, lectus, tectus, actus. E chi se ne vuol persuadere, ponga mente al verbo agitare, il quale, secondo quello che abbiamo osservato e dimostrato finora, è formato dal participio (o dal sup.) di agere. [1154]E quindi s’inferisce che l’antico e primo participio di agere non fu actus ma agitius da cui venne agitare, come poi da actus actitare. V. il Forcell. in Caveo, fine.
e p.2368. Lo stesso dico di cogitare o venga da agitare, o dall’antico coagitus di cogere. V. p.2105. capoverso 1. E
similmente come da lectus di legere derivarono lectare e lectitare, così dall’antico legitus, il verbo legitare mentovato da Prisciano.
(10. Giugno 1821.). V. p.1167.
Alla p.1113. marg. Se però rogitare non deriva da un antico participio rogitus di rogare (come domitus di domare, crepitus ovvero il sup. crepitum di crepare, e tali altri) del che mi dà forte sospetto la nostra voce rogito participio sostantivato da rogare, in vece di rogato. Da lactatus allattato, lactitare ec. Restitare non saprei se da restatus, o restitus, ambedue inusati, e se da resisto, o resto. V. p.2359.
La bassa latinità diceva parimente rogitus us nello stesso significato, ed anche addiettivamente rogitus a um, e roitus in luogo appunto di rogatus, del che v. il Du Cange. Del resto anche da paratus di parare, da imperatus d’ imperare, Letteratura italiana Einaudi 837
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia da volatus o volatum di volare, da vocatus di vocare (v.
Forcell. circa vocitare che par verbo continuativo dinotante costume), e da mussatus di mussare i latini fecero paritare, imperitare, volitare, vocitare, e mussitare; e generalmente pare che questo fosse il costume nel formare o i frequentativi o i continuativi da’ participii in atus della prima congiugazione; di cambiare cioè l’ a del participio in i, per isfuggire il cattivo suono p.e. di mussatare, o mussatitare. (Eccetto però datare ec.) Così da mutuatus di mutuare fecero mutitare sincopato da mutuitare se crediamo a quelli che derivano questo verbo mutitare dal precedente mutuare. Altri lo derivano da mutare, e fa parimente al caso nostro.
(11. Giugno 1821.). V. p.2079. e 2192. fine. e 2199. principio.
[1155]Alla p.1148. Lo spagnuolo pintar, cioè dipingere derivato certo dal participio del verbo pingere, sembra che se non altro dinoti un antico participio pinctus, in vece di pictus, participio regolare e proprio di pingere, come tinctus di tingere, cinctus di cingere, planctus o planctum di plangere ec. (e v. p.1153. capoverso ult. donde raccoglierai che il primo e vero participio passivo di tali verbi era pingitus, tingitus ec.) e conservatosi, a quel che pare, nel volgare latino. (11. Giugno 1821.). Non diciamo noi pinto, dipinto ec.? Pitto solamente in poesia come il Rucellai nelle Api. I francesi peiNt ec.
Alla p.1121. Così dubitare deriva da dubitus o dubitum o dubiatum (v. p.1154.) di un antico dubiare mentovato da Festo, e conservato nell’antico italiano. Questo però terminando in itare può anche, secondo il detto alla p.1113. essere un verbo tra frequentativo e diminuitivo, sul gusto di haesitare da haerere, che somiglia anche nel significato. V. p.1166. fine.
(11 Giu. 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 838
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Alla p.1117. Nostri soli continuativi sono i verbi venire e andare uniti a’ gerundi de’ verbi denotanti l’azione che vogliamo significare, come venir facendo, andar dicendo.
I quali modi però hanno meno forza, e meno significazione della continuità, che non ne hanno propriamente i continuativi latini. E dimostrano una languida continuazione della cosa, un’azione più languida, e meno continua, ed anche interrotta; e di più un’azione meno perfetta. V.
p.1212. capoverso 1. e p.2328.
(11. Giugno 1821.)
Alla p.1128. Da queste osservazioni apparisce che la desinenza italiana della prima persona attiva singolare del perfetto indicativo, dico la desinenza in ai, è la vera e primitiva desinenza latina di detta persona, conservatasi per tanti secoli dopo sparita dalle scritture, o senza mai esservi ammessa, mediante il volgare latino; e per tanti altri, mediante la nostra lingua che gli [1156]è succeduta.
Desinenza conservatasi anche nella scrittura francese, nostra sorella, ma perduta nella pronunzia, conforme alla qual pronunzia gli spagnuoli (altri nostri fratelli) scrivono e dicono amè ec. Voce senza fallo derivata dall’antichissimo amai, mutato il dittongo ai nella lettera e, forse a cagione del commercio scambievole ch’ebbero i francesi e gli spagnuoli, e le lingue e poesie loro ne’ principii di queste e di quelle: commercio notabilissimo, lungo, vivo, e frequente; e conosciuto dagli eruditi, (Andrès t.2.
p.281. fine, e segg.) e che in ordine alla forma di molte parole e frasi è la sola cagione per cui la lingua spagnuola somiglia alla latina meno della nostra, quantunque in genere somigli e la lat. e la nostra assai più della francese.
Così nel futuro amarè ec. ec. somiglia alla lingua francese pronunziata.
Letteratura italiana Einaudi 839
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Quanto alla cagione per cui si trasmise col tempo alle lettere a ed i il digamma eolico, e poi il v, affine d’evitare, come dicono, l’iato, secondo il costume eolico, osserverò alcune cose che gioveranno anche a tutta questa parte del nostro discorso, e dalle quali potremo forse dedurre che il detto costume non venne veramente dal popolo, come ho detto p.1128. il quale anzi pare che conservasse la pronunzia antica fino a tramandarla ai nostri idiomi,
[1157]ma venne piuttosto, o nella massima parte, dagli scrittori, o dal ripulimento della rozza lingua latina antica.
Il concorso delle vocali suol essere accetto generalmente alle lingue (se non altro de’ popoli meridionali d’occidente) tanto più, quanto elle sono più vicine ai loro principii, ovvero ancora quanto sono più antiche, e quanto più la loro formazione si dovè a tempi vicini alla naturalezza de’ costumi e de’ gusti. Per lo più vanno perdendo questa inclinazione col tempo, e col ripulimento, e si considera come duro e sgradevole il concorso delle vocali che da principio s’aveva per fonte di dolcezza e di leggiadria. La lingua latina che noi conosciamo, cioè la lingua polita e formata e scritta non ama il concorso delle vocali, perch’ella fu polita e formata e scritta in tempi appunto politi e civili, e i più lontani forse dell’antichità dalla prima naturalezza; nell’ultima epoca dell’antichità; presso una nazione già molto civile ec. Per lo contrario la lingua greca stabilita e formata, e ridotta a perfette scritture in tempi antichissimi, gradì nelle scritture il concorso delle vocali, lo considerò come dolcezza e dilicatezza; e perciò la lingua greca che noi conosciamo e possiamo conoscere, cioè la scritta, [1158]ama il concorso delle vocali, specialmente quella lingua che appartiene agli scrittori più antichi, e nel tempo stesso più grandi, più classici, più puri, e più veramente greci.
Letteratura italiana Einaudi 840
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia E siccome la prosodia greca era già formata ai tempi d’Omero, (sia ch’egli la trovasse, o la formasse da se) la latina lo fu tanti e tanti secoli dopo, così fra la poesia dell’una e dell’altra lingua si osserva una notabile differenza in questo proposito, la quale conferma grandemente il mio discorso. Ed è che nella poesia latina se una parola finita per vocale è seguita da un’altra che incominci per vocale, l’ultima vocale della parola precedente è mangiata dalla seguente, si perde, e non si conta fra le sillabe del verso. All’opposto nella poesia greca non è mangiata, nè si perde o altera in verun modo, e si conta per sillaba, come fosse seguita da consonante; fuorchè se il poeta non la toglie via del tutto, surrogandole un apostrofo. Così dico dei dittonghi nello stesso caso, parimente elisi nella poesia latina, e intatti nella greca.
Parimente la lingua italiana antica, quella lingua de’
trecentisti, che quanto alla dolcezza e leggiadria non ha pari in nessun altro secolo, non [1159]solo non isfugge il concorso delle vocali, ma lo ama. Proprietà che la nostra lingua è venuta perdendo appoco appoco, quanto più s’è allontanata dalla condizione primitiva; e che oggi non solo dal massimo numero degli scrittori cioè da quelli di poca vaglia, ma da più eleganti, è per lo più sfuggita come vizio, e come causa di brutto e duro suono, in luogo di dolcezza o di grazia. Massimamente però gli scrittori più triviali (dico quanto alla lingua e lo stile), o affettati o no, di questo e de’ due ultimi secoli, par ch’abbiano una somma paura che due o più vocali s’incontrino, e storcono le parole in mille maniere per evitare questo disastro.
E così stimo che accada a tutte le lingue in ragione del tempo, dell’indole sua, e del ripulimento di esse lingue.
E accadde, io penso, anche alla lingua greca. Giacchè, lasciando quello che si può notare negli scrittori greci più recenti, i dittonghi che da principio, e lungo tempo nel seguito si pronunziavano sciolti, si cominciarono a pronunziar chiusi, e questo costume, come osservò il Visconti, Letteratura italiana Einaudi 841
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia risale fino al tempo di Callimaco, se è veramente di Callimaco un epigramma che porta il suo nome, dove alle parole naixÜ kalòw si fa che l’eco risponda �llòw ¦xei (epig.30), la qual cosa dimostra che lo scrittore dell’epigramma pronunziava nechi ed echi come i greci moderni, per naichi ed echei. E come io non [1160]dubito che i latini anticamente non pronunziassero i loro dittonghi sciolti siccome i greci, così mi persuado facilmente che a’ tempi di Cicerone e di Virgilio li pronunziassero chiusi come oggi si pronunziano.
(12. Giugno 1821.)
Alla p.1118. Perchè meglio s’intenda questa teoria de’
verbi continuativi, ne osserveremo e ne distingueremo la natura più intimamente ed accuratamente che non abbiamo fatto finora. Atto ed azione propriamente, differiscono tra loro. L’atto, largamente parlando, non ha parti, l’azione sì. L’atto non è continuato, l’azione sì. Questi due verbali actus ed actio, sì nel latino come nell’italiano, (ed anche nel francese ec.) e non solamente questi, ma anche gli altri di simile formazione, a considerarli esattamente, differiscono in questo, che il primo considera l’agente come nel punto, il secondo come nello spazio, o nel tempo. Certo non si dà cosa veramente e assolutamente indivisibile, ma se considereremo le opere dell’uo-mo o di qualunque agente, vedremo che alcune ci si presentano come indivisibili, e non continuate, altre come divisibili e continuate. Quando per tanto il verbo positivo latino significa atto, il verbo continuativo significa azione. [1161]P.e. vertere significa atto, versare azione. Il voltare non può farsi veramente in un punto solo, ma la lingua necessariamente considera l’atto del voltare come indivisibile e non continuato. Laddove quello che in latino si chiama versare, come il voltare per un certo tempo una ruota, si considera naturalmente come azione continuata, fatta non già nell’istante, ma nello spazio, e com-Letteratura italiana Einaudi 842
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia posta di parti. Questa dunque è azione, quello è atto, e quest’azione è composta di molti di quegli atti. Spessissimo avviene che ciò che l’uomo o la lingua considera come atto sia più durevole di un’azione dello stesso genere.
Come, per non dipartirci dall’esempio recato, l’azione del voltare una ruota per lo spazio, poniamo, di una mezz’ora, è più breve dell’atto di voltare sossopra una gran pietra, che non si possa rivolgere senza l’opera d’una o più ore. E tuttavia quell’azione in latino si esprimerebbe col verbo continuativo versare, quest’atto benchè più lungo dell’azione, non potrebbe mai dirsi versare, ma si esprimerebbe col positivo vertere. Perchè quest’atto, ancorchè lungo, rappresentandocisi complessivamente al pensiero, ci desta un’idea unica, non [1162]continuata, semplice: laddove quell’azione ci si presenta come moltiplice, composta, e continuata. Similmente jacere significa atto, jactare, azione.
Quando poi il verbo positivo latino esprime esso stesso non atto, ma azione, come sequi, ec. il continuativo significa la stessa azione più lunga e durevole, o più continua o costante, come sectari ec.
E finalmente spesse volte il continuativo significa l’usanza, il costume di fare quella tale azione o atto significato dal verbo positivo, come acceptare, datare, captare (v. il Forcellini), secondo che abbiamo veduto, significano il costume di ricevere, dare, prendere. (Forse captare nel senso p.e. di captare aves o pisces appartiene piuttosto alla classe precedente de’ continuativi dall’atto all’azione.) Noi abbiamo appunto volgere, voltare (cioè volutare), e voltolare, o rivolgere, rivoltare ec. positivo, continuativo e frequentativo.
Queste osservazioni debbono sempre più farci ammirare la sottigliezza, e la squisita perfezione della lingua latina, che forse non ha l’uguale in simili prerogative e facoltà.
(12. Giugno 1821.). V. p.2033. fine.
Letteratura italiana Einaudi 843
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Alla p.1115. marg. in fine. Che se il verbo salire è stato usato dall’Ariosto, dall’Alamanni, dal Caro e da altri nel significato dell’italiano saltare, come afferma il Monti (Proposta ec. Esame di alcune voci, alla v. ascendere. vol.1.
par.2. p.65.), e bene, ciò non prova che quel verbo abbia tale significazione in nostra lingua, ma solo presso gli scrittori, e detto verbo in tal senso non è veramente italiano, ma latinismo, [1163]come tanti altri, e latinismo non lodevole, a differenza di molti altri, e non meritevole di passare in uso o nel discorso o nelle scritture. Il francese saillir ha conservato alcuni significati figurati del latino salire, e lo spagnuolo salir per uscire (nel qual senso anche l’italiano salire fu adoprato dall’Ariosto) si avvicina pure al metaforico latino di salire per celeriter emergere.
E v. se lo spagnuolo salir ha altri significati.
(13. Giugno 1821.)
Il miglior uso ed effetto della ragione e della riflessione, è distruggere o minorare nell’uomo la ragione e la riflessione, e l’uso e gli effetti loro.
(13. Giugno 1821.)
Domandato il tale qual cosa al mondo fosse più rara, rispose, quella ch’è di tutti, cioè il senso comune.
(13. Giugno 1821.)
Altra prova dell’antico odio nazionale. Presso gli antichi latini o romani, forestiero e nemico si denotavano colla stessa parola hostis. V. Giordani nella lettera al Monti, in fine, (Proposta ec. vol.1. par.2. p.265. fine. alle voci Effemeride. Endica. Epidemia.) il Forcellini, e il mio pensiero su questa voce, p.205. fin. dove si porta anche l’esempio simile, della lingua Celtica.
(13. Giugno 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 844
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia
[1164]I Toscani che dicono bi ci di, perchè dicono effe, emme, enne, erre, esse (v. la Crusca) e non effi, emmi ec.?
anzi iffi, immi ec.?
(13. Giugno 1821.)
A quello che ho notato altrove dell’antichità della nostra frase gridare a testa, ec. aggiungi delle francesi, crier à pleine tête, à tue tête, du haut de sa tête, delle quali v.
l’Alberti v. Tête, e v. pure i Diz. spagnuoli.
(13. Giugno 1821.)
L’invidia, passione naturalissima, e primo vizio del primo figlio dell’uomo, secondo la S. Scrittura, è un effetto, e un indizio manifesto dell’odio naturale dell’uomo verso l’uomo, nella società, quantunque imperfettissima, e piccolissima. Giacchè s’invidia anche quello che noi abbiamo, ed anche in maggior grado; s’invidia ancor quello che altri possiede senza il menomo nostro danno; ancor quello che ci è impossibile assolutamente di avere, e che neanche ci converrebbe; e finalmente quasi ancor quello che non desideriamo, e che anche potendo avere non vorremmo. Così che il solo e puro bene altrui, il solo aspetto dell’altrui supposta felicità, ci è grave naturalmente per se stessa, ed è il soggetto di questa passione, la quale per conseguenza non può derivare se non dall’odio verso gli altri, derivante dall’amor proprio, ma derivante, se m’è lecito di [1165]così spiegarmi, nel modo stesso nel quale dicono i teologi che la persona del Verbo procede dal Padre, e lo Spirito Santo da entrambi, cioè non v’è stato un momento in cui il Padre esistesse, e il Verbo o lo Spirito Santo non esistesse.
(13. Giugno 1821.)
La convenienza al suo fine, e quindi l’utilità ec. è quello in cui consiste la bellezza di tutte le cose, e fuor della quale nessuna cosa è bella.
Letteratura italiana Einaudi 845
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia (13. Giugno 1821.)
Tutti quanti i giovani, benchè qual più qual meno, sono per natura disposti all’entusiasmo, e ne provano. Ma l’entusiasmo de’ giovani oggidì, coll’uso del mondo e coll’esperienza delle cose che quelli da principio vedevano da lontano, si spegne non in altro modo nè per diversa cagione, che una facella per difetto di alimento: anche durando la gioventù, e la potenza naturale dell’entusiasmo.
(13. Giugno 1821.)
Quante controversie sul significato di quelle parole di Orazio intorno a Cleopatra vinta nella battaglia Aziaca: (Od.37. lib.1. v.23. seq.)
Nec latentes
Classe cita REPARAVIT oras!
[1166]V. il Forcellini e i comentatori. E nessuno l’ha bene inteso. Acrone: NEC LATENTES CLASSE CITA REPARAVIT ORAS: fines regni latentes: id est non colligit denuo exercitum ex intimis regni partibus. Porfirione altro antico Scoliaste: NEC LATENTES C. C. R. ORAS: hoc est: Nec fugit in latentes, id est intimas Aegypti regiones ut vires inde repararet. Nè mai s’intenderà e spiegherà perfettamente senza l’antico italiano, il quale c’insegna un significato del verbo reparare che non è conosciuto ai Lessicografi latini. Ed è quello di ricoverarsi, nel qual senso i nostri antichi dicevano, ed ancor noi possiamo dire, riparare o ripararsi a un luogo o in un luogo. Orazio dunque vuol dire, e dice espressamente: Non si ricoverò, non ri-fuggi alle recondite, alle riposte parti d’Egitto. Come se in luogo di reparavit avesse detto petiit, ma reparavit ha maggior forza di esprimere la fuga e il timore.
(14. Giugno 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 846
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Alla p.1155. marg. Così nictare e nictari derivano dall’antico participio nictus o supino nictum dell’antico e inusitato nivere, o come altri vogliono, di niti. V. p.1150.
fine.
(14. Giugno 1821.)
Alla p.1132. Così nelle parole simplex, duplex,
[1167] triplex, multiplex e altre tali, si potrebbe ritrovare la radice monosillaba del verbo plicare (i greci dicono pl¡kein) del quale io credo che sia continuativo anomalo il verbo plectere ne’ significati di piegare, intrecciare e simili.
(14. Giugno 1821.). V. p.2225. capoverso 1.
Alla p.1154. principio. E lo stesso dico de’ verbi d’altre forme. Come l’antico participio di noscere si deduce dal verbo noscitare formato da noscitus, come notare da notus.
Così di pascere dal verbo pascitare formato da pascitus in luogo di pastus. E non solo di altre forme, anche d’altre congiugazioni. Come doctus che sia contrazione di docitus facilmente rilevasi da nocitus e nociturus di nocere, verbo che non differisce materialmente da docere se non che d’una lettera: da placitus di placere, verbo regolarissimo della stessa congiugazione seconda, e da molti altri simili participii. Se doctus fosse il vero participio lo sarebbe plactus dirittamente in vece di placitus. Da coerceo non coarctus o coerctus, ma coercitus, sebben poi contratto in coarctare ec. Il supino paritum e il participio paritus di parere cioè partorire, in luogo de’ quali sono più usitati partum e partus, deducesi però necessariamente da pariturus. E parturus, ch’io sappia, non si dice mai. V.
p.2009. e 2200. capoverso 2.
Letteratura italiana Einaudi 847
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Io stimo probabile che il verbo sollicitare intorno al-l’origine del quale vanno a tastoni gli etimologisti che lo derivano da citare, venga piuttosto [1168]da quel medesimo verbo da cui vedemmo formato adlicere (cioè dal verbo lacere) che ora fa nel participio adlectus, onde adlectare, e anticamente faceva, secondo me, adlicitus. E
così penso che sollicitare sia lo stesso che sublicitare dal participio sublicitus di un antico sublicere (altro composto di lacere) dal qual participio contratto in sublectus abbiamo effettivamente in Plauto il verbo sublectare. Di maniera che il significato appunto di adlicere, invitare, che i Vocabolaristi danno a sollicitare come traslato e secondario, dovrebbe considerarsi come primo e proprio.
Questa però non intendo di darla se non come congettura.
(15. Giugno 1821.)
Alla p.1139. Del che si potrebbono addurre molte prove che lascieremo agli eruditi, contentandoci di questa sola osservazione la quale dimostrerà che al più il b ebraico era un p, che talora si aspirava, e somigliante al f de’
greci ch’è un p aspirato, come abbiam detto. L’alfabeto Fenicio dal quale derivò l’alfabeto greco, e per conseguenza il latino, o derivato dal greco, o dalla medesima fonte del greco, era lo stesso che il Samaritano, e l’alfabeto Samaritano era l’antico alfabeto ebraico. Ora che l’alfabeto fenicio mancasse della lettera f, o al [1169]più si servisse in sua vece di un p aspirato si dimostra, fra le molte altre prove, ed oltre quello che abbiamo detto, che il f mancava all’antico alfabeto greco detto Cadmeo o Fenicio; da questo, che i latini chiamavano, com’è noto, i Cartaginesi originari di Fenicia, Poeni, Poenici, Punici, cioè Fenici, gr. FoÛnikew, servendosi come vedete di un p semplice in luogo di un p aspirato che usavano i greci in questo nome, e della f che vi usiamo noi. E così pure chiamavano non solamente phoeniceum, ma anche poeniceum Letteratura italiana Einaudi 848
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia e puniceum senza aspirazione, quel colore che i greci chiamavano foinÛkeow e per contrazione foinikoèw. Il che anche può dimostrare che gli antichi latini (il cui alfabeto derivò pure, come vedemmo, dal Fenicio) mancavano di un carattere proprio ad esprimere la f, ed anche forse della pronunzia di questa lettera. Ovvero che il f de’ greci da’
quali essi presero forse i detti nomi (specialmente quelli del detto colore che derivano da foÝnij palma), si pronunziava anche come un p semplice. V. Forcellini in H.
Pontedera p.14. (leggi assolutamente le sue prime 2 lettere, necessarie a questo mio discorso). I greci stessi scrivevano anticamente PH per F V. Encyclop. in H. p.215.
(15. Giugno 1821.)
L’ardore giovanile è la maggior forza, l’apice, la perfezione, l’�km¯ della natura umana. Si consideri dunque la convenienza di quei sistemi politici, nei quali l’�km¯ dell’uomo, cioè l’ardore e la [1170]forza giovanile, non è punto considerata, ed è messa del tutto fuori del calcolo, come ho detto in altro pensiero.
(15. Giugno 1821.)
Si consideri per l’una parte che cosa sarebbe la civiltà senza l’uso della moneta. Oltre ch’ella non potrebbe reggersi, non sarebbe neppur giunta mai ad un punto di gran lunga inferiore al presente, essendo la moneta, di prima necessità ad un commercio vivo ed esteso, e questo commercio scambievole vivo ed esteso, tanto delle nazioni, quanto degl’individui di ciascuna, essendo forse la principal fonte dei progressi della civiltà, o della corruzione umana. E se bisognassero prove di una proposizione così manifesta, si potrebbe addurre, fra gli altri infiniti de’ popoli selvaggi ec., l’esempio di Sparta che, avendo poco uso della moneta per le leggi di Licurgo, in mezzo al paese più civile del mondo a quei tempi, cioè la Grecia, si mantenne sì lungo spazio, e incorrotta, e quasi stazio-Letteratura italiana Einaudi 849
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia naria, o certo la sua civiltà, o corruzione, fu sempre di molti gradi minore di quella degli altri popoli greci, e le andò sempre molti passi indietro.
Per l’altra parte si consideri l’immensa [1171]difficoltà, l’immenso spazio che ha dovuto percorrere lo spirito umano prima di pur pensare a ridurre all’uso suo quotidiano, materie così nascoste dalla natura, così difficili a trarsi in luce, così difficili, non dico a lavorarsi, ma a dar sospetto che potessero mai esser lavorate, e solamente modificate e cambiate alquanto di forma. Anzi prima di trovare i metalli. E dopo tutto ciò, prima di pensare a ridurre ed erigere in rappresentanti di tutte le cose o necessarie, o utili o dilettevoli, de’ pezzi di materia per se stessa (massime anticamente) o inutile, o poco utile, disadatta, pesantissima, e (riguardo ai metalli che formarono le prime monete, cioè rame o ferro ec.) bruttissime ancora a vedersi. E quanto spazio passasse effettivamente prima di tutto ciò, si deduce anche dal fatto, e dal vedere che a’ tempi d’Omero, o almeno a’ tempi troiani (benchè certo non incolti), o mancava, o era di poco e raro uso la moneta.
E qui torno a domandare se la natura poteva ragionevolmente porre sì grandi, numerosi, incredibili ostacoli al ritrovamento di un mezzo necessario e principale per ottener quella che noi chiamiamo [1172]perfezione e felicità del genere umano, cioè l’incivilimento; e dico al ritrovamento dell’uso della moneta.
Osservate poi, nella stessa moderna perfezione delle arti, le immense fatiche e miserie che son necessarie per proccurar la moneta alla società. Cominciate dal lavoro delle miniere, ed estrazion dei metalli, e discendete fino all’ultima opera del conio. Osservate quanti uomini sono necessitati ad una regolare e stabile infelicità, a malattie, a morti, a schiavitù (o gratuita e violenta, o mercenaria) a disastri, a miserie, a pene, a travagli d’ogni sorta, per Letteratura italiana Einaudi 850
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia proccurare agli altri uomini questo mezzo di civiltà, e preteso mezzo di felicità. Ditemi quindi 1. se è credibile che la natura abbia posta da principio la perfezione e felicità degli uomini a questo prezzo, cioè al prezzo dell’infelicità regolare di una metà degli uomini. (e dico una metà, considerando non solo questo, ma anche gli altri rami della pretesa perfezione sociale, che costano il medesimo prezzo.) Ditemi 2. se queste miserie de’ nostri simili sono consentanee a quella medesima civiltà, alla quale servono. È noto come la schiavitù sia [1173]difesa da molti e molti politici ec. e conservata poi nel fatto anche contro le teorie, come necessaria al comodo, alla perfezione, al bene, alla civiltà della società. E quello che dico della moneta, dico pure delle derrate che ci vengono da lontanissime parti, mediante le stesse o simili miserie, schiavitù ec. come il zucchero, caffè ec. ec. e si hanno per necessarie alla perfezione della società. V. p.1182.
E vedete da questo, come la civiltà (secondo il costume di tutte le false teorie) contraddica a se stessa anche in teorica, ed oltracciò non possa sussistere senza circostanze che ripugnano alla sua natura, e sono assolutamente incivili, anzi barbare in tutta la verità e la forza del termine. Sicchè la perfetta civiltà non può sussistere senza la barbarie perfetta, la perfezione della società senza la imperfezione (e imperfezione nello stesso senso e genere in cui s’intende la detta perfezione); e tolta questa imperfezione, si taglierebbero le radici alla pretesa perfezione della società.
Torno a domandare se tali contraddizioni ed assurdi è presumibile che fossero ordinati e disposti primordialmente dalla natura, intorno alla perfezione, vale a dire al ben ESSERE della principal creatura terrena, cioè l’uomo.
[1174]E notate che l’uso della moneta quanto è necessario a quella che oggi si chiama perfezione dello stato sociale, tanto nuoce a quella perfezione ch’io vo predi-Letteratura italiana Einaudi 851
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia cando; giacchè il detto uso è l’uno de’ principalissimi ostacoli alla conservazione dell’uguaglianza fra gli uomini, e quindi degli stati liberi, alla preponderanza del merito vero e della virtù ec. ec. e l’una delle principalissime cagioni che introducono, e appoco appoco costringono la società all’oppressione, al dispotismo, alla servitù, alla gravitazione delle une classi sulle altre, insomma estinguono la vita morale ed intima delle nazioni, e le nazioni medesime in quanto erano nazioni. (16. Giugno 1821.).
Quel che si è detto della moneta si può dire di mille altri usi ec. necessari alla società o civiltà, e pur d’invenzione ec. difficilissima, come la scrittura, la stampa ec.
Ho detto più volte che la letteratura francese è precisamente letteratura moderna, ed è quanto dire che non è letteratura. Perchè considerando bene vedremo che i tempi moderni hanno filosofia, dottrina, scienze d’ogni sorta, ma non hanno propriamente letteratura, e se l’hanno, non è moderna, ma di carattere antico, ed è quasi un in-nesto dell’antico sul moderno. L’immaginazione ch’è la base della letteratura strettamente considerata, [1175]sì poetica come prosaica, non è propria, anzi impropria de’
tempi moderni, e se anche oggi si trova in qualche individuo, non è moderna, perchè non solamente non deriva dalla natura de’ tempi, ma questa l’è sommamente contraria, anzi nemica e micidiale. E vedete infatti che la letteratura francese, nata e formata in tempi moderni, è la meno immaginosa non solo delle antiche, ma anche di tutte le moderne letterature. E per questo appunto è letteratura pienamente moderna, cioè falsissima, perchè il predominio odierno della ragione quanto giova alle scienze, e a tutte le cognizioni del vero e dell’utile (così detto), tanto nuoce alla letteratura e a tutte le arti del bello e del grande, il cui fondamento, la cui sorgente e nutrice è la sola natura, bisognosa bensì di un mezzano aiuto della ragione, ma sommamente schiva del suo predominio che Letteratura italiana Einaudi 852
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia l’uccide, come pur troppo vediamo nei nostri costumi, e in tutta la nostra vita d’oggidì.
(16. Giugno 1821.)
Quanto più cresce il mondo rispetto all’individuo, tanto più l’individuo impiccolisce. I nostri antichi, conoscendo pochissima parte di mondo, [1176]ed essendo in relazione con molto più piccola parte, e bene spesso colla sola loro patria, erano grandissimi. Noi conoscendo tutto il mondo, ed essendo in relazione con tutto il mondo, siamo piccolissimi. Applicate questo pensiero ai diversissimi aspetti sotto i quali si verifica che essendo cresciuto il mondo, l’individuo s’è impiccolito sì fisicamente che moralmente; e vedrete esser vero in tutti i sensi che l’uo-mo e le sue facoltà impiccoliscono a misura che il mondo cresce in riguardo loro.
(16. Giugno 1821.)
Ho detto altrove che il troppo, spesse volte è padre del nulla. Osserviamolo ora nel genio e nelle facoltà della mente. Certi ingegni straordinarissimi che la natura alcune volte ha prodotti quasi per miracolo, sono stati o del tutto o quasi inutili, appunto a cagione della soverchia forza o del loro intelletto o della loro immaginazione, che finiva nel non potersi risolvere in nulla, nè dare alcun frutto determinato.
1. Questi tali geni sommi hanno consumato rapidamente il loro corpo e le stesse loro facoltà mentali, lo stesso genio. La soverchia delicatezza de’ loro organi li rende e più facili a consumarsi, e più facili a guastarsi, rimanendo inferiori di facoltà agli organi i meno delicati, e i più imperfetti. Testimonio Pascal, morto di 39 [1177]anni, ed era già soggetto a una specie di pazzia. Testimonio Ermogene che forse fu uomo insigne e straordinario, sebbene il suo secolo non gli permettesse di parer tale anche a noi, durante quel poco di tempo che gli durò l’uso delle Letteratura italiana Einaudi 853
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia sue facoltà mentali. Testimonio quel Genetlio di cui parla Esichio Milesio e Suida, il quale non era che un portento di memoria; ma quello ch’io dico dell’intelletto o della fantasia, dico pure della memoria, e si sono spesso veduti uomini che erano portenti di memoria da giovani, divenir maraviglie di dimenticanza da vecchi, o ancor prima. V. il Cancellieri, Degli uomini di gran memoria ec. S’io volessi qui noverare gli uomini insigni che hanno sofferto dal lato del loro fisico, non per altro che a cagione del loro troppo ingegno; e le morti immature che paiono essere inevitabili agli uomini di genio straordinariamente prematuro, e prematuramente sviluppato e coltivato, non finirei mai. V. in proposito del Chatterton famoso poeta morto di 19 anni, lo Spettatore di Milano, Quaderno 68. p.276. Parte straniera.
2. Questi geni straordinari, penetrano in certi [1178]misteri, in certe parti della natura così riposte; scuoprono e vedono tante cose, che la stessa copia e profondità delle loro concezioni, ne impedisce la chiarezza tanto riguardo a essi stessi, quanto al comunicarle altrui; ne impedisce l’ordine, insomma vince le loro stesse facoltà, e non è capace, a cagione dell’eccesso, di essere determinata, circoscritta, e ridotta a frutto. La forza della loro mente soverchia la capacità della stessa mente, perchè insomma la natura, e la copia delle verità esistenti è molto maggiore della capacità e delle facoltà dell’uomo. E il troppo vedere, il troppo concepire, rende questi tali ingegni, sterili e infruttuosi; e se scrivono, i loro scritti o sono di poco conto, ed anche aridi espressamente e poveri (come quelli di Ermogene); o certo minori assai del loro ingegno.
Come quegli animali inetti alla generazione per l’eccesso della forza generativa (i muli). E la stupidità della vita è ordinariamente il carattere di tali persone, o mentre ancora son giovani, o da vecchi, come narrano che fosse detto a Pico Mirandolano. Quello che dico dell’intelletto e della filosofia, dico pure della immaginazione e delle Letteratura italiana Einaudi 854
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia arti che ne derivano. Esempio del Tasso, della sua pazzia, dell’essere i suoi [1179]componimenti, quantunque bellissimi, certo inferiori alla sua facoltà, ed a quegli stessi degli altri tre sommi italiani, a niuno de’ quali egli fu realmente minore. E lo stesso dico eziandio di qualunque altra facoltà e disciplina particolare.
(17. Giugno 1821.)
Non è verisimile che la lingua chinese si sia conservata la stessa per sì lunga serie di secoli, a differenza di tutte le altre lingue. Eppure i suoi più antichi scrittori s’intendono mediante le stesse regole appresso a poco, che servono ad intendere i moderni. Ma la cagione è che la loro scrittura è indipendente quasi dalla lingua, come ho detto altrove, e (come pure ho detto) la lingua chinese potrebbe perire, e la loro scrittura conservarsi e intendersi nè più nè meno. Così dunque io non dubito che la loro antica lingua, malgrado l’immutabilità straordinaria di quel popolo, se non è perita, sia certo alterata. Il che non si può conoscere, mancando monumenti dell’antica lingua, benchè restino monumenti dell’antica scrittura. La quale ha patito bensì anch’essa, e va soffrendo le sue diversificazioni; ma i caratteri (indipendenti dalla lingua nel chinese) non essendo nelle mani e nell’uso del popolo, (massime nella China, [1180]dove l’arte di leggere e scrivere è sì difficile) conservano molto più facilmente le loro forme essenziali e la loro significazione, di quello che facciano le parole che sono nell’uso quotidiano e universale degl’idioti e de’ colti, della gente d’ogni costume, d’ogni opinione, d’ogni naturale, d’ogni mestiere, d’ogni vita, e accidenti di vita. (A questo proposito ecco un passo di Voltaire portato dal Monti Proposta ec. vol.2. par.1.
p.159. Quasi tutti i vocaboli che frequentemente cadono nel linguaggio della conversazione, ricevono molte digradazioni, lo svolgimento delle quali è difficile: il che ne’ vocaboli tecnici non accade, perchè più preciso e meno Letteratura italiana Einaudi 855
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia arbitrario è il loro significato. ) E lo vediamo pur nel latino, perduta la lingua, e conservati i caratteri, quanto alle forme essenziali, e al valore. Così nel greco ec. Ora nella China, conservato l’uso, la forma, e il significato de’ caratteri antichi, è conservata la piena intelligenza delle antiche scritture, quando anche oggi si leggessero con parole e in una lingua tutta diversa da quella in cui gli Antichi Chinesi le leggevano.
(17. Giugno 1821.)
Dell’antico significato di fabula onde favella, e di mèϑow v. le note Variorum al 1. lib. di Fedro, prologo, verso ult.
(18. Giugno 1821.)
Noi diciamo fuso sostantivo mascolino singolare, e fusa plurale femminino, secondo la proprietà della lingua nostra di dare a parecchie voci nel plurale, la desinenza del neutro plurale latino, del che vedi il Ciampi De usu linguae italicae saltem a saeculo sexto, dove mostra come molti di questi nostri plurali femminini in a derivino da un latino popolare [1181]ec. Queste tali desinenze italiane pare che indichino de’ neutri latini corrispondenti, e quel fusa dell’italiano pare che indichi un neutro latino fusum, o almeno il suo plurale fusa, come da brachia facciamo le braccia, da cornua, le corna, da genicula, diminutivo di genua (Forcellini), le ginocchia, da poma, le poma, da ossa, le ossa, da fila, le fila, da membra, le membra, da fundamenta, le fondamenta, da castella, le castella, da labia, le labbia, da labra, le labbra, da gesta, le gesta, da ligna, vestigia, le legna, le vestigia, da ova, le uova, da terga, le terga, da flagella, le flagella, le cervella, ec. le vestimenta, le ornamenta (v. la Crusca in vestimento), ec. le corna, le ciglia ec. da vasa, le vasa (Crusca, e Tansillo, Podere, capit.3. terz.2.) ec. Notate che quando gesto significa gestus us, non diciamo le gesta ma i gesti. E allora solo diciamo le gesta, quando gesto si piglia in senso neutro, e vuol dire Letteratura italiana Einaudi 856
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia cosa fatta, come in Corn. Nep. Obscuriora sunt eius gesta pleraque. (V. il Gloss. in Gesta.) Così diciamo interiori aggettivamente, ma le interiora (ed anche però gl’interiori) assolutamente per entragni, cioè in senso neutro, come Vegezio, Torsiones vocant, et interiorum incisiones. V.
p.2340. fine. Ma nè fusum nè fusa non si trovano ne’ Vocabolari latini, ma solamente fusus che fa nel plurale fusi.
Or ecco ne’ frammenti di Simmaco scoperti dal Mai (Q.
Aurelii Summachi V. C. Octo Orationum ineditarum partes. Orat.3. scil. Laudes in Gratianum Augustum, cap.9. Mediol. 1815. p.35.): Et vere si fas est praesagio futura conicere, iamdudum aureum saeculum currunt FUSA Parcarum. Così ha il Codice Ambrosiano antichissimo, cioè di verso la metà del sesto secolo almeno, vale a dire un secolo al più dopo la morte dell’autore. E che non sia sbaglio di scrittura si conosce anche dal vedere che scrivendo fusi guasterebbesi quel ritmo di cui Simmaco era tanto vago e sollecito, e così perpetuo seguace, come può sapere ognuno che l’abbia [1182]letto, e come si può notare a prima giunta anche negli altri scrittori di quella età e delle circonvicine, e generalmente di tutti gli scrittori latini e greci di corrotta e affettata eleganza e rettorica.
Questa voce fusa è stata notata dal Mai nell’Indice rerum notabiliorum, e dal Furlanetto nell’Appendice al Forcellini. V. pure il Forcell. e il Gloss. in saccus, sextarius, poichè noi diciamo le sacca, le staia. Dal che si potrebbe dedurre che l’antico volgo latino dicesse similmente murum, pugnum, fructum, lectum, sostantivo, digitum, anellum, risum, nel genere neutro, o almeno nel plurale, (oltre il mascolino che abbiamo in tali plurali anche noi) mura, pugna, fructa, lecta, digita, anella, risa, come noi diciamo le mura, le pugna, le frutta, le letta, le dita, le anella, le risa, e simili, quantunque non resti notizia precisa di queste voci latine, come fino a pochi anni addietro non si aveva notizia della voce che abbiamo veduta e che restava pure nell’italiano. Fructa e mura neutri plurali si Letteratura italiana Einaudi 857
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ritrovano anche nel latino barbaro. (Du Cange.) Lectum sostantivo neutro è usato da Ulpiano nel Digesto, e v.
Forcellini. (18. Giugno 1821.). Risus us dicono i buoni latini. Eppure essi dicono jussus us e parimente jussum i; e così altri tali verbali della quarta congiugazione (che risus è un puro verbale) gli fanno talora neutri della seconda, come pur gustum i, per gustus us, ec. su di che v.
p.2146. e 2010. se vuoi.
Alla p.1173. Così dico pure delle gemme, e di tanti altri oggetti o di uso o di lusso, difficilissimi a procacciarsi, e non possibili senza infiniti travagli e disastri, ma che d’altra parte si considerano appresso a poco come necessari alla vita civile, e servono effettivamente, o sono anche necessari al commercio fra le nazioni, (che senza molti di tali oggetti, e di tali bisogni, non sussisterebbe), fonte principale della civiltà e quindi della pretesa felicità del genere umano.
[1183]Il pensiero precedente intorno all’effettiva necessità di tanti oggetti di lusso ec. per mantenere e dar motivo al commercio, necessario alla civiltà, quando anche i detti oggetti non sieno effettivamente e per se stessi nè bisognevoli nè utili alla vita, merita di essere ampliato: perchè i detti oggetti costando infiniti travagli all’umanità, si vede come sia necessaria alla civiltà l’inciviltà, alla perfezione l’imperfezione (nel senso in cui chiamiamo perfezione il suo contrario), alla umanità e delicatezza e raffinatezza ec. la barbarie della società.
(18. Giugno 1821.)
Quello che ho detto altrove intorno alla diversa impressione che fanno ne’ fanciulli i nomi propri (e si può aggiungere le parole di ogni genere), e alle diverse idee che loro applicano di bellezza o di bruttezza, secondo le circostanze accidentali di quell’età, serve anche a dimostra-Letteratura italiana Einaudi 858
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia re come sia vero che il bello è puramente relativo, e come l’idea del bello determinato non derivi dalla bellezza propria ed assoluta di tale o tale altra cosa, ma da circostanze affatto estrinseche al genere e alla sfera del bello.
Ed ampliando questa osservazione, se noi vorremo vedere come i fanciulli appoco appoco si formino
[1184]l’idea delle proporzioni e delle convenienze determinate e speciali; e come senz’alcuna idea innata nè di proporzioni nè di convenienze particolari e applicate, giungano pur brevemente a giudicar quella cosa bella e quell’altra brutta, e quella buona, e quell’altra cattiva; e ad accordarsi più o meno col giudizio universale intorno alla bruttezza o bellezza, bontà o il suo contrario, senza però averne nell’intelletto o nella immaginazione alcun tipo; consideriamo per modo di esempio il progresso delle idee de’ fanciulli circa le forme dell’uomo, e vediamo come appoco appoco arrivino a giudicare e a sentire la bellezza e la bruttezza estrinseca degl’individui umani.
Il fanciullo quando nasce non ha veruna idea del quali sieno e debbano essere le forme dell’uomo: (eccetto per quello ch’ei sente materialmente e può concepire delle sue proprie membra e parti, mediante l’ esperienza de’
sensi.) (Ma se egli non ha l’idea di dette forme, e questo è costante presso tutti gl’ideologi, come potrà averla della loro bellezza? Come potrà aver l’idea della qualità, non avendo quella del soggetto? E così discorrete di tutti gli altri oggetti suscettibili di bellezza, di nessuno de’ quali il fanciullo ha idea innata. Come dunque potrà avere idea della bellezza, prima di aver la menoma idea di quelle cose che ponno esser belle? Poniamo un essere non soltanto possibile, ma reale, e che noi pur sappiamo ch’esista, senza però conoscerlo in altro conto. Che idea abbiamo noi della sua bellezza o bruttezza? Ma se è assolutamente ignoto quel bello e quel brutto che appartiene a forme ignote ec., dunque il bello non è assoluto.) L’acquista però ben presto col vedere, toccare ec. E vedendo Letteratura italiana Einaudi 859
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia p.e. in tutte le persone che lo circondano, il naso o la bocca di quella tal misura che noi chiamiamo proporzionata, si forma necessariamente e naturalmente l’idea che quella tal parte dell’uomo sia e debba essere di quella tal misura. Ecco subito l’idea di una proporzione non assoluta, ma relativa; idea non innata, ma acquisita, non derivata [1185]dalla natura nè dall’essenza delle cose, nè da un tipo e da una nozione preesistente nel suo intelletto, nè da un ordine necessario, ma dall’assuefazione del senso della vista circa quel tale oggetto, e dall’arbitrio della natura che ha fatto realmente la maggior parte degli uomini in quel tal modo.
Acquistata così per solissima assuefazione l’idea delle proporzioni o convenienze, il fanciullo si forma facilmente quella delle sproporzioni e sconvenienze, che è sempre e necessariamente posteriore a quella dei loro contrari, e perciò l’idea del brutto e del cattivo è posteriore a quella del buono e del bello, (il che non sarebbe se fosse assoluta e primitiva e ingenita nell’uomo, e appartenente all’essenza e natura della sua mente e della sua facoltà concettiva) e deriva non da un tipo, ma dalla detta idea in questo modo che son per dire. Seguendo l’esempio che abbiamo scelto, se il fanciullo vede un naso molto più lungo o più corto di quello ch’è assuefatto a vedere, concepisce subito il senso della sproporzione e sconvenienza, cioè di una mera contraddizione con la sua propria abitudine di vedere, e forma il giudizio dello sproporzionato e sconveniente, ossia del brutto. Ed eccolo ben presto d’accordo col giudizio universale degli uomini circa la bellezza e la bruttezza determinata, [1186]senza averne portata nè ricevuta dalla natura o dalla ragione verun’idea.
Ma ecco prove più trionfanti di questa mia proposizione, cioè che l’idea d’ogni proporzione, d’ogni convenienza, d’ogni bello, d’ogni buono determinato e specifico, e di tutti i loro contrari, deriva dalla semplice assuefazione.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia 1. Se quel naso sarà poco più lungo, o quella bocca poco più larga, quantunque lo sia tanto che basti ad eccitare negli uomini il giudizio e il senso della bruttezza, il fanciullo non concepirà questo giudizio nè questo senso in verun modo. Che la cosa vada così, n’è testimonio l’esperienza di chiunque è stato fanciullo, e vorrà sovvenirsi di ciò che gli accadeva in quell’età. E qual è la ragione? La ragione è che il fanciullo avendo acquistato solamente una scarsa e debole idea delle proporzioni, perchè poco ha veduto, e poco ha confrontato, ha parimente una scarsa ed inesatta e non sottile nè minuta idea delle sproporzioni, e non se n’accorge nè le sente, se non quando quel tale oggetto si oppone vivamente e fortemente alla sua abitudine. Solamente col molto vedere, egli arriva a formarsi senza pensarvi, un giudizio, un discernimento, un senso fino per distinguere il bello dal brutto. Alle volte per l’opposto pare al fanciullo notabilissima una sproporzione o sconvenienza, che gli altri neppure osservano. E ne deduce un senso di bruttezza che gli altri non provano. La ragione è la poca assuefazione, l’aver poco veduto, il che gli fa trovare strano quello che non è strano, e brutto quindi o assai brutto, quello che non è brutto, o poco.
Come ciò, se il brutto fosse assoluto? Un fanciullo raccontava che una persona aveva due nasi, perchè aveva osservata sul suo naso una piccola differenza di colore, in parte più rosso, in parte meno. E di questa cosa nessun altro si avvedeva senz’apposita osservazione. Che vuol dir
[1187]questo? Se l’idea del bello e del brutto determinato, fosse assoluta e naturale ed innata, avrebbe mestieri il fanciullo di crescere, e di esercitare i suoi sensi, e di esperienza, per acquistare un’idea, non dico perfetta, ma sufficiente, della bellezza o bruttezza determinata? Il vedere che ne ha bisogno, non dimostra evidentemente che il giudizio e il senso della bruttezza o bellezza deriva unicamente dall’assuefazione e dal confronto, e che nessun oggetto al mondo sarebbe nè bello nè brutto, nè buono nè Letteratura italiana Einaudi 861
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia cattivo, se non ci fosse con che confrontarlo, massime nella sua specie? E ciò viene a dire che nessuna cosa è bella nè buona assolutamente, e per se stessa; e quindi non esiste un bello nè un buono assoluto.
Il perfezionamento del gusto in ogni materia, sia nelle arti, sia riguardo alla bellezza umana, sia in letteratura ec.
ec. si considera come una prova del bello assoluto, ed è tutto l’opposto. Come si raffina il gusto de’ pittori, degli scultori, de’ musici, degli architetti, de’ galanti, de’ poeti, degli scrittori? Col molto vedere o sentire di quei tali oggetti sui quali il detto gusto si deve esercitare; coll’esperienza, col confronto, coll’assuefazione. Come dunque questo gusto può dipendere da un tipo assoluto, universale, immutabile, necessario, naturale, preesistente? Quello ch’io [1188]dico de’ fanciulli, dico anche de’ villani, e di tutti quelli che si chiamano o di rozzo, o di cattivo, o di non formato gusto in ogni qualsivoglia genere di cose: lo dico di chi non è avvezzo a vedere opere di pittura, il quale ognuno sa e dice che non può giudicare del bello pittorico; lo dico di chi non è accostumato alla lettura de’
buoni poeti, il quale non può mai giudicare del bello poetico, del bello dello stile ec. ec. ec. Come il giudizio e il senso del fanciullo intorno al bello, è da principio necessariamente grossolanissimo, cosa che dimostra evidentemente come il detto giudizio dipenda dall’assuefazione, così il giudizio e il senso della massima parte degli uomini circa il bello, resta sempre imperfettissimo non per altro, se non perchè la massima parte degli uomini non acquista mai una tal esperienza da poter formare quel giudizio minuto, esatto e distinto, che si chiama gusto fino.
Cioè 1. non considera bene le minute parti degli oggetti, per poterle confrontare, e formarsene quindi l’idea della proporzione determinata, idea ch’ egli non ha. 2. non ha l’abito di confrontare minutamente, ch’è l’ unico mezzo di giudicare minutamente della proporzione e sproporzione, bellezza o bruttezza, buono o cattivo. Così andate Letteratura italiana Einaudi 862
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia discorrendo, e applicate queste osservazioni a tutte le facoltà e cognizioni umane. E dal vedere che il senso
[1189]del bello è suscettivo di raffinamento e accrescimento sì ne’ fanciulli, e sì negli uomini già formati, deducete ch’esso non è dunque innato nè assoluto, giacchè quello che ha bisogno di essere acquistato e formato non è ingenito; e quello che essendo suscettivo di accrescimento è per conseguenza suscettivo di cangiamento, non è nè può essere assoluto.
Dunque io non riconosco negli individui veruna differenza di naturale disposizione ed ingegno a riconoscere e sentire il bello ed il brutto ec.? Anzi la riconosco, ma non l’attribuisco a quello a cui si suole attribuire: cioè ad un sognato magnetismo che trasporti gl’ingegni privilegiati verso il bello, e glielo faccia sentire, e scoprire senza veruna dipendenza dall’assuefazione, dall’esperienza, dal confronto; ad una simpatia dell’ingegno con un bello esistente nella natura astratta; ad un favore della natura che si riveli spontaneamente a questi geni privilegiati ec. ec. Tutti sogni. Il genio del bello, come il genio della verità e della filosofia, consiste unicamente nella delicatezza degli organi che rende l’uomo d’ingegno 1. facile ed inclinato a riflettere, ad osservare, [1190]a notare, a scoprire le minute cose, e le minime differenze: 2. a paragonare, e nel paragone ad essere diligente, minuto, e ritrovare le minime disparità, le minime somiglianze, le menome contrapposizioni, i menomi rapporti: 3. ad assuefarsi in poco tempo, e con poca esperienza, poco vedere ec. poco uso insomma de’ sensi, poco esercizio materiale delle sue facoltà, contrarre un’abitudine: 4. a potere, mediante quello che già conosce, indovinare in breve tempo anche quello che non conosce, in virtù della gran forza comparativa che gli viene dalla delicatezza de’ suoi organi; la qual forza fa ch’egli ne’ pochi dati che ha, scuopra tutti i possibili rapporti scambievoli, e ne deduca tutte le possibili conseguenze. Per esempio (non uscendo dalla mate-Letteratura italiana Einaudi 863
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ria che abbiamo scelta) un fanciullo provvisto di quello che si chiama genio, ha meno bisogno di vedere, di quello che n’abbia un altro d’ingegno ottuso e torpido, per formarsi un’idea della bellezza umana; perchè concepisce più presto l’idea delle proporzioni determinate, mediante una più minuta ed attenta considerazione degli oggetti che vede, ed una più esatta comparazione di questi oggetti fra loro. V.g. quel fanciullo d’ingegno
[1191]torpido non si accorgerà della piccola differenza di struttura che è fra quella bocca o quella fronte che vede, e quelle ch’è accostumato a vedere. Un fanciullo d’ingegno fino, penetrante, arguto, riflessivo, cioè di organi delicati, mobili, rapidi, pieghevoli, pronti, si accorgerà o subito, o più presto, di detta differenza, e concepirà il senso e il giudizio della sproporzione, e della bruttezza; perchè gli oggetti che ha veduti gli ha osservati meglio, e osserva meglio questo che or vede, e gli uni e l’altro gli fanno o gli hanno fatto, più viva, più chiara e più costante impressione; dal che deriva la maggior facilità ed esattezza della comparazione ch’egli fa in questo punto; comparazione ch’è l’unica fonte dell’idea delle proporzioni e convenienze. Ecco tutto il genio. Così discorrete proporzionatamente di tutte le altre età, e di tutti gli altri oggetti e facoltà, e vedrete come il genio di qualunque sorta, non sia mai altro che una facoltà osservativa e comparativa, derivante dalla delicatezza, e più o meno perfetta struttura degli organi, che è quello che si chiama maggiore o minore ingegno.
2. Se un fanciullo ha dintorno a se persone o di forme notabilmente diverse, o di forme tutte brutte, e che tutte convengano in una certa specie di bruttezza, l’idea ch’egli si forma della bellezza, e della proporzione, è incertissima nel primo caso, e sta solamente sui generali (cioè su quelle sole proporzioni che sono comuni a tutte le persone che lo circondano): e nel secondo caso, egli concepisce espressamente per bello, quello [1192]ch’è brutto, e Letteratura italiana Einaudi 864
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia che poi col più e più vedere altre persone, arriva finalmente a riconoscere per brutto. Qui chiamo in testimonio l’esperienza di tutti gli uomini del mondo, acciò mi dicano quanto l’idea loro circa la bellezza e la bruttezza si sia venuta cambiando secondo l’età, cioè a misura dell’esperienza della loro vista: e come quasi tutti abbiano da fanciulli giudicate belle delle fisonomie, delle persone ec. che in altra età sono loro sembrate brutte, e tali sembravano anche agli altri. Il che deriva 1. dalla ragione ora detta, 2. dalla poca pratica di vedere che ristringeva la facoltà del loro giudizio, e l’idea che essi avevano delle proporzioni, limitandola necessariamente e in ogni caso, alla sola idea delle proporzioni generali e comuni a tutti gli uomini, 3. da circostanze affatto estrinseche al bello: p.e. la nostra balia ci par sempre bella, e così tutte quelle persone che ci accarezzano da fanciulli ec. ec. Allora il giudizio della bellezza era effetto di queste tali impressioni (e non del bello). E si giudicava poi bello appoco appoco, quello che somigliava a queste tali fisonomie, sulle quali ci eravamo formata l’idea del bello umano, ancorchè fossero bruttissime. E siccome le impressioni della fanciullezza sono vivissime, così per effetto loro, [1193]e delle così dette simpatie ed antipatie, che sono uno de’ loro effetti, accade che per lungo tempo e forse sempre, ci troviamo inclinati a giudicare favorevolmente di persone bruttissime, ma somiglianti a quelle che da piccoli ci parvero belle, e massime di queste medesime; le quali, ancorchè brutte, non ci parranno mai più, brutte veramente; ma solo il nuovo abito di vedere, e quindi il nuovo modo che abbiamo contratto di giudicare della bellezza, ce le faranno giudicare, ma non parer brutte. E ci bisognerà sempre una riflessione, ed un confronto espresso colle nostre nuove idee del bello, per giudicar brutte quelle persone, che a prima vista, e senza considerazione, non ci parranno mai tali. Massime se il nostro ingegno è torpido e difficile a contrarre nuove abitudini: perchè nel Letteratura italiana Einaudi 865
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia caso contrario più facilmente ci riesce di formare intorno all’estrinseco di quelle persone un giudizio conforme alle nuove idee del bello che abbiamo acquistato colla maggiore esperienza de’ sensi. Prove più certe che l’idea del bello non sia nè assoluta, nè innata, nè naturale, nè immutabile, nè dipendente da un tipo (col quale avremmo potuto paragonare quelle fisonomie), non credo che si possano desiderare.
[1194]3. L’uomo, se ben considereremo, non giudica mai della bellezza nè della bruttezza, se non comparativamente, e l’idea del bello è sempre comparativa e quindi relativa. Noi giudichiamo della bellezza estrinseca dell’uomo, sia reale, sia imitata, molto più finamente che di qualunque altro bello fisico. Perchè? Perchè naturalmente facciamo ed abbiamo fatto maggiore attenzione alle forme de’ nostri simili, che di qualunque altro oggetto, e ne abbiamo notate le menome parti, le possiamo paragonare fra loro, e quelle di un individuo con quelle di un altro, o della generalità; e in questo modo, abbiamo distinta e minuta ed esatta l’idea acquisita delle proporzioni e convenienze relative alla figura dell’uomo, e delle sproporzioni e sconvenienze, che è quanto dire della bellezza e della bruttezza umana. Ma poniamo un individuo umano che non abbia mai veduto alcuno de’ suoi simili. Egli non saprà giudicare della bruttezza o bellezza loro in nessun modo, quando ne vegga qualcuno, massimamente se ne vede qualcuno isolato. Se però egli non avrà posta molta attenzione alle sue proprie forme, alla sua fisonomia, spec-chiandosi p.e. nelle fontane ec. Ed allora il giudizio ch’egli porterà delle forme di quel tal uomo, sarà pur comparativo, cioè comparativo alla sua propria [1195]forma, e quindi non si accorderà col giudizio generale, o solamente a caso. E se egli avrà avuta molta pratica di qualche altra specie di animali, come cani o cavalli ec. egli sarà molto meglio a portata di giudicare della bellezza di questi, che di quella dell’uomo. E nel detto giudizio sarà meglio d’ac-Letteratura italiana Einaudi 866
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia cordo col giudizio comune degli uomini. Dico degli uomini, e non già di quegli stessi animali, i quali, come gli uomini, ponendo maggiore attenzione alle forme de’ loro simili, ne giudicano molto diversamente, e più distintamente ed esattamente degli uomini: in proporzione però della facoltà de’ loro organi molto meno disposti o meno esercitati ad osservare, a paragonare, a riflettere, di quelli dell’uomo, e massime dell’uomo o del fanciullo incivilito più o meno. Bensì è vero che quel tal uomo che abbiamo supposto, si sentirà forse inclinato verso quel suo simile più di quello che fosse verso qualunque altra specie d’animali, con cui fosse addomesticato; e massimamente se quel suo simile è di diverso sesso. Ma questa è inclinazione materiale ed innata della natura sua, del tutto indipendente dall’idea del bello, e dal giudizio delle forme: è inclinazione e p�ϑow ossia passione, e non idea. E questo tal uomo, vedendo molti suoi simili tutti in un tratto per la prima volta, non conoscerà fra loro, nelle loro forme e fisonomie ec. quasi alcuna differenza, come è già noto che accade p.e. all’Europeo che vede per la prima volta degli Etiopi, o de’ Lapponi. Tutti gli paiono appresso a poco della stessa forma e fisonomia, e nessuno più bello nè più brutto [1196]degli altri. Questo appunto accade al fanciullo, nel primo veder uomini che gli accade, e va poi appoco appoco acquistando l’idea ed il senso della loro bellezza o bruttezza, per sola comparazione, cominciando a notare le minute parti, e paragonandole, e scoprendo le minute differenze negl’individui. Questo è ciò che ci accade negli animali, i quali tutti ci paiono appresso a poco p.e. della stessa fisonomia (dentro i limiti di una stessa specie); e quando anche facendoci l’occhio appoco appoco, arriviamo a portare un giudizio comparativo circa la bellezza comparativa delle loro forme, 1.
questo ci accade solamente negli animali che più si trattano e più si osservano, come cavalli, cani, buoi ec. chè della bellezza p.e. del lione individuo, nessun uomo ch’io Letteratura italiana Einaudi 867
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia sappia, nè si arroga, nè pensa pure di giudicare: 2. questo giudizio è certo assai meno esatto di quello degli stessi animali di quella specie, ed è credibile che bene spesso sia contrarissimo al giudizio degli stessi animali, perchè noi giudichiamo delle loro forme colle idee che abbiamo delle proporzioni (diverse dalle loro), e comparativamente piuttosto ad altre specie, e ad altri oggetti, che alla propria specie loro, del che dirò poco appresso. Un bambino e un animale confondono facilmente un pupazzo, una statua, una pittura ec. cogli oggetti che rappresentano, perchè sopra questi hanno fatta poca osservazione: meno facilmente però, o meno durevolmente, se l’oggetto rappresentato è della propria specie e forma, perchè nella forma della loro specie hanno posta naturalmente più attenzione.
Quell’uomo che io ho supposto, se non avesse
[1197]bene osservato il suo proprio colore, e vedesse un Nero e un Bianco allo stesso tempo, non saprebbe punto decidere qual de’ due fosse più bello, nè qual de’ due colori meglio convenisse alla specie umana. E se non avesse bene osservate le sue proprie forme, e vedesse al tempo stesso un Lappone, un italiano, un Patagone, non saprebbe decidere quale di queste tre forme fosse più bella, e non sentirebbe differenza di bellezza o bruttezza in nessuno di loro. Il che dimostra ch’egli non ha veruna regola o norma innata ed assoluta per giudicare del bello, neppure umano.
L’uomo non può mai formarsi l’idea di una bellezza isolata, vale a dire che il bello assoluto non esiste, nè altrove, nè nella idea, nella fantasia, nell’intelletto naturale e primitivo dell’uomo. Figuratevi che ci sia mostrato un oggetto forestiero, e che questo sia il primo e l’unico che noi vediamo nel suo genere. Noi o non giudichiamo in nessun modo della sua bellezza o bruttezza, nè la sentiamo; ovvero ne giudichiamo comparativamente ad altri generi di cose, e ad altre proporzioni, e così per lo più Letteratura italiana Einaudi 868
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia andiamo errati, e probabilmente giudicheremo brutto un oggetto che nel suo paese è giudicato bellissimo, e che lo è nel suo genere effettivamente; o viceversa. Figuratevi
[1198]di vedere un uccello Americano di specie da voi non prima veduta. Questa è specie e non genere, e voi per giudicarne potete paragonarla alle altre specie di uccelli che conoscete. Tuttavia probabilmente sbaglierete il giudizio; voglio dire, p.e. vi parranno sproporzioni quelle che agli Americani assuefatti a vederne, parranno proporzioni, e bellezza: e viceversa agli Americani parranno sproporzionati e brutti molti uccelli di specie e di forme assai differenti dai loro, e ch’essi non sono accostumati a vedere. Così discorrete d’ogni sorta di oggetti o naturali o artifiziali.
E passando da queste osservazioni, al buono e al cattivo, vedrete come nessuna cosa possibile sia buona nè cattiva, nè più o meno perfetta ec. isolatamente, ma solo comparativamente; e che per conseguenza non esiste il buono nè il cattivo assoluto, ma solo il relativo.
Voglio prevenire un’obbiezione. Diranno che l’uomo naturalmente, e senza osservazione ed esame preferisce un altro uomo, o una donna giovane a una vecchia, e che quindi l’idea della bellezza è assoluta.
1. Potrei dire che al fanciullo non accade così prima di avere acquistata coll’esperienza de’ sensi, [1199]la facoltà comparativa: ed aggiungerei che io mi ricordo di aver da fanciullo giudicato belli alcuni vecchi, e più belli ancora di altre persone ch’erano giovani. E ciò per le ragioni dette p.1191. fine-1193.
2. Ma la vera e piena risposta è che questo non appartiene alla sfera della bellezza.
Il metafisico non deve lasciarsi imporre dai nomi, ma distinguere le diverse cose che si denotano sotto uno stesso nome. V. in tal proposito p.1234-36. e specialmente p.1237. Un colore isolato e vivo, che piace, si chiama bel-Letteratura italiana Einaudi 869
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia lo, e non è. Un suono isolato che diletta, senza gradazioni nè armonia, non appartiene al bello. Bellezza non è altro che armonia e convenienza. Bruttezza è sproporzione e sconvenienza. Queste sono proposizioni non contrastate da nessun filosofo, per poco che abbia osservato. Quali cose si convengano o disconvengano insieme, si crede che la natura dell’uomo l’insegni, e che dipenda dall’ordine primordiale e necessario delle cose, e questo io lo nego.
La quistione è qui. Dove non entra armonia nè convenienza, la quistione non entra. Una cosa che piace senza armonia nè convenienza, appartiene alla sfera di altri piaceri. Quel colore vivo, ci diletta, perchè i nostri organi son così fatti, che quella sensazione li solletichi gradevolmente. [1200]Questa è sensazione (dipendente dall’arbitrio della natura circa le quali cose sieno piacevoli a questa o a quella specie di esseri) e non idea; e quindi il detto piacere, benchè venga per la vista, non appartiene alla bellezza, più di quello che vi appartenga il piacere che dà un cibo alle papille del nostro palato, o il piacere venereo ec. (Lascio che anche questi tali piaceri non sono assoluti neppure dentro i limiti di una sola specie, anzi neppure di un solo individuo, e dipendono sommamente, almeno in gran parte, dall’assuefazione.) L’uomo è più inclinato al suo simile giovane, che al suo simile vecchio. Così anche gli altri animali. Questa non è idea, ma inclinazione, tendenza, e passione; ed è fuori della teoria del bello, perch’è fuori ancora della sfera dell’armonia. Le tenden-ze sono innate e comuni a tutti gli uomini; le idee no. Ma nel detto caso la mente non giudica; bensì il fisico dell’uomo si sente inclinato, e trasportato. Non tutti i piaceri che vengono per la vista appartengono alla bellezza, sebbene gli oggetti che producono i detti piaceri, si chiamano ordinariamente belli; ma quelli soli che derivano dall’armonia e convenienza, sì delle parti fra loro, sì del tutto col suo fine.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Io credo poi ancora che la stessa idea dell’uomo che le cose debbano convenire fra loro, non sia innata ma acquisita, e derivi dall’assuefazione in questo modo. Io sono avvezzo a vedere p.e. negli uomini [1201]le tali e tali forme. Se ne vedo delle differenti e contrarie, le chiamo sconvenienti, perchè elle mi producono un effetto contrario alla mia assuefazione. Sviluppate quest’idea.
(20. Giugno 1821.)
Perchè la parzialità è sempre odiosa e intollerabile, quando anche colui che favorisce o benefica alcuno più degli altri, non tolga niente agli altri del loro dovuto, nè di quello che darebbe loro in ogni caso, nè li disfavorisca in nessun modo? Per l’odio naturale dell’uomo verso l’uomo, inseparabile dall’amor proprio. E v. in questo proposito la parabola del padre di famiglia e degli operai del Vangelo.
(21. Giugno, dì del Corpus Domini. 1821.). V. p.1205. fine.
Alla p.1114. verso il fine. Il Forcellini ora fa derivare i continuativi da’ frequentativi, (come ductare da ductitare) ora questi da quelli. I continuativi da’ frequentativi non derivano mai. Quanto ai frequentativi da’ continuativi, io non nego che talvolta non possano essere derivati dai participi o supini di questi ultimi, cangiata l’ a di detti participii o supini, in i, secondo quello che abbiamo stabilito p.1154. Nel qual caso i verbi continuativi venivano a diventar positivi relativamente al frequentativo che se ne formava. P.e. saltitare può forse anche venire da saltatus di saltare, cambiata l’ a in i, ed essere frequentativo o diminutivo non di salire, ma di saltare, cioè ballare. Infatti esso non vale saltellare, ma ballonzare o ballonzolare.
Questo però, posto che talvolta avvenga, avviene di rado, e la massima parte de’ frequentativi derivano immediatamente da’ positivi, e sono affatto indipendenti da’ continuativi degli stessi verbi, o abbiano questi, o non abbiano continuativi. Ed è curioso che il Forcellini bene spes-Letteratura italiana Einaudi 871
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia so chiama p.e. cursare frequentativo di currere, e cursitare che cosa? frequentativo di cursare. V. p.2011.
(21. Giugno 1821.)
[1202]Alla p.767. Le parole che per se stesse sono meri suoni, e così le lingue intere, in tanto sono segni delle idee, e servono alla loro significazione, in quanto gli uomini convengono scambievolmente di applicarle a tale e tale idea, e riconoscerle per segni di essa. Ora il principal mezzo di questa convenzione umana, in una società alquanto formata, si è la scrittura. Le lingue che o mancano o scarseggiano di questo mezzo di convenzione per intendersi, e spiegarsi distintamente, ed esprimere tutte le cose esattamente, restano sempre o affatto impotenti, o poverissime, e debolissime; e così accade a tutte le lingue finchè non sono estesamente applicate alla scrittura. Come convenire scambievolmente in tutta una nazione, di dare a quella tal parola quella tal significazione certa determinata e stabile, e di riconoscerla universalmente per segno di quella tal cosa o idea? Come arricchire la lingua, accrescere le significazioni di una stessa parola, stabilire l’uso e l’intelligenza comune di una metafora o traslato, dare alla lingua una tal facoltà di tale o tal formazione di voci o di modi che significhi regolarmente tale o tal altro genere di cose o idee? Come poi regolare ed uniformare e ridurre sotto leggi conformi in tutta la nazione la sintassi, le inflessioni dinotanti i diversi accidenti di una stessa parola, ec. ec.? Tutte queste cose sono impossibili
[1203]senza la scrittura, perchè manca il mezzo di una convenzione universale, senza cui la lingua non è lingua ma suono. La viva voce di ciascheduno, poco ed a pochi si estende. Le scritture vanno per le mani di tutta la nazione, e durano anche dopo che quegli che le fece, non può più parlare. Gl’individui di una nazione non possono convenir tutti fra loro di veruna cosa a uno a uno. Ed un individuo, ancorchè di sommo ingegno, non può met-Letteratura italiana Einaudi 872
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tere in uso una parola, una frase, una regola di lingua, un significato, e renderne comune e stabilirne l’intelligenza colla sola sua voce, e favella (di cui tanto pochi e solo istantaneamente possono partecipare), se non lentissimamente e difficilissimamente. Ora le lingue le più estese sono sempre nate dall’individuo, e vi fu sempre il primo che inventò e pronunziò quella parola, quella frase, quel significato ec. In qualunque modo si sieno formate le lingue primitive, e gli uomini abbiano cominciato ad intendersi ed esprimersi scambievolmente mediante gli organi della favella, certo è che questo non è avvenuto se non a pochissimo per volta, sinchè una lingua non è stata applicata alla scrittura; perchè la convenzione individuale di ciascheduno, non può essere se non lentissima e difficilissima. Di più è certo che l’uso di tutte le lingue nel loro nascere fu ristretto [1204]a una piccolissima società, dove la convenzione era meno difficile, perchè fra un piccolo numero d’individui. Ma trattandosi di arricchire, accrescere, regolare, ordinare, perfezionare, e in qualunque modo migliorare una lingua già parlata da una nazione, dove la convenzione che deriva dall’uso è lentissima, difficilissima, e per lo più parziale e diversa, il principale e forse l’unico mezzo di convenzione universale (senza cui la lingua comune non può ricevere nè miglioramento nè peggioramento), è la scrittura, e fra le scritture quella che 1. va per le mano di tutti, 2. è conforme ne’
suoi principii, e nelle sue regole, vale a dire la letteratura largamente considerata. Perchè la scrittura non letterata, o non importante in qualunque modo per se stessa, come lettere cioè epistole ec. ec. è soggetta quasi agli stessi inconvenienti della viva voce, cioè si comunica a pochi, (forse anche a meno di quelli a cui si comunica la voce di un individuo) e non è uniforme nè costante nelle sue qualità. Insomma si richiede un genere di scrittura che sia nazionale, e possa produrre, stabilire, regolare e mantenere la convenzione universale circa la lingua.
Letteratura italiana Einaudi 873
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia (22. Giugno 1821.)
Alla p.1129. Bisogna notare che i gramatici e vocabolisti intorno a parecchi di questi e simili verbi e nomi portano opinione contraria al parer nostro, cioè fanno derivare i nomi da’ verbi, come vedremo [1205]di lex da legere, e come rex da regere, laddove noi regere da rex, conforme porta la sana filosofia, e ideologia, e la considerazione del progresso naturale delle idee. Che certo molto prima ebbero gli uomini un nome da significare colui da cui veniva il comando, che un altro da significar l’azione stessa del comandare. L’idea dell’azione la più materiale, e per conseguenza l’idea espressa da’ verbi, è sempre metafisica, e quindi posteriore a quella significata da’ nomi. V. in proposito la p.1388-91. Dico posteriore ad esser significata, non sempre però posteriore nella concezione; ma benchè anteriore nella concezione (come in questo esempio) l’uomo stabilì prima un segno per esprimere colui che la faceva, e che era materiale e visibile, (come il re, cioè quegli che comanda) di quello che arrivasse a fissare e determinare con un segno l’idea metafisica di ciò che questi faceva. Perchè questa idea benchè seconda nell’ordine, fu la prima idea ch’egli concepisse chiaramente, in modo da poterla determinare e circoscrivere con un segno. Così che ella è anteriore come idea chiara, benchè posteriore come idea semplicemente. E quello che bisogna cercare in riguardo alle lingue è l’ordine e la successione non delle idee assolutamente ma delle idee chiare che l’uomo ha concepite, giacchè queste sole egli ha potuto e può significare. V. Sulzer p.53. Ma bisogna perdo-nare ai gramatici se finora non sono stati ideologi; bensì non bisogna che il filologo illuminato dalla filosofia, si lasci imporre dalla loro opinione in quelle cose che ripugnano all’analisi e alla scienza dell’umano intelletto.
(22. Giugno 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 874
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Alla p.1201. Ho già detto altrove di una donna sterile che bastonava una cavalla pregna dicendo, [1206] Tu gravida, e io no? Io credo che un padre storpio difficilmente possa vedere con compiacenza i suoi figli sani, e non provare un certo stimolo a odiarli, o una difficoltà ad amarli, che facilmente si convertirà in odio, e riceverà poi scioccamente il nome di antipatia, quasi fosse una passione innata, e senza causa morale. Del che si potrebbero portare infinite prove di fatto, come dell’odio delle madri brutte verso le figlie belle, e delle persecuzioni che bene spesso fanno per tal cagione a giovani innocentissime, senza che nè queste nè esse medesime vedano bene il perchè. Così de’ padri di poco ingegno o in qualunque modo sfortunati, verso i figli di molto ingegno, o in qualunque modo avvantaggiati su di loro. Così (e questa è cosa generalissima) de’ vecchi verso i giovani (siano anche loro figliuoli, (anzi massimamente in simili casi) e femmine o maschi ec. ec.); ogni volta che i vecchi non hanno deposto i desiderii giovanili, ed ogni volta che i giovani, ancorchè innocentissimi ed ottimi, non si conducano da vecchi. Così tra fratelli e sorelle ec. ec. Tanto naturalmente l’amor proprio inseparabile dai viventi, produce e quasi si trasforma nell’odio degli altri oggetti, anche di quelli che la natura ci ha maggiormente raccomandati (al nostro stesso amor proprio) e resi più cari.
(22. Giugno 1821.)
[1207]Quante cose si potrebbero dire circa l’infinita varietà delle opinioni e del senso degli uomini, rispetto all’armonia delle parole. Lascio i diversissimi e contrarissimi giudizi dell’orecchio sulla bellezza esterna delle parole, secondo le diversissime lingue, climi, nazioni, assuefazioni; ed intorno alla dolcezza, alla grazia, sì delle parole, che delle lettere e delle pronunzie ec. In un luogo parrà graziosa una pronunzia forestiera, in un altro sgraziata quella, e graziosa un’altra pur forestiera; secondo i Letteratura italiana Einaudi 875
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia differenti contrasti colle abitudini di ciascun paese o tempo, contrasti che ora producono il senso della grazia, ora l’opposto ec. ec. V. p.1263. Lascio le differentissime armonie de’ periodi della prosa parlata o scritta, secondo, non solamente le diverse lingue e nazioni e climi, ma anche i diversi tempi, e i diversi scrittori o parlatori d’una stessa lingua e nazione, e d’un medesimo tempo. Osserverò solo alcune cose relative all’armonia de’ versi. Un forestiero o un fanciullo balbettante, sentendo versi italiani, non solo non vi sente alcun diletto all’orecchio, ma non si accorge di verun’armonia, nè li distingue dalla prosa; se pure non si accorge e non prova qualche piccolo, anzi menomo diletto nella conformità regolare della loro cadenza, cioè nella rima. La quale sarebbe sembrata spia-cevolissima e barbara agli antichi greci e latini, ec. alle cui lingue si poteva adattare niente meno che alle nostre, ed a quelle stesse forme di versi che usavano, che bene spesso o somigliano, o sono a un dipresso le medesime che parecchie delle nostre, massimamente italiane. E di più sarebbe stata loro più facile, stante il maggior numero di consonanze che avevano, ed anche [1208]il maggior numero di parole, considerando se non altro (per non entrare adesso nel paragone della ricchezza) l’infinita copia e varietà delle inflessioni di ciascun loro verbo o nome ec. Così che avrebbero potuto usar la rima meglio di noi, e più gradevolmente, cioè più naturalmente, forzando meno il senso, il verso, l’armonia della sua struttura, il ritmo, ec. E nondimeno la fuggivano tanto quanto noi la cerchiamo, ed a noi stessi, avvezzi all’armonia de’
loro versi, parrebbero barbari e disgustosi ponendovi la rima.
Se esistesse un’assoluta armonia, cioè a dire un’assoluta convenienza e relazione fra i suoni articolati, e se i versi italiani (che è pur la lingua e la poesia stimata la più armonica del mondo) fossero assolutamente armoniosi, lo sentirebbe tanto il forestiero e il fanciullo ignorante della Letteratura italiana Einaudi 876
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia lingua, quanto l’italiano adulto nè più nè meno. E se quest’assoluta armonia, e questi versi assolutamente armonici fossero assoluta e natural cagione di diletto per se stessi, lo sarebbero universalmente, e non più all’italiano che allo straniero e al fanciullo.
Tutti coloro che non sanno il latino o il greco, di qualunque nazione sieno, non sentono armonia veruna ne’
versi latini o greci, se pur non sono assuefatti lungamente ad udirne per qualsivoglia circostanza, [1209]ed allora notandone appoco [appoco] le minute parti, e le minute corrispondenze, e relazioni, e regolarità, non si formano l’orecchio a sentirne e gustarne l’armonia. Il qual processo è necessario anche a chi meglio intenda il latino ed il greco.
Il nostro volgo trova una certa armonia negl’inni ecclesiastici ec. e nessuna ne troverebbe in Virgilio. Perchè?
perchè gl’inni ecclesiastici somigliano sì per la struttura, l’andamento e il metro, sì bene spesso per la rima, ai versi italiani che il volgo pure è avvezzo a udire e cantare per le strade. E poi, perch’egli è avvezzo ad udire appunto quei tali barbari versi e metri latini.
Un italiano assai colto, ma non avvezzo a legger poesia nostra, leggendogli una canzone del Petrarca, mi disse quasi vergognandosi, che trovava privo d’armonia quel metro, e che il suo orecchio non ne era punto dilettato. Il qual metro somiglia a quello delle odi greche composte di strofe, di antistrofe, e d’epodo, ed ha un’armonia così nobile e grave, ed atto alla lirica sublime. Soggiunse ch’egli non sentiva il diletto dell’armonia fuorchè nelle ottave, e in qualcuno de’ nostri metri che chiamiamo anacreontici.
Notate ch’egli non aveva punto [1210]quell’orecchio che si chiama cattivo.
Domandate a un francese, ancorchè bene istruito dell’italiano o dell’inglese, s’egli sente verun’armonia ne’ versi sciolti più belli, o ne’ versi bianchi degl’inglesi.
Letteratura italiana Einaudi 877
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Ciascuna nazione ha avuto ed ha i suoi metri particolari, tanto per la struttura di ciascun verso, quanto per la loro combinazione, disposizione e distribuzione, ossia per le strofe ec. E questi in proporzione della differenza maggiore o minore de’ climi, opinioni, assuefazioni, tempi (giacchè le stesse nazioni altri n’avevano anticamente, altri poi, altri oggi) ec. ec. sono diversissimi, e spesso affatto o inarmonici, o disarmonici per gli stranieri, secondo la misura dell’essere straniero, come noi verso i francesi dall’una parte, dall’altra verso gli orientali ec. ec. È impossibile allo straniero il sentirvi armonia nè diletto, senza una di queste condizioni 1. lungo uso di quella lingua; ma non basta, anzi è nullo quest’uso, se non vi si aggiunge il lungo uso di quella poesia. 2. somiglianza o affinità di quei metri co’ metri della propria nazione; come fra quelli degl’italiani e degli spagnuoli. La difficoltà del sentire l’armonia de’ versi stranieri è maggiore o minore in proporzione ch’ella è più o meno diversa dall’armonia de’ nostrali, o da quella o quelle a cui siamo avvezzi. 3.
abito fatto ad altre armonie forestiere affini a quella di cui si tratta. 4. orecchio esercitato a tante e sì diverse armonie, che mediante una forza riflessiva, osservativa, e comparativa straordinariamente accresciuta, sia in grado di avvertire e conoscere o subito o ben presto la natura di quelle combinazioni forestiere, gli elementi di quell’armonia, e il ritorno de’ loro regolati rapporti rispettivi; sia in grado di assuefar presto l’orecchio, ed abbia una facilità di contrarre abitudine, ch’è propria degli animi e de-gl’ingegni pieghevoli e adattabili, cioè in somma de’ grandi ingegni; ec. ec. e possa in poco tempo arrivare a [1211]scoprire e discernere in detta armonia quello che i nazionali ci scuoprono.
È impossibile al nazionale avvezzo, e formato l’orecchio all’armonia de’ suoi metri, per quanto sia chiamata barbara, dura, dissonante ec. dagli stranieri, il non sentirla meglio, e il non trovarla più dilettevole di qualunque Letteratura italiana Einaudi 878
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia altra armonia forestiera, ancorchè giudicata bellissima ec.
Fuorchè formando (che è difficilissimo e forse non accade mai) un’assuefazione nuova che vinca la passata.
Chi di noi sente l’armonia de’ versi orientali, o delle strofe loro? Non parlo de’ versi tedeschi o inglesi, o della prosa tedesca misurata ec. in ordine agl’italiani. I quali molto più presto e facilmente riconoscono un’armonia ne’ versi francesi, perchè lingua ed armonia più affine alla loro.
Si pretende, ed è probabilissimo che parecchi libri scrit-turali sieno metrici. Ma in quali metri sieno composti nessuno l’ha trovato, benchè molti l’abbiano cercato. E
non si potrà mai trovare se non a caso, non essendoci regola che c’insegni qual fosse quella che agli Ebrei pareva armonia rispetto alle parole. E ciò per qual altra ragione, se non perchè non esiste armonia assoluta? Se esistesse, la regola sarebbe trovata, massime esistendo tutte intere e ordinate quelle parole, che si pretendono aver formato un’armonia. [1212]
(23. Giugno 1821.). V. p.1233. fine.
Alla p.1155. Alle volte, anzi bene spesso dinotano l’appoco appoco, il corso il progresso dell’azione, per lo più lento, anzi hanno forza bene spesso di esprimere appunto la lentezza dell’azione, e non si usano ad altro fine.
Ovvero esprimono formalmente la debolezza dell’azione, ed hanno come una forza diminutiva uguale o simile a quella de’ verbi latini terminati in itare. Hanno simili modi anche gli spagnuoli e francesi, e gli adoprano in simili significati.
(24. Giugno 1821.). V. p.1233. capoverso 2.
Non è ella cosa notissima, comunissima, frequentissima, e certa per la esperienza quasi di ciascuno, che certe persone che da principio, o vedendole a prima giunta, ci paion brutte, appoco appoco, assuefacendoci a vederle, Letteratura italiana Einaudi 879
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia e scemandosi coll’assuefazione il senso de’ loro difetti esteriori, ci vengono parendo meno brutte, più sopportabili, più piacevoli, e finalmente bene spesso anche belle, e bellissime? E poi perdendo l’assuefazione di vederle, ci torneranno forse a parer brutte. Così dico di ogni altro genere di oggetti sensibili o no. Molti de’ quali che per una primitiva assuefazione di vederli e trattarli ci parvero belli da principio, cioè prima di esserci formata un’idea distinta e fissa del bello; veduti poi dopo lungo intervallo, ci paiono brutti e bruttissimi. Che vuol dir ciò?
Se esistesse un bello assoluto, la sua idea sarebbe continua, indelebile, inalterabile, uniforme in tutti gli uomini, nè si potrebbe o perdere o acquistare, o indebolire o rin-forzare, o minorare o accrescere, [1213]o in qualunque modo cambiare (e cambiare in idee contrarie, come abbiamo veduto) coll’assuefazione, dalla quale non dipen-derebbe.
(24. Giugno 1821.)
Da qualche tempo tutte le lingue colte di Europa hanno un buon numero di voci comuni, massime in politica e in filosofia, ed intendo anche quella filosofia che entra tuttogiorno nella conversazone, fino nella conversazione o nel discorso meno colto, meno studiato, meno artifiziato.
Non parlo poi delle voci pertinenti alle scienze, dove quasi tutta l’Europa conviene. Ma una grandissima parte di quelle parole che esprimono cose più sottili, e dirò così, più spirituali di quelle che potevano arrivare ad esprimere le lingue antiche e le nostre medesime ne’ passati secoli; ovvero esprimono le stesse cose espresse in dette lingue, ma più sottilmente e finamente, secondo il progresso e la raffinatezza delle cognizioni e della metafisica e della scienza dell’uomo in questi ultimi tempi; e in somma tutte o quasi tutte quelle parole ch’esprimono precisamente un’idea al tempo stesso sottile, e chiara o almeno perfetta ed intera; grandissima parte, dico, di queste voci, Letteratura italiana Einaudi 880
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia sono le stesse in tutte le lingue colte d’Europa, eccetto piccole modificazioni particolari, per lo più nella desinenza. Così che vengono a formare una specie di piccola lingua, o un vocabolario, strettamente universale. E dico strettamente universale, cioè non come è universale la lingua francese, ch’è lingua secondaria [1214]di tutto il mondo civile. Ma questo vocabolario ch’io dico, è parte della lingua primaria e propria di tutte le nazioni, e serve all’uso quotidiano di tutte le lingue, e degli scrittori e parlatori di tutta l’Europa colta. Ora la massima parte di questo Vocabolario universale manca affatto alla lingua italiana accettata e riconosciuta per classica e pura; e quello ch’è puro in tutta l’Europa, è impuro in Italia. Questo è voler veramente e consigliatamente metter l’Italia fuori di questo mondo e fuori di questo secolo. Tutto il mondo civile facendo oggi quasi una sola nazione, è naturale che le voci più importanti, ed esprimenti le cose che appartengono all’intima natura universale, sieno comuni, ed uniformi da per tutto, come è comune ed uniforme una lingua che tutta l’Europa adopera oggi più universalmente e frequentemente che mai in altro tempo, appunto per la detta ragione, cioè la lingua francese. E siccome le scienze sono state sempre uguali dappertutto (a differenza della letteratura), perciò la repubblica scientifica diffusa per tutta l’Europa ha sempre avuto una nomenclatura universale ed uniforme nelle lingue le più difformi, ed intesa da per tutto egualmente. Così sono oggi uguali (per necessità e per natura del tempo) le cognizioni metafisiche, filosofiche, politiche ec. la cui massa e il cui sistema semplicizzato e uniformato, è comune oggi [1215]più o meno a tutto il mondo civile; naturale conseguenza dell’andamento del secolo. Quindi è ben congruente, e conforme alla natura delle cose, che almeno la massima parte del vocabolario che serve a trattarle ed esprimerle, sia uniforme generalmente, tendendo oggi tutto il mondo a uniformarsi. E le lingue sono sempre il termometro de’
Letteratura italiana Einaudi 881
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia costumi, delle opinioni ec. delle nazioni e de’ tempi, e seguono per natura l’andamento di questi.
Diranno che buona parte del detto vocabolario deriva dalla lingua francese, e ciò stante la somma influenza di quella lingua e letteratura nelle lingue e letterature moderne, cagionata da quello che ho detto altrove. Ma venisse ancora dalla lingua tartara, siccome l’uso decide della purità e bontà delle parole e dei modi, io credo che quello ch’è buono e conveniente per tutte le lingue d’Europa, debba esserlo (massime in un secolo della qualità che ho detto) anche per l’Italia, che sta pure nel mezzo d’Europa, e non è già la Nuova Olanda, nè la terra di Jesso. E se hanno accettate, ed usano continuamente le dette voci, quelle lingue Europee che non hanno punto che fare colla francese, quanto più dovrà farlo, e più facilmente, e con più naturalezza e vantaggio la nostra lingua, ch’è sorella carnale della francese? Le origini di dette parole, a noi [1216]riescono familiari e domestiche, perchè in gran parte derivano dal latino, benchè applicate ad altre significazioni che non avevano, nè potevano aver nel latino, mancando i latini di quelle idee. Spessissimo vengono dal greco, che a noi non è più, anzi meno alieno, di quello che sia alle altre lingue colte moderne. Spesso sono interamente italiane cioè stanno già materialmente nel nostro linguaggio, benchè in significato diverso, e meno sottile, o meno preciso, perchè i nostri antichi non poterono aver quelle idee, che oggi abbiamo noi, non perciò meno italiani di loro, nè quelle idee sono meno italiane perchè i nostri antichi non le arrivarono a concepire, o solo confusamente, secondo la natura de’ tempi, e lo stato dello spirito umano.
Si condannino (come e quanto ragion vuole) e si chiamino barbari i gallicismi, ma non (se così posso dire) gli europeismi, che non fu mai barbaro quello che fu proprio di tutto il mondo civile, e proprio per ragione ap-Letteratura italiana Einaudi 882
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia punto della civiltà, come l’uso di queste voci che deriva dalla stessa civiltà e dalla stessa scienza d’Europa.
Osservate p.e. le parole genio, sentimentale, dispotismo, analisi, analizzare, demagogo, fanatismo, originalità ec. e tante simili che tutto il mondo intende, tutto il mondo adopera in una stessa e precisa significazione, e il solo italiano non può adoperare (o non può in quel significato), perchè? perchè i puristi le scartano, e perchè i nostri antichi, non potendo aver quelle idee, non poterono pronunziare nè scrivere quelle parole in quei sensi. Ma così accade in ordine alle stesse parole, a tutte le lingue del mondo che pur non hanno scrupolo di adoperarle. Piuttosto avrebbero scrupolo e vergogna di non saper esprimere un’idea chiara per loro, e chiara per tutto [1217]il mondo civile, mentre per la espressione delle idee chiare son fatte e inventate e perfezionate le lingue. Come infatti noi, non volendo usar queste parole, non possiamo esprimere le idee chiare che rappresentano, o dobbiamo esprimere delle idee chiare e precise (e ciò nella stessa mente nostra), confusamente e indeterminatamente: e poi diciamo che l’italiano è copiosissimo, e basta a tutto, ed avanza. Sicchè bisogna tacere, o scriver cose da bisavoli, e poi lagnarsi che l’italiana letteratura e filosofia resta un secolo e mezzo addietro a tutte le altre. E come no, senza la lingua?
Aggiungo che quando anche potessimo ritrovare nel nostro Vocabolario o nella nostra lingua, o formare da essa lingua altre parole che esprimessero le stesse idee, bene spesso faremmo male ad usarle perchè non saremmo intesi nè dagli stranieri, nè dagli stessi italiani, e quell’idea che desteremmo non sarebbe nè potrebbe mai esser precisa; e non otterremmo l’effetto dovuto e preciso di tali parole, che è quanto dire, le useremmo invano, o quasi come puri suoni.
Letteratura italiana Einaudi 883
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia 1. Fu tempo dove agli uomini ed agli scrittori bastava di giovare, di farsi intendere, di rendersi famosi dentro i limiti della propria nazione. Ma oggi, nello stato d’Europa che ho detto di sopra, non acquista fama nè grande nè durevole quello scrittore il cui nome e i cui scritti non passano i termini del [1218]proprio paese. Nè in questa presente condizione di cose può molto e immortalmente giovare alla sua patria chi non viene almeno indirettamente a giovare più o meno anche al resto del mondo civile. Nel rimanente quella gloria o quel nome che fu ristretto a una sola nazione fu sempre, ed anche anticamente poco durevole, nella stessa nazione ancora. Fra mille esempi, basti nominare i Bardi; molti de’ quali si sa confusamente e genericamente che furono famosissimi nelle loro nazioni, ed oggi p.e. nella Scozia appena resta il nome e la memoria oscura di pochissimi degli stessi antichi Bardi Scozzesi. Quello che dico degli scrittori, dico anche degli altri generi di persone famose ec. ma degli scrittori in maggior grado, perchè i fatti degli uomini poco durano, e poco si possono stendere ma le voci e i pensieri loro consegnati agli scritti, sopravvivono lunghissimo tempo, e possono giovare a tutta l’umanità; nè lo scrittore, massimamente in questo presente stato del mondo, si deve contentare della utilità della sua sola patria, potendo con quel medesimo che impiega per lei, proccurare il vantaggio di tutte le altre nazioni.
2. Ho detto che difficilmente ci faremmo intendere, e susciteremmo precisamente l’idea che vorremmo significare, e che è precisamente espressa dalle parole [1219]corrispondenti già usitate in Europa. La filosofia (con tutti quanti i diversissimi suoi rami) è scienza. Tutte le scienze giunte ad un certo grado di formazione e di stabilità hanno sempre avuto i loro termini, ossia la loro propria nomenclatura, e così propria, che volendola cambiare, si sarebbe cambiato faccia a quella tale scienza. Com’è avvenuto che la rinnovazione della Chimica, ha portato la Letteratura italiana Einaudi 884
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia rinnovazione della sua nomenclatura, e di tutta quella parte di nomenclatura fisica o d’altre scienze, che apparteneva, o era influita dalle cognizioni chimiche vecchie o nuove. E la nomenclatura di qualunque scienza è stata sempre così legata con lei, che dovunque ell’è entrata, v’è anche entrata quella stessa nomenclatura, comunque e dovunque formata, e comunque pur fosse inesatta nell’etimologie ec. purchè fosse esatta nell’intendimento e nel senso che le si attribuiva. La Chimica ha nuova nomenclatura, perch’è scienza nuova e diversa dall’antica. E così accade alle altre scienze quando si rinnuovano o in tutto o in parte. Perdono l’antica nomenclatura, e ne acquistano altra, che diviene però universale come la prima. E quando fra diverse e lontane nazioni poco note o strette fra loro, trovate differenza di nomenclatura in una medesima scienza, certo è che quella scienza è diversa notabilmente nelle rispettive nazioni e lingue. V. p.1229.
Quindi i termini di tutte le scienze, esatte o no, ma alquanto stabilite sono stati sempre universali, nè sarebbe mai possibile nel trattarle, l’adoperare altri termini da quelli universalmente conosciuti, intesi e adoperati, senza nuocere sommamente alla chiarezza, e toglier via la precisione. La qual precisione non deriva propriamente e principalmente da altro se non dalla convenzione che applica a quella parola quel preciso significato, bene spesso metaforico, ma passato in proprissimo. Mutando la parola, è tolta via la forza della convenzione, e quindi, benchè la nuova parola equivalga quanto alla sua origine, alla sua proprietà intrinseca ec. non equivale quanto al-l’effetto, perchè il [1220]lettore o uditore non concepisce più quell’idea precisa e netta che concepiva mediante la parola usitata, la qual era aiutata dalla convenzione, o sia dall’assuefazione di attribuirgli e d’intenderla in quel preciso significato. Converrebbe rinnovare appoco appoco l’assuefazione, applicandola a queste nuove parole, il che porterebbe necessariamente un lungo inter-Letteratura italiana Einaudi 885
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia vallo di oscurità e confusione nella intelligenza degli scrittori, finchè la nuova nomenclatura non arrivasse a prendere nella mente nostra in tutto e per tutto il posto dell’usitata, e a farvi, per così dire, quel letto che questa vi aveva già fatto. Nè questo sarebbe il solo danno, o difficoltà; ma converrebbe che questa nuova nomenclatura diventasse universale, altrimenti restringendosi a una sola nazione o lingua, ne seguirebbero i danni che ho specificati all’articolo 1. e le nazioni non s’intenderebbero fra loro nelle idee che denno essere da per tutto egualmente precise, e precisamente intese. E se una sola fosse la nazione che in qualunque scienza avesse una nomenclatura diversa dalle altre nazioni, quella nazione in ordine a quella scienza sarebbe come fuori del mondo e del secolo, tanto per l’effetto de’ suoi scrittori sugli stranieri, quanto (ch’è peggio) per l’effetto degli scrittori stranieri su di lei.
[1221]Posto poi il caso ch’ella arrivasse a rendere quella nomenclatura universale, ognun vede che siamo da capo colla quistione, e che la universalità resterebbe, e solo avrebbe fatto passaggio inutilmente (e con danno temporaneo) da una ad altra nomenclatura: ed allora io dico che sarebbe pazzo quello scrittore o quel paese che non vi si volesse uniformare.
La filosofia dunque ha i suoi termini come tutte le altre scienze. E siccome l’odierna filosofia è così 1. raffinata, 2.
dilatata nelle sue parti e influenze, così che si può dire che tutta la vita umana oggi è filosofica, o almeno è tutta soggetta alle speculazioni della filosofia; perciò accade che i termini filosofici sieno moltissimi, e cadano spessissimo nel discorso familiare, e regnino in grandissima parte delle cognizioni, delle discipline, degli scritti presenti. E perchè questi termini, come ho detto, sono in gran parte uniformi per tutta Europa, perciò oggi il linguaggio di tutta Europa nelle espressioni delle idee sottili o sottilmente considerate, è presso a poco uniforme, anche nella conversazione.
Letteratura italiana Einaudi 886
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Ed è ben ragionevole che la filosofia divenuta scienza così profonda, sottile, accurata, ed appresso a poco uniforme e concorde da per tutto (a differenza delle antiche filosofie), e, quel ch’è notabilissimo nel nostro proposito, sempre più chiara e certa nelle sue nozioni, e determinata, abbia [1222]i suoi termini stabili e universalmente uniformi, massime in tanta uniformità, e stretto commercio d’Europa: quando anche le vecchie, informi ed oscure, incerte, mal determinate, e sciocche filosofie che s’insegnavano nelle scuole, ebbero la loro nomenclatura stabile e universale, fuor di cui non sarebbero state intese in nessuna parte d’Europa, benchè tanto meno uniforme ed unita fra se. Di questi termini dell’antica filosofia, di questi termini scolastici universalmente adoperati ne’ bassi tempi e fino agli ultimi secoli, abbonda la lingua italiana.
E perchè ebbero la fortuna d’essere usati da’ nostri vecchi, perciò questi termini, quantunque derivati da barbare origini, e appartenenti a scienze che non erano scienze, si chiamano purissimi in Italia; e i termini dell’odierna filosofia, derivati dalla massima civiltà d’Europa, appartenenti alla prima delle scienze, e questa condotta a sì alto grado, si chiamano impurissimi, perchè ignoti agli antichi; quasi che a noi toccasse il venerare e il conservare, e non lo scusare per l’una parte, per l’altra discacciare l’ignoranza antica. E che l’ignoranza de’ passati dovesse esser la misura e la norma del sapere dei presenti.
[1223]Se dunque l’odierna filosofia, quella filosofia che abbraccia per così dire tutto questo secolo, tutte le cose e tutte le cognizioni presenti, ha e deve avere i suoi termini costanti, ed uniformi in qualunque luogo ella è trattata, noi dobbiamo adottarli ed usarli, e conformarci a quelli che tutto il mondo usa. E non è più tempo di cambiarli, e formarci una nomenclatura filosofica italiana, cioè cavata tutta dalle fonti della nostra lingua. Questo avrebbe potuto essere, se la massima parte dell’odierna filosofia fosse derivata dall’Italia. Ed allora le altre nazioni, senza Letteratura italiana Einaudi 887
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia veruna ripugnanza avrebbero usata nella filosofia, la nomenclatura fabbricata in Italia. Ma avendo lasciato far tutto agli stranieri, ed arrivar questa scienza a sì alto grado senza quasi nessuna opera nostra, o dobbiamo seguitare a non curarla, ignorarla, e non trattarla; o volendo trattarla ci conviene adottare quella nomenclatura che troviamo già stabilita e generalmente intesa, fuor della quale non saremmo bene intesi nè dagli stranieri, nè da’
nostri medesimi, come apparisce dalle sopraddette ragioni. Alle quali aggiungo come corollario, dimostrato dal fatto, che tutte quelle parole che [1224]hanno espressa precisamente e sottilmente un’idea sottile e precisa, di qualunque genere, e in qualunque ramo delle cognizioni, sono state o sempre o quasi sempre universali, ed usate in qualsivoglia lingua da tutti quelli che hanno concepita e voluta significare quella stessa idea strettamente. E quella tale idea è passata dal primo individuo che la concepì chiaramente, agli altri individui, e alle altre nazioni, non altrimenti che in compagnia di quella tal parola. Appunto perchè questa fina precisione di significato, non deriva nè può derivare se non da una stretta e appositissima convenzione, difficilissima a rinnovare, e a moltiplicare secondo le lingue.
Per tutte queste ragioni, sarebbe opera degna di questo secolo, ed utilissima alle lingue non meno che alla filosofia, un Vocabolario universale Europeo che comprendesse quelle parole significanti precisamente un’idea chiara, sottile, e precisa, che sono comuni a tutte o alla maggior parte delle moderne lingue colte. E massimamente quelle parole che appartengono a tutto quello che oggi s’intende sotto il nome di filosofia, ed a tutte le cognizioni ch’ella abbraccia. Giacchè le scienze materiali, o le scienze esatte non hanno tanto bisogno di questo servigio, essendo bastantemente riconosciute e fisse le loro nomenclature, e le idee che queste significano non essendo così facili [1225]o a sfuggire, o ad oscurarsi e confon-Letteratura italiana Einaudi 888
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia dersi e divenire incerte e indeterminate, come quelle della filosofia. Dovrebbe chi prendesse questo assunto definire e circoscrivere colla possibile diligenza il significato preciso di tali parole o termini, e recarne dalle diverse lingue dov’elle sono in uso, esempi giudiziosamente scelti di scrittori veramente accurati e filosofi, e massime quegli esempi dov’è contenuta una definizione filosofica dell’idea significata dalla parola; esempi che non sarebbero difficili a trovarsi in tanta copia di scrittori profondissimi e sottilissimi e acutissimi di questo e del passato secolo, e anche del precedente. In maniera simile si contenne Samuele Johnson nel Dizionario della lingua inglese, lingua che sa veramente esser filosofica, ed abbonda di scrittori di tal genere. Se il compilatore di tal Dizionario fosse italiano, ci renderebbe anche gran servigio, ponendovi gli esempi de’ migliori italiani che hanno trattato simili materie; e in caso che si trovassero voci italiane perfettamente corrispondenti, sia nel Vocabolario nostro sia ne’
nostri buoni scrittori qualunque, sia nell’uso, farebbe utilissima cosa, ponendole a fronte ec. con che verrebbe a fare un Vocabolario italiano filosofico, cosa veramente da sospirarsi, e per conoscere e per mostrare e per usare le nostre ricchezze, se ne abbiamo.
Questo Vocabolario che sarebbe utilissimo a tutta l’Europa, lo sarebbe massimamente all’Italia, la quale dovrebbe vedere quanta copia di parole che tutta l’Europa pronunzia e scrive, e riconosce per necessarie, ella disprezzi e proscriva, senz’averne alcuna da surrogar loro. E la lingua italiana dovrebbe adottare le dette voci senza timore di corrompersi più di quello che si sieno corrotte coll’adottarle, [1226]tutte le altre lingue europee. E non dovrebbe volere, anzi vergognarsi, che un tal vocabolario essendo Europeo, non fosse italiano quasi che l’italiano non fosse Europeo, nè di questo secolo ec. E dovrebbe riconoscerle per voci nobilissime, perchè inseparabil-Letteratura italiana Einaudi 889
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia mente spettanti e legate alla più nobile delle scienze umane ch’è la filosofia. V. p.1231. fine.
Con ciò non vengo mica a dire ch’ella debba, anzi pur possa adoperare, e molto meno profondere siffatte voci nella bella letteratura e massime nella poesia. Non v’è bontà dove non è convenienza. Alle scienze son buone e convengono le voci precise, alla bella letteratura le proprie. Ho già distinto in altro luogo le parole dai termini, e mostrata la differenza che è dalla proprietà delle voci alla nudità e precisione. È proprio ufficio de’ poeti e degli scrittori ameni il coprire quanto si possa le nudità delle cose, come è ufficio degli scienziati e de’ filosofi il rivelar-la. Quindi le parole precise convengono a questi, e sconvengono per lo più a quelli; a dirittura l’uno a l’altro.
Allo scienziato le parole più convenienti sono le più precise, ed esprimenti un’idea più nuda. Al poeta e al letterato per lo contrario le parole più vaghe, ed esprimenti idee più incerte, o un maggior numero d’idee ec. Queste almeno gli denno esser le più care, e quelle altre che sono l’estremo opposto, le più odiose. V. p.1234. capoverso 1.
e 1312. capoverso 2. Ho detto e ripeto che i termini in letteratura e massime in poesia faranno sempre pessimo e bruttissimo effetto. Qui peccano assai gli stranieri, e non dobbiamo imitarli. Ho detto che la lingua francese (e intendo quella della letteratura e della poesia) si corrompe per la profusione de’ termini, ossia delle voci di nudo e secco significato, perch’ella si compone oramai tutta quanta di termini, abbandonando e dimenticando le parole: che noi non dobbiamo mai nè [1227]dimenticare nè perdere nè dismettere, perchè perderemmo la letteratura e la poesia, riducendo tutti i generi di scrivere al genere matematico. Le dette voci ch’io raccomando alla lingua italiana, sono ottime e necessarie, non sono ignobili, ma non sono eleganti. La bella letteratura alla quale è debito quello che si chiama eleganza, non le deve adoperare, se non come voci aliene, e come si adoprano tal-Letteratura italiana Einaudi 890
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia volta le voci forestiere, notando ch’elle son tali, e come gli ottimi latini scrivevano alcune voci in greco, così per incidenza. I diversi stili domandano diverse parole, e come quello ch’è nobile per la prosa, è ignobile bene spesso per la poesia, così quello ch’è nobile ed ottimo per un genere di prosa, è ignobilissimo per un altro. I latini ai quali in prosa non era punto ignobile il dire p.e. tribunus militum o plebis, o centurio, o triumvir ec. non l’avrebbero mai detto in poesia, perchè queste parole d’un significato troppo nudo e preciso, non convengono al verso, benchè gli convengano le parole proprie, e benchè l’idea rappresentata sia non solo non ignobile, ma anche nobilissima. I termini della filosofia scolastica, riconosciuti dalla nostra lingua per purissimi, sarebbero stati barbari nell’antica nostra poesia, come nella moderna, ed anche nella prosa elegante, s’ella gli avesse adoperati come parole sue proprie. [1228]E se Dante le profuse nel suo poema, e così pur fecero altri poeti, e parecchi scrittori di prosa letteraria in quei tempi, ciò si condona alla mezza barbarie, o vogliamo dire alla civiltà bambina di quella letteratura e di que’ secoli, ch’erano però purissimi quanto alla lingua. Ma altro è la purità, altro l’eleganza di una voce, e la sua convenienza, bellezza, e nobiltà, rispettiva alle diverse materie, o anche solo ai diversi stili: giacchè anche volendo trattar materie filosofiche in uno stile elegante, e in una bella prosa, ci converrebbe fuggir tali termini, perchè allora la natura dello stile domanda più l’eleganza e bellezza che la precisione, e questa va posposta.
(Del resto in tal caso, la filosofia è l’uno de’ principali pregi della letteratura e poesia, sì antica che moderna, atteso però quello che ho detto p.1313. la quale vedi.) Io dico che l’Italia dee riconoscere i detti termini ec. per puri, cioè propri della sua lingua, come delle altre, ma non già per eleganti. La bella letteratura, e massime la poesia, non hanno che fare colla filosofia sottile, severa ed accurata; avendo per oggetto in bello, ch’è quanto dire Letteratura italiana Einaudi 891
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia il falso, perchè il vero (così volendo il tristo fato dell’uo-mo) non fu mai bello. Ora oggetto della filosofia qualunque, come di tutte le scienze, è il vero: e perciò dove regna la filosofia, quivi non è vera poesia. La qual cosa
[1229]molti famosi stranieri o non la vedono, o adoprano (o si conducono) in modo come non la vedessero o non volessero vederla. E forse anche così porta la loro natura fatta piuttosto alle scienze che alle arti ec. Ma la poesia quanto è più filosofica, tanto meno è poesia.
(26. Giugno 1821.). V. p.1231.
Alla p.1219. marg. La filosofia e le scienze greche passarono ai latini, passarono agli Arabi; e portarono nel latino e nell’Arabo le loro voci greche. Gli Arabi vi ggiunsero alcune cose, e inventarono qualche scienza, o parte di scienze; e i nomi Arabi insieme con dette aggiunte e invenzioni, sono diffusi universalmente in Europa.
Così sempre è accaduto negli antichi, ne’ mezzani, ne’
moderni tempi. La filosofia Chinese p.e. ha nomenclatura diversa dalla nostra, ed ognun sa quanto ella ne differisca: oltre ch’ella non può in nessun modo chiamarsi scienza esatta nè simile all’esatte, come la moderna nostra. Così dico delle altre scienze chinesi. Così della filosofia degli Ebrei, che avendo altra nomenclatura, ha, rispetto alla nostra, un’idea di originalità, massime in quelle parti dove i loro nomi differiscono da quelli della filosofia latina,
[1230](divenuti poi comuni in Europa ec.) nella qual lingua conosciamo i libri Ebraici. Oltre che l’Ebraica filosofia è pure inesatta come ho spiegato di sopra, e quindi tanto meno copiosa ne’ termini, e meno precisa ne’ loro significati. ec. ec. ec.
(26. Giugno 1821.)
Da repere che anche il Forcellini dice esser metatesi di
§rpv, oltre l’ inerpicare del quale ho detto altrove, ed oltre il latinismo repere che nella Crusca ha un esempio di Letteratura italiana Einaudi 892
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Dante, e uno del Soderini, ebbero i nostri antichi anche ripire, voce italiana d’uso, e volgare in quei tempi, come sembra, e adoprata anch’essa nel significato di inerpicar-si, �n¡rpein, o di salire, montar su, come puoi vedere ne’
due esempi delle Storie Pistolesi nella Crusca, e in questi della Storia della Guerra di Semifonte scritta da M. Pace da Certaldo, Firenze 1753. il quale autore fu tra il 200 e il 300. Gli Fiorentini appoggiate le scale di già RIPIVANO
(p.37): e Videro… alcuni già avere appoggiate le scale, e far pruova di RIPIRE. (p.46.) Esempi portati nella Lettera a V. Monti di Vincenzo Lancetti, Proposta di alcune Correzioni ed Aggiunte al Vocab. della Crusca, vol.2. par.1. Milano 1819. Appendice, p.284. Quindi ripido, cioè Erto, Malagevole a salire, spiega la Crusca, e ripidezza astratto di ripido, voci non latine: e da repere, repente, per molto erto, ripido, dice la Crusca, che ne porta due [1231]esempi del trecento. Il Du Cange non ha niente in proposito.
(27. Giugno 1821.)
Alla p.1229. E infatti gran parte, e forse la maggiore delle poesie straniere, riescono e sono piuttosto trattati profondissimi di psicologia, d’ideologia ec. che poesia. E
quivi la filosofia nuoce e distrugge la poesia, e la poesia guasta e pregiudica la filosofia. Tra questa e quella esiste una barriera insormontabile, una nemicizia giurata e mortale, che non si può nè toglier di mezzo, e riconcilia-re, nè dissimulare. E così dico proporzionatamente del resto della bella letteratura propriamente e veramente considerata.
(27. Giugno 1821.)
Alla p.1125, marg. – ossia le radici de’ verbi ebraici chiamati perfetti, tutte composte di tre lettere nè più nè meno, e di due sillabe, ed anche gl’imperfetti fuorchè i Defi-cienti (come dicono) in Ghaiin, quando per contrazione perdono la seconda radicale nella terza singolare del Letteratura italiana Einaudi 893
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Preterito di Kal attivo (cioè della prima coniugazione attiva); e i Quiescenti detti in Ghaiin Vau, i quali avendo pur tre lettere, hanno però una sola sillaba nella radice.
Questo genere di radici dissillabe e trilettere, io credo che sia comune e regolare anche nell’Arabo, nel Siriaco e in altre lingue orientali.
(27. Giugno 1821.)
Alla p.1126. Dovrebbe, dico adottare, fra queste voci, tutte quelle che non hanno, nè possono avere nell’italiano un preciso equivalente, cioè preciso nella significazione, e preciso nell’intelligenza e nell’effetto.
[1232]Perchè se qualcuna di tali voci ha già nell’uso o dello scrivere o del parlare italiano, una voce corrispondente che produca lo stesso preciso effetto, quantunque diversa materialmente; o se si può formare dalle nostre radici, o riporre in uso qualche parola dismessa che indichi la stessa idea in modo da suscitarla con piena e perfetta precisione, e senza oscurità nè veruna minima incertezza, e senza niente di vago o di dissimile, nella mente del lettore, o uditore; non nego, anzi affermo, che in tal caso (che quando si ponga ben mente a tutte e a ciascuna delle dette condizioni sarà rarissimo) faremo bene a preferir queste voci nostre, alle sopraddette, benchè universali, e benchè in tal caso pure, non saremmo in diritto di riprenderle come impure, mentre son pure, cioè comunemente usate, e precisamente intese in tutta l’Europa.
(27. Giugno 1821.)
La trattabilità e facilità della lingua francese, ond’ella è così agevole a scriver bene e spiegarsi bene sì per lo straniero che l’adopra o l’ascolta, sì pel nazionale, non deriva dall’esser ella uno strumento pieghevole e souple (qualità negatale espressamente dal Thomas) ec. ma dall’essere un piccolo strumento, e quindi manuale,
Letteratura italiana Einaudi 894
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia eémetaxeÛristow, maneggiabile, [1233]facile a rivoltarsi per tutti i versi, e ad adoprare in ogni cosa. ec.
(27. Giugno 1821.)
Quello che ho detto de’ termini filosofici comuni oggi a tutta Europa, bisogna anche estenderlo ai nomi appartenenti al commercio, alle arti, alle manifatture, agli oggetti di lusso ec. ec. che da qualunque lingua e nazione abbiano ricevuto il nome, lo conservano in gran parte per tutte le lingue e nazioni, e così è sempre accaduto. Quanto però al Vocabolario ch’io propongo, il comprendervi questi nomi, sarebbe anche meno necessario di quelli appartenenti alle scienze esatte o materiali.
(28. Giugno 1821.)
Alla p.1212. Talvolta anche adopriamo i detti modi, a espresso fine di denotare azione interrotta, e il di quando in quando, come p.e. dicendo il Tasso viene ornando i suoi versi di falsi ornamenti, vogliamo dire, di quando in quando gli orna ec. e vogliamo significare minor continuità che se dicessimo orna i suoi versi ec. il che verrebbe a dire che lo facesse sempre o quasi sempre; o se dicessimo suole ornare ec.
(28. Giugno 1821.)
Alla p.1212. principio. Se esistesse un’armonia assoluta in ordine ai suoni articolati o alle parole, tutte le versificazioni in qualunque lingua e tempo, avrebbero
[1234]avuto ed avrebbero le stesse armonie, e renderebbero le stesse consonanze, che in un batter d’occhio si ravviserebbero dal forestiero, come dal nazionale, e dal contemporaneo ec. Quando per lo contrario il forestiero non solo non vi trova alcuna conformità coll’armonia della versificazione sua nazionale, ma bene spesso non si accorge nè si può accorgere che quella tale sia versificazione, se non se n’accorge per la materia, e per essere scritta in Letteratura italiana Einaudi 895
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia linee distinte, o per la rima, che non ha punto che fare col ritmo, nè colla misura.
(28. Giugno 1821.)
Alla p.1226. marg. fine. L’analisi delle cose è la morte della bellezza o della grandezza loro, e la morte della poesia. Così l’analisi delle idee, il risolverle nelle loro parti ed elementi, e il presentare nude e isolate e senza veruno accompagnamento d’idee concomitanti, le dette parti o elementi d’idee. Questo appunto è ciò che fanno i termini, e qui consiste la differenza ch’è tra la precisione, e la proprietà delle voci. La massima parte delle voci filosofiche divenute comuni oggidì, e mancanti a tutti o quasi tutti gli antichi linguaggi, non esprimono veramente idee che mancassero assolutamente ai nostri antichi. Ma come è già stabilito dagl’ideologi [1235]che il progresso delle cognizioni umane consiste nel conoscere che un’idea ne contiene un’altra (così Locke, Tracy ec.), e questa un’altra ec.; nell’avvicinarsi sempre più agli elementi delle cose, e decomporre sempre più le nostre idee, per iscoprire e determinare le sostanze (dirò così) semplici e universali che le compongono (giacchè in qualsivoglia genere di cognizioni, di operazioni meccaniche ancora ec. gli elementi conosciuti, in tanto non sono universali, in quanto non sono perfettamente semplici e primi); (v. in questo proposito la p.1287. fine) così la massima parte di dette voci, non fa altro che esprimere idee già contenute nelle idee antiche, ma ora separate dalle altre parti delle idee madri, mediante l’analisi che il progresso dello spirito umano ha fatto naturalmente di queste idee madri, risol-vendole nelle loro parti, elementari o no (che il giungere agli elementi delle idee è l’ultimo confine delle cognizioni); e distinguendo l’una parte dall’altra, con dare a ciascuna parte distinta il suo nome, e formarne un’idea separata, laddove gli antichi confondevano le dette parti, o idee suddivise (che per noi sono oggi altrettante distinte Letteratura italiana Einaudi 896
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia idee) in un’idea sola. Quindi la secchezza che risulta dall’uso de’ termini, i quali ci destano un’idea quanto più si possa scompagnata, solitaria e circoscritta; laddove la bellezza del discorso e della poesia consiste nel destarci gruppi d’idee, e nel fare errare la nostra mente nella moltitudine delle concezioni, e nel loro vago, confuso, indeterminato, incircoscritto. Il che si ottiene colle parole proprie, ch’esprimono un’idea composta di molte parti, e legata [1236]con molte idee concomitanti; ma non si ottiene colle parole precise o co’ termini (sieno filosofici, politici, diplomatici, spettanti alle scienze, manifatture, arti ec. ec.) i quali esprimono un’idea più semplice e nuda che si possa. Nudità e secchezza distruttrice e incompatibile colla poesia, e proporzionatamente, colla bella letteratura.
P.e. genio nel senso francese, esprime un’idea ch’era compresa nell’ ingenium, o nell’ ingegno italiano, ma non era distinta dalle altre parti dell’idea espressa da ingenium.
E tuttavia quest’idea suddivisa, espressa da genio, non è di gran lunga elementare, e contiene essa stessa molte idee, ed è composta di molte parti, ma difficilissime a separarsi e distinguersi. Non è idea semplice benchè non si possa facilmente dividere nè definire dalle parti, o dal’intima natura. Lo spirito umano, e seco la lingua, va sin dove può; e l’uno e l’altra andranno certo più avanti, e scopri-ranno coll’analisi le parti dell’idea espressa da genio, ed applicheranno a queste parti o idee nuovamente scoperte, cioè distinte, nuove parole, o nuovi usi di parole. Così egoismo che non è amor proprio, ma una delle infinite sue specie, ed egoista ch’è la qualità del secolo, e in italiano non si può significare.
Così cuore in quel senso metaforico che è sì comune a tutte le lingue moderne fin dai loro principii, era voce sconosciuta in detto senso alle lingue antiche, e non però era sconosciuta l’idea ec. ma non bene distinta da mente, animo ec. ec. ec. ec. Così immaginazione o fantasia, per Letteratura italiana Einaudi 897
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia quella facoltà sì notabile ed essenziale della mente umana, che noi dinotiamo con questi nomi, ignoti in tal senso alla buona latinità e grecità, benchè da esse derivino. Ed altri nomi non avevano per dinotarla, sicchè anche queste parole (italianissime) e questo senso, vengono da barbara origine.
(28. Giugno 1821.)
[1237]Nè solamente col progresso dello spirito umano si sono distinte e denominate le diverse parti componenti un’idea che gli antichi linguaggi denominavano con una voce complessiva di tutte esse parti, o idee contenute; ma anche si sono distinte e denominate con diverse voci non poche idee che per essere in qualche modo somiglianti, o analoghe ad altre idee, non si sapevano per l’addietro distinguer da queste, e si denotavano con una stessa voce, benchè fossero essenzialmente diverse e d’altra specie o genere. V. p.e. quello che ho detto p.1199-200. circa il bello, e quello ch’essendo piacevole alla vista, non è però bello, nè appartiene alla sfera della bellezza, benchè ne’
linguaggi comuni, si chiami bello, e l’intelletto volgare non lo distingua dal vero bello.
Da queste osservazioni e da quelle del pensiero precedente, inferite 1. che quelli i quali scartano tali nuove parole o termini, e vietano la novità nelle lingue, pretendono formalmente d’impedire l’andamento, e rompere il corso, e fermare immobilmente e per sempre il progresso dello spirito umano, posto il quale, la lingua necessariamente progredisce, e si arricchisce di parole sempre più precise, distinte, sottili, uniformi ed universali, e in somma di termini; e [1238]vicendevolmente senza il progresso della lingua (e progresso di questa precisa natura, e non d’altra, che poco influisce) è nullo il progresso dello spirito umano, il quale non può stabilire ed assicurare, e perpetuare il possesso delle sue nuove scoperte e osservazioni, se non mediante nuove parole o nuove Letteratura italiana Einaudi 898
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia significazioni fisse, certe, determinate, indubitabili, riconosciute; e di più, uniformi, perchè se non sono uniformi, il progresso dello spirito umano sarà inevitabilmente ristretto a quella tal nazione, che parla quella lingua dove si sono formate le dette nuove parole; o a quelle sole nazioni che le hanno bene intese e adottate.
2. Che tali parole o termini, sono affatto incompatibili coll’essenza della poesia, e l’abuso loro, guasta affatto, e perde e trasforma in filosofia, o discorso di scienze ec. la bella letteratura.
(29. Giugno, dì mio natalizio. 1821.)
Già non accade avvertire che tali parole universali in Europa, non riuscirebbero nè nuove, nè per verun conto più difficili, oscure, incerte ai lettori italiani, di quello riescono agli stranieri, non ostante che in Italia non sieno riconosciute per proprie della lingua, cioè per voci pure, nè ammesse ne’ Vocabolari. E di questo è cagione 1. l’uso giornaliero [1239]del parlare italiano, il quale vorrei che non avesse altro di forestiero e di barbaro, che l’uso di siffatte parole. 2. l’uso di molti scrittori italiani moderni, i quali parimente vorrei che non meritassero altro rim-provero fuorchè di avere adoperato tali voci. 3. l’intelligenza e l’uso del francese, familiare agl’italiani come agli altri, dal qual francese son derivate, o nel quale son ricevute e comuni, e per via e mezzo del quale ci sono ordinariamente pervenute o tutte o quasi tutte simili parole.
Circostanza notabile e favorevolissima all’introduzione di tali voci in nostra lingua, mentre quasi tutte le moderne cognizioni, colle voci loro appartenenti, ci vengono pel canale di una lingua sorella, e già ridotte in forma facilmente adattabile al nostro idioma, massime dopo averci familiarizzato l’orecchio mediante l’uso fattone da essa lingua 1° sì comune in Italia e per tutto, 2°. sì affine alla nostra.
(29. Giugno, dì di S. Pietro. 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 899
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Spesso è utilissimo il cercar la prova di una verità già certa, e riconosciuta, e non controversa. Una verità isolata, come ho detto altrove, poco giova, massime al filosofo, e al progresso dell’intelletto. Cercandone la prova, se ne conoscono i rapporti, e le ramificazioni (sommo scopo della filosofia): e si scoprono pure [1240]bene spesso molte analoghe verità, o ignote, o poco note, o dei rapporti loro, sconosciuti ec.: si rimonta insomma bene spesso dal noto all’ignoto, o dal certo all’incerto, o dal chiaro all’oscuro, ch’è il processo del vero filosofo nella ricerca della verità. E perciò i geometri non si contentano di avere scoperta una proposizione, se non ne trovano la dimostrazione. E Pitagora immolò un’Ecatombe per la trovata dimostrazione del teorema dell’ipotenusa, della cui verità era già certo, ed ognuno poteva accertarsene colla misura. Però giova il cercare la dimostrazione di una verità già dimostrata da altri, senza aver notizia della dimostrazione già fatta. Perchè i diversi ingegni prendendo diverse vie, scoprono diverse verità e rapporti, benchè parten-do da uno stesso punto, o collimando a una stessa meta o centro ec.
(29. Giugno 1821.)
Una delle principali, vere, ed insite cagioni della vera e propria ricchezza e varietà della lingua italiana, è la sua immensa facoltà dei derivati, che mette a larghissimo frutto le sue radici. Osserviamo solamente le diverse formazioni che dalle sue radici ella può fare de’ verbi frequentativi o diminutivi. Colla desinenza in eggiare come da schiaffo, [1241]da vezzo, da arma, da poeta, o poetare, da verso, schiaffeggiare, vezzeggiare, armeggiare, poeteggiare, verseggiare, (e così da vano o vanare, vaneggiare, e pargoleggiare, e spalleggiare ec. e da favore, come favorare, e favorire, così favoreggiare); in icciare come da arso arsicciare; in icchiare, come da canto canticchiare; in ellare Letteratura italiana Einaudi 900
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia come da salto saltellare; in erellare, come pur da salto sal-terellare, e da canto canterellare; in olare, come da spruzzo spruzzolare, da vòlto voltolare, da rotare, rinfocare, rotola-re, rinfocolare, da giuocare, giuocolare, da muggire o mugghiare, mugolare, muggiolare, mugiolare; in igginare, come da piovere piovvigginare; in uzzare, come da taglio tagliuzzare; in acchiare come da foro foracchiare; in ecchiare, come da morso, roso, sonno, morsecchiare, rosecchiare, sonnecchiare; (e così punzecchiare che anche si dice punzellare); in azzare come da scorrere scorrazzare, da volare svolazzare; in eare come da ruota o rotare roteare (che la Crusca chiama V. A. non so perchè) alla spagnuola rodear, blanquear cioè biancheggiare e imbiancare ec.; in ucchiare, come da bacio baciucchiare; in onzare come da ballo ballonzare; ed in altri modi ancora, che neppur qui finisce il novero, senza contare i sopraffrequentativi, o sopraddiminutivi, come ballonzolare, sminuzzolare ec. ec.
ovvero diminutivi de’ frequentativi o viceversa. E queste, e le altre formazioni sono di significato certo, determinato, riconosciuto, convenuto e costante, in modo che vedendo una tal formazione, e conoscendo il significato della voce originaria, s’intende subito la modificazione che detta parola formata esprime, dell’idea espressa dalla parola materna. La pazza idea per tanto (ch’è l’ultimo eccesso della pedanteria) di voler proibire la formazione di nuovi derivati, è lo stesso che seccare una delle principali e più proprie ed innate sorgenti della ricchezza di nostra lingua. V. [1242]in questo proposito p.1116-17. Io non dubito (e l’esempio portato lo conferma) che nella immensità e varietà della facoltà certa stabile e definita ch’ella ha dei derivati, e nell’uso che ne sa fare, e ne ha fatto, la lingua nostra non vinca la latina, e la stessa greca. Alla quale però si rassomiglia assai anche per questa moltiplicità di forme nelle derivazioni che hanno un medesimo o simile significato, a differenza della latina, non già povera, ma più regolata e con più certezza circoscritta Letteratura italiana Einaudi 901
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia in ciò, come nel resto. V. la p.1134. fine. (29. Giugno 1821.). Queste sono le vere cagioni e fonti per cui (se non le chiuderemo) la nostra lingua resterà sempre superiore in ricchezza alle moderne, malgrado i nuovi vocaboli ec.
particolari, ch’elle vanno tuttogiorno acquistando. V.
p.1292. capoverso 1.
Alla p.302. principio. In prova di quello che ho detto della utilità che risulta ai governi dai partiti loro contrarii, osservate cosa già nota, che non è luogo dove la religion cattolica, anzi la cristiana, (e così qualunque altra) sia più rilasciata nell’esterno ancora, e massime nell’interno, come in quel paese dov’ella è non solo dominante ma unica, cioè in Italia, che di più è la sua sede. (La Spagna, come finora non civile, e fuori del mondo colto, non fa eccezione). E proporzionatamente scendendo sì per le stesse province d’Italia più vicine o più commercianti ec. con religioni diverse, sì per le diverse nazioni, come la Francia ec. sino alla Germania e all’Inghilterra ec. si trova che dove la religion cattolica o le altre cristiane, sono più av-vilite, più vicine e frammiste a religioni diverse e contrarie, sette ec. quivi appunto il loro culto esterno ed interno è più che mai vivo, sodo, vero, efficace, e fermo.
(29. Giugno 1821.)
[1243]Osserviamo il grand’effetto prodotto nelle nostre sensazioni dalle piccole e minime differenze reali nella statura degli uomini. Osserviamo pure la differenza delle proporzioni circa la statura delle donne, e come una donna alta ci paia bene spesso di maggiore statura che un uomo mediocre, e posta al paragone si trovi il contrario. ec.
Osserviamo finalmente che le stesse proporzionate differenze in altri oggetti di qualunque genere, non sono mai capaci di produrre in noi gli stessi effetti, nè proporzionati a quelli delle stature umane. E quindi inferiamo quanto la continua osservazione ci renda sottili conoscitori, Letteratura italiana Einaudi 902
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ed affini le nostre sensazioni circa le forme esteriori de’
nostri simili: e come per conseguenza l’idea delle proporzioni determinate non si acquisti se non a forza di osservazione, e di abitudine; e quanto sia relativa, giacchè la menoma differenza reale, ci par grandissima in questi oggetti, e menoma, qual è, in tutti gli altri. (30. Giugno 1821.).
Altre cagioni di fatto della ricchezza e varietà della lingua italiana, oltre la copia degli scrittori, come ho detto altrove sono
1. Il non aver noi mai rinunziato alle nostre [1244]ricchezze di quantunque antico possesso, a differenza della lingua francese, a cui non gioverebbe neppure l’avere avuta altrettanta copia di scrittori e di secoli letterati, quanti noi. Neppure alla varietà, ed anche a quella ricchezza che serve precisamente all’esatta espressione delle cose, gioverebbe alla lingua francese l’avere avuto in questi due secoli dopo la sua rigenerazione, tanti e più scrittori quanti noi in cinque secoli. Non le gioverebbe dico, quanto giova alla nostra lingua la moltitudine dei secoli, e quindi la maggior varietà degli scrittori, delle opinioni, de’ gusti, degli stili, delle materie da loro trattate; varietà che non si può trovare nello stesso grado in due secoli soli, benchè fossero più copiosi di scrittori, che questi 5. insieme: e varietà che serve infinitamente alla ricchezza di una lingua, ed alla esattezza e minutezza del suo poter esprimere, giacch’è stata applicata ad esprimere tanto più diverse cose, da tanto più diversi ingegni, e più diversamente disposti; e in tanto più diversi modi.
Neppure la lingua tedesca ha rinunziato alle sue antiche ricchezze e possedimenti, come si vede nel Verter, abbondante di studiati e begli ed espressivi arcaismi.
Letteratura italiana Einaudi 903
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia
[1245]2. La gran vivacità, immaginosità, fecondità, e varietà degl’ingegni degli scrittori nostri, qualità proprie della nazione adattabile a ogni sorta di assunti, e di caratteri, e d’imprese, e di fini.
3. Il moltissimo che la nostra lingua scritta, (giacchè della ricchezza e varietà di questa intendiamo parlare, e questa intendiamo paragonare colle straniere) ha preso dalla lingua parlata e popolare. Or come ciò, se io dico, che la principale, anzi necessaria fonte della ricchezza e perfezione di una lingua, sono gli scrittori, e questi, letterati? Ecco il come.
Ho detto, ed è vero, che la convenzione, sola cosa che può render parola una parola, cioè segno effettivo di un’idea, non può mai esser molto estesa, nè uniforme e regolata, nè nazionale, se non per mezzo della letteratura. Ma un popolo, massimamente vivacissimo come l’italiano, e in particolare il toscano, e di più, civilizzato assai (qual fu il toscano e l’italiano fra tutti i popoli Europei, e prima di tutti), e posto in gran corrispondenza cogli altri popoli (come appunto la Toscana, sì per la fama della sua coltura, sì per le circostanze sue politiche, la sua libertà, e specialmente il suo commercio)12 [1246]inventa naturalmente, o adotta, infinite parole, infinite locuzioni, e infiniti generi e forme sì di queste che di quelle, l’uso però e l’intelligenza delle quali, se non sono ricevute dalla letteratura, la quale le diffonde per la nazione, ne stabilisce la forma, ne precisa il significato, ne assicura la durata, poco si estendono, poca precisione acquistano, restano facilmente incerte, ondeggianti, e arbitrarie, e presto si perdono, sottentrandone delle nuove. V. p.1344. Ora la letteratura italiana ha fatto appunto quello che ho specifi-cato. Ha ricevute con particolare, e fra tutte le letterature singolar cura, amorevolezza e piacere, le voci, i modi, le forme del popolo segnatamente toscano: e da questo è venuto
Letteratura italiana Einaudi 904
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia 1. Che le parole modi ec. che sarebbero state proprie di una sola provincia, e bene spesso di una sola città ed anche meno, ricevute e accarezzate e stabilite nell’uso letterario, prima dagli scrittori di quella provincia ec. poi da quelli che vi andavano per imparar la lingua, o a qualunque effetto, poi dalla totalità degli scrittori italiani, son divenute italiane, di toscane o altro che erano. Ed è avvenuto questo alle toscane più che alle altre, perchè i primi buoni scrittori italiani sono stati di quel paese, e ne hanno diffuso e stabilito nella letteratura italiana [1247]le parole ec. ed anche perchè quel dialetto forse ancora per se stesso, era più grazioso, ed anche meno irregolare, meno goffo e meno storpiato e barbaro degli altri, e meno difforme a se stesso, nelle strutture, nelle forme delle parole e modi ec.
2. Non essendo mai cessato negli scrittori toscani e italiani lo studio e l’imitazione competente (gli abusi ora non si contano) della favella popolare, massime toscana (a differenza di quello ch’è accaduto in tutte le altre letterature un poco formate); n’è seguito che la lingua italiana presente, mediante la sua letteratura, sia ricca delle parole, modi ec. venuti in uso in uno de’ suoi popoli più vivaci, immaginosi e inventivi, dal principio della lingua fino al di d’oggi: parole e modi ec. che non avrebbero avuto se non cortissima durata, e pochissima estensione, se non fossero state adottate e stabilite dalla letteratura, che le ha fatte e perpetue, e nazionali. E così la letteratura e non il popolo, anche riguardo alle voci popolari, viene ad essere la vera e principale sorgente della ricchezza e perfezione di nostra lingua.
3. Gridino a piacer loro i mezzi filosofi. Ricchezza che importi varietà, bellezza, espressione, efficacia, forza, brio, grazia, facilità, mollezza, naturalezza, non l’avrà mai, non l’ebbe e non l’ha veruna lingua, che non abbia moltissimo, [1248]e non da principio soltanto, ma continuamente approfittato ed attinto al linguaggio popolare, non già Letteratura italiana Einaudi 905
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia scrivendo come il popolo parla, ma riducendo ciò ch’ella prende dal popolo, alle forme alle leggi universali della sua letteratura, e della lingua nazionale. La precisione filosofica non ha punto che fare con veruna delle dette qualità: e la ricchezza filosofica e logica, cioè di parole precise ec. e di modi geometrici ec. serve bensì al filosofo, è una ricchezza, ed è necessaria, ma non importa veruna delle dette qualità, anzi serve loro di ostacolo, e bene spesso, com’è avvenuto al francese, ne spoglia quasi affatto quella lingua, che già le possedeva. Tutte le dette qualità sono principalissimamente proprie dell’idioma popolare; e se la lingua italiana scritta, si distingue in ordine ad esse qualità, fra tutte le altre moderne; se è ricca fra tutte le moderne, ed anche le antiche di quella ricchezza che produce e contiene le dette qualità; ciò proviene dall’aver la lingua italiana scritta (forse perchè poco ancora applicata alla filosofia, e generalmente poco moderna), attinto più, e più durevolmente che qualunque altra, al linguaggio popolare. Le ragioni per cui questo linguaggio, abbia sempre, e massime in un popolo vivacissimo, sensibilissimo, e suscettibilissimo, le dette qualità, più [1249]che qualunque altro linguaggio, sono abbastanza manifeste da se. Quella ricchezza proprissima della lingua italiana, e maggiore in lei che nella stessa greca e latina, della quale ho parlato p.1240-42. non da altro deriva che dall’idioma popolare, giudiziosamente e discretamente applicato dagli scrittori alla letteratura.
4. Con questi vantaggi vennero anche dalla stessa fonte molti abusi. Li condanniamo altamente, e conveniamo in questo cogli scrittori che oggidì alzano contro di essi la voce in Italia, senza convenire in questo che ogni genere di bellezza in una lingua, non debba per necessità riconoscere come sua fonte essenziale e principale l’idioma popolare. Dico della bellezza, ec. la quale conviene alla vera poesia, ed alla bella letteratura, essenzialmente distinta nel suo linguaggio da quello che conviene alle scien-Letteratura italiana Einaudi 906
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ze ec. Negando questo, io non so com’essi ammirino tanto p.e. il Caro, la massima parte delle cui verissime finissime e carissime bellezze, sì nelle prose, come ne’ versi dell’Eneide, ognun può vedere a prima giunta che derivano originalmente da un grandissimo uso e possesso del linguaggio toscano volgare, (o anche degli altri volgari d’Italia, v. Monti, Proposta, vol.1. par.1. p. XXXV.) e da una giudiziosissima applicazione di questo ai diversi generi della letteratura, dai più bassi fino ai più alti, dalle lettere familiari, fino all’Epopea. Del resto, ben fecero gli scrittori italiani attingendo al volgare toscano più che agli altri volgari d’Italia, e ciò [1250]per le ragioni che tutti sanno, e che abbiam detto p.1246. fine-47. principio. Ma sciocca, assurda, pedantesca, ridicola è la conseguenza che dunque non si possa attingere se non da quel volgare; che gli scrittori non possano scrivere se non come e quanto dice e parla quel popolo; che la lingua e letteratura italiana dipenda in tutto e per tutto dal volgo toscano (quando non dipende neppure in nessun modo dal volgo, ma solamente se ne serve se le pare); che in Toscana e fuori, lo scrittore italiano non possa formar voce nè frase, che il volgo toscano non usi; che in somma quello che non è toscano, anzi fiorentino, anzi pure di Mercato vecchio, non sia italiano. Quando, come abbiamo veduto, non la letteratura al volgo, ma il volgo è totalmente su-bordinato alla letteratura, e quello è ai servizi, e giova ai comodi di questa, e non già questa di quello. E la letteratura forma e dispone della favella che prende dal volgo, e non viceversa. E le aggiunge quel che le piace, e se ne serve, sin dove può, e dove la favella del volgo non le può servire, l’abbandona, o in parte o in tutto. In somma abbiamo lodato la lingua italiana scritta perchè ha saputo giovarsi del linguaggio popolare, più e meglio forse
[1251]di qualunque altra lingua moderna, e perchè non l’ha mai licenziato da’ suoi servigi, come hanno fatto si può dir tutte le altre (anche la greca dopo un certo tem-Letteratura italiana Einaudi 907
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia po, e lo farebbe anche l’italiana, se non la richiamassimo, anzi lo andrebbe già facendo); non già perch’ella si sia sottomessa alla favella del volgo, molto meno del volgo di una sola provincia o città, che nè essa l’ha fatto o potuto fare, nè facendolo sarebbe stata superiore, ma inferiore a tutte le altre, nè noi l’avremmo lodata ma sommamente biasimata. Da tutto ciò segue ancora che la lingua italiana scritta, può servirsi di qualunque altro volgare (come faceva la lingua greca, anzi la stessa attica); e che è pazzo il privilegio esclusivo che si arrogano i toscani sulla lingua comune; se non in quanto non si possano torre da questi volgari quelle cose che non convengono a detta lingua comune.
Parimente soggiungo. Molti scrittori toscani e italiani hanno preso dal volgare toscano più di quello che ne potessero prendere, che fosse intelligibile o aggradevole ec.
da per tutto, che convenisse all’indole e alle forme della lingua italiana regolata e scritta, che potesse comunicarsi
[1252]alla nazione, e di toscano e provinciale divenir nazionale e italiano, che riuscisse nobile e adattato a una lingua scritta e ad una letteratura non più da formarsi, ma formata. Han fatto malissimo, e se non vanno confusi cogli altri scrittori vernacoli, certo però non s’hanno da tenere per italiani ma per toscani o fiorentini o sanesi, e per iscrittori non già nazionali, ma provinciali, ovvero anche, se così posso dire, oppidani.
Così discorro di tutti simili abusi, e negli scrittori e nel Vocabolario ec.
Nessuno è meno filosofo di chi vorrebbe tutto il mondo filosofo, e filosofica tutta la vita umana, che è quanto dire, che non vi fosse più vita al mondo. E pur questo è il desiderio ec. de’ filosofastri, anzi della maggior parte de’
filosofi presenti e passati.
Letteratura italiana Einaudi 908
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Così i nostri mezzi filosofi italiani, sapendo bene che il volgo non può essere il legislatore della favella scritta, nè la lingua volgare può mai bastare ai progressi dello spirito umano, nè alla fissazione, determinazione, distinzione e trasmissione delle cognizioni; perciò pretendono che qualunque lingua scritta, e qualunque stile debba appar-tarsi affatto dal volgare, ed escludono affatto il volgare dallo scritto, non avendo bastante filosofia per distinguere il bello dal vero, e quindi la letteratura e la poesia dalle scienze; e vedere che prima fonte del bello è la natura, la quale a nessun altro genere di uomini parla sì vivamente, immediatamente, [1253]e frequentemente, e da nessuno è così bene, e felicemente, e così al vivo e propriamente espressa, come dal volgo. La precisione toglietela dai filosofi. La proprietà, e quindi l’energia, la concisione ben diversa dalla precisione, e tutte le qualità che derivano dalla proprietà, non d’altronde le potrete maggiormente attingere che dalla favella popolare. E il Lipsio (Epistolica Institutio, cap.11.) consigliando lo studio di Cicerone sopra tutti per la eleganza, la soavità, la copia, la facilità del latino, consiglia i comici Plauto e Terenzio, come unici o principali mezzi d’imparare la proprietà d’esso sermone. Puoi vedere p.1481-84.
Da quanto abbiamo detto sulla differenza essenziale della lingua poetica e letterata dalla scientifica, risulta che la lingua francese, che nei suoi modi quasi geometrici si accosta alla qualità di quelle voci che noi chiamiamo termini, e di più, massimamente oggi, abbonda quasi più di termini, o pressochè termini, che di parole, è di sua natura incapace di vera poesia, e di veramente bella letteratura: mancando del linguaggio di queste, che non può non essere sostanzialmente segregato da quello delle scienze.
Termini o quasi termini, chiamo io anche le voci di conversazione, e d’altri tali generi, di cui la lingua francese, è sì ricca, e che esprimono in qualsivoglia materia, un’idea nuda, o quasi nuda, secca, precisa, e precisamente.
Letteratura italiana Einaudi 909
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia (30. Giugno 1821.)
[1254]La facilità di contrarre abitudine, qualità ed effetto essenziale de’ grandi ingegni, porta seco per naturale conseguenza ed effetto la facilità di disfare le abitudini già contratte, mediante nuove abitudini opposte che facilmente si contraggono; e quindi la potenza sì della durevolezza, come della brevità delle abitudini.
Osservate quegli abiti o discipline che hanno bisogno di un esercizio materiale, p.e. di mano, per essere imparate. Chi vi ha gli organi meglio disposti, o generalmente più facili ad assuefarsi, riesce ad acquistare quell’abilità in più breve tempo degli altri. Ecco tutto l’ingegno. Organi facili ad assuefarsi, cioè pieghevoli, e adattabili ec. o generalmente e per ogni verso, e questa è la universalità di un ingegno; o solamente ovvero principalmente in un certo modo, e questa è la disposizione dell’ingegno a una tal cosa, o la sua capacità di riuscire principalmente in quella.
Ma siccome altri sono gli organi interiori, altri gli esteriori, così un uomo di grande ingegno, sarà bene spesso inettissimo ad acquistare abilità meccaniche, cioè assuefazioni materiali; e viceversa.
Io nel povero ingegno mio, non ho riconosciuto altra differenza dagl’ingegni volgari, che una facilità [1255]di assuefarlo a quello ch’io volessi, e quando io volessi, e di fargli contrarre abitudine forte e radicata, in poco tempo. Leggendo una poesia, divenir facilmente poeta; un logico, logico; un pensatore, acquistar subito l’abito di pensare nella giornata; uno stile, saperlo subito o ben presto imitare ec.; una maniera di tratto che mi paresse conveniente, contrarne l’abitudine in poco d’ora ec. ec.
V. p.1312. Il volgo che spesso indovina, e nelle sue metafore esprime, senza saperlo, delle grandi verità, e dei sensi piuttosto propri che metaforici, sebben tali nell’intenzione, chiama fra noi, (e s’usa dire familiarmente anche Letteratura italiana Einaudi 910
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia fra i colti, ed anche scrivendo) testa o cervello duro (cioè organi non pieghevoli, e quindi non facili ad assuefarsi) chi non è facile ad imparare. L’imparare non è altro che assuefarsi.
Io credo che la memoria non sia altro che un’abitudine contratta o da contrarsi da organi ec. Il bambino che non può aver contratto abitudine, non ha memoria, come non ha quasi intelletto, nè ragione ec. E notate. Non solo non ha memoria, perchè poche volte ha potuto ricevere questa o quella impressione, ed assuefarsi a richiamarla colla mente. Ma manca formalmente della facoltà della memoria, giacchè nessuno si ricorda delle cose dell’infanzia, quantunque le impressioni d’allora sieno più vive che mai, e quantunque nell’infanzia possa essere ritornata al bambino quella tale impressione, più volte ancora di quello che bisogna all’uomo fatto perchè un’impressione o concezione qualunque gli resti nella memoria. Questa idea, merita di essere largamente sviluppata e distinta.
(1 Luglio 1821).
[1256]Se intorno alla bellezza umana, molte cose si trovano nelle quali o tutti o quasi tutti gli uomini convengono, questo non è giudizio, ma senso, inclinazione ec. ec. e non ha che fare col discorso astratto e metafisico della bellezza. Le donne che Omero chiama baϑækolpoi. (Il.
s. (18.) v.122. 339. v. (24.) v.215. Hymn. in Vener. 4.
v.258. quivi delle ninfe montane.) parranno a tutto il mondo più belle delle contrarie. La cagione è manifesta, e non accade dirla. Certo non è questa nè il tipo della bellezza, nè un’idea innata, nè un giudizio, una ragione ec. I fanciulli staranno molto tempo ad avvedersi che quella qualità che ho detto sia bellezza, e a far distinzione di beltà fra una donna che l’abbia, e un’altra che ne sia priva. Nè solo i fanciulli, ma anche i giovani mal pratici, e poco istruiti di certe cose, quantunque assuefatti a vedere; i giovani modestamente educati ec.; del che interrogo Letteratura italiana Einaudi 911
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia la testimonianza di molti. Le donne tarderanno assai più ad avvedersi di questa cosa, e non concepiranno per lungo tempo nè giudizio nè senso di bellezza differente, fra due donne ec. V. p.1315.fine.
E tuttavia questa qualità ch’io dico, passa [1257]ben tosto nel bello ideale, e il poeta, (come appunto Omero), o il pittore che tira dalla sua mente (come dice Raffaello ch’egli faceva) l’idea di una bellezza da rappresentare, non mancherà certo di concepire l’idea di una donna o donzella baϑækolpow. E pur l’origine di questa idea sarà tutt’altra che il tipo della bellezza, ed un giudizio o forma innata, universale e impressa dalla natura nella mente dell’uomo. Così facile è l’ingannarsi nel giudicare delle idee che l’uomo ha circa il bello preteso assoluto. V.
p.1339. Similmente discorro di altre simili qualità esteriori dell’uomo o della donna.
Così della vivacità degli occhi, o di qualunque espressione dell’anima che apparisca nel volto, il che però quando anche tutti convengano che sia bellezza, non tutti però convengono nel preferirlo alla languidezza, e anche alla melensaggine ec. Non so neppure se quelle donne inglesi che si paragonano ai silfi, e si giudicano da molti sì belle, e si antepongono ec. appartengano al numero di quelle significate da Omero ne’ citati luoghi.
Ed osservo, cosa manifesta per l’esperienza, che la donna (ancor prima di essere suscettibile d’invidia per cagione della bellezza) tarda molto più degli uomini a poter formare un giudizio fino e distinto circa le forme esteriori del suo sesso, e non giunge mai a quella perfezione di giudizio e di gusto, a cui gli uomini arrivano. Così viceversa discorrete degli uomini rispetto al sesso loro. Intendo già in parità di circostanze, e non di paragonare, per esempio, una donna molto riflessiva ec. ec. a un uomo torpido, e poco o niente suscettibile ec. Giacchè in tal caso, ognuno intende che quella tal [1258]donna ben fa-Letteratura italiana Einaudi 912
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia cilmente sarà miglior giudice delle forme del suo stesso sesso che questo tal uomo.
(1. Luglio 1821.)
Osservate i differentissimi, e spesso contrarissimi giudizi delle diverse nazioni, o province, e de’ diversi tempi, e di una stessa nazione o provincia in diverso tempo, circa la bellezza e grazia del portamento delle diverse classi di persone, delle maniere di stare di andare di sedere di gestire di presentarsi ec. e circa le stesse creanze, eccetto quelle che sono determinate e prescritte dalla ragione, e dal senso comune. Intorno alle quali cose possiamo dire che non c’è maniera giudicata bellissima e graziosissima e convenientissima in un luogo o in un tempo, che in altro luogo o tempo, non sia, non sia stata, o non sia per esser giudicata bruttissima, sconveniente, di mal garbo ec. Certo è che intorno alla bellezza del portamento dell’uomo, nessuno può stabilire veruna regola, veruna teoria, veruna norma, verun modello assoluto. Non parlo delle mode del vestire, intorno alla bellezza del quale, e degli uomini per rispetto ad esso, varia il giudizio secondo i paesi e i tempi, anzi pure secondo i territorii, e i momenti, senza veruna dipendenza neppur dalla natura costante e [1259]universale.
(1 Luglio 1821.).V. p.1318. fine.
Spesso nel vedere una fabbrica, una chiesa, un oggetto d’arte qualunque, siamo colpiti a prima giunta da una mancanza, da una soprabbondanza, da una disuguaglianza, da un disordine o irregolarità di simmetria ec. ed appena che abbiamo saputo o capito la ragione di questo disordine, e com’esso è fatto a bella posta, o non a caso, nè per negligenza, ma per utilità, per comodo, per necessità ec. non solo non giudichiamo, ma non sentiamo più in quell’oggetto veruna sproporzione, come la concepi-vamo e sentivamo e giudicavamo a primo tratto. Non è Letteratura italiana Einaudi 913
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia dunque relativa e mutabile l’idea delle proporzioni e sproporzioni determinate? E perchè sentivamo noi e forma-vamo in quel primo istante il giudizio della sproporzione o sconvenienza? Per l’assuefazione, la quale in noi ha questa proprietà naturale, che ci fa giudicar di una cosa sopra un’altra, di un individuo, di una specie, di un genere stesso sopra un altro, e quindi di una convenienza sopra un’altra. Dal che deriva l’errore universale, non solo del bello assoluto, ma della verità assoluta, del misurare tutti i nostri simili da noi stessi, della perfezione assoluta, del credere che tutti gli esseri vadano giudicati sopra una sola norma, e quindi del crederci più perfetti d’ogni altro
[1260]genere di esseri, quando non si dà perfezione comparativa fuori dello stesso genere, ma solamente fra gl’individui ec.
(1 Luglio 1821.)
Si può però ammettere una perfezione comparativa fra i diversi generi di cose, dentro il sistema di questa tal natura, o modo universale di esistere: ma una perfezione comparativa assai larga, e molto meno stretta e precisa di quello che l’uomo e il vivente qualunque si figuri naturalmente; e non mai assoluta, perchè assoluta non potrebb’essere se non in ordine al sistema intiero ed universale di tutte le possibilità. Questo pensiero ha bisogno di esser ponderato, svolto, dilatato, e rischiarato.
(1 Luglio 1821.)
A quello che altrove ho detto circa l’impossibilità di far bene quello che si fa con troppa cura, si può aggiungere quello che dice l’Alfieri nella sua Vita della matta attenzione ch’egli poneva a tutte le minuzie nelle sue prime letture e studi de’ Classici: e quello che ci avviene p.e.
nello studio delle lingue. Nel quale osservate che da principio per la somma attenzione che ponete a ogni menoma cosa, leggendo in quella tal lingua, vi riescono gli scrit-Letteratura italiana Einaudi 914
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tori sempre (più o meno) difficili. Laddove bene spesso, se si dà il caso, che [1261]voi abbiate intralasciato per qualche tempo lo studio di quella lingua, e perduto l’abito di quella minuta attenzione, ripigliando poi a leggere in detta lingua qualche pagina, e credendo di trovarci maggior difficoltà per l’interrompimento dell’esercizio, vi trovate al contrario molto più spedito di prima. Così pure, senza averla intralasciata, ma solamente pigliando a leggere qualche cosa in detta lingua non con animo di studio o di esercizio, ma solo di passare il tempo, o diver-tirvi, o in qualunque modo con intenzione alquanto, più o meno, rilasciata. Così dopo avere o credere di aver già imparata quella lingua, quando leggiamo non più come scolari, ma disinvoltamente e come semplici lettori. Nel qual tempo trovando forse difficoltà reali maggiori di quando leggevamo per istudio, non ci fanno gran caso, nè c’impediscono e trattengono più che tanto, nè ci tolgono una spedita facilità. In somma non si arriva mai a leggere speditamente una lingua nuova, se non quando si lascia l’intenzione di studioso per prendere quella di lettore, e durando la prima, solamente per sua cagione, ed anche senza veruna difficoltà reale, [1262]si trovano sempre intoppi, che altri non troverà nelle stesse circostanze, e colla stessa perizia, ma con diversa intenzione. Così non si trova piacere, nè facilità, nella semplice lettura, anche in nostra lingua, quando si legge con troppo studio ec.
(1-2. Luglio 1821.)
A quello che ho detto altrove della impossibilità di formarsi idea veruna al di là della materia, e del nome materiale imposto allo stesso spirito e all’anima, aggiungete che noi non possiamo concepire verun affetto dell’animo nostro se non sotto forme o simiglianze materiali, nè dargli ad intendere se non per via di traslati presi dalla materia (sebbene alle volte abbiano perduto col tempo il significato proprio e primitivo per ritenere il metaforico), Letteratura italiana Einaudi 915
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia come infiammare, confortare, muovere, toccare, inaspri-re, addolcire, intenerire, addolorare, innalzar l’animo ec.
ec. Nè solo gli affetti ma gli accidenti tutti o siano prodotti da cose interiori, o dall’azione immediata degli oggetti esteriori, come costringere, ed altri de’ sopraddetti ec.
(2. Luglio 1821.). V. p.1388. princip.
Passano anni interi senza che noi proviamo un piacer vivo, anzi una sensazione pur momentanea di piacere. Il fanciullo non passa giorno che non ne provi. Qual è la cagione? La scienza in noi, in lui l’ignoranza. Vero è che così viceversa accade del dolore.
(2. Luglio 1821.)
[1263]Alla p.1207. marg. Queste differenze s’incontrano a ogni passo dentro una medesima nazione, secondo i dialetti ec. Ed osserviamo ancora come l’assuefazione e l’uso ci renda naturale, bella ec. una parola che se è nuova, o da noi non mai intesa ci parrà bruttissima deforme, sconveniente in se stessa e riguardo alla lingua, mostruosa, durissima, asprissima e barbara. Per es. se io dicessi precisazione moverei le risa: perchè? non già per la natura della parola, ma perchè non siamo assuefatti ad udirla.
E così le parole barbare divengono buone coll’uso; e così le lingue si cambiano, e i presenti italiani parlano in maniera che avrebbe stomacato i nostri antenati; e così l’uso è riconosciuto per sovrano signore delle favelle ec.
(2. Luglio 1821.)
Alla p.1134. Lo studio dell’etimologie fatto coi lumi profondi dell’archeologia, per l’una parte, e della filosofia per l’altra, porta a credere che tutte o quasi tutte le antiche lingue del mondo, (e per mezzo loro le moderne) sieno derivate antichissimamente e nella caligine, anzi nel buio de’ tempi immediatamente, o mediatamente da una sola, o da pochissime lingue assolutamente primitive, Letteratura italiana Einaudi 916
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia madri di tante e sì diverse figlie. Questa primissima lingua, a quello che pare, quando si diffuse per le diverse parti del globo, mediante le trasmigrazioni degli uomini, era ancora rozzissima, scarsissima, priva d’ogni sorta d’inflessioni, inesattissima, costretta a significar cento cose con [1264]un segno solo, priva di regole, e d’ogni barlume di gramatica ec. e verisimilissimamente non applicata ancora in nessun modo alla scrittura. (Se mai fosse già stata in uso la così detta scrittura geroglifica, o le antecedenti, queste non rappresentando la parola ma la cosa, non hanno a far colla lingua, e sono un altro ordine di segni, anteriore forse alla stessa favella; certo, secondo me, anteriore a qualunque favella alquanto formata e maturata.) Nè dee far maraviglia che la grand’opera della lingua, opera che fa stordire il filosofo che vi pensa, e molto più del rappresentare le parole, e ciascun suono di ciascuna parola, chiamato lettera, mediante la scrittura, e ridurre tutti i suoni umani a un ristrettissimo numero di segni detto alfabeto, abbia fatto lentissimi progressi, e non prima di lunghissima serie di secoli, abbia potuto giungere a una certa maturità; non ostante che l’uomo fosse già da gran tempo ridotto allo stato sociale. Quanto all’alfabeto o scrittura par certo ch’egli fosse ben posteriore alla dispersione del genere umano, sapendosi che molte nazioni già formate presero il loro alfabeto da altre straniere, come i greci dai Fenici, i latini ec. Dunque non era noto prima ch’elle si disperdessero, e dividessero, giacch’elle da principio non ebbero alcun alfabeto. E i Fenici l’ebbero pel loro gran commercio ec. Dunque esistendo il commercio, le nazioni erano, e da gran tempo, divise.
Diffondendosi dunque pel globo il genere umano, e portando con se per ogni parte quelle scarsissime e debolissime convenzioni di suono significante, che formavano allora la lingua; si venne stabilendo nelle diverse parti, e la società cominciò lentissimamente a crescere e cammi-Letteratura italiana Einaudi 917
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia nare verso la perfezione. Primo e necessario mezzo per l’una parte, e per l’altra effetto di questa, è la sufficienza e l’organizzazione della favella. Venne dunque lentamente
[1265]a paro della società, crescendo e formandosi la favella, sempre sul fondamento o radice di quelle prime convenzioni, cioè di quelle prime parole che la componevano. Queste erano dappertutto uniformi, ma le favelle formate non poterono essere uniformi, nè conservarsi l’unità della lingua fra gli uomini. Primieramente dipendendo la formazione della favella in massima parte dall’arbitrio, o dal caso, e da convenzione o arbitraria o accidentale, gli arbitri e gli accidenti, non poterono essergli stessi nelle diversissime società stabilitesi nelle diversissime parti del globo, quando anche esse avessero tutte conservato gli stessi costumi, le stesse opinioni, le stesse qualità che aveva la primitiva e ristrettissima società da cui derivavano; e quando anche tutte le parti del globo avessero lo stesso clima e influissero per ogni conto sopra i loro abitatori in un modo affatto uniforme.
Secondariamente il genere umano diviso, e diffuso pel mondo, si diversificò nelle sue parti infinitamente, non solo quanto a tutte le altre appartenenze della vita umana, e de’ caratteri ec. ma anche quanto alle pronunzie, alle qualità de’ suoni articolati, e degli alfabeti parlati, diversissimi secondo i climi ec. ec. come vediamo. Queste infinite [1266]differenze sopravvenute al genere umano, già diviso in nazioni, e distribuito nelle diverse parti della terra, fecero sì che la formazione delle lingue presso le nazioni primitive, differisse sommamente, quantunque tutte derivassero da una sola e stessa radice, e conservas-sero nel loro seno i pochi e rozzi elementi della loro prima madre, diversamente alterati collo scambio delle lettere, secondo le inclinazioni degli organi di ciascun popolo, colle inflessioni, colle significazioni massimamente, colle composizioni, e derivazioni, e metafore infinite e Letteratura italiana Einaudi 918
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia diversissime di cui l’uomo naturalmente si serve a significare le cose nuove o non ancora denominate ec. ec.
Nel terzo luogo, la lingua primitiva, dovette immancabilmente servirsi delle stesse parole per significare diversissime cose, scarseggiando di radici, e mancando o scarseggiando d’inflessioni, di derivati, di composti ec. La lingua ebraica, l’una delle lingue scritte più rozze, e lingua antichissima, serve di prova di fatto a questo ch’io dico, e che è chiaro abbastanza per la natura delle cose. Ora i diversi popoli nella formazione progressiva delle lingue, trovando qual per un verso, qual per un altro, il modo di significar le cose più distintamente, conservarono alle loro prime parole radicali dove uno [1267]dove un altro de’
sensi che ebbero da principio, o fossero propri, o traslati.
Così che non è da far maraviglia se bene spesso in diversissime lingue si trovano tali e tali radici uniformi o somiglianti nel suono, ma disparatissime nel significato. Nè la disparità del significato è ragion sufficiente per decidere che non hanno fra loro alcuna affinità. Ci vuole il senno e la sottigliezza del filosofo, e la vasta erudizione e perizia del filologo, dell’archeologo, del poliglotto, per esaminare se e come quella tal radice potesse da principio riunire quei due o più significati diversi. Chi non vede p.e. che wolf, voce che in inglese e in tedesco significa lupo, è la stessa che volpes o vulpes, che significa un altro quadrupede pur selvatico, e dannoso agli uomini? Frattanto la detta osservazione dimostra la immensa differenza che appoco appoco dovette nascere fra le varie lingue, e l’infinita oscurazione che ne dovette seguire del linguaggio primitivo e comune una volta, ma già non più intelligibile nè riconoscibile. (V. la p.2007. principio.) Nel quarto luogo che dirò della scrittura?
1. O della sua mancanza (giacchè è più che verisimile che quando gli uomini e le lingue si divisero e sparsero, non si avesse ancora nessuna notizia della scrittura alfabetica, nè di segno alcuno de’ suoni, trattandosi che Letteratura italiana Einaudi 919
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia la lingua stessa allora parlata, era così bambina come abbiamo probabilmente conghietturato dagli effetti); mancanza che toglieva ogni [1268]stabilità, ogni legge, ogni forma, ogni certezza, ogni esattezza, alle parole, ai modi, alle significazioni; e lasciava la favella fluttuante sulle bocche del popolo, e ad arbitrio del popolo, senza nè freno, nè guida, nè norma. Dal che quante variazioni derivino, lo può vedere chiunque osservi i dialetti ne’ quali sempre o quasi sempre si divide una stessa lingua parlata, quantunque già formata e applicata alla scrittura; e insomma le infinite diversità che a seconda de’ tempi e de’
luoghi patisce quella lingua che il popolo parla, ancorchè ella stessa sia pure scritta ec. Che se da questo che noi vediamo, rimonteremo a quello che doveva essere in quei tempi, dove l’ignoranza dell’uomo era somma, somma l’incertezza e l’ondeggiamento di tutta la vita, ec. ec. potremo facilmente vedere, che cosa dovessero divenire, e quante forme prendere o la lingua primitiva o le sottoprimitive, mancanti dell’appoggio, e dell’asilo non pur della letteratura, ma della stessa scrittura alfabetica.
2. Che dovrò dire dell’invenzione della scrittura? Pensate voi stesso, nella prima imperfezione di quest’arte prodigiosa e difficilissima; nella differenza degli alfabeti, o nella inadattabilità dell’alfabeto scritto di un popolo, all’alfabeto parlato di un altro; [1269]nella imperizia de’
lettori, e degli scrittori, e de’ primi copisti ec. ec. pensate voi quali incalcolabili e inclassificabili alterazioni dovessero ricevere le prime lingue, sì come scritte, sì come parlate, cominciando a influir la scrittura sulla favella.
Notate cosa notabilissima. Tutte le lingue antiche non ci possono essere pervenute se non per mezzo della scrittura, giacchè quando anche non sieno interamente morte, il corso de’ secoli porta sì enormi variazioni alle lingue, che dal modo in cui ora si parli una lingua antichissima, chi può sicuramente argomentare delle sue antiche proprietà, ancor dopo formata? Ora egli è certo che le Letteratura italiana Einaudi 920
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia lingue scritte differirono sommamente dalle parlate, stante la difficoltà che nel principio si dovè provare per rappresentare esattamente ciascun suono ec. Difficoltà che produsse infallibilmente eccessive differenze fra le antiche parole scritte e le pronunziate. Differenze che appoco appoco si stabilirono; e malgrado le cure che si posero per una parte ad uniformare più esattamente i segni scritti ai suoni inventando nuovi segni ec. ec.; malgrado l’influenza che acquistarono le scritture sulle modificazioni del parlare ec. certo è che tali differenze dove più dove meno dovettero perpetuarsi e sempre conservarsi.
[1270]Quindi considerate i pericoli che si corrono nell’argomentare le proprietà di un’antica parola, e la sua prima forma, dal modo in cui solamente ella ci può esser nota, dal modo cioè nel quale è scritta. Come chi argo-mentasse della lingua inglese o francese ec. dal modo in cui sono scritte. Non c’è regola per sapere precisamente qual fosse il valore e la pronunzia di un tal carattere in una lingua antica, e massime antichissima, e massime antichissimamente ec. ec. Quindi è ben verisimile che moltissime parole d’antiche lingue, che vedendole scritte ci paiono diversissime e disparate, ci dovessero parere del tutto affini, se sapessimo qual vera e primitiva pronunzia si volle antichissimamente rappresentare con quei tali segni che vediamo. V. p.1283.
Aggiungete un’osservazione che cresce forza all’argomento. L’invenzione dell’alfabeto è sì maravigliosa e difficile, che è ben verisimile, che quel primo alfabeto che fu inventato passasse dalla nazione e dalla lingua che l’inventò, a tutte o quasi tutte le altre; e quindi o tutti o quasi tutti gli alfabeti derivino da un solo alfabeto primitivo.
Quello ch’è certo e costante si è che l’alfabeto Fenicio, il Samaritano, l’Ebraico, il Greco, l’arcadico, il pelasgo, l’Etrusco, il latino, il Copto, senza [1271]parlare di non pochi altri (come il Mesogotico, il Gotico, e il tedesco, l’Anglosassone, il russo) dimostrano evidentemente l’unità Letteratura italiana Einaudi 921
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia della loro comune origine. Or quali lingue più disparate che p.e. l’ebraica e la latina? (Pur ebbero, come vediamo, lo stesso alfabeto in principio.) Tanto che Sir W. Jones, il quale fa derivare da una stessa origine le lingue, e le religioni popolari della prima razza de’ Persiani e degli Indiani, dei Romani, dei Greci, dei Goti, degli antichi Egizi o Etiopi, tiene per fermo che gli EBREI, gli Arabi, gli Assirii, ossia la seconda razza Persiana, i popoli che adoperavano il Siriaco, ed una numerosa tribù d’Abissinii, parlassero tutti un altro dialetto primitivo, diverso affatto dall’idioma pocanzi menzionato, cioè di quegli altri popoli.
Così che, eccetto quella prima nazione, dove fu ritrovato l’alfabeto, in qualunque modo ciò fosse, tutte le altre, o tutte quelle che immediatamente o mediatamente lo ricevettero da lei, scrissero con alfabeto forestiero. Ed essendo infinita in tante nazioni la varietà de’ suoni ec. ec. vedete che immense alterazioni dovè ricevere ciascuna lingua nell’essere applicata a un solo alfabeto, per lei più o meno, e bene spesso estremamente forestiero. V. p.2012.
2619.
A tutte le sopraddette cose aggiungete le alterazioni molto maggiori che ricevettero le lingue sottoprimitive nel suddividersi, e risuddividersi secondo le vicende infinite delle nazioni, e del genere umano; aggiungete le alterazioni che ricevettero e quelle e queste lingue appoco appoco, non solo col corso de’ secoli e indipendentemente ancora da ogni altra circostanza, ma coll’esser finalmente ridotte più o meno a lingue gramaticali, col raddolcimen-to delle parole prodotto e dalla civiltà crescente, e dai letterati, secondo i diversi geni degli orecchi nazionali ec.; coll’essere applicate non più solamente alla scrittura, ma alla letteratura, della cui estrema influenza sul modificare e formare le lingue, che accade ora ripetere quello che s’è tante volte ripetuto? Bensì osservo che le lingue antiche non ci sono pervenute se non per mezzo, non già della semplice scrittura, ma della letteratura. Delle alte-Letteratura italiana Einaudi 922
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia razioni che le parole soffrono nel significato v. p.1505.
fine. e 1501.-2.
[1272]E dopo tutto ciò non vi farà maraviglia se tanto deve stentarsi, e se bene spesso è impossibile a riconoscere nelle diversissime e quasi innumerevoli lingue del mondo l’unità dell’origine; e se la lingua o le lingue assolutamente primitive, o piuttosto quella o quelle prime poverissime e rozzissime nomenclature, che furono la base delle lingue tutte, e che formano ancora le radici delle loro parole; annegate nelle derivazioni, inflessioni, composizioni diversissime secondo i casuali accidenti delle formazioni delle lingue, i caratteri, i geni, i climi, le letterature che formarono esse lingue, le opinioni, i costumi, le circostanze diversissime della vita che v’influirono, le cognizioni, le disposizioni della terra, del cielo ec. ec. e modificate e svisate secondo le differenze degli organi nelle diverse nazioni, secondo l’ignoranza de’ parlatori primitivi, la corruzione che inevitabilmente soffrono le parole anche nelle lingue le più stabilite e perfette; non vi maraviglierete, dico, se tali primitive radici benchè comuni a tutte le lingue, si nascondono per la più parte agli occhi degli osservatori più fini, fanno disperare l’etimologista, e considerare come un frivolo sogno l’investigazione delle origini delle lingue, e lo studio delle etimologie, e dell’analogia delle parole di tutte le favelle (intrapresa però a svolgere da parecchi, ed ultimamente, secondo che odo, da non so qual francese); insomma la primitiva unità di origine e analogia di tutte le lingue.
(Riferite tutte queste osservazioni a quello che altrove ho detto della necessaria varietà delle lingue, e vicendevolmente riferite quei pensieri a questi.)
[1273]Malgrado tutto ciò, ella è cosa certissima che tali investigazioni (per quanto elle possono avvicinarsi al vero) sono delle più utili che mai si possano concepire sì alla storia come alla filosofia. Le origini delle nazioni (oltre ai progressi dello spirito umano, e la storia de’ popoli, cose Letteratura italiana Einaudi 923
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tutte fedelmente rappresentate nelle lingue), le remotissime epoche loro, le loro provenienze, la diffusione del genere umano, e la sua distribuzione pel mondo, in somma la storia de’ primi ed oscurissimi incunaboli della società, e de’ suoi primi passi, non d’altronde si può maggiormente attingere che dalle etimologie, le quali rimon-tando di lingua in lingua fino alle prime origini di una parola, danno le maggiori idee che noi possiamo avere circa le prime relazioni, i primi pensieri, cognizioni ec.
degli uomini.
Certo è parimente che in lingue disparatissime parlate antichissimamente da popoli lontanissimi fra loro, si trovano bene spesso tali conformità nelle forme esteriori e nel significato di certe voci, e queste voci sono in gran parte così necessarie alla vita, esprimono cose così necessarie, e nel tempo stesso così facili e prime e naturali ad esprimersi, che queste conformità, non volendo attribuirle al caso, ch’è inverisimile, non potendo attribuirle alla natura, giacchè si tratta di voci d’espressione e di forma quasi al tutto arbitraria; [1274]e neppure potendo attribuirle a relazioni posteriori di detti popoli fra loro, sì perchè ciò s’oppone molte volte a tutte le storie conosciute, sì perchè si tratta di parole necessarie e prime in tutte le lingue; resta che si attribuisca ad una comune origine di tali lingue e di tali popoli, ancorchè ora e sin da remotissimo tempo disparatissimi, e lontanissimi, e ignoti gli uni agli altri.
A scoprir dunque tal comune origine delle lingue e quindi delle nazioni (o sia una sola origine, o sieno alcune pochissime); a ritrovare quanta maggior parte si possa della prima lingua degli uomini; a soddisfare al filosofico desiderio di quel metafisico tedesco (v. p.1134.) ec. ec.
non v’è altro mezzo che lo studio etimologico. E questo non ha altra via, se non che giovandosi de’ lumi compa-rativi d’una estesa poliglottia, de’ lumi profondamente archeologici e filologici, fisiologici e psicologici ec. pren-Letteratura italiana Einaudi 924
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia dere a considerar le parole delle lingue meglio conosciute fra le più antiche (come più vicine alla comune origine delle lingue); e denudandole d’ogni inflessione, composizione, derivazione gramaticale ec. ec. cavarne la radice più semplice che si possa; e quindi coi detti lumi compa-rativi ec. ridurre questa radice dalle diversissime alterazioni di forma, e di suoni che può avere ricevute, (anche prima di divenire radice d’altra parola, e nel suo semplice stato, ovvero dopo) alla sua forma primitiva. Quando questa non si possa trovare e stabilire precisamente, l’Etimologo avrà fatto abbastanza, e l’utilità sarà pur molta, se avrà dimostrato che una tal parola dimostrata radicale, quantunque diversa nelle diverse lingue, è però una sola in origine, e che fra quelle diverse forme, significati ec. di essa radice, si trova la forma, il significato ec.
primitivo, quantunque non si possa definitamente stabilire se questo sia il tale o il tale fra i detti sensi e forme che ha nelle differenti favelle. Come [1275]questo si possa fare nella lingua latina che è una delle antichissime, delle meglio conosciute, e delle meglio accomodate a tali ricerche, abbiamo cercato di indicarlo colla scorta della filologia e dell’archeologia, mostrando come dalle parole latine si possa trarre la radice monosillaba, e colla scorta della filosofia la quale insegna che le prime lingue dovettero essere per la più parte monosillabe, e composte quasi di soli nomi; mostrando molti accidenti delle parole latine, considerati finora come qualità essenziali, il che nuoce, come è chiaro, infinitamente alla invenzione delle estreme radici, ed arresta il corso delle ricerche etimolo-giche lungi dalla sua meta, e in un punto dove elle non debbono arrestarsi, come se già fossero giunte alle ultime origini, ed agli ultimi elementi delle parole. Abbiamo insomma cercato di ridurre l’analisi e la decomposizione delle parole latine, ad elementi più semplici: cosa giovevolissima alla cognizione delle loro origini e radici; come infiniti progressi ha fatto la chimica quando ha sco-Letteratura italiana Einaudi 925
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia perto che quei quattro che si credevano primi elementi, erano composti, ed è giunta a trovar sostanze, se non del tutto elementari ed ultime esse stesse, certo molto più semplici delle prima conosciute.
[1276]Voglio portare in conferma di ciò un altro esempio, oltre ai già riferiti, per mostrare quanto giovino i lumi archeologici alla ricerca delle antichissime radici. Silva è radice in latino, cioè non nasce da verun’altra parola latina conosciuta. Osservate però quanto ella sia mutata dalla sua vecchia e forse prima forma. �Ulh è lo stesso che silva per consenso di quasi tutti gli etimologi. Or come la parola latina ha una s e un v davantaggio che la greca?
Quanto alla s vedi quello che ho notato altrove, vedi Iul.
Pontedera Antiquitt. Latinn. Graecarumq. Enarrationes atque Emendatt. Epist. 2. Patav. Typis Seminar. 1740.
p.18. (le due prime epistole meritano di esser lette in questi propositi archeologici della lingua latina) ed ella è cosa già nota agli eruditi. Nelle stesse antiche iscrizioni greche si trova sovente il sigma innanzi alle parole comincianti per vocale, in luogo dell’aspirazione. Anzi questa scrittura s’è conservata in parecchie delle stesse voci greche, (come nelle latine): p.e. sèkon pronunziavasi da principio ðkon o ïkon coll’aspirazione aspra o dolce, giacchè gli Eoli ne fecero ?èkon e i latini ficus. V. l’Encyclop. in S.
Quanto al v ecco com’io la discorro.
L’antico H greco derivato dall’Heth Fenicio, Samaritano, ed Ebraico, col quale ha comune anche il nome ·ta (giacchè il taè greco deriva dal thau degli Ebrei), oltre alla figura, ec., non fu da principio altro segno che di un’aspirazione, (v. p.1136. marg.) come lo fu sempre nel latino, e come lo era nell’alfabeto da cui venne il greco. (V. Cellar. Orthograph. Patav. ap. Comin.
1739. p.40. fine. e l’Encyclop. méthodique. Grammaire.
art. H. specialmente p.215. e se vuoi, il Forcellini in H.) Abbiamo veduto che l’antico v latino non era altro che
[1277]il digamma eolico, e questo non altro che un carat-Letteratura italiana Einaudi 926
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tere che gli Eoli ponevano in luogo dell’aspirazione, anzi un segno di aspirazione esso stesso, e in somma fratello carnale dell’antico H greco. Antichissimamente pertanto la parola ìlh, pronunziavasi hulh con due aspirazioni l’una in capo, e l’altra da piè. (voglio dire insomma che l’h di ìlh non era da principio lettera mobile, e puro carattere di desinenza, ma radicale, il che si deduce dal v che i latini hanno per lettera radicale in questa parola, cioè in silva.) Ovvero pronunziavasi hilh giacchè non si può bene accertare qual fosse l’antichissima pronunzia dell’u greco; se u simile al francese, come lo pronunziavano i greci ai buoni tempi; ovvero i, come lo pronunziano i greci moderni, come si pronunzia in moltissime voci latine o figlie o sorelle di voci greche, e come pronunziano i tedeschi il loro u. Certo è che gli antichi latini pronunziarono e scrissero le parole che in greco si scrivevano per Y, ora per I, ora per u, e quindi corrottamente talvolta anche per o, come da sumnus somnus ec. V. Pontedera loc. cit. nella pagina precedente. Per y non mai, carattere greco, il quale graecorum caussa nominum adscivimus dice Prisciano (lib.1 p.543. ap. Putsch.), ed è carattere non antico, come dice Cicerone, e pronunziavasi alla greca, come una u francese, secondo che apparisce da Marziano Capella. (V. Forcellini, l’Encyclop. e Cellar. Orthograph.
p.6 fine-7 principio). Quindi nel nostro caso, gli antichi marmi e manoscritti, e gli eruditi, rigettano la scrittura di sylva sylvestris ec. per silva; scrittura [1278]corrotta e più moderna, introdottasi presso gli scrittori latino-barbari, come si può vedere nel Ducange. Il che per altro serve anch’esso a mostrare la derivazione o cognazione del latino silva col greco ìlh, non essendoci altra ragione perchè l’uso di tempi ignorantissimi, e che non pensavano o sapevano nulla d’etimologie nè di greco, dovesse introdurre questa lettera greca y in una parola che gli antichi latini scrivevano per i; uso conservatosi fino a’ nostri tempi presso molti che scrivono ancora sylva e così ne’ derivati.
Letteratura italiana Einaudi 927
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia E forse a quel tempo in cui, secondo che dice Cicerone, si cominciò a scrivere e pronunziare (cioè per u gallico) Pyrrhus e Pryhges ec. in luogo di Purrus e Phruges che gli antichi scrivevano (v. Forcellini in Y); si cominciò anche a scrivere e pronunziare sylva: o certo in qualunque tempo questo accadesse, ebbe origine e causa dal vizio di volere in tutto conformare la scrittura e la pronunzia agli stranieri, nelle parole venute da loro, vizio che Cicerone riprende nello stesso luogo. (osservazione molto applicabile ai francesi.) E ciò mostra che dunque silva si considerò per tutt’una parola con ìlh, quantunque la scrittura sylva sia viziosa. Presso gli stessi greci de’ buoni tempi le parole che hanno la u, quando subiscono le solite affezioni delle parole greche, cambiano spesso l’u in i, come da dæo si fa dÜw, e ne’ composti (come diploèw, dillòw, dÛstomow, difu¯w ec.) sempre di.
Tornando al proposito, ed oggi, e da lungo tempo, questa medesima lettera greca y, non per altro introdotta nell’alfabeto latino che per rappresentare l’u greco, ed esprimere il suono della u francese, [1279]non si pronunzia in esso alfabeto nè in essa lingua, se non come i semplice.
Così pure nello spagnuolo e nel francese, quando non è trasformato in i anche nella scrittura, come sempre lo è nella nostra lingua. E notate che in dette due lingue l’ y si pronunzia i anche in parole e nomi propri ec. non derivati dal latino, o che in latino non avevano detta lettera, o anche avevano l’ i in sua vece. E l’ y e l’ i si scambiano a ogni tratto nella scrittura spagnuola e francese, massime in quelle non affatto moderne, giacchè oggi l’ortografia è più determinata. (I francesi scrivono Sylvain pronunziando Silvain. V. anche il Diz. Spagnuolo in Syl. ) Notate ancora che i francesi conservano l’ u gallico, e pure pronunziano l’ y per i. Dal che apparisce che questa lettera grecolatina, perdè affatto e universalmente il suo primo suono, e cangiossi in i, come l’u presso i greci. Ed è naturale l’affinità scambievole dell’ i e dell’ u, le più esili delle Letteratura italiana Einaudi 928
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia nostre vocali. V. p.2152. fine. Infatti il suono della u francese o Lombarda (il Forcellini la chiama Bergamasca) partecipa della i come della u. E quegli stessi greci che pronunziavano il loro u come i francesi la u, lo consideravano come una i piuttosto che come una u; voglio dire come una specie o inflessione ec. della i. Giacchè nel loro alfabeto lo chiamavano êcilòn (come noi diciamo pure alla greca ipsilon) cioè u tenue. Ora questo aggiunto di tenue non gli è dato ad altro oggetto che di distinzione, come l’e si chiama parimente ¤cilòn per distinguerlo dall’·ta. Ma i greci non hanno nel loro alfabeto altra u da cui bisognasse distinguere questo u; bensì hanno un’altra i cioè l’ÞÇta.
Da hulh dunque pronunziato alla francese, e doppia-mente aspirato, ovvero da hilh, fecesi hulf o hilf all’eolica, il che in latino (e in molte altre lingue per la somiglianza delle labiali f e v) pronunziossi, come abbiamo veduto, o da principio [1280]o col tempo hilv. Anzi il digamma eolico non doveva esser altro che una cosa di mezzo tra f e v, ed un’aspirazione che tenea della consonante, e tale divenne pienamente nel seguito. (Aspirazioni considerate per consonanti formali, ne ha pure lo spagnuolo ec.) Da hilv i latini, secondo il loro costume, fecero silv. E
finalmente come presso i greci l’aspirazione H perdendosi affatto, passò ad esser lettera, e desinenza di ìlh e cessò di esser carattere radicale; così presso i latini la parola silv, raddolcendosi e formandosi la lingua, venne a ricevere la sua vocale terminativa a.
Ecco quanti cangiamenti dovè subire la radice hulh o hilh (seppur questa fu la primissima parola) secondo le differenze de’ popoli e de’ tempi, prima ancora di passare dal suo semplice stato di radice a parola derivativa o composta, anzi prima pur di subire alcuna inflessione, giacchè ìlh e silva essendo nominativi non hanno inflessione veruna. Ed aggiungete ancora, prima di divenir selva in italiano, giacchè la radice di questa parola italiana è Letteratura italiana Einaudi 929
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia parimente quell’ hulh, e così tutte le più moderne parole che giornalmente oggi si parlano, hanno la loro antichissima, e per lo più irreconoscibilissima radice nelle lingue primitive.
Queste non sono etimologie stiracchiate, nè sogni, benchè etimologie lontanissime. E non volendoci prestar fede, perciò solo che sono lontane, e che a prima vista non si scorge somiglianza fra hulh e silva, non si creda di mostrarsi spirito forte, ma ignorante d’archeologia, di filologia, e della storia naturale degli organi umani, de’
climi ec. come pur della storia certa e chiara di tante altre parole e lingue, similissima a questa; [1281]come di quelle stesse parole italiane che si sa di certo esser derivate dall’Arabo, dal greco, e dallo stesso latino, e che pur tanto hanno perduto della loro prima fisonomia, (in tanto minor tempo e varietà di casi) ed appena si possono ridurre alla loro origine. Giacchè ci sono due generi d’incredulità, l’uno che viene dalla scienza, e l’altro (ben più comune) dall’ignoranza, e dal non saper vedere come possa essere quello che è, conoscer pochi possibili ec. poche verità e quindi poche verisimiglianze ec. non saper quanto si stenda la possibilità. (V. p.1391. fine.) Se dunque non m’inganno, abbiamo trovato una radice primitiva, o prossima alla forma primitiva, dico hulh o hilh. Sarebbe tanto curioso quanto utile il ricercare questa parola, se esistesse, o altra che le somigliasse, nelle lingue straniere, principalmente orientali, da cui pare che derivassero antichissimamente le lingue occidentali, come pure le nazioni, le opinioni, i costumi, e che in somma l’oriente fosse abitato prima dell’occidente. Gli studi e le scoperte che i moderni negli ultimi tempi hanno fatte, e vanno facendo anche oggi nelle antichità orientali, pare che sempre più confermino questa proposizione (già conforme al Cristianesimo, e alle antiche tradizioni pagane) della maggiore antichità dell’oriente rispetto all’occidente, o almeno della società e civiltà orientale, generalmen-Letteratura italiana Einaudi 930
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia te parlando. Converrebbe consultare specialmente le lingue indiane.
Le lingue selvagge sarebbero anche adattate a queste ricerche, essendo verisimilmente le meno lontane dallo stato primitivo, come lo sono quelli che le parlano.
Ma prima d’istituire tali ricerche bisogna fare un’ultima osservazione in questo proposito. Finora non abbiamo considerato che le variazioni nella forma esteriore di detta radice. Bisogna osservare anche quelle del significato. �Ulh non significa solamente [1282] selva, ma anche materia, materiale sostantivo ec. v. i Lessici. Anzi questo si pone per significato proprio d’essa parola. Quindi ylgnh, hiuli presso i Rabbini significa materia o materia prima, termine filosofico. V. Johannis Buxtorfii Lex;.
Chaldaicum Talmudicum et Rabbinicum alla radice (fittizia) ]yh, Basileae 1640. col.605 fine-606. Dove è notabile il modo nel quale è imitato il suono dell’u greco, o u francese; cioè con due i ed una u; dal che 1. si conferma quello che ho detto p.1279. che i greci consideravano detta lettera più come una i che come una u, 2. apparisce che l’antica pronunzia dell’u greco durava ancor dopo trasformata quella dell’ e lunga h, in i; giacchè l’h di ìlh è espresso in questa parola rabbinica per la i lunga. Del resto la radice ]yh è mal formata dal Lessicografo, giacchè manca del lamed, lettera radicalissima nella voce surriferita. Si vede pure che conservavasi ancora l’aspirazione nella voce ìlh, giacchè la He non ad altro oggetto che di rappresentar l’aspirazione, fu posta dai rabbini in detta voce. �Ulh significa anche particolarmente legna o legname, o legno in genere. Così pure silva (v. Forcellini), altra prova dell’affinità di questo vocabolo col vocabolo greco. Non saprei dire, nè monta per ora assai, il ricercare quale dei detti significati fosse il primitivo, se quello di selva, o di legna, o di materia o materiale ec. Anche negli Scrittori latino-barbari si trova Silva per Lignum, Mate-Letteratura italiana Einaudi 931
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ria. V. il Glossar. del Ducange. Vedilo anche in Hyle, e quivi pure il Forc.
Bensì è curioso l’osservare che presso gli spagnuoli madera, lo stesso che materia, che i nostri antichi italiani dissero anche matera, non significa oggi altro che legno generalmente o legname. E presso i francesi è noto che bois significa tanto bosco o selva quanto legno in genere.
V. i Diz. francesi, e la Crusca in selva, bosco, foresta, materia ec. se ha nulla in proposito. Anche fra noi poeticamente si direbbe molto bene selva ec. per legna ec. come presso a’ poeti latini.
Si potrebbe dunque e dovrebbe ricercare nelle lingue orientali ec. la radice hulh o hilh, non solo in [1283]senso di selva, ma anche di materia, di legno, o legname ec. e in qualsivoglia di questi si ritrovasse, servirebbe ugualmente di conferma al nostro ragionamento.
(2-5. Luglio 1821.). V. p.2306.
Alla p.1270. Anche dopo fatta la meravigliosa analisi de’ suoni articolati pronunziabili in una intera favella, e concepito il portentoso disegno di esprimergli ad uno ad uno e rappresentargli nella scrittura; e in somma trovato l’alfabeto; si dovè provare tanta difficoltà nell’applicazione, quanta se ne prova sempre passando dalla teorica alla pratica. Anzi si può dire in genere che lo scrivere una lingua non mai stata scritta era lo stesso che applicar la teorica alla pratica. Difficoltà, inconvenienti, disordini infiniti dovettero comparire nelle prime scritture. Gli alfabeti, come tutte le cose umane, e massime così difficili e sottili, durarono per lunghissimo tempo imperfetti. Cioè l’analisi dei suoni non fu potuta fare perfettamente, se non dopo lunghe serie di esperienze e riflessioni. Non potè detta analisi arrivar subito ai suoni intieramente elementari. Quindi segni inutili e soprabbondanti per una parte, mancanze di segni necessarii per l’altra. Quindi sistema peccante di poca semplicità e di troppa semplicità.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Gli archeologi possono facilmente vedere e notare, e notano i progressi dell’alfabeto sì presso una medesima nazione, sì passando ad altre nazioni, come fece. Certo è però che i primissimi alfabeto dovettero essere molto più imperfetti di quegli stessi imperfettissimi e primi che conosciamo, e che essi dovettero lungo tempo durare in quella o simile imperfezione, e quindi tanto più contribuire ad alterare la lingua scritta, la lingua comunicata alle altre nazioni e tempi ec. Quante parole che si distin-guevano ottimamente nella pronunzia, si dovettero confondere nella scrittura. O si cercò allora di distinguerle in modi arbitrarii, o lasciandole così indistinte, le proprietà, i significati, le origini delle parole si [1284]vennero a poco a poco a confondere. Nell’uno e nell’altro caso vedete quanto la necessaria imperfezione delle prime scritture (e per prime intendo quelle di parecchi secoli) debba aver nociuto alla perfetta conservazione delle primitive radici, averle svisate di forma, confusine i significati ec. ec. Così discorrete degli altri inconvenienti che derivarono dalle imperfezioni degli alfabeti, e degli effetti che questi inconvenienti dovettero produrre sulle parole.
Ma anche senza considerare nei primitivi alfabeti, o alfabeto, veruna imperfezione, ripeto che l’applicare le parole pronunziate ai segni allora inventati, dovè necessariamente patire le stesse difficoltà, che si patiscono nel discendere dalla teorica alla pratica. Osserviamo i fanciulli che incominciano a scrivere, ancorchè sappiano ben leggere; ovvero gl’ignoranti che sanno però ben formare tutte le lettere, e scrivono sotto la dettatura. Quanti spro-positi derivati dalla poca pratica che hanno di applicare quel tal segno a quel tal suono, e di analizzare la parola che odono, risolvendola ne’ suoni elementari, per applicare a ciascun suono elementare il suo segno. (Notate ch’essi adoprano un alfabeto proprio fatto della lingua in cui scrivono, ed i segni propri e distinti di quei suoni precisi che debbono rappresentare). Appena riescono essi a Letteratura italiana Einaudi 933
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia copiar bene, cioè trasferire non da suono a segno, ma da segno a segno. Così i fanciulli principianti di scrittura, se hanno da scrivere sotto dettatura, o scrivere senza esemplare sotto gli occhi, quelle parole che pensano. Così anche gli uomini fatti, e che sanno ben parlare, ma non avvezzi a scrivere o leggere, ommettono, traslocano, cambiano, aggiungono tante lettere, fanno la loro parola scritta così diversa dalla parlata, ch’essi stessi si vergognerebbe-ro di pronunziar la loro scrittura nel modo in cui ella giace. Ma essi credono che corrisponda alla pronunzia. V.
p.1659. Lo scrittore che scrive [1285]traslatando nella carta le parole che la mente gli suggerisce, scrive sotto la sua propria dettatura. Quanto dunque dovè tardare prima di perfezionarsi nel rappresentare con segni ciascun suono che concepiva! E gl’infiniti errori prodotti dalla necessaria imperizia de’ primi scrittori, dovettero perpetuarsi in gran parte nelle scritture, e confondere e guastare non poche parole, le loro forme, i loro significati, ec.
(E ricordiamoci che le lingue antiche ci sono pervenute per mezzo della sola scrittura.) Lascio il noto costume antico di scrivere tutte le parole a distesa senza nè intervalli nè distinzioni, punteggiature (di cui l’Ebraico manca quasi affatto) ec. il che ognun vede quante confusioni e sbagli dovesse produrre. Così dite degli altri inconvenienti della paleografia, gli effetti de’ quali nelle lingue colte ec. furono maggiori che non si pensa. Lo vediamo anche nei Codici scritti in tempi dove l’arte della scrittura era già di gran lunga completa. Vediamo dico quanti errori, quante sviste perpetuate in un’opera ec. dove suda la critica, e molte volte non arriva a correggerle, e molte altre neppur se n’accorge ec. ec. V. p.1318. Da tutte le quali cose apparisce che le lingue primitive dalla sola applicazione alla semplice scrittura, senza ancor punto di letteratura, dovettero inevitabilmente ricevere una somma alterazione e sfigurazione, e travisamento.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Incorporiamo queste osservazioni coi fatti. Pare che le lingue orientali fossero le prime del mondo. Certo è che gli alfabeti occidentali vennero dall’oriente, e quindi orientali furono i primi alfabeti, e orientale dovette essere il primo inventore dell’alfabeto. Ora gli alfabeti orientali mancano originariamente de’ segni delle vocali. Questo pare strano. Nell’analisi de’ suoni articolati pare a noi che le vocali, come elementi in realtà principali, debbano essere i primi e più facili a trovarsi. Molti Critici vogliono forzatamente ritrovar le vocali ne’ primitivi alfabeti d’Oriente. Ma consideriamo la cosa da filosofi, e vediamo quanto il giudizio nostro [1286]che siamo sì avvezzi e pratici dell’analisi de’ suoni articolati, fatta e perfetta da sì lungo tempo, differisca dal giudizio del primo o dei primi, che senza alcuna guida e soccorso concepirono questa sottilissima e astrusissima operazione.
Benchè le vocali sieno i primi suoni che l’uomo pronunzia, (anzi pure la bestia) e il fondamento di tutta e di tutte le favelle, certo è peraltro, chi le considera acutamente, ch’elle sono suoni più sottili; dirò così, più spirituali, più difficili a separarsi dal resto de’ suoni, di quello che sieno le consonanti. Noi chiamiamo così queste ultime, perch’elle non si reggono da se, ed hanno bisogno delle vocali, ed i greci le chiamavano similmente sæmfvnoi quasi convocali. Questo ci par che dovesse menare per mano al ritrovamento immediato de’ suoni vocali, nella ricerca de’ suoni elementari; e questo per lo contrario fu quello che impedì e dovette naturalmente impedire la prima analisi della favella, di arrivare sino a questo punto. Le vocali furono considerate come suoni inseparabili dagli altri suoni articolati; come suoni quasi inarticolati; come parti inesprimibili della favella, parti sfuggevoli, e incapaci d’esser fissate nella scrittura, e rappresentate separatamente col loro segno individuale. Insomma l’analisi degli elementi delle parole, la decomposizione della voce umana articolata non arrivò fino a que-Letteratura italiana Einaudi 935
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia sti sottili elementi, cioè fino alle vocali, e non si conobbe che i suoni vocali fossero elementari, e [1287]divisibili dagli altri; e si considerarono come sostanze semplici le consonanti il cui stesso nome presso noi dimostra ch’elle sono sostanze composte, o bisognose della composizione, e più composte insomma o meno semplici che le vocali. V. p.2404.
Le prime scritture pertanto mancando delle vocali, somigliarono appunto a quelle che si fanno in parecchi metodi di stenografia: e l’oriente continuò per lunga serie di secoli, a scriver così, quasi stenograficamente. (E
così credo che ancora continui in più lingue.) Notate che i primi alfabeti abbondarono de’ segni delle aspirazioni (frequentissime, e di suono marcatissimo nelle lingue orientali come nello spagnuolo) i quali segni passarono poi ad esser vocali negli alfabeti d’occidente, presi dallo stesso oriente. E ciò per la naturale analogia delle aspirazioni colle vocali, che pronunziate da se, non sono quasi altro che aspirazioni. Abbondarono pure de’
segni delle consonanti aspirate, distinti da’ segni delle non aspirate: abbondanza non necessaria quando v’erano i segni delle aspirazioni che potevano congiungersi a quelli delle consonanti non aspirate dette tenui, e così denotare le consonanti aspirate, come poi fecero i latini, ed anticamente i greci che scrivevano THEOS, CUKHH o PSUKHE ec. Ma questo è il naturale andamento dello spirito umano, tutto il cui progresso tanto in genere come in ispecie, vale a dire in qualsivoglia scienza o arte, consiste nell’avvicinarsi sempre più agli elementi delle cose e delle idee, e nel conoscere che una cosa o un’idea fin allora dell’ultima semplicità conosciuta, ne contiene un’altra più semplice. V. in questo proposito la p.1235. principio.
[1288]Osserviamo ora le conseguenze di questa scrittura quasi stenografica, cioè senza vocali, scrittura per sì lungo tempo comune all’oriente, anche dopo l’intero per-Letteratura italiana Einaudi 936
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia fezionamento della loro arte di scrivere; e scrittura primitiva fra gli uomini. Osserviamo, dico, le conseguenze che appartengono al nostro proposito, cioè alle alterazioni portate dalla scrittura alle prime radici, ed alla perdita che ci ha cagionata della perfetta cognizione di molte di loro ec.
Tutti gli eruditi sanno che delle vocali non bisogna far molto calcolo nelle lingue e parole orientali, sia nello stu-diarle, sia nel confrontarle con altre lingue e parole, nel cercarne le radici, le origini, le proprietà, le regole ec. E
che le vocali in dette lingue sono per lo più variabilissime incertissime, e bisogna impazzire per ridurre sotto regole (suddivise in infinito) quello che loro appartiene. Or come ciò? Questo è pur contrario alla natura universale della favella umana, la cui anima, la cui parte principale e sostanziale sono le vocali. E ben dovrebbero queste naturalmente esser meno variabili, e più regolate che le consonanti. Ciò non si deve attribuire se non a quella imperfetta maniera di scrivere che abbiamo accennata; (imperfezione derivata dall’esser quella scrittura la prima del mondo ec.) e serve anche a dimostrare contro l’opinione di alcuni critici, che i più antichi e primitivi alfabeti orientali mancarono effettivamente de’ segni delle vocali. Non è già che le vocali [1289]non formassero e non formino la sostanza delle lingue orientali, come di tutte le altre più o meno. Formano la sostanza di quelle lingue, ma non della loro gramatica, e ciò per la detta ragione. Anzi molte lingue orientali, p.e. l’ebraica (e credo generalmente quasi tutte) abbondano di vocali più che le nostre. La lingua ebraica ha 14. differenze di vocali, nessuna delle quali è dittongo. Questa è la prima conseguenza ed effetto della imperfezione di detta scrittura, sulla favella, e sull’indole delle lingue che adoperavano detta scrittura.
Altro notabile e inevitabile effetto, si è la confusione de’ significati, delle origini, delle proprietà ec. delle voci, scritte senza le vocali, nel qual proposito v. quello che ho Letteratura italiana Einaudi 937
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia detto p.1283. fine-84. principio. A tutti è noto quante parole della Scrittura ebraica di diversissimo significato, e secondo che si stima, di diversissima origine e radice, o che sono esse medesime, radici differentissime, scritte senza vocali, sono perfettamente uguali fra loro, nè si possono distinguere se non dal senso. Immaginate voi quanta confusione ciò debba aver prodotto e produrre, quanti equivoci, quanti dubbi; quante parole che si credono bene spiegate, e ben distinte coi punti vocali introdotti posteriormente, debbano in realtà aver significato tutt’altra cosa, ed avere avuto nella pronunzia tutt’altre vocali. Onde nel [1290]testo Ebraico l’Ermeneutica trova bivi e trivi e quadrivi a ogni passo; e nella semplice interpretazione letterale gli stessi odierni Giudei, gli stessi antichi Dottori della nazione andarono e vanno le mille miglia lontani l’uno dall’altro. Vedete quanti danni recati alla conservazione dell’antica lingua, e alla cognizione delle forme del senso ec. delle antiche parole, dalla maniera di scrivere che abbiam detto.
Ciò non basta. Avendo gli Orientali scritto per sì lungo tempo senza vocali, ne deve seguire che la vera antichissima pronunzia delle loro voci e lingue, in ordine ai suoni vocali, cioè alla parte primaria e sostanziale della pronunzia, sia in grandissima parte perduta. La qual naturale opinione si conferma dal vedere che molte, anzi quasi tutte le voci o i nomi propri Ebraici passati anticamente ad altre lingue, si pronunziarono e si pronunziano in ordine alle vocali, tutt’altrimenti da quello che si leggono nella Scrittura Ebrea Masoretica, cioè fornita de’ punti vocali, inventati (secondo i migliori Critici) in bassissima età, come gli accenti e gli spiriti che furono aggiunti in bassi secoli alla scrittura greca. (Morery conchiude sulla fede del Calmet, del Prideaux, del Vossio, e degli altri più dotti, che detta invenzione fu verso il nono secolo, e che per l’avanti nella scrittura Ebrea non v’era segno alcuno di vocali.) E notate primieramente, ch’io dico in or-Letteratura italiana Einaudi 938
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia dine alle vocali, giacchè [1291]quanto alle consonanti la scrittura e la pronunzia delle parole e nomi Ebraici in altre lingue, concorda generalmente con quella della Bibbia masoretica: il che serve di prova al mio discorso, mostrando che detta diversità di pronunzia nelle vocali, non deriva da corruzione sofferta da dette parole o nomi nel passare ad altre lingue, ma dal differire effettivamente la pronunzia masoretica cioè la moderna pronunzia ebraica, dalla pronunzia antica rispetto alle vocali. E che tal differenza si deve attribuire alla imperfezione dell’antica scrittura ebraica senza vocali ec. Secondariamente notate che trattasi per lo più di nomi propri, i quali nel passare ad altre lingue, sogliono naturalmente conservare la loro forma e pronunzia nazionale, meglio che qualunque altro genere di voci.
(7. Luglio 1821.)
L’aspetto dell’uomo allegro e pieno o commosso anche mediocremente da qualche buona fortuna, da qualche vantaggio, da qualche piacere ricevuto ec. è per lo più molestissimo non solo alle persone afflitte, o pur malinconiche, o poco inclinate alla letizia per atto o [1292]per abito, ma anche alle persone d’animo indifferentemente disposto, e non danneggiate punto, nè soverchiate ec. da quella prosperità. Questo ci accade ancora cogli amici, parenti i più stretti ec. E bisogna che l’uomo il quale ha cagione di allegria, o la dissimuli, o la dimostri con certa disinvoltura, indifferenza e spirito, altrimenti la sua presenza, e la sua conversazione riuscirà sempre odiosa e grave, anche a quelli che dovrebbero rallegrarsi del suo bene, o che non hanno materia alcuna di dolersene. Tale infatti è la pratica degli uomini riflessivi, padroni di se, e ben creati. Che vuol dir questo, se non che il nostro amor proprio, ci porta inevitabilmente, e senza che ce ne avvediamo, all’odio altrui? Certo è che nel detto caso, anche all’uomo il più buono, è mestieri un certo sforzo Letteratura italiana Einaudi 939
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia sopra se stesso e un certo eroismo, per prender parte alla letizia altrui, della quale egli non aspetti nessun vantaggio nè danno, o solamente per non gravarsene.
(8. Luglio 1821.)
Alla p.1242. Non è dunque da maravigliarsi che la lingua italiana fra le moderne sia tenuta la più ricca. (Monti.) Ho già mostrato come la vera fonte della ricchezza delle lingue antiche, consistesse nella gran facoltà dei derivati e de’ composti, e come questa sia la principal fonte della ricchezza di qualsivoglia lingua, e quella che ne manca o ne scarseggia, non possa esser mai ricca. La lingua italiana la quale cede alla greca e latina nella facoltà de’ composti (colpa più nostra che sua), abbiamo veduto [1293]e si potrebe dimostrare con mille considerazioni, che nella facoltà dei derivati, e nell’uso che finora ha saputo fare di tal facoltà, piuttosto vince dette lingue, di quello che ne sia vinta. Sarà dunque vero che la lingua italiana sia la più ricca delle moderne, e questa superiorità sua, che una volta fu effettiva (e per le dette ragioni), non passerà come parecchie altre, se noi non la spoglieremo di quelle facoltà che la producono, e sole la possono principalmente produrre; e che per l’altra parte sono proprie della sua indole. Cioè se non la spoglieremo della facoltà di crear nuovi composti e derivati, disfacendo quello che fecero i nostri antichi. Giacchè l’impedire alla lingua (e ciò per legge costante) che non segua ad esercitare le facoltà generative datele da quelli che la formarono, è lo stesso che spogliarnela, e quindi si chiama disfare e non conservare l’opera dei nostri maggiori.
Dilatate quest’ultimo pensiero, dimostrando come il voler togliere alla lingua l’esercizio delle sue facoltà creatrici, proprie della sua indole, sia appunto l’opposto di quello che si crede, cioè allontanarla dalla sua indole, e dalla sua condizione primitiva in luogo di mantenercela.
La condizione primitiva della lingua era di esser viva: ora Letteratura italiana Einaudi 940
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia il ridurla allo stato [1294]assoluto di morta, si chiamerà conservarla qual ella era, e quale ce la trasmisero i suoi formatori? Dunque conservare una parola, una forma, un significato, un suono antico, ec. e sbandire una voce o modo barbaro, una cattiva ortografia, un significato male applicato ec. tutte cose particolari ed accidentali, e quel ch’è più mutabili, tutto questo si chiamerà conservare la lingua. E lo spogliarla delle sue facoltà generali, ed essenziali, e immutabili, non si chiamerà guastarla o alterarla, ma anzi conservarla? Dico immutabili, fin tanto ch’ella non muti affatto qualità, e di viva diventi morta. Il solo immutabile nella lingua sono le facoltà che costituiscono il suo carattere, parimente immutabile. Le parole, i modi, i significati, le ortografie, le inflessioni ec. niente di questo è immutabile, ma tutto soggetto all’uso per propria natura. Così che i nostri bravi puristi vogliono eternare nella lingua la parte mortale, e distruggere l’immortale, o quella che tale dev’essere, se non si vuol mutare la lingua.
E l’uso di tali facoltà creatrici, ch’io dico immortali, deve essere perpetuo finchè una lingua vive, appunto perchè la novità delle cose e delle idee (alle quali serve la lingua)
[1295]è perpetua. Che se non fosse perpetua, la lingua potrebbe allora perdere dette facoltà, e vivere nello stato delle lingue morte. Ma essendo la novità delle cose perpetua, ripeto che non si può conservare la lingua senza mantenerle intieramente le sue primitive facoltà creatrici, e che lo spogliarla di queste è lo stesso che ridurla necessariamente alla barbarie; giacch’ella barbara o no, finch’è parlata e scritta non può morire; e non potendo vivere nella sua prima condizione, cioè durando la novità delle cose senza ch’ella possa più esprimerle del suo proprio prodotto, vivrà nella barbarie.
(8. Luglio 1821.)
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Alla p.1138. fine, aggiungi – 4. La lingua latina ha prodotto tre figlie, che ancor vivono, che noi stessi parliamo, e le di cui antichità, origini, progressi ec. dal principio loro fino al dì d’oggi, si conoscono o si possono ottimamente o sempre meglio conoscere. Che in somma è quanto dire che la lingua latina ancor vive. E la considerazione di queste lingue fatta coi debiti lumi, ci può portare e ci porta a scoprire moltissime proprietà della lingua latina antichissima, che non si potrebbero, o non così bene dedurre dagli scrittori latini; e ciò stante l’infinita tenacità del [1296]volgo che mediante il parlar quotidiano, ha conservato dai primordi della lingua latina fino al dì d’og-gi, e conserva tuttavia nell’uso quotidiano (e le ha pure introdotte nelle scritture) molte antichissime particolarità della lingua latina; come dimostrerò discorrendo dell’antico latino volgare. Sicchè lo studio comparativo delle tre lingue latino-moderne, fatto con maggior cura, di quello che finora sia stato, e con maggiore intenzione al-l’effetto di scoprire le antichità della favella materna, ci può condurre a conoscer cose latine antichissime, e primitive, o quasi primitive. La quale facoltà di uno studio comparativo sulla lingua greca parlata, non si ha, benchè la lingua greca viva ancora al modo che vive la latina.
Oltre che non si hanno tante comodità di conoscere così bene il greco moderno, e le sue origini, e progressi, e generalmente la storia della lingua greca da un certo tempo in qua; come si hanno di conoscere quello che noi possiamo chiamare il latino moderno, e la storia della lingua latina dalla sua formazione e letteratura fino al dì d’oggi, come dirò poi.
Da queste considerazioni segue in primo luogo che la lingua latina, non ci è solamente nota [1297]per via della scrittura e letteratura, cose che sfigurano sommamente le origini di qualunque lingua, come ho detto poche pagine dietro, discorrendo delle cause di alterazione nelle lingue; ma eziandio per mezzo della viva favella, la quale è Letteratura italiana Einaudi 942
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia sempre influita dall’uso degli antichi parlatori, assai più che degli antichi scrittori; e di una favella che si parla tuttodì nel mezzo d’Europa, e in gran parte d’Europa, ed è conosciuta per tutto, e massime a noi stessi che la parliamo e scriviamo. Cosa che non si può dire di nessun’altra lingua antica.
In secondo luogo segue dalle dette considerazioni che noi possiamo conoscere quasi perfettamente (massime rispetto a qualunque altra lingua) le vicende della lingua latina e delle sue parole, e condurre una storia della lingua e delle voci latine, (generalmente parlando) quasi perfetta, quasi completa, e senz’alcuna laguna, dai primi principii della sua letteratura fino al dì d’oggi, cioè per venti secoli interi. (Plauto morì nel 184. av. G. C.) Il che non si può dire di verun’altra lingua occidentale, fuor della greca, la cui notizia e storia è soggetta però alle difficoltà dette p.1296. E molto più, ed a molto maggiori difficoltà sono soggette quelle delle lingue orientali, ancorchè possano rimontare ad epoca [1298]più remota.
L’antica lingua teutonica ha veramente prodotto più lingue che la latina; inglese, tedesca, olandese, danese, svedese, svizzera ec. (Staël): ma essa medesima è quasi ignota. Così l’antica illirica, madre della russa, della Polacca, e di altre. La lingua Celtica è poco nota essa, e non vive in nessuna moderna.
In somma la lingua latina è di tutte le lingue antiche quella la cui storia si può meglio e per più lungo spazio conoscere, e le cui primitive proprietà per conseguenza si ponno meglio indagare. Giacchè spetta all’archeologo il rimontare dalla storia ch’egli può conoscere ec. de’ venti secoli sopraddetti, a quella de’ secoli antecedenti; nè gli mancano copiose notizie di fatto, le quali basterebbero già per se stesse a potere spingere la detta storia molto più in là di detta epoca, sebbene meno perfettamente e completamente sino ad essa epoca, cioè al secondo secolo av. Cristo, ch’è il secolo di Plauto.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Aggiungete quella lingua Valacca, derivata pure dalla latina, e che per essersi mantenuta sempre rozza, è proprissima a darci grandi notizie dell’antico volgare latino, il qual volgare, come tutti gli altri, è [1299]il preci-puo conservatore delle antichità di una lingua. Aggiungete i dialetti vernacoli derivati dal latino, come i vari dialetti ne’ quali è divisa la lingua italiana. I quali ancor essi si sono mantenuti qual più qual meno rozzi, com’è naturale ad una lingua non applicata alla letteratura, o non sufficientemente; e com’è naturale a una lingua po-polarissima: e quindi tanto più son vicini al loro stato primitivo. E trovasi effettivamente di molte loro parole, frasi ec. che derivano da antichissime origini. Quello che s’è perduto p.e. nella lingua italiana comune, o in questo o quel vernacolo italiano, o s’è alterato ec., s’è conservato in quell’altro vernacolo ec. E il loro esame comparativo deve infinitamente servire all’esame delle lingue latino-moderne, diretto a scoprire le ignote e primitive proprietà del latino antico. Aggiungete ancora la lingua Porto-ghese, dialetto considerabilissimo della spagnuola.
5. La lingua latina colta è incontrastabilmente meno varia, più regolare, più ordinata, più perfetta della greca pur colta. Facilmente si può vedere quanto ciò giovi e favorisca la ricerca della lingua latina incolta. Più facilmente si vede, si trova, si cammina nell’ordine, che nel disordine. Aperta che vi siate nella lingua latina una strada, questa sola vi mena, e dirittamente, alla scoperta d’infinite sue voci antiche. Le formazioni delle parole nella lingua latina; la fabbrica dei derivati e dei composti, è per lo più regolatissima, ordinatissima, e uniforme [1300]dentro ai limiti di ciascun genere. Trovato che abbiate e ben conosciuto un genere di derivati nel latino, tutti o quasi tutti in quel genere sono formati nello stesso preciso modo, e secondo la stessa regola; da tutti si può rimontare egualmente alle radici. Vedete quello che abbiamo osservato dei continuativi e frequentativi; due generi di voci Letteratura italiana Einaudi 944
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia derivate, regolarissimamente ed uniformemente formate, da ciascuna delle quali si può egualmente salire alla voce originaria. Bene stabilito che sia il preciso modo di quella tal formazione, come abbiamo fatto, questa sola strada ci mena senza fatica, a un larghissimo e ubertosissimo campo; anzi è quasi una porta che vi c’introduce immediatamente.
Non così accade per lo più nella lingua greca, tanto più varia, difforme da se stessa nelle sue formazioni, ed in ogni altro genere di cose, e senza pregiudizio (anzi con vantaggio) della bellezza, tanto meno regolare e corrispondente. Giacchè sì la moltiplicità, come la scarsezza delle regole, non sono altro che irregolarità. L’una e l’altra dimostrano la copia e soprabbondanza delle eccezioni, le quali chi vuol ridurre a regola, moltiplica necessariamente le regole fuor di misura; chi non vuol dare in questo intoppo, è necessario che stabilisca [1301]poche e larghe regole, acciò possano lasciar luogo a molte differenze, e comprenderle: e in somma conviene che si tenga sugli universali, perchè i particolari discordano troppo frequentemente. E così accade nella gramatica greca, dove altri soprabbondano di regole, e la fanno parere
complicatissima, altri scarseggiano, e la fanno parere semplicissima. La lingua latina è proprio nel mezzo di questi due estremi, riguardo alle regole d’ogni genere. (Intendo già fra le lingue del genere antico, e non del moderno, tanto più filosoficamente costituito, com’è naturale.) Vale a dire per tanto ch’ella è la più facile a sviscerare, e considerare parte per parte. Ma nella lingua greca bisogna aprirsi ad ogni tratto una nuova strada, e quella regola e maniera di formazioni ec. che avrete scoperta, non vi servirà se non per poche voci ec. ec.
(8 9. Luglio 1821.)
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Alla p.936-8. Osservate ancora qualunque persona, rozza, o non assuefatta al bel parlare, ed alla lingua della polita conversazione, o poco pratica e ricca di lingua, o poco esercitata e felice nel trovar le parole favellando, (cioè la massima parte degli uomini), ovvero anche quelli che parlano bene, quando si trovano in circostanza dove non abbiano bisogno di star molto sopra se stessi nel parlare, o quando parlano rozzamente a bella posta o in qualunque modo, o talvolta anche fuori di dette circostanze, e nella stessa polita conversazione; o finalmente quelli che hanno una certa forza, e vivacità, e prontezza ec. o insu-bordinazione di fantasia; e facilmente potrete notare
[1302]che tutti o quasi tutti gli uomini, qual più qual meno secondo le suddette differenze, hanno delle parole affatto proprie loro, e particolari, (non già derivate nè composte, ma nuove di pianta) che sogliono abitualmente usare quando hanno ad esprimere certe determinate cose, e che non s’intendono se non dal senso del discorso, e son prese per lo più da una somiglianza ed una imitazione della cosa che vogliono significare. Così che si può dire che il linguaggio di ciascun uomo differisce in qualche parte da quello degli altri. Anzi il linguaggio di un medesimo uomo differisce bene spesso da se medesimo, non essendoci uomo che talvolta non usi qualche parola della sopraddetta qualità, non abitualmente, ma per quella volta sola, (qualunque motivo ce lo porti, che possono esser diversissimi) quantunque abbiano nella stessa lingua che conoscono ed usano, la parola equivalente da potere adoperare.
(9. Luglio 1821.)
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Un ritratto, ancorchè somigliantissimo, (anzi specialmente in tal caso) non solo ci suol fare più effetto della persona rappresentata (il che viene dalla sorpresa che deriva dall’imitazione, e dal piacere che viene dalla sorpresa), ma, per così dire, quella stessa persona ci fa più effetto dipinta che [1303]reale, e la troviamo più bella se è bella, o al contrario. ec. Non per altro se non perchè vedendo quella persona, la vediamo in maniera ordinaria, e vedendo il ritratto, vediamo la persona in maniera straordinaria, il che incredibilmente accresce l’acutezza de’ nostri organi nell’osservare e nel riflettere, e l’attenzione e la forza della nostra mente e facoltà, e dà generalmente sommo risalto alle nostre sensazioni. ec. (Osservate in tal proposizione ciò che dice uno stenografo francese, del maggior gusto ch’egli provava leggendo i classici da lui scritti in istenografia.) Così osserva il Gravina intorno al diletto partorito dall’imitazione poetica.
(9. Luglio 1821.)
Diletto ordinarissimo ci produce un ritratto ancorchè somigliantissimo, se non conosciamo la persona; straordinario se la conosciamo. Applicate questa osservazione alla scelta degli oggetti d’imitazione pel poeta e l’artefice, condannando i romantici e il più de’ poeti stranieri che scelgono di preferenza oggetti forestieri ed ignoti per esercitare la forza della loro imitazione.
(9. Luglio 1821.)
Altra prova che noi siamo più inclinati al timore che alla speranza, è il vedere che noi per lo più crediamo facilmente quello che temiamo, e difficilmente quello che desideriamo, anche molto più verisimile. E poste due persone delle quali una tema, e l’altra desideri una stessa cosa, quella la crede, e questa no. E se noi passiamo dal temere una cosa al desiderarla, non sappiamo più credere quello che prima non sapevamo non credere,
[1304]come mi è accaduto più volte. E poste due cose, o Letteratura italiana Einaudi
945
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia contrarie o disparate, l’una desiderata, e l’altra temuta, e che abbiano lo stesso fondamento per esser credute, la nostra credenza si determina per questa e fugge da quella. Nell’esaminare i fondamenti di alcune proposizioni ch’io da principio temeva che fossero vere, e poi lo desiderava, io li trovava da principio fortissimi, e quindi insufficientissimi.
(10. Luglio 1821.)
A quello che ho detto del linguaggio popolare, pochi pensieri addietro, soggiungi. Il linguaggio popolare è ricca e gran sorgente di bellissime voci e modi, non veramente alla lingua scritta, ma propriamente allo scrittore.
Vale a dire, bisogna che questo nell’attingerci, nobiliti quelle voci e modi, le formi, le componga in maniera che non dissuonino, nè dissomiglino dalle altre che l’arte ha introdotto nello scrivere, ed ha polite, e insomma non disconvengano alla natura dello scrivere artifizioso ed elegante. Non già le deve trasferir di peso dalla bocca del popolo alla scrittura, se già non fossero interamente adattate per se medesime, o se la scrittura non è di un genere triviale o scherzoso o molto familiare ec. Così che io
[1305]dico che il linguaggio popolare è una gran fonte di novità ec. allo scrittore, nello stesso modo in cui lo sono le lingue madri ec. le quali somministrano gran materia, ma tocca allo scrittore il formarla, il lavorarla, e l’adattar-la al bisogno, non già solamente trasportarla di netto, o adoperarla come la trova.
(10. Luglio 1821.)
L’uomo isolato crederebbe per natura, almeno confusamente, che il mondo fosse fatto per lui solo. E intanto crede che sia fatto per la sua specie intera, in quanto la conosce bene, e vive in mezzo a lei, e ragiona facilmente e pianamente sui dati che la società e le cognizioni comuni gli porgono. Ma non potendo ugualmente vivere nella Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia società di tutti gli altri esseri, la sua ragione si ferma qui, e senza riflessioni che non possono esser comuni a molti, non arriva a conoscere che il mondo è fatto per tutti gli esseri che lo compongono. Ho veduto uomini vissuti gran tempo nel mondo, poi fatti solitarii, e stati sempre egoisti, credere in buona fede che il mondo appresso a poco fosse tutto per loro, la qual credenza appariva da’ loro fatti d’ogni genere, ed anche dai detti implicitamente. E
non [1306]potevano non solo patire o mancar di nulla, ma appena concepire come gli uomini e le cose non si prestassero sempre e interamente ai loro comodi, e ne manifestavano la loro maraviglia e la loro indignazione in maniere singolarissime, e talvolta incredibili in persone avvezze alle maniere civili, ed ai sacrifizi della società, nelle quali cose conservavano pur molta pretensione. Ma non si accorgevano, così facendo, di mancare a nessun debito loro verso gli altri, nè di esigger più di quello che loro convenisse ec.
(10. Luglio 1821.)
Dovunque ha luogo l’utilità quivi noi non consideriamo e concepiamo e sentiamo la proporzione e convenienza, se non in ragione dell’utile. Poniamo una spada con una grande impugnatura a comodo e difesa della mano.
Che proporzione ha quella grossa testa con un corpo sottile? E pure a noi pare convenientissima e proporzionatissima. Perchè? primo per l’assuefazione principal causa e norma del sentimento delle proporzioni, convenienze, bellezza, bruttezza. Secondo perchè ne conosciamo il fine e l’utilità, e questa cognizione determina la nostra idea circa la proporzione ec. dell’oggetto che vediamo. Chi non avesse mai veduto una spada, e non conoscesse l’uffizio [1307]suo, o dell’elsa ec. potrebbe giudicarla sproporzionatissima, e concepire un senso di bruttezza, relativo agli altri oggetti che conosce, e alle altre proporzioni che ha in mente. Così dite delle forme umane ec.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Non è dunque vero che la proporzione è relativa? Qual tipo, qual forma universale può aver quell’idea, ch’è determinata individualmente dalla cognizione di quel tale oggetto delle sue parti, de’ loro fini ec.? che è determinata dall’assuefazione di vederlo ec.? che varia non solo secondo le infinite differenze degli oggetti, ma secondo le differenze di dette cognizioni, assuefazioni ec.? E quell’idea che deriva da cognizione speciale di ciascheduna cosa e parte, e da speciale assuefazione, come può essere innata, avere una norma comune, stabile, determinata primordialmente e astrattamente dalla natura assoluta del tutto?
(10. Luglio 1821.)
Mi si permetta un’osservazione intorno ad una minuzia, la cui specificazione potrà parere ridicola, e poco degna della scrittura. Alcune minute parti del corpo umano che l’uomo osserva difficilmente, e assai di rado, e per solo caso negli altri, le suole osservare solamente in se stesso. In se stesso, e da ciò che elle sono in lui, egli concepisce l’idea del [1308]quali debbano essere, e della convenienza delle loro forme, e proporzione ec. e di tutti i loro accidenti. Così le unghie della mano. Le quali ben di rado si possono osservare negli altri, bensì sovente in se stesso. Or che ne segue? Ne segue che tutti noi ci formiamo l’idea della bellezza di questa parte del nostro corpo, dalla forma ch’ella ha in ciascheduno di noi; e perchè quest’idea è formata sopra un solo individuo della specie, e l’ assuefazione è del tutto individuale nel suo soggetto, perciò se talvolta ci accade di osservare o di porre qualche passeggera attenzione a quella medesima parte in altrui, rare volte sarà ch’ella non ci paia di forma strana, e non ci produca un certo senso di deformità o informità ec. di bruttezza, e anche di ribrezzo, perchè contrasta coll’assuefazione che noi abbiamo contratta su di noi. E se accadrà che noi osserviamo quella parte nella Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia persona più ben fatta del mondo, ma che in questa differisca notabilmente da noi, quella parte in detta persona ci parrà notabilmente difettosa, quando anche ad altri o generalmente paia l’opposto per differente circostanza.
Ed insomma il giudizio che noi formiamo della bellezza o bruttezza di quella parte in altrui, è sempre in proporzione della maggiore o minore conformità ch’ella ha non col generale che non conosciamo, ma colla nostra particolare.
Aggiungete che le altre idee della bellezza umana, siccome sono formate sulla cognizione, ed assuefazione, ed osservazione da noi fatta sopra [1309]molti individui, così non sono mai uniche, e ci parrà bello questi, e bello quegli, benchè molto diversi. (Questa moltiplicità medesima delle idee della bellezza umana, va in proporzione del vedere e dell’osservare che si è fatto ec. ec. ec.) Ma nel nostro caso, perchè l’idea è formata sopra un soggetto solo, ed un’assuefazione ed osservazione individuale, perciò è unica, e ci par brutto o men bello proporzionatamente, non solo ciò che non è simile, ma ciò pure che non è uniforme al detto soggetto. V. p.1311. capoverso 2.
Bisogna modificare queste osservazioni secondo i casi e circostanze che ciascuno può facilmente pensare. P.e. se una malattia o altro accidente vi ha deformato le unghie, voi sentite quella deformità, perchè contrasta colla vostra assuefazione precedente, ed allora (almeno fintanto che non arriviate ad assuefarvi a quella nuova forma) non misurerete gli altri da quello che voi siete, ma piuttosto da quello ch’eravate precedentemente. Se un’unghia vostra è deforme, anche sin dalla nascita ec. voi facilmente ve ne accorgerete paragonandola colle altre pur vostre.
Se in questa parte del corpo umano voi siete sempre stato assolutamente deforme, cioè grandemente diverso dagli
[1310]altri, allora quel poco che voi potrete accidentalmente osservare delle forme comuni, benchè in grosso e non minutamente, potrà bastare a farvi accorgere della Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia vostra deformità, perchè la differenza essendo grande, sarà facilmente notabile, e vi daranno anche nell’occhio quelle parti in altrui, più di quello che farebbero in altro caso, e così l’assuefazione che formerete, contrasterà con quello che vedete in voi stesso. Vi accorgerete però di essa deformità molto più difficilmente, e la sentirete assai meno di quello che fareste in un altro. Così accade di molto maggiori deformità o nostre proprie, o di persone con cui conviviamo ec. e v. la p.1212. capoverso 2.
Queste osservazioni sono menome. Ma non altrimenti il filosofo arriva alle grandi verità che sviluppando, inda-gando, svelando, considerando, notando le menome cose, e risolvendo le stesse cose grandi nelle loro menome parti. Ed io da un lato non credo che forse si possa addurre prova più certa di queste osservazioni, per dimostrare come il giudizio, il senso, l’idea della bellezza o bruttezza delle forme degli stessi nostri simili (giudizio, e senso influito dalla natura universale più che qualunque altro) dipende dall’assuefazione ed osservazione, ed eccetto in certe inclinazioni naturali, non ha assolutamente altra ragione, altra regola, altro esemplare. [1311]Dall’altro lato non vedo qual altra più vera e incontrastabile proposizione possa venir dimostrata in maniera più palpabile di questa.
Discorrete allo stesso modo delle altre parti del corpo umano, o egualmente minute, o egualmente poco facili ad osservarsi o vedersi negli altri, o in più che tanti.
(10. Luglio 1821.). V. qui sotto.
Alla p.1309. Tanto più che l’osservazione che noi abbiam fatta in noi stessi delle dette parti è minutissima, e quindi l’idea che abbiamo della loro conveniente figura ec. è bene esatta e determinata, forse più di qualunque altra simile idea. E questo pure perch’ella è formata sopra noi stessi, vale a dire sopra un esemplare che da noi è naturalmente meglio conosciuto, più precisamente osser-Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia vato, e più frequentemente anzi continuamente veduto che qualunque altro oggetto materiale.
(10. Luglio 1821.)
Al pensiero superiore. Non voglio spingere il discorso all’indecente, e forse di necessità e contro voglia, l’ho portato già troppo innanzi. Dirò brevemente. Di quelle parti umane che taluno non conosce, o in quel tempo in cui nessuno le conosce, non solo non ne ha veruna idea di bello o di brutto, e volendola formare,
verisimilissimamente s’inganna, ma [1312]volendo congetturare le loro proprietà, forme e proporzioni universali, non indovina, se non forse a caso. E il fanciullo distingue già il bello e il brutto fra gli uomini, e ancora non conosce intieramente la bellezza non solo, ma neppure la forma umana, e quello che ne conosce non gli dà veruna idea sufficiente, nè delle proprietà nè delle proporzioni e convenienze di quello che non conosce. E v. in questo proposito p.1184. marg.
(12. Luglio 1821.)
Alla p.1255. marg. – e divenir maturo, pratico ec. p.e. in uno stile, con una sola lettura, cioè con pochissimo esercizio ec. La qual facilità di assuefazione, segno ed effetto del talento io la notava in me anche nelle minuzie, come nell’assuefarmi ai diversi metodi di vita, e nel dissuefarmene agevolmente mediante una nuova assuefazione ec. ec. In somma io mi dava presto per esercitato in qualunque cosa a me più nuova.
(12. Luglio 1821.)
Alla p.1226. marg. fine. Se attentamente riguarderemo in che soglia consistere l’eleganza delle parole, dei modi, delle forme, dello stile, vedremo quanto sovente anzi sempre ella consista nell’indeterminato, (v. in tal proposito quello che altrove ho detto circa un passo di Orazio) v.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia p.1337. principio o in qualcosa d’irregolare, cioè nelle qualità contrarie a quelle che principalmente si ricercano nello scrivere didascalico o dottrinale. Non nego io già che questo non sia pur suscettibile di eleganza, massime in quelle parti dove l’eleganza non fa danno alla precisione, vale a dire massimamente nei modi e nelle forme. E di questa associazione [1313]della precisione coll’eleganza, è splendido esempio lo stile di Celso, e fra’ nostri, di Galileo. Soprattutto poi conviene allo scrivere didascalico la semplicità (che si ammira massimamente nel primo di detti autori), la quale dentro i limiti del conveniente, è sempre eleganza, perch’è naturalezza. Bensì dico che piuttosto la filosofia e le scienze, che sono opera umana, si possono piegare e accomodare alla bella letteratura ed alla poesia, che sono opera della natura, di quello che viceversa. E perciò ho detto che dove regna la filosofia, quivi non è poesia. La poesia, dovunque ella è, conviene che regni, e non si adatta, perchè la natura ch’è sua fonte non varia secondo i tempi, nè secondo i costumi o le cognizioni degli uomini, come varia il regno della ragione.
(13. Luglio 1821.)
Chi vuol persuadersi dell’immensa moltiplicità di stili e quasi lingue diverse, rinchiuse nella lingua italiana, consideri le opere di Daniello Bartoli, meglio del quale niuno conobbe i più riposti segreti della nostra lingua. (Monti, Proposta, vol.1 par.1. p. XIII.) [1314]Un uomo consumato negli studi della nostra favella, il quale per la prima volta prenda a leggere questo scrittore, resta attonito e spaventato, e laddove stimava d’essere alla fine del cammino negli studi sopraddetti, comincia a credere di non essere a mala pena al mezzo. Ed io posso dire per esperienza che la lettura del Bartoli, fatta da me dopo bastevole notizia degli scrittori italiani d’ogni sorta e d’ogni stile, fa disperare di conoscer mai pienamente la forza, e la infinita varietà delle forme e sembianze che la lingua italiana Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia può assumere. Vi trovate in una lingua nuova: locuzioni e parole e forme delle quali non avevate mai sospettato, benchè le riconosciate ora per bellissime e italianissime: efficacia ed evidenza tale di espressione che alle volte disgrada lo stesso Dante, e vince non solo la facoltà di qualunque altro scrittore antico o moderno, di qualsivoglia lingua, ma la stessa opinione delle possibili forze della favella. E tutta questa novità non è già novità che non s’intenda, che questo non sarebbe pregio ma vizio sommo, e non farebbe vergogna al lettore ma allo scrittore.
Tutto s’intende benissimo, e tutto è nuovo, e diverso dal consueto: [1315]ella è lingua e stile italianissimo, e pure è tutt’altra lingua e stile: e il lettore si maraviglia d’intender bene, e perfettamente gustare una lingua che non ha mai sentita, ovvero di parlare una lingua, che si esprime in quel modo a lui sconosciuto, e però ben inteso. Tale è l’immensità e la varietà della lingua italiana, facoltà che pochi osservano e pochi sentono fra gli stessi italiani più dotti nella loro lingua; facoltà che gli stranieri difficilmente potranno mai conoscere pienamente, e quindi confessare.
(13. Luglio 1821.)
Il successivo cambiamento delle disposizioni dell’animo di ciascun uomo secondo l’età, è una fedele e costante immagine del cambiamento delle generazioni umane nel processo de’ secoli. (E così viceversa). Eccetto che è sproporzionatamente rapido, massimamente oggidì, perchè il giovane di venticinque anni non serba più somiglianza alcuna col tempo antico, nè veruna qualità, opinione, disposizione, inclinazione antica, come l’immaginazione, la virtù ec. ec. ec.
(13. Luglio 1821.)
Alla p.1256. fine. E tanto è vero che l’idea di questa tal bellezza non venga da tipo ec. ma da inclinazione natura-Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia le, e da senso affatto indipendente dalla sfera del bello e del conveniente; [1316]che la inclinazione chiamata da Aristofane pròw kr¡aw m¡ga (v. assolutamente il Menagio, ad Laert. Polemon. , 4. 19.), fa parer bella e desiderare ai libidinosi una baϑukolpÛa eccessiva e maggiore assai delle proporzioni generali, e seguite comunemente dalla natura, e quindi non bella. Applicate questa osservazione a tutte le altre idee che ha della bellezza femminile il lÛxuow pñrnhw ¤pagallñmenow pug»sin.
(Crate Tebano, Cinico, ap. Laert. in Crat. Theb. 6.85. v.
quivi il Menag.) Idee diverse da quelle più stabilite e comuni, e non per tanto radicatissime e sensibilissime in loro, che altrove non riconoscono e non sentono la bellezza femminile.
(13. Luglio 1821.)
La nostra lingua ha, si può dire, esempi di tutti gli stili, e del modo nel quale può essere applicata a tutti i generi di scrittura: fuorchè al genere filosofico moderno e preciso. Perchè vogliamo noi ch’ella manchi e debba mancare di questo, contro la sua natura, ch’è di essere adattata anche a questo, perchè è adatta a tutti gli stili? Ma nel vero, quantunque l’esito sia certo, non s’è fatta mai la prova di applicare la buona lingua italiana al detto genere, eccetto ad alcuni generi scientifici [1317]negli scritti del Galilei del Redi, e pochi altri; ed alla politica, negli scritti del Machiavelli, e di qualche altro antico, riusciti perfettamente quanto alla lingua, ed in ordine alla materia, quanto comportavano i tempi e le cognizioni d’allora. Ma a quel genere filosofico che possiamo generalmente chiamare metafisico, e che abbraccia la morale, l’ideologia, la psicologia (scienza de’ sentimenti, delle passioni e del cuore umano) la logica, la politica più sottile, ec.
non è stata mai applicata la buona lingua italiana. Ora questo genere è la parte principalissima e quasi il tutto degli studi e della vita d’oggidì.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia (13. Luglio 1821.)
I termini della filosofia scolastica possono in gran parte servire assaissimo alla moderna, o presi nel medesimo loro significato (quantunque la moderna avesse altri equivalenti), il che non farebbe danno alla precisione, essendo termini conosciuti nel loro preciso valore; o torcendolo un poco senz’alcun danno della chiarezza ec. E questi termini si confarebbero benissimo all’indole della lingua italiana, la quale ne ha già tanti, e i cui scrittori antichi, cominciando da Dante, hanno tanto adoperato detta filosofia, ed introdottala nelle scritture più colte ec. oltre che derivano tutti o quasi tutti dal latino, [1318]o dal greco mediante il latino ec. Anche per questa parte ci può essere utilissimo lo studio del latino-barbaro, ed io so per istudio postoci, quanti di detti termini, andati in disuso, rispondano precisamente ad altri termini della filosofia moderna, che a noi suonano forestieri e barbari; e possano essere precisamente intesi da tutti nel senso de’
detti termini recenti: e così quanti altri ve ne sarebbero adattatissimi, e utilissimi, ancorchè non abbiano oggi gli equivalenti ec. ec. anzi tanto più. Aggiungete che benchè andati in disuso negli scrittori filosofi moderni, gran parte di detti termini è ancora in uso nelle scuole, o in parte di esse, e per questa e per altre ragioni, sono di universale e precisa e chiara intelligenza.
(13. Luglio 1821.). V. p.1402.
Alla p.1285. Osserviamo inoltre quanti vocaboli derivati da soli antichi errori di scrittura, si scoprano mediante la critica, essersi introdotti e ne’ Vocabolari, e nell’uso stesso degli scrittori antichi o moderni, che sogliono formarsi sopra i più antichi, ed attingerne la lingua ec.
(14. Luglio 1821.)
Alla p.1259. principio. Nel che, intorno al giudizio del bello, non opera tanto l’assuefazione, quanto l’opinione.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Giacchè di momento in momento varia il giudizio, e se noi [1319]vediamo una foggia di vestire novissima, e diversissima dall’usitata, noi subito o quasi subito la giudichiamo bella, e proviamo ben tosto il senso della bellezza, se sappiamo che quella foggia è d’ultima moda, e se al contrario, il contrario ci accade, perchè quella nuova foggia contrasta sì all’assuefazione nostra, come all’opinione. Aggiungete che noi giudichiamo bella quella nuova foggia di moda, quando pure contrasti a tutte le forme ricevute del bello, eccetto che allora, bastando un solo momento per formare il giudizio del bello, vi vorrà però proporzionatamente qualche poco di tempo per concepirne il senso istantaneo, vale a dire, acquistarne l’assuefazione, la quale conserva pur sempre i suoi dritti; e disfare l’assuefazione passata.
Del resto quanto la pura opinione indipendente dall’assuefazione stessa e da ogni altra cosa, influisca sul giudizio e senso del bello, si potrebbe mostrare con mille prove le più quotidiane, quantunque perciò appunto meno avvertite. Chi non sa che una bellezza mediocre, ci par grande, s’ella ha gran fama? E che ci sentiamo più inclinati, e proviamo il senso della bellezza molto più vivo nel mirare una donna famosa per la [1320]beltà, che nel mirarne una più bella, ma ignota, o meno famosa? Così pure se una donna non è bella, ma ha nome di esserlo o è celebre per avventure galanti, o è stata contrastata ec. ec.
ec. Così dico degli uomini rispetto alle donne ec. ec. Così negli scrittori: il senso del bello è molto maggiore, più intimo, più frequente, più minuto, quando leggiamo p.e.
un poeta già famoso, e di merito già riconosciuto, che quando ne leggiamo uno, del cui merito abbiamo da giudicare, sia pur egli più bello di molti altri che sommamente ci dilettano. Il formare il gusto, in grandissima parte non è altro che il contrarre un’opinione. Se il tal gusto, il tal genere ec. è disprezzato, o se tu in particolare lo disprezzi, quell’opera di quel tal gusto o genere ec. non pia-Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ce. Nel caso contrario, e se tu cambi opinione, ecco che quella stessa opera ti dà sommo piacere, e ci trovi infinite bellezze di cui prima neppur sospettavi. Questo caso è frequentissimo in ogni genere di cose. Pochissimi trovavano piacere nella lettura del buono stile italiano, durante l’ultima metà del secolo passato, e i primi anni di questo. Oggi moltissimi; e quei medesimi che non vi trovavano alcun diletto, anzi noia ec., oggi se ne pascono con gran piacere, perchè l’opinione in Italia è cambiata. Fra questi così cambiati, sono ancor io.
[1321]Potrei condurre questo discorso a cento altri particolari. Lo stile dei trecentisti ci piace sommamente perchè sappiamo ch’era proprio di quell’età. Se lo vediamo fedelissimamente ritratto in uno scrittore moderno, ancorchè non differisca punto dall’antico, non ci piace, anzi ci disgusta, e ci pare affettatissimo, perchè sappiamo che non è naturale allo scrittore, sebben ciò dallo scritto non apparisca per nulla. Questa è dunque sola opinione; ragionevole bensì, ma dunque il bello non è assoluto, perchè la stessissima cosa, in diversa circostanza, ci par bella e brutta, e se noi non sapessimo p.e. la circostanza che quel tale scrittore sia moderno, quel suo scritto ci piacerebbe moltissimo. Così dite delle imitazioni le più fedeli nel genere letterario, o nelle arti ec. ragguagliate cogli originali, ancorchè non ne differiscano d’un capel-lo, del che ho detto in altro pensiero. Così dite della simmetria ec. del che v. la p.1259. Così dite degli arcaismi i quali non ci offendono punto, nè ci producono verun senso di mostruosità in uno scrittore antico, perchè sappiamo che allora si usavano; e ci fanno nausea in un moderno, ancorchè di stile tanto simile all’antico, che quegli arcaismi non vi risaltino, o discordino dal rimanente nulla più che negli antichi scrittori.
(14. Luglio 1821.)
[1322]Ho detto altrove che la grazia deriva bene spes-Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia so (e forse sempre) dallo straordinario nel bello, e da uno straordinario che non distrugga il bello. Ora aggiungo la cagione di questo effetto. Ed è, non solamente che lo straordinario ci suol dare sorpresa, e quindi piacere, il che non appartiene al discorso della grazia; ma che ci dà maggior sorpresa e piacere il veder che quello straordinario non nuoce al bello, non distrugge il conveniente e il regolare, nel mentre che è pure straordinario, e per se stesso irregolare; nel mentre che per essere irregolare e straordinario, dà risalto a quella bellezza e convenienza: e insomma il vedere una bellezza e una convenienza non ordinaria, e di cose che non paiono poter convenire; una bellezza e convenienza diversa dalle altre e comuni. Esempio. Un naso affatto mostruoso, è tanto irregolare, che distrugge la regola, e quindi la convenienza e la bellezza.
Un naso come quello della Roxolane di Marmontel, è irregolare, e tuttavia non distrugge il bello nè il conveniente, benchè per se stesso sia sconveniente; ed ecco la grazia, e gli effetti mirabili di questa grazia, descritti festivamente da [1323]Marmontel, e soverchianti quelli d’ogni bellezza perfetta. V. p.1327. fine. Se osserveremo bene in che cosa consista l’eleganza delle scritture, l’eleganza di una parola, di un modo ec., vedremo ch’ella sempre consiste in un piccolo irregolare, o in un piccolo straordinario o nuovo, che non distrugge punto il regolare e il conveniente dello stile o della lingua, anzi gli dà risalto, e risalta esso stesso; e ci sorprende che risaltando, ed essendo non ordinario, o fuor della regola, non disconvenga; e questa sorpresa cagiona il piacere e il senso dell’eleganza e della grazia delle scritture. (Qui discorrete degl’idiotismi ec. ec.) Il pellegrino delle voci o dei modi, se è eccessivamente pellegrino, o eccessivo per frequenza ec.
distrugge l’ordine, la regola, la convenienza, ed è fonte di bruttezza. Nel caso contrario è fonte di eleganza in modo che se osserverete lo stile di Virgilio o di Orazio, modelli di eleganza a tutti secoli, vedrete che l’eleganza loro Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia principalissimamente e generalmente consiste nel pellegrino dei modi e delle voci, o delle loro applicazioni a quel tal uso, luogo, significazione, nel pellegrino delle metafore ec. Cominciando [1324]dal primo verso sino all’ultimo potrete far sempre la stessa osservazione.
E ciò è tanto vero, che se quella cosa pellegrina, p.e.
quella voce, frase, metafora, diventa usuale e comune, non è più elegante. Quanti esempi di fatto si potrebbero addurre in questo particolare, mediante l’attenta considerazione delle lingue. Per noi italiani è grandissima fonte di eleganza l’uso di voci o modi latini, presi nuovamente da quella lingua, in modo che sieno pellegrini; ma non però eccessivi nè come pellegrini, cioè per la forma troppo strana ec. ec. nè come troppo frequenti latinismi. Ora infinite parole latine e modi, de’ quali gli antichi scrittori arricchirono la nostra lingua, introducendo il pellegrino ne’ loro scritti, essendo divenuti usuali, e propri della lingua, o scritta o parlata, non producono più verun senso di eleganza, benchè sieno della stessa origine, forma, natura di quelle voci ec. che lo producono oggi. Quanti latinismi di Dante, da che divennero italianismi, (e lo divennero da gran tempo, e in grandissimo numero) sono buoni e puri, ma non hanno che far più niente coll’eleganza e grazia.
[1325]Se quella cosa straordinaria o irregolare nel bello, e dentro i limiti del bello, diventa ordinaria e regolare, non produce più il senso della grazia. Perduto il senso dello straordinario si perde quello del grazioso. Una stessa cosa è graziosa in un tempo o in un luogo, non graziosa in un altro. E ciò può essere per due cagioni. 1. Se quella tal cosa per alcuni riesce straordinaria per altri no.
Il parlar toscano riesce più grazioso a noi che a’ Toscani.
Così le Fiorentinerie giudiziosamente introdotte nelle scritture ec. Così l’eleganza e la grazia de’ Trecentisti la sentiamo noi molto più che quel tempo che li produceva; molto più di quegli stessi scrittori, i quali forse non volle-Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ro nè cercarono d’esser graziosi, ma pensarono solo a scrivere come veniva, e a dir quello che dovevano; nè s’ac-corsero della loro grazia: e lo stesso dico de’ parlatori di quel tempo. Lo stesso delle pronunzie o dialetti forestieri ec. i quali riescono graziosi fuor della patria, non già in patria. 2. Se quel tale straordinario o irregolare ec. ad altri riesce compatibile col conveniente, col bello ec. ad altri incompatibile, eccessivo, e distruttivo della regola, del conveniente, del bello ec. Una stessa pronunzia ec.
[1326]forestiera, riesce graziosa in un luogo dove la differenza è leggiera ec. e sgraziatissima in un altro, dove ella contrasta troppo vivamente e bruscamente colla pronunzia, coll’assuefazione indigena ec. ec. Così dico dell’eccesso delle Toscanerie popolari nelle scritture, che a noi riesce affettato, ec. ec.
Ma anche questo giudizio è soggetto a variare, e quella stessa pronunzia o dialetto ec. che riusciva insopportabile a quella tal persona, coll’assuefarvisi ec. arriverà a pa-rergli anche graziosa. Così dico d’ogni altro genere, e l’esperienza n’è frequente.
Da tutto ciò si deduce ancora che siccome il senso e l’idea della convenienza, regola, e bellezza è relativa, così quella della grazia che risulta dall’idea di ciò ch’è straordinario, irregolare ec. nel conveniente e nel bello ec., è interamente relativa. Sicchè il grazioso è relativo nè più nè meno, come il bello, dalla cui idea dipende ec.
Del resto quello straordinario o irregolare ec. che non appartiene, ed è al tutto fuori d’ogni sistema d’ordine, di regola, d’armonia di convenienza, cioè che non è nel bello, non è punto grazioso, nè spetta al discorso della grazia; come p.e. un animale straordinario, un fenomeno ec.
ec.
(14. Luglio 1821.)
Molte cose si trovano, molte particolarità nelle forme umane (così dico del resto), che sono sul confine della Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia grazia e della deformità, o del difettoso, [1327]e ad altri paiono graziose, ad altri paiono difetti, ad altri piacciono, ad altri formalmente dispiacciono, o anche arrivano a piacere e dispiacere alla stessa persona in diverse circostanze. La qualcosa conferma come il grazioso derivi dallo straordinario, cioè da quello ch’è fuor dell’ordine sino a un certo punto. Certo è che l’uomo o la donna può fare in modo, che, s’ella ha difetti anche notabili, anche gravi, quegli stessi le servano a farsi maggiormente amare, a rendersi piacevole e desiderata, e più delle altre, appunto nel mentre che si conosce la sua imperfezione. (Questo dico sì dei difetti fisici come morali ec.) E ciò per mezzo di giudiziosi contrapposti nella convenienza, garbo, brio del portamento ec. ec. ec. in maniera che quel difetto venga piuttosto a dare risalto al bello e al conveniente, che a distruggerlo, ancorchè sia gravissimo. Di ciò son frequenti gli esempi, e spesso ridicoli ec.
(15. Luglio 1821.)
Alla p.1323. principio. Questo accade ancora perchè quella tale particolarità di forma descritta da Marmontel, è bensì fuor dell’uso comune, ma è tuttavia frequente a vedersi, il che produce l’assuefazione; e questa fa che quella tal forma non si giudichi difettosa più che tanto, nè sembri irregolare e sconveniente in modo che distrugga la convenienza, la regola, l’armonia ed il bello delle
[1328] altre parti. Se quello stesso difettuzzo, senza esser niente maggiore in se stesso, fosse unico o straordinarissimo, non sarebbe mai cagione di grazia.
Dallo straordinario sibbene; ma dall’unico o straordinarissimo, non nasce mai grazia, ma deformità; perchè lo straordinario è allora eccessivo, non in quanto alla sua propria natura e forma, ma in quanto straordinario, cioè fuori dell’assuefazione affatto ec. ec. il che fa che contrastando eccessivamente coll’assuefazione, distrugga l’idea della convenienza, idea che dipende Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia dall’assuefazione ec. Se quella tale particolarità riuscirà nuovissima ed unica ad una persona, ancorch’ella sia frequente, questa persona concepirà il senso della deformità (v. p.1186. marg.), mentre gli altri potranno concepir quello della grazia. E lo concepirà poi anche questa persona, assuefacendosi a quel soggetto, o a quella stessa particolarità in altri soggetti. E ciò gli potrà accadere ancora quando quel difetto sia realmente grave.
(15. Luglio 1821.)
L’azione viva e straordinaria, è sempre, o bene spesso, cagione d’allegria, purchè non abbatta il corpo.
(15. Luglio 1821.)
[1329]Perocchè l’arte militare fu coltivata in Italia prima che altrove, o più che altrove nel principio (come quasi tutte le discipline), perciò quest’arte conserva presso i forestieri e nelle lingue loro, molte parole o termini italiani, cioè venuti dall’italiano, e applicati a quell’arte o scienza in Italia, e da’ nostri scrittori. V. la lettera del Lancetti al Monti nella Proposta ec. vol.2. par.1. nell’appendice.
(15. Luglio 1821.)
Si suol dire; se il tale incomodo ec. ec. fosse durevole, non sarebbe sopportabile. Anzi si sopporterebbe molto meglio, mediante l’assuefazione e il tempo. All’opposto diciamo frequentemente; il tal piacere ec. sarebbe stato grandissimo, se avesse durato. Anzi durando, non sarebbe stato più piacere.
(15 Luglio 1821.)
Non è mai sgraziato un fanciullino che si vergogna, e parlando arrossisce, e non sa stare nè operare nè discorrere in presenza altrui. Bensì un giovane poco pratico del buon tratto, e desideroso di esserlo, o di comparirlo. Non è mai sgraziata una pastorella che non sa levar gli occhi, Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia trovandosi fra persone nuove, nè ha la maniera di contenersi, [1330]di portarsi ec. Bensì una donna, egualmente o anche meno timida, e più istruita, ma che volendo figurare, o essere come le altre in una conversazione, non sappia esserlo o non abbia ancora imparato. Così lo sgraziato non deriva mai dalla natura (anzi le dette qualità naturali, sono graziose sempre ec. ec.), ma bensì frequentemente dall’arte, e questa non è mai fonte di grazia nè di convenienza, se non quando ha ricondotto l’uomo alla natura, o all’imitazione di essa, cioè alla disinvoltura, all’inaffettato, alla naturalezza ec. E l’andamento necessario dell’arte, è quasi sempre questo. Farci disimparare quello che già sapevamo senza fatica, e toglierci quelle qualità che possedevamo naturalmente. Poi con grande stento, esercizio, tempo, tornarci a insegnare le stesse cose, e restituirci le stesse qualità, o poco differenti. Giacchè quella modestia, quella timidezza, quella vergogna naturale ec. si trova bene spesso in molti, non più naturale, chè l’hanno perduta, ma artifiziale, chè mediante l’arte appoco appoco e stentatamente l’hanno ricuperata.
(15. Luglio 1821.)
Ho detto altrove che nell’antico sistema delle nazioni la vitalità era molto maggiore e la mortalità minore che nel moderno. Non intendo con [1331]ciò di fondarmi principalmente sopra la maggior durata possibile della vita umana in quei tempi che adesso. Le storie provano che fra la più lunga vita degli antichi e la più lunga de’ moderni (almeno fin da quei tempi de’ quali si hanno notizie precise) non v’è divario, o poco; e smentiscono in questo i sogni di alcuni. Ed è ben simile al vero che la natura abbia stabilito appresso a poco i confini possibili della vita umana, oltre a’ quali non si possa per nessuna cagione passare, come gli ha stabiliti agli altri animali, nella cui longevità presente non credo che si trovi differenza coi tempi antichi. Almeno ciò si può dire in ordine a quel Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia sistema terrestre, a quell’epoca del globo terraqueo che ci è nota; potendo però il detto sistema avere avuto altre epoche e grandi rivoluzioni. Ed anche ci può essere (o esserci stata) qualche razza umana più longeva o meno, come vediamo differenze notabili di longevità nelle razze p.e. de’ cavalli.
Ma io suppongo, e bisogna generalmente supporre, che l’antichità nota a noi non potesse viver più di quello che si possa vivere oggidì. La maggior vitalità del tempo antico, non è quanto alla potenza, ma quanto all’effetto, vale a dire, la realizzazione della potenza. [1332]Vale a dire che, non potendo gli antichi vivere più lungamente di quello che possano i moderni, vivevano però, generalmente parlando, più di quello che i moderni vivano, cioè si accostavano più di loro ai confini stabiliti dalla natura, secondo le differenze proporzionate delle complessioni, delle circostanze ec.; le morti naturali immature erano più rare, o meno immature (e le non naturali se anche erano più frequenti d’oggidì, non bastavano in nessun modo a pareggiar le partite); conservavano il vigore, la sanità, ec. ec. in età dove oggi non si conservano; in ciascheduna età erano proporzionatamente più gagliardi, più sani, insomma più pieni di vitalità che i moderni, e meglio adattati alle funzioni del corpo, e più potenti fisicamente; le malattie erano meno numerose, sì ne’ loro generi, come individualmente; meno violente ec. o più curabili per rispetto al malato ec. ec. ec. Sicchè la somma della vita era maggiore nel tempo antico, quantunque nessuno in particolare potesse vivere più lungamente di quello che possa viversi oggidì, e che taluni vivano.
(16. Luglio 1821.)
Altra gran fonte della ricchezza e varietà [1333]della lingua italiana, si è quella sua immensa facoltà di dare ad una stessa parola, diverse forme, costruzioni, modi ec., e variarne al bisogno il significato, mediante detta varia-Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia zione di forme, o di uso, o di collocazione ec. che alle volte cambiano affatto il senso della voce, alle volte gli danno una piccola inflessione che serve a dinotare una piccola differenza della cosa primitivamente significata.
Non considero qui l’immensa facoltà delle metafore, proprissima, anzi essenziale della lingua italiana (di cui non la potremmo spogliare senz’affatto travisarla), e naturale a spiriti così vivaci ed immaginosi come i nostri nazionali. Parlo solamente del potere usare p.e. uno stesso verbo in senso attivo, passivo, neutro, neutro passivo; con tale o tal caso, e questo coll’articolo o senza; con uno o più nomi alla volta, e anche con diversi casi in uno stesso luogo; con uno o più infiniti di altri verbi, governati da questa o da quella preposizione, da questo o da quel segnacaso, o liberi da ogni preposizione o segnacaso; co’
gerundi; con questo o quell’avverbio, o particella (che, se, quanto ec.); e così discorrendo. Questa facoltà non solamente giova alla varietà ed alla eleganza che nasce dalla novità ec. e dall’inusitato, e in somma alla bellezza del discorso, [1334]ma anche sommamente all’utilità, moltiplicando infinitamente il capitale, e le forze della lingua, servendo a distinguere le piccole differenze delle cose, e a circoscrivere la significazione, e modificarla; potendo l’italiano esprimere facilissimamente e chiaramente, mille cose nuove con parole vecchie nuovamente modificate, ma modificate secondo il preciso gusto della lingua ec. Questa facoltà l’hanno e l’ebbero qual più qual meno tutte le lingue colte, essendo necessaria, ma la nostra lingua in ciò pure, non cede forse e senza forse nè alla greca nè alla latina, e vince tutte le moderne. E l’è tanto propria una decisa singolarità e preminenza in questa facoltà, che forma uno de’ principali ed essenziali caratteri della lingua italiana formata e applicata alla letteratura. Come dunque vogliamo spogliarla di questo suo carattere proprissimo, e dell’utilità che ne risulta? Come vorremo negare agli scrittori italiani la facoltà di conti-Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia nuare a servirsene? Se essa fu data alla lingua da’ suoi fondatori e formatori ec. E se del tal uso della tal parola non si troverà esempio nel Vocabolario, dovrà condan-narsi, quantunque si abbiano mille esempi perfettamente simili e della stessa natura in altre parole, e quantunque il detto uso sia perfettamente d’accordo colla detta facoltà della lingua, e colla sua indole? Perchè una lingua viva dovrà perdere le sue facoltà, che sole in lei [1335]sono proprietà vive e feconde, e conservare solamente il materiale delle parole e modi già usati e registrati, che sono proprietà sterili, e rispetto alle dette facoltà, proprietà morte? Che matta pedanteria si è questa di giudicare di una parola o di un modo, non coll’orecchio nè coll’indole della lingua, ma col Vocabolario? vale a dire non coll’orecchio proprio, ma cogli altrui. Anzi colla pura norma del caso. Giacchè gli è mero caso che gll antichi abbiano usato o no tale o tal voce in tale o tal modo ec. e che avendola pure usata, sia stata o no registrata e avvertita da’ Vocabolaristi. Ma non è caso ch’essi abbiano data o non data alla lingua la facoltà di usarla ec. e che quella voce, forma ec. convenga o non convenga colle proprietà della lingua da loro formata, e col suo costume. ec. E
questo non si può giudicare col Vocabolario, ma coll’orecchio formato dalla lunga ed assidua lettura e studio non del Vocabolario ma de’ Classici, e pieno e pratico, e fedele interprete e testimonio dell’indole della lingua, sola solissima norma per giudicare di una voce o modo dal lato della purità e del poterlo usare ec. E questa fu l’unica guida di tutti quanti i Classici scrittori [1336]sì di tutte le lingue, come della nostra prima del Vocabolario, dal quale che effetto sia risultato in ordine alla stessa purità dello scrivere, e quanto egli abbia giovato alla conservazione della purità della favella, a cui pare che dovesse principalmente giovare, v. la pref. del Monti al 2. vol. della Proposta.
Io qui non intendo solamente difendere i nuovi usi del-Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia le parole (nel rispetto soprannotato) che si fa per sola utilità, ma quello pure che si fa per mera eleganza, senza necessità veruna, ma serve colla sua novità, a dare alla locuzione ec. ec. quell’aria di pellegrino, e quel non so che di temperatamente inusitato, e diviso dall’ordinario costume, da cui deriva l’eleganza ec.
(17. Luglio 1821.)
In proposito e in prova di quanto ho detto p.1322.-28.
che la grazia deriva dallo straordinario medesimo, che quando è troppo, per un verso o per un altro, cagiona l’effetto opposto; osservate che l’inusitato nelle scritture nella lingua, nello stile, è fonte principalissima di affettazione di sconvenienza, di barbarie, d’ineleganza, e di bruttezza; e l’inusitato è pur l’ unica fonte dell’eleganza. V. il Monti Proposta ec. vol.1. par.1. Append. p.215. sotto il mezzo [1337]- seg. e la p.1312. capoverso ult.
(17. Luglio 1821.)
Alla p.1312. marg. Per l’indeterminato può servir di esempio Virg. En. 1.465. Sunt lacrimae rerum: et mentem mortalia tangunt. Quanto all’irregolare, abbiamo veduto p.1322-28. e nel pensiero superiore, che l’eleganza propriamente detta deriva sempre dal pellegrino e diviso dal comun favellare, il che per un verso o per un altro è sempre qualcosa d’irregolare, sia perchè quella parola è forestiera, e quindi è, non dirò contro le regole, ma irregolare, o fuor delle regole l’usarla; sia perchè quel modo è nuovamente fabbricato comunque si voglia ec. Ed osservate che, escluso sempre l’eccesso, il quale produce il contrario dell’eleganza, dentro i limiti di quella irregolarità che può essere elegante, la eleganza maggiore o minore, è bene spesso e si sente, in proporzione della maggiore o minore irregolarità. Ciò non solo quanto alla lingua, ma allo stile ec. Nell’ordine non v’è mai eleganza propriamente detta. Vi sarà armonia, simmetria ec. ma Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia l’eleganza nel puro e rigoroso ordine non può stare. Nè vi può star la natura, ma la ragione, che l’ordine è sempre segno di ragione in qualunque cosa.
(17. Luglio 1821.)
[1338]Alla p.1113. mezzo. Habitare che nel suo significato metaforico, (divenuto da gran tempo proprio) di abitare (notate che si usa spesso attivamente coll’accusativo e passivamente) è manifestamente continuativo e non frequentativo, viene da habitus di habere.
V. il Forcellini.
(17. Luglio 1821.)
Perchè la medicina ha fatto da Ippocrate in qua meno progressi, e sofferto meno cangiamenti essenziali che, possiamo dire, qualunque altra scienza, in pari spazio di tempo; e quindi conservasi forse più vicina di ogni altra alla condizione e misura ec. in cui venne dalla Grecia; perciò quella parte della sua nomenclatura che si compone di vocaboli greci, è forse maggiore che in qualsivoglia altra scienza o disciplina, ragguagliatamente e proporzionatamente parlando. Non dico niente della Rettorica ec.
(17. Luglio 1821.). V. p.1403.
Gli Ebrei pongono o suppongono uno sceva semplice (cioè una e muta che non fa sillaba) espresso o sottinteso sotto, cioè dopo, tutte le consonanti che non hanno altra vocale, sia nel principio, nel mezzo o nel fine delle voci.
Ragionevolmente perchè i nostri organi cadono naturalmente in una leggerissima e, non solo pronunziando una consonante isolata, o una parola terminata per consonante, e non seguita [1339]subito da parola cominciante per vocale, ec. ma anche nel pronunziare due o più consonanti di seguito in una stessa parola, come TRA vaglio ec.
quella o quelle consonanti che non hanno altra vocale, s’appoggiano insensibilmente in una e tenuissima; e non Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia possono mai nudamente e puramente addossarsi alla consonante che segue. Eccetto quando quelle due o più consonanti fanno un tal suono che benchè rappresentato con più caratteri, è però effettivamente uno solo, ed equivale ad una sola lettera; (lettera non rappresentata nell’alfabeto distintamente; e ve ne sono parecchie; del che v. gli altri pensieri sulla ricchezza dell’alfabeto naturale pronunziato) come le consonanti doppie ( tuTTo), come nella suddetta voce travaglio, le consonanti g ed l ec. Non così nell’ x benchè rappresentato con un solo carattere.
ec.
(17. Luglio 1821.)
Alla p.1257. Insomma questa idea benchè entri subito nel bello ideale, è figlia della madre comune di tutte le idee, cioè dell’esperienza che deriva dalle nostre sensazioni, e non già di un insegnamento e di una forma ispi-rataci e impressaci dalla natura nella mente avanti l’esperienza, il che non è più bisogno dimostrare dopo Locke.
Ma quello che mi tocca provare si è, che queste sensazioni, sole nostre maestre, c’insegnano che le cose stanno così, perchè così stanno, e [1340]non perchè così debbano assolutamente stare, cioè perch’esista un bello e un buono assoluto ec. Questo noi lo deduciamo pure dalle nostre sensazioni, (e lo deduciamo naturalmente, come ne deduciamo naturalmente le idee innate, della quale opinione questa è una conseguenza) ma questo è ciò che non ne possiamo dedurre; e non possiamo, appunto perchè tutto ci è insegnato dalle sole sensazioni, le quali sono relative al puro modo di essere ec. e perchè nessuna cognizione o idea ci deriva da un principio anteriore al-l’esperienza. Quindi è chiaro che la distruzione delle idee innate distrugge il principio della bontà, bellezza, perfezione assoluta, e de’ loro contrarii. Vale a dire di una perfezione ec. la quale abbia un fondamento, una ragione, una forma anteriore alla esistenza dei soggetti che la con-Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tengono, e quindi eterna, immutabile, necessaria, primordiale ed esistente prima dei detti soggetti, e indipendente da loro. Or dov’esiste questa ragione, questa forma? e in che consiste? e come la possiamo noi conoscere o sapere, se ogn’idea ci deriva dalle sensazioni relative ai soli oggetti esistenti? Supporre il bello e il buono assoluto, è tornare alle idee di Platone, e risuscitare le idee innate dopo averle distrutte, giacchè tolte queste, non v’è altra possibile [1341] ragione per cui le cose debbano assolutamente e astrattamente e necessariamente essere così o così, buone queste e cattive quelle, indipendentemente da ogni volontà, da ogni accidente, da ogni cosa di fatto, che in realtà è la sola ragione del tutto, e quindi sempre e solamente relativa, e quindi tutto non è buono, bello, vero, cattivo, brutto, falso, se non relativamente; e quindi la convenienza delle cose fra loro è relativa, se così posso dire, assolutamente.
(17. Luglio 1821.)
In somma il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla. Giacchè nessuna cosa è assolutamente necessaria, cioè non v’è ragione assoluta perch’ella non possa non essere, o non essere in quel tal modo ec. E tutte le cose sono possibili, cioè non v’è ragione assoluta perchè una cosa qualunque, non possa essere, o essere in questo o quel modo ec. E non v’è divario alcuno assoluto fra tutte le possibilità, nè differenza assoluta fra tutte le bontà e perfezioni possibili.
Vale a dire che un primo ed universale principio delle cose, o non esiste, nè mai fu, o se esiste o esistè, non lo possiamo in niun modo conoscere, non avendo noi nè potendo avere il menomo [1342]dato per giudicare delle cose avanti le cose, e conoscerle al di là del puro fatto reale. Noi, secondo il naturale errore di credere assoluto il vero, crediamo di conoscere questo principio, attribu-endogli in sommo grado tutto ciò che noi giudichiamo Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia perfezione, e la necessità non solamente di essere ma di essere in quel tal modo, che noi giudichiamo assolutamente perfettissimo. Ma queste perfezioni, son tali solamente nel sistema delle cose che noi conosciamo, vale a dire in un solo dei sistemi possibili; anzi solamente in alcune parti di esso, in altre no, come ho provato in tanti altri luoghi: e quindi non sono perfezioni assolutamente, ma relativamente: nè sono perfezioni in se stesse, e separatamente considerate, ma negli esseri a’ quali appartengono, e relativamente alla loro natura, fine ec. nè sono perfezioni maggiori o minori di qualunque altra ec.
e quindi non costituiscono l’idea di un ente assolutamente perfetto, e superiore in perfezione a tutti gli enti possibili; ma possono anche essere imperfezioni, e talora lo sono, pure relativamente ec. Anche la necessità di essere, o di essere in un tal modo, e di essere indipendentemente da ogni cagione, è perfezione relativa alle nostre opinioni ec. Certo è che distrutte le forme Platoniche preesistenti alle cose, è distrutto Iddio.
(18. Luglio 1821.)
Il nostro gli, il nostro gn, e simili suoni, sono distinti da tutti gli altri, e volendo esattamente rappresentarli converrebbe farlo con caratteri particolari e distinti. Giacchè il gli, benchè partecipi del suono di g e di l ne partecipa come [1343]suono affine, alla maniera di tanti altri, che pur si distinguono da’ loro affini, con caratteri propri; ma in realtà non è nè g, nè l, e non contiene precisamente nessuno dei due, ed è una consonante distinta, ed unica, quando anche si voglia chiamare composta, come la z. La quale sarebbe male espressa con ts o ds ec. Così la f è differente dal p, quantunque sia composta di questo suono, e di un’aspirazione o soffio, e i greci anticamente l’esprimessero col carattere del p, e con quello dell’aspirazione cioè H. Quel suono che contiene veramente il g e la l, è quello della nostra parola Inglese, o del francese Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia aigle, anzi generalmente del francese gl, ben diverso dal nostro gli. Tuttavia si può lodare, l’avere (per maggior semplicità dell’alfabeto) rappresentato questo suono, co’
due caratteri, del suono de’ quali partecipa; il che dimostra la sottigliezza con cui s’è analizzata la voce articolata, fino a decomporre parecchi suoni che non equivalgono precisamente a verun altro. Questa lode però spetta particolarmente alla lingua italiana, giacchè i francesi esprimono il detto suono con due ll, e così gli spagnuoli. Carattere insufficiente, e male appropriato, e che dimostra minor sottigliezza di analisi. V. p.1345. capoverso 2. Nel qual proposito mi piace di riferire quello che dice M.
Beauzée (Encycl. méthod. in H.), parlando di un altro carattere, cioè dell’ h. Il semble qu’il auroit été plus raisonnable de supprimer de [1344] notre orthographe tout caractere muet: et celle des Italiens doit par-là meme arriver plutôt que la nôtre à son point de perfection, parce qu ‘ils ont la liberté de supprimer les H muetes. La mia osservazione ancora può molto servire a mostrare quanto la scrittura materiale italiana e il suo sistema sia più filosofico, e al tempo stesso più naturale che forse qualunque altro.
Puoi vedere la p.1339. (17. Luglio 1821.). Il gl, il gn ec.
hanno parte di g e parte di l, ec. ma non contengono queste due lettere intere, e non sono nè l’una nè l’altra. Sono dunque vere lettere proprie, e non doppie, perchè non è doppio quello che ha due metà. Così dico della z. Non così l’ x, che contiene due lettere intere, e non è che una cifra, ossia un carattere (e non lettera) doppio.
Alla p.1246. marg. Ho detto altrove che la lingua francese è universale, anche perchè lo scritto differisce poco dal parlato, a differenza dell’italiano. Questo non si oppone alle presenti osservazioni: 1. perchè ciò s’intende, ed è vero, massimamente nel gusto, nella costruzione nella forma, e nel corpo intero della lingua e dello stile francese scritto, che pochissimo varia dal parlato: ma non s’in-Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tende delle particolari parole e locuzioni e costruzioni volgari. 2. perchè la lingua francese polita differisce dalla popolare assai meno dell’italiana. E ciò, primo, per le circostanze politiche e sociali ec. diverse assai nell’una nazione rispetto all’altra: secondo, [1345]perchè la lingua italiana essendo divisa in tanti dialetti popolari, ha un dialetto comune e polito necessariamente diviso assai da tutte le favelle popolari; dico un dialetto comune, non solo scritto, ma parlato da tutte le colte persone d’Italia, in ogni circostanza conveniente ec. Ora la singolarità della lingua italiana scritta consiste appunto nell’aver preso più di qualunque altra, dalla favella popolare sì divisa dalla colta, e massime da un particolare dialetto vernacolo, ch’è il toscano; e nell’aver saputo servirsene, e nobilitare, e accomodare alla letteratura quanto n’ha preso. Ma la lingua francese scritta, poco si differenzia da quella della conversazione ec.: dove però questa si differenzia da quella del volgo, quella del volgo non influisce e non somministra nulla alla lingua letterata francese. 3. Ho già detto che da principio, cioè quando la lingua italiana scritta seguiva principalmente questo costume di attingere dalla favella popolare, costume che ora ha quasi, e malamente, abbandonato, allora anch’ella era effettivamente assai simile alla parlata. ec. Anche ora ella si accosta al [1346]parlar polito, e vi si accosta più di quello che mai facesse il latino scritto ec. ma non si accosta al parlar popolare, che tanto fra noi differisce dal polito.
(19. Luglio 1821.)
Molte qualità che ad altri riescono dispettose e sguaia-te, ad altri riescono graziose. Come il parlar flemmatico degli uomini, piace spesso alle donne, a noi pare accidioso.
Viceversa accadrà circa il parlar delle donne. Così certe pronunzie o dialetti languidi, cascanti, strascinati, delicati, smorfiosi, come fra noi il maceratese ec.
(19. Luglio 1821.)
Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Alla p.1343. marg. Anche questo però serve a dimostrare che il detto suono, non è quello di g ed l: il quale è rappresentato appunto da’ francesi ec. con gl, ed anche da noi, come ho detto. Del resto il suono del nostro gli e dell’ ill francese, ed ll spagnuolo, mancava alla lingua latina ed alla greca, le quali però aveano il suono del gl come in Aegle (Virg. Ecl. 6. 20-21.), glukçw ec.
(19. Luglio 1821.)
Dalle lettere consonanti che cadono necessariamente in e, bisogna eccettuare il nostro c e g chiuso, e il ch degli spagnuoli, le quali [1347]lettere non si possono pronunziare se non cogli organi, vale a dire la lingua, il palato, e i denti così serrati, che il suono, anche nel mezzo della parola e in qualunque luogo, esce inevitabilmente in un i, quanto si voglia tenue, e ciò perchè l’ i è la vocale più esile e stretta. Esce dico in un i ma poi termina veramente in un e (quasi ie), qualunque volta le dette lettere, e i suoni loro analoghi si pronunzino isolati, o nel fine di una parola, o insomma senz’altro appoggio di vocale. Così accade anche ai suoni che partecipano dei sopraddetti, come gli (che noi non iscriviamo mai senza l’ i, o lo pronunzia-mo in altro modo) e gn. V. p.1363. Del resto il nostro c e g chiusi, noi li poniamo anche avanti alla e, quantunque questa insieme coll’ i sia la sola vocale a cui la preponia-mo. Ciò per altro nella scrittura. Ma la pronunzia frappone sempre un i anche al c ed e, ec.; e così solevano fare i nostri antichi anche nella scrittura di quelle voci, dalle quali una poco analitica ortografia ha escluso l’ i.
(19. Luglio 1821.)
Io non avendo mai letto scrittori metafisici, e occupan-domi di tutt’altri studi, e null’avendo imparato di queste materie alle scuole (che non ho mai vedute), aveva già ritrovata la falsità delle idee innate, indovinato l’Ottimi-Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia smo [1348]del Leibnizio, e scoperto il principio, che tutto il progresso delle cognizioni consiste in concepire che un’idea ne contiene un’altra; il quale è la somma della tutta nuova scienza ideologica. Or come ho potuto io povero ingegno, senza verun soccorso, e con poche riflessioni, trovar da me solo queste profondissime, e quasi ultime verità, che ignorate per 60 secoli, hanno poi mutato faccia alla metafisica, e quasi al sapere umano? Com’è possibile che di tanti sommi geni, in tutto il detto tempo, nessuno abbia saputo veder quello, ch’io piccolo spirito, ho veduto da me, ed anche con minori cognizioni in queste materie, di quelle che molti di essi avranno avuto?
Non è dunque vero in se stesso, che lo spirito umano progredisce, graduatamente, e giovandosi principalmente dei lumi proccuratigli dal tempo, e delle verità già scoperte da altri, e deducendone nuove conseguenze, e seguitando la fabbrica già cominciata, e adoprando i materiali già preparati.
Se noi potessimo interrogare i sommi scopritori delle più sublimi, profonde ed estese [1349]verità, sapremmo quante poche di queste scoperte si debbano ai lumi som-ministrati dalle età precedenti; quanti di detti geni, per l’ordinario intolleranti degli studi, abbiano ignorate le verità già scoperte ec.; quanti abbiano ritrovate le grandi verità che hanno manifestate al mondo, non prevalendo-si delle cognizioni altrui, ma da loro stessi, e in seguito de’ soli loro pensieri; e piuttosto dopo ritrovate, si siano accorti ch’elle erano conseguenze delle già conosciute, di quello che ne le abbiano dedotte, e se ne sieno serviti, quantunque dopo trovate, ne abbiano considerati e mo-strati i rapporti ec. ec. ec. Esempio di Pascal ec. Bacone aveva già scoperto tante verità che fanno stupire i moderni più profondi e illuminati. Ora egli scriveva nel tempo del rinascimento della filosofia, anzi era quasi il primo filosofo moderno: e quindi il primo vide assai più che non saprebbero vedere infiniti suoi successori, con tutti i Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia lumi in seguito acquistati.
Qual è dunque la ragione per cui lo spirito umano, ha trovate ne’ due ultimi secoli, tante verità profondissime, tanto ignote a tutti i passati? Dico la ragione principale, giacchè quella che ho detta, benchè certo sia una ragione, non è però principale, o certo non è universale. Ora trattandosi che fra tanti sommi spiriti antichi nessuno si è pure accostato alle verità, che molti e certo parecchi moderni hanno scoperto, o del tutto o massimamente da
[1350]loro, bisogna trovarne delle ragioni universali, cioè intere, e necessarie, e che spieghino tutto l’effetto. Io penso che sieno queste.
1. La differenza delle lingue, e la maggiore o minor copia de’ termini, maggiore o minor precisione e universalità loro, e certezza di significato e stabilità. V. Sulzer, negli Opuscoli interessanti di Milano, vol.4. p.65-70. 79-80.
La maggiore o minor copia di parole esprimenti idee chiare ec. v. ib. p.53-54. Una delle grandi ragioni per cui i greci negli studi astratti e profondi (sì filosofici che gramatici ec. ec. ec.) come in ogni altro genere di cognizioni andarono avanti a tutti gli antichi, ai latini ec. io credo certo che sia la gran facilità che aveva la loro lingua ad esprimere, ed esprimere precisamente le nuove cose, le nuove e particolari idee di ciascuno. Facilità che si sperimenta anche oggi nell’attingere da quella lingua a preferenza di ogni altra i nomi delle nuove o più precise e sottili cose ed idee, e le intere nomenclature ec.
Per questa parte il tempo ha giovato certo alla scoperta delle nuove verità, perchè le cognizioni influiscono sulla lingua, come questa su [1351]quella. Ma ha giovato mediatamente, e io vengo a dire, che i moderni inventori non si sono tanto giovati immediatamente delle cognizioni già preparate, quanto di quella lingua che avevano, la quale a differenza delle antiche, era sufficiente a fissare e determinare nella loro mente le idee nuove che concepivano, a dichiararle, cioè renderle chiare, costanti e non Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia isfuggevoli ad essi stessi ec. ec.
2. Le nuove nazioni che si son date al pensiero. L’antica coltura fu tutta meridionale. Il settentrione anticamente non sapeva ancora pensare, o non aveva tempo nè comodo, o se pensava, non iscriveva nè comunicava, nè stabiliva e determinava i pensieri colla scrittura. Il settentrione, l’Inghilterra, la Germania, patria del pensiero (Staël), è nuovo e moderno in quella filosofia ch’è pur fatta per lui.
Nuovo e moderno perchè quella stessa natura che lo rende sì proprio alle nozioni astratte, lo rende più difficile e tardo alla civiltà. E per se stessa l’allontana tanto dalla filosofia, quanto poi ve lo conduce coll’ajuto della coltura. [1352]Ma appena si diede alla filosofia, vi fece tali progressi, quali il mezzogiorno in tanta maggior luce di civiltà e di letteratura, non sognava ancora di fare. Bacone detto di sopra era inglese. Leibnizio tedesco. Newton, Locke ec. La Germania elevata assai dopo l’Inghilterra, cioè dopo Federico II ad una universale e stabile letteratura, è divenuta in un momento la sede della filosofia astratta, ec.
3. E questa è la ragione principale. Differenza naturale d’ingegno fra gli antichi e i moderni è assurdo il suppor-lo. Ma ben è certissimo che le circostanze modificano gl’ingegni in maniera che li fanno sembrare di diversa natura.
Or quanto le moderne circostanze degli uomini, sì fisiche, che morali, politiche ec. favoriscano la riflessione e la ragione, e quanto le antiche circostanze giovando sommamente e promovendo l’immaginazione, sfavorissero la profonda riflessione, l’ho già spiegato molte volte. Laonde io dico che un uomo di genio il quale venti o più secoli fa si fosse trovato nelle circostanze in cui si trova oggi il particolare, non ostante la differenza dei lumi, e il minor numero delle cognizioni, avrebbe [1353]potuto arrivare da se stesso appresso a poco a quel punto a cui sono arrivati i moderni filosofi e metafisici sommi, o se non altro accostarsi moltissimo a quelle verità che gli antichi o non Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia hanno pur travedute, o per difetto della lingua ec. non hanno potuto determinare, nè comunicare altrui, nè fissare nella stessa lor mente. Ma un tal uomo in tali circostanze, si sarebbe probabilmente formata anche una lingua sufficiente. ec. Questo è confermato dal vedere 1.
che tra gli antichi, in piccole differenze di tempi e di lumi, si trovano grandissime differenze di pensare e di filosofia, secondo le diverse circostanze. Quanto è distante Tacito da Livio? Appena un secolo. Morì Livio l’anno 17. nacque Tacito secondo il Lipsio (Vit. Taciti) verso il 54. di Cristo, cioè 37 anni dopo. Quanto progresso potevano aver fatto le cognizioni universali ec. e lo spirito umano generalmente, in sì poco tempo? Eppure qual differenza di profondità. Anzi si può dire che Livio è il tipo del genere storico antico, Tacito del moderno. 2. che tra i moderni si trovano pure le stesse differenze in un medesimo tempo ec. per diverse circostanze di vita. Chi non sa che l’uomo, e l’ingegno, e i parti e i frutti dell’ingegno, tutto è opera delle circostanze?
[1354]Da queste osservazioni deducete che siccome le circostanze presenti sì favorevoli alla riflessione, e alla investigazione degli astratti, non sono naturali, così la natura aveva ben provveduto anche allo stato sociale dell’uomo, anche a quelle verità che dovevano giovare a questo stato, e servirgli di base; verità ben note agli antichi, tanto meno profondi di noi. Che giovano finalmente le verità astratte, quando anche in un eccesso di metafisica, la mente umana non si smarrisse? Quanto erano più utili quelle verità che io stabiliva circa la politica ec. di queste più metafisiche, alle quali ora mi porta l’avanzamento, e il naturale andamento e assottigliamento successivo del mio intelletto! Così che si può dire che la filosofia (intendendo la morale ch’è la più, e forse la sola utile) era, quanto all’utilità, già perfetta al tempo di Socrate che fu il primo filosofo delle nazioni ben conosciute; o vogliamo dire al tempo di Salomone. Ed ora benchè tanto avanzata, non è Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia più perfetta, anzi meno, perchè soverchia, e quindi corrotta anch’essa, corrotta anche la ragione, come la civiltà e la natura. [1355]Corrotta, dico, per eccesso, come queste ec. Giacchè la perfezione o imperfezione e corruzione, si deve misurare dal fine di ciascheduna cosa, e non già assolutamente.
(20. Luglio 1821.)
Una cosa è tanto più perfetta quanto le sue qualità sono meglio ordinate al suo fine. Questa perfezione evidentemente relativa, si può misurare, e paragonare anche con perfezioni d’altri generi. Ma la maggiore o minor perfezione dei diversi fini come si può misurare? come si possono comparare i diversi fini? Che ragione assoluta, che norma comparativa esiste indipendentemente da checchessia, per giudicare questo fine più perfetto o migliore di quello, fuori di un medesimo sistema di fini?
(Giacchè dentro un medesimo sistema, i fini subalterni si possono paragonare: non sono però veramente fini, ma mezzi, e parti, e qualità anch’essi del sistema.) Come dunque si può assolutamente giudicare della maggiore o minor perfezione astratta delle cose? E come può sussistere un bene o un male assoluto, una bontà o bellezza assoluta, o i loro contrari?
(20. Luglio 1821.)
[1356]Un viso bellissimo, il quale abbia qualche somiglianza con una fisonomia di nostro controgenio, o che abbia l’idea, l’aria di un’altra fisonomia brutta ec. ec. non ci par bello.
(20. Luglio 1821.)
È cosa già nota che la letteratura e poesia vanno a ritro-so delle scienze. Quelle ridotte ad arte isteriliscono, queste prosperano; quelle giunte a un certo segno, decadono, queste più s’avanzano, più crescono; quelle sono sempre Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia più grandi più belle più maravigliose presso gli antichi, queste presso i moderni; quelle più s’allontanano dai loro principii, più deteriorano, finchè si corrompono, queste più son vicine ai loro principii più sono imperfette, deboli, povere, e spesso stolte. La cagione è che il principal fondamento di quelle è la natura, la quale non si perfeziona (fuorchè ad un certo punto) ma si corrompe; di queste la ragione la quale ha bisogno del tempo per crescere, ed avanza in proporzione de’ secoli, e dell’esperienza. La qual esperienza è maestra della ragione, nutrice, educatrice della ragione, e omicida della natura. Così dunque accade rispetto alle lingue. [1357]Quelle qualità loro che giovano per l’una parte alla ragione, e per l’altra da lei dipendono, si accrescono e perfezionano col tempo; quelle che dipendono dalla natura, decadono, si corrompono, e si perdono. Quindi le lingue guadagnano in precisione, allontanandosi dal primitivo, guadagnano in chiarezza, ordine, regola ec. Ma in efficacia, varietà ec. e in tutto ciò ch’è bellezza, perdono sempre quanto più s’allontanano, da quello stato che costituisce la loro primitiva forma. La combinazione della ragione colla natura accade quando elle sono applicate alla letteratura. Allora l’arte corregge la rozzezza della natura, e la natura la secchezza dell’arte. Allora le lingue sono in uno stato di perfezione relativa. Ma qui non si fermano. La ragione avanza, e avanzando la ragione, la natura retrocede. L’ar-te non è più contrabbilanciata. La precisione predomina, la bellezza soccombe. Ecco la lingua che avendo perduto il suo primitivo stato di natura, e l’altro più perfetto di natura regolata, o vogliamo dire formata, cade [1358]nello stato geometrico, nello stato di secchezza, e di bruttezza.
(La lingua francese nella sua formazione, si accostò fin d’allora, per le circostanze del tempo, a quest’ultimo stato, perchè prevalse in essa la ragione, e l’equilibrio fra l’arte e la natura, nella lingua francese non vi fu mai, o non mai perfetto.) I filosofi chiamano questo stato, stato Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia di perfezione, i letterati, stato di corruzione.
Nessuno ha torto. Quelli che hanno a cuore la bellezza di una lingua, hanno ragione di essere malcontenti del suo stato moderno, e saviamente la richiamano a’ suoi principii; voglio dire al tempo della sua formazione, e non più là, che questo pazzamente si pretende, e volendo rigenerare la lingua, anche quanto alla bellezza, si fa l’opposto, perchè si caccia da un estremo ad un altro: e negli estremi la bellezza non può stare, bensì nel mezzo, e in quel punto in cui ella è formata e perfezionata. Quelli a’
quali preme che la lingua serva agl’incrementi della ragione, raccomandano la precisione, promuovono la ricchezza de’ termini, fuggono e scartano le voci e frasi ec.
che sono belle ed eleganti con danno della sicurezza
[1359]e chiarezza e facilità ec. della espressione; ed odiano l’antica forma, insufficiente e dannosa allo stabilimento e comunicazione delle profonde e sottili verità.
Come dunque faremo? L’andamento delle cose umane, è questo; questo l’andamento delle lingue. La perfezione filosofica di una lingua può sempre crescere; la perfezione letterata, dopo il punto che ho detto, non può crescere (eccetto ne’ particolari) anzi non può se non guastarsi e perdersi. Tutti due hanno ragione, e grandissima.
Converrebbe accordarli insieme. La cosa è difficile, ma non impossibile. Una lingua, massime come la nostra (non così la francese), può conservare o ripigliare le antiche qualità, ed assumere le moderne. Se gli scrittori saranno savi, ed avranno vero giudizio, il mezzo di concordia è questo.
Dividersi perpetuamente i letterati e i poeti, da’ filosofi. L’odierna filosofia che riduce la metafisica, la morale ec. a forma e condizione quasi matematica, non è più compatibile con la letteratura e la poesia, com’era compatibile quella de’ tempi ne’ quali fu formata la lingua nostra, la latina, la greca. (Ho già detto che la francese non ha vera letteratura nè poesia, eccetto quella letteratura Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia epigrammatica e di conversazione, ch’è loro propria, e dove riescono assai bene; che il resto è piuttosto filosofia che letteratura.) La filosofia di Socrate poteva e potrà sempre [1360]non solo comparire, ma infinitamente servire alla letteratura e poesia, e gioverà pur sempre agli uomini più dell’odierna (v. p.1354.), dalla quale non negherò che non possa ricevere qualche miglioramento, quasi acces-sorio, o quasi rifiorimento. Ma la filosofia di Locke, di Leibnizio ec. non potrà mai stare colla letteratura nè colla vera poesia. La filosofia di Socrate partecipava assai della natura, ma questa nulla ne partecipa, ed è tutta ragione. Perciò nè essa nè la sua lingua è compatibile colla letteratura, a differenza della filosofia di Socrate, e della di lei lingua. La qual filosofia è tale che tutti gli uomini un poco savi ne hanno sempre partecipato più o meno in tutti i tempi e nazioni, anche avanti Socrate. È una filosofia poco lontana da quello che la natura stessa insegna all’uomo sociale. Si dividano dunque le lingue, e la nostra che tante ne contiene, e così diverse anche dentro uno stesso genere, potrà ben contenere allo stesso tempo una lingua bella, e una lingua filosofica. Ed allora avrà una filosofia, e seguirà ad avere quella poesia, e quella letteratura nella quale ha sempre superato tutte le moderne.
Conosco bene che l’età del vero non è quella del bello: e che un secolo o un terreno fecondo di grandi intelletti, difficilmente sarà fecondo di grandi immaginazioni e sensibilità, perchè gl’ingegni degli uomini si modificano secondo le circostanze. In tal caso sarà sempre costante che siccome questa è l’età del vero, bisogna che la lingua nostra assuma le qualità che servono al vero, e ch’ella non ebbe mai. Quando però l’Italia, terra del bello e del grande, possa pur continuare [1361]a produrre ingegni atti alla letteratura e alla poesia, l’unico mezzo di fare che anche questi abbiano o seguano ad avere una lingua, e non pregiudicata dalla natura del secolo, è quello che ho Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia detto.
(20. Luglio 1821.)
Tutto ciò si deve applicare non solo alle lingue, ma alle letterature ancora, la cui perfezione parimente consiste in quel punto che ho detto delle lingue, ec. ed alle quali parimente conviene separarsi dalla moderna filosofia, ed ai letterati non esser filosofi alla moderna, non solo nelle scritture, ma, se è possibile, neppur nell’animo ec.
(21. Luglio 1821.)
Oéd¢n toè ÷lou, rien du tout, pas (che val propriamente nulla) du tout.
(21 Luglio 1821.)
Chi vuol vedere la differenza fra l’amor patrio antico e moderno, e fra lo stato antico e moderno delle nazioni, e fra l’idea che s’aveva anticamente, e che si ha presentemente del proprio paese ec. consideri la pena dell’esilio, usitatissima e somma presso gli antichi, ed ultima pena de’ cittadini romani; ed oggi quasi disusata, e sempre minima, e [1362]spesso ridicola. Nè vale addurre la piccolezza degli stati. Presso gli antichi l’essere esiliato da una sola città, fosse pur piccola, povera, infelice quanto si voglia, era formidabile, se quella era patria dell’esiliato.
Così forse anche oggi nelle parti meno civili; o più naturali, come la Svizzera ec. ec. il cui straordinario amor patrio è ben noto ec. Oggi l’esilio non si suol dare veramente per pena, ma come misura di convenienza, di utilità ec. per liberarsi della presenza di una persona, per impedirla da quel tal luogo ec. Non così anticamente dove il fine principale dell’esiliare, era il gastigo dell’esiliato. ec.
ec. (21. Luglio 1821.). La gravità della pena d’esilio consisteva nel trovarsi l’esiliato privo de’ diritti e vantaggi di cittadino (giacchè altrove non poteva essere cittadino), i quali anticamente erano qualche cosa.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Tutte le battaglie, le guerre ec. degli antichi, stante il sistema dell’odio nazionale, che altrove ho largamente esposto, erano disperate, e con quella risoluzione di vincere o morire, e con quella certezza di nulla guadagnare o salvare cedendo, che oggi non si trovano più.
(21. Luglio 1821.)
Mess. ad uno che gli esponeva la sua passione per una donna, Ma ella, disse, è tua rivale. Soleva dire che tutte le donne sono ardentissime rivali de’ loro amanti.
(21. Luglio 1821.)
[1363]Alla p.1347. marg. Così anche cadono necessariamente nell’ i il ch, il ge e gi, e lo j francesi. Così pure il nostro e latino sci o sce, che sono suoni distinti, e ben diversi da quello della s e del c schiacciato, qual è p.e. il suono di s e c in excitare; e molto più da quello della s e del c duro. Il ge e gi de’ francesi, e il loro j sono pure nello stesso modo ben differenti dal suono di s e g qual è p.e. in disgiunto. Il detto suono francese a noi manca, mancava ai latini, ai greci, manca agli spagnuoli ec. Manca pure (ch’io sappia) agli spagnuoli il nostro sci o sce, francese ch, inglese sh. Del resto il c e g schiacciato, e tutti gli altri suoni affini a questi, mancarono e mancano ai greci. Mancano pure detti suoni ai francesi, che però hanno gli altri suoni affini che abbiamo veduto. Manca quello del gi o ge italiano e latino agli spagnuoli. Tedeschi, inglesi ec.
(21. Luglio 1821.)
I greci ponevano nella stessa Roma iscrizioni greche, quali sono le famose Triopee fatte porre da Erode Attico, benchè trattino di oggetti, si [1364]può dir, tutti e del tutto romani.
(21.Luglio 1821.)
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Noi facilmente ci avvezziamo a giudicar piccole, o compensabili ec. le disgrazie che ci accadono, le priva-zioni ec. perchè conosciamo e sentiamo il nulla del mondo, la poca importanza delle cose, il poco peso degli uomini che ci ricusano i loro favori ec. Viceversa gli antichi, i quali giudicavano tanto importanti le cose del mondo, e gli uomini, da credere che i morti e gl’immortali se ne interessassero sopra qualunque altro affare.
(21. Luglio 1821.)
Sopravvenendo un mal minore a un maggiore, o viceversa, sogliamo dire, Se potessi liberarmi, ovvero, se non mi travagliasse questo male così grave, terrei per un nulla questo leggero. E accadrebbe in verità l’opposto: che ci parrebbe assai maggiore che or non ci pare.
(21. Luglio 1821.)
La facoltà imitativa è una delle principali parti dell’ingegno umano. L’imparare in gran parte non è che imitare. Ora la facoltà d’imitare non è che una facoltà di attenzione esatta e [1365]minuta all’oggetto e sue parti, e una facilità di assuefarsi. Chi facilmente si assuefa, facilmente e presto riesce ad imitar bene. Esempio mio, che con una sola lettura, riusciva a prendere uno stile, avvezzandomicisi subito l’immaginazione, e a rifarlo ec.
Così leggendo un libro in una lingua forestiera, m’assue-facevo subito dentro quella giornata a parlare, anche meco stesso e senza avvedermene, in quella lingua. Or questo non è altro che facoltà d’imitazione, derivante da facilità di assuefazione. Il più ingegnoso degli animali, e più simile all’uomo, la scimia, è insigne per la sua facoltà e tendenza imitativa. Questa principalmente caratterizza e distingue il suo ingegno da quello delle altre bestie. Am-pliate questo pensiero, e mostrate la gradazione delle facoltà organiche interiori, nelle diverse specie di animali fino all’uomo; e come tutta consista in una maggiore o Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia minor facoltà di attendere, e di assuefarsi, la qual seconda facoltà, deriva in gran parte, ed è molto giovata dalla prima, e sotto qualche aspetto è tutt’uno.
(21. Luglio 1821.). V. p.1383. capoverso 2.
La grazia bene spesso non è altro che [1366]un genere di bellezza diverso dagli ordinari, e che però non ci par bello, ma grazioso, o bello insieme e grazioso (che la grazia è sempre nel bello). A quelli a’ quali quel genere non riesca straordinario, parrà bello ma non grazioso, e quindi farà meno effetto. Tale è p.e. quella grazia che deriva dal semplice, dal naturale ec. che a noi in tanto par grazioso, in quanto, atteso i nostri costumi e assuefazione ec., ci riesce straordinario, come osserva appunto Montesquieu. Diversa è l’impressione che a noi produce la semplicità degli scrittori greci, v. g. Omero, da quella che produceva ne’ contemporanei. A noi par graziosa, (v.
Foscolo nell’articolo sull’Odissea del Pindemonte; dove parla della sua propria traduzione del I. Iliade) perchè divisa da’ nostri costumi, e naturale. Ai greci contemporanei, appunto perchè naturale, pareva bella, cioè conveniente, perchè conforme alle loro assuefazioni, ma non graziosa, o certo meno che a noi. Quante cose in questo genere paiono ai francesi graziose, che a noi paiono soltanto belle, o non ci fanno caso in verun conto! A molte cose può estendersi questo pensiero.
(21. Luglio 1821.)
Non basta che Dante, Petrarca Boccaccio siano stati tre sommi scrittori. Nè la letteratura nè la lingua è perfetta e perfettamente formata in essi, nè quando pur [1367]fosse ciò basterebbe a porre nel 300 il secol d’oro della lingua. Qual poeta, anzi quale scrittore, anzi quale ingegno maggiore di Omero ebbe mai, non dirò la Grecia, ancorchè sì feconda per sì gran tempo, ma il mondo? E
tuttavia nessuno può riporre la perfetta formazione e il Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia secol d’oro della lingua greca, nel tempo, e neppur nella lingua d’Omero: (v. se vuoi, la lettera al Monti sulla Grecità del Frullone, in fine. Proposta ec. vol.2. par.1.
appendice.) quantunque la lingua greca sia molto più formata in Omero, che non è l’italiana massime in Dante; perchè Dante fu quasi il primo scrittore italiano, Omero non fu nè il primo scrittore nè il primo poeta greco. E la lingua greca architettata (siccome lingua veramente antica) sopra un piano assai più naturale ec. del nostro, era capace di arrivare alla perfezione sua propria in molto meno tempo dell’italiana, ch’è pur lingua moderna, e spetta (necessariamente) al genere moderno.
(22. Luglio 1821.). V. p.1384. fine.
Quanti diversi gusti e giudizi negli stessi uomini circa la stessa bellezza delle donne! Lasciando da parte la passione di qualsivoglia sorta, fra gli uomini più indifferenti, questi dirà, la tale è bellissima, quegli, è bella, quest’altro
[1368]è passabile, quell’altro, non mi piace, quell’altro, è brutta. Non si troverà una donna sola della cui bellezza o bruttezza tutti gli uomini convengono, se non altro sul più e sul meno. Quanto più discorda il giudizio delle donne! Così dico della bellezza degli uomini ec. Dov’è dunque il bello assoluto? Se neppur si può trovare dove par che la natura stessa l’insegni più che in qualunque altro caso ec.
(22. Luglio 1821.)
Che cosa è il polito e il sozzo, il mondo e l’immondo?
Che opposizione anzi che differenza assoluta possiamo trovare fra queste qualità contrarie? Sozzo è quello che dà noia ec. polito l’opposto. Bene, ma a quella specie, a quell’individuo dà noia una cosa, a questo un’altra. Oggi la tal cosa mi dà noia, domani no. In questa circostanza no, in questa sì. Nulla è dunque per se medesimo ed assolutamente nè mondo nè immondo. Ma noi secondo la Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia solita opinione dell’assoluto, pigliamo per esemplare d’im-mondizia il porco, il quale è tanto mondo quanto qualunque altro animale, perchè quelle materie dove ama di ravvolgersi e che a noi fanno noia, a lui nè a suoi simili non danno noia; e quindi per la [1369]sua specie non sono sozze. Bensì le daranno noia, e saranno sozze per lei, molte cose per noi pulitissime. (22. Luglio 1821.). Di cento altre qualità dite lo stesso che del mondo e immondo.
Qual è stato naturale? quello dell’ignorante, o quello dell’artista? Ora l’ignorante non conosce nè sente quasi nulla del bello d’arte, poco ancora del bello naturale, e d’ogni bello ec. Un uomo affatto rozzo, appena sarà tocco dalla musica più popolare. Anche alla musica si acquista gusto coll’assuefazione sì diretta come indiretta. E pur la musica sembra quasi la più universale delle bellezze ec.
Ora dico io. Il bello non è bello se non in quanto dà piacere ec. Una verità sconosciuta è pur verità, perchè il vero non è vero in quanto è conosciuto. La natura non insegna il vero, ma se ha da esistere il bello assoluto, non lo possiamo riconoscere fuorchè in un insegnamento della natura. Or come sarà assoluto quel bello che, se l’uomo non è in condizione non naturale, non può produrre l’effetto suo proprio, indipendentemente dal quale nessuno può pur concepire che cosa sia nè possa [1370]essere il bello?
(22. Luglio 1821.)
Non solamente tutte le facoltà dell’uomo sono una facoltà di assuefarsi, ma la stessa facoltà di assuefarsi dipende dall’assuefazione. A forza di assuefazioni si piglia la facilità di assuefarsi, non solo dentro lo stesso genere di cose, ma in ogni genere. Il fanciullo non ha ancora un abito di assuefazioni, e perciò è difficile ad assuefarsi, e ad imparare. Chi ha molto imparato più facilmente im-Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia para, sempre proporzionatamente alle facoltà o disposizioni de’ suoi organi, che variano secondo gl’ingegni, le circostanze fisiche passeggere o stabili, le altre circostanze esteriori o interiori, l’età massimamente ec. ec. Dico, più facilmente impara, o in quello stesso genere di cose, cioè in un tal genere al quale i suoi organi siano più disposti, e quindi più facili ad assuefarsi; ovvero in altri generi, o in qualunque altro genere, perchè ogni assuefazione influisce sulla facilità generale di assuefarsi, e quindi d’imparare, di conoscere, di abilitarsi interiormente o esteriormente ec. L’apprendere, quanto alla memoria, non è che assuefarsi, ma esercitando [1371]la memoria, si acquista la facilità di questa assuefazione, cioè d’imparare a memoria. I fanciulli mancando ancora di esercizio, poco sanno imparare a memoria, ma cominciando da poche righe, arriveranno ben presto ad imparare libri intieri, perchè i loro organi sono meglio disposti all’assuefazione che quelli d’ogni altra età, e per isviluppare questa facoltà non hanno bisogno che di eser-citarla, cioè di assuefarla essa stessa. Tutto in somma nell’uomo è assuefazione. E seppure esistono differenze d’ingegni, cioè organi più o meno disposti ad attendere ed assuefarsi, ad assuefarsi a questa o quella cosa, a più o meno cose, o a tutte; la qual differenza anch’io stimo ch’esista; ella è però tale che le diverse assuefazioni possono affatto cancellarla, e rivolgerla anche al contrario, cioè render l’uomo di piccolo ingegno, assai più penetrante ec. ec. e in somma di maggiore ingegno, che l’uo-mo del più grande ingegno naturale. E ciò non solo nelle cose ed assuefazioni materiali, o negli studi esatti ec. ma anche nelle discipline più sottili, anche nelle cose spettanti alla immaginazione e al genio. [1372]L’uomo insomma principalmente, e dopo l’uomo gli altri viventi, i loro ingegni, cognizioni, abilità, facoltà, opinioni, pensieri, detti, fatti, le loro qualità, non in quanto ingenite, ma in quanto sviluppate (ch’è come dire, non in potenza, ma in Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia atto, perchè le qualità non isviluppate son come non esistessero, oltre le infinite modificazioni, onde sono suscettibili di parere diversissime ed anche opposte qualità) sono figli nati dell’assuefazione.
(22. Luglio 1821.)
È verissimo che la chiarezza dell’espressione principalmente deriva dalla chiarezza con cui lo scrittore o il parlatore concepisce ed ha in mente quella tale idea. Quel metafisico il quale non veda ben chiaro in quel tal punto, quello storico il quale non conosca bene quel fatto ec. ec.
riusciranno oscurissimi al lettore, come a se stessi. Ma ciò specialmente accade quando lo scrittore non vuole nè confessare, nè dare a vedere che quella cosa non l’intende chiaramente, perchè anche le cose che noi vediamo oscuramente possiamo fare che il lettore le veda nello stesso modo, e ci esprimeremo sempre con chiarezza, se faremo vedere al lettore qualunque idea tal quale noi la concepiamo, e tal quale sta e giace nella nostra mente. Perchè l’effetto della chiarezza non è propriamente far concepire al lettore un’idea chiara di una cosa in se stessa, ma un’idea chiara dello stato preciso della nostra mente, o ch’ella veda chiaro, o veda scuro, giacchè [1373]questo è fuor del caso, e indifferente alla chiarezza della scrittura o dell’espressione propriamente considerata, e in se stessa.
Ora io dico, che tolta la detta mala fede, e tolta l’ignoranza e incapacità di esprimersi, la quale influisce tanto sulle idee chiare di chi scrive o parla, quanto sulle oscure; il veder chiaro (se non altro, assai spesso) pregiudica alla chiarezza dell’espressione, in luogo di giovarle. Chi non vede chiarissimo, p. e. un filosofo il quale non sia ancora pienamente assuefatto alla sottigliezza delle idee, purchè non abbia la detta mala fede, e possieda l’arte dell’espressione, si studia in tutti i modi di rischiarar la materia, non solo al lettore, ma anche a se stesso, e se non ha parlato Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia chiarissimamente, se non ha per ogni parte espresso lo stato delle sue concezioni, non è contento, perch’egli stesso non s’intende, e quindi sente bene che non sarà inteso, il che nessuno scrittore precisamente vuole, se non in caso di mala fede, o in qualche straordinaria circostanza.
[1374]Ma quando il filosofo (per seguire collo stesso esempio) è pienamente entrato nel campo delle speculazioni, quando s’è avvezzato a veder la materia da capo a fondo, n’è divenuto padrone, e vi si spazia coll’intelletto a piacer suo, o almeno vi passeggia per entro con franchezza, trova chiarezza in ogni cosa, s’è abituato alla lettura degli scritti più sottili, a penetrarli intimamente a quel gergo filosofico ec.: allora ha bisogno di una particolare e continua avvertenza per riuscir chiaro, e gli si rende più difficile e più lontana dall’uso la chiarezza, perchè intendendosi egli subito, crede che subito sarà inteso, misura l’altrui mente dalla sua, ed essendo sicuro delle sue idee, non ha più bisogno di fissarle e dichiararle in certo modo anche a se stesso; preterisce quelle proposizioni, quelle premesse, quelle circostanze, quelle lega-ture de’ ragionamenti, quelle prove o confermazioni o dilucidazioni, quelle minuzie, che perchè a lui son ovvie, crede che da tutti saranno sottintese; abusa di quel gergo (necessario però in se stesso ec. ec.). Questo può accadere, e spesso accade, anzi tutto giorno, in una particolar materia, dove lo scrittore o parlatore abbia un’assoluta chiarezza, padronanza, abito di concezione. ec.
E di quanto dico si può vedere quotidianamente l’esempio ne’ discorsi delle persone colte, illuminate, e ben capaci di esprimersi. Ponete due persone di questo genere, e vedrete ordinariamente che quella la quale possiede quella materia alquanto meno, spiega perfettamente le sue idee, e le rischiara molto negli altri; quella che l’ha
[1375]tutta sulle dita, lascia molto più a desiderare, benchè non volendo, e benchè capacissimo di chiarezza nelle altre cose. E quindi è giornaliero il lagnarsi della Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia oscurità con cui ragionano delle loro discipline ec. quelli che le professano. Il che si può considerare anche sotto questo aspetto.
Coloro che non fanno professione, o non sono pienamente pratici e versati in qualche facoltà, credono obbligo loro, e si propongono nel trattarla, di parlare o scrivere a tutti. Ma quelli che le professano, intendono (anche senza determinata volontà) di parlarne o scriverne ai professori. Il che se può comportarsi in altre scienze o discipline, non deve aver luogo nella filosofia morale o metafisica ec. e in tutte quelle cognizioni che benchè astratte o sottili ec. devono però esser trattate non per una particolar classe di persone, ma per tutti, anzi più per quelli che le ignorano, o poco le conoscono, che per li periti.
È anche cosa osservabile che dei maestri i quali non siano assolutamente insigni in una facoltà, spesso sono adattati a insegnarla, e riescono a darla bene ad intendere, purchè [1376]abbiano le altre qualità necessarie o proprie del bene insegnare, e indipendenti dalla cognizione della materia. Ma quegli uomini che si distinguono in questa cognizione, di rado assai troverannosi adattati a insegnarla, e gli scolari partiranno dalla scuola dell’uomo il più dotto, senz’aver nulla partecipato alla sua dottrina: eccetto il caso (raro) ch’egli abbia quella forza d’immaginazione, e quel giudizio che lo fa astrarre interamente dal suo proprio stato, per mettersi ne’ piedi de’ suoi discepoli, il che si chiama comunicativa. Ed è generalmente riconosciuto che la principal dote di un buon maestro e la più utile, non è l’eccellenza in quella tal dottrina, ma l’eccellenza nel saperla comunicare.
E quello che ho detto accade perchè pochi fra gli stessi più dotti, sono capaci di rintracciare minutamente, ed avere esattamente presenti le origini, i progressi, il modo dello sviluppo, insomma la storia delle loro proprie cognizioni e pensieri, del loro sapere, del loro intelletto.
Questo è proprio solamente de’ sommi spiriti, i cui pro-Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia gressi benchè derivati necessariamente dalle assuefazioni, dalle circostanze, e dal caso, pur furono [1377]meno materiali e casuali che quelli degli altri anche insigni. E
l’immaginazione necessaria alla comunicativa è sempre propria dei geni, anche filosofici, anche metafisici, anche matematici. V. altro mio pensiero sulla comunicativa degli scrittori, bisognosi di tenere a questo fine, alquanto di spirito poetico.
(23. Luglio 1821.)
Il sommo grado della ragione consiste in conoscere che quanto ella ci ha insegnato al di là della natura, tutto è inutile e dannoso, e quanto ci ha insegnato di buono, tutto già lo sapevamo dalla natura; e l’avercelo essa fatto disimparare, e poi tornare a impararlo e a crederlo, ci ha sommamente nociuto, non solo per quel frattempo, ma irreparabilmente per tutta la vita, perchè gl’insegnamenti ricevuti dalla ragione, quantunque conformi ai naturali, non hanno più di gran lunga la forza nè l’utilità di quelli ricevuti dalla natura, e vengono da cattiva fonte e veleno-sa alla vita, anzi vengono dalla morte, invece di venir dalla vita ec.
(23. Luglio 1821.)
[1378]L’animale assalito o in se stesso, o nelle cose sue care massimamente, non fa i conti s’egli possa o non possa resistere, se la resistenza gioverà o no, se gli torni meglio il cedere, se il pericolo sia grande o piccolo, se le forze competano, se il resistere gli possa portare un male maggiore ec. ma resiste immediatamente e combatte con tutte le sue forze, ancorchè piccolissime contro grandissime. Disturbate i pulcinelli ad una gallina, ed ella vi verrà sopra col becco e cogli artigli, e vi farà tutto il male che saprà. Così facevano le antiche nazioni ancorchè piccolissime contro grandissime, come ho detto altrove. Similmente dico dei privati rispetto ai più forti o potenti ec. V.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia il Gelli, Circe, nel Dial. dove parla della fortezza delle bestie, e il Segneri Incredulo dove parla delle loro guerre.
È vergognoso che il calcolo ci renda meno magnanimi, meno coraggiosi delle bestie. Da ciò si può vedere quanto la grand’arte del computare, sì propria de’ nostri tempi, giovi e promuova la grandezza delle cose, delle azioni, della vita, degli avvenimenti, degli animi, dell’uomo.
(23. Luglio 1821.)
La facilità, anzi quasi la facoltà di attendere che tanto è necessaria all’assuefazione, o la facilita, l’abbrevia, e la produce, anch’essa però si accresce e perfeziona, e quasi nasce mediante l’assuefazione.
(23. Luglio 1821.)
[1379]Siccome la parte dell’uomo alla quale più si attende, è il viso, però il fanciullo non ha quasi mai un’idea formata della bellezza o bruttezza delle persone, se non quanto al viso, e questa è la prima idea della bruttezza umana, ch’egli concepisce: su questa idea si giudica per lungo tempo della bellezza o bruttezza delle persone. Anzi è osservabile che finchè l’uomo non ha cominciato a sentire distintamente la sensualità, non concepisce mai un’idea esatta de’ pregi o difetti de’ personali; che in quel tempo cominciando ad osservarli, comincia a formarsi un’idea del bello su questo punto, ma non arriva a com-pierla se non dopo un certo spazio; che le persone eccessivamente continenti sono ordinariamente di giudizio così poco sicuro intorno alla detta bellezza, come quelle eccessivamente incontinenti, secondo ho detto in altro pensiero; che generalmente le donne siccome pel loro stato sociale sono necessitate a maggior castità degli uomini, ed hanno un abito esteriore ed interiore di maggior ritenutezza, e meno rilassatezza ec. perciò sono prese dalla bellezza del viso degli uomini, rispetto al personale, più di quello che lo sieno proporzionatamente gli uomini Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia
[1380]dal viso delle donne in comparazione del personale (e similmente dico della bruttezza). È pure osservabile che dall’assuefazione naturale di osservare il viso più delle altre parti, deriva in parte 1. l’aver noi sempre idea più chiara della bellezza o bruttezza di quello che di queste, o generalmente prese, cioè del personale, o particolarmente, come delle mani ec. che pur sono ugualmente scoperte. 2. la preferenza e l’importanza che noi diamo alla bellezza o bruttezza del viso sopra il resto, e l’attendere massimamente al viso, sia nell’osservare, sia nel giudicare del bello o del brutto, la quale assuefazione ci dura per tutta la vita. E che ciò non derivi solamente dalle proprietà naturali del viso, osservatelo ne’ selvaggi che vanno ignudi, e che certo attendono assai più di noi all’altre parti, e n’hanno più certo, chiaro, e ordinario discernimento di bello o brutto; osservatelo ne’ libidinosi i quali preferiranno sempre una donna di bel personale ec. e di mediocre viso, o anche non bello, alla più bella faccia, e mediocre o non bella persona. E la preferenza che si dà
[1381]alle forme del viso, e la maggiore o minore attenzione che vi si pone, va sempre in proporzione della maggiore o minore abitudine di riserva o di licenza, sì negli uomini sì nelle donne. E gli amori sentimentali, di cui gli sfrenati non sono capaci, derivano sempre assai più dalle forme del viso, che della persona ec. ec. È osservabile finalmente che il giudizio delle donne circa la bellezza o bruttezza sì del viso come della persona, nel loro sesso, tarda sempre più a formarsi che quello degli uomini, e non arriva mai a quel punto, e così degli uomini viceversa. Nel che è pur nuovamente osservabile che quel giudizio sul bello o brutto umano che possono acquistare i fanciulli prima della sensualità qualunque, è presso a poco egualmente e indifferentemente formato circa il loro sesso, che circa l’altro. Dico presso a poco, perchè un’alquanto maggiore inclinazione al sesso differente, si fa sentire all’uomo sino da’ primissimi anni, e questa produce Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia sempre in lui un’alquanto maggiore osservazione circa quel sesso ec. ec.
(23.Luglio 1821.)
[1382]Il soddisfare a un bisogno, il liberarsi da un incomodo è molto maggior piacere che il non provarlo. Anzi questo non è piacere, quello sì, e lo è bene spesso semplicemente in quanto alla sola soddisfazione del bisogno ec.
quantunque nell’azione che vi soddisfa, la natura non abbia posto alcun piacere particolare distinto e indipendente, come l’ha posto p.e. nel cibarsi. E va per lo più in ragione della maggiore o minore intensità del bisogno ec.
(24. Luglio 1821.)
Alla mia teoria del piacere aggiungi che quanto più gli organi del vivente sono suscettibili, sensibili, mobili, vivi, insomma quanto è maggiore la vita naturale del vivente, tanto più sensibile e vivo è l’amor proprio (ch’è quasi tutt’uno colla vita) e quindi il desiderio della felicità ch’è impossibile, e quindi l’infelicità. Così accade dunque agli uomini rispetto alle bestie, così a queste pure gradatamente, così agl’individui umani ec. più sensibili, immaginosi ec. rispetto agli altri individui della stessa specie. E l’uomo anche in natura, è quindi ben conseguentemente, il più infelice degli animali (come vediamo), perciò stesso che ha più vita, più forza e sentimento vitale che gli altri viventi.
(24. Luglio 1821.)
[1383]Malgrado quanto ho detto dell’insociabilità dell’odierna filosofia colla poesia, gli spiriti veramente straordinari e sommi, i quali si ridono dei precetti, e delle osservazioni, e quasi dell’impossibile, e non consultano che loro stessi, potranno vincere qualunque ostacolo, ed essere sommi filosofi moderni poetando perfettamente.
Ma questa cosa, come vicina all’impossibile, non sarà che Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia rarissima e singolare.
(24. Luglio 1821.)
Alla p.1365. fine. La memoria non è quasi altro che virtù imitativa, giacchè ciascuna reminiscenza è quasi un’imitazione che la memoria, cioè gli organi suoi propri, fanno delle sensazioni passate, (ripetendole, rifacendole, e quasi contraffacendole); e acquistano l’abilità di farla, mediante un’apposita e particolare assuefazione, diversa dalla generale, o esercizio della memoria, di cui v. p.1370. seg.
Così dico delle altre imitazioni, e assuefazioni, che sono quasi imitazioni ec. Tanto più che quasi ogni assuefazione e quindi ogni attitudine abituale acquisita della mente, dipende in gran parte dalla memoria ec.
(24. Luglio 1821.)
Dal sopraddetto si vede che la proprietà della memoria non è propriamente di richiamare, il che è impossibile, trattandosi di cose poste fuori [1384]di lei e della sua forza, ma di contraffare, rappresentare, imitare, il che non dipende dalle cose, ma dall’assuefazione alle cose e impressioni loro, cioè alle sensazioni, ed è proprio anche degli altri organi nel loro genere. E le ricordanze non sono richiami, ma imitazioni, o ripetizioni delle sensazioni, mediante l’assuefazione. Similmente (e notate) si può discorrere delle idee. Questa osservazione rischiara assai la natura della memoria, che molti impossibilmente hanno fatto consistere in una forza di dipingere, o ricevere le impressioni stabili di ciascuna sensazione o immagine ec.
laddove l’impressione non è stabile, nè può. E v. in tal proposito quello che altrove ho detto delle immagini visibili delle cose, che senza volontà nè studio della memoria, ci si presentano la sera, chiudendo gli occhi ec. Effetto puro dell’assuefazione degli organi a quelle sensazioni e non già di una continuazione di esse.
(24. Luglio 1821.)
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Alla p.1367. fine. Chi vuol vedere che la lingua italiana nel 300 non fu formata malgrado i 3 sommi sopraddetti, osservi che il Boccaccio, l’ultimo de’ tre quanto al tempo, s’ingannò grossamente, e fece un infelice tentativo nella
[1385]prosa italiana, togliendole il diretto e naturale andamento della sintassi, e con intricate e penose trasposizioni infelicemente tentando di darle (alla detta sintassi) il processo della latina. (Monti, Proposta t.1. p.231.). Il che dimostra che dunque se in questi tre sommi si volesse anche riporre il perfezionamento ec. della lingua italiana poetica, (che è falsissimo) non si può nel trecento riporre, a cagione de’ 3. sommi, quello della lingua italiana prosaica. Ora una lingua senza prosa, come può dirsi formata? La prosa è la parte più naturale, usuale, e quindi principale di una lingua, e la perfezione di una lingua consiste essenzialmente nella prosa. Ma il Boccaccio primo ed unico che applicasse nel 300 la prosa italiana alla letteratura, senza la quale applicazione la lingua non si forma, non può servir di modello alla prosa. E notate ancora che dunque il Boccaccio ch’era pure sì grande ingegno, scrivendo dopo i 2 grandi maestri sopraddetti, e dopo tanti altri prosatorelli italiani, s’ingannò di grosso intorno alla stessa indole della lingua [1386]italiana, intorno alla forma che le conveniva applicandola alla letteratura, vale a dire insomma alla sua forma conveniente, o le ne diede una ch’ella ha poi del tutto abbandonata, e che le divenne subito affatto sconveniente. Dunque la lingua italiana, almeno quanto alla prosa, ch’è il principale, non era ancora formata; il Boccaccio non valse a formarla, anzi errò di gran lunga. Come dunque la lingua italiana fu formata dai detti tre? come fu formata nel 300. se il principale prosatore italiano di quel secolo, e l’unico che appartenga alla letteratura, non conobbe la sua forma conveniente, e se non può servire di modello a veruna prosa?
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia (25. Luglio 1821.)
Quanto la civilizzazione per sua natura tenda a conformare gli uomini e le cose umane, come questo sia l’uno de’ principali suoi fini, ovvero de’ mezzi principali per conseguire i suoi fini, si può vedere anche nella lingua, nell’ortografia, nello stile largamente considerato, nella letteratura ec. Tutte cose tanto [1387]più uniformi in una nazione, quanto ella è più civile, o si va civilizzando di mano in mano, e tanto più varie quanto ella è più lontana dalla civiltà perfetta, o più vicina a’ suoi i principj ec. E
ne’ principii tutte queste cose furono sommamente varie, incerte, discordi, arbitrarie ec. presso qualunque nazione delle più colte oggidì. Lo stabilire e il formare o l’essere stabilita e formata una lingua un’ortografia ec. non è quasi altro che uniformarla. Giacchè sia pur ella regolarissima in questo o quello scrittore o parlatore, ella non è stabilita nè formata nè buona se non è uniforme nella nazione; e sia pure irregolarissima (come la greca ec.) ella è stabilita ec. quando in quel tale stato ella è riconosciuta, intesa e adoperata stabilmente e regolarmente dalla nazione.
Allora l’irregolarità è regola, e nel caso contrario la regolarità è irregolare. (25. Luglio 1821.). V. se vuoi, p.1516
17.
Grazia che deriva dallo staordinario o dal contrasto.
Voce alquanto virile nelle donne. È un gran ragoût, purchè non sia eccessivo. ec. ec.
(25. Luglio 1821.)
I giovani massime alquanto istruiti prima di entrare nel mondo, credono facilmente e fermamente in generale, quello che sentono o leggono delle cose umane, ma nel particolare non mai. E il frutto dell’esperienza è persuadere a’ giovani, quanto alla vita umana, che il generale si verifica effettivamente in tutti o in quasi tutti i particola-Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ri, e in ciascuno di essi.
(25. Luglio 1821.)
[1388]Alla p.1262. al capoverso 1. Chiunque potesse attentamente osservare e scoprire le origini ultime delle parole in qualsivoglia lingua, vedrebbe che non v’è azione o idea umana, o cosa veruna la quale non cada precisamente sotto i sensi, che sia stata espressa con parola originariamente applicata a lei stessa, e ideata per lei. Tutte simili cose, oltre che non sono state denominate se non tardi, quantunque fossero comunissime, usualissime e necessarie alla lingua, e alla vita ec.; non hanno ricevuto il nome se non mediante metafore, similitudini ec. prese dalle cose affatto sensibili, i cui nomi hanno servito in qualunque modo, e con qualsivoglia modificazione di significato o di forma, ad esprimere le cose non sensibili; e spesso sono restati in proprietà a queste ultime, perdendo il valor primitivo. Osservate p.e. l’azione di aspettare.
Ell’è affatto esteriore, e materiale, ma siccome non cade precisamente sotto i sensi, perciò non è stata espressa nelle nostre lingue se non per via di una metafora presa dal guardare, ch’è azione tutta sensibile. V. la p.1106. Bensì questa metafora [1389]è poi divenuta parola propria, perdendo il senso primitivo.
Tale è la natura e l’andamento dello spirito umano. Egli non ha mai potuto formarsi un’idea totalmente chiara di una cosa non affatto sensibile, se non ravvicinandola, paragonandola, rassomigliandola alle sensibili, e così, per certo modo, incorporandola. Quindi egli non ha mai potuto esprimere immediatamente nessuna di tali idee con una parola affatto sua propria, e il fondamento e il tipo del cui significato non fosse in una cosa sensibile. Espresse poi, e stabilite e determinate queste simili idee mediante parole di tal natura, l’uomo gradatamente ha potuto elevarsi fino a concepire prima confusamente, poi chiaramente, poi esprimere e fissare con parole, altre idee pri-Letteratura italiana Einaudi 1000
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ma un poco più lontane dal puro senso, poi alquanto più, e finalmente affatto metafisiche, e astratte. Ma tutte queste idee non le ha espresse se non che nel sopraddetto modo, cioè o con metafore ec. prese immediatamente dal sensibile, o con nuove modificazioni e applicazioni di quelle parole applicate già, come ho detto, a cose meno
[1390]soggette ai sensi, facendosi scala da quelle applicazioni già fatte, ricevute e ben intese, ad altre più sottili, ed immateriali ec. Di maniera che i nomi anche modernissimi delle più sottili e rimote astrazioni, derivano originariamente da quelli delle cose affatto sensibili, e da nomi che nelle primitive lingue significavano tali cose. E
la sorgente e radice universale di tutte le voci in qualsivoglia lingua, sono i puri nomi delle cose che cadono al tutto sotto i sensi.
È curioso l’osservare che il verbo sostantivo essere, sì necessario che senza esso non si può fare un discorso formato, ed esprimente un’idea sì universale, e appartenente a tutte le cose e le idee, nondimeno perch’ella è un’idea delle più astratte ed ultime (appunto a cagione della sua universalità, la quale dimostra ch’ella è idea elementare ec.) è imperfetto e irregolare, cred’io, per lo meno, in quasi tutte le lingue. Nella greca è anche sommamente difetti-vo, e non è supplito da voci prese d’altre radici, come lo è in latino, in sascrito, in persiano. Nell’ebraico il verbo hyh esse, existere, oltre ch’è quiescente, vale a dire imperfetto, ha miras anomalias, dice il Zanolini. La cagione di ciò (che non si può creder caso) può essere che questo verbo sia stato uno de’ primi inventati, a causa della sua necessità; e quindi confuso ed irregolare sì a causa della sua antichità, [1391]e delle poche regole a cui gli antichissimi lo potevano assoggettare, sì dell’astrazione sottigliezza, immaterialità, difficoltà insomma dell’idea che esprime, e che nessuno degli antichissimi parlatori potè concepir chiaramente. Simili osservazioni si ponno fare intorno ad altri verbi che sogliono essere anomali nelle Letteratura italiana Einaudi 1001
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia lingue, quantunque diversissime, ed è notabile che questi sono ordinariamente i più usuali e necessari al discorso, come avere, potere ec. Ed appunto perciò sono anomali, perchè non sono così necessari, se non perchè esprimono idee universali, e le idee non sono universali se non perchè sono elementari ed astratte; ora le idee elementari ed astratte sono naturalmente le più difficili, anzi le ultime a raggiungersi, e a concepirsi chiaramente, e quindi ad essere formalmente e regolarmente espresse. (26. Luglio 1821.). Puoi vedere p.1205.
Ho detto in un pensiero a parte come l’incredulità spesso derivi da piccolezza di spirito. Aggiungo ora com’ella viene assai spesso da ostinazione, non solo di volontà, ma anche di spirito, il che è segno della sua piccolezza, la quale influisce poi anche sulla volontà e sulle determinazioni. È assai comune il vedere [1392]una persona osti-narsi immobilmente a negare una verità di fatto, o affermare una falsità di fatto, senza mai lasciarsi entrar nella mente un solo sospetto di potersi essere ingannato nel vedere ec. ec. Insomma l’incredulità bene spesso, anzi il più d’ordinario, non deriva se non da somma e stoltissi-ma credulità. Per la credulità il piccolo spirito si persuade siffattamente della verità e certezza de’ suoi principii, del suo modo di vedere e giudicare, delle impossibilità ch’egli concepisce ec. che tutto quello che vi ripugna, gli sembra assolutamente falso, qualunque prova v’abbia in contrario; perchè la credulità che immobilmente lo attacca alle precedenti sue idee, lo stacca dalle nuove, e lo fa incredulissimo. E così l’eccesso di credulità causa l’eccesso d’incredulità, e impedisce i progressi dello spirito ec. Gli uomini più persuasi d’una cosa, sono i più difficili a persuadersi, se non si tratta di persuasioni affatto consentanee alle sue prime ec. V. se vuoi, la p.1281. principio.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia (26. Luglio 1821.)
Piccolissimo è quello spirito che non è capace o è difficile al dubbio. Le ragioni le ho dette nel pensiero precedente, e in quello al quale esso serve di giunta.
(27. Luglio 1821.)
[1393]A volere che il ridicolo primieramente giovi, secondariamente piaccia vivamente, e durevolmente, cioè la sua continuazione non annoi, deve cadere sopra qualcosa di serio, e d’importante. Se il ridicolo cade sopra bagattelle, e sopra, dirò quasi, lo stesso ridicolo, oltre che nulla giova, poco diletta, e presto annoia. Quanto più la materia del ridicolo è seria, quanto più importa, tanto il ridicolo è più dilettevole, anche per il contrasto ec. Ne’
miei dialoghi io cercherò di portar la commedia a quello che finora è stato proprio della tragedia, cioè i vizi dei grandi, i principii fondamentali delle calamità e della miseria umana, gli assurdi della politica, le sconvenienze appartenenti alla morale universale, e alla filosofia, l’andamento e lo spirito generale del secolo, la somma delle cose, della società, della civiltà presente, le disgrazie e le rivoluzioni e le condizioni del mondo, i vizi e le infamie non degli uomini ma dell’uomo, lo stato delle nazioni ec.
E credo che le armi del ridicolo, massime in questo ridi-colissimo e freddissimo tempo, e anche per la loro natural forza, potranno giovare più di quelle della passione, dell’affetto, dell’immaginazione dell’eloquenza; e anche più di quelle del ragionamento, [1394]benchè oggi assai forti. Così a scuotere la mia povera patria, e secolo, io mi troverò avere impiegato le armi dell’affetto e dell’entusiasmo e dell’eloquenza e dell’immaginazione nella lirica, e in quelle prose letterarie ch’io potrò scrivere; le armi della ragione, della logica, della filosofia, ne’ Trattati filosofici ch’io dispongo; e le armi del ridicolo ne’ dialoghi e novelle Lucianee ch’io vo preparando.
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Iliaci cineres, et flamma extrema meorum, Testor, in occasu vestro, nec tela, nec ullas Vitavisse vices Danaum; et, si fata fuissent, Ut caderem, meruisse manu (Virg. Aen. 2.431.seqq.).
(27. luglio 1821.)
Alla p.1102. È stata anche utilissima e necessarissima invenzione e pensamento quello di dividere le quantità non per unità, ma per parti di quantità contenenti un numero di quantità determinato, e perpetuamente conforme; vale a dire per diecine, ossia quantità contenenti sempre dieci unità; per centinaia contenenti sempre dieci diecine; per migliaia ec. Senza questo ritrovato ottimo ed ammirabile, noi quanto ai numeri saremmo ancora appresso a poco, nel caso degli [1395]uomini privi di favella. Cioè non potremmo concepir chiaramente l’idea di veruna quantità numerica determinata (e quindi di nessun’altra non numerica, perchè se è determinata, ha sempre relazione ai numeri), se non piccolissima.
L’idea che l’uomo concepisce della quantità numerica è idea compostissima. L’uomo è capacissimo d’idee composte, ma bisogna che la composizione non sia tanta, che la mente umana abbia bisogno per concepir quell’idea di correre tutto a un tratto per una troppo grande quantità di parti. Se noi non dicessimo undici, cioè dieci e uno, ec.
ec. ma seguissimo sempre a nominare ciascuna quantità o numero, con un nome affatto progressivo, e indipendente dagli altri nomi e numeri, e non si fosse data ai numeri una scambievole relazione, tanto arbitraria e dipendente dall’intelletto umano, quanto necessaria, e difficile; noi perderemmo ben presto l’idea chiara di una quantità determinata alquanto grossa, perchè le sue parti, essendo pure unità, sarebbero troppe per poter esser comprese in un tratto, e [1396]abbracciate dalla nostra concezione. Se il centinaio non fosse nella nostra mente Letteratura italiana Einaudi 1004
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia una diecina di diecine (il che, chi ben l’osserva, viene a formare un’idea non decupla, ma quasi unica e semplice, (o al più doppia) a causa del rapporto scambievole delle unità colla diecina, e della diecina semplice colla diecina di diecine); ma fosse un centinaio di pure, slegate, indipendenti, indivise unità, ci sarebbe impossibile il correre in un tratto per cento unità così disposte, e quindi non potremmo concepire idea, se non confusissima e insufficiente, di detta quantità. Per lo contrario la nostra mente abituata alla facilità di concepir chiaramente la quantità contenuta nella diecina semplice, si abitua ancora facilmente alla stessa concezione nella diecina di diecine, ec.
ec. e con un solo atto di concezione, apprende chiaramente il numero delle unità contenute in una quantità, la cui idea se le presenta così ben distribuita nelle sue parti, così relative fra loro. Questo è infatti il progresso delle idee de’ fanciulli, i quali da principio, quantunque bastantemente istruiti circa i numeri e le materiali quantità loro ec. non si [1397]formano però mai l’idea chiara delle unità contenute in una quantità più che tanto grossa, nè intendono mai chiaramente che quantità sia p.e. il centinaio, finchè la loro mente non si è abituata nel modo che ho detto, ascendendo gradatamente dall’idea simultanea e perfetta di una diecina, a quella di due, di tre, della diecina di diecine ec.
Molte idee, ancorchè compostissime, le concepisce l’uo-mo chiaramente e facilmente in un tratto, perchè il soggetto loro non è composto in maniera che l’idea non ne possa risultare se non dalla concezione particolare e immediata di ciascuna sua parte. P.e. l’idea dell’uomo è composta, ma la mente senza andare per le parti, le concepisce tutte in un solo subbietto in un solo corpo, e quindi in un solo momento, e dal subbietto discende poi, se vuole, alle parti. Così accade in tutte le cose materiali ec. Ma l’idea di un numero non risulta se non dalla concezione delle unità, cioè parti che lo compongono, e da queste Letteratura italiana Einaudi 1005
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia bisogna che la mente ascenda alla concezione del composto, cioè del tal numero, [1398]perchè un numero non è sostanzialmente altro che una quantità di parti, nè si può definire se non da queste, nè ha veruna menoma qualità o forma, o modo di essere ec. indipendente da queste. L’assuefazione aiutata dalla bellissima invenzione che ho detto, fa che la mente umana appoco appoco si abiliti a concepire una quantità determinata, quasi prima delle sue parti, e indipendentemente da loro, e discenda poi da quella a queste, se vuol meglio distinguere la sua idea ec. il che non si può mai se non nello spazio di tempo e non già nell’istante.
Il detto ritrovamento, o piuttosto arbitrario stabilimento di una scambievole relazione fra tutte le unità, e le masse di unità ec. cioè in somma della ragione che fra noi, e in tutti i popoli civili antichi e moderni è decupla; non solo fu aiutata dalla favella, ma non sarebbesi potuto stabilirla senza la favella.
Osservo che uno de’ principali vantaggi, anzi forse il solo, ma grande vantaggio del sistema di cifre numeriche dette arabiche, sopra quello delle cifre greche, ebraiche ec. ancor esso molto semplice e bello e bene immaginato, si è questo. Nelle cifre 10, 200, 3000 ec. le figure 1, 2, 3
esprimono ed indicano immediatamente la quantità delle diecine [1399]o centinaia o migliaia espresse da dette cifre, e contenute nella quantità che significano. Ma non così le lettere greche i�, cioè 10, e s�, cioè 200, ovvero le ebraiche w e d, che significano le stesse cose. Bensì le cifre greche ,a, ,b, ,g, e le ebraiche ä, äk, äg, cioè 1000, 2000, 3000, significano e danno subito e per se stesse a vedere o l’unità o la quantità delle migliaia. Il greco però in questo punto è più semplice dell’ebreo.
Per la ragione per cui troviamo poca varietà nella fisonomia delle bestie d’una medesima specie ec. come ho detto altrove, accade che in una città forestiera, tutto Letteratura italiana Einaudi 1006
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia al primo momento ci paia appresso a poco uniforme, e troviamo sempre proporzionatamente assai più vario il paese a cui siamo avvezzi (ancorchè uniformissimo) che qualunque altro; almeno ne’ primi giorni. Onde non sappiamo distinguere le contrade ec. Massime se v’ha realmente qualche uniformità in quel nuovo paese, sebben però più vario del nostro; ovvero s’egli è di una forma e di un gusto ec. assai differente dal nostrale, nel qual caso non ci troveremo mai bastante varietà, prima della lunga attenzione ed assuefazione. [1400]Così ci accade nel leggere gli scritti assai forestieri per noi, come degli orientali, di Ossian, ec. o de’ loro imitatori nostrali. Così in cento generi di cose.
(28. Luglio 1821.)
Il pentimento il quale in altri pensieri ho detto che aggrava il male quasi della metà, quando non possiamo dis-simularci che ci è avvenuto per nostra colpa, aggrava pure nella stessa proporzione il dispiacere della perdita o mancanza di un bene, anzi molte volte cagiona del tutto esso solo questo dispiacere, che non proveremmo in verun modo, se mancassimo di quel bene senza nostra colpa, se non avessimo avuta occasione di acquistarlo ec. Il qual sentimento umano che si fa sentire o prevedere, nella stessa occasione, e ci spinge, anzi sforza a profittarne, quasi anche contro nostra voglia, ho cercato di esprimerlo nella Telesilla. Molte volte un’occasione perduta, ancorchè senza nostra colpa, ci addolora sommamente della mancanza di un bene, che per l’addietro nulla ci pesava. Ed allora la nostra consolazione, e l’ordinaria operazione della nostra mente, è cercare di persuaderci che noi non abbiamo veruna colpa nella perdita di quella occasione, e che essa non poteva servirci, e doveva necessariamente esserci inutile, [1401]e quasi non fosse stata ec.
(28. Luglio 1821.)
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Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Mi dicono che io da fanciullino di tre o quattro anni, stava sempre dietro a questa o quella persona perchè mi raccontasse delle favole. E mi ricordo ancor io che in poco maggior età, era innamorato dei racconti, e del maraviglioso che si percepisce coll’udito, o colla lettura (giacchè seppi leggere, ed amai di leggere, assai presto).
Questi, secondo me, sono indizi notabili d’ingegno non ordinario e prematuro. Il bambino quando nasce, non è disposto ad altri piaceri che di succhiare il latte, dormire, e simili. Appoco appoco, mediante la sola assuefazione, si rende capace di altri piaceri sensibili, e finalmente va per gradi avvezzandosi, fino a provar piaceri meno dipendenti dai sensi. Il piacere dei racconti, sebbene questi vertano sopra cose sensibili e materiali, è però tutto intellettuale, o appartenente alla immaginazione, e per nulla corporale nè spettante ai sensi. L’esser divenuto capace di questi piaceri assai di buon’ora, indica manifestamente una felicissima disposizione, pieghevolezza ec. degli organi intellettuali, o mentali, [1402]una gran facoltà e vivezza d’immaginazione, una gran facilità di assuefazione, e pronto sviluppo delle facoltà dell’ingegno ec.
(28. Luglio 1821.)
Alla p.1318. capoverso 1. Si può osservare che la lingua italiana ha coltivata l’antica filosofia, ed abbonda di scrittori (anche classici) che la trattino o exprofesso o incidentemente e per solo uso, più di qualunque altra lingua moderna. Le cagioni son queste. La detta filosofia col progresso delle scienze si spense. Non vale dunque che altre lingue moderne possano avere avuti più filosofi e più scrittori ancora dell’italiana. Bisogna vedere in qual tempo. Ora tutte le lingue moderne sono state applicate alla letteratura ec. assai più tardi dell’italiana. Quindi pochissimo hanno potuto dar opera all’antica filosofia.
Laddove l’italiana dal 300 al 600, da Dante a Galileo, vale a dire dal risorgimento degli studi, alla rinnovazione del-Letteratura italiana Einaudi 1008
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia la filosofia, coltivò sempre la filosofia antica, si arricchì delle sue voci ec. ec. Oltrechè avendo posto gl’italiani in detto spazio di tempo assai più amore ec. in ogni genere di studi che qualunque altra nazione, seguita che la filosofia [1403]antica che dopo quei tempi si spense, fiorisse in Italia più che altrove, dopo il risorgimento degli studi, coincidendo coll’epoca d’oro della letteratura italiana.
Quindi anche i letterati puri n’erano studiosissimi, e ne solevano far grand’uso, mossi fors’anche dall’esempio di Dante, loro comune maestro, e dall’indole di tutti i tempi colti, che hanno sempre dato gran peso alla filosofia ec.
Aggiungete che quelli stessi che nelle altre nazioni trattarono l’antica filosofia, non la trattarono nelle lingue volgari ma in latino, perchè le altre lingue volgari, eccetto l’italiana, non si stimavano e non erano allora capaci delle cose gravi e serie ec. Onde anche la storia fu scritta dal francese de-Thou in latino, nè si ha, cred’io, storia francese, almeno passabile prima di Luigi 14.
(28. Luglio 1821.)
Alla p.1338. Notate in questo proposito, per dimostrare l’influenza della lingua o dei nomi sulle cognizioni, che una sufficiente notizia della lingua e delle proprietà delle voci greche, non solo giova sommamente allo studioso di medicina per ben conoscere l’indole ec. delle malattie ec.
ec. non solo abbrevia d’assai il detto studio ec. e lo facilita ec., ma forse senza detta notizia, molte volte, non
[1404]dico lo studioso, ma lo stesso medico non arriverà ad avere di qualche cosa denominata in medicina con termine greco, un’idea così chiara e precisa, come la concepisce subito il grecista, ancorchè ignorante di medicina, appena ode quel tal nome. Avendo questa bellissima proprietà gran parte delle parole greche applicate alle scienze ec. ch’elle son quasi perfette definizioni delle cose che significano; e questo a causa della precisione che riceve quella lingua dai composti ec. qualità che nello stes-Letteratura italiana Einaudi 1009
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia so grado non si può, generalmente parlando, trovare in verun’altra lingua.
(29. Luglio 1821.)
Le Cinesi si storpiano per farsi il piede piccolo riputando bellezza, quello ch’è contro natura. Che accade il noverare le tante barbare cioè snaturate usanze e opinioni intorno alla bellezza umana? Certo è però che tutti questi barbari, e i cinesi ec. trovano più bella una persona snatura-tasi e rovinatasi in quei tali modi, che una persona bellissima e foggiata secondo natura. Anzi [1405]questa parrà loro anche deforme in quelle tali parti ec. Dunque essi provano il senso del bello, come noi nelle cose contrarie; dunque chi ha ragione de’ due? perchè dunque si chiamano barbari simili gusti?
Non perchè ripugnino assolutamente al bello, ch’essi vi sentono, come noi vi sentiamo il brutto; ma perchè ripugnano al naturale. Il bello è convenienza, il brutto sconvenienza. Ora è conveniente che le cose sieno quali son fatte, ed abbiano le qualità che loro son proprie: e se la tua natura è questa, tu devi esser così e non altrimenti.
Quello dunque che ripugna alla natura, è sconveniente.
Convenienza e sconvenienza, come ognun vede, relativa al modo di essere di ciascuna cosa.
Ma il bello non risulta solo dalla convenienza stabilita dalla natura, anzi può non risultarne (ed ecco i gusti detti cattivi). Risulta perpetuamente e necessariamente ed unicamente dall’opinione dell’uomo prodotta
dall’assuefazione, dall’inclinazione ec. Risulta, dico,
[1406]dalla convenienza in quanto è giudicata tale dall’uomo (o dal vivente); e quindi bello non è, se non ciò che all’uomo par conveniente cioè bello. Così è. Fuori della opinione dell’uomo o del vivente non esiste nè bello, nè brutto, e tolto il vivente, sono tolte affatto dal mondo, non solo le idee, ma le qualità stesse di bello e brutto, (potendo però restare il buono e cattivo in quanto giovi o Letteratura italiana Einaudi 1010
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia noccia agli altri esseri ec.).
Siccome però l’unica cosa durevole e universale, è la natura sì delle cose che di ciascuna cosa, perciò opinione durevole e universale intorno alla convenienza ed al bello, non può essere se non quella che è conforme a detta natura, cioè che giudica conveniente quello che la natura ha fatto e disposto che appartenga agli esseri. (il che ha fatto e disposto non già necessariamente e assolutamente ma per solo arbitrio e relativamente.) Quindi è che i gusti non naturali sia circa la forma degli uomini, sia circa le arti imitatrici della natura, sia in qualunque altro genere che appartenga alla natura in qualunque modo ec. tali gusti, dico, si chiamano cattivi, e lo sono; in [1407]quanto ripugnando alla natura reale (benchè relativa) delle cose, non ponno durare, nè essere universali. Al contrario il buon gusto, è buono in quanto convenendo colla natura qual ella è effettivamente, è il solo che possa durare, e in cui tutti appresso a poco possano convenire.
Quindi accade che presto o tardi si ride di uno stile, di una pittura, di un portamento affettato ec. ec. di una persona sfigurata ec. e queste cose si chiamano barbarie, come si chiamano barbarie tutte quelle cose fuori affatto della sfera del bello, che ripugnano alla natura, cioè al modo in cui le cose realmente sono, e perciò denno essere. E qui vedete che la barbarie consiste sempre nell’allontanarsi dalla natura, e però i popoli civili hanno ordinariamente buon gusto, perchè la civiltà ravvicina gli uomini alla natura ec.
Sono dunque barbari e cattivi i gusti non naturali, in quanto ripugnano alla natura, non già in quanto ripugnano al bello. Nessun gusto ripugna al bello. Bello è ciò che tale si stima: bello era nel seicento lo stile de’ concetti e delle metafore ec. e dava [1408]ai seicentisti quel piacere che dà a noi il buono stile; e il buono stile non glielo dava.
Eccetto che, siccome i dettami, la forza, il senso, l’influenza della natura, ponno ben essere offuscate e Letteratura italiana Einaudi 1011
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia debilitate, ma non estinte in verun secolo, e da verun costume, opinione ec. però è ben verisimile che i seicentisti, sebben trovassero più bello quello stile barbaro che il buono, pur non ne provassero quel piacere che proviamo noi del buono, cioè naturale; se ne saziassero facilmente ec. Questa era conseguenza non del falso bello, che nessun bello è falso, ma della falsata natura delle cose, che anche in que’ tempi era la stessa.
Ma quante ripugnanze colla natura, ci fa passare per belle anche oggidì l’assuefazione ch’è una seconda natura! Quanto differiscono nel gusto anche i secoli, che nel grosso e complessivamente son di buon gusto! Quante diverse opinioni intorno a questa o quella bellezza, o parte di lei, produce la stessa civiltà, che 1. è diversa e varia ne’ vari luoghi e tempi ec. 2. varia bene spesso dalla natura [1409]medesima, e non poco! Le quali cagioni non solo ci producono l’opinione, ma il conseguente senso e gusto del bello, in cose non naturali, in cose anche ripugnanti alla natura. Quanti abbigliamenti non naturali, quante foggiature snaturate della persona stessa, quante mosse, portamenti ec. o diversissimi dalla natura o a lei contrarissimi, ci paiono per l’assuefazione e l’opinione bellissimi, e bruttissimi i loro contrari, e i naturali! Cani colle orecchie tagliate; cavalli a coda tagliata ec. ec. Da mille altri generi di cose potrei cavare esempi di questo.
Non basta. La natura benchè uniforme nel principale ed essenziale, varia in moltissime cose accidentali (ma considerabilissime) secondo le razze, i climi, i tempi, le circostanze. L’Etiope differisce dal Bianco. Il gusto della scrittura orientale differisce dall’Europeo. Quello de’
Bardi da quello de’ greci. Quello de’ settentrionali moderni da quello de’ meridionali; quello degl’italiani ec. da quello de’ francesi. E ciascuno di questi, essendo conforme alla natura rispettiva, è buono per ciascuno dei detti popoli ec. [1410]cattivo per gli altri; e produce in ciascuno di essi quell’effetto, che produrrà in un altro popolo Letteratura italiana Einaudi 1012
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia un gusto (almeno in molte parti) contrario, il quale viceversa parrebbe e pare cattivo a quell’altro popolo, tempo ec. Chi ha ragione? Quale di questi gusti, anzi di queste nature, merita la preferenza? In ogni caso potrà piuttosto darsi la preferenza a questa o quella natura, che a questo o quel gusto, il quale da che è naturale, non solo è buono, ma se fosse conforme a un’altra natura, sarebbe cattivo, e non durevole presso quel popolo; come non ha durato nella poesia ec. inglese, il gusto francese. E il Catone di Addisson si stima e non piace in Inghilterra; e quello che per lungo tempo non piace (e forse non ha mai piaciuto) ad un’intera nazione, non è bello, relativamente a lei; ed in quanto è fatto per lei, è dunque brutto; benchè piaccia ad altre nazioni.
Come dunque altrove abbiamo distinto il bello da ciò che reca diletto alla vista, così bisogna formalmente distinguere il bello dal naturale. [1411]Non già che ciò che diletta la vista non possa esser bello, o che il bello non possa recar diletto alla vista (anzi il bello esteriore e sensibile glielo reca essenzialmente); ma queste due qualità sono diverse, ed altro è il dilettar la vista, altro l’esser bello. Così altro è l’esser naturale, altro l’esser bello; e può una cosa non esser naturale, e pur bella, o viceversa: ed esser naturale e bella per colui, e naturale ma non bella per costui ec.
(29. Luglio 1821.)
La semplicità è quasi sempre bellezza sia nelle arti, sia nello stile, sia nel portamento, negli abiti ec. ec. ec. Il buon gusto ama sempre il semplice. Dunque la semplicità è assolutamente e astrattamente bella e buona? Così si conclude. Ma non è vero. Perchè dunque suol esser bella?
Ho detto che il naturale è conveniente, e quindi per lo più bello, cioè giudicato tale. Or dunque la semplicità suol essere, cioè parer bella, 1. perchè suol esser propria Letteratura italiana Einaudi 1013
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia della natura, la quale, (potendo ben fare altrimenti) si è per lo più diportata semplicemente, coi mezzi semplici ec. ec. (il che massimamente apparisce dalla [1412]mia teoria della natura) almeno quanto all’apparenza delle cose. La quale solo bisogna considerare circa il bello: giacchè la natura forzatamente e contro natura scoperta e svelata, non è più natura, qual ella è; e quindi non è più fonte di bellezza ec. ec.
2. La semplicità è bella, perchè spessissimo non è altro che naturalezza; cioè si chiama semplice una cosa, non perch’ella sia astrattamente e per se medesima semplice, ma solo perchè è naturale, non affettata, non artifiziata, semplice in quanto agli uomini, non a se stessa, e alla natura ec.
Per queste, e non per altre ragioni, la semplicità forma parte essenziale, e carattere del buon gusto, e sebbene gli uomini se ne possono allontanare, certo però vi tornano, cioè tornano alla natura, la quale nelle cose essenziali è immutabile. Perciò le poesie o scritture greche saranno sempre belle, non riguardo al bello in se stesso, ma riguardo alla semplicità e naturalezza loro. ec. E quei tempi e quei paesi e quegli uomini che non le hanno apprezzate, o le hanno disprezzate, si chiamano e furono di cattivo gusto, [1413]non perchè non conoscessero ec. le leggi eterne e necessarie del bello (come si dice), le quali non esistono, ma perchè, a forza di assuefazioni ec. corrotte, cioè non naturali, e quindi non proprie, non convenienti all’uomo, si erano ridotti a non conoscere o misconoscere, e non sentir la natura, che è veramente o può dirsi eterna.
E però ripugnavano al gusto che solo può durare, ed essere universale negli uomini, perchè solo ha il suo fondamento nella realtà delle cose quali sono; e il loro gusto, non potendo nè piacere a tutti, nè per lungo tempo, era falso in quanto a questo, non in quanto a se. Così dico delle pitture, statue, architetture greche. Così della letteratura italiana, la quale intanto è universalmente preferi-Letteratura italiana Einaudi 1014
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ta, malgrado le diversità de’ gusti ec. in quanto, non il bello, ma la natura è universale, e la letteratura italiana è la più conforme alla natura. E perciò, e non riguardo al bello indipendente, si considerano e sono modelli di buon gusto le letterature ec. antiche, siccome più [1414]pros-sime, anche materialmente alla natura, e quindi più semplici. ec. Quell’inaffettato, quel dipingere al vivo le cose o i sentimenti, le passioni ec. e far grandissimo effetto quasi non volendo, è bellezza eterna, perch’è naturale, ed è il solo vero modo d’imitar la natura, giacchè si può male imitar la natura, anche imitandola vivissimamente, e l’imitazione la più esatta può essere anzi è per lo più la meno naturale, e quindi meno imitazione. V. il mio Discorso sui romantici dove si parla di Ovidio. ec.
Le vantate, immutabili, ed universali leggi del bello, sono dunque giuste (complessivamente e quanto all’essenziale); ma non perchè il bello in se stesso sia immutabile e universale e assoluto, ma perchè tale è la natura, che essendo natura, è quindi la principale e più solida fonte delle convenienze in ciò ch’ella contiene, e però del bello. Quindi la teoria delle belle arti (eccetto alcuni particolari) resta salda, quanto ai precetti ec. benchè speculativamente s’inganni nei principii fondamentali. Ma l’astrazione generalmente non nuoce nel nostro caso al concreto: perchè solamente si tratta di chiamar leggi di natura, necessarie quanto a noi, ma libere quanto a lei, quelle che la detta teoria suol chiamare leggi assolutamente necessarie del bello. Quindi restano le regole della rettorica, della poetica ec. restano gl’indizi per distinguere e fuggire i falsi gusti ec. solamente che si chiamino falsi non in se stessi nè in quanto al bello, ma in quanto ripugnanti al modo di essere effettivo delle cose. Ond’è che il principio delle [1415]belle arti ec. ec. si deve riconoscere nella natura, e non già nel bello, quasi indipendente dalla natura, come si è fatto finora.
Veniamo adesso ad alcune considerazioni le quali di-Letteratura italiana Einaudi 1015
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia mostreranno come la semplicità che si tiene per qualità assolutamente bella, vari nel giudizio degli uomini e nella stessa natura. 1. in quanto semplicità, 2. in quanto bellezza.
I tempi, costumi, opinioni, climi, razze ec. ec. diversificano il giudizio e il gusto degli uomini intorno alla semplicità niente meno che intorno al bello e al grazioso ec.
Ho detto che la letteratura italiana, la più semplice delle moderne, è universalmente preferita. 1 Nondimeno è certo che i francesi, come eccessivamente civilizzati, differiscono sommariamente dalle altre nazioni nel giudizio di che cosa sia semplice, ed essendo semplice sia naturale, ed essendo naturale sia bella; quantunque si accordino con tutte le nazioni di buon gusto nel giudicare che il semplice e naturale è bello, cioè conveniente. Ai francesi producono l’effetto di somma semplicità, naïveté, (e
[1416]quindi o grazia o bellezza) mille cose che a noi italiani (se conserviamo il gusto italiano, o l’antico) e anche agli altri, paiono o affettate o certo ricercate, artifiziate, studiate; o finalmente assai meno vicine alla natura di quello che paiono ai francesi, e quindi vi sentiamo assai meno grazia e bellezza, o nessuna, o anche bruttezza; ovvero le riponiamo nel numero delle bellezze d’artifizio ec. Esempi, La Fontaine, modello di semplicità per li francesi, Fénélon di grazia, Bossuet di sublimità ec. Ma i francesi tanto lontani dalla natura sono colpiti da quello che n’è più vicino, benchè riguardo al nostro stato ne sia per anche troppo lontano. Viceversa quello che a noi italiani par semplice, naturale, bello, grazioso, ai francesi pare così eccessivamente semplice, che non par loro naturale, (giudicando, come sempre accade, della natura, dalla condizione in cui essi si trovano) nè vi sentono grazia o bellezza, ma viltà, bassezza e deformità. Ed è cosa ordinarissima e frequentissima che la grazia, la semplicità, la naturalezza [1417]francese, sia affettazione, artifizio, ricercatezza per noi, e la semplicità ec. italiana, sia rozzezza per Letteratura italiana Einaudi 1016
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia li francesi, intollerabile e ridicola. E pur tutti conveniamo nel giudicar bello e grazioso il semplice e naturale, come tutti ci accordiamo nel giudicar bello il conveniente, senza accordarci nel giudicare della convenienza.
Le altre nazioni non differiscono meno tra loro, e per gl’inglesi non sarà bastantemente naturale nè semplice quello che lo è per gl’italiani, e viceversa sarà sconcio e rozzo per gl’italiani quello ch’è naturale, semplice, naïf per gl’inglesi ec. ec.
I tempi differiscono assai di più. Lasciamo stare la letteratura classica greca paragonata colla classica latina, che pur si formò su di quella. I trecentisti ci piacciono assai anche oggi, ma oggi chi scrivesse precisamente come loro, in questa lingua, ch’è pur la stessa, sarebbe giudicato barbaro, e quella semplicità ec. ec. parrebbe eccessiva, cioè sconveniente, inverisimile, e non più naturale oggidì, quantunque [1418]la natura in quanto all’essenziale non si muti. I francesi gustano i latini e i greci, ma si guarde-rebbero bene dall’imitarne molte cose, che in quelli non li disgustano, anzi paiono loro bellezze, perchè le giudicano convenienze relativamente alle circostanze della loro natura, de’ tempi ec. Del resto non mancano francesi che anche quanto al bello, antepongano la loro letteratura alle antiche, segno di falso gusto, cioè allontanato dalla natura, più gradi, che non ne sono allontanati gli altri gusti. I francesi di buon gusto cioè più naturale, gusteranno anche gl’italiani classici, sebbene tanto opposti alla loro maniera. Li gusteranno però meno di quello che facciano (ed effettivamente lo fanno) le altre nazioni, e saranno offesi di molte che a noi e agli altri paiono naturalezze.
Non dico niente delle letterature e gusti orientali, o selvaggi ec. ec.
Ho discorso delle sole letterature. Altrettanto va detto delle belle arti, modi di conversare ec. ec. e di tutto ciò dov’entra il semplice e il naturale.
Ho notato altrove certe naïvetés francesi che mi paiono Letteratura italiana Einaudi 1017
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia affettatissime, non relativamente, [1419]cioè perch’elle non sieno naïvetés per noi, ma (dirò così) assolutamente, perch’essendo naïvetés anche per noi, e vere naïvetés, risaltano e contrastano sopramodo colla maniera e lo stile ec. di quella nazione, e producono il senso della sconvenienza, almeno in noi che in questo punto, e nel giudizio della naturalezza (che è tutto ciò che si chiama finezza di gusto, e che si venera e si consulta negli antichi maestri ec.), siamo più delicati. Ed ecco come la stessa assoluta semplicità o naturalezza, che si considera per assolutamente bella, possa molte volte esser brutta, perchè sconveniente, secondo le circostanze, le assuefazioni, le opinioni ec. Il che si avvera in milioni di casi, come ho dimostrato. Insomma tante sono le naturalezze quante le assuefazioni, e quindi lo stesso buon gusto si divide in tanti gusti, quante sono le assuefazioni ec. de’ tempi e luoghi ec. e quanto ai particolari non c’è regola generale intorno al bello di letteratura, arti ec.
Prima di lasciare il discorso della semplicità, voglio notare che siccome il piacer che si riceve dal bello, dal grazioso ec. è bene spesso [1420]in ragione dello straordinario dentro certi limiti, così noi proviamo della semplicità de’ greci de’ trecentisti ec. maggior piacere assai che i loro contemporanei, e quindi l’ammiriamo di più, e la troviamo assai spesso più bella ec. Così pure accade secondo le diverse nazioni. Vale a dire che la differenza delle nazioni e de’ tempi, ossia delle assuefazioni ec. come può diminuire il pregio della semplicità e naturalezza ec.
secondo che ho dato a vedere, così lo può anche aumentare, e variare intorno ad essa il giudizio e il senso degli uomini anche in questa parte. V. p.1424. Tanto è vero che tutte le sensazioni umane sono modificate e dipendono quasi esclusivamente dall’assuefazione e dalle circostanze ec. V. ed applica alla semplicità quanto ho detto della grazia. p.1322-28.
Letteratura italiana Einaudi 1018
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia (30. Luglio 1821.)
Siccome gl’inglesi hanno una patria, però sono accusati come i francesi di non trovar bello nè buono se non ciò ch’è inglese, e di un gusto esclusivo per le cose loro.
(30. Luglio 1821.)
La forza anche passeggera del corpo, oltre gli effetti altrove notati, rende anche più coraggiosi del solito, e meno suscettibili al timore, anche [1421]de’ pericoli straordinari ec. Quindi i giovani sono più coraggiosi de’ vecchi, e disprezzatori della vita, benchè abbiano tanto più da perdere ec. contro quella osservazione ordinarissima, che principal fonte di coraggio suol essere l’aver poco a perdere ec.
(31. Luglio 1821.)
Alla p.512. marg. Ancor noi oltre ove ch’è ubi, abbiamo pur dove che vale il medesimo, ma è quasi de ubi, cioè unde. Siccome gli spagnuoli per ubi dicono donde (e adonde) che è quasi de unde. E noi pure oltre onde cioè unde, abbiamo donde, che per altro vale, non ubi, ma unde.
(31. Luglio 1821.)
L’attendere e il riflettere non è altro che il fissare la mente o il pensiero, il fermarlo ec. Abito che produce la scienza, l’invenzione, l’uomo riflessivo ec. Abito puro, come facilmente può considerare ciascun uomo riflessivo in se stesso, e notare ch’egli esercita quest’abito anche senz’avvedersene, e nelle cose che meno gl’importano, e giornalmente. Abito però poco comune, e però poco frequenti sono i pensatori, e i riflessivi ec.
(31. Luglio 1821.). V. p.1434. princip.
[1422]Il sistema di odio nazionale si vede anche oggidì, sì nelle nazioni che meglio conservano la nazionalità (come Letteratura italiana Einaudi 1019
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tra i francesi e gl’inglesi ec.), sì massimamente ne’ selvaggi, i quali, come gli antichissimi, combattono per la vita e le sostanze, non danno quartiere ai vinti, o menano schiave le tribù intiere, sono in perpetua nemicizia fra loro, abbruciano, scorticano, fanno morire fra i più terribili tormenti i nemici della loro tribù ec. ne mangiano le viscere ec. ec. ec.
(31. Luglio 1821.)
Figuriamoci la parola commercio in quel senso preciso, e al tempo stesso vastissimo, nel quale tutto il mondo l’adopra oggidì, nel quale tanto se ne scrive, nel quale tutti i filosofi considerano e trattano questo soggetto. La Crusca non porta esempio di questa parola in questo senso, e veramente ella in tal senso non è classica. Noi abbiamo la voce classica, mercatura che secondo l’etimologia ec. vale a presso a poco lo stesso. Or dunque sarebb’egli ben detto, le forze, gli effetti, la scienza della mercatura, in vece del commercio? Produrremmo noi quell’idea precisa ec. che produce questa seconda voce? l’idea di quella cosa che (si può dire) nel [1423]passato secolo, si è ridotta a scienza, e fa tanta parte delle considerazioni del filosofo, e ha tanta influenza sullo stato delle nazioni, e del genere umano? Signor no: e s’io dirò, Principalissima sorgente di civiltà si è la mercatura, in cambio di dire il commercio, non solamente non sarò bene inteso nè dagli stranieri nè dagl’italiani, ma sarò deriso dagli uni e dagli altri, e massime da questi. E se le sue Lezioni di commercio il nostro Genovesi le avesse intitolate Lezioni di mercatura, avremmo noi medesimi potuto ben rilevare dal titolo il soggetto dell’opera? Così dico del Saggio sopra il Commercio dell’Algarotti. Ecco quanto importi l’attenersi precisamente alle parole ricevute, e dalla convenzione precisamente applicate, massime in fatto di scienze ec. quando anche s’abbiano parole più eleganti, più classiche, e che in altri casi si possano benissimo adoperare in luogo Letteratura italiana Einaudi 1020
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia delle più comuni, come accade di mercatura, che si può bene adoperare in molti casi, come si adopera traffico ec.
ma non dove il soggetto domanda quella precisione di significato ch’è propria della voce Europea, commercio.
(31. Luglio 1821.) [1424]. V. p.1427.
Ogni scienza. e ogni arte ha li suoi termini, e vocaboli, dice il Davanzati nella Notizia de’ Cambj, (Bassano 1782.
p.92.) il quale però chiama Mercatura quello che noi Commercio. Molto più saranno importanti e da rispettarsi quei vocaboli che servono di nome alla scienza o all’arte, come qui.
(31. Luglio 1821.)
Anche le scienze fisiche vanno innanzi a forza di decomporre la natura, ec. e ordinariamente una nuova forza scoperta nella natura, non è altro che una parte ignota di una forza di un agente già noto, o una forza che si credeva tutt’uno con questo, e non era ec.
(31. Luglio 1821.)
Alla p.1420. marg. Del resto la durevolezza del gusto che si trova in questa semplicità p.e. di Omero ec. l’universalità di questo gusto (almeno fra le nazioni di un medesimo genere ec.), il risorgere ch’egli fa negli uomini, ancorchè spento talora dalle circostanze; il perpetuarsi; il crescere in luogo di scemare, siccome ho detto; tutto ciò non è [1425]proprio nè possibile se non a quella vera semplicità, o a quelle qualità d’ogni genere (sia in letteratura o altrove) che sono realmente conformi alla natura immutabile, e universale; almeno alla natura qual ella è in quelle tali nazioni. Da questo dunque e non da altro può derivare ciò che dice Voltaire: pourquoi des scènes entières du PASTOR FIDO sont-elles sçues par coeur aujourd’hui à Stocolm et à Pétersbourg? et pourquoi aucune piece de Shakespeare n’a-t-elle pu passer la mer? C’est que le bon Letteratura italiana Einaudi 1021
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia est recherché de toutes les nations. Un falso pregio, cioè non naturale, in fatto di bellezza, non può dunque nè lungamente nè comunemente essere stimato, e la mia teoria che distrugge il bello assoluto, lascia salda questa massima, e quella che il giudizio conforme delle nazioni e de’ secoli circa il bello d’ogni genere, non erra mai; e lascia interi e inviolati i diritti che i grandi scrittori, poeti, artisti, hanno alla immortalità, ed alla universalità della fama.
(31. Luglio 1821.)
[1426]Il Cristianesimo è un misto di favorevole e di contrario alla civiltà, di civiltà e di barbarie; effetto dell’incivilimento, e nemico de’ suoi progressi 1. come lo sono tutte quelle opinioni ec. ec. che fissano lo spirito umano, e gl’impediscono di progredire, conforme hanno sempre fatto i sistemi ec. ancorchè derivati da somma dottrina, e coltura ec. 2. com’è naturale ad un ritrovato, a un frutto della mezza anzi corrotta civiltà. Il Cristianesimo nella sua perfezione (e la natura, la proprietà, gli effetti delle cose, vanno considerati nella perfezione di esse, e non in uno stato imperfetto, cioè quali non debbono essere), è incompatibile non solo coi progressi della civiltà, ma colla sussistenza del mondo e della vita umana.
Com’è possibile che duri quello che tien se stesso per un nulla ec. ec. e che anela al suo proprio discioglimento?
L’uomo non doveva intendere dalla ragione che le cose non valessero a nulla, e fossero infelicissime. Egli era pur fatto per esse. Così dunque non doveva impararlo dalla Religione. L’averlo imparato distruggerebbe la vita, se l’uomo seguisse fedelmente e precisamente i dettami e lo spirito della Religione. [1427]Consideriamo il Cristianesimo nel suo primo fervore, quando tutti anelavano alla verginità, quando 3 quarti dell’anno si passavano in orazione, ne’ tempj, in vigilie, in macerazioni eccessive, ec. e domandiamo: se il Cristianesimo non si fosse corrotto o Letteratura italiana Einaudi 1022
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia illanguidito, quanto avrebbe fisicamente potuto durare?
Ma quella era pur la sua perfezione, e il suo puro e primitivo stato. Il mondo non può sussistere s’egli non ha se stesso per fine. Tutte le cose sono così disposte, che in quanto a se, non mirino ad altro che a se stesse. L’uomo solamente dovrebbe mirare non solo a tutt’altri che a se in questo mondo, ma ad un tutt’altro mondo, e considerarsi come fuori di questo. Come dunque potrebbe durare la specie e la vita umana, contro gl’insegnamenti e l’essenza della natura, e l’ordine generale e particolare di tutti gli altri esseri?
(31. Luglio 1821.)
Alla p.1424. Molte volte non basta che una nazione sia stata la prima inventrice di una disciplina, datole il nome, e una certa nomenclatura. Bisogna vedere dov’ella ha ricevuto il suo principale [1428]incremento e formazione.
E se ciò è stato presso un altro popolo, e se ciò ha cangiato il suo primo nome e la sua prima nomenclatura, allora quello stesso popolo che inventò quella disciplina, e la comunicò agli stranieri, ricevendola scambievolmente dagli stranieri come nuova, non dovrà adoprar mica que’
suoi primi nomi, ch’egli non ne ha più il dritto, non sarebbe inteso neppur da’ suoi, e guasterebbe ogni cosa; ma gli sarà forza adottare que’ nuovi termini, e il nuovo nome della stessa disciplina. Così (v. p.1422-1424.) quando anche l’Italia fosse stata la prima a ridurre a scienza il commercio sotto nome di mercatura, s’ella poteva dargli questo nome al tempo del Davanzati (nel qual tempo, oltracciò l’Europa non era in tale stato che potesse avere vocaboli universali, o ne abbisognasse ec. nè la precisione della convenzione era sì stabilita ec.), non può dar-glielo oggi che questa scienza per opera principalmente degli stranieri, mutando faccia da quello ch’era nel 500, ha preso un altro nome universalmente adottato dalle colte nazioni. E [1429]quantunque in etimologia possa egli Letteratura italiana Einaudi 1023
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia chiamarsi sinonimo dell’italiano, non è sinonimo quanto all’uso ed all’idea che produce in forza della convenzione, sola arbitra dei significati de’ vocaboli, che per se nulla mai significano, e del più e del meno di detti significati ec.
(1. Agosto 1821.)
L’antico è un principalissimo ingrediente delle sublimi sensazioni, siano materiali, come una prospettiva, una veduta romantica ec. ec. o solamente spirituali ed interiori. Perchè ciò? per la tendenza dell’uomo all’infinito.
L’antico non è eterno, e quindi non è infinito, ma il concepire che fa l’anima uno spazio di molti secoli, produce una sensazione indefinita, l’idea di un tempo indeterminato, dove l’anima si perde, e sebben sa che vi sono confini, non li discerne, e non sa quali sieno. Non così nelle cose moderne, perch’ella non vi si può perdere, e vede chiaramente tutta la stesa del tempo, e giunge subito al-l’epoca, al termine ec. Anzi è notabile che l’anima in una delle [1430]dette estasi, vedendo p.e. una torre moderna, ma che non sappia quando fabbricata, e un’altra antica della quale sappia l’epoca precisa, tuttavia è molto più commossa da questa che da quella. Perchè l’indefinito di quella è troppo piccolo, e lo spazio, benchè i confini non si discernano, è tanto angusto, che l’anima arriva a comprenderlo tutto. Ma nell’altro caso, sebbene i confini si vedano, e quanto ad essi non vi sia indefinito, v’è però in questo, che lo spazio è così ampio che l’anima non l’abbraccia, e vi si perde; e sebbene distingue gli estremi, non distingue però se non se confusamente lo spazio che corre tra loro. Come allorchè vediamo una vasta campagna, di cui pur da tutte le parti si scuopra l’orizzonte.
(1. Agosto 1821.)
Circa le sensazioni che piacciono pel solo indefinito puoi vedere il mio idillio sull’ infinito, e richiamar l’idea di una Letteratura italiana Einaudi 1024
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia campagna arditamente declive in guisa che la vista in certa lontananza non arrivi alla valle; e quella di un filare d’alberi, la cui fine si perda di vista, o [1431]per la lunghezza del filare, o perch’esso pure sia posto in declivio ec. ec. ec. Una fabbrica una torre ec. veduta in modo che ella paia innalzarsi sola sopra l’orizzonte, e questo non si veda, produce un contrasto efficacissimo e sublimissimo tra il finito e l’indefinito ec. ec. ec.
(1. Agosto 1821.)
Non c’è miglior modo di far colpo e fortuna con una giovane superba e sprezzante, che disprezzandola. Or chi crederebbe che l’amor proprio (giacchè dal solo amor proprio deriva l’amore altrui) potesse produrre questo effetto, che quando egli è punto, si provasse inclinazione per chi lo punge? Chi non crederebbe al contrario che una donna altera e innamorata di se stessa, dovesse vin-cersi, interessarsi, allettarsi cogli ossequi, cogli omaggi, ec.? Eppur così è. Non solo l’ossequio e l’omaggio ti farà sempre più disprezzar da costei, ma se disprezzandola tu sei pervenuto a fissarla, e a produrle una inclinazione per te, ed allora o per amore, o per abbandono, o per credere di aver fatto abbastanza, ec. tu cerchi di cattivartela coi mezzi più naturali, e le dai qualche piccolo segno di sommissione, [1432]di amore che si dimostri per vero ec.
tu hai tutto perduto, ed ella immediatamente si disgusta di te, e ti disprezza. Conviene che tu segua imperturbabi-le a mostrarle noncuranza fino alla fine. Ed è questo un effetto semplicissimo di quel centiforme amor proprio, che produce gli effetti i più svariati e contrari. Tanto che, mentre quasi tutte le donne si cattivano col disprezzo, (sebbene alcune volte, e in certe circostanze, se ne offendono) quelle però massimamente dove l’amor proprio è più vivo e tirannico, cioè le più superbe ed egoiste ec. V.
in questo proposito les Mémoires secrets de Duclos à Lausanne 1791. t.1. p.95. e p.271-273. V. in questo pro-Letteratura italiana Einaudi 1025
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia posito altro pensiero dove ho notato questo effetto, discorrendo della grazia. Certo è però che questa modificazione dell’amor proprio, non è delle più naturali, benchè non molto lontana dalla natura; e ricerca un carattere alquanto alterato, ma per altro comunissimo.
(1 Agos. 1821.)
Si ha una perfetta immagine degli organi dell’ingegno, e de’ loro progressi ec. negli organi esteriori dell’uomo, e nelle abilità di cui sono capaci, e nella maniera ed ordine con cui le acquistano. P.e. gli organi della voce rispetto al canto. Non si acquistano [1433]tali abilità che coll’esercizio e assuefazione ma questi vi ha gli organi più disposti, quegli meno; questi ha bisogno di meno esercizio, quegli di più; questi può riuscire perfettamente, quegli non mai; questi è ben disposto alla tale abilità, quegli alla tal altra: tutti da fanciulli hanno gli organi più suscettibili di contrarre qualsivoglia abilità possibile all’uomo, perchè gli organi allora sono meglio arrendevoli: e non c’è quasi abilità possibile di cui qualunque fanciullo non sia capace, con più o meno esercizio; e capace anche di riuscirvi in tutta la perfezione possibile. Ma passata la fanciullezza le disposizioni degli organi variano di più, secondo la maggiore o minor facoltà generale che l’individuo ha contratto, mediante maggiori o minori esercizi, che producono essi stessi una maggiore o minor capacità di contrarre abitudini ec. e d’imparare. Tali nè più nè meno sono gli organi del cervello, e le differenze loro sono della stessissima natura, e vengono dalle stesse cagioni.
(1. Agos. 1821.)
[1434]Alla p.1421. fine. Quest’abito è la principal fonte della miseria sì del mondo, per le verità ch’esso scuopre, sì dell’individuo. Ma la natura, la quale ha dato a tutti più o meno la possibilità di contrarlo, mediante uno sviluppo e modificazione non naturale, delle facoltà e quali-Letteratura italiana Einaudi 1026
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tà naturali, ha pur dato a tutti i mezzi più che sufficienti per non contrarlo: mezzi però che oggi son veramente inutili e insufficienti per molti.
(1. Agos. 1821.)
In uno stesso tempo e nazione, quegli prova un vivo senso di eleganza, in tale o tal parola, o metafora, o frase, o stile, perocchè non v’è assuefatto; questi nessuno, per la contraria ragione. Una stessa persona, oggi prova gran gusto di eleganza in uno scrittore, che alquanto dopo, quand’egli s’è avvezzato ad altri scritti più eleganti, non gli pare elegante per nulla, anzi forse inelegante. Così è accaduto a me, circa l’eleganza degli scrittori italiani. Così coll’assuefazione (e non altro) si forma il gusto, il quale come ci tende capaci di molti piaceri, che per l’addietro malgrado la presenza degli [1435]stessi oggetti ec. non provavamo, così anche ci spoglia di molti altri che provavamo, e generalmente, o almeno bene spesso, e sotto molti aspetti, ci rende più difficili al piacere.
(1. Agosto 1821.)
Il piacere che si prova della purità della lingua in uno scrittore, è un piacere fattizio, che non nasce se non dopo le regole, e quando è più difficile il conservare detta purità, ed essa meno spontanea e naturale. I trecentisti ne se doutoient point di questo piacere ne’ loro scrittori, che sono il nostro modello a quello riguardo. E quegli scrittori non pensavano nè di aver questo pregio, nè che questo fosse un pregio ec. come si può vedere dalle molte parole provenzali, Lombarde, genovesi, arabe, greche storpiate, latine ec. che adoperavano in mezzo alle più pure italiane. Gl’inglesi la cui lingua non è stata mai soggettata a più che tanta regola, ed ha mancato e manca di un Vocabolario autorizzato, forse non sanno che cosa sia purità di lingua inglese. Questo piacere deriva dal confronto, e finchè non vi sono [1436]scrittori o parlatori Letteratura italiana Einaudi 1027
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia impuri (riconosciuti per tali, e disgustosi), non si gusta la purità della lingua, anzi neppur si nomina nè si prescrive, nè si cerca, benchè senza cercarla, si ottenga. Ho già detto altrove che i toscani sono meno suscettibili di noi alla purità della lingua toscana, e infatti se ne intendono assai meno di noi, oggi che vi sono regole, e che la purità dipende da esse, e fin da quando esse nacquero; perch’essi non le sanno, non le curano, e fin d’allora, generalmente parlando, non le curarono. (Varchi, e Speroni. V. Monti Proposta ec. alla v. Becco, nel Dialogo del Capro.) Tutto ciò accade presso a poco anche in ordine alla purità dello stile ec. ec.
(2. Agos. 1821.)
Mirabile disposizione della natura! Il giovane non crede alle storie, benchè sappia che son vere, cioè non crede che debbano avverarsi ne’ particolari della sua vita, degli uomini ch’egli conosce, e tratta, o conoscerà e tratterà, e spera di trovare il mondo assai diverso, almeno in quanto a se stesso, e per modo di eccezione. E crede pienamente a’ poemi e romanzi, benchè sappia che sono falsi, cioè se ne lascia persuadere che il mondo sia fatto e vada in quel
[1437]modo, e crede di trovarlo così. Di maniera che le storie che dovrebbero fare per lui le veci dell’esperienza, e così pure gl’insegnamenti filosofici ec. gli restano inutili, non già per capriccio, nè ostinazione, nè piccolezza d’ingegno, ma per opera universale e invincibile della natura. E solo quando egli è dentro a questo mondo sì cambiato dalla condizione naturale, l’esperienza lo costringe a credere quello che la natura gli nascondeva, perchè neppur nel fatto era conforme alle di lei disposizioni. Segno che il mondo è tutto il rovescio di quello che dovrebbe, poichè il giovane che non ha altra regola di giudizio, se non la natura, e quindi è giudice competentissimo, giudica sempre ed inevitabilmente vero il falso, e falso il vero.
Letteratura italiana Einaudi 1028
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia (2. Agosto 1821.)
Intorno alle supposte proporzioni assolute, o in quanto stabilite dalla natura, o in quanto anteriori alla stessa natura, e necessarie, merita di esser notato quello che affermano gli ottici, che i diversi individui veggono [1438]gli stessi oggetti diversamente grandi, secondo le differenze degli organi visivi; e così, credo, anche una medesima persona secondo le differenze dell’età, e le alterazioni de’
suoi propri organi ec. ancorchè non sensibili, perchè fatte appoco appoco. Similmente forse si può dire di tutti gli altri sensi fisici differentissimi ne’ diversi individui; e senza fallo e molto più de’ sensi morali d’ogni genere, benchè questi sieno più soggetti ad uniformarsi mediante lo sviluppo e le modificazioni che ricevono dalla società.
(2. Agosto 1821.)
Bellissima istituzione è quella del Cristianesimo di con-sacrare ciascun giorno alla memoria di qualcuno de’ suoi Eroi, o di qualcuno de’ suoi fasti, celebrando con solen-nità, o universalmente quei giorni che appartengono alla memoria de’ fasti più importanti alla Chiesa universale, o particolarmente quei giorni che spettano ad un Eroe la cui memoria interessa questo o quel luogo in particolare ec. ec. Dal che risultano le uniche feste popolari che questo tempo conservi. E l’influenza delle feste popolari sulle nazioni è somma, degnissima di calcolo per li politici, utilissima quando risveglia gli animi alla gloria, colla rimembranza, e la pubblica e solenne celebrazione e quasi proposizione de’ grandi esempi ec.
Non è però da credere che [1439]questa sì degna istituzione debba la sua origine al Cristianesimo. Nè l’epoca del Cristianesimo, epoca nella quale il mondo incominciava, si può dire, per la prima volta a sentire la mancanza della vita, la noia, il nulla, e la morte, era capace di Letteratura italiana Einaudi 1029
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia produrre una istituzione tutta di vita, una istituzione energica, fonte di grandezza, sprone all’attività ec. Bensì è doloroso che di questa istituzione anteriore assai al Cristianesimo, che la imitò e la ricevè dal mondo antico, non resti oggi altro che le feste religiose, essendo del tutto abolite e perdute le nazionali.
Giacchè le feste che si chiamano onomastiche de’ principi ec. o quelle d’incoronazioni, o anniversarie di dette incoronazioni ec. ec. non sono nè popolari, nè nazionali, nè utili a nulla. Non sono materialmente popolari, perchè per lo più non si stendono fuor delle corti, o almeno fuor delle capitali, si limitano a cerimonie di etichetta, non hanno niente di vivo, di entusiastico ec. Non sono spiritualmente popolari, cioè nazionali, perchè la festa di un principe vivo, non è festa della nazione, la quale o
[1440]non si cura di lui, o probabilmente l’odia o l’invidia, o lo biasima in cento mila cose; o per lo meno è del tutto indifferente sul conto suo, e quasi estranea al suo principe, o a’ suoi subalterni. E quando anche il principe fosse (che oramai non è possibile) il padre e il benefattore del suo popolo, quando anche fosse amato dalla nazione com’era Enrico 4 fra’ principi sovrani, o Sully fra’ ministri ec.; la festa di un uomo vivo e potente, non essendo nè potendo mai essere scema d’invidia, non è festa nazionale, perchè questa richiede che tutta la nazione sia pienamente d’accordo sul soggetto della festa, e le passioni individuali siano tutte morte intorno ad esso, e il giudizio sia puro, libero, e conforme spontaneamente in tutta la nazione. E quando pur ciò si avverasse (ch’è impossibile) intorno ad un principe vivente, non è mai festa nazionale quella ch’è, se non altro, sospetta di adulazione a quegli stessi che la celebrano. Questo solo sospetto, inseparabile dagli onori resi a un potente vivo, spegne qualunque sentimento magnanimo, è incompatibile coll’entusiasmo, e con [1441]quel senso di libertà che forma la più necessaria parte di una festa nazionale, la quale deve racchiu-Letteratura italiana Einaudi 1030
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia dere l’idea di premio conceduto alla virtù, al merito, ai beneficj, ma conceduto spontaneamente e gratuitamen-te, cioè per pura gratitudine, ammirazione, amore, senza sperar nulla da colui al quale si concede. Non sono utili, sì per le dette ragioni, le quali affogano, anzi vietano affatto l’entusiasmo, e tutta la vita che da tali istituzioni si raccoglie; sì perchè l’esempio de’ regnanti o de’ potenti, non è imitabile, e quindi inutile alla moltitudine. E la disuguaglianza e la distanza delle condizioni fra l’onorato, e chi l’onora, toglie ancora quell’affezione, quell’inclinazione, quella specie di amicizia, che nelle antiche feste nazionali legava il popolo co’ suoi passati Eroi, ed era capace di eccitare generosamente gli animi.
Le feste del popolo Ebreo furono tutte religiose. Ma presso tutti i popoli antichi, massimamente però presso gli Ebrei, la religione era strettissimamente legata colla storia [1442]della nazione. Le opinioni che gli Ebrei avevano circa la loro origine ec. il loro governo sempre partecipante di teocrazia, i loro costumi tanto e continuamente influiti dalla religione (come si vede anche oggi) ec. confondevano forse più che presso qualunque altro popolo (a causa forse della loro maggiore antichità) le origini e i progressi della nazione colle origini e i progressi del culto, le glorie della religione, con quelle della nazione ec. ec. Tutte le feste del Pentateuco richiamano e consacrano e perpetuano la memoria di qualche grande avvenimento degli antenati, di qualche antico benefizio di Dio verso la nazione, ec. e son tutte feste nazionali e patriotiche, appartenendo o ai fatti de’ loro Eroi considerati non meno come nazionali che come santi, o alle opere di Dio, considerato da loro quasi capo della nazione, e quasi principe de’ loro Eroi, guida, condottiere, maestro de’ loro antenati, ed origine immediata della loro stessa razza.
Non così le nostre feste religiose [1443]che sono ben popolari, ma nulla hanno di nazionale, non avendo nulla Letteratura italiana Einaudi 1031
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia di comune, e di strettamente legato i fasti delle moderne nazioni, e le opere de’ nostri antichi o moderni Eroi nazionali, coi fasti della religione, e colle opere degli Eroi Cristiani: i quali oltracciò non sono sempre nostri compatrioti, com’erano tutti quelli di cui gli Ebrei, o le altre nazioni celebravano la memoria. Anzi non appartengono bene spesso in verun modo alla nostra patria. E lascio poi la spiritualità del culto che si rende nelle feste cristiane, spiritualità ben diversa da quella degli Ebrei ed altri antichi, e del tutto incompatibile coll’entusiasmo, colle grandi illusioni, coll’infervoramento della vita, coll’attività ec.
La festa della dedicazione del tempio di Salomone, aveva un soggetto più materiale delle nostre, ma però più delle altre feste Ebraiche diviso dal nazionale: effetto de’ tempi, e del sistema monarchico sotto il quale fu istituita.
Teneva però ancora non poco di nazionalità, stante la gran parte ch’ebbe la nazione [1444]a quella fabbrica, la so-lennità e nazionalità di quella dedicazione fatta da Salomone, il visitar che la nazione faceva ogni anno quel tempio, l’attaccamento generale alla religione, e l’influenza sua sulla vita e il regime del popolo; i monumenti dell’antica storia ec. che quel tempio conteneva, e l’esser tutta la Religione Giudaica quasi rinchiusa e immedesimata con quel tempio; l’affezione che il popolo gli portava, come poi si vide nella riedificazione fattane da Esdra e Neemia, quando i vecchi piangevano per la ricordanza del tempio antico ec. ec. Questo nuovo tempio era forse ancor più nazionale, per la circostanza d’essere stato fabbricato dalle stesse mani della nazione, e sotto la tutela delle armi nazionali contro i Samaritani ec. Così che la festa del tempio sì antico che nuovo, era, si può dir, la memoria di un’impresa nazionale.
Delle feste religiose presso gli altri popoli antichi, come fossero legate col nazionale, p.e. quella di Minerva in Atene ec. si può facilmente vedere negli storici e negli eruditi ec. Giacchè anche le altre nazioni si attribuivano Letteratura italiana Einaudi 1032
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia origini e fasti mitologici ec. ec. ec.
[1445]Delle feste nazionali e patriotiche de’ greci e de’
romani, e della loro somma influenza sull’eroismo della nazione, v. Thomas Essai sur les Éloges, ch.6. p.65-66.
ch.12. p.149. ch.10. p.117. il Meursio e gli altri che hanno scritto De Festis Graecorum o Romanorum.
I trionfi presso i Romani erano vere feste nazionali, benchè non anniversarie. Nè faceva alcun danno che forse la principal parte dell’onore di quella festa fosse renduto a un uomo vivo. 1. Non era egli che se lo decretava, nè una truppa di servi e di adulatori che glielo concedeva, ma il senato ec. uguale a lui ec. 2. Per quanto egli fosse potente, non era mai più potente del popolo, che celebrava la festa; anzi era in istato di tornare un giorno o l’altro come qualunque privato. 3. L’esempio suo non era inimitabile ai romani, a’ quali tutti era aperta la carriera degli offici pubblici. 4. Bench’egli facesse la principal figura, la festa era però nazionale, perchè concerneva le vittorie riportate dalla stessa nazione sopra i nemici suoi propri, e non quelli del Generale. 5 Il Generale era un
[1446]vero rappresentante della nazione, perch’eletto da essa ec. e non rappresentante del principe, o rappresentante, come dicono, di Dio. 6. Questo era in somma un premio che la nazione libera e padrona concedeva spontaneamente a un suo suddito, e quindi l’effetto di dette feste, era quello dei grandi premi che eccitano alla emulazione, ed animano col desiderio e la speranza di conseguirli. Ma le feste di un principe vivo, quando anche fossero decretate dalla nazione, sarebbero decretate dalla nazione suddita al suo padrone, il che avvilisce l’idea del premio, massime sapendo bene che il principe poco si cura di questa ricompensa de’ suoi servi; nè può destar l’emulazione, e animare colla speranza, sapendosi che molto maggiori meriti non potrebbero conseguir quell’onore ec. che si concede al principe solo, o a qualcuno da lui scelto, e sua creatura, e il cui merito per esser così Letteratura italiana Einaudi 1033
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia onorato, dipende dalla sua volontà ec. ec.
Simili considerazioni si possono fare intorno ai giuochi atletici dei greci, e agli onori che si rendevano ai vincitori, ancorchè [1447]viventi ec.
Di tali feste nazionali o patriotiche, il mondo civile non ne vede più veruna, di nessunissimo genere, se non talvolta qualche Te Deum ed altre cerimonie per una vittoria del principe: sorta di feste che essendo parimente del principe, e poco stendendosi al popolo ec. non meritano di chiamarsi nazionali, quando anche quella vittoria sia veramente utile alla nazione; e non producono quindi mai veruna emulazione, e verun buono effetto, fuorchè una vana allegrezza, giacchè il popolo non vi prende parte (quando pur ve la prenda) se non come invitato; cioè la stessa parte ch’egli ebbe nell’impresa, e che potrà avere nel frutto di questa, se al principe piacerà.
Restano dunque per sole feste popolari, le feste religiose, affatto divise fra noi dal nazionale, ed oltracciò poco oramai popolari, perchè, eccetto alcune, le più si restringono ai soli tempj, massime nelle grandi città, dove i pas-satempi sono quotidiani e sufficienti per se soli ad occupare.
Pur questa delle feste religiose [1448]è una bellissima istituzione, come ho detto, ma derivata da’ costumi antichi, e da usanze, come ho dimostrato, ben anteriori al Cristianesimo, fra le quali bisogna notare, come più strettamente analoga alle nostre feste, l’usanza de’ settari de’
diversi filosofi di celebrare ogni anno con conviti ec. la festa genetliaca dell’xxx della loro setta. V. Porfirio, Vita Plotini, c.15. e quivi le mie note. Si sa che i Cristiani antichi nelle feste de’ loro eroi ec. si univano pure a banchet-tare. ec. Del resto, le feste genetliache sì de’ privati ancor viventi, sì, credo, degl’imperatori ec. o morti o vivi ec.
erano assai comuni presso gli antichi, e lo sono anche oggi, ma son fuori del nostro soggetto.
Letteratura italiana Einaudi 1034
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia (3. Agosto 1821.). V. p.1605. capoverso 2.
È vero che la poesia propria de’ nostri tempi è la sentimentale. Pure un uomo di genio, giunto a una certa età, quando ha il cuor disseccato dall’esperienza e dal sapere, può più facilmente scriver belle poesie d’immaginazione che di sentimento, perchè quella si può in qualche modo comandare, questo no, o molto meno. E se il poeta scrivendo non [1449]è riscaldato dall’immaginazione, può felicemente fingerlo, aiutandosi della rimembranza di quando lo era, e richiamando, raccogliendo, e dipingendo le sue fantasie passate. Non così facilmente quanto alla passione. E generalmente io credo che il poeta vecchio sia meglio adattato alla poesia d’immaginazione, che a quella di sentimento proprio, cioè ben diverso dalla filosofia, dal pensiero ec. E di ciò si potrebbero forse recare molti esempi di fatto, antichi e moderni, contro quello che pare a prima vista, perchè l’immaginazione è propria de’ fanciulli, e il sentimento degli adulti.
(3. Agosto 1821.). V. p.1548.
Non solo i contemporanei p.e. di Omero, sentivano e gustavano la di lui semplicità ben meno di noi, come ho detto altrove, ma lo stesso Omero non si accorgeva di esser semplice, non credè non cercò di esser pregevole per questo, non sentì non conobbe pienamente il pregio e il gusto della semplicità (nè in genere, nè della sua propria): come si può vedere in quei soverchi epiteti ec. ed altri ornamenti ch’egli profonde fuor di luogo, come fanno i fanciulli [1450]quando cominciano a comporre, e si studiano e stiman pregio dell’opera tutto il contrario della semplicità, cioè l’esser manierati, ornati ec. Segni di un’arte bambina, la quale infanzia dell’arte produceva insaputamente la semplicità, e volutamente questi piccoli difetti in ordine alla stessa semplicità; difetti che un’ar-te più matura ha saputo facilmente evitare cercando la Letteratura italiana Einaudi 1035
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia semplicità, la quale però non ha mai più potuto conseguire. Così dico dell’Ariosto ec. de’ cui difetti ho parlato ne’ miei primi pensieri, ed altrove. Così dei trecentisti manieratissimi, e scioccamente carichi di ornamenti in molte cose, benchè, per indole naturale, semplicissimi ec.
(4. Agosto 1821.)
Da quanto ho detto altrove che l’ingegno è facilità di assuefarsi, e che questa facilità include quella di mutare assuefazioni, di contrarne delle nuove in pregiudizio delle passate ec. risulta che i grandi ingegni denno ordinariamente esser mutabilissimi (di opinioni, di gusti, di stili, di modi, ec. ec.) non già per [1451]quella volubilità che nasce da leggerezza, e questa da poca forza d’ingegno e di concezioni e sensazioni ec. ma per la facilità di assuefarsi, e quindi di far progressi. Però la mutabilità, quando conduca sempre più avanti, ancorchè produca nell’uomo delle condizioni tutte contrarie alle passate, è sempre indizio di grande ingegno, anzi sua necessaria qualità. Ed infatti grandissima differenza si suol trovare p.e. tra le prime e le ultime opere di un grande scrittore (sia nel genere, sia nello stile, sia nelle opinioni, sia ne’
pregi particolari o qualità ec. sia in tutte queste cose insieme), e nessuna o pochissima in quelle de’ mediocri, o degl’infimi. Paragonate il Rinaldo del Tasso, o la prima Tragedia del Metastasio o dell’Alfieri colle ultime ec. Così pure nelle inclinazioni della vita o degli studi, ne’ gusti letterarii ec. Così dico anche rispetto alle sue assuefazioni e abilità materiali ec.
(4. Agos. 1821.)
Non c’è sommo ingegno che nel suo [1452]primissimo periodo non si trovi appresso a poco a livello cogl’infimi ingegni, posti in quello stesso periodo. Dal che si vede che il grande ingegno non si forma se non mediante l’uso dell’esercizio e delle assuefazioni, il qual uso gli facilita Letteratura italiana Einaudi 1036
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia poi l’abito di assuefarsi, che è quanto dire, gli produce il talento ec. ec.
(4. Agos. 1821.)
Ciascun uomo è come una pasta molle, suscettiva d’ogni possibile figura, impronta ec. S’indurisce col tempo, e da prima è difficile, finalmente impossibile il darle nuova figura ec. Tale è ciascun uomo, e tale diviene col progresso dell’età. Questa è la differenza caratteristica che distingue l’uomo dagli altri viventi. La maggiore o minore conformabilità primitiva, è la principal differenza di natura fra le diverse specie di animali, e fra i diversi individui di una stessa specie. La maggiore o minore conformabilità acquisita (mediante l’uso generale delle assuefazioni, che produce la facilità delle assuefazioni particolari) e le diverse forme ricevute [1453]da ciascun individuo di ciascuna specie, è tutta la differenza di accidente che si trova fra detti individui. Quindi considerate quanto sia ragionevole l’opinione delle cose assolute, anche dentro i limiti, e l’ordine effettivo della natura qual ella è, e dilatate questo pensiero.
Da tali osservazioni segue che la natura ha lasciato più da fare per la loro vita, a quegli esseri ai quali ha dato maggiore conformabilità, cioè qualità e facoltà più modificabili, diversificabili, e variamente sviluppabili, e capaci di produrre più diversi e moltiplici effetti, quantunque lasciate quali sono naturalmente, non li producano. Tale è soprattutti l’uomo. Quello che la natura gli possa aver lasciato a fare, l’ho detto in altro pensiero.
(4. Agosto 1821.). V. p.1538. capoverso 1.
Malamente si distingue la memoria dall’intelletto, quasi avesse una regione a parte nel nostro cervello. La memoria non è altro che una facoltà che l’intelletto ha di assuefarsi alle concezioni, diversa dalla facoltà di concepire o d’intendere. ec. Ed è tanto necessaria all’intelletto, Letteratura italiana Einaudi 1037
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ch’egli senza di essa, non è capace di verun’ azione, (l’azione dell’intelletto è diversa dalla semplice concezione ec.) perchè ogni [1454]azione dell’intelletto è composta, (cioè di premesse e conseguenza) nè può tirarsi la conseguenza senza la memoria delle premesse. Bensì questa facoltà, che quantunque inerentissima all’intelletto, e spesso appena distinguibile dalla facoltà di concepire e di ragionare, è però diversa, può sommamente illanguidirsi ec. senza che quella di concepire ec. s’illanguidisca nè si perda ec. e può essere anche originariamente debole, in un intelletto ben provvisto delle altre facoltà. Osservate però (contro quello che si suol dire che l’ingegno è indipendente ec. dalla memoria) che non v’è quasi grande ingegno che non abbia grande memoria, almeno originariamente. E ciò 1. perchè la facilità di assuefarsi ec. che forma i grandi ingegni, cagiona naturalmente ed include anche la facoltà della memoria ec. 2. perchè un ingegno senza memoria, ancorchè sia grande, non si conosce per tale, non potendo produrre notabili effetti ec.
Del resto la facoltà di assuefazione in che consiste la memoria è indipendente in molte parti dalla volontà, come altre assuefazioni [1455]materiali e fuor della mente ec.
Il che si vede sì per mille altre cose, sì perchè spessissimo una sensazione provata presentemente, ce ne richiama alla memoria un’altra provata per l’addietro, senza che la volontà contribuisca, o abbia pure il tempo di contribuire a richiamarla. Così un canto ci richiama p.e. quello che noi facevamo altra volta udendo quello stesso canto ec. Così l’Alfieri nel principio della sua Vita, osserva una sua rimembranza che fa al proposito ec.
(4. Agosto 1821.)
La forza dell’assuefazione nell’uomo, e come lo sviluppo di tutte le sue facoltà dipenda da essa, si può vedere ne’ suoi organi esteriori, paragonando quelli de’ fanciulli (e più, de’ bambini) a quelli degli adulti, non relativa-Letteratura italiana Einaudi 1038
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia mente alle abilità particolari, ma all’uso quotidiano che fa ciascun uomo di detti organi, p.e. delle mani. Le quali troveremo inettissime ne’ fanciulli a quelle medesime cose che noi più facilmente operiamo. E ciò non già per la sola debolezza ec. degli organi, inerente a quella età, ma anche del tutto indipendentemente da questa, per la mancanza sì delle assuefazioni [1456]particolari a questa o quella operazione, sì dell’esercizio generale che abilita l’organo ad eseguir senza il menomo stento una operazione del tutto nuova ec. delle quali, rispetto p.e. alle mani, ce ne capita tuttogiorno. Così che osservando gli organi esteriori de’ fanciulli, appena si crederebbe ch’essi fossero gli stessi che i nostri, e che avessero in potenza le stesse facoltà ec. Meno bisognosi di assuefazione sono gli organi degli animali, secondo quello che ho detto p.1452-53. Che cosa è l’uomo? Un animale più assuefabile degli altri.
(5. Agosto 1821.)
Frissonner ec. frættv o fræssv ec.
(5. Agosto 1821.)
Osserviamo nuovamente la forza dell’opinione sul bello. Ho detto altrove che l’eleganza consiste in qualcosa d’irregolare. Quindi è che mentre cento eleganze si gustano e piacciono negli scrittori accreditati, infinite altre che meriterebbero lo stesso nome, e sono della stessa natura, non paiono eleganze e non piacciono, perchè la loro irregolarità si trova in autori non abbastanza accreditati, ancorchè sieno di vero merito, p.e. se sono moderni, onde non possono avere [1457]l’autorità de’ secoli in loro favore. Anzi quelle stesse locuzioni, metafore, ec. ec. che trovate in un autore accreditato ci daranno sapor di eleganza, trovate in autore non accreditato ci daranno sapor di rozzezza, d’ignoranza, di ardire irragionevole, di sproposito, di temerità ec. se non ci ricorderemo che quelle hanno per se l’autorità di uno scrittore stimato. E ricor-Letteratura italiana Einaudi 1039
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia dandocene in quel momento, o anche dopo pronunziato il giudizio della mente, lo muteremo subito, e troveremo effettivo gusto in quello che ci aveva dato effettivo disgusto. Il qual effetto è frequentissimo negli studi di letteratura, e può stendersi a considerazioni di molti generi, intorno al piacere che deriva dall’imitazione del buono e classico, e bene spesso dalla sua contraffazione. Piacere non naturale nè assoluto, ma secondario e fattizio, e pur vero piacere: anzi tanto vero che la lettura dei classici, secondo me, non ha potuto mai dare agli antichi quel piacere che dà a noi, e parimente i classici [1458]contemporanei non ci daranno mai nè tanto gusto quanto gli antichi (cosa certissima), nè quanto ne daranno ai posteri.
(6. Agos. 1821.)
Che in natura occorrano molti accidenti contrari al di lei sistema, senza guastarlo ec. è vero. Ma l’amor proprio non è accidente, anzi primissimo ed essenziale principio e perno di tutta quanta la macchina naturale. Ora è certissimo che l’amor proprio impedisce all’uomo sì nello stato naturale, sì molto più in qualunque altro, di poter mai essere perfettamente buono, cioè di pensieri e di opere perfettamente e perpetuamente consentaneo alla legge che chiamano naturale. E l’impedisce non in cose leggere, ma principalissime, non di rado, ma tutto giorno. Non dico niente delle passioni naturalissime ec. ec. ec. Come dunque la natura ha fatto l’uomo ripugnante a se stessa, cioè a se stesso? E che cos’è questa legge naturale, che gli altri animali (perfetti sudditi della natura) non seguono, nè ponno seguire, impediti dallo stesso amor proprio, nè conoscono [1459]in verun modo? Non hanno ragione.
Hanno però istinto, secondo voi altri, e la legge naturale, secondo voi altri, e la forza stessa del termine, è istinto innato ec. indipendente dalla riflessione, e quindi dalla ragione. Dunque la legge naturale sarebbe tanto più con-Letteratura italiana Einaudi 1040
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia veniente agli animali che non hanno ragione da supplir-vi; siccome sarebbe quasi una qualità animalesca nell’uo-mo libero e ragionevole. Secondo me hanno anche il principio di raziocinio, hanno libertà intera, e se la legge naturale è utile anzi necessaria all’uomo, perchè non dunque agli animali, o liberi, o no che sieno? Ora essi, che pur non sono corrotti, e non hanno spento, come voi dite di noi, l’impulso, la voce interna ec. agiscono quotidianamente, e in ogni loro bisogno, in senso contrario a detta legge.
(6. Agos. 1821.)
Quanto gli uomini sono meno inciviliti (come sono i selvaggi, com’erano gli Americani ec.) tanto maggiori e più frequenti varietà di lingue o dialetti si trovano in più piccolo spazio di paese, e minor quantità di gente. Cosa provata dalla storia, da’ viaggi ec. e proporzionatamente dalla stessa osservazione de’ popoli più o meno inciviliti, letterati ec. V. la p.1386. fine. Dal che si vede quanto la natura contrasti all’uniformità de’ linguaggi ec. come ho detto altrove.
(6. Agos. 1821.)
[1460]L’impero che il Cristianesimo ha per tanti secoli esercitato (e prima e dopo il risorgimento della civiltà) tanto sugli animi, le opinioni, i costumi privati e pubblici, quanto sul temporale degli stati, e sulla politica universale del mondo Cristiano, e generalmente insomma sulla vita umana, è stato quasi un impero della filosofia, uno stabilimento di potenza filosofica, un’influenza, una superiorità generale acquistata nel mondo dalla ragione sulla natura, le naturali illusioni ec. e dallo spirito sopra il corpo. Stabilimento originato da quell’epoca metafisica che produsse il Cristianesimo, e durato per le circostanze dei lumi e degl’intelletti, e per la forza dell’abito ec. Allora il mondo era quasi una repubblica filosofica, o piutto-Letteratura italiana Einaudi 1041
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia sto uno stato soggetto ad un intollerante, universale, stretto, potente dispotismo della filosofia, riconosciuto da tutti per giusto, o per invincibile, benchè tutta la sua forza (al solito delle tirannie, e quasi d’ogni genere di governi) stesse nell’opinione. Il Papa rispettato e temuto da tutti i privati e da tutti i principi Cristiani, un inerme, un povero, da armati e da ricchi, era il vero capo di una repubblica filosofica. Basta considerare quella cerimonia [1461]della sua coronazione, quando se gli abbrucia innanzi agli occhi della stoppa, dicendo: Beatissime pater, sic transit gloria mundi. Massima piena di serissime e profondissime riflessioni filosofiche: gloria che veramente era grande, anzi somma, un secolo e mezzo addietro: nè certo il Papa la disprezzava, nè soleva ricordarsi molto spesso di quell’ammonizione. Oggi questo smisurato colosso d’impero filosofico, è stato distrutto da quello di un’altra filosofia; nuovo impero conveniente al secolo che l’ha stabilito e prodotto. E sarà più facile assai che anche questo cada, di quello che il primo risorga.
(7. Agosto 1821.)
Noi stessi nelle nostre riflessioni giornaliere le meno profonde, conosciamo e sentiamo che la virtù (p.e.) è un fantasma, e che non c’è ragione per cui la tal cosa sia virtù, se non giova, nè vizio se non nuoce; e siccome una cosa ora giova, ora nuoce; a questo giova, a quello no; ad un genere di esseri sì, ad un altro no, ec. ec. così veniamo a confessare che la virtù, il vizio, il cattivo, il buono è relativo. Noi [1462]non troviamo nell’ordine di questo mondo alcuna ragione perchè una cosa che giova a me (anche grandemente) e nuoce ad altri (anche leggermente), non si possa fare, e sia colpa; perchè un atto segreto che non giova nè a me nè ad altri, e non nuoce a veruno, e non ha spettatori, possa essere virtuoso o vizioso; perchè p.e. una bugia che non nuoce ad alcuno, e neppur dà mal esempio, perchè non è conosciuta, una bugia che giovi Letteratura italiana Einaudi 1042
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia sommamente ad altri o a me stesso, senza nuocere ad alcuno, sia male e colpa. Le ragioni di tutto ciò noi siamo costretti a riporle in un Essere dove personifichiamo il bene, la virtù, la verità, la giustizia ec. facendolo assolutamente, e per assoluta necessità, buono: che se così non facessimo, neppure in lui avremmo trovato il confine delle cose, e la ragione per cui questo o quello sia assolutamente buono o cattivo. Noi consideriamo dunque detto Essere come un tipo, a norma del quale convenga giudicare della bontà o bellezza ec. della bruttezza o malvagità delle cose (ed ecco le id¡ai di Platone). Quello che [1463]somiglia o piace a lui, è dunque assolutamente, primordialmente, universalmente e necessariamente buono, e viceversa. Benissimo: altra ragione infatti che questa non vi può essere del buono ec. assoluto; e, come ho detto altrove, tolte le idee di Platone, l’assoluto si perde.
Ma qual ragione ha questo tipo di esser tale quale noi ce lo figuriamo, e non diverso? Come sappiamo noi che gli appartengono quelle qualità che noi gli ascriviamo? – Elle son buone, e la necessità è la ragione per cui gli appartengono, e per cui egli esiste in quel tal modo e non altrimenti. – Ma son elle buone necessariamente? son elle buone assolutamente? primordialmente? universalmente? Che ragione abbiamo per crederlo, quando, come vengo dal dire, non ne troviamo nessuna in questo mondo, vale a dire in quanto possiamo conoscere; anzi quando la osservazione depone in contrario quaggiù stesso, benchè dentro un medesimo ordine di cose? – La ragione che abbiamo è Dio. – Dunque noi proviamo l’idea dell’assoluto coll’idea di Dio, e l’idea di Dio coll’idea dell’assoluto. Iddio è l’unica prova delle nostre idee, e le nostre idee l’unica prova di Dio. [1464]Da tutto ciò si conferma ciò che ho detto altrove che il primo principio delle cose è il nulla.
(7. Agos. 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 1043
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia L’animo umano è così fatto ch’egli prova molto maggior soddisfazione di un piacer piccolo, di un’idea di una sensazione piccola, ma di cui non conosca i limiti, che di una grande, di cui veda o senta i confini. La speranza di un piccolo bene, è un piacere assolutamente maggiore del possesso di un bene grande già provato (perchè se non è ancora provato, sta sempre nella categoria della speranza.) La scienza distrugge i principali piaceri dell’animo nostro perchè determina le cose, e ce ne mostra i confini, benchè in moltissime cose, abbia materialmente ingrandito d’assaissimo le nostre idee. Dico materialmente, e non già spiritualmente, giacchè p.e. la distanza dal sole alla terra, era assai maggiore nella mente umana, quando si credeva di poche miglia, nè si sapeva quante, di quello che ora che si sa essere di tante precise migliaia di miglia. Così la scienza è nemica della grandezza delle idee, benchè abbia smisuratamente [1465]ingrandito le opinioni naturali. Le ha ingrandite come idee chiare, ma una piccolissima idea confusa, è sempre maggiore di una grandissima, affatto chiara. L’incertezza se una cosa sia o non sia del tutto, è pur fonte di una grandezza, che vien distrutta dalla certezza che la cosa realmente è. Quanto maggiore era l’idea degli Antipodi, quando il Petrarca diceva forse esistono, di quello che appena fu saputo ch’esistevano. Ciò che dico della scienza, dico dell’esperienza ec. ec. La maggiore anzi la sola grandezza di cui l’uomo possa confusamente appagarsi, è l’indeterminata, come risulta pure dalla mia teoria del piacere. (7. Agos.
1821.). Quindi l’ignoranza la quale sola può nascondere i confini delle cose, è la fonte principale delle idee ec. indefinite. Quindi è la maggior sorgente di felicità, e perciò la fanciullezza è l’età più felice dell’uomo, la più paga di se stessa, meno soggetta alla noia. L’esperienza mostra necessariamente i confini di molte cose anche all’uomo naturale e insocievole.
Letteratura italiana Einaudi 1044
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Le pazze filosofie degli antichi, la stessa scolastica, lasciando tutto il resto, hanno sommamente, e forse principalmente giovato al progresso dello spirito umano, in che?
riguardo ai nomi. Le profonde meditazioni, le acutissime sofisticherie, il lambiccarsi il cervello, circa le astrazioni, le qualità occulte, ed altri sogni, ci hanno dato la denominazione e quindi la fissazione d’idee prime, elementari, secretissime, difficilissime [1466]a concepire, a definire, ad esprimere, ma tanto necessarie, usuali ec. che senza tali nomi la filosofia non sarebbe ancor nulla. Astratto e concreto, essenza, sostanza e accidente, e tali altri termini d’ontologia, logica ec. Che sarebbe il pensiero dell’uomo s’egli non avesse idea chiara di tali ripostissime, ma universalissime cose? e come l’avrebbe senza i nomi? i quali dopo sì piene rivoluzioni della filosofia ec. sono e saranno pur sempre in bocca de’ filosofi. Ma certo la difficoltà d’inventarli è stata somma, e tale che la filosofia moderna forse non ne sarebbe stata capace. E mentre le idee più difficili a concepirsi chiaramente, definirsi col pensiero, e nominarsi, sono le più elementari, certo è che la filosofia qualunque, non potrà mai concepire nè significare idee più elementari di queste. Utilissima per questo lato, è stata la stessa teologia, che ha maggiormente diffuse e popolarizzate tali parole, ed altre ne ha trovate, assuefacendo, ed affezionando, ed eccitando lo spirito umano alle astrazioni, con tali stimoli, [1467]che nessun’altra disciplina avrebbe potuto altrettanto, nè verun’altra circostanza come quella delle dispute teologiche, dove prendevano parte i principi e le nazioni, e degli studi teologici che interessarono per sì lungo tempo tutta la vita umana, e tutto lo stato del mondo civile. E quanto ho detto altrove circa l’utilità che si può cavare dal linguaggio scolastico de’ filosofi ec. intendo pur dirlo del teolo-gico, d’ogni specie, dommatico, morale, scolastico, ec.
(7. Agos. 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 1045
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Anzi stante le dette considerazioni, io credo che tali studi (notate) non solo gioverebbero la nostra o altra lingua, ma il progresso dello spirito umano.
(7. Agos. 1821.)
Dico, applicando tali studi alla moda filosica. La scienza fa un progresso considerabile quando arriva a render chiara, fissa, e distinta dall’altre un’idea elementare ec.
mediante un proprio nome, che è l’unico mezzo. E questa è la cosa più difficile, ma l’ultimo scopo della filosofia. Ora forse non poche idee [1468]astratte ec. che rimangono oscure nella filosofia moderna per mancanza di nome particolare, o abbastanza esatto ec. hanno forse la loro perfetta denominazione e quindi son chiare nell’antica moltiplice filosofia, o nella scolastica, o nella teologia ec.
(7. Agos. 1821.)
La detta applicazione non credo che sia stata mai fatta, almeno sufficientemente. Quando il Cartesio imprese la riforma della vecchia filosofia, dovette, secondo la qualità di que’ tempi (e pur troppo di tutti i tempi) entrare in guerra aperta colle scuole d’allora: e il mondo avrebbe stimato ch’egli prevaricasse, o desse indizio di povertà o fiacchezza, se avesse voluto servirsi più che tanto del linguaggio de’ suoi nemici. Così appoco appoco, prevalendo la nuova dottrina, non più a causa della ragione, che della novità, e dismessa la vecchia filosofia, nessuno ebbe cura bastante di cernere il buono dal cattivo, e gittando questo, conservare o richiamar quello, massime circa il linguaggio. In ordine alla teologia molto peggio. La teologia s’è abbandonata da chiunque ora influisce cogli studi sullo spirito d’Europa ec. non per migliorarla o rinnovar-la, ma del tutto, come scienza vecchia, e [1469]quasi come l’alchimia. Ora quanto sia il numero degli scrittori e pensatori teologici diversissimi di tempo, di paese, di lin-Letteratura italiana Einaudi 1046
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia gua, di opinioni ancora e di sistemi e di sette, e conseguentemente quanta debba esser la ricchezza del linguaggio di questa scienza, linguaggio tutto astratto perchè la scienza è tale, linguaggio che s’è tutto abbandonato e dimenticato insieme con lei, facilmente si comprende.
(8. Agos. 1821.)
Il formare il nostro Dio degli attributi che a noi paiono buoni, benchè non lo sieno che relativamente, è un’opinione meno assurda, ma della stessa natura, andamento, origine, di quella che attribuiva agli Dei figura e qualità e natura quasi del tutto umana; di quella che, come dice Senofane presso Clemente Alessandrino, se il cavallo o il bue sapesse dipingere, gli farebbe dipingere e immaginare i suoi Dei in forma e natura di cavalli o di buoi. V. il mio Discorso sui romantici dove si cita questo passo con altre osservazioni. Anzi la nostra opinione è un raffinamento, un perfezionamento, di questa quanto assurda, tanto naturale (v. il cit. discorso) opinione
[1470]antica; raffinamento prodotto da quello spirito metafisico che produsse il Cristianesimo, o da quello che presso gli antichi Orientali (la cui storia rimonta tanto più indietro delle nostre) produsse il sistema di un solo Dio, seguito dagli Ebrei, e da questi comunicato ai Gentili d’epoca e civiltà più moderna, quando il secolo fu adattato a fare che tal dottrina fosse ricevuta, e divenisse universalmente popolare. Ho detto che questa è meno assurda, ma intendo, quanto al nostro modo di ragionare, e all’ordinario sistema delle nostre concezioni, perchè assolutamente parlando, ella è altrettanto assurda, o piuttosto falsa, giacchè l’assurdo si misura dalla dissonanza col nostro modo di ragionare. Del resto la nostra opinione intorno a un Dio composto degli attributi che l’uomo giudica buoni, è una vera continuazione dell’antico sistema che lo componeva degli attributi umani. ec. L’antica e la moderna Divinità è parimente formata sulle idee pu-Letteratura italiana Einaudi 1047
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ramente umane, benchè diverse secondo i tempi. Il suo modello è sempre l’uomo. ec.
(8. Agos. 1821.)
Una delle principali e universali e caratteristiche inseparabili proprietà dello stile degli [1471]antichi non corrotti, cioè o classici, o anteriori alla perfezione della letteratura, si è la forza e l’efficacia. Quest’è la prima, anzi l’unica qualità ch’io ho sentito notare da uomini poco avvezzi a letture classiche, ogni volta che venivano dal leggere qualche libro de’ buoni antichi, o qualche libro moderno su quel gusto di stile. Ed era l’unica perchè forse essi non erano capaci di discernere a prima vista, nè gustare le altre. Ma questa dà subito nell’occhio, e si distingue e si separa facilmente dalle altre. Quindi osservate quanto sia vero che la natura è sorgente di forza, e che questa è sua qualità caratteristica, come la debolezza lo è della ragione. Perciocchè 1. gli antichi scrittori, massime quelli anteriori al perfezionamento della letteratura, i quali sono ordinariamente più energici degli altri, non cercavano gran fatto l’energia, nè se ne pregiavano, nè volevano esser famosi per questo ec. come ho detto altrove della semplicità, dell’eleganza, della purità di lingua ec. Tali sono i [1472]trecentisti ec. Eppure senza cercarlo, riuscivano robustissimi e nervosissimi per la sola forza della natura che in loro parlava e regnava, e quindi per la loro propria forza. 2. Quando anche la cercassero, già la cercavano assai meno di noi che tanto meno la troviamo, poi se la cercavano in proporzione della riuscita, vuol dire che la cercavano sopra tutto, e che quindi nel tempo che la natura regnava, l’efficacia e l’energia si stimava la principal dote dello stile. E così accadeva in tutto: e così la prima e perenne sorgente di forza, sia nello stile, sia nella lingua, sia ne’ concetti, sia nelle azioni, sarà sempre l’esempio degli antichi, cioè la natura. E i tempi moderni con tutti i loro lumi non possono mai supplire a questa Letteratura italiana Einaudi 1048
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia fonte.
La detta efficacia è pure un genere di bellezza eterna e universale, che però non appartiene al bello, ma alla inclinazione generale dell’uomo verso la forza, verso le sensazioni vive, verso ciò che lo eccita, e rompe la monotonia dell’esistenza ec. e alla natura ec.
(8. Agos. 1821.)
Non hanno torto i padri e le madri che amano la vita metodica, senza varietà, senza [1473]commozioni, senza troppe fatiche, la pace domestica ec. I loro gusti, le loro inclinazioni possono ben difendersi, e v’è tanto da dire per la morte come per la vita, dice la Staël. Ma il gran torto degli educatori è di volere che ai giovani piaccia quello che piace alla vecchiezza o alla maturità; che la vita giovanile non differisca dalla matura; di voler sop-primere la differenza di gusti di desiderii ec. che la natura invincibile e immutabile ha posta fra l’età de’ loro allievi, e la loro, o non volerla riconoscere, o volerne affatto prescindere; di credere che la gioventù de’ loro allievi debba o possa riuscire essenzialmente, e quasi spontaneamente diversa dalla propria loro, e da quella di tutti i passati presenti e futuri; di volere che gli ammaestramenti, i comandi, e la forza della necessità suppliscano all’esperienza ec.
(9. Agos. 1821.)
Quel giovane che fu d’animo eroico nella virtù (come sogliono essere tutti quelli che nascono con grande e forte immaginazione e sentimento), se per forza dell’esperienza, delle [1474]sventure, degli esempi, disingannato della virtù, arriva a lasciarla, diviene eroico nel vizio, e capace di molto maggiori errori, che non sono gli altri ec.
Non già per una continuazione di entusiasmo applicato al male, ma per un eccesso di freddezza che è sempre compagna della malvagità. Egli diviene un eroe di fred-Letteratura italiana Einaudi 1049
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia dezza, e tanto più intrepido, duro, ghiacciato, quanto era stato più fervido. Come quei vapori che si convertono in grandine, i quali non si stringerebbero nel più duro, denso, e sodo ghiaccio che possa formarsi nell’aria, se straordinario calore non gli avesse innalzati a straordinaria sublimità. In tutte le cose gli eccessi si toccano assai più fra loro, che col loro mezzo, e l’uomo eccessivo in qualunque cosa, è molto più inclinato e proclive all’eccesso contrario che al mezzo. Ed è molto più facile, conseguente, e naturale per la forza e la qualità di un’indole eccessiva, il saltare dall’uno all’opposto estremo, che il recarsi e fermarsi nel mezzo ec. ec.
(9. Agos. 1821.)
[1475]Confrontando le lingue spagnuola francese e italiana, si trovano molte proprietà principalissime ed essenziali, che sono comuni a tutte tre. Or queste essendosi formate massime quanto al principale e fondamentale, l’una indipendentemente dall’altra, è necessario il dire che le dette proprietà derivino da un’origine comune, e questa non può esser che il latino, e s’elle non si trovano nel latino scritto, dunque vengono dal volgare. Nè si può dir che derivino dal latino corrotto de’ bassi tempi, perchè, come ho detto, egli si corruppe diversamente e indipendentemente secondo i luoghi ec. e le lingue che nacquero dal latino nacquero separatamente, e quasi in diverse parti.
Quindi l’uso degli articoli e de’ segnacasi, uniformi appresso a poco anche materialmente nelle tre lingue; l’uso de’ verbi ausiliari pure uniformi, cioè essere e avere (eccetto che lo spagnolo non adopra essere), si debbono considerare come propri del volgare latino. Così l’uso del verbo finito colla particella che (franc. e spagn. que) in vece dell’infinito ec. del qual costume [1476]si hanno indizi anche nel buon latino (cioè del quod ec.) e molto più frequenti nel barbaro. I greci ebbero pur sempre lo stesso uso (ôti).
Letteratura italiana Einaudi 1050
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Quelle proprietà poi, o parole ec. ec. che non appartengono se non a questa o quella delle tre lingue, e che non si ponno riferire ad alcuna origine conosciuta, ponno esser vestigi delle antiche lingue nazionali estinte poi dalla latina. Ma ciò più difficilmente potrà supporsi in quanto appartiene alla lingua italiana ec. E in ogni modo queste tali proprietà, parole ec. se anche derivano dall’antiche lingue anteriori all’uso della latina ne’ diversi paesi ec., non ponno essersi conservate se non passando pel volgare latino, il quale ebbe pur certo i suoi idiotismi provinciali, com’è noto, e come ho detto altrove parlando dei dialetti latini.
(9. Agos. 1821.)
La maggior parte degli uomini in ultima analisi non ama e non brama di vivere se non per vivere. L’oggetto reale della vita è la vita, e lo strascinare con gran fatica su e giù per una medesima strada un carro pesantissimo e vôto.
(10. Agos. 1821.)
[1477]Non v’è infelicità umana la quale non possa crescere. Bensì trovasi un termine a quello medesimo che si chiama felicità. Può trovarsi un uomo perfettamente fortunato, che nulla possa desiderare di più, la cui felicità non possa più stendersi. Augusto era in questo caso. Ma un uomo tanto infelice, che non possa immaginarsi maggiore infelicità, infelicità non solamente fantastica, non solamente possibile, ma realizzata bene spesso in questo o quell’individuo, per quella o per questa parte; un tal uomo non si dà. La fortuna può dire a molti, io non ho maggior potere di beneficarti, ma nessuno può mai vantarsi, e dire alla fortuna, tu non hai forza di nuocermi davantaggio e di aumentare i miei dolori. Può mancar che sperare, ma nessuno mancherà mai di che temere. La disperazione stessa non basta ad assicurar l’uomo. (10.
Agos. 1821). Nessuno può vantarsi o sdegnarsi con verità Letteratura italiana Einaudi 1051
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia dicendo: io non posso essere più infelice di quel che sono.
(Molte cose e da molti sono state dette in proposito delle voci sinonime, altri negando che ve n’abbia effettivamente, altri affermando; e questo e quello chi d’una chi d’altra lingua, e chi di tutte in genere.).
Molto s’è disputato circa i sinonimi. Ecco la mia opinione. Le lingue primitive piuttosto dovevano significar molte cose con una sola parola, che aver molte parole ec.
da significare una stessa cosa. Formandosi appoco
[1478]appoco le lingue, e modificandosi in mille guise le prime scarsissime radici, per adattarle stabilmente e distintamente alle diverse significazioni, le lingue vennero a crescere, le parole (non radicali, ma derivate o composte) a moltiplicarsi infinitamente, si acquistò la facoltà di esprimere colla favella e colla scrittura, sino alle menome differenze, varietà, specie, accidenti ec. delle cose, ma i sinonimi (se non forse qualcuno per caso, o per commercio con altre lingue) ancora non esistevano. Ciascuna parola che si formava modificando le prime radici, o le altre parole già formate; ciascun genere costante di modificazioni, derivazioni, inflessioni, composizioni, formazioni che s’introduceva (come quello de’ verbi frequentativi o diminutivi presso i latini ec.) aveva per oggetto di arricchir la lingua ed accrescerne la potenza, non colla meschina facoltà di poter dire una stessissima cosa in più modi, ma con quella importantissima di poter distintamente significare le menome differenze delle cose, differenze o già note fin da principio, ma non sapute esprimere, ovvero osservate solamente col tempo: o anche idee nuove ec. [1479]Quindi nasceva una grandissima varietà nelle lingue, ben più sostanziale di quella che deriva dall’uso dei sinonimi. Giacchè se per mezzo di questo, noi possiamo ad ora ad ora, capitandoci la stessa cosa da dire, variare il modo di esprimerla; agli antichi capitava assai di rado la stessa cosa, e quindi la necessità della stessa Letteratura italiana Einaudi 1052
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia parola, perchè ogni menoma differenza che la cosa da esprimersi avesse con la cosa già detta, bastava per mu-tarne il segno, e la lingua somministrava puntualmente una diversa e propria espressione di quella benchè leggerissima differenza.
Ma siccome queste tali differenze, e quindi le differenze ne’ significati delle parole che le esprimevano, erano sottilissime, e spesso quasi metafisiche (che gli antichi, e massime i latini furono ammirabilmente esatti e minuti nell’assegnare e precisare i significati delle loro voci e modi, e vedi p.1115-16. 1162. capoverso 3.); così naturalissimamente il popolo, incapace di troppe sottigliezze, e quando anche le concepisse, incapace di por troppo squisita cura nella scelta delle parole, cominciò, arricchite, ingrandite, [1480]e fecondate che furono le lingue, a confondere quella parola o quel modo con un altro di poco diversa significazione, a servirsi indifferentemente di voci destinate ad usi simili ma distinti, a trascurare la minuta esattezza, e a poco a poco a dimenticare l’esatto e primo valore di una parola o radicale o derivativa, ad usurpare quel genere di formazioni destinato a quel genere di significati, in significati d’altro vicino genere, e finalmente a dimenticare il proprio e preciso valore delle parole e dei modi; e col tempo e colla forza prepotente dell’uso (che sotto molti aspetti nelle lingue non è che abuso) confondendo i significati, moltiplicarli di nuovo in ciascuna parola, e moltiplicar le parole significanti una stessa cosa, benchè da principio differissero.
In tal modo le lingue perderono la facoltà che avevano al loro buon tempo di esprimere distintamente le menome differenze delle idee, e queste differenze poco conosciute o notate dai parlatori, fecero che svanissero le piccole ma reali differenze de’ significati delle parole. Ed ecco i sinonimi.
[1481]Nè solo il popolo, ma anche i civili parlatori (per la difficoltà di essere esatto nel parlare ch’è improvvisa-Letteratura italiana Einaudi 1053
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia re), ed anche i negligenti o meno diligenti scrittori contribuirono proporzionatamente a questo effetto. Lascio le diffusioni di una lingua, e le infinite cagioni le quali perdono o confondono i primitivi e propri significati e la proprietà delle parole e di tutto ciò che spetta alla favella.
I cattivi parlatori e i trascurati scrittori, sono dunque secondo me, le prime e principali origini dei sinonimi in qualunque lingua. Possiamo anche dire, il tempo, il quale non permette che le cose umane conservino una stessa condizione. Anche gli scrittori eleganti, e massime i poeti furono in causa di questo effetto: perchè l’eleganza consiste nel pellegrino e diviso dal volgo; e quindi gli usi metaforici, quindi gli ardiri, le inversioni di significato ec. ec. che messe in uso dagli scrittori eleganti, passarono poi col tempo a prender luogo di proprietà, scacciando le proprietà primitive, e confondendo il significato delle parole proprie, con quello delle parole usate metaforicamente o in qualunque altro modo, nello
[1482]stesso senso. Anche i parlatori eleganti o affettati sono da considerarsi in questo proposito.
Queste osservazioni spiegano il perchè sia sempre maravigliosa, e caratteristica negli antichi scrittori la proprietà della favella. Ciò non avviene di gran lunga perch’essi fossero più diligenti. Chi può pur paragonare la diligenza de’ nostri tempi in qualunque genere, con quella degli antichi? L’esattezza e la minutezza non era propria de’ tempi antichi, bensì precisamente de’ moderni, per le stesse ragioni per cui non è propria di questi la grandezza, ch’era propria di quelli. Anche in ogni cosa appartenente a lingua o stile, i diligenti scrittori moderni, ed anche i mediocri la vincono in esattezza sopra i più diligenti scrittori antichi. Basta conoscerli bene per avvedersene. V. la mia lett. sull’Eusebio del Mai, nell’osservazione segnata XVI. 23. 71. 23. Recherò fra i moltissimi esempi che si potrebbero, una nota che fa un Traduttore francese alla Catilinaria di Sallustio, solamente Letteratura italiana Einaudi 1054
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia per dar meglio ad intendere il mio pensiero. (Dureau-Delamalle, Oeuvres de Salluste. Traduction nouvelle.
Note 45. sur la Conjurat. de Catilina à Paris 1808. t.1.
p.213.) Les bons écrivains de l’antiquité [1483] n’avaient pas, il s’en faut, nos petits scrupules minutieux sur ces répétitions des mêmes mots, surtout lorsque la différence de cas en mettait dans la terminaison, comme dans ce passage-ci, ou l’on voit MAGNAE COPIAE après MAGNAS COPIAS. Parla di quel luogo (Sall. Bell.
Catilinar. c.59. al.56.) Sperabat propediem magnas copias se habiturum, si Romae socii incepta patravissent: interea servitia repudiabat, cuius initio ad eum magnae copiae concurrebant.
Non la maggior diligenza dunque, ma l’esser gli scrittori antichi più vicini alle prime determinazioni de’ significati e formazioni delle parole, e il formarne essi stessi, non per lusso, che gli antichi non conoscevano, ma per bisogno, o per utile, fanno ch’essi si riguardino e siano veri modelli della proprietà delle voci e dei modi. E infatti la diligenza che vien dall’arte come pur la produce, è in ragione inversa dell’antichità. Ora la proprietà degli scrittori è in ragion diretta; e Plauto e Terenzio e gli altri antichi latini i più rozzi, sono [1484]tanto più propri quanto meno eleganti di Cicerone. Così i trecentisti ignorantissimi, rispetto ai cinquecentisti ec. Dante rispetto al Petrarca e al Boccaccio ec. V. la p.1253.
Posto dunque che una parola non è mai o quasi mai sinonima di un’altra della stessa lingua primitivamente, e che le parole non divengono sinonime se non col tempo, e a causa principalmente sì degli scrittori eleganti e de’
poeti, sì molto più de’ cattivi scrittori e parlatori; ne segue che siccome tutte le lingue, eccetto le primitive, derivano da corruzione di altre lingue, e sono loro posteriori nel tempo ec. così le lingue figlie generalmente parlando denno abbondare di veri ed effettivi sinonimi più delle rispettive madri.
Letteratura italiana Einaudi 1055
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Così appunto è avvenuto all’italiana rispetto alla latina, sua madre. I sinonimi esistono realmente nella lingua italiana, vi esistono fin da principio (benchè da principio non tanti): la lingua italiana ha, non deve negarsi, verissimi sinonimi, e ne ha in grandissima copia, forse più che altra lingua colta; e ne ha più assai [1485]che non n’ebbe la buona latina. Tutte le lingue moderne colte, generalmente parlando, hanno assai più sinonimi veri e perfetti che le lingue antiche. Effetto del tempo che distrugge a poco a poco le piccole e sfuggevoli differenze fra i significati di parole, che tuttavia non furono inventate per lusso, ma per vera utilità. Nessuna o quasi nessuna nuova parola che si venga oggi formando e introducendo nelle diverse lingue, è sinonima di altre che già vi si trovino.
(Parlo di quelle lingue dove non si vanno introducendo per pura affettazione, ignoranza, barbarie, delle parole straniere affatto inutili, e in pregiudizio delle nazionali.
Si ponno anche eccettuare alcune di quelle parole che formano talora i poeti, che non sempre nè spesso, ma pur talvolta potranno esser sinonime di altre già usate, ed esser preferite e formate per sola eleganza, e per una certa peregrinità, o dedotte dal latino ec.) Ciò mostra che i sinonimi non sono mai tali da principio, e che la sinonimia non è primitiva. Ma le parole che già da gran tempo appartengono a ciascuna lingua, o appartenessero alle loro madri, o no, son divenute, e divengono di mano in mano sinonime, e tali diverranno anche molte recentissimamente formate: e ciò massimamente per la trascuranza del favellare e scrivere, e per l’abuso, che siamo forzati di chiamar uso, e riconoscerlo per padrone legittimo. E questo è sì certo che si può con un poco di attenzione, cominciando dai più [1486]antichi scrittori di una lingua e venendo sino agli ultimi, osservare come due o più parole oggi sinonime, e che da prima non erano, si siano venute gradatamente avvicinando nel significato, e scam-biandosi vicendevolmente in questo o quell’uso, fino a Letteratura italiana Einaudi 1056
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia confondersi del tutto insieme in qualsivoglia uso ec. Alcune parole son divenute sinonime in quest’ultimo grado, altre in qualcuno de’ gradi antecedenti, e si possono usare promiscuamente in tali casi sì, in altri no: ma tuttogiorno, stante la negligenza e ignoranza degli scrittori e parlatori, vanno acquistando maggior somiglianza, finchè arriveranno alla medesimezza.
Consideriamo ora le conseguenze di questo effetto. Si riguardano i sinonimi come ricchezza di una lingua. Ma ella è ricchezza secondaria, e la principal ricchezza e varietà è quella che ho detto p.1479. Ora la ricchezza dei sinonimi nuoce sommamente a questa. La lingua italiana ha più sinonimi assai che la latina. È ella perciò più ricca di lei? Figuriamoci che 30.m voci latine, tutte [1487]distinte di significato, sieno passate nella lingua italiana, ma in modo che in vece di 30.m cose, ne significhino solo 10,000: tre parole per significato. Che giova all’italiano il poter dire quelle 10,000 cose ciascuna in tre modi, se quelle altre ventimila che i latini significavano distintamente, egli non le può significare, o solo confusamente?
Questa è povertà, non ricchezza. Non è ricco quegli il cui podere abbonda di vigna e di frutta, e manca di grano; nè quegli che abbonda del superfluo e manca del necessario.
Quindi potremo spiegare un fenomeno intorno alla ricchezza delle lingue antiche, che non mi pare nè abbastanza osservato, nè dilucidato. Le lingue si accrescono col progresso delle cognizioni e dello spirito umano. Il numero delle parole di senso certo, dicono i filosofi, determina il numero delle idee chiare di una nazione (Sulzer.) Viceversa dunque potremmo dire delle idee chiare, le quali non sono quasi mai tali se non hanno la parola corrispondente. Ora [1488]chi dubita che il numero delle nostre idee chiare non vinca d’assai quello delle antiche? che il nostro spirito non solo abbracci molto maggior estensione di cose, ma veda sempre più sottile e mi-Letteratura italiana Einaudi 1057
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia nuto, ed abbia acquistato un abito di precisione ed esattezza, senza paragone maggiore che gli antichi? E pure consideriamo le antiche lingue colte, e non ci troveremo, com’è naturale, la facoltà di esprimere le cose o gli accidenti ch’essi non conoscevano, e le idee moderne ch’essi non avevano; o quelle parti delle loro stesse idee, ch’essi non discernevano, almeno chiaramente, ma quanto a tutto ciò che gli antichi potevano aver da significare, o voler significare, quanto a tutte le idee che potevano cadere nel loro discorso, troveremo generalmente parlando nelle lingue antiche colte, una facoltà di esprimersi tanto maggiore che nelle moderne, una onnipotenza, un’aggiustatezza, una capacità di variar l’espressione secondo le minime varietà delle cose da esprimersi, e delle congiunture e circostanze del discorso, che forse e senza forse non ha pari in veruna delle più colte lingue moderne: ed è perciò che le lingue antiche sono generalmente riconosciute superiori in ricchezza alle moderne.
Ora qual è la cagione? Vero è che il tempo abolisce molte parole, ma infinite pur ne introduce. [1489]La causa, secondo me, o una delle cause di questo, che veramente è fenomeno, sta in ciò, che le parole destinate talora a simili, talora anche a diversissimi significati, divengono col tempo sinonime, e laddove da prima, e nelle antiche lingue ch’erano più vicine all’origine delle parole, esprimevano più e più cose, o accidenti e modificazioni di cose, oggi esprimono una cosa sola. E così la proprietà della lingua latina veramente ammirabile non si può trovare nella italiana sua figlia, e nelle altre, che hanno tanto confuso i distintissimi significati delle parole che hanno ereditato da lei. E questo male va sempre e inevitabilmente crescendo, ed è cosa dannosissima alla precisa espression delle idee, e quindi alla precisione e chiarezza delle idee stesse. Colpa non tanto degli uomini, quanto della natura, e del tempo al quale siamo venuti.
Veniamo ai rimedi. Voler richiamare le parole ai loro Letteratura italiana Einaudi 1058
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia antichi precisi significati, e tornarli a distinguere, e usarle nel senso antico ec. tuttociò è tanto impossibile e pedantesco, quanto il rimettere in uso le parole e modi antiquati, e parlare come parlavano i latini, o i nostri primi italiani ec. Quelli che hanno preso cura, scrivendo partitamente dei sinonimi, di precisare [1490]il valore di ciascun vocabolo partecipante al significato di altri vocaboli, hanno piuttosto servito e servono alla filosofia, alla storia delle lingue, e a molte altre cose utilissime; di quello che all’uso, e alla conservazione de’ significati, ed alla osservanza dell’etimologie ec. insomma ad impedire la confusione de’ significati, e l’abolizione successiva delle loro piccole differenze, che l’abuso e il tempo non può non cagionare, e non cagionerà niente meno. Forze di questa fatta, non ponno esser vinte da un’opera, o da un Dizionario ec.
Il rimedio dunque agl’inconvenienti del tempo che nuoce alle lingue, e necessita la novità delle parole, non meno coll’abolirne assai, che col sopprimerne le differenze de’
significati, e restringere il numero di essi, è l’adottar nuove parole che esprimano quelle cose o patti o differenze di cose, ch’erano espresse da voci divenute sinonime e conformi di valore ad altre primitivamente diverse. E se, come ho detto di 30.m. parole latine passate nell’italiano,
[1491]non restano che 10.m. significati, a voler che la lingua italiana adegui veramente la ricchezza della madre, in ordine a questa medesima parte di essa, bisogna ch’el-la trovi altre 20 mila parole che abbiano i i detti significati perduti. 1 Ed allora ella vincendo la latina nella copia de’ sinonimi, e nella varietà, nell’eleganza ec. che risulta da essi, l’agguaglierà pure nella vera ricchezza e varietà, e la sinonimia non pregiudicherà alla proprietà ec. del discorso.
Diranno che questo la lingua italiana l’ha già fatto ec.
Negolo risolutamente. Convengo che la lingua italiana, servendosi sì delle fonti latine, coll’attingerne più di quello Letteratura italiana Einaudi 1059
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia che il linguaggio popolare ne avesse attinto; sì della vivacità della immaginazione italiana, con bellissima e somma facoltà di metafore ec. ec. sì di molti altri mezzi, non sia giunta a proccurarsi una proprietà, una copia, una ricchezza, una facoltà insomma di esprimersi maggiore forse che qualunque altra moderna; eccetto però nelle materie filosofiche, [1492]e in tutto ciò che ha bisogno di precisione (diversa dalla proprietà), e generalmente nelle cose moderne, e posteriori a’ suoi buoni tempi. Non nego neppure che la lingua italiana non abbia conservato della sostanza materna assai più delle altre, e meglio, secondo che ho spiegato p.1503. Ma ch’ella sia, non ostante la sua gran copia di sinonimi, anzi a causa in gran parte di questa, inferiore ancora non poco alla proprietà, ed alla ricchezza della sua madre, chi ne dubita? E si può veder chiaramente nelle traduzioni. Pigliate una carta, non dico di Tacito o di Sallustio, ma di Livio o di Cicerone, e senza curarvi dell’eleganza, vedete se v’è possibile di rendere così esattamente ogni parola e ogni frase, che la vostra traduzione dica precisamente quanto il testo, e nè più nè meno. Vedrete quanto manchi ancora alla lingua italiana per riuscirci, quante parole e modi latini non abbiano affatto l’equivalente in italiano, e quanti sensi, minuti sì ma distintissimi, non si possano assolutamente significare nella nostra lingua, ch’è pur nelle traduzioni ec. la più potente delle tre sorelle. E dovrete convenire che lo scrivere [1493]italiano è ancora generalmente e complessivamente inferiore visibilmente al latino, nella proprietà, e nella varietà dell’espressione adattate alle minute varietà delle cose: e questo anche indipendentemente da quelle sottilissime ma effettive differenze che hanno tra loro i significati delle parole e frasi le più omonime nelle diverse lingue, anche le più affini.
Così dalla considerazione della teoria de’ sinonimi, i quali io dico non esser primitivi, ma veri, e frequenti nelle lingue moderne, si deduce una nuova fortissima prova Letteratura italiana Einaudi 1060
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia della necessità della novità nelle lingue. E si conferma particolarmente, in ordine alla lingua italiana, la convenienza di seguitare ad attingere dalle fonti latine, quelle parole e frasi, che non essendo ancora introdotte nella nostra lingua, non ponno aver perduta la differenza di significato, con le altre già derivate dalla stessa fonte, nè esser divenute sinonime ec. Mezzo spedito ed ottimo per accrescere la proprietà, e [1494]la sostanziale ricchezza della nostra lingua, e adeguarla, s’è possibile, alle antiche. Giacchè la lingua latina è forse la più propria di queste, e quindi gran proprietà ed esattezza dee derivare dall’arricchirsi nuovamente alle sue fonti non ancor tocche ec.
(10-13. Agosto 1821.)
Qual lingua è più varia della latina? (se non forse la greca). E quale è più propria? neppur forse la greca. E
dalla proprietà deriva naturalmente la varietà, come ho detto p.1479. Ella era strettamente propria per legge, e non avrebbe scritto latino ma barbaro, chi non avesse scritto con proprietà: laddove la greca potendo essere altrettanto e più propria, era più libera, ed ho già osservato altrove come ciascuno scrittor greco, abbia un vocabolarietto particolare, cioè faccia uso continuo delle stesse voci, e si restringa ad una sola parte della sua lingua, con che la proprietà non può esser perfetta. Ai latini bisognava una perfetta cognizione ed uso della loro lingua, non solo in grosso ma in particolare, e quindi il vocabolario che si può formare a ciascun buono scrittore latino è [1495]generalmente molto più ampio che a qualunque greco classico. E pur la lingua greca era più ricca della latina. Ma la lingua di ciascun latino era più ricca che di ciascuno scrittor greco. Eccetto gli scrittori greci più bassi, come Luciano, Longino ec. i quali sono ric-chissimi, e tanto più quanto il loro stile è meno antico, perchè i contemporanei, come Arriano, Dionigi Letteratura italiana Einaudi 1061
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Alicarnasseo, sono più antichi di stile, e meno ricchi di lingua. La stessa immensa ricchezza della lingua greca impoveriva gli scrittori, finch’ella non fu studiata con un’arte perfetta ch’è sempre propria de’ tempi imperfetti e scaduti.
Ora tornando al proposito, qual lingua, malgrado tutte le dette qualità, era più scarsa di vera sinonimia che la latina, non pur nelle voci, se così posso dire, nelle locuzioni? E pur ella era così varia ec. Anzi la mancanza appunto di sinonimia produceva quella ricchezza individuale di ciascheduno scrittore, ch’era obbligato a mutare espressione ad ogni piccola varietà del discorso. La sinonimia è maggiore assai negli antichi e ottimi greci, [1496]cioè finchè la lingua greca non fu pienamente posseduta per arte e studio. Quando lo fu, la sinonimia fu minore assai, e la varietà e la proprietà molto maggiore. E Luciano è assai più proprio d’Isocrate tanto studioso della sua lingua. Così che la squisita proprietà è realmente aliena dall’ottima lingua greca, e muta il di lei carattere negli scrittori più recenti, e gli accosta al carattere del latino. I latini venuti a tempi signoreggiati dall’arte, possederono sempre pienamente e interamente la loro lingua.
Consideriamo però le lingue antiche, consideriamo i primi scrittori di ciascuna lingua moderna, e vedremo che la sinonimia è assolutamente scarsissima rispetto alle lingue e alle scritture moderne. Dal che si conferma ch’ella non è primitiva, ma prodotta e continuamente accresciuta dal tempo, con danno grande della proprietà, della forza ec. e della vera ricchezza. Danno irreparabile per se stesso, e al quale poco sufficiente ostacolo può porre la determinazione [1497]del valor preciso delle parole, i vocabolari, i dizionari de’ sinonimi ec. Danno pertanto che obbliga assolutamente alla novità delle parole, solo mezzo di riparare all’impoverimento che il tempo arreca alle lingue per questo verso, e che è tanto inimpedibile quanto quello che arreca loro colla soppressione delle parole; Letteratura italiana Einaudi 1062
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia e maggiore, secondo me, non poco.
Dovunque prevale la sinonimia quivi la proprietà soffre assai. Gli scrittori italiani possono rassomigliarsi ai greci nel riguardo che ho detto, sì come ho notato altre volte.
Nè solo gli scrittori ma la lingua eziandio. La latina può rassomigliarsi per questo lato, come ho pur detto altrove, alla francese. Quella fra le antiche, questa fra le moderne, sono forse le più scarse di vera sinonimia. Quindi anche allo scrittor francese è necessario il posseder bene e interamente la sua lingua, cosa non necessaria agl’italiani, non dico per iscriver bene, ma per poter pur scrivere in italiano.
Sebbene però e la lingua francese e la latina scarseggiano di vera sinonimia, e sono [1498]similissime in questo che ambedue dipendono sommamente dall’arte, e da un’esatta determinazione ec. nondimeno le differenze fra loro, anche sotto l’aspetto che noi consideriamo, sono grandissime. La lingua francese scarseggia di sinonimia, non tanto per esattezza, nè per una perfetta conservazione del valor primitivo delle parole (come la latina) quanto per povertà. Una lingua povera sarà sempre esatta, purchè la povertà non giunga all’altro estremo, nel quale si trova p.e. la lingua ebraica. La differenza de’ tempi e delle cagioni produce la differenza degli effetti. L’arte antica rese propria e sostanzialmente ricca la lingua latina fra tutte le altre. L’arte moderna e matematica, volendo rendere esatta la lingua francese, l’ha resa poverissima.
Quindi dalla sua esattezza, e dalla scarsezza de’ suoi sinonimi, non nasce nè proprietà, nè forza, nè varietà, nè ricchezza. L’esattezza dello scriver latino, li portava a variar espressione secondo le minime varietà del discorso.
Non così ponno fare i francesi. La parola o la frase che adoprano è certamente quella che offre la loro [1499]lingua, quella che conviene, e che non potrebbe scambiarsi con un’altra. Ma ella torna bene spesso, perch’ella conviene a molte cose, ella perciò non produce nè proprietà Letteratura italiana Einaudi 1063
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia nè forza, poichè bene spesso non conviene a quella tal cosa, se non perchè la lingua è povera e non ha altro modo da esprimerla, nè da differenziarla da altre cose, o parti, o accidenti ec. ec. ec. Dico ciò generalmente parlando, ed eccettuando quelle materie nelle quali la lingua francese abbonda di parole precise. Ma la precisione (in cui la lingua francese regna) come non abbia a far colla proprietà, e come da lei non derivi nè bellezza nè varietà nè forza (la quale è sempre relativa all’immaginazione mentre la precisione parla alla ragione), l’ho detto altrove.
Ora io qui non parlo che della proprietà, e considero le lingue e la ricchezza loro, piuttosto intorno al bello, che all’esatto ec.
Del resto gli scrittori antichissimi e primitivi, non meno italiani e greci, che latini e francesi, sono sempre sommamente propri, e scarseggiano di sinonimia. Ciò accade, perch’essi, ancorchè senza studio, pur possedevano assai bene e pienamente la lingua, ancorchè vastissima, ch’essi stessi creavano o formavano, tanto in ordine al generale e all’indole, quanto in ordine ai particolari, e alle parole e modi, e alla determinazione dei loro significati ec. e v. la pag.1482-84. la quale, stante questa riflessione, non contraddice alla pag.1494-96.
(13-14. Agosto. 1821.)
Dalla teoria che abbiamo dato dei sinonimi si deducono alcune osservazioni intorno alla [1500]diramazione e diversità delle lingue nate da una stessa madre, massime da una madre già formata, colta, ricca, letterata ec. Nata appoco appoco la sinonimia nella lingua madre, e quindi diffusa questa in diverse parti, non tutti i sinonimi passano a ciascuna lingua figlia, ma solamente alcuni a questa, altri a quella. E questa è pur una delle cagioni della maggior ricchezza e proprietà delle lingue antiche. Le lingue figlie di una madre già formata, per lo più sono meno ricche di lei. Il tempo dopo aver soppresso le differenze Letteratura italiana Einaudi 1064
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia de’ significati (sia prima della diffusione, e presso la nazione originariamente partecipe di quella lingua, sia molto più dopo, e presso le nazioni che sempre corrottamente la ricevono e sempre mancante e povera, per la ignoranza e la difficoltà d’imparare una lingua nuova, e l’impossibilità di ricevere e praticar tutta intera una tal lingua ricca ec. ec.), il tempo, dico, sopprime quindi naturalmente una buona parte de’ sinonimi, conservandone solo uno o due per significato, che prevalendo appoco appoco nell’uso, fanno dimenticar gli altri ec. Così le lingue perdono
[1501]appoco appoco necessariamente di ricchezza e di proprietà, a causa della sinonimia. Oltre che le lingue figlie, nascendo da corruzione, e dagli stessi danni che il tempo reca alla sostanza materna, non la possono mai di gran lunga ereditar tutta intera. E così il fondo delle lingue si va sempre scemando se per altra parte non si accresce, e le lingue che nascono sono sempre più povere di quelle che le producono, almeno nei principii.
Questa è pur, come ho detto, una gran ragione della differenza delle lingue figlie di una stessa madre. In questa nazione prevale il tal sinonimo, e gli altri si dimentica-no, o non s’introducono mai. In quella il tal altro. Questa ne riceve o ne conserva un solo nel tale o tal significato, quella due, quell’altra più ec. Così è accaduto alla lingua latina diramata nelle Spagne, nella Francia, in Italia. E
troveremo spessissimo che la differenza con cui si esprimono le dette tre lingue in questo o quel caso, nasce dalla differenza del sinonimo latino che hanno conservato, o da principio adottato. Gl’italiani e i francesi per significare il bello usano una parola derivata dalla latina bellus; gli spagnuoli una derivata dalla latina formosus. Gli spagnuoli e gl’italiani [1502]dicono moglie dal latino mulier, i francesi femme da femina. Similmente differiscono nel numero. Altra ha conservato o adottato più sinonimi latini, altra meno. Relativamente a questo la lingua francese tiene la estremità del meno, la spagnuola il Letteratura italiana Einaudi 1065
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia mezzo, l’italiana il più, tanto per la sua circostanza nazionale, quanto pel moltissimo ch’ella ha seguito ad attingere dalle fonti latine, appena divenuta letterata. E troveremo spessissimo che, poniamo caso, di 5 o 6 parole latine divenute sinonime col tempo, l’italiana le avrà conservate, e le userà anche volgarmente o tutte o quasi tutte, gli spagnuoli, e massime i francesi appena una. Certo è raro che si possano trovar nella lingua francese due parole latine perfettamente sinonime o fino ab antico, o almeno nel loro presente uso. Piuttosto avranno parecchie parole prese d’altronde, che sieno sinonime di altre latine da loro pur conservate.
Queste considerazioni ci menano alla conseguenza del quanto ragionevole e giusto sia per la nostra lingua il seguire ad arricchirsi alle fonti latine. Le lingue madri non denno mai stimarsi chiuse alle figlie; noi abbiamo
[1503]delle lingue sorelle che possono pure attingere a una stessa fonte con noi, ma la nostra lingua assai più delle altre due. La nostra lingua, com’è naturale a quella ch’è parlata dalla stessa nazion latina, e che fu poi modellata da’ suoi formatori sulla di lei madre, tiene assai più che le altre sorelle, sì dell’indole e delle forme, sì del suono stesso e della figura esterna delle parole latine, del significato, della pronunzia stessa del latino ec. sì dell’andamento ec. della madre. Ed oltracciò, come ho detto, e come anche per cento altri lati si può vedere, ella ha ereditato della sostanza materna, o se n’è poscia rivendicata assai maggior porzione che le sorelle. Tutte queste cose fanno che l’indole dell’italiano essendo più latina, che non è lo spagnuolo e il francese, ella si adatti benissimo alle nuove parole latine, frasi, forme ec. e queste sieno tanto meno forestiere in casa sua, quanto maggior copia ella già ve ne alloggia. E che la lingua italiana quanto più ha preso, ed è abituata a prendere dal latino, tanto più, e sempre proporzionatamente di più ne possa prendere.
Giacchè così va la bisogna rispetto alle [1504]lingue. E
Letteratura italiana Einaudi 1066
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia già in tutte le cose la convenienza si misura dall’indole e dal costume, e la novità è tanto più facile a introdurre ec.
quanto è più simile al vecchio ec. Le lingue spagnuola e francese (e massime questa) appunto perchè meno hanno preso dal latino, e perchè è stata proprietà loro la par-simonia in questo particolare, e perchè non sono tanto conformi allo spirito del latino (anzi la francese in nessun modo), ec. ec., perciò volendo conservare il loro carattere, non possono neppur oggi attingerne più che tanto.
Viceversa l’italiana, la quale conserverà il suo carattere primitivo, seguendo ad attingerne come primitivamente ha fatto, e s’è accostumata a fare.
(14-15. Agos. 1821.)
Ogni volta che si troverà citato in questi fogli il Du Cange, Glossario latino-barbaro, si avverta che nella mia edizione, non è tutto del Du Cange. Vi sono parecchie giunte e correzioni de’ Monaci Maurini editori, contras-segnate nei modi che si specificano nella loro prefazione p.8. dopo il mezzo.
(15 Agosto, dì dell’Assunzione di Maria Santissima. 1821.).
L’influenza della sinonimia sui linguaggi è tanta, e sì potentemente contribuisce alla corruzione, alterazione, sovversione, ed anche al totale cambiamento delle lingue, che ad essa in [1505]gran parte si possono riferire tutti i detti effetti, la difficoltà di ritrovar l’etimologie, le diversissime facce delle lingue madri rispetto alle lingue figlie, che spesso appena si ravvisano per parenti, e le gra-duate, ma infinite diversificazioni di significato che subi-rono le parole passando di una in altra lingua, con che arrivarono a non esser più intese in altra nazione che da principio parlava la stessa favella, a compor lingue differentissime, che non si tengono più per parenti, benchè composte in buona parte di parole che originariamente erano le stesse; e derivate da una stessa fonte, che a causa Letteratura italiana Einaudi 1067
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia di queste infinite alterazioni più non si trova. La sinonimia, dico, si dee riconoscere per causa immediata di gran parte di tutto ciò, riconoscendo per cause prime o mediate ec. altre cose più materiali, come la diffusione ec. ec. Or come la sinonimia? Eccolo. Non solo i significati simili o poco differenti delle diverse parole, ma anche i più distinti e lontani sono confusi dal tempo, dalla negligenza, dall’ignoranza di coloro a’ quali trasmigra una nuova lingua ec. dallo stesso uso di parlare o scrivere elegante e metaforico ec.: così che delle parole disparatissime divengono sinonime. P.e. [1506]presso gli spagnuoli il verbo quaerere ( querer) è passato a significar velle, volvere ( bolver) redire, circa ( cerca) prope; presso i medesimi e gl’italiani il verbo clamare ( llamar, chiamare) al senso di vocare; presso i francesi donare ( donner) al senso di dare.
Questo per forza di sinonimia che appoco appoco rendendo proprio di quelle voci quel senso disparatissimo, ha spento quelle che l’aveano realmente in proprietà ec.
ec. L’etimologia di queste voci, e il modo in cui sono arri-vate a questo significato ec. facilmente si trova, riguardo alla lingua latina ch’è la madre immediata di dette tre lingue. Ma facciamo conto che dallo spagnuolo o dal francese nascesse una nuova lingua, come certo nascerà col tempo, giacchè esse medesime son già molto diverse da’
loro principii; certo che gli etimologisti si troverebbero imbrogliatissimi, ancorchè seguitassero ancora a conoscer bene l’antico latino, come già si trovano molto confusi intorno a molte parole derivate pure immediatamente dal latino, ma tanto svisate di significato che più non si raffi-gurano. Così le lingue si alterano e si mutano giornalmente, e le parole, quanto al significato, [1507]si sovvertono mirabilmente, e l’etimologie si perdono, e le lingue primitive si nascondono (come son già nascoste) a causa della sinonimia, non meno che per le altre cause.
(16. Agos. 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 1068
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Paragonando le occupazioni di un mercante che travaglia a’ suoi complicatissimi negozi, e di un giovane che scherza con una donna, quella ci par serissima, e questa frivolissima. E pure qual è lo scopo del mercante? il far danari. E perchè? per godere. E come si gode quaggiù? collo spassarsi; e uno de’ maggiori spassi e piaceri è quello che si piglia colle donne. Dunque lo scopo del mercante in ultima analisi è di potersi a suo agio, e con molti mezzi occupare in quello stesso in che si occupa il giovanastro, o in cose tali. Se dunque il fine è frivolo, quanto più il mezzo. Tutto dunque è frivolo a questo mondo, e l’utile è molto più frivolo del semplicissimo dilettevole. Così dico degli studi, e delle carriere ec.
(16. Agos. 1821.)
La brevità non piace per altro, se non perchè nulla piace. Anche i maggiori piaceri [1508]si bramano, e denno esser brevi, e lasciar desiderio, altrimenti lasciano sazietà.
Ma non v’è mezzo fra questi due estremi? non possono lasciar paghi? No. Se l’uomo potesse appagarsi di un piacere nè la brevità nè la varietà (che deriva dalla brevità, e l’include ed importa, ed è quasi tutt’uno con lei) non sarebbero piacevoli per se stesse, nè amate dall’uomo. Ora siccome l’uomo non può restar pago, e la sua peggior condizione è la sazietà, perciò una principalissima qualità de’ piaceri e delle sensazioni interiori o esteriori che servono alla felicità, si è che lascino desiderio, si è la brevità, e varietà loro, e la varietà della vita.
(17. Agos. 1821.)
Senza notabile facoltà di memoria nessun ingegno può acquistare, svilupparsi, assuefarsi, imparare, cioè nessun ingegno può nè divenire nè meno esser grande; perchè quelle sensazioni, concezioni, idee, che non sono se non momentanee, e si perdono, non possono produrne e pre-pararne delle altre, e non possono quindi servire alla gran-Letteratura italiana Einaudi 1069
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia dezza di un ingegno, tutte le cui cognizioni sono acquisite, e le cui facoltà sono quasi nulle, e conformi a quelle de’ menomi [1509]ingegni senza la coltura dell’esperienza, la qual esperienza è vana senza la memoria. La memoria si può generalmente considerare come la facoltà di assuefazione che ha l’intelletto. La qual facoltà è il tutto nell’uomo.
(17. Agos. 1821.)
Un viso, come ho detto altrove, ci par molte volte bruttissimo per la somiglianza che vi troviamo con un altro brutto, o di contraggenio per noi, o tenuto per brutto. E
si può di leggeri osservare che tolta l’idea di questa somiglianza, egli non ci parrebbe così brutto; e forse tal volta quella somiglianza sarà tale che non impedisca a quella fisonomia di essere regolarissima, malgrado l’irregolarità di quella cui somiglia. E nondimeno la detta idea ci produce una sensazione dispiacevole nel vederla, e non la chiameremo mai bella, benchè altri privi di detta idea la tengano anche universalmente per tale. Così una persona che da fanciulla ci è parsa brutta, e che siamo avvezzi a considerar come tale, benchè [1510]divenga poi bella, non mai, o non senza difficoltà potrà piacerci (quando non vi siano altre cause particolari); e forse massimamente se l’abbiamo sempre veduta crescere e formarsi. Tanto può l’opinione sull’idea del bello ec.
(17. Agos. 1821.). V. p.1521.
Il bambino non ha idea veruna di quello che significhino le fisonomie degli uomini, ma cominciando a impararlo coll’esperienza, comincia a giudicar bella quella fisonomia che indica un carattere o un costume piacevole ec. e viceversa. E bene spesso s’inganna giudicando bella e bellissima una fisonomia d’espressione piacevole, ma per se bruttissima, e dura in questo inganno lunghissimo tempo, e forse sempre (a causa della prima impres-Letteratura italiana Einaudi 1070
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia sione); e non s’inganna per altro se non perchè ancora non ha punto l’idea distinta ed esatta del bello, e del regolare, cioè di quello ch’è universale, il che egli ancora non può conoscere. Frattanto questa significazione delle fisonomie, ch’è del tutto diversa dalla bellezza assoluta, e non è altro che un rapporto messo [1511]dalla natura fra l’interno e l’esterno, fra le abitudini ec. e la figura; questa significazione dico, è una parte principalissima della bellezza, una delle capitali ragioni per cui questa fisonomia ci produce la sensazione del bello, e quella il contrario.
Non è mai bella fisonomia veruna, che non significhi qualche cosa di piacevole (non dico di buono nè di cattivo, e il piacevole può bene spesso, secondo i gusti, e le diverse modificazioni dello spirito, del giudizio, e delle inclinazioni umane esser anche cattivo): ed è sempre brutta quella fisonomia che indica cose dispiacevoli, fosse anche regolarissima. Si conosce ch’ella è regolare, cioè conforme alle proporzioni universali ed a cui siamo avvezzi, e nondimeno si sente che non è bella. Ma ordinariamente, co-m’è naturale, la regolarità perfetta della fisonomia indica qualità piacevoli, a causa della corrispondenza che la natura ha posto fra la regolarità interna e l’esterna. Ed è quasi certo che una tal fisonomia appartiene sempre a persona di carattere naturalmente perfetto ec. Ma siccome [1512]l’interno degli uomini perde il suo stato naturale, e l’esterno più o meno lo conserva, perciò la significazione del viso è per lo più falsa; e noi sapendo ben questo allorchè vediamo un bel viso, e nondimeno sentendocene egualmente dilettati (e forse talvolta egualmente commossi), crediamo che questo effetto sia del tutto indipendente dalla significazione di quel viso, e derivi da una causa del tutto segregata ed astratta, che chiamiamo bellezza. E c’inganniamo interamente perchè l’effetto particolare della bellezza umana sull’uomo (parlo specialmente del viso che n’è la parte principale, e v.
ciò che ho detto altrove in tal proposito) deriva sempre Letteratura italiana Einaudi 1071
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia essenzialmente dalla significazione ch’ella contiene, e ch’è del tutto indipendente dalla sfera del bello, e per niente astratta nè assoluta: perchè se le qualità piacevoli fossero naturalmente dinotate da tutt’altra ed anche contraria forma di fisonomia, questa ci parrebbe bella, e brutta quella che ora ci pare l’opposto. Ciò è tanto vero che, siccome l’interno dell’uomo, come ho detto, si cambia, e la fisonomia non corrisponde alle sue qualità (per la maggior parte acquisite), perciò accade che quella tal fisonomia irregolare [1513]in se, ma che ha acquistata o per arte, o per altro, una significazione piacevole, ci piace, e ci par più bella di un’altra regolarissima che per contrarie circostanze abbia acquistata una significazione non piacevole; nel qual caso ella può anche arrivarci a dispiacere e parer brutta. E se una fisonomia è fortemente irregolare, ma o per natura (che talvolta ha eccezioni e fenomeni, come accade in un sì vasto sistema), o per arte, o per la effettiva piacevolezza della persona che influisce pur sempre sull’aria del viso, ha una significazione notabilmente piacevole; noi potremo accorgerci della sproporzione e sconvenienza colle forme universali, ma non potremo mai chiamar brutta quella fisonomia, e talvolta non ci accorgeremo neppure della irregolarità, e se non la consideriamo attentamente, la chiameremo bella.
(17. Agos. 1821.). V. p.1529. capoverso 2.
I costumi delle nazioni cambiano bene spesso d’indole, massime coll’influenza del commercio, de’ gusti, delle usanze ec. straniere. E siccome l’indole della favella è sempre il fedelissimo ritratto dell’indole della nazione, [1514]e questa è determinata principalmente dal costume, ch’è la seconda natura, e la forma della natura; perciò mutata l’indole de’ costumi, inevitabilmente si muta, non solo le parole e modi particolari che servono ad esprimerli individualmente, ma l’indole, il carattere, il genio della favella. Pur troppo è certissimo che l’indole de’ costumi italia-Letteratura italiana Einaudi 1072
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ni essendo affatto cambiata, massime dalla rivoluzione in poi, ed essendo al tutto francese, è perduta quasi effettivamente la stessa indole della lingua italiana. Si ha un bel dire. Una conversazione del gusto, dell’atteggiamento, della maniera, della raffinatezza, della leggerezza, dell’eleganza francese, non si può assolutamente fare in lingua italiana. Dico italiana di carattere; e piuttosto la si potrebbe tenere con parole purissime italiane, che conservando il carattere essenziale di questa favella. Così dico dell’indole dello scrivere che oggi piace universalmente.
E troppo vero che non si può maneggiare in lingua italiana, e meno quanto all’indole che quanto alle parole. È
troppo vero che l’influenza generale del [1515]costume francese in Europa, deve ed ha realmente mutata l’indole di tutte le lingue colte, e le ha tutte francesizzate, ancor più nel carattere, che nelle voci. E in tutta Europa si travaglia a richiamar le lingue e letterature alla loro proprietà nazionale. Ma invano. Nelle parole ch’è il meno importante si potrà forse riuscire: ma nell’indole, ch’è il tutto, è impossibile, se ciascheduna nazione non ripiglia il suo proprio costume e carattere; e se noi italiani massimamente (che siamo più soggetti all’influenza, e a pigliar l’impronta straniera, perchè non siamo nazione, e non possiamo più dar forma altrui) non torniamo italiani. Il che dovremmo pur fare: e coloro che ci gridano, parlate italiano, ci gridano in somma siate italiani, che se tali non saremo, parleremo sempre forestiero e barbaro. Ma non essendo nazione, e perdendo il carattere nazionale, quali svantaggi derivino alla società tutta intera, l’ho spiegato diffusamente altre volte.
Questa influenza del costume e del carattere di una nazione sopra le altre civili, [1516]nessuna, dopo il risorgimento della civiltà, l’ebbe più stabilmente della francese. L’ebbero però anche altre, come l’Italia e la Spagna (e l’Inghilterra ultimamente), ma per cagioni meno efficaci o salde, e però fu meno durevole. Ma in proporzione del-Letteratura italiana Einaudi 1073
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia la sua forza, fu sempre ugualmente compagna dell’influenza sulle lingue. Ne’ passati secoli però queste due influenze non potevano esser grandissime 1. pel minor grado e strettezza di relazioni scambievoli in cui erano le nazioni: 2.
per la minor suscettibilità che queste avevano a perdere più che tanto del loro carattere, e ricevere l’impronta straniera, e conservarla più che tanto tempo ec. E ne avevan poca, perchè appunto non vi erano avvezze; e come è necessaria l’assuefazione particolare a far che tal nazione pigli tal carattere straniero; così è necessarissima l’assuefazione e disposizione generale, a far ch’ella possa ricevere profondamente e conservare radicatamente un nuovo carattere. Giacchè tutto è assuefazione sì nei popoli, come negl’individui. Ma in que’ tempi la civiltà non era ancora in grado sufficiente a vincere [1517]le diverse nature de’ popoli, e le particolari abitudini, e le tenacità ordinarie ec. nè a condurre il mondo all’uniformità. V. se vuoi, p.1386. Ora la civiltà tira sempre, come altrove ho detto ad uniformare; e l’uniformità fra gl’individui di una nazione, e fra le nazioni è sempre in ragione dei progressi generali o particolari della civiltà. Ed ella tira quindi sempre a confondere, risolvere, perdere ed agguagliare i caratteri nazionali, e quindi quelli delle lingue. Il qual effetto visibilissimo oggidì sì in questi che in quelli, derivando da un grandissimo e stabilissimo incremento della civiltà, non è maraviglia che sia notabilissimo e durevolissimo, e che l’universalità e l’influenza della lingua francese non si perda malgrado i cangiamenti politici, mentre non si perde nè facilmente si perderà l’universalità e l’influenza che sopra questo secolo di civiltà esercitano i costumi del popolo più civile del mondo.
I costumi de’ greci anticamente, ebbero, in proporzione de’ tempi, grande influenza [1518]sulle diverse nazioni. (Così forse anche altre nazioni più anticamente.) Quindi l’universalità della loro lingua. Siccome le scienze e discipline portano da per tutto e conservano le Letteratura italiana Einaudi 1074
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia nomenclature che ricevettero dalla nazione che inventolle e formolle, così anche i costumi. Ma le scienze si estendono a pochi, poco terreno abbracciano, e poco influiscono sul carattere delle lingue a cui passano. Laddove i costumi si estendono all’intere nazioni, ed abbracciano tutta la di lei vita, e quindi tutta la lingua che n’è la copia, e l’immagine.
(18. Agos. 1821.)
Da queste osservazioni si deduce che dopo che i costumi greci furono radicati in Roma; dopo che i romani andavano ad imparar le maniere del bel vivere in Grecia, come si va ora a Parigi; dopo che la moda, la bizzarria, l’ozio derivato dalla monarchia, l’influenza della letteratura greca ec. ebbe grecizzati i costumi e la conversazione di Roma; dopo che le case de’ nobili eran piene di filosofi, di medici, di precettori, di domestici e uffiziali greci d’ogni sorta; [1519]dopo che la letteratura romana fu definitivamente modellata sulla greca, come la russa, la svedese, la inglese del secolo d’Anna sulla francese; dopo tutto ciò la lingua romana doveva necessariamente (quando anche non si sapesse di fatto) imbarbarire a forza di grecismo, sì quanto ai particolari, sì quanto all’indole. E bisogna attentamente osservare che il grecismo di que’ tempi, non era già quello d’Erodoto o di Senofonte, e perciò la lingua e stile romano non fu mai semplice nè inartifiziato; ma quello di Luciano, di Polibio ec. cioè contorto, lavorato, elegante artifiziosamente, e similissimo all’andamento del latino. (V. p.1494-6.) Il quale andamento molto si sbaglierebbe chi lo credesse passato dal latino nel greco. Fu tutto l’opposto, e derivò dall’influenza del greco di allora, il quale nè allora nè mai fu soggetto all’influenza del latino. E se la lingua e lo stile latino classico fu sommamente più artifiziato per indole, che il greco classico, ciò si deve attribuire all’indole della grecità contemporanea al classico latino.
Letteratura italiana Einaudi 1075
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia (18. Agos. 1821.)
[1520]Tutte le nazioni hanno naturalmente il loro particolar modo di vivere, di pensare, di concepire (come lo hanno gl’individui) di vedere e idear le cose ec. Quindi tutte le lingue hanno i loro propri e distinti caratteri, a’
quali corrisponde quello delle parole lor proprie. Non si troveranno in 2 diverse lingue, 2 parole sinonime che minutamente considerate esprimano un’idea precisamente ed interamente identica. Alcune parole perfettamente considerate bastano talvolta a dipingere il carattere della vita, del pensiero, dell’intelletto, dell’immaginazione, delle opinioni ec. del popolo che le adopera. Quindi mutato costume e carattere, si muta indispensabilmente l’indole della lingua.
(18. Agos. 1821.)
E quindi ancora si conferma quello che altrove ho sostenuto, che trattandosi di parole il cui pregio consiste nella precisione del significato, e che denno suscitare universalmente quella tal precisa idea (come in fatto di parole filosofiche, scientifiche ec.); è perniciosissimo il mutarle, e sostituir loro una parola che in altra lingua paia sinonima ad essa [1521]quanto si voglia. Non lo sarà mai perfettamente, e la precisione e l’universalità di quell’idea si perderà, se vorrassi staccarla dalla parola, che le appropriò la nazione che ritrovò o determinò e rese chiara la detta idea.
(18. Agos. 1821.)
Alla p.1510. Quante cose ci paiono giornalmente brutte o belle, senza che n’abbiano alcuna ragione in se stesse, ma per le somiglianze, relazioni che hanno, idee che richiamano, o in tutti, ed allora le chiamiamo brutte o belle assolutamente, o in noi soli, ed allora, se pur vi ba-diamo (che non accade quasi mai) siamo forzati a chia-Letteratura italiana Einaudi 1076
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia marle brutte o belle relativamente. Ho veduta una soffit-ta dipinta a ritondi, o girellette disposte attorno attorno in cerchio. Che cosa ha di brutto o di vile questa invenzione in se? Pur tutti la condannavano perchè richiama l’idea di una tavola ritonda apparecchiata co’ suoi piatti in giro.
(18. Agos. 1821.)
Il passato, a ricordarsene, è più bello del presente, come il futuro a immaginarlo. [1522]Perchè? Perchè il solo presente ha la sua vera forma nella concezione umana; è la sola immagine del vero: e tutto il vero è brutto.
(18. Agos. 1821.)
Ho discorso spesso del bello che proviene dalla debolezza. Egli è un bello proveniente da pura inclinazione, e quindi non ha che far col bello ideale, anzi è fuori della teoria del bello. Infatti egli è del tutto relativo. Lasciando le infinite altre cose dove la debolezza sconviene e dispiace, osservate che agli uomini piace nelle donne la debolezza, perchè loro è naturale; alle donne negli uomini la forza e l’aspetto di essa. Ed è brutta la forza nelle donne, come la debolezza negli uomini. Se non che talvolta giova al contrasto, e dà grazia (ma perchè appunto è straordinario, cioè non conveniente) un non so che di maschile nelle donne, e di femminile negli uomini.
(18. Agos. 1821.)
Gli argomenti ch’io tiro dalla considerazione della grazia, in ordine al bello, sono giusti, e giustamente dedotti; e si può argomentare dalla [1523]grazia al bello o viceversa, e le teorie dell’uno e dell’altra comunicano e dipendono scambievolmente, hanno principii comuni, ed elementi comuni, e son quasi due rami di uno stesso tronco; e ciò in questo senso. Il bello è convenienza, la grazia un contrasto, cioè una certa sconvenienza, o almeno un Letteratura italiana Einaudi 1077
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia certo straordinario nelle convenienze. Se dunque la sconvenienza è relativa, lo è anche la convenienza; se dunque la grazia è mutabile, se ciò ch’è grazia per l’uno, non lo è per l’altro ec. ec. ec. tutto ciò si dovrà pur dire del bello.
Così anche viceversa. E se la tal cosa ad altri pare straordinaria nelle convenienze, ad altri no, ec. ec. ec. dunque l’idea della convenienza è relativa. Io posso pertanto cavare indifferentemente le mie ragioni sì dall’esame della grazia, come da quello del bello, per mostare, che quella o questo non è assoluto, e per qualunque altro scopo di simil natura ec. Dalla grazia si può dunque argomentare alla bellezza, per una ragione e in un modo simile a quello in cui dal brutto si argomenta al bello, e dalla teoria dell’uno risulta quella dell’altro; e così accade in tutti i contrarii.
(18. Agos. 1821.)
La facoltà di assuefarsi, in che consiste la memoria, e l’assuefazione ad assuefarsi in che consiste quasi interamente [1524]la detta facoltà, fanno che la memoria possa anche assuefarsi (come tutto giorno accade) a ritenere un’impressione ricevuta una sola volta, supplendo l’assuefazione generale all’assuefazione particolare, e venendo anche questo ad essere un effetto dell’assuefazione di richiamare. I bambini che non hanno ancora quest’assuefazione, o insufficiente, non ritengono impressione che non abbiano ricevuta più volte, e alla quale non si siano individualmente assuefatti. E le stesse più buone memorie non riterranno a lungo un’impressione non più ripetuta, s’essi medesimi di tratto in tratto non se la ripetono, mediante l’immaginazione che la richiama, vale a dire mediante successive reminiscenze, che formano l’assuefazione particolare a quella tale impressione. E ciò che dico della memoria, dico delle altre abitudini, ed abilità ec. (dipendenti pur da lei) che talvolta si possono acquistare in un batter d’occhio, come imparare un’opera-Letteratura italiana Einaudi 1078
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia zione di mano tanto da poterla rifare, dopo averla veduta fare una sola volta. ec. Dove concorre la facoltà e facilità di assuefazione della memoria, [1525]con quella degli organi esteriori. Ma queste pure si perdono ordinariamente se non si ripetono, e se l’assuefazione istantaneamente contratta, non si coltiva, mediante il rinnuovamento non dell’impressione stessa, ma del suo effetto ec. Ancor qui però vi sono delle differenze secondo la maggiore o minor facoltà di assuefazione e di ritentiva, naturale e acquisita, che hanno i diversi individui.
(19. Agos. 1821.)
Degli stessi tre soli scrittori letterati del trecento, un solo, cioè Dante, ebbe intenzione scrivendo, di applicar la lingua italiana alla letteratura. Il che si fa manifesto sì dal poema sacro, ch’egli considerava, non come trastullo, ma come impresa di gran momento, e dov’egli trattò le materie più gravi della filosia e teologia; sì dall’opera, tutta filosofica, teologica, e insomma dottrinale e gravissima del Convito, simile agli antichi Dialoghi scientifici ec. (vedilo); sì finalmente dalle opinioni ch’egli manifesta nel Volgare Eloquio. Ond’è che Dante fu propriamente, co-m’è stato sempre considerato, e per intenzione e per effetto, il fondatore della lingua italiana. [1526]Ma gli altri due, non iscrissero italiano che per passatempo, e tanto è lungi che volessero applicarlo alla letteratura, che anzi non iscrivevano quelle materie in quella lingua, se non perchè le credevano indegne della lingua letterata, cioè latina, in cui scrivevano tutto ciò con cui miravano a farsi nome di letterati, e ad accrescer la letteratura. Siccome giudicavano (ancor dopo Dante, ed espressamente contro il parere e l’esempio suo, specialmente il Petrarca) che la lingua italiana fosse indegna e incapace delle materie gravi e della letteratura. Sicchè non pur non vollero applicarvela, ma non credettero di potere, nè che veruno potesse mai farlo. Opinione che durò fin dopo la metà Letteratura italiana Einaudi 1079
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia del Cinquecento circa il poema eroico, del quale pochi anni dopo la morte dell’Ariosto, e pochi prima che uscisse la Gerusalemme, si credeva in Italia che la lingua italiana non fosse capace: onde il Caro prese a tradurre l’Eneide ec. (v. il 3. tomo delle sue lett. se non fallo). Ed è notissima l’opinione che portava il Petrarca del suo can-zoniere: ed egli lo scrisse [1527]in italiano, come anche il Boccaccio le sue novelle e romanzi, per divertimento delle brigate, come ora si scriverebbe in un dialetto vernacolo, e per li cavalieri e dame, e genti di mondo, che non si credevano capaci di letteratura. ec. ec. Ed è pur noto come nel 500. si scrivessero poemi sudatissimi in latino, e storie ec.
(19. Agos. 1821.)
Alla p.1109. marg. fine. Fra’ quali lo spagnuolo soltar sciogliere, in vece di solutar, da solutus di solvere. E si ha nel Glossar. solta cioè solutio, ed hanno pure i francesi soute, cioè solte, invece di solute. Così sectari sta per secutari. E il primitivo solvere s’è perduto nello spagnuolo.
(v. però il Diz.) E noi pure non diciamo assolto per assoluto? sciolto ec.? e voltare appunto, da volutare come soltar da solutare, che differisce per una sola lettera?
(19. Agos. 1821.). V. p.1562. fine.
La stessa ragione che inclina gli uomini e i viventi a credere assoluto il relativo, li porta a credere effetto ed opera della natura, quello ch’è puro effetto ed opera dell’assuefazione, e a creder facoltà o qualità congenite quelle che sono meramente acquisite. Ma egli è ben vero che questa considerazione estingue il bello e il grande: e quel sommo ingegno, o quella somma virtù considerata come figlia delle circostanze e delle abitudini, non della natura; perde tutto [1528]il nobile, tutto il mirabile, tutto il sublime della nostra immaginazione. Le qualità più eroiche e più poetiche, lo stesso sentimento, entusiasmo, Letteratura italiana Einaudi 1080
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia genio, la stessa immaginazione diventa impoetica, s’ella non si considera come dono della natura; e lo scrittor di gusto, e massime il poeta deve ben guardarsi dal considerarla altrimenti, o dal presentarla sotto altro aspetto. Virgilio diverrebbe nella nostra immaginazione poco diverso da Mevio (qual egli era infatti naturalmente), Achille da Tersite; Newton si riconoscerebbe superiore per solo caso al più povero fisico peripatetico.
(20. Agos. 1821.)
Come la grazia sia relativa si riconosce anche in ciò. Un aspetto femminile negli uomini è veramente sconveniente perch’è fuor dell’ordinario. Pur questa sconvenienza alle donne bene spesso par grazia, agli uomini bruttezza; ed io ho veduto de’ visi e delle forme femminili che agli uomini facevano nausea, far gran fortuna e colpo nelle donne al solo primo aspetto, ed esser da loro generalmente riputate bellissime. Così viceversa può dirsi del
[1529]maschile nelle donne. (V. la p.1522.) E tali altre infinite differenze si trovano ne’ due sessi, circa al senso e al giudizio della grazia, come del bello.
(20. Agos. 1821.)
E notate che, stante il gusto naturale che hanno le donne per la forza negli uomini, e gli uomini per la debolezza nelle donne, parrebbe che il fatto dovesse andare all’opposto di ciò che ho detto qui sopra. Ma oltre che i gusti naturali si alterano sommamente, infinite sono le modificazioni, le facce, le differenze di un medesimo gusto, e degli effetti suoi. ec.
(20. Agos. 1821.)
Alla p.1513. fine. Questo ch’io dico, che la bellezza umana, massime della fisonomia, è inseparabile e deriva principalmente dalla significazione, che niente ha che fare col bello, si può vedere ancora ne’ diversi atteggiamenti Letteratura italiana Einaudi 1081
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia di una persona o di un volto, più o meno animati ed espressivi, e significatori di cose più o meno piacevoli, o viceversa; secondo le quali differenze, una stessa persona, par bella e brutta, più e meno bella o brutta. [1530]Del resto un volto bello e regolare significa sempre per se qualche cosa di piacevole, quantunque falsamente. Quindi ogni volto regolare piace. Ma piace pochissimo, ed alle volte appena si sente che sia bello, s’egli o per mancanza di anima, o di coltura, o di arte nella persona, manca affatto d’ogni significazione estranea alla sua significazione naturale, e se questa si riconosce evidentemente per falsa.
Onde par molto più bello un viso molto meno regolare, ma espressivo, animato ec. che quello che ho detto. ec.
ec. ec.
(20. Agos. 1821.)
A quello che ho detto altrove per iscusar gl’inconvenienti accidentali che occorrono nel sistema della natura, aggiungete, che talvolta, anzi spessissimo, essi non sono inconvenienti se non relativi, e la natura gli ha ben preveduti, ma lungi dal prevenirgli, li ha per lo contrario inclusi nel suo grand’ordine, e disposti a’ suoi fini. La natura è madre benignissima del tutto, ed anche de’ particolari generi e specie che in esso si contengono, ma non de-gl’individui. Questi servono sovente a loro [1531]spese al bene del genere, della specie, o del tutto, al quale serve pure talvolta con proprio danno la specie e il genere stesso. È già notato che la morte serve alla vita, e che l’ordine naturale, è un cerchio di distruzione, e riproduzione, e di cangiamenti regolari e costanti quanto al tutto, ma non quanto alle parti, le quali accidentalmente servono agli stessi fini ora in un modo ora in un altro. Quella quantità di uccelli che muore nella campagna coperta di neve, per mancanza di alimenti, la natura non l’ignora, ma ha i suoi fini in questa medesima distruzione, sebben ella non serva immediatamente a nessuno. Per lo contrario la distru-Letteratura italiana Einaudi 1082
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia zione degli animali che fanno gli uomini o altri animali alla caccia, serve immediatamente ai cacciatori, ed è un inconveniente accidentale, e una disgrazia per quei poveri animali; ma inconveniente relativo, e voluto dalla natura, che gli ha destinati per cibo ec. ad altri viventi più forti.
(20. Agos. 1821.)
Facciamo conto che la scienza politica da Machiavello in poi abbia fatto 20 passi, [1532]10 passi per opera di Machiavello, e gli altri 10 distributivamente per opera degli altri successivi scrittori. Chi fu uomo più grande?
Machiavello o i suoi successori? E pur l’ultimo di questi è molto più gran politico di Machiavello, e la politica nelle sue opere ha una doppia estensione. Nessuno dunque preferisce Machiavello a quest’ultimo, e le sue opere non si leggono oramai che per profondità di studio; e se la scienza dopo lui avesse mutato faccia, come spesso accade, in virtù per altro dell’impulso da lui datole, più che di qualunque altra cagione; le opere di Machiavello non si leggerebbero più. Figuriamoci lo stesso della fisica in ordine a Galileo. Ma siccome la fisica ha realmente mutato faccia, però gli scritti di Galileo forse il più gran fisico e matematico del mondo, si lasciano agli eruditi. Tanto è vana e caduca quella gloria per cui gli uomini si affatica-no, che non solo ella dipende dalla fortuna, non solo si stende a pochissimi studiosi e consapevoli delle cose antiche, non solo basta un piccolissimo caso ad impedirla o a sopprimerla, non solo tocca bene spesso agl’immerite-voli ec. ec. ec. ec. ec. [1533]ma lo stesso cercarla, lo stesso ottenerla, è cagione del perderla. Quegli uomini straordinarii e sommi che danno colle loro opere un impulso allo spirito umano, e cagionano un suo notabile progresso, restano dopo poco spazio inferiori nell’opinione e nella realtà, a degl’ingegni molto minori, che profittando de’ suoi lumi, conducono lo spirito umano mol-Letteratura italiana Einaudi 1083
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia to più avanti di quello a cui egli non lo potè portare. Così quelle stesse opere che gli procacciarono gloria, cagionano la di lui dimenticanza; e il gran filosofo con quel medesimo con cui cerca ed ottien rinomanza, travaglia a distruggerla. Le glorie letterarie per questa parte, sono alquanto meno soggette a questo inconveniente. Dico per questa parte, perchè le alterazioni dei gusti, e la somma istabilità del bello, che non ha forma indipendente dall’opinione e dal costume ec. come il vero, producono bene spesso il medesimo effetto.
(20. Agos. 1821.)
Chi non crederebbe che il significato francese della parola genio non fosse al tutto [1534]moderno? Eppure nel seg. passo di Sidonio (Panegyr. ad Anthem. v.190. seqq.) io non so in qual altro senso, che in questo o simile, si possa intendere.
Qua Crispus brevitate placet, quo pondere Varro, Quo genio Plautus, quo fulmine13 Quintilianus, Qua pompa Tacitus numquam sine laude loquendus.
Se pur non volesse dire piacevolezza, e una cosa simile a quella che esprime talvolta l’italiano genio, e in questo senso pure non si troverebbe presso gli antichi scrittori.
V. però il Forcell. e il Ducange.
(20. Agos. 1821.)
Le parole irrevocabile, irremeabile e altre tali, produr-ranno sempre una sensazione piacevole (se l’uomo non vi si avvezza troppo), perchè destano un’idea senza limiti, e non possibile a concepirsi interamente. E però saranno sempre poeticissime: e di queste tali parole sa far uso, e giovarsi con grandissimo effetto il vero poeta.
(20. Agos. 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 1084
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Principi insigni e famosi per la [1535]bontà, e per l’amore scambievole di lui verso i popoli, e de’ popoli verso lui, non furono e non saranno mai fuorchè in un sistema di tranquillo, sicuro, ma assoluto dispotismo. Nè un Giuseppe II. nè un Enrico IV. nè un Marco Aurelio, nè altri tali non sarebbero stati in un regno come quello di Falaride, e come altri antichi, quando il popolo cozzava colla tirannide che soffriva; nè in una monarchia costituzionale, alla moderna, quando il principe cozza col popolo che non può vincere. Le ragioni le vedrai facilmente, e consistono nell’egoismo, che è la cagione tanto della clemenza, quanto della crudeltà e della tirannide de’ principi, e determina i loro caratteri a questa o a quella, secondo la diversità delle circostanze. Augusto sarebbe forse stato un buono ed amato principe, se la sua tirannide fosse stata tranquilla, e se il tempo e le circostanze le avessero permesso di esserlo. ec. ec. ec.
(20. Agos. 1821.)
A quello che ho in molti luoghi detto e spiegato della inclinazione irresistibile che l’uomo sociale contrae al partecipare altrui [1536]le proprie sensazioni ec. gradevoli o no, massime se straordinarie, bisogna riferire la gran difficoltà che giornalmente si prova a conservare il segreto, massime quanto meno l’uomo è lontano dallo stato naturale, o quanto meno è assuefatto a comprimere i suoi desiderii. Onde le donne e i fanciulli sono le persone meno capaci del segreto. Ma anche l’uomo fatto, e d’animo colto e formato ec. prova spessissimo gran difficoltà ad esser perfettamente segreto, sicchè nessun indizio gli scappi dalla bocca di ciò che sa, e massime se la cosa è curiosa ec. quantunque mai possa importare la segretezza. E se ciascheduno esaminerà bene la sua vita, vedrà quante volte la lingua gli abbia nociuto, o nelle piccole o nelle grandi cose, e bene spesso, malgrado ch’egli prevedesse il danno. Uomo perfettamente segreto, non penso che si trovi, Letteratura italiana Einaudi 1085
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia non solo per le minime circostanze che non si avvertono, e che tradiscono il segreto; ma per la inclinazione ch’egli ha a manifestarlo, inclinazione a cui egli, se non sempre, certo assai spesso fa qualche maggiore o minor sacrifizio.
E forse la maggior parte delle circostanze che ho detto, derivano in [1537]ultima analisi da questa inclinazione.
(21. Agosto 1821.)
Gli odori sono quasi un’immagine de’ piaceri umani.
Un odore assai grato lascia sempre un certo desiderio forse maggiore che qualunqu’altra sensazione. Voglio dire che l’odorato non resta mai soddisfatto neppur mediocremente: e bene spesso ci accade di fiutar con forza, quasi per appagarci, e per render completo il piacere senza potervi riuscire. Essi sono anche un’immagine delle speranze.
Quelle cose molto odorifere che son buone anche a mangiare, per lo più vincono coll’odore il sapore, e questo non corrisponde mai all’aspettativa di quel gusto, che dall’odore se n’era conceputa. E se voi osserverete vedrete che odorando queste tali cose, vi viene quel desiderio che tante volte ci avviene nella vita, d’immedesimarci in certo modo con quel piacere, il che ci spinge a porcelo in bocca: e fattolo restiamo mal paghi. Nè solo nelle cose buone a mangiare, ma anche negli altri odori ci sopravviene lo stesso desiderio; e [1538]fiutando p.e. con gran diletto un’acqua odorifera, e non potendoci mai appagare di quella sensazione, ci vien voglia di berla.
(21. Agos. 1821.)
Alla p.1453. Che la natura infatti abbia lasciato da fare all’uomo più che agli altri animali, e ch’egli anche naturalmente sia più sviluppabile, e più destinato a crescere moralmente, si fa chiaro in certo modo anche per l’incremento fisico del suo corpo: giacchè pochi altri animali crescono proporzionatamente tanto quanto cresce l’uo-mo da quel ch’egli è quando nasce; vale a dire, pochi altri Letteratura italiana Einaudi 1086
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia animali nascendo, sono proporzionatamente tanto più piccoli, di quando sono adulti, quanto è l’uomo.
(21. Agos. 1821.)
Bellezza e bruttezza relativa. Siccome la bellezza è rara, perciò andando in un nuovo paese, tu ritrovi persone la più parte brutte. Or queste ti paiono assai più brutte di quelle del tuo paese (benchè sia confinante), e a prima vista ti pare che in [1539]quel paese regni una gran deformità. La ragione è che il giudizio del bello e del brutto dipende dall’assuefazione; e i brutti del tuo paese, non ti fanno gran senso, nè ti paiono molto brutti, perchè sei avvezzo a vederli. Così pure ci accade riguardo a questo o quell’individuo in particolare. Ma quello che accade a te in quel nuovo paese, accadrà pure a que’ paesani venendo nel tuo. Viaggiando però molto, si arriva presto a perdere queste tali sensazioni, per effetto parimente dell’assuefazione.
(21. Agos. 1821.)
Ho detto qui sopra che il bello è raro, e il brutto ordinario. Come dunque l’idea del bello deriva
dall’assuefazione, e dall’idea che l’uomo si forma dell’ordinario, il quale giudica conveniente? Deriva, perchè quello che gli uomini o le cose hanno d’irregolare, non è comune. Tutti questi son brutti, ma quegli in un modo, questi in un altro. L’irregolarità ha mille forme. La regolarità una sola, o poche. E gli stessi brutti hanno sempre qualcosa di regolare, anzi quasi [1540]tutto, bastando una sola e piccola irregolarità a produr la bruttezza. Così dunque l’uomo si forma naturalmente l’idea del bello, quando anche non avesse mai veduto altro che brutti, distinguendo senza pure avvertirlo ciò che le loro forme hanno di comune, da ciò che hanno di straordinario e quindi irregolare. E posto il caso che il tale non avesse veduto alcuna persona senza un tale identico difetto, o che l’avesse Letteratura italiana Einaudi 1087
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia veduto nella maggior parte delle persone a lui note, quel difetto sarebbe per lui virtù, ed entrerebbe nel suo bello ideale. Così accadrebbe nel paese de’ monocoli. E forse può qui aver luogo il caso di una giovane da me conosciuta, che sino a 25 anni, credè sempre costantemente che nessuno vedesse dall’occhio sinistro, perch’ella non ci vedeva, e niuno se n’era accorto. L’immagine pertanto ch’ella si formava della bellezza umana, era di un uomo cieco da un occhio, ed avrebbe stimato difetto il contrario.
(21. Agos. 1821.)
Come tutto sia assuefazione ne’ viventi, si può anche vedere negli effetti della [1541]lettura. Un uomo diviene eloquente a forza di legger libri eloquenti; inventivo, originale, pensatore, matematico, ragionatore, poeta, a forza ec. Sviluppate questo pensiero, applicandovi l’esempio mio, e distinguendolo secondo i gradi di adattabilità, e formabilità naturale o acquisita degl’individui. Quei romanzieri la cui fecondità ec. d’invenzione ci fa stupire, hanno per lo più letto gran quantità di romanzi, racconti ec. e quindi la loro immaginazione ha acquistata una facoltà che qualunque ingegno, in parità di circostanze esteriori e indipendenti dalla sua natura, sarebbe capace di acquistare, in grado per lo meno somigliante.
(21. Agos. 1821.)
Lo stesso dico degli altri studi indipendenti dalla lettura. Ed è tanto vero che le dette facoltà vengono dall’assuefazione, ch’elle si acquistano, e si perdono coll’interruzione dell’esercizio, e tale che poco fa era dispo-stissimo a ragionare, oggi non lo è più. E s’egli da’
ragionatori, passa agli scrittori d’immaginazione, la sua mente, mutato abito, [1542]acquista una facoltà d’immaginare ec. ec. ec. Così m’è accaduto mille volte. Bensì, com’è naturale, questi abiti si possono (mediante sempre Letteratura italiana Einaudi 1088
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia l’assuefazione) confermare in modo che anche interrotto l’esercizio, non si perdano, benchè s’indeboliscano; o si possano presto ripigliare ec. ec. ec. Questo effetto è generale in tutte le assuefazioni.
(21. Agos. 1821.)
Un altr’abito bisogna ancora contrarre e massimamente nella fanciullezza. Quello cioè di applicare le dette assuefazioni alla pratica, quello di metterle a frutto, e di farle servire all’esecuzione di cose proprie. P.e. molti vi sono, che hanno squisito giudizio, moltissima lettura, cognizione ec. Non manca loro altro che il detto abito per essere insigni scrittori: ma stante questa mancanza, metteteli a scrivere, essi non sanno far nulla. Essi non hanno l’abito, e quindi la facoltà dell’applicazione, e dell’esecuzione propria ec. Perciò un uomo il quale (volendo seguitare l’esempio di sopra) abbia letto molti romanzi, e sia d’ottimo giudizio ec. ec. può benissimo non saperne nè scrivere nè concepire, perchè non ha l’abito
[1543]dell’applicazione, e del fissare la mente a tirar profitto coll’opera propria da quelle assuefazioni; non ha l’esercizio dello scrivere, nè del pensare a questo fine, nè del mirare a ciò nell’assuefarsi ec. ec. ec. non ha l’abito dell’attendere e del riflettere alle minuzie, ch’è necessario per assuefarsi a porre in opera le altre assuefazioni; non ha l’abito della fatica ec. E perciò molti ancora, anzi i più, leggono anche moltissimo, non solo senza contrarne abilità d’eseguire (ch’è insomma abilità d’imitazione), ma neppur di pensare, e senza guadagnar nulla, nè contrarre quasi verun’abitudine, cioè attitudine. V. p.1558.
(22. Agos. 1821.)
Tutti più o meno (massimamente le persone che hanno coltivato il loro intelletto, e sviluppatene le qualità, e quelle che sono ammaestrate da molta esperienza ec.) concepiscono in vita loro delle idee, delle riflessioni, delle imma-Letteratura italiana Einaudi 1089
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia gini ec. o nuove, o sotto un nuovo aspetto, o tali insomma che bene e convenientemente espresse nella scrittura, potrebbero esser utili o piacevoli, e separar quello scrittore, se non altro, dal numero de’ copisti. Ma perchè gl’ingegni (massime in Italia) non hanno l’abito di fissar fra se stessi, circoscrivere, e chiarificare le loro idee, perciò queste restano per lo più nella loro mente in uno stato incapace di esser consegnate e adoperate nella scrittura; e i più, quando si mettono a scrivere, non trovando niente del loro che faccia al caso, si contentano di copiare, o compilare, o travestire l’altrui; e neppur si ricordano, nè credono, nè [1544]s’immaginano, nè pensano in verun modo a quelle idee proprie che pur hanno, e di cui potrebbero far sì buon uso. Mancano pure dell’abito di saper convenientemente esprimere idee nuove, o in nuova maniera, cioè di applicare per la prima volta la parola e l’espressione conveniente ad un’idea, di fabbricarle una veste adattata alla scrittura; e perciò, quando anche le concepiscano chiaramente, le lasciano da banda, non sapendo darle giorno, e disperando, anzi neppur desiderando di potere, e si rivolgono alle idee altrui che hanno già le loro vesti belle e fatte. Che se essi talvolta si lasciano portare a volere esprimere le dette idee proprie, per la mancanza di abilità acquistata coll’esercizio, lo fanno miserabilmente. Questo esercizio è tanto necessario, che io per l’una parte loderò moltissimo, per l’altra piglierò sempre buonissima speranza di un fanciullo o di un giovane, il quale ponendosi a scrivere e comporre, vada sempre dietro alle idee proprie, e voglia a ogni costo esprimerle, siano pur frivole com’è naturale nei principii della riflessione, e malamente espresse, com’è naturale ne’
principii dello scrivere e dell’applicare [1545]i segni ai pensieri. A me pare ch’io fossi uno di questi.
(22 Agos. 1821.)
L’uomo senza la speranza non può assolutamente vive-Letteratura italiana Einaudi 1090
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia re, come senza amor proprio. La disperazione medesima contiene la speranza, non solo perchè resta sempre nel fondo dell’anima una speranza, un’opinione direttamente o quasi direttamente, ovvero obbliquamente contraria a quella ch’è l’oggetto della disperazione; ma perchè questa medesima nasce ed è mantenuta dalla speranza o di soffrir meno col non isperare nè desiderare più nulla; e forse anche con questo mezzo, di goder qualche cosa; o di esser più libero e sciolto e padrone di se, e disposto ad agire a suo talento, non avendo più nulla da perdere, più sicuro, anzi totalmente (se è possibile e v. la p.1477.) sicuro in mezzo a qualunque futuro caso della vita ec.; o di qualche altro vantaggio simile; o finalmente, se la disperazione è estrema ed intera cioè su tutta la vita, di vendicarsi della fortuna e di se stesso, di goder della stessa disperazione, della stessa agitazione, vita interiore, sentimenti gagliardi ch’ella suscita ec. Il piacere della disperazione è ben conosciuto, e quando si rinunzi alla speranza e al desiderio di tutti gli altri, non si lascia mai di sperare
[1546]e desiderar questo. Insomma la disperazione medesima non sussisterebbe senza la speranza, e l’uomo non dispererebbe se non isperasse. Infatti la disperazione più debole e meno energica è quella dell’uomo vecchio, lungamente disgraziato, sperimentato ec. che spera veramente meno. La più forte, intera, sensibile, e formidabile, è quella del giovane ardente e inesperto, ch’è pieno di speranze, e che gode perciò sommamente benchè barbaramente della stessa disperazione ec.
(22. Agos. 1821.)
Quelli che meno sperano, meno godono della loro disperazione, e meno anche disperano, e conservano più facilmente una speranza benchè languida, pur distinta e visibile in mezzo alla disperazione. Tale è il caso degli uomini lungamente sventurati, e soliti ed assuefatti a soffrire e a disperare. Viceversa dico degli altri. La dispera-Letteratura italiana Einaudi 1091
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia zione poi dell’uomo ordinariamente felice, è spaventevole.
(22. Agos. 1821.)
Siccome non v’è infelicità che non possa crescere (p.1477.), così non v’è uomo tanto perfettamente disperato che sopraggiungendolo [1547]una nuova, impreveduta e grande sciaura non provi nuovo dolore.
Anzi bene spesso quando anche sia preveduta, quando anche sia quella medesima per cui si disperava. Dunque la speranza gli restava ancora. E nessuno è mai tanto disperato che, se bene si dia a credere di non esser più suscettibile di maggior dolore, e di star sicuro nella sua piena disperazione, non sia realmente soggetto a sentire l’accrescimento del male. Non v’è infermo così ragionevole e capace di conoscer da se di avere necessariamente a morir del suo male (come sarebbe un medico ec.), che al ricever l’avviso di dover morire non si turbi fuor di modo.
Dunque sperava ancora di non morire. Questa osservazione è del Buffon. E come non v’è tanto gran male che non possa esser maggiore, così non v’è disperazione umana che non possa crescere. Dunqu’ella non è mai perfetta per grande ch’ella sia, dunque non esclude mai pienamente la speranza.
(22. Agos. 1821)
Osservate quell’uomo disperatissimo di tutta quanta la vita, disingannatissimo d’ogni illusione, e sul punto di uccidersi. Che cosa credete voi ch’egli pensi? pensa che la sua morte sarà o compianta, o ammirata, o desterà spavento, o farà conoscere il suo coraggio, a’ parenti, agli amici, a’ conoscenti, a’ cittadini; che si discorrerà di lui, se non altro per qualche istante con un sentimento straordinario; che le menti si esalteranno almeno di un grado sul di lui [1548]conto; che la sua morte farà detestare i suoi nemici, l’amante infedele ec. o li deluderà ec. ec.
Credete voi ch’egli non tema? egli teme, (sia pur Letteratura italiana Einaudi 1092
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia leggerissimamente) che queste speranze non abbiano effetto. Io son certissimo che nessun uomo è morto in mezzo a qualche società senza queste speranze e questi timori, più o meno sensibili; e dico morto, non solo volontariamente, ma in qualche modo. E s’egli è mai vissuto nella società ec. morendo anche nel deserto, e quivi anche di sua mano, spera (sia pur lontanissimamente) che la sua morte quando che sia verrà conosciuta ec. V. p.1551.
Tanto è lungi dal vero che la speranza o il desiderio possano mai abbandonare un essere che non esiste se non per amarsi, e proccurare il suo bene, e se non quanto si ama.
(22. Agos. 1821.)
Alla p.1449. Vero è per altro che nè l’immaginazione de’ vecchi sarà mai così feconda nè forte ec. come quella de’ giovani, nè quella de’ moderni, come quella degli antichi, nè la comandata come la spontanea. E quindi la poesia de’ moderni cederà sempre all’antica quanto al-l’immaginazione. E si può ben comandare a questa, e renderla a viva forza anche più feconda e più gagliarda dell’antica, ma non si riuscirà mai in questo modo a dare a’
suoi parti quella bellezza, quella grazia, quella vita che
[1549]non ponno avere se non le sue produzioni spontanee. Saranno anche più energici, e non per tanto meno vivi, e men belli, anzi tanto meno quanto più energici, derivando quest’energia dalla forzatura, e dalla tortura a cui si mette la fantasia, per cavarne cose che facciano grand’effetto, e spirino originalità ec. Tali sono ordinariamente i parti delle fantasie settentrionali, parti la cui straordinaria forza non è vitale, ma come quella che si acquista coll’acqua vite, e benchè più forti assai delle invenzioni greche, sono ben lungi dall’averla vita, e la sana complessione di queste.
Bisogna però convenire che l’uomo moderno, così tosto com’è pienamente disingannato, non solo può meglio Letteratura italiana Einaudi 1093
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia comandare all’immaginazione che al sentimento, il che avviene in ogni caso, ma anche è meglio atto a immaginare che a sentire. Quando gli uomini sono ben conosciuti, non è più possibile sentir niente per loro; ogni moto del cuore è languido, e oltracciò s’estingue appena nato. L’affetto è incompatibile colla conoscenza della malvagità dell’uomo, e della nullità [1550]delle cose umane. L’uo-mo disingannato non ha più cuore, perchè i sentimenti ancorchè destati da tutt’altro, hanno sempre relazione o vicina o lontana co’ nostri simili. E come può l’uomo riscaldarsi per cose di cui conosce o la perversità o la total vanità? Sparito dagli occhi umani quel mondo umano, dove solo si poteva esercitare il suo cuore; sparita l’idea della virtù, dell’eroismo ec. ec. ec. il sentimento è distrutto. L’odio o la noia non sono affetti fecondi; poca eloquenza somministrano, e poco o niente poetica. Ma la natura, e le cose inanimate sono sempre le stesse. Non parlano all’uomo come prima: la scienza e l’esperienza coprono la loro voce: ma pur nella solitudine, in mezzo alle delizie della campagna, l’uomo stanco del mondo, dopo un certo tempo, può tornare in relazione con loro benchè assai meno stretta e costante e sicura; può tornare in qualche modo fanciullo, e rientrare in amicizia con esseri che non l’hanno offeso, che non hanno altra colpa se non di essere stati esaminati, e sviscerati troppo minutamente, e che anche secondo la scienza, hanno pur delle intenzioni e de’ fini benefici verso lui. Ecco un certo
[1551]risorgimento dell’immaginazione, che nasce dal dimenticare che l’uomo fa le piccolezze della natura, conosciute da lui colla scienza; laddove le piccolezze, e le malvagità degli uomini, cioè de’ suoi simili, non è quasi possibile che le dimentichi. Egli stesso assai mutato da quel di prima, e conosciuto da lui assai più intimamente di prima, egli stesso da cui non si può nè allontanare nè separare, servirebbe a richiamargli l’idea della miseria, della vanità, della tristizia umana. In questo stato l’uomo Letteratura italiana Einaudi 1094
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia moderno è più atto ad imitare Omero che Virgilio.
(23. Agos. 1821.). V. p.1556. fine.
Alla p.1548. marg. Quindi la cura che i suicidi soglion prendere di lasciar qualche notizia, qualche cenno della loro morte, e del modo di essa; com’ella fu veramente volontaria, non derivò da pazzia, nè da malattia, nè da violenza altrui. Molti si stendono anche a descriverne tutte le cagioni, e le circostanze e spendono molto tempo a trattenersi, ad informare, a cattivarsi insomma quel mondo, che nel medesimo punto sono per lasciare, abbominandolo, disprezzandolo, e disperando di nulla ottenerne. [1552]Che se altri tralasciano tutto ciò, non lo fanno che per riscuotere maggiore ammirazione o dagli altri, o certo da se stessi.
(23. Agosto 1821.)
Certe voci false negli uomini piacciono moltissimo alle donne. Così forse anche viceversa, sebbene noi siamo meglio informati e avvertiti intorno a ciò che accade alle donne rispetto a noi, che a noi rispetto alle donne. Del resto il detto effetto appartiene alla grazia derivante dallo straordinario e dallo stesso difettoso.
(23. Agos. 1821.)
Montesquieu Essai sur le goût ha alcuni pensieri sulla grazia, analoghi a quelli ne’ quali ho spiegato com’ella derivi dall’irregolare che benchè sconveniente, non arriva a distruggere la convenienza.
(23. Agosto. 1828.)
L’indebolimento della memoria, non è scancellamento d’immagini o d’impressioni ec. ma inabilitamento degli organi, ad eseguire le solite operazioni a cui sono assuefatti, tanto generali che particolari, e a contrarre
[1553]nuove assuefazioni particolari, cioè nuove remi-Letteratura italiana Einaudi 1095
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia niscenze.
(23. Agos. 1821.)
Si vedono persone di montagna venute nelle grandi città, contrarre brevemente le maniere civili e graziose, ed altre nate in paesi assai meno rozzi, viver lungamente nelle grandi città, e tornare in patria colle stesse maniere di prima. Ecco le differenze de’ talenti; maggiore o minor facilità d’assuefarsi e dissuefarsi. Io spererò sempre bene di quel fanciullo, che dimostri nelle minime cose questa facilità, che sia singolarmente portato all’imitazione, che facilmente e presto contragga le maniere, la pronunzia ec. ec. e gli stessi difetti di coloro con cui vive, e presto se ne divezzi, e le perda secondo la novità delle circostanze ec. ec. che trasportato in un nuovo paese o in un nuovo circolo, ne pigli subito le virtù o i vizi. Dico finattanto che nel fanciullo non si può pretendere il discernimento: il quale deriva da una lunga e varia serie di assuefazioni.
(23. Agosto. 1821.)
Tutti dicono che l’uomo è un animale imitativo, ch’egli è singolarmente portato [1554]all’imitazione, influito dall’esempio ec. Che altro è questo se non dire ch’egli dipende in tutto dall’assuefazione; che non apprende se non perchè si avvezza, e non ha fra tutti gli animali somma facoltà di apprendere, se non perchè ha fra tutti somma facoltà di avvezzarsi, come somma inclinazione e disposizione a imitare; che quasi tutte le sue facoltà e qualità sono acquisite ec. ec.?
(23. Agos. 1821.)
Non solo, come ho spiegato altrove si fa male quello che si fa con troppa cura, ma se la cura è veramente estrema, non si può assolutamente fare, e per giungere a fare bisogna rimettere alquanto della cura, e della intenzione di farlo.
Letteratura italiana Einaudi 1096
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia (24. Agos. 1821.)
In questo presente stato di cose, non abbiamo gran mali, è vero, ma nessun bene; e questa mancanza è un male grandissimo, continuo, intollerabile, che rende penosa tutta quanta la vita, laddove i mali parziali, ne affliggono solamente una parte. L’amor proprio, e quindi il desiderio ardentissimo della felicità, perpetuo ed essenzial compagno della vita [1555]umana, se non è calmato da verun piacere vivo, affligge la nostra esistenza crudelmente, quando anche non v’abbiano altri mali. E i mali son meno dannosi alla felicità che la noia ec. anzi talvolta utili alla stessa felicità. L’indifferenza non è lo stato dell’uomo; è contrario dirittamente alla sua natura, e quindi alla sua felicità. V. la mia teoria del piacere, applicandola a queste osservazioni, che dimostrano la superiorità del mondo antico sul moderno, in ordine alla felicità, come pure dell’età fanciullesca o giovanile sulla matura.
(24. Agos. 1821.)
Consideriamo la natura. Qual è quell’età che la natura ha ordinato nell’uomo alla maggior felicità di cui egli è capace? Forse la vecchiezza? cioè quando le facoltà dell’uomo decadono visibilmente; quando egli si appassisce, indebolisce, deperisce? Questa sarebbe una contraddizione, che la felicità, cioè la perfezione dell’essere, dovesse naturalmente trovarsi nel tempo della decadenza e quasi corruzione di detto essere. Dunque la gioventù, cioè il fior dell’età, quando le facoltà dell’uomo sono in pieno vigore ec. ec. [1556]Quella è l’epoca della perfezione e quindi della possibile felicità sì dell’uomo che delle altre cose. Ora la gioventù è l’evidente immagine del tempo antico, la vecchiezza del moderno. Il giovane e l’antico presentano grandi mali, congiunti a grandi beni, passioni vive, attività, entusiasmo, follie non poche, movimento, vita d’ogni sorta. Se dunque la gioventù è visibilmente Letteratura italiana Einaudi 1097
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia l’età destinata dalla natura alla maggior felicità, l’�km¯
della vita, e per conseguenza della felicità ec. ec. se il nostro intimo senso ce ne convince (che nessun vecchio non desidera di esser giovane, e nessun giovane vorrebbe esser vecchio); se la considerazione del sistema e delle armonie della natura ce lo dimostra a primissima vista; dunque l’antico tempo era più felice del moderno; dunque che cosa è la sognata perfettibilità dell’uomo? dunque ec. ec. Quest’osservazione si può stendere a larghissime conseguenze.
(24. Agos. 1821.)
Alla p.1551. Tanto la facoltà d’immaginare quanto di sentire sono abiti. Or quell’abito si racquista meglio di questo.
[1557]L’immaginazione, eccetto ne’ fanciulli, non ha, e non abbisogna di fondamento nella persuasione. Omero non credeva certo a quello ch’egli immaginava. La scienza può dunque sommamente indebolire l’immaginazione; pur non è incompatibile seco lei. Per l’opposto, il sentimento se non è fondato sulla persuasione è nullo. Quell’uomo che non crede più alla virtù; che sa com’ella è dannosa, e del resto non si trova in nessuno; che ha perduto l’idea della grandezza degli animi e delle cose e delle azioni, vedendo come tutte queste e tutti quelli son piccoli; che ha conosciuto come l’entusiasmo, l’eroismo, l’amore non hanno verun soggetto reale; che gli uomini e le cose sono indegnissime di destare in lui questi affetti ec. ec. un tal uomo come può far uso del suo cuore, come può provar più verun sentimento forte e durevole; egli che sotto le più belle apparenze, discopre sempre chiaramente o fortemente sospetta, l’inganno, l’astuzia, la malvagità, i secondi fini, la vanità, la viltà, la nullità, la freddezza?
(24. Agos. 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 1098
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia
[1558]Alla p.1543. marg. La quale attitudine è sì dipendente dall’abito e dall’esercizio ec. che intermettendolo, i più grandi ingegni illanguidiscono, o perdono talvolta affatto la detta attitudine, sia particolarmente, cioè riguardo a un dato genere di scrittura o di lavoro, sia generalmente, cioè riguardo a tutti i generi.
Benchè sia loro meno difficile il ricuperarlo, che altrui l’acquistarlo, com’è naturale, per effetto dell’abito passato.
(24. Agos. 1821.)
Discorre il Monti (Proposta ec. vol.1. p.227.) della separazione da farsi della natura bruta dalla coltivata. Vedilo. Egli antepone, come si può ben credere, questa a quella. È verissimo. L’arte emenda, abbellisce, ec. ec. non poche volte la natura. La natura non tocca dall’arte, spessissimo è intollerabile, dannosa, schifosa (come dice il Monti). Ma come tutto ciò? forse assolutamente? non già; ma relativamente all’uomo. Or tutto ciò che vuol dire?
che la natura ha errato? ch’ell’è imperfetta nelle sue opere? Così la pensano coloro a’ quali par molto più assurdo che l’uomo non faccia tutto bene, di quello che la natura abbia [1559]fatto ogni cosa male, e sbagliato a ogni tratto, e vada sempre mendicando l’opera e il soccorso delle sue proprie creature. Ma io dico. Quelle cose che senza un’infinita arte dell’uomo, non gli giovano, non gli piacciono, o gli nocciono, o fanno nausea ec. non erano e non son fatte per l’uomo. Il mondo non è tutto fatto per l’uo-mo. Quelle cose che eran fatte per lui, o dovevano aver relazione con lui, ed avercela in quel tal modo, la natura le ha ordinate con tutta la possibile perfezione al suo bene.
Così ha fatto per tutte le altre cose, il cui bene non sempre si accorda con quello dell’uomo.
Ma poichè l’uomo, mediante ciò che si chiama perfezionamento, e io chiamo corruzione, s’è posto in relazione con tutto il mondo, s’è proccurata un’infinità di biso-Letteratura italiana Einaudi 1099
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia gni ec. ec. ha dovuto con infinite difficoltà ridurre tutte le cose a uno stato idoneo al suo servizio; e le stesse cose che la natura avea destinate al suo uso, non essendo più buone a servirlo nel suo nuovo stato, ha dovuto, parte abbandonarle, parte ridurle a una condizione diversissima ed anche opposta alla naturale. [1560]Che vuol dir questo? non che la natura è imperfetta, ma che l’uomo non è qual doveva. Se l’arte è necessaria alla natura rispetto all’uomo, e non un’arte, dirò così, naturale, come n’adoprano proporzionatamente anche i bruti, ma un’ar-te difficilissima, infinita, complicatissima, lontanissima dalla natura; ciò non vuol dire che la natura per se stessa abbisogna dell’arte, ma che l’uomo è ridotto in tale stato che non gli basta più la natura di gran lunga; e ciò prova che questo stato non gli conviene. L’uomo alterandosi, ha trovato la natura imperfetta per lui. Ciò vuol dire ch’egli non s’è dunque perfezionato, ma corrotto; ciò vuol dire che egli non corrisponde più al sistema delle cose, e per conseguenza ch’egli è in uno stato vizioso. L’imperfezione dell’uomo, che non ha niente d’assurdo, perchè vien da lui, noi l’ascriviamo alla natura, il che è assurdissimo in sì perfetta maestra, e poi in quella che è la sola norma e ragione del perchè una cosa sia perfetta o no; giacchè fuor di lei, e della sua libera disposizione, non esiste altra ragione di perfezione o [1561]imperfezione. Dopo che l’uomo s’è cambiato, ha dovuto cambiar la natura. Ciò prova ch’egli non doveva cambiarsi. Se la sua nuova condizione fosse stata voluta e ordinata dalla natura, ella avrebbe disposte e ordinate le altre cose in modo che cor-rispondessero e servissero perfettamente a questa nuova condizione. E non dopo il cambiamento, ma prima di esso, l’uomo si sarebbe trovato in opposizione colla natura, (come oggi si trova tutto giorno) se il cambiamento fosse stato primordialmente ed essenzialmente ordinato dalla natura, cioè dalla ragion delle cose. Tutti gli esseri nel loro stato relativo di perfezione, trovano la natura Letteratura italiana Einaudi 1100
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia perfettamente corrispondente ai loro fini, al loro bene, ec. e si trovano in perfetta armonia con tutte le cose che hanno relazione naturale ed essenziale (non accidentale) con loro. Solamente l’uomo in quello stato ch’egli chiama di perfezione, trova la natura renitente, ripugnante, mal disposta a’ suoi vantaggi, a’ suoi piaceri, a’ suoi desiderii, a’ suoi fini, e gli conviene rifabbricarla. Quanto più egli s’avanza [1562]verso la sognata perfezione del suo essere tanto meno si trova in armonia colle cose quali elle sono, e gli conviene, raddoppiando proporzionatamente l’arte, e vincendo sempre maggiori difficoltà, cambiar le cose, e farle essere diversamente. Quanto più l’uo-mo è perfetto, cioè in armonia col sistema delle cose esistenti, e di se stesso, tanto più gli è difficile e faticoso il vivere, e l’esser felice. Che strana assurdità sarebbe questa nella natura? che strana contraddizione con tutte le altre anche menome parti del suo sistema?
Se dunque l’arte è necessaria oggi all’uomo, e se la natura bruta gli è incompatibile, ciò vuol dire ch’egli non è qual dovrebbe, e che il suo vero stato di perfezione è il primitivo, come quello di tutte le altre cose. Lungi pertanto dall’esser questo un argomento contro il mio sistema, combatte fortemente per lui.
(25. Agosto, dì di S. Bartolomeo, 1821.). V. p.1699.
capoverso 2.
Alla p.1527. Similmente gli spagnuoli hanno perduto il latino furari, ma hanno un suo continuativo ignoto nella buona latinità, cioè hurtar (che anticamente dicevasi furtar) [1563]contratto da furatare, o furitare. Furtare si trova in alcune scritture latine-barbare Portoghesi presso il Du-Cange.
(25. Agos. 1821.). V. p.2244. fine.
La virtù, l’eroismo, la grandezza d’animo non può tro-Letteratura italiana Einaudi 1101
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia varsi in grado eminente, splendido e capace di giovare al pubblico, se non che in uno stato popolare, o dove la nazione è partecipe del potere. Ecco com’io la discorro.
Tutto al mondo è amor proprio. Non è mai nè forte, nè grande, nè costante, nè ordinaria in un popolo la virtù, s’ella non giova per se medesima a colui che la pratica.
Ora i principali vantaggi che l’uomo può desiderare e ottenere, si ottengon mediante i potenti, cioè quelli che hanno in mano il bene e il male, le sostanze, gli onori, e tutto ciò che spetta alla nazione. Quindi il piacere, il cattivarsi in qualunque modo, o da vicino o da lontano, i potenti, è lo scopo più o meno degl’individui di ciascuna nazione generalmente parlando. Ed è cosa già mille volte osservata che i potenti imprimono il loro carattere, le loro inclinazioni ec. alle nazioni loro soggette. [1564]Perchè dunque la virtù, l’eroismo, la magnanimità ec. siano praticate generalmente e in grado considerabile da una nazione, bisognando che questo le sia utile, e l’utilità non derivando principalmente che dal potere, bisogna che tutto ciò sia amato ec. da coloro che hanno in mano il potere, e sia quindi un mezzo di far fortuna presso loro, che è quanto dire far fortuna nel mondo.
Ora l’individuo, massime l’individuo potente, non è mai virtuoso. Parlo sì del principe, come de’ suoi ministri, i quali in un governo dispotico, necessariamente son despoti, gravitano sopra i loro subalterni, e questi sopra i loro ec. essendo questa una conseguenza universale e immancabile del governo dispotico di un solo; cioè che il governo sia composto di tanti despoti, non potendo il dispotismo essere esercitato dal solo monarca; e che l’autorità di ciascuno de’ suoi ministri, mediati o immediati, sia temuta con una specie di spavento, adorata ec. da’
subalterni ec. (come si può vedere nel governo passato di Spagna) ed influisca quindi [1565]sommamente sulla nazione, e determini il suo carattere, essendo dispotica (benchè dipendente) padrona del suo bene e del suo male.
Letteratura italiana Einaudi 1102
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia L’individuo, dico, o gl’individui potenti, (siccome gli altri) non sono nè possono essere virtuosi, se non a caso, cioè o quando la virtù giovi loro, (cosa rara, perchè a chi ha in mano le cose altrui giova il servirsene, e non l’astenersene ec. ec. ec.) o quando una straordinaria qualità di carattere, di educazione ec. ve li porti, del che vedete quanto sieno frequenti gli esempi nelle storie, massimamente moderne.
L’individuo non è virtuoso, la moltitudine sì, e sempre, per le ragioni e nel senso che ho sviluppato altrove. Quindi in uno stato dove il potere o parte di esso sta in mano della nazione, la virtù ec. giova, perchè la nazione (che tiene il potere) l’ama; e perchè giova, perciò è praticata più o meno, secondo le circostanze, ma sempre assai più e più generalmente che nello stato dispotico. La virtù è utile al pubblico necessariamente. Dunque il pubblico è necessariamente virtuoso o inclinato alla virtù, perchè necessariamente ama se stesso e quindi la propria utilità.
Ma la virtù non è sempre utile all’individuo. Dunque l’individuo non è sempre virtuoso, nè necessariamente. Oltre ch’è ben più facile e ordinario ingannarsi un individuo sulle sue vere utilità, che non la moltitudine. Ma in ogni modo l’individuo cerca il suo proprio bene, il pubblico cerca il suo (vero o falso, con mezzi acconci o sconci): questa è virtù sempre e in qualunque caso, quello egoismo e vizio. Parlo principalmente delle virtù pubbliche, cioè di quelle virtù grandi, [1566]i cui effetti, o i cui esempi si stendono largamente, in qualunque modo avvenga. Ma non intendo di escludere neppure le virtù private e domestiche, alle quali quanto sia favorevole (massime alle virtù forti e generose) lo stato popolare, e sfavorevole il dispotico, lo dicano per me le storie antiche e moderne; lo dica fra le altre la storia della Francia monarchica, e della Francia repubblicana, lo dica l’Inghilterra ec.
Quando l’utile non è se non ciò che piace agl’individui, e questi non sono, e quasi non possono esser virtuosi, o Letteratura italiana Einaudi 1103
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia lo sono momentaneamente, o questo sì e quello no, e cento altri no; quando l’utilità insomma delle virtù dipende dal carattere, dalle inclinazioni, dalle voglie, dai disegni de-gl’individui, e per conseguenza la virtù, quando anche giovi talvolta, non giova costantemente ed essenzialmente, ma per circostanze accidentali, non è possibile che quella tal nazione sia abitualmente e generalmente virtuosa, e che gl’individui di lei si allevino in quella virtù che da un momento all’altro può divenir loro non solo inutile, ma anche dannosissima. La virtù allora [1567]non sussistendo che nelle apparenze, quando queste bisognino, non è virtù, ma calcolo, finzione, e quindi vizio. E bisogna ch’ella sia sempre finta nei sudditi, perch’essi, quando anche giovi oggi, non possono sapere se gioverà domani, dipendendo la sua utilità non dalla sua natura, nè da circostanze essenziali, e stabilmente fondate nella loro ragione, ma dall’essere amata o non amata da individui, che per lo più non l’amano, e che se non altro, oggi possono amarla e domani no, amarla questo, e odiarla quello, o il suo successore. ec. ec.
Oltracciò quelle qualità che si esercitano per piacere ad una società molto estesa, come dire alla nazione, sono quasi inseparabili (quando anche fossero finte, nel qual caso non giovano costantemente) da una certa grandezza d’animo; e contribuisce questa circostanza a render gli uomini virtuosi ec. e veramente virtuosi. Anche lo stesso far corte a una nazione per ottenerne il favore, ingrandisce l’animo, ed è compatibile colla virtù. Il soggettarsi alla nazione è piuttosto grandezza che bassezza. Dove che il far corte all’individuo per cattivarsene la grazia, il soggettarsi ad un uomo uguale a voi, e nel quale non vedete nessuna buona e sublime ragione di predominio, nessuna [1568]bella illusione che nobiliti il vostro abbas-samento (come accade riguardo alla nazione, la cui moltitudine pone quasi lo spettatore in una certa distanza, e la distanza dà pregio alle cose; alla nazione dove sempre Letteratura italiana Einaudi 1104
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia si suppongono grandi e buone qualità in massa); tutto questo, dico, impiccolisce, avvilisce, abbassa, umilia l’animo, e gli fa ben sentire il suo degradamento, laonde è incompatibile colla virtù; perchè chi ha forza di far questo, ha perduto la stima di se stesso, fonte, guardia, e nutrice della virtù; e chi ha perduto la stima di se, e consen-tito a perderla, e non se ne pente, nè cerca ricuperarla ec.
o chi non l’ha mai posseduta nè curata, non può assolutamente essere virtuoso.
(26. Agosto 1821.)
Quello che ho detto altrove del sozzo e del polito, si può parimente dire dello schifoso ec. ec. E si può aggiungere che non solo nelle diverse specie d’animali, ma in una stessa specie, in uno stesso individuo, massimamente umano, l’idea del sozzo o del netto varia in maniera, secondo le assuefazioni ec. che non si può ridurre a veruna forma concreta universale.
(27. Agosto 1821.)
La massima conformabilità dell’uomo rispetto a tutte le altre creature note, fa che si [1569]trovino assai maggiori e più numerose differenze fra gl’individui umani, e fra le successive condizioni di uno stesso individuo, che in qualunque altra specie di esseri.
(27. Agosto 1821.)
Le maravigliose facoltà che acquistano i sordi, i ciechi ec. o nati o divenuti, sono un’altra gran prova del quanto le nostre facoltà e quelle de’ viventi derivino dalle circostanze e dall’assuefazione; e del quanto sia sviluppabile, modificabile, duttile, pieghevole, conformabile la natura umana.
(27. Agosto 1821)
Ma ben altro è la conformabilità, che la perfettibilità.
Letteratura italiana Einaudi 1105
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Cosa generalmente non intesa dai filosofi, i quali credono di aver provato che l’uomo è perfettibile, quando hanno provato ch’è conformabile. Il che anzi dimostrerebbe l’opposto, cioè che le varie qualità e facoltà non primitive che si sviluppano nell’uomo mediante la coltura, ec. ec.
non sono ordinate dalla natura, ma accidentali, e figlie delle circostanze, come le malattie che modificano viziosamente i nostri organi ec. ec.
(27. Agosto 1821.)
[1570]La nostra civiltà, che noi chiamiamo perfezione essenzialmente dovuta all’uomo, è manifestamente accidentale, sì nel modo con cui s’è conseguita, sì nella sua qualità. Quanto al modo, l’ho già mostrato altrove. Quanto alla qualità, essendo l’uomo diversissimamente conformabile, e potendo modificarsi in milioni di guise dopo che s’è allontanato dalla condizione primitiva, egli non è tale qual è oggi, se non a caso, e in diverso caso, poteva esser diversissimo. E questo genere di pretesa perfezione a cui siam giunti o vicini, è una delle diecimila diversissime condizioni a cui potevamo ridurci, e che avremmo pur chiamate perfezioni. Consideriamo le storie, e le fonti del nostro stato presente, e vediamo quale infinita combinazione di cause e circostanze differentissime ci abbia voluto a divenir quali siamo. La mancanza delle quali cause o combinazioni ec. in altre parti del globo, fa che gli uomini o restino senza civiltà, e poco lontani dallo stato primitivo, o siano civili (cioè perfetti) in diversissimo modo, come i Chinesi. Dunque è manifesto che la nostra civiltà, che si crede essenzialmente appartenerci, non è stata [1571]opera della natura, non conseguenza necessaria e primordialmente preveduta delle disposizioni da lei prese circa la specie umana (e tale dovrebb’essere, s’ella fosse perfezione), ma del caso. In maniera che, per così dire, neppur la natura formando l’uomo, poteva indovinare, non dico ciò che fosse per divenire, ma come potes-Letteratura italiana Einaudi 1106
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia se e dovesse divenir perfetto, e in che cosa consistesse la sua perfezione, ch’è pur lo scopo e l’integrità di quell’esistenza ch’ella stessa gli dava e formava. Non sapeva dunque che cosa ella si formasse, giacchè gli esseri e le cose tutte non vanno considerate, nè si può giudicar di loro, e della loro qualità ec. se non se nello stato di perfezione.
Or com’è possibile che la natura la quale ha fatto ogni cosa perfetta, (nè poteva altrimenti) non abbia nè assegnato verun genere di perfezione alla sua principal creatura, nè disposto le cose in modo che l’uomo dovesse necessariamente conseguire questa perfezione, cioè la pienezza e il vero modo del suo essere? e che gli abbia detto; la perfezione, cioè l’esistenza intera, l’esistenza che ti conviene, il modo in cui devi essere, la forma e la natura tua propria, te la darà [1572]il caso, come, e quando, e se vorrà, e quanto vorrà, cioè in quel grado e in quei luoghi che vorrà, e quale vorrà?
(27 Agos. 1821.)
Che immensa opera è la civilizzazione! quanto difficile; quanto ne sono lontani da che mondo è mondo la maggior parte degli uomini! che risultato d’infinite combinazioni accidentali! La perfezione essenziale alle cose, doveva essere assegnata dalla natura in questo modo alla principal cosa del nostro sistema, cioè all’uomo?
(27. Agos. 1821.)
Chi maneggia d’intorno a se un rasoio, o altro ferro o cosa che possa offendere, e teme di offendersi, è in pericolo grande di farlo: perchè? perchè pone troppa cura e intenzion d’animo ad evitarlo; e ciò glielo rende difficile.
(27. Agosto. 1821.)
Quanto l’uomo sia invincibilmente inclinato a misurar gli altri da se stesso, si può vedere anche nelle persone le più pratiche del mondo. Le quali se, p.e. sono fortemen-Letteratura italiana Einaudi 1107
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia te morali, per quanto conoscano, e sentano e vedano, non si persuaderanno mai intimamente che la moralità non esista più, e [1573]sia del tutto esclusa dai motivi determinanti l’animo umano. Lo dirà ancora, lo sosterrà, in qualche accesso di misantropia arriverà a crederlo, ma come si crede momentaneamente a una viva e conosciuta illusione, e non se ne persuaderà mai nel fondo dell’intelletto. (Lascio i giovani i quali essendo ordinariamente virtuosi, non si convincono mai prima dell’esperienza, che la virtù sia nemmeno rara.) Così viceversa ec. ec. ec. Esempio, mio padre.
(27. Agosto. 1821.)
Dice Cicerone (il luogo lo cita, se ben mi ricordo, il Mai, prefazione alla versione d’Isocrate, de Permutatione) che gli uomini di gusto nell’eloquenza non si appagano mai pienamente nè delle loro opere nè delle altrui, e che la mente loro semper divinum aliquid atque infinitum desiderat, a cui le forze dell’eloquenza non arrivano. Questo detto è notabilissimo riguardo all’arte, alla critica, al gusto.
Ma ora lo considero in quanto ha relazione a quel perpetuo desiderio e scontentezza che lasciano, siccome tutti i piaceri, [1574]così quelli che derivano dalla lettura, e da qualunque genere di studio; ed in quanto si può riferire a quella inclinazione e spasimo dell’uomo verso l’infinito, che gli antichi, anche filosofi, poche volte e confusamente esprimono, perchè le loro sensazioni essendo tanto più vaste e più forti, le loro idee tanto meno limitate e definite dalla scienza, la loro vita tanto più vitale ed attiva, e quindi tanto maggiori le distrazioni de’ desiderii, che la detta inclinazione e desiderio non potevano sentirlo in un modo così chiaro e definito come noi lo sentiamo.
Osservo però che non solo gli studi soddisfanno più di qualunque altro piacere, e ne dura più il gusto, e l’appe-Letteratura italiana Einaudi 1108
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tito ec. ma che fra tutte le letture, quella che meno lascia l’animo desideroso del piacere, è la lettura della vera poesia. La quale destando mozioni vivissime, e riempiendo l’animo d’idee vaghe e indefinite e vastissime e sublimissime e mal chiare ec. lo riempie quanto più si possa a questo mondo. Così che Cicerone [1575]non avrebbe forse potuto dire della poesia ciò che disse dell’eloquenza. Ben è vero che questa è proprietà del genere, e non del poeta individualmente, e non deriva dall’ar-te sua, ma dalla materia che tratta. Certo è che un poeta con assai meno arte ed abilità di un eloquente, può lasciare un assai minor vôto nell’animo, di quello che possa il più grande oratore; e produr ne’ lettori quel sentimento che Cicerone esprime, in assai minor grado.
(27. Agos. 1821.)
L’ingenuità p.e. di un fanciullo riuscirebbe graziosa anche all’uomo naturale, perch’essa gli riuscirebbe non ordinaria, essendo sempre alquanto diversa dal suo proprio costume e degli altri suoi coetanei, co’ quali più che con gli altri si convive, e da’ quali più che dagli altri l’uo-mo piglia e forma l’idea dell’uomo.
(27. Agosto. 1821.)
Tanto è vero esser la grazia del tutto relativa, che gli uomini svogliati e blasés dal lungo uso de’ piaceri ec. hanno bisogno di un forte straordinario per provare il senso della grazia, tanto che quello straordinario che ad essi par grazioso, ad altri par difettoso, e produce il senso e il giudizio della [1576]sconvenienza. Come quei palati che hanno bisogno dei ragoûts e delle salse ad esser solletica-ti. Questo effetto è comunissimo oggidì, stante la natura della nostra civiltà, massime riguardo alle donne negli uomini, e viceversa. Quel naso retroussé che fa miracoli presso Marmontel, gli fa in Solimano, annoiato, com’è naturale a un Sultano, dall’eccesso de’ piaceri ec. E forse Letteratura italiana Einaudi 1109
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia la massima parte delle cose che oggi si hanno per graziose, e lo sono, non debbono questa qualità che alla svogliatura di questo secolo, o di questa o quella nazione.
Il numero di queste grazie derivanti da sola svogliatura è infinito, e comunissimo nella nostra vita. E si può prevedere che crescerà di mano in mano, e che oltracciò diverranno grazie molte qualità delle cose, che ora si hanno per difetti, anche gravi, e che producono un vivo senso e giudizio di sconvenienza.
(27. Agosto 1821.)
Quanto sia vero che la bellezza delle fisonomie dipende dalla loro significazione, osservate. L’occhio è la parte più espressiva del volto e della persona; l’animo si dipinge sempre nell’occhio; una persona d’animo grande ec.
ec. [1577]non può mai avere occhi insignificanti; quando anche gli occhi non esprimessero nulla, o fossero poco vivi in qualche persona, se l’animo di costei si coltiva, acquista una certa vita, divien furbo e attivo, ec. ec. l’occhio parimente acquista significazione, e viceversa accade nelle persone d’occhio naturalmente espressivo, ma d’animo torpido ec. per difetto di coltura ec. ec.; nei diversi momenti della vita, secondo le passioni ec. che ci commuovono, l’occhio assume diverse forme, si fa più o men bello ec. ec. Ora l’occhio ch’è la parte più significativa della forma umana, è anche la parte principale della bellezza. (Questo si può dimostrare con molte considerazioni.) Un paio d’occhi vivi ed esprimenti penetrano fino all’anima, e destano un sentimento che non si può esprimere. Questo si chiama effetto della bellezza, e questa si crede dunque assoluta; ma non v’ha niente che fare; egli è effetto della significazione, cosa indipendente dalla sfera del bello, e la bellezza principale dell’occhio, non appartenendo alla convenienza, non entra in quello che il filosofo considera come bello.
[1578]Dipingete un viso senz’occhi, voi non sapete an-Letteratura italiana Einaudi 1110
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia cora s’egli è bello o brutto, e non vi formate un’idea sufficiente di quella fisonomia (fosse anche un ritratto somigliantissimo). Aggiungeteveli, e quella fisonomia vi par tutt’altra da quella di prima ec. ec. Quest’osservazione si può molto amplificare e distinguere in molte parti.
Un viso irregolare con un bell’occhio par bello, con occhio insignificante, si troverà regolare ma non bello.
Dunque quello che noi chiamiamo bello nell’umana fisonomia, ch’è singolarmente proprio della bellezza di essa, quell’effetto particolare ch’essa produce, e che non è prodotto da verun’altra regolarità, quell’effetto che si potrebbe considerare come assoluto, non appartiene al bello (oltre che anch’esso varia secondo gl’individui ec.), ma alla significazione, e deriva da una cagione simile a quella per cui si giudicano universalmente belle le donne baϑækolpoi.
Parecchie fisonomie di animali somigliano all’umana.
Osservate e vedrete che questa somiglianza siede principalmente nell’occhio. E generalmente parlando l’occhio di ciascun animale [1579]determina la sua fisonomia, e l’impressione ch’ella ci fa. Un animale senz’occhi, o i cui occhi non si vedano, o sien fatti diversamente dai nostri (come quelli delle lumache), tali animali non hanno fisonomia per noi; talora neppur ci paiono appartenenti al nostro genere, cioè al regno animale. E lo ci parrebbero se avessero occhi simili ai nostri, quando anche tutto il resto della loro forma differisse affatto dalle forme generalmente comuni agli animali. L’occhio insomma sembra essere il costituente di ciò che si chiama fisonomia, e quasi anche (almeno nella nostra idea) di tutto l’ aspetto dell’animale.
L’altezza della fronte è indizio di talento, d’anima nobile, suscettibile, capace ec. V. Lavater. E l’altezza della fronte è bellezza e piace; e viceversa la bassezza.
Il volto è la parte più significativa dell’uomo. E il volto è la parte principale della bellezza umana, come ho svi-Letteratura italiana Einaudi 1111
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia luppato altrove.
(28. Agos. 1821.)
Per un esempio e in conferma di quanto ho detto altrove, che l’eleganza, la grazia ec. dello scrivere antico, la semplicità de’ concetti e de’ modi, la purità ec. della lingua, sono o in tutto o in parte piaceri artifiziali, dipendenti dall’assuefazione e dall’opinione, relativi ec. e fanno maggior effetto in noi, e ci piacciono più che agli stessi antichi, a quegli stessi scrittori che ci recano oggidì tali piaceri ec. ec. si può addurre il Petrarca, [1580]e il disprezzo in che egli teneva i suoi scritti volgari, apprez-zando i latini che più non si curano. Egli certo non sentiva in quella lingua illetterata e spregiata ch’egli maneg-giava, in quello stile ch’egli formava, la bellezza, il pregio e il piacere di quell’eleganza, di quella grazia, naturalezza, semplicità, nobiltà, forza, purità che noi vi sentiamo a prima giunta. Egli non si credeva nè puro (in una lingua tutta impura e barbara come giudicavasi la italiana, corruzione della latina) nè nobile, nè elegante ec. ec. L’opinione, l’assuefazione ec. o piuttosto la mancanza di esse glielo impedivano.
(28. Agos. 1821)
Dalla mia teoria del piacere si conosce per qual ragione si provi diletto in questa vita, quando senza aspettarne nè desiderarne vivamente nessuno, l’animo riposato e indifferente, si getta, per così dire, alla ventura in mezzo alle cose, agli avvenimenti, e agli stessi divertimenti ec. Questo stato non curante de’ piaceri nè de’ dolori, è forse uno de’ maggiori piaceri, non solo per altre cagioni, ma per se stesso.
[1581]Parecchie volte un vigore straordinario e passeggero, cagiona al corpo e a’ nervi un certo torpore, per cui l’animo s’abbandona in seno di una negligenza circa le cose e se stesso, in maniera che o vede tutto dall’alto, e Letteratura italiana Einaudi 1112
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia come non gli appartenesse se non debolissimamente; o non pensa quasi a nulla, e desidera e teme il meno che sia possibile. Questo stato è per se stesso un piacere.
Il languore del corpo alle volte è tale, che senza dargli affanno e fastidio, affievolando le facoltà dell’animo, affievola ogni cura e ogni desiderio. L’uomo prova allora un piacere effettivo, massime se viene da uno stato affan-noso ec. e lo prova senz’alcun’altra cagione esterna, ma per quella semplice dimenticanza de’ mali, e trascuranza de’ beni, desideri e speranze, e per quella specie d’insensibilità cagionatagli da quel languore.
(28. Agos. 1821.)
La letteratura italiana fu per alcun tempo universale in modo che per cagione di essa si studiava e sapeva la nostra lingua nelle altre nazioni civili, anche dalle donne, come oggi il [1582]francese. E nondimeno la lingua italiana ha bensì lasciato alle altre parecchie voci spettanti alla nomenclatura di quelle scienze o arti che l’Italia ha comunicato agli stranieri, ma poche o quasi nessuna appartenente alla letteratura. Questo accade perchè la lingua italiana non è stata mai universale se non a causa della letteratura, e in quanto letterata. Ed è una nuova prova che la letteratura è debolissima fonte di universalità. Le altre lingue letterate, state universali non per questa sola, ma per altre cagioni insieme, hanno introdotto e introducono, hanno perpetuato ec. nelle altre lingue non poche voci e modi spettanti alla letteratura. Forse anche il detto effetto deriva dal poco tempo che durò l’influenza della letteratura italiana, dalla poca coltura delle nazioni che la risentirono, dal poco stretto commercio delle nazioni in que’ tempi, dallo scarso numero de’ letterati che v’avevano allora tra’ forestieri, e quindi di coloro che coltivaro-no la nostra lingua ec. sebbene ho detto ch’ell’era coltivata anche dalle donne, e ciò fino al tempo di Luigi 14. I costumi sono la principal [1583]fonte della universalità Letteratura italiana Einaudi 1113
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia di una lingua. La letteratura può servire a introdurre i costumi e le opinioni ec. Senza ciò, la lingua per mezzo suo poco si propaga. E piuttosto rimangono alle altre lingue qualche voce spettante a qualche costume ec. ec. venuto di qua più o meno anticamente, che alla nostra letteratura.
(28. Agos. 1821.)
Nessuno vede più degli altri, ma qualcuno osserva e combina più degli altri. Quello che accade nelle scienze fisiche, accade nelle metafisiche e morali. In quelle e in queste, una scoperta fatta si comunica e partecipa a chicchessia. Un ragionamento ben espresso e sviluppato il quale conduca alle verità le più remote dall’opinione e dalla cognizione comune, può subito essere inteso dallo stesso volgo. Ognuno può vedere da che uno ha veduto.
ec. ec.
(29. Agos. 1821.). V. p.1767.
Moltissimi piaceri non son quasi piaceri, se non a causa della speranza e intenzione che si ha di raccontarli. Tolta questa vi troveremmo un gran vuoto. Questa rende piacevoli le cose che non lo sono, anche le dispiacevoli ec.
ec. Questi effetti però ponno riferirsi all’ambizione, al desiderio di parere interessante, ec. non a quello di comunicare e dividere le proprie sensazioni. [1584]
(29. Agos. 1821.)
Le persone stesse che sono sensibili, suscettive d’entusiasmo ec. non lo sono sempre, o quando più quando meno, secondo le circostanze, e anche secondo certi tempi alle volte periodici. Ora il sintoma del ritorno della sensibilità ec. o della maggior forza e frequenza abituale de’ suoi effetti, è, si può dir, sempre, una scontentezza, una malinconia viva ed energica, un desiderio non si sa di che, una specie di disperazione che piace, una propen-Letteratura italiana Einaudi 1114
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia sione ad una vita più vitale, a sensazioni più sensibili. Anzi la sensibilità e l’entusiasmo in tali ritorni non compari-scono bene spesso che sotto queste forme. Ecco come la sensibilità, e l’energia delle facoltà dell’anima sia compagna della scontentezza e del desiderio, e quindi dell’infelicità, specialmente quando nulla corrisponde all’attività interna, come risulta dalla mia teoria del piacere, e dagli altri pensieri che la riguardano.
(29. Agos. 1821.)
On peut plaider pour la vie, et il y a cependant assez de bien à dire de la mort, ou de ce qui lui ressemble. (Corinne, t. [1585]2. p.335.) Dalla mia teoria del piacere (v. anche il pensiero precedente, e la p.1580-81.) risulta che infatti, stante l’amor proprio, non conviene alla felicità possibile dell’uomo se non che uno stato o di piena vita, o di piena morte. O conviene ch’egli e le sue facoltà dell’animo sieno occupate da un torpore da una noncuranza attuale o abituale, che sopisca e quasi estingua ogni desiderio, ogni speranza, ogni timore; o che le dette facoltà e le dette passioni sieno distratte, esaltate, rese capaci di vivissimamente e quasi pienamente occupare, dall’attività, dall’energia della vita, dall’entusiasmo, da illusioni forti, e da cose esterne che in qualche modo le realizzino. Uno stato di mezzo fra questi due è necessariamente infelicissimo, cioè il desiderio vivo, l’amor proprio ardente, senza nessun’attività, nessun pascolo alla vita e all’entusiasmo. Questo però è lo stato più comune degli uomini. Il vecchio potrà talvolta trovarsi nel primo stato, ma non sempre. Il giovane vorrebbe sempre trovarsi nel secondo, e oggidì si trova quasi sempre nel terzo. Così dico proporzionatamente dell’uomo di mezza età. Dal che segue [1586]1. che il giovane senz’attività, il giovane domo e prostrato e incatenato dalle sventure ec. è nello stato precisamente il più infelice possibile: 2. che l’amor proprio non potendo mai veramente estinguersi, e i desiderii Letteratura italiana Einaudi 1115
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia pertanto esistendo sempre con maggiore o minor forza, sì nel giovane che nel maturo e nel vecchio; lo stato al quale la generalità degli uomini, e la natura immutabile inclina è sempre più o meno il secondo: e quindi la migliore repubblica è quella che favorisce questo secondo stato, come l’unico conducente generalmente alla maggior possibile felicità dell’uomo, l’unico voluto e prescritto dalla natura, tanto per se stessa e primitivamente (come ho spiegato nella teoria del piacere); quanto anche oggidì, malgrado le infinite alterazioni della razza umana.
(29. Agos. 1821.)
La scienza non supplisce mai all’esperienza, cosa generalissima ed evidentissima. Il medico colla sola teorica non sa curar gli ammalati; il musico fornito della sola teoria della sua professione, non sa nè comporre nè eseguire una melodia; il letterato che non ha mai scritto, non sa scrivere; il filosofo che non [1587]ha veduto il mondo da presso, non lo conosce. I principi pertanto non conoscono mai gli uomini, perchè non ne ponno mai pigliare esperienza, vedendo sempre il mondo sotto una forma ch’egli non ha. Lascio le adulazioni, le menzogne, le finzioni ec.
de’ cortigiani; ma prescindendo da questo, il principe non ha cogli altri uomini se non tali relazioni, che essi non hanno con verun altro. Ora le relazioni ch’egli ha con gli uomini, sono l’unico mezzo ch’egli ha di acquistarne esperienza. Dunque egli non può mai conoscer la vera natura di coloro a’ quali comanda, e de’ quali deve regolar la vita. Io ho molto conosciuto una Signora che non essendo quasi mai uscita dal suo cerchio domestico, ed avvezza a esser sempre ubbidita, non aveva imparato mai a comandare, non aveva la menoma idea di quest’arte, nu-triva in questo proposito mille opinioni assurde e ridicole, e se talvolta non era ubbidita, perdeva la carta del na-vigare. Ell’era frattanto di molto spirito e talento, sufficientemente istruita, e studiosamente educata. Ella si fi-Letteratura italiana Einaudi 1116
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia gurava gli uomini affatto diversi da quel che sono: [1588]il principe che ne vede e tratta assai più, benchè li veda assai più diversi da quelli che sono, tuttavia potrà conoscerli forse alquanto meglio; ma proporzionatamente parlando, e attesa la tanto maggior cognizione degli uomini che bisogna a governare una nazione, di quella che a governare una famiglia, io credo che un principe sappia tanto regnare, quanto quella dama comandare a’ figli e a’ domestici. Sotto questo riguardo il regno elettivo sarebbe assai preferibile all’ereditario. Vero è però che niuno conosce gli uomini interamente, come bisognerebbe per ben governarli. Connaître un autre parfaitement serait l’étude d’une vie entière; qu’est-ce donc qu’on entend par connaître les hommes? les gouverner, cela se peut, mais les comprendre, Dieu seul le fait. (Corinne. l.10. ch.1.
t.2. p.114.).
(30. Agos. 1821.)
La manière de vivre des Chartreux suppose, dans les hommes qui sont capables de la mener, ou un esprit ex-trêmement borné, ou la plus noble et la plus continuelle exaltation des sentiments religieux. (Corinne, lieu cité ci-dessus. p.113.) Così è: l’inattività e la monotonia non conviene che agli spiriti menomi [1589]o sommi. Gli uni e gli altri per diversissima ragione cercano il metodo e il riposo. Gli uni per sopire i desiderii che li tormentano, gli altri perchè non ne hanno. Gli uni perchè la vita non basta loro, si rifuggono alla morte, gli altri perchè il loro animo non vive. Gli uni ancora perchè non hanno bisogno di vita esterna, vivendo assai internamente, gli altri perchè non abbisognano d’alcuna vita. Gli spiriti mediocri, cioè la massima parte degli uomini, sono incompatibili con questo stato, e infelicissimi in esso, o in altro che lo somigli.
V. la p.1584. fine.
(30. Agos. 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 1117
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Chi ha perduto la speranza d’esser felice, non può pensare alla felicità degli altri, perchè l’uomo non può cercarla che per rispetto alla propria. Non può dunque neppure interessarsi dell’altrui infelicità.
(30. Agos. 1821.)
Vuoi tu vedere l’influenza dell’opinione e
dell’assuefazione sul giudizio e sul sentimento, per così dire, fisico delle proporzioni; anzi come questo nasca totalmente dalle dette cause, e ne sia interamente determinato? [1590]Osserva una donna alta e grossa vicina ad un uomo di giusta corporatura. Assolutamente tu giudichi e ti par di vedere che le dimensioni di quella donna sieno maggiori di quelle dell’uomo strettamente parlando. Ragguaglia le misure e le troverai spessissimo uguali, o maggiori quelle dell’uomo. Osserva una donna di giusta corporatura vicino ad un uomo piccolo. Ti avverrà lo stesso effetto e lo stesso inganno. Similmente in altri tali casi. Questi sono dunque inganni dell’occhio: e da che prodotti? che cosa inganna lo stesso senso? l’opinione e l’assuefazione. (30. Agos. 1821.). Alla Commedia in Bo-logna vidi una donna vestita da uomo: pareva un bambolo.
In un altro atto ella uscì fuori da donna, facendo un altro personaggio: mi parve, com’era, un gran pezzo di persona.
Non si sa che i costumi de’ romani passassero ai greci neppur dopo Costantino. Dico, non questo o quel costume, ma la specie e la forma generale de’ costumi, come quella che da’ greci passò realmente a’ romani, e da’ francesi agl’italiani principalmente, e agli altri popoli civili proporzionatamente. Da che i costumi de’ greci furono formati, essi li comunicarono agli altri, ma non li ricevettero mai più da nessuno. Quindi la sì lunga incorruttibilità della loro lingua, e la [1591]sua durata fino al presente.
La tenacità che i greci ebbero sempre per le cose loro, e Letteratura italiana Einaudi 1118
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia l’amore esclusivo che portarono e portano alla loro nazione, e a’ loro nazionali, è maravigliosa. Ho udito di alcune colonie greche ancora sussistenti in Corsica e in Sicilia, dove i coloni parlano ancora il greco, conservano i costumi greci, e non hanno stretta società se non fra loro, benchè abitino in mezzo a un paese di nazione diversa, e sieno soggetti a un governo forestiero. Le relazioni de’
viaggiatori intorno alla Grecia, ed agli altri paesi abitati da greci, confermano questa invincibile tenacità. Dove si trovano greci cattolici e scismatici, insieme con altri cattolici, i greci cattolici, malgrado il divieto della loro religione, de’ loro vescovi (per lo più forestieri), e l’impero che queste cose hanno sulla loro opinione, vogliono piuttosto congiungersi in matrimonio ec. co’ loro nazionali scismatici che co’ cattolici forestieri, fanno stretta alleanza fra loro, e spesso declinano dall’una all’altra religione.
Si potrebbe riferire a questa osservazione il cattivo esito de’ tanti negoziati fatti al tempo del Concilio di Firenze, per sottomettere la Chiesa greca alla latina, e indurla a riconoscere un’autorità [1592]forestiera. È noto che mentre il rito latino si stabiliva in quasi tutto il resto del Cristianesimo, il rito greco, e in esso la lingua greca conservavasi e conservasi in tutta la Chiesa greca comu-nicante, in qualunque paese ella sia. E son pur noti i privilegi della Chiesa greca Cattolica, e la specie d’indipendenza che gli è accordata, e la renitenza ch’ella suole opporre a quella stessa parte di dominio che la Chiesa latina conserva su di lei.
E non è maraviglioso lo stato presente dei greci? Non si distinguono più le razze gote, longobarde ec. dalle italiane, nè le franche dalle celtiche o romane, nè le moresche dalle spagnuole. Le lingue sono pur confuse in questi paesi ec. Non si discernono mai gli Arabi da’ Persiani nella Persia, la religione Araba v’è stabilita universalmente, la lingua Persiana tutta mista d’arabesco. Le razze e le costumanze tartare si vengono di mano in mano confon-Letteratura italiana Einaudi 1119
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia dendo nella China colle razze e costumanze cinesi. Ma i greci non sono divenuti mai turchi, nè i turchi greci. Due religioni, due lingue, due maniere di costumi e di usanze, d’inclinazioni e di carattere ec. due nazioni insomma totalmente difformi convivono in un paese dove l’una è tuttavia forestiera benchè signora, [1593]l’altra ancora indigena benchè schiava. E se i costumi greci, e quindi la lingua sono cambiati da quelli di prima, questo cambiamento deriva piuttosto dal tempo, e da altre circostanze inevitabilmente alteranti, che dal commercio giornaliero con una nazione straniera. La presente modificazione de’ costumi e dell’indole greca, è quasi affatto indipendente da’ costumi e dall’indole turca: e il tempo le ha piuttosto levato che aggiunto nulla. L’odierna rivoluzione della Grecia, alla quale prendono parte i greci di quasi tutti i paesi i più segregati; la quale ha riunito una nazione schiava in maniera da renderla formidabile ec. ec. dimostra qual sia lo spirito nazionale dei greci, la ricordanza e la tenacità delle cose loro, l’unione singolarissima fra gl’individui di un popolo schiavo, l’odio che portano a quello straniero con cui e sotto cui vivono da sì gran tempo, l’odio nazionale insomma inseparabile dall’amor nazionale, e fonte di vita ec. (v. p.1606. capoverso 1.) L’affare di Parga ec.
fa pure al proposito.
(30. Agos. 1821.)
Gli Ottentotti hanno generalmente un tumore adiposo sotto il coccige. Le parti sessuali delle loro donne sono singolarmente costruite. Crediamo noi che queste singolarità siano bruttezze per loro? anzi che non sarebbe brutto per loro chi non le avesse?
(31. Agos. 1821.)
[1594]La forza dell’opinione, dell’assuefazione ec. e come tutto sia relativo, si può anche vedere nelle parole, ne’ modi, ne’ concetti, nelle immagini della poesia e della Letteratura italiana Einaudi 1120
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia prosa comparativamente. Paragone il quale si può facilmente istituire, mostrando come una parola, una sentenza non insolita, che non fa verun effetto nella prosa perchè vi siamo assuefatti, lo faccia nel verso ec. ec. ec. e puoi vedere la p.1127.
(31. Agos. 1821.)
La bellezza è naturalmente compagna della virtù. L’uo-mo senza una lunga esperienza non si avvezza a credere che un bel viso possa coprire un’anima malvagia. Ed ha ragione, perchè la natura ha posto un’effettiva corrispondenza tra le forme esteriori e le interiori, e se queste non corrispondono, sono per lo più alterate da quelle ch’erano naturalmente. Pure è certo che i belli sono per lo più cattivi. Lo stesso dico degli altri vantaggi naturali o acquisiti. Chi li possiede, non è buono. Un brutto, un uomo sprovvisto di pregi e di vantaggi, più facilmente s’incammina alla virtù. Gli uomini senza talento sono più ordinariamente buoni, che quelli che ne son ricchi. E tutto ciò è ben naturale nella società. L’uomo insuperbisce del vantaggio che si accorge [1595]di avere sugli altri, e cerca di tirarne per se tutto quel partito che può. S’egli è più forte, fa uso della sua forza. Il più debole si raccomanda, e segue la strada che più giova e piace agli altri, per cattivarseli. Il forte non abbisogna di questo. Ecco l’abuso de’ vantaggi. Abuso inevitabile e certo, posta la società. Così dico de’ potenti ec. i quali non ponno essere virtuosi. Ne’ privati a me pare che non si trovi vera affabilità, vera e costante amabilità e facilità di costumi, interesse per gli altri ec. se non che nei brutti, in chi ha qualche svantaggio, è nato in bassa condizione ed assuefattoci da piccolo, ancorchè poi ne sia uscito, è povero o lo fu, ovvero negli sventurati.
Ora domando io. Sono vantaggi o non sono, la bellezza, l’ingegno ec. ec.? La virtù ec. un certo buon ordine ec. ec. sono o non sono voluti dalla natura? (Questo è Letteratura italiana Einaudi 1121
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia certo, perchè il fanciullo e il giovane v’è sempre inclinato). Che strana contraddizione è dunque questa che nello stato di società i vantaggi naturali e acquisiti sieno quasi assolutamente incompatibili colla bontà de’ costumi? che per trovar questa, bisogni [1596]desiderare che il tale o tal altro sia brutto, sciocco ec. ec.? anzi che la maggior parte degli uomini, e tutti, se fosse possibile, fossero tali pel bene del mondo? (I devoti sogliono infatti chiamar favori e benefizii di Dio, questi e altri tali svantaggi). Che vuol dir tutto ciò? che lo stato sociale è contraddittorio colla natura, e con se stesso. Giacchè esso stesso non può sussistere senza la virtù e la morale, unico legame degli uomini, e sola sufficiente garanzia dell’ordine e della società ec. e queste non possono stare con un’altra cosa che è parimente necessaria al bene della società, vale a dire i vantaggi e i beni individuali. Quello che dico degl’individui dico anche delle nazioni. È noto come la giustizia ec.
ec. sogliano essere osservate dalle nazioni e principi deboli o infelici ec. e trascurate affatto dalle altre, e da esse stesse appena arrivano alla felicità e forza, come accadde a Roma.
(31. Agosto 1821.)
Il sopraddetto si può se non altro, e con molto maggior forza applicare a dimostrare le ingenite ed essenziali contraddizioni che rinchiude uno stato di civiltà come il presente.
(31. Agos. 1821.)
[1597]Tutto nella natura è armonia, ma soprattutto niente in essa è contraddizione. Non è possibile che, massime in un medesimo individuo, in un medesimo genere di esseri, e degli esseri più elevati nell’ordine naturale, siccom’è l’uomo, la perfezione di una parte principale e importantissima di esso, voluta e ordinata dalla natura, noccia a quella di un’altra parte similmente Letteratura italiana Einaudi 1122
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia principalissima. Ora se quella che noi chiamiamo perfezione del nostro spirito, se la civiltà presente fosse stata voluta e ordinata dalla natura, e se ella fosse insomma veramente la nostra perfezione, allora la contraddizione assurda che ho detto, si verificherebbe; giacchè è incontrastabile che questa pretesa perfezione dell’animo nuoce al corpo.
Primieramente ricordatevi di ciò che ho spiegato altrove, che la debolezza corporale giova, e il vigore nuoce all’esercizio e allo sviluppo delle facoltà mentali massime appartenenti alla ragione. E viceversa l’esercizio e lo sviluppo di queste facoltà nuoce estremamente al vigore e al ben essere del corpo. Onde Celso fa derivare l’indebolimento degli [1598]uomini e le malattie dagli studi, e ciascun pensatore o studioso ne fa l’esperienza in se, quanto al deterioramento individuale del suo corpo. Nè solamente per le fatiche, ma in centomila altri modi lo sviluppo della ragione nuoce al corpo, colle pene che cagiona, coi mali che ci scuopre, e che ignoti non sarebbero stati mali, coll’inattività corporale a cui ci spinge anche per massima, e coi tanti begli effetti che costituiscono la natura della civiltà, e dello stato presente del mondo, derivato quasi tutto dallo sviluppo della ragione. Se dunque l’infinito sviluppo della ragione costituisce la perfezione propria dell’uo-mo, la natura, torno a dire, è in contraddizione, perchè la perfezione di una parte nuoce a quella dell’altra, e fino arriva a distruggere questa parte, tanto a poco a poco, quanto in un punto mediante il suicidio. Anzi non solo la perfezione di una parte nuoce a quella dell’altra, ma una perfezione di una stessa parte o del tutto nuoce ad un’altra perfezione manifestamente voluta dalla natura.
Lo sviluppo della ragione e la civiltà che ne deriva a noi sembra perfezione propria non solo dell’animo umano, ma anche [1599]del corpo, cioè insomma di tutto l’uo-mo. Ora domando io: le malattie, la debolezza, l’impotenza, la fragilità e suscettibilità somma, sono elleno per-Letteratura italiana Einaudi 1123
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia fezioni del corpo umano e dell’uomo? Non è egli evidente che la natura ha voluto che noi fossimo ben sani e robusti? Tutto potrà mettersi in dubbio fuori che la natura abbia sempre mirato al ben essere materiale delle sue creature. Quest’è una verità che si sente senza bisogno di provarla. La natura ha posto mille ostacoli allo sviluppo della ragione ec. ma ha per tutti i versi favorito il pieno sviluppo delle facoltà corporali, e il vigore del corpo ec.
ec. Gli uomini hanno avuto bisogno di moltissimi secoli per arrivare a questo sviluppo della ragione: ma lo sviluppo del corpo umano è stato perfetto da principio, ed è andato anzi deteriorando col progresso del tempo e della civiltà. La natura o per disposizioni ingenite, o per disposizioni accidentali ma inevitabili e ordinarie, ha negato alla maggior parte degl’intelletti la possibilità o di svilupparsi, o di giungere in qualunque modo alla pretesa perfezione; ma a nessuno, se non per inconvenienti casuali e imprevedibili, ha negato la facoltà di [1600]conseguire il ben essere del corpo; anzi questo, tolti i detti inconvenienti casuali e fuor d’ordine, si porta naturalmente con se nascendo. Egli è dunque evidente che la natura ha stabilita al corpo umano la perfezione del vigore ec. ec.; che il pieno ben essere e floridezza del corpo, è perfezione, non mica accidentale, ma essenziale e propria dell’uomo, e ordinata dalla natura, come in ordine a tutti gli altri esseri. Egli è anzi evidente che il corpo fu considerato dalla natura nell’uomo siccome negli altri viventi, più che l’animo, e per conseguenza che la sua perfezione è assolutamente voluta dalla natura, e per conseguenza non può essere perfezione dell’uomo quella che si oppone alla sopraddetta, giacchè contrasta colla sua propria e naturale essenza, e ripugna a una qualità non accidentale, ma ordinata dalla natura. Del resto chi può negare che gl’incomodi corporali e sensibili, una certa impotenza che ben si sente non esser naturale, opporsi ed essere sproporzionata alle nostre inclinazioni, ed alle forze stesse di quel-Letteratura italiana Einaudi 1124
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia l’animo che noi abbiamo coltivato, e coltiviamo, la debolezza, le malattie abituali o attuali, e la facilità somma che abbiamo di cadervi ec. ec. non sieno imperfezioni nell’uomo? [1601]Ora che la civiltà abbia realmente e grandemente pregiudicato, e continuamente pregiudichi al corpo umano, e ne attenui il valore, ve ne hanno mille altre prove, ma considereremo solamente questa. Non può negarsi quello che tanti antichi degnissimi di fede, e anche testimoni oculari raccontano delle straordinarie cor-porature de’ Galli e de’ Germani prima che fossero civilizzati. Ora mediante la civiltà essi son ridotti alla forma ordinaria, e si può ben credere che così sia avvenuto agli altri popoli la cui civilizzazione è più antica. Lascio gli atleti greci e romani, delle cui forze v. Celso. Delle forze ordinarie de’ soldati romani v. Montesquieu, Grandeur ec. ch.2. p.15. nota, p.16. segg. Che la nosologia degli antichi fosse più scarsa di quella de’ moderni, è visibile.
Ma essi eran già molto civilizzati, massime a’ tempi p.e.
di Celso. La nosologia de’ popoli selvaggi è di ben poche pagine, e il loro stato ordinario di salute e di robustezza, è cosa manifesta a chiunque li visita, e ciò anche ne’ più difficili climi. Insomma egli è più che evidente che la nosologia cresce di volume, [1602]e la salute umana de-cresce, in proporzione della civiltà. Questo si vede anche nelle razze de’ cavalli, de’ tori ec. che passati dalle selve alle nostre stalle, e ad una vita meno incivile, indeboliscono e degenerano appoco appoco. Lo stesso dico delle piante coltivate con cura ec. Esse acquisteranno in delicatezza ec. ec. ma perderanno sempre in forza, e se per quella delicatezza saranno meglio adattate a’ nostri usi (massime nel nostro stato presente, sì diverso dal naturale), ciò non prova che non sieno degenerate. Effettivamente la principal qualità naturale, la principal perfezione materiale voluta e ordinata dalla natura in tutto che vive o vegeta, non è la delicatezza ec. ma il vigore relativo a ciascun genere di esseri. Il vigore è salute, v. p.1624. il Letteratura italiana Einaudi 1125
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia vigore è potenza, è facoltà di eseguire completamente tutte le convenienti operazioni ec. ec. è facilità di vivere; il vigore insomma è tutto in natura: e la natura non è principalmente e caratteristicamente delicata, ma forte rispettivamente e proporzionatamente alla capacità ec. di ciascuna sua parte.
(31. Agos.-1. Sett. 1821.). V. p.1606. fine.
[1603]Dalle sopraddette osservazioni risulta un’altra gran prova del come l’idea del bello sia relativa e mutabile, e dipendente non da modello alcuno invariabile, ma dalle assuefazioni che cambiano secondo le circostanze. Oggi l’idea del bello, racchiude quasi essenzialmente un’idea di delicatezza. Un robusto villano o villana, non paiono certamente belli alle persone di città. Il bello nelle nostre idee, esclude affatto il grossolano. Dovunque esso si trova, (se ciò non è in una certa misura che mediante lo straordinario e lo stesso sconveniente, produca la grazia) non si trova il bello per noi, almeno il bello perfetto. Ora egli è certo che gli uomini primitivi la pensavano ben altrimenti, perchè tutti gli uomini primitivi eran grossolani.
Non esisteva allora una di quelle forme che noi chiamiamo belle, (ciò si può vedere fra’ selvaggi i quali non sentono la bellezza meno di noi, benchè non sentano la nostra): e se avesse esistito, sarebbe stata e chiamata brutta.
La delicatezza dunque non entra nell’idea che l’uomo naturale concepisce del bello. Quindi la [1604]presente idea del bello non è punto naturale, anzi l’opposto. E pur ci pare naturalissima, confondendo il naturale collo spontaneo: giacch’ella è spontanea, perchè derivata senza influenza della volontà dalle assuefazioni ec.
È probabile che laddove oggi il fondamento o la condizione universale del bello è la delicatezza, per li primitivi lo fosse ciò che noi chiamiamo grossezza; perchè il nostro stato, e quindi le nostre assuefazioni e idee sono giusto in questo punto diametralmente opposte alle primiti-Letteratura italiana Einaudi 1126
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ve e naturali (e selvagge). Ma se anche la delicatezza entrava, o come straordinaria e quindi graziosa, o in qualunque altro modo nell’idea primitiva del bello, ella era una delicatezza diversissima da quella che oggi si stima indispensabile alla bellezza. Ella era una delicatezza assai minore, e tale che a noi parrebbe poco lungi dal grossolano e anche grossezza. Siccome per lo contrario la delicatezza presente ai primitivi sarebbe paruta eccessiva, sconveniente, e brutta. L’ idea insomma della delicatezza poteva forse entrare nel bello primitivamente concepito, (specialmente nell’uomo rispetto alla donna, della quale è propria per natura, e quindi conveniente, una delicatezza, ma solo rispettiva, e proporzionata, e riguardo alla differente natura dell’uomo ec.) ma solo nel detto modo.
E così ogni bellezza è relativa. E proporzionate differenze [1605]si trovano fra il bello antico e il moderno, fra il bello di una nazione e quello di un’altra; di un clima, di un secolo, e quello di un altro; fra il bello degl’italiani e quello de’ francesi ec. ec.
(1 Sett. 1821.). V. p.1698.
È vero che l’uomo felice non suol esser molto compassionevole, ma l’uomo notabilmente infelice, ancorchè nato sensibilissimo non è quasi affatto capace di compassione spontanea e sensibile. Sviluppa questa verità nelle sue parti, e nelle sue cagioni.
(1 Sett. 1821.)
Alla p.1448. Le odierne feste Cristiane son veramente popolari, ma inutili oramai al sentimento, all’entusiasmo, ec. e quindi inutilmente popolari. Il popolo non vi prende parte, se non come la prende agli spettacoli, a’ divertimenti ec. anzi alquanto meno, perchè p.e. gli spettacoli teatrali lo possono animare, commuovere, e lasciargli qualche impressione nello spirito; ma dopo le feste Cristiane egli se ne torna a casa col cuore posato, equilibra-Letteratura italiana Einaudi 1127
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia to, freddo, immoto come prima. Elle non sono dunque più feste nazionali, nè di setta, nè di partito ec. [1606]E
di ciò n’è causa tanto il raffreddamento particolare de’
sentimenti religiosi, opera sì del tempo in genere, come di questo tempo irreligioso; quanto l’estinzione generale di tutte le facoltà vive negli animi delle nazioni, e l’incapacità odierna de’ popoli ad esser commossi e sollevati nello spirito, se non da cose affatto straordinarie. Tra noi specialmente n’è causa ancora il nessun contrasto che incontrano le nostre opinioni religiose, e la nostra religione generalmente, a differenza p.e. dell’Inghilterra, e anche della Francia.
(1. Sett. 1821.)
L’anima de’ partiti è l’odio. Religione, partiti politici, scolastici, letterarii, patriotismo, ordini, tutto cade, tutto langue, manca di attività, e di amore e cura di se stesso, tutto alla fine si scioglie e distrugge, o non sopravvive se non di nome, quando non è animato dall’odio, o quando questo per qualunque ragione l’abbandona. La mancanza di nemici distrugge i partiti, e per partiti intendo pur le nazioni ec. ec.
(2. Sett. 1821.)
Alla p.1602. fine. Nè solo il vigor del [1607]corpo, ma anche quello dello spirito è singolarmente ordinato dalla natura. Almeno i primi progressi dello spirito umano sono sempre compagni di una forza (in tutta l’estensione e le classificazioni del termine) che va di mano in mano scemando e perdendosi coi successivi progressi della civiltà.
Parlino le storie. V. il pensiero precedente che appartiene pure a questo, perchè l’odio è una delle più vigorose passioni dell’anima; ed è oggi o estinto o travisato in maniera che è fonte di tutt’altro che di forza. V. pure il pensiero seguente.
(2. Sett. 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 1128
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia I moti e gli atti degli uomini (e de’ viventi in proporzione delle rispettive qualità) sono naturalmente vivissimi, specialmente nella passione. La civiltà gli raddolcisce, gli modera, e va tanto innanzi che oramai gran parte del bel trattare consiste nel non muoversi, siccome nel parlare a voce bassa ec. e l’uomo appassionato quasi non si distingue dall’indifferente per verun segno esterno. L’individuo civilizzato copia in se stesso lo stato a cui la società è ridotta dall’incivilimento come una camera oscura ricopia in piccolissimo una vasta prospettiva. Non più moto nè in questa nè in [1608]quello. Questa corrispondenza non è nè casuale nè frivola. E ben importante l’osservare come i menomi effetti derivino dalle grandi cagioni, come ar-monizzino insieme le cose grandi e le piccole, come la natura del secolo influisca sulle menome parti de’ costumi, come dalle piccolissime e giornaliere osservazioni si possa rimontare alle grandissime e generali. L’animo e il corpo dell’uomo civile si rende appoco appoco immobile in ragione de’ progressi della civiltà: e si va quasi distruggendo (gran perfezionamento dell’uomo!) la principal distinzione che la natura ha posto fra le cose animate e inanimate, fra la vita e la morte, cioè la facoltà del movimento.
(2 Sett. 1821.)
L’ideologia comprende i principii di tutte le scienze e cognizioni, e segnatamente della scienza della lingua. Ma vicendevolmente si può dire che la scienza della lingua comprende tutta l’ideologia.
(2. Sett. 1821.)
Tanta è la facoltà produttrice della lingua greca, e tale la sua mirabile disposizione, e capacità di qualsivoglia novità, [1609]che in essa, può dirsi che concepita appena un’idea per nuova ch’ella sia, è già fatta la nuova paro-Letteratura italiana Einaudi 1129
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia la che l’esprima. Tanto costava l’arricchir quella lingua quanto il concepire un’idea, o menoma parte o modificazione d’idea in qualunque modo nuova. Laddove nelle altre lingue, concepita un’idea nuova, ci vuole bene spesso del bello e del buono per esprimerla. E questo nuoce e ritarda sommamente la chiarezza e determinatezza della stessa concezione, perchè si può dire che un’idea non si concepisce mai chiaramente, nè è mai ben determinata e ferma nell’intelletto del suo stesso ritrovatore, finch’egli non ha trovato una parola o modo perfettamente corrispondente, e non l’ha saputa ben esprimere e fissare con questo mezzo a se stesso, e quasi rinchiuderla e incassarla in detta parola. Questo è ciò che i greci faceano immediatamente, e quindi si conferma quello che altrove ho detto, cioè che la loro superiorità nella filosofia ec. fra gli antichi, possa venire in gran parte [1610]dalla natura di loro lingua.
(2 Sett. 1821.)
Si suol dire, ed è vero, che i gobbi hanno molto spirito.
La ragione è chiara. Altra prova del come lo sviluppo delle facoltà mentali dipenda dalle circostanze, assuefazioni ec.
Lo stesso può dirsi de’ vetturini, e altra gente avvezza a molto trattare con ogni sorta di persone ec. che divengono sempre furbi, animati, spiritosi: i loro occhi pigliano espressione e vivacità ec.
(2. Sett. 1821.)
L’uomo il più dotto, erudito, letterato, del gusto e giudizio il più fino, dell’ingegno il più fecondo ec. ec. ma poco avvezzo a trattare, saprà egregiamente e fecondissimamente scrivere, e non saprà parlare neppur di cose appartenenti a’ suoi studi. E ciò non già per sola soggezione, ma effettivamente gli mancheranno le parole e i concetti. Tutto è esercizio nell’uomo. Ed è ordinario il veder uomini studiosi non saper parlare, appunto perchè Letteratura italiana Einaudi 1130
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia avvezzi allo studio, non sono abituati a parlare ma a tacere; oltre ch’essi contraggono sovente e [1611]per questa e per altre ragioni un carattere di taciturnità, parimente acquisito. Del resto s’ingannano assai coloro che dal vedere che il tale non sa parlare, concludono ch’egli non sa pensare, non è coltivato ec. Si può parlare come uno sci-munito, con freddezza e frivolezza estrema ec. ed essere il primo scienziato, pensatore, scrittore del mondo.
(2. Sett. 1821.)
Nessun genere di animali o di cose, per essere qual deve, ebbe o ha bisogno che sorga un suo individuo fornito di singolari prerogative naturali o acquisite, che accada la tale scoperta importante, che si dieno le tali e tali infinite combinazioni ec. ec. La natura quando lo formò, fu ben certa ch’esso sarebbe qual doveva essere, e qual ella voleva. Ma il genere umano ha avuto ed ha bisogno di tutto ciò, per arrivare ad essere (così dicono) qual deve. Or dico io: perchè la perfezione cioè il vero modo di essere del solo genere umano fu abbandonato dalla natura al caso? È questo un privilegio, o un immenso svantaggio?
[1612]Egli è certo che le facoltà del più privilegiato individuo umano, non bastano di gran lunga a condurlo a quella che si chiama perfezione. Dunque la natura non ha provveduto alla perfezione cioè al ben essere dell’uo-mo. – Ma egli è fatto per la società. – Neppur basta ch’egli si metta in questa società. Bisogna che questa duri una lunghissima serie di generazioni, e che si stenda fino a divenir quasi universale. Allora solo l’uomo, e l’individuo potrà avvicinarsi a quella perfezione alla quale ancora non siamo arrivati. È egli possibile che tutto ciò sia necessario al ben essere dell’uomo? E che la sua perfezione fosse posta dalla natura au bout di sì lunga e difficile carriera, che dopo seimila anni ancora non è compiuta?
Oltre ch’ella, come risulta, dal sopraddetto, non poteva esser sicura che l’uomo vi arrivasse mai, essendo stata Letteratura italiana Einaudi 1131
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia opera di circostanze non mai essenziali, tutti i pretesi progressi che si son fatti.
(2. Sett. 1821.)
Di più: qual sarà poi questa [1613]perfezione dell’uo-mo? quando e come saremo noi perfetti, cioè veri uomini? in che punto, in che cosa consisterà la perfezione umana? qual sarà la sua essenza? Ogni altro genere di viventi lo sa bene. Ma la nostra civiltà o farà sempre nuovi progressi, o tornerà indietro. Un limite, una meta (secondo i filosofi) non si può vedere, e non v’è. Molto meno un punto di mezzo. Dunque non sapremo mai in eterno che cosa e quale propriamente debba esser l’uomo, nè se noi siamo perfetti o no ec. ec. Tutto è incerto e manca di norma e di modello, dacchè ci allontaniamo da quello della natura, unica forma e ragione del modo di essere.
(2. Sett. 1821.)
Le cose non sono quali sono, se non perch’elle son tali.
Ragione preesistente, o dell’esistenza o del suo modo, ragione anteriore e indipendente dall’essere e dal modo di essere delle cose, questa ragione non v’è, nè si può immaginare. Quindi nessuna necessità nè di veruna esistenza, nè di tale o tale, e così o così fatta esistenza. Come dunque immaginiamo noi un Essere necessario? Che ragione v’è fuori di lui e prima di lui perch’egli esista, ed esista in quel modo, ed esista ab eterno? – La ragione
[1614]è in Lui stesso, cioè l’infinita sua perfezione.
Che ragione assoluta vi è perchè quel modo di essere che gli ascriviamo, sia perfezione? perchè sia più perfetto degli altri possibili? più perfetto delle stesse altre cose esistenti e degli altri modi di essere? Questa ragione de-v’essere assoluta e indipendente dal modo in cui le cose sono, altrimenti il detto Ente non sarà assolutamente necessario. Or nessuna se ne può trovare. – Il suo modo di essere è perfezione perch’egli esiste così. – La stessa ra-Letteratura italiana Einaudi 1132
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia gione milita per tutte le altre cose e modi di essere. Tutte saran dunque egualmente perfette, e tutte assolutamente necessarie. Quest’è un giuoco di parole. Bisogna trovare una ragione perchè il suo modo di essere sia astrattamente e indipendentemente da qualunque cosa di fatto, più perfetto di tutti gli altri possibili o esistenti: perchè non sia possibile una maggior perfezione; ovvero un tutt’altro ordine di cose, dove quel modo di essere non sia neppur buono. Bisogna insomma porsi al di fuori dell’ordine esistente e di tutti gli ordini possibili, e così trovare una
[1615]ragione per cui le qualità che ascriviamo a quell’Essere sieno assolutamente e necessariamente perfette, non possano esser diverse, nè più perfette, non possano esser tali e non esser ottime, e sieno migliori di tutte le altre possibili.
L’ aseità insomma è un sogno o compete a tutte le cose esistenti e possibili. Tutte hanno o non hanno egualmente in se stesse la ragione di essere e di essere in quel tal modo, e tutte sono egualmente perfette.
Ma lo spirito è più perfetto della materia – 1. Che cosa è lo spirito? Come sapete ch’esiste, non sapendo che cosa sia? non potendo concepire al di là della materia una menoma forma di essere? 2. perchè è più perfetto della materia? – Perchè non si può distruggere, e perchè non ha parti ec. – Il non aver parti chi vi ha detto che sia maggior perfezione dell’averne? Chi vi ha detto che lo spirito non ha parti? che avendone o no, non si possa distruggere ec. ec.? Come potete affermare o negar nulla intorno alle qualità di ciò che neppur concepite, e quasi non sapete se sia possibile? Tutto è dunque un romanzo arbitrario della vostra fantasia, che può figurarsi un essere come vuole. V. un altro mio pensiero in tal proposito.
(2. Sett. 1821.)
[1616]Niente preesiste alle cose. Nè forme, o idee, nè necessità nè ragione di essere, e di essere così o così ec.
Letteratura italiana Einaudi 1133
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ec. Tutto è posteriore all’ esistenza.
(3. Sett. 1821.)
Intorno a quello che ho detto altrove, che tolte le idee innate, è tolto Iddio, tolta ogni verità ogni buono ogni cattivo assoluto, tolta ogni disuguaglianza di perfezione ec. tra gli Esseri, e necessario il sistema ch’io chiamo dell’Ottimismo, v. un bel passo di S. Agostino che ammettendo le idee innate, riconosce questa verità ch’io dico, presso Dutens, Par.1. cap.2. §.30.
(3. Sett. 1821.)
Infatti noi non abbiamo altra ragione di credere assolutamente vero quello ch’è tale per noi, e che a noi par tale, di credere assolutamente buono o cattivo quello ch’è tale per noi, ed in quest’ordine di cose; se non il credere che le nostre idee abbiano una ragione, un fondamento, un tipo, fuori dello stesso ordine di cose, universale, eterno, immutabile, indipendente da ogni cosa di fatto; che sieno impresse nella mente nostra per essenza tanto loro, quanto di essa mente, e della natura intera delle cose; che sieno soprannaturali, cioè [1617]indipendenti da questa tal natura qual ella è, e dal modo in cui le cose sono, e che per conseguenza le dette idee e le nozioni della ragione non potessero esser diverse in qualsivoglia altra natura di cose, purchè l’intelletto fosse stato ugualmente in grado di concepirle. Fuori di questo, e tolto questo, non resta alcun’altra ragione per credere assolutamente buona, cattiva, insomma vera qualsivoglia cosa. Ma veduto che le nostre idee non dipendono da altro che dal modo in cui le cose realmente sono, che non hanno alcuna ragione indipendente nè fuori di esso, e quindi potevano esser tutt’altre, e contrarie; ch’elle derivano in tutto e per tutto dalle nostre sensazioni, dalle assuefazioni ec.; che i nostri giudizi non hanno quindi verun fondamento universale ed eterno e immutabile ec. per essenza; è forza che, rico-Letteratura italiana Einaudi 1134
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia noscendo tutto per relativo, e relativamente vero, rinun-ziamo a quell’immenso numero di opinioni che si fondano sulla falsa, benchè naturale, idea dell’assoluto, la quale, come ho detto, non ha più ragione [1618]alcuna possibile, da che non è innata, nè indipendente dalle cose quali elle sono, e dall’esistenza.
(3. Sett. 1821.)
La distruzione delle idee innate distrugge altresì l’idea della perfettibilità dell’uomo. Pare tutto l’opposto, perchè se tutte le sue idee sono acquisite, dunque egli è meno debitore e dipendente della natura, e quindi si può e deve perfezionar da se. Ma anche le idee degli animali sono acquisite, nè essi sono perfettibili. Distrutta colle idee innate l’idea della perfezione assoluta, e sostituitale la relativa, cioè quello stato ch’è perfettamente conforme alla natura di ciascun genere di esseri, si viene a rinunziare alle pazze idee d’incremento di perfezione, di acquisto di nuove buone qualità (che non sono più buone per se stesse come si credevano), di perfezionamento modellato sopra le false idee del bene e del male assoluto ed assolutamente maggiore o minore; e si conclude che l’uomo è perfetto qual egli è in natura, appena le sue facoltà hanno conseguito quel tanto sviluppo che la natura gli ha primitivamente e decretato, e indicato. E [1619]non può se non essere imperfetto in altro stato. Nè la perfezione sua, o quella di verun altro genere, può mai crescere: bensì quella dell’individuo ec.
(3. Sett. 1821.)
Io non credo che le mie osservazioni circa la falsità d’ogni assoluto, debbano distruggere l’idea di Dio. Da che le cose sono, par ch’elle debbano avere una ragion sufficiente di essere, e di essere in questo lor modo; appunto perch’elle potevano non essere o esser tutt’altre, e non sono punto necessarie. Ego sum qui sum, cioè ho in Letteratura italiana Einaudi 1135
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia me la ragione di essere: grandi e notabili parole! Io concepisco l’idea di Dio in questo modo. Può esservi una cagione universale di tutte le cose che sono o ponno essere, e del loro modo di essere. – Ma la cagione di questa cagione qual sarà? poich’egli non può esser necessario, come voi avete dimostrato. – È vero che niente preesiste alle cose. Non preesiste dunque la necessità. Ma pur preesiste la possibilità. Noi non possiamo concepir nulla al di là della materia. Noi non possiamo dunque negare l’ aseità, benchè neghiamo la necessità di essere. Dentro i limiti della materia, e nell’ordine di cose che ci è noto,
[1620]pare a noi che nulla possa accadere senza ragion sufficiente; e che però quell’essere che non ha in se stesso veruna ragione e quindi veruna necessità assoluta di essere, debba averla fuor di se stesso. E quindi neghiamo che il mondo possa essere, ed esser qual è, senza una cagione posta fuori di lui. Sin qui nella materia. Usciti della materia ogni facoltà dell’intelletto si spegne. Noi vediamo solamente che nulla è assoluto nè quindi necessario. Ma appunto perchè nulla è assoluto, chi ci ha detto che le cose fuor della materia non possano esser senza ragion sufficiente? Che quindi un Essere onnipotente non possa sussister da se ab eterno, ed aver fatto tutte le cose, bench’egli assolutamente parlando non sia necessario?
Appunto perchè nulla è vero nè falso assolutamente, non è egli tutto possibile, come abbiamo provato altrove?
Io considero dunque Iddio, non come il migliore di tutti gli esseri possibili, giacchè non si dà migliore nè peggiore assoluto, ma come racchiudente in se stesso tutte le possibilità, ed esistente in tutti i modi possibili. Questo
[1621]è possibile. I suoi rapporti verso gli uomini e verso le creature note, sono perfettamente convenienti ad essi; sono dunque perfettamente buoni, e migliori di quelli che vi hanno le altre creature, non assolutamente, ma perchè i rapporti di queste sono meno perfettamente convenienti. Così resta in piedi tutta la Religione, e l’infinita Letteratura italiana Einaudi 1136
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia perfezion di Dio, che si nega come assoluta, si afferma come relativa, e come perfezione nell’ordine di cose che noi conosciamo, dove le qualità che Dio ha verso il mondo, sono relativamente a questo, buone e perfette. E lo sono, tanto verso il nostro ordine di cose universale, quanto verso i particolari ordini che in esso si contengono, e secondo le loro differenze subalterne di natura. La quistione allora viene ad esser di parole.
Verso un altro ordine di cose Iddio può aver de’ rapporti affatto diversi, e anche contrari, ma perfettamente buoni in relazione a detti ordini, perocch’egli esiste in tutti i modi possibili, e quindi perfettamente conviene con tutte l’esistenze, e quindi è sostanzialmente e perfettamente buono in tutti gli ordini di bontà, quantunque contrari fra loro, perchè può esser buono in una maniera di essere, quel che è cattivo in un altro.
[1622]Questo non solo non guasta nè muta l’idea che noi abbiamo di Dio, ma anzi ella, se la considerassimo bene, comprende questa nozione necessariamente. Come può egli essere infinito se non racchiude tutte le possibilità? Come può egli essere infinitamente perfetto anzi pure perfetto, s’egli non lo è se non in quel modo che per noi è perfezione? Sono o no possibili altri ordini infiniti di cose, e altri modi di esistere? Dunque s’egli è infinito, esiste in tutti i modi possibili. Dipendeva o no dalla sua volontà il farci affatto diversi? e l’averci fatto quali siamo? Dunque egli ha potuto e può fare altri ordini diversissimi di cose, e aver con loro que’ rapporti di quella natura che vuole.
Altrimenti egli non sarà l’autor della natura, e torneremo per forza al sogno di Platone, che suppone le idee e gli archetipi delle cose, fuori di Dio, e indipendenti da esso.
S’elle esistono in Dio, come dice S. Agostino, (v. p.1616.) e se Dio le ha fatte, non abbraccia egli dunque quelle sole forme secondo cui ha fatto le cose che noi conosciamo, ma tutte le forme possibili, e racchiude tutta la possibilità, e può far cose [1623]di qualunque natura gli piaccia, Letteratura italiana Einaudi 1137
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ed aver con loro qualunque rapporto gli piaccia, anche nessuno ec.
L’infinita possibilità che costituisce l’essenza di Dio, è necessità. Da che le cose esistono, elle sono necessariamente possibili. (Una sola e menoma cosa che oggi esistesse basterebbe a dimostrare che la possibilità è necessaria ed eterna.) Se nessuna affermazione o negazione è assolutamente vera, dunque tutte le cose e le affermazioni ec. sono assolutamente possibili. Dunque l’infinita possibilità è l’unica cosa assoluta. Ell’è necessaria, e preesiste alle cose. Quest’esistenza non l’ha che in Dio.
Quest’ultimo pensiero merita sviluppo. V. p.1645.
capoverso 1.
(3. Sett. 1821.)
Circa le differenti qualità che i diversi organi percepi-scono negli oggetti, come altrove dissi, v. Dutens. par.1.
cap.3. §.40. e tutto quel capo.
(3. Sett. 1821.)
Si sfuggono le buone opere comandate dal dovere, e si fanno di buona voglia quelle che si fanno per propria volontà. I contadini contrastano al padrone ciò che possono, danno però volentieri agli amici, e spesso rubano a quello per donare a questi, senza nessun profitto proprio.
(4. Sett. 1821.)
Si danno certe combinazioni di naturale [1624]o di circostanze, che distinguono notabilmente un carattere dall’ordinario, senza molto o punto innalzarlo o abbas-sarlo al disopra, o al disotto degli altri.
(4. Sett. 1821.)
La legge naturale varia secondo le nature. Un cavallo che non è carnivoro, giudicherà forse ingiusto un lupo che assalga e uccida una pecora, l’odierà come sanguina-Letteratura italiana Einaudi 1138
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia rio, e proverà un senso di ribrezzo, e d’indignazione ab-battendosi a vedere qualche sua carnificina. Non così un lione. Il bene e il male morale non ha dunque nulla di assoluto. Non v’è altra azione malvagia, se non quelle che ripugnano alle inclinazioni di ciascun genere di esseri operanti: nè sono malvage quelle che nocciono ad altri esseri, mentre non ripugnino alla natura di chi le esegui-sce.
(4. Sett. 1821.)
Alla p.1602. Gli antichi intendevano molto bene questa verità che dovrebb’essere il fondamento della scienza medica. I greci quasi autori della medicina dicevano
�sϑ¡neia, cioè debolezza ogni genere d’infermità, ed
�sϑeneÝn l’esser malato. Ed anche oggi i medici chiamano con termine greco stenia (sarebbe sϑ¡neia) che suona, come sϑ¡now, vigore, [1625] forza, robustezza, il buono stato di salute. �Er=vmai, inf. ¢r=Çsϑai prospera utor valetudine, non significa propriamente altro se non esser forte, da =Ånnumi confirmor, corroboror. Così eérvstÛa sanitas, bona valetudo, e i contrari, �r=vtÛa, adversa valetudo, morbus, �r=vstow aegrotus,
�r=vst¡v aegroto, �r=Åsthma aegrotatio, aegritudo, morbus. Così dico delle parole latine valere, valetudo, bene o male valere, infirmus, imbecillitas ec. ec. V. i Diz. Tutto ciò che ci cagiona il senso della forza, ci cagiona il senso del piacere e della sanità. L’uomo veramente forte è sano.
Quanto la civiltà favorisca per sua natura la forza in genere e in ispecie, facilmente si vede alla bella prima.
(4. Sett. 1821.)
Non attribuiamo a Dio se non un solo modo di esistere, e una sola perfezione. Ma se niuna perfezione è assoluta, egli non sarà dunque perfetto, avendo questa sola. L’unica perfezione assoluta, è di esistere in tutti i possibili modi, ed in tutti esser perfetto, cioè perfettamente convenien-Letteratura italiana Einaudi 1139
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia te, dentro la natura [1626]e la proprietà di quel modo di essere. La perfezione assoluta abbraccia tutte le possibili qualità, anche contrarie, perchè non v’è contrarietà assoluta, ma relativa: e se è possibile un modo di essere contrario a quello che noi concepiamo in Dio e nelle cose a noi note (che certo è possibile, non essendovi ragione assoluta e indipendente che lo neghi), Iddio non sarebbe nè infinito nè perfetto, anzi imperfettissimo, s’egli non esistesse anche in quel modo, e non fosse in perfetta relazione e convenienza con quel modo di essere. Noi dunque non conosciamo se non una sola parte dell’essenza di Dio, fra le infinite, o vogliamo dire una sola delle infinite sue essenze. Egli ha precisamente le perfezioni che noi gli diamo: egli esiste verso noi in quel modo che la religione insegna; i suoi rapporti verso noi, sono perfettamente quali denno essere verso noi, e quali richiede la natura del mondo a noi noto. Ma egli esiste in infiniti altri modi, ed ha infinite altre parti, che non possiamo in veruna maniera concepire, se non immaginandoci questo medesimo. La Religione Cristiana è dunque interamente vera, e i miei non si oppongono, anzi favoriscono i suoi dogmi. [1627]
(4. Sett. 1821.)
La Religion Cristiana rivela infatti molti attributi di Dio che passano affatto e si oppongono all’idea che noi abbiamo dell’estensione del possibile. Iddio ce gli ha voluti rivelare per assoggettar la nostra ragione ec. e ci ha rive-lati questi soli fra gl’infiniti. Essi (come il mistero della Trinità, dell’Eucaristia) si oppongono fino al principio detto di contraddizione, che par l’ultimo principio del raziocinio. La distinzione fra superiore e contrario alla ragione è frivola. I detti misteri si oppongono dirittamente al nostro modo di concepire e ragionare. Ciò però non prova che sieno falsi, ma che il nostro detto modo, non è vero se non relativamente, cioè dentro questo particolare Letteratura italiana Einaudi 1140
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ordine di cose.
(4. Sett. 1821.)
La mente umana è di una capacità immensa. Ella s’innalza fino a Dio, arriva in certo modo a conoscerlo, benchè non possa determinarlo. Il senso ch’ella prova in questa contemplazione e considerazione, non è propriamente il disperar di conoscere. Solamente ella conosce di non esser Dio, e ravvisa la diversità [1628]dell’essenza ed esistenza fra Lui e se, come fra se e le altre creature. Anzi ella si sente più simile, più capace d’immaginare e penetrare nel modo in cui Dio esiste, che in quello delle altre creature. Queste espressioni non son temerarie. La Religione insegna che l’uomo è uno specchio della Divinità, quasi unus ex nobis.
(4. Sett. 1821.)
La disperazione, in quanto è mancanza, o piuttosto languore e insensibilità di speranza, è un piacere per se, e perchè l’uomo non sentendo la speranza, appena sente la vita, e la sua anima è abbandonata a una specie di torpore, benchè il corpo possa essere in grande attività, e spesso in tal circostanza lo sia. Tutto ciò risulta dalla mia teoria del piacere.
(4. Sett. 1821.)
Forza dell’assuefazione generale. Le impressioni de’
sensi sono sempre vivissime ne’ fanciulli. L’uomo ci si avvezza, ed elle perdono in forza e durata. Ma non si avvezza solamente ad una per una. Un’impressione tanto nuova per un uomo quanto la più nuova che possa provare un fanciullo, fa meno effetto in quello che in questo: perchè quegli è avvezzo alle [1629]impressioni. Quanto più l’uomo (in proporzione delle circostanze individuali) è avvezzo alle novità, tanto l’impressione delle novità è per lui meno forte e durevole: e finalmente gli farà mag-Letteratura italiana Einaudi 1141
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia giore impressione la monotonia ec. che la novità. E pur nessuno può essere avvezzo a una nuova impressione in particolare; ma l’uomo si avvezza alle nuove impressioni in generale. ec. ec.
(4. Sett. 1821.)
Ho detto che dilatandosi le nazioni, le lingue si dividono. Ciò principalmente accade nel volgo, perchè il volgo di un luogo, poco o nessun commercio conserva con quello di un altro, benchè nazionale. Le altre classi ve lo conservano o immediato o mediato, per la civiltà che gli unisce, le scritture ec. ec. 1. quanto più una nazione è nazione, e per ispirito e per istato politico, 2. quanto più il volgo è in commercio colle altre classi della stessa popolazione, 3. colle altre popolazioni nazionali, 4. quanto più una nazione, ed in essa il volgo, è civile, 5. quanto più i costumi, i caratteri ec. sono per conseguenza conformi, sì nel volgo che nelle altre classi; tanto i dialetti vernacoli sono minori di numero, e meno distinti di forma, ec.
Applicate queste osservazioni all’Italia, alla Francia, Inghilterra, Germania ec.
Così può ragionarsi anche delle nazioni [1630]tutte intere, rispetto alle altre nazioni.
(4. Sett. 1821.)
Gli ammaestramenti che si danno ordinariamente agli animali che ci servono, e ch’essi apprendono benissimo, con maggiore o minor prontezza, secondo i generi, gl’individui e le circostanze (come cavalli, cani ec.) e con sufficientissimo raziocinio, (come il cane che s’arresta nel bi-vio, aspettando che il padrone scelga la sua strada); e quelli che si danno ad altri animali per solo piacere, come ad orsi, scimie, gatti, cani, topi, e fino alle pulci, come s’è veduto ultimamente; dimostrano che la suscettibilità ed assuefabilità a cose non naturali, non è propria esclusivamente dell’uomo, ma solo in maggior grado, generalmente Letteratura italiana Einaudi 1142
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia parlando: perchè vi sarà qualche uomo meno assuefabile, ed ammaestrabile di una scimia.
(5. Sett. 1821.)
Quanto la specie umana oggidì sia vicina a quella stessa perfezione relativa alla ragione, di cui si mena sì gran vanto, vedi il capo 11. di Wieland, Storia del saggio Danischmend e dei tre Calender, o l’Egoista [1631] ed il Filosofo. Milano. Scelta Raccolta di Romanzi. Batelli e Fanfani. vol.25.
(5. Sett. 1821.)
La memoria dipendendo dalle assuefazioni particolari, e dalla generale, e quasi non esistendo (come si vede ne’
fanciulli) senza queste, può considerarsi come facoltà presso a poco acquisita.
(5. Sett. 1821.)
Chi vuol vedere l’effetto della civiltà sul vigore del corpo, paragoni gli uomini civili ai contadini o ai selvaggi, i contadini d’oggi a ciò che noi sappiamo del vigore antico. ec. (Omero, com’è noto, assai spesso chiama l’età sua degenerata dalle forze de’ tempi troiani.) Osservi di quanto è capace il corpo umano, vedendo l’impotenza nostra assoluta di far ciò che fa il meno robusto de’ villani; i pericoli a cui noi ci esporremmo volendo esporci a qualcuno de’ loro patimenti; le vergognose usanze quotidiane di fuggir l’aria il sole ec. di maravigliarsi come il tale o tale abbia potuto affrontarlo per questa o quella circostanza; le malattie o incomodi che tutto giorno si pigliano per un [1632]menomo strapazzo del corpo, o fatica di mente ec. e poi dica se la civiltà rafforza l’uomo; accresce la sua capacità e potenza; se gli antichi si maraviglierebbero o no della impotenza nostra; se la natura stessa se ne debba o no vergognare; e se noi medesimi non lo dobbiamo, vedendo sotto gli occhi per l’una Letteratura italiana Einaudi 1143
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia parte di quanto sia capace il corpo umano, senza veruno sforzo straordinario, e per l’altra di quanto poco sia capace il nostro.
(5. Sett. 1821.)
Si suol dire che tutte le cose, tutte le verità hanno due facce diverse o contrarie, anzi infinite. Non c’è verità che prendendo l’argomento più o meno da lungi, e cammi-nando per una strada più o meno nuova, non si possa dimostrar falsa con evidenza ec. ec. ec. Quest’osservazione (che puoi molto specificare ed estendere) non prova ella che nessuna verità nè falsità è assoluta, neppure in ordine al nostro modo di vedere e di ragionare, neppur dentro i limiti della concezione e ragione umana?
(5. Sett. 1821.). V. p.1655. fine.
Non c’è uomo così mal disposto e disadatto ad apprendere, o ad apprendere una tal cosa, il quale lunghissimamente [1633]esercitato in qualsivoglia disciplina ed attitudine o di mente o di mano ec. non la possieda o meglio, o almeno altrettanto quanto il più grande ingegno ec. che incominci o da poco tempo abbia cominciato ad esercitarvisi. Ecco la differenza degl’ingegni. Ad altri bisogna più esercizio ad altri meno, ma tutti alla fine son capaci delle stesse cose: e il più sciocco ingegno con ostinata fatica può divenire uno de’ primi matematici ec.
del mondo.
(5. Sett. 1821.)
Una perfetta immagine degl’ingegni possono essere le complessioni. Chi nasce più robusto e meglio disposto, chi meno. L’esercizio del corpo agguaglia il meno robusto, al più robusto inesercitato. In parità d’esercizio, chi è nato debole non potrà mai agguagliarsi a chi è nato robusto. Ma se a costui manca affatto l’esercizio, egli, ancorchè nato il più robusto degli uomini, sarà non solo uguale, Letteratura italiana Einaudi 1144
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ma inferiore al più debole degli uomini che abbia fatto notabile esercizio. (Esempio dei Galli rispetto ai Romani.
V. il Dionigi del Mai lib.14. c.17-19. ed altri). [1634]Dal che segue che l’esercizio assolutamente parlando è superiore alla natura, e principale cagione della forza corporale. (La natura però avea dato all’uomo essenzialmente l’occasione e la necessità di esercitare il suo corpo. Quindi l’esercizio essendo figlio della natura, lo è anche il vigore e il ben essere che ne deriva. Lasciando che le generazioni de’ forti sono pure naturalmente forti, siccome viceversa, benchè ancor qui si possa notare il gran potere dell’esercizio.) Applicate queste considerazioni a qualsivoglia facoltà mentale. Similmente ponno applicarsi alle altre facoltà corporali (o sieno radicalmente naturali, o del tutto acquisite, ma bisognose di una disposizione naturale) diverse dalla forza.
(5. Sett. 1821.)
Si potrebbe quasi dire che nell’uomo la sola fisonomia è propriamente bella o brutta. Certo è ch’ella contiene quasi tutto l’ideale della bellezza umana, e quasi tutta la differenza essenziale che la nostra mente ritrova e sente fra la bellezza umana in quanto bellezza, e tutti gli altri generi di bellezza. Un uomo o donna di viso decisamente brutto non può mai parer bello, se non per libidine e stimoli sensuali. Eccetto il caso molto frequente, che coll’assuefazione e col tempo ec. quel viso che v’era parso brutto, vi paia bello o passabile. Viceversa una persona di brutte forme e bel viso, potrà parer bella, forse anche non [1635]potrà mai con pieno sentimento esser chiamata brutta.
Osserva che generalmente quando tu domandi: la tal persona è bella o brutta? e quando tu o rispondendo, o spontaneamente neghi o affermi ec. intendi sempre del viso, se altro non soggiungi, o distingui.
(5. Sett. 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 1145
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Un corpo, essendo composto, dimostra l’esistenza di altre cose che lo compongano. Ma siccome tutte le parti o sostanze materiali componenti la materia, sono altresì composti, però bisogna necessariamente salire ad esseri che non sieno materia. Così discorrono i Leibniziani per arrivare alle loro Monadi o Esseri semplici e incorporei, (de’ quali compongono i corpi) e quindi all’Unità, ed al principio di tutte le cose. Or dico io. Arrivate fino alla menoma parte o sostanza materiale, e ditemi se potete, le parti o sostanze di cui questa si compone, non sono più materia, ma spirito. Arrivate anche se potete, agli atomi o particelle indivisibili e senza parti. Saranno sempre materia. Al di là non troverete mica lo spirito ma il nulla.
Affinate quanto volete l’idea della materia, non oltrepas-serete mai la [1636]materia. Componete quanto vi piace l’idea dello spirito, non ne farete mai nè estensione, nè lunghezza ec. non ne farete mai della materia. Come si può compor la materia di ciò che non è materia? Il corpo non si può comporre di non corpi, come ciò che è di ciò che non è: nè da questo si può progredire a quello, o viceversa. – Ma finchè la materia è materia, ell’è divisibile e composta. – Trovatemi dunque quel punto in cui ella si compone di cose che non sono composte, cioè non sono materia. Non v’è scala, gradazione, nè progressione che dal materiale porti all’immateriale (come non v’è dall’esistenza al nulla). Fra questo e quello v’è uno spazio immenso, ed a varcarlo v’abbisogna il salto (che da’
Leibniziani giustamente si nega in natura). Queste due nature sono affatto separate e dissimili come il nulla da ciò che è; non hanno alcuna relazione fra loro; il materiale non può comporsi dell’immateriale più di quello che l’immateriale del materiale; e dall’esistenza della materia (contro ciò che pensa Leibnizio) non si può argomentare quella dello spirito più di quello che dall’esistenza dello spirito si potesse argomentare quella della materia. V.
Letteratura italiana Einaudi 1146
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Dutens, par.2. tutto il capo 1.
(5. Sett. 1821.)
[1637]Dal detto in altri pensieri risulta che Dio poteva manifestarsi a noi in quel modo e sotto quell’aspetto che giudicava più conveniente. Non manifestarsi, come ai Gentili; manifestarsi meno, e in forma alquanto diversa, come agli Ebrei; più, come a’ Cristiani: dal che non bisogna concludere ch’egli ci si è manifestato tutto intero, come noi crediamo. Errore non insegnato dalla Religione, ma da’ pregiudizi che ci fanno credere assoluto ogni vero relativo. La rivelazione poteva esserci e non esserci.
Ella non è necessaria primordialmente, ma stante le convenienze relative, originate dal semplice voler di Dio. Egli si nascose a’ Gentili, rivelossi alquanto agli Ebrei, manifestò al mondo una maggior parte di se, nella pienezza de’ tempi, cioè quando gli uomini furono in istato di meglio comprenderlo. Egli si è rivelato perchè ha voluto e l’ha stimato conveniente, e quanto e come e sotto la forma che ha stimato conveniente, secondo le diverse circostanze delle sue creature: forma sempre vera, perch’egli esiste in tutti i modi possibili.
Da ciò che si è detto della legge pretesa naturale, risulta che non vi è bene nè [1638]male assoluto di azioni; che queste non son buone o cattive fuorchè secondo le convenienze, le quali sono stabilite, cioè determinate dal solo Dio, ossia, come diciamo, dalla natura; che variando le circostanze, e quindi le convenienze, varia ancor la morale, nè v’è legge alcuna scolpita primordialmente ne’ nostri cuori; che molto meno v’è una morale eterna e preesistente alla natura delle cose, ma ch’ella dipende e consiste del tutto nella volontà e nell’arbitrio di Dio padrone sì di stabilire quelle determinate convenienze che voleva, sì di ordinare o proibire espressamente agli esseri pensanti quello che gli piaccia, secondo gli ordini e le convenienze da lui solo create; che Dio non ha quindi nè Letteratura italiana Einaudi 1147
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia può avere alcuna morale, il che non potrebb’essere, se non ammettendo le idee di Platone indipendenti da Dio, e i modelli eterni e necessari delle cose; che la morale per tanto è creata da lui, come tutto il resto, e ch’egli era padrone di mutarla a tenore delle diverse circostanze del genere umano, siccome è padrone di darne una tutta diversa, e anche contraria, o anche non darne alcuna, a un diverso genere di esseri, sì dentro gli ordini noti delle cose (come agli abitanti d’altri [1639]pianeti), sì in altri sconosciuti, ed ugualmente possibili e verisimili. Da tutto ciò resta spiegata la differenza fra la legge che corse prima di Mosè, quella di Mosè, e quella di Cristo. Tutti dicono che il Cristianesimo ha perfezionata la Morale. (Ciò stesso vuol dire ch’ella non è dunque innata.) Mutiamo i termini. Non l’ha perfezionata, ma rinnovata, cioè perfezionata solo relativamente allo stato in cui la società umana era ridotta, e da cui (quanto al sostanziale) non poteva più tornare indietro, come non ha fatto. Allora divenne conveniente la nuova morale, ossia la legge di Cristo, legge che doveva essere perpetua per la detta ragione; legge che ha fatto illecito realmente ciò che prima era lecito, e viceversa, come agevolmente si può vedere confrontando i costumi naturali di qualsivoglia o uomo isolato, o società, e degli Ebrei prima di Mosè, con la legge contenuta nel Pentateuco, e questa e quelli con la legge del Vangelo. Giacchè queste due leggi non si restringono di gran lunga al Decalogo, il quale intanto è rimasto immutabile, in quanto contenendo i primissimi [1640]elementi della morale, è perciò appunto applicabile e conveniente a tutti i possibili stati della società umana, che non può sussistere, senza una morale, e questa non può aver fondamento vero se non in Dio. Però il Decalogo combina appresso a poco colla sostanza e collo spirito delle leggi scritte di tutti i savi legislatori antichissimi e modernissimi, e colle leggi praticate anche da’ più rozzi popoli, che pur compongano una società. L’uomo poteva esser fatto Letteratura italiana Einaudi 1148
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia diversamente, ma è fatto realmente in modo, che formando società co’ suoi simili, gli divien subito necessaria una legge il cui spirito sia quello del Decalogo. Vale a dire che il Decalogo contiene i principii generali delle convenienze delle azioni in una società umana, pel bene di essa.
Il generale contiene tutti i particolari: ma questi sono infiniti e diversissimi. Le convenienze loro rispetto alle azioni, variano secondo gli stati delle società, e della società in genere. L’antica legge Ebraica permetteva il concubinato, fuorchè colle donne forestiere ec. L’odio del nemico costituiva lo spirito delle antiche nazioni. Ecco le leggi di Mosè tutte patriottiche, ecco santificate [1641]le invasioni, le guerre contro i forestieri, proibite le nozze con loro, permesso anche l’odio del nemico privato. E
Gesù comandando l’amor del nemico, dice formalmente che dà un precetto nuovo. Come ciò, se la morale è eterna e necessaria? Come è male oggi, quel ch’era forse bene ieri? Ma la morale non è altro che convenienza, e i tempi avevano portato nuove convenienze. Questo discorso potrebbe infinitamente estendersi generalizzando sullo stato del mondo antico e moderno, e sulla differente morale adattata a questi diversi stati. L’uomo isolato non aveva bisogno di morale, e nessuna ne ebbe infatti, essendo un sogno la legge naturale. Egli ebbe solo dei doveri d’inclinazione verso se stesso, i soli doveri utili e convenienti nel suo stato. Stretta la società, la morale fu convenienza, e Dio la diede all’uomo appoco appoco, o piuttosto ora una ora un’altra, secondo i successivi stati della società: e ciascuna di queste morali era ugualmente perfetta, perchè conveniente; e perfetto è l’uomo isolato, senza morale. La morale cristiana sarebbe stata imperfetta perchè sconveniente per Abramo, [1642]e per Mosè. ec.
Ciò che dicono i Teologi delle azioni fatte lecite da un particolare impulso dello Spirito Santo, non dimostra egli chiaro che la morale dipende da Dio (siccome la convenienza), e che Dio non dipende punto dalla morale?
Letteratura italiana Einaudi 1149
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia A me pare che il mio sistema appoggi il Cristianesimo in luogo di scuoterlo; anzi che egli n’abbia bisogno, e in certo modo lo supponga. Nè fuori del mio sistema si ponno facilmente accordare le parti in apparenza discordantissime e contraddittorie della religione Cristiana non solo quanto ai misteri, ma alla legge, alla storia successiva della religione, ai dogmi d’ogni genere ec.
La fede nostra fa guerra alla ragione. Io dimostro l’impotenza assoluta ed essenziale della ragione, non solo in ordine alla felicità umana, al conservare ec. la società, allo stabilire e mantenere una morale, ma alla stessa facoltà di ragionare e concepire.
La pluralità de’ mondi, quasi fisicamente dimostrata, come si può accordare col Cristianesimo fuori del mio sistema, il quale dimostra che le creature possono esser d’infinite specie, e che Dio esistendo verso noi come la religione insegna, [1643]esiste ancora in tutti i possibili modi, e può avere avuto ed avere con diversissime creature, diversissimi e contrari rapporti, e non averne alcuno? Quante verità fisiche, metafisiche ec. ripugnano alla religione, fuori del mio sistema che nega ogni verità e falsità assoluta, ammettendo le relative, e in queste la religione?
Il mio sistema abbracciando e ammettendo quasi tutto il sistema dell’ateismo, negando tutti i sistemi ec. e pur facendone risultare l’idea costante di Dio, religione, morale ec. mi par l’ultima e decisiva prova della religione; o se non altro che non può per ragioni esser dimostrata falsa quella rivelazione, che d’altronde avendo prove di fatto, si deve tenere per vera, perchè il fatto nel mio sistema decide, e la ragione non se gli può mai opporre.
Ma, se Dio è superiore alla morale, se il buono o cattivo non esiste assolutamente ec. Dio non può egli ingannarci in ciò che ci ha rivelato, promesso, minacciato ec.? – No, perch’egli ci vieta d’ingannare. La legge ch’egli ci ha data, quel modo del suo essere ch’egli ci ha [1644]manifestato, Letteratura italiana Einaudi 1150
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia la maniera in cui l’ha fatto, i rapporti che ha preso con noi, i doveri che ci ha prescritti verso lui, verso i nostri simili, verso noi stessi, ciò che ci ha proibito, gl’insegnamenti che ci ha dato, la verità che ci ha fatto amare, la natura in cui ci ha formati, l’ordine di cose che ha stabilito, ec. decidono del modo in cui egli deve portarsi verso noi, cioè ha voluto e vorrà portarsi, si è portato e porterà.
Altrimenti non sarebbero buoni i suoi rapporti verso noi, e quindi egli non sarebbe buono o perfetto cioè conveniente ed in intera armonia rispetto a noi, ed a quest’ordine di cose, che egli poteva bene tutt’altrimenti costitu-ire, ma ha costituito in questo tal modo in cui l’ingannare è male. Il nostro modo, la nostra facoltà di ragionare è giusta e capace del vero, quando si restringe all’ordine di cose che noi conosciamo o possiamo conoscere, e che in qualche maniera ci appartiene, ed alle cose che vi hanno rapporto, in quanto ve lo hanno. Io non distruggo verun principio della ragione umana (nè in quanto alla morale, nè a tutto il resto): [1645]solamente li converto di assoluti in relativi al nostro ordine di cose ec. La Religion Cristiana, come ho già detto, resta tutta quanta in piedi (restano quindi i suoi effetti, le sue promesse ec.), non come assolutamente vera, e necessaria indipendentemente dalle cose quali sono, e dal modo in cui sono ec. ma relativamente, e dipendentemente in origine dall’arbitrio di chi potendo stabilire e ordinar la natura ben altrimenti, o non istabilirla ec. la stabilì però, ed in questa tal guisa ec. Sicchè quanto a noi, quanto agli effetti ec. la cosa è tutt’una.
(5-7. Sett. 1821.)
Da che le cose sono, la possibilità è primordialmente necessaria, e indipendente da checchè si voglia. Da che nessuna verità o falsità, negazione o affermazione è assoluta, com’io dimostro, tutte le cose son dunque possibili, ed è quindi necessaria e preesistente al tutto l’infinita possibilità. Ma questa non può esistere senza un potere il Letteratura italiana Einaudi 1151
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia quale possa fare che le cose sieno, e sieno in qualsivoglia modo possibile. Se esiste l’infinita possibilità esiste l’infinita onnipotenza, perchè se questa non esiste, quella non
[1646]è vera. Viceversa non può stare l’infinita onnipotenza senza l’infinita possibilità. L’una e l’altra sono, possiamo dire, la stessa cosa. Se dunque è necessaria l’infinita possibilità, preesistente al tutto, indipendente da ogni cosa, da ogni idea ec. (ed infatti se non v’è ragione possibile perchè una cosa sia impossibile, ed impossibile in un tal modo ec., la infinita possibilità è assolutamente necessaria); lo è dunque ancora l’onnipotenza.
Ecco Dio: e la sua necessità dedotta dall’esistenza, e la sua essenza riposta nell’infinita possibilità, e quindi formata di tutte le possibili nature. ec. Questa idea non è che abbozzata. V. la p.1623.
(5-7. Sett. 1821.)
Poniamo che la classe possidente o benestante sia complessivamente alla classe povera o laboriosa ec. come 1 a 10. Certo è nondimeno che per 30. uomini insigni e famosi in qualsivoglia pregio d’ingegno ec. che sorgano nella prima classe, appena uno ne sorgerà nell’altra, e quest’uno probabilmente sarà passato sin da fanciullo nella prima, mediante favorevoli [1647]circostanze di educazione ec.
Scorrete massimamente le campagne (giacchè le città sviluppano sempre alquanto le facoltà mentali anche dei poveri) e ditemi, se potete, il tal contadino è un genio nascosto. E pur è certo che vi sono fra i contadini tante persone proprie a divenir geni, quante nelle altre classi in proporzione del numero rispettivo di ciascuna. E nessuna è più numerosa di questa. Che cosa è dunque ciò che si dice, che il genio si fa giorno attraverso qualunque riparo, e vince qualunque ostacolo? Non esiste genio in natura, cioè non esiste (se non forse come una singolarità) nessuna persona le cui facoltà intellettuali sieno per se stesse strabocchevolmente maggiori delle altrui. Le cir-Letteratura italiana Einaudi 1152
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia costanze e le assuefazioni col diversissimo sviluppo di facoltà non molto diverse, producono la differenza de-gl’ingegni; producono specialmente il genio, il quale appunto perchè tanto s’innalza sull’ordinario (il che lo fa riguardare come certissima opera della natura); perciò appunto è figlio assoluto dell’assuefazione ec.
(7. Sett. 1821.)
[1648]Pare assurdo, ma è vero che l’uomo forse il più soggetto a cadere nell’indifferenza e nell’insensibilità (e quindi nella malvagità che deriva dalla freddezza del carattere), si è l’uomo sensibile, pieno di entusiasmo e di attività interiore, e ciò in proporzione appunto della sua sensibilità ec.14 Massime s’egli è sventurato; ed in questi tempi dove la vita esteriore non corrisponde, non porge alimento nè soggetto veruno all’interiore, dove la virtù e l’eroismo sono spenti, e dove l’uomo di sentimento e d’immaginazione e di entusiasmo è subito disingannato. La vita esteriore degli antichi era tanta che avvolgendo i grandi spiriti nel suo vortice arrivava piuttosto a sommerger-li, che a lasciarsi esaurire. Oggi un uomo quale ho detto, appunto per la sua straordinaria sensibilità, esaurisce la vita in un momento. Fatto ciò, egli resta vuoto, disingannato profondamente e stabilmente, perchè ha tutto profondamente e vivamente provato: non si è fermato alla superficie, non si va affondando a poco a poco; è andato subito al fondo, ha tutto abbracciato, e tutto rigettato come effettivamente indegno e frivolo: non gli resta altro a vedere, [1649]a sperimentare, a sperare. Quindi è che si vedono gli spiriti mediocri, ed alcuni sensibili e vivi sino a un certo segno, durar lungo tempo ed anche sempre, nella loro sensibilità, suscettibili di affetto, capaci di cure e di sacrificj per altrui, non contenti del mondo, ma sperando di esserlo, facili ad aprirsi all’idea della virtù, a crederla ancora qualche cosa ec. (Essi non hanno ancora perduto la speranza della felicità). Laddove quei grandi Letteratura italiana Einaudi 1153
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia spiriti che ho detto, fin dalla gioventù cadono in un’indifferenza, languore, freddezza, insensibilità mortale, e irrimediabile: che produce un egoismo noncurante, una somma incapacità di amare ec. La sensibilità e l’ardore dell’animo è così fatto, che s’egli non trova pascolo nelle cose circostanti, consuma se stesso, e si distrugge e perde in poco d’ora, lasciando l’uomo tanto al disotto della magnanimità ordinaria, quanto prima l’avea messo al disopra. Laddove la mediocre sensibilità si mantiene, perchè abbisogna di poco alimento. Quindi è che le virtù grandi non sono pe’ nostri tempi. [1650]
(7. Sett. 1821.). Puoi vedere p.1653. fine.
Quanto l’immaginazione contribuisca alla filosofia (ch’è pur sua nemica), e quanto sia vero che il gran poeta in diverse circostanze avria potuto essere un gran filosofo, promotore di quella ragione ch’è micidiale al genere da lui professato, e viceversa il filosofo, gran poeta, osserviamo. Proprietà del vero poeta è la facoltà e la vena delle similitudini. (Omero poiht¯w n’è il più grande e fecondo modello). L’animo in entusiasmo, nel caldo della passione qualunque ec. ec. discopre vivissime somiglianze fra le cose. Un vigore anche passeggero del corpo, che influisca sullo spirito, gli fa vedere dei rapporti fra cose disparatissime, trovare dei paragoni, delle similitudini astrusissime e ingegnosissime (o nel serio o nello scherzoso), gli mostra delle relazioni a cui egli non aveva mai pensato, gli dà insomma una facilità mirabile di ravvicinare e rassomigliare gli oggetti delle specie le più distinte, come l’ideale col più puro materiale, d’incorporare vivissimamente il pensiero il più astratto, di ridur tutto ad immagine, e crearne delle più nuove e vive che si possa credere. Nè ciò solo mediante espresse similitudini o paragoni, ma col mezzo di epiteti nuovissimi, di metafore arditissime, di parole contenenti esse sole una similitudine ec. Tutte facoltà del gran poeta, e tutte contenute e deri-Letteratura italiana Einaudi 1154
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia vanti dalla facoltà di scoprire i rapporti delle cose, anche i menomi, e più lontani, anche delle cose che paiono le meno analoghe ec. Or questo è tutto il filosofo: facoltà di scoprire e conoscere i rapporti, di legare insieme i particolari, e di generalizzare. (7 Sett. 1821.). V. [1651]p.1654.
principio.
Qual cosa è più potente nell’uomo, la natura o la ragione? Il filosofo non vive mai nè pensa giornalmente, e intorno a ciò che lo riguarda, nè vive con se stesso (se anche vivesse cogli altri) da vero filosofo; nè il religioso da vero e perfetto religioso. Non v’è uomo così certo della malizia delle donne ec. che non senta un’impressione dilettevole, e una vana speranza all’aspetto di una beltà che gli usi qualche piacevolezza. (Meno impressione, e forse anche niuna, potrà provarne chi vi sia troppo avvezzo, e questo sarà principalmente il caso dell’uomo di mondo, la cui anima allora si porterà più filosoficamente assai di quella del maggior filosofo, non già per forza di ragione, ma di natura che ha dato all’assuefazione la proprietà d’illanguidire e anche distruggere le sensazioni.
Massime se il filosofo non vi sarà assuefatto. Tanto più egli sarà soggetto a peccare o coll’opera o col pensiero contro i principii suoi.) Egli è sempre più o meno soggetto a ricadere in tutte le stravagantissime illusioni dell’amore, ch’egli ha conosciuto e sperimentato impossibile, immaginario, vano. Non v’è uomo così profondamente persuaso della nullità delle [1652]cose, della certa e inevitabile miseria umana, il cui cuore non si apra all’allegrezza anche la più viva, (e tanto più viva quanto più vana) alle speranze le più dolci, ai sogni ancora i più frivoli, se la fortuna gli sorride un momento, o anche al solo aspetto di una festa, di una gioia della quale altri si degni di metterlo a parte. Anzi basta un vero nulla per far credere immediatamente al più profondo e sperimentato filosofo, che il mondo sia qualche cosa. Basta una parola, uno Letteratura italiana Einaudi 1155
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia sguardo, un gesto di buona grazia o di complimento che una persona anche di poca importanza faccia all’uomo il più immerso nella disperazione della felicità, e nella considerazione di essa, per riconciliarlo colle speranze, e cogli errori. Non parlo del vigore del corpo, non parlo del vino, al cui potere cede e sparisce la più radicata e invecchiata filosofia. Lascio ancora le passioni, che se non altro, ne’ loro accessi si ridono del più lungo e profondo abito filosofico. Un menomo bene inaspettato, un nuovo male ancora che sopraggiunga, ancorchè piccolissimo, basta a persuadere il filosofo che la vita umana non è un niente. V. Corinne t.2. liv.14. ch.1. pag. ult. cioè 341. Ciò che dico del filosofo, dico pure del religioso, non ostante che la religione, tenendo dell’illusione e quindi della natura, abbia tanta più forza effettiva nell’uomo.
(8. Sett. dì della natività di Maria SS. 1821.)
[1653]Il fanciullo non può contenere i suoi desideri, o difficilmente, secondo ch’egli è più o meno assuefatto a soddisfarli. L’uomo difficilmente concepisce un desiderio così vivo come il menomo de’ fanciulli, e di tutti facilmente è padrone, benchè certo non abbia cambiato natura, e la vita umana si componga tutta di desiderii, e l’uomo (o l’animale) non possa vivere senza desiderare, perchè non può vivere senz’amarsi, e questo amore essendo infinito, non può esser mai pago. Tutto dunque è assuefazione nell’uomo. Questa osservazione si può estendere a tutte le passioni e a tutte le parti esteriori ed interiori dell’uomo, e della sua vita.
(8. Sett. 1821.)
Ho detto altrove che il troppo produce il nulla, e citato le eccessive passioni e le estreme sventure, il pericolo presente e inevitabile che dà una forza e tranquillità d’animo anche al più vile, una disgrazia sicura e che non può fuggirsi ec. che non producono già l’agitazione, ma l’immo-Letteratura italiana Einaudi 1156
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia bilità, la stupidità, una specie di rassegnazione non ragionata; in maniera che l’aspetto dell’uomo in tali casi è bene spesso affatto simile a quello dell’indifferente: ed un bravo pittore non lo farebbe distinguere dall’uomo il più noncurante ec. eccetto per un’aria di meditazione stupida, ed una fissazione di occhi in qualsivoglia parte. Aggiungo [1654]ora che ciò non si deve solamente restringere all’atto, ma anche all’abito d’indifferenza, rassegnazione alla fortuna, insensibilità ec. che è prodotto dall’estrema infelicità e disperazione abituale ec. e puoi vedere la p.1648.
(8. Sett. 1821.)
Alla p.1650. fine. Io non veggo in questi pretesi progressi, (dello spirito umano) da’ quali tiriamo tanta vanità, che una immensa catena, di cui alcuni indicarono il metallo; altri, forse senza disegno, ne formarono gli anelli; I PIÙ
ACCORTI PERVENNERO FELICEMENTE A CON-
GIUNGERLI. La gloria, a dir vero, sembra esser dovuta a questi: ma i primi ne hanno tutto il merito, o dovrebbero averlo, se noi fossimo giusti. Dissertazione sopra i progressi delle arti del Sig. Palissot de Montenoij (così trovo): pubblicata, credo, in Parigi, il 1756. Sta appiè del 1. tomo Dutens, aggiuntaci dal traduttor francese: e nella traduzione italiana Venez. 1789. Tommaso Bettinelli. t.1. p.209.
Origine delle scoperte attribuite a’ moderni del Sig.
Lodovico Dutens.
(8. Sett. 1821.)
[1655]L’uomo si addomestica alla continua novità come alla uniformità, e allora l’oggetto nuovo gli è tanto familiare, quanto un oggetto vecchio, e la novità in genere gli è più familiare e ordinaria, che la uniformità. ec.
(8. Sett. 1821.)
Il mio sistema introduce non solo uno Scetticismo ra-Letteratura italiana Einaudi 1157
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia gionato e dimostrato, ma tale che, secondo il mio sistema, la ragione umana per qualsivoglia progresso possibile, non potrà mai spogliarsi di questo scetticismo; anzi esso contiene il vero, e si dimostra che la nostra ragione, non può assolutamente trovare il vero se non dubitando; ch’ella si allontana dal vero ogni volta che giudica con certezza; e che non solo il dubbio giova a scoprire il vero (secondo il principio di Cartesio ec. v. Dutens, par.1. c.2.
§.10.), ma il vero consiste essenzialmente nel dubbio, e chi dubita, sa, e sa il più che si possa sapere.
(8. Sett. 1821.)
Alla pagina 1632. fine. Quanti, anche profondissimi filosofi, furono o sono o saranno intimamente persuasi di proposizioni affatto contrarie a quelle di cui altri tali filosofi ec. [1656]sono o saranno o furono parimente persuasi fino alla supposta evidenza! E ciò non solo nelle cose fisiche che dipendono dall’esperienza, ma nelle astratte ec. ec. (8. Sett. 1821). Puoi vedere Corinne t.2.
liv.14. c.1. p.335. V. p.1690. fine.
Alla p.1113. verso il fine. Si può notare che i verbi continuativi composti, cioè con preposizione o comunque (come subvectare ec. ec.) ora sono continuativi di altri verbi parimente composti (come di subvehere), ora sono immediatamente composti dal continuativo semplice del verbo semplice.15 E quindi ora hanno il significato analogo al continuativo del semplice, e modificato dalla preposizione ec. ora sono continuativi del significato del verbo composto che serve loro di positivo. Talvolta, anzi bene spesso hanno l’uno e l’altro significato. P.e. subjectare, ora vale gittar di sotto in su come composto di sub e jactare; ed ora sottoporre, metter sotto, come formato da subiectus di subiicere. V. Forcellini. (Quindi il nostro suggettare, soggettare, assoggettare ec. franc. assujettir, spagn. sujetar, i quali però hanno un senso ignoto alla buona latinità, e Letteratura italiana Einaudi 1158
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia
[1657]stanno propriamente per subiicere, perduto nelle nostre lingue, come gettare, jeter ec. cioè jactare, per iacere, e così molti altri continuativi.) Si trova anche in Corippo subjactare, millantare, che non ha altro senso se non di sub e iactare, di cui è composto. Del resto i detti continuativi composti possono 1. non avere nessun composto che serva loro di positivo, o possa servire, 2. non avere nessun continuativo del semplice, da cui possano derivare, come adlectare da adlicere, non ha nessun continuativo del semplice lacere, da cui possa esser composto ec.
ec. ec. (8. Sett. 1821.). Quanto ho detto de’ continuativi composti si applichi pure ai frequentativi composti.
Tutto è materiale nella nostra mente e facoltà. L’intelletto non potrebbe niente senza la favella, perchè la parola è quasi il corpo dell’idea la più astratta. Ella è infatti cosa materiale, e l’idea legata e immedesimata nella parola, è quasi materializzata. La nostra memoria, tutte le nostre facoltà mentali, non possono, non ritengono, non concepiscono esattamente nulla, se non riducendo ogni cosa a materia, in qualunque modo, ed attaccandosi sempre alla materia quanto è possibile; e legando l’ideale col sensibile; e notandone i rapporti più o meno lontani, e servendosi di questi [1658]alla meglio.
(9. Sett. 1821.). V. p.1689. capoverso 2.
Piace nelle donne una certa virilità non solo di corpo, anche d’animo, e parimente a causa dello straordinario.
Piace in esse anche la magnanimità, e questa piace pure, tanto alle donne quanto agli uomini, negli uomini ancora; perchè anche in essi è straordinaria, proporzionatamente parlando ec. Le sventure, le passioni, la malinconia, i sacrifizi generosi, e più o meno eroici, ec. piacciono pure in ambo i sessi e danno grazia ec. in parte per la compassione, ma in parte anche per lo straordinario. Così le grandi virtù, o i grandi vizi ec.
Letteratura italiana Einaudi 1159
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia (9. Sett. 1821.)
L’assioma de’ Leibniziani (se non erro) nihil in natura fieri per saltum, quella gradazione continua con cui la natura assuefa le cose a diversissimi stati, e nasconde il passaggio dall’inverno all’estate, ec. ec. ec. del che parla Senofonte, tutto ciò non dimostra egli che tutta la natura è un sistema di assuefazione? La gradazione importa l’assuefazione, e viceversa.
(9. Sett. 1821.)
[1659]Alla p.1284. marg. – fine. Da simili ragioni, nacque senza fallo la gran differenza che si scorge fra la scrittura e la pronunzia delle lingue francese, inglese ec. Differenza chiamo io, quando le lettere scritte si pronunziano tutto giorno diversamente dal valore che è loro assegnato nel rispettivo alfabeto di ciascuna lingua, ( Empire, si pronunzia ampire. La e nell’alfabeto francese è a o e?
Perchè dunque scrivete e dovendo pronunziare a?) quando si scrivono lettere che non si pronunziano (come in Wieland); quando altre si omettono che si denno pronunziare. Questa differenza è imperfezione somma nella scrittura di tali lingue. L’italiana e la spagnuola sono in ciò le più perfette fra le moderne, forse perchè furono coltivate prima delle altre, e passarono in mano delle persone istruite, quando erano ancor molli, e prima che il modo di scriverle fosse già determinato dall’uso quotidiano degl’ignoranti e negligenti. L’ortografia italiana era molto imperfetta, com’è naturale, ne’ trecentisti, e nello stesso Dante, Petrarca ec. V. Perticari. Del resto era ben naturale che le lingue moderne nate dalla corruzione e dall’ignoranza, e in tempi d’ignoranza, non si sapessero scrivere; non si trovassero nè sapessero applicare i segni;
[1660]si confondessero i suoni e i segni antichi co’ moderni; si seguitasse il costume di scrivere le parole in quel tal modo come si scrivevano anticamente, benchè la Letteratura italiana Einaudi 1160
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia pronunzia fosse cambiata, e la forma di esse ec.; si pigliasse in prestanza l’ortografia degli antichi ne’ luoghi e ne’ casi alquanto dubbi ec. (come notano infatti degl’italiani che non essendo ben formata l’ortografia nostra massime nel 400. e ne’ principii del 500, si serviano della latina, e scrivevano p.e. et pronunziando e, vulgare, letitia ec. ec. così mi pare che osservi il Salviati) e tutto ciò producesse le imperfezioni che si trovano nelle ortografie straniere.
(9. Sett. 1821.). V. p.1945. e 2458.
Quanto l’uomo sia solito a giudicar di tutto assolutamente, e quanto perciò s’inganni, vediamolo in cose ordinarie. Il giovane deride, accusa, non concepisce, condanna i gusti, i pareri, i costumi, i desiderii ec. del vecchio, e viceversa. Tutti due s’ingannano, e nel fatto loro hanno piena ragione. Così dico di chi è appassionato, e di chi non lo è; di chi si trova in un tal caso, e di chi non vi si trova. S’io fossi ne’ suoi panni farei certo o non farei così: non comprendo come [1661] egli possa portarsi altrimenti. Se foste ne’ suoi panni, lo comprendereste. Tutto giorno ci par facilissimo, verissimo ec. quel ch’è impossibile, falsissimo ec. per chi si trova nel caso. A chi consiglia non duole il capo (Crusca) dice il proverbio, e fa molto al proposito.
(9. Sett. 1821.)
Il talento non è altro che facoltà d’imparare, cioè di attendere, e di assuefarsi. Per imparare intendo anche le facoltà d’inventare, di pensare, di sentire, di giudicare ec.
Nessuno impara le sue proprie invenzioni, pensieri, sentimenti, o i giudizi particolari ch’egli porta, ma impara a farlo, e non lo può fare se non l’ha imparato, e se non ha acquistato con maggiore o minore esercizio e copia di sensazioni, cioè di esperienze, queste tali facoltà, che paiono affatto innate, e sono realmente acquisite più o meno Letteratura italiana Einaudi 1161
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia facilmente. La nostra mente in origine non ha altro che maggiore [1662]o minor delicatezza e suscettibilità di organi, cioè facilità di essere in diversi modi affetta, capacità, e adattabilità, o a tutti o a qualche determinato genere di apprensioni, di assuefazioni, concezioni, attenzioni. Questa non è propriamente facoltà, ma semplice disposizione. Nella mente nostra non esiste originariamente nessuna facoltà, neppur quella di ricordarsi. Bensì ell’è disposta in maniera che le acquista, alcune più presto, alcune più tardi, mediante l’esercizio; ed in alcuni ne acquista (gli altri dicono sviluppa) più, in altri meno, in alcuni meglio, in altri imperfettamente, in alcuni più, in altri meno facilmente, in alcuni così, in altri così modificate, secondo le circostanze, che diversificano quasi i generi di una stessa facoltà. Come una persona di corporatura sveltissima ed agilissima, è dispostissima al ballo. Non però ha la facoltà del ballo, se non l’impara, ma solo una disposizione a poterlo facilmente e perfettamente imparare ed eseguire. Così dico di tutte le altre facoltà ed abilità materiali. Nelle quali ancora, oltre la disposizione
[1663]felice del corpo, giova ancora quella della mente, e la facoltà acquisita di attendere, di assuefarsi e d’imparare. Senza cui, gli organi esteriori i meglio disposti alla tale o tale abilità, stentano bene spesso non poco ad appren-derla, e conservarla.
(10. Sett. 1821.)
Una leggera stonazione in una musica non è capita dal volgo, come il fanciullo non capisce i piccoli difetti della forma umana, e talora nemmeno i gravi. In una musica alquanto astrusa, cioè per poco che gli accordi sieno inusitati, egli non capisce neppure le grandi stonazioni, e così proporzionatamente accade alle persone polite, e talvolta anche alle intendenti.
(10. Sett. 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 1162
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Ho detto altrove che bisogna distinguere nella musica l’effetto dell’armonia, da quelli del suono che non hanno a fare col bello, come non vi ha che fare il colore per se stesso, non trattandosi di convenienza. Ho detto che quello che ha di singolare l’effetto della musica sull’animo, appartiene in massima [1664]parte al puro suono. Infatti qual differenza fra l’effetto di un suono, di uno strumento dolce, penetrante, ec. ed un altro ruvido, non penetrante ec. Analizzate bene l’effetto della musica sul vostro cuore, e vedrete che l’effetto suo singolare deriva precisamente dalla natura del suono e varia secondo le di lui differenze. L’armonia, la melodia la più melodiosa, o armonica, eseguita su d’uno strumento vile, ec. in suoni rozzi ec. non vi tocca non vi muove, non v’innalza punto.
Ho conosciuto una persona che passava e si teneva essa stessa per inarmonica, non essendo nè commossa nè di-lettata da quasi veruna musica. Frattanto egli notava che una stessa armonia eseguita in certi tali strumenti lo toccava vivamente, in altri niente affatto. Egli amava molto, e provava tutti gli effetti della musica, quando udiva suoni forti, di gran voce, strumenti arditi, orchestre numerose, e strepitose. Quest’era dunque una particolare disposizione de’ suoi organi, inclinati a que’ tali suoni, che lo dilettavano: ovvero una rozzezza o poca delicatezza, bisognosa di suoni forti per essere scossa. Questo diletto era dunque [1665]nella sostanza dipendente dal suono, e indipendente dall’accordo, dall’armonia, e quindi dal bello. Il suono dà piacere all’uomo, perchè la natura gli ha dato, o ha dato a noi (e ad altri animali) questa proprietà. Così i cibi dolci, i colori vivi ec. Tutto ciò non appartiene al bello, non essendo convenienza. V. p.1721.
capoverso 2.
Una notabile sorgente di piacere nella musica è pur l’espressione, la significazione, l’imitazione. Questo neppure spetta al bello, come ho detto in proposito della fisonomia umana. Or questo è di tanto rilievo, che una Letteratura italiana Einaudi 1163
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia musica non significante non diletta se non gl’intendenti, i quali si fanno mediante l’assuefazione, de’ particolari generi e fonti di piacere. E se l’uomo udendo una musica espressiva o no, non l’applica seco stesso a qualche significazione, o se l’applica ad una significazione che non le conviene, egli ne proverà o nessun diletto, o minore proporzionatamente. Questo è costante e universale. E
però gli animi non [1666]sensibili poco son dilettati dalla musica. Tanto è vero che il di lei singolare effetto non deriva dall’armonia in quanto armonia, ma da cagioni estranee alla essenza dell’armonia, e quindi alla teoria della convenienza, e del bello.
(10. Sett. 1821.)
Si dice tutto giorno, aria di viso, fisonomia ec. e la tal aria è bella, la tale no, e aria truce, dolce, rozza, gentile ec.
ec. In maniera che bene spesso non trovando difetto in nessuno de’ lineamenti, o non trovandovi pregio, si trovano però difetti o pregi, bellezza o bruttezza nell’ aria del viso. Non è questa una prova che il bello o brutto della fisonomia, non dipende nella principal parte dalla convenienza, ma dalla significazione, e quindi non è propriamente bellezza nè bruttezza? Notate anche il nome di aria che si è dato a questa significazione generale di una fisonomia, appunto perch’ella consistendo in sottilissimi rapporti colle qualità non materiali dell’uomo, è una cosa impossibile a determinarsi, e quasi aerea. [1667]Ond’è che i giudizi differiscono intorno alla bellezza umana forse più che a qualunque altra, quando parrebbe che dovesse accadere l’opposto. Aria ec. si applica anche alle fisonomie non umane.
(10. Sett. 1821.)
Vedi tu un uomo o una donna? A qual parte corri subito? al viso, massime s’è di diverso sesso. T’è nascosto il viso, e il personale o altro, ti par bello, o ti muove a curio-Letteratura italiana Einaudi 1164
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia sità di conoscerla? tu non sei contento se non la miri in viso. Vedutolo, ti par brutto? tu cangi subito il giudizio, e il senso, e mentr’ella ti parve bella, ora ti par brutta. Ti parve brutta, e il viso ti par bello? nel tuo giudizio ell’è divenuta bella. Tu non dici nè pensi di conoscere di veduta una persona se tu non l’hai veduta in viso. Non così ti accade rispetto agli animali. Tu non provi nessuno dei detti effetti. Tu non osservi che il corpo, perchè nelle diverse fisonomie di una stessa specie, non trovi differenze.
Tu dici di conoscere un cavallo, se anche non l’hai
[1668]veduto o almeno osservato nel muso. Se n’hai visto il solo muso, non dici nè pensi di conoscerlo, laddove tu pensi di conoscere una persona di cui non hai visto o almeno osservato che il viso, come spesso accade. Un animale dipinto in maniera che il muso non si veda, ti pare intero. Non così una persona. Tanto è vero che per l’uomo la parte principale della forma umana è la fisonomia.
(10. Sett. 1821.)
I contadini, e tutte le nazioni meno civilizzate, massime le meridionali, amano e sono dilettate soprattutto da’ colori vivi. Al contrario le nazioni civili, perchè la civiltà che tutto indebolisce, mette in uso e in pregio i colori smorti ec. Questo si chiama buon gusto. Perchè? come dunque si suppone che il buon gusto abbia norme e modelli costanti, e invariabili? s’egli ci allontana dalla natura, in che altra cosa stabile faremo noi consistere questo tipo, questa norma? Non è questa oltracciò una prova che tutto è relativo, e dipende dall’assuefazione, e circostanze, [1669]anche i piaceri, i gusti ec. che paiono i più naturali, e spontanei? giacchè l’uomo polito, senza bisogno di alcuna riflessione, si ride di un villano che stima far gran figura col suo gilet di scarlatto, e degli altri villani o villane che l’ammirano. E pure che ragione naturale v’è di riderne? Le stesse nostre classi colte pochi anni Letteratura italiana Einaudi 1165
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia sono, quando erano meno o civilizzate o corrotte, avevano lo stesso gusto de’ nostri villani, ma in assai maggior grado. Ora i colori amaranto, barbacosacco, napoleone, ed altri simili mezzi colori sono di moda, e questo effetto si attribuisce a piccole cagioni, ma in vero egli tiene alla natura generale dell’incivilimento.
(10. Sett. 1821.)
La detta osservazione è anche una prova dell’indebolimento che è sempre e in tutti i sensi compagno ed effetto della civiltà.
(10. Sett. 1821.)
Il vedere che altri prova in nostra presenza un gusto vivo, ci è sempre grave, e ci rende odiosa quella persona.
E perciò è prudenza e creanza il non dimostrare in presenza [1670]altrui di provare un piacere, o il portarsi con una disinvoltura che mostri di non curarsene ec. Similmente dico di un vantaggio. E v. un mio pensiero sul far carezze alla moglie in presenza altrui, e il costume de-gl’inglesi che ho notato in questo proposito. Cosa spiace-volissima anche tra noi, e che m’è avvenuto di sentir condannare come insopportabile in due sposi che si facevano grandi carezze in presenza d’altri. Tanto è vero che l’uomo odia naturalmente l’uomo. Eccetto se quel gusto che ho detto è stato procacciato a quella persona da noi stessi volontariamente, nel qual caso egli ridonda in certo modo su di noi, e serve alla nostra ambizione, ec. insomma ne partecipiamo. Questo effetto si prova massimamente cogli eguali e co’ superiori (meno cogl’inferiori, co’ fanciulli ec.); ma cogli eguali soprattutto, e cogli amici e stretti conoscenti più che mai, perocchè con questi si esercita principalmente l’invidia, e si sente al vivo l’inferiorità nostra ec. in qualsivoglia genere. I superiori sono il soggetto di un odio più generale, che si stende su tutta la loro persona, [1671]condizione ec. e discende meno, o è Letteratura italiana Einaudi 1166
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia meno sensibile alle cose particolari, tanto più che non si può entrare con essi in competenza di desiderii ec.
Parimente riguardo agl’inferiori, bisogna che i loro vantaggi o piaceri siano d’un alto grado (nel qual caso l’odio è maggiore verso loro che verso qualunque altro) perchè arrivino a pungere il nostro amor proprio, e la nostra ge-losia ec. Nondimeno è vero che sempre se ne prova qualche disgusto.
(11. Sett. 1821.)
Le teorie delle quali i romantici han fatto tanto romore a’ nostri giorni, avrebbero dovuto restringersi a provare che non c’è bello assoluto, nè quindi buon gusto stabile, e norma universale di esso per tutti i tempi e popoli; ch’es-so varia secondo gli uni e gli altri, e che però il buon gusto, e quindi la poesia, le arti, l’eloquenza ec. de’ tempi nostri, non denno esser quelle stesse degli antichi, nè quelle della Germania, le stesse che le francesi; che le regole assolutamente parlando non esistono. Ma essi son andati più avanti, hanno ricusato o male interpretato
[1672]il giudizio e il modello della stessa natura parziale, sola norma del bello; il fanatismo e la smania di essere originali (qualità che bisogna bene avere ma non cercare) gli ha precipitati in mille stravaganze; hanno errato anche bene spesso in filosofia, ne’ principj, e nella speculativa non solo delle arti ec. ma anche della natura generale delle cose, dalla quale dipendono tutte le teorie di qualsivoglia genere. – Il primo poema regolare venuto in luce in Europa dopo il risorgimento, dice il Sismondi, è la Lusiade (pubblicata un anno avanti la Gerusalemme).
Questo è detto abusivamente: per regolare, non si può intendere se non simile a’ poemi d’Omero e di Virgilio.
Regolare non è assolutamente nessun poema. Tanto è regolare il Furioso, quanto il Goffredo. L’uno potrà dirsi esclusivamente epico, l’altro romanzesco. Ma in quanto poemi tutti due sono ugualmente regolari; e lo sono e lo Letteratura italiana Einaudi 1167
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia sarebbero parimente altri poemi di forme affatto diverse, purchè si contenessero ne’ confini della natura. I generi ponno essere infiniti, e ciascun genere, [1673]da che è genere, è regolare, fosse anche composto di un solo individuo. Un individuo non può essere irregolare se non rispetto al suo genere o specie. Quando egli forma genere, non si dà irregolarità per lui. Anche dentro uno stesso genere (come l’epico) si danno mille specie, ed anche mille differenze di forme individuali. Qual divario dall’Iliade all’Odissea, dall’una e l’altra all’Eneide. Pur tutti questi si chiamano poemi epici, e potrebbero anche non chiamarsi. Anzi si potrebbe dire che se l’Iliade è poema epico, l’Eneide non lo è, o viceversa. Tutto è quistione di nomi, e le regole non dipendono se non dal modo in cui la cosa è: non esistono prima della cosa, ma nascono con lei, o da lei.
(11. Sett. 1821.)
L’uomo inesperto del mondo, come il giovane ec. sopravvenuto da qualche disgrazia o corporale o qualunque, dov’egli non abbia alcuna colpa, non pensa neppure che ciò debba essere agli altri, oggetto di riso sul suo conto, di fuggirlo, di spregiarlo, [1674]di odiarlo, di scher-nirlo. Anzi se egli concepisce verun pensiero intorno agli altri, relativamente alla sua disgrazia, non se ne promette altro che compassione, ed anche premura, o almen desiderio di giovarlo; insomma non li considera se non come oggetti di consolazione e di speranza per lui; tanto che talvolta arriva per questa parte a godere in certo modo della sua sventura. Tale è il dettame della natura. Quanto è diverso il fatto! Anche le persone le più sperimentate, ne’ primi momenti di una disgrazia, sono soggette a cadere in questo errore, e in questa speranza, almeno confusa e lontana. Non par possibile all’uomo che una sventura non meritata gli debba nuocere presso i suoi simili, nell’opinione, nell’affetto, ec. ma egli tien per fermissimo Letteratura italiana Einaudi 1168
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tutto l’opposto; e s’egli è inesperto non si guarda di nascondere agli altri (potendo) la sua disgrazia; anzi talvolta cerca di manifestarla: laddove la principale arte di vivere consiste ordinariamente nel non confessar mai di esser [1675]disgraziato, o di avere alcuno svantaggio rispetto agli altri ec.
Parimente l’uomo inesperto (ed anche lo sperimentato, nella ebbrezza della gioia) sopravvenuto da qualche fortuna, ed acquistato qualche vantaggio, crede fermamente che tutti, e massime gli amici e i conoscenti debbano rallegrarsene di tutto cuore, e neppur sospetta che ne l’abbiano a odiare, ch’egli sia per perderne l’amicizia di questo o di quello, che gli stessi amici più cari, debbano o tentar mille vie di spogliarlo del suo nuovo vantaggio, screditarlo ec. o almeno desiderar di farlo, proccurar di scemare presso lui, presso loro stessi, e presso gli altri l’idea e il pregio della sua nuova fortuna ec. Tutto ciò, accadendo, come inevitabilmente accade, gli riesce maraviglioso.
(11. Sett. 1821.)
Scire nostrum est reminisci dicono i Platonici. Male nel loro intendimento, cioè che l’anima non faccia che ricordarsi di [1676]ciò che seppe innanzi di unirsi al corpo.
Benissimo però può applicarsi al nostro sistema, e di Locke. Perchè infatti l’uomo, (e l’animale) niente sapendo per natura ec. tanto sa, quanto si ricorda, cioè quanto ha imparato mediante le esperienze de’ sensi. Si può dire che la memoria sia l’unica fonte del sapere, ch’ella sia legata, e quasi costituisca tutte le nostre cognizioni ed abilità materiali o mentali, e che senza memoria l’uomo non saprebbe nulla, e non saprebbe far nulla. E siccome ho detto che la memoria non è altro che assuefazione, nasce (benchè prestissimo) da lei, ed è contenuta in lei, così vicendevolmente può dirsi ch’ella contiene tutte le assuefazioni, ed è il fondamento di tutte, vale a dire d’ogni Letteratura italiana Einaudi 1169
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia nostra scienza e attitudine. Anche le materiali sono legate in gran parte colla memoria. Insomma siccome la memoria è essenzialmente assuefazione dell’intelletto, così può dirsi che tutte le assuefazioni dell’animale sieno quasi memorie proprie de’ respettivi organi che si assuefan-no.
(11. Sett. 1821.). V. p.1697. principio.
[1677]I dolori negli uomini naturali sono vivissimi, come si vede dagli atti e dalle azioni ch’essi ispirano, e ispiravano agli antichi. Nondimeno si vede e si ammira negli uomini di campagna una somma difficoltà (non solo di conservare lungo tempo il dolore, che questa è propria naturalmente delle passioni veementissime) ma anche di concepirlo, e sentirlo vivamente, e togliersi dal loro stato di abituale insensibilità. Preparano i funerali delle loro mogli o figli, gli accompagnano alla chiesa, assistono alla loro sepoltura, ridono un momento dopo, ne parlano con indifferenza, di rado spargono qualche lacrima, benchè se il dolore talvolta li coglie, esso sia tale qual dev’essere in persone poco lontane dalla natura. Nè solo gli uomini di campagna, ma tutti coloro che appartengono alle classi indigenti o laboriose ec. dimostrano gli stessi effetti.
Ciò manifesta la misericordia della natura, e dimostra che ella ha sibbene dato agli uomini naturali, vivissimi e frequentissimi e facilissimi piaceri, ma contuttochè gli abbia resi conseguentemente soggetti alla veemenza straordinaria [1678]del dolore, non però, come parrebbe che dovesse essere, gli ha assoggettati alla frequenza, nemmeno di un dolor moderato, e quale si prova sì spesso dagli uomini civili. Parte la rozzezza del loro cuore, e il nessuno sviluppo (o piuttosto analoga modificazione) delle facoltà produttrici del dolore, della sensibilità ec.; parte la continua e viva distrazione prodotta nell’uomo naturale da’ bisogni, dalle fatiche, ec. ec. l’assuefazione a certe sofferenze ec. li preserva dalla facilità di addolorarsi, gli Letteratura italiana Einaudi 1170
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia addomestica alle disgrazie della vita, li rende più disposti a godere che a soffrire, facili a dimenticare il male, incapaci di sentirlo profondamente, se non di rado ec. Anche gli uomini civili, abitualmente, o straordinariamente occupatissimi, sono nello stesso caso. Così pure gli uomini avvezzi alle disgrazie ec. ec.
(11. Sett. 1821.)
È noto che anticamente il dittongo ae de’ latini scrivevasi e pronunziavasi alla greca ai (v. i gramatici.) Or questa pronunzia e scrittura antichissima l’italiano la conserva
[1679]anche oggi nel latino vae, greco oéaÜ, ch’egli scrive e pronunzia guai, mutato il v in gu, come in guado, guastare, da vadum vastare. ec. I nostri contadini in alcune parti d’Italia dicono golpe, (v. Monti, Proposta ec. in Golpe, dove senza bisogno lo deriva dal francese) golo, sguelto, guerro per volpe, volo, svelto, verro (porco non castrato, verres) ec. ec. E viceversa vardare, valchiera per guardare, gualchiera ec. Noi diciamo vizzo e guizzo. (Crusca.) I nostri antichi diceano vivore per vigore. (Crusca.) Il déguiser franc. è corruzione di déviser (v. la Crusca in Divisato: svisare è pur lo stesso, in rigore d’etimologia.) Non parlo della pronunzia del w inglese ec. ec. ec.
(12. Sett. 1821.)
L’italiano il francese lo spagnuolo i quali parlano (massime l’italiano) poco differentemente da quello che parlavano i latini, non perciò scrivono come i latini scrivevano. Vale a dire che delle due lingue Romane distinte da Cicerone, la rustica è sopravvissuta alla colta, l’una vive alterata, l’altra è morta del tutto. Tanta è la tenacità del popolo, tanta la difficoltà di conservare e [1680]perpetuare quello a cui la moltitudine non partecipa. Questo però per le mutazioni de’ tempi per la barbarie, per la dimenticanza del buono scrivere ec. quello, non solo si conservò per la tenacissima natura del popolo, malgrado Letteratura italiana Einaudi 1171
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia le tante vicende delle nazioni, influenze e inondazioni di forestieri ec. ma s’introdusse anche, e resta in luogo del latino scritto. E il ridurre a letteratura la lingua italiana ec. fu in certo modo un dare una letteratura al rustico latino, essendo perduta l’altra letteratura del latino colto.
E malgrado gli sforzi fatti nel 400. e 500. per ravvivare questa seconda, (e ciò tanto in Italia che altrove) ella s’è perduta, e l’altra s’è propagata, accresciuta, e vive.
(12. Sett. 1821.)
La stessa nostra ragione è una facoltà acquisita. Il bambino che nasce non è ragionevole: il selvaggio lo è meno dell’incivilito, l’ignorante meno dell’istruito: cioè ha effettivamente minor facoltà di ragionare, tira più difficilmente la conseguenza, e più difficilmente e oscuramente vede il rapporto fra le parti del sillogismo il più chiaro.
Vale a [1681]dire che non solo un’ignoranza particolare gl’impedisce di vedere o capire questo o quello, ma egli ha una minor forza generale di raziocinio, meno abitudine e quindi meno facilità e capacità di ragionare, e quindi meno ragione. Giacchè non solo egli non comprende questa o quella parte di un sillogismo, ma anche com-prendendole a perfezione tutte tre, (o le due premesse) separatamente, non ne vede il rapporto, e non conosce come la conseguenza ne dipenda, ancorchè il sillogismo gli venga formalmente fatto. La qual cosa non si può insegnare. Or questa è reale inferiorità ed incapacità di ragione. V. p.1752. principio. Di questo genere sono quelle teste che si chiamano dure e storte, e da queste cause viene la rarità di quel senso che si chiama comune. Notate ch’io dico facoltà e non disposizione. Distinsi altrove l’una dall’altra. La mente umana ha una disposizione (ma per se stessa infruttuosa) a ragionare: essa per se non è ragione, come ho spiegato in altro proposito con esempi; e questa disposizione originariamente e riguardo al puro intelletto è tale che anche quanto ad essa l’uomo primiti-Letteratura italiana Einaudi 1172
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia vo affatto inesperto è poco o nulla superiore all’animale.
Gli organi suoi esteriori ec. che gli producono in pochi momenti un numero di esperienze decuplo di quello che gli altri animali si possano proccurare, lo mettono ben presto al di sopra degli altri viventi. L’esperienze
[1682]riunite di tutta una vita, poi quelle di molti uomini, e poi di molti tempi unite insieme, onde nasce la favella, e quindi gl’insegnamenti ec. ec. hanno messo il genere umano in lunghissimo tempo, e mettono giornalmente il fanciullo in brevissimo tempo assai di sopra a tutti gli animali, e gli danno la facoltà della ragione. L’uo-mo primitivo in età di sett’anni non era già ragionevole, come oggi il fanciullo. Ne sa più il bambino che balbetta; ragiona meglio, è più ragionevole, di quello che fosse l’uo-mo primitivo in età di vent’anni ec. ec. ec. Questo si può confermare coll’esempio de’ selvaggi, i quali hanno pur tuttavia molta e già vecchia società.
(12. Sett. 1821.)
La stessa adattabilità e conformabilità che ho detto esser singolare nell’uomo, non è propriamente innata ma acquisita. Essa è il frutto dell’assuefazione generale, che lo rende appoco appoco più o meno adattabile ed assuefabile. Di lei non esiste originariamente nell’uomo, che una disposizione, la quale non è già lei. L’uomo stenta moltissimo da principio ad assuefarsi, a prender
[1683]questa o quella forma, poi mediante l’assuefazione di farlo, appoco appoco se lo facilita. Ciò si può vedere ne’ caratteri sociali. L’uomo che poco o nulla ha trattato, o da gran tempo non suol trattare, stenta moltissimo, anzi non sa punto accomodarsi al carattere, al temperamento, al gusto, al costume diverso delle persone, de’ luoghi, de’
tempi, delle occasioni. Egli non è dunque punto socievole. Viceversa accade all’uomo solito a praticare cogli uomini. Egli si adatta subito al carattere il più nuovo ec.
L’assuefazione deriva dall’assuefazione. La facoltà di as-Letteratura italiana Einaudi 1173
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia suefarsi, dall’essersi assuefatto.
(12. Sett. 1821.)
Perciò appunto che la lingua francese non ammette se non il suo proprio (unico) stile, esso è ammissibile (non però senza guastarlo, quando si faccia senza giudizio), o certo più universalmente facile ad essere ammesso in tutte le lingue, che qualunque altro. Perch’ella è incapace di traduzioni, ella è più facilmente di qualunque altra, traducibile in tutte le lingue colte. Viceversa per le contrarie ragioni [1684]accade proporzionatamente alle altre lingue, e sopra tutte le moderne all’italiana, perch’ella sovrasta a tutte nella moltiplicità degli stili, e capacità di traduzioni. Le altre lingue contengono in certo modo lo stile francese, come un genere, il qual genere nella lingua francese è tutto. Vero è che in questo tal genere ella primeggia di gran lunga su tutte le antiche e moderne. Sviluppate e dichiarate questo pensiero: ed osservate che infatti le bellezze le più minute della lingua francese si ponno facilmente rendere; e com’ella abbia corrotto facilmente quasi tutte le lingue d’Europa, ed insinuatavisi; laddove ella (quale ora e ridotta) non sarebbe stata certo corrompibile da niun’altra, nemmeno in qualsivoglia circostanza si possa immaginare.
(12. Sett. 1821.)
Piace naturalmente ed universalmente (anche a’ vecchi) la vivacità della fisonomia, moti, espressioni, stile, costumi, maniere ec. ec. Che vuol dir ciò? Viene in parte dallo straordinario, ma nella parte principale questo piacere è indipendente dal bello: egli viene in ultima analisi da una inclinazione (innata) della natura [1685]alla vita, ed odio della morte, e quindi della noia, dell’inattività, e di ciò che l’esprime, come la melensaggine. Inclinazione ed odio che si manifesta in mille altre parti della vita umana, anzi in tutto l’uomo, anzi in tutta la natura. Bensì Letteratura italiana Einaudi 1174
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ella pur varia nelle proporzioni, secondo i temperamenti, le circostanze, ec. e sarà piacevole, e (come dicono) bella per costui una vivacità che sarà brutta per colui, bella oggi, brutta domani, bella per una nazione, brutta per un’altra ec. ec. ec.
(12. Sett. 1821.)
La perfezione del Cristianesimo mette in pregio la solitudine e il tenersi lontano dagli affari del mondo per fuggire le tentazioni. – Vale a dire per non far male a’ suoi simili. – Bel mezzo di non far male, quello di non fare alcun bene. Che utile può seguire da ciò? – Ma non si tratta solo di evitare il danno de’ suoi simili. Il Cristiano fugge il mondo per non peccare in se stesso o contro se stesso, cioè contro Dio. – Ecco quello ch’io dico, che il Cristianesimo surrogando un altro mondo al presente,
[1686]ed ai nostri simili, ed a noi stessi un terzo ente, cioè Dio, viene nella sua perfezione, cioè nel suo vero spirito a distruggere il mondo, la vita stessa individuale, (giacchè neppur l’individuo è lo scopo di se stesso) e soprattutto la società, di cui a prima vista egli sembra il maggior legame e garante. Che vantaggio può venire alla società, e come può ella sussistere, se l’individuo perfetto non deve far altro che fuggir le cose per non peccare?
impiegar la vita in preservarsi dalla vita? Altrettanto var-rebbe il non vivere. La vita viene ad essere come un male, come una colpa, come una cosa dannosa, di cui bisogna usare il meno che si possa, compiangendo la necessità di usarne, e desiderando esserne presto sgravato. Non è questa una specie di egoismo? simile a quello di quei filosofi (e son molti) che disperando di poter far bene al mondo, si contentano del ritiro, e di praticare la virtù verso se stessi. Da che la perfezione del Cristiano è relativa a se stesso, (e tale ella è nel vero ed intero spirito del Cristianesimo), da che l’esser perfetto include la
[1687]fuga delle tentazioni, vale a dire del mondo, da Letteratura italiana Einaudi 1175
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia che per conseguenza il ritiro è il più perfetto stato dell’uomo, il Cristianesimo è distruttivo della società. Non può infatti essere relativa al bene della società la perfezion di una religione, che loda il celibato, il che dimostra ch’ella ripone la perfezion dell’uomo in una cosa affatto indipendente dalla società (anche de’ più cari), e fuori al tutto di essa; in un tipo astratto che non ha niente affare col diriggere le mire dell’individuo al vantaggio comune. Una tal religione doveva anche necessariamente lodare la solitudine, e l’uomo secondo essa, doveva (com’è infatti) esser tanto più perfetto quanto meno partecipasse delle cose umane e colle opere e co’ pensieri: giacchè il perfetto Cristiano non è perfetto che in se stesso. Si vede da ciò, che il Cristianesimo non ha trovato altro mezzo di corregger la vita che distruggerla, facendola riguardar come un nulla anzi un male, e indirizzando la mira dell’uomo perfetto, fuori di essa, ad un tipo di perfezione indipendente da lei, a cose [1688]di natura affatto diversa da quella delle cose nostre e dell’uomo.
(13. Sett. 1821.)
Le immaginazioni calde (come son quelle de’ fanciulli più o meno) in forza della somma tendenza dell’animale a’ suoi simili, trovano da per tutto delle forme simili alle umane. Ma notate che sebbene si troverebbe facilmente maggiore analogia fra le altre parti dell’uomo e i diversi oggetti materiali, che fra questi e la fisonomia umana, nondimeno l’immaginazione trova sempre in essi oggetti, maggiore analogia col volto dell’uomo che colle altre parti, anzi a queste neppur pensa. V. il mio discorso sui romantici. Tanto è vero che la principal parte dell’uomo riguardo all’uomo è il volto.
(13. Sett. 1821.)
Si parla tuttogiorno di convenienze. E si crede ch’elle sieno fisse, universali, invariabili, e su di loro si fonda Letteratura italiana Einaudi 1176
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tutto il buon gusto. Or quante cose che sono convenienti, e quindi belle, e quindi di buon gusto in Italia, non lo sono in Francia, ne’ costumi, nel tratto, nello scrivere, nel teatro, nell’eloquenza, nella poesia ec. Dante non è egli un [1689]mostro per li francesi nelle sue più belle parti; un Dio per noi? Così discorrete, e su questo esempio ragionate di tutte le possibili convenienze in ordine al confronto delle idee che noi o altre nazioni ne hanno, con quelle che ne hanno i francesi.
(13. Sett. 1821.)
A ciò che ho detto altrove che la semplicità è relativa, aggiungete che oggi per esempio sarebbe bruttissimo uno stile semplice al modo di Senofonte, o de’ nostri trecentisti, ancorchè inaffettato, e composto di voci e frasi niente anticate. La semplicità d’oggi è diversissima da quella d’allora, e di un grado molto minore. Cosa che non s’intende da coloro che raccomandano l’imitazione degli antichi.
(13. Sett. 1821.)
Alla p.1658. principio. A questa osservazione si può riferire l’utilità de’ versi per ritenere le cose a memoria ec.
Osservate ancora. I suoni son cose materiali, ma poco materiali in quanto suoni, e tengono quasi dello spirito, perchè non cadono sotto altro senso che dell’udito, impercettibili alla vista e al tatto, che sono i sensi più materiali dell’uomo. Se per tanto ad uno che non sappia
[1690]di musica, o non ne sappia abbastanza, tu vorrai dare ad intendere il meccanismo di un’aria, l’analisi, le differenze, le gradazioni de’ suoi tuoni mediante il solo udito, difficilmente riuscirai. Ma facendogliela quasi vedere sul piano-forte (o scritta ec.) e materializzandogli in questo modo i tuoni, le loro distinzioni, e posizioni, egli concepirà facilmente ogni cosa, e potrà anche (benchè non s’intenda di musica) eseguir quell’aria a voce dopo averla veduta, con più sicurezza ec. che dopo averla sola-Letteratura italiana Einaudi 1177
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia mente udita. E generalmente parlando si può dire che la chiarezza dell’espressione di qualsivoglia idea, o insegnamento, consiste nel materializzarlo alla meglio, o ravvici-narlo alla materia, con similitudini, con metafore, o comunque.
(13. Sett. 1821.)
Alla p.1656. principio. La malinconia per es. fa veder le cose e le verità (così dette) in aspetto diversissimo e contrarissimo a quello in cui le fa vedere l’allegria. V’è anche uno stato di mezzo che le fa pur vedere al suo modo, cioè la noia. E l’allegro e il malinconico ec. (sieno pur due pensatori e filosofi, o uno stesso filosofo in due diversi tempi e stati) sono persuasissimi di [1691]vedere il vero, ed hanno le loro convincenti ragioni per crederlo. Vero è pur troppo che astrattamente parlando, l’amica della verità, la luce per discoprirla, la meno soggetta ad errare è la malinconia e soprattutto la noia; ed il vero filosofo nello stato di allegria non può far altro che persuadersi, non che il vero sia bello o buono, ma che il male cioè il vero si debba dimenticare, e consolarsene, o che sia conveniente di dar qualche sostanza alle cose, che veramente non l’hanno.
(13. Sett. 1821.). V. p.1694. fine.
Alla p.1132. Del resto che un antichissimo caps o altro simile monosillabo sia la radice di caput, si conferma dal vedere che in fatti la parte radicale e primitiva di questa voce, non è se non cap, sola che risponda alla voce greca kefal¯, cioè alla sua prima parte kef (Il f era anticamente un p come altrove ho già detto. O piuttosto non esisteva il f, ma solo il p che si adoperava in suo luogo, e poi aspirandosi si scriveva ph e quindi f.).
(13. Sett. 1821.)
Voi altri riformatori dello spirito umano, e dell’opera Letteratura italiana Einaudi 1178
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia della natura, voi altri predicatori della ragione, provatevi un poco a [1692]fare un romanzo, un poema ec. il cui protagonista si finga perfettissimo e straordinario in tutte le parti morali, e dipendenti dall’uomo, e imperfetto o men che perfetto nelle parti fisiche, dove l’uomo non ha per se verun merito. Di che si parla in questo secolo sì spirituale massime in letteratura che oramai par che sde-gni tutto ciò che sa di corporeo, di che si parla, dico, ne’
poemi, ne’ romanzi, nelle opere tutte d’immaginazione e sentimento, fuorchè di bellezza del corpo? Questa è la prima condizione in un personaggio che si vuol fare interessante.
La perfettibilità dell’uomo, come altrove ho detto, non ha che fare col corpo. E contuttociò la perfezione del corpo, che non dipende dagli uomini nè è opera della ragione, si è la principal condizione che si ricerca in un eroe di poema ec. (o si dee supporre, perchè ogni menoma imperfezione corporale suppostagli guasterebbe ogni effetto) e la più efficace, supponendolo ancora perfetto nello spirito. Questa circostanza non si può tacere; quando anche si taccia, la supplirà il lettore; ma fare espressamente un protagonista brutto, è lo stesso che rinunziare a qualsivoglia effetto. (V. ciò che dico in tal proposito dove parlo della compassione). Mad. di Staël non era bella: in un’anima come la sua, questa circostanza avrà prodotto mille pensieri e sentimenti sublimi, nuovissimi a scri-verli, profondissimi, sentimentalissimi: (così di Virgilio pretende Chateaubriand) ella amava sopra tutto l’originalità, e poco teneva il buon [1693]gusto (v. Allemagne tome 1. ch. dernier): ella, come tutti i grandi, dipingeva ne’ suoi romanzi il suo cuore, i suoi casi, e però si serve di donne per li principali effetti; nondimeno si guarda bene di far brutti o men che belli i suoi eroi o le sue eroine.
Tutto lo spregiudizio, tutto l’ardire, tutta l’originalità di un autore in qualsivoglia tempo non può giunger fin qua.
Che cosa è la bellezza? lo stesso in fondo, che la nobiltà e Letteratura italiana Einaudi 1179
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia la ricchezza: dono del caso? È egli punto meno pregevole un uomo sensibile e grande, perchè non è bello? Quale inferiorità di vero merito si trova nel più brutto degli uomini verso il più bello? Eppure non solamente lo scrittore o il poeta si deve guardare dal fingerlo brutto, ma deve anche guardarsi da entrare in comparazioni sulla sua bellezza. Ogni effetto svanirebbe se parlando o di se stesso (come fa il Petrarca) o del suo eroe, l’autore dicesse ch’egli era sfortunato nel tale amore perchè le sue forme, o anche il suo tratto e maniere esteriori (cosa al tutto corpo-rea) non piacevano all’amata, o perch’egli era men bello di un suo rivale ec. ec. Che cosa è dunque il mondo fuorchè [1694]NATURA? Ho detto che l’intelletto umano è materiale in tutte le sue operazioni e concezioni. La teoria stessa dell’intelletto si deve applicare al cuore e alla fantasia. La virtù, il sentimento, i più grandi pregi morali, le qualità dell’uomo le più pure, le più sublimi, infinite, le più immensamente lontane in apparenza dalla materia, non si amano, non fanno effetto veruno se non come materia, e in quanto materiali. Divideteli dalla bellezza, o dalle maniere esteriori, non si sente più nulla in essi. Il cuore può bene immaginarsi di amare lo spirito, o di sentir qualche cosa d’immateriale: ma assolutamente s’inganna.
Così accade in certo modo riguardo allo stile e alle parole, che sono, come ben dice Pindemonte, non la veste, ma il corpo de’ pensieri. E quanto prevalga l’effetto dello stile a quello de’ pensieri, (benchè spessissimo il lettore non se ne accorga, nè sappia distinguere le cose dalle parole, ed attribuisca a’ soli pensieri l’effetto che prova, nel che in gran parte consiste l’arte dello stile) interrogatene la storia d’ogni letteratura.
(13. Sett. 1821.)
Alla p.1691. Non parlo della eloquenza, e della sua forza di persuader l’uomo di ciò che vuole. Ma quante volte, Letteratura italiana Einaudi 1180
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia leggendo p.e. un [1695]filosofo, siamo al tutto del suo avviso, e poi leggendone uno contrario, mutiamo parere, e tornando a leggere il primo, o altro dello stesso sentimento, ripigliamo la prima opinione ec. Questa è cosa che accade tutto giorno, o nel leggere o nel discorrere, o si tratti di sentimenti contrarii, o discordi, o non consentanei in tutto o in parte; ed accade anche all’uomo riflessivo ed attento e profondo e libero nel pensare, cioè non facile a esser mosso nè solito dar peso all’autorità, ed al parere altrui, di quelli ch’ei legge, ode ec.
(14. Sett. 1821.)
Forza dell’assuefazione sull’idea della convenienza.
L’uso ha introdotto che il poeta scriva in verso. Ciò non è della sostanza nè della poesia, nè del suo linguaggio, e modo di esprimer le cose. Vero è che questo linguaggio e modo, e le cose che il poeta dice, essendo al tutto divise dalle ordinarie, è molto conveniente, e giova moltissimo all’effetto, ch’egli impieghi un ritmo ec. diviso dal volgare e comune, con cui si esprimono le cose alla maniera ch’elle sono, e che si sogliono considerare nella vita. Lascio poi l’utilità dell’armonia ec. Ma in sostanza, e per se stessa, la poesia non è legata al [1696]verso. E pure fuor del verso, gli ardimenti, le metafore, le immagini, i concetti, tutto bisogna che prenda un carattere più piano, se si vuole sfuggire il disgusto dell’affettazione, e il senso della sconvenienza di ciò che si chiama troppo poetico per la prosa, benchè il poetico, in tutta l’estensione del termine, non includa punto l’idea nè la necessità del verso, nè di veruna melodia. L’uomo potrebb’esser poeta caldissimo in prosa, senza veruna sconvenienza assoluta: e quella prosa, che sarebbe poesia, potrebbe senza nessuna sconvenienza assumere interissimamente il linguaggio, il modo, e tutti i possibili caratteri del poeta. Ma l’assuefazione contraria ed antichissima (originata forse da ciò che i poeti si animavano a comporre colla musica, Letteratura italiana Einaudi 1181
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia e componevano secondo essa, a misura, e cantando, e quindi verseggiando, cosa molto naturale) c’impedisce di trovar conveniente una cosa che nè in se stessa nè nella natura del linguaggio umano, o dello spirito poetico, o dell’uomo, o delle cose, rinchiude niuna discordanza.
[1697]
(14. Sett. 1821.)
Alla p.1676. fine. Parimente si può dire che tutte le assuefazioni, e quindi tutte le cognizioni, e tutte le facoltà umane, non sono altro che imitazione. La memoria non è che un’imitazione della sensazione passata, e le ricordanze successive, imitazioni delle ricordanze passate. La memoria (cioè insomma l’intelletto) è quasi imitatrice di se stessa. Come s’impara se non imitando?
Colui che insegna (sia cose materiali, sia cose immateriali) non insegna che ad imitare più in grande o più in piccolo, più strettamente o più largamente. Qualunque abilità materiale che si acquista per insegnamento, si acquista per sola imitazione. Quelle che si acquistano da se, si acquistano mediante successive esperienze a cui l’uomo va attendendo, e poi imitandole, e nell’imitarle, acquistando pratica, e imitandole meglio finch’egli vi si perfeziona. Così dico delle facoltà intellettuali. La stessa facoltà del pensiero, la stessa facoltà inventiva o perfezionativa in qualunque genere materiale o spirituale, non è che una facoltà d’imitazione, non particolare ma generale. L’uo-mo imita [1698]anche inventando, ma in maniera più larga, cioè imita le invenzioni con altre invenzioni, e non acquista la facoltà inventiva (che par tutto l’opposto della imitativa) se non a forza d’imitazioni, ed imita nel tempo stesso che esercita detta facoltà inventiva, ed essa stessa è veramente imitativa. V. la p.1540. fine, e segg.
(14. Sett. 1821.)
Alla p.1605. principio. Da tutto ciò risulta che l’uomo Letteratura italiana Einaudi 1182
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tal quale è in natura non piacerebbe all’uomo d’oggidì nè gli parrebbe bello; che l’idee naturali (cioè derivanti dalla natura) circa il bello umano (ch’è pure il meno soggetto a dispareri) discordano sommamente dalle nostre: che massimamente poi la donna tal qual ell’era bella in natura, e la più bella che si possa immaginare, non piacerebbe punto all’uomo moderno. Perocchè il fondamento della bellezza umana è il vigore, il quale nella natura peccherebbe e dispiacerebbe alle donne moderne per il troppo, ma non per il poco. Ma il fondamento della bellezza femminile essendo la delicatezza, questa in natura peccherebbe [1699]per noi di troppo poco. Ed essendo propria sì dell’uomo che della donna naturale la così detta rozzezza, questa sconverrebbe meno (secondo le nostre opinioni) all’uomo che alla donna, perchè in questa più, in quello meno lontana dalle qualità fondamentali della loro bellezza. ec. ec. ec.
Del resto che cosa è dunque il buon gusto? Qual tipo ha egli? La natura? Anzi ella ci ha fatti diversissimi da quel che siamo, e quindi datoci diversissimi gusti. E ciò non solo nelle forme umane, ma in ordine a tutti gli oggetti del buon gusto. ec. ec. ec.
(14. Sett. 1821.)
Alla p.1562. fine. Non si dà salvatichezza in natura. Bensì per noi. Ciò vuol dire che non siamo quali dovevamo.
Quello che per noi è salvatico, o non doveva servirci, e non era destinato all’uomo, o non è salvatico se non perchè noi siamo civili, e incapaci quindi di servircene come avremmo dovuto, e come la natura avea destinato. Non si nega che la coltura, i nesti ec. non migliorino le piante le frutta, e le razze loro, molte delle quali [1700]nel loro stato di salvatichezza, non ci potrebbero servire affatto, o ci servirebbero, o diletterebbero assai meno. ec. Così dico degli animali. ec. Ma questo miglioramento è relativo al nostro stato presente, non mica alla natura di quelle raz-Letteratura italiana Einaudi 1183
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ze ec. pretese migliorate, nè alla natura propria nostra.
Infatti quelle razze ec. coi miglioramenti che ricevono dalle nostre arti, acquistano qualunque altra qualità fuorchè il vigore, la robustezza, la sanità, la forza di resistere alle intemperie alle fatiche ec. di operare ec. di crescere proporzionatamente ec. Anzi quanto guadagnano in altre qualità (non proprie nè primitive loro) altrettanto perdono in questa, ch’è il vero carattere della natura in tutte le sue opere, e senza la cui rispettiva dose proporzionata alla natura di ciascun genere, l’individuo è insomma in istato di malattia abituale. V. la Veterinaria di Vegezio, prologo al lib.2. nel passo riportato dal Cioni, Lettera a G. Capponi sopra Pelagonio, not.19. Il vigore rispettivo è la prima e più necessaria di tutte le facoltà, perchè insomma non è altro che la facoltà di pienamente esercitare tutte le proprie facoltà, e tutte le qualità rispettive della propria natura, e tutta la perfezion fisica della propria esistenza. Senza la qual perfezione [1701]fisica (che la natura ha dato immediatamente a tutti i generi, ed al-l’umano come agli altri, a differenza della pretesa perfezione dell’animo), nè l’animo (che dipende in tutto dal fisico) nè l’intero animale può mai essere se non imperfetto.
(14. Sett. 1821.)
Le idee concomitanti che ho detto esser destate dalle parole anche le più proprie, a differenza dei termini, sono 1. le infinite idee ricordanze ec. annesse a dette parole, derivanti dal loro uso giornaliero, e indipendenti affatto dalla loro particolare natura, ma legate all’assuefazione, e alle diversissime circostanze in cui quella parola si è udita o usata. S’io nomino una pianta o un animale col nome Linneano, invece del nome usuale, io non desto nessuna di queste idee, benchè dia chiaramente a conoscer la cosa.
Queste idee sono spessissimo legate alla parola (che nella mente umana è inseparabile dalla cosa, è la sua immagi-Letteratura italiana Einaudi 1184
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ne, il suo corpo, ancorchè la cosa sia materiale, anzi è un tutto con lei, e si può dir che la lingua riguardo alla mente di chi l’adopra, contenga non solo i segni delle cose, ma quasi le cose stesse) [1702]sono dico legate alla parola più che alla cosa, o legate a tutte due in modo che divisa la cosa dalla parola (giacchè la parola non si può staccar dalla cosa), la cosa non produce più le stesse idee.
Divisa dalla parola, o dalle parole usuali ec. essa divien quasi straniera alla nostra vita. Una cosa espressa con un vocabolo tecnico non ha alcuna domestichezza con noi, non ci desta alcuna delle infinite ricordanze della vita, ec.
ec. nel modo che le cose ci riescono quasi nuove, e nude quando le vediamo espresse in una lingua straniera e nuova per noi: nè si arriva a gustare perfettamente una tal lingua, finchè non si penetra in tutte le minuzie e le piccole parti e idee contenute nelle parole del senso il più semplice. 2. Le idee contenute nelle metafore. La massima parte di qualunque linguaggio umano è composto di metafore, perchè le radici sono pochissime, e il linguaggio si dilatò massimamente a forza di similitudini e di rapporti. Ma la massima parte di queste metafore, perduto il primitivo senso, son divenute così proprie, che la cosa ch’esprimono non può esprimersi, o meglio esprimersi diversamente. Infinite ancora di queste metafore non ebbero mai altro senso che il presente, eppur sono metafore, cioè con una piccola modificazione, si fece che una parola significante una cosa, modificata così ne significasse un’altra di qualche rapporto colla prima. Questo è il principal modo in cui son cresciute tutte le lingue. Ora sin tanto che l’etimologie di queste originariamente metafore, ma oggi, o anche da principio, parole effettivamente proprie, si ravvisano e sentono, il [1703][che] accade almeno nella maggior parte delle parole proprie di una lingua, l’idea ch’elle destano, è quasi doppia, benchè la parola sia proprissima, e di più esse producono nella mente, non la sola concezione ma l’immagine della cosa, Letteratura italiana Einaudi 1185
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ancorchè la più astratta, essendo anche queste in qualsivoglia lingua, sempre in ultima analisi espresse con metafore prese dal materiale e sensibile (più o men vivo, ed esprimente e adattato, secondo i caratteri delle lingue e delle nazioni ec.). Per esempio il nostro costringere che significa sforzare, serba ancora ben chiara la sua etimologia, e quindi l’immagine materiale da cui questa che in origine è metafora, derivò. ec. ec. Il complesso di tali immagini nella scrittura o nel parlare, massime nella poesia, dove più si attende all’intero valore di ciascuna parola, e con maggior disposizione a concepire e notare le immagini ch’elle contengono, ec. questo complesso, dico, forma la bellezza di una lingua, e la differente forza ec. sì delle lingue rispettivamente a loro, sì dei diversi stili ec.
in una stessa lingua. Ma se p.e. la cosa espressa da costringere, l’esprimessimo [1704]con una parola presa da lingua straniera, e la cui origine ed etimologia non si sapesse generalmente, o certo non si sentisse, ella, quando fosse ben intesa, desterebbe bensì l’idea della cosa, ma nessuna immagine, neppur quasi della stessa cosa, benchè materiale. Così accade in tutte le parole derivate dal greco, delle quali abbondano le nostre lingue, e massime le nostre nomenclature. Esse, quando siano usuali, e quotidiane, come filosofo ec. possono appartenere alla classe che ho notata nel primo luogo, ma non mai a questa seconda.
Esse e le altre simili prese da qualsivoglia lingua, e non proprie della nostra rispettiva, saranno sempre, come altrove ho detto, parole tecniche, e di significato nudo ec.
Similmente le parole moderne, che o si derivano da parole già stanziate nella nostra lingua, ma d’etimologia pellegrina, o si derivano da parole anche proprie della lingua; essendo per lo più, stante la natura del tempo, assai più lontane dal materiale e sensibile che non sono le antiche, e di un carattere più spirituale, sono quindi ordinariamente termini e non parole, non destando verun’[1705]immagine concomitante, nè avendo nulla di Letteratura italiana Einaudi 1186
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia vivo. ec. Tali sono i termini de’ quali altrove ho detto che abbonda la lingua francese, massime la moderna, e ciò non solo per natura del tempo, ma anche per la natura di essa lingua, e del suo carattere e forma.
Certo e notabilissimo si è che tutte le parole di qualunque origine e genere sieno, alle quali noi siamo abituati da fanciulli, ci destano sempre una folla d’idee concomitanti, derivate dalla vivacità delle impressioni che accompagnavano quelle parole in quella età, e dalla fecondità dell’immaginazione fanciullesca; i cui effetti, e le cui concezioni si legano a dette parole in modo che durano più o meno vive e numerose, ma per tutta la vita.
Quindi è certo che le dette idee concomitanti intorno ad una stessa parola, ed alle menome parti del suo stesso significato, variano secondo gl’individui: e quindi non c’è forse un uomo a cui una parola medesima (dico fra le sopraddette) produca una concezione precisamente
[1706]identica a quella di un altro: come non c’è nazione le cui parole esprimenti il più identico oggetto, non abbiano qualche menoma diversità di significato da quelle delle altre nazioni. Il detto effetto delle prime concezioni fanciullesche intorno alle parole a cui sono abituati i fanciulli, si stende anche ai diversi e nuovi usi delle stesse parole, che ne fanno gli scrittori o i poeti, alle parole analoghe in qualsivoglia modo (o per derivazione, o per semplice somiglianza ec.) a quelle a cui da fanciulli ci abi-tuammo, ec. ec. e quindi influisce su quasi tutta la propria lingua, anche la più ricca, e la meno capace di esser ben conosciuta da’ fanciulli.
(15. Sett. 1821.)
Dalle superiori osservazioni (p.1705-1706.) che si possono molto, e filosoficamente estendere, deducete che forse nessun individuo (come nessuna nazione rispetto alle altre) ha precisamente le idee di un altro, circa la più identica cosa. E siccome la ragione dipende ed è intera-Letteratura italiana Einaudi 1187
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia mente determinata e modificata dal modo in cui le cose si concepiscono, [1707]quindi 1. spiegherete i differentissimi modi in cui gli uomini ragionano, le diversissime opinioni e conseguenze che tirano dalle cose, ed anche le diversità stesse dei gusti, dei costumi, ec. ec. ec. 2. osserverete quanto dobbiamo noi fidarci della ragione, e credere al vero assoluto: quando di questo vero che noi crediamo universalmente riconosciuto, si può dir quello che si dice degli oggetti materiali. Le diverse viste vedono uno stesso oggetto in diversissime misure, (v. due miei pensieri in proposito) ma siccome anche nel veder la misura esse provano la stessa differenza, così il senso della differenza sparisce, ed ella è impossibile a ravvisarsi e determinarsi. Così gli uomini concepiscono diversissime idee di una stessa cosa, ma esprimendo questa con una medesima parola, e variando anche nell’intender la parola, questa seconda differenza nasconde la prima: essi credono di esser d’accordo, e non lo sono. ec. ec. ec. Pensiero importantissimo, giacchè si deve riferire non alle sole idee materiali, ma molto più [1708]alle astratte (che tutte in fine derivano dalla materia) e agli stessi fondamenti della nostra ragione. Molto più poi alle idee del bello del grazioso ec.
(15. Sett. 1821.)
Da ciò che altrove ho detto di Machiavello Galileo ec.
che travagliarono a distruggere la propria fama, si può confermare e amplificare la sentenza di Cicerone circa la gloria, nel Sogno di Scipione.
E dalla distinzione che quivi ho fatta tra la fama dei letterati e degli scienziati, si può dedurre questa osservazione. Il vero è immutabile, e i gusti mutabilissimi. Parrebbe che lo stato delle scienze dovesse esser più costante che della letteratura, e la fama degli scienziati più durevole dei letterati. Pure accade tutto l’opposto. Le scienze, (come dicono) si perfezionano col tempo, e la lettera-Letteratura italiana Einaudi 1188
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tura si guasta. Un secolo distrugge la scienza del secolo passato: la letteratura resta immobile, o se si muta, si riconosce ben tosto per corrotta, e si torna indietro. Che cosa dunque è più stabile, la natura o la ragione? E che cosa è la nostra pretensione di conoscere il vero? gli antichi s’immaginavano di conoscerlo al pari di noi. Che cosa è lo stesso vero? Quali sono le verità assolute? quando non siamo punto sicuri [1709]che il venturo secolo non dubiti di ciò che noi teniamo per certo: anzi mirando al-l’esempio di tutti i secoli passati, e del nostro, siamo sicuri del contrario.
(15. Sett. 1821.)
Dice il Rocca che gli spagnuoli nell’ultima guerra, non si facevano scrupolo, anzi dovere di mancar pubblicamente o privatamente di parola a’ francesi, tradirli comunque, pagare i lor benefizi individuali con cercar di uccidere il benefattore. ec. ec. Così tutti i popoli naturali.
Ed egli lo racconta specialmente dei contadini. Quindi deducete 1. che cosa sia la pretesa legge naturale, doveri universali dell’uomo verso i suoi simili, diritti delle genti ancor che nemiche (e notate che l’uomo naturale è nemico di ciascun uomo). 2. qual sia la natura e il sistema dell’odio nazionale proprio di tutti i popoli non raffinati, e quindi degli antichi. Osservate ancora la somma religione degli spagnuoli, la quale pur non bastava a storcere le loro inclinazioni naturali, e i dettami di colei che si considera come autrice ec. della morale; quantunque la religion cristiana sia una specie di civilizzazione, com’è figlia di lei.
(15. Sett. 1821.)
[1710]L’amore universale, anche degl’inimici, che noi stimiamo legge naturale (ed è infatti la base della nostra morale, siccome della legge evangelica in quanto spetta a’ doveri dell’uomo verso l’uomo, ch’è quanto dire a’
Letteratura italiana Einaudi 1189
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia doveri di questo mondo) non solo non era noto agli antichi, ma contrario alle loro opinioni, come pure di tutti i popoli non inciviliti, o mezzo inciviliti. Ma noi avvezzi a considerarlo come dovere sin da fanciulli, a causa della civilizzazione e della religione che ci alleva in questo parere sin dalla prima infanzia, e prima ancora dell’uso di ragione, lo consideriamo come innato. Così quello che deriva dall’assuefazione e dall’insegnamento, ci sembra congenito, spontaneo, ec. Questa non era la base di nessuna delle antiche legislazioni, di nessun’altra legislazio-ne moderna, se non fra’ popoli inciviliti. Gesù Cristo diceva agli stessi Ebrei, che dava loro un precetto nuovo ec. Lo spirito della legge Giudaica non solo non conteneva l’amore, ma l’odio verso chiunque non era Giudeo. Il Gentile, [1711]cioè lo straniero, era nemico di quella nazione; essa non aveva neppure nè l’obbligo nè il consiglio di tirar gli stranieri alla propria religione, d’illuminarli ec. ec. Il solo obbligo, era di respingerli quando fossero assaliti, di attaccarli pur bene spesso, di non aver seco loro nessun commercio. Il precetto diliges proximum tuum sicut te ipsum, s’intendeva non già i tuoi simili, ma i tuoi connazionali. Tutti i doveri sociali degli Ebrei si restringevano nella loro nazione.
Or domando io; se quella morale che Dio ci ha dato mediante il suo Verbo, era, come noi diciamo, la vera, e se Dio non solo n’è il tipo, e la ragione, ma ragione necessaria; dunque quando egli stesso dava una morale diversissima, e quasi contraria a questa, in punti essenzia-lissimi, egli operava contro la sua essenza. Non v’è taglio.
Un solo menomo articolo della nostra morale, supposto ch’ella sia eterna, e indipendente dalle circostanze, non poteva mai per nessuna ragione essere ommesso, o variato in nessuna legge che Dio desse a [1712]qualunque uomo isolato o in società. E viceversa nessun articolo di questa legge, poteva per nessuna circostanza omettersi ec. nella nostra. Molto meno lo spirito stesso della legge e Letteratura italiana Einaudi 1190
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia della morale Divina poteva mai variare dal principio del mondo fino ad ora, come pure ha evidentemente variato.
Checchè dicano i teologi per ispiegare, per concordare, tutto insomma si riduce a questi termini: ed è forza convenire che Dio non solo è il tipo e la ragione, ma l’autore, la fonte, il padrone, l’arbitro della morale, e che questa, e tutti i suoi principii più astratti, nascono assolutamente, non dall’essenza, ma dalla volontà di Dio, che determina le convenienze, e secondo quelle che ha determinate, e create, secondo che le mantiene o le cangia o le modifica, detta, mantiene, cangia o altera le sue leggi. Egli è il creatore della morale, del buono e del cattivo, e della loro astratta idea, come di tutto il resto.
(16. Sett. 1821.)
Il sistema di Platone delle idee preesistenti alle cose, esistenti per se, eterne, necessarie, indipendenti e dalle cose e da Dio: [1713]non solo non è chimerico, bizzarro, capriccioso, arbitrario, fantastico, ma tale che fa meraviglia come un antico sia potuto giungere all’ultimo fondo dell’astrazione, e vedere sin dove necessariamente conduceva la nostra opinione intorno all’essenza delle cose e nostra, alla natura astratta del bello e brutto, buono e cattivo, vero e falso. Platone scoprì, quello ch’è infatti, che la nostra opinione intorno alle cose, che le tiene indubitabilmente per assolute, che riguarda come assolute le affermazioni, e negazioni, non poteva nè potrà mai salvarsi se non supponendo delle immagini e delle ragioni di tutto ciò ch’esiste, eterne necessarie ec. e indipendenti dallo stesso Dio, perchè altrimenti 1. si dovrà cercare la ragione di Dio, il quale se il bello il buono il vero ec. non è assoluto nè necessario, non avrà nessuna ragione di essere, nè di esser tale o tale, 2. posto pur che l’avesse, tutto ciò che noi crediamo assoluto e necessario non avrebbe altra ragione che il voler di Dio; [1714]e quindi il bello il buono il vero, a cui l’uomo suppone un’essenza Letteratura italiana Einaudi 1191
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia astratta, assoluta, indipendente, non sarebbe tale, se non perchè Dio volesse, potendo volere altrimenti, e al contrario. Ora, trovate false e insussistenti le idee di Platone, è certissimo che qualunque negazione e affermazione assoluta, rovina interamente da se, ed è maraviglioso come abbiamo distrutte quelle, senza punto dubitar di queste.
(16. Sett. 1821.)
Quando l’uomo è in un certo abito di pensare e riflettere, il che avviene perch’egli ha pensato e riflettuto, per qualunque ragione, ogni menomo accidente e sensazione della giornata, anche disparatissime, lo muovono a riflettere. Cessato quest’abito, dirò così, attuale, anche senza notabile cagione, come spesso accade, (e basta il sonno della notte a distorne l’uomo pel dì seguente) e massime, se per qualunque motivo, s’è contratto un leggero ed effimero abito di distrazione, le più gravi circostanze della vita, e le più straordinarie sensazioni, non bastano bene spesso a promuovere la riflessione. Molto [1715]più notabile è questo effetto e differenza, ne’ differenti, ma più radicati abiti di distrazione o di riflessione, che una stessa persona contrae vicendevolmente e perde; e anche più nelle diverse persone, benchè d’ingegno ugualissimamente capace.
(16. Sett. 1821.)
Le illusioni non possono esser condannate, spregiate, perseguitate se non dagl’illusi, e da coloro che credono che questo mondo sia o possa essere veramente qualcosa, e qualcosa di bello. Illusione capitalissima: e quindi il mezzo filosofo combatte le illusioni perchè appunto è illuso, il vero filosofo le ama e predica, perchè non è illuso: e il combattere le illusioni in genere è il più certo segno d’imperfettissimo e insufficientissimo sapere, e di notabile illusione.
(16. Sett. 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 1192
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia L’individuo, ordinariamente, è tanto grande o piccolo quanto la società, il corpo ec. la patria, a cui egli specialmente appartiene, o s’immagina, prefigge, cerca di appartenere. In una piccola patria, gli uomini son piccoli, se istituzioni e opinioni straordinariamente felici, non lo ingrandiscono, come nelle città greche, ciascuna
[1716]delle quali era patria. Ma il principal mezzo è di allargare al possibile, se non altro, l’idea della propria società, come ciascuna città greca e loro individui riguardavano (anche col fatto) per loro patria tutta la Grecia e sue appartenenze, e per compatriota chiunque non era b�rbarow. Senza ciò la Grecia non sarebbe stata quello che fu, neppure in quei tempi tutti propri della grandezza.
(16. Sett. 1821.)
La memoria la più indebolita dimentica l’istante passato, e ricorda le cose della fanciullezza. Ciò vuol dire che la memoria perde la facoltà di assuefarsi (in cui ella consiste), e conserva le rimembranze passate, perchè vi è assuefatta da lungo tempo; perde la facoltà dell’assuefazione, ma non le assuefazioni contratte, se elle sono ben radicate ec. ec. ec. (16. Sett. 1821.).
Lo svelto non è che vivacità. Ella piace (e il perchè, v.
p.1684. fine); dunque anche la sveltezza. Così che il piacere che l’uomo prova ordinariamente alla vista degli uccelli (esempi di sveltezza e vispezza), massime se li contempla da vicino, tiene alle più intime inclinazioni [1717]e qualità della natura umana, cioè l’inclinazione alla vita.
(16. Sett. 1821.). V. p.1725.
Mel¡th tò p�n Tutto è esercizio. Apoftegma principale di Periandro, l’uno de’ sette, sì esso che questa sentenza.
Letteratura italiana Einaudi 1193
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia (16. Sett. 1821.)
Chi non è avvezzo ad attendere e imparare, non impara mai. I contadini stentano gli anni a mettersi in mente una mezza pagina della Dottrina Cristiana, il Credo ec. Certo fra i contadini si troverà pure qualche buona memoria, e moltissimi hanno volontà d’imparare. Ma nessuna facoltà senz’assuefazione: e la memoria la più felice per tutto il resto, non ha la facoltà delle operazioni in cui non è esercitata. Lo stesso dico dell’intelletto. Oltre che i villani non hanno una bastante assuefazione generale della memoria che renda lor facile di applicarla ai diversi generi di assuefazioni particolari; nè dell’intelletto che renda lor facile l’ attendere, senza la qual facoltà (che è pure acquisita) non v’è memoria.
(16. Sett. 1821.)
[1718]Il fanciullino non riconosce le persone che ha veduto una sola o poche volte, s’elle non hanno qualche straordinario distintivo che colpisca la fantasia del fanciullo. Egli confonde facilmente una persona a lui poco nota o ignota con altra o altre a lui note, una contrada del suo paese da lui non ben conosciuta con la contrada in cui abita, un’altra casa colla sua, un altro paese col suo ec. ec. ec. Eppure l’uomo il più distratto, il meno avvezzo ad attendere, il più smemorato ec. riconosce a prima vista la persona veduta anche una sola volta, distingue a prima vista le persone nuove da quelle che conosce ec.
ec. ec. (I detti effetti si debbono distinguere in proporzione della diversa assuefabilità degli organi de’ fanciulli, della diversa loro forza immaginativa, che rende più o meno vive le sensazioni ec. ec.) Applicate questa osservazione a provare che la facoltà di attendere, e quindi quella di ricordarsi, nascono precisamente dall’assuefazione generale: applicatela anche alla mia teoria del bello, del quale io dico che il fanciullo ha debolissima idea, non lo Letteratura italiana Einaudi 1194
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia distingue da principio dal brutto, non conosce nè discerne i pregi o difetti in questo particolare, se non saltano agli occhi ec. ec. ec.
(17. Settembre 1821.)
[1719]Quanto il corpo influisca sull’anima. Un abito di attività o di energia che abbia contratto il corpo per qualunque cagione, dà dell’attività, dell’energia, della prontezza ec. anche allo spirito, sia pure il meno esercitato in se stesso. E siccome il detto abito può essere effimero e passeggero, così anche il detto effetto è molte volte giornaliero, ed anche di sole ore. Questa osservazione si può molto stendere tanto in se stessa, quanto applicandola ad altri generi di assuefazioni ed abiti corporali costanti o passeggeri, che parimente producono una simile assuefazione o abito o facoltà nello spirito, ancorchè esso non entri punto e non prenda veruna parte in quella del corpo: come se io, senza alcuna riflessione o azione del pensiero, mi trovo oggi in circostanza di agire assai e far molto esercizio corporalmente e materialmente. Molti esempi di ciò si potrebbero addurre, tanto individuali, quanto anche nazionali, ed applicabili a spiegare molti diversi caratteri di diversi popoli.
(17. Sett. 1821.)
[1720]Le verità contenute nel mio sistema non saranno certo ricevute generalmente, perchè gli uomini sono avvezzi a pensare altrimenti, e al contrario, nè si trovano molti che seguano il precetto di Cartesio: l’amico della verità debbe una volta in sua vita dubitar di tutto. Precetto fondamentale per li progressi dello spirito umano. Ma se le verità ch’io stabilisco avranno la fortuna di essere ripetute, e gli animi vi si avvezzeranno, esse saranno credute, non tanto perchè sian vere, quanto per l’assuefazione. Così è sempre accaduto. Nessuna opinione vera o falsa, ma contraria all’opinione dominante e generale, si è mai sta-Letteratura italiana Einaudi 1195
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia bilita nel mondo istantaneamente, e in forza di una dimostrazione lucida e palpabile, ma a forza di ripetizioni e quindi di assuefazione. Da principio fischiate, oggi regnano, o hanno regnato lungo tempo. Bene spesso vinte dagli ostacoli opposti loro dall’opinione dominante, e abbandonate in dimenticanza, sono poi state o copiate, o di nuovo inventate da altri più fortunati, a cui la diversità delle circostanze ha proccurato [1721]che le loro opinioni venissero ripetute in maniera che assuefattivi gli orecchi e gli animi, cominciativi ad allevare i fanciulli, esse si sono stabilite, e stabilite in modo da far considerare come sogni le opinioni contrarie, o antiche e passate, o nuove ed ardite ec. Tutto ciò non è che una prova del mio stesso sistema, il quale fa consistere le facoltà, le opinioni, le inclinazioni, la ragione umana ec. nell’assuefazione.
(17. Sett. 1821.). V. p.1729.
Non si vive al mondo che di prepotenza. Se tu non vuoi o sai adoperarla, gli altri l’adopreranno su di te. Siate dunque prepotenti. Così dico dell’impostura.
(17. Sett. 1821.)
Alla p.1665. Gli effetti che la detta persona provava riguardo ai suoni, li provava ancora riguardo al canto. Egli non era mosso ordinariamente che dalle vocione stentoree e di gran petto, o talvolta da alcune voci particolari che gli si confacevano all’orecchio. La stessa distinzione che ho fatto tra gli effetti dell’armonia, e quelli del suono
[1722]in quanto suono, bisogna pur farla in quanto al canto, giacchè la semplice voce di chi canta è ben diversa da quella di chi parla. E la natura ha dato al canto umano (parlo indipendentemente dall’armonia e modulazione) una maravigliosa forza sull’animo dell’uomo, e maggiore di quella del suono. (Così l’avrà data al canto degli uccelli 1. sugli uccelli della stessa specie, poi proporzionatamente sugli altri uccelli, ed altre specie analoghe, ed an-Letteratura italiana Einaudi 1196
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia che su di noi. E viceversa il canto umano fa assai meno effetto sulle bestie che il suono. Tutto ciò è indipendente dall’armonia e convenienza.) Infatti la più bella melodia non commuove eseguita da una vociaccia, per ottimamente eseguita che sia; e viceversa ti sentirai tocco straordinariamente al primo aprir bocca di un cantante di bella voce, soave ec. che eseguisca la melodia più frivola, la meno espressiva, o la più astrusa ec. e l’eseguisca anche male, e stuonando. E l’effetto stesso delle voci che si chiaman belle, è relativo e varia secondo i diversi rapporti delle diverse qualità di voci, cogli organi [1723]de’ diversi ascol-tanti. Tutto ciò serva di prova che il bello è relativo in ogni cosa, non solo astrattamente, ma anche dopo nata questa tal natura; e che moltissime cose credute e chiamate belle, non appartengono al bello, ma alla inclinazione generale, o individuale, o speciale, alla disposizione degli organi ec. al piacere in quanto piacere, arbitra-riamente o conseguentemente alle altre sue disposizioni ordinato dalla natura ec. ec.
(17. Sett. 1821.). V. p.1758. principio.
Chi ha disperato di se stesso, o per qualunque ragione, si ama meno vivamente, è meno invidioso, odia meno i suoi simili, ed è quindi più suscettibile di amicizia per questa parte, o almeno in minor contraddizione con lei.
Chi più si ama meno può amare. Applicate questa osservazione alle nazioni, ai diversi gradi di amor patrio sempre proporzionali a’ diversi gradi di odio nazionale; alla necessità di render l’uomo egoista di una patria perch’egli possa amare i suoi simili a cagion di se stesso, appresso a poco come dicono i teologi che l’uomo deve amar se stesso e i suoi prossimi in Dio, e [1724]per l’amore di Dio.
(17. Sett. 1821.)
L’odio dell’uomo verso l’uomo si manifesta principalmente, ed è confermato da ciò che accade nelle persone Letteratura italiana Einaudi 1197
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia di una medesima professione ec. fra le quali, sebben la perfetta amicizia astrattamente considerata è impossibile e contraddittoria alla natura umana, nondimeno anche la possibile amicizia è difficilissima, rarissima, incostantissima ec. Schiller uomo di gran sentimento era nemico di Goëthe (giacchè non solo fra tali persone non v’è amicizia, o v’è minore amicizia, ma v’è più odio che fra le persone poste in altre circostanze) ec. ec. ec. Le donne godono del mal delle donne, anche loro amicissime.
I giovani del male de’ giovani ec. ec. V. Corinne t. [3]
p.[365. sgg.] liv. [20.] ch.[4.] Non solo in una stessa professione, ma anche in una stessa età ec. ec. l’amicizia è minore e l’odio è maggiore. Eccetto l’esaltamento delle illusioni che favorisce assai l’amicizia de’ giovani, è certo, massime oggi che le grandi e belle illusioni non si trovano, che l’amicizia è più facile tra un vecchio o maturo, e un giovane, che tra giovane e giovane; tra [1725]due vecchi che tra due giovani; perchè oggi, sparite le illusioni, e non trovandosi più la virtù ne’ giovani, i vecchi sono più a portata di amarsi meno, di essere stanchi dell’egoismo perchè disingannati del mondo, e quindi di amare gli altri.
Perciò è vero che la virtù, come predica Cicerone de amicitia, è il fondamento dell’amicizia, nè può essere amicizia senza virtù, perchè la virtù non è altro che il contrario dell’egoismo, principale ostacolo all’amicizia ec. ec.
ec.
(17. Sett. 1821.)
Alla p.1717. principio. Così dico della prontezza sì del corpo, che dello spirito, de’ discorsi ec. della mobilità, e di altre tali qualità umane o qualunque, che sono piacevoli per se, per natura delle cose; piacevoli dico, e non belle, anzi talvolta contrarie al bello fino a un certo punto, e pur piacciono. ec. Quello che ho detto degli uccelli, dico pure de’ fanciulli in genere, il piacere ch’essi ordina-Letteratura italiana Einaudi 1198
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia riamente cagionano, derivando in gran parte da simili fonti. E parimente discorro d’altri simili oggetti piacevoli.
(17. Sett. 1821.)
[1726]L’assuefazione ed esercitazione del corpo, indipendente dallo spirito, va come quella o del puro spirito, o in certo modo composta, e dipendente in parte da lui.
Anch’essa si divide in generale e particolare. L’esercitazione generale del corpo, rende capaci o meglio disposti alle facoltà particolari. Il corpo si rende capace di agire, di soffrire ec. a forza di fare, di agire, di soffrire. Prima di ciò egli non ne ha che la disposizione. Una nuova sofferenza riesce più o meno facile, secondo che il corpo è generalmente abituato a soffrire. Così un nuovo genere di azione. Vi sono poi le assuefazioni particolari a questa o quella sofferenza, azione, ec. che nel mentre che contribuiscono all’assuefazione generale, ed a facilitare le altre sofferenze ed azioni, rendono però particolarmente facile quella tale ch’è il loro soggetto. Per acquistare simili assuefazioni e facoltà corporee, la forza ec. sì generali che particolari, altri hanno bisogno di più, altri di meno esercizio, secondo la diversa disposizione naturale o accidentale degl’individui; altri possono arrivare più, altri meno avanti, altri acquistare più, altri meno facoltà, ed altri queste, altri quelle ec. ec. [1727]Chi ha aquistate più assuefazioni o facoltà, o chi ha acquistata questa o quella in maggior grado, chi ha insomma più o meglio assuefatto ed esercitato il suo corpo, acquista più facilmente e con meno esercizio le altre assuefazioni e facoltà, anche quelle che prima sembravano affatto aliene o difficilissime alla sua natura. ec. ec. ec.
(17. Sett. 1821.)
L’insegnare non è quasi altro che assuefare.
Letteratura italiana Einaudi 1199
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia (18. Sett. 1821.)
L’uomo il più certo della malizia degli uomini, si riconcilia col genere umano, e ne pensa alquanto meglio, se anche momentaneamente ne riceve qualche buon tratta-mento, sia pur di pochissimo rilievo. L’individuo da te più conosciuto per malvagio, se ti usa distinzioni e corte-sie che lusinghino il tuo amor proprio, divien subito qualche cosa di meno male nella tua fantasia. Molto più la donna coll’uomo, o l’uomo (anche il più brutto, anche quello di cui s’ha peggiore idea, anzi pure avversione particolare) colla donna: e però è massima, specialmente degli uomini, che [1728]per qualunque ripulsa, idea, opinione, ostacolo, costume, non si dee mai disperare di venire a capo di una donna. Si potrebbe parimente dire in genere, che l’uomo non dee mai disperare di venire a capo di qualunque persona. Ecco quanta è la gran forza della ragione nell’uomo!
(18. Sett. 1821.)
Come l’individuo, così le nazioni non faranno mai nulla se non saranno piene di se stesse, di amor proprio, ambizione, opinione di se, confidenza in se stesse.
(18. Sett. 1821.)
Il me semble que nous avons tous besoin les uns des autres; la littérature de chaque pays découvre, à qui sait la connaître, une nouvelle sphère d’idées. C’est Charles-Quint lui-même qui a dit qu’ un homme qui sait quatre langues vaut quatre hommes. Si ce grand génie politique en jugeait ainsi pour les affaires, combien cela n’est-il pas plus vrai pour les lettres? Les étrangers savent tous le fran-
çais, ainsi leur point de vue est plus étendu que celui des Français qui ne savent pas les langues étrangères. Pourquoi [1729]ne se donnent-ils pas plus souvent la peine de les apprendre? Ils conserveraient ce qui les distingue, Letteratura italiana Einaudi 1200
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia et découvriraient ainsi quelquefois ce qui peut leur manquer. Corinne liv.7. ch. 1. dernières lignes.
(18. Sett. 1821.)
Alla p. 1721. Lo spirito umano fa sempre progressi, ma lenti e per gradi. Quando egli arriva a scoprire qualche gran verità che dimostri la falsità di opinioni generali e costanti, e che farebbe fare un salto a’ suoi avanzamenti, il più degli uomini ricusa di ammetterla, segue placidamente il suo viaggio, finchè arriva a quella tal verità, la quale come tutte le altre di tal natura, non diventa mai comune, se non lungo tempo dopo ch’ella fu (ancorchè geometricamente) dimostrata.
Si suol dire che lo spirito umano deve assaissimo, anzi soprattutto, ai geni straordinari e discopritori che s’in-nalzano di tanto in tanto. Io credo ch’egli debba loro assai poco, e che i progressi dello spirito umano siano opera principalmente degl’ingegni mediocri. Uno spirito raro,
[1730]ricevuti che ha da’ suoi contemporanei i lumi propri dell’età sua, si spinge innanzi e fa dieci passi nella carriera. Il mondo ride, lo perseguita a un bisogno, e lo scomunica, nè si muove dal suo posto, o vogliamo dire, non accelera la sua marcia. Intanto gli spiriti mediocri, parte aiutati dalle scoperte di quel grande, ma più di tutto pel naturale andamento delle cose, e per forza delle proprie meditazioni, fanno un mezzo passo. Altri ripetono le verità da loro insegnate, siccome poco discordi dalle già ricevute, e facilmente ammissibili. Il mondo sì per questa ragione, sì per forza dell’esempio di molti, li segue. I loro successori fanno un altro mezzo passo con eguale fortuna. Così di mano in mano, finchè si arriva a compiere il decimo passo, e a trovarsi nel punto dove quel grande spirito si trovò tanto tempo prima. Ma egli o è già dimenticato, o l’opinione prevalsa intorno a lui dura ancora, o finalmente il mondo non gli rende alcuna giustizia, perch’egli si trova già sapere tutto ciò che quegli Letteratura italiana Einaudi 1201
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia seppe, ne fu istruito per altro mezzo, e non crede [1731]di dovergli nulla, come poco infatti gli deve. Così la sua gloria si ridurrà ad una sterile ammirazione, e ad un passeggero elogio che ne farà qualche altro spirito profondo, che consideri com’egli fosse andato innanzi allo spirito umano nella sua carriera. Elogi e considerazioni di poco effetto, perchè il mondo si trova già uguale a lui, ben presto se gli troverà superiore, e lo è forse anche presentemente, perchè il tempo ha ben avuto luogo di meglio sviluppare e confermare le sue dottrine. Or quale ammirazione verso gli uguali o gl’inferiori?
Un’età non vuol mai trovarsi in contraddizione colle sue opinioni passate, e concepite nella fanciullezza. Ella non è capace se non di progredire appoco appoco sviluppando le sue cognizioni, e mettendo l’età future in grado di arrivare a credere il contrario di ciò che essa credette.
Così lo spirito umano si avanza senza mai credere di mutare opinione. Non è se non paragonando remoti e divisi secoli fra loro, che qualche pensatore si accorge come oggi il mondo [1732]creda in mille cose il contrario di ciò che credette. Ma il mondo vi arrivò senz’avvedersene, non l’avrebbe mai fatto avvedendosene; e perciò è follia lo sperare di mutar l’opinione de’ propri contemporanei (massime sulle cose non corporee), sia pur mediante la più matematica evidenza. Bisogna contentarsi di farle fare un piccolo grado.
Certo è però e naturale, che la celerità de’ progressi dello spirito umano si accresce in proporzione degli stessi progressi, come il moto de’ gravi, il quale benchè sempre gradato, sempre proporzionatamente si accelera. Effetto dell’assuefazione generale al rinnovare alquanto le proprie opinioni, il che dà appoco appoco la facoltà di rin-novarle facilmente un poco più, quindi un po’ più, e finalmente, ma pur sempre per gradi proporzionali, il mondo potrà forse anche arrivare a mutare affatto opinione dentro una stessa età, e riconoscere senza molta fatica Letteratura italiana Einaudi 1202
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia una verità contraria alle opinioni ricevute.
(18. Sett. 1821.)
[1733]Quanto possa l’assuefazione e l’opinione anche sul gusto de’ sapori, ch’è pure un senso naturale e innato, e ciò non ostante, varia spessissimo fino in un medesimo individuo, secondo la differenza e delle assuefazioni e delle opinioni intorno al buono o cattivo de’ sapori, è manifesto per l’esperienza giornaliera e comparativa sì de’ gusti successivi di un individuo, sì de’ gusti e giudizi de’ diversi individui.
(18. Sett. 1821.)
Non v’è memoria senz’attenzione. Ponete due persone dotate della stessa disposizione naturale, e facoltà acquisita di ricordarsi, alle quali sia avvenuto un accidente comune in un medesimo tempo, ma in modo che l’una v’abbia posto attenzione speciale, l’altra no. Dopo un certo tempo, (anche breve) interrogate l’una e l’altra. Quella se ne ricorderà come fosse presente, questa come se non fosse occorso. Quest’osservazione si può fare tutto giorno.
Ma vi sono due specie di attenzioni. Una volontaria, ed una involontaria; o piuttosto una spirituale, un’altra materiale. [1734]Della prima non si diventa capaci se non coll’assuefazione (e quindi facoltà) di attendere. E perciò gli uomini riflessivi e generalmente gl’ingegni o grandi, o applicati, hanno ordinariamente buona memoria, e si distinguono assai dal comune degli uomini nella facoltà di ricordarsi anche delle minuzie, perchè sono assuefatti ad attendere. Della seconda specie sono quelle attenzioni che derivano da forza e vivacità delle sensazioni, le quali colla loro impressione costringono l’anima ad un’attenzione in certo modo materiale. Perciò gli spiriti suscettibili, e immaginosi, ancorchè non abbiano grande ingegno, o almeno non abbiano l’assuefazione di molto attendere, cosa naturale in questi tali, sono sempre d’ottima memoria, Letteratura italiana Einaudi 1203
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia perchè tutto fa in loro proporzionatamente maggiore impressione che negli altri. ( E questo è forse il più ordinariamente tutto ciò che si considera per dono NATURALE
di buona e squisita memoria. Vedete com’ella sia nulla per se stessa, e dipendente, anzi quasi [1735] tutt’uno colle altre facoltà mentali. ) E così il dono della memoria pare ad essi ed agli altri naturale, ed innato precisamente, in loro, perchè senza l’assuefazione di attendere, essi attendono spontaneamente a causa della forza in certo modo materiale delle impressioni. Quindi in gran parte deriva la durevolezza delle ricordanze di ciò che appartiene alla fanciullezza, dove tutte le impressioni, siccome straordinarie, sono vivissime, e quindi l’attenzione è grande benchè il fanciullo non ne abbia l’abito. E detta durata, siccome detta attenzione è proporzionata alla diversa immaginativa, suscettibilità, assuefabilità, delicatezza insomma e conformabilità degli organi de’ diversi fanciulli.
Così la memoria degl’ignoranti, o poco avvezzi a sensazioni variate ec., memoria nulla dovunque è necessario l’abito di attendere (v. p.1717.), suol essere tenacissima di tutte le sensazioni straordinarie, le quali per essi sono frequenti, perchè poco conoscono ec. ec. e la meraviglia opera in loro più spesso, e la novità non è rara per loro ec. e quindi li troviamo assai spesso di prontissima memoria, in cose di cui noi punto non ci ricordiamo ec. e vedendo che per essere ignoranti, non hanno esercizio
[1736]nè d’attenzione nè di memoria, crediamo che questa in loro sia una precisa facoltà di cui la natura gli abbia squisitamente dotati.
La monotonia della vita contribuisce pure alla memoria, perch’ella giova all’attendere, escludendo l’abito delle distrazioni, (come anche la troppa moltitudine e varietà delle rimembranze che si pregiudicano l’una l’altra, sebbene anche queste si facilitano a proporzione dell’assuefazione) e giova alla memoria tanto delle cose giornaliere, quanto e molto più, delle straordinarie, perchè Letteratura italiana Einaudi 1204
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ogni piccolo straordinario è raro, e quindi fa notabile impressione in chi è avvezzo all’uniformità.
Non è ella cosa giornalmente osservata, che generalmente parlando ci ricordiamo di ciò che ci preme, e scor-diamo di ciò che non c’importa? Questo viene che a quello si attende, a questo no.
Tutto ciò non ha punto che fare con una facoltà speciale e distinta di ricordarsi che l’uomo porti dalla natura.
E da queste osservazioni si conferma quanto la fabbrica intellettuale dell’uomo sia semplice in natura, cioè composta di pochissimi elementi, che diversamente modifi-cati e combinati, [1737]producono infiniti e svariatissimi effetti. Ai quali l’uomo superficialmente badando, moltiplica i principii, le cagioni, le forze, le facoltà, che realmente sono pochissime e semplicissime. E infatti abbiamo veduto che la facoltà della memoria distintamente considerata, come si suole, facendone una delle tre principali potenze dell’anima, è un sogno, e ch’ella non è altro che una modificazione o un effetto dell’intelletto e della immaginazione.
L’attenzione che ho chiamata materiale, si può applicare a tutte le altre assuefazioni umane indipendenti o poco dipendenti dallo spirito, e dalla stessa memoria. Giacchè non la sola assuefazione che chiamiamo memoria, ma tutte hanno bisogno dell’attenzione per esser contratte; bensì questa può essere, volontaria o involontaria, avvertita o no, spirituale insomma o materiale, come quella che cagionano (secondo che ho detto) le forti sensazioni.
(19. Sett. 1821.)
Da che nacque l’invenzione del [1738]canocchiale che ha tanto influito sulla navigazione, sulla stessa filosofia metafisica, e quindi sulla civilizzazione? Dal caso. E l’invenzione della polvere che ha mutato faccia alla guerra, ed alle nazioni, e tanto contribuito a geometrizzare lo spirito del tempo, e distruggere le antiche illusioni, insie-Letteratura italiana Einaudi 1205
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia me col valore individuale ec. ec.? Dal caso. Chi sa che l’aereonautica non debba un giorno sommamente influire sullo stato degli uomini? E da che cosa ella deriva? Dal caso. E quelle scoperte infinite di numero, sorprendenti di qualità, che furono necessarie per ridurre l’uomo in quel medesimo imperfetto stato, in cui ce lo presenta la più remota memoria che ci sia giunta delle nazioni; scoperte che hanno avuto bisogno di lunghissimi secoli e per essere condotte a quella condizione ch’era necessaria per una società alquanto formata, e per essere poi perfezionate come lo sono oggidì; scoperte che oggi medesimo, dopo ch’elle son fatte da tanto tempo, dopo ch’elle sono perfezionate, dopo che la nostra mente vi s’è tanto abituata, [1739]lo spirito umano si smarrisce cercando come abbiano potuto mai esser concepite; le lingue, gli alfabeti, l’escavazione e fonditura de’ metalli, la fabbrica de’
mattoni, de’ drappi d’ogni sorta, la nautica e quindi il commercio de’ popoli, la coltura de’ formenti, e delle viti, e la fabbrica del pane e vino, invenzioni che gli antichi attribuivano agli dei, che la scrittura pone dopo il dilu-vio, e che certo furono tardissime, la stessa cocitura delle carni, dell’erbe, ec. ec. ec. tutte queste maravigliose e quasi spaventose invenzioni, da che cosa crediamo che abbiano avuto origine? Dal caso. Consideriamo tutte le difficili scoperte moderne, fatte pure in tempo dove la mente umana aveva tanti, ed immensi aiuti di più per inventare; e vedendo che tutte in un modo o nell’altro si debbono al caso, e nessuna o pochissime derivano da spontanea e deliberata applicazione della mente umana, nè dal calcolo delle conseguenze, e dal preciso progresso dei lumi; pochissime ancora da tentativi diretti, e sperienze appositamente istituite, benchè a tastoni e all’azzardo (come furono per necessità, si può dir, tutte quelle pochissime che fruttarono qualche insigne scoperta); molto più dovremo creder lo stesso di tutte le scoperte antiche le più necessarie all’esistenza di una società formale. Se dunque Letteratura italiana Einaudi 1206
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia porremo attenzione all’andamento delle cose, e alla storia dell’uomo, dovremo convenire che tutta quanta la sua civilizzazione è pura opera [1740]del caso. Il quale variando ne’ diversi remoti paesi, o mancando, ha prodotto quindi diversi generi di civilizzazione (cioè perfezione), o l’assoluta mancanza di essa. La perfezione del primo essere vivente doveva dunque essere dalla natura incari-cata all’azzardo?
(19. Sett. 1821.)
Considerate indipendentemente e in se stessa, la lode di se medesimo. Anche dopo formata una società (giacchè prima non esisteva l’amor di lode), qual cosa più conforme alla natura, più dolce a chi la pronunzia, qual cosa a cui lo spirito sia più spontaneamente e potentemente inclinato, qual cosa meno dannosa a’ nostri simili, qual piacere insomma più innocente, e qual premio più conveniente alla virtù, o all’opinione di lei? Eppur l’assuefazione ce la fa riguardare come un vizio da cui l’animo ben fatto naturalmente rifugga, come un desiderio di cui bisogni arrossire (e qual cosa ha ella in se stessa e per natura, che sia vergognosa?), come contrario al dovere della modestia, che si suppone innato, e non lo è punto (consideriamo i fanciulli, i quali tuttavia non appena cominciano a desiderar la lode, che già sono avvertiti a non darsela da se stessi), [1741]come ripugnante insomma a un dettame interno, e proibita dalla legge naturale.
Dal che dedurremo 1. una nuova conferma di questa innegabile legge naturale, 2. un’altra prova dell’odio naturale dell’uomo verso l’uomo, il quale fa che la cosa più innocente e meno dannosa agli altri in se stessa, divenga subito cattiva in una società un poco formata, perchè il bene e il vantaggio di un individuo, dispiace per se solo agli altri individui, ancorchè non pregiudichi loro, anzi pur giovi.
(19. Sett. 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 1207
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Le circostanze mi avevan dato allo studio delle lingue, e della filologia antica. Ciò formava tutto il mio gusto: io disprezzava quindi la poesia. Certo non mancava d’immaginazione, ma non credetti d’esser poeta, se non dopo letti parecchi poeti greci. (Il mio passaggio però dall’erudizione al bello non fu subitaneo, ma gradato, cioè cominciando a notar negli antichi e negli studi miei qualche cosa più di prima ec. Così il passaggio dalla poesia alla prosa, dalle lettere alla filosofia. Sempre assuefazione.) Io non mancava nè d’entusiasmo, nè di fecondità, nè di forza d’animo, nè di passione; ma non credetti d’essere eloquente, se non dopo letto Cicerone. [1742]Dedito tutto e con sommo gusto alla bella letteratura, io disprezzava ed odiava la filosofia. I pensieri di cui il nostro tempo è così vago, mi annoiavano. Secondo i soliti pregiudizi, io credeva di esser nato per le lettere, l’immaginazione, il sentimento, e che mi fosse al tutto impossibile l’applicar-mi alla facoltà tutta contraria a queste, cioè alla ragione, alla filosofia, alla matematica delle astrazioni, e il riuscirvi. Io non mancava della capacità di riflettere, di attendere, di paragonare, di ragionare, di combinare, della profondità ec. ma non credetti di esser filosofo se non dopo lette alcune opere di Mad. di Staël.
Grandissime e importantissime osservazioni si possono fare intorno alle facoltà le più energiche, attive, e feconde, che paiono affatto innate, e in effetto non son pro-dotte (gli altri dicono sviluppate) se non dalle letture, e dagli studi, e dalle circostanze diverse, anche contro l’espettazione, e la stessa decisa inclinazione che l’uomo aveva contratta, e supponeva innata in se stesso.
[1743]Certo è che siccome il maggiore o minor talento, non è che maggiore o minore assuefabilità e adattabilità di organi, così il gran talento, in qualunque genere splen-da, è suscettivo di splendere in tutti i generi. Se non lo fa, ciò deriva dalle pure circostanze, che determinano la sua Letteratura italiana Einaudi 1208
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia applicazione, e il suo gusto. E siccome tutti gli uomini sommi in qualsivoglia genere di coltura spirituale, furono e sono dotati di gran talento, cioè gran capacità mentale, però è certo che p.e. il gran poeta, può essere anche gran matematico, e viceversa. V. p.1753. Se non lo è, se il suo spirito si determinò ad un solo genere (che non sempre accade), ciò è puro effetto delle circostanze.
È però vero, quanto al poeta, che certe qualità o disposizioni necessarie per la poesia, possono in qualche modo considerarsi come proprie di lei, e non del tutto adattate alle altre facoltà. Ma pure io sostengo che il poeta non ha dette qualità (sia pure in sommo grado) se non in virtù delle circostanze, e in circostanze diverse, avrebbe qualità diverse e contrarie; giacchè [1744]quello che si tiene per isviluppo, io lo tengo per produzione.
(19. Sett. 1821.)
Da quella parte della mia teoria del piacere dove si mostra come degli oggetti veduti per metà, o con certi impedimenti ec. ci destino idee indefinite, si spiega perchè piaccia la luce del sole o della luna, veduta in luogo do-v’essi non si vedano e non si scopra la sorgente della luce; un luogo solamente in parte illuminato da essa luce; il riflesso di detta luce, e i vari effetti materiali che ne derivano; il penetrare di detta luce in luoghi dov’ella divenga incerta e impedita, e non bene si distingua, come attraverso un canneto, in una selva, per li balconi socchiusi ec. ec.; la detta luce veduta in luogo oggetto ec. dov’ella non entri e non percota dirittamente, ma vi sia ribattuta e diffusa da qualche altro luogo od oggetto ec. dov’ella venga a battere; in un andito veduto al di dentro o al di fuori, e in una loggia parimente ec. quei luoghi dove la luce si confonde ec. ec. colle ombre, come sotto un portico, in una loggia elevata e pensile, fra le rupi e i burroni, in una valle, sui colli veduti dalla parte dell’ombra, in modo che ne sieno indorate le cime; il riflesso che produce p.e. un Letteratura italiana Einaudi 1209
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia vetro colorato su quegli oggetti su cui si riflettono i raggi che passano per detto vetro; tutti quegli oggetti in somma che per diverse [1745]materiali e menome circostanze giungono alla nostra vista, udito ec. in modo incerto, mal distinto, imperfetto, incompleto, o fuor dell’ordinario ec. Per lo contrario la vista del sole o della luna in una campagna vasta ed aprica, e in un cielo aperto ec. è piacevole per la vastità della sensazione. Ed è pur piacevole per la ragione assegnata di sopra, la vista di un cielo diversamente sparso di nuvoletti, dove la luce del sole o della luna produca effetti variati, e indistinti, e non ordinari. ec. È piacevolissima e sentimentalissima la stessa luce veduta nelle città, dov’ella è frastagliata dalle ombre, dove lo scuro contrasta in molti luoghi col chiaro, dove la luce in molte parti degrada appoco appoco, come sui tetti, dove alcuni luoghi riposti nascondono la vista dell’astro luminoso ec. ec. A questo piacere contribuisce la varietà, l’incertezza, il non veder tutto, e il potersi perciò spaziare coll’immaginazione, riguardo a ciò che non si vede. Similmente dico dei simili effetti, che producono gli alberi, i filari, i colli, i pergolati, i casolari, [1746]i pagliai, le ineguaglianze del suolo ec. nelle campagne. Per lo contrario una vasta e tutta uguale pianura, dove la luce si spazi e diffonda senza diversità, nè ostacolo; dove l’occhio si perda ec. è pure piacevolissima, per l’idea indefinita in estensione, che deriva da tal veduta. Così un cielo senza nuvolo. Nel qual proposito osservo che il piacere della varietà e dell’incertezza prevale a quello dell’apparente infinità, e dell’immensa uniformità. E quindi un cielo variamente sparso di nuvoletti, è forse più piacevole di un cielo affatto puro; e la vista del cielo è forse meno piacevole di quella della terra, e delle campagne ec. perchè meno varia (ed anche meno simile a noi, meno propria di noi, meno appartenente alle cose nostre ec.) Infatti, po-netevi supino in modo che voi non vediate se non il cielo, separato dalla terra, voi proverete una sensazione molto Letteratura italiana Einaudi 1210
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia meno piacevole che considerando una campagna, o considerando il cielo nella sua corrispondenza e relazione colla terra, ed unitamente ad essa in un medesimo punto di vista.
È piacevolissima ancora, per le sopraddette [1747]cagioni la vista di una moltitudine innumerabile, come delle stelle, o di persone ec. un moto moltiplice, incerto, confuso, irregolare, disordinato, un ondeggiamento vago ec. che l’animo non possa determinare, nè concepire definitamente e distintamente ec. come quello di una folla, o di un gran numero di formiche, o del mare agitato ec. Similmente una moltitudine di suoni irregolarmente mescolati, e non distinguibili l’uno dall’altro ec. ec. ec.
(20. Sett. 1821.)
Quelli che immaginarono una musica di colori, e uno strumento che dilettasse l’occhio colla loro armonia istantanea e successiva, coll’armonica loro combinazione, e variazione, ec. non osservarono che la grande influenza dell’armonia musicale sull’anima, non è propria dell’armonia in modo, ch’essenzialmente non derivi dal suono o dal canto isolatamente considerato; anzi considerando la pura natura di essa influenza, essa spetta più, o più necessariamente al suono e al canto che all’armonia o melodia: giacchè il suono o il canto produce (benchè per breve tempo) sull’animo qualch’effetto proprio della musica, ancorchè separato dall’armonia; non così questa, divisa [1748]da quello, o applicata a suoni o voci che per natura non abbiano alcuna relazione ed influenza musicale sull’udito umano; come il suono di una tavola, o di più tavole, il quale ancorchè fosse modulato e distinto perfettamente ne’ tuoni, ed applicato alla più bella melodia, non sarebbe mai musica per nessuno.
Non è dunque propriamente neppure il suono o la voce, cioè la sensazione dell’orecchio, che la natura ha fatto capace d’influire piacevolmente sull’udito umano: ma solo Letteratura italiana Einaudi 1211
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia certi particolari suoni, ed oscillazioni di corpi sonori: siccome non tutto ciò che afficit le papille del palato, ma solo quelle cose che le afficiunt in certi tali modi, sono stati dotati dalla natura della capacità di piacere a quell’organo. Così dico dell’odorato. La teoria de’ suoni e voci, e della musica, ha grandissima relazione con quella de’
sapori e degli odori (e anche de’ colori per se stessi), e ne può ricever gran lume. Ora queste tali teorie appartengono certo al piacevole o dispiacevole, [1749]ma non mica al bello nè al brutto.
(20. Sett. 1821.)
Forza dell’assuefazione e dell’opinione sul bello ec. Ho detto altrove che l’assuefazione ci fa parer passabile ed anche bello, ciò che da principio ci parve brutto, o ci sarebbe paruto, se non vi fossimo stati sempre assuefatti (v. il pensiero seguente). Or figuratevi di vedere per un momento una tal persona, verso cui vi troviate in detta circostanza, e di vederla senza riconoscerla. Ella vi parrà subito brutta, e un momento dopo vi tornerà (riconoscendola) a parer passabile o bella. Questa osservazione si dee riferire non solo alle forme, ma anche ai moti, alle maniere, al contegno, al tratto ec. di coloro a cui siamo assuefatti. Non riconoscendoli vi parranno brutti, e riconoscendoli ritratterete in un punto il vostro giudizio. Viceversa dico di chi o per antipatia, o per altre diversissime circostanze, che in vari luoghi ho annoverate, ci soglia essere [1750]in concetto di brutto o spiacevole, e che sia veduto da noi senza riconoscerlo. Spesso ti sarà accaduto di vedere una persona che passi per bella, o che a te stesso sia paruta o paia tale, e vederla senza conoscerla, o senza riconoscerla, e non parerti bella; e riconoscendola o conoscendola, mutare immediatamente il giudizio. Viceversa dico di una persona che passi per brutta, o tale tu l’abbi giudicata, o giudichi ec. Tutto ciò si deve applicare ad ogni altro genere di bello o brutto indipendente dalle Letteratura italiana Einaudi 1212
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia forme o maniere e costumi umani, ed indole umana ec., ed appartenente p.e. alla letteratura, alle arti ec.
(20. Sett. 1821.)
Dicevami taluno com’egli avea molto conosciuto e trattato sin dalla prima fanciullezza una persona già matura, delle più brutte che si possano vedere, ma di maniere, di tratto, d’indole, sì verso lui, che verso tutti gli altri, ama-bilissime, politissime, franche, disinvolte, d’ottimo garbo. E che sentendo una volta (mentr’egli era ancora fanciullo, ma grandicello) notare da un forestiero
[1751]l’estrema bruttezza di quella persona, s’era grandemente maravigliato, non vedendo com’ella potesse esser brutta, ed avendo sempre stimato tutto l’opposto.
Questa medesima persona era già vecchia quando io nac-qui, la conobbi da fanciullo, mi parve bella quanto può essere un vecchio (giacchè il fanciullo distingue pur facilmente la beltà giovenile dalla senile), e non seppi ch’ella fosse bruttissima, se non dopo cresciuto, cioè dopo ch’el-la fu morta. E l’idea ch’io ne conservo, è ancora di persona piuttosto bella benchè vecchia. (C. Galamini.) Così m’è accaduto intorno ad altre persone parimente bruttissime. (V. Ferri.) Della bruttezza di altre non mi sono accorto, se non crescendo in età ed osservandole coll’occhio più esercitato ad attendere, e quindi a distinguere, e più assuefatto alle proporzioni ordinarie ec. (G. Masi.) V. il principio del pensiero antecedente. Tale è l’idea del bello e del brutto ne’ fanciulli. Spiegate questi effetti, e deducetene le conseguenze opportune. Probabilmente mi saranno anche parse bruttissime [1752]delle persone che poi crescendo avrò saputo o conosciuto essere o essere state belle (20. Sett. 1821.). e anche bellissime.
Alla p.1681. marg. Tali persone, da premesse evidentemente concepite, deducono in buona fede bene spesso delle conseguenze diversissime, o anche al tutto contra-Letteratura italiana Einaudi 1213
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia rie a quelle che ne tira il comune degli uomini (intendo di quegli uomini ai quali appartiene ciò che si chiama senso comune, e che sono poi l’infinitesima parte del genere umano). Ovvero da una premessa evidente e infallibile, fanno dipendere una minore, che secondo il comune degli uomini o non vi ha niente che fare, o contraddice alla maggiore, o a quella minore, che, secondo il comun senso, inevitabilmente risulta dalla maggiore, ed è anche l’unica che ne risulti. (Così dico della maggiore rispetto alla minore, o alla conseguenza). Così pure dalla conseguenza risaliranno a una maggiore, o una minore affatto contraria, o disparata, o ad ambedue le premesse di tal natura. Questo è ciò che forma le teste storte (quante sono
[1753]le dritte?) che non si persuadono co’ più palpabili raziocinii; che sono quasi affatto esenti dalla forza della ragione e del senso comune, e indipendenti dagli stessi fondamentali principii del ragionamento; che all’improvviso ti scappano d’un fianco con una conclusione tutta contraria alle premesse, non già per ostinazione, ma per intima persuasione, e per dettame del loro raziocinio, e perchè il loro senso, la loro facoltà di ragione è fatta così.
(20. Sett. 1821.)
Alla p.1743. marg. Infatti è cosa giornalmente osservabile e osservata, che l’uomo di vero talento, applicato a cose per lui nuovissime, aliene ancora dalle sue inclinazioni, occupazioni ordinarie, assuefazioni ec. riesce sempre meglio degli altri; capisce i discorsi appartenenti alle professioni, discipline, cognizioni, ec. le più lontane dalla sua; entra in tutti i raziocinii ben fatti; si capacita senza molta fatica di qualunque affermazione o negazione vera, sufficientemente spiegata, di qualunque probabilità, o parere opportuno; discuopre facilmente le convenienze, [1754]i rapporti ec. o i loro contrarii, nelle cose a lui meno familiari ec. ec. Insomma il carattere di un vero talento, in qualunque genere esso si distingua, (o Letteratura italiana Einaudi 1214
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia quantunque non si distingua in nessun genere) è sempre quello di una capacità generale di mente. Siccome quegli organi esteriori o materiali (come la mano ec.) che pos-seggono in grado eminente qualche abilità, sono per lo più capacissimi di facilmente contrarne delle altre, ancorchè diversissime. Così la persona svelta ec. ec.
(20. Sett. 1821.). V. p.1778. fine.
Una persona niente avvezza alla buona lingua italiana, chiama e giudica affettato tutto ciò che ha qualche sapore d’italiano, ancorchè disinvoltissimamente scritto, e lontanissimo dall’anticato. E gli antichi scrittori italiani, se non può chiamarli affettati, li giudica però stranissimi, e di pessimo gusto in fatto di lingua; e così forse accade a tutti noi italiani moderni, finchè non ci avvezziamo a quella lingua, e appoco appoco la troviamo meno strana,
[1755]e finalmente bellissima. Qual è dunque il tipo dell’affettato e inaffettato, e del buon gusto in letteratura ec.
ec.? La sola assuefazione ch’è tanto varia quanto gl’individui, e mutabile in ciascun individuo.
(21. Sett. 1821.)
Ho detto altrove che quasi ciascun individuo ha una lingua propria. Aggiungo che queste lingue individuali non solo si distinguono in certe parole o frasi abituali affatto proprie di questo o quel parlatore, ma anche nell’uso abituale di certe voci o frasi fra le molte o vere o false sinonime che ha una lingua (massime se ricca, come l’italiana) per esprimere una stessa cosa. La quale ogni volta che capita, eccoti il tal parlatore con quella tal parola o frase, e quell’altro con quell’altra diversissima, ciascuno secondo il suo costume. Così che il vocabolario di ciascun parlatore, è distinto dagli altri, come ho detto di quello degli scrittori greci e italiani individuali. Questi vocabolari composti [1756]sì di queste voci o frasi scelte invariabilmente fra le sinonime, sì di quelle che ho detto Letteratura italiana Einaudi 1215
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia essere assolutamente proprie di questo o quell’individuo, si perpetuano nelle famiglie, perchè il figlio impara a parlare dal padre e dalla madre, e come ne imita i costumi e le maniere, molto più la lingua. Il qual effetto massimamente ha luogo nelle famiglie degli artigiani, de’ poveri, ec. e molto più in quelle di campagna, come più separate dalla società non domestica. Ha luogo pur grandemente nelle famiglie delle classi elevate, che si tengono in un piede assai casalino, o dove i figli si educano in casa, dove poco si studia e si legge, e quindi poco s’ingrandisce la lingua abituale (la quale anche è poco soggetta all’influenza dello studio), dove poco si tratta ec. E se bene osserverete troverete sempre in queste tali famiglie un vocabolarietto proprio, composto ne’ modi che ho detto.
E potrete anche osservare in molte di queste, [1757]parecchie parole antichissime, e uscite dell’uso corrente, ma conservate e trasmesse di generazione in generazione in dette famiglie. Cosa che a me è successo più volte di osservare, e quelle parole o frasi non le ho mai sentite fuori o di quella tal famiglia, o di quella tal parentela. Negli altri generi di famiglie il detto effetto sarà minore, ma pur sempre avrà luogo proporzionatamente. Così le lingue si van dividendo appoco appoco nel seno di una stessa società, di uno stesso paese; il costume del padre si comunica al figlio, e si perpetua; il figlio pure inventa qualche parola ec. ec. e parimente la partecipa; le figlie le portano nelle famiglie in cui entrano; e la lingua umana si va tuttogiorno diversificando e cangiando faccia; e ciascuna famiglia viene a differire alquanto dalle altre nella significazione de’ suoi pensieri. (o parlata o anche scritta).
(21. Sett. 1821.)
[1758]Alla p.1723. Il caso della persona che ho detto, era poi similissimo a quello insomma di tutte le persone non assuefatte alla musica, e massime delle persone roz-Letteratura italiana Einaudi 1216
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ze, e del volgo. E derivava non solo da poca delicatezza naturale di orecchio o di organi interiori, ma da poca assuefazione dei medesimi, e dal non essersi conformati mediante l’esercizio, in modo che quello che naturalmente non è piacevole, o poco, lo divenisse in virtù della disposizione acquisita. Quella persona e il volgo, non amano che i suoni forti ec. come tutte le persone e popoli rozzi ec. non amano che i colori vivi, e non trovano alcun piacere nei delicati e dolci, che ad essi paiono smorfiosi e svenevoli e da riderne. V. la p.1668. capoverso 1. I piaceri in grandissima parte non sono piaceri, se non in quanto noi ci siamo fatti delle ragioni e delle abitudini, perchè lo sieno.
(21. Sett. 1821.)
Applicate il sopraddetto ai piaceri [1759]che recano le altre arti belle, e i vari generi di letteratura ec. piaceri de’
quali il volgo non è suscettibile, se non nel più grosso ec.
Ed alle forme umane delicate che non piacciono al volgo, e ad altri tali generi e fonti e ragioni di bellezze perfettamente ignote alla moltitudine.
(21. Sett. 1821.)
La più grande scienza musicale è inutile per dilettare col canto senza una buona voce. Questa può supplire al difetto o scarsezza di quella, ma non già viceversa. Qual è dunque la principale sorgente del piacer musicale? Si suol dire che i bravi compositori di musica non sanno cantare, perchè non sovente si combina la disposizione naturale e acquisita degli organi intellettuali con quella degli organi materiali della voce. E così il più perfetto conoscitore e fabbricatore di armonia e di melodia pel canto, saprebbe bene eseguire l’armonia e la melodia, ma non perciò recare alcun diletto musicale.
Sogliono molto lodarsi le voci che [1760] si accostano, e questo è uno de’ principali anzi necessari pregi di un vero Letteratura italiana Einaudi 1217
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia buon cantore. Or questa proprietà che non si sa nemmeno esprimere, nè in che cosa consista, è tutta propria della sola voce, e indipendente affatto dall’armonia, le cui qualità si sanno bene e matematicamente definire ed esprimere e distinguere. Essa non appartiene dunque al bello, non più di un color dolce che si confa e piace all’occhio per se stesso; o di un sapore, o di un odore ec. Alle volte detta proprietà consiste nell’affettuoso, nel tenero, nell’espressivo ec. Cosa pure indipendente dal bello, e appartenente all’imitazione, ec. ovvero alla passione, all’affetto al sentimento che è piacevole senza essere perciò bello.
(21. Sett. 1821.)
Quanto più io gli dava di sprone (dice il Rocca di un mulo spagnuolo ch’egli fu obbligato a cavalcare una volta in Ispagna), tanto più raddoppiava i calci; io lo batteva, lo ingiuriava, ma le mie minacce in francese non facevano che irritarlo. Io non sapeva il suo nome, ed ignorava ancora in quel tempo che ogni mulo in Ispagna [1761] avesse un nome particolare, e che per farlo andare fosse necessario dirgli nella propria lingua: VIA, MULO, VIA SU, CAPITANO, VIA, ARAGONESE, ec. Memorie intorno alla Guerra de’ Francesi in Ispagna del Sig. di Rocca. Parte 1.
Milano. Pirotta. presso A. F. Stella. 1816. p.55. V. ancora alcune importanti notizie sui costumi e la società dei cavalli selvaggi ec. p.134-37. Parte II.
Dunque, (e queste osservazioni si potrebbero moltiplicare e variare in infinito) anche fra gli animali i diversi individui di una medesima specie sono suscettibili di diversissime assuefazioni, come lo sono gli stessi individui di variare assuefazione, il tutto secondo le circostanze.
Qual è dunque la nostra superiorità sugli animali fuorchè un maggior grado di assuefabilità e conformabilità, come fra le diverse specie di animali altre hanno queste qualità Letteratura italiana Einaudi 1218
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia in maggiore altre in minor grado; alcune, come le scimie, poco meno dell’uomo? Dimostrato che tutte le [1762]facoltà umane ec. ec. ec. non sono altro che assuefazione, è dimostrato che la natura dell’animo umano, come quella del corpo, è la stessa che quella dell’animo dei bruti. Solamente varia nella specie, ovvero nel grado delle qualità, come pur variano in questo i diversi animi delle diverse specie di bruti. Il bruto è più tenace e servo dell’assuefazione. Ciò viene appunto da minore assuefabilità della nostra, perchè questa, quanto è maggiore per natura, e resa maggiore per esercizio, tanto più rende facile il cangiare, deporre, variare, modificare assuefazione, come ho spiegato altrove. Gli animali sono tanto più servi dell’assuefazione quanto meno sono assuefabili proporzionatamente alla natura diversa delle specie e degl’individui; vale a dire quanto minor talento hanno, cioè disposizione ad assuefarsi. V. p.1770.
capoverso 2. Quindi il mulo difficilissimo ad assuefarsi, è tenacissimo dell’assuefazione e suo schiavo. Egli è un animale stupido. Gli animali stupidi sono servi dell’assuefazione più de’ vivaci ec. ec. Paragonate su queste teorie l’asino al cavallo, la pecora [1763]al cane ec. ec.
gli animali indocili (cioè poco assuefabili, e però tenacis-simi dell’assuefazione o contratta da loro, o comunicata loro) ai docili ec. ec.
(21. Sett. 1821.)
Qualunque assuefazione o abito, non è altro che un’imitazione, in questo modo, che l’atto presente, imita l’atto o gli atti passati. Ciò tanto nell’uomo, quanto negli animali: tanto nelle assuefazioni che si contraggono da se e spontaneamente, e senza volontà determinata, attenzione ec. quanto in quelle che ci vengono comunicate, insegnate, ec. ec. o per forza, o per amore, o per istudio, e con attenzione e volontà di assuefarsi ec. ec. ec. Il cavallo che accelera il passo o si mette in moto ad una certa voce, Letteratura italiana Einaudi 1219
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia imita quello che fece altre volte, e quello che l’uomo da principio lo costrinse a fare, nel mentre che gli fece udir quella voce. Così e non altrimenti, l’uomo apprende, impara, ed acquista sì le facoltà e discipline intellettuali, che le abilità, e le facoltà materiali o miste. Qui pure, la natura dell’animo umano è quella stessa del bruto.
(21. Sett. 1821.)
[1764]Il cavallo, il cane avvezzo a ubbidire a una certa voce, a riconoscere il padrone a un certo fiuto ec. si svezza tuttogiorno e brevemente da questo, si avvezza a nuove voci, nuovi fiuti, nuove maniere di comandarlo, ec. in un nuovo padrone. Si avvezza ed impara una nuova casa ec. ec. Altre specie, o individui meno assuefabili sia per natura, sia per esercizio, si svezzano più difficilmente, come e perchè più difficilmente si avvezzano. Non accade lo stesso nell’uomo proporzionatamente e negl’individui umani?
(21. Sett. 1821.)
La memoria per potersi ricordare ha bisogno che l’oggetto della ricordanza sia in qualche maniera determinato. Dell’indeterminato ella non si ricorda se non difficilissimamente e per poco, o solo se ne ricorda rispetto a quella parte ch’esso può avere di determinato.
Chi vuol ricordarsi di qualunque cosa bisogna che ne determini in qualche modo l’idea nella sua mente; e questo è ciò che facciamo tutto giorno senza pensarvi. Le parole determinano, i versi determinano. Or questa è appunto la [1765]proprietà della materia: l’avere i suoi confini certi e conosciuti, e il non mancar mai di termini per ogni verso, e di circoscrizione. Tutto il secreto per aiutar la memoria, si riduce a materializzare le cose o le idee quanto più si possa: e quanto più vi si riesce, tanto meglio la memoria si ricorda. Bensì il progresso dell’assuefazione cioè della facoltà della memoria fa ch’ella Letteratura italiana Einaudi 1220
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia possa sempre più facilmente ricordarsi di cose sempre meno materiali di quelle delle quali le era possibile il ricordarsi da bambino e da fanciullo.
(22. Sett. 1821.)
Io ho per fermo che il bambino appena nato, o certo nel primo tempo che succede al pieno sviluppo de’ suoi organi nell’utero della madre, non si ricordi dell’istante precedente. Quest’è un’opinione che mi par dimostrata dal vedere come la facoltà della memoria vada sempre crescendo a forza di assuefazione, onde il fanciullo si ricorda più del bambino, il giovane più del fanciullo (del quale spesso ci maravigliamo se mostra [1766]memoria di qualche cosa alquanto lontana, di cui però ci sovveniamo senza pena, e consideriamo come uno sforzo e una felicità di memoria in loro, quello che ci pare ordinarissimo in un grande e in noi stessi) e così di mano in mano finch’ella viene a declinare colla declinazione della macchina umana. Io dunque penso che nel bambino perfettamente organizzato, non esista assolutamente memoria, prima dell’assuefazione de’ sensi, e dell’esperienze ec.
(22. Sett. 1821.)
Ho detto altrove che anche il filosofo può essere originale come il poeta, e distinguersi dagli altri nel diverso modo di trattare le stessissime verità. Aggiungo ora che non solo a’ diversi individui, ma ad un medesimo individuo che soglia pensare, le stessissime verità si presentano in vari tempi sotto sì diversi aspetti (dico le stesse verità, e non le stesse cose, dalle quali diversamente vedute si tirano diverse e contrarie proposizioni) che egli stesso se non ha più che buona memoria e penetrazione e attenzione, [1767]appena le riconosce per quelle verità che ha già vedute (o anche scoperte) e considerate ec. Così che il filosofo (siccome il poeta) può in una stessa verità diversificarsi ed essere originale, non che rispetto agli altri, Letteratura italiana Einaudi 1221
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia anche a se stesso.
(22. Sett. 1821.)
La forza e la facilità e varietà dell’assuefazione sì nell’individuo, che nel genere umano, cresce sempre in proporzione ch’ella è cresciuta, appunto come il moto de’
gravi. Ecco tutto il progresso e dell’individuo e dello spirito umano. Questo pensiero è importantissimo, e in matematica o fisica non si può trovare più giusta immagine di detti progressi, che il moto accelerato.
(22. Sett. 1821.)
Alla p.1583. Ho detto: tutti vedono, ma pochi osservano. Aggiungo, che basta talvolta annunziare una verità anche novissima, perchè tutti quelli che hanno intendimento (escludo i pregiudizi ec. ec. ec.) la riconoscano o certo la possano riconoscere subito, prima della dimostrazione. Questo ci accade le mille volte leggendo o ascoltando. Appena quella verità [1768]è trovata, tutti la conoscono, e pur nessuno la conosceva. Ed accade allo spirito umano, o all’individuo ordinariamente, che al primo accennarglisi una cosa ch’egli avea sotto gli occhi, ei la vede, e pur prima non la vedeva, cioè la vedeva, ma non l’osservava, ed era come non la vedesse. Questo è l’ordinario progresso de’ nostri lumi in tutto ciò che non appartiene alle scienze materiali, e bene spesso anche in queste.
(22. Sett. 1821.)
Ho lodato l’Italia appetto alla Francia perchè non ha rinunziato alla sua lingua antica, ed ha voluto ch’ella fosse composta di cinque secoli, in vece di un solo. Ma la biasimerei sommamente se per conservare l’antica intendesse di rinunziare alla moderna, mentre se l’antica è utile, questa è necessaria; e molto più se in luogo di compor la sua lingua di 5 secoli, la componesse come i francesi di Letteratura italiana Einaudi 1222
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia un solo, ma non di quello che parla (il che alla fine è comportabile), bensì di quello che [1769]parlò quattro secoli fa: ovvero anche se la volesse comporre de’ soli secoli passati, escludendo questo, il quale finalmente è l’unico che per essenza delle cose non si possa escludere. Certo è lodevole che non si sradichi la pianta, conservando i germogli, e trapiantandoli, ma perchè s’ha da conservare il solo tronco spogliandolo de’ germogli, delle foglie, de’
rami; anzi la sola radice tagliando il tronco, e guardando bene che non torni a crescere, e che le radici se ne stieno senza produr nulla? E sarebbe ben ridicolo che conservando sulla nostra favella l’autorità agli antichi che più non parlano, la si volesse levare a noi che parliamo: e sarebbe questa la prima volta che le cose de’ vivi fossero proprietà intera de’ morti. Sarebbe veramente assurdo che mentre una parola o frase superflua nuovamente trovata in uno scrittore antico, si può sempre incontrastabilmente usare quanto alla purità, una parola o frase utile o necessaria, e che del resto abbia tutti i numeri, nuovamente introdotta da un moderno, non si possa usare senza impurità. Anzi quanto più la nostra lingua è diligente nel non voler perdere (cosa ottima), tanto più per necessaria conseguenza, dev’essere industriosa nel guadagnare, per non somigliarsi al pazzo avaro che per amor del danaio non mette a frutto il danajo, ma [1770]si contenta di non perderlo, e guardarlo senza pericoli.
(22. Sett. 1821.)
Ho detto altrove dei moti vivi ec. ec. delle persone naturali. Aggiungete il tuono di voce, aggiungete la inclinazione a’ colori, a’ suoni forti ec. ec. delle quali cose ho parlato separatamente in altri pensieri.
(22. Sett. 1821.)
Alla p.1762. marg. È notabile che la fisonomia di questi tali animali poco e difficilmente assuefabili, presenta vi-Letteratura italiana Einaudi 1223
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia sibili indizi di stupidità, ed un’aria simile alla fisonomia delle persone di poco talento o poco esercitato. Egli è certo che v’ha somma corrispondenza fra l’esterno e l’interno, fra la fisonomia e l’ingegno e le qualità naturali o abituali. Quindi è certo che tali animali hanno in effetto, se così posso dire, poco talento, e perciò poca assuefabilità (la quale si vede), ch’è tutt’uno col talento.
Alcuni di essi (o sieno individui o specie) possono anche avere tutta quella [1771]vivacità, mobilità ec. che anche negli uomini (e molto più nelle diverse specie di animali, le cui qualità possono ben diversamente combi-narsi che non fanno nell’uomo) non hanno a fare col talento, e neppure con notabile immaginazione, anzi talvolta (come ne’ fanciulli) sono effetto e segno (o forse anche cagione) della mancanza di queste doti.
(22. Sett. 1821.)
Gli antichi da proposizioni e premesse che conoscevano nè più nè meno quanto noi, deducevano conseguenze contrarissime a quelle che noi ne tiriamo. Ciò mostra ch’es-si non conoscevano i rapporti delle proposizioni, altrimenti non potressimo negare le loro conseguenze. Ma chi ci ha detto che noi li conosciamo meglio? Come lo sappiamo noi se non a forza di sillogismi? Giacchè qualunque affermazione o negazione ha bisogno di sillogismo: e ciascun sillogismo contiene tanti sillogismi quanti sono i rapporti delle sue proposizioni fra loro. Cioè bisogna che l’uomo si persuada sempre con un sillogismo (benchè tacito) che [1772]se la tal cosa è, anche la tal altra dev’essere. Senza questi sillogismi intermedj, nessun sillogismo vale, e siccome questi ordinariamente si ommettono, o non son giusti, però infiniti sillogismi son falsi, perchè non è vero il rapporto che noi, o non sillogizando punto, o falsamente sillogizzando, supponiamo fra la maggiore e la minore, fra queste e la conseguenza.
Qui potrei dimostrare che ogni sillogismo, cioè ogni atto Letteratura italiana Einaudi 1224
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ed ogni nozione della nostra ragione, avendo bisogno di più altri sillogismi, e questi di più altri in infinito, si arriva al non poter trovare verun principio nè fondamento assoluto alla nostra ragione, non potendo arrivare a un primo sillogismo che non abbia bisogno di più altri. Così è infatti, e questa è la sostanza, la ragione, la spiegazione, e il risultato del mio sistema, e qui (benchè non sembri) consiste il metodo ch’io tengo per dimostrarlo. Nel modo appunto che per negare una proposizione particolare che non abbia le premesse [1773]false, non si può nè si fa mai altro che distruggere i sillogismi intermedi del sillogismo su cui ella si fonda.
Ma io mi contenterò di dire. Se il sillogismo inganna, e la nostra ragione non è altro affatto che sillogismo, che cosa è ella dunque? Che il sillogismo inganni, stante il rapporto delle proposizioni falsamente supposto, si vede nel citato esempio degli antichi, nella differenza delle opinioni moderne, e delle conseguenze contrarie che si tirano da verità identiche, ed ugualmente conosciute; e generalmente da tutti quanti gli errori degli uomini da Adamo in qua; giacchè tutti gli errori son conseguenze dedotte da altrettanti sillogismi, e quando anche le premesse stesse di quel tale sillogismo sieno false, esse sono dedotte da altri sillogismi, e così si rimonta a proposizioni delle quali tutti gli uomini e tutta la ragione umana naturalmente conviene; e le quali non han prodotto i detti errori se non a forza di rapporti falsamente supposti.
[1774]Ma fra tutti gl’immaginabili errori di qualsivoglia popolo, tempo, individuo, è grandissimo il numero di quelli che si fondano immediatamente su di un sillogismo dove non c’è altro di falso che la conseguenza, e quindi il supposto rapporto delle tre proposizioni fra loro, o delle due premesse, o dell’una di loro colla conseguenza. Tali sono specialmente gli errori primitivi, semplici, fanciulleschi, e più vicini ai primi e puri ed �kratoi principii del ragionamento. E fra tanto essi sono de’ più Letteratura italiana Einaudi 1225
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ridicoli e grandi, per la somma e chiara falsità de’ rapporti.
(22. Sett. 1821.)
Grazia dallo straordinario. I militari sogliono piacere singolarmente alle donne, ancorchè talvolta resi imperfetti da qualche disgrazia della guerra: anzi allora forse più che mai. Ho udito di un Generale tedesco vivente, al quale manca deformemente un occhio, onde porta la testa fasciata, il quale ha una straordinaria fortuna colle donne.
(23. Sett. 1821.)
È molto facile lo scherzare sulle cose straordinarie, sui difetti del corpo ec. La difficoltà consiste nel saper muovere a riso sulle cose ordinarie. Il perchè lo troverai presto se ci penserai, e potrai riferirlo agli altri tuoi pensieri analoghi.
(23. Sett. 1821.)
[1775]Consideriamo la gran quantità delle persone imperfette o nella forma o nelle facoltà del corpo, sia dalla nascita sia per infermità naturali sofferte nell’infanzia o nella fanciullezza, prima insomma del perfetto ed intero sviluppo della macchina, e della maturità del corpo. Paragoniamo questo numero di persone imperfette nella loro maturità naturale, a quello degl’individui imperfetti in qualsivoglia specie di animali, avuta ragione della rispettiva numerosità di ciascuna specie, e lo troveremo strabocchevolmente maggiore. Che vuol dir ciò, se non che l’uomo è corrotto, e che il suo stato presente non è quello che gli conviene? Così per certo giudicheremmo e giudichiamo ogni qual volta ci vien fatta qualche simile osservazione intorno a qualunque specie o genere di enti naturali appartenente a qualsivoglia de’ tre regni. Solamente a riguardo dell’uomo siamo ben lungi dal pronun-Letteratura italiana Einaudi 1226
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ziare un tale o simile giudizio; perchè l’uomo [1776]secondo noi, non ha che far colla natura, e le sue imperfezioni derivano non già dall’essersi egli allontanato, ma dal non essersi abbastanza ancora allontanato dalla natura.
Aggiungo che la sproporzione fra gl’imperfetti della razza umana e delle razze animali, si troverà molto maggiore se si considereranno le razze selvatiche ec. piuttosto che le domestiche. Sebbene ella si troverà grande anche rispetto a queste, perchè queste, malgrado le nostre benefiche cure, sono e saranno assai meno lontane di noi dalla natura. Somma sproporzione si troverà pure fra il numero degl’imperfetti nelle razze umane civili, e quello de’ medesimi nelle razze selvagge, montanare, campestri, laboriose ec. e così scendendo di mano [in mano] in proporzione della maggiore o minor civiltà o corruzione delle diverse classi e popoli.
(23. Sett. 1821.). V. p.1805. fine.
Ho detto altrove: non si può fare, quello che troppo si vuol fare. Perciò giornalmente si osserva che una cosa sfugge alla memoria nel punto ch’ella si vuol ricordare,
[1777]e se le offre spontaneamente quando non ce ne curiamo. Infatti ogni volta che con soverchia contenzione di mente ci mettiamo per richiamarci una ricordanza la più presente, e che ci sovverrà forse poco dopo, possiamo esser sicuri di non ritrovarla, finchè non abbiamo cessato di cercarla. Nel qual punto medesimo bene spesso ella ci sovviene. Così noi ci ricordiamo sempre di quel che ci siamo prefisso o che abbiamo desiderato di dimenticare, e ce ne ricordiamo nel tempo che appunto non volevamo.
Queste osservazioni provano ancora l’altro mio pensiero che il troppo è padre del nulla.
(23. Sett. 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 1227
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Quello che ci desta una folla di rimembranze dove il pensiero si confonda, è sempre piacevole. Ciò fanno le immagini de’ poeti, le parole dette poetiche ec. fra le quali cose, è notabile che le immagini della vita domestica nella poesia, ne’ romanzi, pitture ec. ec. ec. riescono sempre piacevolissime, gratissime amenissime elegantissime e danno qualche bellezza, e ci riconciliano talvolta alle più sciocche composizioni, ed agli scrittori i più incapaci di ben presentarle. Così quelle della vita rustica [1778]ec. il cui grand’effetto deriva in gran parte dalla folla delle rimembranze o delle idee che producono, perocch’elle son cose comuni, a tutti note, ed appartenenti.
Quindi si veda con quanto giudizio i bravi tedeschi, inglesi, romantici (ed anche francesi moderni) scelgano di preferenza le similitudini, gli argomenti, i costumi ec.
dell’Oriente, dell’America ec. ec. per le immagini ec. della loro poesia. Il che esclude affatto la rimembranza. E
quindi si veda quanto importi al poeta il trattare argomenti nazionali, e il servirsi di quella natura e di quell’esistenza che circonda i suoi uditori, in tutti gli usi della poesia, del romanzo ec.
(23. Sett. 1821.)
Alla p.1754. L’uomo di gran talento si riconosce sempre e subito in qualunque occasione, da chiunque è capace di riconoscere. È impossibile ch’egli sia mai trovato assolutamente incapace e inetto in nessuna cosa. Per nuova ch’ella gli sia egli sarà sempre proporzionatamente superiore [1779]alle persone di piccolo talento, che però vi sono avvezze. ec. (23. Sett. 1821.). Il gran talento s’im-pratichisce anche ben presto di qualunque cosa, purchè sia esercitato, ed avvezzo.
Un certo torpore dell’animo e del corpo che è cagionato talvolta dall’avvicinamento del sonno, è piacevolissi-mo. Il sonno stesso non è piacevole se non in quanto è Letteratura italiana Einaudi 1228
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia torpore, dimenticanza, riposo dai desiderii, dai timori, dalle speranze, e dalle passioni d’ogni sorta. Le lodi che dà Orazio all’ubbriachezza versano per lo più sulla dimenticanza, e quindi sul torpore ch’ella cagiona. Per causa della dimenticanza è pur piacevole un’allegria viva, dove l’anima rinunzia come a se stessa, e intorpidisce affatto per una parte, mentre si ravviva per l’altra. La dimenticanza insomma e la quiete totale delle passioni è sempre piacevole, da qualunque cagione prodotta, siccome per lo contrario è piacevole la vita delle passioni.
(24. Sett. 1821.)
Noi diciamo agevole ec. i francesi aisé, la qual parola è manifestamente corrotta, e deriva da un’altra a cui la nostra s’avvicina molto più; cioè agibilis, quod agi
[1780] potest, siccome facilis, quod fieri potest, onde viene a dir quasi lo stesso, come infatti agevole è sinonimo di facile. Si vede dunque che questa parola agibilis in senso di facile apparteneva al volgare latino, dal quale rimase in due diverse lingue che ne derivarono. Giacchè il latino barbaro de’ bassi tempi era diversissimo non solo nelle diverse nazioni, ma quasi in ciascuna provincia, scrittore ec. Ed aisé deriva da agibilis o agevole, come poi da aise ec. derivò il nostro agio agiato agiatamente adagio ec. Tutte corruzioni moderne della radice ago. V. Forcellini e Ducange.
(24. Sett. 1821.)
Una sorgente di piacere nella musica indipendente dall’armonia per se stessa, dall’espressione, dal suono ancora o dalla natura del canto in quanto voce, ec. ec. sono gli ornamenti, la speditezza, la volubilità, la sveltezza, la rapida successione, gradazione, e variazione dei suoni, o de’ tuoni della voce, cose le quali piacciono per la difficoltà, per la prontezza, (ho detto altrove, cioè p.1725.
capoverso 2. perchè [1781]questa sia piacevole) per lo Letteratura italiana Einaudi 1229
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia straordinario ec. tutto indipendente dal bello. Senza la vivace mobilità e varietà de’ suoni sia in ordine alla armonia, sia alla melodia, la musica produrrebbe e produce un effetto ben diverso. Un’armonia o melodia semplicissima, per bella ch’ella fosse annoierebbe ben tosto, e non produrrebbe quella svariata moltiplice, rapida, e rapidamente mutabile sensazione, che la musica produce, e che l’animo non arriva ad abbracciare. ec. Viceversa queste difficoltà, questi ornamenti, queste agilità, se mancano di espressione ec. ec. non sono piacevoli che agl’intendenti.
La musica degli antichi era certo assai semplice, e non è dubbio ch’ella non producesse ben diverso effetto dalla nostra. Osserviamo bene, quando ascoltiamo una musica che ci colpisce, e vedremo quanta parte del suo effetto provenga dall’agilità ec. de’ tuoni, de’ passaggi, ec. indipendentemente dall’armonia o melodia in quanto armonia o melodia.
[1782]La musica anche la meno espressiva, anche la più semplice ec. produce a prima giunta nell’animo un ricreamento, l’innalza, o l’intenerisce ec. secondo le disposizioni relative o dell’animo o della musica, immerge l’ascoltante in un abisso confuso di innumerabili e indefinite sensazioni, lo spinge a piangere quando anche il compositore abbia voluto farlo ridere, gli desta idee e sentimenti affatto arbitrarii e indipendenti dalla qualità di quella tal musica e dall’intenzione del compositore o dell’esecutore. Guardiamoci bene dal confondere il piacevole col bello. Tutto ciò non è che piacere. E questo deriva sì dalla moltiplicità delle dette sensazioni indefinite ec. sì dall’inclinazione, dal legame che la natura arbitra-riamente ha posto fra le sensazioni del suono o canto e l’immaginazione, dalla facoltà che ha dato loro di afficere piacevolmente l’orecchio, (come a’ sapori il palato) ovvero l’animo, [1783]e di eccitare in chi più, in chi meno, in chi nulla, quando più, quando meno, quando nulla, l’immaginazione, ec. come l’ha data, sebbene in minor gra-Letteratura italiana Einaudi 1230
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia do, agli odori, che nessuno chiama belli, ma piacevoli.
Quelli che (come si dice) non hanno orecchio, non sono persone incapaci di distinguere l’armonico dal disarmonico ec. (questo farebbe contro voi altri), ma persone a quali l’orecchio è poco suscettibile, e quindi l’animo poco disposto ad esser mosso o affetto da’ suoni e voci del canto, siccome coloro che hanno poco odorato, poco gusto ec. Il loro giudizio non pecca sul piacevole o non piacevole di un odore o di un cibo, e quindi non è falso, ma bensì il loro organo pecca d’insuscettibilità. Questa osservazione dimostra come l’essenziale piacere della musica derivi dal suono e canto propriamente considerato, e indipendente dall’armonia, la quale mediante l’assuefazione (o secondo voi, [1784]mediante un senso universale ed innato) tutti sono capaci presto o tardi di distinguere esattamente da quella che si considera da’ suoi compagni come disarmonia. Ed è certo che l’uomo di peggiore orecchio, arriva benissimo a questo effetto, mediante lo studio, e può anche divenir sommo compositore o esecutore, nè perciò migliora l’orecchio suo; segno che il senso e l’effetto della musica si divide in due, l’uno derivante dall’armonia, l’altro dal puro suono. Ma perchè questo è il principale, però l’uomo il più intendente dell’armonia sì musicale che qualunque, se ha cattivo, cioè non suscettibile, orecchio, non può essere se non mediocremente dilettato dalla musica.
Di questi due effetti della musica, l’uno cioè quello dell’armonia è ordinario per se stesso, cioè qual è quello di tutte le altre convenienze. L’altro, cioè del suono o canto per se stesso, è straordinario, deriva da particolare e innata disposizione della macchina umana, ma non
[1785]appartiene al bello. Questa stessissima distinzione si dee fare nell’effetto che produce sull’uomo la beltà umana o femminina ec. e la teoria di questa beltà può dare e ricevere vivissimo lume dalla teoria della musica.
L’armonia nella musica, come la convenienza nelle for-Letteratura italiana Einaudi 1231
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia me umane, produce realmente un vivissimo e straordinario e naturalissimo effetto, ma solo in virtù del mezzo per cui essa giunge a’ nostri sensi (cioè suono o canto, e forma umana), o vogliamo dire del soggetto in cui essa armonia e convenienza si percepisce. Tolto questo soggetto, l’armonia e convenienza isolata, o applicata a qualunque altro soggetto, non fa più di gran lunga la stessa impressione. Bensì ella è necessaria perchè quel soggetto faccia un’impressione assolutamente, pienamente, e durevolmente piacevole. Così si dimostra che quanto vi ha d’innato, naturale, e universale nell’effetto della bellezza musicale ed umana, non appartiene alla bellezza, ma
[1786]al puro piacere, o all’inclinazione e natura dell’uo-mo che produce questo, come cento altri maggiori o minori piaceri, generali o individuali, che nessuno confonde col bello.
Io credo ancora che molti uomini o per infermità, o per natura ec. ec. non solo non sieno dilettati, ma decisamente disgustati o da tutti o da alcuni de’ suoni o voci piacevoli al comune degli uomini. Ciò accade appunto in molte specie di animali organizzate altrimenti che la nostra, sebbene altre specie organizzate analogamente alla nostra, gradiscano detti suoni ec.
Molto più credo, anzi son quasi certo di questo, rispetto alle diverse armonie, ed al deciso disgusto ed effetto disarmonico ch’elle producono in certi uomini e in certe specie di animali.
(24. Sett. 1821.)
Più l’uomo è avvezzo a imparare (cioè assuefarsi), più facilmente impara. Or lo stesso accade ne’ bruti. Un animale domestico ec. ec. contrae più facilmente e presto di un salvatico della stessa specie, un’assuefazione egualmente nuova per ambedue. [1787]
(24. Sett. 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 1232
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Taluno mi raccontava che essendo solito a recar da mangiare ad alcuni pulcini, questi gli si affollavano intorno appena lo scoprivano. Ma un giorno avendo solamente fatto segno di volerne prendere uno, dopo quella sola volta, tutti lo fuggivano appena comparso. Egli se ne maravigliava, ma questo effetto mi par giornaliero, e son certo che que’ pulcini incominciarono a venirgli attorno fin dalla 2da volta ch’egli portò loro a mangiare.
Assuefazione e dissuefazione negli animali.
(24. Sett. 1821.). V. p.1806. capoverso 1.
Egli notava ancora che quell’ uno in quell’atto non era stato veduto dagli altri. Linguaggio di società fra gli animali.
(24. Sett. 1821.)
Chi vuole o dee fare un mestiere al mondo, se vuol trarne alcun frutto, non può scegliere se non quello dell’impostore, in qualunque genere. La letteratura è stato sempre il più sterile di tutti i mestieri. Il [1788]vero letterato (se non mescola alla verità l’impostura) non guadagna mai nulla. Eppur l’impostore arriva a render fecondo anche questo campo infruttifero, e uno de’ maggior miracoli dell’impostura si è di render fruttuosa la letteratura.
L’impostura è una condizione necessaria per tutti i mestieri o veri o falsi. Se le lettere e la dottrina frutta mai nulla, ciò è all’impostore, e in virtù non della verità (quando anche vi sia mescolata), ma dell’impostura.
(25. Sett. 1821.)
Gl’illetterati che leggono qualche celebrato autore, non ne provano diletto, non solo perchè mancano delle qualità necessarie a gustar quel piacere ch’essi possono dare, ma anche perchè si aspettano un piacere impossibile, una bellezza, un’altezza di perfezione di cui le cose umane sono incapaci. Non trovando questo, disprezzano l’auto-Letteratura italiana Einaudi 1233
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia re, si ridono della sua fama, e lo considerano come un uomo ordinario, persuadendosi di aver fatto essi questa scoperta per la prima volta. Così accadeva a me nella prima giovanezza [1789]leggendo Virgilio, Omero ec.
(25. Sett. 1821.)
Le parole lontano, antico, e simili sono poeticissime e piacevoli, perchè destano idee vaste, e indefinite, e non determinabili e confuse. Così in quella divina stanza dell’Ariosto (I. 65.)
Quale stordito e stupido aratore,
Poi ch’è passato il fulmine, si leva
Di là dove l’altissimo fragore
Presso a gli uccisi buoi steso l’aveva,
Che mira senza fronde e senza onore
Il pin che di lontan veder soleva; Tal si levò il Pagano a piè rimaso,
Angelica presente al duro caso.
Dove l’effetto delle parole di lontano si unisce a quello del soleva, parola di significato egualmente vasto per la copia delle rimembranze che contiene. Togliete queste due parole ed idee; l’effetto di quel verso si perde, e si scema se togliete l’una delle due.
(25. Sett. 1821.)
Sugl’inconvenienti accidentali nel sistema della natura v. Dutens par.4. c.5. §.325-26. [1790]Questa materia si può insomma riportare alla famosa quistione dell’origine o principio del male.
(25. Sett. 1821.)
Nel tentativo di una transazione tra gli antichi e i moderni aggiunto per terzo tomo dal traduttore Napoletano all’opera del Dutens, Origine delle scoperte attrib. a’ mo-Letteratura italiana Einaudi 1234
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia derni, cap. ult. §.2. v. due bei passi di S. Tommaso ne’
quali viene ad affermare la perfezione di tutto ciò che è, non rispetto ad alcuna ragione antecedente, ma perciò solo che è così fatto; e la possibilità di altri ordini di cose, diversissimi di perfezione, e infiniti di numero.
(25. Sett. 1821.)
Niente più sciocco che il considerare l’idea dello spirito come essenzialmente inseparabile da quella di ente semplice, e il confondere l’idea astratta della composizione con quella della materia. Quasi che le sostanze componenti non potessero esser che materiali, e non ci potesse essere una sostanza composta ma immateriale, perchè composta di sostanze immateriali. Il che è tanto
[1791]possibile e facile nè più nè meno quanto che esistano sostanze materiali composte. Se possono esistere sostanze immateriali, possono anche esistere sostanze composte di sostanze immateriali, e benchè composte non saranno mai altro che immateriali. Quindi trovata l’idea dello spirito, non si è fatto altro che trovare una cosa di cui nulla possiamo negare o affermare, non già l’idea astratta dell’ente semplice. Lo spirito potrà dividersi al-l’infinito come la materia, e dopo giunti allo spirito, dovremo tanto penare per raggiungere l’ente semplice o la sua idea, quanto dopo la cognizione della materia.
Così dico dell’idea delle parti.
(25. Sett. 1821.)
Si può dire (ma è quistione di nomi) che il mio sistema non distrugge l’assoluto, ma lo moltiplica; cioè distrugge ciò che si ha per assoluto, e rende assoluto ciò che si chiama relativo. Distrugge l’idea astratta ed antecedente del bene e del male, del vero e del falso, del perfetto [1792]e imperfetto indipendente da tutto ciò che è; ma rende tutti gli esseri possibili assolutamente perfetti, cioè perfetti per se, aventi la ragione della loro perfezione in se stessi, Letteratura italiana Einaudi 1235
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia e in questo, ch’essi esistono così, e sono così fatti; perfezione indipendente da qualunque ragione o necessità estrinseca, e da qualunque preesistenza. Così tutte le perfezioni relative diventano assolute, e gli assoluti in luogo di svanire, si moltiplicano, e in modo ch’essi ponno essere e diversi e contrari fra loro; laddove finora si è supposta impossibile la contrarietà in tutto ciò che assolutamente si negava o affermava, che si stimava assolutamente e indipendentemente buono o cattivo; restringendo la contrarietà, e la possibilità sua, a’ soli relativi, e loro idee.
(25. Sett. 1821.)
La filosofia sarebbe capace di dare all’animo quel torpore e quella possibile noncuranza che ho detto esser piacevole. Ma come questa benchè assopisca la speranza, nondimeno in fondo la contiene, anzi talvolta l’accresce, mediante lo stesso non curarsi di nulla, e la stessa disperazione, [1793]così la filosofia che per se stessa spegne del tutto la speranza, non può cagionare all’animo uno stato piacevole, se non essendo una mezza filosofia, ed imperfetta, (qual ella è ordinariamente), o quando anche sia perfetta nell’intelletto, non avendo influenza sull’ultimo fondo dell’animo, o rinunziandoci avvedutamente essa stessa.
(26. Sett. 1821.)
Quello che ho detto altrove della bellezza o bruttezza il cui giudizio bene spesso si muta, vedendo una persona conosciuta e non riconoscendola, si può estendere non solo ad altri generi di bello e brutto, ma eziandio ad altre qualità degli oggetti, (umani o no) e fino alla statura (quantunque l’idea di questa paia immutabile) della quale ancora, nelle persone conosciute, ci formiamo una certa idea abituale, le cui proporzioni comparative bene spesso si mutano, e crescono o scemano, se per caso vediamo quelle stesse persone senza riconoscerle, ancorchè le vediamo Letteratura italiana Einaudi 1236
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia isolate, [1794]e fuori della comparazione d’altre stature, la quale cambia assai spesso l’idea delle proporzioni ec.
(26. Sett. 1821.). V. p.1801
�EgÆ m¡ntoi, (io però) kaÛper êperxaÛrv ÷tan
¤xϑròn timvrÇmai, polç m�llon moi dokÇ ´desϑai ôtan ti toÝw fÛloiw �gaϑòn ¤jeurÛskv. Parole di Agesilao (modello di virtù, secondo Senofonte, dovunque egli ne parla) a Coti re de’ Paflagoni, messegli in bocca da Senofonte, l’uno de’ primi maestri di morale a’ suoi tempi. (�EllhnikÇn ÞstoriÇn b. d�, k. a�, §. e�.) Oggi chi volesse dire una sentenza notabile, direbbe tutto il rovescio. Così cambia la morale.
(26. Sett. 1821.)
Non solo il fanciullo non ha nessun’idea del bello umano, e ha bisogno dell’assuefazione per acquistarla, ma per perfezionarla, e gustare tutti i piaceri che può dar la sua vista, è bisogno un’assuefazione lunga, variata, particolare, e conviene anche per essa divenire intendenti, come per gustare il bello delle arti, o delle scritture. [1795]Anche per essa, vi bisogna attenzione particolare, e facoltà generale di attendere, contratta coll’assuefazione. Il giovane tenuto in stretta custodia, le persone ritirate, le monache ec. ec. distinguono certo il bello dal brutto, ma il più bello dal più brutto, se la cosa non è più che notabile, non lo distinguono, non lo sentono, non hanno nè un giudizio nè un senso fino intorno alla bellezza, insomma non se [ne] intendono. Questo accade anche alle persone di gran talento, di gran sentimento, ed entusiasmo, se, e finchè si trovano in dette e simili circostanze, nelle quali quasi tutti si trovano per qualche tempo. Questo accade alle persone nutrite nella devozione, scrupolose ec. I loro giudizi in questi particolari sono stranissimi, e forse più strani rispetto al sesso diverso, che al proprio, appunto per la minore attenzione che v’hanno messo ec. a Letteratura italiana Einaudi 1237
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia causa dello scrupolo. Questo accade agl’ignoranti, rozzi, ec. o sieno villani, o anche delle classi elevate ec. perchè non hanno l’abito nè quindi la facoltà di attendere ec. ec.
In somma [1796]non si acquista l’idea della bellezza o bruttezza umana o qualunque, se non considerando ben bene come gli uomini (o qualunque oggetto fisico o morale) son fatti. E quindi la bellezza o bruttezza non dipende che dal puro modo di essere di quel tal genere di cose; il qual modo non si conosce per idea innata, ma per la sola esperienza, e non si conosce bene, se non vi si unisce l’attenzione o volontaria, o spontanea ed abituale.
(26. Sett. 1821.)
Sul proposito che una lingua nuova non s’impara se non per mezzo della propria, osservate che noi siamo soliti a misurare la regolarità o irregolarità di una lingua, tanto in genere, quanto in ordine a ciascuna costruzione, frase ec. dalla conformità ch’essa lingua ha colla lingua nostra e sue frasi ec. Onde ci sembra regolare, non ciò che lo è per natura, e ragione analitica, ma ciò che corrisponde esattamente alla maniera della nostra lingua, [1797]ed a quell’ordine di espressioni e d’idee e di segni, al quale siamo abituati. E così proporzionatamente fino all’irregolarità, la quale benchè sia regolarissima, ci pare generalmente irregolare quando discorda dall’ordine abituale della nostra loquela. Applicate queste osservazioni 1. al proposito dei francesi incapaci di ben conoscere un’altra lingua, e giudicarla; e degl’italiani, capacissimi, perchè la loro lingua si presta quanto è possibile fra le moderne, ad ogni maniera di favellare, 2. alla debolezza e moltiplicità della ragione umana, alla mancanza di tipo universale per lei, all’influenza che su di essa esercita l’assuefazione.
Quindi è che p.e. agl’italiani dee parer la lingua più regolare del mondo, la spagnuola: ai moderni, e massime ai francesi, dee parere irregolarissima e figuratissima ogni lingua antica, e massime la latina. Agli antichi (e propor-Letteratura italiana Einaudi 1238
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia zionatamente agl’italiani) non pareva certo così. ec. ec.
ec. [1798]
(26. Sett. 1821.)
Delle differenze del carattere di una stessa specie di animali, secondo i climi, v. Rocca, Guerra di Spagna, Milano 1816. Parte 2. p.202.
(26. Sett. 1821.)
Dell’effetto che fa negli animali il color vivo (siccome pur ve lo fa il suono analogamente a quello che fa nell’uomo), v. ib. p.203. fine e 204. fine. Anch’esso effetto sarà certo differente secondo i climi, e maggiore ne’ meridionali. (Così pure potrà dirsi de’ vari suoni). Sarà però sempre maggiore negli animali che nell’uomo, perchè più naturali.
(26. Sett. 1821.)
Le parole notte notturno ec. le descrizioni della notte ec. sono poeticissime, perchè la notte confondendo gli oggetti, l’animo non ne concepisce che un’immagine vaga, indistinta, incompleta, sì di essa, che quanto ella contiene. Così oscurità, profondo. ec. ec.
(28. Sett. 1821.)
Tanto è vero che l’effetto delle immagini campestri dipende in massima parte [1799]dalla copia delle rimembranze, che se tu descrivi p.e. un campo o raccolta ec. di legumi, non farai punto un effetto nè così vivo, nè così grande, nè piacevole, come descrivendo un campo di spighe, la messe, la vendemmia, ec. Perocchè quelle cose sono poco, o certo meno note, osservate, e familiari a coloro che leggono poesie ec.
Ond’è che il fanciullo il quale per necessità ha poche rimembranze (ha però somma immaginazione) deve trovar poco dilettevoli e belle molte bellissime parti delle Letteratura italiana Einaudi 1239
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia più grandi poesie. Così dico delle diverse professioni, abitudini ec. le quali diversificando le rimembranze secondo gl’individui, diversificano ancora l’effetto delle diverse poesie ec. e delle loro parti, e quindi anche il giudizio che gl’individui ne pronunziano. Forse un uomo di poca memoria non è molto atto a gustar poesie. Così un uomo non avvezzo ad attendere. Così un uomo non sensibile nè suscettibile ec.
(28. Sett. 1821.). V. p.1804.
[1800]La lingua tedesca si è veramente formata più re-centemente che la francese. Ma perch’ella non è stata formata da nessun Accademia e da nessun Dizionario, perch’ella non ha quindi perduta la libertà che è primitivamente propria di tutte le lingue, perciò ella acquistando il moderno (come ha fatto il francese, e potrebbe far l’italiano), non ha perduto l’antico (come ha fatto il francese); è divenuta propria alla filosofia, ed è restata propria all’immaginazione; non si è impoverita nè intimidita nè fatta monotona, (come la francese, e la barbara italiana de’ nostri tempi); e includendo nelle sue facoltà il secolo presente non ha escluso i passati come la francese, nè includendo i passati ha escluso il presente, come l’italiana. Grand’esempio per noi, e conferma della possibilità di ciò ch’io propongo.
(28. Sett. 1821.)
Il vigore o costante o effimero, produce nell’uomo un gran sentimento di se [1801]stesso, lo rende nella sua immaginazione superiore alle cose, agli altri uomini, alla stessa natura; lo fa sfidare il potere delle disgrazie, le persecuzioni, i pericoli, le ingiustizie ec. ec.; lo fa pieno di coraggio ec. ec. in somma l’uomo vigoroso si sente, si giudica padrone del mondo, e di se medesimo, e veramente uomo.
(28. Sett. 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 1240
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Alla p.1794. principio. Così dico delle prevenzioni. Bene spesso accade che tu vedendo p.e. un Signore, non lo giudichi di bel tratto, ma alla fine sapendo ch’egli è un Signore, il suo portamento ti par signorile. Se lo vedrai senza riconoscerlo, le sue maniere ti parranno affatto ple-bee.
(28. Sett. 1821.)
Una fisonomia di donna che somigli a quella di un uomo che tu conosci (senza però aver nulla di virile), a quella di un vecchio (o vecchia) che tu conosci, (senza però aver nulla di senile) ti parrà dispiacevole per ciò solo, senza verun difetto in se stessa. E per [1802]quanto proccurerai di astrarre dall’idea di quella somiglianza, non potrai mai (senza qualche circostanza particolare) spogliartene in modo che quella persona ti paia tale quale pare ad altri o meno attenti ed immaginosi, o ignari affatto di quella somiglianza. Così dirò di un uomo rispetto alle donne ec.
(28. Sett. 1821.)
Anche gli organi esteriori, perduta l’assuefazione generale, divengono generalmente inabili, quando anche una volta fossero stati abilissimi. Io aveva da fanciullo una sufficiente abilità generale di mano, a causa dell’esercizio, lasciato il quale dopo alcuni anni, non so più far nulla con quest’organo, se non le cose ordinarie; ed ho quindi affatto perduta la sua abilità, tanto per quello ch’io già sapeva fare, quanto per qualunque nuova operazione che allora mi sarebbe riuscito facile di apprendere. Ecco un’immagine della natura del talento.
(28. Sett. 1821.)
Non si sviluppa propriamente nell’uomo o nell’animale veruna facoltà. Bensì si sviluppano gli organi dell’uo-mo e dell’animale, e cogli organi, naturalmente, le loro Letteratura italiana Einaudi 1241
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia
[1803]naturali disposizioni o qualità, che li rendono (secondo ch’elle sono in maggiore o minor grado, che hanno questa o quella proprietà, che sono in maggiore o minor numero, che sono più o meno sviluppate, a seconda dell’età, e degli accidenti corporali dell’individuo) capaci di acquistare coll’assuefazione questa o quella facoltà, in maggiore o minor grado, numero ec. Ma l’assuefazione ha tanta forza di modificare gli organi (specialmente umani, più conformabili degli altri) che una sola qualità o disposizione di essi è suscettibile d’infinite e diversissime facoltà, e in diversissimi gradi; il tale individuo avrà una facoltà, che un altro della specie stessa è così lontano dal possedere, che appena gli parrà compatibile coll’assoluta natura della sua specie ec. ec. ec.
(28. Sett. 1821.)
Una prova dell’indebolimento delle generazioni (v. il N. Ricoglitore, quaderno 31, p.481.) si è il vedere come oggi gli uomini generalmente e segnatamente le femmine sieno (non per sola smorfia, ma in effetto) [1804]incapaci dell’uso degli odori, che nuoce assolutamente ai loro nervi (e quanto il sistema nervoso influisca e modifichi tutta la macchina e la vita umana, ciascuno lo sperimenta), massime gli odori vivi, de’ quali era sì gradito e continuo l’uso non solo fra i greci e romani, com’è noto, ma fra’ nostri antenati, come si vede nel grande e costantissimo odore che esala da’ vecchi armadi, scaffali, drappi d’ogni sorta ec. ec. Oggi, massime la donna (che per l’addietro era familiarissima agli odori), non può comportare se non gli odori deboli (e neppur questi a lungo, nè troppo spesso), siccome la civiltà rende odiosi i colori forti, introduce il gusto de’ sapori languidi e dilicati. ec. ec.
(29. Sett. dì di S. Michele. 1821.)
Alla p.1799. Le rimembranze che cagionano la bellezza di moltissime imagini ec. nella poesia ec. non solo spetta-Letteratura italiana Einaudi 1242
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia no agli oggetti reali, ma derivano bene spesso anche da altre poesie, vale a dire che molte volte un’immagine ec.
[1805]riesce piacevole in una poesia, per la copia delle ricordanze della stessa o simile imagine veduta in altre poesie. Le imagini campestri sono in questo caso, per esser soliti i poeti a trattarle. Quindi si veda 1. quanto l’effetto delle più belle ed universalmente stimate poesie, ec.
sia relativo, vario, maggiore o minore secondo gl’individui. 2. quante bellezze che si ammirano, si stimano tutte proprie di quel tal poeta, e derivanti dal suo ingegno, e dalla natura assoluta della sua poesia ec. non derivino che da circostanze affatto estranee, accidentali e variabili, con poco merito del poeta, s’egli stesso non ha mirato a prevalersi appostatamente di tali circostanze ec. ec. ec.
(29. Sett. 1821.)
Alla p.1776. fine. Queste osservazioni si denno estendere ancora a tutti i generi di malattie, abituali o no, accidentali, o costituzionali, di qualsivoglia età ec. paragonando il numero de’ malati e delle malattie, le loro qualità ec. nel genere umano, [1806]cogli altri generi animali.
Sto per dire che quello si troverà contenere più malati e malattie, ed imperfezioni corporali d’ogni genere (salendo comparativamente d’età in età), che non ne contengono tutti questi insieme.
(29. Sett. 1821.)
Alla p.1787. Infatti è cosa molto ordinaria che l’animale scampato una volta da un’insidia, da un pericolo ec.
non v’incappi più; e si suol dire che il cane scottato dall’acqua calda ha paura della fredda. Questo pur varia in proporzione dell’assuefabilità (cioè talento) delle diverse specie.
(29. Sett. dì di S. Michele. 1821.)
Alla p.1127. marg. Gli spagnuoli moderni sostituisco-Letteratura italiana Einaudi 1243
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia no l’ h anche al v, onde dicono hueco (vòto), che anticamente dovette dirsi vueco da vacuus.
(29. Sett. 1821.)
Una parola o frase difficilmente è elegante se non si apparta in qualche modo dall’uso volgare. Intendo che difficilmente le converrà l’attributo di elegante, non già ch’ella debba perciò essere inelegante, e che una
[1807]scrittura elegante, si debba comporre di sole voci e frasi segregate dal volgo. Le parole antiche (non anticate) sogliono riuscire eleganti, perchè tanto rimote dall’uso quotidiano, quanto basta perchè abbiano quello straordinario e peregrino che non pregiudica nè alla chiarezza, nè alla disinvoltura, e convenienza loro colle parole e frasi moderne.
Quindi è che infinite parole e frasi che oggi sono eleganti, non lo furono anticamente, perchè non ancora rimosse o diradate nell’uso; giacchè tutto ciò ch’è antico fu moderno, e tutte le parole o frasi proprie di una lingua, furono un tempo volgari e quotidiane.
Quindi si argomenti quanto sia giovevole all’eleganza dello scrivere italiano (del quale è veramente e assolutamente propria l’eleganza più che di qualunque altra lingua moderna) il non aver la nostra lingua rinunziato mai al suo antico fondo, in quanto le può ancora convenire.
[1808]Da queste ragioni deriva in parte un effetto che si osserva in tutti i primitivi scrittori di qualsivoglia lingua. Essi non sono mai eleganti, bensì ordinariamente familiari. La familiarità essendo anch’essa bellissima, si confonde molte volte coll’eleganza, e può considerarsi come una delle sue specie (massime quando la stessa familiarità cagiona il pellegrino nella scrittura, per non esser solita a venirvi applicata). Ma io qui non intendo parlare di quella eleganza di cui il Caro in verso e in prosa può essere un modello, bensì di quella di cui saranno eterni modelli a tutte le nazioni e le lingue, Virgilio e Cicero-Letteratura italiana Einaudi 1244
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ne.
Or in luogo di questa che non è mai propria di nessuna lingua ne’ suoi principii, e ne’ cominciamenti della sua letteratura, si trova ne’ primitivi scrittori di ciascuna lingua molta familiarità. Noi non abbiamo i primitivi scrittori greci. I latini Ennio, (ne’ suoi frammenti) Lucrezio, ec. possono dimostrare questa verità, massime confron-tandoli co’ seguenti.
[1809]Ma se noi non sentiamo perfettamente in essi il familiare, qualità delle lingue la più difficile a ben sentirsi in una lingua forestiera, e più in una lingua morta, lo sentiamo però ottimamente in Dante, nei prosatori trecentisti, escluso il Boccaccio, che introdusse nell’italiano tante voci, frasi, e forme latine, e nel Petrarca (v. un mio pensiero sulla familiarità del Petrarca), eccetto dov’egli pure si accosta ed imita (come fa, e felicemente, assai spesso) l’andamento latino. Questi e tutti gli scrittori primitivi di ciascuna lingua, doverono necessariamente dare un andamento, un insieme di familiarità al loro stile ed alla maniera di esprimere i loro pensieri, sì per altre ragioni, sì perchè mancavano di uno de’ principali fonti dell’eleganza, cioè le parole, frasi forme rimosse dall’uso del volgo per una tal quale, non dirò antichità, ma quasi maturità.
(Infatti è notabile che la vera imitazione degli antichi quanto alla lingua, dà subito un’aria di familiarità allo stile). E
siccome altrove osservammo che gli scrittori primitivi sono sempre i più propri, così e per le stesse ragioni, essi debbono [1810]cedere ai susseguenti nell’eleganza (intendendo quella che ho dichiarato).
Da ciò segue 1. Che noi bene spesso sentendo negli antichi nostri, come nel Petrarca o nel Boccaccio questa medesima eleganza, vi sentiamo quello che non vi sentivano nè gli stessi autori nè i loro contemporanei, in quanto quelle voci o modi sono oggi divenuti eleganti col rimoversi, stante l’andar del tempo, dall’uso quotidiano, ma allora non lo erano.
Letteratura italiana Einaudi 1245
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia 2. Che le lingue nel nascere delle loro letterature non sono capaci più che tanto di eleganza, e i lettori di allora neppur ve la cercano, non considerandola appena come un pregio, ovvero sentendo ch’ella è in molte parti impossibile.
3. Che anche e notabilmente per questa ragione, le lingue nuove stentano moltissimo ad essere apprezzate in punto di letteratura, da coloro stessi che le parlano e scrivono, e ad esser considerate come capaci del bello e squisito stile ec.
[1811]4. Che però i primitivi scrittori sono obbligati volendo dare a’ loro scritti quell’eleganza che deriva dal pellegrino ec. di accostare spessissimo la loro lingua alla sua madre, siccome fecero i nostri, e siccome si fa ancora, non bastando l’antico fondo della nostra lingua (in buona parte anticato e brutto e rozzo) a quella peregrinità di voci, frasi, e forme che si ricerca all’eleganza. Ottimo partito è questo di avvicinarla ad una lingua, già formatissima, le cui ricchezze essendo la fonte delle nostre, tutto ciò che se ne attinge con giudizio, è come un’antica apparte-nenza della nostra lingua, che ha tanto di peregrino quanto può trovarsi nel mezzo fra l’elegante e il brutto che è cagionato parimente dallo straordinario, quando questo passa certi termini; e però il pellegrino che deriva dalle parole forestiere è ordinariamente brutto, o per lo manco non elegante. Nondimeno i primi scrittori furono talvolta forzati di attingere anche dalle lingue forestiere, come fecero i nostri, ma [1812]poco felicemente, dal provenzale, e come con eguale e maggiore infelicità hanno fatto e fanno altri scrittori primitivi in quasi tutte le lingue; i russi dal francese; gli svedesi prima dal latino (che oltre l’esser morto, è anche forestiere per loro), e poi, come oggi, dal francese ec. ec.
5 Che la lingua italiana, sebbene mirabilmente ricca, dovette essa pure soggiacere primitivamente a questi bisogni, giacchè la ricchezza vera e contante di una lingua Letteratura italiana Einaudi 1246
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia non è mai anteriore alla sua piena formazione, cioè completa applicazione alla letteratura. E la nostra lingua ancora fu per lungo tempo, cioè sino a tutto il 500. almeno, considerata prima da tutti, poi da molti come incapace dell’eleganza, della perfetta nobiltà ec. e quindi posposta lunghissimamente al latino nell’uso dello scrivere più importante, ancorchè già formata, e stupendamente arricchita ed ornata ec. V. i diversi miei pensieri in tal proposito.
Tutto ciò dimostra che la lingua francese, la quale ha dalla sua prima formazione rinunziato alle sue ricchezze antiche, [1813]e a tutto ciò che fosse rimoto dall’uso volgare, e segue a rinunziarvi tutto giorno, onde oggi non possiede neppur quello che possedevano gli scrittori del primo tempo dell’Accademia, e del secolo di Luigi 14.
deve necessariamente esser poco suscettibile di eleganza, e soprattutto priva di lingua poetica, non avendo quasi parola, frase, forma che non sia necessaria all’uso quotidiano del discorso, o della scrittura in prosa, o che non abbia luogo frequentemente in detto uso; e quindi non potendo assolutamente elevarsi al disopra del parlar comune. Quindi lo stile della poesia francese non si diversifica (eccetto alcune poche, uniformi, rare, e timide inversioni, e l’uso della misura (ben plebea e pedestre) e delle rime) dal discorso giornaliero e dalla prosa; e talvolta è propriamente ridicolo a vedere imagini e sentenze e affetti sublimi, e rimoti o dall’opinione o dall’uso volgare, e superiori al comune modo ec. di pensare, espressi ne’ versi francesi al modo che si esprimerebbe una dimostrazione geometrica, o si direbbe una facezia in conversazione; giacchè in ambedue queste occasioni, [1814]come in tutte le altre, la lingua francese è appresso a poco la stessa.
Parrebbe da ciò che nella scrittura francese dovesse molto e sempre sentirsi il familiare. Non nego che non vi si senta, ma se non vi si sente, quanto parrebbe che dovesse, ciò deriva da questo, che detta lingua essendo po-Letteratura italiana Einaudi 1247
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia vera, non è propria, non essendo propria, non può aver molto sapore di familiarità, al contrario delle lingue primitive, della nostra, e della francese stessa ne’ suoi principii, dove il familiare sempre si sente, perchè è somma in quei tempi la proprietà della favella, come ho detto p.1809. fine. Dal che segue che il discorso e la scrittura francese si confondano nel loro spirito in modo, che la stessa uniformità distrugge il senso della familiarità.
Giacchè se leggendo un libro francese ti par di sentire uno che parli, sentendo uno che parli, ti par di leggere, e così tu non sai bene da qual parte stia la familiarità. Così necessariamente deve accadere in una lingua unica, come la francese, e così [1815]pure accade rispetto a’ suoi stili.
Oltrechè l’eccessivo spirito sociale de’ francesi, raffinan-do sempre più il linguaggio quotidiano (anche quello del volgo proporzionatamente), l’avvicina sempre più allo scritto, e quindi sempre più gli toglie del familiare; e l’eccessiva inclinazione della letteratura francese ad esser volgare, a imitare, trattare, nutrirsi, formarsi quasi esclusivamente di ciò che spetta alla conversazione de’ suoi nazionali, l’avvicina sempre più al parlato, e proccurandole l’eleganza dell’epigramma, sempre più le toglie quella della poesia, dell’eloquenza ec. divisa dal volgo. Questa inclinazione reciproca dello scritto verso il parlato, e viceversa, è quello che ha reso la lingua francese qual ella è, geometrica, unica, assolutamente moderna, ed universale quasi per natura.
(30. Sett. 1821.)
La noia è la più sterile delle passioni umane. Com’ella è figlia della nullità, così è madre del nulla: giacchè non solo è sterile per se, ma rende tale tutto ciò a cui si mesce o avvicina ec.
(30. Sett. 1821.)
[1816]Il nostro gl non si pronunzia schiacciato se non Letteratura italiana Einaudi 1248
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia seguito dall’ i, onde si pronunzia sciolto in Anglante, Egle, globo, glutine. Nella parola Anglico, o Anglicano si pronunzia sciolto sebbene seguito dall’ i.
(1. Ott. 1821.)
Forza della natura, e debolezza della ragione. Ho detto altrove che l’opinione per influire vivamente sull’uomo, deve aver l’aspetto di passione. Finchè l’uomo conserva qualcosa di naturale, egli è più appassionato dell’opinione che delle passioni sue. Infiniti esempi e considerazioni se ne potrebbero addurre in prova. Ma siccome tutte quelle opinioni che non sono o non hanno l’aspetto di pregiudizi, non sono sostenute che dalla pura ragione, perciò elle sono ordinariamente impotentissime nell’uo-mo. I religiosi (anche oggi, e forse oggi più che mai, a causa della contrarietà che incontrano) sono più appassio-nati della loro religione che delle altre passioni loro (di cui la religione è nemica), odiano sinceramente gl’irreligiosi, (benchè se lo nascondano) e per veder trionfare il loro sistema farebbero qualunque [1817]sacrifizio (come ne fanno realmente sacrificando le inclinazioni naturali e contrarie), mentre provano verissima rabbia nel vederlo depresso e contrastato. Ma gl’irreligiosi, quando l’irreligione deriva in essi da sola fredda persuasione o dubbio, non odiano i religiosi, non farebbero nessun sacrifizio per l’irreligione ec. ec. Quindi è che gli odi per motivo d’opinione non sono mai reciprochi, se non quando in ambedue le parti l’opinione è un pregiudizio, o ne ha l’aspetto. Non v’è dunque guerra tra il pregiudizio e la ragione, ma solo tra pregiudizi e pregiudizi, ovvero il pregiudizio solo è capace di combattere, non già la ragione.
Le guerre, le nemicizie, gli odi di opinione sì frequenti negli antichi tempi, anzi fino agli ultimi giorni, guerre sì pubbliche che private, fra partiti, sette, scuole, ordini, nazioni, individui; guerre per le quali l’antico era naturalmente deciso nemico di colui che aveva opinione di-Letteratura italiana Einaudi 1249
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia versa; non avevan luogo se non [1818]perchè in quelle opinioni non entrava mai la pura ragione, ma tutte erano pregiudizi, o ne avevano la forma, e quindi erano passioni. Povera dunque la filosofia, della quale si fa tanto romore, e in cui tanto si spera oggidì. Ella può esser certa che nessuno combatterà per lei, benchè i suoi nemici la combatteranno sempre più vivamente; e tanto meno ella influirà nel mondo, e nel fatto, quanto maggiori saranno i suoi progressi, cioè quanto più si depurerà, ed allontanerà dalla natura del pregiudizio e della passione. Non isperate dunque mai nulla dalla filosofia nè dalla ragionevolezza di questo secolo.
(1. Ott. 1821.)
Se gl’italiani i francesi e gli spagnuoli concordano nell’usare il verbo mittere nel senso di ponere ( mettere, mettre, meter); se è certo che quest’uso antichissimamente proprio di tutte tre queste lingue, non è derivato da scambievoli comunicazioni del linguaggio latino corrotto in quella o in questa delle tre nazioni; se finalmente quest’uniformità [1819]di uso in tre lingue sorelle bensì, ma nate indipendentemente l’una dall’altra, benchè da una stessa madre, non si vuole attribuire al puro caso; sarà forza derivarlo da un’origine comune, e questa non può essere che il volgare latino da cui tutte tre derivarono; giacchè quest’uso non si trova nel latino scritto. V. Forcellini, e i Glossari.
(1. Ott. 1821.)
Che sotto un governo dispotico non esista mai un gran talento; che le circostanze pubbliche li facciano nascere, e che una rivoluzione, un principe benefico e illuminato ec. sia padrone di produrli, come si è sperimentato in mille occasioni, immediatamente e in gran copia; che i grandi talenti sorgano ordinariamente e fioriscano tutti in un tempo; che un secolo si trovi decisamente non solo Letteratura italiana Einaudi 1250
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia più fecondo di qualunque altro di grandi talenti in un tal genere, ma in modo che passato quel tal giro di anni, non si trovi più in quel genere un talento degno di memoria, o di essere paragonato ai sopraddetti, (v. il Saggio di Algarotti, e la fine [1820]del primo lib. di Velleio); che nelle repubbliche abbondino gli eloquenti, e fuori di esse non si trovi un uomo magniloquente, ec. ec. ec. tutto ciò da che deriva, e che cosa dimostra, se non che il talento è l’opera in tutto delle circostanze; sì il talento in genere, che il talento tale o tale? – Le circostanze lo sviluppano, ma esso già esisteva indipendentemente da queste. – Che cosa vuol dire sviluppare una facoltà già esistente ed intera? Forse applicarla, e renderla ¤nerg° cioè operativa?
Signor no, perchè questo non si può fare, se prima non si sono abilitati gli animi ad operare, e in quel tal modo.
Che gli organi, e con essi le disposizioni, cioè le qualità che li compongono, si sviluppino, lo intendo. Ma che una facoltà, che senza le circostanze corrispondenti, senza l’assuefazione e l’esercizio, è affatto nulla e impercettibile a qualunque senso umano, si debba dire e credere sviluppata, e non prodotta dalle circostanze, [1821]questo non l’intendo. Che cosa è una facoltà? in che consiste la sua esistenza? come è ella innata in chi non l’ha se l’assuefazione e le circostanze non gliela proccurano? ec.
Le disposizioni sono innate, ovvero si acquistano mediante lo sviluppo, cioè il rispettivo perfezionamento, di quegli organi che le contengono come loro qualità, e come la carta contiene la disposizione ad essere scritta, a prender questa o quella forma. Ma si può egli perciò dire che la carta abbia per se stessa la facoltà di parlare alla mente di chi legge, e che quegli che vi scrive sopra, sviluppi in lei questa facoltà, e non gliela dia? Ben ci può essere una carta che sia suscettibile di questa o quella forma, inchio-stro ec. e di un altro no. E così negl’individui di una stessa specie variano, sono maggiori o minori, mancano ancora affatto delle disposizioni o qualità che in altri indivi-Letteratura italiana Einaudi 1251
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia dui si trovano. Questa è tutta la differenza innata o sviluppata de’ talenti umani, [1822]sì rispetto a se stessi, che rispetto alle altre specie di animali. ec. Differenza di disposizioni, non mica di facoltà. Differenza, mancanza, scarsezza, inferiorità, o superiorità che nessun principe e nessuna circostanza (se non fisica) può toglier di mezzo; laddove il contrario accade in ordine alle facoltà. Queste nascono dalle circostanze, queste dipendono affatto da’
principi, dall’educazione ec. laddove le disposizioni non ne dipendono.
(1. Ott. 1821.)
Quanto una lingua è più ricca e vasta, tanto ha bisogno di
meno parole per esprimersi, e viceversa quanto è più ristretta, tanto più le conviene largheggiare in parole per comporre un’espressione perfetta. Non si dà proprietà di parole e modi senza ricchezza e vastità di lingua, e non si dà brevità di espressione senza proprietà. Quindi la lingua francese che certo non può gloriarsi di vastità (altrimenti non sarebbe universale), si gloria indarno di brevità; quasi che la brevità de’ periodi fosse lo stesso che la brevità dell’espressione, o che slegatura [1823]e brevità fossero una cosa. V. il Sallustio di Dureau Delamalle. t.1.
p. CXIV.
(1. Ott. 1821.)
L’uomo tende sempre a’ suoi simili (così ogni animale), e non può interessarsi che per essi, per la stessa ragione per cui tende a se stesso, ed ama se stesso più che qualunque de’ suoi simili. Non vi vuole che un intero snaturamento prodotto dalla filosofia, per far che l’uomo inclini agli animali, alle piante ec. e perchè i poeti (massime stranieri) de’ nostri giorni pretendano d’interessarci per una bestia, un fiore, un sasso, un ente ideale, un’alle-goria. È ben curioso che la filosofia, rendendoci indiffe-Letteratura italiana Einaudi 1252
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia renti verso noi medesimi e i nostri simili, che la natura ci ha posto a cuore, voglia interessarci per quello a cui l’irresistibile natura ci ha fatti indifferenti. Ma questo è un effetto conseguentissimo del sistema generale d’indifferenza derivante dalla ragione, il quale non mette diversità fra’ simili e dissimili; e noi non ci figuriamo di poter provare interesse per questi, se non perchè l’abbiamo
[1824]perduto o illanguidito per noi e per gli uomini, e siamo in somma indifferenti a tutto. Così gli altri esseri vengono a partecipare non del nostro interesse ma della nostra indifferenza. Lo stesso accade riguardo a’ nostri simili, nella sostituzione dell’amore universale all’amor di patria. ec.
(1. Ott. 1821.). V. p.1830. e 1846.
La forza dell’assuefazione generale rende sempre gradatamente più facile il dissuefarsi, e il passare da una assuefazione ad altra diversa o contraria. Ciò sì negl’individui, sì nelle nazioni, sì nel genere umano.
(1. Ott. 1821.)
Dalle osservazioni fatte sul Cristianesimo in altri pensieri, risulta ch’esso nella sua perfezione, ricade, include, consiste in un vero e totale egoismo, sebbene esso gli professi massime dirittamente contrarie, e ne sembri il più forte, intero, e irreconciliabil nemico; sino a pretendere di spegnere affatto l’amor proprio, non solo cogl’infiniti sacrifizi che ordina o consiglia, ma col volere e porre per indispensabile condizione, che questi [1825]ed ogni altra azione dell’uomo in ultima e perfetta analisi non abbiano per fine se stesso, ma assolutamente e puramente Iddio. Il che allora sarà fisicamente moralmente, matematicamente possibile, quando la natura del vivente e della vita sarà cambiata ne’ suoi principii costitutivi.
(1. Ott. 1821.). V. p.1882.
Letteratura italiana Einaudi 1253
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia L’uomo, e l’animale proporzionatamente, sono ragionevoli per natura. Io dunque non condanno la ragione in quanto è qualità naturale, ed essenziale nel vivente, ma in quanto (per sola forza d’indebite e non naturali assuefazioni) cresce e si modifica in modo che diviene il principale ostacolo alla nostra felicità, strumento dell’infelicità, nemico delle altre qualità ec. naturali dell’uomo e della vita umana.
(1. Ott. 1821.)
Le parole che indicano moltitudine, copia, grandezza, lunghezza, larghezza, altezza, vastità ec. ec. sia in estensione, o in forza, intensità ec. ec. sono pure poeticissime, e così le immagini corrispondenti. Come nel Petrarca
[1826]Te solo aspetto, e quel che tanto AMA-STI,
E laggiuso è rimaso, il mio bel velo.
E in Ippolito Pindemonte
Fermossi alfine il cor che BALZÒ tanto.
Dove notate che il tanto essendo indefinito, fa maggiore effetto che non farebbe molto, moltissimo eccessivamente, sommamente. Così pure le parole e le idee ultimo, mai più, l’ultima volta ec. ec. sono di grand’effetto poetico, per l’infinità. ecc.
(3. Ott. 1821.)
Finora s’è applicata alla politica piuttosto la cognizione degli uomini che quella dell’uomo, piuttosto la scienza delle nazioni che degl’individui di cui le nazioni si compongono, e che sono altrettante fedeli immagini delle nazioni.
(3. Ott. 1821.)
Letteratura italiana Einaudi 1254
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia Come un filare d’alberi dove la vista si perda, così per la stessa ragione è piacevole una fuga di camere, o di case, cioè una strada lunghissima e drittissima, e composta anche di case uguali, perchè allora il piacere è prodotto dall’ampiezza della sensazione; laddove se le case sono di diversa forma, altezza ec. il piacere della [1827]varietà sminuzzando la sensazione, e trattenendola sui particolari, ne distrugge la vastità. Quantunque anche della moltiplice varietà si può fare una sensazione vasta e indefinita, quand’ella fa che l’animo non possa abbracciar tutta la sensazione delle grandi e numerose diversità che vede, sente, ec. in un medesimo tempo.
(3. Ott. 1821.)
Dove non è odio nazionale, quivi non è virtù.
(3. Ott. 1821.)
A quello che altrove ho detto dell’effetto che fa nell’uo-mo la vista del cielo, si può aggiungere e paragonare quello del mare, delle egloghe piscatorie, e d’ogni sorta d’immagine presa dalla navigazione ec. Le idee relative al mare sono vaste, e piacevoli per questo motivo, ma non durevolmente, perchè mancano di due qualità, la varietà, e l’esser proprie e vicine alla nostra vita quotidiana, agli oggetti che ci circondano, alle nostre assuefazioni rimembranze ec. (dico di chi non è marinaio ec. di professione) ed anche alle nostre cognizioni pratiche; giacchè la cognizione pratica, [1828]almeno in grosso, l’uso, l’esperienza, una tal quale familiarità con ciò che il poeta ha per le mani, è necessaria all’effetto delle immagini e sentimenti poetici ec.; ed è per questo che piace soprattutto nella poesia ciò che spetta al cuore umano (che è la cosa della quale abbiamo più cognizione pratica), siccome nella pittura, scultura, ec. l’imitazione dell’uomo, delle sue passioni ec.
Letteratura italiana Einaudi 1255
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia (3. Ott. 1821.)
La stessa assuefabilità deriva in gran parte dall’assuefazione (intendo la generale), e ne riceve consistenza, aumento, gradazione ec.
(3. Ott. 1821.)
L’assuefabilità non è che disposizione. Tuttavia se vogliamo chiamarla facoltà, questa è l’unica facoltà naturale, essenziale, primitiva ed ingenita, che abbia qualunque vivente.
(3. Ott. 1821.)
Quanto le disposizioni naturali siano influite dalle circostanze accidentali, assuefazioni ec. si può anche rilevare osservando le fisonomie. Le quali benchè senza dubbio dinotano [1829]certe e determinate disposizioni e qualità dell’animo, e i gradi loro; e nondimeno vediamo quanto di rado corrispondano al carattere effettivo de-gl’individui. Che se ciò è meno raro ancora di quel che dovrebbe, viene da questo che l’influenza delle assuefazioni sull’uomo è tanta, che stante la naturale corrispondenza fra l’interno e l’esterno, le assuefazioni che determinano il carattere dell’uomo, arrivano bene spesso a modificare la fisonomia quanto è possibile, e darle talvolta un’aria e significazione tutta diversa o contraria a quella che aveva naturalmente. Del resto quante persone le cui fisonomie indicano deciso talento, vivacità, bontà, ec. ec. sono sciocche, melense, scellerate, e viceversa! V.
in Cicerone il fatto di Socrate con Zopiro fisionomista.
Nuova prova del sopraddetto. Rivedete dopo lungo tempo una persona che non avevate veduta se non da fanciulla. [1830]In questi riconoscimenti, rarissimo è che si trovino corrispondenti, non solo la fisonomia, ma l’indole ec. di tali persone, con l’idea che se ne aveva, formata sulle qualità che vi si osservavano nell’infanzia. Spesso Letteratura italiana Einaudi 1256
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia anche il fatto si trova contrario all’opinione. Tanto è piccola cosa nell’uomo quel che si chiama il naturale; e tanto è piccola la parte che hanno le qualità naturali nella formazione del carattere ec. di un individuo.
(3. Ott. 1821.)
Alla p.1824. Non nego che questi effetti non possano anche derivare dal contrario dell’indifferenza, cioè da una soprabbondanza di vita, di passione, di attività nell’animo umano, quale si trova ne’ meridionali, e massime negli orientali. In oriente in fatti sono assai comuni le poesie, le favole, le invenzioni, dove i protagonisti, o quelli per cui si pretende d’interessare, sono animali, piante, nuvole, monti, divinità o enti favolosi e ideali, uomini in gran parte diversi da quelli che sono ec. ec. E dall’oriente vennero col Cristianesimo le prime tracce, anzi quasi l’intero sistema dell’amore universale. Presso noi però, e
[1831]a’ nostri tempi è certo che i detti effetti non nascono se non dall’indifferenza: e il contrario di questa faceva che la mitologia greca trasmutasse in uomini tutti gli oggetti della natura; e che gli antichi amassero sommamente la loro patria, e odiassero gli stranieri. V. p.1841.
È notabile come cagioni dirittamente contrarie producano gli stessi effetti, e come la soprabbondanza di vita negli orientali, ravvicini la loro poesia, i loro pensieri, la loro filosofia, e buona parte della loro indole a quella de’
settentrionali. Ond’è che la poesia orientale disprezzata nel mezzogiorno d’Europa fa fortuna nel Nord, e le fantasie del gelato e buio settentrione, rassomigliano assai più a quelle del più fervido e brillante mezzogiorno, che de’ climi temperati.
(3. Ott. 1821.). Vedi la p.1859. fine.
Tutte le città fuor di mano hanno qualche particolarità di costumi, dialetto, accento, indole ec. che le distingue sì dal generale della nazione sì l’una dall’altra. E si trova, Letteratura italiana Einaudi 1257
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia proporzionatamente parlando, maggior varietà di costume scorrendo un piccolo circondario [1832]posto fuor di mano, che non si trova scorrendo da capo a piedi un intero regno, ed anche più regni e nazioni, per le vie po-stali. Tanto la natura è varia, e l’arte monotona; e tanto è vero che la civilizzazione tende essenzialmente ad uniformare.
(3. Ott. 1821.)
La forza dell’assuefazione della prevenzione, dell’opinione nel giudizio del bello ec. si può vedere anche negli effetti che tu provi vedendo una pittura, udendo una musica, leggendo un libro ec. se tu ne conosci l’autore, s’egli t’è familiare ec. La qual cosa ora accresce le bellezze, ora le scema, ora finge quelle che non ci sono, o scuopre le più difficili a vedere, e le più fine, e rende sensibilissi-mi ad ogni menoma cosa ec. ora nasconde quelle che ci sono, anche le più notabili, rende incapaci di sentir nulla ec. Intendo di escludere dalla conoscenza ogni sorta di passione relativa, e considero solamente l’applicare che fa il lettore tutto quello che legge, all’autore ch’egli ben conosce. Il che spontaneamente e inevitabilmente, quanto [1833]inavvedutamente, modifica il giudizio e il senso, in mille guise indipendenti dalla propria natura di ciò che si legge o vede o sente ec.
(3. Ott. 1821.)
V. il 17. avvertimento di F. Guicciardini, intorno a quel mio pensiero che nessuno si vuol guadagnare la benevolenza di uno a costo di tirarsi addosso l’odio di un altro.
(3. Ott. 1821.)
Chi non ha o non ha mai avuto immaginazione, sentimento, capacità di entusiasmo, di eroismo, d’illusioni vive e grandi, di forti e varie passioni, chi non conosce l’immenso sistema del bello, chi non legge o non sente, o non Letteratura italiana Einaudi 1258
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ha mai letto o sentito i poeti, non può assolutamente essere un grande, vero e perfetto filosofo, anzi non sarà mai se non un filosofo dimezzato, di corta vista, di colpo d’occhio assai debole, di penetrazione scarsa, per diligente, paziente, e sottile, e dialettico e matematico ch’ei possa essere; non conoscerà mai il vero, si persuaderà e proverà colla possibile evidenza cose falsissime ec. ec. Non già perchè [1834]il cuore e la fantasia dicano sovente più vero della fredda ragione, come si afferma, nel che non entro a discorrere, ma perchè la stessa freddissima ragione ha bisogno di conoscere tutte queste cose, se vuol penetrare nel sistema della natura, e svilupparlo. L’analisi delle idee, dell’uomo, del sistema universale degli esseri, deve necessariamente cadere in grandissima e principalissima parte, sulla immaginazione sulle illusioni naturali, sul bello, sulle passioni, su tutto ciò che v’ha di poetico nell’intero sistema della natura. Questa parte della natura, non solo è utile, ma necessaria per conoscer l’altra, anzi l’una dall’altra non si può staccare nelle meditazioni filosofiche, perchè la natura è fatta così. La detta analisi in ordine alla filosofia, dev’esser fatta non già dall’immaginazione o dal cuore, bensì dalla fredda ragione che entri ne’ più riposti segreti dell’uno e dell’altra. Ma come può far tale analisi colui che non conosce perfettamente tutte le dette cose [1835]per propria esperienza, o non le conosce quasi punto? La più fredda ragione benchè mortal nemica della natura, non ha altro fondamento nè principio, altro soggetto di meditazione speculazione ed esercizio che la natura. Chi non conosce la natura, non sa nulla, e non può ragionare, per ragionevole ch’egli sia.
Ora colui che ignora il poetico della natura, ignora una grandissima parte della natura, anzi non conosce assolutamente la natura, perchè non conosce il suo modo di essere.
Tale è stata ed è una grandissima parte de’ più acclama-ti filosofi dal 600 in poi, massime tedeschi e inglesi. Av-Letteratura italiana Einaudi 1259
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia vezzi a non leggere, a non pensare, a non considerare, a non istudiare, che filosofia, dialettica, metafisica, analisi, matematica, abbandonato affatto il poetico, spoeticizzata del tutto la loro mente, assuefatti ad astrarre totalmente dal sistema del bello, e a considerare e porre la loro professione le mille miglia lontano da tutto ciò che spetta all’immaginazione e al sentimento, [1836]perduto affatto l’abito del bello e del caldo, e immedesimati con quello del puro raziocinio, del freddo ec. non conoscendo altra esistenza nella natura che il ragionevole, il calcolato ec. e libero da ogni passione, illusione, sentimento, essi errano a ogni tratto, e all’ingrosso, ragionando colla più squisita esattezza. È certissimo ch’essi hanno ignorato ed ignorano la massima parte della natura, delle stesse cose che trattano, per impoetiche ch’elle sieno (giacchè il poetico nell’effettivo sistema della natura è legato assolutamente a tutto), la massima parte della stessa verità, alla quale si sono esclusivamente dedicati.
La scienza della natura non è che scienza di rapporti.
Tutti i progressi del nostro spirito consistono nello scoprire i rapporti. Ora, oltre che l’immaginazione è la più feconda e maravigliosa ritrovatrice de’ rapporti e delle armonie le più nascoste, come ho detto altrove; è manifesto che colui che ignora una parte, o piuttosto una qualità una faccia della natura, legata con qualsivoglia cosa che possa formar soggetto di ragionamento, ignora un’infinità di rapporti, e quindi non può non ragionar male, non veder falso, non iscuoprire imperfettamente, non lasciar di vedere [1837]le cose le più importanti, le più necessarie, ed anche le più evidenti. Scomponete una macchina complicatissima, toglietele una gran parte delle sue ruote, e ponetele da parte senza pensarvi più; quindi ricomponete la macchina, e mettetevi a ragionare sopra le sue proprietà, i suoi mezzi, i suoi effetti: tutti i vostri ragionamenti saranno falsi, la macchina non è più quella, gli effetti non sono quelli che dovrebbero, i mezzi sono Letteratura italiana Einaudi 1260
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia cambiati, indeboliti, o fatti inutili; voi andate arzigogolando sopra questo composto, vi sforzate di spiegare gli effetti della macchina dimezzata, come s’ella fosse intera; speculate minutamente tutte le ruote che ancora lo compongono, ed attribuite a questa o quella un effetto che la macchina non produce più, e che le avevate veduto produrre in virtù delle ruote che le avete tolte ec.
ec. Così accade nel sistema della natura, quando l’è stato tolto e staccato di netto il meccanismo del bello, ch’era congegnato e immedesimato [1838]con tutte le altre parti del sistema, e con ciascuna di esse.
Ho detto altrove che non si conosce perfettamente una verità se non si conoscono perfettamente tutti i suoi rapporti con tutte le altre verità, e con tutto il sistema delle cose. Qual verità conosceranno dunque bene quei filosofi che astraggono assolutamente e perpetuamente da una parte essenzialissima della natura?
La ragione e l’uomo non impara se non per l’esperienza. Se la ragione vuol pensare e operare da se, e quindi scoprire, e far progressi, le conviene conoscere per sua propria esperienza; altrimenti l’esperienza altrui nelle parti essenziali della natura, non potrà servirle che a ripetere le operazioni fatte da altri.
Quindi si veda quanto sia difficile a trovare un vero e perfetto filosofo. Si può dire che questa qualità è la più rara e strana che si possa concepire, e che appena ne sorge uno ogni dieci secoli, seppur uno n’è mai sorto. (Qui riflettete quanto [1839]il sistema delle cose favorisca il preteso perfezionamento dell’uomo mediante la perfezione della ragione e della filosofia.) È del tutto indispensabile che un tal uomo sia sommo e perfetto poeta; ma non già per ragionar da poeta; anzi per esaminare da freddissimo ragionatore e calcolatore ciò che il solo ardentissimo poeta può conoscere. Il filosofo non è perfetto, s’egli non è che filosofo, e se impiega la sua vita e se stesso al solo perfezionamento della sua filosofia, della sua ragione, al Letteratura italiana Einaudi 1261
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia puro ritrovamento del vero, che è pur l’unico e puro fine del perfetto filosofo. La ragione ha bisogno dell’immaginazione e delle illusioni ch’ella distrugge; il vero del falso; il sostanziale dell’apparente; l’insensibilità la più perfetta della sensibilità la più viva; il ghiaccio del fuoco; la pazienza dell’impazienza; l’impotenza della somma potenza; il piccolissimo del grandissimo; la geometria e l’algebra, della poesia. ec.
Tutto ciò conferma quello che altrove [1840]ho detto della necessità dell’immaginazione al gran filosofo.
(4. Ott. 1821.). V. p.1848. fine. e 1841.
Non sarebbe fischiato oggidì, non dico in Francia, ma in qualunque parte del mondo civile, un poeta, un romanziere ec. che togliesse per argomento la pederastia, o l’introducesse in qualunque modo; anzi chiunque in una scrittura alquanto nobile s’ardisse di pur nominarla senza perifrasi? Ora la più polita nazione del mondo, la Grecia, l’introduceva nella sua mitologia (Ganimede), scriveva elegantissime poesie su questo soggetto, donna a donna (Saffo), uomo a giovane (Anacreonte) ec. ec. ne faceva argomento di dispute o trattati rettorici o filosofici (I. ep. greca di Frontone), ne parlava nelle più nobili storie colla stessissima disinvoltura, con cui si parla degli amori tra uomo e donna ec. Anzi si può dir che tutta la poesia, la filosofia e la filologia erotica greca versasse principalmente sulla pederastia, essendo presso i greci troppo volgare e creduto troppo sensuale, basso, triviale, indegno della poesia ec. l’amor delle donne, appunto perchè naturale. V. il Fedro, il Convito di Platone gli Amori di Luciano ec. Il vantato amor platonico (sì sublimemente espresso nel Fedro) non è che pederastia. Tutti i sentimenti nobili che l’amore inspirava ai greci, tutto il sentimentale loro in amore, sia nel fatto sia negli scritti, non appartiene ad altro che alla pederastia, e negli scritti di donne (come nella famosa ode o frammento di Saffo Letteratura italiana Einaudi 1262
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia faÛnetai ec.) all’amor di donna verso donna. Basta conoscere un sol tantino la letteratura greca da Anacreonte ai romanzieri, per non dubitar di questo, come alcuni hanno fatto. (epist. di Filostrato, Aristeneto ec.) E Virgilio il più circospetto non solo degli antichi poeti, ma di tutti i poeti, e forse scrittori; certo il più polito ed elegante di quanti mai scrissero; intendente, gelosissimo, e
[1841]modello di finezza, e d’ogni squisitezza di coltura, in un tempo ec. ec. ridusse ed applicò all’infame pederastia il sentimento, e ne fece il soggetto di una storietta sentimentale nel suo Niso ed Eurialo.
(4. Ott. 1821.)
Alla p.1831. principio. V. il pensiero precedente, e nota che forse all’esuberanza di vita si può attribuire la grande universalità della pederastia nella Grecia, e in oriente (dove credo che questo vizio ancor domini), mentre fra noi bisogna convenire che questo è un vizio antinaturale, un’inclinazione che il solo eccesso di libidine snaturante i gusti e l’inclinazioni degli uomini, può produrre. Così discorrete degli antichi (certo esuberanti di vita) rispetto ai moderni.
(4. Ott. 1821.)
Alla p.1840. La ragione senza notizia del sistema del bello, delle illusioni, entusiasmo ec. e di ciò che spetta all’immaginazione e al cuore, è essa medesima un’illusione, e un’artefice di mitologia, come lo sono le dette cose.
Bensì di una bruttissima, [1842]e acerbissima mitologia.
La stessa essenziale inimicizia della ragione colla natura, la pone in necessità di perfettamente conoscerla, il che non si può senza sentirla. Come può ella combattere un nemico che non conosca punto? Ora la natura in quanto natura è tutta quanta essenzialmente poetica. Da che natura e ragione sono nemiche per essenza, l’una dipende o è legata essenzialmente coll’altra, come lo sono tutti i con-Letteratura italiana Einaudi 1263
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia trari; e non si può considerar l’una isolatamente dall’altra. O piuttosto non si può considerar la ragione staccatamente dalla natura (bensì al contrario) perchè la ragione sebbene nemica, è posteriore alla natura, e da lei dipendente, ed ha in lei sola il fondamento e il soggetto della sua esistenza, e del suo modo di essere.
(4. Ott. 1821.)
Oggi la gara di onore è più fra coloro che compongono una stessa armata che fra le armate nemiche; anticamente per lo contrario: oggi per conseguenza il soldato invidia e quindi odia il suo compagno più [1843]che il nemico; anticamente per lo contrario: oggi egli si duol più di un vantaggio riportato da un suo emulo sopra il nemico, che de’ vantaggi del nemico; anticamente per lo contrario: oggi insomma anche nelle armate dove regna quella utilissima e grande illusione che si chiama punto di onore, tutto è egoismo individuale; anticamente tutto era egoismo nazionale. Signori filosofi, giacchè non si può fare a meno dell’uno o dell’altro, quale vi sembra il migliore?
Anticamente erano emule le nazioni, oggi gl’individui, e più quelli di una stessa che di diverse nazioni; e così quando anche si cerca la gloria, cosa ben rara, e quando ella si cerca operando per la nazione e contro i di lei nemici, ella non è cercata e non ha per fine che l’individuo in luogo della nazione a cui esso appartiene.
(5. Ott. 1821.)
Tutta l’Europa e tutte le colte lingue hanno riconosciuto la lingua greca per fonte comune alla quale attingere le parole necessarie per significare esattamente le nuove cose, per istabilire, formare, [1844]ed uniformare le nuove nomenclature d’ogni genere, o perfezionarle e comple-tarle ec. Sola l’Italia ricusa di conformarsi a questo costume; dico l’Italia che non si sa in che consista, perchè i suoi figli vi si uniformano come gli altri; ma ciò ch’essi Letteratura italiana Einaudi 1264
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia fanno in questo particolare, non si vuol riconoscere dall’universalità della nazione (o da’ pedanti) come bene e convenientemente fatto in punto di lingua, all’opposto di ciò che accade nelle altre nazioni. Convengo che quando in luogo di una parola greca ch’è sempre straniera per noi, si possa far uso di una parola italiana o nuova o nuovamente applicata, che perfettamente esprima la nuova cosa, questa si debba preferire a quella; (purchè la greca o altra qualunque non sia universalmente prevalsa in modo che sia immedesimata coll’idea, e non si possa toglier quella senza distruggere o confondere o alterar questa; giacchè in tal caso una diversa parola, per nazionale, espressiva, propria, esatta, precisa ch’ella fosse, non esprimerebbe mai la stessa idea, se non dopo un lungo uso ec.
e fratanto non saremmo intesi.) Ma fuori di [1845]questo caso che di rarissimo si verifica, perchè l’Italia sola vorrà rinunziare, primo al costume generale di questo e d’altri secoli e dell’Europa, che avrebbe diritto di farsi adottare quando anche non fosse necessario nè buono; secondo al benefizio universale di quella maravigliosa lingua, che benchè morta da tanti secoli, somministra perpetuamente il bisognevole a denominare e significare appuntino tutto ciò che vive, e tutto ciò che nasce o si scuopre o nuovamente si osserva nel mondo?
(5. Ott. 1821.)
Moltissime parole si trovano, comuni a più lingue, o perchè derivate da questa a quella, ed immedesimate con lei, o perchè venute da origine comune, le quali parole in una lingua sono eleganti, in un’altra no; in una affatto nobili anzi sublimi, in un’altra affatto pedestri. Così dico delle frasi ec. Unica ragione è la differenza dell’uso, e delle assuefazioni. Noi italiani possiamo facilmente osservare
[1846]nella lingua spagnuola, la più affine alla nostra che esista, e di maniera che tanta affinità e somiglianza non si trova forse fra due altre lingue colte, non poche parole e Letteratura italiana Einaudi 1265
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia frasi o significazioni, o metafore ec. proprie della sola poesia, che nella nostra son proprie della sola prosa, e viceversa: parte derivate dalla comune madre di ambe le lingue, parte dall’italiana alla spagnuola, parte viceversa.
Così pure possiamo osservar noi, e possono pur gli spagnuoli, non poche altre notabilissime differenze di nobiltà di eleganza di gusto ec. in parole e frasi comuni ad ambe le lingue nella medesima significazione. Similmente discorrete dell’inglese e del tedesco, del francese rispetto alle tante lingue che han preso da lei, o rispetto alle due sue sorelle ec. del greco ancora rispetto al latino ec.
(5. Ott. 1821.)
Alla p.1824. Del resto queste tali poesie che ho detto, orientali o settentrionali, non producono effettivamente in noi che l’indifferenza, dico quanto all’interesse, sebben possano stordire, colpire, e dilettar poco [1847]a lungo colla novità, la maraviglia, l’eccesso della varietà ec. E dico in noi, lasciando gli orientali ne’ quali potrebbe darsi che producessero altro effetto stante le osservazioni della p.1830. Quanto a’ settentrionali credo che sieno nel caso nostro, ed anche più di noi.
(5. Ott. 1821.)
Come l’uomo non s’interessa che per l’uomo (perch’egli s’interessa più per se che per gli altri uomini); com’è vuota d’effetto quella pittura che non rappresenta niente di animato, e più quella che rappresenta pietre ec. che quella che rappresenta piante ec.; come il principale effetto della pittura è prodotto dall’imitazione dell’uomo più che degli animali, e molto più che degli altri oggetti; come la poesia non diletta nè molto nè durevolmente se verte 1.
sopra cose inorganizzate, 2. sopra cose organizzate ma non vive, 3. sopra enti vivi ma non uomini, 4. sopra uomini ma non sopra ciò che meglio spetta all’uomo ed a Letteratura italiana Einaudi 1266
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ciascun lettore, cioè le passioni, i sentimenti, insomma l’animo umano; (notate queste gradazioni che sono applicabili ad ogni genere di cose e idee piacevoli, ed alla mia teoria del piacere) così [1848]la poesia, i drammi, i romanzi, le storie, le pitture ec. ec. non possono durevolmente nè molto dilettare se versano sopra uomini di costumi, opinioni, indole ec. ec. e quasi natura affatto diversa dalla nostra, come i personaggi favoriti delle care poesie ec. del Nord, sia per differenza nazionale, sia per eccessiva differenza e stranezza di carattere, come i protagonisti di Lord Byron, ed anche per eccessivo eroismo, onde Aristotele non voleva che il protagonista della tragedia fosse troppo eroe. (Quindi è che se forse da principio interessano per la novità, a poco andare annoiano le storie ec. de’ popoli lontani, de’ viaggi ec. e interessano sempre più proporzionatamente quelle de’ più vicini, e fra gli antichi de’ latini Greci, ed Ebrei, a causa che questi sono in relazione con tutto il mondo colto per la rimembranza ec. della nostra gioventù, studi, religione letteratura ec. Anche questo però secondo le circostanze degli individui.) Da per tutto l’uomo cerca il suo simile, perchè non cerca e non ha mai altro scopo che se stesso; e il sistema del bello, come tutto il sistema della vita, si aggira sopra il perno, ed è posto in movimento dalla gran molla dell’egoismo, e quindi della similitudine e relazione a se stesso, cioè a colui che deve godere del bello di qualunque genere.
(5. Ott. 1821.)
Alla p.1840. principio. Eccovi infatti, contro quello che a prima vista parrebbe, che le nazioni le più distinte nell’immaginazione, i popoli meridionali insomma, dalle
[1849]prime tracce che abbiamo della storia umana fino a’ dì nostri, si trovano aver sempre primeggiato nella filosofia, e massime nelle grandi scoperte che le appartengono. Grecia, Egitto, India, poi Arabi, poi Italiani nel risor-Letteratura italiana Einaudi 1267
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia gimento. La profonda filosofia di Salomone e del figlio di Sirac, non era ella meridionale? L’Oriente non ha primeggiato in tutta l’antichità in ordine al pensiero, alla profondità, alle cognizioni le più metafisiche, alla morale ec.? Confucio non fu meridionale? Donde venne la filosofia tra’ latini? dalla Grecia. Chi si distinse in essa fra tutti gli scrittori latini per ciò che spetta alla profondità?
gli spagnuoli Seneca, Lucano, possiamo anche dir Quintiliano, ec. E nella teologia? gli Affricani Tertulliano, S. Agostino, ec. nella teologia e filosofia insieme? Arnobio Affricano, e Lattanzio (credo) parimente. Fra i greci quante sottigliezze, quante astrazioni, quante sette, quante dispute, quanti scritti acutissimi in materie teologiche dal principio della Chiesa fino agli ultimi secoli della
[1850]Grecia. Si può dir che la teologia Cristiana sia tutta greca. E quell’opera profondissima del Cristianesimo donde venne? dalla Palestina. Mostratemi della filosofia antica in qualsivoglia parte settentrionale o antartica dell’Asia, dell’Affrica, dell’Europa. Quanto alle due prime mostratemi ancora, se potete, della filosofia moderna, ch’io ve ne mostrerò non poca nelle loro parti meridionali. Quello che dico della filosofia dico pur della teologia (inseparabile dalla metafisica), a qualunque credenza ella appartenga.
Fra’ moderni, i tedeschi, certo abilissimi nelle materie astratte, sembrano fare eccezione al mio sistema, e son tutto il fondamento del sistema contrario; giacchè gl’inglesi per indole spettano piuttosto al mezzodì, come altrove ho detto. Ma questi tedeschi ne’ quali l’immaginazione e il sentimento (parlando in genere) è tanto più falso, e forzato, e innaturale e debole per se stesso, quanto apparisce più vivo ed estremo (giacchè questa estremità deriva in essi manifestamente da cagione [1851]contraria che negli orientali, il cui clima è l’estremo opposto del loro); questi tedeschi il cui spirito come dice la Staël, (De l’Allem. tom.1. 1. part. ch.9. 3me édit. p.79.) est presque Letteratura italiana Einaudi 1268
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia nul à la superficie, a besoin d’approfondir pour comprendre, ne saisit rien au vol; questi tedeschi sempre bisognosi di analisi, di discussione, di esattezza; questi tedeschi sì generalmente e sì profondamente applicati da circa due secoli alle meditazioni astratte, e queste quasi esclusivamente, hanno certo sviluppato delle verità non poche, scoperte da altri; hanno recato chiarezza a molte cose oscure; hanno trovato non piccole e non poche verità secondarie; hanno insomma giovato sommamente ai progressi della metafisica, e delle scienze esatte materiali o no; ma qual grande scoperta, specialmente in metafisica, è finora uscita dalle tante scuole tedesche ec. ec.? Quando ha mai un tedesco gettato sul gran sistema delle cose un’occhiata onnipotente che gli abbia rivelato un grande e veramente [1852]fecondo segreto della natura, o un grande ed universale errore? (giacchè la scoperta delle verità non è ordinariamente altro che la riconoscenza degli errori.) Il colpo d’occhio de’ tedeschi nelle stesse materie astratte non è mai sicuro, benchè sia liberissimo, (e tale infatti non può essere senza gran forza d’immaginare, di sentire, e senza una naturale padronanza della natura, che non hanno se non le grand’anime.) La minuta e squisita analisi, non è un colpo d’occhio: essa non iscuopre mai un gran punto della natura; il centro di un gran sistema; la chiave, la molla, il complesso totale di una gran macchina. Quindi è che i tedeschi son ottimi per mettere in tutto il loro giorno, estendere, ripulire, perfezionare, applicare ec. le verità già scoperte (ed è questa una gran parte dell’opera del filosofo); ma poco valgono a ritrovar da loro nuove e grandi verità. Essi errano anche bene spesso, malgrado il più fino ragionamento, come chi analizza senza intimamente sentire, nè quindi perfettamente conoscere, giacchè grandissima [1853]e principalissima parte della natura non si può conoscere senza sentirla, anzi conoscerla non è che sentirla. Oltrechè a chi manca il colpo d’occhio non può veder molti nè grandi rappor-Letteratura italiana Einaudi 1269
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ti, e chi non vede molti e grandi rapporti, erra per necessità bene spesso, con tutta la possibile esattezza. L’immaginazione de’ tedeschi (parlo in genere) essendo poco naturale, poco propria loro, ed in certo modo artefatta e fattizia, e quindi falsa benchè vivissima, non ha quella spontanea corrispondenza ed armonia colla natura che è propria delle immaginazioni derivanti e fabbricate dalla stessa natura. (Altrettanto dico del sentimento). Perciò essa li fa travedere e sognare. E quando un tedesco vuole speculare e parlare in grande, architettare da se stesso un gran sistema, fare una grande innovazione in filosofia, o in qualche parte speciale di essa, ardisco dire ch’egli ordinariamente delira. L’esattezza è buona per le parti, ma non per il tutto. Ella costituisce lo spirito [1854]de’ tedeschi; or ella o non è buona o non basta alle grandi scoperte. Quando delle parti le più minutamente ma separatamente considerate si vuol comporre un gran tutto, si trovano mille difficoltà, contraddizioni, ripugnanze, assurdità, dissonanze e disarmonie; segno certo ed effetto necessario della mancanza del colpo d’occhio che scuopre in un tratto le cose contenute in un vasto campo, e i loro scambievoli rapporti. È cosa ordinarissima anche negli oggetti materiali e in mille accidenti della vita, che quello che si verifica o pare assolutamente vero e dimostrato nelle piccole parti, non si verifica nel tutto; e bene spesso si compone un sistema falsissimo di parti verissime, o che tali col più squisito ragionamento si dimostrano, considerandole segregatamente. Questo effetto deriva dall’ignoranza de’ rapporti, parte principale della filosofia, ma che non si ponno ben conoscere senza una padronanza sulla natura, una padronanza ch’essa stessa vi dia, sollevandovi sopra di se, una forza di colpo d’occhio, tutte le [1855]quali cose non possono stare e non derivano, se non dall’immaginazione e da ciò che si chiama genio in tutta l’estensione del termine. I tedeschi si striscia-no sempre intorno e appiedi alla verità; di rado l’afferra-Letteratura italiana Einaudi 1270
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia no con mano robusta: la seguono indefessamente per tutti gli andirivieni di questo laberinto della natura, mentre l’uomo caldo di entusiasmo, di sentimento, di fantasia, di genio, e fino di grandi illusioni, situato su di una eminenza, scorge d’un’occhiata tutto il laberinto, e la verità che sebben fuggente non se gli può nascondere. Dopo ch’egli ha comunicato i suoi lumi e le sue notizie a de’ filosofi come i tedeschi, questi l’aiutano potentemente a descrivere e perfezionare il disegno del laberinto, considerandolo ben bene palmo per palmo. Quante grandissime verità si presentano sotto l’aspetto delle illusioni, e in forza di grandi illusioni; e l’uomo non le riceve se non in grazia di queste, e come riceverebbe una grande illusione! Quante grandi illusioni concepite in un momento
[1856]o di entusiasmo, o di disperazione o insomma di esaltamento, sono in effetto le più reali e sublimi verità, o precursore di queste, e rivelano all’uomo come per un lampo improvviso, i misteri più nascosti, gli abissi più cupi della natura, i rapporti più lontani o segreti, le cagioni più inaspettate e remote, le astrazioni le più sublimi; dietro alle quali cose il filosofo esatto, paziente, geometrico, si affatica indarno tutta la vita a forza di analisi e di sintesi. Chi non sa quali altissime verità sia capace di scoprire e manifestare il vero poeta lirico, vale a dire l’uo-mo infiammato del più pazzo fuoco, l’uomo la cui anima è in totale disordine, l’uomo posto in uno stato di vigor febbrile, e straordinario (principalmente, anzi quasi indispensabilmente corporale), e quasi di ubbriachezza?
Pindaro ne può essere un esempio: ed anche alcuni lirici tedeschi ed inglesi abbandonati veramente che di rado avviene, all’impeto di una viva fantasia e sentimento. V.
p.1961. capoverso ult.
Ho detto che nessuna veramente strepitosa scoperta nelle materie astratte, e in [1857]qualsivoglia dottrina immateriale è uscita dalle scuole ec. tedesche. Quali sono in queste materie le grandi scoperte di Leibnizio, forse il Letteratura italiana Einaudi 1271
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia più gran metafisico della Germania, e certo profondissimo speculatore della natura, gran matematico ec.?
Monadi, ottimismo, armonia prestabilita, idee innate; favole e sogni. Quali quelle di Kant, caposcuola ec. ec.?
Credo che niuno le sappia, nemmeno i suoi discepoli.
Speculando profondamente sulla teoria generale delle arti, i tedeschi ci hanno dato ultimamente il romanzo del ro-manticismo, sistema falsissimo in teoria, in pratica, in natura, in ragione, in metafisica, in dialettica, come si mostra in parecchi di questi pensieri. Ma Cartesio, Galileo, Newton, Locke ec. hanno veramente mutato faccia alla filosofia. (Vero è che ora e dopo che la letteratura è divenuta generale nella nazion tedesca, e ha preso forma ed indole propria, queste grandi, strepitose e generali mutazioni vanno gradatamente divenendo più difficili, per natura de’ tempi, de’ costumi, e de’ progressi dello spirito, per la soppressione delle scuole, o delle fazioni scolastiche, le quali non esistono omai che [1858]in Germania, dove tali mutazioni forse ancora accadono.) Macchiavelli fu il fondatore della politica moderna e profonda. In somma lo spirito inventivo è così proprio del mezzogiorno, riguardo all’astratto ec. come riguardo al bello e all’immaginario.
Il sistema detto di Copernico, potrebbe riguardarsi come una grande scoperta e innovazione, anche in ordine alla metafisica; ma è noto che quel tedesco non fece altro che colle sue meditazioni lunghe e profonde, coltivare e stabilire ec. una verità già saputa o immaginata da’ Pittagora da Aristarco di Samo, dal Card. di Cusa ec. Questo è ciò che sanno fare i tedeschi.
Da tutto ciò deducete 1. l’impotenza, e la contraddizione che involve in se, ed introduce nell’uomo, e nell’ordine delle cose umane, la ragione, la quale per far grandi effetti e decisi progressi ha bisogno di quelle stesse disposizioni naturali ch’ella distrugge o n’è distrutta, l’immaginazione e il sentimento. Facoltà generalmente e na-Letteratura italiana Einaudi 1272
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia turalmente parlando incompatibili con lei, massime dovendo esser questa e quelle in [1859]grado sommo. Vedete quanto sieno naturali i grandi progressi della ragione, quanto la natura gli abbia favoriti nel fabbricar l’uo-mo, quanto sia facile e naturale il conseguimento della pretesa perfezione umana. Laddove l’immaginazione e il sentimento non hanno alcun bisogno della ragione. E siccome, sebben questa e quelle sieno qualità naturali, nondimeno quelle si ponno considerar come più proprie della natura, più generali, più perfetti modelli di essa, meglio armonizzanti con lei, più singolarmente proprie dell’uomo e delle nazioni e de’ tempi naturali, de’ fanciulli ec. così vedete la gran superiorità della natura sulla ragione, e su tutto ciò che l’uomo si proccura, si fabbrica, si perfeziona da se stesso e col tempo.
2. Una nuova prova del come gli stessi effetti nascano da cagioni contrarie. Il fervor dell’immaginazione e la freddezza o mancanza di essa, producono la sottigliezza dello spirito. Sottili i tedeschi, sottilissimi anzi sofistici i greci, gli arabi, gli orientali. V. p.1831. [1860]ed applicala a questo luogo, ed osserva come sì in quello che nel nostro caso, trionfi però sempre ciò che deriva da copia di vita, su ciò che nasce da scarsezza.
(5-6. Ott. 1821.)
Ho detto che l’immaginazione può risorgere o durare anche ne’ vecchi e disingannati. Aggiungo che l’immaginazione e il piacere che ne deriva, consistendo in gran parte nelle rimembranze, lo stesso aver perduto l’abito della continua immaginativa, contribuisce ad accrescere il piacere delle rimembranze, giacch’elle, se fossero presenti ed abituali, 1. non sarebbero, o sarebbero meno rimembranze, 2. non sarebbero così dilettevoli, perchè il presente non illude mai, bensì il lontano, e quanto è più lontano. Onde non è dubbio che le immagini della vita degli antichi, non riescano più dilettevoli a noi per cui Letteratura italiana Einaudi 1273
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia sono rimembranze lontanissime, che agli stessi antichi per cui erano o presenze, o ricordanze poco lontane. Del resto la rimembranza quanto più è lontana, e meno abituale, tanto più innalza, stringe, addolora dolcemente, diletta [1861]l’anima, e fa più viva, energica, profonda, sensibile, e fruttuosa impressione, perch’essendo più lontana, è più sottoposta all’illusione; e non essendo abituale nè essa individualmente, nè nel suo genere, va esente dall’influenza dell’assuefazione che indebolisce ogni sensazione. Ciò che dico dell’immaginativa, si può applicare alla sensibilità. Certo è però che tali lontane rimembranze, quanto dolci, tanto separate dalla nostra vita presente, e di genere contrario a quello delle nostre sensazioni abituali, ispirando della poesia ec. non ponno ispirare che poesia malinconica, come è naturale, trattandosi di ciò che si è perduto; all’opposto degli antichi a cui tali immagini, poteano ben far minore effetto a causa dell’abitudine, ma erano sempre proprie, presenti, si rinnovavano tuttogiorno, nè mai si consideravano come cose perdute, o riconosciute per vane; quindi la loro poesia dovea esser lieta, come quella che verteva sopra dei beni e delle dolcezze da [1862]loro ancor possedute, e senza timore.
(7. Ott. 1821.)
Ho detto che i greci furono i più filosofi e profondi tra gli antichi, perchè la loro lingua si presentava mirabilmente (sì come si presta ancora forse meglio di ogni altra) alla filosofia ed alla precisione, come ad ogni altra cosa e qualità. Bisogna osservare che questo pregio non l’ebbe ella dalla filosofia, così che questo si debba attribuire alla filosofia de’ greci, piuttosto che questa al detto pregio. Poichè la lingua greca fu formata, e resa onnipotente assai prima che i greci avessero filosofia, e prima ancora che si fosse intrapresa l’analisi delle lingue, e creata la gramatica, nelle quali cose i greci furono poi sottilissimi specialmente intorno alla lingua loro. Ma la lingua Letteratura italiana Einaudi 1274
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia greca era tal quale noi la vediamo, e l’ammiriamo, assai prima della gramatica, inventata, si può dire, dagli stessi greci, ne’ tempi in cui la loro lingua o aveva già perduto, o stava per perdere (forse anche in forza delle regole ritrovate o osservate) il suo nativo [1863]colore ec. Anzi la lingua greca, dopo che fu analizzata, e ridotta a regole, dopo le circoscrizioni, le dispute, gli scrupoli de’ gramatici, divenne forse meno atta alla filosofia, come ad ogni altra cosa, perchè meno libera, e meno capace (secondo il parere e il desiderio de’ pedanti) di novità. Altrettanto nè più nè meno si può dire della lingua italiana. La libertà è la prima condizione di una lingua sì filosofica, che qualunque. I francesi l’hanno quanto alle parole. Ma ridotta ad arte, ogni lingua perde la sua libertà e fecondità. Allora ella varia quanto alle forme che riceve, secondo che alla sua formazione presiede la ragione o la natura ec.
Primitivamente l’indole di tutte le lingue è appresso a poco la stessa, almeno dentro una stessa categoria di climi e caratteri nazionali.
(7. Ott. 1821.)
Si può dir che l’effetto della filosofia non è il distruggere le illusioni (la natura è invincibile) ma il trasmutarle di generali in individuali. Vale a dire che ciascuno si fa delle illusioni per se; cioè crede [1864]che quelle tali speranze ec. siano vane generalmente, ma spera sempre per se, o in quel tal caso di cui si tratta, un’eccezione favorevole. Le illusioni così non sono meno generali, comuni, ed uguali in tutti, benchè ciascuno le restringa a se solo. Al sistema di creder belle e buone le cose umane, sottentra quello di credere o sperar tali le proprie, e quelle che in qualunque modo vi appartengono (come di creder buone le persone che vi circondano ec. ec.). L’effetto presso a poco è lo stesso. Tanto è sperare o credere una cosa ordinaria, quanto sperare o creder sempre la stessa cosa come straordinaria, e come eccezion della regola. Tale è il caso inevita-Letteratura italiana Einaudi 1275
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia bile di tutti i giovani i meglio istruiti.
Vero è che la distruzione delle illusioni generali influisce sempre sulle individuali. Queste non potranno mai estirparsi del tutto, altrimenti l’uomo non esisterebbe più.
Nondimeno s’indeboliscono, si rendono inattive ec. quando non sono fondate sopra una felice persuasione generale, e di principii, che contraddica e resista anche al fatto e all’esperienza. Tolta questa persuasione, l’individuo maturo cede presto all’esperienza buona parte delle
[1865]sue illusioni individuali, e tutta la forza e la costanza delle altre, che già non sono più un’opinione, ma una specie di disperata speranza. Questo effetto diviene appoco appoco generale, ed oramai la filosofia si trova nel felice caso di aver distrutto quanto è mai possibile delle stesse illusioni individuali, e di avere ridotta e ristretta la vita umana ai minimi termini possibili, fuor de’
quali la vita e il genere umano non può assolutamente durare, come privo della sua atmosfera, e del suo elemento vitale. La vita senza amor proprio non può stare in nessun genere di esseri, e in nessuno parimente può stare l’amor proprio senza un menomo grado d’illusione individuale. La vita dunque e l’assoluta mancanza d’illusione, e quindi di speranza, sono cose contraddittorie.
(7. Ott. 1821.). V. p.1866.
Perchè si giudica brutta in un paesano tale o tal parlata, mossa, costume forestiero che in un forestiero parrà graziosa? Perchè paion bruttissime le donne vestite da uomini, o viceversa, quando paion belle e graziose [1866]tante snaturatezze ne’ vestiari, anzi s’elle sono alla moda ci par brutto ciò che ne differisce, e bruttissimo ciò che gli è contrario, cioè il più naturale? Assuefazione opinione, prevenzione.
(7. Ott. 1821.)
Possiamo dire che ogni qualunque sensazione affatto Letteratura italiana Einaudi 1276
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia nuova, se non è precisamente di dolore, è piacevole per ciò solo ch’è nuova, quantunque non solo non abbia in se nessun genere di piacevole, ma abbia anche del dispiacevole.
(8. Ott. 1821.)
Alla p.1865. Si può dire che la cognizione del mondo, la furberia, la filosofia, ed anche generalmente lo stesso talento, consiste in gran parte nella facoltà ed abito di non eccettuare. Il giovane si trova tradito, deriso dietro alle spalle ec. ec. ingannato, perseguitato ec. da questo e da quell’uomo da cui meno se l’aspettava, da un amico ec. ec. S’egli ha talento, dopo due o tre esperienze, ed anche alla prima, conchiude che non bisogna fidarsi degli uomini, che tutti appresso a poco sono malvagi, ne deduce de’ risultati generali sulla natura del mondo e della società, qualunque [1867]persona ancorchè novissima, qualunque favore fattogli ec. ec. gli riesce sospetto, ed in breve egli si forma un sistema vero intorno agli uomini, di cui nessuna circostanza, nessuna apparenza per grande ch’ella sia, lo può far dimenticare. Ma s’egli è di corto talento, 10, 20 esperienze non basteranno a condurlo a questi risultati, egli considererà quello che gli è accaduto, e sempre gli accade, come tante eccezioni, e per conoscer gli uomini avrà sempre bisogno di esperienze individuali su ciascuno, così che al fine della sua carriera non sarà meglio istruito che nel principio, le esperienze non gli serviranno mai nulla, il suo giudizio sarà sempre falso, le apparenze e le illusioni lo inganneranno sempre allo stesso modo. E così si verifica che la facoltà di generalizzare è quella che costituisce gran parte del talento.
Similmente il giovane istruito da’ suoi studi, dall’educazione ec. sulla natura degli uomini, e sulla diffidenza che bisogna sempre [1868]averne, sarà veramente impossibile, che quantunque persuaso di ciò, prima dell’esperienza, applichi queste teorie alle persone che lo circon-Letteratura italiana Einaudi 1277
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia dano, ch’egli ha da gran tempo conosciute, ch’è avvezzo a riguardar come buone, di cui non ha fatto alcuna prova sfavorevole, e di cui non sa nulla in contrario. Sarà anche impossibile che le prime persone a cui si avverrà nell’entrare in carriera, e colle quali avrà che fare, egli le sotto-ponga nella sua opinione, al rigore della teoria degli uomini che gli è stata insegnata. Insomma sarà impossibile che prima dell’esperienza, egli non faccia sempre decisa eccezione dalla teoria generale in favore delle persone che gli appartengono, lo circondano, o con cui per prime s’incontra. Ma dopo due o tre esperienze, s’egli ha talento, termina di eccettuare, si persuade che il generale si avvera ne’ particolari, divien pratico degli uomini, le sue teorie applicate alla pratica gli servono effettivamente al saper vivere; ed egli non è più capace d’illusioni individuali intorno agli uomini, siccome già da principio non era
[1869]capace d’illusioni generali. Ma il giovane di poco talento, sebbene allo stesso modo istruito e persuaso, non lascerà mai dopo le più chiare e replicate esperienze di eccettuare ciascun caso particolare, e ciascun individuo che abbia apparenza contraria alle sue teorie, dalla regola generale; non conoscerà mai i rapporti della teoria colla pratica, di ciò ch’egli sa con ciò ch’egli esperimenta, o deve sperimentare; non saprà mai applicare la scienza alla pratica, e credendo fermamente di non doversi fidar di nessuno, non troverà mai nessuno del quale non giudichi conveniente e giusto il fidarsi. Puoi vedere in tali propositi l’avvertimento 23. (al.26.) del Guicciardini, e la prima delle Considerazioni civili di Remigio Fiorentino sopra le Historie di F. Guicciardini.
Così si verifica quello che ho detto, che la cognizione del mondo, la filosofia, lo stesso talento consiste in gran parte nell’abito e facoltà di non eccettuare, perchè appunto esso consiste nella facoltà di generalizzare, e in quella di applicare, o di conoscere i rapporti, che viene a coincidere con quella di generalizzare.
Letteratura italiana Einaudi 1278
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia
[1870]E secondo queste osservazioni si conosce come il filosofo non sia filosofo nella vita e nelle azioni, s’egli non guarda se stesso e i fatti suoi come quelli degli altri, s’egli non gli osserva dall’alto, come quelli degli altri, se insomma non si spoglia dell’abitudine naturale di escluder se stesso e i fatti suoi dalla dottrina generale degli uomini e de’ fatti del mondo. Se il filosofo non è filosofo nella pratica, e se i suoi principii non corrispondono alle sue azioni, il che accade tutto giorno; ovvero ogni volta ch’egli non è filosofo in questa o quell’azione, o caso della vita, il che accade inevitabilmente spessissimo a’ più stoici e cinici (cioè pratici) filosofi del mondo; egli non pecca per altro, se non perchè in tali casi egli fa eccezione del particolare dal generale, e non applica la dottrina e la teoria al caso pratico.
Queste osservazioni si possono applicare ad ogni genere di talenti, di abilità di discipline ec. ec. ec. ad ogni genere di cose che s’imparano ec. ec. Quello scolare di rettorica [1871]perfettamente istruito, e che scrivendo cade in mille difetti, non vi cade se non perch’egli eccettua. L’abito di eccettuare è quello che massimamente nuoce ad ogni sorta di discipline, di ammaestramenti, di cognizioni ec.; quello che bisogna sopra tutto vincere; quello che rende necessario l’esercizio e l’esperienza in tutto ciò che deesi applicare alla pratica, ed eseguire; la qual esperienza non fa quasi altro che persuadervi palpabilmente che bisogna applicare il generale al particolare, e non fare eccezioni.
(8. Ott. 1821.)
Come quel diletto, e quel bello della musica, che non si può ridurre nè alla significazione, nè a’ puri effetti del suono isolato dall’armonia e melodia, nè alle altre cagioni che altrove ho specificate, derivi unicamente dall’abitudine nostra generale intorno alle armonie, la quale ci fa considerare come convenienti fra loro quei tali suoni o Letteratura italiana Einaudi 1279
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tuoni, quelle tali gradazioni, quei tali passaggi, [1872]quelle tali cadenze ec. e come sconvenienti le diverse o contrarie ec. osservate. Le nuove armonie o melodie ( che già si tengono per rarissime) ordinariamente, anzi sempre, s’el-le sono affatto, cioè veramente nuove, a prima vista paiono discordanze, quantunque sieno secondo le regole del contrappunto, per lo che ben tosto appresso ne conosciamo e sentiamo la convenienza, cioè non per altro se non perch’elle sono, e ben presto le ritroviamo conformi alla nostra assuefazione generale intorno all’armonia e melodia, cioè alle convenienze de’ tuoni, quantunque elle non sieno conformi alle nostre assuefazioni particolari. E
quanto più la detta assuefazione generale è meno estesa, o meno radicata e sensibile e immedesimata coll’uditore, tanto più vivo è il sentimento di discordanza e disarmonia che questi prova a prima giunta; e tanto eziandio più durevole, di maniera ch’egli le giudicherebbe discordanze definitivamente, se l’opinione e la prevenzione che quelle sieno [1873]poi veramente armonie o melodie, non glielo impedisse. Tale è il caso del volgo, della gente rozza o non assuefatta a udir musiche, e proporzionatamente, degli uomini non intendenti di quest’arte. I quali tutti in udir tali nuove armonie sono dilettati da’ soli suoni e dalle altre cause di diletto che altrove ho spiegato, ma non già dall’armonia o melodia in quanto armonia e melodia, perocch’essi non la ravvisano. E però piacciono soprattutto, o più universalmente, le melodie chiamate popolari, cioè conformi particolarmente o generalmente alle assuefazioni particolari o all’assuefazione generale del comune degli uditori in fatto di melodie ec. Le armonie o melodie affatto nuove ordinariamente non piacciono che agl’intendenti, i quali sentono la difficoltà, e le raffronta-no colle regole ch’essi conoscono ec. E questi medesimi provano a primissima giunta un senso di discordanza, che però presto svanisce, e ch’essi immediatamente ravvisano per illusorio: ma si può dir che ogni assoluta novità in Letteratura italiana Einaudi 1280
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia fatto di musica contiene e quasi consiste in un’apparenza
[1874]di stuonazione. Altre armonie e melodie che non inchiudono quest’apparenza, o non molto viva, e contuttociò si considerano come nuove, non sono nuove, se non in quanto ad una non usitata combinazione delle diverse parti di quelle convenienze musicali che l’assuefazione generale o particolare ci fa riguardar come convenienze. E queste combinazioni quanto meno si accostano a quello che di sopra ho spiegato per popolare, tanto più piacciono agl’intendenti, e meno al popolo, e tanto meno hanno di significazione, parlando però in genere. Di questa natura è una grandissima parte delle giornaliere novità in fatto di musica, e delle nuove composizioni musicali.
Similmente osservate che se tu ascolti, come spessissimo accade, un pezzo p.e. di un’aria che tu già conosci, ed il seguito di questo pezzo è diverso da quello che tu pur conosci, tu provi subito un senso di discordanza, perchè questa diversità si oppone alla tua assuefazion particolare; ma sospendi il tuo giudizio, e ben tosto lo determini
[1875]favorevolmente, e provi il senso dell’armonia e melodia cioè convenienza, perchè detta diversità è poi conforme alla tua assuefazione generale in fatto di convenienze musicali, la quale assuefazione e non altro, è la base, la ragione, la materia ec. del contrapunto. E
quest’assuefazione generale comprende molte diversità di combinazioni delle stesse parti, o di alcune di esse con altre ec. Il detto effetto è comunissimo, perchè è comunissima e spesso inevitabile la detta circostanza che lo produce, e posta questa, il detto effetto ne segue immancabilmente anche ne’ più intelligenti, ed avvezzi alla più gran varietà delle combinazioni musicali.
Queste osservazioni possono rendere molto bella ragione del perchè la vera novità sia generalmente considerata come rarissima e difficilissima in fatto di musica, cioè di armonia e soprattutto di melodia, a differenza della Letteratura italiana Einaudi 1281
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia pittura, della scultura, della poesia, dell’eloquenza ec.
Infatti un’assoluta novità in musica non può esser altro che disarmonia, perchè sarebbe sconvenienza dalle assuefazioni generali. Anche nella poesia e nella prosa, ciò che spetta puramente all’armonia e melodia, non è quasi punto capace di novità. Cioè le nuove combinazioni in [1876]questo genere sarebbero facilissime e infinite, ma non sarebbero più armonie nè melodie perchè non converrebbero coll’assuefazione della propria nazione e lingua; mentre che l’assuefazione è il solo fondamento, ragione, elemento, principio costitutivo dell’armonia e melodia. Nelle diverse nazioni e lingue diversissime sono le armonie e melodie della prosa e del verso, (come pure di ciascuna parola isolata, vale a dir la melodia delle sillabe e lettere, della quale e non d’altro si compone quella di ciascun verso o periodo) perchè diverse le assuefazioni, ma in ciascuna lingua rispettivamente, la novità è quasi impossibile in questo genere; e ciò che in un’altra lingua è melodioso, per quanto, assolutamente parlando, e prima della diversa o contraria assuefazione, fosse adattabilissimo alla lingua in cui tu scrivi, non lo è più, perchè sconverrebbe coll’assuefazione, e quindi sarebbe sconvenienza e disarmonia. V. p.1879. Laddove quel bello che dipende dall’imitazione dalla significazione, dall’espression degli affetti ec. dal seguir la natura ec. ec.
è infinitamente variabile e suscettivo di novità. E siccome questo bello costituisce la parte principale del bello pittorico, scultorico, poetico ec. [1877]e non dipende cotanto nè consiste nell’assuefazione, (la quale non può esser che limitatissima, massime generalmente e nel volgo ec.) però le dette arti belle sono suscettibilissime di novità e varietà. L’architettura, il cui bello costitutivo dipende anch’esso e consiste per la più parte nell’assuefazione, varia bensì nelle nazioni affatto diverse, come varia la musica, e come la melodia della prosa o del verso, ma in nessuna nazione è suscettibile di più che Letteratura italiana Einaudi 1282
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia tanta novità. Ed è questo un nuovo genere di somiglianza fra queste due belle arti, architettura e musica, oltre gli altri da me notati altrove.
E qui osservate come la pittura, scultura, poesia, eloquenza, quelle arti belle in somma, che ho detto esser più suscettive di novità, quelle appunto, generalmente parlando, e considerandole in un certo grado di perfezione, non possono nelle loro principali qualità esser più che tanto differenti nelle differenti nazioni. E viceversa la musica e l’architettura, arti incapaci di molta [1878]novità e varietà dentro una stessa sfera di costumi, differiscono sommamente nelle diverse sfere di costumi, anche quanto alle qualità principali, ed elementari. Ciò avviene perchè quelle hanno un soggetto e un modello universale, cioè la natura, queste particolare affatto, cioè le assuefazioni nazionali. Nuova prova del quanto sia relativo quel bello che consiste nelle sole convenienze, cioè quel solo che è veramente bello, e spetta all’astratta considerazione di esso.
Ond’è che le arti quanto più son suscettive di novità e varietà in ciascuna nazione, e per se stesse, tanto meno ponno variare da nazione a nazione, e viceversa. E la varietà nazionale di cui un’arte bella è capace sta in ragione inversa della varietà universale e costitutiva e specifica.
(9. Ott. 1821.)
A quello che altrove ho detto circa la differenza della melodia poetica nelle diverse lingue, aggiungivi la melodia prosaica, e generalmente qualunque melodia può derivare dalla combinazione delle parole, o anche delle sillabe [1879]o lettere, e v. la p.1876. e seg.
(9. Ott. 1821.)
Alla p.1876. Applicate a questo luogo l’inadattabilità riconosciuta della melodia poetica latina o greca alla lingua italiana, de’ metri, cioè diversi generi di verso, e di-Letteratura italiana Einaudi 1283
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia versa combinazione di versi ec. E pur la italiana è figlia della lingua latina; così la spagnola la francese ec. ec. ec.
ec.
(9. Ott. 1821.)
Presso qualunque popolo naturale o poco civilizzato, il governo militare non fu mai distinto dal civile, e i governatori delle provincie o di ciascuna provincia, non erano se non se i capitani degli eserciti o di ciascun esercito.
Così presso i greci omerici, così presso tutti i popoli chiamati selvaggi, così presso i Germani, poi i Goti, Franchi, Longobardi ec. così anche presso i romani, dove il console, il proconsole, il pretore, era al tempo stesso il capo politico della repubblica o delle province, e il capitano dell’esercito, o degli eserciti provinciali. In tutti i popoli poco civilizzati, accadendo una conquista, quegli medesimo rendeva la giustizia a’ conquistati, e amministrava le cose loro, quegli medesimo, dico, che li aveva domati o li domava colle armi. Così anche [1880]oggi. Ciò vuol dire che in natura non si è mai creduto che vi fosse altra legge, o altro diritto dell’uomo sull’uomo, che quello della forza.
(9. Ott. 1821.). V. p.1911. fine.
Ho detto che la stessa malvagità è grazia, e fa effetto nelle donne. Aggiungo che anche nelle buone, anche nelle scrupolose, anzi più che nelle altre, perchè per esse è più nuova e straordinaria la malvagità. Il malvagio le tira a se collo stesso orrore e scuotimento che in loro produce sì esso che il suo carattere. Lo stesso diremo delle donne rispetto agli uomini. Lo stesso particolarmente di questo o quel vizio di chi dev’essere amato, dirittamente contrario alla natura o al costume di quella persona che deve amare.
È stato infatti osservato che l’amore tende ai contrarii.
Questa generale osservazione merita di essere applicata Letteratura italiana Einaudi 1284
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia alla mia teoria della grazia.
(9. Ott. 1821.). V. p.1903. capoverso 2.
E subito potremo osservare che p.e. gli uomini dissipa-ti ed ardenti, sono sovente allettatissimi da una donna di carattere pacifico, d’inclinazioni tutte domestiche, dall’aspetto della sua vita metodica, e casalina ec.
(9. Ottobre 1821.)
Ho detto che il piccolo (già s’intende che anche il piccolo è relativo) suol esser grazioso. [1881]Ciò si può vedere anche nelle parti. Le Cinesi si restringono i piedi.
Nè uomini nè donne non cercano co’ loro vestiarii d’in-grossarsi la vita, e la persona, ma d’impiccolirla; anche oltre il naturale, e spesso eccessivamente. Il grosso (relativo) non piace mai (almeno fra le nazioni e gli individui, e ne’ tempi detti di buon gusto) nè nelle forme umane, nè in qualunque genere di bello. Il delicato, lo svelto delle forme ec. in che cosa consistono fuorchè in una rispettiva e proporzionata e corrispondente piccolezza?
(9. Ott. 1821.)
Ho detto che l’amor libidinoso considera più le altre forme che quelle del viso. Pur è certo che la più sfrenata, invecchiata, ed abituale libidine, è molto eccitata dalla significazione vivacità ec. ec. degli occhi e del viso, e re-spinta da un’assoluta bruttezza, insignificazione ec. di fisonomia. Anzi forse tali eccitamenti son più necessarii all’eccessiva ed invecchiata libidine che alla mediocre.
[1882]Del resto l’amore veramente sentimentale, quello di un giovane o una giovane inesperta e principiante, non considera, non si riferisce, non trova indispensabile ec. che la bellezza (benchè relativa) del volto. Una persona di volto definitamente non bello, o che tale non paia loro, non sarà mai oggetto di amore alle dette persone, per bella ch’ella sia nel resto: almeno senza circostanze Letteratura italiana Einaudi 1285
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia particolari, e lunghe relazioni ec. ec.
(9. Ott. 1821.)
Alla p.1825. L’amor di Dio nello stato che il Cristianesimo chiama di assoluta perfezione non è nè può essere che un amor di se stesso applicato al solo ben proprio, e non a quello de’ suoi simili. Or questo appunto è ciò che si chiama egoismo.
(9. Ott. 1821.)
Qual differenza fra il vestiario de’ nostri contadini, e il cittadinesco. Eppure perchè siamo avvezzi a vederlo, questa differenza non ci fa nessun senso, e non ci produce alcuna impressione di deformità o di ridicolo, come però fa una anche minor differenza di vestire che si veda in uno straniero [1883]ec. Similmente possiamo dire de’
vestiari ridicolissimi de’ nostri frati, preti, monache ec.
(10. Ott. 1821.)
Quanto giova a sentir le bellezze p.e. di una poesia, o di una pittura ec. il saper ch’ella è famosa e pregiata, ovvero è di autor già famoso e pregiato! Io sostengo che l’uomo del miglior gusto possibile, leggendo p.e. una poesia classica, senza saper nulla della sua fama, (il che può spesso accadere in ordine a cose moderne, o non ancor famose, o non ancor conosciute da tutti per tali), e leggendola ancora con attenzione, non vi scoprirebbe, non vi sentirebbe nè riconoscerebbe una terza parte delle bellezze, non vi proverebbe una terza parte del diletto che vi prova chi la legge come opera classica, e che potrà poi pro-varvi egli stesso rileggendola con tale opinione. Io sostengo che oggi non saremmo così come siamo dilettati p.e.
dall’Ariosto, se l’Orlando furioso fosse opera scritta e uscita in luce quest’anno. Dal che segue che il diletto di un’opera di poesia, [1884]di belle arti, eloquenza, ed altre cose spettanti al bello, cresce in proporzione del tem-Letteratura italiana Einaudi 1286
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia po e della fama; ed è sempre (se altre circostanze non ostano) minore in chi ne gode per primo, o fra i primi, cioè ne’ contemporanei, ec. che in chi ne gode dopo un certo tempo. Sebben la fama universale e durevole, è fondata necessariamente sopra il merito, nondimeno dopo ch’ella per fortunate circostanze è nata dal merito, serve ad accrescerlo, e il vantaggio e il diletto di un’opera deriva forse nella massima parte, non più dal merito, ma dalla fama, e dall’opinione. Noi abbiamo bisogno di farci delle ragioni di piacere, per provarlo. Il bello in grandissima parte non è tale, se non perchè tale si stima. Quindi osservate quanta parte abbia la fortuna nell’esito delle opere umane, e nella fama o nell’oscurità degli uomini.
Essendo certissimo che se oggi uscisse alla luce un’opera poetica di merito assolutamente uguale o superiore a quello dell’Iliade, lasciando da parte [1885]l’invidia, le cabale, le superstizioni, le pedanterie; la sola differenza di prevenzione, differenza inevitabile perchè Omero è stato tanti secoli prima di noi, farebbe che il lettore il più di buon gusto e imparziale, provasse assolutamente e senza confronto maggior diletto, e sentimento di bellezza, leggendo l’Iliade, che leggendo la nuova poesia. Tanto piccola parte del bello consiste in cose e qualità intrinseche ed inerenti al soggetto, e indipendenti dalle circostanze, e invariabili; e tanto piccola parte del diletto che reca il bello, deriva da ragioni costanti, essenziali al soggetto, e comuni a tutti i soggetti della stessa natura, e a tutti gl’individui e tempi che ne possono godere.
(10. Ott. 1821.)
Un uomo famoso per dissipazioni e sfrenatezze e fortune galanti, e infedeltà in amore, fa grand’effetto nelle donne con questa sola fama, ma forse nelle donne modeste e timide, e avvezze ad esser fedeli, più che nelle altre.
La franchezza, il brio, [1886]la sfrontatezza ec. fa sempre fortuna in amore, ed è quasi indifferentemente ne-Letteratura italiana Einaudi 1287
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia cessaria e felice con ogni sorta di donne, perch’è quasi l’unico mezzo di ottenere. Ma considerata semplicemente come mezzo di piacere e di far effetto sulle prime, è certo ch’egli è più potente, sulle donne modeste, ritirate, paurose, poco solite agl’intrighi ec. che nelle loro contrarie.
Viceversa l’uomo serio, e sostenuto, oppur modesto, e affabile, senza pretensioni, e senza ardimenti, l’uomo che non si getta punto alla donna, o perchè non sappia nè ardisca, o perchè non voglia, l’uomo ritirato ec. fa molto maggior effetto nelle donne dissipate, franche, avvezze alle galanterie, solite ad esser corteggiate ec. che in quelle di carattere simile al suo. Anzi a queste egli dispiace a prima vista, o viene a noia fra poco, a quelle viceversa.
Anche gli uomini legati, timidi ec. insomma difettosi nel trattare e nel conversare per mancanza di disinvoltura, esperienza ec. anche una cert’aria d’inesperienza, di semplicità, d’innocenza, (il contrario della furberia) di naturalezza ec. son capaci come di dispiacere interamente alle donne loro pari, così di fermare il gusto di una donna eccessivamente disinvolta, [1887]sperimentata, furba, e libera nel trattare, nell’operare, e in ogni assuefazione e costume; e di parerle graziosi ec.
(10. Ott. 1821.)
Ho detto che la lingua italiana non ha mai rinunziato alle sue ricchezze antiche. Ecco come ciò si deve intendere. Tutte le nazioni, tutte le lingue del mondo antiche e moderne, formate ed informi, letterate e illetterate, civili e barbare, hanno sempre di mano in mano rinunziato, e di mano in mano incessantemente rinunziano alle parole e frasi antiche, come, e perciò, ed in proporzione che rinunziano ai costumi antichi, opinioni ec. Quelle ricchezze alle quali io dico che la lingua italiana non ha mai rinunziato, sono le ricchezze sue più o meno disusate, che sono infinite e bellissime, e ponno esserle ancora d’infi-Letteratura italiana Einaudi 1288
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia nito uso; ma non propriamente le voci e locuzioni antiche, cioè quelle che oggi o non si ponno facilmente e comunemente intendere, o comunque intese non ponno aver faccia di naturali, e spontanee, e non pescate nelle Bi-blioteche de’ classici. A queste l’Italia come tutte le altre nazioni nè più nè meno, intende di avere rinunziato; e i soli pedanti [1888]lo negano, o non riconoscono per buona questa rinunzia, e le protestano contro, e non vi si con-formano, nè l’ammettono.
Come poi la lingua italiana abbia e possa avere, a differenza della francese, infinite ricchezze, che se ben disusate, ed antiche di fatto, non sono antiche di valore, di forma, di conio, lo verrò spiegando.
Primieramente la lingua italiana non ha mai sofferto, come la francese, una riforma, venuta da un solo fonte ed autorità, cioè da un’Accademia, e riconosciuta dalla nazione, la quale la ristringesse alle sole parole comunemente usitate al tempo della riforma, o che poi fossero per venire in uso, togliendole affatto la libertà di adoperare quanto di buono d’intelligibile ed inaffettato si potesse trovare nel capitale della lingua non più solito ad usarsi, ma usato dagli antichi. Della quale specie moltissimo avrebbe allora avuto la lingua francese da poter salvare. Non si è mai tolta fra noi ogni autorità agli antichi, serbandola solamente ai moderni, o ristringendola [1889]e terminan-dola in un solo corpo, e nell’epoca di esso.
Questa riforma era naturalissima nella Francia a differenza di tutte le altre nazioni. Lo spirito di società che costituisce tutto il carattere, tutta la vita de’ francesi; come forma l’indole de’ loro costumi, così necessariamente quello della loro lingua in ciascun tempo. Ora essendo effetto naturale di detto spirito, l’uniformare gli uomini, ed uniformando i costumi, uniformare inseparabilmente la lingua, è naturale ancora che questa uniformità s’intenda ristretta agli uomini che di mano in mano sono, e non a quelli che furono. Ond’è che il francese vuole e dee Letteratura italiana Einaudi 1289
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia vivere e parlare come vivono e parlano i suoi nazionali moderni e presenti, non come i suoi nazionali antichi, nel qual caso, egli differirebbe dai presenti, peccato mortale per un francese, e qualità incompatibile collo spirito di società, in quanto egli è tale, in qualsivoglia nazione. Così che la riforma della lingua francese, dovendo introdurre l’uniformità, non [1890]poteva non iscartare tutto l’antico, (siccome difforme dal moderno) tutto ciò che non fosse in presente e corrente uso, ancorchè buonissimo e bellissimo, tutta l’autorità di qualunque scrittore che non fosse moderno; giacchè non poteva uniformare quanto alla lingua se non i presenti coi presenti, e non i presenti cogli antichi, ch’era impossibile sì per se stesso, sì perchè una lingua non ritorna antica, se ogni sorta di costumi e di opinioni ec. non ritorna antico, e precisamente tal qual era.
Da questo spirito di società de’ francesi, seguita che la loro lingua (per dirlo qui di passaggio) benchè paia la meno soggetta a variare o corrompersi, stante le infinite circoscrizioni che la legano, e determinano, è per lo contrario la più soggetta che mai, non solo quanto alle parole e modi, ma pur quanto all’indole. Al detto spirito non può bastare di uniformare i moderni a’ moderni; la sua perfezione necessariamente tende ad uniformare senza posa i presenti co’ presenti. E siccome i costumi e le opinioni non istanno mai ferme, [1891]nè pertanto la lingua, così ogni novità che s’introduca sì in questa che in quelli, divenendo subito universale tra’ francesi, e passando in regola, la lingua de’ francesi e scritta e parlata deve cambiar sensibilmente e di capitale e d’indole, non dico ad ogni secolo, ma ad ogni dieci o 20 anni. Se poi v’aggiungerete la somma coartazione, unità, ed intera definizione della lingua francese, la quale per necessità ripugna ad ogni novità, massime appartenente allo spirito della lingua, vedrete che da questa ripugnanza di qualità, ne deve seguire una pronta e notabilissima e inevita-Letteratura italiana Einaudi 1290
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia bile corruzione universale, anzi tante corruzioni quanti sono i piccoli spazi di tempo, in cui la loro lingua piglia co’ nuovi costumi, nuove forme. Massimamente che la rapidità con cui si alterano i costumi e l’opinioni in Francia è molto maggiore che tutt’altrove, perchè la marcia dello spirito umano, nazionalmente parlando, è più rapida in quella nazione dove la società è più stretta viva ed estesa. Ond’è che la lingua francese deve [1892]ben presto cambiar faccia in modo da non riconoscersi più per quella della riforma, e così successivamente la lingua di uno o due secoli dopo non riconoscersi per quella di uno o due secoli prima. Nè tarderà molto che i classici del secolo di Luigi 14. saranno meno intesi dall’universale de’ francesi, di quello che Dante dagli odierni italiani. La lingua francese insomma, appunto perchè lo spirito e l’andamento della nazione è sempre quello stesso che suggerì la riforma, ha bisogno ad ogni tratto di un’altra tale riforma, che renda classica ed autorizzi una nuova lingua, dismettendo la passata rispettiva. E sempre ne avrà bisogno più spesso, perchè la marcia è sempre più rapida. Il fatto lo dimostra confrontando e le parole e lo spirito dell’odierna lingua francese con quella del tempo di Luigi 14. sì poco distante.
Tornando al proposito, la nostra lingua non ha mai sofferto simili riforme, siccome nessun’altra che la francese, stante la diversità delle circostanze nazionali. Che se volessimo pur considerare come riforma le operazioni dell’Accademia della Crusca, questa riforma sarebbe stata al rovescio della francese, perchè avrebbe ristretto la nostra lingua all’antico, ed all’autorità degli antichi, escludendo il moderno, e l’autorità de’ moderni; cosa che siccome ripugna alla natura di lingua viva, così non merita alcun discorso. [1893]Bensì scemato coll’andar del tempo e colla mutazion degli studi e dello spirito in Italia, lo studio della lingua, e de’ classici, infinite parole e modi sono andate, e vanno tutto giorno in disuso, le quali però tuttavia son Letteratura italiana Einaudi 1291
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia fresche e vegete, ancorchè di fatto antichissime: e siccome si possono usare senza scrupolo, così di tratto in tratto, qua e là, questa o quella si vien pure adoperando da qualcuno in modo che tutti le intendono, e nessuno nega o può negare di riconoscerle e sentirle per italiane. E
finattanto che la lingua nostra conserverà il suo spirito ed indole propria, (la quale in verità non conserva oggi se non presso pochissimi, ma ch’ella non può pertanto legittimamente perdere, cioè senza corrompersi, come qualunque altra lingua) il capitale di tali ricchezze le durerà sempre.
Imperocchè la lingua italiana essendo stata applicata alla letteratura, cioè formata, innanzi a tutte le colte moderne; la sua formazione, e quindi la sua indole viene ad essere [1894]propriamente parlando di natura antica.
Quindi ella, a differenza della francese, non può rinunziare alle sue ricchezze antiche, senza rinunziare alla sua indole, e a se stessa. Potrà ben rinunziare a questa o quella voce o modo, potrà anche coll’andar del tempo antiquarsi la maggior parte delle sue voci e modi primitivi, ma sempre la forma delle sue voci e modi o nuovi o vecchi dovrà corrispondere a questi, per corrispondere alla sua indole, altrimenti non potrà fare ch’ella non si componga di elementi e ragioni e spiriti discordanti, e non si corrompa: giacchè in questo finalmente consiste la corruzione di tutte le lingue, e di questo genere è la presente corruzione della lingua italiana.
Il simile proporzionatamente dico della lingua spagnuola, il cui secolo d’oro e la cui letteratura è la seconda in Europa, in riga di tempo.
La lingua inglese in gran parte può porsi a paro della francese. La letteratura e formazione [1895]della lingua tedesca è l’ultima di tempo in Europa (giacchè non credo che si possano ancora considerare come formate, e forni-te di letteratura propria, la Russa, la Svedese ec.).
Contuttociò ella non ha punto rinunziato alle sue ricchez-Letteratura italiana Einaudi 1292
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ze antiche, diversissima essendo la circostanza della Germania da quella della Francia. Dubito però che l’antico possa star così bene nella lingua tedesca, formata e ridotta a letteratura ierlaltro, come nell’italiana formata 6. secoli fa. Ed ella potrà benissimo perdere, e perderà le sue ricchezze antiche, (che già non ponno esser molte, nè di grand’uso, essendo anteriori alla formazione della lingua) senza corrompersi, nè sformarsi, nè perdere la sua indole; al contrario dell’italiana.
Da queste osservazioni seguirebbe che la corruzione della lingua italiana, e proporzionatamente della spagnuola, fosse oggi tanto più facile e quasi inevitabile, quanto la sua perfezione è più antica, e d’indole diversa da quella de’ tempi moderni. Ora io [1896]convengo che sia facilissimo perch’è facilissimo il non attenderci, il non istudiar la lingua, e il non possederla, come si fa; e che sia più difficile oggidì lo scriver bene la nostra lingua che qualunque altra. Dico però ch’ella nella natura della sua stessa perfezione antica, contiene i principii essenziali di conservazione; che la sua vera indole porta con se gli elementi della sua durata; ed in modo che laddove le altre lingue si corromperanno prestissimo, la nostra (quando vi si ponga l’osservazione che bisogna) potrà sempre conservarsi qual era, o piuttosto ritornar tale.
Il moderno diviene antico, e tuttociò che oggi è antico, fu moderno. Così che l’esser moderna la formazione del francese o del tedesco, non proverà altro se non che la loro corruzione sia più lontana, non già ch’elle non sieno soggette a corruzione. Di più, il moderno diviene antico tanto più presto, quanto più il mondo si avanza, perchè la sua marcia si accelera in proporzione del suo avanzamento.
Quello che bisogna osservare si è gli elementi e la natura di ciò che forma [1897]la perfezione e l’indole di una lingua. Ora la lingua francese formata ne’ tempi che per noi sono moderni, contiene in se stessa i principii di cor-Letteratura italiana Einaudi 1293
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ruzione ed alterazione che ho notati di sopra; perocch’ella, secondo la natura di tali tempi, è sottoposta nella sua forma alla servitù della ragione. Laddove la lingua italiana formata in tempi che per noi sono antichi, e secondo l’indole di detti tempi, dotata essenzialmente della libertà della natura, capace d’indeterminata moltiplicità di forme, di stili, e quasi di lingue, non può mai corrompersi, purchè s’abbia l’occhio a conservarle appunto queste qualità, senza le quali non può stare la sua vera indole primitiva; onde sebbene d’indole antica, ella, anzi perciò appunto ch’è d’indole antica, è e sarà sempre capace di tutto ciò che è o sarà per esser moderno; temperando sempre i suoi diversissimi stili secondo la natura degli argomenti. [1898]Ond’ella è e potrà sempre essere adattata così all’antico come al moderno, cioè al bello come al vero, e alla natura come alla ragione, perocchè questa è compresa nella natura, ma non già viceversa. E potrà anche unire insieme le due qualità del bello e del vero, in un medesimo stile. Come appunto la lingua greca, vera figlia della natura e del bello, fu tanto atta alla filosofia, quanto forse nessuna delle moderne, le quali a lei tuttora ricorrono ne’ loro bisogni filosofici ec.; la lingua greca si conservò per tanti secoli e tante vicissitudini di cose incorrotta; la lingua greca si può con certezza presumere che se oggi vivesse, oggi conservando il suo stesso primitivo carattere, sarebbe capacissima e forse più d’ogni altra anche moderna, di tutte le cose moderne, siccome ne può far fede il vedere quante di queste non si sappiano denominare se non ricorrendo a essa lingua; la lingua greca si adatterebbe [1899]all’analisi, a ogni sottigliezza della nostra moderna ragione, senza però perder nulla della sua bellezza, della sua antica indole, e della sua adattabilità alla antica natura, perocchè la natura può considerarsi come antica.
Ben è verissimo che quanto la lingua italiana è incorruttibile nella teoria, tanto nelle presenti circostanze è più Letteratura italiana Einaudi 1294
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia d’ogni altra corruttibile nella pratica. I riformatori del moderno stile corrotto, in luogo di conservarle la libertà essenziale alla sua indole, gliela tolgono, ed oltre ch’essi stessi con ciò solo la corrompono, assicurano poi la sua corruzione riguardo agli altri, mentre la libertà è il principale e indispensabile preservativo di questo male. Gli altri non istudiano la lingua, non la conoscono, si preval-gono della sola sua libertà, senza considerare come vada applicata ed usata, non sanno le forze della lingua, ed in vece di queste, adoprano delle forze straniere ec. L’indole antica della [1900]lingua italiana pare a prima vista incompatibile con quella delle cose moderne. Senza cercare dunque nè scoprire come queste indoli si possano accordare (il che non può conoscere chi non conosce la lingua), si sacrifica quella a questa, o questa a quella, o si uniscono mostruosamente con danno di tutt’e due.
Laddove la lingua italiana deve e può conservare la sua indole antica adattandosi alle cose moderne, esser bella trattando il vero; parere anche antica qual è, senza però mancare a nessuno de’ moderni usi, e adattarvisi senza alcuno sforzo.
Insomma la lingua italiana è facilmente corruttibile, perchè può far moltissimo; laddove p.e. la lingua francese, pochissimo. Ora il poco s’impara più facilmente del molto.
(10-12 Ott. 1821.)
Non solo l’eleganza, ma la nobiltà la grandezza, tutte le qualità del linguaggio poetico, anzi il linguaggio poetico esso stesso, consiste, se ben l’osservi, in un modo di parlare indefinito, o non ben definito, o sempre [1901]meno definito del parlar prosaico o volgare. Questo è l’effetto dell’esser diviso dal volgo, e questo è anche il mezzo e il modo di esserlo. Tutto ciò ch’è precisamente definito, potrà bene aver luogo talvolta nel linguaggio poetico, giacchè non bisogna considerar la sua natura che nell’in-Letteratura italiana Einaudi 1295
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia sieme, ma certo propriamente parlando, e per se stesso, non è poetico. Lo stesso effetto e la stessa natura si osserva in una prosa che senza esser poetica, sia però sublime, elevata, magnifica, grandiloquente. La vera nobiltà dello stile prosaico, consiste essa pure costantemente in non so che d’indefinito. Tale suol essere la prosa degli antichi, greci e latini. E v’è non pertanto assai notabile diversità fra l’indefinito del linguaggio poetico, e quello del prosaico, oratorio ec.
Quindi si veda come sia per sua natura incapace di poesia la lingua francese, la quale è incapacissima d’indefinito, e dove anche ne’ più sublimi stili, non [1902]trovi mai altro che perpetua, ed intera definitezza.
Anche il non aver la lingua francese un linguaggio diviso dal volgo, la rende incapace d’indefinito, e quindi di linguaggio poetico, e poichè la lingua è quasi tutt’uno colle cose, incapace anche di vera poesia.
Nè solo di linguaggio poetico, ma anche di quel nobile e maestoso linguaggio prosaico, ch’è proprio degli antichi, e fra tutti i moderni degl’italiani (degli spagnuoli ancora, e de’ francesi prima della riforma), e che ho specifi-cato qui dietro.
(12. Ott. 1821.)
Queste ed altre tali osservazioni dimostrano che i francesi, i quali ho detto essere incapaci di ben sentire e gustare le lingue forestiere, massime le antiche, e l’italiana, lo sono soprattutto in ordine ai linguaggi della poesia, per la stessa ragione per cui le lingue antiche e l’italiana
[1903]sono meno di ogni altra alla loro portata.
(12. Ott. 1821.)
Il giovane o dirittamente e precisamente, o almeno confusamente, e nel fondo del suo cuore; e non solo il giovane ma la massima parte degli uomini, e possiamo dir tutti, almeno in qualche circostanza, credono straordinario Letteratura italiana Einaudi 1296
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia nel mondo quello appunto ch’è ordinario, e viceversa; straordinari i casi delle storie, e ordinari i casi de’ romanzi.
(12. Ott. 1821.)
Alla p.1880. L’uomo, per molto che sia dissipato, convive sempre più con se stesso che cogli altri, o con verun altro, e quindi è più abituato alle qualità proprie, che alle altrui, o a quelle di chiunqu’altro. Perciò non v’è qualità umana così straordinaria per l’uomo, come quelle che sono contrarie alle proprie. Ben è vero che questo effetto va in proporzione della maggiore o minore abitudine che l’uo-mo ha o con se stesso, o con la società. Del resto è noto che l’uomo giudica [1904]sempre più o meno gli altri da se stesso; che per quanto sia filosofo e pratico del mondo, e quasi anche dimentico di se stesso, sempre ricade lì; che il vizioso non crede alla virtù, nè il virtuoso al vizio; che secondo le mutazioni a cui soggiace il carattere di ciascun individuo, si diversifica il giudizio e il concetto abituale ch’egli forma degli altri ec.
Come ho detto che la malvagità fa effetto nel virtuoso in ordine alla grazia, così pur si può e dee dire della virtù rispetto al malvagio o vizioso ec. ec. ec.
(12. Ott. 1821.)
Quanta parte dell’effetto singolare che produce la bellezza umana sull’uomo, massime quella della fisonomia, dipenda e nasca dalla sua significazione, si può vedere ne’ fanciulli, i quali quantunque bellissimi non producono grand’effetto nello spettatore, nè gli destano odio o avversione più che superficiale, quantunque bruttissimi.
Ciò sebbene [1905]possa avere anche altre cagioni, deriva pur notabilmente da questa, che la fisonomia de’ fanciulli ha sempre poca significazione per chi l’osserva, 1.
perchè la significazione della fisonomia nasce in gran parte dalle assuefazioni, cioè dal carattere, dalle passioni ec.
Letteratura italiana Einaudi 1297
Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia ec. che l’individuo acquista appoco appoco, e che mettono in azione, e danno rappresentanza alla fisonomia. Il carattere de’ fanciulli essendo ancora formabile, la significazione della loro fisonomia, è anch’essa da formarsi, e la corrispondenza fra l’interno e l’esterno è minore, o meno determinata, in quanto l’uno e l’altro aspettano la forma che riceveranno dalle circostanze, e sono ancora quasi pasta molle e da lavoro. 2. Perchè quando anche le fisonomie de’ fanciulli sieno quanto all’apparente conformazione, significantissime; lo spettatore non applica a questo segno, veruna [1906]notabile significazione, sapendo che il carattere del fanciullo non è ancora formato, non si può conoscere, non si può bastantemente congetturare dai detti segni, e dalla fisonomia, e ciò che ora ne apparisce è passeggero, oltre che alla fine è di poco conto, e nel genere delle bagattelle. Onde un occhio vivacissimo, e una fisonomia amabilissima in un fanciullo, non ci produce che una leggera sensazione di amore; ed una fisonomia fiera, e d’apparenza malvagia, non ci produce che un leggero senso di avversione. Sicchè la fisonomia del fanciullo lascia l’uomo quasi indifferente, com’è indifferente (almeno per allora) e di poco conto, ciò ch’ella può significare, e com’è leggera la corrispondenza fra il significante e il significato. Giacchè anche questa non solo è determinata dalle assuefazioni, ma anche in gran parte ne deriva, e perciò non può loro essere anteriore. V. p.1911.
Non così credo che si possa discorrere [1907]quanto all’effetto della fisonomia de’ fanciulli negli stessi fanciulli, secondo ch’essi sono più o meno avvezzi e capaci di attendere, e quindi di combinare, e di conoscere i rapporti.
(12. Ott. 1821.)
Ne’ versi rimati, per quanto la rima paia spontanea, e sia lungi dal parere stiracchiata, possiamo dire per esperienza di chi compone, che il concetto è mezzo del poeta, Letteratura italiana Einaudi 1298
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Solemn Willi JUN 2021

Hamlet: Entire Play
The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark

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ACT I
SCENE I. Elsinore. A platform before the castle.

FRANCISCO at his post. Enter to him BERNARDO
BERNARDO

Who’s there?
FRANCISCO

Nay, answer me: stand, and unfold yourself.
BERNARDO

Long live the king!
FRANCISCO

Bernardo?
BERNARDO

He.
FRANCISCO

You come most carefully upon your hour.
BERNARDO

‘Tis now struck twelve; get thee to bed, Francisco.
FRANCISCO

For this relief much thanks: ’tis bitter cold,
And I am sick at heart.
BERNARDO

Have you had quiet guard?
FRANCISCO

Not a mouse stirring.
BERNARDO

Well, good night.
If you do meet Horatio and Marcellus,
The rivals of my watch, bid them make haste.
FRANCISCO

I think I hear them. Stand, ho! Who’s there?
Enter HORATIO and MARCELLUS
HORATIO

Friends to this ground.
MARCELLUS

And liegemen to the Dane.
FRANCISCO

Give you good night.
MARCELLUS

O, farewell, honest soldier:
Who hath relieved you?
FRANCISCO

Bernardo has my place.
Give you good night.
Exit
MARCELLUS

Holla! Bernardo!
BERNARDO

Say,
What, is Horatio there?
HORATIO

A piece of him.
BERNARDO

Welcome, Horatio: welcome, good Marcellus.
MARCELLUS

What, has this thing appear’d again to-night?
BERNARDO

I have seen nothing.
MARCELLUS

Horatio says ’tis but our fantasy,
And will not let belief take hold of him
Touching this dreaded sight, twice seen of us:
Therefore I have entreated him along
With us to watch the minutes of this night;
That if again this apparition come,
He may approve our eyes and speak to it.
HORATIO

Tush, tush, ’twill not appear.
BERNARDO

Sit down awhile;
And let us once again assail your ears,
That are so fortified against our story
What we have two nights seen.
HORATIO

Well, sit we down,
And let us hear Bernardo speak of this.
BERNARDO

Last night of all,
When yond same star that’s westward from the pole
Had made his course to illume that part of heaven
Where now it burns, Marcellus and myself,
The bell then beating one,–
Enter Ghost
MARCELLUS

Peace, break thee off; look, where it comes again!
BERNARDO

In the same figure, like the king that’s dead.
MARCELLUS

Thou art a scholar; speak to it, Horatio.
BERNARDO

Looks it not like the king? mark it, Horatio.
HORATIO

Most like: it harrows me with fear and wonder.
BERNARDO

It would be spoke to.
MARCELLUS

Question it, Horatio.
HORATIO

What art thou that usurp’st this time of night,
Together with that fair and warlike form
In which the majesty of buried Denmark
Did sometimes march? by heaven I charge thee, speak!
MARCELLUS

It is offended.
BERNARDO

See, it stalks away!
HORATIO

Stay! speak, speak! I charge thee, speak!
Exit Ghost
MARCELLUS

‘Tis gone, and will not answer.
BERNARDO

How now, Horatio! you tremble and look pale:
Is not this something more than fantasy?
What think you on’t?
HORATIO

Before my God, I might not this believe
Without the sensible and true avouch
Of mine own eyes.
MARCELLUS

Is it not like the king?
HORATIO

As thou art to thyself:
Such was the very armour he had on
When he the ambitious Norway combated;
So frown’d he once, when, in an angry parle,
He smote the sledded Polacks on the ice.
‘Tis strange.
MARCELLUS

Thus twice before, and jump at this dead hour,
With martial stalk hath he gone by our watch.
HORATIO

In what particular thought to work I know not;
But in the gross and scope of my opinion,
This bodes some strange eruption to our state.
MARCELLUS

Good now, sit down, and tell me, he that knows,
Why this same strict and most observant watch
So nightly toils the subject of the land,
And why such daily cast of brazen cannon,
And foreign mart for implements of war;
Why such impress of shipwrights, whose sore task
Does not divide the Sunday from the week;
What might be toward, that this sweaty haste
Doth make the night joint-labourer with the day:
Who is’t that can inform me?
HORATIO

That can I;
At least, the whisper goes so. Our last king,
Whose image even but now appear’d to us,
Was, as you know, by Fortinbras of Norway,
Thereto prick’d on by a most emulate pride,
Dared to the combat; in which our valiant Hamlet–
For so this side of our known world esteem’d him–
Did slay this Fortinbras; who by a seal’d compact,
Well ratified by law and heraldry,
Did forfeit, with his life, all those his lands
Which he stood seized of, to the conqueror:
Against the which, a moiety competent
Was gaged by our king; which had return’d
To the inheritance of Fortinbras,
Had he been vanquisher; as, by the same covenant,
And carriage of the article design’d,
His fell to Hamlet. Now, sir, young Fortinbras,
Of unimproved mettle hot and full,
Hath in the skirts of Norway here and there
Shark’d up a list of lawless resolutes,
For food and diet, to some enterprise
That hath a stomach in’t; which is no other–
As it doth well appear unto our state–
But to recover of us, by strong hand
And terms compulsatory, those foresaid lands
So by his father lost: and this, I take it,
Is the main motive of our preparations,
The source of this our watch and the chief head
Of this post-haste and romage in the land.
BERNARDO

I think it be no other but e’en so:
Well may it sort that this portentous figure
Comes armed through our watch; so like the king
That was and is the question of these wars.
HORATIO

A mote it is to trouble the mind’s eye.
In the most high and palmy state of Rome,
A little ere the mightiest Julius fell,
The graves stood tenantless and the sheeted dead
Did squeak and gibber in the Roman streets:
As stars with trains of fire and dews of blood,
Disasters in the sun; and the moist star
Upon whose influence Neptune’s empire stands
Was sick almost to doomsday with eclipse:
And even the like precurse of fierce events,
As harbingers preceding still the fates
And prologue to the omen coming on,
Have heaven and earth together demonstrated
Unto our climatures and countrymen.–
But soft, behold! lo, where it comes again!
Re-enter Ghost
I’ll cross it, though it blast me. Stay, illusion!
If thou hast any sound, or use of voice,
Speak to me:
If there be any good thing to be done,
That may to thee do ease and grace to me,
Speak to me:
Cock crows
If thou art privy to thy country’s fate,
Which, happily, foreknowing may avoid, O, speak!
Or if thou hast uphoarded in thy life
Extorted treasure in the womb of earth,
For which, they say, you spirits oft walk in death,
Speak of it: stay, and speak! Stop it, Marcellus.
MARCELLUS

Shall I strike at it with my partisan?
HORATIO

Do, if it will not stand.
BERNARDO

‘Tis here!
HORATIO

‘Tis here!
MARCELLUS

‘Tis gone!
Exit Ghost
We do it wrong, being so majestical,
To offer it the show of violence;
For it is, as the air, invulnerable,
And our vain blows malicious mockery.
BERNARDO

It was about to speak, when the cock crew.
HORATIO

And then it started like a guilty thing
Upon a fearful summons. I have heard,
The cock, that is the trumpet to the morn,
Doth with his lofty and shrill-sounding throat
Awake the god of day; and, at his warning,
Whether in sea or fire, in earth or air,
The extravagant and erring spirit hies
To his confine: and of the truth herein
This present object made probation.
MARCELLUS

It faded on the crowing of the cock.
Some say that ever ‘gainst that season comes
Wherein our Saviour’s birth is celebrated,
The bird of dawning singeth all night long:
And then, they say, no spirit dares stir abroad;
The nights are wholesome; then no planets strike,
No fairy takes, nor witch hath power to charm,
So hallow’d and so gracious is the time.
HORATIO

So have I heard and do in part believe it.
But, look, the morn, in russet mantle clad,
Walks o’er the dew of yon high eastward hill:
Break we our watch up; and by my advice,
Let us impart what we have seen to-night
Unto young Hamlet; for, upon my life,
This spirit, dumb to us, will speak to him.
Do you consent we shall acquaint him with it,
As needful in our loves, fitting our duty?
MARCELLUS

Let’s do’t, I pray; and I this morning know
Where we shall find him most conveniently.
Exeunt

SCENE II. A room of state in the castle.

Enter KING CLAUDIUS, QUEEN GERTRUDE, HAMLET, POLONIUS, LAERTES, VOLTIMAND, CORNELIUS, Lords, and Attendants
KING CLAUDIUS

Though yet of Hamlet our dear brother’s death
The memory be green, and that it us befitted
To bear our hearts in grief and our whole kingdom
To be contracted in one brow of woe,
Yet so far hath discretion fought with nature
That we with wisest sorrow think on him,
Together with remembrance of ourselves.
Therefore our sometime sister, now our queen,
The imperial jointress to this warlike state,
Have we, as ’twere with a defeated joy,–
With an auspicious and a dropping eye,
With mirth in funeral and with dirge in marriage,
In equal scale weighing delight and dole,–
Taken to wife: nor have we herein barr’d
Your better wisdoms, which have freely gone
With this affair along. For all, our thanks.
Now follows, that you know, young Fortinbras,
Holding a weak supposal of our worth,
Or thinking by our late dear brother’s death
Our state to be disjoint and out of frame,
Colleagued with the dream of his advantage,
He hath not fail’d to pester us with message,
Importing the surrender of those lands
Lost by his father, with all bonds of law,
To our most valiant brother. So much for him.
Now for ourself and for this time of meeting:
Thus much the business is: we have here writ
To Norway, uncle of young Fortinbras,–
Who, impotent and bed-rid, scarcely hears
Of this his nephew’s purpose,–to suppress
His further gait herein; in that the levies,
The lists and full proportions, are all made
Out of his subject: and we here dispatch
You, good Cornelius, and you, Voltimand,
For bearers of this greeting to old Norway;
Giving to you no further personal power
To business with the king, more than the scope
Of these delated articles allow.
Farewell, and let your haste commend your duty.
CORNELIUS

VOLTIMAND

In that and all things will we show our duty.
KING CLAUDIUS

We doubt it nothing: heartily farewell.
Exeunt VOLTIMAND and CORNELIUS
And now, Laertes, what’s the news with you?
You told us of some suit; what is’t, Laertes?
You cannot speak of reason to the Dane,
And loose your voice: what wouldst thou beg, Laertes,
That shall not be my offer, not thy asking?
The head is not more native to the heart,
The hand more instrumental to the mouth,
Than is the throne of Denmark to thy father.
What wouldst thou have, Laertes?
LAERTES

My dread lord,
Your leave and favour to return to France;
From whence though willingly I came to Denmark,
To show my duty in your coronation,
Yet now, I must confess, that duty done,
My thoughts and wishes bend again toward France
And bow them to your gracious leave and pardon.
KING CLAUDIUS

Have you your father’s leave? What says Polonius?
LORD POLONIUS

He hath, my lord, wrung from me my slow leave
By laboursome petition, and at last
Upon his will I seal’d my hard consent:
I do beseech you, give him leave to go.
KING CLAUDIUS

Take thy fair hour, Laertes; time be thine,
And thy best graces spend it at thy will!
But now, my cousin Hamlet, and my son,–
HAMLET

[Aside] A little more than kin, and less than kind.
KING CLAUDIUS

How is it that the clouds still hang on you?
HAMLET

Not so, my lord; I am too much i’ the sun.
QUEEN GERTRUDE

Good Hamlet, cast thy nighted colour off,
And let thine eye look like a friend on Denmark.
Do not for ever with thy vailed lids
Seek for thy noble father in the dust:
Thou know’st ’tis common; all that lives must die,
Passing through nature to eternity.
HAMLET

Ay, madam, it is common.
QUEEN GERTRUDE

If it be,
Why seems it so particular with thee?
HAMLET

Seems, madam! nay it is; I know not ‘seems.’
‘Tis not alone my inky cloak, good mother,
Nor customary suits of solemn black,
Nor windy suspiration of forced breath,
No, nor the fruitful river in the eye,
Nor the dejected ‘havior of the visage,
Together with all forms, moods, shapes of grief,
That can denote me truly: these indeed seem,
For they are actions that a man might play:
But I have that within which passeth show;
These but the trappings and the suits of woe.
KING CLAUDIUS

‘Tis sweet and commendable in your nature, Hamlet,
To give these mourning duties to your father:
But, you must know, your father lost a father;
That father lost, lost his, and the survivor bound
In filial obligation for some term
To do obsequious sorrow: but to persever
In obstinate condolement is a course
Of impious stubbornness; ’tis unmanly grief;
It shows a will most incorrect to heaven,
A heart unfortified, a mind impatient,
An understanding simple and unschool’d:
For what we know must be and is as common
As any the most vulgar thing to sense,
Why should we in our peevish opposition
Take it to heart? Fie! ’tis a fault to heaven,
A fault against the dead, a fault to nature,
To reason most absurd: whose common theme
Is death of fathers, and who still hath cried,
From the first corse till he that died to-day,
‘This must be so.’ We pray you, throw to earth
This unprevailing woe, and think of us
As of a father: for let the world take note,
You are the most immediate to our throne;
And with no less nobility of love
Than that which dearest father bears his son,
Do I impart toward you. For your intent
In going back to school in Wittenberg,
It is most retrograde to our desire:
And we beseech you, bend you to remain
Here, in the cheer and comfort of our eye,
Our chiefest courtier, cousin, and our son.
QUEEN GERTRUDE

Let not thy mother lose her prayers, Hamlet:
I pray thee, stay with us; go not to Wittenberg.
HAMLET

I shall in all my best obey you, madam.
KING CLAUDIUS

Why, ’tis a loving and a fair reply:
Be as ourself in Denmark. Madam, come;
This gentle and unforced accord of Hamlet
Sits smiling to my heart: in grace whereof,
No jocund health that Denmark drinks to-day,
But the great cannon to the clouds shall tell,
And the king’s rouse the heavens all bruit again,
Re-speaking earthly thunder. Come away.
Exeunt all but HAMLET
HAMLET

O, that this too too solid flesh would melt
Thaw and resolve itself into a dew!
Or that the Everlasting had not fix’d
His canon ‘gainst self-slaughter! O God! God!
How weary, stale, flat and unprofitable,
Seem to me all the uses of this world!
Fie on’t! ah fie! ’tis an unweeded garden,
That grows to seed; things rank and gross in nature
Possess it merely. That it should come to this!
But two months dead: nay, not so much, not two:
So excellent a king; that was, to this,
Hyperion to a satyr; so loving to my mother
That he might not beteem the winds of heaven
Visit her face too roughly. Heaven and earth!
Must I remember? why, she would hang on him,
As if increase of appetite had grown
By what it fed on: and yet, within a month–
Let me not think on’t–Frailty, thy name is woman!–
A little month, or ere those shoes were old
With which she follow’d my poor father’s body,
Like Niobe, all tears:–why she, even she–
O, God! a beast, that wants discourse of reason,
Would have mourn’d longer–married with my uncle,
My father’s brother, but no more like my father
Than I to Hercules: within a month:
Ere yet the salt of most unrighteous tears
Had left the flushing in her galled eyes,
She married. O, most wicked speed, to post
With such dexterity to incestuous sheets!
It is not nor it cannot come to good:
But break, my heart; for I must hold my tongue.
Enter HORATIO, MARCELLUS, and BERNARDO
HORATIO

Hail to your lordship!
HAMLET

I am glad to see you well:
Horatio,–or I do forget myself.
HORATIO

The same, my lord, and your poor servant ever.
HAMLET

Sir, my good friend; I’ll change that name with you:
And what make you from Wittenberg, Horatio? Marcellus?
MARCELLUS

My good lord–
HAMLET

I am very glad to see you. Good even, sir.
But what, in faith, make you from Wittenberg?
HORATIO

A truant disposition, good my lord.
HAMLET

I would not hear your enemy say so,
Nor shall you do mine ear that violence,
To make it truster of your own report
Against yourself: I know you are no truant.
But what is your affair in Elsinore?
We’ll teach you to drink deep ere you depart.
HORATIO

My lord, I came to see your father’s funeral.
HAMLET

I pray thee, do not mock me, fellow-student;
I think it was to see my mother’s wedding.
HORATIO

Indeed, my lord, it follow’d hard upon.
HAMLET

Thrift, thrift, Horatio! the funeral baked meats
Did coldly furnish forth the marriage tables.
Would I had met my dearest foe in heaven
Or ever I had seen that day, Horatio!
My father!–methinks I see my father.
HORATIO

Where, my lord?
HAMLET

In my mind’s eye, Horatio.
HORATIO

I saw him once; he was a goodly king.
HAMLET

He was a man, take him for all in all,
I shall not look upon his like again.
HORATIO

My lord, I think I saw him yesternight.
HAMLET

Saw? who?
HORATIO

My lord, the king your father.
HAMLET

The king my father!
HORATIO

Season your admiration for awhile
With an attent ear, till I may deliver,
Upon the witness of these gentlemen,
This marvel to you.
HAMLET

For God’s love, let me hear.
HORATIO

Two nights together had these gentlemen,
Marcellus and Bernardo, on their watch,
In the dead vast and middle of the night,
Been thus encounter’d. A figure like your father,
Armed at point exactly, cap-a-pe,
Appears before them, and with solemn march
Goes slow and stately by them: thrice he walk’d
By their oppress’d and fear-surprised eyes,
Within his truncheon’s length; whilst they, distilled
Almost to jelly with the act of fear,
Stand dumb and speak not to him. This to me
In dreadful secrecy impart they did;
And I with them the third night kept the watch;
Where, as they had deliver’d, both in time,
Form of the thing, each word made true and good,
The apparition comes: I knew your father;
These hands are not more like.
HAMLET

But where was this?
MARCELLUS

My lord, upon the platform where we watch’d.
HAMLET

Did you not speak to it?
HORATIO

My lord, I did;
But answer made it none: yet once methought
It lifted up its head and did address
Itself to motion, like as it would speak;
But even then the morning cock crew loud,
And at the sound it shrunk in haste away,
And vanish’d from our sight.
HAMLET

‘Tis very strange.
HORATIO

As I do live, my honour’d lord, ’tis true;
And we did think it writ down in our duty
To let you know of it.
HAMLET

Indeed, indeed, sirs, but this troubles me.
Hold you the watch to-night?
MARCELLUS

BERNARDO

We do, my lord.
HAMLET

Arm’d, say you?
MARCELLUS

BERNARDO

Arm’d, my lord.
HAMLET

From top to toe?
MARCELLUS

BERNARDO

My lord, from head to foot.
HAMLET

Then saw you not his face?
HORATIO

O, yes, my lord; he wore his beaver up.
HAMLET

What, look’d he frowningly?
HORATIO

A countenance more in sorrow than in anger.
HAMLET

Pale or red?
HORATIO

Nay, very pale.
HAMLET

And fix’d his eyes upon you?
HORATIO

Most constantly.
HAMLET

I would I had been there.
HORATIO

It would have much amazed you.
HAMLET

Very like, very like. Stay’d it long?
HORATIO

While one with moderate haste might tell a hundred.
MARCELLUS

BERNARDO

Longer, longer.
HORATIO

Not when I saw’t.
HAMLET

His beard was grizzled–no?
HORATIO

It was, as I have seen it in his life,
A sable silver’d.
HAMLET

I will watch to-night;
Perchance ’twill walk again.
HORATIO

I warrant it will.
HAMLET

If it assume my noble father’s person,
I’ll speak to it, though hell itself should gape
And bid me hold my peace. I pray you all,
If you have hitherto conceal’d this sight,
Let it be tenable in your silence still;
And whatsoever else shall hap to-night,
Give it an understanding, but no tongue:
I will requite your loves. So, fare you well:
Upon the platform, ‘twixt eleven and twelve,
I’ll visit you.
All

Our duty to your honour.
HAMLET

Your loves, as mine to you: farewell.
Exeunt all but HAMLET
My father’s spirit in arms! all is not well;
I doubt some foul play: would the night were come!
Till then sit still, my soul: foul deeds will rise,
Though all the earth o’erwhelm them, to men’s eyes.
Exit

SCENE III. A room in Polonius’ house.

Enter LAERTES and OPHELIA
LAERTES

My necessaries are embark’d: farewell:
And, sister, as the winds give benefit
And convoy is assistant, do not sleep,
But let me hear from you.
OPHELIA

Do you doubt that?
LAERTES

For Hamlet and the trifling of his favour,
Hold it a fashion and a toy in blood,
A violet in the youth of primy nature,
Forward, not permanent, sweet, not lasting,
The perfume and suppliance of a minute; No more.
OPHELIA

No more but so?
LAERTES

Think it no more;
For nature, crescent, does not grow alone
In thews and bulk, but, as this temple waxes,
The inward service of the mind and soul
Grows wide withal. Perhaps he loves you now,
And now no soil nor cautel doth besmirch
The virtue of his will: but you must fear,
His greatness weigh’d, his will is not his own;
For he himself is subject to his birth:
He may not, as unvalued persons do,
Carve for himself; for on his choice depends
The safety and health of this whole state;
And therefore must his choice be circumscribed
Unto the voice and yielding of that body
Whereof he is the head. Then if he says he loves you,
It fits your wisdom so far to believe it
As he in his particular act and place
May give his saying deed; which is no further
Than the main voice of Denmark goes withal.
Then weigh what loss your honour may sustain,
If with too credent ear you list his songs,
Or lose your heart, or your chaste treasure open
To his unmaster’d importunity.
Fear it, Ophelia, fear it, my dear sister,
And keep you in the rear of your affection,
Out of the shot and danger of desire.
The chariest maid is prodigal enough,
If she unmask her beauty to the moon:
Virtue itself ‘scapes not calumnious strokes:
The canker galls the infants of the spring,
Too oft before their buttons be disclosed,
And in the morn and liquid dew of youth
Contagious blastments are most imminent.
Be wary then; best safety lies in fear:
Youth to itself rebels, though none else near.
OPHELIA

I shall the effect of this good lesson keep,
As watchman to my heart. But, good my brother,
Do not, as some ungracious pastors do,
Show me the steep and thorny way to heaven;
Whiles, like a puff’d and reckless libertine,
Himself the primrose path of dalliance treads,
And recks not his own rede.
LAERTES

O, fear me not.
I stay too long: but here my father comes.
Enter POLONIUS
A double blessing is a double grace,
Occasion smiles upon a second leave.
LORD POLONIUS

Yet here, Laertes! aboard, aboard, for shame!
The wind sits in the shoulder of your sail,
And you are stay’d for. There; my blessing with thee!
And these few precepts in thy memory
See thou character. Give thy thoughts no tongue,
Nor any unproportioned thought his act.
Be thou familiar, but by no means vulgar.
Those friends thou hast, and their adoption tried,
Grapple them to thy soul with hoops of steel;
But do not dull thy palm with entertainment
Of each new-hatch’d, unfledged comrade. Beware
Of entrance to a quarrel, but being in,
Bear’t that the opposed may beware of thee.
Give every man thy ear, but few thy voice;
Take each man’s censure, but reserve thy judgment.
Costly thy habit as thy purse can buy,
But not express’d in fancy; rich, not gaudy;
For the apparel oft proclaims the man,
And they in France of the best rank and station
Are of a most select and generous chief in that.
Neither a borrower nor a lender be;
For loan oft loses both itself and friend,
And borrowing dulls the edge of husbandry.
This above all: to thine ownself be true,
And it must follow, as the night the day,
Thou canst not then be false to any man.
Farewell: my blessing season this in thee!
LAERTES

Most humbly do I take my leave, my lord.
LORD POLONIUS

The time invites you; go; your servants tend.
LAERTES

Farewell, Ophelia; and remember well
What I have said to you.
OPHELIA

‘Tis in my memory lock’d,
And you yourself shall keep the key of it.
LAERTES

Farewell.
Exit
LORD POLONIUS

What is’t, Ophelia, be hath said to you?
OPHELIA

So please you, something touching the Lord Hamlet.
LORD POLONIUS

Marry, well bethought:
‘Tis told me, he hath very oft of late
Given private time to you; and you yourself
Have of your audience been most free and bounteous:
If it be so, as so ’tis put on me,
And that in way of caution, I must tell you,
You do not understand yourself so clearly
As it behoves my daughter and your honour.
What is between you? give me up the truth.
OPHELIA

He hath, my lord, of late made many tenders
Of his affection to me.
LORD POLONIUS

Affection! pooh! you speak like a green girl,
Unsifted in such perilous circumstance.
Do you believe his tenders, as you call them?
OPHELIA

I do not know, my lord, what I should think.
LORD POLONIUS

Marry, I’ll teach you: think yourself a baby;
That you have ta’en these tenders for true pay,
Which are not sterling. Tender yourself more dearly;
Or–not to crack the wind of the poor phrase,
Running it thus–you’ll tender me a fool.
OPHELIA

My lord, he hath importuned me with love
In honourable fashion.
LORD POLONIUS

Ay, fashion you may call it; go to, go to.
OPHELIA

And hath given countenance to his speech, my lord,
With almost all the holy vows of heaven.
LORD POLONIUS

Ay, springes to catch woodcocks. I do know,
When the blood burns, how prodigal the soul
Lends the tongue vows: these blazes, daughter,
Giving more light than heat, extinct in both,
Even in their promise, as it is a-making,
You must not take for fire. From this time
Be somewhat scanter of your maiden presence;
Set your entreatments at a higher rate
Than a command to parley. For Lord Hamlet,
Believe so much in him, that he is young
And with a larger tether may he walk
Than may be given you: in few, Ophelia,
Do not believe his vows; for they are brokers,
Not of that dye which their investments show,
But mere implorators of unholy suits,
Breathing like sanctified and pious bawds,
The better to beguile. This is for all:
I would not, in plain terms, from this time forth,
Have you so slander any moment leisure,
As to give words or talk with the Lord Hamlet.
Look to’t, I charge you: come your ways.
OPHELIA

I shall obey, my lord.
Exeunt

SCENE IV. The platform.

Enter HAMLET, HORATIO, and MARCELLUS
HAMLET

The air bites shrewdly; it is very cold.
HORATIO

It is a nipping and an eager air.
HAMLET

What hour now?
HORATIO

I think it lacks of twelve.
HAMLET

No, it is struck.
HORATIO

Indeed? I heard it not: then it draws near the season
Wherein the spirit held his wont to walk.
A flourish of trumpets, and ordnance shot off, within
What does this mean, my lord?
HAMLET

The king doth wake to-night and takes his rouse,
Keeps wassail, and the swaggering up-spring reels;
And, as he drains his draughts of Rhenish down,
The kettle-drum and trumpet thus bray out
The triumph of his pledge.
HORATIO

Is it a custom?
HAMLET

Ay, marry, is’t:
But to my mind, though I am native here
And to the manner born, it is a custom
More honour’d in the breach than the observance.
This heavy-headed revel east and west
Makes us traduced and tax’d of other nations:
They clepe us drunkards, and with swinish phrase
Soil our addition; and indeed it takes
From our achievements, though perform’d at height,
The pith and marrow of our attribute.
So, oft it chances in particular men,
That for some vicious mole of nature in them,
As, in their birth–wherein they are not guilty,
Since nature cannot choose his origin–
By the o’ergrowth of some complexion,
Oft breaking down the pales and forts of reason,
Or by some habit that too much o’er-leavens
The form of plausive manners, that these men,
Carrying, I say, the stamp of one defect,
Being nature’s livery, or fortune’s star,–
Their virtues else–be they as pure as grace,
As infinite as man may undergo–
Shall in the general censure take corruption
From that particular fault: the dram of eale
Doth all the noble substance of a doubt
To his own scandal.
HORATIO

Look, my lord, it comes!
Enter Ghost
HAMLET

Angels and ministers of grace defend us!
Be thou a spirit of health or goblin damn’d,
Bring with thee airs from heaven or blasts from hell,
Be thy intents wicked or charitable,
Thou comest in such a questionable shape
That I will speak to thee: I’ll call thee Hamlet,
King, father, royal Dane: O, answer me!
Let me not burst in ignorance; but tell
Why thy canonized bones, hearsed in death,
Have burst their cerements; why the sepulchre,
Wherein we saw thee quietly inurn’d,
Hath oped his ponderous and marble jaws,
To cast thee up again. What may this mean,
That thou, dead corse, again in complete steel
Revisit’st thus the glimpses of the moon,
Making night hideous; and we fools of nature
So horridly to shake our disposition
With thoughts beyond the reaches of our souls?
Say, why is this? wherefore? what should we do?
Ghost beckons HAMLET
HORATIO

It beckons you to go away with it,
As if it some impartment did desire
To you alone.
MARCELLUS

Look, with what courteous action
It waves you to a more removed ground:
But do not go with it.
HORATIO

No, by no means.
HAMLET

It will not speak; then I will follow it.
HORATIO

Do not, my lord.
HAMLET

Why, what should be the fear?
I do not set my life in a pin’s fee;
And for my soul, what can it do to that,
Being a thing immortal as itself?
It waves me forth again: I’ll follow it.
HORATIO

What if it tempt you toward the flood, my lord,
Or to the dreadful summit of the cliff
That beetles o’er his base into the sea,
And there assume some other horrible form,
Which might deprive your sovereignty of reason
And draw you into madness? think of it:
The very place puts toys of desperation,
Without more motive, into every brain
That looks so many fathoms to the sea
And hears it roar beneath.
HAMLET

It waves me still.
Go on; I’ll follow thee.
MARCELLUS

You shall not go, my lord.
HAMLET

Hold off your hands.
HORATIO

Be ruled; you shall not go.
HAMLET

My fate cries out,
And makes each petty artery in this body
As hardy as the Nemean lion’s nerve.
Still am I call’d. Unhand me, gentlemen.
By heaven, I’ll make a ghost of him that lets me!
I say, away! Go on; I’ll follow thee.
Exeunt Ghost and HAMLET
HORATIO

He waxes desperate with imagination.
MARCELLUS

Let’s follow; ’tis not fit thus to obey him.
HORATIO

Have after. To what issue will this come?
MARCELLUS

Something is rotten in the state of Denmark.
HORATIO

Heaven will direct it.
MARCELLUS

Nay, let’s follow him.
Exeunt

SCENE V. Another part of the platform.

Enter GHOST and HAMLET
HAMLET

Where wilt thou lead me? speak; I’ll go no further.
Ghost

Mark me.
HAMLET

I will.
Ghost

My hour is almost come,
When I to sulphurous and tormenting flames
Must render up myself.
HAMLET

Alas, poor ghost!
Ghost

Pity me not, but lend thy serious hearing
To what I shall unfold.
HAMLET

Speak; I am bound to hear.
Ghost

So art thou to revenge, when thou shalt hear.
HAMLET

What?
Ghost

I am thy father’s spirit,
Doom’d for a certain term to walk the night,
And for the day confined to fast in fires,
Till the foul crimes done in my days of nature
Are burnt and purged away. But that I am forbid
To tell the secrets of my prison-house,
I could a tale unfold whose lightest word
Would harrow up thy soul, freeze thy young blood,
Make thy two eyes, like stars, start from their spheres,
Thy knotted and combined locks to part
And each particular hair to stand on end,
Like quills upon the fretful porpentine:
But this eternal blazon must not be
To ears of flesh and blood. List, list, O, list!
If thou didst ever thy dear father love–
HAMLET

O God!
Ghost

Revenge his foul and most unnatural murder.
HAMLET

Murder!
Ghost

Murder most foul, as in the best it is;
But this most foul, strange and unnatural.
HAMLET

Haste me to know’t, that I, with wings as swift
As meditation or the thoughts of love,
May sweep to my revenge.
Ghost

I find thee apt;
And duller shouldst thou be than the fat weed
That roots itself in ease on Lethe wharf,
Wouldst thou not stir in this. Now, Hamlet, hear:
‘Tis given out that, sleeping in my orchard,
A serpent stung me; so the whole ear of Denmark
Is by a forged process of my death
Rankly abused: but know, thou noble youth,
The serpent that did sting thy father’s life
Now wears his crown.
HAMLET

O my prophetic soul! My uncle!
Ghost

Ay, that incestuous, that adulterate beast,
With witchcraft of his wit, with traitorous gifts,–
O wicked wit and gifts, that have the power
So to seduce!–won to his shameful lust
The will of my most seeming-virtuous queen:
O Hamlet, what a falling-off was there!
From me, whose love was of that dignity
That it went hand in hand even with the vow
I made to her in marriage, and to decline
Upon a wretch whose natural gifts were poor
To those of mine!
But virtue, as it never will be moved,
Though lewdness court it in a shape of heaven,
So lust, though to a radiant angel link’d,
Will sate itself in a celestial bed,
And prey on garbage.
But, soft! methinks I scent the morning air;
Brief let me be. Sleeping within my orchard,
My custom always of the afternoon,
Upon my secure hour thy uncle stole,
With juice of cursed hebenon in a vial,
And in the porches of my ears did pour
The leperous distilment; whose effect
Holds such an enmity with blood of man
That swift as quicksilver it courses through
The natural gates and alleys of the body,
And with a sudden vigour doth posset
And curd, like eager droppings into milk,
The thin and wholesome blood: so did it mine;
And a most instant tetter bark’d about,
Most lazar-like, with vile and loathsome crust,
All my smooth body.
Thus was I, sleeping, by a brother’s hand
Of life, of crown, of queen, at once dispatch’d:
Cut off even in the blossoms of my sin,
Unhousel’d, disappointed, unanel’d,
No reckoning made, but sent to my account
With all my imperfections on my head:
O, horrible! O, horrible! most horrible!
If thou hast nature in thee, bear it not;
Let not the royal bed of Denmark be
A couch for luxury and damned incest.
But, howsoever thou pursuest this act,
Taint not thy mind, nor let thy soul contrive
Against thy mother aught: leave her to heaven
And to those thorns that in her bosom lodge,
To prick and sting her. Fare thee well at once!
The glow-worm shows the matin to be near,
And ‘gins to pale his uneffectual fire:
Adieu, adieu! Hamlet, remember me.
Exit
HAMLET

O all you host of heaven! O earth! what else?
And shall I couple hell? O, fie! Hold, hold, my heart;
And you, my sinews, grow not instant old,
But bear me stiffly up. Remember thee!
Ay, thou poor ghost, while memory holds a seat
In this distracted globe. Remember thee!
Yea, from the table of my memory
I’ll wipe away all trivial fond records,
All saws of books, all forms, all pressures past,
That youth and observation copied there;
And thy commandment all alone shall live
Within the book and volume of my brain,
Unmix’d with baser matter: yes, by heaven!
O most pernicious woman!
O villain, villain, smiling, damned villain!
My tables,–meet it is I set it down,
That one may smile, and smile, and be a villain;
At least I’m sure it may be so in Denmark:
Writing
So, uncle, there you are. Now to my word;
It is ‘Adieu, adieu! remember me.’
I have sworn ‘t.
MARCELLUS

HORATIO

[Within] My lord, my lord,–
MARCELLUS

[Within] Lord Hamlet,–
HORATIO

[Within] Heaven secure him!
HAMLET

So be it!
HORATIO

[Within] Hillo, ho, ho, my lord!
HAMLET

Hillo, ho, ho, boy! come, bird, come.
Enter HORATIO and MARCELLUS
MARCELLUS

How is’t, my noble lord?
HORATIO

What news, my lord?
HAMLET

O, wonderful!
HORATIO

Good my lord, tell it.
HAMLET

No; you’ll reveal it.
HORATIO

Not I, my lord, by heaven.
MARCELLUS

Nor I, my lord.
HAMLET

How say you, then; would heart of man once think it?
But you’ll be secret?
HORATIO

MARCELLUS

Ay, by heaven, my lord.
HAMLET

There’s ne’er a villain dwelling in all Denmark
But he’s an arrant knave.
HORATIO

There needs no ghost, my lord, come from the grave
To tell us this.
HAMLET

Why, right; you are i’ the right;
And so, without more circumstance at all,
I hold it fit that we shake hands and part:
You, as your business and desire shall point you;
For every man has business and desire,
Such as it is; and for mine own poor part,
Look you, I’ll go pray.
HORATIO

These are but wild and whirling words, my lord.
HAMLET

I’m sorry they offend you, heartily;
Yes, ‘faith heartily.
HORATIO

There’s no offence, my lord.
HAMLET

Yes, by Saint Patrick, but there is, Horatio,
And much offence too. Touching this vision here,
It is an honest ghost, that let me tell you:
For your desire to know what is between us,
O’ermaster ‘t as you may. And now, good friends,
As you are friends, scholars and soldiers,
Give me one poor request.
HORATIO

What is’t, my lord? we will.
HAMLET

Never make known what you have seen to-night.
HORATIO

MARCELLUS

My lord, we will not.
HAMLET

Nay, but swear’t.
HORATIO

In faith,
My lord, not I.
MARCELLUS

Nor I, my lord, in faith.
HAMLET

Upon my sword.
MARCELLUS

We have sworn, my lord, already.
HAMLET

Indeed, upon my sword, indeed.
Ghost

[Beneath] Swear.
HAMLET

Ah, ha, boy! say’st thou so? art thou there,
truepenny?
Come on–you hear this fellow in the cellarage–
Consent to swear.
HORATIO

Propose the oath, my lord.
HAMLET

Never to speak of this that you have seen,
Swear by my sword.
Ghost

[Beneath] Swear.
HAMLET

Hic et ubique? then we’ll shift our ground.
Come hither, gentlemen,
And lay your hands again upon my sword:
Never to speak of this that you have heard,
Swear by my sword.
Ghost

[Beneath] Swear.
HAMLET

Well said, old mole! canst work i’ the earth so fast?
A worthy pioner! Once more remove, good friends.
HORATIO

O day and night, but this is wondrous strange!
HAMLET

And therefore as a stranger give it welcome.
There are more things in heaven and earth, Horatio,
Than are dreamt of in your philosophy. But come;
Here, as before, never, so help you mercy,
How strange or odd soe’er I bear myself,
As I perchance hereafter shall think meet
To put an antic disposition on,
That you, at such times seeing me, never shall,
With arms encumber’d thus, or this headshake,
Or by pronouncing of some doubtful phrase,
As ‘Well, well, we know,’ or ‘We could, an if we would,’
Or ‘If we list to speak,’ or ‘There be, an if they might,’
Or such ambiguous giving out, to note
That you know aught of me: this not to do,
So grace and mercy at your most need help you, Swear.
Ghost

[Beneath] Swear.
HAMLET

Rest, rest, perturbed spirit!
They swear
So, gentlemen,
With all my love I do commend me to you:
And what so poor a man as Hamlet is
May do, to express his love and friending to you,
God willing, shall not lack. Let us go in together;
And still your fingers on your lips, I pray.
The time is out of joint: O cursed spite,
That ever I was born to set it right!
Nay, come, let’s go together.
Exeunt

ACT II
SCENE I. A room in POLONIUS’ house.

Enter POLONIUS and REYNALDO
LORD POLONIUS

Give him this money and these notes, Reynaldo.
REYNALDO

I will, my lord.
LORD POLONIUS

You shall do marvellous wisely, good Reynaldo,
Before you visit him, to make inquire
Of his behavior.
REYNALDO

My lord, I did intend it.
LORD POLONIUS

Marry, well said; very well said. Look you, sir,
Inquire me first what Danskers are in Paris;
And how, and who, what means, and where they keep,
What company, at what expense; and finding
By this encompassment and drift of question
That they do know my son, come you more nearer
Than your particular demands will touch it:
Take you, as ’twere, some distant knowledge of him;
As thus, ‘I know his father and his friends,
And in part him: ‘ do you mark this, Reynaldo?
REYNALDO

Ay, very well, my lord.
LORD POLONIUS

‘And in part him; but’ you may say ‘not well:
But, if’t be he I mean, he’s very wild;
Addicted so and so:’ and there put on him
What forgeries you please; marry, none so rank
As may dishonour him; take heed of that;
But, sir, such wanton, wild and usual slips
As are companions noted and most known
To youth and liberty.
REYNALDO

As gaming, my lord.
LORD POLONIUS

Ay, or drinking, fencing, swearing, quarrelling,
Drabbing: you may go so far.
REYNALDO

My lord, that would dishonour him.
LORD POLONIUS

‘Faith, no; as you may season it in the charge
You must not put another scandal on him,
That he is open to incontinency;
That’s not my meaning: but breathe his faults so quaintly
That they may seem the taints of liberty,
The flash and outbreak of a fiery mind,
A savageness in unreclaimed blood,
Of general assault.
REYNALDO

But, my good lord,–
LORD POLONIUS

Wherefore should you do this?
REYNALDO

Ay, my lord,
I would know that.
LORD POLONIUS

Marry, sir, here’s my drift;
And I believe, it is a fetch of wit:
You laying these slight sullies on my son,
As ’twere a thing a little soil’d i’ the working, Mark you,
Your party in converse, him you would sound,
Having ever seen in the prenominate crimes
The youth you breathe of guilty, be assured
He closes with you in this consequence;
‘Good sir,’ or so, or ‘friend,’ or ‘gentleman,’
According to the phrase or the addition
Of man and country.
REYNALDO

Very good, my lord.
LORD POLONIUS

And then, sir, does he this–he does–what was I
about to say? By the mass, I was about to say
something: where did I leave?
REYNALDO

At ‘closes in the consequence,’ at ‘friend or so,’
and ‘gentleman.’
LORD POLONIUS

At ‘closes in the consequence,’ ay, marry;
He closes thus: ‘I know the gentleman;
I saw him yesterday, or t’ other day,
Or then, or then; with such, or such; and, as you say,
There was a’ gaming; there o’ertook in’s rouse;
There falling out at tennis:’ or perchance,
‘I saw him enter such a house of sale,’
Videlicet, a brothel, or so forth.
See you now;
Your bait of falsehood takes this carp of truth:
And thus do we of wisdom and of reach,
With windlasses and with assays of bias,
By indirections find directions out:
So by my former lecture and advice,
Shall you my son. You have me, have you not?
REYNALDO

My lord, I have.
LORD POLONIUS

God be wi’ you; fare you well.
REYNALDO

Good my lord!
LORD POLONIUS

Observe his inclination in yourself.
REYNALDO

I shall, my lord.
LORD POLONIUS

And let him ply his music.
REYNALDO

Well, my lord.
LORD POLONIUS

Farewell!
Exit REYNALDO
Enter OPHELIA
How now, Ophelia! what’s the matter?
OPHELIA

O, my lord, my lord, I have been so affrighted!
LORD POLONIUS

With what, i’ the name of God?
OPHELIA

My lord, as I was sewing in my closet,
Lord Hamlet, with his doublet all unbraced;
No hat upon his head; his stockings foul’d,
Ungarter’d, and down-gyved to his ancle;
Pale as his shirt; his knees knocking each other;
And with a look so piteous in purport
As if he had been loosed out of hell
To speak of horrors,–he comes before me.
LORD POLONIUS

Mad for thy love?
OPHELIA

My lord, I do not know;
But truly, I do fear it.
LORD POLONIUS

What said he?
OPHELIA

He took me by the wrist and held me hard;
Then goes he to the length of all his arm;
And, with his other hand thus o’er his brow,
He falls to such perusal of my face
As he would draw it. Long stay’d he so;
At last, a little shaking of mine arm
And thrice his head thus waving up and down,
He raised a sigh so piteous and profound
As it did seem to shatter all his bulk
And end his being: that done, he lets me go:
And, with his head over his shoulder turn’d,
He seem’d to find his way without his eyes;
For out o’ doors he went without their helps,
And, to the last, bended their light on me.
LORD POLONIUS

Come, go with me: I will go seek the king.
This is the very ecstasy of love,
Whose violent property fordoes itself
And leads the will to desperate undertakings
As oft as any passion under heaven
That does afflict our natures. I am sorry.
What, have you given him any hard words of late?
OPHELIA

No, my good lord, but, as you did command,
I did repel his fetters and denied
His access to me.
LORD POLONIUS

That hath made him mad.
I am sorry that with better heed and judgment
I had not quoted him: I fear’d he did but trifle,
And meant to wreck thee; but, beshrew my jealousy!
By heaven, it is as proper to our age
To cast beyond ourselves in our opinions
As it is common for the younger sort
To lack discretion. Come, go we to the king:
This must be known; which, being kept close, might
move
More grief to hide than hate to utter love.
Exeunt

SCENE II. A room in the castle.

Enter KING CLAUDIUS, QUEEN GERTRUDE, ROSENCRANTZ, GUILDENSTERN, and Attendants
KING CLAUDIUS

Welcome, dear Rosencrantz and Guildenstern!
Moreover that we much did long to see you,
The need we have to use you did provoke
Our hasty sending. Something have you heard
Of Hamlet’s transformation; so call it,
Sith nor the exterior nor the inward man
Resembles that it was. What it should be,
More than his father’s death, that thus hath put him
So much from the understanding of himself,
I cannot dream of: I entreat you both,
That, being of so young days brought up with him,
And sith so neighbour’d to his youth and havior,
That you vouchsafe your rest here in our court
Some little time: so by your companies
To draw him on to pleasures, and to gather,
So much as from occasion you may glean,
Whether aught, to us unknown, afflicts him thus,
That, open’d, lies within our remedy.
QUEEN GERTRUDE

Good gentlemen, he hath much talk’d of you;
And sure I am two men there are not living
To whom he more adheres. If it will please you
To show us so much gentry and good will
As to expend your time with us awhile,
For the supply and profit of our hope,
Your visitation shall receive such thanks
As fits a king’s remembrance.
ROSENCRANTZ

Both your majesties
Might, by the sovereign power you have of us,
Put your dread pleasures more into command
Than to entreaty.
GUILDENSTERN

But we both obey,
And here give up ourselves, in the full bent
To lay our service freely at your feet,
To be commanded.
KING CLAUDIUS

Thanks, Rosencrantz and gentle Guildenstern.
QUEEN GERTRUDE

Thanks, Guildenstern and gentle Rosencrantz:
And I beseech you instantly to visit
My too much changed son. Go, some of you,
And bring these gentlemen where Hamlet is.
GUILDENSTERN

Heavens make our presence and our practises
Pleasant and helpful to him!
QUEEN GERTRUDE

Ay, amen!
Exeunt ROSENCRANTZ, GUILDENSTERN, and some Attendants
Enter POLONIUS
LORD POLONIUS

The ambassadors from Norway, my good lord,
Are joyfully return’d.
KING CLAUDIUS

Thou still hast been the father of good news.
LORD POLONIUS

Have I, my lord? I assure my good liege,
I hold my duty, as I hold my soul,
Both to my God and to my gracious king:
And I do think, or else this brain of mine
Hunts not the trail of policy so sure
As it hath used to do, that I have found
The very cause of Hamlet’s lunacy.
KING CLAUDIUS

O, speak of that; that do I long to hear.
LORD POLONIUS

Give first admittance to the ambassadors;
My news shall be the fruit to that great feast.
KING CLAUDIUS

Thyself do grace to them, and bring them in.
Exit POLONIUS
He tells me, my dear Gertrude, he hath found
The head and source of all your son’s distemper.
QUEEN GERTRUDE

I doubt it is no other but the main;
His father’s death, and our o’erhasty marriage.
KING CLAUDIUS

Well, we shall sift him.
Re-enter POLONIUS, with VOLTIMAND and CORNELIUS
Welcome, my good friends!
Say, Voltimand, what from our brother Norway?
VOLTIMAND

Most fair return of greetings and desires.
Upon our first, he sent out to suppress
His nephew’s levies; which to him appear’d
To be a preparation ‘gainst the Polack;
But, better look’d into, he truly found
It was against your highness: whereat grieved,
That so his sickness, age and impotence
Was falsely borne in hand, sends out arrests
On Fortinbras; which he, in brief, obeys;
Receives rebuke from Norway, and in fine
Makes vow before his uncle never more
To give the assay of arms against your majesty.
Whereon old Norway, overcome with joy,
Gives him three thousand crowns in annual fee,
And his commission to employ those soldiers,
So levied as before, against the Polack:
With an entreaty, herein further shown,
Giving a paper
That it might please you to give quiet pass
Through your dominions for this enterprise,
On such regards of safety and allowance
As therein are set down.
KING CLAUDIUS

It likes us well;
And at our more consider’d time well read,
Answer, and think upon this business.
Meantime we thank you for your well-took labour:
Go to your rest; at night we’ll feast together:
Most welcome home!
Exeunt VOLTIMAND and CORNELIUS
LORD POLONIUS

This business is well ended.
My liege, and madam, to expostulate
What majesty should be, what duty is,
Why day is day, night night, and time is time,
Were nothing but to waste night, day and time.
Therefore, since brevity is the soul of wit,
And tediousness the limbs and outward flourishes,
I will be brief: your noble son is mad:
Mad call I it; for, to define true madness,
What is’t but to be nothing else but mad?
But let that go.
QUEEN GERTRUDE

More matter, with less art.
LORD POLONIUS

Madam, I swear I use no art at all.
That he is mad, ’tis true: ’tis true ’tis pity;
And pity ’tis ’tis true: a foolish figure;
But farewell it, for I will use no art.
Mad let us grant him, then: and now remains
That we find out the cause of this effect,
Or rather say, the cause of this defect,
For this effect defective comes by cause:
Thus it remains, and the remainder thus. Perpend.
I have a daughter–have while she is mine–
Who, in her duty and obedience, mark,
Hath given me this: now gather, and surmise.
Reads
‘To the celestial and my soul’s idol, the most
beautified Ophelia,’–
That’s an ill phrase, a vile phrase; ‘beautified’ is
a vile phrase: but you shall hear. Thus:
Reads
‘In her excellent white bosom, these, & c.’
QUEEN GERTRUDE

Came this from Hamlet to her?
LORD POLONIUS

Good madam, stay awhile; I will be faithful.
Reads
‘Doubt thou the stars are fire;
Doubt that the sun doth move;
Doubt truth to be a liar;
But never doubt I love.
‘O dear Ophelia, I am ill at these numbers;
I have not art to reckon my groans: but that
I love thee best, O most best, believe it. Adieu.
‘Thine evermore most dear lady, whilst
this machine is to him, HAMLET.’
This, in obedience, hath my daughter shown me,
And more above, hath his solicitings,
As they fell out by time, by means and place,
All given to mine ear.
KING CLAUDIUS

But how hath she
Received his love?
LORD POLONIUS

What do you think of me?
KING CLAUDIUS

As of a man faithful and honourable.
LORD POLONIUS

I would fain prove so. But what might you think,
When I had seen this hot love on the wing–
As I perceived it, I must tell you that,
Before my daughter told me–what might you,
Or my dear majesty your queen here, think,
If I had play’d the desk or table-book,
Or given my heart a winking, mute and dumb,
Or look’d upon this love with idle sight;
What might you think? No, I went round to work,
And my young mistress thus I did bespeak:
‘Lord Hamlet is a prince, out of thy star;
This must not be:’ and then I precepts gave her,
That she should lock herself from his resort,
Admit no messengers, receive no tokens.
Which done, she took the fruits of my advice;
And he, repulsed–a short tale to make–
Fell into a sadness, then into a fast,
Thence to a watch, thence into a weakness,
Thence to a lightness, and, by this declension,
Into the madness wherein now he raves,
And all we mourn for.
KING CLAUDIUS

Do you think ’tis this?
QUEEN GERTRUDE

It may be, very likely.
LORD POLONIUS

Hath there been such a time–I’d fain know that–
That I have positively said ‘Tis so,’
When it proved otherwise?
KING CLAUDIUS

Not that I know.
LORD POLONIUS

[Pointing to his head and shoulder]
Take this from this, if this be otherwise:
If circumstances lead me, I will find
Where truth is hid, though it were hid indeed
Within the centre.
KING CLAUDIUS

How may we try it further?
LORD POLONIUS

You know, sometimes he walks four hours together
Here in the lobby.
QUEEN GERTRUDE

So he does indeed.
LORD POLONIUS

At such a time I’ll loose my daughter to him:
Be you and I behind an arras then;
Mark the encounter: if he love her not
And be not from his reason fall’n thereon,
Let me be no assistant for a state,
But keep a farm and carters.
KING CLAUDIUS

We will try it.
QUEEN GERTRUDE

But, look, where sadly the poor wretch comes reading.
LORD POLONIUS

Away, I do beseech you, both away:
I’ll board him presently.
Exeunt KING CLAUDIUS, QUEEN GERTRUDE, and Attendants
Enter HAMLET, reading
O, give me leave:
How does my good Lord Hamlet?
HAMLET

Well, God-a-mercy.
LORD POLONIUS

Do you know me, my lord?
HAMLET

Excellent well; you are a fishmonger.
LORD POLONIUS

Not I, my lord.
HAMLET

Then I would you were so honest a man.
LORD POLONIUS

Honest, my lord!
HAMLET

Ay, sir; to be honest, as this world goes, is to be
one man picked out of ten thousand.
LORD POLONIUS

That’s very true, my lord.
HAMLET

For if the sun breed maggots in a dead dog, being a
god kissing carrion,–Have you a daughter?
LORD POLONIUS

I have, my lord.
HAMLET

Let her not walk i’ the sun: conception is a
blessing: but not as your daughter may conceive.
Friend, look to ‘t.
LORD POLONIUS

[Aside] How say you by that? Still harping on my
daughter: yet he knew me not at first; he said I
was a fishmonger: he is far gone, far gone: and
truly in my youth I suffered much extremity for
love; very near this. I’ll speak to him again.
What do you read, my lord?
HAMLET

Words, words, words.
LORD POLONIUS

What is the matter, my lord?
HAMLET

Between who?
LORD POLONIUS

I mean, the matter that you read, my lord.
HAMLET

Slanders, sir: for the satirical rogue says here
that old men have grey beards, that their faces are
wrinkled, their eyes purging thick amber and
plum-tree gum and that they have a plentiful lack of
wit, together with most weak hams: all which, sir,
though I most powerfully and potently believe, yet
I hold it not honesty to have it thus set down, for
yourself, sir, should be old as I am, if like a crab
you could go backward.
LORD POLONIUS

[Aside] Though this be madness, yet there is method
in ‘t. Will you walk out of the air, my lord?
HAMLET

Into my grave.
LORD POLONIUS

Indeed, that is out o’ the air.
Aside
How pregnant sometimes his replies are! a happiness
that often madness hits on, which reason and sanity
could not so prosperously be delivered of. I will
leave him, and suddenly contrive the means of
meeting between him and my daughter.–My honourable
lord, I will most humbly take my leave of you.
HAMLET

You cannot, sir, take from me any thing that I will
more willingly part withal: except my life, except
my life, except my life.
LORD POLONIUS

Fare you well, my lord.
HAMLET

These tedious old fools!
Enter ROSENCRANTZ and GUILDENSTERN
LORD POLONIUS

You go to seek the Lord Hamlet; there he is.
ROSENCRANTZ

[To POLONIUS] God save you, sir!
Exit POLONIUS
GUILDENSTERN

My honoured lord!
ROSENCRANTZ

My most dear lord!
HAMLET

My excellent good friends! How dost thou,
Guildenstern? Ah, Rosencrantz! Good lads, how do ye both?
ROSENCRANTZ

As the indifferent children of the earth.
GUILDENSTERN

Happy, in that we are not over-happy;
On fortune’s cap we are not the very button.
HAMLET

Nor the soles of her shoe?
ROSENCRANTZ

Neither, my lord.
HAMLET

Then you live about her waist, or in the middle of
her favours?
GUILDENSTERN

‘Faith, her privates we.
HAMLET

In the secret parts of fortune? O, most true; she
is a strumpet. What’s the news?
ROSENCRANTZ

None, my lord, but that the world’s grown honest.
HAMLET

Then is doomsday near: but your news is not true.
Let me question more in particular: what have you,
my good friends, deserved at the hands of fortune,
that she sends you to prison hither?
GUILDENSTERN

Prison, my lord!
HAMLET

Denmark’s a prison.
ROSENCRANTZ

Then is the world one.
HAMLET

A goodly one; in which there are many confines,
wards and dungeons, Denmark being one o’ the worst.
ROSENCRANTZ

We think not so, my lord.
HAMLET

Why, then, ’tis none to you; for there is nothing
either good or bad, but thinking makes it so: to me
it is a prison.
ROSENCRANTZ

Why then, your ambition makes it one; ’tis too
narrow for your mind.
HAMLET

O God, I could be bounded in a nut shell and count
myself a king of infinite space, were it not that I
have bad dreams.
GUILDENSTERN

Which dreams indeed are ambition, for the very
substance of the ambitious is merely the shadow of a dream.
HAMLET

A dream itself is but a shadow.
ROSENCRANTZ

Truly, and I hold ambition of so airy and light a
quality that it is but a shadow’s shadow.
HAMLET

Then are our beggars bodies, and our monarchs and
outstretched heroes the beggars’ shadows. Shall we
to the court? for, by my fay, I cannot reason.
ROSENCRANTZ

GUILDENSTERN

We’ll wait upon you.
HAMLET

No such matter: I will not sort you with the rest
of my servants, for, to speak to you like an honest
man, I am most dreadfully attended. But, in the
beaten way of friendship, what make you at Elsinore?
ROSENCRANTZ

To visit you, my lord; no other occasion.
HAMLET

Beggar that I am, I am even poor in thanks; but I
thank you: and sure, dear friends, my thanks are
too dear a halfpenny. Were you not sent for? Is it
your own inclining? Is it a free visitation? Come,
deal justly with me: come, come; nay, speak.
GUILDENSTERN

What should we say, my lord?
HAMLET

Why, any thing, but to the purpose. You were sent
for; and there is a kind of confession in your looks
which your modesties have not craft enough to colour:
I know the good king and queen have sent for you.
ROSENCRANTZ

To what end, my lord?
HAMLET

That you must teach me. But let me conjure you, by
the rights of our fellowship, by the consonancy of
our youth, by the obligation of our ever-preserved
love, and by what more dear a better proposer could
charge you withal, be even and direct with me,
whether you were sent for, or no?
ROSENCRANTZ

[Aside to GUILDENSTERN] What say you?
HAMLET

[Aside] Nay, then, I have an eye of you.–If you
love me, hold not off.
GUILDENSTERN

My lord, we were sent for.
HAMLET

I will tell you why; so shall my anticipation
prevent your discovery, and your secrecy to the king
and queen moult no feather. I have of late–but
wherefore I know not–lost all my mirth, forgone all
custom of exercises; and indeed it goes so heavily
with my disposition that this goodly frame, the
earth, seems to me a sterile promontory, this most
excellent canopy, the air, look you, this brave
o’erhanging firmament, this majestical roof fretted
with golden fire, why, it appears no other thing to
me than a foul and pestilent congregation of vapours.
What a piece of work is a man! how noble in reason!
how infinite in faculty! in form and moving how
express and admirable! in action how like an angel!
in apprehension how like a god! the beauty of the
world! the paragon of animals! And yet, to me,
what is this quintessence of dust? man delights not
me: no, nor woman neither, though by your smiling
you seem to say so.
ROSENCRANTZ

My lord, there was no such stuff in my thoughts.
HAMLET

Why did you laugh then, when I said ‘man delights not me’?
ROSENCRANTZ

To think, my lord, if you delight not in man, what
lenten entertainment the players shall receive from
you: we coted them on the way; and hither are they
coming, to offer you service.
HAMLET

He that plays the king shall be welcome; his majesty
shall have tribute of me; the adventurous knight
shall use his foil and target; the lover shall not
sigh gratis; the humourous man shall end his part
in peace; the clown shall make those laugh whose
lungs are tickled o’ the sere; and the lady shall
say her mind freely, or the blank verse shall halt
for’t. What players are they?
ROSENCRANTZ

Even those you were wont to take delight in, the
tragedians of the city.
HAMLET

How chances it they travel? their residence, both
in reputation and profit, was better both ways.
ROSENCRANTZ

I think their inhibition comes by the means of the
late innovation.
HAMLET

Do they hold the same estimation they did when I was
in the city? are they so followed?
ROSENCRANTZ

No, indeed, are they not.
HAMLET

How comes it? do they grow rusty?
ROSENCRANTZ

Nay, their endeavour keeps in the wonted pace: but
there is, sir, an aery of children, little eyases,
that cry out on the top of question, and are most
tyrannically clapped for’t: these are now the
fashion, and so berattle the common stages–so they
call them–that many wearing rapiers are afraid of
goose-quills and dare scarce come thither.
HAMLET

What, are they children? who maintains ’em? how are
they escoted? Will they pursue the quality no
longer than they can sing? will they not say
afterwards, if they should grow themselves to common
players–as it is most like, if their means are no
better–their writers do them wrong, to make them
exclaim against their own succession?
ROSENCRANTZ

‘Faith, there has been much to do on both sides; and
the nation holds it no sin to tarre them to
controversy: there was, for a while, no money bid
for argument, unless the poet and the player went to
cuffs in the question.
HAMLET

Is’t possible?
GUILDENSTERN

O, there has been much throwing about of brains.
HAMLET

Do the boys carry it away?
ROSENCRANTZ

Ay, that they do, my lord; Hercules and his load too.
HAMLET

It is not very strange; for mine uncle is king of
Denmark, and those that would make mows at him while
my father lived, give twenty, forty, fifty, an
hundred ducats a-piece for his picture in little.
‘Sblood, there is something in this more than
natural, if philosophy could find it out.
Flourish of trumpets within
GUILDENSTERN

There are the players.
HAMLET

Gentlemen, you are welcome to Elsinore. Your hands,
come then: the appurtenance of welcome is fashion
and ceremony: let me comply with you in this garb,
lest my extent to the players, which, I tell you,
must show fairly outward, should more appear like
entertainment than yours. You are welcome: but my
uncle-father and aunt-mother are deceived.
GUILDENSTERN

In what, my dear lord?
HAMLET

I am but mad north-north-west: when the wind is
southerly I know a hawk from a handsaw.
Enter POLONIUS
LORD POLONIUS

Well be with you, gentlemen!
HAMLET

Hark you, Guildenstern; and you too: at each ear a
hearer: that great baby you see there is not yet
out of his swaddling-clouts.
ROSENCRANTZ

Happily he’s the second time come to them; for they
say an old man is twice a child.
HAMLET

I will prophesy he comes to tell me of the players;
mark it. You say right, sir: o’ Monday morning;
’twas so indeed.
LORD POLONIUS

My lord, I have news to tell you.
HAMLET

My lord, I have news to tell you.
When Roscius was an actor in Rome,–
LORD POLONIUS

The actors are come hither, my lord.
HAMLET

Buz, buz!
LORD POLONIUS

Upon mine honour,–
HAMLET

Then came each actor on his ass,–
LORD POLONIUS

The best actors in the world, either for tragedy,
comedy, history, pastoral, pastoral-comical,
historical-pastoral, tragical-historical, tragical-
comical-historical-pastoral, scene individable, or
poem unlimited: Seneca cannot be too heavy, nor
Plautus too light. For the law of writ and the
liberty, these are the only men.
HAMLET

O Jephthah, judge of Israel, what a treasure hadst thou!
LORD POLONIUS

What a treasure had he, my lord?
HAMLET

Why,
‘One fair daughter and no more,
The which he loved passing well.’
LORD POLONIUS

[Aside] Still on my daughter.
HAMLET

Am I not i’ the right, old Jephthah?
LORD POLONIUS

If you call me Jephthah, my lord, I have a daughter
that I love passing well.
HAMLET

Nay, that follows not.
LORD POLONIUS

What follows, then, my lord?
HAMLET

Why,
‘As by lot, God wot,’
and then, you know,
‘It came to pass, as most like it was,’–
the first row of the pious chanson will show you
more; for look, where my abridgement comes.
Enter four or five Players
You are welcome, masters; welcome, all. I am glad
to see thee well. Welcome, good friends. O, my old
friend! thy face is valenced since I saw thee last:
comest thou to beard me in Denmark? What, my young
lady and mistress! By’r lady, your ladyship is
nearer to heaven than when I saw you last, by the
altitude of a chopine. Pray God, your voice, like
apiece of uncurrent gold, be not cracked within the
ring. Masters, you are all welcome. We’ll e’en
to’t like French falconers, fly at any thing we see:
we’ll have a speech straight: come, give us a taste
of your quality; come, a passionate speech.
First Player

What speech, my lord?
HAMLET

I heard thee speak me a speech once, but it was
never acted; or, if it was, not above once; for the
play, I remember, pleased not the million; ’twas
caviare to the general: but it was–as I received
it, and others, whose judgments in such matters
cried in the top of mine–an excellent play, well
digested in the scenes, set down with as much
modesty as cunning. I remember, one said there
were no sallets in the lines to make the matter
savoury, nor no matter in the phrase that might
indict the author of affectation; but called it an
honest method, as wholesome as sweet, and by very
much more handsome than fine. One speech in it I
chiefly loved: ’twas Aeneas’ tale to Dido; and
thereabout of it especially, where he speaks of
Priam’s slaughter: if it live in your memory, begin
at this line: let me see, let me see–
‘The rugged Pyrrhus, like the Hyrcanian beast,’–
it is not so:–it begins with Pyrrhus:–
‘The rugged Pyrrhus, he whose sable arms,
Black as his purpose, did the night resemble
When he lay couched in the ominous horse,
Hath now this dread and black complexion smear’d
With heraldry more dismal; head to foot
Now is he total gules; horridly trick’d
With blood of fathers, mothers, daughters, sons,
Baked and impasted with the parching streets,
That lend a tyrannous and damned light
To their lord’s murder: roasted in wrath and fire,
And thus o’er-sized with coagulate gore,
With eyes like carbuncles, the hellish Pyrrhus
Old grandsire Priam seeks.’
So, proceed you.
LORD POLONIUS

‘Fore God, my lord, well spoken, with good accent and
good discretion.
First Player

‘Anon he finds him
Striking too short at Greeks; his antique sword,
Rebellious to his arm, lies where it falls,
Repugnant to command: unequal match’d,
Pyrrhus at Priam drives; in rage strikes wide;
But with the whiff and wind of his fell sword
The unnerved father falls. Then senseless Ilium,
Seeming to feel this blow, with flaming top
Stoops to his base, and with a hideous crash
Takes prisoner Pyrrhus’ ear: for, lo! his sword,
Which was declining on the milky head
Of reverend Priam, seem’d i’ the air to stick:
So, as a painted tyrant, Pyrrhus stood,
And like a neutral to his will and matter,
Did nothing.
But, as we often see, against some storm,
A silence in the heavens, the rack stand still,
The bold winds speechless and the orb below
As hush as death, anon the dreadful thunder
Doth rend the region, so, after Pyrrhus’ pause,
Aroused vengeance sets him new a-work;
And never did the Cyclops’ hammers fall
On Mars’s armour forged for proof eterne
With less remorse than Pyrrhus’ bleeding sword
Now falls on Priam.
Out, out, thou strumpet, Fortune! All you gods,
In general synod ‘take away her power;
Break all the spokes and fellies from her wheel,
And bowl the round nave down the hill of heaven,
As low as to the fiends!’
LORD POLONIUS

This is too long.
HAMLET

It shall to the barber’s, with your beard. Prithee,
say on: he’s for a jig or a tale of bawdry, or he
sleeps: say on: come to Hecuba.
First Player

‘But who, O, who had seen the mobled queen–‘
HAMLET

‘The mobled queen?’
LORD POLONIUS

That’s good; ‘mobled queen’ is good.
First Player

‘Run barefoot up and down, threatening the flames
With bisson rheum; a clout upon that head
Where late the diadem stood, and for a robe,
About her lank and all o’er-teemed loins,
A blanket, in the alarm of fear caught up;
Who this had seen, with tongue in venom steep’d,
‘Gainst Fortune’s state would treason have
pronounced:
But if the gods themselves did see her then
When she saw Pyrrhus make malicious sport
In mincing with his sword her husband’s limbs,
The instant burst of clamour that she made,
Unless things mortal move them not at all,
Would have made milch the burning eyes of heaven,
And passion in the gods.’
LORD POLONIUS

Look, whether he has not turned his colour and has
tears in’s eyes. Pray you, no more.
HAMLET

‘Tis well: I’ll have thee speak out the rest soon.
Good my lord, will you see the players well
bestowed? Do you hear, let them be well used; for
they are the abstract and brief chronicles of the
time: after your death you were better have a bad
epitaph than their ill report while you live.
LORD POLONIUS

My lord, I will use them according to their desert.
HAMLET

God’s bodykins, man, much better: use every man
after his desert, and who should ‘scape whipping?
Use them after your own honour and dignity: the less
they deserve, the more merit is in your bounty.
Take them in.
LORD POLONIUS

Come, sirs.
HAMLET

Follow him, friends: we’ll hear a play to-morrow.
Exit POLONIUS with all the Players but the First
Dost thou hear me, old friend; can you play the
Murder of Gonzago?
First Player

Ay, my lord.
HAMLET

We’ll ha’t to-morrow night. You could, for a need,
study a speech of some dozen or sixteen lines, which
I would set down and insert in’t, could you not?
First Player

Ay, my lord.
HAMLET

Very well. Follow that lord; and look you mock him
not.
Exit First Player
My good friends, I’ll leave you till night: you are
welcome to Elsinore.
ROSENCRANTZ

Good my lord!
HAMLET

Ay, so, God be wi’ ye;
Exeunt ROSENCRANTZ and GUILDENSTERN
Now I am alone.
O, what a rogue and peasant slave am I!
Is it not monstrous that this player here,
But in a fiction, in a dream of passion,
Could force his soul so to his own conceit
That from her working all his visage wann’d,
Tears in his eyes, distraction in’s aspect,
A broken voice, and his whole function suiting
With forms to his conceit? and all for nothing!
For Hecuba!
What’s Hecuba to him, or he to Hecuba,
That he should weep for her? What would he do,
Had he the motive and the cue for passion
That I have? He would drown the stage with tears
And cleave the general ear with horrid speech,
Make mad the guilty and appal the free,
Confound the ignorant, and amaze indeed
The very faculties of eyes and ears. Yet I,
A dull and muddy-mettled rascal, peak,
Like John-a-dreams, unpregnant of my cause,
And can say nothing; no, not for a king,
Upon whose property and most dear life
A damn’d defeat was made. Am I a coward?
Who calls me villain? breaks my pate across?
Plucks off my beard, and blows it in my face?
Tweaks me by the nose? gives me the lie i’ the throat,
As deep as to the lungs? who does me this?
Ha!
‘Swounds, I should take it: for it cannot be
But I am pigeon-liver’d and lack gall
To make oppression bitter, or ere this
I should have fatted all the region kites
With this slave’s offal: bloody, bawdy villain!
Remorseless, treacherous, lecherous, kindless villain!
O, vengeance!
Why, what an ass am I! This is most brave,
That I, the son of a dear father murder’d,
Prompted to my revenge by heaven and hell,
Must, like a whore, unpack my heart with words,
And fall a-cursing, like a very drab,
A scullion!
Fie upon’t! foh! About, my brain! I have heard
That guilty creatures sitting at a play
Have by the very cunning of the scene
Been struck so to the soul that presently
They have proclaim’d their malefactions;
For murder, though it have no tongue, will speak
With most miraculous organ. I’ll have these players
Play something like the murder of my father
Before mine uncle: I’ll observe his looks;
I’ll tent him to the quick: if he but blench,
I know my course. The spirit that I have seen
May be the devil: and the devil hath power
To assume a pleasing shape; yea, and perhaps
Out of my weakness and my melancholy,
As he is very potent with such spirits,
Abuses me to damn me: I’ll have grounds
More relative than this: the play ‘s the thing
Wherein I’ll catch the conscience of the king.
Exit

ACT III
SCENE I. A room in the castle.

Enter KING CLAUDIUS, QUEEN GERTRUDE, POLONIUS, OPHELIA, ROSENCRANTZ, and GUILDENSTERN
KING CLAUDIUS

And can you, by no drift of circumstance,
Get from him why he puts on this confusion,
Grating so harshly all his days of quiet
With turbulent and dangerous lunacy?
ROSENCRANTZ

He does confess he feels himself distracted;
But from what cause he will by no means speak.
GUILDENSTERN

Nor do we find him forward to be sounded,
But, with a crafty madness, keeps aloof,
When we would bring him on to some confession
Of his true state.
QUEEN GERTRUDE

Did he receive you well?
ROSENCRANTZ

Most like a gentleman.
GUILDENSTERN

But with much forcing of his disposition.
ROSENCRANTZ

Niggard of question; but, of our demands,
Most free in his reply.
QUEEN GERTRUDE

Did you assay him?
To any pastime?
ROSENCRANTZ

Madam, it so fell out, that certain players
We o’er-raught on the way: of these we told him;
And there did seem in him a kind of joy
To hear of it: they are about the court,
And, as I think, they have already order
This night to play before him.
LORD POLONIUS

‘Tis most true:
And he beseech’d me to entreat your majesties
To hear and see the matter.
KING CLAUDIUS

With all my heart; and it doth much content me
To hear him so inclined.
Good gentlemen, give him a further edge,
And drive his purpose on to these delights.
ROSENCRANTZ

We shall, my lord.
Exeunt ROSENCRANTZ and GUILDENSTERN
KING CLAUDIUS

Sweet Gertrude, leave us too;
For we have closely sent for Hamlet hither,
That he, as ’twere by accident, may here
Affront Ophelia:
Her father and myself, lawful espials,
Will so bestow ourselves that, seeing, unseen,
We may of their encounter frankly judge,
And gather by him, as he is behaved,
If ‘t be the affliction of his love or no
That thus he suffers for.
QUEEN GERTRUDE

I shall obey you.
And for your part, Ophelia, I do wish
That your good beauties be the happy cause
Of Hamlet’s wildness: so shall I hope your virtues
Will bring him to his wonted way again,
To both your honours.
OPHELIA

Madam, I wish it may.
Exit QUEEN GERTRUDE
LORD POLONIUS

Ophelia, walk you here. Gracious, so please you,
We will bestow ourselves.
To OPHELIA
Read on this book;
That show of such an exercise may colour
Your loneliness. We are oft to blame in this,–
‘Tis too much proved–that with devotion’s visage
And pious action we do sugar o’er
The devil himself.
KING CLAUDIUS

[Aside] O, ’tis too true!
How smart a lash that speech doth give my conscience!
The harlot’s cheek, beautied with plastering art,
Is not more ugly to the thing that helps it
Than is my deed to my most painted word:
O heavy burthen!
LORD POLONIUS

I hear him coming: let’s withdraw, my lord.
Exeunt KING CLAUDIUS and POLONIUS
Enter HAMLET
HAMLET

To be, or not to be, that is the question,
Whether ’tis nobler in the mind to suffer
The slings and arrows of outrageous fortune,
Or to take arms against a sea of troubles,
And by opposing end them? To die: to sleep;
No more; and by a sleep to say we end
The heart-ache and the thousand natural shocks
That flesh is heir to, ’tis a consummation
Devoutly to be wish’d. To die, to sleep;
To sleep: perchance to dream: ay, there’s the rub;
For in that sleep of death what dreams may come
When we have shuffled off this mortal coil,
Must give us pause: there’s the respect
That makes calamity of so long life;
For who would bear the whips and scorns of time,
The oppressor’s wrong, the proud man’s contumely,
The pangs of despised love, the law’s delay,
The insolence of office and the spurns
That patient merit of the unworthy takes,
When he himself might his quietus make
With a bare bodkin? who would fardels bear,
To grunt and sweat under a weary life,
But that the dread of something after death,
The undiscover’d country from whose bourn
No traveller returns, puzzles the will
And makes us rather bear those ills we have
Than fly to others that we know not of?
Thus conscience does make cowards of us all;
And thus the native hue of resolution
Is sicklied o’er with the pale cast of thought,
And enterprises of great pith and moment
With this regard their currents turn awry,
And lose the name of action.–Soft you now!
The fair Ophelia! Nymph, in thy orisons
Be all my sins remember’d.
OPHELIA

Good my lord,
How does your honour for this many a day?
HAMLET

I humbly thank you; well, well, well.
OPHELIA

My lord, I have remembrances of yours,
That I have longed long to re-deliver;
I pray you, now receive them.
HAMLET

No, not I;
I never gave you aught.
OPHELIA

My honour’d lord, you know right well you did;
And, with them, words of so sweet breath composed
As made the things more rich: their perfume lost,
Take these again; for to the noble mind
Rich gifts wax poor when givers prove unkind.
There, my lord.
HAMLET

Ha, ha! are you honest?
OPHELIA

My lord?
HAMLET

Are you fair?
OPHELIA

What means your lordship?
HAMLET

That if you be honest and fair, your honesty should
admit no discourse to your beauty.
OPHELIA

Could beauty, my lord, have better commerce than
with honesty?
HAMLET

Ay, truly; for the power of beauty will sooner
transform honesty from what it is to a bawd than the
force of honesty can translate beauty into his
likeness: this was sometime a paradox, but now the
time gives it proof. I did love you once.
OPHELIA

Indeed, my lord, you made me believe so.
HAMLET

You should not have believed me; for virtue cannot
so inoculate our old stock but we shall relish of
it: I loved you not.
OPHELIA

I was the more deceived.
HAMLET

Get thee to a nunnery: why wouldst thou be a
breeder of sinners? I am myself indifferent honest;
but yet I could accuse me of such things that it
were better my mother had not borne me: I am very
proud, revengeful, ambitious, with more offences at
my beck than I have thoughts to put them in,
imagination to give them shape, or time to act them
in. What should such fellows as I do crawling
between earth and heaven? We are arrant knaves,
all; believe none of us. Go thy ways to a nunnery.
Where’s your father?
OPHELIA

At home, my lord.
HAMLET

Let the doors be shut upon him, that he may play the
fool no where but in’s own house. Farewell.
OPHELIA

O, help him, you sweet heavens!
HAMLET

If thou dost marry, I’ll give thee this plague for
thy dowry: be thou as chaste as ice, as pure as
snow, thou shalt not escape calumny. Get thee to a
nunnery, go: farewell. Or, if thou wilt needs
marry, marry a fool; for wise men know well enough
what monsters you make of them. To a nunnery, go,
and quickly too. Farewell.
OPHELIA

O heavenly powers, restore him!
HAMLET

I have heard of your paintings too, well enough; God
has given you one face, and you make yourselves
another: you jig, you amble, and you lisp, and
nick-name God’s creatures, and make your wantonness
your ignorance. Go to, I’ll no more on’t; it hath
made me mad. I say, we will have no more marriages:
those that are married already, all but one, shall
live; the rest shall keep as they are. To a
nunnery, go.
Exit
OPHELIA

O, what a noble mind is here o’erthrown!
The courtier’s, soldier’s, scholar’s, eye, tongue, sword;
The expectancy and rose of the fair state,
The glass of fashion and the mould of form,
The observed of all observers, quite, quite down!
And I, of ladies most deject and wretched,
That suck’d the honey of his music vows,
Now see that noble and most sovereign reason,
Like sweet bells jangled, out of tune and harsh;
That unmatch’d form and feature of blown youth
Blasted with ecstasy: O, woe is me,
To have seen what I have seen, see what I see!
Re-enter KING CLAUDIUS and POLONIUS
KING CLAUDIUS

Love! his affections do not that way tend;
Nor what he spake, though it lack’d form a little,
Was not like madness. There’s something in his soul,
O’er which his melancholy sits on brood;
And I do doubt the hatch and the disclose
Will be some danger: which for to prevent,
I have in quick determination
Thus set it down: he shall with speed to England,
For the demand of our neglected tribute
Haply the seas and countries different
With variable objects shall expel
This something-settled matter in his heart,
Whereon his brains still beating puts him thus
From fashion of himself. What think you on’t?
LORD POLONIUS

It shall do well: but yet do I believe
The origin and commencement of his grief
Sprung from neglected love. How now, Ophelia!
You need not tell us what Lord Hamlet said;
We heard it all. My lord, do as you please;
But, if you hold it fit, after the play
Let his queen mother all alone entreat him
To show his grief: let her be round with him;
And I’ll be placed, so please you, in the ear
Of all their conference. If she find him not,
To England send him, or confine him where
Your wisdom best shall think.
KING CLAUDIUS

It shall be so:
Madness in great ones must not unwatch’d go.
Exeunt

SCENE II. A hall in the castle.

Enter HAMLET and Players
HAMLET

Speak the speech, I pray you, as I pronounced it to
you, trippingly on the tongue: but if you mouth it,
as many of your players do, I had as lief the
town-crier spoke my lines. Nor do not saw the air
too much with your hand, thus, but use all gently;
for in the very torrent, tempest, and, as I may say,
the whirlwind of passion, you must acquire and beget
a temperance that may give it smoothness. O, it
offends me to the soul to hear a robustious
periwig-pated fellow tear a passion to tatters, to
very rags, to split the ears of the groundlings, who
for the most part are capable of nothing but
inexplicable dumbshows and noise: I would have such
a fellow whipped for o’erdoing Termagant; it
out-herods Herod: pray you, avoid it.
First Player

I warrant your honour.
HAMLET

Be not too tame neither, but let your own discretion
be your tutor: suit the action to the word, the
word to the action; with this special o’erstep not
the modesty of nature: for any thing so overdone is
from the purpose of playing, whose end, both at the
first and now, was and is, to hold, as ’twere, the
mirror up to nature; to show virtue her own feature,
scorn her own image, and the very age and body of
the time his form and pressure. Now this overdone,
or come tardy off, though it make the unskilful
laugh, cannot but make the judicious grieve; the
censure of the which one must in your allowance
o’erweigh a whole theatre of others. O, there be
players that I have seen play, and heard others
praise, and that highly, not to speak it profanely,
that, neither having the accent of Christians nor
the gait of Christian, pagan, nor man, have so
strutted and bellowed that I have thought some of
nature’s journeymen had made men and not made them
well, they imitated humanity so abominably.
First Player

I hope we have reformed that indifferently with us,
sir.
HAMLET

O, reform it altogether. And let those that play
your clowns speak no more than is set down for them;
for there be of them that will themselves laugh, to
set on some quantity of barren spectators to laugh
too; though, in the mean time, some necessary
question of the play be then to be considered:
that’s villanous, and shows a most pitiful ambition
in the fool that uses it. Go, make you ready.
Exeunt Players
Enter POLONIUS, ROSENCRANTZ, and GUILDENSTERN
How now, my lord! I will the king hear this piece of work?
LORD POLONIUS

And the queen too, and that presently.
HAMLET

Bid the players make haste.
Exit POLONIUS
Will you two help to hasten them?
ROSENCRANTZ

GUILDENSTERN

We will, my lord.
Exeunt ROSENCRANTZ and GUILDENSTERN
HAMLET

What ho! Horatio!
Enter HORATIO
HORATIO

Here, sweet lord, at your service.
HAMLET

Horatio, thou art e’en as just a man
As e’er my conversation coped withal.
HORATIO

O, my dear lord,–
HAMLET

Nay, do not think I flatter;
For what advancement may I hope from thee
That no revenue hast but thy good spirits,
To feed and clothe thee? Why should the poor be flatter’d?
No, let the candied tongue lick absurd pomp,
And crook the pregnant hinges of the knee
Where thrift may follow fawning. Dost thou hear?
Since my dear soul was mistress of her choice
And could of men distinguish, her election
Hath seal’d thee for herself; for thou hast been
As one, in suffering all, that suffers nothing,
A man that fortune’s buffets and rewards
Hast ta’en with equal thanks: and blest are those
Whose blood and judgment are so well commingled,
That they are not a pipe for fortune’s finger
To sound what stop she please. Give me that man
That is not passion’s slave, and I will wear him
In my heart’s core, ay, in my heart of heart,
As I do thee.–Something too much of this.–
There is a play to-night before the king;
One scene of it comes near the circumstance
Which I have told thee of my father’s death:
I prithee, when thou seest that act afoot,
Even with the very comment of thy soul
Observe mine uncle: if his occulted guilt
Do not itself unkennel in one speech,
It is a damned ghost that we have seen,
And my imaginations are as foul
As Vulcan’s stithy. Give him heedful note;
For I mine eyes will rivet to his face,
And after we will both our judgments join
In censure of his seeming.
HORATIO

Well, my lord:
If he steal aught the whilst this play is playing,
And ‘scape detecting, I will pay the theft.
HAMLET

They are coming to the play; I must be idle:
Get you a place.
Danish march. A flourish. Enter KING CLAUDIUS, QUEEN GERTRUDE, POLONIUS, OPHELIA, ROSENCRANTZ, GUILDENSTERN, and others
KING CLAUDIUS

How fares our cousin Hamlet?
HAMLET

Excellent, i’ faith; of the chameleon’s dish: I eat
the air, promise-crammed: you cannot feed capons so.
KING CLAUDIUS

I have nothing with this answer, Hamlet; these words
are not mine.
HAMLET

No, nor mine now.
To POLONIUS
My lord, you played once i’ the university, you say?
LORD POLONIUS

That did I, my lord; and was accounted a good actor.
HAMLET

What did you enact?
LORD POLONIUS

I did enact Julius Caesar: I was killed i’ the
Capitol; Brutus killed me.
HAMLET

It was a brute part of him to kill so capital a calf
there. Be the players ready?
ROSENCRANTZ

Ay, my lord; they stay upon your patience.
QUEEN GERTRUDE

Come hither, my dear Hamlet, sit by me.
HAMLET

No, good mother, here’s metal more attractive.
LORD POLONIUS

[To KING CLAUDIUS] O, ho! do you mark that?
HAMLET

Lady, shall I lie in your lap?
Lying down at OPHELIA’s feet
OPHELIA

No, my lord.
HAMLET

I mean, my head upon your lap?
OPHELIA

Ay, my lord.
HAMLET

Do you think I meant country matters?
OPHELIA

I think nothing, my lord.
HAMLET

That’s a fair thought to lie between maids’ legs.
OPHELIA

What is, my lord?
HAMLET

Nothing.
OPHELIA

You are merry, my lord.
HAMLET

Who, I?
OPHELIA

Ay, my lord.
HAMLET

O God, your only jig-maker. What should a man do
but be merry? for, look you, how cheerfully my
mother looks, and my father died within these two hours.
OPHELIA

Nay, ’tis twice two months, my lord.
HAMLET

So long? Nay then, let the devil wear black, for
I’ll have a suit of sables. O heavens! die two
months ago, and not forgotten yet? Then there’s
hope a great man’s memory may outlive his life half
a year: but, by’r lady, he must build churches,
then; or else shall he suffer not thinking on, with
the hobby-horse, whose epitaph is ‘For, O, for, O,
the hobby-horse is forgot.’
Hautboys play. The dumb-show enters
Enter a King and a Queen very lovingly; the Queen embracing him, and he her. She kneels, and makes show of protestation unto him. He takes her up, and declines his head upon her neck: lays him down upon a bank of flowers: she, seeing him asleep, leaves him. Anon comes in a fellow, takes off his crown, kisses it, and pours poison in the King’s ears, and exit. The Queen returns; finds the King dead, and makes passionate action. The Poisoner, with some two or three Mutes, comes in again, seeming to lament with her. The dead body is carried away. The Poisoner wooes the Queen with gifts: she seems loath and unwilling awhile, but in the end accepts his love
Exeunt
OPHELIA

What means this, my lord?
HAMLET

Marry, this is miching mallecho; it means mischief.
OPHELIA

Belike this show imports the argument of the play.
Enter Prologue
HAMLET

We shall know by this fellow: the players cannot
keep counsel; they’ll tell all.
OPHELIA

Will he tell us what this show meant?
HAMLET

Ay, or any show that you’ll show him: be not you
ashamed to show, he’ll not shame to tell you what it means.
OPHELIA

You are naught, you are naught: I’ll mark the play.
Prologue

For us, and for our tragedy,
Here stooping to your clemency,
We beg your hearing patiently.
Exit
HAMLET

Is this a prologue, or the posy of a ring?
OPHELIA

‘Tis brief, my lord.
HAMLET

As woman’s love.
Enter two Players, King and Queen
Player King

Full thirty times hath Phoebus’ cart gone round
Neptune’s salt wash and Tellus’ orbed ground,
And thirty dozen moons with borrow’d sheen
About the world have times twelve thirties been,
Since love our hearts and Hymen did our hands
Unite commutual in most sacred bands.
Player Queen

So many journeys may the sun and moon
Make us again count o’er ere love be done!
But, woe is me, you are so sick of late,
So far from cheer and from your former state,
That I distrust you. Yet, though I distrust,
Discomfort you, my lord, it nothing must:
For women’s fear and love holds quantity;
In neither aught, or in extremity.
Now, what my love is, proof hath made you know;
And as my love is sized, my fear is so:
Where love is great, the littlest doubts are fear;
Where little fears grow great, great love grows there.
Player King

‘Faith, I must leave thee, love, and shortly too;
My operant powers their functions leave to do:
And thou shalt live in this fair world behind,
Honour’d, beloved; and haply one as kind
For husband shalt thou–
Player Queen

O, confound the rest!
Such love must needs be treason in my breast:
In second husband let me be accurst!
None wed the second but who kill’d the first.
HAMLET

[Aside] Wormwood, wormwood.
Player Queen

The instances that second marriage move
Are base respects of thrift, but none of love:
A second time I kill my husband dead,
When second husband kisses me in bed.
Player King

I do believe you think what now you speak;
But what we do determine oft we break.
Purpose is but the slave to memory,
Of violent birth, but poor validity;
Which now, like fruit unripe, sticks on the tree;
But fall, unshaken, when they mellow be.
Most necessary ’tis that we forget
To pay ourselves what to ourselves is debt:
What to ourselves in passion we propose,
The passion ending, doth the purpose lose.
The violence of either grief or joy
Their own enactures with themselves destroy:
Where joy most revels, grief doth most lament;
Grief joys, joy grieves, on slender accident.
This world is not for aye, nor ’tis not strange
That even our loves should with our fortunes change;
For ’tis a question left us yet to prove,
Whether love lead fortune, or else fortune love.
The great man down, you mark his favourite flies;
The poor advanced makes friends of enemies.
And hitherto doth love on fortune tend;
For who not needs shall never lack a friend,
And who in want a hollow friend doth try,
Directly seasons him his enemy.
But, orderly to end where I begun,
Our wills and fates do so contrary run
That our devices still are overthrown;
Our thoughts are ours, their ends none of our own:
So think thou wilt no second husband wed;
But die thy thoughts when thy first lord is dead.
Player Queen

Nor earth to me give food, nor heaven light!
Sport and repose lock from me day and night!
To desperation turn my trust and hope!
An anchor’s cheer in prison be my scope!
Each opposite that blanks the face of joy
Meet what I would have well and it destroy!
Both here and hence pursue me lasting strife,
If, once a widow, ever I be wife!
HAMLET

If she should break it now!
Player King

‘Tis deeply sworn. Sweet, leave me here awhile;
My spirits grow dull, and fain I would beguile
The tedious day with sleep.
Sleeps
Player Queen

Sleep rock thy brain,
And never come mischance between us twain!
Exit
HAMLET

Madam, how like you this play?
QUEEN GERTRUDE

The lady protests too much, methinks.
HAMLET

O, but she’ll keep her word.
KING CLAUDIUS

Have you heard the argument? Is there no offence in ‘t?
HAMLET

No, no, they do but jest, poison in jest; no offence
i’ the world.
KING CLAUDIUS

What do you call the play?
HAMLET

The Mouse-trap. Marry, how? Tropically. This play
is the image of a murder done in Vienna: Gonzago is
the duke’s name; his wife, Baptista: you shall see
anon; ’tis a knavish piece of work: but what o’
that? your majesty and we that have free souls, it
touches us not: let the galled jade wince, our
withers are unwrung.
Enter LUCIANUS
This is one Lucianus, nephew to the king.
OPHELIA

You are as good as a chorus, my lord.
HAMLET

I could interpret between you and your love, if I
could see the puppets dallying.
OPHELIA

You are keen, my lord, you are keen.
HAMLET

It would cost you a groaning to take off my edge.
OPHELIA

Still better, and worse.
HAMLET

So you must take your husbands. Begin, murderer;
pox, leave thy damnable faces, and begin. Come:
‘the croaking raven doth bellow for revenge.’
LUCIANUS

Thoughts black, hands apt, drugs fit, and time agreeing;
Confederate season, else no creature seeing;
Thou mixture rank, of midnight weeds collected,
With Hecate’s ban thrice blasted, thrice infected,
Thy natural magic and dire property,
On wholesome life usurp immediately.
Pours the poison into the sleeper’s ears
HAMLET

He poisons him i’ the garden for’s estate. His
name’s Gonzago: the story is extant, and writ in
choice Italian: you shall see anon how the murderer
gets the love of Gonzago’s wife.
OPHELIA

The king rises.
HAMLET

What, frighted with false fire!
QUEEN GERTRUDE

How fares my lord?
LORD POLONIUS

Give o’er the play.
KING CLAUDIUS

Give me some light: away!
All

Lights, lights, lights!
Exeunt all but HAMLET and HORATIO
HAMLET

Why, let the stricken deer go weep,
The hart ungalled play;
For some must watch, while some must sleep:
So runs the world away.
Would not this, sir, and a forest of feathers– if
the rest of my fortunes turn Turk with me–with two
Provincial roses on my razed shoes, get me a
fellowship in a cry of players, sir?
HORATIO

Half a share.
HAMLET

A whole one, I.
For thou dost know, O Damon dear,
This realm dismantled was
Of Jove himself; and now reigns here
A very, very–pajock.
HORATIO

You might have rhymed.
HAMLET

O good Horatio, I’ll take the ghost’s word for a
thousand pound. Didst perceive?
HORATIO

Very well, my lord.
HAMLET

Upon the talk of the poisoning?
HORATIO

I did very well note him.
HAMLET

Ah, ha! Come, some music! come, the recorders!
For if the king like not the comedy,
Why then, belike, he likes it not, perdy.
Come, some music!
Re-enter ROSENCRANTZ and GUILDENSTERN
GUILDENSTERN

Good my lord, vouchsafe me a word with you.
HAMLET

Sir, a whole history.
GUILDENSTERN

The king, sir,–
HAMLET

Ay, sir, what of him?
GUILDENSTERN

Is in his retirement marvellous distempered.
HAMLET

With drink, sir?
GUILDENSTERN

No, my lord, rather with choler.
HAMLET

Your wisdom should show itself more richer to
signify this to his doctor; for, for me to put him
to his purgation would perhaps plunge him into far
more choler.
GUILDENSTERN

Good my lord, put your discourse into some frame and
start not so wildly from my affair.
HAMLET

I am tame, sir: pronounce.
GUILDENSTERN

The queen, your mother, in most great affliction of
spirit, hath sent me to you.
HAMLET

You are welcome.
GUILDENSTERN

Nay, good my lord, this courtesy is not of the right
breed. If it shall please you to make me a
wholesome answer, I will do your mother’s
commandment: if not, your pardon and my return
shall be the end of my business.
HAMLET

Sir, I cannot.
GUILDENSTERN

What, my lord?
HAMLET

Make you a wholesome answer; my wit’s diseased: but,
sir, such answer as I can make, you shall command;
or, rather, as you say, my mother: therefore no
more, but to the matter: my mother, you say,–
ROSENCRANTZ

Then thus she says; your behavior hath struck her
into amazement and admiration.
HAMLET

O wonderful son, that can so astonish a mother! But
is there no sequel at the heels of this mother’s
admiration? Impart.
ROSENCRANTZ

She desires to speak with you in her closet, ere you
go to bed.
HAMLET

We shall obey, were she ten times our mother. Have
you any further trade with us?
ROSENCRANTZ

My lord, you once did love me.
HAMLET

So I do still, by these pickers and stealers.
ROSENCRANTZ

Good my lord, what is your cause of distemper? you
do, surely, bar the door upon your own liberty, if
you deny your griefs to your friend.
HAMLET

Sir, I lack advancement.
ROSENCRANTZ

How can that be, when you have the voice of the king
himself for your succession in Denmark?
HAMLET

Ay, but sir, ‘While the grass grows,’–the proverb
is something musty.
Re-enter Players with recorders
O, the recorders! let me see one. To withdraw with
you:–why do you go about to recover the wind of me,
as if you would drive me into a toil?
GUILDENSTERN

O, my lord, if my duty be too bold, my love is too
unmannerly.
HAMLET

I do not well understand that. Will you play upon
this pipe?
GUILDENSTERN

My lord, I cannot.
HAMLET

I pray you.
GUILDENSTERN

Believe me, I cannot.
HAMLET

I do beseech you.
GUILDENSTERN

I know no touch of it, my lord.
HAMLET

‘Tis as easy as lying: govern these ventages with
your lingers and thumb, give it breath with your
mouth, and it will discourse most eloquent music.
Look you, these are the stops.
GUILDENSTERN

But these cannot I command to any utterance of
harmony; I have not the skill.
HAMLET

Why, look you now, how unworthy a thing you make of
me! You would play upon me; you would seem to know
my stops; you would pluck out the heart of my
mystery; you would sound me from my lowest note to
the top of my compass: and there is much music,
excellent voice, in this little organ; yet cannot
you make it speak. ‘Sblood, do you think I am
easier to be played on than a pipe? Call me what
instrument you will, though you can fret me, yet you
cannot play upon me.
Enter POLONIUS
God bless you, sir!
LORD POLONIUS

My lord, the queen would speak with you, and
presently.
HAMLET

Do you see yonder cloud that’s almost in shape of a camel?
LORD POLONIUS

By the mass, and ’tis like a camel, indeed.
HAMLET

Methinks it is like a weasel.
LORD POLONIUS

It is backed like a weasel.
HAMLET

Or like a whale?
LORD POLONIUS

Very like a whale.
HAMLET

Then I will come to my mother by and by. They fool
me to the top of my bent. I will come by and by.
LORD POLONIUS

I will say so.
HAMLET

By and by is easily said.
Exit POLONIUS
Leave me, friends.
Exeunt all but HAMLET
Tis now the very witching time of night,
When churchyards yawn and hell itself breathes out
Contagion to this world: now could I drink hot blood,
And do such bitter business as the day
Would quake to look on. Soft! now to my mother.
O heart, lose not thy nature; let not ever
The soul of Nero enter this firm bosom:
Let me be cruel, not unnatural:
I will speak daggers to her, but use none;
My tongue and soul in this be hypocrites;
How in my words soever she be shent,
To give them seals never, my soul, consent!
Exit

SCENE III. A room in the castle.

Enter KING CLAUDIUS, ROSENCRANTZ, and GUILDENSTERN
KING CLAUDIUS

I like him not, nor stands it safe with us
To let his madness range. Therefore prepare you;
I your commission will forthwith dispatch,
And he to England shall along with you:
The terms of our estate may not endure
Hazard so dangerous as doth hourly grow
Out of his lunacies.
GUILDENSTERN

We will ourselves provide:
Most holy and religious fear it is
To keep those many many bodies safe
That live and feed upon your majesty.
ROSENCRANTZ

The single and peculiar life is bound,
With all the strength and armour of the mind,
To keep itself from noyance; but much more
That spirit upon whose weal depend and rest
The lives of many. The cease of majesty
Dies not alone; but, like a gulf, doth draw
What’s near it with it: it is a massy wheel,
Fix’d on the summit of the highest mount,
To whose huge spokes ten thousand lesser things
Are mortised and adjoin’d; which, when it falls,
Each small annexment, petty consequence,
Attends the boisterous ruin. Never alone
Did the king sigh, but with a general groan.
KING CLAUDIUS

Arm you, I pray you, to this speedy voyage;
For we will fetters put upon this fear,
Which now goes too free-footed.
ROSENCRANTZ

GUILDENSTERN

We will haste us.
Exeunt ROSENCRANTZ and GUILDENSTERN
Enter POLONIUS
LORD POLONIUS

My lord, he’s going to his mother’s closet:
Behind the arras I’ll convey myself,
To hear the process; and warrant she’ll tax him home:
And, as you said, and wisely was it said,
‘Tis meet that some more audience than a mother,
Since nature makes them partial, should o’erhear
The speech, of vantage. Fare you well, my liege:
I’ll call upon you ere you go to bed,
And tell you what I know.
KING CLAUDIUS

Thanks, dear my lord.
Exit POLONIUS
O, my offence is rank it smells to heaven;
It hath the primal eldest curse upon’t,
A brother’s murder. Pray can I not,
Though inclination be as sharp as will:
My stronger guilt defeats my strong intent;
And, like a man to double business bound,
I stand in pause where I shall first begin,
And both neglect. What if this cursed hand
Were thicker than itself with brother’s blood,
Is there not rain enough in the sweet heavens
To wash it white as snow? Whereto serves mercy
But to confront the visage of offence?
And what’s in prayer but this two-fold force,
To be forestalled ere we come to fall,
Or pardon’d being down? Then I’ll look up;
My fault is past. But, O, what form of prayer
Can serve my turn? ‘Forgive me my foul murder’?
That cannot be; since I am still possess’d
Of those effects for which I did the murder,
My crown, mine own ambition and my queen.
May one be pardon’d and retain the offence?
In the corrupted currents of this world
Offence’s gilded hand may shove by justice,
And oft ’tis seen the wicked prize itself
Buys out the law: but ’tis not so above;
There is no shuffling, there the action lies
In his true nature; and we ourselves compell’d,
Even to the teeth and forehead of our faults,
To give in evidence. What then? what rests?
Try what repentance can: what can it not?
Yet what can it when one can not repent?
O wretched state! O bosom black as death!
O limed soul, that, struggling to be free,
Art more engaged! Help, angels! Make assay!
Bow, stubborn knees; and, heart with strings of steel,
Be soft as sinews of the newborn babe!
All may be well.
Retires and kneels
Enter HAMLET
HAMLET

Now might I do it pat, now he is praying;
And now I’ll do’t. And so he goes to heaven;
And so am I revenged. That would be scann’d:
A villain kills my father; and for that,
I, his sole son, do this same villain send
To heaven.
O, this is hire and salary, not revenge.
He took my father grossly, full of bread;
With all his crimes broad blown, as flush as May;
And how his audit stands who knows save heaven?
But in our circumstance and course of thought,
‘Tis heavy with him: and am I then revenged,
To take him in the purging of his soul,
When he is fit and season’d for his passage?
No!
Up, sword; and know thou a more horrid hent:
When he is drunk asleep, or in his rage,
Or in the incestuous pleasure of his bed;
At gaming, swearing, or about some act
That has no relish of salvation in’t;
Then trip him, that his heels may kick at heaven,
And that his soul may be as damn’d and black
As hell, whereto it goes. My mother stays:
This physic but prolongs thy sickly days.
Exit
KING CLAUDIUS

[Rising] My words fly up, my thoughts remain below:
Words without thoughts never to heaven go.
Exit

SCENE IV. The Queen’s closet.

Enter QUEEN GERTRUDE and POLONIUS
LORD POLONIUS

He will come straight. Look you lay home to him:
Tell him his pranks have been too broad to bear with,
And that your grace hath screen’d and stood between
Much heat and him. I’ll sconce me even here.
Pray you, be round with him.
HAMLET

[Within] Mother, mother, mother!
QUEEN GERTRUDE

I’ll warrant you,
Fear me not: withdraw, I hear him coming.
POLONIUS hides behind the arras
Enter HAMLET
HAMLET

Now, mother, what’s the matter?
QUEEN GERTRUDE

Hamlet, thou hast thy father much offended.
HAMLET

Mother, you have my father much offended.
QUEEN GERTRUDE

Come, come, you answer with an idle tongue.
HAMLET

Go, go, you question with a wicked tongue.
QUEEN GERTRUDE

Why, how now, Hamlet!
HAMLET

What’s the matter now?
QUEEN GERTRUDE

Have you forgot me?
HAMLET

No, by the rood, not so:
You are the queen, your husband’s brother’s wife;
And–would it were not so!–you are my mother.
QUEEN GERTRUDE

Nay, then, I’ll set those to you that can speak.
HAMLET

Come, come, and sit you down; you shall not budge;
You go not till I set you up a glass
Where you may see the inmost part of you.
QUEEN GERTRUDE

What wilt thou do? thou wilt not murder me?
Help, help, ho!
LORD POLONIUS

[Behind] What, ho! help, help, help!
HAMLET

[Drawing] How now! a rat? Dead, for a ducat, dead!
Makes a pass through the arras
LORD POLONIUS

[Behind] O, I am slain!
Falls and dies
QUEEN GERTRUDE

O me, what hast thou done?
HAMLET

Nay, I know not:
Is it the king?
QUEEN GERTRUDE

O, what a rash and bloody deed is this!
HAMLET

A bloody deed! almost as bad, good mother,
As kill a king, and marry with his brother.
QUEEN GERTRUDE

As kill a king!
HAMLET

Ay, lady, ’twas my word.
Lifts up the array and discovers POLONIUS
Thou wretched, rash, intruding fool, farewell!
I took thee for thy better: take thy fortune;
Thou find’st to be too busy is some danger.
Leave wringing of your hands: peace! sit you down,
And let me wring your heart; for so I shall,
If it be made of penetrable stuff,
If damned custom have not brass’d it so
That it is proof and bulwark against sense.
QUEEN GERTRUDE

What have I done, that thou darest wag thy tongue
In noise so rude against me?
HAMLET

Such an act
That blurs the grace and blush of modesty,
Calls virtue hypocrite, takes off the rose
From the fair forehead of an innocent love
And sets a blister there, makes marriage-vows
As false as dicers’ oaths: O, such a deed
As from the body of contraction plucks
The very soul, and sweet religion makes
A rhapsody of words: heaven’s face doth glow:
Yea, this solidity and compound mass,
With tristful visage, as against the doom,
Is thought-sick at the act.
QUEEN GERTRUDE

Ay me, what act,
That roars so loud, and thunders in the index?
HAMLET

Look here, upon this picture, and on this,
The counterfeit presentment of two brothers.
See, what a grace was seated on this brow;
Hyperion’s curls; the front of Jove himself;
An eye like Mars, to threaten and command;
A station like the herald Mercury
New-lighted on a heaven-kissing hill;
A combination and a form indeed,
Where every god did seem to set his seal,
To give the world assurance of a man:
This was your husband. Look you now, what follows:
Here is your husband; like a mildew’d ear,
Blasting his wholesome brother. Have you eyes?
Could you on this fair mountain leave to feed,
And batten on this moor? Ha! have you eyes?
You cannot call it love; for at your age
The hey-day in the blood is tame, it’s humble,
And waits upon the judgment: and what judgment
Would step from this to this? Sense, sure, you have,
Else could you not have motion; but sure, that sense
Is apoplex’d; for madness would not err,
Nor sense to ecstasy was ne’er so thrall’d
But it reserved some quantity of choice,
To serve in such a difference. What devil was’t
That thus hath cozen’d you at hoodman-blind?
Eyes without feeling, feeling without sight,
Ears without hands or eyes, smelling sans all,
Or but a sickly part of one true sense
Could not so mope.
O shame! where is thy blush? Rebellious hell,
If thou canst mutine in a matron’s bones,
To flaming youth let virtue be as wax,
And melt in her own fire: proclaim no shame
When the compulsive ardour gives the charge,
Since frost itself as actively doth burn
And reason panders will.
QUEEN GERTRUDE

O Hamlet, speak no more:
Thou turn’st mine eyes into my very soul;
And there I see such black and grained spots
As will not leave their tinct.
HAMLET

Nay, but to live
In the rank sweat of an enseamed bed,
Stew’d in corruption, honeying and making love
Over the nasty sty,–
QUEEN GERTRUDE

O, speak to me no more;
These words, like daggers, enter in mine ears;
No more, sweet Hamlet!
HAMLET

A murderer and a villain;
A slave that is not twentieth part the tithe
Of your precedent lord; a vice of kings;
A cutpurse of the empire and the rule,
That from a shelf the precious diadem stole,
And put it in his pocket!
QUEEN GERTRUDE

No more!
HAMLET

A king of shreds and patches,–
Enter Ghost
Save me, and hover o’er me with your wings,
You heavenly guards! What would your gracious figure?
QUEEN GERTRUDE

Alas, he’s mad!
HAMLET

Do you not come your tardy son to chide,
That, lapsed in time and passion, lets go by
The important acting of your dread command? O, say!
Ghost

Do not forget: this visitation
Is but to whet thy almost blunted purpose.
But, look, amazement on thy mother sits:
O, step between her and her fighting soul:
Conceit in weakest bodies strongest works:
Speak to her, Hamlet.
HAMLET

How is it with you, lady?
QUEEN GERTRUDE

Alas, how is’t with you,
That you do bend your eye on vacancy
And with the incorporal air do hold discourse?
Forth at your eyes your spirits wildly peep;
And, as the sleeping soldiers in the alarm,
Your bedded hair, like life in excrements,
Starts up, and stands on end. O gentle son,
Upon the heat and flame of thy distemper
Sprinkle cool patience. Whereon do you look?
HAMLET

On him, on him! Look you, how pale he glares!
His form and cause conjoin’d, preaching to stones,
Would make them capable. Do not look upon me;
Lest with this piteous action you convert
My stern effects: then what I have to do
Will want true colour; tears perchance for blood.
QUEEN GERTRUDE

To whom do you speak this?
HAMLET

Do you see nothing there?
QUEEN GERTRUDE

Nothing at all; yet all that is I see.
HAMLET

Nor did you nothing hear?
QUEEN GERTRUDE

No, nothing but ourselves.
HAMLET

Why, look you there! look, how it steals away!
My father, in his habit as he lived!
Look, where he goes, even now, out at the portal!
Exit Ghost
QUEEN GERTRUDE

This the very coinage of your brain:
This bodiless creation ecstasy
Is very cunning in.
HAMLET

Ecstasy!
My pulse, as yours, doth temperately keep time,
And makes as healthful music: it is not madness
That I have utter’d: bring me to the test,
And I the matter will re-word; which madness
Would gambol from. Mother, for love of grace,
Lay not that mattering unction to your soul,
That not your trespass, but my madness speaks:
It will but skin and film the ulcerous place,
Whilst rank corruption, mining all within,
Infects unseen. Confess yourself to heaven;
Repent what’s past; avoid what is to come;
And do not spread the compost on the weeds,
To make them ranker. Forgive me this my virtue;
For in the fatness of these pursy times
Virtue itself of vice must pardon beg,
Yea, curb and woo for leave to do him good.
QUEEN GERTRUDE

O Hamlet, thou hast cleft my heart in twain.
HAMLET

O, throw away the worser part of it,
And live the purer with the other half.
Good night: but go not to mine uncle’s bed;
Assume a virtue, if you have it not.
That monster, custom, who all sense doth eat,
Of habits devil, is angel yet in this,
That to the use of actions fair and good
He likewise gives a frock or livery,
That aptly is put on. Refrain to-night,
And that shall lend a kind of easiness
To the next abstinence: the next more easy;
For use almost can change the stamp of nature,
And either [ ] the devil, or throw him out
With wondrous potency. Once more, good night:
And when you are desirous to be bless’d,
I’ll blessing beg of you. For this same lord,
Pointing to POLONIUS
I do repent: but heaven hath pleased it so,
To punish me with this and this with me,
That I must be their scourge and minister.
I will bestow him, and will answer well
The death I gave him. So, again, good night.
I must be cruel, only to be kind:
Thus bad begins and worse remains behind.
One word more, good lady.
QUEEN GERTRUDE

What shall I do?
HAMLET

Not this, by no means, that I bid you do:
Let the bloat king tempt you again to bed;
Pinch wanton on your cheek; call you his mouse;
And let him, for a pair of reechy kisses,
Or paddling in your neck with his damn’d fingers,
Make you to ravel all this matter out,
That I essentially am not in madness,
But mad in craft. ‘Twere good you let him know;
For who, that’s but a queen, fair, sober, wise,
Would from a paddock, from a bat, a gib,
Such dear concernings hide? who would do so?
No, in despite of sense and secrecy,
Unpeg the basket on the house’s top.
Let the birds fly, and, like the famous ape,
To try conclusions, in the basket creep,
And break your own neck down.
QUEEN GERTRUDE

Be thou assured, if words be made of breath,
And breath of life, I have no life to breathe
What thou hast said to me.
HAMLET

I must to England; you know that?
QUEEN GERTRUDE

Alack,
I had forgot: ’tis so concluded on.
HAMLET

There’s letters seal’d: and my two schoolfellows,
Whom I will trust as I will adders fang’d,
They bear the mandate; they must sweep my way,
And marshal me to knavery. Let it work;
For ’tis the sport to have the engineer
Hoist with his own petard: and ‘t shall go hard
But I will delve one yard below their mines,
And blow them at the moon: O, ’tis most sweet,
When in one line two crafts directly meet.
This man shall set me packing:
I’ll lug the guts into the neighbour room.
Mother, good night. Indeed this counsellor
Is now most still, most secret and most grave,
Who was in life a foolish prating knave.
Come, sir, to draw toward an end with you.
Good night, mother.
Exeunt severally; HAMLET dragging in POLONIUS

ACT IV
SCENE I. A room in the castle.

Enter KING CLAUDIUS, QUEEN GERTRUDE, ROSENCRANTZ, and GUILDENSTERN
KING CLAUDIUS

There’s matter in these sighs, these profound heaves:
You must translate: ’tis fit we understand them.
Where is your son?
QUEEN GERTRUDE

Bestow this place on us a little while.
Exeunt ROSENCRANTZ and GUILDENSTERN
Ah, my good lord, what have I seen to-night!
KING CLAUDIUS

What, Gertrude? How does Hamlet?
QUEEN GERTRUDE

Mad as the sea and wind, when both contend
Which is the mightier: in his lawless fit,
Behind the arras hearing something stir,
Whips out his rapier, cries, ‘A rat, a rat!’
And, in this brainish apprehension, kills
The unseen good old man.
KING CLAUDIUS

O heavy deed!
It had been so with us, had we been there:
His liberty is full of threats to all;
To you yourself, to us, to every one.
Alas, how shall this bloody deed be answer’d?
It will be laid to us, whose providence
Should have kept short, restrain’d and out of haunt,
This mad young man: but so much was our love,
We would not understand what was most fit;
But, like the owner of a foul disease,
To keep it from divulging, let it feed
Even on the pith of Life. Where is he gone?
QUEEN GERTRUDE

To draw apart the body he hath kill’d:
O’er whom his very madness, like some ore
Among a mineral of metals base,
Shows itself pure; he weeps for what is done.
KING CLAUDIUS

O Gertrude, come away!
The sun no sooner shall the mountains touch,
But we will ship him hence: and this vile deed
We must, with all our majesty and skill,
Both countenance and excuse. Ho, Guildenstern!
Re-enter ROSENCRANTZ and GUILDENSTERN
Friends both, go join you with some further aid:
Hamlet in madness hath Polonius slain,
And from his mother’s closet hath he dragg’d him:
Go seek him out; speak fair, and bring the body
Into the chapel. I pray you, haste in this.
Exeunt ROSENCRANTZ and GUILDENSTERN
Come, Gertrude, we’ll call up our wisest friends;
And let them know, both what we mean to do,
And what’s untimely done. O, come away!
My soul is full of discord and dismay.
Exeunt

SCENE II. Another room in the castle.

Enter HAMLET
HAMLET

Safely stowed.
ROSENCRANTZ:

GUILDENSTERN:

[Within] Hamlet! Lord Hamlet!
HAMLET

What noise? who calls on Hamlet?
O, here they come.
Enter ROSENCRANTZ and GUILDENSTERN
ROSENCRANTZ

What have you done, my lord, with the dead body?
HAMLET

Compounded it with dust, whereto ’tis kin.
ROSENCRANTZ

Tell us where ’tis, that we may take it thence
And bear it to the chapel.
HAMLET

Do not believe it.
ROSENCRANTZ

Believe what?
HAMLET

That I can keep your counsel and not mine own.
Besides, to be demanded of a sponge! what
replication should be made by the son of a king?
ROSENCRANTZ

Take you me for a sponge, my lord?
HAMLET

Ay, sir, that soaks up the king’s countenance, his
rewards, his authorities. But such officers do the
king best service in the end: he keeps them, like
an ape, in the corner of his jaw; first mouthed, to
be last swallowed: when he needs what you have
gleaned, it is but squeezing you, and, sponge, you
shall be dry again.
ROSENCRANTZ

I understand you not, my lord.
HAMLET

I am glad of it: a knavish speech sleeps in a
foolish ear.
ROSENCRANTZ

My lord, you must tell us where the body is, and go
with us to the king.
HAMLET

The body is with the king, but the king is not with
the body. The king is a thing–
GUILDENSTERN

A thing, my lord!
HAMLET

Of nothing: bring me to him. Hide fox, and all after.
Exeunt

SCENE III. Another room in the castle.

Enter KING CLAUDIUS, attended
KING CLAUDIUS

I have sent to seek him, and to find the body.
How dangerous is it that this man goes loose!
Yet must not we put the strong law on him:
He’s loved of the distracted multitude,
Who like not in their judgment, but their eyes;
And where tis so, the offender’s scourge is weigh’d,
But never the offence. To bear all smooth and even,
This sudden sending him away must seem
Deliberate pause: diseases desperate grown
By desperate appliance are relieved,
Or not at all.
Enter ROSENCRANTZ
How now! what hath befall’n?
ROSENCRANTZ

Where the dead body is bestow’d, my lord,
We cannot get from him.
KING CLAUDIUS

But where is he?
ROSENCRANTZ

Without, my lord; guarded, to know your pleasure.
KING CLAUDIUS

Bring him before us.
ROSENCRANTZ

Ho, Guildenstern! bring in my lord.
Enter HAMLET and GUILDENSTERN
KING CLAUDIUS

Now, Hamlet, where’s Polonius?
HAMLET

At supper.
KING CLAUDIUS

At supper! where?
HAMLET

Not where he eats, but where he is eaten: a certain
convocation of politic worms are e’en at him. Your
worm is your only emperor for diet: we fat all
creatures else to fat us, and we fat ourselves for
maggots: your fat king and your lean beggar is but
variable service, two dishes, but to one table:
that’s the end.
KING CLAUDIUS

Alas, alas!
HAMLET

A man may fish with the worm that hath eat of a
king, and eat of the fish that hath fed of that worm.
KING CLAUDIUS

What dost you mean by this?
HAMLET

Nothing but to show you how a king may go a
progress through the guts of a beggar.
KING CLAUDIUS

Where is Polonius?
HAMLET

In heaven; send hither to see: if your messenger
find him not there, seek him i’ the other place
yourself. But indeed, if you find him not within
this month, you shall nose him as you go up the
stairs into the lobby.
KING CLAUDIUS

Go seek him there.
To some Attendants
HAMLET

He will stay till ye come.
Exeunt Attendants
KING CLAUDIUS

Hamlet, this deed, for thine especial safety,–
Which we do tender, as we dearly grieve
For that which thou hast done,–must send thee hence
With fiery quickness: therefore prepare thyself;
The bark is ready, and the wind at help,
The associates tend, and every thing is bent
For England.
HAMLET

For England!
KING CLAUDIUS

Ay, Hamlet.
HAMLET

Good.
KING CLAUDIUS

So is it, if thou knew’st our purposes.
HAMLET

I see a cherub that sees them. But, come; for
England! Farewell, dear mother.
KING CLAUDIUS

Thy loving father, Hamlet.
HAMLET

My mother: father and mother is man and wife; man
and wife is one flesh; and so, my mother. Come, for England!
Exit
KING CLAUDIUS

Follow him at foot; tempt him with speed aboard;
Delay it not; I’ll have him hence to-night:
Away! for every thing is seal’d and done
That else leans on the affair: pray you, make haste.
Exeunt ROSENCRANTZ and GUILDENSTERN
And, England, if my love thou hold’st at aught–
As my great power thereof may give thee sense,
Since yet thy cicatrice looks raw and red
After the Danish sword, and thy free awe
Pays homage to us–thou mayst not coldly set
Our sovereign process; which imports at full,
By letters congruing to that effect,
The present death of Hamlet. Do it, England;
For like the hectic in my blood he rages,
And thou must cure me: till I know ’tis done,
Howe’er my haps, my joys were ne’er begun.
Exit

SCENE IV. A plain in Denmark.

Enter FORTINBRAS, a Captain, and Soldiers, marching
PRINCE FORTINBRAS

Go, captain, from me greet the Danish king;
Tell him that, by his licence, Fortinbras
Craves the conveyance of a promised march
Over his kingdom. You know the rendezvous.
If that his majesty would aught with us,
We shall express our duty in his eye;
And let him know so.
Captain

I will do’t, my lord.
PRINCE FORTINBRAS

Go softly on.
Exeunt FORTINBRAS and Soldiers
Enter HAMLET, ROSENCRANTZ, GUILDENSTERN, and others
HAMLET

Good sir, whose powers are these?
Captain

They are of Norway, sir.
HAMLET

How purposed, sir, I pray you?
Captain

Against some part of Poland.
HAMLET

Who commands them, sir?
Captain

The nephews to old Norway, Fortinbras.
HAMLET

Goes it against the main of Poland, sir,
Or for some frontier?
Captain

Truly to speak, and with no addition,
We go to gain a little patch of ground
That hath in it no profit but the name.
To pay five ducats, five, I would not farm it;
Nor will it yield to Norway or the Pole
A ranker rate, should it be sold in fee.
HAMLET

Why, then the Polack never will defend it.
Captain

Yes, it is already garrison’d.
HAMLET

Two thousand souls and twenty thousand ducats
Will not debate the question of this straw:
This is the imposthume of much wealth and peace,
That inward breaks, and shows no cause without
Why the man dies. I humbly thank you, sir.
Captain

God be wi’ you, sir.
Exit
ROSENCRANTZ

Wilt please you go, my lord?
HAMLET

I’ll be with you straight go a little before.
Exeunt all except HAMLET
How all occasions do inform against me,
And spur my dull revenge! What is a man,
If his chief good and market of his time
Be but to sleep and feed? a beast, no more.
Sure, he that made us with such large discourse,
Looking before and after, gave us not
That capability and god-like reason
To fust in us unused. Now, whether it be
Bestial oblivion, or some craven scruple
Of thinking too precisely on the event,
A thought which, quarter’d, hath but one part wisdom
And ever three parts coward, I do not know
Why yet I live to say ‘This thing’s to do;’
Sith I have cause and will and strength and means
To do’t. Examples gross as earth exhort me:
Witness this army of such mass and charge
Led by a delicate and tender prince,
Whose spirit with divine ambition puff’d
Makes mouths at the invisible event,
Exposing what is mortal and unsure
To all that fortune, death and danger dare,
Even for an egg-shell. Rightly to be great
Is not to stir without great argument,
But greatly to find quarrel in a straw
When honour’s at the stake. How stand I then,
That have a father kill’d, a mother stain’d,
Excitements of my reason and my blood,
And let all sleep? while, to my shame, I see
The imminent death of twenty thousand men,
That, for a fantasy and trick of fame,
Go to their graves like beds, fight for a plot
Whereon the numbers cannot try the cause,
Which is not tomb enough and continent
To hide the slain? O, from this time forth,
My thoughts be bloody, or be nothing worth!
Exit

SCENE V. Elsinore. A room in the castle.

Enter QUEEN GERTRUDE, HORATIO, and a Gentleman
QUEEN GERTRUDE

I will not speak with her.
Gentleman

She is importunate, indeed distract:
Her mood will needs be pitied.
QUEEN GERTRUDE

What would she have?
Gentleman

She speaks much of her father; says she hears
There’s tricks i’ the world; and hems, and beats her heart;
Spurns enviously at straws; speaks things in doubt,
That carry but half sense: her speech is nothing,
Yet the unshaped use of it doth move
The hearers to collection; they aim at it,
And botch the words up fit to their own thoughts;
Which, as her winks, and nods, and gestures
yield them,
Indeed would make one think there might be thought,
Though nothing sure, yet much unhappily.
HORATIO

‘Twere good she were spoken with; for she may strew
Dangerous conjectures in ill-breeding minds.
QUEEN GERTRUDE

Let her come in.
Exit HORATIO
To my sick soul, as sin’s true nature is,
Each toy seems prologue to some great amiss:
So full of artless jealousy is guilt,
It spills itself in fearing to be spilt.
Re-enter HORATIO, with OPHELIA
OPHELIA

Where is the beauteous majesty of Denmark?
QUEEN GERTRUDE

How now, Ophelia!
OPHELIA

[Sings]
How should I your true love know
From another one?
By his cockle hat and staff,
And his sandal shoon.
QUEEN GERTRUDE

Alas, sweet lady, what imports this song?
OPHELIA

Say you? nay, pray you, mark.
Sings
He is dead and gone, lady,
He is dead and gone;
At his head a grass-green turf,
At his heels a stone.
QUEEN GERTRUDE

Nay, but, Ophelia,–
OPHELIA

Pray you, mark.
Sings
White his shroud as the mountain snow,–
Enter KING CLAUDIUS
QUEEN GERTRUDE

Alas, look here, my lord.
OPHELIA

[Sings]
Larded with sweet flowers
Which bewept to the grave did go
With true-love showers.
KING CLAUDIUS

How do you, pretty lady?
OPHELIA

Well, God ‘ild you! They say the owl was a baker’s
daughter. Lord, we know what we are, but know not
what we may be. God be at your table!
KING CLAUDIUS

Conceit upon her father.
OPHELIA

Pray you, let’s have no words of this; but when they
ask you what it means, say you this:
Sings
To-morrow is Saint Valentine’s day,
All in the morning betime,
And I a maid at your window,
To be your Valentine.
Then up he rose, and donn’d his clothes,
And dupp’d the chamber-door;
Let in the maid, that out a maid
Never departed more.
KING CLAUDIUS

Pretty Ophelia!
OPHELIA

Indeed, la, without an oath, I’ll make an end on’t:
Sings
By Gis and by Saint Charity,
Alack, and fie for shame!
Young men will do’t, if they come to’t;
By cock, they are to blame.
Quoth she, before you tumbled me,
You promised me to wed.
So would I ha’ done, by yonder sun,
An thou hadst not come to my bed.
KING CLAUDIUS

How long hath she been thus?
OPHELIA

I hope all will be well. We must be patient: but I
cannot choose but weep, to think they should lay him
i’ the cold ground. My brother shall know of it:
and so I thank you for your good counsel. Come, my
coach! Good night, ladies; good night, sweet ladies;
good night, good night.
Exit
KING CLAUDIUS

Follow her close; give her good watch,
I pray you.
Exit HORATIO
O, this is the poison of deep grief; it springs
All from her father’s death. O Gertrude, Gertrude,
When sorrows come, they come not single spies
But in battalions. First, her father slain:
Next, your son gone; and he most violent author
Of his own just remove: the people muddied,
Thick and unwholesome in their thoughts and whispers,
For good Polonius’ death; and we have done but greenly,
In hugger-mugger to inter him: poor Ophelia
Divided from herself and her fair judgment,
Without the which we are pictures, or mere beasts:
Last, and as much containing as all these,
Her brother is in secret come from France;
Feeds on his wonder, keeps himself in clouds,
And wants not buzzers to infect his ear
With pestilent speeches of his father’s death;
Wherein necessity, of matter beggar’d,
Will nothing stick our person to arraign
In ear and ear. O my dear Gertrude, this,
Like to a murdering-piece, in many places
Gives me superfluous death.
A noise within
QUEEN GERTRUDE

Alack, what noise is this?
KING CLAUDIUS

Where are my Switzers? Let them guard the door.
Enter another Gentleman
What is the matter?
Gentleman

Save yourself, my lord:
The ocean, overpeering of his list,
Eats not the flats with more impetuous haste
Than young Laertes, in a riotous head,
O’erbears your officers. The rabble call him lord;
And, as the world were now but to begin,
Antiquity forgot, custom not known,
The ratifiers and props of every word,
They cry ‘Choose we: Laertes shall be king:’
Caps, hands, and tongues, applaud it to the clouds:
‘Laertes shall be king, Laertes king!’
QUEEN GERTRUDE

How cheerfully on the false trail they cry!
O, this is counter, you false Danish dogs!
KING CLAUDIUS

The doors are broke.
Noise within
Enter LAERTES, armed; Danes following
LAERTES

Where is this king? Sirs, stand you all without.
Danes

No, let’s come in.
LAERTES

I pray you, give me leave.
Danes

We will, we will.
They retire without the door
LAERTES

I thank you: keep the door. O thou vile king,
Give me my father!
QUEEN GERTRUDE

Calmly, good Laertes.
LAERTES

That drop of blood that’s calm proclaims me bastard,
Cries cuckold to my father, brands the harlot
Even here, between the chaste unsmirched brow
Of my true mother.
KING CLAUDIUS

What is the cause, Laertes,
That thy rebellion looks so giant-like?
Let him go, Gertrude; do not fear our person:
There’s such divinity doth hedge a king,
That treason can but peep to what it would,
Acts little of his will. Tell me, Laertes,
Why thou art thus incensed. Let him go, Gertrude.
Speak, man.
LAERTES

Where is my father?
KING CLAUDIUS

Dead.
QUEEN GERTRUDE

But not by him.
KING CLAUDIUS

Let him demand his fill.
LAERTES

How came he dead? I’ll not be juggled with:
To hell, allegiance! vows, to the blackest devil!
Conscience and grace, to the profoundest pit!
I dare damnation. To this point I stand,
That both the worlds I give to negligence,
Let come what comes; only I’ll be revenged
Most thoroughly for my father.
KING CLAUDIUS

Who shall stay you?
LAERTES

My will, not all the world:
And for my means, I’ll husband them so well,
They shall go far with little.
KING CLAUDIUS

Good Laertes,
If you desire to know the certainty
Of your dear father’s death, is’t writ in your revenge,
That, swoopstake, you will draw both friend and foe,
Winner and loser?
LAERTES

None but his enemies.
KING CLAUDIUS

Will you know them then?
LAERTES

To his good friends thus wide I’ll ope my arms;
And like the kind life-rendering pelican,
Repast them with my blood.
KING CLAUDIUS

Why, now you speak
Like a good child and a true gentleman.
That I am guiltless of your father’s death,
And am most sensible in grief for it,
It shall as level to your judgment pierce
As day does to your eye.
Danes

[Within] Let her come in.
LAERTES

How now! what noise is that?
Re-enter OPHELIA
O heat, dry up my brains! tears seven times salt,
Burn out the sense and virtue of mine eye!
By heaven, thy madness shall be paid by weight,
Till our scale turn the beam. O rose of May!
Dear maid, kind sister, sweet Ophelia!
O heavens! is’t possible, a young maid’s wits
Should be as moral as an old man’s life?
Nature is fine in love, and where ’tis fine,
It sends some precious instance of itself
After the thing it loves.
OPHELIA

[Sings]
They bore him barefaced on the bier;
Hey non nonny, nonny, hey nonny;
And in his grave rain’d many a tear:–
Fare you well, my dove!
LAERTES

Hadst thou thy wits, and didst persuade revenge,
It could not move thus.
OPHELIA

[Sings]
You must sing a-down a-down,
An you call him a-down-a.
O, how the wheel becomes it! It is the false
steward, that stole his master’s daughter.
LAERTES

This nothing’s more than matter.
OPHELIA

There’s rosemary, that’s for remembrance; pray,
love, remember: and there is pansies. that’s for thoughts.
LAERTES

A document in madness, thoughts and remembrance fitted.
OPHELIA

There’s fennel for you, and columbines: there’s rue
for you; and here’s some for me: we may call it
herb-grace o’ Sundays: O you must wear your rue with
a difference. There’s a daisy: I would give you
some violets, but they withered all when my father
died: they say he made a good end,–
Sings
For bonny sweet Robin is all my joy.
LAERTES

Thought and affliction, passion, hell itself,
She turns to favour and to prettiness.
OPHELIA

[Sings]
And will he not come again?
And will he not come again?
No, no, he is dead:
Go to thy death-bed:
He never will come again.
His beard was as white as snow,
All flaxen was his poll:
He is gone, he is gone,
And we cast away moan:
God ha’ mercy on his soul!
And of all Christian souls, I pray God. God be wi’ ye.
Exit
LAERTES

Do you see this, O God?
KING CLAUDIUS

Laertes, I must commune with your grief,
Or you deny me right. Go but apart,
Make choice of whom your wisest friends you will.
And they shall hear and judge ‘twixt you and me:
If by direct or by collateral hand
They find us touch’d, we will our kingdom give,
Our crown, our life, and all that we can ours,
To you in satisfaction; but if not,
Be you content to lend your patience to us,
And we shall jointly labour with your soul
To give it due content.
LAERTES

Let this be so;
His means of death, his obscure funeral–
No trophy, sword, nor hatchment o’er his bones,
No noble rite nor formal ostentation–
Cry to be heard, as ’twere from heaven to earth,
That I must call’t in question.
KING CLAUDIUS

So you shall;
And where the offence is let the great axe fall.
I pray you, go with me.
Exeunt

SCENE VI. Another room in the castle.

Enter HORATIO and a Servant
HORATIO

What are they that would speak with me?
Servant

Sailors, sir: they say they have letters for you.
HORATIO

Let them come in.
Exit Servant
I do not know from what part of the world
I should be greeted, if not from Lord Hamlet.
Enter Sailors
First Sailor

God bless you, sir.
HORATIO

Let him bless thee too.
First Sailor

He shall, sir, an’t please him. There’s a letter for
you, sir; it comes from the ambassador that was
bound for England; if your name be Horatio, as I am
let to know it is.
HORATIO

[Reads] ‘Horatio, when thou shalt have overlooked
this, give these fellows some means to the king:
they have letters for him. Ere we were two days old
at sea, a pirate of very warlike appointment gave us
chase. Finding ourselves too slow of sail, we put on
a compelled valour, and in the grapple I boarded
them: on the instant they got clear of our ship; so
I alone became their prisoner. They have dealt with
me like thieves of mercy: but they knew what they
did; I am to do a good turn for them. Let the king
have the letters I have sent; and repair thou to me
with as much speed as thou wouldst fly death. I
have words to speak in thine ear will make thee
dumb; yet are they much too light for the bore of
the matter. These good fellows will bring thee
where I am. Rosencrantz and Guildenstern hold their
course for England: of them I have much to tell
thee. Farewell.
‘He that thou knowest thine, HAMLET.’
Come, I will make you way for these your letters;
And do’t the speedier, that you may direct me
To him from whom you brought them.
Exeunt

SCENE VII. Another room in the castle.

Enter KING CLAUDIUS and LAERTES
KING CLAUDIUS

Now must your conscience my acquaintance seal,
And you must put me in your heart for friend,
Sith you have heard, and with a knowing ear,
That he which hath your noble father slain
Pursued my life.
LAERTES

It well appears: but tell me
Why you proceeded not against these feats,
So crimeful and so capital in nature,
As by your safety, wisdom, all things else,
You mainly were stirr’d up.
KING CLAUDIUS

O, for two special reasons;
Which may to you, perhaps, seem much unsinew’d,
But yet to me they are strong. The queen his mother
Lives almost by his looks; and for myself–
My virtue or my plague, be it either which–
She’s so conjunctive to my life and soul,
That, as the star moves not but in his sphere,
I could not but by her. The other motive,
Why to a public count I might not go,
Is the great love the general gender bear him;
Who, dipping all his faults in their affection,
Would, like the spring that turneth wood to stone,
Convert his gyves to graces; so that my arrows,
Too slightly timber’d for so loud a wind,
Would have reverted to my bow again,
And not where I had aim’d them.
LAERTES

And so have I a noble father lost;
A sister driven into desperate terms,
Whose worth, if praises may go back again,
Stood challenger on mount of all the age
For her perfections: but my revenge will come.
KING CLAUDIUS

Break not your sleeps for that: you must not think
That we are made of stuff so flat and dull
That we can let our beard be shook with danger
And think it pastime. You shortly shall hear more:
I loved your father, and we love ourself;
And that, I hope, will teach you to imagine–
Enter a Messenger
How now! what news?
Messenger

Letters, my lord, from Hamlet:
This to your majesty; this to the queen.
KING CLAUDIUS

From Hamlet! who brought them?
Messenger

Sailors, my lord, they say; I saw them not:
They were given me by Claudio; he received them
Of him that brought them.
KING CLAUDIUS

Laertes, you shall hear them. Leave us.
Exit Messenger
Reads
‘High and mighty, You shall know I am set naked on
your kingdom. To-morrow shall I beg leave to see
your kingly eyes: when I shall, first asking your
pardon thereunto, recount the occasion of my sudden
and more strange return. ‘HAMLET.’
What should this mean? Are all the rest come back?
Or is it some abuse, and no such thing?
LAERTES

Know you the hand?
KING CLAUDIUS

‘Tis Hamlets character. ‘Naked!
And in a postscript here, he says ‘alone.’
Can you advise me?
LAERTES

I’m lost in it, my lord. But let him come;
It warms the very sickness in my heart,
That I shall live and tell him to his teeth,
‘Thus didest thou.’
KING CLAUDIUS

If it be so, Laertes–
As how should it be so? how otherwise?–
Will you be ruled by me?
LAERTES

Ay, my lord;
So you will not o’errule me to a peace.
KING CLAUDIUS

To thine own peace. If he be now return’d,
As checking at his voyage, and that he means
No more to undertake it, I will work him
To an exploit, now ripe in my device,
Under the which he shall not choose but fall:
And for his death no wind of blame shall breathe,
But even his mother shall uncharge the practise
And call it accident.
LAERTES

My lord, I will be ruled;
The rather, if you could devise it so
That I might be the organ.
KING CLAUDIUS

It falls right.
You have been talk’d of since your travel much,
And that in Hamlet’s hearing, for a quality
Wherein, they say, you shine: your sum of parts
Did not together pluck such envy from him
As did that one, and that, in my regard,
Of the unworthiest siege.
LAERTES

What part is that, my lord?
KING CLAUDIUS

A very riband in the cap of youth,
Yet needful too; for youth no less becomes
The light and careless livery that it wears
Than settled age his sables and his weeds,
Importing health and graveness. Two months since,
Here was a gentleman of Normandy:–
I’ve seen myself, and served against, the French,
And they can well on horseback: but this gallant
Had witchcraft in’t; he grew unto his seat;
And to such wondrous doing brought his horse,
As he had been incorpsed and demi-natured
With the brave beast: so far he topp’d my thought,
That I, in forgery of shapes and tricks,
Come short of what he did.
LAERTES

A Norman was’t?
KING CLAUDIUS

A Norman.
LAERTES

Upon my life, Lamond.
KING CLAUDIUS

The very same.
LAERTES

I know him well: he is the brooch indeed
And gem of all the nation.
KING CLAUDIUS

He made confession of you,
And gave you such a masterly report
For art and exercise in your defence
And for your rapier most especially,
That he cried out, ‘twould be a sight indeed,
If one could match you: the scrimers of their nation,
He swore, had had neither motion, guard, nor eye,
If you opposed them. Sir, this report of his
Did Hamlet so envenom with his envy
That he could nothing do but wish and beg
Your sudden coming o’er, to play with him.
Now, out of this,–
LAERTES

What out of this, my lord?
KING CLAUDIUS

Laertes, was your father dear to you?
Or are you like the painting of a sorrow,
A face without a heart?
LAERTES

Why ask you this?
KING CLAUDIUS

Not that I think you did not love your father;
But that I know love is begun by time;
And that I see, in passages of proof,
Time qualifies the spark and fire of it.
There lives within the very flame of love
A kind of wick or snuff that will abate it;
And nothing is at a like goodness still;
For goodness, growing to a plurisy,
Dies in his own too much: that we would do
We should do when we would; for this ‘would’ changes
And hath abatements and delays as many
As there are tongues, are hands, are accidents;
And then this ‘should’ is like a spendthrift sigh,
That hurts by easing. But, to the quick o’ the ulcer:–
Hamlet comes back: what would you undertake,
To show yourself your father’s son in deed
More than in words?
LAERTES

To cut his throat i’ the church.
KING CLAUDIUS

No place, indeed, should murder sanctuarize;
Revenge should have no bounds. But, good Laertes,
Will you do this, keep close within your chamber.
Hamlet return’d shall know you are come home:
We’ll put on those shall praise your excellence
And set a double varnish on the fame
The Frenchman gave you, bring you in fine together
And wager on your heads: he, being remiss,
Most generous and free from all contriving,
Will not peruse the foils; so that, with ease,
Or with a little shuffling, you may choose
A sword unbated, and in a pass of practise
Requite him for your father.
LAERTES

I will do’t:
And, for that purpose, I’ll anoint my sword.
I bought an unction of a mountebank,
So mortal that, but dip a knife in it,
Where it draws blood no cataplasm so rare,
Collected from all simples that have virtue
Under the moon, can save the thing from death
That is but scratch’d withal: I’ll touch my point
With this contagion, that, if I gall him slightly,
It may be death.
KING CLAUDIUS

Let’s further think of this;
Weigh what convenience both of time and means
May fit us to our shape: if this should fail,
And that our drift look through our bad performance,
‘Twere better not assay’d: therefore this project
Should have a back or second, that might hold,
If this should blast in proof. Soft! let me see:
We’ll make a solemn wager on your cunnings: I ha’t.
When in your motion you are hot and dry–
As make your bouts more violent to that end–
And that he calls for drink, I’ll have prepared him
A chalice for the nonce, whereon but sipping,
If he by chance escape your venom’d stuck,
Our purpose may hold there.
Enter QUEEN GERTRUDE
How now, sweet queen!
QUEEN GERTRUDE

One woe doth tread upon another’s heel,
So fast they follow; your sister’s drown’d, Laertes.
LAERTES

Drown’d! O, where?
QUEEN GERTRUDE

There is a willow grows aslant a brook,
That shows his hoar leaves in the glassy stream;
There with fantastic garlands did she come
Of crow-flowers, nettles, daisies, and long purples
That liberal shepherds give a grosser name,
But our cold maids do dead men’s fingers call them:
There, on the pendent boughs her coronet weeds
Clambering to hang, an envious sliver broke;
When down her weedy trophies and herself
Fell in the weeping brook. Her clothes spread wide;
And, mermaid-like, awhile they bore her up:
Which time she chanted snatches of old tunes;
As one incapable of her own distress,
Or like a creature native and indued
Unto that element: but long it could not be
Till that her garments, heavy with their drink,
Pull’d the poor wretch from her melodious lay
To muddy death.
LAERTES

Alas, then, she is drown’d?
QUEEN GERTRUDE

Drown’d, drown’d.
LAERTES

Too much of water hast thou, poor Ophelia,
And therefore I forbid my tears: but yet
It is our trick; nature her custom holds,
Let shame say what it will: when these are gone,
The woman will be out. Adieu, my lord:
I have a speech of fire, that fain would blaze,
But that this folly douts it.
Exit
KING CLAUDIUS

Let’s follow, Gertrude:
How much I had to do to calm his rage!
Now fear I this will give it start again;
Therefore let’s follow.
Exeunt

ACT V
SCENE I. A churchyard.

Enter two Clowns, with spades, & c
First Clown

Is she to be buried in Christian burial that
wilfully seeks her own salvation?
Second Clown

I tell thee she is: and therefore make her grave
straight: the crowner hath sat on her, and finds it
Christian burial.
First Clown

How can that be, unless she drowned herself in her
own defence?
Second Clown

Why, ’tis found so.
First Clown

It must be ‘se offendendo;’ it cannot be else. For
here lies the point: if I drown myself wittingly,
it argues an act: and an act hath three branches: it
is, to act, to do, to perform: argal, she drowned
herself wittingly.
Second Clown

Nay, but hear you, goodman delver,–
First Clown

Give me leave. Here lies the water; good: here
stands the man; good; if the man go to this water,
and drown himself, it is, will he, nill he, he
goes,–mark you that; but if the water come to him
and drown him, he drowns not himself: argal, he
that is not guilty of his own death shortens not his own life.
Second Clown

But is this law?
First Clown

Ay, marry, is’t; crowner’s quest law.
Second Clown

Will you ha’ the truth on’t? If this had not been
a gentlewoman, she should have been buried out o’
Christian burial.
First Clown

Why, there thou say’st: and the more pity that
great folk should have countenance in this world to
drown or hang themselves, more than their even
Christian. Come, my spade. There is no ancient
gentleman but gardeners, ditchers, and grave-makers:
they hold up Adam’s profession.
Second Clown

Was he a gentleman?
First Clown

He was the first that ever bore arms.
Second Clown

Why, he had none.
First Clown

What, art a heathen? How dost thou understand the
Scripture? The Scripture says ‘Adam digged:’
could he dig without arms? I’ll put another
question to thee: if thou answerest me not to the
purpose, confess thyself–
Second Clown

Go to.
First Clown

What is he that builds stronger than either the
mason, the shipwright, or the carpenter?
Second Clown

The gallows-maker; for that frame outlives a
thousand tenants.
First Clown

I like thy wit well, in good faith: the gallows
does well; but how does it well? it does well to
those that do in: now thou dost ill to say the
gallows is built stronger than the church: argal,
the gallows may do well to thee. To’t again, come.
Second Clown

‘Who builds stronger than a mason, a shipwright, or
a carpenter?’
First Clown

Ay, tell me that, and unyoke.
Second Clown

Marry, now I can tell.
First Clown

To’t.
Second Clown

Mass, I cannot tell.
Enter HAMLET and HORATIO, at a distance
First Clown

Cudgel thy brains no more about it, for your dull
ass will not mend his pace with beating; and, when
you are asked this question next, say ‘a
grave-maker: ‘the houses that he makes last till
doomsday. Go, get thee to Yaughan: fetch me a
stoup of liquor.
Exit Second Clown
He digs and sings
In youth, when I did love, did love,
Methought it was very sweet,
To contract, O, the time, for, ah, my behove,
O, methought, there was nothing meet.
HAMLET

Has this fellow no feeling of his business, that he
sings at grave-making?
HORATIO

Custom hath made it in him a property of easiness.
HAMLET

‘Tis e’en so: the hand of little employment hath
the daintier sense.
First Clown

[Sings]
But age, with his stealing steps,
Hath claw’d me in his clutch,
And hath shipped me intil the land,
As if I had never been such.
Throws up a skull
HAMLET

That skull had a tongue in it, and could sing once:
how the knave jowls it to the ground, as if it were
Cain’s jaw-bone, that did the first murder! It
might be the pate of a politician, which this ass
now o’er-reaches; one that would circumvent God,
might it not?
HORATIO

It might, my lord.
HAMLET

Or of a courtier; which could say ‘Good morrow,
sweet lord! How dost thou, good lord?’ This might
be my lord such-a-one, that praised my lord
such-a-one’s horse, when he meant to beg it; might it not?
HORATIO

Ay, my lord.
HAMLET

Why, e’en so: and now my Lady Worm’s; chapless, and
knocked about the mazzard with a sexton’s spade:
here’s fine revolution, an we had the trick to
see’t. Did these bones cost no more the breeding,
but to play at loggats with ’em? mine ache to think on’t.
First Clown

[Sings]
A pick-axe, and a spade, a spade,
For and a shrouding sheet:
O, a pit of clay for to be made
For such a guest is meet.
Throws up another skull
HAMLET

There’s another: why may not that be the skull of a
lawyer? Where be his quiddities now, his quillets,
his cases, his tenures, and his tricks? why does he
suffer this rude knave now to knock him about the
sconce with a dirty shovel, and will not tell him of
his action of battery? Hum! This fellow might be
in’s time a great buyer of land, with his statutes,
his recognizances, his fines, his double vouchers,
his recoveries: is this the fine of his fines, and
the recovery of his recoveries, to have his fine
pate full of fine dirt? will his vouchers vouch him
no more of his purchases, and double ones too, than
the length and breadth of a pair of indentures? The
very conveyances of his lands will hardly lie in
this box; and must the inheritor himself have no more, ha?
HORATIO

Not a jot more, my lord.
HAMLET

Is not parchment made of sheepskins?
HORATIO

Ay, my lord, and of calf-skins too.
HAMLET

They are sheep and calves which seek out assurance
in that. I will speak to this fellow. Whose
grave’s this, sirrah?
First Clown

Mine, sir.
Sings
O, a pit of clay for to be made
For such a guest is meet.
HAMLET

I think it be thine, indeed; for thou liest in’t.
First Clown

You lie out on’t, sir, and therefore it is not
yours: for my part, I do not lie in’t, and yet it is mine.
HAMLET

‘Thou dost lie in’t, to be in’t and say it is thine:
’tis for the dead, not for the quick; therefore thou liest.
First Clown

‘Tis a quick lie, sir; ’twill away gain, from me to
you.
HAMLET

What man dost thou dig it for?
First Clown

For no man, sir.
HAMLET

What woman, then?
First Clown

For none, neither.
HAMLET

Who is to be buried in’t?
First Clown

One that was a woman, sir; but, rest her soul, she’s dead.
HAMLET

How absolute the knave is! we must speak by the
card, or equivocation will undo us. By the Lord,
Horatio, these three years I have taken a note of
it; the age is grown so picked that the toe of the
peasant comes so near the heel of the courtier, he
gaffs his kibe. How long hast thou been a
grave-maker?
First Clown

Of all the days i’ the year, I came to’t that day
that our last king Hamlet overcame Fortinbras.
HAMLET

How long is that since?
First Clown

Cannot you tell that? every fool can tell that: it
was the very day that young Hamlet was born; he that
is mad, and sent into England.
HAMLET

Ay, marry, why was he sent into England?
First Clown

Why, because he was mad: he shall recover his wits
there; or, if he do not, it’s no great matter there.
HAMLET

Why?
First Clown

‘Twill, a not be seen in him there; there the men
are as mad as he.
HAMLET

How came he mad?
First Clown

Very strangely, they say.
HAMLET

How strangely?
First Clown

Faith, e’en with losing his wits.
HAMLET

Upon what ground?
First Clown

Why, here in Denmark: I have been sexton here, man
and boy, thirty years.
HAMLET

How long will a man lie i’ the earth ere he rot?
First Clown

I’ faith, if he be not rotten before he die–as we
have many pocky corses now-a-days, that will scarce
hold the laying in–he will last you some eight year
or nine year: a tanner will last you nine year.
HAMLET

Why he more than another?
First Clown

Why, sir, his hide is so tanned with his trade, that
he will keep out water a great while; and your water
is a sore decayer of your whoreson dead body.
Here’s a skull now; this skull has lain in the earth
three and twenty years.
HAMLET

Whose was it?
First Clown

A whoreson mad fellow’s it was: whose do you think it was?
HAMLET

Nay, I know not.
First Clown

A pestilence on him for a mad rogue! a’ poured a
flagon of Rhenish on my head once. This same skull,
sir, was Yorick’s skull, the king’s jester.
HAMLET

This?
First Clown

E’en that.
HAMLET

Let me see.
Takes the skull
Alas, poor Yorick! I knew him, Horatio: a fellow
of infinite jest, of most excellent fancy: he hath
borne me on his back a thousand times; and now, how
abhorred in my imagination it is! my gorge rims at
it. Here hung those lips that I have kissed I know
not how oft. Where be your gibes now? your
gambols? your songs? your flashes of merriment,
that were wont to set the table on a roar? Not one
now, to mock your own grinning? quite chap-fallen?
Now get you to my lady’s chamber, and tell her, let
her paint an inch thick, to this favour she must
come; make her laugh at that. Prithee, Horatio, tell
me one thing.
HORATIO

What’s that, my lord?
HAMLET

Dost thou think Alexander looked o’ this fashion i’
the earth?
HORATIO

E’en so.
HAMLET

And smelt so? pah!
Puts down the skull
HORATIO

E’en so, my lord.
HAMLET

To what base uses we may return, Horatio! Why may
not imagination trace the noble dust of Alexander,
till he find it stopping a bung-hole?
HORATIO

‘Twere to consider too curiously, to consider so.
HAMLET

No, faith, not a jot; but to follow him thither with
modesty enough, and likelihood to lead it: as
thus: Alexander died, Alexander was buried,
Alexander returneth into dust; the dust is earth; of
earth we make loam; and why of that loam, whereto he
was converted, might they not stop a beer-barrel?
Imperious Caesar, dead and turn’d to clay,
Might stop a hole to keep the wind away:
O, that that earth, which kept the world in awe,
Should patch a wall to expel the winter flaw!
But soft! but soft! aside: here comes the king.
Enter Priest, & c. in procession; the Corpse of OPHELIA, LAERTES and Mourners following; KING CLAUDIUS, QUEEN GERTRUDE, their trains, & c
The queen, the courtiers: who is this they follow?
And with such maimed rites? This doth betoken
The corse they follow did with desperate hand
Fordo its own life: ’twas of some estate.
Couch we awhile, and mark.
Retiring with HORATIO
LAERTES

What ceremony else?
HAMLET

That is Laertes,
A very noble youth: mark.
LAERTES

What ceremony else?
First Priest

Her obsequies have been as far enlarged
As we have warrantise: her death was doubtful;
And, but that great command o’ersways the order,
She should in ground unsanctified have lodged
Till the last trumpet: for charitable prayers,
Shards, flints and pebbles should be thrown on her;
Yet here she is allow’d her virgin crants,
Her maiden strewments and the bringing home
Of bell and burial.
LAERTES

Must there no more be done?
First Priest

No more be done:
We should profane the service of the dead
To sing a requiem and such rest to her
As to peace-parted souls.
LAERTES

Lay her i’ the earth:
And from her fair and unpolluted flesh
May violets spring! I tell thee, churlish priest,
A ministering angel shall my sister be,
When thou liest howling.
HAMLET

What, the fair Ophelia!
QUEEN GERTRUDE

Sweets to the sweet: farewell!
Scattering flowers
I hoped thou shouldst have been my Hamlet’s wife;
I thought thy bride-bed to have deck’d, sweet maid,
And not have strew’d thy grave.
LAERTES

O, treble woe
Fall ten times treble on that cursed head,
Whose wicked deed thy most ingenious sense
Deprived thee of! Hold off the earth awhile,
Till I have caught her once more in mine arms:
Leaps into the grave
Now pile your dust upon the quick and dead,
Till of this flat a mountain you have made,
To o’ertop old Pelion, or the skyish head
Of blue Olympus.
HAMLET

[Advancing] What is he whose grief
Bears such an emphasis? whose phrase of sorrow
Conjures the wandering stars, and makes them stand
Like wonder-wounded hearers? This is I,
Hamlet the Dane.
Leaps into the grave
LAERTES

The devil take thy soul!
Grappling with him
HAMLET

Thou pray’st not well.
I prithee, take thy fingers from my throat;
For, though I am not splenitive and rash,
Yet have I something in me dangerous,
Which let thy wiseness fear: hold off thy hand.
KING CLAUDIUS

Pluck them asunder.
QUEEN GERTRUDE

Hamlet, Hamlet!
All

Gentlemen,–
HORATIO

Good my lord, be quiet.
The Attendants part them, and they come out of the grave
HAMLET

Why I will fight with him upon this theme
Until my eyelids will no longer wag.
QUEEN GERTRUDE

O my son, what theme?
HAMLET

I loved Ophelia: forty thousand brothers
Could not, with all their quantity of love,
Make up my sum. What wilt thou do for her?
KING CLAUDIUS

O, he is mad, Laertes.
QUEEN GERTRUDE

For love of God, forbear him.
HAMLET

‘Swounds, show me what thou’lt do:
Woo’t weep? woo’t fight? woo’t fast? woo’t tear thyself?
Woo’t drink up eisel? eat a crocodile?
I’ll do’t. Dost thou come here to whine?
To outface me with leaping in her grave?
Be buried quick with her, and so will I:
And, if thou prate of mountains, let them throw
Millions of acres on us, till our ground,
Singeing his pate against the burning zone,
Make Ossa like a wart! Nay, an thou’lt mouth,
I’ll rant as well as thou.
QUEEN GERTRUDE

This is mere madness:
And thus awhile the fit will work on him;
Anon, as patient as the female dove,
When that her golden couplets are disclosed,
His silence will sit drooping.
HAMLET

Hear you, sir;
What is the reason that you use me thus?
I loved you ever: but it is no matter;
Let Hercules himself do what he may,
The cat will mew and dog will have his day.
Exit
KING CLAUDIUS

I pray you, good Horatio, wait upon him.
Exit HORATIO
To LAERTES
Strengthen your patience in our last night’s speech;
We’ll put the matter to the present push.
Good Gertrude, set some watch over your son.
This grave shall have a living monument:
An hour of quiet shortly shall we see;
Till then, in patience our proceeding be.
Exeunt

SCENE II. A hall in the castle.

Enter HAMLET and HORATIO
HAMLET

So much for this, sir: now shall you see the other;
You do remember all the circumstance?
HORATIO

Remember it, my lord?
HAMLET

Sir, in my heart there was a kind of fighting,
That would not let me sleep: methought I lay
Worse than the mutines in the bilboes. Rashly,
And praised be rashness for it, let us know,
Our indiscretion sometimes serves us well,
When our deep plots do pall: and that should teach us
There’s a divinity that shapes our ends,
Rough-hew them how we will,–
HORATIO

That is most certain.
HAMLET

Up from my cabin,
My sea-gown scarf’d about me, in the dark
Groped I to find out them; had my desire.
Finger’d their packet, and in fine withdrew
To mine own room again; making so bold,
My fears forgetting manners, to unseal
Their grand commission; where I found, Horatio,–
O royal knavery!–an exact command,
Larded with many several sorts of reasons
Importing Denmark’s health and England’s too,
With, ho! such bugs and goblins in my life,
That, on the supervise, no leisure bated,
No, not to stay the grinding of the axe,
My head should be struck off.
HORATIO

Is’t possible?
HAMLET

Here’s the commission: read it at more leisure.
But wilt thou hear me how I did proceed?
HORATIO

I beseech you.
HAMLET

Being thus be-netted round with villanies,–
Ere I could make a prologue to my brains,
They had begun the play–I sat me down,
Devised a new commission, wrote it fair:
I once did hold it, as our statists do,
A baseness to write fair and labour’d much
How to forget that learning, but, sir, now
It did me yeoman’s service: wilt thou know
The effect of what I wrote?
HORATIO

Ay, good my lord.
HAMLET

An earnest conjuration from the king,
As England was his faithful tributary,
As love between them like the palm might flourish,
As peace should stiff her wheaten garland wear
And stand a comma ‘tween their amities,
And many such-like ‘As’es of great charge,
That, on the view and knowing of these contents,
Without debatement further, more or less,
He should the bearers put to sudden death,
Not shriving-time allow’d.
HORATIO

How was this seal’d?
HAMLET

Why, even in that was heaven ordinant.
I had my father’s signet in my purse,
Which was the model of that Danish seal;
Folded the writ up in form of the other,
Subscribed it, gave’t the impression, placed it safely,
The changeling never known. Now, the next day
Was our sea-fight; and what to this was sequent
Thou know’st already.
HORATIO

So Guildenstern and Rosencrantz go to’t.
HAMLET

Why, man, they did make love to this employment;
They are not near my conscience; their defeat
Does by their own insinuation grow:
‘Tis dangerous when the baser nature comes
Between the pass and fell incensed points
Of mighty opposites.
HORATIO

Why, what a king is this!
HAMLET

Does it not, think’st thee, stand me now upon–
He that hath kill’d my king and whored my mother,
Popp’d in between the election and my hopes,
Thrown out his angle for my proper life,
And with such cozenage–is’t not perfect conscience,
To quit him with this arm? and is’t not to be damn’d,
To let this canker of our nature come
In further evil?
HORATIO

It must be shortly known to him from England
What is the issue of the business there.
HAMLET

It will be short: the interim is mine;
And a man’s life’s no more than to say ‘One.’
But I am very sorry, good Horatio,
That to Laertes I forgot myself;
For, by the image of my cause, I see
The portraiture of his: I’ll court his favours.
But, sure, the bravery of his grief did put me
Into a towering passion.
HORATIO

Peace! who comes here?
Enter OSRIC
OSRIC

Your lordship is right welcome back to Denmark.
HAMLET

I humbly thank you, sir. Dost know this water-fly?
HORATIO

No, my good lord.
HAMLET

Thy state is the more gracious; for ’tis a vice to
know him. He hath much land, and fertile: let a
beast be lord of beasts, and his crib shall stand at
the king’s mess: ’tis a chough; but, as I say,
spacious in the possession of dirt.
OSRIC

Sweet lord, if your lordship were at leisure, I
should impart a thing to you from his majesty.
HAMLET

I will receive it, sir, with all diligence of
spirit. Put your bonnet to his right use; ’tis for the head.
OSRIC

I thank your lordship, it is very hot.
HAMLET

No, believe me, ’tis very cold; the wind is
northerly.
OSRIC

It is indifferent cold, my lord, indeed.
HAMLET

But yet methinks it is very sultry and hot for my
complexion.
OSRIC

Exceedingly, my lord; it is very sultry,–as
’twere,–I cannot tell how. But, my lord, his
majesty bade me signify to you that he has laid a
great wager on your head: sir, this is the matter,–
HAMLET

I beseech you, remember–
HAMLET moves him to put on his hat
OSRIC

Nay, good my lord; for mine ease, in good faith.
Sir, here is newly come to court Laertes; believe
me, an absolute gentleman, full of most excellent
differences, of very soft society and great showing:
indeed, to speak feelingly of him, he is the card or
calendar of gentry, for you shall find in him the
continent of what part a gentleman would see.
HAMLET

Sir, his definement suffers no perdition in you;
though, I know, to divide him inventorially would
dizzy the arithmetic of memory, and yet but yaw
neither, in respect of his quick sail. But, in the
verity of extolment, I take him to be a soul of
great article; and his infusion of such dearth and
rareness, as, to make true diction of him, his
semblable is his mirror; and who else would trace
him, his umbrage, nothing more.
OSRIC

Your lordship speaks most infallibly of him.
HAMLET

The concernancy, sir? why do we wrap the gentleman
in our more rawer breath?
OSRIC

Sir?
HORATIO

Is’t not possible to understand in another tongue?
You will do’t, sir, really.
HAMLET

What imports the nomination of this gentleman?
OSRIC

Of Laertes?
HORATIO

His purse is empty already; all’s golden words are spent.
HAMLET

Of him, sir.
OSRIC

I know you are not ignorant–
HAMLET

I would you did, sir; yet, in faith, if you did,
it would not much approve me. Well, sir?
OSRIC

You are not ignorant of what excellence Laertes is–
HAMLET

I dare not confess that, lest I should compare with
him in excellence; but, to know a man well, were to
know himself.
OSRIC

I mean, sir, for his weapon; but in the imputation
laid on him by them, in his meed he’s unfellowed.
HAMLET

What’s his weapon?
OSRIC

Rapier and dagger.
HAMLET

That’s two of his weapons: but, well.
OSRIC

The king, sir, hath wagered with him six Barbary
horses: against the which he has imponed, as I take
it, six French rapiers and poniards, with their
assigns, as girdle, hangers, and so: three of the
carriages, in faith, are very dear to fancy, very
responsive to the hilts, most delicate carriages,
and of very liberal conceit.
HAMLET

What call you the carriages?
HORATIO

I knew you must be edified by the margent ere you had done.
OSRIC

The carriages, sir, are the hangers.
HAMLET

The phrase would be more german to the matter, if we
could carry cannon by our sides: I would it might
be hangers till then. But, on: six Barbary horses
against six French swords, their assigns, and three
liberal-conceited carriages; that’s the French bet
against the Danish. Why is this ‘imponed,’ as you call it?
OSRIC

The king, sir, hath laid, that in a dozen passes
between yourself and him, he shall not exceed you
three hits: he hath laid on twelve for nine; and it
would come to immediate trial, if your lordship
would vouchsafe the answer.
HAMLET

How if I answer ‘no’?
OSRIC

I mean, my lord, the opposition of your person in trial.
HAMLET

Sir, I will walk here in the hall: if it please his
majesty, ’tis the breathing time of day with me; let
the foils be brought, the gentleman willing, and the
king hold his purpose, I will win for him an I can;
if not, I will gain nothing but my shame and the odd hits.
OSRIC

Shall I re-deliver you e’en so?
HAMLET

To this effect, sir; after what flourish your nature will.
OSRIC

I commend my duty to your lordship.
HAMLET

Yours, yours.
Exit OSRIC
He does well to commend it himself; there are no
tongues else for’s turn.
HORATIO

This lapwing runs away with the shell on his head.
HAMLET

He did comply with his dug, before he sucked it.
Thus has he–and many more of the same bevy that I
know the dressy age dotes on–only got the tune of
the time and outward habit of encounter; a kind of
yesty collection, which carries them through and
through the most fond and winnowed opinions; and do
but blow them to their trial, the bubbles are out.
Enter a Lord
Lord

My lord, his majesty commended him to you by young
Osric, who brings back to him that you attend him in
the hall: he sends to know if your pleasure hold to
play with Laertes, or that you will take longer time.
HAMLET

I am constant to my purpose; they follow the king’s
pleasure: if his fitness speaks, mine is ready; now
or whensoever, provided I be so able as now.
Lord

The king and queen and all are coming down.
HAMLET

In happy time.
Lord

The queen desires you to use some gentle
entertainment to Laertes before you fall to play.
HAMLET

She well instructs me.
Exit Lord
HORATIO

You will lose this wager, my lord.
HAMLET

I do not think so: since he went into France, I
have been in continual practise: I shall win at the
odds. But thou wouldst not think how ill all’s here
about my heart: but it is no matter.
HORATIO

Nay, good my lord,–
HAMLET

It is but foolery; but it is such a kind of
gain-giving, as would perhaps trouble a woman.
HORATIO

If your mind dislike any thing, obey it: I will
forestall their repair hither, and say you are not
fit.
HAMLET

Not a whit, we defy augury: there’s a special
providence in the fall of a sparrow. If it be now,
’tis not to come; if it be not to come, it will be
now; if it be not now, yet it will come: the
readiness is all: since no man has aught of what he
leaves, what is’t to leave betimes?
Enter KING CLAUDIUS, QUEEN GERTRUDE, LAERTES, Lords, OSRIC, and Attendants with foils, & c
KING CLAUDIUS

Come, Hamlet, come, and take this hand from me.
KING CLAUDIUS puts LAERTES’ hand into HAMLET’s
HAMLET

Give me your pardon, sir: I’ve done you wrong;
But pardon’t, as you are a gentleman.
This presence knows,
And you must needs have heard, how I am punish’d
With sore distraction. What I have done,
That might your nature, honour and exception
Roughly awake, I here proclaim was madness.
Was’t Hamlet wrong’d Laertes? Never Hamlet:
If Hamlet from himself be ta’en away,
And when he’s not himself does wrong Laertes,
Then Hamlet does it not, Hamlet denies it.
Who does it, then? His madness: if’t be so,
Hamlet is of the faction that is wrong’d;
His madness is poor Hamlet’s enemy.
Sir, in this audience,
Let my disclaiming from a purposed evil
Free me so far in your most generous thoughts,
That I have shot mine arrow o’er the house,
And hurt my brother.
LAERTES

I am satisfied in nature,
Whose motive, in this case, should stir me most
To my revenge: but in my terms of honour
I stand aloof; and will no reconcilement,
Till by some elder masters, of known honour,
I have a voice and precedent of peace,
To keep my name ungored. But till that time,
I do receive your offer’d love like love,
And will not wrong it.
HAMLET

I embrace it freely;
And will this brother’s wager frankly play.
Give us the foils. Come on.
LAERTES

Come, one for me.
HAMLET

I’ll be your foil, Laertes: in mine ignorance
Your skill shall, like a star i’ the darkest night,
Stick fiery off indeed.
LAERTES

You mock me, sir.
HAMLET

No, by this hand.
KING CLAUDIUS

Give them the foils, young Osric. Cousin Hamlet,
You know the wager?
HAMLET

Very well, my lord
Your grace hath laid the odds o’ the weaker side.
KING CLAUDIUS

I do not fear it; I have seen you both:
But since he is better’d, we have therefore odds.
LAERTES

This is too heavy, let me see another.
HAMLET

This likes me well. These foils have all a length?
They prepare to play
OSRIC

Ay, my good lord.
KING CLAUDIUS

Set me the stoops of wine upon that table.
If Hamlet give the first or second hit,
Or quit in answer of the third exchange,
Let all the battlements their ordnance fire:
The king shall drink to Hamlet’s better breath;
And in the cup an union shall he throw,
Richer than that which four successive kings
In Denmark’s crown have worn. Give me the cups;
And let the kettle to the trumpet speak,
The trumpet to the cannoneer without,
The cannons to the heavens, the heavens to earth,
‘Now the king dunks to Hamlet.’ Come, begin:
And you, the judges, bear a wary eye.
HAMLET

Come on, sir.
LAERTES

Come, my lord.
They play
HAMLET

One.
LAERTES

No.
HAMLET

Judgment.
OSRIC

A hit, a very palpable hit.
LAERTES

Well; again.
KING CLAUDIUS

Stay; give me drink. Hamlet, this pearl is thine;
Here’s to thy health.
Trumpets sound, and cannon shot off within
Give him the cup.
HAMLET

I’ll play this bout first; set it by awhile. Come.
They play
Another hit; what say you?
LAERTES

A touch, a touch, I do confess.
KING CLAUDIUS

Our son shall win.
QUEEN GERTRUDE

He’s fat, and scant of breath.
Here, Hamlet, take my napkin, rub thy brows;
The queen carouses to thy fortune, Hamlet.
HAMLET

Good madam!
KING CLAUDIUS

Gertrude, do not drink.
QUEEN GERTRUDE

I will, my lord; I pray you, pardon me.
KING CLAUDIUS

[Aside] It is the poison’d cup: it is too late.
HAMLET

I dare not drink yet, madam; by and by.
QUEEN GERTRUDE

Come, let me wipe thy face.
LAERTES

My lord, I’ll hit him now.
KING CLAUDIUS

I do not think’t.
LAERTES

[Aside] And yet ’tis almost ‘gainst my conscience.
HAMLET

Come, for the third, Laertes: you but dally;
I pray you, pass with your best violence;
I am afeard you make a wanton of me.
LAERTES

Say you so? come on.
They play
OSRIC

Nothing, neither way.
LAERTES

Have at you now!
LAERTES wounds HAMLET; then in scuffling, they change rapiers, and HAMLET wounds LAERTES
KING CLAUDIUS

Part them; they are incensed.
HAMLET

Nay, come, again.
QUEEN GERTRUDE falls
OSRIC

Look to the queen there, ho!
HORATIO

They bleed on both sides. How is it, my lord?
OSRIC

How is’t, Laertes?
LAERTES

Why, as a woodcock to mine own springe, Osric;
I am justly kill’d with mine own treachery.
HAMLET

How does the queen?
KING CLAUDIUS

She swounds to see them bleed.
QUEEN GERTRUDE

No, no, the drink, the drink,–O my dear Hamlet,–
The drink, the drink! I am poison’d.
Dies
HAMLET

O villany! Ho! let the door be lock’d:
Treachery! Seek it out.
LAERTES

It is here, Hamlet: Hamlet, thou art slain;
No medicine in the world can do thee good;
In thee there is not half an hour of life;
The treacherous instrument is in thy hand,
Unbated and envenom’d: the foul practise
Hath turn’d itself on me lo, here I lie,
Never to rise again: thy mother’s poison’d:
I can no more: the king, the king’s to blame.
HAMLET

The point!–envenom’d too!
Then, venom, to thy work.
Stabs KING CLAUDIUS
All

Treason! treason!
KING CLAUDIUS

O, yet defend me, friends; I am but hurt.
HAMLET

Here, thou incestuous, murderous, damned Dane,
Drink off this potion. Is thy union here?
Follow my mother.
KING CLAUDIUS dies
LAERTES

He is justly served;
It is a poison temper’d by himself.
Exchange forgiveness with me, noble Hamlet:
Mine and my father’s death come not upon thee,
Nor thine on me.
Dies
HAMLET

Heaven make thee free of it! I follow thee.
I am dead, Horatio. Wretched queen, adieu!
You that look pale and tremble at this chance,
That are but mutes or audience to this act,
Had I but time–as this fell sergeant, death,
Is strict in his arrest–O, I could tell you–
But let it be. Horatio, I am dead;
Thou livest; report me and my cause aright
To the unsatisfied.
HORATIO

Never believe it:
I am more an antique Roman than a Dane:
Here’s yet some liquor left.
HAMLET

As thou’rt a man,
Give me the cup: let go; by heaven, I’ll have’t.
O good Horatio, what a wounded name,
Things standing thus unknown, shall live behind me!
If thou didst ever hold me in thy heart
Absent thee from felicity awhile,
And in this harsh world draw thy breath in pain,
To tell my story.
March afar off, and shot within
What warlike noise is this?
OSRIC

Young Fortinbras, with conquest come from Poland,
To the ambassadors of England gives
This warlike volley.
HAMLET

O, I die, Horatio;
The potent poison quite o’er-crows my spirit:
I cannot live to hear the news from England;
But I do prophesy the election lights
On Fortinbras: he has my dying voice;
So tell him, with the occurrents, more and less,
Which have solicited. The rest is silence.
Dies
HORATIO

Now cracks a noble heart. Good night sweet prince:
And flights of angels sing thee to thy rest!
Why does the drum come hither?
March within
Enter FORTINBRAS, the English Ambassadors, and others
PRINCE FORTINBRAS

Where is this sight?
HORATIO

What is it ye would see?
If aught of woe or wonder, cease your search.
PRINCE FORTINBRAS

This quarry cries on havoc. O proud death,
What feast is toward in thine eternal cell,
That thou so many princes at a shot
So bloodily hast struck?
First Ambassador

The sight is dismal;
And our affairs from England come too late:
The ears are senseless that should give us hearing,
To tell him his commandment is fulfill’d,
That Rosencrantz and Guildenstern are dead:
Where should we have our thanks?
HORATIO

Not from his mouth,
Had it the ability of life to thank you:
He never gave commandment for their death.
But since, so jump upon this bloody question,
You from the Polack wars, and you from England,
Are here arrived give order that these bodies
High on a stage be placed to the view;
And let me speak to the yet unknowing world
How these things came about: so shall you hear
Of carnal, bloody, and unnatural acts,
Of accidental judgments, casual slaughters,
Of deaths put on by cunning and forced cause,
And, in this upshot, purposes mistook
Fall’n on the inventors’ reads: all this can I
Truly deliver.
PRINCE FORTINBRAS

Let us haste to hear it,
And call the noblest to the audience.
For me, with sorrow I embrace my fortune:
I have some rights of memory in this kingdom,
Which now to claim my vantage doth invite me.
HORATIO

Of that I shall have also cause to speak,
And from his mouth whose voice will draw on more;
But let this same be presently perform’d,
Even while men’s minds are wild; lest more mischance
On plots and errors, happen.
PRINCE FORTINBRAS

Let four captains
Bear Hamlet, like a soldier, to the stage;
For he was likely, had he been put on,
To have proved most royally: and, for his passage,
The soldiers’ music and the rites of war
Speak loudly for him.
Take up the bodies: such a sight as this
Becomes the field, but here shows much amiss.
Go, bid the soldiers shoot.
A dead march. Exeunt, bearing off the dead bodies; after which a peal of ordnance is shot off

Richard III: Entire Play
The Life and Death of Richard the Third

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ACT I
SCENE I. London. A street.

Enter GLOUCESTER, solus
GLOUCESTER

Now is the winter of our discontent
Made glorious summer by this sun of York;
And all the clouds that lour’d upon our house
In the deep bosom of the ocean buried.
Now are our brows bound with victorious wreaths;
Our bruised arms hung up for monuments;
Our stern alarums changed to merry meetings,
Our dreadful marches to delightful measures.
Grim-visaged war hath smooth’d his wrinkled front;
And now, instead of mounting barbed steeds
To fright the souls of fearful adversaries,
He capers nimbly in a lady’s chamber
To the lascivious pleasing of a lute.
But I, that am not shaped for sportive tricks,
Nor made to court an amorous looking-glass;
I, that am rudely stamp’d, and want love’s majesty
To strut before a wanton ambling nymph;
I, that am curtail’d of this fair proportion,
Cheated of feature by dissembling nature,
Deformed, unfinish’d, sent before my time
Into this breathing world, scarce half made up,
And that so lamely and unfashionable
That dogs bark at me as I halt by them;
Why, I, in this weak piping time of peace,
Have no delight to pass away the time,
Unless to spy my shadow in the sun
And descant on mine own deformity:
And therefore, since I cannot prove a lover,
To entertain these fair well-spoken days,
I am determined to prove a villain
And hate the idle pleasures of these days.
Plots have I laid, inductions dangerous,
By drunken prophecies, libels and dreams,
To set my brother Clarence and the king
In deadly hate the one against the other:
And if King Edward be as true and just
As I am subtle, false and treacherous,
This day should Clarence closely be mew’d up,
About a prophecy, which says that ‘G’
Of Edward’s heirs the murderer shall be.
Dive, thoughts, down to my soul: here
Clarence comes.
Enter CLARENCE, guarded, and BRAKENBURY
Brother, good day; what means this armed guard
That waits upon your grace?
CLARENCE

His majesty
Tendering my person’s safety, hath appointed
This conduct to convey me to the Tower.
GLOUCESTER

Upon what cause?
CLARENCE

Because my name is George.
GLOUCESTER

Alack, my lord, that fault is none of yours;
He should, for that, commit your godfathers:
O, belike his majesty hath some intent
That you shall be new-christen’d in the Tower.
But what’s the matter, Clarence? may I know?
CLARENCE

Yea, Richard, when I know; for I protest
As yet I do not: but, as I can learn,
He hearkens after prophecies and dreams;
And from the cross-row plucks the letter G.
And says a wizard told him that by G
His issue disinherited should be;
And, for my name of George begins with G,
It follows in his thought that I am he.
These, as I learn, and such like toys as these
Have moved his highness to commit me now.
GLOUCESTER

Why, this it is, when men are ruled by women:
‘Tis not the king that sends you to the Tower:
My Lady Grey his wife, Clarence, ’tis she
That tempers him to this extremity.
Was it not she and that good man of worship,
Anthony Woodville, her brother there,
That made him send Lord Hastings to the Tower,
From whence this present day he is deliver’d?
We are not safe, Clarence; we are not safe.
CLARENCE

By heaven, I think there’s no man is secure
But the queen’s kindred and night-walking heralds
That trudge betwixt the king and Mistress Shore.
Heard ye not what an humble suppliant
Lord hastings was to her for his delivery?
GLOUCESTER

Humbly complaining to her deity
Got my lord chamberlain his liberty.
I’ll tell you what; I think it is our way,
If we will keep in favour with the king,
To be her men and wear her livery:
The jealous o’erworn widow and herself,
Since that our brother dubb’d them gentlewomen.
Are mighty gossips in this monarchy.
BRAKENBURY

I beseech your graces both to pardon me;
His majesty hath straitly given in charge
That no man shall have private conference,
Of what degree soever, with his brother.
GLOUCESTER

Even so; an’t please your worship, Brakenbury,
You may partake of any thing we say:
We speak no treason, man: we say the king
Is wise and virtuous, and his noble queen
Well struck in years, fair, and not jealous;
We say that Shore’s wife hath a pretty foot,
A cherry lip, a bonny eye, a passing pleasing tongue;
And that the queen’s kindred are made gentle-folks:
How say you sir? Can you deny all this?
BRAKENBURY

With this, my lord, myself have nought to do.
GLOUCESTER

Naught to do with mistress Shore! I tell thee, fellow,
He that doth naught with her, excepting one,
Were best he do it secretly, alone.
BRAKENBURY

What one, my lord?
GLOUCESTER

Her husband, knave: wouldst thou betray me?
BRAKENBURY

I beseech your grace to pardon me, and withal
Forbear your conference with the noble duke.
CLARENCE

We know thy charge, Brakenbury, and will obey.
GLOUCESTER

We are the queen’s abjects, and must obey.
Brother, farewell: I will unto the king;
And whatsoever you will employ me in,
Were it to call King Edward’s widow sister,
I will perform it to enfranchise you.
Meantime, this deep disgrace in brotherhood
Touches me deeper than you can imagine.
CLARENCE

I know it pleaseth neither of us well.
GLOUCESTER

Well, your imprisonment shall not be long;
Meantime, have patience.
CLARENCE

I must perforce. Farewell.
Exeunt CLARENCE, BRAKENBURY, and Guard
GLOUCESTER

Go, tread the path that thou shalt ne’er return.
Simple, plain Clarence! I do love thee so,
That I will shortly send thy soul to heaven,
If heaven will take the present at our hands.
But who comes here? the new-deliver’d Hastings?
Enter HASTINGS
HASTINGS

Good time of day unto my gracious lord!
GLOUCESTER

As much unto my good lord chamberlain!
Well are you welcome to the open air.
How hath your lordship brook’d imprisonment?
HASTINGS

With patience, noble lord, as prisoners must:
But I shall live, my lord, to give them thanks
That were the cause of my imprisonment.
GLOUCESTER

No doubt, no doubt; and so shall Clarence too;
For they that were your enemies are his,
And have prevail’d as much on him as you.
HASTINGS

More pity that the eagle should be mew’d,
While kites and buzzards prey at liberty.
GLOUCESTER

What news abroad?
HASTINGS

No news so bad abroad as this at home;
The King is sickly, weak and melancholy,
And his physicians fear him mightily.
GLOUCESTER

Now, by Saint Paul, this news is bad indeed.
O, he hath kept an evil diet long,
And overmuch consumed his royal person:
‘Tis very grievous to be thought upon.
What, is he in his bed?
HASTINGS

He is.
GLOUCESTER

Go you before, and I will follow you.
Exit HASTINGS
He cannot live, I hope; and must not die
Till George be pack’d with post-horse up to heaven.
I’ll in, to urge his hatred more to Clarence,
With lies well steel’d with weighty arguments;
And, if I fall not in my deep intent,
Clarence hath not another day to live:
Which done, God take King Edward to his mercy,
And leave the world for me to bustle in!
For then I’ll marry Warwick’s youngest daughter.
What though I kill’d her husband and her father?
The readiest way to make the wench amends
Is to become her husband and her father:
The which will I; not all so much for love
As for another secret close intent,
By marrying her which I must reach unto.
But yet I run before my horse to market:
Clarence still breathes; Edward still lives and reigns:
When they are gone, then must I count my gains.
Exit

SCENE II. The same. Another street.

Enter the corpse of KING HENRY the Sixth, Gentlemen with halberds to guard it; LADY ANNE being the mourner
LADY ANNE

Set down, set down your honourable load,
If honour may be shrouded in a hearse,
Whilst I awhile obsequiously lament
The untimely fall of virtuous Lancaster.
Poor key-cold figure of a holy king!
Pale ashes of the house of Lancaster!
Thou bloodless remnant of that royal blood!
Be it lawful that I invocate thy ghost,
To hear the lamentations of Poor Anne,
Wife to thy Edward, to thy slaughter’d son,
Stabb’d by the selfsame hand that made these wounds!
Lo, in these windows that let forth thy life,
I pour the helpless balm of my poor eyes.
Cursed be the hand that made these fatal holes!
Cursed be the heart that had the heart to do it!
Cursed the blood that let this blood from hence!
More direful hap betide that hated wretch,
That makes us wretched by the death of thee,
Than I can wish to adders, spiders, toads,
Or any creeping venom’d thing that lives!
If ever he have child, abortive be it,
Prodigious, and untimely brought to light,
Whose ugly and unnatural aspect
May fright the hopeful mother at the view;
And that be heir to his unhappiness!
If ever he have wife, let her he made
A miserable by the death of him
As I am made by my poor lord and thee!
Come, now towards Chertsey with your holy load,
Taken from Paul’s to be interred there;
And still, as you are weary of the weight,
Rest you, whiles I lament King Henry’s corse.
Enter GLOUCESTER
GLOUCESTER

Stay, you that bear the corse, and set it down.
LADY ANNE

What black magician conjures up this fiend,
To stop devoted charitable deeds?
GLOUCESTER

Villains, set down the corse; or, by Saint Paul,
I’ll make a corse of him that disobeys.
Gentleman

My lord, stand back, and let the coffin pass.
GLOUCESTER

Unmanner’d dog! stand thou, when I command:
Advance thy halbert higher than my breast,
Or, by Saint Paul, I’ll strike thee to my foot,
And spurn upon thee, beggar, for thy boldness.
LADY ANNE

What, do you tremble? are you all afraid?
Alas, I blame you not; for you are mortal,
And mortal eyes cannot endure the devil.
Avaunt, thou dreadful minister of hell!
Thou hadst but power over his mortal body,
His soul thou canst not have; therefore be gone.
GLOUCESTER

Sweet saint, for charity, be not so curst.
LADY ANNE

Foul devil, for God’s sake, hence, and trouble us not;
For thou hast made the happy earth thy hell,
Fill’d it with cursing cries and deep exclaims.
If thou delight to view thy heinous deeds,
Behold this pattern of thy butcheries.
O, gentlemen, see, see! dead Henry’s wounds
Open their congeal’d mouths and bleed afresh!
Blush, Blush, thou lump of foul deformity;
For ’tis thy presence that exhales this blood
From cold and empty veins, where no blood dwells;
Thy deed, inhuman and unnatural,
Provokes this deluge most unnatural.
O God, which this blood madest, revenge his death!
O earth, which this blood drink’st revenge his death!
Either heaven with lightning strike the
murderer dead,
Or earth, gape open wide and eat him quick,
As thou dost swallow up this good king’s blood
Which his hell-govern’d arm hath butchered!
GLOUCESTER

Lady, you know no rules of charity,
Which renders good for bad, blessings for curses.
LADY ANNE

Villain, thou know’st no law of God nor man:
No beast so fierce but knows some touch of pity.
GLOUCESTER

But I know none, and therefore am no beast.
LADY ANNE

O wonderful, when devils tell the truth!
GLOUCESTER

More wonderful, when angels are so angry.
Vouchsafe, divine perfection of a woman,
Of these supposed-evils, to give me leave,
By circumstance, but to acquit myself.
LADY ANNE

Vouchsafe, defused infection of a man,
For these known evils, but to give me leave,
By circumstance, to curse thy cursed self.
GLOUCESTER

Fairer than tongue can name thee, let me have
Some patient leisure to excuse myself.
LADY ANNE

Fouler than heart can think thee, thou canst make
No excuse current, but to hang thyself.
GLOUCESTER

By such despair, I should accuse myself.
LADY ANNE

And, by despairing, shouldst thou stand excused;
For doing worthy vengeance on thyself,
Which didst unworthy slaughter upon others.
GLOUCESTER

Say that I slew them not?
LADY ANNE

Why, then they are not dead:
But dead they are, and devilish slave, by thee.
GLOUCESTER

I did not kill your husband.
LADY ANNE

Why, then he is alive.
GLOUCESTER

Nay, he is dead; and slain by Edward’s hand.
LADY ANNE

In thy foul throat thou liest: Queen Margaret saw
Thy murderous falchion smoking in his blood;
The which thou once didst bend against her breast,
But that thy brothers beat aside the point.
GLOUCESTER

I was provoked by her slanderous tongue,
which laid their guilt upon my guiltless shoulders.
LADY ANNE

Thou wast provoked by thy bloody mind.
Which never dreamt on aught but butcheries:
Didst thou not kill this king?
GLOUCESTER

I grant ye.
LADY ANNE

Dost grant me, hedgehog? then, God grant me too
Thou mayst be damned for that wicked deed!
O, he was gentle, mild, and virtuous!
GLOUCESTER

The fitter for the King of heaven, that hath him.
LADY ANNE

He is in heaven, where thou shalt never come.
GLOUCESTER

Let him thank me, that holp to send him thither;
For he was fitter for that place than earth.
LADY ANNE

And thou unfit for any place but hell.
GLOUCESTER

Yes, one place else, if you will hear me name it.
LADY ANNE

Some dungeon.
GLOUCESTER

Your bed-chamber.
LADY ANNE

Ill rest betide the chamber where thou liest!
GLOUCESTER

So will it, madam till I lie with you.
LADY ANNE

I hope so.
GLOUCESTER

I know so. But, gentle Lady Anne,
To leave this keen encounter of our wits,
And fall somewhat into a slower method,
Is not the causer of the timeless deaths
Of these Plantagenets, Henry and Edward,
As blameful as the executioner?
LADY ANNE

Thou art the cause, and most accursed effect.
GLOUCESTER

Your beauty was the cause of that effect;
Your beauty: which did haunt me in my sleep
To undertake the death of all the world,
So I might live one hour in your sweet bosom.
LADY ANNE

If I thought that, I tell thee, homicide,
These nails should rend that beauty from my cheeks.
GLOUCESTER

These eyes could never endure sweet beauty’s wreck;
You should not blemish it, if I stood by:
As all the world is cheered by the sun,
So I by that; it is my day, my life.
LADY ANNE

Black night o’ershade thy day, and death thy life!
GLOUCESTER

Curse not thyself, fair creature thou art both.
LADY ANNE

I would I were, to be revenged on thee.
GLOUCESTER

It is a quarrel most unnatural,
To be revenged on him that loveth you.
LADY ANNE

It is a quarrel just and reasonable,
To be revenged on him that slew my husband.
GLOUCESTER

He that bereft thee, lady, of thy husband,
Did it to help thee to a better husband.
LADY ANNE

His better doth not breathe upon the earth.
GLOUCESTER

He lives that loves thee better than he could.
LADY ANNE

Name him.
GLOUCESTER

Plantagenet.
LADY ANNE

Why, that was he.
GLOUCESTER

The selfsame name, but one of better nature.
LADY ANNE

Where is he?
GLOUCESTER

Here.
She spitteth at him
Why dost thou spit at me?
LADY ANNE

Would it were mortal poison, for thy sake!
GLOUCESTER

Never came poison from so sweet a place.
LADY ANNE

Never hung poison on a fouler toad.
Out of my sight! thou dost infect my eyes.
GLOUCESTER

Thine eyes, sweet lady, have infected mine.
LADY ANNE

Would they were basilisks, to strike thee dead!
GLOUCESTER

I would they were, that I might die at once;
For now they kill me with a living death.
Those eyes of thine from mine have drawn salt tears,
Shamed their aspect with store of childish drops:
These eyes that never shed remorseful tear,
No, when my father York and Edward wept,
To hear the piteous moan that Rutland made
When black-faced Clifford shook his sword at him;
Nor when thy warlike father, like a child,
Told the sad story of my father’s death,
And twenty times made pause to sob and weep,
That all the standers-by had wet their cheeks
Like trees bedash’d with rain: in that sad time
My manly eyes did scorn an humble tear;
And what these sorrows could not thence exhale,
Thy beauty hath, and made them blind with weeping.
I never sued to friend nor enemy;
My tongue could never learn sweet smoothing word;
But now thy beauty is proposed my fee,
My proud heart sues, and prompts my tongue to speak.
She looks scornfully at him
Teach not thy lips such scorn, for they were made
For kissing, lady, not for such contempt.
If thy revengeful heart cannot forgive,
Lo, here I lend thee this sharp-pointed sword;
Which if thou please to hide in this true bosom.
And let the soul forth that adoreth thee,
I lay it naked to the deadly stroke,
And humbly beg the death upon my knee.
He lays his breast open: she offers at it with his sword
Nay, do not pause; for I did kill King Henry,
But ’twas thy beauty that provoked me.
Nay, now dispatch; ’twas I that stabb’d young Edward,
But ’twas thy heavenly face that set me on.
Here she lets fall the sword
Take up the sword again, or take up me.
LADY ANNE

Arise, dissembler: though I wish thy death,
I will not be the executioner.
GLOUCESTER

Then bid me kill myself, and I will do it.
LADY ANNE

I have already.
GLOUCESTER

Tush, that was in thy rage:
Speak it again, and, even with the word,
That hand, which, for thy love, did kill thy love,
Shall, for thy love, kill a far truer love;
To both their deaths thou shalt be accessary.
LADY ANNE

I would I knew thy heart.
GLOUCESTER

‘Tis figured in my tongue.
LADY ANNE

I fear me both are false.
GLOUCESTER

Then never man was true.
LADY ANNE

Well, well, put up your sword.
GLOUCESTER

Say, then, my peace is made.
LADY ANNE

That shall you know hereafter.
GLOUCESTER

But shall I live in hope?
LADY ANNE

All men, I hope, live so.
GLOUCESTER

Vouchsafe to wear this ring.
LADY ANNE

To take is not to give.
GLOUCESTER

Look, how this ring encompasseth finger.
Even so thy breast encloseth my poor heart;
Wear both of them, for both of them are thine.
And if thy poor devoted suppliant may
But beg one favour at thy gracious hand,
Thou dost confirm his happiness for ever.
LADY ANNE

What is it?
GLOUCESTER

That it would please thee leave these sad designs
To him that hath more cause to be a mourner,
And presently repair to Crosby Place;
Where, after I have solemnly interr’d
At Chertsey monastery this noble king,
And wet his grave with my repentant tears,
I will with all expedient duty see you:
For divers unknown reasons. I beseech you,
Grant me this boon.
LADY ANNE

With all my heart; and much it joys me too,
To see you are become so penitent.
Tressel and Berkeley, go along with me.
GLOUCESTER

Bid me farewell.
LADY ANNE

‘Tis more than you deserve;
But since you teach me how to flatter you,
Imagine I have said farewell already.
Exeunt LADY ANNE, TRESSEL, and BERKELEY
GLOUCESTER

Sirs, take up the corse.
GENTLEMEN

Towards Chertsey, noble lord?
GLOUCESTER

No, to White-Friars; there attend my coining.
Exeunt all but GLOUCESTER
Was ever woman in this humour woo’d?
Was ever woman in this humour won?
I’ll have her; but I will not keep her long.
What! I, that kill’d her husband and his father,
To take her in her heart’s extremest hate,
With curses in her mouth, tears in her eyes,
The bleeding witness of her hatred by;
Having God, her conscience, and these bars
against me,
And I nothing to back my suit at all,
But the plain devil and dissembling looks,
And yet to win her, all the world to nothing!
Ha!
Hath she forgot already that brave prince,
Edward, her lord, whom I, some three months since,
Stabb’d in my angry mood at Tewksbury?
A sweeter and a lovelier gentleman,
Framed in the prodigality of nature,
Young, valiant, wise, and, no doubt, right royal,
The spacious world cannot again afford
And will she yet debase her eyes on me,
That cropp’d the golden prime of this sweet prince,
And made her widow to a woful bed?
On me, whose all not equals Edward’s moiety?
On me, that halt and am unshapen thus?
My dukedom to a beggarly denier,
I do mistake my person all this while:
Upon my life, she finds, although I cannot,
Myself to be a marvellous proper man.
I’ll be at charges for a looking-glass,
And entertain some score or two of tailors,
To study fashions to adorn my body:
Since I am crept in favour with myself,
Will maintain it with some little cost.
But first I’ll turn yon fellow in his grave;
And then return lamenting to my love.
Shine out, fair sun, till I have bought a glass,
That I may see my shadow as I pass.
Exit

SCENE III. The palace.

Enter QUEEN ELIZABETH, RIVERS, and GREY
RIVERS

Have patience, madam: there’s no doubt his majesty
Will soon recover his accustom’d health.
GREY

In that you brook it in, it makes him worse:
Therefore, for God’s sake, entertain good comfort,
And cheer his grace with quick and merry words.
QUEEN ELIZABETH

If he were dead, what would betide of me?
RIVERS

No other harm but loss of such a lord.
QUEEN ELIZABETH

The loss of such a lord includes all harm.
GREY

The heavens have bless’d you with a goodly son,
To be your comforter when he is gone.
QUEEN ELIZABETH

Oh, he is young and his minority
Is put unto the trust of Richard Gloucester,
A man that loves not me, nor none of you.
RIVERS

Is it concluded that he shall be protector?
QUEEN ELIZABETH

It is determined, not concluded yet:
But so it must be, if the king miscarry.
Enter BUCKINGHAM and DERBY
GREY

Here come the lords of Buckingham and Derby.
BUCKINGHAM

Good time of day unto your royal grace!
DERBY

God make your majesty joyful as you have been!
QUEEN ELIZABETH

The Countess Richmond, good my Lord of Derby.
To your good prayers will scarcely say amen.
Yet, Derby, notwithstanding she’s your wife,
And loves not me, be you, good lord, assured
I hate not you for her proud arrogance.
DERBY

I do beseech you, either not believe
The envious slanders of her false accusers;
Or, if she be accused in true report,
Bear with her weakness, which, I think proceeds
From wayward sickness, and no grounded malice.
RIVERS

Saw you the king to-day, my Lord of Derby?
DERBY

But now the Duke of Buckingham and I
Are come from visiting his majesty.
QUEEN ELIZABETH

What likelihood of his amendment, lords?
BUCKINGHAM

Madam, good hope; his grace speaks cheerfully.
QUEEN ELIZABETH

God grant him health! Did you confer with him?
BUCKINGHAM

Madam, we did: he desires to make atonement
Betwixt the Duke of Gloucester and your brothers,
And betwixt them and my lord chamberlain;
And sent to warn them to his royal presence.
QUEEN ELIZABETH

Would all were well! but that will never be
I fear our happiness is at the highest.
Enter GLOUCESTER, HASTINGS, and DORSET
GLOUCESTER

They do me wrong, and I will not endure it:
Who are they that complain unto the king,
That I, forsooth, am stern, and love them not?
By holy Paul, they love his grace but lightly
That fill his ears with such dissentious rumours.
Because I cannot flatter and speak fair,
Smile in men’s faces, smooth, deceive and cog,
Duck with French nods and apish courtesy,
I must be held a rancorous enemy.
Cannot a plain man live and think no harm,
But thus his simple truth must be abused
By silken, sly, insinuating Jacks?
RIVERS

To whom in all this presence speaks your grace?
GLOUCESTER

To thee, that hast nor honesty nor grace.
When have I injured thee? when done thee wrong?
Or thee? or thee? or any of your faction?
A plague upon you all! His royal person,–
Whom God preserve better than you would wish!–
Cannot be quiet scarce a breathing-while,
But you must trouble him with lewd complaints.
QUEEN ELIZABETH

Brother of Gloucester, you mistake the matter.
The king, of his own royal disposition,
And not provoked by any suitor else;
Aiming, belike, at your interior hatred,
Which in your outward actions shows itself
Against my kindred, brothers, and myself,
Makes him to send; that thereby he may gather
The ground of your ill-will, and so remove it.
GLOUCESTER

I cannot tell: the world is grown so bad,
That wrens make prey where eagles dare not perch:
Since every Jack became a gentleman
There’s many a gentle person made a Jack.
QUEEN ELIZABETH

Come, come, we know your meaning, brother
Gloucester;
You envy my advancement and my friends’:
God grant we never may have need of you!
GLOUCESTER

Meantime, God grants that we have need of you:
Your brother is imprison’d by your means,
Myself disgraced, and the nobility
Held in contempt; whilst many fair promotions
Are daily given to ennoble those
That scarce, some two days since, were worth a noble.
QUEEN ELIZABETH

By Him that raised me to this careful height
From that contented hap which I enjoy’d,
I never did incense his majesty
Against the Duke of Clarence, but have been
An earnest advocate to plead for him.
My lord, you do me shameful injury,
Falsely to draw me in these vile suspects.
GLOUCESTER

You may deny that you were not the cause
Of my Lord Hastings’ late imprisonment.
RIVERS

She may, my lord, for–
GLOUCESTER

She may, Lord Rivers! why, who knows not so?
She may do more, sir, than denying that:
She may help you to many fair preferments,
And then deny her aiding hand therein,
And lay those honours on your high deserts.
What may she not? She may, yea, marry, may she–
RIVERS

What, marry, may she?
GLOUCESTER

What, marry, may she! marry with a king,
A bachelor, a handsome stripling too:
I wis your grandam had a worser match.
QUEEN ELIZABETH

My Lord of Gloucester, I have too long borne
Your blunt upbraidings and your bitter scoffs:
By heaven, I will acquaint his majesty
With those gross taunts I often have endured.
I had rather be a country servant-maid
Than a great queen, with this condition,
To be thus taunted, scorn’d, and baited at:
Enter QUEEN MARGARET, behind
Small joy have I in being England’s queen.
QUEEN MARGARET

And lessen’d be that small, God, I beseech thee!
Thy honour, state and seat is due to me.
GLOUCESTER

What! threat you me with telling of the king?
Tell him, and spare not: look, what I have said
I will avouch in presence of the king:
I dare adventure to be sent to the Tower.
‘Tis time to speak; my pains are quite forgot.
QUEEN MARGARET

Out, devil! I remember them too well:
Thou slewest my husband Henry in the Tower,
And Edward, my poor son, at Tewksbury.
GLOUCESTER

Ere you were queen, yea, or your husband king,
I was a pack-horse in his great affairs;
A weeder-out of his proud adversaries,
A liberal rewarder of his friends:
To royalize his blood I spilt mine own.
QUEEN MARGARET

Yea, and much better blood than his or thine.
GLOUCESTER

In all which time you and your husband Grey
Were factious for the house of Lancaster;
And, Rivers, so were you. Was not your husband
In Margaret’s battle at Saint Alban’s slain?
Let me put in your minds, if you forget,
What you have been ere now, and what you are;
Withal, what I have been, and what I am.
QUEEN MARGARET

A murderous villain, and so still thou art.
GLOUCESTER

Poor Clarence did forsake his father, Warwick;
Yea, and forswore himself,–which Jesu pardon!–
QUEEN MARGARET

Which God revenge!
GLOUCESTER

To fight on Edward’s party for the crown;
And for his meed, poor lord, he is mew’d up.
I would to God my heart were flint, like Edward’s;
Or Edward’s soft and pitiful, like mine
I am too childish-foolish for this world.
QUEEN MARGARET

Hie thee to hell for shame, and leave the world,
Thou cacodemon! there thy kingdom is.
RIVERS

My Lord of Gloucester, in those busy days
Which here you urge to prove us enemies,
We follow’d then our lord, our lawful king:
So should we you, if you should be our king.
GLOUCESTER

If I should be! I had rather be a pedlar:
Far be it from my heart, the thought of it!
QUEEN ELIZABETH

As little joy, my lord, as you suppose
You should enjoy, were you this country’s king,
As little joy may you suppose in me.
That I enjoy, being the queen thereof.
QUEEN MARGARET

A little joy enjoys the queen thereof;
For I am she, and altogether joyless.
I can no longer hold me patient.
Advancing
Hear me, you wrangling pirates, that fall out
In sharing that which you have pill’d from me!
Which of you trembles not that looks on me?
If not, that, I being queen, you bow like subjects,
Yet that, by you deposed, you quake like rebels?
O gentle villain, do not turn away!
GLOUCESTER

Foul wrinkled witch, what makest thou in my sight?
QUEEN MARGARET

But repetition of what thou hast marr’d;
That will I make before I let thee go.
GLOUCESTER

Wert thou not banished on pain of death?
QUEEN MARGARET

I was; but I do find more pain in banishment
Than death can yield me here by my abode.
A husband and a son thou owest to me;
And thou a kingdom; all of you allegiance:
The sorrow that I have, by right is yours,
And all the pleasures you usurp are mine.
GLOUCESTER

The curse my noble father laid on thee,
When thou didst crown his warlike brows with paper
And with thy scorns drew’st rivers from his eyes,
And then, to dry them, gavest the duke a clout
Steep’d in the faultless blood of pretty Rutland–
His curses, then from bitterness of soul
Denounced against thee, are all fall’n upon thee;
And God, not we, hath plagued thy bloody deed.
QUEEN ELIZABETH

So just is God, to right the innocent.
HASTINGS

O, ’twas the foulest deed to slay that babe,
And the most merciless that e’er was heard of!
RIVERS

Tyrants themselves wept when it was reported.
DORSET

No man but prophesied revenge for it.
BUCKINGHAM

Northumberland, then present, wept to see it.
QUEEN MARGARET

What were you snarling all before I came,
Ready to catch each other by the throat,
And turn you all your hatred now on me?
Did York’s dread curse prevail so much with heaven?
That Henry’s death, my lovely Edward’s death,
Their kingdom’s loss, my woful banishment,
Could all but answer for that peevish brat?
Can curses pierce the clouds and enter heaven?
Why, then, give way, dull clouds, to my quick curses!
If not by war, by surfeit die your king,
As ours by murder, to make him a king!
Edward thy son, which now is Prince of Wales,
For Edward my son, which was Prince of Wales,
Die in his youth by like untimely violence!
Thyself a queen, for me that was a queen,
Outlive thy glory, like my wretched self!
Long mayst thou live to wail thy children’s loss;
And see another, as I see thee now,
Deck’d in thy rights, as thou art stall’d in mine!
Long die thy happy days before thy death;
And, after many lengthen’d hours of grief,
Die neither mother, wife, nor England’s queen!
Rivers and Dorset, you were standers by,
And so wast thou, Lord Hastings, when my son
Was stabb’d with bloody daggers: God, I pray him,
That none of you may live your natural age,
But by some unlook’d accident cut off!
GLOUCESTER

Have done thy charm, thou hateful wither’d hag!
QUEEN MARGARET

And leave out thee? stay, dog, for thou shalt hear me.
If heaven have any grievous plague in store
Exceeding those that I can wish upon thee,
O, let them keep it till thy sins be ripe,
And then hurl down their indignation
On thee, the troubler of the poor world’s peace!
The worm of conscience still begnaw thy soul!
Thy friends suspect for traitors while thou livest,
And take deep traitors for thy dearest friends!
No sleep close up that deadly eye of thine,
Unless it be whilst some tormenting dream
Affrights thee with a hell of ugly devils!
Thou elvish-mark’d, abortive, rooting hog!
Thou that wast seal’d in thy nativity
The slave of nature and the son of hell!
Thou slander of thy mother’s heavy womb!
Thou loathed issue of thy father’s loins!
Thou rag of honour! thou detested–
GLOUCESTER

Margaret.
QUEEN MARGARET

Richard!
GLOUCESTER

Ha!
QUEEN MARGARET

I call thee not.
GLOUCESTER

I cry thee mercy then, for I had thought
That thou hadst call’d me all these bitter names.
QUEEN MARGARET

Why, so I did; but look’d for no reply.
O, let me make the period to my curse!
GLOUCESTER

‘Tis done by me, and ends in ‘Margaret.’
QUEEN ELIZABETH

Thus have you breathed your curse against yourself.
QUEEN MARGARET

Poor painted queen, vain flourish of my fortune!
Why strew’st thou sugar on that bottled spider,
Whose deadly web ensnareth thee about?
Fool, fool! thou whet’st a knife to kill thyself.
The time will come when thou shalt wish for me
To help thee curse that poisonous bunchback’d toad.
HASTINGS

False-boding woman, end thy frantic curse,
Lest to thy harm thou move our patience.
QUEEN MARGARET

Foul shame upon you! you have all moved mine.
RIVERS

Were you well served, you would be taught your duty.
QUEEN MARGARET

To serve me well, you all should do me duty,
Teach me to be your queen, and you my subjects:
O, serve me well, and teach yourselves that duty!
DORSET

Dispute not with her; she is lunatic.
QUEEN MARGARET

Peace, master marquess, you are malapert:
Your fire-new stamp of honour is scarce current.
O, that your young nobility could judge
What ’twere to lose it, and be miserable!
They that stand high have many blasts to shake them;
And if they fall, they dash themselves to pieces.
GLOUCESTER

Good counsel, marry: learn it, learn it, marquess.
DORSET

It toucheth you, my lord, as much as me.
GLOUCESTER

Yea, and much more: but I was born so high,
Our aery buildeth in the cedar’s top,
And dallies with the wind and scorns the sun.
QUEEN MARGARET

And turns the sun to shade; alas! alas!
Witness my son, now in the shade of death;
Whose bright out-shining beams thy cloudy wrath
Hath in eternal darkness folded up.
Your aery buildeth in our aery’s nest.
O God, that seest it, do not suffer it!
As it was won with blood, lost be it so!
BUCKINGHAM

Have done! for shame, if not for charity.
QUEEN MARGARET

Urge neither charity nor shame to me:
Uncharitably with me have you dealt,
And shamefully by you my hopes are butcher’d.
My charity is outrage, life my shame
And in that shame still live my sorrow’s rage.
BUCKINGHAM

Have done, have done.
QUEEN MARGARET

O princely Buckingham I’ll kiss thy hand,
In sign of league and amity with thee:
Now fair befal thee and thy noble house!
Thy garments are not spotted with our blood,
Nor thou within the compass of my curse.
BUCKINGHAM

Nor no one here; for curses never pass
The lips of those that breathe them in the air.
QUEEN MARGARET

I’ll not believe but they ascend the sky,
And there awake God’s gentle-sleeping peace.
O Buckingham, take heed of yonder dog!
Look, when he fawns, he bites; and when he bites,
His venom tooth will rankle to the death:
Have not to do with him, beware of him;
Sin, death, and hell have set their marks on him,
And all their ministers attend on him.
GLOUCESTER

What doth she say, my Lord of Buckingham?
BUCKINGHAM

Nothing that I respect, my gracious lord.
QUEEN MARGARET

What, dost thou scorn me for my gentle counsel?
And soothe the devil that I warn thee from?
O, but remember this another day,
When he shall split thy very heart with sorrow,
And say poor Margaret was a prophetess!
Live each of you the subjects to his hate,
And he to yours, and all of you to God’s!
Exit
HASTINGS

My hair doth stand on end to hear her curses.
RIVERS

And so doth mine: I muse why she’s at liberty.
GLOUCESTER

I cannot blame her: by God’s holy mother,
She hath had too much wrong; and I repent
My part thereof that I have done to her.
QUEEN ELIZABETH

I never did her any, to my knowledge.
GLOUCESTER

But you have all the vantage of her wrong.
I was too hot to do somebody good,
That is too cold in thinking of it now.
Marry, as for Clarence, he is well repaid,
He is frank’d up to fatting for his pains
God pardon them that are the cause of it!
RIVERS

A virtuous and a Christian-like conclusion,
To pray for them that have done scathe to us.
GLOUCESTER

So do I ever:
Aside
being well-advised.
For had I cursed now, I had cursed myself.
Enter CATESBY
CATESBY

Madam, his majesty doth call for you,
And for your grace; and you, my noble lords.
QUEEN ELIZABETH

Catesby, we come. Lords, will you go with us?
RIVERS

Madam, we will attend your grace.
Exeunt all but GLOUCESTER
GLOUCESTER

I do the wrong, and first begin to brawl.
The secret mischiefs that I set abroach
I lay unto the grievous charge of others.
Clarence, whom I, indeed, have laid in darkness,
I do beweep to many simple gulls
Namely, to Hastings, Derby, Buckingham;
And say it is the queen and her allies
That stir the king against the duke my brother.
Now, they believe it; and withal whet me
To be revenged on Rivers, Vaughan, Grey:
But then I sigh; and, with a piece of scripture,
Tell them that God bids us do good for evil:
And thus I clothe my naked villany
With old odd ends stolen out of holy writ;
And seem a saint, when most I play the devil.
Enter two Murderers
But, soft! here come my executioners.
How now, my hardy, stout resolved mates!
Are you now going to dispatch this deed?
First Murderer

We are, my lord; and come to have the warrant
That we may be admitted where he is.
GLOUCESTER

Well thought upon; I have it here about me.
Gives the warrant
When you have done, repair to Crosby Place.
But, sirs, be sudden in the execution,
Withal obdurate, do not hear him plead;
For Clarence is well-spoken, and perhaps
May move your hearts to pity if you mark him.
First Murderer

Tush!
Fear not, my lord, we will not stand to prate;
Talkers are no good doers: be assured
We come to use our hands and not our tongues.
GLOUCESTER

Your eyes drop millstones, when fools’ eyes drop tears:
I like you, lads; about your business straight;
Go, go, dispatch.
First Murderer

We will, my noble lord.
Exeunt

SCENE IV. London. The Tower.

Enter CLARENCE and BRAKENBURY
BRAKENBURY

Why looks your grace so heavily today?
CLARENCE

O, I have pass’d a miserable night,
So full of ugly sights, of ghastly dreams,
That, as I am a Christian faithful man,
I would not spend another such a night,
Though ’twere to buy a world of happy days,
So full of dismal terror was the time!
BRAKENBURY

What was your dream? I long to hear you tell it.
CLARENCE

Methoughts that I had broken from the Tower,
And was embark’d to cross to Burgundy;
And, in my company, my brother Gloucester;
Who from my cabin tempted me to walk
Upon the hatches: thence we looked toward England,
And cited up a thousand fearful times,
During the wars of York and Lancaster
That had befall’n us. As we paced along
Upon the giddy footing of the hatches,
Methought that Gloucester stumbled; and, in falling,
Struck me, that thought to stay him, overboard,
Into the tumbling billows of the main.
Lord, Lord! methought, what pain it was to drown!
What dreadful noise of waters in mine ears!
What ugly sights of death within mine eyes!
Methought I saw a thousand fearful wrecks;
Ten thousand men that fishes gnaw’d upon;
Wedges of gold, great anchors, heaps of pearl,
Inestimable stones, unvalued jewels,
All scatter’d in the bottom of the sea:
Some lay in dead men’s skulls; and, in those holes
Where eyes did once inhabit, there were crept,
As ’twere in scorn of eyes, reflecting gems,
Which woo’d the slimy bottom of the deep,
And mock’d the dead bones that lay scatter’d by.
BRAKENBURY

Had you such leisure in the time of death
To gaze upon the secrets of the deep?
CLARENCE

Methought I had; and often did I strive
To yield the ghost: but still the envious flood
Kept in my soul, and would not let it forth
To seek the empty, vast and wandering air;
But smother’d it within my panting bulk,
Which almost burst to belch it in the sea.
BRAKENBURY

Awaked you not with this sore agony?
CLARENCE

O, no, my dream was lengthen’d after life;
O, then began the tempest to my soul,
Who pass’d, methought, the melancholy flood,
With that grim ferryman which poets write of,
Unto the kingdom of perpetual night.
The first that there did greet my stranger soul,
Was my great father-in-law, renowned Warwick;
Who cried aloud, ‘What scourge for perjury
Can this dark monarchy afford false Clarence?’
And so he vanish’d: then came wandering by
A shadow like an angel, with bright hair
Dabbled in blood; and he squeak’d out aloud,
‘Clarence is come; false, fleeting, perjured Clarence,
That stabb’d me in the field by Tewksbury;
Seize on him, Furies, take him to your torments!’
With that, methoughts, a legion of foul fiends
Environ’d me about, and howled in mine ears
Such hideous cries, that with the very noise
I trembling waked, and for a season after
Could not believe but that I was in hell,
Such terrible impression made the dream.
BRAKENBURY

No marvel, my lord, though it affrighted you;
I promise, I am afraid to hear you tell it.
CLARENCE

O Brakenbury, I have done those things,
Which now bear evidence against my soul,
For Edward’s sake; and see how he requites me!
O God! if my deep prayers cannot appease thee,
But thou wilt be avenged on my misdeeds,
Yet execute thy wrath in me alone,
O, spare my guiltless wife and my poor children!
I pray thee, gentle keeper, stay by me;
My soul is heavy, and I fain would sleep.
BRAKENBURY

I will, my lord: God give your grace good rest!
CLARENCE sleeps
Sorrow breaks seasons and reposing hours,
Makes the night morning, and the noon-tide night.
Princes have but their tides for their glories,
An outward honour for an inward toil;
And, for unfelt imagination,
They often feel a world of restless cares:
So that, betwixt their tides and low names,
There’s nothing differs but the outward fame.
Enter the two Murderers
First Murderer

Ho! who’s here?
BRAKENBURY

In God’s name what are you, and how came you hither?
First Murderer

I would speak with Clarence, and I came hither on my legs.
BRAKENBURY

Yea, are you so brief?
Second Murderer

O sir, it is better to be brief than tedious. Show
him our commission; talk no more.
BRAKENBURY reads it
BRAKENBURY

I am, in this, commanded to deliver
The noble Duke of Clarence to your hands:
I will not reason what is meant hereby,
Because I will be guiltless of the meaning.
Here are the keys, there sits the duke asleep:
I’ll to the king; and signify to him
That thus I have resign’d my charge to you.
First Murderer

Do so, it is a point of wisdom: fare you well.
Exit BRAKENBURY
Second Murderer

What, shall we stab him as he sleeps?
First Murderer

No; then he will say ’twas done cowardly, when he wakes.
Second Murderer

When he wakes! why, fool, he shall never wake till
the judgment-day.
First Murderer

Why, then he will say we stabbed him sleeping.
Second Murderer

The urging of that word ‘judgment’ hath bred a kind
of remorse in me.
First Murderer

What, art thou afraid?
Second Murderer

Not to kill him, having a warrant for it; but to be
damned for killing him, from which no warrant can defend us.
First Murderer

I thought thou hadst been resolute.
Second Murderer

So I am, to let him live.
First Murderer

Back to the Duke of Gloucester, tell him so.
Second Murderer

I pray thee, stay a while: I hope my holy humour
will change; ’twas wont to hold me but while one
would tell twenty.
First Murderer

How dost thou feel thyself now?
Second Murderer

‘Faith, some certain dregs of conscience are yet
within me.
First Murderer

Remember our reward, when the deed is done.
Second Murderer

‘Zounds, he dies: I had forgot the reward.
First Murderer

Where is thy conscience now?
Second Murderer

In the Duke of Gloucester’s purse.
First Murderer

So when he opens his purse to give us our reward,
thy conscience flies out.
Second Murderer

Let it go; there’s few or none will entertain it.
First Murderer

How if it come to thee again?
Second Murderer

I’ll not meddle with it: it is a dangerous thing: it
makes a man a coward: a man cannot steal, but it
accuseth him; he cannot swear, but it cheques him;
he cannot lie with his neighbour’s wife, but it
detects him: ’tis a blushing shamefast spirit that
mutinies in a man’s bosom; it fills one full of
obstacles: it made me once restore a purse of gold
that I found; it beggars any man that keeps it: it
is turned out of all towns and cities for a
dangerous thing; and every man that means to live
well endeavours to trust to himself and to live
without it.
First Murderer

‘Zounds, it is even now at my elbow, persuading me
not to kill the duke.
Second Murderer

Take the devil in thy mind, and relieve him not: he
would insinuate with thee but to make thee sigh.
First Murderer

Tut, I am strong-framed, he cannot prevail with me,
I warrant thee.
Second Murderer

Spoke like a tail fellow that respects his
reputation. Come, shall we to this gear?
First Murderer

Take him over the costard with the hilts of thy
sword, and then we will chop him in the malmsey-butt
in the next room.
Second Murderer

O excellent devise! make a sop of him.
First Murderer

Hark! he stirs: shall I strike?
Second Murderer

No, first let’s reason with him.
CLARENCE

Where art thou, keeper? give me a cup of wine.
Second murderer

You shall have wine enough, my lord, anon.
CLARENCE

In God’s name, what art thou?
Second Murderer

A man, as you are.
CLARENCE

But not, as I am, royal.
Second Murderer

Nor you, as we are, loyal.
CLARENCE

Thy voice is thunder, but thy looks are humble.
Second Murderer

My voice is now the king’s, my looks mine own.
CLARENCE

How darkly and how deadly dost thou speak!
Your eyes do menace me: why look you pale?
Who sent you hither? Wherefore do you come?
Both

To, to, to–
CLARENCE

To murder me?
Both

Ay, ay.
CLARENCE

You scarcely have the hearts to tell me so,
And therefore cannot have the hearts to do it.
Wherein, my friends, have I offended you?
First Murderer

Offended us you have not, but the king.
CLARENCE

I shall be reconciled to him again.
Second Murderer

Never, my lord; therefore prepare to die.
CLARENCE

Are you call’d forth from out a world of men
To slay the innocent? What is my offence?
Where are the evidence that do accuse me?
What lawful quest have given their verdict up
Unto the frowning judge? or who pronounced
The bitter sentence of poor Clarence’ death?
Before I be convict by course of law,
To threaten me with death is most unlawful.
I charge you, as you hope to have redemption
By Christ’s dear blood shed for our grievous sins,
That you depart and lay no hands on me
The deed you undertake is damnable.
First Murderer

What we will do, we do upon command.
Second Murderer

And he that hath commanded is the king.
CLARENCE

Erroneous vassal! the great King of kings
Hath in the tables of his law commanded
That thou shalt do no murder: and wilt thou, then,
Spurn at his edict and fulfil a man’s?
Take heed; for he holds vengeance in his hands,
To hurl upon their heads that break his law.
Second Murderer

And that same vengeance doth he hurl on thee,
For false forswearing and for murder too:
Thou didst receive the holy sacrament,
To fight in quarrel of the house of Lancaster.
First Murderer

And, like a traitor to the name of God,
Didst break that vow; and with thy treacherous blade
Unrip’dst the bowels of thy sovereign’s son.
Second Murderer

Whom thou wert sworn to cherish and defend.
First Murderer

How canst thou urge God’s dreadful law to us,
When thou hast broke it in so dear degree?
CLARENCE

Alas! for whose sake did I that ill deed?
For Edward, for my brother, for his sake: Why, sirs,
He sends ye not to murder me for this
For in this sin he is as deep as I.
If God will be revenged for this deed.
O, know you yet, he doth it publicly,
Take not the quarrel from his powerful arm;
He needs no indirect nor lawless course
To cut off those that have offended him.
First Murderer

Who made thee, then, a bloody minister,
When gallant-springing brave Plantagenet,
That princely novice, was struck dead by thee?
CLARENCE

My brother’s love, the devil, and my rage.
First Murderer

Thy brother’s love, our duty, and thy fault,
Provoke us hither now to slaughter thee.
CLARENCE

Oh, if you love my brother, hate not me;
I am his brother, and I love him well.
If you be hired for meed, go back again,
And I will send you to my brother Gloucester,
Who shall reward you better for my life
Than Edward will for tidings of my death.
Second Murderer

You are deceived, your brother Gloucester hates you.
CLARENCE

O, no, he loves me, and he holds me dear:
Go you to him from me.
Both

Ay, so we will.
CLARENCE

Tell him, when that our princely father York
Bless’d his three sons with his victorious arm,
And charged us from his soul to love each other,
He little thought of this divided friendship:
Bid Gloucester think of this, and he will weep.
First Murderer

Ay, millstones; as be lesson’d us to weep.
CLARENCE

O, do not slander him, for he is kind.
First Murderer

Right,
As snow in harvest. Thou deceivest thyself:
‘Tis he that sent us hither now to slaughter thee.
CLARENCE

It cannot be; for when I parted with him,
He hugg’d me in his arms, and swore, with sobs,
That he would labour my delivery.
Second Murderer

Why, so he doth, now he delivers thee
From this world’s thraldom to the joys of heaven.
First Murderer

Make peace with God, for you must die, my lord.
CLARENCE

Hast thou that holy feeling in thy soul,
To counsel me to make my peace with God,
And art thou yet to thy own soul so blind,
That thou wilt war with God by murdering me?
Ah, sirs, consider, he that set you on
To do this deed will hate you for the deed.
Second Murderer

What shall we do?
CLARENCE

Relent, and save your souls.
First Murderer

Relent! ’tis cowardly and womanish.
CLARENCE

Not to relent is beastly, savage, devilish.
Which of you, if you were a prince’s son,
Being pent from liberty, as I am now,
if two such murderers as yourselves came to you,
Would not entreat for life?
My friend, I spy some pity in thy looks:
O, if thine eye be not a flatterer,
Come thou on my side, and entreat for me,
As you would beg, were you in my distress
A begging prince what beggar pities not?
Second Murderer

Look behind you, my lord.
First Murderer

Take that, and that: if all this will not do,
Stabs him
I’ll drown you in the malmsey-butt within.
Exit, with the body
Second Murderer

A bloody deed, and desperately dispatch’d!
How fain, like Pilate, would I wash my hands
Of this most grievous guilty murder done!
Re-enter First Murderer
First Murderer

How now! what mean’st thou, that thou help’st me not?
By heavens, the duke shall know how slack thou art!
Second Murderer

I would he knew that I had saved his brother!
Take thou the fee, and tell him what I say;
For I repent me that the duke is slain.
Exit
First Murderer

So do not I: go, coward as thou art.
Now must I hide his body in some hole,
Until the duke take order for his burial:
And when I have my meed, I must away;
For this will out, and here I must not stay.

ACT II
SCENE I. London. The palace.

Flourish. Enter KING EDWARD IV sick, QUEEN ELIZABETH, DORSET, RIVERS, HASTINGS, BUCKINGHAM, GREY, and others
KING EDWARD IV

Why, so: now have I done a good day’s work:
You peers, continue this united league:
I every day expect an embassage
From my Redeemer to redeem me hence;
And now in peace my soul shall part to heaven,
Since I have set my friends at peace on earth.
Rivers and Hastings, take each other’s hand;
Dissemble not your hatred, swear your love.
RIVERS

By heaven, my heart is purged from grudging hate:
And with my hand I seal my true heart’s love.
HASTINGS

So thrive I, as I truly swear the like!
KING EDWARD IV

Take heed you dally not before your king;
Lest he that is the supreme King of kings
Confound your hidden falsehood, and award
Either of you to be the other’s end.
HASTINGS

So prosper I, as I swear perfect love!
RIVERS

And I, as I love Hastings with my heart!
KING EDWARD IV

Madam, yourself are not exempt in this,
Nor your son Dorset, Buckingham, nor you;
You have been factious one against the other,
Wife, love Lord Hastings, let him kiss your hand;
And what you do, do it unfeignedly.
QUEEN ELIZABETH

Here, Hastings; I will never more remember
Our former hatred, so thrive I and mine!
KING EDWARD IV

Dorset, embrace him; Hastings, love lord marquess.
DORSET

This interchange of love, I here protest,
Upon my part shall be unviolable.
HASTINGS

And so swear I, my lord
They embrace
KING EDWARD IV

Now, princely Buckingham, seal thou this league
With thy embracements to my wife’s allies,
And make me happy in your unity.
BUCKINGHAM

Whenever Buckingham doth turn his hate
On you or yours,
To the Queen
but with all duteous love
Doth cherish you and yours, God punish me
With hate in those where I expect most love!
When I have most need to employ a friend,
And most assured that he is a friend
Deep, hollow, treacherous, and full of guile,
Be he unto me! this do I beg of God,
When I am cold in zeal to yours.
KING EDWARD IV

A pleasing cordial, princely Buckingham,
is this thy vow unto my sickly heart.
There wanteth now our brother Gloucester here,
To make the perfect period of this peace.
BUCKINGHAM

And, in good time, here comes the noble duke.
Enter GLOUCESTER
GLOUCESTER

Good morrow to my sovereign king and queen:
And, princely peers, a happy time of day!
KING EDWARD IV

Happy, indeed, as we have spent the day.
Brother, we done deeds of charity;
Made peace enmity, fair love of hate,
Between these swelling wrong-incensed peers.
GLOUCESTER

A blessed labour, my most sovereign liege:
Amongst this princely heap, if any here,
By false intelligence, or wrong surmise,
Hold me a foe;
If I unwittingly, or in my rage,
Have aught committed that is hardly borne
By any in this presence, I desire
To reconcile me to his friendly peace:
‘Tis death to me to be at enmity;
I hate it, and desire all good men’s love.
First, madam, I entreat true peace of you,
Which I will purchase with my duteous service;
Of you, my noble cousin Buckingham,
If ever any grudge were lodged between us;
Of you, Lord Rivers, and, Lord Grey, of you;
That without desert have frown’d on me;
Dukes, earls, lords, gentlemen; indeed, of all.
I do not know that Englishman alive
With whom my soul is any jot at odds
More than the infant that is born to-night
I thank my God for my humility.
QUEEN ELIZABETH

A holy day shall this be kept hereafter:
I would to God all strifes were well compounded.
My sovereign liege, I do beseech your majesty
To take our brother Clarence to your grace.
GLOUCESTER

Why, madam, have I offer’d love for this
To be so bouted in this royal presence?
Who knows not that the noble duke is dead?
They all start
You do him injury to scorn his corse.
RIVERS

Who knows not he is dead! who knows he is?
QUEEN ELIZABETH

All seeing heaven, what a world is this!
BUCKINGHAM

Look I so pale, Lord Dorset, as the rest?
DORSET

Ay, my good lord; and no one in this presence
But his red colour hath forsook his cheeks.
KING EDWARD IV

Is Clarence dead? the order was reversed.
GLOUCESTER

But he, poor soul, by your first order died,
And that a winged Mercury did bear:
Some tardy cripple bore the countermand,
That came too lag to see him buried.
God grant that some, less noble and less loyal,
Nearer in bloody thoughts, but not in blood,
Deserve not worse than wretched Clarence did,
And yet go current from suspicion!
Enter DERBY
DERBY

A boon, my sovereign, for my service done!
KING EDWARD IV

I pray thee, peace: my soul is full of sorrow.
DERBY

I will not rise, unless your highness grant.
KING EDWARD IV

Then speak at once what is it thou demand’st.
DERBY

The forfeit, sovereign, of my servant’s life;
Who slew to-day a righteous gentleman
Lately attendant on the Duke of Norfolk.
KING EDWARD IV

Have a tongue to doom my brother’s death,
And shall the same give pardon to a slave?
My brother slew no man; his fault was thought,
And yet his punishment was cruel death.
Who sued to me for him? who, in my rage,
Kneel’d at my feet, and bade me be advised
Who spake of brotherhood? who spake of love?
Who told me how the poor soul did forsake
The mighty Warwick, and did fight for me?
Who told me, in the field by Tewksbury
When Oxford had me down, he rescued me,
And said, ‘Dear brother, live, and be a king’?
Who told me, when we both lay in the field
Frozen almost to death, how he did lap me
Even in his own garments, and gave himself,
All thin and naked, to the numb cold night?
All this from my remembrance brutish wrath
Sinfully pluck’d, and not a man of you
Had so much grace to put it in my mind.
But when your carters or your waiting-vassals
Have done a drunken slaughter, and defaced
The precious image of our dear Redeemer,
You straight are on your knees for pardon, pardon;
And I unjustly too, must grant it you
But for my brother not a man would speak,
Nor I, ungracious, speak unto myself
For him, poor soul. The proudest of you all
Have been beholding to him in his life;
Yet none of you would once plead for his life.
O God, I fear thy justice will take hold
On me, and you, and mine, and yours for this!
Come, Hastings, help me to my closet.
Oh, poor Clarence!
Exeunt some with KING EDWARD IV and QUEEN MARGARET
GLOUCESTER

This is the fruit of rashness! Mark’d you not
How that the guilty kindred of the queen
Look’d pale when they did hear of Clarence’ death?
O, they did urge it still unto the king!
God will revenge it. But come, let us in,
To comfort Edward with our company.
BUCKINGHAM

We wait upon your grace.
Exeunt

SCENE II. The palace.

Enter the DUCHESS OF YORK, with the two children of CLARENCE
Boy

Tell me, good grandam, is our father dead?
DUCHESS OF YORK

No, boy.
Boy

Why do you wring your hands, and beat your breast,
And cry ‘O Clarence, my unhappy son!’
Girl

Why do you look on us, and shake your head,
And call us wretches, orphans, castaways
If that our noble father be alive?
DUCHESS OF YORK

My pretty cousins, you mistake me much;
I do lament the sickness of the king.
As loath to lose him, not your father’s death;
It were lost sorrow to wail one that’s lost.
Boy

Then, grandam, you conclude that he is dead.
The king my uncle is to blame for this:
God will revenge it; whom I will importune
With daily prayers all to that effect.
Girl

And so will I.
DUCHESS OF YORK

Peace, children, peace! the king doth love you well:
Incapable and shallow innocents,
You cannot guess who caused your father’s death.
Boy

Grandam, we can; for my good uncle Gloucester
Told me, the king, provoked by the queen,
Devised impeachments to imprison him :
And when my uncle told me so, he wept,
And hugg’d me in his arm, and kindly kiss’d my cheek;
Bade me rely on him as on my father,
And he would love me dearly as his child.
DUCHESS OF YORK

Oh, that deceit should steal such gentle shapes,
And with a virtuous vizard hide foul guile!
He is my son; yea, and therein my shame;
Yet from my dugs he drew not this deceit.
Boy

Think you my uncle did dissemble, grandam?
DUCHESS OF YORK

Ay, boy.
Boy

I cannot think it. Hark! what noise is this?
Enter QUEEN ELIZABETH, with her hair about her ears; RIVERS, and DORSET after her
QUEEN ELIZABETH

Oh, who shall hinder me to wail and weep,
To chide my fortune, and torment myself?
I’ll join with black despair against my soul,
And to myself become an enemy.
DUCHESS OF YORK

What means this scene of rude impatience?
QUEEN ELIZABETH

To make an act of tragic violence:
Edward, my lord, your son, our king, is dead.
Why grow the branches now the root is wither’d?
Why wither not the leaves the sap being gone?
If you will live, lament; if die, be brief,
That our swift-winged souls may catch the king’s;
Or, like obedient subjects, follow him
To his new kingdom of perpetual rest.
DUCHESS OF YORK

Ah, so much interest have I in thy sorrow
As I had title in thy noble husband!
I have bewept a worthy husband’s death,
And lived by looking on his images:
But now two mirrors of his princely semblance
Are crack’d in pieces by malignant death,
And I for comfort have but one false glass,
Which grieves me when I see my shame in him.
Thou art a widow; yet thou art a mother,
And hast the comfort of thy children left thee:
But death hath snatch’d my husband from mine arms,
And pluck’d two crutches from my feeble limbs,
Edward and Clarence. O, what cause have I,
Thine being but a moiety of my grief,
To overgo thy plaints and drown thy cries!
Boy

Good aunt, you wept not for our father’s death;
How can we aid you with our kindred tears?
Girl

Our fatherless distress was left unmoan’d;
Your widow-dolour likewise be unwept!
QUEEN ELIZABETH

Give me no help in lamentation;
I am not barren to bring forth complaints
All springs reduce their currents to mine eyes,
That I, being govern’d by the watery moon,
May send forth plenteous tears to drown the world!
Oh for my husband, for my dear lord Edward!
Children

Oh for our father, for our dear lord Clarence!
DUCHESS OF YORK

Alas for both, both mine, Edward and Clarence!
QUEEN ELIZABETH

What stay had I but Edward? and he’s gone.
Children

What stay had we but Clarence? and he’s gone.
DUCHESS OF YORK

What stays had I but they? and they are gone.
QUEEN ELIZABETH

Was never widow had so dear a loss!
Children

Were never orphans had so dear a loss!
DUCHESS OF YORK

Was never mother had so dear a loss!
Alas, I am the mother of these moans!
Their woes are parcell’d, mine are general.
She for an Edward weeps, and so do I;
I for a Clarence weep, so doth not she:
These babes for Clarence weep and so do I;
I for an Edward weep, so do not they:
Alas, you three, on me, threefold distress’d,
Pour all your tears! I am your sorrow’s nurse,
And I will pamper it with lamentations.
DORSET

Comfort, dear mother: God is much displeased
That you take with unthankfulness, his doing:
In common worldly things, ’tis call’d ungrateful,
With dull unwilligness to repay a debt
Which with a bounteous hand was kindly lent;
Much more to be thus opposite with heaven,
For it requires the royal debt it lent you.
RIVERS

Madam, bethink you, like a careful mother,
Of the young prince your son: send straight for him
Let him be crown’d; in him your comfort lives:
Drown desperate sorrow in dead Edward’s grave,
And plant your joys in living Edward’s throne.
Enter GLOUCESTER, BUCKINGHAM, DERBY, HASTINGS, and RATCLIFF
GLOUCESTER

Madam, have comfort: all of us have cause
To wail the dimming of our shining star;
But none can cure their harms by wailing them.
Madam, my mother, I do cry you mercy;
I did not see your grace: humbly on my knee
I crave your blessing.
DUCHESS OF YORK

God bless thee; and put meekness in thy mind,
Love, charity, obedience, and true duty!
GLOUCESTER

[Aside] Amen; and make me die a good old man!
That is the butt-end of a mother’s blessing:
I marvel why her grace did leave it out.
BUCKINGHAM

You cloudy princes and heart-sorrowing peers,
That bear this mutual heavy load of moan,
Now cheer each other in each other’s love
Though we have spent our harvest of this king,
We are to reap the harvest of his son.
The broken rancour of your high-swoln hearts,
But lately splinter’d, knit, and join’d together,
Must gently be preserved, cherish’d, and kept:
Me seemeth good, that, with some little train,
Forthwith from Ludlow the young prince be fetch’d
Hither to London, to be crown’d our king.
RIVERS

Why with some little train, my Lord of Buckingham?
BUCKINGHAM

Marry, my lord, lest, by a multitude,
The new-heal’d wound of malice should break out,
Which would be so much the more dangerous
By how much the estate is green and yet ungovern’d:
Where every horse bears his commanding rein,
And may direct his course as please himself,
As well the fear of harm, as harm apparent,
In my opinion, ought to be prevented.
GLOUCESTER

I hope the king made peace with all of us
And the compact is firm and true in me.
RIVERS

And so in me; and so, I think, in all:
Yet, since it is but green, it should be put
To no apparent likelihood of breach,
Which haply by much company might be urged:
Therefore I say with noble Buckingham,
That it is meet so few should fetch the prince.
HASTINGS

And so say I.
GLOUCESTER

Then be it so; and go we to determine
Who they shall be that straight shall post to Ludlow.
Madam, and you, my mother, will you go
To give your censures in this weighty business?
QUEEN ELIZABETH

DUCHESS OF YORK

With all our harts.
Exeunt all but BUCKINGHAM and GLOUCESTER
BUCKINGHAM

My lord, whoever journeys to the Prince,
For God’s sake, let not us two be behind;
For, by the way, I’ll sort occasion,
As index to the story we late talk’d of,
To part the queen’s proud kindred from the king.
GLOUCESTER

My other self, my counsel’s consistory,
My oracle, my prophet! My dear cousin,
I, like a child, will go by thy direction.
Towards Ludlow then, for we’ll not stay behind.
Exeunt

SCENE III. London. A street.

Enter two Citizens meeting
First Citizen

Neighbour, well met: whither away so fast?
Second Citizen

I promise you, I scarcely know myself:
Hear you the news abroad?
First Citizen

Ay, that the king is dead.
Second Citizen

Bad news, by’r lady; seldom comes the better:
I fear, I fear ’twill prove a troublous world.
Enter another Citizen
Third Citizen

Neighbours, God speed!
First Citizen

Give you good morrow, sir.
Third Citizen

Doth this news hold of good King Edward’s death?
Second Citizen

Ay, sir, it is too true; God help the while!
Third Citizen

Then, masters, look to see a troublous world.
First Citizen

No, no; by God’s good grace his son shall reign.
Third Citizen

Woe to the land that’s govern’d by a child!
Second Citizen

In him there is a hope of government,
That in his nonage council under him,
And in his full and ripen’d years himself,
No doubt, shall then and till then govern well.
First Citizen

So stood the state when Henry the Sixth
Was crown’d in Paris but at nine months old.
Third Citizen

Stood the state so? No, no, good friends, God wot;
For then this land was famously enrich’d
With politic grave counsel; then the king
Had virtuous uncles to protect his grace.
First Citizen

Why, so hath this, both by the father and mother.
Third Citizen

Better it were they all came by the father,
Or by the father there were none at all;
For emulation now, who shall be nearest,
Will touch us all too near, if God prevent not.
O, full of danger is the Duke of Gloucester!
And the queen’s sons and brothers haught and proud:
And were they to be ruled, and not to rule,
This sickly land might solace as before.
First Citizen

Come, come, we fear the worst; all shall be well.
Third Citizen

When clouds appear, wise men put on their cloaks;
When great leaves fall, the winter is at hand;
When the sun sets, who doth not look for night?
Untimely storms make men expect a dearth.
All may be well; but, if God sort it so,
‘Tis more than we deserve, or I expect.
Second Citizen

Truly, the souls of men are full of dread:
Ye cannot reason almost with a man
That looks not heavily and full of fear.
Third Citizen

Before the times of change, still is it so:
By a divine instinct men’s minds mistrust
Ensuing dangers; as by proof, we see
The waters swell before a boisterous storm.
But leave it all to God. whither away?
Second Citizen

Marry, we were sent for to the justices.
Third Citizen

And so was I: I’ll bear you company.
Exeunt

SCENE IV. London. The palace.

Enter the ARCHBISHOP OF YORK, young YORK, QUEEN ELIZABETH, and the DUCHESS OF YORK
ARCHBISHOP OF YORK

Last night, I hear, they lay at Northampton;
At Stony-Stratford will they be to-night:
To-morrow, or next day, they will be here.
DUCHESS OF YORK

I long with all my heart to see the prince:
I hope he is much grown since last I saw him.
QUEEN ELIZABETH

But I hear, no; they say my son of York
Hath almost overta’en him in his growth.
YORK

Ay, mother; but I would not have it so.
DUCHESS OF YORK

Why, my young cousin, it is good to grow.
YORK

Grandam, one night, as we did sit at supper,
My uncle Rivers talk’d how I did grow
More than my brother: ‘Ay,’ quoth my uncle
Gloucester,
‘Small herbs have grace, great weeds do grow apace:’
And since, methinks, I would not grow so fast,
Because sweet flowers are slow and weeds make haste.
DUCHESS OF YORK

Good faith, good faith, the saying did not hold
In him that did object the same to thee;
He was the wretched’st thing when he was young,
So long a-growing and so leisurely,
That, if this rule were true, he should be gracious.
ARCHBISHOP OF YORK

Why, madam, so, no doubt, he is.
DUCHESS OF YORK

I hope he is; but yet let mothers doubt.
YORK

Now, by my troth, if I had been remember’d,
I could have given my uncle’s grace a flout,
To touch his growth nearer than he touch’d mine.
DUCHESS OF YORK

How, my pretty York? I pray thee, let me hear it.
YORK

Marry, they say my uncle grew so fast
That he could gnaw a crust at two hours old
‘Twas full two years ere I could get a tooth.
Grandam, this would have been a biting jest.
DUCHESS OF YORK

I pray thee, pretty York, who told thee this?
YORK

Grandam, his nurse.
DUCHESS OF YORK

His nurse! why, she was dead ere thou wert born.
YORK

If ’twere not she, I cannot tell who told me.
QUEEN ELIZABETH

A parlous boy: go to, you are too shrewd.
ARCHBISHOP OF YORK

Good madam, be not angry with the child.
QUEEN ELIZABETH

Pitchers have ears.
Enter a Messenger
ARCHBISHOP OF YORK

Here comes a messenger. What news?
Messenger

Such news, my lord, as grieves me to unfold.
QUEEN ELIZABETH

How fares the prince?
Messenger

Well, madam, and in health.
DUCHESS OF YORK

What is thy news then?
Messenger

Lord Rivers and Lord Grey are sent to Pomfret,
With them Sir Thomas Vaughan, prisoners.
DUCHESS OF YORK

Who hath committed them?
Messenger

The mighty dukes
Gloucester and Buckingham.
QUEEN ELIZABETH

For what offence?
Messenger

The sum of all I can, I have disclosed;
Why or for what these nobles were committed
Is all unknown to me, my gracious lady.
QUEEN ELIZABETH

Ay me, I see the downfall of our house!
The tiger now hath seized the gentle hind;
Insulting tyranny begins to jet
Upon the innocent and aweless throne:
Welcome, destruction, death, and massacre!
I see, as in a map, the end of all.
DUCHESS OF YORK

Accursed and unquiet wrangling days,
How many of you have mine eyes beheld!
My husband lost his life to get the crown;
And often up and down my sons were toss’d,
For me to joy and weep their gain and loss:
And being seated, and domestic broils
Clean over-blown, themselves, the conquerors.
Make war upon themselves; blood against blood,
Self against self: O, preposterous
And frantic outrage, end thy damned spleen;
Or let me die, to look on death no more!
QUEEN ELIZABETH

Come, come, my boy; we will to sanctuary.
Madam, farewell.
DUCHESS OF YORK

I’ll go along with you.
QUEEN ELIZABETH

You have no cause.
ARCHBISHOP OF YORK

My gracious lady, go;
And thither bear your treasure and your goods.
For my part, I’ll resign unto your grace
The seal I keep: and so betide to me
As well I tender you and all of yours!
Come, I’ll conduct you to the sanctuary.
Exeunt

ACT III
SCENE I. London. A street.

The trumpets sound. Enter the young PRINCE EDWARD, GLOUCESTER, BUCKINGHAM, CARDINAL, CATESBY, and others
BUCKINGHAM

Welcome, sweet prince, to London, to your chamber.
GLOUCESTER

Welcome, dear cousin, my thoughts’ sovereign
The weary way hath made you melancholy.
PRINCE EDWARD

No, uncle; but our crosses on the way
Have made it tedious, wearisome, and heavy
I want more uncles here to welcome me.
GLOUCESTER

Sweet prince, the untainted virtue of your years
Hath not yet dived into the world’s deceit
Nor more can you distinguish of a man
Than of his outward show; which, God he knows,
Seldom or never jumpeth with the heart.
Those uncles which you want were dangerous;
Your grace attended to their sugar’d words,
But look’d not on the poison of their hearts :
God keep you from them, and from such false friends!
PRINCE EDWARD

God keep me from false friends! but they were none.
GLOUCESTER

My lord, the mayor of London comes to greet you.
Enter the Lord Mayor and his train
Lord Mayor

God bless your grace with health and happy days!
PRINCE EDWARD

I thank you, good my lord; and thank you all.
I thought my mother, and my brother York,
Would long ere this have met us on the way
Fie, what a slug is Hastings, that he comes not
To tell us whether they will come or no!
Enter HASTINGS
BUCKINGHAM

And, in good time, here comes the sweating lord.
PRINCE EDWARD

Welcome, my lord: what, will our mother come?
HASTINGS

On what occasion, God he knows, not I,
The queen your mother, and your brother York,
Have taken sanctuary: the tender prince
Would fain have come with me to meet your grace,
But by his mother was perforce withheld.
BUCKINGHAM

Fie, what an indirect and peevish course
Is this of hers! Lord cardinal, will your grace
Persuade the queen to send the Duke of York
Unto his princely brother presently?
If she deny, Lord Hastings, go with him,
And from her jealous arms pluck him perforce.
CARDINAL

My Lord of Buckingham, if my weak oratory
Can from his mother win the Duke of York,
Anon expect him here; but if she be obdurate
To mild entreaties, God in heaven forbid
We should infringe the holy privilege
Of blessed sanctuary! not for all this land
Would I be guilty of so deep a sin.
BUCKINGHAM

You are too senseless–obstinate, my lord,
Too ceremonious and traditional
Weigh it but with the grossness of this age,
You break not sanctuary in seizing him.
The benefit thereof is always granted
To those whose dealings have deserved the place,
And those who have the wit to claim the place:
This prince hath neither claim’d it nor deserved it;
And therefore, in mine opinion, cannot have it:
Then, taking him from thence that is not there,
You break no privilege nor charter there.
Oft have I heard of sanctuary men;
But sanctuary children ne’er till now.
CARDINAL

My lord, you shall o’er-rule my mind for once.
Come on, Lord Hastings, will you go with me?
HASTINGS

I go, my lord.
PRINCE EDWARD

Good lords, make all the speedy haste you may.
Exeunt CARDINAL and HASTINGS
Say, uncle Gloucester, if our brother come,
Where shall we sojourn till our coronation?
GLOUCESTER

Where it seems best unto your royal self.
If I may counsel you, some day or two
Your highness shall repose you at the Tower:
Then where you please, and shall be thought most fit
For your best health and recreation.
PRINCE EDWARD

I do not like the Tower, of any place.
Did Julius Caesar build that place, my lord?
BUCKINGHAM

He did, my gracious lord, begin that place;
Which, since, succeeding ages have re-edified.
PRINCE EDWARD

Is it upon record, or else reported
Successively from age to age, he built it?
BUCKINGHAM

Upon record, my gracious lord.
PRINCE EDWARD

But say, my lord, it were not register’d,
Methinks the truth should live from age to age,
As ’twere retail’d to all posterity,
Even to the general all-ending day.
GLOUCESTER

[Aside] So wise so young, they say, do never
live long.
PRINCE EDWARD

What say you, uncle?
GLOUCESTER

I say, without characters, fame lives long.
Aside
Thus, like the formal vice, Iniquity,
I moralize two meanings in one word.
PRINCE EDWARD

That Julius Caesar was a famous man;
With what his valour did enrich his wit,
His wit set down to make his valour live
Death makes no conquest of this conqueror;
For now he lives in fame, though not in life.
I’ll tell you what, my cousin Buckingham,–
BUCKINGHAM

What, my gracious lord?
PRINCE EDWARD

An if I live until I be a man,
I’ll win our ancient right in France again,
Or die a soldier, as I lived a king.
GLOUCESTER

[Aside] Short summers lightly have a forward spring.
Enter young YORK, HASTINGS, and the CARDINAL
BUCKINGHAM

Now, in good time, here comes the Duke of York.
PRINCE EDWARD

Richard of York! how fares our loving brother?
YORK

Well, my dread lord; so must I call you now.
PRINCE EDWARD

Ay, brother, to our grief, as it is yours:
Too late he died that might have kept that title,
Which by his death hath lost much majesty.
GLOUCESTER

How fares our cousin, noble Lord of York?
YORK

I thank you, gentle uncle. O, my lord,
You said that idle weeds are fast in growth
The prince my brother hath outgrown me far.
GLOUCESTER

He hath, my lord.
YORK

And therefore is he idle?
GLOUCESTER

O, my fair cousin, I must not say so.
YORK

Then is he more beholding to you than I.
GLOUCESTER

He may command me as my sovereign;
But you have power in me as in a kinsman.
YORK

I pray you, uncle, give me this dagger.
GLOUCESTER

My dagger, little cousin? with all my heart.
PRINCE EDWARD

A beggar, brother?
YORK

Of my kind uncle, that I know will give;
And being but a toy, which is no grief to give.
GLOUCESTER

A greater gift than that I’ll give my cousin.
YORK

A greater gift! O, that’s the sword to it.
GLOUCESTER

A gentle cousin, were it light enough.
YORK

O, then, I see, you will part but with light gifts;
In weightier things you’ll say a beggar nay.
GLOUCESTER

It is too heavy for your grace to wear.
YORK

I weigh it lightly, were it heavier.
GLOUCESTER

What, would you have my weapon, little lord?
YORK

I would, that I might thank you as you call me.
GLOUCESTER

How?
YORK

Little.
PRINCE EDWARD

My Lord of York will still be cross in talk:
Uncle, your grace knows how to bear with him.
YORK

You mean, to bear me, not to bear with me:
Uncle, my brother mocks both you and me;
Because that I am little, like an ape,
He thinks that you should bear me on your shoulders.
BUCKINGHAM

With what a sharp-provided wit he reasons!
To mitigate the scorn he gives his uncle,
He prettily and aptly taunts himself:
So cunning and so young is wonderful.
GLOUCESTER

My lord, will’t please you pass along?
Myself and my good cousin Buckingham
Will to your mother, to entreat of her
To meet you at the Tower and welcome you.
YORK

What, will you go unto the Tower, my lord?
PRINCE EDWARD

My lord protector needs will have it so.
YORK

I shall not sleep in quiet at the Tower.
GLOUCESTER

Why, what should you fear?
YORK

Marry, my uncle Clarence’ angry ghost:
My grandam told me he was murdered there.
PRINCE EDWARD

I fear no uncles dead.
GLOUCESTER

Nor none that live, I hope.
PRINCE EDWARD

An if they live, I hope I need not fear.
But come, my lord; and with a heavy heart,
Thinking on them, go I unto the Tower.
A Sennet. Exeunt all but GLOUCESTER, BUCKINGHAM and CATESBY
BUCKINGHAM

Think you, my lord, this little prating York
Was not incensed by his subtle mother
To taunt and scorn you thus opprobriously?
GLOUCESTER

No doubt, no doubt; O, ’tis a parlous boy;
Bold, quick, ingenious, forward, capable
He is all the mother’s, from the top to toe.
BUCKINGHAM

Well, let them rest. Come hither, Catesby.
Thou art sworn as deeply to effect what we intend
As closely to conceal what we impart:
Thou know’st our reasons urged upon the way;
What think’st thou? is it not an easy matter
To make William Lord Hastings of our mind,
For the instalment of this noble duke
In the seat royal of this famous isle?
CATESBY

He for his father’s sake so loves the prince,
That he will not be won to aught against him.
BUCKINGHAM

What think’st thou, then, of Stanley? what will he?
CATESBY

He will do all in all as Hastings doth.
BUCKINGHAM

Well, then, no more but this: go, gentle Catesby,
And, as it were far off sound thou Lord Hastings,
How doth he stand affected to our purpose;
And summon him to-morrow to the Tower,
To sit about the coronation.
If thou dost find him tractable to us,
Encourage him, and show him all our reasons:
If he be leaden, icy-cold, unwilling,
Be thou so too; and so break off your talk,
And give us notice of his inclination:
For we to-morrow hold divided councils,
Wherein thyself shalt highly be employ’d.
GLOUCESTER

Commend me to Lord William: tell him, Catesby,
His ancient knot of dangerous adversaries
To-morrow are let blood at Pomfret-castle;
And bid my friend, for joy of this good news,
Give mistress Shore one gentle kiss the more.
BUCKINGHAM

Good Catesby, go, effect this business soundly.
CATESBY

My good lords both, with all the heed I may.
GLOUCESTER

Shall we hear from you, Catesby, ere we sleep?
CATESBY

You shall, my lord.
GLOUCESTER

At Crosby Place, there shall you find us both.
Exit CATESBY
BUCKINGHAM

Now, my lord, what shall we do, if we perceive
Lord Hastings will not yield to our complots?
GLOUCESTER

Chop off his head, man; somewhat we will do:
And, look, when I am king, claim thou of me
The earldom of Hereford, and the moveables
Whereof the king my brother stood possess’d.
BUCKINGHAM

I’ll claim that promise at your grace’s hands.
GLOUCESTER

And look to have it yielded with all willingness.
Come, let us sup betimes, that afterwards
We may digest our complots in some form.
Exeunt

SCENE II. Before Lord Hastings’ house.

Enter a Messenger
Messenger

What, ho! my lord!
HASTINGS

[Within] Who knocks at the door?
Messenger

A messenger from the Lord Stanley.
Enter HASTINGS
HASTINGS

What is’t o’clock?
Messenger

Upon the stroke of four.
HASTINGS

Cannot thy master sleep these tedious nights?
Messenger

So it should seem by that I have to say.
First, he commends him to your noble lordship.
HASTINGS

And then?
Messenger

And then he sends you word
He dreamt to-night the boar had razed his helm:
Besides, he says there are two councils held;
And that may be determined at the one
which may make you and him to rue at the other.
Therefore he sends to know your lordship’s pleasure,
If presently you will take horse with him,
And with all speed post with him toward the north,
To shun the danger that his soul divines.
HASTINGS

Go, fellow, go, return unto thy lord;
Bid him not fear the separated councils
His honour and myself are at the one,
And at the other is my servant Catesby
Where nothing can proceed that toucheth us
Whereof I shall not have intelligence.
Tell him his fears are shallow, wanting instance:
And for his dreams, I wonder he is so fond
To trust the mockery of unquiet slumbers
To fly the boar before the boar pursues,
Were to incense the boar to follow us
And make pursuit where he did mean no chase.
Go, bid thy master rise and come to me
And we will both together to the Tower,
Where, he shall see, the boar will use us kindly.
Messenger

My gracious lord, I’ll tell him what you say.
Exit
Enter CATESBY
CATESBY

Many good morrows to my noble lord!
HASTINGS

Good morrow, Catesby; you are early stirring
What news, what news, in this our tottering state?
CATESBY

It is a reeling world, indeed, my lord;
And I believe twill never stand upright
Till Richard wear the garland of the realm.
HASTINGS

How! wear the garland! dost thou mean the crown?
CATESBY

Ay, my good lord.
HASTINGS

I’ll have this crown of mine cut from my shoulders
Ere I will see the crown so foul misplaced.
But canst thou guess that he doth aim at it?
CATESBY

Ay, on my life; and hopes to find forward
Upon his party for the gain thereof:
And thereupon he sends you this good news,
That this same very day your enemies,
The kindred of the queen, must die at Pomfret.
HASTINGS

Indeed, I am no mourner for that news,
Because they have been still mine enemies:
But, that I’ll give my voice on Richard’s side,
To bar my master’s heirs in true descent,
God knows I will not do it, to the death.
CATESBY

God keep your lordship in that gracious mind!
HASTINGS

But I shall laugh at this a twelve-month hence,
That they who brought me in my master’s hate
I live to look upon their tragedy.
I tell thee, Catesby–
CATESBY

What, my lord?
HASTINGS

Ere a fortnight make me elder,
I’ll send some packing that yet think not on it.
CATESBY

‘Tis a vile thing to die, my gracious lord,
When men are unprepared and look not for it.
HASTINGS

O monstrous, monstrous! and so falls it out
With Rivers, Vaughan, Grey: and so ’twill do
With some men else, who think themselves as safe
As thou and I; who, as thou know’st, are dear
To princely Richard and to Buckingham.
CATESBY

The princes both make high account of you;
Aside
For they account his head upon the bridge.
HASTINGS

I know they do; and I have well deserved it.
Enter STANLEY
Come on, come on; where is your boar-spear, man?
Fear you the boar, and go so unprovided?
STANLEY

My lord, good morrow; good morrow, Catesby:
You may jest on, but, by the holy rood,
I do not like these several councils, I.
HASTINGS

My lord,
I hold my life as dear as you do yours;
And never in my life, I do protest,
Was it more precious to me than ’tis now:
Think you, but that I know our state secure,
I would be so triumphant as I am?
STANLEY

The lords at Pomfret, when they rode from London,
Were jocund, and supposed their state was sure,
And they indeed had no cause to mistrust;
But yet, you see how soon the day o’ercast.
This sudden stag of rancour I misdoubt:
Pray God, I say, I prove a needless coward!
What, shall we toward the Tower? the day is spent.
HASTINGS

Come, come, have with you. Wot you what, my lord?
To-day the lords you talk of are beheaded.
LORD STANLEY

They, for their truth, might better wear their heads
Than some that have accused them wear their hats.
But come, my lord, let us away.
Enter a Pursuivant
HASTINGS

Go on before; I’ll talk with this good fellow.
Exeunt STANLEY and CATESBY
How now, sirrah! how goes the world with thee?
Pursuivant

The better that your lordship please to ask.
HASTINGS

I tell thee, man, ’tis better with me now
Than when I met thee last where now we meet:
Then was I going prisoner to the Tower,
By the suggestion of the queen’s allies;
But now, I tell thee–keep it to thyself–
This day those enemies are put to death,
And I in better state than e’er I was.
Pursuivant

God hold it, to your honour’s good content!
HASTINGS

Gramercy, fellow: there, drink that for me.
Throws him his purse
Pursuivant

God save your lordship!
Exit
Enter a Priest
Priest

Well met, my lord; I am glad to see your honour.
HASTINGS

I thank thee, good Sir John, with all my heart.
I am in your debt for your last exercise;
Come the next Sabbath, and I will content you.
He whispers in his ear
Enter BUCKINGHAM
BUCKINGHAM

What, talking with a priest, lord chamberlain?
Your friends at Pomfret, they do need the priest;
Your honour hath no shriving work in hand.
HASTINGS

Good faith, and when I met this holy man,
Those men you talk of came into my mind.
What, go you toward the Tower?
BUCKINGHAM

I do, my lord; but long I shall not stay
I shall return before your lordship thence.
HASTINGS

‘Tis like enough, for I stay dinner there.
BUCKINGHAM

[Aside] And supper too, although thou know’st it not.
Come, will you go?
HASTINGS

I’ll wait upon your lordship.
Exeunt

SCENE III. Pomfret Castle.

Enter RATCLIFF, with halberds, carrying RIVERS, GREY, and VAUGHAN to death
RATCLIFF

Come, bring forth the prisoners.
RIVERS

Sir Richard Ratcliff, let me tell thee this:
To-day shalt thou behold a subject die
For truth, for duty, and for loyalty.
GREY

God keep the prince from all the pack of you!
A knot you are of damned blood-suckers!
VAUGHAN

You live that shall cry woe for this after.
RATCLIFF

Dispatch; the limit of your lives is out.
RIVERS

O Pomfret, Pomfret! O thou bloody prison,
Fatal and ominous to noble peers!
Within the guilty closure of thy walls
Richard the second here was hack’d to death;
And, for more slander to thy dismal seat,
We give thee up our guiltless blood to drink.
GREY

Now Margaret’s curse is fall’n upon our heads,
For standing by when Richard stabb’d her son.
RIVERS

Then cursed she Hastings, then cursed she Buckingham,
Then cursed she Richard. O, remember, God
To hear her prayers for them, as now for us
And for my sister and her princely sons,
Be satisfied, dear God, with our true blood,
Which, as thou know’st, unjustly must be spilt.
RATCLIFF

Make haste; the hour of death is expiate.
RIVERS

Come, Grey, come, Vaughan, let us all embrace:
And take our leave, until we meet in heaven.
Exeunt

SCENE IV. The Tower of London.

Enter BUCKINGHAM, DERBY, HASTINGS, the BISHOP OF ELY, RATCLIFF, LOVEL, with others, and take their seats at a table
HASTINGS

My lords, at once: the cause why we are met
Is, to determine of the coronation.
In God’s name, speak: when is the royal day?
BUCKINGHAM

Are all things fitting for that royal time?
DERBY

It is, and wants but nomination.
BISHOP OF ELY

To-morrow, then, I judge a happy day.
BUCKINGHAM

Who knows the lord protector’s mind herein?
Who is most inward with the royal duke?
BISHOP OF ELY

Your grace, we think, should soonest know his mind.
BUCKINGHAM

Who, I, my lord I we know each other’s faces,
But for our hearts, he knows no more of mine,
Than I of yours;
Nor I no more of his, than you of mine.
Lord Hastings, you and he are near in love.
HASTINGS

I thank his grace, I know he loves me well;
But, for his purpose in the coronation.
I have not sounded him, nor he deliver’d
His gracious pleasure any way therein:
But you, my noble lords, may name the time;
And in the duke’s behalf I’ll give my voice,
Which, I presume, he’ll take in gentle part.
Enter GLOUCESTER
BISHOP OF ELY

Now in good time, here comes the duke himself.
GLOUCESTER

My noble lords and cousins all, good morrow.
I have been long a sleeper; but, I hope,
My absence doth neglect no great designs,
Which by my presence might have been concluded.
BUCKINGHAM

Had not you come upon your cue, my lord
William Lord Hastings had pronounced your part,–
I mean, your voice,–for crowning of the king.
GLOUCESTER

Than my Lord Hastings no man might be bolder;
His lordship knows me well, and loves me well.
HASTINGS

I thank your grace.
GLOUCESTER

My lord of Ely!
BISHOP OF ELY

My lord?
GLOUCESTER

When I was last in Holborn,
I saw good strawberries in your garden there
I do beseech you send for some of them.
BISHOP OF ELY

Marry, and will, my lord, with all my heart.
Exit
GLOUCESTER

Cousin of Buckingham, a word with you.
Drawing him aside
Catesby hath sounded Hastings in our business,
And finds the testy gentleman so hot,
As he will lose his head ere give consent
His master’s son, as worshipful as he terms it,
Shall lose the royalty of England’s throne.
BUCKINGHAM

Withdraw you hence, my lord, I’ll follow you.
Exit GLOUCESTER, BUCKINGHAM following
DERBY

We have not yet set down this day of triumph.
To-morrow, in mine opinion, is too sudden;
For I myself am not so well provided
As else I would be, were the day prolong’d.
Re-enter BISHOP OF ELY
BISHOP OF ELY

Where is my lord protector? I have sent for these
strawberries.
HASTINGS

His grace looks cheerfully and smooth to-day;
There’s some conceit or other likes him well,
When he doth bid good morrow with such a spirit.
I think there’s never a man in Christendom
That can less hide his love or hate than he;
For by his face straight shall you know his heart.
DERBY

What of his heart perceive you in his face
By any likelihood he show’d to-day?
HASTINGS

Marry, that with no man here he is offended;
For, were he, he had shown it in his looks.
DERBY

I pray God he be not, I say.
Re-enter GLOUCESTER and BUCKINGHAM
GLOUCESTER

I pray you all, tell me what they deserve
That do conspire my death with devilish plots
Of damned witchcraft, and that have prevail’d
Upon my body with their hellish charms?
HASTINGS

The tender love I bear your grace, my lord,
Makes me most forward in this noble presence
To doom the offenders, whatsoever they be
I say, my lord, they have deserved death.
GLOUCESTER

Then be your eyes the witness of this ill:
See how I am bewitch’d; behold mine arm
Is, like a blasted sapling, wither’d up:
And this is Edward’s wife, that monstrous witch,
Consorted with that harlot strumpet Shore,
That by their witchcraft thus have marked me.
HASTINGS

If they have done this thing, my gracious lord–
GLOUCESTER

If I thou protector of this damned strumpet–
Tellest thou me of ‘ifs’? Thou art a traitor:
Off with his head! Now, by Saint Paul I swear,
I will not dine until I see the same.
Lovel and Ratcliff, look that it be done:
The rest, that love me, rise and follow me.
Exeunt all but HASTINGS, RATCLIFF, and LOVEL
HASTINGS

Woe, woe for England! not a whit for me;
For I, too fond, might have prevented this.
Stanley did dream the boar did raze his helm;
But I disdain’d it, and did scorn to fly:
Three times to-day my foot-cloth horse did stumble,
And startled, when he look’d upon the Tower,
As loath to bear me to the slaughter-house.
O, now I want the priest that spake to me:
I now repent I told the pursuivant
As ’twere triumphing at mine enemies,
How they at Pomfret bloodily were butcher’d,
And I myself secure in grace and favour.
O Margaret, Margaret, now thy heavy curse
Is lighted on poor Hastings’ wretched head!
RATCLIFF

Dispatch, my lord; the duke would be at dinner:
Make a short shrift; he longs to see your head.
HASTINGS

O momentary grace of mortal men,
Which we more hunt for than the grace of God!
Who builds his hopes in air of your good looks,
Lives like a drunken sailor on a mast,
Ready, with every nod, to tumble down
Into the fatal bowels of the deep.
LOVEL

Come, come, dispatch; ’tis bootless to exclaim.
HASTINGS

O bloody Richard! miserable England!
I prophesy the fearful’st time to thee
That ever wretched age hath look’d upon.
Come, lead me to the block; bear him my head.
They smile at me that shortly shall be dead.
Exeunt

SCENE V. The Tower-walls.

Enter GLOUCESTER and BUCKINGHAM, in rotten armour, marvellous ill-favoured
GLOUCESTER

Come, cousin, canst thou quake, and change thy colour,
Murder thy breath in the middle of a word,
And then begin again, and stop again,
As if thou wert distraught and mad with terror?
BUCKINGHAM

Tut, I can counterfeit the deep tragedian;
Speak and look back, and pry on every side,
Tremble and start at wagging of a straw,
Intending deep suspicion: ghastly looks
Are at my service, like enforced smiles;
And both are ready in their offices,
At any time, to grace my stratagems.
But what, is Catesby gone?
GLOUCESTER

He is; and, see, he brings the mayor along.
Enter the Lord Mayor and CATESBY
BUCKINGHAM

Lord mayor,–
GLOUCESTER

Look to the drawbridge there!
BUCKINGHAM

Hark! a drum.
GLOUCESTER

Catesby, o’erlook the walls.
BUCKINGHAM

Lord mayor, the reason we have sent–
GLOUCESTER

Look back, defend thee, here are enemies.
BUCKINGHAM

God and our innocency defend and guard us!
GLOUCESTER

Be patient, they are friends, Ratcliff and Lovel.
Enter LOVEL and RATCLIFF, with HASTINGS’ head
LOVEL

Here is the head of that ignoble traitor,
The dangerous and unsuspected Hastings.
GLOUCESTER

So dear I loved the man, that I must weep.
I took him for the plainest harmless creature
That breathed upon this earth a Christian;
Made him my book wherein my soul recorded
The history of all her secret thoughts:
So smooth he daub’d his vice with show of virtue,
That, his apparent open guilt omitted,
I mean, his conversation with Shore’s wife,
He lived from all attainder of suspect.
BUCKINGHAM

Well, well, he was the covert’st shelter’d traitor
That ever lived.
Would you imagine, or almost believe,
Were’t not that, by great preservation,
We live to tell it you, the subtle traitor
This day had plotted, in the council-house
To murder me and my good Lord of Gloucester?
Lord Mayor

What, had he so?
GLOUCESTER

What, think You we are Turks or infidels?
Or that we would, against the form of law,
Proceed thus rashly to the villain’s death,
But that the extreme peril of the case,
The peace of England and our persons’ safety,
Enforced us to this execution?
Lord Mayor

Now, fair befall you! he deserved his death;
And you my good lords, both have well proceeded,
To warn false traitors from the like attempts.
I never look’d for better at his hands,
After he once fell in with Mistress Shore.
GLOUCESTER

Yet had not we determined he should die,
Until your lordship came to see his death;
Which now the loving haste of these our friends,
Somewhat against our meaning, have prevented:
Because, my lord, we would have had you heard
The traitor speak, and timorously confess
The manner and the purpose of his treason;
That you might well have signified the same
Unto the citizens, who haply may
Misconstrue us in him and wail his death.
Lord Mayor

But, my good lord, your grace’s word shall serve,
As well as I had seen and heard him speak
And doubt you not, right noble princes both,
But I’ll acquaint our duteous citizens
With all your just proceedings in this cause.
GLOUCESTER

And to that end we wish’d your lord-ship here,
To avoid the carping censures of the world.
BUCKINGHAM

But since you come too late of our intents,
Yet witness what you hear we did intend:
And so, my good lord mayor, we bid farewell.
Exit Lord Mayor
GLOUCESTER

Go, after, after, cousin Buckingham.
The mayor towards Guildhall hies him in all post:
There, at your meet’st advantage of the time,
Infer the bastardy of Edward’s children:
Tell them how Edward put to death a citizen,
Only for saying he would make his son
Heir to the crown; meaning indeed his house,
Which, by the sign thereof was termed so.
Moreover, urge his hateful luxury
And bestial appetite in change of lust;
Which stretched to their servants, daughters, wives,
Even where his lustful eye or savage heart,
Without control, listed to make his prey.
Nay, for a need, thus far come near my person:
Tell them, when that my mother went with child
Of that unsatiate Edward, noble York
My princely father then had wars in France
And, by just computation of the time,
Found that the issue was not his begot;
Which well appeared in his lineaments,
Being nothing like the noble duke my father:
But touch this sparingly, as ’twere far off,
Because you know, my lord, my mother lives.
BUCKINGHAM

Fear not, my lord, I’ll play the orator
As if the golden fee for which I plead
Were for myself: and so, my lord, adieu.
GLOUCESTER

If you thrive well, bring them to Baynard’s Castle;
Where you shall find me well accompanied
With reverend fathers and well-learned bishops.
BUCKINGHAM

I go: and towards three or four o’clock
Look for the news that the Guildhall affords.
Exit BUCKINGHAM
GLOUCESTER

Go, Lovel, with all speed to Doctor Shaw;
To CATESBY
Go thou to Friar Penker; bid them both
Meet me within this hour at Baynard’s Castle.
Exeunt all but GLOUCESTER
Now will I in, to take some privy order,
To draw the brats of Clarence out of sight;
And to give notice, that no manner of person
At any time have recourse unto the princes.
Exit

SCENE VI. The same.

Enter a Scrivener, with a paper in his hand
Scrivener

This is the indictment of the good Lord Hastings;
Which in a set hand fairly is engross’d,
That it may be this day read over in Paul’s.
And mark how well the sequel hangs together:
Eleven hours I spent to write it over,
For yesternight by Catesby was it brought me;
The precedent was full as long a-doing:
And yet within these five hours lived Lord Hastings,
Untainted, unexamined, free, at liberty
Here’s a good world the while! Why who’s so gross,
That seeth not this palpable device?
Yet who’s so blind, but says he sees it not?
Bad is the world; and all will come to nought,
When such bad dealings must be seen in thought.
Exit

SCENE VII. Baynard’s Castle.

Enter GLOUCESTER and BUCKINGHAM, at several doors
GLOUCESTER

How now, my lord, what say the citizens?
BUCKINGHAM

Now, by the holy mother of our Lord,
The citizens are mum and speak not a word.
GLOUCESTER

Touch’d you the bastardy of Edward’s children?
BUCKINGHAM

I did; with his contract with Lady Lucy,
And his contract by deputy in France;
The insatiate greediness of his desires,
And his enforcement of the city wives;
His tyranny for trifles; his own bastardy,
As being got, your father then in France,
His resemblance, being not like the duke;
Withal I did infer your lineaments,
Being the right idea of your father,
Both in your form and nobleness of mind;
Laid open all your victories in Scotland,
Your dicipline in war, wisdom in peace,
Your bounty, virtue, fair humility:
Indeed, left nothing fitting for the purpose
Untouch’d, or slightly handled, in discourse
And when mine oratory grew to an end
I bid them that did love their country’s good
Cry ‘God save Richard, England’s royal king!’
GLOUCESTER

Ah! and did they so?
BUCKINGHAM

No, so God help me, they spake not a word;
But, like dumb statues or breathing stones,
Gazed each on other, and look’d deadly pale.
Which when I saw, I reprehended them;
And ask’d the mayor what meant this wilful silence:
His answer was, the people were not wont
To be spoke to but by the recorder.
Then he was urged to tell my tale again,
‘Thus saith the duke, thus hath the duke inferr’d;’
But nothing spake in warrant from himself.
When he had done, some followers of mine own,
At the lower end of the hall, hurl’d up their caps,
And some ten voices cried ‘God save King Richard!’
And thus I took the vantage of those few,
‘Thanks, gentle citizens and friends,’ quoth I;
‘This general applause and loving shout
Argues your wisdoms and your love to Richard:’
And even here brake off, and came away.
GLOUCESTER

What tongueless blocks were they! would not they speak?
BUCKINGHAM

No, by my troth, my lord.
GLOUCESTER

Will not the mayor then and his brethren come?
BUCKINGHAM

The mayor is here at hand: intend some fear;
Be not you spoke with, but by mighty suit:
And look you get a prayer-book in your hand,
And stand betwixt two churchmen, good my lord;
For on that ground I’ll build a holy descant:
And be not easily won to our request:
Play the maid’s part, still answer nay, and take it.
GLOUCESTER

I go; and if you plead as well for them
As I can say nay to thee for myself,
No doubt well bring it to a happy issue.
BUCKINGHAM

Go, go, up to the leads; the lord mayor knocks.
Exit GLOUCESTER
Enter the Lord Mayor and Citizens
Welcome my lord; I dance attendance here;
I think the duke will not be spoke withal.
Enter CATESBY
Here comes his servant: how now, Catesby,
What says he?
CATESBY

My lord: he doth entreat your grace;
To visit him to-morrow or next day:
He is within, with two right reverend fathers,
Divinely bent to meditation;
And no worldly suit would he be moved,
To draw him from his holy exercise.
BUCKINGHAM

Return, good Catesby, to thy lord again;
Tell him, myself, the mayor and citizens,
In deep designs and matters of great moment,
No less importing than our general good,
Are come to have some conference with his grace.
CATESBY

I’ll tell him what you say, my lord.
Exit
BUCKINGHAM

Ah, ha, my lord, this prince is not an Edward!
He is not lolling on a lewd day-bed,
But on his knees at meditation;
Not dallying with a brace of courtezans,
But meditating with two deep divines;
Not sleeping, to engross his idle body,
But praying, to enrich his watchful soul:
Happy were England, would this gracious prince
Take on himself the sovereignty thereof:
But, sure, I fear, we shall ne’er win him to it.
Lord Mayor

Marry, God forbid his grace should say us nay!
BUCKINGHAM

I fear he will.
Re-enter CATESBY
How now, Catesby, what says your lord?
CATESBY

My lord,
He wonders to what end you have assembled
Such troops of citizens to speak with him,
His grace not being warn’d thereof before:
My lord, he fears you mean no good to him.
BUCKINGHAM

Sorry I am my noble cousin should
Suspect me, that I mean no good to him:
By heaven, I come in perfect love to him;
And so once more return and tell his grace.
Exit CATESBY
When holy and devout religious men
Are at their beads, ’tis hard to draw them thence,
So sweet is zealous contemplation.
Enter GLOUCESTER aloft, between two Bishops. CATESBY returns
Lord Mayor

See, where he stands between two clergymen!
BUCKINGHAM

Two props of virtue for a Christian prince,
To stay him from the fall of vanity:
And, see, a book of prayer in his hand,
True ornaments to know a holy man.
Famous Plantagenet, most gracious prince,
Lend favourable ears to our request;
And pardon us the interruption
Of thy devotion and right Christian zeal.
GLOUCESTER

My lord, there needs no such apology:
I rather do beseech you pardon me,
Who, earnest in the service of my God,
Neglect the visitation of my friends.
But, leaving this, what is your grace’s pleasure?
BUCKINGHAM

Even that, I hope, which pleaseth God above,
And all good men of this ungovern’d isle.
GLOUCESTER

I do suspect I have done some offence
That seems disgracious in the city’s eyes,
And that you come to reprehend my ignorance.
BUCKINGHAM

You have, my lord: would it might please your grace,
At our entreaties, to amend that fault!
GLOUCESTER

Else wherefore breathe I in a Christian land?
BUCKINGHAM

Then know, it is your fault that you resign
The supreme seat, the throne majestical,
The scepter’d office of your ancestors,
Your state of fortune and your due of birth,
The lineal glory of your royal house,
To the corruption of a blemished stock:
Whilst, in the mildness of your sleepy thoughts,
Which here we waken to our country’s good,
This noble isle doth want her proper limbs;
Her face defaced with scars of infamy,
Her royal stock graft with ignoble plants,
And almost shoulder’d in the swallowing gulf
Of blind forgetfulness and dark oblivion.
Which to recure, we heartily solicit
Your gracious self to take on you the charge
And kingly government of this your land,
Not as protector, steward, substitute,
Or lowly factor for another’s gain;
But as successively from blood to blood,
Your right of birth, your empery, your own.
For this, consorted with the citizens,
Your very worshipful and loving friends,
And by their vehement instigation,
In this just suit come I to move your grace.
GLOUCESTER

I know not whether to depart in silence,
Or bitterly to speak in your reproof.
Best fitteth my degree or your condition
If not to answer, you might haply think
Tongue-tied ambition, not replying, yielded
To bear the golden yoke of sovereignty,
Which fondly you would here impose on me;
If to reprove you for this suit of yours,
So season’d with your faithful love to me.
Then, on the other side, I cheque’d my friends.
Therefore, to speak, and to avoid the first,
And then, in speaking, not to incur the last,
Definitively thus I answer you.
Your love deserves my thanks; but my desert
Unmeritable shuns your high request.
First if all obstacles were cut away,
And that my path were even to the crown,
As my ripe revenue and due by birth
Yet so much is my poverty of spirit,
So mighty and so many my defects,
As I had rather hide me from my greatness,
Being a bark to brook no mighty sea,
Than in my greatness covet to be hid,
And in the vapour of my glory smother’d.
But, God be thank’d, there’s no need of me,
And much I need to help you, if need were;
The royal tree hath left us royal fruit,
Which, mellow’d by the stealing hours of time,
Will well become the seat of majesty,
And make, no doubt, us happy by his reign.
On him I lay what you would lay on me,
The right and fortune of his happy stars;
Which God defend that I should wring from him!
BUCKINGHAM

My lord, this argues conscience in your grace;
But the respects thereof are nice and trivial,
All circumstances well considered.
You say that Edward is your brother’s son:
So say we too, but not by Edward’s wife;
For first he was contract to Lady Lucy–
Your mother lives a witness to that vow–
And afterward by substitute betroth’d
To Bona, sister to the King of France.
These both put by a poor petitioner,
A care-crazed mother of a many children,
A beauty-waning and distressed widow,
Even in the afternoon of her best days,
Made prize and purchase of his lustful eye,
Seduced the pitch and height of all his thoughts
To base declension and loathed bigamy
By her, in his unlawful bed, he got
This Edward, whom our manners term the prince.
More bitterly could I expostulate,
Save that, for reverence to some alive,
I give a sparing limit to my tongue.
Then, good my lord, take to your royal self
This proffer’d benefit of dignity;
If non to bless us and the land withal,
Yet to draw forth your noble ancestry
From the corruption of abusing times,
Unto a lineal true-derived course.
Lord Mayor

Do, good my lord, your citizens entreat you.
BUCKINGHAM

Refuse not, mighty lord, this proffer’d love.
CATESBY

O, make them joyful, grant their lawful suit!
GLOUCESTER

Alas, why would you heap these cares on me?
I am unfit for state and majesty;
I do beseech you, take it not amiss;
I cannot nor I will not yield to you.
BUCKINGHAM

If you refuse it,–as, in love and zeal,
Loath to depose the child, Your brother’s son;
As well we know your tenderness of heart
And gentle, kind, effeminate remorse,
Which we have noted in you to your kin,
And egally indeed to all estates,–
Yet whether you accept our suit or no,
Your brother’s son shall never reign our king;
But we will plant some other in the throne,
To the disgrace and downfall of your house:
And in this resolution here we leave you.–
Come, citizens: ‘zounds! I’ll entreat no more.
GLOUCESTER

O, do not swear, my lord of Buckingham.
Exit BUCKINGHAM with the Citizens
CATESBY

Call them again, my lord, and accept their suit.
ANOTHER

Do, good my lord, lest all the land do rue it.
GLOUCESTER

Would you enforce me to a world of care?
Well, call them again. I am not made of stone,
But penetrable to your. kind entreats,
Albeit against my conscience and my soul.
Re-enter BUCKINGHAM and the rest
Cousin of Buckingham, and you sage, grave men,
Since you will buckle fortune on my back,
To bear her burthen, whether I will or no,
I must have patience to endure the load:
But if black scandal or foul-faced reproach
Attend the sequel of your imposition,
Your mere enforcement shall acquittance me
From all the impure blots and stains thereof;
For God he knows, and you may partly see,
How far I am from the desire thereof.
Lord Mayor

God bless your grace! we see it, and will say it.
GLOUCESTER

In saying so, you shall but say the truth.
BUCKINGHAM

Then I salute you with this kingly title:
Long live Richard, England’s royal king!
Lord Mayor

Citizens

Amen.
BUCKINGHAM

To-morrow will it please you to be crown’d?
GLOUCESTER

Even when you please, since you will have it so.
BUCKINGHAM

To-morrow, then, we will attend your grace:
And so most joyfully we take our leave.
GLOUCESTER

Come, let us to our holy task again.
Farewell, good cousin; farewell, gentle friends.
Exeunt

ACT IV
SCENE I. Before the Tower.

Enter, on one side, QUEEN ELIZABETH, DUCHESS OF YORK, and DORSET; on the other, ANNE, Duchess of Gloucester, leading Lady Margaret Plantagenet, CLARENCE’s young Daughter
DUCHESS OF YORK

Who m eets us here? my niece Plantagenet
Led in the hand of her kind aunt of Gloucester?
Now, for my life, she’s wandering to the Tower,
On pure heart’s love to greet the tender princes.
Daughter, well met.
LADY ANNE

God give your graces both
A happy and a joyful time of day!
QUEEN ELIZABETH

As much to you, good sister! Whither away?
LADY ANNE

No farther than the Tower; and, as I guess,
Upon the like devotion as yourselves,
To gratulate the gentle princes there.
QUEEN ELIZABETH

Kind sister, thanks: we’ll enter all together.
Enter BRAKENBURY
And, in good time, here the lieutenant comes.
Master lieutenant, pray you, by your leave,
How doth the prince, and my young son of York?
BRAKENBURY

Right well, dear madam. By your patience,
I may not suffer you to visit them;
The king hath straitly charged the contrary.
QUEEN ELIZABETH

The king! why, who’s that?
BRAKENBURY

I cry you mercy: I mean the lord protector.
QUEEN ELIZABETH

The Lord protect him from that kingly title!
Hath he set bounds betwixt their love and me?
I am their mother; who should keep me from them?
DUCHESS OF YORK

I am their fathers mother; I will see them.
LADY ANNE

Their aunt I am in law, in love their mother:
Then bring me to their sights; I’ll bear thy blame
And take thy office from thee, on my peril.
BRAKENBURY

No, madam, no; I may not leave it so:
I am bound by oath, and therefore pardon me.
Exit
Enter LORD STANLEY
LORD STANLEY

Let me but meet you, ladies, one hour hence,
And I’ll salute your grace of York as mother,
And reverend looker on, of two fair queens.
To LADY ANNE
Come, madam, you must straight to Westminster,
There to be crowned Richard’s royal queen.
QUEEN ELIZABETH

O, cut my lace in sunder, that my pent heart
May have some scope to beat, or else I swoon
With this dead-killing news!
LADY ANNE

Despiteful tidings! O unpleasing news!
DORSET

Be of good cheer: mother, how fares your grace?
QUEEN ELIZABETH

O Dorset, speak not to me, get thee hence!
Death and destruction dog thee at the heels;
Thy mother’s name is ominous to children.
If thou wilt outstrip death, go cross the seas,
And live with Richmond, from the reach of hell
Go, hie thee, hie thee from this slaughter-house,
Lest thou increase the number of the dead;
And make me die the thrall of Margaret’s curse,
Nor mother, wife, nor England’s counted queen.
LORD STANLEY

Full of wise care is this your counsel, madam.
Take all the swift advantage of the hours;
You shall have letters from me to my son
To meet you on the way, and welcome you.
Be not ta’en tardy by unwise delay.
DUCHESS OF YORK

O ill-dispersing wind of misery!
O my accursed womb, the bed of death!
A cockatrice hast thou hatch’d to the world,
Whose unavoided eye is murderous.
LORD STANLEY

Come, madam, come; I in all haste was sent.
LADY ANNE

And I in all unwillingness will go.
I would to God that the inclusive verge
Of golden metal that must round my brow
Were red-hot steel, to sear me to the brain!
Anointed let me be with deadly venom,
And die, ere men can say, God save the queen!
QUEEN ELIZABETH

Go, go, poor soul, I envy not thy glory
To feed my humour, wish thyself no harm.
LADY ANNE

No! why? When he that is my husband now
Came to me, as I follow’d Henry’s corse,
When scarce the blood was well wash’d from his hands
Which issued from my other angel husband
And that dead saint which then I weeping follow’d;
O, when, I say, I look’d on Richard’s face,
This was my wish: ‘Be thou,’ quoth I, ‘ accursed,
For making me, so young, so old a widow!
And, when thou wed’st, let sorrow haunt thy bed;
And be thy wife–if any be so mad–
As miserable by the life of thee
As thou hast made me by my dear lord’s death!
Lo, ere I can repeat this curse again,
Even in so short a space, my woman’s heart
Grossly grew captive to his honey words
And proved the subject of my own soul’s curse,
Which ever since hath kept my eyes from rest;
For never yet one hour in his bed
Have I enjoy’d the golden dew of sleep,
But have been waked by his timorous dreams.
Besides, he hates me for my father Warwick;
And will, no doubt, shortly be rid of me.
QUEEN ELIZABETH

Poor heart, adieu! I pity thy complaining.
LADY ANNE

No more than from my soul I mourn for yours.
QUEEN ELIZABETH

Farewell, thou woful welcomer of glory!
LADY ANNE

Adieu, poor soul, that takest thy leave of it!
DUCHESS OF YORK

[To DORSET]
Go thou to Richmond, and good fortune guide thee!
To LADY ANNE
Go thou to Richard, and good angels guard thee!
To QUEEN ELIZABETH
Go thou to sanctuary, and good thoughts possess thee!
I to my grave, where peace and rest lie with me!
Eighty odd years of sorrow have I seen,
And each hour’s joy wrecked with a week of teen.
QUEEN ELIZABETH

Stay, yet look back with me unto the Tower.
Pity, you ancient stones, those tender babes
Whom envy hath immured within your walls!
Rough cradle for such little pretty ones!
Rude ragged nurse, old sullen playfellow
For tender princes, use my babies well!
So foolish sorrow bids your stones farewell.
Exeunt

SCENE II. London. The palace.

Sennet. Enter KING RICHARD III, in pomp, crowned; BUCKINGHAM, CATESBY, a page, and others
KING RICHARD III

Stand all apart Cousin of Buckingham!
BUCKINGHAM

My gracious sovereign?
KING RICHARD III

Give me thy hand.
Here he ascendeth his throne
Thus high, by thy advice
And thy assistance, is King Richard seated;
But shall we wear these honours for a day?
Or shall they last, and we rejoice in them?
BUCKINGHAM

Still live they and for ever may they last!
KING RICHARD III

O Buckingham, now do I play the touch,
To try if thou be current gold indeed
Young Edward lives: think now what I would say.
BUCKINGHAM

Say on, my loving lord.
KING RICHARD III

Why, Buckingham, I say, I would be king,
BUCKINGHAM

Why, so you are, my thrice renowned liege.
KING RICHARD III

Ha! am I king? ’tis so: but Edward lives.
BUCKINGHAM

True, noble prince.
KING RICHARD III

O bitter consequence,
That Edward still should live! ‘True, noble prince!’
Cousin, thou wert not wont to be so dull:
Shall I be plain? I wish the bastards dead;
And I would have it suddenly perform’d.
What sayest thou? speak suddenly; be brief.
BUCKINGHAM

Your grace may do your pleasure.
KING RICHARD III

Tut, tut, thou art all ice, thy kindness freezeth:
Say, have I thy consent that they shall die?
BUCKINGHAM

Give me some breath, some little pause, my lord
Before I positively herein:
I will resolve your grace immediately.
Exit
CATESBY

[Aside to a stander by]
The king is angry: see, he bites the lip.
KING RICHARD III

I will converse with iron-witted fools
And unrespective boys: none are for me
That look into me with considerate eyes:
High-reaching Buckingham grows circumspect.
Boy!
Page

My lord?
KING RICHARD III

Know’st thou not any whom corrupting gold
Would tempt unto a close exploit of death?
Page

My lord, I know a discontented gentleman,
Whose humble means match not his haughty mind:
Gold were as good as twenty orators,
And will, no doubt, tempt him to any thing.
KING RICHARD III

What is his name?
Page

His name, my lord, is Tyrrel.
KING RICHARD III

I partly know the man: go, call him hither.
Exit Page
The deep-revolving witty Buckingham
No more shall be the neighbour to my counsel:
Hath he so long held out with me untired,
And stops he now for breath?
Enter STANLEY
How now! what news with you?
STANLEY

My lord, I hear the Marquis Dorset’s fled
To Richmond, in those parts beyond the sea
Where he abides.
Stands apart
KING RICHARD III

Catesby!
CATESBY

My lord?
KING RICHARD III

Rumour it abroad
That Anne, my wife, is sick and like to die:
I will take order for her keeping close.
Inquire me out some mean-born gentleman,
Whom I will marry straight to Clarence’ daughter:
The boy is foolish, and I fear not him.
Look, how thou dream’st! I say again, give out
That Anne my wife is sick and like to die:
About it; for it stands me much upon,
To stop all hopes whose growth may damage me.
Exit CATESBY
I must be married to my brother’s daughter,
Or else my kingdom stands on brittle glass.
Murder her brothers, and then marry her!
Uncertain way of gain! But I am in
So far in blood that sin will pluck on sin:
Tear-falling pity dwells not in this eye.
Re-enter Page, with TYRREL
Is thy name Tyrrel?
TYRREL

James Tyrrel, and your most obedient subject.
KING RICHARD III

Art thou, indeed?
TYRREL

Prove me, my gracious sovereign.
KING RICHARD III

Darest thou resolve to kill a friend of mine?
TYRREL

Ay, my lord;
But I had rather kill two enemies.
KING RICHARD III

Why, there thou hast it: two deep enemies,
Foes to my rest and my sweet sleep’s disturbers
Are they that I would have thee deal upon:
Tyrrel, I mean those bastards in the Tower.
TYRREL

Let me have open means to come to them,
And soon I’ll rid you from the fear of them.
KING RICHARD III

Thou sing’st sweet music. Hark, come hither, Tyrrel
Go, by this token: rise, and lend thine ear:
Whispers
There is no more but so: say it is done,
And I will love thee, and prefer thee too.
TYRREL

‘Tis done, my gracious lord.
KING RICHARD III

Shall we hear from thee, Tyrrel, ere we sleep?
TYRREL

Ye shall, my Lord.
Exit
Re-enter BUCKINGHAM
BUCKINGHAM

My Lord, I have consider’d in my mind
The late demand that you did sound me in.
KING RICHARD III

Well, let that pass. Dorset is fled to Richmond.
BUCKINGHAM

I hear that news, my lord.
KING RICHARD III

Stanley, he is your wife’s son well, look to it.
BUCKINGHAM

My lord, I claim your gift, my due by promise,
For which your honour and your faith is pawn’d;
The earldom of Hereford and the moveables
The which you promised I should possess.
KING RICHARD III

Stanley, look to your wife; if she convey
Letters to Richmond, you shall answer it.
BUCKINGHAM

What says your highness to my just demand?
KING RICHARD III

As I remember, Henry the Sixth
Did prophesy that Richmond should be king,
When Richmond was a little peevish boy.
A king, perhaps, perhaps,–
BUCKINGHAM

My lord!
KING RICHARD III

How chance the prophet could not at that time
Have told me, I being by, that I should kill him?
BUCKINGHAM

My lord, your promise for the earldom,–
KING RICHARD III

Richmond! When last I was at Exeter,
The mayor in courtesy show’d me the castle,
And call’d it Rougemont: at which name I started,
Because a bard of Ireland told me once
I should not live long after I saw Richmond.
BUCKINGHAM

My Lord!
KING RICHARD III

Ay, what’s o’clock?
BUCKINGHAM

I am thus bold to put your grace in mind
Of what you promised me.
KING RICHARD III

Well, but what’s o’clock?
BUCKINGHAM

Upon the stroke of ten.
KING RICHARD III

Well, let it strike.
BUCKINGHAM

Why let it strike?
KING RICHARD III

Because that, like a Jack, thou keep’st the stroke
Betwixt thy begging and my meditation.
I am not in the giving vein to-day.
BUCKINGHAM

Why, then resolve me whether you will or no.
KING RICHARD III

Tut, tut,
Thou troublest me; am not in the vein.
Exeunt all but BUCKINGHAM
BUCKINGHAM

Is it even so? rewards he my true service
With such deep contempt made I him king for this?
O, let me think on Hastings, and be gone
To Brecknock, while my fearful head is on!
Exit

SCENE III. The same.

Enter TYRREL
TYRREL

The tyrannous and bloody deed is done.
The most arch of piteous massacre
That ever yet this land was guilty of.
Dighton and Forrest, whom I did suborn
To do this ruthless piece of butchery,
Although they were flesh’d villains, bloody dogs,
Melting with tenderness and kind compassion
Wept like two children in their deaths’ sad stories.
‘Lo, thus’ quoth Dighton, ‘lay those tender babes:’
‘Thus, thus,’ quoth Forrest, ‘girdling one another
Within their innocent alabaster arms:
Their lips were four red roses on a stalk,
Which in their summer beauty kiss’d each other.
A book of prayers on their pillow lay;
Which once,’ quoth Forrest, ‘almost changed my mind;
But O! the devil’–there the villain stopp’d
Whilst Dighton thus told on: ‘We smothered
The most replenished sweet work of nature,
That from the prime creation e’er she framed.’
Thus both are gone with conscience and remorse;
They could not speak; and so I left them both,
To bring this tidings to the bloody king.
And here he comes.
Enter KING RICHARD III
All hail, my sovereign liege!
KING RICHARD III

Kind Tyrrel, am I happy in thy news?
TYRREL

If to have done the thing you gave in charge
Beget your happiness, be happy then,
For it is done, my lord.
KING RICHARD III

But didst thou see them dead?
TYRREL

I did, my lord.
KING RICHARD III

And buried, gentle Tyrrel?
TYRREL

The chaplain of the Tower hath buried them;
But how or in what place I do not know.
KING RICHARD III

Come to me, Tyrrel, soon at after supper,
And thou shalt tell the process of their death.
Meantime, but think how I may do thee good,
And be inheritor of thy desire.
Farewell till soon.
Exit TYRREL
The son of Clarence have I pent up close;
His daughter meanly have I match’d in marriage;
The sons of Edward sleep in Abraham’s bosom,
And Anne my wife hath bid the world good night.
Now, for I know the Breton Richmond aims
At young Elizabeth, my brother’s daughter,
And, by that knot, looks proudly o’er the crown,
To her I go, a jolly thriving wooer.
Enter CATESBY
CATESBY

My lord!
KING RICHARD III

Good news or bad, that thou comest in so bluntly?
CATESBY

Bad news, my lord: Ely is fled to Richmond;
And Buckingham, back’d with the hardy Welshmen,
Is in the field, and still his power increaseth.
KING RICHARD III

Ely with Richmond troubles me more near
Than Buckingham and his rash-levied army.
Come, I have heard that fearful commenting
Is leaden servitor to dull delay;
Delay leads impotent and snail-paced beggary
Then fiery expedition be my wing,
Jove’s Mercury, and herald for a king!
Come, muster men: my counsel is my shield;
We must be brief when traitors brave the field.
Exeunt

SCENE IV. Before the palace.

Enter QUEEN MARGARET
QUEEN MARGARET

So, now prosperity begins to mellow
And drop into the rotten mouth of death.
Here in these confines slily have I lurk’d,
To watch the waning of mine adversaries.
A dire induction am I witness to,
And will to France, hoping the consequence
Will prove as bitter, black, and tragical.
Withdraw thee, wretched Margaret: who comes here?
Enter QUEEN ELIZABETH and the DUCHESS OF YORK
QUEEN ELIZABETH

Ah, my young princes! ah, my tender babes!
My unblown flowers, new-appearing sweets!
If yet your gentle souls fly in the air
And be not fix’d in doom perpetual,
Hover about me with your airy wings
And hear your mother’s lamentation!
QUEEN MARGARET

Hover about her; say, that right for right
Hath dimm’d your infant morn to aged night.
DUCHESS OF YORK

So many miseries have crazed my voice,
That my woe-wearied tongue is mute and dumb,
Edward Plantagenet, why art thou dead?
QUEEN MARGARET

Plantagenet doth quit Plantagenet.
Edward for Edward pays a dying debt.
QUEEN ELIZABETH

Wilt thou, O God, fly from such gentle lambs,
And throw them in the entrails of the wolf?
When didst thou sleep when such a deed was done?
QUEEN MARGARET

When holy Harry died, and my sweet son.
DUCHESS OF YORK

Blind sight, dead life, poor mortal living ghost,
Woe’s scene, world’s shame, grave’s due by life usurp’d,
Brief abstract and record of tedious days,
Rest thy unrest on England’s lawful earth,
Sitting down
Unlawfully made drunk with innocents’ blood!
QUEEN ELIZABETH

O, that thou wouldst as well afford a grave
As thou canst yield a melancholy seat!
Then would I hide my bones, not rest them here.
O, who hath any cause to mourn but I?
Sitting down by her
QUEEN MARGARET

If ancient sorrow be most reverend,
Give mine the benefit of seniory,
And let my woes frown on the upper hand.
If sorrow can admit society,
Sitting down with them
Tell o’er your woes again by viewing mine:
I had an Edward, till a Richard kill’d him;
I had a Harry, till a Richard kill’d him:
Thou hadst an Edward, till a Richard kill’d him;
Thou hadst a Richard, till a Richard killed him;
DUCHESS OF YORK

I had a Richard too, and thou didst kill him;
I had a Rutland too, thou holp’st to kill him.
QUEEN MARGARET

Thou hadst a Clarence too, and Richard kill’d him.
From forth the kennel of thy womb hath crept
A hell-hound that doth hunt us all to death:
That dog, that had his teeth before his eyes,
To worry lambs and lap their gentle blood,
That foul defacer of God’s handiwork,
That excellent grand tyrant of the earth,
That reigns in galled eyes of weeping souls,
Thy womb let loose, to chase us to our graves.
O upright, just, and true-disposing God,
How do I thank thee, that this carnal cur
Preys on the issue of his mother’s body,
And makes her pew-fellow with others’ moan!
DUCHESS OF YORK

O Harry’s wife, triumph not in my woes!
God witness with me, I have wept for thine.
QUEEN MARGARET

Bear with me; I am hungry for revenge,
And now I cloy me with beholding it.
Thy Edward he is dead, that stabb’d my Edward:
Thy other Edward dead, to quit my Edward;
Young York he is but boot, because both they
Match not the high perfection of my loss:
Thy Clarence he is dead that kill’d my Edward;
And the beholders of this tragic play,
The adulterate Hastings, Rivers, Vaughan, Grey,
Untimely smother’d in their dusky graves.
Richard yet lives, hell’s black intelligencer,
Only reserved their factor, to buy souls
And send them thither: but at hand, at hand,
Ensues his piteous and unpitied end:
Earth gapes, hell burns, fiends roar, saints pray.
To have him suddenly convey’d away.
Cancel his bond of life, dear God, I prey,
That I may live to say, The dog is dead!
QUEEN ELIZABETH

O, thou didst prophesy the time would come
That I should wish for thee to help me curse
That bottled spider, that foul bunch-back’d toad!
QUEEN MARGARET

I call’d thee then vain flourish of my fortune;
I call’d thee then poor shadow, painted queen;
The presentation of but what I was;
The flattering index of a direful pageant;
One heaved a-high, to be hurl’d down below;
A mother only mock’d with two sweet babes;
A dream of what thou wert, a breath, a bubble,
A sign of dignity, a garish flag,
To be the aim of every dangerous shot,
A queen in jest, only to fill the scene.
Where is thy husband now? where be thy brothers?
Where are thy children? wherein dost thou, joy?
Who sues to thee and cries ‘God save the queen’?
Where be the bending peers that flatter’d thee?
Where be the thronging troops that follow’d thee?
Decline all this, and see what now thou art:
For happy wife, a most distressed widow;
For joyful mother, one that wails the name;
For queen, a very caitiff crown’d with care;
For one being sued to, one that humbly sues;
For one that scorn’d at me, now scorn’d of me;
For one being fear’d of all, now fearing one;
For one commanding all, obey’d of none.
Thus hath the course of justice wheel’d about,
And left thee but a very prey to time;
Having no more but thought of what thou wert,
To torture thee the more, being what thou art.
Thou didst usurp my place, and dost thou not
Usurp the just proportion of my sorrow?
Now thy proud neck bears half my burthen’d yoke;
From which even here I slip my weary neck,
And leave the burthen of it all on thee.
Farewell, York’s wife, and queen of sad mischance:
These English woes will make me smile in France.
QUEEN ELIZABETH

O thou well skill’d in curses, stay awhile,
And teach me how to curse mine enemies!
QUEEN MARGARET

Forbear to sleep the nights, and fast the days;
Compare dead happiness with living woe;
Think that thy babes were fairer than they were,
And he that slew them fouler than he is:
Bettering thy loss makes the bad causer worse:
Revolving this will teach thee how to curse.
QUEEN ELIZABETH

My words are dull; O, quicken them with thine!
QUEEN MARGARET

Thy woes will make them sharp, and pierce like mine.
Exit
DUCHESS OF YORK

Why should calamity be full of words?
QUEEN ELIZABETH

Windy attorneys to their client woes,
Airy succeeders of intestate joys,
Poor breathing orators of miseries!
Let them have scope: though what they do impart
Help not all, yet do they ease the heart.
DUCHESS OF YORK

If so, then be not tongue-tied: go with me.
And in the breath of bitter words let’s smother
My damned son, which thy two sweet sons smother’d.
I hear his drum: be copious in exclaims.
Enter KING RICHARD III, marching, with drums and trumpets
KING RICHARD III

Who intercepts my expedition?
DUCHESS OF YORK

O, she that might have intercepted thee,
By strangling thee in her accursed womb
From all the slaughters, wretch, that thou hast done!
QUEEN ELIZABETH

Hidest thou that forehead with a golden crown,
Where should be graven, if that right were right,
The slaughter of the prince that owed that crown,
And the dire death of my two sons and brothers?
Tell me, thou villain slave, where are my children?
DUCHESS OF YORK

Thou toad, thou toad, where is thy brother Clarence?
And little Ned Plantagenet, his son?
QUEEN ELIZABETH

Where is kind Hastings, Rivers, Vaughan, Grey?
KING RICHARD III

A flourish, trumpets! strike alarum, drums!
Let not the heavens hear these tell-tale women
Rail on the Lord’s enointed: strike, I say!
Flourish. Alarums
Either be patient, and entreat me fair,
Or with the clamorous report of war
Thus will I drown your exclamations.
DUCHESS OF YORK

Art thou my son?
KING RICHARD III

Ay, I thank God, my father, and yourself.
DUCHESS OF YORK

Then patiently hear my impatience.
KING RICHARD III

Madam, I have a touch of your condition,
Which cannot brook the accent of reproof.
DUCHESS OF YORK

O, let me speak!
KING RICHARD III

Do then: but I’ll not hear.
DUCHESS OF YORK

I will be mild and gentle in my speech.
KING RICHARD III

And brief, good mother; for I am in haste.
DUCHESS OF YORK

Art thou so hasty? I have stay’d for thee,
God knows, in anguish, pain and agony.
KING RICHARD III

And came I not at last to comfort you?
DUCHESS OF YORK

No, by the holy rood, thou know’st it well,
Thou camest on earth to make the earth my hell.
A grievous burthen was thy birth to me;
Tetchy and wayward was thy infancy;
Thy school-days frightful, desperate, wild, and furious,
Thy prime of manhood daring, bold, and venturous,
Thy age confirm’d, proud, subdued, bloody,
treacherous,
More mild, but yet more harmful, kind in hatred:
What comfortable hour canst thou name,
That ever graced me in thy company?
KING RICHARD III

Faith, none, but Humphrey Hour, that call’d
your grace
To breakfast once forth of my company.
If I be so disgracious in your sight,
Let me march on, and not offend your grace.
Strike the drum.
DUCHESS OF YORK

I prithee, hear me speak.
KING RICHARD III

You speak too bitterly.
DUCHESS OF YORK

Hear me a word;
For I shall never speak to thee again.
KING RICHARD III

So.
DUCHESS OF YORK

Either thou wilt die, by God’s just ordinance,
Ere from this war thou turn a conqueror,
Or I with grief and extreme age shall perish
And never look upon thy face again.
Therefore take with thee my most heavy curse;
Which, in the day of battle, tire thee more
Than all the complete armour that thou wear’st!
My prayers on the adverse party fight;
And there the little souls of Edward’s children
Whisper the spirits of thine enemies
And promise them success and victory.
Bloody thou art, bloody will be thy end;
Shame serves thy life and doth thy death attend.
Exit
QUEEN ELIZABETH

Though far more cause, yet much less spirit to curse
Abides in me; I say amen to all.
KING RICHARD III

Stay, madam; I must speak a word with you.
QUEEN ELIZABETH

I have no more sons of the royal blood
For thee to murder: for my daughters, Richard,
They shall be praying nuns, not weeping queens;
And therefore level not to hit their lives.
KING RICHARD III

You have a daughter call’d Elizabeth,
Virtuous and fair, royal and gracious.
QUEEN ELIZABETH

And must she die for this? O, let her live,
And I’ll corrupt her manners, stain her beauty;
Slander myself as false to Edward’s bed;
Throw over her the veil of infamy:
So she may live unscarr’d of bleeding slaughter,
I will confess she was not Edward’s daughter.
KING RICHARD III

Wrong not her birth, she is of royal blood.
QUEEN ELIZABETH

To save her life, I’ll say she is not so.
KING RICHARD III

Her life is only safest in her birth.
QUEEN ELIZABETH

And only in that safety died her brothers.
KING RICHARD III

Lo, at their births good stars were opposite.
QUEEN ELIZABETH

No, to their lives bad friends were contrary.
KING RICHARD III

All unavoided is the doom of destiny.
QUEEN ELIZABETH

True, when avoided grace makes destiny:
My babes were destined to a fairer death,
If grace had bless’d thee with a fairer life.
KING RICHARD III

You speak as if that I had slain my cousins.
QUEEN ELIZABETH

Cousins, indeed; and by their uncle cozen’d
Of comfort, kingdom, kindred, freedom, life.
Whose hand soever lanced their tender hearts,
Thy head, all indirectly, gave direction:
No doubt the murderous knife was dull and blunt
Till it was whetted on thy stone-hard heart,
To revel in the entrails of my lambs.
But that still use of grief makes wild grief tame,
My tongue should to thy ears not name my boys
Till that my nails were anchor’d in thine eyes;
And I, in such a desperate bay of death,
Like a poor bark, of sails and tackling reft,
Rush all to pieces on thy rocky bosom.
KING RICHARD III

Madam, so thrive I in my enterprise
And dangerous success of bloody wars,
As I intend more good to you and yours,
Than ever you or yours were by me wrong’d!
QUEEN ELIZABETH

What good is cover’d with the face of heaven,
To be discover’d, that can do me good?
KING RICHARD III

The advancement of your children, gentle lady.
QUEEN ELIZABETH

Up to some scaffold, there to lose their heads?
KING RICHARD III

No, to the dignity and height of honour
The high imperial type of this earth’s glory.
QUEEN ELIZABETH

Flatter my sorrows with report of it;
Tell me what state, what dignity, what honour,
Canst thou demise to any child of mine?
KING RICHARD III

Even all I have; yea, and myself and all,
Will I withal endow a child of thine;
So in the Lethe of thy angry soul
Thou drown the sad remembrance of those wrongs
Which thou supposest I have done to thee.
QUEEN ELIZABETH

Be brief, lest that be process of thy kindness
Last longer telling than thy kindness’ date.
KING RICHARD III

Then know, that from my soul I love thy daughter.
QUEEN ELIZABETH

My daughter’s mother thinks it with her soul.
KING RICHARD III

What do you think?
QUEEN ELIZABETH

That thou dost love my daughter from thy soul:
So from thy soul’s love didst thou love her brothers;
And from my heart’s love I do thank thee for it.
KING RICHARD III

Be not so hasty to confound my meaning:
I mean, that with my soul I love thy daughter,
And mean to make her queen of England.
QUEEN ELIZABETH

Say then, who dost thou mean shall be her king?
KING RICHARD III

Even he that makes her queen who should be else?
QUEEN ELIZABETH

What, thou?
KING RICHARD III

I, even I: what think you of it, madam?
QUEEN ELIZABETH

How canst thou woo her?
KING RICHARD III

That would I learn of you,
As one that are best acquainted with her humour.
QUEEN ELIZABETH

And wilt thou learn of me?
KING RICHARD III

Madam, with all my heart.
QUEEN ELIZABETH

Send to her, by the man that slew her brothers,
A pair of bleeding-hearts; thereon engrave
Edward and York; then haply she will weep:
Therefore present to her–as sometime Margaret
Did to thy father, steep’d in Rutland’s blood,–
A handkerchief; which, say to her, did drain
The purple sap from her sweet brother’s body
And bid her dry her weeping eyes therewith.
If this inducement force her not to love,
Send her a story of thy noble acts;
Tell her thou madest away her uncle Clarence,
Her uncle Rivers; yea, and, for her sake,
Madest quick conveyance with her good aunt Anne.
KING RICHARD III

Come, come, you mock me; this is not the way
To win our daughter.
QUEEN ELIZABETH

There is no other way
Unless thou couldst put on some other shape,
And not be Richard that hath done all this.
KING RICHARD III

Say that I did all this for love of her.
QUEEN ELIZABETH

Nay, then indeed she cannot choose but hate thee,
Having bought love with such a bloody spoil.
KING RICHARD III

Look, what is done cannot be now amended:
Men shall deal unadvisedly sometimes,
Which after hours give leisure to repent.
If I did take the kingdom from your sons,
To make amends, Ill give it to your daughter.
If I have kill’d the issue of your womb,
To quicken your increase, I will beget
Mine issue of your blood upon your daughter
A grandam’s name is little less in love
Than is the doting title of a mother;
They are as children but one step below,
Even of your mettle, of your very blood;
Of an one pain, save for a night of groans
Endured of her, for whom you bid like sorrow.
Your children were vexation to your youth,
But mine shall be a comfort to your age.
The loss you have is but a son being king,
And by that loss your daughter is made queen.
I cannot make you what amends I would,
Therefore accept such kindness as I can.
Dorset your son, that with a fearful soul
Leads discontented steps in foreign soil,
This fair alliance quickly shall call home
To high promotions and great dignity:
The king, that calls your beauteous daughter wife.
Familiarly shall call thy Dorset brother;
Again shall you be mother to a king,
And all the ruins of distressful times
Repair’d with double riches of content.
What! we have many goodly days to see:
The liquid drops of tears that you have shed
Shall come again, transform’d to orient pearl,
Advantaging their loan with interest
Of ten times double gain of happiness.
Go, then my mother, to thy daughter go
Make bold her bashful years with your experience;
Prepare her ears to hear a wooer’s tale
Put in her tender heart the aspiring flame
Of golden sovereignty; acquaint the princess
With the sweet silent hours of marriage joys
And when this arm of mine hath chastised
The petty rebel, dull-brain’d Buckingham,
Bound with triumphant garlands will I come
And lead thy daughter to a conqueror’s bed;
To whom I will retail my conquest won,
And she shall be sole victress, Caesar’s Caesar.
QUEEN ELIZABETH

What were I best to say? her father’s brother
Would be her lord? or shall I say, her uncle?
Or, he that slew her brothers and her uncles?
Under what title shall I woo for thee,
That God, the law, my honour and her love,
Can make seem pleasing to her tender years?
KING RICHARD III

Infer fair England’s peace by this alliance.
QUEEN ELIZABETH

Which she shall purchase with still lasting war.
KING RICHARD III

Say that the king, which may command, entreats.
QUEEN ELIZABETH

That at her hands which the king’s King forbids.
KING RICHARD III

Say, she shall be a high and mighty queen.
QUEEN ELIZABETH

To wail the tide, as her mother doth.
KING RICHARD III

Say, I will love her everlastingly.
QUEEN ELIZABETH

But how long shall that title ‘ever’ last?
KING RICHARD III

Sweetly in force unto her fair life’s end.
QUEEN ELIZABETH

But how long fairly shall her sweet lie last?
KING RICHARD III

So long as heaven and nature lengthens it.
QUEEN ELIZABETH

So long as hell and Richard likes of it.
KING RICHARD III

Say, I, her sovereign, am her subject love.
QUEEN ELIZABETH

But she, your subject, loathes such sovereignty.
KING RICHARD III

Be eloquent in my behalf to her.
QUEEN ELIZABETH

An honest tale speeds best being plainly told.
KING RICHARD III

Then in plain terms tell her my loving tale.
QUEEN ELIZABETH

Plain and not honest is too harsh a style.
KING RICHARD III

Your reasons are too shallow and too quick.
QUEEN ELIZABETH

O no, my reasons are too deep and dead;
Too deep and dead, poor infants, in their grave.
KING RICHARD III

Harp not on that string, madam; that is past.
QUEEN ELIZABETH

Harp on it still shall I till heart-strings break.
KING RICHARD III

Now, by my George, my garter, and my crown,–
QUEEN ELIZABETH

Profaned, dishonour’d, and the third usurp’d.
KING RICHARD III

I swear–
QUEEN ELIZABETH

By nothing; for this is no oath:
The George, profaned, hath lost his holy honour;
The garter, blemish’d, pawn’d his knightly virtue;
The crown, usurp’d, disgraced his kingly glory.
if something thou wilt swear to be believed,
Swear then by something that thou hast not wrong’d.
KING RICHARD III

Now, by the world–
QUEEN ELIZABETH

‘Tis full of thy foul wrongs.
KING RICHARD III

My father’s death–
QUEEN ELIZABETH

Thy life hath that dishonour’d.
KING RICHARD III

Then, by myself–
QUEEN ELIZABETH

Thyself thyself misusest.
KING RICHARD III

Why then, by God–
QUEEN ELIZABETH

God’s wrong is most of all.
If thou hadst fear’d to break an oath by Him,
The unity the king thy brother made
Had not been broken, nor my brother slain:
If thou hadst fear’d to break an oath by Him,
The imperial metal, circling now thy brow,
Had graced the tender temples of my child,
And both the princes had been breathing here,
Which now, two tender playfellows to dust,
Thy broken faith hath made a prey for worms.
What canst thou swear by now?
KING RICHARD III

The time to come.
QUEEN ELIZABETH

That thou hast wronged in the time o’erpast;
For I myself have many tears to wash
Hereafter time, for time past wrong’d by thee.
The children live, whose parents thou hast
slaughter’d,
Ungovern’d youth, to wail it in their age;
The parents live, whose children thou hast butcher’d,
Old wither’d plants, to wail it with their age.
Swear not by time to come; for that thou hast
Misused ere used, by time misused o’erpast.
KING RICHARD III

As I intend to prosper and repent,
So thrive I in my dangerous attempt
Of hostile arms! myself myself confound!
Heaven and fortune bar me happy hours!
Day, yield me not thy light; nor, night, thy rest!
Be opposite all planets of good luck
To my proceedings, if, with pure heart’s love,
Immaculate devotion, holy thoughts,
I tender not thy beauteous princely daughter!
In her consists my happiness and thine;
Without her, follows to this land and me,
To thee, herself, and many a Christian soul,
Death, desolation, ruin and decay:
It cannot be avoided but by this;
It will not be avoided but by this.
Therefore, good mother,–I must can you so–
Be the attorney of my love to her:
Plead what I will be, not what I have been;
Not my deserts, but what I will deserve:
Urge the necessity and state of times,
And be not peevish-fond in great designs.
QUEEN ELIZABETH

Shall I be tempted of the devil thus?
KING RICHARD III

Ay, if the devil tempt thee to do good.
QUEEN ELIZABETH

Shall I forget myself to be myself?
KING RICHARD III

Ay, if yourself’s remembrance wrong yourself.
QUEEN ELIZABETH

But thou didst kill my children.
KING RICHARD III

But in your daughter’s womb I bury them:
Where in that nest of spicery they shall breed
Selves of themselves, to your recomforture.
QUEEN ELIZABETH

Shall I go win my daughter to thy will?
KING RICHARD III

And be a happy mother by the deed.
QUEEN ELIZABETH

I go. Write to me very shortly.
And you shall understand from me her mind.
KING RICHARD III

Bear her my true love’s kiss; and so, farewell.
Exit QUEEN ELIZABETH
Relenting fool, and shallow, changing woman!
Enter RATCLIFF; CATESBY following
How now! what news?
RATCLIFF

My gracious sovereign, on the western coast
Rideth a puissant navy; to the shore
Throng many doubtful hollow-hearted friends,
Unarm’d, and unresolved to beat them back:
‘Tis thought that Richmond is their admiral;
And there they hull, expecting but the aid
Of Buckingham to welcome them ashore.
KING RICHARD III

Some light-foot friend post to the Duke of Norfolk:
Ratcliff, thyself, or Catesby; where is he?
CATESBY

Here, my lord.
KING RICHARD III

Fly to the duke:
To RATCLIFF
Post thou to Salisbury
When thou comest thither–
To CATESBY
Dull, unmindful villain,
Why stand’st thou still, and go’st not to the duke?
CATESBY

First, mighty sovereign, let me know your mind,
What from your grace I shall deliver to him.
KING RICHARD III

O, true, good Catesby: bid him levy straight
The greatest strength and power he can make,
And meet me presently at Salisbury.
CATESBY

I go.
Exit
RATCLIFF

What is’t your highness’ pleasure I shall do at
Salisbury?
KING RICHARD III

Why, what wouldst thou do there before I go?
RATCLIFF

Your highness told me I should post before.
KING RICHARD III

My mind is changed, sir, my mind is changed.
Enter STANLEY
How now, what news with you?
STANLEY

None good, my lord, to please you with the hearing;
Nor none so bad, but it may well be told.
KING RICHARD III

Hoyday, a riddle! neither good nor bad!
Why dost thou run so many mile about,
When thou mayst tell thy tale a nearer way?
Once more, what news?
STANLEY

Richmond is on the seas.
KING RICHARD III

There let him sink, and be the seas on him!
White-liver’d runagate, what doth he there?
STANLEY

I know not, mighty sovereign, but by guess.
KING RICHARD III

Well, sir, as you guess, as you guess?
STANLEY

Stirr’d up by Dorset, Buckingham, and Ely,
He makes for England, there to claim the crown.
KING RICHARD III

Is the chair empty? is the sword unsway’d?
Is the king dead? the empire unpossess’d?
What heir of York is there alive but we?
And who is England’s king but great York’s heir?
Then, tell me, what doth he upon the sea?
STANLEY

Unless for that, my liege, I cannot guess.
KING RICHARD III

Unless for that he comes to be your liege,
You cannot guess wherefore the Welshman comes.
Thou wilt revolt, and fly to him, I fear.
STANLEY

No, mighty liege; therefore mistrust me not.
KING RICHARD III

Where is thy power, then, to beat him back?
Where are thy tenants and thy followers?
Are they not now upon the western shore.
Safe-conducting the rebels from their ships!
STANLEY

No, my good lord, my friends are in the north.
KING RICHARD III

Cold friends to Richard: what do they in the north,
When they should serve their sovereign in the west?
STANLEY

They have not been commanded, mighty sovereign:
Please it your majesty to give me leave,
I’ll muster up my friends, and meet your grace
Where and what time your majesty shall please.
KING RICHARD III

Ay, ay. thou wouldst be gone to join with Richmond:
I will not trust you, sir.
STANLEY

Most mighty sovereign,
You have no cause to hold my friendship doubtful:
I never was nor never will be false.
KING RICHARD III

Well,
Go muster men; but, hear you, leave behind
Your son, George Stanley: look your faith be firm.
Or else his head’s assurance is but frail.
STANLEY

So deal with him as I prove true to you.
Exit
Enter a Messenger
Messenger

My gracious sovereign, now in Devonshire,
As I by friends am well advertised,
Sir Edward Courtney, and the haughty prelate
Bishop of Exeter, his brother there,
With many more confederates, are in arms.
Enter another Messenger
Second Messenger

My liege, in Kent the Guildfords are in arms;
And every hour more competitors
Flock to their aid, and still their power increaseth.
Enter another Messenger
Third Messenger

My lord, the army of the Duke of Buckingham–
KING RICHARD III

Out on you, owls! nothing but songs of death?
He striketh him
Take that, until thou bring me better news.
Third Messenger

The news I have to tell your majesty
Is, that by sudden floods and fall of waters,
Buckingham’s army is dispersed and scatter’d;
And he himself wander’d away alone,
No man knows whither.
KING RICHARD III

I cry thee mercy:
There is my purse to cure that blow of thine.
Hath any well-advised friend proclaim’d
Reward to him that brings the traitor in?
Third Messenger

Such proclamation hath been made, my liege.
Enter another Messenger
Fourth Messenger

Sir Thomas Lovel and Lord Marquis Dorset,
‘Tis said, my liege, in Yorkshire are in arms.
Yet this good comfort bring I to your grace,
The Breton navy is dispersed by tempest:
Richmond, in Yorkshire, sent out a boat
Unto the shore, to ask those on the banks
If they were his assistants, yea or no;
Who answer’d him, they came from Buckingham.
Upon his party: he, mistrusting them,
Hoisted sail and made away for Brittany.
KING RICHARD III

March on, march on, since we are up in arms;
If not to fight with foreign enemies,
Yet to beat down these rebels here at home.
Re-enter CATESBY
CATESBY

My liege, the Duke of Buckingham is taken;
That is the best news: that the Earl of Richmond
Is with a mighty power landed at Milford,
Is colder tidings, yet they must be told.
KING RICHARD III

Away towards Salisbury! while we reason here,
A royal battle might be won and lost
Some one take order Buckingham be brought
To Salisbury; the rest march on with me.
Flourish. Exeunt

SCENE V. Lord Derby’s house.

Enter DERBY and SIR CHRISTOPHER URSWICK
DERBY

Sir Christopher, tell Richmond this from me:
That in the sty of this most bloody boar
My son George Stanley is frank’d up in hold:
If I revolt, off goes young George’s head;
The fear of that withholds my present aid.
But, tell me, where is princely Richmond now?
CHRISTOPHER

At Pembroke, or at Harford-west, in Wales.
DERBY

What men of name resort to him?
CHRISTOPHER

Sir Walter Herbert, a renowned soldier;
Sir Gilbert Talbot, Sir William Stanley;
Oxford, redoubted Pembroke, Sir James Blunt,
And Rice ap Thomas with a valiant crew;
And many more of noble fame and worth:
And towards London they do bend their course,
If by the way they be not fought withal.
DERBY

Return unto thy lord; commend me to him:
Tell him the queen hath heartily consented
He shall espouse Elizabeth her daughter.
These letters will resolve him of my mind. Farewell.
Exeunt

ACT V
SCENE I. Salisbury. An open place.

Enter the Sheriff, and BUCKINGHAM, with halberds, led to execution
BUCKINGHAM

Will not King Richard let me speak with him?
Sheriff

No, my good lord; therefore be patient.
BUCKINGHAM

Hastings, and Edward’s children, Rivers, Grey,
Holy King Henry, and thy fair son Edward,
Vaughan, and all that have miscarried
By underhand corrupted foul injustice,
If that your moody discontented souls
Do through the clouds behold this present hour,
Even for revenge mock my destruction!
This is All-Souls’ day, fellows, is it not?
Sheriff

It is, my lord.
BUCKINGHAM

Why, then All-Souls’ day is my body’s doomsday.
This is the day that, in King Edward’s time,
I wish’t might fall on me, when I was found
False to his children or his wife’s allies
This is the day wherein I wish’d to fall
By the false faith of him I trusted most;
This, this All-Souls’ day to my fearful soul
Is the determined respite of my wrongs:
That high All-Seer that I dallied with
Hath turn’d my feigned prayer on my head
And given in earnest what I begg’d in jest.
Thus doth he force the swords of wicked men
To turn their own points on their masters’ bosoms:
Now Margaret’s curse is fallen upon my head;
‘When he,’ quoth she, ‘shall split thy heart with sorrow,
Remember Margaret was a prophetess.’
Come, sirs, convey me to the block of shame;
Wrong hath but wrong, and blame the due of blame.
Exeunt

SCENE II. The camp near Tamworth.

Enter RICHMOND, OXFORD, BLUNT, HERBERT, and others, with drum and colours
RICHMOND

Fellows in arms, and my most loving friends,
Bruised underneath the yoke of tyranny,
Thus far into the bowels of the land
Have we march’d on without impediment;
And here receive we from our father Stanley
Lines of fair comfort and encouragement.
The wretched, bloody, and usurping boar,
That spoil’d your summer fields and fruitful vines,
Swills your warm blood like wash, and makes his trough
In your embowell’d bosoms, this foul swine
Lies now even in the centre of this isle,
Near to the town of Leicester, as we learn
From Tamworth thither is but one day’s march.
In God’s name, cheerly on, courageous friends,
To reap the harvest of perpetual peace
By this one bloody trial of sharp war.
OXFORD

Every man’s conscience is a thousand swords,
To fight against that bloody homicide.
HERBERT

I doubt not but his friends will fly to us.
BLUNT

He hath no friends but who are friends for fear.
Which in his greatest need will shrink from him.
RICHMOND

All for our vantage. Then, in God’s name, march:
True hope is swift, and flies with swallow’s wings:
Kings it makes gods, and meaner creatures kings.
Exeunt

SCENE III. Bosworth Field.

Enter KING RICHARD III in arms, with NORFOLK, SURREY, and others
KING RICHARD III

Here pitch our tents, even here in Bosworth field.
My Lord of Surrey, why look you so sad?
SURREY

My heart is ten times lighter than my looks.
KING RICHARD III

My Lord of Norfolk,–
NORFOLK

Here, most gracious liege.
KING RICHARD III

Norfolk, we must have knocks; ha! must we not?
NORFOLK

We must both give and take, my gracious lord.
KING RICHARD III

Up with my tent there! here will I lie tonight;
But where to-morrow? Well, all’s one for that.
Who hath descried the number of the foe?
NORFOLK

Six or seven thousand is their utmost power.
KING RICHARD III

Why, our battalion trebles that account:
Besides, the king’s name is a tower of strength,
Which they upon the adverse party want.
Up with my tent there! Valiant gentlemen,
Let us survey the vantage of the field
Call for some men of sound direction
Let’s want no discipline, make no delay,
For, lords, to-morrow is a busy day.
Exeunt
Enter, on the other side of the field, RICHMOND, Sir William Brandon, OXFORD, and others. Some of the Soldiers pitch RICHMOND’s tent
RICHMOND

The weary sun hath made a golden set,
And by the bright track of his fiery car,
Gives signal, of a goodly day to-morrow.
Sir William Brandon, you shall bear my standard.
Give me some ink and paper in my tent
I’ll draw the form and model of our battle,
Limit each leader to his several charge,
And part in just proportion our small strength.
My Lord of Oxford, you, Sir William Brandon,
And you, Sir Walter Herbert, stay with me.
The Earl of Pembroke keeps his regiment:
Good Captain Blunt, bear my good night to him
And by the second hour in the morning
Desire the earl to see me in my tent:
Yet one thing more, good Blunt, before thou go’st,
Where is Lord Stanley quarter’d, dost thou know?
BLUNT

Unless I have mista’en his colours much,
Which well I am assured I have not done,
His regiment lies half a mile at least
South from the mighty power of the king.
RICHMOND

If without peril it be possible,
Good Captain Blunt, bear my good-night to him,
And give him from me this most needful scroll.
BLUNT

Upon my life, my lord, I’ll under-take it;
And so, God give you quiet rest to-night!
RICHMOND

Good night, good Captain Blunt. Come gentlemen,
Let us consult upon to-morrow’s business
In to our tent; the air is raw and cold.
They withdraw into the tent
Enter, to his tent, KING RICHARD III, NORFOLK, RATCLIFF, CATESBY, and others
KING RICHARD III

What is’t o’clock?
CATESBY

It’s supper-time, my lord;
It’s nine o’clock.
KING RICHARD III

I will not sup to-night.
Give me some ink and paper.
What, is my beaver easier than it was?
And all my armour laid into my tent?
CATESBY

If is, my liege; and all things are in readiness.
KING RICHARD III

Good Norfolk, hie thee to thy charge;
Use careful watch, choose trusty sentinels.
NORFOLK

I go, my lord.
KING RICHARD III

Stir with the lark to-morrow, gentle Norfolk.
NORFOLK

I warrant you, my lord.
Exit
KING RICHARD III

Catesby!
CATESBY

My lord?
KING RICHARD III

Send out a pursuivant at arms
To Stanley’s regiment; bid him bring his power
Before sunrising, lest his son George fall
Into the blind cave of eternal night.
Exit CATESBY
Fill me a bowl of wine. Give me a watch.
Saddle white Surrey for the field to-morrow.
Look that my staves be sound, and not too heavy.
Ratcliff!
RATCLIFF

My lord?
KING RICHARD III

Saw’st thou the melancholy Lord Northumberland?
RATCLIFF

Thomas the Earl of Surrey, and himself,
Much about cock-shut time, from troop to troop
Went through the army, cheering up the soldiers.
KING RICHARD III

So, I am satisfied. Give me a bowl of wine:
I have not that alacrity of spirit,
Nor cheer of mind, that I was wont to have.
Set it down. Is ink and paper ready?
RATCLIFF

It is, my lord.
KING RICHARD III

Bid my guard watch; leave me.
Ratcliff, about the mid of night come to my tent
And help to arm me. Leave me, I say.
Exeunt RATCLIFF and the other Attendants
Enter DERBY to RICHMOND in his tent, Lords and others attending
DERBY

Fortune and victory sit on thy helm!
RICHMOND

All comfort that the dark night can afford
Be to thy person, noble father-in-law!
Tell me, how fares our loving mother?
DERBY

I, by attorney, bless thee from thy mother
Who prays continually for Richmond’s good:
So much for that. The silent hours steal on,
And flaky darkness breaks within the east.
In brief,–for so the season bids us be,–
Prepare thy battle early in the morning,
And put thy fortune to the arbitrement
Of bloody strokes and mortal-staring war.
I, as I may–that which I would I cannot,–
With best advantage will deceive the time,
And aid thee in this doubtful shock of arms:
But on thy side I may not be too forward
Lest, being seen, thy brother, tender George,
Be executed in his father’s sight.
Farewell: the leisure and the fearful time
Cuts off the ceremonious vows of love
And ample interchange of sweet discourse,
Which so long sunder’d friends should dwell upon:
God give us leisure for these rites of love!
Once more, adieu: be valiant, and speed well!
RICHMOND

Good lords, conduct him to his regiment:
I’ll strive, with troubled thoughts, to take a nap,
Lest leaden slumber peise me down to-morrow,
When I should mount with wings of victory:
Once more, good night, kind lords and gentlemen.
Exeunt all but RICHMOND
O Thou, whose captain I account myself,
Look on my forces with a gracious eye;
Put in their hands thy bruising irons of wrath,
That they may crush down with a heavy fall
The usurping helmets of our adversaries!
Make us thy ministers of chastisement,
That we may praise thee in the victory!
To thee I do commend my watchful soul,
Ere I let fall the windows of mine eyes:
Sleeping and waking, O, defend me still!
Sleeps
Enter the Ghost of Prince Edward, son to King Henry VI
Ghost
of Prince Edward

[To KING RICHARD III]
Let me sit heavy on thy soul to-morrow!
Think, how thou stab’dst me in my prime of youth
At Tewksbury: despair, therefore, and die!
To RICHMOND
Be cheerful, Richmond; for the wronged souls
Of butcher’d princes fight in thy behalf
King Henry’s issue, Richmond, comforts thee.
Enter the Ghost of King Henry VI
Ghost
of King Henry VI

[To KING RICHARD III]
When I was mortal, my anointed body
By thee was punched full of deadly holes
Think on the Tower and me: despair, and die!
Harry the Sixth bids thee despair, and die!
To RICHMOND
Virtuous and holy, be thou conqueror!
Harry, that prophesied thou shouldst be king,
Doth comfort thee in thy sleep: live, and flourish!
Enter the Ghost of CLARENCE
Ghost of CLARENCE

[To KING RICHARD III]
Let me sit heavy on thy soul to-morrow!
I, that was wash’d to death with fulsome wine,
Poor Clarence, by thy guile betrayed to death!
To-morrow in the battle think on me,
And fall thy edgeless sword: despair, and die!–
To RICHMOND
Thou offspring of the house of Lancaster
The wronged heirs of York do pray for thee
Good angels guard thy battle! live, and flourish!
Enter the Ghosts of RIVERS, GRAY, and VAUGHAN
Ghost of RIVERS

[To KING RICHARD III]
Let me sit heavy on thy soul to-morrow,
Rivers. that died at Pomfret! despair, and die!
Ghost of GREY

[To KING RICHARD III]
Think upon Grey, and let thy soul despair!
Ghost of VAUGHAN

[To KING RICHARD III]
Think upon Vaughan, and, with guilty fear,
Let fall thy lance: despair, and die!
All

[To RICHMOND]
Awake, and think our wrongs in Richard’s bosom
Will conquer him! awake, and win the day!
Enter the Ghost of HASTINGS
Ghost of HASTINGS

[To KING RICHARD III]
Bloody and guilty, guiltily awake,
And in a bloody battle end thy days!
Think on Lord Hastings: despair, and die!
To RICHMOND
Quiet untroubled soul, awake, awake!
Arm, fight, and conquer, for fair England’s sake!
Enter the Ghosts of the two young Princes
Ghosts
of young Princes

[To KING RICHARD III]
Dream on thy cousins smother’d in the Tower:
Let us be led within thy bosom, Richard,
And weigh thee down to ruin, shame, and death!
Thy nephews’ souls bid thee despair and die!
To RICHMOND
Sleep, Richmond, sleep in peace, and wake in joy;
Good angels guard thee from the boar’s annoy!
Live, and beget a happy race of kings!
Edward’s unhappy sons do bid thee flourish.
Enter the Ghost of LADY ANNE
Ghost of LADY ANNE

[To KING RICHARD III]
Richard, thy wife, that wretched Anne thy wife,
That never slept a quiet hour with thee,
Now fills thy sleep with perturbations
To-morrow in the battle think on me,
And fall thy edgeless sword: despair, and die!
To RICHMOND
Thou quiet soul, sleep thou a quiet sleep
Dream of success and happy victory!
Thy adversary’s wife doth pray for thee.
Enter the Ghost of BUCKINGHAM
Ghost
of BUCKINGHAM

[To KING RICHARD III]
The last was I that helped thee to the crown;
The last was I that felt thy tyranny:
O, in the battle think on Buckingham,
And die in terror of thy guiltiness!
Dream on, dream on, of bloody deeds and death:
Fainting, despair; despairing, yield thy breath!
To RICHMOND
I died for hope ere I could lend thee aid:
But cheer thy heart, and be thou not dismay’d:
God and good angel fight on Richmond’s side;
And Richard falls in height of all his pride.
The Ghosts vanish
KING RICHARD III starts out of his dream
KING RICHARD III

Give me another horse: bind up my wounds.
Have mercy, Jesu!–Soft! I did but dream.
O coward conscience, how dost thou afflict me!
The lights burn blue. It is now dead midnight.
Cold fearful drops stand on my trembling flesh.
What do I fear? myself? there’s none else by:
Richard loves Richard; that is, I am I.
Is there a murderer here? No. Yes, I am:
Then fly. What, from myself? Great reason why:
Lest I revenge. What, myself upon myself?
Alack. I love myself. Wherefore? for any good
That I myself have done unto myself?
O, no! alas, I rather hate myself
For hateful deeds committed by myself!
I am a villain: yet I lie. I am not.
Fool, of thyself speak well: fool, do not flatter.
My conscience hath a thousand several tongues,
And every tongue brings in a several tale,
And every tale condemns me for a villain.
Perjury, perjury, in the high’st degree
Murder, stem murder, in the direst degree;
All several sins, all used in each degree,
Throng to the bar, crying all, Guilty! guilty!
I shall despair. There is no creature loves me;
And if I die, no soul shall pity me:
Nay, wherefore should they, since that I myself
Find in myself no pity to myself?
Methought the souls of all that I had murder’d
Came to my tent; and every one did threat
To-morrow’s vengeance on the head of Richard.
Enter RATCLIFF
RATCLIFF

My lord!
KING RICHARD III

‘Zounds! who is there?
RATCLIFF

Ratcliff, my lord; ’tis I. The early village-cock
Hath twice done salutation to the morn;
Your friends are up, and buckle on their armour.
KING RICHARD III

O Ratcliff, I have dream’d a fearful dream!
What thinkest thou, will our friends prove all true?
RATCLIFF

No doubt, my lord.
KING RICHARD III

O Ratcliff, I fear, I fear,–
RATCLIFF

Nay, good my lord, be not afraid of shadows.
KING RICHARD III

By the apostle Paul, shadows to-night
Have struck more terror to the soul of Richard
Than can the substance of ten thousand soldiers
Armed in proof, and led by shallow Richmond.
It is not yet near day. Come, go with me;
Under our tents I’ll play the eaves-dropper,
To see if any mean to shrink from me.
Exeunt
Enter the Lords to RICHMOND, sitting in his tent
LORDS

Good morrow, Richmond!
RICHMOND

Cry mercy, lords and watchful gentlemen,
That you have ta’en a tardy sluggard here.
LORDS

How have you slept, my lord?
RICHMOND

The sweetest sleep, and fairest-boding dreams
That ever enter’d in a drowsy head,
Have I since your departure had, my lords.
Methought their souls, whose bodies Richard murder’d,
Came to my tent, and cried on victory:
I promise you, my soul is very jocund
In the remembrance of so fair a dream.
How far into the morning is it, lords?
LORDS

Upon the stroke of four.
RICHMOND

Why, then ’tis time to arm and give direction.
His oration to his soldiers
More than I have said, loving countrymen,
The leisure and enforcement of the time
Forbids to dwell upon: yet remember this,
God and our good cause fight upon our side;
The prayers of holy saints and wronged souls,
Like high-rear’d bulwarks, stand before our faces;
Richard except, those whom we fight against
Had rather have us win than him they follow:
For what is he they follow? truly, gentlemen,
A bloody tyrant and a homicide;
One raised in blood, and one in blood establish’d;
One that made means to come by what he hath,
And slaughter’d those that were the means to help him;
Abase foul stone, made precious by the foil
Of England’s chair, where he is falsely set;
One that hath ever been God’s enemy:
Then, if you fight against God’s enemy,
God will in justice ward you as his soldiers;
If you do sweat to put a tyrant down,
You sleep in peace, the tyrant being slain;
If you do fight against your country’s foes,
Your country’s fat shall pay your pains the hire;
If you do fight in safeguard of your wives,
Your wives shall welcome home the conquerors;
If you do free your children from the sword,
Your children’s children quit it in your age.
Then, in the name of God and all these rights,
Advance your standards, draw your willing swords.
For me, the ransom of my bold attempt
Shall be this cold corpse on the earth’s cold face;
But if I thrive, the gain of my attempt
The least of you shall share his part thereof.
Sound drums and trumpets boldly and cheerfully;
God and Saint George! Richmond and victory!
Exeunt
Re-enter KING RICHARD, RATCLIFF, Attendants and Forces
KING RICHARD III

What said Northumberland as touching Richmond?
RATCLIFF

That he was never trained up in arms.
KING RICHARD III

He said the truth: and what said Surrey then?
RATCLIFF

He smiled and said ‘The better for our purpose.’
KING RICHARD III

He was in the right; and so indeed it is.
Clock striketh
Ten the clock there. Give me a calendar.
Who saw the sun to-day?
RATCLIFF

Not I, my lord.
KING RICHARD III

Then he disdains to shine; for by the book
He should have braved the east an hour ago
A black day will it be to somebody. Ratcliff!
RATCLIFF

My lord?
KING RICHARD III

The sun will not be seen to-day;
The sky doth frown and lour upon our army.
I would these dewy tears were from the ground.
Not shine to-day! Why, what is that to me
More than to Richmond? for the selfsame heaven
That frowns on me looks sadly upon him.
Enter NORFOLK
NORFOLK

Arm, arm, my lord; the foe vaunts in the field.
KING RICHARD III

Come, bustle, bustle; caparison my horse.
Call up Lord Stanley, bid him bring his power:
I will lead forth my soldiers to the plain,
And thus my battle shall be ordered:
My foreward shall be drawn out all in length,
Consisting equally of horse and foot;
Our archers shall be placed in the midst
John Duke of Norfolk, Thomas Earl of Surrey,
Shall have the leading of this foot and horse.
They thus directed, we will follow
In the main battle, whose puissance on either side
Shall be well winged with our chiefest horse.
This, and Saint George to boot! What think’st thou, Norfolk?
NORFOLK

A good direction, warlike sovereign.
This found I on my tent this morning.
He sheweth him a paper
KING RICHARD III

[Reads]
‘Jockey of Norfolk, be not too bold,
For Dickon thy master is bought and sold.’
A thing devised by the enemy.
Go, gentleman, every man unto his charge
Let not our babbling dreams affright our souls:
Conscience is but a word that cowards use,
Devised at first to keep the strong in awe:
Our strong arms be our conscience, swords our law.
March on, join bravely, let us to’t pell-mell
If not to heaven, then hand in hand to hell.
His oration to his Army
What shall I say more than I have inferr’d?
Remember whom you are to cope withal;
A sort of vagabonds, rascals, and runaways,
A scum of Bretons, and base lackey peasants,
Whom their o’er-cloyed country vomits forth
To desperate ventures and assured destruction.
You sleeping safe, they bring to you unrest;
You having lands, and blest with beauteous wives,
They would restrain the one, distain the other.
And who doth lead them but a paltry fellow,
Long kept in Bretagne at our mother’s cost?
A milk-sop, one that never in his life
Felt so much cold as over shoes in snow?
Let’s whip these stragglers o’er the seas again;
Lash hence these overweening rags of France,
These famish’d beggars, weary of their lives;
Who, but for dreaming on this fond exploit,
For want of means, poor rats, had hang’d themselves:
If we be conquer’d, let men conquer us,
And not these bastard Bretons; whom our fathers
Have in their own land beaten, bobb’d, and thump’d,
And in record, left them the heirs of shame.
Shall these enjoy our lands? lie with our wives?
Ravish our daughters?
Drum afar off
Hark! I hear their drum.
Fight, gentlemen of England! fight, bold yoemen!
Draw, archers, draw your arrows to the head!
Spur your proud horses hard, and ride in blood;
Amaze the welkin with your broken staves!
Enter a Messenger
What says Lord Stanley? will he bring his power?
Messenger

My lord, he doth deny to come.
KING RICHARD III

Off with his son George’s head!
NORFOLK

My lord, the enemy is past the marsh
After the battle let George Stanley die.
KING RICHARD III

A thousand hearts are great within my bosom:
Advance our standards, set upon our foes
Our ancient word of courage, fair Saint George,
Inspire us with the spleen of fiery dragons!
Upon them! victory sits on our helms.
Exeunt

SCENE IV. Another part of the field.

Alarum: excursions. Enter NORFOLK and forces fighting; to him CATESBY
CATESBY

Rescue, my Lord of Norfolk, rescue, rescue!
The king enacts more wonders than a man,
Daring an opposite to every danger:
His horse is slain, and all on foot he fights,
Seeking for Richmond in the throat of death.
Rescue, fair lord, or else the day is lost!
Alarums. Enter KING RICHARD III
KING RICHARD III

A horse! a horse! my kingdom for a horse!
CATESBY

Withdraw, my lord; I’ll help you to a horse.
KING RICHARD III

Slave, I have set my life upon a cast,
And I will stand the hazard of the die:
I think there be six Richmonds in the field;
Five have I slain to-day instead of him.
A horse! a horse! my kingdom for a horse!
Exeunt

SCENE V. Another part of the field.

Alarum. Enter KING RICHARD III and RICHMOND; they fight. KING RICHARD III is slain. Retreat and flourish. Re-enter RICHMOND, DERBY bearing the crown, with divers other Lords
RICHMOND

God and your arms be praised, victorious friends,
The day is ours, the bloody dog is dead.
DERBY

Courageous Richmond, well hast thou acquit thee.
Lo, here, this long-usurped royalty
From the dead temples of this bloody wretch
Have I pluck’d off, to grace thy brows withal:
Wear it, enjoy it, and make much of it.
RICHMOND

Great God of heaven, say Amen to all!
But, tell me, is young George Stanley living?
DERBY

He is, my lord, and safe in Leicester town;
Whither, if it please you, we may now withdraw us.
RICHMOND

What men of name are slain on either side?
DERBY

John Duke of Norfolk, Walter Lord Ferrers,
Sir Robert Brakenbury, and Sir William Brandon.
RICHMOND

Inter their bodies as becomes their births:
Proclaim a pardon to the soldiers fled
That in submission will return to us:
And then, as we have ta’en the sacrament,
We will unite the white rose and the red:
Smile heaven upon this fair conjunction,
That long have frown’d upon their enmity!
What traitor hears me, and says not amen?
England hath long been mad, and scarr’d herself;
The brother blindly shed the brother’s blood,
The father rashly slaughter’d his own son,
The son, compell’d, been butcher to the sire:
All this divided York and Lancaster,
Divided in their dire division,
O, now, let Richmond and Elizabeth,
The true succeeders of each royal house,
By God’s fair ordinance conjoin together!
And let their heirs, God, if thy will be so.
Enrich the time to come with smooth-faced peace,
With smiling plenty and fair prosperous days!
Abate the edge of traitors, gracious Lord,
That would reduce these bloody days again,
And make poor England weep in streams of blood!
Let them not live to taste this land’s increase
That would with treason wound this fair land’s peace!
Now civil wounds are stopp’d, peace lives again:
That she may long live here, God say amen!
Exeunt

Cymbeline: Entire Play
Cymbeline

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ACT I
SCENE I. Britain. The garden of Cymbeline’s palace.

Enter two Gentlemen
First Gentleman

You do not meet a man but frowns: our bloods
No more obey the heavens than our courtiers
Still seem as does the king.
Second Gentleman

But what’s the matter?
First Gentleman

His daughter, and the heir of’s kingdom, whom
He purposed to his wife’s sole son–a widow
That late he married–hath referr’d herself
Unto a poor but worthy gentleman: she’s wedded;
Her husband banish’d; she imprison’d: all
Is outward sorrow; though I think the king
Be touch’d at very heart.
Second Gentleman

None but the king?
First Gentleman

He that hath lost her too; so is the queen,
That most desired the match; but not a courtier,
Although they wear their faces to the bent
Of the king’s look’s, hath a heart that is not
Glad at the thing they scowl at.
Second Gentleman

And why so?
First Gentleman

He that hath miss’d the princess is a thing
Too bad for bad report: and he that hath her–
I mean, that married her, alack, good man!
And therefore banish’d–is a creature such
As, to seek through the regions of the earth
For one his like, there would be something failing
In him that should compare. I do not think
So fair an outward and such stuff within
Endows a man but he.
Second Gentleman

You speak him far.
First Gentleman

I do extend him, sir, within himself,
Crush him together rather than unfold
His measure duly.
Second Gentleman

What’s his name and birth?
First Gentleman

I cannot delve him to the root: his father
Was call’d Sicilius, who did join his honour
Against the Romans with Cassibelan,
But had his titles by Tenantius whom
He served with glory and admired success,
So gain’d the sur-addition Leonatus;
And had, besides this gentleman in question,
Two other sons, who in the wars o’ the time
Died with their swords in hand; for which
their father,
Then old and fond of issue, took such sorrow
That he quit being, and his gentle lady,
Big of this gentleman our theme, deceased
As he was born. The king he takes the babe
To his protection, calls him Posthumus Leonatus,
Breeds him and makes him of his bed-chamber,
Puts to him all the learnings that his time
Could make him the receiver of; which he took,
As we do air, fast as ’twas minister’d,
And in’s spring became a harvest, lived in court–
Which rare it is to do–most praised, most loved,
A sample to the youngest, to the more mature
A glass that feated them, and to the graver
A child that guided dotards; to his mistress,
For whom he now is banish’d, her own price
Proclaims how she esteem’d him and his virtue;
By her election may be truly read
What kind of man he is.
Second Gentleman

I honour him
Even out of your report. But, pray you, tell me,
Is she sole child to the king?
First Gentleman

His only child.
He had two sons: if this be worth your hearing,
Mark it: the eldest of them at three years old,
I’ the swathing-clothes the other, from their nursery
Were stol’n, and to this hour no guess in knowledge
Which way they went.
Second Gentleman

How long is this ago?
First Gentleman

Some twenty years.
Second Gentleman

That a king’s children should be so convey’d,
So slackly guarded, and the search so slow,
That could not trace them!
First Gentleman

Howsoe’er ’tis strange,
Or that the negligence may well be laugh’d at,
Yet is it true, sir.
Second Gentleman

I do well believe you.
First Gentleman

We must forbear: here comes the gentleman,
The queen, and princess.
Exeunt
Enter the QUEEN, POSTHUMUS LEONATUS, and IMOGEN
QUEEN

No, be assured you shall not find me, daughter,
After the slander of most stepmothers,
Evil-eyed unto you: you’re my prisoner, but
Your gaoler shall deliver you the keys
That lock up your restraint. For you, Posthumus,
So soon as I can win the offended king,
I will be known your advocate: marry, yet
The fire of rage is in him, and ’twere good
You lean’d unto his sentence with what patience
Your wisdom may inform you.
POSTHUMUS LEONATUS

Please your highness,
I will from hence to-day.
QUEEN

You know the peril.
I’ll fetch a turn about the garden, pitying
The pangs of barr’d affections, though the king
Hath charged you should not speak together.
Exit
IMOGEN

O
Dissembling courtesy! How fine this tyrant
Can tickle where she wounds! My dearest husband,
I something fear my father’s wrath; but nothing–
Always reserved my holy duty–what
His rage can do on me: you must be gone;
And I shall here abide the hourly shot
Of angry eyes, not comforted to live,
But that there is this jewel in the world
That I may see again.
POSTHUMUS LEONATUS

My queen! my mistress!
O lady, weep no more, lest I give cause
To be suspected of more tenderness
Than doth become a man. I will remain
The loyal’st husband that did e’er plight troth:
My residence in Rome at one Philario’s,
Who to my father was a friend, to me
Known but by letter: thither write, my queen,
And with mine eyes I’ll drink the words you send,
Though ink be made of gall.
Re-enter QUEEN
QUEEN

Be brief, I pray you:
If the king come, I shall incur I know not
How much of his displeasure.
Aside
Yet I’ll move him
To walk this way: I never do him wrong,
But he does buy my injuries, to be friends;
Pays dear for my offences.
Exit
POSTHUMUS LEONATUS

Should we be taking leave
As long a term as yet we have to live,
The loathness to depart would grow. Adieu!
IMOGEN

Nay, stay a little:
Were you but riding forth to air yourself,
Such parting were too petty. Look here, love;
This diamond was my mother’s: take it, heart;
But keep it till you woo another wife,
When Imogen is dead.
POSTHUMUS LEONATUS

How, how! another?
You gentle gods, give me but this I have,
And sear up my embracements from a next
With bonds of death!
Putting on the ring
Remain, remain thou here
While sense can keep it on. And, sweetest, fairest,
As I my poor self did exchange for you,
To your so infinite loss, so in our trifles
I still win of you: for my sake wear this;
It is a manacle of love; I’ll place it
Upon this fairest prisoner.
Putting a bracelet upon her arm
IMOGEN

O the gods!
When shall we see again?
Enter CYMBELINE and Lords
POSTHUMUS LEONATUS

Alack, the king!
CYMBELINE

Thou basest thing, avoid! hence, from my sight!
If after this command thou fraught the court
With thy unworthiness, thou diest: away!
Thou’rt poison to my blood.
POSTHUMUS LEONATUS

The gods protect you!
And bless the good remainders of the court! I am gone.
Exit
IMOGEN

There cannot be a pinch in death
More sharp than this is.
CYMBELINE

O disloyal thing,
That shouldst repair my youth, thou heap’st
A year’s age on me.
IMOGEN

I beseech you, sir,
Harm not yourself with your vexation
I am senseless of your wrath; a touch more rare
Subdues all pangs, all fears.
CYMBELINE

Past grace? obedience?
IMOGEN

Past hope, and in despair; that way, past grace.
CYMBELINE

That mightst have had the sole son of my queen!
IMOGEN

O blest, that I might not! I chose an eagle,
And did avoid a puttock.
CYMBELINE

Thou took’st a beggar; wouldst have made my throne
A seat for baseness.
IMOGEN

No; I rather added
A lustre to it.
CYMBELINE

O thou vile one!
IMOGEN

Sir,
It is your fault that I have loved Posthumus:
You bred him as my playfellow, and he is
A man worth any woman, overbuys me
Almost the sum he pays.
CYMBELINE

What, art thou mad?
IMOGEN

Almost, sir: heaven restore me! Would I were
A neat-herd’s daughter, and my Leonatus
Our neighbour shepherd’s son!
CYMBELINE

Thou foolish thing!
Re-enter QUEEN
They were again together: you have done
Not after our command. Away with her,
And pen her up.
QUEEN

Beseech your patience. Peace,
Dear lady daughter, peace! Sweet sovereign,
Leave us to ourselves; and make yourself some comfort
Out of your best advice.
CYMBELINE

Nay, let her languish
A drop of blood a day; and, being aged,
Die of this folly!
Exeunt CYMBELINE and Lords
QUEEN

Fie! you must give way.
Enter PISANIO
Here is your servant. How now, sir! What news?
PISANIO

My lord your son drew on my master.
QUEEN

Ha!
No harm, I trust, is done?
PISANIO

There might have been,
But that my master rather play’d than fought
And had no help of anger: they were parted
By gentlemen at hand.
QUEEN

I am very glad on’t.
IMOGEN

Your son’s my father’s friend; he takes his part.
To draw upon an exile! O brave sir!
I would they were in Afric both together;
Myself by with a needle, that I might prick
The goer-back. Why came you from your master?
PISANIO

On his command: he would not suffer me
To bring him to the haven; left these notes
Of what commands I should be subject to,
When ‘t pleased you to employ me.
QUEEN

This hath been
Your faithful servant: I dare lay mine honour
He will remain so.
PISANIO

I humbly thank your highness.
QUEEN

Pray, walk awhile.
IMOGEN

About some half-hour hence,
I pray you, speak with me: you shall at least
Go see my lord aboard: for this time leave me.
Exeunt

SCENE II. The same. A public place.

Enter CLOTEN and two Lords
First Lord

Sir, I would advise you to shift a shirt; the
violence of action hath made you reek as a
sacrifice: where air comes out, air comes in:
there’s none abroad so wholesome as that you vent.
CLOTEN

If my shirt were bloody, then to shift it. Have I hurt him?
Second Lord

[Aside] No, ‘faith; not so much as his patience.
First Lord

Hurt him! his body’s a passable carcass, if he be
not hurt: it is a thoroughfare for steel, if it be not hurt.
Second Lord

[Aside] His steel was in debt; it went o’ the
backside the town.
CLOTEN

The villain would not stand me.
Second Lord

[Aside] No; but he fled forward still, toward your face.
First Lord

Stand you! You have land enough of your own: but
he added to your having; gave you some ground.
Second Lord

[Aside] As many inches as you have oceans. Puppies!
CLOTEN

I would they had not come between us.
Second Lord

[Aside] So would I, till you had measured how long
a fool you were upon the ground.
CLOTEN

And that she should love this fellow and refuse me!
Second Lord

[Aside] If it be a sin to make a true election, she
is damned.
First Lord

Sir, as I told you always, her beauty and her brain
go not together: she’s a good sign, but I have seen
small reflection of her wit.
Second Lord

[Aside] She shines not upon fools, lest the
reflection should hurt her.
CLOTEN

Come, I’ll to my chamber. Would there had been some
hurt done!
Second Lord

[Aside] I wish not so; unless it had been the fall
of an ass, which is no great hurt.
CLOTEN

You’ll go with us?
First Lord

I’ll attend your lordship.
CLOTEN

Nay, come, let’s go together.
Second Lord

Well, my lord.
Exeunt

SCENE III. A room in Cymbeline’s palace.

Enter IMOGEN and PISANIO
IMOGEN

I would thou grew’st unto the shores o’ the haven,
And question’dst every sail: if he should write
And not have it, ’twere a paper lost,
As offer’d mercy is. What was the last
That he spake to thee?
PISANIO

It was his queen, his queen!
IMOGEN

Then waved his handkerchief?
PISANIO

And kiss’d it, madam.
IMOGEN

Senseless Linen! happier therein than I!
And that was all?
PISANIO

No, madam; for so long
As he could make me with this eye or ear
Distinguish him from others, he did keep
The deck, with glove, or hat, or handkerchief,
Still waving, as the fits and stirs of ‘s mind
Could best express how slow his soul sail’d on,
How swift his ship.
IMOGEN

Thou shouldst have made him
As little as a crow, or less, ere left
To after-eye him.
PISANIO

Madam, so I did.
IMOGEN

I would have broke mine eye-strings; crack’d them, but
To look upon him, till the diminution
Of space had pointed him sharp as my needle,
Nay, follow’d him, till he had melted from
The smallness of a gnat to air, and then
Have turn’d mine eye and wept. But, good Pisanio,
When shall we hear from him?
PISANIO

Be assured, madam,
With his next vantage.
IMOGEN

I did not take my leave of him, but had
Most pretty things to say: ere I could tell him
How I would think on him at certain hours
Such thoughts and such, or I could make him swear
The shes of Italy should not betray
Mine interest and his honour, or have charged him,
At the sixth hour of morn, at noon, at midnight,
To encounter me with orisons, for then
I am in heaven for him; or ere I could
Give him that parting kiss which I had set
Betwixt two charming words, comes in my father
And like the tyrannous breathing of the north
Shakes all our buds from growing.
Enter a Lady
Lady

The queen, madam,
Desires your highness’ company.
IMOGEN

Those things I bid you do, get them dispatch’d.
I will attend the queen.
PISANIO

Madam, I shall.
Exeunt

SCENE IV. Rome. Philario’s house.

Enter PHILARIO, IACHIMO, a Frenchman, a Dutchman, and a Spaniard
IACHIMO

Believe it, sir, I have seen him in Britain: he was
then of a crescent note, expected to prove so worthy
as since he hath been allowed the name of; but I
could then have looked on him without the help of
admiration, though the catalogue of his endowments
had been tabled by his side and I to peruse him by items.
PHILARIO

You speak of him when he was less furnished than now
he is with that which makes him both without and within.
Frenchman

I have seen him in France: we had very many there
could behold the sun with as firm eyes as he.
IACHIMO

This matter of marrying his king’s daughter, wherein
he must be weighed rather by her value than his own,
words him, I doubt not, a great deal from the matter.
Frenchman

And then his banishment.
IACHIMO

Ay, and the approbation of those that weep this
lamentable divorce under her colours are wonderfully
to extend him; be it but to fortify her judgment,
which else an easy battery might lay flat, for
taking a beggar without less quality. But how comes
it he is to sojourn with you? How creeps
acquaintance?
PHILARIO

His father and I were soldiers together; to whom I
have been often bound for no less than my life.
Here comes the Briton: let him be so entertained
amongst you as suits, with gentlemen of your
knowing, to a stranger of his quality.
Enter POSTHUMUS LEONATUS
I beseech you all, be better known to this
gentleman; whom I commend to you as a noble friend
of mine: how worthy he is I will leave to appear
hereafter, rather than story him in his own hearing.
Frenchman

Sir, we have known together in Orleans.
POSTHUMUS LEONATUS

Since when I have been debtor to you for courtesies,
which I will be ever to pay and yet pay still.
Frenchman

Sir, you o’er-rate my poor kindness: I was glad I
did atone my countryman and you; it had been pity
you should have been put together with so mortal a
purpose as then each bore, upon importance of so
slight and trivial a nature.
POSTHUMUS LEONATUS

By your pardon, sir, I was then a young traveller;
rather shunned to go even with what I heard than in
my every action to be guided by others’ experiences:
but upon my mended judgment–if I offend not to say
it is mended–my quarrel was not altogether slight.
Frenchman

‘Faith, yes, to be put to the arbitrement of swords,
and by such two that would by all likelihood have
confounded one the other, or have fallen both.
IACHIMO

Can we, with manners, ask what was the difference?
Frenchman

Safely, I think: ’twas a contention in public,
which may, without contradiction, suffer the report.
It was much like an argument that fell out last
night, where each of us fell in praise of our
country mistresses; this gentleman at that time
vouching–and upon warrant of bloody
affirmation–his to be more fair, virtuous, wise,
chaste, constant-qualified and less attemptable
than any the rarest of our ladies in France.
IACHIMO

That lady is not now living, or this gentleman’s
opinion by this worn out.
POSTHUMUS LEONATUS

She holds her virtue still and I my mind.
IACHIMO

You must not so far prefer her ‘fore ours of Italy.
POSTHUMUS LEONATUS

Being so far provoked as I was in France, I would
abate her nothing, though I profess myself her
adorer, not her friend.
IACHIMO

As fair and as good–a kind of hand-in-hand
comparison–had been something too fair and too good
for any lady in Britain. If she went before others
I have seen, as that diamond of yours outlustres
many I have beheld. I could not but believe she
excelled many: but I have not seen the most
precious diamond that is, nor you the lady.
POSTHUMUS LEONATUS

I praised her as I rated her: so do I my stone.
IACHIMO

What do you esteem it at?
POSTHUMUS LEONATUS

More than the world enjoys.
IACHIMO

Either your unparagoned mistress is dead, or she’s
outprized by a trifle.
POSTHUMUS LEONATUS

You are mistaken: the one may be sold, or given, if
there were wealth enough for the purchase, or merit
for the gift: the other is not a thing for sale,
and only the gift of the gods.
IACHIMO

Which the gods have given you?
POSTHUMUS LEONATUS

Which, by their graces, I will keep.
IACHIMO

You may wear her in title yours: but, you know,
strange fowl light upon neighbouring ponds. Your
ring may be stolen too: so your brace of unprizable
estimations; the one is but frail and the other
casual; a cunning thief, or a that way accomplished
courtier, would hazard the winning both of first and last.
POSTHUMUS LEONATUS

Your Italy contains none so accomplished a courtier
to convince the honour of my mistress, if, in the
holding or loss of that, you term her frail. I do
nothing doubt you have store of thieves;
notwithstanding, I fear not my ring.
PHILARIO

Let us leave here, gentlemen.
POSTHUMUS LEONATUS

Sir, with all my heart. This worthy signior, I
thank him, makes no stranger of me; we are familiar at first.
IACHIMO

With five times so much conversation, I should get
ground of your fair mistress, make her go back, even
to the yielding, had I admittance and opportunity to friend.
POSTHUMUS LEONATUS

No, no.
IACHIMO

I dare thereupon pawn the moiety of my estate to
your ring; which, in my opinion, o’ervalues it
something: but I make my wager rather against your
confidence than her reputation: and, to bar your
offence herein too, I durst attempt it against any
lady in the world.
POSTHUMUS LEONATUS

You are a great deal abused in too bold a
persuasion; and I doubt not you sustain what you’re
worthy of by your attempt.
IACHIMO

What’s that?
POSTHUMUS LEONATUS

A repulse: though your attempt, as you call it,
deserve more; a punishment too.
PHILARIO

Gentlemen, enough of this: it came in too suddenly;
let it die as it was born, and, I pray you, be
better acquainted.
IACHIMO

Would I had put my estate and my neighbour’s on the
approbation of what I have spoke!
POSTHUMUS LEONATUS

What lady would you choose to assail?
IACHIMO

Yours; whom in constancy you think stands so safe.
I will lay you ten thousand ducats to your ring,
that, commend me to the court where your lady is,
with no more advantage than the opportunity of a
second conference, and I will bring from thence
that honour of hers which you imagine so reserved.
POSTHUMUS LEONATUS

I will wage against your gold, gold to it: my ring
I hold dear as my finger; ’tis part of it.
IACHIMO

You are afraid, and therein the wiser. If you buy
ladies’ flesh at a million a dram, you cannot
preserve it from tainting: but I see you have some
religion in you, that you fear.
POSTHUMUS LEONATUS

This is but a custom in your tongue; you bear a
graver purpose, I hope.
IACHIMO

I am the master of my speeches, and would undergo
what’s spoken, I swear.
POSTHUMUS LEONATUS

Will you? I shall but lend my diamond till your
return: let there be covenants drawn between’s: my
mistress exceeds in goodness the hugeness of your
unworthy thinking: I dare you to this match: here’s my ring.
PHILARIO

I will have it no lay.
IACHIMO

By the gods, it is one. If I bring you no
sufficient testimony that I have enjoyed the dearest
bodily part of your mistress, my ten thousand ducats
are yours; so is your diamond too: if I come off,
and leave her in such honour as you have trust in,
she your jewel, this your jewel, and my gold are
yours: provided I have your commendation for my more
free entertainment.
POSTHUMUS LEONATUS

I embrace these conditions; let us have articles
betwixt us. Only, thus far you shall answer: if
you make your voyage upon her and give me directly
to understand you have prevailed, I am no further
your enemy; she is not worth our debate: if she
remain unseduced, you not making it appear
otherwise, for your ill opinion and the assault you
have made to her chastity you shall answer me with
your sword.
IACHIMO

Your hand; a covenant: we will have these things set
down by lawful counsel, and straight away for
Britain, lest the bargain should catch cold and
starve: I will fetch my gold and have our two
wagers recorded.
POSTHUMUS LEONATUS

Agreed.
Exeunt POSTHUMUS LEONATUS and IACHIMO
Frenchman

Will this hold, think you?
PHILARIO

Signior Iachimo will not from it.
Pray, let us follow ’em.
Exeunt

SCENE V. Britain. A room in Cymbeline’s palace.

Enter QUEEN, Ladies, and CORNELIUS
QUEEN

Whiles yet the dew’s on ground, gather those flowers;
Make haste: who has the note of them?
First Lady

I, madam.
QUEEN

Dispatch.
Exeunt Ladies
Now, master doctor, have you brought those drugs?
CORNELIUS

Pleaseth your highness, ay: here they are, madam:
Presenting a small box
But I beseech your grace, without offence,–
My conscience bids me ask–wherefore you have
Commanded of me those most poisonous compounds,
Which are the movers of a languishing death;
But though slow, deadly?
QUEEN

I wonder, doctor,
Thou ask’st me such a question. Have I not been
Thy pupil long? Hast thou not learn’d me how
To make perfumes? distil? preserve? yea, so
That our great king himself doth woo me oft
For my confections? Having thus far proceeded,–
Unless thou think’st me devilish–is’t not meet
That I did amplify my judgment in
Other conclusions? I will try the forces
Of these thy compounds on such creatures as
We count not worth the hanging, but none human,
To try the vigour of them and apply
Allayments to their act, and by them gather
Their several virtues and effects.
CORNELIUS

Your highness
Shall from this practise but make hard your heart:
Besides, the seeing these effects will be
Both noisome and infectious.
QUEEN

O, content thee.
Enter PISANIO
Aside
Here comes a flattering rascal; upon him
Will I first work: he’s for his master,
An enemy to my son. How now, Pisanio!
Doctor, your service for this time is ended;
Take your own way.
CORNELIUS

[Aside] I do suspect you, madam;
But you shall do no harm.
QUEEN

[To PISANIO] Hark thee, a word.
CORNELIUS

[Aside] I do not like her. She doth think she has
Strange lingering poisons: I do know her spirit,
And will not trust one of her malice with
A drug of such damn’d nature. Those she has
Will stupefy and dull the sense awhile;
Which first, perchance, she’ll prove on
cats and dogs,
Then afterward up higher: but there is
No danger in what show of death it makes,
More than the locking-up the spirits a time,
To be more fresh, reviving. She is fool’d
With a most false effect; and I the truer,
So to be false with her.
QUEEN

No further service, doctor,
Until I send for thee.
CORNELIUS

I humbly take my leave.
Exit
QUEEN

Weeps she still, say’st thou? Dost thou think in time
She will not quench and let instructions enter
Where folly now possesses? Do thou work:
When thou shalt bring me word she loves my son,
I’ll tell thee on the instant thou art then
As great as is thy master, greater, for
His fortunes all lie speechless and his name
Is at last gasp: return he cannot, nor
Continue where he is: to shift his being
Is to exchange one misery with another,
And every day that comes comes to decay
A day’s work in him. What shalt thou expect,
To be depender on a thing that leans,
Who cannot be new built, nor has no friends,
So much as but to prop him?
The QUEEN drops the box: PISANIO takes it up
Thou takest up
Thou know’st not what; but take it for thy labour:
It is a thing I made, which hath the king
Five times redeem’d from death: I do not know
What is more cordial. Nay, I prethee, take it;
It is an earnest of a further good
That I mean to thee. Tell thy mistress how
The case stands with her; do’t as from thyself.
Think what a chance thou changest on, but think
Thou hast thy mistress still, to boot, my son,
Who shall take notice of thee: I’ll move the king
To any shape of thy preferment such
As thou’lt desire; and then myself, I chiefly,
That set thee on to this desert, am bound
To load thy merit richly. Call my women:
Think on my words.
Exit PISANIO
A sly and constant knave,
Not to be shaked; the agent for his master
And the remembrancer of her to hold
The hand-fast to her lord. I have given him that
Which, if he take, shall quite unpeople her
Of liegers for her sweet, and which she after,
Except she bend her humour, shall be assured
To taste of too.
Re-enter PISANIO and Ladies
So, so: well done, well done:
The violets, cowslips, and the primroses,
Bear to my closet. Fare thee well, Pisanio;
Think on my words.
Exeunt QUEEN and Ladies
PISANIO

And shall do:
But when to my good lord I prove untrue,
I’ll choke myself: there’s all I’ll do for you.
Exit

SCENE VI. The same. Another room in the palace.

Enter IMOGEN
IMOGEN

A father cruel, and a step-dame false;
A foolish suitor to a wedded lady,
That hath her husband banish’d;–O, that husband!
My supreme crown of grief! and those repeated
Vexations of it! Had I been thief-stol’n,
As my two brothers, happy! but most miserable
Is the desire that’s glorious: blest be those,
How mean soe’er, that have their honest wills,
Which seasons comfort. Who may this be? Fie!
Enter PISANIO and IACHIMO
PISANIO

Madam, a noble gentleman of Rome,
Comes from my lord with letters.
IACHIMO

Change you, madam?
The worthy Leonatus is in safety
And greets your highness dearly.
Presents a letter
IMOGEN

Thanks, good sir:
You’re kindly welcome.
IACHIMO

[Aside] All of her that is out of door most rich!
If she be furnish’d with a mind so rare,
She is alone the Arabian bird, and I
Have lost the wager. Boldness be my friend!
Arm me, audacity, from head to foot!
Or, like the Parthian, I shall flying fight;
Rather directly fly.
IMOGEN

[Reads] ‘He is one of the noblest note, to whose
kindnesses I am most infinitely tied. Reflect upon
him accordingly, as you value your trust–
LEONATUS.’
So far I read aloud:
But even the very middle of my heart
Is warm’d by the rest, and takes it thankfully.
You are as welcome, worthy sir, as I
Have words to bid you, and shall find it so
In all that I can do.
IACHIMO

Thanks, fairest lady.
What, are men mad? Hath nature given them eyes
To see this vaulted arch, and the rich crop
Of sea and land, which can distinguish ‘twixt
The fiery orbs above and the twinn’d stones
Upon the number’d beach? and can we not
Partition make with spectacles so precious
‘Twixt fair and foul?
IMOGEN

What makes your admiration?
IACHIMO

It cannot be i’ the eye, for apes and monkeys
‘Twixt two such shes would chatter this way and
Contemn with mows the other; nor i’ the judgment,
For idiots in this case of favour would
Be wisely definite; nor i’ the appetite;
Sluttery to such neat excellence opposed
Should make desire vomit emptiness,
Not so allured to feed.
IMOGEN

What is the matter, trow?
IACHIMO

The cloyed will,
That satiate yet unsatisfied desire, that tub
Both fill’d and running, ravening first the lamb
Longs after for the garbage.
IMOGEN

What, dear sir,
Thus raps you? Are you well?
IACHIMO

Thanks, madam; well.
To PISANIO
Beseech you, sir, desire
My man’s abode where I did leave him: he
Is strange and peevish.
PISANIO

I was going, sir,
To give him welcome.
Exit
IMOGEN

Continues well my lord? His health, beseech you?
IACHIMO

Well, madam.
IMOGEN

Is he disposed to mirth? I hope he is.
IACHIMO

Exceeding pleasant; none a stranger there
So merry and so gamesome: he is call’d
The Briton reveller.
IMOGEN

When he was here,
He did incline to sadness, and oft-times
Not knowing why.
IACHIMO

I never saw him sad.
There is a Frenchman his companion, one
An eminent monsieur, that, it seems, much loves
A Gallian girl at home; he furnaces
The thick sighs from him, whiles the jolly Briton–
Your lord, I mean–laughs from’s free lungs, cries ‘O,
Can my sides hold, to think that man, who knows
By history, report, or his own proof,
What woman is, yea, what she cannot choose
But must be, will his free hours languish for
Assured bondage?’
IMOGEN

Will my lord say so?
IACHIMO

Ay, madam, with his eyes in flood with laughter:
It is a recreation to be by
And hear him mock the Frenchman. But, heavens know,
Some men are much to blame.
IMOGEN

Not he, I hope.
IACHIMO

Not he: but yet heaven’s bounty towards him might
Be used more thankfully. In himself, ’tis much;
In you, which I account his beyond all talents,
Whilst I am bound to wonder, I am bound
To pity too.
IMOGEN

What do you pity, sir?
IACHIMO

Two creatures heartily.
IMOGEN

Am I one, sir?
You look on me: what wreck discern you in me
Deserves your pity?
IACHIMO

Lamentable! What,
To hide me from the radiant sun and solace
I’ the dungeon by a snuff?
IMOGEN

I pray you, sir,
Deliver with more openness your answers
To my demands. Why do you pity me?
IACHIMO

That others do–
I was about to say–enjoy your–But
It is an office of the gods to venge it,
Not mine to speak on ‘t.
IMOGEN

You do seem to know
Something of me, or what concerns me: pray you,–
Since doubling things go ill often hurts more
Than to be sure they do; for certainties
Either are past remedies, or, timely knowing,
The remedy then born–discover to me
What both you spur and stop.
IACHIMO

Had I this cheek
To bathe my lips upon; this hand, whose touch,
Whose every touch, would force the feeler’s soul
To the oath of loyalty; this object, which
Takes prisoner the wild motion of mine eye,
Fixing it only here; should I, damn’d then,
Slaver with lips as common as the stairs
That mount the Capitol; join gripes with hands
Made hard with hourly falsehood–falsehood, as
With labour; then by-peeping in an eye
Base and unlustrous as the smoky light
That’s fed with stinking tallow; it were fit
That all the plagues of hell should at one time
Encounter such revolt.
IMOGEN

My lord, I fear,
Has forgot Britain.
IACHIMO

And himself. Not I,
Inclined to this intelligence, pronounce
The beggary of his change; but ’tis your graces
That from pay mutest conscience to my tongue
Charms this report out.
IMOGEN

Let me hear no more.
IACHIMO

O dearest soul! your cause doth strike my heart
With pity, that doth make me sick. A lady
So fair, and fasten’d to an empery,
Would make the great’st king double,–to be partner’d
With tomboys hired with that self-exhibition
Which your own coffers yield! with diseased ventures
That play with all infirmities for gold
Which rottenness can lend nature! such boil’d stuff
As well might poison poison! Be revenged;
Or she that bore you was no queen, and you
Recoil from your great stock.
IMOGEN

Revenged!
How should I be revenged? If this be true,–
As I have such a heart that both mine ears
Must not in haste abuse–if it be true,
How should I be revenged?
IACHIMO

Should he make me
Live, like Diana’s priest, betwixt cold sheets,
Whiles he is vaulting variable ramps,
In your despite, upon your purse? Revenge it.
I dedicate myself to your sweet pleasure,
More noble than that runagate to your bed,
And will continue fast to your affection,
Still close as sure.
IMOGEN

What, ho, Pisanio!
IACHIMO

Let me my service tender on your lips.
IMOGEN

Away! I do condemn mine ears that have
So long attended thee. If thou wert honourable,
Thou wouldst have told this tale for virtue, not
For such an end thou seek’st,–as base as strange.
Thou wrong’st a gentleman, who is as far
From thy report as thou from honour, and
Solicit’st here a lady that disdains
Thee and the devil alike. What ho, Pisanio!
The king my father shall be made acquainted
Of thy assault: if he shall think it fit,
A saucy stranger in his court to mart
As in a Romish stew and to expound
His beastly mind to us, he hath a court
He little cares for and a daughter who
He not respects at all. What, ho, Pisanio!
IACHIMO

O happy Leonatus! I may say
The credit that thy lady hath of thee
Deserves thy trust, and thy most perfect goodness
Her assured credit. Blessed live you long!
A lady to the worthiest sir that ever
Country call’d his! and you his mistress, only
For the most worthiest fit! Give me your pardon.
I have spoke this, to know if your affiance
Were deeply rooted; and shall make your lord,
That which he is, new o’er: and he is one
The truest manner’d; such a holy witch
That he enchants societies into him;
Half all men’s hearts are his.
IMOGEN

You make amends.
IACHIMO

He sits ‘mongst men like a descended god:
He hath a kind of honour sets him off,
More than a mortal seeming. Be not angry,
Most mighty princess, that I have adventured
To try your taking a false report; which hath
Honour’d with confirmation your great judgment
In the election of a sir so rare,
Which you know cannot err: the love I bear him
Made me to fan you thus, but the gods made you,
Unlike all others, chaffless. Pray, your pardon.
IMOGEN

All’s well, sir: take my power i’ the court
for yours.
IACHIMO

My humble thanks. I had almost forgot
To entreat your grace but in a small request,
And yet of moment to, for it concerns
Your lord; myself and other noble friends,
Are partners in the business.
IMOGEN

Pray, what is’t?
IACHIMO

Some dozen Romans of us and your lord–
The best feather of our wing–have mingled sums
To buy a present for the emperor
Which I, the factor for the rest, have done
In France: ’tis plate of rare device, and jewels
Of rich and exquisite form; their values great;
And I am something curious, being strange,
To have them in safe stowage: may it please you
To take them in protection?
IMOGEN

Willingly;
And pawn mine honour for their safety: since
My lord hath interest in them, I will keep them
In my bedchamber.
IACHIMO

They are in a trunk,
Attended by my men: I will make bold
To send them to you, only for this night;
I must aboard to-morrow.
IMOGEN

O, no, no.
IACHIMO

Yes, I beseech; or I shall short my word
By lengthening my return. From Gallia
I cross’d the seas on purpose and on promise
To see your grace.
IMOGEN

I thank you for your pains:
But not away to-morrow!
IACHIMO

O, I must, madam:
Therefore I shall beseech you, if you please
To greet your lord with writing, do’t to-night:
I have outstood my time; which is material
To the tender of our present.
IMOGEN

I will write.
Send your trunk to me; it shall safe be kept,
And truly yielded you. You’re very welcome.
Exeunt

ACT II
SCENE I. Britain. Before Cymbeline’s palace.

Enter CLOTEN and two Lords
CLOTEN

Was there ever man had such luck! when I kissed the
jack, upon an up-cast to be hit away! I had a
hundred pound on’t: and then a whoreson jackanapes
must take me up for swearing; as if I borrowed mine
oaths of him and might not spend them at my pleasure.
First Lord

What got he by that? You have broke his pate with
your bowl.
Second Lord

[Aside] If his wit had been like him that broke it,
it would have run all out.
CLOTEN

When a gentleman is disposed to swear, it is not for
any standers-by to curtail his oaths, ha?
Second Lord

No my lord;
Aside
nor crop the ears of them.
CLOTEN

Whoreson dog! I give him satisfaction?
Would he had been one of my rank!
Second Lord

[Aside] To have smelt like a fool.
CLOTEN

I am not vexed more at any thing in the earth: a
pox on’t! I had rather not be so noble as I am;
they dare not fight with me, because of the queen my
mother: every Jack-slave hath his bellyful of
fighting, and I must go up and down like a cock that
nobody can match.
Second Lord

[Aside] You are cock and capon too; and you crow,
cock, with your comb on.
CLOTEN

Sayest thou?
Second Lord

It is not fit your lordship should undertake every
companion that you give offence to.
CLOTEN

No, I know that: but it is fit I should commit
offence to my inferiors.
Second Lord

Ay, it is fit for your lordship only.
CLOTEN

Why, so I say.
First Lord

Did you hear of a stranger that’s come to court to-night?
CLOTEN

A stranger, and I not know on’t!
Second Lord

[Aside] He’s a strange fellow himself, and knows it
not.
First Lord

There’s an Italian come; and, ’tis thought, one of
Leonatus’ friends.
CLOTEN

Leonatus! a banished rascal; and he’s another,
whatsoever he be. Who told you of this stranger?
First Lord

One of your lordship’s pages.
CLOTEN

Is it fit I went to look upon him? is there no
derogation in’t?
Second Lord

You cannot derogate, my lord.
CLOTEN

Not easily, I think.
Second Lord

[Aside] You are a fool granted; therefore your
issues, being foolish, do not derogate.
CLOTEN

Come, I’ll go see this Italian: what I have lost
to-day at bowls I’ll win to-night of him. Come, go.
Second Lord

I’ll attend your lordship.
Exeunt CLOTEN and First Lord
That such a crafty devil as is his mother
Should yield the world this ass! a woman that
Bears all down with her brain; and this her son
Cannot take two from twenty, for his heart,
And leave eighteen. Alas, poor princess,
Thou divine Imogen, what thou endurest,
Betwixt a father by thy step-dame govern’d,
A mother hourly coining plots, a wooer
More hateful than the foul expulsion is
Of thy dear husband, than that horrid act
Of the divorce he’ld make! The heavens hold firm
The walls of thy dear honour, keep unshaked
That temple, thy fair mind, that thou mayst stand,
To enjoy thy banish’d lord and this great land!
Exit

SCENE II. Imogen’s bedchamber in Cymbeline’s palace:

a trunk in one corner of it.
IMOGEN in bed, reading; a Lady attending
IMOGEN

Who’s there? my woman Helen?
Lady

Please you, madam
IMOGEN

What hour is it?
Lady

Almost midnight, madam.
IMOGEN

I have read three hours then: mine eyes are weak:
Fold down the leaf where I have left: to bed:
Take not away the taper, leave it burning;
And if thou canst awake by four o’ the clock,
I prithee, call me. Sleep hath seized me wholly
Exit Lady
To your protection I commend me, gods.
From fairies and the tempters of the night
Guard me, beseech ye.
Sleeps. IACHIMO comes from the trunk
IACHIMO

The crickets sing, and man’s o’er-labour’d sense
Repairs itself by rest. Our Tarquin thus
Did softly press the rushes, ere he waken’d
The chastity he wounded. Cytherea,
How bravely thou becomest thy bed, fresh lily,
And whiter than the sheets! That I might touch!
But kiss; one kiss! Rubies unparagon’d,
How dearly they do’t! ‘Tis her breathing that
Perfumes the chamber thus: the flame o’ the taper
Bows toward her, and would under-peep her lids,
To see the enclosed lights, now canopied
Under these windows, white and azure laced
With blue of heaven’s own tinct. But my design,
To note the chamber: I will write all down:
Such and such pictures; there the window; such
The adornment of her bed; the arras; figures,
Why, such and such; and the contents o’ the story.
Ah, but some natural notes about her body,
Above ten thousand meaner moveables
Would testify, to enrich mine inventory.
O sleep, thou ape of death, lie dull upon her!
And be her sense but as a monument,
Thus in a chapel lying! Come off, come off:
Taking off her bracelet
As slippery as the Gordian knot was hard!
‘Tis mine; and this will witness outwardly,
As strongly as the conscience does within,
To the madding of her lord. On her left breast
A mole cinque-spotted, like the crimson drops
I’ the bottom of a cowslip: here’s a voucher,
Stronger than ever law could make: this secret
Will force him think I have pick’d the lock and ta’en
The treasure of her honour. No more. To what end?
Why should I write this down, that’s riveted,
Screw’d to my memory? She hath been reading late
The tale of Tereus; here the leaf’s turn’d down
Where Philomel gave up. I have enough:
To the trunk again, and shut the spring of it.
Swift, swift, you dragons of the night, that dawning
May bare the raven’s eye! I lodge in fear;
Though this a heavenly angel, hell is here.
Clock strikes
One, two, three: time, time!
Goes into the trunk. The scene closes
Scene III

An ante-chamber adjoining Imogen’s apartments.
Enter CLOTEN and Lords
First Lord

Your lordship is the most patient man in loss, the
most coldest that ever turned up ace.
CLOTEN

It would make any man cold to lose.
First Lord

But not every man patient after the noble temper of
your lordship. You are most hot and furious when you win.
CLOTEN

Winning will put any man into courage. If I could
get this foolish Imogen, I should have gold enough.
It’s almost morning, is’t not?
First Lord

Day, my lord.
CLOTEN

I would this music would come: I am advised to give
her music o’ mornings; they say it will penetrate.
Enter Musicians
Come on; tune: if you can penetrate her with your
fingering, so; we’ll try with tongue too: if none
will do, let her remain; but I’ll never give o’er.
First, a very excellent good-conceited thing;
after, a wonderful sweet air, with admirable rich
words to it: and then let her consider.
SONG
Hark, hark! the lark at heaven’s gate sings,
And Phoebus ‘gins arise,
His steeds to water at those springs
On chaliced flowers that lies;
And winking Mary-buds begin
To ope their golden eyes:
With every thing that pretty is,
My lady sweet, arise:
Arise, arise.
CLOTEN

So, get you gone. If this penetrate, I will
consider your music the better: if it do not, it is
a vice in her ears, which horse-hairs and
calves’-guts, nor the voice of unpaved eunuch to
boot, can never amend.
Exeunt Musicians
Second Lord

Here comes the king.
CLOTEN

I am glad I was up so late; for that’s the reason I
was up so early: he cannot choose but take this
service I have done fatherly.
Enter CYMBELINE and QUEEN
Good morrow to your majesty and to my gracious mother.
CYMBELINE

Attend you here the door of our stern daughter?
Will she not forth?
CLOTEN

I have assailed her with music, but she vouchsafes no notice.
CYMBELINE

The exile of her minion is too new;
She hath not yet forgot him: some more time
Must wear the print of his remembrance out,
And then she’s yours.
QUEEN

You are most bound to the king,
Who lets go by no vantages that may
Prefer you to his daughter. Frame yourself
To orderly soliciting, and be friended
With aptness of the season; make denials
Increase your services; so seem as if
You were inspired to do those duties which
You tender to her; that you in all obey her,
Save when command to your dismission tends,
And therein you are senseless.
CLOTEN

Senseless! not so.
Enter a Messenger
Messenger

So like you, sir, ambassadors from Rome;
The one is Caius Lucius.
CYMBELINE

A worthy fellow,
Albeit he comes on angry purpose now;
But that’s no fault of his: we must receive him
According to the honour of his sender;
And towards himself, his goodness forespent on us,
We must extend our notice. Our dear son,
When you have given good morning to your mistress,
Attend the queen and us; we shall have need
To employ you towards this Roman. Come, our queen.
Exeunt all but CLOTEN
CLOTEN

If she be up, I’ll speak with her; if not,
Let her lie still and dream.
Knocks
By your leave, ho!
I Know her women are about her: what
If I do line one of their hands? ‘Tis gold
Which buys admittance; oft it doth; yea, and makes
Diana’s rangers false themselves, yield up
Their deer to the stand o’ the stealer; and ’tis gold
Which makes the true man kill’d and saves the thief;
Nay, sometime hangs both thief and true man: what
Can it not do and undo? I will make
One of her women lawyer to me, for
I yet not understand the case myself.
Knocks
By your leave.
Enter a Lady
Lady

Who’s there that knocks?
CLOTEN

A gentleman.
Lady

No more?
CLOTEN

Yes, and a gentlewoman’s son.
Lady

That’s more
Than some, whose tailors are as dear as yours,
Can justly boast of. What’s your lordship’s pleasure?
CLOTEN

Your lady’s person: is she ready?
Lady

Ay,
To keep her chamber.
CLOTEN

There is gold for you;
Sell me your good report.
Lady

How! my good name? or to report of you
What I shall think is good?–The princess!
Enter IMOGEN
CLOTEN

Good morrow, fairest: sister, your sweet hand.
Exit Lady
IMOGEN

Good morrow, sir. You lay out too much pains
For purchasing but trouble; the thanks I give
Is telling you that I am poor of thanks
And scarce can spare them.
CLOTEN

Still, I swear I love you.
IMOGEN

If you but said so, ’twere as deep with me:
If you swear still, your recompense is still
That I regard it not.
CLOTEN

This is no answer.
IMOGEN

But that you shall not say I yield being silent,
I would not speak. I pray you, spare me: ‘faith,
I shall unfold equal discourtesy
To your best kindness: one of your great knowing
Should learn, being taught, forbearance.
CLOTEN

To leave you in your madness, ’twere my sin:
I will not.
IMOGEN

Fools are not mad folks.
CLOTEN

Do you call me fool?
IMOGEN

As I am mad, I do:
If you’ll be patient, I’ll no more be mad;
That cures us both. I am much sorry, sir,
You put me to forget a lady’s manners,
By being so verbal: and learn now, for all,
That I, which know my heart, do here pronounce,
By the very truth of it, I care not for you,
And am so near the lack of charity–
To accuse myself–I hate you; which I had rather
You felt than make’t my boast.
CLOTEN

You sin against
Obedience, which you owe your father. For
The contract you pretend with that base wretch,
One bred of alms and foster’d with cold dishes,
With scraps o’ the court, it is no contract, none:
And though it be allow’d in meaner parties–
Yet who than he more mean?–to knit their souls,
On whom there is no more dependency
But brats and beggary, in self-figured knot;
Yet you are curb’d from that enlargement by
The consequence o’ the crown, and must not soil
The precious note of it with a base slave.
A hilding for a livery, a squire’s cloth,
A pantler, not so eminent.
IMOGEN

Profane fellow
Wert thou the son of Jupiter and no more
But what thou art besides, thou wert too base
To be his groom: thou wert dignified enough,
Even to the point of envy, if ’twere made
Comparative for your virtues, to be styled
The under-hangman of his kingdom, and hated
For being preferred so well.
CLOTEN

The south-fog rot him!
IMOGEN

He never can meet more mischance than come
To be but named of thee. His meanest garment,
That ever hath but clipp’d his body, is dearer
In my respect than all the hairs above thee,
Were they all made such men. How now, Pisanio!
Enter PISANIO
CLOTEN

‘His garment!’ Now the devil–
IMOGEN

To Dorothy my woman hie thee presently–
CLOTEN

‘His garment!’
IMOGEN

I am sprited with a fool.
Frighted, and anger’d worse: go bid my woman
Search for a jewel that too casually
Hath left mine arm: it was thy master’s: ‘shrew me,
If I would lose it for a revenue
Of any king’s in Europe. I do think
I saw’t this morning: confident I am
Last night ’twas on mine arm; I kiss’d it:
I hope it be not gone to tell my lord
That I kiss aught but he.
PISANIO

‘Twill not be lost.
IMOGEN

I hope so: go and search.
Exit PISANIO
CLOTEN

You have abused me:
‘His meanest garment!’
IMOGEN

Ay, I said so, sir:
If you will make’t an action, call witness to’t.
CLOTEN

I will inform your father.
IMOGEN

Your mother too:
She’s my good lady, and will conceive, I hope,
But the worst of me. So, I leave you, sir,
To the worst of discontent.
Exit
CLOTEN

I’ll be revenged:
‘His meanest garment!’ Well.
Exit
CYMBELINE

SCENE IV. Rome. Philario’s house.

Enter POSTHUMUS and PHILARIO
POSTHUMUS LEONATUS

Fear it not, sir: I would I were so sure
To win the king as I am bold her honour
Will remain hers.
PHILARIO

What means do you make to him?
POSTHUMUS LEONATUS

Not any, but abide the change of time,
Quake in the present winter’s state and wish
That warmer days would come: in these sear’d hopes,
I barely gratify your love; they failing,
I must die much your debtor.
PHILARIO

Your very goodness and your company
O’erpays all I can do. By this, your king
Hath heard of great Augustus: Caius Lucius
Will do’s commission throughly: and I think
He’ll grant the tribute, send the arrearages,
Or look upon our Romans, whose remembrance
Is yet fresh in their grief.
POSTHUMUS LEONATUS

I do believe,
Statist though I am none, nor like to be,
That this will prove a war; and you shall hear
The legions now in Gallia sooner landed
In our not-fearing Britain than have tidings
Of any penny tribute paid. Our countrymen
Are men more order’d than when Julius Caesar
Smiled at their lack of skill, but found
their courage
Worthy his frowning at: their discipline,
Now mingled with their courages, will make known
To their approvers they are people such
That mend upon the world.
Enter IACHIMO
PHILARIO

See! Iachimo!
POSTHUMUS LEONATUS

The swiftest harts have posted you by land;
And winds of all the comers kiss’d your sails,
To make your vessel nimble.
PHILARIO

Welcome, sir.
POSTHUMUS LEONATUS

I hope the briefness of your answer made
The speediness of your return.
IACHIMO

Your lady
Is one of the fairest that I have look’d upon.
POSTHUMUS LEONATUS

And therewithal the best; or let her beauty
Look through a casement to allure false hearts
And be false with them.
IACHIMO

Here are letters for you.
POSTHUMUS LEONATUS

Their tenor good, I trust.
IACHIMO

‘Tis very like.
PHILARIO

Was Caius Lucius in the Britain court
When you were there?
IACHIMO

He was expected then,
But not approach’d.
POSTHUMUS LEONATUS

All is well yet.
Sparkles this stone as it was wont? or is’t not
Too dull for your good wearing?
IACHIMO

If I had lost it,
I should have lost the worth of it in gold.
I’ll make a journey twice as far, to enjoy
A second night of such sweet shortness which
Was mine in Britain, for the ring is won.
POSTHUMUS LEONATUS

The stone’s too hard to come by.
IACHIMO

Not a whit,
Your lady being so easy.
POSTHUMUS LEONATUS

Make not, sir,
Your loss your sport: I hope you know that we
Must not continue friends.
IACHIMO

Good sir, we must,
If you keep covenant. Had I not brought
The knowledge of your mistress home, I grant
We were to question further: but I now
Profess myself the winner of her honour,
Together with your ring; and not the wronger
Of her or you, having proceeded but
By both your wills.
POSTHUMUS LEONATUS

If you can make’t apparent
That you have tasted her in bed, my hand
And ring is yours; if not, the foul opinion
You had of her pure honour gains or loses
Your sword or mine, or masterless leaves both
To who shall find them.
IACHIMO

Sir, my circumstances,
Being so near the truth as I will make them,
Must first induce you to believe: whose strength
I will confirm with oath; which, I doubt not,
You’ll give me leave to spare, when you shall find
You need it not.
POSTHUMUS LEONATUS

Proceed.
IACHIMO

First, her bedchamber,–
Where, I confess, I slept not, but profess
Had that was well worth watching–it was hang’d
With tapesty of silk and silver; the story
Proud Cleopatra, when she met her Roman,
And Cydnus swell’d above the banks, or for
The press of boats or pride: a piece of work
So bravely done, so rich, that it did strive
In workmanship and value; which I wonder’d
Could be so rarely and exactly wrought,
Since the true life on’t was–
POSTHUMUS LEONATUS

This is true;
And this you might have heard of here, by me,
Or by some other.
IACHIMO

More particulars
Must justify my knowledge.
POSTHUMUS LEONATUS

So they must,
Or do your honour injury.
IACHIMO

The chimney
Is south the chamber, and the chimney-piece
Chaste Dian bathing: never saw I figures
So likely to report themselves: the cutter
Was as another nature, dumb; outwent her,
Motion and breath left out.
POSTHUMUS LEONATUS

This is a thing
Which you might from relation likewise reap,
Being, as it is, much spoke of.
IACHIMO

The roof o’ the chamber
With golden cherubins is fretted: her andirons–
I had forgot them–were two winking Cupids
Of silver, each on one foot standing, nicely
Depending on their brands.
POSTHUMUS LEONATUS

This is her honour!
Let it be granted you have seen all this–and praise
Be given to your remembrance–the description
Of what is in her chamber nothing saves
The wager you have laid.
IACHIMO

Then, if you can,
Showing the bracelet
Be pale: I beg but leave to air this jewel; see!
And now ’tis up again: it must be married
To that your diamond; I’ll keep them.
POSTHUMUS LEONATUS

Jove!
Once more let me behold it: is it that
Which I left with her?
IACHIMO

Sir–I thank her–that:
She stripp’d it from her arm; I see her yet;
Her pretty action did outsell her gift,
And yet enrich’d it too: she gave it me, and said
She prized it once.
POSTHUMUS LEONATUS

May be she pluck’d it off
To send it me.
IACHIMO

She writes so to you, doth she?
POSTHUMUS LEONATUS

O, no, no, no! ’tis true. Here, take this too;
Gives the ring
It is a basilisk unto mine eye,
Kills me to look on’t. Let there be no honour
Where there is beauty; truth, where semblance; love,
Where there’s another man: the vows of women
Of no more bondage be, to where they are made,
Than they are to their virtues; which is nothing.
O, above measure false!
PHILARIO

Have patience, sir,
And take your ring again; ’tis not yet won:
It may be probable she lost it; or
Who knows if one of her women, being corrupted,
Hath stol’n it from her?
POSTHUMUS LEONATUS

Very true;
And so, I hope, he came by’t. Back my ring:
Render to me some corporal sign about her,
More evident than this; for this was stolen.
IACHIMO

By Jupiter, I had it from her arm.
POSTHUMUS LEONATUS

Hark you, he swears; by Jupiter he swears.
‘Tis true:–nay, keep the ring–’tis true: I am sure
She would not lose it: her attendants are
All sworn and honourable:–they induced to steal it!
And by a stranger!–No, he hath enjoyed her:
The cognizance of her incontinency
Is this: she hath bought the name of whore
thus dearly.
There, take thy hire; and all the fiends of hell
Divide themselves between you!
PHILARIO

Sir, be patient:
This is not strong enough to be believed
Of one persuaded well of–
POSTHUMUS LEONATUS

Never talk on’t;
She hath been colted by him.
IACHIMO

If you seek
For further satisfying, under her breast–
Worthy the pressing–lies a mole, right proud
Of that most delicate lodging: by my life,
I kiss’d it; and it gave me present hunger
To feed again, though full. You do remember
This stain upon her?
POSTHUMUS LEONATUS

Ay, and it doth confirm
Another stain, as big as hell can hold,
Were there no more but it.
IACHIMO

Will you hear more?
POSTHUMUS LEONATUS

Spare your arithmetic: never count the turns;
Once, and a million!
IACHIMO

I’ll be sworn–
POSTHUMUS LEONATUS

No swearing.
If you will swear you have not done’t, you lie;
And I will kill thee, if thou dost deny
Thou’st made me cuckold.
IACHIMO

I’ll deny nothing.
POSTHUMUS LEONATUS

O, that I had her here, to tear her limb-meal!
I will go there and do’t, i’ the court, before
Her father. I’ll do something–
Exit
PHILARIO

Quite besides
The government of patience! You have won:
Let’s follow him, and pervert the present wrath
He hath against himself.
IACHIMO

With an my heart.
Exeunt

SCENE V. Another room in Philario’s house.

Enter POSTHUMUS LEONATUS
POSTHUMUS LEONATUS

Is there no way for men to be but women
Must be half-workers? We are all bastards;
And that most venerable man which I
Did call my father, was I know not where
When I was stamp’d; some coiner with his tools
Made me a counterfeit: yet my mother seem’d
The Dian of that time so doth my wife
The nonpareil of this. O, vengeance, vengeance!
Me of my lawful pleasure she restrain’d
And pray’d me oft forbearance; did it with
A pudency so rosy the sweet view on’t
Might well have warm’d old Saturn; that I thought her
As chaste as unsunn’d snow. O, all the devils!
This yellow Iachimo, in an hour,–wast not?–
Or less,–at first?–perchance he spoke not, but,
Like a full-acorn’d boar, a German one,
Cried ‘O!’ and mounted; found no opposition
But what he look’d for should oppose and she
Should from encounter guard. Could I find out
The woman’s part in me! For there’s no motion
That tends to vice in man, but I affirm
It is the woman’s part: be it lying, note it,
The woman’s; flattering, hers; deceiving, hers;
Lust and rank thoughts, hers, hers; revenges, hers;
Ambitions, covetings, change of prides, disdain,
Nice longing, slanders, mutability,
All faults that may be named, nay, that hell knows,
Why, hers, in part or all; but rather, all;
For even to vice
They are not constant but are changing still
One vice, but of a minute old, for one
Not half so old as that. I’ll write against them,
Detest them, curse them: yet ’tis greater skill
In a true hate, to pray they have their will:
The very devils cannot plague them better.
Exit

ACT III
SCENE I. Britain. A hall in Cymbeline’s palace.

Enter in state, CYMBELINE, QUEEN, CLOTEN, and Lords at one door, and at another, CAIUS LUCIUS and Attendants
CYMBELINE

Now say, what would Augustus Caesar with us?
CAIUS LUCIUS

When Julius Caesar, whose remembrance yet
Lives in men’s eyes and will to ears and tongues
Be theme and hearing ever, was in this Britain
And conquer’d it, Cassibelan, thine uncle,–
Famous in Caesar’s praises, no whit less
Than in his feats deserving it–for him
And his succession granted Rome a tribute,
Yearly three thousand pounds, which by thee lately
Is left untender’d.
QUEEN

And, to kill the marvel,
Shall be so ever.
CLOTEN

There be many Caesars,
Ere such another Julius. Britain is
A world by itself; and we will nothing pay
For wearing our own noses.
QUEEN

That opportunity
Which then they had to take from ‘s, to resume
We have again. Remember, sir, my liege,
The kings your ancestors, together with
The natural bravery of your isle, which stands
As Neptune’s park, ribbed and paled in
With rocks unscalable and roaring waters,
With sands that will not bear your enemies’ boats,
But suck them up to the topmast. A kind of conquest
Caesar made here; but made not here his brag
Of ‘Came’ and ‘saw’ and ‘overcame: ‘ with shame–
That first that ever touch’d him–he was carried
From off our coast, twice beaten; and his shipping–
Poor ignorant baubles!– upon our terrible seas,
Like egg-shells moved upon their surges, crack’d
As easily ‘gainst our rocks: for joy whereof
The famed Cassibelan, who was once at point–
O giglot fortune!–to master Caesar’s sword,
Made Lud’s town with rejoicing fires bright
And Britons strut with courage.
CLOTEN

Come, there’s no more tribute to be paid: our
kingdom is stronger than it was at that time; and,
as I said, there is no moe such Caesars: other of
them may have crook’d noses, but to owe such
straight arms, none.
CYMBELINE

Son, let your mother end.
CLOTEN

We have yet many among us can gripe as hard as
Cassibelan: I do not say I am one; but I have a
hand. Why tribute? why should we pay tribute? If
Caesar can hide the sun from us with a blanket, or
put the moon in his pocket, we will pay him tribute
for light; else, sir, no more tribute, pray you now.
CYMBELINE

You must know,
Till the injurious Romans did extort
This tribute from us, we were free:
Caesar’s ambition,
Which swell’d so much that it did almost stretch
The sides o’ the world, against all colour here
Did put the yoke upon ‘s; which to shake off
Becomes a warlike people, whom we reckon
Ourselves to be.
CLOTEN

Lords

We do.
CYMBELINE

Say, then, to Caesar,
Our ancestor was that Mulmutius which
Ordain’d our laws, whose use the sword of Caesar
Hath too much mangled; whose repair and franchise
Shall, by the power we hold, be our good deed,
Though Rome be therefore angry: Mulmutius made our laws,
Who was the first of Britain which did put
His brows within a golden crown and call’d
Himself a king.
CAIUS LUCIUS

I am sorry, Cymbeline,
That I am to pronounce Augustus Caesar–
Caesar, that hath more kings his servants than
Thyself domestic officers–thine enemy:
Receive it from me, then: war and confusion
In Caesar’s name pronounce I ‘gainst thee: look
For fury not to be resisted. Thus defied,
I thank thee for myself.
CYMBELINE

Thou art welcome, Caius.
Thy Caesar knighted me; my youth I spent
Much under him; of him I gather’d honour;
Which he to seek of me again, perforce,
Behoves me keep at utterance. I am perfect
That the Pannonians and Dalmatians for
Their liberties are now in arms; a precedent
Which not to read would show the Britons cold:
So Caesar shall not find them.
CAIUS LUCIUS

Let proof speak.
CLOTEN

His majesty bids you welcome. Make
pastime with us a day or two, or longer: if
you seek us afterwards in other terms, you
shall find us in our salt-water girdle: if you
beat us out of it, it is yours; if you fall in
the adventure, our crows shall fare the better
for you; and there’s an end.
CAIUS LUCIUS

So, sir.
CYMBELINE

I know your master’s pleasure and he mine:
All the remain is ‘Welcome!’
Exeunt

SCENE II. Another room in the palace.

Enter PISANIO, with a letter
PISANIO

How? of adultery? Wherefore write you not
What monster’s her accuser? Leonatus,
O master! what a strange infection
Is fall’n into thy ear! What false Italian,
As poisonous-tongued as handed, hath prevail’d
On thy too ready hearing? Disloyal! No:
She’s punish’d for her truth, and undergoes,
More goddess-like than wife-like, such assaults
As would take in some virtue. O my master!
Thy mind to her is now as low as were
Thy fortunes. How! that I should murder her?
Upon the love and truth and vows which I
Have made to thy command? I, her? her blood?
If it be so to do good service, never
Let me be counted serviceable. How look I,
That I should seem to lack humanity
so much as this fact comes to?
Reading
‘Do’t: the letter
that I have sent her, by her own command
Shall give thee opportunity.’ O damn’d paper!
Black as the ink that’s on thee! Senseless bauble,
Art thou a feodary for this act, and look’st
So virgin-like without? Lo, here she comes.
I am ignorant in what I am commanded.
Enter IMOGEN
IMOGEN

How now, Pisanio!
PISANIO

Madam, here is a letter from my lord.
IMOGEN

Who? thy lord? that is my lord, Leonatus!
O, learn’d indeed were that astronomer
That knew the stars as I his characters;
He’ld lay the future open. You good gods,
Let what is here contain’d relish of love,
Of my lord’s health, of his content, yet not
That we two are asunder; let that grieve him:
Some griefs are med’cinable; that is one of them,
For it doth physic love: of his content,
All but in that! Good wax, thy leave. Blest be
You bees that make these locks of counsel! Lovers
And men in dangerous bonds pray not alike:
Though forfeiters you cast in prison, yet
You clasp young Cupid’s tables. Good news, gods!
Reads
‘Justice, and your father’s wrath, should he take me
in his dominion, could not be so cruel to me, as
you, O the dearest of creatures, would even renew me
with your eyes. Take notice that I am in Cambria,
at Milford-Haven: what your own love will out of
this advise you, follow. So he wishes you all
happiness, that remains loyal to his vow, and your,
increasing in love,
LEONATUS POSTHUMUS.’
O, for a horse with wings! Hear’st thou, Pisanio?
He is at Milford-Haven: read, and tell me
How far ’tis thither. If one of mean affairs
May plod it in a week, why may not I
Glide thither in a day? Then, true Pisanio,–
Who long’st, like me, to see thy lord; who long’st,–
let me bate,-but not like me–yet long’st,
But in a fainter kind:–O, not like me;
For mine’s beyond beyond–say, and speak thick;
Love’s counsellor should fill the bores of hearing,
To the smothering of the sense–how far it is
To this same blessed Milford: and by the way
Tell me how Wales was made so happy as
To inherit such a haven: but first of all,
How we may steal from hence, and for the gap
That we shall make in time, from our hence-going
And our return, to excuse: but first, how get hence:
Why should excuse be born or e’er begot?
We’ll talk of that hereafter. Prithee, speak,
How many score of miles may we well ride
‘Twixt hour and hour?
PISANIO

One score ‘twixt sun and sun,
Madam, ‘s enough for you:
Aside
and too much too.
IMOGEN

Why, one that rode to’s execution, man,
Could never go so slow: I have heard of
riding wagers,
Where horses have been nimbler than the sands
That run i’ the clock’s behalf. But this is foolery:
Go bid my woman feign a sickness; say
She’ll home to her father: and provide me presently
A riding-suit, no costlier than would fit
A franklin’s housewife.
PISANIO

Madam, you’re best consider.
IMOGEN

I see before me, man: nor here, nor here,
Nor what ensues, but have a fog in them,
That I cannot look through. Away, I prithee;
Do as I bid thee: there’s no more to say,
Accessible is none but Milford way.
Exeunt

SCENE III. Wales: a mountainous country with a cave.

Enter, from the cave, BELARIUS; GUIDERIUS, and ARVIRAGUS following
BELARIUS

A goodly day not to keep house, with such
Whose roof’s as low as ours! Stoop, boys; this gate
Instructs you how to adore the heavens and bows you
To a morning’s holy office: the gates of monarchs
Are arch’d so high that giants may jet through
And keep their impious turbans on, without
Good morrow to the sun. Hail, thou fair heaven!
We house i’ the rock, yet use thee not so hardly
As prouder livers do.
GUIDERIUS

Hail, heaven!
ARVIRAGUS

Hail, heaven!
BELARIUS

Now for our mountain sport: up to yond hill;
Your legs are young; I’ll tread these flats. Consider,
When you above perceive me like a crow,
That it is place which lessens and sets off;
And you may then revolve what tales I have told you
Of courts, of princes, of the tricks in war:
This service is not service, so being done,
But being so allow’d: to apprehend thus,
Draws us a profit from all things we see;
And often, to our comfort, shall we find
The sharded beetle in a safer hold
Than is the full-wing’d eagle. O, this life
Is nobler than attending for a cheque,
Richer than doing nothing for a bauble,
Prouder than rustling in unpaid-for silk:
Such gain the cap of him that makes ’em fine,
Yet keeps his book uncross’d: no life to ours.
GUIDERIUS

Out of your proof you speak: we, poor unfledged,
Have never wing’d from view o’ the nest, nor know not
What air’s from home. Haply this life is best,
If quiet life be best; sweeter to you
That have a sharper known; well corresponding
With your stiff age: but unto us it is
A cell of ignorance; travelling a-bed;
A prison for a debtor, that not dares
To stride a limit.
ARVIRAGUS

What should we speak of
When we are old as you? when we shall hear
The rain and wind beat dark December, how,
In this our pinching cave, shall we discourse
The freezing hours away? We have seen nothing;
We are beastly, subtle as the fox for prey,
Like warlike as the wolf for what we eat;
Our valour is to chase what flies; our cage
We make a quire, as doth the prison’d bird,
And sing our bondage freely.
BELARIUS

How you speak!
Did you but know the city’s usuries
And felt them knowingly; the art o’ the court
As hard to leave as keep; whose top to climb
Is certain falling, or so slippery that
The fear’s as bad as falling; the toil o’ the war,
A pain that only seems to seek out danger
I’ the name of fame and honour; which dies i’
the search,
And hath as oft a slanderous epitaph
As record of fair act; nay, many times,
Doth ill deserve by doing well; what’s worse,
Must court’sy at the censure:–O boys, this story
The world may read in me: my body’s mark’d
With Roman swords, and my report was once
First with the best of note: Cymbeline loved me,
And when a soldier was the theme, my name
Was not far off: then was I as a tree
Whose boughs did bend with fruit: but in one night,
A storm or robbery, call it what you will,
Shook down my mellow hangings, nay, my leaves,
And left me bare to weather.
GUIDERIUS

Uncertain favour!
BELARIUS

My fault being nothing–as I have told you oft–
But that two villains, whose false oaths prevail’d
Before my perfect honour, swore to Cymbeline
I was confederate with the Romans: so
Follow’d my banishment, and this twenty years
This rock and these demesnes have been my world;
Where I have lived at honest freedom, paid
More pious debts to heaven than in all
The fore-end of my time. But up to the mountains!
This is not hunters’ language: he that strikes
The venison first shall be the lord o’ the feast;
To him the other two shall minister;
And we will fear no poison, which attends
In place of greater state. I’ll meet you in the valleys.
Exeunt GUIDERIUS and ARVIRAGUS
How hard it is to hide the sparks of nature!
These boys know little they are sons to the king;
Nor Cymbeline dreams that they are alive.
They think they are mine; and though train’d
up thus meanly
I’ the cave wherein they bow, their thoughts do hit
The roofs of palaces, and nature prompts them
In simple and low things to prince it much
Beyond the trick of others. This Polydore,
The heir of Cymbeline and Britain, who
The king his father call’d Guiderius,–Jove!
When on my three-foot stool I sit and tell
The warlike feats I have done, his spirits fly out
Into my story: say ‘Thus, mine enemy fell,
And thus I set my foot on ‘s neck;’ even then
The princely blood flows in his cheek, he sweats,
Strains his young nerves and puts himself in posture
That acts my words. The younger brother, Cadwal,
Once Arviragus, in as like a figure,
Strikes life into my speech and shows much more
His own conceiving.–Hark, the game is roused!
O Cymbeline! heaven and my conscience knows
Thou didst unjustly banish me: whereon,
At three and two years old, I stole these babes;
Thinking to bar thee of succession, as
Thou reft’st me of my lands. Euriphile,
Thou wast their nurse; they took thee for
their mother,
And every day do honour to her grave:
Myself, Belarius, that am Morgan call’d,
They take for natural father. The game is up.
Exit

SCENE IV. Country near Milford-Haven.

Enter PISANIO and IMOGEN
IMOGEN

Thou told’st me, when we came from horse, the place
Was near at hand: ne’er long’d my mother so
To see me first, as I have now. Pisanio! man!
Where is Posthumus? What is in thy mind,
That makes thee stare thus? Wherefore breaks that sigh
From the inward of thee? One, but painted thus,
Would be interpreted a thing perplex’d
Beyond self-explication: put thyself
Into a havior of less fear, ere wildness
Vanquish my staider senses. What’s the matter?
Why tender’st thou that paper to me, with
A look untender? If’t be summer news,
Smile to’t before; if winterly, thou need’st
But keep that countenance still. My husband’s hand!
That drug-damn’d Italy hath out-craftied him,
And he’s at some hard point. Speak, man: thy tongue
May take off some extremity, which to read
Would be even mortal to me.
PISANIO

Please you, read;
And you shall find me, wretched man, a thing
The most disdain’d of fortune.
IMOGEN

[Reads] ‘Thy mistress, Pisanio, hath played the
strumpet in my bed; the testimonies whereof lie
bleeding in me. I speak not out of weak surmises,
but from proof as strong as my grief and as certain
as I expect my revenge. That part thou, Pisanio,
must act for me, if thy faith be not tainted with
the breach of hers. Let thine own hands take away
her life: I shall give thee opportunity at
Milford-Haven. She hath my letter for the purpose
where, if thou fear to strike and to make me certain
it is done, thou art the pandar to her dishonour and
equally to me disloyal.’
PISANIO

What shall I need to draw my sword? the paper
Hath cut her throat already. No, ’tis slander,
Whose edge is sharper than the sword, whose tongue
Outvenoms all the worms of Nile, whose breath
Rides on the posting winds and doth belie
All corners of the world: kings, queens and states,
Maids, matrons, nay, the secrets of the grave
This viperous slander enters. What cheer, madam?
IMOGEN

False to his bed! What is it to be false?
To lie in watch there and to think on him?
To weep ‘twixt clock and clock? if sleep
charge nature,
To break it with a fearful dream of him
And cry myself awake? that’s false to’s bed, is it?
PISANIO

Alas, good lady!
IMOGEN

I false! Thy conscience witness: Iachimo,
Thou didst accuse him of incontinency;
Thou then look’dst like a villain; now methinks
Thy favour’s good enough. Some jay of Italy
Whose mother was her painting, hath betray’d him:
Poor I am stale, a garment out of fashion;
And, for I am richer than to hang by the walls,
I must be ripp’d:–to pieces with me!–O,
Men’s vows are women’s traitors! All good seeming,
By thy revolt, O husband, shall be thought
Put on for villany; not born where’t grows,
But worn a bait for ladies.
PISANIO

Good madam, hear me.
IMOGEN

True honest men being heard, like false Aeneas,
Were in his time thought false, and Sinon’s weeping
Did scandal many a holy tear, took pity
From most true wretchedness: so thou, Posthumus,
Wilt lay the leaven on all proper men;
Goodly and gallant shall be false and perjured
From thy great fall. Come, fellow, be thou honest:
Do thou thy master’s bidding: when thou see’st him,
A little witness my obedience: look!
I draw the sword myself: take it, and hit
The innocent mansion of my love, my heart;
Fear not; ’tis empty of all things but grief;
Thy master is not there, who was indeed
The riches of it: do his bidding; strike
Thou mayst be valiant in a better cause;
But now thou seem’st a coward.
PISANIO

Hence, vile instrument!
Thou shalt not damn my hand.
IMOGEN

Why, I must die;
And if I do not by thy hand, thou art
No servant of thy master’s. Against self-slaughter
There is a prohibition so divine
That cravens my weak hand. Come, here’s my heart.
Something’s afore’t. Soft, soft! we’ll no defence;
Obedient as the scabbard. What is here?
The scriptures of the loyal Leonatus,
All turn’d to heresy? Away, away,
Corrupters of my faith! you shall no more
Be stomachers to my heart. Thus may poor fools
Believe false teachers: though those that
are betray’d
Do feel the treason sharply, yet the traitor
Stands in worse case of woe.
And thou, Posthumus, thou that didst set up
My disobedience ‘gainst the king my father
And make me put into contempt the suits
Of princely fellows, shalt hereafter find
It is no act of common passage, but
A strain of rareness: and I grieve myself
To think, when thou shalt be disedged by her
That now thou tirest on, how thy memory
Will then be pang’d by me. Prithee, dispatch:
The lamb entreats the butcher: where’s thy knife?
Thou art too slow to do thy master’s bidding,
When I desire it too.
PISANIO

O gracious lady,
Since I received command to do this business
I have not slept one wink.
IMOGEN

Do’t, and to bed then.
PISANIO

I’ll wake mine eye-balls blind first.
IMOGEN

Wherefore then
Didst undertake it? Why hast thou abused
So many miles with a pretence? this place?
Mine action and thine own? our horses’ labour?
The time inviting thee? the perturb’d court,
For my being absent? whereunto I never
Purpose return. Why hast thou gone so far,
To be unbent when thou hast ta’en thy stand,
The elected deer before thee?
PISANIO

But to win time
To lose so bad employment; in the which
I have consider’d of a course. Good lady,
Hear me with patience.
IMOGEN

Talk thy tongue weary; speak
I have heard I am a strumpet; and mine ear
Therein false struck, can take no greater wound,
Nor tent to bottom that. But speak.
PISANIO

Then, madam,
I thought you would not back again.
IMOGEN

Most like;
Bringing me here to kill me.
PISANIO

Not so, neither:
But if I were as wise as honest, then
My purpose would prove well. It cannot be
But that my master is abused:
Some villain, ay, and singular in his art.
Hath done you both this cursed injury.
IMOGEN

Some Roman courtezan.
PISANIO

No, on my life.
I’ll give but notice you are dead and send him
Some bloody sign of it; for ’tis commanded
I should do so: you shall be miss’d at court,
And that will well confirm it.
IMOGEN

Why good fellow,
What shall I do the where? where bide? how live?
Or in my life what comfort, when I am
Dead to my husband?
PISANIO

If you’ll back to the court–
IMOGEN

No court, no father; nor no more ado
With that harsh, noble, simple nothing,
That Cloten, whose love-suit hath been to me
As fearful as a siege.
PISANIO

If not at court,
Then not in Britain must you bide.
IMOGEN

Where then
Hath Britain all the sun that shines? Day, night,
Are they not but in Britain? I’ the world’s volume
Our Britain seems as of it, but not in ‘t;
In a great pool a swan’s nest: prithee, think
There’s livers out of Britain.
PISANIO

I am most glad
You think of other place. The ambassador,
Lucius the Roman, comes to Milford-Haven
To-morrow: now, if you could wear a mind
Dark as your fortune is, and but disguise
That which, to appear itself, must not yet be
But by self-danger, you should tread a course
Pretty and full of view; yea, haply, near
The residence of Posthumus; so nigh at least
That though his actions were not visible, yet
Report should render him hourly to your ear
As truly as he moves.
IMOGEN

O, for such means!
Though peril to my modesty, not death on’t,
I would adventure.
PISANIO

Well, then, here’s the point:
You must forget to be a woman; change
Command into obedience: fear and niceness–
The handmaids of all women, or, more truly,
Woman its pretty self–into a waggish courage:
Ready in gibes, quick-answer’d, saucy and
As quarrelous as the weasel; nay, you must
Forget that rarest treasure of your cheek,
Exposing it–but, O, the harder heart!
Alack, no remedy!–to the greedy touch
Of common-kissing Titan, and forget
Your laboursome and dainty trims, wherein
You made great Juno angry.
IMOGEN

Nay, be brief
I see into thy end, and am almost
A man already.
PISANIO

First, make yourself but like one.
Fore-thinking this, I have already fit–
‘Tis in my cloak-bag–doublet, hat, hose, all
That answer to them: would you in their serving,
And with what imitation you can borrow
From youth of such a season, ‘fore noble Lucius
Present yourself, desire his service, tell him
wherein you’re happy,–which you’ll make him know,
If that his head have ear in music,–doubtless
With joy he will embrace you, for he’s honourable
And doubling that, most holy. Your means abroad,
You have me, rich; and I will never fail
Beginning nor supplyment.
IMOGEN

Thou art all the comfort
The gods will diet me with. Prithee, away:
There’s more to be consider’d; but we’ll even
All that good time will give us: this attempt
I am soldier to, and will abide it with
A prince’s courage. Away, I prithee.
PISANIO

Well, madam, we must take a short farewell,
Lest, being miss’d, I be suspected of
Your carriage from the court. My noble mistress,
Here is a box; I had it from the queen:
What’s in’t is precious; if you are sick at sea,
Or stomach-qualm’d at land, a dram of this
Will drive away distemper. To some shade,
And fit you to your manhood. May the gods
Direct you to the best!
IMOGEN

Amen: I thank thee.
Exeunt, severally

SCENE V. A room in Cymbeline’s palace.

Enter CYMBELINE, QUEEN, CLOTEN, LUCIUS, Lords, and Attendants
CYMBELINE

Thus far; and so farewell.
CAIUS LUCIUS

Thanks, royal sir.
My emperor hath wrote, I must from hence;
And am right sorry that I must report ye
My master’s enemy.
CYMBELINE

Our subjects, sir,
Will not endure his yoke; and for ourself
To show less sovereignty than they, must needs
Appear unkinglike.
CAIUS LUCIUS

So, sir: I desire of you
A conduct over-land to Milford-Haven.
Madam, all joy befal your grace!
QUEEN

And you!
CYMBELINE

My lords, you are appointed for that office;
The due of honour in no point omit.
So farewell, noble Lucius.
CAIUS LUCIUS

Your hand, my lord.
CLOTEN

Receive it friendly; but from this time forth
I wear it as your enemy.
CAIUS LUCIUS

Sir, the event
Is yet to name the winner: fare you well.
CYMBELINE

Leave not the worthy Lucius, good my lords,
Till he have cross’d the Severn. Happiness!
Exeunt LUCIUS and Lords
QUEEN

He goes hence frowning: but it honours us
That we have given him cause.
CLOTEN

‘Tis all the better;
Your valiant Britons have their wishes in it.
CYMBELINE

Lucius hath wrote already to the emperor
How it goes here. It fits us therefore ripely
Our chariots and our horsemen be in readiness:
The powers that he already hath in Gallia
Will soon be drawn to head, from whence he moves
His war for Britain.
QUEEN

‘Tis not sleepy business;
But must be look’d to speedily and strongly.
CYMBELINE

Our expectation that it would be thus
Hath made us forward. But, my gentle queen,
Where is our daughter? She hath not appear’d
Before the Roman, nor to us hath tender’d
The duty of the day: she looks us like
A thing more made of malice than of duty:
We have noted it. Call her before us; for
We have been too slight in sufferance.
Exit an Attendant
QUEEN

Royal sir,
Since the exile of Posthumus, most retired
Hath her life been; the cure whereof, my lord,
‘Tis time must do. Beseech your majesty,
Forbear sharp speeches to her: she’s a lady
So tender of rebukes that words are strokes
And strokes death to her.
Re-enter Attendant
CYMBELINE

Where is she, sir? How
Can her contempt be answer’d?
Attendant

Please you, sir,
Her chambers are all lock’d; and there’s no answer
That will be given to the loudest noise we make.
QUEEN

My lord, when last I went to visit her,
She pray’d me to excuse her keeping close,
Whereto constrain’d by her infirmity,
She should that duty leave unpaid to you,
Which daily she was bound to proffer: this
She wish’d me to make known; but our great court
Made me to blame in memory.
CYMBELINE

Her doors lock’d?
Not seen of late? Grant, heavens, that which I fear
Prove false!
Exit
QUEEN

Son, I say, follow the king.
CLOTEN

That man of hers, Pisanio, her old servant,
have not seen these two days.
QUEEN

Go, look after.
Exit CLOTEN
Pisanio, thou that stand’st so for Posthumus!
He hath a drug of mine; I pray his absence
Proceed by swallowing that, for he believes
It is a thing most precious. But for her,
Where is she gone? Haply, despair hath seized her,
Or, wing’d with fervor of her love, she’s flown
To her desired Posthumus: gone she is
To death or to dishonour; and my end
Can make good use of either: she being down,
I have the placing of the British crown.
Re-enter CLOTEN
How now, my son!
CLOTEN

‘Tis certain she is fled.
Go in and cheer the king: he rages; none
Dare come about him.
QUEEN

[Aside] All the better: may
This night forestall him of the coming day!
Exit
CLOTEN

I love and hate her: for she’s fair and royal,
And that she hath all courtly parts more exquisite
Than lady, ladies, woman; from every one
The best she hath, and she, of all compounded,
Outsells them all; I love her therefore: but
Disdaining me and throwing favours on
The low Posthumus slanders so her judgment
That what’s else rare is choked; and in that point
I will conclude to hate her, nay, indeed,
To be revenged upon her. For when fools Shall–
Enter PISANIO
Who is here? What, are you packing, sirrah?
Come hither: ah, you precious pander! Villain,
Where is thy lady? In a word; or else
Thou art straightway with the fiends.
PISANIO

O, good my lord!
CLOTEN

Where is thy lady? Or, by Jupiter,–
I will not ask again. Close villain,
I’ll have this secret from thy heart, or rip
Thy heart to find it. Is she with Posthumus?
From whose so many weights of baseness cannot
A dram of worth be drawn.
PISANIO

Alas, my lord,
How can she be with him? When was she missed?
He is in Rome.
CLOTEN

Where is she, sir? Come nearer;
No further halting: satisfy me home
What is become of her.
PISANIO

O, my all-worthy lord!
CLOTEN

All-worthy villain!
Discover where thy mistress is at once,
At the next word: no more of ‘worthy lord!’
Speak, or thy silence on the instant is
Thy condemnation and thy death.
PISANIO

Then, sir,
This paper is the history of my knowledge
Touching her flight.
Presenting a letter
CLOTEN

Let’s see’t. I will pursue her
Even to Augustus’ throne.
PISANIO

[Aside] Or this, or perish.
She’s far enough; and what he learns by this
May prove his travel, not her danger.
CLOTEN

Hum!
PISANIO

[Aside] I’ll write to my lord she’s dead. O Imogen,
Safe mayst thou wander, safe return again!
CLOTEN

Sirrah, is this letter true?
PISANIO

Sir, as I think.
CLOTEN

It is Posthumus’ hand; I know’t. Sirrah, if thou
wouldst not be a villain, but do me true service,
undergo those employments wherein I should have
cause to use thee with a serious industry, that is,
what villany soe’er I bid thee do, to perform it
directly and truly, I would think thee an honest
man: thou shouldst neither want my means for thy
relief nor my voice for thy preferment.
PISANIO

Well, my good lord.
CLOTEN

Wilt thou serve me? for since patiently and
constantly thou hast stuck to the bare fortune of
that beggar Posthumus, thou canst not, in the
course of gratitude, but be a diligent follower of
mine: wilt thou serve me?
PISANIO

Sir, I will.
CLOTEN

Give me thy hand; here’s my purse. Hast any of thy
late master’s garments in thy possession?
PISANIO

I have, my lord, at my lodging, the same suit he
wore when he took leave of my lady and mistress.
CLOTEN

The first service thou dost me, fetch that suit
hither: let it be thy lint service; go.
PISANIO

I shall, my lord.
Exit
CLOTEN

Meet thee at Milford-Haven!–I forgot to ask him one
thing; I’ll remember’t anon:–even there, thou
villain Posthumus, will I kill thee. I would these
garments were come. She said upon a time–the
bitterness of it I now belch from my heart–that she
held the very garment of Posthumus in more respect
than my noble and natural person together with the
adornment of my qualities. With that suit upon my
back, will I ravish her: first kill him, and in her
eyes; there shall she see my valour, which will then
be a torment to her contempt. He on the ground, my
speech of insultment ended on his dead body, and
when my lust hath dined,–which, as I say, to vex
her I will execute in the clothes that she so
praised,–to the court I’ll knock her back, foot
her home again. She hath despised me rejoicingly,
and I’ll be merry in my revenge.
Re-enter PISANIO, with the clothes
Be those the garments?
PISANIO

Ay, my noble lord.
CLOTEN

How long is’t since she went to Milford-Haven?
PISANIO

She can scarce be there yet.
CLOTEN

Bring this apparel to my chamber; that is the second
thing that I have commanded thee: the third is,
that thou wilt be a voluntary mute to my design. Be
but duteous, and true preferment shall tender itself
to thee. My revenge is now at Milford: would I had
wings to follow it! Come, and be true.
Exit
PISANIO

Thou bid’st me to my loss: for true to thee
Were to prove false, which I will never be,
To him that is most true. To Milford go,
And find not her whom thou pursuest. Flow, flow,
You heavenly blessings, on her! This fool’s speed
Be cross’d with slowness; labour be his meed!
Exit

SCENE VI. Wales. Before the cave of Belarius.

Enter IMOGEN, in boy’s clothes
IMOGEN

I see a man’s life is a tedious one:
I have tired myself, and for two nights together
Have made the ground my bed. I should be sick,
But that my resolution helps me. Milford,
When from the mountain-top Pisanio show’d thee,
Thou wast within a ken: O Jove! I think
Foundations fly the wretched; such, I mean,
Where they should be relieved. Two beggars told me
I could not miss my way: will poor folks lie,
That have afflictions on them, knowing ’tis
A punishment or trial? Yes; no wonder,
When rich ones scarce tell true. To lapse in fulness
Is sorer than to lie for need, and falsehood
Is worse in kings than beggars. My dear lord!
Thou art one o’ the false ones. Now I think on thee,
My hunger’s gone; but even before, I was
At point to sink for food. But what is this?
Here is a path to’t: ’tis some savage hold:
I were best not to call; I dare not call:
yet famine,
Ere clean it o’erthrow nature, makes it valiant,
Plenty and peace breeds cowards: hardness ever
Of hardiness is mother. Ho! who’s here?
If any thing that’s civil, speak; if savage,
Take or lend. Ho! No answer? Then I’ll enter.
Best draw my sword: and if mine enemy
But fear the sword like me, he’ll scarcely look on’t.
Such a foe, good heavens!
Exit, to the cave
Enter BELARIUS, GUIDERIUS, and ARVIRAGUS
BELARIUS

You, Polydote, have proved best woodman and
Are master of the feast: Cadwal and I
Will play the cook and servant; ’tis our match:
The sweat of industry would dry and die,
But for the end it works to. Come; our stomachs
Will make what’s homely savoury: weariness
Can snore upon the flint, when resty sloth
Finds the down pillow hard. Now peace be here,
Poor house, that keep’st thyself!
GUIDERIUS

I am thoroughly weary.
ARVIRAGUS

I am weak with toil, yet strong in appetite.
GUIDERIUS

There is cold meat i’ the cave; we’ll browse on that,
Whilst what we have kill’d be cook’d.
BELARIUS

[Looking into the cave]
Stay; come not in.
But that it eats our victuals, I should think
Here were a fairy.
GUIDERIUS

What’s the matter, sir?
BELARIUS

By Jupiter, an angel! or, if not,
An earthly paragon! Behold divineness
No elder than a boy!
Re-enter IMOGEN
IMOGEN

Good masters, harm me not:
Before I enter’d here, I call’d; and thought
To have begg’d or bought what I have took:
good troth,
I have stol’n nought, nor would not, though I had found
Gold strew’d i’ the floor. Here’s money for my meat:
I would have left it on the board so soon
As I had made my meal, and parted
With prayers for the provider.
GUIDERIUS

Money, youth?
ARVIRAGUS

All gold and silver rather turn to dirt!
As ’tis no better reckon’d, but of those
Who worship dirty gods.
IMOGEN

I see you’re angry:
Know, if you kill me for my fault, I should
Have died had I not made it.
BELARIUS

Whither bound?
IMOGEN

To Milford-Haven.
BELARIUS

What’s your name?
IMOGEN

Fidele, sir. I have a kinsman who
Is bound for Italy; he embark’d at Milford;
To whom being going, almost spent with hunger,
I am fall’n in this offence.
BELARIUS

Prithee, fair youth,
Think us no churls, nor measure our good minds
By this rude place we live in. Well encounter’d!
‘Tis almost night: you shall have better cheer
Ere you depart: and thanks to stay and eat it.
Boys, bid him welcome.
GUIDERIUS

Were you a woman, youth,
I should woo hard but be your groom. In honesty,
I bid for you as I’d buy.
ARVIRAGUS

I’ll make’t my comfort
He is a man; I’ll love him as my brother:
And such a welcome as I’d give to him
After long absence, such is yours: most welcome!
Be sprightly, for you fall ‘mongst friends.
IMOGEN

‘Mongst friends,
If brothers.
Aside
Would it had been so, that they
Had been my father’s sons! then had my prize
Been less, and so more equal ballasting
To thee, Posthumus.
BELARIUS

He wrings at some distress.
GUIDERIUS

Would I could free’t!
ARVIRAGUS

Or I, whate’er it be,
What pain it cost, what danger. God’s!
BELARIUS

Hark, boys.
Whispering
IMOGEN

Great men,
That had a court no bigger than this cave,
That did attend themselves and had the virtue
Which their own conscience seal’d them–laying by
That nothing-gift of differing multitudes–
Could not out-peer these twain. Pardon me, gods!
I’d change my sex to be companion with them,
Since Leonatus’s false.
BELARIUS

It shall be so.
Boys, we’ll go dress our hunt. Fair youth, come in:
Discourse is heavy, fasting; when we have supp’d,
We’ll mannerly demand thee of thy story,
So far as thou wilt speak it.
GUIDERIUS

Pray, draw near.
ARVIRAGUS

The night to the owl and morn to the lark
less welcome.
IMOGEN

Thanks, sir.
ARVIRAGUS

I pray, draw near.
Exeunt

SCENE VII. Rome. A public place.

Enter two Senators and Tribunes
First Senator

This is the tenor of the emperor’s writ:
That since the common men are now in action
‘Gainst the Pannonians and Dalmatians,
And that the legions now in Gallia are
Full weak to undertake our wars against
The fall’n-off Britons, that we do incite
The gentry to this business. He creates
Lucius preconsul: and to you the tribunes,
For this immediate levy, he commends
His absolute commission. Long live Caesar!
First Tribune

Is Lucius general of the forces?
Second Senator

Ay.
First Tribune

Remaining now in Gallia?
First Senator

With those legions
Which I have spoke of, whereunto your levy
Must be supplyant: the words of your commission
Will tie you to the numbers and the time
Of their dispatch.
First Tribune

We will discharge our duty.
Exeunt

ACT IV
SCENE I. Wales: near the cave of Belarius.

Enter CLOTEN
CLOTEN

I am near to the place where they should meet, if
Pisanio have mapped it truly. How fit his garments
serve me! Why should his mistress, who was made by
him that made the tailor, not be fit too? the
rather–saving reverence of the word–for ’tis said
a woman’s fitness comes by fits. Therein I must
play the workman. I dare speak it to myself–for it
is not vain-glory for a man and his glass to confer
in his own chamber–I mean, the lines of my body are
as well drawn as his; no less young, more strong,
not beneath him in fortunes, beyond him in the
advantage of the time, above him in birth, alike
conversant in general services, and more remarkable
in single oppositions: yet this imperceiverant
thing loves him in my despite. What mortality is!
Posthumus, thy head, which now is growing upon thy
shoulders, shall within this hour be off; thy
mistress enforced; thy garments cut to pieces before
thy face: and all this done, spurn her home to her
father; who may haply be a little angry for my so
rough usage; but my mother, having power of his
testiness, shall turn all into my commendations. My
horse is tied up safe: out, sword, and to a sore
purpose! Fortune, put them into my hand! This is
the very description of their meeting-place; and
the fellow dares not deceive me.
Exit

SCENE II. Before the cave of Belarius.

Enter, from the cave, BELARIUS, GUIDERIUS, ARVIRAGUS, and IMOGEN
BELARIUS

[To IMOGEN] You are not well: remain here in the cave;
We’ll come to you after hunting.
ARVIRAGUS

[To IMOGEN] Brother, stay here
Are we not brothers?
IMOGEN

So man and man should be;
But clay and clay differs in dignity,
Whose dust is both alike. I am very sick.
GUIDERIUS

Go you to hunting; I’ll abide with him.
IMOGEN

So sick I am not, yet I am not well;
But not so citizen a wanton as
To seem to die ere sick: so please you, leave me;
Stick to your journal course: the breach of custom
Is breach of all. I am ill, but your being by me
Cannot amend me; society is no comfort
To one not sociable: I am not very sick,
Since I can reason of it. Pray you, trust me here:
I’ll rob none but myself; and let me die,
Stealing so poorly.
GUIDERIUS

I love thee; I have spoke it
How much the quantity, the weight as much,
As I do love my father.
BELARIUS

What! how! how!
ARVIRAGUS

If it be sin to say so, I yoke me
In my good brother’s fault: I know not why
I love this youth; and I have heard you say,
Love’s reason’s without reason: the bier at door,
And a demand who is’t shall die, I’d say
‘My father, not this youth.’
BELARIUS

[Aside] O noble strain!
O worthiness of nature! breed of greatness!
Cowards father cowards and base things sire base:
Nature hath meal and bran, contempt and grace.
I’m not their father; yet who this should be,
Doth miracle itself, loved before me.
‘Tis the ninth hour o’ the morn.
ARVIRAGUS

Brother, farewell.
IMOGEN

I wish ye sport.
ARVIRAGUS

You health. So please you, sir.
IMOGEN

[Aside] These are kind creatures. Gods, what lies
I have heard!
Our courtiers say all’s savage but at court:
Experience, O, thou disprovest report!
The imperious seas breed monsters, for the dish
Poor tributary rivers as sweet fish.
I am sick still; heart-sick. Pisanio,
I’ll now taste of thy drug.
Swallows some
GUIDERIUS

I could not stir him:
He said he was gentle, but unfortunate;
Dishonestly afflicted, but yet honest.
ARVIRAGUS

Thus did he answer me: yet said, hereafter
I might know more.
BELARIUS

To the field, to the field!
We’ll leave you for this time: go in and rest.
ARVIRAGUS

We’ll not be long away.
BELARIUS

Pray, be not sick,
For you must be our housewife.
IMOGEN

Well or ill,
I am bound to you.
BELARIUS

And shalt be ever.
Exit IMOGEN, to the cave
This youth, how’er distress’d, appears he hath had
Good ancestors.
ARVIRAGUS

How angel-like he sings!
GUIDERIUS

But his neat cookery! he cut our roots
In characters,
And sauced our broths, as Juno had been sick
And he her dieter.
ARVIRAGUS

Nobly he yokes
A smiling with a sigh, as if the sigh
Was that it was, for not being such a smile;
The smile mocking the sigh, that it would fly
From so divine a temple, to commix
With winds that sailors rail at.
GUIDERIUS

I do note
That grief and patience, rooted in him both,
Mingle their spurs together.
ARVIRAGUS

Grow, patience!
And let the stinking elder, grief, untwine
His perishing root with the increasing vine!
BELARIUS

It is great morning. Come, away!–
Who’s there?
Enter CLOTEN
CLOTEN

I cannot find those runagates; that villain
Hath mock’d me. I am faint.
BELARIUS

‘Those runagates!’
Means he not us? I partly know him: ’tis
Cloten, the son o’ the queen. I fear some ambush.
I saw him not these many years, and yet
I know ’tis he. We are held as outlaws: hence!
GUIDERIUS

He is but one: you and my brother search
What companies are near: pray you, away;
Let me alone with him.
Exeunt BELARIUS and ARVIRAGUS
CLOTEN

Soft! What are you
That fly me thus? some villain mountaineers?
I have heard of such. What slave art thou?
GUIDERIUS

A thing
More slavish did I ne’er than answering
A slave without a knock.
CLOTEN

Thou art a robber,
A law-breaker, a villain: yield thee, thief.
GUIDERIUS

To who? to thee? What art thou? Have not I
An arm as big as thine? a heart as big?
Thy words, I grant, are bigger, for I wear not
My dagger in my mouth. Say what thou art,
Why I should yield to thee?
CLOTEN

Thou villain base,
Know’st me not by my clothes?
GUIDERIUS

No, nor thy tailor, rascal,
Who is thy grandfather: he made those clothes,
Which, as it seems, make thee.
CLOTEN

Thou precious varlet,
My tailor made them not.
GUIDERIUS

Hence, then, and thank
The man that gave them thee. Thou art some fool;
I am loath to beat thee.
CLOTEN

Thou injurious thief,
Hear but my name, and tremble.
GUIDERIUS

What’s thy name?
CLOTEN

Cloten, thou villain.
GUIDERIUS

Cloten, thou double villain, be thy name,
I cannot tremble at it: were it Toad, or
Adder, Spider,
‘Twould move me sooner.
CLOTEN

To thy further fear,
Nay, to thy mere confusion, thou shalt know
I am son to the queen.
GUIDERIUS

I am sorry for ‘t; not seeming
So worthy as thy birth.
CLOTEN

Art not afeard?
GUIDERIUS

Those that I reverence those I fear, the wise:
At fools I laugh, not fear them.
CLOTEN

Die the death:
When I have slain thee with my proper hand,
I’ll follow those that even now fled hence,
And on the gates of Lud’s-town set your heads:
Yield, rustic mountaineer.
Exeunt, fighting
Re-enter BELARIUS and ARVIRAGUS
BELARIUS

No companies abroad?
ARVIRAGUS

None in the world: you did mistake him, sure.
BELARIUS

I cannot tell: long is it since I saw him,
But time hath nothing blurr’d those lines of favour
Which then he wore; the snatches in his voice,
And burst of speaking, were as his: I am absolute
‘Twas very Cloten.
ARVIRAGUS

In this place we left them:
I wish my brother make good time with him,
You say he is so fell.
BELARIUS

Being scarce made up,
I mean, to man, he had not apprehension
Of roaring terrors; for the effect of judgment
Is oft the cause of fear. But, see, thy brother.
Re-enter GUIDERIUS, with CLOTEN’S head
GUIDERIUS

This Cloten was a fool, an empty purse;
There was no money in’t: not Hercules
Could have knock’d out his brains, for he had none:
Yet I not doing this, the fool had borne
My head as I do his.
BELARIUS

What hast thou done?
GUIDERIUS

I am perfect what: cut off one Cloten’s head,
Son to the queen, after his own report;
Who call’d me traitor, mountaineer, and swore
With his own single hand he’ld take us in
Displace our heads where–thank the gods!–they grow,
And set them on Lud’s-town.
BELARIUS

We are all undone.
GUIDERIUS

Why, worthy father, what have we to lose,
But that he swore to take, our lives? The law
Protects not us: then why should we be tender
To let an arrogant piece of flesh threat us,
Play judge and executioner all himself,
For we do fear the law? What company
Discover you abroad?
BELARIUS

No single soul
Can we set eye on; but in all safe reason
He must have some attendants. Though his humour
Was nothing but mutation, ay, and that
From one bad thing to worse; not frenzy, not
Absolute madness could so far have raved
To bring him here alone; although perhaps
It may be heard at court that such as we
Cave here, hunt here, are outlaws, and in time
May make some stronger head; the which he hearing–
As it is like him–might break out, and swear
He’ld fetch us in; yet is’t not probable
To come alone, either he so undertaking,
Or they so suffering: then on good ground we fear,
If we do fear this body hath a tail
More perilous than the head.
ARVIRAGUS

Let ordinance
Come as the gods foresay it: howsoe’er,
My brother hath done well.
BELARIUS

I had no mind
To hunt this day: the boy Fidele’s sickness
Did make my way long forth.
GUIDERIUS

With his own sword,
Which he did wave against my throat, I have ta’en
His head from him: I’ll throw’t into the creek
Behind our rock; and let it to the sea,
And tell the fishes he’s the queen’s son, Cloten:
That’s all I reck.
Exit
BELARIUS

I fear ’twill be revenged:
Would, Polydote, thou hadst not done’t! though valour
Becomes thee well enough.
ARVIRAGUS

Would I had done’t
So the revenge alone pursued me! Polydore,
I love thee brotherly, but envy much
Thou hast robb’d me of this deed: I would revenges,
That possible strength might meet, would seek us through
And put us to our answer.
BELARIUS

Well, ’tis done:
We’ll hunt no more to-day, nor seek for danger
Where there’s no profit. I prithee, to our rock;
You and Fidele play the cooks: I’ll stay
Till hasty Polydote return, and bring him
To dinner presently.
ARVIRAGUS

Poor sick Fidele!
I’ll weringly to him: to gain his colour
I’ld let a parish of such Clotens’ blood,
And praise myself for charity.
Exit
BELARIUS

O thou goddess,
Thou divine Nature, how thyself thou blazon’st
In these two princely boys! They are as gentle
As zephyrs blowing below the violet,
Not wagging his sweet head; and yet as rough,
Their royal blood enchafed, as the rudest wind,
That by the top doth take the mountain pine,
And make him stoop to the vale. ‘Tis wonder
That an invisible instinct should frame them
To royalty unlearn’d, honour untaught,
Civility not seen from other, valour
That wildly grows in them, but yields a crop
As if it had been sow’d. Yet still it’s strange
What Cloten’s being here to us portends,
Or what his death will bring us.
Re-enter GUIDERIUS
GUIDERIUS

Where’s my brother?
I have sent Cloten’s clotpoll down the stream,
In embassy to his mother: his body’s hostage
For his return.
Solemn music
BELARIUS

My ingenious instrument!
Hark, Polydore, it sounds! But what occasion
Hath Cadwal now to give it motion? Hark!
GUIDERIUS

Is he at home?
BELARIUS

He went hence even now.
GUIDERIUS

What does he mean? since death of my dear’st mother
it did not speak before. All solemn things
Should answer solemn accidents. The matter?
Triumphs for nothing and lamenting toys
Is jollity for apes and grief for boys.
Is Cadwal mad?
BELARIUS

Look, here he comes,
And brings the dire occasion in his arms
Of what we blame him for.
Re-enter ARVIRAGUS, with IMOGEN, as dead, bearing her in his arms
ARVIRAGUS

The bird is dead
That we have made so much on. I had rather
Have skipp’d from sixteen years of age to sixty,
To have turn’d my leaping-time into a crutch,
Than have seen this.
GUIDERIUS

O sweetest, fairest lily!
My brother wears thee not the one half so well
As when thou grew’st thyself.
BELARIUS

O melancholy!
Who ever yet could sound thy bottom? find
The ooze, to show what coast thy sluggish crare
Might easiliest harbour in? Thou blessed thing!
Jove knows what man thou mightst have made; but I,
Thou diedst, a most rare boy, of melancholy.
How found you him?
ARVIRAGUS

Stark, as you see:
Thus smiling, as some fly hid tickled slumber,
Not as death’s dart, being laugh’d at; his
right cheek
Reposing on a cushion.
GUIDERIUS

Where?
ARVIRAGUS

O’ the floor;
His arms thus leagued: I thought he slept, and put
My clouted brogues from off my feet, whose rudeness
Answer’d my steps too loud.
GUIDERIUS

Why, he but sleeps:
If he be gone, he’ll make his grave a bed;
With female fairies will his tomb be haunted,
And worms will not come to thee.
ARVIRAGUS

With fairest flowers
Whilst summer lasts and I live here, Fidele,
I’ll sweeten thy sad grave: thou shalt not lack
The flower that’s like thy face, pale primrose, nor
The azured harebell, like thy veins, no, nor
The leaf of eglantine, whom not to slander,
Out-sweeten’d not thy breath: the ruddock would,
With charitable bill,–O bill, sore-shaming
Those rich-left heirs that let their fathers lie
Without a monument!–bring thee all this;
Yea, and furr’d moss besides, when flowers are none,
To winter-ground thy corse.
GUIDERIUS

Prithee, have done;
And do not play in wench-like words with that
Which is so serious. Let us bury him,
And not protract with admiration what
Is now due debt. To the grave!
ARVIRAGUS

Say, where shall’s lay him?
GUIDERIUS

By good Euriphile, our mother.
ARVIRAGUS

Be’t so:
And let us, Polydore, though now our voices
Have got the mannish crack, sing him to the ground,
As once our mother; use like note and words,
Save that Euriphile must be Fidele.
GUIDERIUS

Cadwal,
I cannot sing: I’ll weep, and word it with thee;
For notes of sorrow out of tune are worse
Than priests and fanes that lie.
ARVIRAGUS

We’ll speak it, then.
BELARIUS

Great griefs, I see, medicine the less; for Cloten
Is quite forgot. He was a queen’s son, boys;
And though he came our enemy, remember
He was paid for that: though mean and
mighty, rotting
Together, have one dust, yet reverence,
That angel of the world, doth make distinction
Of place ‘tween high and low. Our foe was princely
And though you took his life, as being our foe,
Yet bury him as a prince.
GUIDERIUS

Pray You, fetch him hither.
Thersites’ body is as good as Ajax’,
When neither are alive.
ARVIRAGUS

If you’ll go fetch him,
We’ll say our song the whilst. Brother, begin.
Exit BELARIUS
GUIDERIUS

Nay, Cadwal, we must lay his head to the east;
My father hath a reason for’t.
ARVIRAGUS

‘Tis true.
GUIDERIUS

Come on then, and remove him.
ARVIRAGUS

So. Begin.
SONG
GUIDERIUS

Fear no more the heat o’ the sun,
Nor the furious winter’s rages;
Thou thy worldly task hast done,
Home art gone, and ta’en thy wages:
Golden lads and girls all must,
As chimney-sweepers, come to dust.
ARVIRAGUS

Fear no more the frown o’ the great;
Thou art past the tyrant’s stroke;
Care no more to clothe and eat;
To thee the reed is as the oak:
The sceptre, learning, physic, must
All follow this, and come to dust.
GUIDERIUS

Fear no more the lightning flash,
ARVIRAGUS

Nor the all-dreaded thunder-stone;
GUIDERIUS

Fear not slander, censure rash;
ARVIRAGUS

Thou hast finish’d joy and moan:
GUIDERIUS

ARVIRAGUS

All lovers young, all lovers must
Consign to thee, and come to dust.
GUIDERIUS

No exorciser harm thee!
ARVIRAGUS

Nor no witchcraft charm thee!
GUIDERIUS

Ghost unlaid forbear thee!
ARVIRAGUS

Nothing ill come near thee!
GUIDERIUS

ARVIRAGUS

Quiet consummation have;
And renowned be thy grave!
Re-enter BELARIUS, with the body of CLOTEN
GUIDERIUS

We have done our obsequies: come, lay him down.
BELARIUS

Here’s a few flowers; but ’bout midnight, more:
The herbs that have on them cold dew o’ the night
Are strewings fitt’st for graves. Upon their faces.
You were as flowers, now wither’d: even so
These herblets shall, which we upon you strew.
Come on, away: apart upon our knees.
The ground that gave them first has them again:
Their pleasures here are past, so is their pain.
Exeunt BELARIUS, GUIDERIUS, and ARVIRAGUS
IMOGEN

[Awaking] Yes, sir, to Milford-Haven; which is
the way?–
I thank you.–By yond bush?–Pray, how far thither?
‘Ods pittikins! can it be six mile yet?–
I have gone all night. ‘Faith, I’ll lie down and sleep.
But, soft! no bedfellow!–O god s and goddesses!
Seeing the body of CLOTEN
These flowers are like the pleasures of the world;
This bloody man, the care on’t. I hope I dream;
For so I thought I was a cave-keeper,
And cook to honest creatures: but ’tis not so;
‘Twas but a bolt of nothing, shot at nothing,
Which the brain makes of fumes: our very eyes
Are sometimes like our judgments, blind. Good faith,
I tremble stiff with fear: but if there be
Yet left in heaven as small a drop of pity
As a wren’s eye, fear’d gods, a part of it!
The dream’s here still: even when I wake, it is
Without me, as within me; not imagined, felt.
A headless man! The garments of Posthumus!
I know the shape of’s leg: this is his hand;
His foot Mercurial; his Martial thigh;
The brawns of Hercules: but his Jovial face
Murder in heaven?–How!–‘Tis gone. Pisanio,
All curses madded Hecuba gave the Greeks,
And mine to boot, be darted on thee! Thou,
Conspired with that irregulous devil, Cloten,
Hast here cut off my lord. To write and read
Be henceforth treacherous! Damn’d Pisanio
Hath with his forged letters,–damn’d Pisanio–
From this most bravest vessel of the world
Struck the main-top! O Posthumus! alas,
Where is thy head? where’s that? Ay me!
where’s that?
Pisanio might have kill’d thee at the heart,
And left this head on. How should this be? Pisanio?
‘Tis he and Cloten: malice and lucre in them
Have laid this woe here. O, ’tis pregnant, pregnant!
The drug he gave me, which he said was precious
And cordial to me, have I not found it
Murderous to the senses? That confirms it home:
This is Pisanio’s deed, and Cloten’s: O!
Give colour to my pale cheek with thy blood,
That we the horrider may seem to those
Which chance to find us: O, my lord, my lord!
Falls on the body
Enter LUCIUS, a Captain and other Officers, and a Soothsayer
Captain

To them the legions garrison’d in Gailia,
After your will, have cross’d the sea, attending
You here at Milford-Haven with your ships:
They are in readiness.
CAIUS LUCIUS

But what from Rome?
Captain

The senate hath stirr’d up the confiners
And gentlemen of Italy, most willing spirits,
That promise noble service: and they come
Under the conduct of bold Iachimo,
Syenna’s brother.
CAIUS LUCIUS

When expect you them?
Captain

With the next benefit o’ the wind.
CAIUS LUCIUS

This forwardness
Makes our hopes fair. Command our present numbers
Be muster’d; bid the captains look to’t. Now, sir,
What have you dream’d of late of this war’s purpose?
Soothsayer

Last night the very gods show’d me a vision–
I fast and pray’d for their intelligence–thus:
I saw Jove’s bird, the Roman eagle, wing’d
From the spongy south to this part of the west,
There vanish’d in the sunbeams: which portends–
Unless my sins abuse my divination–
Success to the Roman host.
CAIUS LUCIUS

Dream often so,
And never false. Soft, ho! what trunk is here
Without his top? The ruin speaks that sometime
It was a worthy building. How! a page!
Or dead, or sleeping on him? But dead rather;
For nature doth abhor to make his bed
With the defunct, or sleep upon the dead.
Let’s see the boy’s face.
Captain

He’s alive, my lord.
CAIUS LUCIUS

He’ll then instruct us of this body. Young one,
Inform us of thy fortunes, for it seems
They crave to be demanded. Who is this
Thou makest thy bloody pillow? Or who was he
That, otherwise than noble nature did,
Hath alter’d that good picture? What’s thy interest
In this sad wreck? How came it? Who is it?
What art thou?
IMOGEN

I am nothing: or if not,
Nothing to be were better. This was my master,
A very valiant Briton and a good,
That here by mountaineers lies slain. Alas!
There is no more such masters: I may wander
From east to occident, cry out for service,
Try many, all good, serve truly, never
Find such another master.
CAIUS LUCIUS

‘Lack, good youth!
Thou movest no less with thy complaining than
Thy master in bleeding: say his name, good friend.
IMOGEN

Richard du Champ.
Aside
If I do lie and do
No harm by it, though the gods hear, I hope
They’ll pardon it.–Say you, sir?
CAIUS LUCIUS

Thy name?
IMOGEN

Fidele, sir.
CAIUS LUCIUS

Thou dost approve thyself the very same:
Thy name well fits thy faith, thy faith thy name.
Wilt take thy chance with me? I will not say
Thou shalt be so well master’d, but, be sure,
No less beloved. The Roman emperor’s letters,
Sent by a consul to me, should not sooner
Than thine own worth prefer thee: go with me.
IMOGEN

I’ll follow, sir. But first, an’t please the gods,
I’ll hide my master from the flies, as deep
As these poor pickaxes can dig; and when
With wild wood-leaves and weeds I ha’ strew’d his grave,
And on it said a century of prayers,
Such as I can, twice o’er, I’ll weep and sigh;
And leaving so his service, follow you,
So please you entertain me.
CAIUS LUCIUS

Ay, good youth!
And rather father thee than master thee.
My friends,
The boy hath taught us manly duties: let us
Find out the prettiest daisied plot we can,
And make him with our pikes and partisans
A grave: come, arm him. Boy, he is preferr’d
By thee to us, and he shall be interr’d
As soldiers can. Be cheerful; wipe thine eyes
Some falls are means the happier to arise.
Exeunt

SCENE III. A room in Cymbeline’s palace.

Enter CYMBELINE, Lords, PISANIO, and Attendants
CYMBELINE

Again; and bring me word how ’tis with her.
Exit an Attendant
A fever with the absence of her son,
A madness, of which her life’s in danger. Heavens,
How deeply you at once do touch me! Imogen,
The great part of my comfort, gone; my queen
Upon a desperate bed, and in a time
When fearful wars point at me; her son gone,
So needful for this present: it strikes me, past
The hope of comfort. But for thee, fellow,
Who needs must know of her departure and
Dost seem so ignorant, we’ll enforce it from thee
By a sharp torture.
PISANIO

Sir, my life is yours;
I humbly set it at your will; but, for my mistress,
I nothing know where she remains, why gone,
Nor when she purposes return. Beseech your highness,
Hold me your loyal servant.
First Lord

Good my liege,
The day that she was missing he was here:
I dare be bound he’s true and shall perform
All parts of his subjection loyally. For Cloten,
There wants no diligence in seeking him,
And will, no doubt, be found.
CYMBELINE

The time is troublesome.
To PISANIO
We’ll slip you for a season; but our jealousy
Does yet depend.
First Lord

So please your majesty,
The Roman legions, all from Gallia drawn,
Are landed on your coast, with a supply
Of Roman gentlemen, by the senate sent.
CYMBELINE

Now for the counsel of my son and queen!
I am amazed with matter.
First Lord

Good my liege,
Your preparation can affront no less
Than what you hear of: come more, for more
you’re ready:
The want is but to put those powers in motion
That long to move.
CYMBELINE

I thank you. Let’s withdraw;
And meet the time as it seeks us. We fear not
What can from Italy annoy us; but
We grieve at chances here. Away!
Exeunt all but PISANIO
PISANIO

I heard no letter from my master since
I wrote him Imogen was slain: ’tis strange:
Nor hear I from my mistress who did promise
To yield me often tidings: neither know I
What is betid to Cloten; but remain
Perplex’d in all. The heavens still must work.
Wherein I am false I am honest; not true, to be true.
These present wars shall find I love my country,
Even to the note o’ the king, or I’ll fall in them.
All other doubts, by time let them be clear’d:
Fortune brings in some boats that are not steer’d.
Exit

SCENE IV. Wales: before the cave of Belarius.

Enter BELARIUS, GUIDERIUS, and ARVIRAGUS.
GUIDERIUS

The noise is round about us.
BELARIUS

Let us from it.
ARVIRAGUS

What pleasure, sir, find we in life, to lock it
From action and adventure?
GUIDERIUS

Nay, what hope
Have we in hiding us? This way, the Romans
Must or for Britons slay us, or receive us
For barbarous and unnatural revolts
During their use, and slay us after.
BELARIUS

Sons,
We’ll higher to the mountains; there secure us.
To the king’s party there’s no going: newness
Of Cloten’s death–we being not known, not muster’d
Among the bands–may drive us to a render
Where we have lived, and so extort from’s that
Which we have done, whose answer would be death
Drawn on with torture.
GUIDERIUS

This is, sir, a doubt
In such a time nothing becoming you,
Nor satisfying us.
ARVIRAGUS

It is not likely
That when they hear the Roman horses neigh,
Behold their quarter’d fires, have both their eyes
And ears so cloy’d importantly as now,
That they will waste their time upon our note,
To know from whence we are.
BELARIUS

O, I am known
Of many in the army: many years,
Though Cloten then but young, you see, not wore him
From my remembrance. And, besides, the king
Hath not deserved my service nor your loves;
Who find in my exile the want of breeding,
The certainty of this hard life; aye hopeless
To have the courtesy your cradle promised,
But to be still hot summer’s tamings and
The shrinking slaves of winter.
GUIDERIUS

Than be so
Better to cease to be. Pray, sir, to the army:
I and my brother are not known; yourself
So out of thought, and thereto so o’ergrown,
Cannot be question’d.
ARVIRAGUS

By this sun that shines,
I’ll thither: what thing is it that I never
Did see man die! scarce ever look’d on blood,
But that of coward hares, hot goats, and venison!
Never bestrid a horse, save one that had
A rider like myself, who ne’er wore rowel
Nor iron on his heel! I am ashamed
To look upon the holy sun, to have
The benefit of his blest beams, remaining
So long a poor unknown.
GUIDERIUS

By heavens, I’ll go:
If you will bless me, sir, and give me leave,
I’ll take the better care, but if you will not,
The hazard therefore due fall on me by
The hands of Romans!
ARVIRAGUS

So say I amen.
BELARIUS

No reason I, since of your lives you set
So slight a valuation, should reserve
My crack’d one to more care. Have with you, boys!
If in your country wars you chance to die,
That is my bed too, lads, an there I’ll lie:
Lead, lead.
Aside
The time seems long; their blood
thinks scorn,
Till it fly out and show them princes born.
Exeunt

ACT V
SCENE I. Britain. The Roman camp.

Enter POSTHUMUS, with a bloody handkerchief
POSTHUMUS LEONATUS

Yea, bloody cloth, I’ll keep thee, for I wish’d
Thou shouldst be colour’d thus. You married ones,
If each of you should take this course, how many
Must murder wives much better than themselves
For wrying but a little! O Pisanio!
Every good servant does not all commands:
No bond but to do just ones. Gods! if you
Should have ta’en vengeance on my faults, I never
Had lived to put on this: so had you saved
The noble Imogen to repent, and struck
Me, wretch more worth your vengeance. But, alack,
You snatch some hence for little faults; that’s love,
To have them fall no more: you some permit
To second ills with ills, each elder worse,
And make them dread it, to the doers’ thrift.
But Imogen is your own: do your best wills,
And make me blest to obey! I am brought hither
Among the Italian gentry, and to fight
Against my lady’s kingdom: ’tis enough
That, Britain, I have kill’d thy mistress; peace!
I’ll give no wound to thee. Therefore, good heavens,
Hear patiently my purpose: I’ll disrobe me
Of these Italian weeds and suit myself
As does a Briton peasant: so I’ll fight
Against the part I come with; so I’ll die
For thee, O Imogen, even for whom my life
Is every breath a death; and thus, unknown,
Pitied nor hated, to the face of peril
Myself I’ll dedicate. Let me make men know
More valour in me than my habits show.
Gods, put the strength o’ the Leonati in me!
To shame the guise o’ the world, I will begin
The fashion, less without and more within.
Exit

SCENE II. Field of battle between the British and Roman camps.

Enter, from one side, LUCIUS, IACHIMO, and the Roman Army: from the other side, the British Army; POSTHUMUS LEONATUS following, like a poor soldier. They march over and go out. Then enter again, in skirmish, IACHIMO and POSTHUMUS LEONATUS he vanquisheth and disarmeth IACHIMO, and then leaves him
IACHIMO

The heaviness and guilt within my bosom
Takes off my manhood: I have belied a lady,
The princess of this country, and the air on’t
Revengingly enfeebles me; or could this carl,
A very drudge of nature’s, have subdued me
In my profession? Knighthoods and honours, borne
As I wear mine, are titles but of scorn.
If that thy gentry, Britain, go before
This lout as he exceeds our lords, the odds
Is that we scarce are men and you are gods.
Exit
The battle continues; the Britons fly; CYMBELINE is taken: then enter, to his rescue, BELARIUS, GUIDERIUS, and ARVIRAGUS
BELARIUS

Stand, stand! We have the advantage of the ground;
The lane is guarded: nothing routs us but
The villany of our fears.
GUIDERIUS

ARVIRAGUS

Stand, stand, and fight!
Re-enter POSTHUMUS LEONATUS, and seconds the Britons: they rescue CYMBELINE, and exeunt. Then re-enter LUCIUS, and IACHIMO, with IMOGEN
CAIUS LUCIUS

Away, boy, from the troops, and save thyself;
For friends kill friends, and the disorder’s such
As war were hoodwink’d.
IACHIMO

‘Tis their fresh supplies.
CAIUS LUCIUS

It is a day turn’d strangely: or betimes
Let’s reinforce, or fly.
Exeunt

SCENE III. Another part of the field.

Enter POSTHUMUS LEONATUS and a British Lord
Lord

Camest thou from where they made the stand?
POSTHUMUS LEONATUS

I did.
Though you, it seems, come from the fliers.
Lord

I did.
POSTHUMUS LEONATUS

No blame be to you, sir; for all was lost,
But that the heavens fought: the king himself
Of his wings destitute, the army broken,
And but the backs of Britons seen, all flying
Through a straight lane; the enemy full-hearted,
Lolling the tongue with slaughtering, having work
More plentiful than tools to do’t, struck down
Some mortally, some slightly touch’d, some falling
Merely through fear; that the straight pass was damm’d
With dead men hurt behind, and cowards living
To die with lengthen’d shame.
Lord

Where was this lane?
POSTHUMUS LEONATUS

Close by the battle, ditch’d, and wall’d with turf;
Which gave advantage to an ancient soldier,
An honest one, I warrant; who deserved
So long a breeding as his white beard came to,
In doing this for’s country: athwart the lane,
He, with two striplings-lads more like to run
The country base than to commit such slaughter
With faces fit for masks, or rather fairer
Than those for preservation cased, or shame–
Made good the passage; cried to those that fled,
‘Our Britain s harts die flying, not our men:
To darkness fleet souls that fly backwards. Stand;
Or we are Romans and will give you that
Like beasts which you shun beastly, and may save,
But to look back in frown: stand, stand.’
These three,
Three thousand confident, in act as many–
For three performers are the file when all
The rest do nothing–with this word ‘Stand, stand,’
Accommodated by the place, more charming
With their own nobleness, which could have turn’d
A distaff to a lance, gilded pale looks,
Part shame, part spirit renew’d; that some,
turn’d coward
But by example–O, a sin in war,
Damn’d in the first beginners!–gan to look
The way that they did, and to grin like lions
Upon the pikes o’ the hunters. Then began
A stop i’ the chaser, a retire, anon
A rout, confusion thick; forthwith they fly
Chickens, the way which they stoop’d eagles; slaves,
The strides they victors made: and now our cowards,
Like fragments in hard voyages, became
The life o’ the need: having found the backdoor open
Of the unguarded hearts, heavens, how they wound!
Some slain before; some dying; some their friends
O’er borne i’ the former wave: ten, chased by one,
Are now each one the slaughter-man of twenty:
Those that would die or ere resist are grown
The mortal bugs o’ the field.
Lord

This was strange chance
A narrow lane, an old man, and two boys.
POSTHUMUS LEONATUS

Nay, do not wonder at it: you are made
Rather to wonder at the things you hear
Than to work any. Will you rhyme upon’t,
And vent it for a mockery? Here is one:
‘Two boys, an old man twice a boy, a lane,
Preserved the Britons, was the Romans’ bane.’
Lord

Nay, be not angry, sir.
POSTHUMUS LEONATUS

‘Lack, to what end?
Who dares not stand his foe, I’ll be his friend;
For if he’ll do as he is made to do,
I know he’ll quickly fly my friendship too.
You have put me into rhyme.
Lord

Farewell; you’re angry.
POSTHUMUS LEONATUS

Still going?
Exit Lord
This is a lord! O noble misery,
To be i’ the field, and ask ‘what news?’ of me!
To-day how many would have given their honours
To have saved their carcasses! took heel to do’t,
And yet died too! I, in mine own woe charm’d,
Could not find death where I did hear him groan,
Nor feel him where he struck: being an ugly monster,
‘Tis strange he hides him in fresh cups, soft beds,
Sweet words; or hath more ministers than we
That draw his knives i’ the war. Well, I will find him
For being now a favourer to the Briton,
No more a Briton, I have resumed again
The part I came in: fight I will no more,
But yield me to the veriest hind that shall
Once touch my shoulder. Great the slaughter is
Here made by the Roman; great the answer be
Britons must take. For me, my ransom’s death;
On either side I come to spend my breath;
Which neither here I’ll keep nor bear again,
But end it by some means for Imogen.
Enter two British Captains and Soldiers
First Captain

Great Jupiter be praised! Lucius is taken.
‘Tis thought the old man and his sons were angels.
Second Captain

There was a fourth man, in a silly habit,
That gave the affront with them.
First Captain

So ’tis reported:
But none of ’em can be found. Stand! who’s there?
POSTHUMUS LEONATUS

A Roman,
Who had not now been drooping here, if seconds
Had answer’d him.
Second Captain

Lay hands on him; a dog!
A leg of Rome shall not return to tell
What crows have peck’d them here. He brags
his service
As if he were of note: bring him to the king.
Enter CYMBELINE, BELARIUS, GUIDERIUS, ARVIRAGUS, PISANIO, Soldiers, Attendants, and Roman Captives. The Captains present POSTHUMUS LEONATUS to CYMBELINE, who delivers him over to a Gaoler: then exeunt omnes

SCENE IV. A British prison.

Enter POSTHUMUS LEONATUS and two Gaolers
First Gaoler

You shall not now be stol’n, you have locks upon you;
So graze as you find pasture.
Second Gaoler

Ay, or a stomach.
Exeunt Gaolers
POSTHUMUS LEONATUS

Most welcome, bondage! for thou art away,
think, to liberty: yet am I better
Than one that’s sick o’ the gout; since he had rather
Groan so in perpetuity than be cured
By the sure physician, death, who is the key
To unbar these locks. My conscience, thou art fetter’d
More than my shanks and wrists: you good gods, give me
The penitent instrument to pick that bolt,
Then, free for ever! Is’t enough I am sorry?
So children temporal fathers do appease;
Gods are more full of mercy. Must I repent?
I cannot do it better than in gyves,
Desired more than constrain’d: to satisfy,
If of my freedom ’tis the main part, take
No stricter render of me than my all.
I know you are more clement than vile men,
Who of their broken debtors take a third,
A sixth, a tenth, letting them thrive again
On their abatement: that’s not my desire:
For Imogen’s dear life take mine; and though
‘Tis not so dear, yet ’tis a life; you coin’d it:
‘Tween man and man they weigh not every stamp;
Though light, take pieces for the figure’s sake:
You rather mine, being yours: and so, great powers,
If you will take this audit, take this life,
And cancel these cold bonds. O Imogen!
I’ll speak to thee in silence.
Sleeps
Solemn music. Enter, as in an apparition, SICILIUS LEONATUS, father to Posthumus Leonatus, an old man, attired like a warrior; leading in his hand an ancient matron, his wife, and mother to Posthumus Leonatus, with music before them: then, after other music, follow the two young Leonati, brothers to Posthumus Leonatus, with wounds as they died in the wars. They circle Posthumus Leonatus round, as he lies sleeping
Sicilius Leonatus

No more, thou thunder-master, show
Thy spite on mortal flies:
With Mars fall out, with Juno chide,
That thy adulteries
Rates and revenges.
Hath my poor boy done aught but well,
Whose face I never saw?
I died whilst in the womb he stay’d
Attending nature’s law:
Whose father then, as men report
Thou orphans’ father art,
Thou shouldst have been, and shielded him
From this earth-vexing smart.
Mother

Lucina lent not me her aid,
But took me in my throes;
That from me was Posthumus ript,
Came crying ‘mongst his foes,
A thing of pity!
Sicilius Leonatus

Great nature, like his ancestry,
Moulded the stuff so fair,
That he deserved the praise o’ the world,
As great Sicilius’ heir.
First Brother

When once he was mature for man,
In Britain where was he
That could stand up his parallel;
Or fruitful object be
In eye of Imogen, that best
Could deem his dignity?
Mother

With marriage wherefore was he mock’d,
To be exiled, and thrown
From Leonati seat, and cast
From her his dearest one,
Sweet Imogen?
Sicilius Leonatus

Why did you suffer Iachimo,
Slight thing of Italy,
To taint his nobler heart and brain
With needless jealosy;
And to become the geck and scorn
O’ th’ other’s villany?
Second Brother

For this from stiller seats we came,
Our parents and us twain,
That striking in our country’s cause
Fell bravely and were slain,
Our fealty and Tenantius’ right
With honour to maintain.
First Brother

Like hardiment Posthumus hath
To Cymbeline perform’d:
Then, Jupiter, thou king of gods,
Why hast thou thus adjourn’d
The graces for his merits due,
Being all to dolours turn’d?
Sicilius Leonatus

Thy crystal window ope; look out;
No longer exercise
Upon a valiant race thy harsh
And potent injuries.
Mother

Since, Jupiter, our son is good,
Take off his miseries.
Sicilius Leonatus

Peep through thy marble mansion; help;
Or we poor ghosts will cry
To the shining synod of the rest
Against thy deity.
First Brother

Second Brother

Help, Jupiter; or we appeal,
And from thy justice fly.
Jupiter descends in thunder and lightning, sitting upon an eagle: he throws a thunderbolt. The Apparitions fall on their knees
Jupiter

No more, you petty spirits of region low,
Offend our hearing; hush! How dare you ghosts
Accuse the thunderer, whose bolt, you know,
Sky-planted batters all rebelling coasts?
Poor shadows of Elysium, hence, and rest
Upon your never-withering banks of flowers:
Be not with mortal accidents opprest;
No care of yours it is; you know ’tis ours.
Whom best I love I cross; to make my gift,
The more delay’d, delighted. Be content;
Your low-laid son our godhead will uplift:
His comforts thrive, his trials well are spent.
Our Jovial star reign’d at his birth, and in
Our temple was he married. Rise, and fade.
He shall be lord of lady Imogen,
And happier much by his affliction made.
This tablet lay upon his breast, wherein
Our pleasure his full fortune doth confine:
and so, away: no further with your din
Express impatience, lest you stir up mine.
Mount, eagle, to my palace crystalline.
Ascends
Sicilius Leonatus

He came in thunder; his celestial breath
Was sulphurous to smell: the holy eagle
Stoop’d as to foot us: his ascension is
More sweet than our blest fields: his royal bird
Prunes the immortal wing and cloys his beak,
As when his god is pleased.
All

Thanks, Jupiter!
Sicilius Leonatus

The marble pavement closes, he is enter’d
His radiant root. Away! and, to be blest,
Let us with care perform his great behest.
The Apparitions vanish
Posthumus Leonatus

[Waking] Sleep, thou hast been a grandsire, and begot
A father to me; and thou hast created
A mother and two brothers: but, O scorn!
Gone! they went hence so soon as they were born:
And so I am awake. Poor wretches that depend
On greatness’ favour dream as I have done,
Wake and find nothing. But, alas, I swerve:
Many dream not to find, neither deserve,
And yet are steep’d in favours: so am I,
That have this golden chance and know not why.
What fairies haunt this ground? A book? O rare one!
Be not, as is our fangled world, a garment
Nobler than that it covers: let thy effects
So follow, to be most unlike our courtiers,
As good as promise.
Reads
‘When as a lion’s whelp shall, to himself unknown,
without seeking find, and be embraced by a piece of
tender air; and when from a stately cedar shall be
lopped branches, which, being dead many years,
shall after revive, be jointed to the old stock and
freshly grow; then shall Posthumus end his miseries,
Britain be fortunate and flourish in peace and plenty.’
‘Tis still a dream, or else such stuff as madmen
Tongue and brain not; either both or nothing;
Or senseless speaking or a speaking such
As sense cannot untie. Be what it is,
The action of my life is like it, which
I’ll keep, if but for sympathy.
Re-enter First Gaoler
First Gaoler

Come, sir, are you ready for death?
POSTHUMUS LEONATUS

Over-roasted rather; ready long ago.
First Gaoler

Hanging is the word, sir: if
you be ready for that, you are well cooked.
POSTHUMUS LEONATUS

So, if I prove a good repast to the
spectators, the dish pays the shot.
First Gaoler

A heavy reckoning for you, sir. But the comfort is,
you shall be called to no more payments, fear no
more tavern-bills; which are often the sadness of
parting, as the procuring of mirth: you come in
flint for want of meat, depart reeling with too
much drink; sorry that you have paid too much, and
sorry that you are paid too much; purse and brain
both empty; the brain the heavier for being too
light, the purse too light, being drawn of
heaviness: of this contradiction you shall now be
quit. O, the charity of a penny cord! It sums up
thousands in a trice: you have no true debitor and
creditor but it; of what’s past, is, and to come,
the discharge: your neck, sir, is pen, book and
counters; so the acquittance follows.
POSTHUMUS LEONATUS

I am merrier to die than thou art to live.
First Gaoler

Indeed, sir, he that sleeps feels not the
tooth-ache: but a man that were to sleep your
sleep, and a hangman to help him to bed, I think he
would change places with his officer; for, look you,
sir, you know not which way you shall go.
POSTHUMUS LEONATUS

Yes, indeed do I, fellow.
First Gaoler

Your death has eyes in ‘s head then; I have not seen
him so pictured: you must either be directed by
some that take upon them to know, or do take upon
yourself that which I am sure you do not know, or
jump the after inquiry on your own peril: and how
you shall speed in your journey’s end, I think you’ll
never return to tell one.
POSTHUMUS LEONATUS

I tell thee, fellow, there are none want eyes to
direct them the way I am going, but such as wink and
will not use them.
First Gaoler

What an infinite mock is this, that a man should
have the best use of eyes to see the way of
blindness! I am sure hanging’s the way of winking.
Enter a Messenger
Messenger

Knock off his manacles; bring your prisoner to the king.
POSTHUMUS LEONATUS

Thou bring’st good news; I am called to be made free.
First Gaoler

I’ll be hang’d then.
POSTHUMUS LEONATUS

Thou shalt be then freer than a gaoler; no bolts for the dead.
Exeunt POSTHUMUS LEONATUS and Messenger
First Gaoler

Unless a man would marry a gallows and beget young
gibbets, I never saw one so prone. Yet, on my
conscience, there are verier knaves desire to live,
for all he be a Roman: and there be some of them
too that die against their wills; so should I, if I
were one. I would we were all of one mind, and one
mind good; O, there were desolation of gaolers and
gallowses! I speak against my present profit, but
my wish hath a preferment in ‘t.
Exeunt

SCENE V. Cymbeline’s tent.

Enter CYMBELINE, BELARIUS, GUIDERIUS, ARVIRAGUS, PISANIO, Lords, Officers, and Attendants
CYMBELINE

Stand by my side, you whom the gods have made
Preservers of my throne. Woe is my heart
That the poor soldier that so richly fought,
Whose rags shamed gilded arms, whose naked breast
Stepp’d before larges of proof, cannot be found:
He shall be happy that can find him, if
Our grace can make him so.
BELARIUS

I never saw
Such noble fury in so poor a thing;
Such precious deeds in one that promises nought
But beggary and poor looks.
CYMBELINE

No tidings of him?
PISANIO

He hath been search’d among the dead and living,
But no trace of him.
CYMBELINE

To my grief, I am
The heir of his reward;
To BELARIUS, GUIDERIUS, and ARVIRAGUS
which I will add
To you, the liver, heart and brain of Britain,
By whom I grant she lives. ‘Tis now the time
To ask of whence you are. Report it.
BELARIUS

Sir,
In Cambria are we born, and gentlemen:
Further to boast were neither true nor modest,
Unless I add, we are honest.
CYMBELINE

Bow your knees.
Arise my knights o’ the battle: I create you
Companions to our person and will fit you
With dignities becoming your estates.
Enter CORNELIUS and Ladies
There’s business in these faces. Why so sadly
Greet you our victory? you look like Romans,
And not o’ the court of Britain.
CORNELIUS

Hail, great king!
To sour your happiness, I must report
The queen is dead.
CYMBELINE

Who worse than a physician
Would this report become? But I consider,
By medicine life may be prolong’d, yet death
Will seize the doctor too. How ended she?
CORNELIUS

With horror, madly dying, like her life,
Which, being cruel to the world, concluded
Most cruel to herself. What she confess’d
I will report, so please you: these her women
Can trip me, if I err; who with wet cheeks
Were present when she finish’d.
CYMBELINE

Prithee, say.
CORNELIUS

First, she confess’d she never loved you, only
Affected greatness got by you, not you:
Married your royalty, was wife to your place;
Abhorr’d your person.
CYMBELINE

She alone knew this;
And, but she spoke it dying, I would not
Believe her lips in opening it. Proceed.
CORNELIUS

Your daughter, whom she bore in hand to love
With such integrity, she did confess
Was as a scorpion to her sight; whose life,
But that her flight prevented it, she had
Ta’en off by poison.
CYMBELINE

O most delicate fiend!
Who is ‘t can read a woman? Is there more?
CORNELIUS

More, sir, and worse. She did confess she had
For you a mortal mineral; which, being took,
Should by the minute feed on life and lingering
By inches waste you: in which time she purposed,
By watching, weeping, tendance, kissing, to
O’ercome you with her show, and in time,
When she had fitted you with her craft, to work
Her son into the adoption of the crown:
But, failing of her end by his strange absence,
Grew shameless-desperate; open’d, in despite
Of heaven and men, her purposes; repented
The evils she hatch’d were not effected; so
Despairing died.
CYMBELINE

Heard you all this, her women?
First Lady

We did, so please your highness.
CYMBELINE

Mine eyes
Were not in fault, for she was beautiful;
Mine ears, that heard her flattery; nor my heart,
That thought her like her seeming; it had
been vicious
To have mistrusted her: yet, O my daughter!
That it was folly in me, thou mayst say,
And prove it in thy feeling. Heaven mend all!
Enter LUCIUS, IACHIMO, the Soothsayer, and other Roman Prisoners, guarded; POSTHUMUS LEONATUS behind, and IMOGEN
Thou comest not, Caius, now for tribute that
The Britons have razed out, though with the loss
Of many a bold one; whose kinsmen have made suit
That their good souls may be appeased with slaughter
Of you their captives, which ourself have granted:
So think of your estate.
CAIUS LUCIUS

Consider, sir, the chance of war: the day
Was yours by accident; had it gone with us,
We should not, when the blood was cool,
have threaten’d
Our prisoners with the sword. But since the gods
Will have it thus, that nothing but our lives
May be call’d ransom, let it come: sufficeth
A Roman with a Roman’s heart can suffer:
Augustus lives to think on’t: and so much
For my peculiar care. This one thing only
I will entreat; my boy, a Briton born,
Let him be ransom’d: never master had
A page so kind, so duteous, diligent,
So tender over his occasions, true,
So feat, so nurse-like: let his virtue join
With my request, which I make bold your highness
Cannot deny; he hath done no Briton harm,
Though he have served a Roman: save him, sir,
And spare no blood beside.
CYMBELINE

I have surely seen him:
His favour is familiar to me. Boy,
Thou hast look’d thyself into my grace,
And art mine own. I know not why, wherefore,
To say ‘live, boy:’ ne’er thank thy master; live:
And ask of Cymbeline what boon thou wilt,
Fitting my bounty and thy state, I’ll give it;
Yea, though thou do demand a prisoner,
The noblest ta’en.
IMOGEN

I humbly thank your highness.
CAIUS LUCIUS

I do not bid thee beg my life, good lad;
And yet I know thou wilt.
IMOGEN

No, no: alack,
There’s other work in hand: I see a thing
Bitter to me as death: your life, good master,
Must shuffle for itself.
CAIUS LUCIUS

The boy disdains me,
He leaves me, scorns me: briefly die their joys
That place them on the truth of girls and boys.
Why stands he so perplex’d?
CYMBELINE

What wouldst thou, boy?
I love thee more and more: think more and more
What’s best to ask. Know’st him thou look’st on? speak,
Wilt have him live? Is he thy kin? thy friend?
IMOGEN

He is a Roman; no more kin to me
Than I to your highness; who, being born your vassal,
Am something nearer.
CYMBELINE

Wherefore eyest him so?
IMOGEN

I’ll tell you, sir, in private, if you please
To give me hearing.
CYMBELINE

Ay, with all my heart,
And lend my best attention. What’s thy name?
IMOGEN

Fidele, sir.
CYMBELINE

Thou’rt my good youth, my page;
I’ll be thy master: walk with me; speak freely.
CYMBELINE and IMOGEN converse apart
BELARIUS

Is not this boy revived from death?
ARVIRAGUS

One sand another
Not more resembles that sweet rosy lad
Who died, and was Fidele. What think you?
GUIDERIUS

The same dead thing alive.
BELARIUS

Peace, peace! see further; he eyes us not; forbear;
Creatures may be alike: were ‘t he, I am sure
He would have spoke to us.
GUIDERIUS

But we saw him dead.
BELARIUS

Be silent; let’s see further.
PISANIO

[Aside] It is my mistress:
Since she is living, let the time run on
To good or bad.
CYMBELINE and IMOGEN come forward
CYMBELINE

Come, stand thou by our side;
Make thy demand aloud.
To IACHIMO
Sir, step you forth;
Give answer to this boy, and do it freely;
Or, by our greatness and the grace of it,
Which is our honour, bitter torture shall
Winnow the truth from falsehood. On, speak to him.
IMOGEN

My boon is, that this gentleman may render
Of whom he had this ring.
POSTHUMUS LEONATUS

[Aside] What’s that to him?
CYMBELINE

That diamond upon your finger, say
How came it yours?
IACHIMO

Thou’lt torture me to leave unspoken that
Which, to be spoke, would torture thee.
CYMBELINE

How! me?
IACHIMO

I am glad to be constrain’d to utter that
Which torments me to conceal. By villany
I got this ring: ’twas Leonatus’ jewel;
Whom thou didst banish; and–which more may
grieve thee,
As it doth me–a nobler sir ne’er lived
‘Twixt sky and ground. Wilt thou hear more, my lord?
CYMBELINE

All that belongs to this.
IACHIMO

That paragon, thy daughter,–
For whom my heart drops blood, and my false spirits
Quail to remember–Give me leave; I faint.
CYMBELINE

My daughter! what of her? Renew thy strength:
I had rather thou shouldst live while nature will
Than die ere I hear more: strive, man, and speak.
IACHIMO

Upon a time,–unhappy was the clock
That struck the hour!–it was in Rome,–accursed
The mansion where!–’twas at a feast,–O, would
Our viands had been poison’d, or at least
Those which I heaved to head!–the good Posthumus–
What should I say? he was too good to be
Where ill men were; and was the best of all
Amongst the rarest of good ones,–sitting sadly,
Hearing us praise our loves of Italy
For beauty that made barren the swell’d boast
Of him that best could speak, for feature, laming
The shrine of Venus, or straight-pight Minerva.
Postures beyond brief nature, for condition,
A shop of all the qualities that man
Loves woman for, besides that hook of wiving,
Fairness which strikes the eye–
CYMBELINE

I stand on fire:
Come to the matter.
IACHIMO

All too soon I shall,
Unless thou wouldst grieve quickly. This Posthumus,
Most like a noble lord in love and one
That had a royal lover, took his hint;
And, not dispraising whom we praised,–therein
He was as calm as virtue–he began
His mistress’ picture; which by his tongue
being made,
And then a mind put in’t, either our brags
Were crack’d of kitchen-trolls, or his description
Proved us unspeaking sots.
CYMBELINE

Nay, nay, to the purpose.
IACHIMO

Your daughter’s chastity–there it begins.
He spake of her, as Dian had hot dreams,
And she alone were cold: whereat I, wretch,
Made scruple of his praise; and wager’d with him
Pieces of gold ‘gainst this which then he wore
Upon his honour’d finger, to attain
In suit the place of’s bed and win this ring
By hers and mine adultery. He, true knight,
No lesser of her honour confident
Than I did truly find her, stakes this ring;
And would so, had it been a carbuncle
Of Phoebus’ wheel, and might so safely, had it
Been all the worth of’s car. Away to Britain
Post I in this design: well may you, sir,
Remember me at court; where I was taught
Of your chaste daughter the wide difference
‘Twixt amorous and villanous. Being thus quench’d
Of hope, not longing, mine Italian brain
‘Gan in your duller Britain operate
Most vilely; for my vantage, excellent:
And, to be brief, my practise so prevail’d,
That I return’d with simular proof enough
To make the noble Leonatus mad,
By wounding his belief in her renown
With tokens thus, and thus; averting notes
Of chamber-hanging, pictures, this her bracelet,–
O cunning, how I got it!–nay, some marks
Of secret on her person, that he could not
But think her bond of chastity quite crack’d,
I having ta’en the forfeit. Whereupon–
Methinks, I see him now–
POSTHUMUS LEONATUS

[Advancing] Ay, so thou dost,
Italian fiend! Ay me, most credulous fool,
Egregious murderer, thief, any thing
That’s due to all the villains past, in being,
To come! O, give me cord, or knife, or poison,
Some upright justicer! Thou, king, send out
For torturers ingenious: it is I
That all the abhorred things o’ the earth amend
By being worse than they. I am Posthumus,
That kill’d thy daughter:–villain-like, I lie–
That caused a lesser villain than myself,
A sacrilegious thief, to do’t: the temple
Of virtue was she; yea, and she herself.
Spit, and throw stone s, cast mire upon me, set
The dogs o’ the street to bay me: every villain
Be call’d Posthumus Leonitus; and
Be villany less than ’twas! O Imogen!
My queen, my life, my wife! O Imogen,
Imogen, Imogen!
IMOGEN

Peace, my lord; hear, hear–
POSTHUMUS LEONATUS

Shall’s have a play of this? Thou scornful page,
There lie thy part.
Striking her: she falls
PISANIO

O, gentlemen, help!
Mine and your mistress! O, my lord Posthumus!
You ne’er kill’d Imogen til now. Help, help!
Mine honour’d lady!
CYMBELINE

Does the world go round?
POSTHUMUS LEONATUS

How come these staggers on me?
PISANIO

Wake, my mistress!
CYMBELINE

If this be so, the gods do mean to strike me
To death with mortal joy.
PISANIO

How fares thy mistress?
IMOGEN

O, get thee from my sight;
Thou gavest me poison: dangerous fellow, hence!
Breathe not where princes are.
CYMBELINE

The tune of Imogen!
PISANIO

Lady,
The gods throw stones of sulphur on me, if
That box I gave you was not thought by me
A precious thing: I had it from the queen.
CYMBELINE

New matter still?
IMOGEN

It poison’d me.
CORNELIUS

O gods!
I left out one thing which the queen confess’d.
Which must approve thee honest: ‘If Pisanio
Have,’ said she, ‘given his mistress that confection
Which I gave him for cordial, she is served
As I would serve a rat.’
CYMBELINE

What’s this, Comelius?
CORNELIUS

The queen, sir, very oft importuned me
To temper poisons for her, still pretending
The satisfaction of her knowledge only
In killing creatures vile, as cats and dogs,
Of no esteem: I, dreading that her purpose
Was of more danger, did compound for her
A certain stuff, which, being ta’en, would cease
The present power of life, but in short time
All offices of nature should again
Do their due functions. Have you ta’en of it?
IMOGEN

Most like I did, for I was dead.
BELARIUS

My boys,
There was our error.
GUIDERIUS

This is, sure, Fidele.
IMOGEN

Why did you throw your wedded lady from you?
Think that you are upon a rock; and now
Throw me again.
Embracing him
POSTHUMUS LEONATUS

Hang there like a fruit, my soul,
Till the tree die!
CYMBELINE

How now, my flesh, my child!
What, makest thou me a dullard in this act?
Wilt thou not speak to me?
IMOGEN

[Kneeling] Your blessing, sir.
BELARIUS

[To GUIDERIUS and ARVIRAGUS] Though you did love
this youth, I blame ye not:
You had a motive for’t.
CYMBELINE

My tears that fall
Prove holy water on thee! Imogen,
Thy mother’s dead.
IMOGEN

I am sorry for’t, my lord.
CYMBELINE

O, she was nought; and long of her it was
That we meet here so strangely: but her son
Is gone, we know not how nor where.
PISANIO

My lord,
Now fear is from me, I’ll speak troth. Lord Cloten,
Upon my lady’s missing, came to me
With his sword drawn; foam’d at the mouth, and swore,
If I discover’d not which way she was gone,
It was my instant death. By accident,
had a feigned letter of my master’s
Then in my pocket; which directed him
To seek her on the mountains near to Milford;
Where, in a frenzy, in my master’s garments,
Which he enforced from me, away he posts
With unchaste purpose and with oath to violate
My lady’s honour: what became of him
I further know not.
GUIDERIUS

Let me end the story:
I slew him there.
CYMBELINE

Marry, the gods forfend!
I would not thy good deeds should from my lips
Pluck a bard sentence: prithee, valiant youth,
Deny’t again.
GUIDERIUS

I have spoke it, and I did it.
CYMBELINE

He was a prince.
GUIDERIUS

A most incivil one: the wrongs he did me
Were nothing prince-like; for he did provoke me
With language that would make me spurn the sea,
If it could so roar to me: I cut off’s head;
And am right glad he is not standing here
To tell this tale of mine.
CYMBELINE

I am sorry for thee:
By thine own tongue thou art condemn’d, and must
Endure our law: thou’rt dead.
IMOGEN

That headless man
I thought had been my lord.
CYMBELINE

Bind the offender,
And take him from our presence.
BELARIUS

Stay, sir king:
This man is better than the man he slew,
As well descended as thyself; and hath
More of thee merited than a band of Clotens
Had ever scar for.
To the Guard
Let his arms alone;
They were not born for bondage.
CYMBELINE

Why, old soldier,
Wilt thou undo the worth thou art unpaid for,
By tasting of our wrath? How of descent
As good as we?
ARVIRAGUS

In that he spake too far.
CYMBELINE

And thou shalt die for’t.
BELARIUS

We will die all three:
But I will prove that two on’s are as good
As I have given out him. My sons, I must,
For mine own part, unfold a dangerous speech,
Though, haply, well for you.
ARVIRAGUS

Your danger’s ours.
GUIDERIUS

And our good his.
BELARIUS

Have at it then, by leave.
Thou hadst, great king, a subject who
Was call’d Belarius.
CYMBELINE

What of him? he is
A banish’d traitor.
BELARIUS

He it is that hath
Assumed this age; indeed a banish’d man;
I know not how a traitor.
CYMBELINE

Take him hence:
The whole world shall not save him.
BELARIUS

Not too hot:
First pay me for the nursing of thy sons;
And let it be confiscate all, so soon
As I have received it.
CYMBELINE

Nursing of my sons!
BELARIUS

I am too blunt and saucy: here’s my knee:
Ere I arise, I will prefer my sons;
Then spare not the old father. Mighty sir,
These two young gentlemen, that call me father
And think they are my sons, are none of mine;
They are the issue of your loins, my liege,
And blood of your begetting.
CYMBELINE

How! my issue!
BELARIUS

So sure as you your father’s. I, old Morgan,
Am that Belarius whom you sometime banish’d:
Your pleasure was my mere offence, my punishment
Itself, and all my treason; that I suffer’d
Was all the harm I did. These gentle princes–
For such and so they are–these twenty years
Have I train’d up: those arts they have as I
Could put into them; my breeding was, sir, as
Your highness knows. Their nurse, Euriphile,
Whom for the theft I wedded, stole these children
Upon my banishment: I moved her to’t,
Having received the punishment before,
For that which I did then: beaten for loyalty
Excited me to treason: their dear loss,
The more of you ’twas felt, the more it shaped
Unto my end of stealing them. But, gracious sir,
Here are your sons again; and I must lose
Two of the sweet’st companions in the world.
The benediction of these covering heavens
Fall on their heads like dew! for they are worthy
To inlay heaven with stars.
CYMBELINE

Thou weep’st, and speak’st.
The service that you three have done is more
Unlike than this thou tell’st. I lost my children:
If these be they, I know not how to wish
A pair of worthier sons.
BELARIUS

Be pleased awhile.
This gentleman, whom I call Polydore,
Most worthy prince, as yours, is true Guiderius:
This gentleman, my Cadwal, Arviragus,
Your younger princely son; he, sir, was lapp’d
In a most curious mantle, wrought by the hand
Of his queen mother, which for more probation
I can with ease produce.
CYMBELINE

Guiderius had
Upon his neck a mole, a sanguine star;
It was a mark of wonder.
BELARIUS

This is he;
Who hath upon him still that natural stamp:
It was wise nature’s end in the donation,
To be his evidence now.
CYMBELINE

O, what, am I
A mother to the birth of three? Ne’er mother
Rejoiced deliverance more. Blest pray you be,
That, after this strange starting from your orbs,
may reign in them now! O Imogen,
Thou hast lost by this a kingdom.
IMOGEN

No, my lord;
I have got two worlds by ‘t. O my gentle brothers,
Have we thus met? O, never say hereafter
But I am truest speaker you call’d me brother,
When I was but your sister; I you brothers,
When ye were so indeed.
CYMBELINE

Did you e’er meet?
ARVIRAGUS

Ay, my good lord.
GUIDERIUS

And at first meeting loved;
Continued so, until we thought he died.
CORNELIUS

By the queen’s dram she swallow’d.
CYMBELINE

O rare instinct!
When shall I hear all through? This fierce
abridgement
Hath to it circumstantial branches, which
Distinction should be rich in. Where? how lived You?
And when came you to serve our Roman captive?
How parted with your brothers? how first met them?
Why fled you from the court? and whither? These,
And your three motives to the battle, with
I know not how much more, should be demanded;
And all the other by-dependencies,
From chance to chance: but nor the time nor place
Will serve our long inter’gatories. See,
Posthumus anchors upon Imogen,
And she, like harmless lightning, throws her eye
On him, her brother, me, her master, hitting
Each object with a joy: the counterchange
Is severally in all. Let’s quit this ground,
And smoke the temple with our sacrifices.
To BELARIUS
Thou art my brother; so we’ll hold thee ever.
IMOGEN

You are my father too, and did relieve me,
To see this gracious season.
CYMBELINE

All o’erjoy’d,
Save these in bonds: let them be joyful too,
For they shall taste our comfort.
IMOGEN

My good master,
I will yet do you service.
CAIUS LUCIUS

Happy be you!
CYMBELINE

The forlorn soldier, that so nobly fought,
He would have well becomed this place, and graced
The thankings of a king.
POSTHUMUS LEONATUS

I am, sir,
The soldier that did company these three
In poor beseeming; ’twas a fitment for
The purpose I then follow’d. That I was he,
Speak, Iachimo: I had you down and might
Have made you finish.
IACHIMO

[Kneeling] I am down again:
But now my heavy conscience sinks my knee,
As then your force did. Take that life, beseech you,
Which I so often owe: but your ring first;
And here the bracelet of the truest princess
That ever swore her faith.
POSTHUMUS LEONATUS

Kneel not to me:
The power that I have on you is, to spare you;
The malice towards you to forgive you: live,
And deal with others better.
CYMBELINE

Nobly doom’d!
We’ll learn our freeness of a son-in-law;
Pardon’s the word to all.
ARVIRAGUS

You holp us, sir,
As you did mean indeed to be our brother;
Joy’d are we that you are.
POSTHUMUS LEONATUS

Your servant, princes. Good my lord of Rome,
Call forth your soothsayer: as I slept, methought
Great Jupiter, upon his eagle back’d,
Appear’d to me, with other spritely shows
Of mine own kindred: when I waked, I found
This label on my bosom; whose containing
Is so from sense in hardness, that I can
Make no collection of it: let him show
His skill in the construction.
CAIUS LUCIUS

Philarmonus!
Soothsayer

Here, my good lord.
CAIUS LUCIUS

Read, and declare the meaning.
Soothsayer

[Reads] ‘When as a lion’s whelp shall, to himself
unknown, without seeking find, and be embraced by a
piece of tender air; and when from a stately cedar
shall be lopped branches, which, being dead many
years, shall after revive, be jointed to the old
stock, and freshly grow; then shall Posthumus end
his miseries, Britain be fortunate and flourish in
peace and plenty.’
Thou, Leonatus, art the lion’s whelp;
The fit and apt construction of thy name,
Being Leonatus, doth import so much.
To CYMBELINE
The piece of tender air, thy virtuous daughter,
Which we call ‘mollis aer;’ and ‘mollis aer’
We term it ‘mulier:’ which ‘mulier’ I divine
Is this most constant wife; who, even now,
Answering the letter of the oracle,
Unknown to you, unsought, were clipp’d about
With this most tender air.
CYMBELINE

This hath some seeming.
Soothsayer

The lofty cedar, royal Cymbeline,
Personates thee: and thy lopp’d branches point
Thy two sons forth; who, by Belarius stol’n,
For many years thought dead, are now revived,
To the majestic cedar join’d, whose issue
Promises Britain peace and plenty.
CYMBELINE

Well
My peace we will begin. And, Caius Lucius,
Although the victor, we submit to Caesar,
And to the Roman empire; promising
To pay our wonted tribute, from the which
We were dissuaded by our wicked queen;
Whom heavens, in justice, both on her and hers,
Have laid most heavy hand.
Soothsayer

The fingers of the powers above do tune
The harmony of this peace. The vision
Which I made known to Lucius, ere the stroke
Of this yet scarce-cold battle, at this instant
Is full accomplish’d; for the Roman eagle,
From south to west on wing soaring aloft,
Lessen’d herself, and in the beams o’ the sun
So vanish’d: which foreshow’d our princely eagle,
The imperial Caesar, should again unite
His favour with the radiant Cymbeline,
Which shines here in the west.
CYMBELINE

Laud we the gods;
And let our crooked smokes climb to their nostrils
From our blest altars. Publish we this peace
To all our subjects. Set we forward: let
A Roman and a British ensign wave
Friendly together: so through Lud’s-town march:
And in the temple of great Jupiter
Our peace we’ll ratify; seal it with feasts.
Set on there! Never was a war did cease,
Ere bloody hands were wash’d, with such a peace.
Exeunt

Henry IV, part 2: Entire Play
The Second part of King Henry the Fourth

Shakespeare homepage
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None

W

Othello: Entire Play
Othello, the Moore of Venice

Shakespeare homepage
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| Entire play
ACT I
SCENE I. Venice. A street.

Enter RODERIGO and IAGO
RODERIGO

Tush! never tell me; I take it much unkindly
That thou, Iago, who hast had my purse
As if the strings were thine, shouldst know of this.
IAGO

‘Sblood, but you will not hear me:
If ever I did dream of such a matter, Abhor me.
RODERIGO

Thou told’st me thou didst hold him in thy hate.
IAGO

Despise me, if I do not. Three great ones of the city,
In personal suit to make me his lieutenant,
Off-capp’d to him: and, by the faith of man,
I know my price, I am worth no worse a place:
But he; as loving his own pride and purposes,
Evades them, with a bombast circumstance
Horribly stuff’d with epithets of war;
And, in conclusion,
Nonsuits my mediators; for, ‘Certes,’ says he,
‘I have already chose my officer.’
And what was he?
Forsooth, a great arithmetician,
One Michael Cassio, a Florentine,
A fellow almost damn’d in a fair wife;
That never set a squadron in the field,
Nor the division of a battle knows
More than a spinster; unless the bookish theoric,
Wherein the toged consuls can propose
As masterly as he: mere prattle, without practise,
Is all his soldiership. But he, sir, had the election:
And I, of whom his eyes had seen the proof
At Rhodes, at Cyprus and on other grounds
Christian and heathen, must be be-lee’d and calm’d
By debitor and creditor: this counter-caster,
He, in good time, must his lieutenant be,
And I–God bless the mark!–his Moorship’s ancient.
RODERIGO

By heaven, I rather would have been his hangman.
IAGO

Why, there’s no remedy; ’tis the curse of service,
Preferment goes by letter and affection,
And not by old gradation, where each second
Stood heir to the first. Now, sir, be judge yourself,
Whether I in any just term am affined
To love the Moor.
RODERIGO

I would not follow him then.
IAGO

O, sir, content you;
I follow him to serve my turn upon him:
We cannot all be masters, nor all masters
Cannot be truly follow’d. You shall mark
Many a duteous and knee-crooking knave,
That, doting on his own obsequious bondage,
Wears out his time, much like his master’s ass,
For nought but provender, and when he’s old, cashier’d:
Whip me such honest knaves. Others there are
Who, trimm’d in forms and visages of duty,
Keep yet their hearts attending on themselves,
And, throwing but shows of service on their lords,
Do well thrive by them and when they have lined
their coats
Do themselves homage: these fellows have some soul;
And such a one do I profess myself. For, sir,
It is as sure as you are Roderigo,
Were I the Moor, I would not be Iago:
In following him, I follow but myself;
Heaven is my judge, not I for love and duty,
But seeming so, for my peculiar end:
For when my outward action doth demonstrate
The native act and figure of my heart
In compliment extern, ’tis not long after
But I will wear my heart upon my sleeve
For daws to peck at: I am not what I am.
RODERIGO

What a full fortune does the thicklips owe
If he can carry’t thus!
IAGO

Call up her father,
Rouse him: make after him, poison his delight,
Proclaim him in the streets; incense her kinsmen,
And, though he in a fertile climate dwell,
Plague him with flies: though that his joy be joy,
Yet throw such changes of vexation on’t,
As it may lose some colour.
RODERIGO

Here is her father’s house; I’ll call aloud.
IAGO

Do, with like timorous accent and dire yell
As when, by night and negligence, the fire
Is spied in populous cities.
RODERIGO

What, ho, Brabantio! Signior Brabantio, ho!
IAGO

Awake! what, ho, Brabantio! thieves! thieves! thieves!
Look to your house, your daughter and your bags!
Thieves! thieves!
BRABANTIO appears above, at a window
BRABANTIO

What is the reason of this terrible summons?
What is the matter there?
RODERIGO

Signior, is all your family within?
IAGO

Are your doors lock’d?
BRABANTIO

Why, wherefore ask you this?
IAGO

‘Zounds, sir, you’re robb’d; for shame, put on
your gown;
Your heart is burst, you have lost half your soul;
Even now, now, very now, an old black ram
Is topping your white ewe. Arise, arise;
Awake the snorting citizens with the bell,
Or else the devil will make a grandsire of you:
Arise, I say.
BRABANTIO

What, have you lost your wits?
RODERIGO

Most reverend signior, do you know my voice?
BRABANTIO

Not I what are you?
RODERIGO

My name is Roderigo.
BRABANTIO

The worser welcome:
I have charged thee not to haunt about my doors:
In honest plainness thou hast heard me say
My daughter is not for thee; and now, in madness,
Being full of supper and distempering draughts,
Upon malicious bravery, dost thou come
To start my quiet.
RODERIGO

Sir, sir, sir,–
BRABANTIO

But thou must needs be sure
My spirit and my place have in them power
To make this bitter to thee.
RODERIGO

Patience, good sir.
BRABANTIO

What tell’st thou me of robbing? this is Venice;
My house is not a grange.
RODERIGO

Most grave Brabantio,
In simple and pure soul I come to you.
IAGO

‘Zounds, sir, you are one of those that will not
serve God, if the devil bid you. Because we come to
do you service and you think we are ruffians, you’ll
have your daughter covered with a Barbary horse;
you’ll have your nephews neigh to you; you’ll have
coursers for cousins and gennets for germans.
BRABANTIO

What profane wretch art thou?
IAGO

I am one, sir, that comes to tell you your daughter
and the Moor are now making the beast with two backs.
BRABANTIO

Thou art a villain.
IAGO

You are–a senator.
BRABANTIO

This thou shalt answer; I know thee, Roderigo.
RODERIGO

Sir, I will answer any thing. But, I beseech you,
If’t be your pleasure and most wise consent,
As partly I find it is, that your fair daughter,
At this odd-even and dull watch o’ the night,
Transported, with no worse nor better guard
But with a knave of common hire, a gondolier,
To the gross clasps of a lascivious Moor–
If this be known to you and your allowance,
We then have done you bold and saucy wrongs;
But if you know not this, my manners tell me
We have your wrong rebuke. Do not believe
That, from the sense of all civility,
I thus would play and trifle with your reverence:
Your daughter, if you have not given her leave,
I say again, hath made a gross revolt;
Tying her duty, beauty, wit and fortunes
In an extravagant and wheeling stranger
Of here and every where. Straight satisfy yourself:
If she be in her chamber or your house,
Let loose on me the justice of the state
For thus deluding you.
BRABANTIO

Strike on the tinder, ho!
Give me a taper! call up all my people!
This accident is not unlike my dream:
Belief of it oppresses me already.
Light, I say! light!
Exit above
IAGO

Farewell; for I must leave you:
It seems not meet, nor wholesome to my place,
To be produced–as, if I stay, I shall–
Against the Moor: for, I do know, the state,
However this may gall him with some cheque,
Cannot with safety cast him, for he’s embark’d
With such loud reason to the Cyprus wars,
Which even now stand in act, that, for their souls,
Another of his fathom they have none,
To lead their business: in which regard,
Though I do hate him as I do hell-pains.
Yet, for necessity of present life,
I must show out a flag and sign of love,
Which is indeed but sign. That you shall surely find him,
Lead to the Sagittary the raised search;
And there will I be with him. So, farewell.
Exit
Enter, below, BRABANTIO, and Servants with torches
BRABANTIO

It is too true an evil: gone she is;
And what’s to come of my despised time
Is nought but bitterness. Now, Roderigo,
Where didst thou see her? O unhappy girl!
With the Moor, say’st thou? Who would be a father!
How didst thou know ’twas she? O she deceives me
Past thought! What said she to you? Get more tapers:
Raise all my kindred. Are they married, think you?
RODERIGO

Truly, I think they are.
BRABANTIO

O heaven! How got she out? O treason of the blood!
Fathers, from hence trust not your daughters’ minds
By what you see them act. Is there not charms
By which the property of youth and maidhood
May be abused? Have you not read, Roderigo,
Of some such thing?
RODERIGO

Yes, sir, I have indeed.
BRABANTIO

Call up my brother. O, would you had had her!
Some one way, some another. Do you know
Where we may apprehend her and the Moor?
RODERIGO

I think I can discover him, if you please,
To get good guard and go along with me.
BRABANTIO

Pray you, lead on. At every house I’ll call;
I may command at most. Get weapons, ho!
And raise some special officers of night.
On, good Roderigo: I’ll deserve your pains.
Exeunt

SCENE II. Another street.

Enter OTHELLO, IAGO, and Attendants with torches
IAGO

Though in the trade of war I have slain men,
Yet do I hold it very stuff o’ the conscience
To do no contrived murder: I lack iniquity
Sometimes to do me service: nine or ten times
I had thought to have yerk’d him here under the ribs.
OTHELLO

‘Tis better as it is.
IAGO

Nay, but he prated,
And spoke such scurvy and provoking terms
Against your honour
That, with the little godliness I have,
I did full hard forbear him. But, I pray you, sir,
Are you fast married? Be assured of this,
That the magnifico is much beloved,
And hath in his effect a voice potential
As double as the duke’s: he will divorce you;
Or put upon you what restraint and grievance
The law, with all his might to enforce it on,
Will give him cable.
OTHELLO

Let him do his spite:
My services which I have done the signiory
Shall out-tongue his complaints. ‘Tis yet to know,–
Which, when I know that boasting is an honour,
I shall promulgate–I fetch my life and being
From men of royal siege, and my demerits
May speak unbonneted to as proud a fortune
As this that I have reach’d: for know, Iago,
But that I love the gentle Desdemona,
I would not my unhoused free condition
Put into circumscription and confine
For the sea’s worth. But, look! what lights come yond?
IAGO

Those are the raised father and his friends:
You were best go in.
OTHELLO

Not I I must be found:
My parts, my title and my perfect soul
Shall manifest me rightly. Is it they?
IAGO

By Janus, I think no.
Enter CASSIO, and certain Officers with torches
OTHELLO

The servants of the duke, and my lieutenant.
The goodness of the night upon you, friends!
What is the news?
CASSIO

The duke does greet you, general,
And he requires your haste-post-haste appearance,
Even on the instant.
OTHELLO

What is the matter, think you?
CASSIO

Something from Cyprus as I may divine:
It is a business of some heat: the galleys
Have sent a dozen sequent messengers
This very night at one another’s heels,
And many of the consuls, raised and met,
Are at the duke’s already: you have been
hotly call’d for;
When, being not at your lodging to be found,
The senate hath sent about three several guests
To search you out.
OTHELLO

‘Tis well I am found by you.
I will but spend a word here in the house,
And go with you.
Exit
CASSIO

Ancient, what makes he here?
IAGO

‘Faith, he to-night hath boarded a land carack:
If it prove lawful prize, he’s made for ever.
CASSIO

I do not understand.
IAGO

He’s married.
CASSIO

To who?
Re-enter OTHELLO
IAGO

Marry, to–Come, captain, will you go?
OTHELLO

Have with you.
CASSIO

Here comes another troop to seek for you.
IAGO

It is Brabantio. General, be advised;
He comes to bad intent.
Enter BRABANTIO, RODERIGO, and Officers with torches and weapons
OTHELLO

Holla! stand there!
RODERIGO

Signior, it is the Moor.
BRABANTIO

Down with him, thief!
They draw on both sides
IAGO

You, Roderigo! come, sir, I am for you.
OTHELLO

Keep up your bright swords, for the dew will rust them.
Good signior, you shall more command with years
Than with your weapons.
BRABANTIO

O thou foul thief, where hast thou stow’d my daughter?
Damn’d as thou art, thou hast enchanted her;
For I’ll refer me to all things of sense,
If she in chains of magic were not bound,
Whether a maid so tender, fair and happy,
So opposite to marriage that she shunned
The wealthy curled darlings of our nation,
Would ever have, to incur a general mock,
Run from her guardage to the sooty bosom
Of such a thing as thou, to fear, not to delight.
Judge me the world, if ’tis not gross in sense
That thou hast practised on her with foul charms,
Abused her delicate youth with drugs or minerals
That weaken motion: I’ll have’t disputed on;
‘Tis probable and palpable to thinking.
I therefore apprehend and do attach thee
For an abuser of the world, a practiser
Of arts inhibited and out of warrant.
Lay hold upon him: if he do resist,
Subdue him at his peril.
OTHELLO

Hold your hands,
Both you of my inclining, and the rest:
Were it my cue to fight, I should have known it
Without a prompter. Where will you that I go
To answer this your charge?
BRABANTIO

To prison, till fit time
Of law and course of direct session
Call thee to answer.
OTHELLO

What if I do obey?
How may the duke be therewith satisfied,
Whose messengers are here about my side,
Upon some present business of the state
To bring me to him?
First Officer

‘Tis true, most worthy signior;
The duke’s in council and your noble self,
I am sure, is sent for.
BRABANTIO

How! the duke in council!
In this time of the night! Bring him away:
Mine’s not an idle cause: the duke himself,
Or any of my brothers of the state,
Cannot but feel this wrong as ’twere their own;
For if such actions may have passage free,
Bond-slaves and pagans shall our statesmen be.
Exeunt

SCENE III. A council-chamber.

The DUKE and Senators sitting at a table; Officers attending
DUKE OF VENICE

There is no composition in these news
That gives them credit.
First Senator

Indeed, they are disproportion’d;
My letters say a hundred and seven galleys.
DUKE OF VENICE

And mine, a hundred and forty.
Second Senator

And mine, two hundred:
But though they jump not on a just account,–
As in these cases, where the aim reports,
‘Tis oft with difference–yet do they all confirm
A Turkish fleet, and bearing up to Cyprus.
DUKE OF VENICE

Nay, it is possible enough to judgment:
I do not so secure me in the error,
But the main article I do approve
In fearful sense.
Sailor

[Within] What, ho! what, ho! what, ho!
First Officer

A messenger from the galleys.
Enter a Sailor
DUKE OF VENICE

Now, what’s the business?
Sailor

The Turkish preparation makes for Rhodes;
So was I bid report here to the state
By Signior Angelo.
DUKE OF VENICE

How say you by this change?
First Senator

This cannot be,
By no assay of reason: ’tis a pageant,
To keep us in false gaze. When we consider
The importancy of Cyprus to the Turk,
And let ourselves again but understand,
That as it more concerns the Turk than Rhodes,
So may he with more facile question bear it,
For that it stands not in such warlike brace,
But altogether lacks the abilities
That Rhodes is dress’d in: if we make thought of this,
We must not think the Turk is so unskilful
To leave that latest which concerns him first,
Neglecting an attempt of ease and gain,
To wake and wage a danger profitless.
DUKE OF VENICE

Nay, in all confidence, he’s not for Rhodes.
First Officer

Here is more news.
Enter a Messenger
Messenger

The Ottomites, reverend and gracious,
Steering with due course towards the isle of Rhodes,
Have there injointed them with an after fleet.
First Senator

Ay, so I thought. How many, as you guess?
Messenger

Of thirty sail: and now they do restem
Their backward course, bearing with frank appearance
Their purposes toward Cyprus. Signior Montano,
Your trusty and most valiant servitor,
With his free duty recommends you thus,
And prays you to believe him.
DUKE OF VENICE

‘Tis certain, then, for Cyprus.
Marcus Luccicos, is not he in town?
First Senator

He’s now in Florence.
DUKE OF VENICE

Write from us to him; post-post-haste dispatch.
First Senator

Here comes Brabantio and the valiant Moor.
Enter BRABANTIO, OTHELLO, IAGO, RODERIGO, and Officers
DUKE OF VENICE

Valiant Othello, we must straight employ you
Against the general enemy Ottoman.
To BRABANTIO
I did not see you; welcome, gentle signior;
We lack’d your counsel and your help tonight.
BRABANTIO

So did I yours. Good your grace, pardon me;
Neither my place nor aught I heard of business
Hath raised me from my bed, nor doth the general care
Take hold on me, for my particular grief
Is of so flood-gate and o’erbearing nature
That it engluts and swallows other sorrows
And it is still itself.
DUKE OF VENICE

Why, what’s the matter?
BRABANTIO

My daughter! O, my daughter!
DUKE OF VENICE

Senator

Dead?
BRABANTIO

Ay, to me;
She is abused, stol’n from me, and corrupted
By spells and medicines bought of mountebanks;
For nature so preposterously to err,
Being not deficient, blind, or lame of sense,
Sans witchcraft could not.
DUKE OF VENICE

Whoe’er he be that in this foul proceeding
Hath thus beguiled your daughter of herself
And you of her, the bloody book of law
You shall yourself read in the bitter letter
After your own sense, yea, though our proper son
Stood in your action.
BRABANTIO

Humbly I thank your grace.
Here is the man, this Moor, whom now, it seems,
Your special mandate for the state-affairs
Hath hither brought.
DUKE OF VENICE

Senator

We are very sorry for’t.
DUKE OF VENICE

[To OTHELLO] What, in your own part, can you say to this?
BRABANTIO

Nothing, but this is so.
OTHELLO

Most potent, grave, and reverend signiors,
My very noble and approved good masters,
That I have ta’en away this old man’s daughter,
It is most true; true, I have married her:
The very head and front of my offending
Hath this extent, no more. Rude am I in my speech,
And little bless’d with the soft phrase of peace:
For since these arms of mine had seven years’ pith,
Till now some nine moons wasted, they have used
Their dearest action in the tented field,
And little of this great world can I speak,
More than pertains to feats of broil and battle,
And therefore little shall I grace my cause
In speaking for myself. Yet, by your gracious patience,
I will a round unvarnish’d tale deliver
Of my whole course of love; what drugs, what charms,
What conjuration and what mighty magic,
For such proceeding I am charged withal,
I won his daughter.
BRABANTIO

A maiden never bold;
Of spirit so still and quiet, that her motion
Blush’d at herself; and she, in spite of nature,
Of years, of country, credit, every thing,
To fall in love with what she fear’d to look on!
It is a judgment maim’d and most imperfect
That will confess perfection so could err
Against all rules of nature, and must be driven
To find out practises of cunning hell,
Why this should be. I therefore vouch again
That with some mixtures powerful o’er the blood,
Or with some dram conjured to this effect,
He wrought upon her.
DUKE OF VENICE

To vouch this, is no proof,
Without more wider and more overt test
Than these thin habits and poor likelihoods
Of modern seeming do prefer against him.
First Senator

But, Othello, speak:
Did you by indirect and forced courses
Subdue and poison this young maid’s affections?
Or came it by request and such fair question
As soul to soul affordeth?
OTHELLO

I do beseech you,
Send for the lady to the Sagittary,
And let her speak of me before her father:
If you do find me foul in her report,
The trust, the office I do hold of you,
Not only take away, but let your sentence
Even fall upon my life.
DUKE OF VENICE

Fetch Desdemona hither.
OTHELLO

Ancient, conduct them: you best know the place.
Exeunt IAGO and Attendants
And, till she come, as truly as to heaven
I do confess the vices of my blood,
So justly to your grave ears I’ll present
How I did thrive in this fair lady’s love,
And she in mine.
DUKE OF VENICE

Say it, Othello.
OTHELLO

Her father loved me; oft invited me;
Still question’d me the story of my life,
From year to year, the battles, sieges, fortunes,
That I have passed.
I ran it through, even from my boyish days,
To the very moment that he bade me tell it;
Wherein I spake of most disastrous chances,
Of moving accidents by flood and field
Of hair-breadth scapes i’ the imminent deadly breach,
Of being taken by the insolent foe
And sold to slavery, of my redemption thence
And portance in my travels’ history:
Wherein of antres vast and deserts idle,
Rough quarries, rocks and hills whose heads touch heaven
It was my hint to speak,–such was the process;
And of the Cannibals that each other eat,
The Anthropophagi and men whose heads
Do grow beneath their shoulders. This to hear
Would Desdemona seriously incline:
But still the house-affairs would draw her thence:
Which ever as she could with haste dispatch,
She’ld come again, and with a greedy ear
Devour up my discourse: which I observing,
Took once a pliant hour, and found good means
To draw from her a prayer of earnest heart
That I would all my pilgrimage dilate,
Whereof by parcels she had something heard,
But not intentively: I did consent,
And often did beguile her of her tears,
When I did speak of some distressful stroke
That my youth suffer’d. My story being done,
She gave me for my pains a world of sighs:
She swore, in faith, twas strange, ’twas passing strange,
‘Twas pitiful, ’twas wondrous pitiful:
She wish’d she had not heard it, yet she wish’d
That heaven had made her such a man: she thank’d me,
And bade me, if I had a friend that loved her,
I should but teach him how to tell my story.
And that would woo her. Upon this hint I spake:
She loved me for the dangers I had pass’d,
And I loved her that she did pity them.
This only is the witchcraft I have used:
Here comes the lady; let her witness it.
Enter DESDEMONA, IAGO, and Attendants
DUKE OF VENICE

I think this tale would win my daughter too.
Good Brabantio,
Take up this mangled matter at the best:
Men do their broken weapons rather use
Than their bare hands.
BRABANTIO

I pray you, hear her speak:
If she confess that she was half the wooer,
Destruction on my head, if my bad blame
Light on the man! Come hither, gentle mistress:
Do you perceive in all this noble company
Where most you owe obedience?
DESDEMONA

My noble father,
I do perceive here a divided duty:
To you I am bound for life and education;
My life and education both do learn me
How to respect you; you are the lord of duty;
I am hitherto your daughter: but here’s my husband,
And so much duty as my mother show’d
To you, preferring you before her father,
So much I challenge that I may profess
Due to the Moor my lord.
BRABANTIO

God be wi’ you! I have done.
Please it your grace, on to the state-affairs:
I had rather to adopt a child than get it.
Come hither, Moor:
I here do give thee that with all my heart
Which, but thou hast already, with all my heart
I would keep from thee. For your sake, jewel,
I am glad at soul I have no other child:
For thy escape would teach me tyranny,
To hang clogs on them. I have done, my lord.
DUKE OF VENICE

Let me speak like yourself, and lay a sentence,
Which, as a grise or step, may help these lovers
Into your favour.
When remedies are past, the griefs are ended
By seeing the worst, which late on hopes depended.
To mourn a mischief that is past and gone
Is the next way to draw new mischief on.
What cannot be preserved when fortune takes
Patience her injury a mockery makes.
The robb’d that smiles steals something from the thief;
He robs himself that spends a bootless grief.
BRABANTIO

So let the Turk of Cyprus us beguile;
We lose it not, so long as we can smile.
He bears the sentence well that nothing bears
But the free comfort which from thence he hears,
But he bears both the sentence and the sorrow
That, to pay grief, must of poor patience borrow.
These sentences, to sugar, or to gall,
Being strong on both sides, are equivocal:
But words are words; I never yet did hear
That the bruised heart was pierced through the ear.
I humbly beseech you, proceed to the affairs of state.
DUKE OF VENICE

The Turk with a most mighty preparation makes for
Cyprus. Othello, the fortitude of the place is best
known to you; and though we have there a substitute
of most allowed sufficiency, yet opinion, a
sovereign mistress of effects, throws a more safer
voice on you: you must therefore be content to
slubber the gloss of your new fortunes with this
more stubborn and boisterous expedition.
OTHELLO

The tyrant custom, most grave senators,
Hath made the flinty and steel couch of war
My thrice-driven bed of down: I do agnise
A natural and prompt alacrity
I find in hardness, and do undertake
These present wars against the Ottomites.
Most humbly therefore bending to your state,
I crave fit disposition for my wife.
Due reference of place and exhibition,
With such accommodation and besort
As levels with her breeding.
DUKE OF VENICE

If you please,
Be’t at her father’s.
BRABANTIO

I’ll not have it so.
OTHELLO

Nor I.
DESDEMONA

Nor I; I would not there reside,
To put my father in impatient thoughts
By being in his eye. Most gracious duke,
To my unfolding lend your prosperous ear;
And let me find a charter in your voice,
To assist my simpleness.
DUKE OF VENICE

What would You, Desdemona?
DESDEMONA

That I did love the Moor to live with him,
My downright violence and storm of fortunes
May trumpet to the world: my heart’s subdued
Even to the very quality of my lord:
I saw Othello’s visage in his mind,
And to his honour and his valiant parts
Did I my soul and fortunes consecrate.
So that, dear lords, if I be left behind,
A moth of peace, and he go to the war,
The rites for which I love him are bereft me,
And I a heavy interim shall support
By his dear absence. Let me go with him.
OTHELLO

Let her have your voices.
Vouch with me, heaven, I therefore beg it not,
To please the palate of my appetite,
Nor to comply with heat–the young affects
In me defunct–and proper satisfaction.
But to be free and bounteous to her mind:
And heaven defend your good souls, that you think
I will your serious and great business scant
For she is with me: no, when light-wing’d toys
Of feather’d Cupid seal with wanton dullness
My speculative and officed instruments,
That my disports corrupt and taint my business,
Let housewives make a skillet of my helm,
And all indign and base adversities
Make head against my estimation!
DUKE OF VENICE

Be it as you shall privately determine,
Either for her stay or going: the affair cries haste,
And speed must answer it.
First Senator

You must away to-night.
OTHELLO

With all my heart.
DUKE OF VENICE

At nine i’ the morning here we’ll meet again.
Othello, leave some officer behind,
And he shall our commission bring to you;
With such things else of quality and respect
As doth import you.
OTHELLO

So please your grace, my ancient;
A man he is of honest and trust:
To his conveyance I assign my wife,
With what else needful your good grace shall think
To be sent after me.
DUKE OF VENICE

Let it be so.
Good night to every one.
To BRABANTIO
And, noble signior,
If virtue no delighted beauty lack,
Your son-in-law is far more fair than black.
First Senator

Adieu, brave Moor, use Desdemona well.
BRABANTIO

Look to her, Moor, if thou hast eyes to see:
She has deceived her father, and may thee.
Exeunt DUKE OF VENICE, Senators, Officers, & c
OTHELLO

My life upon her faith! Honest Iago,
My Desdemona must I leave to thee:
I prithee, let thy wife attend on her:
And bring them after in the best advantage.
Come, Desdemona: I have but an hour
Of love, of worldly matters and direction,
To spend with thee: we must obey the time.
Exeunt OTHELLO and DESDEMONA
RODERIGO

Iago,–
IAGO

What say’st thou, noble heart?
RODERIGO

What will I do, thinkest thou?
IAGO

Why, go to bed, and sleep.
RODERIGO

I will incontinently drown myself.
IAGO

If thou dost, I shall never love thee after. Why,
thou silly gentleman!
RODERIGO

It is silliness to live when to live is torment; and
then have we a prescription to die when death is our physician.
IAGO

O villainous! I have looked upon the world for four
times seven years; and since I could distinguish
betwixt a benefit and an injury, I never found man
that knew how to love himself. Ere I would say, I
would drown myself for the love of a guinea-hen, I
would change my humanity with a baboon.
RODERIGO

What should I do? I confess it is my shame to be so
fond; but it is not in my virtue to amend it.
IAGO

Virtue! a fig! ’tis in ourselves that we are thus
or thus. Our bodies are our gardens, to the which
our wills are gardeners: so that if we will plant
nettles, or sow lettuce, set hyssop and weed up
thyme, supply it with one gender of herbs, or
distract it with many, either to have it sterile
with idleness, or manured with industry, why, the
power and corrigible authority of this lies in our
wills. If the balance of our lives had not one
scale of reason to poise another of sensuality, the
blood and baseness of our natures would conduct us
to most preposterous conclusions: but we have
reason to cool our raging motions, our carnal
stings, our unbitted lusts, whereof I take this that
you call love to be a sect or scion.
RODERIGO

It cannot be.
IAGO

It is merely a lust of the blood and a permission of
the will. Come, be a man. Drown thyself! drown
cats and blind puppies. I have professed me thy
friend and I confess me knit to thy deserving with
cables of perdurable toughness; I could never
better stead thee than now. Put money in thy
purse; follow thou the wars; defeat thy favour with
an usurped beard; I say, put money in thy purse. It
cannot be that Desdemona should long continue her
love to the Moor,– put money in thy purse,–nor he
his to her: it was a violent commencement, and thou
shalt see an answerable sequestration:–put but
money in thy purse. These Moors are changeable in
their wills: fill thy purse with money:–the food
that to him now is as luscious as locusts, shall be
to him shortly as bitter as coloquintida. She must
change for youth: when she is sated with his body,
she will find the error of her choice: she must
have change, she must: therefore put money in thy
purse. If thou wilt needs damn thyself, do it a
more delicate way than drowning. Make all the money
thou canst: if sanctimony and a frail vow betwixt
an erring barbarian and a supersubtle Venetian not
too hard for my wits and all the tribe of hell, thou
shalt enjoy her; therefore make money. A pox of
drowning thyself! it is clean out of the way: seek
thou rather to be hanged in compassing thy joy than
to be drowned and go without her.
RODERIGO

Wilt thou be fast to my hopes, if I depend on
the issue?
IAGO

Thou art sure of me:–go, make money:–I have told
thee often, and I re-tell thee again and again, I
hate the Moor: my cause is hearted; thine hath no
less reason. Let us be conjunctive in our revenge
against him: if thou canst cuckold him, thou dost
thyself a pleasure, me a sport. There are many
events in the womb of time which will be delivered.
Traverse! go, provide thy money. We will have more
of this to-morrow. Adieu.
RODERIGO

Where shall we meet i’ the morning?
IAGO

At my lodging.
RODERIGO

I’ll be with thee betimes.
IAGO

Go to; farewell. Do you hear, Roderigo?
RODERIGO

What say you?
IAGO

No more of drowning, do you hear?
RODERIGO

I am changed: I’ll go sell all my land.
Exit
IAGO

Thus do I ever make my fool my purse:
For I mine own gain’d knowledge should profane,
If I would time expend with such a snipe.
But for my sport and profit. I hate the Moor:
And it is thought abroad, that ‘twixt my sheets
He has done my office: I know not if’t be true;
But I, for mere suspicion in that kind,
Will do as if for surety. He holds me well;
The better shall my purpose work on him.
Cassio’s a proper man: let me see now:
To get his place and to plume up my will
In double knavery–How, how? Let’s see:–
After some time, to abuse Othello’s ear
That he is too familiar with his wife.
He hath a person and a smooth dispose
To be suspected, framed to make women false.
The Moor is of a free and open nature,
That thinks men honest that but seem to be so,
And will as tenderly be led by the nose
As asses are.
I have’t. It is engender’d. Hell and night
Must bring this monstrous birth to the world’s light.
Exit

ACT II
SCENE I. A Sea-port in Cyprus. An open place near the quay.

Enter MONTANO and two Gentlemen
MONTANO

What from the cape can you discern at sea?
First Gentleman

Nothing at all: it is a highwrought flood;
I cannot, ‘twixt the heaven and the main,
Descry a sail.
MONTANO

Methinks the wind hath spoke aloud at land;
A fuller blast ne’er shook our battlements:
If it hath ruffian’d so upon the sea,
What ribs of oak, when mountains melt on them,
Can hold the mortise? What shall we hear of this?
Second Gentleman

A segregation of the Turkish fleet:
For do but stand upon the foaming shore,
The chidden billow seems to pelt the clouds;
The wind-shaked surge, with high and monstrous mane,
seems to cast water on the burning bear,
And quench the guards of the ever-fixed pole:
I never did like molestation view
On the enchafed flood.
MONTANO

If that the Turkish fleet
Be not enshelter’d and embay’d, they are drown’d:
It is impossible they bear it out.
Enter a third Gentleman
Third Gentleman

News, lads! our wars are done.
The desperate tempest hath so bang’d the Turks,
That their designment halts: a noble ship of Venice
Hath seen a grievous wreck and sufferance
On most part of their fleet.
MONTANO

How! is this true?
Third Gentleman

The ship is here put in,
A Veronesa; Michael Cassio,
Lieutenant to the warlike Moor Othello,
Is come on shore: the Moor himself at sea,
And is in full commission here for Cyprus.
MONTANO

I am glad on’t; ’tis a worthy governor.
Third Gentleman

But this same Cassio, though he speak of comfort
Touching the Turkish loss, yet he looks sadly,
And prays the Moor be safe; for they were parted
With foul and violent tempest.
MONTANO

Pray heavens he be;
For I have served him, and the man commands
Like a full soldier. Let’s to the seaside, ho!
As well to see the vessel that’s come in
As to throw out our eyes for brave Othello,
Even till we make the main and the aerial blue
An indistinct regard.
Third Gentleman

Come, let’s do so:
For every minute is expectancy
Of more arrivance.
Enter CASSIO
CASSIO

Thanks, you the valiant of this warlike isle,
That so approve the Moor! O, let the heavens
Give him defence against the elements,
For I have lost us him on a dangerous sea.
MONTANO

Is he well shipp’d?
CASSIO

His bark is stoutly timber’d, his pilot
Of very expert and approved allowance;
Therefore my hopes, not surfeited to death,
Stand in bold cure.
A cry within ‘A sail, a sail, a sail!’
Enter a fourth Gentleman
CASSIO

What noise?
Fourth Gentleman

The town is empty; on the brow o’ the sea
Stand ranks of people, and they cry ‘A sail!’
CASSIO

My hopes do shape him for the governor.
Guns heard
Second Gentlemen

They do discharge their shot of courtesy:
Our friends at least.
CASSIO

I pray you, sir, go forth,
And give us truth who ’tis that is arrived.
Second Gentleman

I shall.
Exit
MONTANO

But, good lieutenant, is your general wived?
CASSIO

Most fortunately: he hath achieved a maid
That paragons description and wild fame;
One that excels the quirks of blazoning pens,
And in the essential vesture of creation
Does tire the ingener.
Re-enter second Gentleman
How now! who has put in?
Second Gentleman

‘Tis one Iago, ancient to the general.
CASSIO

Has had most favourable and happy speed:
Tempests themselves, high seas, and howling winds,
The gutter’d rocks and congregated sands–
Traitors ensteep’d to clog the guiltless keel,–
As having sense of beauty, do omit
Their mortal natures, letting go safely by
The divine Desdemona.
MONTANO

What is she?
CASSIO

She that I spake of, our great captain’s captain,
Left in the conduct of the bold Iago,
Whose footing here anticipates our thoughts
A se’nnight’s speed. Great Jove, Othello guard,
And swell his sail with thine own powerful breath,
That he may bless this bay with his tall ship,
Make love’s quick pants in Desdemona’s arms,
Give renew’d fire to our extincted spirits
And bring all Cyprus comfort!
Enter DESDEMONA, EMILIA, IAGO, RODERIGO, and Attendants
O, behold,
The riches of the ship is come on shore!
Ye men of Cyprus, let her have your knees.
Hail to thee, lady! and the grace of heaven,
Before, behind thee, and on every hand,
Enwheel thee round!
DESDEMONA

I thank you, valiant Cassio.
What tidings can you tell me of my lord?
CASSIO

He is not yet arrived: nor know I aught
But that he’s well and will be shortly here.
DESDEMONA

O, but I fear–How lost you company?
CASSIO

The great contention of the sea and skies
Parted our fellowship–But, hark! a sail.
Within ‘A sail, a sail!’ Guns heard
Second Gentleman

They give their greeting to the citadel;
This likewise is a friend.
CASSIO

See for the news.
Exit Gentleman
Good ancient, you are welcome.
To EMILIA
Welcome, mistress.
Let it not gall your patience, good Iago,
That I extend my manners; ’tis my breeding
That gives me this bold show of courtesy.
Kissing her
IAGO

Sir, would she give you so much of her lips
As of her tongue she oft bestows on me,
You’ll have enough.
DESDEMONA

Alas, she has no speech.
IAGO

In faith, too much;
I find it still, when I have list to sleep:
Marry, before your ladyship, I grant,
She puts her tongue a little in her heart,
And chides with thinking.
EMILIA

You have little cause to say so.
IAGO

Come on, come on; you are pictures out of doors,
Bells in your parlors, wild-cats in your kitchens,
Saints m your injuries, devils being offended,
Players in your housewifery, and housewives’ in your beds.
DESDEMONA

O, fie upon thee, slanderer!
IAGO

Nay, it is true, or else I am a Turk:
You rise to play and go to bed to work.
EMILIA

You shall not write my praise.
IAGO

No, let me not.
DESDEMONA

What wouldst thou write of me, if thou shouldst
praise me?
IAGO

O gentle lady, do not put me to’t;
For I am nothing, if not critical.
DESDEMONA

Come on assay. There’s one gone to the harbour?
IAGO

Ay, madam.
DESDEMONA

I am not merry; but I do beguile
The thing I am, by seeming otherwise.
Come, how wouldst thou praise me?
IAGO

I am about it; but indeed my invention
Comes from my pate as birdlime does from frize;
It plucks out brains and all: but my Muse labours,
And thus she is deliver’d.
If she be fair and wise, fairness and wit,
The one’s for use, the other useth it.
DESDEMONA

Well praised! How if she be black and witty?
IAGO

If she be black, and thereto have a wit,
She’ll find a white that shall her blackness fit.
DESDEMONA

Worse and worse.
EMILIA

How if fair and foolish?
IAGO

She never yet was foolish that was fair;
For even her folly help’d her to an heir.
DESDEMONA

These are old fond paradoxes to make fools laugh i’
the alehouse. What miserable praise hast thou for
her that’s foul and foolish?
IAGO

There’s none so foul and foolish thereunto,
But does foul pranks which fair and wise ones do.
DESDEMONA

O heavy ignorance! thou praisest the worst best.
But what praise couldst thou bestow on a deserving
woman indeed, one that, in the authority of her
merit, did justly put on the vouch of very malice itself?
IAGO

She that was ever fair and never proud,
Had tongue at will and yet was never loud,
Never lack’d gold and yet went never gay,
Fled from her wish and yet said ‘Now I may,’
She that being anger’d, her revenge being nigh,
Bade her wrong stay and her displeasure fly,
She that in wisdom never was so frail
To change the cod’s head for the salmon’s tail;
She that could think and ne’er disclose her mind,
See suitors following and not look behind,
She was a wight, if ever such wight were,–
DESDEMONA

To do what?
IAGO

To suckle fools and chronicle small beer.
DESDEMONA

O most lame and impotent conclusion! Do not learn
of him, Emilia, though he be thy husband. How say
you, Cassio? is he not a most profane and liberal
counsellor?
CASSIO

He speaks home, madam: You may relish him more in
the soldier than in the scholar.
IAGO

[Aside] He takes her by the palm: ay, well said,
whisper: with as little a web as this will I
ensnare as great a fly as Cassio. Ay, smile upon
her, do; I will gyve thee in thine own courtship.
You say true; ’tis so, indeed: if such tricks as
these strip you out of your lieutenantry, it had
been better you had not kissed your three fingers so
oft, which now again you are most apt to play the
sir in. Very good; well kissed! an excellent
courtesy! ’tis so, indeed. Yet again your fingers
to your lips? would they were clyster-pipes for your sake!
Trumpet within
The Moor! I know his trumpet.
CASSIO

‘Tis truly so.
DESDEMONA

Let’s meet him and receive him.
CASSIO

Lo, where he comes!
Enter OTHELLO and Attendants
OTHELLO

O my fair warrior!
DESDEMONA

My dear Othello!
OTHELLO

It gives me wonder great as my content
To see you here before me. O my soul’s joy!
If after every tempest come such calms,
May the winds blow till they have waken’d death!
And let the labouring bark climb hills of seas
Olympus-high and duck again as low
As hell’s from heaven! If it were now to die,
‘Twere now to be most happy; for, I fear,
My soul hath her content so absolute
That not another comfort like to this
Succeeds in unknown fate.
DESDEMONA

The heavens forbid
But that our loves and comforts should increase,
Even as our days do grow!
OTHELLO

Amen to that, sweet powers!
I cannot speak enough of this content;
It stops me here; it is too much of joy:
And this, and this, the greatest discords be
Kissing her
That e’er our hearts shall make!
IAGO

[Aside] O, you are well tuned now!
But I’ll set down the pegs that make this music,
As honest as I am.
OTHELLO

Come, let us to the castle.
News, friends; our wars are done, the Turks
are drown’d.
How does my old acquaintance of this isle?
Honey, you shall be well desired in Cyprus;
I have found great love amongst them. O my sweet,
I prattle out of fashion, and I dote
In mine own comforts. I prithee, good Iago,
Go to the bay and disembark my coffers:
Bring thou the master to the citadel;
He is a good one, and his worthiness
Does challenge much respect. Come, Desdemona,
Once more, well met at Cyprus.
Exeunt OTHELLO, DESDEMONA, and Attendants
IAGO

Do thou meet me presently at the harbour. Come
hither. If thou be’st valiant,– as, they say, base
men being in love have then a nobility in their
natures more than is native to them–list me. The
lieutenant tonight watches on the court of
guard:–first, I must tell thee this–Desdemona is
directly in love with him.
RODERIGO

With him! why, ’tis not possible.
IAGO

Lay thy finger thus, and let thy soul be instructed.
Mark me with what violence she first loved the Moor,
but for bragging and telling her fantastical lies:
and will she love him still for prating? let not
thy discreet heart think it. Her eye must be fed;
and what delight shall she have to look on the
devil? When the blood is made dull with the act of
sport, there should be, again to inflame it and to
give satiety a fresh appetite, loveliness in favour,
sympathy in years, manners and beauties; all which
the Moor is defective in: now, for want of these
required conveniences, her delicate tenderness will
find itself abused, begin to heave the gorge,
disrelish and abhor the Moor; very nature will
instruct her in it and compel her to some second
choice. Now, sir, this granted,–as it is a most
pregnant and unforced position–who stands so
eminent in the degree of this fortune as Cassio
does? a knave very voluble; no further
conscionable than in putting on the mere form of
civil and humane seeming, for the better compassing
of his salt and most hidden loose affection? why,
none; why, none: a slipper and subtle knave, a
finder of occasions, that has an eye can stamp and
counterfeit advantages, though true advantage never
present itself; a devilish knave. Besides, the
knave is handsome, young, and hath all those
requisites in him that folly and green minds look
after: a pestilent complete knave; and the woman
hath found him already.
RODERIGO

I cannot believe that in her; she’s full of
most blessed condition.
IAGO

Blessed fig’s-end! the wine she drinks is made of
grapes: if she had been blessed, she would never
have loved the Moor. Blessed pudding! Didst thou
not see her paddle with the palm of his hand? didst
not mark that?
RODERIGO

Yes, that I did; but that was but courtesy.
IAGO

Lechery, by this hand; an index and obscure prologue
to the history of lust and foul thoughts. They met
so near with their lips that their breaths embraced
together. Villanous thoughts, Roderigo! when these
mutualities so marshal the way, hard at hand comes
the master and main exercise, the incorporate
conclusion, Pish! But, sir, be you ruled by me: I
have brought you from Venice. Watch you to-night;
for the command, I’ll lay’t upon you. Cassio knows
you not. I’ll not be far from you: do you find
some occasion to anger Cassio, either by speaking
too loud, or tainting his discipline; or from what
other course you please, which the time shall more
favourably minister.
RODERIGO

Well.
IAGO

Sir, he is rash and very sudden in choler, and haply
may strike at you: provoke him, that he may; for
even out of that will I cause these of Cyprus to
mutiny; whose qualification shall come into no true
taste again but by the displanting of Cassio. So
shall you have a shorter journey to your desires by
the means I shall then have to prefer them; and the
impediment most profitably removed, without the
which there were no expectation of our prosperity.
RODERIGO

I will do this, if I can bring it to any
opportunity.
IAGO

I warrant thee. Meet me by and by at the citadel:
I must fetch his necessaries ashore. Farewell.
RODERIGO

Adieu.
Exit
IAGO

That Cassio loves her, I do well believe it;
That she loves him, ’tis apt and of great credit:
The Moor, howbeit that I endure him not,
Is of a constant, loving, noble nature,
And I dare think he’ll prove to Desdemona
A most dear husband. Now, I do love her too;
Not out of absolute lust, though peradventure
I stand accountant for as great a sin,
But partly led to diet my revenge,
For that I do suspect the lusty Moor
Hath leap’d into my seat; the thought whereof
Doth, like a poisonous mineral, gnaw my inwards;
And nothing can or shall content my soul
Till I am even’d with him, wife for wife,
Or failing so, yet that I put the Moor
At least into a jealousy so strong
That judgment cannot cure. Which thing to do,
If this poor trash of Venice, whom I trash
For his quick hunting, stand the putting on,
I’ll have our Michael Cassio on the hip,
Abuse him to the Moor in the rank garb–
For I fear Cassio with my night-cap too–
Make the Moor thank me, love me and reward me.
For making him egregiously an ass
And practising upon his peace and quiet
Even to madness. ‘Tis here, but yet confused:
Knavery’s plain face is never seen tin used.
Exit

SCENE II. A street.

Enter a Herald with a proclamation; People following
Herald

It is Othello’s pleasure, our noble and valiant
general, that, upon certain tidings now arrived,
importing the mere perdition of the Turkish fleet,
every man put himself into triumph; some to dance,
some to make bonfires, each man to what sport and
revels his addiction leads him: for, besides these
beneficial news, it is the celebration of his
nuptial. So much was his pleasure should be
proclaimed. All offices are open, and there is full
liberty of feasting from this present hour of five
till the bell have told eleven. Heaven bless the
isle of Cyprus and our noble general Othello!
Exeunt

SCENE III. A hall in the castle.

Enter OTHELLO, DESDEMONA, CASSIO, and Attendants
OTHELLO

Good Michael, look you to the guard to-night:
Let’s teach ourselves that honourable stop,
Not to outsport discretion.
CASSIO

Iago hath direction what to do;
But, notwithstanding, with my personal eye
Will I look to’t.
OTHELLO

Iago is most honest.
Michael, good night: to-morrow with your earliest
Let me have speech with you.
To DESDEMONA
Come, my dear love,
The purchase made, the fruits are to ensue;
That profit’s yet to come ‘tween me and you.
Good night.
Exeunt OTHELLO, DESDEMONA, and Attendants
Enter IAGO
CASSIO

Welcome, Iago; we must to the watch.
IAGO

Not this hour, lieutenant; ’tis not yet ten o’ the
clock. Our general cast us thus early for the love
of his Desdemona; who let us not therefore blame:
he hath not yet made wanton the night with her; and
she is sport for Jove.
CASSIO

She’s a most exquisite lady.
IAGO

And, I’ll warrant her, fun of game.
CASSIO

Indeed, she’s a most fresh and delicate creature.
IAGO

What an eye she has! methinks it sounds a parley of
provocation.
CASSIO

An inviting eye; and yet methinks right modest.
IAGO

And when she speaks, is it not an alarum to love?
CASSIO

She is indeed perfection.
IAGO

Well, happiness to their sheets! Come, lieutenant, I
have a stoup of wine; and here without are a brace
of Cyprus gallants that would fain have a measure to
the health of black Othello.
CASSIO

Not to-night, good Iago: I have very poor and
unhappy brains for drinking: I could well wish
courtesy would invent some other custom of
entertainment.
IAGO

O, they are our friends; but one cup: I’ll drink for
you.
CASSIO

I have drunk but one cup to-night, and that was
craftily qualified too, and, behold, what innovation
it makes here: I am unfortunate in the infirmity,
and dare not task my weakness with any more.
IAGO

What, man! ’tis a night of revels: the gallants
desire it.
CASSIO

Where are they?
IAGO

Here at the door; I pray you, call them in.
CASSIO

I’ll do’t; but it dislikes me.
Exit
IAGO

If I can fasten but one cup upon him,
With that which he hath drunk to-night already,
He’ll be as full of quarrel and offence
As my young mistress’ dog. Now, my sick fool Roderigo,
Whom love hath turn’d almost the wrong side out,
To Desdemona hath to-night caroused
Potations pottle-deep; and he’s to watch:
Three lads of Cyprus, noble swelling spirits,
That hold their honours in a wary distance,
The very elements of this warlike isle,
Have I to-night fluster’d with flowing cups,
And they watch too. Now, ‘mongst this flock of drunkards,
Am I to put our Cassio in some action
That may offend the isle.–But here they come:
If consequence do but approve my dream,
My boat sails freely, both with wind and stream.
Re-enter CASSIO; with him MONTANO and Gentlemen; servants following with wine
CASSIO

‘Fore God, they have given me a rouse already.
MONTANO

Good faith, a little one; not past a pint, as I am
a soldier.
IAGO

Some wine, ho!
Sings
And let me the canakin clink, clink;
And let me the canakin clink
A soldier’s a man;
A life’s but a span;
Why, then, let a soldier drink.
Some wine, boys!
CASSIO

‘Fore God, an excellent song.
IAGO

I learned it in England, where, indeed, they are
most potent in potting: your Dane, your German, and
your swag-bellied Hollander–Drink, ho!–are nothing
to your English.
CASSIO

Is your Englishman so expert in his drinking?
IAGO

Why, he drinks you, with facility, your Dane dead
drunk; he sweats not to overthrow your Almain; he
gives your Hollander a vomit, ere the next pottle
can be filled.
CASSIO

To the health of our general!
MONTANO

I am for it, lieutenant; and I’ll do you justice.
IAGO

O sweet England!
King Stephen was a worthy peer,
His breeches cost him but a crown;
He held them sixpence all too dear,
With that he call’d the tailor lown.
He was a wight of high renown,
And thou art but of low degree:
‘Tis pride that pulls the country down;
Then take thine auld cloak about thee.
Some wine, ho!
CASSIO

Why, this is a more exquisite song than the other.
IAGO

Will you hear’t again?
CASSIO

No; for I hold him to be unworthy of his place that
does those things. Well, God’s above all; and there
be souls must be saved, and there be souls must not be saved.
IAGO

It’s true, good lieutenant.
CASSIO

For mine own part,–no offence to the general, nor
any man of quality,–I hope to be saved.
IAGO

And so do I too, lieutenant.
CASSIO

Ay, but, by your leave, not before me; the
lieutenant is to be saved before the ancient. Let’s
have no more of this; let’s to our affairs.–Forgive
us our sins!–Gentlemen, let’s look to our business.
Do not think, gentlemen. I am drunk: this is my
ancient; this is my right hand, and this is my left:
I am not drunk now; I can stand well enough, and
speak well enough.
All

Excellent well.
CASSIO

Why, very well then; you must not think then that I am drunk.
Exit
MONTANO

To the platform, masters; come, let’s set the watch.
IAGO

You see this fellow that is gone before;
He is a soldier fit to stand by Caesar
And give direction: and do but see his vice;
‘Tis to his virtue a just equinox,
The one as long as the other: ’tis pity of him.
I fear the trust Othello puts him in.
On some odd time of his infirmity,
Will shake this island.
MONTANO

But is he often thus?
IAGO

‘Tis evermore the prologue to his sleep:
He’ll watch the horologe a double set,
If drink rock not his cradle.
MONTANO

It were well
The general were put in mind of it.
Perhaps he sees it not; or his good nature
Prizes the virtue that appears in Cassio,
And looks not on his evils: is not this true?
Enter RODERIGO
IAGO

[Aside to him] How now, Roderigo!
I pray you, after the lieutenant; go.
Exit RODERIGO
MONTANO

And ’tis great pity that the noble Moor
Should hazard such a place as his own second
With one of an ingraft infirmity:
It were an honest action to say
So to the Moor.
IAGO

Not I, for this fair island:
I do love Cassio well; and would do much
To cure him of this evil–But, hark! what noise?
Cry within: ‘Help! help!’
Re-enter CASSIO, driving in RODERIGO
CASSIO

You rogue! you rascal!
MONTANO

What’s the matter, lieutenant?
CASSIO

A knave teach me my duty!
I’ll beat the knave into a twiggen bottle.
RODERIGO

Beat me!
CASSIO

Dost thou prate, rogue?
Striking RODERIGO
MONTANO

Nay, good lieutenant;
Staying him
I pray you, sir, hold your hand.
CASSIO

Let me go, sir,
Or I’ll knock you o’er the mazzard.
MONTANO

Come, come,
you’re drunk.
CASSIO

Drunk!
They fight
IAGO

[Aside to RODERIGO] Away, I say; go out, and cry a mutiny.
Exit RODERIGO
Nay, good lieutenant,–alas, gentlemen;–
Help, ho!–Lieutenant,–sir,–Montano,–sir;
Help, masters!–Here’s a goodly watch indeed!
Bell rings
Who’s that which rings the bell?–Diablo, ho!
The town will rise: God’s will, lieutenant, hold!
You will be shamed for ever.
Re-enter OTHELLO and Attendants
OTHELLO

What is the matter here?
MONTANO

‘Zounds, I bleed still; I am hurt to the death.
Faints
OTHELLO

Hold, for your lives!
IAGO

Hold, ho! Lieutenant,–sir–Montano,–gentlemen,–
Have you forgot all sense of place and duty?
Hold! the general speaks to you; hold, hold, for shame!
OTHELLO

Why, how now, ho! from whence ariseth this?
Are we turn’d Turks, and to ourselves do that
Which heaven hath forbid the Ottomites?
For Christian shame, put by this barbarous brawl:
He that stirs next to carve for his own rage
Holds his soul light; he dies upon his motion.
Silence that dreadful bell: it frights the isle
From her propriety. What is the matter, masters?
Honest Iago, that look’st dead with grieving,
Speak, who began this? on thy love, I charge thee.
IAGO

I do not know: friends all but now, even now,
In quarter, and in terms like bride and groom
Devesting them for bed; and then, but now–
As if some planet had unwitted men–
Swords out, and tilting one at other’s breast,
In opposition bloody. I cannot speak
Any beginning to this peevish odds;
And would in action glorious I had lost
Those legs that brought me to a part of it!
OTHELLO

How comes it, Michael, you are thus forgot?
CASSIO

I pray you, pardon me; I cannot speak.
OTHELLO

Worthy Montano, you were wont be civil;
The gravity and stillness of your youth
The world hath noted, and your name is great
In mouths of wisest censure: what’s the matter,
That you unlace your reputation thus
And spend your rich opinion for the name
Of a night-brawler? give me answer to it.
MONTANO

Worthy Othello, I am hurt to danger:
Your officer, Iago, can inform you,–
While I spare speech, which something now
offends me,–
Of all that I do know: nor know I aught
By me that’s said or done amiss this night;
Unless self-charity be sometimes a vice,
And to defend ourselves it be a sin
When violence assails us.
OTHELLO

Now, by heaven,
My blood begins my safer guides to rule;
And passion, having my best judgment collied,
Assays to lead the way: if I once stir,
Or do but lift this arm, the best of you
Shall sink in my rebuke. Give me to know
How this foul rout began, who set it on;
And he that is approved in this offence,
Though he had twinn’d with me, both at a birth,
Shall lose me. What! in a town of war,
Yet wild, the people’s hearts brimful of fear,
To manage private and domestic quarrel,
In night, and on the court and guard of safety!
‘Tis monstrous. Iago, who began’t?
MONTANO

If partially affined, or leagued in office,
Thou dost deliver more or less than truth,
Thou art no soldier.
IAGO

Touch me not so near:
I had rather have this tongue cut from my mouth
Than it should do offence to Michael Cassio;
Yet, I persuade myself, to speak the truth
Shall nothing wrong him. Thus it is, general.
Montano and myself being in speech,
There comes a fellow crying out for help:
And Cassio following him with determined sword,
To execute upon him. Sir, this gentleman
Steps in to Cassio, and entreats his pause:
Myself the crying fellow did pursue,
Lest by his clamour–as it so fell out–
The town might fall in fright: he, swift of foot,
Outran my purpose; and I return’d the rather
For that I heard the clink and fall of swords,
And Cassio high in oath; which till to-night
I ne’er might say before. When I came back–
For this was brief–I found them close together,
At blow and thrust; even as again they were
When you yourself did part them.
More of this matter cannot I report:
But men are men; the best sometimes forget:
Though Cassio did some little wrong to him,
As men in rage strike those that wish them best,
Yet surely Cassio, I believe, received
From him that fled some strange indignity,
Which patience could not pass.
OTHELLO

I know, Iago,
Thy honesty and love doth mince this matter,
Making it light to Cassio. Cassio, I love thee
But never more be officer of mine.
Re-enter DESDEMONA, attended
Look, if my gentle love be not raised up!
I’ll make thee an example.
DESDEMONA

What’s the matter?
OTHELLO

All’s well now, sweeting; come away to bed.
Sir, for your hurts, myself will be your surgeon:
Lead him off.
To MONTANO, who is led off
Iago, look with care about the town,
And silence those whom this vile brawl distracted.
Come, Desdemona: ’tis the soldiers’ life
To have their balmy slumbers waked with strife.
Exeunt all but IAGO and CASSIO
IAGO

What, are you hurt, lieutenant?
CASSIO

Ay, past all surgery.
IAGO

Marry, heaven forbid!
CASSIO

Reputation, reputation, reputation! O, I have lost
my reputation! I have lost the immortal part of
myself, and what remains is bestial. My reputation,
Iago, my reputation!
IAGO

As I am an honest man, I thought you had received
some bodily wound; there is more sense in that than
in reputation. Reputation is an idle and most false
imposition: oft got without merit, and lost without
deserving: you have lost no reputation at all,
unless you repute yourself such a loser. What, man!
there are ways to recover the general again: you
are but now cast in his mood, a punishment more in
policy than in malice, even so as one would beat his
offenceless dog to affright an imperious lion: sue
to him again, and he’s yours.
CASSIO

I will rather sue to be despised than to deceive so
good a commander with so slight, so drunken, and so
indiscreet an officer. Drunk? and speak parrot?
and squabble? swagger? swear? and discourse
fustian with one’s own shadow? O thou invisible
spirit of wine, if thou hast no name to be known by,
let us call thee devil!
IAGO

What was he that you followed with your sword? What
had he done to you?
CASSIO

I know not.
IAGO

Is’t possible?
CASSIO

I remember a mass of things, but nothing distinctly;
a quarrel, but nothing wherefore. O God, that men
should put an enemy in their mouths to steal away
their brains! that we should, with joy, pleasance
revel and applause, transform ourselves into beasts!
IAGO

Why, but you are now well enough: how came you thus
recovered?
CASSIO

It hath pleased the devil drunkenness to give place
to the devil wrath; one unperfectness shows me
another, to make me frankly despise myself.
IAGO

Come, you are too severe a moraler: as the time,
the place, and the condition of this country
stands, I could heartily wish this had not befallen;
but, since it is as it is, mend it for your own good.
CASSIO

I will ask him for my place again; he shall tell me
I am a drunkard! Had I as many mouths as Hydra,
such an answer would stop them all. To be now a
sensible man, by and by a fool, and presently a
beast! O strange! Every inordinate cup is
unblessed and the ingredient is a devil.
IAGO

Come, come, good wine is a good familiar creature,
if it be well used: exclaim no more against it.
And, good lieutenant, I think you think I love you.
CASSIO

I have well approved it, sir. I drunk!
IAGO

You or any man living may be drunk! at a time, man.
I’ll tell you what you shall do. Our general’s wife
is now the general: may say so in this respect, for
that he hath devoted and given up himself to the
contemplation, mark, and denotement of her parts and
graces: confess yourself freely to her; importune
her help to put you in your place again: she is of
so free, so kind, so apt, so blessed a disposition,
she holds it a vice in her goodness not to do more
than she is requested: this broken joint between
you and her husband entreat her to splinter; and, my
fortunes against any lay worth naming, this
crack of your love shall grow stronger than it was before.
CASSIO

You advise me well.
IAGO

I protest, in the sincerity of love and honest kindness.
CASSIO

I think it freely; and betimes in the morning I will
beseech the virtuous Desdemona to undertake for me:
I am desperate of my fortunes if they cheque me here.
IAGO

You are in the right. Good night, lieutenant; I
must to the watch.
CASSIO: Good night, honest Iago.
Exit
IAGO

And what’s he then that says I play the villain?
When this advice is free I give and honest,
Probal to thinking and indeed the course
To win the Moor again? For ’tis most easy
The inclining Desdemona to subdue
In any honest suit: she’s framed as fruitful
As the free elements. And then for her
To win the Moor–were’t to renounce his baptism,
All seals and symbols of redeemed sin,
His soul is so enfetter’d to her love,
That she may make, unmake, do what she list,
Even as her appetite shall play the god
With his weak function. How am I then a villain
To counsel Cassio to this parallel course,
Directly to his good? Divinity of hell!
When devils will the blackest sins put on,
They do suggest at first with heavenly shows,
As I do now: for whiles this honest fool
Plies Desdemona to repair his fortunes
And she for him pleads strongly to the Moor,
I’ll pour this pestilence into his ear,
That she repeals him for her body’s lust;
And by how much she strives to do him good,
She shall undo her credit with the Moor.
So will I turn her virtue into pitch,
And out of her own goodness make the net
That shall enmesh them all.
Re-enter RODERIGO
How now, Roderigo!
RODERIGO

I do follow here in the chase, not like a hound that
hunts, but one that fills up the cry. My money is
almost spent; I have been to-night exceedingly well
cudgelled; and I think the issue will be, I shall
have so much experience for my pains, and so, with
no money at all and a little more wit, return again to Venice.
IAGO

How poor are they that have not patience!
What wound did ever heal but by degrees?
Thou know’st we work by wit, and not by witchcraft;
And wit depends on dilatory time.
Does’t not go well? Cassio hath beaten thee.
And thou, by that small hurt, hast cashier’d Cassio:
Though other things grow fair against the sun,
Yet fruits that blossom first will first be ripe:
Content thyself awhile. By the mass, ’tis morning;
Pleasure and action make the hours seem short.
Retire thee; go where thou art billeted:
Away, I say; thou shalt know more hereafter:
Nay, get thee gone.
Exit RODERIGO
Two things are to be done:
My wife must move for Cassio to her mistress;
I’ll set her on;
Myself the while to draw the Moor apart,
And bring him jump when he may Cassio find
Soliciting his wife: ay, that’s the way
Dull not device by coldness and delay.
Exit

ACT III
SCENE I. Before the castle.

Enter CASSIO and some Musicians
CASSIO

Masters, play here; I will content your pains;
Something that’s brief; and bid ‘Good morrow, general.’
Music
Enter Clown
Clown

Why masters, have your instruments been in Naples,
that they speak i’ the nose thus?
First Musician

How, sir, how!
Clown

Are these, I pray you, wind-instruments?
First Musician

Ay, marry, are they, sir.
Clown

O, thereby hangs a tail.
First Musician

Whereby hangs a tale, sir?
Clown

Marry. sir, by many a wind-instrument that I know.
But, masters, here’s money for you: and the general
so likes your music, that he desires you, for love’s
sake, to make no more noise with it.
First Musician

Well, sir, we will not.
Clown

If you have any music that may not be heard, to’t
again: but, as they say to hear music the general
does not greatly care.
First Musician

We have none such, sir.
Clown

Then put up your pipes in your bag, for I’ll away:
go; vanish into air; away!
Exeunt Musicians
CASSIO

Dost thou hear, my honest friend?
Clown

No, I hear not your honest friend; I hear you.
CASSIO

Prithee, keep up thy quillets. There’s a poor piece
of gold for thee: if the gentlewoman that attends
the general’s wife be stirring, tell her there’s
one Cassio entreats her a little favour of speech:
wilt thou do this?
Clown

She is stirring, sir: if she will stir hither, I
shall seem to notify unto her.
CASSIO

Do, good my friend.
Exit Clown
Enter IAGO
In happy time, Iago.
IAGO

You have not been a-bed, then?
CASSIO

Why, no; the day had broke
Before we parted. I have made bold, Iago,
To send in to your wife: my suit to her
Is, that she will to virtuous Desdemona
Procure me some access.
IAGO

I’ll send her to you presently;
And I’ll devise a mean to draw the Moor
Out of the way, that your converse and business
May be more free.
CASSIO

I humbly thank you for’t.
Exit IAGO
I never knew
A Florentine more kind and honest.
Enter EMILIA
EMILIA

Good morrow, good Lieutenant: I am sorry
For your displeasure; but all will sure be well.
The general and his wife are talking of it;
And she speaks for you stoutly: the Moor replies,
That he you hurt is of great fame in Cyprus,
And great affinity, and that in wholesome wisdom
He might not but refuse you; but he protests he loves you
And needs no other suitor but his likings
To take the safest occasion by the front
To bring you in again.
CASSIO

Yet, I beseech you,
If you think fit, or that it may be done,
Give me advantage of some brief discourse
With Desdemona alone.
EMILIA

Pray you, come in;
I will bestow you where you shall have time
To speak your bosom freely.
CASSIO

I am much bound to you.
Exeunt

SCENE II. A room in the castle.

Enter OTHELLO, IAGO, and Gentlemen
OTHELLO

These letters give, Iago, to the pilot;
And by him do my duties to the senate:
That done, I will be walking on the works;
Repair there to me.
IAGO

Well, my good lord, I’ll do’t.
OTHELLO

This fortification, gentlemen, shall we see’t?
Gentleman

We’ll wait upon your lordship.
Exeunt

SCENE III. The garden of the castle.

Enter DESDEMONA, CASSIO, and EMILIA
DESDEMONA

Be thou assured, good Cassio, I will do
All my abilities in thy behalf.
EMILIA

Good madam, do: I warrant it grieves my husband,
As if the case were his.
DESDEMONA

O, that’s an honest fellow. Do not doubt, Cassio,
But I will have my lord and you again
As friendly as you were.
CASSIO

Bounteous madam,
Whatever shall become of Michael Cassio,
He’s never any thing but your true servant.
DESDEMONA

I know’t; I thank you. You do love my lord:
You have known him long; and be you well assured
He shall in strangeness stand no further off
Than in a polite distance.
CASSIO

Ay, but, lady,
That policy may either last so long,
Or feed upon such nice and waterish diet,
Or breed itself so out of circumstance,
That, I being absent and my place supplied,
My general will forget my love and service.
DESDEMONA

Do not doubt that; before Emilia here
I give thee warrant of thy place: assure thee,
If I do vow a friendship, I’ll perform it
To the last article: my lord shall never rest;
I’ll watch him tame and talk him out of patience;
His bed shall seem a school, his board a shrift;
I’ll intermingle every thing he does
With Cassio’s suit: therefore be merry, Cassio;
For thy solicitor shall rather die
Than give thy cause away.
EMILIA

Madam, here comes my lord.
CASSIO

Madam, I’ll take my leave.
DESDEMONA

Why, stay, and hear me speak.
CASSIO

Madam, not now: I am very ill at ease,
Unfit for mine own purposes.
DESDEMONA

Well, do your discretion.
Exit CASSIO
Enter OTHELLO and IAGO
IAGO

Ha! I like not that.
OTHELLO

What dost thou say?
IAGO

Nothing, my lord: or if–I know not what.
OTHELLO

Was not that Cassio parted from my wife?
IAGO

Cassio, my lord! No, sure, I cannot think it,
That he would steal away so guilty-like,
Seeing you coming.
OTHELLO

I do believe ’twas he.
DESDEMONA

How now, my lord!
I have been talking with a suitor here,
A man that languishes in your displeasure.
OTHELLO

Who is’t you mean?
DESDEMONA

Why, your lieutenant, Cassio. Good my lord,
If I have any grace or power to move you,
His present reconciliation take;
For if he be not one that truly loves you,
That errs in ignorance and not in cunning,
I have no judgment in an honest face:
I prithee, call him back.
OTHELLO

Went he hence now?
DESDEMONA

Ay, sooth; so humbled
That he hath left part of his grief with me,
To suffer with him. Good love, call him back.
OTHELLO

Not now, sweet Desdemona; some other time.
DESDEMONA

But shall’t be shortly?
OTHELLO

The sooner, sweet, for you.
DESDEMONA

Shall’t be to-night at supper?
OTHELLO

No, not to-night.
DESDEMONA

To-morrow dinner, then?
OTHELLO

I shall not dine at home;
I meet the captains at the citadel.
DESDEMONA

Why, then, to-morrow night; or Tuesday morn;
On Tuesday noon, or night; on Wednesday morn:
I prithee, name the time, but let it not
Exceed three days: in faith, he’s penitent;
And yet his trespass, in our common reason–
Save that, they say, the wars must make examples
Out of their best–is not almost a fault
To incur a private cheque. When shall he come?
Tell me, Othello: I wonder in my soul,
What you would ask me, that I should deny,
Or stand so mammering on. What! Michael Cassio,
That came a-wooing with you, and so many a time,
When I have spoke of you dispraisingly,
Hath ta’en your part; to have so much to do
To bring him in! Trust me, I could do much,–
OTHELLO

Prithee, no more: let him come when he will;
I will deny thee nothing.
DESDEMONA

Why, this is not a boon;
‘Tis as I should entreat you wear your gloves,
Or feed on nourishing dishes, or keep you warm,
Or sue to you to do a peculiar profit
To your own person: nay, when I have a suit
Wherein I mean to touch your love indeed,
It shall be full of poise and difficult weight
And fearful to be granted.
OTHELLO

I will deny thee nothing:
Whereon, I do beseech thee, grant me this,
To leave me but a little to myself.
DESDEMONA

Shall I deny you? no: farewell, my lord.
OTHELLO

Farewell, my Desdemona: I’ll come to thee straight.
DESDEMONA

Emilia, come. Be as your fancies teach you;
Whate’er you be, I am obedient.
Exeunt DESDEMONA and EMILIA
OTHELLO

Excellent wretch! Perdition catch my soul,
But I do love thee! and when I love thee not,
Chaos is come again.
IAGO

My noble lord–
OTHELLO

What dost thou say, Iago?
IAGO

Did Michael Cassio, when you woo’d my lady,
Know of your love?
OTHELLO

He did, from first to last: why dost thou ask?
IAGO

But for a satisfaction of my thought;
No further harm.
OTHELLO

Why of thy thought, Iago?
IAGO

I did not think he had been acquainted with her.
OTHELLO

O, yes; and went between us very oft.
IAGO

Indeed!
OTHELLO

Indeed! ay, indeed: discern’st thou aught in that?
Is he not honest?
IAGO

Honest, my lord!
OTHELLO

Honest! ay, honest.
IAGO

My lord, for aught I know.
OTHELLO

What dost thou think?
IAGO

Think, my lord!
OTHELLO

Think, my lord!
By heaven, he echoes me,
As if there were some monster in his thought
Too hideous to be shown. Thou dost mean something:
I heard thee say even now, thou likedst not that,
When Cassio left my wife: what didst not like?
And when I told thee he was of my counsel
In my whole course of wooing, thou criedst ‘Indeed!’
And didst contract and purse thy brow together,
As if thou then hadst shut up in thy brain
Some horrible conceit: if thou dost love me,
Show me thy thought.
IAGO

My lord, you know I love you.
OTHELLO

I think thou dost;
And, for I know thou’rt full of love and honesty,
And weigh’st thy words before thou givest them breath,
Therefore these stops of thine fright me the more:
For such things in a false disloyal knave
Are tricks of custom, but in a man that’s just
They are close delations, working from the heart
That passion cannot rule.
IAGO

For Michael Cassio,
I dare be sworn I think that he is honest.
OTHELLO

I think so too.
IAGO

Men should be what they seem;
Or those that be not, would they might seem none!
OTHELLO

Certain, men should be what they seem.
IAGO

Why, then, I think Cassio’s an honest man.
OTHELLO

Nay, yet there’s more in this:
I prithee, speak to me as to thy thinkings,
As thou dost ruminate, and give thy worst of thoughts
The worst of words.
IAGO

Good my lord, pardon me:
Though I am bound to every act of duty,
I am not bound to that all slaves are free to.
Utter my thoughts? Why, say they are vile and false;
As where’s that palace whereinto foul things
Sometimes intrude not? who has a breast so pure,
But some uncleanly apprehensions
Keep leets and law-days and in session sit
With meditations lawful?
OTHELLO

Thou dost conspire against thy friend, Iago,
If thou but think’st him wrong’d and makest his ear
A stranger to thy thoughts.
IAGO

I do beseech you–
Though I perchance am vicious in my guess,
As, I confess, it is my nature’s plague
To spy into abuses, and oft my jealousy
Shapes faults that are not–that your wisdom yet,
From one that so imperfectly conceits,
Would take no notice, nor build yourself a trouble
Out of his scattering and unsure observance.
It were not for your quiet nor your good,
Nor for my manhood, honesty, or wisdom,
To let you know my thoughts.
OTHELLO

What dost thou mean?
IAGO

Good name in man and woman, dear my lord,
Is the immediate jewel of their souls:
Who steals my purse steals trash; ’tis something, nothing;
‘Twas mine, ’tis his, and has been slave to thousands:
But he that filches from me my good name
Robs me of that which not enriches him
And makes me poor indeed.
OTHELLO

By heaven, I’ll know thy thoughts.
IAGO

You cannot, if my heart were in your hand;
Nor shall not, whilst ’tis in my custody.
OTHELLO

Ha!
IAGO

O, beware, my lord, of jealousy;
It is the green-eyed monster which doth mock
The meat it feeds on; that cuckold lives in bliss
Who, certain of his fate, loves not his wronger;
But, O, what damned minutes tells he o’er
Who dotes, yet doubts, suspects, yet strongly loves!
OTHELLO

O misery!
IAGO

Poor and content is rich and rich enough,
But riches fineless is as poor as winter
To him that ever fears he shall be poor.
Good heaven, the souls of all my tribe defend
From jealousy!
OTHELLO

Why, why is this?
Think’st thou I’ld make a lie of jealousy,
To follow still the changes of the moon
With fresh suspicions? No; to be once in doubt
Is once to be resolved: exchange me for a goat,
When I shall turn the business of my soul
To such exsufflicate and blown surmises,
Matching thy inference. ‘Tis not to make me jealous
To say my wife is fair, feeds well, loves company,
Is free of speech, sings, plays and dances well;
Where virtue is, these are more virtuous:
Nor from mine own weak merits will I draw
The smallest fear or doubt of her revolt;
For she had eyes, and chose me. No, Iago;
I’ll see before I doubt; when I doubt, prove;
And on the proof, there is no more but this,–
Away at once with love or jealousy!
IAGO

I am glad of it; for now I shall have reason
To show the love and duty that I bear you
With franker spirit: therefore, as I am bound,
Receive it from me. I speak not yet of proof.
Look to your wife; observe her well with Cassio;
Wear your eye thus, not jealous nor secure:
I would not have your free and noble nature,
Out of self-bounty, be abused; look to’t:
I know our country disposition well;
In Venice they do let heaven see the pranks
They dare not show their husbands; their best conscience
Is not to leave’t undone, but keep’t unknown.
OTHELLO

Dost thou say so?
IAGO

She did deceive her father, marrying you;
And when she seem’d to shake and fear your looks,
She loved them most.
OTHELLO

And so she did.
IAGO

Why, go to then;
She that, so young, could give out such a seeming,
To seal her father’s eyes up close as oak-
He thought ’twas witchcraft–but I am much to blame;
I humbly do beseech you of your pardon
For too much loving you.
OTHELLO

I am bound to thee for ever.
IAGO

I see this hath a little dash’d your spirits.
OTHELLO

Not a jot, not a jot.
IAGO

I’ faith, I fear it has.
I hope you will consider what is spoke
Comes from my love. But I do see you’re moved:
I am to pray you not to strain my speech
To grosser issues nor to larger reach
Than to suspicion.
OTHELLO

I will not.
IAGO

Should you do so, my lord,
My speech should fall into such vile success
As my thoughts aim not at. Cassio’s my worthy friend–
My lord, I see you’re moved.
OTHELLO

No, not much moved:
I do not think but Desdemona’s honest.
IAGO

Long live she so! and long live you to think so!
OTHELLO

And yet, how nature erring from itself,–
IAGO

Ay, there’s the point: as–to be bold with you–
Not to affect many proposed matches
Of her own clime, complexion, and degree,
Whereto we see in all things nature tends–
Foh! one may smell in such a will most rank,
Foul disproportion thoughts unnatural.
But pardon me; I do not in position
Distinctly speak of her; though I may fear
Her will, recoiling to her better judgment,
May fall to match you with her country forms
And happily repent.
OTHELLO

Farewell, farewell:
If more thou dost perceive, let me know more;
Set on thy wife to observe: leave me, Iago:
IAGO

[Going] My lord, I take my leave.
OTHELLO

Why did I marry? This honest creature doubtless
Sees and knows more, much more, than he unfolds.
IAGO

[Returning] My lord, I would I might entreat
your honour
To scan this thing no further; leave it to time:
Though it be fit that Cassio have his place,
For sure, he fills it up with great ability,
Yet, if you please to hold him off awhile,
You shall by that perceive him and his means:
Note, if your lady strain his entertainment
With any strong or vehement importunity;
Much will be seen in that. In the mean time,
Let me be thought too busy in my fears–
As worthy cause I have to fear I am–
And hold her free, I do beseech your honour.
OTHELLO

Fear not my government.
IAGO

I once more take my leave.
Exit
OTHELLO

This fellow’s of exceeding honesty,
And knows all qualities, with a learned spirit,
Of human dealings. If I do prove her haggard,
Though that her jesses were my dear heartstrings,
I’ld whistle her off and let her down the wind,
To pray at fortune. Haply, for I am black
And have not those soft parts of conversation
That chamberers have, or for I am declined
Into the vale of years,–yet that’s not much–
She’s gone. I am abused; and my relief
Must be to loathe her. O curse of marriage,
That we can call these delicate creatures ours,
And not their appetites! I had rather be a toad,
And live upon the vapour of a dungeon,
Than keep a corner in the thing I love
For others’ uses. Yet, ’tis the plague of great ones;
Prerogatived are they less than the base;
‘Tis destiny unshunnable, like death:
Even then this forked plague is fated to us
When we do quicken. Desdemona comes:
Re-enter DESDEMONA and EMILIA
If she be false, O, then heaven mocks itself!
I’ll not believe’t.
DESDEMONA

How now, my dear Othello!
Your dinner, and the generous islanders
By you invited, do attend your presence.
OTHELLO

I am to blame.
DESDEMONA

Why do you speak so faintly?
Are you not well?
OTHELLO

I have a pain upon my forehead here.
DESDEMONA

‘Faith, that’s with watching; ’twill away again:
Let me but bind it hard, within this hour
It will be well.
OTHELLO

Your napkin is too little:
He puts the handkerchief from him; and it drops
Let it alone. Come, I’ll go in with you.
DESDEMONA

I am very sorry that you are not well.
Exeunt OTHELLO and DESDEMONA
EMILIA

I am glad I have found this napkin:
This was her first remembrance from the Moor:
My wayward husband hath a hundred times
Woo’d me to steal it; but she so loves the token,
For he conjured her she should ever keep it,
That she reserves it evermore about her
To kiss and talk to. I’ll have the work ta’en out,
And give’t Iago: what he will do with it
Heaven knows, not I;
I nothing but to please his fantasy.
Re-enter Iago
IAGO

How now! what do you here alone?
EMILIA

Do not you chide; I have a thing for you.
IAGO

A thing for me? it is a common thing–
EMILIA

Ha!
IAGO

To have a foolish wife.
EMILIA

O, is that all? What will you give me now
For the same handkerchief?
IAGO

What handkerchief?
EMILIA

What handkerchief?
Why, that the Moor first gave to Desdemona;
That which so often you did bid me steal.
IAGO

Hast stol’n it from her?
EMILIA

No, ‘faith; she let it drop by negligence.
And, to the advantage, I, being here, took’t up.
Look, here it is.
IAGO

A good wench; give it me.
EMILIA

What will you do with ‘t, that you have been
so earnest
To have me filch it?
IAGO

[Snatching it] Why, what’s that to you?
EMILIA

If it be not for some purpose of import,
Give’t me again: poor lady, she’ll run mad
When she shall lack it.
IAGO

Be not acknown on ‘t; I have use for it.
Go, leave me.
Exit EMILIA
I will in Cassio’s lodging lose this napkin,
And let him find it. Trifles light as air
Are to the jealous confirmations strong
As proofs of holy writ: this may do something.
The Moor already changes with my poison:
Dangerous conceits are, in their natures, poisons.
Which at the first are scarce found to distaste,
But with a little act upon the blood.
Burn like the mines of Sulphur. I did say so:
Look, where he comes!
Re-enter OTHELLO
Not poppy, nor mandragora,
Nor all the drowsy syrups of the world,
Shall ever medicine thee to that sweet sleep
Which thou owedst yesterday.
OTHELLO

Ha! ha! false to me?
IAGO

Why, how now, general! no more of that.
OTHELLO

Avaunt! be gone! thou hast set me on the rack:
I swear ’tis better to be much abused
Than but to know’t a little.
IAGO

How now, my lord!
OTHELLO

What sense had I of her stol’n hours of lust?
I saw’t not, thought it not, it harm’d not me:
I slept the next night well, was free and merry;
I found not Cassio’s kisses on her lips:
He that is robb’d, not wanting what is stol’n,
Let him not know’t, and he’s not robb’d at all.
IAGO

I am sorry to hear this.
OTHELLO

I had been happy, if the general camp,
Pioners and all, had tasted her sweet body,
So I had nothing known. O, now, for ever
Farewell the tranquil mind! farewell content!
Farewell the plumed troop, and the big wars,
That make ambition virtue! O, farewell!
Farewell the neighing steed, and the shrill trump,
The spirit-stirring drum, the ear-piercing fife,
The royal banner, and all quality,
Pride, pomp and circumstance of glorious war!
And, O you mortal engines, whose rude throats
The immortal Jove’s dead clamours counterfeit,
Farewell! Othello’s occupation’s gone!
IAGO

Is’t possible, my lord?
OTHELLO

Villain, be sure thou prove my love a whore,
Be sure of it; give me the ocular proof:
Or by the worth of man’s eternal soul,
Thou hadst been better have been born a dog
Than answer my waked wrath!
IAGO

Is’t come to this?
OTHELLO

Make me to see’t; or, at the least, so prove it,
That the probation bear no hinge nor loop
To hang a doubt on; or woe upon thy life!
IAGO

My noble lord,–
OTHELLO

If thou dost slander her and torture me,
Never pray more; abandon all remorse;
On horror’s head horrors accumulate;
Do deeds to make heaven weep, all earth amazed;
For nothing canst thou to damnation add
Greater than that.
IAGO

O grace! O heaven forgive me!
Are you a man? have you a soul or sense?
God be wi’ you; take mine office. O wretched fool.
That livest to make thine honesty a vice!
O monstrous world! Take note, take note, O world,
To be direct and honest is not safe.
I thank you for this profit; and from hence
I’ll love no friend, sith love breeds such offence.
OTHELLO

Nay, stay: thou shouldst be honest.
IAGO

I should be wise, for honesty’s a fool
And loses that it works for.
OTHELLO

By the world,
I think my wife be honest and think she is not;
I think that thou art just and think thou art not.
I’ll have some proof. Her name, that was as fresh
As Dian’s visage, is now begrimed and black
As mine own face. If there be cords, or knives,
Poison, or fire, or suffocating streams,
I’ll not endure it. Would I were satisfied!
IAGO

I see, sir, you are eaten up with passion:
I do repent me that I put it to you.
You would be satisfied?
OTHELLO

Would! nay, I will.
IAGO

And may: but, how? how satisfied, my lord?
Would you, the supervisor, grossly gape on–
Behold her topp’d?
OTHELLO

Death and damnation! O!
IAGO

It were a tedious difficulty, I think,
To bring them to that prospect: damn them then,
If ever mortal eyes do see them bolster
More than their own! What then? how then?
What shall I say? Where’s satisfaction?
It is impossible you should see this,
Were they as prime as goats, as hot as monkeys,
As salt as wolves in pride, and fools as gross
As ignorance made drunk. But yet, I say,
If imputation and strong circumstances,
Which lead directly to the door of truth,
Will give you satisfaction, you may have’t.
OTHELLO

Give me a living reason she’s disloyal.
IAGO

I do not like the office:
But, sith I am enter’d in this cause so far,
Prick’d to’t by foolish honesty and love,
I will go on. I lay with Cassio lately;
And, being troubled with a raging tooth,
I could not sleep.
There are a kind of men so loose of soul,
That in their sleeps will mutter their affairs:
One of this kind is Cassio:
In sleep I heard him say ‘Sweet Desdemona,
Let us be wary, let us hide our loves;’
And then, sir, would he gripe and wring my hand,
Cry ‘O sweet creature!’ and then kiss me hard,
As if he pluck’d up kisses by the roots
That grew upon my lips: then laid his leg
Over my thigh, and sigh’d, and kiss’d; and then
Cried ‘Cursed fate that gave thee to the Moor!’
OTHELLO

O monstrous! monstrous!
IAGO

Nay, this was but his dream.
OTHELLO

But this denoted a foregone conclusion:
‘Tis a shrewd doubt, though it be but a dream.
IAGO

And this may help to thicken other proofs
That do demonstrate thinly.
OTHELLO

I’ll tear her all to pieces.
IAGO

Nay, but be wise: yet we see nothing done;
She may be honest yet. Tell me but this,
Have you not sometimes seen a handkerchief
Spotted with strawberries in your wife’s hand?
OTHELLO

I gave her such a one; ’twas my first gift.
IAGO

I know not that; but such a handkerchief–
I am sure it was your wife’s–did I to-day
See Cassio wipe his beard with.
OTHELLO

If it be that–
IAGO

If it be that, or any that was hers,
It speaks against her with the other proofs.
OTHELLO

O, that the slave had forty thousand lives!
One is too poor, too weak for my revenge.
Now do I see ’tis true. Look here, Iago;
All my fond love thus do I blow to heaven.
‘Tis gone.
Arise, black vengeance, from thy hollow cell!
Yield up, O love, thy crown and hearted throne
To tyrannous hate! Swell, bosom, with thy fraught,
For ’tis of aspics’ tongues!
IAGO

Yet be content.
OTHELLO

O, blood, blood, blood!
IAGO

Patience, I say; your mind perhaps may change.
OTHELLO

Never, Iago: Like to the Pontic sea,
Whose icy current and compulsive course
Ne’er feels retiring ebb, but keeps due on
To the Propontic and the Hellespont,
Even so my bloody thoughts, with violent pace,
Shall ne’er look back, ne’er ebb to humble love,
Till that a capable and wide revenge
Swallow them up. Now, by yond marble heaven,
Kneels
In the due reverence of a sacred vow
I here engage my words.
IAGO

Do not rise yet.
Kneels
Witness, you ever-burning lights above,
You elements that clip us round about,
Witness that here Iago doth give up
The execution of his wit, hands, heart,
To wrong’d Othello’s service! Let him command,
And to obey shall be in me remorse,
What bloody business ever.
They rise
OTHELLO

I greet thy love,
Not with vain thanks, but with acceptance bounteous,
And will upon the instant put thee to’t:
Within these three days let me hear thee say
That Cassio’s not alive.
IAGO

My friend is dead; ’tis done at your request:
But let her live.
OTHELLO

Damn her, lewd minx! O, damn her!
Come, go with me apart; I will withdraw,
To furnish me with some swift means of death
For the fair devil. Now art thou my lieutenant.
IAGO

I am your own for ever.
Exeunt

SCENE IV. Before the castle.

Enter DESDEMONA, EMILIA, and Clown
DESDEMONA

Do you know, sirrah, where Lieutenant Cassio lies?
Clown

I dare not say he lies any where.
DESDEMONA

Why, man?
Clown

He’s a soldier, and for one to say a soldier lies,
is stabbing.
DESDEMONA

Go to: where lodges he?
Clown

To tell you where he lodges, is to tell you where I lie.
DESDEMONA

Can any thing be made of this?
Clown

I know not where he lodges, and for me to devise a
lodging and say he lies here or he lies there, were
to lie in mine own throat.
DESDEMONA

Can you inquire him out, and be edified by report?
Clown

I will catechise the world for him; that is, make
questions, and by them answer.
DESDEMONA

Seek him, bid him come hither: tell him I have
moved my lord on his behalf, and hope all will be well.
Clown

To do this is within the compass of man’s wit: and
therefore I will attempt the doing it.
Exit
DESDEMONA

Where should I lose that handkerchief, Emilia?
EMILIA

I know not, madam.
DESDEMONA

Believe me, I had rather have lost my purse
Full of crusadoes: and, but my noble Moor
Is true of mind and made of no such baseness
As jealous creatures are, it were enough
To put him to ill thinking.
EMILIA

Is he not jealous?
DESDEMONA

Who, he? I think the sun where he was born
Drew all such humours from him.
EMILIA

Look, where he comes.
DESDEMONA

I will not leave him now till Cassio
Be call’d to him.
Enter OTHELLO
How is’t with you, my lord
OTHELLO

Well, my good lady.
Aside
O, hardness to dissemble!–
How do you, Desdemona?
DESDEMONA

Well, my good lord.
OTHELLO

Give me your hand: this hand is moist, my lady.
DESDEMONA

It yet hath felt no age nor known no sorrow.
OTHELLO

This argues fruitfulness and liberal heart:
Hot, hot, and moist: this hand of yours requires
A sequester from liberty, fasting and prayer,
Much castigation, exercise devout;
For here’s a young and sweating devil here,
That commonly rebels. ‘Tis a good hand,
A frank one.
DESDEMONA

You may, indeed, say so;
For ’twas that hand that gave away my heart.
OTHELLO

A liberal hand: the hearts of old gave hands;
But our new heraldry is hands, not hearts.
DESDEMONA

I cannot speak of this. Come now, your promise.
OTHELLO

What promise, chuck?
DESDEMONA

I have sent to bid Cassio come speak with you.
OTHELLO

I have a salt and sorry rheum offends me;
Lend me thy handkerchief.
DESDEMONA

Here, my lord.
OTHELLO

That which I gave you.
DESDEMONA

I have it not about me.
OTHELLO

Not?
DESDEMONA

No, indeed, my lord.
OTHELLO

That is a fault.
That handkerchief
Did an Egyptian to my mother give;
She was a charmer, and could almost read
The thoughts of people: she told her, while
she kept it,
‘Twould make her amiable and subdue my father
Entirely to her love, but if she lost it
Or made gift of it, my father’s eye
Should hold her loathed and his spirits should hunt
After new fancies: she, dying, gave it me;
And bid me, when my fate would have me wive,
To give it her. I did so: and take heed on’t;
Make it a darling like your precious eye;
To lose’t or give’t away were such perdition
As nothing else could match.
DESDEMONA

Is’t possible?
OTHELLO

‘Tis true: there’s magic in the web of it:
A sibyl, that had number’d in the world
The sun to course two hundred compasses,
In her prophetic fury sew’d the work;
The worms were hallow’d that did breed the silk;
And it was dyed in mummy which the skilful
Conserved of maidens’ hearts.
DESDEMONA

Indeed! is’t true?
OTHELLO

Most veritable; therefore look to’t well.
DESDEMONA

Then would to God that I had never seen’t!
OTHELLO

Ha! wherefore?
DESDEMONA

Why do you speak so startingly and rash?
OTHELLO

Is’t lost? is’t gone? speak, is it out
o’ the way?
DESDEMONA

Heaven bless us!
OTHELLO

Say you?
DESDEMONA

It is not lost; but what an if it were?
OTHELLO

How!
DESDEMONA

I say, it is not lost.
OTHELLO

Fetch’t, let me see’t.
DESDEMONA

Why, so I can, sir, but I will not now.
This is a trick to put me from my suit:
Pray you, let Cassio be received again.
OTHELLO

Fetch me the handkerchief: my mind misgives.
DESDEMONA

Come, come;
You’ll never meet a more sufficient man.
OTHELLO

The handkerchief!
DESDEMONA

I pray, talk me of Cassio.
OTHELLO

The handkerchief!
DESDEMONA

A man that all his time
Hath founded his good fortunes on your love,
Shared dangers with you,–
OTHELLO

The handkerchief!
DESDEMONA

In sooth, you are to blame.
OTHELLO

Away!
Exit
EMILIA

Is not this man jealous?
DESDEMONA

I ne’er saw this before.
Sure, there’s some wonder in this handkerchief:
I am most unhappy in the loss of it.
EMILIA

‘Tis not a year or two shows us a man:
They are all but stomachs, and we all but food;
To eat us hungerly, and when they are full,
They belch us. Look you, Cassio and my husband!
Enter CASSIO and IAGO
IAGO

There is no other way; ’tis she must do’t:
And, lo, the happiness! go, and importune her.
DESDEMONA

How now, good Cassio! what’s the news with you?
CASSIO

Madam, my former suit: I do beseech you
That by your virtuous means I may again
Exist, and be a member of his love
Whom I with all the office of my heart
Entirely honour: I would not be delay’d.
If my offence be of such mortal kind
That nor my service past, nor present sorrows,
Nor purposed merit in futurity,
Can ransom me into his love again,
But to know so must be my benefit;
So shall I clothe me in a forced content,
And shut myself up in some other course,
To fortune’s alms.
DESDEMONA

Alas, thrice-gentle Cassio!
My advocation is not now in tune;
My lord is not my lord; nor should I know him,
Were he in favour as in humour alter’d.
So help me every spirit sanctified,
As I have spoken for you all my best
And stood within the blank of his displeasure
For my free speech! you must awhile be patient:
What I can do I will; and more I will
Than for myself I dare: let that suffice you.
IAGO

Is my lord angry?
EMILIA

He went hence but now,
And certainly in strange unquietness.
IAGO

Can he be angry? I have seen the cannon,
When it hath blown his ranks into the air,
And, like the devil, from his very arm
Puff’d his own brother:–and can he be angry?
Something of moment then: I will go meet him:
There’s matter in’t indeed, if he be angry.
DESDEMONA

I prithee, do so.
Exit IAGO
Something, sure, of state,
Either from Venice, or some unhatch’d practise
Made demonstrable here in Cyprus to him,
Hath puddled his clear spirit: and in such cases
Men’s natures wrangle with inferior things,
Though great ones are their object. ‘Tis even so;
For let our finger ache, and it indues
Our other healthful members even to that sense
Of pain: nay, we must think men are not gods,
Nor of them look for such observances
As fit the bridal. Beshrew me much, Emilia,
I was, unhandsome warrior as I am,
Arraigning his unkindness with my soul;
But now I find I had suborn’d the witness,
And he’s indicted falsely.
EMILIA

Pray heaven it be state-matters, as you think,
And no conception nor no jealous toy
Concerning you.
DESDEMONA

Alas the day! I never gave him cause.
EMILIA

But jealous souls will not be answer’d so;
They are not ever jealous for the cause,
But jealous for they are jealous: ’tis a monster
Begot upon itself, born on itself.
DESDEMONA

Heaven keep that monster from Othello’s mind!
EMILIA

Lady, amen.
DESDEMONA

I will go seek him. Cassio, walk hereabout:
If I do find him fit, I’ll move your suit
And seek to effect it to my uttermost.
CASSIO

I humbly thank your ladyship.
Exeunt DESDEMONA and EMILIA
Enter BIANCA
BIANCA

Save you, friend Cassio!
CASSIO

What make you from home?
How is it with you, my most fair Bianca?
I’ faith, sweet love, I was coming to your house.
BIANCA

And I was going to your lodging, Cassio.
What, keep a week away? seven days and nights?
Eight score eight hours? and lovers’ absent hours,
More tedious than the dial eight score times?
O weary reckoning!
CASSIO

Pardon me, Bianca:
I have this while with leaden thoughts been press’d:
But I shall, in a more continuate time,
Strike off this score of absence. Sweet Bianca,
Giving her DESDEMONA’s handkerchief
Take me this work out.
BIANCA

O Cassio, whence came this?
This is some token from a newer friend:
To the felt absence now I feel a cause:
Is’t come to this? Well, well.
CASSIO

Go to, woman!
Throw your vile guesses in the devil’s teeth,
From whence you have them. You are jealous now
That this is from some mistress, some remembrance:
No, in good troth, Bianca.
BIANCA

Why, whose is it?
CASSIO

I know not, sweet: I found it in my chamber.
I like the work well: ere it be demanded–
As like enough it will–I’ld have it copied:
Take it, and do’t; and leave me for this time.
BIANCA

Leave you! wherefore?
CASSIO

I do attend here on the general;
And think it no addition, nor my wish,
To have him see me woman’d.
BIANCA

Why, I pray you?
CASSIO

Not that I love you not.
BIANCA

But that you do not love me.
I pray you, bring me on the way a little,
And say if I shall see you soon at night.
CASSIO

‘Tis but a little way that I can bring you;
For I attend here: but I’ll see you soon.
BIANCA

‘Tis very good; I must be circumstanced.
Exeunt

ACT IV
SCENE I. Cyprus. Before the castle.

Enter OTHELLO and IAGO
IAGO

Will you think so?
OTHELLO

Think so, Iago!
IAGO

What,
To kiss in private?
OTHELLO

An unauthorized kiss.
IAGO

Or to be naked with her friend in bed
An hour or more, not meaning any harm?
OTHELLO

Naked in bed, Iago, and not mean harm!
It is hypocrisy against the devil:
They that mean virtuously, and yet do so,
The devil their virtue tempts, and they tempt heaven.
IAGO

So they do nothing, ’tis a venial slip:
But if I give my wife a handkerchief,–
OTHELLO

What then?
IAGO

Why, then, ’tis hers, my lord; and, being hers,
She may, I think, bestow’t on any man.
OTHELLO

She is protectress of her honour too:
May she give that?
IAGO

Her honour is an essence that’s not seen;
They have it very oft that have it not:
But, for the handkerchief,–
OTHELLO

By heaven, I would most gladly have forgot it.
Thou said’st, it comes o’er my memory,
As doth the raven o’er the infected house,
Boding to all–he had my handkerchief.
IAGO

Ay, what of that?
OTHELLO

That’s not so good now.
IAGO

What,
If I had said I had seen him do you wrong?
Or heard him say,–as knaves be such abroad,
Who having, by their own importunate suit,
Or voluntary dotage of some mistress,
Convinced or supplied them, cannot choose
But they must blab–
OTHELLO

Hath he said any thing?
IAGO

He hath, my lord; but be you well assured,
No more than he’ll unswear.
OTHELLO

What hath he said?
IAGO

‘Faith, that he did–I know not what he did.
OTHELLO

What? what?
IAGO

Lie–
OTHELLO

With her?
IAGO

With her, on her; what you will.
OTHELLO

Lie with her! lie on her! We say lie on her, when
they belie her. Lie with her! that’s fulsome.
–Handkerchief–confessions–handkerchief!–To
confess, and be hanged for his labour;–first, to be
hanged, and then to confess.–I tremble at it.
Nature would not invest herself in such shadowing
passion without some instruction. It is not words
that shake me thus. Pish! Noses, ears, and lips.
–Is’t possible?–Confess–handkerchief!–O devil!–
Falls in a trance
IAGO

Work on,
My medicine, work! Thus credulous fools are caught;
And many worthy and chaste dames even thus,
All guiltless, meet reproach. What, ho! my lord!
My lord, I say! Othello!
Enter CASSIO
How now, Cassio!
CASSIO

What’s the matter?
IAGO

My lord is fall’n into an epilepsy:
This is his second fit; he had one yesterday.
CASSIO

Rub him about the temples.
IAGO

No, forbear;
The lethargy must have his quiet course:
If not, he foams at mouth and by and by
Breaks out to savage madness. Look he stirs:
Do you withdraw yourself a little while,
He will recover straight: when he is gone,
I would on great occasion speak with you.
Exit CASSIO
How is it, general? have you not hurt your head?
OTHELLO

Dost thou mock me?
IAGO

I mock you! no, by heaven.
Would you would bear your fortune like a man!
OTHELLO

A horned man’s a monster and a beast.
IAGO

There’s many a beast then in a populous city,
And many a civil monster.
OTHELLO

Did he confess it?
IAGO

Good sir, be a man;
Think every bearded fellow that’s but yoked
May draw with you: there’s millions now alive
That nightly lie in those unproper beds
Which they dare swear peculiar: your case is better.
O, ’tis the spite of hell, the fiend’s arch-mock,
To lip a wanton in a secure couch,
And to suppose her chaste! No, let me know;
And knowing what I am, I know what she shall be.
OTHELLO

O, thou art wise; ’tis certain.
IAGO

Stand you awhile apart;
Confine yourself but in a patient list.
Whilst you were here o’erwhelmed with your grief–
A passion most unsuiting such a man–
Cassio came hither: I shifted him away,
And laid good ‘scuse upon your ecstasy,
Bade him anon return and here speak with me;
The which he promised. Do but encave yourself,
And mark the fleers, the gibes, and notable scorns,
That dwell in every region of his face;
For I will make him tell the tale anew,
Where, how, how oft, how long ago, and when
He hath, and is again to cope your wife:
I say, but mark his gesture. Marry, patience;
Or I shall say you are all in all in spleen,
And nothing of a man.
OTHELLO

Dost thou hear, Iago?
I will be found most cunning in my patience;
But–dost thou hear?–most bloody.
IAGO

That’s not amiss;
But yet keep time in all. Will you withdraw?
OTHELLO retires
Now will I question Cassio of Bianca,
A housewife that by selling her desires
Buys herself bread and clothes: it is a creature
That dotes on Cassio; as ’tis the strumpet’s plague
To beguile many and be beguiled by one:
He, when he hears of her, cannot refrain
From the excess of laughter. Here he comes:
Re-enter CASSIO
As he shall smile, Othello shall go mad;
And his unbookish jealousy must construe
Poor Cassio’s smiles, gestures and light behavior,
Quite in the wrong. How do you now, lieutenant?
CASSIO

The worser that you give me the addition
Whose want even kills me.
IAGO

Ply Desdemona well, and you are sure on’t.
Speaking lower
Now, if this suit lay in Bianco’s power,
How quickly should you speed!
CASSIO

Alas, poor caitiff!
OTHELLO

Look, how he laughs already!
IAGO

I never knew woman love man so.
CASSIO

Alas, poor rogue! I think, i’ faith, she loves me.
OTHELLO

Now he denies it faintly, and laughs it out.
IAGO

Do you hear, Cassio?
OTHELLO

Now he importunes him
To tell it o’er: go to; well said, well said.
IAGO

She gives it out that you shall marry hey:
Do you intend it?
CASSIO

Ha, ha, ha!
OTHELLO

Do you triumph, Roman? do you triumph?
CASSIO

I marry her! what? a customer! Prithee, bear some
charity to my wit: do not think it so unwholesome.
Ha, ha, ha!
OTHELLO

So, so, so, so: they laugh that win.
IAGO

‘Faith, the cry goes that you shall marry her.
CASSIO

Prithee, say true.
IAGO

I am a very villain else.
OTHELLO

Have you scored me? Well.
CASSIO

This is the monkey’s own giving out: she is
persuaded I will marry her, out of her own love and
flattery, not out of my promise.
OTHELLO

Iago beckons me; now he begins the story.
CASSIO

She was here even now; she haunts me in every place.
I was the other day talking on the sea-bank with
certain Venetians; and thither comes the bauble,
and, by this hand, she falls me thus about my neck–
OTHELLO

Crying ‘O dear Cassio!’ as it were: his gesture
imports it.
CASSIO

So hangs, and lolls, and weeps upon me; so hales,
and pulls me: ha, ha, ha!
OTHELLO

Now he tells how she plucked him to my chamber. O,
I see that nose of yours, but not that dog I shall
throw it to.
CASSIO

Well, I must leave her company.
IAGO

Before me! look, where she comes.
CASSIO

‘Tis such another fitchew! marry a perfumed one.
Enter BIANCA
What do you mean by this haunting of me?
BIANCA

Let the devil and his dam haunt you! What did you
mean by that same handkerchief you gave me even now?
I was a fine fool to take it. I must take out the
work?–A likely piece of work, that you should find
it in your chamber, and not know who left it there!
This is some minx’s token, and I must take out the
work? There; give it your hobby-horse: wheresoever
you had it, I’ll take out no work on’t.
CASSIO

How now, my sweet Bianca! how now! how now!
OTHELLO

By heaven, that should be my handkerchief!
BIANCA

An you’ll come to supper to-night, you may; an you
will not, come when you are next prepared for.
Exit
IAGO

After her, after her.
CASSIO

‘Faith, I must; she’ll rail in the street else.
IAGO

Will you sup there?
CASSIO

‘Faith, I intend so.
IAGO

Well, I may chance to see you; for I would very fain
speak with you.
CASSIO

Prithee, come; will you?
IAGO

Go to; say no more.
Exit CASSIO
OTHELLO

[Advancing] How shall I murder him, Iago?
IAGO

Did you perceive how he laughed at his vice?
OTHELLO

O Iago!
IAGO

And did you see the handkerchief?
OTHELLO

Was that mine?
IAGO

Yours by this hand: and to see how he prizes the
foolish woman your wife! she gave it him, and he
hath given it his whore.
OTHELLO

I would have him nine years a-killing.
A fine woman! a fair woman! a sweet woman!
IAGO

Nay, you must forget that.
OTHELLO

Ay, let her rot, and perish, and be damned to-night;
for she shall not live: no, my heart is turned to
stone; I strike it, and it hurts my hand. O, the
world hath not a sweeter creature: she might lie by
an emperor’s side and command him tasks.
IAGO

Nay, that’s not your way.
OTHELLO

Hang her! I do but say what she is: so delicate
with her needle: an admirable musician: O! she
will sing the savageness out of a bear: of so high
and plenteous wit and invention:–
IAGO

She’s the worse for all this.
OTHELLO

O, a thousand thousand times: and then, of so
gentle a condition!
IAGO

Ay, too gentle.
OTHELLO

Nay, that’s certain: but yet the pity of it, Iago!
O Iago, the pity of it, Iago!
IAGO

If you are so fond over her iniquity, give her
patent to offend; for, if it touch not you, it comes
near nobody.
OTHELLO

I will chop her into messes: cuckold me!
IAGO

O, ’tis foul in her.
OTHELLO

With mine officer!
IAGO

That’s fouler.
OTHELLO

Get me some poison, Iago; this night: I’ll not
expostulate with her, lest her body and beauty
unprovide my mind again: this night, Iago.
IAGO

Do it not with poison, strangle her in her bed, even
the bed she hath contaminated.
OTHELLO

Good, good: the justice of it pleases: very good.
IAGO

And for Cassio, let me be his undertaker: you
shall hear more by midnight.
OTHELLO

Excellent good.
A trumpet within
What trumpet is that same?
IAGO

Something from Venice, sure. ‘Tis Lodovico
Come from the duke: and, see, your wife is with him.
Enter LODOVICO, DESDEMONA, and Attendants
LODOVICO

Save you, worthy general!
OTHELLO

With all my heart, sir.
LODOVICO

The duke and senators of Venice greet you.
Gives him a letter
OTHELLO

I kiss the instrument of their pleasures.
Opens the letter, and reads
DESDEMONA

And what’s the news, good cousin Lodovico?
IAGO

I am very glad to see you, signior
Welcome to Cyprus.
LODOVICO

I thank you. How does Lieutenant Cassio?
IAGO

Lives, sir.
DESDEMONA

Cousin, there’s fall’n between him and my lord
An unkind breach: but you shall make all well.
OTHELLO

Are you sure of that?
DESDEMONA

My lord?
OTHELLO

[Reads] ‘This fail you not to do, as you will–‘
LODOVICO

He did not call; he’s busy in the paper.
Is there division ‘twixt my lord and Cassio?
DESDEMONA

A most unhappy one: I would do much
To atone them, for the love I bear to Cassio.
OTHELLO

Fire and brimstone!
DESDEMONA

My lord?
OTHELLO

Are you wise?
DESDEMONA

What, is he angry?
LODOVICO

May be the letter moved him;
For, as I think, they do command him home,
Deputing Cassio in his government.
DESDEMONA

Trust me, I am glad on’t.
OTHELLO

Indeed!
DESDEMONA

My lord?
OTHELLO

I am glad to see you mad.
DESDEMONA

Why, sweet Othello,–
OTHELLO

[Striking her] Devil!
DESDEMONA

I have not deserved this.
LODOVICO

My lord, this would not be believed in Venice,
Though I should swear I saw’t: ’tis very much:
Make her amends; she weeps.
OTHELLO

O devil, devil!
If that the earth could teem with woman’s tears,
Each drop she falls would prove a crocodile.
Out of my sight!
DESDEMONA

I will not stay to offend you.
Going
LODOVICO

Truly, an obedient lady:
I do beseech your lordship, call her back.
OTHELLO

Mistress!
DESDEMONA

My lord?
OTHELLO

What would you with her, sir?
LODOVICO

Who, I, my lord?
OTHELLO

Ay; you did wish that I would make her turn:
Sir, she can turn, and turn, and yet go on,
And turn again; and she can weep, sir, weep;
And she’s obedient, as you say, obedient,
Very obedient. Proceed you in your tears.
Concerning this, sir,–O well-painted passion!–
I am commanded home. Get you away;
I’ll send for you anon. Sir, I obey the mandate,
And will return to Venice. Hence, avaunt!
Exit DESDEMONA
Cassio shall have my place. And, sir, tonight,
I do entreat that we may sup together:
You are welcome, sir, to Cyprus.–Goats and monkeys!
Exit
LODOVICO

Is this the noble Moor whom our full senate
Call all in all sufficient? Is this the nature
Whom passion could not shake? whose solid virtue
The shot of accident, nor dart of chance,
Could neither graze nor pierce?
IAGO

He is much changed.
LODOVICO

Are his wits safe? is he not light of brain?
IAGO

He’s that he is: I may not breathe my censure
What he might be: if what he might he is not,
I would to heaven he were!
LODOVICO

What, strike his wife!
IAGO

‘Faith, that was not so well; yet would I knew
That stroke would prove the worst!
LODOVICO

Is it his use?
Or did the letters work upon his blood,
And new-create this fault?
IAGO

Alas, alas!
It is not honesty in me to speak
What I have seen and known. You shall observe him,
And his own courses will denote him so
That I may save my speech: do but go after,
And mark how he continues.
LODOVICO

I am sorry that I am deceived in him.
Exeunt

SCENE II. A room in the castle.

Enter OTHELLO and EMILIA
OTHELLO

You have seen nothing then?
EMILIA

Nor ever heard, nor ever did suspect.
OTHELLO

Yes, you have seen Cassio and she together.
EMILIA

But then I saw no harm, and then I heard
Each syllable that breath made up between them.
OTHELLO

What, did they never whisper?
EMILIA

Never, my lord.
OTHELLO

Nor send you out o’ the way?
EMILIA

Never.
OTHELLO

To fetch her fan, her gloves, her mask, nor nothing?
EMILIA

Never, my lord.
OTHELLO

That’s strange.
EMILIA

I durst, my lord, to wager she is honest,
Lay down my soul at stake: if you think other,
Remove your thought; it doth abuse your bosom.
If any wretch have put this in your head,
Let heaven requite it with the serpent’s curse!
For, if she be not honest, chaste, and true,
There’s no man happy; the purest of their wives
Is foul as slander.
OTHELLO

Bid her come hither: go.
Exit EMILIA
She says enough; yet she’s a simple bawd
That cannot say as much. This is a subtle whore,
A closet lock and key of villanous secrets
And yet she’ll kneel and pray; I have seen her do’t.
Enter DESDEMONA with EMILIA
DESDEMONA

My lord, what is your will?
OTHELLO

Pray, chuck, come hither.
DESDEMONA

What is your pleasure?
OTHELLO

Let me see your eyes;
Look in my face.
DESDEMONA

What horrible fancy’s this?
OTHELLO

[To EMILIA] Some of your function, mistress;
Leave procreants alone and shut the door;
Cough, or cry ‘hem,’ if any body come:
Your mystery, your mystery: nay, dispatch.
Exit EMILIA
DESDEMONA

Upon my knees, what doth your speech import?
I understand a fury in your words.
But not the words.
OTHELLO

Why, what art thou?
DESDEMONA

Your wife, my lord; your true
And loyal wife.
OTHELLO

Come, swear it, damn thyself
Lest, being like one of heaven, the devils themselves
Should fear to seize thee: therefore be double damn’d:
Swear thou art honest.
DESDEMONA

Heaven doth truly know it.
OTHELLO

Heaven truly knows that thou art false as hell.
DESDEMONA

To whom, my lord? with whom? how am I false?
OTHELLO

O Desdemona! away! away! away!
DESDEMONA

Alas the heavy day! Why do you weep?
Am I the motive of these tears, my lord?
If haply you my father do suspect
An instrument of this your calling back,
Lay not your blame on me: If you have lost him,
Why, I have lost him too.
OTHELLO

Had it pleased heaven
To try me with affliction; had they rain’d
All kinds of sores and shames on my bare head.
Steep’d me in poverty to the very lips,
Given to captivity me and my utmost hopes,
I should have found in some place of my soul
A drop of patience: but, alas, to make me
A fixed figure for the time of scorn
To point his slow unmoving finger at!
Yet could I bear that too; well, very well:
But there, where I have garner’d up my heart,
Where either I must live, or bear no life;
The fountain from the which my current runs,
Or else dries up; to be discarded thence!
Or keep it as a cistern for foul toads
To knot and gender in! Turn thy complexion there,
Patience, thou young and rose-lipp’d cherubin,–
Ay, there, look grim as hell!
DESDEMONA

I hope my noble lord esteems me honest.
OTHELLO

O, ay; as summer flies are in the shambles,
That quicken even with blowing. O thou weed,
Who art so lovely fair and smell’st so sweet
That the sense aches at thee, would thou hadst
ne’er been born!
DESDEMONA

Alas, what ignorant sin have I committed?
OTHELLO

Was this fair paper, this most goodly book,
Made to write ‘whore’ upon? What committed!
Committed! O thou public commoner!
I should make very forges of my cheeks,
That would to cinders burn up modesty,
Did I but speak thy deeds. What committed!
Heaven stops the nose at it and the moon winks,
The bawdy wind that kisses all it meets
Is hush’d within the hollow mine of earth,
And will not hear it. What committed!
Impudent strumpet!
DESDEMONA

By heaven, you do me wrong.
OTHELLO

Are you not a strumpet?
DESDEMONA

No, as I am a Christian:
If to preserve this vessel for my lord
From any other foul unlawful touch
Be not to be a strumpet, I am none.
OTHELLO

What, not a whore?
DESDEMONA

No, as I shall be saved.
OTHELLO

Is’t possible?
DESDEMONA

O, heaven forgive us!
OTHELLO

I cry you mercy, then:
I took you for that cunning whore of Venice
That married with Othello.
Raising his voice
You, mistress,
That have the office opposite to Saint Peter,
And keep the gate of hell!
Re-enter EMILIA
You, you, ay, you!
We have done our course; there’s money for your pains:
I pray you, turn the key and keep our counsel.
Exit
EMILIA

Alas, what does this gentleman conceive?
How do you, madam? how do you, my good lady?
DESDEMONA

‘Faith, half asleep.
EMILIA

Good madam, what’s the matter with my lord?
DESDEMONA

With who?
EMILIA

Why, with my lord, madam.
DESDEMONA

Who is thy lord?
EMILIA

He that is yours, sweet lady.
DESDEMONA

I have none: do not talk to me, Emilia;
I cannot weep; nor answer have I none,
But what should go by water. Prithee, tonight
Lay on my bed my wedding sheets: remember;
And call thy husband hither.
EMILIA

Here’s a change indeed!
Exit
DESDEMONA

‘Tis meet I should be used so, very meet.
How have I been behaved, that he might stick
The small’st opinion on my least misuse?
Re-enter EMILIA with IAGO
IAGO

What is your pleasure, madam?
How is’t with you?
DESDEMONA

I cannot tell. Those that do teach young babes
Do it with gentle means and easy tasks:
He might have chid me so; for, in good faith,
I am a child to chiding.
IAGO

What’s the matter, lady?
EMILIA

Alas, Iago, my lord hath so bewhored her.
Thrown such despite and heavy terms upon her,
As true hearts cannot bear.
DESDEMONA

Am I that name, Iago?
IAGO

What name, fair lady?
DESDEMONA

Such as she says my lord did say I was.
EMILIA

He call’d her whore: a beggar in his drink
Could not have laid such terms upon his callat.
IAGO

Why did he so?
DESDEMONA

I do not know; I am sure I am none such.
IAGO

Do not weep, do not weep. Alas the day!
EMILIA

Hath she forsook so many noble matches,
Her father and her country and her friends,
To be call’d whore? would it not make one weep?
DESDEMONA

It is my wretched fortune.
IAGO

Beshrew him for’t!
How comes this trick upon him?
DESDEMONA

Nay, heaven doth know.
EMILIA

I will be hang’d, if some eternal villain,
Some busy and insinuating rogue,
Some cogging, cozening slave, to get some office,
Have not devised this slander; I’ll be hang’d else.
IAGO

Fie, there is no such man; it is impossible.
DESDEMONA

If any such there be, heaven pardon him!
EMILIA

A halter pardon him! and hell gnaw his bones!
Why should he call her whore? who keeps her company?
What place? what time? what form? what likelihood?
The Moor’s abused by some most villanous knave,
Some base notorious knave, some scurvy fellow.
O heaven, that such companions thou’ldst unfold,
And put in every honest hand a whip
To lash the rascals naked through the world
Even from the east to the west!
IAGO

Speak within door.
EMILIA

O, fie upon them! Some such squire he was
That turn’d your wit the seamy side without,
And made you to suspect me with the Moor.
IAGO

You are a fool; go to.
DESDEMONA

O good Iago,
What shall I do to win my lord again?
Good friend, go to him; for, by this light of heaven,
I know not how I lost him. Here I kneel:
If e’er my will did trespass ‘gainst his love,
Either in discourse of thought or actual deed,
Or that mine eyes, mine ears, or any sense,
Delighted them in any other form;
Or that I do not yet, and ever did.
And ever will–though he do shake me off
To beggarly divorcement–love him dearly,
Comfort forswear me! Unkindness may do much;
And his unkindness may defeat my life,
But never taint my love. I cannot say ‘whore:’
It does abhor me now I speak the word;
To do the act that might the addition earn
Not the world’s mass of vanity could make me.
IAGO

I pray you, be content; ’tis but his humour:
The business of the state does him offence,
And he does chide with you.
DESDEMONA

If ’twere no other–
IAGO

‘Tis but so, I warrant.
Trumpets within
Hark, how these instruments summon to supper!
The messengers of Venice stay the meat;
Go in, and weep not; all things shall be well.
Exeunt DESDEMONA and EMILIA
Enter RODERIGO
How now, Roderigo!
RODERIGO

I do not find that thou dealest justly with me.
IAGO

What in the contrary?
RODERIGO

Every day thou daffest me with some device, Iago;
and rather, as it seems to me now, keepest from me
all conveniency than suppliest me with the least
advantage of hope. I will indeed no longer endure
it, nor am I yet persuaded to put up in peace what
already I have foolishly suffered.
IAGO

Will you hear me, Roderigo?
RODERIGO

‘Faith, I have heard too much, for your words and
performances are no kin together.
IAGO

You charge me most unjustly.
RODERIGO

With nought but truth. I have wasted myself out of
my means. The jewels you have had from me to
deliver to Desdemona would half have corrupted a
votarist: you have told me she hath received them
and returned me expectations and comforts of sudden
respect and acquaintance, but I find none.
IAGO

Well; go to; very well.
RODERIGO

Very well! go to! I cannot go to, man; nor ’tis
not very well: nay, I think it is scurvy, and begin
to find myself fobbed in it.
IAGO

Very well.
RODERIGO

I tell you ’tis not very well. I will make myself
known to Desdemona: if she will return me my
jewels, I will give over my suit and repent my
unlawful solicitation; if not, assure yourself I
will seek satisfaction of you.
IAGO

You have said now.
RODERIGO

Ay, and said nothing but what I protest intendment of doing.
IAGO

Why, now I see there’s mettle in thee, and even from
this instant to build on thee a better opinion than
ever before. Give me thy hand, Roderigo: thou hast
taken against me a most just exception; but yet, I
protest, I have dealt most directly in thy affair.
RODERIGO

It hath not appeared.
IAGO

I grant indeed it hath not appeared, and your
suspicion is not without wit and judgment. But,
Roderigo, if thou hast that in thee indeed, which I
have greater reason to believe now than ever, I mean
purpose, courage and valour, this night show it: if
thou the next night following enjoy not Desdemona,
take me from this world with treachery and devise
engines for my life.
RODERIGO

Well, what is it? is it within reason and compass?
IAGO

Sir, there is especial commission come from Venice
to depute Cassio in Othello’s place.
RODERIGO

Is that true? why, then Othello and Desdemona
return again to Venice.
IAGO

O, no; he goes into Mauritania and takes away with
him the fair Desdemona, unless his abode be
lingered here by some accident: wherein none can be
so determinate as the removing of Cassio.
RODERIGO

How do you mean, removing of him?
IAGO

Why, by making him uncapable of Othello’s place;
knocking out his brains.
RODERIGO

And that you would have me to do?
IAGO

Ay, if you dare do yourself a profit and a right.
He sups to-night with a harlotry, and thither will I
go to him: he knows not yet of his horrorable
fortune. If you will watch his going thence, which
I will fashion to fall out between twelve and one,
you may take him at your pleasure: I will be near
to second your attempt, and he shall fall between
us. Come, stand not amazed at it, but go along with
me; I will show you such a necessity in his death
that you shall think yourself bound to put it on
him. It is now high suppertime, and the night grows
to waste: about it.
RODERIGO

I will hear further reason for this.
IAGO

And you shall be satisfied.
Exeunt

SCENE III. Another room In the castle.

Enter OTHELLO, LODOVICO, DESDEMONA, EMILIA and Attendants
LODOVICO

I do beseech you, sir, trouble yourself no further.
OTHELLO

O, pardon me: ’twill do me good to walk.
LODOVICO

Madam, good night; I humbly thank your ladyship.
DESDEMONA

Your honour is most welcome.
OTHELLO

Will you walk, sir?
O,–Desdemona,–
DESDEMONA

My lord?
OTHELLO

Get you to bed on the instant; I will be returned
forthwith: dismiss your attendant there: look it be done.
DESDEMONA

I will, my lord.
Exeunt OTHELLO, LODOVICO, and Attendants
EMILIA

How goes it now? he looks gentler than he did.
DESDEMONA

He says he will return incontinent:
He hath commanded me to go to bed,
And bade me to dismiss you.
EMILIA

Dismiss me!
DESDEMONA

It was his bidding: therefore, good Emilia,.
Give me my nightly wearing, and adieu:
We must not now displease him.
EMILIA

I would you had never seen him!
DESDEMONA

So would not I my love doth so approve him,
That even his stubbornness, his cheques, his frowns–
Prithee, unpin me,–have grace and favour in them.
EMILIA

I have laid those sheets you bade me on the bed.
DESDEMONA

All’s one. Good faith, how foolish are our minds!
If I do die before thee prithee, shroud me
In one of those same sheets.
EMILIA

Come, come you talk.
DESDEMONA

My mother had a maid call’d Barbara:
She was in love, and he she loved proved mad
And did forsake her: she had a song of ‘willow;’
An old thing ’twas, but it express’d her fortune,
And she died singing it: that song to-night
Will not go from my mind; I have much to do,
But to go hang my head all at one side,
And sing it like poor Barbara. Prithee, dispatch.
EMILIA

Shall I go fetch your night-gown?
DESDEMONA

No, unpin me here.
This Lodovico is a proper man.
EMILIA

A very handsome man.
DESDEMONA

He speaks well.
EMILIA

I know a lady in Venice would have walked barefoot
to Palestine for a touch of his nether lip.
DESDEMONA

[Singing] The poor soul sat sighing by a sycamore tree,
Sing all a green willow:
Her hand on her bosom, her head on her knee,
Sing willow, willow, willow:
The fresh streams ran by her, and murmur’d her moans;
Sing willow, willow, willow;
Her salt tears fell from her, and soften’d the stones;
Lay by these:–
Singing
Sing willow, willow, willow;
Prithee, hie thee; he’ll come anon:–
Singing
Sing all a green willow must be my garland.
Let nobody blame him; his scorn I approve,-
Nay, that’s not next.–Hark! who is’t that knocks?
EMILIA

It’s the wind.
DESDEMONA

[Singing] I call’d my love false love; but what
said he then?
Sing willow, willow, willow:
If I court moe women, you’ll couch with moe men!
So, get thee gone; good night Ate eyes do itch;
Doth that bode weeping?
EMILIA

‘Tis neither here nor there.
DESDEMONA

I have heard it said so. O, these men, these men!
Dost thou in conscience think,–tell me, Emilia,–
That there be women do abuse their husbands
In such gross kind?
EMILIA

There be some such, no question.
DESDEMONA

Wouldst thou do such a deed for all the world?
EMILIA

Why, would not you?
DESDEMONA

No, by this heavenly light!
EMILIA

Nor I neither by this heavenly light;
I might do’t as well i’ the dark.
DESDEMONA

Wouldst thou do such a deed for all the world?
EMILIA

The world’s a huge thing: it is a great price.
For a small vice.
DESDEMONA

In troth, I think thou wouldst not.
EMILIA

In troth, I think I should; and undo’t when I had
done. Marry, I would not do such a thing for a
joint-ring, nor for measures of lawn, nor for
gowns, petticoats, nor caps, nor any petty
exhibition; but for the whole world,–why, who would
not make her husband a cuckold to make him a
monarch? I should venture purgatory for’t.
DESDEMONA

Beshrew me, if I would do such a wrong
For the whole world.
EMILIA

Why the wrong is but a wrong i’ the world: and
having the world for your labour, tis a wrong in your
own world, and you might quickly make it right.
DESDEMONA

I do not think there is any such woman.
EMILIA

Yes, a dozen; and as many to the vantage as would
store the world they played for.
But I do think it is their husbands’ faults
If wives do fall: say that they slack their duties,
And pour our treasures into foreign laps,
Or else break out in peevish jealousies,
Throwing restraint upon us; or say they strike us,
Or scant our former having in despite;
Why, we have galls, and though we have some grace,
Yet have we some revenge. Let husbands know
Their wives have sense like them: they see and smell
And have their palates both for sweet and sour,
As husbands have. What is it that they do
When they change us for others? Is it sport?
I think it is: and doth affection breed it?
I think it doth: is’t frailty that thus errs?
It is so too: and have not we affections,
Desires for sport, and frailty, as men have?
Then let them use us well: else let them know,
The ills we do, their ills instruct us so.
DESDEMONA

Good night, good night: heaven me such uses send,
Not to pick bad from bad, but by bad mend!
Exeunt

ACT V
SCENE I. Cyprus. A street.

Enter IAGO and RODERIGO
IAGO

Here, stand behind this bulk; straight will he come:
Wear thy good rapier bare, and put it home:
Quick, quick; fear nothing; I’ll be at thy elbow:
It makes us, or it mars us; think on that,
And fix most firm thy resolution.
RODERIGO

Be near at hand; I may miscarry in’t.
IAGO

Here, at thy hand: be bold, and take thy stand.
Retires
RODERIGO

I have no great devotion to the deed;
And yet he hath given me satisfying reasons:
‘Tis but a man gone. Forth, my sword: he dies.
IAGO

I have rubb’d this young quat almost to the sense,
And he grows angry. Now, whether he kill Cassio,
Or Cassio him, or each do kill the other,
Every way makes my gain: live Roderigo,
He calls me to a restitution large
Of gold and jewels that I bobb’d from him,
As gifts to Desdemona;
It must not be: if Cassio do remain,
He hath a daily beauty in his life
That makes me ugly; and, besides, the Moor
May unfold me to him; there stand I in much peril:
No, he must die. But so: I hear him coming.
Enter CASSIO
RODERIGO

I know his gait, ’tis he.–Villain, thou diest!
Makes a pass at CASSIO
CASSIO

That thrust had been mine enemy indeed,
But that my coat is better than thou know’st
I will make proof of thine.
Draws, and wounds RODERIGO
RODERIGO

O, I am slain!
IAGO from behind wounds CASSIO in the leg, and exit
CASSIO

I am maim’d for ever. Help, ho! murder! murder!
Falls
Enter OTHELLO
OTHELLO

The voice of Cassio: Iago keeps his word.
RODERIGO

O, villain that I am!
OTHELLO

It is even so.
CASSIO

O, help, ho! light! a surgeon!
OTHELLO

‘Tis he:–O brave Iago, honest and just,
That hast such noble sense of thy friend’s wrong!
Thou teachest me. Minion, your dear lies dead,
And your unblest fate hies: strumpet, I come.
Forth of my heart those charms, thine eyes, are blotted;
Thy bed, lust-stain’d, shall with lust’s blood be spotted.
Exit
Enter LODOVICO and GRATIANO
CASSIO

What, ho! no watch? no passage? murder! murder!
GRATIANO

‘Tis some mischance; the cry is very direful.
CASSIO

O, help!
LODOVICO

Hark!
RODERIGO

O wretched villain!
LODOVICO

Two or three groan: it is a heavy night:
These may be counterfeits: let’s think’t unsafe
To come in to the cry without more help.
RODERIGO

Nobody come? then shall I bleed to death.
LODOVICO

Hark!
Re-enter IAGO, with a light
GRATIANO

Here’s one comes in his shirt, with light and weapons.
IAGO

Who’s there? whose noise is this that ones on murder?
LODOVICO

We do not know.
IAGO

Did not you hear a cry?
CASSIO

Here, here! for heaven’s sake, help me!
IAGO

What’s the matter?
GRATIANO

This is Othello’s ancient, as I take it.
LODOVICO

The same indeed; a very valiant fellow.
IAGO

What are you here that cry so grievously?
CASSIO

Iago? O, I am spoil’d, undone by villains!
Give me some help.
IAGO

O me, lieutenant! what villains have done this?
CASSIO

I think that one of them is hereabout,
And cannot make away.
IAGO

O treacherous villains!
What are you there? come in, and give some help.
To LODOVICO and GRATIANO
RODERIGO

O, help me here!
CASSIO

That’s one of them.
IAGO

O murderous slave! O villain!
Stabs RODERIGO
RODERIGO

O damn’d Iago! O inhuman dog!
IAGO

Kill men i’ the dark!–Where be these bloody thieves?–
How silent is this town!–Ho! murder! murder!–
What may you be? are you of good or evil?
LODOVICO

As you shall prove us, praise us.
IAGO

Signior Lodovico?
LODOVICO

He, sir.
IAGO

I cry you mercy. Here’s Cassio hurt by villains.
GRATIANO

Cassio!
IAGO

How is’t, brother!
CASSIO

My leg is cut in two.
IAGO

Marry, heaven forbid!
Light, gentlemen; I’ll bind it with my shirt.
Enter BIANCA
BIANCA

What is the matter, ho? who is’t that cried?
IAGO

Who is’t that cried!
BIANCA

O my dear Cassio! my sweet Cassio! O Cassio,
Cassio, Cassio!
IAGO

O notable strumpet! Cassio, may you suspect
Who they should be that have thus many led you?
CASSIO

No.
GRATIANO

I am to find you thus: I have been to seek you.
IAGO

Lend me a garter. So. O, for a chair,
To bear him easily hence!
BIANCA

Alas, he faints! O Cassio, Cassio, Cassio!
IAGO

Gentlemen all, I do suspect this trash
To be a party in this injury.
Patience awhile, good Cassio. Come, come;
Lend me a light. Know we this face or no?
Alas my friend and my dear countryman
Roderigo! no:–yes, sure: O heaven! Roderigo.
GRATIANO

What, of Venice?
IAGO

Even he, sir; did you know him?
GRATIANO

Know him! ay.
IAGO

Signior Gratiano? I cry you gentle pardon;
These bloody accidents must excuse my manners,
That so neglected you.
GRATIANO

I am glad to see you.
IAGO

How do you, Cassio? O, a chair, a chair!
GRATIANO

Roderigo!
IAGO

He, he ’tis he.
A chair brought in
O, that’s well said; the chair!
GRATIANO

Some good man bear him carefully from hence;
I’ll fetch the general’s surgeon.
To BIANCA
For you, mistress,
Save you your labour. He that lies slain
here, Cassio,
Was my dear friend: what malice was between you?
CASSIO

None in the world; nor do I know the man.
IAGO

[To BIANCA] What, look you pale? O, bear him out
o’ the air.
CASSIO and RODERIGO are borne off
Stay you, good gentlemen. Look you pale, mistress?
Do you perceive the gastness of her eye?
Nay, if you stare, we shall hear more anon.
Behold her well; I pray you, look upon her:
Do you see, gentlemen? nay, guiltiness will speak,
Though tongues were out of use.
Enter EMILIA
EMILIA

‘Las, what’s the matter? what’s the matter, husband?
IAGO

Cassio hath here been set on in the dark
By Roderigo and fellows that are scaped:
He’s almost slain, and Roderigo dead.
EMILIA

Alas, good gentleman! alas, good Cassio!
IAGO

This is the fruit of whoring. Prithee, Emilia,
Go know of Cassio where he supp’d to-night.
To BIANCA
What, do you shake at that?
BIANCA

He supp’d at my house; but I therefore shake not.
IAGO

O, did he so? I charge you, go with me.
EMILIA

Fie, fie upon thee, strumpet!
BIANCA

I am no strumpet; but of life as honest
As you that thus abuse me.
EMILIA

As I! foh! fie upon thee!
IAGO

Kind gentlemen, let’s go see poor Cassio dress’d.
Come, mistress, you must tell’s another tale.
Emilia run you to the citadel,
And tell my lord and lady what hath happ’d.
Will you go on? I pray.
Aside
This is the night
That either makes me or fordoes me quite.
Exeunt

SCENE II. A bedchamber in the castle: DESDEMONA in bed asleep;

a light burning.
Enter OTHELLO
OTHELLO

It is the cause, it is the cause, my soul,–
Let me not name it to you, you chaste stars!–
It is the cause. Yet I’ll not shed her blood;
Nor scar that whiter skin of hers than snow,
And smooth as monumental alabaster.
Yet she must die, else she’ll betray more men.
Put out the light, and then put out the light:
If I quench thee, thou flaming minister,
I can again thy former light restore,
Should I repent me: but once put out thy light,
Thou cunning’st pattern of excelling nature,
I know not where is that Promethean heat
That can thy light relume. When I have pluck’d the rose,
I cannot give it vital growth again.
It must needs wither: I’ll smell it on the tree.
Kissing her
Ah balmy breath, that dost almost persuade
Justice to break her sword! One more, one more.
Be thus when thou art dead, and I will kill thee,
And love thee after. One more, and this the last:
So sweet was ne’er so fatal. I must weep,
But they are cruel tears: this sorrow’s heavenly;
It strikes where it doth love. She wakes.
DESDEMONA

Who’s there? Othello?
OTHELLO

Ay. Desdemona.
DESDEMONA

Will you come to bed, my lord?
OTHELLO

Have you pray’d to-night, Desdemona?
DESDEMONA

Ay, my lord.
OTHELLO

If you bethink yourself of any crime
Unreconciled as yet to heaven and grace,
Solicit for it straight.
DESDEMONA

Alas, my lord, what do you mean by that?
OTHELLO

Well, do it, and be brief; I will walk by:
I would not kill thy unprepared spirit;
No; heaven forfend! I would not kill thy soul.
DESDEMONA

Talk you of killing?
OTHELLO

Ay, I do.
DESDEMONA

Then heaven
Have mercy on me!
OTHELLO

Amen, with all my heart!
DESDEMONA

If you say so, I hope you will not kill me.
OTHELLO

Hum!
DESDEMONA

And yet I fear you; for you are fatal then
When your eyes roll so: why I should fear I know not,
Since guiltiness I know not; but yet I feel I fear.
OTHELLO

Think on thy sins.
DESDEMONA

They are loves I bear to you.
OTHELLO

Ay, and for that thou diest.
DESDEMONA

That death’s unnatural that kills for loving.
Alas, why gnaw you so your nether lip?
Some bloody passion shakes your very frame:
These are portents; but yet I hope, I hope,
They do not point on me.
OTHELLO

Peace, and be still!
DESDEMONA

I will so. What’s the matter?
OTHELLO

That handkerchief which I so loved and gave thee
Thou gavest to Cassio.
DESDEMONA

No, by my life and soul!
Send for the man, and ask him.
OTHELLO

Sweet soul, take heed,
Take heed of perjury; thou art on thy deathbed.
DESDEMONA

Ay, but not yet to die.
OTHELLO

Yes, presently:
Therefore confess thee freely of thy sin;
For to deny each article with oath
Cannot remove nor choke the strong conception
That I do groan withal. Thou art to die.
DESDEMONA

Then Lord have mercy on me!
OTHELLO

I say, amen.
DESDEMONA

And have you mercy too! I never did
Offend you in my life; never loved Cassio
But with such general warranty of heaven
As I might love: I never gave him token.
OTHELLO

By heaven, I saw my handkerchief in’s hand.
O perjured woman! thou dost stone my heart,
And makest me call what I intend to do
A murder, which I thought a sacrifice:
I saw the handkerchief.
DESDEMONA

He found it then;
I never gave it him: send for him hither;
Let him confess a truth.
OTHELLO

He hath confess’d.
DESDEMONA

What, my lord?
OTHELLO

That he hath used thee.
DESDEMONA

How? unlawfully?
OTHELLO

Ay.
DESDEMONA

He will not say so.
OTHELLO

No, his mouth is stopp’d;
Honest Iago hath ta’en order for’t.
DESDEMONA

O! my fear interprets: what, is he dead?
OTHELLO

Had all his hairs been lives, my great revenge
Had stomach for them all.
DESDEMONA

Alas! he is betray’d and I undone.
OTHELLO

Out, strumpet! weep’st thou for him to my face?
DESDEMONA

O, banish me, my lord, but kill me not!
OTHELLO

Down, strumpet!
DESDEMONA

Kill me to-morrow: let me live to-night!
OTHELLO

Nay, if you strive–
DESDEMONA

But half an hour!
OTHELLO

Being done, there is no pause.
DESDEMONA

But while I say one prayer!
OTHELLO

It is too late.
He stifles her
EMILIA

[Within] My lord , my lord! what, ho! my lord, my lord!
OTHELLO

What noise is this? Not dead? not yet quite dead?
I that am cruel am yet merciful;
I would not have thee linger in thy pain: So, so.
EMILIA

[Within] What, ho! my lord, my lord!
OTHELLO

Who’s there?
EMILIA

[Within] O, good my lord, I would speak a word with you!
OTHELLO

Yes: ’tis Emilia. By and by. She’s dead.
‘Tis like she comes to speak of Cassio’s death.–
The noise was here. Ha! no more moving?
Still as the grave. Shall she come in? were’t good?–
I think she stirs again:–no. What’s best to do?
If she come in, she’ll sure speak to my wife:
My wife! my wife! what wife? I have no wife.
O insupportable! O heavy hour!
Methinks it should be now a huge eclipse
Of sun and moon, and that the affrighted globe
Should yawn at alteration.
EMILIA

[Within] I do beseech you
That I may speak with you, O, good my lord!
OTHELLO

I had forgot thee: O, come in, Emilia;
Soft; by and by. Let me the curtains draw.
Where art thou?
Unlocks the door
Enter EMILIA
What’s the matter with thee now?
EMILIA

O, my good lord, yonder’s foul murders done!
OTHELLO

What, now?
EMILIA

But now, my lord.
OTHELLO

It is the very error of the moon;
She comes more nearer earth than she was wont,
And makes men mad.
EMILIA

Cassio, my lord, hath kill’d a young Venetian
Call’d Roderigo.
OTHELLO

Roderigo kill’d!
And Cassio kill’d!
EMILIA

No, Cassio is not kill’d.
OTHELLO

Not Cassio kill’d! then murder’s out of tune,
And sweet revenge grows harsh.
DESDEMONA

O, falsely, falsely murder’d!
EMILIA

Alas, what cry is that?
OTHELLO

That! what?
EMILIA

Out, and alas! that was my lady’s voice.
Help! help, ho! help! O lady, speak again!
Sweet Desdemona! O sweet mistress, speak!
DESDEMONA

A guiltless death I die.
EMILIA

O, who hath done this deed?
DESDEMONA

Nobody; I myself. Farewell
Commend me to my kind lord: O, farewell!
Dies
OTHELLO

Why, how should she be murder’d?
EMILIA

Alas, who knows?
OTHELLO

You heard her say herself, it was not I.
EMILIA

She said so: I must needs report the truth.
OTHELLO

She’s, like a liar, gone to burning hell:
‘Twas I that kill’d her.
EMILIA

O, the more angel she,
And you the blacker devil!
OTHELLO

She turn’d to folly, and she was a whore.
EMILIA

Thou dost belie her, and thou art a devil.
OTHELLO

She was false as water.
EMILIA

Thou art rash as fire, to say
That she was false: O, she was heavenly true!
OTHELLO

Cassio did top her; ask thy husband else.
O, I were damn’d beneath all depth in hell,
But that I did proceed upon just grounds
To this extremity. Thy husband knew it all.
EMILIA

My husband!
OTHELLO

Thy husband.
EMILIA

That she was false to wedlock?
OTHELLO

Ay, with Cassio. Nay, had she been true,
If heaven would make me such another world
Of one entire and Perfect chrysolite,
I’ld not have sold her for it.
EMILIA

My husband!
OTHELLO

Ay, ’twas he that told me first:
An honest man he is, and hates the slime
That sticks on filthy deeds.
EMILIA

My husband!
OTHELLO

What needs this iteration, woman? I say thy husband.
EMILIA

O mistress, villany hath made mocks with love,
My husband say that she was false!
OTHELLO

He, woman;
I say thy husband: dost understand the word?
My friend, thy husband, honest, honest Iago.
EMILIA

If he say so, may his pernicious soul
Rot half a grain a day! he lies to the heart:
She was too fond of her most filthy bargain.
OTHELLO

Ha!
EMILIA

Do thy worst:
This deed of thine is no more worthy heaven
Than thou wast worthy her.
OTHELLO

Peace, you were best.
EMILIA

Thou hast not half that power to do me harm
As I have to be hurt. O gull! O dolt!
As ignorant as dirt! thou hast done a deed–
I care not for thy sword; I’ll make thee known,
Though I lost twenty lives.–Help! help, ho! help!
The Moor hath kill’d my mistress! Murder! murder!
Enter MONTANO, GRATIANO, IAGO, and others
MONTANO

What is the matter? How now, general!
EMILIA

O, are you come, Iago? you have done well,
That men must lay their murders on your neck.
GRATIANO

What is the matter?
EMILIA

Disprove this villain, if thou be’st a man:
He says thou told’st him that his wife was false:
I know thou didst not, thou’rt not such a villain:
Speak, for my heart is full.
IAGO

I told him what I thought, and told no more
Than what he found himself was apt and true.
EMILIA

But did you ever tell him she was false?
IAGO

I did.
EMILIA

You told a lie, an odious, damned lie;
Upon my soul, a lie, a wicked lie.
She false with Cassio!–did you say with Cassio?
IAGO

With Cassio, mistress. Go to, charm your tongue.
EMILIA

I will not charm my tongue; I am bound to speak:
My mistress here lies murder’d in her bed,–
All

O heavens forfend!
EMILIA

And your reports have set the murder on.
OTHELLO

Nay, stare not, masters: it is true, indeed.
GRATIANO

‘Tis a strange truth.
MONTANO

O monstrous act!
EMILIA

Villany, villany, villany!
I think upon’t, I think: I smell’t: O villany!–
I thought so then:–I’ll kill myself for grief:–
O villany, villany!
IAGO

What, are you mad? I charge you, get you home.
EMILIA

Good gentlemen, let me have leave to speak:
‘Tis proper I obey him, but not now.
Perchance, Iago, I will ne’er go home.
OTHELLO

O! O! O!
He falls on the bed
EMILIA

Nay, lay thee down and roar;
For thou hast kill’d the sweetest innocent
That e’er did lift up eye.
OTHELLO

[Rising] O, she was foul!
I scarce did know you, uncle: there lies your niece,
Whose breath, indeed, these hands have newly stopp’d:
I know this act shows horrible and grim.
GRATIANO

Poor Desdemona! I am glad thy father’s dead:
Thy match was mortal to him, and pure grief
Shore his old thread in twain: did he live now,
This sight would make him do a desperate turn,
Yea, curse his better angel from his side,
And fall to reprobation.
OTHELLO

‘Tis pitiful; but yet Iago knows
That she with Cassio hath the act of shame
A thousand times committed; Cassio confess’d it:
And she did gratify his amorous works
With that recognizance and pledge of love
Which I first gave her; I saw it in his hand:
It was a handkerchief, an antique token
My father gave my mother.
EMILIA

O heaven! O heavenly powers!
IAGO

Come, hold your peace.
EMILIA

‘Twill out, ’twill out: I peace!
No, I will speak as liberal as the north:
Let heaven and men and devils, let them all,
All, all, cry shame against me, yet I’ll speak.
IAGO

Be wise, and get you home.
EMILIA

I will not.
IAGO offers to stab EMILIA
GRATIANO

Fie!
Your sword upon a woman?
EMILIA

O thou dull Moor! that handkerchief thou speak’st of
I found by fortune and did give my husband;
For often, with a solemn earnestness,
More than indeed belong’d to such a trifle,
He begg’d of me to steal it.
IAGO

Villanous whore!
EMILIA

She give it Cassio! no, alas! I found it,
And I did give’t my husband.
IAGO

Filth, thou liest!
EMILIA

By heaven, I do not, I do not, gentlemen.
O murderous coxcomb! what should such a fool
Do with so good a woman?
OTHELLO

Are there no stones in heaven
But what serve for the thunder?–Precious villain!
He runs at IAGO IAGO, from behind, stabs EMILIA, and exit
GRATIANO

The woman falls; sure, he hath kill’d his wife.
EMILIA

Ay, ay: O, lay me by my mistress’ side.
GRATIANO

He’s gone, but his wife’s kill’d.
MONTANO

‘Tis a notorious villain. Take you this weapon,
Which I have here recover’d from the Moor:
Come, guard the door without; let him not pass,
But kill him rather. I’ll after that same villain,
For ’tis a damned slave.
Exeunt MONTANO and GRATIANO
OTHELLO

I am not valiant neither,
But ever puny whipster gets my sword:
But why should honour outlive honesty?
Let it go all.
EMILIA

What did thy song bode, lady?
Hark, canst thou hear me? I will play the swan.
And die in music.
Singing
Willow, willow, willow,–
Moor, she was chaste; she loved thee, cruel Moor;
So come my soul to bliss, as I speak true;
So speaking as I think, I die, I die.
Dies
OTHELLO

I have another weapon in this chamber;
It is a sword of Spain, the ice-brook’s temper:–
O, here it is. Uncle, I must come forth.
GRATIANO

[Within] If thou attempt it, it will cost thee dear:
Thou hast no weapon, and perforce must suffer.
OTHELLO

Look in upon me then and speak with me,
Or, naked as I am, I will assault thee.
Re-enter GRATIANO
GRATIANO

What is the matter?
OTHELLO

Behold, I have a weapon;
A better never did itself sustain
Upon a soldier’s thigh: I have seen the day,
That, with this little arm and this good sword,
I have made my way through more impediments
Than twenty times your stop: but, O vain boast!
Who can control his fate? ’tis not so now.
Be not afraid, though you do see me weapon’d;
Here is my journey’s end, here is my butt,
And very sea-mark of my utmost sail.
Do you go back dismay’d? ’tis a lost fear;
Man but a rush against Othello’s breast,
And he retires. Where should Othello go?
Now, how dost thou look now? O ill-starr’d wench!
Pale as thy smock! when we shall meet at compt,
This look of thine will hurl my soul from heaven,
And fiends will snatch at it. Cold, cold, my girl!
Even like thy chastity. O cursed slave!
Whip me, ye devils,
From the possession of this heavenly sight!
Blow me about in winds! roast me in sulphur!
Wash me in steep-down gulfs of liquid fire!
O Desdemona! Desdemona! dead!
Oh! Oh! Oh!
Enter LODOVICO. MONTANO, CASSIO carried in a chair, and Officers with IAGO, prisoner
LODOVICO

Where is this rash and most unfortunate man?
OTHELLO

That’s he that was Othello: here I am.
LODOVICO

Where is that viper? bring the villain forth.
OTHELLO

I look down towards his feet; but that’s a fable.
If that thou best a devil, I cannot kill thee.
Wounds IAGO
LODOVICO

Wrench his sword from him.
IAGO

I bleed, sir; but not kill’d.
OTHELLO

I am not sorry neither: I’ld have thee live;
For, in my sense, ’tis happiness to die.
LODOVICO

O thou Othello, thou wert once so good,
Fall’n in the practise of a damned slave,
What shall be said to thee?
OTHELLO

Why, any thing:
An honourable murderer, if you will;
For nought I did in hate, but all in honour.
LODOVICO

This wretch hath part confess’d his villany:
Did you and he consent in Cassio’s death?
OTHELLO

Ay.
CASSIO

Dear general, I never gave you cause.
OTHELLO

I do believe it, and I ask your pardon.
Will you, I pray, demand that demi-devil
Why he hath thus ensnared my soul and body?
IAGO

Demand me nothing: what you know, you know:
From this time forth I never will speak word.
LODOVICO

What, not to pray?
GRATIANO

Torments will ope your lips.
OTHELLO

Well, thou dost best.
LODOVICO

Sir, you shall understand what hath befall’n,
Which, as I think, you know not. Here is a letter
Found in the pocket of the slain Roderigo;
And here another: the one of them imports
The death of Cassio to be undertook
By Roderigo.
OTHELLO

O villain!
CASSIO

Most heathenish and most gross!
LODOVICO

Now here’s another discontented paper,
Found in his pocket too; and this, it seems,
Roderigo meant to have sent this damned villain;
But that belike Iago in the interim
Came in and satisfied him.
OTHELLO

O the pernicious caitiff!
How came you, Cassio, by that handkerchief
That was my wife’s?
CASSIO

I found it in my chamber:
And he himself confess’d but even now
That there he dropp’d it for a special purpose
Which wrought to his desire.
OTHELLO

O fool! fool! fool!
CASSIO

There is besides in Roderigo’s letter,
How he upbraids Iago, that he made him
Brave me upon the watch; whereon it came
That I was cast: and even but now he spake,
After long seeming dead, Iago hurt him,
Iago set him on.
LODOVICO

You must forsake this room, and go with us:
Your power and your command is taken off,
And Cassio rules in Cyprus. For this slave,
If there be any cunning cruelty
That can torment him much and hold him long,
It shall be his. You shall close prisoner rest,
Till that the nature of your fault be known
To the Venetian state. Come, bring him away.
OTHELLO

Soft you; a word or two before you go.
I have done the state some service, and they know’t.
No more of that. I pray you, in your letters,
When you shall these unlucky deeds relate,
Speak of me as I am; nothing extenuate,
Nor set down aught in malice: then must you speak
Of one that loved not wisely but too well;
Of one not easily jealous, but being wrought
Perplex’d in the extreme; of one whose hand,
Like the base Indian, threw a pearl away
Richer than all his tribe; of one whose subdued eyes,
Albeit unused to the melting mood,
Drop tears as fast as the Arabian trees
Their medicinal gum. Set you down this;
And say besides, that in Aleppo once,
Where a malignant and a turban’d Turk
Beat a Venetian and traduced the state,
I took by the throat the circumcised dog,
And smote him, thus.
Stabs himself
LODOVICO

O bloody period!
GRATIANO

All that’s spoke is marr’d.
OTHELLO

I kiss’d thee ere I kill’d thee: no way but this;
Killing myself, to die upon a kiss.
Falls on the bed, and dies
CASSIO

This did I fear, but thought he had no weapon;
For he was great of heart.
LODOVICO

[To IAGO] O Spartan dog,
More fell than anguish, hunger, or the sea!
Look on the tragic loading of this bed;
This is thy work: the object poisons sight;
Let it be hid. Gratiano, keep the house,
And seize upon the fortunes of the Moor,
For they succeed on you. To you, lord governor,
Remains the censure of this hellish villain;
The time, the place, the torture: O, enforce it!
Myself will straight aboard: and to the state
This heavy act with heavy heart relate.
Exeunt

arkworth. Before the castle
Enter RUMOUR, painted full of tongues
RUMOUR

Open your ears; for which of you will stop
The vent of hearing when loud Rumour speaks?
I, from the orient to the drooping west,
Making the wind my post-horse, still unfold
The acts commenced on this ball of earth:
Upon my tongues continual slanders ride,
The which in every language I pronounce,
Stuffing the ears of men with false reports.
I speak of peace, while covert enmity
Under the smile of safety wounds the world:
And who but Rumour, who but only I,
Make fearful musters and prepared defence,
Whiles the big year, swoln with some other grief,
Is thought with child by the stern tyrant war,
And no such matter? Rumour is a pipe
Blown by surmises, jealousies, conjectures
And of so easy and so plain a stop
That the blunt monster with uncounted heads,
The still-discordant wavering multitude,
Can play upon it. But what need I thus
My well-known body to anatomize
Among my household? Why is Rumour here?
I run before King Harry’s victory;
Who in a bloody field by Shrewsbury
Hath beaten down young Hotspur and his troops,
Quenching the flame of bold rebellion
Even with the rebel’s blood. But what mean I
To speak so true at first? my office is
To noise abroad that Harry Monmouth fell
Under the wrath of noble Hotspur’s sword,
And that the king before the Douglas’ rage
Stoop’d his anointed head as low as death.
This have I rumour’d through the peasant towns
Between that royal field of Shrewsbury
And this worm-eaten hold of ragged stone,
Where Hotspur’s father, old Northumberland,
Lies crafty-sick: the posts come tiring on,
And not a man of them brings other news
Than they have learn’d of me: from Rumour’s tongues
They bring smooth comforts false, worse than
true wrongs.
Exit

ACT I
SCENE I. The same.

Enter LORD BARDOLPH
LORD BARDOLPH

Who keeps the gate here, ho?
The Porter opens the gate
Where is the earl?
Porter

What shall I say you are?
LORD BARDOLPH

Tell thou the earl
That the Lord Bardolph doth attend him here.
Porter

His lordship is walk’d forth into the orchard;
Please it your honour, knock but at the gate,
And he himself wilt answer.
Enter NORTHUMBERLAND
LORD BARDOLPH

Here comes the earl.
Exit Porter
NORTHUMBERLAND

What news, Lord Bardolph? every minute now
Should be the father of some stratagem:
The times are wild: contention, like a horse
Full of high feeding, madly hath broke loose
And bears down all before him.
LORD BARDOLPH

Noble earl,
I bring you certain news from Shrewsbury.
NORTHUMBERLAND

Good, an God will!
LORD BARDOLPH

As good as heart can wish:
The king is almost wounded to the death;
And, in the fortune of my lord your son,
Prince Harry slain outright; and both the Blunts
Kill’d by the hand of Douglas; young Prince John
And Westmoreland and Stafford fled the field;
And Harry Monmouth’s brawn, the hulk Sir John,
Is prisoner to your son: O, such a day,
So fought, so follow’d and so fairly won,
Came not till now to dignify the times,
Since Caesar’s fortunes!
NORTHUMBERLAND

How is this derived?
Saw you the field? came you from Shrewsbury?
LORD BARDOLPH

I spake with one, my lord, that came from thence,
A gentleman well bred and of good name,
That freely render’d me these news for true.
NORTHUMBERLAND

Here comes my servant Travers, whom I sent
On Tuesday last to listen after news.
Enter TRAVERS
LORD BARDOLPH

My lord, I over-rode him on the way;
And he is furnish’d with no certainties
More than he haply may retail from me.
NORTHUMBERLAND

Now, Travers, what good tidings comes with you?
TRAVERS

My lord, Sir John Umfrevile turn’d me back
With joyful tidings; and, being better horsed,
Out-rode me. After him came spurring hard
A gentleman, almost forspent with speed,
That stopp’d by me to breathe his bloodied horse.
He ask’d the way to Chester; and of him
I did demand what news from Shrewsbury:
He told me that rebellion had bad luck
And that young Harry Percy’s spur was cold.
With that, he gave his able horse the head,
And bending forward struck his armed heels
Against the panting sides of his poor jade
Up to the rowel-head, and starting so
He seem’d in running to devour the way,
Staying no longer question.
NORTHUMBERLAND

Ha! Again:
Said he young Harry Percy’s spur was cold?
Of Hotspur Coldspur? that rebellion
Had met ill luck?
LORD BARDOLPH

My lord, I’ll tell you what;
If my young lord your son have not the day,
Upon mine honour, for a silken point
I’ll give my barony: never talk of it.
NORTHUMBERLAND

Why should that gentleman that rode by Travers
Give then such instances of loss?
LORD BARDOLPH

Who, he?
He was some hilding fellow that had stolen
The horse he rode on, and, upon my life,
Spoke at a venture. Look, here comes more news.
Enter MORTON
NORTHUMBERLAND

Yea, this man’s brow, like to a title-leaf,
Foretells the nature of a tragic volume:
So looks the strand whereon the imperious flood
Hath left a witness’d usurpation.
Say, Morton, didst thou come from Shrewsbury?
MORTON

I ran from Shrewsbury, my noble lord;
Where hateful death put on his ugliest mask
To fright our party.
NORTHUMBERLAND

How doth my son and brother?
Thou tremblest; and the whiteness in thy cheek
Is apter than thy tongue to tell thy errand.
Even such a man, so faint, so spiritless,
So dull, so dead in look, so woe-begone,
Drew Priam’s curtain in the dead of night,
And would have told him half his Troy was burnt;
But Priam found the fire ere he his tongue,
And I my Percy’s death ere thou report’st it.
This thou wouldst say, ‘Your son did thus and thus;
Your brother thus: so fought the noble Douglas:’
Stopping my greedy ear with their bold deeds:
But in the end, to stop my ear indeed,
Thou hast a sigh to blow away this praise,
Ending with ‘Brother, son, and all are dead.’
MORTON

Douglas is living, and your brother, yet;
But, for my lord your son–
NORTHUMBERLAND

Why, he is dead.
See what a ready tongue suspicion hath!
He that but fears the thing he would not know
Hath by instinct knowledge from others’ eyes
That what he fear’d is chanced. Yet speak, Morton;
Tell thou an earl his divination lies,
And I will take it as a sweet disgrace
And make thee rich for doing me such wrong.
MORTON

You are too great to be by me gainsaid:
Your spirit is too true, your fears too certain.
NORTHUMBERLAND

Yet, for all this, say not that Percy’s dead.
I see a strange confession in thine eye:
Thou shakest thy head and hold’st it fear or sin
To speak a truth. If he be slain, say so;
The tongue offends not that reports his death:
And he doth sin that doth belie the dead,
Not he which says the dead is not alive.
Yet the first bringer of unwelcome news
Hath but a losing office, and his tongue
Sounds ever after as a sullen bell,
Remember’d tolling a departing friend.
LORD BARDOLPH

I cannot think, my lord, your son is dead.
MORTON

I am sorry I should force you to believe
That which I would to God I had not seen;
But these mine eyes saw him in bloody state,
Rendering faint quittance, wearied and out-breathed,
To Harry Monmouth; whose swift wrath beat down
The never-daunted Percy to the earth,
From whence with life he never more sprung up.
In few, his death, whose spirit lent a fire
Even to the dullest peasant in his camp,
Being bruited once, took fire and heat away
From the best temper’d courage in his troops;
For from his metal was his party steel’d;
Which once in him abated, all the rest
Turn’d on themselves, like dull and heavy lead:
And as the thing that’s heavy in itself,
Upon enforcement flies with greatest speed,
So did our men, heavy in Hotspur’s loss,
Lend to this weight such lightness with their fear
That arrows fled not swifter toward their aim
Than did our soldiers, aiming at their safety,
Fly from the field. Then was the noble Worcester
Too soon ta’en prisoner; and that furious Scot,
The bloody Douglas, whose well-labouring sword
Had three times slain the appearance of the king,
‘Gan vail his stomach and did grace the shame
Of those that turn’d their backs, and in his flight,
Stumbling in fear, was took. The sum of all
Is that the king hath won, and hath sent out
A speedy power to encounter you, my lord,
Under the conduct of young Lancaster
And Westmoreland. This is the news at full.
NORTHUMBERLAND

For this I shall have time enough to mourn.
In poison there is physic; and these news,
Having been well, that would have made me sick,
Being sick, have in some measure made me well:
And as the wretch, whose fever-weaken’d joints,
Like strengthless hinges, buckle under life,
Impatient of his fit, breaks like a fire
Out of his keeper’s arms, even so my limbs,
Weaken’d with grief, being now enraged with grief,
Are thrice themselves. Hence, therefore, thou nice crutch!
A scaly gauntlet now with joints of steel
Must glove this hand: and hence, thou sickly quoif!
Thou art a guard too wanton for the head
Which princes, flesh’d with conquest, aim to hit.
Now bind my brows with iron; and approach
The ragged’st hour that time and spite dare bring
To frown upon the enraged Northumberland!
Let heaven kiss earth! now let not Nature’s hand
Keep the wild flood confined! let order die!
And let this world no longer be a stage
To feed contention in a lingering act;
But let one spirit of the first-born Cain
Reign in all bosoms, that, each heart being set
On bloody courses, the rude scene may end,
And darkness be the burier of the dead!
TRAVERS

This strained passion doth you wrong, my lord.
LORD BARDOLPH

Sweet earl, divorce not wisdom from your honour.
MORTON

The lives of all your loving complices
Lean on your health; the which, if you give o’er
To stormy passion, must perforce decay.
You cast the event of war, my noble lord,
And summ’d the account of chance, before you said
‘Let us make head.’ It was your presurmise,
That, in the dole of blows, your son might drop:
You knew he walk’d o’er perils, on an edge,
More likely to fall in than to get o’er;
You were advised his flesh was capable
Of wounds and scars and that his forward spirit
Would lift him where most trade of danger ranged:
Yet did you say ‘Go forth;’ and none of this,
Though strongly apprehended, could restrain
The stiff-borne action: what hath then befallen,
Or what hath this bold enterprise brought forth,
More than that being which was like to be?
LORD BARDOLPH

We all that are engaged to this loss
Knew that we ventured on such dangerous seas
That if we wrought our life ’twas ten to one;
And yet we ventured, for the gain proposed
Choked the respect of likely peril fear’d;
And since we are o’erset, venture again.
Come, we will all put forth, body and goods.
MORTON

‘Tis more than time: and, my most noble lord,
I hear for certain, and do speak the truth,
The gentle Archbishop of York is up
With well-appointed powers: he is a man
Who with a double surety binds his followers.
My lord your son had only but the corpse,
But shadows and the shows of men, to fight;
For that same word, rebellion, did divide
The action of their bodies from their souls;
And they did fight with queasiness, constrain’d,
As men drink potions, that their weapons only
Seem’d on our side; but, for their spirits and souls,
This word, rebellion, it had froze them up,
As fish are in a pond. But now the bishop
Turns insurrection to religion:
Supposed sincere and holy in his thoughts,
He’s followed both with body and with mind;
And doth enlarge his rising with the blood
Of fair King Richard, scraped from Pomfret stones;
Derives from heaven his quarrel and his cause;
Tells them he doth bestride a bleeding land,
Gasping for life under great Bolingbroke;
And more and less do flock to follow him.
NORTHUMBERLAND

I knew of this before; but, to speak truth,
This present grief had wiped it from my mind.
Go in with me; and counsel every man
The aptest way for safety and revenge:
Get posts and letters, and make friends with speed:
Never so few, and never yet more need.
Exeunt

SCENE II. London. A street.

Enter FALSTAFF, with his Page bearing his sword and buckler
FALSTAFF

Sirrah, you giant, what says the doctor to my water?
Page

He said, sir, the water itself was a good healthy
water; but, for the party that owed it, he might
have more diseases than he knew for.
FALSTAFF

Men of all sorts take a pride to gird at me: the
brain of this foolish-compounded clay, man, is not
able to invent anything that tends to laughter, more
than I invent or is invented on me: I am not only
witty in myself, but the cause that wit is in other
men. I do here walk before thee like a sow that
hath overwhelmed all her litter but one. If the
prince put thee into my service for any other reason
than to set me off, why then I have no judgment.
Thou whoreson mandrake, thou art fitter to be worn
in my cap than to wait at my heels. I was never
manned with an agate till now: but I will inset you
neither in gold nor silver, but in vile apparel, and
send you back again to your master, for a jewel,–
the juvenal, the prince your master, whose chin is
not yet fledged. I will sooner have a beard grow in
the palm of my hand than he shall get one on his
cheek; and yet he will not stick to say his face is
a face-royal: God may finish it when he will, ’tis
not a hair amiss yet: he may keep it still at a
face-royal, for a barber shall never earn sixpence
out of it; and yet he’ll be crowing as if he had
writ man ever since his father was a bachelor. He
may keep his own grace, but he’s almost out of mine,
I can assure him. What said Master Dombledon about
the satin for my short cloak and my slops?
Page

He said, sir, you should procure him better
assurance than Bardolph: he would not take his
band and yours; he liked not the security.
FALSTAFF

Let him be damned, like the glutton! pray God his
tongue be hotter! A whoreson Achitophel! a rascally
yea-forsooth knave! to bear a gentleman in hand,
and then stand upon security! The whoreson
smooth-pates do now wear nothing but high shoes, and
bunches of keys at their girdles; and if a man is
through with them in honest taking up, then they
must stand upon security. I had as lief they would
put ratsbane in my mouth as offer to stop it with
security. I looked a’ should have sent me two and
twenty yards of satin, as I am a true knight, and he
sends me security. Well, he may sleep in security;
for he hath the horn of abundance, and the lightness
of his wife shines through it: and yet cannot he
see, though he have his own lanthorn to light him.
Where’s Bardolph?
Page

He’s gone into Smithfield to buy your worship a horse.
FALSTAFF

I bought him in Paul’s, and he’ll buy me a horse in
Smithfield: an I could get me but a wife in the
stews, I were manned, horsed, and wived.
Enter the Lord Chief-Justice and Servant
Page

Sir, here comes the nobleman that committed the
Prince for striking him about Bardolph.
FALSTAFF

Wait, close; I will not see him.
Lord Chief-Justice What’s he that goes there?
Servant

Falstaff, an’t please your lordship.
Lord Chief-Justice He that was in question for the robbery?
Servant

He, my lord: but he hath since done good service at
Shrewsbury; and, as I hear, is now going with some
charge to the Lord John of Lancaster.
Lord Chief-Justice What, to York? Call him back again.
Servant

Sir John Falstaff!
FALSTAFF

Boy, tell him I am deaf.
Page

You must speak louder; my master is deaf.
Lord Chief-Justice I am sure he is, to the hearing of any thing good.
Go, pluck him by the elbow; I must speak with him.
Servant

Sir John!
FALSTAFF

What! a young knave, and begging! Is there not
wars? is there not employment? doth not the king
lack subjects? do not the rebels need soldiers?
Though it be a shame to be on any side but one, it
is worse shame to beg than to be on the worst side,
were it worse than the name of rebellion can tell
how to make it.
Servant

You mistake me, sir.
FALSTAFF

Why, sir, did I say you were an honest man? setting
my knighthood and my soldiership aside, I had lied
in my throat, if I had said so.
Servant

I pray you, sir, then set your knighthood and our
soldiership aside; and give me leave to tell you,
you lie in your throat, if you say I am any other
than an honest man.
FALSTAFF

I give thee leave to tell me so! I lay aside that
which grows to me! if thou gettest any leave of me,
hang me; if thou takest leave, thou wert better be
hanged. You hunt counter: hence! avaunt!
Servant

Sir, my lord would speak with you.
Lord Chief-Justice Sir John Falstaff, a word with you.
FALSTAFF

My good lord! God give your lordship good time of
day. I am glad to see your lordship abroad: I heard
say your lordship was sick: I hope your lordship
goes abroad by advice. Your lordship, though not
clean past your youth, hath yet some smack of age in
you, some relish of the saltness of time; and I must
humbly beseech your lordship to have a reverent care
of your health.
Lord Chief-Justice Sir John, I sent for you before your expedition to
Shrewsbury.
FALSTAFF

An’t please your lordship, I hear his majesty is
returned with some discomfort from Wales.
Lord Chief-Justice I talk not of his majesty: you would not come when
I sent for you.
FALSTAFF

And I hear, moreover, his highness is fallen into
this same whoreson apoplexy.
Lord Chief-Justice Well, God mend him! I pray you, let me speak with
you.
FALSTAFF

This apoplexy is, as I take it, a kind of lethargy,
an’t please your lordship; a kind of sleeping in the
blood, a whoreson tingling.
Lord Chief-Justice What tell you me of it? be it as it is.
FALSTAFF

It hath its original from much grief, from study and
perturbation of the brain: I have read the cause of
his effects in Galen: it is a kind of deafness.
Lord Chief-Justice I think you are fallen into the disease; for you
hear not what I say to you.
FALSTAFF

Very well, my lord, very well: rather, an’t please
you, it is the disease of not listening, the malady
of not marking, that I am troubled withal.
Lord Chief-Justice To punish you by the heels would amend the
attention of your ears; and I care not if I do
become your physician.
FALSTAFF

I am as poor as Job, my lord, but not so patient:
your lordship may minister the potion of
imprisonment to me in respect of poverty; but how
should I be your patient to follow your
prescriptions, the wise may make some dram of a
scruple, or indeed a scruple itself.
Lord Chief-Justice I sent for you, when there were matters against you
for your life, to come speak with me.
FALSTAFF

As I was then advised by my learned counsel in the
laws of this land-service, I did not come.
Lord Chief-Justice Well, the truth is, Sir John, you live in great infamy.
FALSTAFF

He that buckles him in my belt cannot live in less.
Lord Chief-Justice Your means are very slender, and your waste is great.
FALSTAFF

I would it were otherwise; I would my means were
greater, and my waist slenderer.
Lord Chief-Justice You have misled the youthful prince.
FALSTAFF

The young prince hath misled me: I am the fellow
with the great belly, and he my dog.
Lord Chief-Justice Well, I am loath to gall a new-healed wound: your
day’s service at Shrewsbury hath a little gilded
over your night’s exploit on Gad’s-hill: you may
thank the unquiet time for your quiet o’er-posting
that action.
FALSTAFF

My lord?
Lord Chief-Justice But since all is well, keep it so: wake not a
sleeping wolf.
FALSTAFF

To wake a wolf is as bad as to smell a fox.
Lord Chief-Justice What! you are as a candle, the better part burnt
out.
FALSTAFF

A wassail candle, my lord, all tallow: if I did say
of wax, my growth would approve the truth.
Lord Chief-Justice There is not a white hair on your face but should
have his effect of gravity.
FALSTAFF

His effect of gravy, gravy, gravy.
Lord Chief-Justice You follow the young prince up and down, like his
ill angel.
FALSTAFF

Not so, my lord; your ill angel is light; but I hope
he that looks upon me will take me without weighing:
and yet, in some respects, I grant, I cannot go: I
cannot tell. Virtue is of so little regard in these
costermonger times that true valour is turned
bear-herd: pregnancy is made a tapster, and hath
his quick wit wasted in giving reckonings: all the
other gifts appertinent to man, as the malice of
this age shapes them, are not worth a gooseberry.
You that are old consider not the capacities of us
that are young; you do measure the heat of our
livers with the bitterness of your galls: and we
that are in the vaward of our youth, I must confess,
are wags too.
Lord Chief-Justice Do you set down your name in the scroll of youth,
that are written down old with all the characters of
age? Have you not a moist eye? a dry hand? a
yellow cheek? a white beard? a decreasing leg? an
increasing belly? is not your voice broken? your
wind short? your chin double? your wit single? and
every part about you blasted with antiquity? and
will you yet call yourself young? Fie, fie, fie, Sir John!
FALSTAFF

My lord, I was born about three of the clock in the
afternoon, with a white head and something a round
belly. For my voice, I have lost it with halloing
and singing of anthems. To approve my youth
further, I will not: the truth is, I am only old in
judgment and understanding; and he that will caper
with me for a thousand marks, let him lend me the
money, and have at him! For the box of the ear that
the prince gave you, he gave it like a rude prince,
and you took it like a sensible lord. I have
chequed him for it, and the young lion repents;
marry, not in ashes and sackcloth, but in new silk
and old sack.
Lord Chief-Justice Well, God send the prince a better companion!
FALSTAFF

God send the companion a better prince! I cannot
rid my hands of him.
Lord Chief-Justice Well, the king hath severed you and Prince Harry: I
hear you are going with Lord John of Lancaster
against the Archbishop and the Earl of
Northumberland.
FALSTAFF

Yea; I thank your pretty sweet wit for it. But look
you pray, all you that kiss my lady Peace at home,
that our armies join not in a hot day; for, by the
Lord, I take but two shirts out with me, and I mean
not to sweat extraordinarily: if it be a hot day,
and I brandish any thing but a bottle, I would I
might never spit white again. There is not a
dangerous action can peep out his head but I am
thrust upon it: well, I cannot last ever: but it
was alway yet the trick of our English nation, if
they have a good thing, to make it too common. If
ye will needs say I am an old man, you should give
me rest. I would to God my name were not so
terrible to the enemy as it is: I were better to be
eaten to death with a rust than to be scoured to
nothing with perpetual motion.
Lord Chief-Justice Well, be honest, be honest; and God bless your
expedition!
FALSTAFF

Will your lordship lend me a thousand pound to
furnish me forth?
Lord Chief-Justice Not a penny, not a penny; you are too impatient to
bear crosses. Fare you well: commend me to my
cousin Westmoreland.
Exeunt Chief-Justice and Servant
FALSTAFF

If I do, fillip me with a three-man beetle. A man
can no more separate age and covetousness than a’
can part young limbs and lechery: but the gout
galls the one, and the pox pinches the other; and
so both the degrees prevent my curses. Boy!
Page

Sir?
FALSTAFF

What money is in my purse?
Page

Seven groats and two pence.
FALSTAFF

I can get no remedy against this consumption of the
purse: borrowing only lingers and lingers it out,
but the disease is incurable. Go bear this letter
to my Lord of Lancaster; this to the prince; this
to the Earl of Westmoreland; and this to old
Mistress Ursula, whom I have weekly sworn to marry
since I perceived the first white hair on my chin.
About it: you know where to find me.
Exit Page
A pox of this gout! or, a gout of this pox! for
the one or the other plays the rogue with my great
toe. ‘Tis no matter if I do halt; I have the wars
for my colour, and my pension shall seem the more
reasonable. A good wit will make use of any thing:
I will turn diseases to commodity.
Exit

SCENE III. York. The Archbishop’s palace.

Enter the ARCHBISHOP OF YORK, the Lords HASTINGS, MOWBRAY, and BARDOLPH
ARCHBISHOP OF YORK

Thus have you heard our cause and known our means;
And, my most noble friends, I pray you all,
Speak plainly your opinions of our hopes:
And first, lord marshal, what say you to it?
MOWBRAY

I well allow the occasion of our arms;
But gladly would be better satisfied
How in our means we should advance ourselves
To look with forehead bold and big enough
Upon the power and puissance of the king.
HASTINGS

Our present musters grow upon the file
To five and twenty thousand men of choice;
And our supplies live largely in the hope
Of great Northumberland, whose bosom burns
With an incensed fire of injuries.
LORD BARDOLPH

The question then, Lord Hastings, standeth thus;
Whether our present five and twenty thousand
May hold up head without Northumberland?
HASTINGS

With him, we may.
LORD BARDOLPH

Yea, marry, there’s the point:
But if without him we be thought too feeble,
My judgment is, we should not step too far
Till we had his assistance by the hand;
For in a theme so bloody-faced as this
Conjecture, expectation, and surmise
Of aids incertain should not be admitted.
ARCHBISHOP OF YORK

‘Tis very true, Lord Bardolph; for indeed
It was young Hotspur’s case at Shrewsbury.
LORD BARDOLPH

It was, my lord; who lined himself with hope,
Eating the air on promise of supply,
Flattering himself in project of a power
Much smaller than the smallest of his thoughts:
And so, with great imagination
Proper to madmen, led his powers to death
And winking leap’d into destruction.
HASTINGS

But, by your leave, it never yet did hurt
To lay down likelihoods and forms of hope.
LORD BARDOLPH

Yes, if this present quality of war,
Indeed the instant action: a cause on foot
Lives so in hope as in an early spring
We see the appearing buds; which to prove fruit,
Hope gives not so much warrant as despair
That frosts will bite them. When we mean to build,
We first survey the plot, then draw the model;
And when we see the figure of the house,
Then must we rate the cost of the erection;
Which if we find outweighs ability,
What do we then but draw anew the model
In fewer offices, or at last desist
To build at all? Much more, in this great work,
Which is almost to pluck a kingdom down
And set another up, should we survey
The plot of situation and the model,
Consent upon a sure foundation,
Question surveyors, know our own estate,
How able such a work to undergo,
To weigh against his opposite; or else
We fortify in paper and in figures,
Using the names of men instead of men:
Like one that draws the model of a house
Beyond his power to build it; who, half through,
Gives o’er and leaves his part-created cost
A naked subject to the weeping clouds
And waste for churlish winter’s tyranny.
HASTINGS

Grant that our hopes, yet likely of fair birth,
Should be still-born, and that we now possess’d
The utmost man of expectation,
I think we are a body strong enough,
Even as we are, to equal with the king.
LORD BARDOLPH

What, is the king but five and twenty thousand?
HASTINGS

To us no more; nay, not so much, Lord Bardolph.
For his divisions, as the times do brawl,
Are in three heads: one power against the French,
And one against Glendower; perforce a third
Must take up us: so is the unfirm king
In three divided; and his coffers sound
With hollow poverty and emptiness.
ARCHBISHOP OF YORK

That he should draw his several strengths together
And come against us in full puissance,
Need not be dreaded.
HASTINGS

If he should do so,
He leaves his back unarm’d, the French and Welsh
Baying him at the heels: never fear that.
LORD BARDOLPH

Who is it like should lead his forces hither?
HASTINGS

The Duke of Lancaster and Westmoreland;
Against the Welsh, himself and Harry Monmouth:
But who is substituted ‘gainst the French,
I have no certain notice.
ARCHBISHOP OF YORK

Let us on,
And publish the occasion of our arms.
The commonwealth is sick of their own choice;
Their over-greedy love hath surfeited:
An habitation giddy and unsure
Hath he that buildeth on the vulgar heart.
O thou fond many, with what loud applause
Didst thou beat heaven with blessing Bolingbroke,
Before he was what thou wouldst have him be!
And being now trimm’d in thine own desires,
Thou, beastly feeder, art so full of him,
That thou provokest thyself to cast him up.
So, so, thou common dog, didst thou disgorge
Thy glutton bosom of the royal Richard;
And now thou wouldst eat thy dead vomit up,
And howl’st to find it. What trust is in
these times?
They that, when Richard lived, would have him die,
Are now become enamour’d on his grave:
Thou, that threw’st dust upon his goodly head
When through proud London he came sighing on
After the admired heels of Bolingbroke,
Criest now ‘O earth, yield us that king again,
And take thou this!’ O thoughts of men accursed!
Past and to come seems best; things present worst.
MOWBRAY

Shall we go draw our numbers and set on?
HASTINGS

We are time’s subjects, and time bids be gone.
Exeunt

ACT II
SCENE I. London. A street.

Enter MISTRESS QUICKLY, FANG and his Boy with her, and SNARE following.
MISTRESS QUICKLY

Master Fang, have you entered the action?
FANG

It is entered.
MISTRESS QUICKLY

Where’s your yeoman? Is’t a lusty yeoman? will a’
stand to ‘t?
FANG

Sirrah, where’s Snare?
MISTRESS QUICKLY

O Lord, ay! good Master Snare.
SNARE

Here, here.
FANG

Snare, we must arrest Sir John Falstaff.
MISTRESS QUICKLY

Yea, good Master Snare; I have entered him and all.
SNARE

It may chance cost some of us our lives, for he will stab.
MISTRESS QUICKLY

Alas the day! take heed of him; he stabbed me in
mine own house, and that most beastly: in good
faith, he cares not what mischief he does. If his
weapon be out: he will foin like any devil; he will
spare neither man, woman, nor child.
FANG

If I can close with him, I care not for his thrust.
MISTRESS QUICKLY

No, nor I neither: I’ll be at your elbow.
FANG

An I but fist him once; an a’ come but within my vice,–
MISTRESS QUICKLY

I am undone by his going; I warrant you, he’s an
infinitive thing upon my score. Good Master Fang,
hold him sure: good Master Snare, let him not
‘scape. A’ comes continuantly to Pie-corner–saving
your manhoods–to buy a saddle; and he is indited to
dinner to the Lubber’s-head in Lumbert street, to
Master Smooth’s the silkman: I pray ye, since my
exion is entered and my case so openly known to the
world, let him be brought in to his answer. A
hundred mark is a long one for a poor lone woman to
bear: and I have borne, and borne, and borne, and
have been fubbed off, and fubbed off, and fubbed
off, from this day to that day, that it is a shame
to be thought on. There is no honesty in such
dealing; unless a woman should be made an ass and a
beast, to bear every knave’s wrong. Yonder he
comes; and that errant malmsey-nose knave, Bardolph,
with him. Do your offices, do your offices: Master
Fang and Master Snare, do me, do me, do me your offices.
Enter FALSTAFF, Page, and BARDOLPH
FALSTAFF

How now! whose mare’s dead? what’s the matter?
FANG

Sir John, I arrest you at the suit of Mistress Quickly.
FALSTAFF

Away, varlets! Draw, Bardolph: cut me off the
villain’s head: throw the quean in the channel.
MISTRESS QUICKLY

Throw me in the channel! I’ll throw thee in the
channel. Wilt thou? wilt thou? thou bastardly
rogue! Murder, murder! Ah, thou honeysuckle
villain! wilt thou kill God’s officers and the
king’s? Ah, thou honey-seed rogue! thou art a
honey-seed, a man-queller, and a woman-queller.
FALSTAFF

Keep them off, Bardolph.
FANG

A rescue! a rescue!
MISTRESS QUICKLY

Good people, bring a rescue or two. Thou wo’t, wo’t
thou? Thou wo’t, wo’t ta? do, do, thou rogue! do,
thou hemp-seed!
FALSTAFF

Away, you scullion! you rampallion! You
fustilarian! I’ll tickle your catastrophe.
Enter the Lord Chief-Justice, and his men
Lord Chief-Justice What is the matter? keep the peace here, ho!
MISTRESS QUICKLY

Good my lord, be good to me. I beseech you, stand to me.
Lord Chief-Justice How now, Sir John! what are you brawling here?
Doth this become your place, your time and business?
You should have been well on your way to York.
Stand from him, fellow: wherefore hang’st upon him?
MISTRESS QUICKLY

O most worshipful lord, an’t please your grace, I am
a poor widow of Eastcheap, and he is arrested at my suit.
Lord Chief-Justice For what sum?
MISTRESS QUICKLY

It is more than for some, my lord; it is for all,
all I have. He hath eaten me out of house and home;
he hath put all my substance into that fat belly of
his: but I will have some of it out again, or I
will ride thee o’ nights like the mare.
FALSTAFF

I think I am as like to ride the mare, if I have
any vantage of ground to get up.
Lord Chief-Justice How comes this, Sir John? Fie! what man of good
temper would endure this tempest of exclamation?
Are you not ashamed to enforce a poor widow to so
rough a course to come by her own?
FALSTAFF

What is the gross sum that I owe thee?
MISTRESS QUICKLY

Marry, if thou wert an honest man, thyself and the
money too. Thou didst swear to me upon a
parcel-gilt goblet, sitting in my Dolphin-chamber,
at the round table, by a sea-coal fire, upon
Wednesday in Wheeson week, when the prince broke
thy head for liking his father to a singing-man of
Windsor, thou didst swear to me then, as I was
washing thy wound, to marry me and make me my lady
thy wife. Canst thou deny it? Did not goodwife
Keech, the butcher’s wife, come in then and call me
gossip Quickly? coming in to borrow a mess of
vinegar; telling us she had a good dish of prawns;
whereby thou didst desire to eat some; whereby I
told thee they were ill for a green wound? And
didst thou not, when she was gone down stairs,
desire me to be no more so familiarity with such
poor people; saying that ere long they should call
me madam? And didst thou not kiss me and bid me
fetch thee thirty shillings? I put thee now to thy
book-oath: deny it, if thou canst.
FALSTAFF

My lord, this is a poor mad soul; and she says up
and down the town that the eldest son is like you:
she hath been in good case, and the truth is,
poverty hath distracted her. But for these foolish
officers, I beseech you I may have redress against them.
Lord Chief-Justice Sir John, Sir John, I am well acquainted with your
manner of wrenching the true cause the false way. It
is not a confident brow, nor the throng of words
that come with such more than impudent sauciness
from you, can thrust me from a level consideration:
you have, as it appears to me, practised upon the
easy-yielding spirit of this woman, and made her
serve your uses both in purse and in person.
MISTRESS QUICKLY

Yea, in truth, my lord.
Lord Chief-Justice Pray thee, peace. Pay her the debt you owe her, and
unpay the villany you have done her: the one you
may do with sterling money, and the other with
current repentance.
FALSTAFF

My lord, I will not undergo this sneap without
reply. You call honourable boldness impudent
sauciness: if a man will make courtesy and say
nothing, he is virtuous: no, my lord, my humble
duty remembered, I will not be your suitor. I say
to you, I do desire deliverance from these officers,
being upon hasty employment in the king’s affairs.
Lord Chief-Justice You speak as having power to do wrong: but answer
in the effect of your reputation, and satisfy this
poor woman.
FALSTAFF

Come hither, hostess.
Enter GOWER
Lord Chief-Justice Now, Master Gower, what news?
GOWER

The king, my lord, and Harry Prince of Wales
Are near at hand: the rest the paper tells.
FALSTAFF

As I am a gentleman.
MISTRESS QUICKLY

Faith, you said so before.
FALSTAFF

As I am a gentleman. Come, no more words of it.
MISTRESS QUICKLY

By this heavenly ground I tread on, I must be fain
to pawn both my plate and the tapestry of my
dining-chambers.
FALSTAFF

Glasses, glasses is the only drinking: and for thy
walls, a pretty slight drollery, or the story of
the Prodigal, or the German hunting in water-work,
is worth a thousand of these bed-hangings and these
fly-bitten tapestries. Let it be ten pound, if thou
canst. Come, an ’twere not for thy humours, there’s
not a better wench in England. Go, wash thy face,
and draw the action. Come, thou must not be in
this humour with me; dost not know me? come, come, I
know thou wast set on to this.
MISTRESS QUICKLY

Pray thee, Sir John, let it be but twenty nobles: i’
faith, I am loath to pawn my plate, so God save me,
la!
FALSTAFF

Let it alone; I’ll make other shift: you’ll be a
fool still.
MISTRESS QUICKLY

Well, you shall have it, though I pawn my gown. I
hope you’ll come to supper. You’ll pay me all together?
FALSTAFF

Will I live?
To BARDOLPH
Go, with her, with her; hook on, hook on.
MISTRESS QUICKLY

Will you have Doll Tearsheet meet you at supper?
FALSTAFF

No more words; let’s have her.
Exeunt MISTRESS QUICKLY, BARDOLPH, Officers and Boy
Lord Chief-Justice I have heard better news.
FALSTAFF

What’s the news, my lord?
Lord Chief-Justice Where lay the king last night?
GOWER

At Basingstoke, my lord.
FALSTAFF

I hope, my lord, all’s well: what is the news, my lord?
Lord Chief-Justice Come all his forces back?
GOWER

No; fifteen hundred foot, five hundred horse,
Are marched up to my lord of Lancaster,
Against Northumberland and the Archbishop.
FALSTAFF

Comes the king back from Wales, my noble lord?
Lord Chief-Justice You shall have letters of me presently:
Come, go along with me, good Master Gower.
FALSTAFF

My lord!
Lord Chief-Justice What’s the matter?
FALSTAFF

Master Gower, shall I entreat you with me to dinner?
GOWER

I must wait upon my good lord here; I thank you,
good Sir John.
Lord Chief-Justice Sir John, you loiter here too long, being you are to
take soldiers up in counties as you go.
FALSTAFF

Will you sup with me, Master Gower?
Lord Chief-Justice What foolish master taught you these manners, Sir John?
FALSTAFF

Master Gower, if they become me not, he was a fool
that taught them me. This is the right fencing
grace, my lord; tap for tap, and so part fair.
Lord Chief-Justice Now the Lord lighten thee! thou art a great fool.
Exeunt

SCENE II. London. Another street.

Enter PRINCE HENRY and POINS
PRINCE HENRY

Before God, I am exceeding weary.
POINS

Is’t come to that? I had thought weariness durst not
have attached one of so high blood.
PRINCE HENRY

Faith, it does me; though it discolours the
complexion of my greatness to acknowledge it. Doth
it not show vilely in me to desire small beer?
POINS

Why, a prince should not be so loosely studied as
to remember so weak a composition.
PRINCE HENRY

Belike then my appetite was not princely got; for,
by my troth, I do now remember the poor creature,
small beer. But, indeed, these humble
considerations make me out of love with my
greatness. What a disgrace is it to me to remember
thy name! or to know thy face to-morrow! or to
take note how many pair of silk stockings thou
hast, viz. these, and those that were thy
peach-coloured ones! or to bear the inventory of thy
shirts, as, one for superfluity, and another for
use! But that the tennis-court-keeper knows better
than I; for it is a low ebb of linen with thee when
thou keepest not racket there; as thou hast not done
a great while, because the rest of thy low
countries have made a shift to eat up thy holland:
and God knows, whether those that bawl out the ruins
of thy linen shall inherit his kingdom: but the
midwives say the children are not in the fault;
whereupon the world increases, and kindreds are
mightily strengthened.
POINS

How ill it follows, after you have laboured so hard,
you should talk so idly! Tell me, how many good
young princes would do so, their fathers being so
sick as yours at this time is?
PRINCE HENRY

Shall I tell thee one thing, Poins?
POINS

Yes, faith; and let it be an excellent good thing.
PRINCE HENRY

It shall serve among wits of no higher breeding than thine.
POINS

Go to; I stand the push of your one thing that you
will tell.
PRINCE HENRY

Marry, I tell thee, it is not meet that I should be
sad, now my father is sick: albeit I could tell
thee, as to one it pleases me, for fault of a
better, to call my friend, I could be sad, and sad
indeed too.
POINS

Very hardly upon such a subject.
PRINCE HENRY

By this hand thou thinkest me as far in the devil’s
book as thou and Falstaff for obduracy and
persistency: let the end try the man. But I tell
thee, my heart bleeds inwardly that my father is so
sick: and keeping such vile company as thou art
hath in reason taken from me all ostentation of sorrow.
POINS

The reason?
PRINCE HENRY

What wouldst thou think of me, if I should weep?
POINS

I would think thee a most princely hypocrite.
PRINCE HENRY

It would be every man’s thought; and thou art a
blessed fellow to think as every man thinks: never
a man’s thought in the world keeps the road-way
better than thine: every man would think me an
hypocrite indeed. And what accites your most
worshipful thought to think so?
POINS

Why, because you have been so lewd and so much
engraffed to Falstaff.
PRINCE HENRY

And to thee.
POINS

By this light, I am well spoke on; I can hear it
with my own ears: the worst that they can say of
me is that I am a second brother and that I am a
proper fellow of my hands; and those two things, I
confess, I cannot help. By the mass, here comes Bardolph.
Enter BARDOLPH and Page
PRINCE HENRY

And the boy that I gave Falstaff: a’ had him from
me Christian; and look, if the fat villain have not
transformed him ape.
BARDOLPH

God save your grace!
PRINCE HENRY

And yours, most noble Bardolph!
BARDOLPH

Come, you virtuous ass, you bashful fool, must you
be blushing? wherefore blush you now? What a
maidenly man-at-arms are you become! Is’t such a
matter to get a pottle-pot’s maidenhead?
Page

A’ calls me e’en now, my lord, through a red
lattice, and I could discern no part of his face
from the window: at last I spied his eyes, and
methought he had made two holes in the ale-wife’s
new petticoat and so peeped through.
PRINCE HENRY

Has not the boy profited?
BARDOLPH

Away, you whoreson upright rabbit, away!
Page

Away, you rascally Althaea’s dream, away!
PRINCE HENRY

Instruct us, boy; what dream, boy?
Page

Marry, my lord, Althaea dreamed she was delivered
of a fire-brand; and therefore I call him her dream.
PRINCE HENRY

A crown’s worth of good interpretation: there ’tis,
boy.
POINS

O, that this good blossom could be kept from
cankers! Well, there is sixpence to preserve thee.
BARDOLPH

An you do not make him hanged among you, the
gallows shall have wrong.
PRINCE HENRY

And how doth thy master, Bardolph?
BARDOLPH

Well, my lord. He heard of your grace’s coming to
town: there’s a letter for you.
POINS

Delivered with good respect. And how doth the
martlemas, your master?
BARDOLPH

In bodily health, sir.
POINS

Marry, the immortal part needs a physician; but
that moves not him: though that be sick, it dies
not.
PRINCE HENRY

I do allow this wen to be as familiar with me as my
dog; and he holds his place; for look you how be writes.
POINS

[Reads] ‘John Falstaff, knight,’–every man must
know that, as oft as he has occasion to name
himself: even like those that are kin to the king;
for they never prick their finger but they say,
‘There’s some of the king’s blood spilt.’ ‘How
comes that?’ says he, that takes upon him not to
conceive. The answer is as ready as a borrower’s
cap, ‘I am the king’s poor cousin, sir.’
PRINCE HENRY

Nay, they will be kin to us, or they will fetch it
from Japhet. But to the letter.
POINS

[Reads] ‘Sir John Falstaff, knight, to the son of
the king, nearest his father, Harry Prince of
Wales, greeting.’ Why, this is a certificate.
PRINCE HENRY

Peace!
POINS

[Reads] ‘I will imitate the honourable Romans in
brevity:’ he sure means brevity in breath,
short-winded. ‘I commend me to thee, I commend
thee, and I leave thee. Be not too familiar with
Poins; for he misuses thy favours so much, that he
swears thou art to marry his sister Nell. Repent
at idle times as thou mayest; and so, farewell.
Thine, by yea and no, which is as much as to
say, as thou usest him, JACK FALSTAFF with my
familiars, JOHN with my brothers and sisters,
and SIR JOHN with all Europe.’
My lord, I’ll steep this letter in sack and make him eat it.
PRINCE HENRY

That’s to make him eat twenty of his words. But do
you use me thus, Ned? must I marry your sister?
POINS

God send the wench no worse fortune! But I never said so.
PRINCE HENRY

Well, thus we play the fools with the time, and the
spirits of the wise sit in the clouds and mock us.
Is your master here in London?
BARDOLPH

Yea, my lord.
PRINCE HENRY

Where sups he? doth the old boar feed in the old frank?
BARDOLPH

At the old place, my lord, in Eastcheap.
PRINCE HENRY

What company?
Page

Ephesians, my lord, of the old church.
PRINCE HENRY

Sup any women with him?
Page

None, my lord, but old Mistress Quickly and
Mistress Doll Tearsheet.
PRINCE HENRY

What pagan may that be?
Page

A proper gentlewoman, sir, and a kinswoman of my master’s.
PRINCE HENRY

Even such kin as the parish heifers are to the town
bull. Shall we steal upon them, Ned, at supper?
POINS

I am your shadow, my lord; I’ll follow you.
PRINCE HENRY

Sirrah, you boy, and Bardolph, no word to your
master that I am yet come to town: there’s for
your silence.
BARDOLPH

I have no tongue, sir.
Page

And for mine, sir, I will govern it.
PRINCE HENRY

Fare you well; go.
Exeunt BARDOLPH and Page
This Doll Tearsheet should be some road.
POINS

I warrant you, as common as the way between Saint
Alban’s and London.
PRINCE HENRY

How might we see Falstaff bestow himself to-night
in his true colours, and not ourselves be seen?
POINS

Put on two leathern jerkins and aprons, and wait
upon him at his table as drawers.
PRINCE HENRY

From a God to a bull? a heavy decension! it was
Jove’s case. From a prince to a prentice? a low
transformation! that shall be mine; for in every
thing the purpose must weigh with the folly.
Follow me, Ned.
Exeunt

SCENE III. Warkworth. Before the castle.

Enter NORTHUMBERLAND, LADY NORTHUMBERLAND, and LADY PERCY
NORTHUMBERLAND

I pray thee, loving wife, and gentle daughter,
Give even way unto my rough affairs:
Put not you on the visage of the times
And be like them to Percy troublesome.
LADY
NORTHUMBERLAND

I have given over, I will speak no more:
Do what you will; your wisdom be your guide.
NORTHUMBERLAND

Alas, sweet wife, my honour is at pawn;
And, but my going, nothing can redeem it.
LADY PERCY

O yet, for God’s sake, go not to these wars!
The time was, father, that you broke your word,
When you were more endeared to it than now;
When your own Percy, when my heart’s dear Harry,
Threw many a northward look to see his father
Bring up his powers; but he did long in vain.
Who then persuaded you to stay at home?
There were two honours lost, yours and your son’s.
For yours, the God of heaven brighten it!
For his, it stuck upon him as the sun
In the grey vault of heaven, and by his light
Did all the chivalry of England move
To do brave acts: he was indeed the glass
Wherein the noble youth did dress themselves:
He had no legs that practised not his gait;
And speaking thick, which nature made his blemish,
Became the accents of the valiant;
For those that could speak low and tardily
Would turn their own perfection to abuse,
To seem like him: so that in speech, in gait,
In diet, in affections of delight,
In military rules, humours of blood,
He was the mark and glass, copy and book,
That fashion’d others. And him, O wondrous him!
O miracle of men! him did you leave,
Second to none, unseconded by you,
To look upon the hideous god of war
In disadvantage; to abide a field
Where nothing but the sound of Hotspur’s name
Did seem defensible: so you left him.
Never, O never, do his ghost the wrong
To hold your honour more precise and nice
With others than with him! let them alone:
The marshal and the archbishop are strong:
Had my sweet Harry had but half their numbers,
To-day might I, hanging on Hotspur’s neck,
Have talk’d of Monmouth’s grave.
NORTHUMBERLAND

Beshrew your heart,
Fair daughter, you do draw my spirits from me
With new lamenting ancient oversights.
But I must go and meet with danger there,
Or it will seek me in another place
And find me worse provided.
LADY
NORTHUMBERLAND

O, fly to Scotland,
Till that the nobles and the armed commons
Have of their puissance made a little taste.
LADY PERCY

If they get ground and vantage of the king,
Then join you with them, like a rib of steel,
To make strength stronger; but, for all our loves,
First let them try themselves. So did your son;
He was so suffer’d: so came I a widow;
And never shall have length of life enough
To rain upon remembrance with mine eyes,
That it may grow and sprout as high as heaven,
For recordation to my noble husband.
NORTHUMBERLAND

Come, come, go in with me. ‘Tis with my mind
As with the tide swell’d up unto his height,
That makes a still-stand, running neither way:
Fain would I go to meet the archbishop,
But many thousand reasons hold me back.
I will resolve for Scotland: there am I,
Till time and vantage crave my company.
Exeunt

SCENE IV. London. The Boar’s-head Tavern in Eastcheap.

Enter two Drawers
First Drawer

What the devil hast thou brought there? apple-johns?
thou knowest Sir John cannot endure an apple-john.
Second Drawer

Mass, thou sayest true. The prince once set a dish
of apple-johns before him, and told him there were
five more Sir Johns, and, putting off his hat, said
‘I will now take my leave of these six dry, round,
old, withered knights.’ It angered him to the
heart: but he hath forgot that.
First Drawer

Why, then, cover, and set them down: and see if
thou canst find out Sneak’s noise; Mistress
Tearsheet would fain hear some music. Dispatch: the
room where they supped is too hot; they’ll come in straight.
Second Drawer

Sirrah, here will be the prince and Master Poins
anon; and they will put on two of our jerkins and
aprons; and Sir John must not know of it: Bardolph
hath brought word.
First Drawer

By the mass, here will be old Utis: it will be an
excellent stratagem.
Second Drawer

I’ll see if I can find out Sneak.
Exit
Enter MISTRESS QUICKLY and DOLL TEARSHEET
MISTRESS QUICKLY

I’ faith, sweetheart, methinks now you are in an
excellent good temperality: your pulsidge beats as
extraordinarily as heart would desire; and your
colour, I warrant you, is as red as any rose, in good
truth, la! But, i’ faith, you have drunk too much
canaries; and that’s a marvellous searching wine,
and it perfumes the blood ere one can say ‘What’s
this?’ How do you now?
DOLL TEARSHEET

Better than I was: hem!
MISTRESS QUICKLY

Why, that’s well said; a good heart’s worth gold.
Lo, here comes Sir John.
Enter FALSTAFF
FALSTAFF

[Singing] ‘When Arthur first in court,’
–Empty the jordan.
Exit First Drawer
Singing
–‘And was a worthy king.’ How now, Mistress Doll!
MISTRESS QUICKLY

Sick of a calm; yea, good faith.
FALSTAFF

So is all her sect; an they be once in a calm, they are sick.
DOLL TEARSHEET

You muddy rascal, is that all the comfort you give me?
FALSTAFF

You make fat rascals, Mistress Doll.
DOLL TEARSHEET

I make them! gluttony and diseases make them; I
make them not.
FALSTAFF

If the cook help to make the gluttony, you help to
make the diseases, Doll: we catch of you, Doll, we
catch of you; grant that, my poor virtue grant that.
DOLL TEARSHEET

Yea, joy, our chains and our jewels.
FALSTAFF

‘Your broaches, pearls, and ouches:’ for to serve
bravely is to come halting off, you know: to come
off the breach with his pike bent bravely, and to
surgery bravely; to venture upon the charged
chambers bravely,–
DOLL TEARSHEET

Hang yourself, you muddy conger, hang yourself!
MISTRESS QUICKLY

By my troth, this is the old fashion; you two never
meet but you fall to some discord: you are both,
i’ good truth, as rheumatic as two dry toasts; you
cannot one bear with another’s confirmities. What
the good-year! one must bear, and that must be
you: you are the weaker vessel, as they say, the
emptier vessel.
DOLL TEARSHEET

Can a weak empty vessel bear such a huge full
hogshead? there’s a whole merchant’s venture of
Bourdeaux stuff in him; you have not seen a hulk
better stuffed in the hold. Come, I’ll be friends
with thee, Jack: thou art going to the wars; and
whether I shall ever see thee again or no, there is
nobody cares.
Re-enter First Drawer
First Drawer

Sir, Ancient Pistol’s below, and would speak with
you.
DOLL TEARSHEET

Hang him, swaggering rascal! let him not come
hither: it is the foul-mouthed’st rogue in England.
MISTRESS QUICKLY

If he swagger, let him not come here: no, by my
faith; I must live among my neighbours: I’ll no
swaggerers: I am in good name and fame with the
very best: shut the door; there comes no swaggerers
here: I have not lived all this while, to have
swaggering now: shut the door, I pray you.
FALSTAFF

Dost thou hear, hostess?
MISTRESS QUICKLY

Pray ye, pacify yourself, Sir John: there comes no
swaggerers here.
FALSTAFF

Dost thou hear? it is mine ancient.
MISTRESS QUICKLY

Tilly-fally, Sir John, ne’er tell me: your ancient
swaggerer comes not in my doors. I was before Master
Tisick, the debuty, t’other day; and, as he said to
me, ’twas no longer ago than Wednesday last, ‘I’
good faith, neighbour Quickly,’ says he; Master
Dumbe, our minister, was by then; ‘neighbour
Quickly,’ says he, ‘receive those that are civil;
for,’ said he, ‘you are in an ill name:’ now a’
said so, I can tell whereupon; ‘for,’ says he, ‘you
are an honest woman, and well thought on; therefore
take heed what guests you receive: receive,’ says
he, ‘no swaggering companions.’ There comes none
here: you would bless you to hear what he said:
no, I’ll no swaggerers.
FALSTAFF

He’s no swaggerer, hostess; a tame cheater, i’
faith; you may stroke him as gently as a puppy
greyhound: he’ll not swagger with a Barbary hen, if
her feathers turn back in any show of resistance.
Call him up, drawer.
Exit First Drawer
MISTRESS QUICKLY

Cheater, call you him? I will bar no honest man my
house, nor no cheater: but I do not love
swaggering, by my troth; I am the worse, when one
says swagger: feel, masters, how I shake; look you,
I warrant you.
DOLL TEARSHEET

So you do, hostess.
MISTRESS QUICKLY

Do I? yea, in very truth, do I, an ’twere an aspen
leaf: I cannot abide swaggerers.
Enter PISTOL, BARDOLPH, and Page
PISTOL

God save you, Sir John!
FALSTAFF

Welcome, Ancient Pistol. Here, Pistol, I charge
you with a cup of sack: do you discharge upon mine hostess.
PISTOL

I will discharge upon her, Sir John, with two bullets.
FALSTAFF

She is Pistol-proof, sir; you shall hardly offend
her.
MISTRESS QUICKLY

Come, I’ll drink no proofs nor no bullets: I’ll
drink no more than will do me good, for no man’s
pleasure, I.
PISTOL

Then to you, Mistress Dorothy; I will charge you.
DOLL TEARSHEET

Charge me! I scorn you, scurvy companion. What!
you poor, base, rascally, cheating, lack-linen
mate! Away, you mouldy rogue, away! I am meat for
your master.
PISTOL

I know you, Mistress Dorothy.
DOLL TEARSHEET

Away, you cut-purse rascal! you filthy bung, away!
by this wine, I’ll thrust my knife in your mouldy
chaps, an you play the saucy cuttle with me. Away,
you bottle-ale rascal! you basket-hilt stale
juggler, you! Since when, I pray you, sir? God’s
light, with two points on your shoulder? much!
PISTOL

God let me not live, but I will murder your ruff for this.
FALSTAFF

No more, Pistol; I would not have you go off here:
discharge yourself of our company, Pistol.
MISTRESS QUICKLY

No, Good Captain Pistol; not here, sweet captain.
DOLL TEARSHEET

Captain! thou abominable damned cheater, art thou
not ashamed to be called captain? An captains were
of my mind, they would truncheon you out, for
taking their names upon you before you have earned
them. You a captain! you slave, for what? for
tearing a poor whore’s ruff in a bawdy-house? He a
captain! hang him, rogue! he lives upon mouldy
stewed prunes and dried cakes. A captain! God’s
light, these villains will make the word as odious
as the word ‘occupy;’ which was an excellent good
word before it was ill sorted: therefore captains
had need look to ‘t.
BARDOLPH

Pray thee, go down, good ancient.
FALSTAFF

Hark thee hither, Mistress Doll.
PISTOL

Not I I tell thee what, Corporal Bardolph, I could
tear her: I’ll be revenged of her.
Page

Pray thee, go down.
PISTOL

I’ll see her damned first; to Pluto’s damned lake,
by this hand, to the infernal deep, with Erebus and
tortures vile also. Hold hook and line, say I.
Down, down, dogs! down, faitors! Have we not
Hiren here?
MISTRESS QUICKLY

Good Captain Peesel, be quiet; ’tis very late, i’
faith: I beseek you now, aggravate your choler.
PISTOL

These be good humours, indeed! Shall pack-horses
And hollow pamper’d jades of Asia,
Which cannot go but thirty mile a-day,
Compare with Caesars, and with Cannibals,
And Trojan Greeks? nay, rather damn them with
King Cerberus; and let the welkin roar.
Shall we fall foul for toys?
MISTRESS QUICKLY

By my troth, captain, these are very bitter words.
BARDOLPH

Be gone, good ancient: this will grow to abrawl anon.
PISTOL

Die men like dogs! give crowns like pins! Have we
not Heren here?
MISTRESS QUICKLY

O’ my word, captain, there’s none such here. What
the good-year! do you think I would deny her? For
God’s sake, be quiet.
PISTOL

Then feed, and be fat, my fair Calipolis.
Come, give’s some sack.
‘Si fortune me tormente, sperato me contento.’
Fear we broadsides? no, let the fiend give fire:
Give me some sack: and, sweetheart, lie thou there.
Laying down his sword
Come we to full points here; and are etceteras nothing?
FALSTAFF

Pistol, I would be quiet.
PISTOL

Sweet knight, I kiss thy neaf: what! we have seen
the seven stars.
DOLL TEARSHEET

For God’s sake, thrust him down stairs: I cannot
endure such a fustian rascal.
PISTOL

Thrust him down stairs! know we not Galloway nags?
FALSTAFF

Quoit him down, Bardolph, like a shove-groat
shilling: nay, an a’ do nothing but speak nothing,
a’ shall be nothing here.
BARDOLPH

Come, get you down stairs.
PISTOL

What! shall we have incision? shall we imbrue?
Snatching up his sword
Then death rock me asleep, abridge my doleful days!
Why, then, let grievous, ghastly, gaping wounds
Untwine the Sisters Three! Come, Atropos, I say!
MISTRESS QUICKLY

Here’s goodly stuff toward!
FALSTAFF

Give me my rapier, boy.
DOLL TEARSHEET

I pray thee, Jack, I pray thee, do not draw.
FALSTAFF

Get you down stairs.
Drawing, and driving PISTOL out
MISTRESS QUICKLY

Here’s a goodly tumult! I’ll forswear keeping
house, afore I’ll be in these tirrits and frights.
So; murder, I warrant now. Alas, alas! put up
your naked weapons, put up your naked weapons.
Exeunt PISTOL and BARDOLPH
DOLL TEARSHEET

I pray thee, Jack, be quiet; the rascal’s gone.
Ah, you whoreson little valiant villain, you!
MISTRESS QUICKLY

He you not hurt i’ the groin? methought a’ made a
shrewd thrust at your belly.
Re-enter BARDOLPH
FALSTAFF

Have you turned him out o’ doors?
BARDOLPH

Yea, sir. The rascal’s drunk: you have hurt him,
sir, i’ the shoulder.
FALSTAFF

A rascal! to brave me!
DOLL TEARSHEET

Ah, you sweet little rogue, you! alas, poor ape,
how thou sweatest! come, let me wipe thy face;
come on, you whoreson chops: ah, rogue! i’faith, I
love thee: thou art as valorous as Hector of Troy,
worth five of Agamemnon, and ten times better than
the Nine Worthies: ah, villain!
FALSTAFF

A rascally slave! I will toss the rogue in a blanket.
DOLL TEARSHEET

Do, an thou darest for thy heart: an thou dost,
I’ll canvass thee between a pair of sheets.
Enter Music
Page

The music is come, sir.
FALSTAFF

Let them play. Play, sirs. Sit on my knee, Doll.
A rascal bragging slave! the rogue fled from me
like quicksilver.
DOLL TEARSHEET

I’ faith, and thou followedst him like a church.
Thou whoreson little tidy Bartholomew boar-pig,
when wilt thou leave fighting o’ days and foining
o’ nights, and begin to patch up thine old body for heaven?
Enter, behind, PRINCE HENRY and POINS, disguised
FALSTAFF

Peace, good Doll! do not speak like a death’s-head;
do not bid me remember mine end.
DOLL TEARSHEET

Sirrah, what humour’s the prince of?
FALSTAFF

A good shallow young fellow: a’ would have made a
good pantler, a’ would ha’ chipp’d bread well.
DOLL TEARSHEET

They say Poins has a good wit.
FALSTAFF

He a good wit? hang him, baboon! his wit’s as thick
as Tewksbury mustard; there’s no more conceit in him
than is in a mallet.
DOLL TEARSHEET

Why does the prince love him so, then?
FALSTAFF

Because their legs are both of a bigness, and a’
plays at quoits well, and eats conger and fennel,
and drinks off candles’ ends for flap-dragons, and
rides the wild-mare with the boys, and jumps upon
joined-stools, and swears with a good grace, and
wears his boots very smooth, like unto the sign of
the leg, and breeds no bate with telling of discreet
stories; and such other gambol faculties a’ has,
that show a weak mind and an able body, for the
which the prince admits him: for the prince himself
is such another; the weight of a hair will turn the
scales between their avoirdupois.
PRINCE HENRY

Would not this nave of a wheel have his ears cut off?
POINS

Let’s beat him before his whore.
PRINCE HENRY

Look, whether the withered elder hath not his poll
clawed like a parrot.
POINS

Is it not strange that desire should so many years
outlive performance?
FALSTAFF

Kiss me, Doll.
PRINCE HENRY

Saturn and Venus this year in conjunction! what
says the almanac to that?
POINS

And look, whether the fiery Trigon, his man, be not
lisping to his master’s old tables, his note-book,
his counsel-keeper.
FALSTAFF

Thou dost give me flattering busses.
DOLL TEARSHEET

By my troth, I kiss thee with a most constant heart.
FALSTAFF

I am old, I am old.
DOLL TEARSHEET

I love thee better than I love e’er a scurvy young
boy of them all.
FALSTAFF

What stuff wilt have a kirtle of? I shall receive
money o’ Thursday: shalt have a cap to-morrow. A
merry song, come: it grows late; we’ll to bed.
Thou’lt forget me when I am gone.
DOLL TEARSHEET

By my troth, thou’lt set me a-weeping, an thou
sayest so: prove that ever I dress myself handsome
till thy return: well, harken at the end.
FALSTAFF

Some sack, Francis.
PRINCE HENRY

POINS

Anon, anon, sir.
Coming forward
FALSTAFF

Ha! a bastard son of the king’s? And art not thou
Poins his brother?
PRINCE HENRY

Why, thou globe of sinful continents! what a life
dost thou lead!
FALSTAFF

A better than thou: I am a gentleman; thou art a drawer.
PRINCE HENRY

Very true, sir; and I come to draw you out by the ears.
MISTRESS QUICKLY

O, the Lord preserve thy good grace! by my troth,
welcome to London. Now, the Lord bless that sweet
face of thine! O, Jesu, are you come from Wales?
FALSTAFF

Thou whoreson mad compound of majesty, by this light
flesh and corrupt blood, thou art welcome.
DOLL TEARSHEET

How, you fat fool! I scorn you.
POINS

My lord, he will drive you out of your revenge and
turn all to a merriment, if you take not the heat.
PRINCE HENRY

You whoreson candle-mine, you, how vilely did you
speak of me even now before this honest, virtuous,
civil gentlewoman!
MISTRESS QUICKLY

God’s blessing of your good heart! and so she is,
by my troth.
FALSTAFF

Didst thou hear me?
PRINCE HENRY

Yea, and you knew me, as you did when you ran away
by Gad’s-hill: you knew I was at your back, and
spoke it on purpose to try my patience.
FALSTAFF

No, no, no; not so; I did not think thou wast within hearing.
PRINCE HENRY

I shall drive you then to confess the wilful abuse;
and then I know how to handle you.
FALSTAFF

No abuse, Hal, o’ mine honour, no abuse.
PRINCE HENRY

Not to dispraise me, and call me pantier and
bread-chipper and I know not what?
FALSTAFF

No abuse, Hal.
POINS

No abuse?
FALSTAFF

No abuse, Ned, i’ the world; honest Ned, none. I
dispraised him before the wicked, that the wicked
might not fall in love with him; in which doing, I
have done the part of a careful friend and a true
subject, and thy father is to give me thanks for it.
No abuse, Hal: none, Ned, none: no, faith, boys, none.
PRINCE HENRY

See now, whether pure fear and entire cowardice doth
not make thee wrong this virtuous gentlewoman to
close with us? is she of the wicked? is thine
hostess here of the wicked? or is thy boy of the
wicked? or honest Bardolph, whose zeal burns in his
nose, of the wicked?
POINS

Answer, thou dead elm, answer.
FALSTAFF

The fiend hath pricked down Bardolph irrecoverable;
and his face is Lucifer’s privy-kitchen, where he
doth nothing but roast malt-worms. For the boy,
there is a good angel about him; but the devil
outbids him too.
PRINCE HENRY

For the women?
FALSTAFF

For one of them, she is in hell already, and burns
poor souls. For the other, I owe her money, and
whether she be damned for that, I know not.
MISTRESS QUICKLY

No, I warrant you.
FALSTAFF

No, I think thou art not; I think thou art quit for
that. Marry, there is another indictment upon thee,
for suffering flesh to be eaten in thy house,
contrary to the law; for the which I think thou wilt howl.
MISTRESS QUICKLY

All victuallers do so; what’s a joint of mutton or
two in a whole Lent?
PRINCE HENRY

You, gentlewoman,-
DOLL TEARSHEET

What says your grace?
FALSTAFF

His grace says that which his flesh rebels against.
Knocking within
MISTRESS QUICKLY

Who knocks so loud at door? Look to the door there, Francis.
Enter PETO
PRINCE HENRY

Peto, how now! what news?
PETO

The king your father is at Westminster:
And there are twenty weak and wearied posts
Come from the north: and, as I came along,
I met and overtook a dozen captains,
Bare-headed, sweating, knocking at the taverns,
And asking every one for Sir John Falstaff.
PRINCE HENRY

By heaven, Poins, I feel me much to blame,
So idly to profane the precious time,
When tempest of commotion, like the south
Borne with black vapour, doth begin to melt
And drop upon our bare unarmed heads.
Give me my sword and cloak. Falstaff, good night.
Exeunt PRINCE HENRY, POINS, PETO and BARDOLPH
FALSTAFF

Now comes in the sweetest morsel of the night, and
we must hence and leave it unpicked.
Knocking within
More knocking at the door!
Re-enter BARDOLPH
How now! what’s the matter?
BARDOLPH

You must away to court, sir, presently;
A dozen captains stay at door for you.
FALSTAFF

[To the Page] Pay the musicians, sirrah. Farewell,
hostess; farewell, Doll. You see, my good wenches,
how men of merit are sought after: the undeserver
may sleep, when the man of action is called on.
Farewell good wenches: if I be not sent away post,
I will see you again ere I go.
DOLL TEARSHEET

I cannot speak; if my heart be not read to burst,–
well, sweet Jack, have a care of thyself.
FALSTAFF

Farewell, farewell.
Exeunt FALSTAFF and BARDOLPH
MISTRESS QUICKLY

Well, fare thee well: I have known thee these
twenty-nine years, come peascod-time; but an
honester and truer-hearted man,–well, fare thee well.
BARDOLPH

[Within] Mistress Tearsheet!
MISTRESS QUICKLY

What’s the matter?
BARDOLPH

[Within] Good Mistress Tearsheet, come to my master.
MISTRESS QUICKLY

O, run, Doll, run; run, good Doll: come.
She comes blubbered
Yea, will you come, Doll?
Exeunt

ACT III
SCENE I. Westminster. The palace.

Enter KING HENRY IV in his nightgown, with a Page
KING HENRY IV

Go call the Earls of Surrey and of Warwick;
But, ere they come, bid them o’er-read these letters,
And well consider of them; make good speed.
Exit Page
How many thousand of my poorest subjects
Are at this hour asleep! O sleep, O gentle sleep,
Nature’s soft nurse, how have I frighted thee,
That thou no more wilt weigh my eyelids down
And steep my senses in forgetfulness?
Why rather, sleep, liest thou in smoky cribs,
Upon uneasy pallets stretching thee
And hush’d with buzzing night-flies to thy slumber,
Than in the perfumed chambers of the great,
Under the canopies of costly state,
And lull’d with sound of sweetest melody?
O thou dull god, why liest thou with the vile
In loathsome beds, and leavest the kingly couch
A watch-case or a common ‘larum-bell?
Wilt thou upon the high and giddy mast
Seal up the ship-boy’s eyes, and rock his brains
In cradle of the rude imperious surge
And in the visitation of the winds,
Who take the ruffian billows by the top,
Curling their monstrous heads and hanging them
With deafening clamour in the slippery clouds,
That, with the hurly, death itself awakes?
Canst thou, O partial sleep, give thy repose
To the wet sea-boy in an hour so rude,
And in the calmest and most stillest night,
With all appliances and means to boot,
Deny it to a king? Then happy low, lie down!
Uneasy lies the head that wears a crown.
Enter WARWICK and SURREY
WARWICK

Many good morrows to your majesty!
KING HENRY IV

Is it good morrow, lords?
WARWICK

‘Tis one o’clock, and past.
KING HENRY IV

Why, then, good morrow to you all, my lords.
Have you read o’er the letters that I sent you?
WARWICK

We have, my liege.
KING HENRY IV

Then you perceive the body of our kingdom
How foul it is; what rank diseases grow
And with what danger, near the heart of it.
WARWICK

It is but as a body yet distemper’d;
Which to his former strength may be restored
With good advice and little medicine:
My Lord Northumberland will soon be cool’d.
KING HENRY IV

O God! that one might read the book of fate,
And see the revolution of the times
Make mountains level, and the continent,
Weary of solid firmness, melt itself
Into the sea! and, other times, to see
The beachy girdle of the ocean
Too wide for Neptune’s hips; how chances mock,
And changes fill the cup of alteration
With divers liquors! O, if this were seen,
The happiest youth, viewing his progress through,
What perils past, what crosses to ensue,
Would shut the book, and sit him down and die.
‘Tis not ‘ten years gone
Since Richard and Northumberland, great friends,
Did feast together, and in two years after
Were they at wars: it is but eight years since
This Percy was the man nearest my soul,
Who like a brother toil’d in my affairs
And laid his love and life under my foot,
Yea, for my sake, even to the eyes of Richard
Gave him defiance. But which of you was by–
You, cousin Nevil, as I may remember–
To WARWICK
When Richard, with his eye brimful of tears,
Then cheque’d and rated by Northumberland,
Did speak these words, now proved a prophecy?
‘Northumberland, thou ladder by the which
My cousin Bolingbroke ascends my throne;’
Though then, God knows, I had no such intent,
But that necessity so bow’d the state
That I and greatness were compell’d to kiss:
‘The time shall come,’ thus did he follow it,
‘The time will come, that foul sin, gathering head,
Shall break into corruption:’ so went on,
Foretelling this same time’s condition
And the division of our amity.
WARWICK

There is a history in all men’s lives,
Figuring the nature of the times deceased;
The which observed, a man may prophesy,
With a near aim, of the main chance of things
As yet not come to life, which in their seeds
And weak beginnings lie intreasured.
Such things become the hatch and brood of time;
And by the necessary form of this
King Richard might create a perfect guess
That great Northumberland, then false to him,
Would of that seed grow to a greater falseness;
Which should not find a ground to root upon,
Unless on you.
KING HENRY IV

Are these things then necessities?
Then let us meet them like necessities:
And that same word even now cries out on us:
They say the bishop and Northumberland
Are fifty thousand strong.
WARWICK

It cannot be, my lord;
Rumour doth double, like the voice and echo,
The numbers of the fear’d. Please it your grace
To go to bed. Upon my soul, my lord,
The powers that you already have sent forth
Shall bring this prize in very easily.
To comfort you the more, I have received
A certain instance that Glendower is dead.
Your majesty hath been this fortnight ill,
And these unseason’d hours perforce must add
Unto your sickness.
KING HENRY IV

I will take your counsel:
And were these inward wars once out of hand,
We would, dear lords, unto the Holy Land.
Exeunt

SCENE II. Gloucestershire. Before SHALLOW’S house.

Enter SHALLOW and SILENCE, meeting; MOULDY, SHADOW, WART, FEEBLE, BULLCALF, a Servant or two with them
SHALLOW

Come on, come on, come on, sir; give me your hand,
sir, give me your hand, sir: an early stirrer, by
the rood! And how doth my good cousin Silence?
SILENCE

Good morrow, good cousin Shallow.
SHALLOW

And how doth my cousin, your bedfellow? and your
fairest daughter and mine, my god-daughter Ellen?
SILENCE

Alas, a black ousel, cousin Shallow!
SHALLOW

By yea and nay, sir, I dare say my cousin William is
become a good scholar: he is at Oxford still, is he not?
SILENCE

Indeed, sir, to my cost.
SHALLOW

A’ must, then, to the inns o’ court shortly. I was
once of Clement’s Inn, where I think they will
talk of mad Shallow yet.
SILENCE

You were called ‘lusty Shallow’ then, cousin.
SHALLOW

By the mass, I was called any thing; and I would
have done any thing indeed too, and roundly too.
There was I, and little John Doit of Staffordshire,
and black George Barnes, and Francis Pickbone, and
Will Squele, a Cotswold man; you had not four such
swinge-bucklers in all the inns o’ court again: and
I may say to you, we knew where the bona-robas were
and had the best of them all at commandment. Then
was Jack Falstaff, now Sir John, a boy, and page to
Thomas Mowbray, Duke of Norfolk.
SILENCE

This Sir John, cousin, that comes hither anon about soldiers?
SHALLOW

The same Sir John, the very same. I see him break
Skogan’s head at the court-gate, when a’ was a
crack not thus high: and the very same day did I
fight with one Sampson Stockfish, a fruiterer,
behind Gray’s Inn. Jesu, Jesu, the mad days that I
have spent! and to see how many of my old
acquaintance are dead!
SILENCE

We shall all follow, cousin.
SHADOW

Certain, ’tis certain; very sure, very sure: death,
as the Psalmist saith, is certain to all; all shall
die. How a good yoke of bullocks at Stamford fair?
SILENCE

By my troth, I was not there.
SHALLOW

Death is certain. Is old Double of your town living
yet?
SILENCE

Dead, sir.
SHALLOW

Jesu, Jesu, dead! a’ drew a good bow; and dead! a’
shot a fine shoot: John a Gaunt loved him well, and
betted much money on his head. Dead! a’ would have
clapped i’ the clout at twelve score; and carried
you a forehand shaft a fourteen and fourteen and a
half, that it would have done a man’s heart good to
see. How a score of ewes now?
SILENCE

Thereafter as they be: a score of good ewes may be
worth ten pounds.
SHALLOW

And is old Double dead?
SILENCE

Here come two of Sir John Falstaff’s men, as I think.
Enter BARDOLPH and one with him
BARDOLPH

Good morrow, honest gentlemen: I beseech you, which
is Justice Shallow?
SHALLOW

I am Robert Shallow, sir; a poor esquire of this
county, and one of the king’s justices of th e peace:
What is your good pleasure with me?
BARDOLPH

My captain, sir, commends him to you; my captain,
Sir John Falstaff, a tall gentleman, by heaven, and
a most gallant leader.
SHALLOW

He greets me well, sir. I knew him a good backsword
man. How doth the good knight? may I ask how my
lady his wife doth?
BARDOLPH

Sir, pardon; a soldier is better accommodated than
with a wife.
SHALLOW

It is well said, in faith, sir; and it is well said
indeed too. Better accommodated! it is good; yea,
indeed, is it: good phrases are surely, and ever
were, very commendable. Accommodated! it comes of
‘accommodo’ very good; a good phrase.
BARDOLPH

Pardon me, sir; I have heard the word. Phrase call
you it? by this good day, I know not the phrase;
but I will maintain the word with my sword to be a
soldier-like word, and a word of exceeding good
command, by heaven. Accommodated; that is, when a
man is, as they say, accommodated; or when a man is,
being, whereby a’ may be thought to be accommodated;
which is an excellent thing.
SHALLOW

It is very just.
Enter FALSTAFF
Look, here comes good Sir John. Give me your good
hand, give me your worship’s good hand: by my
troth, you like well and bear your years very well:
welcome, good Sir John.
FALSTAFF

I am glad to see you well, good Master Robert
Shallow: Master Surecard, as I think?
SHALLOW

No, Sir John; it is my cousin Silence, in commission with me.
FALSTAFF

Good Master Silence, it well befits you should be of
the peace.
SILENCE

Your good-worship is welcome.
FALSTAFF

Fie! this is hot weather, gentlemen. Have you
provided me here half a dozen sufficient men?
SHALLOW

Marry, have we, sir. Will you sit?
FALSTAFF

Let me see them, I beseech you.
SHALLOW

Where’s the roll? where’s the roll? where’s the
roll? Let me see, let me see, let me see. So, so:
yea, marry, sir: Ralph Mouldy! Let them appear as
I call; let them do so, let them do so. Let me
see; where is Mouldy?
MOULDY

Here, an’t please you.
SHALLOW

What think you, Sir John? a good-limbed fellow;
young, strong, and of good friends.
FALSTAFF

Is thy name Mouldy?
MOULDY

Yea, an’t please you.
FALSTAFF

‘Tis the more time thou wert used.
SHALLOW

Ha, ha, ha! most excellent, i’ faith! Things that
are mouldy lack use: very singular good! in faith,
well said, Sir John, very well said.
FALSTAFF

Prick him.
MOULDY

I was pricked well enough before, an you could have
let me alone: my old dame will be undone now for
one to do her husbandry and her drudgery: you need
not to have pricked me; there are other men fitter
to go out than I.
FALSTAFF

Go to: peace, Mouldy; you shall go. Mouldy, it is
time you were spent.
MOULDY

Spent!
SHALLOW

Peace, fellow, peace; stand aside: know you where
you are? For the other, Sir John: let me see:
Simon Shadow!
FALSTAFF

Yea, marry, let me have him to sit under: he’s like
to be a cold soldier.
SHALLOW

Where’s Shadow?
SHADOW

Here, sir.
FALSTAFF

Shadow, whose son art thou?
SHADOW

My mother’s son, sir.
FALSTAFF

Thy mother’s son! like enough, and thy father’s
shadow: so the son of the female is the shadow of
the male: it is often so, indeed; but much of the
father’s substance!
SHALLOW

Do you like him, Sir John?
FALSTAFF

Shadow will serve for summer; prick him, for we have
a number of shadows to fill up the muster-book.
SHALLOW

Thomas Wart!
FALSTAFF

Where’s he?
WART

Here, sir.
FALSTAFF

Is thy name Wart?
WART

Yea, sir.
FALSTAFF

Thou art a very ragged wart.
SHALLOW

Shall I prick him down, Sir John?
FALSTAFF

It were superfluous; for his apparel is built upon
his back and the whole frame stands upon pins:
prick him no more.
SHALLOW

Ha, ha, ha! you can do it, sir; you can do it: I
commend you well. Francis Feeble!
FEEBLE

Here, sir.
FALSTAFF

What trade art thou, Feeble?
FEEBLE

A woman’s tailor, sir.
SHALLOW

Shall I prick him, sir?
FALSTAFF

You may: but if he had been a man’s tailor, he’ld
ha’ pricked you. Wilt thou make as many holes in
an enemy’s battle as thou hast done in a woman’s petticoat?
FEEBLE

I will do my good will, sir; you can have no more.
FALSTAFF

Well said, good woman’s tailor! well said,
courageous Feeble! thou wilt be as valiant as the
wrathful dove or most magnanimous mouse. Prick the
woman’s tailor: well, Master Shallow; deep, Master Shallow.
FEEBLE

I would Wart might have gone, sir.
FALSTAFF

I would thou wert a man’s tailor, that thou mightst
mend him and make him fit to go. I cannot put him
to a private soldier that is the leader of so many
thousands: let that suffice, most forcible Feeble.
FEEBLE

It shall suffice, sir.
FALSTAFF

I am bound to thee, reverend Feeble. Who is next?
SHALLOW

Peter Bullcalf o’ the green!
FALSTAFF

Yea, marry, let’s see Bullcalf.
BULLCALF

Here, sir.
FALSTAFF

‘Fore God, a likely fellow! Come, prick me Bullcalf
till he roar again.
BULLCALF

O Lord! good my lord captain,–
FALSTAFF

What, dost thou roar before thou art pricked?
BULLCALF

O Lord, sir! I am a diseased man.
FALSTAFF

What disease hast thou?
BULLCALF

A whoreson cold, sir, a cough, sir, which I caught
with ringing in the king’s affairs upon his
coronation-day, sir.
FALSTAFF

Come, thou shalt go to the wars in a gown; we wilt
have away thy cold; and I will take such order that
my friends shall ring for thee. Is here all?
SHALLOW

Here is two more called than your number, you must
have but four here, sir: and so, I pray you, go in
with me to dinner.
FALSTAFF

Come, I will go drink with you, but I cannot tarry
dinner. I am glad to see you, by my troth, Master Shallow.
SHALLOW

O, Sir John, do you remember since we lay all night
in the windmill in Saint George’s field?
FALSTAFF

No more of that, good Master Shallow, no more of that.
SHALLOW

Ha! ’twas a merry night. And is Jane Nightwork alive?
FALSTAFF

She lives, Master Shallow.
SHALLOW

She never could away with me.
FALSTAFF

Never, never; she would always say she could not
abide Master Shallow.
SHALLOW

By the mass, I could anger her to the heart. She
was then a bona-roba. Doth she hold her own well?
FALSTAFF

Old, old, Master Shallow.
SHALLOW

Nay, she must be old; she cannot choose but be old;
certain she’s old; and had Robin Nightwork by old
Nightwork before I came to Clement’s Inn.
SILENCE

That’s fifty-five year ago.
SHALLOW

Ha, cousin Silence, that thou hadst seen that that
this knight and I have seen! Ha, Sir John, said I well?
FALSTAFF

We have heard the chimes at midnight, Master Shallow.
SHALLOW

That we have, that we have, that we have; in faith,
Sir John, we have: our watch-word was ‘Hem boys!’
Come, let’s to dinner; come, let’s to dinner:
Jesus, the days that we have seen! Come, come.
Exeunt FALSTAFF and Justices
BULLCALF

Good Master Corporate Bardolph, stand my friend;
and here’s four Harry ten shillings in French crowns
for you. In very truth, sir, I had as lief be
hanged, sir, as go: and yet, for mine own part, sir,
I do not care; but rather, because I am unwilling,
and, for mine own part, have a desire to stay with
my friends; else, sir, I did not care, for mine own
part, so much.
BARDOLPH

Go to; stand aside.
MOULDY

And, good master corporal captain, for my old
dame’s sake, stand my friend: she has nobody to do
any thing about her when I am gone; and she is old,
and cannot help herself: You shall have forty, sir.
BARDOLPH

Go to; stand aside.
FEEBLE

By my troth, I care not; a man can die but once: we
owe God a death: I’ll ne’er bear a base mind:
an’t be my destiny, so; an’t be not, so: no man is
too good to serve’s prince; and let it go which way
it will, he that dies this year is quit for the next.
BARDOLPH

Well said; thou’rt a good fellow.
FEEBLE

Faith, I’ll bear no base mind.
Re-enter FALSTAFF and the Justices
FALSTAFF

Come, sir, which men shall I have?
SHALLOW

Four of which you please.
BARDOLPH

Sir, a word with you: I have three pound to free
Mouldy and Bullcalf.
FALSTAFF

Go to; well.
SHALLOW

Come, Sir John, which four will you have?
FALSTAFF

Do you choose for me.
SHALLOW

Marry, then, Mouldy, Bullcalf, Feeble and Shadow.
FALSTAFF

Mouldy and Bullcalf: for you, Mouldy, stay at home
till you are past service: and for your part,
Bullcalf, grow till you come unto it: I will none of you.
SHALLOW

Sir John, Sir John, do not yourself wrong: they are
your likeliest men, and I would have you served with the best.
FALSTAFF

Will you tell me, Master Shallow, how to choose a
man? Care I for the limb, the thewes, the stature,
bulk, and big assemblance of a man! Give me the
spirit, Master Shallow. Here’s Wart; you see what a
ragged appearance it is; a’ shall charge you and
discharge you with the motion of a pewterer’s
hammer, come off and on swifter than he that gibbets
on the brewer’s bucket. And this same half-faced
fellow, Shadow; give me this man: he presents no
mark to the enemy; the foeman may with as great aim
level at the edge of a penknife. And for a retreat;
how swiftly will this Feeble the woman’s tailor run
off! O, give me the spare men, and spare me the
great ones. Put me a caliver into Wart’s hand, Bardolph.
BARDOLPH

Hold, Wart, traverse; thus, thus, thus.
FALSTAFF

Come, manage me your caliver. So: very well: go
to: very good, exceeding good. O, give me always a
little, lean, old, chapt, bald shot. Well said, i’
faith, Wart; thou’rt a good scab: hold, there’s a
tester for thee.
SHALLOW

He is not his craft’s master; he doth not do it
right. I remember at Mile-end Green, when I lay at
Clement’s Inn–I was then Sir Dagonet in Arthur’s
show,–there was a little quiver fellow, and a’
would manage you his piece thus; and a’ would about
and about, and come you in and come you in: ‘rah,
tah, tah,’ would a’ say; ‘bounce’ would a’ say; and
away again would a’ go, and again would a’ come: I
shall ne’er see such a fellow.
FALSTAFF

These fellows will do well, Master Shallow. God
keep you, Master Silence: I will not use many words
with you. Fare you well, gentlemen both: I thank
you: I must a dozen mile to-night. Bardolph, give
the soldiers coats.
SHALLOW

Sir John, the Lord bless you! God prosper your
affairs! God send us peace! At your return visit
our house; let our old acquaintance be renewed;
peradventure I will with ye to the court.
FALSTAFF

‘Fore God, I would you would, Master Shallow.
SHALLOW

Go to; I have spoke at a word. God keep you.
FALSTAFF

Fare you well, gentle gentlemen.
Exeunt Justices
On, Bardolph; lead the men away.
Exeunt BARDOLPH, Recruits, & c
As I return, I will fetch off these justices: I do
see the bottom of Justice Shallow. Lord, Lord, how
subject we old men are to this vice of lying! This
same starved justice hath done nothing but prate to
me of the wildness of his youth, and the feats he
hath done about Turnbull Street: and every third
word a lie, duer paid to the hearer than the Turk’s
tribute. I do remember him at Clement’s Inn like a
man made after supper of a cheese-paring: when a’
was naked, he was, for all the world, like a forked
radish, with a head fantastically carved upon it
with a knife: a’ was so forlorn, that his
dimensions to any thick sight were invincible: a’
was the very genius of famine; yet lecherous as a
monkey, and the whores called him mandrake: a’ came
ever in the rearward of the fashion, and sung those
tunes to the overscutched huswives that he heard the
carmen whistle, and swear they were his fancies or
his good-nights. And now is this Vice’s dagger
become a squire, and talks as familiarly of John a
Gaunt as if he had been sworn brother to him; and
I’ll be sworn a’ ne’er saw him but once in the
Tilt-yard; and then he burst his head for crowding
among the marshal’s men. I saw it, and told John a
Gaunt he beat his own name; for you might have
thrust him and all his apparel into an eel-skin; the
case of a treble hautboy was a mansion for him, a
court: and now has he land and beefs. Well, I’ll
be acquainted with him, if I return; and it shall
go hard but I will make him a philosopher’s two
stones to me: if the young dace be a bait for the
old pike, I see no reason in the law of nature but I
may snap at him. Let time shape, and there an end.
Exit

ACT IV
SCENE I. Yorkshire. Gaultree Forest.

Enter the ARCHBISHOP OF YORK, MOWBRAY, LORD HASTINGS, and others
ARCHBISHOP OF YORK

What is this forest call’d?
HASTINGS

‘Tis Gaultree Forest, an’t shall please your grace.
ARCHBISHOP OF YORK

Here stand, my lords; and send discoverers forth
To know the numbers of our enemies.
HASTINGS

We have sent forth already.
ARCHBISHOP OF YORK

‘Tis well done.
My friends and brethren in these great affairs,
I must acquaint you that I have received
New-dated letters from Northumberland;
Their cold intent, tenor and substance, thus:
Here doth he wish his person, with such powers
As might hold sortance with his quality,
The which he could not levy; whereupon
He is retired, to ripe his growing fortunes,
To Scotland: and concludes in hearty prayers
That your attempts may overlive the hazard
And fearful melting of their opposite.
MOWBRAY

Thus do the hopes we have in him touch ground
And dash themselves to pieces.
Enter a Messenger
HASTINGS

Now, what news?
Messenger

West of this forest, scarcely off a mile,
In goodly form comes on the enemy;
And, by the ground they hide, I judge their number
Upon or near the rate of thirty thousand.
MOWBRAY

The just proportion that we gave them out
Let us sway on and face them in the field.
ARCHBISHOP OF YORK

What well-appointed leader fronts us here?
Enter WESTMORELAND
MOWBRAY

I think it is my Lord of Westmoreland.
WESTMORELAND

Health and fair greeting from our general,
The prince, Lord John and Duke of Lancaster.
ARCHBISHOP OF YORK

Say on, my Lord of Westmoreland, in peace:
What doth concern your coming?
WESTMORELAND

Then, my lord,
Unto your grace do I in chief address
The substance of my speech. If that rebellion
Came like itself, in base and abject routs,
Led on by bloody youth, guarded with rags,
And countenanced by boys and beggary,
I say, if damn’d commotion so appear’d,
In his true, native and most proper shape,
You, reverend father, and these noble lords
Had not been here, to dress the ugly form
Of base and bloody insurrection
With your fair honours. You, lord archbishop,
Whose see is by a civil peace maintained,
Whose beard the silver hand of peace hath touch’d,
Whose learning and good letters peace hath tutor’d,
Whose white investments figure innocence,
The dove and very blessed spirit of peace,
Wherefore do you so ill translate ourself
Out of the speech of peace that bears such grace,
Into the harsh and boisterous tongue of war;
Turning your books to graves, your ink to blood,
Your pens to lances and your tongue divine
To a trumpet and a point of war?
ARCHBISHOP OF YORK

Wherefore do I this? so the question stands.
Briefly to this end: we are all diseased,
And with our surfeiting and wanton hours
Have brought ourselves into a burning fever,
And we must bleed for it; of which disease
Our late king, Richard, being infected, died.
But, my most noble Lord of Westmoreland,
I take not on me here as a physician,
Nor do I as an enemy to peace
Troop in the throngs of military men;
But rather show awhile like fearful war,
To diet rank minds sick of happiness
And purge the obstructions which begin to stop
Our very veins of life. Hear me more plainly.
I have in equal balance justly weigh’d
What wrongs our arms may do, what wrongs we suffer,
And find our griefs heavier than our offences.
We see which way the stream of time doth run,
And are enforced from our most quiet there
By the rough torrent of occasion;
And have the summary of all our griefs,
When time shall serve, to show in articles;
Which long ere this we offer’d to the king,
And might by no suit gain our audience:
When we are wrong’d and would unfold our griefs,
We are denied access unto his person
Even by those men that most have done us wrong.
The dangers of the days but newly gone,
Whose memory is written on the earth
With yet appearing blood, and the examples
Of every minute’s instance, present now,
Hath put us in these ill-beseeming arms,
Not to break peace or any branch of it,
But to establish here a peace indeed,
Concurring both in name and quality.
WESTMORELAND

When ever yet was your appeal denied?
Wherein have you been galled by the king?
What peer hath been suborn’d to grate on you,
That you should seal this lawless bloody book
Of forged rebellion with a seal divine
And consecrate commotion’s bitter edge?
ARCHBISHOP OF YORK

My brother general, the commonwealth,
To brother born an household cruelty,
I make my quarrel in particular.
WESTMORELAND

There is no need of any such redress;
Or if there were, it not belongs to you.
MOWBRAY

Why not to him in part, and to us all
That feel the bruises of the days before,
And suffer the condition of these times
To lay a heavy and unequal hand
Upon our honours?
WESTMORELAND

O, my good Lord Mowbray,
Construe the times to their necessities,
And you shall say indeed, it is the time,
And not the king, that doth you injuries.
Yet for your part, it not appears to me
Either from the king or in the present time
That you should have an inch of any ground
To build a grief on: were you not restored
To all the Duke of Norfolk’s signories,
Your noble and right well remember’d father’s?
MOWBRAY

What thing, in honour, had my father lost,
That need to be revived and breathed in me?
The king that loved him, as the state stood then,
Was force perforce compell’d to banish him:
And then that Harry Bolingbroke and he,
Being mounted and both roused in their seats,
Their neighing coursers daring of the spur,
Their armed staves in charge, their beavers down,
Their eyes of fire sparking through sights of steel
And the loud trumpet blowing them together,
Then, then, when there was nothing could have stay’d
My father from the breast of Bolingbroke,
O when the king did throw his warder down,
His own life hung upon the staff he threw;
Then threw he down himself and all their lives
That by indictment and by dint of sword
Have since miscarried under Bolingbroke.
WESTMORELAND

You speak, Lord Mowbray, now you know not what.
The Earl of Hereford was reputed then
In England the most valiant gentlemen:
Who knows on whom fortune would then have smiled?
But if your father had been victor there,
He ne’er had borne it out of Coventry:
For all the country in a general voice
Cried hate upon him; and all their prayers and love
Were set on Hereford, whom they doted on
And bless’d and graced indeed, more than the king.
But this is mere digression from my purpose.
Here come I from our princely general
To know your griefs; to tell you from his grace
That he will give you audience; and wherein
It shall appear that your demands are just,
You shall enjoy them, every thing set off
That might so much as think you enemies.
MOWBRAY

But he hath forced us to compel this offer;
And it proceeds from policy, not love.
WESTMORELAND

Mowbray, you overween to take it so;
This offer comes from mercy, not from fear:
For, lo! within a ken our army lies,
Upon mine honour, all too confident
To give admittance to a thought of fear.
Our battle is more full of names than yours,
Our men more perfect in the use of arms,
Our armour all as strong, our cause the best;
Then reason will our heart should be as good
Say you not then our offer is compell’d.
MOWBRAY

Well, by my will we shall admit no parley.
WESTMORELAND

That argues but the shame of your offence:
A rotten case abides no handling.
HASTINGS

Hath the Prince John a full commission,
In very ample virtue of his father,
To hear and absolutely to determine
Of what conditions we shall stand upon?
WESTMORELAND

That is intended in the general’s name:
I muse you make so slight a question.
ARCHBISHOP OF YORK

Then take, my Lord of Westmoreland, this schedule,
For this contains our general grievances:
Each several article herein redress’d,
All members of our cause, both here and hence,
That are insinew’d to this action,
Acquitted by a true substantial form
And present execution of our wills
To us and to our purposes confined,
We come within our awful banks again
And knit our powers to the arm of peace.
WESTMORELAND

This will I show the general. Please you, lords,
In sight of both our battles we may meet;
And either end in peace, which God so frame!
Or to the place of difference call the swords
Which must decide it.
ARCHBISHOP OF YORK

My lord, we will do so.
Exit WESTMORELAND
MOWBRAY

There is a thing within my bosom tells me
That no conditions of our peace can stand.
HASTINGS

Fear you not that: if we can make our peace
Upon such large terms and so absolute
As our conditions shall consist upon,
Our peace shall stand as firm as rocky mountains.
MOWBRAY

Yea, but our valuation shall be such
That every slight and false-derived cause,
Yea, every idle, nice and wanton reason
Shall to the king taste of this action;
That, were our royal faiths martyrs in love,
We shall be winnow’d with so rough a wind
That even our corn shall seem as light as chaff
And good from bad find no partition.
ARCHBISHOP OF YORK

No, no, my lord. Note this; the king is weary
Of dainty and such picking grievances:
For he hath found to end one doubt by death
Revives two greater in the heirs of life,
And therefore will he wipe his tables clean
And keep no tell-tale to his memory
That may repeat and history his loss
To new remembrance; for full well he knows
He cannot so precisely weed this land
As his misdoubts present occasion:
His foes are so enrooted with his friends
That, plucking to unfix an enemy,
He doth unfasten so and shake a friend:
So that this land, like an offensive wife
That hath enraged him on to offer strokes,
As he is striking, holds his infant up
And hangs resolved correction in the arm
That was uprear’d to execution.
HASTINGS

Besides, the king hath wasted all his rods
On late offenders, that he now doth lack
The very instruments of chastisement:
So that his power, like to a fangless lion,
May offer, but not hold.
ARCHBISHOP OF YORK

‘Tis very true:
And therefore be assured, my good lord marshal,
If we do now make our atonement well,
Our peace will, like a broken limb united,
Grow stronger for the breaking.
MOWBRAY

Be it so.
Here is return’d my Lord of Westmoreland.
Re-enter WESTMORELAND
WESTMORELAND

The prince is here at hand: pleaseth your lordship
To meet his grace just distance ‘tween our armies.
MOWBRAY

Your grace of York, in God’s name then, set forward.
ARCHBISHOP OF YORK

Before, and greet his grace: my lord, we come.
Exeunt

SCENE II. Another part of the forest.

Enter, from one side, MOWBRAY, attended; afterwards the ARCHBISHOP OF YORK, HASTINGS, and others: from the other side, Prince John of LANCASTER, and WESTMORELAND; Officers, and others with them
LANCASTER

You are well encounter’d here, my cousin Mowbray:
Good day to you, gentle lord archbishop;
And so to you, Lord Hastings, and to all.
My Lord of York, it better show’d with you
When that your flock, assembled by the bell,
Encircled you to hear with reverence
Your exposition on the holy text
Than now to see you here an iron man,
Cheering a rout of rebels with your drum,
Turning the word to sword and life to death.
That man that sits within a monarch’s heart,
And ripens in the sunshine of his favour,
Would he abuse the countenance of the king,
Alack, what mischiefs might he set abrooch
In shadow of such greatness! With you, lord bishop,
It is even so. Who hath not heard it spoken
How deep you were within the books of God?
To us the speaker in his parliament;
To us the imagined voice of God himself;
The very opener and intelligencer
Between the grace, the sanctities of heaven
And our dull workings. O, who shall believe
But you misuse the reverence of your place,
Employ the countenance and grace of heaven,
As a false favourite doth his prince’s name,
In deeds dishonourable? You have ta’en up,
Under the counterfeited zeal of God,
The subjects of his substitute, my father,
And both against the peace of heaven and him
Have here up-swarm’d them.
ARCHBISHOP OF YORK

Good my Lord of Lancaster,
I am not here against your father’s peace;
But, as I told my lord of Westmoreland,
The time misorder’d doth, in common sense,
Crowd us and crush us to this monstrous form,
To hold our safety up. I sent your grace
The parcels and particulars of our grief,
The which hath been with scorn shoved from the court,
Whereon this Hydra son of war is born;
Whose dangerous eyes may well be charm’d asleep
With grant of our most just and right desires,
And true obedience, of this madness cured,
Stoop tamely to the foot of majesty.
MOWBRAY

If not, we ready are to try our fortunes
To the last man.
HASTINGS

And though we here fall down,
We have supplies to second our attempt:
If they miscarry, theirs shall second them;
And so success of mischief shall be born
And heir from heir shall hold this quarrel up
Whiles England shall have generation.
LANCASTER

You are too shallow, Hastings, much too shallow,
To sound the bottom of the after-times.
WESTMORELAND

Pleaseth your grace to answer them directly
How far forth you do like their articles.
LANCASTER

I like them all, and do allow them well,
And swear here, by the honour of my blood,
My father’s purposes have been mistook,
And some about him have too lavishly
Wrested his meaning and authority.
My lord, these griefs shall be with speed redress’d;
Upon my soul, they shall. If this may please you,
Discharge your powers unto their several counties,
As we will ours: and here between the armies
Let’s drink together friendly and embrace,
That all their eyes may bear those tokens home
Of our restored love and amity.
ARCHBISHOP OF YORK

I take your princely word for these redresses.
LANCASTER

I give it you, and will maintain my word:
And thereupon I drink unto your grace.
HASTINGS

Go, captain, and deliver to the army
This news of peace: let them have pay, and part:
I know it will well please them. Hie thee, captain.
Exit Officer
ARCHBISHOP OF YORK

To you, my noble Lord of Westmoreland.
WESTMORELAND

I pledge your grace; and, if you knew what pains
I have bestow’d to breed this present peace,
You would drink freely: but my love to ye
Shall show itself more openly hereafter.
ARCHBISHOP OF YORK

I do not doubt you.
WESTMORELAND

I am glad of it.
Health to my lord and gentle cousin, Mowbray.
MOWBRAY

You wish me health in very happy season;
For I am, on the sudden, something ill.
ARCHBISHOP OF YORK

Against ill chances men are ever merry;
But heaviness foreruns the good event.
WESTMORELAND

Therefore be merry, coz; since sudden sorrow
Serves to say thus, ‘some good thing comes
to-morrow.’
ARCHBISHOP OF YORK

Believe me, I am passing light in spirit.
MOWBRAY

So much the worse, if your own rule be true.
Shouts within
LANCASTER

The word of peace is render’d: hark, how they shout!
MOWBRAY

This had been cheerful after victory.
ARCHBISHOP OF YORK

A peace is of the nature of a conquest;
For then both parties nobly are subdued,
And neither party loser.
LANCASTER

Go, my lord,
And let our army be discharged too.
Exit WESTMORELAND
And, good my lord, so please you, let our trains
March, by us, that we may peruse the men
We should have coped withal.
ARCHBISHOP OF YORK

Go, good Lord Hastings,
And, ere they be dismissed, let them march by.
Exit HASTINGS
LANCASTER

I trust, lords, we shall lie to-night together.
Re-enter WESTMORELAND
Now, cousin, wherefore stands our army still?
WESTMORELAND

The leaders, having charge from you to stand,
Will not go off until they hear you speak.
LANCASTER

They know their duties.
Re-enter HASTINGS
HASTINGS

My lord, our army is dispersed already;
Like youthful steers unyoked, they take their courses
East, west, north, south; or, like a school broke up,
Each hurries toward his home and sporting-place.
WESTMORELAND

Good tidings, my Lord Hastings; for the which
I do arrest thee, traitor, of high treason:
And you, lord archbishop, and you, Lord Mowbray,
Of capitol treason I attach you both.
MOWBRAY

Is this proceeding just and honourable?
WESTMORELAND

Is your assembly so?
ARCHBISHOP OF YORK

Will you thus break your faith?
LANCASTER

I pawn’d thee none:
I promised you redress of these same grievances
Whereof you did complain; which, by mine honour,
I will perform with a most Christian care.
But for you, rebels, look to taste the due
Meet for rebellion and such acts as yours.
Most shallowly did you these arms commence,
Fondly brought here and foolishly sent hence.
Strike up our drums, pursue the scatter’d stray:
God, and not we, hath safely fought to-day.
Some guard these traitors to the block of death,
Treason’s true bed and yielder up of breath.
Exeunt

SCENE III. Another part of the forest.

Alarum. Excursions. Enter FALSTAFF and COLEVILE, meeting
FALSTAFF

What’s your name, sir? of what condition are you,
and of what place, I pray?
COLEVILE

I am a knight, sir, and my name is Colevile of the dale.
FALSTAFF

Well, then, Colevile is your name, a knight is your
degree, and your place the dale: Colevile shall be
still your name, a traitor your degree, and the
dungeon your place, a place deep enough; so shall
you be still Colevile of the dale.
COLEVILE

Are not you Sir John Falstaff?
FALSTAFF

As good a man as he, sir, whoe’er I am. Do ye
yield, sir? or shall I sweat for you? if I do
sweat, they are the drops of thy lovers, and they
weep for thy death: therefore rouse up fear and
trembling, and do observance to my mercy.
COLEVILE

I think you are Sir John Falstaff, and in that
thought yield me.
FALSTAFF

I have a whole school of tongues in this belly of
mine, and not a tongue of them all speaks any other
word but my name. An I had but a belly of any
indifference, I were simply the most active fellow
in Europe: my womb, my womb, my womb, undoes me.
Here comes our general.
Enter PRINCE JOHN OF LANCASTER, WESTMORELAND, BLUNT, and others
LANCASTER

The heat is past; follow no further now:
Call in the powers, good cousin Westmoreland.
Exit WESTMORELAND
Now, Falstaff, where have you been all this while?
When every thing is ended, then you come:
These tardy tricks of yours will, on my life,
One time or other break some gallows’ back.
FALSTAFF

I would be sorry, my lord, but it should be thus: I
never knew yet but rebuke and cheque was the reward
of valour. Do you think me a swallow, an arrow, or a
bullet? have I, in my poor and old motion, the
expedition of thought? I have speeded hither with
the very extremest inch of possibility; I have
foundered nine score and odd posts: and here,
travel-tainted as I am, have in my pure and
immaculate valour, taken Sir John Colevile of the
dale, a most furious knight and valorous enemy.
But what of that? he saw me, and yielded; that I
may justly say, with the hook-nosed fellow of Rome,
‘I came, saw, and overcame.’
LANCASTER

It was more of his courtesy than your deserving.
FALSTAFF

I know not: here he is, and here I yield him: and
I beseech your grace, let it be booked with the
rest of this day’s deeds; or, by the Lord, I will
have it in a particular ballad else, with mine own
picture on the top on’t, Colevile kissing my foot:
to the which course if I be enforced, if you do not
all show like gilt twopences to me, and I in the
clear sky of fame o’ershine you as much as the full
moon doth the cinders of the element, which show
like pins’ heads to her, believe not the word of
the noble: therefore let me have right, and let
desert mount.
LANCASTER

Thine’s too heavy to mount.
FALSTAFF

Let it shine, then.
LANCASTER

Thine’s too thick to shine.
FALSTAFF

Let it do something, my good lord, that may do me
good, and call it what you will.
LANCASTER

Is thy name Colevile?
COLEVILE

It is, my lord.
LANCASTER

A famous rebel art thou, Colevile.
FALSTAFF

And a famous true subject took him.
COLEVILE

I am, my lord, but as my betters are
That led me hither: had they been ruled by me,
You should have won them dearer than you have.
FALSTAFF

I know not how they sold themselves: but thou, like
a kind fellow, gavest thyself away gratis; and I
thank thee for thee.
Re-enter WESTMORELAND
LANCASTER

Now, have you left pursuit?
WESTMORELAND

Retreat is made and execution stay’d.
LANCASTER

Send Colevile with his confederates
To York, to present execution:
Blunt, lead him hence; and see you guard him sure.
Exeunt BLUNT and others with COLEVILE
And now dispatch we toward the court, my lords:
I hear the king my father is sore sick:
Our news shall go before us to his majesty,
Which, cousin, you shall bear to comfort him,
And we with sober speed will follow you.
FALSTAFF

My lord, I beseech you, give me leave to go
Through Gloucestershire: and, when you come to court,
Stand my good lord, pray, in your good report.
LANCASTER

Fare you well, Falstaff: I, in my condition,
Shall better speak of you than you deserve.
Exeunt all but Falstaff
FALSTAFF

I would you had but the wit: ’twere better than
your dukedom. Good faith, this same young sober-
blooded boy doth not love me; nor a man cannot make
him laugh; but that’s no marvel, he drinks no wine.
There’s never none of these demure boys come to any
proof; for thin drink doth so over-cool their blood,
and making many fish-meals, that they fall into a
kind of male green-sickness; and then when they
marry, they get wenches: they are generally fools
and cowards; which some of us should be too, but for
inflammation. A good sherris sack hath a two-fold
operation in it. It ascends me into the brain;
dries me there all the foolish and dull and curdy
vapours which environ it; makes it apprehensive,
quick, forgetive, full of nimble fiery and
delectable shapes, which, delivered o’er to the
voice, the tongue, which is the birth, becomes
excellent wit. The second property of your
excellent sherris is, the warming of the blood;
which, before cold and settled, left the liver
white and pale, which is the badge of pusillanimity
and cowardice; but the sherris warms it and makes
it course from the inwards to the parts extreme:
it illumineth the face, which as a beacon gives
warning to all the rest of this little kingdom,
man, to arm; and then the vital commoners and
inland petty spirits muster me all to their captain,
the heart, who, great and puffed up with this
retinue, doth any deed of courage; and this valour
comes of sherris. So that skill in the weapon is
nothing without sack, for that sets it a-work; and
learning a mere hoard of gold kept by a devil, till
sack commences it and sets it in act and use.
Hereof comes it that Prince Harry is valiant; for
the cold blood he did naturally inherit of his
father, he hath, like lean, sterile and bare land,
manured, husbanded and tilled with excellent
endeavour of drinking good and good store of fertile
sherris, that he is become very hot and valiant. If
I had a thousand sons, the first humane principle I
would teach them should be, to forswear thin
potations and to addict themselves to sack.
Enter BARDOLPH
How now Bardolph?
BARDOLPH

The army is discharged all and gone.
FALSTAFF

Let them go. I’ll through Gloucestershire; and
there will I visit Master Robert Shallow, esquire:
I have him already tempering between my finger and
my thumb, and shortly will I seal with him. Come away.
Exeunt

SCENE IV. Westminster. The Jerusalem Chamber.

Enter KING HENRY IV, the Princes Thomas of CLARENCE and Humphrey of GLOUCESTER, WARWICK, and others
KING HENRY IV

Now, lords, if God doth give successful end
To this debate that bleedeth at our doors,
We will our youth lead on to higher fields
And draw no swords but what are sanctified.
Our navy is address’d, our power collected,
Our substitutes in absence well invested,
And every thing lies level to our wish:
Only, we want a little personal strength;
And pause us, till these rebels, now afoot,
Come underneath the yoke of government.
WARWICK

Both which we doubt not but your majesty
Shall soon enjoy.
KING HENRY IV

Humphrey, my son of Gloucester,
Where is the prince your brother?
GLOUCESTER

I think he’s gone to hunt, my lord, at Windsor.
KING HENRY IV

And how accompanied?
GLOUCESTER

I do not know, my lord.
KING HENRY IV

Is not his brother, Thomas of Clarence, with him?
GLOUCESTER

No, my good lord; he is in presence here.
CLARENCE

What would my lord and father?
KING HENRY IV

Nothing but well to thee, Thomas of Clarence.
How chance thou art not with the prince thy brother?
He loves thee, and thou dost neglect him, Thomas;
Thou hast a better place in his affection
Than all thy brothers: cherish it, my boy,
And noble offices thou mayst effect
Of mediation, after I am dead,
Between his greatness and thy other brethren:
Therefore omit him not; blunt not his love,
Nor lose the good advantage of his grace
By seeming cold or careless of his will;
For he is gracious, if he be observed:
He hath a tear for pity and a hand
Open as day for melting charity:
Yet notwithstanding, being incensed, he’s flint,
As humorous as winter and as sudden
As flaws congealed in the spring of day.
His temper, therefore, must be well observed:
Chide him for faults, and do it reverently,
When thou perceive his blood inclined to mirth;
But, being moody, give him line and scope,
Till that his passions, like a whale on ground,
Confound themselves with working. Learn this, Thomas,
And thou shalt prove a shelter to thy friends,
A hoop of gold to bind thy brothers in,
That the united vessel of their blood,
Mingled with venom of suggestion–
As, force perforce, the age will pour it in–
Shall never leak, though it do work as strong
As aconitum or rash gunpowder.
CLARENCE

I shall observe him with all care and love.
KING HENRY IV

Why art thou not at Windsor with him, Thomas?
CLARENCE

He is not there to-day; he dines in London.
KING HENRY IV

And how accompanied? canst thou tell that?
CLARENCE

With Poins, and other his continual followers.
KING HENRY IV

Most subject is the fattest soil to weeds;
And he, the noble image of my youth,
Is overspread with them: therefore my grief
Stretches itself beyond the hour of death:
The blood weeps from my heart when I do shape
In forms imaginary the unguided days
And rotten times that you shall look upon
When I am sleeping with my ancestors.
For when his headstrong riot hath no curb,
When rage and hot blood are his counsellors,
When means and lavish manners meet together,
O, with what wings shall his affections fly
Towards fronting peril and opposed decay!
WARWICK

My gracious lord, you look beyond him quite:
The prince but studies his companions
Like a strange tongue, wherein, to gain the language,
‘Tis needful that the most immodest word
Be look’d upon and learn’d; which once attain’d,
Your highness knows, comes to no further use
But to be known and hated. So, like gross terms,
The prince will in the perfectness of time
Cast off his followers; and their memory
Shall as a pattern or a measure live,
By which his grace must mete the lives of others,
Turning past evils to advantages.
KING HENRY IV

‘Tis seldom when the bee doth leave her comb
In the dead carrion.
Enter WESTMORELAND
Who’s here? Westmoreland?
WESTMORELAND

Health to my sovereign, and new happiness
Added to that that I am to deliver!
Prince John your son doth kiss your grace’s hand:
Mowbray, the Bishop Scroop, Hastings and all
Are brought to the correction of your law;
There is not now a rebel’s sword unsheath’d
But peace puts forth her olive every where.
The manner how this action hath been borne
Here at more leisure may your highness read,
With every course in his particular.
KING HENRY IV

O Westmoreland, thou art a summer bird,
Which ever in the haunch of winter sings
The lifting up of day.
Enter HARCOURT
Look, here’s more news.
HARCOURT

From enemies heaven keep your majesty;
And, when they stand against you, may they fall
As those that I am come to tell you of!
The Earl Northumberland and the Lord Bardolph,
With a great power of English and of Scots
Are by the sheriff of Yorkshire overthrown:
The manner and true order of the fight
This packet, please it you, contains at large.
KING HENRY IV

And wherefore should these good news make me sick?
Will fortune never come with both hands full,
But write her fair words still in foulest letters?
She either gives a stomach and no food;
Such are the poor, in health; or else a feast
And takes away the stomach; such are the rich,
That have abundance and enjoy it not.
I should rejoice now at this happy news;
And now my sight fails, and my brain is giddy:
O me! come near me; now I am much ill.
GLOUCESTER

Comfort, your majesty!
CLARENCE

O my royal father!
WESTMORELAND

My sovereign lord, cheer up yourself, look up.
WARWICK

Be patient, princes; you do know, these fits
Are with his highness very ordinary.
Stand from him. Give him air; he’ll straight be well.
CLARENCE

No, no, he cannot long hold out these pangs:
The incessant care and labour of his mind
Hath wrought the mure that should confine it in
So thin that life looks through and will break out.
GLOUCESTER

The people fear me; for they do observe
Unfather’d heirs and loathly births of nature:
The seasons change their manners, as the year
Had found some months asleep and leap’d them over.
CLARENCE

The river hath thrice flow’d, no ebb between;
And the old folk, time’s doting chronicles,
Say it did so a little time before
That our great-grandsire, Edward, sick’d and died.
WARWICK

Speak lower, princes, for the king recovers.
GLOUCESTER

This apoplexy will certain be his end.
KING HENRY IV

I pray you, take me up, and bear me hence
Into some other chamber: softly, pray.

SCENE V. Another chamber.

KING HENRY IV lying on a bed: CLARENCE, GLOUCESTER, WARWICK, and others in attendance
KING HENRY IV

Let there be no noise made, my gentle friends;
Unless some dull and favourable hand
Will whisper music to my weary spirit.
WARWICK

Call for the music in the other room.
KING HENRY IV

Set me the crown upon my pillow here.
CLARENCE

His eye is hollow, and he changes much.
WARWICK

Less noise, less noise!
Enter PRINCE HENRY
PRINCE HENRY

Who saw the Duke of Clarence?
CLARENCE

I am here, brother, full of heaviness.
PRINCE HENRY

How now! rain within doors, and none abroad!
How doth the king?
GLOUCESTER

Exceeding ill.
PRINCE HENRY

Heard he the good news yet?
Tell it him.
GLOUCESTER

He alter’d much upon the hearing it.
PRINCE HENRY

If he be sick with joy, he’ll recover without physic.
WARWICK

Not so much noise, my lords: sweet prince,
speak low;
The king your father is disposed to sleep.
CLARENCE

Let us withdraw into the other room.
WARWICK

Will’t please your grace to go along with us?
PRINCE HENRY

No; I will sit and watch here by the king.
Exeunt all but PRINCE HENRY
Why doth the crown lie there upon his pillow,
Being so troublesome a bedfellow?
O polish’d perturbation! golden care!
That keep’st the ports of slumber open wide
To many a watchful night! sleep with it now!
Yet not so sound and half so deeply sweet
As he whose brow with homely biggen bound
Snores out the watch of night. O majesty!
When thou dost pinch thy bearer, thou dost sit
Like a rich armour worn in heat of day,
That scalds with safety. By his gates of breath
There lies a downy feather which stirs not:
Did he suspire, that light and weightless down
Perforce must move. My gracious lord! my father!
This sleep is sound indeed, this is a sleep
That from this golden rigol hath divorced
So many English kings. Thy due from me
Is tears and heavy sorrows of the blood,
Which nature, love, and filial tenderness,
Shall, O dear father, pay thee plenteously:
My due from thee is this imperial crown,
Which, as immediate as thy place and blood,
Derives itself to me. Lo, here it sits,
Which God shall guard: and put the world’s whole strength
Into one giant arm, it shall not force
This lineal honour from me: this from thee
Will I to mine leave, as ’tis left to me.
Exit
KING HENRY IV

Warwick! Gloucester! Clarence!
Re-enter WARWICK, GLOUCESTER, CLARENCE, and the rest
CLARENCE

Doth the king call?
WARWICK

What would your majesty? How fares your grace?
KING HENRY IV

Why did you leave me here alone, my lords?
CLARENCE

We left the prince my brother here, my liege,
Who undertook to sit and watch by you.
KING HENRY IV

The Prince of Wales! Where is he? let me see him:
He is not here.
WARWICK

This door is open; he is gone this way.
GLOUCESTER

He came not through the chamber where we stay’d.
KING HENRY IV

Where is the crown? who took it from my pillow?
WARWICK

When we withdrew, my liege, we left it here.
KING HENRY IV

The prince hath ta’en it hence: go, seek him out.
Is he so hasty that he doth suppose
My sleep my death?
Find him, my Lord of Warwick; chide him hither.
Exit WARWICK
This part of his conjoins with my disease,
And helps to end me. See, sons, what things you are!
How quickly nature falls into revolt
When gold becomes her object!
For this the foolish over-careful fathers
Have broke their sleep with thoughts, their brains with care,
Their bones with industry;
For this they have engrossed and piled up
The canker’d heaps of strange-achieved gold;
For this they have been thoughtful to invest
Their sons with arts and martial exercises:
When, like the bee, culling from every flower
The virtuous sweets,
Our thighs pack’d with wax, our mouths with honey,
We bring it to the hive, and, like the bees,
Are murdered for our pains. This bitter taste
Yield his engrossments to the ending father.
Re-enter WARWICK
Now, where is he that will not stay so long
Till his friend sickness hath determined me?
WARWICK

My lord, I found the prince in the next room,
Washing with kindly tears his gentle cheeks,
With such a deep demeanor in great sorrow
That tyranny, which never quaff’d but blood,
Would, by beholding him, have wash’d his knife
With gentle eye-drops. He is coming hither.
KING HENRY IV

But wherefore did he take away the crown?
Re-enter PRINCE HENRY
Lo, where he comes. Come hither to me, Harry.
Depart the chamber, leave us here alone.
Exeunt WARWICK and the rest
PRINCE HENRY

I never thought to hear you speak again.
KING HENRY IV

Thy wish was father, Harry, to that thought:
I stay too long by thee, I weary thee.
Dost thou so hunger for mine empty chair
That thou wilt needs invest thee with my honours
Before thy hour be ripe? O foolish youth!
Thou seek’st the greatness that will o’erwhelm thee.
Stay but a little; for my cloud of dignity
Is held from falling with so weak a wind
That it will quickly drop: my day is dim.
Thou hast stolen that which after some few hours
Were thine without offence; and at my death
Thou hast seal’d up my expectation:
Thy life did manifest thou lovedst me not,
And thou wilt have me die assured of it.
Thou hidest a thousand daggers in thy thoughts,
Which thou hast whetted on thy stony heart,
To stab at half an hour of my life.
What! canst thou not forbear me half an hour?
Then get thee gone and dig my grave thyself,
And bid the merry bells ring to thine ear
That thou art crowned, not that I am dead.
Let all the tears that should bedew my hearse
Be drops of balm to sanctify thy head:
Only compound me with forgotten dust
Give that which gave thee life unto the worms.
Pluck down my officers, break my decrees;
For now a time is come to mock at form:
Harry the Fifth is crown’d: up, vanity!
Down, royal state! all you sage counsellors, hence!
And to the English court assemble now,
From every region, apes of idleness!
Now, neighbour confines, purge you of your scum:
Have you a ruffian that will swear, drink, dance,
Revel the night, rob, murder, and commit
The oldest sins the newest kind of ways?
Be happy, he will trouble you no more;
England shall double gild his treble guilt,
England shall give him office, honour, might;
For the fifth Harry from curb’d licence plucks
The muzzle of restraint, and the wild dog
Shall flesh his tooth on every innocent.
O my poor kingdom, sick with civil blows!
When that my care could not withhold thy riots,
What wilt thou do when riot is thy care?
O, thou wilt be a wilderness again,
Peopled with wolves, thy old inhabitants!
PRINCE HENRY

O, pardon me, my liege! but for my tears,
The moist impediments unto my speech,
I had forestall’d this dear and deep rebuke
Ere you with grief had spoke and I had heard
The course of it so far. There is your crown;
And He that wears the crown immortally
Long guard it yours! If I affect it more
Than as your honour and as your renown,
Let me no more from this obedience rise,
Which my most inward true and duteous spirit
Teacheth, this prostrate and exterior bending.
God witness with me, when I here came in,
And found no course of breath within your majesty,
How cold it struck my heart! If I do feign,
O, let me in my present wildness die
And never live to show the incredulous world
The noble change that I have purposed!
Coming to look on you, thinking you dead,
And dead almost, my liege, to think you were,
I spake unto this crown as having sense,
And thus upbraided it: ‘The care on thee depending
Hath fed upon the body of my father;
Therefore, thou best of gold art worst of gold:
Other, less fine in carat, is more precious,
Preserving life in medicine potable;
But thou, most fine, most honour’d: most renown’d,
Hast eat thy bearer up.’ Thus, my most royal liege,
Accusing it, I put it on my head,
To try with it, as with an enemy
That had before my face murder’d my father,
The quarrel of a true inheritor.
But if it did infect my blood with joy,
Or swell my thoughts to any strain of pride;
If any rebel or vain spirit of mine
Did with the least affection of a welcome
Give entertainment to the might of it,
Let God for ever keep it from my head
And make me as the poorest vassal is
That doth with awe and terror kneel to it!
KING HENRY IV

O my son,
God put it in thy mind to take it hence,
That thou mightst win the more thy father’s love,
Pleading so wisely in excuse of it!
Come hither, Harry, sit thou by my bed;
And hear, I think, the very latest counsel
That ever I shall breathe. God knows, my son,
By what by-paths and indirect crook’d ways
I met this crown; and I myself know well
How troublesome it sat upon my head.
To thee it shall descend with bitter quiet,
Better opinion, better confirmation;
For all the soil of the achievement goes
With me into the earth. It seem’d in me
But as an honour snatch’d with boisterous hand,
And I had many living to upbraid
My gain of it by their assistances;
Which daily grew to quarrel and to bloodshed,
Wounding supposed peace: all these bold fears
Thou see’st with peril I have answered;
For all my reign hath been but as a scene
Acting that argument: and now my death
Changes the mode; for what in me was purchased,
Falls upon thee in a more fairer sort;
So thou the garland wear’st successively.
Yet, though thou stand’st more sure than I could do,
Thou art not firm enough, since griefs are green;
And all my friends, which thou must make thy friends,
Have but their stings and teeth newly ta’en out;
By whose fell working I was first advanced
And by whose power I well might lodge a fear
To be again displaced: which to avoid,
I cut them off; and had a purpose now
To lead out many to the Holy Land,
Lest rest and lying still might make them look
Too near unto my state. Therefore, my Harry,
Be it thy course to busy giddy minds
With foreign quarrels; that action, hence borne out,
May waste the memory of the former days.
More would I, but my lungs are wasted so
That strength of speech is utterly denied me.
How I came by the crown, O God forgive;
And grant it may with thee in true peace live!
PRINCE HENRY

My gracious liege,
You won it, wore it, kept it, gave it me;
Then plain and right must my possession be:
Which I with more than with a common pain
‘Gainst all the world will rightfully maintain.
Enter Lord John of LANCASTER
KING HENRY IV

Look, look, here comes my John of Lancaster.
LANCASTER

Health, peace, and happiness to my royal father!
KING HENRY IV

Thou bring’st me happiness and peace, son John;
But health, alack, with youthful wings is flown
From this bare wither’d trunk: upon thy sight
My worldly business makes a period.
Where is my Lord of Warwick?
PRINCE HENRY

My Lord of Warwick!
Enter WARWICK, and others
KING HENRY IV

Doth any name particular belong
Unto the lodging where I first did swoon?
WARWICK

‘Tis call’d Jerusalem, my noble lord.
KING HENRY IV

Laud be to God! even there my life must end.
It hath been prophesied to me many years,
I should not die but in Jerusalem;
Which vainly I supposed the Holy Land:
But bear me to that chamber; there I’ll lie;
In that Jerusalem shall Harry die.
Exeunt

ACT V
SCENE I. Gloucestershire. SHALLOW’S house.

Enter SHALLOW, FALSTAFF, BARDOLPH, and Page
SHALLOW

By cock and pie, sir, you shall not away to-night.
What, Davy, I say!
FALSTAFF

You must excuse me, Master Robert Shallow.
SHALLOW

I will not excuse you; you shall not be excused;
excuses shall not be admitted; there is no excuse
shall serve; you shall not be excused. Why, Davy!
Enter DAVY
DAVY

Here, sir.
SHALLOW

Davy, Davy, Davy, Davy, let me see, Davy; let me
see, Davy; let me see: yea, marry, William cook,
bid him come hither. Sir John, you shall not be excused.
DAVY

Marry, sir, thus; those precepts cannot be served:
and, again, sir, shall we sow the headland with wheat?
SHALLOW

With red wheat, Davy. But for William cook: are
there no young pigeons?
DAVY

Yes, sir. Here is now the smith’s note for shoeing
and plough-irons.
SHALLOW

Let it be cast and paid. Sir John, you shall not be excused.
DAVY

Now, sir, a new link to the bucket must need be
had: and, sir, do you mean to stop any of William’s
wages, about the sack he lost the other day at
Hinckley fair?
SHALLOW

A’ shall answer it. Some pigeons, Davy, a couple
of short-legged hens, a joint of mutton, and any
pretty little tiny kickshaws, tell William cook.
DAVY

Doth the man of war stay all night, sir?
SHALLOW

Yea, Davy. I will use him well: a friend i’ the
court is better than a penny in purse. Use his men
well, Davy; for they are arrant knaves, and will backbite.
DAVY

No worse than they are backbitten, sir; for they
have marvellous foul linen.
SHALLOW

Well conceited, Davy: about thy business, Davy.
DAVY

I beseech you, sir, to countenance William Visor of
Woncot against Clement Perkes of the hill.
SHALLOW

There is many complaints, Davy, against that Visor:
that Visor is an arrant knave, on my knowledge.
DAVY

I grant your worship that he is a knave, sir; but
yet, God forbid, sir, but a knave should have some
countenance at his friend’s request. An honest
man, sir, is able to speak for himself, when a knave
is not. I have served your worship truly, sir,
this eight years; and if I cannot once or twice in
a quarter bear out a knave against an honest man, I
have but a very little credit with your worship. The
knave is mine honest friend, sir; therefore, I
beseech your worship, let him be countenanced.
SHALLOW

Go to; I say he shall have no wrong. Look about, Davy.
Exit DAVY
Where are you, Sir John? Come, come, come, off
with your boots. Give me your hand, Master Bardolph.
BARDOLPH

I am glad to see your worship.
SHALLOW

I thank thee with all my heart, kind
Master Bardolph: and welcome, my tall fellow.
To the Page
Come, Sir John.
FALSTAFF

I’ll follow you, good Master Robert Shallow.
Exit SHALLOW
Bardolph, look to our horses.
Exeunt BARDOLPH and Page
If I were sawed into quantities, I should make four
dozen of such bearded hermits’ staves as Master
Shallow. It is a wonderful thing to see the
semblable coherence of his men’s spirits and his:
they, by observing of him, do bear themselves like
foolish justices; he, by conversing with them, is
turned into a justice-like serving-man: their
spirits are so married in conjunction with the
participation of society that they flock together in
consent, like so many wild-geese. If I had a suit
to Master Shallow, I would humour his men with the
imputation of being near their master: if to his
men, I would curry with Master Shallow that no man
could better command his servants. It is certain
that either wise bearing or ignorant carriage is
caught, as men take diseases, one of another:
therefore let men take heed of their company. I
will devise matter enough out of this Shallow to
keep Prince Harry in continual laughter the wearing
out of six fashions, which is four terms, or two
actions, and a’ shall laugh without intervallums. O,
it is much that a lie with a slight oath and a jest
with a sad brow will do with a fellow that never
had the ache in his shoulders! O, you shall see him
laugh till his face be like a wet cloak ill laid up!
SHALLOW

[Within] Sir John!
FALSTAFF

I come, Master Shallow; I come, Master Shallow.
Exit

SCENE II. Westminster. The palace.

Enter WARWICK and the Lord Chief-Justice, meeting
WARWICK

How now, my lord chief-justice! whither away?
Lord Chief-Justice How doth the king?
WARWICK

Exceeding well; his cares are now all ended.
Lord Chief-Justice I hope, not dead.
WARWICK

He’s walk’d the way of nature;
And to our purposes he lives no more.
Lord Chief-Justice I would his majesty had call’d me with him:
The service that I truly did his life
Hath left me open to all injuries.
WARWICK

Indeed I think the young king loves you not.
Lord Chief-Justice I know he doth not, and do arm myself
To welcome the condition of the time,
Which cannot look more hideously upon me
Than I have drawn it in my fantasy.
Enter LANCASTER, CLARENCE, GLOUCESTER, WESTMORELAND, and others
WARWICK

Here come the heavy issue of dead Harry:
O that the living Harry had the temper
Of him, the worst of these three gentlemen!
How many nobles then should hold their places
That must strike sail to spirits of vile sort!
Lord Chief-Justice O God, I fear all will be overturn’d!
LANCASTER

Good morrow, cousin Warwick, good morrow.
GLOUCESTER

CLARENCE

Good morrow, cousin.
LANCASTER

We meet like men that had forgot to speak.
WARWICK

We do remember; but our argument
Is all too heavy to admit much talk.
LANCASTER

Well, peace be with him that hath made us heavy.
Lord Chief-Justice Peace be with us, lest we be heavier!
GLOUCESTER

O, good my lord, you have lost a friend indeed;
And I dare swear you borrow not that face
Of seeming sorrow, it is sure your own.
LANCASTER

Though no man be assured what grace to find,
You stand in coldest expectation:
I am the sorrier; would ’twere otherwise.
CLARENCE

Well, you must now speak Sir John Falstaff fair;
Which swims against your stream of quality.
Lord Chief-Justice Sweet princes, what I did, I did in honour,
Led by the impartial conduct of my soul:
And never shall you see that I will beg
A ragged and forestall’d remission.
If truth and upright innocency fail me,
I’ll to the king my master that is dead,
And tell him who hath sent me after him.
WARWICK

Here comes the prince.
Enter KING HENRY V, attended
Lord Chief-Justice Good morrow; and God save your majesty!
KING HENRY V

This new and gorgeous garment, majesty,
Sits not so easy on me as you think.
Brothers, you mix your sadness with some fear:
This is the English, not the Turkish court;
Not Amurath an Amurath succeeds,
But Harry Harry. Yet be sad, good brothers,
For, by my faith, it very well becomes you:
Sorrow so royally in you appears
That I will deeply put the fashion on
And wear it in my heart: why then, be sad;
But entertain no more of it, good brothers,
Than a joint burden laid upon us all.
For me, by heaven, I bid you be assured,
I’ll be your father and your brother too;
Let me but bear your love, I ‘ll bear your cares:
Yet weep that Harry’s dead; and so will I;
But Harry lives, that shall convert those tears
By number into hours of happiness.
Princes

We hope no other from your majesty.
KING HENRY V

You all look strangely on me: and you most;
You are, I think, assured I love you not.
Lord Chief-Justice I am assured, if I be measured rightly,
Your majesty hath no just cause to hate me.
KING HENRY V

No!
How might a prince of my great hopes forget
So great indignities you laid upon me?
What! rate, rebuke, and roughly send to prison
The immediate heir of England! Was this easy?
May this be wash’d in Lethe, and forgotten?
Lord Chief-Justice I then did use the person of your father;
The image of his power lay then in me:
And, in the administration of his law,
Whiles I was busy for the commonwealth,
Your highness pleased to forget my place,
The majesty and power of law and justice,
The image of the king whom I presented,
And struck me in my very seat of judgment;
Whereon, as an offender to your father,
I gave bold way to my authority
And did commit you. If the deed were ill,
Be you contented, wearing now the garland,
To have a son set your decrees at nought,
To pluck down justice from your awful bench,
To trip the course of law and blunt the sword
That guards the peace and safety of your person;
Nay, more, to spurn at your most royal image
And mock your workings in a second body.
Question your royal thoughts, make the case yours;
Be now the father and propose a son,
Hear your own dignity so much profaned,
See your most dreadful laws so loosely slighted,
Behold yourself so by a son disdain’d;
And then imagine me taking your part
And in your power soft silencing your son:
After this cold considerance, sentence me;
And, as you are a king, speak in your state
What I have done that misbecame my place,
My person, or my liege’s sovereignty.
KING HENRY V

You are right, justice, and you weigh this well;
Therefore still bear the balance and the sword:
And I do wish your honours may increase,
Till you do live to see a son of mine
Offend you and obey you, as I did.
So shall I live to speak my father’s words:
‘Happy am I, that have a man so bold,
That dares do justice on my proper son;
And not less happy, having such a son,
That would deliver up his greatness so
Into the hands of justice.’ You did commit me:
For which, I do commit into your hand
The unstained sword that you have used to bear;
With this remembrance, that you use the same
With the like bold, just and impartial spirit
As you have done ‘gainst me. There is my hand.
You shall be as a father to my youth:
My voice shall sound as you do prompt mine ear,
And I will stoop and humble my intents
To your well-practised wise directions.
And, princes all, believe me, I beseech you;
My father is gone wild into his grave,
For in his tomb lie my affections;
And with his spirit sadly I survive,
To mock the expectation of the world,
To frustrate prophecies and to raze out
Rotten opinion, who hath writ me down
After my seeming. The tide of blood in me
Hath proudly flow’d in vanity till now:
Now doth it turn and ebb back to the sea,
Where it shall mingle with the state of floods
And flow henceforth in formal majesty.
Now call we our high court of parliament:
And let us choose such limbs of noble counsel,
That the great body of our state may go
In equal rank with the best govern’d nation;
That war, or peace, or both at once, may be
As things acquainted and familiar to us;
In which you, father, shall have foremost hand.
Our coronation done, we will accite,
As I before remember’d, all our state:
And, God consigning to my good intents,
No prince nor peer shall have just cause to say,
God shorten Harry’s happy life one day!
Exeunt

SCENE III. Gloucestershire. SHALLOW’S orchard.

Enter FALSTAFF, SHALLOW, SILENCE, DAVY, BARDOLPH, and the Page
SHALLOW

Nay, you shall see my orchard, where, in an arbour,
we will eat a last year’s pippin of my own graffing,
with a dish of caraways, and so forth: come,
cousin Silence: and then to bed.
FALSTAFF

‘Fore God, you have here a goodly dwelling and a rich.
SHALLOW

Barren, barren, barren; beggars all, beggars all,
Sir John: marry, good air. Spread, Davy; spread,
Davy; well said, Davy.
FALSTAFF

This Davy serves you for good uses; he is your
serving-man and your husband.
SHALLOW

A good varlet, a good varlet, a very good varlet,
Sir John: by the mass, I have drunk too much sack
at supper: a good varlet. Now sit down, now sit
down: come, cousin.
SILENCE

Ah, sirrah! quoth-a, we shall
Do nothing but eat, and make good cheer,
Singing
And praise God for the merry year;
When flesh is cheap and females dear,
And lusty lads roam here and there
So merrily,
And ever among so merrily.
FALSTAFF

There’s a merry heart! Good Master Silence, I’ll
give you a health for that anon.
SHALLOW

Give Master Bardolph some wine, Davy.
DAVY

Sweet sir, sit; I’ll be with you anon. most sweet
sir, sit. Master page, good master page, sit.
Proface! What you want in meat, we’ll have in drink:
but you must bear; the heart’s all.
Exit
SHALLOW

Be merry, Master Bardolph; and, my little soldier
there, be merry.
SILENCE

Be merry, be merry, my wife has all;
Singing
For women are shrews, both short and tall:
‘Tis merry in hall when beards wag all,
And welcome merry Shrove-tide.
Be merry, be merry.
FALSTAFF

I did not think Master Silence had been a man of
this mettle.
SILENCE

Who, I? I have been merry twice and once ere now.
Re-enter DAVY
DAVY

There’s a dish of leather-coats for you.
To BARDOLPH
SHALLOW

Davy!
DAVY

Your worship! I’ll be with you straight.
To BARDOLPH
A cup of wine, sir?
SILENCE

A cup of wine that’s brisk and fine,
Singing
And drink unto the leman mine;
And a merry heart lives long-a.
FALSTAFF

Well said, Master Silence.
SILENCE

An we shall be merry, now comes in the sweet o’ the night.
FALSTAFF

Health and long life to you, Master Silence.
SILENCE

Fill the cup, and let it come;
Singing
I’ll pledge you a mile to the bottom.
SHALLOW

Honest Bardolph, welcome: if thou wantest any
thing, and wilt not call, beshrew thy heart.
Welcome, my little tiny thief.
To the Page
And welcome indeed too. I’ll drink to Master
Bardolph, and to all the cavaleros about London.
DAVY

I hove to see London once ere I die.
BARDOLPH

An I might see you there, Davy,–
SHALLOW

By the mass, you’ll crack a quart together, ha!
Will you not, Master Bardolph?
BARDOLPH

Yea, sir, in a pottle-pot.
SHALLOW

By God’s liggens, I thank thee: the knave will
stick by thee, I can assure thee that. A’ will not
out; he is true bred.
BARDOLPH

And I’ll stick by him, sir.
SHALLOW

Why, there spoke a king. Lack nothing: be merry.
Knocking within
Look who’s at door there, ho! who knocks?
Exit DAVY
FALSTAFF

Why, now you have done me right.
To SILENCE, seeing him take off a bumper
SILENCE

[Singing]
Do me right,
And dub me knight: Samingo.
Is’t not so?
FALSTAFF

‘Tis so.
SILENCE

Is’t so? Why then, say an old man can do somewhat.
Re-enter DAVY
DAVY

An’t please your worship, there’s one Pistol come
from the court with news.
FALSTAFF

From the court! let him come in.
Enter PISTOL
How now, Pistol!
PISTOL

Sir John, God save you!
FALSTAFF

What wind blew you hither, Pistol?
PISTOL

Not the ill wind which blows no man to good. Sweet
knight, thou art now one of the greatest men in this realm.
SILENCE

By’r lady, I think a’ be, but goodman Puff of Barson.
PISTOL

Puff!
Puff in thy teeth, most recreant coward base!
Sir John, I am thy Pistol and thy friend,
And helter-skelter have I rode to thee,
And tidings do I bring and lucky joys
And golden times and happy news of price.
FALSTAFF

I pray thee now, deliver them like a man of this world.
PISTOL

A foutre for the world and worldlings base!
I speak of Africa and golden joys.
FALSTAFF

O base Assyrian knight, what is thy news?
Let King Cophetua know the truth thereof.
SILENCE

And Robin Hood, Scarlet, and John.
Singing
PISTOL

Shall dunghill curs confront the Helicons?
And shall good news be baffled?
Then, Pistol, lay thy head in Furies’ lap.
SILENCE

Honest gentleman, I know not your breeding.
PISTOL

Why then, lament therefore.
SHALLOW

Give me pardon, sir: if, sir, you come with news
from the court, I take it there’s but two ways,
either to utter them, or to conceal them. I am,
sir, under the king, in some authority.
PISTOL

Under which king, Besonian? speak, or die.
SHALLOW

Under King Harry.
PISTOL

Harry the Fourth? or Fifth?
SHALLOW

Harry the Fourth.
PISTOL

A foutre for thine office!
Sir John, thy tender lambkin now is king;
Harry the Fifth’s the man. I speak the truth:
When Pistol lies, do this; and fig me, like
The bragging Spaniard.
FALSTAFF

What, is the old king dead?
PISTOL

As nail in door: the things I speak are just.
FALSTAFF

Away, Bardolph! saddle my horse. Master Robert
Shallow, choose what office thou wilt in the land,
’tis thine. Pistol, I will double-charge thee with dignities.
BARDOLPH

O joyful day!
I would not take a knighthood for my fortune.
PISTOL

What! I do bring good news.
FALSTAFF

Carry Master Silence to bed. Master Shallow, my
Lord Shallow,–be what thou wilt; I am fortune’s
steward–get on thy boots: we’ll ride all night.
O sweet Pistol! Away, Bardolph!
Exit BARDOLPH
Come, Pistol, utter more to me; and withal devise
something to do thyself good. Boot, boot, Master
Shallow: I know the young king is sick for me. Let
us take any man’s horses; the laws of England are at
my commandment. Blessed are they that have been my
friends; and woe to my lord chief-justice!
PISTOL

Let vultures vile seize on his lungs also!
‘Where is the life that late I led?’ say they:
Why, here it is; welcome these pleasant days!
Exeunt

SCENE IV. London. A street.

Enter Beadles, dragging in HOSTESS QUICKLY and DOLL TEARSHEET
MISTRESS QUICKLY

No, thou arrant knave; I would to God that I might
die, that I might have thee hanged: thou hast
drawn my shoulder out of joint.
First Beadle

The constables have delivered her over to me; and
she shall have whipping-cheer enough, I warrant
her: there hath been a man or two lately killed about her.
DOLL TEARSHEET

Nut-hook, nut-hook, you lie. Come on; I ‘ll tell
thee what, thou damned tripe-visaged rascal, an
the child I now go with do miscarry, thou wert
better thou hadst struck thy mother, thou
paper-faced villain.
MISTRESS QUICKLY

O the Lord, that Sir John were come! he would make
this a bloody day to somebody. But I pray God the
fruit of her womb miscarry!
First Beadle

If it do, you shall have a dozen of cushions again;
you have but eleven now. Come, I charge you both go
with me; for the man is dead that you and Pistol
beat amongst you.
DOLL TEARSHEET

I’ll tell you what, you thin man in a censer, I
will have you as soundly swinged for this,–you
blue-bottle rogue, you filthy famished correctioner,
if you be not swinged, I’ll forswear half-kirtles.
First Beadle

Come, come, you she knight-errant, come.
MISTRESS QUICKLY

O God, that right should thus overcome might!
Well, of sufferance comes ease.
DOLL TEARSHEET

Come, you rogue, come; bring me to a justice.
MISTRESS QUICKLY

Ay, come, you starved blood-hound.
DOLL TEARSHEET

Goodman death, goodman bones!
MISTRESS QUICKLY

Thou atomy, thou!
DOLL TEARSHEET

Come, you thin thing; come you rascal.
First Beadle

Very well.
Exeunt

SCENE V. A public place near Westminster Abbey.

Enter two Grooms, strewing rushes
First Groom

More rushes, more rushes.
Second Groom

The trumpets have sounded twice.
First Groom

‘Twill be two o’clock ere they come from the
coronation: dispatch, dispatch.
Exeunt
Enter FALSTAFF, SHALLOW, PISTOL, BARDOLPH, and Page
FALSTAFF

Stand here by me, Master Robert Shallow; I will
make the king do you grace: I will leer upon him as
a’ comes by; and do but mark the countenance that he
will give me.
PISTOL

God bless thy lungs, good knight.
FALSTAFF

Come here, Pistol; stand behind me. O, if I had had
time to have made new liveries, I would have
bestowed the thousand pound I borrowed of you. But
’tis no matter; this poor show doth better: this
doth infer the zeal I had to see him.
SHALLOW

It doth so.
FALSTAFF

It shows my earnestness of affection,–
SHALLOW

It doth so.
FALSTAFF

My devotion,–
SHALLOW

It doth, it doth, it doth.
FALSTAFF

As it were, to ride day and night; and not to
deliberate, not to remember, not to have patience
to shift me,–
SHALLOW

It is best, certain.
FALSTAFF

But to stand stained with travel, and sweating with
desire to see him; thinking of nothing else,
putting all affairs else in oblivion, as if there
were nothing else to be done but to see him.
PISTOL

‘Tis ‘semper idem,’ for ‘obsque hoc nihil est:’
’tis all in every part.
SHALLOW

‘Tis so, indeed.
PISTOL

My knight, I will inflame thy noble liver,
And make thee rage.
Thy Doll, and Helen of thy noble thoughts,
Is in base durance and contagious prison;
Haled thither
By most mechanical and dirty hand:
Rouse up revenge from ebon den with fell
Alecto’s snake,
For Doll is in. Pistol speaks nought but truth.
FALSTAFF

I will deliver her.
Shouts within, and the trumpets sound
PISTOL

There roar’d the sea, and trumpet-clangor sounds.
Enter KING HENRY V and his train, the Lord Chief- Justice among them
FALSTAFF

God save thy grace, King Hal! my royal Hal!
PISTOL

The heavens thee guard and keep, most royal imp of fame!
FALSTAFF

God save thee, my sweet boy!
KING HENRY IV

My lord chief-justice, speak to that vain man.
Lord Chief-Justice Have you your wits? know you what ’tis to speak?
FALSTAFF

My king! my Jove! I speak to thee, my heart!
KING HENRY IV

I know thee not, old man: fall to thy prayers;
How ill white hairs become a fool and jester!
I have long dream’d of such a kind of man,
So surfeit-swell’d, so old and so profane;
But, being awaked, I do despise my dream.
Make less thy body hence, and more thy grace;
Leave gormandizing; know the grave doth gape
For thee thrice wider than for other men.
Reply not to me with a fool-born jest:
Presume not that I am the thing I was;
For God doth know, so shall the world perceive,
That I have turn’d away my former self;
So will I those that kept me company.
When thou dost hear I am as I have been,
Approach me, and thou shalt be as thou wast,
The tutor and the feeder of my riots:
Till then, I banish thee, on pain of death,
As I have done the rest of my misleaders,
Not to come near our person by ten mile.
For competence of life I will allow you,
That lack of means enforce you not to evil:
And, as we hear you do reform yourselves,
We will, according to your strengths and qualities,
Give you advancement. Be it your charge, my lord,
To see perform’d the tenor of our word. Set on.
Exeunt KING HENRY V, & c
FALSTAFF

Master Shallow, I owe you a thousand pound.
SHALLOW

Yea, marry, Sir John; which I beseech you to let me
have home with me.
FALSTAFF

That can hardly be, Master Shallow. Do not you
grieve at this; I shall be sent for in private to
him: look you, he must seem thus to the world:
fear not your advancements; I will be the man yet
that shall make you great.
SHALLOW

I cannot well perceive how, unless you should give
me your doublet and stuff me out with straw. I
beseech you, good Sir John, let me have five hundred
of my thousand.
FALSTAFF

Sir, I will be as good as my word: this that you
heard was but a colour.
SHALLOW

A colour that I fear you will die in, Sir John.
FALSTAFF

Fear no colours: go with me to dinner: come,
Lieutenant Pistol; come, Bardolph: I shall be sent
for soon at night.
Re-enter Prince John of LANCASTER, the Lord Chief-Justice; Officers with them
Lord Chief-Justice Go, carry Sir John Falstaff to the Fleet:
Take all his company along with him.
FALSTAFF

My lord, my lord,–
Lord Chief-Justice I cannot now speak: I will hear you soon.
Take them away.
PISTOL

Si fortune me tormenta, spero contenta.
Exeunt all but PRINCE JOHN and the Lord Chief-Justice
LANCASTER

I like this fair proceeding of the king’s:
He hath intent his wonted followers
Shall all be very well provided for;
But all are banish’d till their conversations
Appear more wise and modest to the world.
Lord Chief-Justice And so they are.
LANCASTER

The king hath call’d his parliament, my lord.
Lord Chief-Justice He hath.
LANCASTER

I will lay odds that, ere this year expire,
We bear our civil swords and native fire
As far as France: I beard a bird so sing,
Whose music, to my thinking, pleased the king.
Come, will you hence?
Exeunt
EPILOGUE
Spoken by a Dancer
First my fear; then my courtesy; last my speech.
My fear is, your displeasure; my courtesy, my duty;
and my speech, to beg your pardons. If you look
for a good speech now, you undo me: for what I have
to say is of mine own making; and what indeed I
should say will, I doubt, prove mine own marring.
But to the purpose, and so to the venture. Be it
known to you, as it is very well, I was lately here
in the end of a displeasing play, to pray your
patience for it and to promise you a better. I
meant indeed to pay you with this; which, if like an
ill venture it come unluckily home, I break, and
you, my gentle creditors, lose. Here I promised you
I would be and here I commit my body to your
mercies: bate me some and I will pay you some and,
as most debtors do, promise you infinitely.
If my tongue cannot entreat you to acquit me, will
you command me to use my legs? and yet that were but
light payment, to dance out of your debt. But a
good conscience will make any possible satisfaction,
and so would I. All the gentlewomen here have
forgiven me: if the gentlemen will not, then the
gentlemen do not agree with the gentlewomen, which
was never seen before in such an assembly.
One word more, I beseech you. If you be not too
much cloyed with fat meat, our humble author will
continue the story, with Sir John in it, and make
you merry with fair Katharine of France: where, for
any thing I know, Falstaff shall die of a sweat,
unless already a’ be killed with your hard
opinions; for Oldcastle died a martyr, and this is
not the man. My tongue is weary; when my legs are
too, I will bid you good night: and so kneel down
before you; but, indeed, to pray for the queen.

Opera Top Dosto Solemn JUN 2021

PART I
Book I. The History Of A Family
Chapter I.
Fyodor Pavlovitch Karamazov
Alexey Fyodorovitch Karamazov was the third son of Fyodor Pavlovitch Karamazov, a land owner well known in our district in his own day, and still remembe red among us owing to his gloomy and tragic death, which happened thirteen years ago, and which I shall describe in its proper place. For the present I will only say that this “landowner”—for so we used to call him, although he hardly spent a day of his life on his own estate—was a strange type, yet one pretty frequentl y to be met with, a type abject and vicious and at the same time senseless. But he was one of those senseless persons who are very well capable of looking after t heir worldly affairs, and, apparently, after nothing else. Fyodor Pavlovitch, for instance, began with next to nothing; his estate was of the smallest; he ran to dine at other men’s tables, and fastened on them as a toady, yet at his death it appeared that he had a hundred thousand roubles in hard cash. At the same time, he wa s all his life one of the most senseless, fantastical fellows in the whole district. I repeat, it was not stupidity—the majority of these fantastical fellows are shrewd and intelligent enough—but just senselessness, and a peculiar national form of it.
He was married twice, and had three sons, the eldest, Dmitri, by his first wife, and two, Ivan and Alexey, by his second. Fyodor Pavlovitch’s first wife, Adelaïda Ivanovna, belonged to a fairly rich and distinguished noble family, also landowners in our district, the Miüsovs. How it came to pass that an heiress, who was al so a beauty, and moreover one of those vigorous, intelligent girls, so common in this generation, but sometimes also to be found in the last, could have married s uch a worthless, puny weakling, as we all called him, I won’t attempt to explain. I knew a young lady of the last “romantic” generation who after some years of an enigmatic passion for a gentleman, whom she might quite easily have married at any moment, invented insuperable obstacles to their union, and ended by thr owing herself one stormy night into a rather deep and rapid river from a high bank, almost a precipice, and so perished, entirely to satisfy her own caprice, and t o be like Shakespeare’s Ophelia. Indeed, if this precipice, a chosen and favorite spot of hers, had been less picturesque, if there had been a prosaic flat bank in it s place, most likely the suicide would never have taken place. This is a fact, and probably there have been not a few similar instances in the last two or three gen erations. Adelaïda Ivanovna Miüsov’s action was similarly, no doubt, an echo of other people’s ideas, and was due to the irritation caused by lack of mental free dom. She wanted, perhaps, to show her feminine independence, to override class distinctions and the despotism of her family. And a pliable imagination persua ded her, we must suppose, for a brief moment, that Fyodor Pavlovitch, in spite of his parasitic position, was one of the bold and ironical spirits of that progressiv e epoch, though he was, in fact, an illnatured buffoon and nothing more. What gave the marriage piquancy was that it was preceded by an elopement, and this gr eatly captivated Adelaïda Ivanovna’s fancy. Fyodor Pavlovitch’s position at the time made him specially eager for any such enterprise, for he was passionately a nxious to make a career in one way or another. To attach himself to a good family and obtain a dowry was an alluring prospect. As for mutual love it did not exi st apparently, either in the bride or in him, in spite of Adelaïda Ivanovna’s beauty. This was, perhaps, a unique case of the kind in the life of Fyodor Pavlovitch, who was always of a voluptuous temper, and ready to run after any petticoat on the slightest encouragement. She seems to have been the only woman who made no particular appeal to his senses.
Immediately after the elopement Adelaïda Ivanovna discerned in a flash that she had no feeling for her husband but contempt. The marriage accordingly showed itself in its true colors with extraordinary rapidity. Although the family accepted the event pretty quickly and apportioned the runaway bride her dowry, the hus band and wife began to lead a most disorderly life, and there were everlasting scenes between them. It was said that the young wife showed incomparably more generosity and dignity than Fyodor Pavlovitch, who, as is now known, got hold of all her money up to twentyfive thousand roubles as soon as she received it, so that those thousands were lost to her for ever. The little village and the rather fine town house which formed part of her dowry he did his utmost for a long time to transfer to his name, by means of some deed of conveyance. He would probably have succeeded, merely from her moral fatigue and desire to get rid of him, a nd from the contempt and loathing he aroused by his persistent and shameless importunity. But, fortunately, Adelaïda Ivanovna’s family intervened and circumv ented his greediness. It is known for a fact that frequent fights took place between the husband and wife, but rumor had it that Fyodor Pavlovitch did not beat his wife but was beaten by her, for she was a hottempered, bold, darkbrowed, impatient woman, possessed of remarkable physical strength. Finally, she left the hou se and ran away from Fyodor Pavlovitch with a destitute divinity student, leaving Mitya, a child of three years old, in her husband’s hands. Immediately Fyodor Pavlovitch introduced a regular harem into the house, and abandoned himself to orgies of drunkenness. In the intervals he used to drive all over the province, co mplaining tearfully to each and all of Adelaïda Ivanovna’s having left him, going into details too disgraceful for a husband to mention in regard to his own marri ed life. What seemed to gratify him and flatter his selflove most was to play the ridiculous part of the injured husband, and to parade his woes with embellishme nts.
“One would think that you’d got a promotion, Fyodor Pavlovitch, you seem so pleased in spite of your sorrow,” scoffers said to him. Many even added that he was glad of a new comic part in which to play the buffoon, and that it was simply to make it funnier that he pretended to be unaware of his ludicrous position. B
ut, who knows, it may have been simplicity. At last he succeeded in getting on the track of his runaway wife. The poor woman turned out to be in Petersburg, w here she had gone with her divinity student, and where she had thrown herself into a life of complete emancipation. Fyodor Pavlovitch at once began bustling ab out, making preparations to go to Petersburg, with what object he could not himself have said. He would perhaps have really gone; but having determined to do so he felt at once entitled to fortify himself for the journey by another bout of reckless drinking. And just at that time his wife’s family received the news of her death in Petersburg. She had died quite suddenly in a garret, according to one story, of typhus, or as another version had it, of starvation. Fyodor Pavlovitch was drunk when he heard of his wife’s death, and the story is that he ran out into the street and began shouting with joy, raising his hands to Heaven: “Lord, now lett est Thou Thy servant depart in peace,” but others say he wept without restraint like a little child, so much so that people were sorry for him, in spite of the repuls ion he inspired. It is quite possible that both versions were true, that he rejoiced at his release, and at the same time wept for her who released him. As a general rule, people, even the wicked, are much more naïve and simplehearted than we suppose. And we ourselves are, too.
Chapter II.
He Gets Rid Of His Eldest Son
You can easily imagine what a father such a man could be and how he would bring up his children. His behavior as a father was exactly what might be expected
. He completely abandoned the child of his marriage with Adelaïda Ivanovna, not from malice, nor because of his matrimonial grievances, but simply because h e forgot him. While he was wearying every one with his tears and complaints, and turning his house into a sink of debauchery, a faithful servant of the family, G
rigory, took the threeyearold Mitya into his care. If he hadn’t looked after him there would have been no one even to change the baby’s little shirt.
It happened moreover that the child’s relations on his mother’s side forgot him too at first. His grandfather was no longer living, his widow, Mitya’s grandmothe r, had moved to Moscow, and was seriously ill, while his daughters were married, so that Mitya remained for almost a whole year in old Grigory’s charge and li ved with him in the servant’s cottage. But if his father had remembered him (he could not, indeed, have been altogether unaware of his existence) he would have sent him back to the cottage, as the child would only have been in the way of his debaucheries. But a cousin of Mitya’s mother, Pyotr Alexandrovitch Miüsov, happened to return from Paris. He lived for many years afterwards abroad, but was at that time quite a young man, and distinguished among the Miüsovs as a m an of enlightened ideas and of European culture, who had been in the capitals and abroad. Towards the end of his life he became a Liberal of the type common i n the forties and fifties. In the course of his career he had come into contact with many of the most Liberal men of his epoch, both in Russia and abroad. He had known Proudhon and Bakunin personally, and in his declining years was very fond of describing the three days of the Paris Revolution of February 1848, hintin g that he himself had almost taken part in the fighting on the barricades. This was one of the most grateful recollections of his youth. He had an independent pro perty of about a thousand souls, to reckon in the old style. His splendid estate lay on the outskirts of our little town and bordered on the lands of our famous mon astery, with which Pyotr Alexandrovitch began an endless lawsuit, almost as soon as he came into the estate, concerning the rights of fishing in the river or woo dcutting in the forest, I don’t know exactly which. He regarded it as his duty as a citizen and a man of culture to open an attack upon the “clericals.” Hearing all about Adelaïda Ivanovna, whom he, of course, remembered, and in whom he had at one time been interested, and learning of the existence of Mitya, he interven ed, in spite of all his youthful indignation and contempt for Fyodor Pavlovitch. He made the latter’s acquaintance for the first time, and told him directly that he wished to undertake the child’s education. He used long afterwards to tell as a characteristic touch, that when he began to speak of Mitya, Fyodor Pavlovitch loo ked for some time as though he did not understand what child he was talking about, and even as though he was surprised to hear that he had a little son in the ho use. The story may have been exaggerated, yet it must have been something like the truth.
Fyodor Pavlovitch was all his life fond of acting, of suddenly playing an unexpected part, sometimes without any motive for doing so, and even to his own direc t disadvantage, as, for instance, in the present case. This habit, however, is characteristic of a very great number of people, some of them very clever ones, not li ke Fyodor Pavlovitch. Pyotr Alexandrovitch carried the business through vigorously, and was appointed, with Fyodor Pavlovitch, joint guardian of the child, wh o had a small property, a house and land, left him by his mother. Mitya did, in fact, pass into this cousin’s keeping, but as the latter had no family of his own, an d after securing the revenues of his estates was in haste to return at once to Paris, he left the boy in charge of one of his cousins, a lady living in Moscow. It cam e to pass that, settling permanently in Paris he, too, forgot the child, especially when the Revolution of February broke out, making an impression on his mind th at he remembered all the rest of his life. The Moscow lady died, and Mitya passed into the care of one of her married daughters. I believe he changed his home a fourth time later on. I won’t enlarge upon that now, as I shall have much to tell later of Fyodor Pavlovitch’s firstborn, and must confine myself now to the most essential facts about him, without which I could not begin my story.
In the first place, this Mitya, or rather Dmitri Fyodorovitch, was the only one of Fyodor Pavlovitch’s three sons who grew up in the belief that he had property, a nd that he would be independent on coming of age. He spent an irregular boyhood and youth. He did not finish his studies at the gymnasium, he got into a milita ry school, then went to the Caucasus, was promoted, fought a duel, and was degraded to the ranks, earned promotion again, led a wild life, and spent a good deal of money. He did not begin to receive any income from Fyodor Pavlovitch until he came of age, and until then got into debt. He saw and knew his father, Fyod or Pavlovitch, for the first time on coming of age, when he visited our neighborhood on purpose to settle with him about his property. He seems not to have like d his father. He did not stay long with him, and made haste to get away, having only succeeded in obtaining a sum of money, and entering into an agreement for future payments from the estate, of the revenues and value of which he was unable (a fact worthy of note), upon this occasion, to get a statement from his father.
Fyodor Pavlovitch remarked for the first time then (this, too, should be noted) that Mitya had a vague and exaggerated idea of his property. Fyodor Pavlovitch was very well satisfied with this, as it fell in with his own designs. He gathered only that the young man was frivolous, unruly, of violent passions, impatient, an d dissipated, and that if he could only obtain ready money he would be satisfied, although only, of course, for a short time. So Fyodor Pavlovitch began to take a dvantage of this fact, sending him from time to time small doles, installments. In the end, when four years later, Mitya, losing patience, came a second time to o ur little town to settle up once for all with his father, it turned out to his amazement that he had nothing, that it was difficult to get an account even, that he had r eceived the whole value of his property in sums of money from Fyodor Pavlovitch, and was perhaps even in debt to him, that by various agreements into which he had, of his own desire, entered at various previous dates, he had no right to expect anything more, and so on, and so on. The young man was overwhelmed, s uspected deceit and cheating, and was almost beside himself. And, indeed, this circumstance led to the catastrophe, the account of which forms the subject of m y first introductory story, or rather the external side of it. But before I pass to that story I must say a little of Fyodor Pavlovitch’s other two sons, and of their ori gin.
Chapter III.
The Second Marriage And The Second Family
Very shortly after getting his fouryearold Mitya off his hands Fyodor Pavlovitch married a second time. His second marriage lasted eight years. He took this sec ond wife, Sofya Ivanovna, also a very young girl, from another province, where he had gone upon some small piece of business in company with a Jew. Though Fyodor Pavlovitch was a drunkard and a vicious debauchee he never neglected investing his capital, and managed his business affairs very successfully, though
, no doubt, not over scrupulously. Sofya Ivanovna was the daughter of an obscure deacon, and was left from childhood an orphan without relations. She grew up in the house of a general’s widow, a wealthy old lady of good position, who was at once her benefactress and tormentor. I do not know the details, but I have on ly heard that the orphan girl, a meek and gentle creature, was once cut down from a halter in which she was hanging from a nail in the loft, so terrible were her s ufferings from the caprice and everlasting nagging of this old woman, who was apparently not badhearted but had become an insufferable tyrant through idlenes s.
Fyodor Pavlovitch made her an offer; inquiries were made about him and he was refused. But again, as in his first marriage, he proposed an elopement to the or phan girl. There is very little doubt that she would not on any account have married him if she had known a little more about him in time. But she lived in anoth er province; besides, what could a little girl of sixteen know about it, except that she would be better at the bottom of the river than remaining with her benefactr ess. So the poor child exchanged a benefactress for a benefactor. Fyodor Pavlovitch did not get a penny this time, for the general’s widow was furious. She gave them nothing and cursed them both. But he had not reckoned on a dowry; what allured him was the remarkable beauty of the innocent girl, above all her innoce nt appearance, which had a peculiar attraction for a vicious profligate, who had hitherto admired only the coarser types of feminine beauty.
“Those innocent eyes slit my soul up like a razor,” he used to say afterwards, with his loathsome snigger. In a man so depraved this might, of course, mean no m ore than sensual attraction. As he had received no dowry with his wife, and had, so to speak, taken her “from the halter,” he did not stand on ceremony with her.
Making her feel that she had “wronged” him, he took advantage of her phenomenal meekness and submissiveness to trample on the elementary decencies of ma rriage. He gathered loose women into his house, and carried on orgies of debauchery in his wife’s presence. To show what a pass things had come to, I may men tion that Grigory, the gloomy, stupid, obstinate, argumentative servant, who had always hated his first mistress, Adelaïda Ivanovna, took the side of his new mis tress. He championed her cause, abusing Fyodor Pavlovitch in a manner little befitting a servant, and on one occasion broke up the revels and drove all the disor derly women out of the house. In the end this unhappy young woman, kept in terror from her childhood, fell into that kind of nervous disease which is most freq uently found in peasant women who are said to be “possessed by devils.” At times after terrible fits of hysterics she even lost her reason. Yet she bore Fyodor Pa vlovitch two sons, Ivan and Alexey, the eldest in the first year of marriage and the second three years later. When she died, little Alexey was in his fourth year, a nd, strange as it seems, I know that he remembered his mother all his life, like a dream, of course. At her death almost exactly the same thing happened to the tw o little boys as to their elder brother, Mitya. They were completely forgotten and abandoned by their father. They were looked after by the same Grigory and liv ed in his cottage, where they were found by the tyrannical old lady who had brought up their mother. She was still alive, and had not, all those eight years, forgo tten the insult done her. All that time she was obtaining exact information as to her Sofya’s manner of life, and hearing of her illness and hideous surroundings s he declared aloud two or three times to her retainers:
“It serves her right. God has punished her for her ingratitude.”
Exactly three months after Sofya Ivanovna’s death the general’s widow suddenly appeared in our town, and went straight to Fyodor Pavlovitch’s house. She spe nt only half an hour in the town but she did a great deal. It was evening. Fyodor Pavlovitch, whom she had not seen for those eight years, came in to her drunk.
The story is that instantly upon seeing him, without any sort of explanation, she gave him two good, resounding slaps on the face, seized him by a tuft of hair, an d shook him three times up and down. Then, without a word, she went straight to the cottage to the two boys. Seeing, at the first glance, that they were unwashe d and in dirty linen, she promptly gave Grigory, too, a box on the ear, and announcing that she would carry off both the children she wrapped them just as they were in a rug, put them in the carriage, and drove off to her own town. Grigory accepted the blow like a devoted slave, without a word, and when he escorted the old lady to her carriage he made her a low bow and pronounced impressively that, “God would repay her for the orphans.” “You are a blockhead all the same,”
the old lady shouted to him as she drove away.
Fyodor Pavlovitch, thinking it over, decided that it was a good thing, and did not refuse the general’s widow his formal consent to any proposition in regard to h is children’s education. As for the slaps she had given him, he drove all over the town telling the story.
It happened that the old lady died soon after this, but she left the boys in her will a thousand roubles each “for their instruction, and so that all be spent on them e xclusively, with the condition that it be so portioned out as to last till they are twentyone, for it is more than adequate provision for such children. If other people think fit to throw away their money, let them.” I have not read the will myself, but I heard there was something queer of the sort, very whimsically expressed. T
he principal heir, Yefim Petrovitch Polenov, the Marshal of Nobility of the province, turned out, however, to be an honest man. Writing to Fyodor Pavlovitch, a nd discerning at once that he could extract nothing from him for his children’s education (though the latter never directly refused but only procrastinated as he al ways did in such cases, and was, indeed, at times effusively sentimental), Yefim Petrovitch took a personal interest in the orphans. He became especially fond of the younger, Alexey, who lived for a long while as one of his family. I beg the reader to note this from the beginning. And to Yefim Petrovitch, a man of a gene rosity and humanity rarely to be met with, the young people were more indebted for their education and bringing up than to any one. He kept the two thousand r oubles left to them by the general’s widow intact, so that by the time they came of age their portions had been doubled by the accumulation of interest. He educa ted them both at his own expense, and certainly spent far more than a thousand roubles upon each of them. I won’t enter into a detailed account of their boyhood and youth, but will only mention a few of the most important events. Of the elder, Ivan, I will only say that he grew into a somewhat morose and reserved, thou gh far from timid boy. At ten years old he had realized that they were living not in their own home but on other people’s charity, and that their father was a man of whom it was disgraceful to speak. This boy began very early, almost in his infancy (so they say at least), to show a brilliant and unusual aptitude for learning.
I don’t know precisely why, but he left the family of Yefim Petrovitch when he was hardly thirteen, entering a Moscow gymnasium, and boarding with an expe rienced and celebrated teacher, an old friend of Yefim Petrovitch. Ivan used to declare afterwards that this was all due to the “ardor for good works” of Yefim P
etrovitch, who was captivated by the idea that the boy’s genius should be trained by a teacher of genius. But neither Yefim Petrovitch nor this teacher was living when the young man finished at the gymnasium and entered the university. As Yefim Petrovitch had made no provision for the payment of the tyrannical old la dy’s legacy, which had grown from one thousand to two, it was delayed, owing to formalities inevitable in Russia, and the young man was in great straits for the first two years at the university, as he was forced to keep himself all the time he was studying. It must be noted that he did not even attempt to communicate wit h his father, perhaps from pride, from contempt for him, or perhaps from his cool common sense, which told him that from such a father he would get no real as
sistance. However that may have been, the young man was by no means despondent and succeeded in getting work, at first giving sixpenny lessons and afterwar ds getting paragraphs on street incidents into the newspapers under the signature of “EyeWitness.” These paragraphs, it was said, were so interesting and piquan t that they were soon taken. This alone showed the young man’s practical and intellectual superiority over the masses of needy and unfortunate students of both sexes who hang about the offices of the newspapers and journals, unable to think of anything better than everlasting entreaties for copying and translations from the French. Having once got into touch with the editors Ivan Fyodorovitch always kept up his connection with them, and in his latter years at the university he p ublished brilliant reviews of books upon various special subjects, so that he became well known in literary circles. But only in his last year he suddenly succeed ed in attracting the attention of a far wider circle of readers, so that a great many people noticed and remembered him. It was rather a curious incident. When he had just left the university and was preparing to go abroad upon his two thousand roubles, Ivan Fyodorovitch published in one of the more important journals a s trange article, which attracted general notice, on a subject of which he might have been supposed to know nothing, as he was a student of natural science. The ar ticle dealt with a subject which was being debated everywhere at the time—the position of the ecclesiastical courts. After discussing several opinions on the subj ect he went on to explain his own view. What was most striking about the article was its tone, and its unexpected conclusion. Many of the Church party regarde d him unquestioningly as on their side. And yet not only the secularists but even atheists joined them in their applause. Finally some sagacious persons opined th at the article was nothing but an impudent satirical burlesque. I mention this incident particularly because this article penetrated into the famous monastery in ou r neighborhood, where the inmates, being particularly interested in the question of the ecclesiastical courts, were completely bewildered by it. Learning the auth or’s name, they were interested in his being a native of the town and the son of “that Fyodor Pavlovitch.” And just then it was that the author himself made his a ppearance among us.
Why Ivan Fyodorovitch had come amongst us I remember asking myself at the time with a certain uneasiness. This fateful visit, which was the first step leading to so many consequences, I never fully explained to myself. It seemed strange on the face of it that a young man so learned, so proud, and apparently so cautiou s, should suddenly visit such an infamous house and a father who had ignored him all his life, hardly knew him, never thought of him, and would not under any circumstances have given him money, though he was always afraid that his sons Ivan and Alexey would also come to ask him for it. And here the young man w as staying in the house of such a father, had been living with him for two months, and they were on the best possible terms. This last fact was a special cause of wonder to many others as well as to me. Pyotr Alexandrovitch Miüsov, of whom we have spoken already, the cousin of Fyodor Pavlovitch’s first wife, happene d to be in the neighborhood again on a visit to his estate. He had come from Paris, which was his permanent home. I remember that he was more surprised than any one when he made the acquaintance of the young man, who interested him extremely, and with whom he sometimes argued and not without an inner pang c ompared himself in acquirements.
“He is proud,” he used to say, “he will never be in want of pence; he has got money enough to go abroad now. What does he want here? Every one can see that he hasn’t come for money, for his father would never give him any. He has no taste for drink and dissipation, and yet his father can’t do without him. They get o n so well together!”
That was the truth; the young man had an unmistakable influence over his father, who positively appeared to be behaving more decently and even seemed at tim es ready to obey his son, though often extremely and even spitefully perverse.
It was only later that we learned that Ivan had come partly at the request of, and in the interests of, his elder brother, Dmitri, whom he saw for the first time on th is very visit, though he had before leaving Moscow been in correspondence with him about an important matter of more concern to Dmitri than himself. What th at business was the reader will learn fully in due time. Yet even when I did know of this special circumstance I still felt Ivan Fyodorovitch to be an enigmatic fig ure, and thought his visit rather mysterious.
I may add that Ivan appeared at the time in the light of a mediator between his father and his elder brother Dmitri, who was in open quarrel with his father and e ven planning to bring an action against him.
The family, I repeat, was now united for the first time, and some of its members met for the first time in their lives. The younger brother, Alexey, had been a yea r already among us, having been the first of the three to arrive. It is of that brother Alexey I find it most difficult to speak in this introduction. Yet I must give so me preliminary account of him, if only to explain one queer fact, which is that I have to introduce my hero to the reader wearing the cassock of a novice. Yes, he had been for the last year in our monastery, and seemed willing to be cloistered there for the rest of his life.
Chapter IV.
The Third Son, Alyosha
He was only twenty, his brother Ivan was in his twentyfourth year at the time, while their elder brother Dmitri was twentyseven. First of all, I must explain that t his young man, Alyosha, was not a fanatic, and, in my opinion at least, was not even a mystic. I may as well give my full opinion from the beginning. He was si mply an early lover of humanity, and that he adopted the monastic life was simply because at that time it struck him, so to say, as the ideal escape for his soul str uggling from the darkness of worldly wickedness to the light of love. And the reason this life struck him in this way was that he found in it at that time, as he tho ught, an extraordinary being, our celebrated elder, Zossima, to whom he became attached with all the warm first love of his ardent heart. But I do not dispute tha t he was very strange even at that time, and had been so indeed from his cradle. I have mentioned already, by the way, that though he lost his mother in his fourt h year he remembered her all his life—her face, her caresses, “as though she stood living before me.” Such memories may persist, as every one knows, from an even earlier age, even from two years old, but scarcely standing out through a whole lifetime like spots of light out of darkness, like a corner torn out of a huge p icture, which has all faded and disappeared except that fragment. That is how it was with him. He remembered one still summer evening, an open window, the s lanting rays of the setting sun (that he recalled most vividly of all); in a corner of the room the holy image, before it a lighted lamp, and on her knees before the i mage his mother, sobbing hysterically with cries and moans, snatching him up in both arms, squeezing him close till it hurt, and praying for him to the Mother o f God, holding him out in both arms to the image as though to put him under the Mother’s protection … and suddenly a nurse runs in and snatches him from her in terror. That was the picture! And Alyosha remembered his mother’s face at that minute. He used to say that it was frenzied but beautiful as he remembered. B
ut he rarely cared to speak of this memory to any one. In his childhood and youth he was by no means expansive, and talked little indeed, but not from shyness o r a sullen unsociability; quite the contrary, from something different, from a sort of inner preoccupation entirely personal and unconcerned with other people, bu t so important to him that he seemed, as it were, to forget others on account of it. But he was fond of people: he seemed throughout his life to put implicit trust i
n people: yet no one ever looked on him as a simpleton or naïve person. There was something about him which made one feel at once (and it was so all his life a fterwards) that he did not care to be a judge of others—that he would never take it upon himself to criticize and would never condemn any one for anything. He seemed, indeed, to accept everything without the least condemnation though often grieving bitterly: and this was so much so that no one could surprise or fright en him even in his earliest youth. Coming at twenty to his father’s house, which was a very sink of filthy debauchery, he, chaste and pure as he was, simply with drew in silence when to look on was unbearable, but without the slightest sign of contempt or condemnation. His father, who had once been in a dependent posit ion, and so was sensitive and ready to take offense, met him at first with distrust and sullenness. “He does not say much,” he used to say, “and thinks the more.”
But soon, within a fortnight indeed, he took to embracing him and kissing him terribly often, with drunken tears, with sottish sentimentality, yet he evidently felt a real and deep affection for him, such as he had never been capable of feeling for any one before.
Every one, indeed, loved this young man wherever he went, and it was so from his earliest childhood. When he entered the household of his patron and benefact or, Yefim Petrovitch Polenov, he gained the hearts of all the family, so that they looked on him quite as their own child. Yet he entered the house at such a tende r age that he could not have acted from design nor artfulness in winning affection. So that the gift of making himself loved directly and unconsciously was inher ent in him, in his very nature, so to speak. It was the same at school, though he seemed to be just one of those children who are distrusted, sometimes ridiculed, and even disliked by their schoolfellows. He was dreamy, for instance, and rather solitary. From his earliest childhood he was fond of creeping into a corner to r ead, and yet he was a general favorite all the while he was at school. He was rarely playful or merry, but any one could see at the first glance that this was not fr om any sullenness. On the contrary he was bright and goodtempered. He never tried to show off among his schoolfellows. Perhaps because of this, he was never afraid of any one, yet the boys immediately understood that he was not proud of his fearlessness and seemed to be unaware that he was bold and courageous. H
e never resented an insult. It would happen that an hour after the offense he would address the offender or answer some question with as trustful and candid an e xpression as though nothing had happened between them. And it was not that he seemed to have forgotten or intentionally forgiven the affront, but simply that h e did not regard it as an affront, and this completely conquered and captivated the boys. He had one characteristic which made all his schoolfellows from the bot tom class to the top want to mock at him, not from malice but because it amused them. This characteristic was a wild fanatical modesty and chastity. He could n ot bear to hear certain words and certain conversations about women. There are “certain” words and conversations unhappily impossible to eradicate in schools.
Boys pure in mind and heart, almost children, are fond of talking in school among themselves, and even aloud, of things, pictures, and images of which even sol diers would sometimes hesitate to speak. More than that, much that soldiers have no knowledge or conception of is familiar to quite young children of our intell ectual and higher classes. There is no moral depravity, no real corrupt inner cynicism in it, but there is the appearance of it, and it is often looked upon among th em as something refined, subtle, daring, and worthy of imitation. Seeing that Alyosha Karamazov put his fingers in his ears when they talked of “that,” they use d sometimes to crowd round him, pull his hands away, and shout nastiness into both ears, while he struggled, slipped to the floor, tried to hide himself without u ttering one word of abuse, enduring their insults in silence. But at last they left him alone and gave up taunting him with being a “regular girl,” and what’s more they looked upon it with compassion as a weakness. He was always one of the best in the class but was never first.
At the time of Yefim Petrovitch’s death Alyosha had two more years to complete at the provincial gymnasium. The inconsolable widow went almost immediate ly after his death for a long visit to Italy with her whole family, which consisted only of women and girls. Alyosha went to live in the house of two distant relati ons of Yefim Petrovitch, ladies whom he had never seen before. On what terms he lived with them he did not know himself. It was very characteristic of him, in deed, that he never cared at whose expense he was living. In that respect he was a striking contrast to his elder brother Ivan, who struggled with poverty for his f irst two years in the university, maintained himself by his own efforts, and had from childhood been bitterly conscious of living at the expense of his benefactor.
But this strange trait in Alyosha’s character must not, I think, be criticized too severely, for at the slightest acquaintance with him any one would have perceive d that Alyosha was one of those youths, almost of the type of religious enthusiast, who, if they were suddenly to come into possession of a large fortune, would not hesitate to give it away for the asking, either for good works or perhaps to a clever rogue. In general he seemed scarcely to know the value of money, not, of course, in a literal sense. When he was given pocketmoney, which he never asked for, he was either terribly careless of it so that it was gone in a moment, or he kept it for weeks together, not knowing what to do with it.
In later years Pyotr Alexandrovitch Miüsov, a man very sensitive on the score of money and bourgeois honesty, pronounced the following judgment, after gettin g to know Alyosha:
“Here is perhaps the one man in the world whom you might leave alone without a penny, in the center of an unknown town of a million inhabitants, and he woul d not come to harm, he would not die of cold and hunger, for he would be fed and sheltered at once; and if he were not, he would find a shelter for himself, and i t would cost him no effort or humiliation. And to shelter him would be no burden, but, on the contrary, would probably be looked on as a pleasure.”
He did not finish his studies at the gymnasium. A year before the end of the course he suddenly announced to the ladies that he was going to see his father about a plan which had occurred to him. They were sorry and unwilling to let him go. The journey was not an expensive one, and the ladies would not let him pawn h is watch, a parting present from his benefactor’s family. They provided him liberally with money and even fitted him out with new clothes and linen. But he retu rned half the money they gave him, saying that he intended to go third class. On his arrival in the town he made no answer to his father’s first inquiry why he ha d come before completing his studies, and seemed, so they say, unusually thoughtful. It soon became apparent that he was looking for his mother’s tomb. He pra ctically acknowledged at the time that that was the only object of his visit. But it can hardly have been the whole reason of it. It is more probable that he himself did not understand and could not explain what had suddenly arisen in his soul, and drawn him irresistibly into a new, unknown, but inevitable path. Fyodor Pavl ovitch could not show him where his second wife was buried, for he had never visited her grave since he had thrown earth upon her coffin, and in the course of years had entirely forgotten where she was buried.
Fyodor Pavlovitch, by the way, had for some time previously not been living in our town. Three or four years after his wife’s death he had gone to the south of Russia and finally turned up in Odessa, where he spent several years. He made the acquaintance at first, in his own words, “of a lot of low Jews, Jewesses, and J
ewkins,” and ended by being received by “Jews high and low alike.” It may be presumed that at this period he developed a peculiar faculty for making and hoar ding money. He finally returned to our town only three years before Alyosha’s arrival. His former acquaintances found him looking terribly aged, although he w as by no means an old man. He behaved not exactly with more dignity but with more effrontery. The former buffoon showed an insolent propensity for making buffoons of others. His depravity with women was not simply what it used to be, but even more revolting. In a short time he opened a great number of new taver ns in the district. It was evident that he had perhaps a hundred thousand roubles or not much less. Many of the inhabitants of the town and district were soon in h
is debt, and, of course, had given good security. Of late, too, he looked somehow bloated and seemed more irresponsible, more uneven, had sunk into a sort of i ncoherence, used to begin one thing and go on with another, as though he were letting himself go altogether. He was more and more frequently drunk. And, if it had not been for the same servant Grigory, who by that time had aged considerably too, and used to look after him sometimes almost like a tutor, Fyodor Pavlov itch might have got into terrible scrapes. Alyosha’s arrival seemed to affect even his moral side, as though something had awakened in this prematurely old man which had long been dead in his soul.
“Do you know,” he used often to say, looking at Alyosha, “that you are like her, ‘the crazy woman’ ”—that was what he used to call his dead wife, Alyosha’s m other. Grigory it was who pointed out the “crazy woman’s” grave to Alyosha. He took him to our town cemetery and showed him in a remote corner a castiron t ombstone, cheap but decently kept, on which were inscribed the name and age of the deceased and the date of her death, and below a fourlined verse, such as ar e commonly used on oldfashioned middleclass tombs. To Alyosha’s amazement this tomb turned out to be Grigory’s doing. He had put it up on the poor “crazy woman’s” grave at his own expense, after Fyodor Pavlovitch, whom he had often pestered about the grave, had gone to Odessa, abandoning the grave and all hi s memories. Alyosha showed no particular emotion at the sight of his mother’s grave. He only listened to Grigory’s minute and solemn account of the erection o f the tomb; he stood with bowed head and walked away without uttering a word. It was perhaps a year before he visited the cemetery again. But this little episod e was not without an influence upon Fyodor Pavlovitch—and a very original one. He suddenly took a thousand roubles to our monastery to pay for requiems for the soul of his wife; but not for the second, Alyosha’s mother, the “crazy woman,” but for the first, Adelaïda Ivanovna, who used to thrash him. In the evening of the same day he got drunk and abused the monks to Alyosha. He himself was far from being religious; he had probably never put a penny candle before the i mage of a saint. Strange impulses of sudden feeling and sudden thought are common in such types.
I have mentioned already that he looked bloated. His countenance at this time bore traces of something that testified unmistakably to the life he had led. Besides the long fleshy bags under his little, always insolent, suspicious, and ironical eyes; besides the multitude of deep wrinkles in his little fat face, the Adam’s apple hung below his sharp chin like a great, fleshy goiter, which gave him a peculiar, repulsive, sensual appearance; add to that a long rapacious mouth with full lips, between which could be seen little stumps of black decayed teeth. He slobbered every time he began to speak. He was fond indeed of making fun of his own fac e, though, I believe, he was well satisfied with it. He used particularly to point to his nose, which was not very large, but very delicate and conspicuously aquilin e. “A regular Roman nose,” he used to say, “with my goiter I’ve quite the countenance of an ancient Roman patrician of the decadent period.” He seemed proud of it.
Not long after visiting his mother’s grave Alyosha suddenly announced that he wanted to enter the monastery, and that the monks were willing to receive him as a novice. He explained that this was his strong desire, and that he was solemnly asking his consent as his father. The old man knew that the elder Zossima, who was living in the monastery hermitage, had made a special impression upon his “gentle boy.”
“That is the most honest monk among them, of course,” he observed, after listening in thoughtful silence to Alyosha, and seeming scarcely surprised at his reque st. “H’m!… So that’s where you want to be, my gentle boy?”
He was half drunk, and suddenly he grinned his slow halfdrunken grin, which was not without a certain cunning and tipsy slyness. “H’m!… I had a presentimen t that you would end in something like this. Would you believe it? You were making straight for it. Well, to be sure you have your own two thousand. That’s a d owry for you. And I’ll never desert you, my angel. And I’ll pay what’s wanted for you there, if they ask for it. But, of course, if they don’t ask, why should we worry them? What do you say? You know, you spend money like a canary, two grains a week. H’m!… Do you know that near one monastery there’s a place outside the town where every baby knows there are none but ‘the monks’ wives’ living, as they are called. Thirty women, I believe. I have been there myself. You know, it’s interesting in its own way, of course, as a variety. The worst of it is it’s awfully Russian. There are no French women there. Of course they could get them fast enough, they have plenty of money. If they get to hear of it they’ll come along. Well, there’s nothing of that sort here, no ‘monks’ wives,’ and two hundred monks. They’re honest. They keep the fasts. I admit it…. H’m…. So you want to be a monk? And do you know I’m sorry to lose you, Alyosha; would you believe it, I’ve really grown fond of you? Well, it’s a good opportunity. You’ll pray for us sinners; we have sinned too much here. I’ve always been thinking who would pray for me, and whether there’s any one in the world to do it. My dear boy, I’m awfully stupid about that. You wouldn’t believe it. Awfully. You see, however stupid I am about it, I keep thinking, I keep thinking—from time to time, of course, not all the while. It’s impossible, I think, for the devils to forget to drag me down to hell with their hooks when I die. Then I wonder—hooks? Where would they get them? What of? Iron hooks? Where do they forge them? Have they a foundry there of some sort? The monks in the monastery probably believe that there’s a ceiling in hell, for instance. Now I’m ready to believe in hell, but without a ceiling. It makes it more refined, more enlightened, more Lutheran that is. And, after all, what does it matter whether it has a ceiling or hasn’t? But, do you know, there’s a damnable question involved in it? If there’s no ceiling there can be no hooks, and if there are no hooks it all breaks down, which is unlikely again, for then there would be none to drag me down to hell, and if they don’t drag me down what justice is there in the world? Il faudrait les inventer, those hooks, on purpose for me alone, for, if you only knew, Alyosha, what a blackguard I am.”
“But there are no hooks there,” said Alyosha, looking gently and seriously at his father.
“Yes, yes, only the shadows of hooks, I know, I know. That’s how a Frenchman described hell: ‘J’ai vu l’ombre d’un cocher qui avec l’ombre d’une brosse frott ait l’ombre d’une carrosse.’ How do you know there are no hooks, darling? When you’ve lived with the monks you’ll sing a different tune. But go and get at the truth there, and then come and tell me. Anyway it’s easier going to the other world if one knows what there is there. Besides, it will be more seemly for you wit h the monks than here with me, with a drunken old man and young harlots … though you’re like an angel, nothing touches you. And I dare say nothing will touc h you there. That’s why I let you go, because I hope for that. You’ve got all your wits about you. You will burn and you will burn out; you will be healed and co me back again. And I will wait for you. I feel that you’re the only creature in the world who has not condemned me. My dear boy, I feel it, you know. I can’t hel p feeling it.”
And he even began blubbering. He was sentimental. He was wicked and sentimental.
Chapter V.
Elders
Some of my readers may imagine that my young man was a sickly, ecstatic, poorly developed creature, a pale, consumptive dreamer. On the contrary, Alyosha was at this time a wellgrown, redcheeked, cleareyed lad of nineteen, radiant with health. He was very handsome, too, graceful, moderately tall, with hair of a dar k brown, with a regular, rather long, ovalshaped face, and wideset dark gray, shining eyes; he was very thoughtful, and apparently very serene. I shall be told, pe rhaps, that red cheeks are not incompatible with fanaticism and mysticism; but I fancy that Alyosha was more of a realist than any one. Oh! no doubt, in the mo nastery he fully believed in miracles, but, to my thinking, miracles are never a stumblingblock to the realist. It is not miracles that dispose realists to belief. The genuine realist, if he is an unbeliever, will always find strength and ability to disbelieve in the miraculous, and if he is confronted with a miracle as an irrefutable fact he would rather disbelieve his own senses than admit the fact. Even if he admits it, he admits it as a fact of nature till then unrecognized by him. Faith does not, in the realist, spring from the miracle but the miracle from faith. If the realist once believes, then he is bound by his very realism to admit the miraculous als o. The Apostle Thomas said that he would not believe till he saw, but when he did see he said, “My Lord and my God!” Was it the miracle forced him to believe
? Most likely not, but he believed solely because he desired to believe and possibly he fully believed in his secret heart even when he said, “I do not believe till I see.”
I shall be told, perhaps, that Alyosha was stupid, undeveloped, had not finished his studies, and so on. That he did not finish his studies is true, but to say that he was stupid or dull would be a great injustice. I’ll simply repeat what I have said above. He entered upon this path only because, at that time, it alone struck his i
magination and presented itself to him as offering an ideal means of escape for his soul from darkness to light. Add to that that he was to some extent a youth of our last epoch—that is, honest in nature, desiring the truth, seeking for it and believing in it, and seeking to serve it at once with all the strength of his soul, seeki ng for immediate action, and ready to sacrifice everything, life itself, for it. Though these young men unhappily fail to understand that the sacrifice of life is, in many cases, the easiest of all sacrifices, and that to sacrifice, for instance, five or six years of their seething youth to hard and tedious study, if only to multiply t enfold their powers of serving the truth and the cause they have set before them as their goal—such a sacrifice is utterly beyond the strength of many of them. T
he path Alyosha chose was a path going in the opposite direction, but he chose it with the same thirst for swift achievement. As soon as he reflected seriously he was convinced of the existence of God and immortality, and at once he instinctively said to himself: “I want to live for immortality, and I will accept no compro mise.” In the same way, if he had decided that God and immortality did not exist, he would at once have become an atheist and a socialist. For socialism is not merely the labor question, it is before all things the atheistic question, the question of the form taken by atheism today, the question of the tower of Babel built without God, not to mount to heaven from earth but to set up heaven on earth. Alyosha would have found it strange and impossible to go on living as before. It i s written: “Give all that thou hast to the poor and follow Me, if thou wouldst be perfect.”
Alyosha said to himself: “I can’t give two roubles instead of ‘all,’ and only go to mass instead of ‘following Him.’ ” Perhaps his memories of childhood brought back our monastery, to which his mother may have taken him to mass. Perhaps the slanting sunlight and the holy image to which his poor “crazy” mother had h eld him up still acted upon his imagination. Brooding on these things he may have come to us perhaps only to see whether here he could sacrifice all or only “tw o roubles,” and in the monastery he met this elder. I must digress to explain what an “elder” is in Russian monasteries, and I am sorry that I do not feel very com petent to do so. I will try, however, to give a superficial account of it in a few words. Authorities on the subject assert that the institution of “elders” is of recent date, not more than a hundred years old in our monasteries, though in the orthodox East, especially in Sinai and Athos, it has existed over a thousand years. It is maintained that it existed in ancient times in Russia also, but through the calamities which overtook Russia—the Tartars, civil war, the interruption of relations with the East after the destruction of Constantinople—this institution fell into oblivion. It was revived among us towards the end of last century by one of the gr eat “ascetics,” as they called him, Païssy Velitchkovsky, and his disciples. But to this day it exists in few monasteries only, and has sometimes been almost pers ecuted as an innovation in Russia. It flourished especially in the celebrated Kozelski Optin Monastery. When and how it was introduced into our monastery I ca nnot say. There had already been three such elders and Zossima was the last of them. But he was almost dying of weakness and disease, and they had no one to t ake his place. The question for our monastery was an important one, for it had not been distinguished by anything in particular till then: they had neither relics o f saints, nor wonderworking ikons, nor glorious traditions, nor historical exploits. It had flourished and been glorious all over Russia through its elders, to see an d hear whom pilgrims had flocked for thousands of miles from all parts.
What was such an elder? An elder was one who took your soul, your will, into his soul and his will. When you choose an elder, you renounce your own will and yield it to him in complete submission, complete self abnegation. This novitiate, this terrible school of abnegation, is undertaken voluntarily, in the hope of self conquest, of selfmastery, in order, after a life of obedience, to attain perfect freedom, that is, from self; to escape the lot of those who have lived their whole life without finding their true selves in themselves. This institution of elders is not founded on theory, but was established in the East from the practice of a thousand years. The obligations due to an elder are not the ordinary “obedience” which has always existed in our Russian monasteries. The obligation involves confessio n to the elder by all who have submitted themselves to him, and to the indissoluble bond between him and them.
The story is told, for instance, that in the early days of Christianity one such novice, failing to fulfill some command laid upon him by his elder, left his monaste ry in Syria and went to Egypt. There, after great exploits, he was found worthy at last to suffer torture and a martyr’s death for the faith. When the Church, regar ding him as a saint, was burying him, suddenly, at the deacon’s exhortation, “Depart all ye unbaptized,” the coffin containing the martyr’s body left its place and was cast forth from the church, and this took place three times. And only at last they learnt that this holy man had broken his vow of obedience and left his elde r, and, therefore, could not be forgiven without the elder’s absolution in spite of his great deeds. Only after this could the funeral take place. This, of course, is o nly an old legend. But here is a recent instance.
A monk was suddenly commanded by his elder to quit Athos, which he loved as a sacred place and a haven of refuge, and to go first to Jerusalem to do homage to the Holy Places and then to go to the north to Siberia: “There is the place for thee and not here.” The monk, overwhelmed with sorrow, went to the Œcumenic al Patriarch at Constantinople and besought him to release him from his obedience. But the Patriarch replied that not only was he unable to release him, but ther e was not and could not be on earth a power which could release him except the elder who had himself laid that duty upon him. In this way the elders are endow ed in certain cases with unbounded and inexplicable authority. That is why in many of our monasteries the institution was at first resisted almost to persecution.
Meantime the elders immediately began to be highly esteemed among the people. Masses of the ignorant people as well as men of distinction flocked, for instan ce, to the elders of our monastery to confess their doubts, their sins, and their sufferings, and ask for counsel and admonition. Seeing this, the opponents of the el ders declared that the sacrament of confession was being arbitrarily and frivolously degraded, though the continual opening of the heart to the elder by the monk or the layman had nothing of the character of the sacrament. In the end, however, the institution of elders has been retained and is becoming established in Russ ian monasteries. It is true, perhaps, that this instrument which had stood the test of a thousand years for the moral regeneration of a man from slavery to freedom and to moral perfectibility may be a twoedged weapon and it may lead some not to humility and complete selfcontrol but to the most Satanic pride, that is, to bo ndage and not to freedom.
The elder Zossima was sixtyfive. He came of a family of landowners, had been in the army in early youth, and served in the Caucasus as an officer. He had, no doubt, impressed Alyosha by some peculiar quality of his soul. Alyosha lived in the cell of the elder, who was very fond of him and let him wait upon him. It m ust be noted that Alyosha was bound by no obligation and could go where he pleased and be absent for whole days. Though he wore the monastic dress it was v oluntarily, not to be different from others. No doubt he liked to do so. Possibly his youthful imagination was deeply stirred by the power and fame of his elder. It was said that so many people had for years past come to confess their sins to Father Zossima and to entreat him for words of advice and healing, that he had acq uired the keenest intuition and could tell from an unknown face what a newcomer wanted, and what was the suffering on his conscience. He sometimes astound ed and almost alarmed his visitors by his knowledge of their secrets before they had spoken a word.
Alyosha noticed that many, almost all, went in to the elder for the first time with apprehension and uneasiness, but came out with bright and happy faces. Alyos ha was particularly struck by the fact that Father Zossima was not at all stern. On the contrary, he was always almost gay. The monks used to say that he was mo re drawn to those who were more sinful, and the greater the sinner the more he loved him. There were, no doubt, up to the end of his life, among the monks som
e who hated and envied him, but they were few in number and they were silent, though among them were some of great dignity in the monastery, one, for instan ce, of the older monks distinguished for his strict keeping of fasts and vows of silence. But the majority were on Father Zossima’s side and very many of them l oved him with all their hearts, warmly and sincerely. Some were almost fanatically devoted to him, and declared, though not quite aloud, that he was a saint, tha t there could be no doubt of it, and, seeing that his end was near, they anticipated miracles and great glory to the monastery in the immediate future from his reli cs. Alyosha had unquestioning faith in the miraculous power of the elder, just as he had unquestioning faith in the story of the coffin that flew out of the church.
He saw many who came with sick children or relatives and besought the elder to lay hands on them and to pray over them, return shortly after—some the next d ay—and, falling in tears at the elder’s feet, thank him for healing their sick.
Whether they had really been healed or were simply better in the natural course of the disease was a question which did not exist for Alyosha, for he fully believ ed in the spiritual power of his teacher and rejoiced in his fame, in his glory, as though it were his own triumph. His heart throbbed, and he beamed, as it were, a ll over when the elder came out to the gates of the hermitage into the waiting crowd of pilgrims of the humbler class who had flocked from all parts of Russia on purpose to see the elder and obtain his blessing. They fell down before him, wept, kissed his feet, kissed the earth on which he stood, and wailed, while the wo men held up their children to him and brought him the sick “possessed with devils.” The elder spoke to them, read a brief prayer over them, blessed them, and di smissed them. Of late he had become so weak through attacks of illness that he was sometimes unable to leave his cell, and the pilgrims waited for him to come out for several days. Alyosha did not wonder why they loved him so, why they fell down before him and wept with emotion merely at seeing his face. Oh! he un derstood that for the humble soul of the Russian peasant, worn out by grief and toil, and still more by the everlasting injustice and everlasting sin, his own and th e world’s, it was the greatest need and comfort to find some one or something holy to fall down before and worship.
“Among us there is sin, injustice, and temptation, but yet, somewhere on earth there is some one holy and exalted. He has the truth; he knows the truth; so it is n ot dead upon the earth; so it will come one day to us, too, and rule over all the earth according to the promise.”
Alyosha knew that this was just how the people felt and even reasoned. He understood it, but that the elder Zossima was this saint and custodian of God’s truth
—of that he had no more doubt than the weeping peasants and the sick women who held out their children to the elder. The conviction that after his death the el der would bring extraordinary glory to the monastery was even stronger in Alyosha than in any one there, and, of late, a kind of deep flame of inner ecstasy burn t more and more strongly in his heart. He was not at all troubled at this elder’s standing as a solitary example before him.
“No matter. He is holy. He carries in his heart the secret of renewal for all: that power which will, at last, establish truth on the earth, and all men will be holy an d love one another, and there will be no more rich nor poor, no exalted nor humbled, but all will be as the children of God, and the true Kingdom of Christ will c ome.” That was the dream in Alyosha’s heart.
The arrival of his two brothers, whom he had not known till then, seemed to make a great impression on Alyosha. He more quickly made friends with his halfbr other Dmitri (though he arrived later) than with his own brother Ivan. He was extremely interested in his brother Ivan, but when the latter had been two months i n the town, though they had met fairly often, they were still not intimate. Alyosha was naturally silent, and he seemed to be expecting something, ashamed about something, while his brother Ivan, though Alyosha noticed at first that he looked long and curiously at him, seemed soon to have left off thinking of him. Alyos ha noticed it with some embarrassment. He ascribed his brother’s indifference at first to the disparity of their age and education. But he also wondered whether t he absence of curiosity and sympathy in Ivan might be due to some other cause entirely unknown to him. He kept fancying that Ivan was absorbed in something
—something inward and important—that he was striving towards some goal, perhaps very hard to attain, and that that was why he had no thought for him. Alyo sha wondered, too, whether there was not some contempt on the part of the learned atheist for him—a foolish novice. He knew for certain that his brother was a n atheist. He could not take offense at this contempt, if it existed; yet, with an uneasy embarrassment which he did not himself understand, he waited for his brot her to come nearer to him. Dmitri used to speak of Ivan with the deepest respect and with a peculiar earnestness. From him Alyosha learnt all the details of the i mportant affair which had of late formed such a close and remarkable bond between the two elder brothers. Dmitri’s enthusiastic references to Ivan were the mo re striking in Alyosha’s eyes since Dmitri was, compared with Ivan, almost uneducated, and the two brothers were such a contrast in personality and character t hat it would be difficult to find two men more unlike.
It was at this time that the meeting, or, rather gathering of the members of this inharmonious family took place in the cell of the elder who had such an extraordi nary influence on Alyosha. The pretext for this gathering was a false one. It was at this time that the discord between Dmitri and his father seemed at its acutest stage and their relations had become insufferably strained. Fyodor Pavlovitch seems to have been the first to suggest, apparently in joke, that they should all me et in Father Zossima’s cell, and that, without appealing to his direct intervention, they might more decently come to an understanding under the conciliating infl uence of the elder’s presence. Dmitri, who had never seen the elder, naturally supposed that his father was trying to intimidate him, but, as he secretly blamed hi mself for his outbursts of temper with his father on several recent occasions, he accepted the challenge. It must be noted that he was not, like Ivan, staying with his father, but living apart at the other end of the town. It happened that Pyotr Alexandrovitch Miüsov, who was staying in the district at the time, caught eagerly at the idea. A Liberal of the forties and fifties, a freethinker and atheist, he may have been led on by boredom or the hope of frivolous diversion. He was sudden ly seized with the desire to see the monastery and the holy man. As his lawsuit with the monastery still dragged on, he made it the pretext for seeing the Superio r, in order to attempt to settle it amicably. A visitor coming with such laudable intentions might be received with more attention and consideration than if he cam e from simple curiosity. Influences from within the monastery were brought to bear on the elder, who of late had scarcely left his cell, and had been forced by ill ness to deny even his ordinary visitors. In the end he consented to see them, and the day was fixed.
“Who has made me a judge over them?” was all he said, smilingly, to Alyosha.
Alyosha was much perturbed when he heard of the proposed visit. Of all the wrangling, quarrelsome party, Dmitri was the only one who could regard the intervi ew seriously. All the others would come from frivolous motives, perhaps insulting to the elder. Alyosha was well aware of that. Ivan and Miüsov would come fr om curiosity, perhaps of the coarsest kind, while his father might be contemplating some piece of buffoonery. Though he said nothing, Alyosha thoroughly unde rstood his father. The boy, I repeat, was far from being so simple as every one thought him. He awaited the day with a heavy heart. No doubt he was always pon dering in his mind how the family discord could be ended. But his chief anxiety concerned the elder. He trembled for him, for his glory, and dreaded any affront to him, especially the refined, courteous irony of Miüsov and the supercilious halfutterances of the highly educated Ivan. He even wanted to venture on warning
the elder, telling him something about them, but, on second thoughts, said nothing. He only sent word the day before, through a friend, to his brother Dmitri, th at he loved him and expected him to keep his promise. Dmitri wondered, for he could not remember what he had promised, but he answered by letter that he wo uld do his utmost not to let himself be provoked “by vileness,” but that, although he had a deep respect for the elder and for his brother Ivan, he was convinced t hat the meeting was either a trap for him or an unworthy farce.
“Nevertheless I would rather bite out my tongue than be lacking in respect to the sainted man whom you reverence so highly,” he wrote in conclusion. Alyosha was not greatly cheered by the letter.
Book II. An Unfortunate Gathering
Chapter I.
They Arrive At The Monastery
It was a warm, bright day at the end of August. The interview with the elder had been fixed for halfpast eleven, immediately after late mass. Our visitors did not take part in the service, but arrived just as it was over. First an elegant open carriage, drawn by two valuable horses, drove up with Miüsov and a distant relative of his, a young man of twenty, called Pyotr Fomitch Kalganov. This young man was preparing to enter the university. Miüsov, with whom he was staying for th e time, was trying to persuade him to go abroad to the university of Zurich or Jena. The young man was still undecided. He was thoughtful and absentminded. H
e was nice looking, strongly built, and rather tall. There was a strange fixity in his gaze at times. Like all very absentminded people he would sometimes stare at a person without seeing him. He was silent and rather awkward, but sometimes, when he was alone with any one, he became talkative and effusive, and would l augh at anything or nothing. But his animation vanished as quickly as it appeared. He was always well and even elaborately dressed; he had already some indep endent fortune and expectations of much more. He was a friend of Alyosha’s.
In an ancient, jolting, but roomy, hired carriage, with a pair of old pinkishgray horses, a long way behind Miüsov’s carriage, came Fyodor Pavlovitch, with his s on Ivan. Dmitri was late, though he had been informed of the time the evening before. The visitors left their carriage at the hotel, outside the precincts, and went to the gates of the monastery on foot. Except Fyodor Pavlovitch, none of the party had ever seen the monastery, and Miüsov had probably not even been to chur ch for thirty years. He looked about him with curiosity, together with assumed ease. But, except the church and the domestic buildings, though these too were or dinary enough, he found nothing of interest in the interior of the monastery. The last of the worshippers were coming out of the church, bareheaded and crossing themselves. Among the humbler people were a few of higher rank—two or three ladies and a very old general. They were all staying at the hotel. Our visitors w ere at once surrounded by beggars, but none of them gave them anything, except young Kalganov, who took a ten copeck piece out of his purse, and, nervous an d embarrassed—God knows why!—hurriedly gave it to an old woman, saying: “Divide it equally.” None of his companions made any remark upon it, so that he had no reason to be embarrassed; but, perceiving this, he was even more overcome.
It was strange that their arrival did not seem expected, and that they were not received with special honor, though one of them had recently made a donation of a thousand roubles, while another was a very wealthy and highly cultured landowner, upon whom all in the monastery were in a sense dependent, as a decision of the lawsuit might at any moment put their fishing rights in his hands. Yet no official personage met them.
Miüsov looked absentmindedly at the tombstones round the church, and was on the point of saying that the dead buried here must have paid a pretty penny for t he right of lying in this “holy place,” but refrained. His liberal irony was rapidly changing almost into anger.
“Who the devil is there to ask in this imbecile place? We must find out, for time is passing,” he observed suddenly, as though speaking to himself.
All at once there came up a baldheaded, elderly man with ingratiating little eyes, wearing a full, summer overcoat. Lifting his hat, he introduced himself with a h oneyed lisp as Maximov, a landowner of Tula. He at once entered into our visitors’ difficulty.
“Father Zossima lives in the hermitage, apart, four hundred paces from the monastery, the other side of the copse.”
“I know it’s the other side of the copse,” observed Fyodor Pavlovitch, “but we don’t remember the way. It is a long time since we’ve been here.”
“This way, by this gate, and straight across the copse … the copse. Come with me, won’t you? I’ll show you. I have to go…. I am going myself. This way, this way.”
They came out of the gate and turned towards the copse. Maximov, a man of sixty, ran rather than walked, turning sideways to stare at them all, with an incredib le degree of nervous curiosity. His eyes looked starting out of his head.
“You see, we have come to the elder upon business of our own,” observed Miüsov severely. “That personage has granted us an audience, so to speak, and so, th ough we thank you for showing us the way, we cannot ask you to accompany us.”
“I’ve been there. I’ve been already; un chevalier parfait,” and Maximov snapped his fingers in the air.
“Who is a chevalier?” asked Miüsov.
“The elder, the splendid elder, the elder! The honor and glory of the monastery, Zossima. Such an elder!”
But his incoherent talk was cut short by a very pale, wanlooking monk of medium height, wearing a monk’s cap, who overtook them. Fyodor Pavlovitch and Mi üsov stopped.
The monk, with an extremely courteous, profound bow, announced:
“The Father Superior invites all of you gentlemen to dine with him after your visit to the hermitage. At one o’clock, not later. And you also,” he added, addressi ng Maximov.
“That I certainly will, without fail,” cried Fyodor Pavlovitch, hugely delighted at the invitation. “And, believe me, we’ve all given our word to behave properly here…. And you, Pyotr Alexandrovitch, will you go, too?”
“Yes, of course. What have I come for but to study all the customs here? The only obstacle to me is your company….”
“Yes, Dmitri Fyodorovitch is nonexistent as yet.”
“It would be a capital thing if he didn’t turn up. Do you suppose I like all this business, and in your company, too? So we will come to dinner. Thank the Father Superior,” he said to the monk.
“No, it is my duty now to conduct you to the elder,” answered the monk.
“If so I’ll go straight to the Father Superior—to the Father Superior,” babbled Maximov.
“The Father Superior is engaged just now. But as you please—” the monk hesitated.
“Impertinent old man!” Miüsov observed aloud, while Maximov ran back to the monastery.
“He’s like von Sohn,” Fyodor Pavlovitch said suddenly.
“Is that all you can think of?… In what way is he like von Sohn? Have you ever seen von Sohn?”
“I’ve seen his portrait. It’s not the features, but something indefinable. He’s a second von Sohn. I can always tell from the physiognomy.”
“Ah, I dare say you are a connoisseur in that. But, look here, Fyodor Pavlovitch, you said just now that we had given our word to behave properly. Remember it.
I advise you to control yourself. But, if you begin to play the fool I don’t intend to be associated with you here…. You see what a man he is”—he turned to the monk—“I’m afraid to go among decent people with him.” A fine smile, not without a certain slyness, came on to the pale, bloodless lips of the monk, but he ma de no reply, and was evidently silent from a sense of his own dignity. Miüsov frowned more than ever.
“Oh, devil take them all! An outer show elaborated through centuries, and nothing but charlatanism and nonsense underneath,” flashed through Miüsov’s mind.
“Here’s the hermitage. We’ve arrived,” cried Fyodor Pavlovitch. “The gates are shut.”
And he repeatedly made the sign of the cross to the saints painted above and on the sides of the gates.
“When you go to Rome you must do as the Romans do. Here in this hermitage there are twentyfive saints being saved. They look at one another, and eat cabbag es. And not one woman goes in at this gate. That’s what is remarkable. And that really is so. But I did hear that the elder receives ladies,” he remarked suddenly to the monk.
“Women of the people are here too now, lying in the portico there waiting. But for ladies of higher rank two rooms have been built adjoining the portico, but out side the precincts—you can see the windows—and the elder goes out to them by an inner passage when he is well enough. They are always outside the precincts
. There is a Harkov lady, Madame Hohlakov, waiting there now with her sick daughter. Probably he has promised to come out to her, though of late he has been so weak that he has hardly shown himself even to the people.”
“So then there are loopholes, after all, to creep out of the hermitage to the ladies. Don’t suppose, holy father, that I mean any harm. But do you know that at Ath os not only the visits of women are not allowed, but no creature of the female sex—no hens, nor turkeyhens, nor cows.”
“Fyodor Pavlovitch, I warn you I shall go back and leave you here. They’ll turn you out when I’m gone.”
“But I’m not interfering with you, Pyotr Alexandrovitch. Look,” he cried suddenly, stepping within the precincts, “what a vale of roses they live in!”
Though there were no roses now, there were numbers of rare and beautiful autumn flowers growing wherever there was space for them, and evidently tended by a skillful hand; there were flowerbeds round the church, and between the tombs; and the onestoried wooden house where the elder lived was also surrounded wi th flowers.
“And was it like this in the time of the last elder, Varsonofy? He didn’t care for such elegance. They say he used to jump up and thrash even ladies with a stick,”
observed Fyodor Pavlovitch, as he went up the steps.
“The elder Varsonofy did sometimes seem rather strange, but a great deal that’s told is foolishness. He never thrashed any one,” answered the monk. “Now, gentlemen, if you will wait a minute I will announce you.”
“Fyodor Pavlovitch, for the last time, your compact, do you hear? Behave properly or I will pay you out!” Miüsov had time to mutter again.
“I can’t think why you are so agitated,” Fyodor Pavlovitch observed sarcastically. “Are you uneasy about your sins? They say he can tell by one’s eyes what one has come about. And what a lot you think of their opinion! you, a Parisian, and so advanced. I’m surprised at you.”
But Miüsov had no time to reply to this sarcasm. They were asked to come in. He walked in, somewhat irritated.
“Now, I know myself, I am annoyed, I shall lose my temper and begin to quarrel—and lower myself and my ideas,” he reflected.
Chapter II.
The Old Buffoon
They entered the room almost at the same moment that the elder came in from his bedroom. There were already in the cell, awaiting the elder, two monks of the hermitage, one the Father Librarian, and the other Father Païssy, a very learned man, so they said, in delicate health, though not old. There was also a tall young man, who looked about two and twenty, standing in the corner throughout the interview. He had a broad, fresh face, and clever, observant, narrow brown eyes, a nd was wearing ordinary dress. He was a divinity student, living under the protection of the monastery. His expression was one of unquestioning, but selfrespect ing, reverence. Being in a subordinate and dependent position, and so not on an equality with the guests, he did not greet them with a bow.
Father Zossima was accompanied by a novice, and by Alyosha. The two monks rose and greeted him with a very deep bow, touching the ground with their finge rs; then kissed his hand. Blessing them, the elder replied with as deep a reverence to them, and asked their blessing. The whole ceremony was performed very se riously and with an appearance of feeling, not like an everyday rite. But Miüsov fancied that it was all done with intentional impressiveness. He stood in front of the other visitors. He ought—he had reflected upon it the evening before—from simple politeness, since it was the custom here, to have gone up to receive the e lder’s blessing, even if he did not kiss his hand. But when he saw all this bowing and kissing on the part of the monks he instantly changed his mind. With digni fied gravity he made a rather deep, conventional bow, and moved away to a chair. Fyodor Pavlovitch did the same, mimicking Miüsov like an ape. Ivan bowed with great dignity and courtesy, but he too kept his hands at his sides, while Kalganov was so confused that he did not bow at all. The elder let fall the hand raise d to bless them, and bowing to them again, asked them all to sit down. The blood rushed to Alyosha’s cheeks. He was ashamed. His forebodings were coming tr ue.
Father Zossima sat down on a very oldfashioned mahogany sofa, covered with leather, and made his visitors sit down in a row along the opposite wall on four m ahogany chairs, covered with shabby black leather. The monks sat, one at the door and the other at the window. The divinity student, the novice, and Alyosha re mained standing. The cell was not very large and had a faded look. It contained nothing but the most necessary furniture, of coarse and poor quality. There were two pots of flowers in the window, and a number of holy pictures in the corner. Before one huge ancient ikon of the Virgin a lamp was burning. Near it were two other holy pictures in shining settings, and, next them, carved cherubims, china eggs, a Catholic cross of ivory, with a Mater Dolorosa embracing it, and several foreign engravings from the great Italian artists of past centuries. Next to these costly and artistic engravings were several of the roughest Russian prints of saints and martyrs, such as are sold for a few farthings at all the fairs. On the other walls were portraits of Russian bishops, past and present.
Miüsov took a cursory glance at all these “conventional” surroundings and bent an intent look upon the elder. He had a high opinion of his own insight, a weakn ess excusable in him as he was fifty, an age at which a clever man of the world of established position can hardly help taking himself rather seriously. At the firs t moment he did not like Zossima. There was, indeed, something in the elder’s face which many people besides Miüsov might not have liked. He was a short, be nt, little man, with very weak legs, and though he was only sixtyfive, he looked at least ten years older. His face was very thin and covered with a network of fin e wrinkles, particularly numerous about his eyes, which were small, lightcolored, quick, and shining like two bright points. He had a sprinkling of gray hair abo ut his temples. His pointed beard was small and scanty, and his lips, which smiled frequently, were as thin as two threads. His nose was not long, but sharp, like a bird’s beak.
“To all appearances a malicious soul, full of petty pride,” thought Miüsov. He felt altogether dissatisfied with his position.
A cheap little clock on the wall struck twelve hurriedly, and served to begin the conversation.
“Precisely to our time,” cried Fyodor Pavlovitch, “but no sign of my son, Dmitri. I apologize for him, sacred elder!” (Alyosha shuddered all over at “sacred elde r.”) “I am always punctual myself, minute for minute, remembering that punctuality is the courtesy of kings….”
“But you are not a king, anyway,” Miüsov muttered, losing his self restraint at once.
“Yes; that’s true. I’m not a king, and, would you believe it, Pyotr Alexandrovitch, I was aware of that myself. But, there! I always say the wrong thing. Your rev erence,” he cried, with sudden pathos, “you behold before you a buffoon in earnest! I introduce myself as such. It’s an old habit, alas! And if I sometimes talk n onsense out of place it’s with an object, with the object of amusing people and making myself agreeable. One must be agreeable, mustn’t one? I was seven years ago in a little town where I had business, and I made friends with some merchants there. We went to the captain of police because we had to see him about som ething, and to ask him to dine with us. He was a tall, fat, fair, sulky man, the most dangerous type in such cases. It’s their liver. I went straight up to him, and wit h the ease of a man of the world, you know, ‘Mr. Ispravnik,’ said I, ‘be our Napravnik.’ ‘What do you mean by Napravnik?’ said he. I saw, at the first halfsecon d, that it had missed fire. He stood there so glum. ‘I wanted to make a joke,’ said I, ‘for the general diversion, as Mr. Napravnik is our wellknown Russian orche stra conductor and what we need for the harmony of our undertaking is some one of that sort.’ And I explained my comparison very reasonably, didn’t I? ‘Excus e me,’ said he, ‘I am an Ispravnik, and I do not allow puns to be made on my calling.’ He turned and walked away. I followed him, shouting, ‘Yes, yes, you are an Ispravnik, not a Napravnik.’ ‘No,’ he said, ‘since you called me a Napravnik I am one.’ And would you believe it, it ruined our business! And I’m always lik e that, always like that. Always injuring myself with my politeness. Once, many years ago, I said to an influential person: ‘Your wife is a ticklish lady,’ in an ho norable sense, of the moral qualities, so to speak. But he asked me, ‘Why, have you tickled her?’ I thought I’d be polite, so I couldn’t help saying, ‘Yes,’ and he gave me a fine tickling on the spot. Only that happened long ago, so I’m not ashamed to tell the story. I’m always injuring myself like that.”
“You’re doing it now,” muttered Miüsov, with disgust.
Father Zossima scrutinized them both in silence.
“Am I? Would you believe it, I was aware of that, too, Pyotr Alexandrovitch, and let me tell you, indeed, I foresaw I should as soon as I began to speak. And do you know I foresaw, too, that you’d be the first to remark on it. The minute I see my joke isn’t coming off, your reverence, both my cheeks feel as though they
were drawn down to the lower jaw and there is almost a spasm in them. That’s been so since I was young, when I had to make jokes for my living in noblemen’
s families. I am an inveterate buffoon, and have been from birth up, your reverence, it’s as though it were a craze in me. I dare say it’s a devil within me. But onl y a little one. A more serious one would have chosen another lodging. But not your soul, Pyotr Alexandrovitch; you’re not a lodging worth having either. But I do believe—I believe in God, though I have had doubts of late. But now I sit and await words of wisdom. I’m like the philosopher, Diderot, your reverence. Did you ever hear, most Holy Father, how Diderot went to see the Metropolitan Platon, in the time of the Empress Catherine? He went in and said straight out, ‘The re is no God.’ To which the great bishop lifted up his finger and answered, ‘The fool hath said in his heart there is no God.’ And he fell down at his feet on the s pot. ‘I believe,’ he cried, ‘and will be christened.’ And so he was. Princess Dashkov was his godmother, and Potyomkin his godfather.”
“Fyodor Pavlovitch, this is unbearable! You know you’re telling lies and that that stupid anecdote isn’t true. Why are you playing the fool?” cried Miüsov in a s haking voice.
“I suspected all my life that it wasn’t true,” Fyodor Pavlovitch cried with conviction. “But I’ll tell you the whole truth, gentlemen. Great elder! Forgive me, the l ast thing about Diderot’s christening I made up just now. I never thought of it before. I made it up to add piquancy. I play the fool, Pyotr Alexandrovitch, to mak e myself agreeable. Though I really don’t know myself, sometimes, what I do it for. And as for Diderot, I heard as far as ‘the fool hath said in his heart’ twenty t imes from the gentry about here when I was young. I heard your aunt, Pyotr Alexandrovitch, tell the story. They all believe to this day that the infidel Diderot ca me to dispute about God with the Metropolitan Platon….”
Miüsov got up, forgetting himself in his impatience. He was furious, and conscious of being ridiculous.
What was taking place in the cell was really incredible. For forty or fifty years past, from the times of former elders, no visitors had entered that cell without feel ings of the profoundest veneration. Almost every one admitted to the cell felt that a great favor was being shown him. Many remained kneeling during the whol e visit. Of those visitors, many had been men of high rank and learning, some even freethinkers, attracted by curiosity, but all without exception had shown the profoundest reverence and delicacy, for here there was no question of money, but only, on the one side love and kindness, and on the other penitence and eager desire to decide some spiritual problem or crisis. So that such buffoonery amazed and bewildered the spectators, or at least some of them. The monks, with unch anged countenances, waited, with earnest attention, to hear what the elder would say, but seemed on the point of standing up, like Miüsov. Alyosha stood, with hanging head, on the verge of tears. What seemed to him strangest of all was that his brother Ivan, on whom alone he had rested his hopes, and who alone had s uch influence on his father that he could have stopped him, sat now quite unmoved, with downcast eyes, apparently waiting with interest to see how it would en d, as though he had nothing to do with it. Alyosha did not dare to look at Rakitin, the divinity student, whom he knew almost intimately. He alone in the monast ery knew Rakitin’s thoughts.
“Forgive me,” began Miüsov, addressing Father Zossima, “for perhaps I seem to be taking part in this shameful foolery. I made a mistake in believing that even a man like Fyodor Pavlovitch would understand what was due on a visit to so honored a personage. I did not suppose I should have to apologize simply for havi ng come with him….”
Pyotr Alexandrovitch could say no more, and was about to leave the room, overwhelmed with confusion.
“Don’t distress yourself, I beg.” The elder got on to his feeble legs, and taking Pyotr Alexandrovitch by both hands, made him sit down again. “I beg you not to disturb yourself. I particularly beg you to be my guest.” And with a bow he went back and sat down again on his little sofa.
“Great elder, speak! Do I annoy you by my vivacity?” Fyodor Pavlovitch cried suddenly, clutching the arms of his chair in both hands, as though ready to leap u p from it if the answer were unfavorable.
“I earnestly beg you, too, not to disturb yourself, and not to be uneasy,” the elder said impressively. “Do not trouble. Make yourself quite at home. And, above a ll, do not be so ashamed of yourself, for that is at the root of it all.”
“Quite at home? To be my natural self? Oh, that is much too much, but I accept it with grateful joy. Do you know, blessed Father, you’d better not invite me to be my natural self. Don’t risk it…. I will not go so far as that myself. I warn you for your own sake. Well, the rest is still plunged in the mists of uncertainty, tho ugh there are people who’d be pleased to describe me for you. I mean that for you, Pyotr Alexandrovitch. But as for you, holy being, let me tell you, I am brimm ing over with ecstasy.”
He got up, and throwing up his hands, declaimed, “Blessed be the womb that bare thee, and the paps that gave thee suck—the paps especially. When you said ju st now, ‘Don’t be so ashamed of yourself, for that is at the root of it all,’ you pierced right through me by that remark, and read me to the core. Indeed, I always feel when I meet people that I am lower than all, and that they all take me for a buffoon. So I say, ‘Let me really play the buffoon. I am not afraid of your opinio n, for you are every one of you worse than I am.’ That is why I am a buffoon. It is from shame, great elder, from shame; it’s simply oversensitiveness that make s me rowdy. If I had only been sure that every one would accept me as the kindest and wisest of men, oh, Lord, what a good man I should have been then! Teac her!” he fell suddenly on his knees, “what must I do to gain eternal life?”
It was difficult even now to decide whether he was joking or really moved.
Father Zossima, lifting his eyes, looked at him, and said with a smile:
“You have known for a long time what you must do. You have sense enough: don’t give way to drunkenness and incontinence of speech; don’t give way to sens ual lust; and, above all, to the love of money. And close your taverns. If you can’t close all, at least two or three. And, above all—don’t lie.”
“You mean about Diderot?”
“No, not about Diderot. Above all, don’t lie to yourself. The man who lies to himself and listens to his own lie comes to such a pass that he cannot distinguish th e truth within him, or around him, and so loses all respect for himself and for others. And having no respect he ceases to love, and in order to occupy and distrac t himself without love he gives way to passions and coarse pleasures, and sinks to bestiality in his vices, all from continual lying to other men and to himself. Th e man who lies to himself can be more easily offended than any one. You know it is sometimes very pleasant to take offense, isn’t it? A man may know that nob ody has insulted him, but that he has invented the insult for himself, has lied and exaggerated to make it picturesque, has caught at a word and made a mountain out of a molehill—he knows that himself, yet he will be the first to take offense, and will revel in his resentment till he feels great pleasure in it, and so pass to g enuine vindictiveness. But get up, sit down, I beg you. All this, too, is deceitful posturing….”
“Blessed man! Give me your hand to kiss.”
Fyodor Pavlovitch skipped up, and imprinted a rapid kiss on the elder’s thin hand. “It is, it is pleasant to take offense. You said that so well, as I never heard it b efore. Yes, I have been all my life taking offense, to please myself, taking offense on esthetic grounds, for it is not so much pleasant as distinguished sometimes to be insulted—that you had forgotten, great elder, it is distinguished! I shall make a note of that. But I have been lying, lying positively my whole life long, eve ry day and hour of it. Of a truth, I am a lie, and the father of lies. Though I believe I am not the father of lies. I am getting mixed in my texts. Say, the son of lies, and that will be enough. Only … my angel … I may sometimes talk about Diderot! Diderot will do no harm, though sometimes a word will do harm. Great elde r, by the way, I was forgetting, though I had been meaning for the last two years to come here on purpose to ask and to find out something. Only do tell Pyotr Al exandrovitch not to interrupt me. Here is my question: Is it true, great Father, that the story is told somewhere in the Lives of the Saints of a holy saint martyred for his faith who, when his head was cut off at last, stood up, picked up his head, and, ‘courteously kissing it,’ walked a long way, carrying it in his hands. Is tha t true or not, honored Father?”
“No, it is untrue,” said the elder.
“There is nothing of the kind in all the lives of the saints. What saint do you say the story is told of?” asked the Father Librarian.
“I do not know what saint. I do not know, and can’t tell. I was deceived. I was told the story. I had heard it, and do you know who told it? Pyotr Alexandrovitch Miüsov here, who was so angry just now about Diderot. He it was who told the story.”
“I have never told it you, I never speak to you at all.”
“It is true you did not tell me, but you told it when I was present. It was three years ago. I mentioned it because by that ridiculous story you shook my faith, Pyot r Alexandrovitch. You knew nothing of it, but I went home with my faith shaken, and I have been getting more and more shaken ever since. Yes, Pyotr Alexand rovitch, you were the cause of a great fall. That was not a Diderot!”
Fyodor Pavlovitch got excited and pathetic, though it was perfectly clear to every one by now that he was playing a part again. Yet Miüsov was stung by his wor ds.
“What nonsense, and it is all nonsense,” he muttered. “I may really have told it, some time or other … but not to you. I was told it myself. I heard it in Paris fro m a Frenchman. He told me it was read at our mass from the Lives of the Saints … he was a very learned man who had made a special study of Russian statistic s and had lived a long time in Russia…. I have not read the Lives of the Saints myself, and I am not going to read them … all sorts of things are said at dinner—
we were dining then.”
“Yes, you were dining then, and so I lost my faith!” said Fyodor Pavlovitch, mimicking him.
“What do I care for your faith?” Miüsov was on the point of shouting, but he suddenly checked himself, and said with contempt, “You defile everything you tou ch.”
The elder suddenly rose from his seat. “Excuse me, gentlemen, for leaving you a few minutes,” he said, addressing all his guests. “I have visitors awaiting me w ho arrived before you. But don’t you tell lies all the same,” he added, turning to Fyodor Pavlovitch with a goodhumored face. He went out of the cell. Alyosha a nd the novice flew to escort him down the steps. Alyosha was breathless: he was glad to get away, but he was glad, too, that the elder was goodhumored and not offended. Father Zossima was going towards the portico to bless the people waiting for him there. But Fyodor Pavlovitch persisted in stopping him at the door of the cell.
“Blessed man!” he cried, with feeling. “Allow me to kiss your hand once more. Yes, with you I could still talk, I could still get on. Do you think I always lie and play the fool like this? Believe me, I have been acting like this all the time on purpose to try you. I have been testing you all the time to see whether I could get on with you. Is there room for my humility beside your pride? I am ready to give you a testimonial that one can get on with you! But now, I’ll be quiet; I will ke ep quiet all the time. I’ll sit in a chair and hold my tongue. Now it is for you to speak, Pyotr Alexandrovitch. You are the principal person left now—for ten min utes.”
Chapter III.
Peasant Women Who Have Faith
Near the wooden portico below, built on to the outer wall of the precinct, there was a crowd of about twenty peasant women. They had been told that the elder w as at last coming out, and they had gathered together in anticipation. Two ladies, Madame Hohlakov and her daughter, had also come out into the portico to wait for the elder, but in a separate part of it set aside for women of rank.
Madame Hohlakov was a wealthy lady, still young and attractive, and always dressed with taste. She was rather pale, and had lively black eyes. She was not mo re than thirtythree, and had been five years a widow. Her daughter, a girl of fourteen, was partially paralyzed. The poor child had not been able to walk for the la st six months, and was wheeled about in a long reclining chair. She had a charming little face, rather thin from illness, but full of gayety. There was a gleam of mischief in her big dark eyes with their long lashes. Her mother had been intending to take her abroad ever since the spring, but they had been detained all the s ummer by business connected with their estate. They had been staying a week in our town, where they had come more for purposes of business than devotion, b ut had visited Father Zossima once already, three days before. Though they knew that the elder scarcely saw any one, they had now suddenly turned up again, a nd urgently entreated “the happiness of looking once again on the great healer.”
The mother was sitting on a chair by the side of her daughter’s invalid carriage, and two paces from her stood an old monk, not one of our monastery, but a visit or from an obscure religious house in the far north. He too sought the elder’s blessing.
But Father Zossima, on entering the portico, went first straight to the peasants who were crowded at the foot of the three steps that led up into the portico. Father Zossima stood on the top step, put on his stole, and began blessing the women who thronged about him. One crazy woman was led up to him. As soon as she ca ught sight of the elder she began shrieking and writhing as though in the pains of childbirth. Laying the stole on her forehead, he read a short prayer over her, an d she was at once soothed and quieted.
I do not know how it may be now, but in my childhood I often happened to see and hear these “possessed” women in the villages and monasteries. They used to be brought to mass; they would squeal and bark like a dog so that they were heard all over the church. But when the sacrament was carried in and they were led up to it, at once the “possession” ceased, and the sick women were always soothed for a time. I was greatly impressed and amazed at this as a child; but then I h eard from country neighbors and from my town teachers that the whole illness was simulated to avoid work, and that it could always be cured by suitable severit y; various anecdotes were told to confirm this. But later on I learnt with astonishment from medical specialists that there is no pretense about it, that it is a terribl e illness to which women are subject, specially prevalent among us in Russia, and that it is due to the hard lot of the peasant women. It is a disease, I was told, ar ising from exhausting toil too soon after hard, abnormal and unassisted labor in childbirth, and from the hopeless misery, from beatings, and so on, which some women were not able to endure like others. The strange and instant healing of the frantic and struggling woman as soon as she was led up to the holy sacrament, which had been explained to me as due to malingering and the trickery of the “clericals,” arose probably in the most natural manner. Both the women who supp orted her and the invalid herself fully believed as a truth beyond question that the evil spirit in possession of her could not hold out if the sick woman were brou ght to the sacrament and made to bow down before it. And so, with a nervous and psychically deranged woman, a sort of convulsion of the whole organism alw ays took place, and was bound to take place, at the moment of bowing down to the sacrament, aroused by the expectation of the miracle of healing and the impli cit belief that it would come to pass; and it did come to pass, though only for a moment. It was exactly the same now as soon as the elder touched the sick woma n with the stole.
Many of the women in the crowd were moved to tears of ecstasy by the effect of the moment: some strove to kiss the hem of his garment, others cried out in sin gsong voices.
He blessed them all and talked with some of them. The “possessed” woman he knew already. She came from a village only six versts from the monastery, and h ad been brought to him before.
“But here is one from afar.” He pointed to a woman by no means old but very thin and wasted, with a face not merely sunburnt but almost blackened by exposur e. She was kneeling and gazing with a fixed stare at the elder; there was something almost frenzied in her eyes.
“From afar off, Father, from afar off! From two hundred miles from here. From afar off, Father, from afar off!” the woman began in a singsong voice as though she were chanting a dirge, swaying her head from side to side with her cheek resting in her hand.
There is silent and longsuffering sorrow to be met with among the peasantry. It withdraws into itself and is still. But there is a grief that breaks out, and from tha t minute it bursts into tears and finds vent in wailing. This is particularly common with women. But it is no lighter a grief than the silent. Lamentations comfort only by lacerating the heart still more. Such grief does not desire consolation. It feeds on the sense of its hopelessness. Lamentations spring only from the consta nt craving to reopen the wound.
“You are of the tradesman class?” said Father Zossima, looking curiously at her.
“Townfolk we are, Father, townfolk. Yet we are peasants though we live in the town. I have come to see you, O Father! We heard of you, Father, we heard of yo u. I have buried my little son, and I have come on a pilgrimage. I have been in three monasteries, but they told me, ‘Go, Nastasya, go to them’—that is to you. I have come; I was yesterday at the service, and today I have come to you.”
“What are you weeping for?”
“It’s my little son I’m grieving for, Father. He was three years old—three years all but three months. For my little boy, Father, I’m in anguish, for my little boy.
He was the last one left. We had four, my Nikita and I, and now we’ve no children, our dear ones have all gone. I buried the first three without grieving overmuch, and now I have buried the last I can’t forget him. He seems always standing before me. He never leaves me. He has withered my heart. I look at his little clothes, his little shirt, his little boots, and I wail. I lay out all that is left of him, all his little things. I look at them and wail. I say to Nikita, my husband, ‘Let me go on a pilgrimage, master.’ He is a driver. We’re not poor people, Father, not poor; he drives our own horse. It’s all our own, the horse and the carriage. And what good is it all to us now? My Nikita has begun drinking while I am away. He’s sure to. It used to be so before. As soon as I turn my back he gives way to it. But now I don’t think about him. It’s three months since I left home. I’ve forgotten him. I’ve forgotten everything. I don’t want to remember. And what would our life be now together? I’ve done with him, I’ve done. I’ve done with them all. I don’t care to look upon my house and my goods. I don’t care to see anything at all!”
“Listen, mother,” said the elder. “Once in olden times a holy saint saw in the Temple a mother like you weeping for her little one, her only one, whom God had t aken. ‘Knowest thou not,’ said the saint to her, ‘how bold these little ones are before the throne of God? Verily there are none bolder than they in the Kingdom o f Heaven. “Thou didst give us life, O Lord,” they say, “and scarcely had we looked upon it when Thou didst take it back again.” And so boldly they ask and ask again that God gives them at once the rank of angels. Therefore,’ said the saint, ‘thou, too, O mother, rejoice and weep not, for thy little son is with the Lord in t he fellowship of the angels.’ That’s what the saint said to the weeping mother of old. He was a great saint and he could not have spoken falsely. Therefore you t oo, mother, know that your little one is surely before the throne of God, is rejoicing and happy, and praying to God for you, and therefore weep not, but rejoice.”
The woman listened to him, looking down with her cheek in her hand. She sighed deeply.
“My Nikita tried to comfort me with the same words as you. ‘Foolish one,’ he said, ‘why weep? Our son is no doubt singing with the angels before God.’ He sa ys that to me, but he weeps himself. I see that he cries like me. ‘I know, Nikita,’ said I. ‘Where could he be if not with the Lord God? Only, here with us now he is not as he used to sit beside us before.’ And if only I could look upon him one little time, if only I could peep at him one little time, without going up to him, w ithout speaking, if I could be hidden in a corner and only see him for one little minute, hear him playing in the yard, calling in his little voice, ‘Mammy, where a re you?’ If only I could hear him pattering with his little feet about the room just once, only once; for so often, so often I remember how he used to run to me an d shout and laugh, if only I could hear his little feet I should know him! But he’s gone, Father, he’s gone, and I shall never hear him again. Here’s his little sash, but him I shall never see or hear now.”
She drew out of her bosom her boy’s little embroidered sash, and as soon as she looked at it she began shaking with sobs, hiding her eyes with her fingers throu gh which the tears flowed in a sudden stream.
“It is Rachel of old,” said the elder, “weeping for her children, and will not be comforted because they are not. Such is the lot set on earth for you mothers. Be n ot comforted. Consolation is not what you need. Weep and be not consoled, but weep. Only every time that you weep be sure to remember that your little son is one of the angels of God, that he looks down from there at you and sees you, and rejoices at your tears, and points at them to the Lord God; and a long while yet will you keep that great mother’s grief. But it will turn in the end into quiet joy, and your bitter tears will be only tears of tender sorrow that purifies the heart an d delivers it from sin. And I shall pray for the peace of your child’s soul. What was his name?”
“Alexey, Father.”
“A sweet name. After Alexey, the man of God?”
“Yes, Father.”
“What a saint he was! I will remember him, mother, and your grief in my prayers, and I will pray for your husband’s health. It is a sin for you to leave him. You r little one will see from heaven that you have forsaken his father, and will weep over you. Why do you trouble his happiness? He is living, for the soul lives for ever, and though he is not in the house he is near you, unseen. How can he go into the house when you say that the house is hateful to you? To whom is he to go if he find you not together, his father and mother? He comes to you in dreams now, and you grieve. But then he will send you gentle dreams. Go to your husban d, mother; go this very day.”
“I will go, Father, at your word. I will go. You’ve gone straight to my heart. My Nikita, my Nikita, you are waiting for me,” the woman began in a singsong voi ce; but the elder had already turned away to a very old woman, dressed like a dweller in the town, not like a pilgrim. Her eyes showed that she had come with an object, and in order to say something. She said she was the widow of a noncommissioned officer, and lived close by in the town. Her son Vasenka was in the co mmissariat service, and had gone to Irkutsk in Siberia. He had written twice from there, but now a year had passed since he had written. She did inquire about hi m, but she did not know the proper place to inquire.
“Only the other day Stepanida Ilyinishna—she’s a rich merchant’s wife—said to me, ‘You go, Prohorovna, and put your son’s name down for prayer in the chur ch, and pray for the peace of his soul as though he were dead. His soul will be troubled,’ she said, ‘and he will write you a letter.’ And Stepanida Ilyinishna told me it was a certain thing which had been many times tried. Only I am in doubt…. Oh, you light of ours! is it true or false, and would it be right?”
“Don’t think of it. It’s shameful to ask the question. How is it possible to pray for the peace of a living soul? And his own mother too! It’s a great sin, akin to sor cery. Only for your ignorance it is forgiven you. Better pray to the Queen of Heaven, our swift defense and help, for his good health, and that she may forgive y ou for your error. And another thing I will tell you, Prohorovna. Either he will soon come back to you, your son, or he will be sure to send a letter. Go, and henc eforward be in peace. Your son is alive, I tell you.”
“Dear Father, God reward you, our benefactor, who prays for all of us and for our sins!”
But the elder had already noticed in the crowd two glowing eyes fixed upon him. An exhausted, consumptivelooking, though young peasant woman was gazing at him in silence. Her eyes besought him, but she seemed afraid to approach.
“What is it, my child?”
“Absolve my soul, Father,” she articulated softly, and slowly sank on her knees and bowed down at his feet. “I have sinned, Father. I am afraid of my sin.”
The elder sat down on the lower step. The woman crept closer to him, still on her knees.
“I am a widow these three years,” she began in a halfwhisper, with a sort of shudder. “I had a hard life with my husband. He was an old man. He used to beat m e cruelly. He lay ill; I thought looking at him, if he were to get well, if he were to get up again, what then? And then the thought came to me—”
“Stay!” said the elder, and he put his ear close to her lips.
The woman went on in a low whisper, so that it was almost impossible to catch anything. She had soon done.
“Three years ago?” asked the elder.
“Three years. At first I didn’t think about it, but now I’ve begun to be ill, and the thought never leaves me.”
“Have you come from far?”
“Over three hundred miles away.”
“Have you told it in confession?”
“I have confessed it. Twice I have confessed it.”
“Have you been admitted to Communion?”
“Yes. I am afraid. I am afraid to die.”
“Fear nothing and never be afraid; and don’t fret. If only your penitence fail not, God will forgive all. There is no sin, and there can be no sin on all the earth, w hich the Lord will not forgive to the truly repentant! Man cannot commit a sin so great as to exhaust the infinite love of God. Can there be a sin which could exc eed the love of God? Think only of repentance, continual repentance, but dismiss fear altogether. Believe that God loves you as you cannot conceive; that He lo ves you with your sin, in your sin. It has been said of old that over one repentant sinner there is more joy in heaven than over ten righteous men. Go, and fear not
. Be not bitter against men. Be not angry if you are wronged. Forgive the dead man in your heart what wrong he did you. Be reconciled with him in truth. If you are penitent, you love. And if you love you are of God. All things are atoned for, all things are saved by love. If I, a sinner, even as you are, am tender with you and have pity on you, how much more will God. Love is such a priceless treasure that you can redeem the whole world by it, and expiate not only your own sins but the sins of others.”
He signed her three times with the cross, took from his own neck a little ikon and put it upon her. She bowed down to the earth without speaking.
He got up and looked cheerfully at a healthy peasant woman with a tiny baby in her arms.
“From Vyshegorye, dear Father.”
“Five miles you have dragged yourself with the baby. What do you want?”
“I’ve come to look at you. I have been to you before—or have you forgotten? You’ve no great memory if you’ve forgotten me. They told us you were ill. Think s I, I’ll go and see him for myself. Now I see you, and you’re not ill! You’ll live another twenty years. God bless you! There are plenty to pray for you; how sho uld you be ill?”
“I thank you for all, daughter.”
“By the way, I have a thing to ask, not a great one. Here are sixty copecks. Give them, dear Father, to some one poorer than me. I thought as I came along, better give through him. He’ll know whom to give to.”
“Thanks, my dear, thanks! You are a good woman. I love you. I will do so certainly. Is that your little girl?”
“My little girl, Father, Lizaveta.”
“May the Lord bless you both, you and your babe Lizaveta! You have gladdened my heart, mother. Farewell, dear children, farewell, dear ones.”
He blessed them all and bowed low to them.
Chapter IV.
A Lady Of Little Faith
A visitor looking on the scene of his conversation with the peasants and his blessing them shed silent tears and wiped them away with her handkerchief. She wa s a sentimental society lady of genuinely good disposition in many respects. When the elder went up to her at last she met him enthusiastically.
“Ah, what I have been feeling, looking on at this touching scene!…” She could not go on for emotion. “Oh, I understand the people’s love for you. I love the pe ople myself. I want to love them. And who could help loving them, our splendid Russian people, so simple in their greatness!”
“How is your daughter’s health? You wanted to talk to me again?”
“Oh, I have been urgently begging for it, I have prayed for it! I was ready to fall on my knees and kneel for three days at your windows until you let me in. We h ave come, great healer, to express our ardent gratitude. You have healed my Lise, healed her completely, merely by praying over her last Thursday and laying y our hands upon her. We have hastened here to kiss those hands, to pour out our feelings and our homage.”
“What do you mean by healed? But she is still lying down in her chair.”
“But her night fevers have entirely ceased ever since Thursday,” said the lady with nervous haste. “And that’s not all. Her legs are stronger. This morning she go t up well; she had slept all night. Look at her rosy cheeks, her bright eyes! She used to be always crying, but now she laughs and is gay and happy. This morning she insisted on my letting her stand up, and she stood up for a whole minute without any support. She wagers that in a fortnight she’ll be dancing a quadrille. I’
ve called in Doctor Herzenstube. He shrugged his shoulders and said, ‘I am amazed; I can make nothing of it.’ And would you have us not come here to disturb you, not fly here to thank you? Lise, thank him—thank him!”
Lise’s pretty little laughing face became suddenly serious. She rose in her chair as far as she could and, looking at the elder, clasped her hands before him, but c ould not restrain herself and broke into laughter.
“It’s at him,” she said, pointing to Alyosha, with childish vexation at herself for not being able to repress her mirth.
If any one had looked at Alyosha standing a step behind the elder, he would have caught a quick flush crimsoning his cheeks in an instant. His eyes shone and h e looked down.
“She has a message for you, Alexey Fyodorovitch. How are you?” the mother went on, holding out her exquisitely gloved hand to Alyosha.
The elder turned round and all at once looked attentively at Alyosha. The latter went nearer to Lise and, smiling in a strangely awkward way, held out his hand t o her too. Lise assumed an important air.
“Katerina Ivanovna has sent you this through me.” She handed him a little note. “She particularly begs you to go and see her as soon as possible; that you will n ot fail her, but will be sure to come.”
“She asks me to go and see her? Me? What for?” Alyosha muttered in great astonishment. His face at once looked anxious. “Oh, it’s all to do with Dmitri Fyodo rovitch and—what has happened lately,” the mother explained hurriedly. “Katerina Ivanovna has made up her mind, but she must see you about it…. Why, of c ourse, I can’t say. But she wants to see you at once. And you will go to her, of course. It is a Christian duty.”
“I have only seen her once,” Alyosha protested with the same perplexity.
“Oh, she is such a lofty, incomparable creature! If only for her suffering…. Think what she has gone through, what she is enduring now! Think what awaits her!
It’s all terrible, terrible!”
“Very well, I will come,” Alyosha decided, after rapidly scanning the brief, enigmatic note, which consisted of an urgent entreaty that he would come, without a ny sort of explanation.
“Oh, how sweet and generous that would be of you!” cried Lise with sudden animation. “I told mamma you’d be sure not to go. I said you were saving your sou l. How splendid you are! I’ve always thought you were splendid. How glad I am to tell you so!”
“Lise!” said her mother impressively, though she smiled after she had said it.
“You have quite forgotten us, Alexey Fyodorovitch,” she said; “you never come to see us. Yet Lise has told me twice that she is never happy except with you.”
Alyosha raised his downcast eyes and again flushed, and again smiled without knowing why. But the elder was no longer watching him. He had begun talking t o a monk who, as mentioned before, had been awaiting his entrance by Lise’s chair. He was evidently a monk of the humblest, that is of the peasant, class, of a narrow outlook, but a true believer, and, in his own way, a stubborn one. He announced that he had come from the far north, from Obdorsk, from Saint Sylvester
, and was a member of a poor monastery, consisting of only ten monks. The elder gave him his blessing and invited him to come to his cell whenever he liked.
“How can you presume to do such deeds?” the monk asked suddenly, pointing solemnly and significantly at Lise. He was referring to her “healing.”
“It’s too early, of course, to speak of that. Relief is not complete cure, and may proceed from different causes. But if there has been any healing, it is by no powe r but God’s will. It’s all from God. Visit me, Father,” he added to the monk. “It’s not often I can see visitors. I am ill, and I know that my days are numbered.”
“Oh, no, no! God will not take you from us. You will live a long, long time yet,” cried the lady. “And in what way are you ill? You look so well, so gay and hap py.”
“I am extraordinarily better today. But I know that it’s only for a moment. I understand my disease now thoroughly. If I seem so happy to you, you could never say anything that would please me so much. For men are made for happiness, and any one who is completely happy has a right to say to himself, ‘I am doing Go d’s will on earth.’ All the righteous, all the saints, all the holy martyrs were happy.”
“Oh, how you speak! What bold and lofty words!” cried the lady. “You seem to pierce with your words. And yet—happiness, happiness—where is it? Who can say of himself that he is happy? Oh, since you have been so good as to let us see you once more today, let me tell you what I could not utter last time, what I dar ed not say, all I am suffering and have been for so long! I am suffering! Forgive me! I am suffering!”
And in a rush of fervent feeling she clasped her hands before him.
“From what specially?”
“I suffer … from lack of faith.”
“Lack of faith in God?”
“Oh, no, no! I dare not even think of that. But the future life—it is such an enigma! And no one, no one can solve it. Listen! You are a healer, you are deeply ver sed in the human soul, and of course I dare not expect you to believe me entirely, but I assure you on my word of honor that I am not speaking lightly now. The thought of the life beyond the grave distracts me to anguish, to terror. And I don’t know to whom to appeal, and have not dared to all my life. And now I am so bold as to ask you. Oh, God! What will you think of me now?”
She clasped her hands.
“Don’t distress yourself about my opinion of you,” said the elder. “I quite believe in the sincerity of your suffering.”
“Oh, how thankful I am to you! You see, I shut my eyes and ask myself if every one has faith, where did it come from? And then they do say that it all comes fr om terror at the menacing phenomena of nature, and that none of it’s real. And I say to myself, ‘What if I’ve been believing all my life, and when I come to die t here’s nothing but the burdocks growing on my grave?’ as I read in some author. It’s awful! How—how can I get back my faith? But I only believed when I was a little child, mechanically, without thinking of anything. How, how is one to prove it? I have come now to lay my soul before you and to ask you about it. If I l et this chance slip, no one all my life will answer me. How can I prove it? How can I convince myself? Oh, how unhappy I am! I stand and look about me and se e that scarcely any one else cares; no one troubles his head about it, and I’m the only one who can’t stand it. It’s deadly—deadly!”
“No doubt. But there’s no proving it, though you can be convinced of it.”
“How?”
“By the experience of active love. Strive to love your neighbor actively and indefatigably. In as far as you advance in love you will grow surer of the reality of God and of the immortality of your soul. If you attain to perfect selfforgetfulness in the love of your neighbor, then you will believe without doubt, and no doubt can possibly enter your soul. This has been tried. This is certain.”
“In active love? There’s another question—and such a question! You see, I so love humanity that—would you believe it?—I often dream of forsaking all that I have, leaving Lise, and becoming a sister of mercy. I close my eyes and think and dream, and at that moment I feel full of strength to overcome all obstacles. No wounds, no festering sores could at that moment frighten me. I would bind them up and wash them with my own hands. I would nurse the afflicted. I would be ready to kiss such wounds.”
“It is much, and well that your mind is full of such dreams and not others. Sometime, unawares, you may do a good deed in reality.”
“Yes. But could I endure such a life for long?” the lady went on fervently, almost frantically. “That’s the chief question—that’s my most agonizing question. I s hut my eyes and ask myself, ‘Would you persevere long on that path? And if the patient whose wounds you are washing did not meet you with gratitude, but wo rried you with his whims, without valuing or remarking your charitable services, began abusing you and rudely commanding you, and complaining to the superi or authorities of you (which often happens when people are in great suffering)—what then? Would you persevere in your love, or not?’ And do you know, I cam e with horror to the conclusion that, if anything could dissipate my love to humanity, it would be ingratitude. In short, I am a hired servant, I expect my payment at once—that is, praise, and the repayment of love with love. Otherwise I am incapable of loving any one.”
She was in a very paroxysm of selfcastigation, and, concluding, she looked with defiant resolution at the elder.
“It’s just the same story as a doctor once told me,” observed the elder. “He was a man getting on in years, and undoubtedly clever. He spoke as frankly as you, t hough in jest, in bitter jest. ‘I love humanity,’ he said, ‘but I wonder at myself. The more I love humanity in general, the less I love man in particular. In my drea ms,’ he said, ‘I have often come to making enthusiastic schemes for the service of humanity, and perhaps I might actually have faced crucifixion if it had been s uddenly necessary; and yet I am incapable of living in the same room with any one for two days together, as I know by experience. As soon as any one is near m e, his personality disturbs my selfcomplacency and restricts my freedom. In twentyfour hours I begin to hate the best of men: one because he’s too long over his dinner; another because he has a cold and keeps on blowing his nose. I become hostile to people the moment they come close to me. But it has always happened that the more I detest men individually the more ardent becomes my love for humanity.’ ”
“But what’s to be done? What can one do in such a case? Must one despair?”
“No. It is enough that you are distressed at it. Do what you can, and it will be reckoned unto you. Much is done already in you since you can so deeply and since rely know yourself. If you have been talking to me so sincerely, simply to gain approbation for your frankness, as you did from me just now, then of course you will not attain to anything in the achievement of real love; it will all get no further than dreams, and your whole life will slip away like a phantom. In that case y ou will naturally cease to think of the future life too, and will of yourself grow calmer after a fashion in the end.”
“You have crushed me! Only now, as you speak, I understand that I was really only seeking your approbation for my sincerity when I told you I could not endur e ingratitude. You have revealed me to myself. You have seen through me and explained me to myself!”
“Are you speaking the truth? Well, now, after such a confession, I believe that you are sincere and good at heart. If you do not attain happiness, always rememb er that you are on the right road, and try not to leave it. Above all, avoid falsehood, every kind of falsehood, especially falseness to yourself. Watch over your o
wn deceitfulness and look into it every hour, every minute. Avoid being scornful, both to others and to yourself. What seems to you bad within you will grow pu rer from the very fact of your observing it in yourself. Avoid fear, too, though fear is only the consequence of every sort of falsehood. Never be frightened at yo ur own faintheartedness in attaining love. Don’t be frightened overmuch even at your evil actions. I am sorry I can say nothing more consoling to you, for love i n action is a harsh and dreadful thing compared with love in dreams. Love in dreams is greedy for immediate action, rapidly performed and in the sight of all. M
en will even give their lives if only the ordeal does not last long but is soon over, with all looking on and applauding as though on the stage. But active love is la bor and fortitude, and for some people too, perhaps, a complete science. But I predict that just when you see with horror that in spite of all your efforts you are g etting farther from your goal instead of nearer to it—at that very moment I predict that you will reach it and behold clearly the miraculous power of the Lord wh o has been all the time loving and mysteriously guiding you. Forgive me for not being able to stay longer with you. They are waiting for me. Goodby.”
The lady was weeping.
“Lise, Lise! Bless her—bless her!” she cried, starting up suddenly.
“She does not deserve to be loved. I have seen her naughtiness all along,” the elder said jestingly. “Why have you been laughing at Alexey?”
Lise had in fact been occupied in mocking at him all the time. She had noticed before that Alyosha was shy and tried not to look at her, and she found this extre mely amusing. She waited intently to catch his eye. Alyosha, unable to endure her persistent stare, was irresistibly and suddenly drawn to glance at her, and at o nce she smiled triumphantly in his face. Alyosha was even more disconcerted and vexed. At last he turned away from her altogether and hid behind the elder’s b ack. After a few minutes, drawn by the same irresistible force, he turned again to see whether he was being looked at or not, and found Lise almost hanging out of her chair to peep sideways at him, eagerly waiting for him to look. Catching his eye, she laughed so that the elder could not help saying, “Why do you make f un of him like that, naughty girl?”
Lise suddenly and quite unexpectedly blushed. Her eyes flashed and her face became quite serious. She began speaking quickly and nervously in a warm and res entful voice:
“Why has he forgotten everything, then? He used to carry me about when I was little. We used to play together. He used to come to teach me to read, do you kn ow. Two years ago, when he went away, he said that he would never forget me, that we were friends for ever, for ever, for ever! And now he’s afraid of me all a t once. Am I going to eat him? Why doesn’t he want to come near me? Why doesn’t he talk? Why won’t he come and see us? It’s not that you won’t let him. W
e know that he goes everywhere. It’s not good manners for me to invite him. He ought to have thought of it first, if he hasn’t forgotten me. No, now he’s saving his soul! Why have you put that long gown on him? If he runs he’ll fall.”
And suddenly she hid her face in her hand and went off into irresistible, prolonged, nervous, inaudible laughter. The elder listened to her with a smile, and bless ed her tenderly. As she kissed his hand she suddenly pressed it to her eyes and began crying.
“Don’t be angry with me. I’m silly and good for nothing … and perhaps Alyosha’s right, quite right, in not wanting to come and see such a ridiculous girl.”
“I will certainly send him,” said the elder.
Chapter V.
So Be It! So Be It!
The elder’s absence from his cell had lasted for about twentyfive minutes. It was more than halfpast twelve, but Dmitri, on whose account they had all met there
, had still not appeared. But he seemed almost to be forgotten, and when the elder entered the cell again, he found his guests engaged in eager conversation. Ivan and the two monks took the leading share in it. Miüsov, too, was trying to take a part, and apparently very eagerly, in the conversation. But he was unsuccessful in this also. He was evidently in the background, and his remarks were treated with neglect, which increased his irritability. He had had intellectual encounters with Ivan before and he could not endure a certain carelessness Ivan showed him.
“Hitherto at least I have stood in the front ranks of all that is progressive in Europe, and here the new generation positively ignores us,” he thought.
Fyodor Pavlovitch, who had given his word to sit still and be quiet, had actually been quiet for some time, but he watched his neighbor Miüsov with an ironical l ittle smile, obviously enjoying his discomfiture. He had been waiting for some time to pay off old scores, and now he could not let the opportunity slip. Bending over his shoulder he began teasing him again in a whisper.
“Why didn’t you go away just now, after the ‘courteously kissing’? Why did you consent to remain in such unseemly company? It was because you felt insulted and aggrieved, and you remained to vindicate yourself by showing off your intelligence. Now you won’t go till you’ve displayed your intellect to them.”
“You again?… On the contrary, I’m just going.”
“You’ll be the last, the last of all to go!” Fyodor Pavlovitch delivered him another thrust, almost at the moment of Father Zossima’s return.
The discussion died down for a moment, but the elder, seating himself in his former place, looked at them all as though cordially inviting them to go on. Alyosh a, who knew every expression of his face, saw that he was fearfully exhausted and making a great effort. Of late he had been liable to fainting fits from exhausti on. His face had the pallor that was common before such attacks, and his lips were white. But he evidently did not want to break up the party. He seemed to hav e some special object of his own in keeping them. What object? Alyosha watched him intently.
“We are discussing this gentleman’s most interesting article,” said Father Iosif, the librarian, addressing the elder, and indicating Ivan. “He brings forward much
that is new, but I think the argument cuts both ways. It is an article written in answer to a book by an ecclesiastical authority on the question of the ecclesiastical court, and the scope of its jurisdiction.”
“I’m sorry I have not read your article, but I’ve heard of it,” said the elder, looking keenly and intently at Ivan.
“He takes up a most interesting position,” continued the Father Librarian. “As far as Church jurisdiction is concerned he is apparently quite opposed to the separ ation of Church from State.”
“That’s interesting. But in what sense?” Father Zossima asked Ivan.
The latter, at last, answered him, not condescendingly, as Alyosha had feared, but with modesty and reserve, with evident goodwill and apparently without the sl ightest arrièrepensée.
“I start from the position that this confusion of elements, that is, of the essential principles of Church and State, will, of course, go on for ever, in spite of the fact that it is impossible for them to mingle, and that the confusion of these elements cannot lead to any consistent or even normal results, for there is falsity at the v ery foundation of it. Compromise between the Church and State in such questions as, for instance, jurisdiction, is, to my thinking, impossible in any real sense.
My clerical opponent maintains that the Church holds a precise and defined position in the State. I maintain, on the contrary, that the Church ought to include th e whole State, and not simply to occupy a corner in it, and, if this is, for some reason, impossible at present, then it ought, in reality, to be set up as the direct and chief aim of the future development of Christian society!”
“Perfectly true,” Father Païssy, the silent and learned monk, assented with fervor and decision.
“The purest Ultramontanism!” cried Miüsov impatiently, crossing and recrossing his legs.
“Oh, well, we have no mountains,” cried Father Iosif, and turning to the elder he continued: “Observe the answer he makes to the following ‘fundamental and es sential’ propositions of his opponent, who is, you must note, an ecclesiastic. First, that ‘no social organization can or ought to arrogate to itself power to dispose of the civic and political rights of its members.’ Secondly, that ‘criminal and civil jurisdiction ought not to belong to the Church, and is inconsistent with its natu re, both as a divine institution and as an organization of men for religious objects,’ and, finally, in the third place, ‘the Church is a kingdom not of this world.’ ”
“A most unworthy play upon words for an ecclesiastic!” Father Païssy could not refrain from breaking in again. “I have read the book which you have answered
,” he added, addressing Ivan, “and was astounded at the words ‘the Church is a kingdom not of this world.’ If it is not of this world, then it cannot exist on earth at all. In the Gospel, the words ‘not of this world’ are not used in that sense. To play with such words is indefensible. Our Lord Jesus Christ came to set up the C
hurch upon earth. The Kingdom of Heaven, of course, is not of this world, but in Heaven; but it is only entered through the Church which has been founded and established upon earth. And so a frivolous play upon words in such a connection is unpardonable and improper. The Church is, in truth, a kingdom and ordained to rule, and in the end must undoubtedly become the kingdom ruling over all the earth. For that we have the divine promise.”
He ceased speaking suddenly, as though checking himself. After listening attentively and respectfully Ivan went on, addressing the elder with perfect composure and as before with ready cordiality:
“The whole point of my article lies in the fact that during the first three centuries Christianity only existed on earth in the Church and was nothing but the Churc h. When the pagan Roman Empire desired to become Christian, it inevitably happened that, by becoming Christian, it included the Church but remained a pagan State in very many of its departments. In reality this was bound to happen. But Rome as a State retained too much of the pagan civilization and culture, as, for e xample, in the very objects and fundamental principles of the State. The Christian Church entering into the State could, of course, surrender no part of its funda mental principles—the rock on which it stands—and could pursue no other aims than those which have been ordained and revealed by God Himself, and among them that of drawing the whole world, and therefore the ancient pagan State itself, into the Church. In that way (that is, with a view to the future) it is not the C
hurch that should seek a definite position in the State, like ‘every social organization,’ or as ‘an organization of men for religious purposes’ (as my opponent call s the Church), but, on the contrary, every earthly State should be, in the end, completely transformed into the Church and should become nothing else but a Chur ch, rejecting every purpose incongruous with the aims of the Church. All this will not degrade it in any way or take from its honor and glory as a great State, nor from the glory of its rulers, but only turns it from a false, still pagan, and mistaken path to the true and rightful path, which alone leads to the eternal goal. This i s why the author of the book On the Foundations of Church Jurisdiction would have judged correctly if, in seeking and laying down those foundations, he had lo oked upon them as a temporary compromise inevitable in our sinful and imperfect days. But as soon as the author ventures to declare that the foundations which he predicates now, part of which Father Iosif just enumerated, are the permanent, essential, and eternal foundations, he is going directly against the Church and its sacred and eternal vocation. That is the gist of my article.”
“That is, in brief,” Father Païssy began again, laying stress on each word, “according to certain theories only too clearly formulated in the nineteenth century, th e Church ought to be transformed into the State, as though this would be an advance from a lower to a higher form, so as to disappear into it, making way for sci ence, for the spirit of the age, and civilization. And if the Church resists and is unwilling, some corner will be set apart for her in the State, and even that under c ontrol—and this will be so everywhere in all modern European countries. But Russian hopes and conceptions demand not that the Church should pass as from a lower into a higher type into the State, but, on the contrary, that the State should end by being worthy to become only the Church and nothing else. So be it! So be it!”
“Well, I confess you’ve reassured me somewhat,” Miüsov said smiling, again crossing his legs. “So far as I understand, then, the realization of such an ideal is i nfinitely remote, at the second coming of Christ. That’s as you please. It’s a beautiful Utopian dream of the abolition of war, diplomacy, banks, and so on—som ething after the fashion of socialism, indeed. But I imagined that it was all meant seriously, and that the Church might be now going to try criminals, and senten ce them to beating, prison, and even death.”
“But if there were none but the ecclesiastical court, the Church would not even now sentence a criminal to prison or to death. Crime and the way of regarding it would inevitably change, not all at once of course, but fairly soon,” Ivan replied calmly, without flinching.
“Are you serious?” Miüsov glanced keenly at him.
“If everything became the Church, the Church would exclude all the criminal and disobedient, and would not cut off their heads,” Ivan went on. “I ask you, wha t would become of the excluded? He would be cut off then not only from men, as now, but from Christ. By his crime he would have transgressed not only again st men but against the Church of Christ. This is so even now, of course, strictly speaking, but it is not clearly enunciated, and very, very often the criminal of tod ay compromises with his conscience: ‘I steal,’ he says, ‘but I don’t go against the Church. I’m not an enemy of Christ.’ That’s what the criminal of today is cont inually saying to himself, but when the Church takes the place of the State it will be difficult for him, in opposition to the Church all over the world, to say: ‘All men are mistaken, all in error, all mankind are the false Church. I, a thief and murderer, am the only true Christian Church.’ It will be very difficult to say this to himself; it requires a rare combination of unusual circumstances. Now, on the other side, take the Church’s own view of crime: is it not bound to renounce the p resent almost pagan attitude, and to change from a mechanical cutting off of its tainted member for the preservation of society, as at present, into completely and honestly adopting the idea of the regeneration of the man, of his reformation and salvation?”
“What do you mean? I fail to understand again,” Miüsov interrupted. “Some sort of dream again. Something shapeless and even incomprehensible. What is exco mmunication? What sort of exclusion? I suspect you are simply amusing yourself, Ivan Fyodorovitch.”
“Yes, but you know, in reality it is so now,” said the elder suddenly, and all turned to him at once. “If it were not for the Church of Christ there would be nothin g to restrain the criminal from evildoing, no real chastisement for it afterwards; none, that is, but the mechanical punishment spoken of just now, which in the m ajority of cases only embitters the heart; and not the real punishment, the only effectual one, the only deterrent and softening one, which lies in the recognition o f sin by conscience.”
“How is that, may one inquire?” asked Miüsov, with lively curiosity.
“Why,” began the elder, “all these sentences to exile with hard labor, and formerly with flogging also, reform no one, and what’s more, deter hardly a single cri minal, and the number of crimes does not diminish but is continually on the increase. You must admit that. Consequently the security of society is not preserved
, for, although the obnoxious member is mechanically cut off and sent far away out of sight, another criminal always comes to take his place at once, and often t wo of them. If anything does preserve society, even in our time, and does regenerate and transform the criminal, it is only the law of Christ speaking in his consc ience. It is only by recognizing his wrongdoing as a son of a Christian society—that is, of the Church—that he recognizes his sin against society—that is, agains t the Church. So that it is only against the Church, and not against the State, that the criminal of today can recognize that he has sinned. If society, as a Church, h ad jurisdiction, then it would know when to bring back from exclusion and to reunite to itself. Now the Church having no real jurisdiction, but only the power of moral condemnation, withdraws of her own accord from punishing the criminal actively. She does not excommunicate him but simply persists in motherly exho rtation of him. What is more, the Church even tries to preserve all Christian communion with the criminal. She admits him to church services, to the holy sacra ment, gives him alms, and treats him more as a captive than as a convict. And what would become of the criminal, O Lord, if even the Christian society—that is, the Church—were to reject him even as the civil law rejects him and cuts him off? What would become of him if the Church punished him with her excommuni cation as the direct consequence of the secular law? There could be no more terrible despair, at least for a Russian criminal, for Russian criminals still have faith
. Though, who knows, perhaps then a fearful thing would happen, perhaps the despairing heart of the criminal would lose its faith and then what would become of him? But the Church, like a tender, loving mother, holds aloof from active punishment herself, as the sinner is too severely punished already by the civil law, and there must be at least some one to have pity on him. The Church holds aloof, above all, because its judgment is the only one that contains the truth, and ther efore cannot practically and morally be united to any other judgment even as a temporary compromise. She can enter into no compact about that. The foreign cri minal, they say, rarely repents, for the very doctrines of today confirm him in the idea that his crime is not a crime, but only a reaction against an unjustly oppres sive force. Society cuts him off completely by a force that triumphs over him mechanically and (so at least they say of themselves in Europe) accompanies this e xclusion with hatred, forgetfulness, and the most profound indifference as to the ultimate fate of the erring brother. In this way, it all takes place without the com passionate intervention of the Church, for in many cases there are no churches there at all, for though ecclesiastics and splendid church buildings remain, the ch urches themselves have long ago striven to pass from Church into State and to disappear in it completely. So it seems at least in Lutheran countries. As for Rom e, it was proclaimed a State instead of a Church a thousand years ago. And so the criminal is no longer conscious of being a member of the Church and sinks int o despair. If he returns to society, often it is with such hatred that society itself instinctively cuts him off. You can judge for yourself how it must end. In many c ases it would seem to be the same with us, but the difference is that besides the established law courts we have the Church too, which always keeps up relations with the criminal as a dear and still precious son. And besides that, there is still preserved, though only in thought, the judgment of the Church, which though no longer existing in practice is still living as a dream for the future, and is, no doubt, instinctively recognized by the criminal in his soul. What was said here just n ow is true too, that is, that if the jurisdiction of the Church were introduced in practice in its full force, that is, if the whole of the society were changed into the Church, not only the judgment of the Church would have influence on the reformation of the criminal such as it never has now, but possibly also the crimes the mselves would be incredibly diminished. And there can be no doubt that the Church would look upon the criminal and the crime of the future in many cases quit e differently and would succeed in restoring the excluded, in restraining those who plan evil, and in regenerating the fallen. It is true,” said Father Zossima, with a smile, “the Christian society now is not ready and is only resting on some seven righteous men, but as they are never lacking, it will continue still unshaken in expectation of its complete transformation from a society almost heathen in character into a single universal and allpowerful Church. So be it, so be it! Even tho ugh at the end of the ages, for it is ordained to come to pass! And there is no need to be troubled about times and seasons, for the secret of the times and seasons is in the wisdom of God, in His foresight, and His love. And what in human reckoning seems still afar off, may by the Divine ordinance be close at hand, on the eve of its appearance. And so be it, so be it!”
“So be it, so be it!” Father Païssy repeated austerely and reverently.
“Strange, extremely strange!” Miüsov pronounced, not so much with heat as with latent indignation.
“What strikes you as so strange?” Father Iosif inquired cautiously.
“Why, it’s beyond anything!” cried Miüsov, suddenly breaking out; “the State is eliminated and the Church is raised to the position of the State. It’s not simply Ultramontanism, it’s archUltramontanism! It’s beyond the dreams of Pope Gregory the Seventh!”
“You are completely misunderstanding it,” said Father Païssy sternly. “Understand, the Church is not to be transformed into the State. That is Rome and its drea m. That is the third temptation of the devil. On the contrary, the State is transformed into the Church, will ascend and become a Church over the whole world—
which is the complete opposite of Ultramontanism and Rome, and your interpretation, and is only the glorious destiny ordained for the Orthodox Church. This st ar will arise in the east!”
Miüsov was significantly silent. His whole figure expressed extraordinary personal dignity. A supercilious and condescending smile played on his lips. Alyosha watched it all with a throbbing heart. The whole conversation stirred him profoundly. He glanced casually at Rakitin, who was standing immovable in his place by the door listening and watching intently though with downcast eyes. But from the color in his cheeks Alyosha guessed that Rakitin was probably no less excit ed, and he knew what caused his excitement.
“Allow me to tell you one little anecdote, gentlemen,” Miüsov said impressively, with a peculiarly majestic air. “Some years ago, soon after the coup d’état of D
ecember, I happened to be calling in Paris on an extremely influential personage in the Government, and I met a very interesting man in his house. This individu al was not precisely a detective but was a sort of superintendent of a whole regiment of political detectives—a rather powerful position in its own way. I was pro mpted by curiosity to seize the opportunity of conversation with him. And as he had not come as a visitor but as a subordinate official bringing a special report, and as he saw the reception given me by his chief, he deigned to speak with some openness, to a certain extent only, of course. He was rather courteous than ope n, as Frenchmen know how to be courteous, especially to a foreigner. But I thoroughly understood him. The subject was the socialist revolutionaries who were a t that time persecuted. I will quote only one most curious remark dropped by this person. ‘We are not particularly afraid,’ said he, ‘of all these socialists, anarchi sts, infidels, and revolutionists; we keep watch on them and know all their goings on. But there are a few peculiar men among them who believe in God and are Christians, but at the same time are socialists. These are the people we are most afraid of. They are dreadful people! The socialist who is a Christian is more to b e dreaded than a socialist who is an atheist.’ The words struck me at the time, and now they have suddenly come back to me here, gentlemen.”
“You apply them to us, and look upon us as socialists?” Father Païssy asked directly, without beating about the bush.
But before Pyotr Alexandrovitch could think what to answer, the door opened, and the guest so long expected, Dmitri Fyodorovitch, came in. They had, in fact, given up expecting him, and his sudden appearance caused some surprise for a moment.
Chapter VI.
Why Is Such A Man Alive?
Dmitri Fyodorovitch, a young man of eight and twenty, of medium height and agreeable countenance, looked older than his years. He was muscular, and showe d signs of considerable physical strength. Yet there was something not healthy in his face. It was rather thin, his cheeks were hollow, and there was an unhealthy sallowness in their color. His rather large, prominent, dark eyes had an expression of firm determination, and yet there was a vague look in them, too. Even whe n he was excited and talking irritably, his eyes somehow did not follow his mood, but betrayed something else, sometimes quite incongruous with what was pas sing. “It’s hard to tell what he’s thinking,” those who talked to him sometimes declared. People who saw something pensive and sullen in his eyes were startled by his sudden laugh, which bore witness to mirthful and light hearted thoughts at the very time when his eyes were so gloomy. A certain strained look in his fac e was easy to understand at this moment. Every one knew, or had heard of, the extremely restless and dissipated life which he had been leading of late, as well a s of the violent anger to which he had been roused in his quarrels with his father. There were several stories current in the town about it. It is true that he was ira scible by nature, “of an unstable and unbalanced mind,” as our justice of the peace, Katchalnikov, happily described him.
He was stylishly and irreproachably dressed in a carefully buttoned frock coat. He wore black gloves and carried a tophat. Having only lately left the army, he st ill had mustaches and no beard. His dark brown hair was cropped short, and combed forward on his temples. He had the long, determined stride of a military ma n. He stood still for a moment on the threshold, and glancing at the whole party went straight up to the elder, guessing him to be their host. He made him a low b ow, and asked his blessing. Father Zossima, rising in his chair, blessed him. Dmitri kissed his hand respectfully, and with intense feeling, almost anger, he said:
“Be so generous as to forgive me for having kept you waiting so long, but Smerdyakov, the valet sent me by my father, in reply to my inquiries, told me twice o ver that the appointment was for one. Now I suddenly learn—”
“Don’t disturb yourself,” interposed the elder. “No matter. You are a little late. It’s of no consequence….”
“I’m extremely obliged to you, and expected no less from your goodness.”
Saying this, Dmitri bowed once more. Then, turning suddenly towards his father, made him, too, a similarly low and respectful bow. He had evidently considere d it beforehand, and made this bow in all seriousness, thinking it his duty to show his respect and good intentions.
Although Fyodor Pavlovitch was taken unawares, he was equal to the occasion. In response to Dmitri’s bow he jumped up from his chair and made his son a bo w as low in return. His face was suddenly solemn and impressive, which gave him a positively malignant look. Dmitri bowed generally to all present, and witho ut a word walked to the window with his long, resolute stride, sat down on the only empty chair, near Father Païssy, and, bending forward, prepared to listen to t he conversation he had interrupted.
Dmitri’s entrance had taken no more than two minutes, and the conversation was resumed. But this time Miüsov thought it unnecessary to reply to Father Païssy
’s persistent and almost irritable question.
“Allow me to withdraw from this discussion,” he observed with a certain wellbred nonchalance. “It’s a subtle question, too. Here Ivan Fyodorovitch is smiling a t us. He must have something interesting to say about that also. Ask him.”
“Nothing special, except one little remark,” Ivan replied at once. “European Liberals in general, and even our liberal dilettanti, often mix up the final results of s ocialism with those of Christianity. This wild notion is, of course, a characteristic feature. But it’s not only Liberals and dilettanti who mix up socialism and Chr istianity, but, in many cases, it appears, the police—the foreign police, of course—do the same. Your Paris anecdote is rather to the point, Pyotr Alexandrovitch.

“I ask your permission to drop this subject altogether,” Miüsov repeated. “I will tell you instead, gentlemen, another interesting and rather characteristic anecdot e of Ivan Fyodorovitch himself. Only five days ago, in a gathering here, principally of ladies, he solemnly declared in argument that there was nothing in the wh ole world to make men love their neighbors. That there was no law of nature that man should love mankind, and that, if there had been any love on earth hithert o, it was not owing to a natural law, but simply because men have believed in immortality. Ivan Fyodorovitch added in parenthesis that the whole natural law lie s in that faith, and that if you were to destroy in mankind the belief in immortality, not only love but every living force maintaining the life of the world would at once be dried up. Moreover, nothing then would be immoral, everything would be lawful, even cannibalism. That’s not all. He ended by asserting that for every individual, like ourselves, who does not believe in God or immortality, the moral law of nature must immediately be changed into the exact contrary of the for mer religious law, and that egoism, even to crime, must become not only lawful but even recognized as the inevitable, the most rational, even honorable outcom e of his position. From this paradox, gentlemen, you can judge of the rest of our eccentric and paradoxical friend Ivan Fyodorovitch’s theories.”
“Excuse me,” Dmitri cried suddenly; “if I’ve heard aright, crime must not only be permitted but even recognized as the inevitable and the most rational outcome of his position for every infidel! Is that so or not?”
“Quite so,” said Father Païssy.
“I’ll remember it.”
Having uttered these words Dmitri ceased speaking as suddenly as he had begun. Every one looked at him with curiosity.
“Is that really your conviction as to the consequences of the disappearance of the faith in immortality?” the elder asked Ivan suddenly.
“Yes. That was my contention. There is no virtue if there is no immortality.”
“You are blessed in believing that, or else most unhappy.”
“Why unhappy?” Ivan asked smiling.
“Because, in all probability you don’t believe yourself in the immortality of your soul, nor in what you have written yourself in your article on Church jurisdicti on.”
“Perhaps you are right! … But I wasn’t altogether joking,” Ivan suddenly and strangely confessed, flushing quickly.
“You were not altogether joking. That’s true. The question is still fretting your heart, and not answered. But the martyr likes sometimes to divert himself with hi s despair, as it were driven to it by despair itself. Meanwhile, in your despair, you, too, divert yourself with magazine articles, and discussions in society, though you don’t believe your own arguments, and with an aching heart mock at them inwardly…. That question you have not answered, and it is your great grief, for i t clamors for an answer.”
“But can it be answered by me? Answered in the affirmative?” Ivan went on asking strangely, still looking at the elder with the same inexplicable smile.
“If it can’t be decided in the affirmative, it will never be decided in the negative. You know that that is the peculiarity of your heart, and all its suffering is due to it. But thank the Creator who has given you a lofty heart capable of such suffering; of thinking and seeking higher things, for our dwelling is in the heavens. Go d grant that your heart will attain the answer on earth, and may God bless your path.”
The elder raised his hand and would have made the sign of the cross over Ivan from where he stood. But the latter rose from his seat, went up to him, received hi s blessing, and kissing his hand went back to his place in silence. His face looked firm and earnest. This action and all the preceding conversation, which was so surprising from Ivan, impressed every one by its strangeness and a certain solemnity, so that all were silent for a moment, and there was a look almost of appreh ension in Alyosha’s face. But Miüsov suddenly shrugged his shoulders. And at the same moment Fyodor Pavlovitch jumped up from his seat.
“Most pious and holy elder,” he cried, pointing to Ivan, “that is my son, flesh of my flesh, the dearest of my flesh! He is my most dutiful Karl Moor, so to speak, while this son who has just come in, Dmitri, against whom I am seeking justice from you, is the undutiful Franz Moor—they are both out of Schiller’s Robbers, and so I am the reigning Count von Moor! Judge and save us! We need not only your prayers but your prophecies!”
“Speak without buffoonery, and don’t begin by insulting the members of your family,” answered the elder, in a faint, exhausted voice. He was obviously getting more and more fatigued, and his strength was failing.
“An unseemly farce which I foresaw when I came here!” cried Dmitri indignantly. He too leapt up. “Forgive it, reverend Father,” he added, addressing the elder.
“I am not a cultivated man, and I don’t even know how to address you properly, but you have been deceived and you have been too goodnatured in letting us m eet here. All my father wants is a scandal. Why he wants it only he can tell. He always has some motive. But I believe I know why—”
“They all blame me, all of them!” cried Fyodor Pavlovitch in his turn. “Pyotr Alexandrovitch here blames me too. You have been blaming me, Pyotr Alexandro vitch, you have!” he turned suddenly to Miüsov, although the latter was not dreaming of interrupting him. “They all accuse me of having hidden the children’s money in my boots, and cheated them, but isn’t there a court of law? There they will reckon out for you, Dmitri Fyodorovitch, from your notes, your letters, and your agreements, how much money you had, how much you have spent, and how much you have left. Why does Pyotr Alexandrovitch refuse to pass judgment
? Dmitri is not a stranger to him. Because they are all against me, while Dmitri Fyodorovitch is in debt to me, and not a little, but some thousands of which I hav e documentary proof. The whole town is echoing with his debaucheries. And where he was stationed before, he several times spent a thousand or two for the sed uction of some respectable girl; we know all about that, Dmitri Fyodorovitch, in its most secret details. I’ll prove it…. Would you believe it, holy Father, he has captivated the heart of the most honorable of young ladies of good family and fortune, daughter of a gallant colonel, formerly his superior officer, who had recei ved many honors and had the Anna Order on his breast. He compromised the girl by his promise of marriage, now she is an orphan and here; she is betrothed to him, yet before her very eyes he is dancing attendance on a certain enchantress. And although this enchantress has lived in, so to speak, civil marriage with a res pectable man, yet she is of an independent character, an unapproachable fortress for everybody, just like a legal wife—for she is virtuous, yes, holy Fathers, she is virtuous. Dmitri Fyodorovitch wants to open this fortress with a golden key, and that’s why he is insolent to me now, trying to get money from me, though he has wasted thousands on this enchantress already. He’s continually borrowing money for the purpose. From whom do you think? Shall I say, Mitya?”
“Be silent!” cried Dmitri, “wait till I’m gone. Don’t dare in my presence to asperse the good name of an honorable girl! That you should utter a word about her i s an outrage, and I won’t permit it!”
He was breathless.
“Mitya! Mitya!” cried Fyodor Pavlovitch hysterically, squeezing out a tear. “And is your father’s blessing nothing to you? If I curse you, what then?”
“Shameless hypocrite!” exclaimed Dmitri furiously.
“He says that to his father! his father! What would he be with others? Gentlemen, only fancy; there’s a poor but honorable man living here, burdened with a nu merous family, a captain who got into trouble and was discharged from the army, but not publicly, not by courtmartial, with no slur on his honor. And three wee ks ago, Dmitri seized him by the beard in a tavern, dragged him out into the street and beat him publicly, and all because he is an agent in a little business of min e.”
“It’s all a lie! Outwardly it’s the truth, but inwardly a lie!” Dmitri was trembling with rage. “Father, I don’t justify my action. Yes, I confess it publicly, I behave d like a brute to that captain, and I regret it now, and I’m disgusted with myself for my brutal rage. But this captain, this agent of yours, went to that lady whom you call an enchantress, and suggested to her from you, that she should take I.O.U.’s of mine which were in your possession, and should sue me for the money s o as to get me into prison by means of them, if I persisted in claiming an account from you of my property. Now you reproach me for having a weakness for that lady when you yourself incited her to captivate me! She told me so to my face…. She told me the story and laughed at you…. You wanted to put me in prison b ecause you are jealous of me with her, because you’d begun to force your attentions upon her; and I know all about that, too; she laughed at you for that as well
—you hear—she laughed at you as she described it. So here you have this man, this father who reproaches his profligate son! Gentlemen, forgive my anger, but I foresaw that this crafty old man would only bring you together to create a scandal. I had come to forgive him if he held out his hand; to forgive him, and ask fo rgiveness! But as he has just this minute insulted not only me, but an honorable young lady, for whom I feel such reverence that I dare not take her name in vain
, I have made up my mind to show up his game, though he is my father….”
He could not go on. His eyes were glittering and he breathed with difficulty. But every one in the cell was stirred. All except Father Zossima got up from their s eats uneasily. The monks looked austere but waited for guidance from the elder. He sat still, pale, not from excitement but from the weakness of disease. An im ploring smile lighted up his face; from time to time he raised his hand, as though to check the storm, and, of course, a gesture from him would have been enough to end the scene; but he seemed to be waiting for something and watched them intently as though trying to make out something which was not perfectly clear to him. At last Miüsov felt completely humiliated and disgraced.
“We are all to blame for this scandalous scene,” he said hotly. “But I did not foresee it when I came, though I knew with whom I had to deal. This must be stopp ed at once! Believe me, your reverence, I had no precise knowledge of the details that have just come to light, I was unwilling to believe them, and I learn for th e first time…. A father is jealous of his son’s relations with a woman of loose behavior and intrigues with the creature to get his son into prison! This is the com pany in which I have been forced to be present! I was deceived. I declare to you all that I was as much deceived as any one.”
“Dmitri Fyodorovitch,” yelled Fyodor Pavlovitch suddenly, in an unnatural voice, “if you were not my son I would challenge you this instant to a duel … with p istols, at three paces … across a handkerchief,” he ended, stamping with both feet.
With old liars who have been acting all their lives there are moments when they enter so completely into their part that they tremble or shed tears of emotion in earnest, although at that very moment, or a second later, they are able to whisper to themselves, “You know you are lying, you shameless old sinner! You’re acti ng now, in spite of your ‘holy’ wrath.”
Dmitri frowned painfully, and looked with unutterable contempt at his father.
“I thought … I thought,” he said, in a soft and, as it were, controlled voice, “that I was coming to my native place with the angel of my heart, my betrothed, to c herish his old age, and I find nothing but a depraved profligate, a despicable clown!”
“A duel!” yelled the old wretch again, breathless and spluttering at each syllable. “And you, Pyotr Alexandrovitch Miüsov, let me tell you that there has never b een in all your family a loftier, and more honest—you hear—more honest woman than this ‘creature,’ as you have dared to call her! And you, Dmitri Fyodorovit ch, have abandoned your betrothed for that ‘creature,’ so you must yourself have thought that your betrothed couldn’t hold a candle to her. That’s the woman cal led a ‘creature’!”
“Shameful!” broke from Father Iosif.
“Shameful and disgraceful!” Kalganov, flushing crimson, cried in a boyish voice, trembling with emotion. He had been silent till that moment.
“Why is such a man alive?” Dmitri, beside himself with rage, growled in a hollow voice, hunching up his shoulders till he looked almost deformed. “Tell me, ca n he be allowed to go on defiling the earth?” He looked round at every one and pointed at the old man. He spoke evenly and deliberately.
“Listen, listen, monks, to the parricide!” cried Fyodor Pavlovitch, rushing up to Father Iosif. “That’s the answer to your ‘shameful!’ What is shameful? That ‘cre ature,’ that ‘woman of loose behavior’ is perhaps holier than you are yourselves, you monks who are seeking salvation! She fell perhaps in her youth, ruined by her environment. But she loved much, and Christ himself forgave the woman ‘who loved much.’ ”
“It was not for such love Christ forgave her,” broke impatiently from the gentle Father Iosif.
“Yes, it was for such, monks, it was! You save your souls here, eating cabbage, and think you are the righteous. You eat a gudgeon a day, and you think you bri be God with gudgeon.”
“This is unendurable!” was heard on all sides in the cell.
But this unseemly scene was cut short in a most unexpected way. Father Zossima rose suddenly from his seat. Almost distracted with anxiety for the elder and e very one else, Alyosha succeeded, however, in supporting him by the arm. Father Zossima moved towards Dmitri and reaching him sank on his knees before hi m. Alyosha thought that he had fallen from weakness, but this was not so. The elder distinctly and deliberately bowed down at Dmitri’s feet till his forehead tou ched the floor. Alyosha was so astounded that he failed to assist him when he got up again. There was a faint smile on his lips.
“Goodby! Forgive me, all of you!” he said, bowing on all sides to his guests.
Dmitri stood for a few moments in amazement. Bowing down to him—what did it mean? Suddenly he cried aloud, “Oh, God!” hid his face in his hands, and rus hed out of the room. All the guests flocked out after him, in their confusion not saying goodby, or bowing to their host. Only the monks went up to him again for a blessing.
“What did it mean, falling at his feet like that? Was it symbolic or what?” said Fyodor Pavlovitch, suddenly quieted and trying to reopen conversation without v enturing to address anybody in particular. They were all passing out of the precincts of the hermitage at the moment.
“I can’t answer for a madhouse and for madmen,” Miüsov answered at once illhumoredly, “but I will spare myself your company, Fyodor Pavlovitch, and, trust me, for ever. Where’s that monk?”
“That monk,” that is, the monk who had invited them to dine with the Superior, did not keep them waiting. He met them as soon as they came down the steps fr om the elder’s cell, as though he had been waiting for them all the time.
“Reverend Father, kindly do me a favor. Convey my deepest respect to the Father Superior, apologize for me, personally, Miüsov, to his reverence, telling him t hat I deeply regret that owing to unforeseen circumstances I am unable to have the honor of being present at his table, greatly as I should desire to do so,” Miüso v said irritably to the monk.
“And that unforeseen circumstance, of course, is myself,” Fyodor Pavlovitch cut in immediately. “Do you hear, Father; this gentleman doesn’t want to remain in my company or else he’d come at once. And you shall go, Pyotr Alexandrovitch, pray go to the Father Superior and good appetite to you. I will decline, and not you. Home, home, I’ll eat at home, I don’t feel equal to it here, Pyotr Alexandrovitch, my amiable relative.”
“I am not your relative and never have been, you contemptible man!”
“I said it on purpose to madden you, because you always disclaim the relationship, though you really are a relation in spite of your shuffling. I’ll prove it by the church calendar. As for you, Ivan, stay if you like. I’ll send the horses for you later. Propriety requires you to go to the Father Superior, Pyotr Alexandrovitch, to apologize for the disturbance we’ve been making….”
“Is it true that you are going home? Aren’t you lying?”
“Pyotr Alexandrovitch! How could I dare after what’s happened! Forgive me, gentlemen, I was carried away! And upset besides! And, indeed, I am ashamed. G
entlemen, one man has the heart of Alexander of Macedon and another the heart of the little dog Fido. Mine is that of the little dog Fido. I am ashamed! After su ch an escapade how can I go to dinner, to gobble up the monastery’s sauces? I am ashamed, I can’t. You must excuse me!”
“The devil only knows, what if he deceives us?” thought Miüsov, still hesitating, and watching the retreating buffoon with distrustful eyes. The latter turned rou
nd, and noticing that Miüsov was watching him, waved him a kiss.
“Well, are you coming to the Superior?” Miüsov asked Ivan abruptly.
“Why not? I was especially invited yesterday.”
“Unfortunately I feel myself compelled to go to this confounded dinner,” said Miüsov with the same irritability, regardless of the fact that the monk was listenin g. “We ought, at least, to apologize for the disturbance, and explain that it was not our doing. What do you think?”
“Yes, we must explain that it wasn’t our doing. Besides, father won’t be there,” observed Ivan.
“Well, I should hope not! Confound this dinner!”
They all walked on, however. The monk listened in silence. On the road through the copse he made one observation however—that the Father Superior had bee n waiting a long time, and that they were more than half an hour late. He received no answer. Miüsov looked with hatred at Ivan.
“Here he is, going to the dinner as though nothing had happened,” he thought. “A brazen face, and the conscience of a Karamazov!”
Chapter VII.
A Young Man Bent On A Career
Alyosha helped Father Zossima to his bedroom and seated him on his bed. It was a little room furnished with the bare necessities. There was a narrow iron bedst ead, with a strip of felt for a mattress. In the corner, under the ikons, was a readingdesk with a cross and the Gospel lying on it. The elder sank exhausted on the bed. His eyes glittered and he breathed hard. He looked intently at Alyosha, as though considering something.
“Go, my dear boy, go. Porfiry is enough for me. Make haste, you are needed there, go and wait at the Father Superior’s table.”
“Let me stay here,” Alyosha entreated.
“You are more needed there. There is no peace there. You will wait, and be of service. If evil spirits rise up, repeat a prayer. And remember, my son”—the elder liked to call him that—“this is not the place for you in the future. When it is God’s will to call me, leave the monastery. Go away for good.”
Alyosha started.
“What is it? This is not your place for the time. I bless you for great service in the world. Yours will be a long pilgrimage. And you will have to take a wife, too.
You will have to bear all before you come back. There will be much to do. But I don’t doubt of you, and so I send you forth. Christ is with you. Do not abandon Him and He will not abandon you. You will see great sorrow, and in that sorrow you will be happy. This is my last message to you: in sorrow seek happiness.
Work, work unceasingly. Remember my words, for although I shall talk with you again, not only my days but my hours are numbered.”
Alyosha’s face again betrayed strong emotion. The corners of his mouth quivered.
“What is it again?” Father Zossima asked, smiling gently. “The worldly may follow the dead with tears, but here we rejoice over the father who is departing. We rejoice and pray for him. Leave me, I must pray. Go, and make haste. Be near your brothers. And not near one only, but near both.”
Father Zossima raised his hand to bless him. Alyosha could make no protest, though he had a great longing to remain. He longed, moreover, to ask the significa nce of his bowing to Dmitri, the question was on the tip of his tongue, but he dared not ask it. He knew that the elder would have explained it unasked if he had t hought fit. But evidently it was not his will. That action had made a terrible impression on Alyosha; he believed blindly in its mysterious significance. Mysterio us, and perhaps awful.
As he hastened out of the hermitage precincts to reach the monastery in time to serve at the Father Superior’s dinner, he felt a sudden pang at his heart, and stop ped short. He seemed to hear again Father Zossima’s words, foretelling his approaching end. What he had foretold so exactly must infallibly come to pass. Alyo sha believed that implicitly. But how could he be left without him? How could he live without seeing and hearing him? Where should he go? He had told him n ot to weep, and to leave the monastery. Good God! It was long since Alyosha had known such anguish. He hurried through the copse that divided the monastery from the hermitage, and unable to bear the burden of his thoughts, he gazed at the ancient pines beside the path. He had not far to go—about five hundred paces
. He expected to meet no one at that hour, but at the first turn of the path he noticed Rakitin. He was waiting for some one.
“Are you waiting for me?” asked Alyosha, overtaking him.
“Yes,” grinned Rakitin. “You are hurrying to the Father Superior, I know; he has a banquet. There’s not been such a banquet since the Superior entertained the Bishop and General Pahatov, do you remember? I shan’t be there, but you go and hand the sauces. Tell me one thing, Alexey, what does that vision mean? That’
s what I want to ask you.”
“What vision?”
“That bowing to your brother, Dmitri. And didn’t he tap the ground with his forehead, too!”
“You speak of Father Zossima?”
“Yes, of Father Zossima.”
“Tapped the ground?”
“Ah, an irreverent expression! Well, what of it? Anyway, what does that vision mean?”
“I don’t know what it means, Misha.”
“I knew he wouldn’t explain it to you! There’s nothing wonderful about it, of course, only the usual holy mummery. But there was an object in the performance.
All the pious people in the town will talk about it and spread the story through the province, wondering what it meant. To my thinking the old man really has a keen nose; he sniffed a crime. Your house stinks of it.”
“What crime?”
Rakitin evidently had something he was eager to speak of.
“It’ll be in your family, this crime. Between your brothers and your rich old father. So Father Zossima flopped down to be ready for what may turn up. If someth ing happens later on, it’ll be: ‘Ah, the holy man foresaw it, prophesied it!’ though it’s a poor sort of prophecy, flopping like that. ‘Ah, but it was symbolic,’ they
’ll say, ‘an allegory,’ and the devil knows what all! It’ll be remembered to his glory: ‘He predicted the crime and marked the criminal!’ That’s always the way w ith these crazy fanatics; they cross themselves at the tavern and throw stones at the temple. Like your elder, he takes a stick to a just man and falls at the feet of a murderer.”
“What crime? What murderer? What do you mean?”
Alyosha stopped dead. Rakitin stopped, too.
“What murderer? As though you didn’t know! I’ll bet you’ve thought of it before. That’s interesting, too, by the way. Listen, Alyosha, you always speak the trut h, though you’re always between two stools. Have you thought of it or not? Answer.”
“I have,” answered Alyosha in a low voice. Even Rakitin was taken aback.
“What? Have you really?” he cried.
“I … I’ve not exactly thought it,” muttered Alyosha, “but directly you began speaking so strangely, I fancied I had thought of it myself.”
“You see? (And how well you expressed it!) Looking at your father and your brother Mitya today you thought of a crime. Then I’m not mistaken?”
“But wait, wait a minute,” Alyosha broke in uneasily. “What has led you to see all this? Why does it interest you? That’s the first question.”
“Two questions, disconnected, but natural. I’ll deal with them separately. What led me to see it? I shouldn’t have seen it, if I hadn’t suddenly understood your br other Dmitri, seen right into the very heart of him all at once. I caught the whole man from one trait. These very honest but passionate people have a line which mustn’t be crossed. If it were, he’d run at your father with a knife. But your father’s a drunken and abandoned old sinner, who can never draw the line—if they b oth let themselves go, they’ll both come to grief.”
“No, Misha, no. If that’s all, you’ve reassured me. It won’t come to that.”
“But why are you trembling? Let me tell you; he may be honest, our Mitya (he is stupid, but honest), but he’s—a sensualist. That’s the very definition and inner essence of him. It’s your father has handed him on his low sensuality. Do you know, I simply wonder at you, Alyosha, how you can have kept your purity. You’
re a Karamazov too, you know! In your family sensuality is carried to a disease. But now, these three sensualists are watching one another, with their knives in t heir belts. The three of them are knocking their heads together, and you may be the fourth.”
“You are mistaken about that woman. Dmitri—despises her,” said Alyosha, with a sort of shudder.
“Grushenka? No, brother, he doesn’t despise her. Since he has openly abandoned his betrothed for her, he doesn’t despise her. There’s something here, my dear boy, that you don’t understand yet. A man will fall in love with some beauty, with a woman’s body, or even with a part of a woman’s body (a sensualist can und erstand that), and he’ll abandon his own children for her, sell his father and mother, and his country, Russia, too. If he’s honest, he’ll steal; if he’s humane, he’ll murder; if he’s faithful, he’ll deceive. Pushkin, the poet of women’s feet, sung of their feet in his verse. Others don’t sing their praises, but they can’t look at thei r feet without a thrill—and it’s not only their feet. Contempt’s no help here, brother, even if he did despise Grushenka. He does, but he can’t tear himself away.”
“I understand that,” Alyosha jerked out suddenly.
“Really? Well, I dare say you do understand, since you blurt it out at the first word,” said Rakitin, malignantly. “That escaped you unawares, and the confession
’s the more precious. So it’s a familiar subject; you’ve thought about it already, about sensuality, I mean! Oh, you virgin soul! You’re a quiet one, Alyosha, you’
re a saint, I know, but the devil only knows what you’ve thought about, and what you know already! You are pure, but you’ve been down into the depths…. I’ve been watching you a long time. You’re a Karamazov yourself; you’re a thorough Karamazov—no doubt birth and selection have something to answer for. You’
re a sensualist from your father, a crazy saint from your mother. Why do you tremble? Is it true, then? Do you know, Grushenka has been begging me to bring y ou along. ‘I’ll pull off his cassock,’ she says. You can’t think how she keeps begging me to bring you. I wondered why she took such an interest in you. Do you know, she’s an extraordinary woman, too!”
“Thank her and say I’m not coming,” said Alyosha, with a strained smile. “Finish what you were saying, Misha. I’ll tell you my idea after.”
“There’s nothing to finish. It’s all clear. It’s the same old tune, brother. If even you are a sensualist at heart, what of your brother, Ivan? He’s a Karamazov, too.
What is at the root of all you Karamazovs is that you’re all sensual, grasping and crazy! Your brother Ivan writes theological articles in joke, for some idiotic, u nknown motive of his own, though he’s an atheist, and he admits it’s a fraud himself—that’s your brother Ivan. He’s trying to get Mitya’s betrothed for himself, and I fancy he’ll succeed, too. And what’s more, it’s with Mitya’s consent. For Mitya will surrender his betrothed to him to be rid of her, and escape to Grushen ka. And he’s ready to do that in spite of all his nobility and disinterestedness. Observe that. Those are the most fatal people! Who the devil can make you out? H
e recognizes his vileness and goes on with it! Let me tell you, too, the old man, your father, is standing in Mitya’s way now. He has suddenly gone crazy over G
rushenka. His mouth waters at the sight of her. It’s simply on her account he made that scene in the cell just now, simply because Miüsov called her an ‘abandon ed creature.’ He’s worse than a tomcat in love. At first she was only employed by him in connection with his taverns and in some other shady business, but now he has suddenly realized all she is and has gone wild about her. He keeps pestering her with his offers, not honorable ones, of course. And they’ll come into colli sion, the precious father and son, on that path! But Grushenka favors neither of them, she’s still playing with them, and teasing them both, considering which sh e can get most out of. For though she could filch a lot of money from the papa he wouldn’t marry her, and maybe he’ll turn stingy in the end, and keep his purse shut. That’s where Mitya’s value comes in; he has no money, but he’s ready to marry her. Yes, ready to marry her! to abandon his betrothed, a rare beauty, Kate rina Ivanovna, who’s rich, and the daughter of a colonel, and to marry Grushenka, who has been the mistress of a dissolute old merchant, Samsonov, a coarse, u neducated, provincial mayor. Some murderous conflict may well come to pass from all this, and that’s what your brother Ivan is waiting for. It would suit him d own to the ground. He’ll carry off Katerina Ivanovna, for whom he is languishing, and pocket her dowry of sixty thousand. That’s very alluring to start with, for a man of no consequence and a beggar. And, take note, he won’t be wronging Mitya, but doing him the greatest service. For I know as a fact that Mitya only las t week, when he was with some gypsy girls drunk in a tavern, cried out aloud that he was unworthy of his betrothed, Katya, but that his brother Ivan, he was the man who deserved her. And Katerina Ivanovna will not in the end refuse such a fascinating man as Ivan. She’s hesitating between the two of them already. And how has that Ivan won you all, so that you all worship him? He is laughing at you, and enjoying himself at your expense.”
“How do you know? How can you speak so confidently?” Alyosha asked sharply, frowning.
“Why do you ask, and are frightened at my answer? It shows that you know I’m speaking the truth.”
“You don’t like Ivan. Ivan wouldn’t be tempted by money.”
“Really? And the beauty of Katerina Ivanovna? It’s not only the money, though a fortune of sixty thousand is an attraction.”
“Ivan is above that. He wouldn’t make up to any one for thousands. It is not money, it’s not comfort Ivan is seeking. Perhaps it’s suffering he is seeking.”
“What wild dream now? Oh, you—aristocrats!”
“Ah, Misha, he has a stormy spirit. His mind is in bondage. He is haunted by a great, unsolved doubt. He is one of those who don’t want millions, but an answer to their questions.”
“That’s plagiarism, Alyosha. You’re quoting your elder’s phrases. Ah, Ivan has set you a problem!” cried Rakitin, with undisguised malice. His face changed, a nd his lips twitched. “And the problem’s a stupid one. It is no good guessing it. Rack your brains—you’ll understand it. His article is absurd and ridiculous. And did you hear his stupid theory just now: if there’s no immortality of the soul, then there’s no virtue, and everything is lawful. (And by the way, do you remembe r how your brother Mitya cried out: ‘I will remember!’) An attractive theory for scoundrels!—(I’m being abusive, that’s stupid.) Not for scoundrels, but for peda ntic poseurs, ‘haunted by profound, unsolved doubts.’ He’s showing off, and what it all comes to is, ‘on the one hand we cannot but admit’ and ‘on the other it must be confessed!’ His whole theory is a fraud! Humanity will find in itself the power to live for virtue even without believing in immortality. It will find it in l ove for freedom, for equality, for fraternity.”
Rakitin could hardly restrain himself in his heat, but, suddenly, as though remembering something, he stopped short.
“Well, that’s enough,” he said, with a still more crooked smile. “Why are you laughing? Do you think I’m a vulgar fool?”
“No, I never dreamed of thinking you a vulgar fool. You are clever but … never mind, I was silly to smile. I understand your getting hot about it, Misha. I guess from your warmth that you are not indifferent to Katerina Ivanovna yourself; I’ve suspected that for a long time, brother, that’s why you don’t like my brother I van. Are you jealous of him?”
“And jealous of her money, too? Won’t you add that?”
“I’ll say nothing about money. I am not going to insult you.”
“I believe it, since you say so, but confound you, and your brother Ivan with you. Don’t you understand that one might very well dislike him, apart from Katerin a Ivanovna. And why the devil should I like him? He condescends to abuse me, you know. Why haven’t I a right to abuse him?”
“I never heard of his saying anything about you, good or bad. He doesn’t speak of you at all.”
“But I heard that the day before yesterday at Katerina Ivanovna’s he was abusing me for all he was worth—you see what an interest he takes in your humble ser vant. And which is the jealous one after that, brother, I can’t say. He was so good as to express the opinion that, if I don’t go in for the career of an archimandrit e in the immediate future and don’t become a monk, I shall be sure to go to Petersburg and get on to some solid magazine as a reviewer, that I shall write for the next ten years, and in the end become the owner of the magazine, and bring it out on the liberal and atheistic side, with a socialistic tinge, with a tiny gloss of so cialism, but keeping a sharp look out all the time, that is, keeping in with both sides and hoodwinking the fools. According to your brother’s account, the tinge o f socialism won’t hinder me from laying by the proceeds and investing them under the guidance of some Jew, till at the end of my career I build a great house in Petersburg and move my publishing offices to it, and let out the upper stories to lodgers. He has even chosen the place for it, near the new stone bridge across th e Neva, which they say is to be built in Petersburg.”
“Ah, Misha, that’s just what will really happen, every word of it,” cried Alyosha, unable to restrain a goodhumored smile.
“You are pleased to be sarcastic, too, Alexey Fyodorovitch.”
“No, no, I’m joking, forgive me. I’ve something quite different in my mind. But, excuse me, who can have told you all this? You can’t have been at Katerina Iv anovna’s yourself when he was talking about you?”
“I wasn’t there, but Dmitri Fyodorovitch was; and I heard him tell it with my own ears; if you want to know, he didn’t tell me, but I overheard him, unintentiona lly, of course, for I was sitting in Grushenka’s bedroom and I couldn’t go away because Dmitri Fyodorovitch was in the next room.”
“Oh, yes, I’d forgotten she was a relation of yours.”
“A relation! That Grushenka a relation of mine!” cried Rakitin, turning crimson. “Are you mad? You’re out of your mind!”
“Why, isn’t she a relation of yours? I heard so.”
“Where can you have heard it? You Karamazovs brag of being an ancient, noble family, though your father used to run about playing the buffoon at other men’s tables, and was only admitted to the kitchen as a favor. I may be only a priest’s son, and dirt in the eyes of noblemen like you, but don’t insult me so lightly and wantonly. I have a sense of honor, too, Alexey Fyodorovitch, I couldn’t be a relation of Grushenka, a common harlot. I beg you to understand that!”
Rakitin was intensely irritated.
“Forgive me, for goodness’ sake, I had no idea … besides … how can you call her a harlot? Is she … that sort of woman?” Alyosha flushed suddenly. “I tell yo u again, I heard that she was a relation of yours. You often go to see her, and you told me yourself you’re not her lover. I never dreamed that you of all people h ad such contempt for her! Does she really deserve it?”
“I may have reasons of my own for visiting her. That’s not your business. But as for relationship, your brother, or even your father, is more likely to make her y ours than mine. Well, here we are. You’d better go to the kitchen. Hullo! what’s wrong, what is it? Are we late? They can’t have finished dinner so soon! Have t he Karamazovs been making trouble again? No doubt they have. Here’s your father and your brother Ivan after him. They’ve broken out from the Father Superi or’s. And look, Father Isidor’s shouting out something after them from the steps. And your father’s shouting and waving his arms. I expect he’s swearing. Bah, and there goes Miüsov driving away in his carriage. You see, he’s going. And there’s old Maximov running!—there must have been a row. There can’t have bee n any dinner. Surely they’ve not been beating the Father Superior! Or have they, perhaps, been beaten? It would serve them right!”
There was reason for Rakitin’s exclamations. There had been a scandalous, an unprecedented scene. It had all come from the impulse of a moment.
Chapter VIII.
The Scandalous Scene
Miüsov, as a man of breeding and delicacy, could not but feel some inward qualms, when he reached the Father Superior’s with Ivan: he felt ashamed of having lost his temper. He felt that he ought to have disdained that despicable wretch, Fyodor Pavlovitch, too much to have been upset by him in Father Zossima’s cell, and so to have forgotten himself. “The monks were not to blame, in any case,” he reflected, on the steps. “And if they’re decent people here (and the Father Sup erior, I understand, is a nobleman) why not be friendly and courteous with them? I won’t argue, I’ll fall in with everything, I’ll win them by politeness, and … a nd … show them that I’ve nothing to do with that Æsop, that buffoon, that Pierrot, and have merely been taken in over this affair, just as they have.”
He determined to drop his litigation with the monastery, and relinquish his claims to the woodcutting and fishery rights at once. He was the more ready to do thi s because the rights had become much less valuable, and he had indeed the vaguest idea where the wood and river in question were.
These excellent intentions were strengthened when he entered the Father Superior’s diningroom, though, strictly speaking, it was not a dining room, for the Fath er Superior had only two rooms altogether; they were, however, much larger and more comfortable than Father Zossima’s. But there was no great luxury about t he furnishing of these rooms either. The furniture was of mahogany, covered with leather, in the oldfashioned style of 1820; the floor was not even stained, but e verything was shining with cleanliness, and there were many choice flowers in the windows; the most sumptuous thing in the room at the moment was, of cours e, the beautifully decorated table. The cloth was clean, the service shone; there were three kinds of wellbaked bread, two bottles of wine, two of excellent mead, and a large glass jug of kvas—both the latter made in the monastery, and famous in the neighborhood. There was no vodka. Rakitin related afterwards that there were five dishes: fishsoup made of sterlets, served with little fish patties; then boiled fish served in a special way; then salmon cutlets, ice pudding and compote
, and finally, blancmange. Rakitin found out about all these good things, for he could not resist peeping into the kitchen, where he already had a footing. He had a footing everywhere, and got information about everything. He was of an uneasy and envious temper. He was well aware of his own considerable abilities, and nervously exaggerated them in his selfconceit. He knew he would play a prominent part of some sort, but Alyosha, who was attached to him, was distressed to s ee that his friend Rakitin was dishonorable, and quite unconscious of being so himself, considering, on the contrary, that because he would not steal money left on the table he was a man of the highest integrity. Neither Alyosha nor any one else could have influenced him in that.
Rakitin, of course, was a person of too little consequence to be invited to the dinner, to which Father Iosif, Father Païssy, and one other monk were the only inm ates of the monastery invited. They were already waiting when Miüsov, Kalganov, and Ivan arrived. The other guest, Maximov, stood a little aside, waiting also
. The Father Superior stepped into the middle of the room to receive his guests. He was a tall, thin, but still vigorous old man, with black hair streaked with gray, and a long, grave, ascetic face. He bowed to his guests in silence. But this time they approached to receive his blessing. Miüsov even tried to kiss his hand, but t he Father Superior drew it back in time to avoid the salute. But Ivan and Kalganov went through the ceremony in the most simplehearted and complete manner, kissing his hand as peasants do.
“We must apologize most humbly, your reverence,” began Miüsov, simpering affably, and speaking in a dignified and respectful tone. “Pardon us for having co me alone without the gentleman you invited, Fyodor Pavlovitch. He felt obliged to decline the honor of your hospitality, and not without reason. In the reverend Father Zossima’s cell he was carried away by the unhappy dissension with his son, and let fall words which were quite out of keeping … in fact, quite unseemly
… as”—he glanced at the monks—“your reverence is, no doubt, already aware. And therefore, recognizing that he had been to blame, he felt sincere regret and shame, and begged me, and his son Ivan Fyodorovitch, to convey to you his apologies and regrets. In brief, he hopes and desires to make amends later. He asks your blessing, and begs you to forget what has taken place.”
As he uttered the last word of his tirade, Miüsov completely recovered his selfcomplacency, and all traces of his former irritation disappeared. He fully and sinc erely loved humanity again.
The Father Superior listened to him with dignity, and, with a slight bend of the head, replied:
“I sincerely deplore his absence. Perhaps at our table he might have learnt to like us, and we him. Pray be seated, gentlemen.”
He stood before the holy image, and began to say grace, aloud. All bent their heads reverently, and Maximov clasped his hands before him, with peculiar fervor.
It was at this moment that Fyodor Pavlovitch played his last prank. It must be noted that he really had meant to go home, and really had felt the impossibility of going to dine with the Father Superior as though nothing had happened, after his disgraceful behavior in the elder’s cell. Not that he was so very much ashamed of himself—quite the contrary perhaps. But still he felt it would be unseemly to go to dinner. Yet his creaking carriage had hardly been brought to the steps of th e hotel, and he had hardly got into it, when he suddenly stopped short. He remembered his own words at the elder’s: “I always feel when I meet people that I am lower than all, and that they all take me for a buffoon; so I say let me play the buffoon, for you are, every one of you, stupider and lower than I.” He longed to r evenge himself on every one for his own unseemliness. He suddenly recalled how he had once in the past been asked, “Why do you hate so and so, so much?” A nd he had answered them, with his shameless impudence, “I’ll tell you. He has done me no harm. But I played him a dirty trick, and ever since I have hated him.

Remembering that now, he smiled quietly and malignantly, hesitating for a moment. His eyes gleamed, and his lips positively quivered. “Well, since I have beg un, I may as well go on,” he decided. His predominant sensation at that moment might be expressed in the following words, “Well, there is no rehabilitating my self now. So let me shame them for all I am worth. I will show them I don’t care what they think—that’s all!”
He told the coachman to wait, while with rapid steps he returned to the monastery and straight to the Father Superior’s. He had no clear idea what he would do, but he knew that he could not control himself, and that a touch might drive him to the utmost limits of obscenity, but only to obscenity, to nothing criminal, noth ing for which he could be legally punished. In the last resort, he could always restrain himself, and had marveled indeed at himself, on that score, sometimes. He appeared in the Father Superior’s diningroom, at the moment when the prayer was over, and all were moving to the table. Standing in the doorway, he scanned the company, and laughing his prolonged, impudent, malicious chuckle, looked them all boldly in the face. “They thought I had gone, and here I am again,” he c ried to the whole room.
For one moment every one stared at him without a word; and at once every one felt that something revolting, grotesque, positively scandalous, was about to hap pen. Miüsov passed immediately from the most benevolent frame of mind to the most savage. All the feelings that had subsided and died down in his heart reviv ed instantly.
“No! this I cannot endure!” he cried. “I absolutely cannot! and … I certainly cannot!”
The blood rushed to his head. He positively stammered; but he was beyond thinking of style, and he seized his hat.
“What is it he cannot?” cried Fyodor Pavlovitch, “that he absolutely cannot and certainly cannot? Your reverence, am I to come in or not? Will you receive me a s your guest?”
“You are welcome with all my heart,” answered the Superior. “Gentlemen!” he added, “I venture to beg you most earnestly to lay aside your dissensions, and to be united in love and family harmony—with prayer to the Lord at our humble table.”
“No, no, it is impossible!” cried Miüsov, beside himself.
“Well, if it is impossible for Pyotr Alexandrovitch, it is impossible for me, and I won’t stop. That is why I came. I will keep with Pyotr Alexandrovitch everywh ere now. If you will go away, Pyotr Alexandrovitch, I will go away too, if you remain, I will remain. You stung him by what you said about family harmony, Fa ther Superior, he does not admit he is my relation. That’s right, isn’t it, von Sohn? Here’s von Sohn. How are you, von Sohn?”
“Do you mean me?” muttered Maximov, puzzled.
“Of course I mean you,” cried Fyodor Pavlovitch. “Who else? The Father Superior could not be von Sohn.”
“But I am not von Sohn either. I am Maximov.”
“No, you are von Sohn. Your reverence, do you know who von Sohn was? It was a famous murder case. He was killed in a house of harlotry—I believe that is what such places are called among you—he was killed and robbed, and in spite of his venerable age, he was nailed up in a box and sent from Petersburg to Mos cow in the luggage van, and while they were nailing him up, the harlots sang songs and played the harp, that is to say, the piano. So this is that very von Sohn. H
e has risen from the dead, hasn’t he, von Sohn?”
“What is happening? What’s this?” voices were heard in the group of monks.
“Let us go,” cried Miüsov, addressing Kalganov.
“No, excuse me,” Fyodor Pavlovitch broke in shrilly, taking another step into the room. “Allow me to finish. There in the cell you blamed me for behaving disre spectfully just because I spoke of eating gudgeon, Pyotr Alexandrovitch. Miüsov, my relation, prefers to have plus de noblesse que de sincérité in his words, but I prefer in mine plus de sincérité que de noblesse, and—damn the noblesse! That’s right, isn’t it, von Sohn? Allow me, Father Superior, though I am a buffoon and play the buffoon, yet I am the soul of honor, and I want to speak my mind. Yes, I am the soul of honor, while in Pyotr Alexandrovitch there is wounded vani ty and nothing else. I came here perhaps to have a look and speak my mind. My son, Alexey, is here, being saved. I am his father; I care for his welfare, and it is my duty to care. While I’ve been playing the fool, I have been listening and having a look on the sly; and now I want to give you the last act of the performance
. You know how things are with us? As a thing falls, so it lies. As a thing once has fallen, so it must lie for ever. Not a bit of it! I want to get up again. Holy Fath er, I am indignant with you. Confession is a great sacrament, before which I am ready to bow down reverently; but there in the cell, they all kneel down and con fess aloud. Can it be right to confess aloud? It was ordained by the holy Fathers to confess in secret: then only your confession will be a mystery, and so it was o f old. But how can I explain to him before every one that I did this and that … well, you understand what—sometimes it would not be proper to talk about it—s o it is really a scandal! No, Fathers, one might be carried along with you to the Flagellants, I dare say … at the first opportunity I shall write to the Synod, and I shall take my son, Alexey, home.”
We must note here that Fyodor Pavlovitch knew where to look for the weak spot. There had been at one time malicious rumors which had even reached the Arc hbishop (not only regarding our monastery, but in others where the institution of elders existed) that too much respect was paid to the elders, even to the detrime nt of the authority of the Superior, that the elders abused the sacrament of confession and so on and so on—absurd charges which had died away of themselves e verywhere. But the spirit of folly, which had caught up Fyodor Pavlovitch, and was bearing him on the current of his own nerves into lower and lower depths of ignominy, prompted him with this old slander. Fyodor Pavlovitch did not understand a word of it, and he could not even put it sensibly, for on this occasion no o ne had been kneeling and confessing aloud in the elder’s cell, so that he could not have seen anything of the kind. He was only speaking from confused memory of old slanders. But as soon as he had uttered his foolish tirade, he felt he had been talking absurd nonsense, and at once longed to prove to his audience, and ab ove all to himself, that he had not been talking nonsense. And, though he knew perfectly well that with each word he would be adding more and more absurdity, he could not restrain himself, and plunged forward blindly.
“How disgraceful!” cried Pyotr Alexandrovitch.
“Pardon me!” said the Father Superior. “It was said of old, ‘Many have begun to speak against me and have uttered evil sayings about me. And hearing it I have said to myself: it is the correction of the Lord and He has sent it to heal my vain soul.’ And so we humbly thank you, honored guest!” and he made Fyodor Pavl ovitch a low bow.
“Tut—tut—tut—sanctimoniousness and stock phrases! Old phrases and old gestures. The old lies and formal prostrations. We know all about them. A kiss on th e lips and a dagger in the heart, as in Schiller’s Robbers. I don’t like falsehood, Fathers, I want the truth. But the truth is not to be found in eating gudgeon and t hat I proclaim aloud! Father monks, why do you fast? Why do you expect reward in heaven for that? Why, for reward like that I will come and fast too! No, sain tly monk, you try being virtuous in the world, do good to society, without shutting yourself up in a monastery at other people’s expense, and without expecting a reward up aloft for it—you’ll find that a bit harder. I can talk sense, too, Father Superior. What have they got here?” He went up to the table. “Old port wine, m ead brewed by the Eliseyev Brothers. Fie, fie, fathers! That is something beyond gudgeon. Look at the bottles the fathers have brought out, he he he! And who h as provided it all? The Russian peasant, the laborer, brings here the farthing earned by his horny hand, wringing it from his family and the taxgatherer! You blee d the people, you know, holy fathers.”
“This is too disgraceful!” said Father Iosif.
Father Païssy kept obstinately silent. Miüsov rushed from the room, and Kalganov after him.
“Well, Father, I will follow Pyotr Alexandrovitch! I am not coming to see you again. You may beg me on your knees, I shan’t come. I sent you a thousand roubl es, so you have begun to keep your eye on me. He he he! No, I’ll say no more. I am taking my revenge for my youth, for all the humiliation I endured.” He thum ped the table with his fist in a paroxysm of simulated feeling. “This monastery has played a great part in my life! It has cost me many bitter tears. You used to se t my wife, the crazy one, against me. You cursed me with bell and book, you spread stories about me all over the place. Enough, fathers! This is the age of Liber
alism, the age of steamers and railways. Neither a thousand, nor a hundred roubles, no, nor a hundred farthings will you get out of me!”
It must be noted again that our monastery never had played any great part in his life, and he never had shed a bitter tear owing to it. But he was so carried away by his simulated emotion, that he was for one moment almost believing it himself. He was so touched he was almost weeping. But at that very instant, he felt tha t it was time to draw back.
The Father Superior bowed his head at his malicious lie, and again spoke impressively:
“It is written again, ‘Bear circumspectly and gladly dishonor that cometh upon thee by no act of thine own, be not confounded and hate not him who hath dishon ored thee.’ And so will we.”
“Tut, tut, tut! Bethinking thyself and the rest of the rigmarole. Bethink yourselves, Fathers, I will go. But I will take my son, Alexey, away from here for ever, o n my parental authority. Ivan Fyodorovitch, my most dutiful son, permit me to order you to follow me. Von Sohn, what have you to stay for? Come and see me now in the town. It is fun there. It is only one short verst; instead of lenten oil, I will give you suckingpig and kasha. We will have dinner with some brandy and liqueur to it…. I’ve cloudberry wine. Hey, von Sohn, don’t lose your chance.” He went out, shouting and gesticulating.
It was at that moment Rakitin saw him and pointed him out to Alyosha.
“Alexey!” his father shouted, from far off, catching sight of him. “You come home to me today, for good, and bring your pillow and mattress, and leave no trace behind.”
Alyosha stood rooted to the spot, watching the scene in silence. Meanwhile, Fyodor Pavlovitch had got into the carriage, and Ivan was about to follow him in gri m silence without even turning to say goodby to Alyosha. But at this point another almost incredible scene of grotesque buffoonery gave the finishing touch to t he episode. Maximov suddenly appeared by the side of the carriage. He ran up, panting, afraid of being too late. Rakitin and Alyosha saw him running. He was i n such a hurry that in his impatience he put his foot on the step on which Ivan’s left foot was still resting, and clutching the carriage he kept trying to jump in. “I am going with you!” he kept shouting, laughing a thin mirthful laugh with a look of reckless glee in his face. “Take me, too.”
“There!” cried Fyodor Pavlovitch, delighted. “Did I not say he was von Sohn. It is von Sohn himself, risen from the dead. Why, how did you tear yourself away
? What did you vonsohn there? And how could you get away from the dinner? You must be a brazenfaced fellow! I am that myself, but I am surprised at you, br other! Jump in, jump in! Let him pass, Ivan. It will be fun. He can lie somewhere at our feet. Will you lie at our feet, von Sohn? Or perch on the box with the co achman. Skip on to the box, von Sohn!”
But Ivan, who had by now taken his seat, without a word gave Maximov a violent punch in the breast and sent him flying. It was quite by chance he did not fall.
“Drive on!” Ivan shouted angrily to the coachman.
“Why, what are you doing, what are you about? Why did you do that?” Fyodor Pavlovitch protested.
But the carriage had already driven away. Ivan made no reply.
“Well, you are a fellow,” Fyodor Pavlovitch said again.
After a pause of two minutes, looking askance at his son, “Why, it was you got up all this monastery business. You urged it, you approved of it. Why are you an gry now?”
“You’ve talked rot enough. You might rest a bit now,” Ivan snapped sullenly.
Fyodor Pavlovitch was silent again for two minutes.
“A drop of brandy would be nice now,” he observed sententiously, but Ivan made no response.
“You shall have some, too, when we get home.”
Ivan was still silent.
Fyodor Pavlovitch waited another two minutes.
“But I shall take Alyosha away from the monastery, though you will dislike it so much, most honored Karl von Moor.”
Ivan shrugged his shoulders contemptuously, and turning away stared at the road. And they did not speak again all the way home.
Book III. The Sensualists
Chapter I.
In The Servants’ Quarters
The Karamazovs’ house was far from being in the center of the town, but it was not quite outside it. It was a pleasantlooking old house of two stories, painted gr
ay, with a red iron roof. It was roomy and snug, and might still last many years. There were all sorts of unexpected little cupboards and closets and staircases. T
here were rats in it, but Fyodor Pavlovitch did not altogether dislike them. “One doesn’t feel so solitary when one’s left alone in the evening,” he used to say. It was his habit to send the servants away to the lodge for the night and to lock himself up alone. The lodge was a roomy and solid building in the yard. Fyodor Pa vlovitch used to have the cooking done there, although there was a kitchen in the house; he did not like the smell of cooking, and, winter and summer alike, the dishes were carried in across the courtyard. The house was built for a large family; there was room for five times as many, with their servants. But at the time of our story there was no one living in the house but Fyodor Pavlovitch and his son Ivan. And in the lodge there were only three servants: old Grigory, and his old wife Marfa, and a young man called Smerdyakov. Of these three we must say a few words. Of old Grigory we have said something already. He was firm and det ermined and went blindly and obstinately for his object, if once he had been brought by any reasons (and they were often very illogical ones) to believe that it w as immutably right. He was honest and incorruptible. His wife, Marfa Ignatyevna, had obeyed her husband’s will implicitly all her life, yet she had pestered him terribly after the emancipation of the serfs. She was set on leaving Fyodor Pavlovitch and opening a little shop in Moscow with their small savings. But Grigory decided then, once for all, that “the woman’s talking nonsense, for every woman is dishonest,” and that they ought not to leave their old master, whatever he mi ght be, for “that was now their duty.”
“Do you understand what duty is?” he asked Marfa Ignatyevna.
“I understand what duty means, Grigory Vassilyevitch, but why it’s our duty to stay here I never shall understand,” Marfa answered firmly.
“Well, don’t understand then. But so it shall be. And you hold your tongue.”
And so it was. They did not go away, and Fyodor Pavlovitch promised them a small sum for wages, and paid it regularly. Grigory knew, too, that he had an indi sputable influence over his master. It was true, and he was aware of it. Fyodor Pavlovitch was an obstinate and cunning buffoon, yet, though his will was strong enough “in some of the affairs of life,” as he expressed it, he found himself, to his surprise, extremely feeble in facing certain other emergencies. He knew his w eaknesses and was afraid of them. There are positions in which one has to keep a sharp look out. And that’s not easy without a trustworthy man, and Grigory wa s a most trustworthy man. Many times in the course of his life Fyodor Pavlovitch had only just escaped a sound thrashing through Grigory’s intervention, and o n each occasion the old servant gave him a good lecture. But it wasn’t only thrashings that Fyodor Pavlovitch was afraid of. There were graver occasions, and v ery subtle and complicated ones, when Fyodor Pavlovitch could not have explained the extraordinary craving for some one faithful and devoted, which sometim es unaccountably came upon him all in a moment. It was almost a morbid condition. Corrupt and often cruel in his lust, like some noxious insect, Fyodor Pavlov itch was sometimes, in moments of drunkenness, overcome by superstitious terror and a moral convulsion which took an almost physical form. “My soul’s simp ly quaking in my throat at those times,” he used to say. At such moments he liked to feel that there was near at hand, in the lodge if not in the room, a strong, fai thful man, virtuous and unlike himself, who had seen all his debauchery and knew all his secrets, but was ready in his devotion to overlook all that, not to oppos e him, above all, not to reproach him or threaten him with anything, either in this world or in the next, and, in case of need, to defend him—from whom? From s omebody unknown, but terrible and dangerous. What he needed was to feel that there was another man, an old and tried friend, that he might call him in his sick moments merely to look at his face, or, perhaps, exchange some quite irrelevant words with him. And if the old servant were not angry, he felt comforted, and i f he were angry, he was more dejected. It happened even (very rarely however) that Fyodor Pavlovitch went at night to the lodge to wake Grigory and fetch him for a moment. When the old man came, Fyodor Pavlovitch would begin talking about the most trivial matters, and would soon let him go again, sometimes even with a jest. And after he had gone, Fyodor Pavlovitch would get into bed with a curse and sleep the sleep of the just. Something of the same sort had happened t o Fyodor Pavlovitch on Alyosha’s arrival. Alyosha “pierced his heart” by “living with him, seeing everything and blaming nothing.” Moreover, Alyosha brough t with him something his father had never known before: a complete absence of contempt for him and an invariable kindness, a perfectly natural unaffected devotion to the old man who deserved it so little. All this was a complete surprise to the old profligate, who had dropped all family ties. It was a new and surprising experience for him, who had till then loved nothing but “evil.” When Alyosha had left him, he confessed to himself that he had learnt something he had not till then been willing to learn.
I have mentioned already that Grigory had detested Adelaïda Ivanovna, the first wife of Fyodor Pavlovitch and the mother of Dmitri, and that he had, on the con trary, protected Sofya Ivanovna, the poor “crazy woman,” against his master and any one who chanced to speak ill or lightly of her. His sympathy for the unhap py wife had become something sacred to him, so that even now, twenty years after, he could not bear a slighting allusion to her from any one, and would at once check the offender. Externally, Grigory was cold, dignified and taciturn, and spoke, weighing his words, without frivolity. It was impossible to tell at first sight whether he loved his meek, obedient wife; but he really did love her, and she knew it.
Marfa Ignatyevna was by no means foolish; she was probably, indeed, cleverer than her husband, or, at least, more prudent than he in worldly affairs, and yet sh e had given in to him in everything without question or complaint ever since her marriage, and respected him for his spiritual superiority. It was remarkable how little they spoke to one another in the course of their lives, and only of the most necessary daily affairs. The grave and dignified Grigory thought over all his car es and duties alone, so that Marfa Ignatyevna had long grown used to knowing that he did not need her advice. She felt that her husband respected her silence, a nd took it as a sign of her good sense. He had never beaten her but once, and then only slightly. Once during the year after Fyodor Pavlovitch’s marriage with A delaïda Ivanovna, the village girls and women—at that time serfs—were called together before the house to sing and dance. They were beginning “In the Green Meadows,” when Marfa, at that time a young woman, skipped forward and danced “the Russian Dance,” not in the village fashion, but as she had danced it whe n she was a servant in the service of the rich Miüsov family, in their private theater, where the actors were taught to dance by a dancing master from Moscow. G
rigory saw how his wife danced, and, an hour later, at home in their cottage he gave her a lesson, pulling her hair a little. But there it ended: the beating was nev er repeated, and Marfa Ignatyevna gave up dancing.
God had not blessed them with children. One child was born but it died. Grigory was fond of children, and was not ashamed of showing it. When Adelaïda Ivan ovna had run away, Grigory took Dmitri, then a child of three years old, combed his hair and washed him in a tub with his own hands, and looked after him for almost a year. Afterwards he had looked after Ivan and Alyosha, for which the general’s widow had rewarded him with a slap in the face; but I have already rela ted all that. The only happiness his own child had brought him had been in the anticipation of its birth. When it was born, he was overwhelmed with grief and ho rror. The baby had six fingers. Grigory was so crushed by this, that he was not only silent till the day of the christening, but kept away in the garden. It was sprin g, and he spent three days digging the kitchen garden. The third day was fixed for christening the baby: meantime Grigory had reached a conclusion. Going into the cottage where the clergy were assembled and the visitors had arrived, including Fyodor Pavlovitch, who was to stand god father, he suddenly announced that the baby “ought not to be christened at all.” He announced this quietly, briefly, forcing out his words, and gazing with dull intentness at the priest.
“Why not?” asked the priest with goodhumored surprise.
“Because it’s a dragon,” muttered Grigory.
“A dragon? What dragon?”
Grigory did not speak for some time. “It’s a confusion of nature,” he muttered vaguely, but firmly, and obviously unwilling to say more.
They laughed, and of course christened the poor baby. Grigory prayed earnestly at the font, but his opinion of the newborn child remained unchanged. Yet he di d not interfere in any way. As long as the sickly infant lived he scarcely looked at it, tried indeed not to notice it, and for the most part kept out of the cottage. B
ut when, at the end of a fortnight, the baby died of thrush, he himself laid the child in its little coffin, looked at it in profound grief, and when they were filling u p the shallow little grave he fell on his knees and bowed down to the earth. He did not for years afterwards mention his child, nor did Marfa speak of the baby b efore him, and, even if Grigory were not present, she never spoke of it above a whisper. Marfa observed that, from the day of the burial, he devoted himself to “r eligion,” and took to reading the Lives of the Saints, for the most part sitting alone and in silence, and always putting on his big, round, silverrimmed spectacles.
He rarely read aloud, only perhaps in Lent. He was fond of the Book of Job, and had somehow got hold of a copy of the sayings and sermons of “the Godfearin g Father Isaac the Syrian,” which he read persistently for years together, understanding very little of it, but perhaps prizing and loving it the more for that. Of lat e he had begun to listen to the doctrines of the sect of Flagellants settled in the neighborhood. He was evidently shaken by them, but judged it unfitting to go ove r to the new faith. His habit of theological reading gave him an expression of still greater gravity.
He was perhaps predisposed to mysticism. And the birth of his deformed child, and its death, had, as though by special design, been accompanied by another str ange and marvelous event, which, as he said later, had left a “stamp” upon his soul. It happened that, on the very night after the burial of his child, Marfa was a wakened by the wail of a newborn baby. She was frightened and waked her husband. He listened and said he thought it was more like some one groaning, “it mi ght be a woman.” He got up and dressed. It was a rather warm night in May. As he went down the steps, he distinctly heard groans coming from the garden. But the gate from the yard into the garden was locked at night, and there was no other way of entering it, for it was enclosed all round by a strong, high fence. Goin g back into the house, Grigory lighted a lantern, took the garden key, and taking no notice of the hysterical fears of his wife, who was still persuaded that she he ard a child crying, and that it was her own baby crying and calling for her, went into the garden in silence. There he heard at once that the groans came from the bathhouse that stood near the garden gate, and that they were the groans of a woman. Opening the door of the bathhouse, he saw a sight which petrified him. An idiot girl, who wandered about the streets and was known to the whole town by the nickname of Lizaveta Smerdyastchaya (Stinking Lizaveta), had got into the bath house and had just given birth to a child. She lay dying with the baby beside her. She said nothing, for she had never been able to speak. But her story need s a chapter to itself.
Chapter II.
Lizaveta
There was one circumstance which struck Grigory particularly, and confirmed a very unpleasant and revolting suspicion. This Lizaveta was a dwarfish creature,
“not five foot within a wee bit,” as many of the pious old women said pathetically about her, after her death. Her broad, healthy, red face had a look of blank idi ocy and the fixed stare in her eyes was unpleasant, in spite of their meek expression. She wandered about, summer and winter alike, barefooted, wearing nothing but a hempen smock. Her coarse, almost black hair curled like lamb’s wool, and formed a sort of huge cap on her head. It was always crusted with mud, and ha d leaves, bits of stick, and shavings clinging to it, as she always slept on the ground and in the dirt. Her father, a homeless, sickly drunkard, called Ilya, had lost everything and lived many years as a workman with some welltodo tradespeople. Her mother had long been dead. Spiteful and diseased, Ilya used to beat Lizav eta inhumanly whenever she returned to him. But she rarely did so, for every one in the town was ready to look after her as being an idiot, and so specially dear t o God. Ilya’s employers, and many others in the town, especially of the tradespeople, tried to clothe her better, and always rigged her out with high boots and sh eepskin coat for the winter. But, although she allowed them to dress her up without resisting, she usually went away, preferably to the cathedral porch, and takin g off all that had been given her—kerchief, sheepskin, skirt or boots—she left them there and walked away barefoot in her smock as before. It happened on one occasion that a new governor of the province, making a tour of inspection in our town, saw Lizaveta, and was wounded in his tenderest susceptibilities. And tho ugh he was told she was an idiot, he pronounced that for a young woman of twenty to wander about in nothing but a smock was a breach of the proprieties, and must not occur again. But the governor went his way, and Lizaveta was left as she was. At last her father died, which made her even more acceptable in the eyes of the religious persons of the town, as an orphan. In fact, every one seemed to like her; even the boys did not tease her, and the boys of our town, especially the schoolboys, are a mischievous set. She would walk into strange houses, and no one drove her away. Every one was kind to her and gave her something. If she were given a copper, she would take it, and at once drop it in the almsjug of the church or prison. If she were given a roll or bun in the market, she would hand it to the first child she met. Sometimes she would stop one of the richest ladies in the town and give it to her, and the lady would be pleased to take it. She herself never tasted anything but black bread and water. If she went into an expensive shop, where there were costly goods or money lying about, no one kept watch on her, for they knew that if she saw thousands of roubles overlooked by them, she would not have touched a farthing. She scarcely ever went to church. She slept either in the church porch or climbed over a hurdle (there are many hurdles instead of fences to this day in our town) into a kitchen garden. She used at least onc e a week to turn up “at home,” that is at the house of her father’s former employers, and in the winter went there every night, and slept either in the passage or th e cowhouse. People were amazed that she could stand such a life, but she was accustomed to it, and, although she was so tiny, she was of a robust constitution.
Some of the townspeople declared that she did all this only from pride, but that is hardly credible. She could hardly speak, and only from time to time uttered an inarticulate grunt. How could she have been proud?
It happened one clear, warm, moonlight night in September (many years ago) five or six drunken revelers were returning from the club at a very late hour, accor ding to our provincial notions. They passed through the “back way,” which led between the back gardens of the houses, with hurdles on either side. This way lea ds out on to the bridge over the long, stinking pool which we were accustomed to call a river. Among the nettles and burdocks under the hurdle our revelers saw Lizaveta asleep. They stopped to look at her, laughing, and began jesting with unbridled licentiousness. It occurred to one young gentleman to make the whimsi cal inquiry whether any one could possibly look upon such an animal as a woman, and so forth…. They all pronounced with lofty repugnance that it was imposs ible. But Fyodor Pavlovitch, who was among them, sprang forward and declared that it was by no means impossible, and that, indeed, there was a certain piquan cy about it, and so on…. It is true that at that time he was overdoing his part as a buffoon. He liked to put himself forward and entertain the company, ostensibly on equal terms, of course, though in reality he was on a servile footing with them. It was just at the time when he had received the news of his first wife’s death
in Petersburg, and, with crape upon his hat, was drinking and behaving so shamelessly that even the most reckless among us were shocked at the sight of him. T
he revelers, of course, laughed at this unexpected opinion; and one of them even began challenging him to act upon it. The others repelled the idea even more e mphatically, although still with the utmost hilarity, and at last they went on their way. Later on, Fyodor Pavlovitch swore that he had gone with them, and perha ps it was so, no one knows for certain, and no one ever knew. But five or six months later, all the town was talking, with intense and sincere indignation, of Liza veta’s condition, and trying to find out who was the miscreant who had wronged her. Then suddenly a terrible rumor was all over the town that this miscreant w as no other than Fyodor Pavlovitch. Who set the rumor going? Of that drunken band five had left the town and the only one still among us was an elderly and m uch respected civil councilor, the father of grownup daughters, who could hardly have spread the tale, even if there had been any foundation for it. But rumor po inted straight at Fyodor Pavlovitch, and persisted in pointing at him. Of course this was no great grievance to him: he would not have troubled to contradict a set of tradespeople. In those days he was proud, and did not condescend to talk except in his own circle of the officials and nobles, whom he entertained so well.
At the time, Grigory stood up for his master vigorously. He provoked quarrels and altercations in defense of him and succeeded in bringing some people round t o his side. “It’s the wench’s own fault,” he asserted, and the culprit was Karp, a dangerous convict, who had escaped from prison and whose name was well kno wn to us, as he had hidden in our town. This conjecture sounded plausible, for it was remembered that Karp had been in the neighborhood just at that time in the autumn, and had robbed three people. But this affair and all the talk about it did not estrange popular sympathy from the poor idiot. She was better looked after than ever. A welltodo merchant’s widow named Kondratyev arranged to take her into her house at the end of April, meaning not to let her go out until after the c onfinement. They kept a constant watch over her, but in spite of their vigilance she escaped on the very last day, and made her way into Fyodor Pavlovitch’s gar den. How, in her condition, she managed to climb over the high, strong fence remained a mystery. Some maintained that she must have been lifted over by some body; others hinted at something more uncanny. The most likely explanation is that it happened naturally—that Lizaveta, accustomed to clambering over hurdle s to sleep in gardens, had somehow managed to climb this fence, in spite of her condition, and had leapt down, injuring herself.
Grigory rushed to Marfa and sent her to Lizaveta, while he ran to fetch an old midwife who lived close by. They saved the baby, but Lizaveta died at dawn. Grig ory took the baby, brought it home, and making his wife sit down, put it on her lap. “A child of God—an orphan is akin to all,” he said, “and to us above others.
Our little lost one has sent us this, who has come from the devil’s son and a holy innocent. Nurse him and weep no more.”
So Marfa brought up the child. He was christened Pavel, to which people were not slow in adding Fyodorovitch (son of Fyodor). Fyodor Pavlovitch did not obje ct to any of this, and thought it amusing, though he persisted vigorously in denying his responsibility. The townspeople were pleased at his adopting the foundli ng. Later on, Fyodor Pavlovitch invented a surname for the child, calling him Smerdyakov, after his mother’s nickname.
So this Smerdyakov became Fyodor Pavlovitch’s second servant, and was living in the lodge with Grigory and Marfa at the time our story begins. He was empl oyed as cook. I ought to say something of this Smerdyakov, but I am ashamed of keeping my readers’ attention so long occupied with these common menials, a nd I will go back to my story, hoping to say more of Smerdyakov in the course of it.
Chapter III.
The Confession Of A Passionate Heart—In Verse
Alyosha remained for some time irresolute after hearing the command his father shouted to him from the carriage. But in spite of his uneasiness he did not stand still. That was not his way. He went at once to the kitchen to find out what his father had been doing above. Then he set off, trusting that on the way he would fi nd some answer to the doubt tormenting him. I hasten to add that his father’s shouts, commanding him to return home “with his mattress and pillow” did not fri ghten him in the least. He understood perfectly that those peremptory shouts were merely “a flourish” to produce an effect. In the same way a tradesman in our t own who was celebrating his nameday with a party of friends, getting angry at being refused more vodka, smashed up his own crockery and furniture and tore hi s own and his wife’s clothes, and finally broke his windows, all for the sake of effect. Next day, of course, when he was sober, he regretted the broken cups and saucers. Alyosha knew that his father would let him go back to the monastery next day, possibly even that evening. Moreover, he was fully persuaded that his fa ther might hurt any one else, but would not hurt him. Alyosha was certain that no one in the whole world ever would want to hurt him, and, what is more, he kne w that no one could hurt him. This was for him an axiom, assumed once for all without question, and he went his way without hesitation, relying on it.
But at that moment an anxiety of a different sort disturbed him, and worried him the more because he could not formulate it. It was the fear of a woman, of Kate rina Ivanovna, who had so urgently entreated him in the note handed to him by Madame Hohlakov to come and see her about something. This request and the n ecessity of going had at once aroused an uneasy feeling in his heart, and this feeling had grown more and more painful all the morning in spite of the scenes at t he hermitage and at the Father Superior’s. He was not uneasy because he did not know what she would speak of and what he must answer. And he was not afrai d of her simply as a woman. Though he knew little of women, he had spent his life, from early childhood till he entered the monastery, entirely with women. He was afraid of that woman, Katerina Ivanovna. He had been afraid of her from the first time he saw her. He had only seen her two or three times, and had only c hanced to say a few words to her. He thought of her as a beautiful, proud, imperious girl. It was not her beauty which troubled him, but something else. And the vagueness of his apprehension increased the apprehension itself. The girl’s aims were of the noblest, he knew that. She was trying to save his brother Dmitri sim ply through generosity, though he had already behaved badly to her. Yet, although Alyosha recognized and did justice to all these fine and generous sentiments, a shiver began to run down his back as soon as he drew near her house.
He reflected that he would not find Ivan, who was so intimate a friend, with her, for Ivan was certainly now with his father. Dmitri he was even more certain not to find there, and he had a foreboding of the reason. And so his conversation would be with her alone. He had a great longing to run and see his brother Dmitri before that fateful interview. Without showing him the letter, he could talk to him about it. But Dmitri lived a long way off, and he was sure to be away from ho me too. Standing still for a minute, he reached a final decision. Crossing himself with a rapid and accustomed gesture, and at once smiling, he turned resolutely i n the direction of his terrible lady.
He knew her house. If he went by the High Street and then across the marketplace, it was a long way round. Though our town is small, it is scattered, and the ho uses are far apart. And meanwhile his father was expecting him, and perhaps had not yet forgotten his command. He might be unreasonable, and so he had to m ake haste to get there and back. So he decided to take a short cut by the backway, for he knew every inch of the ground. This meant skirting fences, climbing ov er hurdles, and crossing other people’s backyards, where every one he met knew him and greeted him. In this way he could reach the High Street in half the time.
He had to pass the garden adjoining his father’s, and belonging to a little tumbledown house with four windows. The owner of this house, as Alyosha knew, was a bedridden old woman, living with her daughter, who had been a genteel maidservant in generals’ families in Petersburg. Now she had been at home a year, lo oking after her sick mother. She always dressed up in fine clothes, though her old mother and she had sunk into such poverty that they went every day to Fyodor Pavlovitch’s kitchen for soup and bread, which Marfa gave readily. Yet, though the young woman came up for soup, she had never sold any of her dresses, and one of these even had a long train—a fact which Alyosha had learned from Rakitin, who always knew everything that was going on in the town. He had forgotte n it as soon as he heard it, but now, on reaching the garden, he remembered the dress with the train, raised his head, which had been bowed in thought, and came upon something quite unexpected.
Over the hurdle in the garden, Dmitri, mounted on something, was leaning forward, gesticulating violently, beckoning to him, obviously afraid to utter a word f or fear of being overheard. Alyosha ran up to the hurdle.
“It’s a good thing you looked up. I was nearly shouting to you,” Mitya said in a joyful, hurried whisper. “Climb in here quickly! How splendid that you’ve come
! I was just thinking of you!”
Alyosha was delighted too, but he did not know how to get over the hurdle. Mitya put his powerful hand under his elbow to help him jump. Tucking up his cass ock, Alyosha leapt over the hurdle with the agility of a bare legged street urchin.
“Well done! Now come along,” said Mitya in an enthusiastic whisper.
“Where?” whispered Alyosha, looking about him and finding himself in a deserted garden with no one near but themselves. The garden was small, but the hous e was at least fifty paces away.
“There’s no one here. Why do you whisper?” asked Alyosha.
“Why do I whisper? Deuce take it!” cried Dmitri at the top of his voice. “You see what silly tricks nature plays one. I am here in secret, and on the watch. I’ll ex plain later on, but, knowing it’s a secret, I began whispering like a fool, when there’s no need. Let us go. Over there. Till then be quiet. I want to kiss you.
Glory to God in the world,
Glory to God in me …
I was just repeating that, sitting here, before you came.”
The garden was about three acres in extent, and planted with trees only along the fence at the four sides. There were appletrees, maples, limes and birchtrees. Th e middle of the garden was an empty grass space, from which several hundredweight of hay was carried in the summer. The garden was let out for a few roubles for the summer. There were also plantations of raspberries and currants and gooseberries laid out along the sides; a kitchen garden had been planted lately near t he house.
Dmitri led his brother to the most secluded corner of the garden. There, in a thicket of limetrees and old bushes of black currant, elder, snowballtree, and lilac, th ere stood a tumbledown green summerhouse, blackened with age. Its walls were of latticework, but there was still a roof which could give shelter. God knows w hen this summerhouse was built. There was a tradition that it had been put up some fifty years before by a retired colonel called von Schmidt, who owned the ho use at that time. It was all in decay, the floor was rotting, the planks were loose, the woodwork smelled musty. In the summerhouse there was a green wooden ta ble fixed in the ground, and round it were some green benches upon which it was still possible to sit. Alyosha had at once observed his brother’s exhilarated con dition, and on entering the arbor he saw half a bottle of brandy and a wineglass on the table.
“That’s brandy,” Mitya laughed. “I see your look: ‘He’s drinking again!’ Distrust the apparition.
Distrust the worthless, lying crowd,
And lay aside thy doubts.
I’m not drinking, I’m only ‘indulging,’ as that pig, your Rakitin, says. He’ll be a civil councilor one day, but he’ll always talk about ‘indulging.’ Sit down. I coul d take you in my arms, Alyosha, and press you to my bosom till I crush you, for in the whole world—in reality—in real ity—(can you take it in?) I love no one but you!”
He uttered the last words in a sort of exaltation.
“No one but you and one ‘jade’ I have fallen in love with, to my ruin. But being in love doesn’t mean loving. You may be in love with a woman and yet hate her
. Remember that! I can talk about it gayly still. Sit down here by the table and I’ll sit beside you and look at you, and go on talking. You shall keep quiet and I’ll go on talking, for the time has come. But on reflection, you know, I’d better speak quietly, for here—here—you can never tell what ears are listening. I will exp lain everything; as they say, ‘the story will be continued.’ Why have I been longing for you? Why have I been thirsting for you all these days, and just now? (It’
s five days since I’ve cast anchor here.) Because it’s only to you I can tell everything; because I must, because I need you, because tomorrow I shall fly from the clouds, because tomorrow life is ending and beginning. Have you ever felt, have you ever dreamt of falling down a precipice into a pit? That’s just how I’m fall ing, but not in a dream. And I’m not afraid, and don’t you be afraid. At least, I am afraid, but I enjoy it. It’s not enjoyment though, but ecstasy. Damn it all, what ever it is! A strong spirit, a weak spirit, a womanish spirit—whatever it is! Let us praise nature: you see what sunshine, how clear the sky is, the leaves are all gr een, it’s still summer; four o’clock in the afternoon and the stillness! Where were you going?”
“I was going to father’s, but I meant to go to Katerina Ivanovna’s first.”
“To her, and to father! Oo! what a coincidence! Why was I waiting for you? Hungering and thirsting for you in every cranny of my soul and even in my ribs? W
hy, to send you to father and to her, Katerina Ivanovna, so as to have done with her and with father. To send an angel. I might have sent any one, but I wanted to send an angel. And here you are on your way to see father and her.”
“Did you really mean to send me?” cried Alyosha with a distressed expression.
“Stay! You knew it! And I see you understand it all at once. But be quiet, be quiet for a time. Don’t be sorry, and don’t cry.”
Dmitri stood up, thought a moment, and put his finger to his forehead.
“She’s asked you, written to you a letter or something, that’s why you’re going to her? You wouldn’t be going except for that?”
“Here is her note.” Alyosha took it out of his pocket. Mitya looked through it quickly.
“And you were going the backway! Oh, gods, I thank you for sending him by the backway, and he came to me like the golden fish to the silly old fishermen in t he fable! Listen, Alyosha, listen, brother! Now I mean to tell you everything, for I must tell some one. An angel in heaven I’ve told already; but I want to tell an angel on earth. You are an angel on earth. You will hear and judge and forgive. And that’s what I need, that some one above me should forgive. Listen! If two p eople break away from everything on earth and fly off into the unknown, or at least one of them, and before flying off or going to ruin he comes to some one els e and says, ‘Do this for me’—some favor never asked before that could only be asked on one’s deathbed—would that other refuse, if he were a friend or a broth er?”
“I will do it, but tell me what it is, and make haste,” said Alyosha.
“Make haste! H’m!… Don’t be in a hurry, Alyosha, you hurry and worry yourself. There’s no need to hurry now. Now the world has taken a new turning. Ah, A lyosha, what a pity you can’t understand ecstasy. But what am I saying to him? As though you didn’t understand it. What an ass I am! What am I saying? ‘Be no ble, O man!’—who says that?”
Alyosha made up his mind to wait. He felt that, perhaps, indeed, his work lay here. Mitya sank into thought for a moment, with his elbow on the table and his he ad in his hand. Both were silent.
“Alyosha,” said Mitya, “you’re the only one who won’t laugh. I should like to begin—my confession—with Schiller’s Hymn to Joy, An die Freude! I don’t kno w German, I only know it’s called that. Don’t think I’m talking nonsense because I’m drunk. I’m not a bit drunk. Brandy’s all very well, but I need two bottles t o make me drunk:
Silenus with his rosy phiz
Upon his stumbling ass.
But I’ve not drunk a quarter of a bottle, and I’m not Silenus. I’m not Silenus, though I am strong,[1] for I’ve made a decision once for all. Forgive me the pun; y ou’ll have to forgive me a lot more than puns today. Don’t be uneasy. I’m not spinning it out. I’m talking sense, and I’ll come to the point in a minute. I won’t k eep you in suspense. Stay, how does it go?”
He raised his head, thought a minute, and began with enthusiasm:
“Wild and fearful in his cavern
Hid the naked troglodyte,
And the homeless nomad wandered
Laying waste the fertile plain.
Menacing with spear and arrow
In the woods the hunter strayed….
Woe to all poor wretches stranded
On those cruel and hostile shores!
“From the peak of high Olympus
Came the mother Ceres down,
Seeking in those savage regions
Her lost daughter Proserpine.
But the Goddess found no refuge,
Found no kindly welcome there,
And no temple bearing witness
To the worship of the gods.
“From the fields and from the vineyards
Came no fruits to deck the feasts,
Only flesh of bloodstained victims
Smoldered on the altarfires,
And where’er the grieving goddess
Turns her melancholy gaze,
Sunk in vilest degradation
Man his loathsomeness displays.”
Mitya broke into sobs and seized Alyosha’s hand.
“My dear, my dear, in degradation, in degradation now, too. There’s a terrible amount of suffering for man on earth, a terrible lot of trouble. Don’t think I’m onl y a brute in an officer’s uniform, wallowing in dirt and drink. I hardly think of anything but of that degraded man—if only I’m not lying. I pray God I’m not lyin g and showing off. I think about that man because I am that man myself.
Would he purge his soul from vileness
And attain to light and worth,
He must turn and cling for ever
To his ancient Mother Earth.
But the difficulty is how am I to cling for ever to Mother Earth. I don’t kiss her. I don’t cleave to her bosom. Am I to become a peasant or a shepherd? I go on a nd I don’t know whether I’m going to shame or to light and joy. That’s the trouble, for everything in the world is a riddle! And whenever I’ve happened to sink i nto the vilest degradation (and it’s always been happening) I always read that poem about Ceres and man. Has it reformed me? Never! For I’m a Karamazov. Fo r when I do leap into the pit, I go headlong with my heels up, and am pleased to be falling in that degrading attitude, and pride myself upon it. And in the very d epths of that degradation I begin a hymn of praise. Let me be accursed. Let me be vile and base, only let me kiss the hem of the veil in which my God is shroude d. Though I may be following the devil, I am Thy son, O Lord, and I love Thee, and I feel the joy without which the world cannot stand.
Joy everlasting fostereth
The soul of all creation,
It is her secret ferment fires
The cup of life with flame.
’Tis at her beck the grass hath turned
Each blade towards the light
And solar systems have evolved
From chaos and dark night,
Filling the realms of boundless space
Beyond the sage’s sight.
At bounteous Nature’s kindly breast,
All things that breathe drink Joy,
And birds and beasts and creeping things
All follow where She leads.
Her gifts to man are friends in need,
The wreath, the foaming must,
To angels—vision of God’s throne,
To insects—sensual lust.
But enough poetry! I am in tears; let me cry. It may be foolishness that every one would laugh at. But you won’t laugh. Your eyes are shining, too. Enough poetr y. I want to tell you now about the insects to whom God gave “sensual lust.”
To insects—sensual lust.
I am that insect, brother, and it is said of me specially. All we Karamazovs are such insects, and, angel as you are, that insect lives in you, too, and will stir up a t empest in your blood. Tempests, because sensual lust is a tempest—worse than a tempest! Beauty is a terrible and awful thing! It is terrible because it has not be en fathomed and never can be fathomed, for God sets us nothing but riddles. Here the boundaries meet and all contradictions exist side by side. I am not a cultiv ated man, brother, but I’ve thought a lot about this. It’s terrible what mysteries there are! Too many riddles weigh men down on earth. We must solve them as w e can, and try to keep a dry skin in the water. Beauty! I can’t endure the thought that a man of lofty mind and heart begins with the ideal of the Madonna and en ds with the ideal of Sodom. What’s still more awful is that a man with the ideal of Sodom in his soul does not renounce the ideal of the Madonna, and his heart may be on fire with that ideal, genuinely on fire, just as in his days of youth and innocence. Yes, man is broad, too broad, indeed. I’d have him narrower. The de vil only knows what to make of it! What to the mind is shameful is beauty and nothing else to the heart. Is there beauty in Sodom? Believe me, that for the imm ense mass of mankind beauty is found in Sodom. Did you know that secret? The awful thing is that beauty is mysterious as well as terrible. God and the devil ar e fighting there and the battlefield is the heart of man. But a man always talks of his own ache. Listen, now to come to facts.”
Chapter IV.
The Confession Of A Passionate Heart—In Anecdote
“I was leading a wild life then. Father said just now that I spent several thousand roubles in seducing young girls. That’s a swinish invention, and there was noth ing of the sort. And if there was, I didn’t need money simply for that. With me money is an accessory, the overflow of my heart, the framework. Today she woul d be my lady, tomorrow a wench out of the streets in her place. I entertained them both. I threw away money by the handful on music, rioting, and gypsies. Som
etimes I gave it to the ladies, too, for they’ll take it greedily, that must be admitted, and be pleased and thankful for it. Ladies used to be fond of me: not all of th em, but it happened, it happened. But I always liked sidepaths, little dark backalleys behind the main road—there one finds adventures and surprises, and precio us metal in the dirt. I am speaking figuratively, brother. In the town I was in, there were no such backalleys in the literal sense, but morally there were. If you we re like me, you’d know what that means. I loved vice, I loved the ignominy of vice. I loved cruelty; am I not a bug, am I not a noxious insect? In fact a Karamaz ov! Once we went, a whole lot of us, for a picnic, in seven sledges. It was dark, it was winter, and I began squeezing a girl’s hand, and forced her to kiss me. She was the daughter of an official, a sweet, gentle, submissive creature. She allowed me, she allowed me much in the dark. She thought, poor thing, that I should come next day to make her an offer (I was looked upon as a good match, too). But I didn’t say a word to her for five months. I used to see her in a corner at dances (we were always having dances), her eyes watching me. I saw how they glowed with fire—a fire of gentle indignation. This game only tickled that insect lust I cherished in my soul. Five months later she married an official and left the town, still angry, and still, perhaps, in love with me. Now they live happily. Observe that I told no one. I didn’t boast of it. Though I’m full of low desires, and love what’s low, I’m not dishonorable. You’re blushing; your eyes flashed. Enough of this filth with you. And all this was nothing much—wayside blossoms à la Paul de Kock—though the cruel insect had already grown strong in my soul. I’ve a perfect album of reminiscences, brother. God bless them, the darlings. I tried to break it off without quarreling. And I never gave them away. I never bragged of one of them. But that’s enough. You can’t suppose I brought you here simply to talk of such nonsense. No, I’m going to tell you something more curious; and don’t be surprised that I’m glad to tell you, instead of being ashamed.”
“You say that because I blushed,” Alyosha said suddenly. “I wasn’t blushing at what you were saying or at what you’ve done. I blushed because I am the same a s you are.”
“You? Come, that’s going a little too far!”
“No, it’s not too far,” said Alyosha warmly (obviously the idea was not a new one). “The ladder’s the same. I’m at the bottom step, and you’re above, somewher e about the thirteenth. That’s how I see it. But it’s all the same. Absolutely the same in kind. Any one on the bottom step is bound to go up to the top one.”
“Then one ought not to step on at all.”
“Any one who can help it had better not.”
“But can you?”
“I think not.”
“Hush, Alyosha, hush, darling! I could kiss your hand, you touch me so. That rogue Grushenka has an eye for men. She told me once that she’d devour you one day. There, there, I won’t! From this field of corruption fouled by flies, let’s pass to my tragedy, also befouled by flies, that is by every sort of vileness. Althoug h the old man told lies about my seducing innocence, there really was something of the sort in my tragedy, though it was only once, and then it did not come off.
The old man who has reproached me with what never happened does not even know of this fact; I never told any one about it. You’re the first, except Ivan, of c ourse—Ivan knows everything. He knew about it long before you. But Ivan’s a tomb.”
“Ivan’s a tomb?”
“Yes.”
Alyosha listened with great attention.
“I was lieutenant in a line regiment, but still I was under supervision, like a kind of convict. Yet I was awfully well received in the little town. I spent money rig ht and left. I was thought to be rich; I thought so myself. But I must have pleased them in other ways as well. Although they shook their heads over me, they like d me. My colonel, who was an old man, took a sudden dislike to me. He was always down upon me, but I had powerful friends, and, moreover, all the town was on my side, so he couldn’t do me much harm. I was in fault myself for refusing to treat him with proper respect. I was proud. This obstinate old fellow, who wa s really a very good sort, kindhearted and hospitable, had had two wives, both dead. His first wife, who was of a humble family, left a daughter as unpretentious as herself. She was a young woman of four and twenty when I was there, and was living with her father and an aunt, her mother’s sister. The aunt was simple an d illiterate; the niece was simple but lively. I like to say nice things about people. I never knew a woman of more charming character than Agafya—fancy, her n ame was Agafya Ivanovna! And she wasn’t badlooking either, in the Russian style: tall, stout, with a full figure, and beautiful eyes, though a rather coarse face.
She had not married, although she had had two suitors. She refused them, but was as cheerful as ever. I was intimate with her, not in ‘that’ way, it was pure frien dship. I have often been friendly with women quite innocently. I used to talk to her with shocking frankness, and she only laughed. Many women like such freed om, and she was a girl too, which made it very amusing. Another thing, one could never think of her as a young lady. She and her aunt lived in her father’s hous e with a sort of voluntary humility, not putting themselves on an equality with other people. She was a general favorite, and of use to every one, for she was a cl ever dressmaker. She had a talent for it. She gave her services freely without asking for payment, but if any one offered her payment, she didn’t refuse. The colo nel, of course, was a very different matter. He was one of the chief personages in the district. He kept open house, entertained the whole town, gave suppers and dances. At the time I arrived and joined the battalion, all the town was talking of the expected return of the colonel’s second daughter, a great beauty, who had j ust left a fashionable school in the capital. This second daughter is Katerina Ivanovna, and she was the child of the second wife, who belonged to a distinguished general’s family; although, as I learnt on good authority, she too brought the colonel no money. She had connections, and that was all. There may have been ex pectations, but they had come to nothing.
“Yet, when the young lady came from boardingschool on a visit, the whole town revived. Our most distinguished ladies—two ‘Excellencies’ and a colonel’s wif e—and all the rest following their lead, at once took her up and gave entertainments in her honor. She was the belle of the balls and picnics, and they got up tabl eaux vivants in aid of distressed governesses. I took no notice, I went on as wildly as before, and one of my exploits at the time set all the town talking. I saw he r eyes taking my measure one evening at the battery commander’s, but I didn’t go up to her, as though I disdained her acquaintance. I did go up and speak to her at an evening party not long after. She scarcely looked at me, and compressed her lips scornfully. ‘Wait a bit. I’ll have my revenge,’ thought I. I behaved like an awful fool on many occasions at that time, and I was conscious of it myself. What made it worse was that I felt that ‘Katenka’ was not an innocent boardingsch ool miss, but a person of character, proud and really highprincipled; above all, she had education and intellect, and I had neither. You think I meant to make her an offer? No, I simply wanted to revenge myself, because I was such a hero and she didn’t seem to feel it.
“Meanwhile, I spent my time in drink and riot, till the lieutenantcolonel put me under arrest for three days. Just at that time father sent me six thousand roubles i n return for my sending him a deed giving up all claims upon him—settling our accounts, so to speak, and saying that I wouldn’t expect anything more. I didn’t understand a word of it at the time. Until I came here, Alyosha, till the last few days, indeed, perhaps even now, I haven’t been able to make head or tail of my money affairs with father. But never mind that, we’ll talk of it later.
“Just as I received the money, I got a letter from a friend telling me something that interested me immensely. The authorities, I learnt, were dissatisfied with our lieutenantcolonel. He was suspected of irregularities; in fact, his enemies were preparing a surprise for him. And then the commander of the division arrived, an d kicked up the devil of a shindy. Shortly afterwards he was ordered to retire. I won’t tell you how it all happened. He had enemies certainly. Suddenly there wa s a marked coolness in the town towards him and all his family. His friends all turned their backs on him. Then I took my first step. I met Agafya Ivanovna, with whom I’d always kept up a friendship, and said, ‘Do you know there’s a deficit of 4,500 roubles of government money in your father’s accounts?’
“ ‘What do you mean? What makes you say so? The general was here not long ago, and everything was all right.’
“ ‘Then it was, but now it isn’t.’
“She was terribly scared.
“ ‘Don’t frighten me!’ she said. ‘Who told you so?’
“ ‘Don’t be uneasy,’ I said, ‘I won’t tell any one. You know I’m as silent as the tomb. I only wanted, in view of “possibilities,” to add, that when they demand th at 4,500 roubles from your father, and he can’t produce it, he’ll be tried, and made to serve as a common soldier in his old age, unless you like to send me your y oung lady secretly. I’ve just had money paid me. I’ll give her four thousand, if you like, and keep the secret religiously.’
“ ‘Ah, you scoundrel!’—that’s what she said. ‘You wicked scoundrel! How dare you!’
“She went away furiously indignant, while I shouted after her once more that the secret should be kept sacred. Those two simple creatures, Agafya and her aunt, I may as well say at once, behaved like perfect angels all through this business. They genuinely adored their ‘Katya,’ thought her far above them, and waited on her, hand and foot. But Agafya told her of our conversation. I found that out afterwards. She didn’t keep it back, and of course that was all I wanted.
“Suddenly the new major arrived to take command of the battalion. The old lieutenantcolonel was taken ill at once, couldn’t leave his room for two days, and di dn’t hand over the government money. Dr. Kravchenko declared that he really was ill. But I knew for a fact, and had known for a long time, that for the last four years the money had never been in his hands except when the Commander made his visits of inspection. He used to lend it to a trustworthy person, a merchant of our town called Trifonov, an old widower, with a big beard and goldrimmed spectacles. He used to go to the fair, do a profitable business with the money, an d return the whole sum to the colonel, bringing with it a present from the fair, as well as interest on the loan. But this time (I heard all about it quite by chance fr om Trifonov’s son and heir, a driveling youth and one of the most vicious in the world)—this time, I say, Trifonov brought nothing back from the fair. The lieut enantcolonel flew to him. ‘I’ve never received any money from you, and couldn’t possibly have received any.’ That was all the answer he got. So now our lieute nantcolonel is confined to the house, with a towel round his head, while they’re all three busy putting ice on it. All at once an orderly arrives on the scene with t he book and the order to ‘hand over the battalion money immediately, within two hours.’ He signed the book (I saw the signature in the book afterwards), stood up, saying he would put on his uniform, ran to his bedroom, loaded his doublebarreled gun with a service bullet, took the boot off his right foot, fixed the gun ag ainst his chest, and began feeling for the trigger with his foot. But Agafya, remembering what I had told her, had her suspicions. She stole up and peeped into th e room just in time. She rushed in, flung herself upon him from behind, threw her arms round him, and the gun went off, hit the ceiling, but hurt no one. The oth ers ran in, took away the gun, and held him by the arms. I heard all about this afterwards. I was at home, it was getting dusk, and I was just preparing to go out. I had dressed, brushed my hair, scented my handkerchief, and taken up my cap, when suddenly the door opened, and facing me in the room stood Katerina Ivano vna.
“It’s strange how things happen sometimes. No one had seen her in the street, so that no one knew of it in the town. I lodged with two decrepit old ladies, who l ooked after me. They were most obliging old things, ready to do anything for me, and at my request were as silent afterwards as two castiron posts. Of course I grasped the position at once. She walked in and looked straight at me, her dark eyes determined, even defiant, but on her lips and round her mouth I saw uncerta inty.
“ ‘My sister told me,’ she began, ‘that you would give me 4,500 roubles if I came to you for it—myself. I have come … give me the money!’
“She couldn’t keep it up. She was breathless, frightened, her voice failed her, and the corners of her mouth and the lines round it quivered. Alyosha, are you liste ning, or are you asleep?”
“Mitya, I know you will tell the whole truth,” said Alyosha in agitation.
“I am telling it. If I tell the whole truth just as it happened I shan’t spare myself. My first idea was a—Karamazov one. Once I was bitten by a centipede, brother
, and laid up a fortnight with fever from it. Well, I felt a centipede biting at my heart then—a noxious insect, you understand? I looked her up and down. You’ve seen her? She’s a beauty. But she was beautiful in another way then. At that moment she was beautiful because she was noble, and I was a scoundrel; she in all the grandeur of her generosity and sacrifice for her father, and I—a bug! And, scoundrel as I was, she was altogether at my mercy, body and soul. She was hem med in. I tell you frankly, that thought, that venomous thought, so possessed my heart that it almost swooned with suspense. It seemed as if there could be no res isting it; as though I should act like a bug, like a venomous spider, without a spark of pity. I could scarcely breathe. Understand, I should have gone next day to ask for her hand, so that it might end honorably, so to speak, and that nobody would or could know. For though I’m a man of base desires, I’m honest. And at th at very second some voice seemed to whisper in my ear, ‘But when you come tomorrow to make your proposal, that girl won’t even see you; she’ll order her co achman to kick you out of the yard. “Publish it through all the town,” she would say, “I’m not afraid of you.” ’ I looked at the young lady, my voice had not dec eived me. That is how it would be, not a doubt of it. I could see from her face now that I should be turned out of the house. My spite was roused. I longed to pla y her the nastiest swinish cad’s trick: to look at her with a sneer, and on the spot where she stood before me to stun her with a tone of voice that only a shopman could use.
“ ‘Four thousand! What do you mean? I was joking. You’ve been counting your chickens too easily, madam. Two hundred, if you like, with all my heart. But fo ur thousand is not a sum to throw away on such frivolity. You’ve put yourself out to no purpose.’
“I should have lost the game, of course. She’d have run away. But it would have been an infernal revenge. It would have been worth it all. I’d have howled with regret all the rest of my life, only to have played that trick. Would you believe it, it has never happened to me with any other woman, not one, to look at her at su ch a moment with hatred. But, on my oath, I looked at her for three seconds, or five perhaps, with fearful hatred—that hate which is only a hair’sbreadth from lo ve, from the maddest love!
“I went to the window, put my forehead against the frozen pane, and I remember the ice burnt my forehead like fire. I did not keep her long, don’t be afraid. I tu rned round, went up to the table, opened the drawer and took out a banknote for five thousand roubles (it was lying in a French dictionary). Then I showed it her in silence, folded it, handed it to her, opened the door into the passage, and, stepping back, made her a deep bow, a most respectful, a most impressive bow, beli eve me! She shuddered all over, gazed at me for a second, turned horribly pale—white as a sheet, in fact—and all at once, not impetuously but softly, gently, bo wed down to my feet—not a boardingschool curtsey, but a Russian bow, with her forehead to the floor. She jumped up and ran away. I was wearing my sword. I drew it and nearly stabbed myself with it on the spot; why, I don’t know. It would have been frightfully stupid, of course. I suppose it was from delight. Can yo u understand that one might kill oneself from delight? But I didn’t stab myself. I only kissed my sword and put it back in the scabbard—which there was no nee d to have told you, by the way. And I fancy that in telling you about my inner conflict I have laid it on rather thick to glorify myself. But let it pass, and to hell w ith all who pry into the human heart! Well, so much for that ‘adventure’ with Katerina Ivanovna. So now Ivan knows of it, and you—no one else.”
Dmitri got up, took a step or two in his excitement, pulled out his handkerchief and mopped his forehead, then sat down again, not in the same place as before, b ut on the opposite side, so that Alyosha had to turn quite round to face him.
Chapter V.
The Confession Of A Passionate Heart—“Heels Up”
“Now,” said Alyosha, “I understand the first half.”
“You understand the first half. That half is a drama, and it was played out there. The second half is a tragedy, and it is being acted here.”
“And I understand nothing of that second half so far,” said Alyosha.
“And I? Do you suppose I understand it?”
“Stop, Dmitri. There’s one important question. Tell me, you were betrothed, you are betrothed still?”
“We weren’t betrothed at once, not for three months after that adventure. The next day I told myself that the incident was closed, concluded, that there would be no sequel. It seemed to me caddish to make her an offer. On her side she gave no sign of life for the six weeks that she remained in the town; except, indeed, for one action. The day after her visit the maidservant slipped round with an envelope addressed to me. I tore it open: it contained the change out of the banknote. O
nly four thousand five hundred roubles was needed, but there was a discount of about two hundred on changing it. She only sent me about two hundred and sixt y. I don’t remember exactly, but not a note, not a word of explanation. I searched the packet for a pencil mark—nnothing! Well, I spent the rest of the money on such an orgy that the new major was obliged to reprimand me.
“Well, the lieutenantcolonel produced the battalion money, to the astonishment of every one, for nobody believed that he had the money untouched. He’d no so oner paid it than he fell ill, took to his bed, and, three weeks later, softening of the brain set in, and he died five days afterwards. He was buried with military ho nors, for he had not had time to receive his discharge. Ten days after his funeral, Katerina Ivanovna, with her aunt and sister, went to Moscow. And, behold, on t he very day they went away (I hadn’t seen them, didn’t see them off or take leave) I received a tiny note, a sheet of thin blue paper, and on it only one line in pe ncil: ‘I will write to you. Wait. K.’ And that was all.
“I’ll explain the rest now, in two words. In Moscow their fortunes changed with the swiftness of lightning and the unexpectedness of an Arabian fairytale. That general’s widow, their nearest relation, suddenly lost the two nieces who were her heiresses and nextofkin—both died in the same week of smallpox. The old la dy, prostrated with grief, welcomed Katya as a daughter, as her one hope, clutched at her, altered her will in Katya’s favor. But that concerned the future. Mean while she gave her, for present use, eighty thousand roubles, as a marriage portion, to do what she liked with. She was an hysterical woman. I saw something of her in Moscow, later.
“Well, suddenly I received by post four thousand five hundred roubles. I was speechless with surprise, as you may suppose. Three days later came the promised letter. I have it with me now. You must read it. She offers to be my wife, offers herself to me. ‘I love you madly,’ she says, ‘even if you don’t love me, never mi nd. Be my husband. Don’t be afraid. I won’t hamper you in any way. I will be your chattel. I will be the carpet under your feet. I want to love you for ever. I wa nt to save you from yourself.’ Alyosha, I am not worthy to repeat those lines in my vulgar words and in my vulgar tone, my everlastingly vulgar tone, that I can never cure myself of. That letter stabs me even now. Do you think I don’t mind—that I don’t mind still? I wrote her an answer at once, as it was impossible for me to go to Moscow. I wrote to her with tears. One thing I shall be ashamed of for ever. I referred to her being rich and having a dowry while I was only a stuck up beggar! I mentioned money! I ought to have borne it in silence, but it slipped from my pen. Then I wrote at once to Ivan, and told him all I could about it in a letter of six pages, and sent him to her. Why do you look like that? Why are you staring at me? Yes, Ivan fell in love with her; he’s in love with her still. I know that. I did a stupid thing, in the world’s opinion; but perhaps that one stupid thing may be the saving of us all now. Oo! Don’t you see what a lot she thinks of Iv an, how she respects him? When she compares us, do you suppose she can love a man like me, especially after all that has happened here?”
“But I am convinced that she does love a man like you, and not a man like him.”
“She loves her own virtue, not me.” The words broke involuntarily, and almost malignantly, from Dmitri. He laughed, but a minute later his eyes gleamed, he fl ushed crimson and struck the table violently with his fist.
“I swear, Alyosha,” he cried, with intense and genuine anger at himself; “you may not believe me, but as God is holy, and as Christ is God, I swear that though I smiled at her lofty sentiments just now, I know that I am a million times baser in soul than she, and that these lofty sentiments of hers are as sincere as a heaven ly angel’s. That’s the tragedy of it—that I know that for certain. What if any one does show off a bit? Don’t I do it myself? And yet I’m sincere, I’m sincere. As for Ivan, I can understand how he must be cursing nature now—with his intellect, too! To see the preference given—to whom, to what? To a monster who, thou gh he is betrothed and all eyes are fixed on him, can’t restrain his debaucheries—and before the very eyes of his betrothed! And a man like me is preferred, whil e he is rejected. And why? Because a girl wants to sacrifice her life and destiny out of gratitude. It’s ridiculous! I’ve never said a word of this to Ivan, and Ivan o f course has never dropped a hint of the sort to me. But destiny will be accomplished, and the best man will hold his ground while the undeserving one will vani sh into his back alley for ever—his filthy backalley, his beloved backalley, where he is at home and where he will sink in filth and stench at his own free will an d with enjoyment. I’ve been talking foolishly. I’ve no words left. I use them at random, but it will be as I have said. I shall drown in the back alley, and she will marry Ivan.”
“Stop, Dmitri,” Alyosha interrupted again with great anxiety. “There’s one thing you haven’t made clear yet: you are still betrothed all the same, aren’t you? Ho w can you break off the engagement if she, your betrothed, doesn’t want to?”
“Yes, formally and solemnly betrothed. It was all done on my arrival in Moscow, with great ceremony, with ikons, all in fine style. The general’s wife blessed u s, and—would you believe it?—congratulated Katya. ‘You’ve made a good choice,’ she said, ‘I see right through him.’ And—would you believe it?—she didn’t like Ivan, and hardly greeted him. I had a lot of talk with Katya in Moscow. I told her about myself—sincerely, honorably. She listened to everything.
There was sweet confusion,
There were tender words.
Though there were proud words, too. She wrung out of me a mighty promise to reform. I gave my promise, and here—”
“What?”
“Why, I called to you and brought you out here today, this very day—remember it—to send you—this very day again—to Katerina Ivanovna, and—”
“What?”
“To tell her that I shall never come to see her again. Say, ‘He sends you his compliments.’ ”
“But is that possible?”
“That’s just the reason I’m sending you, in my place, because it’s impossible. And, how could I tell her myself?”
“And where are you going?”
“To the backalley.”
“To Grushenka, then!” Alyosha exclaimed mournfully, clasping his hands. “Can Rakitin really have told the truth? I thought that you had just visited her, and th at was all.”
“Can a betrothed man pay such visits? Is such a thing possible and with such a betrothed, and before the eyes of all the world? Confound it, I have some honor!
As soon as I began visiting Grushenka, I ceased to be betrothed, and to be an honest man. I understand that. Why do you look at me? You see, I went in the first place to beat her. I had heard, and I know for a fact now, that that captain, father’s agent, had given Grushenka an I.O.U. of mine for her to sue me for payment, so as to put an end to me. They wanted to scare me. I went to beat her. I had had a glimpse of her before. She doesn’t strike one at first sight. I knew about her ol d merchant, who’s lying ill now, paralyzed; but he’s leaving her a decent little sum. I knew, too, that she was fond of money, that she hoarded it, and lent it at a wicked rate of interest, that she’s a merciless cheat and swindler. I went to beat her, and I stayed. The storm broke—it struck me down like the plague. I’m plag uestricken still, and I know that everything is over, that there will never be anything more for me. The cycle of the ages is accomplished. That’s my position. An d though I’m a beggar, as fate would have it, I had three thousand just then in my pocket. I drove with Grushenka to Mokroe, a place twentyfive versts from her e. I got gypsies there and champagne and made all the peasants there drunk on it, and all the women and girls. I sent the thousands flying. In three days’ time I was stripped bare, but a hero. Do you suppose the hero had gained his end? Not a sign of it from her. I tell you that rogue, Grushenka, has a supple curve all ove r her body. You can see it in her little foot, even in her little toe. I saw it, and kissed it, but that was all, I swear! ‘I’ll marry you if you like,’ she said, ‘you’re a b eggar, you know. Say that you won’t beat me, and will let me do anything I choose, and perhaps I will marry you.’ She laughed, and she’s laughing still!”
Dmitri leapt up with a sort of fury. He seemed all at once as though he were drunk. His eyes became suddenly bloodshot.
“And do you really mean to marry her?”
“At once, if she will. And if she won’t, I shall stay all the same. I’ll be the porter at her gate. Alyosha!” he cried. He stopped short before him, and taking him by the shoulders began shaking him violently. “Do you know, you innocent boy, that this is all delirium, senseless delirium, for there’s a tragedy here. Let me tell
you, Alexey, that I may be a low man, with low and degraded passions, but a thief and a pickpocket Dmitri Karamazov never can be. Well, then; let me tell you that I am a thief and a pickpocket. That very morning, just before I went to beat Grushenka, Katerina Ivanovna sent for me, and in strict secrecy (why I don’t kn ow, I suppose she had some reason) asked me to go to the chief town of the province and to post three thousand roubles to Agafya Ivanovna in Moscow, so that nothing should be known of it in the town here. So I had that three thousand roubles in my pocket when I went to see Grushenka, and it was that money we spen t at Mokroe. Afterwards I pretended I had been to the town, but did not show her the post office receipt. I said I had sent the money and would bring the receipt, and so far I haven’t brought it. I’ve forgotten it. Now what do you think you’re going to her today to say? ‘He sends his compliments,’ and she’ll ask you, ‘What about the money?’ You might still have said to her, ‘He’s a degraded sensualist, and a low creature, with uncontrolled passions. He didn’t send your money the n, but wasted it, because, like a low brute, he couldn’t control himself.’ But still you might have added, ‘He isn’t a thief though. Here is your three thousand; he sends it back. Send it yourself to Agafya Ivanovna. But he told me to say “he sends his compliments.” ’ But, as it is, she will ask, ‘But where is the money?’ ”
“Mitya, you are unhappy, yes! But not as unhappy as you think. Don’t worry yourself to death with despair.”
“What, do you suppose I’d shoot myself because I can’t get three thousand to pay back? That’s just it. I shan’t shoot myself. I haven’t the strength now. Afterwa rds, perhaps. But now I’m going to Grushenka. I don’t care what happens.”
“And what then?”
“I’ll be her husband if she deigns to have me, and when lovers come, I’ll go into the next room. I’ll clean her friends’ goloshes, blow up their samovar, run their errands.”
“Katerina Ivanovna will understand it all,” Alyosha said solemnly. “She’ll understand how great this trouble is and will forgive. She has a lofty mind, and no on e could be more unhappy than you. She’ll see that for herself.”
“She won’t forgive everything,” said Dmitri, with a grin. “There’s something in it, brother, that no woman could forgive. Do you know what would be the best t hing to do?”
“What?”
“Pay back the three thousand.”
“Where can we get it from? I say, I have two thousand. Ivan will give you another thousand—that makes three. Take it and pay it back.”
“And when would you get it, your three thousand? You’re not of age, besides, and you must—you absolutely must—take my farewell to her today, with the mo ney or without it, for I can’t drag on any longer, things have come to such a pass. Tomorrow is too late. I shall send you to father.”
“To father?”
“Yes, to father first. Ask him for three thousand.”
“But, Mitya, he won’t give it.”
“As though he would! I know he won’t. Do you know the meaning of despair, Alexey?”
“Yes.”
“Listen. Legally he owes me nothing. I’ve had it all from him, I know that. But morally he owes me something, doesn’t he? You know he started with twentyeig ht thousand of my mother’s money and made a hundred thousand with it. Let him give me back only three out of the twentyeight thousand, and he’ll draw my s oul out of hell, and it will atone for many of his sins. For that three thousand—I give you my solemn word—I’ll make an end of everything, and he shall hear no thing more of me. For the last time I give him the chance to be a father. Tell him God Himself sends him this chance.”
“Mitya, he won’t give it for anything.”
“I know he won’t. I know it perfectly well. Now, especially. That’s not all. I know something more. Now, only a few days ago, perhaps only yesterday he found out for the first time in earnest (underline in earnest) that Grushenka is really perhaps not joking, and really means to marry me. He knows her nature; he knows the cat. And do you suppose he’s going to give me money to help to bring that about when he’s crazy about her himself? And that’s not all, either. I can tell you more than that. I know that for the last five days he has had three thousand drawn out of the bank, changed into notes of a hundred roubles, packed into a large envelope, sealed with five seals, and tied across with red tape. You see how well I know all about it! On the envelope is written: ‘To my angel, Grushenka, whe n she will come to me.’ He scrawled it himself in silence and in secret, and no one knows that the money’s there except the valet, Smerdyakov, whom he trusts l ike himself. So now he has been expecting Grushenka for the last three or four days; he hopes she’ll come for the money. He has sent her word of it, and she has sent him word that perhaps she’ll come. And if she does go to the old man, can I marry her after that? You understand now why I’m here in secret and what I’m on the watch for.”
“For her?”
“Yes, for her. Foma has a room in the house of these sluts here. Foma comes from our parts; he was a soldier in our regiment. He does jobs for them. He’s watc
hman at night and goes grouseshooting in the daytime; and that’s how he lives. I’ve established myself in his room. Neither he nor the women of the house kno w the secret—that is, that I am on the watch here.”
“No one but Smerdyakov knows, then?”
“No one else. He will let me know if she goes to the old man.”
“It was he told you about the money, then?”
“Yes. It’s a dead secret. Even Ivan doesn’t know about the money, or anything. The old man is sending Ivan to Tchermashnya on a two or three days’ journey.
A purchaser has turned up for the copse: he’ll give eight thousand for the timber. So the old man keeps asking Ivan to help him by going to arrange it. It will tak e him two or three days. That’s what the old man wants, so that Grushenka can come while he’s away.”
“Then he’s expecting Grushenka today?”
“No, she won’t come today; there are signs. She’s certain not to come,” cried Mitya suddenly. “Smerdyakov thinks so, too. Father’s drinking now. He’s sitting a t table with Ivan. Go to him, Alyosha, and ask for the three thousand.”
“Mitya, dear, what’s the matter with you?” cried Alyosha, jumping up from his place, and looking keenly at his brother’s frenzied face. For one moment the tho ught struck him that Dmitri was mad.
“What is it? I’m not insane,” said Dmitri, looking intently and earnestly at him. “No fear. I am sending you to father, and I know what I’m saying. I believe in m iracles.”
“In miracles?”
“In a miracle of Divine Providence. God knows my heart. He sees my despair. He sees the whole picture. Surely He won’t let something awful happen. Alyosha
, I believe in miracles. Go!”
“I am going. Tell me, will you wait for me here?”
“Yes. I know it will take some time. You can’t go at him point blank. He’s drunk now. I’ll wait three hours—four, five, six, seven. Only remember you must go to Katerina Ivanovna today, if it has to be at midnight, with the money or without the money, and say, ‘He sends his compliments to you.’ I want you to say that verse to her: ‘He sends his compliments to you.’ ”
“Mitya! And what if Grushenka comes today—if not today, tomorrow, or the next day?”
“Grushenka? I shall see her. I shall rush out and prevent it.”
“And if—”
“If there’s an if, it will be murder. I couldn’t endure it.”
“Who will be murdered?”
“The old man. I shan’t kill her.”
“Brother, what are you saying?”
“Oh, I don’t know…. I don’t know. Perhaps I shan’t kill, and perhaps I shall. I’m afraid that he will suddenly become so loathsome to me with his face at that m oment. I hate his ugly throat, his nose, his eyes, his shameless snigger. I feel a physical repulsion. That’s what I’m afraid of. That’s what may be too much for m e.”
“I’ll go, Mitya. I believe that God will order things for the best, that nothing awful may happen.”
“And I will sit and wait for the miracle. And if it doesn’t come to pass—”
Alyosha went thoughtfully towards his father’s house.
Chapter VI.
Smerdyakov
He did in fact find his father still at table. Though there was a dining room in the house, the table was laid as usual in the drawingroom, which was the largest ro om, and furnished with oldfashioned ostentation. The furniture was white and very old, upholstered in old, red, silky material. In the spaces between the window s there were mirrors in elaborate white and gilt frames, of oldfashioned carving. On the walls, covered with white paper, which was torn in many places, there h ung two large portraits—one of some prince who had been governor of the district thirty years before, and the other of some bishop, also long since dead. In the
corner opposite the door there were several ikons, before which a lamp was lighted at nightfall … not so much for devotional purposes as to light the room. Fyo dor Pavlovitch used to go to bed very late, at three or four o’clock in the morning, and would wander about the room at night or sit in an armchair, thinking. Thi s had become a habit with him. He often slept quite alone in the house, sending his servants to the lodge; but usually Smerdyakov remained, sleeping on a bench in the hall.
When Alyosha came in, dinner was over, but coffee and preserves had been served. Fyodor Pavlovitch liked sweet things with brandy after dinner. Ivan was als o at table, sipping coffee. The servants, Grigory and Smerdyakov, were standing by. Both the gentlemen and the servants seemed in singularly good spirits. Fyo dor Pavlovitch was roaring with laughter. Before he entered the room, Alyosha heard the shrill laugh he knew so well, and could tell from the sound of it that hi s father had only reached the goodhumored stage, and was far from being completely drunk.
“Here he is! Here he is!” yelled Fyodor Pavlovitch, highly delighted at seeing Alyosha. “Join us. Sit down. Coffee is a lenten dish, but it’s hot and good. I don’t offer you brandy, you’re keeping the fast. But would you like some? No; I’d better give you some of our famous liqueur. Smerdyakov, go to the cupboard, the s econd shelf on the right. Here are the keys. Look sharp!”
Alyosha began refusing the liqueur.
“Never mind. If you won’t have it, we will,” said Fyodor Pavlovitch, beaming. “But stay—have you dined?”
“Yes,” answered Alyosha, who had in truth only eaten a piece of bread and drunk a glass of kvas in the Father Superior’s kitchen. “Though I should be pleased t o have some hot coffee.”
“Bravo, my darling! He’ll have some coffee. Does it want warming? No, it’s boiling. It’s capital coffee: Smerdyakov’s making. My Smerdyakov’s an artist at co ffee and at fish patties, and at fish soup, too. You must come one day and have some fish soup. Let me know beforehand…. But, stay; didn’t I tell you this morn ing to come home with your mattress and pillow and all? Have you brought your mattress? He he he!”
“No, I haven’t,” said Alyosha, smiling, too.
“Ah, but you were frightened, you were frightened this morning, weren’t you? There, my darling, I couldn’t do anything to vex you. Do you know, Ivan, I can’t resist the way he looks one straight in the face and laughs? It makes me laugh all over. I’m so fond of him. Alyosha, let me give you my blessing—a father’s ble ssing.”
Alyosha rose, but Fyodor Pavlovitch had already changed his mind.
“No, no,” he said. “I’ll just make the sign of the cross over you, for now. Sit still. Now we’ve a treat for you, in your own line, too. It’ll make you laugh. Balaam
’s ass has begun talking to us here—and how he talks! How he talks!”
Balaam’s ass, it appeared, was the valet, Smerdyakov. He was a young man of about four and twenty, remarkably unsociable and taciturn. Not that he was shy o r bashful. On the contrary, he was conceited and seemed to despise everybody.
But we must pause to say a few words about him now. He was brought up by Grigory and Marfa, but the boy grew up “with no sense of gratitude,” as Grigory e xpressed it; he was an unfriendly boy, and seemed to look at the world mistrustfully. In his childhood he was very fond of hanging cats, and burying them with great ceremony. He used to dress up in a sheet as though it were a surplice, and sang, and waved some object over the dead cat as though it were a censer. All th is he did on the sly, with the greatest secrecy. Grigory caught him once at this diversion and gave him a sound beating. He shrank into a corner and sulked there for a week. “He doesn’t care for you or me, the monster,” Grigory used to say to Marfa, “and he doesn’t care for any one. Are you a human being?” he said, add ressing the boy directly. “You’re not a human being. You grew from the mildew in the bathhouse.[2] That’s what you are.” Smerdyakov, it appeared afterwards, could never forgive him those words. Grigory taught him to read and write, and when he was twelve years old, began teaching him the Scriptures. But this teac hing came to nothing. At the second or third lesson the boy suddenly grinned.
“What’s that for?” asked Grigory, looking at him threateningly from under his spectacles.
“Oh, nothing. God created light on the first day, and the sun, moon, and stars on the fourth day. Where did the light come from on the first day?”
Grigory was thunderstruck. The boy looked sarcastically at his teacher. There was something positively condescending in his expression. Grigory could not restr ain himself. “I’ll show you where!” he cried, and gave the boy a violent slap on the cheek. The boy took the slap without a word, but withdrew into his corner ag ain for some days. A week later he had his first attack of the disease to which he was subject all the rest of his life—epilepsy. When Fyodor Pavlovitch heard of it, his attitude to the boy seemed changed at once. Till then he had taken no notice of him, though he never scolded him, and always gave him a copeck when he met him. Sometimes, when he was in good humor, he would send the boy something sweet from his table. But as soon as he heard of his illness, he showed an a ctive interest in him, sent for a doctor, and tried remedies, but the disease turned out to be incurable. The fits occurred, on an average, once a month, but at vario us intervals. The fits varied too, in violence: some were light and some were very severe. Fyodor Pavlovitch strictly forbade Grigory to use corporal punishment to the boy, and began allowing him to come upstairs to him. He forbade him to be taught anything whatever for a time, too. One day when the boy was about fif teen, Fyodor Pavlovitch noticed him lingering by the bookcase, and reading the titles through the glass. Fyodor Pavlovitch had a fair number of books—over a h undred—but no one ever saw him reading. He at once gave Smerdyakov the key of the bookcase. “Come, read. You shall be my librarian. You’ll be better sittin g reading than hanging about the courtyard. Come, read this,” and Fyodor Pavlovitch gave him Evenings in a Cottage near Dikanka.
He read a little but didn’t like it. He did not once smile, and ended by frowning.
“Why? Isn’t it funny?” asked Fyodor Pavlovitch.
Smerdyakov did not speak.
“Answer, stupid!”
“It’s all untrue,” mumbled the boy, with a grin.
“Then go to the devil! You have the soul of a lackey. Stay, here’s Smaragdov’s Universal History. That’s all true. Read that.”
But Smerdyakov did not get through ten pages of Smaragdov. He thought it dull. So the bookcase was closed again.
Shortly afterwards Marfa and Grigory reported to Fyodor Pavlovitch that Smerdyakov was gradually beginning to show an extraordinary fastidiousness. He wou ld sit before his soup, take up his spoon and look into the soup, bend over it, examine it, take a spoonful and hold it to the light.
“What is it? A beetle?” Grigory would ask.
“A fly, perhaps,” observed Marfa.
The squeamish youth never answered, but he did the same with his bread, his meat, and everything he ate. He would hold a piece on his fork to the light, scrutini ze it microscopically, and only after long deliberation decide to put it in his mouth.
“Ach! What fine gentlemen’s airs!” Grigory muttered, looking at him.
When Fyodor Pavlovitch heard of this development in Smerdyakov he determined to make him his cook, and sent him to Moscow to be trained. He spent some years there and came back remarkably changed in appearance. He looked extraordinarily old for his age. His face had grown wrinkled, yellow, and strangely em asculate. In character he seemed almost exactly the same as before he went away. He was just as unsociable, and showed not the slightest inclination for any co mpanionship. In Moscow, too, as we heard afterwards, he had always been silent. Moscow itself had little interest for him; he saw very little there, and took scar cely any notice of anything. He went once to the theater, but returned silent and displeased with it. On the other hand, he came back to us from Moscow well dre ssed, in a clean coat and clean linen. He brushed his clothes most scrupulously twice a day invariably, and was very fond of cleaning his smart calf boots with a special English polish, so that they shone like mirrors. He turned out a firstrate cook. Fyodor Pavlovitch paid him a salary, almost the whole of which Smerdyak ov spent on clothes, pomade, perfumes, and such things. But he seemed to have as much contempt for the female sex as for men; he was discreet, almost unappr oachable, with them. Fyodor Pavlovitch began to regard him rather differently. His fits were becoming more frequent, and on the days he was ill Marfa cooked, which did not suit Fyodor Pavlovitch at all.
“Why are your fits getting worse?” asked Fyodor Pavlovitch, looking askance at his new cook. “Would you like to get married? Shall I find you a wife?”
But Smerdyakov turned pale with anger, and made no reply. Fyodor Pavlovitch left him with an impatient gesture. The great thing was that he had absolute conf idence in his honesty. It happened once, when Fyodor Pavlovitch was drunk, that he dropped in the muddy courtyard three hundredrouble notes which he had on ly just received. He only missed them next day, and was just hastening to search his pockets when he saw the notes lying on the table. Where had they come fro m? Smerdyakov had picked them up and brought them in the day before.
“Well, my lad, I’ve never met any one like you,” Fyodor Pavlovitch said shortly, and gave him ten roubles. We may add that he not only believed in his honesty
, but had, for some reason, a liking for him, although the young man looked as morosely at him as at every one and was always silent. He rarely spoke. If it had occurred to any one to wonder at the time what the young man was interested in, and what was in his mind, it would have been impossible to tell by looking at h im. Yet he used sometimes to stop suddenly in the house, or even in the yard or street, and would stand still for ten minutes, lost in thought. A physiognomist stu dying his face would have said that there was no thought in it, no reflection, but only a sort of contemplation. There is a remarkable picture by the painter Krams koy, called “Contemplation.” There is a forest in winter, and on a roadway through the forest, in absolute solitude, stands a peasant in a torn kaftan and bark sho es. He stands, as it were, lost in thought. Yet he is not thinking; he is “contemplating.” If any one touched him he would start and look at one as though awakeni ng and bewildered. It’s true he would come to himself immediately; but if he were asked what he had been thinking about, he would remember nothing. Yet pro bably he has, hidden within himself, the impression which had dominated him during the period of contemplation. Those impressions are dear to him and no do ubt he hoards them imperceptibly, and even unconsciously. How and why, of course, he does not know either. He may suddenly, after hoarding impressions for many years, abandon everything and go off to Jerusalem on a pilgrimage for his soul’s salvation, or perhaps he will suddenly set fire to his native village, and pe rhaps do both. There are a good many “contemplatives” among the peasantry. Well, Smerdyakov was probably one of them, and he probably was greedily hoard ing up his impressions, hardly knowing why.
Chapter VII.
The Controversy
But Balaam’s ass had suddenly spoken. The subject was a strange one. Grigory had gone in the morning to make purchases, and had heard from the shopkeeper Lukyanov the story of a Russian soldier which had appeared in the newspaper of that day. This soldier had been taken prisoner in some remote part of Asia, and was threatened with an immediate agonizing death if he did not renounce Christianity and follow Islam. He refused to deny his faith, and was tortured, flayed ali ve, and died, praising and glorifying Christ. Grigory had related the story at table. Fyodor Pavlovitch always liked, over the dessert after dinner, to laugh and tal k, if only with Grigory. This afternoon he was in a particularly goodhumored and expansive mood. Sipping his brandy and listening to the story, he observed tha t they ought to make a saint of a soldier like that, and to take his skin to some monastery. “That would make the people flock, and bring the money in.”
Grigory frowned, seeing that Fyodor Pavlovitch was by no means touched, but, as usual, was beginning to scoff. At that moment Smerdyakov, who was standin g by the door, smiled. Smerdyakov often waited at table towards the end of dinner, and since Ivan’s arrival in our town he had done so every day.
“What are you grinning at?” asked Fyodor Pavlovitch, catching the smile instantly, and knowing that it referred to Grigory.
“Well, my opinion is,” Smerdyakov began suddenly and unexpectedly in a loud voice, “that if that laudable soldier’s exploit was so very great there would have been, to my thinking, no sin in it if he had on such an emergency renounced, so to speak, the name of Christ and his own christening, to save by that same his lif e, for good deeds, by which, in the course of years to expiate his cowardice.”
“How could it not be a sin? You’re talking nonsense. For that you’ll go straight to hell and be roasted there like mutton,” put in Fyodor Pavlovitch.
It was at this point that Alyosha came in, and Fyodor Pavlovitch, as we have seen, was highly delighted at his appearance.
“We’re on your subject, your subject,” he chuckled gleefully, making Alyosha sit down to listen.
“As for mutton, that’s not so, and there’ll be nothing there for this, and there shouldn’t be either, if it’s according to justice,” Smerdyakov maintained stoutly.
“How do you mean ‘according to justice’?” Fyodor Pavlovitch cried still more gayly, nudging Alyosha with his knee.
“He’s a rascal, that’s what he is!” burst from Grigory. He looked Smerdyakov wrathfully in the face.
“As for being a rascal, wait a little, Grigory Vassilyevitch,” answered Smerdyakov with perfect composure. “You’d better consider yourself that, once I am take n prisoner by the enemies of the Christian race, and they demand from me to curse the name of God and to renounce my holy christening, I am fully entitled to a ct by my own reason, since there would be no sin in it.”
“But you’ve said that before. Don’t waste words. Prove it,” cried Fyodor Pavlovitch.
“Soupmaker!” muttered Grigory contemptuously.
“As for being a soupmaker, wait a bit, too, and consider for yourself, Grigory Vassilyevitch, without abusing me. For as soon as I say to those enemies, ‘No, I’m not a Christian, and I curse my true God,’ then at once, by God’s high judgment, I become immediately and specially anathema accursed, and am cut off from t he Holy Church, exactly as though I were a heathen, so that at that very instant, not only when I say it aloud, but when I think of saying it, before a quarter of a s econd has passed, I am cut off. Is that so or not, Grigory Vassilyevitch?”
He addressed Grigory with obvious satisfaction, though he was really answering Fyodor Pavlovitch’s questions, and was well aware of it, and intentionally prete nding that Grigory had asked the questions.
“Ivan,” cried Fyodor Pavlovitch suddenly, “stoop down for me to whisper. He’s got this all up for your benefit. He wants you to praise him. Praise him.”
Ivan listened with perfect seriousness to his father’s excited whisper.
“Stay, Smerdyakov, be quiet a minute,” cried Fyodor Pavlovitch once more. “Ivan, your ear again.”
Ivan bent down again with a perfectly grave face.
“I love you as I do Alyosha. Don’t think I don’t love you. Some brandy?”
“Yes.—But you’re rather drunk yourself,” thought Ivan, looking steadily at his father.
He was watching Smerdyakov with great curiosity.
“You’re anathema accursed, as it is,” Grigory suddenly burst out, “and how dare you argue, you rascal, after that, if—”
“Don’t scold him, Grigory, don’t scold him,” Fyodor Pavlovitch cut him short.
“You should wait, Grigory Vassilyevitch, if only a short time, and listen, for I haven’t finished all I had to say. For at the very moment I become accursed, at tha t same highest moment, I become exactly like a heathen, and my christening is taken off me and becomes of no avail. Isn’t that so?”
“Make haste and finish, my boy,” Fyodor Pavlovitch urged him, sipping from his wineglass with relish.
“And if I’ve ceased to be a Christian, then I told no lie to the enemy when they asked whether I was a Christian or not a Christian, seeing I had already been reli eved by God Himself of my Christianity by reason of the thought alone, before I had time to utter a word to the enemy. And if I have already been discharged, i n what manner and with what sort of justice can I be held responsible as a Christian in the other world for having denied Christ, when, through the very thought alone, before denying Him I had been relieved from my christening? If I’m no longer a Christian, then I can’t renounce Christ, for I’ve nothing then to renounce
. Who will hold an unclean Tatar responsible, Grigory Vassilyevitch, even in heaven, for not having been born a Christian? And who would punish him for that, considering that you can’t take two skins off one ox? For God Almighty Himself, even if He did make the Tatar responsible, when he dies would give him the s mallest possible punishment, I imagine (since he must be punished), judging that he is not to blame if he has come into the world an unclean heathen, from heat hen parents. The Lord God can’t surely take a Tatar and say he was a Christian? That would mean that the Almighty would tell a real untruth. And can the Lord of Heaven and earth tell a lie, even in one word?”
Grigory was thunderstruck and looked at the orator, his eyes nearly starting out of his head. Though he did not clearly understand what was said, he had caught s omething in this rigmarole, and stood, looking like a man who has just hit his head against a wall. Fyodor Pavlovitch emptied his glass and went off into his shri ll laugh.
“Alyosha! Alyosha! What do you say to that! Ah, you casuist! He must have been with the Jesuits, somewhere, Ivan. Oh, you stinking Jesuit, who taught you? B
ut you’re talking nonsense, you casuist, nonsense, nonsense, nonsense. Don’t cry, Grigory, we’ll reduce him to smoke and ashes in a moment. Tell me this, O as s; you may be right before your enemies, but you have renounced your faith all the same in your own heart, and you say yourself that in that very hour you beca me anathema accursed. And if once you’re anathema they won’t pat you on the head for it in hell. What do you say to that, my fine Jesuit?”
“There is no doubt that I have renounced it in my own heart, but there was no special sin in that. Or if there was sin, it was the most ordinary.”
“How’s that the most ordinary?”
“You lie, accursed one!” hissed Grigory.
“Consider yourself, Grigory Vassilyevitch,” Smerdyakov went on, staid and unruffled, conscious of his triumph, but, as it were, generous to the vanquished foe.
“Consider yourself, Grigory Vassilyevitch; it is said in the Scripture that if you have faith, even as a mustard seed, and bid a mountain move into the sea, it will move without the least delay at your bidding. Well, Grigory Vassilyevitch, if I’m without faith and you have so great a faith that you are continually swearing at me, you try yourself telling this mountain, not to move into the sea for that’s a long way off, but even to our stinking little river which runs at the bottom of the garden. You’ll see for yourself that it won’t budge, but will remain just where it is however much you shout at it, and that shows, Grigory Vassilyevitch, that yo u haven’t faith in the proper manner, and only abuse others about it. Again, taking into consideration that no one in our day, not only you, but actually no one, fr om the highest person to the lowest peasant, can shove mountains into the sea—except perhaps some one man in the world, or, at most, two, and they most likel y are saving their souls in secret somewhere in the Egyptian desert, so you wouldn’t find them—if so it be, if all the rest have no faith, will God curse all the rest
? that is, the population of the whole earth, except about two hermits in the desert, and in His wellknown mercy will He not forgive one of them? And so I’m per suaded that though I may once have doubted I shall be forgiven if I shed tears of repentance.”
“Stay!” cried Fyodor Pavlovitch, in a transport of delight. “So you do suppose there are two who can move mountains? Ivan, make a note of it, write it down. T
here you have the Russian all over!”
“You’re quite right in saying it’s characteristic of the people’s faith,” Ivan assented, with an approving smile.
“You agree. Then it must be so, if you agree. It’s true, isn’t it, Alyosha? That’s the Russian faith all over, isn’t it?”
“No, Smerdyakov has not the Russian faith at all,” said Alyosha firmly and gravely.
“I’m not talking about his faith. I mean those two in the desert, only that idea. Surely that’s Russian, isn’t it?”
“Yes, that’s purely Russian,” said Alyosha smiling.
“Your words are worth a gold piece, O ass, and I’ll give it to you today. But as to the rest you talk nonsense, nonsense, nonsense. Let me tell you, stupid, that w e here are all of little faith, only from carelessness, because we haven’t time; things are too much for us, and, in the second place, the Lord God has given us so l ittle time, only twentyfour hours in the day, so that one hasn’t even time to get sleep enough, much less to repent of one’s sins. While you have denied your faith to your enemies when you’d nothing else to think about but to show your faith! So I consider, brother, that it constitutes a sin.”
“Constitute a sin it may, but consider yourself, Grigory Vassilyevitch, that it only extenuates it, if it does constitute. If I had believed then in very truth, as I oug ht to have believed, then it really would have been sinful if I had not faced tortures for my faith, and had gone over to the pagan Mohammedan faith. But, of cou rse, it wouldn’t have come to torture then, because I should only have had to say at that instant to the mountain, ‘Move and crush the tormentor,’ and it would ha ve moved and at the very instant have crushed him like a blackbeetle, and I should have walked away as though nothing had happened, praising and glorifying God. But, suppose at that very moment I had tried all that, and cried to that mountain, ‘Crush these tormentors,’ and it hadn’t crushed them, how could I have he lped doubting, pray, at such a time, and at such a dread hour of mortal terror? And apart from that, I should know already that I could not attain to the fullness of the Kingdom of Heaven (for since the mountain had not moved at my word, they could not think very much of my faith up aloft, and there could be no very gre at reward awaiting me in the world to come). So why should I let them flay the skin off me as well, and to no good purpose? For, even though they had flayed m y skin half off my back, even then the mountain would not have moved at my word or at my cry. And at such a moment not only doubt might come over one but one might lose one’s reason from fear, so that one would not be able to think at all. And, therefore, how should I be particularly to blame if not seeing my adva ntage or reward there or here, I should, at least, save my skin. And so trusting fully in the grace of the Lord I should cherish the hope that I might be altogether f orgiven.”
Chapter VIII.
Over The Brandy
The controversy was over. But, strange to say, Fyodor Pavlovitch, who had been so gay, suddenly began frowning. He frowned and gulped brandy, and it was al ready a glass too much.
“Get along with you, Jesuits!” he cried to the servants. “Go away, Smerdyakov. I’ll send you the gold piece I promised you today, but be off! Don’t cry, Grigory
. Go to Marfa. She’ll comfort you and put you to bed. The rascals won’t let us sit in peace after dinner,” he snapped peevishly, as the servants promptly withdre w at his word.
“Smerdyakov always pokes himself in now, after dinner. It’s you he’s so interested in. What have you done to fascinate him?” he added to Ivan.
“Nothing whatever,” answered Ivan. “He’s pleased to have a high opinion of me; he’s a lackey and a mean soul. Raw material for revolution, however, when th e time comes.”
“For revolution?”
“There will be others and better ones. But there will be some like him as well. His kind will come first, and better ones after.”
“And when will the time come?”
“The rocket will go off and fizzle out, perhaps. The peasants are not very fond of listening to these soupmakers, so far.”
“Ah, brother, but a Balaam’s ass like that thinks and thinks, and the devil knows where he gets to.”
“He’s storing up ideas,” said Ivan, smiling.
“You see, I know he can’t bear me, nor any one else, even you, though you fancy that he has a high opinion of you. Worse still with Alyosha, he despises Alyos ha. But he doesn’t steal, that’s one thing, and he’s not a gossip, he holds his tongue, and doesn’t wash our dirty linen in public. He makes capital fish pasties too.
But, damn him, is he worth talking about so much?”
“Of course he isn’t.”
“And as for the ideas he may be hatching, the Russian peasant, generally speaking, needs thrashing. That I’ve always maintained. Our peasants are swindlers, an d don’t deserve to be pitied, and it’s a good thing they’re still flogged sometimes. Russia is rich in birches. If they destroyed the forests, it would be the ruin of R
ussia. I stand up for the clever people. We’ve left off thrashing the peasants, we’ve grown so clever, but they go on thrashing themselves. And a good thing too.
‘For with what measure ye mete it shall be measured to you again,’ or how does it go? Anyhow, it will be measured. But Russia’s all swinishness. My dear, if y ou only knew how I hate Russia…. That is, not Russia, but all this vice! But maybe I mean Russia. Tout cela c’est de la cochonnerie…. Do you know what I lik e? I like wit.”
“You’ve had another glass. That’s enough.”
“Wait a bit. I’ll have one more, and then another, and then I’ll stop. No, stay, you interrupted me. At Mokroe I was talking to an old man, and he told me: ‘There
’s nothing we like so much as sentencing girls to be thrashed, and we always give the lads the job of thrashing them. And the girl he has thrashed today, the you ng man will ask in marriage tomorrow. So it quite suits the girls, too,’ he said. There’s a set of de Sades for you! But it’s clever, anyway. Shall we go over and h ave a look at it, eh? Alyosha, are you blushing? Don’t be bashful, child. I’m sorry I didn’t stay to dinner at the Superior’s and tell the monks about the girls at M
okroe. Alyosha, don’t be angry that I offended your Superior this morning. I lost my temper. If there is a God, if He exists, then, of course, I’m to blame, and I s hall have to answer for it. But if there isn’t a God at all, what do they deserve, your fathers? It’s not enough to cut their heads off, for they keep back progress.
Would you believe it, Ivan, that that lacerates my sentiments? No, you don’t believe it as I see from your eyes. You believe what people say, that I’m nothing bu t a buffoon. Alyosha, do you believe that I’m nothing but a buffoon?”
“No, I don’t believe it.”
“And I believe you don’t, and that you speak the truth. You look sincere and you speak sincerely. But not Ivan. Ivan’s supercilious…. I’d make an end of your monks, though, all the same. I’d take all that mystic stuff and suppress it, once for all, all over Russia, so as to bring all the fools to reason. And the gold and the silver that would flow into the mint!”
“But why suppress it?” asked Ivan.
“That Truth may prevail. That’s why.”
“Well, if Truth were to prevail, you know, you’d be the first to be robbed and suppressed.”
“Ah! I dare say you’re right. Ah, I’m an ass!” burst out Fyodor Pavlovitch, striking himself lightly on the forehead. “Well, your monastery may stand then, Alyo sha, if that’s how it is. And we clever people will sit snug and enjoy our brandy. You know, Ivan, it must have been so ordained by the Almighty Himself. Ivan, speak, is there a God or not? Stay, speak the truth, speak seriously. Why are you laughing again?”
“I’m laughing that you should have made a clever remark just now about Smerdyakov’s belief in the existence of two saints who could move mountains.”
“Why, am I like him now, then?”
“Very much.”
“Well, that shows I’m a Russian, too, and I have a Russian characteristic. And you may be caught in the same way, though you are a philosopher. Shall I catch y ou? What do you bet that I’ll catch you tomorrow. Speak, all the same, is there a God, or not? Only, be serious. I want you to be serious now.”
“No, there is no God.”
“Alyosha, is there a God?”
“There is.”
“Ivan, and is there immortality of some sort, just a little, just a tiny bit?”
“There is no immortality either.”
“None at all?”
“None at all.”
“There’s absolute nothingness then. Perhaps there is just something? Anything is better than nothing!”
“Absolute nothingness.”
“Alyosha, is there immortality?”
“There is.”
“God and immortality?”
“God and immortality. In God is immortality.”
“H’m! It’s more likely Ivan’s right. Good Lord! to think what faith, what force of all kinds, man has lavished for nothing, on that dream, and for how many thou sand years. Who is it laughing at man? Ivan! For the last time, once for all, is there a God or not? I ask for the last time!”
“And for the last time there is not.”
“Who is laughing at mankind, Ivan?”
“It must be the devil,” said Ivan, smiling.
“And the devil? Does he exist?”
“No, there’s no devil either.”
“It’s a pity. Damn it all, what wouldn’t I do to the man who first invented God! Hanging on a bitter aspen tree would be too good for him.”
“There would have been no civilization if they hadn’t invented God.”
“Wouldn’t there have been? Without God?”
“No. And there would have been no brandy either. But I must take your brandy away from you, anyway.”
“Stop, stop, stop, dear boy, one more little glass. I’ve hurt Alyosha’s feelings. You’re not angry with me, Alyosha? My dear little Alexey!”
“No, I am not angry. I know your thoughts. Your heart is better than your head.”
“My heart better than my head, is it? Oh, Lord! And that from you. Ivan, do you love Alyosha?”
“Yes.”
“You must love him” (Fyodor Pavlovitch was by this time very drunk). “Listen, Alyosha, I was rude to your elder this morning. But I was excited. But there’s w it in that elder, don’t you think, Ivan?”
“Very likely.”
“There is, there is. Il y a du Piron làdedans. He’s a Jesuit, a Russian one, that is. As he’s an honorable person there’s a hidden indignation boiling within him at having to pretend and affect holiness.”
“But, of course, he believes in God.”
“Not a bit of it. Didn’t you know? Why, he tells every one so, himself. That is, not every one, but all the clever people who come to him. He said straight out to Governor Schultz not long ago: ‘Credo, but I don’t know in what.’ ”
“Really?”
“He really did. But I respect him. There’s something of Mephistopheles about him, or rather of ‘The hero of our time’ … Arbenin, or what’s his name?… You s ee, he’s a sensualist. He’s such a sensualist that I should be afraid for my daughter or my wife if she went to confess to him. You know, when he begins telling s tories…. The year before last he invited us to tea, tea with liqueur (the ladies send him liqueur), and began telling us about old times till we nearly split our sides
…. Especially how he once cured a paralyzed woman. ‘If my legs were not bad I know a dance I could dance you,’ he said. What do you say to that? ‘I’ve plent y of tricks in my time,’ said he. He did Dernidov, the merchant, out of sixty thousand.”
“What, he stole it?”
“He brought him the money as a man he could trust, saying, ‘Take care of it for me, friend, there’ll be a police search at my place tomorrow.’ And he kept it. ‘Y
ou have given it to the Church,’ he declared. I said to him: ‘You’re a scoundrel,’ I said. ‘No,’ said he, ‘I’m not a scoundrel, but I’m broadminded.’ But that wasn
’t he, that was some one else. I’ve muddled him with some one else … without noticing it. Come, another glass and that’s enough. Take away the bottle, Ivan. I’
ve been telling lies. Why didn’t you stop me, Ivan, and tell me I was lying?”
“I knew you’d stop of yourself.”
“That’s a lie. You did it from spite, from simple spite against me. You despise me. You have come to me and despised me in my own house.”
“Well, I’m going away. You’ve had too much brandy.”
“I’ve begged you for Christ’s sake to go to Tchermashnya for a day or two, and you don’t go.”
“I’ll go tomorrow if you’re so set upon it.”
“You won’t go. You want to keep an eye on me. That’s what you want, spiteful fellow. That’s why you won’t go.”
The old man persisted. He had reached that state of drunkenness when the drunkard who has till then been inoffensive tries to pick a quarrel and to assert himsel f.
“Why are you looking at me? Why do you look like that? Your eyes look at me and say, ‘You ugly drunkard!’ Your eyes are mistrustful. They’re contemptuous
…. You’ve come here with some design. Alyosha, here, looks at me and his eyes shine. Alyosha doesn’t despise me. Alexey, you mustn’t love Ivan.”
“Don’t be illtempered with my brother. Leave off attacking him,” Alyosha said emphatically.
“Oh, all right. Ugh, my head aches. Take away the brandy, Ivan. It’s the third time I’ve told you.”
He mused, and suddenly a slow, cunning grin spread over his face.
“Don’t be angry with a feeble old man, Ivan. I know you don’t love me, but don’t be angry all the same. You’ve nothing to love me for. You go to Tchermashny a. I’ll come to you myself and bring you a present. I’ll show you a little wench there. I’ve had my eye on her a long time. She’s still running about barefoot. Don
’t be afraid of barefooted wenches—don’t despise them—they’re pearls!”
And he kissed his hand with a smack.
“To my thinking,” he revived at once, seeming to grow sober the instant he touched on his favorite topic. “To my thinking … Ah, you boys! You children, little suckingpigs, to my thinking … I never thought a woman ugly in my life—that’s been my rule! Can you understand that? How could you understand it? You’ve milk in your veins, not blood. You’re not out of your shells yet. My rule has been that you can always find something devilishly interesting in every woman that you wouldn’t find in any other. Only, one must know how to find it, that’s the point! That’s a talent! To my mind there are no ugly women. The very fact that s he is a woman is half the battle … but how could you understand that? Even in vieilles filles, even in them you may discover something that makes you simply wonder that men have been such fools as to let them grow old without noticing them. Barefooted girls or unattractive ones, you must take by surprise. Didn’t yo u know that? You must astound them till they’re fascinated, upset, ashamed that such a gentleman should fall in love with such a little slut. It’s a jolly good thin g that there always are and will be masters and slaves in the world, so there always will be a little maid ofallwork and her master, and you know, that’s all that’s needed for happiness. Stay … listen, Alyosha, I always used to surprise your mother, but in a different way. I paid no attention to her at all, but all at once, when
the minute came, I’d be all devotion to her, crawl on my knees, kiss her feet, and I always, always—I remember it as though it were today—reduced her to that tinkling, quiet, nervous, queer little laugh. It was peculiar to her. I knew her attacks always used to begin like that. The next day she would begin shrieking hyste rically, and this little laugh was not a sign of delight, though it made a very good counterfeit. That’s the great thing, to know how to take every one. Once Belya vsky—he was a handsome fellow, and rich—used to like to come here and hang about her—suddenly gave me a slap in the face in her presence. And she—such a mild sheep—why, I thought she would have knocked me down for that blow. How she set on me! ‘You’re beaten, beaten now,’ she said. ‘You’ve taken a blo w from him. You have been trying to sell me to him,’ she said…. ‘And how dared he strike you in my presence! Don’t dare come near me again, never, never!
Run at once, challenge him to a duel!’… I took her to the monastery then to bring her to her senses. The holy Fathers prayed her back to reason. But I swear, by God, Alyosha, I never insulted the poor crazy girl! Only once, perhaps, in the first year; then she was very fond of praying. She used to keep the feasts of Our Lady particularly and used to turn me out of her room then. I’ll knock that mysticism out of her, thought I! ‘Here,’ said I, ‘you see your holy image. Here it is. Here I take it down. You believe it’s miraculous, but here, I’ll spit on it directly and nothing will happen to me for it!’… When she saw it, good Lord! I thought she would kill me. But she only jumped up, wrung her hands, then suddenly hid her face in them, began trembling all over and fell on the floor … fell all of a heap. Alyosha, Alyosha, what’s the matter?”
The old man jumped up in alarm. From the time he had begun speaking about his mother, a change had gradually come over Alyosha’s face. He flushed crimso n, his eyes glowed, his lips quivered. The old sot had gone spluttering on, noticing nothing, till the moment when something very strange happened to Alyosha.
Precisely what he was describing in the crazy woman was suddenly repeated with Alyosha. He jumped up from his seat exactly as his mother was said to have d one, wrung his hands, hid his face in them, and fell back in his chair, shaking all over in an hysterical paroxysm of sudden violent, silent weeping. His extraordi nary resemblance to his mother particularly impressed the old man.
“Ivan, Ivan! Water, quickly! It’s like her, exactly as she used to be then, his mother. Spurt some water on him from your mouth, that’s what I used to do to her.
He’s upset about his mother, his mother,” he muttered to Ivan.
“But she was my mother, too, I believe, his mother. Was she not?” said Ivan, with uncontrolled anger and contempt. The old man shrank before his flashing eye s. But something very strange had happened, though only for a second; it seemed really to have escaped the old man’s mind that Alyosha’s mother actually was the mother of Ivan too.
“Your mother?” he muttered, not understanding. “What do you mean? What mother are you talking about? Was she?… Why, damn it! of course she was yours t oo! Damn it! My mind has never been so darkened before. Excuse me, why, I was thinking, Ivan…. He he he!” He stopped. A broad, drunken, halfsenseless gri n overspread his face.
At that moment a fearful noise and clamor was heard in the hall, there were violent shouts, the door was flung open, and Dmitri burst into the room. The old ma n rushed to Ivan in terror.
“He’ll kill me! He’ll kill me! Don’t let him get at me!” he screamed, clinging to the skirt of Ivan’s coat.
Chapter IX.
The Sensualists
Grigory and Smerdyakov ran into the room after Dmitri. They had been struggling with him in the passage, refusing to admit him, acting on instructions given t hem by Fyodor Pavlovitch some days before. Taking advantage of the fact that Dmitri stopped a moment on entering the room to look about him, Grigory ran ro und the table, closed the double doors on the opposite side of the room leading to the inner apartments, and stood before the closed doors, stretching wide his ar ms, prepared to defend the entrance, so to speak, with the last drop of his blood. Seeing this, Dmitri uttered a scream rather than a shout and rushed at Grigory.
“Then she’s there! She’s hidden there! Out of the way, scoundrel!”
He tried to pull Grigory away, but the old servant pushed him back. Beside himself with fury, Dmitri struck out, and hit Grigory with all his might. The old man fell like a log, and Dmitri, leaping over him, broke in the door. Smerdyakov remained pale and trembling at the other end of the room, huddling close to Fyodor Pavlovitch.
“She’s here!” shouted Dmitri. “I saw her turn towards the house just now, but I couldn’t catch her. Where is she? Where is she?”
That shout, “She’s here!” produced an indescribable effect on Fyodor Pavlovitch. All his terror left him.
“Hold him! Hold him!” he cried, and dashed after Dmitri. Meanwhile Grigory had got up from the floor, but still seemed stunned. Ivan and Alyosha ran after the ir father. In the third room something was heard to fall on the floor with a ringing crash: it was a large glass vase—not an expensive one—on a marble pedestal which Dmitri had upset as he ran past it.
“At him!” shouted the old man. “Help!”
Ivan and Alyosha caught the old man and were forcibly bringing him back.
“Why do you run after him? He’ll murder you outright,” Ivan cried wrathfully at his father.
“Ivan! Alyosha! She must be here. Grushenka’s here. He said he saw her himself, running.”
He was choking. He was not expecting Grushenka at the time, and the sudden news that she was here made him beside himself. He was trembling all over. He s eemed frantic.
“But you’ve seen for yourself that she hasn’t come,” cried Ivan.
“But she may have come by that other entrance.”
“You know that entrance is locked, and you have the key.”
Dmitri suddenly reappeared in the drawingroom. He had, of course, found the other entrance locked, and the key actually was in Fyodor Pavlovitch’s pocket. Th e windows of all the rooms were also closed, so Grushenka could not have come in anywhere nor have run out anywhere.
“Hold him!” shrieked Fyodor Pavlovitch, as soon as he saw him again. “He’s been stealing money in my bedroom.” And tearing himself from Ivan he rushed ag ain at Dmitri. But Dmitri threw up both hands and suddenly clutched the old man by the two tufts of hair that remained on his temples, tugged at them, and flun g him with a crash on the floor. He kicked him two or three times with his heel in the face. The old man moaned shrilly. Ivan, though not so strong as Dmitri, thr ew his arms round him, and with all his might pulled him away. Alyosha helped him with his slender strength, holding Dmitri in front.
“Madman! You’ve killed him!” cried Ivan.
“Serve him right!” shouted Dmitri breathlessly. “If I haven’t killed him, I’ll come again and kill him. You can’t protect him!”
“Dmitri! Go away at once!” cried Alyosha commandingly.
“Alexey! You tell me. It’s only you I can believe; was she here just now, or not? I saw her myself creeping this way by the fence from the lane. I shouted, she ra n away.”
“I swear she’s not been here, and no one expected her.”
“But I saw her…. So she must … I’ll find out at once where she is…. Goodby, Alexey! Not a word to Æsop about the money now. But go to Katerina Ivanovna at once and be sure to say, ‘He sends his compliments to you!’ Compliments, his compliments! Just compliments and farewell! Describe the scene to her.”
Meanwhile Ivan and Grigory had raised the old man and seated him in an armchair. His face was covered with blood, but he was conscious and listened greedily to Dmitri’s cries. He was still fancying that Grushenka really was somewhere in the house. Dmitri looked at him with hatred as he went out.
“I don’t repent shedding your blood!” he cried. “Beware, old man, beware of your dream, for I have my dream, too. I curse you, and disown you altogether.”
He ran out of the room.
“She’s here. She must be here. Smerdyakov! Smerdyakov!” the old man wheezed, scarcely audibly, beckoning to him with his finger.
“No, she’s not here, you old lunatic!” Ivan shouted at him angrily. “Here, he’s fainting! Water! A towel! Make haste, Smerdyakov!”
Smerdyakov ran for water. At last they got the old man undressed, and put him to bed. They wrapped a wet towel round his head. Exhausted by the brandy, by h is violent emotion, and the blows he had received, he shut his eyes and fell asleep as soon as his head touched the pillow. Ivan and Alyosha went back to the dra wingroom. Smerdyakov removed the fragments of the broken vase, while Grigory stood by the table looking gloomily at the floor.
“Shouldn’t you put a wet bandage on your head and go to bed, too?” Alyosha said to him. “We’ll look after him. My brother gave you a terrible blow—on the h ead.”
“He’s insulted me!” Grigory articulated gloomily and distinctly.
“He’s ‘insulted’ his father, not only you,” observed Ivan with a forced smile.
“I used to wash him in his tub. He’s insulted me,” repeated Grigory.
“Damn it all, if I hadn’t pulled him away perhaps he’d have murdered him. It wouldn’t take much to do for Æsop, would it?” whispered Ivan to Alyosha.
“God forbid!” cried Alyosha.
“Why should He forbid?” Ivan went on in the same whisper, with a malignant grimace. “One reptile will devour the other. And serve them both right, too.”
Alyosha shuddered.
“Of course I won’t let him be murdered as I didn’t just now. Stay here, Alyosha, I’ll go for a turn in the yard. My head’s begun to ache.”
Alyosha went to his father’s bedroom and sat by his bedside behind the screen for about an hour. The old man suddenly opened his eyes and gazed for a long w hile at Alyosha, evidently remembering and meditating. All at once his face betrayed extraordinary excitement.
“Alyosha,” he whispered apprehensively, “where’s Ivan?”
“In the yard. He’s got a headache. He’s on the watch.”
“Give me that lookingglass. It stands over there. Give it me.”
Alyosha gave him a little round folding lookingglass which stood on the chest of drawers. The old man looked at himself in it; his nose was considerably swolle n, and on the left side of his forehead there was a rather large crimson bruise.
“What does Ivan say? Alyosha, my dear, my only son, I’m afraid of Ivan. I’m more afraid of Ivan than the other. You’re the only one I’m not afraid of….”
“Don’t be afraid of Ivan either. He is angry, but he’ll defend you.”
“Alyosha, and what of the other? He’s run to Grushenka. My angel, tell me the truth, was she here just now or not?”
“No one has seen her. It was a mistake. She has not been here.”
“You know Mitya wants to marry her, to marry her.”
“She won’t marry him.”
“She won’t. She won’t. She won’t. She won’t on any account!”
The old man fairly fluttered with joy, as though nothing more comforting could have been said to him. In his delight he seized Alyosha’s hand and pressed it wa rmly to his heart. Tears positively glittered in his eyes.
“That image of the Mother of God of which I was telling you just now,” he said. “Take it home and keep it for yourself. And I’ll let you go back to the monaster y…. I was joking this morning, don’t be angry with me. My head aches, Alyosha…. Alyosha, comfort my heart. Be an angel and tell me the truth!”
“You’re still asking whether she has been here or not?” Alyosha said sorrowfully.
“No, no, no. I believe you. I’ll tell you what it is: you go to Grushenka yourself, or see her somehow; make haste and ask her; see for yourself, which she means to choose, him or me. Eh? What? Can you?”
“If I see her I’ll ask her,” Alyosha muttered, embarrassed.
“No, she won’t tell you,” the old man interrupted, “she’s a rogue. She’ll begin kissing you and say that it’s you she wants. She’s a deceitful, shameless hussy. Y
ou mustn’t go to her, you mustn’t!”
“No, father, and it wouldn’t be suitable, it wouldn’t be right at all.”
“Where was he sending you just now? He shouted ‘Go’ as he ran away.”
“To Katerina Ivanovna.”
“For money? To ask her for money?”
“No. Not for money.”
“He’s no money; not a farthing. I’ll settle down for the night, and think things over, and you can go. Perhaps you’ll meet her…. Only be sure to come to me tom orrow in the morning. Be sure to. I have a word to say to you tomorrow. Will you come?”
“Yes.”
“When you come, pretend you’ve come of your own accord to ask after me. Don’t tell any one I told you to. Don’t say a word to Ivan.”
“Very well.”
“Goodby, my angel. You stood up for me, just now. I shall never forget it. I’ve a word to say to you tomorrow—but I must think about it.”
“And how do you feel now?”
“I shall get up tomorrow and go out, perfectly well, perfectly well!”
Crossing the yard Alyosha found Ivan sitting on the bench at the gateway. He was sitting writing something in pencil in his notebook. Alyosha told Ivan that the ir father had waked up, was conscious, and had let him go back to sleep at the monastery.
“Alyosha, I should be very glad to meet you tomorrow morning,” said Ivan cordially, standing up. His cordiality was a complete surprise to Alyosha.
“I shall be at the Hohlakovs’ tomorrow,” answered Alyosha, “I may be at Katerina Ivanovna’s, too, if I don’t find her now.”
“But you’re going to her now, anyway? For that ‘compliments and farewell,’ ” said Ivan smiling. Alyosha was disconcerted.
“I think I quite understand his exclamations just now, and part of what went before. Dmitri has asked you to go to her and say that he—well, in fact—takes his l eave of her?”
“Brother, how will all this horror end between father and Dmitri?” exclaimed Alyosha.
“One can’t tell for certain. Perhaps in nothing: it may all fizzle out. That woman is a beast. In any case we must keep the old man indoors and not let Dmitri in t he house.”
“Brother, let me ask one thing more: has any man a right to look at other men and decide which is worthy to live?”
“Why bring in the question of worth? The matter is most often decided in men’s hearts on other grounds much more natural. And as for rights—who has not the right to wish?”
“Not for another man’s death?”
“What even if for another man’s death? Why lie to oneself since all men live so and perhaps cannot help living so. Are you referring to what I said just now—th at one reptile will devour the other? In that case let me ask you, do you think me like Dmitri capable of shedding Æsop’s blood, murdering him, eh?”
“What are you saying, Ivan? Such an idea never crossed my mind. I don’t think Dmitri is capable of it, either.”
“Thanks, if only for that,” smiled Ivan. “Be sure, I should always defend him. But in my wishes I reserve myself full latitude in this case. Goodby till tomorrow.
Don’t condemn me, and don’t look on me as a villain,” he added with a smile.
They shook hands warmly as they had never done before. Alyosha felt that his brother had taken the first step towards him, and that he had certainly done this w ith some definite motive.
Chapter X.
Both Together
Alyosha left his father’s house feeling even more exhausted and dejected in spirit than when he had entered it. His mind too seemed shattered and unhinged, whi le he felt that he was afraid to put together the disjointed fragments and form a general idea from all the agonizing and conflicting experiences of the day. He felt something bordering upon despair, which he had never known till then. Towering like a mountain above all the rest stood the fatal, insoluble question: How would things end between his father and his brother Dmitri with this terrible woman? Now he had himself been a witness of it, he had been present and seen them face to face. Yet only his brother Dmitri could be made unhappy, terribly, completely unhappy: there was trouble awaiting him. It appeared too that there were other people concerned, far more so than Alyosha could have supposed before. There was something positively mysterious in it, too. Ivan had made a step towards him, which was what Alyosha had been long desiring. Yet now he felt for some reason that he was frightened at it. And these women? Strange to say, that morning he had set out for Katerina Ivanovna’s in the greatest embarrassment; now he felt nothing of the kind. On the contrary, he was hastening there as though expecting to find guidance from her. Yet to give her this message was obviously more difficult than before. The matter of the three thousand was decided irrevocably, and Dmitri, feeling himself dishonored and losing his last hope, might sink to any depth. He had, moreover, told him to describe to Katerina Ivanovna the scene which had just taken place with his father.
It was by now seven o’clock, and it was getting dark as Alyosha entered the very spacious and convenient house in the High Street occupied by Katerina Ivanov na. Alyosha knew that she lived with two aunts. One of them, a woman of little education, was that aunt of her halfsister Agafya Ivanovna who had looked after her in her father’s house when she came from boardingschool. The other aunt was a Moscow lady of style and consequence, though in straitened circumstances.
It was said that they both gave way in everything to Katerina Ivanovna, and that she only kept them with her as chaperons. Katerina Ivanovna herself gave way t o no one but her benefactress, the general’s widow, who had been kept by illness in Moscow, and to whom she was obliged to write twice a week a full account of all her doings.
When Alyosha entered the hall and asked the maid who opened the door to him to take his name up, it was evident that they were already aware of his arrival. P
ossibly he had been noticed from the window. At least, Alyosha heard a noise, caught the sound of flying footsteps and rustling skirts. Two or three women, per haps, had run out of the room.
Alyosha thought it strange that his arrival should cause such excitement. He was conducted however to the drawingroom at once. It was a large room, elegantly and amply furnished, not at all in provincial style. There were many sofas, lounges, settees, big and little tables. There were pictures on the walls, vases and lam ps on the tables, masses of flowers, and even an aquarium in the window. It was twilight and rather dark. Alyosha made out a silk mantle thrown down on the so fa, where people had evidently just been sitting; and on a table in front of the sofa were two unfinished cups of chocolate, cakes, a glass saucer with blue raisins, and another with sweetmeats. Alyosha saw that he had interrupted visitors, and frowned. But at that instant the portière was raised, and with rapid, hurrying foo tsteps Katerina Ivanovna came in, holding out both hands to Alyosha with a radiant smile of delight. At the same instant a servant brought in two lighted candles and set them on the table.
“Thank God! At last you have come too! I’ve been simply praying for you all day! Sit down.”
Alyosha had been struck by Katerina Ivanovna’s beauty when, three weeks before, Dmitri had first brought him, at Katerina Ivanovna’s special request, to be int roduced to her. There had been no conversation between them at that interview, however. Supposing Alyosha to be very shy, Katerina Ivanovna had talked all th e time to Dmitri to spare him. Alyosha had been silent, but he had seen a great deal very clearly. He was struck by the imperiousness, proud ease, and selfconfid ence of the haughty girl. And all that was certain, Alyosha felt that he was not exaggerating it. He thought her great glowing black eyes were very fine, especiall y with her pale, even rather sallow, longish face. But in those eyes and in the lines of her exquisite lips there was something with which his brother might well b e passionately in love, but which perhaps could not be loved for long. He expressed this thought almost plainly to Dmitri when, after the visit, his brother besou ght and insisted that he should not conceal his impressions on seeing his betrothed.
“You’ll be happy with her, but perhaps—not tranquilly happy.”
“Quite so, brother. Such people remain always the same. They don’t yield to fate. So you think I shan’t love her for ever.”
“No; perhaps you will love her for ever. But perhaps you won’t always be happy with her.”
Alyosha had given his opinion at the time, blushing, and angry with himself for having yielded to his brother’s entreaties and put such “foolish” ideas into word s. For his opinion had struck him as awfully foolish immediately after he had uttered it. He felt ashamed too of having given so confident an opinion about a wo man. It was with the more amazement that he felt now, at the first glance at Katerina Ivanovna as she ran in to him, that he had perhaps been utterly mistaken. T
his time her face was beaming with spontaneous goodnatured kindliness, and direct warmhearted sincerity. The “pride and haughtiness,” which had struck Alyo sha so much before, was only betrayed now in a frank, generous energy and a sort of bright, strong faith in herself. Alyosha realized at the first glance, at the firs t word, that all the tragedy of her position in relation to the man she loved so dearly was no secret to her; that she perhaps already knew everything, positively ev erything. And yet, in spite of that, there was such brightness in her face, such faith in the future. Alyosha felt at once that he had gravely wronged her in his thou ghts. He was conquered and captivated immediately. Besides all this, he noticed at her first words that she was in great excitement, an excitement perhaps quite exceptional and almost approaching ecstasy.
“I was so eager to see you, because I can learn from you the whole truth—from you and no one else.”
“I have come,” muttered Alyosha confusedly, “I—he sent me.”
“Ah, he sent you! I foresaw that. Now I know everything—everything!” cried Katerina Ivanovna, her eyes flashing. “Wait a moment, Alexey Fyodorovitch, I’ll tell you why I’ve been so longing to see you. You see, I know perhaps far more than you do yourself, and there’s no need for you to tell me anything. I’ll tell yo u what I want from you. I want to know your own last impression of him. I want you to tell me most directly, plainly, coarsely even (oh, as coarsely as you like!
), what you thought of him just now and of his position after your meeting with him today. That will perhaps be better than if I had a personal explanation with h im, as he does not want to come to me. Do you understand what I want from you? Now, tell me simply, tell me every word of the message he sent you with (I k new he would send you).”
“He told me to give you his compliments—and to say that he would never come again—but to give you his compliments.”
“His compliments? Was that what he said—his own expression?”
“Yes.”
“Accidentally perhaps he made a mistake in the word, perhaps he did not use the right word?”
“No; he told me precisely to repeat that word. He begged me two or three times not to forget to say so.”
Katerina Ivanovna flushed hotly.
“Help me now, Alexey Fyodorovitch. Now I really need your help. I’ll tell you what I think, and you must simply say whether it’s right or not. Listen! If he had sent me his compliments in passing, without insisting on your repeating the words, without emphasizing them, that would be the end of everything! But if he par ticularly insisted on those words, if he particularly told you not to forget to repeat them to me, then perhaps he was in excitement, beside himself. He had made his decision and was frightened at it. He wasn’t walking away from me with a resolute step, but leaping headlong. The emphasis on that phrase may have been s imply bravado.”
“Yes, yes!” cried Alyosha warmly. “I believe that is it.”
“And, if so, he’s not altogether lost. I can still save him. Stay! Did he not tell you anything about money—about three thousand roubles?”
“He did speak about it, and it’s that more than anything that’s crushing him. He said he had lost his honor and that nothing matters now,” Alyosha answered war mly, feeling a rush of hope in his heart and believing that there really might be a way of escape and salvation for his brother. “But do you know about the money
?” he added, and suddenly broke off.
“I’ve known of it a long time; I telegraphed to Moscow to inquire, and heard long ago that the money had not arrived. He hadn’t sent the money, but I said nothi ng. Last week I learnt that he was still in need of money. My only object in all this was that he should know to whom to turn, and who was his true friend. No, h e won’t recognize that I am his truest friend; he won’t know me, and looks on me merely as a woman. I’ve been tormented all the week, trying to think how to p revent him from being ashamed to face me because he spent that three thousand. Let him feel ashamed of himself, let him be ashamed of other people’s knowin g, but not of my knowing. He can tell God everything without shame. Why is it he still does not understand how much I am ready to bear for his sake? Why, wh y doesn’t he know me? How dare he not know me after all that has happened? I want to save him for ever. Let him forget me as his betrothed. And here he fears that he is dishonored in my eyes. Why, he wasn’t afraid to be open with you, Alexey Fyodorovitch. How is it that I don’t deserve the same?”
The last words she uttered in tears. Tears gushed from her eyes.
“I must tell you,” Alyosha began, his voice trembling too, “what happened just now between him and my father.”
And he described the whole scene, how Dmitri had sent him to get the money, how he had broken in, knocked his father down, and after that had again specially
and emphatically begged him to take his compliments and farewell. “He went to that woman,” Alyosha added softly.
“And do you suppose that I can’t put up with that woman? Does he think I can’t? But he won’t marry her,” she suddenly laughed nervously. “Could such a passi on last for ever in a Karamazov? It’s passion, not love. He won’t marry her because she won’t marry him.” Again Katerina Ivanovna laughed strangely.
“He may marry her,” said Alyosha mournfully, looking down.
“He won’t marry her, I tell you. That girl is an angel. Do you know that? Do you know that?” Katerina Ivanovna exclaimed suddenly with extraordinary warmth
. “She is one of the most fantastic of fantastic creatures. I know how bewitching she is, but I know too that she is kind, firm and noble. Why do you look at me li ke that, Alexey Fyodorovitch? Perhaps you are wondering at my words, perhaps you don’t believe me? Agrafena Alexandrovna, my angel!” she cried suddenly to some one, peeping into the next room, “come in to us. This is a friend. This is Alyosha. He knows all about our affairs. Show yourself to him.”
“I’ve only been waiting behind the curtain for you to call me,” said a soft, one might even say sugary, feminine voice.
The portière was raised and Grushenka herself, smiling and beaming, came up to the table. A violent revulsion passed over Alyosha. He fixed his eyes on her an d could not take them off. Here she was, that awful woman, the “beast,” as Ivan had called her half an hour before. And yet one would have thought the creature standing before him most simple and ordinary, a goodnatured, kind woman, handsome certainly, but so like other handsome ordinary women! It is true she was very, very goodlooking with that Russian beauty so passionately loved by many men. She was a rather tall woman, though a little shorter than Katerina Ivanovn a, who was exceptionally tall. She had a full figure, with soft, as it were, noiseless, movements, softened to a peculiar oversweetness, like her voice. She moved, not like Katerina Ivanovna, with a vigorous, bold step, but noiselessly. Her feet made absolutely no sound on the floor. She sank softly into a low chair, softly r ustling her sumptuous black silk dress, and delicately nestling her milkwhite neck and broad shoulders in a costly cashmere shawl. She was twentytwo years old
, and her face looked exactly that age. She was very white in the face, with a pale pink tint on her cheeks. The modeling of her face might be said to be too broad, and the lower jaw was set a trifle forward. Her upper lip was thin, but the slightly prominent lower lip was at least twice as full, and looked pouting. But her magnificent, abundant dark brown hair, her sablecolored eyebrows and charming grayblue eyes with their long lashes would have made the most indifferent person, meeting her casually in a crowd in the street, stop at the sight of her face and remember it long after. What struck Alyosha most in that face was its expression of childlike good nature. There was a childlike look in her eyes, a look of childish delight. She came up to the table, beaming with delight and seeming to expect something with childish, impatient, and confiding curiosity. The light in her eyes gladdened the soul—Alyosha felt that. There was something else in her which he could not understand, or would not have been able to define, and which yet perhaps unconsciously affected him. It was that softness, that voluptuousness of her bodily movements, that catlike noiselessness. Yet it was a vigorous, ample body. Under the shawl could be seen full broad shoulders, a high, still quite girlish bosom. Her figure suggested the lines of the Venus of Milo, though already in somewhat exaggerated proportions. That could be divined. Connoisseurs of Russian beauty could have foretold with certainty that this fresh, still youthful beauty would lose its harmony by the age of thirty, would “spread”; that the face would become puffy, and that wrinkles would very soon appear upon her forehead and round the eyes; the complexion would grow coarse and red perhaps—in fact, that it was the beauty of the moment, the fleeting beauty which is so often met with in Russian women. Alyosha, of course, did not think of this; but though he was fascinated, yet he wondered with an unpleasant sensation, and as it were regretfully, why she drawled in that way and could not speak naturally. She did so evidently feeling there was a charm in the exaggerated, honeyed modulation of the syllables. It was, of course, only a bad, underbred habit that showed bad education and a false idea of good manners. And yet this intonation and manner of speaking impressed Alyosha as almost incredibly incongruous with the childishly simple and happy expression of her face, the soft, babyish joy in her eyes. Katerina Ivanovna at once made her sit down in an arm chair facing Alyosha, and ecstatically kissed her several times on her smiling lips. She seemed quite in love with her.
“This is the first time we’ve met, Alexey Fyodorovitch,” she said rapturously. “I wanted to know her, to see her. I wanted to go to her, but I’d no sooner express ed the wish than she came to me. I knew we should settle everything together—everything. My heart told me so—I was begged not to take the step, but I foresa w it would be a way out of the difficulty, and I was not mistaken. Grushenka has explained everything to me, told me all she means to do. She flew here like an angel of goodness and brought us peace and joy.”
“You did not disdain me, sweet, excellent young lady,” drawled Grushenka in her singsong voice, still with the same charming smile of delight.
“Don’t dare to speak to me like that, you sorceress, you witch! Disdain you! Here, I must kiss your lower lip once more. It looks as though it were swollen, and now it will be more so, and more and more. Look how she laughs, Alexey Fyodorovitch! It does one’s heart good to see the angel.”
Alyosha flushed, and faint, imperceptible shivers kept running down him.
“You make so much of me, dear young lady, and perhaps I am not at all worthy of your kindness.”
“Not worthy! She’s not worthy of it!” Katerina Ivanovna cried again with the same warmth. “You know, Alexey Fyodorovitch, we’re fanciful, we’re selfwilled, but proudest of the proud in our little heart. We’re noble, we’re generous, Alexey Fyodorovitch, let me tell you. We have only been unfortunate. We were too re ady to make every sacrifice for an unworthy, perhaps, or fickle man. There was one man—one, an officer too, we loved him, we sacrificed everything to him. T
hat was long ago, five years ago, and he has forgotten us, he has married. Now he is a widower, he has written, he is coming here, and, do you know, we’ve love d him, none but him, all this time, and we’ve loved him all our life! He will come, and Grushenka will be happy again. For the last five years she’s been wretche d. But who can reproach her, who can boast of her favor? Only that bedridden old merchant, but he is more like her father, her friend, her protector. He found he r then in despair, in agony, deserted by the man she loved. She was ready to drown herself then, but the old merchant saved her—saved her!”
“You defend me very kindly, dear young lady. You are in a great hurry about everything,” Grushenka drawled again.
“Defend you! Is it for me to defend you? Should I dare to defend you? Grushenka, angel, give me your hand. Look at that charming soft little hand, Alexey Fyo dorovitch! Look at it! It has brought me happiness and has lifted me up, and I’m going to kiss it, outside and inside, here, here, here!”
And three times she kissed the certainly charming, though rather fat, hand of Grushenka in a sort of rapture. She held out her hand with a charming musical, ner vous little laugh, watched the “sweet young lady,” and obviously liked having her hand kissed.
“Perhaps there’s rather too much rapture,” thought Alyosha. He blushed. He felt a peculiar uneasiness at heart the whole time.
“You won’t make me blush, dear young lady, kissing my hand like this before Alexey Fyodorovitch.”
“Do you think I meant to make you blush?” said Katerina Ivanovna, somewhat surprised. “Ah, my dear, how little you understand me!”
“Yes, and you too perhaps quite misunderstand me, dear young lady. Maybe I’m not so good as I seem to you. I’ve a bad heart; I will have my own way. I fasci nated poor Dmitri Fyodorovitch that day simply for fun.”
“But now you’ll save him. You’ve given me your word. You’ll explain it all to him. You’ll break to him that you have long loved another man, who is now offe ring you his hand.”
“Oh, no! I didn’t give you my word to do that. It was you kept talking about that. I didn’t give you my word.”
“Then I didn’t quite understand you,” said Katerina Ivanovna slowly, turning a little pale. “You promised—”
“Oh, no, angel lady, I’ve promised nothing,” Grushenka interrupted softly and evenly, still with the same gay and simple expression. “You see at once, dear you ng lady, what a willful wretch I am compared with you. If I want to do a thing I do it. I may have made you some promise just now. But now again I’m thinking
: I may take to Mitya again. I liked him very much once—liked him for almost a whole hour. Now maybe I shall go and tell him to stay with me from this day f orward. You see, I’m so changeable.”
“Just now you said—something quite different,” Katerina Ivanovna whispered faintly.
“Ah, just now! But, you know. I’m such a softhearted, silly creature. Only think what he’s gone through on my account! What if when I go home I feel sorry for him? What then?”
“I never expected—”
“Ah, young lady, how good and generous you are compared with me! Now perhaps you won’t care for a silly creature like me, now you know my character. Giv e me your sweet little hand, angelic lady,” she said tenderly, and with a sort of reverence took Katerina Ivanovna’s hand.
“Here, dear young lady, I’ll take your hand and kiss it as you did mine. You kissed mine three times, but I ought to kiss yours three hundred times to be even wit h you. Well, but let that pass. And then it shall be as God wills. Perhaps I shall be your slave entirely and want to do your bidding like a slave. Let it be as God wills, without any agreements and promises. What a sweet hand—what a sweet hand you have! You sweet young lady, you incredible beauty!”
She slowly raised the hands to her lips, with the strange object indeed of “being even” with her in kisses.
Katerina Ivanovna did not take her hand away. She listened with timid hope to the last words, though Grushenka’s promise to do her bidding like a slave was ve ry strangely expressed. She looked intently into her eyes; she still saw in those eyes the same simplehearted, confiding expression, the same bright gayety.
“She’s perhaps too naïve,” thought Katerina Ivanovna, with a gleam of hope.
Grushenka meanwhile seemed enthusiastic over the “sweet hand.” She raised it deliberately to her lips. But she held it for two or three minutes near her lips, as t hough reconsidering something.
“Do you know, angel lady,” she suddenly drawled in an even more soft and sugary voice, “do you know, after all, I think I won’t kiss your hand?” And she laug hed a little merry laugh.
“As you please. What’s the matter with you?” said Katerina Ivanovna, starting suddenly.
“So that you may be left to remember that you kissed my hand, but I didn’t kiss yours.”
There was a sudden gleam in her eyes. She looked with awful intentness at Katerina Ivanovna.
“Insolent creature!” cried Katerina Ivanovna, as though suddenly grasping something. She flushed all over and leapt up from her seat.
Grushenka too got up, but without haste.
“So I shall tell Mitya how you kissed my hand, but I didn’t kiss yours at all. And how he will laugh!”
“Vile slut! Go away!”
“Ah, for shame, young lady! Ah, for shame! That’s unbecoming for you, dear young lady, a word like that.”
“Go away! You’re a creature for sale!” screamed Katerina Ivanovna. Every feature was working in her utterly distorted face.
“For sale indeed! You used to visit gentlemen in the dusk for money once; you brought your beauty for sale. You see, I know.”
Katerina Ivanovna shrieked, and would have rushed at her, but Alyosha held her with all his strength.
“Not a step, not a word! Don’t speak, don’t answer her. She’ll go away—she’ll go at once.”
At that instant Katerina Ivanovna’s two aunts ran in at her cry, and with them a maidservant. All hurried to her.
“I will go away,” said Grushenka, taking up her mantle from the sofa. “Alyosha, darling, see me home!”
“Go away—go away, make haste!” cried Alyosha, clasping his hands imploringly.
“Dear little Alyosha, see me home! I’ve got a pretty little story to tell you on the way. I got up this scene for your benefit, Alyosha. See me home, dear, you’ll b e glad of it afterwards.”
Alyosha turned away, wringing his hands. Grushenka ran out of the house, laughing musically.
Katerina Ivanovna went into a fit of hysterics. She sobbed, and was shaken with convulsions. Every one fussed round her.
“I warned you,” said the elder of her aunts. “I tried to prevent your doing this. You’re too impulsive. How could you do such a thing? You don’t know these cre atures, and they say she’s worse than any of them. You are too selfwilled.”
“She’s a tigress!” yelled Katerina Ivanovna. “Why did you hold me, Alexey Fyodorovitch? I’d have beaten her—beaten her!”
She could not control herself before Alyosha; perhaps she did not care to, indeed.
“She ought to be flogged in public on a scaffold!”
Alyosha withdrew towards the door.
“But, my God!” cried Katerina Ivanovna, clasping her hands. “He! He! He could be so dishonorable, so inhuman! Why, he told that creature what happened on t hat fatal, accursed day! ‘You brought your beauty for sale, dear young lady.’ She knows it! Your brother’s a scoundrel, Alexey Fyodorovitch.”
Alyosha wanted to say something, but he couldn’t find a word. His heart ached.
“Go away, Alexey Fyodorovitch! It’s shameful, it’s awful for me! To morrow, I beg you on my knees, come tomorrow. Don’t condemn me. Forgive me. I don’t know what I shall do with myself now!”
Alyosha walked out into the street reeling. He could have wept as she did. Suddenly he was overtaken by the maid.
“The young lady forgot to give you this letter from Madame Hohlakov; it’s been left with us since dinnertime.”
Alyosha took the little pink envelope mechanically and put it, almost unconsciously, into his pocket.
Chapter XI.
Another Reputation Ruined
It was not much more than threequarters of a mile from the town to the monastery. Alyosha walked quickly along the road, at that hour deserted. It was almost n ight, and too dark to see anything clearly at thirty paces ahead. There were crossroads halfway. A figure came into sight under a solitary willow at the crossroads. As soon as Alyosha reached the cross roads the figure moved out and rushed at him, shouting savagely:
“Your money or your life!”
“So it’s you, Mitya,” cried Alyosha, in surprise, violently startled however.
“Ha ha ha! You didn’t expect me? I wondered where to wait for you. By her house? There are three ways from it, and I might have missed you. At last I thought of waiting here, for you had to pass here, there’s no other way to the monastery. Come, tell me the truth. Crush me like a beetle. But what’s the matter?”
“Nothing, brother—it’s the fright you gave me. Oh, Dmitri! Father’s blood just now.” (Alyosha began to cry, he had been on the verge of tears for a long time, a nd now something seemed to snap in his soul.) “You almost killed him—cursed him—and now—here—you’re making jokes—‘Your money or your life!’ ”
“Well, what of that? It’s not seemly—is that it? Not suitable in my position?”
“No—I only—”
“Stay. Look at the night. You see what a dark night, what clouds, what a wind has risen. I hid here under the willow waiting for you. And as God’s above, I sud denly thought, why go on in misery any longer, what is there to wait for? Here I have a willow, a handkerchief, a shirt, I can twist them into a rope in a minute, and braces besides, and why go on burdening the earth, dishonoring it with my vile presence? And then I heard you coming—Heavens, it was as though somethi ng flew down to me suddenly. So there is a man, then, whom I love. Here he is, that man, my dear little brother, whom I love more than any one in the world, th e only one I love in the world. And I loved you so much, so much at that moment that I thought, ‘I’ll fall on his neck at once.’ Then a stupid idea struck me, to h ave a joke with you and scare you. I shouted, like a fool, ‘Your money!’ Forgive my foolery—it was only nonsense, and there’s nothing unseemly in my soul….
Damn it all, tell me what’s happened. What did she say? Strike me, crush me, don’t spare me! Was she furious?”
“No, not that…. There was nothing like that, Mitya. There—I found them both there.”
“Both? Whom?”
“Grushenka at Katerina Ivanovna’s.”
Dmitri was struck dumb.
“Impossible!” he cried. “You’re raving! Grushenka with her?”
Alyosha described all that had happened from the moment he went in to Katerina Ivanovna’s. He was ten minutes telling his story. He can’t be said to have told it fluently and consecutively, but he seemed to make it clear, not omitting any word or action of significance, and vividly describing, often in one word, his own sensations. Dmitri listened in silence, gazing at him with a terrible fixed stare, but it was clear to Alyosha that he understood it all, and had grasped every point.
But as the story went on, his face became not merely gloomy, but menacing. He scowled, he clenched his teeth, and his fixed stare became still more rigid, more concentrated, more terrible, when suddenly, with incredible rapidity, his wrathful, savage face changed, his tightly compressed lips parted, and Dmitri Fyodoro vitch broke into uncontrolled, spontaneous laughter. He literally shook with laughter. For a long time he could not speak.
“So she wouldn’t kiss her hand! So she didn’t kiss it; so she ran away!” he kept exclaiming with hysterical delight; insolent delight it might have been called, if i t had not been so spontaneous. “So the other one called her tigress! And a tigress she is! So she ought to be flogged on a scaffold? Yes, yes, so she ought. That’s just what I think; she ought to have been long ago. It’s like this, brother, let her be punished, but I must get better first. I understand the queen of impudence. Th at’s her all over! You saw her all over in that handkissing, the shedevil! She’s magnificent in her own line! So she ran home? I’ll go—ah—I’ll run to her! Alyos ha, don’t blame me, I agree that hanging is too good for her.”
“But Katerina Ivanovna!” exclaimed Alyosha sorrowfully.
“I see her, too! I see right through her, as I’ve never done before! It’s a regular discovery of the four continents of the world, that is, of the five! What a thing to do! That’s just like Katya, who was not afraid to face a coarse, unmannerly officer and risk a deadly insult on a generous impulse to save her father! But the prid e, the recklessness, the defiance of fate, the unbounded defiance! You say that aunt tried to stop her? That aunt, you know, is overbearing, herself. She’s the sister of the general’s widow in Moscow, and even more stuckup than she. But her husband was caught stealing government money. He lost everything, his estate and all, and the proud wife had to lower her colors, and hasn’t raised them since. So she tried to prevent Katya, but she wouldn’t listen to her! She thinks she can overcome everything, that everything will give way to her. She thought she could bewitch Grushenka if she liked, and she believed it herself: she plays a part to herself, and whose fault is it? Do you think she kissed Grushenka’s hand first, on purpose, with a motive? No, she really was fascinated by Grushenka, that’s to say, not by Grushenka, but by her own dream, her own delusion—because it was her dream, her delusion! Alyosha, darling, how did you escape from them, those women? Did you pick up your cassock and run? Ha ha ha!”
“Brother, you don’t seem to have noticed how you’ve insulted Katerina Ivanovna by telling Grushenka about that day. And she flung it in her face just now that she had gone to gentlemen in secret to sell her beauty! Brother, what could be worse than that insult?”
What worried Alyosha more than anything was that, incredible as it seemed, his brother appeared pleased at Katerina Ivanovna’s humiliation.
“Bah!” Dmitri frowned fiercely, and struck his forehead with his hand. He only now realized it, though Alyosha had just told him of the insult, and Katerina Iva novna’s cry: “Your brother is a scoundrel!”
“Yes, perhaps, I really did tell Grushenka about that ‘fatal day,’ as Katya calls it. Yes, I did tell her, I remember! It was that time at Mokroe. I was drunk, the gy psies were singing…. But I was sobbing. I was sobbing then, kneeling and praying to Katya’s image, and Grushenka understood it. She understood it all then. I r emember, she cried herself…. Damn it all! But it’s bound to be so now…. Then she cried, but now ‘the dagger in the heart’! That’s how women are.”
He looked down and sank into thought.
“Yes, I am a scoundrel, a thorough scoundrel!” he said suddenly, in a gloomy voice. “It doesn’t matter whether I cried or not, I’m a scoundrel! Tell her I accept t he name, if that’s any comfort. Come, that’s enough. Goodby. It’s no use talking! It’s not amusing. You go your way and I mine. And I don’t want to see you ag ain except as a last resource. Good by, Alexey!”
He warmly pressed Alyosha’s hand, and still looking down, without raising his head, as though tearing himself away, turned rapidly towards the town.
Alyosha looked after him, unable to believe he would go away so abruptly.
“Stay, Alexey, one more confession to you alone!” cried Dmitri, suddenly turning back. “Look at me. Look at me well. You see here, here—there’s terrible disg race in store for me.” (As he said “here,” Dmitri struck his chest with his fist with a strange air, as though the dishonor lay precisely on his chest, in some spot, i n a pocket, perhaps, or hanging round his neck.) “You know me now, a scoundrel, an avowed scoundrel, but let me tell you that I’ve never done anything before and never shall again, anything that can compare in baseness with the dishonor which I bear now at this very minute on my breast, here, here, which will come t o pass, though I’m perfectly free to stop it. I can stop it or carry it through, note that. Well, let me tell you, I shall carry it through. I shan’t stop it. I told you ever ything just now, but I didn’t tell you this, because even I had not brass enough for it. I can still pull up; if I do, I can give back the full half of my lost honor tom orrow. But I shan’t pull up. I shall carry out my base plan, and you can bear witness that I told you so beforehand. Darkness and destruction! No need to explain.
You’ll find out in due time. The filthy backalley and the she devil. Goodby. Don’t pray for me, I’m not worth it. And there’s no need, no need at all…. I don’t n eed it! Away!”
And he suddenly retreated, this time finally. Alyosha went towards the monastery.
“What? I shall never see him again! What is he saying?” he wondered wildly. “Why, I shall certainly see him tomorrow. I shall look him up. I shall make a poin t of it. What does he mean?”
He went round the monastery, and crossed the pinewood to the hermitage. The door was opened to him, though no one was admitted at that hour. There was a tr emor in his heart as he went into Father Zossima’s cell.
“Why, why, had he gone forth? Why had he sent him into the world? Here was peace. Here was holiness. But there was confusion, there was darkness in which one lost one’s way and went astray at once….”
In the cell he found the novice Porfiry and Father Païssy, who came every hour to inquire after Father Zossima. Alyosha learnt with alarm that he was getting w orse and worse. Even his usual discourse with the brothers could not take place that day. As a rule every evening after service the monks flocked into Father Zos sima’s cell, and all confessed aloud their sins of the day, their sinful thoughts and temptations; even their disputes, if there had been any. Some confessed kneeli
ng. The elder absolved, reconciled, exhorted, imposed penance, blessed, and dismissed them. It was against this general “confession” that the opponents of “elde rs” protested, maintaining that it was a profanation of the sacrament of confession, almost a sacrilege, though this was quite a different thing. They even represe nted to the diocesan authorities that such confessions attained no good object, but actually to a large extent led to sin and temptation. Many of the brothers dislik ed going to the elder, and went against their own will because every one went, and for fear they should be accused of pride and rebellious ideas. People said that some of the monks agreed beforehand, saying, “I’ll confess I lost my temper with you this morning, and you confirm it,” simply in order to have something to s ay. Alyosha knew that this actually happened sometimes. He knew, too, that there were among the monks some who deeply resented the fact that letters from rel ations were habitually taken to the elder, to be opened and read by him before those to whom they were addressed.
It was assumed, of course, that all this was done freely, and in good faith, by way of voluntary submission and salutary guidance. But, in fact, there was someti mes no little insincerity, and much that was false and strained in this practice. Yet the older and more experienced of the monks adhered to their opinion, arguin g that “for those who have come within these walls sincerely seeking salvation, such obedience and sacrifice will certainly be salutary and of great benefit; those
, on the other hand, who find it irksome, and repine, are no true monks, and have made a mistake in entering the monastery—their proper place is in the world.
Even in the temple one cannot be safe from sin and the devil. So it was no good taking it too much into account.”
“He is weaker, a drowsiness has come over him,” Father Païssy whispered to Alyosha, as he blessed him. “It’s difficult to rouse him. And he must not be roused
. He waked up for five minutes, sent his blessing to the brothers, and begged their prayers for him at night. He intends to take the sacrament again in the mornin g. He remembered you, Alexey. He asked whether you had gone away, and was told that you were in the town. ‘I blessed him for that work,’ he said, ‘his place is there, not here, for awhile.’ Those were his words about you. He remembered you lovingly, with anxiety; do you understand how he honored you? But how is it that he has decided that you shall spend some time in the world? He must have foreseen something in your destiny! Understand, Alexey, that if you return to the world, it must be to do the duty laid upon you by your elder, and not for frivolous vanity and worldly pleasures.”
Father Païssy went out. Alyosha had no doubt that Father Zossima was dying, though he might live another day or two. Alyosha firmly and ardently resolved th at in spite of his promises to his father, the Hohlakovs, and Katerina Ivanovna, he would not leave the monastery next day, but would remain with his elder to th e end. His heart glowed with love, and he reproached himself bitterly for having been able for one instant to forget him whom he had left in the monastery on hi s deathbed, and whom he honored above every one in the world. He went into Father Zossima’s bedroom, knelt down, and bowed to the ground before the elder
, who slept quietly without stirring, with regular, hardly audible breathing and a peaceful face.
Alyosha returned to the other room, where Father Zossima had received his guests in the morning. Taking off his boots, he lay down on the hard, narrow, leathe rn sofa, which he had long used as a bed, bringing nothing but a pillow. The mattress, about which his father had shouted to him that morning, he had long forgo tten to lie on. He took off his cassock, which he used as a covering. But before going to bed, he fell on his knees and prayed a long time. In his fervent prayer he did not beseech God to lighten his darkness but only thirsted for the joyous emotion, which always visited his soul after the praise and adoration, of which his e vening prayer usually consisted. That joy always brought him light untroubled sleep. As he was praying, he suddenly felt in his pocket the little pink note the ser vant had handed him as he left Katerina Ivanovna’s. He was disturbed, but finished his prayer. Then, after some hesitation, he opened the envelope. In it was a l etter to him, signed by Lise, the young daughter of Madame Hohlakov, who had laughed at him before the elder in the morning.
“Alexey Fyodorovitch,” she wrote, “I am writing to you without any one’s knowledge, even mamma’s, and I know how wrong it is. But I cannot live without tel ling you the feeling that has sprung up in my heart, and this no one but us two must know for a time. But how am I to say what I want so much to tell you? Pape r, they say, does not blush, but I assure you it’s not true and that it’s blushing just as I am now, all over. Dear Alyosha, I love you, I’ve loved you from my child hood, since our Moscow days, when you were very different from what you are now, and I shall love you all my life. My heart has chosen you, to unite our lives
, and pass them together till our old age. Of course, on condition that you will leave the monastery. As for our age we will wait for the time fixed by the law. By that time I shall certainly be quite strong, I shall be walking and dancing. There can be no doubt of that.
“You see how I’ve thought of everything. There’s only one thing I can’t imagine: what you’ll think of me when you read this. I’m always laughing and being na ughty. I made you angry this morning, but I assure you before I took up my pen, I prayed before the Image of the Mother of God, and now I’m praying, and alm ost crying.
“My secret is in your hands. When you come tomorrow, I don’t know how I shall look at you. Ah, Alexey Fyodorovitch, what if I can’t restrain myself like a sil ly and laugh when I look at you as I did today. You’ll think I’m a nasty girl making fun of you, and you won’t believe my letter. And so I beg you, dear one, if y ou’ve any pity for me, when you come to morrow, don’t look me straight in the face, for if I meet your eyes, it will be sure to make me laugh, especially as you’
ll be in that long gown. I feel cold all over when I think of it, so when you come, don’t look at me at all for a time, look at mamma or at the window….
“Here I’ve written you a loveletter. Oh, dear, what have I done? Alyosha, don’t despise me, and if I’ve done something very horrid and wounded you, forgive m e. Now the secret of my reputation, ruined perhaps for ever, is in your hands.
“I shall certainly cry today. Goodby till our meeting, our awful meeting.—LISE.
“P.S.—Alyosha! You must, must, must come!—LISE.”
Alyosha read the note in amazement, read it through twice, thought a little, and suddenly laughed a soft, sweet laugh. He started. That laugh seemed to him sinfu l. But a minute later he laughed again just as softly and happily. He slowly replaced the note in the envelope, crossed himself and lay down. The agitation in his heart passed at once. “God, have mercy upon all of them, have all these unhappy and turbulent souls in Thy keeping, and set them in the right path. All ways are Thine. Save them according to Thy wisdom. Thou art love. Thou wilt send joy to all!” Alyosha murmured, crossing himself, and falling into peaceful sleep.
PART II
Book IV. Lacerations
Chapter I.
Father Ferapont
Alyosha was roused early, before daybreak. Father Zossima woke up feeling very weak, though he wanted to get out of bed and sit up in a chair. His mind was q uite clear; his face looked very tired, yet bright and almost joyful. It wore an expression of gayety, kindness and cordiality. “Maybe I shall not live through the c
oming day,” he said to Alyosha. Then he desired to confess and take the sacrament at once. He always confessed to Father Païssy. After taking the communion, the service of extreme unction followed. The monks assembled and the cell was gradually filled up by the inmates of the hermitage. Meantime it was daylight. P
eople began coming from the monastery. After the service was over the elder desired to kiss and take leave of every one. As the cell was so small the earlier visi tors withdrew to make room for others. Alyosha stood beside the elder, who was seated again in his armchair. He talked as much as he could. Though his voice was weak, it was fairly steady.
“I’ve been teaching you so many years, and therefore I’ve been talking aloud so many years, that I’ve got into the habit of talking, and so much so that it’s almo st more difficult for me to hold my tongue than to talk, even now, in spite of my weakness, dear Fathers and brothers,” he jested, looking with emotion at the gro up round him.
Alyosha remembered afterwards something of what he said to them. But though he spoke out distinctly and his voice was fairly steady, his speech was somewha t disconnected. He spoke of many things, he seemed anxious before the moment of death to say everything he had not said in his life, and not simply for the sak e of instructing them, but as though thirsting to share with all men and all creation his joy and ecstasy, and once more in his life to open his whole heart.
“Love one another, Fathers,” said Father Zossima, as far as Alyosha could remember afterwards. “Love God’s people. Because we have come here and shut our selves within these walls, we are no holier than those that are outside, but on the contrary, from the very fact of coming here, each of us has confessed to himself that he is worse than others, than all men on earth…. And the longer the monk lives in his seclusion, the more keenly he must recognize that. Else he would hav e had no reason to come here. When he realizes that he is not only worse than others, but that he is responsible to all men for all and everything, for all human si ns, national and individual, only then the aim of our seclusion is attained. For know, dear ones, that every one of us is undoubtedly responsible for all men and e verything on earth, not merely through the general sinfulness of creation, but each one personally for all mankind and every individual man. This knowledge is t he crown of life for the monk and for every man. For monks are not a special sort of men, but only what all men ought to be. Only through that knowledge, our heart grows soft with infinite, universal, inexhaustible love. Then every one of you will have the power to win over the whole world by love and to wash away t he sins of the world with your tears…. Each of you keep watch over your heart and confess your sins to yourself unceasingly. Be not afraid of your sins, even w hen perceiving them, if only there be penitence, but make no conditions with God. Again I say, Be not proud. Be proud neither to the little nor to the great. Hate not those who reject you, who insult you, who abuse and slander you. Hate not the atheists, the teachers of evil, the materialists—and I mean not only the good ones—for there are many good ones among them, especially in our day—hate not even the wicked ones. Remember them in your prayers thus: Save, O Lord, all those who have none to pray for them, save too all those who will not pray. And add: it is not in pride that I make this prayer, O Lord, for I am lower than all m en…. Love God’s people, let not strangers draw away the flock, for if you slumber in your slothfulness and disdainful pride, or worse still, in covetousness, they will come from all sides and draw away your flock. Expound the Gospel to the people unceasingly … be not extortionate…. Do not love gold and silver, do not hoard them…. Have faith. Cling to the banner and raise it on high.”
But the elder spoke more disconnectedly than Alyosha reported his words afterwards. Sometimes he broke off altogether, as though to take breath, and recover h is strength, but he was in a sort of ecstasy. They heard him with emotion, though many wondered at his words and found them obscure…. Afterwards all remem bered those words.
When Alyosha happened for a moment to leave the cell, he was struck by the general excitement and suspense in the monks who were crowding about it. This a nticipation showed itself in some by anxiety, in others by devout solemnity. All were expecting that some marvel would happen immediately after the elder’s de ath. Their suspense was, from one point of view, almost frivolous, but even the most austere of the monks were affected by it. Father Païssy’s face looked the gr avest of all.
Alyosha was mysteriously summoned by a monk to see Rakitin, who had arrived from town with a singular letter for him from Madame Hohlakov. In it she info rmed Alyosha of a strange and very opportune incident. It appeared that among the women who had come on the previous day to receive Father Zossima’s bless ing, there had been an old woman from the town, a sergeant’s widow, called Prohorovna. She had inquired whether she might pray for the rest of the soul of her son, Vassenka, who had gone to Irkutsk, and had sent her no news for over a year. To which Father Zossima had answered sternly, forbidding her to do so, and s aying that to pray for the living as though they were dead was a kind of sorcery. He afterwards forgave her on account of her ignorance, and added, “as though r eading the book of the future” (this was Madame Hohlakov’s expression), words of comfort: “that her son Vassya was certainly alive and he would either come himself very shortly or send a letter, and that she was to go home and expect him.” And “Would you believe it?” exclaimed Madame Hohlakov enthusiastically,
“the prophecy has been fulfilled literally indeed, and more than that.” Scarcely had the old woman reached home when they gave her a letter from Siberia which had been awaiting her. But that was not all; in the letter written on the road from Ekaterinenburg, Vassya informed his mother that he was returning to Russia w ith an official, and that three weeks after her receiving the letter he hoped “to embrace his mother.”
Madame Hohlakov warmly entreated Alyosha to report this new “miracle of prediction” to the Superior and all the brotherhood. “All, all, ought to know of it!” s he concluded. The letter had been written in haste, the excitement of the writer was apparent in every line of it. But Alyosha had no need to tell the monks, for al l knew of it already. Rakitin had commissioned the monk who brought his message “to inform most respectfully his reverence Father Païssy, that he, Rakitin, ha s a matter to speak of with him, of such gravity that he dare not defer it for a moment, and humbly begs forgiveness for his presumption.” As the monk had give n the message to Father Païssy before that to Alyosha, the latter found after reading the letter, there was nothing left for him to do but to hand it to Father Païssy in confirmation of the story.
And even that austere and cautious man, though he frowned as he read the news of the “miracle,” could not completely restrain some inner emotion. His eyes gl eamed, and a grave and solemn smile came into his lips.
“We shall see greater things!” broke from him.
“We shall see greater things, greater things yet!” the monks around repeated.
But Father Païssy, frowning again, begged all of them, at least for a time, not to speak of the matter “till it be more fully confirmed, seeing there is so much cred ulity among those of this world, and indeed this might well have chanced naturally,” he added, prudently, as it were to satisfy his conscience, though scarcely be lieving his own disavowal, a fact his listeners very clearly perceived.
Within the hour the “miracle” was of course known to the whole monastery, and many visitors who had come for the mass. No one seemed more impressed by i t than the monk who had come the day before from St. Sylvester, from the little monastery of Obdorsk in the far North. It was he who had been standing near M
adame Hohlakov the previous day and had asked Father Zossima earnestly, referring to the “healing” of the lady’s daughter, “How can you presume to do such t hings?”
He was now somewhat puzzled and did not know whom to believe. The evening before he had visited Father Ferapont in his cell apart, behind the apiary, and h ad been greatly impressed and overawed by the visit. This Father Ferapont was that aged monk so devout in fasting and observing silence who has been mention ed already, as antagonistic to Father Zossima and the whole institution of “elders,” which he regarded as a pernicious and frivolous innovation. He was a very fo rmidable opponent, although from his practice of silence he scarcely spoke a word to any one. What made him formidable was that a number of monks fully sha red his feeling, and many of the visitors looked upon him as a great saint and ascetic, although they had no doubt that he was crazy. But it was just his craziness attracted them.
Father Ferapont never went to see the elder. Though he lived in the hermitage they did not worry him to keep its regulations, and this too because he behaved as though he were crazy. He was seventyfive or more, and he lived in a corner beyond the apiary in an old decaying wooden cell which had been built long ago for another great ascetic, Father Iona, who had lived to be a hundred and five, and of whose saintly doings many curious stories were still extant in the monastery an d the neighborhood.
Father Ferapont had succeeded in getting himself installed in this same solitary cell seven years previously. It was simply a peasant’s hut, though it looked like a chapel, for it contained an extraordinary number of ikons with lamps perpetually burning before them—which men brought to the monastery as offerings to Go d. Father Ferapont had been appointed to look after them and keep the lamps burning. It was said (and indeed it was true) that he ate only two pounds of bread i n three days. The beekeeper, who lived close by the apiary, used to bring him the bread every three days, and even to this man who waited upon him, Father Fer apont rarely uttered a word. The four pounds of bread, together with the sacrament bread, regularly sent him on Sundays after the late mass by the Father Superi or, made up his weekly rations. The water in his jug was changed every day. He rarely appeared at mass. Visitors who came to do him homage saw him someti mes kneeling all day long at prayer without looking round. If he addressed them, he was brief, abrupt, strange, and almost always rude. On very rare occasions, however, he would talk to visitors, but for the most part he would utter some one strange saying which was a complete riddle, and no entreaties would induce hi m to pronounce a word in explanation. He was not a priest, but a simple monk. There was a strange belief, chiefly however among the most ignorant, that Father Ferapont had communication with heavenly spirits and would only converse with them, and so was silent with men.
The monk from Obdorsk, having been directed to the apiary by the beekeeper, who was also a very silent and surly monk, went to the corner where Father Ferap ont’s cell stood. “Maybe he will speak as you are a stranger and maybe you’ll get nothing out of him,” the beekeeper had warned him. The monk, as he related a fterwards, approached in the utmost apprehension. It was rather late in the evening. Father Ferapont was sitting at the door of his cell on a low bench. A huge ol d elm was lightly rustling overhead. There was an evening freshness in the air. The monk from Obdorsk bowed down before the saint and asked his blessing.
“Do you want me to bow down to you, monk?” said Father Ferapont. “Get up!”
The monk got up.
“Blessing, be blessed! Sit beside me. Where have you come from?”
What most struck the poor monk was the fact that in spite of his strict fasting and great age, Father Ferapont still looked a vigorous old man. He was tall, held hi mself erect, and had a thin, but fresh and healthy face. There was no doubt he still had considerable strength. He was of athletic build. In spite of his great age he was not even quite gray, and still had very thick hair and a full beard, both of which had once been black. His eyes were gray, large and luminous, but strikingly prominent. He spoke with a broad accent. He was dressed in a peasant’s long reddish coat of coarse convict cloth (as it used to be called) and had a stout rope r ound his waist. His throat and chest were bare. Beneath his coat, his shirt of the coarsest linen showed almost black with dirt, not having been changed for mont hs. They said that he wore irons weighing thirty pounds under his coat. His stockingless feet were thrust in old slippers almost dropping to pieces.
“From the little Obdorsk monastery, from St. Sylvester,” the monk answered humbly, whilst his keen and inquisitive, but rather frightened little eyes kept watch on the hermit.
“I have been at your Sylvester’s. I used to stay there. Is Sylvester well?”
The monk hesitated.
“You are a senseless lot! How do you keep the fasts?”
“Our dietary is according to the ancient conventual rules. During Lent there are no meals provided for Monday, Wednesday, and Friday. For Tuesday and Thurs day we have white bread, stewed fruit with honey, wild berries, or salt cabbage and wholemeal stirabout. On Saturday white cabbage soup, noodles with peas, k asha, all with hemp oil. On weekdays we have dried fish and kasha with the cabbage soup. From Monday till Saturday evening, six whole days in Holy Week, n othing is cooked, and we have only bread and water, and that sparingly; if possible not taking food every day, just the same as is ordered for first week in Lent.
On Good Friday nothing is eaten. In the same way on the Saturday we have to fast till three o’clock, and then take a little bread and water and drink a single cup of wine. On Holy Thursday we drink wine and have something cooked without oil or not cooked at all, inasmuch as the Laodicean council lays down for Holy
Thursday: ‘It is unseemly by remitting the fast on the Holy Thursday to dishonor the whole of Lent!’ This is how we keep the fast. But what is that compared wi th you, holy Father,” added the monk, growing more confident, “for all the year round, even at Easter, you take nothing but bread and water, and what we shoul d eat in two days lasts you full seven. It’s truly marvelous—your great abstinence.”
“And mushrooms?” asked Father Ferapont, suddenly.
“Mushrooms?” repeated the surprised monk.
“Yes. I can give up their bread, not needing it at all, and go away into the forest and live there on the mushrooms or the berries, but they can’t give up their brea d here, wherefore they are in bondage to the devil. Nowadays the unclean deny that there is need of such fasting. Haughty and unclean is their judgment.”
“Och, true,” sighed the monk.
“And have you seen devils among them?” asked Ferapont.
“Among them? Among whom?” asked the monk, timidly.
“I went to the Father Superior on Trinity Sunday last year, I haven’t been since. I saw a devil sitting on one man’s chest hiding under his cassock, only his horns poked out; another had one peeping out of his pocket with such sharp eyes, he was afraid of me; another settled in the unclean belly of one, another was hangin g round a man’s neck, and so he was carrying him about without seeing him.”
“You—can see spirits?” the monk inquired.
“I tell you I can see, I can see through them. When I was coming out from the Superior’s I saw one hiding from me behind the door, and a big one, a yard and a half or more high, with a thick long gray tail, and the tip of his tail was in the crack of the door and I was quick and slammed the door, pinching his tail in it. He squealed and began to struggle, and I made the sign of the cross over him three times. And he died on the spot like a crushed spider. He must have rotted there i n the corner and be stinking, but they don’t see, they don’t smell it. It’s a year since I have been there. I reveal it to you, as you are a stranger.”
“Your words are terrible! But, holy and blessed Father,” said the monk, growing bolder and bolder, “is it true, as they noise abroad even to distant lands about y ou, that you are in continual communication with the Holy Ghost?”
“He does fly down at times.”
“How does he fly down? In what form?”
“As a bird.”
“The Holy Ghost in the form of a dove?”
“There’s the Holy Ghost and there’s the Holy Spirit. The Holy Spirit can appear as other birds—sometimes as a swallow, sometimes a goldfinch and sometimes as a bluetit.”
“How do you know him from an ordinary tit?”
“He speaks.”
“How does he speak, in what language?”
“Human language.”
“And what does he tell you?”
“Why, today he told me that a fool would visit me and would ask me unseemly questions. You want to know too much, monk.”
“Terrible are your words, most holy and blessed Father,” the monk shook his head. But there was a doubtful look in his frightened little eyes.
“Do you see this tree?” asked Father Ferapont, after a pause.
“I do, blessed Father.”
“You think it’s an elm, but for me it has another shape.”
“What sort of shape?” inquired the monk, after a pause of vain expectation.
“It happens at night. You see those two branches? In the night it is Christ holding out His arms to me and seeking me with those arms, I see it clearly and trembl
e. It’s terrible, terrible!”
“What is there terrible if it’s Christ Himself?”
“Why, He’ll snatch me up and carry me away.”
“Alive?”
“In the spirit and glory of Elijah, haven’t you heard? He will take me in His arms and bear me away.”
Though the monk returned to the cell he was sharing with one of the brothers, in considerable perplexity of mind, he still cherished at heart a greater reverence f or Father Ferapont than for Father Zossima. He was strongly in favor of fasting, and it was not strange that one who kept so rigid a fast as Father Ferapont shoul d “see marvels.” His words seemed certainly queer, but God only could tell what was hidden in those words, and were not worse words and acts commonly seen in those who have sacrificed their intellects for the glory of God? The pinching of the devil’s tail he was ready and eager to believe, and not only in the figurati ve sense. Besides he had, before visiting the monastery, a strong prejudice against the institution of “elders,” which he only knew of by hearsay and believed to be a pernicious innovation. Before he had been long at the monastery, he had detected the secret murmurings of some shallow brothers who disliked the instituti on. He was, besides, a meddlesome, inquisitive man, who poked his nose into everything. This was why the news of the fresh “miracle” performed by Father Zo ssima reduced him to extreme perplexity. Alyosha remembered afterwards how their inquisitive guest from Obdorsk had been continually flitting to and fro fro m one group to another, listening and asking questions among the monks that were crowding within and without the elder’s cell. But he did not pay much attenti on to him at the time, and only recollected it afterwards.
He had no thought to spare for it indeed, for when Father Zossima, feeling tired again, had gone back to bed, he thought of Alyosha as he was closing his eyes, a nd sent for him. Alyosha ran at once. There was no one else in the cell but Father Païssy, Father Iosif, and the novice Porfiry. The elder, opening his weary eyes and looking intently at Alyosha, asked him suddenly:
“Are your people expecting you, my son?”
Alyosha hesitated.
“Haven’t they need of you? Didn’t you promise some one yesterday to see them today?”
“I did promise—to my father—my brothers—others too.”
“You see, you must go. Don’t grieve. Be sure I shall not die without your being by to hear my last word. To you I will say that word, my son, it will be my last g ift to you. To you, dear son, because you love me. But now go to keep your promise.”
Alyosha immediately obeyed, though it was hard to go. But the promise that he should hear his last word on earth, that it should be the last gift to him, Alyosha, sent a thrill of rapture through his soul. He made haste that he might finish what he had to do in the town and return quickly. Father Païssy, too, uttered some wo rds of exhortation which moved and surprised him greatly. He spoke as they left the cell together.
“Remember, young man, unceasingly,” Father Païssy began, without preface, “that the science of this world, which has become a great power, has, especially in the last century, analyzed everything divine handed down to us in the holy books. After this cruel analysis the learned of this world have nothing left of all that was sacred of old. But they have only analyzed the parts and overlooked the whole, and indeed their blindness is marvelous. Yet the whole still stands steadfast before their eyes, and the gates of hell shall not prevail against it. Has it not lasted nineteen centuries, is it not still a living, a moving power in the individual sou l and in the masses of people? It is still as strong and living even in the souls of atheists, who have destroyed everything! For even those who have renounced Ch ristianity and attack it, in their inmost being still follow the Christian ideal, for hitherto neither their subtlety nor the ardor of their hearts has been able to create a higher ideal of man and of virtue than the ideal given by Christ of old. When it has been attempted, the result has been only grotesque. Remember this especial ly, young man, since you are being sent into the world by your departing elder. Maybe, remembering this great day, you will not forget my words, uttered from t he heart for your guidance, seeing you are young, and the temptations of the world are great and beyond your strength to endure. Well, now go, my orphan.”
With these words Father Païssy blessed him. As Alyosha left the monastery and thought them over, he suddenly realized that he had met a new and unexpected f riend, a warmly loving teacher, in this austere monk who had hitherto treated him sternly. It was as though Father Zossima had bequeathed him to him at his dea th, and “perhaps that’s just what had passed between them,” Alyosha thought suddenly. The philosophic reflections he had just heard so unexpectedly testified t o the warmth of Father Païssy’s heart. He was in haste to arm the boy’s mind for conflict with temptation and to guard the young soul left in his charge with the strongest defense he could imagine.
Chapter II.
At His Father’s
First of all, Alyosha went to his father. On the way he remembered that his father had insisted the day before that he should come without his brother Ivan seein g him. “Why so?” Alyosha wondered suddenly. “Even if my father has something to say to me alone, why should I go in unseen? Most likely in his excitement yesterday he meant to say something different,” he decided. Yet he was very glad when Marfa Ignatyevna, who opened the garden gate to him (Grigory, it appea red, was ill in bed in the lodge), told him in answer to his question that Ivan Fyodorovitch had gone out two hours ago.
“And my father?”
“He is up, taking his coffee,” Marfa answered somewhat dryly.
Alyosha went in. The old man was sitting alone at the table wearing slippers and a little old overcoat. He was amusing himself by looking through some account s, rather inattentively however. He was quite alone in the house, for Smerdyakov too had gone out marketing. Though he had got up early and was trying to put a bold face on it, he looked tired and weak. His forehead, upon which huge purple bruises had come out during the night, was bandaged with a red handkerchief; his nose too had swollen terribly in the night, and some smaller bruises covered it in patches, giving his whole face a peculiarly spiteful and irritable look. The old man was aware of this, and turned a hostile glance on Alyosha as he came in.
“The coffee is cold,” he cried harshly; “I won’t offer you any. I’ve ordered nothing but a Lenten fish soup today, and I don’t invite any one to share it. Why hav e you come?”
“To find out how you are,” said Alyosha.
“Yes. Besides, I told you to come yesterday. It’s all of no consequence. You need not have troubled. But I knew you’d come poking in directly.”
He said this with almost hostile feeling. At the same time he got up and looked anxiously in the lookingglass (perhaps for the fortieth time that morning) at his n ose. He began, too, binding his red handkerchief more becomingly on his forehead.
“Red’s better. It’s just like the hospital in a white one,” he observed sententiously. “Well, how are things over there? How is your elder?”
“He is very bad; he may die today,” answered Alyosha. But his father had not listened, and had forgotten his own question at once.
“Ivan’s gone out,” he said suddenly. “He is doing his utmost to carry off Mitya’s betrothed. That’s what he is staying here for,” he added maliciously, and, twisti ng his mouth, looked at Alyosha.
“Surely he did not tell you so?” asked Alyosha.
“Yes, he did, long ago. Would you believe it, he told me three weeks ago? You don’t suppose he too came to murder me, do you? He must have had some objec t in coming.”
“What do you mean? Why do you say such things?” said Alyosha, troubled.
“He doesn’t ask for money, it’s true, but yet he won’t get a farthing from me. I intend living as long as possible, you may as well know, my dear Alexey Fyodor ovitch, and so I need every farthing, and the longer I live, the more I shall need it,” he continued, pacing from one corner of the room to the other, keeping his h ands in the pockets of his loose greasy overcoat made of yellow cotton material. “I can still pass for a man at five and fifty, but I want to pass for one for another twenty years. As I get older, you know, I shan’t be a pretty object. The wenches won’t come to me of their own accord, so I shall want my money. So I am savi ng up more and more, simply for myself, my dear son Alexey Fyodorovitch. You may as well know. For I mean to go on in my sins to the end, let me tell you. F
or sin is sweet; all abuse it, but all men live in it, only others do it on the sly, and I openly. And so all the other sinners fall upon me for being so simple. And yo ur paradise, Alexey Fyodorovitch, is not to my taste, let me tell you that; and it’s not the proper place for a gentleman, your paradise, even if it exists. I believe t hat I fall asleep and don’t wake up again, and that’s all. You can pray for my soul if you like. And if you don’t want to, don’t, damn you! That’s my philosophy.
Ivan talked well here yesterday, though we were all drunk. Ivan is a conceited coxcomb, but he has no particular learning … nor education either. He sits silent and smiles at one without speaking—that’s what pulls him through.”
Alyosha listened to him in silence.
“Why won’t he talk to me? If he does speak, he gives himself airs. Your Ivan is a scoundrel! And I’ll marry Grushenka in a minute if I want to. For if you’ve m oney, Alexey Fyodorovitch, you have only to want a thing and you can have it. That’s what Ivan is afraid of, he is on the watch to prevent me getting married an d that’s why he is egging on Mitya to marry Grushenka himself. He hopes to keep me from Grushenka by that (as though I should leave him my money if I don’
t marry her!). Besides if Mitya marries Grushenka, Ivan will carry off his rich betrothed, that’s what he’s reckoning on! He is a scoundrel, your Ivan!”
“How cross you are! It’s because of yesterday; you had better lie down,” said Alyosha.
“There! you say that,” the old man observed suddenly, as though it had struck him for the first time, “and I am not angry with you. But if Ivan said it, I should b e angry with him. It is only with you I have good moments, else you know I am an illnatured man.”
“You are not illnatured, but distorted,” said Alyosha with a smile.
“Listen. I meant this morning to get that ruffian Mitya locked up and I don’t know now what I shall decide about it. Of course in these fashionable days fathers a nd mothers are looked upon as a prejudice, but even now the law does not allow you to drag your old father about by the hair, to kick him in the face in his own house, and brag of murdering him outright—all in the presence of witnesses. If I liked, I could crush him and could have him locked up at once for what he did yesterday.”
“Then you don’t mean to take proceedings?”
“Ivan has dissuaded me. I shouldn’t care about Ivan, but there’s another thing.”
And bending down to Alyosha, he went on in a confidential halfwhisper.
“If I send the ruffian to prison, she’ll hear of it and run to see him at once. But if she hears that he has beaten me, a weak old man, within an inch of my life, she may give him up and come to me…. For that’s her way, everything by contraries. I know her through and through! Won’t you have a drop of brandy? Take som e cold coffee and I’ll pour a quarter of a glass of brandy into it, it’s delicious, my boy.”
“No, thank you. I’ll take that roll with me if I may,” said Alyosha, and taking a halfpenny French roll he put it in the pocket of his cassock. “And you’d better no t have brandy, either,” he suggested apprehensively, looking into the old man’s face.
“You are quite right, it irritates my nerves instead of soothing them. Only one little glass. I’ll get it out of the cupboard.”
He unlocked the cupboard, poured out a glass, drank it, then locked the cupboard and put the key back in his pocket.
“That’s enough. One glass won’t kill me.”
“You see you are in a better humor now,” said Alyosha, smiling.
“Um! I love you even without the brandy, but with scoundrels I am a scoundrel. Ivan is not going to Tchermashnya—why is that? He wants to spy how much I give Grushenka if she comes. They are all scoundrels! But I don’t recognize Ivan, I don’t know him at all. Where does he come from? He is not one of us in sou l. As though I’d leave him anything! I shan’t leave a will at all, you may as well know. And I’ll crush Mitya like a beetle. I squash blackbeetles at night with my slipper; they squelch when you tread on them. And your Mitya will squelch too. Your Mitya, for you love him. Yes, you love him and I am not afraid of your lo ving him. But if Ivan loved him I should be afraid for myself at his loving him. But Ivan loves nobody. Ivan is not one of us. People like Ivan are not our sort, m y boy. They are like a cloud of dust. When the wind blows, the dust will be gone…. I had a silly idea in my head when I told you to come today; I wanted to fin d out from you about Mitya. If I were to hand him over a thousand or maybe two now, would the beggarly wretch agree to take himself off altogether for five ye ars or, better still, thirtyfive, and without Grushenka, and give her up once for all, eh?”
“I—I’ll ask him,” muttered Alyosha. “If you would give him three thousand, perhaps he—”
“That’s nonsense! You needn’t ask him now, no need! I’ve changed my mind. It was a nonsensical idea of mine. I won’t give him anything, not a penny, I want my money myself,” cried the old man, waving his hand. “I’ll crush him like a beetle without it. Don’t say anything to him or else he will begin hoping. There’s nothing for you to do here, you needn’t stay. Is that betrothed of his, Katerina Ivanovna, whom he has kept so carefully hidden from me all this time, going to m arry him or not? You went to see her yesterday, I believe?”
“Nothing will induce her to abandon him.”
“There you see how dearly these fine young ladies love a rake and a scoundrel. They are poor creatures I tell you, those pale young ladies, very different from—
Ah, if I had his youth and the looks I had then (for I was betterlooking than he at eight and twenty) I’d have been a conquering hero just as he is. He is a low cad
! But he shan’t have Grushenka, anyway, he shan’t! I’ll crush him!”
His anger had returned with the last words.
“You can go. There’s nothing for you to do here today,” he snapped harshly.
Alyosha went up to say goodby to him, and kissed him on the shoulder.
“What’s that for?” The old man was a little surprised. “We shall see each other again, or do you think we shan’t?”
“Not at all, I didn’t mean anything.”
“Nor did I, I did not mean anything,” said the old man, looking at him. “Listen, listen,” he shouted after him, “make haste and come again and I’ll have a fish so up for you, a fine one, not like today. Be sure to come! Come tomorrow, do you hear, tomorrow!”
And as soon as Alyosha had gone out of the door, he went to the cupboard again and poured out another halfglass.
“I won’t have more!” he muttered, clearing his throat, and again he locked the cupboard and put the key in his pocket. Then he went into his bedroom, lay down on the bed, exhausted, and in one minute he was asleep.
Chapter III.
A Meeting With The Schoolboys
“Thank goodness he did not ask me about Grushenka,” thought Alyosha, as he left his father’s house and turned towards Madame Hohlakov’s, “or I might have to tell him of my meeting with Grushenka yesterday.”
Alyosha felt painfully that since yesterday both combatants had renewed their energies, and that their hearts had grown hard again. “Father is spiteful and angry, he’s made some plan and will stick to it. And what of Dmitri? He too will be harder than yesterday, he too must be spiteful and angry, and he too, no doubt, has made some plan. Oh, I must succeed in finding him today, whatever happens.”
But Alyosha had not long to meditate. An incident occurred on the road, which, though apparently of little consequence, made a great impression on him. Just af ter he had crossed the square and turned the corner coming out into Mihailovsky Street, which is divided by a small ditch from the High Street (our whole town is intersected by ditches), he saw a group of schoolboys between the ages of nine and twelve, at the bridge. They were going home from school, some with their bags on their shoulders, others with leather satchels slung across them, some in short jackets, others in little overcoats. Some even had those high boots with cre ases round the ankles, such as little boys spoilt by rich fathers love to wear. The whole group was talking eagerly about something, apparently holding a council.
Alyosha had never from his Moscow days been able to pass children without taking notice of them, and although he was particularly fond of children of three o r thereabout, he liked schoolboys of ten and eleven too. And so, anxious as he was today, he wanted at once to turn aside to talk to them. He looked into their ex cited rosy faces, and noticed at once that all the boys had stones in their hands. Behind the ditch some thirty paces away, there was another schoolboy standing b y a fence. He too had a satchel at his side. He was about ten years old, pale, delicatelooking and with sparkling black eyes. He kept an attentive and anxious wat ch on the other six, obviously his schoolfellows with whom he had just come out of school, but with whom he had evidently had a feud.
Alyosha went up and, addressing a fair, curlyheaded, rosy boy in a black jacket, observed:
“When I used to wear a satchel like yours, I always used to carry it on my left side, so as to have my right hand free, but you’ve got yours on your right side. So it will be awkward for you to get at it.”
Alyosha had no art or premeditation in beginning with this practical remark. But it is the only way for a grownup person to get at once into confidential relations with a child, or still more with a group of children. One must begin in a serious, businesslike way so as to be on a perfectly equal footing. Alyosha understood it by instinct.
“But he is lefthanded,” another, a fine healthylooking boy of eleven, answered promptly. All the others stared at Alyosha.
“He even throws stones with his left hand,” observed a third.
At that instant a stone flew into the group, but only just grazed the lefthanded boy, though it was well and vigorously thrown by the boy standing the other side of the ditch.
“Give it him, hit him back, Smurov,” they all shouted. But Smurov, the lefthanded boy, needed no telling, and at once revenged himself; he threw a stone, but it missed the boy and hit the ground. The boy the other side of the ditch, the pocket of whose coat was visibly bulging with stones, flung another stone at the group
; this time it flew straight at Alyosha and hit him painfully on the shoulder.
“He aimed it at you, he meant it for you. You are Karamazov, Karamazov!” the boys shouted, laughing. “Come, all throw at him at once!” and six stones flew at the boy. One struck the boy on the head and he fell down, but at once leapt up and began ferociously returning their fire. Both sides threw stones incessantly. M
any of the group had their pockets full too.
“What are you about! Aren’t you ashamed? Six against one! Why, you’ll kill him,” cried Alyosha.
He ran forward and met the flying stones to screen the solitary boy. Three or four ceased throwing for a minute.
“He began first!” cried a boy in a red shirt in an angry childish voice. “He is a beast, he stabbed Krassotkin in class the other day with a penknife. It bled. Krasso tkin wouldn’t tell tales, but he must be thrashed.”
“But what for? I suppose you tease him.”
“There, he sent a stone in your back again, he knows you,” cried the children. “It’s you he is throwing at now, not us. Come, all of you, at him again, don’t miss, Smurov!” and again a fire of stones, and a very vicious one, began. The boy the other side of the ditch was hit in the chest; he screamed, began to cry and ran a way uphill towards Mihailovsky Street. They all shouted: “Aha, he is funking, he is running away. Wisp of tow!”
“You don’t know what a beast he is, Karamazov, killing is too good for him,” said the boy in the jacket, with flashing eyes. He seemed to be the eldest.
“What’s wrong with him?” asked Alyosha, “is he a telltale or what?”
The boys looked at one another as though derisively.
“Are you going that way, to Mihailovsky?” the same boy went on. “Catch him up…. You see he’s stopped again, he is waiting and looking at you.”
“He is looking at you,” the other boys chimed in.
“You ask him, does he like a disheveled wisp of tow. Do you hear, ask him that!”
There was a general burst of laughter. Alyosha looked at them, and they at him.
“Don’t go near him, he’ll hurt you,” cried Smurov in a warning voice.
“I shan’t ask him about the wisp of tow, for I expect you tease him with that question somehow. But I’ll find out from him why you hate him so.”
“Find out then, find out,” cried the boys, laughing.
Alyosha crossed the bridge and walked uphill by the fence, straight towards the boy.
“You’d better look out,” the boys called after him; “he won’t be afraid of you. He will stab you in a minute, on the sly, as he did Krassotkin.”
The boy waited for him without budging. Coming up to him, Alyosha saw facing him a child of about nine years old. He was an undersized weakly boy with a t hin pale face, with large dark eyes that gazed at him vindictively. He was dressed in a rather shabby old overcoat, which he had monstrously outgrown. His bare arms stuck out beyond his sleeves. There was a large patch on the right knee of his trousers, and in his right boot just at the toe there was a big hole in the leathe r, carefully blackened with ink. Both the pockets of his greatcoat were weighed down with stones. Alyosha stopped two steps in front of him, looking inquiringl y at him. The boy, seeing at once from Alyosha’s eyes that he wouldn’t beat him, became less defiant, and addressed him first.
“I am alone, and there are six of them. I’ll beat them all, alone!” he said suddenly, with flashing eyes.
“I think one of the stones must have hurt you badly,” observed Alyosha.
“But I hit Smurov on the head!” cried the boy.
“They told me that you know me, and that you threw a stone at me on purpose,” said Alyosha.
The boy looked darkly at him.
“I don’t know you. Do you know me?” Alyosha continued.
“Let me alone!” the boy cried irritably; but he did not move, as though he were expecting something, and again there was a vindictive light in his eyes.
“Very well, I am going,” said Alyosha; “only I don’t know you and I don’t tease you. They told me how they tease you, but I don’t want to tease you. Goodby!”
“Monk in silk trousers!” cried the boy, following Alyosha with the same vindictive and defiant expression, and he threw himself into an attitude of defense, feeli ng sure that now Alyosha would fall upon him; but Alyosha turned, looked at him, and walked away. He had not gone three steps before the biggest stone the bo y had in his pocket hit him a painful blow in the back.
“So you’ll hit a man from behind! They tell the truth, then, when they say that you attack on the sly,” said Alyosha, turning round again. This time the boy threw a stone savagely right into Alyosha’s face; but Alyosha just had time to guard himself, and the stone struck him on the elbow.
“Aren’t you ashamed? What have I done to you?” he cried.
The boy waited in silent defiance, certain that now Alyosha would attack him. Seeing that even now he would not, his rage was like a little wild beast’s; he flew at Alyosha himself, and before Alyosha had time to move, the spiteful child had seized his left hand with both of his and bit his middle finger. He fixed his teeth in it and it was ten seconds before he let go. Alyosha cried out with pain and pulled his finger away with all his might. The child let go at last and retreated to hi s former distance. Alyosha’s finger had been badly bitten to the bone, close to the nail; it began to bleed. Alyosha took out his handkerchief and bound it tightly round his injured hand. He was a full minute bandaging it. The boy stood waiting all the time. At last Alyosha raised his gentle eyes and looked at him.
“Very well,” he said, “you see how badly you’ve bitten me. That’s enough, isn’t it? Now tell me, what have I done to you?”
The boy stared in amazement.
“Though I don’t know you and it’s the first time I’ve seen you,” Alyosha went on with the same serenity, “yet I must have done something to you—you wouldn
’t have hurt me like this for nothing. So what have I done? How have I wronged you, tell me?”
Instead of answering, the boy broke into a loud tearful wail and ran away. Alyosha walked slowly after him towards Mihailovsky Street, and for a long time he s aw the child running in the distance as fast as ever, not turning his head, and no doubt still keeping up his tearful wail. He made up his mind to find him out as s oon as he had time, and to solve this mystery. Just now he had not the time.
Chapter IV.
At The Hohlakovs’
Alyosha soon reached Madame Hohlakov’s house, a handsome stone house of two stories, one of the finest in our town. Though Madame Hohlakov spent most of her time in another province where she had an estate, or in Moscow, where she had a house of her own, yet she had a house in our town too, inherited from he r forefathers. The estate in our district was the largest of her three estates, yet she had been very little in our province before this time. She ran out to Alyosha in the hall.
“Did you get my letter about the new miracle?” She spoke rapidly and nervously.
“Yes.”
“Did you show it to every one? He restored the son to his mother!”
“He is dying today,” said Alyosha.
“I have heard, I know, oh, how I long to talk to you, to you or some one, about all this. No, to you, to you! And how sorry I am I can’t see him! The whole town is in excitement, they are all suspense. But now—do you know Katerina Ivanovna is here now?”
“Ah, that’s lucky,” cried Alyosha. “Then I shall see her here. She told me yesterday to be sure to come and see her today.”
“I know, I know all. I’ve heard exactly what happened yesterday—and the atrocious behavior of that—creature. C’est tragique, and if I’d been in her place I don
’t know what I should have done. And your brother Dmitri Fyodorovitch, what do you think of him?—my goodness! Alexey Fyodorovitch, I am forgetting, only fancy; your brother is in there with her, not that dreadful brother who was so shocking yesterday, but the other, Ivan Fyodorovitch, he is sitting with her talking; they are having a serious conversation. If you could only imagine what’s passing between them now—it’s awful, I tell you it’s lacerating, it’s like some incredi ble tale of horror. They are ruining their lives for no reason any one can see. They both recognize it and revel in it. I’ve been watching for you! I’ve been thirstin g for you! It’s too much for me, that’s the worst of it. I’ll tell you all about it presently, but now I must speak of something else, the most important thing—I had quite forgotten what’s most important. Tell me, why has Lise been in hysterics? As soon as she heard you were here, she began to be hysterical!”
“Maman, it’s you who are hysterical now, not I,” Lise’s voice caroled through a tiny crack of the door at the side. Her voice sounded as though she wanted to la ugh, but was doing her utmost to control it. Alyosha at once noticed the crack, and no doubt Lise was peeping through it, but that he could not see.
“And no wonder, Lise, no wonder … your caprices will make me hysterical too. But she is so ill, Alexey Fyodorovitch, she has been so ill all night, feverish and moaning! I could hardly wait for the morning and for Herzenstube to come. He says that he can make nothing of it, that we must wait. Herzenstube always com es and says that he can make nothing of it. As soon as you approached the house, she screamed, fell into hysterics, and insisted on being wheeled back into this r oom here.”
“Mamma, I didn’t know he had come. It wasn’t on his account I wanted to be wheeled into this room.”
“That’s not true, Lise, Yulia ran to tell you that Alexey Fyodorovitch was coming. She was on the lookout for you.”
“My darling mamma, it’s not at all clever of you. But if you want to make up for it and say something very clever, dear mamma, you’d better tell our honored vi sitor, Alexey Fyodorovitch, that he has shown his want of wit by venturing to us after what happened yesterday and although every one is laughing at him.”
“Lise, you go too far. I declare I shall have to be severe. Who laughs at him? I am so glad he has come, I need him, I can’t do without him. Oh, Alexey Fyodoro vitch, I am exceedingly unhappy!”
“But what’s the matter with you, mamma, darling?”
“Ah, your caprices, Lise, your fidgetiness, your illness, that awful night of fever, that awful everlasting Herzenstube, everlasting, everlasting, that’s the worst of it! Everything, in fact, everything…. Even that miracle, too! Oh, how it has upset me, how it has shattered me, that miracle, dear Alexey Fyodorovitch! And that tragedy in the drawingroom, it’s more than I can bear, I warn you. I can’t bear it. A comedy, perhaps, not a tragedy. Tell me, will Father Zossima live till tomor row, will he? Oh, my God! What is happening to me? Every minute I close my eyes and see that it’s all nonsense, all nonsense.”
“I should be very grateful,” Alyosha interrupted suddenly, “if you could give me a clean rag to bind up my finger with. I have hurt it, and it’s very painful.”
Alyosha unbound his bitten finger. The handkerchief was soaked with blood. Madame Hohlakov screamed and shut her eyes.
“Good heavens, what a wound, how awful!”
But as soon as Lise saw Alyosha’s finger through the crack, she flung the door wide open.
“Come, come here,” she cried, imperiously. “No nonsense now! Good heavens, why did you stand there saying nothing about it all this time? He might have ble d to death, mamma! How did you do it? Water, water! You must wash it first of all, simply hold it in cold water to stop the pain, and keep it there, keep it there
…. Make haste, mamma, some water in a slopbasin. But do make haste,” she finished nervously. She was quite frightened at the sight of Alyosha’s wound.
“Shouldn’t we send for Herzenstube?” cried Madame Hohlakov.
“Mamma, you’ll be the death of me. Your Herzenstube will come and say that he can make nothing of it! Water, water! Mamma, for goodness’ sake go yourself and hurry Yulia, she is such a slowcoach and never can come quickly! Make haste, mamma, or I shall die.”
“Why, it’s nothing much,” cried Alyosha, frightened at this alarm.
Yulia ran in with water and Alyosha put his finger in it.
“Some lint, mamma, for mercy’s sake, bring some lint and that muddy caustic lotion for wounds, what’s it called? We’ve got some. You know where the bottle
is, mamma; it’s in your bedroom in the righthand cupboard, there’s a big bottle of it there with the lint.”
“I’ll bring everything in a minute, Lise, only don’t scream and don’t fuss. You see how bravely Alexey Fyodorovitch bears it. Where did you get such a dreadful wound, Alexey Fyodorovitch?”
Madame Hohlakov hastened away. This was all Lise was waiting for.
“First of all, answer the question, where did you get hurt like this?” she asked Alyosha, quickly. “And then I’ll talk to you about something quite different. Well
?”
Instinctively feeling that the time of her mother’s absence was precious for her, Alyosha hastened to tell her of his enigmatic meeting with the schoolboys in the fewest words possible. Lise clasped her hands at his story.
“How can you, and in that dress too, associate with schoolboys?” she cried angrily, as though she had a right to control him. “You are nothing but a boy yourself if you can do that, a perfect boy! But you must find out for me about that horrid boy and tell me all about it, for there’s some mystery in it. Now for the second t hing, but first a question: does the pain prevent you talking about utterly unimportant things, but talking sensibly?”
“Of course not, and I don’t feel much pain now.”
“That’s because your finger is in the water. It must be changed directly, for it will get warm in a minute. Yulia, bring some ice from the cellar and another basin of water. Now she is gone, I can speak; will you give me the letter I sent you yesterday, dear Alexey Fyodorovitch—be quick, for mamma will be back in a min ute and I don’t want—”
“I haven’t got the letter.”
“That’s not true, you have. I knew you would say that. You’ve got it in that pocket. I’ve been regretting that joke all night. Give me back the letter at once, give it me.”
“I’ve left it at home.”
“But you can’t consider me as a child, a little girl, after that silly joke! I beg your pardon for that silliness, but you must bring me the letter, if you really haven’t got it—bring it today, you must, you must.”
“Today I can’t possibly, for I am going back to the monastery and I shan’t come and see you for the next two days—three or four perhaps—for Father Zossima
—”
“Four days, what nonsense! Listen. Did you laugh at me very much?”
“I didn’t laugh at all.”
“Why not?”
“Because I believed all you said.”
“You are insulting me!”
“Not at all. As soon as I read it, I thought that all that would come to pass, for as soon as Father Zossima dies, I am to leave the monastery. Then I shall go back and finish my studies, and when you reach the legal age we will be married. I shall love you. Though I haven’t had time to think about it, I believe I couldn’t fin d a better wife than you, and Father Zossima tells me I must marry.”
“But I am a cripple, wheeled about in a chair,” laughed Lise, flushing crimson.
“I’ll wheel you about myself, but I’m sure you’ll get well by then.”
“But you are mad,” said Lise, nervously, “to make all this nonsense out of a joke! Here’s mamma, very à propos, perhaps. Mamma, how slow you always are, h ow can you be so long! And here’s Yulia with the ice!”
“Oh, Lise, don’t scream, above all things don’t scream. That scream drives me … How can I help it when you put the lint in another place? I’ve been hunting an d hunting—I do believe you did it on purpose.”
“But I couldn’t tell that he would come with a bad finger, or else perhaps I might have done it on purpose. My darling mamma, you begin to say really witty thi ngs.”
“Never mind my being witty, but I must say you show nice feeling for Alexey Fyodorovitch’s sufferings! Oh, my dear Alexey Fyodorovitch, what’s killing me i s no one thing in particular, not Herzenstube, but everything together, that’s what is too much for me.”
“That’s enough, mamma, enough about Herzenstube,” Lise laughed gayly. “Make haste with the lint and the lotion, mamma. That’s simply Goulard’s water, Al exey Fyodorovitch, I remember the name now, but it’s a splendid lotion. Would you believe it, mamma, on the way here he had a fight with the boys in the stree t, and it was a boy bit his finger, isn’t he a child, a child himself? Is he fit to be married after that? For only fancy, he wants to be married, mamma. Just think of him married, wouldn’t it be funny, wouldn’t it be awful?”
And Lise kept laughing her thin hysterical giggle, looking slyly at Alyosha.
“But why married, Lise? What makes you talk of such a thing? It’s quite out of place—and perhaps the boy was rabid.”
“Why, mamma! As though there were rabid boys!”
“Why not, Lise, as though I had said something stupid! Your boy might have been bitten by a mad dog and he would become mad and bite any one near him. H
ow well she has bandaged it, Alexey Fyodorovitch! I couldn’t have done it. Do you still feel the pain?”
“It’s nothing much now.”
“You don’t feel afraid of water?” asked Lise.
“Come, that’s enough, Lise, perhaps I really was rather too quick talking of the boy being rabid, and you pounced upon it at once Katerina Ivanovna has only ju st heard that you are here, Alexey Fyodorovitch, she simply rushed at me, she’s dying to see you, dying!”
“Ach, mamma, go to them yourself. He can’t go just now, he is in too much pain.”
“Not at all, I can go quite well,” said Alyosha.
“What! You are going away? Is that what you say?”
“Well, when I’ve seen them, I’ll come back here and we can talk as much as you like. But I should like to see Katerina Ivanovna at once, for I am very anxious t o be back at the monastery as soon as I can.”
“Mamma, take him away quickly. Alexey Fyodorovitch, don’t trouble to come and see me afterwards, but go straight back to your monastery and a good riddan ce. I want to sleep, I didn’t sleep all night.”
“Ah, Lise, you are only making fun, but how I wish you would sleep!” cried Madame Hohlakov.
“I don’t know what I’ve done…. I’ll stay another three minutes, five if you like,” muttered Alyosha.
“Even five! Do take him away quickly, mamma, he is a monster.”
“Lise, you are crazy. Let us go, Alexey Fyodorovitch, she is too capricious today. I am afraid to cross her. Oh, the trouble one has with nervous girls! Perhaps sh e really will be able to sleep after seeing you. How quickly you have made her sleepy, and how fortunate it is!”
“Ah, mamma, how sweetly you talk! I must kiss you for it, mamma.”
“And I kiss you too, Lise. Listen, Alexey Fyodorovitch,” Madame Hohlakov began mysteriously and importantly, speaking in a rapid whisper. “I don’t want to suggest anything, I don’t want to lift the veil, you will see for yourself what’s going on. It’s appalling. It’s the most fantastic farce. She loves your brother, Ivan, and she is doing her utmost to persuade herself she loves your brother, Dmitri. It’s appalling! I’ll go in with you, and if they don’t turn me out, I’ll stay to the en d.”
Chapter V.
A Laceration In The DrawingRoom
But in the drawingroom the conversation was already over. Katerina Ivanovna was greatly excited, though she looked resolute. At the moment Alyosha and Ma dame Hohlakov entered, Ivan Fyodorovitch stood up to take leave. His face was rather pale, and Alyosha looked at him anxiously. For this moment was to solve a doubt, a harassing enigma which had for some time haunted Alyosha. During the preceding month it had been several times suggested to him that his brother Ivan was in love with Katerina Ivanovna, and, what was more, that he meant “to carry her off” from Dmitri. Until quite lately the idea seemed to Alyosha monst rous, though it worried him extremely. He loved both his brothers, and dreaded such rivalry between them. Meantime, Dmitri had said outright on the previous day that he was glad that Ivan was his rival, and that it was a great assistance to him, Dmitri. In what way did it assist him? To marry Grushenka? But that Alyos ha considered the worst thing possible. Besides all this, Alyosha had till the evening before implicitly believed that Katerina Ivanovna had a steadfast and passio nate love for Dmitri; but he had only believed it till the evening before. He had fancied, too, that she was incapable of loving a man like Ivan, and that she did lo ve Dmitri, and loved him just as he was, in spite of all the strangeness of such a passion.
But during yesterday’s scene with Grushenka another idea had struck him. The word “lacerating,” which Madame Hohlakov had just uttered, almost made him s tart, because half waking up towards daybreak that night he had cried out “Laceration, laceration,” probably applying it to his dream. He had been dreaming all night of the previous day’s scene at Katerina Ivanovna’s. Now Alyosha was impressed by Madame Hohlakov’s blunt and persistent assertion that Katerina Ivan
ovna was in love with Ivan, and only deceived herself through some sort of pose, from “selflaceration,” and tortured herself by her pretended love for Dmitri fro m some fancied duty of gratitude. “Yes,” he thought, “perhaps the whole truth lies in those words.” But in that case what was Ivan’s position? Alyosha felt insti nctively that a character like Katerina Ivanovna’s must dominate, and she could only dominate some one like Dmitri, and never a man like Ivan. For Dmitri mig ht at last submit to her domination “to his own happiness” (which was what Alyosha would have desired), but Ivan—no, Ivan could not submit to her, and such submission would not give him happiness. Alyosha could not help believing that of Ivan. And now all these doubts and reflections flitted through his mind as he entered the drawingroom. Another idea, too, forced itself upon him: “What if she loved neither of them—neither Ivan nor Dmitri?”
It must be noted that Alyosha felt as it were ashamed of his own thoughts and blamed himself when they kept recurring to him during the last month. “What do I know about love and women and how can I decide such questions?” he thought reproachfully, after such doubts and surmises. And yet it was impossible not to think about it. He felt instinctively that this rivalry was of immense importance in his brothers’ lives and that a great deal depended upon it.
“One reptile will devour the other,” Ivan had pronounced the day before, speaking in anger of his father and Dmitri. So Ivan looked upon Dmitri as a reptile, an d perhaps had long done so. Was it perhaps since he had known Katerina Ivanovna? That phrase had, of course, escaped Ivan unawares yesterday, but that only made it more important. If he felt like that, what chance was there of peace? Were there not, on the contrary, new grounds for hatred and hostility in their family
? And with which of them was Alyosha to sympathize? And what was he to wish for each of them? He loved them both, but what could he desire for each in the midst of these conflicting interests? He might go quite astray in this maze, and Alyosha’s heart could not endure uncertainty, because his love was always of an active character. He was incapable of passive love. If he loved any one, he set to work at once to help him. And to do so he must know what he was aiming at; h e must know for certain what was best for each, and having ascertained this it was natural for him to help them both. But instead of a definite aim, he found noth ing but uncertainty and perplexity on all sides. “It was lacerating,” as was said just now. But what could he understand even in this “laceration”? He did not und erstand the first word in this perplexing maze.
Seeing Alyosha, Katerina Ivanovna said quickly and joyfully to Ivan, who had already got up to go, “A minute! Stay another minute! I want to hear the opinion of this person here whom I trust absolutely. Don’t go away,” she added, addressing Madame Hohlakov. She made Alyosha sit down beside her, and Madame H
ohlakov sat opposite, by Ivan.
“You are all my friends here, all I have in the world, my dear friends,” she began warmly, in a voice which quivered with genuine tears of suffering, and Alyosh a’s heart warmed to her at once. “You, Alexey Fyodorovitch, were witness yesterday of that abominable scene, and saw what I did. You did not see it, Ivan Fyo dorovitch, he did. What he thought of me yesterday I don’t know. I only know one thing, that if it were repeated today, this minute, I should express the same fe elings again as yesterday—the same feelings, the same words, the same actions. You remember my actions, Alexey Fyodorovitch; you checked me in one of the m” … (as she said that, she flushed and her eyes shone). “I must tell you that I can’t get over it. Listen, Alexey Fyodorovitch. I don’t even know whether I still l ove him. I feel pity for him, and that is a poor sign of love. If I loved him, if I still loved him, perhaps I shouldn’t be sorry for him now, but should hate him.”
Her voice quivered, and tears glittered on her eyelashes. Alyosha shuddered inwardly. “That girl is truthful and sincere,” he thought, “and she does not love Dmi tri any more.”
“That’s true, that’s true,” cried Madame Hohlakov.
“Wait, dear. I haven’t told you the chief, the final decision I came to during the night. I feel that perhaps my decision is a terrible one—for me, but I foresee that nothing will induce me to change it—nothing. It will be so all my life. My dear, kind, everfaithful and generous adviser, the one friend I have in the world, Ivan Fyodorovitch, with his deep insight into the heart, approves and commends my decision. He knows it.”
“Yes, I approve of it,” Ivan assented, in a subdued but firm voice.
“But I should like Alyosha, too (Ah! Alexey Fyodorovitch, forgive my calling you simply Alyosha), I should like Alexey Fyodorovitch, too, to tell me before m y two friends whether I am right. I feel instinctively that you, Alyosha, my dear brother (for you are a dear brother to me),” she said again ecstatically, taking his cold hand in her hot one, “I foresee that your decision, your approval, will bring me peace, in spite of all my sufferings, for, after your words, I shall be calm an d submit—I feel that.”
“I don’t know what you are asking me,” said Alyosha, flushing. “I only know that I love you and at this moment wish for your happiness more than my own!…
But I know nothing about such affairs,” something impelled him to add hurriedly.
“In such affairs, Alexey Fyodorovitch, in such affairs, the chief thing is honor and duty and something higher—I don’t know what—but higher perhaps even tha n duty. I am conscious of this irresistible feeling in my heart, and it compels me irresistibly. But it may all be put in two words. I’ve already decided, even if he marries that—creature,” she began solemnly, “whom I never, never can forgive, even then I will not abandon him. Henceforward I will never, never abandon hi m!” she cried, breaking into a sort of pale, hysterical ecstasy. “Not that I would run after him continually, get in his way and worry him. Oh, no! I will go away t o another town—where you like—but I will watch over him all my life—I will watch over him all my life unceasingly. When he becomes unhappy with that wo man, and that is bound to happen quite soon, let him come to me and he will find a friend, a sister…. Only a sister, of course, and so for ever; but he will learn at least that that sister is really his sister, who loves him and has sacrificed all her life to him. I will gain my point. I will insist on his knowing me and confiding e ntirely in me, without reserve,” she cried, in a sort of frenzy. “I will be a god to whom he can pray—and that, at least, he owes me for his treachery and for what I suffered yesterday through him. And let him see that all my life I will be true to him and the promise I gave him, in spite of his being untrue and betraying me.
I will—I will become nothing but a means for his happiness, or—how shall I say?—an instrument, a machine for his happiness, and that for my whole life, my whole life, and that he may see that all his life! That’s my decision. Ivan Fyodorovitch fully approves me.”
She was breathless. She had perhaps intended to express her idea with more dignity, art and naturalness, but her speech was too hurried and crude. It was full of youthful impulsiveness, it betrayed that she was still smarting from yesterday’s insult, and that her pride craved satisfaction. She felt this herself. Her face sudde
nly darkened, an unpleasant look came into her eyes. Alyosha at once saw it and felt a pang of sympathy. His brother Ivan made it worse by adding:
“I’ve only expressed my own view,” he said. “From any one else, this would have been affected and overstrained, but from you—no. Any other woman would h ave been wrong, but you are right. I don’t know how to explain it, but I see that you are absolutely genuine and, therefore, you are right.”
“But that’s only for the moment. And what does this moment stand for? Nothing but yesterday’s insult.” Madame Hohlakov obviously had not intended to interf ere, but she could not refrain from this very just comment.
“Quite so, quite so,” cried Ivan, with peculiar eagerness, obviously annoyed at being interrupted, “in any one else this moment would be only due to yesterday’s impression and would be only a moment. But with Katerina Ivanovna’s character, that moment will last all her life. What for any one else would be only a prom ise is for her an everlasting burdensome, grim perhaps, but unflagging duty. And she will be sustained by the feeling of this duty being fulfilled. Your life, Kater ina Ivanovna, will henceforth be spent in painful brooding over your own feelings, your own heroism, and your own suffering; but in the end that suffering will be softened and will pass into sweet contemplation of the fulfillment of a bold and proud design. Yes, proud it certainly is, and desperate in any case, but a trium ph for you. And the consciousness of it will at last be a source of complete satisfaction and will make you resigned to everything else.”
This was unmistakably said with some malice and obviously with intention; even perhaps with no desire to conceal that he spoke ironically and with intention.
“Oh, dear, how mistaken it all is!” Madame Hohlakov cried again.
“Alexey Fyodorovitch, you speak. I want dreadfully to know what you will say!” cried Katerina Ivanovna, and burst into tears. Alyosha got up from the sofa.
“It’s nothing, nothing!” she went on through her tears. “I’m upset, I didn’t sleep last night. But by the side of two such friends as you and your brother I still feel strong—for I know—you two will never desert me.”
“Unluckily I am obliged to return to Moscow—perhaps tomorrow—and to leave you for a long time—And, unluckily, it’s unavoidable,” Ivan said suddenly.
“Tomorrow—to Moscow!” her face was suddenly contorted; “but—but, dear me, how fortunate!” she cried in a voice suddenly changed. In one instant there wa s no trace left of her tears. She underwent an instantaneous transformation, which amazed Alyosha. Instead of a poor, insulted girl, weeping in a sort of “lacerati on,” he saw a woman completely self possessed and even exceedingly pleased, as though something agreeable had just happened.
“Oh, not fortunate that I am losing you, of course not,” she corrected herself suddenly, with a charming society smile. “Such a friend as you are could not suppo se that. I am only too unhappy at losing you.” She rushed impulsively at Ivan, and seizing both his hands, pressed them warmly. “But what is fortunate is that yo u will be able in Moscow to see auntie and Agafya and to tell them all the horror of my present position. You can speak with complete openness to Agafya, but s pare dear auntie. You will know how to do that. You can’t think how wretched I was yesterday and this morning, wondering how I could write them that dreadf ul letter—for one can never tell such things in a letter…. Now it will be easy for me to write, for you will see them and explain everything. Oh, how glad I am!
But I am only glad of that, believe me. Of course, no one can take your place…. I will run at once to write the letter,” she finished suddenly, and took a step as t hough to go out of the room.
“And what about Alyosha and his opinion, which you were so desperately anxious to hear?” cried Madame Hohlakov. There was a sarcastic, angry note in her v oice.
“I had not forgotten that,” cried Katerina Ivanovna, coming to a sudden standstill, “and why are you so antagonistic at such a moment?” she added, with warm a nd bitter reproachfulness. “What I said, I repeat. I must have his opinion. More than that, I must have his decision! As he says, so it shall be. You see how anxio us I am for your words, Alexey Fyodorovitch…. But what’s the matter?”
“I couldn’t have believed it. I can’t understand it!” Alyosha cried suddenly in distress.
“What? What?”
“He is going to Moscow, and you cry out that you are glad. You said that on purpose! And you begin explaining that you are not glad of that but sorry to be—lo sing a friend. But that was acting, too—you were playing a part—as in a theater!”
“In a theater? What? What do you mean?” exclaimed Katerina Ivanovna, profoundly astonished, flushing crimson, and frowning.
“Though you assure him you are sorry to lose a friend in him, you persist in telling him to his face that it’s fortunate he is going,” said Alyosha breathlessly. He was standing at the table and did not sit down.
“What are you talking about? I don’t understand.”
“I don’t understand myself…. I seemed to see in a flash … I know I am not saying it properly, but I’ll say it all the same,” Alyosha went on in the same shaking and broken voice. “What I see is that perhaps you don’t love Dmitri at all … and never have, from the beginning…. And Dmitri, too, has never loved you … an d only esteems you…. I really don’t know how I dare to say all this, but somebody must tell the truth … for nobody here will tell the truth.”
“What truth?” cried Katerina Ivanovna, and there was an hysterical ring in her voice.
“I’ll tell you,” Alyosha went on with desperate haste, as though he were jumping from the top of a house. “Call Dmitri; I will fetch him—and let him come here and take your hand and take Ivan’s and join your hands. For you’re torturing Ivan, simply because you love him—and torturing him, because you love Dmitri th rough ‘selflaceration’—with an unreal love—because you’ve persuaded yourself.”
Alyosha broke off and was silent.
“You … you … you are a little religious idiot—that’s what you are!” Katerina Ivanovna snapped. Her face was white and her lips were moving with anger.
Ivan suddenly laughed and got up. His hat was in his hand.
“You are mistaken, my good Alyosha,” he said, with an expression Alyosha had never seen in his face before—an expression of youthful sincerity and strong, ir resistibly frank feeling. “Katerina Ivanovna has never cared for me! She has known all the time that I cared for her—though I never said a word of my love to he r—she knew, but she didn’t care for me. I have never been her friend either, not for one moment; she is too proud to need my friendship. She kept me at her side as a means of revenge. She revenged with me and on me all the insults which she has been continually receiving from Dmitri ever since their first meeting. For even that first meeting has rankled in her heart as an insult—that’s what her heart is like! She has talked to me of nothing but her love for him. I am going now; but, believe me, Katerina Ivanovna, you really love him. And the more he insults you, the more you love him—that’s your ‘laceration.’ You love him just as he is; you love him for insulting you. If he reformed, you’d give him up at once and cease to love him. But you need him so as to contemplate continually your her oic fidelity and to reproach him for infidelity. And it all comes from your pride. Oh, there’s a great deal of humiliation and selfabasement about it, but it all com es from pride…. I am too young and I’ve loved you too much. I know that I ought not to say this, that it would be more dignified on my part simply to leave you
, and it would be less offensive for you. But I am going far away, and shall never come back…. It is for ever. I don’t want to sit beside a ‘laceration.’… But I do n’t know how to speak now. I’ve said everything…. Goodby, Katerina Ivanovna; you can’t be angry with me, for I am a hundred times more severely punished t han you, if only by the fact that I shall never see you again. Goodby! I don’t want your hand. You have tortured me too deliberately for me to be able to forgive you at this moment. I shall forgive you later, but now I don’t want your hand. ‘Den Dank, Dame, begehr ich nicht,’ ” he added, with a forced smile, showing, ho wever, that he could read Schiller, and read him till he knew him by heart—which Alyosha would never have believed. He went out of the room without saying goodby even to his hostess, Madame Hohlakov. Alyosha clasped his hands.
“Ivan!” he cried desperately after him. “Come back, Ivan! No, nothing will induce him to come back now!” he cried again, regretfully realizing it; “but it’s my f ault, my fault. I began it! Ivan spoke angrily, wrongly. Unjustly and angrily. He must come back here, come back,” Alyosha kept exclaiming frantically.
Katerina Ivanovna went suddenly into the next room.
“You have done no harm. You behaved beautifully, like an angel,” Madame Hohlakov whispered rapidly and ecstatically to Alyosha. “I will do my utmost to pr event Ivan Fyodorovitch from going.”
Her face beamed with delight, to the great distress of Alyosha, but Katerina Ivanovna suddenly returned. She had two hundredrouble notes in her hand.
“I have a great favor to ask of you, Alexey Fyodorovitch,” she began, addressing Alyosha with an apparently calm and even voice, as though nothing had happe ned. “A week—yes, I think it was a week ago—Dmitri Fyodorovitch was guilty of a hasty and unjust action—a very ugly action. There is a low tavern here, and in it he met that discharged officer, that captain, whom your father used to employ in some business. Dmitri Fyodorovitch somehow lost his temper with this ca ptain, seized him by the beard and dragged him out into the street and for some distance along it, in that insulting fashion. And I am told that his son, a boy, quit e a child, who is at the school here, saw it and ran beside them crying and begging for his father, appealing to every one to defend him, while every one laughed.
You must forgive me, Alexey Fyodorovitch, I cannot think without indignation of that disgraceful action of his … one of those actions of which only Dmitri Fy odorovitch would be capable in his anger … and in his passions! I can’t describe it even…. I can’t find my words. I’ve made inquiries about his victim, and find he is quite a poor man. His name is Snegiryov. He did something wrong in the army and was discharged. I can’t tell you what. And now he has sunk into terribl e destitution, with his family—an unhappy family of sick children, and, I believe, an insane wife. He has been living here a long time; he used to work as a copy ing clerk, but now he is getting nothing. I thought if you … that is I thought … I don’t know. I am so confused. You see, I wanted to ask you, my dear Alexey F
yodorovitch, to go to him, to find some excuse to go to them—I mean to that captain—oh, goodness, how badly I explain it!—and delicately, carefully, as only you know how to” (Alyosha blushed), “manage to give him this assistance, these two hundred roubles. He will be sure to take it…. I mean, persuade him to take it…. Or, rather, what do I mean? You see it’s not by way of compensation to prevent him from taking proceedings (for I believe he meant to), but simply a toke n of sympathy, of a desire to assist him from me, Dmitri Fyodorovitch’s betrothed, not from himself…. But you know…. I would go myself, but you’ll know ho w to do it ever so much better. He lives in Lake Street, in the house of a woman called Kalmikov…. For God’s sake, Alexey Fyodorovitch, do it for me, and no w … now I am rather … tired. Good by!”
She turned and disappeared behind the portière so quickly that Alyosha had not time to utter a word, though he wanted to speak. He longed to beg her pardon, to blame himself, to say something, for his heart was full and he could not bear to go out of the room without it. But Madame Hohlakov took him by the hand and drew him along with her. In the hall she stopped him again as before.
“She is proud, she is struggling with herself; but kind, charming, generous,” she exclaimed, in a halfwhisper. “Oh, how I love her, especially sometimes, and ho w glad I am again of everything! Dear Alexey Fyodorovitch, you didn’t know, but I must tell you, that we all, all—both her aunts, I and all of us, Lise, even—h ave been hoping and praying for nothing for the last month but that she may give up your favorite Dmitri, who takes no notice of her and does not care for her, a nd may marry Ivan Fyodorovitch—such an excellent and cultivated young man, who loves her more than anything in the world. We are in a regular plot to bring it about, and I am even staying on here perhaps on that account.”
“But she has been crying—she has been wounded again,” cried Alyosha.
“Never trust a woman’s tears, Alexey Fyodorovitch. I am never for the women in such cases. I am always on the side of the men.”
“Mamma, you are spoiling him,” Lise’s little voice cried from behind the door.
“No, it was all my fault. I am horribly to blame,” Alyosha repeated unconsoled, hiding his face in his hands in an agony of remorse for his indiscretion.
“Quite the contrary; you behaved like an angel, like an angel. I am ready to say so a thousand times over.”
“Mamma, how has he behaved like an angel?” Lise’s voice was heard again.
“I somehow fancied all at once,” Alyosha went on as though he had not heard Lise, “that she loved Ivan, and so I said that stupid thing…. What will happen no w?”
“To whom, to whom?” cried Lise. “Mamma, you really want to be the death of me. I ask you and you don’t answer.”
At the moment the maid ran in.
“Katerina Ivanovna is ill…. She is crying, struggling … hysterics.”
“What is the matter?” cried Lise, in a tone of real anxiety. “Mamma, I shall be having hysterics, and not she!”
“Lise, for mercy’s sake, don’t scream, don’t persecute me. At your age one can’t know everything that grownup people know. I’ll come and tell you everything you ought to know. Oh, mercy on us! I am coming, I am coming…. Hysterics is a good sign, Alexey Fyodorovitch; it’s an excellent thing that she is hysterical.
That’s just as it ought to be. In such cases I am always against the woman, against all these feminine tears and hysterics. Run and say, Yulia, that I’ll fly to her.
As for Ivan Fyodorovitch’s going away like that, it’s her own fault. But he won’t go away. Lise, for mercy’s sake, don’t scream! Oh, yes; you are not screaming.
It’s I am screaming. Forgive your mamma; but I am delighted, delighted, delighted! Did you notice, Alexey Fyodorovitch, how young, how young Ivan Fyodor ovitch was just now when he went out, when he said all that and went out? I thought he was so learned, such a savant, and all of a sudden he behaved so warmly
, openly, and youthfully, with such youthful inexperience, and it was all so fine, like you…. And the way he repeated that German verse, it was just like you! Bu t I must fly, I must fly! Alexey Fyodorovitch, make haste to carry out her commission, and then make haste back. Lise, do you want anything now? For mercy’s sake, don’t keep Alexey Fyodorovitch a minute. He will come back to you at once.”
Madame Hohlakov at last ran off. Before leaving, Alyosha would have opened the door to see Lise.
“On no account,” cried Lise. “On no account now. Speak through the door. How have you come to be an angel? That’s the only thing I want to know.”
“For an awful piece of stupidity, Lise! Goodby!”
“Don’t dare to go away like that!” Lise was beginning.
“Lise, I have a real sorrow! I’ll be back directly, but I have a great, great sorrow!”
And he ran out of the room.
Chapter VI.
A Laceration In The Cottage
He certainly was really grieved in a way he had seldom been before. He had rushed in like a fool, and meddled in what? In a loveaffair. “But what do I know ab out it? What can I tell about such things?” he repeated to himself for the hundredth time, flushing crimson. “Oh, being ashamed would be nothing; shame is only the punishment I deserve. The trouble is I shall certainly have caused more unhappiness…. And Father Zossima sent me to reconcile and bring them together. I s this the way to bring them together?” Then he suddenly remembered how he had tried to join their hands, and he felt fearfully ashamed again. “Though I acted quite sincerely, I must be more sensible in the future,” he concluded suddenly, and did not even smile at his conclusion.
Katerina Ivanovna’s commission took him to Lake Street, and his brother Dmitri lived close by, in a turning out of Lake Street. Alyosha decided to go to him in any case before going to the captain, though he had a presentiment that he would not find his brother. He suspected that he would intentionally keep out of his w ay now, but he must find him anyhow. Time was passing: the thought of his dying elder had not left Alyosha for one minute from the time he set off from the m onastery.
There was one point which interested him particularly about Katerina Ivanovna’s commission; when she had mentioned the captain’s son, the little schoolboy w ho had run beside his father crying, the idea had at once struck Alyosha that this must be the schoolboy who had bitten his finger when he, Alyosha, asked him what he had done to hurt him. Now Alyosha felt practically certain of this, though he could not have said why. Thinking of another subject was a relief, and he r esolved to think no more about the “mischief” he had done, and not to torture himself with remorse, but to do what he had to do, let come what would. At that th ought he was completely comforted. Turning to the street where Dmitri lodged, he felt hungry, and taking out of his pocket the roll he had brought from his fath er’s, he ate it. It made him feel stronger.
Dmitri was not at home. The people of the house, an old cabinetmaker, his son, and his old wife, looked with positive suspicion at Alyosha. “He hasn’t slept her e for the last three nights. Maybe he has gone away,” the old man said in answer to Alyosha’s persistent inquiries. Alyosha saw that he was answering in accord
ance with instructions. When he asked whether he were not at Grushenka’s or in hiding at Foma’s (Alyosha spoke so freely on purpose), all three looked at him in alarm. “They are fond of him, they are doing their best for him,” thought Alyosha. “That’s good.”
At last he found the house in Lake Street. It was a decrepit little house, sunk on one side, with three windows looking into the street, and with a muddy yard, in t he middle of which stood a solitary cow. He crossed the yard and found the door opening into the passage. On the left of the passage lived the old woman of the house with her old daughter. Both seemed to be deaf. In answer to his repeated inquiry for the captain, one of them at last understood that he was asking for thei r lodgers, and pointed to a door across the passage. The captain’s lodging turned out to be a simple cottage room. Alyosha had his hand on the iron latch to open the door, when he was struck by the strange hush within. Yet he knew from Katerina Ivanovna’s words that the man had a family. “Either they are all asleep or perhaps they have heard me coming and are waiting for me to open the door. I’d better knock first,” and he knocked. An answer came, but not at once, after an i nterval of perhaps ten seconds.
“Who’s there?” shouted some one in a loud and very angry voice.
Then Alyosha opened the door and crossed the threshold. He found himself in a regular peasant’s room. Though it was large, it was cumbered up with domestic belongings of all sorts, and there were several people in it. On the left was a large Russian stove. From the stove to the window on the left was a string running a cross the room, and on it there were rags hanging. There was a bedstead against the wall on each side, right and left, covered with knitted quilts. On the one on t he left was a pyramid of four printcovered pillows, each smaller than the one beneath. On the other there was only one very small pillow. The opposite corner w as screened off by a curtain or a sheet hung on a string. Behind this curtain could be seen a bed made up on a bench and a chair. The rough square table of plain wood had been moved into the middle window. The three windows, which consisted each of four tiny greenish mildewy panes, gave little light, and were close s hut, so that the room was not very light and rather stuffy. On the table was a fryingpan with the remains of some fried eggs, a halfeaten piece of bread, and a sm all bottle with a few drops of vodka.
A woman of genteel appearance, wearing a cotton gown, was sitting on a chair by the bed on the left. Her face was thin and yellow, and her sunken cheeks betra yed at the first glance that she was ill. But what struck Alyosha most was the expression in the poor woman’s eyes—a look of surprised inquiry and yet of haugh ty pride. And while he was talking to her husband, her big brown eyes moved from one speaker to the other with the same haughty and questioning expression.
Beside her at the window stood a young girl, rather plain, with scanty reddish hair, poorly but very neatly dressed. She looked disdainfully at Alyosha as he cam e in. Beside the other bed was sitting another female figure. She was a very sad sight, a young girl of about twenty, but hunchback and crippled “with withered l egs,” as Alyosha was told afterwards. Her crutches stood in the corner close by. The strikingly beautiful and gentle eyes of this poor girl looked with mild sereni ty at Alyosha. A man of fortyfive was sitting at the table, finishing the fried eggs. He was spare, small and weakly built. He had reddish hair and a scanty lightco lored beard, very much like a wisp of tow (this comparison and the phrase “a wisp of tow” flashed at once into Alyosha’s mind for some reason, he remembered it afterwards). It was obviously this gentleman who had shouted to him, as there was no other man in the room. But when Alyosha went in, he leapt up from the bench on which he was sitting, and, hastily wiping his mouth with a ragged napkin, darted up to Alyosha.
“It’s a monk come to beg for the monastery. A nice place to come to!” the girl standing in the left corner said aloud. The man spun round instantly towards her a nd answered her in an excited and breaking voice:
“No, Varvara, you are wrong. Allow me to ask,” he turned again to Alyosha, “what has brought you to—our retreat?”
Alyosha looked attentively at him. It was the first time he had seen him. There was something angular, flurried and irritable about him. Though he had obviousl y just been drinking, he was not drunk. There was extraordinary impudence in his expression, and yet, strange to say, at the same time there was fear. He looked like a man who had long been kept in subjection and had submitted to it, and now had suddenly turned and was trying to assert himself. Or, better still, like a m an who wants dreadfully to hit you but is horribly afraid you will hit him. In his words and in the intonation of his shrill voice there was a sort of crazy humor, at times spiteful and at times cringing, and continually shifting from one tone to another. The question about “our retreat” he had asked as it were quivering all ov er, rolling his eyes, and skipping up so close to Alyosha that he instinctively drew back a step. He was dressed in a very shabby dark cotton coat, patched and sp otted. He wore checked trousers of an extremely light color, long out of fashion, and of very thin material. They were so crumpled and so short that he looked as though he had grown out of them like a boy.
“I am Alexey Karamazov,” Alyosha began in reply.
“I quite understand that, sir,” the gentleman snapped out at once to assure him that he knew who he was already. “I am Captain Snegiryov, sir, but I am still desi rous to know precisely what has led you—”
“Oh, I’ve come for nothing special. I wanted to have a word with you—if only you allow me.”
“In that case, here is a chair, sir; kindly be seated. That’s what they used to say in the old comedies, ‘kindly be seated,’ ” and with a rapid gesture he seized an e mpty chair (it was a rough wooden chair, not upholstered) and set it for him almost in the middle of the room; then, taking another similar chair for himself, he s at down facing Alyosha, so close to him that their knees almost touched.
“Nikolay Ilyitch Snegiryov, sir, formerly a captain in the Russian infantry, put to shame for his vices, but still a captain. Though I might not be one now for the way I talk; for the last half of my life I’ve learnt to say ‘sir.’ It’s a word you use when you’ve come down in the world.”
“That’s very true,” smiled Alyosha. “But is it used involuntarily or on purpose?”
“As God’s above, it’s involuntary, and I usen’t to use it! I didn’t use the word ‘sir’ all my life, but as soon as I sank into low water I began to say ‘sir.’ It’s the w ork of a higher power. I see you are interested in contemporary questions, but how can I have excited your curiosity, living as I do in surroundings impossible fo
r the exercise of hospitality?”
“I’ve come—about that business.”
“About what business?” the captain interrupted impatiently.
“About your meeting with my brother Dmitri Fyodorovitch,” Alyosha blurted out awkwardly.
“What meeting, sir? You don’t mean that meeting? About my ‘wisp of tow,’ then?” He moved closer so that his knees positively knocked against Alyosha. His l ips were strangely compressed like a thread.
“What wisp of tow?” muttered Alyosha.
“He is come to complain of me, father!” cried a voice familiar to Alyosha—the voice of the schoolboy—from behind the curtain. “I bit his finger just now.” The curtain was pulled, and Alyosha saw his assailant lying on a little bed made up on the bench and the chair in the corner under the ikons. The boy lay covered by his coat and an old wadded quilt. He was evidently unwell, and, judging by his glittering eyes, he was in a fever. He looked at Alyosha without fear, as though he felt he was at home and could not be touched.
“What! Did he bite your finger?” The captain jumped up from his chair. “Was it your finger he bit?”
“Yes. He was throwing stones with other schoolboys. There were six of them against him alone. I went up to him, and he threw a stone at me and then another a t my head. I asked him what I had done to him. And then he rushed at me and bit my finger badly, I don’t know why.”
“I’ll thrash him, sir, at once—this minute!” The captain jumped up from his seat.
“But I am not complaining at all, I am simply telling you … I don’t want him to be thrashed. Besides, he seems to be ill.”
“And do you suppose I’d thrash him? That I’d take my Ilusha and thrash him before you for your satisfaction? Would you like it done at once, sir?” said the capt ain, suddenly turning to Alyosha, as though he were going to attack him. “I am sorry about your finger, sir; but instead of thrashing Ilusha, would you like me to chop off my four fingers with this knife here before your eyes to satisfy your just wrath? I should think four fingers would be enough to satisfy your thirst for v engeance. You won’t ask for the fifth one too?” He stopped short with a catch in his throat. Every feature in his face was twitching and working; he looked extre mely defiant. He was in a sort of frenzy.
“I think I understand it all now,” said Alyosha gently and sorrowfully, still keeping his seat. “So your boy is a good boy, he loves his father, and he attacked me as the brother of your assailant…. Now I understand it,” he repeated thoughtfully. “But my brother Dmitri Fyodorovitch regrets his action, I know that, and if on ly it is possible for him to come to you, or better still, to meet you in that same place, he will ask your forgiveness before every one—if you wish it.”
“After pulling out my beard, you mean, he will ask my forgiveness? And he thinks that will be a satisfactory finish, doesn’t he?”
“Oh, no! On the contrary, he will do anything you like and in any way you like.”
“So if I were to ask his highness to go down on his knees before me in that very tavern—‘The Metropolis’ it’s called—or in the marketplace, he would do it?”
“Yes, he would even go down on his knees.”
“You’ve pierced me to the heart, sir. Touched me to tears and pierced me to the heart! I am only too sensible of your brother’s generosity. Allow me to introduc e my family, my two daughters and my son—my litter. If I die, who will care for them, and while I live who but they will care for a wretch like me? That’s a gre at thing the Lord has ordained for every man of my sort, sir. For there must be some one able to love even a man like me.”
“Ah, that’s perfectly true!” exclaimed Alyosha.
“Oh, do leave off playing the fool! Some idiot comes in, and you put us to shame!” cried the girl by the window, suddenly turning to her father with a disdainful and contemptuous air.
“Wait a little, Varvara!” cried her father, speaking peremptorily but looking at her quite approvingly. “That’s her character,” he said, addressing Alyosha again.
“And in all nature there was naught
That could find favor in his eyes—
or rather in the feminine: that could find favor in her eyes. But now let me present you to my wife, Arina Petrovna. She is crippled, she is forty three; she can m ove, but very little. She is of humble origin. Arina Petrovna, compose your countenance. This is Alexey Fyodorovitch Karamazov. Get up, Alexey Fyodorovitch
.” He took him by the hand and with unexpected force pulled him up. “You must stand up to be introduced to a lady. It’s not the Karamazov, mamma, who … h
’m … etcetera, but his brother, radiant with modest virtues. Come, Arina Petrovna, come, mamma, first your hand to be kissed.”
And he kissed his wife’s hand respectfully and even tenderly. The girl at the window turned her back indignantly on the scene; an expression of extraordinary co
rdiality came over the haughtily inquiring face of the woman.
“Good morning! Sit down, Mr. Tchernomazov,” she said.
“Karamazov, mamma, Karamazov. We are of humble origin,” he whispered again.
“Well, Karamazov, or whatever it is, but I always think of Tchernomazov…. Sit down. Why has he pulled you up? He calls me crippled, but I am not, only my l egs are swollen like barrels, and I am shriveled up myself. Once I used to be so fat, but now it’s as though I had swallowed a needle.”
“We are of humble origin,” the captain muttered again.
“Oh, father, father!” the hunchback girl, who had till then been silent on her chair, said suddenly, and she hid her eyes in her handkerchief.
“Buffoon!” blurted out the girl at the window.
“Have you heard our news?” said the mother, pointing at her daughters. “It’s like clouds coming over; the clouds pass and we have music again. When we were with the army, we used to have many such guests. I don’t mean to make any comparisons; every one to their taste. The deacon’s wife used to come then and say
, ‘Alexandr Alexandrovitch is a man of the noblest heart, but Nastasya Petrovna,’ she would say, ‘is of the brood of hell.’ ‘Well,’ I said, ‘that’s a matter of taste; but you are a little spitfire.’ ‘And you want keeping in your place,’ says she. ‘You black sword,’ said I, ‘who asked you to teach me?’ ‘But my breath,’ says she,
‘is clean, and yours is unclean.’ ‘You ask all the officers whether my breath is unclean.’ And ever since then I had it in my mind. Not long ago I was sitting here as I am now, when I saw that very general come in who came here for Easter, and I asked him: ‘Your Excellency,’ said I, ‘can a lady’s breath be unpleasant?’ ‘
Yes,’ he answered; ‘you ought to open a window pane or open the door, for the air is not fresh here.’ And they all go on like that! And what is my breath to the m? The dead smell worse still! ‘I won’t spoil the air,’ said I, ‘I’ll order some slippers and go away.’ My darlings, don’t blame your own mother! Nikolay Ilyitch, how is it I can’t please you? There’s only Ilusha who comes home from school and loves me. Yesterday he brought me an apple. Forgive your own mother—fo rgive a poor lonely creature! Why has my breath become unpleasant to you?”
And the poor mad woman broke into sobs, and tears streamed down her cheeks. The captain rushed up to her.
“Mamma, mamma, my dear, give over! You are not lonely. Every one loves you, every one adores you.” He began kissing both her hands again and tenderly str oking her face; taking the dinnernapkin, he began wiping away her tears. Alyosha fancied that he too had tears in his eyes. “There, you see, you hear?” he turned with a sort of fury to Alyosha, pointing to the poor imbecile.
“I see and hear,” muttered Alyosha.
“Father, father, how can you—with him! Let him alone!” cried the boy, sitting up in his bed and gazing at his father with glowing eyes.
“Do give over fooling, showing off your silly antics which never lead to anything!” shouted Varvara, stamping her foot with passion.
“Your anger is quite just this time, Varvara, and I’ll make haste to satisfy you. Come, put on your cap, Alexey Fyodorovitch, and I’ll put on mine. We will go ou t. I have a word to say to you in earnest, but not within these walls. This girl sitting here is my daughter Nina; I forgot to introduce her to you. She is a heavenly angel incarnate … who has flown down to us mortals,… if you can understand.”
“There he is shaking all over, as though he is in convulsions!” Varvara went on indignantly.
“And she there stamping her foot at me and calling me a fool just now, she is a heavenly angel incarnate too, and she has good reason to call me so. Come along
, Alexey Fyodorovitch, we must make an end.”
And, snatching Alyosha’s hand, he drew him out of the room into the street.
Chapter VII.
And In The Open Air
“The air is fresh, but in my apartment it is not so in any sense of the word. Let us walk slowly, sir. I should be glad of your kind interest.”
“I too have something important to say to you,” observed Alyosha, “only I don’t know how to begin.”
“To be sure you must have business with me. You would never have looked in upon me without some object. Unless you come simply to complain of the boy, a nd that’s hardly likely. And, by the way, about the boy: I could not explain to you in there, but here I will describe that scene to you. My tow was thicker a week ago—I mean my beard. That’s the nickname they give to my beard, the schoolboys most of all. Well, your brother Dmitri Fyodorovitch was pulling me by my beard, I’d done nothing, he was in a towering rage and happened to come upon me. He dragged me out of the tavern into the marketplace; at that moment the bo ys were coming out of school, and with them Ilusha. As soon as he saw me in such a state he rushed up to me. ‘Father,’ he cried, ‘father!’ He caught hold of me, hugged me, tried to pull me away, crying to my assailant, ‘Let go, let go, it’s my father, forgive him!’—yes, he actually cried ‘forgive him.’ He clutched at that hand, that very hand, in his little hands and kissed it…. I remember his little face at that moment, I haven’t forgotten it and I never shall!”
“I swear,” cried Alyosha, “that my brother will express his most deep and sincere regret, even if he has to go down on his knees in that same marketplace…. I’ll make him or he is no brother of mine!”
“Aha, then it’s only a suggestion! And it does not come from him but simply from the generosity of your own warm heart. You should have said so. No, in that case allow me to tell you of your brother’s highly chivalrous soldierly generosity, for he did give expression to it at the time. He left off dragging me by my bear d and released me: ‘You are an officer,’ he said, ‘and I am an officer, if you can find a decent man to be your second send me your challenge. I will give satisfac tion, though you are a scoundrel.’ That’s what he said. A chivalrous spirit indeed! I retired with Ilusha, and that scene is a family record imprinted for ever on Il usha’s soul. No, it’s not for us to claim the privileges of noblemen. Judge for yourself. You’ve just been in our mansion, what did you see there? Three ladies, o ne a cripple and weakminded, another a cripple and hunchback and the third not crippled but far too clever. She is a student, dying to get back to Petersburg, to work for the emancipation of the Russian woman on the banks of the Neva. I won’t speak of Ilusha, he is only nine. I am alone in the world, and if I die, what w ill become of all of them? I simply ask you that. And if I challenge him and he kills me on the spot, what then? What will become of them? And worse still, if he doesn’t kill me but only cripples me: I couldn’t work, but I should still be a mouth to feed. Who would feed it and who would feed them all? Must I take Ilusha from school and send him to beg in the streets? That’s what it means for me to challenge him to a duel. It’s silly talk and nothing else.”
“He will beg your forgiveness, he will bow down at your feet in the middle of the marketplace,” cried Alyosha again, with glowing eyes.
“I did think of prosecuting him,” the captain went on, “but look in our code, could I get much compensation for a personal injury? And then Agrafena Alexandr ovna[3] sent for me and shouted at me: ‘Don’t dare to dream of it! If you proceed against him, I’ll publish it to all the world that he beat you for your dishonesty
, and then you will be prosecuted.’ I call God to witness whose was the dishonesty and by whose commands I acted, wasn’t it by her own and Fyodor Pavlovitch
’s? ‘And what’s more,’ she went on, ‘I’ll dismiss you for good and you’ll never earn another penny from me. I’ll speak to my merchant too’ (that’s what she call s her old man) ‘and he will dismiss you!’ And if he dismisses me, what can I earn then from any one? Those two are all I have to look to, for your Fyodor Pavlo vitch has not only given over employing me, for another reason, but he means to make use of papers I’ve signed to go to law against me. And so I kept quiet, an d you have seen our retreat. But now let me ask you: did Ilusha hurt your finger much? I didn’t like to go into it in our mansion before him.”
“Yes, very much, and he was in a great fury. He was avenging you on me as a Karamazov, I see that now. But if only you had seen how he was throwing stones at his schoolfellows! It’s very dangerous. They might kill him. They are children and stupid. A stone may be thrown and break somebody’s head.”
“That’s just what has happened. He has been bruised by a stone today. Not on the head but on the chest, just above the heart. He came home crying and groanin g and now he is ill.”
“And you know he attacks them first. He is bitter against them on your account. They say he stabbed a boy called Krassotkin with a penknife not long ago.”
“I’ve heard about that too, it’s dangerous. Krassotkin is an official here, we may hear more about it.”
“I would advise you,” Alyosha went on warmly, “not to send him to school at all for a time till he is calmer … and his anger is passed.”
“Anger!” the captain repeated, “that’s just what it is. He is a little creature, but it’s a mighty anger. You don’t know all, sir. Let me tell you more. Since that inci dent all the boys have been teasing him about the ‘wisp of tow.’ Schoolboys are a merciless race, individually they are angels, but together, especially in schools
, they are often merciless. Their teasing has stirred up a gallant spirit in Ilusha. An ordinary boy, a weak son, would have submitted, have felt ashamed of his fat her, sir, but he stood up for his father against them all. For his father and for truth and justice. For what he suffered when he kissed your brother’s hand and cried to him ‘Forgive father, forgive him,’—that only God knows—and I, his father. For our children—not your children, but ours—the children of the poor gentlem en looked down upon by every one—know what justice means, sir, even at nine years old. How should the rich know? They don’t explore such depths once in t heir lives. But at that moment in the square when he kissed his hand, at that moment my Ilusha had grasped all that justice means. That truth entered into him an d crushed him for ever, sir,” the captain said hotly again with a sort of frenzy, and he struck his right fist against his left palm as though he wanted to show how
“the truth” crushed Ilusha. “That very day, sir, he fell ill with fever and was delirious all night. All that day he hardly said a word to me, but I noticed he kept wa tching me from the corner, though he turned to the window and pretended to be learning his lessons. But I could see his mind was not on his lessons. Next day I got drunk to forget my troubles, sinful man as I am, and I don’t remember much. Mamma began crying, too—I am very fond of mamma—well, I spent my last penny drowning my troubles. Don’t despise me for that, sir, in Russia men who drink are the best. The best men amongst us are the greatest drunkards. I lay do wn and I don’t remember about Ilusha, though all that day the boys had been jeering at him at school. ‘Wisp of tow,’ they shouted, ‘your father was pulled out o f the tavern by his wisp of tow, you ran by and begged forgiveness.’ ”
“On the third day when he came back from school, I saw he looked pale and wretched. ‘What is it?’ I asked. He wouldn’t answer. Well, there’s no talking in our mansion without mamma and the girls taking part in it. What’s more, the girls had heard about it the very first day. Varvara had begun snarling. ‘You fools and buffoons, can you ever do anything rational?’ ‘Quite so,’ I said, ‘can we ever do anything rational?’ For the time I turned it off like that. So in the evening I took the boy out for a walk, for you must know we go for a walk every evening, always the same way, along which we are going now—from our gate to that great st one which lies alone in the road under the hurdle, which marks the beginning of the town pasture. A beautiful and lonely spot, sir. Ilusha and I walked along han d in hand as usual. He has a little hand, his fingers are thin and cold—he suffers with his chest, you know. ‘Father,’ said he, ‘father!’ ‘Well?’ said I. I saw his ey es flashing. ‘Father, how he treated you then!’ ‘It can’t be helped, Ilusha,’ I said. ‘Don’t forgive him, father, don’t forgive him! At school they say that he has pa id you ten roubles for it.’ ‘No, Ilusha,’ said I, ‘I would not take money from him for anything.’ Then he began trembling all over, took my hand in both his and k issed it again. ‘Father,’ he said, ‘father, challenge him to a duel, at school they say you are a coward and won’t challenge him, and that you’ll accept ten roubles from him.’ ‘I can’t challenge him to a duel, Ilusha,’ I answered. And I told briefly what I’ve just told you. He listened. ‘Father,’ he said, ‘anyway don’t forgive it
. When I grow up I’ll call him out myself and kill him.’ His eyes shone and glowed. And of course I am his father, and I had to put in a word: ‘It’s a sin to kill,’
I said, ‘even in a duel.’ ‘Father,’ he said, ‘when I grow up, I’ll knock him down, knock the sword out of his hand, I’ll fall on him, wave my sword over him and say: “I could kill you, but I forgive you, so there!” ’ You see what the workings of his little mind have been during these two days; he must have been planning t hat vengeance all day, and raving about it at night.
“But he began to come home from school badly beaten, I found out about it the day before yesterday, and you are right, I won’t send him to that school any mor
e. I heard that he was standing up against all the class alone and defying them all, that his heart was full of resentment, of bitterness—I was alarmed about him.
We went for another walk. ‘Father,’ he asked, ‘are the rich people stronger than any one else on earth?’ ‘Yes, Ilusha,’ I said, ‘there are no people on earth strong er than the rich.’ ‘Father,’ he said, ‘I will get rich, I will become an officer and conquer everybody. The Tsar will reward me, I will come back here and then no one will dare—’ Then he was silent and his lips still kept trembling. ‘Father,’ he said, ‘what a horrid town this is.’ ‘Yes, Ilusha,’ I said, ‘it isn’t a very nice town.
’ ‘Father, let us move into another town, a nice one,’ he said, ‘where people don’t know about us.’ ‘We will move, we will, Ilusha,’ said I, ‘only I must save up f or it.’ I was glad to be able to turn his mind from painful thoughts, and we began to dream of how we would move to another town, how we would buy a horse a nd cart. ‘We will put mamma and your sisters inside, we will cover them up and we’ll walk, you shall have a lift now and then, and I’ll walk beside, for we must take care of our horse, we can’t all ride. That’s how we’ll go.’ He was enchanted at that, most of all at the thought of having a horse and driving him. For of cou rse a Russian boy is born among horses. We chattered a long while. Thank God, I thought, I have diverted his mind and comforted him.
“That was the day before yesterday, in the evening, but last night everything was changed. He had gone to school in the morning, he came back depressed, terrib ly depressed. In the evening I took him by the hand and we went for a walk; he would not talk. There was a wind blowing and no sun, and a feeling of autumn; t wilight was coming on. We walked along, both of us depressed. ‘Well, my boy,’ said I, ‘how about our setting off on our travels?’ I thought I might bring him b ack to our talk of the day before. He didn’t answer, but I felt his fingers trembling in my hand. Ah, I thought, it’s a bad job; there’s something fresh. We had rea ched the stone where we are now. I sat down on the stone. And in the air there were lots of kites flapping and whirling. There were as many as thirty in sight. Of course, it’s just the season for the kites. ‘Look, Ilusha,’ said I, ‘it’s time we got out our last year’s kite again. I’ll mend it, where have you put it away?’ My boy made no answer. He looked away and turned sideways to me. And then a gust of wind blew up the sand. He suddenly fell on me, threw both his little arms roun d my neck and held me tight. You know, when children are silent and proud, and try to keep back their tears when they are in great trouble and suddenly break d own, their tears fall in streams. With those warm streams of tears, he suddenly wetted my face. He sobbed and shook as though he were in convulsions, and sque ezed up against me as I sat on the stone. ‘Father,’ he kept crying, ‘dear father, how he insulted you!’ And I sobbed too. We sat shaking in each other’s arms. ‘Ilu sha,’ I said to him, ‘Ilusha darling.’ No one saw us then. God alone saw us, I hope He will record it to my credit. You must thank your brother, Alexey Fyodoro vitch. No, sir, I won’t thrash my boy for your satisfaction.”
He had gone back to his original tone of resentful buffoonery. Alyosha felt though that he trusted him, and that if there had been some one else in his, Alyosha’s place, the man would not have spoken so openly and would not have told what he had just told. This encouraged Alyosha, whose heart was trembling on the ve rge of tears.
“Ah, how I would like to make friends with your boy!” he cried. “If you could arrange it—”
“Certainly, sir,” muttered the captain.
“But now listen to something quite different!” Alyosha went on. “I have a message for you. That same brother of mine, Dmitri, has insulted his betrothed, too, a noblehearted girl of whom you have probably heard. I have a right to tell you of her wrong; I ought to do so, in fact, for hearing of the insult done to you and lea rning all about your unfortunate position, she commissioned me at once—just now—to bring you this help from her—but only from her alone, not from Dmitri, who has abandoned her. Nor from me, his brother, nor from any one else, but from her, only from her! She entreats you to accept her help…. You have both bee n insulted by the same man. She thought of you only when she had just received a similar insult from him—similar in its cruelty, I mean. She comes like a sister to help a brother in misfortune…. She told me to persuade you to take these two hundred roubles from her, as from a sister, knowing that you are in such need.
No one will know of it, it can give rise to no unjust slander. There are the two hundred roubles, and I swear you must take them unless—unless all men are to be enemies on earth! But there are brothers even on earth…. You have a generous heart … you must see that, you must,” and Alyosha held out two new rainbowc olored hundredrouble notes.
They were both standing at the time by the great stone close to the fence, and there was no one near. The notes seemed to produce a tremendous impression on t he captain. He started, but at first only from astonishment. Such an outcome of their conversation was the last thing he expected. Nothing could have been farthe r from his dreams than help from any one—and such a sum!
He took the notes, and for a minute he was almost unable to answer, quite a new expression came into his face.
“That for me? So much money—two hundred roubles! Good heavens! Why, I haven’t seen so much money for the last four years! Mercy on us! And she says s he is a sister…. And is that the truth?”
“I swear that all I told you is the truth,” cried Alyosha.
The captain flushed red.
“Listen, my dear, listen. If I take it, I shan’t be behaving like a scoundrel? In your eyes, Alexey Fyodorovitch, I shan’t be a scoundrel? No, Alexey Fyodorovitch
, listen, listen,” he hurried, touching Alyosha with both his hands. “You are persuading me to take it, saying that it’s a sister sends it, but inwardly, in your heart won’t you feel contempt for me if I take it, eh?”
“No, no, on my salvation I swear I shan’t! And no one will ever know but me—I, you and she, and one other lady, her great friend.”
“Never mind the lady! Listen, Alexey Fyodorovitch, at a moment like this you must listen, for you can’t understand what these two hundred roubles mean to me now.” The poor fellow went on rising gradually into a sort of incoherent, almost wild enthusiasm. He was thrown off his balance and talked extremely fast, as t hough afraid he would not be allowed to say all he had to say.
“Besides its being honestly acquired from a ‘sister,’ so highly respected and revered, do you know that now I can look after mamma and Nina, my hunchback an
gel daughter? Doctor Herzenstube came to me in the kindness of his heart and was examining them both for a whole hour. ‘I can make nothing of it,’ said he, bu t he prescribed a mineral water which is kept at a chemist’s here. He said it would be sure to do her good, and he ordered baths, too, with some medicine in them
. The mineral water costs thirty copecks, and she’d need to drink forty bottles perhaps; so I took the prescription and laid it on the shelf under the ikons, and ther e it lies. And he ordered hot baths for Nina with something dissolved in them, morning and evening. But how can we carry out such a cure in our mansion, with out servants, without help, without a bath, and without water? Nina is rheumatic all over, I don’t think I told you that. All her right side aches at night, she is in a gony, and, would you believe it, the angel bears it without groaning for fear of waking us. We eat what we can get, and she’ll only take the leavings, what you’d scarcely give to a dog. ‘I am not worth it, I am taking it from you, I am a burden on you,’ that’s what her angel eyes try to express. We wait on her, but she does n’t like it. ‘I am a useless cripple, no good to any one.’ As though she were not worth it, when she is the saving of all of us with her angelic sweetness. Without her, without her gentle word it would be hell among us! She softens even Varvara. And don’t judge Varvara harshly either, she is an angel too, she, too, has suff ered wrong. She came to us for the summer, and she brought sixteen roubles she had earned by lessons and saved up, to go back with to Petersburg in Septembe r, that is now. But we took her money and lived on it, so now she has nothing to go back with. Though indeed she couldn’t go back, for she has to work for us li ke a slave. She is like an overdriven horse with all of us on her back. She waits on us all, mends and washes, sweeps the floor, puts mamma to bed. And mamma is capricious and tearful and insane! And now I can get a servant with this money, you understand, Alexey Fyodorovitch, I can get medicines for the dear creatu res, I can send my student to Petersburg, I can buy beef, I can feed them properly. Good Lord, but it’s a dream!”
Alyosha was delighted that he had brought him such happiness and that the poor fellow had consented to be made happy.
“Stay, Alexey Fyodorovitch, stay,” the captain began to talk with frenzied rapidity, carried away by a new daydream. “Do you know that Ilusha and I will perha ps really carry out our dream. We will buy a horse and cart, a black horse, he insists on its being black, and we will set off as we pretended the other day. I have an old friend, a lawyer in K. province, and I heard through a trustworthy man that if I were to go he’d give me a place as clerk in his office, so, who knows, may be he would. So I’d just put mamma and Nina in the cart, and Ilusha could drive, and I’d walk, I’d walk…. Why, if I only succeed in getting one debt paid that’s owing me, I should have perhaps enough for that too!”
“There would be enough!” cried Alyosha. “Katerina Ivanovna will send you as much more as you need, and you know, I have money too, take what you want, a s you would from a brother, from a friend, you can give it back later…. (You’ll get rich, you’ll get rich!) And you know you couldn’t have a better idea than to move to another province! It would be the saving of you, especially of your boy—and you ought to go quickly, before the winter, before the cold. You must writ e to us when you are there, and we will always be brothers…. No, it’s not a dream!”
Alyosha could have hugged him, he was so pleased. But glancing at him he stopped short. The man was standing with his neck outstretched and his lips protrudi ng, with a pale and frenzied face. His lips were moving as though trying to articulate something; no sound came, but still his lips moved. It was uncanny.
“What is it?” asked Alyosha, startled.
“Alexey Fyodorovitch … I … you,” muttered the captain, faltering, looking at him with a strange, wild, fixed stare, and an air of desperate resolution. At the sa me time there was a sort of grin on his lips. “I … you, sir … wouldn’t you like me to show you a little trick I know?” he murmured, suddenly, in a firm rapid wh isper, his voice no longer faltering.
“What trick?”
“A pretty trick,” whispered the captain. His mouth was twisted on the left side, his left eye was screwed up. He still stared at Alyosha.
“What is the matter? What trick?” Alyosha cried, now thoroughly alarmed.
“Why, look,” squealed the captain suddenly, and showing him the two notes which he had been holding by one corner between his thumb and forefinger during the conversation, he crumpled them up savagely and squeezed them tight in his right hand. “Do you see, do you see?” he shrieked, pale and infuriated. And sudd enly flinging up his hand, he threw the crumpled notes on the sand. “Do you see?” he shrieked again, pointing to them. “Look there!”
And with wild fury he began trampling them under his heel, gasping and exclaiming as he did so:
“So much for your money! So much for your money! So much for your money! So much for your money!”
Suddenly he darted back and drew himself up before Alyosha, and his whole figure expressed unutterable pride.
“Tell those who sent you that the wisp of tow does not sell his honor,” he cried, raising his arm in the air. Then he turned quickly and began to run; but he had n ot run five steps before he turned completely round and kissed his hand to Alyosha. He ran another five paces and then turned round for the last time. This time his face was not contorted with laughter, but quivering all over with tears. In a tearful, faltering, sobbing voice he cried:
“What should I say to my boy if I took money from you for our shame?”
And then he ran on without turning. Alyosha looked after him, inexpressibly grieved. Oh, he saw that till the very last moment the man had not known he would crumple up and fling away the notes. He did not turn back. Alyosha knew he would not. He would not follow him and call him back, he knew why. When he w as out of sight, Alyosha picked up the two notes. They were very much crushed and crumpled, and had been pressed into the sand, but were uninjured and even rustled like new ones when Alyosha unfolded them and smoothed them out. After smoothing them out, he folded them up, put them in his pocket and went to K
aterina Ivanovna to report on the success of her commission.
Book V. Pro And Contra
Chapter I.
The Engagement
Madame Hohlakov was again the first to meet Alyosha. She was flustered; something important had happened. Katerina Ivanovna’s hysterics had ended in a fai nting fit, and then “a terrible, awful weakness had followed, she lay with her eyes turned up and was delirious. Now she was in a fever. They had sent for Herze nstube; they had sent for the aunts. The aunts were already here, but Herzenstube had not yet come. They were all sitting in her room, waiting. She was unconsci ous now, and what if it turned to brain fever!”
Madame Hohlakov looked gravely alarmed. “This is serious, serious,” she added at every word, as though nothing that had happened to her before had been seri ous. Alyosha listened with distress, and was beginning to describe his adventures, but she interrupted him at the first words. She had not time to listen. She begg ed him to sit with Lise and wait for her there.
“Lise,” she whispered almost in his ear, “Lise has greatly surprised me just now, dear Alexey Fyodorovitch. She touched me, too, and so my heart forgives her e verything. Only fancy, as soon as you had gone, she began to be truly remorseful for having laughed at you today and yesterday, though she was not laughing at you, but only joking. But she was seriously sorry for it, almost ready to cry, so that I was quite surprised. She has never been really sorry for laughing at me, but has only made a joke of it. And you know she is laughing at me every minute. But this time she was in earnest. She thinks a great deal of your opinion, Alexey Fyodorovitch, and don’t take offense or be wounded by her if you can help it. I am never hard upon her, for she’s such a clever little thing. Would you believe it
? She said just now that you were a friend of her childhood, ‘the greatest friend of her childhood’—just think of that—‘greatest friend’—and what about me? Sh e has very strong feelings and memories, and, what’s more, she uses these phrases, most unexpected words, which come out all of a sudden when you least expe ct them. She spoke lately about a pinetree, for instance: there used to be a pinetree standing in our garden in her early childhood. Very likely it’s standing there s till; so there’s no need to speak in the past tense. Pinetrees are not like people, Alexey Fyodorovitch, they don’t change quickly. ‘Mamma,’ she said, ‘I remembe r this pinetree as in a dream,’ only she said something so original about it that I can’t repeat it. Besides, I’ve forgotten it. Well, goodby! I am so worried I feel I s hall go out of my mind. Ah! Alexey Fyodorovitch, I’ve been out of my mind twice in my life. Go to Lise, cheer her up, as you always can so charmingly. Lise,”
she cried, going to her door, “here I’ve brought you Alexey Fyodorovitch, whom you insulted so. He is not at all angry, I assure you; on the contrary, he is surpr ised that you could suppose so.”
“Merci, maman. Come in, Alexey Fyodorovitch.”
Alyosha went in. Lise looked rather embarrassed, and at once flushed crimson. She was evidently ashamed of something, and, as people always do in such cases
, she began immediately talking of other things, as though they were of absorbing interest to her at the moment.
“Mamma has just told me all about the two hundred roubles, Alexey Fyodorovitch, and your taking them to that poor officer … and she told me all the awful sto ry of how he had been insulted … and you know, although mamma muddles things … she always rushes from one thing to another … I cried when I heard. Wel l, did you give him the money and how is that poor man getting on?”
“The fact is I didn’t give it to him, and it’s a long story,” answered Alyosha, as though he, too, could think of nothing but his regret at having failed, yet Lise sa w perfectly well that he, too, looked away, and that he, too, was trying to talk of other things.
Alyosha sat down to the table and began to tell his story, but at the first words he lost his embarrassment and gained the whole of Lise’s attention as well. He sp oke with deep feeling, under the influence of the strong impression he had just received, and he succeeded in telling his story well and circumstantially. In old d ays in Moscow he had been fond of coming to Lise and describing to her what had just happened to him, what he had read, or what he remembered of his childh ood. Sometimes they had made daydreams and woven whole romances together—generally cheerful and amusing ones. Now they both felt suddenly transported to the old days in Moscow, two years before. Lise was extremely touched by his story. Alyosha described Ilusha with warm feeling. When he finished describin g how the luckless man trampled on the money, Lise could not help clasping her hands and crying out:
“So you didn’t give him the money! So you let him run away! Oh, dear, you ought to have run after him!”
“No, Lise; it’s better I didn’t run after him,” said Alyosha, getting up from his chair and walking thoughtfully across the room.
“How so? How is it better? Now they are without food and their case is hopeless?”
“Not hopeless, for the two hundred roubles will still come to them. He’ll take the money tomorrow. Tomorrow he will be sure to take it,” said Alyosha, pacing u p and down, pondering. “You see, Lise,” he went on, stopping suddenly before her, “I made one blunder, but that, even that, is all for the best.”
“What blunder, and why is it for the best?”
“I’ll tell you. He is a man of weak and timorous character; he has suffered so much and is very goodnatured. I keep wondering why he took offense so suddenly, for I assure you, up to the last minute, he did not know that he was going to trample on the notes. And I think now that there was a great deal to offend him … a nd it could not have been otherwise in his position…. To begin with, he was sore at having been so glad of the money in my presence and not having concealed it from me. If he had been pleased, but not so much; if he had not shown it; if he had begun affecting scruples and difficulties, as other people do when they take money, he might still endure to take it. But he was too genuinely delighted, and that was mortifying. Ah, Lise, he is a good and truthful man—that’s the worst o f the whole business. All the while he talked, his voice was so weak, so broken, he talked so fast, so fast, he kept laughing such a laugh, or perhaps he was cryin g—yes, I am sure he was crying, he was so delighted—and he talked about his daughters—and about the situation he could get in another town…. And when he had poured out his heart, he felt ashamed at having shown me his inmost soul like that. So he began to hate me at once. He is one of those awfully sensitive poo r people. What had made him feel most ashamed was that he had given in too soon and accepted me as a friend, you see. At first he almost flew at me and tried t
o intimidate me, but as soon as he saw the money he had begun embracing me; he kept touching me with his hands. This must have been how he came to feel it all so humiliating, and then I made that blunder, a very important one. I suddenly said to him that if he had not money enough to move to another town, we woul d give it to him, and, indeed, I myself would give him as much as he wanted out of my own money. That struck him all at once. Why, he thought, did I put myse lf forward to help him? You know, Lise, it’s awfully hard for a man who has been injured, when other people look at him as though they were his benefactors…
. I’ve heard that; Father Zossima told me so. I don’t know how to put it, but I have often seen it myself. And I feel like that myself, too. And the worst of it was t hat though he did not know, up to the very last minute, that he would trample on the notes, he had a kind of presentiment of it, I am sure of that. That’s just what made him so ecstatic, that he had that presentiment…. And though it’s so dreadful, it’s all for the best. In fact, I believe nothing better could have happened.”
“Why, why could nothing better have happened?” cried Lise, looking with great surprise at Alyosha.
“Because if he had taken the money, in an hour after getting home, he would be crying with mortification, that’s just what would have happened. And most likel y he would have come to me early tomorrow, and perhaps have flung the notes at me and trampled upon them as he did just now. But now he has gone home aw fully proud and triumphant, though he knows he has ‘ruined himself.’ So now nothing could be easier than to make him accept the two hundred roubles by tomo rrow, for he has already vindicated his honor, tossed away the money, and trampled it under foot…. He couldn’t know when he did it that I should bring it to hi m again tomorrow, and yet he is in terrible need of that money. Though he is proud of himself now, yet even today he’ll be thinking what a help he has lost. He will think of it more than ever at night, will dream of it, and by tomorrow morning he may be ready to run to me to ask forgiveness. It’s just then that I’ll appear.
‘Here, you are a proud man,’ I shall say: ‘you have shown it; but now take the money and forgive us!’ And then he will take it!”
Alyosha was carried away with joy as he uttered his last words, “And then he will take it!” Lise clapped her hands.
“Ah, that’s true! I understand that perfectly now. Ah, Alyosha, how do you know all this? So young and yet he knows what’s in the heart…. I should never have worked it out.”
“The great thing now is to persuade him that he is on an equal footing with us, in spite of his taking money from us,” Alyosha went on in his excitement, “and n ot only on an equal, but even on a higher footing.”
“ ‘On a higher footing’ is charming, Alexey Fyodorovitch; but go on, go on!”
“You mean there isn’t such an expression as ‘on a higher footing’; but that doesn’t matter because—”
“Oh, no, of course it doesn’t matter. Forgive me, Alyosha, dear…. You know, I scarcely respected you till now—that is I respected you but on an equal footing; but now I shall begin to respect you on a higher footing. Don’t be angry, dear, at my joking,” she put in at once, with strong feeling. “I am absurd and small, but you, you! Listen, Alexey Fyodorovitch. Isn’t there in all our analysis—I mean your analysis … no, better call it ours—aren’t we showing contempt for him, for t hat poor man—in analyzing his soul like this, as it were, from above, eh? In deciding so certainly that he will take the money?”
“No, Lise, it’s not contempt,” Alyosha answered, as though he had prepared himself for the question. “I was thinking of that on the way here. How can it be con tempt when we are all like him, when we are all just the same as he is? For you know we are just the same, no better. If we are better, we should have been just t he same in his place…. I don’t know about you, Lise, but I consider that I have a sordid soul in many ways, and his soul is not sordid; on the contrary, full of fin e feeling…. No, Lise, I have no contempt for him. Do you know, Lise, my elder told me once to care for most people exactly as one would for children, and for some of them as one would for the sick in hospitals.”
“Ah, Alexey Fyodorovitch, dear, let us care for people as we would for the sick!”
“Let us, Lise; I am ready. Though I am not altogether ready in myself. I am sometimes very impatient and at other times I don’t see things. It’s different with yo u.”
“Ah, I don’t believe it! Alexey Fyodorovitch, how happy I am!”
“I am so glad you say so, Lise.”
“Alexey Fyodorovitch, you are wonderfully good, but you are sometimes sort of formal…. And yet you are not a bit formal really. Go to the door, open it gently
, and see whether mamma is listening,” said Lise, in a nervous, hurried whisper.
Alyosha went, opened the door, and reported that no one was listening.
“Come here, Alexey Fyodorovitch,” Lise went on, flushing redder and redder. “Give me your hand—that’s right. I have to make a great confession, I didn’t writ e to you yesterday in joke, but in earnest,” and she hid her eyes with her hand. It was evident that she was greatly ashamed of the confession.
Suddenly she snatched his hand and impulsively kissed it three times.
“Ah, Lise, what a good thing!” cried Alyosha joyfully. “You know, I was perfectly sure you were in earnest.”
“Sure? Upon my word!” She put aside his hand, but did not leave go of it, blushing hotly, and laughing a little happy laugh. “I kiss his hand and he says, ‘What a good thing!’ ”
But her reproach was undeserved. Alyosha, too, was greatly overcome.
“I should like to please you always, Lise, but I don’t know how to do it,” he muttered, blushing too.
“Alyosha, dear, you are cold and rude. Do you see? He has chosen me as his wife and is quite settled about it. He is sure I was in earnest. What a thing to say!
Why, that’s impertinence—that’s what it is.”
“Why, was it wrong of me to feel sure?” Alyosha asked, laughing suddenly.
“Ah, Alyosha, on the contrary, it was delightfully right,” cried Lise, looking tenderly and happily at him.
Alyosha stood still, holding her hand in his. Suddenly he stooped down and kissed her on her lips.
“Oh, what are you doing?” cried Lise. Alyosha was terribly abashed.
“Oh, forgive me if I shouldn’t…. Perhaps I’m awfully stupid…. You said I was cold, so I kissed you…. But I see it was stupid.”
Lise laughed, and hid her face in her hands. “And in that dress!” she ejaculated in the midst of her mirth. But she suddenly ceased laughing and became serious, almost stern.
“Alyosha, we must put off kissing. We are not ready for that yet, and we shall have a long time to wait,” she ended suddenly. “Tell me rather why you who are s o clever, so intellectual, so observant, choose a little idiot, an invalid like me? Ah, Alyosha, I am awfully happy, for I don’t deserve you a bit.”
“You do, Lise. I shall be leaving the monastery altogether in a few days. If I go into the world, I must marry. I know that. He told me to marry, too. Whom could I marry better than you—and who would have me except you? I have been thinking it over. In the first place, you’ve known me from a child and you’ve a great many qualities I haven’t. You are more light hearted than I am; above all, you are more innocent than I am. I have been brought into contact with many, many things already…. Ah, you don’t know, but I, too, am a Karamazov. What does it matter if you do laugh and make jokes, and at me, too? Go on laughing. I am so glad you do. You laugh like a little child, but you think like a martyr.”
“Like a martyr? How?”
“Yes, Lise, your question just now: whether we weren’t showing contempt for that poor man by dissecting his soul—that was the question of a sufferer…. You see, I don’t know how to express it, but any one who thinks of such questions is capable of suffering. Sitting in your invalid chair you must have thought over m any things already.”
“Alyosha, give me your hand. Why are you taking it away?” murmured Lise in a failing voice, weak with happiness. “Listen, Alyosha. What will you wear whe n you come out of the monastery? What sort of suit? Don’t laugh, don’t be angry, it’s very, very important to me.”
“I haven’t thought about the suit, Lise; but I’ll wear whatever you like.”
“I should like you to have a dark blue velvet coat, a white piqué waistcoat, and a soft gray felt hat…. Tell me, did you believe that I didn’t care for you when I s aid I didn’t mean what I wrote?”
“No, I didn’t believe it.”
“Oh, you insupportable person, you are incorrigible.”
“You see, I knew that you—seemed to care for me, but I pretended to believe that you didn’t care for me to make it—easier for you.”
“That makes it worse! Worse and better than all! Alyosha, I am awfully fond of you. Just before you came this morning, I tried my fortune. I decided I would as k you for my letter, and if you brought it out calmly and gave it to me (as might have been expected from you) it would mean that you did not love me at all, tha t you felt nothing, and were simply a stupid boy, good for nothing, and that I am ruined. But you left the letter at home and that cheered me. You left it behind o n purpose, so as not to give it back, because you knew I would ask for it? That was it, wasn’t it?”
“Ah, Lise, it was not so a bit. The letter is with me now, and it was this morning, in this pocket. Here it is.”
Alyosha pulled the letter out laughing, and showed it her at a distance.
“But I am not going to give it to you. Look at it from here.”
“Why, then you told a lie? You, a monk, told a lie!”
“I told a lie if you like,” Alyosha laughed, too. “I told a lie so as not to give you back the letter. It’s very precious to me,” he added suddenly, with strong feeling
, and again he flushed. “It always will be, and I won’t give it up to any one!”
Lise looked at him joyfully. “Alyosha,” she murmured again, “look at the door. Isn’t mamma listening?”
“Very well, Lise, I’ll look; but wouldn’t it be better not to look? Why suspect your mother of such meanness?”
“What meanness? As for her spying on her daughter, it’s her right, it’s not meanness!” cried Lise, firing up. “You may be sure, Alexey Fyodorovitch, that when I am a mother, if I have a daughter like myself I shall certainly spy on her!”
“Really, Lise? That’s not right.”
“Oh, my goodness! What has meanness to do with it? If she were listening to some ordinary worldly conversation, it would be meanness, but when her own dau ghter is shut up with a young man…. Listen, Alyosha, do you know I shall spy upon you as soon as we are married, and let me tell you I shall open all your lette rs and read them, so you may as well be prepared.”
“Yes, of course, if so—” muttered Alyosha, “only it’s not right.”
“Ah, how contemptuous! Alyosha, dear, we won’t quarrel the very first day. I’d better tell you the whole truth. Of course, it’s very wrong to spy on people, and, of course, I am not right and you are, only I shall spy on you all the same.”
“Do, then; you won’t find out anything,” laughed Alyosha.
“And, Alyosha, will you give in to me? We must decide that too.”
“I shall be delighted to, Lise, and certain to, only not in the most important things. Even if you don’t agree with me, I shall do my duty in the most important thi ngs.”
“That’s right; but let me tell you I am ready to give in to you not only in the most important matters, but in everything. And I am ready to vow to do so now—in everything, and for all my life!” cried Lise fervently, “and I’ll do it gladly, gladly! What’s more, I’ll swear never to spy on you, never once, never to read one of your letters. For you are right and I am not. And though I shall be awfully tempted to spy, I know that I won’t do it since you consider it dishonorable. You are my conscience now…. Listen, Alexey Fyodorovitch, why have you been so sad lately—both yesterday and today? I know you have a lot of anxiety and trouble, but I see you have some special grief besides, some secret one, perhaps?”
“Yes, Lise, I have a secret one, too,” answered Alyosha mournfully. “I see you love me, since you guessed that.”
“What grief? What about? Can you tell me?” asked Lise with timid entreaty.
“I’ll tell you later, Lise—afterwards,” said Alyosha, confused. “Now you wouldn’t understand it perhaps—and perhaps I couldn’t explain it.”
“I know your brothers and your father are worrying you, too.”
“Yes, my brothers too,” murmured Alyosha, pondering.
“I don’t like your brother Ivan, Alyosha,” said Lise suddenly.
He noticed this remark with some surprise, but did not answer it.
“My brothers are destroying themselves,” he went on, “my father, too. And they are destroying others with them. It’s ‘the primitive force of the Karamazovs,’ as Father Païssy said the other day, a crude, unbridled, earthly force. Does the spirit of God move above that force? Even that I don’t know. I only know that I, too
, am a Karamazov…. Me a monk, a monk! Am I a monk, Lise? You said just now that I was.”
“Yes, I did.”
“And perhaps I don’t even believe in God.”
“You don’t believe? What is the matter?” said Lise quietly and gently. But Alyosha did not answer. There was something too mysterious, too subjective in these last words of his, perhaps obscure to himself, but yet torturing him.
“And now on the top of it all, my friend, the best man in the world, is going, is leaving the earth! If you knew, Lise, how bound up in soul I am with him! And t hen I shall be left alone…. I shall come to you, Lise…. For the future we will be together.”
“Yes, together, together! Henceforward we shall be always together, all our lives! Listen, kiss me, I allow you.”
Alyosha kissed her.
“Come, now go. Christ be with you!” and she made the sign of the cross over him. “Make haste back to him while he is alive. I see I’ve kept you cruelly. I’ll pra y today for him and you. Alyosha, we shall be happy! Shall we be happy, shall we?”
“I believe we shall, Lise.”
Alyosha thought it better not to go in to Madame Hohlakov and was going out of the house without saying goodby to her. But no sooner had he opened the door
than he found Madame Hohlakov standing before him. From the first word Alyosha guessed that she had been waiting on purpose to meet him.
“Alexey Fyodorovitch, this is awful. This is all childish nonsense and ridiculous. I trust you won’t dream—It’s foolishness, nothing but foolishness!” she said, a ttacking him at once.
“Only don’t tell her that,” said Alyosha, “or she will be upset, and that’s bad for her now.”
“Sensible advice from a sensible young man. Am I to understand that you only agreed with her from compassion for her invalid state, because you didn’t want t o irritate her by contradiction?”
“Oh, no, not at all. I was quite serious in what I said,” Alyosha declared stoutly.
“To be serious about it is impossible, unthinkable, and in the first place I shall never be at home to you again, and I shall take her away, you may be sure of that.

“But why?” asked Alyosha. “It’s all so far off. We may have to wait another year and a half.”
“Ah, Alexey Fyodorovitch, that’s true, of course, and you’ll have time to quarrel and separate a thousand times in a year and a half. But I am so unhappy! Thou gh it’s such nonsense, it’s a great blow to me. I feel like Famusov in the last scene of Sorrow from Wit. You are Tchatsky and she is Sofya, and, only fancy, I’ve run down to meet you on the stairs, and in the play the fatal scene takes place on the staircase. I heard it all; I almost dropped. So this is the explanation of her d readful night and her hysterics of late! It means love to the daughter but death to the mother. I might as well be in my grave at once. And a more serious matter s till, what is this letter she has written? Show it me at once, at once!”
“No, there’s no need. Tell me, how is Katerina Ivanovna now? I must know.”
“She still lies in delirium; she has not regained consciousness. Her aunts are here; but they do nothing but sigh and give themselves airs. Herzenstube came, and he was so alarmed that I didn’t know what to do for him. I nearly sent for a doctor to look after him. He was driven home in my carriage. And on the top of it all
, you and this letter! It’s true nothing can happen for a year and a half. In the name of all that’s holy, in the name of your dying elder, show me that letter, Alexe y Fyodorovitch. I’m her mother. Hold it in your hand, if you like, and I will read it so.”
“No, I won’t show it to you. Even if she sanctioned it, I wouldn’t. I am coming tomorrow, and if you like, we can talk over many things, but now goodby!”
And Alyosha ran downstairs and into the street.
Chapter II.
Smerdyakov With A Guitar
He had no time to lose indeed. Even while he was saying goodby to Lise, the thought had struck him that he must attempt some stratagem to find his brother D
mitri, who was evidently keeping out of his way. It was getting late, nearly three o’clock. Alyosha’s whole soul turned to the monastery, to his dying saint, but t he necessity of seeing Dmitri outweighed everything. The conviction that a great inevitable catastrophe was about to happen grew stronger in Alyosha’s mind w ith every hour. What that catastrophe was, and what he would say at that moment to his brother, he could perhaps not have said definitely. “Even if my benefact or must die without me, anyway I won’t have to reproach myself all my life with the thought that I might have saved something and did not, but passed by and h astened home. If I do as I intend, I shall be following his great precept.”
His plan was to catch his brother Dmitri unawares, to climb over the fence, as he had the day before, get into the garden and sit in the summerhouse. If Dmitri w ere not there, thought Alyosha, he would not announce himself to Foma or the women of the house, but would remain hidden in the summerhouse, even if he ha d to wait there till evening. If, as before, Dmitri were lying in wait for Grushenka to come, he would be very likely to come to the summerhouse. Alyosha did no t, however, give much thought to the details of his plan, but resolved to act upon it, even if it meant not getting back to the monastery that day.
Everything happened without hindrance, he climbed over the hurdle almost in the same spot as the day before, and stole into the summerhouse unseen. He did n ot want to be noticed. The woman of the house and Foma too, if he were here, might be loyal to his brother and obey his instructions, and so refuse to let Alyosh a come into the garden, or might warn Dmitri that he was being sought and inquired for.
There was no one in the summerhouse. Alyosha sat down and began to wait. He looked round the summerhouse, which somehow struck him as a great deal mor e ancient than before. Though the day was just as fine as yesterday, it seemed a wretched little place this time. There was a circle on the table, left no doubt from the glass of brandy having been spilt the day before. Foolish and irrelevant ideas strayed about his mind, as they always do in a time of tedious waiting. He won dered, for instance, why he had sat down precisely in the same place as before, why not in the other seat. At last he felt very depressed—depressed by suspense and uncertainty. But he had not sat there more than a quarter of an hour, when he suddenly heard the thrum of a guitar somewhere quite close. People were sittin g, or had only just sat down, somewhere in the bushes not more than twenty paces away. Alyosha suddenly recollected that on coming out of the summerhouse t he day before, he had caught a glimpse of an old green low gardenseat among the bushes on the left, by the fence. The people must be sitting on it now. Who we re they?
A man’s voice suddenly began singing in a sugary falsetto, accompanying himself on the guitar: With invincible force
I am bound to my dear.
O Lord, have mercy
On her and on me!
On her and on me!
On her and on me!
The voice ceased. It was a lackey’s tenor and a lackey’s song. Another voice, a woman’s, suddenly asked insinuatingly and bashfully, though with mincing affe ctation:
“Why haven’t you been to see us for so long, Pavel Fyodorovitch? Why do you always look down upon us?”
“Not at all,” answered a man’s voice politely, but with emphatic dignity. It was clear that the man had the best of the position, and that the woman was making a dvances. “I believe the man must be Smerdyakov,” thought Alyosha, “from his voice. And the lady must be the daughter of the house here, who has come from Moscow, the one who wears the dress with a tail and goes to Marfa for soup.”
“I am awfully fond of verses of all kinds, if they rhyme,” the woman’s voice continued. “Why don’t you go on?”
The man sang again:
What do I care for royal wealth
If but my dear one be in health?
Lord have mercy
On her and on me!
On her and on me!
On her and on me!
“It was even better last time,” observed the woman’s voice. “You sang ‘If my darling be in health’; it sounded more tender. I suppose you’ve forgotten today.”
“Poetry is rubbish!” said Smerdyakov curtly.
“Oh, no! I am very fond of poetry.”
“So far as it’s poetry, it’s essential rubbish. Consider yourself, who ever talks in rhyme? And if we were all to talk in rhyme, even though it were decreed by gov ernment, we shouldn’t say much, should we? Poetry is no good, Marya Kondratyevna.”
“How clever you are! How is it you’ve gone so deep into everything?” The woman’s voice was more and more insinuating.
“I could have done better than that. I could have known more than that, if it had not been for my destiny from my childhood up. I would have shot a man in a du el if he called me names because I am descended from a filthy beggar and have no father. And they used to throw it in my teeth in Moscow. It had reached them from here, thanks to Grigory Vassilyevitch. Grigory Vassilyevitch blames me for rebelling against my birth, but I would have sanctioned their killing me before I was born that I might not have come into the world at all. They used to say in the market, and your mamma too, with great lack of delicacy, set off telling me t hat her hair was like a mat on her head, and that she was short of five foot by a wee bit. Why talk of a wee bit while she might have said ‘a little bit,’ like every one else? She wanted to make it touching, a regular peasant’s feeling. Can a Russian peasant be said to feel, in comparison with an educated man? He can’t be s aid to have feeling at all, in his ignorance. From my childhood up when I hear ‘a wee bit,’ I am ready to burst with rage. I hate all Russia, Marya Kondratyevna.

“If you’d been a cadet in the army, or a young hussar, you wouldn’t have talked like that, but would have drawn your saber to defend all Russia.”
“I don’t want to be a hussar, Marya Kondratyevna, and, what’s more, I should like to abolish all soldiers.”
“And when an enemy comes, who is going to defend us?”
“There’s no need of defense. In 1812 there was a great invasion of Russia by Napoleon, first Emperor of the French, father of the present one, and it would have been a good thing if they had conquered us. A clever nation would have conquered a very stupid one and annexed it. We should have had quite different institut ions.”
“Are they so much better in their own country than we are? I wouldn’t change a dandy I know of for three young Englishmen,” observed Marya Kondratyevna t enderly, doubtless accompanying her words with a most languishing glance.
“That’s as one prefers.”
“But you are just like a foreigner—just like a most gentlemanly foreigner. I tell you that, though it makes me bashful.”
“If you care to know, the folks there and ours here are just alike in their vice. They are swindlers, only there the scoundrel wears polished boots and here he grov els in filth and sees no harm in it. The Russian people want thrashing, as Fyodor Pavlovitch said very truly yesterday, though he is mad, and all his children.”
“You said yourself you had such a respect for Ivan Fyodorovitch.”
“But he said I was a stinking lackey. He thinks that I might be unruly. He is mistaken there. If I had a certain sum in my pocket, I would have left here long ago.
Dmitri Fyodorovitch is lower than any lackey in his behavior, in his mind, and in his poverty. He doesn’t know how to do anything, and yet he is respected by e very one. I may be only a soup maker, but with luck I could open a café restaurant in Petrovka, in Moscow, for my cookery is something special, and there’s no one in Moscow, except the foreigners, whose cookery is anything special. Dmitri Fyodorovitch is a beggar, but if he were to challenge the son of the first count i n the country, he’d fight him. Though in what way is he better than I am? For he is ever so much stupider than I am. Look at the money he has wasted without a ny need!”
“It must be lovely, a duel,” Marya Kondratyevna observed suddenly.
“How so?”
“It must be so dreadful and so brave, especially when young officers with pistols in their hands pop at one another for the sake of some lady. A perfect picture!
Ah, if only girls were allowed to look on, I’d give anything to see one!”
“It’s all very well when you are firing at some one, but when he is firing straight in your mug, you must feel pretty silly. You’d be glad to run away, Marya Kon dratyevna.”
“You don’t mean you would run away?” But Smerdyakov did not deign to reply. After a moment’s silence the guitar tinkled again, and he sang again in the sam e falsetto:
Whatever you may say,
I shall go far away.
Life will be bright and gay
In the city far away.
I shall not grieve,
I shall not grieve at all,
I don’t intend to grieve at all.
Then something unexpected happened. Alyosha suddenly sneezed. They were silent. Alyosha got up and walked towards them. He found Smerdyakov dressed u p and wearing polished boots, his hair pomaded, and perhaps curled. The guitar lay on the gardenseat. His companion was the daughter of the house, wearing a l ightblue dress with a train two yards long. She was young and would not have been badlooking, but that her face was so round and terribly freckled.
“Will my brother Dmitri soon be back?” asked Alyosha with as much composure as he could.
Smerdyakov got up slowly; Marya Kondratyevna rose too.
“How am I to know about Dmitri Fyodorovitch? It’s not as if I were his keeper,” answered Smerdyakov quietly, distinctly, and superciliously.
“But I simply asked whether you do know?” Alyosha explained.
“I know nothing of his whereabouts and don’t want to.”
“But my brother told me that you let him know all that goes on in the house, and promised to let him know when Agrafena Alexandrovna comes.”
Smerdyakov turned a deliberate, unmoved glance upon him.
“And how did you get in this time, since the gate was bolted an hour ago?” he asked, looking at Alyosha.
“I came in from the backalley, over the fence, and went straight to the summerhouse. I hope you’ll forgive me,” he added, addressing Marya Kondratyevna. “I w as in a hurry to find my brother.”
“Ach, as though we could take it amiss in you!” drawled Marya Kondratyevna, flattered by Alyosha’s apology. “For Dmitri Fyodorovitch often goes to the sum merhouse in that way. We don’t know he is here and he is sitting in the summerhouse.”
“I am very anxious to find him, or to learn from you where he is now. Believe me, it’s on business of great importance to him.”
“He never tells us,” lisped Marya Kondratyevna.
“Though I used to come here as a friend,” Smerdyakov began again, “Dmitri Fyodorovitch has pestered me in a merciless way even here by his incessant questi ons about the master. ‘What news?’ he’ll ask. ‘What’s going on in there now? Who’s coming and going?’ and can’t I tell him something more. Twice already he
’s threatened me with death.”
“With death?” Alyosha exclaimed in surprise.
“Do you suppose he’d think much of that, with his temper, which you had a chance of observing yourself yesterday? He says if I let Agrafena Alexandrovna in and she passes the night there, I’ll be the first to suffer for it. I am terribly afraid of him, and if I were not even more afraid of doing so, I ought to let the police know. God only knows what he might not do!”
“His honor said to him the other day, ‘I’ll pound you in a mortar!’ ” added Marya Kondratyevna.
“Oh, if it’s pounding in a mortar, it may be only talk,” observed Alyosha. “If I could meet him, I might speak to him about that too.”
“Well, the only thing I can tell you is this,” said Smerdyakov, as though thinking better of it; “I am here as an old friend and neighbor, and it would be odd if I d idn’t come. On the other hand, Ivan Fyodorovitch sent me first thing this morning to your brother’s lodging in Lake Street, without a letter, but with a message t o Dmitri Fyodorovitch to go to dine with him at the restaurant here, in the marketplace. I went, but didn’t find Dmitri Fyodorovitch at home, though it was eight o’clock. ‘He’s been here, but he is quite gone,’ those were the very words of his landlady. It’s as though there was an understanding between them. Perhaps at th is moment he is in the restaurant with Ivan Fyodorovitch, for Ivan Fyodorovitch has not been home to dinner and Fyodor Pavlovitch dined alone an hour ago, an d is gone to lie down. But I beg you most particularly not to speak of me and of what I have told you, for he’d kill me for nothing at all.”
“Brother Ivan invited Dmitri to the restaurant today?” repeated Alyosha quickly.
“That’s so.”
“The Metropolis tavern in the marketplace?”
“The very same.”
“That’s quite likely,” cried Alyosha, much excited. “Thank you, Smerdyakov; that’s important. I’ll go there at once.”
“Don’t betray me,” Smerdyakov called after him.
“Oh, no, I’ll go to the tavern as though by chance. Don’t be anxious.”
“But wait a minute, I’ll open the gate to you,” cried Marya Kondratyevna.
“No; it’s a short cut, I’ll get over the fence again.”
What he had heard threw Alyosha into great agitation. He ran to the tavern. It was impossible for him to go into the tavern in his monastic dress, but he could in quire at the entrance for his brothers and call them down. But just as he reached the tavern, a window was flung open, and his brother Ivan called down to him fr om it.
“Alyosha, can’t you come up here to me? I shall be awfully grateful.”
“To be sure I can, only I don’t quite know whether in this dress—”
“But I am in a room apart. Come up the steps; I’ll run down to meet you.”
A minute later Alyosha was sitting beside his brother. Ivan was alone dining.
Chapter III.
The Brothers Make Friends
Ivan was not, however, in a separate room, but only in a place shut off by a screen, so that it was unseen by other people in the room. It was the first room from t he entrance with a buffet along the wall. Waiters were continually darting to and fro in it. The only customer in the room was an old retired military man drinkin g tea in a corner. But there was the usual bustle going on in the other rooms of the tavern; there were shouts for the waiters, the sound of popping corks, the clic k of billiard balls, the drone of the organ. Alyosha knew that Ivan did not usually visit this tavern and disliked taverns in general. So he must have come here, he reflected, simply to meet Dmitri by arrangement. Yet Dmitri was not there.
“Shall I order you fish, soup or anything. You don’t live on tea alone, I suppose,” cried Ivan, apparently delighted at having got hold of Alyosha. He had finishe d dinner and was drinking tea.
“Let me have soup, and tea afterwards, I am hungry,” said Alyosha gayly.
“And cherry jam? They have it here. You remember how you used to love cherry jam when you were little?”
“You remember that? Let me have jam too, I like it still.”
Ivan rang for the waiter and ordered soup, jam and tea.
“I remember everything, Alyosha, I remember you till you were eleven, I was nearly fifteen. There’s such a difference between fifteen and eleven that brothers a re never companions at those ages. I don’t know whether I was fond of you even. When I went away to Moscow for the first few years I never thought of you at all. Then, when you came to Moscow yourself, we only met once somewhere, I believe. And now I’ve been here more than three months, and so far we have sca
rcely said a word to each other. Tomorrow I am going away, and I was just thinking as I sat here how I could see you to say goodby and just then you passed.”
“Were you very anxious to see me, then?”
“Very. I want to get to know you once for all, and I want you to know me. And then to say goodby. I believe it’s always best to get to know people just before le aving them. I’ve noticed how you’ve been looking at me these three months. There has been a continual look of expectation in your eyes, and I can’t endure that
. That’s how it is I’ve kept away from you. But in the end I have learned to respect you. The little man stands firm, I thought. Though I am laughing, I am seriou s. You do stand firm, don’t you? I like people who are firm like that whatever it is they stand by, even if they are such little fellows as you. Your expectant eyes ceased to annoy me, I grew fond of them in the end, those expectant eyes. You seem to love me for some reason, Alyosha?”
“I do love you, Ivan. Dmitri says of you—Ivan is a tomb! I say of you, Ivan is a riddle. You are a riddle to me even now. But I understand something in you, an d I did not understand it till this morning.”
“What’s that?” laughed Ivan.
“You won’t be angry?” Alyosha laughed too.
“Well?”
“That you are just as young as other young men of three and twenty, that you are just a young and fresh and nice boy, green in fact! Now, have I insulted you dr eadfully?”
“On the contrary, I am struck by a coincidence,” cried Ivan, warmly and goodhumoredly. “Would you believe it that ever since that scene with her, I have thoug ht of nothing else but my youthful greenness, and just as though you guessed that, you begin about it. Do you know I’ve been sitting here thinking to myself: tha t if I didn’t believe in life, if I lost faith in the woman I love, lost faith in the order of things, were convinced in fact that everything is a disorderly, damnable, an d perhaps devilridden chaos, if I were struck by every horror of man’s disillusionment—still I should want to live and, having once tasted of the cup, I would no t turn away from it till I had drained it! At thirty, though, I shall be sure to leave the cup, even if I’ve not emptied it, and turn away—where I don’t know. But till I am thirty, I know that my youth will triumph over everything—every disillusionment, every disgust with life. I’ve asked myself many times whether there is i n the world any despair that would overcome this frantic and perhaps unseemly thirst for life in me, and I’ve come to the conclusion that there isn’t, that is till I am thirty, and then I shall lose it of myself, I fancy. Some driveling consumptive moralists—and poets especially—often call that thirst for life base. It’s a featur e of the Karamazovs, it’s true, that thirst for life regardless of everything; you have it no doubt too, but why is it base? The centripetal force on our planet is still fearfully strong, Alyosha. I have a longing for life, and I go on living in spite of logic. Though I may not believe in the order of the universe, yet I love the stick y little leaves as they open in spring. I love the blue sky, I love some people, whom one loves you know sometimes without knowing why. I love some great dee ds done by men, though I’ve long ceased perhaps to have faith in them, yet from old habit one’s heart prizes them. Here they have brought the soup for you, eat it, it will do you good. It’s firstrate soup, they know how to make it here. I want to travel in Europe, Alyosha, I shall set off from here. And yet I know that I am only going to a graveyard, but it’s a most precious graveyard, that’s what it is! Precious are the dead that lie there, every stone over them speaks of such burning life in the past, of such passionate faith in their work, their truth, their struggle and their science, that I know I shall fall on the ground and kiss those stones and weep over them; though I’m convinced in my heart that it’s long been nothing but a graveyard. And I shall not weep from despair, but simply because I shall be happy in my tears, I shall steep my soul in my emotion. I love the sticky leaves in spring, the blue sky—that’s all it is. It’s not a matter of intellect or logic, it’s l oving with one’s inside, with one’s stomach. One loves the first strength of one’s youth. Do you understand anything of my tirade, Alyosha?” Ivan laughed sudd enly.
“I understand too well, Ivan. One longs to love with one’s inside, with one’s stomach. You said that so well and I am awfully glad that you have such a longing for life,” cried Alyosha. “I think every one should love life above everything in the world.”
“Love life more than the meaning of it?”
“Certainly, love it, regardless of logic as you say, it must be regardless of logic, and it’s only then one will understand the meaning of it. I have thought so a lon g time. Half your work is done, Ivan, you love life, now you’ve only to try to do the second half and you are saved.”
“You are trying to save me, but perhaps I am not lost! And what does your second half mean?”
“Why, one has to raise up your dead, who perhaps have not died after all. Come, let me have tea. I am so glad of our talk, Ivan.”
“I see you are feeling inspired. I am awfully fond of such professions de foi from such—novices. You are a steadfast person, Alexey. Is it true that you mean to l eave the monastery?”
“Yes, my elder sends me out into the world.”
“We shall see each other then in the world. We shall meet before I am thirty, when I shall begin to turn aside from the cup. Father doesn’t want to turn aside fro m his cup till he is seventy, he dreams of hanging on to eighty in fact, so he says. He means it only too seriously, though he is a buffoon. He stands on a firm roc k, too, he stands on his sensuality—though after we are thirty, indeed, there may be nothing else to stand on…. But to hang on to seventy is nasty, better only to thirty; one might retain ‘a shadow of nobility’ by deceiving oneself. Have you seen Dmitri today?”
“No, but I saw Smerdyakov,” and Alyosha rapidly, though minutely, described his meeting with Smerdyakov. Ivan began listening anxiously and questioned hi
m.
“But he begged me not to tell Dmitri that he had told me about him,” added Alyosha. Ivan frowned and pondered.
“Are you frowning on Smerdyakov’s account?” asked Alyosha.
“Yes, on his account. Damn him, I certainly did want to see Dmitri, but now there’s no need,” said Ivan reluctantly.
“But are you really going so soon, brother?”
“Yes.”
“What of Dmitri and father? how will it end?” asked Alyosha anxiously.
“You are always harping upon it! What have I to do with it? Am I my brother Dmitri’s keeper?” Ivan snapped irritably, but then he suddenly smiled bitterly. “C
ain’s answer about his murdered brother, wasn’t it? Perhaps that’s what you’re thinking at this moment? Well, damn it all, I can’t stay here to be their keeper, ca n I? I’ve finished what I had to do, and I am going. Do you imagine I am jealous of Dmitri, that I’ve been trying to steal his beautiful Katerina Ivanovna for the l ast three months? Nonsense, I had business of my own. I finished it. I am going. I finished it just now, you were witness.”
“At Katerina Ivanovna’s?”
“Yes, and I’ve released myself once for all. And after all, what have I to do with Dmitri? Dmitri doesn’t come in. I had my own business to settle with Katerina Ivanovna. You know, on the contrary, that Dmitri behaved as though there was an understanding between us. I didn’t ask him to do it, but he solemnly handed h er over to me and gave us his blessing. It’s all too funny. Ah, Alyosha, if you only knew how light my heart is now! Would you believe, it, I sat here eating my dinner and was nearly ordering champagne to celebrate my first hour of freedom. Tfoo! It’s been going on nearly six months, and all at once I’ve thrown it off. I could never have guessed even yesterday, how easy it would be to put an end to it if I wanted.”
“You are speaking of your love, Ivan?”
“Of my love, if you like. I fell in love with the young lady, I worried myself over her and she worried me. I sat watching over her … and all at once it’s collapse d! I spoke this morning with inspiration, but I went away and roared with laughter. Would you believe it? Yes, it’s the literal truth.”
“You seem very merry about it now,” observed Alyosha, looking into his face, which had suddenly grown brighter.
“But how could I tell that I didn’t care for her a bit! Ha ha! It appears after all I didn’t. And yet how she attracted me! How attractive she was just now when I m ade my speech! And do you know she attracts me awfully even now, yet how easy it is to leave her. Do you think I am boasting?”
“No, only perhaps it wasn’t love.”
“Alyosha,” laughed Ivan, “don’t make reflections about love, it’s unseemly for you. How you rushed into the discussion this morning! I’ve forgotten to kiss you for it…. But how she tormented me! It certainly was sitting by a ‘laceration.’ Ah, she knew how I loved her! She loved me and not Dmitri,” Ivan insisted gayly.
“Her feeling for Dmitri was simply a self laceration. All I told her just now was perfectly true, but the worst of it is, it may take her fifteen or twenty years to fin d out that she doesn’t care for Dmitri, and loves me whom she torments, and perhaps she may never find it out at all, in spite of her lesson today. Well, it’s bette r so; I can simply go away for good. By the way, how is she now? What happened after I departed?”
Alyosha told him she had been hysterical, and that she was now, he heard, unconscious and delirious.
“Isn’t Madame Hohlakov laying it on?”
“I think not.”
“I must find out. Nobody dies of hysterics, though. They don’t matter. God gave woman hysterics as a relief. I won’t go to her at all. Why push myself forward again?”
“But you told her that she had never cared for you.”
“I did that on purpose. Alyosha, shall I call for some champagne? Let us drink to my freedom. Ah, if only you knew how glad I am!”
“No, brother, we had better not drink,” said Alyosha suddenly. “Besides I feel somehow depressed.”
“Yes, you’ve been depressed a long time, I’ve noticed it.”
“Have you settled to go tomorrow morning, then?”
“Morning? I didn’t say I should go in the morning…. But perhaps it may be the morning. Would you believe it, I dined here today only to avoid dining with the
old man, I loathe him so. I should have left long ago, so far as he is concerned. But why are you so worried about my going away? We’ve plenty of time before I go, an eternity!”
“If you are going away tomorrow, what do you mean by an eternity?”
“But what does it matter to us?” laughed Ivan. “We’ve time enough for our talk, for what brought us here. Why do you look so surprised? Answer: why have we met here? To talk of my love for Katerina Ivanovna, of the old man and Dmitri? of foreign travel? of the fatal position of Russia? Of the Emperor Napoleon? Is that it?”
“No.”
“Then you know what for. It’s different for other people; but we in our green youth have to settle the eternal questions first of all. That’s what we care about. Yo ung Russia is talking about nothing but the eternal questions now. Just when the old folks are all taken up with practical questions. Why have you been looking at me in expectation for the last three months? To ask me, ‘What do you believe, or don’t you believe at all?’ That’s what your eyes have been meaning for thes e three months, haven’t they?”
“Perhaps so,” smiled Alyosha. “You are not laughing at me, now, Ivan?”
“Me laughing! I don’t want to wound my little brother who has been watching me with such expectation for three months. Alyosha, look straight at me! Of cour se I am just such a little boy as you are, only not a novice. And what have Russian boys been doing up till now, some of them, I mean? In this stinking tavern, fo r instance, here, they meet and sit down in a corner. They’ve never met in their lives before and, when they go out of the tavern, they won’t meet again for forty years. And what do they talk about in that momentary halt in the tavern? Of the eternal questions, of the existence of God and immortality. And those who do no t believe in God talk of socialism or anarchism, of the transformation of all humanity on a new pattern, so that it all comes to the same, they’re the same questio ns turned inside out. And masses, masses of the most original Russian boys do nothing but talk of the eternal questions! Isn’t it so?”
“Yes, for real Russians the questions of God’s existence and of immortality, or, as you say, the same questions turned inside out, come first and foremost, of cou rse, and so they should,” said Alyosha, still watching his brother with the same gentle and inquiring smile.
“Well, Alyosha, it’s sometimes very unwise to be a Russian at all, but anything stupider than the way Russian boys spend their time one can hardly imagine. But there’s one Russian boy called Alyosha I am awfully fond of.”
“How nicely you put that in!” Alyosha laughed suddenly.
“Well, tell me where to begin, give your orders. The existence of God, eh?”
“Begin where you like. You declared yesterday at father’s that there was no God.” Alyosha looked searchingly at his brother.
“I said that yesterday at dinner on purpose to tease you and I saw your eyes glow. But now I’ve no objection to discussing with you, and I say so very seriously.
I want to be friends with you, Alyosha, for I have no friends and want to try it. Well, only fancy, perhaps I too accept God,” laughed Ivan; “that’s a surprise for you, isn’t it?”
“Yes, of course, if you are not joking now.”
“Joking? I was told at the elder’s yesterday that I was joking. You know, dear boy, there was an old sinner in the eighteenth century who declared that, if there were no God, he would have to be invented. S’il n’existait pas Dieu, il faudrait l’inventer. And man has actually invented God. And what’s strange, what would be marvelous, is not that God should really exist; the marvel is that such an idea, the idea of the necessity of God, could enter the head of such a savage, vicious beast as man. So holy it is, so touching, so wise and so great a credit it does to man. As for me, I’ve long resolved not to think whether man created God or God man. And I won’t go through all the axioms laid down by Russian boys on that subject, all derived from European hypotheses; for what’s a hypothesis there, is a n axiom with the Russian boy, and not only with the boys but with their teachers too, for our Russian professors are often just the same boys themselves. And so I omit all the hypotheses. For what are we aiming at now? I am trying to explain as quickly as possible my essential nature, that is what manner of man I am, w hat I believe in, and for what I hope, that’s it, isn’t it? And therefore I tell you that I accept God simply. But you must note this: if God exists and if He really did create the world, then, as we all know, He created it according to the geometry of Euclid and the human mind with the conception of only three dimensions in s pace. Yet there have been and still are geometricians and philosophers, and even some of the most distinguished, who doubt whether the whole universe, or to s peak more widely the whole of being, was only created in Euclid’s geometry; they even dare to dream that two parallel lines, which according to Euclid can nev er meet on earth, may meet somewhere in infinity. I have come to the conclusion that, since I can’t understand even that, I can’t expect to understand about God.
I acknowledge humbly that I have no faculty for settling such questions, I have a Euclidian earthly mind, and how could I solve problems that are not of this wo rld? And I advise you never to think about it either, my dear Alyosha, especially about God, whether He exists or not. All such questions are utterly inappropriat e for a mind created with an idea of only three dimensions. And so I accept God and am glad to, and what’s more, I accept His wisdom, His purpose—which are utterly beyond our ken; I believe in the underlying order and the meaning of life; I believe in the eternal harmony in which they say we shall one day be blende d. I believe in the Word to Which the universe is striving, and Which Itself was ‘with God,’ and Which Itself is God and so on, and so on, to infinity. There are a ll sorts of phrases for it. I seem to be on the right path, don’t I? Yet would you believe it, in the final result I don’t accept this world of God’s, and, although I kn ow it exists, I don’t accept it at all. It’s not that I don’t accept God, you must understand, it’s the world created by Him I don’t and cannot accept. Let me make i t plain. I believe like a child that suffering will be healed and made up for, that all the humiliating absurdity of human contradictions will vanish like a pitiful mi rage, like the despicable fabrication of the impotent and infinitely small Euclidian mind of man, that in the world’s finale, at the moment of eternal harmony, so mething so precious will come to pass that it will suffice for all hearts, for the comforting of all resentments, for the atonement of all the crimes of humanity, of
all the blood they’ve shed; that it will make it not only possible to forgive but to justify all that has happened with men—but though all that may come to pass, I don’t accept it. I won’t accept it. Even if parallel lines do meet and I see it myself, I shall see it and say that they’ve met, but still I won’t accept it. That’s what’s at the root of me, Alyosha; that’s my creed. I am in earnest in what I say. I began our talk as stupidly as I could on purpose, but I’ve led up to my confession, fo r that’s all you want. You didn’t want to hear about God, but only to know what the brother you love lives by. And so I’ve told you.”
Ivan concluded his long tirade with marked and unexpected feeling.
“And why did you begin ‘as stupidly as you could’?” asked Alyosha, looking dreamily at him.
“To begin with, for the sake of being Russian. Russian conversations on such subjects are always carried on inconceivably stupidly. And secondly, the stupider one is, the closer one is to reality. The stupider one is, the clearer one is. Stupidity is brief and artless, while intelligence wriggles and hides itself. Intelligence is a knave, but stupidity is honest and straightforward. I’ve led the conversation to my despair, and the more stupidly I have presented it, the better for me.”
“You will explain why you don’t accept the world?” said Alyosha.
“To be sure I will, it’s not a secret, that’s what I’ve been leading up to. Dear little brother, I don’t want to corrupt you or to turn you from your stronghold, perha ps I want to be healed by you.” Ivan smiled suddenly quite like a little gentle child. Alyosha had never seen such a smile on his face before.
Chapter IV.
Rebellion
“I must make you one confession,” Ivan began. “I could never understand how one can love one’s neighbors. It’s just one’s neighbors, to my mind, that one can
’t love, though one might love those at a distance. I once read somewhere of John the Merciful, a saint, that when a hungry, frozen beggar came to him, he took him into his bed, held him in his arms, and began breathing into his mouth, which was putrid and loathsome from some awful disease. I am convinced that he di d that from ‘selflaceration,’ from the selflaceration of falsity, for the sake of the charity imposed by duty, as a penance laid on him. For any one to love a man, h e must be hidden, for as soon as he shows his face, love is gone.”
“Father Zossima has talked of that more than once,” observed Alyosha; “he, too, said that the face of a man often hinders many people not practiced in love, fro m loving him. But yet there’s a great deal of love in mankind, and almost Christlike love. I know that myself, Ivan.”
“Well, I know nothing of it so far, and can’t understand it, and the innumerable mass of mankind are with me there. The question is, whether that’s due to men’s bad qualities or whether it’s inherent in their nature. To my thinking, Christlike love for men is a miracle impossible on earth. He was God. But we are not gods
. Suppose I, for instance, suffer intensely. Another can never know how much I suffer, because he is another and not I. And what’s more, a man is rarely ready t o admit another’s suffering (as though it were a distinction). Why won’t he admit it, do you think? Because I smell unpleasant, because I have a stupid face, bec ause I once trod on his foot. Besides, there is suffering and suffering; degrading, humiliating suffering such as humbles me—hunger, for instance—my benefact or will perhaps allow me; but when you come to higher suffering—for an idea, for instance—he will very rarely admit that, perhaps because my face strikes him as not at all what he fancies a man should have who suffers for an idea. And so he deprives me instantly of his favor, and not at all from badness of heart. Begg ars, especially genteel beggars, ought never to show themselves, but to ask for charity through the newspapers. One can love one’s neighbors in the abstract, or e ven at a distance, but at close quarters it’s almost impossible. If it were as on the stage, in the ballet, where if beggars come in, they wear silken rags and tattered lace and beg for alms dancing gracefully, then one might like looking at them. But even then we should not love them. But enough of that. I simply wanted to s how you my point of view. I meant to speak of the suffering of mankind generally, but we had better confine ourselves to the sufferings of the children. That red uces the scope of my argument to a tenth of what it would be. Still we’d better keep to the children, though it does weaken my case. But, in the first place, childr en can be loved even at close quarters, even when they are dirty, even when they are ugly (I fancy, though, children never are ugly). The second reason why I w on’t speak of grownup people is that, besides being disgusting and unworthy of love, they have a compensation—they’ve eaten the apple and know good and ev il, and they have become ‘like gods.’ They go on eating it still. But the children haven’t eaten anything, and are so far innocent. Are you fond of children, Alyos ha? I know you are, and you will understand why I prefer to speak of them. If they, too, suffer horribly on earth, they must suffer for their fathers’ sins, they mus t be punished for their fathers, who have eaten the apple; but that reasoning is of the other world and is incomprehensible for the heart of man here on earth. The innocent must not suffer for another’s sins, and especially such innocents! You may be surprised at me, Alyosha, but I am awfully fond of children, too. And ob serve, cruel people, the violent, the rapacious, the Karamazovs are sometimes very fond of children. Children while they are quite little—up to seven, for instanc e—are so remote from grownup people; they are different creatures, as it were, of a different species. I knew a criminal in prison who had, in the course of his c areer as a burglar, murdered whole families, including several children. But when he was in prison, he had a strange affection for them. He spent all his time at h is window, watching the children playing in the prison yard. He trained one little boy to come up to his window and made great friends with him…. You don’t k now why I am telling you all this, Alyosha? My head aches and I am sad.”
“You speak with a strange air,” observed Alyosha uneasily, “as though you were not quite yourself.”
“By the way, a Bulgarian I met lately in Moscow,” Ivan went on, seeming not to hear his brother’s words, “told me about the crimes committed by Turks and Ci rcassians in all parts of Bulgaria through fear of a general rising of the Slavs. They burn villages, murder, outrage women and children, they nail their prisoners by the ears to the fences, leave them so till morning, and in the morning they hang them—all sorts of things you can’t imagine. People talk sometimes of bestial cruelty, but that’s a great injustice and insult to the beasts; a beast can never be so cruel as a man, so artistically cruel. The tiger only tears and gnaws, that’s all h e can do. He would never think of nailing people by the ears, even if he were able to do it. These Turks took a pleasure in torturing children, too; cutting the unb orn child from the mother’s womb, and tossing babies up in the air and catching them on the points of their bayonets before their mothers’ eyes. Doing it before the mothers’ eyes was what gave zest to the amusement. Here is another scene that I thought very interesting. Imagine a trembling mother with her baby in her a rms, a circle of invading Turks around her. They’ve planned a diversion: they pet the baby, laugh to make it laugh. They succeed, the baby laughs. At that mom ent a Turk points a pistol four inches from the baby’s face. The baby laughs with glee, holds out its little hands to the pistol, and he pulls the trigger in the baby’
s face and blows out its brains. Artistic, wasn’t it? By the way, Turks are particularly fond of sweet things, they say.”
“Brother, what are you driving at?” asked Alyosha.
“I think if the devil doesn’t exist, but man has created him, he has created him in his own image and likeness.”
“Just as he did God, then?” observed Alyosha.
“ ‘It’s wonderful how you can turn words,’ as Polonius says in Hamlet,” laughed Ivan. “You turn my words against me. Well, I am glad. Yours must be a fine G
od, if man created Him in his image and likeness. You asked just now what I was driving at. You see, I am fond of collecting certain facts, and, would you belie ve, I even copy anecdotes of a certain sort from newspapers and books, and I’ve already got a fine collection. The Turks, of course, have gone into it, but they ar e foreigners. I have specimens from home that are even better than the Turks. You know we prefer beating—rods and scourges—that’s our national institution.
Nailing ears is unthinkable for us, for we are, after all, Europeans. But the rod and the scourge we have always with us and they cannot be taken from us. Abroa d now they scarcely do any beating. Manners are more humane, or laws have been passed, so that they don’t dare to flog men now. But they make up for it in an other way just as national as ours. And so national that it would be practically impossible among us, though I believe we are being inoculated with it, since the r eligious movement began in our aristocracy. I have a charming pamphlet, translated from the French, describing how, quite recently, five years ago, a murderer, Richard, was executed—a young man, I believe, of three and twenty, who repented and was converted to the Christian faith at the very scaffold. This Richard w as an illegitimate child who was given as a child of six by his parents to some shepherds on the Swiss mountains. They brought him up to work for them. He gre w up like a little wild beast among them. The shepherds taught him nothing, and scarcely fed or clothed him, but sent him out at seven to herd the flock in cold a nd wet, and no one hesitated or scrupled to treat him so. Quite the contrary, they thought they had every right, for Richard had been given to them as a chattel, a nd they did not even see the necessity of feeding him. Richard himself describes how in those years, like the Prodigal Son in the Gospel, he longed to eat of the mash given to the pigs, which were fattened for sale. But they wouldn’t even give him that, and beat him when he stole from the pigs. And that was how he spen t all his childhood and his youth, till he grew up and was strong enough to go away and be a thief. The savage began to earn his living as a day laborer in Genev a. He drank what he earned, he lived like a brute, and finished by killing and robbing an old man. He was caught, tried, and condemned to death. They are not se ntimentalists there. And in prison he was immediately surrounded by pastors, members of Christian brotherhoods, philanthropic ladies, and the like. They taught him to read and write in prison, and expounded the Gospel to him. They exhorted him, worked upon him, drummed at him incessantly, till at last he solemnly c onfessed his crime. He was converted. He wrote to the court himself that he was a monster, but that in the end God had vouchsafed him light and shown grace.
All Geneva was in excitement about him—all philanthropic and religious Geneva. All the aristocratic and wellbred society of the town rushed to the prison, kiss ed Richard and embraced him; ‘You are our brother, you have found grace.’ And Richard does nothing but weep with emotion, ‘Yes, I’ve found grace! All my y outh and childhood I was glad of pigs’ food, but now even I have found grace. I am dying in the Lord.’ ‘Yes, Richard, die in the Lord; you have shed blood and must die. Though it’s not your fault that you knew not the Lord, when you coveted the pigs’ food and were beaten for stealing it (which was very wrong of you, for stealing is forbidden); but you’ve shed blood and you must die.’ And on the last day, Richard, perfectly limp, did nothing but cry and repeat every minute: ‘
This is my happiest day. I am going to the Lord.’ ‘Yes,’ cry the pastors and the judges and philanthropic ladies. ‘This is the happiest day of your life, for you are going to the Lord!’ They all walk or drive to the scaffold in procession behind the prison van. At the scaffold they call to Richard: ‘Die, brother, die in the Lord, for even thou hast found grace!’ And so, covered with his brothers’ kisses, Richard is dragged on to the scaffold, and led to the guillotine. And they chopped off his head in brotherly fashion, because he had found grace. Yes, that’s characteristic. That pamphlet is translated into Russian by some Russian philanthropists o f aristocratic rank and evangelical aspirations, and has been distributed gratis for the enlightenment of the people. The case of Richard is interesting because it’s national. Though to us it’s absurd to cut off a man’s head, because he has become our brother and has found grace, yet we have our own speciality, which is all but worse. Our historical pastime is the direct satisfaction of inflicting pain. There are lines in Nekrassov describing how a peasant lashes a horse on the eyes, ‘o n its meek eyes,’ every one must have seen it. It’s peculiarly Russian. He describes how a feeble little nag has foundered under too heavy a load and cannot mov e. The peasant beats it, beats it savagely, beats it at last not knowing what he is doing in the intoxication of cruelty, thrashes it mercilessly over and over again. ‘
However weak you are, you must pull, if you die for it.’ The nag strains, and then he begins lashing the poor defenseless creature on its weeping, on its ‘meek e yes.’ The frantic beast tugs and draws the load, trembling all over, gasping for breath, moving sideways, with a sort of unnatural spasmodic action—it’s awful in Nekrassov. But that’s only a horse, and God has given horses to be beaten. So the Tatars have taught us, and they left us the knout as a remembrance of it. But men, too, can be beaten. A welleducated, cultured gentleman and his wife beat their own child with a birchrod, a girl of seven. I have an exact account of it. The papa was glad that the birch was covered with twigs. ‘It stings more,’ said he, and so he began stinging his daughter. I know for a fact there are people who at ev ery blow are worked up to sensuality, to literal sensuality, which increases progressively at every blow they inflict. They beat for a minute, for five minutes, for ten minutes, more often and more savagely. The child screams. At last the child cannot scream, it gasps, ‘Daddy! daddy!’ By some diabolical unseemly chance t he case was brought into court. A counsel is engaged. The Russian people have long called a barrister ‘a conscience for hire.’ The counsel protests in his client’s defense. ‘It’s such a simple thing,’ he says, ‘an everyday domestic event. A father corrects his child. To our shame be it said, it is brought into court.’ The jury, convinced by him, give a favorable verdict. The public roars with delight that the torturer is acquitted. Ah, pity I wasn’t there! I would have proposed to raise a s ubscription in his honor! Charming pictures.
“But I’ve still better things about children. I’ve collected a great, great deal about Russian children, Alyosha. There was a little girl of five who was hated by her father and mother, ‘most worthy and respectable people, of good education and breeding.’ You see, I must repeat again, it is a peculiar characteristic of many p eople, this love of torturing children, and children only. To all other types of humanity these torturers behave mildly and benevolently, like cultivated and huma ne Europeans; but they are very fond of tormenting children, even fond of children themselves in that sense. It’s just their defenselessness that tempts the tormen tor, just the angelic confidence of the child who has no refuge and no appeal, that sets his vile blood on fire. In every man, of course, a demon lies hidden—the d emon of rage, the demon of lustful heat at the screams of the tortured victim, the demon of lawlessness let off the chain, the demon of diseases that follow on vic e, gout, kidney disease, and so on.
“This poor child of five was subjected to every possible torture by those cultivated parents. They beat her, thrashed her, kicked her for no reason till her body wa s one bruise. Then, they went to greater refinements of cruelty—shut her up all night in the cold and frost in a privy, and because she didn’t ask to be taken up at night (as though a child of five sleeping its angelic, sound sleep could be trained to wake and ask), they smeared her face and filled her mouth with excrement, and it was her mother, her mother did this. And that mother could sleep, hearing the poor child’s groans! Can you understand why a little creature, who can’t ev en understand what’s done to her, should beat her little aching heart with her tiny fist in the dark and the cold, and weep her meek unresentful tears to dear, kind
God to protect her? Do you understand that, friend and brother, you pious and humble novice? Do you understand why this infamy must be and is permitted? W
ithout it, I am told, man could not have existed on earth, for he could not have known good and evil. Why should he know that diabolical good and evil when it costs so much? Why, the whole world of knowledge is not worth that child’s prayer to ‘dear, kind God’! I say nothing of the sufferings of grownup people, they have eaten the apple, damn them, and the devil take them all! But these little ones! I am making you suffer, Alyosha, you are not yourself. I’ll leave off if you li ke.”
“Never mind. I want to suffer too,” muttered Alyosha.
“One picture, only one more, because it’s so curious, so characteristic, and I have only just read it in some collection of Russian antiquities. I’ve forgotten the na me. I must look it up. It was in the darkest days of serfdom at the beginning of the century, and long live the Liberator of the People! There was in those days a general of aristocratic connections, the owner of great estates, one of those men—somewhat exceptional, I believe, even then—who, retiring from the service int o a life of leisure, are convinced that they’ve earned absolute power over the lives of their subjects. There were such men then. So our general, settled on his pro perty of two thousand souls, lives in pomp, and domineers over his poor neighbors as though they were dependents and buffoons. He has kennels of hundreds of hounds and nearly a hundred dogboys—all mounted, and in uniform. One day a serfboy, a little child of eight, threw a stone in play and hurt the paw of the gen eral’s favorite hound. ‘Why is my favorite dog lame?’ He is told that the boy threw a stone that hurt the dog’s paw. ‘So you did it.’ The general looked the child up and down. ‘Take him.’ He was taken—taken from his mother and kept shut up all night. Early that morning the general comes out on horseback, with the ho unds, his dependents, dogboys, and huntsmen, all mounted around him in full hunting parade. The servants are summoned for their edification, and in front of th em all stands the mother of the child. The child is brought from the lockup. It’s a gloomy, cold, foggy autumn day, a capital day for hunting. The general orders the child to be undressed; the child is stripped naked. He shivers, numb with terror, not daring to cry…. ‘Make him run,’ commands the general. ‘Run! run!’ sho ut the dogboys. The boy runs…. ‘At him!’ yells the general, and he sets the whole pack of hounds on the child. The hounds catch him, and tear him to pieces bef ore his mother’s eyes!… I believe the general was afterwards declared incapable of administering his estates. Well—what did he deserve? To be shot? To be sho t for the satisfaction of our moral feelings? Speak, Alyosha!”
“To be shot,” murmured Alyosha, lifting his eyes to Ivan with a pale, twisted smile.
“Bravo!” cried Ivan, delighted. “If even you say so…. You’re a pretty monk! So there is a little devil sitting in your heart, Alyosha Karamazov!”
“What I said was absurd, but—”
“That’s just the point, that ‘but’!” cried Ivan. “Let me tell you, novice, that the absurd is only too necessary on earth. The world stands on absurdities, and perha ps nothing would have come to pass in it without them. We know what we know!”
“What do you know?”
“I understand nothing,” Ivan went on, as though in delirium. “I don’t want to understand anything now. I want to stick to the fact. I made up my mind long ago not to understand. If I try to understand anything, I shall be false to the fact, and I have determined to stick to the fact.”
“Why are you trying me?” Alyosha cried, with sudden distress. “Will you say what you mean at last?”
“Of course, I will; that’s what I’ve been leading up to. You are dear to me, I don’t want to let you go, and I won’t give you up to your Zossima.”
Ivan for a minute was silent, his face became all at once very sad.
“Listen! I took the case of children only to make my case clearer. Of the other tears of humanity with which the earth is soaked from its crust to its center, I will say nothing. I have narrowed my subject on purpose. I am a bug, and I recognize in all humility that I cannot understand why the world is arranged as it is. Men are themselves to blame, I suppose; they were given paradise, they wanted freedom, and stole fire from heaven, though they knew they would become unhappy, so there is no need to pity them. With my pitiful, earthly, Euclidian understanding, all I know is that there is suffering and that there are none guilty; that cause f ollows effect, simply and directly; that everything flows and finds its level—but that’s only Euclidian nonsense, I know that, and I can’t consent to live by it! W
hat comfort is it to me that there are none guilty and that cause follows effect simply and directly, and that I know it?—I must have justice, or I will destroy mys elf. And not justice in some remote infinite time and space, but here on earth, and that I could see myself. I have believed in it. I want to see it, and if I am dead by then, let me rise again, for if it all happens without me, it will be too unfair. Surely I haven’t suffered, simply that I, my crimes and my sufferings, may manu re the soil of the future harmony for somebody else. I want to see with my own eyes the hind lie down with the lion and the victim rise up and embrace his murd erer. I want to be there when every one suddenly understands what it has all been for. All the religions of the world are built on this longing, and I am a believer.
But then there are the children, and what am I to do about them? That’s a question I can’t answer. For the hundredth time I repeat, there are numbers of questio ns, but I’ve only taken the children, because in their case what I mean is so unanswerably clear. Listen! If all must suffer to pay for the eternal harmony, what ha ve children to do with it, tell me, please? It’s beyond all comprehension why they should suffer, and why they should pay for the harmony. Why should they, to o, furnish material to enrich the soil for the harmony of the future? I understand solidarity in sin among men. I understand solidarity in retribution, too; but there can be no such solidarity with children. And if it is really true that they must share responsibility for all their fathers’ crimes, such a truth is not of this world and is beyond my comprehension. Some jester will say, perhaps, that the child would have grown up and have sinned, but you see he didn’t grow up, he was torn to pieces by the dogs, at eight years old. Oh, Alyosha, I am not blaspheming! I understand, of course, what an upheaval of the universe it will be, when everything in heaven and earth blends in one hymn of praise and everything that lives and has lived cries aloud: ‘Thou art just, O Lord, for Thy ways are revealed.’ When t he mother embraces the fiend who threw her child to the dogs, and all three cry aloud with tears, ‘Thou art just, O Lord!’ then, of course, the crown of knowledg e will be reached and all will be made clear. But what pulls me up here is that I can’t accept that harmony. And while I am on earth, I make haste to take my ow n measures. You see, Alyosha, perhaps it really may happen that if I live to that moment, or rise again to see it, I, too, perhaps, may cry aloud with the rest, looki ng at the mother embracing the child’s torturer, ‘Thou art just, O Lord!’ but I don’t want to cry aloud then. While there is still time, I hasten to protect myself, a
nd so I renounce the higher harmony altogether. It’s not worth the tears of that one tortured child who beat itself on the breast with its little fist and prayed in its stinking outhouse, with its unexpiated tears to ‘dear, kind God’! It’s not worth it, because those tears are unatoned for. They must be atoned for, or there can be no harmony. But how? How are you going to atone for them? Is it possible? By their being avenged? But what do I care for avenging them? What do I care for a hell for oppressors? What good can hell do, since those children have already been tortured? And what becomes of harmony, if there is hell? I want to forgive. I want to embrace. I don’t want more suffering. And if the sufferings of children go to swell the sum of sufferings which was necessary to pay for truth, then I pr otest that the truth is not worth such a price. I don’t want the mother to embrace the oppressor who threw her son to the dogs! She dare not forgive him! Let her forgive him for herself, if she will, let her forgive the torturer for the immeasurable suffering of her mother’s heart. But the sufferings of her tortured child she h as no right to forgive; she dare not forgive the torturer, even if the child were to forgive him! And if that is so, if they dare not forgive, what becomes of harmon y? Is there in the whole world a being who would have the right to forgive and could forgive? I don’t want harmony. From love for humanity I don’t want it. I w ould rather be left with the unavenged suffering. I would rather remain with my unavenged suffering and unsatisfied indignation, even if I were wrong. Besides, too high a price is asked for harmony; it’s beyond our means to pay so much to enter on it. And so I hasten to give back my entrance ticket, and if I am an hones t man I am bound to give it back as soon as possible. And that I am doing. It’s not God that I don’t accept, Alyosha, only I most respectfully return Him the tick et.”
“That’s rebellion,” murmured Alyosha, looking down.
“Rebellion? I am sorry you call it that,” said Ivan earnestly. “One can hardly live in rebellion, and I want to live. Tell me yourself, I challenge you—answer. Im agine that you are creating a fabric of human destiny with the object of making men happy in the end, giving them peace and rest at last, but that it was essential and inevitable to torture to death only one tiny creature—that baby beating its breast with its fist, for instance—and to found that edifice on its unavenged tears, would you consent to be the architect on those conditions? Tell me, and tell the truth.”
“No, I wouldn’t consent,” said Alyosha softly.
“And can you admit the idea that men for whom you are building it would agree to accept their happiness on the foundation of the unexpiated blood of a little vi ctim? And accepting it would remain happy for ever?”
“No, I can’t admit it. Brother,” said Alyosha suddenly, with flashing eyes, “you said just now, is there a being in the whole world who would have the right to fo rgive and could forgive? But there is a Being and He can forgive everything, all and for all, because He gave His innocent blood for all and everything. You hav e forgotten Him, and on Him is built the edifice, and it is to Him they cry aloud, ‘Thou art just, O Lord, for Thy ways are revealed!’ ”
“Ah! the One without sin and His blood! No, I have not forgotten Him; on the contrary I’ve been wondering all the time how it was you did not bring Him in be fore, for usually all arguments on your side put Him in the foreground. Do you know, Alyosha—don’t laugh! I made a poem about a year ago. If you can waste another ten minutes on me, I’ll tell it to you.”
“You wrote a poem?”
“Oh, no, I didn’t write it,” laughed Ivan, “and I’ve never written two lines of poetry in my life. But I made up this poem in prose and I remembered it. I was carr ied away when I made it up. You will be my first reader—that is listener. Why should an author forego even one listener?” smiled Ivan. “Shall I tell it to you?”
“I am all attention,” said Alyosha.
“My poem is called ‘The Grand Inquisitor’; it’s a ridiculous thing, but I want to tell it to you.”
Chapter V.
The Grand Inquisitor
“Even this must have a preface—that is, a literary preface,” laughed Ivan, “and I am a poor hand at making one. You see, my action takes place in the sixteenth century, and at that time, as you probably learnt at school, it was customary in poetry to bring down heavenly powers on earth. Not to speak of Dante, in France, clerks, as well as the monks in the monasteries, used to give regular performances in which the Madonna, the saints, the angels, Christ, and God himself were b rought on the stage. In those days it was done in all simplicity. In Victor Hugo’s Notre Dame de Paris an edifying and gratuitous spectacle was provided for the people in the Hôtel de Ville of Paris in the reign of Louis XI. in honor of the birth of the dauphin. It was called Le bon jugement de la très sainte et gracieuse Vi erge Marie, and she appears herself on the stage and pronounces her bon jugement. Similar plays, chiefly from the Old Testament, were occasionally performed in Moscow too, up to the times of Peter the Great. But besides plays there were all sorts of legends and ballads scattered about the world, in which the saints and angels and all the powers of Heaven took part when required. In our monasteries the monks busied themselves in translating, copying, and even composing suc h poems—and even under the Tatars. There is, for instance, one such poem (of course, from the Greek), The Wanderings of Our Lady through Hell, with descri ptions as bold as Dante’s. Our Lady visits hell, and the Archangel Michael leads her through the torments. She sees the sinners and their punishment. There she sees among others one noteworthy set of sinners in a burning lake; some of them sink to the bottom of the lake so that they can’t swim out, and ‘these God forge ts’—an expression of extraordinary depth and force. And so Our Lady, shocked and weeping, falls before the throne of God and begs for mercy for all in hell—f or all she has seen there, indiscriminately. Her conversation with God is immensely interesting. She beseeches Him, she will not desist, and when God points to the hands and feet of her Son, nailed to the Cross, and asks, ‘How can I forgive His tormentors?’ she bids all the saints, all the martyrs, all the angels and archan gels to fall down with her and pray for mercy on all without distinction. It ends by her winning from God a respite of suffering every year from Good Friday till Trinity Day, and the sinners at once raise a cry of thankfulness from hell, chanting, ‘Thou art just, O Lord, in this judgment.’ Well, my poem would have been o f that kind if it had appeared at that time. He comes on the scene in my poem, but He says nothing, only appears and passes on. Fifteen centuries have passed sin ce He promised to come in His glory, fifteen centuries since His prophet wrote, ‘Behold, I come quickly’; ‘Of that day and that hour knoweth no man, neither th e Son, but the Father,’ as He Himself predicted on earth. But humanity awaits him with the same faith and with the same love. Oh, with greater faith, for it is fift een centuries since man has ceased to see signs from heaven.
No signs from heaven come today
To add to what the heart doth say.
There was nothing left but faith in what the heart doth say. It is true there were many miracles in those days. There were saints who performed miraculous cures; some holy people, according to their biographies, were visited by the Queen of Heaven herself. But the devil did not slumber, and doubts were already arising a mong men of the truth of these miracles. And just then there appeared in the north of Germany a terrible new heresy. “A huge star like to a torch” (that is, to a c hurch) “fell on the sources of the waters and they became bitter.” These heretics began blasphemously denying miracles. But those who remained faithful were a ll the more ardent in their faith. The tears of humanity rose up to Him as before, awaited His coming, loved Him, hoped for Him, yearned to suffer and die for H
im as before. And so many ages mankind had prayed with faith and fervor, “O Lord our God, hasten Thy coming,” so many ages called upon Him, that in His in finite mercy He deigned to come down to His servants. Before that day He had come down, He had visited some holy men, martyrs and hermits, as is written in their lives. Among us, Tyutchev, with absolute faith in the truth of his words, bore witness that Bearing the Cross, in slavish dress,
Weary and worn, the Heavenly King
Our mother, Russia, came to bless,
And through our land went wandering.
And that certainly was so, I assure you.
“And behold, He deigned to appear for a moment to the people, to the tortured, suffering people, sunk in iniquity, but loving Him like children. My story is laid in Spain, in Seville, in the most terrible time of the Inquisition, when fires were lighted every day to the glory of God, and ‘in the splendid auto da fé the wicked heretics were burnt.’ Oh, of course, this was not the coming in which He will appear according to His promise at the end of time in all His heavenly glory, and which will be sudden ‘as lightning flashing from east to west.’ No, He visited His children only for a moment, and there where the flames were crackling round the heretics. In His infinite mercy He came once more among men in that human shape in which He walked among men for three years fifteen centuries ago. He came down to the ‘hot pavements’ of the southern town in which on the day before almost a hundred heretics had, ad majorem gloriam Dei, been burnt by the c ardinal, the Grand Inquisitor, in a magnificent auto da fé, in the presence of the king, the court, the knights, the cardinals, the most charming ladies of the court, and the whole population of Seville.
“He came softly, unobserved, and yet, strange to say, every one recognized Him. That might be one of the best passages in the poem. I mean, why they recogniz ed Him. The people are irresistibly drawn to Him, they surround Him, they flock about Him, follow Him. He moves silently in their midst with a gentle smile of infinite compassion. The sun of love burns in His heart, light and power shine from His eyes, and their radiance, shed on the people, stirs their hearts with respo nsive love. He holds out His hands to them, blesses them, and a healing virtue comes from contact with Him, even with His garments. An old man in the crowd, blind from childhood, cries out, ‘O Lord, heal me and I shall see Thee!’ and, as it were, scales fall from his eyes and the blind man sees Him. The crowd weeps and kisses the earth under His feet. Children throw flowers before Him, sing, and cry hosannah. ‘It is He—it is He!’ all repeat. ‘It must be He, it can be no one b ut Him!’ He stops at the steps of the Seville cathedral at the moment when the weeping mourners are bringing in a little open white coffin. In it lies a child of se ven, the only daughter of a prominent citizen. The dead child lies hidden in flowers. ‘He will raise your child,’ the crowd shouts to the weeping mother. The prie st, coming to meet the coffin, looks perplexed, and frowns, but the mother of the dead child throws herself at His feet with a wail. ‘If it is Thou, raise my child!’
she cries, holding out her hands to Him. The procession halts, the coffin is laid on the steps at His feet. He looks with compassion, and His lips once more softly pronounce, ‘Maiden, arise!’ and the maiden arises. The little girl sits up in the coffin and looks round, smiling with wide open wondering eyes, holding a bunch of white roses they had put in her hand.
“There are cries, sobs, confusion among the people, and at that moment the cardinal himself, the Grand Inquisitor, passes by the cathedral. He is an old man, al most ninety, tall and erect, with a withered face and sunken eyes, in which there is still a gleam of light. He is not dressed in his gorgeous cardinal’s robes, as he was the day before, when he was burning the enemies of the Roman Church—at this moment he is wearing his coarse, old, monk’s cassock. At a distance behin d him come his gloomy assistants and slaves and the ‘holy guard.’ He stops at the sight of the crowd and watches it from a distance. He sees everything; he sees them set the coffin down at His feet, sees the child rise up, and his face darkens. He knits his thick gray brows and his eyes gleam with a sinister fire. He holds o ut his finger and bids the guards take Him. And such is his power, so completely are the people cowed into submission and trembling obedience to him, that the crowd immediately makes way for the guards, and in the midst of deathlike silence they lay hands on Him and lead Him away. The crowd instantly bows down to the earth, like one man, before the old Inquisitor. He blesses the people in silence and passes on. The guards lead their prisoner to the close, gloomy vaulted p rison in the ancient palace of the Holy Inquisition and shut Him in it. The day passes and is followed by the dark, burning, ‘breathless’ night of Seville. The air i s ‘fragrant with laurel and lemon.’ In the pitch darkness the iron door of the prison is suddenly opened and the Grand Inquisitor himself comes in with a light in his hand. He is alone; the door is closed at once behind him. He stands in the doorway and for a minute or two gazes into His face. At last he goes up slowly, set s the light on the table and speaks.
“ ‘Is it Thou? Thou?’ but receiving no answer, he adds at once, ‘Don’t answer, be silent. What canst Thou say, indeed? I know too well what Thou wouldst say.
And Thou hast no right to add anything to what Thou hadst said of old. Why, then, art Thou come to hinder us? For Thou hast come to hinder us, and Thou kno west that. But dost Thou know what will be to morrow? I know not who Thou art and care not to know whether it is Thou or only a semblance of Him, but tomo rrow I shall condemn Thee and burn Thee at the stake as the worst of heretics. And the very people who have today kissed Thy feet, tomorrow at the faintest sig n from me will rush to heap up the embers of Thy fire. Knowest Thou that? Yes, maybe Thou knowest it,’ he added with thoughtful penetration, never for a mo ment taking his eyes off the Prisoner.”
“I don’t quite understand, Ivan. What does it mean?” Alyosha, who had been listening in silence, said with a smile. “Is it simply a wild fantasy, or a mistake on t he part of the old man—some impossible quiproquo?”
“Take it as the last,” said Ivan, laughing, “if you are so corrupted by modern realism and can’t stand anything fantastic. If you like it to be a case of mistaken ide ntity, let it be so. It is true,” he went on, laughing, “the old man was ninety, and he might well be crazy over his set idea. He might have been struck by the appe arance of the Prisoner. It might, in fact, be simply his ravings, the delusion of an old man of ninety, overexcited by the auto da fé of a hundred heretics the day b efore. But does it matter to us after all whether it was a mistake of identity or a wild fantasy? All that matters is that the old man should speak out, should speak openly of what he has thought in silence for ninety years.”
“And the Prisoner too is silent? Does He look at him and not say a word?”
“That’s inevitable in any case,” Ivan laughed again. “The old man has told Him He hasn’t the right to add anything to what He has said of old. One may say it is the most fundamental feature of Roman Catholicism, in my opinion at least. ‘All has been given by Thee to the Pope,’ they say, ‘and all, therefore, is still in the Pope’s hands, and there is no need for Thee to come now at all. Thou must not meddle for the time, at least.’ That’s how they speak and write too—the Jesuits, at any rate. I have read it myself in the works of their theologians. ‘Hast Thou the right to reveal to us one of the mysteries of that world from which Thou hast c ome?’ my old man asks Him, and answers the question for Him. ‘No, Thou hast not; that Thou mayest not add to what has been said of old, and mayest not take from men the freedom which Thou didst exalt when Thou wast on earth. Whatsoever Thou revealest anew will encroach on men’s freedom of faith; for it will b e manifest as a miracle, and the freedom of their faith was dearer to Thee than anything in those days fifteen hundred years ago. Didst Thou not often say then, “
I will make you free”? But now Thou hast seen these “free” men,’ the old man adds suddenly, with a pensive smile. ‘Yes, we’ve paid dearly for it,’ he goes on, l ooking sternly at Him, ‘but at last we have completed that work in Thy name. For fifteen centuries we have been wrestling with Thy freedom, but now it is ende d and over for good. Dost Thou not believe that it’s over for good? Thou lookest meekly at me and deignest not even to be wroth with me. But let me tell Thee t hat now, today, people are more persuaded than ever that they have perfect freedom, yet they have brought their freedom to us and laid it humbly at our feet. Bu t that has been our doing. Was this what Thou didst? Was this Thy freedom?’ ”
“I don’t understand again,” Alyosha broke in. “Is he ironical, is he jesting?”
“Not a bit of it! He claims it as a merit for himself and his Church that at last they have vanquished freedom and have done so to make men happy. ‘For now’ (h e is speaking of the Inquisition, of course) ‘for the first time it has become possible to think of the happiness of men. Man was created a rebel; and how can rebe ls be happy? Thou wast warned,’ he says to Him. ‘Thou hast had no lack of admonitions and warnings, but Thou didst not listen to those warnings; Thou didst r eject the only way by which men might be made happy. But, fortunately, departing Thou didst hand on the work to us. Thou hast promised, Thou hast establishe d by Thy word, Thou hast given to us the right to bind and to unbind, and now, of course, Thou canst not think of taking it away. Why, then, hast Thou come to hinder us?’ ”
“And what’s the meaning of ‘no lack of admonitions and warnings’?” asked Alyosha.
“Why, that’s the chief part of what the old man must say.
“ ‘The wise and dread spirit, the spirit of selfdestruction and non existence,’ the old man goes on, ‘the great spirit talked with Thee in the wilderness, and we are told in the books that he “tempted” Thee. Is that so? And could anything truer be said than what he revealed to Thee in three questions and what Thou didst reje ct, and what in the books is called “the temptation”? And yet if there has ever been on earth a real stupendous miracle, it took place on that day, on the day of th e three temptations. The statement of those three questions was itself the miracle. If it were possible to imagine simply for the sake of argument that those three questions of the dread spirit had perished utterly from the books, and that we had to restore them and to invent them anew, and to do so had gathered together all the wise men of the earth—rulers, chief priests, learned men, philosophers, poets—and had set them the task to invent three questions, such as would not only fi t the occasion, but express in three words, three human phrases, the whole future history of the world and of humanity—dost Thou believe that all the wisdom o f the earth united could have invented anything in depth and force equal to the three questions which were actually put to Thee then by the wise and mighty spiri t in the wilderness? From those questions alone, from the miracle of their statement, we can see that we have here to do not with the fleeting human intelligence, but with the absolute and eternal. For in those three questions the whole subsequent history of mankind is, as it were, brought together into one whole, and foret old, and in them are united all the unsolved historical contradictions of human nature. At the time it could not be so clear, since the future was unknown; but no w that fifteen hundred years have passed, we see that everything in those three questions was so justly divined and foretold, and has been so truly fulfilled, that n othing can be added to them or taken from them.
“ ‘Judge Thyself who was right—Thou or he who questioned Thee then? Remember the first question; its meaning, in other words, was this: “Thou wouldst go i nto the world, and art going with empty hands, with some promise of freedom which men in their simplicity and their natural unruliness cannot even understand
, which they fear and dread—for nothing has ever been more insupportable for a man and a human society than freedom. But seest Thou these stones in this par ched and barren wilderness? Turn them into bread, and mankind will run after Thee like a flock of sheep, grateful and obedient, though for ever trembling, lest Thou withdraw Thy hand and deny them Thy bread.” But Thou wouldst not deprive man of freedom and didst reject the offer, thinking, what is that freedom wo rth, if obedience is bought with bread? Thou didst reply that man lives not by bread alone. But dost Thou know that for the sake of that earthly bread the spirit of the earth will rise up against Thee and will strive with Thee and overcome Thee, and all will follow him, crying, “Who can compare with this beast? He has giv en us fire from heaven!” Dost Thou know that the ages will pass, and humanity will proclaim by the lips of their sages that there is no crime, and therefore no si n; there is only hunger? “Feed men, and then ask of them virtue!” that’s what they’ll write on the banner, which they will raise against Thee, and with which the y will destroy Thy temple. Where Thy temple stood will rise a new building; the terrible tower of Babel will be built again, and though, like the one of old, it wil l not be finished, yet Thou mightest have prevented that new tower and have cut short the sufferings of men for a thousand years; for they will come back to us a fter a thousand years of agony with their tower. They will seek us again, hidden underground in the catacombs, for we shall be again persecuted and tortured. Th ey will find us and cry to us, “Feed us, for those who have promised us fire from heaven haven’t given it!” And then we shall finish building their tower, for he f inishes the building who feeds them. And we alone shall feed them in Thy name, declaring falsely that it is in Thy name. Oh, never, never can they feed themsel ves without us! No science will give them bread so long as they remain free. In the end they will lay their freedom at our feet, and say to us, “Make us your slav es, but feed us.” They will understand themselves, at last, that freedom and bread enough for all are inconceivable together, for never, never will they be able to share between them! They will be convinced, too, that they can never be free, for they are weak, vicious, worthless and rebellious. Thou didst promise them the
bread of Heaven, but, I repeat again, can it compare with earthly bread in the eyes of the weak, ever sinful and ignoble race of man? And if for the sake of the br ead of Heaven thousands shall follow Thee, what is to become of the millions and tens of thousands of millions of creatures who will not have the strength to fo rego the earthly bread for the sake of the heavenly? Or dost Thou care only for the tens of thousands of the great and strong, while the millions, numerous as the sands of the sea, who are weak but love Thee, must exist only for the sake of the great and strong? No, we care for the weak too. They are sinful and rebellious, but in the end they too will become obedient. They will marvel at us and look on us as gods, because we are ready to endure the freedom which they have found so dreadful and to rule over them—so awful it will seem to them to be free. But we shall tell them that we are Thy servants and rule them in Thy name. We shal l deceive them again, for we will not let Thee come to us again. That deception will be our suffering, for we shall be forced to lie.
“ ‘This is the significance of the first question in the wilderness, and this is what Thou hast rejected for the sake of that freedom which Thou hast exalted above everything. Yet in this question lies hid the great secret of this world. Choosing “bread,” Thou wouldst have satisfied the universal and everlasting craving of hu manity—to find some one to worship. So long as man remains free he strives for nothing so incessantly and so painfully as to find some one to worship. But ma n seeks to worship what is established beyond dispute, so that all men would agree at once to worship it. For these pitiful creatures are concerned not only to fin d what one or the other can worship, but to find something that all would believe in and worship; what is essential is that all may be together in it. This craving f or community of worship is the chief misery of every man individually and of all humanity from the beginning of time. For the sake of common worship they’v e slain each other with the sword. They have set up gods and challenged one another, “Put away your gods and come and worship ours, or we will kill you and y our gods!” And so it will be to the end of the world, even when gods disappear from the earth; they will fall down before idols just the same. Thou didst know, Thou couldst not but have known, this fundamental secret of human nature, but Thou didst reject the one infallible banner which was offered Thee to make all men bow down to Thee alone—the banner of earthly bread; and Thou hast rejected it for the sake of freedom and the bread of Heaven. Behold what Thou didst f urther. And all again in the name of freedom! I tell Thee that man is tormented by no greater anxiety than to find some one quickly to whom he can hand over th at gift of freedom with which the illfated creature is born. But only one who can appease their conscience can take over their freedom. In bread there was offere d Thee an invincible banner; give bread, and man will worship thee, for nothing is more certain than bread. But if some one else gains possession of his conscie nce—oh! then he will cast away Thy bread and follow after him who has ensnared his conscience. In that Thou wast right. For the secret of man’s being is not o nly to live but to have something to live for. Without a stable conception of the object of life, man would not consent to go on living, and would rather destroy h imself than remain on earth, though he had bread in abundance. That is true. But what happened? Instead of taking men’s freedom from them, Thou didst make i t greater than ever! Didst Thou forget that man prefers peace, and even death, to freedom of choice in the knowledge of good and evil? Nothing is more seductiv e for man than his freedom of conscience, but nothing is a greater cause of suffering. And behold, instead of giving a firm foundation for setting the conscience of man at rest for ever, Thou didst choose all that is exceptional, vague and enigmatic; Thou didst choose what was utterly beyond the strength of men, acting as though Thou didst not love them at all—Thou who didst come to give Thy life for them! Instead of taking possession of men’s freedom, Thou didst increase it, and burdened the spiritual kingdom of mankind with its sufferings for ever. Thou didst desire man’s free love, that he should follow Thee freely, enticed and tak en captive by Thee. In place of the rigid ancient law, man must hereafter with free heart decide for himself what is good and what is evil, having only Thy image before him as his guide. But didst Thou not know that he would at last reject even Thy image and Thy truth, if he is weighed down with the fearful burden of fr ee choice? They will cry aloud at last that the truth is not in Thee, for they could not have been left in greater confusion and suffering than Thou hast caused, lay ing upon them so many cares and unanswerable problems.
“ ‘So that, in truth, Thou didst Thyself lay the foundation for the destruction of Thy kingdom, and no one is more to blame for it. Yet what was offered Thee? T
here are three powers, three powers alone, able to conquer and to hold captive for ever the conscience of these impotent rebels for their happiness—those forces are miracle, mystery and authority. Thou hast rejected all three and hast set the example for doing so. When the wise and dread spirit set Thee on the pinnacle of the temple and said to Thee, “If Thou wouldst know whether Thou art the Son of God then cast Thyself down, for it is written: the angels shall hold him up lest he fall and bruise himself, and Thou shalt know then whether Thou art the Son of God and shalt prove then how great is Thy faith in Thy Father.” But Thou dids t refuse and wouldst not cast Thyself down. Oh, of course, Thou didst proudly and well, like God; but the weak, unruly race of men, are they gods? Oh, Thou di dst know then that in taking one step, in making one movement to cast Thyself down, Thou wouldst be tempting God and have lost all Thy faith in Him, and wo uldst have been dashed to pieces against that earth which Thou didst come to save. And the wise spirit that tempted Thee would have rejoiced. But I ask again, a re there many like Thee? And couldst Thou believe for one moment that men, too, could face such a temptation? Is the nature of men such, that they can reject miracle, and at the great moments of their life, the moments of their deepest, most agonizing spiritual difficulties, cling only to the free verdict of the heart? Oh, Thou didst know that Thy deed would be recorded in books, would be handed down to remote times and the utmost ends of the earth, and Thou didst hope that man, following Thee, would cling to God and not ask for a miracle. But Thou didst not know that when man rejects miracle he rejects God too; for man seeks n ot so much God as the miraculous. And as man cannot bear to be without the miraculous, he will create new miracles of his own for himself, and will worship d eeds of sorcery and witchcraft, though he might be a hundred times over a rebel, heretic and infidel. Thou didst not come down from the Cross when they shoute d to Thee, mocking and reviling Thee, “Come down from the cross and we will believe that Thou art He.” Thou didst not come down, for again Thou wouldst n ot enslave man by a miracle, and didst crave faith given freely, not based on miracle. Thou didst crave for free love and not the base raptures of the slave before the might that has overawed him for ever. But Thou didst think too highly of men therein, for they are slaves, of course, though rebellious by nature. Look round and judge; fifteen centuries have passed, look upon them. Whom hast Thou raised up to Thyself? I swear, man is weaker and baser by nature than Thou hast bel ieved him! Can he, can he do what Thou didst? By showing him so much respect, Thou didst, as it were, cease to feel for him, for Thou didst ask far too much fr om him—Thou who hast loved him more than Thyself! Respecting him less, Thou wouldst have asked less of him. That would have been more like love, for his burden would have been lighter. He is weak and vile. What though he is everywhere now rebelling against our power, and proud of his rebellion? It is the pride of a child and a schoolboy. They are little children rioting and barring out the teacher at school. But their childish delight will end; it will cost them dear. They w ill cast down temples and drench the earth with blood. But they will see at last, the foolish children, that, though they are rebels, they are impotent rebels, unable to keep up their own rebellion. Bathed in their foolish tears, they will recognize at last that He who created them rebels must have meant to mock at them. They will say this in despair, and their utterance will be a blasphemy which will make them more unhappy still, for man’s nature cannot bear blasphemy, and in the e nd always avenges it on itself. And so unrest, confusion and unhappiness—that is the present lot of man after Thou didst bear so much for their freedom! The gr eat prophet tells in vision and in image, that he saw all those who took part in the first resurrection and that there were of each tribe twelve thousand. But if there were so many of them, they must have been not men but gods. They had borne Thy cross, they had endured scores of years in the barren, hungry wilderness, liv ing upon locusts and roots—and Thou mayest indeed point with pride at those children of freedom, of free love, of free and splendid sacrifice for Thy name. But remember that they were only some thousands; and what of the rest? And how are the other weak ones to blame, because they could not endure what the strong have endured? How is the weak soul to blame that it is unable to receive such terrible gifts? Canst Thou have simply come to the elect and for the elect? But if s
o, it is a mystery and we cannot understand it. And if it is a mystery, we too have a right to preach a mystery, and to teach them that it’s not the free judgment of their hearts, not love that matters, but a mystery which they must follow blindly, even against their conscience. So we have done. We have corrected Thy work and have founded it upon miracle, mystery and authority. And men rejoiced that they were again led like sheep, and that the terrible gift that had brought them s uch suffering was, at last, lifted from their hearts. Were we right teaching them this? Speak! Did we not love mankind, so meekly acknowledging their feeblenes s, lovingly lightening their burden, and permitting their weak nature even sin with our sanction? Why hast Thou come now to hinder us? And why dost Thou loo k silently and searchingly at me with Thy mild eyes? Be angry. I don’t want Thy love, for I love Thee not. And what use is it for me to hide anything from Thee
? Don’t I know to Whom I am speaking? All that I can say is known to Thee already. And is it for me to conceal from Thee our mystery? Perhaps it is Thy will t o hear it from my lips. Listen, then. We are not working with Thee, but with him—that is our mystery. It’s long—eight centuries—since we have been on his sid e and not on Thine. Just eight centuries ago, we took from him what Thou didst reject with scorn, that last gift he offered Thee, showing Thee all the kingdoms of the earth. We took from him Rome and the sword of Cæsar, and proclaimed ourselves sole rulers of the earth, though hitherto we have not been able to compl ete our work. But whose fault is that? Oh, the work is only beginning, but it has begun. It has long to await completion and the earth has yet much to suffer, but we shall triumph and shall be Cæsars, and then we shall plan the universal happiness of man. But Thou mightest have taken even then the sword of Cæsar. Why didst Thou reject that last gift? Hadst Thou accepted that last counsel of the mighty spirit, Thou wouldst have accomplished all that man seeks on earth—that is, some one to worship, some one to keep his conscience, and some means of uniting all in one unanimous and harmonious antheap, for the craving for universal u nity is the third and last anguish of men. Mankind as a whole has always striven to organize a universal state. There have been many great nations with great hist ories, but the more highly they were developed the more unhappy they were, for they felt more acutely than other people the craving for worldwide union. The g reat conquerors, Timours and GhenghisKhans, whirled like hurricanes over the face of the earth striving to subdue its people, and they too were but the unconsci ous expression of the same craving for universal unity. Hadst Thou taken the world and Cæsar’s purple, Thou wouldst have founded the universal state and have given universal peace. For who can rule men if not he who holds their conscience and their bread in his hands? We have taken the sword of Cæsar, and in takin g it, of course, have rejected Thee and followed him. Oh, ages are yet to come of the confusion of free thought, of their science and cannibalism. For having beg un to build their tower of Babel without us, they will end, of course, with cannibalism. But then the beast will crawl to us and lick our feet and spatter them with tears of blood. And we shall sit upon the beast and raise the cup, and on it will be written, “Mystery.” But then, and only then, the reign of peace and happiness will come for men. Thou art proud of Thine elect, but Thou hast only the elect, while we give rest to all. And besides, how many of those elect, those mighty on es who could become elect, have grown weary waiting for Thee, and have transferred and will transfer the powers of their spirit and the warmth of their heart to the other camp, and end by raising their free banner against Thee. Thou didst Thyself lift up that banner. But with us all will be happy and will no more rebel no r destroy one another as under Thy freedom. Oh, we shall persuade them that they will only become free when they renounce their freedom to us and submit to us. And shall we be right or shall we be lying? They will be convinced that we are right, for they will remember the horrors of slavery and confusion to which T
hy freedom brought them. Freedom, free thought and science, will lead them into such straits and will bring them face to face with such marvels and insoluble mysteries, that some of them, the fierce and rebellious, will destroy themselves, others, rebellious but weak, will destroy one another, while the rest, weak and u nhappy, will crawl fawning to our feet and whine to us: “Yes, you were right, you alone possess His mystery, and we come back to you, save us from ourselves!

“ ‘Receiving bread from us, they will see clearly that we take the bread made by their hands from them, to give it to them, without any miracle. They will see th at we do not change the stones to bread, but in truth they will be more thankful for taking it from our hands than for the bread itself! For they will remember onl y too well that in old days, without our help, even the bread they made turned to stones in their hands, while since they have come back to us, the very stones ha ve turned to bread in their hands. Too, too well will they know the value of complete submission! And until men know that, they will be unhappy. Who is most t o blame for their not knowing it?—speak! Who scattered the flock and sent it astray on unknown paths? But the flock will come together again and will submit once more, and then it will be once for all. Then we shall give them the quiet humble happiness of weak creatures such as they are by nature. Oh, we shall persu ade them at last not to be proud, for Thou didst lift them up and thereby taught them to be proud. We shall show them that they are weak, that they are only pitif ul children, but that childlike happiness is the sweetest of all. They will become timid and will look to us and huddle close to us in fear, as chicks to the hen. The y will marvel at us and will be awestricken before us, and will be proud at our being so powerful and clever, that we have been able to subdue such a turbulent fl ock of thousands of millions. They will tremble impotently before our wrath, their minds will grow fearful, they will be quick to shed tears like women and chil dren, but they will be just as ready at a sign from us to pass to laughter and rejoicing, to happy mirth and childish song. Yes, we shall set them to work, but in th eir leisure hours we shall make their life like a child’s game, with children’s songs and innocent dance. Oh, we shall allow them even sin, they are weak and hel pless, and they will love us like children because we allow them to sin. We shall tell them that every sin will be expiated, if it is done with our permission, that we allow them to sin because we love them, and the punishment for these sins we take upon ourselves. And we shall take it upon ourselves, and they will adore us as their saviors who have taken on themselves their sins before God. And they will have no secrets from us. We shall allow or forbid them to live with their w ives and mistresses, to have or not to have children—according to whether they have been obedient or disobedient—and they will submit to us gladly and cheerf ully. The most painful secrets of their conscience, all, all they will bring to us, and we shall have an answer for all. And they will be glad to believe our answer, for it will save them from the great anxiety and terrible agony they endure at present in making a free decision for themselves. And all will be happy, all the mill ions of creatures except the hundred thousand who rule over them. For only we, we who guard the mystery, shall be unhappy. There will be thousands of millio ns of happy babes, and a hundred thousand sufferers who have taken upon themselves the curse of the knowledge of good and evil. Peacefully they will die, pea cefully they will expire in Thy name, and beyond the grave they will find nothing but death. But we shall keep the secret, and for their happiness we shall allure them with the reward of heaven and eternity. Though if there were anything in the other world, it certainly would not be for such as they. It is prophesied that Th ou wilt come again in victory, Thou wilt come with Thy chosen, the proud and strong, but we will say that they have only saved themselves, but we have saved all. We are told that the harlot who sits upon the beast, and holds in her hands the mystery, shall be put to shame, that the weak will rise up again, and will rend her royal purple and will strip naked her loathsome body. But then I will stand up and point out to Thee the thousand millions of happy children who have know n no sin. And we who have taken their sins upon us for their happiness will stand up before Thee and say: “Judge us if Thou canst and darest.” Know that I fear Thee not. Know that I too have been in the wilderness, I too have lived on roots and locusts, I too prized the freedom with which Thou hast blessed men, and I t oo was striving to stand among Thy elect, among the strong and powerful, thirsting “to make up the number.” But I awakened and would not serve madness. I tu rned back and joined the ranks of those who have corrected Thy work. I left the proud and went back to the humble, for the happiness of the humble. What I say to Thee will come to pass, and our dominion will be built up. I repeat, tomorrow Thou shalt see that obedient flock who at a sign from me will hasten to heap u p the hot cinders about the pile on which I shall burn Thee for coming to hinder us. For if any one has ever deserved our fires, it is Thou. Tomorrow I shall burn Thee. Dixi.’ ”
Ivan stopped. He was carried away as he talked, and spoke with excitement; when he had finished, he suddenly smiled.
Alyosha had listened in silence; towards the end he was greatly moved and seemed several times on the point of interrupting, but restrained himself. Now his w ords came with a rush.
“But … that’s absurd!” he cried, flushing. “Your poem is in praise of Jesus, not in blame of Him—as you meant it to be. And who will believe you about freedo m? Is that the way to understand it? That’s not the idea of it in the Orthodox Church…. That’s Rome, and not even the whole of Rome, it’s false—those are the worst of the Catholics, the Inquisitors, the Jesuits!… And there could not be such a fantastic creature as your Inquisitor. What are these sins of mankind they tak e on themselves? Who are these keepers of the mystery who have taken some curse upon themselves for the happiness of mankind? When have they been seen?
We know the Jesuits, they are spoken ill of, but surely they are not what you describe? They are not that at all, not at all…. They are simply the Romish army fo r the earthly sovereignty of the world in the future, with the Pontiff of Rome for Emperor … that’s their ideal, but there’s no sort of mystery or lofty melancholy about it…. It’s simple lust of power, of filthy earthly gain, of domination—something like a universal serfdom with them as masters—that’s all they stand for.
They don’t even believe in God perhaps. Your suffering Inquisitor is a mere fantasy.”
“Stay, stay,” laughed Ivan, “how hot you are! A fantasy you say, let it be so! Of course it’s a fantasy. But allow me to say: do you really think that the Roman C
atholic movement of the last centuries is actually nothing but the lust of power, of filthy earthly gain? Is that Father Païssy’s teaching?”
“No, no, on the contrary, Father Païssy did once say something rather the same as you … but of course it’s not the same, not a bit the same,” Alyosha hastily cor rected himself.
“A precious admission, in spite of your ‘not a bit the same.’ I ask you why your Jesuits and Inquisitors have united simply for vile material gain? Why can there not be among them one martyr oppressed by great sorrow and loving humanity? You see, only suppose that there was one such man among all those who desire nothing but filthy material gain—if there’s only one like my old Inquisitor, who had himself eaten roots in the desert and made frenzied efforts to subdue his fle sh to make himself free and perfect. But yet all his life he loved humanity, and suddenly his eyes were opened, and he saw that it is no great moral blessedness t o attain perfection and freedom, if at the same time one gains the conviction that millions of God’s creatures have been created as a mockery, that they will neve r be capable of using their freedom, that these poor rebels can never turn into giants to complete the tower, that it was not for such geese that the great idealist dr eamt his dream of harmony. Seeing all that he turned back and joined—the clever people. Surely that could have happened?”
“Joined whom, what clever people?” cried Alyosha, completely carried away. “They have no such great cleverness and no mysteries and secrets…. Perhaps not hing but Atheism, that’s all their secret. Your Inquisitor does not believe in God, that’s his secret!”
“What if it is so! At last you have guessed it. It’s perfectly true, it’s true that that’s the whole secret, but isn’t that suffering, at least for a man like that, who has wasted his whole life in the desert and yet could not shake off his incurable love of humanity? In his old age he reached the clear conviction that nothing but the advice of the great dread spirit could build up any tolerable sort of life for the feeble, unruly, ‘incomplete, empirical creatures created in jest.’ And so, convinced of this, he sees that he must follow the counsel of the wise spirit, the dread spirit of death and destruction, and therefore accept lying and deception, and lead me n consciously to death and destruction, and yet deceive them all the way so that they may not notice where they are being led, that the poor blind creatures may at least on the way think themselves happy. And note, the deception is in the name of Him in Whose ideal the old man had so fervently believed all his life long.
Is not that tragic? And if only one such stood at the head of the whole army ‘filled with the lust of power only for the sake of filthy gain’—would not one such be enough to make a tragedy? More than that, one such standing at the head is enough to create the actual leading idea of the Roman Church with all its armies a nd Jesuits, its highest idea. I tell you frankly that I firmly believe that there has always been such a man among those who stood at the head of the movement. W
ho knows, there may have been some such even among the Roman Popes. Who knows, perhaps the spirit of that accursed old man who loves mankind so obstin ately in his own way, is to be found even now in a whole multitude of such old men, existing not by chance but by agreement, as a secret league formed long ag o for the guarding of the mystery, to guard it from the weak and the unhappy, so as to make them happy. No doubt it is so, and so it must be indeed. I fancy that even among the Masons there’s something of the same mystery at the bottom, and that that’s why the Catholics so detest the Masons as their rivals breaking up t he unity of the idea, while it is so essential that there should be one flock and one shepherd…. But from the way I defend my idea I might be an author impatient of your criticism. Enough of it.”
“You are perhaps a Mason yourself!” broke suddenly from Alyosha. “You don’t believe in God,” he added, speaking this time very sorrowfully. He fancied besi des that his brother was looking at him ironically. “How does your poem end?” he asked, suddenly looking down. “Or was it the end?”
“I meant to end it like this. When the Inquisitor ceased speaking he waited some time for his Prisoner to answer him. His silence weighed down upon him. He sa w that the Prisoner had listened intently all the time, looking gently in his face and evidently not wishing to reply. The old man longed for Him to say something
, however bitter and terrible. But He suddenly approached the old man in silence and softly kissed him on his bloodless aged lips. That was all His answer. The old man shuddered. His lips moved. He went to the door, opened it, and said to Him: ‘Go, and come no more … come not at all, never, never!’ And he let Him out into the dark alleys of the town. The Prisoner went away.”
“And the old man?”
“The kiss glows in his heart, but the old man adheres to his idea.”
“And you with him, you too?” cried Alyosha, mournfully.
Ivan laughed.
“Why, it’s all nonsense, Alyosha. It’s only a senseless poem of a senseless student, who could never write two lines of verse. Why do you take it so seriously? S
urely you don’t suppose I am going straight off to the Jesuits, to join the men who are correcting His work? Good Lord, it’s no business of mine. I told you, all I want is to live on to thirty, and then … dash the cup to the ground!”
“But the little sticky leaves, and the precious tombs, and the blue sky, and the woman you love! How will you live, how will you love them?” Alyosha cried sorr owfully. “With such a hell in your heart and your head, how can you? No, that’s just what you are going away for, to join them … if not, you will kill yourself, you can’t endure it!”
“There is a strength to endure everything,” Ivan said with a cold smile.
“What strength?”
“The strength of the Karamazovs—the strength of the Karamazov baseness.”
“To sink into debauchery, to stifle your soul with corruption, yes?”
“Possibly even that … only perhaps till I am thirty I shall escape it, and then—”
“How will you escape it? By what will you escape it? That’s impossible with your ideas.”
“In the Karamazov way, again.”
“ ‘Everything is lawful,’ you mean? Everything is lawful, is that it?”
Ivan scowled, and all at once turned strangely pale.
“Ah, you’ve caught up yesterday’s phrase, which so offended Miüsov—and which Dmitri pounced upon so naïvely, and paraphrased!” he smiled queerly. “Yes, if you like, ‘everything is lawful’ since the word has been said. I won’t deny it. And Mitya’s version isn’t bad.”
Alyosha looked at him in silence.
“I thought that going away from here I have you at least,” Ivan said suddenly, with unexpected feeling; “but now I see that there is no place for me even in your heart, my dear hermit. The formula, ‘all is lawful,’ I won’t renounce—will you renounce me for that, yes?”
Alyosha got up, went to him and softly kissed him on the lips.
“That’s plagiarism,” cried Ivan, highly delighted. “You stole that from my poem. Thank you though. Get up, Alyosha, it’s time we were going, both of us.”
They went out, but stopped when they reached the entrance of the restaurant.
“Listen, Alyosha,” Ivan began in a resolute voice, “if I am really able to care for the sticky little leaves I shall only love them, remembering you. It’s enough for me that you are somewhere here, and I shan’t lose my desire for life yet. Is that enough for you? Take it as a declaration of love if you like. And now you go to t he right and I to the left. And it’s enough, do you hear, enough. I mean even if I don’t go away tomorrow (I think I certainly shall go) and we meet again, don’t s ay a word more on these subjects. I beg that particularly. And about Dmitri too, I ask you specially, never speak to me again,” he added, with sudden irritation; “
it’s all exhausted, it has all been said over and over again, hasn’t it? And I’ll make you one promise in return for it. When at thirty, I want to ‘dash the cup to the ground,’ wherever I may be I’ll come to have one more talk with you, even though it were from America, you may be sure of that. I’ll come on purpose. It will be very interesting to have a look at you, to see what you’ll be by that time. It’s rather a solemn promise, you see. And we really may be parting for seven years or ten. Come, go now to your Pater Seraphicus, he is dying. If he dies without you, you will be angry with me for having kept you. Goodby, kiss me once more; that’s right, now go.”
Ivan turned suddenly and went his way without looking back. It was just as Dmitri had left Alyosha the day before, though the parting had been very different. T
he strange resemblance flashed like an arrow through Alyosha’s mind in the distress and dejection of that moment. He waited a little, looking after his brother.
He suddenly noticed that Ivan swayed as he walked and that his right shoulder looked lower than his left. He had never noticed it before. But all at once he turne d too, and almost ran to the monastery. It was nearly dark, and he felt almost frightened; something new was growing up in him for which he could not account.
The wind had risen again as on the previous evening, and the ancient pines murmured gloomily about him when he entered the hermitage copse. He almost ran.
“Pater Seraphicus—he got that name from somewhere—where from?” Alyosha wondered. “Ivan, poor Ivan, and when shall I see you again?… Here is the herm itage. Yes, yes, that he is, Pater Seraphicus, he will save me—from him and for ever!”
Several times afterwards he wondered how he could on leaving Ivan so completely forget his brother Dmitri, though he had that morning, only a few hours befo re, so firmly resolved to find him and not to give up doing so, even should he be unable to return to the monastery that night.
Chapter VI.
For Awhile A Very Obscure One
And Ivan, on parting from Alyosha, went home to Fyodor Pavlovitch’s house. But, strange to say, he was overcome by insufferable depression, which grew gre ater at every step he took towards the house. There was nothing strange in his being depressed; what was strange was that Ivan could not have said what was the cause of it. He had often been depressed before, and there was nothing surprising at his feeling so at such a moment, when he had broken off with everything th
at had brought him here, and was preparing that day to make a new start and enter upon a new, unknown future. He would again be as solitary as ever, and thou gh he had great hopes, and great—too great—expectations from life, he could not have given any definite account of his hopes, his expectations, or even his des ires.
Yet at that moment, though the apprehension of the new and unknown certainly found place in his heart, what was worrying him was something quite different.
“Is it loathing for my father’s house?” he wondered. “Quite likely; I am so sick of it; and though it’s the last time I shall cross its hateful threshold, still I loathe i t…. No, it’s not that either. Is it the parting with Alyosha and the conversation I had with him? For so many years I’ve been silent with the whole world and not deigned to speak, and all of a sudden I reel off a rigmarole like that.” It certainly might have been the youthful vexation of youthful inexperience and vanity—ve xation at having failed to express himself, especially with such a being as Alyosha, on whom his heart had certainly been reckoning. No doubt that came in, that vexation, it must have done indeed; but yet that was not it, that was not it either. “I feel sick with depression and yet I can’t tell what I want. Better not think, per haps.”
Ivan tried “not to think,” but that, too, was no use. What made his depression so vexatious and irritating was that it had a kind of casual, external character—he f elt that. Some person or thing seemed to be standing out somewhere, just as something will sometimes obtrude itself upon the eye, and though one may be so bu sy with work or conversation that for a long time one does not notice it, yet it irritates and almost torments one till at last one realizes, and removes the offendin g object, often quite a trifling and ridiculous one—some article left about in the wrong place, a handkerchief on the floor, a book not replaced on the shelf, and s o on.
At last, feeling very cross and illhumored, Ivan arrived home, and suddenly, about fifteen paces from the garden gate, he guessed what was fretting and worryin g him.
On a bench in the gateway the valet Smerdyakov was sitting enjoying the coolness of the evening, and at the first glance at him Ivan knew that the valet Smerdy akov was on his mind, and that it was this man that his soul loathed. It all dawned upon him suddenly and became clear. Just before, when Alyosha had been tell ing him of his meeting with Smerdyakov, he had felt a sudden twinge of gloom and loathing, which had immediately stirred responsive anger in his heart. After wards, as he talked, Smerdyakov had been forgotten for the time; but still he had been in his mind, and as soon as Ivan parted with Alyosha and was walking ho me, the forgotten sensation began to obtrude itself again. “Is it possible that a miserable, contemptible creature like that can worry me so much?” he wondered, with insufferable irritation.
It was true that Ivan had come of late to feel an intense dislike for the man, especially during the last few days. He had even begun to notice in himself a growin g feeling that was almost of hatred for the creature. Perhaps this hatred was accentuated by the fact that when Ivan first came to the neighborhood he had felt qui te differently. Then he had taken a marked interest in Smerdyakov, and had even thought him very original. He had encouraged him to talk to him, although he had always wondered at a certain incoherence, or rather restlessness, in his mind, and could not understand what it was that so continually and insistently worke d upon the brain of “the contemplative.” They discussed philosophical questions and even how there could have been light on the first day when the sun, moon, and stars were only created on the fourth day, and how that was to be understood. But Ivan soon saw that, though the sun, moon, and stars might be an interestin g subject, yet that it was quite secondary to Smerdyakov, and that he was looking for something altogether different. In one way and another, he began to betray a boundless vanity, and a wounded vanity, too, and that Ivan disliked. It had first given rise to his aversion. Later on, there had been trouble in the house. Grushe nka had come on the scene, and there had been the scandals with his brother Dmitri—they discussed that, too. But though Smerdyakov always talked of that wit h great excitement, it was impossible to discover what he desired to come of it. There was, in fact, something surprising in the illogicality and incoherence of so me of his desires, accidentally betrayed and always vaguely expressed. Smerdyakov was always inquiring, putting certain indirect but obviously premeditated q uestions, but what his object was he did not explain, and usually at the most important moment he would break off and relapse into silence or pass to another su bject. But what finally irritated Ivan most and confirmed his dislike for him was the peculiar, revolting familiarity which Smerdyakov began to show more and more markedly. Not that he forgot himself and was rude; on the contrary, he always spoke very respectfully, yet he had obviously begun to consider—goodness knows why!—that there was some sort of understanding between him and Ivan Fyodorovitch. He always spoke in a tone that suggested that those two had some kind of compact, some secret between them, that had at some time been expressed on both sides, only known to them and beyond the comprehension of those a round them. But for a long while Ivan did not recognize the real cause of his growing dislike and he had only lately realized what was at the root of it.
With a feeling of disgust and irritation he tried to pass in at the gate without speaking or looking at Smerdyakov. But Smerdyakov rose from the bench, and fro m that action alone, Ivan knew instantly that he wanted particularly to talk to him. Ivan looked at him and stopped, and the fact that he did stop, instead of passi ng by, as he meant to the minute before, drove him to fury. With anger and repulsion he looked at Smerdyakov’s emasculate, sickly face, with the little curls co mbed forward on his forehead. His left eye winked and he grinned as if to say, “Where are you going? You won’t pass by; you see that we two clever people ha ve something to say to each other.”
Ivan shook. “Get away, miserable idiot. What have I to do with you?” was on the tip of his tongue, but to his profound astonishment he heard himself say, “Is m y father still asleep, or has he waked?”
He asked the question softly and meekly, to his own surprise, and at once, again to his own surprise, sat down on the bench. For an instant he felt almost frighte ned; he remembered it afterwards. Smerdyakov stood facing him, his hands behind his back, looking at him with assurance and almost severity.
“His honor is still asleep,” he articulated deliberately (“You were the first to speak, not I,” he seemed to say). “I am surprised at you, sir,” he added, after a paus e, dropping his eyes affectedly, setting his right foot forward, and playing with the tip of his polished boot.
“Why are you surprised at me?” Ivan asked abruptly and sullenly, doing his utmost to restrain himself, and suddenly realizing, with disgust, that he was feeling i ntense curiosity and would not, on any account, have gone away without satisfying it.
“Why don’t you go to Tchermashnya, sir?” Smerdyakov suddenly raised his eyes and smiled familiarly. “Why I smile you must understand of yourself, if you ar
e a clever man,” his screwedup left eye seemed to say.
“Why should I go to Tchermashnya?” Ivan asked in surprise.
Smerdyakov was silent again.
“Fyodor Pavlovitch himself has so begged you to,” he said at last, slowly and apparently attaching no significance to his answer. “I put you off with a secondary reason,” he seemed to suggest, “simply to say something.”
“Damn you! Speak out what you want!” Ivan cried angrily at last, passing from meekness to violence.
Smerdyakov drew his right foot up to his left, pulled himself up, but still looked at him with the same serenity and the same little smile.
“Substantially nothing—but just by way of conversation.”
Another silence followed. They did not speak for nearly a minute. Ivan knew that he ought to get up and show anger, and Smerdyakov stood before him and see med to be waiting as though to see whether he would be angry or not. So at least it seemed to Ivan. At last he moved to get up. Smerdyakov seemed to seize the moment.
“I’m in an awful position, Ivan Fyodorovitch. I don’t know how to help myself,” he said resolutely and distinctly, and at his last word he sighed. Ivan Fyodorovi tch sat down again.
“They are both utterly crazy, they are no better than little children,” Smerdyakov went on. “I am speaking of your parent and your brother Dmitri Fyodorovitch.
Here Fyodor Pavlovitch will get up directly and begin worrying me every minute, ‘Has she come? Why hasn’t she come?’ and so on up till midnight and even a fter midnight. And if Agrafena Alexandrovna doesn’t come (for very likely she does not mean to come at all) then he will be at me again tomorrow morning, ‘
Why hasn’t she come? When will she come?’—as though I were to blame for it. On the other side it’s no better. As soon as it gets dark, or even before, your bro ther will appear with his gun in his hands: ‘Look out, you rogue, you soupmaker. If you miss her and don’t let me know she’s been—I’ll kill you before any one
.’ When the night’s over, in the morning, he, too, like Fyodor Pavlovitch, begins worrying me to death. ‘Why hasn’t she come? Will she come soon?’ And he, to o, thinks me to blame because his lady hasn’t come. And every day and every hour they get angrier and angrier, so that I sometimes think I shall kill myself in a fright. I can’t depend upon them, sir.”
“And why have you meddled? Why did you begin to spy for Dmitri Fyodorovitch?” said Ivan irritably.
“How could I help meddling? Though, indeed, I haven’t meddled at all, if you want to know the truth of the matter. I kept quiet from the very beginning, not dar ing to answer; but he pitched on me to be his servant. He has had only one thing to say since: ‘I’ll kill you, you scoundrel, if you miss her,’ I feel certain, sir, tha t I shall have a long fit to morrow.”
“What do you mean by ‘a long fit’?”
“A long fit, lasting a long time—several hours, or perhaps a day or two. Once it went on for three days. I fell from the garret that time. The struggling ceased an d then began again, and for three days I couldn’t come back to my senses. Fyodor Pavlovitch sent for Herzenstube, the doctor here, and he put ice on my head a nd tried another remedy, too…. I might have died.”
“But they say one can’t tell with epilepsy when a fit is coming. What makes you say you will have one tomorrow?” Ivan inquired, with a peculiar, irritable curio sity.
“That’s just so. You can’t tell beforehand.”
“Besides, you fell from the garret then.”
“I climb up to the garret every day. I might fall from the garret again tomorrow. And, if not, I might fall down the cellar steps. I have to go into the cellar every day, too.”
Ivan took a long look at him.
“You are talking nonsense, I see, and I don’t quite understand you,” he said softly, but with a sort of menace. “Do you mean to pretend to be ill tomorrow for thr ee days, eh?”
Smerdyakov, who was looking at the ground again, and playing with the toe of his right foot, set the foot down, moved the left one forward, and, grinning, artic ulated:
“If I were able to play such a trick, that is, pretend to have a fit—and it would not be difficult for a man accustomed to them—I should have a perfect right to us e such a means to save myself from death. For even if Agrafena Alexandrovna comes to see his father while I am ill, his honor can’t blame a sick man for not tel ling him. He’d be ashamed to.”
“Hang it all!” Ivan cried, his face working with anger, “why are you always in such a funk for your life? All my brother Dmitri’s threats are only hasty words an d mean nothing. He won’t kill you; it’s not you he’ll kill!”
“He’d kill me first of all, like a fly. But even more than that, I am afraid I shall be taken for an accomplice of his when he does something crazy to his father.”
“Why should you be taken for an accomplice?”
“They’ll think I am an accomplice, because I let him know the signals as a great secret.”
“What signals? Whom did you tell? Confound you, speak more plainly.”
“I’m bound to admit the fact,” Smerdyakov drawled with pedantic composure, “that I have a secret with Fyodor Pavlovitch in this business. As you know yours elf (if only you do know it) he has for several days past locked himself in as soon as night or even evening comes on. Of late you’ve been going upstairs to your room early every evening, and yesterday you did not come down at all, and so perhaps you don’t know how carefully he has begun to lock himself in at night, a nd even if Grigory Vassilyevitch comes to the door he won’t open to him till he hears his voice. But Grigory Vassilyevitch does not come, because I wait upon h im alone in his room now. That’s the arrangement he made himself ever since this todo with Agrafena Alexandrovna began. But at night, by his orders, I go awa y to the lodge so that I don’t get to sleep till midnight, but am on the watch, getting up and walking about the yard, waiting for Agrafena Alexandrovna to come.
For the last few days he’s been perfectly frantic expecting her. What he argues is, she is afraid of him, Dmitri Fyodorovitch (Mitya, as he calls him), ‘and so,’ sa ys he, ‘she’ll come the backway, late at night, to me. You look out for her,’ says he, ‘till midnight and later; and if she does come, you run up and knock at my d oor or at the window from the garden. Knock at first twice, rather gently, and then three times more quickly, then,’ says he, ‘I shall understand at once that she h as come, and will open the door to you quietly.’ Another signal he gave me in case anything unexpected happens. At first, two knocks, and then, after an interva l, another much louder. Then he will understand that something has happened suddenly and that I must see him, and he will open to me so that I can go and spea k to him. That’s all in case Agrafena Alexandrovna can’t come herself, but sends a message. Besides, Dmitri Fyodorovitch might come, too, so I must let him k now he is near. His honor is awfully afraid of Dmitri Fyodorovitch, so that even if Agrafena Alexandrovna had come and were locked in with him, and Dmitri F
yodorovitch were to turn up anywhere near at the time, I should be bound to let him know at once, knocking three times. So that the first signal of five knocks m eans Agrafena Alexandrovna has come, while the second signal of three knocks means ‘something important to tell you.’ His honor has shown me them several times and explained them. And as in the whole universe no one knows of these signals but myself and his honor, so he’d open the door without the slightest hesi tation and without calling out (he is awfully afraid of calling out aloud). Well, those signals are known to Dmitri Fyodorovitch too, now.”
“How are they known? Did you tell him? How dared you tell him?”
“It was through fright I did it. How could I dare to keep it back from him? Dmitri Fyodorovitch kept persisting every day, ‘You are deceiving me, you are hidin g something from me! I’ll break both your legs for you.’ So I told him those secret signals that he might see my slavish devotion, and might be satisfied that I w as not deceiving him, but was telling him all I could.”
“If you think that he’ll make use of those signals and try to get in, don’t let him in.”
“But if I should be laid up with a fit, how can I prevent him coming in then, even if I dared prevent him, knowing how desperate he is?”
“Hang it! How can you be so sure you are going to have a fit, confound you? Are you laughing at me?”
“How could I dare laugh at you? I am in no laughing humor with this fear on me. I feel I am going to have a fit. I have a presentiment. Fright alone will bring it on.”
“Confound it! If you are laid up, Grigory will be on the watch. Let Grigory know beforehand; he will be sure not to let him in.”
“I should never dare to tell Grigory Vassilyevitch about the signals without orders from my master. And as for Grigory Vassilyevitch hearing him and not admit ting him, he has been ill ever since yesterday, and Marfa Ignatyevna intends to give him medicine tomorrow. They’ve just arranged it. It’s a very strange remed y of hers. Marfa Ignatyevna knows of a preparation and always keeps it. It’s a strong thing made from some herb. She has the secret of it, and she always gives i t to Grigory Vassilyevitch three times a year when his lumbago’s so bad he is almost paralyzed by it. Then she takes a towel, wets it with the stuff, and rubs his whole back for half an hour till it’s quite red and swollen, and what’s left in the bottle she gives him to drink with a special prayer; but not quite all, for on such occasions she leaves some for herself, and drinks it herself. And as they never take strong drink, I assure you they both drop asleep at once and sleep sound a ver y long time. And when Grigory Vassilyevitch wakes up he is perfectly well after it, but Marfa Ignatyevna always has a headache from it. So, if Marfa Ignatyevn a carries out her intention to morrow, they won’t hear anything and hinder Dmitri Fyodorovitch. They’ll be asleep.”
“What a rigmarole! And it all seems to happen at once, as though it were planned. You’ll have a fit and they’ll both be unconscious,” cried Ivan. “But aren’t you trying to arrange it so?” broke from him suddenly, and he frowned threateningly.
“How could I?… And why should I, when it all depends on Dmitri Fyodorovitch and his plans?… If he means to do anything, he’ll do it; but if not, I shan’t be t hrusting him upon his father.”
“And why should he go to father, especially on the sly, if, as you say yourself, Agrafena Alexandrovna won’t come at all?” Ivan went on, turning white with ang er. “You say that yourself, and all the while I’ve been here, I’ve felt sure it was all the old man’s fancy, and the creature won’t come to him. Why should Dmitri break in on him if she doesn’t come? Speak, I want to know what you are thinking!”
“You know yourself why he’ll come. What’s the use of what I think? His honor will come simply because he is in a rage or suspicious on account of my illness perhaps, and he’ll dash in, as he did yesterday through impatience to search the rooms, to see whether she hasn’t escaped him on the sly. He is perfectly well aw are, too, that Fyodor Pavlovitch has a big envelope with three thousand roubles in it, tied up with ribbon and sealed with three seals. On it is written in his own h and, ‘To my angel Grushenka, if she will come,’ to which he added three days later, ‘for my little chicken.’ There’s no knowing what that might do.”
“Nonsense!” cried Ivan, almost beside himself. “Dmitri won’t come to steal money and kill my father to do it. He might have killed him yesterday on account of Grushenka, like the frantic, savage fool he is, but he won’t steal.”
“He is in very great need of money now—the greatest need, Ivan Fyodorovitch. You don’t know in what need he is,” Smerdyakov explained, with perfect comp osure and remarkable distinctness. “He looks on that three thousand as his own, too. He said so to me himself. ‘My father still owes me just three thousand,’ he said. And besides that, consider, Ivan Fyodorovitch, there is something else perfectly true. It’s as good as certain, so to say, that Agrafena Alexandrovna will for ce him, if only she cares to, to marry her—the master himself, I mean, Fyodor Pavlovitch—if only she cares to, and of course she may care to. All I’ve said is th at she won’t come, but maybe she’s looking for more than that—I mean to be mistress here. I know myself that Samsonov, her merchant, was laughing with her about it, telling her quite openly that it would not be at all a stupid thing to do. And she’s got plenty of sense. She wouldn’t marry a beggar like Dmitri Fyodorov itch. So, taking that into consideration, Ivan Fyodorovitch, reflect that then neither Dmitri Fyodorovitch nor yourself and your brother, Alexey Fyodorovitch, wo uld have anything after the master’s death, not a rouble, for Agrafena Alexandrovna would marry him simply to get hold of the whole, all the money there is. Bu t if your father were to die now, there’d be some forty thousand for sure, even for Dmitri Fyodorovitch whom he hates so, for he’s made no will…. Dmitri Fyod orovitch knows all that very well.”
A sort of shudder passed over Ivan’s face. He suddenly flushed.
“Then why on earth,” he suddenly interrupted Smerdyakov, “do you advise me to go to Tchermashnya? What did you mean by that? If I go away, you see what will happen here.” Ivan drew his breath with difficulty.
“Precisely so,” said Smerdyakov, softly and reasonably, watching Ivan intently, however.
“What do you mean by ‘precisely so’?” Ivan questioned him, with a menacing light in his eyes, restraining himself with difficulty.
“I spoke because I felt sorry for you. If I were in your place I should simply throw it all up … rather than stay on in such a position,” answered Smerdyakov, wit h the most candid air looking at Ivan’s flashing eyes. They were both silent.
“You seem to be a perfect idiot, and what’s more … an awful scoundrel, too.” Ivan rose suddenly from the bench. He was about to pass straight through the gate
, but he stopped short and turned to Smerdyakov. Something strange followed. Ivan, in a sudden paroxysm, bit his lip, clenched his fists, and, in another minute, would have flung himself on Smerdyakov. The latter, anyway, noticed it at the same moment, started, and shrank back. But the moment passed without mischie f to Smerdyakov, and Ivan turned in silence, as it seemed in perplexity, to the gate.
“I am going away to Moscow tomorrow, if you care to know—early tomorrow morning. That’s all!” he suddenly said aloud angrily, and wondered himself after wards what need there was to say this then to Smerdyakov.
“That’s the best thing you can do,” he responded, as though he had expected to hear it; “except that you can always be telegraphed for from Moscow, if anythin g should happen here.”
Ivan stopped again, and again turned quickly to Smerdyakov. But a change had passed over him, too. All his familiarity and carelessness had completely disapp eared. His face expressed attention and expectation, intent but timid and cringing.
“Haven’t you something more to say—something to add?” could be read in the intent gaze he fixed on Ivan.
“And couldn’t I be sent for from Tchermashnya, too—in case anything happened?” Ivan shouted suddenly, for some unknown reason raising his voice.
“From Tchermashnya, too … you could be sent for,” Smerdyakov muttered, almost in a whisper, looking disconcerted, but gazing intently into Ivan’s eyes.
“Only Moscow is farther and Tchermashnya is nearer. Is it to save my spending money on the fare, or to save my going so far out of my way, that you insist on Tchermashnya?”
“Precisely so …” muttered Smerdyakov, with a breaking voice. He looked at Ivan with a revolting smile, and again made ready to draw back. But to his astonis hment Ivan broke into a laugh, and went through the gate still laughing. Any one who had seen his face at that moment would have known that he was not laugh ing from lightness of heart, and he could not have explained himself what he was feeling at that instant. He moved and walked as though in a nervous frenzy.
Chapter VII.
“It’s Always Worth While Speaking To A Clever Man”
And in the same nervous frenzy, too, he spoke. Meeting Fyodor Pavlovitch in the drawingroom directly he went in, he shouted to him, waving his hands, “I am going upstairs to my room, not in to you. Goodby!” and passed by, trying not even to look at his father. Very possibly the old man was too hateful to him at that moment; but such an unceremonious display of hostility was a surprise even to Fyodor Pavlovitch. And the old man evidently wanted to tell him something at o nce and had come to meet him in the drawingroom on purpose. Receiving this amiable greeting, he stood still in silence and with an ironical air watched his son going upstairs, till he passed out of sight.
“What’s the matter with him?” he promptly asked Smerdyakov, who had followed Ivan.
“Angry about something. Who can tell?” the valet muttered evasively.
“Confound him! Let him be angry then. Bring in the samovar, and get along with you. Look sharp! No news?”
Then followed a series of questions such as Smerdyakov had just complained of to Ivan, all relating to his expected visitor, and these questions we will omit. Ha lf an hour later the house was locked, and the crazy old man was wandering along through the rooms in excited expectation of hearing every minute the five kno cks agreed upon. Now and then he peered out into the darkness, seeing nothing.
It was very late, but Ivan was still awake and reflecting. He sat up late that night, till two o’clock. But we will not give an account of his thoughts, and this is not the place to look into that soul—its turn will come. And even if one tried, it would be very hard to give an account of them, for there were no thoughts in his bra in, but something very vague, and, above all, intense excitement. He felt himself that he had lost his bearings. He was fretted, too, by all sorts of strange and alm ost surprising desires; for instance, after midnight he suddenly had an intense irresistible inclination to go down, open the door, go to the lodge and beat Smerdy akov. But if he had been asked why, he could not have given any exact reason, except perhaps that he loathed the valet as one who had insulted him more gravel y than any one in the world. On the other hand, he was more than once that night overcome by a sort of inexplicable humiliating terror, which he felt positively paralyzed his physical powers. His head ached and he was giddy. A feeling of hatred was rankling in his heart, as though he meant to avenge himself on some o ne. He even hated Alyosha, recalling the conversation he had just had with him. At moments he hated himself intensely. Of Katerina Ivanovna he almost forgot to think, and wondered greatly at this afterwards, especially as he remembered perfectly that when he had protested so valiantly to Katerina Ivanovna that he wo uld go away next day to Moscow, something had whispered in his heart, “That’s nonsense, you are not going, and it won’t be so easy to tear yourself away as yo u are boasting now.”
Remembering that night long afterwards, Ivan recalled with peculiar repulsion how he had suddenly got up from the sofa and had stealthily, as though he were a fraid of being watched, opened the door, gone out on the staircase and listened to Fyodor Pavlovitch stirring down below, had listened a long while—some five minutes—with a sort of strange curiosity, holding his breath while his heart throbbed. And why he had done all this, why he was listening, he could not have sai d. That “action” all his life afterwards he called “infamous,” and at the bottom of his heart, he thought of it as the basest action of his life. For Fyodor Pavlovitch himself he felt no hatred at that moment, but was simply intensely curious to know how he was walking down there below and what he must be doing now. He wondered and imagined how he must be peeping out of the dark windows and stopping in the middle of the room, listening, listening—for some one to knock. I van went out on to the stairs twice to listen like this.
About two o’clock when everything was quiet, and even Fyodor Pavlovitch had gone to bed, Ivan had got into bed, firmly resolved to fall asleep at once, as he f elt fearfully exhausted. And he did fall asleep at once, and slept soundly without dreams, but waked early, at seven o’clock, when it was broad daylight. Openin g his eyes, he was surprised to feel himself extraordinarily vigorous. He jumped up at once and dressed quickly; then dragged out his trunk and began packing i mmediately. His linen had come back from the laundress the previous morning. Ivan positively smiled at the thought that everything was helping his sudden dep arture. And his departure certainly was sudden. Though Ivan had said the day before (to Katerina Ivanovna, Alyosha, and Smerdyakov) that he was leaving next day, yet he remembered that he had no thought of departure when he went to bed, or, at least, had not dreamed that his first act in the morning would be to pack his trunk. At last his trunk and bag were ready. It was about nine o’clock when Marfa Ignatyevna came in with her usual inquiry, “Where will your honor take y our tea, in your own room or downstairs?” He looked almost cheerful, but there was about him, about his words and gestures, something hurried and scattered.
Greeting his father affably, and even inquiring specially after his health, though he did not wait to hear his answer to the end, he announced that he was starting off in an hour to return to Moscow for good, and begged him to send for the horses. His father heard this announcement with no sign of surprise, and forgot in a n unmannerly way to show regret at losing him. Instead of doing so, he flew into a great flutter at the recollection of some important business of his own.
“What a fellow you are! Not to tell me yesterday! Never mind; we’ll manage it all the same. Do me a great service, my dear boy. Go to Tchermashnya on the wa y. It’s only to turn to the left from the station at Volovya, only another twelve versts and you come to Tchermashnya.”
“I’m sorry, I can’t. It’s eighty versts to the railway and the train starts for Moscow at seven o’clock tonight. I can only just catch it.”
“You’ll catch it tomorrow or the day after, but today turn off to Tchermashnya. It won’t put you out much to humor your father! If I hadn’t had something to ke ep me here, I would have run over myself long ago, for I’ve some business there in a hurry. But here I … it’s not the time for me to go now…. You see, I’ve tw o pieces of copse land there. The Maslovs, an old merchant and his son, will give eight thousand for the timber. But last year I just missed a purchaser who woul d have given twelve. There’s no getting any one about here to buy it. The Maslovs have it all their own way. One has to take what they’ll give, for no one here d are bid against them. The priest at Ilyinskoe wrote to me last Thursday that a merchant called Gorstkin, a man I know, had turned up. What makes him valuable is that he is not from these parts, so he is not afraid of the Maslovs. He says he will give me eleven thousand for the copse. Do you hear? But he’ll only be here, the priest writes, for a week altogether, so you must go at once and make a bargain with him.”
“Well, you write to the priest; he’ll make the bargain.”
“He can’t do it. He has no eye for business. He is a perfect treasure, I’d give him twenty thousand to take care of for me without a receipt; but he has no eye for business, he is a perfect child, a crow could deceive him. And yet he is a learned man, would you believe it? This Gorstkin looks like a peasant, he wears a blue kaftan, but he is a regular rogue. That’s the common complaint. He is a liar. Sometimes he tells such lies that you wonder why he is doing it. He told me the yea r before last that his wife was dead and that he had married another, and would you believe it, there was not a word of truth in it? His wife has never died at all, she is alive to this day and gives him a beating twice a week. So what you have to find out is whether he is lying or speaking the truth, when he says he wants to buy it and would give eleven thousand.”
“I shall be no use in such a business. I have no eye either.”
“Stay, wait a bit! You will be of use, for I will tell you the signs by which you can judge about Gorstkin. I’ve done business with him a long time. You see, you must watch his beard; he has a nasty, thin, red beard. If his beard shakes when he talks and he gets cross, it’s all right, he is saying what he means, he wants to d o business. But if he strokes his beard with his left hand and grins—he is trying to cheat you. Don’t watch his eyes, you won’t find out anything from his eyes, h e is a deep one, a rogue—but watch his beard! I’ll give you a note and you show it to him. He’s called Gorstkin, though his real name is Lyagavy;[4] but don’t c all him so, he will be offended. If you come to an understanding with him, and see it’s all right, write here at once. You need only write: ‘He’s not lying.’ Stand out for eleven thousand; one thousand you can knock off, but not more. Just think! there’s a difference between eight thousand and eleven thousand. It’s as good as picking up three thousand; it’s not so easy to find a purchaser, and I’m in desperate need of money. Only let me know it’s serious, and I’ll run over and fix it up. I’ll snatch the time somehow. But what’s the good of my galloping over, if it’s all a notion of the priest’s? Come, will you go?”
“Oh, I can’t spare the time. You must excuse me.”
“Come, you might oblige your father. I shan’t forget it. You’ve no heart, any of you—that’s what it is? What’s a day or two to you? Where are you going now
—to Venice? Your Venice will keep another two days. I would have sent Alyosha, but what use is Alyosha in a thing like that? I send you just because you are a clever fellow. Do you suppose I don’t see that? You know nothing about timber, but you’ve got an eye. All that is wanted is to see whether the man is in earnest
. I tell you, watch his beard—if his beard shakes you know he is in earnest.”
“You force me to go to that damned Tchermashnya yourself, then?” cried Ivan, with a malignant smile.
Fyodor Pavlovitch did not catch, or would not catch, the malignancy, but he caught the smile.
“Then you’ll go, you’ll go? I’ll scribble the note for you at once.”
“I don’t know whether I shall go. I don’t know. I’ll decide on the way.”
“Nonsense! Decide at once. My dear fellow, decide! If you settle the matter, write me a line; give it to the priest and he’ll send it on to me at once. And I won’t delay you more than that. You can go to Venice. The priest will give you horses back to Volovya station.”
The old man was quite delighted. He wrote the note, and sent for the horses. A light lunch was brought in, with brandy. When Fyodor Pavlovitch was pleased, h e usually became expansive, but today he seemed to restrain himself. Of Dmitri, for instance, he did not say a word. He was quite unmoved by the parting, and s eemed, in fact, at a loss for something to say. Ivan noticed this particularly. “He must be bored with me,” he thought. Only when accompanying his son out on t o the steps, the old man began to fuss about. He would have kissed him, but Ivan made haste to hold out his hand, obviously avoiding the kiss. His father saw it at once, and instantly pulled himself up.
“Well, good luck to you, good luck to you!” he repeated from the steps. “You’ll come again some time or other? Mind you do come. I shall always be glad to se e you. Well, Christ be with you!”
Ivan got into the carriage.
“Goodby, Ivan! Don’t be too hard on me!” the father called for the last time.
The whole household came out to take leave—Smerdyakov, Marfa and Grigory. Ivan gave them ten roubles each. When he had seated himself in the carriage, S
merdyakov jumped up to arrange the rug.
“You see … I am going to Tchermashnya,” broke suddenly from Ivan. Again, as the day before, the words seemed to drop of themselves, and he laughed, too, a peculiar, nervous laugh. He remembered it long after.
“It’s a true saying then, that ‘it’s always worth while speaking to a clever man,’ ” answered Smerdyakov firmly, looking significantly at Ivan.
The carriage rolled away. Nothing was clear in Ivan’s soul, but he looked eagerly around him at the fields, at the hills, at the trees, at a flock of geese flying high overhead in the bright sky. And all of a sudden he felt very happy. He tried to talk to the driver, and he felt intensely interested in an answer the peasant made h im; but a minute later he realized that he was not catching anything, and that he had not really even taken in the peasant’s answer. He was silent, and it was plea sant even so. The air was fresh, pure and cool, the sky bright. The images of Alyosha and Katerina Ivanovna floated into his mind. But he softly smiled, blew so ftly on the friendly phantoms, and they flew away. “There’s plenty of time for them,” he thought. They reached the station quickly, changed horses, and gallope d to Volovya. “Why is it worth while speaking to a clever man? What did he mean by that?” The thought seemed suddenly to clutch at his breathing. “And why did I tell him I was going to Tchermashnya?” They reached Volovya station. Ivan got out of the carriage, and the drivers stood round him bargaining over the jo urney of twelve versts to Tchermashnya. He told them to harness the horses. He went into the station house, looked round, glanced at the overseer’s wife, and su ddenly went back to the entrance.
“I won’t go to Tchermashnya. Am I too late to reach the railway by seven, brothers?”
“We shall just do it. Shall we get the carriage out?”
“At once. Will any one of you be going to the town tomorrow?”
“To be sure. Mitri here will.”
“Can you do me a service, Mitri? Go to my father’s, to Fyodor Pavlovitch Karamazov, and tell him I haven’t gone to Tchermashnya. Can you?”
“Of course I can. I’ve known Fyodor Pavlovitch a long time.”
“And here’s something for you, for I dare say he won’t give you anything,” said Ivan, laughing gayly.
“You may depend on it he won’t.” Mitya laughed too. “Thank you, sir. I’ll be sure to do it.”
At seven o’clock Ivan got into the train and set off to Moscow “Away with the past. I’ve done with the old world for ever, and may I have no news, no echo, fro m it. To a new life, new places and no looking back!” But instead of delight his soul was filled with such gloom, and his heart ached with such anguish, as he ha d never known in his life before. He was thinking all the night. The train flew on, and only at daybreak, when he was approaching Moscow, he suddenly roused himself from his meditation.
“I am a scoundrel,” he whispered to himself.
Fyodor Pavlovitch remained well satisfied at having seen his son off. For two hours afterwards he felt almost happy, and sat drinking brandy. But suddenly som ething happened which was very annoying and unpleasant for every one in the house, and completely upset Fyodor Pavlovitch’s equanimity at once. Smerdyako v went to the cellar for something and fell down from the top of the steps. Fortunately, Marfa Ignatyevna was in the yard and heard him in time. She did not see the fall, but heard his scream—the strange, peculiar scream, long familiar to her—the scream of the epileptic falling in a fit. They could not tell whether the fit h ad come on him at the moment he was descending the steps, so that he must have fallen unconscious, or whether it was the fall and the shock that had caused the fit in Smerdyakov, who was known to be liable to them. They found him at the bottom of the cellar steps, writhing in convulsions and foaming at the mouth. It was thought at first that he must have broken something—an arm or a leg—and hurt himself, but “God had preserved him,” as Marfa Ignatyevna expressed it—
nothing of the kind had happened. But it was difficult to get him out of the cellar. They asked the neighbors to help and managed it somehow. Fyodor Pavlovitc h himself was present at the whole ceremony. He helped, evidently alarmed and upset. The sick man did not regain consciousness; the convulsions ceased for a t ime, but then began again, and every one concluded that the same thing would happen, as had happened a year before, when he accidentally fell from the garret.
They remembered that ice had been put on his head then. There was still ice in the cellar, and Marfa Ignatyevna had some brought up. In the evening, Fyodor Pa vlovitch sent for Doctor Herzenstube, who arrived at once. He was a most estimable old man, and the most careful and conscientious doctor in the province. Aft er careful examination, he concluded that the fit was a very violent one and might have serious consequences; that meanwhile he, Herzenstube, did not fully und erstand it, but that by tomorrow morning, if the present remedies were unavailing, he would venture to try something else. The invalid was taken to the lodge, to a room next to Grigory’s and Marfa Ignatyevna’s.
Then Fyodor Pavlovitch had one misfortune after another to put up with that day. Marfa Ignatyevna cooked the dinner, and the soup, compared with Smerdyako v’s, was “no better than dishwater,” and the fowl was so dried up that it was impossible to masticate it. To her master’s bitter, though deserved, reproaches, Mar fa Ignatyevna replied that the fowl was a very old one to begin with, and that she had never been trained as a cook. In the evening there was another trouble in st ore for Fyodor Pavlovitch; he was informed that Grigory, who had not been well for the last three days, was completely laid up by his lumbago. Fyodor Pavlovit ch finished his tea as early as possible and locked himself up alone in the house. He was in terrible excitement and suspense. That evening he reckoned on Grus henka’s coming almost as a certainty. He had received from Smerdyakov that morning an assurance “that she had promised to come without fail.” The incorrigi ble old man’s heart throbbed with excitement; he paced up and down his empty rooms listening. He had to be on the alert. Dmitri might be on the watch for her somewhere, and when she knocked on the window (Smerdyakov had informed him two days before that he had told her where and how to knock) the door must be opened at once. She must not be a second in the passage, for fear—which God forbid!—that she should be frightened and run away. Fyodor Pavlovitch had much to think of, but never had his heart been steeped in such voluptuous hopes. This time he could say almost certainly that she would come!
Book VI. The Russian Monk
Chapter I.
Father Zossima And His Visitors
When with an anxious and aching heart Alyosha went into his elder’s cell, he stood still almost astonished. Instead of a sick man at his last gasp, perhaps uncons cious, as he had feared to find him, he saw him sitting up in his chair and, though weak and exhausted, his face was bright and cheerful, he was surrounded by vi sitors and engaged in a quiet and joyful conversation. But he had only got up from his bed a quarter of an hour before Alyosha’s arrival; his visitors had gathere d together in his cell earlier, waiting for him to wake, having received a most confident assurance from Father Païssy that “the teacher would get up, and as he h ad himself promised in the morning, converse once more with those dear to his heart.” This promise and indeed every word of the dying elder Father Païssy put implicit trust in. If he had seen him unconscious, if he had seen him breathe his last, and yet had his promise that he would rise up and say goodby to him, he wo uld not have believed perhaps even in death, but would still have expected the dead man to recover and fulfill his promise. In the morning as he lay down to slee p, Father Zossima had told him positively: “I shall not die without the delight of another conversation with you, beloved of my heart. I shall look once more on your dear face and pour out my heart to you once again.” The monks, who had gathered for this probably last conversation with Father Zossima, had all been his devoted friends for many years. There were four of them: Father Iosif and Father Païssy, Father Mihaïl, the warden of the hermitage, a man not very old and far from being learned. He was of humble origin, of strong will and steadfast faith, of austere appearance, but of deep tenderness, though he obviously concealed it as though he were almost ashamed of it. The fourth, Father Anfim, was a very old and humble little monk of the poorest peasant class. He was almost illiterate, and very quiet, scarcely speaking to any one. He was the humblest of the humble, and looked as though he had been frightened by something great and awful be yond the scope of his intelligence. Father Zossima had a great affection for this timorous man, and always treated him with marked respect, though perhaps ther e was no one he had known to whom he had said less, in spite of the fact that he had spent years wandering about holy Russia with him. That was very long ago, forty years before, when Father Zossima first began his life as a monk in a poor and little monastery at Kostroma, and when, shortly after, he had accompanied Father Anfim on his pilgrimage to collect alms for their poor monastery.
The whole party were in the bedroom which, as we mentioned before, was very small, so that there was scarcely room for the four of them (in addition to Porfir y, the novice, who stood) to sit round Father Zossima on chairs brought from the sittingroom. It was already beginning to get dark, the room was lighted up by t he lamps and the candles before the ikons.
Seeing Alyosha standing embarrassed in the doorway, Father Zossima smiled at him joyfully and held out his hand.
“Welcome, my quiet one, welcome, my dear, here you are too. I knew you would come.”
Alyosha went up to him, bowed down before him to the ground and wept. Something surged up from his heart, his soul was quivering, he wanted to sob.
“Come, don’t weep over me yet,” Father Zossima smiled, laying his right hand on his head. “You see I am sitting up talking; maybe I shall live another twenty y ears yet, as that dear good woman from Vishegorye, with her little Lizaveta in her arms, wished me yesterday. God bless the mother and the little girl Lizaveta,”
he crossed himself. “Porfiry, did you take her offering where I told you?”
He meant the sixty copecks brought him the day before by the goodhumored woman to be given “to some one poorer than me.” Such offerings, always of mone y gained by personal toil, are made by way of penance voluntarily undertaken. The elder had sent Porfiry the evening before to a widow, whose house had been burnt down lately, and who after the fire had gone with her children begging alms. Porfiry hastened to reply that he had given the money, as he had been instruct ed, “from an unknown benefactress.”
“Get up, my dear boy,” the elder went on to Alyosha. “Let me look at you. Have you been home and seen your brother?” It seemed strange to Alyosha that he as ked so confidently and precisely, about one of his brothers only—but which one? Then perhaps he had sent him out both yesterday and today for the sake of that brother.
“I have seen one of my brothers,” answered Alyosha.
“I mean the elder one, to whom I bowed down.”
“I only saw him yesterday and could not find him today,” said Alyosha.
“Make haste to find him, go again tomorrow and make haste, leave everything and make haste. Perhaps you may still have time to prevent something terrible. I bowed down yesterday to the great suffering in store for him.”
He was suddenly silent and seemed to be pondering. The words were strange. Father Iosif, who had witnessed the scene yesterday, exchanged glances with Fath er Païssy. Alyosha could not resist asking:
“Father and teacher,” he began with extreme emotion, “your words are too obscure…. What is this suffering in store for him?”
“Don’t inquire. I seemed to see something terrible yesterday … as though his whole future were expressed in his eyes. A look came into his eyes—so that I was instantly horrorstricken at what that man is preparing for himself. Once or twice in my life I’ve seen such a look in a man’s face … reflecting as it were his futur e fate, and that fate, alas, came to pass. I sent you to him, Alexey, for I thought your brotherly face would help him. But everything and all our fates are from the Lord. ‘Except a corn of wheat fall into the ground and die, it abideth alone; but if it die, it bringeth forth much fruit.’ Remember that. You, Alexey, I’ve many ti mes silently blessed for your face, know that,” added the elder with a gentle smile. “This is what I think of you, you will go forth from these walls, but will live l ike a monk in the world. You will have many enemies, but even your foes will love you. Life will bring you many misfortunes, but you will find your happiness in them, and will bless life and will make others bless it—which is what matters most. Well, that is your character. Fathers and teachers,” he addressed his frien ds with a tender smile, “I have never till today told even him why the face of this youth is so dear to me. Now I will tell you. His face has been as it were a reme mbrance and a prophecy for me. At the dawn of my life when I was a child I had an elder brother who died before my eyes at seventeen. And later on in the cour se of my life I gradually became convinced that that brother had been for a guidance and a sign from on high for me. For had he not come into my life, I should never perhaps, so I fancy at least, have become a monk and entered on this precious path. He appeared first to me in my childhood, and here, at the end of my pi lgrimage, he seems to have come to me over again. It is marvelous, fathers and teachers, that Alexey, who has some, though not a great, resemblance in face, see ms to me so like him spiritually, that many times I have taken him for that young man, my brother, mysteriously come back to me at the end of my pilgrimage, a s a reminder and an inspiration. So that I positively wondered at so strange a dream in myself. Do you hear this, Porfiry?” he turned to the novice who waited on him. “Many times I’ve seen in your face as it were a look of mortification that I love Alexey more than you. Now you know why that was so, but I love you too
, know that, and many times I grieved at your mortification. I should like to tell you, dear friends, of that youth, my brother, for there has been no presence in m y life more precious, more significant and touching. My heart is full of tenderness, and I look at my whole life at this moment as though living through it again.”
Here I must observe that this last conversation of Father Zossima with the friends who visited him on the last day of his life has been partly preserved in writing.
Alexey Fyodorovitch Karamazov wrote it down from memory, some time after his elder’s death. But whether this was only the conversation that took place the n, or whether he added to it his notes of parts of former conversations with his teacher, I cannot determine. In his account, Father Zossima’s talk goes on without interruption, as though he told his life to his friends in the form of a story, though there is no doubt, from other accounts of it, that the conversation that evening was general. Though the guests did not interrupt Father Zossima much, yet they too talked, perhaps even told something themselves. Besides, Father Zossima c ould not have carried on an uninterrupted narrative, for he was sometimes gasping for breath, his voice failed him, and he even lay down to rest on his bed, thou gh he did not fall asleep and his visitors did not leave their seats. Once or twice the conversation was interrupted by Father Païssy’s reading the Gospel. It is wor thy of note, too, that no one of them supposed that he would die that night, for on that evening of his life after his deep sleep in the day he seemed suddenly to h ave found new strength, which kept him up through this long conversation. It was like a last effort of love which gave him marvelous energy; only for a little ti
me, however, for his life was cut short immediately…. But of that later. I will only add now that I have preferred to confine myself to the account given by Alex ey Fyodorovitch Karamazov. It will be shorter and not so fatiguing, though of course, as I must repeat, Alyosha took a great deal from previous conversations a nd added them to it.
Notes of the Life of the deceased Priest and Monk, the Elder Zossima, taken from his own words by Alexey Fyodorovitch Karamazov.
BIOGRAPHICAL NOTES
(a) Father Zossima’s Brother
Beloved fathers and teachers, I was born in a distant province in the north, in the town of V. My father was a gentleman by birth, but of no great consequence or position. He died when I was only two years old, and I don’t remember him at all. He left my mother a small house built of wood, and a fortune, not large, but s ufficient to keep her and her children in comfort. There were two of us, my elder brother Markel and I. He was eight years older than I was, of hasty irritable te mperament, but kindhearted and never ironical. He was remarkably silent, especially at home with me, his mother, and the servants. He did well at school, but di d not get on with his schoolfellows, though he never quarreled, at least so my mother has told me. Six months before his death, when he was seventeen, he made friends with a political exile who had been banished from Moscow to our town for freethinking, and led a solitary existence there. He was a good scholar who h ad gained distinction in philosophy in the university. Something made him take a fancy to Markel, and he used to ask him to see him. The young man would spe nd whole evenings with him during that winter, till the exile was summoned to Petersburg to take up his post again at his own request, as he had powerful friend s.
It was the beginning of Lent, and Markel would not fast, he was rude and laughed at it. “That’s all silly twaddle, and there is no God,” he said, horrifying my mo ther, the servants, and me too. For though I was only nine, I too was aghast at hearing such words. We had four servants, all serfs. I remember my mother selling one of the four, the cook Afimya, who was lame and elderly, for sixty paper roubles, and hiring a free servant to take her place.
In the sixth week in Lent, my brother, who was never strong and had a tendency to consumption, was taken ill. He was tall but thin and delicate looking, and of very pleasing countenance. I suppose he caught cold, anyway the doctor, who came, soon whispered to my mother that it was galloping consumption, that he wo uld not live through the spring. My mother began weeping, and, careful not to alarm my brother, she entreated him to go to church, to confess and take the sacra ment, as he was still able to move about. This made him angry, and he said something profane about the church. He grew thoughtful, however; he guessed at on ce that he was seriously ill, and that that was why his mother was begging him to confess and take the sacrament. He had been aware, indeed, for a long time pas t, that he was far from well, and had a year before coolly observed at dinner to our mother and me, “My life won’t be long among you, I may not live another ye ar,” which seemed now like a prophecy.
Three days passed and Holy Week had come. And on Tuesday morning my brother began going to church. “I am doing this simply for your sake, mother, to ple ase and comfort you,” he said. My mother wept with joy and grief. “His end must be near,” she thought, “if there’s such a change in him.” But he was not able t o go to church long, he took to his bed, so he had to confess and take the sacrament at home.
It was a late Easter, and the days were bright, fine, and full of fragrance. I remember he used to cough all night and sleep badly, but in the morning he dressed an d tried to sit up in an armchair. That’s how I remember him sitting, sweet and gentle, smiling, his face bright and joyous, in spite of his illness. A marvelous cha nge passed over him, his spirit seemed transformed. The old nurse would come in and say, “Let me light the lamp before the holy image, my dear.” And once he would not have allowed it and would have blown it out.
“Light it, light it, dear, I was a wretch to have prevented you doing it. You are praying when you light the lamp, and I am praying when I rejoice seeing you. So we are praying to the same God.”

Dosto Brothers Karamazov TLD EN OC

PART I
Book I. The History Of A Family
Chapter I.
Fyodor Pavlovitch Karamazov
Alexey Fyodorovitch Karamazov was the third son of Fyodor Pavlovitch Karamazov, a land owner well known in our district in his own day, and still remembered among us owing to his gloomy and tragic death, which happened thirteen years ago, and which I shall describe in its proper place. For the present I will only say that this “landowner”—for so we used to call him, although he hardly spent a day of his life on his own estate—was a strange type, yet one pretty frequently to be met with, a type abject and vicious and at the same time senseless. But he was one of those senseless persons who are very well capable of looking after their worldly affairs, and, apparently, after nothing else. Fyodor Pavlovitch, for instance, began with next to nothing; his estate was of the smallest; he ran to dine at other men’s tables, and fastened on them as a toady, yet at his death it appeared that he had a hundred thousand roubles in hard cash. At the same time, he was all his life one of the most senseless, fantastical fellows in the whole district. I repeat, it was not stupidity—the majority of these fantastical fellows are shrewd and intelligent enough—but just senselessness, and a peculiar national form of it.

He was married twice, and had three sons, the eldest, Dmitri, by his first wife, and two, Ivan and Alexey, by his second. Fyodor Pavlovitch’s first wife, Adelaïda Ivanovna, belonged to a fairly rich and distinguished noble family, also landowners in our district, the Miüsovs. How it came to pass that an heiress, who was also a beauty, and moreover one of those vigorous, intelligent girls, so common in this generation, but sometimes also to be found in the last, could have married such a worthless, puny weakling, as we all called him, I won’t attempt to explain. I knew a young lady of the last “romantic” generation who after some years of an enigmatic passion for a gentleman, whom she might quite easily have married at any moment, invented insuperable obstacles to their union, and ended by throwing herself one stormy night into a rather deep and rapid river from a high bank, almost a precipice, and so perished, entirely to satisfy her own caprice, and to be like Shakespeare’s Ophelia. Indeed, if this precipice, a chosen and favorite spot of hers, had been less picturesque, if there had been a prosaic flat bank in its place, most likely the suicide would never have taken place. This is a fact, and probably there have been not a few similar instances in the last two or three generations. Adelaïda Ivanovna Miüsov’s action was similarly, no doubt, an echo of other people’s ideas, and was due to the irritation caused by lack of mental freedom. She wanted, perhaps, to show her feminine independence, to override class distinctions and the despotism of her family. And a pliable imagination persuaded her, we must suppose, for a brief moment, that Fyodor Pavlovitch, in spite of his parasitic position, was one of the bold and ironical spirits of that progressive epoch, though he was, in fact, an ill‐natured buffoon and nothing more. What gave the marriage piquancy was that it was preceded by an elopement, and this greatly captivated Adelaïda Ivanovna’s fancy. Fyodor Pavlovitch’s position at the time made him specially eager for any such enterprise, for he was passionately anxious to make a career in one way or another. To attach himself to a good family and obtain a dowry was an alluring prospect. As for mutual love it did not exist apparently, either in the bride or in him, in spite of Adelaïda Ivanovna’s beauty. This was, perhaps, a unique case of the kind in the life of Fyodor Pavlovitch, who was always of a voluptuous temper, and ready to run after any petticoat on the slightest encouragement. She seems to have been the only woman who made no particular appeal to his senses.

Immediately after the elopement Adelaïda Ivanovna discerned in a flash that she had no feeling for her husband but contempt. The marriage accordingly showed itself in its true colors with extraordinary rapidity. Although the family accepted the event pretty quickly and apportioned the runaway bride her dowry, the husband and wife began to lead a most disorderly life, and there were everlasting scenes between them. It was said that the young wife showed incomparably more generosity and dignity than Fyodor Pavlovitch, who, as is now known, got hold of all her money up to twenty‐five thousand roubles as soon as she received it, so that those thousands were lost to her for ever. The little village and the rather fine town house which formed part of her dowry he did his utmost for a long time to transfer to his name, by means of some deed of conveyance. He would probably have succeeded, merely from her moral fatigue and desire to get rid of him, and from the contempt and loathing he aroused by his persistent and shameless importunity. But, fortunately, Adelaïda Ivanovna’s family intervened and circumvented his greediness. It is known for a fact that frequent fights took place between the husband and wife, but rumor had it that Fyodor Pavlovitch did not beat his wife but was beaten by her, for she was a hot‐tempered, bold, dark‐browed, impatient woman, possessed of remarkable physical strength. Finally, she left the house and ran away from Fyodor Pavlovitch with a destitute divinity student, leaving Mitya, a child of three years old, in her husband’s hands. Immediately Fyodor Pavlovitch introduced a regular harem into the house, and abandoned himself to orgies of drunkenness. In the intervals he used to drive all over the province, complaining tearfully to each and all of Adelaïda Ivanovna’s having left him, going into details too disgraceful for a husband to mention in regard to his own married life. What seemed to gratify him and flatter his self‐love most was to play the ridiculous part of the injured husband, and to parade his woes with embellishments.

“One would think that you’d got a promotion, Fyodor Pavlovitch, you seem so pleased in spite of your sorrow,” scoffers said to him. Many even added that he was glad of a new comic part in which to play the buffoon, and that it was simply to make it funnier that he pretended to be unaware of his ludicrous position. But, who knows, it may have been simplicity. At last he succeeded in getting on the track of his runaway wife. The poor woman turned out to be in Petersburg, where she had gone with her divinity student, and where she had thrown herself into a life of complete emancipation. Fyodor Pavlovitch at once began bustling about, making preparations to go to Petersburg, with what object he could not himself have said. He would perhaps have really gone; but having determined to do so he felt at once entitled to fortify himself for the journey by another bout of reckless drinking. And just at that time his wife’s family received the news of her death in Petersburg. She had died quite suddenly in a garret, according to one story, of typhus, or as another version had it, of starvation. Fyodor Pavlovitch was drunk when he heard of his wife’s death, and the story is that he ran out into the street and began shouting with joy, raising his hands to Heaven: “Lord, now lettest Thou Thy servant depart in peace,” but others say he wept without restraint like a little child, so much so that people were sorry for him, in spite of the repulsion he inspired. It is quite possible that both versions were true, that he rejoiced at his release, and at the same time wept for her who released him. As a general rule, people, even the wicked, are much more naïve and simple‐hearted than we suppose. And we ourselves are, too.

Chapter II.
He Gets Rid Of His Eldest Son
You can easily imagine what a father such a man could be and how he would bring up his children. His behavior as a father was exactly what might be expected. He completely abandoned the child of his marriage with Adelaïda Ivanovna, not from malice, nor because of his matrimonial grievances, but simply because he forgot him. While he was wearying every one with his tears and complaints, and turning his house into a sink of debauchery, a faithful servant of the family, Grigory, took the three‐year‐old Mitya into his care. If he hadn’t looked after him there would have been no one even to change the baby’s little shirt.

It happened moreover that the child’s relations on his mother’s side forgot him too at first. His grandfather was no longer living, his widow, Mitya’s grandmother, had moved to Moscow, and was seriously ill, while his daughters were married, so that Mitya remained for almost a whole year in old Grigory’s charge and lived with him in the servant’s cottage. But if his father had remembered him (he could not, indeed, have been altogether unaware of his existence) he would have sent him back to the cottage, as the child would only have been in the way of his debaucheries. But a cousin of Mitya’s mother, Pyotr Alexandrovitch Miüsov, happened to return from Paris. He lived for many years afterwards abroad, but was at that time quite a young man, and distinguished among the Miüsovs as a man of enlightened ideas and of European culture, who had been in the capitals and abroad. Towards the end of his life he became a Liberal of the type common in the forties and fifties. In the course of his career he had come into contact with many of the most Liberal men of his epoch, both in Russia and abroad. He had known Proudhon and Bakunin personally, and in his declining years was very fond of describing the three days of the Paris Revolution of February 1848, hinting that he himself had almost taken part in the fighting on the barricades. This was one of the most grateful recollections of his youth. He had an independent property of about a thousand souls, to reckon in the old style. His splendid estate lay on the outskirts of our little town and bordered on the lands of our famous monastery, with which Pyotr Alexandrovitch began an endless lawsuit, almost as soon as he came into the estate, concerning the rights of fishing in the river or wood‐cutting in the forest, I don’t know exactly which. He regarded it as his duty as a citizen and a man of culture to open an attack upon the “clericals.” Hearing all about Adelaïda Ivanovna, whom he, of course, remembered, and in whom he had at one time been interested, and learning of the existence of Mitya, he intervened, in spite of all his youthful indignation and contempt for Fyodor Pavlovitch. He made the latter’s acquaintance for the first time, and told him directly that he wished to undertake the child’s education. He used long afterwards to tell as a characteristic touch, that when he began to speak of Mitya, Fyodor Pavlovitch looked for some time as though he did not understand what child he was talking about, and even as though he was surprised to hear that he had a little son in the house. The story may have been exaggerated, yet it must have been something like the truth.

Fyodor Pavlovitch was all his life fond of acting, of suddenly playing an unexpected part, sometimes without any motive for doing so, and even to his own direct disadvantage, as, for instance, in the present case. This habit, however, is characteristic of a very great number of people, some of them very clever ones, not like Fyodor Pavlovitch. Pyotr Alexandrovitch carried the business through vigorously, and was appointed, with Fyodor Pavlovitch, joint guardian of the child, who had a small property, a house and land, left him by his mother. Mitya did, in fact, pass into this cousin’s keeping, but as the latter had no family of his own, and after securing the revenues of his estates was in haste to return at once to Paris, he left the boy in charge of one of his cousins, a lady living in Moscow. It came to pass that, settling permanently in Paris he, too, forgot the child, especially when the Revolution of February broke out, making an impression on his mind that he remembered all the rest of his life. The Moscow lady died, and Mitya passed into the care of one of her married daughters. I believe he changed his home a fourth time later on. I won’t enlarge upon that now, as I shall have much to tell later of Fyodor Pavlovitch’s firstborn, and must confine myself now to the most essential facts about him, without which I could not begin my story.

In the first place, this Mitya, or rather Dmitri Fyodorovitch, was the only one of Fyodor Pavlovitch’s three sons who grew up in the belief that he had property, and that he would be independent on coming of age. He spent an irregular boyhood and youth. He did not finish his studies at the gymnasium, he got into a military school, then went to the Caucasus, was promoted, fought a duel, and was degraded to the ranks, earned promotion again, led a wild life, and spent a good deal of money. He did not begin to receive any income from Fyodor Pavlovitch until he came of age, and until then got into debt. He saw and knew his father, Fyodor Pavlovitch, for the first time on coming of age, when he visited our neighborhood on purpose to settle with him about his property. He seems not to have liked his father. He did not stay long with him, and made haste to get away, having only succeeded in obtaining a sum of money, and entering into an agreement for future payments from the estate, of the revenues and value of which he was unable (a fact worthy of note), upon this occasion, to get a statement from his father. Fyodor Pavlovitch remarked for the first time then (this, too, should be noted) that Mitya had a vague and exaggerated idea of his property. Fyodor Pavlovitch was very well satisfied with this, as it fell in with his own designs. He gathered only that the young man was frivolous, unruly, of violent passions, impatient, and dissipated, and that if he could only obtain ready money he would be satisfied, although only, of course, for a short time. So Fyodor Pavlovitch began to take advantage of this fact, sending him from time to time small doles, installments. In the end, when four years later, Mitya, losing patience, came a second time to our little town to settle up once for all with his father, it turned out to his amazement that he had nothing, that it was difficult to get an account even, that he had received the whole value of his property in sums of money from Fyodor Pavlovitch, and was perhaps even in debt to him, that by various agreements into which he had, of his own desire, entered at various previous dates, he had no right to expect anything more, and so on, and so on. The young man was overwhelmed, suspected deceit and cheating, and was almost beside himself. And, indeed, this circumstance led to the catastrophe, the account of which forms the subject of my first introductory story, or rather the external side of it. But before I pass to that story I must say a little of Fyodor Pavlovitch’s other two sons, and of their origin.

Chapter III.
The Second Marriage And The Second Family
Very shortly after getting his four‐year‐old Mitya off his hands Fyodor Pavlovitch married a second time. His second marriage lasted eight years. He took this second wife, Sofya Ivanovna, also a very young girl, from another province, where he had gone upon some small piece of business in company with a Jew. Though Fyodor Pavlovitch was a drunkard and a vicious debauchee he never neglected investing his capital, and managed his business affairs very successfully, though, no doubt, not over‐ scrupulously. Sofya Ivanovna was the daughter of an obscure deacon, and was left from childhood an orphan without relations. She grew up in the house of a general’s widow, a wealthy old lady of good position, who was at once her benefactress and tormentor. I do not know the details, but I have only heard that the orphan girl, a meek and gentle creature, was once cut down from a halter in which she was hanging from a nail in the loft, so terrible were her sufferings from the caprice and everlasting nagging of this old woman, who was apparently not bad‐hearted but had become an insufferable tyrant through idleness.

Fyodor Pavlovitch made her an offer; inquiries were made about him and he was refused. But again, as in his first marriage, he proposed an elopement to the orphan girl. There is very little doubt that she would not on any account have married him if she had known a little more about him in time. But she lived in another province; besides, what could a little girl of sixteen know about it, except that she would be better at the bottom of the river than remaining with her benefactress. So the poor child exchanged a benefactress for a benefactor. Fyodor Pavlovitch did not get a penny this time, for the general’s widow was furious. She gave them nothing and cursed them both. But he had not reckoned on a dowry; what allured him was the remarkable beauty of the innocent girl, above all her innocent appearance, which had a peculiar attraction for a vicious profligate, who had hitherto admired only the coarser types of feminine beauty.

“Those innocent eyes slit my soul up like a razor,” he used to say afterwards, with his loathsome snigger. In a man so depraved this might, of course, mean no more than sensual attraction. As he had received no dowry with his wife, and had, so to speak, taken her “from the halter,” he did not stand on ceremony with her. Making her feel that she had “wronged” him, he took advantage of her phenomenal meekness and submissiveness to trample on the elementary decencies of marriage. He gathered loose women into his house, and carried on orgies of debauchery in his wife’s presence. To show what a pass things had come to, I may mention that Grigory, the gloomy, stupid, obstinate, argumentative servant, who had always hated his first mistress, Adelaïda Ivanovna, took the side of his new mistress. He championed her cause, abusing Fyodor Pavlovitch in a manner little befitting a servant, and on one occasion broke up the revels and drove all the disorderly women out of the house. In the end this unhappy young woman, kept in terror from her childhood, fell into that kind of nervous disease which is most frequently found in peasant women who are said to be “possessed by devils.” At times after terrible fits of hysterics she even lost her reason. Yet she bore Fyodor Pavlovitch two sons, Ivan and Alexey, the eldest in the first year of marriage and the second three years later. When she died, little Alexey was in his fourth year, and, strange as it seems, I know that he remembered his mother all his life, like a dream, of course. At her death almost exactly the same thing happened to the two little boys as to their elder brother, Mitya. They were completely forgotten and abandoned by their father. They were looked after by the same Grigory and lived in his cottage, where they were found by the tyrannical old lady who had brought up their mother. She was still alive, and had not, all those eight years, forgotten the insult done her. All that time she was obtaining exact information as to her Sofya’s manner of life, and hearing of her illness and hideous surroundings she declared aloud two or three times to her retainers:

“It serves her right. God has punished her for her ingratitude.”

Exactly three months after Sofya Ivanovna’s death the general’s widow suddenly appeared in our town, and went straight to Fyodor Pavlovitch’s house. She spent only half an hour in the town but she did a great deal. It was evening. Fyodor Pavlovitch, whom she had not seen for those eight years, came in to her drunk. The story is that instantly upon seeing him, without any sort of explanation, she gave him two good, resounding slaps on the face, seized him by a tuft of hair, and shook him three times up and down. Then, without a word, she went straight to the cottage to the two boys. Seeing, at the first glance, that they were unwashed and in dirty linen, she promptly gave Grigory, too, a box on the ear, and announcing that she would carry off both the children she wrapped them just as they were in a rug, put them in the carriage, and drove off to her own town. Grigory accepted the blow like a devoted slave, without a word, and when he escorted the old lady to her carriage he made her a low bow and pronounced impressively that, “God would repay her for the orphans.” “You are a blockhead all the same,” the old lady shouted to him as she drove away.

Fyodor Pavlovitch, thinking it over, decided that it was a good thing, and did not refuse the general’s widow his formal consent to any proposition in regard to his children’s education. As for the slaps she had given him, he drove all over the town telling the story.

It happened that the old lady died soon after this, but she left the boys in her will a thousand roubles each “for their instruction, and so that all be spent on them exclusively, with the condition that it be so portioned out as to last till they are twenty‐one, for it is more than adequate provision for such children. If other people think fit to throw away their money, let them.” I have not read the will myself, but I heard there was something queer of the sort, very whimsically expressed. The principal heir, Yefim Petrovitch Polenov, the Marshal of Nobility of the province, turned out, however, to be an honest man. Writing to Fyodor Pavlovitch, and discerning at once that he could extract nothing from him for his children’s education (though the latter never directly refused but only procrastinated as he always did in such cases, and was, indeed, at times effusively sentimental), Yefim Petrovitch took a personal interest in the orphans. He became especially fond of the younger, Alexey, who lived for a long while as one of his family. I beg the reader to note this from the beginning. And to Yefim Petrovitch, a man of a generosity and humanity rarely to be met with, the young people were more indebted for their education and bringing up than to any one. He kept the two thousand roubles left to them by the general’s widow intact, so that by the time they came of age their portions had been doubled by the accumulation of interest. He educated them both at his own expense, and certainly spent far more than a thousand roubles upon each of them. I won’t enter into a detailed account of their boyhood and youth, but will only mention a few of the most important events. Of the elder, Ivan, I will only say that he grew into a somewhat morose and reserved, though far from timid boy. At ten years old he had realized that they were living not in their own home but on other people’s charity, and that their father was a man of whom it was disgraceful to speak. This boy began very early, almost in his infancy (so they say at least), to show a brilliant and unusual aptitude for learning. I don’t know precisely why, but he left the family of Yefim Petrovitch when he was hardly thirteen, entering a Moscow gymnasium, and boarding with an experienced and celebrated teacher, an old friend of Yefim Petrovitch. Ivan used to declare afterwards that this was all due to the “ardor for good works” of Yefim Petrovitch, who was captivated by the idea that the boy’s genius should be trained by a teacher of genius. But neither Yefim Petrovitch nor this teacher was living when the young man finished at the gymnasium and entered the university. As Yefim Petrovitch had made no provision for the payment of the tyrannical old lady’s legacy, which had grown from one thousand to two, it was delayed, owing to formalities inevitable in Russia, and the young man was in great straits for the first two years at the university, as he was forced to keep himself all the time he was studying. It must be noted that he did not even attempt to communicate with his father, perhaps from pride, from contempt for him, or perhaps from his cool common sense, which told him that from such a father he would get no real assistance. However that may have been, the young man was by no means despondent and succeeded in getting work, at first giving sixpenny lessons and afterwards getting paragraphs on street incidents into the newspapers under the signature of “Eye‐Witness.” These paragraphs, it was said, were so interesting and piquant that they were soon taken. This alone showed the young man’s practical and intellectual superiority over the masses of needy and unfortunate students of both sexes who hang about the offices of the newspapers and journals, unable to think of anything better than everlasting entreaties for copying and translations from the French. Having once got into touch with the editors Ivan Fyodorovitch always kept up his connection with them, and in his latter years at the university he published brilliant reviews of books upon various special subjects, so that he became well known in literary circles. But only in his last year he suddenly succeeded in attracting the attention of a far wider circle of readers, so that a great many people noticed and remembered him. It was rather a curious incident. When he had just left the university and was preparing to go abroad upon his two thousand roubles, Ivan Fyodorovitch published in one of the more important journals a strange article, which attracted general notice, on a subject of which he might have been supposed to know nothing, as he was a student of natural science. The article dealt with a subject which was being debated everywhere at the time—the position of the ecclesiastical courts. After discussing several opinions on the subject he went on to explain his own view. What was most striking about the article was its tone, and its unexpected conclusion. Many of the Church party regarded him unquestioningly as on their side. And yet not only the secularists but even atheists joined them in their applause. Finally some sagacious persons opined that the article was nothing but an impudent satirical burlesque. I mention this incident particularly because this article penetrated into the famous monastery in our neighborhood, where the inmates, being particularly interested in the question of the ecclesiastical courts, were completely bewildered by it. Learning the author’s name, they were interested in his being a native of the town and the son of “that Fyodor Pavlovitch.” And just then it was that the author himself made his appearance among us.

Why Ivan Fyodorovitch had come amongst us I remember asking myself at the time with a certain uneasiness. This fateful visit, which was the first step leading to so many consequences, I never fully explained to myself. It seemed strange on the face of it that a young man so learned, so proud, and apparently so cautious, should suddenly visit such an infamous house and a father who had ignored him all his life, hardly knew him, never thought of him, and would not under any circumstances have given him money, though he was always afraid that his sons Ivan and Alexey would also come to ask him for it. And here the young man was staying in the house of such a father, had been living with him for two months, and they were on the best possible terms. This last fact was a special cause of wonder to many others as well as to me. Pyotr Alexandrovitch Miüsov, of whom we have spoken already, the cousin of Fyodor Pavlovitch’s first wife, happened to be in the neighborhood again on a visit to his estate. He had come from Paris, which was his permanent home. I remember that he was more surprised than any one when he made the acquaintance of the young man, who interested him extremely, and with whom he sometimes argued and not without an inner pang compared himself in acquirements.

“He is proud,” he used to say, “he will never be in want of pence; he has got money enough to go abroad now. What does he want here? Every one can see that he hasn’t come for money, for his father would never give him any. He has no taste for drink and dissipation, and yet his father can’t do without him. They get on so well together!”

That was the truth; the young man had an unmistakable influence over his father, who positively appeared to be behaving more decently and even seemed at times ready to obey his son, though often extremely and even spitefully perverse.

It was only later that we learned that Ivan had come partly at the request of, and in the interests of, his elder brother, Dmitri, whom he saw for the first time on this very visit, though he had before leaving Moscow been in correspondence with him about an important matter of more concern to Dmitri than himself. What that business was the reader will learn fully in due time. Yet even when I did know of this special circumstance I still felt Ivan Fyodorovitch to be an enigmatic figure, and thought his visit rather mysterious.

I may add that Ivan appeared at the time in the light of a mediator between his father and his elder brother Dmitri, who was in open quarrel with his father and even planning to bring an action against him.

The family, I repeat, was now united for the first time, and some of its members met for the first time in their lives. The younger brother, Alexey, had been a year already among us, having been the first of the three to arrive. It is of that brother Alexey I find it most difficult to speak in this introduction. Yet I must give some preliminary account of him, if only to explain one queer fact, which is that I have to introduce my hero to the reader wearing the cassock of a novice. Yes, he had been for the last year in our monastery, and seemed willing to be cloistered there for the rest of his life.

Chapter IV.
The Third Son, Alyosha
He was only twenty, his brother Ivan was in his twenty‐fourth year at the time, while their elder brother Dmitri was twenty‐seven. First of all, I must explain that this young man, Alyosha, was not a fanatic, and, in my opinion at least, was not even a mystic. I may as well give my full opinion from the beginning. He was simply an early lover of humanity, and that he adopted the monastic life was simply because at that time it struck him, so to say, as the ideal escape for his soul struggling from the darkness of worldly wickedness to the light of love. And the reason this life struck him in this way was that he found in it at that time, as he thought, an extraordinary being, our celebrated elder, Zossima, to whom he became attached with all the warm first love of his ardent heart. But I do not dispute that he was very strange even at that time, and had been so indeed from his cradle. I have mentioned already, by the way, that though he lost his mother in his fourth year he remembered her all his life—her face, her caresses, “as though she stood living before me.” Such memories may persist, as every one knows, from an even earlier age, even from two years old, but scarcely standing out through a whole lifetime like spots of light out of darkness, like a corner torn out of a huge picture, which has all faded and disappeared except that fragment. That is how it was with him. He remembered one still summer evening, an open window, the slanting rays of the setting sun (that he recalled most vividly of all); in a corner of the room the holy image, before it a lighted lamp, and on her knees before the image his mother, sobbing hysterically with cries and moans, snatching him up in both arms, squeezing him close till it hurt, and praying for him to the Mother of God, holding him out in both arms to the image as though to put him under the Mother’s protection … and suddenly a nurse runs in and snatches him from her in terror. That was the picture! And Alyosha remembered his mother’s face at that minute. He used to say that it was frenzied but beautiful as he remembered. But he rarely cared to speak of this memory to any one. In his childhood and youth he was by no means expansive, and talked little indeed, but not from shyness or a sullen unsociability; quite the contrary, from something different, from a sort of inner preoccupation entirely personal and unconcerned with other people, but so important to him that he seemed, as it were, to forget others on account of it. But he was fond of people: he seemed throughout his life to put implicit trust in people: yet no one ever looked on him as a simpleton or naïve person. There was something about him which made one feel at once (and it was so all his life afterwards) that he did not care to be a judge of others—that he would never take it upon himself to criticize and would never condemn any one for anything. He seemed, indeed, to accept everything without the least condemnation though often grieving bitterly: and this was so much so that no one could surprise or frighten him even in his earliest youth. Coming at twenty to his father’s house, which was a very sink of filthy debauchery, he, chaste and pure as he was, simply withdrew in silence when to look on was unbearable, but without the slightest sign of contempt or condemnation. His father, who had once been in a dependent position, and so was sensitive and ready to take offense, met him at first with distrust and sullenness. “He does not say much,” he used to say, “and thinks the more.” But soon, within a fortnight indeed, he took to embracing him and kissing him terribly often, with drunken tears, with sottish sentimentality, yet he evidently felt a real and deep affection for him, such as he had never been capable of feeling for any one before.

Every one, indeed, loved this young man wherever he went, and it was so from his earliest childhood. When he entered the household of his patron and benefactor, Yefim Petrovitch Polenov, he gained the hearts of all the family, so that they looked on him quite as their own child. Yet he entered the house at such a tender age that he could not have acted from design nor artfulness in winning affection. So that the gift of making himself loved directly and unconsciously was inherent in him, in his very nature, so to speak. It was the same at school, though he seemed to be just one of those children who are distrusted, sometimes ridiculed, and even disliked by their schoolfellows. He was dreamy, for instance, and rather solitary. From his earliest childhood he was fond of creeping into a corner to read, and yet he was a general favorite all the while he was at school. He was rarely playful or merry, but any one could see at the first glance that this was not from any sullenness. On the contrary he was bright and good‐tempered. He never tried to show off among his schoolfellows. Perhaps because of this, he was never afraid of any one, yet the boys immediately understood that he was not proud of his fearlessness and seemed to be unaware that he was bold and courageous. He never resented an insult. It would happen that an hour after the offense he would address the offender or answer some question with as trustful and candid an expression as though nothing had happened between them. And it was not that he seemed to have forgotten or intentionally forgiven the affront, but simply that he did not regard it as an affront, and this completely conquered and captivated the boys. He had one characteristic which made all his schoolfellows from the bottom class to the top want to mock at him, not from malice but because it amused them. This characteristic was a wild fanatical modesty and chastity. He could not bear to hear certain words and certain conversations about women. There are “certain” words and conversations unhappily impossible to eradicate in schools. Boys pure in mind and heart, almost children, are fond of talking in school among themselves, and even aloud, of things, pictures, and images of which even soldiers would sometimes hesitate to speak. More than that, much that soldiers have no knowledge or conception of is familiar to quite young children of our intellectual and higher classes. There is no moral depravity, no real corrupt inner cynicism in it, but there is the appearance of it, and it is often looked upon among them as something refined, subtle, daring, and worthy of imitation. Seeing that Alyosha Karamazov put his fingers in his ears when they talked of “that,” they used sometimes to crowd round him, pull his hands away, and shout nastiness into both ears, while he struggled, slipped to the floor, tried to hide himself without uttering one word of abuse, enduring their insults in silence. But at last they left him alone and gave up taunting him with being a “regular girl,” and what’s more they looked upon it with compassion as a weakness. He was always one of the best in the class but was never first.

At the time of Yefim Petrovitch’s death Alyosha had two more years to complete at the provincial gymnasium. The inconsolable widow went almost immediately after his death for a long visit to Italy with her whole family, which consisted only of women and girls. Alyosha went to live in the house of two distant relations of Yefim Petrovitch, ladies whom he had never seen before. On what terms he lived with them he did not know himself. It was very characteristic of him, indeed, that he never cared at whose expense he was living. In that respect he was a striking contrast to his elder brother Ivan, who struggled with poverty for his first two years in the university, maintained himself by his own efforts, and had from childhood been bitterly conscious of living at the expense of his benefactor. But this strange trait in Alyosha’s character must not, I think, be criticized too severely, for at the slightest acquaintance with him any one would have perceived that Alyosha was one of those youths, almost of the type of religious enthusiast, who, if they were suddenly to come into possession of a large fortune, would not hesitate to give it away for the asking, either for good works or perhaps to a clever rogue. In general he seemed scarcely to know the value of money, not, of course, in a literal sense. When he was given pocket‐money, which he never asked for, he was either terribly careless of it so that it was gone in a moment, or he kept it for weeks together, not knowing what to do with it.

In later years Pyotr Alexandrovitch Miüsov, a man very sensitive on the score of money and bourgeois honesty, pronounced the following judgment, after getting to know Alyosha:

“Here is perhaps the one man in the world whom you might leave alone without a penny, in the center of an unknown town of a million inhabitants, and he would not come to harm, he would not die of cold and hunger, for he would be fed and sheltered at once; and if he were not, he would find a shelter for himself, and it would cost him no effort or humiliation. And to shelter him would be no burden, but, on the contrary, would probably be looked on as a pleasure.”

He did not finish his studies at the gymnasium. A year before the end of the course he suddenly announced to the ladies that he was going to see his father about a plan which had occurred to him. They were sorry and unwilling to let him go. The journey was not an expensive one, and the ladies would not let him pawn his watch, a parting present from his benefactor’s family. They provided him liberally with money and even fitted him out with new clothes and linen. But he returned half the money they gave him, saying that he intended to go third class. On his arrival in the town he made no answer to his father’s first inquiry why he had come before completing his studies, and seemed, so they say, unusually thoughtful. It soon became apparent that he was looking for his mother’s tomb. He practically acknowledged at the time that that was the only object of his visit. But it can hardly have been the whole reason of it. It is more probable that he himself did not understand and could not explain what had suddenly arisen in his soul, and drawn him irresistibly into a new, unknown, but inevitable path. Fyodor Pavlovitch could not show him where his second wife was buried, for he had never visited her grave since he had thrown earth upon her coffin, and in the course of years had entirely forgotten where she was buried.

Fyodor Pavlovitch, by the way, had for some time previously not been living in our town. Three or four years after his wife’s death he had gone to the south of Russia and finally turned up in Odessa, where he spent several years. He made the acquaintance at first, in his own words, “of a lot of low Jews, Jewesses, and Jewkins,” and ended by being received by “Jews high and low alike.” It may be presumed that at this period he developed a peculiar faculty for making and hoarding money. He finally returned to our town only three years before Alyosha’s arrival. His former acquaintances found him looking terribly aged, although he was by no means an old man. He behaved not exactly with more dignity but with more effrontery. The former buffoon showed an insolent propensity for making buffoons of others. His depravity with women was not simply what it used to be, but even more revolting. In a short time he opened a great number of new taverns in the district. It was evident that he had perhaps a hundred thousand roubles or not much less. Many of the inhabitants of the town and district were soon in his debt, and, of course, had given good security. Of late, too, he looked somehow bloated and seemed more irresponsible, more uneven, had sunk into a sort of incoherence, used to begin one thing and go on with another, as though he were letting himself go altogether. He was more and more frequently drunk. And, if it had not been for the same servant Grigory, who by that time had aged considerably too, and used to look after him sometimes almost like a tutor, Fyodor Pavlovitch might have got into terrible scrapes. Alyosha’s arrival seemed to affect even his moral side, as though something had awakened in this prematurely old man which had long been dead in his soul.

“Do you know,” he used often to say, looking at Alyosha, “that you are like her, ‘the crazy woman’ ”—that was what he used to call his dead wife, Alyosha’s mother. Grigory it was who pointed out the “crazy woman’s” grave to Alyosha. He took him to our town cemetery and showed him in a remote corner a cast‐iron tombstone, cheap but decently kept, on which were inscribed the name and age of the deceased and the date of her death, and below a four‐lined verse, such as are commonly used on old‐fashioned middle‐class tombs. To Alyosha’s amazement this tomb turned out to be Grigory’s doing. He had put it up on the poor “crazy woman’s” grave at his own expense, after Fyodor Pavlovitch, whom he had often pestered about the grave, had gone to Odessa, abandoning the grave and all his memories. Alyosha showed no particular emotion at the sight of his mother’s grave. He only listened to Grigory’s minute and solemn account of the erection of the tomb; he stood with bowed head and walked away without uttering a word. It was perhaps a year before he visited the cemetery again. But this little episode was not without an influence upon Fyodor Pavlovitch—and a very original one. He suddenly took a thousand roubles to our monastery to pay for requiems for the soul of his wife; but not for the second, Alyosha’s mother, the “crazy woman,” but for the first, Adelaïda Ivanovna, who used to thrash him. In the evening of the same day he got drunk and abused the monks to Alyosha. He himself was far from being religious; he had probably never put a penny candle before the image of a saint. Strange impulses of sudden feeling and sudden thought are common in such types.

I have mentioned already that he looked bloated. His countenance at this time bore traces of something that testified unmistakably to the life he had led. Besides the long fleshy bags under his little, always insolent, suspicious, and ironical eyes; besides the multitude of deep wrinkles in his little fat face, the Adam’s apple hung below his sharp chin like a great, fleshy goiter, which gave him a peculiar, repulsive, sensual appearance; add to that a long rapacious mouth with full lips, between which could be seen little stumps of black decayed teeth. He slobbered every time he began to speak. He was fond indeed of making fun of his own face, though, I believe, he was well satisfied with it. He used particularly to point to his nose, which was not very large, but very delicate and conspicuously aquiline. “A regular Roman nose,” he used to say, “with my goiter I’ve quite the countenance of an ancient Roman patrician of the decadent period.” He seemed proud of it.

Not long after visiting his mother’s grave Alyosha suddenly announced that he wanted to enter the monastery, and that the monks were willing to receive him as a novice. He explained that this was his strong desire, and that he was solemnly asking his consent as his father. The old man knew that the elder Zossima, who was living in the monastery hermitage, had made a special impression upon his “gentle boy.”

“That is the most honest monk among them, of course,” he observed, after listening in thoughtful silence to Alyosha, and seeming scarcely surprised at his request. “H’m!… So that’s where you want to be, my gentle boy?”

He was half drunk, and suddenly he grinned his slow half‐drunken grin, which was not without a certain cunning and tipsy slyness. “H’m!… I had a presentiment that you would end in something like this. Would you believe it? You were making straight for it. Well, to be sure you have your own two thousand. That’s a dowry for you. And I’ll never desert you, my angel. And I’ll pay what’s wanted for you there, if they ask for it. But, of course, if they don’t ask, why should we worry them? What do you say? You know, you spend money like a canary, two grains a week. H’m!… Do you know that near one monastery there’s a place outside the town where every baby knows there are none but ‘the monks’ wives’ living, as they are called. Thirty women, I believe. I have been there myself. You know, it’s interesting in its own way, of course, as a variety. The worst of it is it’s awfully Russian. There are no French women there. Of course they could get them fast enough, they have plenty of money. If they get to hear of it they’ll come along. Well, there’s nothing of that sort here, no ‘monks’ wives,’ and two hundred monks. They’re honest. They keep the fasts. I admit it…. H’m…. So you want to be a monk? And do you know I’m sorry to lose you, Alyosha; would you believe it, I’ve really grown fond of you? Well, it’s a good opportunity. You’ll pray for us sinners; we have sinned too much here. I’ve always been thinking who would pray for me, and whether there’s any one in the world to do it. My dear boy, I’m awfully stupid about that. You wouldn’t believe it. Awfully. You see, however stupid I am about it, I keep thinking, I keep thinking—from time to time, of course, not all the while. It’s impossible, I think, for the devils to forget to drag me down to hell with their hooks when I die. Then I wonder—hooks? Where would they get them? What of? Iron hooks? Where do they forge them? Have they a foundry there of some sort? The monks in the monastery probably believe that there’s a ceiling in hell, for instance. Now I’m ready to believe in hell, but without a ceiling. It makes it more refined, more enlightened, more Lutheran that is. And, after all, what does it matter whether it has a ceiling or hasn’t? But, do you know, there’s a damnable question involved in it? If there’s no ceiling there can be no hooks, and if there are no hooks it all breaks down, which is unlikely again, for then there would be none to drag me down to hell, and if they don’t drag me down what justice is there in the world? Il faudrait les inventer, those hooks, on purpose for me alone, for, if you only knew, Alyosha, what a blackguard I am.”

“But there are no hooks there,” said Alyosha, looking gently and seriously at his father.

“Yes, yes, only the shadows of hooks, I know, I know. That’s how a Frenchman described hell: ‘J’ai vu l’ombre d’un cocher qui avec l’ombre d’une brosse frottait l’ombre d’une carrosse.’ How do you know there are no hooks, darling? When you’ve lived with the monks you’ll sing a different tune. But go and get at the truth there, and then come and tell me. Anyway it’s easier going to the other world if one knows what there is there. Besides, it will be more seemly for you with the monks than here with me, with a drunken old man and young harlots … though you’re like an angel, nothing touches you. And I dare say nothing will touch you there. That’s why I let you go, because I hope for that. You’ve got all your wits about you. You will burn and you will burn out; you will be healed and come back again. And I will wait for you. I feel that you’re the only creature in the world who has not condemned me. My dear boy, I feel it, you know. I can’t help feeling it.”

And he even began blubbering. He was sentimental. He was wicked and sentimental.

Chapter V.
Elders
Some of my readers may imagine that my young man was a sickly, ecstatic, poorly developed creature, a pale, consumptive dreamer. On the contrary, Alyosha was at this time a well‐grown, red‐cheeked, clear‐eyed lad of nineteen, radiant with health. He was very handsome, too, graceful, moderately tall, with hair of a dark brown, with a regular, rather long, oval‐shaped face, and wide‐set dark gray, shining eyes; he was very thoughtful, and apparently very serene. I shall be told, perhaps, that red cheeks are not incompatible with fanaticism and mysticism; but I fancy that Alyosha was more of a realist than any one. Oh! no doubt, in the monastery he fully believed in miracles, but, to my thinking, miracles are never a stumbling‐block to the realist. It is not miracles that dispose realists to belief. The genuine realist, if he is an unbeliever, will always find strength and ability to disbelieve in the miraculous, and if he is confronted with a miracle as an irrefutable fact he would rather disbelieve his own senses than admit the fact. Even if he admits it, he admits it as a fact of nature till then unrecognized by him. Faith does not, in the realist, spring from the miracle but the miracle from faith. If the realist once believes, then he is bound by his very realism to admit the miraculous also. The Apostle Thomas said that he would not believe till he saw, but when he did see he said, “My Lord and my God!” Was it the miracle forced him to believe? Most likely not, but he believed solely because he desired to believe and possibly he fully believed in his secret heart even when he said, “I do not believe till I see.”

I shall be told, perhaps, that Alyosha was stupid, undeveloped, had not finished his studies, and so on. That he did not finish his studies is true, but to say that he was stupid or dull would be a great injustice. I’ll simply repeat what I have said above. He entered upon this path only because, at that time, it alone struck his imagination and presented itself to him as offering an ideal means of escape for his soul from darkness to light. Add to that that he was to some extent a youth of our last epoch—that is, honest in nature, desiring the truth, seeking for it and believing in it, and seeking to serve it at once with all the strength of his soul, seeking for immediate action, and ready to sacrifice everything, life itself, for it. Though these young men unhappily fail to understand that the sacrifice of life is, in many cases, the easiest of all sacrifices, and that to sacrifice, for instance, five or six years of their seething youth to hard and tedious study, if only to multiply tenfold their powers of serving the truth and the cause they have set before them as their goal—such a sacrifice is utterly beyond the strength of many of them. The path Alyosha chose was a path going in the opposite direction, but he chose it with the same thirst for swift achievement. As soon as he reflected seriously he was convinced of the existence of God and immortality, and at once he instinctively said to himself: “I want to live for immortality, and I will accept no compromise.” In the same way, if he had decided that God and immortality did not exist, he would at once have become an atheist and a socialist. For socialism is not merely the labor question, it is before all things the atheistic question, the question of the form taken by atheism to‐day, the question of the tower of Babel built without God, not to mount to heaven from earth but to set up heaven on earth. Alyosha would have found it strange and impossible to go on living as before. It is written: “Give all that thou hast to the poor and follow Me, if thou wouldst be perfect.”

Alyosha said to himself: “I can’t give two roubles instead of ‘all,’ and only go to mass instead of ‘following Him.’ ” Perhaps his memories of childhood brought back our monastery, to which his mother may have taken him to mass. Perhaps the slanting sunlight and the holy image to which his poor “crazy” mother had held him up still acted upon his imagination. Brooding on these things he may have come to us perhaps only to see whether here he could sacrifice all or only “two roubles,” and in the monastery he met this elder. I must digress to explain what an “elder” is in Russian monasteries, and I am sorry that I do not feel very competent to do so. I will try, however, to give a superficial account of it in a few words. Authorities on the subject assert that the institution of “elders” is of recent date, not more than a hundred years old in our monasteries, though in the orthodox East, especially in Sinai and Athos, it has existed over a thousand years. It is maintained that it existed in ancient times in Russia also, but through the calamities which overtook Russia—the Tartars, civil war, the interruption of relations with the East after the destruction of Constantinople—this institution fell into oblivion. It was revived among us towards the end of last century by one of the great “ascetics,” as they called him, Païssy Velitchkovsky, and his disciples. But to this day it exists in few monasteries only, and has sometimes been almost persecuted as an innovation in Russia. It flourished especially in the celebrated Kozelski Optin Monastery. When and how it was introduced into our monastery I cannot say. There had already been three such elders and Zossima was the last of them. But he was almost dying of weakness and disease, and they had no one to take his place. The question for our monastery was an important one, for it had not been distinguished by anything in particular till then: they had neither relics of saints, nor wonder‐working ikons, nor glorious traditions, nor historical exploits. It had flourished and been glorious all over Russia through its elders, to see and hear whom pilgrims had flocked for thousands of miles from all parts.

What was such an elder? An elder was one who took your soul, your will, into his soul and his will. When you choose an elder, you renounce your own will and yield it to him in complete submission, complete self‐ abnegation. This novitiate, this terrible school of abnegation, is undertaken voluntarily, in the hope of self‐conquest, of self‐mastery, in order, after a life of obedience, to attain perfect freedom, that is, from self; to escape the lot of those who have lived their whole life without finding their true selves in themselves. This institution of elders is not founded on theory, but was established in the East from the practice of a thousand years. The obligations due to an elder are not the ordinary “obedience” which has always existed in our Russian monasteries. The obligation involves confession to the elder by all who have submitted themselves to him, and to the indissoluble bond between him and them.

The story is told, for instance, that in the early days of Christianity one such novice, failing to fulfill some command laid upon him by his elder, left his monastery in Syria and went to Egypt. There, after great exploits, he was found worthy at last to suffer torture and a martyr’s death for the faith. When the Church, regarding him as a saint, was burying him, suddenly, at the deacon’s exhortation, “Depart all ye unbaptized,” the coffin containing the martyr’s body left its place and was cast forth from the church, and this took place three times. And only at last they learnt that this holy man had broken his vow of obedience and left his elder, and, therefore, could not be forgiven without the elder’s absolution in spite of his great deeds. Only after this could the funeral take place. This, of course, is only an old legend. But here is a recent instance.

A monk was suddenly commanded by his elder to quit Athos, which he loved as a sacred place and a haven of refuge, and to go first to Jerusalem to do homage to the Holy Places and then to go to the north to Siberia: “There is the place for thee and not here.” The monk, overwhelmed with sorrow, went to the Œcumenical Patriarch at Constantinople and besought him to release him from his obedience. But the Patriarch replied that not only was he unable to release him, but there was not and could not be on earth a power which could release him except the elder who had himself laid that duty upon him. In this way the elders are endowed in certain cases with unbounded and inexplicable authority. That is why in many of our monasteries the institution was at first resisted almost to persecution. Meantime the elders immediately began to be highly esteemed among the people. Masses of the ignorant people as well as men of distinction flocked, for instance, to the elders of our monastery to confess their doubts, their sins, and their sufferings, and ask for counsel and admonition. Seeing this, the opponents of the elders declared that the sacrament of confession was being arbitrarily and frivolously degraded, though the continual opening of the heart to the elder by the monk or the layman had nothing of the character of the sacrament. In the end, however, the institution of elders has been retained and is becoming established in Russian monasteries. It is true, perhaps, that this instrument which had stood the test of a thousand years for the moral regeneration of a man from slavery to freedom and to moral perfectibility may be a two‐edged weapon and it may lead some not to humility and complete self‐control but to the most Satanic pride, that is, to bondage and not to freedom.

The elder Zossima was sixty‐five. He came of a family of landowners, had been in the army in early youth, and served in the Caucasus as an officer. He had, no doubt, impressed Alyosha by some peculiar quality of his soul. Alyosha lived in the cell of the elder, who was very fond of him and let him wait upon him. It must be noted that Alyosha was bound by no obligation and could go where he pleased and be absent for whole days. Though he wore the monastic dress it was voluntarily, not to be different from others. No doubt he liked to do so. Possibly his youthful imagination was deeply stirred by the power and fame of his elder. It was said that so many people had for years past come to confess their sins to Father Zossima and to entreat him for words of advice and healing, that he had acquired the keenest intuition and could tell from an unknown face what a new‐comer wanted, and what was the suffering on his conscience. He sometimes astounded and almost alarmed his visitors by his knowledge of their secrets before they had spoken a word.

Alyosha noticed that many, almost all, went in to the elder for the first time with apprehension and uneasiness, but came out with bright and happy faces. Alyosha was particularly struck by the fact that Father Zossima was not at all stern. On the contrary, he was always almost gay. The monks used to say that he was more drawn to those who were more sinful, and the greater the sinner the more he loved him. There were, no doubt, up to the end of his life, among the monks some who hated and envied him, but they were few in number and they were silent, though among them were some of great dignity in the monastery, one, for instance, of the older monks distinguished for his strict keeping of fasts and vows of silence. But the majority were on Father Zossima’s side and very many of them loved him with all their hearts, warmly and sincerely. Some were almost fanatically devoted to him, and declared, though not quite aloud, that he was a saint, that there could be no doubt of it, and, seeing that his end was near, they anticipated miracles and great glory to the monastery in the immediate future from his relics. Alyosha had unquestioning faith in the miraculous power of the elder, just as he had unquestioning faith in the story of the coffin that flew out of the church. He saw many who came with sick children or relatives and besought the elder to lay hands on them and to pray over them, return shortly after—some the next day—and, falling in tears at the elder’s feet, thank him for healing their sick.

Whether they had really been healed or were simply better in the natural course of the disease was a question which did not exist for Alyosha, for he fully believed in the spiritual power of his teacher and rejoiced in his fame, in his glory, as though it were his own triumph. His heart throbbed, and he beamed, as it were, all over when the elder came out to the gates of the hermitage into the waiting crowd of pilgrims of the humbler class who had flocked from all parts of Russia on purpose to see the elder and obtain his blessing. They fell down before him, wept, kissed his feet, kissed the earth on which he stood, and wailed, while the women held up their children to him and brought him the sick “possessed with devils.” The elder spoke to them, read a brief prayer over them, blessed them, and dismissed them. Of late he had become so weak through attacks of illness that he was sometimes unable to leave his cell, and the pilgrims waited for him to come out for several days. Alyosha did not wonder why they loved him so, why they fell down before him and wept with emotion merely at seeing his face. Oh! he understood that for the humble soul of the Russian peasant, worn out by grief and toil, and still more by the everlasting injustice and everlasting sin, his own and the world’s, it was the greatest need and comfort to find some one or something holy to fall down before and worship.

“Among us there is sin, injustice, and temptation, but yet, somewhere on earth there is some one holy and exalted. He has the truth; he knows the truth; so it is not dead upon the earth; so it will come one day to us, too, and rule over all the earth according to the promise.”

Alyosha knew that this was just how the people felt and even reasoned. He understood it, but that the elder Zossima was this saint and custodian of God’s truth—of that he had no more doubt than the weeping peasants and the sick women who held out their children to the elder. The conviction that after his death the elder would bring extraordinary glory to the monastery was even stronger in Alyosha than in any one there, and, of late, a kind of deep flame of inner ecstasy burnt more and more strongly in his heart. He was not at all troubled at this elder’s standing as a solitary example before him.

“No matter. He is holy. He carries in his heart the secret of renewal for all: that power which will, at last, establish truth on the earth, and all men will be holy and love one another, and there will be no more rich nor poor, no exalted nor humbled, but all will be as the children of God, and the true Kingdom of Christ will come.” That was the dream in Alyosha’s heart.

The arrival of his two brothers, whom he had not known till then, seemed to make a great impression on Alyosha. He more quickly made friends with his half‐brother Dmitri (though he arrived later) than with his own brother Ivan. He was extremely interested in his brother Ivan, but when the latter had been two months in the town, though they had met fairly often, they were still not intimate. Alyosha was naturally silent, and he seemed to be expecting something, ashamed about something, while his brother Ivan, though Alyosha noticed at first that he looked long and curiously at him, seemed soon to have left off thinking of him. Alyosha noticed it with some embarrassment. He ascribed his brother’s indifference at first to the disparity of their age and education. But he also wondered whether the absence of curiosity and sympathy in Ivan might be due to some other cause entirely unknown to him. He kept fancying that Ivan was absorbed in something—something inward and important—that he was striving towards some goal, perhaps very hard to attain, and that that was why he had no thought for him. Alyosha wondered, too, whether there was not some contempt on the part of the learned atheist for him—a foolish novice. He knew for certain that his brother was an atheist. He could not take offense at this contempt, if it existed; yet, with an uneasy embarrassment which he did not himself understand, he waited for his brother to come nearer to him. Dmitri used to speak of Ivan with the deepest respect and with a peculiar earnestness. From him Alyosha learnt all the details of the important affair which had of late formed such a close and remarkable bond between the two elder brothers. Dmitri’s enthusiastic references to Ivan were the more striking in Alyosha’s eyes since Dmitri was, compared with Ivan, almost uneducated, and the two brothers were such a contrast in personality and character that it would be difficult to find two men more unlike.

It was at this time that the meeting, or, rather gathering of the members of this inharmonious family took place in the cell of the elder who had such an extraordinary influence on Alyosha. The pretext for this gathering was a false one. It was at this time that the discord between Dmitri and his father seemed at its acutest stage and their relations had become insufferably strained. Fyodor Pavlovitch seems to have been the first to suggest, apparently in joke, that they should all meet in Father Zossima’s cell, and that, without appealing to his direct intervention, they might more decently come to an understanding under the conciliating influence of the elder’s presence. Dmitri, who had never seen the elder, naturally supposed that his father was trying to intimidate him, but, as he secretly blamed himself for his outbursts of temper with his father on several recent occasions, he accepted the challenge. It must be noted that he was not, like Ivan, staying with his father, but living apart at the other end of the town. It happened that Pyotr Alexandrovitch Miüsov, who was staying in the district at the time, caught eagerly at the idea. A Liberal of the forties and fifties, a freethinker and atheist, he may have been led on by boredom or the hope of frivolous diversion. He was suddenly seized with the desire to see the monastery and the holy man. As his lawsuit with the monastery still dragged on, he made it the pretext for seeing the Superior, in order to attempt to settle it amicably. A visitor coming with such laudable intentions might be received with more attention and consideration than if he came from simple curiosity. Influences from within the monastery were brought to bear on the elder, who of late had scarcely left his cell, and had been forced by illness to deny even his ordinary visitors. In the end he consented to see them, and the day was fixed.

“Who has made me a judge over them?” was all he said, smilingly, to Alyosha.

Alyosha was much perturbed when he heard of the proposed visit. Of all the wrangling, quarrelsome party, Dmitri was the only one who could regard the interview seriously. All the others would come from frivolous motives, perhaps insulting to the elder. Alyosha was well aware of that. Ivan and Miüsov would come from curiosity, perhaps of the coarsest kind, while his father might be contemplating some piece of buffoonery. Though he said nothing, Alyosha thoroughly understood his father. The boy, I repeat, was far from being so simple as every one thought him. He awaited the day with a heavy heart. No doubt he was always pondering in his mind how the family discord could be ended. But his chief anxiety concerned the elder. He trembled for him, for his glory, and dreaded any affront to him, especially the refined, courteous irony of Miüsov and the supercilious half‐utterances of the highly educated Ivan. He even wanted to venture on warning the elder, telling him something about them, but, on second thoughts, said nothing. He only sent word the day before, through a friend, to his brother Dmitri, that he loved him and expected him to keep his promise. Dmitri wondered, for he could not remember what he had promised, but he answered by letter that he would do his utmost not to let himself be provoked “by vileness,” but that, although he had a deep respect for the elder and for his brother Ivan, he was convinced that the meeting was either a trap for him or an unworthy farce.

“Nevertheless I would rather bite out my tongue than be lacking in respect to the sainted man whom you reverence so highly,” he wrote in conclusion. Alyosha was not greatly cheered by the letter.

Book II. An Unfortunate Gathering
Chapter I.
They Arrive At The Monastery
It was a warm, bright day at the end of August. The interview with the elder had been fixed for half‐past eleven, immediately after late mass. Our visitors did not take part in the service, but arrived just as it was over. First an elegant open carriage, drawn by two valuable horses, drove up with Miüsov and a distant relative of his, a young man of twenty, called Pyotr Fomitch Kalganov. This young man was preparing to enter the university. Miüsov, with whom he was staying for the time, was trying to persuade him to go abroad to the university of Zurich or Jena. The young man was still undecided. He was thoughtful and absent‐minded. He was nice‐ looking, strongly built, and rather tall. There was a strange fixity in his gaze at times. Like all very absent‐minded people he would sometimes stare at a person without seeing him. He was silent and rather awkward, but sometimes, when he was alone with any one, he became talkative and effusive, and would laugh at anything or nothing. But his animation vanished as quickly as it appeared. He was always well and even elaborately dressed; he had already some independent fortune and expectations of much more. He was a friend of Alyosha’s.

In an ancient, jolting, but roomy, hired carriage, with a pair of old pinkish‐gray horses, a long way behind Miüsov’s carriage, came Fyodor Pavlovitch, with his son Ivan. Dmitri was late, though he had been informed of the time the evening before. The visitors left their carriage at the hotel, outside the precincts, and went to the gates of the monastery on foot. Except Fyodor Pavlovitch, none of the party had ever seen the monastery, and Miüsov had probably not even been to church for thirty years. He looked about him with curiosity, together with assumed ease. But, except the church and the domestic buildings, though these too were ordinary enough, he found nothing of interest in the interior of the monastery. The last of the worshippers were coming out of the church, bareheaded and crossing themselves. Among the humbler people were a few of higher rank—two or three ladies and a very old general. They were all staying at the hotel. Our visitors were at once surrounded by beggars, but none of them gave them anything, except young Kalganov, who took a ten‐ copeck piece out of his purse, and, nervous and embarrassed—God knows why!—hurriedly gave it to an old woman, saying: “Divide it equally.” None of his companions made any remark upon it, so that he had no reason to be embarrassed; but, perceiving this, he was even more overcome.

It was strange that their arrival did not seem expected, and that they were not received with special honor, though one of them had recently made a donation of a thousand roubles, while another was a very wealthy and highly cultured landowner, upon whom all in the monastery were in a sense dependent, as a decision of the lawsuit might at any moment put their fishing rights in his hands. Yet no official personage met them.

Miüsov looked absent‐mindedly at the tombstones round the church, and was on the point of saying that the dead buried here must have paid a pretty penny for the right of lying in this “holy place,” but refrained. His liberal irony was rapidly changing almost into anger.

“Who the devil is there to ask in this imbecile place? We must find out, for time is passing,” he observed suddenly, as though speaking to himself.

All at once there came up a bald‐headed, elderly man with ingratiating little eyes, wearing a full, summer overcoat. Lifting his hat, he introduced himself with a honeyed lisp as Maximov, a landowner of Tula. He at once entered into our visitors’ difficulty.

“Father Zossima lives in the hermitage, apart, four hundred paces from the monastery, the other side of the copse.”

“I know it’s the other side of the copse,” observed Fyodor Pavlovitch, “but we don’t remember the way. It is a long time since we’ve been here.”

“This way, by this gate, and straight across the copse … the copse. Come with me, won’t you? I’ll show you. I have to go…. I am going myself. This way, this way.”

They came out of the gate and turned towards the copse. Maximov, a man of sixty, ran rather than walked, turning sideways to stare at them all, with an incredible degree of nervous curiosity. His eyes looked starting out of his head.

“You see, we have come to the elder upon business of our own,” observed Miüsov severely. “That personage has granted us an audience, so to speak, and so, though we thank you for showing us the way, we cannot ask you to accompany us.”

“I’ve been there. I’ve been already; un chevalier parfait,” and Maximov snapped his fingers in the air.

“Who is a chevalier?” asked Miüsov.

“The elder, the splendid elder, the elder! The honor and glory of the monastery, Zossima. Such an elder!”

But his incoherent talk was cut short by a very pale, wan‐looking monk of medium height, wearing a monk’s cap, who overtook them. Fyodor Pavlovitch and Miüsov stopped.

The monk, with an extremely courteous, profound bow, announced:

“The Father Superior invites all of you gentlemen to dine with him after your visit to the hermitage. At one o’clock, not later. And you also,” he added, addressing Maximov.

“That I certainly will, without fail,” cried Fyodor Pavlovitch, hugely delighted at the invitation. “And, believe me, we’ve all given our word to behave properly here…. And you, Pyotr Alexandrovitch, will you go, too?”

“Yes, of course. What have I come for but to study all the customs here? The only obstacle to me is your company….”

“Yes, Dmitri Fyodorovitch is non‐existent as yet.”

“It would be a capital thing if he didn’t turn up. Do you suppose I like all this business, and in your company, too? So we will come to dinner. Thank the Father Superior,” he said to the monk.

“No, it is my duty now to conduct you to the elder,” answered the monk.

“If so I’ll go straight to the Father Superior—to the Father Superior,” babbled Maximov.

“The Father Superior is engaged just now. But as you please—” the monk hesitated.

“Impertinent old man!” Miüsov observed aloud, while Maximov ran back to the monastery.

“He’s like von Sohn,” Fyodor Pavlovitch said suddenly.

“Is that all you can think of?… In what way is he like von Sohn? Have you ever seen von Sohn?”

“I’ve seen his portrait. It’s not the features, but something indefinable. He’s a second von Sohn. I can always tell from the physiognomy.”

“Ah, I dare say you are a connoisseur in that. But, look here, Fyodor Pavlovitch, you said just now that we had given our word to behave properly. Remember it. I advise you to control yourself. But, if you begin to play the fool I don’t intend to be associated with you here…. You see what a man he is”—he turned to the monk—“I’m afraid to go among decent people with him.” A fine smile, not without a certain slyness, came on to the pale, bloodless lips of the monk, but he made no reply, and was evidently silent from a sense of his own dignity. Miüsov frowned more than ever.

“Oh, devil take them all! An outer show elaborated through centuries, and nothing but charlatanism and nonsense underneath,” flashed through Miüsov’s mind.

“Here’s the hermitage. We’ve arrived,” cried Fyodor Pavlovitch. “The gates are shut.”

And he repeatedly made the sign of the cross to the saints painted above and on the sides of the gates.

“When you go to Rome you must do as the Romans do. Here in this hermitage there are twenty‐five saints being saved. They look at one another, and eat cabbages. And not one woman goes in at this gate. That’s what is remarkable. And that really is so. But I did hear that the elder receives ladies,” he remarked suddenly to the monk.

“Women of the people are here too now, lying in the portico there waiting. But for ladies of higher rank two rooms have been built adjoining the portico, but outside the precincts—you can see the windows—and the elder goes out to them by an inner passage when he is well enough. They are always outside the precincts. There is a Harkov lady, Madame Hohlakov, waiting there now with her sick daughter. Probably he has promised to come out to her, though of late he has been so weak that he has hardly shown himself even to the people.”

“So then there are loopholes, after all, to creep out of the hermitage to the ladies. Don’t suppose, holy father, that I mean any harm. But do you know that at Athos not only the visits of women are not allowed, but no creature of the female sex—no hens, nor turkey‐hens, nor cows.”

“Fyodor Pavlovitch, I warn you I shall go back and leave you here. They’ll turn you out when I’m gone.”

“But I’m not interfering with you, Pyotr Alexandrovitch. Look,” he cried suddenly, stepping within the precincts, “what a vale of roses they live in!”

Though there were no roses now, there were numbers of rare and beautiful autumn flowers growing wherever there was space for them, and evidently tended by a skillful hand; there were flower‐beds round the church, and between the tombs; and the one‐storied wooden house where the elder lived was also surrounded with flowers.

“And was it like this in the time of the last elder, Varsonofy? He didn’t care for such elegance. They say he used to jump up and thrash even ladies with a stick,” observed Fyodor Pavlovitch, as he went up the steps.

“The elder Varsonofy did sometimes seem rather strange, but a great deal that’s told is foolishness. He never thrashed any one,” answered the monk. “Now, gentlemen, if you will wait a minute I will announce you.”

“Fyodor Pavlovitch, for the last time, your compact, do you hear? Behave properly or I will pay you out!” Miüsov had time to mutter again.

“I can’t think why you are so agitated,” Fyodor Pavlovitch observed sarcastically. “Are you uneasy about your sins? They say he can tell by one’s eyes what one has come about. And what a lot you think of their opinion! you, a Parisian, and so advanced. I’m surprised at you.”

But Miüsov had no time to reply to this sarcasm. They were asked to come in. He walked in, somewhat irritated.

“Now, I know myself, I am annoyed, I shall lose my temper and begin to quarrel—and lower myself and my ideas,” he reflected.

Chapter II.
The Old Buffoon
They entered the room almost at the same moment that the elder came in from his bedroom. There were already in the cell, awaiting the elder, two monks of the hermitage, one the Father Librarian, and the other Father Païssy, a very learned man, so they said, in delicate health, though not old. There was also a tall young man, who looked about two and twenty, standing in the corner throughout the interview. He had a broad, fresh face, and clever, observant, narrow brown eyes, and was wearing ordinary dress. He was a divinity student, living under the protection of the monastery. His expression was one of unquestioning, but self‐respecting, reverence. Being in a subordinate and dependent position, and so not on an equality with the guests, he did not greet them with a bow.

Father Zossima was accompanied by a novice, and by Alyosha. The two monks rose and greeted him with a very deep bow, touching the ground with their fingers; then kissed his hand. Blessing them, the elder replied with as deep a reverence to them, and asked their blessing. The whole ceremony was performed very seriously and with an appearance of feeling, not like an everyday rite. But Miüsov fancied that it was all done with intentional impressiveness. He stood in front of the other visitors. He ought—he had reflected upon it the evening before—from simple politeness, since it was the custom here, to have gone up to receive the elder’s blessing, even if he did not kiss his hand. But when he saw all this bowing and kissing on the part of the monks he instantly changed his mind. With dignified gravity he made a rather deep, conventional bow, and moved away to a chair. Fyodor Pavlovitch did the same, mimicking Miüsov like an ape. Ivan bowed with great dignity and courtesy, but he too kept his hands at his sides, while Kalganov was so confused that he did not bow at all. The elder let fall the hand raised to bless them, and bowing to them again, asked them all to sit down. The blood rushed to Alyosha’s cheeks. He was ashamed. His forebodings were coming true.

Father Zossima sat down on a very old‐fashioned mahogany sofa, covered with leather, and made his visitors sit down in a row along the opposite wall on four mahogany chairs, covered with shabby black leather. The monks sat, one at the door and the other at the window. The divinity student, the novice, and Alyosha remained standing. The cell was not very large and had a faded look. It contained nothing but the most necessary furniture, of coarse and poor quality. There were two pots of flowers in the window, and a number of holy pictures in the corner. Before one huge ancient ikon of the Virgin a lamp was burning. Near it were two other holy pictures in shining settings, and, next them, carved cherubims, china eggs, a Catholic cross of ivory, with a Mater Dolorosa embracing it, and several foreign engravings from the great Italian artists of past centuries. Next to these costly and artistic engravings were several of the roughest Russian prints of saints and martyrs, such as are sold for a few farthings at all the fairs. On the other walls were portraits of Russian bishops, past and present.

Miüsov took a cursory glance at all these “conventional” surroundings and bent an intent look upon the elder. He had a high opinion of his own insight, a weakness excusable in him as he was fifty, an age at which a clever man of the world of established position can hardly help taking himself rather seriously. At the first moment he did not like Zossima. There was, indeed, something in the elder’s face which many people besides Miüsov might not have liked. He was a short, bent, little man, with very weak legs, and though he was only sixty‐five, he looked at least ten years older. His face was very thin and covered with a network of fine wrinkles, particularly numerous about his eyes, which were small, light‐colored, quick, and shining like two bright points. He had a sprinkling of gray hair about his temples. His pointed beard was small and scanty, and his lips, which smiled frequently, were as thin as two threads. His nose was not long, but sharp, like a bird’s beak.

“To all appearances a malicious soul, full of petty pride,” thought Miüsov. He felt altogether dissatisfied with his position.

A cheap little clock on the wall struck twelve hurriedly, and served to begin the conversation.

“Precisely to our time,” cried Fyodor Pavlovitch, “but no sign of my son, Dmitri. I apologize for him, sacred elder!” (Alyosha shuddered all over at “sacred elder.”) “I am always punctual myself, minute for minute, remembering that punctuality is the courtesy of kings….”

“But you are not a king, anyway,” Miüsov muttered, losing his self‐ restraint at once.

“Yes; that’s true. I’m not a king, and, would you believe it, Pyotr Alexandrovitch, I was aware of that myself. But, there! I always say the wrong thing. Your reverence,” he cried, with sudden pathos, “you behold before you a buffoon in earnest! I introduce myself as such. It’s an old habit, alas! And if I sometimes talk nonsense out of place it’s with an object, with the object of amusing people and making myself agreeable. One must be agreeable, mustn’t one? I was seven years ago in a little town where I had business, and I made friends with some merchants there. We went to the captain of police because we had to see him about something, and to ask him to dine with us. He was a tall, fat, fair, sulky man, the most dangerous type in such cases. It’s their liver. I went straight up to him, and with the ease of a man of the world, you know, ‘Mr. Ispravnik,’ said I, ‘be our Napravnik.’ ‘What do you mean by Napravnik?’ said he. I saw, at the first half‐second, that it had missed fire. He stood there so glum. ‘I wanted to make a joke,’ said I, ‘for the general diversion, as Mr. Napravnik is our well‐known Russian orchestra conductor and what we need for the harmony of our undertaking is some one of that sort.’ And I explained my comparison very reasonably, didn’t I? ‘Excuse me,’ said he, ‘I am an Ispravnik, and I do not allow puns to be made on my calling.’ He turned and walked away. I followed him, shouting, ‘Yes, yes, you are an Ispravnik, not a Napravnik.’ ‘No,’ he said, ‘since you called me a Napravnik I am one.’ And would you believe it, it ruined our business! And I’m always like that, always like that. Always injuring myself with my politeness. Once, many years ago, I said to an influential person: ‘Your wife is a ticklish lady,’ in an honorable sense, of the moral qualities, so to speak. But he asked me, ‘Why, have you tickled her?’ I thought I’d be polite, so I couldn’t help saying, ‘Yes,’ and he gave me a fine tickling on the spot. Only that happened long ago, so I’m not ashamed to tell the story. I’m always injuring myself like that.”

“You’re doing it now,” muttered Miüsov, with disgust.

Father Zossima scrutinized them both in silence.

“Am I? Would you believe it, I was aware of that, too, Pyotr Alexandrovitch, and let me tell you, indeed, I foresaw I should as soon as I began to speak. And do you know I foresaw, too, that you’d be the first to remark on it. The minute I see my joke isn’t coming off, your reverence, both my cheeks feel as though they were drawn down to the lower jaw and there is almost a spasm in them. That’s been so since I was young, when I had to make jokes for my living in noblemen’s families. I am an inveterate buffoon, and have been from birth up, your reverence, it’s as though it were a craze in me. I dare say it’s a devil within me. But only a little one. A more serious one would have chosen another lodging. But not your soul, Pyotr Alexandrovitch; you’re not a lodging worth having either. But I do believe—I believe in God, though I have had doubts of late. But now I sit and await words of wisdom. I’m like the philosopher, Diderot, your reverence. Did you ever hear, most Holy Father, how Diderot went to see the Metropolitan Platon, in the time of the Empress Catherine? He went in and said straight out, ‘There is no God.’ To which the great bishop lifted up his finger and answered, ‘The fool hath said in his heart there is no God.’ And he fell down at his feet on the spot. ‘I believe,’ he cried, ‘and will be christened.’ And so he was. Princess Dashkov was his godmother, and Potyomkin his godfather.”

“Fyodor Pavlovitch, this is unbearable! You know you’re telling lies and that that stupid anecdote isn’t true. Why are you playing the fool?” cried Miüsov in a shaking voice.

“I suspected all my life that it wasn’t true,” Fyodor Pavlovitch cried with conviction. “But I’ll tell you the whole truth, gentlemen. Great elder! Forgive me, the last thing about Diderot’s christening I made up just now. I never thought of it before. I made it up to add piquancy. I play the fool, Pyotr Alexandrovitch, to make myself agreeable. Though I really don’t know myself, sometimes, what I do it for. And as for Diderot, I heard as far as ‘the fool hath said in his heart’ twenty times from the gentry about here when I was young. I heard your aunt, Pyotr Alexandrovitch, tell the story. They all believe to this day that the infidel Diderot came to dispute about God with the Metropolitan Platon….”

Miüsov got up, forgetting himself in his impatience. He was furious, and conscious of being ridiculous.

What was taking place in the cell was really incredible. For forty or fifty years past, from the times of former elders, no visitors had entered that cell without feelings of the profoundest veneration. Almost every one admitted to the cell felt that a great favor was being shown him. Many remained kneeling during the whole visit. Of those visitors, many had been men of high rank and learning, some even freethinkers, attracted by curiosity, but all without exception had shown the profoundest reverence and delicacy, for here there was no question of money, but only, on the one side love and kindness, and on the other penitence and eager desire to decide some spiritual problem or crisis. So that such buffoonery amazed and bewildered the spectators, or at least some of them. The monks, with unchanged countenances, waited, with earnest attention, to hear what the elder would say, but seemed on the point of standing up, like Miüsov. Alyosha stood, with hanging head, on the verge of tears. What seemed to him strangest of all was that his brother Ivan, on whom alone he had rested his hopes, and who alone had such influence on his father that he could have stopped him, sat now quite unmoved, with downcast eyes, apparently waiting with interest to see how it would end, as though he had nothing to do with it. Alyosha did not dare to look at Rakitin, the divinity student, whom he knew almost intimately. He alone in the monastery knew Rakitin’s thoughts.

“Forgive me,” began Miüsov, addressing Father Zossima, “for perhaps I seem to be taking part in this shameful foolery. I made a mistake in believing that even a man like Fyodor Pavlovitch would understand what was due on a visit to so honored a personage. I did not suppose I should have to apologize simply for having come with him….”

Pyotr Alexandrovitch could say no more, and was about to leave the room, overwhelmed with confusion.

“Don’t distress yourself, I beg.” The elder got on to his feeble legs, and taking Pyotr Alexandrovitch by both hands, made him sit down again. “I beg you not to disturb yourself. I particularly beg you to be my guest.” And with a bow he went back and sat down again on his little sofa.

“Great elder, speak! Do I annoy you by my vivacity?” Fyodor Pavlovitch cried suddenly, clutching the arms of his chair in both hands, as though ready to leap up from it if the answer were unfavorable.

“I earnestly beg you, too, not to disturb yourself, and not to be uneasy,” the elder said impressively. “Do not trouble. Make yourself quite at home. And, above all, do not be so ashamed of yourself, for that is at the root of it all.”

“Quite at home? To be my natural self? Oh, that is much too much, but I accept it with grateful joy. Do you know, blessed Father, you’d better not invite me to be my natural self. Don’t risk it…. I will not go so far as that myself. I warn you for your own sake. Well, the rest is still plunged in the mists of uncertainty, though there are people who’d be pleased to describe me for you. I mean that for you, Pyotr Alexandrovitch. But as for you, holy being, let me tell you, I am brimming over with ecstasy.”

He got up, and throwing up his hands, declaimed, “Blessed be the womb that bare thee, and the paps that gave thee suck—the paps especially. When you said just now, ‘Don’t be so ashamed of yourself, for that is at the root of it all,’ you pierced right through me by that remark, and read me to the core. Indeed, I always feel when I meet people that I am lower than all, and that they all take me for a buffoon. So I say, ‘Let me really play the buffoon. I am not afraid of your opinion, for you are every one of you worse than I am.’ That is why I am a buffoon. It is from shame, great elder, from shame; it’s simply over‐sensitiveness that makes me rowdy. If I had only been sure that every one would accept me as the kindest and wisest of men, oh, Lord, what a good man I should have been then! Teacher!” he fell suddenly on his knees, “what must I do to gain eternal life?”

It was difficult even now to decide whether he was joking or really moved.

Father Zossima, lifting his eyes, looked at him, and said with a smile:

“You have known for a long time what you must do. You have sense enough: don’t give way to drunkenness and incontinence of speech; don’t give way to sensual lust; and, above all, to the love of money. And close your taverns. If you can’t close all, at least two or three. And, above all—don’t lie.”

“You mean about Diderot?”

“No, not about Diderot. Above all, don’t lie to yourself. The man who lies to himself and listens to his own lie comes to such a pass that he cannot distinguish the truth within him, or around him, and so loses all respect for himself and for others. And having no respect he ceases to love, and in order to occupy and distract himself without love he gives way to passions and coarse pleasures, and sinks to bestiality in his vices, all from continual lying to other men and to himself. The man who lies to himself can be more easily offended than any one. You know it is sometimes very pleasant to take offense, isn’t it? A man may know that nobody has insulted him, but that he has invented the insult for himself, has lied and exaggerated to make it picturesque, has caught at a word and made a mountain out of a molehill—he knows that himself, yet he will be the first to take offense, and will revel in his resentment till he feels great pleasure in it, and so pass to genuine vindictiveness. But get up, sit down, I beg you. All this, too, is deceitful posturing….”

“Blessed man! Give me your hand to kiss.”

Fyodor Pavlovitch skipped up, and imprinted a rapid kiss on the elder’s thin hand. “It is, it is pleasant to take offense. You said that so well, as I never heard it before. Yes, I have been all my life taking offense, to please myself, taking offense on esthetic grounds, for it is not so much pleasant as distinguished sometimes to be insulted—that you had forgotten, great elder, it is distinguished! I shall make a note of that. But I have been lying, lying positively my whole life long, every day and hour of it. Of a truth, I am a lie, and the father of lies. Though I believe I am not the father of lies. I am getting mixed in my texts. Say, the son of lies, and that will be enough. Only … my angel … I may sometimes talk about Diderot! Diderot will do no harm, though sometimes a word will do harm. Great elder, by the way, I was forgetting, though I had been meaning for the last two years to come here on purpose to ask and to find out something. Only do tell Pyotr Alexandrovitch not to interrupt me. Here is my question: Is it true, great Father, that the story is told somewhere in the Lives of the Saints of a holy saint martyred for his faith who, when his head was cut off at last, stood up, picked up his head, and, ‘courteously kissing it,’ walked a long way, carrying it in his hands. Is that true or not, honored Father?”

“No, it is untrue,” said the elder.

“There is nothing of the kind in all the lives of the saints. What saint do you say the story is told of?” asked the Father Librarian.

“I do not know what saint. I do not know, and can’t tell. I was deceived. I was told the story. I had heard it, and do you know who told it? Pyotr Alexandrovitch Miüsov here, who was so angry just now about Diderot. He it was who told the story.”

“I have never told it you, I never speak to you at all.”

“It is true you did not tell me, but you told it when I was present. It was three years ago. I mentioned it because by that ridiculous story you shook my faith, Pyotr Alexandrovitch. You knew nothing of it, but I went home with my faith shaken, and I have been getting more and more shaken ever since. Yes, Pyotr Alexandrovitch, you were the cause of a great fall. That was not a Diderot!”

Fyodor Pavlovitch got excited and pathetic, though it was perfectly clear to every one by now that he was playing a part again. Yet Miüsov was stung by his words.

“What nonsense, and it is all nonsense,” he muttered. “I may really have told it, some time or other … but not to you. I was told it myself. I heard it in Paris from a Frenchman. He told me it was read at our mass from the Lives of the Saints … he was a very learned man who had made a special study of Russian statistics and had lived a long time in Russia…. I have not read the Lives of the Saints myself, and I am not going to read them … all sorts of things are said at dinner—we were dining then.”

“Yes, you were dining then, and so I lost my faith!” said Fyodor Pavlovitch, mimicking him.

“What do I care for your faith?” Miüsov was on the point of shouting, but he suddenly checked himself, and said with contempt, “You defile everything you touch.”

The elder suddenly rose from his seat. “Excuse me, gentlemen, for leaving you a few minutes,” he said, addressing all his guests. “I have visitors awaiting me who arrived before you. But don’t you tell lies all the same,” he added, turning to Fyodor Pavlovitch with a good‐humored face. He went out of the cell. Alyosha and the novice flew to escort him down the steps. Alyosha was breathless: he was glad to get away, but he was glad, too, that the elder was good‐humored and not offended. Father Zossima was going towards the portico to bless the people waiting for him there. But Fyodor Pavlovitch persisted in stopping him at the door of the cell.

“Blessed man!” he cried, with feeling. “Allow me to kiss your hand once more. Yes, with you I could still talk, I could still get on. Do you think I always lie and play the fool like this? Believe me, I have been acting like this all the time on purpose to try you. I have been testing you all the time to see whether I could get on with you. Is there room for my humility beside your pride? I am ready to give you a testimonial that one can get on with you! But now, I’ll be quiet; I will keep quiet all the time. I’ll sit in a chair and hold my tongue. Now it is for you to speak, Pyotr Alexandrovitch. You are the principal person left now—for ten minutes.”

Chapter III.
Peasant Women Who Have Faith
Near the wooden portico below, built on to the outer wall of the precinct, there was a crowd of about twenty peasant women. They had been told that the elder was at last coming out, and they had gathered together in anticipation. Two ladies, Madame Hohlakov and her daughter, had also come out into the portico to wait for the elder, but in a separate part of it set aside for women of rank.

Madame Hohlakov was a wealthy lady, still young and attractive, and always dressed with taste. She was rather pale, and had lively black eyes. She was not more than thirty‐three, and had been five years a widow. Her daughter, a girl of fourteen, was partially paralyzed. The poor child had not been able to walk for the last six months, and was wheeled about in a long reclining chair. She had a charming little face, rather thin from illness, but full of gayety. There was a gleam of mischief in her big dark eyes with their long lashes. Her mother had been intending to take her abroad ever since the spring, but they had been detained all the summer by business connected with their estate. They had been staying a week in our town, where they had come more for purposes of business than devotion, but had visited Father Zossima once already, three days before. Though they knew that the elder scarcely saw any one, they had now suddenly turned up again, and urgently entreated “the happiness of looking once again on the great healer.”

The mother was sitting on a chair by the side of her daughter’s invalid carriage, and two paces from her stood an old monk, not one of our monastery, but a visitor from an obscure religious house in the far north. He too sought the elder’s blessing.

But Father Zossima, on entering the portico, went first straight to the peasants who were crowded at the foot of the three steps that led up into the portico. Father Zossima stood on the top step, put on his stole, and began blessing the women who thronged about him. One crazy woman was led up to him. As soon as she caught sight of the elder she began shrieking and writhing as though in the pains of childbirth. Laying the stole on her forehead, he read a short prayer over her, and she was at once soothed and quieted.

I do not know how it may be now, but in my childhood I often happened to see and hear these “possessed” women in the villages and monasteries. They used to be brought to mass; they would squeal and bark like a dog so that they were heard all over the church. But when the sacrament was carried in and they were led up to it, at once the “possession” ceased, and the sick women were always soothed for a time. I was greatly impressed and amazed at this as a child; but then I heard from country neighbors and from my town teachers that the whole illness was simulated to avoid work, and that it could always be cured by suitable severity; various anecdotes were told to confirm this. But later on I learnt with astonishment from medical specialists that there is no pretense about it, that it is a terrible illness to which women are subject, specially prevalent among us in Russia, and that it is due to the hard lot of the peasant women. It is a disease, I was told, arising from exhausting toil too soon after hard, abnormal and unassisted labor in childbirth, and from the hopeless misery, from beatings, and so on, which some women were not able to endure like others. The strange and instant healing of the frantic and struggling woman as soon as she was led up to the holy sacrament, which had been explained to me as due to malingering and the trickery of the “clericals,” arose probably in the most natural manner. Both the women who supported her and the invalid herself fully believed as a truth beyond question that the evil spirit in possession of her could not hold out if the sick woman were brought to the sacrament and made to bow down before it. And so, with a nervous and psychically deranged woman, a sort of convulsion of the whole organism always took place, and was bound to take place, at the moment of bowing down to the sacrament, aroused by the expectation of the miracle of healing and the implicit belief that it would come to pass; and it did come to pass, though only for a moment. It was exactly the same now as soon as the elder touched the sick woman with the stole.

Many of the women in the crowd were moved to tears of ecstasy by the effect of the moment: some strove to kiss the hem of his garment, others cried out in sing‐song voices.

He blessed them all and talked with some of them. The “possessed” woman he knew already. She came from a village only six versts from the monastery, and had been brought to him before.

“But here is one from afar.” He pointed to a woman by no means old but very thin and wasted, with a face not merely sunburnt but almost blackened by exposure. She was kneeling and gazing with a fixed stare at the elder; there was something almost frenzied in her eyes.

“From afar off, Father, from afar off! From two hundred miles from here. From afar off, Father, from afar off!” the woman began in a sing‐song voice as though she were chanting a dirge, swaying her head from side to side with her cheek resting in her hand.

There is silent and long‐suffering sorrow to be met with among the peasantry. It withdraws into itself and is still. But there is a grief that breaks out, and from that minute it bursts into tears and finds vent in wailing. This is particularly common with women. But it is no lighter a grief than the silent. Lamentations comfort only by lacerating the heart still more. Such grief does not desire consolation. It feeds on the sense of its hopelessness. Lamentations spring only from the constant craving to reopen the wound.

“You are of the tradesman class?” said Father Zossima, looking curiously at her.

“Townfolk we are, Father, townfolk. Yet we are peasants though we live in the town. I have come to see you, O Father! We heard of you, Father, we heard of you. I have buried my little son, and I have come on a pilgrimage. I have been in three monasteries, but they told me, ‘Go, Nastasya, go to them’—that is to you. I have come; I was yesterday at the service, and to‐day I have come to you.”

“What are you weeping for?”

“It’s my little son I’m grieving for, Father. He was three years old—three years all but three months. For my little boy, Father, I’m in anguish, for my little boy. He was the last one left. We had four, my Nikita and I, and now we’ve no children, our dear ones have all gone. I buried the first three without grieving overmuch, and now I have buried the last I can’t forget him. He seems always standing before me. He never leaves me. He has withered my heart. I look at his little clothes, his little shirt, his little boots, and I wail. I lay out all that is left of him, all his little things. I look at them and wail. I say to Nikita, my husband, ‘Let me go on a pilgrimage, master.’ He is a driver. We’re not poor people, Father, not poor; he drives our own horse. It’s all our own, the horse and the carriage. And what good is it all to us now? My Nikita has begun drinking while I am away. He’s sure to. It used to be so before. As soon as I turn my back he gives way to it. But now I don’t think about him. It’s three months since I left home. I’ve forgotten him. I’ve forgotten everything. I don’t want to remember. And what would our life be now together? I’ve done with him, I’ve done. I’ve done with them all. I don’t care to look upon my house and my goods. I don’t care to see anything at all!”

“Listen, mother,” said the elder. “Once in olden times a holy saint saw in the Temple a mother like you weeping for her little one, her only one, whom God had taken. ‘Knowest thou not,’ said the saint to her, ‘how bold these little ones are before the throne of God? Verily there are none bolder than they in the Kingdom of Heaven. “Thou didst give us life, O Lord,” they say, “and scarcely had we looked upon it when Thou didst take it back again.” And so boldly they ask and ask again that God gives them at once the rank of angels. Therefore,’ said the saint, ‘thou, too, O mother, rejoice and weep not, for thy little son is with the Lord in the fellowship of the angels.’ That’s what the saint said to the weeping mother of old. He was a great saint and he could not have spoken falsely. Therefore you too, mother, know that your little one is surely before the throne of God, is rejoicing and happy, and praying to God for you, and therefore weep not, but rejoice.”

The woman listened to him, looking down with her cheek in her hand. She sighed deeply.

“My Nikita tried to comfort me with the same words as you. ‘Foolish one,’ he said, ‘why weep? Our son is no doubt singing with the angels before God.’ He says that to me, but he weeps himself. I see that he cries like me. ‘I know, Nikita,’ said I. ‘Where could he be if not with the Lord God? Only, here with us now he is not as he used to sit beside us before.’ And if only I could look upon him one little time, if only I could peep at him one little time, without going up to him, without speaking, if I could be hidden in a corner and only see him for one little minute, hear him playing in the yard, calling in his little voice, ‘Mammy, where are you?’ If only I could hear him pattering with his little feet about the room just once, only once; for so often, so often I remember how he used to run to me and shout and laugh, if only I could hear his little feet I should know him! But he’s gone, Father, he’s gone, and I shall never hear him again. Here’s his little sash, but him I shall never see or hear now.”

She drew out of her bosom her boy’s little embroidered sash, and as soon as she looked at it she began shaking with sobs, hiding her eyes with her fingers through which the tears flowed in a sudden stream.

“It is Rachel of old,” said the elder, “weeping for her children, and will not be comforted because they are not. Such is the lot set on earth for you mothers. Be not comforted. Consolation is not what you need. Weep and be not consoled, but weep. Only every time that you weep be sure to remember that your little son is one of the angels of God, that he looks down from there at you and sees you, and rejoices at your tears, and points at them to the Lord God; and a long while yet will you keep that great mother’s grief. But it will turn in the end into quiet joy, and your bitter tears will be only tears of tender sorrow that purifies the heart and delivers it from sin. And I shall pray for the peace of your child’s soul. What was his name?”

“Alexey, Father.”

“A sweet name. After Alexey, the man of God?”

“Yes, Father.”

“What a saint he was! I will remember him, mother, and your grief in my prayers, and I will pray for your husband’s health. It is a sin for you to leave him. Your little one will see from heaven that you have forsaken his father, and will weep over you. Why do you trouble his happiness? He is living, for the soul lives for ever, and though he is not in the house he is near you, unseen. How can he go into the house when you say that the house is hateful to you? To whom is he to go if he find you not together, his father and mother? He comes to you in dreams now, and you grieve. But then he will send you gentle dreams. Go to your husband, mother; go this very day.”

“I will go, Father, at your word. I will go. You’ve gone straight to my heart. My Nikita, my Nikita, you are waiting for me,” the woman began in a sing‐song voice; but the elder had already turned away to a very old woman, dressed like a dweller in the town, not like a pilgrim. Her eyes showed that she had come with an object, and in order to say something. She said she was the widow of a non‐commissioned officer, and lived close by in the town. Her son Vasenka was in the commissariat service, and had gone to Irkutsk in Siberia. He had written twice from there, but now a year had passed since he had written. She did inquire about him, but she did not know the proper place to inquire.

“Only the other day Stepanida Ilyinishna—she’s a rich merchant’s wife—said to me, ‘You go, Prohorovna, and put your son’s name down for prayer in the church, and pray for the peace of his soul as though he were dead. His soul will be troubled,’ she said, ‘and he will write you a letter.’ And Stepanida Ilyinishna told me it was a certain thing which had been many times tried. Only I am in doubt…. Oh, you light of ours! is it true or false, and would it be right?”

“Don’t think of it. It’s shameful to ask the question. How is it possible to pray for the peace of a living soul? And his own mother too! It’s a great sin, akin to sorcery. Only for your ignorance it is forgiven you. Better pray to the Queen of Heaven, our swift defense and help, for his good health, and that she may forgive you for your error. And another thing I will tell you, Prohorovna. Either he will soon come back to you, your son, or he will be sure to send a letter. Go, and henceforward be in peace. Your son is alive, I tell you.”

“Dear Father, God reward you, our benefactor, who prays for all of us and for our sins!”

But the elder had already noticed in the crowd two glowing eyes fixed upon him. An exhausted, consumptive‐looking, though young peasant woman was gazing at him in silence. Her eyes besought him, but she seemed afraid to approach.

“What is it, my child?”

“Absolve my soul, Father,” she articulated softly, and slowly sank on her knees and bowed down at his feet. “I have sinned, Father. I am afraid of my sin.”

The elder sat down on the lower step. The woman crept closer to him, still on her knees.

“I am a widow these three years,” she began in a half‐whisper, with a sort of shudder. “I had a hard life with my husband. He was an old man. He used to beat me cruelly. He lay ill; I thought looking at him, if he were to get well, if he were to get up again, what then? And then the thought came to me—”

“Stay!” said the elder, and he put his ear close to her lips.

The woman went on in a low whisper, so that it was almost impossible to catch anything. She had soon done.

“Three years ago?” asked the elder.

“Three years. At first I didn’t think about it, but now I’ve begun to be ill, and the thought never leaves me.”

“Have you come from far?”

“Over three hundred miles away.”

“Have you told it in confession?”

“I have confessed it. Twice I have confessed it.”

“Have you been admitted to Communion?”

“Yes. I am afraid. I am afraid to die.”

“Fear nothing and never be afraid; and don’t fret. If only your penitence fail not, God will forgive all. There is no sin, and there can be no sin on all the earth, which the Lord will not forgive to the truly repentant! Man cannot commit a sin so great as to exhaust the infinite love of God. Can there be a sin which could exceed the love of God? Think only of repentance, continual repentance, but dismiss fear altogether. Believe that God loves you as you cannot conceive; that He loves you with your sin, in your sin. It has been said of old that over one repentant sinner there is more joy in heaven than over ten righteous men. Go, and fear not. Be not bitter against men. Be not angry if you are wronged. Forgive the dead man in your heart what wrong he did you. Be reconciled with him in truth. If you are penitent, you love. And if you love you are of God. All things are atoned for, all things are saved by love. If I, a sinner, even as you are, am tender with you and have pity on you, how much more will God. Love is such a priceless treasure that you can redeem the whole world by it, and expiate not only your own sins but the sins of others.”

He signed her three times with the cross, took from his own neck a little ikon and put it upon her. She bowed down to the earth without speaking.

He got up and looked cheerfully at a healthy peasant woman with a tiny baby in her arms.

“From Vyshegorye, dear Father.”

“Five miles you have dragged yourself with the baby. What do you want?”

“I’ve come to look at you. I have been to you before—or have you forgotten? You’ve no great memory if you’ve forgotten me. They told us you were ill. Thinks I, I’ll go and see him for myself. Now I see you, and you’re not ill! You’ll live another twenty years. God bless you! There are plenty to pray for you; how should you be ill?”

“I thank you for all, daughter.”

“By the way, I have a thing to ask, not a great one. Here are sixty copecks. Give them, dear Father, to some one poorer than me. I thought as I came along, better give through him. He’ll know whom to give to.”

“Thanks, my dear, thanks! You are a good woman. I love you. I will do so certainly. Is that your little girl?”

“My little girl, Father, Lizaveta.”

“May the Lord bless you both, you and your babe Lizaveta! You have gladdened my heart, mother. Farewell, dear children, farewell, dear ones.”

He blessed them all and bowed low to them.

Chapter IV.
A Lady Of Little Faith
A visitor looking on the scene of his conversation with the peasants and his blessing them shed silent tears and wiped them away with her handkerchief. She was a sentimental society lady of genuinely good disposition in many respects. When the elder went up to her at last she met him enthusiastically.

“Ah, what I have been feeling, looking on at this touching scene!…” She could not go on for emotion. “Oh, I understand the people’s love for you. I love the people myself. I want to love them. And who could help loving them, our splendid Russian people, so simple in their greatness!”

“How is your daughter’s health? You wanted to talk to me again?”

“Oh, I have been urgently begging for it, I have prayed for it! I was ready to fall on my knees and kneel for three days at your windows until you let me in. We have come, great healer, to express our ardent gratitude. You have healed my Lise, healed her completely, merely by praying over her last Thursday and laying your hands upon her. We have hastened here to kiss those hands, to pour out our feelings and our homage.”

“What do you mean by healed? But she is still lying down in her chair.”

“But her night fevers have entirely ceased ever since Thursday,” said the lady with nervous haste. “And that’s not all. Her legs are stronger. This morning she got up well; she had slept all night. Look at her rosy cheeks, her bright eyes! She used to be always crying, but now she laughs and is gay and happy. This morning she insisted on my letting her stand up, and she stood up for a whole minute without any support. She wagers that in a fortnight she’ll be dancing a quadrille. I’ve called in Doctor Herzenstube. He shrugged his shoulders and said, ‘I am amazed; I can make nothing of it.’ And would you have us not come here to disturb you, not fly here to thank you? Lise, thank him—thank him!”

Lise’s pretty little laughing face became suddenly serious. She rose in her chair as far as she could and, looking at the elder, clasped her hands before him, but could not restrain herself and broke into laughter.

“It’s at him,” she said, pointing to Alyosha, with childish vexation at herself for not being able to repress her mirth.

If any one had looked at Alyosha standing a step behind the elder, he would have caught a quick flush crimsoning his cheeks in an instant. His eyes shone and he looked down.

“She has a message for you, Alexey Fyodorovitch. How are you?” the mother went on, holding out her exquisitely gloved hand to Alyosha.

The elder turned round and all at once looked attentively at Alyosha. The latter went nearer to Lise and, smiling in a strangely awkward way, held out his hand to her too. Lise assumed an important air.

“Katerina Ivanovna has sent you this through me.” She handed him a little note. “She particularly begs you to go and see her as soon as possible; that you will not fail her, but will be sure to come.”

“She asks me to go and see her? Me? What for?” Alyosha muttered in great astonishment. His face at once looked anxious. “Oh, it’s all to do with Dmitri Fyodorovitch and—what has happened lately,” the mother explained hurriedly. “Katerina Ivanovna has made up her mind, but she must see you about it…. Why, of course, I can’t say. But she wants to see you at once. And you will go to her, of course. It is a Christian duty.”

“I have only seen her once,” Alyosha protested with the same perplexity.

“Oh, she is such a lofty, incomparable creature! If only for her suffering…. Think what she has gone through, what she is enduring now! Think what awaits her! It’s all terrible, terrible!”

“Very well, I will come,” Alyosha decided, after rapidly scanning the brief, enigmatic note, which consisted of an urgent entreaty that he would come, without any sort of explanation.

“Oh, how sweet and generous that would be of you!” cried Lise with sudden animation. “I told mamma you’d be sure not to go. I said you were saving your soul. How splendid you are! I’ve always thought you were splendid. How glad I am to tell you so!”

“Lise!” said her mother impressively, though she smiled after she had said it.

“You have quite forgotten us, Alexey Fyodorovitch,” she said; “you never come to see us. Yet Lise has told me twice that she is never happy except with you.”

Alyosha raised his downcast eyes and again flushed, and again smiled without knowing why. But the elder was no longer watching him. He had begun talking to a monk who, as mentioned before, had been awaiting his entrance by Lise’s chair. He was evidently a monk of the humblest, that is of the peasant, class, of a narrow outlook, but a true believer, and, in his own way, a stubborn one. He announced that he had come from the far north, from Obdorsk, from Saint Sylvester, and was a member of a poor monastery, consisting of only ten monks. The elder gave him his blessing and invited him to come to his cell whenever he liked.

“How can you presume to do such deeds?” the monk asked suddenly, pointing solemnly and significantly at Lise. He was referring to her “healing.”

“It’s too early, of course, to speak of that. Relief is not complete cure, and may proceed from different causes. But if there has been any healing, it is by no power but God’s will. It’s all from God. Visit me, Father,” he added to the monk. “It’s not often I can see visitors. I am ill, and I know that my days are numbered.”

“Oh, no, no! God will not take you from us. You will live a long, long time yet,” cried the lady. “And in what way are you ill? You look so well, so gay and happy.”

“I am extraordinarily better to‐day. But I know that it’s only for a moment. I understand my disease now thoroughly. If I seem so happy to you, you could never say anything that would please me so much. For men are made for happiness, and any one who is completely happy has a right to say to himself, ‘I am doing God’s will on earth.’ All the righteous, all the saints, all the holy martyrs were happy.”

“Oh, how you speak! What bold and lofty words!” cried the lady. “You seem to pierce with your words. And yet—happiness, happiness—where is it? Who can say of himself that he is happy? Oh, since you have been so good as to let us see you once more to‐day, let me tell you what I could not utter last time, what I dared not say, all I am suffering and have been for so long! I am suffering! Forgive me! I am suffering!”

And in a rush of fervent feeling she clasped her hands before him.

“From what specially?”

“I suffer … from lack of faith.”

“Lack of faith in God?”

“Oh, no, no! I dare not even think of that. But the future life—it is such an enigma! And no one, no one can solve it. Listen! You are a healer, you are deeply versed in the human soul, and of course I dare not expect you to believe me entirely, but I assure you on my word of honor that I am not speaking lightly now. The thought of the life beyond the grave distracts me to anguish, to terror. And I don’t know to whom to appeal, and have not dared to all my life. And now I am so bold as to ask you. Oh, God! What will you think of me now?”

She clasped her hands.

“Don’t distress yourself about my opinion of you,” said the elder. “I quite believe in the sincerity of your suffering.”

“Oh, how thankful I am to you! You see, I shut my eyes and ask myself if every one has faith, where did it come from? And then they do say that it all comes from terror at the menacing phenomena of nature, and that none of it’s real. And I say to myself, ‘What if I’ve been believing all my life, and when I come to die there’s nothing but the burdocks growing on my grave?’ as I read in some author. It’s awful! How—how can I get back my faith? But I only believed when I was a little child, mechanically, without thinking of anything. How, how is one to prove it? I have come now to lay my soul before you and to ask you about it. If I let this chance slip, no one all my life will answer me. How can I prove it? How can I convince myself? Oh, how unhappy I am! I stand and look about me and see that scarcely any one else cares; no one troubles his head about it, and I’m the only one who can’t stand it. It’s deadly—deadly!”

“No doubt. But there’s no proving it, though you can be convinced of it.”

“How?”

“By the experience of active love. Strive to love your neighbor actively and indefatigably. In as far as you advance in love you will grow surer of the reality of God and of the immortality of your soul. If you attain to perfect self‐forgetfulness in the love of your neighbor, then you will believe without doubt, and no doubt can possibly enter your soul. This has been tried. This is certain.”

“In active love? There’s another question—and such a question! You see, I so love humanity that—would you believe it?—I often dream of forsaking all that I have, leaving Lise, and becoming a sister of mercy. I close my eyes and think and dream, and at that moment I feel full of strength to overcome all obstacles. No wounds, no festering sores could at that moment frighten me. I would bind them up and wash them with my own hands. I would nurse the afflicted. I would be ready to kiss such wounds.”

“It is much, and well that your mind is full of such dreams and not others. Sometime, unawares, you may do a good deed in reality.”

“Yes. But could I endure such a life for long?” the lady went on fervently, almost frantically. “That’s the chief question—that’s my most agonizing question. I shut my eyes and ask myself, ‘Would you persevere long on that path? And if the patient whose wounds you are washing did not meet you with gratitude, but worried you with his whims, without valuing or remarking your charitable services, began abusing you and rudely commanding you, and complaining to the superior authorities of you (which often happens when people are in great suffering)—what then? Would you persevere in your love, or not?’ And do you know, I came with horror to the conclusion that, if anything could dissipate my love to humanity, it would be ingratitude. In short, I am a hired servant, I expect my payment at once—that is, praise, and the repayment of love with love. Otherwise I am incapable of loving any one.”

She was in a very paroxysm of self‐castigation, and, concluding, she looked with defiant resolution at the elder.

“It’s just the same story as a doctor once told me,” observed the elder. “He was a man getting on in years, and undoubtedly clever. He spoke as frankly as you, though in jest, in bitter jest. ‘I love humanity,’ he said, ‘but I wonder at myself. The more I love humanity in general, the less I love man in particular. In my dreams,’ he said, ‘I have often come to making enthusiastic schemes for the service of humanity, and perhaps I might actually have faced crucifixion if it had been suddenly necessary; and yet I am incapable of living in the same room with any one for two days together, as I know by experience. As soon as any one is near me, his personality disturbs my self‐complacency and restricts my freedom. In twenty‐four hours I begin to hate the best of men: one because he’s too long over his dinner; another because he has a cold and keeps on blowing his nose. I become hostile to people the moment they come close to me. But it has always happened that the more I detest men individually the more ardent becomes my love for humanity.’ ”

“But what’s to be done? What can one do in such a case? Must one despair?”

“No. It is enough that you are distressed at it. Do what you can, and it will be reckoned unto you. Much is done already in you since you can so deeply and sincerely know yourself. If you have been talking to me so sincerely, simply to gain approbation for your frankness, as you did from me just now, then of course you will not attain to anything in the achievement of real love; it will all get no further than dreams, and your whole life will slip away like a phantom. In that case you will naturally cease to think of the future life too, and will of yourself grow calmer after a fashion in the end.”

“You have crushed me! Only now, as you speak, I understand that I was really only seeking your approbation for my sincerity when I told you I could not endure ingratitude. You have revealed me to myself. You have seen through me and explained me to myself!”

“Are you speaking the truth? Well, now, after such a confession, I believe that you are sincere and good at heart. If you do not attain happiness, always remember that you are on the right road, and try not to leave it. Above all, avoid falsehood, every kind of falsehood, especially falseness to yourself. Watch over your own deceitfulness and look into it every hour, every minute. Avoid being scornful, both to others and to yourself. What seems to you bad within you will grow purer from the very fact of your observing it in yourself. Avoid fear, too, though fear is only the consequence of every sort of falsehood. Never be frightened at your own faint‐heartedness in attaining love. Don’t be frightened overmuch even at your evil actions. I am sorry I can say nothing more consoling to you, for love in action is a harsh and dreadful thing compared with love in dreams. Love in dreams is greedy for immediate action, rapidly performed and in the sight of all. Men will even give their lives if only the ordeal does not last long but is soon over, with all looking on and applauding as though on the stage. But active love is labor and fortitude, and for some people too, perhaps, a complete science. But I predict that just when you see with horror that in spite of all your efforts you are getting farther from your goal instead of nearer to it—at that very moment I predict that you will reach it and behold clearly the miraculous power of the Lord who has been all the time loving and mysteriously guiding you. Forgive me for not being able to stay longer with you. They are waiting for me. Good‐by.”

The lady was weeping.

“Lise, Lise! Bless her—bless her!” she cried, starting up suddenly.

“She does not deserve to be loved. I have seen her naughtiness all along,” the elder said jestingly. “Why have you been laughing at Alexey?”

Lise had in fact been occupied in mocking at him all the time. She had noticed before that Alyosha was shy and tried not to look at her, and she found this extremely amusing. She waited intently to catch his eye. Alyosha, unable to endure her persistent stare, was irresistibly and suddenly drawn to glance at her, and at once she smiled triumphantly in his face. Alyosha was even more disconcerted and vexed. At last he turned away from her altogether and hid behind the elder’s back. After a few minutes, drawn by the same irresistible force, he turned again to see whether he was being looked at or not, and found Lise almost hanging out of her chair to peep sideways at him, eagerly waiting for him to look. Catching his eye, she laughed so that the elder could not help saying, “Why do you make fun of him like that, naughty girl?”

Lise suddenly and quite unexpectedly blushed. Her eyes flashed and her face became quite serious. She began speaking quickly and nervously in a warm and resentful voice:

“Why has he forgotten everything, then? He used to carry me about when I was little. We used to play together. He used to come to teach me to read, do you know. Two years ago, when he went away, he said that he would never forget me, that we were friends for ever, for ever, for ever! And now he’s afraid of me all at once. Am I going to eat him? Why doesn’t he want to come near me? Why doesn’t he talk? Why won’t he come and see us? It’s not that you won’t let him. We know that he goes everywhere. It’s not good manners for me to invite him. He ought to have thought of it first, if he hasn’t forgotten me. No, now he’s saving his soul! Why have you put that long gown on him? If he runs he’ll fall.”

And suddenly she hid her face in her hand and went off into irresistible, prolonged, nervous, inaudible laughter. The elder listened to her with a smile, and blessed her tenderly. As she kissed his hand she suddenly pressed it to her eyes and began crying.

“Don’t be angry with me. I’m silly and good for nothing … and perhaps Alyosha’s right, quite right, in not wanting to come and see such a ridiculous girl.”

“I will certainly send him,” said the elder.

Chapter V.
So Be It! So Be It!
The elder’s absence from his cell had lasted for about twenty‐five minutes. It was more than half‐past twelve, but Dmitri, on whose account they had all met there, had still not appeared. But he seemed almost to be forgotten, and when the elder entered the cell again, he found his guests engaged in eager conversation. Ivan and the two monks took the leading share in it. Miüsov, too, was trying to take a part, and apparently very eagerly, in the conversation. But he was unsuccessful in this also. He was evidently in the background, and his remarks were treated with neglect, which increased his irritability. He had had intellectual encounters with Ivan before and he could not endure a certain carelessness Ivan showed him.

“Hitherto at least I have stood in the front ranks of all that is progressive in Europe, and here the new generation positively ignores us,” he thought.

Fyodor Pavlovitch, who had given his word to sit still and be quiet, had actually been quiet for some time, but he watched his neighbor Miüsov with an ironical little smile, obviously enjoying his discomfiture. He had been waiting for some time to pay off old scores, and now he could not let the opportunity slip. Bending over his shoulder he began teasing him again in a whisper.

“Why didn’t you go away just now, after the ‘courteously kissing’? Why did you consent to remain in such unseemly company? It was because you felt insulted and aggrieved, and you remained to vindicate yourself by showing off your intelligence. Now you won’t go till you’ve displayed your intellect to them.”

“You again?… On the contrary, I’m just going.”

“You’ll be the last, the last of all to go!” Fyodor Pavlovitch delivered him another thrust, almost at the moment of Father Zossima’s return.

The discussion died down for a moment, but the elder, seating himself in his former place, looked at them all as though cordially inviting them to go on. Alyosha, who knew every expression of his face, saw that he was fearfully exhausted and making a great effort. Of late he had been liable to fainting fits from exhaustion. His face had the pallor that was common before such attacks, and his lips were white. But he evidently did not want to break up the party. He seemed to have some special object of his own in keeping them. What object? Alyosha watched him intently.

“We are discussing this gentleman’s most interesting article,” said Father Iosif, the librarian, addressing the elder, and indicating Ivan. “He brings forward much that is new, but I think the argument cuts both ways. It is an article written in answer to a book by an ecclesiastical authority on the question of the ecclesiastical court, and the scope of its jurisdiction.”

“I’m sorry I have not read your article, but I’ve heard of it,” said the elder, looking keenly and intently at Ivan.

“He takes up a most interesting position,” continued the Father Librarian. “As far as Church jurisdiction is concerned he is apparently quite opposed to the separation of Church from State.”

“That’s interesting. But in what sense?” Father Zossima asked Ivan.

The latter, at last, answered him, not condescendingly, as Alyosha had feared, but with modesty and reserve, with evident goodwill and apparently without the slightest arrière‐pensée.

“I start from the position that this confusion of elements, that is, of the essential principles of Church and State, will, of course, go on for ever, in spite of the fact that it is impossible for them to mingle, and that the confusion of these elements cannot lead to any consistent or even normal results, for there is falsity at the very foundation of it. Compromise between the Church and State in such questions as, for instance, jurisdiction, is, to my thinking, impossible in any real sense. My clerical opponent maintains that the Church holds a precise and defined position in the State. I maintain, on the contrary, that the Church ought to include the whole State, and not simply to occupy a corner in it, and, if this is, for some reason, impossible at present, then it ought, in reality, to be set up as the direct and chief aim of the future development of Christian society!”

“Perfectly true,” Father Païssy, the silent and learned monk, assented with fervor and decision.

“The purest Ultramontanism!” cried Miüsov impatiently, crossing and recrossing his legs.

“Oh, well, we have no mountains,” cried Father Iosif, and turning to the elder he continued: “Observe the answer he makes to the following ‘fundamental and essential’ propositions of his opponent, who is, you must note, an ecclesiastic. First, that ‘no social organization can or ought to arrogate to itself power to dispose of the civic and political rights of its members.’ Secondly, that ‘criminal and civil jurisdiction ought not to belong to the Church, and is inconsistent with its nature, both as a divine institution and as an organization of men for religious objects,’ and, finally, in the third place, ‘the Church is a kingdom not of this world.’ ”

“A most unworthy play upon words for an ecclesiastic!” Father Païssy could not refrain from breaking in again. “I have read the book which you have answered,” he added, addressing Ivan, “and was astounded at the words ‘the Church is a kingdom not of this world.’ If it is not of this world, then it cannot exist on earth at all. In the Gospel, the words ‘not of this world’ are not used in that sense. To play with such words is indefensible. Our Lord Jesus Christ came to set up the Church upon earth. The Kingdom of Heaven, of course, is not of this world, but in Heaven; but it is only entered through the Church which has been founded and established upon earth. And so a frivolous play upon words in such a connection is unpardonable and improper. The Church is, in truth, a kingdom and ordained to rule, and in the end must undoubtedly become the kingdom ruling over all the earth. For that we have the divine promise.”

He ceased speaking suddenly, as though checking himself. After listening attentively and respectfully Ivan went on, addressing the elder with perfect composure and as before with ready cordiality:

“The whole point of my article lies in the fact that during the first three centuries Christianity only existed on earth in the Church and was nothing but the Church. When the pagan Roman Empire desired to become Christian, it inevitably happened that, by becoming Christian, it included the Church but remained a pagan State in very many of its departments. In reality this was bound to happen. But Rome as a State retained too much of the pagan civilization and culture, as, for example, in the very objects and fundamental principles of the State. The Christian Church entering into the State could, of course, surrender no part of its fundamental principles—the rock on which it stands—and could pursue no other aims than those which have been ordained and revealed by God Himself, and among them that of drawing the whole world, and therefore the ancient pagan State itself, into the Church. In that way (that is, with a view to the future) it is not the Church that should seek a definite position in the State, like ‘every social organization,’ or as ‘an organization of men for religious purposes’ (as my opponent calls the Church), but, on the contrary, every earthly State should be, in the end, completely transformed into the Church and should become nothing else but a Church, rejecting every purpose incongruous with the aims of the Church. All this will not degrade it in any way or take from its honor and glory as a great State, nor from the glory of its rulers, but only turns it from a false, still pagan, and mistaken path to the true and rightful path, which alone leads to the eternal goal. This is why the author of the book On the Foundations of Church Jurisdiction would have judged correctly if, in seeking and laying down those foundations, he had looked upon them as a temporary compromise inevitable in our sinful and imperfect days. But as soon as the author ventures to declare that the foundations which he predicates now, part of which Father Iosif just enumerated, are the permanent, essential, and eternal foundations, he is going directly against the Church and its sacred and eternal vocation. That is the gist of my article.”

“That is, in brief,” Father Païssy began again, laying stress on each word, “according to certain theories only too clearly formulated in the nineteenth century, the Church ought to be transformed into the State, as though this would be an advance from a lower to a higher form, so as to disappear into it, making way for science, for the spirit of the age, and civilization. And if the Church resists and is unwilling, some corner will be set apart for her in the State, and even that under control—and this will be so everywhere in all modern European countries. But Russian hopes and conceptions demand not that the Church should pass as from a lower into a higher type into the State, but, on the contrary, that the State should end by being worthy to become only the Church and nothing else. So be it! So be it!”

“Well, I confess you’ve reassured me somewhat,” Miüsov said smiling, again crossing his legs. “So far as I understand, then, the realization of such an ideal is infinitely remote, at the second coming of Christ. That’s as you please. It’s a beautiful Utopian dream of the abolition of war, diplomacy, banks, and so on—something after the fashion of socialism, indeed. But I imagined that it was all meant seriously, and that the Church might be now going to try criminals, and sentence them to beating, prison, and even death.”

“But if there were none but the ecclesiastical court, the Church would not even now sentence a criminal to prison or to death. Crime and the way of regarding it would inevitably change, not all at once of course, but fairly soon,” Ivan replied calmly, without flinching.

“Are you serious?” Miüsov glanced keenly at him.

“If everything became the Church, the Church would exclude all the criminal and disobedient, and would not cut off their heads,” Ivan went on. “I ask you, what would become of the excluded? He would be cut off then not only from men, as now, but from Christ. By his crime he would have transgressed not only against men but against the Church of Christ. This is so even now, of course, strictly speaking, but it is not clearly enunciated, and very, very often the criminal of to‐day compromises with his conscience: ‘I steal,’ he says, ‘but I don’t go against the Church. I’m not an enemy of Christ.’ That’s what the criminal of to‐day is continually saying to himself, but when the Church takes the place of the State it will be difficult for him, in opposition to the Church all over the world, to say: ‘All men are mistaken, all in error, all mankind are the false Church. I, a thief and murderer, am the only true Christian Church.’ It will be very difficult to say this to himself; it requires a rare combination of unusual circumstances. Now, on the other side, take the Church’s own view of crime: is it not bound to renounce the present almost pagan attitude, and to change from a mechanical cutting off of its tainted member for the preservation of society, as at present, into completely and honestly adopting the idea of the regeneration of the man, of his reformation and salvation?”

“What do you mean? I fail to understand again,” Miüsov interrupted. “Some sort of dream again. Something shapeless and even incomprehensible. What is excommunication? What sort of exclusion? I suspect you are simply amusing yourself, Ivan Fyodorovitch.”

“Yes, but you know, in reality it is so now,” said the elder suddenly, and all turned to him at once. “If it were not for the Church of Christ there would be nothing to restrain the criminal from evil‐doing, no real chastisement for it afterwards; none, that is, but the mechanical punishment spoken of just now, which in the majority of cases only embitters the heart; and not the real punishment, the only effectual one, the only deterrent and softening one, which lies in the recognition of sin by conscience.”

“How is that, may one inquire?” asked Miüsov, with lively curiosity.

“Why,” began the elder, “all these sentences to exile with hard labor, and formerly with flogging also, reform no one, and what’s more, deter hardly a single criminal, and the number of crimes does not diminish but is continually on the increase. You must admit that. Consequently the security of society is not preserved, for, although the obnoxious member is mechanically cut off and sent far away out of sight, another criminal always comes to take his place at once, and often two of them. If anything does preserve society, even in our time, and does regenerate and transform the criminal, it is only the law of Christ speaking in his conscience. It is only by recognizing his wrong‐doing as a son of a Christian society—that is, of the Church—that he recognizes his sin against society—that is, against the Church. So that it is only against the Church, and not against the State, that the criminal of to‐day can recognize that he has sinned. If society, as a Church, had jurisdiction, then it would know when to bring back from exclusion and to reunite to itself. Now the Church having no real jurisdiction, but only the power of moral condemnation, withdraws of her own accord from punishing the criminal actively. She does not excommunicate him but simply persists in motherly exhortation of him. What is more, the Church even tries to preserve all Christian communion with the criminal. She admits him to church services, to the holy sacrament, gives him alms, and treats him more as a captive than as a convict. And what would become of the criminal, O Lord, if even the Christian society—that is, the Church—were to reject him even as the civil law rejects him and cuts him off? What would become of him if the Church punished him with her excommunication as the direct consequence of the secular law? There could be no more terrible despair, at least for a Russian criminal, for Russian criminals still have faith. Though, who knows, perhaps then a fearful thing would happen, perhaps the despairing heart of the criminal would lose its faith and then what would become of him? But the Church, like a tender, loving mother, holds aloof from active punishment herself, as the sinner is too severely punished already by the civil law, and there must be at least some one to have pity on him. The Church holds aloof, above all, because its judgment is the only one that contains the truth, and therefore cannot practically and morally be united to any other judgment even as a temporary compromise. She can enter into no compact about that. The foreign criminal, they say, rarely repents, for the very doctrines of to‐day confirm him in the idea that his crime is not a crime, but only a reaction against an unjustly oppressive force. Society cuts him off completely by a force that triumphs over him mechanically and (so at least they say of themselves in Europe) accompanies this exclusion with hatred, forgetfulness, and the most profound indifference as to the ultimate fate of the erring brother. In this way, it all takes place without the compassionate intervention of the Church, for in many cases there are no churches there at all, for though ecclesiastics and splendid church buildings remain, the churches themselves have long ago striven to pass from Church into State and to disappear in it completely. So it seems at least in Lutheran countries. As for Rome, it was proclaimed a State instead of a Church a thousand years ago. And so the criminal is no longer conscious of being a member of the Church and sinks into despair. If he returns to society, often it is with such hatred that society itself instinctively cuts him off. You can judge for yourself how it must end. In many cases it would seem to be the same with us, but the difference is that besides the established law courts we have the Church too, which always keeps up relations with the criminal as a dear and still precious son. And besides that, there is still preserved, though only in thought, the judgment of the Church, which though no longer existing in practice is still living as a dream for the future, and is, no doubt, instinctively recognized by the criminal in his soul. What was said here just now is true too, that is, that if the jurisdiction of the Church were introduced in practice in its full force, that is, if the whole of the society were changed into the Church, not only the judgment of the Church would have influence on the reformation of the criminal such as it never has now, but possibly also the crimes themselves would be incredibly diminished. And there can be no doubt that the Church would look upon the criminal and the crime of the future in many cases quite differently and would succeed in restoring the excluded, in restraining those who plan evil, and in regenerating the fallen. It is true,” said Father Zossima, with a smile, “the Christian society now is not ready and is only resting on some seven righteous men, but as they are never lacking, it will continue still unshaken in expectation of its complete transformation from a society almost heathen in character into a single universal and all‐powerful Church. So be it, so be it! Even though at the end of the ages, for it is ordained to come to pass! And there is no need to be troubled about times and seasons, for the secret of the times and seasons is in the wisdom of God, in His foresight, and His love. And what in human reckoning seems still afar off, may by the Divine ordinance be close at hand, on the eve of its appearance. And so be it, so be it!”

“So be it, so be it!” Father Païssy repeated austerely and reverently.

“Strange, extremely strange!” Miüsov pronounced, not so much with heat as with latent indignation.

“What strikes you as so strange?” Father Iosif inquired cautiously.

“Why, it’s beyond anything!” cried Miüsov, suddenly breaking out; “the State is eliminated and the Church is raised to the position of the State. It’s not simply Ultramontanism, it’s arch‐Ultramontanism! It’s beyond the dreams of Pope Gregory the Seventh!”

“You are completely misunderstanding it,” said Father Païssy sternly. “Understand, the Church is not to be transformed into the State. That is Rome and its dream. That is the third temptation of the devil. On the contrary, the State is transformed into the Church, will ascend and become a Church over the whole world—which is the complete opposite of Ultramontanism and Rome, and your interpretation, and is only the glorious destiny ordained for the Orthodox Church. This star will arise in the east!”

Miüsov was significantly silent. His whole figure expressed extraordinary personal dignity. A supercilious and condescending smile played on his lips. Alyosha watched it all with a throbbing heart. The whole conversation stirred him profoundly. He glanced casually at Rakitin, who was standing immovable in his place by the door listening and watching intently though with downcast eyes. But from the color in his cheeks Alyosha guessed that Rakitin was probably no less excited, and he knew what caused his excitement.

“Allow me to tell you one little anecdote, gentlemen,” Miüsov said impressively, with a peculiarly majestic air. “Some years ago, soon after the coup d’état of December, I happened to be calling in Paris on an extremely influential personage in the Government, and I met a very interesting man in his house. This individual was not precisely a detective but was a sort of superintendent of a whole regiment of political detectives—a rather powerful position in its own way. I was prompted by curiosity to seize the opportunity of conversation with him. And as he had not come as a visitor but as a subordinate official bringing a special report, and as he saw the reception given me by his chief, he deigned to speak with some openness, to a certain extent only, of course. He was rather courteous than open, as Frenchmen know how to be courteous, especially to a foreigner. But I thoroughly understood him. The subject was the socialist revolutionaries who were at that time persecuted. I will quote only one most curious remark dropped by this person. ‘We are not particularly afraid,’ said he, ‘of all these socialists, anarchists, infidels, and revolutionists; we keep watch on them and know all their goings on. But there are a few peculiar men among them who believe in God and are Christians, but at the same time are socialists. These are the people we are most afraid of. They are dreadful people! The socialist who is a Christian is more to be dreaded than a socialist who is an atheist.’ The words struck me at the time, and now they have suddenly come back to me here, gentlemen.”

“You apply them to us, and look upon us as socialists?” Father Païssy asked directly, without beating about the bush.

But before Pyotr Alexandrovitch could think what to answer, the door opened, and the guest so long expected, Dmitri Fyodorovitch, came in. They had, in fact, given up expecting him, and his sudden appearance caused some surprise for a moment.

Chapter VI.
Why Is Such A Man Alive?
Dmitri Fyodorovitch, a young man of eight and twenty, of medium height and agreeable countenance, looked older than his years. He was muscular, and showed signs of considerable physical strength. Yet there was something not healthy in his face. It was rather thin, his cheeks were hollow, and there was an unhealthy sallowness in their color. His rather large, prominent, dark eyes had an expression of firm determination, and yet there was a vague look in them, too. Even when he was excited and talking irritably, his eyes somehow did not follow his mood, but betrayed something else, sometimes quite incongruous with what was passing. “It’s hard to tell what he’s thinking,” those who talked to him sometimes declared. People who saw something pensive and sullen in his eyes were startled by his sudden laugh, which bore witness to mirthful and light‐ hearted thoughts at the very time when his eyes were so gloomy. A certain strained look in his face was easy to understand at this moment. Every one knew, or had heard of, the extremely restless and dissipated life which he had been leading of late, as well as of the violent anger to which he had been roused in his quarrels with his father. There were several stories current in the town about it. It is true that he was irascible by nature, “of an unstable and unbalanced mind,” as our justice of the peace, Katchalnikov, happily described him.

He was stylishly and irreproachably dressed in a carefully buttoned frock‐ coat. He wore black gloves and carried a top‐hat. Having only lately left the army, he still had mustaches and no beard. His dark brown hair was cropped short, and combed forward on his temples. He had the long, determined stride of a military man. He stood still for a moment on the threshold, and glancing at the whole party went straight up to the elder, guessing him to be their host. He made him a low bow, and asked his blessing. Father Zossima, rising in his chair, blessed him. Dmitri kissed his hand respectfully, and with intense feeling, almost anger, he said:

“Be so generous as to forgive me for having kept you waiting so long, but Smerdyakov, the valet sent me by my father, in reply to my inquiries, told me twice over that the appointment was for one. Now I suddenly learn—”

“Don’t disturb yourself,” interposed the elder. “No matter. You are a little late. It’s of no consequence….”

“I’m extremely obliged to you, and expected no less from your goodness.”

Saying this, Dmitri bowed once more. Then, turning suddenly towards his father, made him, too, a similarly low and respectful bow. He had evidently considered it beforehand, and made this bow in all seriousness, thinking it his duty to show his respect and good intentions.

Although Fyodor Pavlovitch was taken unawares, he was equal to the occasion. In response to Dmitri’s bow he jumped up from his chair and made his son a bow as low in return. His face was suddenly solemn and impressive, which gave him a positively malignant look. Dmitri bowed generally to all present, and without a word walked to the window with his long, resolute stride, sat down on the only empty chair, near Father Païssy, and, bending forward, prepared to listen to the conversation he had interrupted.

Dmitri’s entrance had taken no more than two minutes, and the conversation was resumed. But this time Miüsov thought it unnecessary to reply to Father Païssy’s persistent and almost irritable question.

“Allow me to withdraw from this discussion,” he observed with a certain well‐bred nonchalance. “It’s a subtle question, too. Here Ivan Fyodorovitch is smiling at us. He must have something interesting to say about that also. Ask him.”

“Nothing special, except one little remark,” Ivan replied at once. “European Liberals in general, and even our liberal dilettanti, often mix up the final results of socialism with those of Christianity. This wild notion is, of course, a characteristic feature. But it’s not only Liberals and dilettanti who mix up socialism and Christianity, but, in many cases, it appears, the police—the foreign police, of course—do the same. Your Paris anecdote is rather to the point, Pyotr Alexandrovitch.”

“I ask your permission to drop this subject altogether,” Miüsov repeated. “I will tell you instead, gentlemen, another interesting and rather characteristic anecdote of Ivan Fyodorovitch himself. Only five days ago, in a gathering here, principally of ladies, he solemnly declared in argument that there was nothing in the whole world to make men love their neighbors. That there was no law of nature that man should love mankind, and that, if there had been any love on earth hitherto, it was not owing to a natural law, but simply because men have believed in immortality. Ivan Fyodorovitch added in parenthesis that the whole natural law lies in that faith, and that if you were to destroy in mankind the belief in immortality, not only love but every living force maintaining the life of the world would at once be dried up. Moreover, nothing then would be immoral, everything would be lawful, even cannibalism. That’s not all. He ended by asserting that for every individual, like ourselves, who does not believe in God or immortality, the moral law of nature must immediately be changed into the exact contrary of the former religious law, and that egoism, even to crime, must become not only lawful but even recognized as the inevitable, the most rational, even honorable outcome of his position. From this paradox, gentlemen, you can judge of the rest of our eccentric and paradoxical friend Ivan Fyodorovitch’s theories.”

“Excuse me,” Dmitri cried suddenly; “if I’ve heard aright, crime must not only be permitted but even recognized as the inevitable and the most rational outcome of his position for every infidel! Is that so or not?”

“Quite so,” said Father Païssy.

“I’ll remember it.”

Having uttered these words Dmitri ceased speaking as suddenly as he had begun. Every one looked at him with curiosity.

“Is that really your conviction as to the consequences of the disappearance of the faith in immortality?” the elder asked Ivan suddenly.

“Yes. That was my contention. There is no virtue if there is no immortality.”

“You are blessed in believing that, or else most unhappy.”

“Why unhappy?” Ivan asked smiling.

“Because, in all probability you don’t believe yourself in the immortality of your soul, nor in what you have written yourself in your article on Church jurisdiction.”

“Perhaps you are right! … But I wasn’t altogether joking,” Ivan suddenly and strangely confessed, flushing quickly.

“You were not altogether joking. That’s true. The question is still fretting your heart, and not answered. But the martyr likes sometimes to divert himself with his despair, as it were driven to it by despair itself. Meanwhile, in your despair, you, too, divert yourself with magazine articles, and discussions in society, though you don’t believe your own arguments, and with an aching heart mock at them inwardly…. That question you have not answered, and it is your great grief, for it clamors for an answer.”

“But can it be answered by me? Answered in the affirmative?” Ivan went on asking strangely, still looking at the elder with the same inexplicable smile.

“If it can’t be decided in the affirmative, it will never be decided in the negative. You know that that is the peculiarity of your heart, and all its suffering is due to it. But thank the Creator who has given you a lofty heart capable of such suffering; of thinking and seeking higher things, for our dwelling is in the heavens. God grant that your heart will attain the answer on earth, and may God bless your path.”

The elder raised his hand and would have made the sign of the cross over Ivan from where he stood. But the latter rose from his seat, went up to him, received his blessing, and kissing his hand went back to his place in silence. His face looked firm and earnest. This action and all the preceding conversation, which was so surprising from Ivan, impressed every one by its strangeness and a certain solemnity, so that all were silent for a moment, and there was a look almost of apprehension in Alyosha’s face. But Miüsov suddenly shrugged his shoulders. And at the same moment Fyodor Pavlovitch jumped up from his seat.

“Most pious and holy elder,” he cried, pointing to Ivan, “that is my son, flesh of my flesh, the dearest of my flesh! He is my most dutiful Karl Moor, so to speak, while this son who has just come in, Dmitri, against whom I am seeking justice from you, is the undutiful Franz Moor—they are both out of Schiller’s Robbers, and so I am the reigning Count von Moor! Judge and save us! We need not only your prayers but your prophecies!”

“Speak without buffoonery, and don’t begin by insulting the members of your family,” answered the elder, in a faint, exhausted voice. He was obviously getting more and more fatigued, and his strength was failing.

“An unseemly farce which I foresaw when I came here!” cried Dmitri indignantly. He too leapt up. “Forgive it, reverend Father,” he added, addressing the elder. “I am not a cultivated man, and I don’t even know how to address you properly, but you have been deceived and you have been too good‐natured in letting us meet here. All my father wants is a scandal. Why he wants it only he can tell. He always has some motive. But I believe I know why—”

“They all blame me, all of them!” cried Fyodor Pavlovitch in his turn. “Pyotr Alexandrovitch here blames me too. You have been blaming me, Pyotr Alexandrovitch, you have!” he turned suddenly to Miüsov, although the latter was not dreaming of interrupting him. “They all accuse me of having hidden the children’s money in my boots, and cheated them, but isn’t there a court of law? There they will reckon out for you, Dmitri Fyodorovitch, from your notes, your letters, and your agreements, how much money you had, how much you have spent, and how much you have left. Why does Pyotr Alexandrovitch refuse to pass judgment? Dmitri is not a stranger to him. Because they are all against me, while Dmitri Fyodorovitch is in debt to me, and not a little, but some thousands of which I have documentary proof. The whole town is echoing with his debaucheries. And where he was stationed before, he several times spent a thousand or two for the seduction of some respectable girl; we know all about that, Dmitri Fyodorovitch, in its most secret details. I’ll prove it…. Would you believe it, holy Father, he has captivated the heart of the most honorable of young ladies of good family and fortune, daughter of a gallant colonel, formerly his superior officer, who had received many honors and had the Anna Order on his breast. He compromised the girl by his promise of marriage, now she is an orphan and here; she is betrothed to him, yet before her very eyes he is dancing attendance on a certain enchantress. And although this enchantress has lived in, so to speak, civil marriage with a respectable man, yet she is of an independent character, an unapproachable fortress for everybody, just like a legal wife—for she is virtuous, yes, holy Fathers, she is virtuous. Dmitri Fyodorovitch wants to open this fortress with a golden key, and that’s why he is insolent to me now, trying to get money from me, though he has wasted thousands on this enchantress already. He’s continually borrowing money for the purpose. From whom do you think? Shall I say, Mitya?”

“Be silent!” cried Dmitri, “wait till I’m gone. Don’t dare in my presence to asperse the good name of an honorable girl! That you should utter a word about her is an outrage, and I won’t permit it!”

He was breathless.

“Mitya! Mitya!” cried Fyodor Pavlovitch hysterically, squeezing out a tear. “And is your father’s blessing nothing to you? If I curse you, what then?”

“Shameless hypocrite!” exclaimed Dmitri furiously.

“He says that to his father! his father! What would he be with others? Gentlemen, only fancy; there’s a poor but honorable man living here, burdened with a numerous family, a captain who got into trouble and was discharged from the army, but not publicly, not by court‐martial, with no slur on his honor. And three weeks ago, Dmitri seized him by the beard in a tavern, dragged him out into the street and beat him publicly, and all because he is an agent in a little business of mine.”

“It’s all a lie! Outwardly it’s the truth, but inwardly a lie!” Dmitri was trembling with rage. “Father, I don’t justify my action. Yes, I confess it publicly, I behaved like a brute to that captain, and I regret it now, and I’m disgusted with myself for my brutal rage. But this captain, this agent of yours, went to that lady whom you call an enchantress, and suggested to her from you, that she should take I.O.U.’s of mine which were in your possession, and should sue me for the money so as to get me into prison by means of them, if I persisted in claiming an account from you of my property. Now you reproach me for having a weakness for that lady when you yourself incited her to captivate me! She told me so to my face…. She told me the story and laughed at you…. You wanted to put me in prison because you are jealous of me with her, because you’d begun to force your attentions upon her; and I know all about that, too; she laughed at you for that as well—you hear—she laughed at you as she described it. So here you have this man, this father who reproaches his profligate son! Gentlemen, forgive my anger, but I foresaw that this crafty old man would only bring you together to create a scandal. I had come to forgive him if he held out his hand; to forgive him, and ask forgiveness! But as he has just this minute insulted not only me, but an honorable young lady, for whom I feel such reverence that I dare not take her name in vain, I have made up my mind to show up his game, though he is my father….”

He could not go on. His eyes were glittering and he breathed with difficulty. But every one in the cell was stirred. All except Father Zossima got up from their seats uneasily. The monks looked austere but waited for guidance from the elder. He sat still, pale, not from excitement but from the weakness of disease. An imploring smile lighted up his face; from time to time he raised his hand, as though to check the storm, and, of course, a gesture from him would have been enough to end the scene; but he seemed to be waiting for something and watched them intently as though trying to make out something which was not perfectly clear to him. At last Miüsov felt completely humiliated and disgraced.

“We are all to blame for this scandalous scene,” he said hotly. “But I did not foresee it when I came, though I knew with whom I had to deal. This must be stopped at once! Believe me, your reverence, I had no precise knowledge of the details that have just come to light, I was unwilling to believe them, and I learn for the first time…. A father is jealous of his son’s relations with a woman of loose behavior and intrigues with the creature to get his son into prison! This is the company in which I have been forced to be present! I was deceived. I declare to you all that I was as much deceived as any one.”

“Dmitri Fyodorovitch,” yelled Fyodor Pavlovitch suddenly, in an unnatural voice, “if you were not my son I would challenge you this instant to a duel … with pistols, at three paces … across a handkerchief,” he ended, stamping with both feet.

With old liars who have been acting all their lives there are moments when they enter so completely into their part that they tremble or shed tears of emotion in earnest, although at that very moment, or a second later, they are able to whisper to themselves, “You know you are lying, you shameless old sinner! You’re acting now, in spite of your ‘holy’ wrath.”

Dmitri frowned painfully, and looked with unutterable contempt at his father.

“I thought … I thought,” he said, in a soft and, as it were, controlled voice, “that I was coming to my native place with the angel of my heart, my betrothed, to cherish his old age, and I find nothing but a depraved profligate, a despicable clown!”

“A duel!” yelled the old wretch again, breathless and spluttering at each syllable. “And you, Pyotr Alexandrovitch Miüsov, let me tell you that there has never been in all your family a loftier, and more honest—you hear—more honest woman than this ‘creature,’ as you have dared to call her! And you, Dmitri Fyodorovitch, have abandoned your betrothed for that ‘creature,’ so you must yourself have thought that your betrothed couldn’t hold a candle to her. That’s the woman called a ‘creature’!”

“Shameful!” broke from Father Iosif.

“Shameful and disgraceful!” Kalganov, flushing crimson, cried in a boyish voice, trembling with emotion. He had been silent till that moment.

“Why is such a man alive?” Dmitri, beside himself with rage, growled in a hollow voice, hunching up his shoulders till he looked almost deformed. “Tell me, can he be allowed to go on defiling the earth?” He looked round at every one and pointed at the old man. He spoke evenly and deliberately.

“Listen, listen, monks, to the parricide!” cried Fyodor Pavlovitch, rushing up to Father Iosif. “That’s the answer to your ‘shameful!’ What is shameful? That ‘creature,’ that ‘woman of loose behavior’ is perhaps holier than you are yourselves, you monks who are seeking salvation! She fell perhaps in her youth, ruined by her environment. But she loved much, and Christ himself forgave the woman ‘who loved much.’ ”

“It was not for such love Christ forgave her,” broke impatiently from the gentle Father Iosif.

“Yes, it was for such, monks, it was! You save your souls here, eating cabbage, and think you are the righteous. You eat a gudgeon a day, and you think you bribe God with gudgeon.”

“This is unendurable!” was heard on all sides in the cell.

But this unseemly scene was cut short in a most unexpected way. Father Zossima rose suddenly from his seat. Almost distracted with anxiety for the elder and every one else, Alyosha succeeded, however, in supporting him by the arm. Father Zossima moved towards Dmitri and reaching him sank on his knees before him. Alyosha thought that he had fallen from weakness, but this was not so. The elder distinctly and deliberately bowed down at Dmitri’s feet till his forehead touched the floor. Alyosha was so astounded that he failed to assist him when he got up again. There was a faint smile on his lips.

“Good‐by! Forgive me, all of you!” he said, bowing on all sides to his guests.

Dmitri stood for a few moments in amazement. Bowing down to him—what did it mean? Suddenly he cried aloud, “Oh, God!” hid his face in his hands, and rushed out of the room. All the guests flocked out after him, in their confusion not saying good‐by, or bowing to their host. Only the monks went up to him again for a blessing.

“What did it mean, falling at his feet like that? Was it symbolic or what?” said Fyodor Pavlovitch, suddenly quieted and trying to reopen conversation without venturing to address anybody in particular. They were all passing out of the precincts of the hermitage at the moment.

“I can’t answer for a madhouse and for madmen,” Miüsov answered at once ill‐humoredly, “but I will spare myself your company, Fyodor Pavlovitch, and, trust me, for ever. Where’s that monk?”

“That monk,” that is, the monk who had invited them to dine with the Superior, did not keep them waiting. He met them as soon as they came down the steps from the elder’s cell, as though he had been waiting for them all the time.

“Reverend Father, kindly do me a favor. Convey my deepest respect to the Father Superior, apologize for me, personally, Miüsov, to his reverence, telling him that I deeply regret that owing to unforeseen circumstances I am unable to have the honor of being present at his table, greatly as I should desire to do so,” Miüsov said irritably to the monk.

“And that unforeseen circumstance, of course, is myself,” Fyodor Pavlovitch cut in immediately. “Do you hear, Father; this gentleman doesn’t want to remain in my company or else he’d come at once. And you shall go, Pyotr Alexandrovitch, pray go to the Father Superior and good appetite to you. I will decline, and not you. Home, home, I’ll eat at home, I don’t feel equal to it here, Pyotr Alexandrovitch, my amiable relative.”

“I am not your relative and never have been, you contemptible man!”

“I said it on purpose to madden you, because you always disclaim the relationship, though you really are a relation in spite of your shuffling. I’ll prove it by the church calendar. As for you, Ivan, stay if you like. I’ll send the horses for you later. Propriety requires you to go to the Father Superior, Pyotr Alexandrovitch, to apologize for the disturbance we’ve been making….”

“Is it true that you are going home? Aren’t you lying?”

“Pyotr Alexandrovitch! How could I dare after what’s happened! Forgive me, gentlemen, I was carried away! And upset besides! And, indeed, I am ashamed. Gentlemen, one man has the heart of Alexander of Macedon and another the heart of the little dog Fido. Mine is that of the little dog Fido. I am ashamed! After such an escapade how can I go to dinner, to gobble up the monastery’s sauces? I am ashamed, I can’t. You must excuse me!”

“The devil only knows, what if he deceives us?” thought Miüsov, still hesitating, and watching the retreating buffoon with distrustful eyes. The latter turned round, and noticing that Miüsov was watching him, waved him a kiss.

“Well, are you coming to the Superior?” Miüsov asked Ivan abruptly.

“Why not? I was especially invited yesterday.”

“Unfortunately I feel myself compelled to go to this confounded dinner,” said Miüsov with the same irritability, regardless of the fact that the monk was listening. “We ought, at least, to apologize for the disturbance, and explain that it was not our doing. What do you think?”

“Yes, we must explain that it wasn’t our doing. Besides, father won’t be there,” observed Ivan.

“Well, I should hope not! Confound this dinner!”

They all walked on, however. The monk listened in silence. On the road through the copse he made one observation however—that the Father Superior had been waiting a long time, and that they were more than half an hour late. He received no answer. Miüsov looked with hatred at Ivan.

“Here he is, going to the dinner as though nothing had happened,” he thought. “A brazen face, and the conscience of a Karamazov!”

Chapter VII.
A Young Man Bent On A Career
Alyosha helped Father Zossima to his bedroom and seated him on his bed. It was a little room furnished with the bare necessities. There was a narrow iron bedstead, with a strip of felt for a mattress. In the corner, under the ikons, was a reading‐desk with a cross and the Gospel lying on it. The elder sank exhausted on the bed. His eyes glittered and he breathed hard. He looked intently at Alyosha, as though considering something.

“Go, my dear boy, go. Porfiry is enough for me. Make haste, you are needed there, go and wait at the Father Superior’s table.”

“Let me stay here,” Alyosha entreated.

“You are more needed there. There is no peace there. You will wait, and be of service. If evil spirits rise up, repeat a prayer. And remember, my son”—the elder liked to call him that—“this is not the place for you in the future. When it is God’s will to call me, leave the monastery. Go away for good.”

Alyosha started.

“What is it? This is not your place for the time. I bless you for great service in the world. Yours will be a long pilgrimage. And you will have to take a wife, too. You will have to bear all before you come back. There will be much to do. But I don’t doubt of you, and so I send you forth. Christ is with you. Do not abandon Him and He will not abandon you. You will see great sorrow, and in that sorrow you will be happy. This is my last message to you: in sorrow seek happiness. Work, work unceasingly. Remember my words, for although I shall talk with you again, not only my days but my hours are numbered.”

Alyosha’s face again betrayed strong emotion. The corners of his mouth quivered.

“What is it again?” Father Zossima asked, smiling gently. “The worldly may follow the dead with tears, but here we rejoice over the father who is departing. We rejoice and pray for him. Leave me, I must pray. Go, and make haste. Be near your brothers. And not near one only, but near both.”

Father Zossima raised his hand to bless him. Alyosha could make no protest, though he had a great longing to remain. He longed, moreover, to ask the significance of his bowing to Dmitri, the question was on the tip of his tongue, but he dared not ask it. He knew that the elder would have explained it unasked if he had thought fit. But evidently it was not his will. That action had made a terrible impression on Alyosha; he believed blindly in its mysterious significance. Mysterious, and perhaps awful.

As he hastened out of the hermitage precincts to reach the monastery in time to serve at the Father Superior’s dinner, he felt a sudden pang at his heart, and stopped short. He seemed to hear again Father Zossima’s words, foretelling his approaching end. What he had foretold so exactly must infallibly come to pass. Alyosha believed that implicitly. But how could he be left without him? How could he live without seeing and hearing him? Where should he go? He had told him not to weep, and to leave the monastery. Good God! It was long since Alyosha had known such anguish. He hurried through the copse that divided the monastery from the hermitage, and unable to bear the burden of his thoughts, he gazed at the ancient pines beside the path. He had not far to go—about five hundred paces. He expected to meet no one at that hour, but at the first turn of the path he noticed Rakitin. He was waiting for some one.

“Are you waiting for me?” asked Alyosha, overtaking him.

“Yes,” grinned Rakitin. “You are hurrying to the Father Superior, I know; he has a banquet. There’s not been such a banquet since the Superior entertained the Bishop and General Pahatov, do you remember? I shan’t be there, but you go and hand the sauces. Tell me one thing, Alexey, what does that vision mean? That’s what I want to ask you.”

“What vision?”

“That bowing to your brother, Dmitri. And didn’t he tap the ground with his forehead, too!”

“You speak of Father Zossima?”

“Yes, of Father Zossima.”

“Tapped the ground?”

“Ah, an irreverent expression! Well, what of it? Anyway, what does that vision mean?”

“I don’t know what it means, Misha.”

“I knew he wouldn’t explain it to you! There’s nothing wonderful about it, of course, only the usual holy mummery. But there was an object in the performance. All the pious people in the town will talk about it and spread the story through the province, wondering what it meant. To my thinking the old man really has a keen nose; he sniffed a crime. Your house stinks of it.”

“What crime?”

Rakitin evidently had something he was eager to speak of.

“It’ll be in your family, this crime. Between your brothers and your rich old father. So Father Zossima flopped down to be ready for what may turn up. If something happens later on, it’ll be: ‘Ah, the holy man foresaw it, prophesied it!’ though it’s a poor sort of prophecy, flopping like that. ‘Ah, but it was symbolic,’ they’ll say, ‘an allegory,’ and the devil knows what all! It’ll be remembered to his glory: ‘He predicted the crime and marked the criminal!’ That’s always the way with these crazy fanatics; they cross themselves at the tavern and throw stones at the temple. Like your elder, he takes a stick to a just man and falls at the feet of a murderer.”

“What crime? What murderer? What do you mean?”

Alyosha stopped dead. Rakitin stopped, too.

“What murderer? As though you didn’t know! I’ll bet you’ve thought of it before. That’s interesting, too, by the way. Listen, Alyosha, you always speak the truth, though you’re always between two stools. Have you thought of it or not? Answer.”

“I have,” answered Alyosha in a low voice. Even Rakitin was taken aback.

“What? Have you really?” he cried.

“I … I’ve not exactly thought it,” muttered Alyosha, “but directly you began speaking so strangely, I fancied I had thought of it myself.”

“You see? (And how well you expressed it!) Looking at your father and your brother Mitya to‐day you thought of a crime. Then I’m not mistaken?”

“But wait, wait a minute,” Alyosha broke in uneasily. “What has led you to see all this? Why does it interest you? That’s the first question.”

“Two questions, disconnected, but natural. I’ll deal with them separately. What led me to see it? I shouldn’t have seen it, if I hadn’t suddenly understood your brother Dmitri, seen right into the very heart of him all at once. I caught the whole man from one trait. These very honest but passionate people have a line which mustn’t be crossed. If it were, he’d run at your father with a knife. But your father’s a drunken and abandoned old sinner, who can never draw the line—if they both let themselves go, they’ll both come to grief.”

“No, Misha, no. If that’s all, you’ve reassured me. It won’t come to that.”

“But why are you trembling? Let me tell you; he may be honest, our Mitya (he is stupid, but honest), but he’s—a sensualist. That’s the very definition and inner essence of him. It’s your father has handed him on his low sensuality. Do you know, I simply wonder at you, Alyosha, how you can have kept your purity. You’re a Karamazov too, you know! In your family sensuality is carried to a disease. But now, these three sensualists are watching one another, with their knives in their belts. The three of them are knocking their heads together, and you may be the fourth.”

“You are mistaken about that woman. Dmitri—despises her,” said Alyosha, with a sort of shudder.

“Grushenka? No, brother, he doesn’t despise her. Since he has openly abandoned his betrothed for her, he doesn’t despise her. There’s something here, my dear boy, that you don’t understand yet. A man will fall in love with some beauty, with a woman’s body, or even with a part of a woman’s body (a sensualist can understand that), and he’ll abandon his own children for her, sell his father and mother, and his country, Russia, too. If he’s honest, he’ll steal; if he’s humane, he’ll murder; if he’s faithful, he’ll deceive. Pushkin, the poet of women’s feet, sung of their feet in his verse. Others don’t sing their praises, but they can’t look at their feet without a thrill—and it’s not only their feet. Contempt’s no help here, brother, even if he did despise Grushenka. He does, but he can’t tear himself away.”

“I understand that,” Alyosha jerked out suddenly.

“Really? Well, I dare say you do understand, since you blurt it out at the first word,” said Rakitin, malignantly. “That escaped you unawares, and the confession’s the more precious. So it’s a familiar subject; you’ve thought about it already, about sensuality, I mean! Oh, you virgin soul! You’re a quiet one, Alyosha, you’re a saint, I know, but the devil only knows what you’ve thought about, and what you know already! You are pure, but you’ve been down into the depths…. I’ve been watching you a long time. You’re a Karamazov yourself; you’re a thorough Karamazov—no doubt birth and selection have something to answer for. You’re a sensualist from your father, a crazy saint from your mother. Why do you tremble? Is it true, then? Do you know, Grushenka has been begging me to bring you along. ‘I’ll pull off his cassock,’ she says. You can’t think how she keeps begging me to bring you. I wondered why she took such an interest in you. Do you know, she’s an extraordinary woman, too!”

“Thank her and say I’m not coming,” said Alyosha, with a strained smile. “Finish what you were saying, Misha. I’ll tell you my idea after.”

“There’s nothing to finish. It’s all clear. It’s the same old tune, brother. If even you are a sensualist at heart, what of your brother, Ivan? He’s a Karamazov, too. What is at the root of all you Karamazovs is that you’re all sensual, grasping and crazy! Your brother Ivan writes theological articles in joke, for some idiotic, unknown motive of his own, though he’s an atheist, and he admits it’s a fraud himself—that’s your brother Ivan. He’s trying to get Mitya’s betrothed for himself, and I fancy he’ll succeed, too. And what’s more, it’s with Mitya’s consent. For Mitya will surrender his betrothed to him to be rid of her, and escape to Grushenka. And he’s ready to do that in spite of all his nobility and disinterestedness. Observe that. Those are the most fatal people! Who the devil can make you out? He recognizes his vileness and goes on with it! Let me tell you, too, the old man, your father, is standing in Mitya’s way now. He has suddenly gone crazy over Grushenka. His mouth waters at the sight of her. It’s simply on her account he made that scene in the cell just now, simply because Miüsov called her an ‘abandoned creature.’ He’s worse than a tom‐cat in love. At first she was only employed by him in connection with his taverns and in some other shady business, but now he has suddenly realized all she is and has gone wild about her. He keeps pestering her with his offers, not honorable ones, of course. And they’ll come into collision, the precious father and son, on that path! But Grushenka favors neither of them, she’s still playing with them, and teasing them both, considering which she can get most out of. For though she could filch a lot of money from the papa he wouldn’t marry her, and maybe he’ll turn stingy in the end, and keep his purse shut. That’s where Mitya’s value comes in; he has no money, but he’s ready to marry her. Yes, ready to marry her! to abandon his betrothed, a rare beauty, Katerina Ivanovna, who’s rich, and the daughter of a colonel, and to marry Grushenka, who has been the mistress of a dissolute old merchant, Samsonov, a coarse, uneducated, provincial mayor. Some murderous conflict may well come to pass from all this, and that’s what your brother Ivan is waiting for. It would suit him down to the ground. He’ll carry off Katerina Ivanovna, for whom he is languishing, and pocket her dowry of sixty thousand. That’s very alluring to start with, for a man of no consequence and a beggar. And, take note, he won’t be wronging Mitya, but doing him the greatest service. For I know as a fact that Mitya only last week, when he was with some gypsy girls drunk in a tavern, cried out aloud that he was unworthy of his betrothed, Katya, but that his brother Ivan, he was the man who deserved her. And Katerina Ivanovna will not in the end refuse such a fascinating man as Ivan. She’s hesitating between the two of them already. And how has that Ivan won you all, so that you all worship him? He is laughing at you, and enjoying himself at your expense.”

“How do you know? How can you speak so confidently?” Alyosha asked sharply, frowning.

“Why do you ask, and are frightened at my answer? It shows that you know I’m speaking the truth.”

“You don’t like Ivan. Ivan wouldn’t be tempted by money.”

“Really? And the beauty of Katerina Ivanovna? It’s not only the money, though a fortune of sixty thousand is an attraction.”

“Ivan is above that. He wouldn’t make up to any one for thousands. It is not money, it’s not comfort Ivan is seeking. Perhaps it’s suffering he is seeking.”

“What wild dream now? Oh, you—aristocrats!”

“Ah, Misha, he has a stormy spirit. His mind is in bondage. He is haunted by a great, unsolved doubt. He is one of those who don’t want millions, but an answer to their questions.”

“That’s plagiarism, Alyosha. You’re quoting your elder’s phrases. Ah, Ivan has set you a problem!” cried Rakitin, with undisguised malice. His face changed, and his lips twitched. “And the problem’s a stupid one. It is no good guessing it. Rack your brains—you’ll understand it. His article is absurd and ridiculous. And did you hear his stupid theory just now: if there’s no immortality of the soul, then there’s no virtue, and everything is lawful. (And by the way, do you remember how your brother Mitya cried out: ‘I will remember!’) An attractive theory for scoundrels!—(I’m being abusive, that’s stupid.) Not for scoundrels, but for pedantic poseurs, ‘haunted by profound, unsolved doubts.’ He’s showing off, and what it all comes to is, ‘on the one hand we cannot but admit’ and ‘on the other it must be confessed!’ His whole theory is a fraud! Humanity will find in itself the power to live for virtue even without believing in immortality. It will find it in love for freedom, for equality, for fraternity.”

Rakitin could hardly restrain himself in his heat, but, suddenly, as though remembering something, he stopped short.

“Well, that’s enough,” he said, with a still more crooked smile. “Why are you laughing? Do you think I’m a vulgar fool?”

“No, I never dreamed of thinking you a vulgar fool. You are clever but … never mind, I was silly to smile. I understand your getting hot about it, Misha. I guess from your warmth that you are not indifferent to Katerina Ivanovna yourself; I’ve suspected that for a long time, brother, that’s why you don’t like my brother Ivan. Are you jealous of him?”

“And jealous of her money, too? Won’t you add that?”

“I’ll say nothing about money. I am not going to insult you.”

“I believe it, since you say so, but confound you, and your brother Ivan with you. Don’t you understand that one might very well dislike him, apart from Katerina Ivanovna. And why the devil should I like him? He condescends to abuse me, you know. Why haven’t I a right to abuse him?”

“I never heard of his saying anything about you, good or bad. He doesn’t speak of you at all.”

“But I heard that the day before yesterday at Katerina Ivanovna’s he was abusing me for all he was worth—you see what an interest he takes in your humble servant. And which is the jealous one after that, brother, I can’t say. He was so good as to express the opinion that, if I don’t go in for the career of an archimandrite in the immediate future and don’t become a monk, I shall be sure to go to Petersburg and get on to some solid magazine as a reviewer, that I shall write for the next ten years, and in the end become the owner of the magazine, and bring it out on the liberal and atheistic side, with a socialistic tinge, with a tiny gloss of socialism, but keeping a sharp look out all the time, that is, keeping in with both sides and hoodwinking the fools. According to your brother’s account, the tinge of socialism won’t hinder me from laying by the proceeds and investing them under the guidance of some Jew, till at the end of my career I build a great house in Petersburg and move my publishing offices to it, and let out the upper stories to lodgers. He has even chosen the place for it, near the new stone bridge across the Neva, which they say is to be built in Petersburg.”

“Ah, Misha, that’s just what will really happen, every word of it,” cried Alyosha, unable to restrain a good‐humored smile.

“You are pleased to be sarcastic, too, Alexey Fyodorovitch.”

“No, no, I’m joking, forgive me. I’ve something quite different in my mind. But, excuse me, who can have told you all this? You can’t have been at Katerina Ivanovna’s yourself when he was talking about you?”

“I wasn’t there, but Dmitri Fyodorovitch was; and I heard him tell it with my own ears; if you want to know, he didn’t tell me, but I overheard him, unintentionally, of course, for I was sitting in Grushenka’s bedroom and I couldn’t go away because Dmitri Fyodorovitch was in the next room.”

“Oh, yes, I’d forgotten she was a relation of yours.”

“A relation! That Grushenka a relation of mine!” cried Rakitin, turning crimson. “Are you mad? You’re out of your mind!”

“Why, isn’t she a relation of yours? I heard so.”

“Where can you have heard it? You Karamazovs brag of being an ancient, noble family, though your father used to run about playing the buffoon at other men’s tables, and was only admitted to the kitchen as a favor. I may be only a priest’s son, and dirt in the eyes of noblemen like you, but don’t insult me so lightly and wantonly. I have a sense of honor, too, Alexey Fyodorovitch, I couldn’t be a relation of Grushenka, a common harlot. I beg you to understand that!”

Rakitin was intensely irritated.

“Forgive me, for goodness’ sake, I had no idea … besides … how can you call her a harlot? Is she … that sort of woman?” Alyosha flushed suddenly. “I tell you again, I heard that she was a relation of yours. You often go to see her, and you told me yourself you’re not her lover. I never dreamed that you of all people had such contempt for her! Does she really deserve it?”

“I may have reasons of my own for visiting her. That’s not your business. But as for relationship, your brother, or even your father, is more likely to make her yours than mine. Well, here we are. You’d better go to the kitchen. Hullo! what’s wrong, what is it? Are we late? They can’t have finished dinner so soon! Have the Karamazovs been making trouble again? No doubt they have. Here’s your father and your brother Ivan after him. They’ve broken out from the Father Superior’s. And look, Father Isidor’s shouting out something after them from the steps. And your father’s shouting and waving his arms. I expect he’s swearing. Bah, and there goes Miüsov driving away in his carriage. You see, he’s going. And there’s old Maximov running!—there must have been a row. There can’t have been any dinner. Surely they’ve not been beating the Father Superior! Or have they, perhaps, been beaten? It would serve them right!”

There was reason for Rakitin’s exclamations. There had been a scandalous, an unprecedented scene. It had all come from the impulse of a moment.

Chapter VIII.
The Scandalous Scene
Miüsov, as a man of breeding and delicacy, could not but feel some inward qualms, when he reached the Father Superior’s with Ivan: he felt ashamed of having lost his temper. He felt that he ought to have disdained that despicable wretch, Fyodor Pavlovitch, too much to have been upset by him in Father Zossima’s cell, and so to have forgotten himself. “The monks were not to blame, in any case,” he reflected, on the steps. “And if they’re decent people here (and the Father Superior, I understand, is a nobleman) why not be friendly and courteous with them? I won’t argue, I’ll fall in with everything, I’ll win them by politeness, and … and … show them that I’ve nothing to do with that Æsop, that buffoon, that Pierrot, and have merely been taken in over this affair, just as they have.”

He determined to drop his litigation with the monastery, and relinquish his claims to the wood‐cutting and fishery rights at once. He was the more ready to do this because the rights had become much less valuable, and he had indeed the vaguest idea where the wood and river in question were.

These excellent intentions were strengthened when he entered the Father Superior’s dining‐room, though, strictly speaking, it was not a dining‐ room, for the Father Superior had only two rooms altogether; they were, however, much larger and more comfortable than Father Zossima’s. But there was no great luxury about the furnishing of these rooms either. The furniture was of mahogany, covered with leather, in the old‐fashioned style of 1820; the floor was not even stained, but everything was shining with cleanliness, and there were many choice flowers in the windows; the most sumptuous thing in the room at the moment was, of course, the beautifully decorated table. The cloth was clean, the service shone; there were three kinds of well‐baked bread, two bottles of wine, two of excellent mead, and a large glass jug of kvas—both the latter made in the monastery, and famous in the neighborhood. There was no vodka. Rakitin related afterwards that there were five dishes: fish‐soup made of sterlets, served with little fish patties; then boiled fish served in a special way; then salmon cutlets, ice pudding and compote, and finally, blanc‐mange. Rakitin found out about all these good things, for he could not resist peeping into the kitchen, where he already had a footing. He had a footing everywhere, and got information about everything. He was of an uneasy and envious temper. He was well aware of his own considerable abilities, and nervously exaggerated them in his self‐conceit. He knew he would play a prominent part of some sort, but Alyosha, who was attached to him, was distressed to see that his friend Rakitin was dishonorable, and quite unconscious of being so himself, considering, on the contrary, that because he would not steal money left on the table he was a man of the highest integrity. Neither Alyosha nor any one else could have influenced him in that.

Rakitin, of course, was a person of too little consequence to be invited to the dinner, to which Father Iosif, Father Païssy, and one other monk were the only inmates of the monastery invited. They were already waiting when Miüsov, Kalganov, and Ivan arrived. The other guest, Maximov, stood a little aside, waiting also. The Father Superior stepped into the middle of the room to receive his guests. He was a tall, thin, but still vigorous old man, with black hair streaked with gray, and a long, grave, ascetic face. He bowed to his guests in silence. But this time they approached to receive his blessing. Miüsov even tried to kiss his hand, but the Father Superior drew it back in time to avoid the salute. But Ivan and Kalganov went through the ceremony in the most simple‐hearted and complete manner, kissing his hand as peasants do.

“We must apologize most humbly, your reverence,” began Miüsov, simpering affably, and speaking in a dignified and respectful tone. “Pardon us for having come alone without the gentleman you invited, Fyodor Pavlovitch. He felt obliged to decline the honor of your hospitality, and not without reason. In the reverend Father Zossima’s cell he was carried away by the unhappy dissension with his son, and let fall words which were quite out of keeping … in fact, quite unseemly … as”—he glanced at the monks—“your reverence is, no doubt, already aware. And therefore, recognizing that he had been to blame, he felt sincere regret and shame, and begged me, and his son Ivan Fyodorovitch, to convey to you his apologies and regrets. In brief, he hopes and desires to make amends later. He asks your blessing, and begs you to forget what has taken place.”

As he uttered the last word of his tirade, Miüsov completely recovered his self‐complacency, and all traces of his former irritation disappeared. He fully and sincerely loved humanity again.

The Father Superior listened to him with dignity, and, with a slight bend of the head, replied:

“I sincerely deplore his absence. Perhaps at our table he might have learnt to like us, and we him. Pray be seated, gentlemen.”

He stood before the holy image, and began to say grace, aloud. All bent their heads reverently, and Maximov clasped his hands before him, with peculiar fervor.

It was at this moment that Fyodor Pavlovitch played his last prank. It must be noted that he really had meant to go home, and really had felt the impossibility of going to dine with the Father Superior as though nothing had happened, after his disgraceful behavior in the elder’s cell. Not that he was so very much ashamed of himself—quite the contrary perhaps. But still he felt it would be unseemly to go to dinner. Yet his creaking carriage had hardly been brought to the steps of the hotel, and he had hardly got into it, when he suddenly stopped short. He remembered his own words at the elder’s: “I always feel when I meet people that I am lower than all, and that they all take me for a buffoon; so I say let me play the buffoon, for you are, every one of you, stupider and lower than I.” He longed to revenge himself on every one for his own unseemliness. He suddenly recalled how he had once in the past been asked, “Why do you hate so and so, so much?” And he had answered them, with his shameless impudence, “I’ll tell you. He has done me no harm. But I played him a dirty trick, and ever since I have hated him.”

Remembering that now, he smiled quietly and malignantly, hesitating for a moment. His eyes gleamed, and his lips positively quivered. “Well, since I have begun, I may as well go on,” he decided. His predominant sensation at that moment might be expressed in the following words, “Well, there is no rehabilitating myself now. So let me shame them for all I am worth. I will show them I don’t care what they think—that’s all!”

He told the coachman to wait, while with rapid steps he returned to the monastery and straight to the Father Superior’s. He had no clear idea what he would do, but he knew that he could not control himself, and that a touch might drive him to the utmost limits of obscenity, but only to obscenity, to nothing criminal, nothing for which he could be legally punished. In the last resort, he could always restrain himself, and had marveled indeed at himself, on that score, sometimes. He appeared in the Father Superior’s dining‐room, at the moment when the prayer was over, and all were moving to the table. Standing in the doorway, he scanned the company, and laughing his prolonged, impudent, malicious chuckle, looked them all boldly in the face. “They thought I had gone, and here I am again,” he cried to the whole room.

For one moment every one stared at him without a word; and at once every one felt that something revolting, grotesque, positively scandalous, was about to happen. Miüsov passed immediately from the most benevolent frame of mind to the most savage. All the feelings that had subsided and died down in his heart revived instantly.

“No! this I cannot endure!” he cried. “I absolutely cannot! and … I certainly cannot!”

The blood rushed to his head. He positively stammered; but he was beyond thinking of style, and he seized his hat.

“What is it he cannot?” cried Fyodor Pavlovitch, “that he absolutely cannot and certainly cannot? Your reverence, am I to come in or not? Will you receive me as your guest?”

“You are welcome with all my heart,” answered the Superior. “Gentlemen!” he added, “I venture to beg you most earnestly to lay aside your dissensions, and to be united in love and family harmony—with prayer to the Lord at our humble table.”

“No, no, it is impossible!” cried Miüsov, beside himself.

“Well, if it is impossible for Pyotr Alexandrovitch, it is impossible for me, and I won’t stop. That is why I came. I will keep with Pyotr Alexandrovitch everywhere now. If you will go away, Pyotr Alexandrovitch, I will go away too, if you remain, I will remain. You stung him by what you said about family harmony, Father Superior, he does not admit he is my relation. That’s right, isn’t it, von Sohn? Here’s von Sohn. How are you, von Sohn?”

“Do you mean me?” muttered Maximov, puzzled.

“Of course I mean you,” cried Fyodor Pavlovitch. “Who else? The Father Superior could not be von Sohn.”

“But I am not von Sohn either. I am Maximov.”

“No, you are von Sohn. Your reverence, do you know who von Sohn was? It was a famous murder case. He was killed in a house of harlotry—I believe that is what such places are called among you—he was killed and robbed, and in spite of his venerable age, he was nailed up in a box and sent from Petersburg to Moscow in the luggage van, and while they were nailing him up, the harlots sang songs and played the harp, that is to say, the piano. So this is that very von Sohn. He has risen from the dead, hasn’t he, von Sohn?”

“What is happening? What’s this?” voices were heard in the group of monks.

“Let us go,” cried Miüsov, addressing Kalganov.

“No, excuse me,” Fyodor Pavlovitch broke in shrilly, taking another step into the room. “Allow me to finish. There in the cell you blamed me for behaving disrespectfully just because I spoke of eating gudgeon, Pyotr Alexandrovitch. Miüsov, my relation, prefers to have plus de noblesse que de sincérité in his words, but I prefer in mine plus de sincérité que de noblesse, and—damn the noblesse! That’s right, isn’t it, von Sohn? Allow me, Father Superior, though I am a buffoon and play the buffoon, yet I am the soul of honor, and I want to speak my mind. Yes, I am the soul of honor, while in Pyotr Alexandrovitch there is wounded vanity and nothing else. I came here perhaps to have a look and speak my mind. My son, Alexey, is here, being saved. I am his father; I care for his welfare, and it is my duty to care. While I’ve been playing the fool, I have been listening and having a look on the sly; and now I want to give you the last act of the performance. You know how things are with us? As a thing falls, so it lies. As a thing once has fallen, so it must lie for ever. Not a bit of it! I want to get up again. Holy Father, I am indignant with you. Confession is a great sacrament, before which I am ready to bow down reverently; but there in the cell, they all kneel down and confess aloud. Can it be right to confess aloud? It was ordained by the holy Fathers to confess in secret: then only your confession will be a mystery, and so it was of old. But how can I explain to him before every one that I did this and that … well, you understand what—sometimes it would not be proper to talk about it—so it is really a scandal! No, Fathers, one might be carried along with you to the Flagellants, I dare say … at the first opportunity I shall write to the Synod, and I shall take my son, Alexey, home.”

We must note here that Fyodor Pavlovitch knew where to look for the weak spot. There had been at one time malicious rumors which had even reached the Archbishop (not only regarding our monastery, but in others where the institution of elders existed) that too much respect was paid to the elders, even to the detriment of the authority of the Superior, that the elders abused the sacrament of confession and so on and so on—absurd charges which had died away of themselves everywhere. But the spirit of folly, which had caught up Fyodor Pavlovitch, and was bearing him on the current of his own nerves into lower and lower depths of ignominy, prompted him with this old slander. Fyodor Pavlovitch did not understand a word of it, and he could not even put it sensibly, for on this occasion no one had been kneeling and confessing aloud in the elder’s cell, so that he could not have seen anything of the kind. He was only speaking from confused memory of old slanders. But as soon as he had uttered his foolish tirade, he felt he had been talking absurd nonsense, and at once longed to prove to his audience, and above all to himself, that he had not been talking nonsense. And, though he knew perfectly well that with each word he would be adding more and more absurdity, he could not restrain himself, and plunged forward blindly.

“How disgraceful!” cried Pyotr Alexandrovitch.

“Pardon me!” said the Father Superior. “It was said of old, ‘Many have begun to speak against me and have uttered evil sayings about me. And hearing it I have said to myself: it is the correction of the Lord and He has sent it to heal my vain soul.’ And so we humbly thank you, honored guest!” and he made Fyodor Pavlovitch a low bow.

“Tut—tut—tut—sanctimoniousness and stock phrases! Old phrases and old gestures. The old lies and formal prostrations. We know all about them. A kiss on the lips and a dagger in the heart, as in Schiller’s Robbers. I don’t like falsehood, Fathers, I want the truth. But the truth is not to be found in eating gudgeon and that I proclaim aloud! Father monks, why do you fast? Why do you expect reward in heaven for that? Why, for reward like that I will come and fast too! No, saintly monk, you try being virtuous in the world, do good to society, without shutting yourself up in a monastery at other people’s expense, and without expecting a reward up aloft for it—you’ll find that a bit harder. I can talk sense, too, Father Superior. What have they got here?” He went up to the table. “Old port wine, mead brewed by the Eliseyev Brothers. Fie, fie, fathers! That is something beyond gudgeon. Look at the bottles the fathers have brought out, he he he! And who has provided it all? The Russian peasant, the laborer, brings here the farthing earned by his horny hand, wringing it from his family and the tax‐gatherer! You bleed the people, you know, holy fathers.”

“This is too disgraceful!” said Father Iosif.

Father Païssy kept obstinately silent. Miüsov rushed from the room, and Kalganov after him.

“Well, Father, I will follow Pyotr Alexandrovitch! I am not coming to see you again. You may beg me on your knees, I shan’t come. I sent you a thousand roubles, so you have begun to keep your eye on me. He he he! No, I’ll say no more. I am taking my revenge for my youth, for all the humiliation I endured.” He thumped the table with his fist in a paroxysm of simulated feeling. “This monastery has played a great part in my life! It has cost me many bitter tears. You used to set my wife, the crazy one, against me. You cursed me with bell and book, you spread stories about me all over the place. Enough, fathers! This is the age of Liberalism, the age of steamers and railways. Neither a thousand, nor a hundred roubles, no, nor a hundred farthings will you get out of me!”

It must be noted again that our monastery never had played any great part in his life, and he never had shed a bitter tear owing to it. But he was so carried away by his simulated emotion, that he was for one moment almost believing it himself. He was so touched he was almost weeping. But at that very instant, he felt that it was time to draw back.

The Father Superior bowed his head at his malicious lie, and again spoke impressively:

“It is written again, ‘Bear circumspectly and gladly dishonor that cometh upon thee by no act of thine own, be not confounded and hate not him who hath dishonored thee.’ And so will we.”

“Tut, tut, tut! Bethinking thyself and the rest of the rigmarole. Bethink yourselves, Fathers, I will go. But I will take my son, Alexey, away from here for ever, on my parental authority. Ivan Fyodorovitch, my most dutiful son, permit me to order you to follow me. Von Sohn, what have you to stay for? Come and see me now in the town. It is fun there. It is only one short verst; instead of lenten oil, I will give you sucking‐pig and kasha. We will have dinner with some brandy and liqueur to it…. I’ve cloudberry wine. Hey, von Sohn, don’t lose your chance.” He went out, shouting and gesticulating.

It was at that moment Rakitin saw him and pointed him out to Alyosha.

“Alexey!” his father shouted, from far off, catching sight of him. “You come home to me to‐day, for good, and bring your pillow and mattress, and leave no trace behind.”

Alyosha stood rooted to the spot, watching the scene in silence. Meanwhile, Fyodor Pavlovitch had got into the carriage, and Ivan was about to follow him in grim silence without even turning to say good‐by to Alyosha. But at this point another almost incredible scene of grotesque buffoonery gave the finishing touch to the episode. Maximov suddenly appeared by the side of the carriage. He ran up, panting, afraid of being too late. Rakitin and Alyosha saw him running. He was in such a hurry that in his impatience he put his foot on the step on which Ivan’s left foot was still resting, and clutching the carriage he kept trying to jump in. “I am going with you!” he kept shouting, laughing a thin mirthful laugh with a look of reckless glee in his face. “Take me, too.”

“There!” cried Fyodor Pavlovitch, delighted. “Did I not say he was von Sohn. It is von Sohn himself, risen from the dead. Why, how did you tear yourself away? What did you vonsohn there? And how could you get away from the dinner? You must be a brazen‐faced fellow! I am that myself, but I am surprised at you, brother! Jump in, jump in! Let him pass, Ivan. It will be fun. He can lie somewhere at our feet. Will you lie at our feet, von Sohn? Or perch on the box with the coachman. Skip on to the box, von Sohn!”

But Ivan, who had by now taken his seat, without a word gave Maximov a violent punch in the breast and sent him flying. It was quite by chance he did not fall.

“Drive on!” Ivan shouted angrily to the coachman.

“Why, what are you doing, what are you about? Why did you do that?” Fyodor Pavlovitch protested.

But the carriage had already driven away. Ivan made no reply.

“Well, you are a fellow,” Fyodor Pavlovitch said again.

After a pause of two minutes, looking askance at his son, “Why, it was you got up all this monastery business. You urged it, you approved of it. Why are you angry now?”

“You’ve talked rot enough. You might rest a bit now,” Ivan snapped sullenly.

Fyodor Pavlovitch was silent again for two minutes.

“A drop of brandy would be nice now,” he observed sententiously, but Ivan made no response.

“You shall have some, too, when we get home.”

Ivan was still silent.

Fyodor Pavlovitch waited another two minutes.

“But I shall take Alyosha away from the monastery, though you will dislike it so much, most honored Karl von Moor.”

Ivan shrugged his shoulders contemptuously, and turning away stared at the road. And they did not speak again all the way home.

Book III. The Sensualists
Chapter I.
In The Servants’ Quarters
The Karamazovs’ house was far from being in the center of the town, but it was not quite outside it. It was a pleasant‐looking old house of two stories, painted gray, with a red iron roof. It was roomy and snug, and might still last many years. There were all sorts of unexpected little cupboards and closets and staircases. There were rats in it, but Fyodor Pavlovitch did not altogether dislike them. “One doesn’t feel so solitary when one’s left alone in the evening,” he used to say. It was his habit to send the servants away to the lodge for the night and to lock himself up alone. The lodge was a roomy and solid building in the yard. Fyodor Pavlovitch used to have the cooking done there, although there was a kitchen in the house; he did not like the smell of cooking, and, winter and summer alike, the dishes were carried in across the courtyard. The house was built for a large family; there was room for five times as many, with their servants. But at the time of our story there was no one living in the house but Fyodor Pavlovitch and his son Ivan. And in the lodge there were only three servants: old Grigory, and his old wife Marfa, and a young man called Smerdyakov. Of these three we must say a few words. Of old Grigory we have said something already. He was firm and determined and went blindly and obstinately for his object, if once he had been brought by any reasons (and they were often very illogical ones) to believe that it was immutably right. He was honest and incorruptible. His wife, Marfa Ignatyevna, had obeyed her husband’s will implicitly all her life, yet she had pestered him terribly after the emancipation of the serfs. She was set on leaving Fyodor Pavlovitch and opening a little shop in Moscow with their small savings. But Grigory decided then, once for all, that “the woman’s talking nonsense, for every woman is dishonest,” and that they ought not to leave their old master, whatever he might be, for “that was now their duty.”

“Do you understand what duty is?” he asked Marfa Ignatyevna.

“I understand what duty means, Grigory Vassilyevitch, but why it’s our duty to stay here I never shall understand,” Marfa answered firmly.

“Well, don’t understand then. But so it shall be. And you hold your tongue.”

And so it was. They did not go away, and Fyodor Pavlovitch promised them a small sum for wages, and paid it regularly. Grigory knew, too, that he had an indisputable influence over his master. It was true, and he was aware of it. Fyodor Pavlovitch was an obstinate and cunning buffoon, yet, though his will was strong enough “in some of the affairs of life,” as he expressed it, he found himself, to his surprise, extremely feeble in facing certain other emergencies. He knew his weaknesses and was afraid of them. There are positions in which one has to keep a sharp look out. And that’s not easy without a trustworthy man, and Grigory was a most trustworthy man. Many times in the course of his life Fyodor Pavlovitch had only just escaped a sound thrashing through Grigory’s intervention, and on each occasion the old servant gave him a good lecture. But it wasn’t only thrashings that Fyodor Pavlovitch was afraid of. There were graver occasions, and very subtle and complicated ones, when Fyodor Pavlovitch could not have explained the extraordinary craving for some one faithful and devoted, which sometimes unaccountably came upon him all in a moment. It was almost a morbid condition. Corrupt and often cruel in his lust, like some noxious insect, Fyodor Pavlovitch was sometimes, in moments of drunkenness, overcome by superstitious terror and a moral convulsion which took an almost physical form. “My soul’s simply quaking in my throat at those times,” he used to say. At such moments he liked to feel that there was near at hand, in the lodge if not in the room, a strong, faithful man, virtuous and unlike himself, who had seen all his debauchery and knew all his secrets, but was ready in his devotion to overlook all that, not to oppose him, above all, not to reproach him or threaten him with anything, either in this world or in the next, and, in case of need, to defend him—from whom? From somebody unknown, but terrible and dangerous. What he needed was to feel that there was another man, an old and tried friend, that he might call him in his sick moments merely to look at his face, or, perhaps, exchange some quite irrelevant words with him. And if the old servant were not angry, he felt comforted, and if he were angry, he was more dejected. It happened even (very rarely however) that Fyodor Pavlovitch went at night to the lodge to wake Grigory and fetch him for a moment. When the old man came, Fyodor Pavlovitch would begin talking about the most trivial matters, and would soon let him go again, sometimes even with a jest. And after he had gone, Fyodor Pavlovitch would get into bed with a curse and sleep the sleep of the just. Something of the same sort had happened to Fyodor Pavlovitch on Alyosha’s arrival. Alyosha “pierced his heart” by “living with him, seeing everything and blaming nothing.” Moreover, Alyosha brought with him something his father had never known before: a complete absence of contempt for him and an invariable kindness, a perfectly natural unaffected devotion to the old man who deserved it so little. All this was a complete surprise to the old profligate, who had dropped all family ties. It was a new and surprising experience for him, who had till then loved nothing but “evil.” When Alyosha had left him, he confessed to himself that he had learnt something he had not till then been willing to learn.

I have mentioned already that Grigory had detested Adelaïda Ivanovna, the first wife of Fyodor Pavlovitch and the mother of Dmitri, and that he had, on the contrary, protected Sofya Ivanovna, the poor “crazy woman,” against his master and any one who chanced to speak ill or lightly of her. His sympathy for the unhappy wife had become something sacred to him, so that even now, twenty years after, he could not bear a slighting allusion to her from any one, and would at once check the offender. Externally, Grigory was cold, dignified and taciturn, and spoke, weighing his words, without frivolity. It was impossible to tell at first sight whether he loved his meek, obedient wife; but he really did love her, and she knew it.

Marfa Ignatyevna was by no means foolish; she was probably, indeed, cleverer than her husband, or, at least, more prudent than he in worldly affairs, and yet she had given in to him in everything without question or complaint ever since her marriage, and respected him for his spiritual superiority. It was remarkable how little they spoke to one another in the course of their lives, and only of the most necessary daily affairs. The grave and dignified Grigory thought over all his cares and duties alone, so that Marfa Ignatyevna had long grown used to knowing that he did not need her advice. She felt that her husband respected her silence, and took it as a sign of her good sense. He had never beaten her but once, and then only slightly. Once during the year after Fyodor Pavlovitch’s marriage with Adelaïda Ivanovna, the village girls and women—at that time serfs—were called together before the house to sing and dance. They were beginning “In the Green Meadows,” when Marfa, at that time a young woman, skipped forward and danced “the Russian Dance,” not in the village fashion, but as she had danced it when she was a servant in the service of the rich Miüsov family, in their private theater, where the actors were taught to dance by a dancing master from Moscow. Grigory saw how his wife danced, and, an hour later, at home in their cottage he gave her a lesson, pulling her hair a little. But there it ended: the beating was never repeated, and Marfa Ignatyevna gave up dancing.

God had not blessed them with children. One child was born but it died. Grigory was fond of children, and was not ashamed of showing it. When Adelaïda Ivanovna had run away, Grigory took Dmitri, then a child of three years old, combed his hair and washed him in a tub with his own hands, and looked after him for almost a year. Afterwards he had looked after Ivan and Alyosha, for which the general’s widow had rewarded him with a slap in the face; but I have already related all that. The only happiness his own child had brought him had been in the anticipation of its birth. When it was born, he was overwhelmed with grief and horror. The baby had six fingers. Grigory was so crushed by this, that he was not only silent till the day of the christening, but kept away in the garden. It was spring, and he spent three days digging the kitchen garden. The third day was fixed for christening the baby: mean‐time Grigory had reached a conclusion. Going into the cottage where the clergy were assembled and the visitors had arrived, including Fyodor Pavlovitch, who was to stand god‐ father, he suddenly announced that the baby “ought not to be christened at all.” He announced this quietly, briefly, forcing out his words, and gazing with dull intentness at the priest.

“Why not?” asked the priest with good‐humored surprise.

“Because it’s a dragon,” muttered Grigory.

“A dragon? What dragon?”

Grigory did not speak for some time. “It’s a confusion of nature,” he muttered vaguely, but firmly, and obviously unwilling to say more.

They laughed, and of course christened the poor baby. Grigory prayed earnestly at the font, but his opinion of the new‐born child remained unchanged. Yet he did not interfere in any way. As long as the sickly infant lived he scarcely looked at it, tried indeed not to notice it, and for the most part kept out of the cottage. But when, at the end of a fortnight, the baby died of thrush, he himself laid the child in its little coffin, looked at it in profound grief, and when they were filling up the shallow little grave he fell on his knees and bowed down to the earth. He did not for years afterwards mention his child, nor did Marfa speak of the baby before him, and, even if Grigory were not present, she never spoke of it above a whisper. Marfa observed that, from the day of the burial, he devoted himself to “religion,” and took to reading the Lives of the Saints, for the most part sitting alone and in silence, and always putting on his big, round, silver‐rimmed spectacles. He rarely read aloud, only perhaps in Lent. He was fond of the Book of Job, and had somehow got hold of a copy of the sayings and sermons of “the God‐fearing Father Isaac the Syrian,” which he read persistently for years together, understanding very little of it, but perhaps prizing and loving it the more for that. Of late he had begun to listen to the doctrines of the sect of Flagellants settled in the neighborhood. He was evidently shaken by them, but judged it unfitting to go over to the new faith. His habit of theological reading gave him an expression of still greater gravity.

He was perhaps predisposed to mysticism. And the birth of his deformed child, and its death, had, as though by special design, been accompanied by another strange and marvelous event, which, as he said later, had left a “stamp” upon his soul. It happened that, on the very night after the burial of his child, Marfa was awakened by the wail of a new‐born baby. She was frightened and waked her husband. He listened and said he thought it was more like some one groaning, “it might be a woman.” He got up and dressed. It was a rather warm night in May. As he went down the steps, he distinctly heard groans coming from the garden. But the gate from the yard into the garden was locked at night, and there was no other way of entering it, for it was enclosed all round by a strong, high fence. Going back into the house, Grigory lighted a lantern, took the garden key, and taking no notice of the hysterical fears of his wife, who was still persuaded that she heard a child crying, and that it was her own baby crying and calling for her, went into the garden in silence. There he heard at once that the groans came from the bath‐house that stood near the garden gate, and that they were the groans of a woman. Opening the door of the bath‐house, he saw a sight which petrified him. An idiot girl, who wandered about the streets and was known to the whole town by the nickname of Lizaveta Smerdyastchaya (Stinking Lizaveta), had got into the bath‐ house and had just given birth to a child. She lay dying with the baby beside her. She said nothing, for she had never been able to speak. But her story needs a chapter to itself.

Chapter II.
Lizaveta
There was one circumstance which struck Grigory particularly, and confirmed a very unpleasant and revolting suspicion. This Lizaveta was a dwarfish creature, “not five foot within a wee bit,” as many of the pious old women said pathetically about her, after her death. Her broad, healthy, red face had a look of blank idiocy and the fixed stare in her eyes was unpleasant, in spite of their meek expression. She wandered about, summer and winter alike, barefooted, wearing nothing but a hempen smock. Her coarse, almost black hair curled like lamb’s wool, and formed a sort of huge cap on her head. It was always crusted with mud, and had leaves, bits of stick, and shavings clinging to it, as she always slept on the ground and in the dirt. Her father, a homeless, sickly drunkard, called Ilya, had lost everything and lived many years as a workman with some well‐to‐do tradespeople. Her mother had long been dead. Spiteful and diseased, Ilya used to beat Lizaveta inhumanly whenever she returned to him. But she rarely did so, for every one in the town was ready to look after her as being an idiot, and so specially dear to God. Ilya’s employers, and many others in the town, especially of the tradespeople, tried to clothe her better, and always rigged her out with high boots and sheepskin coat for the winter. But, although she allowed them to dress her up without resisting, she usually went away, preferably to the cathedral porch, and taking off all that had been given her—kerchief, sheepskin, skirt or boots—she left them there and walked away barefoot in her smock as before. It happened on one occasion that a new governor of the province, making a tour of inspection in our town, saw Lizaveta, and was wounded in his tenderest susceptibilities. And though he was told she was an idiot, he pronounced that for a young woman of twenty to wander about in nothing but a smock was a breach of the proprieties, and must not occur again. But the governor went his way, and Lizaveta was left as she was. At last her father died, which made her even more acceptable in the eyes of the religious persons of the town, as an orphan. In fact, every one seemed to like her; even the boys did not tease her, and the boys of our town, especially the schoolboys, are a mischievous set. She would walk into strange houses, and no one drove her away. Every one was kind to her and gave her something. If she were given a copper, she would take it, and at once drop it in the alms‐jug of the church or prison. If she were given a roll or bun in the market, she would hand it to the first child she met. Sometimes she would stop one of the richest ladies in the town and give it to her, and the lady would be pleased to take it. She herself never tasted anything but black bread and water. If she went into an expensive shop, where there were costly goods or money lying about, no one kept watch on her, for they knew that if she saw thousands of roubles overlooked by them, she would not have touched a farthing. She scarcely ever went to church. She slept either in the church porch or climbed over a hurdle (there are many hurdles instead of fences to this day in our town) into a kitchen garden. She used at least once a week to turn up “at home,” that is at the house of her father’s former employers, and in the winter went there every night, and slept either in the passage or the cowhouse. People were amazed that she could stand such a life, but she was accustomed to it, and, although she was so tiny, she was of a robust constitution. Some of the townspeople declared that she did all this only from pride, but that is hardly credible. She could hardly speak, and only from time to time uttered an inarticulate grunt. How could she have been proud?

It happened one clear, warm, moonlight night in September (many years ago) five or six drunken revelers were returning from the club at a very late hour, according to our provincial notions. They passed through the “back‐ way,” which led between the back gardens of the houses, with hurdles on either side. This way leads out on to the bridge over the long, stinking pool which we were accustomed to call a river. Among the nettles and burdocks under the hurdle our revelers saw Lizaveta asleep. They stopped to look at her, laughing, and began jesting with unbridled licentiousness. It occurred to one young gentleman to make the whimsical inquiry whether any one could possibly look upon such an animal as a woman, and so forth…. They all pronounced with lofty repugnance that it was impossible. But Fyodor Pavlovitch, who was among them, sprang forward and declared that it was by no means impossible, and that, indeed, there was a certain piquancy about it, and so on…. It is true that at that time he was overdoing his part as a buffoon. He liked to put himself forward and entertain the company, ostensibly on equal terms, of course, though in reality he was on a servile footing with them. It was just at the time when he had received the news of his first wife’s death in Petersburg, and, with crape upon his hat, was drinking and behaving so shamelessly that even the most reckless among us were shocked at the sight of him. The revelers, of course, laughed at this unexpected opinion; and one of them even began challenging him to act upon it. The others repelled the idea even more emphatically, although still with the utmost hilarity, and at last they went on their way. Later on, Fyodor Pavlovitch swore that he had gone with them, and perhaps it was so, no one knows for certain, and no one ever knew. But five or six months later, all the town was talking, with intense and sincere indignation, of Lizaveta’s condition, and trying to find out who was the miscreant who had wronged her. Then suddenly a terrible rumor was all over the town that this miscreant was no other than Fyodor Pavlovitch. Who set the rumor going? Of that drunken band five had left the town and the only one still among us was an elderly and much respected civil councilor, the father of grown‐up daughters, who could hardly have spread the tale, even if there had been any foundation for it. But rumor pointed straight at Fyodor Pavlovitch, and persisted in pointing at him. Of course this was no great grievance to him: he would not have troubled to contradict a set of tradespeople. In those days he was proud, and did not condescend to talk except in his own circle of the officials and nobles, whom he entertained so well.

At the time, Grigory stood up for his master vigorously. He provoked quarrels and altercations in defense of him and succeeded in bringing some people round to his side. “It’s the wench’s own fault,” he asserted, and the culprit was Karp, a dangerous convict, who had escaped from prison and whose name was well known to us, as he had hidden in our town. This conjecture sounded plausible, for it was remembered that Karp had been in the neighborhood just at that time in the autumn, and had robbed three people. But this affair and all the talk about it did not estrange popular sympathy from the poor idiot. She was better looked after than ever. A well‐to‐do merchant’s widow named Kondratyev arranged to take her into her house at the end of April, meaning not to let her go out until after the confinement. They kept a constant watch over her, but in spite of their vigilance she escaped on the very last day, and made her way into Fyodor Pavlovitch’s garden. How, in her condition, she managed to climb over the high, strong fence remained a mystery. Some maintained that she must have been lifted over by somebody; others hinted at something more uncanny. The most likely explanation is that it happened naturally—that Lizaveta, accustomed to clambering over hurdles to sleep in gardens, had somehow managed to climb this fence, in spite of her condition, and had leapt down, injuring herself.

Grigory rushed to Marfa and sent her to Lizaveta, while he ran to fetch an old midwife who lived close by. They saved the baby, but Lizaveta died at dawn. Grigory took the baby, brought it home, and making his wife sit down, put it on her lap. “A child of God—an orphan is akin to all,” he said, “and to us above others. Our little lost one has sent us this, who has come from the devil’s son and a holy innocent. Nurse him and weep no more.”

So Marfa brought up the child. He was christened Pavel, to which people were not slow in adding Fyodorovitch (son of Fyodor). Fyodor Pavlovitch did not object to any of this, and thought it amusing, though he persisted vigorously in denying his responsibility. The townspeople were pleased at his adopting the foundling. Later on, Fyodor Pavlovitch invented a surname for the child, calling him Smerdyakov, after his mother’s nickname.

So this Smerdyakov became Fyodor Pavlovitch’s second servant, and was living in the lodge with Grigory and Marfa at the time our story begins. He was employed as cook. I ought to say something of this Smerdyakov, but I am ashamed of keeping my readers’ attention so long occupied with these common menials, and I will go back to my story, hoping to say more of Smerdyakov in the course of it.

Chapter III.
The Confession Of A Passionate Heart—In Verse
Alyosha remained for some time irresolute after hearing the command his father shouted to him from the carriage. But in spite of his uneasiness he did not stand still. That was not his way. He went at once to the kitchen to find out what his father had been doing above. Then he set off, trusting that on the way he would find some answer to the doubt tormenting him. I hasten to add that his father’s shouts, commanding him to return home “with his mattress and pillow” did not frighten him in the least. He understood perfectly that those peremptory shouts were merely “a flourish” to produce an effect. In the same way a tradesman in our town who was celebrating his name‐day with a party of friends, getting angry at being refused more vodka, smashed up his own crockery and furniture and tore his own and his wife’s clothes, and finally broke his windows, all for the sake of effect. Next day, of course, when he was sober, he regretted the broken cups and saucers. Alyosha knew that his father would let him go back to the monastery next day, possibly even that evening. Moreover, he was fully persuaded that his father might hurt any one else, but would not hurt him. Alyosha was certain that no one in the whole world ever would want to hurt him, and, what is more, he knew that no one could hurt him. This was for him an axiom, assumed once for all without question, and he went his way without hesitation, relying on it.

But at that moment an anxiety of a different sort disturbed him, and worried him the more because he could not formulate it. It was the fear of a woman, of Katerina Ivanovna, who had so urgently entreated him in the note handed to him by Madame Hohlakov to come and see her about something. This request and the necessity of going had at once aroused an uneasy feeling in his heart, and this feeling had grown more and more painful all the morning in spite of the scenes at the hermitage and at the Father Superior’s. He was not uneasy because he did not know what she would speak of and what he must answer. And he was not afraid of her simply as a woman. Though he knew little of women, he had spent his life, from early childhood till he entered the monastery, entirely with women. He was afraid of that woman, Katerina Ivanovna. He had been afraid of her from the first time he saw her. He had only seen her two or three times, and had only chanced to say a few words to her. He thought of her as a beautiful, proud, imperious girl. It was not her beauty which troubled him, but something else. And the vagueness of his apprehension increased the apprehension itself. The girl’s aims were of the noblest, he knew that. She was trying to save his brother Dmitri simply through generosity, though he had already behaved badly to her. Yet, although Alyosha recognized and did justice to all these fine and generous sentiments, a shiver began to run down his back as soon as he drew near her house.

He reflected that he would not find Ivan, who was so intimate a friend, with her, for Ivan was certainly now with his father. Dmitri he was even more certain not to find there, and he had a foreboding of the reason. And so his conversation would be with her alone. He had a great longing to run and see his brother Dmitri before that fateful interview. Without showing him the letter, he could talk to him about it. But Dmitri lived a long way off, and he was sure to be away from home too. Standing still for a minute, he reached a final decision. Crossing himself with a rapid and accustomed gesture, and at once smiling, he turned resolutely in the direction of his terrible lady.

He knew her house. If he went by the High Street and then across the market‐place, it was a long way round. Though our town is small, it is scattered, and the houses are far apart. And meanwhile his father was expecting him, and perhaps had not yet forgotten his command. He might be unreasonable, and so he had to make haste to get there and back. So he decided to take a short cut by the back‐way, for he knew every inch of the ground. This meant skirting fences, climbing over hurdles, and crossing other people’s back‐yards, where every one he met knew him and greeted him. In this way he could reach the High Street in half the time.

He had to pass the garden adjoining his father’s, and belonging to a little tumbledown house with four windows. The owner of this house, as Alyosha knew, was a bedridden old woman, living with her daughter, who had been a genteel maid‐servant in generals’ families in Petersburg. Now she had been at home a year, looking after her sick mother. She always dressed up in fine clothes, though her old mother and she had sunk into such poverty that they went every day to Fyodor Pavlovitch’s kitchen for soup and bread, which Marfa gave readily. Yet, though the young woman came up for soup, she had never sold any of her dresses, and one of these even had a long train—a fact which Alyosha had learned from Rakitin, who always knew everything that was going on in the town. He had forgotten it as soon as he heard it, but now, on reaching the garden, he remembered the dress with the train, raised his head, which had been bowed in thought, and came upon something quite unexpected.

Over the hurdle in the garden, Dmitri, mounted on something, was leaning forward, gesticulating violently, beckoning to him, obviously afraid to utter a word for fear of being overheard. Alyosha ran up to the hurdle.

“It’s a good thing you looked up. I was nearly shouting to you,” Mitya said in a joyful, hurried whisper. “Climb in here quickly! How splendid that you’ve come! I was just thinking of you!”

Alyosha was delighted too, but he did not know how to get over the hurdle. Mitya put his powerful hand under his elbow to help him jump. Tucking up his cassock, Alyosha leapt over the hurdle with the agility of a bare‐ legged street urchin.

“Well done! Now come along,” said Mitya in an enthusiastic whisper.

“Where?” whispered Alyosha, looking about him and finding himself in a deserted garden with no one near but themselves. The garden was small, but the house was at least fifty paces away.

“There’s no one here. Why do you whisper?” asked Alyosha.

“Why do I whisper? Deuce take it!” cried Dmitri at the top of his voice. “You see what silly tricks nature plays one. I am here in secret, and on the watch. I’ll explain later on, but, knowing it’s a secret, I began whispering like a fool, when there’s no need. Let us go. Over there. Till then be quiet. I want to kiss you.

Glory to God in the world,
Glory to God in me …

I was just repeating that, sitting here, before you came.”

The garden was about three acres in extent, and planted with trees only along the fence at the four sides. There were apple‐trees, maples, limes and birch‐trees. The middle of the garden was an empty grass space, from which several hundredweight of hay was carried in the summer. The garden was let out for a few roubles for the summer. There were also plantations of raspberries and currants and gooseberries laid out along the sides; a kitchen garden had been planted lately near the house.

Dmitri led his brother to the most secluded corner of the garden. There, in a thicket of lime‐trees and old bushes of black currant, elder, snowball‐tree, and lilac, there stood a tumble‐down green summer‐house, blackened with age. Its walls were of lattice‐work, but there was still a roof which could give shelter. God knows when this summer‐house was built. There was a tradition that it had been put up some fifty years before by a retired colonel called von Schmidt, who owned the house at that time. It was all in decay, the floor was rotting, the planks were loose, the woodwork smelled musty. In the summer‐house there was a green wooden table fixed in the ground, and round it were some green benches upon which it was still possible to sit. Alyosha had at once observed his brother’s exhilarated condition, and on entering the arbor he saw half a bottle of brandy and a wineglass on the table.

“That’s brandy,” Mitya laughed. “I see your look: ‘He’s drinking again!’ Distrust the apparition.

Distrust the worthless, lying crowd,
And lay aside thy doubts.

I’m not drinking, I’m only ‘indulging,’ as that pig, your Rakitin, says. He’ll be a civil councilor one day, but he’ll always talk about ‘indulging.’ Sit down. I could take you in my arms, Alyosha, and press you to my bosom till I crush you, for in the whole world—in reality—in re‐al‐ i‐ty—(can you take it in?) I love no one but you!”

He uttered the last words in a sort of exaltation.

“No one but you and one ‘jade’ I have fallen in love with, to my ruin. But being in love doesn’t mean loving. You may be in love with a woman and yet hate her. Remember that! I can talk about it gayly still. Sit down here by the table and I’ll sit beside you and look at you, and go on talking. You shall keep quiet and I’ll go on talking, for the time has come. But on reflection, you know, I’d better speak quietly, for here—here—you can never tell what ears are listening. I will explain everything; as they say, ‘the story will be continued.’ Why have I been longing for you? Why have I been thirsting for you all these days, and just now? (It’s five days since I’ve cast anchor here.) Because it’s only to you I can tell everything; because I must, because I need you, because to‐morrow I shall fly from the clouds, because to‐morrow life is ending and beginning. Have you ever felt, have you ever dreamt of falling down a precipice into a pit? That’s just how I’m falling, but not in a dream. And I’m not afraid, and don’t you be afraid. At least, I am afraid, but I enjoy it. It’s not enjoyment though, but ecstasy. Damn it all, whatever it is! A strong spirit, a weak spirit, a womanish spirit—whatever it is! Let us praise nature: you see what sunshine, how clear the sky is, the leaves are all green, it’s still summer; four o’clock in the afternoon and the stillness! Where were you going?”

“I was going to father’s, but I meant to go to Katerina Ivanovna’s first.”

“To her, and to father! Oo! what a coincidence! Why was I waiting for you? Hungering and thirsting for you in every cranny of my soul and even in my ribs? Why, to send you to father and to her, Katerina Ivanovna, so as to have done with her and with father. To send an angel. I might have sent any one, but I wanted to send an angel. And here you are on your way to see father and her.”

“Did you really mean to send me?” cried Alyosha with a distressed expression.

“Stay! You knew it! And I see you understand it all at once. But be quiet, be quiet for a time. Don’t be sorry, and don’t cry.”

Dmitri stood up, thought a moment, and put his finger to his forehead.

“She’s asked you, written to you a letter or something, that’s why you’re going to her? You wouldn’t be going except for that?”

“Here is her note.” Alyosha took it out of his pocket. Mitya looked through it quickly.

“And you were going the back‐way! Oh, gods, I thank you for sending him by the back‐way, and he came to me like the golden fish to the silly old fishermen in the fable! Listen, Alyosha, listen, brother! Now I mean to tell you everything, for I must tell some one. An angel in heaven I’ve told already; but I want to tell an angel on earth. You are an angel on earth. You will hear and judge and forgive. And that’s what I need, that some one above me should forgive. Listen! If two people break away from everything on earth and fly off into the unknown, or at least one of them, and before flying off or going to ruin he comes to some one else and says, ‘Do this for me’—some favor never asked before that could only be asked on one’s deathbed—would that other refuse, if he were a friend or a brother?”

“I will do it, but tell me what it is, and make haste,” said Alyosha.

“Make haste! H’m!… Don’t be in a hurry, Alyosha, you hurry and worry yourself. There’s no need to hurry now. Now the world has taken a new turning. Ah, Alyosha, what a pity you can’t understand ecstasy. But what am I saying to him? As though you didn’t understand it. What an ass I am! What am I saying? ‘Be noble, O man!’—who says that?”

Alyosha made up his mind to wait. He felt that, perhaps, indeed, his work lay here. Mitya sank into thought for a moment, with his elbow on the table and his head in his hand. Both were silent.

“Alyosha,” said Mitya, “you’re the only one who won’t laugh. I should like to begin—my confession—with Schiller’s Hymn to Joy, An die Freude! I don’t know German, I only know it’s called that. Don’t think I’m talking nonsense because I’m drunk. I’m not a bit drunk. Brandy’s all very well, but I need two bottles to make me drunk:

Silenus with his rosy phiz
Upon his stumbling ass.

But I’ve not drunk a quarter of a bottle, and I’m not Silenus. I’m not Silenus, though I am strong,[1] for I’ve made a decision once for all. Forgive me the pun; you’ll have to forgive me a lot more than puns to‐day. Don’t be uneasy. I’m not spinning it out. I’m talking sense, and I’ll come to the point in a minute. I won’t keep you in suspense. Stay, how does it go?”

He raised his head, thought a minute, and began with enthusiasm:

“Wild and fearful in his cavern
Hid the naked troglodyte,
And the homeless nomad wandered
Laying waste the fertile plain.
Menacing with spear and arrow
In the woods the hunter strayed….
Woe to all poor wretches stranded
On those cruel and hostile shores!

“From the peak of high Olympus
Came the mother Ceres down,
Seeking in those savage regions
Her lost daughter Proserpine.
But the Goddess found no refuge,
Found no kindly welcome there,
And no temple bearing witness
To the worship of the gods.

“From the fields and from the vineyards
Came no fruits to deck the feasts,
Only flesh of bloodstained victims
Smoldered on the altar‐fires,
And where’er the grieving goddess
Turns her melancholy gaze,
Sunk in vilest degradation
Man his loathsomeness displays.”

Mitya broke into sobs and seized Alyosha’s hand.

“My dear, my dear, in degradation, in degradation now, too. There’s a terrible amount of suffering for man on earth, a terrible lot of trouble. Don’t think I’m only a brute in an officer’s uniform, wallowing in dirt and drink. I hardly think of anything but of that degraded man—if only I’m not lying. I pray God I’m not lying and showing off. I think about that man because I am that man myself.

Would he purge his soul from vileness
And attain to light and worth,
He must turn and cling for ever
To his ancient Mother Earth.

But the difficulty is how am I to cling for ever to Mother Earth. I don’t kiss her. I don’t cleave to her bosom. Am I to become a peasant or a shepherd? I go on and I don’t know whether I’m going to shame or to light and joy. That’s the trouble, for everything in the world is a riddle! And whenever I’ve happened to sink into the vilest degradation (and it’s always been happening) I always read that poem about Ceres and man. Has it reformed me? Never! For I’m a Karamazov. For when I do leap into the pit, I go headlong with my heels up, and am pleased to be falling in that degrading attitude, and pride myself upon it. And in the very depths of that degradation I begin a hymn of praise. Let me be accursed. Let me be vile and base, only let me kiss the hem of the veil in which my God is shrouded. Though I may be following the devil, I am Thy son, O Lord, and I love Thee, and I feel the joy without which the world cannot stand.

Joy everlasting fostereth
The soul of all creation,
It is her secret ferment fires
The cup of life with flame.
’Tis at her beck the grass hath turned
Each blade towards the light
And solar systems have evolved
From chaos and dark night,
Filling the realms of boundless space
Beyond the sage’s sight.
At bounteous Nature’s kindly breast,
All things that breathe drink Joy,
And birds and beasts and creeping things
All follow where She leads.
Her gifts to man are friends in need,
The wreath, the foaming must,
To angels—vision of God’s throne,
To insects—sensual lust.

But enough poetry! I am in tears; let me cry. It may be foolishness that every one would laugh at. But you won’t laugh. Your eyes are shining, too. Enough poetry. I want to tell you now about the insects to whom God gave “sensual lust.”

To insects—sensual lust.

I am that insect, brother, and it is said of me specially. All we Karamazovs are such insects, and, angel as you are, that insect lives in you, too, and will stir up a tempest in your blood. Tempests, because sensual lust is a tempest—worse than a tempest! Beauty is a terrible and awful thing! It is terrible because it has not been fathomed and never can be fathomed, for God sets us nothing but riddles. Here the boundaries meet and all contradictions exist side by side. I am not a cultivated man, brother, but I’ve thought a lot about this. It’s terrible what mysteries there are! Too many riddles weigh men down on earth. We must solve them as we can, and try to keep a dry skin in the water. Beauty! I can’t endure the thought that a man of lofty mind and heart begins with the ideal of the Madonna and ends with the ideal of Sodom. What’s still more awful is that a man with the ideal of Sodom in his soul does not renounce the ideal of the Madonna, and his heart may be on fire with that ideal, genuinely on fire, just as in his days of youth and innocence. Yes, man is broad, too broad, indeed. I’d have him narrower. The devil only knows what to make of it! What to the mind is shameful is beauty and nothing else to the heart. Is there beauty in Sodom? Believe me, that for the immense mass of mankind beauty is found in Sodom. Did you know that secret? The awful thing is that beauty is mysterious as well as terrible. God and the devil are fighting there and the battlefield is the heart of man. But a man always talks of his own ache. Listen, now to come to facts.”

Chapter IV.
The Confession Of A Passionate Heart—In Anecdote
“I was leading a wild life then. Father said just now that I spent several thousand roubles in seducing young girls. That’s a swinish invention, and there was nothing of the sort. And if there was, I didn’t need money simply for that. With me money is an accessory, the overflow of my heart, the framework. To‐day she would be my lady, to‐morrow a wench out of the streets in her place. I entertained them both. I threw away money by the handful on music, rioting, and gypsies. Sometimes I gave it to the ladies, too, for they’ll take it greedily, that must be admitted, and be pleased and thankful for it. Ladies used to be fond of me: not all of them, but it happened, it happened. But I always liked side‐paths, little dark back‐alleys behind the main road—there one finds adventures and surprises, and precious metal in the dirt. I am speaking figuratively, brother. In the town I was in, there were no such back‐alleys in the literal sense, but morally there were. If you were like me, you’d know what that means. I loved vice, I loved the ignominy of vice. I loved cruelty; am I not a bug, am I not a noxious insect? In fact a Karamazov! Once we went, a whole lot of us, for a picnic, in seven sledges. It was dark, it was winter, and I began squeezing a girl’s hand, and forced her to kiss me. She was the daughter of an official, a sweet, gentle, submissive creature. She allowed me, she allowed me much in the dark. She thought, poor thing, that I should come next day to make her an offer (I was looked upon as a good match, too). But I didn’t say a word to her for five months. I used to see her in a corner at dances (we were always having dances), her eyes watching me. I saw how they glowed with fire—a fire of gentle indignation. This game only tickled that insect lust I cherished in my soul. Five months later she married an official and left the town, still angry, and still, perhaps, in love with me. Now they live happily. Observe that I told no one. I didn’t boast of it. Though I’m full of low desires, and love what’s low, I’m not dishonorable. You’re blushing; your eyes flashed. Enough of this filth with you. And all this was nothing much—wayside blossoms à la Paul de Kock—though the cruel insect had already grown strong in my soul. I’ve a perfect album of reminiscences, brother. God bless them, the darlings. I tried to break it off without quarreling. And I never gave them away. I never bragged of one of them. But that’s enough. You can’t suppose I brought you here simply to talk of such nonsense. No, I’m going to tell you something more curious; and don’t be surprised that I’m glad to tell you, instead of being ashamed.”

“You say that because I blushed,” Alyosha said suddenly. “I wasn’t blushing at what you were saying or at what you’ve done. I blushed because I am the same as you are.”

“You? Come, that’s going a little too far!”

“No, it’s not too far,” said Alyosha warmly (obviously the idea was not a new one). “The ladder’s the same. I’m at the bottom step, and you’re above, somewhere about the thirteenth. That’s how I see it. But it’s all the same. Absolutely the same in kind. Any one on the bottom step is bound to go up to the top one.”

“Then one ought not to step on at all.”

“Any one who can help it had better not.”

“But can you?”

“I think not.”

“Hush, Alyosha, hush, darling! I could kiss your hand, you touch me so. That rogue Grushenka has an eye for men. She told me once that she’d devour you one day. There, there, I won’t! From this field of corruption fouled by flies, let’s pass to my tragedy, also befouled by flies, that is by every sort of vileness. Although the old man told lies about my seducing innocence, there really was something of the sort in my tragedy, though it was only once, and then it did not come off. The old man who has reproached me with what never happened does not even know of this fact; I never told any one about it. You’re the first, except Ivan, of course—Ivan knows everything. He knew about it long before you. But Ivan’s a tomb.”

“Ivan’s a tomb?”

“Yes.”

Alyosha listened with great attention.

“I was lieutenant in a line regiment, but still I was under supervision, like a kind of convict. Yet I was awfully well received in the little town. I spent money right and left. I was thought to be rich; I thought so myself. But I must have pleased them in other ways as well. Although they shook their heads over me, they liked me. My colonel, who was an old man, took a sudden dislike to me. He was always down upon me, but I had powerful friends, and, moreover, all the town was on my side, so he couldn’t do me much harm. I was in fault myself for refusing to treat him with proper respect. I was proud. This obstinate old fellow, who was really a very good sort, kind‐hearted and hospitable, had had two wives, both dead. His first wife, who was of a humble family, left a daughter as unpretentious as herself. She was a young woman of four and twenty when I was there, and was living with her father and an aunt, her mother’s sister. The aunt was simple and illiterate; the niece was simple but lively. I like to say nice things about people. I never knew a woman of more charming character than Agafya—fancy, her name was Agafya Ivanovna! And she wasn’t bad‐looking either, in the Russian style: tall, stout, with a full figure, and beautiful eyes, though a rather coarse face. She had not married, although she had had two suitors. She refused them, but was as cheerful as ever. I was intimate with her, not in ‘that’ way, it was pure friendship. I have often been friendly with women quite innocently. I used to talk to her with shocking frankness, and she only laughed. Many women like such freedom, and she was a girl too, which made it very amusing. Another thing, one could never think of her as a young lady. She and her aunt lived in her father’s house with a sort of voluntary humility, not putting themselves on an equality with other people. She was a general favorite, and of use to every one, for she was a clever dressmaker. She had a talent for it. She gave her services freely without asking for payment, but if any one offered her payment, she didn’t refuse. The colonel, of course, was a very different matter. He was one of the chief personages in the district. He kept open house, entertained the whole town, gave suppers and dances. At the time I arrived and joined the battalion, all the town was talking of the expected return of the colonel’s second daughter, a great beauty, who had just left a fashionable school in the capital. This second daughter is Katerina Ivanovna, and she was the child of the second wife, who belonged to a distinguished general’s family; although, as I learnt on good authority, she too brought the colonel no money. She had connections, and that was all. There may have been expectations, but they had come to nothing.

“Yet, when the young lady came from boarding‐school on a visit, the whole town revived. Our most distinguished ladies—two ‘Excellencies’ and a colonel’s wife—and all the rest following their lead, at once took her up and gave entertainments in her honor. She was the belle of the balls and picnics, and they got up tableaux vivants in aid of distressed governesses. I took no notice, I went on as wildly as before, and one of my exploits at the time set all the town talking. I saw her eyes taking my measure one evening at the battery commander’s, but I didn’t go up to her, as though I disdained her acquaintance. I did go up and speak to her at an evening party not long after. She scarcely looked at me, and compressed her lips scornfully. ‘Wait a bit. I’ll have my revenge,’ thought I. I behaved like an awful fool on many occasions at that time, and I was conscious of it myself. What made it worse was that I felt that ‘Katenka’ was not an innocent boarding‐school miss, but a person of character, proud and really high‐principled; above all, she had education and intellect, and I had neither. You think I meant to make her an offer? No, I simply wanted to revenge myself, because I was such a hero and she didn’t seem to feel it.

“Meanwhile, I spent my time in drink and riot, till the lieutenant‐colonel put me under arrest for three days. Just at that time father sent me six thousand roubles in return for my sending him a deed giving up all claims upon him—settling our accounts, so to speak, and saying that I wouldn’t expect anything more. I didn’t understand a word of it at the time. Until I came here, Alyosha, till the last few days, indeed, perhaps even now, I haven’t been able to make head or tail of my money affairs with father. But never mind that, we’ll talk of it later.

“Just as I received the money, I got a letter from a friend telling me something that interested me immensely. The authorities, I learnt, were dissatisfied with our lieutenant‐colonel. He was suspected of irregularities; in fact, his enemies were preparing a surprise for him. And then the commander of the division arrived, and kicked up the devil of a shindy. Shortly afterwards he was ordered to retire. I won’t tell you how it all happened. He had enemies certainly. Suddenly there was a marked coolness in the town towards him and all his family. His friends all turned their backs on him. Then I took my first step. I met Agafya Ivanovna, with whom I’d always kept up a friendship, and said, ‘Do you know there’s a deficit of 4,500 roubles of government money in your father’s accounts?’

“ ‘What do you mean? What makes you say so? The general was here not long ago, and everything was all right.’

“ ‘Then it was, but now it isn’t.’

“She was terribly scared.

“ ‘Don’t frighten me!’ she said. ‘Who told you so?’

“ ‘Don’t be uneasy,’ I said, ‘I won’t tell any one. You know I’m as silent as the tomb. I only wanted, in view of “possibilities,” to add, that when they demand that 4,500 roubles from your father, and he can’t produce it, he’ll be tried, and made to serve as a common soldier in his old age, unless you like to send me your young lady secretly. I’ve just had money paid me. I’ll give her four thousand, if you like, and keep the secret religiously.’

“ ‘Ah, you scoundrel!’—that’s what she said. ‘You wicked scoundrel! How dare you!’

“She went away furiously indignant, while I shouted after her once more that the secret should be kept sacred. Those two simple creatures, Agafya and her aunt, I may as well say at once, behaved like perfect angels all through this business. They genuinely adored their ‘Katya,’ thought her far above them, and waited on her, hand and foot. But Agafya told her of our conversation. I found that out afterwards. She didn’t keep it back, and of course that was all I wanted.

“Suddenly the new major arrived to take command of the battalion. The old lieutenant‐colonel was taken ill at once, couldn’t leave his room for two days, and didn’t hand over the government money. Dr. Kravchenko declared that he really was ill. But I knew for a fact, and had known for a long time, that for the last four years the money had never been in his hands except when the Commander made his visits of inspection. He used to lend it to a trustworthy person, a merchant of our town called Trifonov, an old widower, with a big beard and gold‐rimmed spectacles. He used to go to the fair, do a profitable business with the money, and return the whole sum to the colonel, bringing with it a present from the fair, as well as interest on the loan. But this time (I heard all about it quite by chance from Trifonov’s son and heir, a driveling youth and one of the most vicious in the world)—this time, I say, Trifonov brought nothing back from the fair. The lieutenant‐colonel flew to him. ‘I’ve never received any money from you, and couldn’t possibly have received any.’ That was all the answer he got. So now our lieutenant‐colonel is confined to the house, with a towel round his head, while they’re all three busy putting ice on it. All at once an orderly arrives on the scene with the book and the order to ‘hand over the battalion money immediately, within two hours.’ He signed the book (I saw the signature in the book afterwards), stood up, saying he would put on his uniform, ran to his bedroom, loaded his double‐barreled gun with a service bullet, took the boot off his right foot, fixed the gun against his chest, and began feeling for the trigger with his foot. But Agafya, remembering what I had told her, had her suspicions. She stole up and peeped into the room just in time. She rushed in, flung herself upon him from behind, threw her arms round him, and the gun went off, hit the ceiling, but hurt no one. The others ran in, took away the gun, and held him by the arms. I heard all about this afterwards. I was at home, it was getting dusk, and I was just preparing to go out. I had dressed, brushed my hair, scented my handkerchief, and taken up my cap, when suddenly the door opened, and facing me in the room stood Katerina Ivanovna.

“It’s strange how things happen sometimes. No one had seen her in the street, so that no one knew of it in the town. I lodged with two decrepit old ladies, who looked after me. They were most obliging old things, ready to do anything for me, and at my request were as silent afterwards as two cast‐iron posts. Of course I grasped the position at once. She walked in and looked straight at me, her dark eyes determined, even defiant, but on her lips and round her mouth I saw uncertainty.

“ ‘My sister told me,’ she began, ‘that you would give me 4,500 roubles if I came to you for it—myself. I have come … give me the money!’

“She couldn’t keep it up. She was breathless, frightened, her voice failed her, and the corners of her mouth and the lines round it quivered. Alyosha, are you listening, or are you asleep?”

“Mitya, I know you will tell the whole truth,” said Alyosha in agitation.

“I am telling it. If I tell the whole truth just as it happened I shan’t spare myself. My first idea was a—Karamazov one. Once I was bitten by a centipede, brother, and laid up a fortnight with fever from it. Well, I felt a centipede biting at my heart then—a noxious insect, you understand? I looked her up and down. You’ve seen her? She’s a beauty. But she was beautiful in another way then. At that moment she was beautiful because she was noble, and I was a scoundrel; she in all the grandeur of her generosity and sacrifice for her father, and I—a bug! And, scoundrel as I was, she was altogether at my mercy, body and soul. She was hemmed in. I tell you frankly, that thought, that venomous thought, so possessed my heart that it almost swooned with suspense. It seemed as if there could be no resisting it; as though I should act like a bug, like a venomous spider, without a spark of pity. I could scarcely breathe. Understand, I should have gone next day to ask for her hand, so that it might end honorably, so to speak, and that nobody would or could know. For though I’m a man of base desires, I’m honest. And at that very second some voice seemed to whisper in my ear, ‘But when you come to‐morrow to make your proposal, that girl won’t even see you; she’ll order her coachman to kick you out of the yard. “Publish it through all the town,” she would say, “I’m not afraid of you.” ’ I looked at the young lady, my voice had not deceived me. That is how it would be, not a doubt of it. I could see from her face now that I should be turned out of the house. My spite was roused. I longed to play her the nastiest swinish cad’s trick: to look at her with a sneer, and on the spot where she stood before me to stun her with a tone of voice that only a shopman could use.

“ ‘Four thousand! What do you mean? I was joking. You’ve been counting your chickens too easily, madam. Two hundred, if you like, with all my heart. But four thousand is not a sum to throw away on such frivolity. You’ve put yourself out to no purpose.’

“I should have lost the game, of course. She’d have run away. But it would have been an infernal revenge. It would have been worth it all. I’d have howled with regret all the rest of my life, only to have played that trick. Would you believe it, it has never happened to me with any other woman, not one, to look at her at such a moment with hatred. But, on my oath, I looked at her for three seconds, or five perhaps, with fearful hatred—that hate which is only a hair’s‐breadth from love, from the maddest love!

“I went to the window, put my forehead against the frozen pane, and I remember the ice burnt my forehead like fire. I did not keep her long, don’t be afraid. I turned round, went up to the table, opened the drawer and took out a banknote for five thousand roubles (it was lying in a French dictionary). Then I showed it her in silence, folded it, handed it to her, opened the door into the passage, and, stepping back, made her a deep bow, a most respectful, a most impressive bow, believe me! She shuddered all over, gazed at me for a second, turned horribly pale—white as a sheet, in fact—and all at once, not impetuously but softly, gently, bowed down to my feet—not a boarding‐school curtsey, but a Russian bow, with her forehead to the floor. She jumped up and ran away. I was wearing my sword. I drew it and nearly stabbed myself with it on the spot; why, I don’t know. It would have been frightfully stupid, of course. I suppose it was from delight. Can you understand that one might kill oneself from delight? But I didn’t stab myself. I only kissed my sword and put it back in the scabbard—which there was no need to have told you, by the way. And I fancy that in telling you about my inner conflict I have laid it on rather thick to glorify myself. But let it pass, and to hell with all who pry into the human heart! Well, so much for that ‘adventure’ with Katerina Ivanovna. So now Ivan knows of it, and you—no one else.”

Dmitri got up, took a step or two in his excitement, pulled out his handkerchief and mopped his forehead, then sat down again, not in the same place as before, but on the opposite side, so that Alyosha had to turn quite round to face him.

Chapter V.
The Confession Of A Passionate Heart—“Heels Up”
“Now,” said Alyosha, “I understand the first half.”

“You understand the first half. That half is a drama, and it was played out there. The second half is a tragedy, and it is being acted here.”

“And I understand nothing of that second half so far,” said Alyosha.

“And I? Do you suppose I understand it?”

“Stop, Dmitri. There’s one important question. Tell me, you were betrothed, you are betrothed still?”

“We weren’t betrothed at once, not for three months after that adventure. The next day I told myself that the incident was closed, concluded, that there would be no sequel. It seemed to me caddish to make her an offer. On her side she gave no sign of life for the six weeks that she remained in the town; except, indeed, for one action. The day after her visit the maid‐servant slipped round with an envelope addressed to me. I tore it open: it contained the change out of the banknote. Only four thousand five hundred roubles was needed, but there was a discount of about two hundred on changing it. She only sent me about two hundred and sixty. I don’t remember exactly, but not a note, not a word of explanation. I searched the packet for a pencil mark—n‐nothing! Well, I spent the rest of the money on such an orgy that the new major was obliged to reprimand me.

“Well, the lieutenant‐colonel produced the battalion money, to the astonishment of every one, for nobody believed that he had the money untouched. He’d no sooner paid it than he fell ill, took to his bed, and, three weeks later, softening of the brain set in, and he died five days afterwards. He was buried with military honors, for he had not had time to receive his discharge. Ten days after his funeral, Katerina Ivanovna, with her aunt and sister, went to Moscow. And, behold, on the very day they went away (I hadn’t seen them, didn’t see them off or take leave) I received a tiny note, a sheet of thin blue paper, and on it only one line in pencil: ‘I will write to you. Wait. K.’ And that was all.

“I’ll explain the rest now, in two words. In Moscow their fortunes changed with the swiftness of lightning and the unexpectedness of an Arabian fairy‐tale. That general’s widow, their nearest relation, suddenly lost the two nieces who were her heiresses and next‐of‐kin—both died in the same week of small‐pox. The old lady, prostrated with grief, welcomed Katya as a daughter, as her one hope, clutched at her, altered her will in Katya’s favor. But that concerned the future. Meanwhile she gave her, for present use, eighty thousand roubles, as a marriage portion, to do what she liked with. She was an hysterical woman. I saw something of her in Moscow, later.

“Well, suddenly I received by post four thousand five hundred roubles. I was speechless with surprise, as you may suppose. Three days later came the promised letter. I have it with me now. You must read it. She offers to be my wife, offers herself to me. ‘I love you madly,’ she says, ‘even if you don’t love me, never mind. Be my husband. Don’t be afraid. I won’t hamper you in any way. I will be your chattel. I will be the carpet under your feet. I want to love you for ever. I want to save you from yourself.’ Alyosha, I am not worthy to repeat those lines in my vulgar words and in my vulgar tone, my everlastingly vulgar tone, that I can never cure myself of. That letter stabs me even now. Do you think I don’t mind—that I don’t mind still? I wrote her an answer at once, as it was impossible for me to go to Moscow. I wrote to her with tears. One thing I shall be ashamed of for ever. I referred to her being rich and having a dowry while I was only a stuck‐up beggar! I mentioned money! I ought to have borne it in silence, but it slipped from my pen. Then I wrote at once to Ivan, and told him all I could about it in a letter of six pages, and sent him to her. Why do you look like that? Why are you staring at me? Yes, Ivan fell in love with her; he’s in love with her still. I know that. I did a stupid thing, in the world’s opinion; but perhaps that one stupid thing may be the saving of us all now. Oo! Don’t you see what a lot she thinks of Ivan, how she respects him? When she compares us, do you suppose she can love a man like me, especially after all that has happened here?”

“But I am convinced that she does love a man like you, and not a man like him.”

“She loves her own virtue, not me.” The words broke involuntarily, and almost malignantly, from Dmitri. He laughed, but a minute later his eyes gleamed, he flushed crimson and struck the table violently with his fist.

“I swear, Alyosha,” he cried, with intense and genuine anger at himself; “you may not believe me, but as God is holy, and as Christ is God, I swear that though I smiled at her lofty sentiments just now, I know that I am a million times baser in soul than she, and that these lofty sentiments of hers are as sincere as a heavenly angel’s. That’s the tragedy of it—that I know that for certain. What if any one does show off a bit? Don’t I do it myself? And yet I’m sincere, I’m sincere. As for Ivan, I can understand how he must be cursing nature now—with his intellect, too! To see the preference given—to whom, to what? To a monster who, though he is betrothed and all eyes are fixed on him, can’t restrain his debaucheries—and before the very eyes of his betrothed! And a man like me is preferred, while he is rejected. And why? Because a girl wants to sacrifice her life and destiny out of gratitude. It’s ridiculous! I’ve never said a word of this to Ivan, and Ivan of course has never dropped a hint of the sort to me. But destiny will be accomplished, and the best man will hold his ground while the undeserving one will vanish into his back‐ alley for ever—his filthy back‐alley, his beloved back‐alley, where he is at home and where he will sink in filth and stench at his own free will and with enjoyment. I’ve been talking foolishly. I’ve no words left. I use them at random, but it will be as I have said. I shall drown in the back‐ alley, and she will marry Ivan.”

“Stop, Dmitri,” Alyosha interrupted again with great anxiety. “There’s one thing you haven’t made clear yet: you are still betrothed all the same, aren’t you? How can you break off the engagement if she, your betrothed, doesn’t want to?”

“Yes, formally and solemnly betrothed. It was all done on my arrival in Moscow, with great ceremony, with ikons, all in fine style. The general’s wife blessed us, and—would you believe it?—congratulated Katya. ‘You’ve made a good choice,’ she said, ‘I see right through him.’ And—would you believe it?—she didn’t like Ivan, and hardly greeted him. I had a lot of talk with Katya in Moscow. I told her about myself—sincerely, honorably. She listened to everything.

There was sweet confusion,
There were tender words.

Though there were proud words, too. She wrung out of me a mighty promise to reform. I gave my promise, and here—”

“What?”

“Why, I called to you and brought you out here to‐day, this very day—remember it—to send you—this very day again—to Katerina Ivanovna, and—”

“What?”

“To tell her that I shall never come to see her again. Say, ‘He sends you his compliments.’ ”

“But is that possible?”

“That’s just the reason I’m sending you, in my place, because it’s impossible. And, how could I tell her myself?”

“And where are you going?”

“To the back‐alley.”

“To Grushenka, then!” Alyosha exclaimed mournfully, clasping his hands. “Can Rakitin really have told the truth? I thought that you had just visited her, and that was all.”

“Can a betrothed man pay such visits? Is such a thing possible and with such a betrothed, and before the eyes of all the world? Confound it, I have some honor! As soon as I began visiting Grushenka, I ceased to be betrothed, and to be an honest man. I understand that. Why do you look at me? You see, I went in the first place to beat her. I had heard, and I know for a fact now, that that captain, father’s agent, had given Grushenka an I.O.U. of mine for her to sue me for payment, so as to put an end to me. They wanted to scare me. I went to beat her. I had had a glimpse of her before. She doesn’t strike one at first sight. I knew about her old merchant, who’s lying ill now, paralyzed; but he’s leaving her a decent little sum. I knew, too, that she was fond of money, that she hoarded it, and lent it at a wicked rate of interest, that she’s a merciless cheat and swindler. I went to beat her, and I stayed. The storm broke—it struck me down like the plague. I’m plague‐stricken still, and I know that everything is over, that there will never be anything more for me. The cycle of the ages is accomplished. That’s my position. And though I’m a beggar, as fate would have it, I had three thousand just then in my pocket. I drove with Grushenka to Mokroe, a place twenty‐five versts from here. I got gypsies there and champagne and made all the peasants there drunk on it, and all the women and girls. I sent the thousands flying. In three days’ time I was stripped bare, but a hero. Do you suppose the hero had gained his end? Not a sign of it from her. I tell you that rogue, Grushenka, has a supple curve all over her body. You can see it in her little foot, even in her little toe. I saw it, and kissed it, but that was all, I swear! ‘I’ll marry you if you like,’ she said, ‘you’re a beggar, you know. Say that you won’t beat me, and will let me do anything I choose, and perhaps I will marry you.’ She laughed, and she’s laughing still!”

Dmitri leapt up with a sort of fury. He seemed all at once as though he were drunk. His eyes became suddenly bloodshot.

“And do you really mean to marry her?”

“At once, if she will. And if she won’t, I shall stay all the same. I’ll be the porter at her gate. Alyosha!” he cried. He stopped short before him, and taking him by the shoulders began shaking him violently. “Do you know, you innocent boy, that this is all delirium, senseless delirium, for there’s a tragedy here. Let me tell you, Alexey, that I may be a low man, with low and degraded passions, but a thief and a pickpocket Dmitri Karamazov never can be. Well, then; let me tell you that I am a thief and a pickpocket. That very morning, just before I went to beat Grushenka, Katerina Ivanovna sent for me, and in strict secrecy (why I don’t know, I suppose she had some reason) asked me to go to the chief town of the province and to post three thousand roubles to Agafya Ivanovna in Moscow, so that nothing should be known of it in the town here. So I had that three thousand roubles in my pocket when I went to see Grushenka, and it was that money we spent at Mokroe. Afterwards I pretended I had been to the town, but did not show her the post office receipt. I said I had sent the money and would bring the receipt, and so far I haven’t brought it. I’ve forgotten it. Now what do you think you’re going to her to‐day to say? ‘He sends his compliments,’ and she’ll ask you, ‘What about the money?’ You might still have said to her, ‘He’s a degraded sensualist, and a low creature, with uncontrolled passions. He didn’t send your money then, but wasted it, because, like a low brute, he couldn’t control himself.’ But still you might have added, ‘He isn’t a thief though. Here is your three thousand; he sends it back. Send it yourself to Agafya Ivanovna. But he told me to say “he sends his compliments.” ’ But, as it is, she will ask, ‘But where is the money?’ ”

“Mitya, you are unhappy, yes! But not as unhappy as you think. Don’t worry yourself to death with despair.”

“What, do you suppose I’d shoot myself because I can’t get three thousand to pay back? That’s just it. I shan’t shoot myself. I haven’t the strength now. Afterwards, perhaps. But now I’m going to Grushenka. I don’t care what happens.”

“And what then?”

“I’ll be her husband if she deigns to have me, and when lovers come, I’ll go into the next room. I’ll clean her friends’ goloshes, blow up their samovar, run their errands.”

“Katerina Ivanovna will understand it all,” Alyosha said solemnly. “She’ll understand how great this trouble is and will forgive. She has a lofty mind, and no one could be more unhappy than you. She’ll see that for herself.”

“She won’t forgive everything,” said Dmitri, with a grin. “There’s something in it, brother, that no woman could forgive. Do you know what would be the best thing to do?”

“What?”

“Pay back the three thousand.”

“Where can we get it from? I say, I have two thousand. Ivan will give you another thousand—that makes three. Take it and pay it back.”

“And when would you get it, your three thousand? You’re not of age, besides, and you must—you absolutely must—take my farewell to her to‐day, with the money or without it, for I can’t drag on any longer, things have come to such a pass. To‐morrow is too late. I shall send you to father.”

“To father?”

“Yes, to father first. Ask him for three thousand.”

“But, Mitya, he won’t give it.”

“As though he would! I know he won’t. Do you know the meaning of despair, Alexey?”

“Yes.”

“Listen. Legally he owes me nothing. I’ve had it all from him, I know that. But morally he owes me something, doesn’t he? You know he started with twenty‐eight thousand of my mother’s money and made a hundred thousand with it. Let him give me back only three out of the twenty‐eight thousand, and he’ll draw my soul out of hell, and it will atone for many of his sins. For that three thousand—I give you my solemn word—I’ll make an end of everything, and he shall hear nothing more of me. For the last time I give him the chance to be a father. Tell him God Himself sends him this chance.”

“Mitya, he won’t give it for anything.”

“I know he won’t. I know it perfectly well. Now, especially. That’s not all. I know something more. Now, only a few days ago, perhaps only yesterday he found out for the first time in earnest (underline in earnest) that Grushenka is really perhaps not joking, and really means to marry me. He knows her nature; he knows the cat. And do you suppose he’s going to give me money to help to bring that about when he’s crazy about her himself? And that’s not all, either. I can tell you more than that. I know that for the last five days he has had three thousand drawn out of the bank, changed into notes of a hundred roubles, packed into a large envelope, sealed with five seals, and tied across with red tape. You see how well I know all about it! On the envelope is written: ‘To my angel, Grushenka, when she will come to me.’ He scrawled it himself in silence and in secret, and no one knows that the money’s there except the valet, Smerdyakov, whom he trusts like himself. So now he has been expecting Grushenka for the last three or four days; he hopes she’ll come for the money. He has sent her word of it, and she has sent him word that perhaps she’ll come. And if she does go to the old man, can I marry her after that? You understand now why I’m here in secret and what I’m on the watch for.”

“For her?”

“Yes, for her. Foma has a room in the house of these sluts here. Foma comes from our parts; he was a soldier in our regiment. He does jobs for them. He’s watchman at night and goes grouse‐shooting in the day‐time; and that’s how he lives. I’ve established myself in his room. Neither he nor the women of the house know the secret—that is, that I am on the watch here.”

“No one but Smerdyakov knows, then?”

“No one else. He will let me know if she goes to the old man.”

“It was he told you about the money, then?”

“Yes. It’s a dead secret. Even Ivan doesn’t know about the money, or anything. The old man is sending Ivan to Tchermashnya on a two or three days’ journey. A purchaser has turned up for the copse: he’ll give eight thousand for the timber. So the old man keeps asking Ivan to help him by going to arrange it. It will take him two or three days. That’s what the old man wants, so that Grushenka can come while he’s away.”

“Then he’s expecting Grushenka to‐day?”

“No, she won’t come to‐day; there are signs. She’s certain not to come,” cried Mitya suddenly. “Smerdyakov thinks so, too. Father’s drinking now. He’s sitting at table with Ivan. Go to him, Alyosha, and ask for the three thousand.”

“Mitya, dear, what’s the matter with you?” cried Alyosha, jumping up from his place, and looking keenly at his brother’s frenzied face. For one moment the thought struck him that Dmitri was mad.

“What is it? I’m not insane,” said Dmitri, looking intently and earnestly at him. “No fear. I am sending you to father, and I know what I’m saying. I believe in miracles.”

“In miracles?”

“In a miracle of Divine Providence. God knows my heart. He sees my despair. He sees the whole picture. Surely He won’t let something awful happen. Alyosha, I believe in miracles. Go!”

“I am going. Tell me, will you wait for me here?”

“Yes. I know it will take some time. You can’t go at him point blank. He’s drunk now. I’ll wait three hours—four, five, six, seven. Only remember you must go to Katerina Ivanovna to‐day, if it has to be at midnight, with the money or without the money, and say, ‘He sends his compliments to you.’ I want you to say that verse to her: ‘He sends his compliments to you.’ ”

“Mitya! And what if Grushenka comes to‐day—if not to‐day, to‐morrow, or the next day?”

“Grushenka? I shall see her. I shall rush out and prevent it.”

“And if—”

“If there’s an if, it will be murder. I couldn’t endure it.”

“Who will be murdered?”

“The old man. I shan’t kill her.”

“Brother, what are you saying?”

“Oh, I don’t know…. I don’t know. Perhaps I shan’t kill, and perhaps I shall. I’m afraid that he will suddenly become so loathsome to me with his face at that moment. I hate his ugly throat, his nose, his eyes, his shameless snigger. I feel a physical repulsion. That’s what I’m afraid of. That’s what may be too much for me.”

“I’ll go, Mitya. I believe that God will order things for the best, that nothing awful may happen.”

“And I will sit and wait for the miracle. And if it doesn’t come to pass—”

Alyosha went thoughtfully towards his father’s house.

Chapter VI.
Smerdyakov
He did in fact find his father still at table. Though there was a dining‐ room in the house, the table was laid as usual in the drawing‐room, which was the largest room, and furnished with old‐fashioned ostentation. The furniture was white and very old, upholstered in old, red, silky material. In the spaces between the windows there were mirrors in elaborate white and gilt frames, of old‐fashioned carving. On the walls, covered with white paper, which was torn in many places, there hung two large portraits—one of some prince who had been governor of the district thirty years before, and the other of some bishop, also long since dead. In the corner opposite the door there were several ikons, before which a lamp was lighted at nightfall … not so much for devotional purposes as to light the room. Fyodor Pavlovitch used to go to bed very late, at three or four o’clock in the morning, and would wander about the room at night or sit in an arm‐chair, thinking. This had become a habit with him. He often slept quite alone in the house, sending his servants to the lodge; but usually Smerdyakov remained, sleeping on a bench in the hall.

When Alyosha came in, dinner was over, but coffee and preserves had been served. Fyodor Pavlovitch liked sweet things with brandy after dinner. Ivan was also at table, sipping coffee. The servants, Grigory and Smerdyakov, were standing by. Both the gentlemen and the servants seemed in singularly good spirits. Fyodor Pavlovitch was roaring with laughter. Before he entered the room, Alyosha heard the shrill laugh he knew so well, and could tell from the sound of it that his father had only reached the good‐humored stage, and was far from being completely drunk.

“Here he is! Here he is!” yelled Fyodor Pavlovitch, highly delighted at seeing Alyosha. “Join us. Sit down. Coffee is a lenten dish, but it’s hot and good. I don’t offer you brandy, you’re keeping the fast. But would you like some? No; I’d better give you some of our famous liqueur. Smerdyakov, go to the cupboard, the second shelf on the right. Here are the keys. Look sharp!”

Alyosha began refusing the liqueur.

“Never mind. If you won’t have it, we will,” said Fyodor Pavlovitch, beaming. “But stay—have you dined?”

“Yes,” answered Alyosha, who had in truth only eaten a piece of bread and drunk a glass of kvas in the Father Superior’s kitchen. “Though I should be pleased to have some hot coffee.”

“Bravo, my darling! He’ll have some coffee. Does it want warming? No, it’s boiling. It’s capital coffee: Smerdyakov’s making. My Smerdyakov’s an artist at coffee and at fish patties, and at fish soup, too. You must come one day and have some fish soup. Let me know beforehand…. But, stay; didn’t I tell you this morning to come home with your mattress and pillow and all? Have you brought your mattress? He he he!”

“No, I haven’t,” said Alyosha, smiling, too.

“Ah, but you were frightened, you were frightened this morning, weren’t you? There, my darling, I couldn’t do anything to vex you. Do you know, Ivan, I can’t resist the way he looks one straight in the face and laughs? It makes me laugh all over. I’m so fond of him. Alyosha, let me give you my blessing—a father’s blessing.”

Alyosha rose, but Fyodor Pavlovitch had already changed his mind.

“No, no,” he said. “I’ll just make the sign of the cross over you, for now. Sit still. Now we’ve a treat for you, in your own line, too. It’ll make you laugh. Balaam’s ass has begun talking to us here—and how he talks! How he talks!”

Balaam’s ass, it appeared, was the valet, Smerdyakov. He was a young man of about four and twenty, remarkably unsociable and taciturn. Not that he was shy or bashful. On the contrary, he was conceited and seemed to despise everybody.

But we must pause to say a few words about him now. He was brought up by Grigory and Marfa, but the boy grew up “with no sense of gratitude,” as Grigory expressed it; he was an unfriendly boy, and seemed to look at the world mistrustfully. In his childhood he was very fond of hanging cats, and burying them with great ceremony. He used to dress up in a sheet as though it were a surplice, and sang, and waved some object over the dead cat as though it were a censer. All this he did on the sly, with the greatest secrecy. Grigory caught him once at this diversion and gave him a sound beating. He shrank into a corner and sulked there for a week. “He doesn’t care for you or me, the monster,” Grigory used to say to Marfa, “and he doesn’t care for any one. Are you a human being?” he said, addressing the boy directly. “You’re not a human being. You grew from the mildew in the bath‐house.[2] That’s what you are.” Smerdyakov, it appeared afterwards, could never forgive him those words. Grigory taught him to read and write, and when he was twelve years old, began teaching him the Scriptures. But this teaching came to nothing. At the second or third lesson the boy suddenly grinned.

“What’s that for?” asked Grigory, looking at him threateningly from under his spectacles.

“Oh, nothing. God created light on the first day, and the sun, moon, and stars on the fourth day. Where did the light come from on the first day?”

Grigory was thunderstruck. The boy looked sarcastically at his teacher. There was something positively condescending in his expression. Grigory could not restrain himself. “I’ll show you where!” he cried, and gave the boy a violent slap on the cheek. The boy took the slap without a word, but withdrew into his corner again for some days. A week later he had his first attack of the disease to which he was subject all the rest of his life—epilepsy. When Fyodor Pavlovitch heard of it, his attitude to the boy seemed changed at once. Till then he had taken no notice of him, though he never scolded him, and always gave him a copeck when he met him. Sometimes, when he was in good humor, he would send the boy something sweet from his table. But as soon as he heard of his illness, he showed an active interest in him, sent for a doctor, and tried remedies, but the disease turned out to be incurable. The fits occurred, on an average, once a month, but at various intervals. The fits varied too, in violence: some were light and some were very severe. Fyodor Pavlovitch strictly forbade Grigory to use corporal punishment to the boy, and began allowing him to come upstairs to him. He forbade him to be taught anything whatever for a time, too. One day when the boy was about fifteen, Fyodor Pavlovitch noticed him lingering by the bookcase, and reading the titles through the glass. Fyodor Pavlovitch had a fair number of books—over a hundred—but no one ever saw him reading. He at once gave Smerdyakov the key of the bookcase. “Come, read. You shall be my librarian. You’ll be better sitting reading than hanging about the courtyard. Come, read this,” and Fyodor Pavlovitch gave him Evenings in a Cottage near Dikanka.

He read a little but didn’t like it. He did not once smile, and ended by frowning.

“Why? Isn’t it funny?” asked Fyodor Pavlovitch.

Smerdyakov did not speak.

“Answer, stupid!”

“It’s all untrue,” mumbled the boy, with a grin.

“Then go to the devil! You have the soul of a lackey. Stay, here’s Smaragdov’s Universal History. That’s all true. Read that.”

But Smerdyakov did not get through ten pages of Smaragdov. He thought it dull. So the bookcase was closed again.

Shortly afterwards Marfa and Grigory reported to Fyodor Pavlovitch that Smerdyakov was gradually beginning to show an extraordinary fastidiousness. He would sit before his soup, take up his spoon and look into the soup, bend over it, examine it, take a spoonful and hold it to the light.

“What is it? A beetle?” Grigory would ask.

“A fly, perhaps,” observed Marfa.

The squeamish youth never answered, but he did the same with his bread, his meat, and everything he ate. He would hold a piece on his fork to the light, scrutinize it microscopically, and only after long deliberation decide to put it in his mouth.

“Ach! What fine gentlemen’s airs!” Grigory muttered, looking at him.

When Fyodor Pavlovitch heard of this development in Smerdyakov he determined to make him his cook, and sent him to Moscow to be trained. He spent some years there and came back remarkably changed in appearance. He looked extraordinarily old for his age. His face had grown wrinkled, yellow, and strangely emasculate. In character he seemed almost exactly the same as before he went away. He was just as unsociable, and showed not the slightest inclination for any companionship. In Moscow, too, as we heard afterwards, he had always been silent. Moscow itself had little interest for him; he saw very little there, and took scarcely any notice of anything. He went once to the theater, but returned silent and displeased with it. On the other hand, he came back to us from Moscow well dressed, in a clean coat and clean linen. He brushed his clothes most scrupulously twice a day invariably, and was very fond of cleaning his smart calf boots with a special English polish, so that they shone like mirrors. He turned out a first‐rate cook. Fyodor Pavlovitch paid him a salary, almost the whole of which Smerdyakov spent on clothes, pomade, perfumes, and such things. But he seemed to have as much contempt for the female sex as for men; he was discreet, almost unapproachable, with them. Fyodor Pavlovitch began to regard him rather differently. His fits were becoming more frequent, and on the days he was ill Marfa cooked, which did not suit Fyodor Pavlovitch at all.

“Why are your fits getting worse?” asked Fyodor Pavlovitch, looking askance at his new cook. “Would you like to get married? Shall I find you a wife?”

But Smerdyakov turned pale with anger, and made no reply. Fyodor Pavlovitch left him with an impatient gesture. The great thing was that he had absolute confidence in his honesty. It happened once, when Fyodor Pavlovitch was drunk, that he dropped in the muddy courtyard three hundred‐rouble notes which he had only just received. He only missed them next day, and was just hastening to search his pockets when he saw the notes lying on the table. Where had they come from? Smerdyakov had picked them up and brought them in the day before.

“Well, my lad, I’ve never met any one like you,” Fyodor Pavlovitch said shortly, and gave him ten roubles. We may add that he not only believed in his honesty, but had, for some reason, a liking for him, although the young man looked as morosely at him as at every one and was always silent. He rarely spoke. If it had occurred to any one to wonder at the time what the young man was interested in, and what was in his mind, it would have been impossible to tell by looking at him. Yet he used sometimes to stop suddenly in the house, or even in the yard or street, and would stand still for ten minutes, lost in thought. A physiognomist studying his face would have said that there was no thought in it, no reflection, but only a sort of contemplation. There is a remarkable picture by the painter Kramskoy, called “Contemplation.” There is a forest in winter, and on a roadway through the forest, in absolute solitude, stands a peasant in a torn kaftan and bark shoes. He stands, as it were, lost in thought. Yet he is not thinking; he is “contemplating.” If any one touched him he would start and look at one as though awakening and bewildered. It’s true he would come to himself immediately; but if he were asked what he had been thinking about, he would remember nothing. Yet probably he has, hidden within himself, the impression which had dominated him during the period of contemplation. Those impressions are dear to him and no doubt he hoards them imperceptibly, and even unconsciously. How and why, of course, he does not know either. He may suddenly, after hoarding impressions for many years, abandon everything and go off to Jerusalem on a pilgrimage for his soul’s salvation, or perhaps he will suddenly set fire to his native village, and perhaps do both. There are a good many “contemplatives” among the peasantry. Well, Smerdyakov was probably one of them, and he probably was greedily hoarding up his impressions, hardly knowing why.

Chapter VII.
The Controversy
But Balaam’s ass had suddenly spoken. The subject was a strange one. Grigory had gone in the morning to make purchases, and had heard from the shopkeeper Lukyanov the story of a Russian soldier which had appeared in the newspaper of that day. This soldier had been taken prisoner in some remote part of Asia, and was threatened with an immediate agonizing death if he did not renounce Christianity and follow Islam. He refused to deny his faith, and was tortured, flayed alive, and died, praising and glorifying Christ. Grigory had related the story at table. Fyodor Pavlovitch always liked, over the dessert after dinner, to laugh and talk, if only with Grigory. This afternoon he was in a particularly good‐humored and expansive mood. Sipping his brandy and listening to the story, he observed that they ought to make a saint of a soldier like that, and to take his skin to some monastery. “That would make the people flock, and bring the money in.”

Grigory frowned, seeing that Fyodor Pavlovitch was by no means touched, but, as usual, was beginning to scoff. At that moment Smerdyakov, who was standing by the door, smiled. Smerdyakov often waited at table towards the end of dinner, and since Ivan’s arrival in our town he had done so every day.

“What are you grinning at?” asked Fyodor Pavlovitch, catching the smile instantly, and knowing that it referred to Grigory.

“Well, my opinion is,” Smerdyakov began suddenly and unexpectedly in a loud voice, “that if that laudable soldier’s exploit was so very great there would have been, to my thinking, no sin in it if he had on such an emergency renounced, so to speak, the name of Christ and his own christening, to save by that same his life, for good deeds, by which, in the course of years to expiate his cowardice.”

“How could it not be a sin? You’re talking nonsense. For that you’ll go straight to hell and be roasted there like mutton,” put in Fyodor Pavlovitch.

It was at this point that Alyosha came in, and Fyodor Pavlovitch, as we have seen, was highly delighted at his appearance.

“We’re on your subject, your subject,” he chuckled gleefully, making Alyosha sit down to listen.

“As for mutton, that’s not so, and there’ll be nothing there for this, and there shouldn’t be either, if it’s according to justice,” Smerdyakov maintained stoutly.

“How do you mean ‘according to justice’?” Fyodor Pavlovitch cried still more gayly, nudging Alyosha with his knee.

“He’s a rascal, that’s what he is!” burst from Grigory. He looked Smerdyakov wrathfully in the face.

“As for being a rascal, wait a little, Grigory Vassilyevitch,” answered Smerdyakov with perfect composure. “You’d better consider yourself that, once I am taken prisoner by the enemies of the Christian race, and they demand from me to curse the name of God and to renounce my holy christening, I am fully entitled to act by my own reason, since there would be no sin in it.”

“But you’ve said that before. Don’t waste words. Prove it,” cried Fyodor Pavlovitch.

“Soup‐maker!” muttered Grigory contemptuously.

“As for being a soup‐maker, wait a bit, too, and consider for yourself, Grigory Vassilyevitch, without abusing me. For as soon as I say to those enemies, ‘No, I’m not a Christian, and I curse my true God,’ then at once, by God’s high judgment, I become immediately and specially anathema accursed, and am cut off from the Holy Church, exactly as though I were a heathen, so that at that very instant, not only when I say it aloud, but when I think of saying it, before a quarter of a second has passed, I am cut off. Is that so or not, Grigory Vassilyevitch?”

He addressed Grigory with obvious satisfaction, though he was really answering Fyodor Pavlovitch’s questions, and was well aware of it, and intentionally pretending that Grigory had asked the questions.

“Ivan,” cried Fyodor Pavlovitch suddenly, “stoop down for me to whisper. He’s got this all up for your benefit. He wants you to praise him. Praise him.”

Ivan listened with perfect seriousness to his father’s excited whisper.

“Stay, Smerdyakov, be quiet a minute,” cried Fyodor Pavlovitch once more. “Ivan, your ear again.”

Ivan bent down again with a perfectly grave face.

“I love you as I do Alyosha. Don’t think I don’t love you. Some brandy?”

“Yes.—But you’re rather drunk yourself,” thought Ivan, looking steadily at his father.

He was watching Smerdyakov with great curiosity.

“You’re anathema accursed, as it is,” Grigory suddenly burst out, “and how dare you argue, you rascal, after that, if—”

“Don’t scold him, Grigory, don’t scold him,” Fyodor Pavlovitch cut him short.

“You should wait, Grigory Vassilyevitch, if only a short time, and listen, for I haven’t finished all I had to say. For at the very moment I become accursed, at that same highest moment, I become exactly like a heathen, and my christening is taken off me and becomes of no avail. Isn’t that so?”

“Make haste and finish, my boy,” Fyodor Pavlovitch urged him, sipping from his wine‐glass with relish.

“And if I’ve ceased to be a Christian, then I told no lie to the enemy when they asked whether I was a Christian or not a Christian, seeing I had already been relieved by God Himself of my Christianity by reason of the thought alone, before I had time to utter a word to the enemy. And if I have already been discharged, in what manner and with what sort of justice can I be held responsible as a Christian in the other world for having denied Christ, when, through the very thought alone, before denying Him I had been relieved from my christening? If I’m no longer a Christian, then I can’t renounce Christ, for I’ve nothing then to renounce. Who will hold an unclean Tatar responsible, Grigory Vassilyevitch, even in heaven, for not having been born a Christian? And who would punish him for that, considering that you can’t take two skins off one ox? For God Almighty Himself, even if He did make the Tatar responsible, when he dies would give him the smallest possible punishment, I imagine (since he must be punished), judging that he is not to blame if he has come into the world an unclean heathen, from heathen parents. The Lord God can’t surely take a Tatar and say he was a Christian? That would mean that the Almighty would tell a real untruth. And can the Lord of Heaven and earth tell a lie, even in one word?”

Grigory was thunderstruck and looked at the orator, his eyes nearly starting out of his head. Though he did not clearly understand what was said, he had caught something in this rigmarole, and stood, looking like a man who has just hit his head against a wall. Fyodor Pavlovitch emptied his glass and went off into his shrill laugh.

“Alyosha! Alyosha! What do you say to that! Ah, you casuist! He must have been with the Jesuits, somewhere, Ivan. Oh, you stinking Jesuit, who taught you? But you’re talking nonsense, you casuist, nonsense, nonsense, nonsense. Don’t cry, Grigory, we’ll reduce him to smoke and ashes in a moment. Tell me this, O ass; you may be right before your enemies, but you have renounced your faith all the same in your own heart, and you say yourself that in that very hour you became anathema accursed. And if once you’re anathema they won’t pat you on the head for it in hell. What do you say to that, my fine Jesuit?”

“There is no doubt that I have renounced it in my own heart, but there was no special sin in that. Or if there was sin, it was the most ordinary.”

“How’s that the most ordinary?”

“You lie, accursed one!” hissed Grigory.

“Consider yourself, Grigory Vassilyevitch,” Smerdyakov went on, staid and unruffled, conscious of his triumph, but, as it were, generous to the vanquished foe. “Consider yourself, Grigory Vassilyevitch; it is said in the Scripture that if you have faith, even as a mustard seed, and bid a mountain move into the sea, it will move without the least delay at your bidding. Well, Grigory Vassilyevitch, if I’m without faith and you have so great a faith that you are continually swearing at me, you try yourself telling this mountain, not to move into the sea for that’s a long way off, but even to our stinking little river which runs at the bottom of the garden. You’ll see for yourself that it won’t budge, but will remain just where it is however much you shout at it, and that shows, Grigory Vassilyevitch, that you haven’t faith in the proper manner, and only abuse others about it. Again, taking into consideration that no one in our day, not only you, but actually no one, from the highest person to the lowest peasant, can shove mountains into the sea—except perhaps some one man in the world, or, at most, two, and they most likely are saving their souls in secret somewhere in the Egyptian desert, so you wouldn’t find them—if so it be, if all the rest have no faith, will God curse all the rest? that is, the population of the whole earth, except about two hermits in the desert, and in His well‐known mercy will He not forgive one of them? And so I’m persuaded that though I may once have doubted I shall be forgiven if I shed tears of repentance.”

“Stay!” cried Fyodor Pavlovitch, in a transport of delight. “So you do suppose there are two who can move mountains? Ivan, make a note of it, write it down. There you have the Russian all over!”

“You’re quite right in saying it’s characteristic of the people’s faith,” Ivan assented, with an approving smile.

“You agree. Then it must be so, if you agree. It’s true, isn’t it, Alyosha? That’s the Russian faith all over, isn’t it?”

“No, Smerdyakov has not the Russian faith at all,” said Alyosha firmly and gravely.

“I’m not talking about his faith. I mean those two in the desert, only that idea. Surely that’s Russian, isn’t it?”

“Yes, that’s purely Russian,” said Alyosha smiling.

“Your words are worth a gold piece, O ass, and I’ll give it to you to‐day. But as to the rest you talk nonsense, nonsense, nonsense. Let me tell you, stupid, that we here are all of little faith, only from carelessness, because we haven’t time; things are too much for us, and, in the second place, the Lord God has given us so little time, only twenty‐four hours in the day, so that one hasn’t even time to get sleep enough, much less to repent of one’s sins. While you have denied your faith to your enemies when you’d nothing else to think about but to show your faith! So I consider, brother, that it constitutes a sin.”

“Constitute a sin it may, but consider yourself, Grigory Vassilyevitch, that it only extenuates it, if it does constitute. If I had believed then in very truth, as I ought to have believed, then it really would have been sinful if I had not faced tortures for my faith, and had gone over to the pagan Mohammedan faith. But, of course, it wouldn’t have come to torture then, because I should only have had to say at that instant to the mountain, ‘Move and crush the tormentor,’ and it would have moved and at the very instant have crushed him like a black‐beetle, and I should have walked away as though nothing had happened, praising and glorifying God. But, suppose at that very moment I had tried all that, and cried to that mountain, ‘Crush these tormentors,’ and it hadn’t crushed them, how could I have helped doubting, pray, at such a time, and at such a dread hour of mortal terror? And apart from that, I should know already that I could not attain to the fullness of the Kingdom of Heaven (for since the mountain had not moved at my word, they could not think very much of my faith up aloft, and there could be no very great reward awaiting me in the world to come). So why should I let them flay the skin off me as well, and to no good purpose? For, even though they had flayed my skin half off my back, even then the mountain would not have moved at my word or at my cry. And at such a moment not only doubt might come over one but one might lose one’s reason from fear, so that one would not be able to think at all. And, therefore, how should I be particularly to blame if not seeing my advantage or reward there or here, I should, at least, save my skin. And so trusting fully in the grace of the Lord I should cherish the hope that I might be altogether forgiven.”

Chapter VIII.
Over The Brandy
The controversy was over. But, strange to say, Fyodor Pavlovitch, who had been so gay, suddenly began frowning. He frowned and gulped brandy, and it was already a glass too much.

“Get along with you, Jesuits!” he cried to the servants. “Go away, Smerdyakov. I’ll send you the gold piece I promised you to‐day, but be off! Don’t cry, Grigory. Go to Marfa. She’ll comfort you and put you to bed. The rascals won’t let us sit in peace after dinner,” he snapped peevishly, as the servants promptly withdrew at his word.

“Smerdyakov always pokes himself in now, after dinner. It’s you he’s so interested in. What have you done to fascinate him?” he added to Ivan.

“Nothing whatever,” answered Ivan. “He’s pleased to have a high opinion of me; he’s a lackey and a mean soul. Raw material for revolution, however, when the time comes.”

“For revolution?”

“There will be others and better ones. But there will be some like him as well. His kind will come first, and better ones after.”

“And when will the time come?”

“The rocket will go off and fizzle out, perhaps. The peasants are not very fond of listening to these soup‐makers, so far.”

“Ah, brother, but a Balaam’s ass like that thinks and thinks, and the devil knows where he gets to.”

“He’s storing up ideas,” said Ivan, smiling.

“You see, I know he can’t bear me, nor any one else, even you, though you fancy that he has a high opinion of you. Worse still with Alyosha, he despises Alyosha. But he doesn’t steal, that’s one thing, and he’s not a gossip, he holds his tongue, and doesn’t wash our dirty linen in public. He makes capital fish pasties too. But, damn him, is he worth talking about so much?”

“Of course he isn’t.”

“And as for the ideas he may be hatching, the Russian peasant, generally speaking, needs thrashing. That I’ve always maintained. Our peasants are swindlers, and don’t deserve to be pitied, and it’s a good thing they’re still flogged sometimes. Russia is rich in birches. If they destroyed the forests, it would be the ruin of Russia. I stand up for the clever people. We’ve left off thrashing the peasants, we’ve grown so clever, but they go on thrashing themselves. And a good thing too. ‘For with what measure ye mete it shall be measured to you again,’ or how does it go? Anyhow, it will be measured. But Russia’s all swinishness. My dear, if you only knew how I hate Russia…. That is, not Russia, but all this vice! But maybe I mean Russia. Tout cela c’est de la cochonnerie…. Do you know what I like? I like wit.”

“You’ve had another glass. That’s enough.”

“Wait a bit. I’ll have one more, and then another, and then I’ll stop. No, stay, you interrupted me. At Mokroe I was talking to an old man, and he told me: ‘There’s nothing we like so much as sentencing girls to be thrashed, and we always give the lads the job of thrashing them. And the girl he has thrashed to‐day, the young man will ask in marriage to‐morrow. So it quite suits the girls, too,’ he said. There’s a set of de Sades for you! But it’s clever, anyway. Shall we go over and have a look at it, eh? Alyosha, are you blushing? Don’t be bashful, child. I’m sorry I didn’t stay to dinner at the Superior’s and tell the monks about the girls at Mokroe. Alyosha, don’t be angry that I offended your Superior this morning. I lost my temper. If there is a God, if He exists, then, of course, I’m to blame, and I shall have to answer for it. But if there isn’t a God at all, what do they deserve, your fathers? It’s not enough to cut their heads off, for they keep back progress. Would you believe it, Ivan, that that lacerates my sentiments? No, you don’t believe it as I see from your eyes. You believe what people say, that I’m nothing but a buffoon. Alyosha, do you believe that I’m nothing but a buffoon?”

“No, I don’t believe it.”

“And I believe you don’t, and that you speak the truth. You look sincere and you speak sincerely. But not Ivan. Ivan’s supercilious…. I’d make an end of your monks, though, all the same. I’d take all that mystic stuff and suppress it, once for all, all over Russia, so as to bring all the fools to reason. And the gold and the silver that would flow into the mint!”

“But why suppress it?” asked Ivan.

“That Truth may prevail. That’s why.”

“Well, if Truth were to prevail, you know, you’d be the first to be robbed and suppressed.”

“Ah! I dare say you’re right. Ah, I’m an ass!” burst out Fyodor Pavlovitch, striking himself lightly on the forehead. “Well, your monastery may stand then, Alyosha, if that’s how it is. And we clever people will sit snug and enjoy our brandy. You know, Ivan, it must have been so ordained by the Almighty Himself. Ivan, speak, is there a God or not? Stay, speak the truth, speak seriously. Why are you laughing again?”

“I’m laughing that you should have made a clever remark just now about Smerdyakov’s belief in the existence of two saints who could move mountains.”

“Why, am I like him now, then?”

“Very much.”

“Well, that shows I’m a Russian, too, and I have a Russian characteristic. And you may be caught in the same way, though you are a philosopher. Shall I catch you? What do you bet that I’ll catch you to‐morrow. Speak, all the same, is there a God, or not? Only, be serious. I want you to be serious now.”

“No, there is no God.”

“Alyosha, is there a God?”

“There is.”

“Ivan, and is there immortality of some sort, just a little, just a tiny bit?”

“There is no immortality either.”

“None at all?”

“None at all.”

“There’s absolute nothingness then. Perhaps there is just something? Anything is better than nothing!”

“Absolute nothingness.”

“Alyosha, is there immortality?”

“There is.”

“God and immortality?”

“God and immortality. In God is immortality.”

“H’m! It’s more likely Ivan’s right. Good Lord! to think what faith, what force of all kinds, man has lavished for nothing, on that dream, and for how many thousand years. Who is it laughing at man? Ivan! For the last time, once for all, is there a God or not? I ask for the last time!”

“And for the last time there is not.”

“Who is laughing at mankind, Ivan?”

“It must be the devil,” said Ivan, smiling.

“And the devil? Does he exist?”

“No, there’s no devil either.”

“It’s a pity. Damn it all, what wouldn’t I do to the man who first invented God! Hanging on a bitter aspen tree would be too good for him.”

“There would have been no civilization if they hadn’t invented God.”

“Wouldn’t there have been? Without God?”

“No. And there would have been no brandy either. But I must take your brandy away from you, anyway.”

“Stop, stop, stop, dear boy, one more little glass. I’ve hurt Alyosha’s feelings. You’re not angry with me, Alyosha? My dear little Alexey!”

“No, I am not angry. I know your thoughts. Your heart is better than your head.”

“My heart better than my head, is it? Oh, Lord! And that from you. Ivan, do you love Alyosha?”

“Yes.”

“You must love him” (Fyodor Pavlovitch was by this time very drunk). “Listen, Alyosha, I was rude to your elder this morning. But I was excited. But there’s wit in that elder, don’t you think, Ivan?”

“Very likely.”

“There is, there is. Il y a du Piron là‐dedans. He’s a Jesuit, a Russian one, that is. As he’s an honorable person there’s a hidden indignation boiling within him at having to pretend and affect holiness.”

“But, of course, he believes in God.”

“Not a bit of it. Didn’t you know? Why, he tells every one so, himself. That is, not every one, but all the clever people who come to him. He said straight out to Governor Schultz not long ago: ‘Credo, but I don’t know in what.’ ”

“Really?”

“He really did. But I respect him. There’s something of Mephistopheles about him, or rather of ‘The hero of our time’ … Arbenin, or what’s his name?… You see, he’s a sensualist. He’s such a sensualist that I should be afraid for my daughter or my wife if she went to confess to him. You know, when he begins telling stories…. The year before last he invited us to tea, tea with liqueur (the ladies send him liqueur), and began telling us about old times till we nearly split our sides…. Especially how he once cured a paralyzed woman. ‘If my legs were not bad I know a dance I could dance you,’ he said. What do you say to that? ‘I’ve plenty of tricks in my time,’ said he. He did Dernidov, the merchant, out of sixty thousand.”

“What, he stole it?”

“He brought him the money as a man he could trust, saying, ‘Take care of it for me, friend, there’ll be a police search at my place to‐morrow.’ And he kept it. ‘You have given it to the Church,’ he declared. I said to him: ‘You’re a scoundrel,’ I said. ‘No,’ said he, ‘I’m not a scoundrel, but I’m broad‐minded.’ But that wasn’t he, that was some one else. I’ve muddled him with some one else … without noticing it. Come, another glass and that’s enough. Take away the bottle, Ivan. I’ve been telling lies. Why didn’t you stop me, Ivan, and tell me I was lying?”

“I knew you’d stop of yourself.”

“That’s a lie. You did it from spite, from simple spite against me. You despise me. You have come to me and despised me in my own house.”

“Well, I’m going away. You’ve had too much brandy.”

“I’ve begged you for Christ’s sake to go to Tchermashnya for a day or two, and you don’t go.”

“I’ll go to‐morrow if you’re so set upon it.”

“You won’t go. You want to keep an eye on me. That’s what you want, spiteful fellow. That’s why you won’t go.”

The old man persisted. He had reached that state of drunkenness when the drunkard who has till then been inoffensive tries to pick a quarrel and to assert himself.

“Why are you looking at me? Why do you look like that? Your eyes look at me and say, ‘You ugly drunkard!’ Your eyes are mistrustful. They’re contemptuous…. You’ve come here with some design. Alyosha, here, looks at me and his eyes shine. Alyosha doesn’t despise me. Alexey, you mustn’t love Ivan.”

“Don’t be ill‐tempered with my brother. Leave off attacking him,” Alyosha said emphatically.

“Oh, all right. Ugh, my head aches. Take away the brandy, Ivan. It’s the third time I’ve told you.”

He mused, and suddenly a slow, cunning grin spread over his face.

“Don’t be angry with a feeble old man, Ivan. I know you don’t love me, but don’t be angry all the same. You’ve nothing to love me for. You go to Tchermashnya. I’ll come to you myself and bring you a present. I’ll show you a little wench there. I’ve had my eye on her a long time. She’s still running about bare‐foot. Don’t be afraid of bare‐footed wenches—don’t despise them—they’re pearls!”

And he kissed his hand with a smack.

“To my thinking,” he revived at once, seeming to grow sober the instant he touched on his favorite topic. “To my thinking … Ah, you boys! You children, little sucking‐pigs, to my thinking … I never thought a woman ugly in my life—that’s been my rule! Can you understand that? How could you understand it? You’ve milk in your veins, not blood. You’re not out of your shells yet. My rule has been that you can always find something devilishly interesting in every woman that you wouldn’t find in any other. Only, one must know how to find it, that’s the point! That’s a talent! To my mind there are no ugly women. The very fact that she is a woman is half the battle … but how could you understand that? Even in vieilles filles, even in them you may discover something that makes you simply wonder that men have been such fools as to let them grow old without noticing them. Bare‐footed girls or unattractive ones, you must take by surprise. Didn’t you know that? You must astound them till they’re fascinated, upset, ashamed that such a gentleman should fall in love with such a little slut. It’s a jolly good thing that there always are and will be masters and slaves in the world, so there always will be a little maid‐ of‐all‐work and her master, and you know, that’s all that’s needed for happiness. Stay … listen, Alyosha, I always used to surprise your mother, but in a different way. I paid no attention to her at all, but all at once, when the minute came, I’d be all devotion to her, crawl on my knees, kiss her feet, and I always, always—I remember it as though it were to‐day—reduced her to that tinkling, quiet, nervous, queer little laugh. It was peculiar to her. I knew her attacks always used to begin like that. The next day she would begin shrieking hysterically, and this little laugh was not a sign of delight, though it made a very good counterfeit. That’s the great thing, to know how to take every one. Once Belyavsky—he was a handsome fellow, and rich—used to like to come here and hang about her—suddenly gave me a slap in the face in her presence. And she—such a mild sheep—why, I thought she would have knocked me down for that blow. How she set on me! ‘You’re beaten, beaten now,’ she said. ‘You’ve taken a blow from him. You have been trying to sell me to him,’ she said…. ‘And how dared he strike you in my presence! Don’t dare come near me again, never, never! Run at once, challenge him to a duel!’… I took her to the monastery then to bring her to her senses. The holy Fathers prayed her back to reason. But I swear, by God, Alyosha, I never insulted the poor crazy girl! Only once, perhaps, in the first year; then she was very fond of praying. She used to keep the feasts of Our Lady particularly and used to turn me out of her room then. I’ll knock that mysticism out of her, thought I! ‘Here,’ said I, ‘you see your holy image. Here it is. Here I take it down. You believe it’s miraculous, but here, I’ll spit on it directly and nothing will happen to me for it!’… When she saw it, good Lord! I thought she would kill me. But she only jumped up, wrung her hands, then suddenly hid her face in them, began trembling all over and fell on the floor … fell all of a heap. Alyosha, Alyosha, what’s the matter?”

The old man jumped up in alarm. From the time he had begun speaking about his mother, a change had gradually come over Alyosha’s face. He flushed crimson, his eyes glowed, his lips quivered. The old sot had gone spluttering on, noticing nothing, till the moment when something very strange happened to Alyosha. Precisely what he was describing in the crazy woman was suddenly repeated with Alyosha. He jumped up from his seat exactly as his mother was said to have done, wrung his hands, hid his face in them, and fell back in his chair, shaking all over in an hysterical paroxysm of sudden violent, silent weeping. His extraordinary resemblance to his mother particularly impressed the old man.

“Ivan, Ivan! Water, quickly! It’s like her, exactly as she used to be then, his mother. Spurt some water on him from your mouth, that’s what I used to do to her. He’s upset about his mother, his mother,” he muttered to Ivan.

“But she was my mother, too, I believe, his mother. Was she not?” said Ivan, with uncontrolled anger and contempt. The old man shrank before his flashing eyes. But something very strange had happened, though only for a second; it seemed really to have escaped the old man’s mind that Alyosha’s mother actually was the mother of Ivan too.

“Your mother?” he muttered, not understanding. “What do you mean? What mother are you talking about? Was she?… Why, damn it! of course she was yours too! Damn it! My mind has never been so darkened before. Excuse me, why, I was thinking, Ivan…. He he he!” He stopped. A broad, drunken, half‐senseless grin overspread his face.

At that moment a fearful noise and clamor was heard in the hall, there were violent shouts, the door was flung open, and Dmitri burst into the room. The old man rushed to Ivan in terror.

“He’ll kill me! He’ll kill me! Don’t let him get at me!” he screamed, clinging to the skirt of Ivan’s coat.

Chapter IX.
The Sensualists
Grigory and Smerdyakov ran into the room after Dmitri. They had been struggling with him in the passage, refusing to admit him, acting on instructions given them by Fyodor Pavlovitch some days before. Taking advantage of the fact that Dmitri stopped a moment on entering the room to look about him, Grigory ran round the table, closed the double doors on the opposite side of the room leading to the inner apartments, and stood before the closed doors, stretching wide his arms, prepared to defend the entrance, so to speak, with the last drop of his blood. Seeing this, Dmitri uttered a scream rather than a shout and rushed at Grigory.

“Then she’s there! She’s hidden there! Out of the way, scoundrel!”

He tried to pull Grigory away, but the old servant pushed him back. Beside himself with fury, Dmitri struck out, and hit Grigory with all his might. The old man fell like a log, and Dmitri, leaping over him, broke in the door. Smerdyakov remained pale and trembling at the other end of the room, huddling close to Fyodor Pavlovitch.

“She’s here!” shouted Dmitri. “I saw her turn towards the house just now, but I couldn’t catch her. Where is she? Where is she?”

That shout, “She’s here!” produced an indescribable effect on Fyodor Pavlovitch. All his terror left him.

“Hold him! Hold him!” he cried, and dashed after Dmitri. Meanwhile Grigory had got up from the floor, but still seemed stunned. Ivan and Alyosha ran after their father. In the third room something was heard to fall on the floor with a ringing crash: it was a large glass vase—not an expensive one—on a marble pedestal which Dmitri had upset as he ran past it.

“At him!” shouted the old man. “Help!”

Ivan and Alyosha caught the old man and were forcibly bringing him back.

“Why do you run after him? He’ll murder you outright,” Ivan cried wrathfully at his father.

“Ivan! Alyosha! She must be here. Grushenka’s here. He said he saw her himself, running.”

He was choking. He was not expecting Grushenka at the time, and the sudden news that she was here made him beside himself. He was trembling all over. He seemed frantic.

“But you’ve seen for yourself that she hasn’t come,” cried Ivan.

“But she may have come by that other entrance.”

“You know that entrance is locked, and you have the key.”

Dmitri suddenly reappeared in the drawing‐room. He had, of course, found the other entrance locked, and the key actually was in Fyodor Pavlovitch’s pocket. The windows of all the rooms were also closed, so Grushenka could not have come in anywhere nor have run out anywhere.

“Hold him!” shrieked Fyodor Pavlovitch, as soon as he saw him again. “He’s been stealing money in my bedroom.” And tearing himself from Ivan he rushed again at Dmitri. But Dmitri threw up both hands and suddenly clutched the old man by the two tufts of hair that remained on his temples, tugged at them, and flung him with a crash on the floor. He kicked him two or three times with his heel in the face. The old man moaned shrilly. Ivan, though not so strong as Dmitri, threw his arms round him, and with all his might pulled him away. Alyosha helped him with his slender strength, holding Dmitri in front.

“Madman! You’ve killed him!” cried Ivan.

“Serve him right!” shouted Dmitri breathlessly. “If I haven’t killed him, I’ll come again and kill him. You can’t protect him!”

“Dmitri! Go away at once!” cried Alyosha commandingly.

“Alexey! You tell me. It’s only you I can believe; was she here just now, or not? I saw her myself creeping this way by the fence from the lane. I shouted, she ran away.”

“I swear she’s not been here, and no one expected her.”

“But I saw her…. So she must … I’ll find out at once where she is…. Good‐by, Alexey! Not a word to Æsop about the money now. But go to Katerina Ivanovna at once and be sure to say, ‘He sends his compliments to you!’ Compliments, his compliments! Just compliments and farewell! Describe the scene to her.”

Meanwhile Ivan and Grigory had raised the old man and seated him in an arm‐chair. His face was covered with blood, but he was conscious and listened greedily to Dmitri’s cries. He was still fancying that Grushenka really was somewhere in the house. Dmitri looked at him with hatred as he went out.

“I don’t repent shedding your blood!” he cried. “Beware, old man, beware of your dream, for I have my dream, too. I curse you, and disown you altogether.”

He ran out of the room.

“She’s here. She must be here. Smerdyakov! Smerdyakov!” the old man wheezed, scarcely audibly, beckoning to him with his finger.

“No, she’s not here, you old lunatic!” Ivan shouted at him angrily. “Here, he’s fainting! Water! A towel! Make haste, Smerdyakov!”

Smerdyakov ran for water. At last they got the old man undressed, and put him to bed. They wrapped a wet towel round his head. Exhausted by the brandy, by his violent emotion, and the blows he had received, he shut his eyes and fell asleep as soon as his head touched the pillow. Ivan and Alyosha went back to the drawing‐room. Smerdyakov removed the fragments of the broken vase, while Grigory stood by the table looking gloomily at the floor.

“Shouldn’t you put a wet bandage on your head and go to bed, too?” Alyosha said to him. “We’ll look after him. My brother gave you a terrible blow—on the head.”

“He’s insulted me!” Grigory articulated gloomily and distinctly.

“He’s ‘insulted’ his father, not only you,” observed Ivan with a forced smile.

“I used to wash him in his tub. He’s insulted me,” repeated Grigory.

“Damn it all, if I hadn’t pulled him away perhaps he’d have murdered him. It wouldn’t take much to do for Æsop, would it?” whispered Ivan to Alyosha.

“God forbid!” cried Alyosha.

“Why should He forbid?” Ivan went on in the same whisper, with a malignant grimace. “One reptile will devour the other. And serve them both right, too.”

Alyosha shuddered.

“Of course I won’t let him be murdered as I didn’t just now. Stay here, Alyosha, I’ll go for a turn in the yard. My head’s begun to ache.”

Alyosha went to his father’s bedroom and sat by his bedside behind the screen for about an hour. The old man suddenly opened his eyes and gazed for a long while at Alyosha, evidently remembering and meditating. All at once his face betrayed extraordinary excitement.

“Alyosha,” he whispered apprehensively, “where’s Ivan?”

“In the yard. He’s got a headache. He’s on the watch.”

“Give me that looking‐glass. It stands over there. Give it me.”

Alyosha gave him a little round folding looking‐glass which stood on the chest of drawers. The old man looked at himself in it; his nose was considerably swollen, and on the left side of his forehead there was a rather large crimson bruise.

“What does Ivan say? Alyosha, my dear, my only son, I’m afraid of Ivan. I’m more afraid of Ivan than the other. You’re the only one I’m not afraid of….”

“Don’t be afraid of Ivan either. He is angry, but he’ll defend you.”

“Alyosha, and what of the other? He’s run to Grushenka. My angel, tell me the truth, was she here just now or not?”

“No one has seen her. It was a mistake. She has not been here.”

“You know Mitya wants to marry her, to marry her.”

“She won’t marry him.”

“She won’t. She won’t. She won’t. She won’t on any account!”

The old man fairly fluttered with joy, as though nothing more comforting could have been said to him. In his delight he seized Alyosha’s hand and pressed it warmly to his heart. Tears positively glittered in his eyes.

“That image of the Mother of God of which I was telling you just now,” he said. “Take it home and keep it for yourself. And I’ll let you go back to the monastery…. I was joking this morning, don’t be angry with me. My head aches, Alyosha…. Alyosha, comfort my heart. Be an angel and tell me the truth!”

“You’re still asking whether she has been here or not?” Alyosha said sorrowfully.

“No, no, no. I believe you. I’ll tell you what it is: you go to Grushenka yourself, or see her somehow; make haste and ask her; see for yourself, which she means to choose, him or me. Eh? What? Can you?”

“If I see her I’ll ask her,” Alyosha muttered, embarrassed.

“No, she won’t tell you,” the old man interrupted, “she’s a rogue. She’ll begin kissing you and say that it’s you she wants. She’s a deceitful, shameless hussy. You mustn’t go to her, you mustn’t!”

“No, father, and it wouldn’t be suitable, it wouldn’t be right at all.”

“Where was he sending you just now? He shouted ‘Go’ as he ran away.”

“To Katerina Ivanovna.”

“For money? To ask her for money?”

“No. Not for money.”

“He’s no money; not a farthing. I’ll settle down for the night, and think things over, and you can go. Perhaps you’ll meet her…. Only be sure to come to me to‐morrow in the morning. Be sure to. I have a word to say to you to‐morrow. Will you come?”

“Yes.”

“When you come, pretend you’ve come of your own accord to ask after me. Don’t tell any one I told you to. Don’t say a word to Ivan.”

“Very well.”

“Good‐by, my angel. You stood up for me, just now. I shall never forget it. I’ve a word to say to you to‐morrow—but I must think about it.”

“And how do you feel now?”

“I shall get up to‐morrow and go out, perfectly well, perfectly well!”

Crossing the yard Alyosha found Ivan sitting on the bench at the gateway. He was sitting writing something in pencil in his note‐book. Alyosha told Ivan that their father had waked up, was conscious, and had let him go back to sleep at the monastery.

“Alyosha, I should be very glad to meet you to‐morrow morning,” said Ivan cordially, standing up. His cordiality was a complete surprise to Alyosha.

“I shall be at the Hohlakovs’ to‐morrow,” answered Alyosha, “I may be at Katerina Ivanovna’s, too, if I don’t find her now.”

“But you’re going to her now, anyway? For that ‘compliments and farewell,’ ” said Ivan smiling. Alyosha was disconcerted.

“I think I quite understand his exclamations just now, and part of what went before. Dmitri has asked you to go to her and say that he—well, in fact—takes his leave of her?”

“Brother, how will all this horror end between father and Dmitri?” exclaimed Alyosha.

“One can’t tell for certain. Perhaps in nothing: it may all fizzle out. That woman is a beast. In any case we must keep the old man indoors and not let Dmitri in the house.”

“Brother, let me ask one thing more: has any man a right to look at other men and decide which is worthy to live?”

“Why bring in the question of worth? The matter is most often decided in men’s hearts on other grounds much more natural. And as for rights—who has not the right to wish?”

“Not for another man’s death?”

“What even if for another man’s death? Why lie to oneself since all men live so and perhaps cannot help living so. Are you referring to what I said just now—that one reptile will devour the other? In that case let me ask you, do you think me like Dmitri capable of shedding Æsop’s blood, murdering him, eh?”

“What are you saying, Ivan? Such an idea never crossed my mind. I don’t think Dmitri is capable of it, either.”

“Thanks, if only for that,” smiled Ivan. “Be sure, I should always defend him. But in my wishes I reserve myself full latitude in this case. Good‐by till to‐morrow. Don’t condemn me, and don’t look on me as a villain,” he added with a smile.

They shook hands warmly as they had never done before. Alyosha felt that his brother had taken the first step towards him, and that he had certainly done this with some definite motive.

Chapter X.
Both Together
Alyosha left his father’s house feeling even more exhausted and dejected in spirit than when he had entered it. His mind too seemed shattered and unhinged, while he felt that he was afraid to put together the disjointed fragments and form a general idea from all the agonizing and conflicting experiences of the day. He felt something bordering upon despair, which he had never known till then. Towering like a mountain above all the rest stood the fatal, insoluble question: How would things end between his father and his brother Dmitri with this terrible woman? Now he had himself been a witness of it, he had been present and seen them face to face. Yet only his brother Dmitri could be made unhappy, terribly, completely unhappy: there was trouble awaiting him. It appeared too that there were other people concerned, far more so than Alyosha could have supposed before. There was something positively mysterious in it, too. Ivan had made a step towards him, which was what Alyosha had been long desiring. Yet now he felt for some reason that he was frightened at it. And these women? Strange to say, that morning he had set out for Katerina Ivanovna’s in the greatest embarrassment; now he felt nothing of the kind. On the contrary, he was hastening there as though expecting to find guidance from her. Yet to give her this message was obviously more difficult than before. The matter of the three thousand was decided irrevocably, and Dmitri, feeling himself dishonored and losing his last hope, might sink to any depth. He had, moreover, told him to describe to Katerina Ivanovna the scene which had just taken place with his father.

It was by now seven o’clock, and it was getting dark as Alyosha entered the very spacious and convenient house in the High Street occupied by Katerina Ivanovna. Alyosha knew that she lived with two aunts. One of them, a woman of little education, was that aunt of her half‐sister Agafya Ivanovna who had looked after her in her father’s house when she came from boarding‐school. The other aunt was a Moscow lady of style and consequence, though in straitened circumstances. It was said that they both gave way in everything to Katerina Ivanovna, and that she only kept them with her as chaperons. Katerina Ivanovna herself gave way to no one but her benefactress, the general’s widow, who had been kept by illness in Moscow, and to whom she was obliged to write twice a week a full account of all her doings.

When Alyosha entered the hall and asked the maid who opened the door to him to take his name up, it was evident that they were already aware of his arrival. Possibly he had been noticed from the window. At least, Alyosha heard a noise, caught the sound of flying footsteps and rustling skirts. Two or three women, perhaps, had run out of the room.

Alyosha thought it strange that his arrival should cause such excitement. He was conducted however to the drawing‐room at once. It was a large room, elegantly and amply furnished, not at all in provincial style. There were many sofas, lounges, settees, big and little tables. There were pictures on the walls, vases and lamps on the tables, masses of flowers, and even an aquarium in the window. It was twilight and rather dark. Alyosha made out a silk mantle thrown down on the sofa, where people had evidently just been sitting; and on a table in front of the sofa were two unfinished cups of chocolate, cakes, a glass saucer with blue raisins, and another with sweetmeats. Alyosha saw that he had interrupted visitors, and frowned. But at that instant the portière was raised, and with rapid, hurrying footsteps Katerina Ivanovna came in, holding out both hands to Alyosha with a radiant smile of delight. At the same instant a servant brought in two lighted candles and set them on the table.

“Thank God! At last you have come too! I’ve been simply praying for you all day! Sit down.”

Alyosha had been struck by Katerina Ivanovna’s beauty when, three weeks before, Dmitri had first brought him, at Katerina Ivanovna’s special request, to be introduced to her. There had been no conversation between them at that interview, however. Supposing Alyosha to be very shy, Katerina Ivanovna had talked all the time to Dmitri to spare him. Alyosha had been silent, but he had seen a great deal very clearly. He was struck by the imperiousness, proud ease, and self‐confidence of the haughty girl. And all that was certain, Alyosha felt that he was not exaggerating it. He thought her great glowing black eyes were very fine, especially with her pale, even rather sallow, longish face. But in those eyes and in the lines of her exquisite lips there was something with which his brother might well be passionately in love, but which perhaps could not be loved for long. He expressed this thought almost plainly to Dmitri when, after the visit, his brother besought and insisted that he should not conceal his impressions on seeing his betrothed.

“You’ll be happy with her, but perhaps—not tranquilly happy.”

“Quite so, brother. Such people remain always the same. They don’t yield to fate. So you think I shan’t love her for ever.”

“No; perhaps you will love her for ever. But perhaps you won’t always be happy with her.”

Alyosha had given his opinion at the time, blushing, and angry with himself for having yielded to his brother’s entreaties and put such “foolish” ideas into words. For his opinion had struck him as awfully foolish immediately after he had uttered it. He felt ashamed too of having given so confident an opinion about a woman. It was with the more amazement that he felt now, at the first glance at Katerina Ivanovna as she ran in to him, that he had perhaps been utterly mistaken. This time her face was beaming with spontaneous good‐natured kindliness, and direct warm‐hearted sincerity. The “pride and haughtiness,” which had struck Alyosha so much before, was only betrayed now in a frank, generous energy and a sort of bright, strong faith in herself. Alyosha realized at the first glance, at the first word, that all the tragedy of her position in relation to the man she loved so dearly was no secret to her; that she perhaps already knew everything, positively everything. And yet, in spite of that, there was such brightness in her face, such faith in the future. Alyosha felt at once that he had gravely wronged her in his thoughts. He was conquered and captivated immediately. Besides all this, he noticed at her first words that she was in great excitement, an excitement perhaps quite exceptional and almost approaching ecstasy.

“I was so eager to see you, because I can learn from you the whole truth—from you and no one else.”

“I have come,” muttered Alyosha confusedly, “I—he sent me.”

“Ah, he sent you! I foresaw that. Now I know everything—everything!” cried Katerina Ivanovna, her eyes flashing. “Wait a moment, Alexey Fyodorovitch, I’ll tell you why I’ve been so longing to see you. You see, I know perhaps far more than you do yourself, and there’s no need for you to tell me anything. I’ll tell you what I want from you. I want to know your own last impression of him. I want you to tell me most directly, plainly, coarsely even (oh, as coarsely as you like!), what you thought of him just now and of his position after your meeting with him to‐day. That will perhaps be better than if I had a personal explanation with him, as he does not want to come to me. Do you understand what I want from you? Now, tell me simply, tell me every word of the message he sent you with (I knew he would send you).”

“He told me to give you his compliments—and to say that he would never come again—but to give you his compliments.”

“His compliments? Was that what he said—his own expression?”

“Yes.”

“Accidentally perhaps he made a mistake in the word, perhaps he did not use the right word?”

“No; he told me precisely to repeat that word. He begged me two or three times not to forget to say so.”

Katerina Ivanovna flushed hotly.

“Help me now, Alexey Fyodorovitch. Now I really need your help. I’ll tell you what I think, and you must simply say whether it’s right or not. Listen! If he had sent me his compliments in passing, without insisting on your repeating the words, without emphasizing them, that would be the end of everything! But if he particularly insisted on those words, if he particularly told you not to forget to repeat them to me, then perhaps he was in excitement, beside himself. He had made his decision and was frightened at it. He wasn’t walking away from me with a resolute step, but leaping headlong. The emphasis on that phrase may have been simply bravado.”

“Yes, yes!” cried Alyosha warmly. “I believe that is it.”

“And, if so, he’s not altogether lost. I can still save him. Stay! Did he not tell you anything about money—about three thousand roubles?”

“He did speak about it, and it’s that more than anything that’s crushing him. He said he had lost his honor and that nothing matters now,” Alyosha answered warmly, feeling a rush of hope in his heart and believing that there really might be a way of escape and salvation for his brother. “But do you know about the money?” he added, and suddenly broke off.

“I’ve known of it a long time; I telegraphed to Moscow to inquire, and heard long ago that the money had not arrived. He hadn’t sent the money, but I said nothing. Last week I learnt that he was still in need of money. My only object in all this was that he should know to whom to turn, and who was his true friend. No, he won’t recognize that I am his truest friend; he won’t know me, and looks on me merely as a woman. I’ve been tormented all the week, trying to think how to prevent him from being ashamed to face me because he spent that three thousand. Let him feel ashamed of himself, let him be ashamed of other people’s knowing, but not of my knowing. He can tell God everything without shame. Why is it he still does not understand how much I am ready to bear for his sake? Why, why doesn’t he know me? How dare he not know me after all that has happened? I want to save him for ever. Let him forget me as his betrothed. And here he fears that he is dishonored in my eyes. Why, he wasn’t afraid to be open with you, Alexey Fyodorovitch. How is it that I don’t deserve the same?”

The last words she uttered in tears. Tears gushed from her eyes.

“I must tell you,” Alyosha began, his voice trembling too, “what happened just now between him and my father.”

And he described the whole scene, how Dmitri had sent him to get the money, how he had broken in, knocked his father down, and after that had again specially and emphatically begged him to take his compliments and farewell. “He went to that woman,” Alyosha added softly.

“And do you suppose that I can’t put up with that woman? Does he think I can’t? But he won’t marry her,” she suddenly laughed nervously. “Could such a passion last for ever in a Karamazov? It’s passion, not love. He won’t marry her because she won’t marry him.” Again Katerina Ivanovna laughed strangely.

“He may marry her,” said Alyosha mournfully, looking down.

“He won’t marry her, I tell you. That girl is an angel. Do you know that? Do you know that?” Katerina Ivanovna exclaimed suddenly with extraordinary warmth. “She is one of the most fantastic of fantastic creatures. I know how bewitching she is, but I know too that she is kind, firm and noble. Why do you look at me like that, Alexey Fyodorovitch? Perhaps you are wondering at my words, perhaps you don’t believe me? Agrafena Alexandrovna, my angel!” she cried suddenly to some one, peeping into the next room, “come in to us. This is a friend. This is Alyosha. He knows all about our affairs. Show yourself to him.”

“I’ve only been waiting behind the curtain for you to call me,” said a soft, one might even say sugary, feminine voice.

The portière was raised and Grushenka herself, smiling and beaming, came up to the table. A violent revulsion passed over Alyosha. He fixed his eyes on her and could not take them off. Here she was, that awful woman, the “beast,” as Ivan had called her half an hour before. And yet one would have thought the creature standing before him most simple and ordinary, a good‐natured, kind woman, handsome certainly, but so like other handsome ordinary women! It is true she was very, very good‐looking with that Russian beauty so passionately loved by many men. She was a rather tall woman, though a little shorter than Katerina Ivanovna, who was exceptionally tall. She had a full figure, with soft, as it were, noiseless, movements, softened to a peculiar over‐sweetness, like her voice. She moved, not like Katerina Ivanovna, with a vigorous, bold step, but noiselessly. Her feet made absolutely no sound on the floor. She sank softly into a low chair, softly rustling her sumptuous black silk dress, and delicately nestling her milk‐white neck and broad shoulders in a costly cashmere shawl. She was twenty‐two years old, and her face looked exactly that age. She was very white in the face, with a pale pink tint on her cheeks. The modeling of her face might be said to be too broad, and the lower jaw was set a trifle forward. Her upper lip was thin, but the slightly prominent lower lip was at least twice as full, and looked pouting. But her magnificent, abundant dark brown hair, her sable‐colored eyebrows and charming gray‐blue eyes with their long lashes would have made the most indifferent person, meeting her casually in a crowd in the street, stop at the sight of her face and remember it long after. What struck Alyosha most in that face was its expression of childlike good nature. There was a childlike look in her eyes, a look of childish delight. She came up to the table, beaming with delight and seeming to expect something with childish, impatient, and confiding curiosity. The light in her eyes gladdened the soul—Alyosha felt that. There was something else in her which he could not understand, or would not have been able to define, and which yet perhaps unconsciously affected him. It was that softness, that voluptuousness of her bodily movements, that catlike noiselessness. Yet it was a vigorous, ample body. Under the shawl could be seen full broad shoulders, a high, still quite girlish bosom. Her figure suggested the lines of the Venus of Milo, though already in somewhat exaggerated proportions. That could be divined. Connoisseurs of Russian beauty could have foretold with certainty that this fresh, still youthful beauty would lose its harmony by the age of thirty, would “spread”; that the face would become puffy, and that wrinkles would very soon appear upon her forehead and round the eyes; the complexion would grow coarse and red perhaps—in fact, that it was the beauty of the moment, the fleeting beauty which is so often met with in Russian women. Alyosha, of course, did not think of this; but though he was fascinated, yet he wondered with an unpleasant sensation, and as it were regretfully, why she drawled in that way and could not speak naturally. She did so evidently feeling there was a charm in the exaggerated, honeyed modulation of the syllables. It was, of course, only a bad, underbred habit that showed bad education and a false idea of good manners. And yet this intonation and manner of speaking impressed Alyosha as almost incredibly incongruous with the childishly simple and happy expression of her face, the soft, babyish joy in her eyes. Katerina Ivanovna at once made her sit down in an arm‐ chair facing Alyosha, and ecstatically kissed her several times on her smiling lips. She seemed quite in love with her.

“This is the first time we’ve met, Alexey Fyodorovitch,” she said rapturously. “I wanted to know her, to see her. I wanted to go to her, but I’d no sooner expressed the wish than she came to me. I knew we should settle everything together—everything. My heart told me so—I was begged not to take the step, but I foresaw it would be a way out of the difficulty, and I was not mistaken. Grushenka has explained everything to me, told me all she means to do. She flew here like an angel of goodness and brought us peace and joy.”

“You did not disdain me, sweet, excellent young lady,” drawled Grushenka in her sing‐song voice, still with the same charming smile of delight.

“Don’t dare to speak to me like that, you sorceress, you witch! Disdain you! Here, I must kiss your lower lip once more. It looks as though it were swollen, and now it will be more so, and more and more. Look how she laughs, Alexey Fyodorovitch! It does one’s heart good to see the angel.”

Alyosha flushed, and faint, imperceptible shivers kept running down him.

“You make so much of me, dear young lady, and perhaps I am not at all worthy of your kindness.”

“Not worthy! She’s not worthy of it!” Katerina Ivanovna cried again with the same warmth. “You know, Alexey Fyodorovitch, we’re fanciful, we’re self‐willed, but proudest of the proud in our little heart. We’re noble, we’re generous, Alexey Fyodorovitch, let me tell you. We have only been unfortunate. We were too ready to make every sacrifice for an unworthy, perhaps, or fickle man. There was one man—one, an officer too, we loved him, we sacrificed everything to him. That was long ago, five years ago, and he has forgotten us, he has married. Now he is a widower, he has written, he is coming here, and, do you know, we’ve loved him, none but him, all this time, and we’ve loved him all our life! He will come, and Grushenka will be happy again. For the last five years she’s been wretched. But who can reproach her, who can boast of her favor? Only that bedridden old merchant, but he is more like her father, her friend, her protector. He found her then in despair, in agony, deserted by the man she loved. She was ready to drown herself then, but the old merchant saved her—saved her!”

“You defend me very kindly, dear young lady. You are in a great hurry about everything,” Grushenka drawled again.

“Defend you! Is it for me to defend you? Should I dare to defend you? Grushenka, angel, give me your hand. Look at that charming soft little hand, Alexey Fyodorovitch! Look at it! It has brought me happiness and has lifted me up, and I’m going to kiss it, outside and inside, here, here, here!”

And three times she kissed the certainly charming, though rather fat, hand of Grushenka in a sort of rapture. She held out her hand with a charming musical, nervous little laugh, watched the “sweet young lady,” and obviously liked having her hand kissed.

“Perhaps there’s rather too much rapture,” thought Alyosha. He blushed. He felt a peculiar uneasiness at heart the whole time.

“You won’t make me blush, dear young lady, kissing my hand like this before Alexey Fyodorovitch.”

“Do you think I meant to make you blush?” said Katerina Ivanovna, somewhat surprised. “Ah, my dear, how little you understand me!”

“Yes, and you too perhaps quite misunderstand me, dear young lady. Maybe I’m not so good as I seem to you. I’ve a bad heart; I will have my own way. I fascinated poor Dmitri Fyodorovitch that day simply for fun.”

“But now you’ll save him. You’ve given me your word. You’ll explain it all to him. You’ll break to him that you have long loved another man, who is now offering you his hand.”

“Oh, no! I didn’t give you my word to do that. It was you kept talking about that. I didn’t give you my word.”

“Then I didn’t quite understand you,” said Katerina Ivanovna slowly, turning a little pale. “You promised—”

“Oh, no, angel lady, I’ve promised nothing,” Grushenka interrupted softly and evenly, still with the same gay and simple expression. “You see at once, dear young lady, what a willful wretch I am compared with you. If I want to do a thing I do it. I may have made you some promise just now. But now again I’m thinking: I may take to Mitya again. I liked him very much once—liked him for almost a whole hour. Now maybe I shall go and tell him to stay with me from this day forward. You see, I’m so changeable.”

“Just now you said—something quite different,” Katerina Ivanovna whispered faintly.

“Ah, just now! But, you know. I’m such a soft‐hearted, silly creature. Only think what he’s gone through on my account! What if when I go home I feel sorry for him? What then?”

“I never expected—”

“Ah, young lady, how good and generous you are compared with me! Now perhaps you won’t care for a silly creature like me, now you know my character. Give me your sweet little hand, angelic lady,” she said tenderly, and with a sort of reverence took Katerina Ivanovna’s hand.

“Here, dear young lady, I’ll take your hand and kiss it as you did mine. You kissed mine three times, but I ought to kiss yours three hundred times to be even with you. Well, but let that pass. And then it shall be as God wills. Perhaps I shall be your slave entirely and want to do your bidding like a slave. Let it be as God wills, without any agreements and promises. What a sweet hand—what a sweet hand you have! You sweet young lady, you incredible beauty!”

She slowly raised the hands to her lips, with the strange object indeed of “being even” with her in kisses.

Katerina Ivanovna did not take her hand away. She listened with timid hope to the last words, though Grushenka’s promise to do her bidding like a slave was very strangely expressed. She looked intently into her eyes; she still saw in those eyes the same simple‐hearted, confiding expression, the same bright gayety.

“She’s perhaps too naïve,” thought Katerina Ivanovna, with a gleam of hope.

Grushenka meanwhile seemed enthusiastic over the “sweet hand.” She raised it deliberately to her lips. But she held it for two or three minutes near her lips, as though reconsidering something.

“Do you know, angel lady,” she suddenly drawled in an even more soft and sugary voice, “do you know, after all, I think I won’t kiss your hand?” And she laughed a little merry laugh.

“As you please. What’s the matter with you?” said Katerina Ivanovna, starting suddenly.

“So that you may be left to remember that you kissed my hand, but I didn’t kiss yours.”

There was a sudden gleam in her eyes. She looked with awful intentness at Katerina Ivanovna.

“Insolent creature!” cried Katerina Ivanovna, as though suddenly grasping something. She flushed all over and leapt up from her seat.

Grushenka too got up, but without haste.

“So I shall tell Mitya how you kissed my hand, but I didn’t kiss yours at all. And how he will laugh!”

“Vile slut! Go away!”

“Ah, for shame, young lady! Ah, for shame! That’s unbecoming for you, dear young lady, a word like that.”

“Go away! You’re a creature for sale!” screamed Katerina Ivanovna. Every feature was working in her utterly distorted face.

“For sale indeed! You used to visit gentlemen in the dusk for money once; you brought your beauty for sale. You see, I know.”

Katerina Ivanovna shrieked, and would have rushed at her, but Alyosha held her with all his strength.

“Not a step, not a word! Don’t speak, don’t answer her. She’ll go away—she’ll go at once.”

At that instant Katerina Ivanovna’s two aunts ran in at her cry, and with them a maid‐servant. All hurried to her.

“I will go away,” said Grushenka, taking up her mantle from the sofa. “Alyosha, darling, see me home!”

“Go away—go away, make haste!” cried Alyosha, clasping his hands imploringly.

“Dear little Alyosha, see me home! I’ve got a pretty little story to tell you on the way. I got up this scene for your benefit, Alyosha. See me home, dear, you’ll be glad of it afterwards.”

Alyosha turned away, wringing his hands. Grushenka ran out of the house, laughing musically.

Katerina Ivanovna went into a fit of hysterics. She sobbed, and was shaken with convulsions. Every one fussed round her.

“I warned you,” said the elder of her aunts. “I tried to prevent your doing this. You’re too impulsive. How could you do such a thing? You don’t know these creatures, and they say she’s worse than any of them. You are too self‐willed.”

“She’s a tigress!” yelled Katerina Ivanovna. “Why did you hold me, Alexey Fyodorovitch? I’d have beaten her—beaten her!”

She could not control herself before Alyosha; perhaps she did not care to, indeed.

“She ought to be flogged in public on a scaffold!”

Alyosha withdrew towards the door.

“But, my God!” cried Katerina Ivanovna, clasping her hands. “He! He! He could be so dishonorable, so inhuman! Why, he told that creature what happened on that fatal, accursed day! ‘You brought your beauty for sale, dear young lady.’ She knows it! Your brother’s a scoundrel, Alexey Fyodorovitch.”

Alyosha wanted to say something, but he couldn’t find a word. His heart ached.

“Go away, Alexey Fyodorovitch! It’s shameful, it’s awful for me! To‐ morrow, I beg you on my knees, come to‐morrow. Don’t condemn me. Forgive me. I don’t know what I shall do with myself now!”

Alyosha walked out into the street reeling. He could have wept as she did. Suddenly he was overtaken by the maid.

“The young lady forgot to give you this letter from Madame Hohlakov; it’s been left with us since dinner‐time.”

Alyosha took the little pink envelope mechanically and put it, almost unconsciously, into his pocket.

Chapter XI.
Another Reputation Ruined
It was not much more than three‐quarters of a mile from the town to the monastery. Alyosha walked quickly along the road, at that hour deserted. It was almost night, and too dark to see anything clearly at thirty paces ahead. There were cross‐roads half‐way. A figure came into sight under a solitary willow at the cross‐roads. As soon as Alyosha reached the cross‐ roads the figure moved out and rushed at him, shouting savagely:

“Your money or your life!”

“So it’s you, Mitya,” cried Alyosha, in surprise, violently startled however.

“Ha ha ha! You didn’t expect me? I wondered where to wait for you. By her house? There are three ways from it, and I might have missed you. At last I thought of waiting here, for you had to pass here, there’s no other way to the monastery. Come, tell me the truth. Crush me like a beetle. But what’s the matter?”

“Nothing, brother—it’s the fright you gave me. Oh, Dmitri! Father’s blood just now.” (Alyosha began to cry, he had been on the verge of tears for a long time, and now something seemed to snap in his soul.) “You almost killed him—cursed him—and now—here—you’re making jokes—‘Your money or your life!’ ”

“Well, what of that? It’s not seemly—is that it? Not suitable in my position?”

“No—I only—”

“Stay. Look at the night. You see what a dark night, what clouds, what a wind has risen. I hid here under the willow waiting for you. And as God’s above, I suddenly thought, why go on in misery any longer, what is there to wait for? Here I have a willow, a handkerchief, a shirt, I can twist them into a rope in a minute, and braces besides, and why go on burdening the earth, dishonoring it with my vile presence? And then I heard you coming—Heavens, it was as though something flew down to me suddenly. So there is a man, then, whom I love. Here he is, that man, my dear little brother, whom I love more than any one in the world, the only one I love in the world. And I loved you so much, so much at that moment that I thought, ‘I’ll fall on his neck at once.’ Then a stupid idea struck me, to have a joke with you and scare you. I shouted, like a fool, ‘Your money!’ Forgive my foolery—it was only nonsense, and there’s nothing unseemly in my soul…. Damn it all, tell me what’s happened. What did she say? Strike me, crush me, don’t spare me! Was she furious?”

“No, not that…. There was nothing like that, Mitya. There—I found them both there.”

“Both? Whom?”

“Grushenka at Katerina Ivanovna’s.”

Dmitri was struck dumb.

“Impossible!” he cried. “You’re raving! Grushenka with her?”

Alyosha described all that had happened from the moment he went in to Katerina Ivanovna’s. He was ten minutes telling his story. He can’t be said to have told it fluently and consecutively, but he seemed to make it clear, not omitting any word or action of significance, and vividly describing, often in one word, his own sensations. Dmitri listened in silence, gazing at him with a terrible fixed stare, but it was clear to Alyosha that he understood it all, and had grasped every point. But as the story went on, his face became not merely gloomy, but menacing. He scowled, he clenched his teeth, and his fixed stare became still more rigid, more concentrated, more terrible, when suddenly, with incredible rapidity, his wrathful, savage face changed, his tightly compressed lips parted, and Dmitri Fyodorovitch broke into uncontrolled, spontaneous laughter. He literally shook with laughter. For a long time he could not speak.

“So she wouldn’t kiss her hand! So she didn’t kiss it; so she ran away!” he kept exclaiming with hysterical delight; insolent delight it might have been called, if it had not been so spontaneous. “So the other one called her tigress! And a tigress she is! So she ought to be flogged on a scaffold? Yes, yes, so she ought. That’s just what I think; she ought to have been long ago. It’s like this, brother, let her be punished, but I must get better first. I understand the queen of impudence. That’s her all over! You saw her all over in that hand‐kissing, the she‐devil! She’s magnificent in her own line! So she ran home? I’ll go—ah—I’ll run to her! Alyosha, don’t blame me, I agree that hanging is too good for her.”

“But Katerina Ivanovna!” exclaimed Alyosha sorrowfully.

“I see her, too! I see right through her, as I’ve never done before! It’s a regular discovery of the four continents of the world, that is, of the five! What a thing to do! That’s just like Katya, who was not afraid to face a coarse, unmannerly officer and risk a deadly insult on a generous impulse to save her father! But the pride, the recklessness, the defiance of fate, the unbounded defiance! You say that aunt tried to stop her? That aunt, you know, is overbearing, herself. She’s the sister of the general’s widow in Moscow, and even more stuck‐up than she. But her husband was caught stealing government money. He lost everything, his estate and all, and the proud wife had to lower her colors, and hasn’t raised them since. So she tried to prevent Katya, but she wouldn’t listen to her! She thinks she can overcome everything, that everything will give way to her. She thought she could bewitch Grushenka if she liked, and she believed it herself: she plays a part to herself, and whose fault is it? Do you think she kissed Grushenka’s hand first, on purpose, with a motive? No, she really was fascinated by Grushenka, that’s to say, not by Grushenka, but by her own dream, her own delusion—because it was her dream, her delusion! Alyosha, darling, how did you escape from them, those women? Did you pick up your cassock and run? Ha ha ha!”

“Brother, you don’t seem to have noticed how you’ve insulted Katerina Ivanovna by telling Grushenka about that day. And she flung it in her face just now that she had gone to gentlemen in secret to sell her beauty! Brother, what could be worse than that insult?”

What worried Alyosha more than anything was that, incredible as it seemed, his brother appeared pleased at Katerina Ivanovna’s humiliation.

“Bah!” Dmitri frowned fiercely, and struck his forehead with his hand. He only now realized it, though Alyosha had just told him of the insult, and Katerina Ivanovna’s cry: “Your brother is a scoundrel!”

“Yes, perhaps, I really did tell Grushenka about that ‘fatal day,’ as Katya calls it. Yes, I did tell her, I remember! It was that time at Mokroe. I was drunk, the gypsies were singing…. But I was sobbing. I was sobbing then, kneeling and praying to Katya’s image, and Grushenka understood it. She understood it all then. I remember, she cried herself…. Damn it all! But it’s bound to be so now…. Then she cried, but now ‘the dagger in the heart’! That’s how women are.”

He looked down and sank into thought.

“Yes, I am a scoundrel, a thorough scoundrel!” he said suddenly, in a gloomy voice. “It doesn’t matter whether I cried or not, I’m a scoundrel! Tell her I accept the name, if that’s any comfort. Come, that’s enough. Good‐by. It’s no use talking! It’s not amusing. You go your way and I mine. And I don’t want to see you again except as a last resource. Good‐ by, Alexey!”

He warmly pressed Alyosha’s hand, and still looking down, without raising his head, as though tearing himself away, turned rapidly towards the town.

Alyosha looked after him, unable to believe he would go away so abruptly.

“Stay, Alexey, one more confession to you alone!” cried Dmitri, suddenly turning back. “Look at me. Look at me well. You see here, here—there’s terrible disgrace in store for me.” (As he said “here,” Dmitri struck his chest with his fist with a strange air, as though the dishonor lay precisely on his chest, in some spot, in a pocket, perhaps, or hanging round his neck.) “You know me now, a scoundrel, an avowed scoundrel, but let me tell you that I’ve never done anything before and never shall again, anything that can compare in baseness with the dishonor which I bear now at this very minute on my breast, here, here, which will come to pass, though I’m perfectly free to stop it. I can stop it or carry it through, note that. Well, let me tell you, I shall carry it through. I shan’t stop it. I told you everything just now, but I didn’t tell you this, because even I had not brass enough for it. I can still pull up; if I do, I can give back the full half of my lost honor to‐morrow. But I shan’t pull up. I shall carry out my base plan, and you can bear witness that I told you so beforehand. Darkness and destruction! No need to explain. You’ll find out in due time. The filthy back‐alley and the she‐ devil. Good‐by. Don’t pray for me, I’m not worth it. And there’s no need, no need at all…. I don’t need it! Away!”

And he suddenly retreated, this time finally. Alyosha went towards the monastery.

“What? I shall never see him again! What is he saying?” he wondered wildly. “Why, I shall certainly see him to‐morrow. I shall look him up. I shall make a point of it. What does he mean?”

He went round the monastery, and crossed the pine‐wood to the hermitage. The door was opened to him, though no one was admitted at that hour. There was a tremor in his heart as he went into Father Zossima’s cell.

“Why, why, had he gone forth? Why had he sent him into the world? Here was peace. Here was holiness. But there was confusion, there was darkness in which one lost one’s way and went astray at once….”

In the cell he found the novice Porfiry and Father Païssy, who came every hour to inquire after Father Zossima. Alyosha learnt with alarm that he was getting worse and worse. Even his usual discourse with the brothers could not take place that day. As a rule every evening after service the monks flocked into Father Zossima’s cell, and all confessed aloud their sins of the day, their sinful thoughts and temptations; even their disputes, if there had been any. Some confessed kneeling. The elder absolved, reconciled, exhorted, imposed penance, blessed, and dismissed them. It was against this general “confession” that the opponents of “elders” protested, maintaining that it was a profanation of the sacrament of confession, almost a sacrilege, though this was quite a different thing. They even represented to the diocesan authorities that such confessions attained no good object, but actually to a large extent led to sin and temptation. Many of the brothers disliked going to the elder, and went against their own will because every one went, and for fear they should be accused of pride and rebellious ideas. People said that some of the monks agreed beforehand, saying, “I’ll confess I lost my temper with you this morning, and you confirm it,” simply in order to have something to say. Alyosha knew that this actually happened sometimes. He knew, too, that there were among the monks some who deeply resented the fact that letters from relations were habitually taken to the elder, to be opened and read by him before those to whom they were addressed.

It was assumed, of course, that all this was done freely, and in good faith, by way of voluntary submission and salutary guidance. But, in fact, there was sometimes no little insincerity, and much that was false and strained in this practice. Yet the older and more experienced of the monks adhered to their opinion, arguing that “for those who have come within these walls sincerely seeking salvation, such obedience and sacrifice will certainly be salutary and of great benefit; those, on the other hand, who find it irksome, and repine, are no true monks, and have made a mistake in entering the monastery—their proper place is in the world. Even in the temple one cannot be safe from sin and the devil. So it was no good taking it too much into account.”

“He is weaker, a drowsiness has come over him,” Father Païssy whispered to Alyosha, as he blessed him. “It’s difficult to rouse him. And he must not be roused. He waked up for five minutes, sent his blessing to the brothers, and begged their prayers for him at night. He intends to take the sacrament again in the morning. He remembered you, Alexey. He asked whether you had gone away, and was told that you were in the town. ‘I blessed him for that work,’ he said, ‘his place is there, not here, for awhile.’ Those were his words about you. He remembered you lovingly, with anxiety; do you understand how he honored you? But how is it that he has decided that you shall spend some time in the world? He must have foreseen something in your destiny! Understand, Alexey, that if you return to the world, it must be to do the duty laid upon you by your elder, and not for frivolous vanity and worldly pleasures.”

Father Païssy went out. Alyosha had no doubt that Father Zossima was dying, though he might live another day or two. Alyosha firmly and ardently resolved that in spite of his promises to his father, the Hohlakovs, and Katerina Ivanovna, he would not leave the monastery next day, but would remain with his elder to the end. His heart glowed with love, and he reproached himself bitterly for having been able for one instant to forget him whom he had left in the monastery on his deathbed, and whom he honored above every one in the world. He went into Father Zossima’s bedroom, knelt down, and bowed to the ground before the elder, who slept quietly without stirring, with regular, hardly audible breathing and a peaceful face.

Alyosha returned to the other room, where Father Zossima had received his guests in the morning. Taking off his boots, he lay down on the hard, narrow, leathern sofa, which he had long used as a bed, bringing nothing but a pillow. The mattress, about which his father had shouted to him that morning, he had long forgotten to lie on. He took off his cassock, which he used as a covering. But before going to bed, he fell on his knees and prayed a long time. In his fervent prayer he did not beseech God to lighten his darkness but only thirsted for the joyous emotion, which always visited his soul after the praise and adoration, of which his evening prayer usually consisted. That joy always brought him light untroubled sleep. As he was praying, he suddenly felt in his pocket the little pink note the servant had handed him as he left Katerina Ivanovna’s. He was disturbed, but finished his prayer. Then, after some hesitation, he opened the envelope. In it was a letter to him, signed by Lise, the young daughter of Madame Hohlakov, who had laughed at him before the elder in the morning.

“Alexey Fyodorovitch,” she wrote, “I am writing to you without any one’s knowledge, even mamma’s, and I know how wrong it is. But I cannot live without telling you the feeling that has sprung up in my heart, and this no one but us two must know for a time. But how am I to say what I want so much to tell you? Paper, they say, does not blush, but I assure you it’s not true and that it’s blushing just as I am now, all over. Dear Alyosha, I love you, I’ve loved you from my childhood, since our Moscow days, when you were very different from what you are now, and I shall love you all my life. My heart has chosen you, to unite our lives, and pass them together till our old age. Of course, on condition that you will leave the monastery. As for our age we will wait for the time fixed by the law. By that time I shall certainly be quite strong, I shall be walking and dancing. There can be no doubt of that.

“You see how I’ve thought of everything. There’s only one thing I can’t imagine: what you’ll think of me when you read this. I’m always laughing and being naughty. I made you angry this morning, but I assure you before I took up my pen, I prayed before the Image of the Mother of God, and now I’m praying, and almost crying.

“My secret is in your hands. When you come to‐morrow, I don’t know how I shall look at you. Ah, Alexey Fyodorovitch, what if I can’t restrain myself like a silly and laugh when I look at you as I did to‐day. You’ll think I’m a nasty girl making fun of you, and you won’t believe my letter. And so I beg you, dear one, if you’ve any pity for me, when you come to‐ morrow, don’t look me straight in the face, for if I meet your eyes, it will be sure to make me laugh, especially as you’ll be in that long gown. I feel cold all over when I think of it, so when you come, don’t look at me at all for a time, look at mamma or at the window….

“Here I’ve written you a love‐letter. Oh, dear, what have I done? Alyosha, don’t despise me, and if I’ve done something very horrid and wounded you, forgive me. Now the secret of my reputation, ruined perhaps for ever, is in your hands.

“I shall certainly cry to‐day. Good‐by till our meeting, our awful meeting.—LISE.

“P.S.—Alyosha! You must, must, must come!—LISE.”

Alyosha read the note in amazement, read it through twice, thought a little, and suddenly laughed a soft, sweet laugh. He started. That laugh seemed to him sinful. But a minute later he laughed again just as softly and happily. He slowly replaced the note in the envelope, crossed himself and lay down. The agitation in his heart passed at once. “God, have mercy upon all of them, have all these unhappy and turbulent souls in Thy keeping, and set them in the right path. All ways are Thine. Save them according to Thy wisdom. Thou art love. Thou wilt send joy to all!” Alyosha murmured, crossing himself, and falling into peaceful sleep.

PART II
Book IV. Lacerations
Chapter I.
Father Ferapont
Alyosha was roused early, before daybreak. Father Zossima woke up feeling very weak, though he wanted to get out of bed and sit up in a chair. His mind was quite clear; his face looked very tired, yet bright and almost joyful. It wore an expression of gayety, kindness and cordiality. “Maybe I shall not live through the coming day,” he said to Alyosha. Then he desired to confess and take the sacrament at once. He always confessed to Father Païssy. After taking the communion, the service of extreme unction followed. The monks assembled and the cell was gradually filled up by the inmates of the hermitage. Meantime it was daylight. People began coming from the monastery. After the service was over the elder desired to kiss and take leave of every one. As the cell was so small the earlier visitors withdrew to make room for others. Alyosha stood beside the elder, who was seated again in his arm‐chair. He talked as much as he could. Though his voice was weak, it was fairly steady.

“I’ve been teaching you so many years, and therefore I’ve been talking aloud so many years, that I’ve got into the habit of talking, and so much so that it’s almost more difficult for me to hold my tongue than to talk, even now, in spite of my weakness, dear Fathers and brothers,” he jested, looking with emotion at the group round him.

Alyosha remembered afterwards something of what he said to them. But though he spoke out distinctly and his voice was fairly steady, his speech was somewhat disconnected. He spoke of many things, he seemed anxious before the moment of death to say everything he had not said in his life, and not simply for the sake of instructing them, but as though thirsting to share with all men and all creation his joy and ecstasy, and once more in his life to open his whole heart.

“Love one another, Fathers,” said Father Zossima, as far as Alyosha could remember afterwards. “Love God’s people. Because we have come here and shut ourselves within these walls, we are no holier than those that are outside, but on the contrary, from the very fact of coming here, each of us has confessed to himself that he is worse than others, than all men on earth…. And the longer the monk lives in his seclusion, the more keenly he must recognize that. Else he would have had no reason to come here. When he realizes that he is not only worse than others, but that he is responsible to all men for all and everything, for all human sins, national and individual, only then the aim of our seclusion is attained. For know, dear ones, that every one of us is undoubtedly responsible for all men and everything on earth, not merely through the general sinfulness of creation, but each one personally for all mankind and every individual man. This knowledge is the crown of life for the monk and for every man. For monks are not a special sort of men, but only what all men ought to be. Only through that knowledge, our heart grows soft with infinite, universal, inexhaustible love. Then every one of you will have the power to win over the whole world by love and to wash away the sins of the world with your tears…. Each of you keep watch over your heart and confess your sins to yourself unceasingly. Be not afraid of your sins, even when perceiving them, if only there be penitence, but make no conditions with God. Again I say, Be not proud. Be proud neither to the little nor to the great. Hate not those who reject you, who insult you, who abuse and slander you. Hate not the atheists, the teachers of evil, the materialists—and I mean not only the good ones—for there are many good ones among them, especially in our day—hate not even the wicked ones. Remember them in your prayers thus: Save, O Lord, all those who have none to pray for them, save too all those who will not pray. And add: it is not in pride that I make this prayer, O Lord, for I am lower than all men…. Love God’s people, let not strangers draw away the flock, for if you slumber in your slothfulness and disdainful pride, or worse still, in covetousness, they will come from all sides and draw away your flock. Expound the Gospel to the people unceasingly … be not extortionate…. Do not love gold and silver, do not hoard them…. Have faith. Cling to the banner and raise it on high.”

But the elder spoke more disconnectedly than Alyosha reported his words afterwards. Sometimes he broke off altogether, as though to take breath, and recover his strength, but he was in a sort of ecstasy. They heard him with emotion, though many wondered at his words and found them obscure…. Afterwards all remembered those words.

When Alyosha happened for a moment to leave the cell, he was struck by the general excitement and suspense in the monks who were crowding about it. This anticipation showed itself in some by anxiety, in others by devout solemnity. All were expecting that some marvel would happen immediately after the elder’s death. Their suspense was, from one point of view, almost frivolous, but even the most austere of the monks were affected by it. Father Païssy’s face looked the gravest of all.

Alyosha was mysteriously summoned by a monk to see Rakitin, who had arrived from town with a singular letter for him from Madame Hohlakov. In it she informed Alyosha of a strange and very opportune incident. It appeared that among the women who had come on the previous day to receive Father Zossima’s blessing, there had been an old woman from the town, a sergeant’s widow, called Prohorovna. She had inquired whether she might pray for the rest of the soul of her son, Vassenka, who had gone to Irkutsk, and had sent her no news for over a year. To which Father Zossima had answered sternly, forbidding her to do so, and saying that to pray for the living as though they were dead was a kind of sorcery. He afterwards forgave her on account of her ignorance, and added, “as though reading the book of the future” (this was Madame Hohlakov’s expression), words of comfort: “that her son Vassya was certainly alive and he would either come himself very shortly or send a letter, and that she was to go home and expect him.” And “Would you believe it?” exclaimed Madame Hohlakov enthusiastically, “the prophecy has been fulfilled literally indeed, and more than that.” Scarcely had the old woman reached home when they gave her a letter from Siberia which had been awaiting her. But that was not all; in the letter written on the road from Ekaterinenburg, Vassya informed his mother that he was returning to Russia with an official, and that three weeks after her receiving the letter he hoped “to embrace his mother.”

Madame Hohlakov warmly entreated Alyosha to report this new “miracle of prediction” to the Superior and all the brotherhood. “All, all, ought to know of it!” she concluded. The letter had been written in haste, the excitement of the writer was apparent in every line of it. But Alyosha had no need to tell the monks, for all knew of it already. Rakitin had commissioned the monk who brought his message “to inform most respectfully his reverence Father Païssy, that he, Rakitin, has a matter to speak of with him, of such gravity that he dare not defer it for a moment, and humbly begs forgiveness for his presumption.” As the monk had given the message to Father Païssy before that to Alyosha, the latter found after reading the letter, there was nothing left for him to do but to hand it to Father Païssy in confirmation of the story.

And even that austere and cautious man, though he frowned as he read the news of the “miracle,” could not completely restrain some inner emotion. His eyes gleamed, and a grave and solemn smile came into his lips.

“We shall see greater things!” broke from him.

“We shall see greater things, greater things yet!” the monks around repeated.

But Father Païssy, frowning again, begged all of them, at least for a time, not to speak of the matter “till it be more fully confirmed, seeing there is so much credulity among those of this world, and indeed this might well have chanced naturally,” he added, prudently, as it were to satisfy his conscience, though scarcely believing his own disavowal, a fact his listeners very clearly perceived.

Within the hour the “miracle” was of course known to the whole monastery, and many visitors who had come for the mass. No one seemed more impressed by it than the monk who had come the day before from St. Sylvester, from the little monastery of Obdorsk in the far North. It was he who had been standing near Madame Hohlakov the previous day and had asked Father Zossima earnestly, referring to the “healing” of the lady’s daughter, “How can you presume to do such things?”

He was now somewhat puzzled and did not know whom to believe. The evening before he had visited Father Ferapont in his cell apart, behind the apiary, and had been greatly impressed and overawed by the visit. This Father Ferapont was that aged monk so devout in fasting and observing silence who has been mentioned already, as antagonistic to Father Zossima and the whole institution of “elders,” which he regarded as a pernicious and frivolous innovation. He was a very formidable opponent, although from his practice of silence he scarcely spoke a word to any one. What made him formidable was that a number of monks fully shared his feeling, and many of the visitors looked upon him as a great saint and ascetic, although they had no doubt that he was crazy. But it was just his craziness attracted them.

Father Ferapont never went to see the elder. Though he lived in the hermitage they did not worry him to keep its regulations, and this too because he behaved as though he were crazy. He was seventy‐five or more, and he lived in a corner beyond the apiary in an old decaying wooden cell which had been built long ago for another great ascetic, Father Iona, who had lived to be a hundred and five, and of whose saintly doings many curious stories were still extant in the monastery and the neighborhood.

Father Ferapont had succeeded in getting himself installed in this same solitary cell seven years previously. It was simply a peasant’s hut, though it looked like a chapel, for it contained an extraordinary number of ikons with lamps perpetually burning before them—which men brought to the monastery as offerings to God. Father Ferapont had been appointed to look after them and keep the lamps burning. It was said (and indeed it was true) that he ate only two pounds of bread in three days. The beekeeper, who lived close by the apiary, used to bring him the bread every three days, and even to this man who waited upon him, Father Ferapont rarely uttered a word. The four pounds of bread, together with the sacrament bread, regularly sent him on Sundays after the late mass by the Father Superior, made up his weekly rations. The water in his jug was changed every day. He rarely appeared at mass. Visitors who came to do him homage saw him sometimes kneeling all day long at prayer without looking round. If he addressed them, he was brief, abrupt, strange, and almost always rude. On very rare occasions, however, he would talk to visitors, but for the most part he would utter some one strange saying which was a complete riddle, and no entreaties would induce him to pronounce a word in explanation. He was not a priest, but a simple monk. There was a strange belief, chiefly however among the most ignorant, that Father Ferapont had communication with heavenly spirits and would only converse with them, and so was silent with men.

The monk from Obdorsk, having been directed to the apiary by the beekeeper, who was also a very silent and surly monk, went to the corner where Father Ferapont’s cell stood. “Maybe he will speak as you are a stranger and maybe you’ll get nothing out of him,” the beekeeper had warned him. The monk, as he related afterwards, approached in the utmost apprehension. It was rather late in the evening. Father Ferapont was sitting at the door of his cell on a low bench. A huge old elm was lightly rustling overhead. There was an evening freshness in the air. The monk from Obdorsk bowed down before the saint and asked his blessing.

“Do you want me to bow down to you, monk?” said Father Ferapont. “Get up!”

The monk got up.

“Blessing, be blessed! Sit beside me. Where have you come from?”

What most struck the poor monk was the fact that in spite of his strict fasting and great age, Father Ferapont still looked a vigorous old man. He was tall, held himself erect, and had a thin, but fresh and healthy face. There was no doubt he still had considerable strength. He was of athletic build. In spite of his great age he was not even quite gray, and still had very thick hair and a full beard, both of which had once been black. His eyes were gray, large and luminous, but strikingly prominent. He spoke with a broad accent. He was dressed in a peasant’s long reddish coat of coarse convict cloth (as it used to be called) and had a stout rope round his waist. His throat and chest were bare. Beneath his coat, his shirt of the coarsest linen showed almost black with dirt, not having been changed for months. They said that he wore irons weighing thirty pounds under his coat. His stockingless feet were thrust in old slippers almost dropping to pieces.

“From the little Obdorsk monastery, from St. Sylvester,” the monk answered humbly, whilst his keen and inquisitive, but rather frightened little eyes kept watch on the hermit.

“I have been at your Sylvester’s. I used to stay there. Is Sylvester well?”

The monk hesitated.

“You are a senseless lot! How do you keep the fasts?”

“Our dietary is according to the ancient conventual rules. During Lent there are no meals provided for Monday, Wednesday, and Friday. For Tuesday and Thursday we have white bread, stewed fruit with honey, wild berries, or salt cabbage and wholemeal stirabout. On Saturday white cabbage soup, noodles with peas, kasha, all with hemp oil. On weekdays we have dried fish and kasha with the cabbage soup. From Monday till Saturday evening, six whole days in Holy Week, nothing is cooked, and we have only bread and water, and that sparingly; if possible not taking food every day, just the same as is ordered for first week in Lent. On Good Friday nothing is eaten. In the same way on the Saturday we have to fast till three o’clock, and then take a little bread and water and drink a single cup of wine. On Holy Thursday we drink wine and have something cooked without oil or not cooked at all, inasmuch as the Laodicean council lays down for Holy Thursday: ‘It is unseemly by remitting the fast on the Holy Thursday to dishonor the whole of Lent!’ This is how we keep the fast. But what is that compared with you, holy Father,” added the monk, growing more confident, “for all the year round, even at Easter, you take nothing but bread and water, and what we should eat in two days lasts you full seven. It’s truly marvelous—your great abstinence.”

“And mushrooms?” asked Father Ferapont, suddenly.

“Mushrooms?” repeated the surprised monk.

“Yes. I can give up their bread, not needing it at all, and go away into the forest and live there on the mushrooms or the berries, but they can’t give up their bread here, wherefore they are in bondage to the devil. Nowadays the unclean deny that there is need of such fasting. Haughty and unclean is their judgment.”

“Och, true,” sighed the monk.

“And have you seen devils among them?” asked Ferapont.

“Among them? Among whom?” asked the monk, timidly.

“I went to the Father Superior on Trinity Sunday last year, I haven’t been since. I saw a devil sitting on one man’s chest hiding under his cassock, only his horns poked out; another had one peeping out of his pocket with such sharp eyes, he was afraid of me; another settled in the unclean belly of one, another was hanging round a man’s neck, and so he was carrying him about without seeing him.”

“You—can see spirits?” the monk inquired.

“I tell you I can see, I can see through them. When I was coming out from the Superior’s I saw one hiding from me behind the door, and a big one, a yard and a half or more high, with a thick long gray tail, and the tip of his tail was in the crack of the door and I was quick and slammed the door, pinching his tail in it. He squealed and began to struggle, and I made the sign of the cross over him three times. And he died on the spot like a crushed spider. He must have rotted there in the corner and be stinking, but they don’t see, they don’t smell it. It’s a year since I have been there. I reveal it to you, as you are a stranger.”

“Your words are terrible! But, holy and blessed Father,” said the monk, growing bolder and bolder, “is it true, as they noise abroad even to distant lands about you, that you are in continual communication with the Holy Ghost?”

“He does fly down at times.”

“How does he fly down? In what form?”

“As a bird.”

“The Holy Ghost in the form of a dove?”

“There’s the Holy Ghost and there’s the Holy Spirit. The Holy Spirit can appear as other birds—sometimes as a swallow, sometimes a goldfinch and sometimes as a blue‐tit.”

“How do you know him from an ordinary tit?”

“He speaks.”

“How does he speak, in what language?”

“Human language.”

“And what does he tell you?”

“Why, to‐day he told me that a fool would visit me and would ask me unseemly questions. You want to know too much, monk.”

“Terrible are your words, most holy and blessed Father,” the monk shook his head. But there was a doubtful look in his frightened little eyes.

“Do you see this tree?” asked Father Ferapont, after a pause.

“I do, blessed Father.”

“You think it’s an elm, but for me it has another shape.”

“What sort of shape?” inquired the monk, after a pause of vain expectation.

“It happens at night. You see those two branches? In the night it is Christ holding out His arms to me and seeking me with those arms, I see it clearly and tremble. It’s terrible, terrible!”

“What is there terrible if it’s Christ Himself?”

“Why, He’ll snatch me up and carry me away.”

“Alive?”

“In the spirit and glory of Elijah, haven’t you heard? He will take me in His arms and bear me away.”

Though the monk returned to the cell he was sharing with one of the brothers, in considerable perplexity of mind, he still cherished at heart a greater reverence for Father Ferapont than for Father Zossima. He was strongly in favor of fasting, and it was not strange that one who kept so rigid a fast as Father Ferapont should “see marvels.” His words seemed certainly queer, but God only could tell what was hidden in those words, and were not worse words and acts commonly seen in those who have sacrificed their intellects for the glory of God? The pinching of the devil’s tail he was ready and eager to believe, and not only in the figurative sense. Besides he had, before visiting the monastery, a strong prejudice against the institution of “elders,” which he only knew of by hearsay and believed to be a pernicious innovation. Before he had been long at the monastery, he had detected the secret murmurings of some shallow brothers who disliked the institution. He was, besides, a meddlesome, inquisitive man, who poked his nose into everything. This was why the news of the fresh “miracle” performed by Father Zossima reduced him to extreme perplexity. Alyosha remembered afterwards how their inquisitive guest from Obdorsk had been continually flitting to and fro from one group to another, listening and asking questions among the monks that were crowding within and without the elder’s cell. But he did not pay much attention to him at the time, and only recollected it afterwards.

He had no thought to spare for it indeed, for when Father Zossima, feeling tired again, had gone back to bed, he thought of Alyosha as he was closing his eyes, and sent for him. Alyosha ran at once. There was no one else in the cell but Father Païssy, Father Iosif, and the novice Porfiry. The elder, opening his weary eyes and looking intently at Alyosha, asked him suddenly:

“Are your people expecting you, my son?”

Alyosha hesitated.

“Haven’t they need of you? Didn’t you promise some one yesterday to see them to‐day?”

“I did promise—to my father—my brothers—others too.”

“You see, you must go. Don’t grieve. Be sure I shall not die without your being by to hear my last word. To you I will say that word, my son, it will be my last gift to you. To you, dear son, because you love me. But now go to keep your promise.”

Alyosha immediately obeyed, though it was hard to go. But the promise that he should hear his last word on earth, that it should be the last gift to him, Alyosha, sent a thrill of rapture through his soul. He made haste that he might finish what he had to do in the town and return quickly. Father Païssy, too, uttered some words of exhortation which moved and surprised him greatly. He spoke as they left the cell together.

“Remember, young man, unceasingly,” Father Païssy began, without preface, “that the science of this world, which has become a great power, has, especially in the last century, analyzed everything divine handed down to us in the holy books. After this cruel analysis the learned of this world have nothing left of all that was sacred of old. But they have only analyzed the parts and overlooked the whole, and indeed their blindness is marvelous. Yet the whole still stands steadfast before their eyes, and the gates of hell shall not prevail against it. Has it not lasted nineteen centuries, is it not still a living, a moving power in the individual soul and in the masses of people? It is still as strong and living even in the souls of atheists, who have destroyed everything! For even those who have renounced Christianity and attack it, in their inmost being still follow the Christian ideal, for hitherto neither their subtlety nor the ardor of their hearts has been able to create a higher ideal of man and of virtue than the ideal given by Christ of old. When it has been attempted, the result has been only grotesque. Remember this especially, young man, since you are being sent into the world by your departing elder. Maybe, remembering this great day, you will not forget my words, uttered from the heart for your guidance, seeing you are young, and the temptations of the world are great and beyond your strength to endure. Well, now go, my orphan.”

With these words Father Païssy blessed him. As Alyosha left the monastery and thought them over, he suddenly realized that he had met a new and unexpected friend, a warmly loving teacher, in this austere monk who had hitherto treated him sternly. It was as though Father Zossima had bequeathed him to him at his death, and “perhaps that’s just what had passed between them,” Alyosha thought suddenly. The philosophic reflections he had just heard so unexpectedly testified to the warmth of Father Païssy’s heart. He was in haste to arm the boy’s mind for conflict with temptation and to guard the young soul left in his charge with the strongest defense he could imagine.

Chapter II.
At His Father’s
First of all, Alyosha went to his father. On the way he remembered that his father had insisted the day before that he should come without his brother Ivan seeing him. “Why so?” Alyosha wondered suddenly. “Even if my father has something to say to me alone, why should I go in unseen? Most likely in his excitement yesterday he meant to say something different,” he decided. Yet he was very glad when Marfa Ignatyevna, who opened the garden gate to him (Grigory, it appeared, was ill in bed in the lodge), told him in answer to his question that Ivan Fyodorovitch had gone out two hours ago.

“And my father?”

“He is up, taking his coffee,” Marfa answered somewhat dryly.

Alyosha went in. The old man was sitting alone at the table wearing slippers and a little old overcoat. He was amusing himself by looking through some accounts, rather inattentively however. He was quite alone in the house, for Smerdyakov too had gone out marketing. Though he had got up early and was trying to put a bold face on it, he looked tired and weak. His forehead, upon which huge purple bruises had come out during the night, was bandaged with a red handkerchief; his nose too had swollen terribly in the night, and some smaller bruises covered it in patches, giving his whole face a peculiarly spiteful and irritable look. The old man was aware of this, and turned a hostile glance on Alyosha as he came in.

“The coffee is cold,” he cried harshly; “I won’t offer you any. I’ve ordered nothing but a Lenten fish soup to‐day, and I don’t invite any one to share it. Why have you come?”

“To find out how you are,” said Alyosha.

“Yes. Besides, I told you to come yesterday. It’s all of no consequence. You need not have troubled. But I knew you’d come poking in directly.”

He said this with almost hostile feeling. At the same time he got up and looked anxiously in the looking‐glass (perhaps for the fortieth time that morning) at his nose. He began, too, binding his red handkerchief more becomingly on his forehead.

“Red’s better. It’s just like the hospital in a white one,” he observed sententiously. “Well, how are things over there? How is your elder?”

“He is very bad; he may die to‐day,” answered Alyosha. But his father had not listened, and had forgotten his own question at once.

“Ivan’s gone out,” he said suddenly. “He is doing his utmost to carry off Mitya’s betrothed. That’s what he is staying here for,” he added maliciously, and, twisting his mouth, looked at Alyosha.

“Surely he did not tell you so?” asked Alyosha.

“Yes, he did, long ago. Would you believe it, he told me three weeks ago? You don’t suppose he too came to murder me, do you? He must have had some object in coming.”

“What do you mean? Why do you say such things?” said Alyosha, troubled.

“He doesn’t ask for money, it’s true, but yet he won’t get a farthing from me. I intend living as long as possible, you may as well know, my dear Alexey Fyodorovitch, and so I need every farthing, and the longer I live, the more I shall need it,” he continued, pacing from one corner of the room to the other, keeping his hands in the pockets of his loose greasy overcoat made of yellow cotton material. “I can still pass for a man at five and fifty, but I want to pass for one for another twenty years. As I get older, you know, I shan’t be a pretty object. The wenches won’t come to me of their own accord, so I shall want my money. So I am saving up more and more, simply for myself, my dear son Alexey Fyodorovitch. You may as well know. For I mean to go on in my sins to the end, let me tell you. For sin is sweet; all abuse it, but all men live in it, only others do it on the sly, and I openly. And so all the other sinners fall upon me for being so simple. And your paradise, Alexey Fyodorovitch, is not to my taste, let me tell you that; and it’s not the proper place for a gentleman, your paradise, even if it exists. I believe that I fall asleep and don’t wake up again, and that’s all. You can pray for my soul if you like. And if you don’t want to, don’t, damn you! That’s my philosophy. Ivan talked well here yesterday, though we were all drunk. Ivan is a conceited coxcomb, but he has no particular learning … nor education either. He sits silent and smiles at one without speaking—that’s what pulls him through.”

Alyosha listened to him in silence.

“Why won’t he talk to me? If he does speak, he gives himself airs. Your Ivan is a scoundrel! And I’ll marry Grushenka in a minute if I want to. For if you’ve money, Alexey Fyodorovitch, you have only to want a thing and you can have it. That’s what Ivan is afraid of, he is on the watch to prevent me getting married and that’s why he is egging on Mitya to marry Grushenka himself. He hopes to keep me from Grushenka by that (as though I should leave him my money if I don’t marry her!). Besides if Mitya marries Grushenka, Ivan will carry off his rich betrothed, that’s what he’s reckoning on! He is a scoundrel, your Ivan!”

“How cross you are! It’s because of yesterday; you had better lie down,” said Alyosha.

“There! you say that,” the old man observed suddenly, as though it had struck him for the first time, “and I am not angry with you. But if Ivan said it, I should be angry with him. It is only with you I have good moments, else you know I am an ill‐natured man.”

“You are not ill‐natured, but distorted,” said Alyosha with a smile.

“Listen. I meant this morning to get that ruffian Mitya locked up and I don’t know now what I shall decide about it. Of course in these fashionable days fathers and mothers are looked upon as a prejudice, but even now the law does not allow you to drag your old father about by the hair, to kick him in the face in his own house, and brag of murdering him outright—all in the presence of witnesses. If I liked, I could crush him and could have him locked up at once for what he did yesterday.”

“Then you don’t mean to take proceedings?”

“Ivan has dissuaded me. I shouldn’t care about Ivan, but there’s another thing.”

And bending down to Alyosha, he went on in a confidential half‐whisper.

“If I send the ruffian to prison, she’ll hear of it and run to see him at once. But if she hears that he has beaten me, a weak old man, within an inch of my life, she may give him up and come to me…. For that’s her way, everything by contraries. I know her through and through! Won’t you have a drop of brandy? Take some cold coffee and I’ll pour a quarter of a glass of brandy into it, it’s delicious, my boy.”

“No, thank you. I’ll take that roll with me if I may,” said Alyosha, and taking a halfpenny French roll he put it in the pocket of his cassock. “And you’d better not have brandy, either,” he suggested apprehensively, looking into the old man’s face.

“You are quite right, it irritates my nerves instead of soothing them. Only one little glass. I’ll get it out of the cupboard.”

He unlocked the cupboard, poured out a glass, drank it, then locked the cupboard and put the key back in his pocket.

“That’s enough. One glass won’t kill me.”

“You see you are in a better humor now,” said Alyosha, smiling.

“Um! I love you even without the brandy, but with scoundrels I am a scoundrel. Ivan is not going to Tchermashnya—why is that? He wants to spy how much I give Grushenka if she comes. They are all scoundrels! But I don’t recognize Ivan, I don’t know him at all. Where does he come from? He is not one of us in soul. As though I’d leave him anything! I shan’t leave a will at all, you may as well know. And I’ll crush Mitya like a beetle. I squash black‐beetles at night with my slipper; they squelch when you tread on them. And your Mitya will squelch too. Your Mitya, for you love him. Yes, you love him and I am not afraid of your loving him. But if Ivan loved him I should be afraid for myself at his loving him. But Ivan loves nobody. Ivan is not one of us. People like Ivan are not our sort, my boy. They are like a cloud of dust. When the wind blows, the dust will be gone…. I had a silly idea in my head when I told you to come to‐day; I wanted to find out from you about Mitya. If I were to hand him over a thousand or maybe two now, would the beggarly wretch agree to take himself off altogether for five years or, better still, thirty‐five, and without Grushenka, and give her up once for all, eh?”

“I—I’ll ask him,” muttered Alyosha. “If you would give him three thousand, perhaps he—”

“That’s nonsense! You needn’t ask him now, no need! I’ve changed my mind. It was a nonsensical idea of mine. I won’t give him anything, not a penny, I want my money myself,” cried the old man, waving his hand. “I’ll crush him like a beetle without it. Don’t say anything to him or else he will begin hoping. There’s nothing for you to do here, you needn’t stay. Is that betrothed of his, Katerina Ivanovna, whom he has kept so carefully hidden from me all this time, going to marry him or not? You went to see her yesterday, I believe?”

“Nothing will induce her to abandon him.”

“There you see how dearly these fine young ladies love a rake and a scoundrel. They are poor creatures I tell you, those pale young ladies, very different from—Ah, if I had his youth and the looks I had then (for I was better‐looking than he at eight and twenty) I’d have been a conquering hero just as he is. He is a low cad! But he shan’t have Grushenka, anyway, he shan’t! I’ll crush him!”

His anger had returned with the last words.

“You can go. There’s nothing for you to do here to‐day,” he snapped harshly.

Alyosha went up to say good‐by to him, and kissed him on the shoulder.

“What’s that for?” The old man was a little surprised. “We shall see each other again, or do you think we shan’t?”

“Not at all, I didn’t mean anything.”

“Nor did I, I did not mean anything,” said the old man, looking at him. “Listen, listen,” he shouted after him, “make haste and come again and I’ll have a fish soup for you, a fine one, not like to‐day. Be sure to come! Come to‐morrow, do you hear, to‐morrow!”

And as soon as Alyosha had gone out of the door, he went to the cupboard again and poured out another half‐glass.

“I won’t have more!” he muttered, clearing his throat, and again he locked the cupboard and put the key in his pocket. Then he went into his bedroom, lay down on the bed, exhausted, and in one minute he was asleep.

Chapter III.
A Meeting With The Schoolboys
“Thank goodness he did not ask me about Grushenka,” thought Alyosha, as he left his father’s house and turned towards Madame Hohlakov’s, “or I might have to tell him of my meeting with Grushenka yesterday.”

Alyosha felt painfully that since yesterday both combatants had renewed their energies, and that their hearts had grown hard again. “Father is spiteful and angry, he’s made some plan and will stick to it. And what of Dmitri? He too will be harder than yesterday, he too must be spiteful and angry, and he too, no doubt, has made some plan. Oh, I must succeed in finding him to‐day, whatever happens.”

But Alyosha had not long to meditate. An incident occurred on the road, which, though apparently of little consequence, made a great impression on him. Just after he had crossed the square and turned the corner coming out into Mihailovsky Street, which is divided by a small ditch from the High Street (our whole town is intersected by ditches), he saw a group of schoolboys between the ages of nine and twelve, at the bridge. They were going home from school, some with their bags on their shoulders, others with leather satchels slung across them, some in short jackets, others in little overcoats. Some even had those high boots with creases round the ankles, such as little boys spoilt by rich fathers love to wear. The whole group was talking eagerly about something, apparently holding a council. Alyosha had never from his Moscow days been able to pass children without taking notice of them, and although he was particularly fond of children of three or thereabout, he liked schoolboys of ten and eleven too. And so, anxious as he was to‐day, he wanted at once to turn aside to talk to them. He looked into their excited rosy faces, and noticed at once that all the boys had stones in their hands. Behind the ditch some thirty paces away, there was another schoolboy standing by a fence. He too had a satchel at his side. He was about ten years old, pale, delicate‐looking and with sparkling black eyes. He kept an attentive and anxious watch on the other six, obviously his schoolfellows with whom he had just come out of school, but with whom he had evidently had a feud.

Alyosha went up and, addressing a fair, curly‐headed, rosy boy in a black jacket, observed:

“When I used to wear a satchel like yours, I always used to carry it on my left side, so as to have my right hand free, but you’ve got yours on your right side. So it will be awkward for you to get at it.”

Alyosha had no art or premeditation in beginning with this practical remark. But it is the only way for a grown‐up person to get at once into confidential relations with a child, or still more with a group of children. One must begin in a serious, businesslike way so as to be on a perfectly equal footing. Alyosha understood it by instinct.

“But he is left‐handed,” another, a fine healthy‐looking boy of eleven, answered promptly. All the others stared at Alyosha.

“He even throws stones with his left hand,” observed a third.

At that instant a stone flew into the group, but only just grazed the left‐handed boy, though it was well and vigorously thrown by the boy standing the other side of the ditch.

“Give it him, hit him back, Smurov,” they all shouted. But Smurov, the left‐handed boy, needed no telling, and at once revenged himself; he threw a stone, but it missed the boy and hit the ground. The boy the other side of the ditch, the pocket of whose coat was visibly bulging with stones, flung another stone at the group; this time it flew straight at Alyosha and hit him painfully on the shoulder.

“He aimed it at you, he meant it for you. You are Karamazov, Karamazov!” the boys shouted, laughing. “Come, all throw at him at once!” and six stones flew at the boy. One struck the boy on the head and he fell down, but at once leapt up and began ferociously returning their fire. Both sides threw stones incessantly. Many of the group had their pockets full too.

“What are you about! Aren’t you ashamed? Six against one! Why, you’ll kill him,” cried Alyosha.

He ran forward and met the flying stones to screen the solitary boy. Three or four ceased throwing for a minute.

“He began first!” cried a boy in a red shirt in an angry childish voice. “He is a beast, he stabbed Krassotkin in class the other day with a penknife. It bled. Krassotkin wouldn’t tell tales, but he must be thrashed.”

“But what for? I suppose you tease him.”

“There, he sent a stone in your back again, he knows you,” cried the children. “It’s you he is throwing at now, not us. Come, all of you, at him again, don’t miss, Smurov!” and again a fire of stones, and a very vicious one, began. The boy the other side of the ditch was hit in the chest; he screamed, began to cry and ran away uphill towards Mihailovsky Street. They all shouted: “Aha, he is funking, he is running away. Wisp of tow!”

“You don’t know what a beast he is, Karamazov, killing is too good for him,” said the boy in the jacket, with flashing eyes. He seemed to be the eldest.

“What’s wrong with him?” asked Alyosha, “is he a tell‐tale or what?”

The boys looked at one another as though derisively.

“Are you going that way, to Mihailovsky?” the same boy went on. “Catch him up…. You see he’s stopped again, he is waiting and looking at you.”

“He is looking at you,” the other boys chimed in.

“You ask him, does he like a disheveled wisp of tow. Do you hear, ask him that!”

There was a general burst of laughter. Alyosha looked at them, and they at him.

“Don’t go near him, he’ll hurt you,” cried Smurov in a warning voice.

“I shan’t ask him about the wisp of tow, for I expect you tease him with that question somehow. But I’ll find out from him why you hate him so.”

“Find out then, find out,” cried the boys, laughing.

Alyosha crossed the bridge and walked uphill by the fence, straight towards the boy.

“You’d better look out,” the boys called after him; “he won’t be afraid of you. He will stab you in a minute, on the sly, as he did Krassotkin.”

The boy waited for him without budging. Coming up to him, Alyosha saw facing him a child of about nine years old. He was an undersized weakly boy with a thin pale face, with large dark eyes that gazed at him vindictively. He was dressed in a rather shabby old overcoat, which he had monstrously outgrown. His bare arms stuck out beyond his sleeves. There was a large patch on the right knee of his trousers, and in his right boot just at the toe there was a big hole in the leather, carefully blackened with ink. Both the pockets of his great‐coat were weighed down with stones. Alyosha stopped two steps in front of him, looking inquiringly at him. The boy, seeing at once from Alyosha’s eyes that he wouldn’t beat him, became less defiant, and addressed him first.

“I am alone, and there are six of them. I’ll beat them all, alone!” he said suddenly, with flashing eyes.

“I think one of the stones must have hurt you badly,” observed Alyosha.

“But I hit Smurov on the head!” cried the boy.

“They told me that you know me, and that you threw a stone at me on purpose,” said Alyosha.

The boy looked darkly at him.

“I don’t know you. Do you know me?” Alyosha continued.

“Let me alone!” the boy cried irritably; but he did not move, as though he were expecting something, and again there was a vindictive light in his eyes.

“Very well, I am going,” said Alyosha; “only I don’t know you and I don’t tease you. They told me how they tease you, but I don’t want to tease you. Good‐by!”

“Monk in silk trousers!” cried the boy, following Alyosha with the same vindictive and defiant expression, and he threw himself into an attitude of defense, feeling sure that now Alyosha would fall upon him; but Alyosha turned, looked at him, and walked away. He had not gone three steps before the biggest stone the boy had in his pocket hit him a painful blow in the back.

“So you’ll hit a man from behind! They tell the truth, then, when they say that you attack on the sly,” said Alyosha, turning round again. This time the boy threw a stone savagely right into Alyosha’s face; but Alyosha just had time to guard himself, and the stone struck him on the elbow.

“Aren’t you ashamed? What have I done to you?” he cried.

The boy waited in silent defiance, certain that now Alyosha would attack him. Seeing that even now he would not, his rage was like a little wild beast’s; he flew at Alyosha himself, and before Alyosha had time to move, the spiteful child had seized his left hand with both of his and bit his middle finger. He fixed his teeth in it and it was ten seconds before he let go. Alyosha cried out with pain and pulled his finger away with all his might. The child let go at last and retreated to his former distance. Alyosha’s finger had been badly bitten to the bone, close to the nail; it began to bleed. Alyosha took out his handkerchief and bound it tightly round his injured hand. He was a full minute bandaging it. The boy stood waiting all the time. At last Alyosha raised his gentle eyes and looked at him.

“Very well,” he said, “you see how badly you’ve bitten me. That’s enough, isn’t it? Now tell me, what have I done to you?”

The boy stared in amazement.

“Though I don’t know you and it’s the first time I’ve seen you,” Alyosha went on with the same serenity, “yet I must have done something to you—you wouldn’t have hurt me like this for nothing. So what have I done? How have I wronged you, tell me?”

Instead of answering, the boy broke into a loud tearful wail and ran away. Alyosha walked slowly after him towards Mihailovsky Street, and for a long time he saw the child running in the distance as fast as ever, not turning his head, and no doubt still keeping up his tearful wail. He made up his mind to find him out as soon as he had time, and to solve this mystery. Just now he had not the time.

Chapter IV.
At The Hohlakovs’
Alyosha soon reached Madame Hohlakov’s house, a handsome stone house of two stories, one of the finest in our town. Though Madame Hohlakov spent most of her time in another province where she had an estate, or in Moscow, where she had a house of her own, yet she had a house in our town too, inherited from her forefathers. The estate in our district was the largest of her three estates, yet she had been very little in our province before this time. She ran out to Alyosha in the hall.

“Did you get my letter about the new miracle?” She spoke rapidly and nervously.

“Yes.”

“Did you show it to every one? He restored the son to his mother!”

“He is dying to‐day,” said Alyosha.

“I have heard, I know, oh, how I long to talk to you, to you or some one, about all this. No, to you, to you! And how sorry I am I can’t see him! The whole town is in excitement, they are all suspense. But now—do you know Katerina Ivanovna is here now?”

“Ah, that’s lucky,” cried Alyosha. “Then I shall see her here. She told me yesterday to be sure to come and see her to‐day.”

“I know, I know all. I’ve heard exactly what happened yesterday—and the atrocious behavior of that—creature. C’est tragique, and if I’d been in her place I don’t know what I should have done. And your brother Dmitri Fyodorovitch, what do you think of him?—my goodness! Alexey Fyodorovitch, I am forgetting, only fancy; your brother is in there with her, not that dreadful brother who was so shocking yesterday, but the other, Ivan Fyodorovitch, he is sitting with her talking; they are having a serious conversation. If you could only imagine what’s passing between them now—it’s awful, I tell you it’s lacerating, it’s like some incredible tale of horror. They are ruining their lives for no reason any one can see. They both recognize it and revel in it. I’ve been watching for you! I’ve been thirsting for you! It’s too much for me, that’s the worst of it. I’ll tell you all about it presently, but now I must speak of something else, the most important thing—I had quite forgotten what’s most important. Tell me, why has Lise been in hysterics? As soon as she heard you were here, she began to be hysterical!”

“Maman, it’s you who are hysterical now, not I,” Lise’s voice caroled through a tiny crack of the door at the side. Her voice sounded as though she wanted to laugh, but was doing her utmost to control it. Alyosha at once noticed the crack, and no doubt Lise was peeping through it, but that he could not see.

“And no wonder, Lise, no wonder … your caprices will make me hysterical too. But she is so ill, Alexey Fyodorovitch, she has been so ill all night, feverish and moaning! I could hardly wait for the morning and for Herzenstube to come. He says that he can make nothing of it, that we must wait. Herzenstube always comes and says that he can make nothing of it. As soon as you approached the house, she screamed, fell into hysterics, and insisted on being wheeled back into this room here.”

“Mamma, I didn’t know he had come. It wasn’t on his account I wanted to be wheeled into this room.”

“That’s not true, Lise, Yulia ran to tell you that Alexey Fyodorovitch was coming. She was on the look‐out for you.”

“My darling mamma, it’s not at all clever of you. But if you want to make up for it and say something very clever, dear mamma, you’d better tell our honored visitor, Alexey Fyodorovitch, that he has shown his want of wit by venturing to us after what happened yesterday and although every one is laughing at him.”

“Lise, you go too far. I declare I shall have to be severe. Who laughs at him? I am so glad he has come, I need him, I can’t do without him. Oh, Alexey Fyodorovitch, I am exceedingly unhappy!”

“But what’s the matter with you, mamma, darling?”

“Ah, your caprices, Lise, your fidgetiness, your illness, that awful night of fever, that awful everlasting Herzenstube, everlasting, everlasting, that’s the worst of it! Everything, in fact, everything…. Even that miracle, too! Oh, how it has upset me, how it has shattered me, that miracle, dear Alexey Fyodorovitch! And that tragedy in the drawing‐room, it’s more than I can bear, I warn you. I can’t bear it. A comedy, perhaps, not a tragedy. Tell me, will Father Zossima live till to‐morrow, will he? Oh, my God! What is happening to me? Every minute I close my eyes and see that it’s all nonsense, all nonsense.”

“I should be very grateful,” Alyosha interrupted suddenly, “if you could give me a clean rag to bind up my finger with. I have hurt it, and it’s very painful.”

Alyosha unbound his bitten finger. The handkerchief was soaked with blood. Madame Hohlakov screamed and shut her eyes.

“Good heavens, what a wound, how awful!”

But as soon as Lise saw Alyosha’s finger through the crack, she flung the door wide open.

“Come, come here,” she cried, imperiously. “No nonsense now! Good heavens, why did you stand there saying nothing about it all this time? He might have bled to death, mamma! How did you do it? Water, water! You must wash it first of all, simply hold it in cold water to stop the pain, and keep it there, keep it there…. Make haste, mamma, some water in a slop‐basin. But do make haste,” she finished nervously. She was quite frightened at the sight of Alyosha’s wound.

“Shouldn’t we send for Herzenstube?” cried Madame Hohlakov.

“Mamma, you’ll be the death of me. Your Herzenstube will come and say that he can make nothing of it! Water, water! Mamma, for goodness’ sake go yourself and hurry Yulia, she is such a slowcoach and never can come quickly! Make haste, mamma, or I shall die.”

“Why, it’s nothing much,” cried Alyosha, frightened at this alarm.

Yulia ran in with water and Alyosha put his finger in it.

“Some lint, mamma, for mercy’s sake, bring some lint and that muddy caustic lotion for wounds, what’s it called? We’ve got some. You know where the bottle is, mamma; it’s in your bedroom in the right‐hand cupboard, there’s a big bottle of it there with the lint.”

“I’ll bring everything in a minute, Lise, only don’t scream and don’t fuss. You see how bravely Alexey Fyodorovitch bears it. Where did you get such a dreadful wound, Alexey Fyodorovitch?”

Madame Hohlakov hastened away. This was all Lise was waiting for.

“First of all, answer the question, where did you get hurt like this?” she asked Alyosha, quickly. “And then I’ll talk to you about something quite different. Well?”

Instinctively feeling that the time of her mother’s absence was precious for her, Alyosha hastened to tell her of his enigmatic meeting with the schoolboys in the fewest words possible. Lise clasped her hands at his story.

“How can you, and in that dress too, associate with schoolboys?” she cried angrily, as though she had a right to control him. “You are nothing but a boy yourself if you can do that, a perfect boy! But you must find out for me about that horrid boy and tell me all about it, for there’s some mystery in it. Now for the second thing, but first a question: does the pain prevent you talking about utterly unimportant things, but talking sensibly?”

“Of course not, and I don’t feel much pain now.”

“That’s because your finger is in the water. It must be changed directly, for it will get warm in a minute. Yulia, bring some ice from the cellar and another basin of water. Now she is gone, I can speak; will you give me the letter I sent you yesterday, dear Alexey Fyodorovitch—be quick, for mamma will be back in a minute and I don’t want—”

“I haven’t got the letter.”

“That’s not true, you have. I knew you would say that. You’ve got it in that pocket. I’ve been regretting that joke all night. Give me back the letter at once, give it me.”

“I’ve left it at home.”

“But you can’t consider me as a child, a little girl, after that silly joke! I beg your pardon for that silliness, but you must bring me the letter, if you really haven’t got it—bring it to‐day, you must, you must.”

“To‐day I can’t possibly, for I am going back to the monastery and I shan’t come and see you for the next two days—three or four perhaps—for Father Zossima—”

“Four days, what nonsense! Listen. Did you laugh at me very much?”

“I didn’t laugh at all.”

“Why not?”

“Because I believed all you said.”

“You are insulting me!”

“Not at all. As soon as I read it, I thought that all that would come to pass, for as soon as Father Zossima dies, I am to leave the monastery. Then I shall go back and finish my studies, and when you reach the legal age we will be married. I shall love you. Though I haven’t had time to think about it, I believe I couldn’t find a better wife than you, and Father Zossima tells me I must marry.”

“But I am a cripple, wheeled about in a chair,” laughed Lise, flushing crimson.

“I’ll wheel you about myself, but I’m sure you’ll get well by then.”

“But you are mad,” said Lise, nervously, “to make all this nonsense out of a joke! Here’s mamma, very à propos, perhaps. Mamma, how slow you always are, how can you be so long! And here’s Yulia with the ice!”

“Oh, Lise, don’t scream, above all things don’t scream. That scream drives me … How can I help it when you put the lint in another place? I’ve been hunting and hunting—I do believe you did it on purpose.”

“But I couldn’t tell that he would come with a bad finger, or else perhaps I might have done it on purpose. My darling mamma, you begin to say really witty things.”

“Never mind my being witty, but I must say you show nice feeling for Alexey Fyodorovitch’s sufferings! Oh, my dear Alexey Fyodorovitch, what’s killing me is no one thing in particular, not Herzenstube, but everything together, that’s what is too much for me.”

“That’s enough, mamma, enough about Herzenstube,” Lise laughed gayly. “Make haste with the lint and the lotion, mamma. That’s simply Goulard’s water, Alexey Fyodorovitch, I remember the name now, but it’s a splendid lotion. Would you believe it, mamma, on the way here he had a fight with the boys in the street, and it was a boy bit his finger, isn’t he a child, a child himself? Is he fit to be married after that? For only fancy, he wants to be married, mamma. Just think of him married, wouldn’t it be funny, wouldn’t it be awful?”

And Lise kept laughing her thin hysterical giggle, looking slyly at Alyosha.

“But why married, Lise? What makes you talk of such a thing? It’s quite out of place—and perhaps the boy was rabid.”

“Why, mamma! As though there were rabid boys!”

“Why not, Lise, as though I had said something stupid! Your boy might have been bitten by a mad dog and he would become mad and bite any one near him. How well she has bandaged it, Alexey Fyodorovitch! I couldn’t have done it. Do you still feel the pain?”

“It’s nothing much now.”

“You don’t feel afraid of water?” asked Lise.

“Come, that’s enough, Lise, perhaps I really was rather too quick talking of the boy being rabid, and you pounced upon it at once Katerina Ivanovna has only just heard that you are here, Alexey Fyodorovitch, she simply rushed at me, she’s dying to see you, dying!”

“Ach, mamma, go to them yourself. He can’t go just now, he is in too much pain.”

“Not at all, I can go quite well,” said Alyosha.

“What! You are going away? Is that what you say?”

“Well, when I’ve seen them, I’ll come back here and we can talk as much as you like. But I should like to see Katerina Ivanovna at once, for I am very anxious to be back at the monastery as soon as I can.”

“Mamma, take him away quickly. Alexey Fyodorovitch, don’t trouble to come and see me afterwards, but go straight back to your monastery and a good riddance. I want to sleep, I didn’t sleep all night.”

“Ah, Lise, you are only making fun, but how I wish you would sleep!” cried Madame Hohlakov.

“I don’t know what I’ve done…. I’ll stay another three minutes, five if you like,” muttered Alyosha.

“Even five! Do take him away quickly, mamma, he is a monster.”

“Lise, you are crazy. Let us go, Alexey Fyodorovitch, she is too capricious to‐day. I am afraid to cross her. Oh, the trouble one has with nervous girls! Perhaps she really will be able to sleep after seeing you. How quickly you have made her sleepy, and how fortunate it is!”

“Ah, mamma, how sweetly you talk! I must kiss you for it, mamma.”

“And I kiss you too, Lise. Listen, Alexey Fyodorovitch,” Madame Hohlakov began mysteriously and importantly, speaking in a rapid whisper. “I don’t want to suggest anything, I don’t want to lift the veil, you will see for yourself what’s going on. It’s appalling. It’s the most fantastic farce. She loves your brother, Ivan, and she is doing her utmost to persuade herself she loves your brother, Dmitri. It’s appalling! I’ll go in with you, and if they don’t turn me out, I’ll stay to the end.”

Chapter V.
A Laceration In The Drawing‐Room
But in the drawing‐room the conversation was already over. Katerina Ivanovna was greatly excited, though she looked resolute. At the moment Alyosha and Madame Hohlakov entered, Ivan Fyodorovitch stood up to take leave. His face was rather pale, and Alyosha looked at him anxiously. For this moment was to solve a doubt, a harassing enigma which had for some time haunted Alyosha. During the preceding month it had been several times suggested to him that his brother Ivan was in love with Katerina Ivanovna, and, what was more, that he meant “to carry her off” from Dmitri. Until quite lately the idea seemed to Alyosha monstrous, though it worried him extremely. He loved both his brothers, and dreaded such rivalry between them. Meantime, Dmitri had said outright on the previous day that he was glad that Ivan was his rival, and that it was a great assistance to him, Dmitri. In what way did it assist him? To marry Grushenka? But that Alyosha considered the worst thing possible. Besides all this, Alyosha had till the evening before implicitly believed that Katerina Ivanovna had a steadfast and passionate love for Dmitri; but he had only believed it till the evening before. He had fancied, too, that she was incapable of loving a man like Ivan, and that she did love Dmitri, and loved him just as he was, in spite of all the strangeness of such a passion.

But during yesterday’s scene with Grushenka another idea had struck him. The word “lacerating,” which Madame Hohlakov had just uttered, almost made him start, because half waking up towards daybreak that night he had cried out “Laceration, laceration,” probably applying it to his dream. He had been dreaming all night of the previous day’s scene at Katerina Ivanovna’s. Now Alyosha was impressed by Madame Hohlakov’s blunt and persistent assertion that Katerina Ivanovna was in love with Ivan, and only deceived herself through some sort of pose, from “self‐laceration,” and tortured herself by her pretended love for Dmitri from some fancied duty of gratitude. “Yes,” he thought, “perhaps the whole truth lies in those words.” But in that case what was Ivan’s position? Alyosha felt instinctively that a character like Katerina Ivanovna’s must dominate, and she could only dominate some one like Dmitri, and never a man like Ivan. For Dmitri might at last submit to her domination “to his own happiness” (which was what Alyosha would have desired), but Ivan—no, Ivan could not submit to her, and such submission would not give him happiness. Alyosha could not help believing that of Ivan. And now all these doubts and reflections flitted through his mind as he entered the drawing‐room. Another idea, too, forced itself upon him: “What if she loved neither of them—neither Ivan nor Dmitri?”

It must be noted that Alyosha felt as it were ashamed of his own thoughts and blamed himself when they kept recurring to him during the last month. “What do I know about love and women and how can I decide such questions?” he thought reproachfully, after such doubts and surmises. And yet it was impossible not to think about it. He felt instinctively that this rivalry was of immense importance in his brothers’ lives and that a great deal depended upon it.

“One reptile will devour the other,” Ivan had pronounced the day before, speaking in anger of his father and Dmitri. So Ivan looked upon Dmitri as a reptile, and perhaps had long done so. Was it perhaps since he had known Katerina Ivanovna? That phrase had, of course, escaped Ivan unawares yesterday, but that only made it more important. If he felt like that, what chance was there of peace? Were there not, on the contrary, new grounds for hatred and hostility in their family? And with which of them was Alyosha to sympathize? And what was he to wish for each of them? He loved them both, but what could he desire for each in the midst of these conflicting interests? He might go quite astray in this maze, and Alyosha’s heart could not endure uncertainty, because his love was always of an active character. He was incapable of passive love. If he loved any one, he set to work at once to help him. And to do so he must know what he was aiming at; he must know for certain what was best for each, and having ascertained this it was natural for him to help them both. But instead of a definite aim, he found nothing but uncertainty and perplexity on all sides. “It was lacerating,” as was said just now. But what could he understand even in this “laceration”? He did not understand the first word in this perplexing maze.

Seeing Alyosha, Katerina Ivanovna said quickly and joyfully to Ivan, who had already got up to go, “A minute! Stay another minute! I want to hear the opinion of this person here whom I trust absolutely. Don’t go away,” she added, addressing Madame Hohlakov. She made Alyosha sit down beside her, and Madame Hohlakov sat opposite, by Ivan.

“You are all my friends here, all I have in the world, my dear friends,” she began warmly, in a voice which quivered with genuine tears of suffering, and Alyosha’s heart warmed to her at once. “You, Alexey Fyodorovitch, were witness yesterday of that abominable scene, and saw what I did. You did not see it, Ivan Fyodorovitch, he did. What he thought of me yesterday I don’t know. I only know one thing, that if it were repeated to‐day, this minute, I should express the same feelings again as yesterday—the same feelings, the same words, the same actions. You remember my actions, Alexey Fyodorovitch; you checked me in one of them” … (as she said that, she flushed and her eyes shone). “I must tell you that I can’t get over it. Listen, Alexey Fyodorovitch. I don’t even know whether I still love him. I feel pity for him, and that is a poor sign of love. If I loved him, if I still loved him, perhaps I shouldn’t be sorry for him now, but should hate him.”

Her voice quivered, and tears glittered on her eyelashes. Alyosha shuddered inwardly. “That girl is truthful and sincere,” he thought, “and she does not love Dmitri any more.”

“That’s true, that’s true,” cried Madame Hohlakov.

“Wait, dear. I haven’t told you the chief, the final decision I came to during the night. I feel that perhaps my decision is a terrible one—for me, but I foresee that nothing will induce me to change it—nothing. It will be so all my life. My dear, kind, ever‐faithful and generous adviser, the one friend I have in the world, Ivan Fyodorovitch, with his deep insight into the heart, approves and commends my decision. He knows it.”

“Yes, I approve of it,” Ivan assented, in a subdued but firm voice.

“But I should like Alyosha, too (Ah! Alexey Fyodorovitch, forgive my calling you simply Alyosha), I should like Alexey Fyodorovitch, too, to tell me before my two friends whether I am right. I feel instinctively that you, Alyosha, my dear brother (for you are a dear brother to me),” she said again ecstatically, taking his cold hand in her hot one, “I foresee that your decision, your approval, will bring me peace, in spite of all my sufferings, for, after your words, I shall be calm and submit—I feel that.”

“I don’t know what you are asking me,” said Alyosha, flushing. “I only know that I love you and at this moment wish for your happiness more than my own!… But I know nothing about such affairs,” something impelled him to add hurriedly.

“In such affairs, Alexey Fyodorovitch, in such affairs, the chief thing is honor and duty and something higher—I don’t know what—but higher perhaps even than duty. I am conscious of this irresistible feeling in my heart, and it compels me irresistibly. But it may all be put in two words. I’ve already decided, even if he marries that—creature,” she began solemnly, “whom I never, never can forgive, even then I will not abandon him. Henceforward I will never, never abandon him!” she cried, breaking into a sort of pale, hysterical ecstasy. “Not that I would run after him continually, get in his way and worry him. Oh, no! I will go away to another town—where you like—but I will watch over him all my life—I will watch over him all my life unceasingly. When he becomes unhappy with that woman, and that is bound to happen quite soon, let him come to me and he will find a friend, a sister…. Only a sister, of course, and so for ever; but he will learn at least that that sister is really his sister, who loves him and has sacrificed all her life to him. I will gain my point. I will insist on his knowing me and confiding entirely in me, without reserve,” she cried, in a sort of frenzy. “I will be a god to whom he can pray—and that, at least, he owes me for his treachery and for what I suffered yesterday through him. And let him see that all my life I will be true to him and the promise I gave him, in spite of his being untrue and betraying me. I will—I will become nothing but a means for his happiness, or—how shall I say?—an instrument, a machine for his happiness, and that for my whole life, my whole life, and that he may see that all his life! That’s my decision. Ivan Fyodorovitch fully approves me.”

She was breathless. She had perhaps intended to express her idea with more dignity, art and naturalness, but her speech was too hurried and crude. It was full of youthful impulsiveness, it betrayed that she was still smarting from yesterday’s insult, and that her pride craved satisfaction. She felt this herself. Her face suddenly darkened, an unpleasant look came into her eyes. Alyosha at once saw it and felt a pang of sympathy. His brother Ivan made it worse by adding:

“I’ve only expressed my own view,” he said. “From any one else, this would have been affected and overstrained, but from you—no. Any other woman would have been wrong, but you are right. I don’t know how to explain it, but I see that you are absolutely genuine and, therefore, you are right.”

“But that’s only for the moment. And what does this moment stand for? Nothing but yesterday’s insult.” Madame Hohlakov obviously had not intended to interfere, but she could not refrain from this very just comment.

“Quite so, quite so,” cried Ivan, with peculiar eagerness, obviously annoyed at being interrupted, “in any one else this moment would be only due to yesterday’s impression and would be only a moment. But with Katerina Ivanovna’s character, that moment will last all her life. What for any one else would be only a promise is for her an everlasting burdensome, grim perhaps, but unflagging duty. And she will be sustained by the feeling of this duty being fulfilled. Your life, Katerina Ivanovna, will henceforth be spent in painful brooding over your own feelings, your own heroism, and your own suffering; but in the end that suffering will be softened and will pass into sweet contemplation of the fulfillment of a bold and proud design. Yes, proud it certainly is, and desperate in any case, but a triumph for you. And the consciousness of it will at last be a source of complete satisfaction and will make you resigned to everything else.”

This was unmistakably said with some malice and obviously with intention; even perhaps with no desire to conceal that he spoke ironically and with intention.

“Oh, dear, how mistaken it all is!” Madame Hohlakov cried again.

“Alexey Fyodorovitch, you speak. I want dreadfully to know what you will say!” cried Katerina Ivanovna, and burst into tears. Alyosha got up from the sofa.

“It’s nothing, nothing!” she went on through her tears. “I’m upset, I didn’t sleep last night. But by the side of two such friends as you and your brother I still feel strong—for I know—you two will never desert me.”

“Unluckily I am obliged to return to Moscow—perhaps to‐morrow—and to leave you for a long time—And, unluckily, it’s unavoidable,” Ivan said suddenly.

“To‐morrow—to Moscow!” her face was suddenly contorted; “but—but, dear me, how fortunate!” she cried in a voice suddenly changed. In one instant there was no trace left of her tears. She underwent an instantaneous transformation, which amazed Alyosha. Instead of a poor, insulted girl, weeping in a sort of “laceration,” he saw a woman completely self‐ possessed and even exceedingly pleased, as though something agreeable had just happened.

“Oh, not fortunate that I am losing you, of course not,” she corrected herself suddenly, with a charming society smile. “Such a friend as you are could not suppose that. I am only too unhappy at losing you.” She rushed impulsively at Ivan, and seizing both his hands, pressed them warmly. “But what is fortunate is that you will be able in Moscow to see auntie and Agafya and to tell them all the horror of my present position. You can speak with complete openness to Agafya, but spare dear auntie. You will know how to do that. You can’t think how wretched I was yesterday and this morning, wondering how I could write them that dreadful letter—for one can never tell such things in a letter…. Now it will be easy for me to write, for you will see them and explain everything. Oh, how glad I am! But I am only glad of that, believe me. Of course, no one can take your place…. I will run at once to write the letter,” she finished suddenly, and took a step as though to go out of the room.

“And what about Alyosha and his opinion, which you were so desperately anxious to hear?” cried Madame Hohlakov. There was a sarcastic, angry note in her voice.

“I had not forgotten that,” cried Katerina Ivanovna, coming to a sudden standstill, “and why are you so antagonistic at such a moment?” she added, with warm and bitter reproachfulness. “What I said, I repeat. I must have his opinion. More than that, I must have his decision! As he says, so it shall be. You see how anxious I am for your words, Alexey Fyodorovitch…. But what’s the matter?”

“I couldn’t have believed it. I can’t understand it!” Alyosha cried suddenly in distress.

“What? What?”

“He is going to Moscow, and you cry out that you are glad. You said that on purpose! And you begin explaining that you are not glad of that but sorry to be—losing a friend. But that was acting, too—you were playing a part—as in a theater!”

“In a theater? What? What do you mean?” exclaimed Katerina Ivanovna, profoundly astonished, flushing crimson, and frowning.

“Though you assure him you are sorry to lose a friend in him, you persist in telling him to his face that it’s fortunate he is going,” said Alyosha breathlessly. He was standing at the table and did not sit down.

“What are you talking about? I don’t understand.”

“I don’t understand myself…. I seemed to see in a flash … I know I am not saying it properly, but I’ll say it all the same,” Alyosha went on in the same shaking and broken voice. “What I see is that perhaps you don’t love Dmitri at all … and never have, from the beginning…. And Dmitri, too, has never loved you … and only esteems you…. I really don’t know how I dare to say all this, but somebody must tell the truth … for nobody here will tell the truth.”

“What truth?” cried Katerina Ivanovna, and there was an hysterical ring in her voice.

“I’ll tell you,” Alyosha went on with desperate haste, as though he were jumping from the top of a house. “Call Dmitri; I will fetch him—and let him come here and take your hand and take Ivan’s and join your hands. For you’re torturing Ivan, simply because you love him—and torturing him, because you love Dmitri through ‘self‐laceration’—with an unreal love—because you’ve persuaded yourself.”

Alyosha broke off and was silent.

“You … you … you are a little religious idiot—that’s what you are!” Katerina Ivanovna snapped. Her face was white and her lips were moving with anger.

Ivan suddenly laughed and got up. His hat was in his hand.

“You are mistaken, my good Alyosha,” he said, with an expression Alyosha had never seen in his face before—an expression of youthful sincerity and strong, irresistibly frank feeling. “Katerina Ivanovna has never cared for me! She has known all the time that I cared for her—though I never said a word of my love to her—she knew, but she didn’t care for me. I have never been her friend either, not for one moment; she is too proud to need my friendship. She kept me at her side as a means of revenge. She revenged with me and on me all the insults which she has been continually receiving from Dmitri ever since their first meeting. For even that first meeting has rankled in her heart as an insult—that’s what her heart is like! She has talked to me of nothing but her love for him. I am going now; but, believe me, Katerina Ivanovna, you really love him. And the more he insults you, the more you love him—that’s your ‘laceration.’ You love him just as he is; you love him for insulting you. If he reformed, you’d give him up at once and cease to love him. But you need him so as to contemplate continually your heroic fidelity and to reproach him for infidelity. And it all comes from your pride. Oh, there’s a great deal of humiliation and self‐abasement about it, but it all comes from pride…. I am too young and I’ve loved you too much. I know that I ought not to say this, that it would be more dignified on my part simply to leave you, and it would be less offensive for you. But I am going far away, and shall never come back…. It is for ever. I don’t want to sit beside a ‘laceration.’… But I don’t know how to speak now. I’ve said everything…. Good‐by, Katerina Ivanovna; you can’t be angry with me, for I am a hundred times more severely punished than you, if only by the fact that I shall never see you again. Good‐by! I don’t want your hand. You have tortured me too deliberately for me to be able to forgive you at this moment. I shall forgive you later, but now I don’t want your hand. ‘Den Dank, Dame, begehr ich nicht,’ ” he added, with a forced smile, showing, however, that he could read Schiller, and read him till he knew him by heart—which Alyosha would never have believed. He went out of the room without saying good‐by even to his hostess, Madame Hohlakov. Alyosha clasped his hands.

“Ivan!” he cried desperately after him. “Come back, Ivan! No, nothing will induce him to come back now!” he cried again, regretfully realizing it; “but it’s my fault, my fault. I began it! Ivan spoke angrily, wrongly. Unjustly and angrily. He must come back here, come back,” Alyosha kept exclaiming frantically.

Katerina Ivanovna went suddenly into the next room.

“You have done no harm. You behaved beautifully, like an angel,” Madame Hohlakov whispered rapidly and ecstatically to Alyosha. “I will do my utmost to prevent Ivan Fyodorovitch from going.”

Her face beamed with delight, to the great distress of Alyosha, but Katerina Ivanovna suddenly returned. She had two hundred‐rouble notes in her hand.

“I have a great favor to ask of you, Alexey Fyodorovitch,” she began, addressing Alyosha with an apparently calm and even voice, as though nothing had happened. “A week—yes, I think it was a week ago—Dmitri Fyodorovitch was guilty of a hasty and unjust action—a very ugly action. There is a low tavern here, and in it he met that discharged officer, that captain, whom your father used to employ in some business. Dmitri Fyodorovitch somehow lost his temper with this captain, seized him by the beard and dragged him out into the street and for some distance along it, in that insulting fashion. And I am told that his son, a boy, quite a child, who is at the school here, saw it and ran beside them crying and begging for his father, appealing to every one to defend him, while every one laughed. You must forgive me, Alexey Fyodorovitch, I cannot think without indignation of that disgraceful action of his … one of those actions of which only Dmitri Fyodorovitch would be capable in his anger … and in his passions! I can’t describe it even…. I can’t find my words. I’ve made inquiries about his victim, and find he is quite a poor man. His name is Snegiryov. He did something wrong in the army and was discharged. I can’t tell you what. And now he has sunk into terrible destitution, with his family—an unhappy family of sick children, and, I believe, an insane wife. He has been living here a long time; he used to work as a copying clerk, but now he is getting nothing. I thought if you … that is I thought … I don’t know. I am so confused. You see, I wanted to ask you, my dear Alexey Fyodorovitch, to go to him, to find some excuse to go to them—I mean to that captain—oh, goodness, how badly I explain it!—and delicately, carefully, as only you know how to” (Alyosha blushed), “manage to give him this assistance, these two hundred roubles. He will be sure to take it…. I mean, persuade him to take it…. Or, rather, what do I mean? You see it’s not by way of compensation to prevent him from taking proceedings (for I believe he meant to), but simply a token of sympathy, of a desire to assist him from me, Dmitri Fyodorovitch’s betrothed, not from himself…. But you know…. I would go myself, but you’ll know how to do it ever so much better. He lives in Lake Street, in the house of a woman called Kalmikov…. For God’s sake, Alexey Fyodorovitch, do it for me, and now … now I am rather … tired. Good‐ by!”

She turned and disappeared behind the portière so quickly that Alyosha had not time to utter a word, though he wanted to speak. He longed to beg her pardon, to blame himself, to say something, for his heart was full and he could not bear to go out of the room without it. But Madame Hohlakov took him by the hand and drew him along with her. In the hall she stopped him again as before.

“She is proud, she is struggling with herself; but kind, charming, generous,” she exclaimed, in a half‐whisper. “Oh, how I love her, especially sometimes, and how glad I am again of everything! Dear Alexey Fyodorovitch, you didn’t know, but I must tell you, that we all, all—both her aunts, I and all of us, Lise, even—have been hoping and praying for nothing for the last month but that she may give up your favorite Dmitri, who takes no notice of her and does not care for her, and may marry Ivan Fyodorovitch—such an excellent and cultivated young man, who loves her more than anything in the world. We are in a regular plot to bring it about, and I am even staying on here perhaps on that account.”

“But she has been crying—she has been wounded again,” cried Alyosha.

“Never trust a woman’s tears, Alexey Fyodorovitch. I am never for the women in such cases. I am always on the side of the men.”

“Mamma, you are spoiling him,” Lise’s little voice cried from behind the door.

“No, it was all my fault. I am horribly to blame,” Alyosha repeated unconsoled, hiding his face in his hands in an agony of remorse for his indiscretion.

“Quite the contrary; you behaved like an angel, like an angel. I am ready to say so a thousand times over.”

“Mamma, how has he behaved like an angel?” Lise’s voice was heard again.

“I somehow fancied all at once,” Alyosha went on as though he had not heard Lise, “that she loved Ivan, and so I said that stupid thing…. What will happen now?”

“To whom, to whom?” cried Lise. “Mamma, you really want to be the death of me. I ask you and you don’t answer.”

At the moment the maid ran in.

“Katerina Ivanovna is ill…. She is crying, struggling … hysterics.”

“What is the matter?” cried Lise, in a tone of real anxiety. “Mamma, I shall be having hysterics, and not she!”

“Lise, for mercy’s sake, don’t scream, don’t persecute me. At your age one can’t know everything that grown‐up people know. I’ll come and tell you everything you ought to know. Oh, mercy on us! I am coming, I am coming…. Hysterics is a good sign, Alexey Fyodorovitch; it’s an excellent thing that she is hysterical. That’s just as it ought to be. In such cases I am always against the woman, against all these feminine tears and hysterics. Run and say, Yulia, that I’ll fly to her. As for Ivan Fyodorovitch’s going away like that, it’s her own fault. But he won’t go away. Lise, for mercy’s sake, don’t scream! Oh, yes; you are not screaming. It’s I am screaming. Forgive your mamma; but I am delighted, delighted, delighted! Did you notice, Alexey Fyodorovitch, how young, how young Ivan Fyodorovitch was just now when he went out, when he said all that and went out? I thought he was so learned, such a savant, and all of a sudden he behaved so warmly, openly, and youthfully, with such youthful inexperience, and it was all so fine, like you…. And the way he repeated that German verse, it was just like you! But I must fly, I must fly! Alexey Fyodorovitch, make haste to carry out her commission, and then make haste back. Lise, do you want anything now? For mercy’s sake, don’t keep Alexey Fyodorovitch a minute. He will come back to you at once.”

Madame Hohlakov at last ran off. Before leaving, Alyosha would have opened the door to see Lise.

“On no account,” cried Lise. “On no account now. Speak through the door. How have you come to be an angel? That’s the only thing I want to know.”

“For an awful piece of stupidity, Lise! Good‐by!”

“Don’t dare to go away like that!” Lise was beginning.

“Lise, I have a real sorrow! I’ll be back directly, but I have a great, great sorrow!”

And he ran out of the room.

Chapter VI.
A Laceration In The Cottage
He certainly was really grieved in a way he had seldom been before. He had rushed in like a fool, and meddled in what? In a love‐affair. “But what do I know about it? What can I tell about such things?” he repeated to himself for the hundredth time, flushing crimson. “Oh, being ashamed would be nothing; shame is only the punishment I deserve. The trouble is I shall certainly have caused more unhappiness…. And Father Zossima sent me to reconcile and bring them together. Is this the way to bring them together?” Then he suddenly remembered how he had tried to join their hands, and he felt fearfully ashamed again. “Though I acted quite sincerely, I must be more sensible in the future,” he concluded suddenly, and did not even smile at his conclusion.

Katerina Ivanovna’s commission took him to Lake Street, and his brother Dmitri lived close by, in a turning out of Lake Street. Alyosha decided to go to him in any case before going to the captain, though he had a presentiment that he would not find his brother. He suspected that he would intentionally keep out of his way now, but he must find him anyhow. Time was passing: the thought of his dying elder had not left Alyosha for one minute from the time he set off from the monastery.

There was one point which interested him particularly about Katerina Ivanovna’s commission; when she had mentioned the captain’s son, the little schoolboy who had run beside his father crying, the idea had at once struck Alyosha that this must be the schoolboy who had bitten his finger when he, Alyosha, asked him what he had done to hurt him. Now Alyosha felt practically certain of this, though he could not have said why. Thinking of another subject was a relief, and he resolved to think no more about the “mischief” he had done, and not to torture himself with remorse, but to do what he had to do, let come what would. At that thought he was completely comforted. Turning to the street where Dmitri lodged, he felt hungry, and taking out of his pocket the roll he had brought from his father’s, he ate it. It made him feel stronger.

Dmitri was not at home. The people of the house, an old cabinet‐maker, his son, and his old wife, looked with positive suspicion at Alyosha. “He hasn’t slept here for the last three nights. Maybe he has gone away,” the old man said in answer to Alyosha’s persistent inquiries. Alyosha saw that he was answering in accordance with instructions. When he asked whether he were not at Grushenka’s or in hiding at Foma’s (Alyosha spoke so freely on purpose), all three looked at him in alarm. “They are fond of him, they are doing their best for him,” thought Alyosha. “That’s good.”

At last he found the house in Lake Street. It was a decrepit little house, sunk on one side, with three windows looking into the street, and with a muddy yard, in the middle of which stood a solitary cow. He crossed the yard and found the door opening into the passage. On the left of the passage lived the old woman of the house with her old daughter. Both seemed to be deaf. In answer to his repeated inquiry for the captain, one of them at last understood that he was asking for their lodgers, and pointed to a door across the passage. The captain’s lodging turned out to be a simple cottage room. Alyosha had his hand on the iron latch to open the door, when he was struck by the strange hush within. Yet he knew from Katerina Ivanovna’s words that the man had a family. “Either they are all asleep or perhaps they have heard me coming and are waiting for me to open the door. I’d better knock first,” and he knocked. An answer came, but not at once, after an interval of perhaps ten seconds.

“Who’s there?” shouted some one in a loud and very angry voice.

Then Alyosha opened the door and crossed the threshold. He found himself in a regular peasant’s room. Though it was large, it was cumbered up with domestic belongings of all sorts, and there were several people in it. On the left was a large Russian stove. From the stove to the window on the left was a string running across the room, and on it there were rags hanging. There was a bedstead against the wall on each side, right and left, covered with knitted quilts. On the one on the left was a pyramid of four print‐covered pillows, each smaller than the one beneath. On the other there was only one very small pillow. The opposite corner was screened off by a curtain or a sheet hung on a string. Behind this curtain could be seen a bed made up on a bench and a chair. The rough square table of plain wood had been moved into the middle window. The three windows, which consisted each of four tiny greenish mildewy panes, gave little light, and were close shut, so that the room was not very light and rather stuffy. On the table was a frying‐pan with the remains of some fried eggs, a half‐eaten piece of bread, and a small bottle with a few drops of vodka.

A woman of genteel appearance, wearing a cotton gown, was sitting on a chair by the bed on the left. Her face was thin and yellow, and her sunken cheeks betrayed at the first glance that she was ill. But what struck Alyosha most was the expression in the poor woman’s eyes—a look of surprised inquiry and yet of haughty pride. And while he was talking to her husband, her big brown eyes moved from one speaker to the other with the same haughty and questioning expression. Beside her at the window stood a young girl, rather plain, with scanty reddish hair, poorly but very neatly dressed. She looked disdainfully at Alyosha as he came in. Beside the other bed was sitting another female figure. She was a very sad sight, a young girl of about twenty, but hunchback and crippled “with withered legs,” as Alyosha was told afterwards. Her crutches stood in the corner close by. The strikingly beautiful and gentle eyes of this poor girl looked with mild serenity at Alyosha. A man of forty‐five was sitting at the table, finishing the fried eggs. He was spare, small and weakly built. He had reddish hair and a scanty light‐colored beard, very much like a wisp of tow (this comparison and the phrase “a wisp of tow” flashed at once into Alyosha’s mind for some reason, he remembered it afterwards). It was obviously this gentleman who had shouted to him, as there was no other man in the room. But when Alyosha went in, he leapt up from the bench on which he was sitting, and, hastily wiping his mouth with a ragged napkin, darted up to Alyosha.

“It’s a monk come to beg for the monastery. A nice place to come to!” the girl standing in the left corner said aloud. The man spun round instantly towards her and answered her in an excited and breaking voice:

“No, Varvara, you are wrong. Allow me to ask,” he turned again to Alyosha, “what has brought you to—our retreat?”

Alyosha looked attentively at him. It was the first time he had seen him. There was something angular, flurried and irritable about him. Though he had obviously just been drinking, he was not drunk. There was extraordinary impudence in his expression, and yet, strange to say, at the same time there was fear. He looked like a man who had long been kept in subjection and had submitted to it, and now had suddenly turned and was trying to assert himself. Or, better still, like a man who wants dreadfully to hit you but is horribly afraid you will hit him. In his words and in the intonation of his shrill voice there was a sort of crazy humor, at times spiteful and at times cringing, and continually shifting from one tone to another. The question about “our retreat” he had asked as it were quivering all over, rolling his eyes, and skipping up so close to Alyosha that he instinctively drew back a step. He was dressed in a very shabby dark cotton coat, patched and spotted. He wore checked trousers of an extremely light color, long out of fashion, and of very thin material. They were so crumpled and so short that he looked as though he had grown out of them like a boy.

“I am Alexey Karamazov,” Alyosha began in reply.

“I quite understand that, sir,” the gentleman snapped out at once to assure him that he knew who he was already. “I am Captain Snegiryov, sir, but I am still desirous to know precisely what has led you—”

“Oh, I’ve come for nothing special. I wanted to have a word with you—if only you allow me.”

“In that case, here is a chair, sir; kindly be seated. That’s what they used to say in the old comedies, ‘kindly be seated,’ ” and with a rapid gesture he seized an empty chair (it was a rough wooden chair, not upholstered) and set it for him almost in the middle of the room; then, taking another similar chair for himself, he sat down facing Alyosha, so close to him that their knees almost touched.

“Nikolay Ilyitch Snegiryov, sir, formerly a captain in the Russian infantry, put to shame for his vices, but still a captain. Though I might not be one now for the way I talk; for the last half of my life I’ve learnt to say ‘sir.’ It’s a word you use when you’ve come down in the world.”

“That’s very true,” smiled Alyosha. “But is it used involuntarily or on purpose?”

“As God’s above, it’s involuntary, and I usen’t to use it! I didn’t use the word ‘sir’ all my life, but as soon as I sank into low water I began to say ‘sir.’ It’s the work of a higher power. I see you are interested in contemporary questions, but how can I have excited your curiosity, living as I do in surroundings impossible for the exercise of hospitality?”

“I’ve come—about that business.”

“About what business?” the captain interrupted impatiently.

“About your meeting with my brother Dmitri Fyodorovitch,” Alyosha blurted out awkwardly.

“What meeting, sir? You don’t mean that meeting? About my ‘wisp of tow,’ then?” He moved closer so that his knees positively knocked against Alyosha. His lips were strangely compressed like a thread.

“What wisp of tow?” muttered Alyosha.

“He is come to complain of me, father!” cried a voice familiar to Alyosha—the voice of the schoolboy—from behind the curtain. “I bit his finger just now.” The curtain was pulled, and Alyosha saw his assailant lying on a little bed made up on the bench and the chair in the corner under the ikons. The boy lay covered by his coat and an old wadded quilt. He was evidently unwell, and, judging by his glittering eyes, he was in a fever. He looked at Alyosha without fear, as though he felt he was at home and could not be touched.

“What! Did he bite your finger?” The captain jumped up from his chair. “Was it your finger he bit?”

“Yes. He was throwing stones with other schoolboys. There were six of them against him alone. I went up to him, and he threw a stone at me and then another at my head. I asked him what I had done to him. And then he rushed at me and bit my finger badly, I don’t know why.”

“I’ll thrash him, sir, at once—this minute!” The captain jumped up from his seat.

“But I am not complaining at all, I am simply telling you … I don’t want him to be thrashed. Besides, he seems to be ill.”

“And do you suppose I’d thrash him? That I’d take my Ilusha and thrash him before you for your satisfaction? Would you like it done at once, sir?” said the captain, suddenly turning to Alyosha, as though he were going to attack him. “I am sorry about your finger, sir; but instead of thrashing Ilusha, would you like me to chop off my four fingers with this knife here before your eyes to satisfy your just wrath? I should think four fingers would be enough to satisfy your thirst for vengeance. You won’t ask for the fifth one too?” He stopped short with a catch in his throat. Every feature in his face was twitching and working; he looked extremely defiant. He was in a sort of frenzy.

“I think I understand it all now,” said Alyosha gently and sorrowfully, still keeping his seat. “So your boy is a good boy, he loves his father, and he attacked me as the brother of your assailant…. Now I understand it,” he repeated thoughtfully. “But my brother Dmitri Fyodorovitch regrets his action, I know that, and if only it is possible for him to come to you, or better still, to meet you in that same place, he will ask your forgiveness before every one—if you wish it.”

“After pulling out my beard, you mean, he will ask my forgiveness? And he thinks that will be a satisfactory finish, doesn’t he?”

“Oh, no! On the contrary, he will do anything you like and in any way you like.”

“So if I were to ask his highness to go down on his knees before me in that very tavern—‘The Metropolis’ it’s called—or in the market‐place, he would do it?”

“Yes, he would even go down on his knees.”

“You’ve pierced me to the heart, sir. Touched me to tears and pierced me to the heart! I am only too sensible of your brother’s generosity. Allow me to introduce my family, my two daughters and my son—my litter. If I die, who will care for them, and while I live who but they will care for a wretch like me? That’s a great thing the Lord has ordained for every man of my sort, sir. For there must be some one able to love even a man like me.”

“Ah, that’s perfectly true!” exclaimed Alyosha.

“Oh, do leave off playing the fool! Some idiot comes in, and you put us to shame!” cried the girl by the window, suddenly turning to her father with a disdainful and contemptuous air.

“Wait a little, Varvara!” cried her father, speaking peremptorily but looking at her quite approvingly. “That’s her character,” he said, addressing Alyosha again.

“And in all nature there was naught
That could find favor in his eyes—

or rather in the feminine: that could find favor in her eyes. But now let me present you to my wife, Arina Petrovna. She is crippled, she is forty‐ three; she can move, but very little. She is of humble origin. Arina Petrovna, compose your countenance. This is Alexey Fyodorovitch Karamazov. Get up, Alexey Fyodorovitch.” He took him by the hand and with unexpected force pulled him up. “You must stand up to be introduced to a lady. It’s not the Karamazov, mamma, who … h’m … etcetera, but his brother, radiant with modest virtues. Come, Arina Petrovna, come, mamma, first your hand to be kissed.”

And he kissed his wife’s hand respectfully and even tenderly. The girl at the window turned her back indignantly on the scene; an expression of extraordinary cordiality came over the haughtily inquiring face of the woman.

“Good morning! Sit down, Mr. Tchernomazov,” she said.

“Karamazov, mamma, Karamazov. We are of humble origin,” he whispered again.

“Well, Karamazov, or whatever it is, but I always think of Tchernomazov…. Sit down. Why has he pulled you up? He calls me crippled, but I am not, only my legs are swollen like barrels, and I am shriveled up myself. Once I used to be so fat, but now it’s as though I had swallowed a needle.”

“We are of humble origin,” the captain muttered again.

“Oh, father, father!” the hunchback girl, who had till then been silent on her chair, said suddenly, and she hid her eyes in her handkerchief.

“Buffoon!” blurted out the girl at the window.

“Have you heard our news?” said the mother, pointing at her daughters. “It’s like clouds coming over; the clouds pass and we have music again. When we were with the army, we used to have many such guests. I don’t mean to make any comparisons; every one to their taste. The deacon’s wife used to come then and say, ‘Alexandr Alexandrovitch is a man of the noblest heart, but Nastasya Petrovna,’ she would say, ‘is of the brood of hell.’ ‘Well,’ I said, ‘that’s a matter of taste; but you are a little spitfire.’ ‘And you want keeping in your place,’ says she. ‘You black sword,’ said I, ‘who asked you to teach me?’ ‘But my breath,’ says she, ‘is clean, and yours is unclean.’ ‘You ask all the officers whether my breath is unclean.’ And ever since then I had it in my mind. Not long ago I was sitting here as I am now, when I saw that very general come in who came here for Easter, and I asked him: ‘Your Excellency,’ said I, ‘can a lady’s breath be unpleasant?’ ‘Yes,’ he answered; ‘you ought to open a window‐ pane or open the door, for the air is not fresh here.’ And they all go on like that! And what is my breath to them? The dead smell worse still! ‘I won’t spoil the air,’ said I, ‘I’ll order some slippers and go away.’ My darlings, don’t blame your own mother! Nikolay Ilyitch, how is it I can’t please you? There’s only Ilusha who comes home from school and loves me. Yesterday he brought me an apple. Forgive your own mother—forgive a poor lonely creature! Why has my breath become unpleasant to you?”

And the poor mad woman broke into sobs, and tears streamed down her cheeks. The captain rushed up to her.

“Mamma, mamma, my dear, give over! You are not lonely. Every one loves you, every one adores you.” He began kissing both her hands again and tenderly stroking her face; taking the dinner‐napkin, he began wiping away her tears. Alyosha fancied that he too had tears in his eyes. “There, you see, you hear?” he turned with a sort of fury to Alyosha, pointing to the poor imbecile.

“I see and hear,” muttered Alyosha.

“Father, father, how can you—with him! Let him alone!” cried the boy, sitting up in his bed and gazing at his father with glowing eyes.

“Do give over fooling, showing off your silly antics which never lead to anything!” shouted Varvara, stamping her foot with passion.

“Your anger is quite just this time, Varvara, and I’ll make haste to satisfy you. Come, put on your cap, Alexey Fyodorovitch, and I’ll put on mine. We will go out. I have a word to say to you in earnest, but not within these walls. This girl sitting here is my daughter Nina; I forgot to introduce her to you. She is a heavenly angel incarnate … who has flown down to us mortals,… if you can understand.”

“There he is shaking all over, as though he is in convulsions!” Varvara went on indignantly.

“And she there stamping her foot at me and calling me a fool just now, she is a heavenly angel incarnate too, and she has good reason to call me so. Come along, Alexey Fyodorovitch, we must make an end.”

And, snatching Alyosha’s hand, he drew him out of the room into the street.

Chapter VII.
And In The Open Air
“The air is fresh, but in my apartment it is not so in any sense of the word. Let us walk slowly, sir. I should be glad of your kind interest.”

“I too have something important to say to you,” observed Alyosha, “only I don’t know how to begin.”

“To be sure you must have business with me. You would never have looked in upon me without some object. Unless you come simply to complain of the boy, and that’s hardly likely. And, by the way, about the boy: I could not explain to you in there, but here I will describe that scene to you. My tow was thicker a week ago—I mean my beard. That’s the nickname they give to my beard, the schoolboys most of all. Well, your brother Dmitri Fyodorovitch was pulling me by my beard, I’d done nothing, he was in a towering rage and happened to come upon me. He dragged me out of the tavern into the market‐place; at that moment the boys were coming out of school, and with them Ilusha. As soon as he saw me in such a state he rushed up to me. ‘Father,’ he cried, ‘father!’ He caught hold of me, hugged me, tried to pull me away, crying to my assailant, ‘Let go, let go, it’s my father, forgive him!’—yes, he actually cried ‘forgive him.’ He clutched at that hand, that very hand, in his little hands and kissed it…. I remember his little face at that moment, I haven’t forgotten it and I never shall!”

“I swear,” cried Alyosha, “that my brother will express his most deep and sincere regret, even if he has to go down on his knees in that same market‐place…. I’ll make him or he is no brother of mine!”

“Aha, then it’s only a suggestion! And it does not come from him but simply from the generosity of your own warm heart. You should have said so. No, in that case allow me to tell you of your brother’s highly chivalrous soldierly generosity, for he did give expression to it at the time. He left off dragging me by my beard and released me: ‘You are an officer,’ he said, ‘and I am an officer, if you can find a decent man to be your second send me your challenge. I will give satisfaction, though you are a scoundrel.’ That’s what he said. A chivalrous spirit indeed! I retired with Ilusha, and that scene is a family record imprinted for ever on Ilusha’s soul. No, it’s not for us to claim the privileges of noblemen. Judge for yourself. You’ve just been in our mansion, what did you see there? Three ladies, one a cripple and weak‐minded, another a cripple and hunchback and the third not crippled but far too clever. She is a student, dying to get back to Petersburg, to work for the emancipation of the Russian woman on the banks of the Neva. I won’t speak of Ilusha, he is only nine. I am alone in the world, and if I die, what will become of all of them? I simply ask you that. And if I challenge him and he kills me on the spot, what then? What will become of them? And worse still, if he doesn’t kill me but only cripples me: I couldn’t work, but I should still be a mouth to feed. Who would feed it and who would feed them all? Must I take Ilusha from school and send him to beg in the streets? That’s what it means for me to challenge him to a duel. It’s silly talk and nothing else.”

“He will beg your forgiveness, he will bow down at your feet in the middle of the market‐place,” cried Alyosha again, with glowing eyes.

“I did think of prosecuting him,” the captain went on, “but look in our code, could I get much compensation for a personal injury? And then Agrafena Alexandrovna[3] sent for me and shouted at me: ‘Don’t dare to dream of it! If you proceed against him, I’ll publish it to all the world that he beat you for your dishonesty, and then you will be prosecuted.’ I call God to witness whose was the dishonesty and by whose commands I acted, wasn’t it by her own and Fyodor Pavlovitch’s? ‘And what’s more,’ she went on, ‘I’ll dismiss you for good and you’ll never earn another penny from me. I’ll speak to my merchant too’ (that’s what she calls her old man) ‘and he will dismiss you!’ And if he dismisses me, what can I earn then from any one? Those two are all I have to look to, for your Fyodor Pavlovitch has not only given over employing me, for another reason, but he means to make use of papers I’ve signed to go to law against me. And so I kept quiet, and you have seen our retreat. But now let me ask you: did Ilusha hurt your finger much? I didn’t like to go into it in our mansion before him.”

“Yes, very much, and he was in a great fury. He was avenging you on me as a Karamazov, I see that now. But if only you had seen how he was throwing stones at his school‐fellows! It’s very dangerous. They might kill him. They are children and stupid. A stone may be thrown and break somebody’s head.”

“That’s just what has happened. He has been bruised by a stone to‐day. Not on the head but on the chest, just above the heart. He came home crying and groaning and now he is ill.”

“And you know he attacks them first. He is bitter against them on your account. They say he stabbed a boy called Krassotkin with a pen‐knife not long ago.”

“I’ve heard about that too, it’s dangerous. Krassotkin is an official here, we may hear more about it.”

“I would advise you,” Alyosha went on warmly, “not to send him to school at all for a time till he is calmer … and his anger is passed.”

“Anger!” the captain repeated, “that’s just what it is. He is a little creature, but it’s a mighty anger. You don’t know all, sir. Let me tell you more. Since that incident all the boys have been teasing him about the ‘wisp of tow.’ Schoolboys are a merciless race, individually they are angels, but together, especially in schools, they are often merciless. Their teasing has stirred up a gallant spirit in Ilusha. An ordinary boy, a weak son, would have submitted, have felt ashamed of his father, sir, but he stood up for his father against them all. For his father and for truth and justice. For what he suffered when he kissed your brother’s hand and cried to him ‘Forgive father, forgive him,’—that only God knows—and I, his father. For our children—not your children, but ours—the children of the poor gentlemen looked down upon by every one—know what justice means, sir, even at nine years old. How should the rich know? They don’t explore such depths once in their lives. But at that moment in the square when he kissed his hand, at that moment my Ilusha had grasped all that justice means. That truth entered into him and crushed him for ever, sir,” the captain said hotly again with a sort of frenzy, and he struck his right fist against his left palm as though he wanted to show how “the truth” crushed Ilusha. “That very day, sir, he fell ill with fever and was delirious all night. All that day he hardly said a word to me, but I noticed he kept watching me from the corner, though he turned to the window and pretended to be learning his lessons. But I could see his mind was not on his lessons. Next day I got drunk to forget my troubles, sinful man as I am, and I don’t remember much. Mamma began crying, too—I am very fond of mamma—well, I spent my last penny drowning my troubles. Don’t despise me for that, sir, in Russia men who drink are the best. The best men amongst us are the greatest drunkards. I lay down and I don’t remember about Ilusha, though all that day the boys had been jeering at him at school. ‘Wisp of tow,’ they shouted, ‘your father was pulled out of the tavern by his wisp of tow, you ran by and begged forgiveness.’ ”

“On the third day when he came back from school, I saw he looked pale and wretched. ‘What is it?’ I asked. He wouldn’t answer. Well, there’s no talking in our mansion without mamma and the girls taking part in it. What’s more, the girls had heard about it the very first day. Varvara had begun snarling. ‘You fools and buffoons, can you ever do anything rational?’ ‘Quite so,’ I said, ‘can we ever do anything rational?’ For the time I turned it off like that. So in the evening I took the boy out for a walk, for you must know we go for a walk every evening, always the same way, along which we are going now—from our gate to that great stone which lies alone in the road under the hurdle, which marks the beginning of the town pasture. A beautiful and lonely spot, sir. Ilusha and I walked along hand in hand as usual. He has a little hand, his fingers are thin and cold—he suffers with his chest, you know. ‘Father,’ said he, ‘father!’ ‘Well?’ said I. I saw his eyes flashing. ‘Father, how he treated you then!’ ‘It can’t be helped, Ilusha,’ I said. ‘Don’t forgive him, father, don’t forgive him! At school they say that he has paid you ten roubles for it.’ ‘No, Ilusha,’ said I, ‘I would not take money from him for anything.’ Then he began trembling all over, took my hand in both his and kissed it again. ‘Father,’ he said, ‘father, challenge him to a duel, at school they say you are a coward and won’t challenge him, and that you’ll accept ten roubles from him.’ ‘I can’t challenge him to a duel, Ilusha,’ I answered. And I told briefly what I’ve just told you. He listened. ‘Father,’ he said, ‘anyway don’t forgive it. When I grow up I’ll call him out myself and kill him.’ His eyes shone and glowed. And of course I am his father, and I had to put in a word: ‘It’s a sin to kill,’ I said, ‘even in a duel.’ ‘Father,’ he said, ‘when I grow up, I’ll knock him down, knock the sword out of his hand, I’ll fall on him, wave my sword over him and say: “I could kill you, but I forgive you, so there!” ’ You see what the workings of his little mind have been during these two days; he must have been planning that vengeance all day, and raving about it at night.

“But he began to come home from school badly beaten, I found out about it the day before yesterday, and you are right, I won’t send him to that school any more. I heard that he was standing up against all the class alone and defying them all, that his heart was full of resentment, of bitterness—I was alarmed about him. We went for another walk. ‘Father,’ he asked, ‘are the rich people stronger than any one else on earth?’ ‘Yes, Ilusha,’ I said, ‘there are no people on earth stronger than the rich.’ ‘Father,’ he said, ‘I will get rich, I will become an officer and conquer everybody. The Tsar will reward me, I will come back here and then no one will dare—’ Then he was silent and his lips still kept trembling. ‘Father,’ he said, ‘what a horrid town this is.’ ‘Yes, Ilusha,’ I said, ‘it isn’t a very nice town.’ ‘Father, let us move into another town, a nice one,’ he said, ‘where people don’t know about us.’ ‘We will move, we will, Ilusha,’ said I, ‘only I must save up for it.’ I was glad to be able to turn his mind from painful thoughts, and we began to dream of how we would move to another town, how we would buy a horse and cart. ‘We will put mamma and your sisters inside, we will cover them up and we’ll walk, you shall have a lift now and then, and I’ll walk beside, for we must take care of our horse, we can’t all ride. That’s how we’ll go.’ He was enchanted at that, most of all at the thought of having a horse and driving him. For of course a Russian boy is born among horses. We chattered a long while. Thank God, I thought, I have diverted his mind and comforted him.

“That was the day before yesterday, in the evening, but last night everything was changed. He had gone to school in the morning, he came back depressed, terribly depressed. In the evening I took him by the hand and we went for a walk; he would not talk. There was a wind blowing and no sun, and a feeling of autumn; twilight was coming on. We walked along, both of us depressed. ‘Well, my boy,’ said I, ‘how about our setting off on our travels?’ I thought I might bring him back to our talk of the day before. He didn’t answer, but I felt his fingers trembling in my hand. Ah, I thought, it’s a bad job; there’s something fresh. We had reached the stone where we are now. I sat down on the stone. And in the air there were lots of kites flapping and whirling. There were as many as thirty in sight. Of course, it’s just the season for the kites. ‘Look, Ilusha,’ said I, ‘it’s time we got out our last year’s kite again. I’ll mend it, where have you put it away?’ My boy made no answer. He looked away and turned sideways to me. And then a gust of wind blew up the sand. He suddenly fell on me, threw both his little arms round my neck and held me tight. You know, when children are silent and proud, and try to keep back their tears when they are in great trouble and suddenly break down, their tears fall in streams. With those warm streams of tears, he suddenly wetted my face. He sobbed and shook as though he were in convulsions, and squeezed up against me as I sat on the stone. ‘Father,’ he kept crying, ‘dear father, how he insulted you!’ And I sobbed too. We sat shaking in each other’s arms. ‘Ilusha,’ I said to him, ‘Ilusha darling.’ No one saw us then. God alone saw us, I hope He will record it to my credit. You must thank your brother, Alexey Fyodorovitch. No, sir, I won’t thrash my boy for your satisfaction.”

He had gone back to his original tone of resentful buffoonery. Alyosha felt though that he trusted him, and that if there had been some one else in his, Alyosha’s place, the man would not have spoken so openly and would not have told what he had just told. This encouraged Alyosha, whose heart was trembling on the verge of tears.

“Ah, how I would like to make friends with your boy!” he cried. “If you could arrange it—”

“Certainly, sir,” muttered the captain.

“But now listen to something quite different!” Alyosha went on. “I have a message for you. That same brother of mine, Dmitri, has insulted his betrothed, too, a noble‐hearted girl of whom you have probably heard. I have a right to tell you of her wrong; I ought to do so, in fact, for hearing of the insult done to you and learning all about your unfortunate position, she commissioned me at once—just now—to bring you this help from her—but only from her alone, not from Dmitri, who has abandoned her. Nor from me, his brother, nor from any one else, but from her, only from her! She entreats you to accept her help…. You have both been insulted by the same man. She thought of you only when she had just received a similar insult from him—similar in its cruelty, I mean. She comes like a sister to help a brother in misfortune…. She told me to persuade you to take these two hundred roubles from her, as from a sister, knowing that you are in such need. No one will know of it, it can give rise to no unjust slander. There are the two hundred roubles, and I swear you must take them unless—unless all men are to be enemies on earth! But there are brothers even on earth…. You have a generous heart … you must see that, you must,” and Alyosha held out two new rainbow‐colored hundred‐rouble notes.

They were both standing at the time by the great stone close to the fence, and there was no one near. The notes seemed to produce a tremendous impression on the captain. He started, but at first only from astonishment. Such an outcome of their conversation was the last thing he expected. Nothing could have been farther from his dreams than help from any one—and such a sum!

He took the notes, and for a minute he was almost unable to answer, quite a new expression came into his face.

“That for me? So much money—two hundred roubles! Good heavens! Why, I haven’t seen so much money for the last four years! Mercy on us! And she says she is a sister…. And is that the truth?”

“I swear that all I told you is the truth,” cried Alyosha.

The captain flushed red.

“Listen, my dear, listen. If I take it, I shan’t be behaving like a scoundrel? In your eyes, Alexey Fyodorovitch, I shan’t be a scoundrel? No, Alexey Fyodorovitch, listen, listen,” he hurried, touching Alyosha with both his hands. “You are persuading me to take it, saying that it’s a sister sends it, but inwardly, in your heart won’t you feel contempt for me if I take it, eh?”

“No, no, on my salvation I swear I shan’t! And no one will ever know but me—I, you and she, and one other lady, her great friend.”

“Never mind the lady! Listen, Alexey Fyodorovitch, at a moment like this you must listen, for you can’t understand what these two hundred roubles mean to me now.” The poor fellow went on rising gradually into a sort of incoherent, almost wild enthusiasm. He was thrown off his balance and talked extremely fast, as though afraid he would not be allowed to say all he had to say.

“Besides its being honestly acquired from a ‘sister,’ so highly respected and revered, do you know that now I can look after mamma and Nina, my hunchback angel daughter? Doctor Herzenstube came to me in the kindness of his heart and was examining them both for a whole hour. ‘I can make nothing of it,’ said he, but he prescribed a mineral water which is kept at a chemist’s here. He said it would be sure to do her good, and he ordered baths, too, with some medicine in them. The mineral water costs thirty copecks, and she’d need to drink forty bottles perhaps; so I took the prescription and laid it on the shelf under the ikons, and there it lies. And he ordered hot baths for Nina with something dissolved in them, morning and evening. But how can we carry out such a cure in our mansion, without servants, without help, without a bath, and without water? Nina is rheumatic all over, I don’t think I told you that. All her right side aches at night, she is in agony, and, would you believe it, the angel bears it without groaning for fear of waking us. We eat what we can get, and she’ll only take the leavings, what you’d scarcely give to a dog. ‘I am not worth it, I am taking it from you, I am a burden on you,’ that’s what her angel eyes try to express. We wait on her, but she doesn’t like it. ‘I am a useless cripple, no good to any one.’ As though she were not worth it, when she is the saving of all of us with her angelic sweetness. Without her, without her gentle word it would be hell among us! She softens even Varvara. And don’t judge Varvara harshly either, she is an angel too, she, too, has suffered wrong. She came to us for the summer, and she brought sixteen roubles she had earned by lessons and saved up, to go back with to Petersburg in September, that is now. But we took her money and lived on it, so now she has nothing to go back with. Though indeed she couldn’t go back, for she has to work for us like a slave. She is like an overdriven horse with all of us on her back. She waits on us all, mends and washes, sweeps the floor, puts mamma to bed. And mamma is capricious and tearful and insane! And now I can get a servant with this money, you understand, Alexey Fyodorovitch, I can get medicines for the dear creatures, I can send my student to Petersburg, I can buy beef, I can feed them properly. Good Lord, but it’s a dream!”

Alyosha was delighted that he had brought him such happiness and that the poor fellow had consented to be made happy.

“Stay, Alexey Fyodorovitch, stay,” the captain began to talk with frenzied rapidity, carried away by a new day‐dream. “Do you know that Ilusha and I will perhaps really carry out our dream. We will buy a horse and cart, a black horse, he insists on its being black, and we will set off as we pretended the other day. I have an old friend, a lawyer in K. province, and I heard through a trustworthy man that if I were to go he’d give me a place as clerk in his office, so, who knows, maybe he would. So I’d just put mamma and Nina in the cart, and Ilusha could drive, and I’d walk, I’d walk…. Why, if I only succeed in getting one debt paid that’s owing me, I should have perhaps enough for that too!”

“There would be enough!” cried Alyosha. “Katerina Ivanovna will send you as much more as you need, and you know, I have money too, take what you want, as you would from a brother, from a friend, you can give it back later…. (You’ll get rich, you’ll get rich!) And you know you couldn’t have a better idea than to move to another province! It would be the saving of you, especially of your boy—and you ought to go quickly, before the winter, before the cold. You must write to us when you are there, and we will always be brothers…. No, it’s not a dream!”

Alyosha could have hugged him, he was so pleased. But glancing at him he stopped short. The man was standing with his neck outstretched and his lips protruding, with a pale and frenzied face. His lips were moving as though trying to articulate something; no sound came, but still his lips moved. It was uncanny.

“What is it?” asked Alyosha, startled.

“Alexey Fyodorovitch … I … you,” muttered the captain, faltering, looking at him with a strange, wild, fixed stare, and an air of desperate resolution. At the same time there was a sort of grin on his lips. “I … you, sir … wouldn’t you like me to show you a little trick I know?” he murmured, suddenly, in a firm rapid whisper, his voice no longer faltering.

“What trick?”

“A pretty trick,” whispered the captain. His mouth was twisted on the left side, his left eye was screwed up. He still stared at Alyosha.

“What is the matter? What trick?” Alyosha cried, now thoroughly alarmed.

“Why, look,” squealed the captain suddenly, and showing him the two notes which he had been holding by one corner between his thumb and forefinger during the conversation, he crumpled them up savagely and squeezed them tight in his right hand. “Do you see, do you see?” he shrieked, pale and infuriated. And suddenly flinging up his hand, he threw the crumpled notes on the sand. “Do you see?” he shrieked again, pointing to them. “Look there!”

And with wild fury he began trampling them under his heel, gasping and exclaiming as he did so:

“So much for your money! So much for your money! So much for your money! So much for your money!”

Suddenly he darted back and drew himself up before Alyosha, and his whole figure expressed unutterable pride.

“Tell those who sent you that the wisp of tow does not sell his honor,” he cried, raising his arm in the air. Then he turned quickly and began to run; but he had not run five steps before he turned completely round and kissed his hand to Alyosha. He ran another five paces and then turned round for the last time. This time his face was not contorted with laughter, but quivering all over with tears. In a tearful, faltering, sobbing voice he cried:

“What should I say to my boy if I took money from you for our shame?”

And then he ran on without turning. Alyosha looked after him, inexpressibly grieved. Oh, he saw that till the very last moment the man had not known he would crumple up and fling away the notes. He did not turn back. Alyosha knew he would not. He would not follow him and call him back, he knew why. When he was out of sight, Alyosha picked up the two notes. They were very much crushed and crumpled, and had been pressed into the sand, but were uninjured and even rustled like new ones when Alyosha unfolded them and smoothed them out. After smoothing them out, he folded them up, put them in his pocket and went to Katerina Ivanovna to report on the success of her commission.

Book V. Pro And Contra
Chapter I.
The Engagement
Madame Hohlakov was again the first to meet Alyosha. She was flustered; something important had happened. Katerina Ivanovna’s hysterics had ended in a fainting fit, and then “a terrible, awful weakness had followed, she lay with her eyes turned up and was delirious. Now she was in a fever. They had sent for Herzenstube; they had sent for the aunts. The aunts were already here, but Herzenstube had not yet come. They were all sitting in her room, waiting. She was unconscious now, and what if it turned to brain fever!”

Madame Hohlakov looked gravely alarmed. “This is serious, serious,” she added at every word, as though nothing that had happened to her before had been serious. Alyosha listened with distress, and was beginning to describe his adventures, but she interrupted him at the first words. She had not time to listen. She begged him to sit with Lise and wait for her there.

“Lise,” she whispered almost in his ear, “Lise has greatly surprised me just now, dear Alexey Fyodorovitch. She touched me, too, and so my heart forgives her everything. Only fancy, as soon as you had gone, she began to be truly remorseful for having laughed at you to‐day and yesterday, though she was not laughing at you, but only joking. But she was seriously sorry for it, almost ready to cry, so that I was quite surprised. She has never been really sorry for laughing at me, but has only made a joke of it. And you know she is laughing at me every minute. But this time she was in earnest. She thinks a great deal of your opinion, Alexey Fyodorovitch, and don’t take offense or be wounded by her if you can help it. I am never hard upon her, for she’s such a clever little thing. Would you believe it? She said just now that you were a friend of her childhood, ‘the greatest friend of her childhood’—just think of that—‘greatest friend’—and what about me? She has very strong feelings and memories, and, what’s more, she uses these phrases, most unexpected words, which come out all of a sudden when you least expect them. She spoke lately about a pine‐tree, for instance: there used to be a pine‐tree standing in our garden in her early childhood. Very likely it’s standing there still; so there’s no need to speak in the past tense. Pine‐trees are not like people, Alexey Fyodorovitch, they don’t change quickly. ‘Mamma,’ she said, ‘I remember this pine‐tree as in a dream,’ only she said something so original about it that I can’t repeat it. Besides, I’ve forgotten it. Well, good‐by! I am so worried I feel I shall go out of my mind. Ah! Alexey Fyodorovitch, I’ve been out of my mind twice in my life. Go to Lise, cheer her up, as you always can so charmingly. Lise,” she cried, going to her door, “here I’ve brought you Alexey Fyodorovitch, whom you insulted so. He is not at all angry, I assure you; on the contrary, he is surprised that you could suppose so.”

“Merci, maman. Come in, Alexey Fyodorovitch.”

Alyosha went in. Lise looked rather embarrassed, and at once flushed crimson. She was evidently ashamed of something, and, as people always do in such cases, she began immediately talking of other things, as though they were of absorbing interest to her at the moment.

“Mamma has just told me all about the two hundred roubles, Alexey Fyodorovitch, and your taking them to that poor officer … and she told me all the awful story of how he had been insulted … and you know, although mamma muddles things … she always rushes from one thing to another … I cried when I heard. Well, did you give him the money and how is that poor man getting on?”

“The fact is I didn’t give it to him, and it’s a long story,” answered Alyosha, as though he, too, could think of nothing but his regret at having failed, yet Lise saw perfectly well that he, too, looked away, and that he, too, was trying to talk of other things.

Alyosha sat down to the table and began to tell his story, but at the first words he lost his embarrassment and gained the whole of Lise’s attention as well. He spoke with deep feeling, under the influence of the strong impression he had just received, and he succeeded in telling his story well and circumstantially. In old days in Moscow he had been fond of coming to Lise and describing to her what had just happened to him, what he had read, or what he remembered of his childhood. Sometimes they had made day‐dreams and woven whole romances together—generally cheerful and amusing ones. Now they both felt suddenly transported to the old days in Moscow, two years before. Lise was extremely touched by his story. Alyosha described Ilusha with warm feeling. When he finished describing how the luckless man trampled on the money, Lise could not help clasping her hands and crying out:

“So you didn’t give him the money! So you let him run away! Oh, dear, you ought to have run after him!”

“No, Lise; it’s better I didn’t run after him,” said Alyosha, getting up from his chair and walking thoughtfully across the room.

“How so? How is it better? Now they are without food and their case is hopeless?”

“Not hopeless, for the two hundred roubles will still come to them. He’ll take the money to‐morrow. To‐morrow he will be sure to take it,” said Alyosha, pacing up and down, pondering. “You see, Lise,” he went on, stopping suddenly before her, “I made one blunder, but that, even that, is all for the best.”

“What blunder, and why is it for the best?”

“I’ll tell you. He is a man of weak and timorous character; he has suffered so much and is very good‐natured. I keep wondering why he took offense so suddenly, for I assure you, up to the last minute, he did not know that he was going to trample on the notes. And I think now that there was a great deal to offend him … and it could not have been otherwise in his position…. To begin with, he was sore at having been so glad of the money in my presence and not having concealed it from me. If he had been pleased, but not so much; if he had not shown it; if he had begun affecting scruples and difficulties, as other people do when they take money, he might still endure to take it. But he was too genuinely delighted, and that was mortifying. Ah, Lise, he is a good and truthful man—that’s the worst of the whole business. All the while he talked, his voice was so weak, so broken, he talked so fast, so fast, he kept laughing such a laugh, or perhaps he was crying—yes, I am sure he was crying, he was so delighted—and he talked about his daughters—and about the situation he could get in another town…. And when he had poured out his heart, he felt ashamed at having shown me his inmost soul like that. So he began to hate me at once. He is one of those awfully sensitive poor people. What had made him feel most ashamed was that he had given in too soon and accepted me as a friend, you see. At first he almost flew at me and tried to intimidate me, but as soon as he saw the money he had begun embracing me; he kept touching me with his hands. This must have been how he came to feel it all so humiliating, and then I made that blunder, a very important one. I suddenly said to him that if he had not money enough to move to another town, we would give it to him, and, indeed, I myself would give him as much as he wanted out of my own money. That struck him all at once. Why, he thought, did I put myself forward to help him? You know, Lise, it’s awfully hard for a man who has been injured, when other people look at him as though they were his benefactors…. I’ve heard that; Father Zossima told me so. I don’t know how to put it, but I have often seen it myself. And I feel like that myself, too. And the worst of it was that though he did not know, up to the very last minute, that he would trample on the notes, he had a kind of presentiment of it, I am sure of that. That’s just what made him so ecstatic, that he had that presentiment…. And though it’s so dreadful, it’s all for the best. In fact, I believe nothing better could have happened.”

“Why, why could nothing better have happened?” cried Lise, looking with great surprise at Alyosha.

“Because if he had taken the money, in an hour after getting home, he would be crying with mortification, that’s just what would have happened. And most likely he would have come to me early to‐morrow, and perhaps have flung the notes at me and trampled upon them as he did just now. But now he has gone home awfully proud and triumphant, though he knows he has ‘ruined himself.’ So now nothing could be easier than to make him accept the two hundred roubles by to‐morrow, for he has already vindicated his honor, tossed away the money, and trampled it under foot…. He couldn’t know when he did it that I should bring it to him again to‐morrow, and yet he is in terrible need of that money. Though he is proud of himself now, yet even to‐day he’ll be thinking what a help he has lost. He will think of it more than ever at night, will dream of it, and by to‐morrow morning he may be ready to run to me to ask forgiveness. It’s just then that I’ll appear. ‘Here, you are a proud man,’ I shall say: ‘you have shown it; but now take the money and forgive us!’ And then he will take it!”

Alyosha was carried away with joy as he uttered his last words, “And then he will take it!” Lise clapped her hands.

“Ah, that’s true! I understand that perfectly now. Ah, Alyosha, how do you know all this? So young and yet he knows what’s in the heart…. I should never have worked it out.”

“The great thing now is to persuade him that he is on an equal footing with us, in spite of his taking money from us,” Alyosha went on in his excitement, “and not only on an equal, but even on a higher footing.”

“ ‘On a higher footing’ is charming, Alexey Fyodorovitch; but go on, go on!”

“You mean there isn’t such an expression as ‘on a higher footing’; but that doesn’t matter because—”

“Oh, no, of course it doesn’t matter. Forgive me, Alyosha, dear…. You know, I scarcely respected you till now—that is I respected you but on an equal footing; but now I shall begin to respect you on a higher footing. Don’t be angry, dear, at my joking,” she put in at once, with strong feeling. “I am absurd and small, but you, you! Listen, Alexey Fyodorovitch. Isn’t there in all our analysis—I mean your analysis … no, better call it ours—aren’t we showing contempt for him, for that poor man—in analyzing his soul like this, as it were, from above, eh? In deciding so certainly that he will take the money?”

“No, Lise, it’s not contempt,” Alyosha answered, as though he had prepared himself for the question. “I was thinking of that on the way here. How can it be contempt when we are all like him, when we are all just the same as he is? For you know we are just the same, no better. If we are better, we should have been just the same in his place…. I don’t know about you, Lise, but I consider that I have a sordid soul in many ways, and his soul is not sordid; on the contrary, full of fine feeling…. No, Lise, I have no contempt for him. Do you know, Lise, my elder told me once to care for most people exactly as one would for children, and for some of them as one would for the sick in hospitals.”

“Ah, Alexey Fyodorovitch, dear, let us care for people as we would for the sick!”

“Let us, Lise; I am ready. Though I am not altogether ready in myself. I am sometimes very impatient and at other times I don’t see things. It’s different with you.”

“Ah, I don’t believe it! Alexey Fyodorovitch, how happy I am!”

“I am so glad you say so, Lise.”

“Alexey Fyodorovitch, you are wonderfully good, but you are sometimes sort of formal…. And yet you are not a bit formal really. Go to the door, open it gently, and see whether mamma is listening,” said Lise, in a nervous, hurried whisper.

Alyosha went, opened the door, and reported that no one was listening.

“Come here, Alexey Fyodorovitch,” Lise went on, flushing redder and redder. “Give me your hand—that’s right. I have to make a great confession, I didn’t write to you yesterday in joke, but in earnest,” and she hid her eyes with her hand. It was evident that she was greatly ashamed of the confession.

Suddenly she snatched his hand and impulsively kissed it three times.

“Ah, Lise, what a good thing!” cried Alyosha joyfully. “You know, I was perfectly sure you were in earnest.”

“Sure? Upon my word!” She put aside his hand, but did not leave go of it, blushing hotly, and laughing a little happy laugh. “I kiss his hand and he says, ‘What a good thing!’ ”

But her reproach was undeserved. Alyosha, too, was greatly overcome.

“I should like to please you always, Lise, but I don’t know how to do it,” he muttered, blushing too.

“Alyosha, dear, you are cold and rude. Do you see? He has chosen me as his wife and is quite settled about it. He is sure I was in earnest. What a thing to say! Why, that’s impertinence—that’s what it is.”

“Why, was it wrong of me to feel sure?” Alyosha asked, laughing suddenly.

“Ah, Alyosha, on the contrary, it was delightfully right,” cried Lise, looking tenderly and happily at him.

Alyosha stood still, holding her hand in his. Suddenly he stooped down and kissed her on her lips.

“Oh, what are you doing?” cried Lise. Alyosha was terribly abashed.

“Oh, forgive me if I shouldn’t…. Perhaps I’m awfully stupid…. You said I was cold, so I kissed you…. But I see it was stupid.”

Lise laughed, and hid her face in her hands. “And in that dress!” she ejaculated in the midst of her mirth. But she suddenly ceased laughing and became serious, almost stern.

“Alyosha, we must put off kissing. We are not ready for that yet, and we shall have a long time to wait,” she ended suddenly. “Tell me rather why you who are so clever, so intellectual, so observant, choose a little idiot, an invalid like me? Ah, Alyosha, I am awfully happy, for I don’t deserve you a bit.”

“You do, Lise. I shall be leaving the monastery altogether in a few days. If I go into the world, I must marry. I know that. He told me to marry, too. Whom could I marry better than you—and who would have me except you? I have been thinking it over. In the first place, you’ve known me from a child and you’ve a great many qualities I haven’t. You are more light‐ hearted than I am; above all, you are more innocent than I am. I have been brought into contact with many, many things already…. Ah, you don’t know, but I, too, am a Karamazov. What does it matter if you do laugh and make jokes, and at me, too? Go on laughing. I am so glad you do. You laugh like a little child, but you think like a martyr.”

“Like a martyr? How?”

“Yes, Lise, your question just now: whether we weren’t showing contempt for that poor man by dissecting his soul—that was the question of a sufferer…. You see, I don’t know how to express it, but any one who thinks of such questions is capable of suffering. Sitting in your invalid chair you must have thought over many things already.”

“Alyosha, give me your hand. Why are you taking it away?” murmured Lise in a failing voice, weak with happiness. “Listen, Alyosha. What will you wear when you come out of the monastery? What sort of suit? Don’t laugh, don’t be angry, it’s very, very important to me.”

“I haven’t thought about the suit, Lise; but I’ll wear whatever you like.”

“I should like you to have a dark blue velvet coat, a white piqué waistcoat, and a soft gray felt hat…. Tell me, did you believe that I didn’t care for you when I said I didn’t mean what I wrote?”

“No, I didn’t believe it.”

“Oh, you insupportable person, you are incorrigible.”

“You see, I knew that you—seemed to care for me, but I pretended to believe that you didn’t care for me to make it—easier for you.”

“That makes it worse! Worse and better than all! Alyosha, I am awfully fond of you. Just before you came this morning, I tried my fortune. I decided I would ask you for my letter, and if you brought it out calmly and gave it to me (as might have been expected from you) it would mean that you did not love me at all, that you felt nothing, and were simply a stupid boy, good for nothing, and that I am ruined. But you left the letter at home and that cheered me. You left it behind on purpose, so as not to give it back, because you knew I would ask for it? That was it, wasn’t it?”

“Ah, Lise, it was not so a bit. The letter is with me now, and it was this morning, in this pocket. Here it is.”

Alyosha pulled the letter out laughing, and showed it her at a distance.

“But I am not going to give it to you. Look at it from here.”

“Why, then you told a lie? You, a monk, told a lie!”

“I told a lie if you like,” Alyosha laughed, too. “I told a lie so as not to give you back the letter. It’s very precious to me,” he added suddenly, with strong feeling, and again he flushed. “It always will be, and I won’t give it up to any one!”

Lise looked at him joyfully. “Alyosha,” she murmured again, “look at the door. Isn’t mamma listening?”

“Very well, Lise, I’ll look; but wouldn’t it be better not to look? Why suspect your mother of such meanness?”

“What meanness? As for her spying on her daughter, it’s her right, it’s not meanness!” cried Lise, firing up. “You may be sure, Alexey Fyodorovitch, that when I am a mother, if I have a daughter like myself I shall certainly spy on her!”

“Really, Lise? That’s not right.”

“Oh, my goodness! What has meanness to do with it? If she were listening to some ordinary worldly conversation, it would be meanness, but when her own daughter is shut up with a young man…. Listen, Alyosha, do you know I shall spy upon you as soon as we are married, and let me tell you I shall open all your letters and read them, so you may as well be prepared.”

“Yes, of course, if so—” muttered Alyosha, “only it’s not right.”

“Ah, how contemptuous! Alyosha, dear, we won’t quarrel the very first day. I’d better tell you the whole truth. Of course, it’s very wrong to spy on people, and, of course, I am not right and you are, only I shall spy on you all the same.”

“Do, then; you won’t find out anything,” laughed Alyosha.

“And, Alyosha, will you give in to me? We must decide that too.”

“I shall be delighted to, Lise, and certain to, only not in the most important things. Even if you don’t agree with me, I shall do my duty in the most important things.”

“That’s right; but let me tell you I am ready to give in to you not only in the most important matters, but in everything. And I am ready to vow to do so now—in everything, and for all my life!” cried Lise fervently, “and I’ll do it gladly, gladly! What’s more, I’ll swear never to spy on you, never once, never to read one of your letters. For you are right and I am not. And though I shall be awfully tempted to spy, I know that I won’t do it since you consider it dishonorable. You are my conscience now…. Listen, Alexey Fyodorovitch, why have you been so sad lately—both yesterday and to‐day? I know you have a lot of anxiety and trouble, but I see you have some special grief besides, some secret one, perhaps?”

“Yes, Lise, I have a secret one, too,” answered Alyosha mournfully. “I see you love me, since you guessed that.”

“What grief? What about? Can you tell me?” asked Lise with timid entreaty.

“I’ll tell you later, Lise—afterwards,” said Alyosha, confused. “Now you wouldn’t understand it perhaps—and perhaps I couldn’t explain it.”

“I know your brothers and your father are worrying you, too.”

“Yes, my brothers too,” murmured Alyosha, pondering.

“I don’t like your brother Ivan, Alyosha,” said Lise suddenly.

He noticed this remark with some surprise, but did not answer it.

“My brothers are destroying themselves,” he went on, “my father, too. And they are destroying others with them. It’s ‘the primitive force of the Karamazovs,’ as Father Païssy said the other day, a crude, unbridled, earthly force. Does the spirit of God move above that force? Even that I don’t know. I only know that I, too, am a Karamazov…. Me a monk, a monk! Am I a monk, Lise? You said just now that I was.”

“Yes, I did.”

“And perhaps I don’t even believe in God.”

“You don’t believe? What is the matter?” said Lise quietly and gently. But Alyosha did not answer. There was something too mysterious, too subjective in these last words of his, perhaps obscure to himself, but yet torturing him.

“And now on the top of it all, my friend, the best man in the world, is going, is leaving the earth! If you knew, Lise, how bound up in soul I am with him! And then I shall be left alone…. I shall come to you, Lise…. For the future we will be together.”

“Yes, together, together! Henceforward we shall be always together, all our lives! Listen, kiss me, I allow you.”

Alyosha kissed her.

“Come, now go. Christ be with you!” and she made the sign of the cross over him. “Make haste back to him while he is alive. I see I’ve kept you cruelly. I’ll pray to‐day for him and you. Alyosha, we shall be happy! Shall we be happy, shall we?”

“I believe we shall, Lise.”

Alyosha thought it better not to go in to Madame Hohlakov and was going out of the house without saying good‐by to her. But no sooner had he opened the door than he found Madame Hohlakov standing before him. From the first word Alyosha guessed that she had been waiting on purpose to meet him.

“Alexey Fyodorovitch, this is awful. This is all childish nonsense and ridiculous. I trust you won’t dream—It’s foolishness, nothing but foolishness!” she said, attacking him at once.

“Only don’t tell her that,” said Alyosha, “or she will be upset, and that’s bad for her now.”

“Sensible advice from a sensible young man. Am I to understand that you only agreed with her from compassion for her invalid state, because you didn’t want to irritate her by contradiction?”

“Oh, no, not at all. I was quite serious in what I said,” Alyosha declared stoutly.

“To be serious about it is impossible, unthinkable, and in the first place I shall never be at home to you again, and I shall take her away, you may be sure of that.”

“But why?” asked Alyosha. “It’s all so far off. We may have to wait another year and a half.”

“Ah, Alexey Fyodorovitch, that’s true, of course, and you’ll have time to quarrel and separate a thousand times in a year and a half. But I am so unhappy! Though it’s such nonsense, it’s a great blow to me. I feel like Famusov in the last scene of Sorrow from Wit. You are Tchatsky and she is Sofya, and, only fancy, I’ve run down to meet you on the stairs, and in the play the fatal scene takes place on the staircase. I heard it all; I almost dropped. So this is the explanation of her dreadful night and her hysterics of late! It means love to the daughter but death to the mother. I might as well be in my grave at once. And a more serious matter still, what is this letter she has written? Show it me at once, at once!”

“No, there’s no need. Tell me, how is Katerina Ivanovna now? I must know.”

“She still lies in delirium; she has not regained consciousness. Her aunts are here; but they do nothing but sigh and give themselves airs. Herzenstube came, and he was so alarmed that I didn’t know what to do for him. I nearly sent for a doctor to look after him. He was driven home in my carriage. And on the top of it all, you and this letter! It’s true nothing can happen for a year and a half. In the name of all that’s holy, in the name of your dying elder, show me that letter, Alexey Fyodorovitch. I’m her mother. Hold it in your hand, if you like, and I will read it so.”

“No, I won’t show it to you. Even if she sanctioned it, I wouldn’t. I am coming to‐morrow, and if you like, we can talk over many things, but now good‐by!”

And Alyosha ran downstairs and into the street.

Chapter II.
Smerdyakov With A Guitar
He had no time to lose indeed. Even while he was saying good‐by to Lise, the thought had struck him that he must attempt some stratagem to find his brother Dmitri, who was evidently keeping out of his way. It was getting late, nearly three o’clock. Alyosha’s whole soul turned to the monastery, to his dying saint, but the necessity of seeing Dmitri outweighed everything. The conviction that a great inevitable catastrophe was about to happen grew stronger in Alyosha’s mind with every hour. What that catastrophe was, and what he would say at that moment to his brother, he could perhaps not have said definitely. “Even if my benefactor must die without me, anyway I won’t have to reproach myself all my life with the thought that I might have saved something and did not, but passed by and hastened home. If I do as I intend, I shall be following his great precept.”

His plan was to catch his brother Dmitri unawares, to climb over the fence, as he had the day before, get into the garden and sit in the summer‐house. If Dmitri were not there, thought Alyosha, he would not announce himself to Foma or the women of the house, but would remain hidden in the summer‐house, even if he had to wait there till evening. If, as before, Dmitri were lying in wait for Grushenka to come, he would be very likely to come to the summer‐house. Alyosha did not, however, give much thought to the details of his plan, but resolved to act upon it, even if it meant not getting back to the monastery that day.

Everything happened without hindrance, he climbed over the hurdle almost in the same spot as the day before, and stole into the summer‐house unseen. He did not want to be noticed. The woman of the house and Foma too, if he were here, might be loyal to his brother and obey his instructions, and so refuse to let Alyosha come into the garden, or might warn Dmitri that he was being sought and inquired for.

There was no one in the summer‐house. Alyosha sat down and began to wait. He looked round the summer‐house, which somehow struck him as a great deal more ancient than before. Though the day was just as fine as yesterday, it seemed a wretched little place this time. There was a circle on the table, left no doubt from the glass of brandy having been spilt the day before. Foolish and irrelevant ideas strayed about his mind, as they always do in a time of tedious waiting. He wondered, for instance, why he had sat down precisely in the same place as before, why not in the other seat. At last he felt very depressed—depressed by suspense and uncertainty. But he had not sat there more than a quarter of an hour, when he suddenly heard the thrum of a guitar somewhere quite close. People were sitting, or had only just sat down, somewhere in the bushes not more than twenty paces away. Alyosha suddenly recollected that on coming out of the summer‐house the day before, he had caught a glimpse of an old green low garden‐seat among the bushes on the left, by the fence. The people must be sitting on it now. Who were they?

A man’s voice suddenly began singing in a sugary falsetto, accompanying himself on the guitar:

With invincible force
I am bound to my dear.
O Lord, have mercy
On her and on me!
On her and on me!
On her and on me!

The voice ceased. It was a lackey’s tenor and a lackey’s song. Another voice, a woman’s, suddenly asked insinuatingly and bashfully, though with mincing affectation:

“Why haven’t you been to see us for so long, Pavel Fyodorovitch? Why do you always look down upon us?”

“Not at all,” answered a man’s voice politely, but with emphatic dignity. It was clear that the man had the best of the position, and that the woman was making advances. “I believe the man must be Smerdyakov,” thought Alyosha, “from his voice. And the lady must be the daughter of the house here, who has come from Moscow, the one who wears the dress with a tail and goes to Marfa for soup.”

“I am awfully fond of verses of all kinds, if they rhyme,” the woman’s voice continued. “Why don’t you go on?”

The man sang again:

What do I care for royal wealth
If but my dear one be in health?
Lord have mercy
On her and on me!
On her and on me!
On her and on me!

“It was even better last time,” observed the woman’s voice. “You sang ‘If my darling be in health’; it sounded more tender. I suppose you’ve forgotten to‐day.”

“Poetry is rubbish!” said Smerdyakov curtly.

“Oh, no! I am very fond of poetry.”

“So far as it’s poetry, it’s essential rubbish. Consider yourself, who ever talks in rhyme? And if we were all to talk in rhyme, even though it were decreed by government, we shouldn’t say much, should we? Poetry is no good, Marya Kondratyevna.”

“How clever you are! How is it you’ve gone so deep into everything?” The woman’s voice was more and more insinuating.

“I could have done better than that. I could have known more than that, if it had not been for my destiny from my childhood up. I would have shot a man in a duel if he called me names because I am descended from a filthy beggar and have no father. And they used to throw it in my teeth in Moscow. It had reached them from here, thanks to Grigory Vassilyevitch. Grigory Vassilyevitch blames me for rebelling against my birth, but I would have sanctioned their killing me before I was born that I might not have come into the world at all. They used to say in the market, and your mamma too, with great lack of delicacy, set off telling me that her hair was like a mat on her head, and that she was short of five foot by a wee bit. Why talk of a wee bit while she might have said ‘a little bit,’ like every one else? She wanted to make it touching, a regular peasant’s feeling. Can a Russian peasant be said to feel, in comparison with an educated man? He can’t be said to have feeling at all, in his ignorance. From my childhood up when I hear ‘a wee bit,’ I am ready to burst with rage. I hate all Russia, Marya Kondratyevna.”

“If you’d been a cadet in the army, or a young hussar, you wouldn’t have talked like that, but would have drawn your saber to defend all Russia.”

“I don’t want to be a hussar, Marya Kondratyevna, and, what’s more, I should like to abolish all soldiers.”

“And when an enemy comes, who is going to defend us?”

“There’s no need of defense. In 1812 there was a great invasion of Russia by Napoleon, first Emperor of the French, father of the present one, and it would have been a good thing if they had conquered us. A clever nation would have conquered a very stupid one and annexed it. We should have had quite different institutions.”

“Are they so much better in their own country than we are? I wouldn’t change a dandy I know of for three young Englishmen,” observed Marya Kondratyevna tenderly, doubtless accompanying her words with a most languishing glance.

“That’s as one prefers.”

“But you are just like a foreigner—just like a most gentlemanly foreigner. I tell you that, though it makes me bashful.”

“If you care to know, the folks there and ours here are just alike in their vice. They are swindlers, only there the scoundrel wears polished boots and here he grovels in filth and sees no harm in it. The Russian people want thrashing, as Fyodor Pavlovitch said very truly yesterday, though he is mad, and all his children.”

“You said yourself you had such a respect for Ivan Fyodorovitch.”

“But he said I was a stinking lackey. He thinks that I might be unruly. He is mistaken there. If I had a certain sum in my pocket, I would have left here long ago. Dmitri Fyodorovitch is lower than any lackey in his behavior, in his mind, and in his poverty. He doesn’t know how to do anything, and yet he is respected by every one. I may be only a soup‐ maker, but with luck I could open a café restaurant in Petrovka, in Moscow, for my cookery is something special, and there’s no one in Moscow, except the foreigners, whose cookery is anything special. Dmitri Fyodorovitch is a beggar, but if he were to challenge the son of the first count in the country, he’d fight him. Though in what way is he better than I am? For he is ever so much stupider than I am. Look at the money he has wasted without any need!”

“It must be lovely, a duel,” Marya Kondratyevna observed suddenly.

“How so?”

“It must be so dreadful and so brave, especially when young officers with pistols in their hands pop at one another for the sake of some lady. A perfect picture! Ah, if only girls were allowed to look on, I’d give anything to see one!”

“It’s all very well when you are firing at some one, but when he is firing straight in your mug, you must feel pretty silly. You’d be glad to run away, Marya Kondratyevna.”

“You don’t mean you would run away?” But Smerdyakov did not deign to reply. After a moment’s silence the guitar tinkled again, and he sang again in the same falsetto:

Whatever you may say,
I shall go far away.
Life will be bright and gay
In the city far away.
I shall not grieve,
I shall not grieve at all,
I don’t intend to grieve at all.

Then something unexpected happened. Alyosha suddenly sneezed. They were silent. Alyosha got up and walked towards them. He found Smerdyakov dressed up and wearing polished boots, his hair pomaded, and perhaps curled. The guitar lay on the garden‐seat. His companion was the daughter of the house, wearing a light‐blue dress with a train two yards long. She was young and would not have been bad‐looking, but that her face was so round and terribly freckled.

“Will my brother Dmitri soon be back?” asked Alyosha with as much composure as he could.

Smerdyakov got up slowly; Marya Kondratyevna rose too.

“How am I to know about Dmitri Fyodorovitch? It’s not as if I were his keeper,” answered Smerdyakov quietly, distinctly, and superciliously.

“But I simply asked whether you do know?” Alyosha explained.

“I know nothing of his whereabouts and don’t want to.”

“But my brother told me that you let him know all that goes on in the house, and promised to let him know when Agrafena Alexandrovna comes.”

Smerdyakov turned a deliberate, unmoved glance upon him.

“And how did you get in this time, since the gate was bolted an hour ago?” he asked, looking at Alyosha.

“I came in from the back‐alley, over the fence, and went straight to the summer‐house. I hope you’ll forgive me,” he added, addressing Marya Kondratyevna. “I was in a hurry to find my brother.”

“Ach, as though we could take it amiss in you!” drawled Marya Kondratyevna, flattered by Alyosha’s apology. “For Dmitri Fyodorovitch often goes to the summer‐house in that way. We don’t know he is here and he is sitting in the summer‐house.”

“I am very anxious to find him, or to learn from you where he is now. Believe me, it’s on business of great importance to him.”

“He never tells us,” lisped Marya Kondratyevna.

“Though I used to come here as a friend,” Smerdyakov began again, “Dmitri Fyodorovitch has pestered me in a merciless way even here by his incessant questions about the master. ‘What news?’ he’ll ask. ‘What’s going on in there now? Who’s coming and going?’ and can’t I tell him something more. Twice already he’s threatened me with death.”

“With death?” Alyosha exclaimed in surprise.

“Do you suppose he’d think much of that, with his temper, which you had a chance of observing yourself yesterday? He says if I let Agrafena Alexandrovna in and she passes the night there, I’ll be the first to suffer for it. I am terribly afraid of him, and if I were not even more afraid of doing so, I ought to let the police know. God only knows what he might not do!”

“His honor said to him the other day, ‘I’ll pound you in a mortar!’ ” added Marya Kondratyevna.

“Oh, if it’s pounding in a mortar, it may be only talk,” observed Alyosha. “If I could meet him, I might speak to him about that too.”

“Well, the only thing I can tell you is this,” said Smerdyakov, as though thinking better of it; “I am here as an old friend and neighbor, and it would be odd if I didn’t come. On the other hand, Ivan Fyodorovitch sent me first thing this morning to your brother’s lodging in Lake Street, without a letter, but with a message to Dmitri Fyodorovitch to go to dine with him at the restaurant here, in the market‐place. I went, but didn’t find Dmitri Fyodorovitch at home, though it was eight o’clock. ‘He’s been here, but he is quite gone,’ those were the very words of his landlady. It’s as though there was an understanding between them. Perhaps at this moment he is in the restaurant with Ivan Fyodorovitch, for Ivan Fyodorovitch has not been home to dinner and Fyodor Pavlovitch dined alone an hour ago, and is gone to lie down. But I beg you most particularly not to speak of me and of what I have told you, for he’d kill me for nothing at all.”

“Brother Ivan invited Dmitri to the restaurant to‐day?” repeated Alyosha quickly.

“That’s so.”

“The Metropolis tavern in the market‐place?”

“The very same.”

“That’s quite likely,” cried Alyosha, much excited. “Thank you, Smerdyakov; that’s important. I’ll go there at once.”

“Don’t betray me,” Smerdyakov called after him.

“Oh, no, I’ll go to the tavern as though by chance. Don’t be anxious.”

“But wait a minute, I’ll open the gate to you,” cried Marya Kondratyevna.

“No; it’s a short cut, I’ll get over the fence again.”

What he had heard threw Alyosha into great agitation. He ran to the tavern. It was impossible for him to go into the tavern in his monastic dress, but he could inquire at the entrance for his brothers and call them down. But just as he reached the tavern, a window was flung open, and his brother Ivan called down to him from it.

“Alyosha, can’t you come up here to me? I shall be awfully grateful.”

“To be sure I can, only I don’t quite know whether in this dress—”

“But I am in a room apart. Come up the steps; I’ll run down to meet you.”

A minute later Alyosha was sitting beside his brother. Ivan was alone dining.

Chapter III.
The Brothers Make Friends
Ivan was not, however, in a separate room, but only in a place shut off by a screen, so that it was unseen by other people in the room. It was the first room from the entrance with a buffet along the wall. Waiters were continually darting to and fro in it. The only customer in the room was an old retired military man drinking tea in a corner. But there was the usual bustle going on in the other rooms of the tavern; there were shouts for the waiters, the sound of popping corks, the click of billiard balls, the drone of the organ. Alyosha knew that Ivan did not usually visit this tavern and disliked taverns in general. So he must have come here, he reflected, simply to meet Dmitri by arrangement. Yet Dmitri was not there.

“Shall I order you fish, soup or anything. You don’t live on tea alone, I suppose,” cried Ivan, apparently delighted at having got hold of Alyosha. He had finished dinner and was drinking tea.

“Let me have soup, and tea afterwards, I am hungry,” said Alyosha gayly.

“And cherry jam? They have it here. You remember how you used to love cherry jam when you were little?”

“You remember that? Let me have jam too, I like it still.”

Ivan rang for the waiter and ordered soup, jam and tea.

“I remember everything, Alyosha, I remember you till you were eleven, I was nearly fifteen. There’s such a difference between fifteen and eleven that brothers are never companions at those ages. I don’t know whether I was fond of you even. When I went away to Moscow for the first few years I never thought of you at all. Then, when you came to Moscow yourself, we only met once somewhere, I believe. And now I’ve been here more than three months, and so far we have scarcely said a word to each other. To‐morrow I am going away, and I was just thinking as I sat here how I could see you to say good‐by and just then you passed.”

“Were you very anxious to see me, then?”

“Very. I want to get to know you once for all, and I want you to know me. And then to say good‐by. I believe it’s always best to get to know people just before leaving them. I’ve noticed how you’ve been looking at me these three months. There has been a continual look of expectation in your eyes, and I can’t endure that. That’s how it is I’ve kept away from you. But in the end I have learned to respect you. The little man stands firm, I thought. Though I am laughing, I am serious. You do stand firm, don’t you? I like people who are firm like that whatever it is they stand by, even if they are such little fellows as you. Your expectant eyes ceased to annoy me, I grew fond of them in the end, those expectant eyes. You seem to love me for some reason, Alyosha?”

“I do love you, Ivan. Dmitri says of you—Ivan is a tomb! I say of you, Ivan is a riddle. You are a riddle to me even now. But I understand something in you, and I did not understand it till this morning.”

“What’s that?” laughed Ivan.

“You won’t be angry?” Alyosha laughed too.

“Well?”

“That you are just as young as other young men of three and twenty, that you are just a young and fresh and nice boy, green in fact! Now, have I insulted you dreadfully?”

“On the contrary, I am struck by a coincidence,” cried Ivan, warmly and good‐humoredly. “Would you believe it that ever since that scene with her, I have thought of nothing else but my youthful greenness, and just as though you guessed that, you begin about it. Do you know I’ve been sitting here thinking to myself: that if I didn’t believe in life, if I lost faith in the woman I love, lost faith in the order of things, were convinced in fact that everything is a disorderly, damnable, and perhaps devil‐ridden chaos, if I were struck by every horror of man’s disillusionment—still I should want to live and, having once tasted of the cup, I would not turn away from it till I had drained it! At thirty, though, I shall be sure to leave the cup, even if I’ve not emptied it, and turn away—where I don’t know. But till I am thirty, I know that my youth will triumph over everything—every disillusionment, every disgust with life. I’ve asked myself many times whether there is in the world any despair that would overcome this frantic and perhaps unseemly thirst for life in me, and I’ve come to the conclusion that there isn’t, that is till I am thirty, and then I shall lose it of myself, I fancy. Some driveling consumptive moralists—and poets especially—often call that thirst for life base. It’s a feature of the Karamazovs, it’s true, that thirst for life regardless of everything; you have it no doubt too, but why is it base? The centripetal force on our planet is still fearfully strong, Alyosha. I have a longing for life, and I go on living in spite of logic. Though I may not believe in the order of the universe, yet I love the sticky little leaves as they open in spring. I love the blue sky, I love some people, whom one loves you know sometimes without knowing why. I love some great deeds done by men, though I’ve long ceased perhaps to have faith in them, yet from old habit one’s heart prizes them. Here they have brought the soup for you, eat it, it will do you good. It’s first‐rate soup, they know how to make it here. I want to travel in Europe, Alyosha, I shall set off from here. And yet I know that I am only going to a graveyard, but it’s a most precious graveyard, that’s what it is! Precious are the dead that lie there, every stone over them speaks of such burning life in the past, of such passionate faith in their work, their truth, their struggle and their science, that I know I shall fall on the ground and kiss those stones and weep over them; though I’m convinced in my heart that it’s long been nothing but a graveyard. And I shall not weep from despair, but simply because I shall be happy in my tears, I shall steep my soul in my emotion. I love the sticky leaves in spring, the blue sky—that’s all it is. It’s not a matter of intellect or logic, it’s loving with one’s inside, with one’s stomach. One loves the first strength of one’s youth. Do you understand anything of my tirade, Alyosha?” Ivan laughed suddenly.

“I understand too well, Ivan. One longs to love with one’s inside, with one’s stomach. You said that so well and I am awfully glad that you have such a longing for life,” cried Alyosha. “I think every one should love life above everything in the world.”

“Love life more than the meaning of it?”

“Certainly, love it, regardless of logic as you say, it must be regardless of logic, and it’s only then one will understand the meaning of it. I have thought so a long time. Half your work is done, Ivan, you love life, now you’ve only to try to do the second half and you are saved.”

“You are trying to save me, but perhaps I am not lost! And what does your second half mean?”

“Why, one has to raise up your dead, who perhaps have not died after all. Come, let me have tea. I am so glad of our talk, Ivan.”

“I see you are feeling inspired. I am awfully fond of such professions de foi from such—novices. You are a steadfast person, Alexey. Is it true that you mean to leave the monastery?”

“Yes, my elder sends me out into the world.”

“We shall see each other then in the world. We shall meet before I am thirty, when I shall begin to turn aside from the cup. Father doesn’t want to turn aside from his cup till he is seventy, he dreams of hanging on to eighty in fact, so he says. He means it only too seriously, though he is a buffoon. He stands on a firm rock, too, he stands on his sensuality—though after we are thirty, indeed, there may be nothing else to stand on…. But to hang on to seventy is nasty, better only to thirty; one might retain ‘a shadow of nobility’ by deceiving oneself. Have you seen Dmitri to‐day?”

“No, but I saw Smerdyakov,” and Alyosha rapidly, though minutely, described his meeting with Smerdyakov. Ivan began listening anxiously and questioned him.

“But he begged me not to tell Dmitri that he had told me about him,” added Alyosha. Ivan frowned and pondered.

“Are you frowning on Smerdyakov’s account?” asked Alyosha.

“Yes, on his account. Damn him, I certainly did want to see Dmitri, but now there’s no need,” said Ivan reluctantly.

“But are you really going so soon, brother?”

“Yes.”

“What of Dmitri and father? how will it end?” asked Alyosha anxiously.

“You are always harping upon it! What have I to do with it? Am I my brother Dmitri’s keeper?” Ivan snapped irritably, but then he suddenly smiled bitterly. “Cain’s answer about his murdered brother, wasn’t it? Perhaps that’s what you’re thinking at this moment? Well, damn it all, I can’t stay here to be their keeper, can I? I’ve finished what I had to do, and I am going. Do you imagine I am jealous of Dmitri, that I’ve been trying to steal his beautiful Katerina Ivanovna for the last three months? Nonsense, I had business of my own. I finished it. I am going. I finished it just now, you were witness.”

“At Katerina Ivanovna’s?”

“Yes, and I’ve released myself once for all. And after all, what have I to do with Dmitri? Dmitri doesn’t come in. I had my own business to settle with Katerina Ivanovna. You know, on the contrary, that Dmitri behaved as though there was an understanding between us. I didn’t ask him to do it, but he solemnly handed her over to me and gave us his blessing. It’s all too funny. Ah, Alyosha, if you only knew how light my heart is now! Would you believe, it, I sat here eating my dinner and was nearly ordering champagne to celebrate my first hour of freedom. Tfoo! It’s been going on nearly six months, and all at once I’ve thrown it off. I could never have guessed even yesterday, how easy it would be to put an end to it if I wanted.”

“You are speaking of your love, Ivan?”

“Of my love, if you like. I fell in love with the young lady, I worried myself over her and she worried me. I sat watching over her … and all at once it’s collapsed! I spoke this morning with inspiration, but I went away and roared with laughter. Would you believe it? Yes, it’s the literal truth.”

“You seem very merry about it now,” observed Alyosha, looking into his face, which had suddenly grown brighter.

“But how could I tell that I didn’t care for her a bit! Ha ha! It appears after all I didn’t. And yet how she attracted me! How attractive she was just now when I made my speech! And do you know she attracts me awfully even now, yet how easy it is to leave her. Do you think I am boasting?”

“No, only perhaps it wasn’t love.”

“Alyosha,” laughed Ivan, “don’t make reflections about love, it’s unseemly for you. How you rushed into the discussion this morning! I’ve forgotten to kiss you for it…. But how she tormented me! It certainly was sitting by a ‘laceration.’ Ah, she knew how I loved her! She loved me and not Dmitri,” Ivan insisted gayly. “Her feeling for Dmitri was simply a self‐ laceration. All I told her just now was perfectly true, but the worst of it is, it may take her fifteen or twenty years to find out that she doesn’t care for Dmitri, and loves me whom she torments, and perhaps she may never find it out at all, in spite of her lesson to‐day. Well, it’s better so; I can simply go away for good. By the way, how is she now? What happened after I departed?”

Alyosha told him she had been hysterical, and that she was now, he heard, unconscious and delirious.

“Isn’t Madame Hohlakov laying it on?”

“I think not.”

“I must find out. Nobody dies of hysterics, though. They don’t matter. God gave woman hysterics as a relief. I won’t go to her at all. Why push myself forward again?”

“But you told her that she had never cared for you.”

“I did that on purpose. Alyosha, shall I call for some champagne? Let us drink to my freedom. Ah, if only you knew how glad I am!”

“No, brother, we had better not drink,” said Alyosha suddenly. “Besides I feel somehow depressed.”

“Yes, you’ve been depressed a long time, I’ve noticed it.”

“Have you settled to go to‐morrow morning, then?”

“Morning? I didn’t say I should go in the morning…. But perhaps it may be the morning. Would you believe it, I dined here to‐day only to avoid dining with the old man, I loathe him so. I should have left long ago, so far as he is concerned. But why are you so worried about my going away? We’ve plenty of time before I go, an eternity!”

“If you are going away to‐morrow, what do you mean by an eternity?”

“But what does it matter to us?” laughed Ivan. “We’ve time enough for our talk, for what brought us here. Why do you look so surprised? Answer: why have we met here? To talk of my love for Katerina Ivanovna, of the old man and Dmitri? of foreign travel? of the fatal position of Russia? Of the Emperor Napoleon? Is that it?”

“No.”

“Then you know what for. It’s different for other people; but we in our green youth have to settle the eternal questions first of all. That’s what we care about. Young Russia is talking about nothing but the eternal questions now. Just when the old folks are all taken up with practical questions. Why have you been looking at me in expectation for the last three months? To ask me, ‘What do you believe, or don’t you believe at all?’ That’s what your eyes have been meaning for these three months, haven’t they?”

“Perhaps so,” smiled Alyosha. “You are not laughing at me, now, Ivan?”

“Me laughing! I don’t want to wound my little brother who has been watching me with such expectation for three months. Alyosha, look straight at me! Of course I am just such a little boy as you are, only not a novice. And what have Russian boys been doing up till now, some of them, I mean? In this stinking tavern, for instance, here, they meet and sit down in a corner. They’ve never met in their lives before and, when they go out of the tavern, they won’t meet again for forty years. And what do they talk about in that momentary halt in the tavern? Of the eternal questions, of the existence of God and immortality. And those who do not believe in God talk of socialism or anarchism, of the transformation of all humanity on a new pattern, so that it all comes to the same, they’re the same questions turned inside out. And masses, masses of the most original Russian boys do nothing but talk of the eternal questions! Isn’t it so?”

“Yes, for real Russians the questions of God’s existence and of immortality, or, as you say, the same questions turned inside out, come first and foremost, of course, and so they should,” said Alyosha, still watching his brother with the same gentle and inquiring smile.

“Well, Alyosha, it’s sometimes very unwise to be a Russian at all, but anything stupider than the way Russian boys spend their time one can hardly imagine. But there’s one Russian boy called Alyosha I am awfully fond of.”

“How nicely you put that in!” Alyosha laughed suddenly.

“Well, tell me where to begin, give your orders. The existence of God, eh?”

“Begin where you like. You declared yesterday at father’s that there was no God.” Alyosha looked searchingly at his brother.

“I said that yesterday at dinner on purpose to tease you and I saw your eyes glow. But now I’ve no objection to discussing with you, and I say so very seriously. I want to be friends with you, Alyosha, for I have no friends and want to try it. Well, only fancy, perhaps I too accept God,” laughed Ivan; “that’s a surprise for you, isn’t it?”

“Yes, of course, if you are not joking now.”

“Joking? I was told at the elder’s yesterday that I was joking. You know, dear boy, there was an old sinner in the eighteenth century who declared that, if there were no God, he would have to be invented. S’il n’existait pas Dieu, il faudrait l’inventer. And man has actually invented God. And what’s strange, what would be marvelous, is not that God should really exist; the marvel is that such an idea, the idea of the necessity of God, could enter the head of such a savage, vicious beast as man. So holy it is, so touching, so wise and so great a credit it does to man. As for me, I’ve long resolved not to think whether man created God or God man. And I won’t go through all the axioms laid down by Russian boys on that subject, all derived from European hypotheses; for what’s a hypothesis there, is an axiom with the Russian boy, and not only with the boys but with their teachers too, for our Russian professors are often just the same boys themselves. And so I omit all the hypotheses. For what are we aiming at now? I am trying to explain as quickly as possible my essential nature, that is what manner of man I am, what I believe in, and for what I hope, that’s it, isn’t it? And therefore I tell you that I accept God simply. But you must note this: if God exists and if He really did create the world, then, as we all know, He created it according to the geometry of Euclid and the human mind with the conception of only three dimensions in space. Yet there have been and still are geometricians and philosophers, and even some of the most distinguished, who doubt whether the whole universe, or to speak more widely the whole of being, was only created in Euclid’s geometry; they even dare to dream that two parallel lines, which according to Euclid can never meet on earth, may meet somewhere in infinity. I have come to the conclusion that, since I can’t understand even that, I can’t expect to understand about God. I acknowledge humbly that I have no faculty for settling such questions, I have a Euclidian earthly mind, and how could I solve problems that are not of this world? And I advise you never to think about it either, my dear Alyosha, especially about God, whether He exists or not. All such questions are utterly inappropriate for a mind created with an idea of only three dimensions. And so I accept God and am glad to, and what’s more, I accept His wisdom, His purpose—which are utterly beyond our ken; I believe in the underlying order and the meaning of life; I believe in the eternal harmony in which they say we shall one day be blended. I believe in the Word to Which the universe is striving, and Which Itself was ‘with God,’ and Which Itself is God and so on, and so on, to infinity. There are all sorts of phrases for it. I seem to be on the right path, don’t I? Yet would you believe it, in the final result I don’t accept this world of God’s, and, although I know it exists, I don’t accept it at all. It’s not that I don’t accept God, you must understand, it’s the world created by Him I don’t and cannot accept. Let me make it plain. I believe like a child that suffering will be healed and made up for, that all the humiliating absurdity of human contradictions will vanish like a pitiful mirage, like the despicable fabrication of the impotent and infinitely small Euclidian mind of man, that in the world’s finale, at the moment of eternal harmony, something so precious will come to pass that it will suffice for all hearts, for the comforting of all resentments, for the atonement of all the crimes of humanity, of all the blood they’ve shed; that it will make it not only possible to forgive but to justify all that has happened with men—but though all that may come to pass, I don’t accept it. I won’t accept it. Even if parallel lines do meet and I see it myself, I shall see it and say that they’ve met, but still I won’t accept it. That’s what’s at the root of me, Alyosha; that’s my creed. I am in earnest in what I say. I began our talk as stupidly as I could on purpose, but I’ve led up to my confession, for that’s all you want. You didn’t want to hear about God, but only to know what the brother you love lives by. And so I’ve told you.”

Ivan concluded his long tirade with marked and unexpected feeling.

“And why did you begin ‘as stupidly as you could’?” asked Alyosha, looking dreamily at him.

“To begin with, for the sake of being Russian. Russian conversations on such subjects are always carried on inconceivably stupidly. And secondly, the stupider one is, the closer one is to reality. The stupider one is, the clearer one is. Stupidity is brief and artless, while intelligence wriggles and hides itself. Intelligence is a knave, but stupidity is honest and straightforward. I’ve led the conversation to my despair, and the more stupidly I have presented it, the better for me.”

“You will explain why you don’t accept the world?” said Alyosha.

“To be sure I will, it’s not a secret, that’s what I’ve been leading up to. Dear little brother, I don’t want to corrupt you or to turn you from your stronghold, perhaps I want to be healed by you.” Ivan smiled suddenly quite like a little gentle child. Alyosha had never seen such a smile on his face before.

Chapter IV.
Rebellion
“I must make you one confession,” Ivan began. “I could never understand how one can love one’s neighbors. It’s just one’s neighbors, to my mind, that one can’t love, though one might love those at a distance. I once read somewhere of John the Merciful, a saint, that when a hungry, frozen beggar came to him, he took him into his bed, held him in his arms, and began breathing into his mouth, which was putrid and loathsome from some awful disease. I am convinced that he did that from ‘self‐laceration,’ from the self‐laceration of falsity, for the sake of the charity imposed by duty, as a penance laid on him. For any one to love a man, he must be hidden, for as soon as he shows his face, love is gone.”

“Father Zossima has talked of that more than once,” observed Alyosha; “he, too, said that the face of a man often hinders many people not practiced in love, from loving him. But yet there’s a great deal of love in mankind, and almost Christ‐like love. I know that myself, Ivan.”

“Well, I know nothing of it so far, and can’t understand it, and the innumerable mass of mankind are with me there. The question is, whether that’s due to men’s bad qualities or whether it’s inherent in their nature. To my thinking, Christ‐like love for men is a miracle impossible on earth. He was God. But we are not gods. Suppose I, for instance, suffer intensely. Another can never know how much I suffer, because he is another and not I. And what’s more, a man is rarely ready to admit another’s suffering (as though it were a distinction). Why won’t he admit it, do you think? Because I smell unpleasant, because I have a stupid face, because I once trod on his foot. Besides, there is suffering and suffering; degrading, humiliating suffering such as humbles me—hunger, for instance—my benefactor will perhaps allow me; but when you come to higher suffering—for an idea, for instance—he will very rarely admit that, perhaps because my face strikes him as not at all what he fancies a man should have who suffers for an idea. And so he deprives me instantly of his favor, and not at all from badness of heart. Beggars, especially genteel beggars, ought never to show themselves, but to ask for charity through the newspapers. One can love one’s neighbors in the abstract, or even at a distance, but at close quarters it’s almost impossible. If it were as on the stage, in the ballet, where if beggars come in, they wear silken rags and tattered lace and beg for alms dancing gracefully, then one might like looking at them. But even then we should not love them. But enough of that. I simply wanted to show you my point of view. I meant to speak of the suffering of mankind generally, but we had better confine ourselves to the sufferings of the children. That reduces the scope of my argument to a tenth of what it would be. Still we’d better keep to the children, though it does weaken my case. But, in the first place, children can be loved even at close quarters, even when they are dirty, even when they are ugly (I fancy, though, children never are ugly). The second reason why I won’t speak of grown‐up people is that, besides being disgusting and unworthy of love, they have a compensation—they’ve eaten the apple and know good and evil, and they have become ‘like gods.’ They go on eating it still. But the children haven’t eaten anything, and are so far innocent. Are you fond of children, Alyosha? I know you are, and you will understand why I prefer to speak of them. If they, too, suffer horribly on earth, they must suffer for their fathers’ sins, they must be punished for their fathers, who have eaten the apple; but that reasoning is of the other world and is incomprehensible for the heart of man here on earth. The innocent must not suffer for another’s sins, and especially such innocents! You may be surprised at me, Alyosha, but I am awfully fond of children, too. And observe, cruel people, the violent, the rapacious, the Karamazovs are sometimes very fond of children. Children while they are quite little—up to seven, for instance—are so remote from grown‐up people; they are different creatures, as it were, of a different species. I knew a criminal in prison who had, in the course of his career as a burglar, murdered whole families, including several children. But when he was in prison, he had a strange affection for them. He spent all his time at his window, watching the children playing in the prison yard. He trained one little boy to come up to his window and made great friends with him…. You don’t know why I am telling you all this, Alyosha? My head aches and I am sad.”

“You speak with a strange air,” observed Alyosha uneasily, “as though you were not quite yourself.”

“By the way, a Bulgarian I met lately in Moscow,” Ivan went on, seeming not to hear his brother’s words, “told me about the crimes committed by Turks and Circassians in all parts of Bulgaria through fear of a general rising of the Slavs. They burn villages, murder, outrage women and children, they nail their prisoners by the ears to the fences, leave them so till morning, and in the morning they hang them—all sorts of things you can’t imagine. People talk sometimes of bestial cruelty, but that’s a great injustice and insult to the beasts; a beast can never be so cruel as a man, so artistically cruel. The tiger only tears and gnaws, that’s all he can do. He would never think of nailing people by the ears, even if he were able to do it. These Turks took a pleasure in torturing children, too; cutting the unborn child from the mother’s womb, and tossing babies up in the air and catching them on the points of their bayonets before their mothers’ eyes. Doing it before the mothers’ eyes was what gave zest to the amusement. Here is another scene that I thought very interesting. Imagine a trembling mother with her baby in her arms, a circle of invading Turks around her. They’ve planned a diversion: they pet the baby, laugh to make it laugh. They succeed, the baby laughs. At that moment a Turk points a pistol four inches from the baby’s face. The baby laughs with glee, holds out its little hands to the pistol, and he pulls the trigger in the baby’s face and blows out its brains. Artistic, wasn’t it? By the way, Turks are particularly fond of sweet things, they say.”

“Brother, what are you driving at?” asked Alyosha.

“I think if the devil doesn’t exist, but man has created him, he has created him in his own image and likeness.”

“Just as he did God, then?” observed Alyosha.

“ ‘It’s wonderful how you can turn words,’ as Polonius says in Hamlet,” laughed Ivan. “You turn my words against me. Well, I am glad. Yours must be a fine God, if man created Him in his image and likeness. You asked just now what I was driving at. You see, I am fond of collecting certain facts, and, would you believe, I even copy anecdotes of a certain sort from newspapers and books, and I’ve already got a fine collection. The Turks, of course, have gone into it, but they are foreigners. I have specimens from home that are even better than the Turks. You know we prefer beating—rods and scourges—that’s our national institution. Nailing ears is unthinkable for us, for we are, after all, Europeans. But the rod and the scourge we have always with us and they cannot be taken from us. Abroad now they scarcely do any beating. Manners are more humane, or laws have been passed, so that they don’t dare to flog men now. But they make up for it in another way just as national as ours. And so national that it would be practically impossible among us, though I believe we are being inoculated with it, since the religious movement began in our aristocracy. I have a charming pamphlet, translated from the French, describing how, quite recently, five years ago, a murderer, Richard, was executed—a young man, I believe, of three and twenty, who repented and was converted to the Christian faith at the very scaffold. This Richard was an illegitimate child who was given as a child of six by his parents to some shepherds on the Swiss mountains. They brought him up to work for them. He grew up like a little wild beast among them. The shepherds taught him nothing, and scarcely fed or clothed him, but sent him out at seven to herd the flock in cold and wet, and no one hesitated or scrupled to treat him so. Quite the contrary, they thought they had every right, for Richard had been given to them as a chattel, and they did not even see the necessity of feeding him. Richard himself describes how in those years, like the Prodigal Son in the Gospel, he longed to eat of the mash given to the pigs, which were fattened for sale. But they wouldn’t even give him that, and beat him when he stole from the pigs. And that was how he spent all his childhood and his youth, till he grew up and was strong enough to go away and be a thief. The savage began to earn his living as a day laborer in Geneva. He drank what he earned, he lived like a brute, and finished by killing and robbing an old man. He was caught, tried, and condemned to death. They are not sentimentalists there. And in prison he was immediately surrounded by pastors, members of Christian brotherhoods, philanthropic ladies, and the like. They taught him to read and write in prison, and expounded the Gospel to him. They exhorted him, worked upon him, drummed at him incessantly, till at last he solemnly confessed his crime. He was converted. He wrote to the court himself that he was a monster, but that in the end God had vouchsafed him light and shown grace. All Geneva was in excitement about him—all philanthropic and religious Geneva. All the aristocratic and well‐bred society of the town rushed to the prison, kissed Richard and embraced him; ‘You are our brother, you have found grace.’ And Richard does nothing but weep with emotion, ‘Yes, I’ve found grace! All my youth and childhood I was glad of pigs’ food, but now even I have found grace. I am dying in the Lord.’ ‘Yes, Richard, die in the Lord; you have shed blood and must die. Though it’s not your fault that you knew not the Lord, when you coveted the pigs’ food and were beaten for stealing it (which was very wrong of you, for stealing is forbidden); but you’ve shed blood and you must die.’ And on the last day, Richard, perfectly limp, did nothing but cry and repeat every minute: ‘This is my happiest day. I am going to the Lord.’ ‘Yes,’ cry the pastors and the judges and philanthropic ladies. ‘This is the happiest day of your life, for you are going to the Lord!’ They all walk or drive to the scaffold in procession behind the prison van. At the scaffold they call to Richard: ‘Die, brother, die in the Lord, for even thou hast found grace!’ And so, covered with his brothers’ kisses, Richard is dragged on to the scaffold, and led to the guillotine. And they chopped off his head in brotherly fashion, because he had found grace. Yes, that’s characteristic. That pamphlet is translated into Russian by some Russian philanthropists of aristocratic rank and evangelical aspirations, and has been distributed gratis for the enlightenment of the people. The case of Richard is interesting because it’s national. Though to us it’s absurd to cut off a man’s head, because he has become our brother and has found grace, yet we have our own speciality, which is all but worse. Our historical pastime is the direct satisfaction of inflicting pain. There are lines in Nekrassov describing how a peasant lashes a horse on the eyes, ‘on its meek eyes,’ every one must have seen it. It’s peculiarly Russian. He describes how a feeble little nag has foundered under too heavy a load and cannot move. The peasant beats it, beats it savagely, beats it at last not knowing what he is doing in the intoxication of cruelty, thrashes it mercilessly over and over again. ‘However weak you are, you must pull, if you die for it.’ The nag strains, and then he begins lashing the poor defenseless creature on its weeping, on its ‘meek eyes.’ The frantic beast tugs and draws the load, trembling all over, gasping for breath, moving sideways, with a sort of unnatural spasmodic action—it’s awful in Nekrassov. But that’s only a horse, and God has given horses to be beaten. So the Tatars have taught us, and they left us the knout as a remembrance of it. But men, too, can be beaten. A well‐educated, cultured gentleman and his wife beat their own child with a birch‐rod, a girl of seven. I have an exact account of it. The papa was glad that the birch was covered with twigs. ‘It stings more,’ said he, and so he began stinging his daughter. I know for a fact there are people who at every blow are worked up to sensuality, to literal sensuality, which increases progressively at every blow they inflict. They beat for a minute, for five minutes, for ten minutes, more often and more savagely. The child screams. At last the child cannot scream, it gasps, ‘Daddy! daddy!’ By some diabolical unseemly chance the case was brought into court. A counsel is engaged. The Russian people have long called a barrister ‘a conscience for hire.’ The counsel protests in his client’s defense. ‘It’s such a simple thing,’ he says, ‘an everyday domestic event. A father corrects his child. To our shame be it said, it is brought into court.’ The jury, convinced by him, give a favorable verdict. The public roars with delight that the torturer is acquitted. Ah, pity I wasn’t there! I would have proposed to raise a subscription in his honor! Charming pictures.

“But I’ve still better things about children. I’ve collected a great, great deal about Russian children, Alyosha. There was a little girl of five who was hated by her father and mother, ‘most worthy and respectable people, of good education and breeding.’ You see, I must repeat again, it is a peculiar characteristic of many people, this love of torturing children, and children only. To all other types of humanity these torturers behave mildly and benevolently, like cultivated and humane Europeans; but they are very fond of tormenting children, even fond of children themselves in that sense. It’s just their defenselessness that tempts the tormentor, just the angelic confidence of the child who has no refuge and no appeal, that sets his vile blood on fire. In every man, of course, a demon lies hidden—the demon of rage, the demon of lustful heat at the screams of the tortured victim, the demon of lawlessness let off the chain, the demon of diseases that follow on vice, gout, kidney disease, and so on.

“This poor child of five was subjected to every possible torture by those cultivated parents. They beat her, thrashed her, kicked her for no reason till her body was one bruise. Then, they went to greater refinements of cruelty—shut her up all night in the cold and frost in a privy, and because she didn’t ask to be taken up at night (as though a child of five sleeping its angelic, sound sleep could be trained to wake and ask), they smeared her face and filled her mouth with excrement, and it was her mother, her mother did this. And that mother could sleep, hearing the poor child’s groans! Can you understand why a little creature, who can’t even understand what’s done to her, should beat her little aching heart with her tiny fist in the dark and the cold, and weep her meek unresentful tears to dear, kind God to protect her? Do you understand that, friend and brother, you pious and humble novice? Do you understand why this infamy must be and is permitted? Without it, I am told, man could not have existed on earth, for he could not have known good and evil. Why should he know that diabolical good and evil when it costs so much? Why, the whole world of knowledge is not worth that child’s prayer to ‘dear, kind God’! I say nothing of the sufferings of grown‐up people, they have eaten the apple, damn them, and the devil take them all! But these little ones! I am making you suffer, Alyosha, you are not yourself. I’ll leave off if you like.”

“Never mind. I want to suffer too,” muttered Alyosha.

“One picture, only one more, because it’s so curious, so characteristic, and I have only just read it in some collection of Russian antiquities. I’ve forgotten the name. I must look it up. It was in the darkest days of serfdom at the beginning of the century, and long live the Liberator of the People! There was in those days a general of aristocratic connections, the owner of great estates, one of those men—somewhat exceptional, I believe, even then—who, retiring from the service into a life of leisure, are convinced that they’ve earned absolute power over the lives of their subjects. There were such men then. So our general, settled on his property of two thousand souls, lives in pomp, and domineers over his poor neighbors as though they were dependents and buffoons. He has kennels of hundreds of hounds and nearly a hundred dog‐boys—all mounted, and in uniform. One day a serf‐boy, a little child of eight, threw a stone in play and hurt the paw of the general’s favorite hound. ‘Why is my favorite dog lame?’ He is told that the boy threw a stone that hurt the dog’s paw. ‘So you did it.’ The general looked the child up and down. ‘Take him.’ He was taken—taken from his mother and kept shut up all night. Early that morning the general comes out on horseback, with the hounds, his dependents, dog‐boys, and huntsmen, all mounted around him in full hunting parade. The servants are summoned for their edification, and in front of them all stands the mother of the child. The child is brought from the lock‐up. It’s a gloomy, cold, foggy autumn day, a capital day for hunting. The general orders the child to be undressed; the child is stripped naked. He shivers, numb with terror, not daring to cry…. ‘Make him run,’ commands the general. ‘Run! run!’ shout the dog‐boys. The boy runs…. ‘At him!’ yells the general, and he sets the whole pack of hounds on the child. The hounds catch him, and tear him to pieces before his mother’s eyes!… I believe the general was afterwards declared incapable of administering his estates. Well—what did he deserve? To be shot? To be shot for the satisfaction of our moral feelings? Speak, Alyosha!”

“To be shot,” murmured Alyosha, lifting his eyes to Ivan with a pale, twisted smile.

“Bravo!” cried Ivan, delighted. “If even you say so…. You’re a pretty monk! So there is a little devil sitting in your heart, Alyosha Karamazov!”

“What I said was absurd, but—”

“That’s just the point, that ‘but’!” cried Ivan. “Let me tell you, novice, that the absurd is only too necessary on earth. The world stands on absurdities, and perhaps nothing would have come to pass in it without them. We know what we know!”

“What do you know?”

“I understand nothing,” Ivan went on, as though in delirium. “I don’t want to understand anything now. I want to stick to the fact. I made up my mind long ago not to understand. If I try to understand anything, I shall be false to the fact, and I have determined to stick to the fact.”

“Why are you trying me?” Alyosha cried, with sudden distress. “Will you say what you mean at last?”

“Of course, I will; that’s what I’ve been leading up to. You are dear to me, I don’t want to let you go, and I won’t give you up to your Zossima.”

Ivan for a minute was silent, his face became all at once very sad.

“Listen! I took the case of children only to make my case clearer. Of the other tears of humanity with which the earth is soaked from its crust to its center, I will say nothing. I have narrowed my subject on purpose. I am a bug, and I recognize in all humility that I cannot understand why the world is arranged as it is. Men are themselves to blame, I suppose; they were given paradise, they wanted freedom, and stole fire from heaven, though they knew they would become unhappy, so there is no need to pity them. With my pitiful, earthly, Euclidian understanding, all I know is that there is suffering and that there are none guilty; that cause follows effect, simply and directly; that everything flows and finds its level—but that’s only Euclidian nonsense, I know that, and I can’t consent to live by it! What comfort is it to me that there are none guilty and that cause follows effect simply and directly, and that I know it?—I must have justice, or I will destroy myself. And not justice in some remote infinite time and space, but here on earth, and that I could see myself. I have believed in it. I want to see it, and if I am dead by then, let me rise again, for if it all happens without me, it will be too unfair. Surely I haven’t suffered, simply that I, my crimes and my sufferings, may manure the soil of the future harmony for somebody else. I want to see with my own eyes the hind lie down with the lion and the victim rise up and embrace his murderer. I want to be there when every one suddenly understands what it has all been for. All the religions of the world are built on this longing, and I am a believer. But then there are the children, and what am I to do about them? That’s a question I can’t answer. For the hundredth time I repeat, there are numbers of questions, but I’ve only taken the children, because in their case what I mean is so unanswerably clear. Listen! If all must suffer to pay for the eternal harmony, what have children to do with it, tell me, please? It’s beyond all comprehension why they should suffer, and why they should pay for the harmony. Why should they, too, furnish material to enrich the soil for the harmony of the future? I understand solidarity in sin among men. I understand solidarity in retribution, too; but there can be no such solidarity with children. And if it is really true that they must share responsibility for all their fathers’ crimes, such a truth is not of this world and is beyond my comprehension. Some jester will say, perhaps, that the child would have grown up and have sinned, but you see he didn’t grow up, he was torn to pieces by the dogs, at eight years old. Oh, Alyosha, I am not blaspheming! I understand, of course, what an upheaval of the universe it will be, when everything in heaven and earth blends in one hymn of praise and everything that lives and has lived cries aloud: ‘Thou art just, O Lord, for Thy ways are revealed.’ When the mother embraces the fiend who threw her child to the dogs, and all three cry aloud with tears, ‘Thou art just, O Lord!’ then, of course, the crown of knowledge will be reached and all will be made clear. But what pulls me up here is that I can’t accept that harmony. And while I am on earth, I make haste to take my own measures. You see, Alyosha, perhaps it really may happen that if I live to that moment, or rise again to see it, I, too, perhaps, may cry aloud with the rest, looking at the mother embracing the child’s torturer, ‘Thou art just, O Lord!’ but I don’t want to cry aloud then. While there is still time, I hasten to protect myself, and so I renounce the higher harmony altogether. It’s not worth the tears of that one tortured child who beat itself on the breast with its little fist and prayed in its stinking outhouse, with its unexpiated tears to ‘dear, kind God’! It’s not worth it, because those tears are unatoned for. They must be atoned for, or there can be no harmony. But how? How are you going to atone for them? Is it possible? By their being avenged? But what do I care for avenging them? What do I care for a hell for oppressors? What good can hell do, since those children have already been tortured? And what becomes of harmony, if there is hell? I want to forgive. I want to embrace. I don’t want more suffering. And if the sufferings of children go to swell the sum of sufferings which was necessary to pay for truth, then I protest that the truth is not worth such a price. I don’t want the mother to embrace the oppressor who threw her son to the dogs! She dare not forgive him! Let her forgive him for herself, if she will, let her forgive the torturer for the immeasurable suffering of her mother’s heart. But the sufferings of her tortured child she has no right to forgive; she dare not forgive the torturer, even if the child were to forgive him! And if that is so, if they dare not forgive, what becomes of harmony? Is there in the whole world a being who would have the right to forgive and could forgive? I don’t want harmony. From love for humanity I don’t want it. I would rather be left with the unavenged suffering. I would rather remain with my unavenged suffering and unsatisfied indignation, even if I were wrong. Besides, too high a price is asked for harmony; it’s beyond our means to pay so much to enter on it. And so I hasten to give back my entrance ticket, and if I am an honest man I am bound to give it back as soon as possible. And that I am doing. It’s not God that I don’t accept, Alyosha, only I most respectfully return Him the ticket.”

“That’s rebellion,” murmured Alyosha, looking down.

“Rebellion? I am sorry you call it that,” said Ivan earnestly. “One can hardly live in rebellion, and I want to live. Tell me yourself, I challenge you—answer. Imagine that you are creating a fabric of human destiny with the object of making men happy in the end, giving them peace and rest at last, but that it was essential and inevitable to torture to death only one tiny creature—that baby beating its breast with its fist, for instance—and to found that edifice on its unavenged tears, would you consent to be the architect on those conditions? Tell me, and tell the truth.”

“No, I wouldn’t consent,” said Alyosha softly.

“And can you admit the idea that men for whom you are building it would agree to accept their happiness on the foundation of the unexpiated blood of a little victim? And accepting it would remain happy for ever?”

“No, I can’t admit it. Brother,” said Alyosha suddenly, with flashing eyes, “you said just now, is there a being in the whole world who would have the right to forgive and could forgive? But there is a Being and He can forgive everything, all and for all, because He gave His innocent blood for all and everything. You have forgotten Him, and on Him is built the edifice, and it is to Him they cry aloud, ‘Thou art just, O Lord, for Thy ways are revealed!’ ”

“Ah! the One without sin and His blood! No, I have not forgotten Him; on the contrary I’ve been wondering all the time how it was you did not bring Him in before, for usually all arguments on your side put Him in the foreground. Do you know, Alyosha—don’t laugh! I made a poem about a year ago. If you can waste another ten minutes on me, I’ll tell it to you.”

“You wrote a poem?”

“Oh, no, I didn’t write it,” laughed Ivan, “and I’ve never written two lines of poetry in my life. But I made up this poem in prose and I remembered it. I was carried away when I made it up. You will be my first reader—that is listener. Why should an author forego even one listener?” smiled Ivan. “Shall I tell it to you?”

“I am all attention,” said Alyosha.

“My poem is called ‘The Grand Inquisitor’; it’s a ridiculous thing, but I want to tell it to you.”

Chapter V.
The Grand Inquisitor
“Even this must have a preface—that is, a literary preface,” laughed Ivan, “and I am a poor hand at making one. You see, my action takes place in the sixteenth century, and at that time, as you probably learnt at school, it was customary in poetry to bring down heavenly powers on earth. Not to speak of Dante, in France, clerks, as well as the monks in the monasteries, used to give regular performances in which the Madonna, the saints, the angels, Christ, and God himself were brought on the stage. In those days it was done in all simplicity. In Victor Hugo’s Notre Dame de Paris an edifying and gratuitous spectacle was provided for the people in the Hôtel de Ville of Paris in the reign of Louis XI. in honor of the birth of the dauphin. It was called Le bon jugement de la très sainte et gracieuse Vierge Marie, and she appears herself on the stage and pronounces her bon jugement. Similar plays, chiefly from the Old Testament, were occasionally performed in Moscow too, up to the times of Peter the Great. But besides plays there were all sorts of legends and ballads scattered about the world, in which the saints and angels and all the powers of Heaven took part when required. In our monasteries the monks busied themselves in translating, copying, and even composing such poems—and even under the Tatars. There is, for instance, one such poem (of course, from the Greek), The Wanderings of Our Lady through Hell, with descriptions as bold as Dante’s. Our Lady visits hell, and the Archangel Michael leads her through the torments. She sees the sinners and their punishment. There she sees among others one noteworthy set of sinners in a burning lake; some of them sink to the bottom of the lake so that they can’t swim out, and ‘these God forgets’—an expression of extraordinary depth and force. And so Our Lady, shocked and weeping, falls before the throne of God and begs for mercy for all in hell—for all she has seen there, indiscriminately. Her conversation with God is immensely interesting. She beseeches Him, she will not desist, and when God points to the hands and feet of her Son, nailed to the Cross, and asks, ‘How can I forgive His tormentors?’ she bids all the saints, all the martyrs, all the angels and archangels to fall down with her and pray for mercy on all without distinction. It ends by her winning from God a respite of suffering every year from Good Friday till Trinity Day, and the sinners at once raise a cry of thankfulness from hell, chanting, ‘Thou art just, O Lord, in this judgment.’ Well, my poem would have been of that kind if it had appeared at that time. He comes on the scene in my poem, but He says nothing, only appears and passes on. Fifteen centuries have passed since He promised to come in His glory, fifteen centuries since His prophet wrote, ‘Behold, I come quickly’; ‘Of that day and that hour knoweth no man, neither the Son, but the Father,’ as He Himself predicted on earth. But humanity awaits him with the same faith and with the same love. Oh, with greater faith, for it is fifteen centuries since man has ceased to see signs from heaven.

No signs from heaven come to‐day
To add to what the heart doth say.

There was nothing left but faith in what the heart doth say. It is true there were many miracles in those days. There were saints who performed miraculous cures; some holy people, according to their biographies, were visited by the Queen of Heaven herself. But the devil did not slumber, and doubts were already arising among men of the truth of these miracles. And just then there appeared in the north of Germany a terrible new heresy. “A huge star like to a torch” (that is, to a church) “fell on the sources of the waters and they became bitter.” These heretics began blasphemously denying miracles. But those who remained faithful were all the more ardent in their faith. The tears of humanity rose up to Him as before, awaited His coming, loved Him, hoped for Him, yearned to suffer and die for Him as before. And so many ages mankind had prayed with faith and fervor, “O Lord our God, hasten Thy coming,” so many ages called upon Him, that in His infinite mercy He deigned to come down to His servants. Before that day He had come down, He had visited some holy men, martyrs and hermits, as is written in their lives. Among us, Tyutchev, with absolute faith in the truth of his words, bore witness that

Bearing the Cross, in slavish dress,
Weary and worn, the Heavenly King
Our mother, Russia, came to bless,
And through our land went wandering.

And that certainly was so, I assure you.

“And behold, He deigned to appear for a moment to the people, to the tortured, suffering people, sunk in iniquity, but loving Him like children. My story is laid in Spain, in Seville, in the most terrible time of the Inquisition, when fires were lighted every day to the glory of God, and ‘in the splendid auto da fé the wicked heretics were burnt.’ Oh, of course, this was not the coming in which He will appear according to His promise at the end of time in all His heavenly glory, and which will be sudden ‘as lightning flashing from east to west.’ No, He visited His children only for a moment, and there where the flames were crackling round the heretics. In His infinite mercy He came once more among men in that human shape in which He walked among men for three years fifteen centuries ago. He came down to the ‘hot pavements’ of the southern town in which on the day before almost a hundred heretics had, ad majorem gloriam Dei, been burnt by the cardinal, the Grand Inquisitor, in a magnificent auto da fé, in the presence of the king, the court, the knights, the cardinals, the most charming ladies of the court, and the whole population of Seville.

“He came softly, unobserved, and yet, strange to say, every one recognized Him. That might be one of the best passages in the poem. I mean, why they recognized Him. The people are irresistibly drawn to Him, they surround Him, they flock about Him, follow Him. He moves silently in their midst with a gentle smile of infinite compassion. The sun of love burns in His heart, light and power shine from His eyes, and their radiance, shed on the people, stirs their hearts with responsive love. He holds out His hands to them, blesses them, and a healing virtue comes from contact with Him, even with His garments. An old man in the crowd, blind from childhood, cries out, ‘O Lord, heal me and I shall see Thee!’ and, as it were, scales fall from his eyes and the blind man sees Him. The crowd weeps and kisses the earth under His feet. Children throw flowers before Him, sing, and cry hosannah. ‘It is He—it is He!’ all repeat. ‘It must be He, it can be no one but Him!’ He stops at the steps of the Seville cathedral at the moment when the weeping mourners are bringing in a little open white coffin. In it lies a child of seven, the only daughter of a prominent citizen. The dead child lies hidden in flowers. ‘He will raise your child,’ the crowd shouts to the weeping mother. The priest, coming to meet the coffin, looks perplexed, and frowns, but the mother of the dead child throws herself at His feet with a wail. ‘If it is Thou, raise my child!’ she cries, holding out her hands to Him. The procession halts, the coffin is laid on the steps at His feet. He looks with compassion, and His lips once more softly pronounce, ‘Maiden, arise!’ and the maiden arises. The little girl sits up in the coffin and looks round, smiling with wide‐ open wondering eyes, holding a bunch of white roses they had put in her hand.

“There are cries, sobs, confusion among the people, and at that moment the cardinal himself, the Grand Inquisitor, passes by the cathedral. He is an old man, almost ninety, tall and erect, with a withered face and sunken eyes, in which there is still a gleam of light. He is not dressed in his gorgeous cardinal’s robes, as he was the day before, when he was burning the enemies of the Roman Church—at this moment he is wearing his coarse, old, monk’s cassock. At a distance behind him come his gloomy assistants and slaves and the ‘holy guard.’ He stops at the sight of the crowd and watches it from a distance. He sees everything; he sees them set the coffin down at His feet, sees the child rise up, and his face darkens. He knits his thick gray brows and his eyes gleam with a sinister fire. He holds out his finger and bids the guards take Him. And such is his power, so completely are the people cowed into submission and trembling obedience to him, that the crowd immediately makes way for the guards, and in the midst of deathlike silence they lay hands on Him and lead Him away. The crowd instantly bows down to the earth, like one man, before the old Inquisitor. He blesses the people in silence and passes on. The guards lead their prisoner to the close, gloomy vaulted prison in the ancient palace of the Holy Inquisition and shut Him in it. The day passes and is followed by the dark, burning, ‘breathless’ night of Seville. The air is ‘fragrant with laurel and lemon.’ In the pitch darkness the iron door of the prison is suddenly opened and the Grand Inquisitor himself comes in with a light in his hand. He is alone; the door is closed at once behind him. He stands in the doorway and for a minute or two gazes into His face. At last he goes up slowly, sets the light on the table and speaks.

“ ‘Is it Thou? Thou?’ but receiving no answer, he adds at once, ‘Don’t answer, be silent. What canst Thou say, indeed? I know too well what Thou wouldst say. And Thou hast no right to add anything to what Thou hadst said of old. Why, then, art Thou come to hinder us? For Thou hast come to hinder us, and Thou knowest that. But dost Thou know what will be to‐ morrow? I know not who Thou art and care not to know whether it is Thou or only a semblance of Him, but to‐morrow I shall condemn Thee and burn Thee at the stake as the worst of heretics. And the very people who have to‐day kissed Thy feet, to‐morrow at the faintest sign from me will rush to heap up the embers of Thy fire. Knowest Thou that? Yes, maybe Thou knowest it,’ he added with thoughtful penetration, never for a moment taking his eyes off the Prisoner.”

“I don’t quite understand, Ivan. What does it mean?” Alyosha, who had been listening in silence, said with a smile. “Is it simply a wild fantasy, or a mistake on the part of the old man—some impossible quiproquo?”

“Take it as the last,” said Ivan, laughing, “if you are so corrupted by modern realism and can’t stand anything fantastic. If you like it to be a case of mistaken identity, let it be so. It is true,” he went on, laughing, “the old man was ninety, and he might well be crazy over his set idea. He might have been struck by the appearance of the Prisoner. It might, in fact, be simply his ravings, the delusion of an old man of ninety, over‐excited by the auto da fé of a hundred heretics the day before. But does it matter to us after all whether it was a mistake of identity or a wild fantasy? All that matters is that the old man should speak out, should speak openly of what he has thought in silence for ninety years.”

“And the Prisoner too is silent? Does He look at him and not say a word?”

“That’s inevitable in any case,” Ivan laughed again. “The old man has told Him He hasn’t the right to add anything to what He has said of old. One may say it is the most fundamental feature of Roman Catholicism, in my opinion at least. ‘All has been given by Thee to the Pope,’ they say, ‘and all, therefore, is still in the Pope’s hands, and there is no need for Thee to come now at all. Thou must not meddle for the time, at least.’ That’s how they speak and write too—the Jesuits, at any rate. I have read it myself in the works of their theologians. ‘Hast Thou the right to reveal to us one of the mysteries of that world from which Thou hast come?’ my old man asks Him, and answers the question for Him. ‘No, Thou hast not; that Thou mayest not add to what has been said of old, and mayest not take from men the freedom which Thou didst exalt when Thou wast on earth. Whatsoever Thou revealest anew will encroach on men’s freedom of faith; for it will be manifest as a miracle, and the freedom of their faith was dearer to Thee than anything in those days fifteen hundred years ago. Didst Thou not often say then, “I will make you free”? But now Thou hast seen these “free” men,’ the old man adds suddenly, with a pensive smile. ‘Yes, we’ve paid dearly for it,’ he goes on, looking sternly at Him, ‘but at last we have completed that work in Thy name. For fifteen centuries we have been wrestling with Thy freedom, but now it is ended and over for good. Dost Thou not believe that it’s over for good? Thou lookest meekly at me and deignest not even to be wroth with me. But let me tell Thee that now, to‐day, people are more persuaded than ever that they have perfect freedom, yet they have brought their freedom to us and laid it humbly at our feet. But that has been our doing. Was this what Thou didst? Was this Thy freedom?’ ”

“I don’t understand again,” Alyosha broke in. “Is he ironical, is he jesting?”

“Not a bit of it! He claims it as a merit for himself and his Church that at last they have vanquished freedom and have done so to make men happy. ‘For now’ (he is speaking of the Inquisition, of course) ‘for the first time it has become possible to think of the happiness of men. Man was created a rebel; and how can rebels be happy? Thou wast warned,’ he says to Him. ‘Thou hast had no lack of admonitions and warnings, but Thou didst not listen to those warnings; Thou didst reject the only way by which men might be made happy. But, fortunately, departing Thou didst hand on the work to us. Thou hast promised, Thou hast established by Thy word, Thou hast given to us the right to bind and to unbind, and now, of course, Thou canst not think of taking it away. Why, then, hast Thou come to hinder us?’ ”

“And what’s the meaning of ‘no lack of admonitions and warnings’?” asked Alyosha.

“Why, that’s the chief part of what the old man must say.

“ ‘The wise and dread spirit, the spirit of self‐destruction and non‐ existence,’ the old man goes on, ‘the great spirit talked with Thee in the wilderness, and we are told in the books that he “tempted” Thee. Is that so? And could anything truer be said than what he revealed to Thee in three questions and what Thou didst reject, and what in the books is called “the temptation”? And yet if there has ever been on earth a real stupendous miracle, it took place on that day, on the day of the three temptations. The statement of those three questions was itself the miracle. If it were possible to imagine simply for the sake of argument that those three questions of the dread spirit had perished utterly from the books, and that we had to restore them and to invent them anew, and to do so had gathered together all the wise men of the earth—rulers, chief priests, learned men, philosophers, poets—and had set them the task to invent three questions, such as would not only fit the occasion, but express in three words, three human phrases, the whole future history of the world and of humanity—dost Thou believe that all the wisdom of the earth united could have invented anything in depth and force equal to the three questions which were actually put to Thee then by the wise and mighty spirit in the wilderness? From those questions alone, from the miracle of their statement, we can see that we have here to do not with the fleeting human intelligence, but with the absolute and eternal. For in those three questions the whole subsequent history of mankind is, as it were, brought together into one whole, and foretold, and in them are united all the unsolved historical contradictions of human nature. At the time it could not be so clear, since the future was unknown; but now that fifteen hundred years have passed, we see that everything in those three questions was so justly divined and foretold, and has been so truly fulfilled, that nothing can be added to them or taken from them.

“ ‘Judge Thyself who was right—Thou or he who questioned Thee then? Remember the first question; its meaning, in other words, was this: “Thou wouldst go into the world, and art going with empty hands, with some promise of freedom which men in their simplicity and their natural unruliness cannot even understand, which they fear and dread—for nothing has ever been more insupportable for a man and a human society than freedom. But seest Thou these stones in this parched and barren wilderness? Turn them into bread, and mankind will run after Thee like a flock of sheep, grateful and obedient, though for ever trembling, lest Thou withdraw Thy hand and deny them Thy bread.” But Thou wouldst not deprive man of freedom and didst reject the offer, thinking, what is that freedom worth, if obedience is bought with bread? Thou didst reply that man lives not by bread alone. But dost Thou know that for the sake of that earthly bread the spirit of the earth will rise up against Thee and will strive with Thee and overcome Thee, and all will follow him, crying, “Who can compare with this beast? He has given us fire from heaven!” Dost Thou know that the ages will pass, and humanity will proclaim by the lips of their sages that there is no crime, and therefore no sin; there is only hunger? “Feed men, and then ask of them virtue!” that’s what they’ll write on the banner, which they will raise against Thee, and with which they will destroy Thy temple. Where Thy temple stood will rise a new building; the terrible tower of Babel will be built again, and though, like the one of old, it will not be finished, yet Thou mightest have prevented that new tower and have cut short the sufferings of men for a thousand years; for they will come back to us after a thousand years of agony with their tower. They will seek us again, hidden underground in the catacombs, for we shall be again persecuted and tortured. They will find us and cry to us, “Feed us, for those who have promised us fire from heaven haven’t given it!” And then we shall finish building their tower, for he finishes the building who feeds them. And we alone shall feed them in Thy name, declaring falsely that it is in Thy name. Oh, never, never can they feed themselves without us! No science will give them bread so long as they remain free. In the end they will lay their freedom at our feet, and say to us, “Make us your slaves, but feed us.” They will understand themselves, at last, that freedom and bread enough for all are inconceivable together, for never, never will they be able to share between them! They will be convinced, too, that they can never be free, for they are weak, vicious, worthless and rebellious. Thou didst promise them the bread of Heaven, but, I repeat again, can it compare with earthly bread in the eyes of the weak, ever sinful and ignoble race of man? And if for the sake of the bread of Heaven thousands shall follow Thee, what is to become of the millions and tens of thousands of millions of creatures who will not have the strength to forego the earthly bread for the sake of the heavenly? Or dost Thou care only for the tens of thousands of the great and strong, while the millions, numerous as the sands of the sea, who are weak but love Thee, must exist only for the sake of the great and strong? No, we care for the weak too. They are sinful and rebellious, but in the end they too will become obedient. They will marvel at us and look on us as gods, because we are ready to endure the freedom which they have found so dreadful and to rule over them—so awful it will seem to them to be free. But we shall tell them that we are Thy servants and rule them in Thy name. We shall deceive them again, for we will not let Thee come to us again. That deception will be our suffering, for we shall be forced to lie.

“ ‘This is the significance of the first question in the wilderness, and this is what Thou hast rejected for the sake of that freedom which Thou hast exalted above everything. Yet in this question lies hid the great secret of this world. Choosing “bread,” Thou wouldst have satisfied the universal and everlasting craving of humanity—to find some one to worship. So long as man remains free he strives for nothing so incessantly and so painfully as to find some one to worship. But man seeks to worship what is established beyond dispute, so that all men would agree at once to worship it. For these pitiful creatures are concerned not only to find what one or the other can worship, but to find something that all would believe in and worship; what is essential is that all may be together in it. This craving for community of worship is the chief misery of every man individually and of all humanity from the beginning of time. For the sake of common worship they’ve slain each other with the sword. They have set up gods and challenged one another, “Put away your gods and come and worship ours, or we will kill you and your gods!” And so it will be to the end of the world, even when gods disappear from the earth; they will fall down before idols just the same. Thou didst know, Thou couldst not but have known, this fundamental secret of human nature, but Thou didst reject the one infallible banner which was offered Thee to make all men bow down to Thee alone—the banner of earthly bread; and Thou hast rejected it for the sake of freedom and the bread of Heaven. Behold what Thou didst further. And all again in the name of freedom! I tell Thee that man is tormented by no greater anxiety than to find some one quickly to whom he can hand over that gift of freedom with which the ill‐fated creature is born. But only one who can appease their conscience can take over their freedom. In bread there was offered Thee an invincible banner; give bread, and man will worship thee, for nothing is more certain than bread. But if some one else gains possession of his conscience—oh! then he will cast away Thy bread and follow after him who has ensnared his conscience. In that Thou wast right. For the secret of man’s being is not only to live but to have something to live for. Without a stable conception of the object of life, man would not consent to go on living, and would rather destroy himself than remain on earth, though he had bread in abundance. That is true. But what happened? Instead of taking men’s freedom from them, Thou didst make it greater than ever! Didst Thou forget that man prefers peace, and even death, to freedom of choice in the knowledge of good and evil? Nothing is more seductive for man than his freedom of conscience, but nothing is a greater cause of suffering. And behold, instead of giving a firm foundation for setting the conscience of man at rest for ever, Thou didst choose all that is exceptional, vague and enigmatic; Thou didst choose what was utterly beyond the strength of men, acting as though Thou didst not love them at all—Thou who didst come to give Thy life for them! Instead of taking possession of men’s freedom, Thou didst increase it, and burdened the spiritual kingdom of mankind with its sufferings for ever. Thou didst desire man’s free love, that he should follow Thee freely, enticed and taken captive by Thee. In place of the rigid ancient law, man must hereafter with free heart decide for himself what is good and what is evil, having only Thy image before him as his guide. But didst Thou not know that he would at last reject even Thy image and Thy truth, if he is weighed down with the fearful burden of free choice? They will cry aloud at last that the truth is not in Thee, for they could not have been left in greater confusion and suffering than Thou hast caused, laying upon them so many cares and unanswerable problems.

“ ‘So that, in truth, Thou didst Thyself lay the foundation for the destruction of Thy kingdom, and no one is more to blame for it. Yet what was offered Thee? There are three powers, three powers alone, able to conquer and to hold captive for ever the conscience of these impotent rebels for their happiness—those forces are miracle, mystery and authority. Thou hast rejected all three and hast set the example for doing so. When the wise and dread spirit set Thee on the pinnacle of the temple and said to Thee, “If Thou wouldst know whether Thou art the Son of God then cast Thyself down, for it is written: the angels shall hold him up lest he fall and bruise himself, and Thou shalt know then whether Thou art the Son of God and shalt prove then how great is Thy faith in Thy Father.” But Thou didst refuse and wouldst not cast Thyself down. Oh, of course, Thou didst proudly and well, like God; but the weak, unruly race of men, are they gods? Oh, Thou didst know then that in taking one step, in making one movement to cast Thyself down, Thou wouldst be tempting God and have lost all Thy faith in Him, and wouldst have been dashed to pieces against that earth which Thou didst come to save. And the wise spirit that tempted Thee would have rejoiced. But I ask again, are there many like Thee? And couldst Thou believe for one moment that men, too, could face such a temptation? Is the nature of men such, that they can reject miracle, and at the great moments of their life, the moments of their deepest, most agonizing spiritual difficulties, cling only to the free verdict of the heart? Oh, Thou didst know that Thy deed would be recorded in books, would be handed down to remote times and the utmost ends of the earth, and Thou didst hope that man, following Thee, would cling to God and not ask for a miracle. But Thou didst not know that when man rejects miracle he rejects God too; for man seeks not so much God as the miraculous. And as man cannot bear to be without the miraculous, he will create new miracles of his own for himself, and will worship deeds of sorcery and witchcraft, though he might be a hundred times over a rebel, heretic and infidel. Thou didst not come down from the Cross when they shouted to Thee, mocking and reviling Thee, “Come down from the cross and we will believe that Thou art He.” Thou didst not come down, for again Thou wouldst not enslave man by a miracle, and didst crave faith given freely, not based on miracle. Thou didst crave for free love and not the base raptures of the slave before the might that has overawed him for ever. But Thou didst think too highly of men therein, for they are slaves, of course, though rebellious by nature. Look round and judge; fifteen centuries have passed, look upon them. Whom hast Thou raised up to Thyself? I swear, man is weaker and baser by nature than Thou hast believed him! Can he, can he do what Thou didst? By showing him so much respect, Thou didst, as it were, cease to feel for him, for Thou didst ask far too much from him—Thou who hast loved him more than Thyself! Respecting him less, Thou wouldst have asked less of him. That would have been more like love, for his burden would have been lighter. He is weak and vile. What though he is everywhere now rebelling against our power, and proud of his rebellion? It is the pride of a child and a schoolboy. They are little children rioting and barring out the teacher at school. But their childish delight will end; it will cost them dear. They will cast down temples and drench the earth with blood. But they will see at last, the foolish children, that, though they are rebels, they are impotent rebels, unable to keep up their own rebellion. Bathed in their foolish tears, they will recognize at last that He who created them rebels must have meant to mock at them. They will say this in despair, and their utterance will be a blasphemy which will make them more unhappy still, for man’s nature cannot bear blasphemy, and in the end always avenges it on itself. And so unrest, confusion and unhappiness—that is the present lot of man after Thou didst bear so much for their freedom! The great prophet tells in vision and in image, that he saw all those who took part in the first resurrection and that there were of each tribe twelve thousand. But if there were so many of them, they must have been not men but gods. They had borne Thy cross, they had endured scores of years in the barren, hungry wilderness, living upon locusts and roots—and Thou mayest indeed point with pride at those children of freedom, of free love, of free and splendid sacrifice for Thy name. But remember that they were only some thousands; and what of the rest? And how are the other weak ones to blame, because they could not endure what the strong have endured? How is the weak soul to blame that it is unable to receive such terrible gifts? Canst Thou have simply come to the elect and for the elect? But if so, it is a mystery and we cannot understand it. And if it is a mystery, we too have a right to preach a mystery, and to teach them that it’s not the free judgment of their hearts, not love that matters, but a mystery which they must follow blindly, even against their conscience. So we have done. We have corrected Thy work and have founded it upon miracle, mystery and authority. And men rejoiced that they were again led like sheep, and that the terrible gift that had brought them such suffering was, at last, lifted from their hearts. Were we right teaching them this? Speak! Did we not love mankind, so meekly acknowledging their feebleness, lovingly lightening their burden, and permitting their weak nature even sin with our sanction? Why hast Thou come now to hinder us? And why dost Thou look silently and searchingly at me with Thy mild eyes? Be angry. I don’t want Thy love, for I love Thee not. And what use is it for me to hide anything from Thee? Don’t I know to Whom I am speaking? All that I can say is known to Thee already. And is it for me to conceal from Thee our mystery? Perhaps it is Thy will to hear it from my lips. Listen, then. We are not working with Thee, but with him—that is our mystery. It’s long—eight centuries—since we have been on his side and not on Thine. Just eight centuries ago, we took from him what Thou didst reject with scorn, that last gift he offered Thee, showing Thee all the kingdoms of the earth. We took from him Rome and the sword of Cæsar, and proclaimed ourselves sole rulers of the earth, though hitherto we have not been able to complete our work. But whose fault is that? Oh, the work is only beginning, but it has begun. It has long to await completion and the earth has yet much to suffer, but we shall triumph and shall be Cæsars, and then we shall plan the universal happiness of man. But Thou mightest have taken even then the sword of Cæsar. Why didst Thou reject that last gift? Hadst Thou accepted that last counsel of the mighty spirit, Thou wouldst have accomplished all that man seeks on earth—that is, some one to worship, some one to keep his conscience, and some means of uniting all in one unanimous and harmonious ant‐heap, for the craving for universal unity is the third and last anguish of men. Mankind as a whole has always striven to organize a universal state. There have been many great nations with great histories, but the more highly they were developed the more unhappy they were, for they felt more acutely than other people the craving for world‐wide union. The great conquerors, Timours and Ghenghis‐Khans, whirled like hurricanes over the face of the earth striving to subdue its people, and they too were but the unconscious expression of the same craving for universal unity. Hadst Thou taken the world and Cæsar’s purple, Thou wouldst have founded the universal state and have given universal peace. For who can rule men if not he who holds their conscience and their bread in his hands? We have taken the sword of Cæsar, and in taking it, of course, have rejected Thee and followed him. Oh, ages are yet to come of the confusion of free thought, of their science and cannibalism. For having begun to build their tower of Babel without us, they will end, of course, with cannibalism. But then the beast will crawl to us and lick our feet and spatter them with tears of blood. And we shall sit upon the beast and raise the cup, and on it will be written, “Mystery.” But then, and only then, the reign of peace and happiness will come for men. Thou art proud of Thine elect, but Thou hast only the elect, while we give rest to all. And besides, how many of those elect, those mighty ones who could become elect, have grown weary waiting for Thee, and have transferred and will transfer the powers of their spirit and the warmth of their heart to the other camp, and end by raising their free banner against Thee. Thou didst Thyself lift up that banner. But with us all will be happy and will no more rebel nor destroy one another as under Thy freedom. Oh, we shall persuade them that they will only become free when they renounce their freedom to us and submit to us. And shall we be right or shall we be lying? They will be convinced that we are right, for they will remember the horrors of slavery and confusion to which Thy freedom brought them. Freedom, free thought and science, will lead them into such straits and will bring them face to face with such marvels and insoluble mysteries, that some of them, the fierce and rebellious, will destroy themselves, others, rebellious but weak, will destroy one another, while the rest, weak and unhappy, will crawl fawning to our feet and whine to us: “Yes, you were right, you alone possess His mystery, and we come back to you, save us from ourselves!”

“ ‘Receiving bread from us, they will see clearly that we take the bread made by their hands from them, to give it to them, without any miracle. They will see that we do not change the stones to bread, but in truth they will be more thankful for taking it from our hands than for the bread itself! For they will remember only too well that in old days, without our help, even the bread they made turned to stones in their hands, while since they have come back to us, the very stones have turned to bread in their hands. Too, too well will they know the value of complete submission! And until men know that, they will be unhappy. Who is most to blame for their not knowing it?—speak! Who scattered the flock and sent it astray on unknown paths? But the flock will come together again and will submit once more, and then it will be once for all. Then we shall give them the quiet humble happiness of weak creatures such as they are by nature. Oh, we shall persuade them at last not to be proud, for Thou didst lift them up and thereby taught them to be proud. We shall show them that they are weak, that they are only pitiful children, but that childlike happiness is the sweetest of all. They will become timid and will look to us and huddle close to us in fear, as chicks to the hen. They will marvel at us and will be awe‐stricken before us, and will be proud at our being so powerful and clever, that we have been able to subdue such a turbulent flock of thousands of millions. They will tremble impotently before our wrath, their minds will grow fearful, they will be quick to shed tears like women and children, but they will be just as ready at a sign from us to pass to laughter and rejoicing, to happy mirth and childish song. Yes, we shall set them to work, but in their leisure hours we shall make their life like a child’s game, with children’s songs and innocent dance. Oh, we shall allow them even sin, they are weak and helpless, and they will love us like children because we allow them to sin. We shall tell them that every sin will be expiated, if it is done with our permission, that we allow them to sin because we love them, and the punishment for these sins we take upon ourselves. And we shall take it upon ourselves, and they will adore us as their saviors who have taken on themselves their sins before God. And they will have no secrets from us. We shall allow or forbid them to live with their wives and mistresses, to have or not to have children—according to whether they have been obedient or disobedient—and they will submit to us gladly and cheerfully. The most painful secrets of their conscience, all, all they will bring to us, and we shall have an answer for all. And they will be glad to believe our answer, for it will save them from the great anxiety and terrible agony they endure at present in making a free decision for themselves. And all will be happy, all the millions of creatures except the hundred thousand who rule over them. For only we, we who guard the mystery, shall be unhappy. There will be thousands of millions of happy babes, and a hundred thousand sufferers who have taken upon themselves the curse of the knowledge of good and evil. Peacefully they will die, peacefully they will expire in Thy name, and beyond the grave they will find nothing but death. But we shall keep the secret, and for their happiness we shall allure them with the reward of heaven and eternity. Though if there were anything in the other world, it certainly would not be for such as they. It is prophesied that Thou wilt come again in victory, Thou wilt come with Thy chosen, the proud and strong, but we will say that they have only saved themselves, but we have saved all. We are told that the harlot who sits upon the beast, and holds in her hands the mystery, shall be put to shame, that the weak will rise up again, and will rend her royal purple and will strip naked her loathsome body. But then I will stand up and point out to Thee the thousand millions of happy children who have known no sin. And we who have taken their sins upon us for their happiness will stand up before Thee and say: “Judge us if Thou canst and darest.” Know that I fear Thee not. Know that I too have been in the wilderness, I too have lived on roots and locusts, I too prized the freedom with which Thou hast blessed men, and I too was striving to stand among Thy elect, among the strong and powerful, thirsting “to make up the number.” But I awakened and would not serve madness. I turned back and joined the ranks of those who have corrected Thy work. I left the proud and went back to the humble, for the happiness of the humble. What I say to Thee will come to pass, and our dominion will be built up. I repeat, to‐morrow Thou shalt see that obedient flock who at a sign from me will hasten to heap up the hot cinders about the pile on which I shall burn Thee for coming to hinder us. For if any one has ever deserved our fires, it is Thou. To‐morrow I shall burn Thee. Dixi.’ ”

Ivan stopped. He was carried away as he talked, and spoke with excitement; when he had finished, he suddenly smiled.

Alyosha had listened in silence; towards the end he was greatly moved and seemed several times on the point of interrupting, but restrained himself. Now his words came with a rush.

“But … that’s absurd!” he cried, flushing. “Your poem is in praise of Jesus, not in blame of Him—as you meant it to be. And who will believe you about freedom? Is that the way to understand it? That’s not the idea of it in the Orthodox Church…. That’s Rome, and not even the whole of Rome, it’s false—those are the worst of the Catholics, the Inquisitors, the Jesuits!… And there could not be such a fantastic creature as your Inquisitor. What are these sins of mankind they take on themselves? Who are these keepers of the mystery who have taken some curse upon themselves for the happiness of mankind? When have they been seen? We know the Jesuits, they are spoken ill of, but surely they are not what you describe? They are not that at all, not at all…. They are simply the Romish army for the earthly sovereignty of the world in the future, with the Pontiff of Rome for Emperor … that’s their ideal, but there’s no sort of mystery or lofty melancholy about it…. It’s simple lust of power, of filthy earthly gain, of domination—something like a universal serfdom with them as masters—that’s all they stand for. They don’t even believe in God perhaps. Your suffering Inquisitor is a mere fantasy.”

“Stay, stay,” laughed Ivan, “how hot you are! A fantasy you say, let it be so! Of course it’s a fantasy. But allow me to say: do you really think that the Roman Catholic movement of the last centuries is actually nothing but the lust of power, of filthy earthly gain? Is that Father Païssy’s teaching?”

“No, no, on the contrary, Father Païssy did once say something rather the same as you … but of course it’s not the same, not a bit the same,” Alyosha hastily corrected himself.

“A precious admission, in spite of your ‘not a bit the same.’ I ask you why your Jesuits and Inquisitors have united simply for vile material gain? Why can there not be among them one martyr oppressed by great sorrow and loving humanity? You see, only suppose that there was one such man among all those who desire nothing but filthy material gain—if there’s only one like my old Inquisitor, who had himself eaten roots in the desert and made frenzied efforts to subdue his flesh to make himself free and perfect. But yet all his life he loved humanity, and suddenly his eyes were opened, and he saw that it is no great moral blessedness to attain perfection and freedom, if at the same time one gains the conviction that millions of God’s creatures have been created as a mockery, that they will never be capable of using their freedom, that these poor rebels can never turn into giants to complete the tower, that it was not for such geese that the great idealist dreamt his dream of harmony. Seeing all that he turned back and joined—the clever people. Surely that could have happened?”

“Joined whom, what clever people?” cried Alyosha, completely carried away. “They have no such great cleverness and no mysteries and secrets…. Perhaps nothing but Atheism, that’s all their secret. Your Inquisitor does not believe in God, that’s his secret!”

“What if it is so! At last you have guessed it. It’s perfectly true, it’s true that that’s the whole secret, but isn’t that suffering, at least for a man like that, who has wasted his whole life in the desert and yet could not shake off his incurable love of humanity? In his old age he reached the clear conviction that nothing but the advice of the great dread spirit could build up any tolerable sort of life for the feeble, unruly, ‘incomplete, empirical creatures created in jest.’ And so, convinced of this, he sees that he must follow the counsel of the wise spirit, the dread spirit of death and destruction, and therefore accept lying and deception, and lead men consciously to death and destruction, and yet deceive them all the way so that they may not notice where they are being led, that the poor blind creatures may at least on the way think themselves happy. And note, the deception is in the name of Him in Whose ideal the old man had so fervently believed all his life long. Is not that tragic? And if only one such stood at the head of the whole army ‘filled with the lust of power only for the sake of filthy gain’—would not one such be enough to make a tragedy? More than that, one such standing at the head is enough to create the actual leading idea of the Roman Church with all its armies and Jesuits, its highest idea. I tell you frankly that I firmly believe that there has always been such a man among those who stood at the head of the movement. Who knows, there may have been some such even among the Roman Popes. Who knows, perhaps the spirit of that accursed old man who loves mankind so obstinately in his own way, is to be found even now in a whole multitude of such old men, existing not by chance but by agreement, as a secret league formed long ago for the guarding of the mystery, to guard it from the weak and the unhappy, so as to make them happy. No doubt it is so, and so it must be indeed. I fancy that even among the Masons there’s something of the same mystery at the bottom, and that that’s why the Catholics so detest the Masons as their rivals breaking up the unity of the idea, while it is so essential that there should be one flock and one shepherd…. But from the way I defend my idea I might be an author impatient of your criticism. Enough of it.”

“You are perhaps a Mason yourself!” broke suddenly from Alyosha. “You don’t believe in God,” he added, speaking this time very sorrowfully. He fancied besides that his brother was looking at him ironically. “How does your poem end?” he asked, suddenly looking down. “Or was it the end?”

“I meant to end it like this. When the Inquisitor ceased speaking he waited some time for his Prisoner to answer him. His silence weighed down upon him. He saw that the Prisoner had listened intently all the time, looking gently in his face and evidently not wishing to reply. The old man longed for Him to say something, however bitter and terrible. But He suddenly approached the old man in silence and softly kissed him on his bloodless aged lips. That was all His answer. The old man shuddered. His lips moved. He went to the door, opened it, and said to Him: ‘Go, and come no more … come not at all, never, never!’ And he let Him out into the dark alleys of the town. The Prisoner went away.”

“And the old man?”

“The kiss glows in his heart, but the old man adheres to his idea.”

“And you with him, you too?” cried Alyosha, mournfully.

Ivan laughed.

“Why, it’s all nonsense, Alyosha. It’s only a senseless poem of a senseless student, who could never write two lines of verse. Why do you take it so seriously? Surely you don’t suppose I am going straight off to the Jesuits, to join the men who are correcting His work? Good Lord, it’s no business of mine. I told you, all I want is to live on to thirty, and then … dash the cup to the ground!”

“But the little sticky leaves, and the precious tombs, and the blue sky, and the woman you love! How will you live, how will you love them?” Alyosha cried sorrowfully. “With such a hell in your heart and your head, how can you? No, that’s just what you are going away for, to join them … if not, you will kill yourself, you can’t endure it!”

“There is a strength to endure everything,” Ivan said with a cold smile.

“What strength?”

“The strength of the Karamazovs—the strength of the Karamazov baseness.”

“To sink into debauchery, to stifle your soul with corruption, yes?”

“Possibly even that … only perhaps till I am thirty I shall escape it, and then—”

“How will you escape it? By what will you escape it? That’s impossible with your ideas.”

“In the Karamazov way, again.”

“ ‘Everything is lawful,’ you mean? Everything is lawful, is that it?”

Ivan scowled, and all at once turned strangely pale.

“Ah, you’ve caught up yesterday’s phrase, which so offended Miüsov—and which Dmitri pounced upon so naïvely, and paraphrased!” he smiled queerly. “Yes, if you like, ‘everything is lawful’ since the word has been said. I won’t deny it. And Mitya’s version isn’t bad.”

Alyosha looked at him in silence.

“I thought that going away from here I have you at least,” Ivan said suddenly, with unexpected feeling; “but now I see that there is no place for me even in your heart, my dear hermit. The formula, ‘all is lawful,’ I won’t renounce—will you renounce me for that, yes?”

Alyosha got up, went to him and softly kissed him on the lips.

“That’s plagiarism,” cried Ivan, highly delighted. “You stole that from my poem. Thank you though. Get up, Alyosha, it’s time we were going, both of us.”

They went out, but stopped when they reached the entrance of the restaurant.

“Listen, Alyosha,” Ivan began in a resolute voice, “if I am really able to care for the sticky little leaves I shall only love them, remembering you. It’s enough for me that you are somewhere here, and I shan’t lose my desire for life yet. Is that enough for you? Take it as a declaration of love if you like. And now you go to the right and I to the left. And it’s enough, do you hear, enough. I mean even if I don’t go away to‐morrow (I think I certainly shall go) and we meet again, don’t say a word more on these subjects. I beg that particularly. And about Dmitri too, I ask you specially, never speak to me again,” he added, with sudden irritation; “it’s all exhausted, it has all been said over and over again, hasn’t it? And I’ll make you one promise in return for it. When at thirty, I want to ‘dash the cup to the ground,’ wherever I may be I’ll come to have one more talk with you, even though it were from America, you may be sure of that. I’ll come on purpose. It will be very interesting to have a look at you, to see what you’ll be by that time. It’s rather a solemn promise, you see. And we really may be parting for seven years or ten. Come, go now to your Pater Seraphicus, he is dying. If he dies without you, you will be angry with me for having kept you. Good‐by, kiss me once more; that’s right, now go.”

Ivan turned suddenly and went his way without looking back. It was just as Dmitri had left Alyosha the day before, though the parting had been very different. The strange resemblance flashed like an arrow through Alyosha’s mind in the distress and dejection of that moment. He waited a little, looking after his brother. He suddenly noticed that Ivan swayed as he walked and that his right shoulder looked lower than his left. He had never noticed it before. But all at once he turned too, and almost ran to the monastery. It was nearly dark, and he felt almost frightened; something new was growing up in him for which he could not account. The wind had risen again as on the previous evening, and the ancient pines murmured gloomily about him when he entered the hermitage copse. He almost ran. “Pater Seraphicus—he got that name from somewhere—where from?” Alyosha wondered. “Ivan, poor Ivan, and when shall I see you again?… Here is the hermitage. Yes, yes, that he is, Pater Seraphicus, he will save me—from him and for ever!”

Several times afterwards he wondered how he could on leaving Ivan so completely forget his brother Dmitri, though he had that morning, only a few hours before, so firmly resolved to find him and not to give up doing so, even should he be unable to return to the monastery that night.

Chapter VI.
For Awhile A Very Obscure One
And Ivan, on parting from Alyosha, went home to Fyodor Pavlovitch’s house. But, strange to say, he was overcome by insufferable depression, which grew greater at every step he took towards the house. There was nothing strange in his being depressed; what was strange was that Ivan could not have said what was the cause of it. He had often been depressed before, and there was nothing surprising at his feeling so at such a moment, when he had broken off with everything that had brought him here, and was preparing that day to make a new start and enter upon a new, unknown future. He would again be as solitary as ever, and though he had great hopes, and great—too great—expectations from life, he could not have given any definite account of his hopes, his expectations, or even his desires.

Yet at that moment, though the apprehension of the new and unknown certainly found place in his heart, what was worrying him was something quite different. “Is it loathing for my father’s house?” he wondered. “Quite likely; I am so sick of it; and though it’s the last time I shall cross its hateful threshold, still I loathe it…. No, it’s not that either. Is it the parting with Alyosha and the conversation I had with him? For so many years I’ve been silent with the whole world and not deigned to speak, and all of a sudden I reel off a rigmarole like that.” It certainly might have been the youthful vexation of youthful inexperience and vanity—vexation at having failed to express himself, especially with such a being as Alyosha, on whom his heart had certainly been reckoning. No doubt that came in, that vexation, it must have done indeed; but yet that was not it, that was not it either. “I feel sick with depression and yet I can’t tell what I want. Better not think, perhaps.”

Ivan tried “not to think,” but that, too, was no use. What made his depression so vexatious and irritating was that it had a kind of casual, external character—he felt that. Some person or thing seemed to be standing out somewhere, just as something will sometimes obtrude itself upon the eye, and though one may be so busy with work or conversation that for a long time one does not notice it, yet it irritates and almost torments one till at last one realizes, and removes the offending object, often quite a trifling and ridiculous one—some article left about in the wrong place, a handkerchief on the floor, a book not replaced on the shelf, and so on.

At last, feeling very cross and ill‐humored, Ivan arrived home, and suddenly, about fifteen paces from the garden gate, he guessed what was fretting and worrying him.

On a bench in the gateway the valet Smerdyakov was sitting enjoying the coolness of the evening, and at the first glance at him Ivan knew that the valet Smerdyakov was on his mind, and that it was this man that his soul loathed. It all dawned upon him suddenly and became clear. Just before, when Alyosha had been telling him of his meeting with Smerdyakov, he had felt a sudden twinge of gloom and loathing, which had immediately stirred responsive anger in his heart. Afterwards, as he talked, Smerdyakov had been forgotten for the time; but still he had been in his mind, and as soon as Ivan parted with Alyosha and was walking home, the forgotten sensation began to obtrude itself again. “Is it possible that a miserable, contemptible creature like that can worry me so much?” he wondered, with insufferable irritation.

It was true that Ivan had come of late to feel an intense dislike for the man, especially during the last few days. He had even begun to notice in himself a growing feeling that was almost of hatred for the creature. Perhaps this hatred was accentuated by the fact that when Ivan first came to the neighborhood he had felt quite differently. Then he had taken a marked interest in Smerdyakov, and had even thought him very original. He had encouraged him to talk to him, although he had always wondered at a certain incoherence, or rather restlessness, in his mind, and could not understand what it was that so continually and insistently worked upon the brain of “the contemplative.” They discussed philosophical questions and even how there could have been light on the first day when the sun, moon, and stars were only created on the fourth day, and how that was to be understood. But Ivan soon saw that, though the sun, moon, and stars might be an interesting subject, yet that it was quite secondary to Smerdyakov, and that he was looking for something altogether different. In one way and another, he began to betray a boundless vanity, and a wounded vanity, too, and that Ivan disliked. It had first given rise to his aversion. Later on, there had been trouble in the house. Grushenka had come on the scene, and there had been the scandals with his brother Dmitri—they discussed that, too. But though Smerdyakov always talked of that with great excitement, it was impossible to discover what he desired to come of it. There was, in fact, something surprising in the illogicality and incoherence of some of his desires, accidentally betrayed and always vaguely expressed. Smerdyakov was always inquiring, putting certain indirect but obviously premeditated questions, but what his object was he did not explain, and usually at the most important moment he would break off and relapse into silence or pass to another subject. But what finally irritated Ivan most and confirmed his dislike for him was the peculiar, revolting familiarity which Smerdyakov began to show more and more markedly. Not that he forgot himself and was rude; on the contrary, he always spoke very respectfully, yet he had obviously begun to consider—goodness knows why!—that there was some sort of understanding between him and Ivan Fyodorovitch. He always spoke in a tone that suggested that those two had some kind of compact, some secret between them, that had at some time been expressed on both sides, only known to them and beyond the comprehension of those around them. But for a long while Ivan did not recognize the real cause of his growing dislike and he had only lately realized what was at the root of it.

With a feeling of disgust and irritation he tried to pass in at the gate without speaking or looking at Smerdyakov. But Smerdyakov rose from the bench, and from that action alone, Ivan knew instantly that he wanted particularly to talk to him. Ivan looked at him and stopped, and the fact that he did stop, instead of passing by, as he meant to the minute before, drove him to fury. With anger and repulsion he looked at Smerdyakov’s emasculate, sickly face, with the little curls combed forward on his forehead. His left eye winked and he grinned as if to say, “Where are you going? You won’t pass by; you see that we two clever people have something to say to each other.”

Ivan shook. “Get away, miserable idiot. What have I to do with you?” was on the tip of his tongue, but to his profound astonishment he heard himself say, “Is my father still asleep, or has he waked?”

He asked the question softly and meekly, to his own surprise, and at once, again to his own surprise, sat down on the bench. For an instant he felt almost frightened; he remembered it afterwards. Smerdyakov stood facing him, his hands behind his back, looking at him with assurance and almost severity.

“His honor is still asleep,” he articulated deliberately (“You were the first to speak, not I,” he seemed to say). “I am surprised at you, sir,” he added, after a pause, dropping his eyes affectedly, setting his right foot forward, and playing with the tip of his polished boot.

“Why are you surprised at me?” Ivan asked abruptly and sullenly, doing his utmost to restrain himself, and suddenly realizing, with disgust, that he was feeling intense curiosity and would not, on any account, have gone away without satisfying it.

“Why don’t you go to Tchermashnya, sir?” Smerdyakov suddenly raised his eyes and smiled familiarly. “Why I smile you must understand of yourself, if you are a clever man,” his screwed‐up left eye seemed to say.

“Why should I go to Tchermashnya?” Ivan asked in surprise.

Smerdyakov was silent again.

“Fyodor Pavlovitch himself has so begged you to,” he said at last, slowly and apparently attaching no significance to his answer. “I put you off with a secondary reason,” he seemed to suggest, “simply to say something.”

“Damn you! Speak out what you want!” Ivan cried angrily at last, passing from meekness to violence.

Smerdyakov drew his right foot up to his left, pulled himself up, but still looked at him with the same serenity and the same little smile.

“Substantially nothing—but just by way of conversation.”

Another silence followed. They did not speak for nearly a minute. Ivan knew that he ought to get up and show anger, and Smerdyakov stood before him and seemed to be waiting as though to see whether he would be angry or not. So at least it seemed to Ivan. At last he moved to get up. Smerdyakov seemed to seize the moment.

“I’m in an awful position, Ivan Fyodorovitch. I don’t know how to help myself,” he said resolutely and distinctly, and at his last word he sighed. Ivan Fyodorovitch sat down again.

“They are both utterly crazy, they are no better than little children,” Smerdyakov went on. “I am speaking of your parent and your brother Dmitri Fyodorovitch. Here Fyodor Pavlovitch will get up directly and begin worrying me every minute, ‘Has she come? Why hasn’t she come?’ and so on up till midnight and even after midnight. And if Agrafena Alexandrovna doesn’t come (for very likely she does not mean to come at all) then he will be at me again to‐morrow morning, ‘Why hasn’t she come? When will she come?’—as though I were to blame for it. On the other side it’s no better. As soon as it gets dark, or even before, your brother will appear with his gun in his hands: ‘Look out, you rogue, you soup‐maker. If you miss her and don’t let me know she’s been—I’ll kill you before any one.’ When the night’s over, in the morning, he, too, like Fyodor Pavlovitch, begins worrying me to death. ‘Why hasn’t she come? Will she come soon?’ And he, too, thinks me to blame because his lady hasn’t come. And every day and every hour they get angrier and angrier, so that I sometimes think I shall kill myself in a fright. I can’t depend upon them, sir.”

“And why have you meddled? Why did you begin to spy for Dmitri Fyodorovitch?” said Ivan irritably.

“How could I help meddling? Though, indeed, I haven’t meddled at all, if you want to know the truth of the matter. I kept quiet from the very beginning, not daring to answer; but he pitched on me to be his servant. He has had only one thing to say since: ‘I’ll kill you, you scoundrel, if you miss her,’ I feel certain, sir, that I shall have a long fit to‐ morrow.”

“What do you mean by ‘a long fit’?”

“A long fit, lasting a long time—several hours, or perhaps a day or two. Once it went on for three days. I fell from the garret that time. The struggling ceased and then began again, and for three days I couldn’t come back to my senses. Fyodor Pavlovitch sent for Herzenstube, the doctor here, and he put ice on my head and tried another remedy, too…. I might have died.”

“But they say one can’t tell with epilepsy when a fit is coming. What makes you say you will have one to‐morrow?” Ivan inquired, with a peculiar, irritable curiosity.

“That’s just so. You can’t tell beforehand.”

“Besides, you fell from the garret then.”

“I climb up to the garret every day. I might fall from the garret again to‐morrow. And, if not, I might fall down the cellar steps. I have to go into the cellar every day, too.”

Ivan took a long look at him.

“You are talking nonsense, I see, and I don’t quite understand you,” he said softly, but with a sort of menace. “Do you mean to pretend to be ill to‐morrow for three days, eh?”

Smerdyakov, who was looking at the ground again, and playing with the toe of his right foot, set the foot down, moved the left one forward, and, grinning, articulated:

“If I were able to play such a trick, that is, pretend to have a fit—and it would not be difficult for a man accustomed to them—I should have a perfect right to use such a means to save myself from death. For even if Agrafena Alexandrovna comes to see his father while I am ill, his honor can’t blame a sick man for not telling him. He’d be ashamed to.”

“Hang it all!” Ivan cried, his face working with anger, “why are you always in such a funk for your life? All my brother Dmitri’s threats are only hasty words and mean nothing. He won’t kill you; it’s not you he’ll kill!”

“He’d kill me first of all, like a fly. But even more than that, I am afraid I shall be taken for an accomplice of his when he does something crazy to his father.”

“Why should you be taken for an accomplice?”

“They’ll think I am an accomplice, because I let him know the signals as a great secret.”

“What signals? Whom did you tell? Confound you, speak more plainly.”

“I’m bound to admit the fact,” Smerdyakov drawled with pedantic composure, “that I have a secret with Fyodor Pavlovitch in this business. As you know yourself (if only you do know it) he has for several days past locked himself in as soon as night or even evening comes on. Of late you’ve been going upstairs to your room early every evening, and yesterday you did not come down at all, and so perhaps you don’t know how carefully he has begun to lock himself in at night, and even if Grigory Vassilyevitch comes to the door he won’t open to him till he hears his voice. But Grigory Vassilyevitch does not come, because I wait upon him alone in his room now. That’s the arrangement he made himself ever since this to‐do with Agrafena Alexandrovna began. But at night, by his orders, I go away to the lodge so that I don’t get to sleep till midnight, but am on the watch, getting up and walking about the yard, waiting for Agrafena Alexandrovna to come. For the last few days he’s been perfectly frantic expecting her. What he argues is, she is afraid of him, Dmitri Fyodorovitch (Mitya, as he calls him), ‘and so,’ says he, ‘she’ll come the back‐way, late at night, to me. You look out for her,’ says he, ‘till midnight and later; and if she does come, you run up and knock at my door or at the window from the garden. Knock at first twice, rather gently, and then three times more quickly, then,’ says he, ‘I shall understand at once that she has come, and will open the door to you quietly.’ Another signal he gave me in case anything unexpected happens. At first, two knocks, and then, after an interval, another much louder. Then he will understand that something has happened suddenly and that I must see him, and he will open to me so that I can go and speak to him. That’s all in case Agrafena Alexandrovna can’t come herself, but sends a message. Besides, Dmitri Fyodorovitch might come, too, so I must let him know he is near. His honor is awfully afraid of Dmitri Fyodorovitch, so that even if Agrafena Alexandrovna had come and were locked in with him, and Dmitri Fyodorovitch were to turn up anywhere near at the time, I should be bound to let him know at once, knocking three times. So that the first signal of five knocks means Agrafena Alexandrovna has come, while the second signal of three knocks means ‘something important to tell you.’ His honor has shown me them several times and explained them. And as in the whole universe no one knows of these signals but myself and his honor, so he’d open the door without the slightest hesitation and without calling out (he is awfully afraid of calling out aloud). Well, those signals are known to Dmitri Fyodorovitch too, now.”

“How are they known? Did you tell him? How dared you tell him?”

“It was through fright I did it. How could I dare to keep it back from him? Dmitri Fyodorovitch kept persisting every day, ‘You are deceiving me, you are hiding something from me! I’ll break both your legs for you.’ So I told him those secret signals that he might see my slavish devotion, and might be satisfied that I was not deceiving him, but was telling him all I could.”

“If you think that he’ll make use of those signals and try to get in, don’t let him in.”

“But if I should be laid up with a fit, how can I prevent him coming in then, even if I dared prevent him, knowing how desperate he is?”

“Hang it! How can you be so sure you are going to have a fit, confound you? Are you laughing at me?”

“How could I dare laugh at you? I am in no laughing humor with this fear on me. I feel I am going to have a fit. I have a presentiment. Fright alone will bring it on.”

“Confound it! If you are laid up, Grigory will be on the watch. Let Grigory know beforehand; he will be sure not to let him in.”

“I should never dare to tell Grigory Vassilyevitch about the signals without orders from my master. And as for Grigory Vassilyevitch hearing him and not admitting him, he has been ill ever since yesterday, and Marfa Ignatyevna intends to give him medicine to‐morrow. They’ve just arranged it. It’s a very strange remedy of hers. Marfa Ignatyevna knows of a preparation and always keeps it. It’s a strong thing made from some herb. She has the secret of it, and she always gives it to Grigory Vassilyevitch three times a year when his lumbago’s so bad he is almost paralyzed by it. Then she takes a towel, wets it with the stuff, and rubs his whole back for half an hour till it’s quite red and swollen, and what’s left in the bottle she gives him to drink with a special prayer; but not quite all, for on such occasions she leaves some for herself, and drinks it herself. And as they never take strong drink, I assure you they both drop asleep at once and sleep sound a very long time. And when Grigory Vassilyevitch wakes up he is perfectly well after it, but Marfa Ignatyevna always has a headache from it. So, if Marfa Ignatyevna carries out her intention to‐ morrow, they won’t hear anything and hinder Dmitri Fyodorovitch. They’ll be asleep.”

“What a rigmarole! And it all seems to happen at once, as though it were planned. You’ll have a fit and they’ll both be unconscious,” cried Ivan. “But aren’t you trying to arrange it so?” broke from him suddenly, and he frowned threateningly.

“How could I?… And why should I, when it all depends on Dmitri Fyodorovitch and his plans?… If he means to do anything, he’ll do it; but if not, I shan’t be thrusting him upon his father.”

“And why should he go to father, especially on the sly, if, as you say yourself, Agrafena Alexandrovna won’t come at all?” Ivan went on, turning white with anger. “You say that yourself, and all the while I’ve been here, I’ve felt sure it was all the old man’s fancy, and the creature won’t come to him. Why should Dmitri break in on him if she doesn’t come? Speak, I want to know what you are thinking!”

“You know yourself why he’ll come. What’s the use of what I think? His honor will come simply because he is in a rage or suspicious on account of my illness perhaps, and he’ll dash in, as he did yesterday through impatience to search the rooms, to see whether she hasn’t escaped him on the sly. He is perfectly well aware, too, that Fyodor Pavlovitch has a big envelope with three thousand roubles in it, tied up with ribbon and sealed with three seals. On it is written in his own hand, ‘To my angel Grushenka, if she will come,’ to which he added three days later, ‘for my little chicken.’ There’s no knowing what that might do.”

“Nonsense!” cried Ivan, almost beside himself. “Dmitri won’t come to steal money and kill my father to do it. He might have killed him yesterday on account of Grushenka, like the frantic, savage fool he is, but he won’t steal.”

“He is in very great need of money now—the greatest need, Ivan Fyodorovitch. You don’t know in what need he is,” Smerdyakov explained, with perfect composure and remarkable distinctness. “He looks on that three thousand as his own, too. He said so to me himself. ‘My father still owes me just three thousand,’ he said. And besides that, consider, Ivan Fyodorovitch, there is something else perfectly true. It’s as good as certain, so to say, that Agrafena Alexandrovna will force him, if only she cares to, to marry her—the master himself, I mean, Fyodor Pavlovitch—if only she cares to, and of course she may care to. All I’ve said is that she won’t come, but maybe she’s looking for more than that—I mean to be mistress here. I know myself that Samsonov, her merchant, was laughing with her about it, telling her quite openly that it would not be at all a stupid thing to do. And she’s got plenty of sense. She wouldn’t marry a beggar like Dmitri Fyodorovitch. So, taking that into consideration, Ivan Fyodorovitch, reflect that then neither Dmitri Fyodorovitch nor yourself and your brother, Alexey Fyodorovitch, would have anything after the master’s death, not a rouble, for Agrafena Alexandrovna would marry him simply to get hold of the whole, all the money there is. But if your father were to die now, there’d be some forty thousand for sure, even for Dmitri Fyodorovitch whom he hates so, for he’s made no will…. Dmitri Fyodorovitch knows all that very well.”

A sort of shudder passed over Ivan’s face. He suddenly flushed.

“Then why on earth,” he suddenly interrupted Smerdyakov, “do you advise me to go to Tchermashnya? What did you mean by that? If I go away, you see what will happen here.” Ivan drew his breath with difficulty.

“Precisely so,” said Smerdyakov, softly and reasonably, watching Ivan intently, however.

“What do you mean by ‘precisely so’?” Ivan questioned him, with a menacing light in his eyes, restraining himself with difficulty.

“I spoke because I felt sorry for you. If I were in your place I should simply throw it all up … rather than stay on in such a position,” answered Smerdyakov, with the most candid air looking at Ivan’s flashing eyes. They were both silent.

“You seem to be a perfect idiot, and what’s more … an awful scoundrel, too.” Ivan rose suddenly from the bench. He was about to pass straight through the gate, but he stopped short and turned to Smerdyakov. Something strange followed. Ivan, in a sudden paroxysm, bit his lip, clenched his fists, and, in another minute, would have flung himself on Smerdyakov. The latter, anyway, noticed it at the same moment, started, and shrank back. But the moment passed without mischief to Smerdyakov, and Ivan turned in silence, as it seemed in perplexity, to the gate.

“I am going away to Moscow to‐morrow, if you care to know—early to‐morrow morning. That’s all!” he suddenly said aloud angrily, and wondered himself afterwards what need there was to say this then to Smerdyakov.

“That’s the best thing you can do,” he responded, as though he had expected to hear it; “except that you can always be telegraphed for from Moscow, if anything should happen here.”

Ivan stopped again, and again turned quickly to Smerdyakov. But a change had passed over him, too. All his familiarity and carelessness had completely disappeared. His face expressed attention and expectation, intent but timid and cringing.

“Haven’t you something more to say—something to add?” could be read in the intent gaze he fixed on Ivan.

“And couldn’t I be sent for from Tchermashnya, too—in case anything happened?” Ivan shouted suddenly, for some unknown reason raising his voice.

“From Tchermashnya, too … you could be sent for,” Smerdyakov muttered, almost in a whisper, looking disconcerted, but gazing intently into Ivan’s eyes.

“Only Moscow is farther and Tchermashnya is nearer. Is it to save my spending money on the fare, or to save my going so far out of my way, that you insist on Tchermashnya?”

“Precisely so …” muttered Smerdyakov, with a breaking voice. He looked at Ivan with a revolting smile, and again made ready to draw back. But to his astonishment Ivan broke into a laugh, and went through the gate still laughing. Any one who had seen his face at that moment would have known that he was not laughing from lightness of heart, and he could not have explained himself what he was feeling at that instant. He moved and walked as though in a nervous frenzy.

Chapter VII.
“It’s Always Worth While Speaking To A Clever Man”
And in the same nervous frenzy, too, he spoke. Meeting Fyodor Pavlovitch in the drawing‐room directly he went in, he shouted to him, waving his hands, “I am going upstairs to my room, not in to you. Good‐by!” and passed by, trying not even to look at his father. Very possibly the old man was too hateful to him at that moment; but such an unceremonious display of hostility was a surprise even to Fyodor Pavlovitch. And the old man evidently wanted to tell him something at once and had come to meet him in the drawing‐room on purpose. Receiving this amiable greeting, he stood still in silence and with an ironical air watched his son going upstairs, till he passed out of sight.

“What’s the matter with him?” he promptly asked Smerdyakov, who had followed Ivan.

“Angry about something. Who can tell?” the valet muttered evasively.

“Confound him! Let him be angry then. Bring in the samovar, and get along with you. Look sharp! No news?”

Then followed a series of questions such as Smerdyakov had just complained of to Ivan, all relating to his expected visitor, and these questions we will omit. Half an hour later the house was locked, and the crazy old man was wandering along through the rooms in excited expectation of hearing every minute the five knocks agreed upon. Now and then he peered out into the darkness, seeing nothing.

It was very late, but Ivan was still awake and reflecting. He sat up late that night, till two o’clock. But we will not give an account of his thoughts, and this is not the place to look into that soul—its turn will come. And even if one tried, it would be very hard to give an account of them, for there were no thoughts in his brain, but something very vague, and, above all, intense excitement. He felt himself that he had lost his bearings. He was fretted, too, by all sorts of strange and almost surprising desires; for instance, after midnight he suddenly had an intense irresistible inclination to go down, open the door, go to the lodge and beat Smerdyakov. But if he had been asked why, he could not have given any exact reason, except perhaps that he loathed the valet as one who had insulted him more gravely than any one in the world. On the other hand, he was more than once that night overcome by a sort of inexplicable humiliating terror, which he felt positively paralyzed his physical powers. His head ached and he was giddy. A feeling of hatred was rankling in his heart, as though he meant to avenge himself on some one. He even hated Alyosha, recalling the conversation he had just had with him. At moments he hated himself intensely. Of Katerina Ivanovna he almost forgot to think, and wondered greatly at this afterwards, especially as he remembered perfectly that when he had protested so valiantly to Katerina Ivanovna that he would go away next day to Moscow, something had whispered in his heart, “That’s nonsense, you are not going, and it won’t be so easy to tear yourself away as you are boasting now.”

Remembering that night long afterwards, Ivan recalled with peculiar repulsion how he had suddenly got up from the sofa and had stealthily, as though he were afraid of being watched, opened the door, gone out on the staircase and listened to Fyodor Pavlovitch stirring down below, had listened a long while—some five minutes—with a sort of strange curiosity, holding his breath while his heart throbbed. And why he had done all this, why he was listening, he could not have said. That “action” all his life afterwards he called “infamous,” and at the bottom of his heart, he thought of it as the basest action of his life. For Fyodor Pavlovitch himself he felt no hatred at that moment, but was simply intensely curious to know how he was walking down there below and what he must be doing now. He wondered and imagined how he must be peeping out of the dark windows and stopping in the middle of the room, listening, listening—for some one to knock. Ivan went out on to the stairs twice to listen like this.

About two o’clock when everything was quiet, and even Fyodor Pavlovitch had gone to bed, Ivan had got into bed, firmly resolved to fall asleep at once, as he felt fearfully exhausted. And he did fall asleep at once, and slept soundly without dreams, but waked early, at seven o’clock, when it was broad daylight. Opening his eyes, he was surprised to feel himself extraordinarily vigorous. He jumped up at once and dressed quickly; then dragged out his trunk and began packing immediately. His linen had come back from the laundress the previous morning. Ivan positively smiled at the thought that everything was helping his sudden departure. And his departure certainly was sudden. Though Ivan had said the day before (to Katerina Ivanovna, Alyosha, and Smerdyakov) that he was leaving next day, yet he remembered that he had no thought of departure when he went to bed, or, at least, had not dreamed that his first act in the morning would be to pack his trunk. At last his trunk and bag were ready. It was about nine o’clock when Marfa Ignatyevna came in with her usual inquiry, “Where will your honor take your tea, in your own room or downstairs?” He looked almost cheerful, but there was about him, about his words and gestures, something hurried and scattered. Greeting his father affably, and even inquiring specially after his health, though he did not wait to hear his answer to the end, he announced that he was starting off in an hour to return to Moscow for good, and begged him to send for the horses. His father heard this announcement with no sign of surprise, and forgot in an unmannerly way to show regret at losing him. Instead of doing so, he flew into a great flutter at the recollection of some important business of his own.

“What a fellow you are! Not to tell me yesterday! Never mind; we’ll manage it all the same. Do me a great service, my dear boy. Go to Tchermashnya on the way. It’s only to turn to the left from the station at Volovya, only another twelve versts and you come to Tchermashnya.”

“I’m sorry, I can’t. It’s eighty versts to the railway and the train starts for Moscow at seven o’clock to‐night. I can only just catch it.”

“You’ll catch it to‐morrow or the day after, but to‐day turn off to Tchermashnya. It won’t put you out much to humor your father! If I hadn’t had something to keep me here, I would have run over myself long ago, for I’ve some business there in a hurry. But here I … it’s not the time for me to go now…. You see, I’ve two pieces of copse land there. The Maslovs, an old merchant and his son, will give eight thousand for the timber. But last year I just missed a purchaser who would have given twelve. There’s no getting any one about here to buy it. The Maslovs have it all their own way. One has to take what they’ll give, for no one here dare bid against them. The priest at Ilyinskoe wrote to me last Thursday that a merchant called Gorstkin, a man I know, had turned up. What makes him valuable is that he is not from these parts, so he is not afraid of the Maslovs. He says he will give me eleven thousand for the copse. Do you hear? But he’ll only be here, the priest writes, for a week altogether, so you must go at once and make a bargain with him.”

“Well, you write to the priest; he’ll make the bargain.”

“He can’t do it. He has no eye for business. He is a perfect treasure, I’d give him twenty thousand to take care of for me without a receipt; but he has no eye for business, he is a perfect child, a crow could deceive him. And yet he is a learned man, would you believe it? This Gorstkin looks like a peasant, he wears a blue kaftan, but he is a regular rogue. That’s the common complaint. He is a liar. Sometimes he tells such lies that you wonder why he is doing it. He told me the year before last that his wife was dead and that he had married another, and would you believe it, there was not a word of truth in it? His wife has never died at all, she is alive to this day and gives him a beating twice a week. So what you have to find out is whether he is lying or speaking the truth, when he says he wants to buy it and would give eleven thousand.”

“I shall be no use in such a business. I have no eye either.”

“Stay, wait a bit! You will be of use, for I will tell you the signs by which you can judge about Gorstkin. I’ve done business with him a long time. You see, you must watch his beard; he has a nasty, thin, red beard. If his beard shakes when he talks and he gets cross, it’s all right, he is saying what he means, he wants to do business. But if he strokes his beard with his left hand and grins—he is trying to cheat you. Don’t watch his eyes, you won’t find out anything from his eyes, he is a deep one, a rogue—but watch his beard! I’ll give you a note and you show it to him. He’s called Gorstkin, though his real name is Lyagavy;[4] but don’t call him so, he will be offended. If you come to an understanding with him, and see it’s all right, write here at once. You need only write: ‘He’s not lying.’ Stand out for eleven thousand; one thousand you can knock off, but not more. Just think! there’s a difference between eight thousand and eleven thousand. It’s as good as picking up three thousand; it’s not so easy to find a purchaser, and I’m in desperate need of money. Only let me know it’s serious, and I’ll run over and fix it up. I’ll snatch the time somehow. But what’s the good of my galloping over, if it’s all a notion of the priest’s? Come, will you go?”

“Oh, I can’t spare the time. You must excuse me.”

“Come, you might oblige your father. I shan’t forget it. You’ve no heart, any of you—that’s what it is? What’s a day or two to you? Where are you going now—to Venice? Your Venice will keep another two days. I would have sent Alyosha, but what use is Alyosha in a thing like that? I send you just because you are a clever fellow. Do you suppose I don’t see that? You know nothing about timber, but you’ve got an eye. All that is wanted is to see whether the man is in earnest. I tell you, watch his beard—if his beard shakes you know he is in earnest.”

“You force me to go to that damned Tchermashnya yourself, then?” cried Ivan, with a malignant smile.

Fyodor Pavlovitch did not catch, or would not catch, the malignancy, but he caught the smile.

“Then you’ll go, you’ll go? I’ll scribble the note for you at once.”

“I don’t know whether I shall go. I don’t know. I’ll decide on the way.”

“Nonsense! Decide at once. My dear fellow, decide! If you settle the matter, write me a line; give it to the priest and he’ll send it on to me at once. And I won’t delay you more than that. You can go to Venice. The priest will give you horses back to Volovya station.”

The old man was quite delighted. He wrote the note, and sent for the horses. A light lunch was brought in, with brandy. When Fyodor Pavlovitch was pleased, he usually became expansive, but to‐day he seemed to restrain himself. Of Dmitri, for instance, he did not say a word. He was quite unmoved by the parting, and seemed, in fact, at a loss for something to say. Ivan noticed this particularly. “He must be bored with me,” he thought. Only when accompanying his son out on to the steps, the old man began to fuss about. He would have kissed him, but Ivan made haste to hold out his hand, obviously avoiding the kiss. His father saw it at once, and instantly pulled himself up.

“Well, good luck to you, good luck to you!” he repeated from the steps. “You’ll come again some time or other? Mind you do come. I shall always be glad to see you. Well, Christ be with you!”

Ivan got into the carriage.

“Good‐by, Ivan! Don’t be too hard on me!” the father called for the last time.

The whole household came out to take leave—Smerdyakov, Marfa and Grigory. Ivan gave them ten roubles each. When he had seated himself in the carriage, Smerdyakov jumped up to arrange the rug.

“You see … I am going to Tchermashnya,” broke suddenly from Ivan. Again, as the day before, the words seemed to drop of themselves, and he laughed, too, a peculiar, nervous laugh. He remembered it long after.

“It’s a true saying then, that ‘it’s always worth while speaking to a clever man,’ ” answered Smerdyakov firmly, looking significantly at Ivan.

The carriage rolled away. Nothing was clear in Ivan’s soul, but he looked eagerly around him at the fields, at the hills, at the trees, at a flock of geese flying high overhead in the bright sky. And all of a sudden he felt very happy. He tried to talk to the driver, and he felt intensely interested in an answer the peasant made him; but a minute later he realized that he was not catching anything, and that he had not really even taken in the peasant’s answer. He was silent, and it was pleasant even so. The air was fresh, pure and cool, the sky bright. The images of Alyosha and Katerina Ivanovna floated into his mind. But he softly smiled, blew softly on the friendly phantoms, and they flew away. “There’s plenty of time for them,” he thought. They reached the station quickly, changed horses, and galloped to Volovya. “Why is it worth while speaking to a clever man? What did he mean by that?” The thought seemed suddenly to clutch at his breathing. “And why did I tell him I was going to Tchermashnya?” They reached Volovya station. Ivan got out of the carriage, and the drivers stood round him bargaining over the journey of twelve versts to Tchermashnya. He told them to harness the horses. He went into the station house, looked round, glanced at the overseer’s wife, and suddenly went back to the entrance.

“I won’t go to Tchermashnya. Am I too late to reach the railway by seven, brothers?”

“We shall just do it. Shall we get the carriage out?”

“At once. Will any one of you be going to the town to‐morrow?”

“To be sure. Mitri here will.”

“Can you do me a service, Mitri? Go to my father’s, to Fyodor Pavlovitch Karamazov, and tell him I haven’t gone to Tchermashnya. Can you?”

“Of course I can. I’ve known Fyodor Pavlovitch a long time.”

“And here’s something for you, for I dare say he won’t give you anything,” said Ivan, laughing gayly.

“You may depend on it he won’t.” Mitya laughed too. “Thank you, sir. I’ll be sure to do it.”

At seven o’clock Ivan got into the train and set off to Moscow “Away with the past. I’ve done with the old world for ever, and may I have no news, no echo, from it. To a new life, new places and no looking back!” But instead of delight his soul was filled with such gloom, and his heart ached with such anguish, as he had never known in his life before. He was thinking all the night. The train flew on, and only at daybreak, when he was approaching Moscow, he suddenly roused himself from his meditation.

“I am a scoundrel,” he whispered to himself.

Fyodor Pavlovitch remained well satisfied at having seen his son off. For two hours afterwards he felt almost happy, and sat drinking brandy. But suddenly something happened which was very annoying and unpleasant for every one in the house, and completely upset Fyodor Pavlovitch’s equanimity at once. Smerdyakov went to the cellar for something and fell down from the top of the steps. Fortunately, Marfa Ignatyevna was in the yard and heard him in time. She did not see the fall, but heard his scream—the strange, peculiar scream, long familiar to her—the scream of the epileptic falling in a fit. They could not tell whether the fit had come on him at the moment he was descending the steps, so that he must have fallen unconscious, or whether it was the fall and the shock that had caused the fit in Smerdyakov, who was known to be liable to them. They found him at the bottom of the cellar steps, writhing in convulsions and foaming at the mouth. It was thought at first that he must have broken something—an arm or a leg—and hurt himself, but “God had preserved him,” as Marfa Ignatyevna expressed it—nothing of the kind had happened. But it was difficult to get him out of the cellar. They asked the neighbors to help and managed it somehow. Fyodor Pavlovitch himself was present at the whole ceremony. He helped, evidently alarmed and upset. The sick man did not regain consciousness; the convulsions ceased for a time, but then began again, and every one concluded that the same thing would happen, as had happened a year before, when he accidentally fell from the garret. They remembered that ice had been put on his head then. There was still ice in the cellar, and Marfa Ignatyevna had some brought up. In the evening, Fyodor Pavlovitch sent for Doctor Herzenstube, who arrived at once. He was a most estimable old man, and the most careful and conscientious doctor in the province. After careful examination, he concluded that the fit was a very violent one and might have serious consequences; that meanwhile he, Herzenstube, did not fully understand it, but that by to‐morrow morning, if the present remedies were unavailing, he would venture to try something else. The invalid was taken to the lodge, to a room next to Grigory’s and Marfa Ignatyevna’s.

Then Fyodor Pavlovitch had one misfortune after another to put up with that day. Marfa Ignatyevna cooked the dinner, and the soup, compared with Smerdyakov’s, was “no better than dish‐water,” and the fowl was so dried up that it was impossible to masticate it. To her master’s bitter, though deserved, reproaches, Marfa Ignatyevna replied that the fowl was a very old one to begin with, and that she had never been trained as a cook. In the evening there was another trouble in store for Fyodor Pavlovitch; he was informed that Grigory, who had not been well for the last three days, was completely laid up by his lumbago. Fyodor Pavlovitch finished his tea as early as possible and locked himself up alone in the house. He was in terrible excitement and suspense. That evening he reckoned on Grushenka’s coming almost as a certainty. He had received from Smerdyakov that morning an assurance “that she had promised to come without fail.” The incorrigible old man’s heart throbbed with excitement; he paced up and down his empty rooms listening. He had to be on the alert. Dmitri might be on the watch for her somewhere, and when she knocked on the window (Smerdyakov had informed him two days before that he had told her where and how to knock) the door must be opened at once. She must not be a second in the passage, for fear—which God forbid!—that she should be frightened and run away. Fyodor Pavlovitch had much to think of, but never had his heart been steeped in such voluptuous hopes. This time he could say almost certainly that she would come!

Book VI. The Russian Monk
Chapter I.
Father Zossima And His Visitors
When with an anxious and aching heart Alyosha went into his elder’s cell, he stood still almost astonished. Instead of a sick man at his last gasp, perhaps unconscious, as he had feared to find him, he saw him sitting up in his chair and, though weak and exhausted, his face was bright and cheerful, he was surrounded by visitors and engaged in a quiet and joyful conversation. But he had only got up from his bed a quarter of an hour before Alyosha’s arrival; his visitors had gathered together in his cell earlier, waiting for him to wake, having received a most confident assurance from Father Païssy that “the teacher would get up, and as he had himself promised in the morning, converse once more with those dear to his heart.” This promise and indeed every word of the dying elder Father Païssy put implicit trust in. If he had seen him unconscious, if he had seen him breathe his last, and yet had his promise that he would rise up and say good‐by to him, he would not have believed perhaps even in death, but would still have expected the dead man to recover and fulfill his promise. In the morning as he lay down to sleep, Father Zossima had told him positively: “I shall not die without the delight of another conversation with you, beloved of my heart. I shall look once more on your dear face and pour out my heart to you once again.” The monks, who had gathered for this probably last conversation with Father Zossima, had all been his devoted friends for many years. There were four of them: Father Iosif and Father Païssy, Father Mihaïl, the warden of the hermitage, a man not very old and far from being learned. He was of humble origin, of strong will and steadfast faith, of austere appearance, but of deep tenderness, though he obviously concealed it as though he were almost ashamed of it. The fourth, Father Anfim, was a very old and humble little monk of the poorest peasant class. He was almost illiterate, and very quiet, scarcely speaking to any one. He was the humblest of the humble, and looked as though he had been frightened by something great and awful beyond the scope of his intelligence. Father Zossima had a great affection for this timorous man, and always treated him with marked respect, though perhaps there was no one he had known to whom he had said less, in spite of the fact that he had spent years wandering about holy Russia with him. That was very long ago, forty years before, when Father Zossima first began his life as a monk in a poor and little monastery at Kostroma, and when, shortly after, he had accompanied Father Anfim on his pilgrimage to collect alms for their poor monastery.

The whole party were in the bedroom which, as we mentioned before, was very small, so that there was scarcely room for the four of them (in addition to Porfiry, the novice, who stood) to sit round Father Zossima on chairs brought from the sitting‐room. It was already beginning to get dark, the room was lighted up by the lamps and the candles before the ikons.

Seeing Alyosha standing embarrassed in the doorway, Father Zossima smiled at him joyfully and held out his hand.

“Welcome, my quiet one, welcome, my dear, here you are too. I knew you would come.”

Alyosha went up to him, bowed down before him to the ground and wept. Something surged up from his heart, his soul was quivering, he wanted to sob.

“Come, don’t weep over me yet,” Father Zossima smiled, laying his right hand on his head. “You see I am sitting up talking; maybe I shall live another twenty years yet, as that dear good woman from Vishegorye, with her little Lizaveta in her arms, wished me yesterday. God bless the mother and the little girl Lizaveta,” he crossed himself. “Porfiry, did you take her offering where I told you?”

He meant the sixty copecks brought him the day before by the good‐humored woman to be given “to some one poorer than me.” Such offerings, always of money gained by personal toil, are made by way of penance voluntarily undertaken. The elder had sent Porfiry the evening before to a widow, whose house had been burnt down lately, and who after the fire had gone with her children begging alms. Porfiry hastened to reply that he had given the money, as he had been instructed, “from an unknown benefactress.”

“Get up, my dear boy,” the elder went on to Alyosha. “Let me look at you. Have you been home and seen your brother?” It seemed strange to Alyosha that he asked so confidently and precisely, about one of his brothers only—but which one? Then perhaps he had sent him out both yesterday and to‐day for the sake of that brother.

“I have seen one of my brothers,” answered Alyosha.

“I mean the elder one, to whom I bowed down.”

“I only saw him yesterday and could not find him to‐day,” said Alyosha.

“Make haste to find him, go again to‐morrow and make haste, leave everything and make haste. Perhaps you may still have time to prevent something terrible. I bowed down yesterday to the great suffering in store for him.”

He was suddenly silent and seemed to be pondering. The words were strange. Father Iosif, who had witnessed the scene yesterday, exchanged glances with Father Païssy. Alyosha could not resist asking:

“Father and teacher,” he began with extreme emotion, “your words are too obscure…. What is this suffering in store for him?”

“Don’t inquire. I seemed to see something terrible yesterday … as though his whole future were expressed in his eyes. A look came into his eyes—so that I was instantly horror‐stricken at what that man is preparing for himself. Once or twice in my life I’ve seen such a look in a man’s face … reflecting as it were his future fate, and that fate, alas, came to pass. I sent you to him, Alexey, for I thought your brotherly face would help him. But everything and all our fates are from the Lord. ‘Except a corn of wheat fall into the ground and die, it abideth alone; but if it die, it bringeth forth much fruit.’ Remember that. You, Alexey, I’ve many times silently blessed for your face, know that,” added the elder with a gentle smile. “This is what I think of you, you will go forth from these walls, but will live like a monk in the world. You will have many enemies, but even your foes will love you. Life will bring you many misfortunes, but you will find your happiness in them, and will bless life and will make others bless it—which is what matters most. Well, that is your character. Fathers and teachers,” he addressed his friends with a tender smile, “I have never till to‐day told even him why the face of this youth is so dear to me. Now I will tell you. His face has been as it were a remembrance and a prophecy for me. At the dawn of my life when I was a child I had an elder brother who died before my eyes at seventeen. And later on in the course of my life I gradually became convinced that that brother had been for a guidance and a sign from on high for me. For had he not come into my life, I should never perhaps, so I fancy at least, have become a monk and entered on this precious path. He appeared first to me in my childhood, and here, at the end of my pilgrimage, he seems to have come to me over again. It is marvelous, fathers and teachers, that Alexey, who has some, though not a great, resemblance in face, seems to me so like him spiritually, that many times I have taken him for that young man, my brother, mysteriously come back to me at the end of my pilgrimage, as a reminder and an inspiration. So that I positively wondered at so strange a dream in myself. Do you hear this, Porfiry?” he turned to the novice who waited on him. “Many times I’ve seen in your face as it were a look of mortification that I love Alexey more than you. Now you know why that was so, but I love you too, know that, and many times I grieved at your mortification. I should like to tell you, dear friends, of that youth, my brother, for there has been no presence in my life more precious, more significant and touching. My heart is full of tenderness, and I look at my whole life at this moment as though living through it again.”

Here I must observe that this last conversation of Father Zossima with the friends who visited him on the last day of his life has been partly preserved in writing. Alexey Fyodorovitch Karamazov wrote it down from memory, some time after his elder’s death. But whether this was only the conversation that took place then, or whether he added to it his notes of parts of former conversations with his teacher, I cannot determine. In his account, Father Zossima’s talk goes on without interruption, as though he told his life to his friends in the form of a story, though there is no doubt, from other accounts of it, that the conversation that evening was general. Though the guests did not interrupt Father Zossima much, yet they too talked, perhaps even told something themselves. Besides, Father Zossima could not have carried on an uninterrupted narrative, for he was sometimes gasping for breath, his voice failed him, and he even lay down to rest on his bed, though he did not fall asleep and his visitors did not leave their seats. Once or twice the conversation was interrupted by Father Païssy’s reading the Gospel. It is worthy of note, too, that no one of them supposed that he would die that night, for on that evening of his life after his deep sleep in the day he seemed suddenly to have found new strength, which kept him up through this long conversation. It was like a last effort of love which gave him marvelous energy; only for a little time, however, for his life was cut short immediately…. But of that later. I will only add now that I have preferred to confine myself to the account given by Alexey Fyodorovitch Karamazov. It will be shorter and not so fatiguing, though of course, as I must repeat, Alyosha took a great deal from previous conversations and added them to it.

Notes of the Life of the deceased Priest and Monk, the Elder Zossima, taken from his own words by Alexey Fyodorovitch Karamazov.

BIOGRAPHICAL NOTES

(a) Father Zossima’s Brother

Beloved fathers and teachers, I was born in a distant province in the north, in the town of V. My father was a gentleman by birth, but of no great consequence or position. He died when I was only two years old, and I don’t remember him at all. He left my mother a small house built of wood, and a fortune, not large, but sufficient to keep her and her children in comfort. There were two of us, my elder brother Markel and I. He was eight years older than I was, of hasty irritable temperament, but kind‐hearted and never ironical. He was remarkably silent, especially at home with me, his mother, and the servants. He did well at school, but did not get on with his schoolfellows, though he never quarreled, at least so my mother has told me. Six months before his death, when he was seventeen, he made friends with a political exile who had been banished from Moscow to our town for freethinking, and led a solitary existence there. He was a good scholar who had gained distinction in philosophy in the university. Something made him take a fancy to Markel, and he used to ask him to see him. The young man would spend whole evenings with him during that winter, till the exile was summoned to Petersburg to take up his post again at his own request, as he had powerful friends.

It was the beginning of Lent, and Markel would not fast, he was rude and laughed at it. “That’s all silly twaddle, and there is no God,” he said, horrifying my mother, the servants, and me too. For though I was only nine, I too was aghast at hearing such words. We had four servants, all serfs. I remember my mother selling one of the four, the cook Afimya, who was lame and elderly, for sixty paper roubles, and hiring a free servant to take her place.

In the sixth week in Lent, my brother, who was never strong and had a tendency to consumption, was taken ill. He was tall but thin and delicate‐ looking, and of very pleasing countenance. I suppose he caught cold, anyway the doctor, who came, soon whispered to my mother that it was galloping consumption, that he would not live through the spring. My mother began weeping, and, careful not to alarm my brother, she entreated him to go to church, to confess and take the sacrament, as he was still able to move about. This made him angry, and he said something profane about the church. He grew thoughtful, however; he guessed at once that he was seriously ill, and that that was why his mother was begging him to confess and take the sacrament. He had been aware, indeed, for a long time past, that he was far from well, and had a year before coolly observed at dinner to our mother and me, “My life won’t be long among you, I may not live another year,” which seemed now like a prophecy.

Three days passed and Holy Week had come. And on Tuesday morning my brother began going to church. “I am doing this simply for your sake, mother, to please and comfort you,” he said. My mother wept with joy and grief. “His end must be near,” she thought, “if there’s such a change in him.” But he was not able to go to church long, he took to his bed, so he had to confess and take the sacrament at home.

It was a late Easter, and the days were bright, fine, and full of fragrance. I remember he used to cough all night and sleep badly, but in the morning he dressed and tried to sit up in an arm‐chair. That’s how I remember him sitting, sweet and gentle, smiling, his face bright and joyous, in spite of his illness. A marvelous change passed over him, his spirit seemed transformed. The old nurse would come in and say, “Let me light the lamp before the holy image, my dear.” And once he would not have allowed it and would have blown it out.

“Light it, light it, dear, I was a wretch to have prevented you doing it. You are praying when you light the lamp, and I am praying when I rejoice seeing you. So we are praying to the same God.”

Those words seemed strange to us, and mother would go to her room and weep, but when she went in to him she wiped her eyes and looked cheerful. “Mother, don’t weep, darling,” he would say, “I’ve long to live yet, long to rejoice with you, and life is glad and joyful.”

“Ah, dear boy, how can you talk of joy when you lie feverish at night, coughing as though you would tear yourself to pieces.”

“Don’t cry, mother,” he would answer, “life is paradise, and we are all in paradise, but we won’t see it, if we would, we should have heaven on earth the next day.”

Every one wondered at his words, he spoke so strangely and positively; we were all touched and wept. Friends came to see us. “Dear ones,” he would say to them, “what have I done that you should love me so, how can you love any one like me, and how was it I did not know, I did not appreciate it before?”

When the servants came in to him he would say continually, “Dear, kind people, why are you doing so much for me, do I deserve to be waited on? If it were God’s will for me to live, I would wait on you, for all men should wait on one another.”

Mother shook her head as she listened. “My darling, it’s your illness makes you talk like that.”

“Mother, darling,” he would say, “there must be servants and masters, but if so I will be the servant of my servants, the same as they are to me. And another thing, mother, every one of us has sinned against all men, and I more than any.”

Mother positively smiled at that, smiled through her tears. “Why, how could you have sinned against all men, more than all? Robbers and murderers have done that, but what sin have you committed yet, that you hold yourself more guilty than all?”

“Mother, little heart of mine,” he said (he had begun using such strange caressing words at that time), “little heart of mine, my joy, believe me, every one is really responsible to all men for all men and for everything. I don’t know how to explain it to you, but I feel it is so, painfully even. And how is it we went on then living, getting angry and not knowing?”

So he would get up every day, more and more sweet and joyous and full of love. When the doctor, an old German called Eisenschmidt, came:

“Well, doctor, have I another day in this world?” he would ask, joking.

“You’ll live many days yet,” the doctor would answer, “and months and years too.”

“Months and years!” he would exclaim. “Why reckon the days? One day is enough for a man to know all happiness. My dear ones, why do we quarrel, try to outshine each other and keep grudges against each other? Let’s go straight into the garden, walk and play there, love, appreciate, and kiss each other, and glorify life.”

“Your son cannot last long,” the doctor told my mother, as she accompanied him to the door. “The disease is affecting his brain.”

The windows of his room looked out into the garden, and our garden was a shady one, with old trees in it which were coming into bud. The first birds of spring were flitting in the branches, chirruping and singing at the windows. And looking at them and admiring them, he began suddenly begging their forgiveness too: “Birds of heaven, happy birds, forgive me, for I have sinned against you too.” None of us could understand that at the time, but he shed tears of joy. “Yes,” he said, “there was such a glory of God all about me: birds, trees, meadows, sky; only I lived in shame and dishonored it all and did not notice the beauty and glory.”

“You take too many sins on yourself,” mother used to say, weeping.

“Mother, darling, it’s for joy, not for grief I am crying. Though I can’t explain it to you, I like to humble myself before them, for I don’t know how to love them enough. If I have sinned against every one, yet all forgive me, too, and that’s heaven. Am I not in heaven now?”

And there was a great deal more I don’t remember. I remember I went once into his room when there was no one else there. It was a bright evening, the sun was setting, and the whole room was lighted up. He beckoned me, and I went up to him. He put his hands on my shoulders and looked into my face tenderly, lovingly; he said nothing for a minute, only looked at me like that.

“Well,” he said, “run and play now, enjoy life for me too.”

I went out then and ran to play. And many times in my life afterwards I remembered even with tears how he told me to enjoy life for him too. There were many other marvelous and beautiful sayings of his, though we did not understand them at the time. He died the third week after Easter. He was fully conscious though he could not talk; up to his last hour he did not change. He looked happy, his eyes beamed and sought us, he smiled at us, beckoned us. There was a great deal of talk even in the town about his death. I was impressed by all this at the time, but not too much so, though I cried a good deal at his funeral. I was young then, a child, but a lasting impression, a hidden feeling of it all, remained in my heart, ready to rise up and respond when the time came. So indeed it happened.

(b) Of the Holy Scriptures in the Life of Father Zossima

I was left alone with my mother. Her friends began advising her to send me to Petersburg as other parents did. “You have only one son now,” they said, “and have a fair income, and you will be depriving him perhaps of a brilliant career if you keep him here.” They suggested I should be sent to Petersburg to the Cadet Corps, that I might afterwards enter the Imperial Guard. My mother hesitated for a long time, it was awful to part with her only child, but she made up her mind to it at last, though not without many tears, believing she was acting for my happiness. She brought me to Petersburg and put me into the Cadet Corps, and I never saw her again. For she too died three years afterwards. She spent those three years mourning and grieving for both of us.

From the house of my childhood I have brought nothing but precious memories, for there are no memories more precious than those of early childhood in one’s first home. And that is almost always so if there is any love and harmony in the family at all. Indeed, precious memories may remain even of a bad home, if only the heart knows how to find what is precious. With my memories of home I count, too, my memories of the Bible, which, child as I was, I was very eager to read at home. I had a book of Scripture history then with excellent pictures, called A Hundred and Four Stories from the Old and New Testament, and I learned to read from it. I have it lying on my shelf now, I keep it as a precious relic of the past. But even before I learned to read, I remember first being moved to devotional feeling at eight years old. My mother took me alone to mass (I don’t remember where my brother was at the time) on the Monday before Easter. It was a fine day, and I remember to‐day, as though I saw it now, how the incense rose from the censer and softly floated upwards and, overhead in the cupola, mingled in rising waves with the sunlight that streamed in at the little window. I was stirred by the sight, and for the first time in my life I consciously received the seed of God’s word in my heart. A youth came out into the middle of the church carrying a big book, so large that at the time I fancied he could scarcely carry it. He laid it on the reading desk, opened it, and began reading, and suddenly for the first time I understood something read in the church of God. In the land of Uz, there lived a man, righteous and God‐fearing, and he had great wealth, so many camels, so many sheep and asses, and his children feasted, and he loved them very much and prayed for them. “It may be that my sons have sinned in their feasting.” Now the devil came before the Lord together with the sons of God, and said to the Lord that he had gone up and down the earth and under the earth. “And hast thou considered my servant Job?” God asked of him. And God boasted to the devil, pointing to his great and holy servant. And the devil laughed at God’s words. “Give him over to me and Thou wilt see that Thy servant will murmur against Thee and curse Thy name.” And God gave up the just man He loved so, to the devil. And the devil smote his children and his cattle and scattered his wealth, all of a sudden like a thunderbolt from heaven. And Job rent his mantle and fell down upon the ground and cried aloud, “Naked came I out of my mother’s womb, and naked shall I return into the earth; the Lord gave and the Lord has taken away. Blessed be the name of the Lord for ever and ever.”

Fathers and teachers, forgive my tears now, for all my childhood rises up again before me, and I breathe now as I breathed then, with the breast of a little child of eight, and I feel as I did then, awe and wonder and gladness. The camels at that time caught my imagination, and Satan, who talked like that with God, and God who gave His servant up to destruction, and His servant crying out: “Blessed be Thy name although Thou dost punish me,” and then the soft and sweet singing in the church: “Let my prayer rise up before Thee,” and again incense from the priest’s censer and the kneeling and the prayer. Ever since then—only yesterday I took it up—I’ve never been able to read that sacred tale without tears. And how much that is great, mysterious and unfathomable there is in it! Afterwards I heard the words of mockery and blame, proud words, “How could God give up the most loved of His saints for the diversion of the devil, take from him his children, smite him with sore boils so that he cleansed the corruption from his sores with a pot‐sherd—and for no object except to boast to the devil! ‘See what My saint can suffer for My sake.’ ” But the greatness of it lies just in the fact that it is a mystery—that the passing earthly show and the eternal verity are brought together in it. In the face of the earthly truth, the eternal truth is accomplished. The Creator, just as on the first days of creation He ended each day with praise: “That is good that I have created,” looks upon Job and again praises His creation. And Job, praising the Lord, serves not only Him but all His creation for generations and generations, and for ever and ever, since for that he was ordained. Good heavens, what a book it is, and what lessons there are in it! What a book the Bible is, what a miracle, what strength is given with it to man! It is like a mold cast of the world and man and human nature, everything is there, and a law for everything for all the ages. And what mysteries are solved and revealed! God raises Job again, gives him wealth again. Many years pass by, and he has other children and loves them. But how could he love those new ones when those first children are no more, when he has lost them? Remembering them, how could he be fully happy with those new ones, however dear the new ones might be? But he could, he could. It’s the great mystery of human life that old grief passes gradually into quiet, tender joy. The mild serenity of age takes the place of the riotous blood of youth. I bless the rising sun each day, and, as before, my hearts sings to meet it, but now I love even more its setting, its long slanting rays and the soft, tender, gentle memories that come with them, the dear images from the whole of my long, happy life—and over all the Divine Truth, softening, reconciling, forgiving! My life is ending, I know that well, but every day that is left me I feel how my earthly life is in touch with a new infinite, unknown, that approaching life, the nearness of which sets my soul quivering with rapture, my mind glowing and my heart weeping with joy.

Friends and teachers, I have heard more than once, and of late one may hear it more often, that the priests, and above all the village priests, are complaining on all sides of their miserable income and their humiliating lot. They plainly state, even in print—I’ve read it myself—that they are unable to teach the Scriptures to the people because of the smallness of their means, and if Lutherans and heretics come and lead the flock astray, they let them lead them astray because they have so little to live upon. May the Lord increase the sustenance that is so precious to them, for their complaint is just, too. But of a truth I say, if any one is to blame in the matter, half the fault is ours. For he may be short of time, he may say truly that he is overwhelmed all the while with work and services, but still it’s not all the time, even he has an hour a week to remember God. And he does not work the whole year round. Let him gather round him once a week, some hour in the evening, if only the children at first—the fathers will hear of it and they too will begin to come. There’s no need to build halls for this, let him take them into his own cottage. They won’t spoil his cottage, they would only be there one hour. Let him open that book and begin reading it without grand words or superciliousness, without condescension to them, but gently and kindly, being glad that he is reading to them and that they are listening with attention, loving the words himself, only stopping from time to time to explain words that are not understood by the peasants. Don’t be anxious, they will understand everything, the orthodox heart will understand all! Let him read them about Abraham and Sarah, about Isaac and Rebecca, of how Jacob went to Laban and wrestled with the Lord in his dream and said, “This place is holy”—and he will impress the devout mind of the peasant. Let him read, especially to the children, how the brothers sold Joseph, the tender boy, the dreamer and prophet, into bondage, and told their father that a wild beast had devoured him, and showed him his blood‐ stained clothes. Let him read them how the brothers afterwards journeyed into Egypt for corn, and Joseph, already a great ruler, unrecognized by them, tormented them, accused them, kept his brother Benjamin, and all through love: “I love you, and loving you I torment you.” For he remembered all his life how they had sold him to the merchants in the burning desert by the well, and how, wringing his hands, he had wept and besought his brothers not to sell him as a slave in a strange land. And how, seeing them again after many years, he loved them beyond measure, but he harassed and tormented them in love. He left them at last not able to bear the suffering of his heart, flung himself on his bed and wept. Then, wiping his tears away, he went out to them joyful and told them, “Brothers, I am your brother Joseph!” Let him read them further how happy old Jacob was on learning that his darling boy was still alive, and how he went to Egypt leaving his own country, and died in a foreign land, bequeathing his great prophecy that had lain mysteriously hidden in his meek and timid heart all his life, that from his offspring, from Judah, will come the great hope of the world, the Messiah and Saviour.

Fathers and teachers, forgive me and don’t be angry, that like a little child I’ve been babbling of what you know long ago, and can teach me a hundred times more skillfully. I only speak from rapture, and forgive my tears, for I love the Bible. Let him too weep, the priest of God, and be sure that the hearts of his listeners will throb in response. Only a little tiny seed is needed—drop it into the heart of the peasant and it won’t die, it will live in his soul all his life, it will be hidden in the midst of his darkness and sin, like a bright spot, like a great reminder. And there’s no need of much teaching or explanation, he will understand it all simply. Do you suppose that the peasants don’t understand? Try reading them the touching story of the fair Esther and the haughty Vashti; or the miraculous story of Jonah in the whale. Don’t forget either the parables of Our Lord, choose especially from the Gospel of St. Luke (that is what I did), and then from the Acts of the Apostles the conversion of St. Paul (that you mustn’t leave out on any account), and from the Lives of the Saints, for instance, the life of Alexey, the man of God and, greatest of all, the happy martyr and the seer of God, Mary of Egypt—and you will penetrate their hearts with these simple tales. Give one hour a week to it in spite of your poverty, only one little hour. And you will see for yourselves that our people is gracious and grateful, and will repay you a hundred‐fold. Mindful of the kindness of their priest and the moving words they have heard from him, they will of their own accord help him in his fields and in his house, and will treat him with more respect than before—so that it will even increase his worldly well‐being too. The thing is so simple that sometimes one is even afraid to put it into words, for fear of being laughed at, and yet how true it is! One who does not believe in God will not believe in God’s people. He who believes in God’s people will see His Holiness too, even though he had not believed in it till then. Only the people and their future spiritual power will convert our atheists, who have torn themselves away from their native soil.

And what is the use of Christ’s words, unless we set an example? The people is lost without the Word of God, for its soul is athirst for the Word and for all that is good.

In my youth, long ago, nearly forty years ago, I traveled all over Russia with Father Anfim, collecting funds for our monastery, and we stayed one night on the bank of a great navigable river with some fishermen. A good‐ looking peasant lad, about eighteen, joined us; he had to hurry back next morning to pull a merchant’s barge along the bank. I noticed him looking straight before him with clear and tender eyes. It was a bright, warm, still, July night, a cool mist rose from the broad river, we could hear the plash of a fish, the birds were still, all was hushed and beautiful, everything praying to God. Only we two were not sleeping, the lad and I, and we talked of the beauty of this world of God’s and of the great mystery of it. Every blade of grass, every insect, ant, and golden bee, all so marvelously know their path, though they have not intelligence, they bear witness to the mystery of God and continually accomplish it themselves. I saw the dear lad’s heart was moved. He told me that he loved the forest and the forest birds. He was a bird‐catcher, knew the note of each of them, could call each bird. “I know nothing better than to be in the forest,” said he, “though all things are good.”

“Truly,” I answered him, “all things are good and fair, because all is truth. Look,” said I, “at the horse, that great beast that is so near to man; or the lowly, pensive ox, which feeds him and works for him; look at their faces, what meekness, what devotion to man, who often beats them mercilessly. What gentleness, what confidence and what beauty! It’s touching to know that there’s no sin in them, for all, all except man, is sinless, and Christ has been with them before us.”

“Why,” asked the boy, “is Christ with them too?”

“It cannot but be so,” said I, “since the Word is for all. All creation and all creatures, every leaf is striving to the Word, singing glory to God, weeping to Christ, unconsciously accomplishing this by the mystery of their sinless life. Yonder,” said I, “in the forest wanders the dreadful bear, fierce and menacing, and yet innocent in it.” And I told him how once a bear came to a great saint who had taken refuge in a tiny cell in the wood. And the great saint pitied him, went up to him without fear and gave him a piece of bread. “Go along,” said he, “Christ be with you,” and the savage beast walked away meekly and obediently, doing no harm. And the lad was delighted that the bear had walked away without hurting the saint, and that Christ was with him too. “Ah,” said he, “how good that is, how good and beautiful is all God’s work!” He sat musing softly and sweetly. I saw he understood. And he slept beside me a light and sinless sleep. May God bless youth! And I prayed for him as I went to sleep. Lord, send peace and light to Thy people!

Chapter II.
The Duel
(c) Recollections of Father Zossima’s Youth before he became a Monk. The Duel

I spent a long time, almost eight years, in the military cadet school at Petersburg, and in the novelty of my surroundings there, many of my childish impressions grew dimmer, though I forgot nothing. I picked up so many new habits and opinions that I was transformed into a cruel, absurd, almost savage creature. A surface polish of courtesy and society manners I did acquire together with the French language.

But we all, myself included, looked upon the soldiers in our service as cattle. I was perhaps worse than the rest in that respect, for I was so much more impressionable than my companions. By the time we left the school as officers, we were ready to lay down our lives for the honor of the regiment, but no one of us had any knowledge of the real meaning of honor, and if any one had known it, he would have been the first to ridicule it. Drunkenness, debauchery and devilry were what we almost prided ourselves on. I don’t say that we were bad by nature, all these young men were good fellows, but they behaved badly, and I worst of all. What made it worse for me was that I had come into my own money, and so I flung myself into a life of pleasure, and plunged headlong into all the recklessness of youth.

I was fond of reading, yet strange to say, the Bible was the one book I never opened at that time, though I always carried it about with me, and I was never separated from it; in very truth I was keeping that book “for the day and the hour, for the month and the year,” though I knew it not.

After four years of this life, I chanced to be in the town of K. where our regiment was stationed at the time. We found the people of the town hospitable, rich and fond of entertainments. I met with a cordial reception everywhere, as I was of a lively temperament and was known to be well off, which always goes a long way in the world. And then a circumstance happened which was the beginning of it all.

I formed an attachment to a beautiful and intelligent young girl of noble and lofty character, the daughter of people much respected. They were well‐to‐do people of influence and position. They always gave me a cordial and friendly reception. I fancied that the young lady looked on me with favor and my heart was aflame at such an idea. Later on I saw and fully realized that I perhaps was not so passionately in love with her at all, but only recognized the elevation of her mind and character, which I could not indeed have helped doing. I was prevented, however, from making her an offer at the time by my selfishness, I was loath to part with the allurements of my free and licentious bachelor life in the heyday of my youth, and with my pockets full of money. I did drop some hint as to my feelings however, though I put off taking any decisive step for a time. Then, all of a sudden, we were ordered off for two months to another district.

On my return two months later, I found the young lady already married to a rich neighboring landowner, a very amiable man, still young though older than I was, connected with the best Petersburg society, which I was not, and of excellent education, which I also was not. I was so overwhelmed at this unexpected circumstance that my mind was positively clouded. The worst of it all was that, as I learned then, the young landowner had been a long while betrothed to her, and I had met him indeed many times in her house, but blinded by my conceit I had noticed nothing. And this particularly mortified me; almost everybody had known all about it, while I knew nothing. I was filled with sudden irrepressible fury. With flushed face I began recalling how often I had been on the point of declaring my love to her, and as she had not attempted to stop me or to warn me, she must, I concluded, have been laughing at me all the time. Later on, of course, I reflected and remembered that she had been very far from laughing at me; on the contrary, she used to turn off any love‐making on my part with a jest and begin talking of other subjects; but at that moment I was incapable of reflecting and was all eagerness for revenge. I am surprised to remember that my wrath and revengeful feelings were extremely repugnant to my own nature, for being of an easy temper, I found it difficult to be angry with any one for long, and so I had to work myself up artificially and became at last revolting and absurd.

I waited for an opportunity and succeeded in insulting my “rival” in the presence of a large company. I insulted him on a perfectly extraneous pretext, jeering at his opinion upon an important public event—it was in the year 1826[5]—and my jeer was, so people said, clever and effective. Then I forced him to ask for an explanation, and behaved so rudely that he accepted my challenge in spite of the vast inequality between us, as I was younger, a person of no consequence, and of inferior rank. I learned afterwards for a fact that it was from a jealous feeling on his side also that my challenge was accepted; he had been rather jealous of me on his wife’s account before their marriage; he fancied now that if he submitted to be insulted by me and refused to accept my challenge, and if she heard of it, she might begin to despise him and waver in her love for him. I soon found a second in a comrade, an ensign of our regiment. In those days though duels were severely punished, yet dueling was a kind of fashion among the officers—so strong and deeply rooted will a brutal prejudice sometimes be.

It was the end of June, and our meeting was to take place at seven o’clock the next day on the outskirts of the town—and then something happened that in very truth was the turning‐point of my life. In the evening, returning home in a savage and brutal humor, I flew into a rage with my orderly Afanasy, and gave him two blows in the face with all my might, so that it was covered with blood. He had not long been in my service and I had struck him before, but never with such ferocious cruelty. And, believe me, though it’s forty years ago, I recall it now with shame and pain. I went to bed and slept for about three hours; when I waked up the day was breaking. I got up—I did not want to sleep any more—I went to the window—opened it, it looked out upon the garden; I saw the sun rising; it was warm and beautiful, the birds were singing.

“What’s the meaning of it?” I thought. “I feel in my heart as it were something vile and shameful. Is it because I am going to shed blood? No,” I thought, “I feel it’s not that. Can it be that I am afraid of death, afraid of being killed? No, that’s not it, that’s not it at all.”… And all at once I knew what it was: it was because I had beaten Afanasy the evening before! It all rose before my mind, it all was as it were repeated over again; he stood before me and I was beating him straight on the face and he was holding his arms stiffly down, his head erect, his eyes fixed upon me as though on parade. He staggered at every blow and did not even dare to raise his hands to protect himself. That is what a man has been brought to, and that was a man beating a fellow creature! What a crime! It was as though a sharp dagger had pierced me right through. I stood as if I were struck dumb, while the sun was shining, the leaves were rejoicing and the birds were trilling the praise of God…. I hid my face in my hands, fell on my bed and broke into a storm of tears. And then I remembered my brother Markel and what he said on his death‐bed to his servants: “My dear ones, why do you wait on me, why do you love me, am I worth your waiting on me?”

“Yes, am I worth it?” flashed through my mind. “After all what am I worth, that another man, a fellow creature, made in the likeness and image of God, should serve me?” For the first time in my life this question forced itself upon me. He had said, “Mother, my little heart, in truth we are each responsible to all for all, it’s only that men don’t know this. If they knew it, the world would be a paradise at once.”

“God, can that too be false?” I thought as I wept. “In truth, perhaps, I am more than all others responsible for all, a greater sinner than all men in the world.” And all at once the whole truth in its full light appeared to me; what was I going to do? I was going to kill a good, clever, noble man, who had done me no wrong, and by depriving his wife of happiness for the rest of her life, I should be torturing and killing her too. I lay thus in my bed with my face in the pillow, heedless how the time was passing. Suddenly my second, the ensign, came in with the pistols to fetch me.

“Ah,” said he, “it’s a good thing you are up already, it’s time we were off, come along!”

I did not know what to do and hurried to and fro undecided; we went out to the carriage, however.

“Wait here a minute,” I said to him. “I’ll be back directly, I have forgotten my purse.”

And I ran back alone, to Afanasy’s little room.

“Afanasy,” I said, “I gave you two blows on the face yesterday, forgive me,” I said.

He started as though he were frightened, and looked at me; and I saw that it was not enough, and on the spot, in my full officer’s uniform, I dropped at his feet and bowed my head to the ground.

“Forgive me,” I said.

Then he was completely aghast.

“Your honor … sir, what are you doing? Am I worth it?”

And he burst out crying as I had done before, hid this face in his hands, turned to the window and shook all over with his sobs. I flew out to my comrade and jumped into the carriage.

“Ready,” I cried. “Have you ever seen a conqueror?” I asked him. “Here is one before you.”

I was in ecstasy, laughing and talking all the way, I don’t remember what about.

He looked at me. “Well, brother, you are a plucky fellow, you’ll keep up the honor of the uniform, I can see.”

So we reached the place and found them there, waiting us. We were placed twelve paces apart; he had the first shot. I stood gayly, looking him full in the face; I did not twitch an eyelash, I looked lovingly at him, for I knew what I would do. His shot just grazed my cheek and ear.

“Thank God,” I cried, “no man has been killed,” and I seized my pistol, turned back and flung it far away into the wood. “That’s the place for you,” I cried.

I turned to my adversary.

“Forgive me, young fool that I am, sir,” I said, “for my unprovoked insult to you and for forcing you to fire at me. I am ten times worse than you and more, maybe. Tell that to the person whom you hold dearest in the world.”

I had no sooner said this than they all three shouted at me.

“Upon my word,” cried my adversary, annoyed, “if you did not want to fight, why did not you let me alone?”

“Yesterday I was a fool, to‐day I know better,” I answered him gayly.

“As to yesterday, I believe you, but as for to‐day, it is difficult to agree with your opinion,” said he.

“Bravo,” I cried, clapping my hands. “I agree with you there too. I have deserved it!”

“Will you shoot, sir, or not?”

“No, I won’t,” I said; “if you like, fire at me again, but it would be better for you not to fire.”

The seconds, especially mine, were shouting too: “Can you disgrace the regiment like this, facing your antagonist and begging his forgiveness! If I’d only known this!”

I stood facing them all, not laughing now.

“Gentlemen,” I said, “is it really so wonderful in these days to find a man who can repent of his stupidity and publicly confess his wrongdoing?”

“But not in a duel,” cried my second again.

“That’s what’s so strange,” I said. “For I ought to have owned my fault as soon as I got here, before he had fired a shot, before leading him into a great and deadly sin; but we have made our life so grotesque, that to act in that way would have been almost impossible, for only after I have faced his shot at the distance of twelve paces could my words have any significance for him, and if I had spoken before, he would have said, ‘He is a coward, the sight of the pistols has frightened him, no use to listen to him.’ Gentlemen,” I cried suddenly, speaking straight from my heart, “look around you at the gifts of God, the clear sky, the pure air, the tender grass, the birds; nature is beautiful and sinless, and we, only we, are sinful and foolish, and we don’t understand that life is heaven, for we have only to understand that and it will at once be fulfilled in all its beauty, we shall embrace each other and weep.”

I would have said more but I could not; my voice broke with the sweetness and youthful gladness of it, and there was such bliss in my heart as I had never known before in my life.

“All this as rational and edifying,” said my antagonist, “and in any case you are an original person.”

“You may laugh,” I said to him, laughing too, “but afterwards you will approve of me.”

“Oh, I am ready to approve of you now,” said he; “will you shake hands? for I believe you are genuinely sincere.”

“No,” I said, “not now, later on when I have grown worthier and deserve your esteem, then shake hands and you will do well.”

We went home, my second upbraiding me all the way, while I kissed him. All my comrades heard of the affair at once and gathered together to pass judgment on me the same day.

“He has disgraced the uniform,” they said; “let him resign his commission.”

Some stood up for me: “He faced the shot,” they said.

“Yes, but he was afraid of his other shot and begged for forgiveness.”

“If he had been afraid of being shot, he would have shot his own pistol first before asking forgiveness, while he flung it loaded into the forest. No, there’s something else in this, something original.”

I enjoyed listening and looking at them. “My dear friends and comrades,” said I, “don’t worry about my resigning my commission, for I have done so already. I have sent in my papers this morning and as soon as I get my discharge I shall go into a monastery—it’s with that object I am leaving the regiment.”

When I had said this every one of them burst out laughing.

“You should have told us of that first, that explains everything, we can’t judge a monk.”

They laughed and could not stop themselves, and not scornfully, but kindly and merrily. They all felt friendly to me at once, even those who had been sternest in their censure, and all the following month, before my discharge came, they could not make enough of me. “Ah, you monk,” they would say. And every one said something kind to me, they began trying to dissuade me, even to pity me: “What are you doing to yourself?”

“No,” they would say, “he is a brave fellow, he faced fire and could have fired his own pistol too, but he had a dream the night before that he should become a monk, that’s why he did it.”

It was the same thing with the society of the town. Till then I had been kindly received, but had not been the object of special attention, and now all came to know me at once and invited me; they laughed at me, but they loved me. I may mention that although everybody talked openly of our duel, the authorities took no notice of it, because my antagonist was a near relation of our general, and as there had been no bloodshed and no serious consequences, and as I resigned my commission, they took it as a joke. And I began then to speak aloud and fearlessly, regardless of their laughter, for it was always kindly and not spiteful laughter. These conversations mostly took place in the evenings, in the company of ladies; women particularly liked listening to me then and they made the men listen.

“But how can I possibly be responsible for all?” every one would laugh in my face. “Can I, for instance, be responsible for you?”

“You may well not know it,” I would answer, “since the whole world has long been going on a different line, since we consider the veriest lies as truth and demand the same lies from others. Here I have for once in my life acted sincerely and, well, you all look upon me as a madman. Though you are friendly to me, yet, you see, you all laugh at me.”

“But how can we help being friendly to you?” said my hostess, laughing. The room was full of people. All of a sudden the young lady rose, on whose account the duel had been fought and whom only lately I had intended to be my future wife. I had not noticed her coming into the room. She got up, came to me and held out her hand.

“Let me tell you,” she said, “that I am the first not to laugh at you, but on the contrary I thank you with tears and express my respect for you for your action then.”

Her husband, too, came up and then they all approached me and almost kissed me. My heart was filled with joy, but my attention was especially caught by a middle‐aged man who came up to me with the others. I knew him by name already, but had never made his acquaintance nor exchanged a word with him till that evening.

(d) The Mysterious Visitor

He had long been an official in the town; he was in a prominent position, respected by all, rich and had a reputation for benevolence. He subscribed considerable sums to the almshouse and the orphan asylum; he was very charitable, too, in secret, a fact which only became known after his death. He was a man of about fifty, almost stern in appearance and not much given to conversation. He had been married about ten years and his wife, who was still young, had borne him three children. Well, I was sitting alone in my room the following evening, when my door suddenly opened and this gentleman walked in.

I must mention, by the way, that I was no longer living in my former quarters. As soon as I resigned my commission, I took rooms with an old lady, the widow of a government clerk. My landlady’s servant waited upon me, for I had moved into her rooms simply because on my return from the duel I had sent Afanasy back to the regiment, as I felt ashamed to look him in the face after my last interview with him. So prone is the man of the world to be ashamed of any righteous action.

“I have,” said my visitor, “with great interest listened to you speaking in different houses the last few days and I wanted at last to make your personal acquaintance, so as to talk to you more intimately. Can you, dear sir, grant me this favor?”

“I can, with the greatest pleasure, and I shall look upon it as an honor.” I said this, though I felt almost dismayed, so greatly was I impressed from the first moment by the appearance of this man. For though other people had listened to me with interest and attention, no one had come to me before with such a serious, stern and concentrated expression. And now he had come to see me in my own rooms. He sat down.

“You are, I see, a man of great strength of character,” he said; “as you have dared to serve the truth, even when by doing so you risked incurring the contempt of all.”

“Your praise is, perhaps, excessive,” I replied.

“No, it’s not excessive,” he answered; “believe me, such a course of action is far more difficult than you think. It is that which has impressed me, and it is only on that account that I have come to you,” he continued. “Tell me, please, that is if you are not annoyed by my perhaps unseemly curiosity, what were your exact sensations, if you can recall them, at the moment when you made up your mind to ask forgiveness at the duel. Do not think my question frivolous; on the contrary, I have in asking the question a secret motive of my own, which I will perhaps explain to you later on, if it is God’s will that we should become more intimately acquainted.”

All the while he was speaking, I was looking at him straight into the face and I felt all at once a complete trust in him and great curiosity on my side also, for I felt that there was some strange secret in his soul.

“You ask what were my exact sensations at the moment when I asked my opponent’s forgiveness,” I answered; “but I had better tell you from the beginning what I have not yet told any one else.” And I described all that had passed between Afanasy and me, and how I had bowed down to the ground at his feet. “From that you can see for yourself,” I concluded, “that at the time of the duel it was easier for me, for I had made a beginning already at home, and when once I had started on that road, to go farther along it was far from being difficult, but became a source of joy and happiness.”

I liked the way he looked at me as he listened. “All that,” he said, “is exceedingly interesting. I will come to see you again and again.”

And from that time forth he came to see me nearly every evening. And we should have become greater friends, if only he had ever talked of himself. But about himself he scarcely ever said a word, yet continually asked me about myself. In spite of that I became very fond of him and spoke with perfect frankness to him about all my feelings; “for,” thought I, “what need have I to know his secrets, since I can see without that that he is a good man? Moreover, though he is such a serious man and my senior, he comes to see a youngster like me and treats me as his equal.” And I learned a great deal that was profitable from him, for he was a man of lofty mind.

“That life is heaven,” he said to me suddenly, “that I have long been thinking about”; and all at once he added, “I think of nothing else indeed.” He looked at me and smiled. “I am more convinced of it than you are, I will tell you later why.”

I listened to him and thought that he evidently wanted to tell me something.

“Heaven,” he went on, “lies hidden within all of us—here it lies hidden in me now, and if I will it, it will be revealed to me to‐morrow and for all time.”

I looked at him; he was speaking with great emotion and gazing mysteriously at me, as if he were questioning me.

“And that we are all responsible to all for all, apart from our own sins, you were quite right in thinking that, and it is wonderful how you could comprehend it in all its significance at once. And in very truth, so soon as men understand that, the Kingdom of Heaven will be for them not a dream, but a living reality.”

“And when,” I cried out to him bitterly, “when will that come to pass? and will it ever come to pass? Is not it simply a dream of ours?”

“What then, you don’t believe it,” he said. “You preach it and don’t believe it yourself. Believe me, this dream, as you call it, will come to pass without doubt; it will come, but not now, for every process has its law. It’s a spiritual, psychological process. To transform the world, to recreate it afresh, men must turn into another path psychologically. Until you have become really, in actual fact, a brother to every one, brotherhood will not come to pass. No sort of scientific teaching, no kind of common interest, will ever teach men to share property and privileges with equal consideration for all. Every one will think his share too small and they will be always envying, complaining and attacking one another. You ask when it will come to pass; it will come to pass, but first we have to go through the period of isolation.”

“What do you mean by isolation?” I asked him.

“Why, the isolation that prevails everywhere, above all in our age—it has not fully developed, it has not reached its limit yet. For every one strives to keep his individuality as apart as possible, wishes to secure the greatest possible fullness of life for himself; but meantime all his efforts result not in attaining fullness of life but self‐destruction, for instead of self‐realization he ends by arriving at complete solitude. All mankind in our age have split up into units, they all keep apart, each in his own groove; each one holds aloof, hides himself and hides what he has, from the rest, and he ends by being repelled by others and repelling them. He heaps up riches by himself and thinks, ‘How strong I am now and how secure,’ and in his madness he does not understand that the more he heaps up, the more he sinks into self‐destructive impotence. For he is accustomed to rely upon himself alone and to cut himself off from the whole; he has trained himself not to believe in the help of others, in men and in humanity, and only trembles for fear he should lose his money and the privileges that he has won for himself. Everywhere in these days men have, in their mockery, ceased to understand that the true security is to be found in social solidarity rather than in isolated individual effort. But this terrible individualism must inevitably have an end, and all will suddenly understand how unnaturally they are separated from one another. It will be the spirit of the time, and people will marvel that they have sat so long in darkness without seeing the light. And then the sign of the Son of Man will be seen in the heavens…. But, until then, we must keep the banner flying. Sometimes even if he has to do it alone, and his conduct seems to be crazy, a man must set an example, and so draw men’s souls out of their solitude, and spur them to some act of brotherly love, that the great idea may not die.”

Our evenings, one after another, were spent in such stirring and fervent talk. I gave up society and visited my neighbors much less frequently. Besides, my vogue was somewhat over. I say this, not as blame, for they still loved me and treated me good‐humoredly, but there’s no denying that fashion is a great power in society. I began to regard my mysterious visitor with admiration, for besides enjoying his intelligence, I began to perceive that he was brooding over some plan in his heart, and was preparing himself perhaps for a great deed. Perhaps he liked my not showing curiosity about his secret, not seeking to discover it by direct question nor by insinuation. But I noticed at last, that he seemed to show signs of wanting to tell me something. This had become quite evident, indeed, about a month after he first began to visit me.

“Do you know,” he said to me once, “that people are very inquisitive about us in the town and wonder why I come to see you so often. But let them wonder, for soon all will be explained.”

Sometimes an extraordinary agitation would come over him, and almost always on such occasions he would get up and go away. Sometimes he would fix a long piercing look upon me, and I thought, “He will say something directly now.” But he would suddenly begin talking of something ordinary and familiar. He often complained of headache too.

One day, quite unexpectedly indeed, after he had been talking with great fervor a long time, I saw him suddenly turn pale, and his face worked convulsively, while he stared persistently at me.

“What’s the matter?” I said; “do you feel ill?”—he had just been complaining of headache.

“I … do you know … I murdered some one.”

He said this and smiled with a face as white as chalk. “Why is it he is smiling?” The thought flashed through my mind before I realized anything else. I too turned pale.

“What are you saying?” I cried.

“You see,” he said, with a pale smile, “how much it has cost me to say the first word. Now I have said it, I feel I’ve taken the first step and shall go on.”

For a long while I could not believe him, and I did not believe him at that time, but only after he had been to see me three days running and told me all about it. I thought he was mad, but ended by being convinced, to my great grief and amazement. His crime was a great and terrible one.

Fourteen years before, he had murdered the widow of a landowner, a wealthy and handsome young woman who had a house in our town. He fell passionately in love with her, declared his feeling and tried to persuade her to marry him. But she had already given her heart to another man, an officer of noble birth and high rank in the service, who was at that time away at the front, though she was expecting him soon to return. She refused his offer and begged him not to come and see her. After he had ceased to visit her, he took advantage of his knowledge of the house to enter at night through the garden by the roof, at great risk of discovery. But, as often happens, a crime committed with extraordinary audacity is more successful than others.

Entering the garret through the skylight, he went down the ladder, knowing that the door at the bottom of it was sometimes, through the negligence of the servants, left unlocked. He hoped to find it so, and so it was. He made his way in the dark to her bedroom, where a light was burning. As though on purpose, both her maids had gone off to a birthday‐party in the same street, without asking leave. The other servants slept in the servants’ quarters or in the kitchen on the ground‐floor. His passion flamed up at the sight of her asleep, and then vindictive, jealous anger took possession of his heart, and like a drunken man, beside himself, he thrust a knife into her heart, so that she did not even cry out. Then with devilish and criminal cunning he contrived that suspicion should fall on the servants. He was so base as to take her purse, to open her chest with keys from under her pillow, and to take some things from it, doing it all as it might have been done by an ignorant servant, leaving valuable papers and taking only money. He took some of the larger gold things, but left smaller articles that were ten times as valuable. He took with him, too, some things for himself as remembrances, but of that later. Having done this awful deed, he returned by the way he had come.

Neither the next day, when the alarm was raised, nor at any time after in his life, did any one dream of suspecting that he was the criminal. No one indeed knew of his love for her, for he was always reserved and silent and had no friend to whom he would have opened his heart. He was looked upon simply as an acquaintance, and not a very intimate one, of the murdered woman, as for the previous fortnight he had not even visited her. A serf of hers called Pyotr was at once suspected, and every circumstance confirmed the suspicion. The man knew—indeed his mistress did not conceal the fact—that having to send one of her serfs as a recruit she had decided to send him, as he had no relations and his conduct was unsatisfactory. People had heard him angrily threatening to murder her when he was drunk in a tavern. Two days before her death, he had run away, staying no one knew where in the town. The day after the murder, he was found on the road leading out of the town, dead drunk, with a knife in his pocket, and his right hand happened to be stained with blood. He declared that his nose had been bleeding, but no one believed him. The maids confessed that they had gone to a party and that the street‐door had been left open till they returned. And a number of similar details came to light, throwing suspicion on the innocent servant.

They arrested him, and he was tried for the murder; but a week after the arrest, the prisoner fell sick of a fever and died unconscious in the hospital. There the matter ended and the judges and the authorities and every one in the town remained convinced that the crime had been committed by no one but the servant who had died in the hospital. And after that the punishment began.

My mysterious visitor, now my friend, told me that at first he was not in the least troubled by pangs of conscience. He was miserable a long time, but not for that reason; only from regret that he had killed the woman he loved, that she was no more, that in killing her he had killed his love, while the fire of passion was still in his veins. But of the innocent blood he had shed, of the murder of a fellow creature, he scarcely thought. The thought that his victim might have become the wife of another man was insupportable to him, and so, for a long time, he was convinced in his conscience that he could not have acted otherwise.

At first he was worried at the arrest of the servant, but his illness and death soon set his mind at rest, for the man’s death was apparently (so he reflected at the time) not owing to his arrest or his fright, but a chill he had taken on the day he ran away, when he had lain all night dead drunk on the damp ground. The theft of the money and other things troubled him little, for he argued that the theft had not been committed for gain but to avert suspicion. The sum stolen was small, and he shortly afterwards subscribed the whole of it, and much more, towards the funds for maintaining an almshouse in the town. He did this on purpose to set his conscience at rest about the theft, and it’s a remarkable fact that for a long time he really was at peace—he told me this himself. He entered then upon a career of great activity in the service, volunteered for a difficult and laborious duty, which occupied him two years, and being a man of strong will almost forgot the past. Whenever he recalled it, he tried not to think of it at all. He became active in philanthropy too, founded and helped to maintain many institutions in the town, did a good deal in the two capitals, and in both Moscow and Petersburg was elected a member of philanthropic societies.

At last, however, he began brooding over the past, and the strain of it was too much for him. Then he was attracted by a fine and intelligent girl and soon after married her, hoping that marriage would dispel his lonely depression, and that by entering on a new life and scrupulously doing his duty to his wife and children, he would escape from old memories altogether. But the very opposite of what he expected happened. He began, even in the first month of his marriage, to be continually fretted by the thought, “My wife loves me—but what if she knew?” When she first told him that she would soon bear him a child, he was troubled. “I am giving life, but I have taken life.” Children came. “How dare I love them, teach and educate them, how can I talk to them of virtue? I have shed blood.” They were splendid children, he longed to caress them; “and I can’t look at their innocent candid faces, I am unworthy.”

At last he began to be bitterly and ominously haunted by the blood of his murdered victim, by the young life he had destroyed, by the blood that cried out for vengeance. He had begun to have awful dreams. But, being a man of fortitude, he bore his suffering a long time, thinking: “I shall expiate everything by this secret agony.” But that hope, too, was vain; the longer it went on, the more intense was his suffering.

He was respected in society for his active benevolence, though every one was overawed by his stern and gloomy character. But the more he was respected, the more intolerable it was for him. He confessed to me that he had thoughts of killing himself. But he began to be haunted by another idea—an idea which he had at first regarded as impossible and unthinkable, though at last it got such a hold on his heart that he could not shake it off. He dreamed of rising up, going out and confessing in the face of all men that he had committed murder. For three years this dream had pursued him, haunting him in different forms. At last he believed with his whole heart that if he confessed his crime, he would heal his soul and would be at peace for ever. But this belief filled his heart with terror, for how could he carry it out? And then came what happened at my duel.

“Looking at you, I have made up my mind.”

I looked at him.

“Is it possible,” I cried, clasping my hands, “that such a trivial incident could give rise to such a resolution in you?”

“My resolution has been growing for the last three years,” he answered, “and your story only gave the last touch to it. Looking at you, I reproached myself and envied you.” He said this to me almost sullenly.

“But you won’t be believed,” I observed; “it’s fourteen years ago.”

“I have proofs, great proofs. I shall show them.”

Then I cried and kissed him.

“Tell me one thing, one thing,” he said (as though it all depended upon me), “my wife, my children! My wife may die of grief, and though my children won’t lose their rank and property, they’ll be a convict’s children and for ever! And what a memory, what a memory of me I shall leave in their hearts!”

I said nothing.

“And to part from them, to leave them for ever? It’s for ever, you know, for ever!”

I sat still and repeated a silent prayer. I got up at last, I felt afraid.

“Well?” He looked at me.

“Go!” said I, “confess. Everything passes, only the truth remains. Your children will understand, when they grow up, the nobility of your resolution.”

He left me that time as though he had made up his mind. Yet for more than a fortnight afterwards, he came to me every evening, still preparing himself, still unable to bring himself to the point. He made my heart ache. One day he would come determined and say fervently:

“I know it will be heaven for me, heaven, the moment I confess. Fourteen years I’ve been in hell. I want to suffer. I will take my punishment and begin to live. You can pass through the world doing wrong, but there’s no turning back. Now I dare not love my neighbor nor even my own children. Good God, my children will understand, perhaps, what my punishment has cost me and will not condemn me! God is not in strength but in truth.”

“All will understand your sacrifice,” I said to him, “if not at once, they will understand later; for you have served truth, the higher truth, not of the earth.”

And he would go away seeming comforted, but next day he would come again, bitter, pale, sarcastic.

“Every time I come to you, you look at me so inquisitively as though to say, ‘He has still not confessed!’ Wait a bit, don’t despise me too much. It’s not such an easy thing to do, as you would think. Perhaps I shall not do it at all. You won’t go and inform against me then, will you?”

And far from looking at him with indiscreet curiosity, I was afraid to look at him at all. I was quite ill from anxiety, and my heart was full of tears. I could not sleep at night.

“I have just come from my wife,” he went on. “Do you understand what the word ‘wife’ means? When I went out, the children called to me, ‘Good‐by, father, make haste back to read The Children’s Magazine with us.’ No, you don’t understand that! No one is wise from another man’s woe.”

His eyes were glittering, his lips were twitching. Suddenly he struck the table with his fist so that everything on it danced—it was the first time he had done such a thing, he was such a mild man.

“But need I?” he exclaimed, “must I? No one has been condemned, no one has been sent to Siberia in my place, the man died of fever. And I’ve been punished by my sufferings for the blood I shed. And I shan’t be believed, they won’t believe my proofs. Need I confess, need I? I am ready to go on suffering all my life for the blood I have shed, if only my wife and children may be spared. Will it be just to ruin them with me? Aren’t we making a mistake? What is right in this case? And will people recognize it, will they appreciate it, will they respect it?”

“Good Lord!” I thought to myself, “he is thinking of other people’s respect at such a moment!” And I felt so sorry for him then, that I believe I would have shared his fate if it could have comforted him. I saw he was beside himself. I was aghast, realizing with my heart as well as my mind what such a resolution meant.

“Decide my fate!” he exclaimed again.

“Go and confess,” I whispered to him. My voice failed me, but I whispered it firmly. I took up the New Testament from the table, the Russian translation, and showed him the Gospel of St. John, chapter xii. verse 24:

“Verily, verily, I say unto you, except a corn of wheat fall into the ground and die, it abideth alone: but if it die, it bringeth forth much fruit.”

I had just been reading that verse when he came in. He read it.

“That’s true,” he said, but he smiled bitterly. “It’s terrible the things you find in those books,” he said, after a pause. “It’s easy enough to thrust them upon one. And who wrote them? Can they have been written by men?”

“The Holy Spirit wrote them,” said I.

“It’s easy for you to prate,” he smiled again, this time almost with hatred.

I took the book again, opened it in another place and showed him the Epistle to the Hebrews, chapter x. verse 31. He read:

“It is a fearful thing to fall into the hands of the living God.”

He read it and simply flung down the book. He was trembling all over.

“An awful text,” he said. “There’s no denying you’ve picked out fitting ones.” He rose from the chair. “Well!” he said, “good‐by, perhaps I shan’t come again … we shall meet in heaven. So I have been for fourteen years ‘in the hands of the living God,’ that’s how one must think of those fourteen years. To‐morrow I will beseech those hands to let me go.”

I wanted to take him in my arms and kiss him, but I did not dare—his face was contorted and somber. He went away.

“Good God,” I thought, “what has he gone to face!” I fell on my knees before the ikon and wept for him before the Holy Mother of God, our swift defender and helper. I was half an hour praying in tears, and it was late, about midnight. Suddenly I saw the door open and he came in again. I was surprised.

“Where have you been?” I asked him.

“I think,” he said, “I’ve forgotten something … my handkerchief, I think…. Well, even if I’ve not forgotten anything, let me stay a little.”

He sat down. I stood over him.

“You sit down, too,” said he.

I sat down. We sat still for two minutes; he looked intently at me and suddenly smiled—I remembered that—then he got up, embraced me warmly and kissed me.

“Remember,” he said, “how I came to you a second time. Do you hear, remember it!”

And he went out.

“To‐morrow,” I thought.

And so it was. I did not know that evening that the next day was his birthday. I had not been out for the last few days, so I had no chance of hearing it from any one. On that day he always had a great gathering, every one in the town went to it. It was the same this time. After dinner he walked into the middle of the room, with a paper in his hand—a formal declaration to the chief of his department who was present. This declaration he read aloud to the whole assembly. It contained a full account of the crime, in every detail.

“I cut myself off from men as a monster. God has visited me,” he said in conclusion. “I want to suffer for my sin!”

Then he brought out and laid on the table all the things he had been keeping for fourteen years, that he thought would prove his crime, the jewels belonging to the murdered woman which he had stolen to divert suspicion, a cross and a locket taken from her neck with a portrait of her betrothed in the locket, her notebook and two letters; one from her betrothed, telling her that he would soon be with her, and her unfinished answer left on the table to be sent off next day. He carried off these two letters—what for? Why had he kept them for fourteen years afterwards instead of destroying them as evidence against him?

And this is what happened: every one was amazed and horrified, every one refused to believe it and thought that he was deranged, though all listened with intense curiosity. A few days later it was fully decided and agreed in every house that the unhappy man was mad. The legal authorities could not refuse to take the case up, but they too dropped it. Though the trinkets and letters made them ponder, they decided that even if they did turn out to be authentic, no charge could be based on those alone. Besides, she might have given him those things as a friend, or asked him to take care of them for her. I heard afterwards, however, that the genuineness of the things was proved by the friends and relations of the murdered woman, and that there was no doubt about them. Yet nothing was destined to come of it, after all.

Five days later, all had heard that he was ill and that his life was in danger. The nature of his illness I can’t explain, they said it was an affection of the heart. But it became known that the doctors had been induced by his wife to investigate his mental condition also, and had come to the conclusion that it was a case of insanity. I betrayed nothing, though people ran to question me. But when I wanted to visit him, I was for a long while forbidden to do so, above all by his wife.

“It’s you who have caused his illness,” she said to me; “he was always gloomy, but for the last year people noticed that he was peculiarly excited and did strange things, and now you have been the ruin of him. Your preaching has brought him to this; for the last month he was always with you.”

Indeed, not only his wife but the whole town were down upon me and blamed me. “It’s all your doing,” they said. I was silent and indeed rejoiced at heart, for I saw plainly God’s mercy to the man who had turned against himself and punished himself. I could not believe in his insanity.

They let me see him at last, he insisted upon saying good‐by to me. I went in to him and saw at once, that not only his days, but his hours were numbered. He was weak, yellow, his hands trembled, he gasped for breath, but his face was full of tender and happy feeling.

“It is done!” he said. “I’ve long been yearning to see you, why didn’t you come?”

I did not tell him that they would not let me see him.

“God has had pity on me and is calling me to Himself. I know I am dying, but I feel joy and peace for the first time after so many years. There was heaven in my heart from the moment I had done what I had to do. Now I dare to love my children and to kiss them. Neither my wife nor the judges, nor any one has believed it. My children will never believe it either. I see in that God’s mercy to them. I shall die, and my name will be without a stain for them. And now I feel God near, my heart rejoices as in Heaven … I have done my duty.”

He could not speak, he gasped for breath, he pressed my hand warmly, looking fervently at me. We did not talk for long, his wife kept peeping in at us. But he had time to whisper to me:

“Do you remember how I came back to you that second time, at midnight? I told you to remember it. You know what I came back for? I came to kill you!”

I started.

“I went out from you then into the darkness, I wandered about the streets, struggling with myself. And suddenly I hated you so that I could hardly bear it. Now, I thought, he is all that binds me, and he is my judge. I can’t refuse to face my punishment to‐morrow, for he knows all. It was not that I was afraid you would betray me (I never even thought of that), but I thought, ‘How can I look him in the face if I don’t confess?’ And if you had been at the other end of the earth, but alive, it would have been all the same, the thought was unendurable that you were alive knowing everything and condemning me. I hated you as though you were the cause, as though you were to blame for everything. I came back to you then, remembering that you had a dagger lying on your table. I sat down and asked you to sit down, and for a whole minute I pondered. If I had killed you, I should have been ruined by that murder even if I had not confessed the other. But I didn’t think about that at all, and I didn’t want to think of it at that moment. I only hated you and longed to revenge myself on you for everything. The Lord vanquished the devil in my heart. But let me tell you, you were never nearer death.”

A week later he died. The whole town followed him to the grave. The chief priest made a speech full of feeling. All lamented the terrible illness that had cut short his days. But all the town was up in arms against me after the funeral, and people even refused to see me. Some, at first a few and afterwards more, began indeed to believe in the truth of his story, and they visited me and questioned me with great interest and eagerness, for man loves to see the downfall and disgrace of the righteous. But I held my tongue, and very shortly after, I left the town, and five months later by God’s grace I entered upon the safe and blessed path, praising the unseen finger which had guided me so clearly to it. But I remember in my prayer to this day, the servant of God, Mihail, who suffered so greatly.

Chapter III.
Conversations And Exhortations Of Father Zossima
(e) The Russian Monk and his possible Significance

Fathers and teachers, what is the monk? In the cultivated world the word is nowadays pronounced by some people with a jeer, and by others it is used as a term of abuse, and this contempt for the monk is growing. It is true, alas, it is true, that there are many sluggards, gluttons, profligates and insolent beggars among monks. Educated people point to these: “You are idlers, useless members of society, you live on the labor of others, you are shameless beggars.” And yet how many meek and humble monks there are, yearning for solitude and fervent prayer in peace! These are less noticed, or passed over in silence. And how surprised men would be if I were to say that from these meek monks, who yearn for solitary prayer, the salvation of Russia will come perhaps once more! For they are in truth made ready in peace and quiet “for the day and the hour, the month and the year.” Meanwhile, in their solitude, they keep the image of Christ fair and undefiled, in the purity of God’s truth, from the times of the Fathers of old, the Apostles and the martyrs. And when the time comes they will show it to the tottering creeds of the world. That is a great thought. That star will rise out of the East.

That is my view of the monk, and is it false? is it too proud? Look at the worldly and all who set themselves up above the people of God, has not God’s image and His truth been distorted in them? They have science; but in science there is nothing but what is the object of sense. The spiritual world, the higher part of man’s being is rejected altogether, dismissed with a sort of triumph, even with hatred. The world has proclaimed the reign of freedom, especially of late, but what do we see in this freedom of theirs? Nothing but slavery and self‐destruction! For the world says:

“You have desires and so satisfy them, for you have the same rights as the most rich and powerful. Don’t be afraid of satisfying them and even multiply your desires.” That is the modern doctrine of the world. In that they see freedom. And what follows from this right of multiplication of desires? In the rich, isolation and spiritual suicide; in the poor, envy and murder; for they have been given rights, but have not been shown the means of satisfying their wants. They maintain that the world is getting more and more united, more and more bound together in brotherly community, as it overcomes distance and sets thoughts flying through the air.

Alas, put no faith in such a bond of union. Interpreting freedom as the multiplication and rapid satisfaction of desires, men distort their own nature, for many senseless and foolish desires and habits and ridiculous fancies are fostered in them. They live only for mutual envy, for luxury and ostentation. To have dinners, visits, carriages, rank and slaves to wait on one is looked upon as a necessity, for which life, honor and human feeling are sacrificed, and men even commit suicide if they are unable to satisfy it. We see the same thing among those who are not rich, while the poor drown their unsatisfied need and their envy in drunkenness. But soon they will drink blood instead of wine, they are being led on to it. I ask you is such a man free? I knew one “champion of freedom” who told me himself that, when he was deprived of tobacco in prison, he was so wretched at the privation that he almost went and betrayed his cause for the sake of getting tobacco again! And such a man says, “I am fighting for the cause of humanity.”

How can such a one fight? what is he fit for? He is capable perhaps of some action quickly over, but he cannot hold out long. And it’s no wonder that instead of gaining freedom they have sunk into slavery, and instead of serving the cause of brotherly love and the union of humanity have fallen, on the contrary, into dissension and isolation, as my mysterious visitor and teacher said to me in my youth. And therefore the idea of the service of humanity, of brotherly love and the solidarity of mankind, is more and more dying out in the world, and indeed this idea is sometimes treated with derision. For how can a man shake off his habits? What can become of him if he is in such bondage to the habit of satisfying the innumerable desires he has created for himself? He is isolated, and what concern has he with the rest of humanity? They have succeeded in accumulating a greater mass of objects, but the joy in the world has grown less.

The monastic way is very different. Obedience, fasting and prayer are laughed at, yet only through them lies the way to real, true freedom. I cut off my superfluous and unnecessary desires, I subdue my proud and wanton will and chastise it with obedience, and with God’s help I attain freedom of spirit and with it spiritual joy. Which is most capable of conceiving a great idea and serving it—the rich man in his isolation or the man who has freed himself from the tyranny of material things and habits? The monk is reproached for his solitude, “You have secluded yourself within the walls of the monastery for your own salvation, and have forgotten the brotherly service of humanity!” But we shall see which will be most zealous in the cause of brotherly love. For it is not we, but they, who are in isolation, though they don’t see that. Of old, leaders of the people came from among us, and why should they not again? The same meek and humble ascetics will rise up and go out to work for the great cause. The salvation of Russia comes from the people. And the Russian monk has always been on the side of the people. We are isolated only if the people are isolated. The people believe as we do, and an unbelieving reformer will never do anything in Russia, even if he is sincere in heart and a genius. Remember that! The people will meet the atheist and overcome him, and Russia will be one and orthodox. Take care of the peasant and guard his heart. Go on educating him quietly. That’s your duty as monks, for the peasant has God in his heart.

(f) Of Masters and Servants, and of whether it is possible for them to be Brothers in the Spirit

Of course, I don’t deny that there is sin in the peasants too. And the fire of corruption is spreading visibly, hourly, working from above downwards. The spirit of isolation is coming upon the people too. Money‐ lenders and devourers of the commune are rising up. Already the merchant grows more and more eager for rank, and strives to show himself cultured though he has not a trace of culture, and to this end meanly despises his old traditions, and is even ashamed of the faith of his fathers. He visits princes, though he is only a peasant corrupted. The peasants are rotting in drunkenness and cannot shake off the habit. And what cruelty to their wives, to their children even! All from drunkenness! I’ve seen in the factories children of nine years old, frail, rickety, bent and already depraved. The stuffy workshop, the din of machinery, work all day long, the vile language and the drink, the drink—is that what a little child’s heart needs? He needs sunshine, childish play, good examples all about him, and at least a little love. There must be no more of this, monks, no more torturing of children, rise up and preach that, make haste, make haste!

But God will save Russia, for though the peasants are corrupted and cannot renounce their filthy sin, yet they know it is cursed by God and that they do wrong in sinning. So that our people still believe in righteousness, have faith in God and weep tears of devotion.

It is different with the upper classes. They, following science, want to base justice on reason alone, but not with Christ, as before, and they have already proclaimed that there is no crime, that there is no sin. And that’s consistent, for if you have no God what is the meaning of crime? In Europe the people are already rising up against the rich with violence, and the leaders of the people are everywhere leading them to bloodshed, and teaching them that their wrath is righteous. But their “wrath is accursed, for it is cruel.” But God will save Russia as He has saved her many times. Salvation will come from the people, from their faith and their meekness.

Fathers and teachers, watch over the people’s faith and this will not be a dream. I’ve been struck all my life in our great people by their dignity, their true and seemly dignity. I’ve seen it myself, I can testify to it, I’ve seen it and marveled at it, I’ve seen it in spite of the degraded sins and poverty‐stricken appearance of our peasantry. They are not servile, and even after two centuries of serfdom they are free in manner and bearing, yet without insolence, and not revengeful and not envious. “You are rich and noble, you are clever and talented, well, be so, God bless you. I respect you, but I know that I too am a man. By the very fact that I respect you without envy I prove my dignity as a man.”

In truth if they don’t say this (for they don’t know how to say this yet), that is how they act. I have seen it myself, I have known it myself, and, would you believe it, the poorer our Russian peasant is, the more noticeable is that serene goodness, for the rich among them are for the most part corrupted already, and much of that is due to our carelessness and indifference. But God will save His people, for Russia is great in her humility. I dream of seeing, and seem to see clearly already, our future. It will come to pass, that even the most corrupt of our rich will end by being ashamed of his riches before the poor, and the poor, seeing his humility, will understand and give way before him, will respond joyfully and kindly to his honorable shame. Believe me that it will end in that; things are moving to that. Equality is to be found only in the spiritual dignity of man, and that will only be understood among us. If we were brothers, there would be fraternity, but before that, they will never agree about the division of wealth. We preserve the image of Christ, and it will shine forth like a precious diamond to the whole world. So may it be, so may it be!

Fathers and teachers, a touching incident befell me once. In my wanderings I met in the town of K. my old orderly, Afanasy. It was eight years since I had parted from him. He chanced to see me in the market‐place, recognized me, ran up to me, and how delighted he was! He simply pounced on me: “Master dear, is it you? Is it really you I see?” He took me home with him.

He was no longer in the army, he was married and already had two little children. He and his wife earned their living as costermongers in the market‐place. His room was poor, but bright and clean. He made me sit down, set the samovar, sent for his wife, as though my appearance were a festival for them. He brought me his children: “Bless them, Father.”

“Is it for me to bless them? I am only a humble monk. I will pray for them. And for you, Afanasy Pavlovitch, I have prayed every day since that day, for it all came from you,” said I. And I explained that to him as well as I could. And what do you think? The man kept gazing at me and could not believe that I, his former master, an officer, was now before him in such a guise and position; it made him shed tears.

“Why are you weeping?” said I, “better rejoice over me, dear friend, whom I can never forget, for my path is a glad and joyful one.”

He did not say much, but kept sighing and shaking his head over me tenderly.

“What has became of your fortune?” he asked.

“I gave it to the monastery,” I answered; “we live in common.”

After tea I began saying good‐by, and suddenly he brought out half a rouble as an offering to the monastery, and another half‐rouble I saw him thrusting hurriedly into my hand: “That’s for you in your wanderings, it may be of use to you, Father.”

I took his half‐rouble, bowed to him and his wife, and went out rejoicing. And on my way I thought: “Here we are both now, he at home and I on the road, sighing and shaking our heads, no doubt, and yet smiling joyfully in the gladness of our hearts, remembering how God brought about our meeting.”

I have never seen him again since then. I had been his master and he my servant, but now when we exchanged a loving kiss with softened hearts, there was a great human bond between us. I have thought a great deal about that, and now what I think is this: Is it so inconceivable that that grand and simple‐hearted unity might in due time become universal among the Russian people? I believe that it will come to pass and that the time is at hand.

And of servants I will add this: In old days when I was young I was often angry with servants; “the cook had served something too hot, the orderly had not brushed my clothes.” But what taught me better then was a thought of my dear brother’s, which I had heard from him in childhood: “Am I worth it, that another should serve me and be ordered about by me in his poverty and ignorance?” And I wondered at the time that such simple and self‐ evident ideas should be so slow to occur to our minds.

It is impossible that there should be no servants in the world, but act so that your servant may be freer in spirit than if he were not a servant. And why cannot I be a servant to my servant and even let him see it, and that without any pride on my part or any mistrust on his? Why should not my servant be like my own kindred, so that I may take him into my family and rejoice in doing so? Even now this can be done, but it will lead to the grand unity of men in the future, when a man will not seek servants for himself, or desire to turn his fellow creatures into servants as he does now, but on the contrary, will long with his whole heart to be the servant of all, as the Gospel teaches.

And can it be a dream, that in the end man will find his joy only in deeds of light and mercy, and not in cruel pleasures as now, in gluttony, fornication, ostentation, boasting and envious rivalry of one with the other? I firmly believe that it is not and that the time is at hand. People laugh and ask: “When will that time come and does it look like coming?” I believe that with Christ’s help we shall accomplish this great thing. And how many ideas there have been on earth in the history of man which were unthinkable ten years before they appeared! Yet when their destined hour had come, they came forth and spread over the whole earth. So it will be with us, and our people will shine forth in the world, and all men will say: “The stone which the builders rejected has become the corner‐stone of the building.”

And we may ask the scornful themselves: If our hope is a dream, when will you build up your edifice and order things justly by your intellect alone, without Christ? If they declare that it is they who are advancing towards unity, only the most simple‐hearted among them believe it, so that one may positively marvel at such simplicity. Of a truth, they have more fantastic dreams than we. They aim at justice, but, denying Christ, they will end by flooding the earth with blood, for blood cries out for blood, and he that taketh up the sword shall perish by the sword. And if it were not for Christ’s covenant, they would slaughter one another down to the last two men on earth. And those two last men would not be able to restrain each other in their pride, and the one would slay the other and then himself. And that would come to pass, were it not for the promise of Christ that for the sake of the humble and meek the days shall be shortened.

While I was still wearing an officer’s uniform after my duel, I talked about servants in general society, and I remember every one was amazed at me. “What!” they asked, “are we to make our servants sit down on the sofa and offer them tea?” And I answered them: “Why not, sometimes at least?” Every one laughed. Their question was frivolous and my answer was not clear; but the thought in it was to some extent right.

(g) Of Prayer, of Love, and of Contact with other Worlds

Young man, be not forgetful of prayer. Every time you pray, if your prayer is sincere, there will be new feeling and new meaning in it, which will give you fresh courage, and you will understand that prayer is an education. Remember, too, every day, and whenever you can, repeat to yourself, “Lord, have mercy on all who appear before Thee to‐day.” For every hour and every moment thousands of men leave life on this earth, and their souls appear before God. And how many of them depart in solitude, unknown, sad, dejected that no one mourns for them or even knows whether they have lived or not! And behold, from the other end of the earth perhaps, your prayer for their rest will rise up to God though you knew them not nor they you. How touching it must be to a soul standing in dread before the Lord to feel at that instant that, for him too, there is one to pray, that there is a fellow creature left on earth to love him too! And God will look on you both more graciously, for if you have had so much pity on him, how much will He have pity Who is infinitely more loving and merciful than you! And He will forgive him for your sake.

Brothers, have no fear of men’s sin. Love a man even in his sin, for that is the semblance of Divine Love and is the highest love on earth. Love all God’s creation, the whole and every grain of sand in it. Love every leaf, every ray of God’s light. Love the animals, love the plants, love everything. If you love everything, you will perceive the divine mystery in things. Once you perceive it, you will begin to comprehend it better every day. And you will come at last to love the whole world with an all‐ embracing love. Love the animals: God has given them the rudiments of thought and joy untroubled. Do not trouble it, don’t harass them, don’t deprive them of their happiness, don’t work against God’s intent. Man, do not pride yourself on superiority to the animals; they are without sin, and you, with your greatness, defile the earth by your appearance on it, and leave the traces of your foulness after you—alas, it is true of almost every one of us! Love children especially, for they too are sinless like the angels; they live to soften and purify our hearts and as it were to guide us. Woe to him who offends a child! Father Anfim taught me to love children. The kind, silent man used often on our wanderings to spend the farthings given us on sweets and cakes for the children. He could not pass by a child without emotion. That’s the nature of the man.

At some thoughts one stands perplexed, especially at the sight of men’s sin, and wonders whether one should use force or humble love. Always decide to use humble love. If you resolve on that once for all, you may subdue the whole world. Loving humility is marvelously strong, the strongest of all things, and there is nothing else like it.

Every day and every hour, every minute, walk round yourself and watch yourself, and see that your image is a seemly one. You pass by a little child, you pass by, spiteful, with ugly words, with wrathful heart; you may not have noticed the child, but he has seen you, and your image, unseemly and ignoble, may remain in his defenseless heart. You don’t know it, but you may have sown an evil seed in him and it may grow, and all because you were not careful before the child, because you did not foster in yourself a careful, actively benevolent love. Brothers, love is a teacher; but one must know how to acquire it, for it is hard to acquire, it is dearly bought, it is won slowly by long labor. For we must love not only occasionally, for a moment, but for ever. Every one can love occasionally, even the wicked can.

My brother asked the birds to forgive him; that sounds senseless, but it is right; for all is like an ocean, all is flowing and blending; a touch in one place sets up movement at the other end of the earth. It may be senseless to beg forgiveness of the birds, but birds would be happier at your side—a little happier, anyway—and children and all animals, if you were nobler than you are now. It’s all like an ocean, I tell you. Then you would pray to the birds too, consumed by an all‐embracing love, in a sort of transport, and pray that they too will forgive you your sin. Treasure this ecstasy, however senseless it may seem to men.

My friends, pray to God for gladness. Be glad as children, as the birds of heaven. And let not the sin of men confound you in your doings. Fear not that it will wear away your work and hinder its being accomplished. Do not say, “Sin is mighty, wickedness is mighty, evil environment is mighty, and we are lonely and helpless, and evil environment is wearing us away and hindering our good work from being done.” Fly from that dejection, children! There is only one means of salvation, then take yourself and make yourself responsible for all men’s sins, that is the truth, you know, friends, for as soon as you sincerely make yourself responsible for everything and for all men, you will see at once that it is really so, and that you are to blame for every one and for all things. But throwing your own indolence and impotence on others you will end by sharing the pride of Satan and murmuring against God.

Of the pride of Satan what I think is this: it is hard for us on earth to comprehend it, and therefore it is so easy to fall into error and to share it, even imagining that we are doing something grand and fine. Indeed, many of the strongest feelings and movements of our nature we cannot comprehend on earth. Let not that be a stumbling‐block, and think not that it may serve as a justification to you for anything. For the Eternal Judge asks of you what you can comprehend and not what you cannot. You will know that yourself hereafter, for you will behold all things truly then and will not dispute them. On earth, indeed, we are as it were astray, and if it were not for the precious image of Christ before us, we should be undone and altogether lost, as was the human race before the flood. Much on earth is hidden from us, but to make up for that we have been given a precious mystic sense of our living bond with the other world, with the higher heavenly world, and the roots of our thoughts and feelings are not here but in other worlds. That is why the philosophers say that we cannot apprehend the reality of things on earth.

God took seeds from different worlds and sowed them on this earth, and His garden grew up and everything came up that could come up, but what grows lives and is alive only through the feeling of its contact with other mysterious worlds. If that feeling grows weak or is destroyed in you, the heavenly growth will die away in you. Then you will be indifferent to life and even grow to hate it. That’s what I think.

(h) Can a Man judge his Fellow Creatures? Faith to the End

Remember particularly that you cannot be a judge of any one. For no one can judge a criminal, until he recognizes that he is just such a criminal as the man standing before him, and that he perhaps is more than all men to blame for that crime. When he understands that, he will be able to be a judge. Though that sounds absurd, it is true. If I had been righteous myself, perhaps there would have been no criminal standing before me. If you can take upon yourself the crime of the criminal your heart is judging, take it at once, suffer for him yourself, and let him go without reproach. And even if the law itself makes you his judge, act in the same spirit so far as possible, for he will go away and condemn himself more bitterly than you have done. If, after your kiss, he goes away untouched, mocking at you, do not let that be a stumbling‐block to you. It shows his time has not yet come, but it will come in due course. And if it come not, no matter; if not he, then another in his place will understand and suffer, and judge and condemn himself, and the truth will be fulfilled. Believe that, believe it without doubt; for in that lies all the hope and faith of the saints.

Work without ceasing. If you remember in the night as you go to sleep, “I have not done what I ought to have done,” rise up at once and do it. If the people around you are spiteful and callous and will not hear you, fall down before them and beg their forgiveness; for in truth you are to blame for their not wanting to hear you. And if you cannot speak to them in their bitterness, serve them in silence and in humility, never losing hope. If all men abandon you and even drive you away by force, then when you are left alone fall on the earth and kiss it, water it with your tears and it will bring forth fruit even though no one has seen or heard you in your solitude. Believe to the end, even if all men went astray and you were left the only one faithful; bring your offering even then and praise God in your loneliness. And if two of you are gathered together—then there is a whole world, a world of living love. Embrace each other tenderly and praise God, for if only in you two His truth has been fulfilled.

If you sin yourself and grieve even unto death for your sins or for your sudden sin, then rejoice for others, rejoice for the righteous man, rejoice that if you have sinned, he is righteous and has not sinned.

If the evil‐doing of men moves you to indignation and overwhelming distress, even to a desire for vengeance on the evil‐doers, shun above all things that feeling. Go at once and seek suffering for yourself, as though you were yourself guilty of that wrong. Accept that suffering and bear it and your heart will find comfort, and you will understand that you too are guilty, for you might have been a light to the evil‐doers, even as the one man sinless, and you were not a light to them. If you had been a light, you would have lightened the path for others too, and the evil‐doer might perhaps have been saved by your light from his sin. And even though your light was shining, yet you see men were not saved by it, hold firm and doubt not the power of the heavenly light. Believe that if they were not saved, they will be saved hereafter. And if they are not saved hereafter, then their sons will be saved, for your light will not die even when you are dead. The righteous man departs, but his light remains. Men are always saved after the death of the deliverer. Men reject their prophets and slay them, but they love their martyrs and honor those whom they have slain. You are working for the whole, you are acting for the future. Seek no reward, for great is your reward on this earth: the spiritual joy which is only vouchsafed to the righteous man. Fear not the great nor the mighty, but be wise and ever serene. Know the measure, know the times, study that. When you are left alone, pray. Love to throw yourself on the earth and kiss it. Kiss the earth and love it with an unceasing, consuming love. Love all men, love everything. Seek that rapture and ecstasy. Water the earth with the tears of your joy and love those tears. Don’t be ashamed of that ecstasy, prize it, for it is a gift of God and a great one; it is not given to many but only to the elect.

(i) Of Hell and Hell Fire, a Mystic Reflection

Fathers and teachers, I ponder, “What is hell?” I maintain that it is the suffering of being unable to love. Once in infinite existence, immeasurable in time and space, a spiritual creature was given on his coming to earth, the power of saying, “I am and I love.” Once, only once, there was given him a moment of active living love, and for that was earthly life given him, and with it times and seasons. And that happy creature rejected the priceless gift, prized it and loved it not, scorned it and remained callous. Such a one, having left the earth, sees Abraham’s bosom and talks with Abraham as we are told in the parable of the rich man and Lazarus, and beholds heaven and can go up to the Lord. But that is just his torment, to rise up to the Lord without ever having loved, to be brought close to those who have loved when he has despised their love. For he sees clearly and says to himself, “Now I have understanding, and though I now thirst to love, there will be nothing great, no sacrifice in my love, for my earthly life is over, and Abraham will not come even with a drop of living water (that is the gift of earthly active life) to cool the fiery thirst of spiritual love which burns in me now, though I despised it on earth; there is no more life for me and will be no more time! Even though I would gladly give my life for others, it can never be, for that life is passed which can be sacrificed for love, and now there is a gulf fixed between that life and this existence.”

They talk of hell fire in the material sense. I don’t go into that mystery and I shun it. But I think if there were fire in material sense, they would be glad of it, for I imagine that in material agony, their still greater spiritual agony would be forgotten for a moment. Moreover, that spiritual agony cannot be taken from them, for that suffering is not external but within them. And if it could be taken from them, I think it would be bitterer still for the unhappy creatures. For even if the righteous in Paradise forgave them, beholding their torments, and called them up to heaven in their infinite love, they would only multiply their torments, for they would arouse in them still more keenly a flaming thirst for responsive, active and grateful love which is now impossible. In the timidity of my heart I imagine, however, that the very recognition of this impossibility would serve at last to console them. For accepting the love of the righteous together with the impossibility of repaying it, by this submissiveness and the effect of this humility, they will attain at last, as it were, to a certain semblance of that active love which they scorned in life, to something like its outward expression…. I am sorry, friends and brothers, that I cannot express this clearly. But woe to those who have slain themselves on earth, woe to the suicides! I believe that there can be none more miserable then they. They tell us that it is a sin to pray for them and outwardly the Church, as it were, renounces them, but in my secret heart I believe that we may pray even for them. Love can never be an offense to Christ. For such as those I have prayed inwardly all my life, I confess it, fathers and teachers, and even now I pray for them every day.

Oh, there are some who remain proud and fierce even in hell, in spite of their certain knowledge and contemplation of the absolute truth; there are some fearful ones who have given themselves over to Satan and his proud spirit entirely. For such, hell is voluntary and ever consuming; they are tortured by their own choice. For they have cursed themselves, cursing God and life. They live upon their vindictive pride like a starving man in the desert sucking blood out of his own body. But they are never satisfied, and they refuse forgiveness, they curse God Who calls them. They cannot behold the living God without hatred, and they cry out that the God of life should be annihilated, that God should destroy Himself and His own creation. And they will burn in the fire of their own wrath for ever and yearn for death and annihilation. But they will not attain to death….

Here Alexey Fyodorovitch Karamazov’s manuscript ends. I repeat, it is incomplete and fragmentary. Biographical details, for instance, cover only Father Zossima’s earliest youth. Of his teaching and opinions we find brought together sayings evidently uttered on very different occasions. His utterances during the last few hours have not been kept separate from the rest, but their general character can be gathered from what we have in Alexey Fyodorovitch’s manuscript.

The elder’s death came in the end quite unexpectedly. For although those who were gathered about him that last evening realized that his death was approaching, yet it was difficult to imagine that it would come so suddenly. On the contrary, his friends, as I observed already, seeing him that night apparently so cheerful and talkative, were convinced that there was at least a temporary change for the better in his condition. Even five minutes before his death, they said afterwards wonderingly, it was impossible to foresee it. He seemed suddenly to feel an acute pain in his chest, he turned pale and pressed his hands to his heart. All rose from their seats and hastened to him. But though suffering, he still looked at them with a smile, sank slowly from his chair on to his knees, then bowed his face to the ground, stretched out his arms and as though in joyful ecstasy, praying and kissing the ground, quietly and joyfully gave up his soul to God.

The news of his death spread at once through the hermitage and reached the monastery. The nearest friends of the deceased and those whose duty it was from their position began to lay out the corpse according to the ancient ritual, and all the monks gathered together in the church. And before dawn the news of the death reached the town. By the morning all the town was talking of the event, and crowds were flocking from the town to the monastery. But this subject will be treated in the next book; I will only add here that before a day had passed something happened so unexpected, so strange, upsetting, and bewildering in its effect on the monks and the townspeople, that after all these years, that day of general suspense is still vividly remembered in the town.

PART III
Book VII. Alyosha
Chapter I.
The Breath Of Corruption
The body of Father Zossima was prepared for burial according to the established ritual. As is well known, the bodies of dead monks and hermits are not washed. In the words of the Church Ritual: “If any one of the monks depart in the Lord, the monk designated (that is, whose office it is) shall wipe the body with warm water, making first the sign of the cross with a sponge on the forehead of the deceased, on the breast, on the hands and feet and on the knees, and that is enough.” All this was done by Father Païssy, who then clothed the deceased in his monastic garb and wrapped him in his cloak, which was, according to custom, somewhat slit to allow of its being folded about him in the form of a cross. On his head he put a hood with an eight‐cornered cross. The hood was left open and the dead man’s face was covered with black gauze. In his hands was put an ikon of the Saviour. Towards morning he was put in the coffin which had been made ready long before. It was decided to leave the coffin all day in the cell, in the larger room in which the elder used to receive his visitors and fellow monks. As the deceased was a priest and monk of the strictest rule, the Gospel, not the Psalter, had to be read over his body by monks in holy orders. The reading was begun by Father Iosif immediately after the requiem service. Father Païssy desired later on to read the Gospel all day and night over his dead friend, but for the present he, as well as the Father Superintendent of the Hermitage, was very busy and occupied, for something extraordinary, an unheard‐of, even “unseemly” excitement and impatient expectation began to be apparent in the monks, and the visitors from the monastery hostels, and the crowds of people flocking from the town. And as time went on, this grew more and more marked. Both the Superintendent and Father Païssy did their utmost to calm the general bustle and agitation.

When it was fully daylight, some people began bringing their sick, in most cases children, with them from the town—as though they had been waiting expressly for this moment to do so, evidently persuaded that the dead elder’s remains had a power of healing, which would be immediately made manifest in accordance with their faith. It was only then apparent how unquestionably every one in our town had accepted Father Zossima during his lifetime as a great saint. And those who came were far from being all of the humbler classes.

This intense expectation on the part of believers displayed with such haste, such openness, even with impatience and almost insistence, impressed Father Païssy as unseemly. Though he had long foreseen something of the sort, the actual manifestation of the feeling was beyond anything he had looked for. When he came across any of the monks who displayed this excitement, Father Païssy began to reprove them. “Such immediate expectation of something extraordinary,” he said, “shows a levity, possible to worldly people but unseemly in us.”

But little attention was paid him and Father Païssy noticed it uneasily. Yet he himself (if the whole truth must be told), secretly at the bottom of his heart, cherished almost the same hopes and could not but be aware of it, though he was indignant at the too impatient expectation around him, and saw in it light‐mindedness and vanity. Nevertheless, it was particularly unpleasant to him to meet certain persons, whose presence aroused in him great misgivings. In the crowd in the dead man’s cell he noticed with inward aversion (for which he immediately reproached himself) the presence of Rakitin and of the monk from Obdorsk, who was still staying in the monastery. Of both of them Father Païssy felt for some reason suddenly suspicious—though, indeed, he might well have felt the same about others.

The monk from Obdorsk was conspicuous as the most fussy in the excited crowd. He was to be seen everywhere; everywhere he was asking questions, everywhere he was listening, on all sides he was whispering with a peculiar, mysterious air. His expression showed the greatest impatience and even a sort of irritation.

As for Rakitin, he, as appeared later, had come so early to the hermitage at the special request of Madame Hohlakov. As soon as that good‐hearted but weak‐minded woman, who could not herself have been admitted to the hermitage, waked and heard of the death of Father Zossima, she was overtaken with such intense curiosity that she promptly dispatched Rakitin to the hermitage, to keep a careful look out and report to her by letter every half‐hour or so “everything that takes place.” She regarded Rakitin as a most religious and devout young man. He was particularly clever in getting round people and assuming whatever part he thought most to their taste, if he detected the slightest advantage to himself from doing so.

It was a bright, clear day, and many of the visitors were thronging about the tombs, which were particularly numerous round the church and scattered here and there about the hermitage. As he walked round the hermitage, Father Païssy remembered Alyosha and that he had not seen him for some time, not since the night. And he had no sooner thought of him than he at once noticed him in the farthest corner of the hermitage garden, sitting on the tombstone of a monk who had been famous long ago for his saintliness. He sat with his back to the hermitage and his face to the wall, and seemed to be hiding behind the tombstone. Going up to him, Father Païssy saw that he was weeping quietly but bitterly, with his face hidden in his hands, and that his whole frame was shaking with sobs. Father Païssy stood over him for a little.

“Enough, dear son, enough, dear,” he pronounced with feeling at last. “Why do you weep? Rejoice and weep not. Don’t you know that this is the greatest of his days? Think only where he is now, at this moment!”

Alyosha glanced at him, uncovering his face, which was swollen with crying like a child’s, but turned away at once without uttering a word and hid his face in his hands again.

“Maybe it is well,” said Father Païssy thoughtfully; “weep if you must, Christ has sent you those tears.”

“Your touching tears are but a relief to your spirit and will serve to gladden your dear heart,” he added to himself, walking away from Alyosha, and thinking lovingly of him. He moved away quickly, however, for he felt that he too might weep looking at him.

Meanwhile the time was passing; the monastery services and the requiems for the dead followed in their due course. Father Païssy again took Father Iosif’s place by the coffin and began reading the Gospel. But before three o’clock in the afternoon that something took place to which I alluded at the end of the last book, something so unexpected by all of us and so contrary to the general hope, that, I repeat, this trivial incident has been minutely remembered to this day in our town and all the surrounding neighborhood. I may add here, for myself personally, that I feel it almost repulsive to recall that event which caused such frivolous agitation and was such a stumbling‐block to many, though in reality it was the most natural and trivial matter. I should, of course, have omitted all mention of it in my story, if it had not exerted a very strong influence on the heart and soul of the chief, though future, hero of my story, Alyosha, forming a crisis and turning‐point in his spiritual development, giving a shock to his intellect, which finally strengthened it for the rest of his life and gave it a definite aim.

And so, to return to our story. When before dawn they laid Father Zossima’s body in the coffin and brought it into the front room, the question of opening the windows was raised among those who were around the coffin. But this suggestion made casually by some one was unanswered and almost unnoticed. Some of those present may perhaps have inwardly noticed it, only to reflect that the anticipation of decay and corruption from the body of such a saint was an actual absurdity, calling for compassion (if not a smile) for the lack of faith and the frivolity it implied. For they expected something quite different.

And, behold, soon after midday there were signs of something, at first only observed in silence by those who came in and out and were evidently each afraid to communicate the thought in his mind. But by three o’clock those signs had become so clear and unmistakable, that the news swiftly reached all the monks and visitors in the hermitage, promptly penetrated to the monastery, throwing all the monks into amazement, and finally, in the shortest possible time, spread to the town, exciting every one in it, believers and unbelievers alike. The unbelievers rejoiced, and as for the believers some of them rejoiced even more than the unbelievers, for “men love the downfall and disgrace of the righteous,” as the deceased elder had said in one of his exhortations.

The fact is that a smell of decomposition began to come from the coffin, growing gradually more marked, and by three o’clock it was quite unmistakable. In all the past history of our monastery, no such scandal could be recalled, and in no other circumstances could such a scandal have been possible, as showed itself in unseemly disorder immediately after this discovery among the very monks themselves. Afterwards, even many years afterwards, some sensible monks were amazed and horrified, when they recalled that day, that the scandal could have reached such proportions. For in the past, monks of very holy life had died, God‐fearing old men, whose saintliness was acknowledged by all, yet from their humble coffins, too, the breath of corruption had come, naturally, as from all dead bodies, but that had caused no scandal nor even the slightest excitement. Of course there had been, in former times, saints in the monastery whose memory was carefully preserved and whose relics, according to tradition, showed no signs of corruption. This fact was regarded by the monks as touching and mysterious, and the tradition of it was cherished as something blessed and miraculous, and as a promise, by God’s grace, of still greater glory from their tombs in the future.

One such, whose memory was particularly cherished, was an old monk, Job, who had died seventy years before at the age of a hundred and five. He had been a celebrated ascetic, rigid in fasting and silence, and his tomb was pointed out to all visitors on their arrival with peculiar respect and mysterious hints of great hopes connected with it. (That was the very tomb on which Father Païssy had found Alyosha sitting in the morning.) Another memory cherished in the monastery was that of the famous Father Varsonofy, who was only recently dead and had preceded Father Zossima in the eldership. He was reverenced during his lifetime as a crazy saint by all the pilgrims to the monastery. There was a tradition that both of these had lain in their coffins as though alive, that they had shown no signs of decomposition when they were buried and that there had been a holy light in their faces. And some people even insisted that a sweet fragrance came from their bodies.

Yet, in spite of these edifying memories, it would be difficult to explain the frivolity, absurdity and malice that were manifested beside the coffin of Father Zossima. It is my private opinion that several different causes were simultaneously at work, one of which was the deeply‐rooted hostility to the institution of elders as a pernicious innovation, an antipathy hidden deep in the hearts of many of the monks. Even more powerful was jealousy of the dead man’s saintliness, so firmly established during his lifetime that it was almost a forbidden thing to question it. For though the late elder had won over many hearts, more by love than by miracles, and had gathered round him a mass of loving adherents, none the less, in fact, rather the more on that account he had awakened jealousy and so had come to have bitter enemies, secret and open, not only in the monastery but in the world outside it. He did no one any harm, but “Why do they think him so saintly?” And that question alone, gradually repeated, gave rise at last to an intense, insatiable hatred of him. That, I believe, was why many people were extremely delighted at the smell of decomposition which came so quickly, for not a day had passed since his death. At the same time there were some among those who had been hitherto reverently devoted to the elder, who were almost mortified and personally affronted by this incident. This was how the thing happened.

As soon as signs of decomposition had begun to appear, the whole aspect of the monks betrayed their secret motives in entering the cell. They went in, stayed a little while and hastened out to confirm the news to the crowd of other monks waiting outside. Some of the latter shook their heads mournfully, but others did not even care to conceal the delight which gleamed unmistakably in their malignant eyes. And now no one reproached them for it, no one raised his voice in protest, which was strange, for the majority of the monks had been devoted to the dead elder. But it seemed as though God had in this case let the minority get the upper hand for a time.

Visitors from outside, particularly of the educated class, soon went into the cell, too, with the same spying intent. Of the peasantry few went into the cell, though there were crowds of them at the gates of the hermitage. After three o’clock the rush of worldly visitors was greatly increased and this was no doubt owing to the shocking news. People were attracted who would not otherwise have come on that day and had not intended to come, and among them were some personages of high standing. But external decorum was still preserved and Father Païssy, with a stern face, continued firmly and distinctly reading aloud the Gospel, apparently not noticing what was taking place around him, though he had, in fact, observed something unusual long before. But at last the murmurs, first subdued but gradually louder and more confident, reached even him. “It shows God’s judgment is not as man’s,” Father Païssy heard suddenly. The first to give utterance to this sentiment was a layman, an elderly official from the town, known to be a man of great piety. But he only repeated aloud what the monks had long been whispering. They had long before formulated this damning conclusion, and the worst of it was that a sort of triumphant satisfaction at that conclusion became more and more apparent every moment. Soon they began to lay aside even external decorum and almost seemed to feel they had a sort of right to discard it.

“And for what reason can this have happened,” some of the monks said, at first with a show of regret; “he had a small frame and his flesh was dried up on his bones, what was there to decay?”

“It must be a sign from heaven,” others hastened to add, and their opinion was adopted at once without protest. For it was pointed out, too, that if the decomposition had been natural, as in the case of every dead sinner, it would have been apparent later, after a lapse of at least twenty‐four hours, but this premature corruption “was in excess of nature,” and so the finger of God was evident. It was meant for a sign. This conclusion seemed irresistible.

Gentle Father Iosif, the librarian, a great favorite of the dead man’s, tried to reply to some of the evil speakers that “this is not held everywhere alike,” and that the incorruptibility of the bodies of the just was not a dogma of the Orthodox Church, but only an opinion, and that even in the most Orthodox regions, at Athos for instance, they were not greatly confounded by the smell of corruption, and there the chief sign of the glorification of the saved was not bodily incorruptibility, but the color of the bones when the bodies have lain many years in the earth and have decayed in it. “And if the bones are yellow as wax, that is the great sign that the Lord has glorified the dead saint, if they are not yellow but black, it shows that God has not deemed him worthy of such glory—that is the belief in Athos, a great place, where the Orthodox doctrine has been preserved from of old, unbroken and in its greatest purity,” said Father Iosif in conclusion.

But the meek Father’s words had little effect and even provoked a mocking retort. “That’s all pedantry and innovation, no use listening to it,” the monks decided. “We stick to the old doctrine, there are all sorts of innovations nowadays, are we to follow them all?” added others.

“We have had as many holy fathers as they had. There they are among the Turks, they have forgotten everything. Their doctrine has long been impure and they have no bells even,” the most sneering added.

Father Iosif walked away, grieving the more since he had put forward his own opinion with little confidence as though scarcely believing in it himself. He foresaw with distress that something very unseemly was beginning and that there were positive signs of disobedience. Little by little, all the sensible monks were reduced to silence like Father Iosif. And so it came to pass that all who loved the elder and had accepted with devout obedience the institution of the eldership were all at once terribly cast down and glanced timidly in one another’s faces, when they met. Those who were hostile to the institution of elders, as a novelty, held up their heads proudly. “There was no smell of corruption from the late elder Varsonofy, but a sweet fragrance,” they recalled malignantly. “But he gained that glory not because he was an elder, but because he was a holy man.”

And this was followed by a shower of criticism and even blame of Father Zossima. “His teaching was false; he taught that life is a great joy and not a vale of tears,” said some of the more unreasonable. “He followed the fashionable belief, he did not recognize material fire in hell,” others, still more unreasonable, added. “He was not strict in fasting, allowed himself sweet things, ate cherry jam with his tea, ladies used to send it to him. Is it for a monk of strict rule to drink tea?” could be heard among some of the envious. “He sat in pride,” the most malignant declared vindictively; “he considered himself a saint and he took it as his due when people knelt before him.” “He abused the sacrament of confession,” the fiercest opponents of the institution of elders added in a malicious whisper. And among these were some of the oldest monks, strictest in their devotion, genuine ascetics, who had kept silent during the life of the deceased elder, but now suddenly unsealed their lips. And this was terrible, for their words had great influence on young monks who were not yet firm in their convictions. The monk from Obdorsk heard all this attentively, heaving deep sighs and nodding his head. “Yes, clearly Father Ferapont was right in his judgment yesterday,” and at that moment Father Ferapont himself made his appearance, as though on purpose to increase the confusion.

I have mentioned already that he rarely left his wooden cell by the apiary. He was seldom even seen at church and they overlooked this neglect on the ground of his craziness, and did not keep him to the rules binding on all the rest. But if the whole truth is to be told, they hardly had a choice about it. For it would have been discreditable to insist on burdening with the common regulations so great an ascetic, who prayed day and night (he even dropped asleep on his knees). If they had insisted, the monks would have said, “He is holier than all of us and he follows a rule harder than ours. And if he does not go to church, it’s because he knows when he ought to; he has his own rule.” It was to avoid the chance of these sinful murmurs that Father Ferapont was left in peace.

As every one was aware, Father Ferapont particularly disliked Father Zossima. And now the news had reached him in his hut that “God’s judgment is not the same as man’s,” and that something had happened which was “in excess of nature.” It may well be supposed that among the first to run to him with the news was the monk from Obdorsk, who had visited him the evening before and left his cell terror‐stricken.

I have mentioned above, that though Father Païssy, standing firm and immovable reading the Gospel over the coffin, could not hear nor see what was passing outside the cell, he gauged most of it correctly in his heart, for he knew the men surrounding him, well. He was not shaken by it, but awaited what would come next without fear, watching with penetration and insight for the outcome of the general excitement.

Suddenly an extraordinary uproar in the passage in open defiance of decorum burst on his ears. The door was flung open and Father Ferapont appeared in the doorway. Behind him there could be seen accompanying him a crowd of monks, together with many people from the town. They did not, however, enter the cell, but stood at the bottom of the steps, waiting to see what Father Ferapont would say or do. For they felt with a certain awe, in spite of their audacity, that he had not come for nothing. Standing in the doorway, Father Ferapont raised his arms, and under his right arm the keen inquisitive little eyes of the monk from Obdorsk peeped in. He alone, in his intense curiosity, could not resist running up the steps after Father Ferapont. The others, on the contrary, pressed farther back in sudden alarm when the door was noisily flung open. Holding his hands aloft, Father Ferapont suddenly roared:

“Casting out I cast out!” and, turning in all directions, he began at once making the sign of the cross at each of the four walls and four corners of the cell in succession. All who accompanied Father Ferapont immediately understood his action. For they knew he always did this wherever he went, and that he would not sit down or say a word, till he had driven out the evil spirits.

“Satan, go hence! Satan, go hence!” he repeated at each sign of the cross. “Casting out I cast out,” he roared again.

He was wearing his coarse gown girt with a rope. His bare chest, covered with gray hair, could be seen under his hempen shirt. His feet were bare. As soon as he began waving his arms, the cruel irons he wore under his gown could be heard clanking.

Father Païssy paused in his reading, stepped forward and stood before him waiting.

“What have you come for, worthy Father? Why do you offend against good order? Why do you disturb the peace of the flock?” he said at last, looking sternly at him.

“What have I come for? You ask why? What is your faith?” shouted Father Ferapont crazily. “I’ve come here to drive out your visitors, the unclean devils. I’ve come to see how many have gathered here while I have been away. I want to sweep them out with a birch broom.”

“You cast out the evil spirit, but perhaps you are serving him yourself,” Father Païssy went on fearlessly. “And who can say of himself ‘I am holy’? Can you, Father?”

“I am unclean, not holy. I would not sit in an arm‐chair and would not have them bow down to me as an idol,” thundered Father Ferapont. “Nowadays folk destroy the true faith. The dead man, your saint,” he turned to the crowd, pointing with his finger to the coffin, “did not believe in devils. He gave medicine to keep off the devils. And so they have become as common as spiders in the corners. And now he has begun to stink himself. In that we see a great sign from God.”

The incident he referred to was this. One of the monks was haunted in his dreams and, later on, in waking moments, by visions of evil spirits. When in the utmost terror he confided this to Father Zossima, the elder had advised continual prayer and rigid fasting. But when that was of no use, he advised him, while persisting in prayer and fasting, to take a special medicine. Many persons were shocked at the time and wagged their heads as they talked over it—and most of all Father Ferapont, to whom some of the censorious had hastened to report this “extraordinary” counsel on the part of the elder.

“Go away, Father!” said Father Païssy, in a commanding voice, “it’s not for man to judge but for God. Perhaps we see here a ‘sign’ which neither you, nor I, nor any one of us is able to comprehend. Go, Father, and do not trouble the flock!” he repeated impressively.

“He did not keep the fasts according to the rule and therefore the sign has come. That is clear and it’s a sin to hide it,” the fanatic, carried away by a zeal that outstripped his reason, would not be quieted. “He was seduced by sweetmeats, ladies brought them to him in their pockets, he sipped tea, he worshiped his belly, filling it with sweet things and his mind with haughty thoughts…. And for this he is put to shame….”

“You speak lightly, Father.” Father Païssy, too, raised his voice. “I admire your fasting and severities, but you speak lightly like some frivolous youth, fickle and childish. Go away, Father, I command you!” Father Païssy thundered in conclusion.

“I will go,” said Ferapont, seeming somewhat taken aback, but still as bitter. “You learned men! You are so clever you look down upon my humbleness. I came hither with little learning and here I have forgotten what I did know, God Himself has preserved me in my weakness from your subtlety.”

Father Païssy stood over him, waiting resolutely. Father Ferapont paused and, suddenly leaning his cheek on his hand despondently, pronounced in a sing‐song voice, looking at the coffin of the dead elder:

“To‐morrow they will sing over him ‘Our Helper and Defender’—a splendid anthem—and over me when I die all they’ll sing will be ‘What earthly joy’—a little canticle,”[6] he added with tearful regret. “You are proud and puffed up, this is a vain place!” he shouted suddenly like a madman, and with a wave of his hand he turned quickly and quickly descended the steps. The crowd awaiting him below wavered; some followed him at once and some lingered, for the cell was still open, and Father Païssy, following Father Ferapont on to the steps, stood watching him. But the excited old fanatic was not completely silenced. Walking twenty steps away, he suddenly turned towards the setting sun, raised both his arms and, as though some one had cut him down, fell to the ground with a loud scream.

“My God has conquered! Christ has conquered the setting sun!” he shouted frantically, stretching up his hands to the sun, and falling face downwards on the ground, he sobbed like a little child, shaken by his tears and spreading out his arms on the ground. Then all rushed up to him; there were exclamations and sympathetic sobs … a kind of frenzy seemed to take possession of them all.

“This is the one who is a saint! This is the one who is a holy man!” some cried aloud, losing their fear. “This is he who should be an elder,” others added malignantly.

“He wouldn’t be an elder … he would refuse … he wouldn’t serve a cursed innovation … he wouldn’t imitate their foolery,” other voices chimed in at once. And it is hard to say how far they might have gone, but at that moment the bell rang summoning them to service. All began crossing themselves at once. Father Ferapont, too, got up and crossing himself went back to his cell without looking round, still uttering exclamations which were utterly incoherent. A few followed him, but the greater number dispersed, hastening to service. Father Païssy let Father Iosif read in his place and went down. The frantic outcries of bigots could not shake him, but his heart was suddenly filled with melancholy for some special reason and he felt that. He stood still and suddenly wondered, “Why am I sad even to dejection?” and immediately grasped with surprise that his sudden sadness was due to a very small and special cause. In the crowd thronging at the entrance to the cell, he had noticed Alyosha and he remembered that he had felt at once a pang at heart on seeing him. “Can that boy mean so much to my heart now?” he asked himself, wondering.

At that moment Alyosha passed him, hurrying away, but not in the direction of the church. Their eyes met. Alyosha quickly turned away his eyes and dropped them to the ground, and from the boy’s look alone, Father Païssy guessed what a great change was taking place in him at that moment.

“Have you, too, fallen into temptation?” cried Father Païssy. “Can you be with those of little faith?” he added mournfully.

Alyosha stood still and gazed vaguely at Father Païssy, but quickly turned his eyes away again and again looked on the ground. He stood sideways and did not turn his face to Father Païssy, who watched him attentively.

“Where are you hastening? The bell calls to service,” he asked again, but again Alyosha gave no answer.

“Are you leaving the hermitage? What, without asking leave, without asking a blessing?”

Alyosha suddenly gave a wry smile, cast a strange, very strange, look at the Father to whom his former guide, the former sovereign of his heart and mind, his beloved elder, had confided him as he lay dying. And suddenly, still without speaking, waved his hand, as though not caring even to be respectful, and with rapid steps walked towards the gates away from the hermitage.

“You will come back again!” murmured Father Païssy, looking after him with sorrowful surprise.

Chapter II.
A Critical Moment
Father Païssy, of course, was not wrong when he decided that his “dear boy” would come back again. Perhaps indeed, to some extent, he penetrated with insight into the true meaning of Alyosha’s spiritual condition. Yet I must frankly own that it would be very difficult for me to give a clear account of that strange, vague moment in the life of the young hero I love so much. To Father Païssy’s sorrowful question, “Are you too with those of little faith?” I could of course confidently answer for Alyosha, “No, he is not with those of little faith. Quite the contrary.” Indeed, all his trouble came from the fact that he was of great faith. But still the trouble was there and was so agonizing that even long afterwards Alyosha thought of that sorrowful day as one of the bitterest and most fatal days of his life. If the question is asked: “Could all his grief and disturbance have been only due to the fact that his elder’s body had shown signs of premature decomposition instead of at once performing miracles?” I must answer without beating about the bush, “Yes, it certainly was.” I would only beg the reader not to be in too great a hurry to laugh at my young hero’s pure heart. I am far from intending to apologize for him or to justify his innocent faith on the ground of his youth, or the little progress he had made in his studies, or any such reason. I must declare, on the contrary, that I have genuine respect for the qualities of his heart. No doubt a youth who received impressions cautiously, whose love was lukewarm, and whose mind was too prudent for his age and so of little value, such a young man might, I admit, have avoided what happened to my hero. But in some cases it is really more creditable to be carried away by an emotion, however unreasonable, which springs from a great love, than to be unmoved. And this is even truer in youth, for a young man who is always sensible is to be suspected and is of little worth—that’s my opinion!

“But,” reasonable people will exclaim perhaps, “every young man cannot believe in such a superstition and your hero is no model for others.”

To this I reply again, “Yes! my hero had faith, a faith holy and steadfast, but still I am not going to apologize for him.”

Though I declared above, and perhaps too hastily, that I should not explain or justify my hero, I see that some explanation is necessary for the understanding of the rest of my story. Let me say then, it was not a question of miracles. There was no frivolous and impatient expectation of miracles in his mind. And Alyosha needed no miracles at the time, for the triumph of some preconceived idea—oh, no, not at all—what he saw before all was one figure—the figure of his beloved elder, the figure of that holy man whom he revered with such adoration. The fact is that all the love that lay concealed in his pure young heart for every one and everything had, for the past year, been concentrated—and perhaps wrongly so—on one being, his beloved elder. It is true that being had for so long been accepted by him as his ideal, that all his young strength and energy could not but turn towards that ideal, even to the forgetting at the moment “of every one and everything.” He remembered afterwards how, on that terrible day, he had entirely forgotten his brother Dmitri, about whom he had been so anxious and troubled the day before; he had forgotten, too, to take the two hundred roubles to Ilusha’s father, though he had so warmly intended to do so the preceding evening. But again it was not miracles he needed but only “the higher justice” which had been in his belief outraged by the blow that had so suddenly and cruelly wounded his heart. And what does it signify that this “justice” looked for by Alyosha inevitably took the shape of miracles to be wrought immediately by the ashes of his adored teacher? Why, every one in the monastery cherished the same thought and the same hope, even those whose intellects Alyosha revered, Father Païssy himself, for instance. And so Alyosha, untroubled by doubts, clothed his dreams too in the same form as all the rest. And a whole year of life in the monastery had formed the habit of this expectation in his heart. But it was justice, justice, he thirsted for, not simply miracles.

And now the man who should, he believed, have been exalted above every one in the whole world, that man, instead of receiving the glory that was his due, was suddenly degraded and dishonored! What for? Who had judged him? Who could have decreed this? Those were the questions that wrung his inexperienced and virginal heart. He could not endure without mortification, without resentment even, that the holiest of holy men should have been exposed to the jeering and spiteful mockery of the frivolous crowd so inferior to him. Even had there been no miracles, had there been nothing marvelous to justify his hopes, why this indignity, why this humiliation, why this premature decay, “in excess of nature,” as the spiteful monks said? Why this “sign from heaven,” which they so triumphantly acclaimed in company with Father Ferapont, and why did they believe they had gained the right to acclaim it? Where is the finger of Providence? Why did Providence hide its face “at the most critical moment” (so Alyosha thought it), as though voluntarily submitting to the blind, dumb, pitiless laws of nature?

That was why Alyosha’s heart was bleeding, and, of course, as I have said already, the sting of it all was that the man he loved above everything on earth should be put to shame and humiliated! This murmuring may have been shallow and unreasonable in my hero, but I repeat again for the third time—and am prepared to admit that it might be difficult to defend my feeling—I am glad that my hero showed himself not too reasonable at that moment, for any man of sense will always come back to reason in time, but, if love does not gain the upper hand in a boy’s heart at such an exceptional moment, when will it? I will not, however, omit to mention something strange, which came for a time to the surface of Alyosha’s mind at this fatal and obscure moment. This new something was the harassing impression left by the conversation with Ivan, which now persistently haunted Alyosha’s mind. At this moment it haunted him. Oh, it was not that something of the fundamental, elemental, so to speak, faith of his soul had been shaken. He loved his God and believed in Him steadfastly, though he was suddenly murmuring against Him. Yet a vague but tormenting and evil impression left by his conversation with Ivan the day before, suddenly revived again now in his soul and seemed forcing its way to the surface of his consciousness.

It had begun to get dusk when Rakitin, crossing the pine copse from the hermitage to the monastery, suddenly noticed Alyosha, lying face downwards on the ground under a tree, not moving and apparently asleep. He went up and called him by his name.

“You here, Alexey? Can you have—” he began wondering but broke off. He had meant to say, “Can you have come to this?”

Alyosha did not look at him, but from a slight movement Rakitin at once saw that he heard and understood him.

“What’s the matter?” he went on; but the surprise in his face gradually passed into a smile that became more and more ironical.

“I say, I’ve been looking for you for the last two hours. You suddenly disappeared. What are you about? What foolery is this? You might just look at me…”

Alyosha raised his head, sat up and leaned his back against the tree. He was not crying, but there was a look of suffering and irritability in his face. He did not look at Rakitin, however, but looked away to one side of him.

“Do you know your face is quite changed? There’s none of your famous mildness to be seen in it. Are you angry with some one? Have they been ill‐treating you?”

“Let me alone,” said Alyosha suddenly, with a weary gesture of his hand, still looking away from him.

“Oho! So that’s how we are feeling! So you can shout at people like other mortals. That is a come‐down from the angels. I say, Alyosha, you have surprised me, do you hear? I mean it. It’s long since I’ve been surprised at anything here. I always took you for an educated man….”

Alyosha at last looked at him, but vaguely, as though scarcely understanding what he said.

“Can you really be so upset simply because your old man has begun to stink? You don’t mean to say you seriously believed that he was going to work miracles?” exclaimed Rakitin, genuinely surprised again.

“I believed, I believe, I want to believe, and I will believe, what more do you want?” cried Alyosha irritably.

“Nothing at all, my boy. Damn it all! why, no schoolboy of thirteen believes in that now. But there…. So now you are in a temper with your God, you are rebelling against Him; He hasn’t given promotion, He hasn’t bestowed the order of merit! Eh, you are a set!”

Alyosha gazed a long while with his eyes half closed at Rakitin, and there was a sudden gleam in his eyes … but not of anger with Rakitin.

“I am not rebelling against my God; I simply ‘don’t accept His world.’ ” Alyosha suddenly smiled a forced smile.

“How do you mean, you don’t accept the world?” Rakitin thought a moment over his answer. “What idiocy is this?”

Alyosha did not answer.

“Come, enough nonsense, now to business. Have you had anything to eat to‐ day?”

“I don’t remember…. I think I have.”

“You need keeping up, to judge by your face. It makes one sorry to look at you. You didn’t sleep all night either, I hear, you had a meeting in there. And then all this bobbery afterwards. Most likely you’ve had nothing to eat but a mouthful of holy bread. I’ve got some sausage in my pocket; I’ve brought it from the town in case of need, only you won’t eat sausage….”

“Give me some.”

“I say! You are going it! Why, it’s a regular mutiny, with barricades! Well, my boy, we must make the most of it. Come to my place…. I shouldn’t mind a drop of vodka myself, I am tired to death. Vodka is going too far for you, I suppose … or would you like some?”

“Give me some vodka too.”

“Hullo! You surprise me, brother!” Rakitin looked at him in amazement. “Well, one way or another, vodka or sausage, this is a jolly fine chance and mustn’t be missed. Come along.”

Alyosha got up in silence and followed Rakitin.

“If your little brother Ivan could see this—wouldn’t he be surprised! By the way, your brother Ivan set off to Moscow this morning, did you know?”

“Yes,” answered Alyosha listlessly, and suddenly the image of his brother Dmitri rose before his mind. But only for a minute, and though it reminded him of something that must not be put off for a moment, some duty, some terrible obligation, even that reminder made no impression on him, did not reach his heart and instantly faded out of his mind and was forgotten. But, a long while afterwards, Alyosha remembered this.

“Your brother Ivan declared once that I was a ‘liberal booby with no talents whatsoever.’ Once you, too, could not resist letting me know I was ‘dishonorable.’ Well! I should like to see what your talents and sense of honor will do for you now.” This phrase Rakitin finished to himself in a whisper.

“Listen!” he said aloud, “let’s go by the path beyond the monastery straight to the town. Hm! I ought to go to Madame Hohlakov’s by the way. Only fancy, I’ve written to tell her everything that happened, and would you believe it, she answered me instantly in pencil (the lady has a passion for writing notes) that ‘she would never have expected such conduct from a man of such a reverend character as Father Zossima.’ That was her very word: ‘conduct.’ She is angry too. Eh, you are a set! Stay!” he cried suddenly again. He suddenly stopped and taking Alyosha by the shoulder made him stop too.

“Do you know, Alyosha,” he peeped inquisitively into his eyes, absorbed in a sudden new thought which had dawned on him, and though he was laughing outwardly he was evidently afraid to utter that new idea aloud, so difficult he still found it to believe in the strange and unexpected mood in which he now saw Alyosha. “Alyosha, do you know where we had better go?” he brought out at last timidly, and insinuatingly.

“I don’t care … where you like.”

“Let’s go to Grushenka, eh? Will you come?” pronounced Rakitin at last, trembling with timid suspense.

“Let’s go to Grushenka,” Alyosha answered calmly, at once, and this prompt and calm agreement was such a surprise to Rakitin that he almost started back.

“Well! I say!” he cried in amazement, but seizing Alyosha firmly by the arm he led him along the path, still dreading that he would change his mind.

They walked along in silence, Rakitin was positively afraid to talk.

“And how glad she will be, how delighted!” he muttered, but lapsed into silence again. And indeed it was not to please Grushenka he was taking Alyosha to her. He was a practical person and never undertook anything without a prospect of gain for himself. His object in this case was twofold, first a revengeful desire to see “the downfall of the righteous,” and Alyosha’s fall “from the saints to the sinners,” over which he was already gloating in his imagination, and in the second place he had in view a certain material gain for himself, of which more will be said later.

“So the critical moment has come,” he thought to himself with spiteful glee, “and we shall catch it on the hop, for it’s just what we want.”

Chapter III.
An Onion
Grushenka lived in the busiest part of the town, near the cathedral square, in a small wooden lodge in the courtyard belonging to the house of the widow Morozov. The house was a large stone building of two stories, old and very ugly. The widow led a secluded life with her two unmarried nieces, who were also elderly women. She had no need to let her lodge, but every one knew that she had taken in Grushenka as a lodger, four years before, solely to please her kinsman, the merchant Samsonov, who was known to be the girl’s protector. It was said that the jealous old man’s object in placing his “favorite” with the widow Morozov was that the old woman should keep a sharp eye on her new lodger’s conduct. But this sharp eye soon proved to be unnecessary, and in the end the widow Morozov seldom met Grushenka and did not worry her by looking after her in any way. It is true that four years had passed since the old man had brought the slim, delicate, shy, timid, dreamy, and sad girl of eighteen from the chief town of the province, and much had happened since then. Little was known of the girl’s history in the town and that little was vague. Nothing more had been learnt during the last four years, even after many persons had become interested in the beautiful young woman into whom Agrafena Alexandrovna had meanwhile developed. There were rumors that she had been at seventeen betrayed by some one, some sort of officer, and immediately afterwards abandoned by him. The officer had gone away and afterwards married, while Grushenka had been left in poverty and disgrace. It was said, however, that though Grushenka had been raised from destitution by the old man, Samsonov, she came of a respectable family belonging to the clerical class, that she was the daughter of a deacon or something of the sort.

And now after four years the sensitive, injured and pathetic little orphan had become a plump, rosy beauty of the Russian type, a woman of bold and determined character, proud and insolent. She had a good head for business, was acquisitive, saving and careful, and by fair means or foul had succeeded, it was said, in amassing a little fortune. There was only one point on which all were agreed. Grushenka was not easily to be approached and except her aged protector there had not been one man who could boast of her favors during those four years. It was a positive fact, for there had been a good many, especially during the last two years, who had attempted to obtain those favors. But all their efforts had been in vain and some of these suitors had been forced to beat an undignified and even comic retreat, owing to the firm and ironical resistance they met from the strong‐willed young person. It was known, too, that the young person had, especially of late, been given to what is called “speculation,” and that she had shown marked abilities in that direction, so that many people began to say that she was no better than a Jew. It was not that she lent money on interest, but it was known, for instance, that she had for some time past, in partnership with old Karamazov, actually invested in the purchase of bad debts for a trifle, a tenth of their nominal value, and afterwards had made out of them ten times their value.

The old widower Samsonov, a man of large fortune, was stingy and merciless. He tyrannized over his grown‐up sons, but, for the last year during which he had been ill and lost the use of his swollen legs, he had fallen greatly under the influence of his protégée, whom he had at first kept strictly and in humble surroundings, “on Lenten fare,” as the wits said at the time. But Grushenka had succeeded in emancipating herself, while she established in him a boundless belief in her fidelity. The old man, now long since dead, had had a large business in his day and was also a noteworthy character, miserly and hard as flint. Though Grushenka’s hold upon him was so strong that he could not live without her (it had been so especially for the last two years), he did not settle any considerable fortune on her and would not have been moved to do so, if she had threatened to leave him. But he had presented her with a small sum, and even that was a surprise to every one when it became known.

“You are a wench with brains,” he said to her, when he gave her eight thousand roubles, “and you must look after yourself, but let me tell you that except your yearly allowance as before, you’ll get nothing more from me to the day of my death, and I’ll leave you nothing in my will either.”

And he kept his word; he died and left everything to his sons, whom, with their wives and children, he had treated all his life as servants. Grushenka was not even mentioned in his will. All this became known afterwards. He helped Grushenka with his advice to increase her capital and put business in her way.

When Fyodor Pavlovitch, who first came into contact with Grushenka over a piece of speculation, ended to his own surprise by falling madly in love with her, old Samsonov, gravely ill as he was, was immensely amused. It is remarkable that throughout their whole acquaintance Grushenka was absolutely and spontaneously open with the old man, and he seems to have been the only person in the world with whom she was so. Of late, when Dmitri too had come on the scene with his love, the old man left off laughing. On the contrary, he once gave Grushenka a stern and earnest piece of advice.

“If you have to choose between the two, father or son, you’d better choose the old man, if only you make sure the old scoundrel will marry you and settle some fortune on you beforehand. But don’t keep on with the captain, you’ll get no good out of that.”

These were the very words of the old profligate, who felt already that his death was not far off and who actually died five months later.

I will note, too, in passing, that although many in our town knew of the grotesque and monstrous rivalry of the Karamazovs, father and son, the object of which was Grushenka, scarcely any one understood what really underlay her attitude to both of them. Even Grushenka’s two servants (after the catastrophe of which we will speak later) testified in court that she received Dmitri Fyodorovitch simply from fear because “he threatened to murder her.” These servants were an old cook, invalidish and almost deaf, who came from Grushenka’s old home, and her granddaughter, a smart young girl of twenty, who performed the duties of a maid. Grushenka lived very economically and her surroundings were anything but luxurious. Her lodge consisted of three rooms furnished with mahogany furniture in the fashion of 1820, belonging to her landlady.

It was quite dark when Rakitin and Alyosha entered her rooms, yet they were not lighted up. Grushenka was lying down in her drawing‐room on the big, hard, clumsy sofa, with a mahogany back. The sofa was covered with shabby and ragged leather. Under her head she had two white down pillows taken from her bed. She was lying stretched out motionless on her back with her hands behind her head. She was dressed as though expecting some one, in a black silk dress, with a dainty lace fichu on her head, which was very becoming. Over her shoulders was thrown a lace shawl pinned with a massive gold brooch. She certainly was expecting some one. She lay as though impatient and weary, her face rather pale and her lips and eyes hot, restlessly tapping the arm of the sofa with the tip of her right foot. The appearance of Rakitin and Alyosha caused a slight excitement. From the hall they could hear Grushenka leap up from the sofa and cry out in a frightened voice, “Who’s there?” But the maid met the visitors and at once called back to her mistress.

“It’s not he, it’s nothing, only other visitors.”

“What can be the matter?” muttered Rakitin, leading Alyosha into the drawing‐room.

Grushenka was standing by the sofa as though still alarmed. A thick coil of her dark brown hair escaped from its lace covering and fell on her right shoulder, but she did not notice it and did not put it back till she had gazed at her visitors and recognized them.

“Ah, it’s you, Rakitin? You quite frightened me. Whom have you brought? Who is this with you? Good heavens, you have brought him!” she exclaimed, recognizing Alyosha.

“Do send for candles!” said Rakitin, with the free‐and‐easy air of a most intimate friend, who is privileged to give orders in the house.

“Candles … of course, candles…. Fenya, fetch him a candle…. Well, you have chosen a moment to bring him!” she exclaimed again, nodding towards Alyosha, and turning to the looking‐glass she began quickly fastening up her hair with both hands. She seemed displeased.

“Haven’t I managed to please you?” asked Rakitin, instantly almost offended.

“You frightened me, Rakitin, that’s what it is.” Grushenka turned with a smile to Alyosha. “Don’t be afraid of me, my dear Alyosha, you cannot think how glad I am to see you, my unexpected visitor. But you frightened me, Rakitin, I thought it was Mitya breaking in. You see, I deceived him just now, I made him promise to believe me and I told him a lie. I told him that I was going to spend the evening with my old man, Kuzma Kuzmitch, and should be there till late counting up his money. I always spend one whole evening a week with him making up his accounts. We lock ourselves in and he counts on the reckoning beads while I sit and put things down in the book. I am the only person he trusts. Mitya believes that I am there, but I came back and have been sitting locked in here, expecting some news. How was it Fenya let you in? Fenya, Fenya, run out to the gate, open it and look about whether the captain is to be seen! Perhaps he is hiding and spying, I am dreadfully frightened.”

“There’s no one there, Agrafena Alexandrovna, I’ve just looked out, I keep running to peep through the crack, I am in fear and trembling myself.”

“Are the shutters fastened, Fenya? And we must draw the curtains—that’s better!” She drew the heavy curtains herself. “He’d rush in at once if he saw a light. I am afraid of your brother Mitya to‐day, Alyosha.”

Grushenka spoke aloud, and, though she was alarmed, she seemed very happy about something.

“Why are you so afraid of Mitya to‐day?” inquired Rakitin. “I should have thought you were not timid with him, you’d twist him round your little finger.”

“I tell you, I am expecting news, priceless news, so I don’t want Mitya at all. And he didn’t believe, I feel he didn’t, that I should stay at Kuzma Kuzmitch’s. He must be in his ambush now, behind Fyodor Pavlovitch’s, in the garden, watching for me. And if he’s there, he won’t come here, so much the better! But I really have been to Kuzma Kuzmitch’s, Mitya escorted me there. I told him I should stay there till midnight, and I asked him to be sure to come at midnight to fetch me home. He went away and I sat ten minutes with Kuzma Kuzmitch and came back here again. Ugh, I was afraid, I ran for fear of meeting him.”

“And why are you so dressed up? What a curious cap you’ve got on!”

“How curious you are yourself, Rakitin! I tell you, I am expecting a message. If the message comes, I shall fly, I shall gallop away and you will see no more of me. That’s why I am dressed up, so as to be ready.”

“And where are you flying to?”

“If you know too much, you’ll get old too soon.”

“Upon my word! You are highly delighted … I’ve never seen you like this before. You are dressed up as if you were going to a ball.” Rakitin looked her up and down.

“Much you know about balls.”

“And do you know much about them?”

“I have seen a ball. The year before last, Kuzma Kuzmitch’s son was married and I looked on from the gallery. Do you suppose I want to be talking to you, Rakitin, while a prince like this is standing here. Such a visitor! Alyosha, my dear boy, I gaze at you and can’t believe my eyes. Good heavens, can you have come here to see me! To tell you the truth, I never had a thought of seeing you and I didn’t think that you would ever come and see me. Though this is not the moment now, I am awfully glad to see you. Sit down on the sofa, here, that’s right, my bright young moon. I really can’t take it in even now…. Eh, Rakitin, if only you had brought him yesterday or the day before! But I am glad as it is! Perhaps it’s better he has come now, at such a moment, and not the day before yesterday.”

She gayly sat down beside Alyosha on the sofa, looking at him with positive delight. And she really was glad, she was not lying when she said so. Her eyes glowed, her lips laughed, but it was a good‐hearted merry laugh. Alyosha had not expected to see such a kind expression in her face…. He had hardly met her till the day before, he had formed an alarming idea of her, and had been horribly distressed the day before by the spiteful and treacherous trick she had played on Katerina Ivanovna. He was greatly surprised to find her now altogether different from what he had expected. And, crushed as he was by his own sorrow, his eyes involuntarily rested on her with attention. Her whole manner seemed changed for the better since yesterday, there was scarcely any trace of that mawkish sweetness in her speech, of that voluptuous softness in her movements. Everything was simple and good‐natured, her gestures were rapid, direct, confiding, but she was greatly excited.

“Dear me, how everything comes together to‐day!” she chattered on again. “And why I am so glad to see you, Alyosha, I couldn’t say myself! If you ask me, I couldn’t tell you.”

“Come, don’t you know why you’re glad?” said Rakitin, grinning. “You used to be always pestering me to bring him, you’d some object, I suppose.”

“I had a different object once, but now that’s over, this is not the moment. I say, I want you to have something nice. I am so good‐natured now. You sit down, too, Rakitin; why are you standing? You’ve sat down already? There’s no fear of Rakitin’s forgetting to look after himself. Look, Alyosha, he’s sitting there opposite us, so offended that I didn’t ask him to sit down before you. Ugh, Rakitin is such a one to take offense!” laughed Grushenka. “Don’t be angry, Rakitin, I’m kind to‐day. Why are you so depressed, Alyosha? Are you afraid of me?” She peeped into his eyes with merry mockery”

“He’s sad. The promotion has not been given,” boomed Rakitin.

“What promotion?”

“His elder stinks.”

“What? You are talking some nonsense, you want to say something nasty. Be quiet, you stupid! Let me sit on your knee, Alyosha, like this.” She suddenly skipped forward and jumped, laughing, on his knee, like a nestling kitten, with her right arm about his neck. “I’ll cheer you up, my pious boy. Yes, really, will you let me sit on your knee? You won’t be angry? If you tell me, I’ll get off?”

Alyosha did not speak. He sat afraid to move, he heard her words, “If you tell me, I’ll get off,” but he did not answer. But there was nothing in his heart such as Rakitin, for instance, watching him malignantly from his corner, might have expected or fancied. The great grief in his heart swallowed up every sensation that might have been aroused, and, if only he could have thought clearly at that moment, he would have realized that he had now the strongest armor to protect him from every lust and temptation. Yet in spite of the vague irresponsiveness of his spiritual condition and the sorrow that overwhelmed him, he could not help wondering at a new and strange sensation in his heart. This woman, this “dreadful” woman, had no terror for him now, none of that terror that had stirred in his soul at any passing thought of woman. On the contrary, this woman, dreaded above all women, sitting now on his knee, holding him in her arms, aroused in him now a quite different, unexpected, peculiar feeling, a feeling of the intensest and purest interest without a trace of fear, of his former terror. That was what instinctively surprised him.

“You’ve talked nonsense enough,” cried Rakitin, “you’d much better give us some champagne. You owe it me, you know you do!”

“Yes, I really do. Do you know, Alyosha, I promised him champagne on the top of everything, if he’d bring you? I’ll have some too! Fenya, Fenya, bring us the bottle Mitya left! Look sharp! Though I am so stingy, I’ll stand a bottle, not for you, Rakitin, you’re a toadstool, but he is a falcon! And though my heart is full of something very different, so be it, I’ll drink with you. I long for some dissipation.”

“But what is the matter with you? And what is this message, may I ask, or is it a secret?” Rakitin put in inquisitively, doing his best to pretend not to notice the snubs that were being continually aimed at him.

“Ech, it’s not a secret, and you know it, too,” Grushenka said, in a voice suddenly anxious, turning her head towards Rakitin, and drawing a little away from Alyosha, though she still sat on his knee with her arm round his neck. “My officer is coming, Rakitin, my officer is coming.”

“I heard he was coming, but is he so near?”

“He is at Mokroe now; he’ll send a messenger from there, so he wrote; I got a letter from him to‐day. I am expecting the messenger every minute.”

“You don’t say so! Why at Mokroe?”

“That’s a long story, I’ve told you enough.”

“Mitya’ll be up to something now—I say! Does he know or doesn’t he?”

“He know! Of course he doesn’t. If he knew, there would be murder. But I am not afraid of that now, I am not afraid of his knife. Be quiet, Rakitin, don’t remind me of Dmitri Fyodorovitch, he has bruised my heart. And I don’t want to think of that at this moment. I can think of Alyosha here, I can look at Alyosha … smile at me, dear, cheer up, smile at my foolishness, at my pleasure…. Ah, he’s smiling, he’s smiling! How kindly he looks at me! And you know, Alyosha, I’ve been thinking all this time you were angry with me, because of the day before yesterday, because of that young lady. I was a cur, that’s the truth…. But it’s a good thing it happened so. It was a horrid thing, but a good thing too.” Grushenka smiled dreamily and a little cruel line showed in her smile. “Mitya told me that she screamed out that I ‘ought to be flogged.’ I did insult her dreadfully. She sent for me, she wanted to make a conquest of me, to win me over with her chocolate…. No, it’s a good thing it did end like that.” She smiled again. “But I am still afraid of your being angry.”

“Yes, that’s really true,” Rakitin put in suddenly with genuine surprise. “Alyosha, she is really afraid of a chicken like you.”

“He is a chicken to you, Rakitin … because you’ve no conscience, that’s what it is! You see, I love him with all my soul, that’s how it is! Alyosha, do you believe I love you with all my soul?”

“Ah, you shameless woman! She is making you a declaration, Alexey!”

“Well, what of it, I love him!”

“And what about your officer? And the priceless message from Mokroe?”

“That is quite different.”

“That’s a woman’s way of looking at it!”

“Don’t you make me angry, Rakitin.” Grushenka caught him up hotly. “This is quite different. I love Alyosha in a different way. It’s true, Alyosha, I had sly designs on you before. For I am a horrid, violent creature. But at other times I’ve looked upon you, Alyosha, as my conscience. I’ve kept thinking ‘how any one like that must despise a nasty thing like me.’ I thought that the day before yesterday, as I ran home from the young lady’s. I have thought of you a long time in that way, Alyosha, and Mitya knows, I’ve talked to him about it. Mitya understands. Would you believe it, I sometimes look at you and feel ashamed, utterly ashamed of myself…. And how, and since when, I began to think about you like that, I can’t say, I don’t remember….”

Fenya came in and put a tray with an uncorked bottle and three glasses of champagne on the table.

“Here’s the champagne!” cried Rakitin. “You’re excited, Agrafena Alexandrovna, and not yourself. When you’ve had a glass of champagne, you’ll be ready to dance. Eh, they can’t even do that properly,” he added, looking at the bottle. “The old woman’s poured it out in the kitchen and the bottle’s been brought in warm and without a cork. Well, let me have some, anyway.”

He went up to the table, took a glass, emptied it at one gulp and poured himself out another.

“One doesn’t often stumble upon champagne,” he said, licking his lips. “Now, Alyosha, take a glass, show what you can do! What shall we drink to? The gates of paradise? Take a glass, Grushenka, you drink to the gates of paradise, too.”

“What gates of paradise?”

She took a glass, Alyosha took his, tasted it and put it back.

“No, I’d better not,” he smiled gently.

“And you bragged!” cried Rakitin.

“Well, if so, I won’t either,” chimed in Grushenka, “I really don’t want any. You can drink the whole bottle alone, Rakitin. If Alyosha has some, I will.”

“What touching sentimentality!” said Rakitin tauntingly; “and she’s sitting on his knee, too! He’s got something to grieve over, but what’s the matter with you? He is rebelling against his God and ready to eat sausage….”

“How so?”

“His elder died to‐day, Father Zossima, the saint.”

“So Father Zossima is dead,” cried Grushenka. “Good God, I did not know!” She crossed herself devoutly. “Goodness, what have I been doing, sitting on his knee like this at such a moment!” She started up as though in dismay, instantly slipped off his knee and sat down on the sofa.

Alyosha bent a long wondering look upon her and a light seemed to dawn in his face.

“Rakitin,” he said suddenly, in a firm and loud voice; “don’t taunt me with having rebelled against God. I don’t want to feel angry with you, so you must be kinder, too, I’ve lost a treasure such as you have never had, and you cannot judge me now. You had much better look at her—do you see how she has pity on me? I came here to find a wicked soul—I felt drawn to evil because I was base and evil myself, and I’ve found a true sister, I have found a treasure—a loving heart. She had pity on me just now…. Agrafena Alexandrovna, I am speaking of you. You’ve raised my soul from the depths.”

Alyosha’s lips were quivering and he caught his breath.

“She has saved you, it seems,” laughed Rakitin spitefully. “And she meant to get you in her clutches, do you realize that?”

“Stay, Rakitin.” Grushenka jumped up. “Hush, both of you. Now I’ll tell you all about it. Hush, Alyosha, your words make me ashamed, for I am bad and not good—that’s what I am. And you hush, Rakitin, because you are telling lies. I had the low idea of trying to get him in my clutches, but now you are lying, now it’s all different. And don’t let me hear anything more from you, Rakitin.”

All this Grushenka said with extreme emotion.

“They are both crazy,” said Rakitin, looking at them with amazement. “I feel as though I were in a madhouse. They’re both getting so feeble they’ll begin crying in a minute.”

“I shall begin to cry, I shall,” repeated Grushenka. “He called me his sister and I shall never forget that. Only let me tell you, Rakitin, though I am bad, I did give away an onion.”

“An onion? Hang it all, you really are crazy.”

Rakitin wondered at their enthusiasm. He was aggrieved and annoyed, though he might have reflected that each of them was just passing through a spiritual crisis such as does not come often in a lifetime. But though Rakitin was very sensitive about everything that concerned himself, he was very obtuse as regards the feelings and sensations of others—partly from his youth and inexperience, partly from his intense egoism.

“You see, Alyosha,” Grushenka turned to him with a nervous laugh. “I was boasting when I told Rakitin I had given away an onion, but it’s not to boast I tell you about it. It’s only a story, but it’s a nice story. I used to hear it when I was a child from Matryona, my cook, who is still with me. It’s like this. Once upon a time there was a peasant woman and a very wicked woman she was. And she died and did not leave a single good deed behind. The devils caught her and plunged her into the lake of fire. So her guardian angel stood and wondered what good deed of hers he could remember to tell to God; ‘She once pulled up an onion in her garden,’ said he, ‘and gave it to a beggar woman.’ And God answered: ‘You take that onion then, hold it out to her in the lake, and let her take hold and be pulled out. And if you can pull her out of the lake, let her come to Paradise, but if the onion breaks, then the woman must stay where she is.’ The angel ran to the woman and held out the onion to her. ‘Come,’ said he, ‘catch hold and I’ll pull you out.’ And he began cautiously pulling her out. He had just pulled her right out, when the other sinners in the lake, seeing how she was being drawn out, began catching hold of her so as to be pulled out with her. But she was a very wicked woman and she began kicking them. ‘I’m to be pulled out, not you. It’s my onion, not yours.’ As soon as she said that, the onion broke. And the woman fell into the lake and she is burning there to this day. So the angel wept and went away. So that’s the story, Alyosha; I know it by heart, for I am that wicked woman myself. I boasted to Rakitin that I had given away an onion, but to you I’ll say: ‘I’ve done nothing but give away one onion all my life, that’s the only good deed I’ve done.’ So don’t praise me, Alyosha, don’t think me good, I am bad, I am a wicked woman and you make me ashamed if you praise me. Eh, I must confess everything. Listen, Alyosha. I was so anxious to get hold of you that I promised Rakitin twenty‐five roubles if he would bring you to me. Stay, Rakitin, wait!”

She went with rapid steps to the table, opened a drawer, pulled out a purse and took from it a twenty‐five rouble note.

“What nonsense! What nonsense!” cried Rakitin, disconcerted.

“Take it. Rakitin, I owe it you, there’s no fear of your refusing it, you asked for it yourself.” And she threw the note to him.

“Likely I should refuse it,” boomed Rakitin, obviously abashed, but carrying off his confusion with a swagger. “That will come in very handy; fools are made for wise men’s profit.”

“And now hold your tongue, Rakitin, what I am going to say now is not for your ears. Sit down in that corner and keep quiet. You don’t like us, so hold your tongue.”

“What should I like you for?” Rakitin snarled, not concealing his ill‐ humor. He put the twenty‐five rouble note in his pocket and he felt ashamed at Alyosha’s seeing it. He had reckoned on receiving his payment later, without Alyosha’s knowing of it, and now, feeling ashamed, he lost his temper. Till that moment he had thought it discreet not to contradict Grushenka too flatly in spite of her snubbing, since he had something to get out of her. But now he, too, was angry:

“One loves people for some reason, but what have either of you done for me?”

“You should love people without a reason, as Alyosha does.”

“How does he love you? How has he shown it, that you make such a fuss about it?”

Grushenka was standing in the middle of the room; she spoke with heat and there were hysterical notes in her voice.

“Hush, Rakitin, you know nothing about us! And don’t dare to speak to me like that again. How dare you be so familiar! Sit in that corner and be quiet, as though you were my footman! And now, Alyosha, I’ll tell you the whole truth, that you may see what a wretch I am! I am not talking to Rakitin, but to you. I wanted to ruin you, Alyosha, that’s the holy truth; I quite meant to. I wanted to so much, that I bribed Rakitin to bring you. And why did I want to do such a thing? You knew nothing about it, Alyosha, you turned away from me; if you passed me, you dropped your eyes. And I’ve looked at you a hundred times before to‐day; I began asking every one about you. Your face haunted my heart. ‘He despises me,’ I thought; ‘he won’t even look at me.’ And I felt it so much at last that I wondered at myself for being so frightened of a boy. I’ll get him in my clutches and laugh at him. I was full of spite and anger. Would you believe it, nobody here dares talk or think of coming to Agrafena Alexandrovna with any evil purpose. Old Kuzma is the only man I have anything to do with here; I was bound and sold to him; Satan brought us together, but there has been no one else. But looking at you, I thought, I’ll get him in my clutches and laugh at him. You see what a spiteful cur I am, and you called me your sister! And now that man who wronged me has come; I sit here waiting for a message from him. And do you know what that man has been to me? Five years ago, when Kuzma brought me here, I used to shut myself up, that no one might have sight or sound of me. I was a silly slip of a girl; I used to sit here sobbing; I used to lie awake all night, thinking: ‘Where is he now, the man who wronged me? He is laughing at me with another woman, most likely. If only I could see him, if I could meet him again, I’d pay him out, I’d pay him out!’ At night I used to lie sobbing into my pillow in the dark, and I used to brood over it; I used to tear my heart on purpose and gloat over my anger. ‘I’ll pay him out, I’ll pay him out!’ That’s what I used to cry out in the dark. And when I suddenly thought that I should really do nothing to him, and that he was laughing at me then, or perhaps had utterly forgotten me, I would fling myself on the floor, melt into helpless tears, and lie there shaking till dawn. In the morning I would get up more spiteful than a dog, ready to tear the whole world to pieces. And then what do you think? I began saving money, I became hard‐hearted, grew stout—grew wiser, would you say? No, no one in the whole world sees it, no one knows it, but when night comes on, I sometimes lie as I did five years ago, when I was a silly girl, clenching my teeth and crying all night, thinking, ‘I’ll pay him out, I’ll pay him out!’ Do you hear? Well then, now you understand me. A month ago a letter came to me—he was coming, he was a widower, he wanted to see me. It took my breath away; then I suddenly thought: ‘If he comes and whistles to call me, I shall creep back to him like a beaten dog.’ I couldn’t believe myself. Am I so abject? Shall I run to him or not? And I’ve been in such a rage with myself all this month that I am worse than I was five years ago. Do you see now, Alyosha, what a violent, vindictive creature I am? I have shown you the whole truth! I played with Mitya to keep me from running to that other. Hush, Rakitin, it’s not for you to judge me, I am not speaking to you. Before you came in, I was lying here waiting, brooding, deciding my whole future life, and you can never know what was in my heart. Yes, Alyosha, tell your young lady not to be angry with me for what happened the day before yesterday…. Nobody in the whole world knows what I am going through now, and no one ever can know…. For perhaps I shall take a knife with me to‐day, I can’t make up my mind …”

And at this “tragic” phrase Grushenka broke down, hid her face in her hands, flung herself on the sofa pillows, and sobbed like a little child.

Alyosha got up and went to Rakitin.

“Misha,” he said, “don’t be angry. She wounded you, but don’t be angry. You heard what she said just now? You mustn’t ask too much of human endurance, one must be merciful.”

Alyosha said this at the instinctive prompting of his heart. He felt obliged to speak and he turned to Rakitin. If Rakitin had not been there, he would have spoken to the air. But Rakitin looked at him ironically and Alyosha stopped short.

“You were so primed up with your elder’s teaching last night that now you have to let it off on me, Alexey, man of God!” said Rakitin, with a smile of hatred.

“Don’t laugh, Rakitin, don’t smile, don’t talk of the dead—he was better than any one in the world!” cried Alyosha, with tears in his voice. “I didn’t speak to you as a judge but as the lowest of the judged. What am I beside her? I came here seeking my ruin, and said to myself, ‘What does it matter?’ in my cowardliness, but she, after five years in torment, as soon as any one says a word from the heart to her—it makes her forget everything, forgive everything, in her tears! The man who has wronged her has come back, he sends for her and she forgives him everything, and hastens joyfully to meet him and she won’t take a knife with her. She won’t! No, I am not like that. I don’t know whether you are, Misha, but I am not like that. It’s a lesson to me…. She is more loving than we…. Have you heard her speak before of what she has just told us? No, you haven’t; if you had, you’d have understood her long ago … and the person insulted the day before yesterday must forgive her, too! She will, when she knows … and she shall know…. This soul is not yet at peace with itself, one must be tender with it … there may be a treasure in that soul….”

Alyosha stopped, because he caught his breath. In spite of his ill‐humor Rakitin looked at him with astonishment. He had never expected such a tirade from the gentle Alyosha.

“She’s found some one to plead her cause! Why, are you in love with her? Agrafena Alexandrovna, our monk’s really in love with you, you’ve made a conquest!” he cried, with a coarse laugh.

Grushenka lifted her head from the pillow and looked at Alyosha with a tender smile shining on her tear‐stained face.

“Let him alone, Alyosha, my cherub; you see what he is, he is not a person for you to speak to. Mihail Osipovitch,” she turned to Rakitin, “I meant to beg your pardon for being rude to you, but now I don’t want to. Alyosha, come to me, sit down here.” She beckoned to him with a happy smile. “That’s right, sit here. Tell me,” she shook him by the hand and peeped into his face, smiling, “tell me, do I love that man or not? the man who wronged me, do I love him or not? Before you came, I lay here in the dark, asking my heart whether I loved him. Decide for me, Alyosha, the time has come, it shall be as you say. Am I to forgive him or not?”

“But you have forgiven him already,” said Alyosha, smiling.

“Yes, I really have forgiven him,” Grushenka murmured thoughtfully. “What an abject heart! To my abject heart!” She snatched up a glass from the table, emptied it at a gulp, lifted it in the air and flung it on the floor. The glass broke with a crash. A little cruel line came into her smile.

“Perhaps I haven’t forgiven him, though,” she said, with a sort of menace in her voice, and she dropped her eyes to the ground as though she were talking to herself. “Perhaps my heart is only getting ready to forgive. I shall struggle with my heart. You see, Alyosha, I’ve grown to love my tears in these five years…. Perhaps I only love my resentment, not him …”

“Well, I shouldn’t care to be in his shoes,” hissed Rakitin.

“Well, you won’t be, Rakitin, you’ll never be in his shoes. You shall black my shoes, Rakitin, that’s the place you are fit for. You’ll never get a woman like me … and he won’t either, perhaps …”

“Won’t he? Then why are you dressed up like that?” said Rakitin, with a venomous sneer.

“Don’t taunt me with dressing up, Rakitin, you don’t know all that is in my heart! If I choose to tear off my finery, I’ll tear it off at once, this minute,” she cried in a resonant voice. “You don’t know what that finery is for, Rakitin! Perhaps I shall see him and say: ‘Have you ever seen me look like this before?’ He left me a thin, consumptive cry‐baby of seventeen. I’ll sit by him, fascinate him and work him up. ‘Do you see what I am like now?’ I’ll say to him; ‘well, and that’s enough for you, my dear sir, there’s many a slip twixt the cup and the lip!’ That may be what the finery is for, Rakitin.” Grushenka finished with a malicious laugh. “I’m violent and resentful, Alyosha, I’ll tear off my finery, I’ll destroy my beauty, I’ll scorch my face, slash it with a knife, and turn beggar. If I choose, I won’t go anywhere now to see any one. If I choose, I’ll send Kuzma back all he has ever given me, to‐morrow, and all his money and I’ll go out charing for the rest of my life. You think I wouldn’t do it, Rakitin, that I would not dare to do it? I would, I would, I could do it directly, only don’t exasperate me … and I’ll send him about his business, I’ll snap my fingers in his face, he shall never see me again!”

She uttered the last words in an hysterical scream, but broke down again, hid her face in her hands, buried it in the pillow and shook with sobs.

Rakitin got up.

“It’s time we were off,” he said, “it’s late, we shall be shut out of the monastery.”

Grushenka leapt up from her place.

“Surely you don’t want to go, Alyosha!” she cried, in mournful surprise. “What are you doing to me? You’ve stirred up my feeling, tortured me, and now you’ll leave me to face this night alone!”

“He can hardly spend the night with you! Though if he wants to, let him! I’ll go alone,” Rakitin scoffed jeeringly.

“Hush, evil tongue!” Grushenka cried angrily at him; “you never said such words to me as he has come to say.”

“What has he said to you so special?” asked Rakitin irritably.

“I can’t say, I don’t know. I don’t know what he said to me, it went straight to my heart; he has wrung my heart…. He is the first, the only one who has pitied me, that’s what it is. Why did you not come before, you angel?” She fell on her knees before him as though in a sudden frenzy. “I’ve been waiting all my life for some one like you, I knew that some one like you would come and forgive me. I believed that, nasty as I am, some one would really love me, not only with a shameful love!”

“What have I done to you?” answered Alyosha, bending over her with a tender smile, and gently taking her by the hands; “I only gave you an onion, nothing but a tiny little onion, that was all!”

He was moved to tears himself as he said it. At that moment there was a sudden noise in the passage, some one came into the hall. Grushenka jumped up, seeming greatly alarmed. Fenya ran noisily into the room, crying out:

“Mistress, mistress darling, a messenger has galloped up,” she cried, breathless and joyful. “A carriage from Mokroe for you, Timofey the driver, with three horses, they are just putting in fresh horses…. A letter, here’s the letter, mistress.”

A letter was in her hand and she waved it in the air all the while she talked. Grushenka snatched the letter from her and carried it to the candle. It was only a note, a few lines. She read it in one instant.

“He has sent for me,” she cried, her face white and distorted, with a wan smile; “he whistles! Crawl back, little dog!”

But only for one instant she stood as though hesitating; suddenly the blood rushed to her head and sent a glow to her cheeks.

“I will go,” she cried; “five years of my life! Good‐by! Good‐by, Alyosha, my fate is sealed. Go, go, leave me all of you, don’t let me see you again! Grushenka is flying to a new life…. Don’t you remember evil against me either, Rakitin. I may be going to my death! Ugh! I feel as though I were drunk!”

She suddenly left them and ran into her bedroom.

“Well, she has no thoughts for us now!” grumbled Rakitin. “Let’s go, or we may hear that feminine shriek again. I am sick of all these tears and cries.”

Alyosha mechanically let himself be led out. In the yard stood a covered cart. Horses were being taken out of the shafts, men were running to and fro with a lantern. Three fresh horses were being led in at the open gate. But when Alyosha and Rakitin reached the bottom of the steps, Grushenka’s bedroom window was suddenly opened and she called in a ringing voice after Alyosha:

“Alyosha, give my greetings to your brother Mitya and tell him not to remember evil against me, though I have brought him misery. And tell him, too, in my words: ‘Grushenka has fallen to a scoundrel, and not to you, noble heart.’ And add, too, that Grushenka loved him only one hour, only one short hour she loved him—so let him remember that hour all his life—say, ‘Grushenka tells you to!’ ”

She ended in a voice full of sobs. The window was shut with a slam.

“H’m, h’m!” growled Rakitin, laughing, “she murders your brother Mitya and then tells him to remember it all his life! What ferocity!”

Alyosha made no reply, he seemed not to have heard. He walked fast beside Rakitin as though in a terrible hurry. He was lost in thought and moved mechanically. Rakitin felt a sudden twinge as though he had been touched on an open wound. He had expected something quite different by bringing Grushenka and Alyosha together. Something very different from what he had hoped for had happened.

“He is a Pole, that officer of hers,” he began again, restraining himself; “and indeed he is not an officer at all now. He served in the customs in Siberia, somewhere on the Chinese frontier, some puny little beggar of a Pole, I expect. Lost his job, they say. He’s heard now that Grushenka’s saved a little money, so he’s turned up again—that’s the explanation of the mystery.”

Again Alyosha seemed not to hear. Rakitin could not control himself.

“Well, so you’ve saved the sinner?” he laughed spitefully. “Have you turned the Magdalene into the true path? Driven out the seven devils, eh? So you see the miracles you were looking out for just now have come to pass!”

“Hush, Rakitin,” Alyosha answered with an aching heart.

“So you despise me now for those twenty‐five roubles? I’ve sold my friend, you think. But you are not Christ, you know, and I am not Judas.”

“Oh, Rakitin, I assure you I’d forgotten about it,” cried Alyosha, “you remind me of it yourself….”

But this was the last straw for Rakitin.

“Damnation take you all and each of you!” he cried suddenly, “why the devil did I take you up? I don’t want to know you from this time forward. Go alone, there’s your road!”

And he turned abruptly into another street, leaving Alyosha alone in the dark. Alyosha came out of the town and walked across the fields to the monastery.

Chapter IV.
Cana Of Galilee
It was very late, according to the monastery ideas, when Alyosha returned to the hermitage; the door‐keeper let him in by a special entrance. It had struck nine o’clock—the hour of rest and repose after a day of such agitation for all. Alyosha timidly opened the door and went into the elder’s cell where his coffin was now standing. There was no one in the cell but Father Païssy, reading the Gospel in solitude over the coffin, and the young novice Porfiry, who, exhausted by the previous night’s conversation and the disturbing incidents of the day, was sleeping the deep sound sleep of youth on the floor of the other room. Though Father Païssy heard Alyosha come in, he did not even look in his direction. Alyosha turned to the right from the door to the corner, fell on his knees and began to pray.

His soul was overflowing but with mingled feelings; no single sensation stood out distinctly; on the contrary, one drove out another in a slow, continual rotation. But there was a sweetness in his heart and, strange to say, Alyosha was not surprised at it. Again he saw that coffin before him, the hidden dead figure so precious to him, but the weeping and poignant grief of the morning was no longer aching in his soul. As soon as he came in, he fell down before the coffin as before a holy shrine, but joy, joy was glowing in his mind and in his heart. The one window of the cell was open, the air was fresh and cool. “So the smell must have become stronger, if they opened the window,” thought Alyosha. But even this thought of the smell of corruption, which had seemed to him so awful and humiliating a few hours before, no longer made him feel miserable or indignant. He began quietly praying, but he soon felt that he was praying almost mechanically. Fragments of thought floated through his soul, flashed like stars and went out again at once, to be succeeded by others. But yet there was reigning in his soul a sense of the wholeness of things—something steadfast and comforting—and he was aware of it himself. Sometimes he began praying ardently, he longed to pour out his thankfulness and love….

But when he had begun to pray, he passed suddenly to something else, and sank into thought, forgetting both the prayer and what had interrupted it. He began listening to what Father Païssy was reading, but worn out with exhaustion he gradually began to doze.

“And the third day there was a marriage in Cana of Galilee;” read Father Païssy. “And the mother of Jesus was there; And both Jesus was called, and his disciples, to the marriage.”

“Marriage? What’s that?… A marriage!” floated whirling through Alyosha’s mind. “There is happiness for her, too…. She has gone to the feast…. No, she has not taken the knife…. That was only a tragic phrase…. Well … tragic phrases should be forgiven, they must be. Tragic phrases comfort the heart…. Without them, sorrow would be too heavy for men to bear. Rakitin has gone off to the back alley. As long as Rakitin broods over his wrongs, he will always go off to the back alley…. But the high road … The road is wide and straight and bright as crystal, and the sun is at the end of it…. Ah!… What’s being read?”…

“And when they wanted wine, the mother of Jesus saith unto him, They have no wine” … Alyosha heard.

“Ah, yes, I was missing that, and I didn’t want to miss it, I love that passage: it’s Cana of Galilee, the first miracle…. Ah, that miracle! Ah, that sweet miracle! It was not men’s grief, but their joy Christ visited, He worked His first miracle to help men’s gladness…. ‘He who loves men loves their gladness, too’ … He was always repeating that, it was one of his leading ideas…. ‘There’s no living without joy,’ Mitya says…. Yes, Mitya…. ‘Everything that is true and good is always full of forgiveness,’ he used to say that, too” …

“Jesus saith unto her, Woman, what has it to do with thee or me? Mine hour is not yet come.

“His mother saith unto the servants, Whatsoever he saith unto you, do it” …

“Do it…. Gladness, the gladness of some poor, very poor, people…. Of course they were poor, since they hadn’t wine enough even at a wedding…. The historians write that, in those days, the people living about the Lake of Gennesaret were the poorest that can possibly be imagined … and another great heart, that other great being, His Mother, knew that He had come not only to make His great terrible sacrifice. She knew that His heart was open even to the simple, artless merrymaking of some obscure and unlearned people, who had warmly bidden Him to their poor wedding. ‘Mine hour is not yet come,’ He said, with a soft smile (He must have smiled gently to her). And, indeed, was it to make wine abundant at poor weddings He had come down to earth? And yet He went and did as she asked Him…. Ah, he is reading again”….

“Jesus saith unto them, Fill the waterpots with water. And they filled them up to the brim.

“And he saith unto them, Draw out now and bear unto the governor of the feast. And they bare it.

“When the ruler of the feast had tasted the water that was made wine, and knew not whence it was; (but the servants which drew the water knew;) the governor of the feast called the bridegroom,

“And saith unto him, Every man at the beginning doth set forth good wine; and when men have well drunk, that which is worse; but thou hast kept the good wine until now.”

“But what’s this, what’s this? Why is the room growing wider?… Ah, yes … It’s the marriage, the wedding … yes, of course. Here are the guests, here are the young couple sitting, and the merry crowd and … Where is the wise governor of the feast? But who is this? Who? Again the walls are receding…. Who is getting up there from the great table? What!… He here, too? But he’s in the coffin … but he’s here, too. He has stood up, he sees me, he is coming here…. God!”…

Yes, he came up to him, to him, he, the little, thin old man, with tiny wrinkles on his face, joyful and laughing softly. There was no coffin now, and he was in the same dress as he had worn yesterday sitting with them, when the visitors had gathered about him. His face was uncovered, his eyes were shining. How was this, then? He, too, had been called to the feast. He, too, at the marriage of Cana in Galilee….

“Yes, my dear, I am called, too, called and bidden,” he heard a soft voice saying over him. “Why have you hidden yourself here, out of sight? You come and join us too.”

It was his voice, the voice of Father Zossima. And it must be he, since he called him!

The elder raised Alyosha by the hand and he rose from his knees.

“We are rejoicing,” the little, thin old man went on. “We are drinking the new wine, the wine of new, great gladness; do you see how many guests? Here are the bride and bridegroom, here is the wise governor of the feast, he is tasting the new wine. Why do you wonder at me? I gave an onion to a beggar, so I, too, am here. And many here have given only an onion each—only one little onion…. What are all our deeds? And you, my gentle one, you, my kind boy, you too have known how to give a famished woman an onion to‐day. Begin your work, dear one, begin it, gentle one!… Do you see our Sun, do you see Him?”

“I am afraid … I dare not look,” whispered Alyosha.

“Do not fear Him. He is terrible in His greatness, awful in His sublimity, but infinitely merciful. He has made Himself like unto us from love and rejoices with us. He is changing the water into wine that the gladness of the guests may not be cut short. He is expecting new guests, He is calling new ones unceasingly for ever and ever…. There they are bringing new wine. Do you see they are bringing the vessels….”

Something glowed in Alyosha’s heart, something filled it till it ached, tears of rapture rose from his soul…. He stretched out his hands, uttered a cry and waked up.

Again the coffin, the open window, and the soft, solemn, distinct reading of the Gospel. But Alyosha did not listen to the reading. It was strange, he had fallen asleep on his knees, but now he was on his feet, and suddenly, as though thrown forward, with three firm rapid steps he went right up to the coffin. His shoulder brushed against Father Païssy without his noticing it. Father Païssy raised his eyes for an instant from his book, but looked away again at once, seeing that something strange was happening to the boy. Alyosha gazed for half a minute at the coffin, at the covered, motionless dead man that lay in the coffin, with the ikon on his breast and the peaked cap with the octangular cross, on his head. He had only just been hearing his voice, and that voice was still ringing in his ears. He was listening, still expecting other words, but suddenly he turned sharply and went out of the cell.

He did not stop on the steps either, but went quickly down; his soul, overflowing with rapture, yearned for freedom, space, openness. The vault of heaven, full of soft, shining stars, stretched vast and fathomless above him. The Milky Way ran in two pale streams from the zenith to the horizon. The fresh, motionless, still night enfolded the earth. The white towers and golden domes of the cathedral gleamed out against the sapphire sky. The gorgeous autumn flowers, in the beds round the house, were slumbering till morning. The silence of earth seemed to melt into the silence of the heavens. The mystery of earth was one with the mystery of the stars….

Alyosha stood, gazed, and suddenly threw himself down on the earth. He did not know why he embraced it. He could not have told why he longed so irresistibly to kiss it, to kiss it all. But he kissed it weeping, sobbing and watering it with his tears, and vowed passionately to love it, to love it for ever and ever. “Water the earth with the tears of your joy and love those tears,” echoed in his soul.

What was he weeping over?

Oh! in his rapture he was weeping even over those stars, which were shining to him from the abyss of space, and “he was not ashamed of that ecstasy.” There seemed to be threads from all those innumerable worlds of God, linking his soul to them, and it was trembling all over “in contact with other worlds.” He longed to forgive every one and for everything, and to beg forgiveness. Oh, not for himself, but for all men, for all and for everything. “And others are praying for me too,” echoed again in his soul. But with every instant he felt clearly and, as it were, tangibly, that something firm and unshakable as that vault of heaven had entered into his soul. It was as though some idea had seized the sovereignty of his mind—and it was for all his life and for ever and ever. He had fallen on the earth a weak boy, but he rose up a resolute champion, and he knew and felt it suddenly at the very moment of his ecstasy. And never, never, all his life long, could Alyosha forget that minute.

“Some one visited my soul in that hour,” he used to say afterwards, with implicit faith in his words.

Within three days he left the monastery in accordance with the words of his elder, who had bidden him “sojourn in the world.”

Book VIII. Mitya
Chapter I.
Kuzma Samsonov
But Dmitri, to whom Grushenka, flying away to a new life, had left her last greetings, bidding him remember the hour of her love for ever, knew nothing of what had happened to her, and was at that moment in a condition of feverish agitation and activity. For the last two days he had been in such an inconceivable state of mind that he might easily have fallen ill with brain fever, as he said himself afterwards. Alyosha had not been able to find him the morning before, and Ivan had not succeeded in meeting him at the tavern on the same day. The people at his lodgings, by his orders, concealed his movements.

He had spent those two days literally rushing in all directions, “struggling with his destiny and trying to save himself,” as he expressed it himself afterwards, and for some hours he even made a dash out of the town on urgent business, terrible as it was to him to lose sight of Grushenka for a moment. All this was explained afterwards in detail, and confirmed by documentary evidence; but for the present we will only note the most essential incidents of those two terrible days immediately preceding the awful catastrophe, that broke so suddenly upon him.

Though Grushenka had, it is true, loved him for an hour, genuinely and sincerely, yet she tortured him sometimes cruelly and mercilessly. The worst of it was that he could never tell what she meant to do. To prevail upon her by force or kindness was also impossible: she would yield to nothing. She would only have become angry and turned away from him altogether, he knew that well already. He suspected, quite correctly, that she, too, was passing through an inward struggle, and was in a state of extraordinary indecision, that she was making up her mind to something, and unable to determine upon it. And so, not without good reason, he divined, with a sinking heart, that at moments she must simply hate him and his passion. And so, perhaps, it was, but what was distressing Grushenka he did not understand. For him the whole tormenting question lay between him and Fyodor Pavlovitch.

Here, we must note, by the way, one certain fact: he was firmly persuaded that Fyodor Pavlovitch would offer, or perhaps had offered, Grushenka lawful wedlock, and did not for a moment believe that the old voluptuary hoped to gain his object for three thousand roubles. Mitya had reached this conclusion from his knowledge of Grushenka and her character. That was how it was that he could believe at times that all Grushenka’s uneasiness rose from not knowing which of them to choose, which was most to her advantage.

Strange to say, during those days it never occurred to him to think of the approaching return of the “officer,” that is, of the man who had been such a fatal influence in Grushenka’s life, and whose arrival she was expecting with such emotion and dread. It is true that of late Grushenka had been very silent about it. Yet he was perfectly aware of a letter she had received a month ago from her seducer, and had heard of it from her own lips. He partly knew, too, what the letter contained. In a moment of spite Grushenka had shown him that letter, but to her astonishment he attached hardly any consequence to it. It would be hard to say why this was. Perhaps, weighed down by all the hideous horror of his struggle with his own father for this woman, he was incapable of imagining any danger more terrible, at any rate for the time. He simply did not believe in a suitor who suddenly turned up again after five years’ disappearance, still less in his speedy arrival. Moreover, in the “officer’s” first letter which had been shown to Mitya, the possibility of his new rival’s visit was very vaguely suggested. The letter was very indefinite, high‐flown, and full of sentimentality. It must be noted that Grushenka had concealed from him the last lines of the letter, in which his return was alluded to more definitely. He had, besides, noticed at that moment, he remembered afterwards, a certain involuntary proud contempt for this missive from Siberia on Grushenka’s face. Grushenka told him nothing of what had passed later between her and this rival; so that by degrees he had completely forgotten the officer’s existence.

He felt that whatever might come later, whatever turn things might take, his final conflict with Fyodor Pavlovitch was close upon him, and must be decided before anything else. With a sinking heart he was expecting every moment Grushenka’s decision, always believing that it would come suddenly, on the impulse of the moment. All of a sudden she would say to him: “Take me, I’m yours for ever,” and it would all be over. He would seize her and bear her away at once to the ends of the earth. Oh, then he would bear her away at once, as far, far away as possible; to the farthest end of Russia, if not of the earth, then he would marry her, and settle down with her incognito, so that no one would know anything about them, there, here, or anywhere. Then, oh, then, a new life would begin at once!

Of this different, reformed and “virtuous” life (“it must, it must be virtuous”) he dreamed feverishly at every moment. He thirsted for that reformation and renewal. The filthy morass, in which he had sunk of his own free will, was too revolting to him, and, like very many men in such cases, he put faith above all in change of place. If only it were not for these people, if only it were not for these circumstances, if only he could fly away from this accursed place—he would be altogether regenerated, would enter on a new path. That was what he believed in, and what he was yearning for.

But all this could only be on condition of the first, the happy solution of the question. There was another possibility, a different and awful ending. Suddenly she might say to him: “Go away. I have just come to terms with Fyodor Pavlovitch. I am going to marry him and don’t want you”—and then … but then…. But Mitya did not know what would happen then. Up to the last hour he didn’t know. That must be said to his credit. He had no definite intentions, had planned no crime. He was simply watching and spying in agony, while he prepared himself for the first, happy solution of his destiny. He drove away any other idea, in fact. But for that ending a quite different anxiety arose, a new, incidental, but yet fatal and insoluble difficulty presented itself.

If she were to say to him: “I’m yours; take me away,” how could he take her away? Where had he the means, the money to do it? It was just at this time that all sources of revenue from Fyodor Pavlovitch, doles which had gone on without interruption for so many years, ceased. Grushenka had money, of course, but with regard to this Mitya suddenly evinced extraordinary pride; he wanted to carry her away and begin the new life with her himself, at his own expense, not at hers. He could not conceive of taking her money, and the very idea caused him a pang of intense repulsion. I won’t enlarge on this fact or analyze it here, but confine myself to remarking that this was his attitude at the moment. All this may have arisen indirectly and unconsciously from the secret stings of his conscience for the money of Katerina Ivanovna that he had dishonestly appropriated. “I’ve been a scoundrel to one of them, and I shall be a scoundrel again to the other directly,” was his feeling then, as he explained after: “and when Grushenka knows, she won’t care for such a scoundrel.”

Where then was he to get the means, where was he to get the fateful money? Without it, all would be lost and nothing could be done, “and only because I hadn’t the money. Oh, the shame of it!”

To anticipate things: he did, perhaps, know where to get the money, knew, perhaps, where it lay at that moment. I will say no more of this here, as it will all be clear later. But his chief trouble, I must explain however obscurely, lay in the fact that to have that sum he knew of, to have the right to take it, he must first restore Katerina Ivanovna’s three thousand—if not, “I’m a common pickpocket, I’m a scoundrel, and I don’t want to begin a new life as a scoundrel,” Mitya decided. And so he made up his mind to move heaven and earth to return Katerina Ivanovna that three thousand, and that first of all. The final stage of this decision, so to say, had been reached only during the last hours, that is, after his last interview with Alyosha, two days before, on the high‐road, on the evening when Grushenka had insulted Katerina Ivanovna, and Mitya, after hearing Alyosha’s account of it, had admitted that he was a scoundrel, and told him to tell Katerina Ivanovna so, if it could be any comfort to her. After parting from his brother on that night, he had felt in his frenzy that it would be better “to murder and rob some one than fail to pay my debt to Katya. I’d rather every one thought me a robber and a murderer, I’d rather go to Siberia than that Katya should have the right to say that I deceived her and stole her money, and used her money to run away with Grushenka and begin a new life! That I can’t do!” So Mitya decided, grinding his teeth, and he might well fancy at times that his brain would give way. But meanwhile he went on struggling….

Strange to say, though one would have supposed there was nothing left for him but despair—for what chance had he, with nothing in the world, to raise such a sum?—yet to the very end he persisted in hoping that he would get that three thousand, that the money would somehow come to him of itself, as though it might drop from heaven. That is just how it is with people who, like Dmitri, have never had anything to do with money, except to squander what has come to them by inheritance without any effort of their own, and have no notion how money is obtained. A whirl of the most fantastic notions took possession of his brain immediately after he had parted with Alyosha two days before, and threw his thoughts into a tangle of confusion. This is how it was he pitched first on a perfectly wild enterprise. And perhaps to men of that kind in such circumstances the most impossible, fantastic schemes occur first, and seem most practical.

He suddenly determined to go to Samsonov, the merchant who was Grushenka’s protector, and to propose a “scheme” to him, and by means of it to obtain from him at once the whole of the sum required. Of the commercial value of his scheme he had no doubt, not the slightest, and was only uncertain how Samsonov would look upon his freak, supposing he were to consider it from any but the commercial point of view. Though Mitya knew the merchant by sight, he was not acquainted with him and had never spoken a word to him. But for some unknown reason he had long entertained the conviction that the old reprobate, who was lying at death’s door, would perhaps not at all object now to Grushenka’s securing a respectable position, and marrying a man “to be depended upon.” And he believed not only that he would not object, but that this was what he desired, and, if opportunity arose, that he would be ready to help. From some rumor, or perhaps from some stray word of Grushenka’s, he had gathered further that the old man would perhaps prefer him to Fyodor Pavlovitch for Grushenka.

Possibly many of the readers of my novel will feel that in reckoning on such assistance, and being ready to take his bride, so to speak, from the hands of her protector, Dmitri showed great coarseness and want of delicacy. I will only observe that Mitya looked upon Grushenka’s past as something completely over. He looked on that past with infinite pity and resolved with all the fervor of his passion that when once Grushenka told him she loved him and would marry him, it would mean the beginning of a new Grushenka and a new Dmitri, free from every vice. They would forgive one another and would begin their lives afresh. As for Kuzma Samsonov, Dmitri looked upon him as a man who had exercised a fateful influence in that remote past of Grushenka’s, though she had never loved him, and who was now himself a thing of the past, completely done with, and, so to say, non‐existent. Besides, Mitya hardly looked upon him as a man at all, for it was known to every one in the town that he was only a shattered wreck, whose relations with Grushenka had changed their character and were now simply paternal, and that this had been so for a long time.

In any case there was much simplicity on Mitya’s part in all this, for in spite of all his vices, he was a very simple‐hearted man. It was an instance of this simplicity that Mitya was seriously persuaded that, being on the eve of his departure for the next world, old Kuzma must sincerely repent of his past relations with Grushenka, and that she had no more devoted friend and protector in the world than this, now harmless old man.

After his conversation with Alyosha, at the cross‐roads, he hardly slept all night, and at ten o’clock next morning, he was at the house of Samsonov and telling the servant to announce him. It was a very large and gloomy old house of two stories, with a lodge and outhouses. In the lower story lived Samsonov’s two married sons with their families, his old sister, and his unmarried daughter. In the lodge lived two of his clerks, one of whom also had a large family. Both the lodge and the lower story were overcrowded, but the old man kept the upper floor to himself, and would not even let the daughter live there with him, though she waited upon him, and in spite of her asthma was obliged at certain fixed hours, and at any time he might call her, to run upstairs to him from below.

This upper floor contained a number of large rooms kept purely for show, furnished in the old‐fashioned merchant style, with long monotonous rows of clumsy mahogany chairs along the walls, with glass chandeliers under shades, and gloomy mirrors on the walls. All these rooms were entirely empty and unused, for the old man kept to one room, a small, remote bedroom, where he was waited upon by an old servant with a kerchief on her head, and by a lad, who used to sit on the locker in the passage. Owing to his swollen legs, the old man could hardly walk at all, and was only rarely lifted from his leather arm‐chair, when the old woman supporting him led him up and down the room once or twice. He was morose and taciturn even with this old woman.

When he was informed of the arrival of the “captain,” he at once refused to see him. But Mitya persisted and sent his name up again. Samsonov questioned the lad minutely: What he looked like? Whether he was drunk? Was he going to make a row? The answer he received was: that he was sober, but wouldn’t go away. The old man again refused to see him. Then Mitya, who had foreseen this, and purposely brought pencil and paper with him, wrote clearly on the piece of paper the words: “On most important business closely concerning Agrafena Alexandrovna,” and sent it up to the old man.

After thinking a little Samsonov told the lad to take the visitor to the drawing‐room, and sent the old woman downstairs with a summons to his younger son to come upstairs to him at once. This younger son, a man over six foot and of exceptional physical strength, who was closely‐shaven and dressed in the European style, though his father still wore a kaftan and a beard, came at once without a comment. All the family trembled before the father. The old man had sent for this giant, not because he was afraid of the “captain” (he was by no means of a timorous temper), but in order to have a witness in case of any emergency. Supported by his son and the servant‐lad, he waddled at last into the drawing‐room. It may be assumed that he felt considerable curiosity. The drawing‐room in which Mitya was awaiting him was a vast, dreary room that laid a weight of depression on the heart. It had a double row of windows, a gallery, marbled walls, and three immense chandeliers with glass lusters covered with shades.

Mitya was sitting on a little chair at the entrance, awaiting his fate with nervous impatience. When the old man appeared at the opposite door, seventy feet away, Mitya jumped up at once, and with his long, military stride walked to meet him. Mitya was well dressed, in a frock‐coat, buttoned up, with a round hat and black gloves in his hands, just as he had been three days before at the elder’s, at the family meeting with his father and brothers. The old man waited for him, standing dignified and unbending, and Mitya felt at once that he had looked him through and through as he advanced. Mitya was greatly impressed, too, with Samsonov’s immensely swollen face. His lower lip, which had always been thick, hung down now, looking like a bun. He bowed to his guest in dignified silence, motioned him to a low chair by the sofa, and, leaning on his son’s arm he began lowering himself on to the sofa opposite, groaning painfully, so that Mitya, seeing his painful exertions, immediately felt remorseful and sensitively conscious of his insignificance in the presence of the dignified person he had ventured to disturb.

“What is it you want of me, sir?” said the old man, deliberately, distinctly, severely, but courteously, when he was at last seated.

Mitya started, leapt up, but sat down again. Then he began at once speaking with loud, nervous haste, gesticulating, and in a positive frenzy. He was unmistakably a man driven into a corner, on the brink of ruin, catching at the last straw, ready to sink if he failed. Old Samsonov probably grasped all this in an instant, though his face remained cold and immovable as a statue’s.

“Most honored sir, Kuzma Kuzmitch, you have no doubt heard more than once of my disputes with my father, Fyodor Pavlovitch Karamazov, who robbed me of my inheritance from my mother … seeing the whole town is gossiping about it … for here every one’s gossiping of what they shouldn’t … and besides, it might have reached you through Grushenka … I beg your pardon, through Agrafena Alexandrovna … Agrafena Alexandrovna, the lady for whom I have the highest respect and esteem …”

So Mitya began, and broke down at the first sentence. We will not reproduce his speech word for word, but will only summarize the gist of it. Three months ago, he said, he had of express intention (Mitya purposely used these words instead of “intentionally”) consulted a lawyer in the chief town of the province, “a distinguished lawyer, Kuzma Kuzmitch, Pavel Pavlovitch Korneplodov. You have perhaps heard of him? A man of vast intellect, the mind of a statesman … he knows you, too … spoke of you in the highest terms …” Mitya broke down again. But these breaks did not deter him. He leapt instantly over the gaps, and struggled on and on.

This Korneplodov, after questioning him minutely, and inspecting the documents he was able to bring him (Mitya alluded somewhat vaguely to these documents, and slurred over the subject with special haste), reported that they certainly might take proceedings concerning the village of Tchermashnya, which ought, he said, to have come to him, Mitya, from his mother, and so checkmate the old villain, his father … “because every door was not closed and justice might still find a loophole.” In fact, he might reckon on an additional sum of six or even seven thousand roubles from Fyodor Pavlovitch, as Tchermashnya was worth, at least, twenty‐five thousand, he might say twenty‐eight thousand, in fact, “thirty, thirty, Kuzma Kuzmitch, and would you believe it, I didn’t get seventeen from that heartless man!” So he, Mitya, had thrown the business up, for the time, knowing nothing about the law, but on coming here was struck dumb by a cross‐claim made upon him (here Mitya went adrift again and again took a flying leap forward), “so will not you, excellent and honored Kuzma Kuzmitch, be willing to take up all my claims against that unnatural monster, and pay me a sum down of only three thousand?… You see, you cannot, in any case, lose over it. On my honor, my honor, I swear that. Quite the contrary, you may make six or seven thousand instead of three.” Above all, he wanted this concluded that very day.

“I’ll do the business with you at a notary’s, or whatever it is … in fact, I’m ready to do anything…. I’ll hand over all the deeds … whatever you want, sign anything … and we could draw up the agreement at once … and if it were possible, if it were only possible, that very morning…. You could pay me that three thousand, for there isn’t a capitalist in this town to compare with you, and so would save me from … would save me, in fact … for a good, I might say an honorable action…. For I cherish the most honorable feelings for a certain person, whom you know well, and care for as a father. I would not have come, indeed, if it had not been as a father. And, indeed, it’s a struggle of three in this business, for it’s fate—that’s a fearful thing, Kuzma Kuzmitch! A tragedy, Kuzma Kuzmitch, a tragedy! And as you’ve dropped out long ago, it’s a tug‐ of‐war between two. I’m expressing it awkwardly, perhaps, but I’m not a literary man. You see, I’m on the one side, and that monster on the other. So you must choose. It’s either I or the monster. It all lies in your hands—the fate of three lives, and the happiness of two…. Excuse me, I’m making a mess of it, but you understand … I see from your venerable eyes that you understand … and if you don’t understand, I’m done for … so you see!”

Mitya broke off his clumsy speech with that, “so you see!” and jumping up from his seat, awaited the answer to his foolish proposal. At the last phrase he had suddenly become hopelessly aware that it had all fallen flat, above all, that he had been talking utter nonsense.

“How strange it is! On the way here it seemed all right, and now it’s nothing but nonsense.” The idea suddenly dawned on his despairing mind. All the while he had been talking, the old man sat motionless, watching him with an icy expression in his eyes. After keeping him for a moment in suspense, Kuzma Kuzmitch pronounced at last in the most positive and chilling tone:

“Excuse me, we don’t undertake such business.”

Mitya suddenly felt his legs growing weak under him.

“What am I to do now, Kuzma Kuzmitch?” he muttered, with a pale smile. “I suppose it’s all up with me—what do you think?”

“Excuse me….”

Mitya remained standing, staring motionless. He suddenly noticed a movement in the old man’s face. He started.

“You see, sir, business of that sort’s not in our line,” said the old man slowly. “There’s the court, and the lawyers—it’s a perfect misery. But if you like, there is a man here you might apply to.”

“Good heavens! Who is it? You’re my salvation, Kuzma Kuzmitch,” faltered Mitya.

“He doesn’t live here, and he’s not here just now. He is a peasant, he does business in timber. His name is Lyagavy. He’s been haggling with Fyodor Pavlovitch for the last year, over your copse at Tchermashnya. They can’t agree on the price, maybe you’ve heard? Now he’s come back again and is staying with the priest at Ilyinskoe, about twelve versts from the Volovya station. He wrote to me, too, about the business of the copse, asking my advice. Fyodor Pavlovitch means to go and see him himself. So if you were to be beforehand with Fyodor Pavlovitch and to make Lyagavy the offer you’ve made me, he might possibly—”

“A brilliant idea!” Mitya interrupted ecstatically. “He’s the very man, it would just suit him. He’s haggling with him for it, being asked too much, and here he would have all the documents entitling him to the property itself. Ha ha ha!”

And Mitya suddenly went off into his short, wooden laugh, startling Samsonov.

“How can I thank you, Kuzma Kuzmitch?” cried Mitya effusively.

“Don’t mention it,” said Samsonov, inclining his head.

“But you don’t know, you’ve saved me. Oh, it was a true presentiment brought me to you…. So now to this priest!”

“No need of thanks.”

“I’ll make haste and fly there. I’m afraid I’ve overtaxed your strength. I shall never forget it. It’s a Russian says that, Kuzma Kuzmitch, a R‐r‐ russian!”

“To be sure!”

Mitya seized his hand to press it, but there was a malignant gleam in the old man’s eye. Mitya drew back his hand, but at once blamed himself for his mistrustfulness.

“It’s because he’s tired,” he thought.

“For her sake! For her sake, Kuzma Kuzmitch! You understand that it’s for her,” he cried, his voice ringing through the room. He bowed, turned sharply round, and with the same long stride walked to the door without looking back. He was trembling with delight.

“Everything was on the verge of ruin and my guardian angel saved me,” was the thought in his mind. And if such a business man as Samsonov (a most worthy old man, and what dignity!) had suggested this course, then … then success was assured. He would fly off immediately. “I will be back before night, I shall be back at night and the thing is done. Could the old man have been laughing at me?” exclaimed Mitya, as he strode towards his lodging. He could, of course, imagine nothing, but that the advice was practical “from such a business man” with an understanding of the business, with an understanding of this Lyagavy (curious surname!). Or—the old man was laughing at him.

Alas! The second alternative was the correct one. Long afterwards, when the catastrophe had happened, old Samsonov himself confessed, laughing, that he had made a fool of the “captain.” He was a cold, spiteful and sarcastic man, liable to violent antipathies. Whether it was the “captain’s” excited face, or the foolish conviction of the “rake and spendthrift,” that he, Samsonov, could be taken in by such a cock‐and‐bull story as his scheme, or his jealousy of Grushenka, in whose name this “scapegrace” had rushed in on him with such a tale to get money which worked on the old man, I can’t tell. But at the instant when Mitya stood before him, feeling his legs grow weak under him, and frantically exclaiming that he was ruined, at that moment the old man looked at him with intense spite, and resolved to make a laughing‐stock of him. When Mitya had gone, Kuzma Kuzmitch, white with rage, turned to his son and bade him see to it that that beggar be never seen again, and never admitted even into the yard, or else he’d—

He did not utter his threat. But even his son, who often saw him enraged, trembled with fear. For a whole hour afterwards, the old man was shaking with anger, and by evening he was worse, and sent for the doctor.

Chapter II.
Lyagavy
So he must drive at full speed, and he had not the money for horses. He had forty kopecks, and that was all, all that was left after so many years of prosperity! But he had at home an old silver watch which had long ceased to go. He snatched it up and carried it to a Jewish watchmaker who had a shop in the market‐place. The Jew gave him six roubles for it.

“And I didn’t expect that,” cried Mitya, ecstatically. (He was still in a state of ecstasy.) He seized his six roubles and ran home. At home he borrowed three roubles from the people of the house, who loved him so much that they were pleased to give it him, though it was all they had. Mitya in his excitement told them on the spot that his fate would be decided that day, and he described, in desperate haste, the whole scheme he had put before Samsonov, the latter’s decision, his own hopes for the future, and so on. These people had been told many of their lodger’s secrets before, and so looked upon him as a gentleman who was not at all proud, and almost one of themselves. Having thus collected nine roubles Mitya sent for posting‐horses to take him to the Volovya station. This was how the fact came to be remembered and established that “at midday, on the day before the event, Mitya had not a farthing, and that he had sold his watch to get money and had borrowed three roubles from his landlord, all in the presence of witnesses.”

I note this fact, later on it will be apparent why I do so.

Though he was radiant with the joyful anticipation that he would at last solve all his difficulties, yet, as he drew near Volovya station, he trembled at the thought of what Grushenka might be doing in his absence. What if she made up her mind to‐day to go to Fyodor Pavlovitch? This was why he had gone off without telling her and why he left orders with his landlady not to let out where he had gone, if any one came to inquire for him.

“I must, I must get back to‐night,” he repeated, as he was jolted along in the cart, “and I dare say I shall have to bring this Lyagavy back here … to draw up the deed.” So mused Mitya, with a throbbing heart, but alas! his dreams were not fated to be carried out.

To begin with, he was late, taking a short cut from Volovya station which turned out to be eighteen versts instead of twelve. Secondly, he did not find the priest at home at Ilyinskoe; he had gone off to a neighboring village. While Mitya, setting off there with the same exhausted horses, was looking for him, it was almost dark.

The priest, a shy and amiable looking little man, informed him at once that though Lyagavy had been staying with him at first, he was now at Suhoy Possyolok, that he was staying the night in the forester’s cottage, as he was buying timber there too. At Mitya’s urgent request that he would take him to Lyagavy at once, and by so doing “save him, so to speak,” the priest agreed, after some demur, to conduct him to Suhoy Possyolok; his curiosity was obviously aroused. But, unluckily, he advised their going on foot, as it would not be “much over” a verst. Mitya, of course, agreed, and marched off with his yard‐long strides, so that the poor priest almost ran after him. He was a very cautious man, though not old.

Mitya at once began talking to him, too, of his plans, nervously and excitedly asking advice in regard to Lyagavy, and talking all the way. The priest listened attentively, but gave little advice. He turned off Mitya’s questions with: “I don’t know. Ah, I can’t say. How can I tell?” and so on. When Mitya began to speak of his quarrel with his father over his inheritance, the priest was positively alarmed, as he was in some way dependent on Fyodor Pavlovitch. He inquired, however, with surprise, why he called the peasant‐trader Gorstkin, Lyagavy, and obligingly explained to Mitya that, though the man’s name really was Lyagavy, he was never called so, as he would be grievously offended at the name, and that he must be sure to call him Gorstkin, “or you’ll do nothing with him; he won’t even listen to you,” said the priest in conclusion.

Mitya was somewhat surprised for a moment, and explained that that was what Samsonov had called him. On hearing this fact, the priest dropped the subject, though he would have done well to put into words his doubt whether, if Samsonov had sent him to that peasant, calling him Lyagavy, there was not something wrong about it and he was turning him into ridicule. But Mitya had no time to pause over such trifles. He hurried, striding along, and only when he reached Suhoy Possyolok did he realize that they had come not one verst, nor one and a half, but at least three. This annoyed him, but he controlled himself.

They went into the hut. The forester lived in one half of the hut, and Gorstkin was lodging in the other, the better room the other side of the passage. They went into that room and lighted a tallow candle. The hut was extremely overheated. On the table there was a samovar that had gone out, a tray with cups, an empty rum bottle, a bottle of vodka partly full, and some half‐eaten crusts of wheaten bread. The visitor himself lay stretched at full length on the bench, with his coat crushed up under his head for a pillow, snoring heavily. Mitya stood in perplexity.

“Of course I must wake him. My business is too important. I’ve come in such haste. I’m in a hurry to get back to‐day,” he said in great agitation. But the priest and the forester stood in silence, not giving their opinion. Mitya went up and began trying to wake him himself; he tried vigorously, but the sleeper did not wake.

“He’s drunk,” Mitya decided. “Good Lord! What am I to do? What am I to do?” And, terribly impatient, he began pulling him by the arms, by the legs, shaking his head, lifting him up and making him sit on the bench. Yet, after prolonged exertions, he could only succeed in getting the drunken man to utter absurd grunts, and violent, but inarticulate oaths.

“No, you’d better wait a little,” the priest pronounced at last, “for he’s obviously not in a fit state.”

“He’s been drinking the whole day,” the forester chimed in.

“Good heavens!” cried Mitya. “If only you knew how important it is to me and how desperate I am!”

“No, you’d better wait till morning,” the priest repeated.

“Till morning? Mercy! that’s impossible!”

And in his despair he was on the point of attacking the sleeping man again, but stopped short at once, realizing the uselessness of his efforts. The priest said nothing, the sleepy forester looked gloomy.

“What terrible tragedies real life contrives for people,” said Mitya, in complete despair. The perspiration was streaming down his face. The priest seized the moment to put before him, very reasonably, that, even if he succeeded in wakening the man, he would still be drunk and incapable of conversation. “And your business is important,” he said, “so you’d certainly better put it off till morning.” With a gesture of despair Mitya agreed.

“Father, I will stay here with a light, and seize the favorable moment. As soon as he wakes I’ll begin. I’ll pay you for the light,” he said to the forester, “for the night’s lodging, too; you’ll remember Dmitri Karamazov. Only, Father, I don’t know what we’re to do with you. Where will you sleep?”

“No, I’m going home. I’ll take his horse and get home,” he said, indicating the forester. “And now I’ll say good‐by. I wish you all success.”

So it was settled. The priest rode off on the forester’s horse, delighted to escape, though he shook his head uneasily, wondering whether he ought not next day to inform his benefactor Fyodor Pavlovitch of this curious incident, “or he may in an unlucky hour hear of it, be angry, and withdraw his favor.”

The forester, scratching himself, went back to his room without a word, and Mitya sat on the bench to “catch the favorable moment,” as he expressed it. Profound dejection clung about his soul like a heavy mist. A profound, intense dejection! He sat thinking, but could reach no conclusion. The candle burnt dimly, a cricket chirped; it became insufferably close in the overheated room. He suddenly pictured the garden, the path behind the garden, the door of his father’s house mysteriously opening and Grushenka running in. He leapt up from the bench.

“It’s a tragedy!” he said, grinding his teeth. Mechanically he went up to the sleeping man and looked in his face. He was a lean, middle‐aged peasant, with a very long face, flaxen curls, and a long, thin, reddish beard, wearing a blue cotton shirt and a black waistcoat, from the pocket of which peeped the chain of a silver watch. Mitya looked at his face with intense hatred, and for some unknown reason his curly hair particularly irritated him.

What was insufferably humiliating was, that after leaving things of such importance and making such sacrifices, he, Mitya, utterly worn out, should with business of such urgency be standing over this dolt on whom his whole fate depended, while he snored as though there were nothing the matter, as though he’d dropped from another planet.

“Oh, the irony of fate!” cried Mitya, and, quite losing his head, he fell again to rousing the tipsy peasant. He roused him with a sort of ferocity, pulled at him, pushed him, even beat him; but after five minutes of vain exertions, he returned to his bench in helpless despair, and sat down.

“Stupid! Stupid!” cried Mitya. “And how dishonorable it all is!” something made him add. His head began to ache horribly. “Should he fling it up and go away altogether?” he wondered. “No, wait till to‐morrow now. I’ll stay on purpose. What else did I come for? Besides, I’ve no means of going. How am I to get away from here now? Oh, the idiocy of it!”

But his head ached more and more. He sat without moving, and unconsciously dozed off and fell asleep as he sat. He seemed to have slept for two hours or more. He was waked up by his head aching so unbearably that he could have screamed. There was a hammering in his temples, and the top of his head ached. It was a long time before he could wake up fully and understand what had happened to him.

At last he realized that the room was full of charcoal fumes from the stove, and that he might die of suffocation. And the drunken peasant still lay snoring. The candle guttered and was about to go out. Mitya cried out, and ran staggering across the passage into the forester’s room. The forester waked up at once, but hearing that the other room was full of fumes, to Mitya’s surprise and annoyance, accepted the fact with strange unconcern, though he did go to see to it.

“But he’s dead, he’s dead! and … what am I to do then?” cried Mitya frantically.

They threw open the doors, opened a window and the chimney. Mitya brought a pail of water from the passage. First he wetted his own head, then, finding a rag of some sort, dipped it into the water, and put it on Lyagavy’s head. The forester still treated the matter contemptuously, and when he opened the window said grumpily:

“It’ll be all right, now.”

He went back to sleep, leaving Mitya a lighted lantern. Mitya fussed about the drunken peasant for half an hour, wetting his head, and gravely resolved not to sleep all night. But he was so worn out that when he sat down for a moment to take breath, he closed his eyes, unconsciously stretched himself full length on the bench and slept like the dead.

It was dreadfully late when he waked. It was somewhere about nine o’clock. The sun was shining brightly in the two little windows of the hut. The curly‐headed peasant was sitting on the bench and had his coat on. He had another samovar and another bottle in front of him. Yesterday’s bottle had already been finished, and the new one was more than half empty. Mitya jumped up and saw at once that the cursed peasant was drunk again, hopelessly and incurably. He stared at him for a moment with wide opened eyes. The peasant was silently and slyly watching him, with insulting composure, and even a sort of contemptuous condescension, so Mitya fancied. He rushed up to him.

“Excuse me, you see … I … you’ve most likely heard from the forester here in the hut. I’m Lieutenant Dmitri Karamazov, the son of the old Karamazov whose copse you are buying.”

“That’s a lie!” said the peasant, calmly and confidently.

“A lie? You know Fyodor Pavlovitch?”

“I don’t know any of your Fyodor Pavlovitches,” said the peasant, speaking thickly.

“You’re bargaining with him for the copse, for the copse. Do wake up, and collect yourself. Father Pavel of Ilyinskoe brought me here. You wrote to Samsonov, and he has sent me to you,” Mitya gasped breathlessly.

“You’re l‐lying!” Lyagavy blurted out again. Mitya’s legs went cold.

“For mercy’s sake! It isn’t a joke! You’re drunk, perhaps. Yet you can speak and understand … or else … I understand nothing!”

“You’re a painter!”

“For mercy’s sake! I’m Karamazov, Dmitri Karamazov. I have an offer to make you, an advantageous offer … very advantageous offer, concerning the copse!”

The peasant stroked his beard importantly.

“No, you’ve contracted for the job and turned out a scamp. You’re a scoundrel!”

“I assure you you’re mistaken,” cried Mitya, wringing his hands in despair. The peasant still stroked his beard, and suddenly screwed up his eyes cunningly.

“No, you show me this: you tell me the law that allows roguery. D’you hear? You’re a scoundrel! Do you understand that?”

Mitya stepped back gloomily, and suddenly “something seemed to hit him on the head,” as he said afterwards. In an instant a light seemed to dawn in his mind, “a light was kindled and I grasped it all.” He stood, stupefied, wondering how he, after all a man of intelligence, could have yielded to such folly, have been led into such an adventure, and have kept it up for almost twenty‐four hours, fussing round this Lyagavy, wetting his head.

“Why, the man’s drunk, dead drunk, and he’ll go on drinking now for a week; what’s the use of waiting here? And what if Samsonov sent me here on purpose? What if she—? Oh, God, what have I done?”

The peasant sat watching him and grinning. Another time Mitya might have killed the fool in a fury, but now he felt as weak as a child. He went quietly to the bench, took up his overcoat, put it on without a word, and went out of the hut. He did not find the forester in the next room; there was no one there. He took fifty kopecks in small change out of his pocket and put them on the table for his night’s lodging, the candle, and the trouble he had given. Coming out of the hut he saw nothing but forest all round. He walked at hazard, not knowing which way to turn out of the hut, to the right or to the left. Hurrying there the evening before with the priest, he had not noticed the road. He had no revengeful feeling for anybody, even for Samsonov, in his heart. He strode along a narrow forest path, aimless, dazed, without heeding where he was going. A child could have knocked him down, so weak was he in body and soul. He got out of the forest somehow, however, and a vista of fields, bare after the harvest, stretched as far as the eye could see.

“What despair! What death all round!” he repeated, striding on and on.

He was saved by meeting an old merchant who was being driven across country in a hired trap. When he overtook him, Mitya asked the way, and it turned out that the old merchant, too, was going to Volovya. After some discussion Mitya got into the trap. Three hours later they arrived. At Volovya, Mitya at once ordered posting‐horses to drive to the town, and suddenly realized that he was appallingly hungry. While the horses were being harnessed, an omelette was prepared for him. He ate it all in an instant, ate a huge hunk of bread, ate a sausage, and swallowed three glasses of vodka. After eating, his spirits and his heart grew lighter. He flew towards the town, urged on the driver, and suddenly made a new and “unalterable” plan to procure that “accursed money” before evening. “And to think, only to think that a man’s life should be ruined for the sake of that paltry three thousand!” he cried, contemptuously. “I’ll settle it to‐ day.” And if it had not been for the thought of Grushenka and of what might have happened to her, which never left him, he would perhaps have become quite cheerful again…. But the thought of her was stabbing him to the heart every moment, like a sharp knife.

At last they arrived, and Mitya at once ran to Grushenka.

Chapter III.
Gold‐Mines
This was the visit of Mitya of which Grushenka had spoken to Rakitin with such horror. She was just then expecting the “message,” and was much relieved that Mitya had not been to see her that day or the day before. She hoped that “please God he won’t come till I’m gone away,” and he suddenly burst in on her. The rest we know already. To get him off her hands she suggested at once that he should walk with her to Samsonov’s, where she said she absolutely must go “to settle his accounts,” and when Mitya accompanied her at once, she said good‐by to him at the gate, making him promise to come at twelve o’clock to take her home again. Mitya, too, was delighted at this arrangement. If she was sitting at Samsonov’s she could not be going to Fyodor Pavlovitch’s, “if only she’s not lying,” he added at once. But he thought she was not lying from what he saw.

He was that sort of jealous man who, in the absence of the beloved woman, at once invents all sorts of awful fancies of what may be happening to her, and how she may be betraying him, but, when shaken, heartbroken, convinced of her faithlessness, he runs back to her; at the first glance at her face, her gay, laughing, affectionate face, he revives at once, lays aside all suspicion and with joyful shame abuses himself for his jealousy.

After leaving Grushenka at the gate he rushed home. Oh, he had so much still to do that day! But a load had been lifted from his heart, anyway.

“Now I must only make haste and find out from Smerdyakov whether anything happened there last night, whether, by any chance, she went to Fyodor Pavlovitch; ough!” floated through his mind.

Before he had time to reach his lodging, jealousy had surged up again in his restless heart.

Jealousy! “Othello was not jealous, he was trustful,” observed Pushkin. And that remark alone is enough to show the deep insight of our great poet. Othello’s soul was shattered and his whole outlook clouded simply because his ideal was destroyed. But Othello did not begin hiding, spying, peeping. He was trustful, on the contrary. He had to be led up, pushed on, excited with great difficulty before he could entertain the idea of deceit. The truly jealous man is not like that. It is impossible to picture to oneself the shame and moral degradation to which the jealous man can descend without a qualm of conscience. And yet it’s not as though the jealous were all vulgar and base souls. On the contrary, a man of lofty feelings, whose love is pure and full of self‐sacrifice, may yet hide under tables, bribe the vilest people, and be familiar with the lowest ignominy of spying and eavesdropping.

Othello was incapable of making up his mind to faithlessness—not incapable of forgiving it, but of making up his mind to it—though his soul was as innocent and free from malice as a babe’s. It is not so with the really jealous man. It is hard to imagine what some jealous men can make up their mind to and overlook, and what they can forgive! The jealous are the readiest of all to forgive, and all women know it. The jealous man can forgive extraordinarily quickly (though, of course, after a violent scene), and he is able to forgive infidelity almost conclusively proved, the very kisses and embraces he has seen, if only he can somehow be convinced that it has all been “for the last time,” and that his rival will vanish from that day forward, will depart to the ends of the earth, or that he himself will carry her away somewhere, where that dreaded rival will not get near her. Of course the reconciliation is only for an hour. For, even if the rival did disappear next day, he would invent another one and would be jealous of him. And one might wonder what there was in a love that had to be so watched over, what a love could be worth that needed such strenuous guarding. But that the jealous will never understand. And yet among them are men of noble hearts. It is remarkable, too, that those very men of noble hearts, standing hidden in some cupboard, listening and spying, never feel the stings of conscience at that moment, anyway, though they understand clearly enough with their “noble hearts” the shameful depths to which they have voluntarily sunk.

At the sight of Grushenka, Mitya’s jealousy vanished, and, for an instant he became trustful and generous, and positively despised himself for his evil feelings. But it only proved that, in his love for the woman, there was an element of something far higher than he himself imagined, that it was not only a sensual passion, not only the “curve of her body,” of which he had talked to Alyosha. But, as soon as Grushenka had gone, Mitya began to suspect her of all the low cunning of faithlessness, and he felt no sting of conscience at it.

And so jealousy surged up in him again. He had, in any case, to make haste. The first thing to be done was to get hold of at least a small, temporary loan of money. The nine roubles had almost all gone on his expedition. And, as we all know, one can’t take a step without money. But he had thought over in the cart where he could get a loan. He had a brace of fine dueling pistols in a case, which he had not pawned till then because he prized them above all his possessions.

In the “Metropolis” tavern he had some time since made acquaintance with a young official and had learnt that this very opulent bachelor was passionately fond of weapons. He used to buy pistols, revolvers, daggers, hang them on his wall and show them to acquaintances. He prided himself on them, and was quite a specialist on the mechanism of the revolver. Mitya, without stopping to think, went straight to him, and offered to pawn his pistols to him for ten roubles. The official, delighted, began trying to persuade him to sell them outright. But Mitya would not consent, so the young man gave him ten roubles, protesting that nothing would induce him to take interest. They parted friends.

Mitya was in haste; he rushed towards Fyodor Pavlovitch’s by the back way, to his arbor, to get hold of Smerdyakov as soon as possible. In this way the fact was established that three or four hours before a certain event, of which I shall speak later on, Mitya had not a farthing, and pawned for ten roubles a possession he valued, though, three hours later, he was in possession of thousands…. But I am anticipating. From Marya Kondratyevna (the woman living near Fyodor Pavlovitch’s) he learned the very disturbing fact of Smerdyakov’s illness. He heard the story of his fall in the cellar, his fit, the doctor’s visit, Fyodor Pavlovitch’s anxiety; he heard with interest, too, that his brother Ivan had set off that morning for Moscow.

“Then he must have driven through Volovya before me,” thought Dmitri, but he was terribly distressed about Smerdyakov. “What will happen now? Who’ll keep watch for me? Who’ll bring me word?” he thought. He began greedily questioning the women whether they had seen anything the evening before. They quite understood what he was trying to find out, and completely reassured him. No one had been there. Ivan Fyodorovitch had been there the night; everything had been perfectly as usual. Mitya grew thoughtful. He would certainly have to keep watch to‐day, but where? Here or at Samsonov’s gate? He decided that he must be on the look out both here and there, and meanwhile … meanwhile…. The difficulty was that he had to carry out the new plan that he had made on the journey back. He was sure of its success, but he must not delay acting upon it. Mitya resolved to sacrifice an hour to it: “In an hour I shall know everything, I shall settle everything, and then, then, first of all to Samsonov’s. I’ll inquire whether Grushenka’s there and instantly be back here again, stay till eleven, and then to Samsonov’s again to bring her home.” This was what he decided.

He flew home, washed, combed his hair, brushed his clothes, dressed, and went to Madame Hohlakov’s. Alas! he had built his hopes on her. He had resolved to borrow three thousand from that lady. And what was more, he felt suddenly convinced that she would not refuse to lend it to him. It may be wondered why, if he felt so certain, he had not gone to her at first, one of his own sort, so to speak, instead of to Samsonov, a man he did not know, who was not of his own class, and to whom he hardly knew how to speak.

But the fact was that he had never known Madame Hohlakov well, and had seen nothing of her for the last month, and that he knew she could not endure him. She had detested him from the first because he was engaged to Katerina Ivanovna, while she had, for some reason, suddenly conceived the desire that Katerina Ivanovna should throw him over, and marry the “charming, chivalrously refined Ivan, who had such excellent manners.” Mitya’s manners she detested. Mitya positively laughed at her, and had once said about her that she was just as lively and at her ease as she was uncultivated. But that morning in the cart a brilliant idea had struck him: “If she is so anxious I should not marry Katerina Ivanovna” (and he knew she was positively hysterical upon the subject) “why should she refuse me now that three thousand, just to enable me to leave Katya and get away from her for ever. These spoilt fine ladies, if they set their hearts on anything, will spare no expense to satisfy their caprice. Besides, she’s so rich,” Mitya argued.

As for his “plan” it was just the same as before; it consisted of the offer of his rights to Tchermashnya—but not with a commercial object, as it had been with Samsonov, not trying to allure the lady with the possibility of making a profit of six or seven thousand—but simply as a security for the debt. As he worked out this new idea, Mitya was enchanted with it, but so it always was with him in all his undertakings, in all his sudden decisions. He gave himself up to every new idea with passionate enthusiasm. Yet, when he mounted the steps of Madame Hohlakov’s house he felt a shiver of fear run down his spine. At that moment he saw fully, as a mathematical certainty, that this was his last hope, that if this broke down, nothing else was left him in the world, but to “rob and murder some one for the three thousand.” It was half‐past seven when he rang at the bell.

At first fortune seemed to smile upon him. As soon as he was announced he was received with extraordinary rapidity. “As though she were waiting for me,” thought Mitya, and as soon as he had been led to the drawing‐room, the lady of the house herself ran in, and declared at once that she was expecting him.

“I was expecting you! I was expecting you! Though I’d no reason to suppose you would come to see me, as you will admit yourself. Yet, I did expect you. You may marvel at my instinct, Dmitri Fyodorovitch, but I was convinced all the morning that you would come.”

“That is certainly wonderful, madam,” observed Mitya, sitting down limply, “but I have come to you on a matter of great importance…. On a matter of supreme importance for me, that is, madam … for me alone … and I hasten—”

“I know you’ve come on most important business, Dmitri Fyodorovitch; it’s not a case of presentiment, no reactionary harking back to the miraculous (have you heard about Father Zossima?). This is a case of mathematics: you couldn’t help coming, after all that has passed with Katerina Ivanovna; you couldn’t, you couldn’t, that’s a mathematical certainty.”

“The realism of actual life, madam, that’s what it is. But allow me to explain—”

“Realism indeed, Dmitri Fyodorovitch. I’m all for realism now. I’ve seen too much of miracles. You’ve heard that Father Zossima is dead?”

“No, madam, it’s the first time I’ve heard of it.” Mitya was a little surprised. The image of Alyosha rose to his mind.

“Last night, and only imagine—”

“Madam,” said Mitya, “I can imagine nothing except that I’m in a desperate position, and that if you don’t help me, everything will come to grief, and I first of all. Excuse me for the triviality of the expression, but I’m in a fever—”

“I know, I know that you’re in a fever. You could hardly fail to be, and whatever you may say to me, I know beforehand. I have long been thinking over your destiny, Dmitri Fyodorovitch, I am watching over it and studying it…. Oh, believe me, I’m an experienced doctor of the soul, Dmitri Fyodorovitch.”

“Madam, if you are an experienced doctor, I’m certainly an experienced patient,” said Mitya, with an effort to be polite, “and I feel that if you are watching over my destiny in this way, you will come to my help in my ruin, and so allow me, at least to explain to you the plan with which I have ventured to come to you … and what I am hoping of you…. I have come, madam—”

“Don’t explain it. It’s of secondary importance. But as for help, you’re not the first I have helped, Dmitri Fyodorovitch. You have most likely heard of my cousin, Madame Belmesov. Her husband was ruined, ‘had come to grief,’ as you characteristically express it, Dmitri Fyodorovitch. I recommended him to take to horse‐breeding, and now he’s doing well. Have you any idea of horse‐breeding, Dmitri Fyodorovitch?”

“Not the faintest, madam; ah, madam, not the faintest!” cried Mitya, in nervous impatience, positively starting from his seat. “I simply implore you, madam, to listen to me. Only give me two minutes of free speech that I may just explain to you everything, the whole plan with which I have come. Besides, I am short of time. I’m in a fearful hurry,” Mitya cried hysterically, feeling that she was just going to begin talking again, and hoping to cut her short. “I have come in despair … in the last gasp of despair, to beg you to lend me the sum of three thousand, a loan, but on safe, most safe security, madam, with the most trustworthy guarantees! Only let me explain—”

“You must tell me all that afterwards, afterwards!” Madame Hohlakov with a gesture demanded silence in her turn, “and whatever you may tell me, I know it all beforehand; I’ve told you so already. You ask for a certain sum, for three thousand, but I can give you more, immeasurably more, I will save you, Dmitri Fyodorovitch, but you must listen to me.”

Mitya started from his seat again.

“Madam, will you really be so good!” he cried, with strong feeling. “Good God, you’ve saved me! You have saved a man from a violent death, from a bullet…. My eternal gratitude—”

“I will give you more, infinitely more than three thousand!” cried Madame Hohlakov, looking with a radiant smile at Mitya’s ecstasy.

“Infinitely? But I don’t need so much. I only need that fatal three thousand, and on my part I can give security for that sum with infinite gratitude, and I propose a plan which—”

“Enough, Dmitri Fyodorovitch, it’s said and done.” Madame Hohlakov cut him short, with the modest triumph of beneficence: “I have promised to save you, and I will save you. I will save you as I did Belmesov. What do you think of the gold‐mines, Dmitri Fyodorovitch?”

“Of the gold‐mines, madam? I have never thought anything about them.”

“But I have thought of them for you. Thought of them over and over again. I have been watching you for the last month. I’ve watched you a hundred times as you’ve walked past, saying to myself: that’s a man of energy who ought to be at the gold‐mines. I’ve studied your gait and come to the conclusion: that’s a man who would find gold.”

“From my gait, madam?” said Mitya, smiling.

“Yes, from your gait. You surely don’t deny that character can be told from the gait, Dmitri Fyodorovitch? Science supports the idea. I’m all for science and realism now. After all this business with Father Zossima, which has so upset me, from this very day I’m a realist and I want to devote myself to practical usefulness. I’m cured. ‘Enough!’ as Turgenev says.”

“But, madam, the three thousand you so generously promised to lend me—”

“It is yours, Dmitri Fyodorovitch,” Madame Hohlakov cut in at once. “The money is as good as in your pocket, not three thousand, but three million, Dmitri Fyodorovitch, in less than no time. I’ll make you a present of the idea: you shall find gold‐mines, make millions, return and become a leading man, and wake us up and lead us to better things. Are we to leave it all to the Jews? You will found institutions and enterprises of all sorts. You will help the poor, and they will bless you. This is the age of railways, Dmitri Fyodorovitch. You’ll become famous and indispensable to the Department of Finance, which is so badly off at present. The depreciation of the rouble keeps me awake at night, Dmitri Fyodorovitch; people don’t know that side of me—”

“Madam, madam!” Dmitri interrupted with an uneasy presentiment. “I shall indeed, perhaps, follow your advice, your wise advice, madam…. I shall perhaps set off … to the gold‐mines…. I’ll come and see you again about it … many times, indeed … but now, that three thousand you so generously … oh, that would set me free, and if you could to‐day … you see, I haven’t a minute, a minute to lose to‐day—”

“Enough, Dmitri Fyodorovitch, enough!” Madame Hohlakov interrupted emphatically. “The question is, will you go to the gold‐mines or not; have you quite made up your mind? Answer yes or no.”

“I will go, madam, afterwards…. I’ll go where you like … but now—”

“Wait!” cried Madame Hohlakov. And jumping up and running to a handsome bureau with numerous little drawers, she began pulling out one drawer after another, looking for something with desperate haste.

“The three thousand,” thought Mitya, his heart almost stopping, “and at the instant … without any papers or formalities … that’s doing things in gentlemanly style! She’s a splendid woman, if only she didn’t talk so much!”

“Here!” cried Madame Hohlakov, running back joyfully to Mitya, “here is what I was looking for!”

It was a tiny silver ikon on a cord, such as is sometimes worn next the skin with a cross.

“This is from Kiev, Dmitri Fyodorovitch,” she went on reverently, “from the relics of the Holy Martyr, Varvara. Let me put it on your neck myself, and with it dedicate you to a new life, to a new career.”

And she actually put the cord round his neck, and began arranging it. In extreme embarrassment, Mitya bent down and helped her, and at last he got it under his neck‐tie and collar through his shirt to his chest.

“Now you can set off,” Madame Hohlakov pronounced, sitting down triumphantly in her place again.

“Madam, I am so touched. I don’t know how to thank you, indeed … for such kindness, but … If only you knew how precious time is to me…. That sum of money, for which I shall be indebted to your generosity…. Oh, madam, since you are so kind, so touchingly generous to me,” Mitya exclaimed impulsively, “then let me reveal to you … though, of course, you’ve known it a long time … that I love somebody here…. I have been false to Katya … Katerina Ivanovna I should say…. Oh, I’ve behaved inhumanly, dishonorably to her, but I fell in love here with another woman … a woman whom you, madam, perhaps, despise, for you know everything already, but whom I cannot leave on any account, and therefore that three thousand now—”

“Leave everything, Dmitri Fyodorovitch,” Madame Hohlakov interrupted in the most decisive tone. “Leave everything, especially women. Gold‐mines are your goal, and there’s no place for women there. Afterwards, when you come back rich and famous, you will find the girl of your heart in the highest society. That will be a modern girl, a girl of education and advanced ideas. By that time the dawning woman question will have gained ground, and the new woman will have appeared.”

“Madam, that’s not the point, not at all….” Mitya clasped his hands in entreaty.

“Yes, it is, Dmitri Fyodorovitch, just what you need; the very thing you’re yearning for, though you don’t realize it yourself. I am not at all opposed to the present woman movement, Dmitri Fyodorovitch. The development of woman, and even the political emancipation of woman in the near future—that’s my ideal. I’ve a daughter myself, Dmitri Fyodorovitch, people don’t know that side of me. I wrote a letter to the author, Shtchedrin, on that subject. He has taught me so much, so much about the vocation of woman. So last year I sent him an anonymous letter of two lines: ‘I kiss and embrace you, my teacher, for the modern woman. Persevere.’ And I signed myself, ‘A Mother.’ I thought of signing myself ‘A contemporary Mother,’ and hesitated, but I stuck to the simple ‘Mother’; there’s more moral beauty in that, Dmitri Fyodorovitch. And the word ‘contemporary’ might have reminded him of ‘The Contemporary’—a painful recollection owing to the censorship…. Good Heavens, what is the matter!”

“Madam!” cried Mitya, jumping up at last, clasping his hands before her in helpless entreaty. “You will make me weep if you delay what you have so generously—”

“Oh, do weep, Dmitri Fyodorovitch, do weep! That’s a noble feeling … such a path lies open before you! Tears will ease your heart, and later on you will return rejoicing. You will hasten to me from Siberia on purpose to share your joy with me—”

“But allow me, too!” Mitya cried suddenly. “For the last time I entreat you, tell me, can I have the sum you promised me to‐day, if not, when may I come for it?”

“What sum, Dmitri Fyodorovitch?”

“The three thousand you promised me … that you so generously—”

“Three thousand? Roubles? Oh, no, I haven’t got three thousand,” Madame Hohlakov announced with serene amazement. Mitya was stupefied.

“Why, you said just now … you said … you said it was as good as in my hands—”

“Oh, no, you misunderstood me, Dmitri Fyodorovitch. In that case you misunderstood me. I was talking of the gold‐mines. It’s true I promised you more, infinitely more than three thousand, I remember it all now, but I was referring to the gold‐mines.”

“But the money? The three thousand?” Mitya exclaimed, awkwardly.

“Oh, if you meant money, I haven’t any. I haven’t a penny, Dmitri Fyodorovitch. I’m quarreling with my steward about it, and I’ve just borrowed five hundred roubles from Miüsov, myself. No, no, I’ve no money. And, do you know, Dmitri Fyodorovitch, if I had, I wouldn’t give it to you. In the first place I never lend money. Lending money means losing friends. And I wouldn’t give it to you particularly. I wouldn’t give it you, because I like you and want to save you, for all you need is the gold‐mines, the gold‐mines, the gold‐mines!”

“Oh, the devil!” roared Mitya, and with all his might brought his fist down on the table.

“Aie! Aie!” cried Madame Hohlakov, alarmed, and she flew to the other end of the drawing‐room.

Mitya spat on the ground, and strode rapidly out of the room, out of the house, into the street, into the darkness! He walked like one possessed, and beating himself on the breast, on the spot where he had struck himself two days previously, before Alyosha, the last time he saw him in the dark, on the road. What those blows upon his breast signified, on that spot, and what he meant by it—that was, for the time, a secret which was known to no one in the world, and had not been told even to Alyosha. But that secret meant for him more than disgrace; it meant ruin, suicide. So he had determined, if he did not get hold of the three thousand that would pay his debt to Katerina Ivanovna, and so remove from his breast, from that spot on his breast, the shame he carried upon it, that weighed on his conscience. All this will be fully explained to the reader later on, but now that his last hope had vanished, this man, so strong in appearance, burst out crying like a little child a few steps from the Hohlakovs’ house. He walked on, and not knowing what he was doing, wiped away his tears with his fist. In this way he reached the square, and suddenly became aware that he had stumbled against something. He heard a piercing wail from an old woman whom he had almost knocked down.

“Good Lord, you’ve nearly killed me! Why don’t you look where you’re going, scapegrace?”

“Why, it’s you!” cried Mitya, recognizing the old woman in the dark. It was the old servant who waited on Samsonov, whom Mitya had particularly noticed the day before.

“And who are you, my good sir?” said the old woman, in quite a different voice. “I don’t know you in the dark.”

“You live at Kuzma Kuzmitch’s. You’re the servant there?”

“Just so, sir, I was only running out to Prohoritch’s…. But I don’t know you now.”

“Tell me, my good woman, is Agrafena Alexandrovna there now?” said Mitya, beside himself with suspense. “I saw her to the house some time ago.”

“She has been there, sir. She stayed a little while, and went off again.”

“What? Went away?” cried Mitya. “When did she go?”

“Why, as soon as she came. She only stayed a minute. She only told Kuzma Kuzmitch a tale that made him laugh, and then she ran away.”

“You’re lying, damn you!” roared Mitya.

“Aie! Aie!” shrieked the old woman, but Mitya had vanished.

He ran with all his might to the house where Grushenka lived. At the moment he reached it, Grushenka was on her way to Mokroe. It was not more than a quarter of an hour after her departure.

Fenya was sitting with her grandmother, the old cook, Matryona, in the kitchen when “the captain” ran in. Fenya uttered a piercing shriek on seeing him.

“You scream?” roared Mitya, “where is she?”

But without giving the terror‐stricken Fenya time to utter a word, he fell all of a heap at her feet.

“Fenya, for Christ’s sake, tell me, where is she?”

“I don’t know. Dmitri Fyodorovitch, my dear, I don’t know. You may kill me but I can’t tell you.” Fenya swore and protested. “You went out with her yourself not long ago—”

“She came back!”

“Indeed she didn’t. By God I swear she didn’t come back.”

“You’re lying!” shouted Mitya. “From your terror I know where she is.”

He rushed away. Fenya in her fright was glad she had got off so easily. But she knew very well that it was only that he was in such haste, or she might not have fared so well. But as he ran, he surprised both Fenya and old Matryona by an unexpected action. On the table stood a brass mortar, with a pestle in it, a small brass pestle, not much more than six inches long. Mitya already had opened the door with one hand when, with the other, he snatched up the pestle, and thrust it in his side‐pocket.

“Oh, Lord! He’s going to murder some one!” cried Fenya, flinging up her hands.

Chapter IV.
In The Dark
Where was he running? “Where could she be except at Fyodor Pavlovitch’s? She must have run straight to him from Samsonov’s, that was clear now. The whole intrigue, the whole deceit was evident.” … It all rushed whirling through his mind. He did not run to Marya Kondratyevna’s. “There was no need to go there … not the slightest need … he must raise no alarm … they would run and tell directly…. Marya Kondratyevna was clearly in the plot, Smerdyakov too, he too, all had been bought over!”

He formed another plan of action: he ran a long way round Fyodor Pavlovitch’s house, crossing the lane, running down Dmitrovsky Street, then over the little bridge, and so came straight to the deserted alley at the back, which was empty and uninhabited, with, on one side the hurdle fence of a neighbor’s kitchen‐garden, on the other the strong high fence, that ran all round Fyodor Pavlovitch’s garden. Here he chose a spot, apparently the very place, where according to the tradition, he knew Lizaveta had once climbed over it: “If she could climb over it,” the thought, God knows why, occurred to him, “surely I can.” He did in fact jump up, and instantly contrived to catch hold of the top of the fence. Then he vigorously pulled himself up and sat astride on it. Close by, in the garden stood the bath‐house, but from the fence he could see the lighted windows of the house too.

“Yes, the old man’s bedroom is lighted up. She’s there!” and he leapt from the fence into the garden. Though he knew Grigory was ill and very likely Smerdyakov, too, and that there was no one to hear him, he instinctively hid himself, stood still, and began to listen. But there was dead silence on all sides and, as though of design, complete stillness, not the slightest breath of wind.

“And naught but the whispering silence,” the line for some reason rose to his mind. “If only no one heard me jump over the fence! I think not.” Standing still for a minute, he walked softly over the grass in the garden, avoiding the trees and shrubs. He walked slowly, creeping stealthily at every step, listening to his own footsteps. It took him five minutes to reach the lighted window. He remembered that just under the window there were several thick and high bushes of elder and whitebeam. The door from the house into the garden on the left‐hand side, was shut; he had carefully looked on purpose to see, in passing. At last he reached the bushes and hid behind them. He held his breath. “I must wait now,” he thought, “to reassure them, in case they heard my footsteps and are listening … if only I don’t cough or sneeze.”

He waited two minutes. His heart was beating violently, and, at moments, he could scarcely breathe. “No, this throbbing at my heart won’t stop,” he thought. “I can’t wait any longer.” He was standing behind a bush in the shadow. The light of the window fell on the front part of the bush.

“How red the whitebeam berries are!” he murmured, not knowing why. Softly and noiselessly, step by step, he approached the window, and raised himself on tiptoe. All Fyodor Pavlovitch’s bedroom lay open before him. It was not a large room, and was divided in two parts by a red screen, “Chinese,” as Fyodor Pavlovitch used to call it. The word “Chinese” flashed into Mitya’s mind, “and behind the screen, is Grushenka,” thought Mitya. He began watching Fyodor Pavlovitch, who was wearing his new striped‐silk dressing‐gown, which Mitya had never seen, and a silk cord with tassels round the waist. A clean, dandified shirt of fine linen with gold studs peeped out under the collar of the dressing‐gown. On his head Fyodor Pavlovitch had the same red bandage which Alyosha had seen.

“He has got himself up,” thought Mitya.

His father was standing near the window, apparently lost in thought. Suddenly he jerked up his head, listened a moment, and hearing nothing went up to the table, poured out half a glass of brandy from a decanter and drank it off. Then he uttered a deep sigh, again stood still a moment, walked carelessly up to the looking‐glass on the wall, with his right hand raised the red bandage on his forehead a little, and began examining his bruises and scars, which had not yet disappeared.

“He’s alone,” thought Mitya, “in all probability he’s alone.”

Fyodor Pavlovitch moved away from the looking‐glass, turned suddenly to the window and looked out. Mitya instantly slipped away into the shadow.

“She may be there behind the screen. Perhaps she’s asleep by now,” he thought, with a pang at his heart. Fyodor Pavlovitch moved away from the window. “He’s looking for her out of the window, so she’s not there. Why should he stare out into the dark? He’s wild with impatience.” … Mitya slipped back at once, and fell to gazing in at the window again. The old man was sitting down at the table, apparently disappointed. At last he put his elbow on the table, and laid his right cheek against his hand. Mitya watched him eagerly.

“He’s alone, he’s alone!” he repeated again. “If she were here, his face would be different.”

Strange to say, a queer, irrational vexation rose up in his heart that she was not here. “It’s not that she’s not here,” he explained to himself, immediately, “but that I can’t tell for certain whether she is or not.” Mitya remembered afterwards that his mind was at that moment exceptionally clear, that he took in everything to the slightest detail, and missed no point. But a feeling of misery, the misery of uncertainty and indecision, was growing in his heart with every instant. “Is she here or not?” The angry doubt filled his heart, and suddenly, making up his mind, he put out his hand and softly knocked on the window frame. He knocked the signal the old man had agreed upon with Smerdyakov, twice slowly and then three times more quickly, the signal that meant “Grushenka is here!”

The old man started, jerked up his head, and, jumping up quickly, ran to the window. Mitya slipped away into the shadow. Fyodor Pavlovitch opened the window and thrust his whole head out.

“Grushenka, is it you? Is it you?” he said, in a sort of trembling half‐ whisper. “Where are you, my angel, where are you?” He was fearfully agitated and breathless.

“He’s alone.” Mitya decided.

“Where are you?” cried the old man again; and he thrust his head out farther, thrust it out to the shoulders, gazing in all directions, right and left. “Come here, I’ve a little present for you. Come, I’ll show you….”

“He means the three thousand,” thought Mitya.

“But where are you? Are you at the door? I’ll open it directly.”

And the old man almost climbed out of the window, peering out to the right, where there was a door into the garden, trying to see into the darkness. In another second he would certainly have run out to open the door without waiting for Grushenka’s answer.

Mitya looked at him from the side without stirring. The old man’s profile that he loathed so, his pendent Adam’s apple, his hooked nose, his lips that smiled in greedy expectation, were all brightly lighted up by the slanting lamplight falling on the left from the room. A horrible fury of hatred suddenly surged up in Mitya’s heart: “There he was, his rival, the man who had tormented him, had ruined his life!” It was a rush of that sudden, furious, revengeful anger of which he had spoken, as though foreseeing it, to Alyosha, four days ago in the arbor, when, in answer to Alyosha’s question, “How can you say you’ll kill our father?” “I don’t know, I don’t know,” he had said then. “Perhaps I shall not kill him, perhaps I shall. I’m afraid he’ll suddenly be so loathsome to me at that moment. I hate his double chin, his nose, his eyes, his shameless grin. I feel a personal repulsion. That’s what I’m afraid of, that’s what may be too much for me.” … This personal repulsion was growing unendurable. Mitya was beside himself, he suddenly pulled the brass pestle out of his pocket.

“God was watching over me then,” Mitya himself said afterwards. At that very moment Grigory waked up on his bed of sickness. Earlier in the evening he had undergone the treatment which Smerdyakov had described to Ivan. He had rubbed himself all over with vodka mixed with a secret, very strong decoction, had drunk what was left of the mixture while his wife repeated a “certain prayer” over him, after which he had gone to bed. Marfa Ignatyevna had tasted the stuff, too, and, being unused to strong drink, slept like the dead beside her husband.

But Grigory waked up in the night, quite suddenly, and, after a moment’s reflection, though he immediately felt a sharp pain in his back, he sat up in bed. Then he deliberated again, got up and dressed hurriedly. Perhaps his conscience was uneasy at the thought of sleeping while the house was unguarded “in such perilous times.” Smerdyakov, exhausted by his fit, lay motionless in the next room. Marfa Ignatyevna did not stir. “The stuff’s been too much for the woman,” Grigory thought, glancing at her, and groaning, he went out on the steps. No doubt he only intended to look out from the steps, for he was hardly able to walk, the pain in his back and his right leg was intolerable. But he suddenly remembered that he had not locked the little gate into the garden that evening. He was the most punctual and precise of men, a man who adhered to an unchangeable routine, and habits that lasted for years. Limping and writhing with pain he went down the steps and towards the garden. Yes, the gate stood wide open. Mechanically he stepped into the garden. Perhaps he fancied something, perhaps caught some sound, and, glancing to the left he saw his master’s window open. No one was looking out of it then.

“What’s it open for? It’s not summer now,” thought Grigory, and suddenly, at that very instant he caught a glimpse of something extraordinary before him in the garden. Forty paces in front of him a man seemed to be running in the dark, a sort of shadow was moving very fast.

“Good Lord!” cried Grigory beside himself, and forgetting the pain in his back, he hurried to intercept the running figure. He took a short cut, evidently he knew the garden better; the flying figure went towards the bath‐house, ran behind it and rushed to the garden fence. Grigory followed, not losing sight of him, and ran, forgetting everything. He reached the fence at the very moment the man was climbing over it. Grigory cried out, beside himself, pounced on him, and clutched his leg in his two hands.

Yes, his foreboding had not deceived him. He recognized him, it was he, the “monster,” the “parricide.”

“Parricide!” the old man shouted so that the whole neighborhood could hear, but he had not time to shout more, he fell at once, as though struck by lightning.

Mitya jumped back into the garden and bent over the fallen man. In Mitya’s hands was a brass pestle, and he flung it mechanically in the grass. The pestle fell two paces from Grigory, not in the grass but on the path, in a most conspicuous place. For some seconds he examined the prostrate figure before him. The old man’s head was covered with blood. Mitya put out his hand and began feeling it. He remembered afterwards clearly, that he had been awfully anxious to make sure whether he had broken the old man’s skull, or simply stunned him with the pestle. But the blood was flowing horribly; and in a moment Mitya’s fingers were drenched with the hot stream. He remembered taking out of his pocket the clean white handkerchief with which he had provided himself for his visit to Madame Hohlakov, and putting it to the old man’s head, senselessly trying to wipe the blood from his face and temples. But the handkerchief was instantly soaked with blood.

“Good heavens! what am I doing it for?” thought Mitya, suddenly pulling himself together. “If I have broken his skull, how can I find out now? And what difference does it make now?” he added, hopelessly. “If I’ve killed him, I’ve killed him…. You’ve come to grief, old man, so there you must lie!” he said aloud. And suddenly turning to the fence, he vaulted over it into the lane and fell to running—the handkerchief soaked with blood he held, crushed up in his right fist, and as he ran he thrust it into the back pocket of his coat. He ran headlong, and the few passers‐by who met him in the dark, in the streets, remembered afterwards that they had met a man running that night. He flew back again to the widow Morozov’s house.

Immediately after he had left it that evening, Fenya had rushed to the chief porter, Nazar Ivanovitch, and besought him, for Christ’s sake, “not to let the captain in again to‐day or to‐morrow.” Nazar Ivanovitch promised, but went upstairs to his mistress who had suddenly sent for him, and meeting his nephew, a boy of twenty, who had recently come from the country, on the way up told him to take his place, but forgot to mention “the captain.” Mitya, running up to the gate, knocked. The lad instantly recognized him, for Mitya had more than once tipped him. Opening the gate at once, he let him in, and hastened to inform him with a good‐humored smile that “Agrafena Alexandrovna is not at home now, you know.”

“Where is she then, Prohor?” asked Mitya, stopping short.

“She set off this evening, some two hours ago, with Timofey, to Mokroe.”

“What for?” cried Mitya.

“That I can’t say. To see some officer. Some one invited her and horses were sent to fetch her.”

Mitya left him, and ran like a madman to Fenya.

Chapter V.
A Sudden Resolution
She was sitting in the kitchen with her grandmother; they were both just going to bed. Relying on Nazar Ivanovitch, they had not locked themselves in. Mitya ran in, pounced on Fenya and seized her by the throat.

“Speak at once! Where is she? With whom is she now, at Mokroe?” he roared furiously.

Both the women squealed.

“Aie! I’ll tell you. Aie! Dmitri Fyodorovitch, darling, I’ll tell you everything directly, I won’t hide anything,” gabbled Fenya, frightened to death; “she’s gone to Mokroe, to her officer.”

“What officer?” roared Mitya.

“To her officer, the same one she used to know, the one who threw her over five years ago,” cackled Fenya, as fast as she could speak.

Mitya withdrew the hands with which he was squeezing her throat. He stood facing her, pale as death, unable to utter a word, but his eyes showed that he realized it all, all, from the first word, and guessed the whole position. Poor Fenya was not in a condition at that moment to observe whether he understood or not. She remained sitting on the trunk as she had been when he ran into the room, trembling all over, holding her hands out before her as though trying to defend herself. She seemed to have grown rigid in that position. Her wide‐opened, scared eyes were fixed immovably upon him. And to make matters worse, both his hands were smeared with blood. On the way, as he ran, he must have touched his forehead with them, wiping off the perspiration, so that on his forehead and his right cheek were blood‐stained patches. Fenya was on the verge of hysterics. The old cook had jumped up and was staring at him like a mad woman, almost unconscious with terror.

Mitya stood for a moment, then mechanically sank on to a chair next to Fenya. He sat, not reflecting but, as it were, terror‐stricken, benumbed. Yet everything was clear as day: that officer, he knew about him, he knew everything perfectly, he had known it from Grushenka herself, had known that a letter had come from him a month before. So that for a month, for a whole month, this had been going on, a secret from him, till the very arrival of this new man, and he had never thought of him! But how could he, how could he not have thought of him? Why was it he had forgotten this officer, like that, forgotten him as soon as he heard of him? That was the question that faced him like some monstrous thing. And he looked at this monstrous thing with horror, growing cold with horror.

But suddenly, as gently and mildly as a gentle and affectionate child, he began speaking to Fenya as though he had utterly forgotten how he had scared and hurt her just now. He fell to questioning Fenya with an extreme preciseness, astonishing in his position, and though the girl looked wildly at his blood‐stained hands, she, too, with wonderful readiness and rapidity, answered every question as though eager to put the whole truth and nothing but the truth before him. Little by little, even with a sort of enjoyment, she began explaining every detail, not wanting to torment him, but, as it were, eager to be of the utmost service to him. She described the whole of that day, in great detail, the visit of Rakitin and Alyosha, how she, Fenya, had stood on the watch, how the mistress had set off, and how she had called out of the window to Alyosha to give him, Mitya, her greetings, and to tell him “to remember for ever how she had loved him for an hour.”

Hearing of the message, Mitya suddenly smiled, and there was a flush of color on his pale cheeks. At the same moment Fenya said to him, not a bit afraid now to be inquisitive:

“Look at your hands, Dmitri Fyodorovitch. They’re all over blood!”

“Yes,” answered Mitya mechanically. He looked carelessly at his hands and at once forgot them and Fenya’s question.

He sank into silence again. Twenty minutes had passed since he had run in. His first horror was over, but evidently some new fixed determination had taken possession of him. He suddenly stood up, smiling dreamily.

“What has happened to you, sir?” said Fenya, pointing to his hands again. She spoke compassionately, as though she felt very near to him now in his grief. Mitya looked at his hands again.

“That’s blood, Fenya,” he said, looking at her with a strange expression. “That’s human blood, and my God! why was it shed? But … Fenya … there’s a fence here” (he looked at her as though setting her a riddle), “a high fence, and terrible to look at. But at dawn to‐morrow, when the sun rises, Mitya will leap over that fence…. You don’t understand what fence, Fenya, and, never mind…. You’ll hear to‐morrow and understand … and now, good‐by. I won’t stand in her way. I’ll step aside, I know how to step aside. Live, my joy…. You loved me for an hour, remember Mityenka Karamazov so for ever…. She always used to call me Mityenka, do you remember?”

And with those words he went suddenly out of the kitchen. Fenya was almost more frightened at this sudden departure than she had been when he ran in and attacked her.

Just ten minutes later Dmitri went in to Pyotr Ilyitch Perhotin, the young official with whom he had pawned his pistols. It was by now half‐past eight, and Pyotr Ilyitch had finished his evening tea, and had just put his coat on again to go to the “Metropolis” to play billiards. Mitya caught him coming out.

Seeing him with his face all smeared with blood, the young man uttered a cry of surprise.

“Good heavens! What is the matter?”

“I’ve come for my pistols,” said Mitya, “and brought you the money. And thanks very much. I’m in a hurry, Pyotr Ilyitch, please make haste.”

Pyotr Ilyitch grew more and more surprised; he suddenly caught sight of a bundle of bank‐notes in Mitya’s hand, and what was more, he had walked in holding the notes as no one walks in and no one carries money: he had them in his right hand, and held them outstretched as if to show them. Perhotin’s servant‐boy, who met Mitya in the passage, said afterwards that he walked into the passage in the same way, with the money outstretched in his hand, so he must have been carrying them like that even in the streets. They were all rainbow‐colored hundred‐rouble notes, and the fingers holding them were covered with blood.

When Pyotr Ilyitch was questioned later on as to the sum of money, he said that it was difficult to judge at a glance, but that it might have been two thousand, or perhaps three, but it was a big, “fat” bundle. “Dmitri Fyodorovitch,” so he testified afterwards, “seemed unlike himself, too; not drunk, but, as it were, exalted, lost to everything, but at the same time, as it were, absorbed, as though pondering and searching for something and unable to come to a decision. He was in great haste, answered abruptly and very strangely, and at moments seemed not at all dejected but quite cheerful.”

“But what is the matter with you? What’s wrong?” cried Pyotr Ilyitch, looking wildly at his guest. “How is it that you’re all covered with blood? Have you had a fall? Look at yourself!”

He took him by the elbow and led him to the glass.

Seeing his blood‐stained face, Mitya started and scowled wrathfully.

“Damnation! That’s the last straw,” he muttered angrily, hurriedly changing the notes from his right hand to the left, and impulsively jerked the handkerchief out of his pocket. But the handkerchief turned out to be soaked with blood, too (it was the handkerchief he had used to wipe Grigory’s face). There was scarcely a white spot on it, and it had not merely begun to dry, but had stiffened into a crumpled ball and could not be pulled apart. Mitya threw it angrily on the floor.

“Oh, damn it!” he said. “Haven’t you a rag of some sort … to wipe my face?”

“So you’re only stained, not wounded? You’d better wash,” said Pyotr Ilyitch. “Here’s a wash‐stand. I’ll pour you out some water.”

“A wash‐stand? That’s all right … but where am I to put this?”

With the strangest perplexity he indicated his bundle of hundred‐rouble notes, looking inquiringly at Pyotr Ilyitch as though it were for him to decide what he, Mitya, was to do with his own money.

“In your pocket, or on the table here. They won’t be lost.”

“In my pocket? Yes, in my pocket. All right…. But, I say, that’s all nonsense,” he cried, as though suddenly coming out of his absorption. “Look here, let’s first settle that business of the pistols. Give them back to me. Here’s your money … because I am in great need of them … and I haven’t a minute, a minute to spare.”

And taking the topmost note from the bundle he held it out to Pyotr Ilyitch.

“But I shan’t have change enough. Haven’t you less?”

“No,” said Mitya, looking again at the bundle, and as though not trusting his own words he turned over two or three of the topmost ones.

“No, they’re all alike,” he added, and again he looked inquiringly at Pyotr Ilyitch.

“How have you grown so rich?” the latter asked. “Wait, I’ll send my boy to Plotnikov’s, they close late—to see if they won’t change it. Here, Misha!” he called into the passage.

“To Plotnikov’s shop—first‐rate!” cried Mitya, as though struck by an idea. “Misha,” he turned to the boy as he came in, “look here, run to Plotnikov’s and tell them that Dmitri Fyodorovitch sends his greetings, and will be there directly…. But listen, listen, tell them to have champagne, three dozen bottles, ready before I come, and packed as it was to take to Mokroe. I took four dozen with me then,” he added (suddenly addressing Pyotr Ilyitch); “they know all about it, don’t you trouble, Misha,” he turned again to the boy. “Stay, listen; tell them to put in cheese, Strasburg pies, smoked fish, ham, caviare, and everything, everything they’ve got, up to a hundred roubles, or a hundred and twenty as before…. But wait: don’t let them forget dessert, sweets, pears, water‐melons, two or three or four—no, one melon’s enough, and chocolate, candy, toffee, fondants; in fact, everything I took to Mokroe before, three hundred roubles’ worth with the champagne … let it be just the same again. And remember, Misha, if you are called Misha—His name is Misha, isn’t it?” He turned to Pyotr Ilyitch again.

“Wait a minute,” Protr Ilyitch intervened, listening and watching him uneasily, “you’d better go yourself and tell them. He’ll muddle it.”

“He will, I see he will! Eh, Misha! Why, I was going to kiss you for the commission…. If you don’t make a mistake, there’s ten roubles for you, run along, make haste…. Champagne’s the chief thing, let them bring up champagne. And brandy, too, and red and white wine, and all I had then…. They know what I had then.”

“But listen!” Pyotr Ilyitch interrupted with some impatience. “I say, let him simply run and change the money and tell them not to close, and you go and tell them…. Give him your note. Be off, Misha! Put your best leg forward!”

Pyotr Ilyitch seemed to hurry Misha off on purpose, because the boy remained standing with his mouth and eyes wide open, apparently understanding little of Mitya’s orders, gazing up with amazement and terror at his blood‐stained face and the trembling bloodstained fingers that held the notes.

“Well, now come and wash,” said Pyotr Ilyitch sternly. “Put the money on the table or else in your pocket…. That’s right, come along. But take off your coat.”

And beginning to help him off with his coat, he cried out again:

“Look, your coat’s covered with blood, too!”

“That … it’s not the coat. It’s only a little here on the sleeve…. And that’s only here where the handkerchief lay. It must have soaked through. I must have sat on the handkerchief at Fenya’s, and the blood’s come through,” Mitya explained at once with a childlike unconsciousness that was astounding. Pyotr Ilyitch listened, frowning.

“Well, you must have been up to something; you must have been fighting with some one,” he muttered.

They began to wash. Pyotr Ilyitch held the jug and poured out the water. Mitya, in desperate haste, scarcely soaped his hands (they were trembling, and Pyotr Ilyitch remembered it afterwards). But the young official insisted on his soaping them thoroughly and rubbing them more. He seemed to exercise more and more sway over Mitya, as time went on. It may be noted in passing that he was a young man of sturdy character.

“Look, you haven’t got your nails clean. Now rub your face; here, on your temples, by your ear…. Will you go in that shirt? Where are you going? Look, all the cuff of your right sleeve is covered with blood.”

“Yes, it’s all bloody,” observed Mitya, looking at the cuff of his shirt.

“Then change your shirt.”

“I haven’t time. You see I’ll …” Mitya went on with the same confiding ingenuousness, drying his face and hands on the towel, and putting on his coat. “I’ll turn it up at the wrist. It won’t be seen under the coat…. You see!”

“Tell me now, what game have you been up to? Have you been fighting with some one? In the tavern again, as before? Have you been beating that captain again?” Pyotr Ilyitch asked him reproachfully. “Whom have you been beating now … or killing, perhaps?”

“Nonsense!” said Mitya.

“Why ‘nonsense’?”

“Don’t worry,” said Mitya, and he suddenly laughed. “I smashed an old woman in the market‐place just now.”

“Smashed? An old woman?”

“An old man!” cried Mitya, looking Pyotr Ilyitch straight in the face, laughing, and shouting at him as though he were deaf.

“Confound it! An old woman, an old man…. Have you killed some one?”

“We made it up. We had a row—and made it up. In a place I know of. We parted friends. A fool…. He’s forgiven me…. He’s sure to have forgiven me by now … if he had got up, he wouldn’t have forgiven me”—Mitya suddenly winked—“only damn him, you know, I say, Pyotr Ilyitch, damn him! Don’t worry about him! I don’t want to just now!” Mitya snapped out, resolutely.

“Whatever do you want to go picking quarrels with every one for? … Just as you did with that captain over some nonsense…. You’ve been fighting and now you’re rushing off on the spree—that’s you all over! Three dozen champagne—what do you want all that for?”

“Bravo! Now give me the pistols. Upon my honor I’ve no time now. I should like to have a chat with you, my dear boy, but I haven’t the time. And there’s no need, it’s too late for talking. Where’s my money? Where have I put it?” he cried, thrusting his hands into his pockets.

“You put it on the table … yourself…. Here it is. Had you forgotten? Money’s like dirt or water to you, it seems. Here are your pistols. It’s an odd thing, at six o’clock you pledged them for ten roubles, and now you’ve got thousands. Two or three I should say.”

“Three, you bet,” laughed Mitya, stuffing the notes into the side‐pocket of his trousers.

“You’ll lose it like that. Have you found a gold‐mine?”

“The mines? The gold‐mines?” Mitya shouted at the top of his voice and went off into a roar of laughter. “Would you like to go to the mines, Perhotin? There’s a lady here who’ll stump up three thousand for you, if only you’ll go. She did it for me, she’s so awfully fond of gold‐mines. Do you know Madame Hohlakov?”

“I don’t know her, but I’ve heard of her and seen her. Did she really give you three thousand? Did she really?” said Pyotr Ilyitch, eyeing him dubiously.

“As soon as the sun rises to‐morrow, as soon as Phœbus, ever young, flies upwards, praising and glorifying God, you go to her, this Madame Hohlakov, and ask her whether she did stump up that three thousand or not. Try and find out.”

“I don’t know on what terms you are … since you say it so positively, I suppose she did give it to you. You’ve got the money in your hand, but instead of going to Siberia you’re spending it all…. Where are you really off to now, eh?”

“To Mokroe.”

“To Mokroe? But it’s night!”

“Once the lad had all, now the lad has naught,” cried Mitya suddenly.

“How ‘naught’? You say that with all those thousands!”

“I’m not talking about thousands. Damn thousands! I’m talking of the female character.

Fickle is the heart of woman
Treacherous and full of vice;

I agree with Ulysses. That’s what he says.”

“I don’t understand you!”

“Am I drunk?”

“Not drunk, but worse.”

“I’m drunk in spirit, Pyotr Ilyitch, drunk in spirit! But that’s enough!”

“What are you doing, loading the pistol?”

“I’m loading the pistol.”

Unfastening the pistol‐case, Mitya actually opened the powder horn, and carefully sprinkled and rammed in the charge. Then he took the bullet and, before inserting it, held it in two fingers in front of the candle.

“Why are you looking at the bullet?” asked Pyotr Ilyitch, watching him with uneasy curiosity.

“Oh, a fancy. Why, if you meant to put that bullet in your brain, would you look at it or not?”

“Why look at it?”

“It’s going into my brain, so it’s interesting to look and see what it’s like. But that’s foolishness, a moment’s foolishness. Now that’s done,” he added, putting in the bullet and driving it home with the ramrod. “Pyotr Ilyitch, my dear fellow, that’s nonsense, all nonsense, and if only you knew what nonsense! Give me a little piece of paper now.”

“Here’s some paper.”

“No, a clean new piece, writing‐paper. That’s right.”

And taking a pen from the table, Mitya rapidly wrote two lines, folded the paper in four, and thrust it in his waistcoat pocket. He put the pistols in the case, locked it up, and kept it in his hand. Then he looked at Pyotr Ilyitch with a slow, thoughtful smile.

“Now, let’s go.”

“Where are we going? No, wait a minute…. Are you thinking of putting that bullet in your brain, perhaps?” Pyotr Ilyitch asked uneasily.

“I was fooling about the bullet! I want to live. I love life! You may be sure of that. I love golden‐haired Phœbus and his warm light…. Dear Pyotr Ilyitch, do you know how to step aside?”

“What do you mean by ‘stepping aside’?”

“Making way. Making way for a dear creature, and for one I hate. And to let the one I hate become dear—that’s what making way means! And to say to them: God bless you, go your way, pass on, while I—”

“While you—?”

“That’s enough, let’s go.”

“Upon my word. I’ll tell some one to prevent your going there,” said Pyotr Ilyitch, looking at him. “What are you going to Mokroe for, now?”

“There’s a woman there, a woman. That’s enough for you. You shut up.”

“Listen, though you’re such a savage I’ve always liked you…. I feel anxious.”

“Thanks, old fellow. I’m a savage you say. Savages, savages! That’s what I am always saying. Savages! Why, here’s Misha! I was forgetting him.”

Misha ran in, post‐haste, with a handful of notes in change, and reported that every one was in a bustle at the Plotnikovs’; “They’re carrying down the bottles, and the fish, and the tea; it will all be ready directly.” Mitya seized ten roubles and handed it to Pyotr Ilyitch, then tossed another ten‐rouble note to Misha.

“Don’t dare to do such a thing!” cried Pyotr Ilyitch. “I won’t have it in my house, it’s a bad, demoralizing habit. Put your money away. Here, put it here, why waste it? It would come in handy to‐morrow, and I dare say you’ll be coming to me to borrow ten roubles again. Why do you keep putting the notes in your side‐pocket? Ah, you’ll lose them!”

“I say, my dear fellow, let’s go to Mokroe together.”

“What should I go for?”

“I say, let’s open a bottle at once, and drink to life! I want to drink, and especially to drink with you. I’ve never drunk with you, have I?”

“Very well, we can go to the ‘Metropolis.’ I was just going there.”

“I haven’t time for that. Let’s drink at the Plotnikovs’, in the back room. Shall I ask you a riddle?”

“Ask away.”

Mitya took the piece of paper out of his waistcoat pocket, unfolded it and showed it. In a large, distinct hand was written: “I punish myself for my whole life, my whole life I punish!”

“I will certainly speak to some one, I’ll go at once,” said Pyotr Ilyitch, after reading the paper.

“You won’t have time, dear boy, come and have a drink. March!”

Plotnikov’s shop was at the corner of the street, next door but one to Pyotr Ilyitch’s. It was the largest grocery shop in our town, and by no means a bad one, belonging to some rich merchants. They kept everything that could be got in a Petersburg shop, grocery of all sort, wines “bottled by the brothers Eliseyev,” fruits, cigars, tea, coffee, sugar, and so on. There were three shop‐assistants and two errand boys always employed. Though our part of the country had grown poorer, the landowners had gone away, and trade had got worse, yet the grocery stores flourished as before, every year with increasing prosperity; there were plenty of purchasers for their goods.

They were awaiting Mitya with impatience in the shop. They had vivid recollections of how he had bought, three or four weeks ago, wine and goods of all sorts to the value of several hundred roubles, paid for in cash (they would never have let him have anything on credit, of course). They remembered that then, as now, he had had a bundle of hundred‐rouble notes in his hand, and had scattered them at random, without bargaining, without reflecting, or caring to reflect what use so much wine and provisions would be to him. The story was told all over the town that, driving off then with Grushenka to Mokroe, he had “spent three thousand in one night and the following day, and had come back from the spree without a penny.” He had picked up a whole troop of gypsies (encamped in our neighborhood at the time), who for two days got money without stint out of him while he was drunk, and drank expensive wine without stint. People used to tell, laughing at Mitya, how he had given champagne to grimy‐ handed peasants, and feasted the village women and girls on sweets and Strasburg pies. Though to laugh at Mitya to his face was rather a risky proceeding, there was much laughter behind his back, especially in the tavern, at his own ingenuous public avowal that all he had got out of Grushenka by this “escapade” was “permission to kiss her foot, and that was the utmost she had allowed him.”

By the time Mitya and Pyotr Ilyitch reached the shop, they found a cart with three horses harnessed abreast with bells, and with Andrey, the driver, ready waiting for Mitya at the entrance. In the shop they had almost entirely finished packing one box of provisions, and were only waiting for Mitya’s arrival to nail it down and put it in the cart. Pyotr Ilyitch was astounded.

“Where did this cart come from in such a hurry?” he asked Mitya.

“I met Andrey as I ran to you, and told him to drive straight here to the shop. There’s no time to lose. Last time I drove with Timofey, but Timofey now has gone on before me with the witch. Shall we be very late, Andrey?”

“They’ll only get there an hour at most before us, not even that maybe. I got Timofey ready to start. I know how he’ll go. Their pace won’t be ours, Dmitri Fyodorovitch. How could it be? They won’t get there an hour earlier!” Andrey, a lanky, red‐haired, middle‐aged driver, wearing a full‐ skirted coat, and with a kaftan on his arm, replied warmly.

“Fifty roubles for vodka if we’re only an hour behind them.”

“I warrant the time, Dmitri Fyodorovitch. Ech, they won’t be half an hour before us, let alone an hour.”

Though Mitya bustled about seeing after things, he gave his orders strangely, as it were disconnectedly, and inconsecutively. He began a sentence and forgot the end of it. Pyotr Ilyitch found himself obliged to come to the rescue.

“Four hundred roubles’ worth, not less than four hundred roubles’ worth, just as it was then,” commanded Mitya. “Four dozen champagne, not a bottle less.”

“What do you want with so much? What’s it for? Stay!” cried Pyotr Ilyitch. “What’s this box? What’s in it? Surely there isn’t four hundred roubles’ worth here?”

The officious shopmen began explaining with oily politeness that the first box contained only half a dozen bottles of champagne, and only “the most indispensable articles,” such as savories, sweets, toffee, etc. But the main part of the goods ordered would be packed and sent off, as on the previous occasion, in a special cart also with three horses traveling at full speed, so that it would arrive not more than an hour later than Dmitri Fyodorovitch himself.

“Not more than an hour! Not more than an hour! And put in more toffee and fondants. The girls there are so fond of it,” Mitya insisted hotly.

“The fondants are all right. But what do you want with four dozen of champagne? One would be enough,” said Pyotr Ilyitch, almost angry. He began bargaining, asking for a bill of the goods, and refused to be satisfied. But he only succeeded in saving a hundred roubles. In the end it was agreed that only three hundred roubles’ worth should be sent.

“Well, you may go to the devil!” cried Pyotr Ilyitch, on second thoughts. “What’s it to do with me? Throw away your money, since it’s cost you nothing.”

“This way, my economist, this way, don’t be angry.” Mitya drew him into a room at the back of the shop. “They’ll give us a bottle here directly. We’ll taste it. Ech, Pyotr Ilyitch, come along with me, for you’re a nice fellow, the sort I like.”

Mitya sat down on a wicker chair, before a little table, covered with a dirty dinner‐napkin. Pyotr Ilyitch sat down opposite, and the champagne soon appeared, and oysters were suggested to the gentlemen. “First‐class oysters, the last lot in.”

“Hang the oysters. I don’t eat them. And we don’t need anything,” cried Pyotr Ilyitch, almost angrily.

“There’s no time for oysters,” said Mitya. “And I’m not hungry. Do you know, friend,” he said suddenly, with feeling, “I never have liked all this disorder.”

“Who does like it? Three dozen of champagne for peasants, upon my word, that’s enough to make any one angry!”

“That’s not what I mean. I’m talking of a higher order. There’s no order in me, no higher order. But … that’s all over. There’s no need to grieve about it. It’s too late, damn it! My whole life has been disorder, and one must set it in order. Is that a pun, eh?”

“You’re raving, not making puns!”

“Glory be to God in Heaven,
Glory be to God in me….

“That verse came from my heart once, it’s not a verse, but a tear…. I made it myself … not while I was pulling the captain’s beard, though….”

“Why do you bring him in all of a sudden?”

“Why do I bring him in? Foolery! All things come to an end; all things are made equal. That’s the long and short of it.”

“You know, I keep thinking of your pistols.”

“That’s all foolery, too! Drink, and don’t be fanciful. I love life. I’ve loved life too much, shamefully much. Enough! Let’s drink to life, dear boy, I propose the toast. Why am I pleased with myself? I’m a scoundrel, but I’m satisfied with myself. And yet I’m tortured by the thought that I’m a scoundrel, but satisfied with myself. I bless the creation. I’m ready to bless God and His creation directly, but … I must kill one noxious insect for fear it should crawl and spoil life for others…. Let us drink to life, dear brother. What can be more precious than life? Nothing! To life, and to one queen of queens!”

“Let’s drink to life and to your queen, too, if you like.”

They drank a glass each. Although Mitya was excited and expansive, yet he was melancholy, too. It was as though some heavy, overwhelming anxiety were weighing upon him.

“Misha … here’s your Misha come! Misha, come here, my boy, drink this glass to Phœbus, the golden‐haired, of to‐morrow morn….”

“What are you giving it him for?” cried Pyotr Ilyitch, irritably.

“Yes, yes, yes, let me! I want to!”

“E—ech!”

Misha emptied the glass, bowed, and ran out.

“He’ll remember it afterwards,” Mitya remarked. “Woman, I love woman! What is woman? The queen of creation! My heart is sad, my heart is sad, Pyotr Ilyitch. Do you remember Hamlet? ‘I am very sorry, good Horatio! Alas, poor Yorick!’ Perhaps that’s me, Yorick? Yes, I’m Yorick now, and a skull afterwards.”

Pyotr Ilyitch listened in silence. Mitya, too, was silent for a while.

“What dog’s that you’ve got here?” he asked the shopman, casually, noticing a pretty little lap‐dog with dark eyes, sitting in the corner.

“It belongs to Varvara Alexyevna, the mistress,” answered the clerk. “She brought it and forgot it here. It must be taken back to her.”

“I saw one like it … in the regiment …” murmured Mitya dreamily, “only that one had its hind leg broken…. By the way, Pyotr Ilyitch, I wanted to ask you: have you ever stolen anything in your life?”

“What a question!”

“Oh, I didn’t mean anything. From somebody’s pocket, you know. I don’t mean government money, every one steals that, and no doubt you do, too….”

“You go to the devil.”

“I’m talking of other people’s money. Stealing straight out of a pocket? Out of a purse, eh?”

“I stole twenty copecks from my mother when I was nine years old. I took it off the table on the sly, and held it tight in my hand.”

“Well, and what happened?”

“Oh, nothing. I kept it three days, then I felt ashamed, confessed, and gave it back.”

“And what then?”

“Naturally I was whipped. But why do you ask? Have you stolen something?”

“I have,” said Mitya, winking slyly.

“What have you stolen?” inquired Pyotr Ilyitch curiously.

“I stole twenty copecks from my mother when I was nine years old, and gave it back three days after.”

As he said this, Mitya suddenly got up.

“Dmitri Fyodorovitch, won’t you come now?” called Andrey from the door of the shop.

“Are you ready? We’ll come!” Mitya started. “A few more last words and—Andrey, a glass of vodka at starting. Give him some brandy as well! That box” (the one with the pistols) “put under my seat. Good‐by, Pyotr Ilyitch, don’t remember evil against me.”

“But you’re coming back to‐morrow?”

“Of course.”

“Will you settle the little bill now?” cried the clerk, springing forward.

“Oh, yes, the bill. Of course.”

He pulled the bundle of notes out of his pocket again, picked out three hundred roubles, threw them on the counter, and ran hurriedly out of the shop. Every one followed him out, bowing and wishing him good luck. Andrey, coughing from the brandy he had just swallowed, jumped up on the box. But Mitya was only just taking his seat when suddenly to his surprise he saw Fenya before him. She ran up panting, clasped her hands before him with a cry, and plumped down at his feet.

“Dmitri Fyodorovitch, dear good Dmitri Fyodorovitch, don’t harm my mistress. And it was I told you all about it…. And don’t murder him, he came first, he’s hers! He’ll marry Agrafena Alexandrovna now. That’s why he’s come back from Siberia. Dmitri Fyodorovitch, dear, don’t take a fellow creature’s life!”

“Tut—tut—tut! That’s it, is it? So you’re off there to make trouble!” muttered Pyotr Ilyitch. “Now, it’s all clear, as clear as daylight. Dmitri Fyodorovitch, give me your pistols at once if you mean to behave like a man,” he shouted aloud to Mitya. “Do you hear, Dmitri?”

“The pistols? Wait a bit, brother, I’ll throw them into the pool on the road,” answered Mitya. “Fenya, get up, don’t kneel to me. Mitya won’t hurt any one, the silly fool won’t hurt any one again. But I say, Fenya,” he shouted, after having taken his seat. “I hurt you just now, so forgive me and have pity on me, forgive a scoundrel…. But it doesn’t matter if you don’t. It’s all the same now. Now then, Andrey, look alive, fly along full speed!”

Andrey whipped up the horses, and the bells began ringing.

“Good‐by, Pyotr Ilyitch! My last tear is for you!…”

“He’s not drunk, but he keeps babbling like a lunatic,” Pyotr Ilyitch thought as he watched him go. He had half a mind to stay and see the cart packed with the remaining wines and provisions, knowing that they would deceive and defraud Mitya. But, suddenly feeling vexed with himself, he turned away with a curse and went to the tavern to play billiards.

“He’s a fool, though he’s a good fellow,” he muttered as he went. “I’ve heard of that officer, Grushenka’s former flame. Well, if he has turned up…. Ech, those pistols! Damn it all! I’m not his nurse! Let them do what they like! Besides, it’ll all come to nothing. They’re a set of brawlers, that’s all. They’ll drink and fight, fight and make friends again. They are not men who do anything real. What does he mean by ‘I’m stepping aside, I’m punishing myself?’ It’ll come to nothing! He’s shouted such phrases a thousand times, drunk, in the taverns. But now he’s not drunk. ‘Drunk in spirit’—they’re fond of fine phrases, the villains. Am I his nurse? He must have been fighting, his face was all over blood. With whom? I shall find out at the ‘Metropolis.’ And his handkerchief was soaked in blood…. It’s still lying on my floor…. Hang it!”

He reached the tavern in a bad humor and at once made up a game. The game cheered him. He played a second game, and suddenly began telling one of his partners that Dmitri Karamazov had come in for some cash again—something like three thousand roubles, and had gone to Mokroe again to spend it with Grushenka…. This news roused singular interest in his listeners. They all spoke of it, not laughing, but with a strange gravity. They left off playing.

“Three thousand? But where can he have got three thousand?”

Questions were asked. The story of Madame Hohlakov’s present was received with skepticism.

“Hasn’t he robbed his old father?—that’s the question.”

“Three thousand! There’s something odd about it.”

“He boasted aloud that he would kill his father; we all heard him, here. And it was three thousand he talked about …”

Pyotr Ilyitch listened. All at once he became short and dry in his answers. He said not a word about the blood on Mitya’s face and hands, though he had meant to speak of it at first.

They began a third game, and by degrees the talk about Mitya died away. But by the end of the third game, Pyotr Ilyitch felt no more desire for billiards; he laid down the cue, and without having supper as he had intended, he walked out of the tavern. When he reached the market‐place he stood still in perplexity, wondering at himself. He realized that what he wanted was to go to Fyodor Pavlovitch’s and find out if anything had happened there. “On account of some stupid nonsense—as it’s sure to turn out—am I going to wake up the household and make a scandal? Fooh! damn it, is it my business to look after them?”

In a very bad humor he went straight home, and suddenly remembered Fenya. “Damn it all! I ought to have questioned her just now,” he thought with vexation, “I should have heard everything.” And the desire to speak to her, and so find out, became so pressing and importunate that when he was half‐way home he turned abruptly and went towards the house where Grushenka lodged. Going up to the gate he knocked. The sound of the knock in the silence of the night sobered him and made him feel annoyed. And no one answered him; every one in the house was asleep.

“And I shall be making a fuss!” he thought, with a feeling of positive discomfort. But instead of going away altogether, he fell to knocking again with all his might, filling the street with clamor.

“Not coming? Well, I will knock them up, I will!” he muttered at each knock, fuming at himself, but at the same time he redoubled his knocks on the gate.

Chapter VI.
“I Am Coming, Too!”
But Dmitri Fyodorovitch was speeding along the road. It was a little more than twenty versts to Mokroe, but Andrey’s three horses galloped at such a pace that the distance might be covered in an hour and a quarter. The swift motion revived Mitya. The air was fresh and cool, there were big stars shining in the sky. It was the very night, and perhaps the very hour, in which Alyosha fell on the earth, and rapturously swore to love it for ever and ever.

All was confusion, confusion, in Mitya’s soul, but although many things were goading his heart, at that moment his whole being was yearning for her, his queen, to whom he was flying to look on her for the last time. One thing I can say for certain; his heart did not waver for one instant. I shall perhaps not be believed when I say that this jealous lover felt not the slightest jealousy of this new rival, who seemed to have sprung out of the earth. If any other had appeared on the scene, he would have been jealous at once, and would perhaps have stained his fierce hands with blood again. But as he flew through the night, he felt no envy, no hostility even, for the man who had been her first lover…. It is true he had not yet seen him.

“Here there was no room for dispute: it was her right and his; this was her first love which, after five years, she had not forgotten; so she had loved him only for those five years, and I, how do I come in? What right have I? Step aside, Mitya, and make way! What am I now? Now everything is over apart from the officer—even if he had not appeared, everything would be over …”

These words would roughly have expressed his feelings, if he had been capable of reasoning. But he could not reason at that moment. His present plan of action had arisen without reasoning. At Fenya’s first words, it had sprung from feeling, and been adopted in a flash, with all its consequences. And yet, in spite of his resolution, there was confusion in his soul, an agonizing confusion: his resolution did not give him peace. There was so much behind that tortured him. And it seemed strange to him, at moments, to think that he had written his own sentence of death with pen and paper: “I punish myself,” and the paper was lying there in his pocket, ready; the pistol was loaded; he had already resolved how, next morning, he would meet the first warm ray of “golden‐haired Phœbus.”

And yet he could not be quit of the past, of all that he had left behind and that tortured him. He felt that miserably, and the thought of it sank into his heart with despair. There was one moment when he felt an impulse to stop Andrey, to jump out of the cart, to pull out his loaded pistol, and to make an end of everything without waiting for the dawn. But that moment flew by like a spark. The horses galloped on, “devouring space,” and as he drew near his goal, again the thought of her, of her alone, took more and more complete possession of his soul, chasing away the fearful images that had been haunting it. Oh, how he longed to look upon her, if only for a moment, if only from a distance!

“She’s now with him,” he thought, “now I shall see what she looks like with him, her first love, and that’s all I want.” Never had this woman, who was such a fateful influence in his life, aroused such love in his breast, such new and unknown feeling, surprising even to himself, a feeling tender to devoutness, to self‐effacement before her! “I will efface myself!” he said, in a rush of almost hysterical ecstasy.

They had been galloping nearly an hour. Mitya was silent, and though Andrey was, as a rule, a talkative peasant, he did not utter a word, either. He seemed afraid to talk, he only whipped up smartly his three lean, but mettlesome, bay horses. Suddenly Mitya cried out in horrible anxiety:

“Andrey! What if they’re asleep?”

This thought fell upon him like a blow. It had not occurred to him before.

“It may well be that they’re gone to bed, by now, Dmitri Fyodorovitch.”

Mitya frowned as though in pain. Yes, indeed … he was rushing there … with such feelings … while they were asleep … she was asleep, perhaps, there too…. An angry feeling surged up in his heart.

“Drive on, Andrey! Whip them up! Look alive!” he cried, beside himself.

“But maybe they’re not in bed!” Andrey went on after a pause. “Timofey said they were a lot of them there—”

“At the station?”

“Not at the posting‐station, but at Plastunov’s, at the inn, where they let out horses, too.”

“I know. So you say there are a lot of them? How’s that? Who are they?” cried Mitya, greatly dismayed at this unexpected news.

“Well, Timofey was saying they’re all gentlefolk. Two from our town—who they are I can’t say—and there are two others, strangers, maybe more besides. I didn’t ask particularly. They’ve set to playing cards, so Timofey said.”

“Cards?”

“So, maybe they’re not in bed if they’re at cards. It’s most likely not more than eleven.”

“Quicker, Andrey! Quicker!” Mitya cried again, nervously.

“May I ask you something, sir?” said Andrey, after a pause. “Only I’m afraid of angering you, sir.”

“What is it?”

“Why, Fenya threw herself at your feet just now, and begged you not to harm her mistress, and some one else, too … so you see, sir— It’s I am taking you there … forgive me, sir, it’s my conscience … maybe it’s stupid of me to speak of it—”

Mitya suddenly seized him by the shoulders from behind.

“Are you a driver?” he asked frantically.

“Yes, sir.”

“Then you know that one has to make way. What would you say to a driver who wouldn’t make way for any one, but would just drive on and crush people? No, a driver mustn’t run over people. One can’t run over a man. One can’t spoil people’s lives. And if you have spoilt a life—punish yourself…. If only you’ve spoilt, if only you’ve ruined any one’s life—punish yourself and go away.”

These phrases burst from Mitya almost hysterically. Though Andrey was surprised at him, he kept up the conversation.

“That’s right, Dmitri Fyodorovitch, you’re quite right, one mustn’t crush or torment a man, or any kind of creature, for every creature is created by God. Take a horse, for instance, for some folks, even among us drivers, drive anyhow. Nothing will restrain them, they just force it along.”

“To hell?” Mitya interrupted, and went off into his abrupt, short laugh. “Andrey, simple soul,” he seized him by the shoulders again, “tell me, will Dmitri Fyodorovitch Karamazov go to hell, or not, what do you think?”

“I don’t know, darling, it depends on you, for you are … you see, sir, when the Son of God was nailed on the Cross and died, He went straight down to hell from the Cross, and set free all sinners that were in agony. And the devil groaned, because he thought that he would get no more sinners in hell. And God said to him, then, ‘Don’t groan, for you shall have all the mighty of the earth, the rulers, the chief judges, and the rich men, and shall be filled up as you have been in all the ages till I come again.’ Those were His very words …”

“A peasant legend! Capital! Whip up the left, Andrey!”

“So you see, sir, who it is hell’s for,” said Andrey, whipping up the left horse, “but you’re like a little child … that’s how we look on you … and though you’re hasty‐tempered, sir, yet God will forgive you for your kind heart.”

“And you, do you forgive me, Andrey?”

“What should I forgive you for, sir? You’ve never done me any harm.”

“No, for every one, for every one, you here alone, on the road, will you forgive me for every one? Speak, simple peasant heart!”

“Oh, sir! I feel afraid of driving you, your talk is so strange.”

But Mitya did not hear. He was frantically praying and muttering to himself.

“Lord, receive me, with all my lawlessness, and do not condemn me. Let me pass by Thy judgment … do not condemn me, for I have condemned myself, do not condemn me, for I love Thee, O Lord. I am a wretch, but I love Thee. If Thou sendest me to hell, I shall love Thee there, and from there I shall cry out that I love Thee for ever and ever…. But let me love to the end…. Here and now for just five hours … till the first light of Thy day … for I love the queen of my soul … I love her and I cannot help loving her. Thou seest my whole heart…. I shall gallop up, I shall fall before her and say, ‘You are right to pass on and leave me. Farewell and forget your victim … never fret yourself about me!’ ”

“Mokroe!” cried Andrey, pointing ahead with his whip.

Through the pale darkness of the night loomed a solid black mass of buildings, flung down, as it were, in the vast plain. The village of Mokroe numbered two thousand inhabitants, but at that hour all were asleep, and only here and there a few lights still twinkled.

“Drive on, Andrey, I come!” Mitya exclaimed, feverishly.

“They’re not asleep,” said Andrey again, pointing with his whip to the Plastunovs’ inn, which was at the entrance to the village. The six windows, looking on the street, were all brightly lighted up.

“They’re not asleep,” Mitya repeated joyously. “Quicker, Andrey! Gallop! Drive up with a dash! Set the bells ringing! Let all know that I have come. I’m coming! I’m coming, too!”

Andrey lashed his exhausted team into a gallop, drove with a dash and pulled up his steaming, panting horses at the high flight of steps.

Mitya jumped out of the cart just as the innkeeper, on his way to bed, peeped out from the steps curious to see who had arrived.

“Trifon Borissovitch, is that you?”

The innkeeper bent down, looked intently, ran down the steps, and rushed up to the guest with obsequious delight.

“Dmitri Fyodorovitch, your honor! Do I see you again?”

Trifon Borissovitch was a thick‐set, healthy peasant, of middle height, with a rather fat face. His expression was severe and uncompromising, especially with the peasants of Mokroe, but he had the power of assuming the most obsequious countenance, when he had an inkling that it was to his interest. He dressed in Russian style, with a shirt buttoning down on one side, and a full‐skirted coat. He had saved a good sum of money, but was for ever dreaming of improving his position. More than half the peasants were in his clutches, every one in the neighborhood was in debt to him. From the neighboring landowners he bought and rented lands which were worked by the peasants, in payment of debts which they could never shake off. He was a widower, with four grown‐up daughters. One of them was already a widow and lived in the inn with her two children, his grandchildren, and worked for him like a charwoman. Another of his daughters was married to a petty official, and in one of the rooms of the inn, on the wall could be seen, among the family photographs, a miniature photograph of this official in uniform and official epaulettes. The two younger daughters used to wear fashionable blue or green dresses, fitting tight at the back, and with trains a yard long, on Church holidays or when they went to pay visits. But next morning they would get up at dawn, as usual, sweep out the rooms with a birch‐broom, empty the slops, and clean up after lodgers.

In spite of the thousands of roubles he had saved, Trifon Borissovitch was very fond of emptying the pockets of a drunken guest, and remembering that not a month ago he had, in twenty‐four hours, made two if not three hundred roubles out of Dmitri, when he had come on his escapade with Grushenka, he met him now with eager welcome, scenting his prey the moment Mitya drove up to the steps.

“Dmitri Fyodorovitch, dear sir, we see you once more!”

“Stay, Trifon Borissovitch,” began Mitya, “first and foremost, where is she?”

“Agrafena Alexandrovna?” The inn‐keeper understood at once, looking sharply into Mitya’s face. “She’s here, too …”

“With whom? With whom?”

“Some strangers. One is an official gentleman, a Pole, to judge from his speech. He sent the horses for her from here; and there’s another with him, a friend of his, or a fellow traveler, there’s no telling. They’re dressed like civilians.”

“Well, are they feasting? Have they money?”

“Poor sort of a feast! Nothing to boast of, Dmitri Fyodorovitch.”

“Nothing to boast of? And who are the others?”

“They’re two gentlemen from the town…. They’ve come back from Tcherny, and are putting up here. One’s quite a young gentleman, a relative of Mr. Miüsov, he must be, but I’ve forgotten his name … and I expect you know the other, too, a gentleman called Maximov. He’s been on a pilgrimage, so he says, to the monastery in the town. He’s traveling with this young relation of Mr. Miüsov.”

“Is that all?”

“Yes.”

“Stay, listen, Trifon Borissovitch. Tell me the chief thing: What of her? How is she?”

“Oh, she’s only just come. She’s sitting with them.”

“Is she cheerful? Is she laughing?”

“No, I think she’s not laughing much. She’s sitting quite dull. She’s combing the young gentleman’s hair.”

“The Pole—the officer?”

“He’s not young, and he’s not an officer, either. Not him, sir. It’s the young gentleman that’s Mr. Miüsov’s relation … I’ve forgotten his name.”

“Kalganov.”

“That’s it, Kalganov!”

“All right. I’ll see for myself. Are they playing cards?”

“They have been playing, but they’ve left off. They’ve been drinking tea, the official gentleman asked for liqueurs.”

“Stay, Trifon Borissovitch, stay, my good soul, I’ll see for myself. Now answer one more question: are the gypsies here?”

“You can’t have the gypsies now, Dmitri Fyodorovitch. The authorities have sent them away. But we’ve Jews that play the cymbals and the fiddle in the village, so one might send for them. They’d come.”

“Send for them. Certainly send for them!” cried Mitya. “And you can get the girls together as you did then, Marya especially, Stepanida, too, and Arina. Two hundred roubles for a chorus!”

“Oh, for a sum like that I can get all the village together, though by now they’re asleep. Are the peasants here worth such kindness, Dmitri Fyodorovitch, or the girls either? To spend a sum like that on such coarseness and rudeness! What’s the good of giving a peasant a cigar to smoke, the stinking ruffian! And the girls are all lousy. Besides, I’ll get my daughters up for nothing, let alone a sum like that. They’ve only just gone to bed, I’ll give them a kick and set them singing for you. You gave the peasants champagne to drink the other day, e—ech!”

For all his pretended compassion for Mitya, Trifon Borissovitch had hidden half a dozen bottles of champagne on that last occasion, and had picked up a hundred‐rouble note under the table, and it had remained in his clutches.

“Trifon Borissovitch, I sent more than one thousand flying last time I was here. Do you remember?”

“You did send it flying. I may well remember. You must have left three thousand behind you.”

“Well, I’ve come to do the same again, do you see?”

And he pulled out his roll of notes, and held them up before the innkeeper’s nose.

“Now, listen and remember. In an hour’s time the wine will arrive, savories, pies, and sweets—bring them all up at once. That box Andrey has got is to be brought up at once, too. Open it, and hand champagne immediately. And the girls, we must have the girls, Marya especially.”

He turned to the cart and pulled out the box of pistols.

“Here, Andrey, let’s settle. Here’s fifteen roubles for the drive, and fifty for vodka … for your readiness, for your love…. Remember Karamazov!”

“I’m afraid, sir,” faltered Andrey. “Give me five roubles extra, but more I won’t take. Trifon Borissovitch, bear witness. Forgive my foolish words …”

“What are you afraid of?” asked Mitya, scanning him. “Well, go to the devil, if that’s it!” he cried, flinging him five roubles. “Now, Trifon Borissovitch, take me up quietly and let me first get a look at them, so that they don’t see me. Where are they? In the blue room?”

Trifon Borissovitch looked apprehensively at Mitya, but at once obediently did his bidding. Leading him into the passage, he went himself into the first large room, adjoining that in which the visitors were sitting, and took the light away. Then he stealthily led Mitya in, and put him in a corner in the dark, whence he could freely watch the company without being seen. But Mitya did not look long, and, indeed, he could not see them, he saw her, his heart throbbed violently, and all was dark before his eyes.

She was sitting sideways to the table in a low chair, and beside her, on the sofa, was the pretty youth, Kalganov. She was holding his hand and seemed to be laughing, while he, seeming vexed and not looking at her, was saying something in a loud voice to Maximov, who sat the other side of the table, facing Grushenka. Maximov was laughing violently at something. On the sofa sat he, and on a chair by the sofa there was another stranger. The one on the sofa was lolling backwards, smoking a pipe, and Mitya had an impression of a stoutish, broad‐faced, short little man, who was apparently angry about something. His friend, the other stranger, struck Mitya as extraordinarily tall, but he could make out nothing more. He caught his breath. He could not bear it for a minute, he put the pistol‐ case on a chest, and with a throbbing heart he walked, feeling cold all over, straight into the blue room to face the company.

“Aie!” shrieked Grushenka, the first to notice him.

Chapter VII.
The First And Rightful Lover
With his long, rapid strides, Mitya walked straight up to the table.

“Gentlemen,” he said in a loud voice, almost shouting, yet stammering at every word, “I … I’m all right! Don’t be afraid!” he exclaimed, “I—there’s nothing the matter,” he turned suddenly to Grushenka, who had shrunk back in her chair towards Kalganov, and clasped his hand tightly. “I … I’m coming, too. I’m here till morning. Gentlemen, may I stay with you till morning? Only till morning, for the last time, in this same room?”

So he finished, turning to the fat little man, with the pipe, sitting on the sofa. The latter removed his pipe from his lips with dignity and observed severely:

“Panie, we’re here in private. There are other rooms.”

“Why, it’s you, Dmitri Fyodorovitch! What do you mean?” answered Kalganov suddenly. “Sit down with us. How are you?”

“Delighted to see you, dear … and precious fellow, I always thought a lot of you.” Mitya responded, joyfully and eagerly, at once holding out his hand across the table.

“Aie! How tight you squeeze! You’ve quite broken my fingers,” laughed Kalganov.

“He always squeezes like that, always,” Grushenka put in gayly, with a timid smile, seeming suddenly convinced from Mitya’s face that he was not going to make a scene. She was watching him with intense curiosity and still some uneasiness. She was impressed by something about him, and indeed the last thing she expected of him was that he would come in and speak like this at such a moment.

“Good evening,” Maximov ventured blandly on the left. Mitya rushed up to him, too.

“Good evening. You’re here, too! How glad I am to find you here, too! Gentlemen, gentlemen, I—” (He addressed the Polish gentleman with the pipe again, evidently taking him for the most important person present.) “I flew here…. I wanted to spend my last day, my last hour in this room, in this very room … where I, too, adored … my queen…. Forgive me, panie,” he cried wildly, “I flew here and vowed— Oh, don’t be afraid, it’s my last night! Let’s drink to our good understanding. They’ll bring the wine at once…. I brought this with me.” (Something made him pull out his bundle of notes.) “Allow me, panie! I want to have music, singing, a revel, as we had before. But the worm, the unnecessary worm, will crawl away, and there’ll be no more of him. I will commemorate my day of joy on my last night.”

He was almost choking. There was so much, so much he wanted to say, but strange exclamations were all that came from his lips. The Pole gazed fixedly at him, at the bundle of notes in his hand; looked at Grushenka, and was in evident perplexity.

“If my suverin lady is permitting—” he was beginning.

“What does ‘suverin’ mean? ‘Sovereign,’ I suppose?” interrupted Grushenka. “I can’t help laughing at you, the way you talk. Sit down, Mitya, what are you talking about? Don’t frighten us, please. You won’t frighten us, will you? If you won’t, I am glad to see you …”

“Me, me frighten you?” cried Mitya, flinging up his hands. “Oh, pass me by, go your way, I won’t hinder you!…”

And suddenly he surprised them all, and no doubt himself as well, by flinging himself on a chair, and bursting into tears, turning his head away to the opposite wall, while his arms clasped the back of the chair tight, as though embracing it.

“Come, come, what a fellow you are!” cried Grushenka reproachfully. “That’s just how he comes to see me—he begins talking, and I can’t make out what he means. He cried like that once before, and now he’s crying again! It’s shameful! Why are you crying? As though you had anything to cry for!” she added enigmatically, emphasizing each word with some irritability.

“I … I’m not crying…. Well, good evening!” He instantly turned round in his chair, and suddenly laughed, not his abrupt wooden laugh, but a long, quivering, inaudible nervous laugh.

“Well, there you are again…. Come, cheer up, cheer up!” Grushenka said to him persuasively. “I’m very glad you’ve come, very glad, Mitya, do you hear, I’m very glad! I want him to stay here with us,” she said peremptorily, addressing the whole company, though her words were obviously meant for the man sitting on the sofa. “I wish it, I wish it! And if he goes away I shall go, too!” she added with flashing eyes.

“What my queen commands is law!” pronounced the Pole, gallantly kissing Grushenka’s hand. “I beg you, panie, to join our company,” he added politely, addressing Mitya.

Mitya was jumping up with the obvious intention of delivering another tirade, but the words did not come.

“Let’s drink, panie,” he blurted out instead of making a speech. Every one laughed.

“Good heavens! I thought he was going to begin again!” Grushenka exclaimed nervously. “Do you hear, Mitya,” she went on insistently, “don’t prance about, but it’s nice you’ve brought the champagne. I want some myself, and I can’t bear liqueurs. And best of all, you’ve come yourself. We were fearfully dull here…. You’ve come for a spree again, I suppose? But put your money in your pocket. Where did you get such a lot?”

Mitya had been, all this time, holding in his hand the crumpled bundle of notes on which the eyes of all, especially of the Poles, were fixed. In confusion he thrust them hurriedly into his pocket. He flushed. At that moment the innkeeper brought in an uncorked bottle of champagne, and glasses on a tray. Mitya snatched up the bottle, but he was so bewildered that he did not know what to do with it. Kalganov took it from him and poured out the champagne.

“Another! Another bottle!” Mitya cried to the innkeeper, and, forgetting to clink glasses with the Pole whom he had so solemnly invited to drink to their good understanding, he drank off his glass without waiting for any one else. His whole countenance suddenly changed. The solemn and tragic expression with which he had entered vanished completely, and a look of something childlike came into his face. He seemed to have become suddenly gentle and subdued. He looked shyly and happily at every one, with a continual nervous little laugh, and the blissful expression of a dog who has done wrong, been punished, and forgiven. He seemed to have forgotten everything, and was looking round at every one with a childlike smile of delight. He looked at Grushenka, laughing continually, and bringing his chair close up to her. By degrees he had gained some idea of the two Poles, though he had formed no definite conception of them yet.

The Pole on the sofa struck him by his dignified demeanor and his Polish accent; and, above all, by his pipe. “Well, what of it? It’s a good thing he’s smoking a pipe,” he reflected. The Pole’s puffy, middle‐aged face, with its tiny nose and two very thin, pointed, dyed and impudent‐looking mustaches, had not so far roused the faintest doubts in Mitya. He was not even particularly struck by the Pole’s absurd wig made in Siberia, with love‐locks foolishly combed forward over the temples. “I suppose it’s all right since he wears a wig,” he went on, musing blissfully. The other, younger Pole, who was staring insolently and defiantly at the company and listening to the conversation with silent contempt, still only impressed Mitya by his great height, which was in striking contrast to the Pole on the sofa. “If he stood up he’d be six foot three.” The thought flitted through Mitya’s mind. It occurred to him, too, that this Pole must be the friend of the other, as it were, a “bodyguard,” and no doubt the big Pole was at the disposal of the little Pole with the pipe. But this all seemed to Mitya perfectly right and not to be questioned. In his mood of doglike submissiveness all feeling of rivalry had died away.

Grushenka’s mood and the enigmatic tone of some of her words he completely failed to grasp. All he understood, with thrilling heart, was that she was kind to him, that she had forgiven him, and made him sit by her. He was beside himself with delight, watching her sip her glass of champagne. The silence of the company seemed somehow to strike him, however, and he looked round at every one with expectant eyes.

“Why are we sitting here though, gentlemen? Why don’t you begin doing something?” his smiling eyes seemed to ask.

“He keeps talking nonsense, and we were all laughing,” Kalganov began suddenly, as though divining his thought, and pointing to Maximov.

Mitya immediately stared at Kalganov and then at Maximov.

“He’s talking nonsense?” he laughed, his short, wooden laugh, seeming suddenly delighted at something—“ha ha!”

“Yes. Would you believe it, he will have it that all our cavalry officers in the twenties married Polish women. That’s awful rot, isn’t it?”

“Polish women?” repeated Mitya, perfectly ecstatic.

Kalganov was well aware of Mitya’s attitude to Grushenka, and he guessed about the Pole, too, but that did not so much interest him, perhaps did not interest him at all; what he was interested in was Maximov. He had come here with Maximov by chance, and he met the Poles here at the inn for the first time in his life. Grushenka he knew before, and had once been with some one to see her; but she had not taken to him. But here she looked at him very affectionately: before Mitya’s arrival, she had been making much of him, but he seemed somehow to be unmoved by it. He was a boy, not over twenty, dressed like a dandy, with a very charming fair‐ skinned face, and splendid thick, fair hair. From his fair face looked out beautiful pale blue eyes, with an intelligent and sometimes even deep expression, beyond his age indeed, although the young man sometimes looked and talked quite like a child, and was not at all ashamed of it, even when he was aware of it himself. As a rule he was very willful, even capricious, though always friendly. Sometimes there was something fixed and obstinate in his expression. He would look at you and listen, seeming all the while to be persistently dreaming over something else. Often he was listless and lazy, at other times he would grow excited, sometimes, apparently, over the most trivial matters.

“Only imagine, I’ve been taking him about with me for the last four days,” he went on, indolently drawling his words, quite naturally though, without the slightest affectation. “Ever since your brother, do you remember, shoved him off the carriage and sent him flying. That made me take an interest in him at the time, and I took him into the country, but he keeps talking such rot I’m ashamed to be with him. I’m taking him back.”

“The gentleman has not seen Polish ladies, and says what is impossible,” the Pole with the pipe observed to Maximov.

He spoke Russian fairly well, much better, anyway, than he pretended. If he used Russian words, he always distorted them into a Polish form.

“But I was married to a Polish lady myself,” tittered Maximov.

“But did you serve in the cavalry? You were talking about the cavalry. Were you a cavalry officer?” put in Kalganov at once.

“Was he a cavalry officer indeed? Ha ha!” cried Mitya, listening eagerly, and turning his inquiring eyes to each as he spoke, as though there were no knowing what he might hear from each.

“No, you see,” Maximov turned to him. “What I mean is that those pretty Polish ladies … when they danced the mazurka with our Uhlans … when one of them dances a mazurka with a Uhlan she jumps on his knee like a kitten … a little white one … and the pan‐father and pan‐mother look on and allow it…. They allow it … and next day the Uhlan comes and offers her his hand…. That’s how it is … offers her his hand, he he!” Maximov ended, tittering.

“The pan is a lajdak!” the tall Pole on the chair growled suddenly and crossed one leg over the other. Mitya’s eye was caught by his huge greased boot, with its thick, dirty sole. The dress of both the Poles looked rather greasy.

“Well, now it’s lajdak! What’s he scolding about?” said Grushenka, suddenly vexed.

“Pani Agrippina, what the gentleman saw in Poland were servant girls, and not ladies of good birth,” the Pole with the pipe observed to Grushenka.

“You can reckon on that,” the tall Pole snapped contemptuously.

“What next! Let him talk! People talk, why hinder them? It makes it cheerful,” Grushenka said crossly.

“I’m not hindering them, pani,” said the Pole in the wig, with a long look at Grushenka, and relapsing into dignified silence he sucked his pipe again.

“No, no. The Polish gentleman spoke the truth.” Kalganov got excited again, as though it were a question of vast import. “He’s never been in Poland, so how can he talk about it? I suppose you weren’t married in Poland, were you?”

“No, in the Province of Smolensk. Only, a Uhlan had brought her to Russia before that, my future wife, with her mamma and her aunt, and another female relation with a grown‐up son. He brought her straight from Poland and gave her up to me. He was a lieutenant in our regiment, a very nice young man. At first he meant to marry her himself. But he didn’t marry her, because she turned out to be lame.”

“So you married a lame woman?” cried Kalganov.

“Yes. They both deceived me a little bit at the time, and concealed it. I thought she was hopping; she kept hopping…. I thought it was for fun.”

“So pleased she was going to marry you!” yelled Kalganov, in a ringing, childish voice.

“Yes, so pleased. But it turned out to be quite a different cause. Afterwards, when we were married, after the wedding, that very evening, she confessed, and very touchingly asked forgiveness. ‘I once jumped over a puddle when I was a child,’ she said, ‘and injured my leg.’ He he!”

Kalganov went off into the most childish laughter, almost falling on the sofa. Grushenka, too, laughed. Mitya was at the pinnacle of happiness.

“Do you know, that’s the truth, he’s not lying now,” exclaimed Kalganov, turning to Mitya; “and do you know, he’s been married twice; it’s his first wife he’s talking about. But his second wife, do you know, ran away, and is alive now.”

“Is it possible?” said Mitya, turning quickly to Maximov with an expression of the utmost astonishment.

“Yes. She did run away. I’ve had that unpleasant experience,” Maximov modestly assented, “with a monsieur. And what was worse, she’d had all my little property transferred to her beforehand. ‘You’re an educated man,’ she said to me. ‘You can always get your living.’ She settled my business with that. A venerable bishop once said to me: ‘One of your wives was lame, but the other was too light‐footed.’ He he!”

“Listen, listen!” cried Kalganov, bubbling over, “if he’s telling lies—and he often is—he’s only doing it to amuse us all. There’s no harm in that, is there? You know, I sometimes like him. He’s awfully low, but it’s natural to him, eh? Don’t you think so? Some people are low from self‐ interest, but he’s simply so, from nature. Only fancy, he claims (he was arguing about it all the way yesterday) that Gogol wrote Dead Souls about him. Do you remember, there’s a landowner called Maximov in it, whom Nozdryov thrashed. He was charged, do you remember, ‘for inflicting bodily injury with rods on the landowner Maximov in a drunken condition.’ Would you believe it, he claims that he was that Maximov and that he was beaten! Now can it be so? Tchitchikov made his journey, at the very latest, at the beginning of the twenties, so that the dates don’t fit. He couldn’t have been thrashed then, he couldn’t, could he?”

It was difficult to imagine what Kalganov was excited about, but his excitement was genuine. Mitya followed his lead without protest.

“Well, but if they did thrash him!” he cried, laughing.

“It’s not that they thrashed me exactly, but what I mean is—” put in Maximov.

“What do you mean? Either they thrashed you or they didn’t.”

“What o’clock is it, panie?” the Pole, with the pipe, asked his tall friend, with a bored expression. The other shrugged his shoulders in reply. Neither of them had a watch.

“Why not talk? Let other people talk. Mustn’t other people talk because you’re bored?” Grushenka flew at him with evident intention of finding fault. Something seemed for the first time to flash upon Mitya’s mind. This time the Pole answered with unmistakable irritability.

“Pani, I didn’t oppose it. I didn’t say anything.”

“All right then. Come, tell us your story,” Grushenka cried to Maximov. “Why are you all silent?”

“There’s nothing to tell, it’s all so foolish,” answered Maximov at once, with evident satisfaction, mincing a little. “Besides, all that’s by way of allegory in Gogol, for he’s made all the names have a meaning. Nozdryov was really called Nosov, and Kuvshinikov had quite a different name, he was called Shkvornev. Fenardi really was called Fenardi, only he wasn’t an Italian but a Russian, and Mamsel Fenardi was a pretty girl with her pretty little legs in tights, and she had a little short skirt with spangles, and she kept turning round and round, only not for four hours but for four minutes only, and she bewitched every one…”

“But what were you beaten for?” cried Kalganov.

“For Piron!” answered Maximov.

“What Piron?” cried Mitya.

“The famous French writer, Piron. We were all drinking then, a big party of us, in a tavern at that very fair. They’d invited me, and first of all I began quoting epigrams. ‘Is that you, Boileau? What a funny get‐up!’ and Boileau answers that he’s going to a masquerade, that is to the baths, he he! And they took it to themselves, so I made haste to repeat another, very sarcastic, well known to all educated people:

Yes, Sappho and Phaon are we!
But one grief is weighing on me.
You don’t know your way to the sea!

They were still more offended and began abusing me in the most unseemly way for it. And as ill‐luck would have it, to set things right, I began telling a very cultivated anecdote about Piron, how he was not accepted into the French Academy, and to revenge himself wrote his own epitaph:

Ci‐gît Piron qui ne fut rien,
Pas même académicien.

They seized me and thrashed me.”

“But what for? What for?”

“For my education. People can thrash a man for anything,” Maximov concluded, briefly and sententiously.

“Eh, that’s enough! That’s all stupid, I don’t want to listen. I thought it would be amusing,” Grushenka cut them short, suddenly.

Mitya started, and at once left off laughing. The tall Pole rose upon his feet, and with the haughty air of a man, bored and out of his element, began pacing from corner to corner of the room, his hands behind his back.

“Ah, he can’t sit still,” said Grushenka, looking at him contemptuously. Mitya began to feel anxious. He noticed besides, that the Pole on the sofa was looking at him with an irritable expression.

“Panie!” cried Mitya, “let’s drink! and the other pan, too! Let us drink.”

In a flash he had pulled three glasses towards him, and filled them with champagne.

“To Poland, panovie, I drink to your Poland!” cried Mitya.

“I shall be delighted, panie,” said the Pole on the sofa, with dignity and affable condescension, and he took his glass.

“And the other pan, what’s his name? Drink, most illustrious, take your glass!” Mitya urged.

“Pan Vrublevsky,” put in the Pole on the sofa.

Pan Vrublevsky came up to the table, swaying as he walked.

“To Poland, panovie!” cried Mitya, raising his glass. “Hurrah!”

All three drank. Mitya seized the bottle and again poured out three glasses.

“Now to Russia, panovie, and let us be brothers!”

“Pour out some for us,” said Grushenka; “I’ll drink to Russia, too!”

“So will I,” said Kalganov.

“And I would, too … to Russia, the old grandmother!” tittered Maximov.

“All! All!” cried Mitya. “Trifon Borissovitch, some more bottles!”

The other three bottles Mitya had brought with him were put on the table. Mitya filled the glasses.

“To Russia! Hurrah!” he shouted again. All drank the toast except the Poles, and Grushenka tossed off her whole glass at once. The Poles did not touch theirs.

“How’s this, panovie?” cried Mitya, “won’t you drink it?”

Pan Vrublevsky took the glass, raised it and said with a resonant voice:

“To Russia as she was before 1772.”

“Come, that’s better!” cried the other Pole, and they both emptied their glasses at once.

“You’re fools, you panovie,” broke suddenly from Mitya.

“Panie!” shouted both the Poles, menacingly, setting on Mitya like a couple of cocks. Pan Vrublevsky was specially furious.

“Can one help loving one’s own country?” he shouted.

“Be silent! Don’t quarrel! I won’t have any quarreling!” cried Grushenka imperiously, and she stamped her foot on the floor. Her face glowed, her eyes were shining. The effects of the glass she had just drunk were apparent. Mitya was terribly alarmed.

“Panovie, forgive me! It was my fault, I’m sorry. Vrublevsky, panie Vrublevsky, I’m sorry.”

“Hold your tongue, you, anyway! Sit down, you stupid!” Grushenka scolded with angry annoyance.

Every one sat down, all were silent, looking at one another.

“Gentlemen, I was the cause of it all,” Mitya began again, unable to make anything of Grushenka’s words. “Come, why are we sitting here? What shall we do … to amuse ourselves again?”

“Ach, it’s certainly anything but amusing!” Kalganov mumbled lazily.

“Let’s play faro again, as we did just now,” Maximov tittered suddenly.

“Faro? Splendid!” cried Mitya. “If only the panovie—”

“It’s lite, panovie,” the Pole on the sofa responded, as it were unwillingly.

“That’s true,” assented Pan Vrublevsky.

“Lite? What do you mean by ‘lite’?” asked Grushenka.

“Late, pani! ‘a late hour’ I mean,” the Pole on the sofa explained.

“It’s always late with them. They can never do anything!” Grushenka almost shrieked in her anger. “They’re dull themselves, so they want others to be dull. Before you came, Mitya, they were just as silent and kept turning up their noses at me.”

“My goddess!” cried the Pole on the sofa, “I see you’re not well‐disposed to me, that’s why I’m gloomy. I’m ready, panie,” added he, addressing Mitya.

“Begin, panie,” Mitya assented, pulling his notes out of his pocket, and laying two hundred‐rouble notes on the table. “I want to lose a lot to you. Take your cards. Make the bank.”

“We’ll have cards from the landlord, panie,” said the little Pole, gravely and emphatically.

“That’s much the best way,” chimed in Pan Vrublevsky.

“From the landlord? Very good, I understand, let’s get them from him. Cards!” Mitya shouted to the landlord.

The landlord brought in a new, unopened pack, and informed Mitya that the girls were getting ready, and that the Jews with the cymbals would most likely be here soon; but the cart with the provisions had not yet arrived. Mitya jumped up from the table and ran into the next room to give orders, but only three girls had arrived, and Marya was not there yet. And he did not know himself what orders to give and why he had run out. He only told them to take out of the box the presents for the girls, the sweets, the toffee and the fondants. “And vodka for Andrey, vodka for Andrey!” he cried in haste. “I was rude to Andrey!”

Suddenly Maximov, who had followed him out, touched him on the shoulder.

“Give me five roubles,” he whispered to Mitya. “I’ll stake something at faro, too, he he!”

“Capital! Splendid! Take ten, here!”

Again he took all the notes out of his pocket and picked out one for ten roubles. “And if you lose that, come again, come again.”

“Very good,” Maximov whispered joyfully, and he ran back again. Mitya, too, returned, apologizing for having kept them waiting. The Poles had already sat down, and opened the pack. They looked much more amiable, almost cordial. The Pole on the sofa had lighted another pipe and was preparing to throw. He wore an air of solemnity.

“To your places, gentlemen,” cried Pan Vrublevsky.

“No, I’m not going to play any more,” observed Kalganov, “I’ve lost fifty roubles to them just now.”

“The pan had no luck, perhaps he’ll be lucky this time,” the Pole on the sofa observed in his direction.

“How much in the bank? To correspond?” asked Mitya.

“That’s according, panie, maybe a hundred, maybe two hundred, as much as you will stake.”

“A million!” laughed Mitya.

“The Pan Captain has heard of Pan Podvysotsky, perhaps?”

“What Podvysotsky?”

“In Warsaw there was a bank and any one comes and stakes against it. Podvysotsky comes, sees a thousand gold pieces, stakes against the bank. The banker says, ‘Panie Podvysotsky, are you laying down the gold, or must we trust to your honor?’ ‘To my honor, panie,’ says Podvysotsky. ‘So much the better.’ The banker throws the dice. Podvysotsky wins. ‘Take it, panie,’ says the banker, and pulling out the drawer he gives him a million. ‘Take it, panie, this is your gain.’ There was a million in the bank. ‘I didn’t know that,’ says Podvysotsky. ‘Panie Podvysotsky,’ said the banker, ‘you pledged your honor and we pledged ours.’ Podvysotsky took the million.”

“That’s not true,” said Kalganov.

“Panie Kalganov, in gentlemanly society one doesn’t say such things.”

“As if a Polish gambler would give away a million!” cried Mitya, but checked himself at once. “Forgive me, panie, it’s my fault again, he would, he would give away a million, for honor, for Polish honor. You see how I talk Polish, ha ha! Here, I stake ten roubles, the knave leads.”

“And I put a rouble on the queen, the queen of hearts, the pretty little panienotchka, he he!” laughed Maximov, pulling out his queen, and, as though trying to conceal it from every one, he moved right up and crossed himself hurriedly under the table. Mitya won. The rouble won, too.

“A corner!” cried Mitya.

“I’ll bet another rouble, a ‘single’ stake,” Maximov muttered gleefully, hugely delighted at having won a rouble.

“Lost!” shouted Mitya. “A ‘double’ on the seven!”

The seven too was trumped.

“Stop!” cried Kalganov suddenly.

“Double! Double!” Mitya doubled his stakes, and each time he doubled the stake, the card he doubled was trumped by the Poles. The rouble stakes kept winning.

“On the double!” shouted Mitya furiously.

“You’ve lost two hundred, panie. Will you stake another hundred?” the Pole on the sofa inquired.

“What? Lost two hundred already? Then another two hundred! All doubles!”

And pulling his money out of his pocket, Mitya was about to fling two hundred roubles on the queen, but Kalganov covered it with his hand.

“That’s enough!” he shouted in his ringing voice.

“What’s the matter?” Mitya stared at him.

“That’s enough! I don’t want you to play any more. Don’t!”

“Why?”

“Because I don’t. Hang it, come away. That’s why. I won’t let you go on playing.”

Mitya gazed at him in astonishment.

“Give it up, Mitya. He may be right. You’ve lost a lot as it is,” said Grushenka, with a curious note in her voice. Both the Poles rose from their seats with a deeply offended air.

“Are you joking, panie?” said the short man, looking severely at Kalganov.

“How dare you!” Pan Vrublevsky, too, growled at Kalganov.

“Don’t dare to shout like that,” cried Grushenka. “Ah, you turkey‐cocks!”

Mitya looked at each of them in turn. But something in Grushenka’s face suddenly struck him, and at the same instant something new flashed into his mind—a strange new thought!

“Pani Agrippina,” the little Pole was beginning, crimson with anger, when Mitya suddenly went up to him and slapped him on the shoulder.

“Most illustrious, two words with you.”

“What do you want?”

“In the next room, I’ve two words to say to you, something pleasant, very pleasant. You’ll be glad to hear it.”

The little pan was taken aback and looked apprehensively at Mitya. He agreed at once, however, on condition that Pan Vrublevsky went with them.

“The bodyguard? Let him come, and I want him, too. I must have him!” cried Mitya. “March, panovie!”

“Where are you going?” asked Grushenka, anxiously.

“We’ll be back in one moment,” answered Mitya.

There was a sort of boldness, a sudden confidence shining in his eyes. His face had looked very different when he entered the room an hour before.

He led the Poles, not into the large room where the chorus of girls was assembling and the table was being laid, but into the bedroom on the right, where the trunks and packages were kept, and there were two large beds, with pyramids of cotton pillows on each. There was a lighted candle on a small deal table in the corner. The small man and Mitya sat down to this table, facing each other, while the huge Vrublevsky stood beside them, his hands behind his back. The Poles looked severe but were evidently inquisitive.

“What can I do for you, panie?” lisped the little Pole.

“Well, look here, panie, I won’t keep you long. There’s money for you,” he pulled out his notes. “Would you like three thousand? Take it and go your way.”

The Pole gazed open‐eyed at Mitya, with a searching look.

“Three thousand, panie?” He exchanged glances with Vrublevsky.

“Three, panovie, three! Listen, panie, I see you’re a sensible man. Take three thousand and go to the devil, and Vrublevsky with you—d’you hear? But, at once, this very minute, and for ever. You understand that, panie, for ever. Here’s the door, you go out of it. What have you got there, a great‐coat, a fur coat? I’ll bring it out to you. They’ll get the horses out directly, and then—good‐by, panie!”

Mitya awaited an answer with assurance. He had no doubts. An expression of extraordinary resolution passed over the Pole’s face.

“And the money, panie?”

“The money, panie? Five hundred roubles I’ll give you this moment for the journey, and as a first installment, and two thousand five hundred to‐ morrow, in the town—I swear on my honor, I’ll get it, I’ll get it at any cost!” cried Mitya.

The Poles exchanged glances again. The short man’s face looked more forbidding.

“Seven hundred, seven hundred, not five hundred, at once, this minute, cash down!” Mitya added, feeling something wrong. “What’s the matter, panie? Don’t you trust me? I can’t give you the whole three thousand straight off. If I give it, you may come back to her to‐morrow…. Besides, I haven’t the three thousand with me. I’ve got it at home in the town,” faltered Mitya, his spirit sinking at every word he uttered. “Upon my word, the money’s there, hidden.”

In an instant an extraordinary sense of personal dignity showed itself in the little man’s face.

“What next?” he asked ironically. “For shame!” and he spat on the floor. Pan Vrublevsky spat too.

“You do that, panie,” said Mitya, recognizing with despair that all was over, “because you hope to make more out of Grushenka? You’re a couple of capons, that’s what you are!”

“This is a mortal insult!” The little Pole turned as red as a crab, and he went out of the room, briskly, as though unwilling to hear another word. Vrublevsky swung out after him, and Mitya followed, confused and crestfallen. He was afraid of Grushenka, afraid that the pan would at once raise an outcry. And so indeed he did. The Pole walked into the room and threw himself in a theatrical attitude before Grushenka.

“Pani Agrippina, I have received a mortal insult!” he exclaimed. But Grushenka suddenly lost all patience, as though they had wounded her in the tenderest spot.

“Speak Russian! Speak Russian!” she cried, “not another word of Polish! You used to talk Russian. You can’t have forgotten it in five years.”

She was red with passion.

“Pani Agrippina—”

“My name’s Agrafena, Grushenka, speak Russian or I won’t listen!”

The Pole gasped with offended dignity, and quickly and pompously delivered himself in broken Russian:

“Pani Agrafena, I came here to forget the past and forgive it, to forget all that has happened till to‐day—”

“Forgive? Came here to forgive me?” Grushenka cut him short, jumping up from her seat.

“Just so, pani, I’m not pusillanimous, I’m magnanimous. But I was astounded when I saw your lovers. Pan Mitya offered me three thousand, in the other room to depart. I spat in the pan’s face.”

“What? He offered you money for me?” cried Grushenka, hysterically. “Is it true, Mitya? How dare you? Am I for sale?”

“Panie, panie!” yelled Mitya, “she’s pure and shining, and I have never been her lover! That’s a lie….”

“How dare you defend me to him?” shrieked Grushenka. “It wasn’t virtue kept me pure, and it wasn’t that I was afraid of Kuzma, but that I might hold up my head when I met him, and tell him he’s a scoundrel. And he did actually refuse the money?”

“He took it! He took it!” cried Mitya; “only he wanted to get the whole three thousand at once, and I could only give him seven hundred straight off.”

“I see: he heard I had money, and came here to marry me!”

“Pani Agrippina!” cried the little Pole. “I’m—a knight, I’m—a nobleman, and not a lajdak. I came here to make you my wife and I find you a different woman, perverse and shameless.”

“Oh, go back where you came from! I’ll tell them to turn you out and you’ll be turned out,” cried Grushenka, furious. “I’ve been a fool, a fool, to have been miserable these five years! And it wasn’t for his sake, it was my anger made me miserable. And this isn’t he at all! Was he like this? It might be his father! Where did you get your wig from? He was a falcon, but this is a gander. He used to laugh and sing to me…. And I’ve been crying for five years, damned fool, abject, shameless I was!”

She sank back in her low chair and hid her face in her hands. At that instant the chorus of Mokroe began singing in the room on the left—a rollicking dance song.

“A regular Sodom!” Vrublevsky roared suddenly. “Landlord, send the shameless hussies away!”

The landlord, who had been for some time past inquisitively peeping in at the door, hearing shouts and guessing that his guests were quarreling, at once entered the room.

“What are you shouting for? D’you want to split your throat?” he said, addressing Vrublevsky, with surprising rudeness.

“Animal!” bellowed Pan Vrublevsky.

“Animal? And what sort of cards were you playing with just now? I gave you a pack and you hid it. You played with marked cards! I could send you to Siberia for playing with false cards, d’you know that, for it’s just the same as false banknotes….”

And going up to the sofa he thrust his fingers between the sofa back and the cushion, and pulled out an unopened pack of cards.

“Here’s my pack unopened!”

He held it up and showed it to all in the room. “From where I stood I saw him slip my pack away, and put his in place of it—you’re a cheat and not a gentleman!”

“And I twice saw the pan change a card!” cried Kalganov.

“How shameful! How shameful!” exclaimed Grushenka, clasping her hands, and blushing for genuine shame. “Good Lord, he’s come to that!”

“I thought so, too!” said Mitya. But before he had uttered the words, Vrublevsky, with a confused and infuriated face, shook his fist at Grushenka, shouting:

“You low harlot!”

Mitya flew at him at once, clutched him in both hands, lifted him in the air, and in one instant had carried him into the room on the right, from which they had just come.

“I’ve laid him on the floor, there,” he announced, returning at once, gasping with excitement. “He’s struggling, the scoundrel! But he won’t come back, no fear of that!…”

He closed one half of the folding doors, and holding the other ajar called out to the little Pole:

“Most illustrious, will you be pleased to retire as well?”

“My dear Dmitri Fyodorovitch,” said Trifon Borissovitch, “make them give you back the money you lost. It’s as good as stolen from you.”

“I don’t want my fifty roubles back,” Kalganov declared suddenly.

“I don’t want my two hundred, either,” cried Mitya, “I wouldn’t take it for anything! Let him keep it as a consolation.”

“Bravo, Mitya! You’re a trump, Mitya!” cried Grushenka, and there was a note of fierce anger in the exclamation.

The little pan, crimson with fury but still mindful of his dignity, was making for the door, but he stopped short and said suddenly, addressing Grushenka:

“Pani, if you want to come with me, come. If not, good‐by.”

And swelling with indignation and importance he went to the door. This was a man of character: he had so good an opinion of himself that after all that had passed, he still expected that she would marry him. Mitya slammed the door after him.

“Lock it,” said Kalganov. But the key clicked on the other side, they had locked it from within.

“That’s capital!” exclaimed Grushenka relentlessly. “Serve them right!”

Chapter VIII.
Delirium
What followed was almost an orgy, a feast to which all were welcome. Grushenka was the first to call for wine.

“I want to drink. I want to be quite drunk, as we were before. Do you remember, Mitya, do you remember how we made friends here last time!”

Mitya himself was almost delirious, feeling that his happiness was at hand. But Grushenka was continually sending him away from her.

“Go and enjoy yourself. Tell them to dance, to make merry, ‘let the stove and cottage dance’; as we had it last time,” she kept exclaiming. She was tremendously excited. And Mitya hastened to obey her. The chorus were in the next room. The room in which they had been sitting till that moment was too small, and was divided in two by cotton curtains, behind which was a huge bed with a puffy feather mattress and a pyramid of cotton pillows. In the four rooms for visitors there were beds. Grushenka settled herself just at the door. Mitya set an easy chair for her. She had sat in the same place to watch the dancing and singing “the time before,” when they had made merry there. All the girls who had come had been there then; the Jewish band with fiddles and zithers had come, too, and at last the long expected cart had arrived with the wines and provisions.

Mitya bustled about. All sorts of people began coming into the room to look on, peasants and their women, who had been roused from sleep and attracted by the hopes of another marvelous entertainment such as they had enjoyed a month before. Mitya remembered their faces, greeting and embracing every one he knew. He uncorked bottles and poured out wine for every one who presented himself. Only the girls were very eager for the champagne. The men preferred rum, brandy, and, above all, hot punch. Mitya had chocolate made for all the girls, and ordered that three samovars should be kept boiling all night to provide tea and punch for everyone to help himself.

An absurd chaotic confusion followed, but Mitya was in his natural element, and the more foolish it became, the more his spirits rose. If the peasants had asked him for money at that moment, he would have pulled out his notes and given them away right and left. This was probably why the landlord, Trifon Borissovitch, kept hovering about Mitya to protect him. He seemed to have given up all idea of going to bed that night; but he drank little, only one glass of punch, and kept a sharp look‐out on Mitya’s interests after his own fashion. He intervened in the nick of time, civilly and obsequiously persuading Mitya not to give away “cigars and Rhine wine,” and, above all, money to the peasants as he had done before. He was very indignant, too, at the peasant girls drinking liqueur, and eating sweets.

“They’re a lousy lot, Dmitri Fyodorovitch,” he said. “I’d give them a kick, every one of them, and they’d take it as an honor—that’s all they’re worth!”

Mitya remembered Andrey again, and ordered punch to be sent out to him. “I was rude to him just now,” he repeated with a sinking, softened voice. Kalganov did not want to drink, and at first did not care for the girls’ singing; but after he had drunk a couple of glasses of champagne he became extraordinarily lively, strolling about the room, laughing and praising the music and the songs, admiring every one and everything. Maximov, blissfully drunk, never left his side. Grushenka, too, was beginning to get drunk. Pointing to Kalganov, she said to Mitya:

“What a dear, charming boy he is!”

And Mitya, delighted, ran to kiss Kalganov and Maximov. Oh, great were his hopes! She had said nothing yet, and seemed, indeed, purposely to refrain from speaking. But she looked at him from time to time with caressing and passionate eyes. At last she suddenly gripped his hand and drew him vigorously to her. She was sitting at the moment in the low chair by the door.

“How was it you came just now, eh? Have you walked in!… I was frightened. So you wanted to give me up to him, did you? Did you really want to?”

“I didn’t want to spoil your happiness!” Mitya faltered blissfully. But she did not need his answer.

“Well, go and enjoy yourself …” she sent him away once more. “Don’t cry, I’ll call you back again.”

He would run away, and she listened to the singing and looked at the dancing, though her eyes followed him wherever he went. But in another quarter of an hour she would call him once more and again he would run back to her.

“Come, sit beside me, tell me, how did you hear about me, and my coming here yesterday? From whom did you first hear it?”

And Mitya began telling her all about it, disconnectedly, incoherently, feverishly. He spoke strangely, often frowning, and stopping abruptly.

“What are you frowning at?” she asked.

“Nothing…. I left a man ill there. I’d give ten years of my life for him to get well, to know he was all right!”

“Well, never mind him, if he’s ill. So you meant to shoot yourself to‐ morrow! What a silly boy! What for? I like such reckless fellows as you,” she lisped, with a rather halting tongue. “So you would go any length for me, eh? Did you really mean to shoot yourself to‐morrow, you stupid? No, wait a little. To‐morrow I may have something to say to you…. I won’t say it to‐day, but to‐morrow. You’d like it to be to‐day? No, I don’t want to to‐day. Come, go along now, go and amuse yourself.”

Once, however, she called him, as it were, puzzled and uneasy.

“Why are you sad? I see you’re sad…. Yes, I see it,” she added, looking intently into his eyes. “Though you keep kissing the peasants and shouting, I see something. No, be merry. I’m merry; you be merry, too…. I love somebody here. Guess who it is. Ah, look, my boy has fallen asleep, poor dear, he’s drunk.”

She meant Kalganov. He was, in fact, drunk, and had dropped asleep for a moment, sitting on the sofa. But he was not merely drowsy from drink; he felt suddenly dejected, or, as he said, “bored.” He was intensely depressed by the girls’ songs, which, as the drinking went on, gradually became coarse and more reckless. And the dances were as bad. Two girls dressed up as bears, and a lively girl, called Stepanida, with a stick in her hand, acted the part of keeper, and began to “show them.”

“Look alive, Marya, or you’ll get the stick!”

The bears rolled on the ground at last in the most unseemly fashion, amid roars of laughter from the closely‐packed crowd of men and women.

“Well, let them! Let them!” said Grushenka sententiously, with an ecstatic expression on her face. “When they do get a day to enjoy themselves, why shouldn’t folks be happy?”

Kalganov looked as though he had been besmirched with dirt.

“It’s swinish, all this peasant foolery,” he murmured, moving away; “it’s the game they play when it’s light all night in summer.”

He particularly disliked one “new” song to a jaunty dance‐tune. It described how a gentleman came and tried his luck with the girls, to see whether they would love him:

The master came to try the girls:
Would they love him, would they not?

But the girls could not love the master:

He would beat me cruelly
And such love won’t do for me.

Then a gypsy comes along and he, too, tries:

The gypsy came to try the girls:
Would they love him, would they not?

But they couldn’t love the gypsy either:

He would be a thief, I fear,
And would cause me many a tear.

And many more men come to try their luck, among them a soldier:

The soldier came to try the girls:
Would they love him, would they not?

But the soldier is rejected with contempt, in two indecent lines, sung with absolute frankness and producing a furore in the audience. The song ends with a merchant:

The merchant came to try the girls:
Would they love him, would they not?

And it appears that he wins their love because:

The merchant will make gold for me
And his queen I’ll gladly be.

Kalvanov was positively indignant.

“That’s just a song of yesterday,” he said aloud. “Who writes such things for them? They might just as well have had a railwayman or a Jew come to try his luck with the girls; they’d have carried all before them.”

And, almost as though it were a personal affront, he declared, on the spot, that he was bored, sat down on the sofa and immediately fell asleep. His pretty little face looked rather pale, as it fell back on the sofa cushion.

“Look how pretty he is,” said Grushenka, taking Mitya up to him. “I was combing his hair just now; his hair’s like flax, and so thick….”

And, bending over him tenderly, she kissed his forehead. Kalganov instantly opened his eyes, looked at her, stood up, and with the most anxious air inquired where was Maximov?

“So that’s who it is you want.” Grushenka laughed. “Stay with me a minute. Mitya, run and find his Maximov.”

Maximov, it appeared, could not tear himself away from the girls, only running away from time to time to pour himself out a glass of liqueur. He had drunk two cups of chocolate. His face was red, and his nose was crimson; his eyes were moist and mawkishly sweet. He ran up and announced that he was going to dance the “sabotière.”

“They taught me all those well‐bred, aristocratic dances when I was little….”

“Go, go with him, Mitya, and I’ll watch from here how he dances,” said Grushenka.

“No, no, I’m coming to look on, too,” exclaimed Kalganov, brushing aside in the most naïve way Grushenka’s offer to sit with him. They all went to look on. Maximov danced his dance. But it roused no great admiration in any one but Mitya. It consisted of nothing but skipping and hopping, kicking up the feet, and at every skip Maximov slapped the upturned sole of his foot. Kalganov did not like it at all, but Mitya kissed the dancer.

“Thanks. You’re tired perhaps? What are you looking for here? Would you like some sweets? A cigar, perhaps?”

“A cigarette.”

“Don’t you want a drink?”

“I’ll just have a liqueur…. Have you any chocolates?”

“Yes, there’s a heap of them on the table there. Choose one, my dear soul!”

“I like one with vanilla … for old people. He he!”

“No, brother, we’ve none of that special sort.”

“I say,” the old man bent down to whisper in Mitya’s ear. “That girl there, little Marya, he he! How would it be if you were to help me make friends with her?”

“So that’s what you’re after! No, brother, that won’t do!”

“I’d do no harm to any one,” Maximov muttered disconsolately.

“Oh, all right, all right. They only come here to dance and sing, you know, brother. But damn it all, wait a bit!… Eat and drink and be merry, meanwhile. Don’t you want money?”

“Later on, perhaps,” smiled Maximov.

“All right, all right….”

Mitya’s head was burning. He went outside to the wooden balcony which ran round the whole building on the inner side, overlooking the courtyard. The fresh air revived him. He stood alone in a dark corner, and suddenly clutched his head in both hands. His scattered thoughts came together; his sensations blended into a whole and threw a sudden light into his mind. A fearful and terrible light! “If I’m to shoot myself, why not now?” passed through his mind. “Why not go for the pistols, bring them here, and here, in this dark dirty corner, make an end?” Almost a minute he stood, undecided. A few hours earlier, when he had been dashing here, he was pursued by disgrace, by the theft he had committed, and that blood, that blood!… But yet it was easier for him then. Then everything was over: he had lost her, given her up. She was gone, for him—oh, then his death sentence had been easier for him; at least it had seemed necessary, inevitable, for what had he to stay on earth for?

But now? Was it the same as then? Now one phantom, one terror at least was at an end: that first, rightful lover, that fateful figure had vanished, leaving no trace. The terrible phantom had turned into something so small, so comic; it had been carried into the bedroom and locked in. It would never return. She was ashamed, and from her eyes he could see now whom she loved. Now he had everything to make life happy … but he could not go on living, he could not; oh, damnation! “O God! restore to life the man I knocked down at the fence! Let this fearful cup pass from me! Lord, thou hast wrought miracles for such sinners as me! But what, what if the old man’s alive? Oh, then the shame of the other disgrace I would wipe away. I would restore the stolen money. I’d give it back; I’d get it somehow…. No trace of that shame will remain except in my heart for ever! But no, no; oh, impossible cowardly dreams! Oh, damnation!”

Yet there was a ray of light and hope in his darkness. He jumped up and ran back to the room—to her, to her, his queen for ever! Was not one moment of her love worth all the rest of life, even in the agonies of disgrace? This wild question clutched at his heart. “To her, to her alone, to see her, to hear her, to think of nothing, to forget everything, if only for that night, for an hour, for a moment!” Just as he turned from the balcony into the passage, he came upon the landlord, Trifon Borissovitch. He thought he looked gloomy and worried, and fancied he had come to find him.

“What is it, Trifon Borissovitch? are you looking for me?”

“No, sir.” The landlord seemed disconcerted. “Why should I be looking for you? Where have you been?”

“Why do you look so glum? You’re not angry, are you? Wait a bit, you shall soon get to bed…. What’s the time?”

“It’ll be three o’clock. Past three, it must be.”

“We’ll leave off soon. We’ll leave off.”

“Don’t mention it; it doesn’t matter. Keep it up as long as you like….”

“What’s the matter with him?” Mitya wondered for an instant, and he ran back to the room where the girls were dancing. But she was not there. She was not in the blue room either; there was no one but Kalganov asleep on the sofa. Mitya peeped behind the curtain—she was there. She was sitting in the corner, on a trunk. Bent forward, with her head and arms on the bed close by, she was crying bitterly, doing her utmost to stifle her sobs that she might not be heard. Seeing Mitya, she beckoned him to her, and when he ran to her, she grasped his hand tightly.

“Mitya, Mitya, I loved him, you know. How I have loved him these five years, all that time! Did I love him or only my own anger? No, him, him! It’s a lie that it was my anger I loved and not him. Mitya, I was only seventeen then; he was so kind to me, so merry; he used to sing to me…. Or so it seemed to a silly girl like me…. And now, O Lord, it’s not the same man. Even his face is not the same; he’s different altogether. I shouldn’t have known him. I drove here with Timofey, and all the way I was thinking how I should meet him, what I should say to him, how we should look at one another. My soul was faint, and all of a sudden it was just as though he had emptied a pail of dirty water over me. He talked to me like a schoolmaster, all so grave and learned; he met me so solemnly that I was struck dumb. I couldn’t get a word in. At first I thought he was ashamed to talk before his great big Pole. I sat staring at him and wondering why I couldn’t say a word to him now. It must have been his wife that ruined him; you know he threw me up to get married. She must have changed him like that. Mitya, how shameful it is! Oh, Mitya, I’m ashamed, I’m ashamed for all my life. Curse it, curse it, curse those five years!”

And again she burst into tears, but clung tight to Mitya’s hand and did not let it go.

“Mitya, darling, stay, don’t go away. I want to say one word to you,” she whispered, and suddenly raised her face to him. “Listen, tell me who it is I love? I love one man here. Who is that man? That’s what you must tell me.”

A smile lighted up her face that was swollen with weeping, and her eyes shone in the half darkness.

“A falcon flew in, and my heart sank. ‘Fool! that’s the man you love!’ That was what my heart whispered to me at once. You came in and all grew bright. What’s he afraid of? I wondered. For you were frightened; you couldn’t speak. It’s not them he’s afraid of—could you be frightened of any one? It’s me he’s afraid of, I thought, only me. So Fenya told you, you little stupid, how I called to Alyosha out of the window that I’d loved Mityenka for one hour, and that I was going now to love … another. Mitya, Mitya, how could I be such a fool as to think I could love any one after you? Do you forgive me, Mitya? Do you forgive me or not? Do you love me? Do you love me?” She jumped up and held him with both hands on his shoulders. Mitya, dumb with rapture, gazed into her eyes, at her face, at her smile, and suddenly clasped her tightly in his arms and kissed her passionately.

“You will forgive me for having tormented you? It was through spite I tormented you all. It was for spite I drove the old man out of his mind…. Do you remember how you drank at my house one day and broke the wine‐glass? I remembered that and I broke a glass to‐day and drank ‘to my vile heart.’ Mitya, my falcon, why don’t you kiss me? He kissed me once, and now he draws back and looks and listens. Why listen to me? Kiss me, kiss me hard, that’s right. If you love, well, then, love! I’ll be your slave now, your slave for the rest of my life. It’s sweet to be a slave. Kiss me! Beat me, ill‐treat me, do what you will with me…. And I do deserve to suffer. Stay, wait, afterwards, I won’t have that….” she suddenly thrust him away. “Go along, Mitya, I’ll come and have some wine, I want to be drunk, I’m going to get drunk and dance; I must, I must!” She tore herself away from him and disappeared behind the curtain. Mitya followed like a drunken man.

“Yes, come what may—whatever may happen now, for one minute I’d give the whole world,” he thought. Grushenka did, in fact, toss off a whole glass of champagne at one gulp, and became at once very tipsy. She sat down in the same chair as before, with a blissful smile on her face. Her cheeks were glowing, her lips were burning, her flashing eyes were moist; there was passionate appeal in her eyes. Even Kalganov felt a stir at the heart and went up to her.

“Did you feel how I kissed you when you were asleep just now?” she said thickly. “I’m drunk now, that’s what it is…. And aren’t you drunk? And why isn’t Mitya drinking? Why don’t you drink, Mitya? I’m drunk, and you don’t drink….”

“I am drunk! I’m drunk as it is … drunk with you … and now I’ll be drunk with wine, too.”

He drank off another glass, and—he thought it strange himself—that glass made him completely drunk. He was suddenly drunk, although till that moment he had been quite sober, he remembered that. From that moment everything whirled about him, as though he were delirious. He walked, laughed, talked to everybody, without knowing what he was doing. Only one persistent burning sensation made itself felt continually, “like a red‐hot coal in his heart,” he said afterwards. He went up to her, sat beside her, gazed at her, listened to her…. She became very talkative, kept calling every one to her, and beckoned to different girls out of the chorus. When the girl came up, she either kissed her, or made the sign of the cross over her. In another minute she might have cried. She was greatly amused by the “little old man,” as she called Maximov. He ran up every minute to kiss her hands, “each little finger,” and finally he danced another dance to an old song, which he sang himself. He danced with special vigor to the refrain:

The little pig says—umph! umph! umph!
The little calf says—moo, moo, moo,
The little duck says—quack, quack, quack,
The little goose says—ga, ga, ga.
The hen goes strutting through the porch;
Troo‐roo‐roo‐roo‐roo, she’ll say,
Troo‐roo‐roo‐roo‐roo, she’ll say!

“Give him something, Mitya,” said Grushenka. “Give him a present, he’s poor, you know. Ah, the poor, the insulted!… Do you know, Mitya, I shall go into a nunnery. No, I really shall one day, Alyosha said something to me to‐day that I shall remember all my life…. Yes…. But to‐day let us dance. To‐morrow to the nunnery, but to‐day we’ll dance. I want to play to‐day, good people, and what of it? God will forgive us. If I were God, I’d forgive every one: ‘My dear sinners, from this day forth I forgive you.’ I’m going to beg forgiveness: ‘Forgive me, good people, a silly wench.’ I’m a beast, that’s what I am. But I want to pray. I gave a little onion. Wicked as I’ve been, I want to pray. Mitya, let them dance, don’t stop them. Every one in the world is good. Every one—even the worst of them. The world’s a nice place. Though we’re bad the world’s all right. We’re good and bad, good and bad…. Come, tell me, I’ve something to ask you: come here every one, and I’ll ask you: Why am I so good? You know I am good. I’m very good…. Come, why am I so good?”

So Grushenka babbled on, getting more and more drunk. At last she announced that she was going to dance, too. She got up from her chair, staggering. “Mitya, don’t give me any more wine—if I ask you, don’t give it to me. Wine doesn’t give peace. Everything’s going round, the stove, and everything. I want to dance. Let every one see how I dance … let them see how beautifully I dance….”

She really meant it. She pulled a white cambric handkerchief out of her pocket, and took it by one corner in her right hand, to wave it in the dance. Mitya ran to and fro, the girls were quiet, and got ready to break into a dancing song at the first signal. Maximov, hearing that Grushenka wanted to dance, squealed with delight, and ran skipping about in front of her, humming:

With legs so slim and sides so trim
And its little tail curled tight.

But Grushenka waved her handkerchief at him and drove him away.

“Sh‐h! Mitya, why don’t they come? Let every one come … to look on. Call them in, too, that were locked in…. Why did you lock them in? Tell them I’m going to dance. Let them look on, too….”

Mitya walked with a drunken swagger to the locked door, and began knocking to the Poles with his fist.

“Hi, you … Podvysotskys! Come, she’s going to dance. She calls you.”

“Lajdak!” one of the Poles shouted in reply.

“You’re a lajdak yourself! You’re a little scoundrel, that’s what you are.”

“Leave off laughing at Poland,” said Kalganov sententiously. He too was drunk.

“Be quiet, boy! If I call him a scoundrel, it doesn’t mean that I called all Poland so. One lajdak doesn’t make a Poland. Be quiet, my pretty boy, eat a sweetmeat.”

“Ach, what fellows! As though they were not men. Why won’t they make friends?” said Grushenka, and went forward to dance. The chorus broke into “Ah, my porch, my new porch!” Grushenka flung back her head, half opened her lips, smiled, waved her handkerchief, and suddenly, with a violent lurch, stood still in the middle of the room, looking bewildered.

“I’m weak….” she said in an exhausted voice. “Forgive me…. I’m weak, I can’t…. I’m sorry.”

She bowed to the chorus, and then began bowing in all directions.

“I’m sorry…. Forgive me….”

“The lady’s been drinking. The pretty lady has been drinking,” voices were heard saying.

“The lady’s drunk too much,” Maximov explained to the girls, giggling.

“Mitya, lead me away … take me,” said Grushenka helplessly. Mitya pounced on her, snatched her up in his arms, and carried the precious burden through the curtains.

“Well, now I’ll go,” thought Kalganov, and walking out of the blue room, he closed the two halves of the door after him. But the orgy in the larger room went on and grew louder and louder. Mitya laid Grushenka on the bed and kissed her on the lips.

“Don’t touch me….” she faltered, in an imploring voice. “Don’t touch me, till I’m yours…. I’ve told you I’m yours, but don’t touch me … spare me…. With them here, with them close, you mustn’t. He’s here. It’s nasty here….”

“I’ll obey you! I won’t think of it … I worship you!” muttered Mitya. “Yes, it’s nasty here, it’s abominable.”

And still holding her in his arms, he sank on his knees by the bedside.

“I know, though you’re a brute, you’re generous,” Grushenka articulated with difficulty. “It must be honorable … it shall be honorable for the future … and let us be honest, let us be good, not brutes, but good … take me away, take me far away, do you hear? I don’t want it to be here, but far, far away….”

“Oh, yes, yes, it must be!” said Mitya, pressing her in his arms. “I’ll take you and we’ll fly away…. Oh, I’d give my whole life for one year only to know about that blood!”

“What blood?” asked Grushenka, bewildered.

“Nothing,” muttered Mitya, through his teeth. “Grusha, you wanted to be honest, but I’m a thief. But I’ve stolen money from Katya…. Disgrace, a disgrace!”

“From Katya, from that young lady? No, you didn’t steal it. Give it her back, take it from me…. Why make a fuss? Now everything of mine is yours. What does money matter? We shall waste it anyway…. Folks like us are bound to waste money. But we’d better go and work the land. I want to dig the earth with my own hands. We must work, do you hear? Alyosha said so. I won’t be your mistress, I’ll be faithful to you, I’ll be your slave, I’ll work for you. We’ll go to the young lady and bow down to her together, so that she may forgive us, and then we’ll go away. And if she won’t forgive us, we’ll go, anyway. Take her her money and love me…. Don’t love her…. Don’t love her any more. If you love her, I shall strangle her…. I’ll put out both her eyes with a needle….”

“I love you. I love only you. I’ll love you in Siberia….”

“Why Siberia? Never mind, Siberia, if you like. I don’t care … we’ll work … there’s snow in Siberia…. I love driving in the snow … and must have bells…. Do you hear, there’s a bell ringing? Where is that bell ringing? There are people coming…. Now it’s stopped.”

She closed her eyes, exhausted, and suddenly fell asleep for an instant. There had certainly been the sound of a bell in the distance, but the ringing had ceased. Mitya let his head sink on her breast. He did not notice that the bell had ceased ringing, nor did he notice that the songs had ceased, and that instead of singing and drunken clamor there was absolute stillness in the house. Grushenka opened her eyes.

“What’s the matter? Was I asleep? Yes … a bell … I’ve been asleep and dreamt I was driving over the snow with bells, and I dozed. I was with some one I loved, with you. And far, far away. I was holding you and kissing you, nestling close to you. I was cold, and the snow glistened…. You know how the snow glistens at night when the moon shines. It was as though I was not on earth. I woke up, and my dear one is close to me. How sweet that is!…”

“Close to you,” murmured Mitya, kissing her dress, her bosom, her hands. And suddenly he had a strange fancy: it seemed to him that she was looking straight before her, not at him, not into his face, but over his head, with an intent, almost uncanny fixity. An expression of wonder, almost of alarm, came suddenly into her face.

“Mitya, who is that looking at us?” she whispered.

Mitya turned, and saw that some one had, in fact, parted the curtains and seemed to be watching them. And not one person alone, it seemed.

He jumped up and walked quickly to the intruder.

“Here, come to us, come here,” said a voice, speaking not loudly, but firmly and peremptorily.

Mitya passed to the other side of the curtain and stood stock still. The room was filled with people, but not those who had been there before. An instantaneous shiver ran down his back, and he shuddered. He recognized all those people instantly. That tall, stout old man in the overcoat and forage‐cap with a cockade—was the police captain, Mihail Makarovitch. And that “consumptive‐looking” trim dandy, “who always has such polished boots”—that was the deputy prosecutor. “He has a chronometer worth four hundred roubles; he showed it to me.” And that small young man in spectacles…. Mitya forgot his surname though he knew him, had seen him: he was the “investigating lawyer,” from the “school of jurisprudence,” who had only lately come to the town. And this man—the inspector of police, Mavriky Mavrikyevitch, a man he knew well. And those fellows with the brass plates on, why are they here? And those other two … peasants…. And there at the door Kalganov with Trifon Borissovitch….

“Gentlemen! What’s this for, gentlemen?” began Mitya, but suddenly, as though beside himself, not knowing what he was doing, he cried aloud, at the top of his voice:

“I un—der—stand!”

The young man in spectacles moved forward suddenly, and stepping up to Mitya, began with dignity, though hurriedly:

“We have to make … in brief, I beg you to come this way, this way to the sofa…. It is absolutely imperative that you should give an explanation.”

“The old man!” cried Mitya frantically. “The old man and his blood!… I understand.”

And he sank, almost fell, on a chair close by, as though he had been mown down by a scythe.

“You understand? He understands it! Monster and parricide! Your father’s blood cries out against you!” the old captain of police roared suddenly, stepping up to Mitya.

He was beside himself, crimson in the face and quivering all over.

“This is impossible!” cried the small young man. “Mihail Makarovitch, Mihail Makarovitch, this won’t do!… I beg you’ll allow me to speak. I should never have expected such behavior from you….”

“This is delirium, gentlemen, raving delirium,” cried the captain of police; “look at him: drunk, at this time of night, in the company of a disreputable woman, with the blood of his father on his hands…. It’s delirium!…”

“I beg you most earnestly, dear Mihail Makarovitch, to restrain your feelings,” the prosecutor said in a rapid whisper to the old police captain, “or I shall be forced to resort to—”

But the little lawyer did not allow him to finish. He turned to Mitya, and delivered himself in a loud, firm, dignified voice:

“Ex‐Lieutenant Karamazov, it is my duty to inform you that you are charged with the murder of your father, Fyodor Pavlovitch Karamazov, perpetrated this night….”

He said something more, and the prosecutor, too, put in something, but though Mitya heard them he did not understand them. He stared at them all with wild eyes.

Book IX. The Preliminary Investigation
Chapter I.
The Beginning Of Perhotin’s Official Career
Pyotr Ilyitch Perhotin, whom we left knocking at the strong locked gates of the widow Morozov’s house, ended, of course, by making himself heard. Fenya, who was still excited by the fright she had had two hours before, and too much “upset” to go to bed, was almost frightened into hysterics on hearing the furious knocking at the gate. Though she had herself seen him drive away, she fancied that it must be Dmitri Fyodorovitch knocking again, no one else could knock so savagely. She ran to the house‐porter, who had already waked up and gone out to the gate, and began imploring him not to open it. But having questioned Pyotr Ilyitch, and learned that he wanted to see Fenya on very “important business,” the man made up his mind at last to open. Pyotr Ilyitch was admitted into Fenya’s kitchen, but the girl begged him to allow the house‐porter to be present, “because of her misgivings.” He began questioning her and at once learnt the most vital fact, that is, that when Dmitri Fyodorovitch had run out to look for Grushenka, he had snatched up a pestle from the mortar, and that when he returned, the pestle was not with him and his hands were smeared with blood.

“And the blood was simply flowing, dripping from him, dripping!” Fenya kept exclaiming. This horrible detail was simply the product of her disordered imagination. But although not “dripping,” Pyotr Ilyitch had himself seen those hands stained with blood, and had helped to wash them. Moreover, the question he had to decide was not how soon the blood had dried, but where Dmitri Fyodorovitch had run with the pestle, or rather, whether it really was to Fyodor Pavlovitch’s, and how he could satisfactorily ascertain. Pyotr Ilyitch persisted in returning to this point, and though he found out nothing conclusive, yet he carried away a conviction that Dmitri Fyodorovitch could have gone nowhere but to his father’s house, and that therefore something must have happened there.

“And when he came back,” Fenya added with excitement, “I told him the whole story, and then I began asking him, ‘Why have you got blood on your hands, Dmitri Fyodorovitch?’ and he answered that that was human blood, and that he had just killed some one. He confessed it all to me, and suddenly ran off like a madman. I sat down and began thinking, where’s he run off to now like a madman? He’ll go to Mokroe, I thought, and kill my mistress there. I ran out to beg him not to kill her. I was running to his lodgings, but I looked at Plotnikov’s shop, and saw him just setting off, and there was no blood on his hands then.” (Fenya had noticed this and remembered it.) Fenya’s old grandmother confirmed her evidence as far as she was capable. After asking some further questions, Pyotr Ilyitch left the house, even more upset and uneasy than he had been when he entered it.

The most direct and the easiest thing for him to do would have been to go straight to Fyodor Pavlovitch’s, to find out whether anything had happened there, and if so, what; and only to go to the police captain, as Pyotr Ilyitch firmly intended doing, when he had satisfied himself of the fact. But the night was dark, Fyodor Pavlovitch’s gates were strong, and he would have to knock again. His acquaintance with Fyodor Pavlovitch was of the slightest, and what if, after he had been knocking, they opened to him, and nothing had happened? Then Fyodor Pavlovitch in his jeering way would go telling the story all over the town, how a stranger, called Perhotin, had broken in upon him at midnight to ask if any one had killed him. It would make a scandal. And scandal was what Pyotr Ilyitch dreaded more than anything in the world.

Yet the feeling that possessed him was so strong, that though he stamped his foot angrily and swore at himself, he set off again, not to Fyodor Pavlovitch’s but to Madame Hohlakov’s. He decided that if she denied having just given Dmitri Fyodorovitch three thousand roubles, he would go straight to the police captain, but if she admitted having given him the money, he would go home and let the matter rest till next morning.

It is, of course, perfectly evident that there was even more likelihood of causing scandal by going at eleven o’clock at night to a fashionable lady, a complete stranger, and perhaps rousing her from her bed to ask her an amazing question, than by going to Fyodor Pavlovitch. But that is just how it is, sometimes, especially in cases like the present one, with the decisions of the most precise and phlegmatic people. Pyotr Ilyitch was by no means phlegmatic at that moment. He remembered all his life how a haunting uneasiness gradually gained possession of him, growing more and more painful and driving him on, against his will. Yet he kept cursing himself, of course, all the way for going to this lady, but “I will get to the bottom of it, I will!” he repeated for the tenth time, grinding his teeth, and he carried out his intention.

It was exactly eleven o’clock when he entered Madame Hohlakov’s house. He was admitted into the yard pretty quickly, but, in response to his inquiry whether the lady was still up, the porter could give no answer, except that she was usually in bed by that time.

“Ask at the top of the stairs. If the lady wants to receive you, she’ll receive you. If she won’t, she won’t.”

Pyotr Ilyitch went up, but did not find things so easy here. The footman was unwilling to take in his name, but finally called a maid. Pyotr Ilyitch politely but insistently begged her to inform her lady that an official, living in the town, called Perhotin, had called on particular business, and that if it were not of the greatest importance he would not have ventured to come. “Tell her in those words, in those words exactly,” he asked the girl.

She went away. He remained waiting in the entry. Madame Hohlakov herself was already in her bedroom, though not yet asleep. She had felt upset ever since Mitya’s visit, and had a presentiment that she would not get through the night without the sick headache which always, with her, followed such excitement. She was surprised on hearing the announcement from the maid. She irritably declined to see him, however, though the unexpected visit at such an hour, of an “official living in the town,” who was a total stranger, roused her feminine curiosity intensely. But this time Pyotr Ilyitch was as obstinate as a mule. He begged the maid most earnestly to take another message in these very words:

“That he had come on business of the greatest importance, and that Madame Hohlakov might have cause to regret it later, if she refused to see him now.”

“I plunged headlong,” he described it afterwards.

The maid, gazing at him in amazement, went to take his message again. Madame Hohlakov was impressed. She thought a little, asked what he looked like, and learned that he was “very well dressed, young and so polite.” We may note, parenthetically, that Pyotr Ilyitch was a rather good‐looking young man, and well aware of the fact. Madame Hohlakov made up her mind to see him. She was in her dressing‐gown and slippers, but she flung a black shawl over her shoulders. “The official” was asked to walk into the drawing‐room, the very room in which Mitya had been received shortly before. The lady came to meet her visitor, with a sternly inquiring countenance, and, without asking him to sit down, began at once with the question:

“What do you want?”

“I have ventured to disturb you, madam, on a matter concerning our common acquaintance, Dmitri Fyodorovitch Karamazov,” Perhotin began.

But he had hardly uttered the name, when the lady’s face showed signs of acute irritation. She almost shrieked, and interrupted him in a fury:

“How much longer am I to be worried by that awful man?” she cried hysterically. “How dare you, sir, how could you venture to disturb a lady who is a stranger to you, in her own house at such an hour!… And to force yourself upon her to talk of a man who came here, to this very drawing‐room, only three hours ago, to murder me, and went stamping out of the room, as no one would go out of a decent house. Let me tell you, sir, that I shall lodge a complaint against you, that I will not let it pass. Kindly leave me at once…. I am a mother…. I … I—”

“Murder! then he tried to murder you, too?”

“Why, has he killed somebody else?” Madame Hohlakov asked impulsively.

“If you would kindly listen, madam, for half a moment, I’ll explain it all in a couple of words,” answered Perhotin, firmly. “At five o’clock this afternoon Dmitri Fyodorovitch borrowed ten roubles from me, and I know for a fact he had no money. Yet at nine o’clock, he came to see me with a bundle of hundred‐rouble notes in his hand, about two or three thousand roubles. His hands and face were all covered with blood, and he looked like a madman. When I asked him where he had got so much money, he answered that he had just received it from you, that you had given him a sum of three thousand to go to the gold‐mines….”

Madame Hohlakov’s face assumed an expression of intense and painful excitement.

“Good God! He must have killed his old father!” she cried, clasping her hands. “I have never given him money, never! Oh, run, run!… Don’t say another word! Save the old man … run to his father … run!”

“Excuse me, madam, then you did not give him money? You remember for a fact that you did not give him any money?”

“No, I didn’t, I didn’t! I refused to give it him, for he could not appreciate it. He ran out in a fury, stamping. He rushed at me, but I slipped away…. And let me tell you, as I wish to hide nothing from you now, that he positively spat at me. Can you fancy that! But why are we standing? Ah, sit down.”

“Excuse me, I….”

“Or better run, run, you must run and save the poor old man from an awful death!”

“But if he has killed him already?”

“Ah, good heavens, yes! Then what are we to do now? What do you think we must do now?”

Meantime she had made Pyotr Ilyitch sit down and sat down herself, facing him. Briefly, but fairly clearly, Pyotr Ilyitch told her the history of the affair, that part of it at least which he had himself witnessed. He described, too, his visit to Fenya, and told her about the pestle. All these details produced an overwhelming effect on the distracted lady, who kept uttering shrieks, and covering her face with her hands….

“Would you believe it, I foresaw all this! I have that special faculty, whatever I imagine comes to pass. And how often I’ve looked at that awful man and always thought, that man will end by murdering me. And now it’s happened … that is, if he hasn’t murdered me, but only his own father, it’s only because the finger of God preserved me, and what’s more, he was ashamed to murder me because, in this very place, I put the holy ikon from the relics of the holy martyr, Saint Varvara, on his neck…. And to think how near I was to death at that minute, I went close up to him and he stretched out his neck to me!… Do you know, Pyotr Ilyitch (I think you said your name was Pyotr Ilyitch), I don’t believe in miracles, but that ikon and this unmistakable miracle with me now—that shakes me, and I’m ready to believe in anything you like. Have you heard about Father Zossima?… But I don’t know what I’m saying … and only fancy, with the ikon on his neck he spat at me…. He only spat, it’s true, he didn’t murder me and … he dashed away! But what shall we do, what must we do now? What do you think?”

Pyotr Ilyitch got up, and announced that he was going straight to the police captain, to tell him all about it, and leave him to do what he thought fit.

“Oh, he’s an excellent man, excellent! Mihail Makarovitch, I know him. Of course, he’s the person to go to. How practical you are, Pyotr Ilyitch! How well you’ve thought of everything! I should never have thought of it in your place!”

“Especially as I know the police captain very well, too,” observed Pyotr Ilyitch, who still continued to stand, and was obviously anxious to escape as quickly as possible from the impulsive lady, who would not let him say good‐by and go away.

“And be sure, be sure,” she prattled on, “to come back and tell me what you see there, and what you find out … what comes to light … how they’ll try him … and what he’s condemned to…. Tell me, we have no capital punishment, have we? But be sure to come, even if it’s at three o’clock at night, at four, at half‐past four…. Tell them to wake me, to wake me, to shake me, if I don’t get up…. But, good heavens, I shan’t sleep! But wait, hadn’t I better come with you?”

“N—no. But if you would write three lines with your own hand, stating that you did not give Dmitri Fyodorovitch money, it might, perhaps, be of use … in case it’s needed….”

“To be sure!” Madame Hohlakov skipped, delighted, to her bureau. “And you know I’m simply struck, amazed at your resourcefulness, your good sense in such affairs. Are you in the service here? I’m delighted to think that you’re in the service here!”

And still speaking, she scribbled on half a sheet of notepaper the following lines:

I’ve never in my life lent to that unhappy man, Dmitri Fyodorovitch Karamazov (for, in spite of all, he is unhappy), three thousand roubles to‐day. I’ve never given him money, never: That I swear by all that’s holy!

K. HOHLAKOV.

“Here’s the note!” she turned quickly to Pyotr Ilyitch. “Go, save him. It’s a noble deed on your part!”

And she made the sign of the cross three times over him. She ran out to accompany him to the passage.

“How grateful I am to you! You can’t think how grateful I am to you for having come to me, first. How is it I haven’t met you before? I shall feel flattered at seeing you at my house in the future. How delightful it is that you are living here!… Such precision! Such practical ability!… They must appreciate you, they must understand you. If there’s anything I can do, believe me … oh, I love young people! I’m in love with young people! The younger generation are the one prop of our suffering country. Her one hope…. Oh, go, go!…”

But Pyotr Ilyitch had already run away or she would not have let him go so soon. Yet Madame Hohlakov had made a rather agreeable impression on him, which had somewhat softened his anxiety at being drawn into such an unpleasant affair. Tastes differ, as we all know. “She’s by no means so elderly,” he thought, feeling pleased, “on the contrary I should have taken her for her daughter.”

As for Madame Hohlakov, she was simply enchanted by the young man. “Such sense! such exactness! in so young a man! in our day! and all that with such manners and appearance! People say the young people of to‐day are no good for anything, but here’s an example!” etc. So she simply forgot this “dreadful affair,” and it was only as she was getting into bed, that, suddenly recalling “how near death she had been,” she exclaimed: “Ah, it is awful, awful!”

But she fell at once into a sound, sweet sleep.

I would not, however, have dwelt on such trivial and irrelevant details, if this eccentric meeting of the young official with the by no means elderly widow had not subsequently turned out to be the foundation of the whole career of that practical and precise young man. His story is remembered to this day with amazement in our town, and I shall perhaps have something to say about it, when I have finished my long history of the Brothers Karamazov.

Chapter II.
The Alarm
Our police captain, Mihail Makarovitch Makarov, a retired lieutenant‐ colonel, was a widower and an excellent man. He had only come to us three years previously, but had won general esteem, chiefly because he “knew how to keep society together.” He was never without visitors, and could not have got on without them. Some one or other was always dining with him; he never sat down to table without guests. He gave regular dinners, too, on all sorts of occasions, sometimes most surprising ones. Though the fare was not recherché, it was abundant. The fish‐pies were excellent, and the wine made up in quantity for what it lacked in quality.

The first room his guests entered was a well‐fitted billiard‐room, with pictures of English race‐horses, in black frames on the walls, an essential decoration, as we all know, for a bachelor’s billiard‐room. There was card‐playing every evening at his house, if only at one table. But at frequent intervals, all the society of our town, with the mammas and young ladies, assembled at his house to dance. Though Mihail Makarovitch was a widower, he did not live alone. His widowed daughter lived with him, with her two unmarried daughters, grown‐up girls, who had finished their education. They were of agreeable appearance and lively character, and though every one knew they would have no dowry, they attracted all the young men of fashion to their grandfather’s house.

Mihail Makarovitch was by no means very efficient in his work, though he performed his duties no worse than many others. To speak plainly, he was a man of rather narrow education. His understanding of the limits of his administrative power could not always be relied upon. It was not so much that he failed to grasp certain reforms enacted during the present reign, as that he made conspicuous blunders in his interpretation of them. This was not from any special lack of intelligence, but from carelessness, for he was always in too great a hurry to go into the subject.

“I have the heart of a soldier rather than of a civilian,” he used to say of himself. He had not even formed a definite idea of the fundamental principles of the reforms connected with the emancipation of the serfs, and only picked it up, so to speak, from year to year, involuntarily increasing his knowledge by practice. And yet he was himself a landowner. Pyotr Ilyitch knew for certain that he would meet some of Mihail Makarovitch’s visitors there that evening, but he didn’t know which. As it happened, at that moment the prosecutor, and Varvinsky, our district doctor, a young man, who had only just come to us from Petersburg after taking a brilliant degree at the Academy of Medicine, were playing whist at the police captain’s. Ippolit Kirillovitch, the prosecutor (he was really the deputy prosecutor, but we always called him the prosecutor), was rather a peculiar man, of about five and thirty, inclined to be consumptive, and married to a fat and childless woman. He was vain and irritable, though he had a good intellect, and even a kind heart. It seemed that all that was wrong with him was that he had a better opinion of himself than his ability warranted. And that made him seem constantly uneasy. He had, moreover, certain higher, even artistic, leanings, towards psychology, for instance, a special study of the human heart, a special knowledge of the criminal and his crime. He cherished a grievance on this ground, considering that he had been passed over in the service, and being firmly persuaded that in higher spheres he had not been properly appreciated, and had enemies. In gloomy moments he even threatened to give up his post, and practice as a barrister in criminal cases. The unexpected Karamazov case agitated him profoundly: “It was a case that might well be talked about all over Russia.” But I am anticipating.

Nikolay Parfenovitch Nelyudov, the young investigating lawyer, who had only come from Petersburg two months before, was sitting in the next room with the young ladies. People talked about it afterwards and wondered that all the gentlemen should, as though intentionally, on the evening of “the crime” have been gathered together at the house of the executive authority. Yet it was perfectly simple and happened quite naturally.

Ippolit Kirillovitch’s wife had had toothache for the last two days, and he was obliged to go out to escape from her groans. The doctor, from the very nature of his being, could not spend an evening except at cards. Nikolay Parfenovitch Nelyudov had been intending for three days past to drop in that evening at Mihail Makarovitch’s, so to speak casually, so as slyly to startle the eldest granddaughter, Olga Mihailovna, by showing that he knew her secret, that he knew it was her birthday, and that she was trying to conceal it on purpose, so as not to be obliged to give a dance. He anticipated a great deal of merriment, many playful jests about her age, and her being afraid to reveal it, about his knowing her secret and telling everybody, and so on. The charming young man was a great adept at such teasing; the ladies had christened him “the naughty man,” and he seemed to be delighted at the name. He was extremely well‐bred, however, of good family, education and feelings, and, though leading a life of pleasure, his sallies were always innocent and in good taste. He was short, and delicate‐looking. On his white, slender, little fingers he always wore a number of big, glittering rings. When he was engaged in his official duties, he always became extraordinarily grave, as though realizing his position and the sanctity of the obligations laid upon him. He had a special gift for mystifying murderers and other criminals of the peasant class during interrogation, and if he did not win their respect, he certainly succeeded in arousing their wonder.

Pyotr Ilyitch was simply dumbfounded when he went into the police captain’s. He saw instantly that every one knew. They had positively thrown down their cards, all were standing up and talking. Even Nikolay Parfenovitch had left the young ladies and run in, looking strenuous and ready for action. Pyotr Ilyitch was met with the astounding news that old Fyodor Pavlovitch really had been murdered that evening in his own house, murdered and robbed. The news had only just reached them in the following manner.

Marfa Ignatyevna, the wife of old Grigory, who had been knocked senseless near the fence, was sleeping soundly in her bed and might well have slept till morning after the draught she had taken. But, all of a sudden she waked up, no doubt roused by a fearful epileptic scream from Smerdyakov, who was lying in the next room unconscious. That scream always preceded his fits, and always terrified and upset Marfa Ignatyevna. She could never get accustomed to it. She jumped up and ran half‐awake to Smerdyakov’s room. But it was dark there, and she could only hear the invalid beginning to gasp and struggle. Then Marfa Ignatyevna herself screamed out and was going to call her husband, but suddenly realized that when she had got up, he was not beside her in bed. She ran back to the bedstead and began groping with her hands, but the bed was really empty. Then he must have gone out—where? She ran to the steps and timidly called him. She got no answer, of course, but she caught the sound of groans far away in the garden in the darkness. She listened. The groans were repeated, and it was evident they came from the garden.

“Good Lord! Just as it was with Lizaveta Smerdyastchaya!” she thought distractedly. She went timidly down the steps and saw that the gate into the garden was open.

“He must be out there, poor dear,” she thought. She went up to the gate and all at once she distinctly heard Grigory calling her by name, “Marfa! Marfa!” in a weak, moaning, dreadful voice.

“Lord, preserve us from harm!” Marfa Ignatyevna murmured, and ran towards the voice, and that was how she found Grigory. But she found him not by the fence where he had been knocked down, but about twenty paces off. It appeared later, that he had crawled away on coming to himself, and probably had been a long time getting so far, losing consciousness several times. She noticed at once that he was covered with blood, and screamed at the top of her voice. Grigory was muttering incoherently:

“He has murdered … his father murdered…. Why scream, silly … run … fetch some one….”

But Marfa continued screaming, and seeing that her master’s window was open and that there was a candle alight in the window, she ran there and began calling Fyodor Pavlovitch. But peeping in at the window, she saw a fearful sight. Her master was lying on his back, motionless, on the floor. His light‐colored dressing‐gown and white shirt were soaked with blood. The candle on the table brightly lighted up the blood and the motionless dead face of Fyodor Pavlovitch. Terror‐stricken, Marfa rushed away from the window, ran out of the garden, drew the bolt of the big gate and ran headlong by the back way to the neighbor, Marya Kondratyevna. Both mother and daughter were asleep, but they waked up at Marfa’s desperate and persistent screaming and knocking at the shutter. Marfa, shrieking and screaming incoherently, managed to tell them the main fact, and to beg for assistance. It happened that Foma had come back from his wanderings and was staying the night with them. They got him up immediately and all three ran to the scene of the crime. On the way, Marya Kondratyevna remembered that at about eight o’clock she heard a dreadful scream from their garden, and this was no doubt Grigory’s scream, “Parricide!” uttered when he caught hold of Mitya’s leg.

“Some one person screamed out and then was silent,” Marya Kondratyevna explained as she ran. Running to the place where Grigory lay, the two women with the help of Foma carried him to the lodge. They lighted a candle and saw that Smerdyakov was no better, that he was writhing in convulsions, his eyes fixed in a squint, and that foam was flowing from his lips. They moistened Grigory’s forehead with water mixed with vinegar, and the water revived him at once. He asked immediately:

“Is the master murdered?”

Then Foma and both the women ran to the house and saw this time that not only the window, but also the door into the garden was wide open, though Fyodor Pavlovitch had for the last week locked himself in every night and did not allow even Grigory to come in on any pretext. Seeing that door open, they were afraid to go in to Fyodor Pavlovitch “for fear anything should happen afterwards.” And when they returned to Grigory, the old man told them to go straight to the police captain. Marya Kondratyevna ran there and gave the alarm to the whole party at the police captain’s. She arrived only five minutes before Pyotr Ilyitch, so that his story came, not as his own surmise and theory, but as the direct confirmation, by a witness, of the theory held by all, as to the identity of the criminal (a theory he had in the bottom of his heart refused to believe till that moment).

It was resolved to act with energy. The deputy police inspector of the town was commissioned to take four witnesses, to enter Fyodor Pavlovitch’s house and there to open an inquiry on the spot, according to the regular forms, which I will not go into here. The district doctor, a zealous man, new to his work, almost insisted on accompanying the police captain, the prosecutor, and the investigating lawyer.

I will note briefly that Fyodor Pavlovitch was found to be quite dead, with his skull battered in. But with what? Most likely with the same weapon with which Grigory had been attacked. And immediately that weapon was found, Grigory, to whom all possible medical assistance was at once given, described in a weak and breaking voice how he had been knocked down. They began looking with a lantern by the fence and found the brass pestle dropped in a most conspicuous place on the garden path. There were no signs of disturbance in the room where Fyodor Pavlovitch was lying. But by the bed, behind the screen, they picked up from the floor a big and thick envelope with the inscription: “A present of three thousand roubles for my angel Grushenka, if she is willing to come.” And below had been added by Fyodor Pavlovitch, “For my little chicken.” There were three seals of red sealing‐wax on the envelope, but it had been torn open and was empty: the money had been removed. They found also on the floor a piece of narrow pink ribbon, with which the envelope had been tied up.

One piece of Pyotr Ilyitch’s evidence made a great impression on the prosecutor and the investigating magistrate, namely, his idea that Dmitri Fyodorovitch would shoot himself before daybreak, that he had resolved to do so, had spoken of it to Ilyitch, had taken the pistols, loaded them before him, written a letter, put it in his pocket, etc. When Pyotr Ilyitch, though still unwilling to believe in it, threatened to tell some one so as to prevent the suicide, Mitya had answered grinning: “You’ll be too late.” So they must make haste to Mokroe to find the criminal, before he really did shoot himself.

“That’s clear, that’s clear!” repeated the prosecutor in great excitement. “That’s just the way with mad fellows like that: ‘I shall kill myself to‐ morrow, so I’ll make merry till I die!’ ”

The story of how he had bought the wine and provisions excited the prosecutor more than ever.

“Do you remember the fellow that murdered a merchant called Olsufyev, gentlemen? He stole fifteen hundred, went at once to have his hair curled, and then, without even hiding the money, carrying it almost in his hand in the same way, he went off to the girls.”

All were delayed, however, by the inquiry, the search, and the formalities, etc., in the house of Fyodor Pavlovitch. It all took time and so, two hours before starting, they sent on ahead to Mokroe the officer of the rural police, Mavriky Mavrikyevitch Schmertsov, who had arrived in the town the morning before to get his pay. He was instructed to avoid raising the alarm when he reached Mokroe, but to keep constant watch over the “criminal” till the arrival of the proper authorities, to procure also witnesses for the arrest, police constables, and so on. Mavriky Mavrikyevitch did as he was told, preserving his incognito, and giving no one but his old acquaintance, Trifon Borissovitch, the slightest hint of his secret business. He had spoken to him just before Mitya met the landlord in the balcony, looking for him in the dark, and noticed at once a change in Trifon Borissovitch’s face and voice. So neither Mitya nor any one else knew that he was being watched. The box with the pistols had been carried off by Trifon Borissovitch and put in a suitable place. Only after four o’clock, almost at sunrise, all the officials, the police captain, the prosecutor, the investigating lawyer, drove up in two carriages, each drawn by three horses. The doctor remained at Fyodor Pavlovitch’s to make a post‐mortem next day on the body. But he was particularly interested in the condition of the servant, Smerdyakov.

“Such violent and protracted epileptic fits, recurring continually for twenty‐four hours, are rarely to be met with, and are of interest to science,” he declared enthusiastically to his companions, and as they left they laughingly congratulated him on his find. The prosecutor and the investigating lawyer distinctly remembered the doctor’s saying that Smerdyakov could not outlive the night.

After these long, but I think necessary explanations, we will return to that moment of our tale at which we broke off.

Chapter III.
The Sufferings Of A Soul, The First Ordeal
And so Mitya sat looking wildly at the people round him, not understanding what was said to him. Suddenly he got up, flung up his hands, and shouted aloud:

“I’m not guilty! I’m not guilty of that blood! I’m not guilty of my father’s blood…. I meant to kill him. But I’m not guilty. Not I.”

But he had hardly said this, before Grushenka rushed from behind the curtain and flung herself at the police captain’s feet.

“It was my fault! Mine! My wickedness!” she cried, in a heartrending voice, bathed in tears, stretching out her clasped hands towards them. “He did it through me. I tortured him and drove him to it. I tortured that poor old man that’s dead, too, in my wickedness, and brought him to this! It’s my fault, mine first, mine most, my fault!”

“Yes, it’s your fault! You’re the chief criminal! You fury! You harlot! You’re the most to blame!” shouted the police captain, threatening her with his hand. But he was quickly and resolutely suppressed. The prosecutor positively seized hold of him.

“This is absolutely irregular, Mihail Makarovitch!” he cried. “You are positively hindering the inquiry…. You’re ruining the case….” he almost gasped.

“Follow the regular course! Follow the regular course!” cried Nikolay Parfenovitch, fearfully excited too, “otherwise it’s absolutely impossible!…”

“Judge us together!” Grushenka cried frantically, still kneeling. “Punish us together. I will go with him now, if it’s to death!”

“Grusha, my life, my blood, my holy one!” Mitya fell on his knees beside her and held her tight in his arms. “Don’t believe her,” he cried, “she’s not guilty of anything, of any blood, of anything!”

He remembered afterwards that he was forcibly dragged away from her by several men, and that she was led out, and that when he recovered himself he was sitting at the table. Beside him and behind him stood the men with metal plates. Facing him on the other side of the table sat Nikolay Parfenovitch, the investigating lawyer. He kept persuading him to drink a little water out of a glass that stood on the table.

“That will refresh you, that will calm you. Be calm, don’t be frightened,” he added, extremely politely. Mitya (he remembered it afterwards) became suddenly intensely interested in his big rings, one with an amethyst, and another with a transparent bright yellow stone, of great brilliance. And long afterwards he remembered with wonder how those rings had riveted his attention through all those terrible hours of interrogation, so that he was utterly unable to tear himself away from them and dismiss them, as things that had nothing to do with his position. On Mitya’s left side, in the place where Maximov had been sitting at the beginning of the evening, the prosecutor was now seated, and on Mitya’s right hand, where Grushenka had been, was a rosy‐cheeked young man in a sort of shabby hunting‐jacket, with ink and paper before him. This was the secretary of the investigating lawyer, who had brought him with him. The police captain was now standing by the window at the other end of the room, beside Kalganov, who was sitting there.

“Drink some water,” said the investigating lawyer softly, for the tenth time.

“I have drunk it, gentlemen, I have … but … come, gentlemen, crush me, punish me, decide my fate!” cried Mitya, staring with terribly fixed wide‐ open eyes at the investigating lawyer.

“So you positively declare that you are not guilty of the death of your father, Fyodor Pavlovitch?” asked the investigating lawyer, softly but insistently.

“I am not guilty. I am guilty of the blood of another old man but not of my father’s. And I weep for it! I killed, I killed the old man and knocked him down…. But it’s hard to have to answer for that murder with another, a terrible murder of which I am not guilty…. It’s a terrible accusation, gentlemen, a knock‐down blow. But who has killed my father, who has killed him? Who can have killed him if I didn’t? It’s marvelous, extraordinary, impossible.”

“Yes, who can have killed him?” the investigating lawyer was beginning, but Ippolit Kirillovitch, the prosecutor, glancing at him, addressed Mitya.

“You need not worry yourself about the old servant, Grigory Vassilyevitch. He is alive, he has recovered, and in spite of the terrible blows inflicted, according to his own and your evidence, by you, there seems no doubt that he will live, so the doctor says, at least.”

“Alive? He’s alive?” cried Mitya, flinging up his hands. His face beamed. “Lord, I thank Thee for the miracle Thou has wrought for me, a sinner and evildoer. That’s an answer to my prayer. I’ve been praying all night.” And he crossed himself three times. He was almost breathless.

“So from this Grigory we have received such important evidence concerning you, that—” The prosecutor would have continued, but Mitya suddenly jumped up from his chair.

“One minute, gentlemen, for God’s sake, one minute; I will run to her—”

“Excuse me, at this moment it’s quite impossible,” Nikolay Parfenovitch almost shrieked. He, too, leapt to his feet. Mitya was seized by the men with the metal plates, but he sat down of his own accord….

“Gentlemen, what a pity! I wanted to see her for one minute only; I wanted to tell her that it has been washed away, it has gone, that blood that was weighing on my heart all night, and that I am not a murderer now! Gentlemen, she is my betrothed!” he said ecstatically and reverently, looking round at them all. “Oh, thank you, gentlemen! Oh, in one minute you have given me new life, new heart!… That old man used to carry me in his arms, gentlemen. He used to wash me in the tub when I was a baby three years old, abandoned by every one, he was like a father to me!…”

“And so you—” the investigating lawyer began.

“Allow me, gentlemen, allow me one minute more,” interposed Mitya, putting his elbows on the table and covering his face with his hands. “Let me have a moment to think, let me breathe, gentlemen. All this is horribly upsetting, horribly. A man is not a drum, gentlemen!”

“Drink a little more water,” murmured Nikolay Parfenovitch.

Mitya took his hands from his face and laughed. His eyes were confident. He seemed completely transformed in a moment. His whole bearing was changed; he was once more the equal of these men, with all of whom he was acquainted, as though they had all met the day before, when nothing had happened, at some social gathering. We may note in passing that, on his first arrival, Mitya had been made very welcome at the police captain’s, but later, during the last month especially, Mitya had hardly called at all, and when the police captain met him, in the street, for instance, Mitya noticed that he frowned and only bowed out of politeness. His acquaintance with the prosecutor was less intimate, though he sometimes paid his wife, a nervous and fanciful lady, visits of politeness, without quite knowing why, and she always received him graciously and had, for some reason, taken an interest in him up to the last. He had not had time to get to know the investigating lawyer, though he had met him and talked to him twice, each time about the fair sex.

“You’re a most skillful lawyer, I see, Nikolay Parfenovitch,” cried Mitya, laughing gayly, “but I can help you now. Oh, gentlemen, I feel like a new man, and don’t be offended at my addressing you so simply and directly. I’m rather drunk, too, I’ll tell you that frankly. I believe I’ve had the honor and pleasure of meeting you, Nikolay Parfenovitch, at my kinsman Miüsov’s. Gentlemen, gentlemen, I don’t pretend to be on equal terms with you. I understand, of course, in what character I am sitting before you. Oh, of course, there’s a horrible suspicion … hanging over me … if Grigory has given evidence…. A horrible suspicion! It’s awful, awful, I understand that! But to business, gentlemen, I am ready, and we will make an end of it in one moment; for, listen, listen, gentlemen! Since I know I’m innocent, we can put an end to it in a minute. Can’t we? Can’t we?”

Mitya spoke much and quickly, nervously and effusively, as though he positively took his listeners to be his best friends.

“So, for the present, we will write that you absolutely deny the charge brought against you,” said Nikolay Parfenovitch, impressively, and bending down to the secretary he dictated to him in an undertone what to write.

“Write it down? You want to write that down? Well, write it; I consent, I give my full consent, gentlemen, only … do you see?… Stay, stay, write this. Of disorderly conduct I am guilty, of violence on a poor old man I am guilty. And there is something else at the bottom of my heart, of which I am guilty, too—but that you need not write down” (he turned suddenly to the secretary); “that’s my personal life, gentlemen, that doesn’t concern you, the bottom of my heart, that’s to say…. But of the murder of my old father I’m not guilty. That’s a wild idea. It’s quite a wild idea!… I will prove you that and you’ll be convinced directly…. You will laugh, gentlemen. You’ll laugh yourselves at your suspicion!…”

“Be calm, Dmitri Fyodorovitch,” said the investigating lawyer evidently trying to allay Mitya’s excitement by his own composure. “Before we go on with our inquiry, I should like, if you will consent to answer, to hear you confirm the statement that you disliked your father, Fyodor Pavlovitch, that you were involved in continual disputes with him. Here at least, a quarter of an hour ago, you exclaimed that you wanted to kill him: ‘I didn’t kill him,’ you said, ‘but I wanted to kill him.’ ”

“Did I exclaim that? Ach, that may be so, gentlemen! Yes, unhappily, I did want to kill him … many times I wanted to … unhappily, unhappily!”

“You wanted to. Would you consent to explain what motives precisely led you to such a sentiment of hatred for your parent?”

“What is there to explain, gentlemen?” Mitya shrugged his shoulders sullenly, looking down. “I have never concealed my feelings. All the town knows about it—every one knows in the tavern. Only lately I declared them in Father Zossima’s cell…. And the very same day, in the evening I beat my father. I nearly killed him, and I swore I’d come again and kill him, before witnesses…. Oh, a thousand witnesses! I’ve been shouting it aloud for the last month, any one can tell you that!… The fact stares you in the face, it speaks for itself, it cries aloud, but feelings, gentlemen, feelings are another matter. You see, gentlemen”—Mitya frowned—“it seems to me that about feelings you’ve no right to question me. I know that you are bound by your office, I quite understand that, but that’s my affair, my private, intimate affair, yet … since I haven’t concealed my feelings in the past … in the tavern, for instance, I’ve talked to every one, so … so I won’t make a secret of it now. You see, I understand, gentlemen, that there are terrible facts against me in this business. I told every one that I’d kill him, and now, all of a sudden, he’s been killed. So it must have been me! Ha ha! I can make allowances for you, gentlemen, I can quite make allowances. I’m struck all of a heap myself, for who can have murdered him, if not I? That’s what it comes to, isn’t it? If not I, who can it be, who? Gentlemen, I want to know, I insist on knowing!” he exclaimed suddenly. “Where was he murdered? How was he murdered? How, and with what? Tell me,” he asked quickly, looking at the two lawyers.

“We found him in his study, lying on his back on the floor, with his head battered in,” said the prosecutor.

“That’s horrible!” Mitya shuddered and, putting his elbows on the table, hid his face in his right hand.

“We will continue,” interposed Nikolay Parfenovitch. “So what was it that impelled you to this sentiment of hatred? You have asserted in public, I believe, that it was based upon jealousy?”

“Well, yes, jealousy. And not only jealousy.”

“Disputes about money?”

“Yes, about money, too.”

“There was a dispute about three thousand roubles, I think, which you claimed as part of your inheritance?”

“Three thousand! More, more,” cried Mitya hotly; “more than six thousand, more than ten, perhaps. I told every one so, shouted it at them. But I made up my mind to let it go at three thousand. I was desperately in need of that three thousand … so the bundle of notes for three thousand that I knew he kept under his pillow, ready for Grushenka, I considered as simply stolen from me. Yes, gentlemen, I looked upon it as mine, as my own property….”

The prosecutor looked significantly at the investigating lawyer, and had time to wink at him on the sly.

“We will return to that subject later,” said the lawyer promptly. “You will allow us to note that point and write it down; that you looked upon that money as your own property?”

“Write it down, by all means. I know that’s another fact that tells against me, but I’m not afraid of facts and I tell them against myself. Do you hear? Do you know, gentlemen, you take me for a different sort of man from what I am,” he added, suddenly gloomy and dejected. “You have to deal with a man of honor, a man of the highest honor; above all—don’t lose sight of it—a man who’s done a lot of nasty things, but has always been, and still is, honorable at bottom, in his inner being. I don’t know how to express it. That’s just what’s made me wretched all my life, that I yearned to be honorable, that I was, so to say, a martyr to a sense of honor, seeking for it with a lantern, with the lantern of Diogenes, and yet all my life I’ve been doing filthy things like all of us, gentlemen … that is like me alone. That was a mistake, like me alone, me alone!… Gentlemen, my head aches …” His brows contracted with pain. “You see, gentlemen, I couldn’t bear the look of him, there was something in him ignoble, impudent, trampling on everything sacred, something sneering and irreverent, loathsome, loathsome. But now that he’s dead, I feel differently.”

“How do you mean?”

“I don’t feel differently, but I wish I hadn’t hated him so.”

“You feel penitent?”

“No, not penitent, don’t write that. I’m not much good myself, I’m not very beautiful, so I had no right to consider him repulsive. That’s what I mean. Write that down, if you like.”

Saying this Mitya became very mournful. He had grown more and more gloomy as the inquiry continued.

At that moment another unexpected scene followed. Though Grushenka had been removed, she had not been taken far away, only into the room next but one from the blue room, in which the examination was proceeding. It was a little room with one window, next beyond the large room in which they had danced and feasted so lavishly. She was sitting there with no one by her but Maximov, who was terribly depressed, terribly scared, and clung to her side, as though for security. At their door stood one of the peasants with a metal plate on his breast. Grushenka was crying, and suddenly her grief was too much for her, she jumped up, flung up her arms and, with a loud wail of sorrow, rushed out of the room to him, to her Mitya, and so unexpectedly that they had not time to stop her. Mitya, hearing her cry, trembled, jumped up, and with a yell rushed impetuously to meet her, not knowing what he was doing. But they were not allowed to come together, though they saw one another. He was seized by the arms. He struggled, and tried to tear himself away. It took three or four men to hold him. She was seized too, and he saw her stretching out her arms to him, crying aloud as they carried her away. When the scene was over, he came to himself again, sitting in the same place as before, opposite the investigating lawyer, and crying out to them:

“What do you want with her? Why do you torment her? She’s done nothing, nothing!…”

The lawyers tried to soothe him. About ten minutes passed like this. At last Mihail Makarovitch, who had been absent, came hurriedly into the room, and said in a loud and excited voice to the prosecutor:

“She’s been removed, she’s downstairs. Will you allow me to say one word to this unhappy man, gentlemen? In your presence, gentlemen, in your presence.”

“By all means, Mihail Makarovitch,” answered the investigating lawyer. “In the present case we have nothing against it.”

“Listen, Dmitri Fyodorovitch, my dear fellow,” began the police captain, and there was a look of warm, almost fatherly, feeling for the luckless prisoner on his excited face. “I took your Agrafena Alexandrovna downstairs myself, and confided her to the care of the landlord’s daughters, and that old fellow Maximov is with her all the time. And I soothed her, do you hear? I soothed and calmed her. I impressed on her that you have to clear yourself, so she mustn’t hinder you, must not depress you, or you may lose your head and say the wrong thing in your evidence. In fact, I talked to her and she understood. She’s a sensible girl, my boy, a good‐hearted girl, she would have kissed my old hands, begging help for you. She sent me herself, to tell you not to worry about her. And I must go, my dear fellow, I must go and tell her that you are calm and comforted about her. And so you must be calm, do you understand? I was unfair to her; she is a Christian soul, gentlemen, yes, I tell you, she’s a gentle soul, and not to blame for anything. So what am I to tell her, Dmitri Fyodorovitch? Will you sit quiet or not?”

The good‐natured police captain said a great deal that was irregular, but Grushenka’s suffering, a fellow creature’s suffering, touched his good‐ natured heart, and tears stood in his eyes. Mitya jumped up and rushed towards him.

“Forgive me, gentlemen, oh, allow me, allow me!” he cried. “You’ve the heart of an angel, an angel, Mihail Makarovitch, I thank you for her. I will, I will be calm, cheerful, in fact. Tell her, in the kindness of your heart, that I am cheerful, quite cheerful, that I shall be laughing in a minute, knowing that she has a guardian angel like you. I shall have done with all this directly, and as soon as I’m free, I’ll be with her, she’ll see, let her wait. Gentlemen,” he said, turning to the two lawyers, “now I’ll open my whole soul to you; I’ll pour out everything. We’ll finish this off directly, finish it off gayly. We shall laugh at it in the end, shan’t we? But, gentlemen, that woman is the queen of my heart. Oh, let me tell you that. That one thing I’ll tell you now…. I see I’m with honorable men. She is my light, she is my holy one, and if only you knew! Did you hear her cry, ‘I’ll go to death with you’? And what have I, a penniless beggar, done for her? Why such love for me? How can a clumsy, ugly brute like me, with my ugly face, deserve such love, that she is ready to go to exile with me? And how she fell down at your feet for my sake, just now!… and yet she’s proud and has done nothing! How can I help adoring her, how can I help crying out and rushing to her as I did just now? Gentlemen, forgive me! But now, now I am comforted.”

And he sank back in his chair and, covering his face with his hands, burst into tears. But they were happy tears. He recovered himself instantly. The old police captain seemed much pleased, and the lawyers also. They felt that the examination was passing into a new phase. When the police captain went out, Mitya was positively gay.

“Now, gentlemen, I am at your disposal, entirely at your disposal. And if it were not for all these trivial details, we should understand one another in a minute. I’m at those details again. I’m at your disposal, gentlemen, but I declare that we must have mutual confidence, you in me and I in you, or there’ll be no end to it. I speak in your interests. To business, gentlemen, to business, and don’t rummage in my soul; don’t tease me with trifles, but only ask me about facts and what matters, and I will satisfy you at once. And damn the details!”

So spoke Mitya. The interrogation began again.

Chapter IV.
The Second Ordeal
“You don’t know how you encourage us, Dmitri Fyodorovitch, by your readiness to answer,” said Nikolay Parfenovitch, with an animated air, and obvious satisfaction beaming in his very prominent, short‐sighted, light gray eyes, from which he had removed his spectacles a moment before. “And you have made a very just remark about the mutual confidence, without which it is sometimes positively impossible to get on in cases of such importance, if the suspected party really hopes and desires to defend himself and is in a position to do so. We, on our side, will do everything in our power, and you can see for yourself how we are conducting the case. You approve, Ippolit Kirillovitch?” He turned to the prosecutor.

“Oh, undoubtedly,” replied the prosecutor. His tone was somewhat cold, compared with Nikolay Parfenovitch’s impulsiveness.

I will note once for all that Nikolay Parfenovitch, who had but lately arrived among us, had from the first felt marked respect for Ippolit Kirillovitch, our prosecutor, and had become almost his bosom friend. He was almost the only person who put implicit faith in Ippolit Kirillovitch’s extraordinary talents as a psychologist and orator and in the justice of his grievance. He had heard of him in Petersburg. On the other hand, young Nikolay Parfenovitch was the only person in the whole world whom our “unappreciated” prosecutor genuinely liked. On their way to Mokroe they had time to come to an understanding about the present case. And now as they sat at the table, the sharp‐witted junior caught and interpreted every indication on his senior colleague’s face—half a word, a glance, or a wink.

“Gentlemen, only let me tell my own story and don’t interrupt me with trivial questions and I’ll tell you everything in a moment,” said Mitya excitedly.

“Excellent! Thank you. But before we proceed to listen to your communication, will you allow me to inquire as to another little fact of great interest to us? I mean the ten roubles you borrowed yesterday at about five o’clock on the security of your pistols, from your friend, Pyotr Ilyitch Perhotin.”

“I pledged them, gentlemen. I pledged them for ten roubles. What more? That’s all about it. As soon as I got back to town I pledged them.”

“You got back to town? Then you had been out of town?”

“Yes, I went a journey of forty versts into the country. Didn’t you know?”

The prosecutor and Nikolay Parfenovitch exchanged glances.

“Well, how would it be if you began your story with a systematic description of all you did yesterday, from the morning onwards? Allow us, for instance, to inquire why you were absent from the town, and just when you left and when you came back—all those facts.”

“You should have asked me like that from the beginning,” cried Mitya, laughing aloud, “and, if you like, we won’t begin from yesterday, but from the morning of the day before; then you’ll understand how, why, and where I went. I went the day before yesterday, gentlemen, to a merchant of the town, called Samsonov, to borrow three thousand roubles from him on safe security. It was a pressing matter, gentlemen, it was a sudden necessity.”

“Allow me to interrupt you,” the prosecutor put in politely. “Why were you in such pressing need for just that sum, three thousand?”

“Oh, gentlemen, you needn’t go into details, how, when and why, and why just so much money, and not so much, and all that rigmarole. Why, it’ll run to three volumes, and then you’ll want an epilogue!”

Mitya said all this with the good‐natured but impatient familiarity of a man who is anxious to tell the whole truth and is full of the best intentions.

“Gentlemen!”—he corrected himself hurriedly—“don’t be vexed with me for my restiveness, I beg you again. Believe me once more, I feel the greatest respect for you and understand the true position of affairs. Don’t think I’m drunk. I’m quite sober now. And, besides, being drunk would be no hindrance. It’s with me, you know, like the saying: ‘When he is sober, he is a fool; when he is drunk, he is a wise man.’ Ha ha! But I see, gentlemen, it’s not the proper thing to make jokes to you, till we’ve had our explanation, I mean. And I’ve my own dignity to keep up, too. I quite understand the difference for the moment. I am, after all, in the position of a criminal, and so, far from being on equal terms with you. And it’s your business to watch me. I can’t expect you to pat me on the head for what I did to Grigory, for one can’t break old men’s heads with impunity. I suppose you’ll put me away for him for six months, or a year perhaps, in a house of correction. I don’t know what the punishment is—but it will be without loss of the rights of my rank, without loss of my rank, won’t it? So you see, gentlemen, I understand the distinction between us…. But you must see that you could puzzle God Himself with such questions. ‘How did you step? Where did you step? When did you step? And on what did you step?’ I shall get mixed up, if you go on like this, and you will put it all down against me. And what will that lead to? To nothing! And even if it’s nonsense I’m talking now, let me finish, and you, gentlemen, being men of honor and refinement, will forgive me! I’ll finish by asking you, gentlemen, to drop that conventional method of questioning. I mean, beginning from some miserable trifle, how I got up, what I had for breakfast, how I spat, and where I spat, and so distracting the attention of the criminal, suddenly stun him with an overwhelming question, ‘Whom did you murder? Whom did you rob?’ Ha ha! That’s your regulation method, that’s where all your cunning comes in. You can put peasants off their guard like that, but not me. I know the tricks. I’ve been in the service, too. Ha ha ha! You’re not angry, gentlemen? You forgive my impertinence?” he cried, looking at them with a good‐nature that was almost surprising. “It’s only Mitya Karamazov, you know, so you can overlook it. It would be inexcusable in a sensible man; but you can forgive it in Mitya. Ha ha!”

Nikolay Parfenovitch listened, and laughed too. Though the prosecutor did not laugh, he kept his eyes fixed keenly on Mitya, as though anxious not to miss the least syllable, the slightest movement, the smallest twitch of any feature of his face.

“That’s how we have treated you from the beginning,” said Nikolay Parfenovitch, still laughing. “We haven’t tried to put you out by asking how you got up in the morning and what you had for breakfast. We began, indeed, with questions of the greatest importance.”

“I understand. I saw it and appreciated it, and I appreciate still more your present kindness to me, an unprecedented kindness, worthy of your noble hearts. We three here are gentlemen, and let everything be on the footing of mutual confidence between educated, well‐bred people, who have the common bond of noble birth and honor. In any case, allow me to look upon you as my best friends at this moment of my life, at this moment when my honor is assailed. That’s no offense to you, gentlemen, is it?”

“On the contrary. You’ve expressed all that so well, Dmitri Fyodorovitch,” Nikolay Parfenovitch answered with dignified approbation.

“And enough of those trivial questions, gentlemen, all those tricky questions!” cried Mitya enthusiastically. “Or there’s simply no knowing where we shall get to! Is there?”

“I will follow your sensible advice entirely,” the prosecutor interposed, addressing Mitya. “I don’t withdraw my question, however. It is now vitally important for us to know exactly why you needed that sum, I mean precisely three thousand.”

“Why I needed it?… Oh, for one thing and another…. Well, it was to pay a debt.”

“A debt to whom?”

“That I absolutely refuse to answer, gentlemen. Not because I couldn’t, or because I shouldn’t dare, or because it would be damaging, for it’s all a paltry matter and absolutely trifling, but—I won’t, because it’s a matter of principle: that’s my private life, and I won’t allow any intrusion into my private life. That’s my principle. Your question has no bearing on the case, and whatever has nothing to do with the case is my private affair. I wanted to pay a debt. I wanted to pay a debt of honor but to whom I won’t say.”

“Allow me to make a note of that,” said the prosecutor.

“By all means. Write down that I won’t say, that I won’t. Write that I should think it dishonorable to say. Ech! you can write it; you’ve nothing else to do with your time.”

“Allow me to caution you, sir, and to remind you once more, if you are unaware of it,” the prosecutor began, with a peculiar and stern impressiveness, “that you have a perfect right not to answer the questions put to you now, and we on our side have no right to extort an answer from you, if you decline to give it for one reason or another. That is entirely a matter for your personal decision. But it is our duty, on the other hand, in such cases as the present, to explain and set before you the degree of injury you will be doing yourself by refusing to give this or that piece of evidence. After which I will beg you to continue.”

“Gentlemen, I’m not angry … I …” Mitya muttered in a rather disconcerted tone. “Well, gentlemen, you see, that Samsonov to whom I went then …”

We will, of course, not reproduce his account of what is known to the reader already. Mitya was impatiently anxious not to omit the slightest detail. At the same time he was in a hurry to get it over. But as he gave his evidence it was written down, and therefore they had continually to pull him up. Mitya disliked this, but submitted; got angry, though still good‐humoredly. He did, it is true, exclaim, from time to time, “Gentlemen, that’s enough to make an angel out of patience!” Or, “Gentlemen, it’s no good your irritating me.”

But even though he exclaimed he still preserved for a time his genially expansive mood. So he told them how Samsonov had made a fool of him two days before. (He had completely realized by now that he had been fooled.) The sale of his watch for six roubles to obtain money for the journey was something new to the lawyers. They were at once greatly interested, and even, to Mitya’s intense indignation, thought it necessary to write the fact down as a secondary confirmation of the circumstance that he had hardly a farthing in his pocket at the time. Little by little Mitya began to grow surly. Then, after describing his journey to see Lyagavy, the night spent in the stifling hut, and so on, he came to his return to the town. Here he began, without being particularly urged, to give a minute account of the agonies of jealousy he endured on Grushenka’s account.

He was heard with silent attention. They inquired particularly into the circumstance of his having a place of ambush in Marya Kondratyevna’s house at the back of Fyodor Pavlovitch’s garden to keep watch on Grushenka, and of Smerdyakov’s bringing him information. They laid particular stress on this, and noted it down. Of his jealousy he spoke warmly and at length, and though inwardly ashamed at exposing his most intimate feelings to “public ignominy,” so to speak, he evidently overcame his shame in order to tell the truth. The frigid severity, with which the investigating lawyer, and still more the prosecutor, stared intently at him as he told his story, disconcerted him at last considerably.

“That boy, Nikolay Parfenovitch, to whom I was talking nonsense about women only a few days ago, and that sickly prosecutor are not worth my telling this to,” he reflected mournfully. “It’s ignominious. ‘Be patient, humble, hold thy peace.’ ” He wound up his reflections with that line. But he pulled himself together to go on again. When he came to telling of his visit to Madame Hohlakov, he regained his spirits and even wished to tell a little anecdote of that lady which had nothing to do with the case. But the investigating lawyer stopped him, and civilly suggested that he should pass on to “more essential matters.” At last, when he described his despair and told them how, when he left Madame Hohlakov’s, he thought that he’d “get three thousand if he had to murder some one to do it,” they stopped him again and noted down that he had “meant to murder some one.” Mitya let them write it without protest. At last he reached the point in his story when he learned that Grushenka had deceived him and had returned from Samsonov’s as soon as he left her there, though she had said that she would stay there till midnight.

“If I didn’t kill Fenya then, gentlemen, it was only because I hadn’t time,” broke from him suddenly at that point in his story. That, too, was carefully written down. Mitya waited gloomily, and was beginning to tell how he ran into his father’s garden when the investigating lawyer suddenly stopped him, and opening the big portfolio that lay on the sofa beside him he brought out the brass pestle.

“Do you recognize this object?” he asked, showing it to Mitya.

“Oh, yes,” he laughed gloomily. “Of course I recognize it. Let me have a look at it…. Damn it, never mind!”

“You have forgotten to mention it,” observed the investigating lawyer.

“Hang it all, I shouldn’t have concealed it from you. Do you suppose I could have managed without it? It simply escaped my memory.”

“Be so good as to tell us precisely how you came to arm yourself with it.”

“Certainly I will be so good, gentlemen.”

And Mitya described how he took the pestle and ran.

“But what object had you in view in arming yourself with such a weapon?”

“What object? No object. I just picked it up and ran off.”

“What for, if you had no object?”

Mitya’s wrath flared up. He looked intently at “the boy” and smiled gloomily and malignantly. He was feeling more and more ashamed at having told “such people” the story of his jealousy so sincerely and spontaneously.

“Bother the pestle!” broke from him suddenly.

“But still—”

“Oh, to keep off dogs…. Oh, because it was dark…. In case anything turned up.”

“But have you ever on previous occasions taken a weapon with you when you went out, since you’re afraid of the dark?”

“Ugh! damn it all, gentlemen! There’s positively no talking to you!” cried Mitya, exasperated beyond endurance, and turning to the secretary, crimson with anger, he said quickly, with a note of fury in his voice:

“Write down at once … at once … ‘that I snatched up the pestle to go and kill my father … Fyodor Pavlovitch … by hitting him on the head with it!’ Well, now are you satisfied, gentlemen? Are your minds relieved?” he said, glaring defiantly at the lawyers.

“We quite understand that you made that statement just now through exasperation with us and the questions we put to you, which you consider trivial, though they are, in fact, essential,” the prosecutor remarked dryly in reply.

“Well, upon my word, gentlemen! Yes, I took the pestle…. What does one pick things up for at such moments? I don’t know what for. I snatched it up and ran—that’s all. For to me, gentlemen, passons, or I declare I won’t tell you any more.”

He sat with his elbows on the table and his head in his hand. He sat sideways to them and gazed at the wall, struggling against a feeling of nausea. He had, in fact, an awful inclination to get up and declare that he wouldn’t say another word, “not if you hang me for it.”

“You see, gentlemen,” he said at last, with difficulty controlling himself, “you see. I listen to you and am haunted by a dream…. It’s a dream I have sometimes, you know…. I often dream it—it’s always the same … that some one is hunting me, some one I’m awfully afraid of … that he’s hunting me in the dark, in the night … tracking me, and I hide somewhere from him, behind a door or cupboard, hide in a degrading way, and the worst of it is, he always knows where I am, but he pretends not to know where I am on purpose, to prolong my agony, to enjoy my terror…. That’s just what you’re doing now. It’s just like that!”

“Is that the sort of thing you dream about?” inquired the prosecutor.

“Yes, it is. Don’t you want to write it down?” said Mitya, with a distorted smile.

“No; no need to write it down. But still you do have curious dreams.”

“It’s not a question of dreams now, gentlemen—this is realism, this is real life! I’m a wolf and you’re the hunters. Well, hunt him down!”

“You are wrong to make such comparisons …” began Nikolay Parfenovitch, with extraordinary softness.

“No, I’m not wrong, not at all!” Mitya flared up again, though his outburst of wrath had obviously relieved his heart. He grew more good‐ humored at every word. “You may not trust a criminal or a man on trial tortured by your questions, but an honorable man, the honorable impulses of the heart (I say that boldly!)—no! That you must believe you have no right indeed … but—

Be silent, heart,
Be patient, humble, hold thy peace.

Well, shall I go on?” he broke off gloomily.

“If you’ll be so kind,” answered Nikolay Parfenovitch.

Chapter V.
The Third Ordeal
Though Mitya spoke sullenly, it was evident that he was trying more than ever not to forget or miss a single detail of his story. He told them how he had leapt over the fence into his father’s garden; how he had gone up to the window; told them all that had passed under the window. Clearly, precisely, distinctly, he described the feelings that troubled him during those moments in the garden when he longed so terribly to know whether Grushenka was with his father or not. But, strange to say, both the lawyers listened now with a sort of awful reserve, looked coldly at him, asked few questions. Mitya could gather nothing from their faces.

“They’re angry and offended,” he thought. “Well, bother them!”

When he described how he made up his mind at last to make the “signal” to his father that Grushenka had come, so that he should open the window, the lawyers paid no attention to the word “signal,” as though they entirely failed to grasp the meaning of the word in this connection: so much so, that Mitya noticed it. Coming at last to the moment when, seeing his father peering out of the window, his hatred flared up and he pulled the pestle out of his pocket, he suddenly, as though of design, stopped short. He sat gazing at the wall and was aware that their eyes were fixed upon him.

“Well?” said the investigating lawyer. “You pulled out the weapon and … and what happened then?”

“Then? Why, then I murdered him … hit him on the head and cracked his skull…. I suppose that’s your story. That’s it!”

His eyes suddenly flashed. All his smothered wrath suddenly flamed up with extraordinary violence in his soul.

“Our story?” repeated Nikolay Parfenovitch. “Well—and yours?”

Mitya dropped his eyes and was a long time silent.

“My story, gentlemen? Well, it was like this,” he began softly. “Whether it was some one’s tears, or my mother prayed to God, or a good angel kissed me at that instant, I don’t know. But the devil was conquered. I rushed from the window and ran to the fence. My father was alarmed and, for the first time, he saw me then, cried out, and sprang back from the window. I remember that very well. I ran across the garden to the fence … and there Grigory caught me, when I was sitting on the fence.”

At that point he raised his eyes at last and looked at his listeners. They seemed to be staring at him with perfectly unruffled attention. A sort of paroxysm of indignation seized on Mitya’s soul.

“Why, you’re laughing at me at this moment, gentlemen!” he broke off suddenly.

“What makes you think that?” observed Nikolay Parfenovitch.

“You don’t believe one word—that’s why! I understand, of course, that I have come to the vital point. The old man’s lying there now with his skull broken, while I—after dramatically describing how I wanted to kill him, and how I snatched up the pestle—I suddenly run away from the window. A romance! Poetry! As though one could believe a fellow on his word. Ha ha! You are scoffers, gentlemen!”

And he swung round on his chair so that it creaked.

“And did you notice,” asked the prosecutor suddenly, as though not observing Mitya’s excitement, “did you notice when you ran away from the window, whether the door into the garden was open?”

“No, it was not open.”

“It was not?”

“It was shut. And who could open it? Bah! the door. Wait a bit!” he seemed suddenly to bethink himself, and almost with a start:

“Why, did you find the door open?”

“Yes, it was open.”

“Why, who could have opened it if you did not open it yourselves?” cried Mitya, greatly astonished.

“The door stood open, and your father’s murderer undoubtedly went in at that door, and, having accomplished the crime, went out again by the same door,” the prosecutor pronounced deliberately, as though chiseling out each word separately. “That is perfectly clear. The murder was committed in the room and not through the window; that is absolutely certain from the examination that has been made, from the position of the body and everything. There can be no doubt of that circumstance.”

Mitya was absolutely dumbfounded.

“But that’s utterly impossible!” he cried, completely at a loss. “I … I didn’t go in…. I tell you positively, definitely, the door was shut the whole time I was in the garden, and when I ran out of the garden. I only stood at the window and saw him through the window. That’s all, that’s all…. I remember to the last minute. And if I didn’t remember, it would be just the same. I know it, for no one knew the signals except Smerdyakov, and me, and the dead man. And he wouldn’t have opened the door to any one in the world without the signals.”

“Signals? What signals?” asked the prosecutor, with greedy, almost hysterical, curiosity. He instantly lost all trace of his reserve and dignity. He asked the question with a sort of cringing timidity. He scented an important fact of which he had known nothing, and was already filled with dread that Mitya might be unwilling to disclose it.

“So you didn’t know!” Mitya winked at him with a malicious and mocking smile. “What if I won’t tell you? From whom could you find out? No one knew about the signals except my father, Smerdyakov, and me: that was all. Heaven knew, too, but it won’t tell you. But it’s an interesting fact. There’s no knowing what you might build on it. Ha ha! Take comfort, gentlemen, I’ll reveal it. You’ve some foolish idea in your hearts. You don’t know the man you have to deal with! You have to do with a prisoner who gives evidence against himself, to his own damage! Yes, for I’m a man of honor and you—are not.”

The prosecutor swallowed this without a murmur. He was trembling with impatience to hear the new fact. Minutely and diffusely Mitya told them everything about the signals invented by Fyodor Pavlovitch for Smerdyakov. He told them exactly what every tap on the window meant, tapped the signals on the table, and when Nikolay Parfenovitch said that he supposed he, Mitya, had tapped the signal “Grushenka has come,” when he tapped to his father, he answered precisely that he had tapped that signal, that “Grushenka had come.”

“So now you can build up your tower,” Mitya broke off, and again turned away from them contemptuously.

“So no one knew of the signals but your dead father, you, and the valet Smerdyakov? And no one else?” Nikolay Parfenovitch inquired once more.

“Yes. The valet Smerdyakov, and Heaven. Write down about Heaven. That may be of use. Besides, you will need God yourselves.”

And they had already, of course, begun writing it down. But while they wrote, the prosecutor said suddenly, as though pitching on a new idea:

“But if Smerdyakov also knew of these signals and you absolutely deny all responsibility for the death of your father, was it not he, perhaps, who knocked the signal agreed upon, induced your father to open to him, and then … committed the crime?”

Mitya turned upon him a look of profound irony and intense hatred. His silent stare lasted so long that it made the prosecutor blink.

“You’ve caught the fox again,” commented Mitya at last; “you’ve got the beast by the tail. Ha ha! I see through you, Mr. Prosecutor. You thought, of course, that I should jump at that, catch at your prompting, and shout with all my might, ‘Aie! it’s Smerdyakov; he’s the murderer.’ Confess that’s what you thought. Confess, and I’ll go on.”

But the prosecutor did not confess. He held his tongue and waited.

“You’re mistaken. I’m not going to shout ‘It’s Smerdyakov,’ ” said Mitya.

“And you don’t even suspect him?”

“Why, do you suspect him?”

“He is suspected, too.”

Mitya fixed his eyes on the floor.

“Joking apart,” he brought out gloomily. “Listen. From the very beginning, almost from the moment when I ran out to you from behind the curtain, I’ve had the thought of Smerdyakov in my mind. I’ve been sitting here, shouting that I’m innocent and thinking all the time ‘Smerdyakov!’ I can’t get Smerdyakov out of my head. In fact, I, too, thought of Smerdyakov just now; but only for a second. Almost at once I thought, ‘No, it’s not Smerdyakov.’ It’s not his doing, gentlemen.”

“In that case is there anybody else you suspect?” Nikolay Parfenovitch inquired cautiously.

“I don’t know any one it could be, whether it’s the hand of Heaven or Satan, but … not Smerdyakov,” Mitya jerked out with decision.

“But what makes you affirm so confidently and emphatically that it’s not he?”

“From my conviction—my impression. Because Smerdyakov is a man of the most abject character and a coward. He’s not a coward, he’s the epitome of all the cowardice in the world walking on two legs. He has the heart of a chicken. When he talked to me, he was always trembling for fear I should kill him, though I never raised my hand against him. He fell at my feet and blubbered; he has kissed these very boots, literally, beseeching me ‘not to frighten him.’ Do you hear? ‘Not to frighten him.’ What a thing to say! Why, I offered him money. He’s a puling chicken—sickly, epileptic, weak‐minded—a child of eight could thrash him. He has no character worth talking about. It’s not Smerdyakov, gentlemen. He doesn’t care for money; he wouldn’t take my presents. Besides, what motive had he for murdering the old man? Why, he’s very likely his son, you know—his natural son. Do you know that?”

“We have heard that legend. But you are your father’s son, too, you know; yet you yourself told every one you meant to murder him.”

“That’s a thrust! And a nasty, mean one, too! I’m not afraid! Oh, gentlemen, isn’t it too base of you to say that to my face? It’s base, because I told you that myself. I not only wanted to murder him, but I might have done it. And, what’s more, I went out of my way to tell you of my own accord that I nearly murdered him. But, you see, I didn’t murder him; you see, my guardian angel saved me—that’s what you’ve not taken into account. And that’s why it’s so base of you. For I didn’t kill him, I didn’t kill him! Do you hear, I did not kill him.”

He was almost choking. He had not been so moved before during the whole interrogation.

“And what has he told you, gentlemen—Smerdyakov, I mean?” he added suddenly, after a pause. “May I ask that question?”

“You may ask any question,” the prosecutor replied with frigid severity, “any question relating to the facts of the case, and we are, I repeat, bound to answer every inquiry you make. We found the servant Smerdyakov, concerning whom you inquire, lying unconscious in his bed, in an epileptic fit of extreme severity, that had recurred, possibly, ten times. The doctor who was with us told us, after seeing him, that he may possibly not outlive the night.”

“Well, if that’s so, the devil must have killed him,” broke suddenly from Mitya, as though until that moment he had been asking himself: “Was it Smerdyakov or not?”

“We will come back to this later,” Nikolay Parfenovitch decided. “Now, wouldn’t you like to continue your statement?”

Mitya asked for a rest. His request was courteously granted. After resting, he went on with his story. But he was evidently depressed. He was exhausted, mortified and morally shaken. To make things worse the prosecutor exasperated him, as though intentionally, by vexatious interruptions about “trifling points.” Scarcely had Mitya described how, sitting on the wall, he had struck Grigory on the head with the pestle, while the old man had hold of his left leg, and how he had then jumped down to look at him, when the prosecutor stopped him to ask him to describe exactly how he was sitting on the wall. Mitya was surprised.

“Oh, I was sitting like this, astride, one leg on one side of the wall and one on the other.”

“And the pestle?”

“The pestle was in my hand.”

“Not in your pocket? Do you remember that precisely? Was it a violent blow you gave him?”

“It must have been a violent one. But why do you ask?”

“Would you mind sitting on the chair just as you sat on the wall then and showing us just how you moved your arm, and in what direction?”

“You’re making fun of me, aren’t you?” asked Mitya, looking haughtily at the speaker; but the latter did not flinch.

Mitya turned abruptly, sat astride on his chair, and swung his arm.

“This was how I struck him! That’s how I knocked him down! What more do you want?”

“Thank you. May I trouble you now to explain why you jumped down, with what object, and what you had in view?”

“Oh, hang it!… I jumped down to look at the man I’d hurt … I don’t know what for!”

“Though you were so excited and were running away?”

“Yes, though I was excited and running away.”

“You wanted to help him?”

“Help!… Yes, perhaps I did want to help him…. I don’t remember.”

“You don’t remember? Then you didn’t quite know what you were doing?”

“Not at all. I remember everything—every detail. I jumped down to look at him, and wiped his face with my handkerchief.”

“We have seen your handkerchief. Did you hope to restore him to consciousness?”

“I don’t know whether I hoped it. I simply wanted to make sure whether he was alive or not.”

“Ah! You wanted to be sure? Well, what then?”

“I’m not a doctor. I couldn’t decide. I ran away thinking I’d killed him. And now he’s recovered.”

“Excellent,” commented the prosecutor. “Thank you. That’s all I wanted. Kindly proceed.”

Alas! it never entered Mitya’s head to tell them, though he remembered it, that he had jumped back from pity, and standing over the prostrate figure had even uttered some words of regret: “You’ve come to grief, old man—there’s no help for it. Well, there you must lie.”

The prosecutor could only draw one conclusion: that the man had jumped back “at such a moment and in such excitement simply with the object of ascertaining whether the only witness of his crime were dead; that he must therefore have been a man of great strength, coolness, decision and foresight even at such a moment,” … and so on. The prosecutor was satisfied: “I’ve provoked the nervous fellow by ‘trifles’ and he has said more than he meant to.”

With painful effort Mitya went on. But this time he was pulled up immediately by Nikolay Parfenovitch.

“How came you to run to the servant, Fedosya Markovna, with your hands so covered with blood, and, as it appears, your face, too?”

“Why, I didn’t notice the blood at all at the time,” answered Mitya.

“That’s quite likely. It does happen sometimes.” The prosecutor exchanged glances with Nikolay Parfenovitch.

“I simply didn’t notice. You’re quite right there, prosecutor,” Mitya assented suddenly.

Next came the account of Mitya’s sudden determination to “step aside” and make way for their happiness. But he could not make up his mind to open his heart to them as before, and tell them about “the queen of his soul.” He disliked speaking of her before these chilly persons “who were fastening on him like bugs.” And so in response to their reiterated questions he answered briefly and abruptly:

“Well, I made up my mind to kill myself. What had I left to live for? That question stared me in the face. Her first rightful lover had come back, the man who wronged her but who’d hurried back to offer his love, after five years, and atone for the wrong with marriage…. So I knew it was all over for me…. And behind me disgrace, and that blood—Grigory’s…. What had I to live for? So I went to redeem the pistols I had pledged, to load them and put a bullet in my brain to‐morrow.”

“And a grand feast the night before?”

“Yes, a grand feast the night before. Damn it all, gentlemen! Do make haste and finish it. I meant to shoot myself not far from here, beyond the village, and I’d planned to do it at five o’clock in the morning. And I had a note in my pocket already. I wrote it at Perhotin’s when I loaded my pistols. Here’s the letter. Read it! It’s not for you I tell it,” he added contemptuously. He took it from his waistcoat pocket and flung it on the table. The lawyers read it with curiosity, and, as is usual, added it to the papers connected with the case.

“And you didn’t even think of washing your hands at Perhotin’s? You were not afraid then of arousing suspicion?”

“What suspicion? Suspicion or not, I should have galloped here just the same, and shot myself at five o’clock, and you wouldn’t have been in time to do anything. If it hadn’t been for what’s happened to my father, you would have known nothing about it, and wouldn’t have come here. Oh, it’s the devil’s doing. It was the devil murdered father, it was through the devil that you found it out so soon. How did you manage to get here so quick? It’s marvelous, a dream!”

“Mr. Perhotin informed us that when you came to him, you held in your hands … your blood‐stained hands … your money … a lot of money … a bundle of hundred‐rouble notes, and that his servant‐boy saw it too.”

“That’s true, gentlemen. I remember it was so.”

“Now, there’s one little point presents itself. Can you inform us,” Nikolay Parfenovitch began, with extreme gentleness, “where did you get so much money all of a sudden, when it appears from the facts, from the reckoning of time, that you had not been home?”

The prosecutor’s brows contracted at the question being asked so plainly, but he did not interrupt Nikolay Parfenovitch.

“No, I didn’t go home,” answered Mitya, apparently perfectly composed, but looking at the floor.

“Allow me then to repeat my question,” Nikolay Parfenovitch went on as though creeping up to the subject. “Where were you able to procure such a sum all at once, when by your own confession, at five o’clock the same day you—”

“I was in want of ten roubles and pledged my pistols with Perhotin, and then went to Madame Hohlakov to borrow three thousand which she wouldn’t give me, and so on, and all the rest of it,” Mitya interrupted sharply. “Yes, gentlemen, I was in want of it, and suddenly thousands turned up, eh? Do you know, gentlemen, you’re both afraid now ‘what if he won’t tell us where he got it?’ That’s just how it is. I’m not going to tell you, gentlemen. You’ve guessed right. You’ll never know,” said Mitya, chipping out each word with extraordinary determination. The lawyers were silent for a moment.

“You must understand, Mr. Karamazov, that it is of vital importance for us to know,” said Nikolay Parfenovitch, softly and suavely.

“I understand; but still I won’t tell you.”

The prosecutor, too, intervened, and again reminded the prisoner that he was at liberty to refuse to answer questions, if he thought it to his interest, and so on. But in view of the damage he might do himself by his silence, especially in a case of such importance as—

“And so on, gentlemen, and so on. Enough! I’ve heard that rigmarole before,” Mitya interrupted again. “I can see for myself how important it is, and that this is the vital point, and still I won’t say.”

“What is it to us? It’s not our business, but yours. You are doing yourself harm,” observed Nikolay Parfenovitch nervously.

“You see, gentlemen, joking apart”—Mitya lifted his eyes and looked firmly at them both—“I had an inkling from the first that we should come to loggerheads at this point. But at first when I began to give my evidence, it was all still far away and misty; it was all floating, and I was so simple that I began with the supposition of mutual confidence existing between us. Now I can see for myself that such confidence is out of the question, for in any case we were bound to come to this cursed stumbling‐ block. And now we’ve come to it! It’s impossible and there’s an end of it! But I don’t blame you. You can’t believe it all simply on my word. I understand that, of course.”

He relapsed into gloomy silence.

“Couldn’t you, without abandoning your resolution to be silent about the chief point, could you not, at the same time, give us some slight hint as to the nature of the motives which are strong enough to induce you to refuse to answer, at a crisis so full of danger to you?”

Mitya smiled mournfully, almost dreamily.

“I’m much more good‐natured than you think, gentlemen. I’ll tell you the reason why and give you that hint, though you don’t deserve it. I won’t speak of that, gentlemen, because it would be a stain on my honor. The answer to the question where I got the money would expose me to far greater disgrace than the murder and robbing of my father, if I had murdered and robbed him. That’s why I can’t tell you. I can’t for fear of disgrace. What, gentlemen, are you going to write that down?”

“Yes, we’ll write it down,” lisped Nikolay Parfenovitch.

“You ought not to write that down about ‘disgrace.’ I only told you that in the goodness of my heart. I needn’t have told you. I made you a present of it, so to speak, and you pounce upon it at once. Oh, well, write—write what you like,” he concluded, with scornful disgust. “I’m not afraid of you and I can still hold up my head before you.”

“And can’t you tell us the nature of that disgrace?” Nikolay Parfenovitch hazarded.

The prosecutor frowned darkly.

“No, no, c’est fini, don’t trouble yourselves. It’s not worth while soiling one’s hands. I have soiled myself enough through you as it is. You’re not worth it—no one is … Enough, gentlemen. I’m not going on.”

This was said too peremptorily. Nikolay Parfenovitch did not insist further, but from Ippolit Kirillovitch’s eyes he saw that he had not given up hope.

“Can you not, at least, tell us what sum you had in your hands when you went into Mr. Perhotin’s—how many roubles exactly?”

“I can’t tell you that.”

“You spoke to Mr. Perhotin, I believe, of having received three thousand from Madame Hohlakov.”

“Perhaps I did. Enough, gentlemen. I won’t say how much I had.”

“Will you be so good then as to tell us how you came here and what you have done since you arrived?”

“Oh! you might ask the people here about that. But I’ll tell you if you like.”

He proceeded to do so, but we won’t repeat his story. He told it dryly and curtly. Of the raptures of his love he said nothing, but told them that he abandoned his determination to shoot himself, owing to “new factors in the case.” He told the story without going into motives or details. And this time the lawyers did not worry him much. It was obvious that there was no essential point of interest to them here.

“We shall verify all that. We will come back to it during the examination of the witnesses, which will, of course, take place in your presence,” said Nikolay Parfenovitch in conclusion. “And now allow me to request you to lay on the table everything in your possession, especially all the money you still have about you.”

“My money, gentlemen? Certainly. I understand that that is necessary. I’m surprised, indeed, that you haven’t inquired about it before. It’s true I couldn’t get away anywhere. I’m sitting here where I can be seen. But here’s my money—count it—take it. That’s all, I think.”

He turned it all out of his pockets; even the small change—two pieces of twenty copecks—he pulled out of his waistcoat pocket. They counted the money, which amounted to eight hundred and thirty‐six roubles, and forty copecks.

“And is that all?” asked the investigating lawyer.

“Yes.”

“You stated just now in your evidence that you spent three hundred roubles at Plotnikovs’. You gave Perhotin ten, your driver twenty, here you lost two hundred, then….”

Nikolay Parfenovitch reckoned it all up. Mitya helped him readily. They recollected every farthing and included it in the reckoning. Nikolay Parfenovitch hurriedly added up the total.

“With this eight hundred you must have had about fifteen hundred at first?”

“I suppose so,” snapped Mitya.

“How is it they all assert there was much more?”

“Let them assert it.”

“But you asserted it yourself.”

“Yes, I did, too.”

“We will compare all this with the evidence of other persons not yet examined. Don’t be anxious about your money. It will be properly taken care of and be at your disposal at the conclusion of … what is beginning … if it appears, or, so to speak, is proved that you have undisputed right to it. Well, and now….”

Nikolay Parfenovitch suddenly got up, and informed Mitya firmly that it was his duty and obligation to conduct a minute and thorough search “of your clothes and everything else….”

“By all means, gentlemen. I’ll turn out all my pockets, if you like.”

And he did, in fact, begin turning out his pockets.

“It will be necessary to take off your clothes, too.”

“What! Undress? Ugh! Damn it! Won’t you search me as I am! Can’t you?”

“It’s utterly impossible, Dmitri Fyodorovitch. You must take off your clothes.”

“As you like,” Mitya submitted gloomily; “only, please, not here, but behind the curtains. Who will search them?”

“Behind the curtains, of course.”

Nikolay Parfenovitch bent his head in assent. His small face wore an expression of peculiar solemnity.

Chapter VI.
The Prosecutor Catches Mitya
Something utterly unexpected and amazing to Mitya followed. He could never, even a minute before, have conceived that any one could behave like that to him, Mitya Karamazov. What was worst of all, there was something humiliating in it, and on their side something “supercilious and scornful.” It was nothing to take off his coat, but he was asked to undress further, or rather not asked but “commanded,” he quite understood that. From pride and contempt he submitted without a word. Several peasants accompanied the lawyers and remained on the same side of the curtain. “To be ready if force is required,” thought Mitya, “and perhaps for some other reason, too.”

“Well, must I take off my shirt, too?” he asked sharply, but Nikolay Parfenovitch did not answer. He was busily engaged with the prosecutor in examining the coat, the trousers, the waistcoat and the cap; and it was evident that they were both much interested in the scrutiny. “They make no bones about it,” thought Mitya, “they don’t keep up the most elementary politeness.”

“I ask you for the second time—need I take off my shirt or not?” he said, still more sharply and irritably.

“Don’t trouble yourself. We will tell you what to do,” Nikolay Parfenovitch said, and his voice was positively peremptory, or so it seemed to Mitya.

Meantime a consultation was going on in undertones between the lawyers. There turned out to be on the coat, especially on the left side at the back, a huge patch of blood, dry, and still stiff. There were bloodstains on the trousers, too. Nikolay Parfenovitch, moreover, in the presence of the peasant witnesses, passed his fingers along the collar, the cuffs, and all the seams of the coat and trousers, obviously looking for something—money, of course. He didn’t even hide from Mitya his suspicion that he was capable of sewing money up in his clothes.

“He treats me not as an officer but as a thief,” Mitya muttered to himself. They communicated their ideas to one another with amazing frankness. The secretary, for instance, who was also behind the curtain, fussing about and listening, called Nikolay Parfenovitch’s attention to the cap, which they were also fingering.

“You remember Gridyenko, the copying‐clerk,” observed the secretary. “Last summer he received the wages of the whole office, and pretended to have lost the money when he was drunk. And where was it found? Why, in just such pipings in his cap. The hundred‐rouble notes were screwed up in little rolls and sewed in the piping.”

Both the lawyers remembered Gridyenko’s case perfectly, and so laid aside Mitya’s cap, and decided that all his clothes must be more thoroughly examined later.

“Excuse me,” cried Nikolay Parfenovitch, suddenly, noticing that the right cuff of Mitya’s shirt was turned in, and covered with blood, “excuse me, what’s that, blood?”

“Yes,” Mitya jerked out.

“That is, what blood? … and why is the cuff turned in?”

Mitya told him how he had got the sleeve stained with blood looking after Grigory, and had turned it inside when he was washing his hands at Perhotin’s.

“You must take off your shirt, too. That’s very important as material evidence.”

Mitya flushed red and flew into a rage.

“What, am I to stay naked?” he shouted.

“Don’t disturb yourself. We will arrange something. And meanwhile take off your socks.”

“You’re not joking? Is that really necessary?” Mitya’s eyes flashed.

“We are in no mood for joking,” answered Nikolay Parfenovitch sternly.

“Well, if I must—” muttered Mitya, and sitting down on the bed, he took off his socks. He felt unbearably awkward. All were clothed, while he was naked, and strange to say, when he was undressed he felt somehow guilty in their presence, and was almost ready to believe himself that he was inferior to them, and that now they had a perfect right to despise him.

“When all are undressed, one is somehow not ashamed, but when one’s the only one undressed and everybody is looking, it’s degrading,” he kept repeating to himself, again and again. “It’s like a dream, I’ve sometimes dreamed of being in such degrading positions.” It was a misery to him to take off his socks. They were very dirty, and so were his underclothes, and now every one could see it. And what was worse, he disliked his feet. All his life he had thought both his big toes hideous. He particularly loathed the coarse, flat, crooked nail on the right one, and now they would all see it. Feeling intolerably ashamed made him, at once and intentionally, rougher. He pulled off his shirt, himself.

“Would you like to look anywhere else if you’re not ashamed to?”

“No, there’s no need to, at present.”

“Well, am I to stay naked like this?” he added savagely.

“Yes, that can’t be helped for the time…. Kindly sit down here for a while. You can wrap yourself in a quilt from the bed, and I … I’ll see to all this.”

All the things were shown to the witnesses. The report of the search was drawn up, and at last Nikolay Parfenovitch went out, and the clothes were carried out after him. Ippolit Kirillovitch went out, too. Mitya was left alone with the peasants, who stood in silence, never taking their eyes off him. Mitya wrapped himself up in the quilt. He felt cold. His bare feet stuck out, and he couldn’t pull the quilt over so as to cover them. Nikolay Parfenovitch seemed to be gone a long time, “an insufferable time.” “He thinks of me as a puppy,” thought Mitya, gnashing his teeth. “That rotten prosecutor has gone, too, contemptuous no doubt, it disgusts him to see me naked!”

Mitya imagined, however, that his clothes would be examined and returned to him. But what was his indignation when Nikolay Parfenovitch came back with quite different clothes, brought in behind him by a peasant.

“Here are clothes for you,” he observed airily, seeming well satisfied with the success of his mission. “Mr. Kalganov has kindly provided these for this unusual emergency, as well as a clean shirt. Luckily he had them all in his trunk. You can keep your own socks and underclothes.”

Mitya flew into a passion.

“I won’t have other people’s clothes!” he shouted menacingly, “give me my own!”

“It’s impossible!”

“Give me my own. Damn Kalganov and his clothes, too!”

It was a long time before they could persuade him. But they succeeded somehow in quieting him down. They impressed upon him that his clothes, being stained with blood, must be “included with the other material evidence,” and that they “had not even the right to let him have them now … taking into consideration the possible outcome of the case.” Mitya at last understood this. He subsided into gloomy silence and hurriedly dressed himself. He merely observed, as he put them on, that the clothes were much better than his old ones, and that he disliked “gaining by the change.” The coat was, besides, “ridiculously tight. Am I to be dressed up like a fool … for your amusement?”

They urged upon him again that he was exaggerating, that Kalganov was only a little taller, so that only the trousers might be a little too long. But the coat turned out to be really tight in the shoulders.

“Damn it all! I can hardly button it,” Mitya grumbled. “Be so good as to tell Mr. Kalganov from me that I didn’t ask for his clothes, and it’s not my doing that they’ve dressed me up like a clown.”

“He understands that, and is sorry … I mean, not sorry to lend you his clothes, but sorry about all this business,” mumbled Nikolay Parfenovitch.

“Confound his sorrow! Well, where now? Am I to go on sitting here?”

He was asked to go back to the “other room.” Mitya went in, scowling with anger, and trying to avoid looking at any one. Dressed in another man’s clothes he felt himself disgraced, even in the eyes of the peasants, and of Trifon Borissovitch, whose face appeared, for some reason, in the doorway, and vanished immediately. “He’s come to look at me dressed up,” thought Mitya. He sat down on the same chair as before. He had an absurd nightmarish feeling, as though he were out of his mind.

“Well, what now? Are you going to flog me? That’s all that’s left for you,” he said, clenching his teeth and addressing the prosecutor. He would not turn to Nikolay Parfenovitch, as though he disdained to speak to him.

“He looked too closely at my socks, and turned them inside out on purpose to show every one how dirty they were—the scoundrel!”

“Well, now we must proceed to the examination of witnesses,” observed Nikolay Parfenovitch, as though in reply to Mitya’s question.

“Yes,” said the prosecutor thoughtfully, as though reflecting on something.

“We’ve done what we could in your interest, Dmitri Fyodorovitch,” Nikolay Parfenovitch went on, “but having received from you such an uncompromising refusal to explain to us the source from which you obtained the money found upon you, we are, at the present moment—”

“What is the stone in your ring?” Mitya interrupted suddenly, as though awakening from a reverie. He pointed to one of the three large rings adorning Nikolay Parfenovitch’s right hand.

“Ring?” repeated Nikolay Parfenovitch with surprise.

“Yes, that one … on your middle finger, with the little veins in it, what stone is that?” Mitya persisted, like a peevish child.

“That’s a smoky topaz,” said Nikolay Parfenovitch, smiling. “Would you like to look at it? I’ll take it off …”

“No, don’t take it off,” cried Mitya furiously, suddenly waking up, and angry with himself. “Don’t take it off … there’s no need…. Damn it!… Gentlemen, you’ve sullied my heart! Can you suppose that I would conceal it from you, if I had really killed my father, that I would shuffle, lie, and hide myself? No, that’s not like Dmitri Karamazov, that he couldn’t do, and if I were guilty, I swear I shouldn’t have waited for your coming, or for the sunrise as I meant at first, but should have killed myself before this, without waiting for the dawn! I know that about myself now. I couldn’t have learnt so much in twenty years as I’ve found out in this accursed night!… And should I have been like this on this night, and at this moment, sitting with you, could I have talked like this, could I have moved like this, could I have looked at you and at the world like this, if I had really been the murderer of my father, when the very thought of having accidentally killed Grigory gave me no peace all night—not from fear—oh, not simply from fear of your punishment! The disgrace of it! And you expect me to be open with such scoffers as you, who see nothing and believe in nothing, blind moles and scoffers, and to tell you another nasty thing I’ve done, another disgrace, even if that would save me from your accusation! No, better Siberia! The man who opened the door to my father and went in at that door, he killed him, he robbed him. Who was he? I’m racking my brains and can’t think who. But I can tell you it was not Dmitri Karamazov, and that’s all I can tell you, and that’s enough, enough, leave me alone…. Exile me, punish me, but don’t bother me any more. I’ll say no more. Call your witnesses!”

Mitya uttered his sudden monologue as though he were determined to be absolutely silent for the future. The prosecutor watched him the whole time and only when he had ceased speaking, observed, as though it were the most ordinary thing, with the most frigid and composed air:

“Oh, about the open door of which you spoke just now, we may as well inform you, by the way, now, of a very interesting piece of evidence of the greatest importance both to you and to us, that has been given us by Grigory, the old man you wounded. On his recovery, he clearly and emphatically stated, in reply to our questions, that when, on coming out to the steps, and hearing a noise in the garden, he made up his mind to go into it through the little gate which stood open, before he noticed you running, as you have told us already, in the dark from the open window where you saw your father, he, Grigory, glanced to the left, and, while noticing the open window, observed at the same time, much nearer to him, the door, standing wide open—that door which you have stated to have been shut the whole time you were in the garden. I will not conceal from you that Grigory himself confidently affirms and bears witness that you must have run from that door, though, of course, he did not see you do so with his own eyes, since he only noticed you first some distance away in the garden, running towards the fence.”

Mitya had leapt up from his chair half‐way through this speech.

“Nonsense!” he yelled, in a sudden frenzy, “it’s a barefaced lie. He couldn’t have seen the door open because it was shut. He’s lying!”

“I consider it my duty to repeat that he is firm in his statement. He does not waver. He adheres to it. We’ve cross‐examined him several times.”

“Precisely. I have cross‐examined him several times,” Nikolay Parfenovitch confirmed warmly.

“It’s false, false! It’s either an attempt to slander me, or the hallucination of a madman,” Mitya still shouted. “He’s simply raving, from loss of blood, from the wound. He must have fancied it when he came to…. He’s raving.”

“Yes, but he noticed the open door, not when he came to after his injuries, but before that, as soon as he went into the garden from the lodge.”

“But it’s false, it’s false! It can’t be so! He’s slandering me from spite…. He couldn’t have seen it … I didn’t come from the door,” gasped Mitya.

The prosecutor turned to Nikolay Parfenovitch and said to him impressively:

“Confront him with it.”

“Do you recognize this object?”

Nikolay Parfenovitch laid upon the table a large and thick official envelope, on which three seals still remained intact. The envelope was empty, and slit open at one end. Mitya stared at it with open eyes.

“It … it must be that envelope of my father’s, the envelope that contained the three thousand roubles … and if there’s inscribed on it, allow me, ‘For my little chicken’ … yes—three thousand!” he shouted, “do you see, three thousand, do you see?”

“Of course, we see. But we didn’t find the money in it. It was empty, and lying on the floor by the bed, behind the screen.”

For some seconds Mitya stood as though thunderstruck.

“Gentlemen, it’s Smerdyakov!” he shouted suddenly, at the top of his voice. “It’s he who’s murdered him! He’s robbed him! No one else knew where the old man hid the envelope. It’s Smerdyakov, that’s clear, now!”

“But you, too, knew of the envelope and that it was under the pillow.”

“I never knew it. I’ve never seen it. This is the first time I’ve looked at it. I’d only heard of it from Smerdyakov…. He was the only one who knew where the old man kept it hidden, I didn’t know …” Mitya was completely breathless.

“But you told us yourself that the envelope was under your deceased father’s pillow. You especially stated that it was under the pillow, so you must have known it.”

“We’ve got it written down,” confirmed Nikolay Parfenovitch.

“Nonsense! It’s absurd! I’d no idea it was under the pillow. And perhaps it wasn’t under the pillow at all…. It was just a chance guess that it was under the pillow. What does Smerdyakov say? Have you asked him where it was? What does Smerdyakov say? that’s the chief point…. And I went out of my way to tell lies against myself…. I told you without thinking that it was under the pillow, and now you— Oh, you know how one says the wrong thing, without meaning it. No one knew but Smerdyakov, only Smerdyakov, and no one else…. He didn’t even tell me where it was! But it’s his doing, his doing; there’s no doubt about it, he murdered him, that’s as clear as daylight now,” Mitya exclaimed more and more frantically, repeating himself incoherently, and growing more and more exasperated and excited. “You must understand that, and arrest him at once…. He must have killed him while I was running away and while Grigory was unconscious, that’s clear now…. He gave the signal and father opened to him … for no one but he knew the signal, and without the signal father would never have opened the door….”

“But you’re again forgetting the circumstance,” the prosecutor observed, still speaking with the same restraint, though with a note of triumph, “that there was no need to give the signal if the door already stood open when you were there, while you were in the garden….”

“The door, the door,” muttered Mitya, and he stared speechless at the prosecutor. He sank back helpless in his chair. All were silent.

“Yes, the door!… It’s a nightmare! God is against me!” he exclaimed, staring before him in complete stupefaction.

“Come, you see,” the prosecutor went on with dignity, “and you can judge for yourself, Dmitri Fyodorovitch. On the one hand we have the evidence of the open door from which you ran out, a fact which overwhelms you and us. On the other side your incomprehensible, persistent, and, so to speak, obdurate silence with regard to the source from which you obtained the money which was so suddenly seen in your hands, when only three hours earlier, on your own showing, you pledged your pistols for the sake of ten roubles! In view of all these facts, judge for yourself. What are we to believe, and what can we depend upon? And don’t accuse us of being ‘frigid, cynical, scoffing people,’ who are incapable of believing in the generous impulses of your heart…. Try to enter into our position …”

Mitya was indescribably agitated. He turned pale.

“Very well!” he exclaimed suddenly. “I will tell you my secret. I’ll tell you where I got the money!… I’ll reveal my shame, that I may not have to blame myself or you hereafter.”

“And believe me, Dmitri Fyodorovitch,” put in Nikolay Parfenovitch, in a voice of almost pathetic delight, “that every sincere and complete confession on your part at this moment may, later on, have an immense influence in your favor, and may, indeed, moreover—”

But the prosecutor gave him a slight shove under the table, and he checked himself in time. Mitya, it is true, had not heard him.

Chapter VII.
Mitya’s Great Secret. Received With Hisses
“Gentlemen,” he began, still in the same agitation, “I want to make a full confession: that money was my own.” The lawyers’ faces lengthened. That was not at all what they expected.

“How do you mean?” faltered Nikolay Parfenovitch, “when at five o’clock on the same day, from your own confession—”

“Damn five o’clock on the same day and my own confession! That’s nothing to do with it now! That money was my own, my own, that is, stolen by me … not mine, I mean, but stolen by me, and it was fifteen hundred roubles, and I had it on me all the time, all the time …”

“But where did you get it?”

“I took it off my neck, gentlemen, off this very neck … it was here, round my neck, sewn up in a rag, and I’d had it round my neck a long time, it’s a month since I put it round my neck … to my shame and disgrace!”

“And from whom did you … appropriate it?”

“You mean, ‘steal it’? Speak out plainly now. Yes, I consider that I practically stole it, but, if you prefer, I ‘appropriated it.’ I consider I stole it. And last night I stole it finally.”

“Last night? But you said that it’s a month since you … obtained it?…”

“Yes. But not from my father. Not from my father, don’t be uneasy. I didn’t steal it from my father, but from her. Let me tell you without interrupting. It’s hard to do, you know. You see, a month ago, I was sent for by Katerina Ivanovna, formerly my betrothed. Do you know her?”

“Yes, of course.”

“I know you know her. She’s a noble creature, noblest of the noble. But she has hated me ever so long, oh, ever so long … and hated me with good reason, good reason!”

“Katerina Ivanovna!” Nikolay Parfenovitch exclaimed with wonder. The prosecutor, too, stared.

“Oh, don’t take her name in vain! I’m a scoundrel to bring her into it. Yes, I’ve seen that she hated me … a long while…. From the very first, even that evening at my lodging … but enough, enough. You’re unworthy even to know of that. No need of that at all…. I need only tell you that she sent for me a month ago, gave me three thousand roubles to send off to her sister and another relation in Moscow (as though she couldn’t have sent it off herself!) and I … it was just at that fatal moment in my life when I … well, in fact, when I’d just come to love another, her, she’s sitting down below now, Grushenka. I carried her off here to Mokroe then, and wasted here in two days half that damned three thousand, but the other half I kept on me. Well, I’ve kept that other half, that fifteen hundred, like a locket round my neck, but yesterday I undid it, and spent it. What’s left of it, eight hundred roubles, is in your hands now, Nikolay Parfenovitch. That’s the change out of the fifteen hundred I had yesterday.”

“Excuse me. How’s that? Why, when you were here a month ago you spent three thousand, not fifteen hundred, everybody knows that.”

“Who knows it? Who counted the money? Did I let any one count it?”

“Why, you told every one yourself that you’d spent exactly three thousand.”

“It’s true, I did. I told the whole town so, and the whole town said so. And here, at Mokroe, too, every one reckoned it was three thousand. Yet I didn’t spend three thousand, but fifteen hundred. And the other fifteen hundred I sewed into a little bag. That’s how it was, gentlemen. That’s where I got that money yesterday….”

“This is almost miraculous,” murmured Nikolay Parfenovitch.

“Allow me to inquire,” observed the prosecutor at last, “have you informed any one whatever of this circumstance before, I mean that you had fifteen hundred left about you a month ago?”

“I told no one.”

“That’s strange. Do you mean absolutely no one?”

“Absolutely no one. No one and nobody.”

“What was your reason for this reticence? What was your motive for making such a secret of it? To be more precise: You have told us at last your secret, in your words, so ‘disgraceful,’ though in reality—that is, of course, comparatively speaking—this action, that is, the appropriation of three thousand roubles belonging to some one else, and, of course, only for a time is, in my view at least, only an act of the greatest recklessness and not so disgraceful, when one takes into consideration your character…. Even admitting that it was an action in the highest degree discreditable, still, discreditable is not ‘disgraceful.’… Many people have already guessed, during this last month, about the three thousand of Katerina Ivanovna’s, that you have spent, and I heard the legend myself, apart from your confession…. Mihail Makarovitch, for instance, had heard it, too, so that indeed, it was scarcely a legend, but the gossip of the whole town. There are indications, too, if I am not mistaken, that you confessed this yourself to some one, I mean that the money was Katerina Ivanovna’s, and so, it’s extremely surprising to me that hitherto, that is, up to the present moment, you have made such an extraordinary secret of the fifteen hundred you say you put by, apparently connecting a feeling of positive horror with that secret…. It’s not easy to believe that it could cost you such distress to confess such a secret…. You cried out, just now, that Siberia would be better than confessing it …”

The prosecutor ceased speaking. He was provoked. He did not conceal his vexation, which was almost anger, and gave vent to all his accumulated spleen, disconnectedly and incoherently, without choosing words.

“It’s not the fifteen hundred that’s the disgrace, but that I put it apart from the rest of the three thousand,” said Mitya firmly.

“Why?” smiled the prosecutor irritably. “What is there disgraceful, to your thinking, in your having set aside half of the three thousand you had discreditably, if you prefer, ‘disgracefully,’ appropriated? Your taking the three thousand is more important than what you did with it. And by the way, why did you do that—why did you set apart that half, for what purpose, for what object did you do it? Can you explain that to us?”

“Oh, gentlemen, the purpose is the whole point!” cried Mitya. “I put it aside because I was vile, that is, because I was calculating, and to be calculating in such a case is vile … and that vileness has been going on a whole month.”

“It’s incomprehensible.”

“I wonder at you. But I’ll make it clearer. Perhaps it really is incomprehensible. You see, attend to what I say. I appropriate three thousand entrusted to my honor, I spend it on a spree, say I spend it all, and next morning I go to her and say, ‘Katya, I’ve done wrong, I’ve squandered your three thousand,’ well, is that right? No, it’s not right—it’s dishonest and cowardly, I’m a beast, with no more self‐control than a beast, that’s so, isn’t it? But still I’m not a thief? Not a downright thief, you’ll admit! I squandered it, but I didn’t steal it. Now a second, rather more favorable alternative: follow me carefully, or I may get confused again—my head’s going round—and so, for the second alternative: I spend here only fifteen hundred out of the three thousand, that is, only half. Next day I go and take that half to her: ‘Katya, take this fifteen hundred from me, I’m a low beast, and an untrustworthy scoundrel, for I’ve wasted half the money, and I shall waste this, too, so keep me from temptation!’ Well, what of that alternative? I should be a beast and a scoundrel, and whatever you like; but not a thief, not altogether a thief, or I should not have brought back what was left, but have kept that, too. She would see at once that since I brought back half, I should pay back what I’d spent, that I should never give up trying to, that I should work to get it and pay it back. So in that case I should be a scoundrel, but not a thief, you may say what you like, not a thief!”

“I admit that there is a certain distinction,” said the prosecutor, with a cold smile. “But it’s strange that you see such a vital difference.”

“Yes, I see a vital difference! Every man may be a scoundrel, and perhaps every man is a scoundrel, but not every one can be a thief, it takes an arch‐scoundrel to be that. Oh, of course, I don’t know how to make these fine distinctions … but a thief is lower than a scoundrel, that’s my conviction. Listen, I carry the money about me a whole month, I may make up my mind to give it back to‐morrow, and I’m a scoundrel no longer, but I cannot make up my mind, you see, though I’m making up my mind every day, and every day spurring myself on to do it, and yet for a whole month I can’t bring myself to it, you see. Is that right to your thinking, is that right?”

“Certainly, that’s not right, that I can quite understand, and that I don’t dispute,” answered the prosecutor with reserve. “And let us give up all discussion of these subtleties and distinctions, and, if you will be so kind, get back to the point. And the point is, that you have still not told us, altogether we’ve asked you, why, in the first place, you halved the money, squandering one half and hiding the other? For what purpose exactly did you hide it, what did you mean to do with that fifteen hundred? I insist upon that question, Dmitri Fyodorovitch.”

“Yes, of course!” cried Mitya, striking himself on the forehead; “forgive me, I’m worrying you, and am not explaining the chief point, or you’d understand in a minute, for it’s just the motive of it that’s the disgrace! You see, it was all to do with the old man, my dead father. He was always pestering Agrafena Alexandrovna, and I was jealous; I thought then that she was hesitating between me and him. So I kept thinking every day, suppose she were to make up her mind all of a sudden, suppose she were to leave off tormenting me, and were suddenly to say to me, ‘I love you, not him; take me to the other end of the world.’ And I’d only forty copecks; how could I take her away, what could I do? Why, I’d be lost. You see, I didn’t know her then, I didn’t understand her, I thought she wanted money, and that she wouldn’t forgive my poverty. And so I fiendishly counted out the half of that three thousand, sewed it up, calculating on it, sewed it up before I was drunk, and after I had sewn it up, I went off to get drunk on the rest. Yes, that was base. Do you understand now?”

Both the lawyers laughed aloud.

“I should have called it sensible and moral on your part not to have squandered it all,” chuckled Nikolay Parfenovitch, “for after all what does it amount to?”

“Why, that I stole it, that’s what it amounts to! Oh, God, you horrify me by not understanding! Every day that I had that fifteen hundred sewn up round my neck, every day and every hour I said to myself, ‘You’re a thief! you’re a thief!’ Yes, that’s why I’ve been so savage all this month, that’s why I fought in the tavern, that’s why I attacked my father, it was because I felt I was a thief. I couldn’t make up my mind, I didn’t dare even to tell Alyosha, my brother, about that fifteen hundred: I felt I was such a scoundrel and such a pickpocket. But, do you know, while I carried it I said to myself at the same time every hour: ‘No, Dmitri Fyodorovitch, you may yet not be a thief.’ Why? Because I might go next day and pay back that fifteen hundred to Katya. And only yesterday I made up my mind to tear my amulet off my neck, on my way from Fenya’s to Perhotin. I hadn’t been able till that moment to bring myself to it. And it was only when I tore it off that I became a downright thief, a thief and a dishonest man for the rest of my life. Why? Because, with that I destroyed, too, my dream of going to Katya and saying, ‘I’m a scoundrel, but not a thief!’ Do you understand now? Do you understand?”

“What was it made you decide to do it yesterday?” Nikolay Parfenovitch interrupted.

“Why? It’s absurd to ask. Because I had condemned myself to die at five o’clock this morning, here, at dawn. I thought it made no difference whether I died a thief or a man of honor. But I see it’s not so, it turns out that it does make a difference. Believe me, gentlemen, what has tortured me most during this night has not been the thought that I’d killed the old servant, and that I was in danger of Siberia just when my love was being rewarded, and Heaven was open to me again. Oh, that did torture me, but not in the same way: not so much as the damned consciousness that I had torn that damned money off my breast at last and spent it, and had become a downright thief! Oh, gentlemen, I tell you again, with a bleeding heart, I have learnt a great deal this night. I have learnt that it’s not only impossible to live a scoundrel, but impossible to die a scoundrel…. No, gentlemen, one must die honest….”

Mitya was pale. His face had a haggard and exhausted look, in spite of his being intensely excited.

“I am beginning to understand you, Dmitri Fyodorovitch,” the prosecutor said slowly, in a soft and almost compassionate tone. “But all this, if you’ll excuse my saying so, is a matter of nerves, in my opinion … your overwrought nerves, that’s what it is. And why, for instance, should you not have saved yourself such misery for almost a month, by going and returning that fifteen hundred to the lady who had entrusted it to you? And why could you not have explained things to her, and in view of your position, which you describe as being so awful, why could you not have had recourse to the plan which would so naturally have occurred to one’s mind, that is, after honorably confessing your errors to her, why could you not have asked her to lend you the sum needed for your expenses, which, with her generous heart, she would certainly not have refused you in your distress, especially if it had been with some guarantee, or even on the security you offered to the merchant Samsonov, and to Madame Hohlakov? I suppose you still regard that security as of value?”

Mitya suddenly crimsoned.

“Surely you don’t think me such an out and out scoundrel as that? You can’t be speaking in earnest?” he said, with indignation, looking the prosecutor straight in the face, and seeming unable to believe his ears.

“I assure you I’m in earnest…. Why do you imagine I’m not serious?” It was the prosecutor’s turn to be surprised.

“Oh, how base that would have been! Gentlemen, do you know, you are torturing me! Let me tell you everything, so be it. I’ll confess all my infernal wickedness, but to put you to shame, and you’ll be surprised yourselves at the depth of ignominy to which a medley of human passions can sink. You must know that I already had that plan myself, that plan you spoke of, just now, prosecutor! Yes, gentlemen, I, too, have had that thought in my mind all this current month, so that I was on the point of deciding to go to Katya—I was mean enough for that. But to go to her, to tell her of my treachery, and for that very treachery, to carry it out, for the expenses of that treachery, to beg for money from her, Katya (to beg, do you hear, to beg), and go straight from her to run away with the other, the rival, who hated and insulted her—to think of it! You must be mad, prosecutor!”

“Mad I am not, but I did speak in haste, without thinking … of that feminine jealousy … if there could be jealousy in this case, as you assert … yes, perhaps there is something of the kind,” said the prosecutor, smiling.

“But that would have been so infamous!” Mitya brought his fist down on the table fiercely. “That would have been filthy beyond everything! Yes, do you know that she might have given me that money, yes, and she would have given it, too; she’d have been certain to give it, to be revenged on me, she’d have given it to satisfy her vengeance, to show her contempt for me, for hers is an infernal nature, too, and she’s a woman of great wrath. I’d have taken the money, too, oh, I should have taken it; I should have taken it, and then, for the rest of my life … oh, God! Forgive me, gentlemen, I’m making such an outcry because I’ve had that thought in my mind so lately, only the day before yesterday, that night when I was having all that bother with Lyagavy, and afterwards yesterday, all day yesterday, I remember, till that happened …”

“Till what happened?” put in Nikolay Parfenovitch inquisitively, but Mitya did not hear it.

“I have made you an awful confession,” Mitya said gloomily in conclusion. “You must appreciate it, and what’s more, you must respect it, for if not, if that leaves your souls untouched, then you’ve simply no respect for me, gentlemen, I tell you that, and I shall die of shame at having confessed it to men like you! Oh, I shall shoot myself! Yes, I see, I see already that you don’t believe me. What, you want to write that down, too?” he cried in dismay.

“Yes, what you said just now,” said Nikolay Parfenovitch, looking at him in surprise, “that is, that up to the last hour you were still contemplating going to Katerina Ivanovna to beg that sum from her…. I assure you, that’s a very important piece of evidence for us, Dmitri Fyodorovitch, I mean for the whole case … and particularly for you, particularly important for you.”

“Have mercy, gentlemen!” Mitya flung up his hands. “Don’t write that, anyway; have some shame. Here I’ve torn my heart asunder before you, and you seize the opportunity and are fingering the wounds in both halves…. Oh, my God!”

In despair he hid his face in his hands.

“Don’t worry yourself so, Dmitri Fyodorovitch,” observed the prosecutor, “everything that is written down will be read over to you afterwards, and what you don’t agree to we’ll alter as you like. But now I’ll ask you one little question for the second time. Has no one, absolutely no one, heard from you of that money you sewed up? That, I must tell you, is almost impossible to believe.”

“No one, no one, I told you so before, or you’ve not understood anything! Let me alone!”

“Very well, this matter is bound to be explained, and there’s plenty of time for it, but meantime, consider; we have perhaps a dozen witnesses that you yourself spread it abroad, and even shouted almost everywhere about the three thousand you’d spent here; three thousand, not fifteen hundred. And now, too, when you got hold of the money you had yesterday, you gave many people to understand that you had brought three thousand with you.”

“You’ve got not dozens, but hundreds of witnesses, two hundred witnesses, two hundred have heard it, thousands have heard it!” cried Mitya.

“Well, you see, all bear witness to it. And the word all means something.”

“It means nothing. I talked rot, and every one began repeating it.”

“But what need had you to ‘talk rot,’ as you call it?”

“The devil knows. From bravado perhaps … at having wasted so much money…. To try and forget that money I had sewn up, perhaps … yes, that was why … damn it … how often will you ask me that question? Well, I told a fib, and that was the end of it, once I’d said it, I didn’t care to correct it. What does a man tell lies for sometimes?”

“That’s very difficult to decide, Dmitri Fyodorovitch, what makes a man tell lies,” observed the prosecutor impressively. “Tell me, though, was that ‘amulet,’ as you call it, on your neck, a big thing?”

“No, not big.”

“How big, for instance?”

“If you fold a hundred‐rouble note in half, that would be the size.”

“You’d better show us the remains of it. You must have them somewhere.”

“Damnation, what nonsense! I don’t know where they are.”

“But excuse me: where and when did you take it off your neck? According to your own evidence you didn’t go home.”

“When I was going from Fenya’s to Perhotin’s, on the way I tore it off my neck and took out the money.”

“In the dark?”

“What should I want a light for? I did it with my fingers in one minute.”

“Without scissors, in the street?”

“In the market‐place I think it was. Why scissors? It was an old rag. It was torn in a minute.”

“Where did you put it afterwards?”

“I dropped it there.”

“Where was it, exactly?”

“In the market‐place, in the market‐place! The devil knows whereabouts. What do you want to know for?”

“That’s extremely important, Dmitri Fyodorovitch. It would be material evidence in your favor. How is it you don’t understand that? Who helped you to sew it up a month ago?”

“No one helped me. I did it myself.”

“Can you sew?”

“A soldier has to know how to sew. No knowledge was needed to do that.”

“Where did you get the material, that is, the rag in which you sewed the money?”

“Are you laughing at me?”

“Not at all. And we are in no mood for laughing, Dmitri Fyodorovitch.”

“I don’t know where I got the rag from—somewhere, I suppose.”

“I should have thought you couldn’t have forgotten it?”

“Upon my word, I don’t remember. I might have torn a bit off my linen.”

“That’s very interesting. We might find in your lodgings to‐morrow the shirt or whatever it is from which you tore the rag. What sort of rag was it, cloth or linen?”

“Goodness only knows what it was. Wait a bit…. I believe I didn’t tear it off anything. It was a bit of calico…. I believe I sewed it up in a cap of my landlady’s.”

“In your landlady’s cap?”

“Yes. I took it from her.”

“How did you get it?”

“You see, I remember once taking a cap for a rag, perhaps to wipe my pen on. I took it without asking, because it was a worthless rag. I tore it up, and I took the notes and sewed them up in it. I believe it was in that very rag I sewed them. An old piece of calico, washed a thousand times.”

“And you remember that for certain now?”

“I don’t know whether for certain. I think it was in the cap. But, hang it, what does it matter?”

“In that case your landlady will remember that the thing was lost?”

“No, she won’t, she didn’t miss it. It was an old rag, I tell you, an old rag not worth a farthing.”

“And where did you get the needle and thread?”

“I’ll stop now. I won’t say any more. Enough of it!” said Mitya, losing his temper at last.

“It’s strange that you should have so completely forgotten where you threw the pieces in the market‐place.”

“Give orders for the market‐place to be swept to‐morrow, and perhaps you’ll find it,” said Mitya, sneering. “Enough, gentlemen, enough!” he decided, in an exhausted voice. “I see you don’t believe me! Not for a moment! It’s my fault, not yours. I ought not to have been so ready. Why, why did I degrade myself by confessing my secret to you? It’s a joke to you. I see that from your eyes. You led me on to it, prosecutor? Sing a hymn of triumph if you can…. Damn you, you torturers!”

He bent his head, and hid his face in his hands. The lawyers were silent. A minute later he raised his head and looked at them almost vacantly. His face now expressed complete, hopeless despair, and he sat mute and passive as though hardly conscious of what was happening. In the meantime they had to finish what they were about. They had immediately to begin examining the witnesses. It was by now eight o’clock in the morning. The lights had been extinguished long ago. Mihail Makarovitch and Kalganov, who had been continually in and out of the room all the while the interrogation had been going on, had now both gone out again. The lawyers, too, looked very tired. It was a wretched morning, the whole sky was overcast, and the rain streamed down in bucketfuls. Mitya gazed blankly out of the window.

“May I look out of the window?” he asked Nikolay Parfenovitch, suddenly.

“Oh, as much as you like,” the latter replied.

Mitya got up and went to the window…. The rain lashed against its little greenish panes. He could see the muddy road just below the house, and farther away, in the rain and mist, a row of poor, black, dismal huts, looking even blacker and poorer in the rain. Mitya thought of “Phœbus the golden‐haired,” and how he had meant to shoot himself at his first ray. “Perhaps it would be even better on a morning like this,” he thought with a smile, and suddenly, flinging his hand downwards, he turned to his “torturers.”

“Gentlemen,” he cried, “I see that I am lost! But she? Tell me about her, I beseech you. Surely she need not be ruined with me? She’s innocent, you know, she was out of her mind when she cried last night ‘It’s all my fault!’ She’s done nothing, nothing! I’ve been grieving over her all night as I sat with you…. Can’t you, won’t you tell me what you are going to do with her now?”

“You can set your mind quite at rest on that score, Dmitri Fyodorovitch,” the prosecutor answered at once, with evident alacrity. “We have, so far, no grounds for interfering with the lady in whom you are so interested. I trust that it may be the same in the later development of the case…. On the contrary, we’ll do everything that lies in our power in that matter. Set your mind completely at rest.”

“Gentlemen, I thank you. I knew that you were honest, straight‐forward people in spite of everything. You’ve taken a load off my heart…. Well, what are we to do now? I’m ready.”

“Well, we ought to make haste. We must pass to examining the witnesses without delay. That must be done in your presence and therefore—”

“Shouldn’t we have some tea first?” interposed Nikolay Parfenovitch, “I think we’ve deserved it!”

They decided that if tea were ready downstairs (Mihail Makarovitch had, no doubt, gone down to get some) they would have a glass and then “go on and on,” putting off their proper breakfast until a more favorable opportunity. Tea really was ready below, and was soon brought up. Mitya at first refused the glass that Nikolay Parfenovitch politely offered him, but afterwards he asked for it himself and drank it greedily. He looked surprisingly exhausted. It might have been supposed from his Herculean strength that one night of carousing, even accompanied by the most violent emotions, could have had little effect on him. But he felt that he could hardly hold his head up, and from time to time all the objects about him seemed heaving and dancing before his eyes. “A little more and I shall begin raving,” he said to himself.

Chapter VIII.
The Evidence Of The Witnesses. The Babe
The examination of the witnesses began. But we will not continue our story in such detail as before. And so we will not dwell on how Nikolay Parfenovitch impressed on every witness called that he must give his evidence in accordance with truth and conscience, and that he would afterwards have to repeat his evidence on oath, how every witness was called upon to sign the protocol of his evidence, and so on. We will only note that the point principally insisted upon in the examination was the question of the three thousand roubles, that is, was the sum spent here, at Mokroe, by Mitya on the first occasion, a month before, three thousand or fifteen hundred? And again had he spent three thousand or fifteen hundred yesterday? Alas, all the evidence given by every one turned out to be against Mitya. There was not one in his favor, and some witnesses introduced new, almost crushing facts, in contradiction of his, Mitya’s, story.

The first witness examined was Trifon Borissovitch. He was not in the least abashed as he stood before the lawyers. He had, on the contrary, an air of stern and severe indignation with the accused, which gave him an appearance of truthfulness and personal dignity. He spoke little, and with reserve, waited to be questioned, answered precisely and deliberately. Firmly and unhesitatingly he bore witness that the sum spent a month before could not have been less than three thousand, that all the peasants about here would testify that they had heard the sum of three thousand mentioned by Dmitri Fyodorovitch himself. “What a lot of money he flung away on the gypsy girls alone! He wasted a thousand, I daresay, on them alone.”

“I don’t believe I gave them five hundred,” was Mitya’s gloomy comment on this. “It’s a pity I didn’t count the money at the time, but I was drunk….”

Mitya was sitting sideways with his back to the curtains. He listened gloomily, with a melancholy and exhausted air, as though he would say:

“Oh, say what you like. It makes no difference now.”

“More than a thousand went on them, Dmitri Fyodorovitch,” retorted Trifon Borissovitch firmly. “You flung it about at random and they picked it up. They were a rascally, thievish lot, horse‐stealers, they’ve been driven away from here, or maybe they’d bear witness themselves how much they got from you. I saw the sum in your hands, myself—count it I didn’t, you didn’t let me, that’s true enough—but by the look of it I should say it was far more than fifteen hundred … fifteen hundred, indeed! We’ve seen money too. We can judge of amounts….”

As for the sum spent yesterday he asserted that Dmitri Fyodorovitch had told him, as soon as he arrived, that he had brought three thousand with him.

“Come now, is that so, Trifon Borissovitch?” replied Mitya. “Surely I didn’t declare so positively that I’d brought three thousand?”

“You did say so, Dmitri Fyodorovitch. You said it before Andrey. Andrey himself is still here. Send for him. And in the hall, when you were treating the chorus, you shouted straight out that you would leave your sixth thousand here—that is with what you spent before, we must understand. Stepan and Semyon heard it, and Pyotr Fomitch Kalganov, too, was standing beside you at the time. Maybe he’d remember it….”

The evidence as to the “sixth” thousand made an extraordinary impression on the two lawyers. They were delighted with this new mode of reckoning; three and three made six, three thousand then and three now made six, that was clear.

They questioned all the peasants suggested by Trifon Borissovitch, Stepan and Semyon, the driver Andrey, and Kalganov. The peasants and the driver unhesitatingly confirmed Trifon Borissovitch’s evidence. They noted down, with particular care, Andrey’s account of the conversation he had had with Mitya on the road: “ ‘Where,’ says he, ‘am I, Dmitri Fyodorovitch, going, to heaven or to hell, and shall I be forgiven in the next world or not?’ ”

The psychological Ippolit Kirillovitch heard this with a subtle smile, and ended by recommending that these remarks as to where Dmitri Fyodorovitch would go should be “included in the case.”

Kalganov, when called, came in reluctantly, frowning and ill‐humored, and he spoke to the lawyers as though he had never met them before in his life, though they were acquaintances whom he had been meeting every day for a long time past. He began by saying that “he knew nothing about it and didn’t want to.” But it appeared that he had heard of the “sixth” thousand, and he admitted that he had been standing close by at the moment. As far as he could see he “didn’t know” how much money Mitya had in his hands. He affirmed that the Poles had cheated at cards. In reply to reiterated questions he stated that, after the Poles had been turned out, Mitya’s position with Agrafena Alexandrovna had certainly improved, and that she had said that she loved him. He spoke of Agrafena Alexandrovna with reserve and respect, as though she had been a lady of the best society, and did not once allow himself to call her Grushenka. In spite of the young man’s obvious repugnance at giving evidence, Ippolit Kirillovitch examined him at great length, and only from him learnt all the details of what made up Mitya’s “romance,” so to say, on that night. Mitya did not once pull Kalganov up. At last they let the young man go, and he left the room with unconcealed indignation.

The Poles, too, were examined. Though they had gone to bed in their room, they had not slept all night, and on the arrival of the police officers they hastily dressed and got ready, realizing that they would certainly be sent for. They gave their evidence with dignity, though not without some uneasiness. The little Pole turned out to be a retired official of the twelfth class, who had served in Siberia as a veterinary surgeon. His name was Mussyalovitch. Pan Vrublevsky turned out to be an uncertificated dentist. Although Nikolay Parfenovitch asked them questions on entering the room they both addressed their answers to Mihail Makarovitch, who was standing on one side, taking him in their ignorance for the most important person and in command, and addressed him at every word as “Pan Colonel.” Only after several reproofs from Mihail Makarovitch himself, they grasped that they had to address their answers to Nikolay Parfenovitch only. It turned out that they could speak Russian quite correctly except for their accent in some words. Of his relations with Grushenka, past and present, Pan Mussyalovitch spoke proudly and warmly, so that Mitya was roused at once and declared that he would not allow the “scoundrel” to speak like that in his presence! Pan Mussyalovitch at once called attention to the word “scoundrel” and begged that it should be put down in the protocol. Mitya fumed with rage.

“He’s a scoundrel! A scoundrel! You can put that down. And put down, too, that, in spite of the protocol I still declare that he’s a scoundrel!” he cried.

Though Nikolay Parfenovitch did insert this in the protocol, he showed the most praiseworthy tact and management. After sternly reprimanding Mitya, he cut short all further inquiry into the romantic aspect of the case, and hastened to pass to what was essential. One piece of evidence given by the Poles roused special interest in the lawyers: that was how, in that very room, Mitya had tried to buy off Pan Mussyalovitch, and had offered him three thousand roubles to resign his claims, seven hundred roubles down, and the remaining two thousand three hundred “to be paid next day in the town.” He had sworn at the time that he had not the whole sum with him at Mokroe, but that his money was in the town. Mitya observed hotly that he had not said that he would be sure to pay him the remainder next day in the town. But Pan Vrublevsky confirmed the statement, and Mitya, after thinking for a moment admitted, frowning, that it must have been as the Poles stated, that he had been excited at the time, and might indeed have said so.

The prosecutor positively pounced on this piece of evidence. It seemed to establish for the prosecution (and they did, in fact, base this deduction on it) that half, or a part of, the three thousand that had come into Mitya’s hands might really have been left somewhere hidden in the town, or even, perhaps, somewhere here, in Mokroe. This would explain the circumstance, so baffling for the prosecution, that only eight hundred roubles were to be found in Mitya’s hands. This circumstance had been the one piece of evidence which, insignificant as it was, had hitherto told, to some extent, in Mitya’s favor. Now this one piece of evidence in his favor had broken down. In answer to the prosecutor’s inquiry, where he would have got the remaining two thousand three hundred roubles, since he himself had denied having more than fifteen hundred, Mitya confidently replied that he had meant to offer the “little chap,” not money, but a formal deed of conveyance of his rights to the village of Tchermashnya, those rights which he had already offered to Samsonov and Madame Hohlakov. The prosecutor positively smiled at the “innocence of this subterfuge.”

“And you imagine he would have accepted such a deed as a substitute for two thousand three hundred roubles in cash?”

“He certainly would have accepted it,” Mitya declared warmly. “Why, look here, he might have grabbed not two thousand, but four or six, for it. He would have put his lawyers, Poles and Jews, on to the job, and might have got, not three thousand, but the whole property out of the old man.”

The evidence of Pan Mussyalovitch was, of course, entered in the protocol in the fullest detail. Then they let the Poles go. The incident of the cheating at cards was hardly touched upon. Nikolay Parfenovitch was too well pleased with them, as it was, and did not want to worry them with trifles, moreover, it was nothing but a foolish, drunken quarrel over cards. There had been drinking and disorder enough, that night…. So the two hundred roubles remained in the pockets of the Poles.

Then old Maximov was summoned. He came in timidly, approached with little steps, looking very disheveled and depressed. He had, all this time, taken refuge below with Grushenka, sitting dumbly beside her, and “now and then he’d begin blubbering over her and wiping his eyes with a blue check handkerchief,” as Mihail Makarovitch described afterwards. So that she herself began trying to pacify and comfort him. The old man at once confessed that he had done wrong, that he had borrowed “ten roubles in my poverty,” from Dmitri Fyodorovitch, and that he was ready to pay it back. To Nikolay Parfenovitch’s direct question, had he noticed how much money Dmitri Fyodorovitch held in his hand, as he must have been able to see the sum better than any one when he took the note from him, Maximov, in the most positive manner, declared that there was twenty thousand.

“Have you ever seen so much as twenty thousand before, then?” inquired Nikolay Parfenovitch, with a smile.

“To be sure I have, not twenty, but seven, when my wife mortgaged my little property. She’d only let me look at it from a distance, boasting of it to me. It was a very thick bundle, all rainbow‐colored notes. And Dmitri Fyodorovitch’s were all rainbow‐colored….”

He was not kept long. At last it was Grushenka’s turn. Nikolay Parfenovitch was obviously apprehensive of the effect her appearance might have on Mitya, and he muttered a few words of admonition to him, but Mitya bowed his head in silence, giving him to understand “that he would not make a scene.” Mihail Makarovitch himself led Grushenka in. She entered with a stern and gloomy face, that looked almost composed and sat down quietly on the chair offered her by Nikolay Parfenovitch. She was very pale, she seemed to be cold, and wrapped herself closely in her magnificent black shawl. She was suffering from a slight feverish chill—the first symptom of the long illness which followed that night. Her grave air, her direct earnest look and quiet manner made a very favorable impression on every one. Nikolay Parfenovitch was even a little bit “fascinated.” He admitted himself, when talking about it afterwards, that only then had he seen “how handsome the woman was,” for, though he had seen her several times before, he had always looked upon her as something of a “provincial hetaira.” “She has the manners of the best society,” he said enthusiastically, gossiping about her in a circle of ladies. But this was received with positive indignation by the ladies, who immediately called him a “naughty man,” to his great satisfaction.

As she entered the room, Grushenka only glanced for an instant at Mitya, who looked at her uneasily. But her face reassured him at once. After the first inevitable inquiries and warnings, Nikolay Parfenovitch asked her, hesitating a little, but preserving the most courteous manner, on what terms she was with the retired lieutenant, Dmitri Fyodorovitch Karamazov. To this Grushenka firmly and quietly replied:

“He was an acquaintance. He came to see me as an acquaintance during the last month.” To further inquisitive questions she answered plainly and with complete frankness, that, though “at times” she had thought him attractive, she had not loved him, but had won his heart as well as his old father’s “in my nasty spite,” that she had seen that Mitya was very jealous of Fyodor Pavlovitch and every one else; but that had only amused her. She had never meant to go to Fyodor Pavlovitch, she had simply been laughing at him. “I had no thoughts for either of them all this last month. I was expecting another man who had wronged me. But I think,” she said in conclusion, “that there’s no need for you to inquire about that, nor for me to answer you, for that’s my own affair.”

Nikolay Parfenovitch immediately acted upon this hint. He again dismissed the “romantic” aspect of the case and passed to the serious one, that is, to the question of most importance, concerning the three thousand roubles. Grushenka confirmed the statement that three thousand roubles had certainly been spent on the first carousal at Mokroe, and, though she had not counted the money herself, she had heard that it was three thousand from Dmitri Fyodorovitch’s own lips.

“Did he tell you that alone, or before some one else, or did you only hear him speak of it to others in your presence?” the prosecutor inquired immediately.

To which Grushenka replied that she had heard him say so before other people, and had heard him say so when they were alone.

“Did he say it to you alone once, or several times?” inquired the prosecutor, and learned that he had told Grushenka so several times.

Ippolit Kirillovitch was very well satisfied with this piece of evidence. Further examination elicited that Grushenka knew, too, where that money had come from, and that Dmitri Fyodorovitch had got it from Katerina Ivanovna.

“And did you never, once, hear that the money spent a month ago was not three thousand, but less, and that Dmitri Fyodorovitch had saved half that sum for his own use?”

“No, I never heard that,” answered Grushenka.

It was explained further that Mitya had, on the contrary, often told her that he hadn’t a farthing.

“He was always expecting to get some from his father,” said Grushenka in conclusion.

“Did he never say before you … casually, or in a moment of irritation,” Nikolay Parfenovitch put in suddenly, “that he intended to make an attempt on his father’s life?”

“Ach, he did say so,” sighed Grushenka.

“Once or several times?”

“He mentioned it several times, always in anger.”

“And did you believe he would do it?”

“No, I never believed it,” she answered firmly. “I had faith in his noble heart.”

“Gentlemen, allow me,” cried Mitya suddenly, “allow me to say one word to Agrafena Alexandrovna, in your presence.”

“You can speak,” Nikolay Parfenovitch assented.

“Agrafena Alexandrovna!” Mitya got up from his chair, “have faith in God and in me. I am not guilty of my father’s murder!”

Having uttered these words Mitya sat down again on his chair. Grushenka stood up and crossed herself devoutly before the ikon. “Thanks be to Thee, O Lord,” she said, in a voice thrilled with emotion, and still standing, she turned to Nikolay Parfenovitch and added:

“As he has spoken now, believe it! I know him. He’ll say anything as a joke or from obstinacy, but he’ll never deceive you against his conscience. He’s telling the whole truth, you may believe it.”

“Thanks, Agrafena Alexandrovna, you’ve given me fresh courage,” Mitya responded in a quivering voice.

As to the money spent the previous day, she declared that she did not know what sum it was, but had heard him tell several people that he had three thousand with him. And to the question where he got the money, she said that he had told her that he had “stolen” it from Katerina Ivanovna, and that she had replied to that that he hadn’t stolen it, and that he must pay the money back next day. On the prosecutor’s asking her emphatically whether the money he said he had stolen from Katerina Ivanovna was what he had spent yesterday, or what he had squandered here a month ago, she declared that he meant the money spent a month ago, and that that was how she understood him.

Grushenka was at last released, and Nikolay Parfenovitch informed her impulsively that she might at once return to the town and that if he could be of any assistance to her, with horses for example, or if she would care for an escort, he … would be—

“I thank you sincerely,” said Grushenka, bowing to him, “I’m going with this old gentleman, I am driving him back to town with me, and meanwhile, if you’ll allow me, I’ll wait below to hear what you decide about Dmitri Fyodorovitch.”

She went out. Mitya was calm, and even looked more cheerful, but only for a moment. He felt more and more oppressed by a strange physical weakness. His eyes were closing with fatigue. The examination of the witnesses was, at last, over. They proceeded to a final revision of the protocol. Mitya got up, moved from his chair to the corner by the curtain, lay down on a large chest covered with a rug, and instantly fell asleep.

He had a strange dream, utterly out of keeping with the place and the time.

He was driving somewhere in the steppes, where he had been stationed long ago, and a peasant was driving him in a cart with a pair of horses, through snow and sleet. He was cold, it was early in November, and the snow was falling in big wet flakes, melting as soon as it touched the earth. And the peasant drove him smartly, he had a fair, long beard. He was not an old man, somewhere about fifty, and he had on a gray peasant’s smock. Not far off was a village, he could see the black huts, and half the huts were burnt down, there were only the charred beams sticking up. And as they drove in, there were peasant women drawn up along the road, a lot of women, a whole row, all thin and wan, with their faces a sort of brownish color, especially one at the edge, a tall, bony woman, who looked forty, but might have been only twenty, with a long thin face. And in her arms was a little baby crying. And her breasts seemed so dried up that there was not a drop of milk in them. And the child cried and cried, and held out its little bare arms, with its little fists blue from cold.

“Why are they crying? Why are they crying?” Mitya asked, as they dashed gayly by.

“It’s the babe,” answered the driver, “the babe weeping.”

And Mitya was struck by his saying, in his peasant way, “the babe,” and he liked the peasant’s calling it a “babe.” There seemed more pity in it.

“But why is it weeping?” Mitya persisted stupidly, “why are its little arms bare? Why don’t they wrap it up?”

“The babe’s cold, its little clothes are frozen and don’t warm it.”

“But why is it? Why?” foolish Mitya still persisted.

“Why, they’re poor people, burnt out. They’ve no bread. They’re begging because they’ve been burnt out.”

“No, no,” Mitya, as it were, still did not understand. “Tell me why it is those poor mothers stand there? Why are people poor? Why is the babe poor? Why is the steppe barren? Why don’t they hug each other and kiss? Why don’t they sing songs of joy? Why are they so dark from black misery? Why don’t they feed the babe?”

And he felt that, though his questions were unreasonable and senseless, yet he wanted to ask just that, and he had to ask it just in that way. And he felt that a passion of pity, such as he had never known before, was rising in his heart, that he wanted to cry, that he wanted to do something for them all, so that the babe should weep no more, so that the dark‐ faced, dried‐up mother should not weep, that no one should shed tears again from that moment, and he wanted to do it at once, at once, regardless of all obstacles, with all the recklessness of the Karamazovs.

“And I’m coming with you. I won’t leave you now for the rest of my life, I’m coming with you,” he heard close beside him Grushenka’s tender voice, thrilling with emotion. And his heart glowed, and he struggled forward towards the light, and he longed to live, to live, to go on and on, towards the new, beckoning light, and to hasten, hasten, now, at once!

“What! Where?” he exclaimed opening his eyes, and sitting up on the chest, as though he had revived from a swoon, smiling brightly. Nikolay Parfenovitch was standing over him, suggesting that he should hear the protocol read aloud and sign it. Mitya guessed that he had been asleep an hour or more, but he did not hear Nikolay Parfenovitch. He was suddenly struck by the fact that there was a pillow under his head, which hadn’t been there when he had leant back, exhausted, on the chest.

“Who put that pillow under my head? Who was so kind?” he cried, with a sort of ecstatic gratitude, and tears in his voice, as though some great kindness had been shown him.

He never found out who this kind man was; perhaps one of the peasant witnesses, or Nikolay Parfenovitch’s little secretary, had compassionately thought to put a pillow under his head; but his whole soul was quivering with tears. He went to the table and said that he would sign whatever they liked.

“I’ve had a good dream, gentlemen,” he said in a strange voice, with a new light, as of joy, in his face.

Chapter IX.
They Carry Mitya Away
When the protocol had been signed, Nikolay Parfenovitch turned solemnly to the prisoner and read him the “Committal,” setting forth, that in such a year, on such a day, in such a place, the investigating lawyer of such‐ and‐such a district court, having examined so‐and‐so (to wit, Mitya) accused of this and of that (all the charges were carefully written out) and having considered that the accused, not pleading guilty to the charges made against him, had brought forward nothing in his defense, while the witnesses, so‐and‐so, and so‐and‐so, and the circumstances such‐and‐such testify against him, acting in accordance with such‐and‐such articles of the Statute Book, and so on, has ruled, that, in order to preclude so‐and‐ so (Mitya) from all means of evading pursuit and judgment he be detained in such‐and‐such a prison, which he hereby notifies to the accused and communicates a copy of this same “Committal” to the deputy prosecutor, and so on, and so on.

In brief, Mitya was informed that he was, from that moment, a prisoner, and that he would be driven at once to the town, and there shut up in a very unpleasant place. Mitya listened attentively, and only shrugged his shoulders.

“Well, gentlemen, I don’t blame you. I’m ready…. I understand that there’s nothing else for you to do.”

Nikolay Parfenovitch informed him gently that he would be escorted at once by the rural police officer, Mavriky Mavrikyevitch, who happened to be on the spot….

“Stay,” Mitya interrupted, suddenly, and impelled by uncontrollable feeling he pronounced, addressing all in the room:

“Gentlemen, we’re all cruel, we’re all monsters, we all make men weep, and mothers, and babes at the breast, but of all, let it be settled here, now, of all I am the lowest reptile! I’ve sworn to amend, and every day I’ve done the same filthy things. I understand now that such men as I need a blow, a blow of destiny to catch them as with a noose, and bind them by a force from without. Never, never should I have risen of myself! But the thunderbolt has fallen. I accept the torture of accusation, and my public shame, I want to suffer and by suffering I shall be purified. Perhaps I shall be purified, gentlemen? But listen, for the last time, I am not guilty of my father’s blood. I accept my punishment, not because I killed him, but because I meant to kill him, and perhaps I really might have killed him. Still I mean to fight it out with you. I warn you of that. I’ll fight it out with you to the end, and then God will decide. Good‐by, gentlemen, don’t be vexed with me for having shouted at you during the examination. Oh, I was still such a fool then…. In another minute I shall be a prisoner, but now, for the last time, as a free man, Dmitri Karamazov offers you his hand. Saying good‐by to you, I say it to all men.”

His voice quivered and he stretched out his hand, but Nikolay Parfenovitch, who happened to stand nearest to him, with a sudden, almost nervous movement, hid his hands behind his back. Mitya instantly noticed this, and started. He let his outstretched hand fall at once.

“The preliminary inquiry is not yet over,” Nikolay Parfenovitch faltered, somewhat embarrassed. “We will continue it in the town, and I, for my part, of course, am ready to wish you all success … in your defense…. As a matter of fact, Dmitri Fyodorovitch, I’ve always been disposed to regard you as, so to speak, more unfortunate than guilty. All of us here, if I may make bold to speak for all, we are all ready to recognize that you are, at bottom, a young man of honor, but, alas, one who has been carried away by certain passions to a somewhat excessive degree….”

Nikolay Parfenovitch’s little figure was positively majestic by the time he had finished speaking. It struck Mitya that in another minute this “boy” would take his arm, lead him to another corner, and renew their conversation about “girls.” But many quite irrelevant and inappropriate thoughts sometimes occur even to a prisoner when he is being led out to execution.

“Gentlemen, you are good, you are humane, may I see her to say ‘good‐by’ for the last time?” asked Mitya.

“Certainly, but considering … in fact, now it’s impossible except in the presence of—”

“Oh, well, if it must be so, it must!”

Grushenka was brought in, but the farewell was brief, and of few words, and did not at all satisfy Nikolay Parfenovitch. Grushenka made a deep bow to Mitya.

“I have told you I am yours, and I will be yours. I will follow you for ever, wherever they may send you. Farewell; you are guiltless, though you’ve been your own undoing.”

Her lips quivered, tears flowed from her eyes.

“Forgive me, Grusha, for my love, for ruining you, too, with my love.”

Mitya would have said something more, but he broke off and went out. He was at once surrounded by men who kept a constant watch on him. At the bottom of the steps to which he had driven up with such a dash the day before with Andrey’s three horses, two carts stood in readiness. Mavriky Mavrikyevitch, a sturdy, thick‐set man with a wrinkled face, was annoyed about something, some sudden irregularity. He was shouting angrily. He asked Mitya to get into the cart with somewhat excessive surliness.

“When I stood him drinks in the tavern, the man had quite a different face,” thought Mitya, as he got in. At the gates there was a crowd of people, peasants, women and drivers. Trifon Borissovitch came down the steps too. All stared at Mitya.

“Forgive me at parting, good people!” Mitya shouted suddenly from the cart.

“Forgive us too!” he heard two or three voices.

“Good‐by to you, too, Trifon Borissovitch!”

But Trifon Borissovitch did not even turn round. He was, perhaps, too busy. He, too, was shouting and fussing about something. It appeared that everything was not yet ready in the second cart, in which two constables were to accompany Mavriky Mavrikyevitch. The peasant who had been ordered to drive the second cart was pulling on his smock, stoutly maintaining that it was not his turn to go, but Akim’s. But Akim was not to be seen. They ran to look for him. The peasant persisted and besought them to wait.

“You see what our peasants are, Mavriky Mavrikyevitch. They’ve no shame!” exclaimed Trifon Borissovitch. “Akim gave you twenty‐five copecks the day before yesterday. You’ve drunk it all and now you cry out. I’m simply surprised at your good‐nature, with our low peasants, Mavriky Mavrikyevitch, that’s all I can say.”

“But what do we want a second cart for?” Mitya put in. “Let’s start with the one, Mavriky Mavrikyevitch. I won’t be unruly, I won’t run away from you, old fellow. What do we want an escort for?”

“I’ll trouble you, sir, to learn how to speak to me if you’ve never been taught. I’m not ‘old fellow’ to you, and you can keep your advice for another time!” Mavriky Mavrikyevitch snapped out savagely, as though glad to vent his wrath.

Mitya was reduced to silence. He flushed all over. A moment later he felt suddenly very cold. The rain had ceased, but the dull sky was still overcast with clouds, and a keen wind was blowing straight in his face.

“I’ve taken a chill,” thought Mitya, twitching his shoulders.

At last Mavriky Mavrikyevitch, too, got into the cart, sat down heavily, and, as though without noticing it, squeezed Mitya into the corner. It is true that he was out of humor and greatly disliked the task that had been laid upon him.

“Good‐by, Trifon Borissovitch!” Mitya shouted again, and felt himself, that he had not called out this time from good‐nature, but involuntarily, from resentment.

But Trifon Borissovitch stood proudly, with both hands behind his back, and staring straight at Mitya with a stern and angry face, he made no reply.

“Good‐by, Dmitri Fyodorovitch, good‐by!” he heard all at once the voice of Kalganov, who had suddenly darted out. Running up to the cart he held out his hand to Mitya. He had no cap on.

Mitya had time to seize and press his hand.

“Good‐by, dear fellow! I shan’t forget your generosity,” he cried warmly.

But the cart moved and their hands parted. The bell began ringing and Mitya was driven off.

Kalganov ran back, sat down in a corner, bent his head, hid his face in his hands, and burst out crying. For a long while he sat like that, crying as though he were a little boy instead of a young man of twenty. Oh, he believed almost without doubt in Mitya’s guilt.

“What are these people? What can men be after this?” he exclaimed incoherently, in bitter despondency, almost despair. At that moment he had no desire to live.

“Is it worth it? Is it worth it?” exclaimed the boy in his grief.

PART IV
Book X. The Boys
Chapter I.
Kolya Krassotkin
It was the beginning of November. There had been a hard frost, eleven degrees Réaumur, without snow, but a little dry snow had fallen on the frozen ground during the night, and a keen dry wind was lifting and blowing it along the dreary streets of our town, especially about the market‐place. It was a dull morning, but the snow had ceased.

Not far from the market‐place, close to Plotnikov’s shop, there stood a small house, very clean both without and within. It belonged to Madame Krassotkin, the widow of a former provincial secretary, who had been dead for fourteen years. His widow, still a nice‐looking woman of thirty‐two, was living in her neat little house on her private means. She lived in respectable seclusion; she was of a soft but fairly cheerful disposition. She was about eighteen at the time of her husband’s death; she had been married only a year and had just borne him a son. From the day of his death she had devoted herself heart and soul to the bringing up of her precious treasure, her boy Kolya. Though she had loved him passionately those fourteen years, he had caused her far more suffering than happiness. She had been trembling and fainting with terror almost every day, afraid he would fall ill, would catch cold, do something naughty, climb on a chair and fall off it, and so on and so on. When Kolya began going to school, the mother devoted herself to studying all the sciences with him so as to help him, and go through his lessons with him. She hastened to make the acquaintance of the teachers and their wives, even made up to Kolya’s schoolfellows, and fawned upon them in the hope of thus saving Kolya from being teased, laughed at, or beaten by them. She went so far that the boys actually began to mock at him on her account and taunt him with being a “mother’s darling.”

But the boy could take his own part. He was a resolute boy, “tremendously strong,” as was rumored in his class, and soon proved to be the fact; he was agile, strong‐willed, and of an audacious and enterprising temper. He was good at lessons, and there was a rumor in the school that he could beat the teacher, Dardanelov, at arithmetic and universal history. Though he looked down upon every one, he was a good comrade and not supercilious. He accepted his schoolfellows’ respect as his due, but was friendly with them. Above all, he knew where to draw the line. He could restrain himself on occasion, and in his relations with the teachers he never overstepped that last mystic limit beyond which a prank becomes an unpardonable breach of discipline. But he was as fond of mischief on every possible occasion as the smallest boy in the school, and not so much for the sake of mischief as for creating a sensation, inventing something, something effective and conspicuous. He was extremely vain. He knew how to make even his mother give way to him; he was almost despotic in his control of her. She gave way to him, oh, she had given way to him for years. The one thought unendurable to her was that her boy had no great love for her. She was always fancying that Kolya was “unfeeling” to her, and at times, dissolving into hysterical tears, she used to reproach him with his coldness. The boy disliked this, and the more demonstrations of feeling were demanded of him the more he seemed intentionally to avoid them. Yet it was not intentional on his part but instinctive—it was his character. His mother was mistaken; he was very fond of her. He only disliked “sheepish sentimentality,” as he expressed it in his schoolboy language.

There was a bookcase in the house containing a few books that had been his father’s. Kolya was fond of reading, and had read several of them by himself. His mother did not mind that and only wondered sometimes at seeing the boy stand for hours by the bookcase poring over a book instead of going to play. And in that way Kolya read some things unsuitable for his age.

Though the boy, as a rule, knew where to draw the line in his mischief, he had of late begun to play pranks that caused his mother serious alarm. It is true there was nothing vicious in what he did, but a wild mad recklessness.

It happened that July, during the summer holidays, that the mother and son went to another district, forty‐five miles away, to spend a week with a distant relation, whose husband was an official at the railway station (the very station, the nearest one to our town, from which a month later Ivan Fyodorovitch Karamazov set off for Moscow). There Kolya began by carefully investigating every detail connected with the railways, knowing that he could impress his schoolfellows when he got home with his newly acquired knowledge. But there happened to be some other boys in the place with whom he soon made friends. Some of them were living at the station, others in the neighborhood; there were six or seven of them, all between twelve and fifteen, and two of them came from our town. The boys played together, and on the fourth or fifth day of Kolya’s stay at the station, a mad bet was made by the foolish boys. Kolya, who was almost the youngest of the party and rather looked down upon by the others in consequence, was moved by vanity or by reckless bravado to bet them two roubles that he would lie down between the rails at night when the eleven o’clock train was due, and would lie there without moving while the train rolled over him at full speed. It is true they made a preliminary investigation, from which it appeared that it was possible to lie so flat between the rails that the train could pass over without touching, but to lie there was no joke! Kolya maintained stoutly that he would. At first they laughed at him, called him a little liar, a braggart, but that only egged him on. What piqued him most was that these boys of fifteen turned up their noses at him too superciliously, and were at first disposed to treat him as “a small boy,” not fit to associate with them, and that was an unendurable insult.

And so it was resolved to go in the evening, half a mile from the station, so that the train might have time to get up full speed after leaving the station. The boys assembled. It was a pitch‐dark night without a moon. At the time fixed, Kolya lay down between the rails. The five others who had taken the bet waited among the bushes below the embankment, their hearts beating with suspense, which was followed by alarm and remorse. At last they heard in the distance the rumble of the train leaving the station. Two red lights gleamed out of the darkness; the monster roared as it approached.

“Run, run away from the rails,” the boys cried to Kolya from the bushes, breathless with terror. But it was too late: the train darted up and flew past. The boys rushed to Kolya. He lay without moving. They began pulling at him, lifting him up. He suddenly got up and walked away without a word. Then he explained that he had lain there as though he were insensible to frighten them, but the fact was that he really had lost consciousness, as he confessed long after to his mother. In this way his reputation as “a desperate character,” was established for ever. He returned home to the station as white as a sheet. Next day he had a slight attack of nervous fever, but he was in high spirits and well pleased with himself. The incident did not become known at once, but when they came back to the town it penetrated to the school and even reached the ears of the masters. But then Kolya’s mother hastened to entreat the masters on her boy’s behalf, and in the end Dardanelov, a respected and influential teacher, exerted himself in his favor, and the affair was ignored.

Dardanelov was a middle‐aged bachelor, who had been passionately in love with Madame Krassotkin for many years past, and had once already, about a year previously, ventured, trembling with fear and the delicacy of his sentiments, to offer her most respectfully his hand in marriage. But she refused him resolutely, feeling that to accept him would be an act of treachery to her son, though Dardanelov had, to judge from certain mysterious symptoms, reason for believing that he was not an object of aversion to the charming but too chaste and tender‐hearted widow. Kolya’s mad prank seemed to have broken the ice, and Dardanelov was rewarded for his intercession by a suggestion of hope. The suggestion, it is true, was a faint one, but then Dardanelov was such a paragon of purity and delicacy that it was enough for the time being to make him perfectly happy. He was fond of the boy, though he would have felt it beneath him to try and win him over, and was severe and strict with him in class. Kolya, too, kept him at a respectful distance. He learned his lessons perfectly; he was second in his class, was reserved with Dardanelov, and the whole class firmly believed that Kolya was so good at universal history that he could “beat” even Dardanelov. Kolya did indeed ask him the question, “Who founded Troy?” to which Dardanelov had made a very vague reply, referring to the movements and migrations of races, to the remoteness of the period, to the mythical legends. But the question, “Who had founded Troy?” that is, what individuals, he could not answer, and even for some reason regarded the question as idle and frivolous. But the boys remained convinced that Dardanelov did not know who founded Troy. Kolya had read of the founders of Troy in Smaragdov, whose history was among the books in his father’s bookcase. In the end all the boys became interested in the question, who it was that had founded Troy, but Krassotkin would not tell his secret, and his reputation for knowledge remained unshaken.

After the incident on the railway a certain change came over Kolya’s attitude to his mother. When Anna Fyodorovna (Madame Krassotkin) heard of her son’s exploit, she almost went out of her mind with horror. She had such terrible attacks of hysterics, lasting with intervals for several days, that Kolya, seriously alarmed at last, promised on his honor that such pranks should never be repeated. He swore on his knees before the holy image, and swore by the memory of his father, at Madame Krassotkin’s instance, and the “manly” Kolya burst into tears like a boy of six. And all that day the mother and son were constantly rushing into each other’s arms sobbing. Next day Kolya woke up as “unfeeling” as before, but he had become more silent, more modest, sterner, and more thoughtful.

Six weeks later, it is true, he got into another scrape, which even brought his name to the ears of our Justice of the Peace, but it was a scrape of quite another kind, amusing, foolish, and he did not, as it turned out, take the leading part in it, but was only implicated in it. But of this later. His mother still fretted and trembled, but the more uneasy she became, the greater were the hopes of Dardanelov. It must be noted that Kolya understood and divined what was in Dardanelov’s heart and, of course, despised him profoundly for his “feelings”; he had in the past been so tactless as to show this contempt before his mother, hinting vaguely that he knew what Dardanelov was after. But from the time of the railway incident his behavior in this respect also was changed; he did not allow himself the remotest allusion to the subject and began to speak more respectfully of Dardanelov before his mother, which the sensitive woman at once appreciated with boundless gratitude. But at the slightest mention of Dardanelov by a visitor in Kolya’s presence, she would flush as pink as a rose. At such moments Kolya would either stare out of the window scowling, or would investigate the state of his boots, or would shout angrily for “Perezvon,” the big, shaggy, mangy dog, which he had picked up a month before, brought home, and kept for some reason secretly indoors, not showing him to any of his schoolfellows. He bullied him frightfully, teaching him all sorts of tricks, so that the poor dog howled for him whenever he was absent at school, and when he came in, whined with delight, rushed about as if he were crazy, begged, lay down on the ground pretending to be dead, and so on; in fact, showed all the tricks he had taught him, not at the word of command, but simply from the zeal of his excited and grateful heart.

I have forgotten, by the way, to mention that Kolya Krassotkin was the boy stabbed with a penknife by the boy already known to the reader as the son of Captain Snegiryov. Ilusha had been defending his father when the schoolboys jeered at him, shouting the nickname “wisp of tow.”

Chapter II.
Children
And so on that frosty, snowy, and windy day in November, Kolya Krassotkin was sitting at home. It was Sunday and there was no school. It had just struck eleven, and he particularly wanted to go out “on very urgent business,” but he was left alone in charge of the house, for it so happened that all its elder inmates were absent owing to a sudden and singular event. Madame Krassotkin had let two little rooms, separated from the rest of the house by a passage, to a doctor’s wife with her two small children. This lady was the same age as Anna Fyodorovna, and a great friend of hers. Her husband, the doctor, had taken his departure twelve months before, going first to Orenburg and then to Tashkend, and for the last six months she had not heard a word from him. Had it not been for her friendship with Madame Krassotkin, which was some consolation to the forsaken lady, she would certainly have completely dissolved away in tears. And now, to add to her misfortunes, Katerina, her only servant, was suddenly moved the evening before to announce, to her mistress’s amazement, that she proposed to bring a child into the world before morning. It seemed almost miraculous to every one that no one had noticed the probability of it before. The astounded doctor’s wife decided to move Katerina while there was still time to an establishment in the town kept by a midwife for such emergencies. As she set great store by her servant, she promptly carried out this plan and remained there looking after her. By the morning all Madame Krassotkin’s friendly sympathy and energy were called upon to render assistance and appeal to some one for help in the case.

So both the ladies were absent from home, the Krassotkins’ servant, Agafya, had gone out to the market, and Kolya was thus left for a time to protect and look after “the kids,” that is, the son and daughter of the doctor’s wife, who were left alone. Kolya was not afraid of taking care of the house, besides he had Perezvon, who had been told to lie flat, without moving, under the bench in the hall. Every time Kolya, walking to and fro through the rooms, came into the hall, the dog shook his head and gave two loud and insinuating taps on the floor with his tail, but alas! the whistle did not sound to release him. Kolya looked sternly at the luckless dog, who relapsed again into obedient rigidity. The one thing that troubled Kolya was “the kids.” He looked, of course, with the utmost scorn on Katerina’s unexpected adventure, but he was very fond of the bereaved “kiddies,” and had already taken them a picture‐book. Nastya, the elder, a girl of eight, could read, and Kostya, the boy, aged seven, was very fond of being read to by her. Krassotkin could, of course, have provided more diverting entertainment for them. He could have made them stand side by side and played soldiers with them, or sent them hiding all over the house. He had done so more than once before and was not above doing it, so much so that a report once spread at school that Krassotkin played horses with the little lodgers at home, prancing with his head on one side like a trace‐horse. But Krassotkin haughtily parried this thrust, pointing out that to play horses with boys of one’s own age, boys of thirteen, would certainly be disgraceful “at this date,” but that he did it for the sake of “the kids” because he liked them, and no one had a right to call him to account for his feelings. The two “kids” adored him.

But on this occasion he was in no mood for games. He had very important business of his own before him, something almost mysterious. Meanwhile time was passing and Agafya, with whom he could have left the children, would not come back from market. He had several times already crossed the passage, opened the door of the lodgers’ room and looked anxiously at “the kids” who were sitting over the book, as he had bidden them. Every time he opened the door they grinned at him, hoping he would come in and would do something delightful and amusing. But Kolya was bothered and did not go in.

At last it struck eleven and he made up his mind, once for all, that if that “damned” Agafya did not come back within ten minutes he should go out without waiting for her, making “the kids” promise, of course, to be brave when he was away, not to be naughty, not to cry from fright. With this idea he put on his wadded winter overcoat with its catskin fur collar, slung his satchel round his shoulder, and, regardless of his mother’s constantly reiterated entreaties that he would always put on goloshes in such cold weather, he looked at them contemptuously as he crossed the hall and went out with only his boots on. Perezvon, seeing him in his outdoor clothes, began tapping nervously, yet vigorously, on the floor with his tail. Twitching all over, he even uttered a plaintive whine. But Kolya, seeing his dog’s passionate excitement, decided that it was a breach of discipline, kept him for another minute under the bench, and only when he had opened the door into the passage, whistled for him. The dog leapt up like a mad creature and rushed bounding before him rapturously.

Kolya opened the door to peep at “the kids.” They were both sitting as before at the table, not reading but warmly disputing about something. The children often argued together about various exciting problems of life, and Nastya, being the elder, always got the best of it. If Kostya did not agree with her, he almost always appealed to Kolya Krassotkin, and his verdict was regarded as infallible by both of them. This time the “kids’” discussion rather interested Krassotkin, and he stood still in the passage to listen. The children saw he was listening and that made them dispute with even greater energy.

“I shall never, never believe,” Nastya prattled, “that the old women find babies among the cabbages in the kitchen‐garden. It’s winter now and there are no cabbages, and so the old woman couldn’t have taken Katerina a daughter.”

Kolya whistled to himself.

“Or perhaps they do bring babies from somewhere, but only to those who are married.”

Kostya stared at Nastya and listened, pondering profoundly.

“Nastya, how silly you are!” he said at last, firmly and calmly. “How can Katerina have a baby when she isn’t married?”

Nastya was exasperated.

“You know nothing about it,” she snapped irritably. “Perhaps she has a husband, only he is in prison, so now she’s got a baby.”

“But is her husband in prison?” the matter‐of‐fact Kostya inquired gravely.

“Or, I tell you what,” Nastya interrupted impulsively, completely rejecting and forgetting her first hypothesis. “She hasn’t a husband, you are right there, but she wants to be married, and so she’s been thinking of getting married, and thinking and thinking of it till now she’s got it, that is, not a husband but a baby.”

“Well, perhaps so,” Kostya agreed, entirely vanquished. “But you didn’t say so before. So how could I tell?”

“Come, kiddies,” said Kolya, stepping into the room. “You’re terrible people, I see.”

“And Perezvon with you!” grinned Kostya, and began snapping his fingers and calling Perezvon.

“I am in a difficulty, kids,” Krassotkin began solemnly, “and you must help me. Agafya must have broken her leg, since she has not turned up till now, that’s certain. I must go out. Will you let me go?”

The children looked anxiously at one another. Their smiling faces showed signs of uneasiness, but they did not yet fully grasp what was expected of them.

“You won’t be naughty while I am gone? You won’t climb on the cupboard and break your legs? You won’t be frightened alone and cry?”

A look of profound despondency came into the children’s faces.

“And I could show you something as a reward, a little copper cannon which can be fired with real gunpowder.”

The children’s faces instantly brightened. “Show us the cannon,” said Kostya, beaming all over.

Krassotkin put his hand in his satchel, and pulling out a little bronze cannon stood it on the table.

“Ah, you are bound to ask that! Look, it’s on wheels.” He rolled the toy on along the table. “And it can be fired off, too. It can be loaded with shot and fired off.”

“And it could kill any one?”

“It can kill any one; you’ve only got to aim at anybody,” and Krassotkin explained where the powder had to be put, where the shot should be rolled in, showing a tiny hole like a touch‐hole, and told them that it kicked when it was fired.

The children listened with intense interest. What particularly struck their imagination was that the cannon kicked.

“And have you got any powder?” Nastya inquired.

“Yes.”

“Show us the powder, too,” she drawled with a smile of entreaty.

Krassotkin dived again into his satchel and pulled out a small flask containing a little real gunpowder. He had some shot, too, in a screw of paper. He even uncorked the flask and shook a little powder into the palm of his hand.

“One has to be careful there’s no fire about, or it would blow up and kill us all,” Krassotkin warned them sensationally.

The children gazed at the powder with an awe‐stricken alarm that only intensified their enjoyment. But Kostya liked the shot better.

“And does the shot burn?” he inquired.

“No, it doesn’t.”

“Give me a little shot,” he asked in an imploring voice.

“I’ll give you a little shot; here, take it, but don’t show it to your mother till I come back, or she’ll be sure to think it’s gunpowder, and will die of fright and give you a thrashing.”

“Mother never does whip us,” Nastya observed at once.

“I know, I only said it to finish the sentence. And don’t you ever deceive your mother except just this once, until I come back. And so, kiddies, can I go out? You won’t be frightened and cry when I’m gone?”

“We sha—all cry,” drawled Kostya, on the verge of tears already.

“We shall cry, we shall be sure to cry,” Nastya chimed in with timid haste.

“Oh, children, children, how fraught with peril are your years! There’s no help for it, chickens, I shall have to stay with you I don’t know how long. And time is passing, time is passing, oogh!”

“Tell Perezvon to pretend to be dead!” Kostya begged.

“There’s no help for it, we must have recourse to Perezvon. Ici, Perezvon.” And Kolya began giving orders to the dog, who performed all his tricks.

He was a rough‐haired dog, of medium size, with a coat of a sort of lilac‐ gray color. He was blind in his right eye, and his left ear was torn. He whined and jumped, stood and walked on his hind legs, lay on his back with his paws in the air, rigid as though he were dead. While this last performance was going on, the door opened and Agafya, Madame Krassotkin’s servant, a stout woman of forty, marked with small‐pox, appeared in the doorway. She had come back from market and had a bag full of provisions in her hand. Holding up the bag of provisions in her left hand she stood still to watch the dog. Though Kolya had been so anxious for her return, he did not cut short the performance, and after keeping Perezvon dead for the usual time, at last he whistled to him. The dog jumped up and began bounding about in his joy at having done his duty.

“Only think, a dog!” Agafya observed sententiously.

“Why are you late, female?” asked Krassotkin sternly.

“Female, indeed! Go on with you, you brat.”

“Brat?”

“Yes, a brat. What is it to you if I’m late; if I’m late, you may be sure I have good reason,” muttered Agafya, busying herself about the stove, without a trace of anger or displeasure in her voice. She seemed quite pleased, in fact, to enjoy a skirmish with her merry young master.

“Listen, you frivolous young woman,” Krassotkin began, getting up from the sofa, “can you swear by all you hold sacred in the world and something else besides, that you will watch vigilantly over the kids in my absence? I am going out.”

“And what am I going to swear for?” laughed Agafya. “I shall look after them without that.”

“No, you must swear on your eternal salvation. Else I shan’t go.”

“Well, don’t then. What does it matter to me? It’s cold out; stay at home.”

“Kids,” Kolya turned to the children, “this woman will stay with you till I come back or till your mother comes, for she ought to have been back long ago. She will give you some lunch, too. You’ll give them something, Agafya, won’t you?”

“That I can do.”

“Good‐by, chickens, I go with my heart at rest. And you, granny,” he added gravely, in an undertone, as he passed Agafya, “I hope you’ll spare their tender years and not tell them any of your old woman’s nonsense about Katerina. Ici, Perezvon!”

“Get along with you!” retorted Agafya, really angry this time. “Ridiculous boy! You want a whipping for saying such things, that’s what you want!”

Chapter III.
The Schoolboy
But Kolya did not hear her. At last he could go out. As he went out at the gate he looked round him, shrugged up his shoulders, and saying “It is freezing,” went straight along the street and turned off to the right towards the market‐place. When he reached the last house but one before the market‐place he stopped at the gate, pulled a whistle out of his pocket, and whistled with all his might as though giving a signal. He had not to wait more than a minute before a rosy‐cheeked boy of about eleven, wearing a warm, neat and even stylish coat, darted out to meet him. This was Smurov, a boy in the preparatory class (two classes below Kolya Krassotkin), son of a well‐to‐do official. Apparently he was forbidden by his parents to associate with Krassotkin, who was well known to be a desperately naughty boy, so Smurov was obviously slipping out on the sly. He was—if the reader has not forgotten—one of the group of boys who two months before had thrown stones at Ilusha. He was the one who told Alyosha Karamazov about Ilusha.

“I’ve been waiting for you for the last hour, Krassotkin,” said Smurov stolidly, and the boys strode towards the market‐place.

“I am late,” answered Krassotkin. “I was detained by circumstances. You won’t be thrashed for coming with me?”

“Come, I say, I’m never thrashed! And you’ve got Perezvon with you?”

“Yes.”

“You’re taking him, too?”

“Yes.”

“Ah! if it were only Zhutchka!”

“That’s impossible. Zhutchka’s non‐existent. Zhutchka is lost in the mists of obscurity.”

“Ah! couldn’t we do this?” Smurov suddenly stood still. “You see Ilusha says that Zhutchka was a shaggy, grayish, smoky‐looking dog like Perezvon. Couldn’t you tell him this is Zhutchka, and he might believe you?”

“Boy, shun a lie, that’s one thing; even with a good object—that’s another. Above all, I hope you’ve not told them anything about my coming.”

“Heaven forbid! I know what I am about. But you won’t comfort him with Perezvon,” said Smurov, with a sigh. “You know his father, the captain, ‘the wisp of tow,’ told us that he was going to bring him a real mastiff pup, with a black nose, to‐day. He thinks that would comfort Ilusha; but I doubt it.”

“And how is Ilusha?”

“Ah, he is bad, very bad! I believe he’s in consumption: he is quite conscious, but his breathing! His breathing’s gone wrong. The other day he asked to have his boots on to be led round the room. He tried to walk, but he couldn’t stand. ‘Ah, I told you before, father,’ he said, ‘that those boots were no good. I could never walk properly in them.’ He fancied it was his boots that made him stagger, but it was simply weakness, really. He won’t live another week. Herzenstube is looking after him. Now they are rich again—they’ve got heaps of money.”

“They are rogues.”

“Who are rogues?”

“Doctors and the whole crew of quacks collectively, and also, of course, individually. I don’t believe in medicine. It’s a useless institution. I mean to go into all that. But what’s that sentimentality you’ve got up there? The whole class seems to be there every day.”

“Not the whole class: it’s only ten of our fellows who go to see him every day. There’s nothing in that.”

“What I don’t understand in all this is the part that Alexey Karamazov is taking in it. His brother’s going to be tried to‐morrow or next day for such a crime, and yet he has so much time to spend on sentimentality with boys.”

“There’s no sentimentality about it. You are going yourself now to make it up with Ilusha.”

“Make it up with him? What an absurd expression! But I allow no one to analyze my actions.”

“And how pleased Ilusha will be to see you! He has no idea that you are coming. Why was it, why was it you wouldn’t come all this time?” Smurov cried with sudden warmth.

“My dear boy, that’s my business, not yours. I am going of myself because I choose to, but you’ve all been hauled there by Alexey Karamazov—there’s a difference, you know. And how do you know? I may not be going to make it up at all. It’s a stupid expression.”

“It’s not Karamazov at all; it’s not his doing. Our fellows began going there of themselves. Of course, they went with Karamazov at first. And there’s been nothing of that sort—no silliness. First one went, and then another. His father was awfully pleased to see us. You know he will simply go out of his mind if Ilusha dies. He sees that Ilusha’s dying. And he seems so glad we’ve made it up with Ilusha. Ilusha asked after you, that was all. He just asks and says no more. His father will go out of his mind or hang himself. He behaved like a madman before. You know he is a very decent man. We made a mistake then. It’s all the fault of that murderer who beat him then.”

“Karamazov’s a riddle to me all the same. I might have made his acquaintance long ago, but I like to have a proper pride in some cases. Besides, I have a theory about him which I must work out and verify.”

Kolya subsided into dignified silence. Smurov, too, was silent. Smurov, of course, worshiped Krassotkin and never dreamed of putting himself on a level with him. Now he was tremendously interested at Kolya’s saying that he was “going of himself” to see Ilusha. He felt that there must be some mystery in Kolya’s suddenly taking it into his head to go to him that day. They crossed the market‐place, in which at that hour were many loaded wagons from the country and a great number of live fowls. The market women were selling rolls, cottons and threads, etc., in their booths. These Sunday markets were naïvely called “fairs” in the town, and there were many such fairs in the year.

Perezvon ran about in the wildest spirits, sniffing about first one side, then the other. When he met other dogs they zealously smelt each other over according to the rules of canine etiquette.

“I like to watch such realistic scenes, Smurov,” said Kolya suddenly. “Have you noticed how dogs sniff at one another when they meet? It seems to be a law of their nature.”

“Yes; it’s a funny habit.”

“No, it’s not funny; you are wrong there. There’s nothing funny in nature, however funny it may seem to man with his prejudices. If dogs could reason and criticize us they’d be sure to find just as much that would be funny to them, if not far more, in the social relations of men, their masters—far more, indeed. I repeat that, because I am convinced that there is far more foolishness among us. That’s Rakitin’s idea—a remarkable idea. I am a Socialist, Smurov.”

“And what is a Socialist?” asked Smurov.

“That’s when all are equal and all have property in common, there are no marriages, and every one has any religion and laws he likes best, and all the rest of it. You are not old enough to understand that yet. It’s cold, though.”

“Yes, twelve degrees of frost. Father looked at the thermometer just now.”

“Have you noticed, Smurov, that in the middle of winter we don’t feel so cold even when there are fifteen or eighteen degrees of frost as we do now, in the beginning of winter, when there is a sudden frost of twelve degrees, especially when there is not much snow. It’s because people are not used to it. Everything is habit with men, everything even in their social and political relations. Habit is the great motive‐power. What a funny‐looking peasant!”

Kolya pointed to a tall peasant, with a good‐natured countenance in a long sheepskin coat, who was standing by his wagon, clapping together his hands, in their shapeless leather gloves, to warm them. His long fair beard was all white with frost.

“That peasant’s beard’s frozen,” Kolya cried in a loud provocative voice as he passed him.

“Lots of people’s beards are frozen,” the peasant replied, calmly and sententiously.

“Don’t provoke him,” observed Smurov.

“It’s all right; he won’t be cross; he’s a nice fellow. Good‐by, Matvey.”

“Good‐by.”

“Is your name Matvey?”

“Yes. Didn’t you know?”

“No, I didn’t. It was a guess.”

“You don’t say so! You are a schoolboy, I suppose?”

“Yes.”

“You get whipped, I expect?”

“Nothing to speak of—sometimes.”

“Does it hurt?”

“Well, yes, it does.”

“Ech, what a life!” The peasant heaved a sigh from the bottom of his heart.

“Good‐by, Matvey.”

“Good‐by. You are a nice chap, that you are.”

The boys went on.

“That was a nice peasant,” Kolya observed to Smurov. “I like talking to the peasants, and am always glad to do them justice.”

“Why did you tell a lie, pretending we are thrashed?” asked Smurov.

“I had to say that to please him.”

“How do you mean?”

“You know, Smurov, I don’t like being asked the same thing twice. I like people to understand at the first word. Some things can’t be explained. According to a peasant’s notions, schoolboys are whipped, and must be whipped. What would a schoolboy be if he were not whipped? And if I were to tell him we are not, he’d be disappointed. But you don’t understand that. One has to know how to talk to the peasants.”

“Only don’t tease them, please, or you’ll get into another scrape as you did about that goose.”

“So you’re afraid?”

“Don’t laugh, Kolya. Of course I’m afraid. My father would be awfully cross. I am strictly forbidden to go out with you.”

“Don’t be uneasy, nothing will happen this time. Hallo, Natasha!” he shouted to a market woman in one of the booths.

“Call me Natasha! What next! My name is Marya,” the middle‐aged market woman shouted at him.

“I am so glad it’s Marya. Good‐by!”

“Ah, you young rascal! A brat like you to carry on so!”

“I’m in a hurry. I can’t stay now. You shall tell me next Sunday.” Kolya waved his hand at her, as though she had attacked him and not he her.

“I’ve nothing to tell you next Sunday. You set upon me, you impudent young monkey. I didn’t say anything,” bawled Marya. “You want a whipping, that’s what you want, you saucy jackanapes!”

There was a roar of laughter among the other market women round her. Suddenly a man in a violent rage darted out from the arcade of shops close by. He was a young man, not a native of the town, with dark, curly hair and a long, pale face, marked with smallpox. He wore a long blue coat and a peaked cap, and looked like a merchant’s clerk. He was in a state of stupid excitement and brandished his fist at Kolya.

“I know you!” he cried angrily, “I know you!”

Kolya stared at him. He could not recall when he could have had a row with the man. But he had been in so many rows in the street that he could hardly remember them all.

“Do you?” he asked sarcastically.

“I know you! I know you!” the man repeated idiotically.

“So much the better for you. Well, it’s time I was going. Good‐by!”

“You are at your saucy pranks again?” cried the man. “You are at your saucy pranks again? I know, you are at it again!”

“It’s not your business, brother, if I am at my saucy pranks again,” said Kolya, standing still and scanning him.

“Not my business?”

“No; it’s not your business.”

“Whose then? Whose then? Whose then?”

“It’s Trifon Nikititch’s business, not yours.”

“What Trifon Nikititch?” asked the youth, staring with loutish amazement at Kolya, but still as angry as ever.

Kolya scanned him gravely.

“Have you been to the Church of the Ascension?” he suddenly asked him, with stern emphasis.

“What Church of Ascension? What for? No, I haven’t,” said the young man, somewhat taken aback.

“Do you know Sabaneyev?” Kolya went on even more emphatically and even more severely.

“What Sabaneyev? No, I don’t know him.”

“Well then you can go to the devil,” said Kolya, cutting short the conversation; and turning sharply to the right he strode quickly on his way as though he disdained further conversation with a dolt who did not even know Sabaneyev.

“Stop, heigh! What Sabaneyev?” the young man recovered from his momentary stupefaction and was as excited as before. “What did he say?” He turned to the market women with a silly stare.

The women laughed.

“You can never tell what he’s after,” said one of them.

“What Sabaneyev is it he’s talking about?” the young man repeated, still furious and brandishing his right arm.

“It must be a Sabaneyev who worked for the Kuzmitchovs, that’s who it must be,” one of the women suggested.

The young man stared at her wildly.

“For the Kuzmitchovs?” repeated another woman. “But his name wasn’t Trifon. His name’s Kuzma, not Trifon; but the boy said Trifon Nikititch, so it can’t be the same.”

“His name is not Trifon and not Sabaneyev, it’s Tchizhov,” put in suddenly a third woman, who had hitherto been silent, listening gravely. “Alexey Ivanitch is his name. Tchizhov, Alexey Ivanitch.”

“Not a doubt about it, it’s Tchizhov,” a fourth woman emphatically confirmed the statement.

The bewildered youth gazed from one to another.

“But what did he ask for, what did he ask for, good people?” he cried almost in desperation. “ ‘Do you know Sabaneyev?’ says he. And who the devil’s to know who is Sabaneyev?”

“You’re a senseless fellow. I tell you it’s not Sabaneyev, but Tchizhov, Alexey Ivanitch Tchizhov, that’s who it is!” one of the women shouted at him impressively.

“What Tchizhov? Who is he? Tell me, if you know.”

“That tall, sniveling fellow who used to sit in the market in the summer.”

“And what’s your Tchizhov to do with me, good people, eh?”

“How can I tell what he’s to do with you?” put in another. “You ought to know yourself what you want with him, if you make such a clamor about him. He spoke to you, he did not speak to us, you stupid. Don’t you really know him?”

“Know whom?”

“Tchizhov.”

“The devil take Tchizhov and you with him. I’ll give him a hiding, that I will. He was laughing at me!”

“Will give Tchizhov a hiding! More likely he will give you one. You are a fool, that’s what you are!”

“Not Tchizhov, not Tchizhov, you spiteful, mischievous woman. I’ll give the boy a hiding. Catch him, catch him, he was laughing at me!”

The woman guffawed. But Kolya was by now a long way off, marching along with a triumphant air. Smurov walked beside him, looking round at the shouting group far behind. He too was in high spirits, though he was still afraid of getting into some scrape in Kolya’s company.

“What Sabaneyev did you mean?” he asked Kolya, foreseeing what his answer would be.

“How do I know? Now there’ll be a hubbub among them all day. I like to stir up fools in every class of society. There’s another blockhead, that peasant there. You know, they say ‘there’s no one stupider than a stupid Frenchman,’ but a stupid Russian shows it in his face just as much. Can’t you see it all over his face that he is a fool, that peasant, eh?”

“Let him alone, Kolya. Let’s go on.”

“Nothing could stop me, now I am once off. Hey, good morning, peasant!”

A sturdy‐looking peasant, with a round, simple face and grizzled beard, who was walking by, raised his head and looked at the boy. He seemed not quite sober.

“Good morning, if you are not laughing at me,” he said deliberately in reply.

“And if I am?” laughed Kolya.

“Well, a joke’s a joke. Laugh away. I don’t mind. There’s no harm in a joke.”

“I beg your pardon, brother, it was a joke.”

“Well, God forgive you!”

“Do you forgive me, too?”

“I quite forgive you. Go along.”

“I say, you seem a clever peasant.”

“Cleverer than you,” the peasant answered unexpectedly, with the same gravity.

“I doubt it,” said Kolya, somewhat taken aback.

“It’s true, though.”

“Perhaps it is.”

“It is, brother.”

“Good‐by, peasant!”

“Good‐by!”

“There are all sorts of peasants,” Kolya observed to Smurov after a brief silence. “How could I tell I had hit on a clever one? I am always ready to recognize intelligence in the peasantry.”

In the distance the cathedral clock struck half‐past eleven. The boys made haste and they walked as far as Captain Snegiryov’s lodging, a considerable distance, quickly and almost in silence. Twenty paces from the house Kolya stopped and told Smurov to go on ahead and ask Karamazov to come out to him.

“One must sniff round a bit first,” he observed to Smurov.

“Why ask him to come out?” Smurov protested. “You go in; they will be awfully glad to see you. What’s the sense of making friends in the frost out here?”

“I know why I want to see him out here in the frost,” Kolya cut him short in the despotic tone he was fond of adopting with “small boys,” and Smurov ran to do his bidding.

Chapter IV.
The Lost Dog
Kolya leaned against the fence with an air of dignity, waiting for Alyosha to appear. Yes, he had long wanted to meet him. He had heard a great deal about him from the boys, but hitherto he had always maintained an appearance of disdainful indifference when he was mentioned, and he had even “criticized” what he heard about Alyosha. But secretly he had a great longing to make his acquaintance; there was something sympathetic and attractive in all he was told about Alyosha. So the present moment was important: to begin with, he had to show himself at his best, to show his independence, “Or he’ll think of me as thirteen and take me for a boy, like the rest of them. And what are these boys to him? I shall ask him when I get to know him. It’s a pity I am so short, though. Tuzikov is younger than I am, yet he is half a head taller. But I have a clever face. I am not good‐looking. I know I’m hideous, but I’ve a clever face. I mustn’t talk too freely; if I fall into his arms all at once, he may think—Tfoo! how horrible if he should think—!”

Such were the thoughts that excited Kolya while he was doing his utmost to assume the most independent air. What distressed him most was his being so short; he did not mind so much his “hideous” face, as being so short. On the wall in a corner at home he had the year before made a pencil‐mark to show his height, and every two months since he anxiously measured himself against it to see how much he had gained. But alas! he grew very slowly, and this sometimes reduced him almost to despair. His face was in reality by no means “hideous”; on the contrary, it was rather attractive, with a fair, pale skin, freckled. His small, lively gray eyes had a fearless look, and often glowed with feeling. He had rather high cheekbones; small, very red, but not very thick, lips; his nose was small and unmistakably turned up. “I’ve a regular pug nose, a regular pug nose,” Kolya used to mutter to himself when he looked in the looking‐glass, and he always left it with indignation. “But perhaps I haven’t got a clever face?” he sometimes thought, doubtful even of that. But it must not be supposed that his mind was preoccupied with his face and his height. On the contrary, however bitter the moments before the looking‐glass were to him, he quickly forgot them, and forgot them for a long time, “abandoning himself entirely to ideas and to real life,” as he formulated it to himself.

Alyosha came out quickly and hastened up to Kolya. Before he reached him, Kolya could see that he looked delighted. “Can he be so glad to see me?” Kolya wondered, feeling pleased. We may note here, in passing, that Alyosha’s appearance had undergone a complete change since we saw him last. He had abandoned his cassock and was wearing now a well‐cut coat, a soft, round hat, and his hair had been cropped short. All this was very becoming to him, and he looked quite handsome. His charming face always had a good‐humored expression; but there was a gentleness and serenity in his good‐humor. To Kolya’s surprise, Alyosha came out to him just as he was, without an overcoat. He had evidently come in haste. He held out his hand to Kolya at once.

“Here you are at last! How anxious we’ve been to see you!”

“There were reasons which you shall know directly. Anyway, I am glad to make your acquaintance. I’ve long been hoping for an opportunity, and have heard a great deal about you,” Kolya muttered, a little breathless.

“We should have met anyway. I’ve heard a great deal about you, too; but you’ve been a long time coming here.”

“Tell me, how are things going?”

“Ilusha is very ill. He is certainly dying.”

“How awful! You must admit that medicine is a fraud, Karamazov,” cried Kolya warmly.

“Ilusha has mentioned you often, very often, even in his sleep, in delirium, you know. One can see that you used to be very, very dear to him … before the incident … with the knife…. Then there’s another reason…. Tell me, is that your dog?”

“Yes, Perezvon.”

“Not Zhutchka?” Alyosha looked at Kolya with eyes full of pity. “Is she lost for ever?”

“I know you would all like it to be Zhutchka. I’ve heard all about it.” Kolya smiled mysteriously. “Listen, Karamazov, I’ll tell you all about it. That’s what I came for; that’s what I asked you to come out here for, to explain the whole episode to you before we go in,” he began with animation. “You see, Karamazov, Ilusha came into the preparatory class last spring. Well, you know what our preparatory class is—a lot of small boys. They began teasing Ilusha at once. I am two classes higher up, and, of course, I only look on at them from a distance. I saw the boy was weak and small, but he wouldn’t give in to them; he fought with them. I saw he was proud, and his eyes were full of fire. I like children like that. And they teased him all the more. The worst of it was he was horribly dressed at the time, his breeches were too small for him, and there were holes in his boots. They worried him about it; they jeered at him. That I can’t stand. I stood up for him at once, and gave it to them hot. I beat them, but they adore me, do you know, Karamazov?” Kolya boasted impulsively; “but I am always fond of children. I’ve two chickens in my hands at home now—that’s what detained me to‐day. So they left off beating Ilusha and I took him under my protection. I saw the boy was proud. I tell you that, the boy was proud; but in the end he became slavishly devoted to me: he did my slightest bidding, obeyed me as though I were God, tried to copy me. In the intervals between the classes he used to run to me at once, and I’d go about with him. On Sundays, too. They always laugh when an older boy makes friends with a younger one like that; but that’s a prejudice. If it’s my fancy, that’s enough. I am teaching him, developing him. Why shouldn’t I develop him if I like him? Here you, Karamazov, have taken up with all these nestlings. I see you want to influence the younger generation—to develop them, to be of use to them, and I assure you this trait in your character, which I knew by hearsay, attracted me more than anything. Let us get to the point, though. I noticed that there was a sort of softness and sentimentality coming over the boy, and you know I have a positive hatred of this sheepish sentimentality, and I have had it from a baby. There were contradictions in him, too: he was proud, but he was slavishly devoted to me, and yet all at once his eyes would flash and he’d refuse to agree with me; he’d argue, fly into a rage. I used sometimes to propound certain ideas; I could see that it was not so much that he disagreed with the ideas, but that he was simply rebelling against me, because I was cool in responding to his endearments. And so, in order to train him properly, the tenderer he was, the colder I became. I did it on purpose: that was my idea. My object was to form his character, to lick him into shape, to make a man of him … and besides … no doubt, you understand me at a word. Suddenly I noticed for three days in succession he was downcast and dejected, not because of my coldness, but for something else, something more important. I wondered what the tragedy was. I have pumped him and found out that he had somehow got to know Smerdyakov, who was footman to your late father—it was before his death, of course—and he taught the little fool a silly trick—that is, a brutal, nasty trick. He told him to take a piece of bread, to stick a pin in it, and throw it to one of those hungry dogs who snap up anything without biting it, and then to watch and see what would happen. So they prepared a piece of bread like that and threw it to Zhutchka, that shaggy dog there’s been such a fuss about. The people of the house it belonged to never fed it at all, though it barked all day. (Do you like that stupid barking, Karamazov? I can’t stand it.) So it rushed at the bread, swallowed it, and began to squeal; it turned round and round and ran away, squealing as it ran out of sight. That was Ilusha’s own account of it. He confessed it to me, and cried bitterly. He hugged me, shaking all over. He kept on repeating ‘He ran away squealing’: the sight of that haunted him. He was tormented by remorse, I could see that. I took it seriously. I determined to give him a lesson for other things as well. So I must confess I wasn’t quite straightforward, and pretended to be more indignant perhaps than I was. ‘You’ve done a nasty thing,’ I said, ‘you are a scoundrel. I won’t tell of it, of course, but I shall have nothing more to do with you for a time. I’ll think it over and let you know through Smurov’—that’s the boy who’s just come with me; he’s always ready to do anything for me—‘whether I will have anything to do with you in the future or whether I give you up for good as a scoundrel.’ He was tremendously upset. I must own I felt I’d gone too far as I spoke, but there was no help for it. I did what I thought best at the time. A day or two after, I sent Smurov to tell him that I would not speak to him again. That’s what we call it when two schoolfellows refuse to have anything more to do with one another. Secretly I only meant to send him to Coventry for a few days and then, if I saw signs of repentance, to hold out my hand to him again. That was my intention. But what do you think happened? He heard Smurov’s message, his eyes flashed. ‘Tell Krassotkin from me,’ he cried, ‘that I will throw bread with pins to all the dogs—all—all of them!’ ‘So he’s going in for a little temper. We must smoke it out of him.’ And I began to treat him with contempt; whenever I met him I turned away or smiled sarcastically. And just then that affair with his father happened. You remember? You must realize that he was fearfully worked up by what had happened already. The boys, seeing I’d given him up, set on him and taunted him, shouting, ‘Wisp of tow, wisp of tow!’ And he had soon regular skirmishes with them, which I am very sorry for. They seem to have given him one very bad beating. One day he flew at them all as they were coming out of school. I stood a few yards off, looking on. And, I swear, I don’t remember that I laughed; it was quite the other way, I felt awfully sorry for him, in another minute I would have run up to take his part. But he suddenly met my eyes. I don’t know what he fancied; but he pulled out a penknife, rushed at me, and struck at my thigh, here in my right leg. I didn’t move. I don’t mind owning I am plucky sometimes, Karamazov. I simply looked at him contemptuously, as though to say, ‘This is how you repay all my kindness! Do it again, if you like, I’m at your service.’ But he didn’t stab me again; he broke down, he was frightened at what he had done, he threw away the knife, burst out crying, and ran away. I did not sneak on him, of course, and I made them all keep quiet, so it shouldn’t come to the ears of the masters. I didn’t even tell my mother till it had healed up. And the wound was a mere scratch. And then I heard that the same day he’d been throwing stones and had bitten your finger—but you understand now what a state he was in! Well, it can’t be helped: it was stupid of me not to come and forgive him—that is, to make it up with him—when he was taken ill. I am sorry for it now. But I had a special reason. So now I’ve told you all about it … but I’m afraid it was stupid of me.”

“Oh, what a pity,” exclaimed Alyosha, with feeling, “that I didn’t know before what terms you were on with him, or I’d have come to you long ago to beg you to go to him with me. Would you believe it, when he was feverish he talked about you in delirium. I didn’t know how much you were to him! And you’ve really not succeeded in finding that dog? His father and the boys have been hunting all over the town for it. Would you believe it, since he’s been ill, I’ve three times heard him repeat with tears, ‘It’s because I killed Zhutchka, father, that I am ill now. God is punishing me for it.’ He can’t get that idea out of his head. And if the dog were found and proved to be alive, one might almost fancy the joy would cure him. We have all rested our hopes on you.”

“Tell me, what made you hope that I should be the one to find him?” Kolya asked, with great curiosity. “Why did you reckon on me rather than any one else?”

“There was a report that you were looking for the dog, and that you would bring it when you’d found it. Smurov said something of the sort. We’ve all been trying to persuade Ilusha that the dog is alive, that it’s been seen. The boys brought him a live hare; he just looked at it, with a faint smile, and asked them to set it free in the fields. And so we did. His father has just this moment come back, bringing him a mastiff pup, hoping to comfort him with that; but I think it only makes it worse.”

“Tell me, Karamazov, what sort of man is the father? I know him, but what do you make of him—a mountebank, a buffoon?”

“Oh, no; there are people of deep feeling who have been somehow crushed. Buffoonery in them is a form of resentful irony against those to whom they daren’t speak the truth, from having been for years humiliated and intimidated by them. Believe me, Krassotkin, that sort of buffoonery is sometimes tragic in the extreme. His whole life now is centered in Ilusha, and if Ilusha dies, he will either go mad with grief or kill himself. I feel almost certain of that when I look at him now.”

“I understand you, Karamazov. I see you understand human nature,” Kolya added, with feeling.

“And as soon as I saw you with a dog, I thought it was Zhutchka you were bringing.”

“Wait a bit, Karamazov, perhaps we shall find it yet; but this is Perezvon. I’ll let him go in now and perhaps it will amuse Ilusha more than the mastiff pup. Wait a bit, Karamazov, you will know something in a minute. But, I say, I am keeping you here!” Kolya cried suddenly. “You’ve no overcoat on in this bitter cold. You see what an egoist I am. Oh, we are all egoists, Karamazov!”

“Don’t trouble; it is cold, but I don’t often catch cold. Let us go in, though, and, by the way, what is your name? I know you are called Kolya, but what else?”

“Nikolay—Nikolay Ivanovitch Krassotkin, or, as they say in official documents, ‘Krassotkin son.’ ” Kolya laughed for some reason, but added suddenly, “Of course I hate my name Nikolay.”

“Why so?”

“It’s so trivial, so ordinary.”

“You are thirteen?” asked Alyosha.

“No, fourteen—that is, I shall be fourteen very soon, in a fortnight. I’ll confess one weakness of mine, Karamazov, just to you, since it’s our first meeting, so that you may understand my character at once. I hate being asked my age, more than that … and in fact … there’s a libelous story going about me, that last week I played robbers with the preparatory boys. It’s a fact that I did play with them, but it’s a perfect libel to say I did it for my own amusement. I have reasons for believing that you’ve heard the story; but I wasn’t playing for my own amusement, it was for the sake of the children, because they couldn’t think of anything to do by themselves. But they’ve always got some silly tale. This is an awful town for gossip, I can tell you.”

“But what if you had been playing for your own amusement, what’s the harm?”

“Come, I say, for my own amusement! You don’t play horses, do you?”

“But you must look at it like this,” said Alyosha, smiling. “Grown‐up people go to the theater and there the adventures of all sorts of heroes are represented—sometimes there are robbers and battles, too—and isn’t that just the same thing, in a different form, of course? And young people’s games of soldiers or robbers in their playtime are also art in its first stage. You know, they spring from the growing artistic instincts of the young. And sometimes these games are much better than performances in the theater, the only difference is that people go there to look at the actors, while in these games the young people are the actors themselves. But that’s only natural.”

“You think so? Is that your idea?” Kolya looked at him intently. “Oh, you know, that’s rather an interesting view. When I go home, I’ll think it over. I’ll admit I thought I might learn something from you. I’ve come to learn of you, Karamazov,” Kolya concluded, in a voice full of spontaneous feeling.

“And I of you,” said Alyosha, smiling and pressing his hand.

Kolya was much pleased with Alyosha. What struck him most was that he treated him exactly like an equal and that he talked to him just as if he were “quite grown up.”

“I’ll show you something directly, Karamazov; it’s a theatrical performance, too,” he said, laughing nervously. “That’s why I’ve come.”

“Let us go first to the people of the house, on the left. All the boys leave their coats in there, because the room is small and hot.”

“Oh, I’m only coming in for a minute. I’ll keep on my overcoat. Perezvon will stay here in the passage and be dead. Ici, Perezvon, lie down and be dead! You see how he’s dead. I’ll go in first and explore, then I’ll whistle to him when I think fit, and you’ll see, he’ll dash in like mad. Only Smurov must not forget to open the door at the moment. I’ll arrange it all and you’ll see something.”

Chapter V.
By Ilusha’s Bedside
The room inhabited by the family of the retired captain Snegiryov is already familiar to the reader. It was close and crowded at that moment with a number of visitors. Several boys were sitting with Ilusha, and though all of them, like Smurov, were prepared to deny that it was Alyosha who had brought them and reconciled them with Ilusha, it was really the fact. All the art he had used had been to take them, one by one, to Ilusha, without “sheepish sentimentality,” appearing to do so casually and without design. It was a great consolation to Ilusha in his suffering. He was greatly touched by seeing the almost tender affection and sympathy shown him by these boys, who had been his enemies. Krassotkin was the only one missing and his absence was a heavy load on Ilusha’s heart. Perhaps the bitterest of all his bitter memories was his stabbing Krassotkin, who had been his one friend and protector. Clever little Smurov, who was the first to make it up with Ilusha, thought it was so. But when Smurov hinted to Krassotkin that Alyosha wanted to come and see him about something, the latter cut him short, bidding Smurov tell “Karamazov” at once that he knew best what to do, that he wanted no one’s advice, and that, if he went to see Ilusha, he would choose his own time for he had “his own reasons.”

That was a fortnight before this Sunday. That was why Alyosha had not been to see him, as he had meant to. But though he waited, he sent Smurov to him twice again. Both times Krassotkin met him with a curt, impatient refusal, sending Alyosha a message not to bother him any more, that if he came himself, he, Krassotkin, would not go to Ilusha at all. Up to the very last day, Smurov did not know that Kolya meant to go to Ilusha that morning, and only the evening before, as he parted from Smurov, Kolya abruptly told him to wait at home for him next morning, for he would go with him to the Snegiryovs’, but warned him on no account to say he was coming, as he wanted to drop in casually. Smurov obeyed. Smurov’s fancy that Kolya would bring back the lost dog was based on the words Kolya had dropped that “they must be asses not to find the dog, if it was alive.” When Smurov, waiting for an opportunity, timidly hinted at his guess about the dog, Krassotkin flew into a violent rage. “I’m not such an ass as to go hunting about the town for other people’s dogs when I’ve got a dog of my own! And how can you imagine a dog could be alive after swallowing a pin? Sheepish sentimentality, that’s what it is!”

For the last fortnight Ilusha had not left his little bed under the ikons in the corner. He had not been to school since the day he met Alyosha and bit his finger. He was taken ill the same day, though for a month afterwards he was sometimes able to get up and walk about the room and passage. But latterly he had become so weak that he could not move without help from his father. His father was terribly concerned about him. He even gave up drinking and was almost crazy with terror that his boy would die. And often, especially after leading him round the room on his arm and putting him back to bed, he would run to a dark corner in the passage and, leaning his head against the wall, he would break into paroxysms of violent weeping, stifling his sobs that they might not be heard by Ilusha.

Returning to the room, he would usually begin doing something to amuse and comfort his precious boy; he would tell him stories, funny anecdotes, or would mimic comic people he had happened to meet, even imitate the howls and cries of animals. But Ilusha could not bear to see his father fooling and playing the buffoon. Though the boy tried not to show how he disliked it, he saw with an aching heart that his father was an object of contempt, and he was continually haunted by the memory of the “wisp of tow” and that “terrible day.”

Nina, Ilusha’s gentle, crippled sister, did not like her father’s buffoonery either (Varvara had been gone for some time past to Petersburg to study at the university). But the half‐imbecile mother was greatly diverted and laughed heartily when her husband began capering about or performing something. It was the only way she could be amused; all the rest of the time she was grumbling and complaining that now every one had forgotten her, that no one treated her with respect, that she was slighted, and so on. But during the last few days she had completely changed. She began looking constantly at Ilusha’s bed in the corner and seemed lost in thought. She was more silent, quieter, and, if she cried, she cried quietly so as not to be heard. The captain noticed the change in her with mournful perplexity. The boys’ visits at first only angered her, but later on their merry shouts and stories began to divert her, and at last she liked them so much that, if the boys had given up coming, she would have felt dreary without them. When the children told some story or played a game, she laughed and clapped her hands. She called some of them to her and kissed them. She was particularly fond of Smurov.

As for the captain, the presence in his room of the children, who came to cheer up Ilusha, filled his heart from the first with ecstatic joy. He even hoped that Ilusha would now get over his depression, and that that would hasten his recovery. In spite of his alarm about Ilusha, he had not, till lately, felt one minute’s doubt of his boy’s ultimate recovery.

He met his little visitors with homage, waited upon them hand and foot; he was ready to be their horse and even began letting them ride on his back, but Ilusha did not like the game and it was given up. He began buying little things for them, gingerbread and nuts, gave them tea and cut them sandwiches. It must be noted that all this time he had plenty of money. He had taken the two hundred roubles from Katerina Ivanovna just as Alyosha had predicted he would. And afterwards Katerina Ivanovna, learning more about their circumstances and Ilusha’s illness, visited them herself, made the acquaintance of the family, and succeeded in fascinating the half‐ imbecile mother. Since then she had been lavish in helping them, and the captain, terror‐stricken at the thought that his boy might be dying, forgot his pride and humbly accepted her assistance.

All this time Doctor Herzenstube, who was called in by Katerina Ivanovna, came punctually every other day, but little was gained by his visits and he dosed the invalid mercilessly. But on that Sunday morning a new doctor was expected, who had come from Moscow, where he had a great reputation. Katerina Ivanovna had sent for him from Moscow at great expense, not expressly for Ilusha, but for another object of which more will be said in its place hereafter. But, as he had come, she had asked him to see Ilusha as well, and the captain had been told to expect him. He hadn’t the slightest idea that Kolya Krassotkin was coming, though he had long wished for a visit from the boy for whom Ilusha was fretting.

At the moment when Krassotkin opened the door and came into the room, the captain and all the boys were round Ilusha’s bed, looking at a tiny mastiff pup, which had only been born the day before, though the captain had bespoken it a week ago to comfort and amuse Ilusha, who was still fretting over the lost and probably dead Zhutchka. Ilusha, who had heard three days before that he was to be presented with a puppy, not an ordinary puppy, but a pedigree mastiff (a very important point, of course), tried from delicacy of feeling to pretend that he was pleased. But his father and the boys could not help seeing that the puppy only served to recall to his little heart the thought of the unhappy dog he had killed. The puppy lay beside him feebly moving and he, smiling sadly, stroked it with his thin, pale, wasted hand. Clearly he liked the puppy, but … it wasn’t Zhutchka; if he could have had Zhutchka and the puppy, too, then he would have been completely happy.

“Krassotkin!” cried one of the boys suddenly. He was the first to see him come in.

Krassotkin’s entrance made a general sensation; the boys moved away and stood on each side of the bed, so that he could get a full view of Ilusha. The captain ran eagerly to meet Kolya.

“Please come in … you are welcome!” he said hurriedly. “Ilusha, Mr. Krassotkin has come to see you!”

But Krassotkin, shaking hands with him hurriedly, instantly showed his complete knowledge of the manners of good society. He turned first to the captain’s wife sitting in her arm‐chair, who was very ill‐humored at the moment, and was grumbling that the boys stood between her and Ilusha’s bed and did not let her see the new puppy. With the greatest courtesy he made her a bow, scraping his foot, and turning to Nina, he made her, as the only other lady present, a similar bow. This polite behavior made an extremely favorable impression on the deranged lady.

“There, you can see at once he is a young man that has been well brought up,” she commented aloud, throwing up her hands; “but as for our other visitors they come in one on the top of another.”

“How do you mean, mamma, one on the top of another, how is that?” muttered the captain affectionately, though a little anxious on her account.

“That’s how they ride in. They get on each other’s shoulders in the passage and prance in like that on a respectable family. Strange sort of visitors!”

“But who’s come in like that, mamma?”

“Why, that boy came in riding on that one’s back and this one on that one’s.”

Kolya was already by Ilusha’s bedside. The sick boy turned visibly paler. He raised himself in the bed and looked intently at Kolya. Kolya had not seen his little friend for two months, and he was overwhelmed at the sight of him. He had never imagined that he would see such a wasted, yellow face, such enormous, feverishly glowing eyes and such thin little hands. He saw, with grieved surprise, Ilusha’s rapid, hard breathing and dry lips. He stepped close to him, held out his hand, and almost overwhelmed, he said:

“Well, old man … how are you?” But his voice failed him, he couldn’t achieve an appearance of ease; his face suddenly twitched and the corners of his mouth quivered. Ilusha smiled a pitiful little smile, still unable to utter a word. Something moved Kolya to raise his hand and pass it over Ilusha’s hair.

“Never mind!” he murmured softly to him to cheer him up, or perhaps not knowing why he said it. For a minute they were silent again.

“Hallo, so you’ve got a new puppy?” Kolya said suddenly, in a most callous voice.

“Ye—es,” answered Ilusha in a long whisper, gasping for breath.

“A black nose, that means he’ll be fierce, a good house‐dog,” Kolya observed gravely and stolidly, as if the only thing he cared about was the puppy and its black nose. But in reality he still had to do his utmost to control his feelings not to burst out crying like a child, and do what he would he could not control it. “When it grows up, you’ll have to keep it on the chain, I’m sure.”

“He’ll be a huge dog!” cried one of the boys.

“Of course he will,” “a mastiff,” “large,” “like this,” “as big as a calf,” shouted several voices.

“As big as a calf, as a real calf,” chimed in the captain. “I got one like that on purpose, one of the fiercest breed, and his parents are huge and very fierce, they stand as high as this from the floor…. Sit down here, on Ilusha’s bed, or here on the bench. You are welcome, we’ve been hoping to see you a long time…. You were so kind as to come with Alexey Fyodorovitch?”

Krassotkin sat on the edge of the bed, at Ilusha’s feet. Though he had perhaps prepared a free‐and‐easy opening for the conversation on his way, now he completely lost the thread of it.

“No … I came with Perezvon. I’ve got a dog now, called Perezvon. A Slavonic name. He’s out there … if I whistle, he’ll run in. I’ve brought a dog, too,” he said, addressing Ilusha all at once. “Do you remember Zhutchka, old man?” he suddenly fired the question at him.

Ilusha’s little face quivered. He looked with an agonized expression at Kolya. Alyosha, standing at the door, frowned and signed to Kolya not to speak of Zhutchka, but he did not or would not notice.

“Where … is Zhutchka?” Ilusha asked in a broken voice.

“Oh, well, my boy, your Zhutchka’s lost and done for!”

Ilusha did not speak, but he fixed an intent gaze once more on Kolya. Alyosha, catching Kolya’s eye, signed to him vigorously again, but he turned away his eyes pretending not to have noticed.

“It must have run away and died somewhere. It must have died after a meal like that,” Kolya pronounced pitilessly, though he seemed a little breathless. “But I’ve got a dog, Perezvon … A Slavonic name…. I’ve brought him to show you.”

“I don’t want him!” said Ilusha suddenly.

“No, no, you really must see him … it will amuse you. I brought him on purpose…. He’s the same sort of shaggy dog…. You allow me to call in my dog, madam?” He suddenly addressed Madame Snegiryov, with inexplicable excitement in his manner.

“I don’t want him, I don’t want him!” cried Ilusha, with a mournful break in his voice. There was a reproachful light in his eyes.

“You’d better,” the captain started up from the chest by the wall on which he had just sat down, “you’d better … another time,” he muttered, but Kolya could not be restrained. He hurriedly shouted to Smurov, “Open the door,” and as soon as it was open, he blew his whistle. Perezvon dashed headlong into the room.

“Jump, Perezvon, beg! Beg!” shouted Kolya, jumping up, and the dog stood erect on its hind‐legs by Ilusha’s bedside. What followed was a surprise to every one: Ilusha started, lurched violently forward, bent over Perezvon and gazed at him, faint with suspense.

“It’s … Zhutchka!” he cried suddenly, in a voice breaking with joy and suffering.

“And who did you think it was?” Krassotkin shouted with all his might, in a ringing, happy voice, and bending down he seized the dog and lifted him up to Ilusha.

“Look, old man, you see, blind of one eye and the left ear is torn, just the marks you described to me. It was by that I found him. I found him directly. He did not belong to any one!” he explained, turning quickly to the captain, to his wife, to Alyosha and then again to Ilusha. “He used to live in the Fedotovs’ back‐yard. Though he made his home there, they did not feed him. He was a stray dog that had run away from the village … I found him…. You see, old man, he couldn’t have swallowed what you gave him. If he had, he must have died, he must have! So he must have spat it out, since he is alive. You did not see him do it. But the pin pricked his tongue, that is why he squealed. He ran away squealing and you thought he’d swallowed it. He might well squeal, because the skin of dogs’ mouths is so tender … tenderer than in men, much tenderer!” Kolya cried impetuously, his face glowing and radiant with delight. Ilusha could not speak. White as a sheet, he gazed open‐mouthed at Kolya, with his great eyes almost starting out of his head. And if Krassotkin, who had no suspicion of it, had known what a disastrous and fatal effect such a moment might have on the sick child’s health, nothing would have induced him to play such a trick on him. But Alyosha was perhaps the only person in the room who realized it. As for the captain he behaved like a small child.

“Zhutchka! It’s Zhutchka!” he cried in a blissful voice, “Ilusha, this is Zhutchka, your Zhutchka! Mamma, this is Zhutchka!” He was almost weeping.

“And I never guessed!” cried Smurov regretfully. “Bravo, Krassotkin! I said he’d find the dog and here he’s found him.”

“Here he’s found him!” another boy repeated gleefully.

“Krassotkin’s a brick!” cried a third voice.

“He’s a brick, he’s a brick!” cried the other boys, and they began clapping.

“Wait, wait,” Krassotkin did his utmost to shout above them all. “I’ll tell you how it happened, that’s the whole point. I found him, I took him home and hid him at once. I kept him locked up at home and did not show him to any one till to‐day. Only Smurov has known for the last fortnight, but I assured him this dog was called Perezvon and he did not guess. And meanwhile I taught the dog all sorts of tricks. You should only see all the things he can do! I trained him so as to bring you a well‐trained dog, in good condition, old man, so as to be able to say to you, ‘See, old man, what a fine dog your Zhutchka is now!’ Haven’t you a bit of meat? He’ll show you a trick that will make you die with laughing. A piece of meat, haven’t you got any?”

The captain ran across the passage to the landlady, where their cooking was done. Not to lose precious time, Kolya, in desperate haste, shouted to Perezvon, “Dead!” And the dog immediately turned round and lay on his back with its four paws in the air. The boys laughed. Ilusha looked on with the same suffering smile, but the person most delighted with the dog’s performance was “mamma.” She laughed at the dog and began snapping her fingers and calling it, “Perezvon, Perezvon!”

“Nothing will make him get up, nothing!” Kolya cried triumphantly, proud of his success. “He won’t move for all the shouting in the world, but if I call to him, he’ll jump up in a minute. Ici, Perezvon!” The dog leapt up and bounded about, whining with delight. The captain ran back with a piece of cooked beef.

“Is it hot?” Kolya inquired hurriedly, with a business‐like air, taking the meat. “Dogs don’t like hot things. No, it’s all right. Look, everybody, look, Ilusha, look, old man; why aren’t you looking? He does not look at him, now I’ve brought him.”

The new trick consisted in making the dog stand motionless with his nose out and putting a tempting morsel of meat just on his nose. The luckless dog had to stand without moving, with the meat on his nose, as long as his master chose to keep him, without a movement, perhaps for half an hour. But he kept Perezvon only for a brief moment.

“Paid for!” cried Kolya, and the meat passed in a flash from the dog’s nose to his mouth. The audience, of course, expressed enthusiasm and surprise.

“Can you really have put off coming all this time simply to train the dog?” exclaimed Alyosha, with an involuntary note of reproach in his voice.

“Simply for that!” answered Kolya, with perfect simplicity. “I wanted to show him in all his glory.”

“Perezvon! Perezvon,” called Ilusha suddenly, snapping his thin fingers and beckoning to the dog.

“What is it? Let him jump up on the bed! Ici, Perezvon!” Kolya slapped the bed and Perezvon darted up by Ilusha. The boy threw both arms round his head and Perezvon instantly licked his cheek. Ilusha crept close to him, stretched himself out in bed and hid his face in the dog’s shaggy coat.

“Dear, dear!” kept exclaiming the captain. Kolya sat down again on the edge of the bed.

“Ilusha, I can show you another trick. I’ve brought you a little cannon. You remember, I told you about it before and you said how much you’d like to see it. Well, here, I’ve brought it to you.”

And Kolya hurriedly pulled out of his satchel the little bronze cannon. He hurried, because he was happy himself. Another time he would have waited till the sensation made by Perezvon had passed off, now he hurried on regardless of all consideration. “You are all happy now,” he felt, “so here’s something to make you happier!” He was perfectly enchanted himself.

“I’ve been coveting this thing for a long while; it’s for you, old man, it’s for you. It belonged to Morozov, it was no use to him, he had it from his brother. I swopped a book from father’s book‐case for it, A Kinsman of Mahomet or Salutary Folly, a scandalous book published in Moscow a hundred years ago, before they had any censorship. And Morozov has a taste for such things. He was grateful to me, too….”

Kolya held the cannon in his hand so that all could see and admire it. Ilusha raised himself, and, with his right arm still round the dog, he gazed enchanted at the toy. The sensation was even greater when Kolya announced that he had gunpowder too, and that it could be fired off at once “if it won’t alarm the ladies.” “Mamma” immediately asked to look at the toy closer and her request was granted. She was much pleased with the little bronze cannon on wheels and began rolling it to and fro on her lap. She readily gave permission for the cannon to be fired, without any idea of what she had been asked. Kolya showed the powder and the shot. The captain, as a military man, undertook to load it, putting in a minute quantity of powder. He asked that the shot might be put off till another time. The cannon was put on the floor, aiming towards an empty part of the room, three grains of powder were thrust into the touch‐hole and a match was put to it. A magnificent explosion followed. Mamma was startled, but at once laughed with delight. The boys gazed in speechless triumph. But the captain, looking at Ilusha, was more enchanted than any of them. Kolya picked up the cannon and immediately presented it to Ilusha, together with the powder and the shot.

“I got it for you, for you! I’ve been keeping it for you a long time,” he repeated once more in his delight.

“Oh, give it to me! No, give me the cannon!” mamma began begging like a little child. Her face showed a piteous fear that she would not get it. Kolya was disconcerted. The captain fidgeted uneasily.

“Mamma, mamma,” he ran to her, “the cannon’s yours, of course, but let Ilusha have it, because it’s a present to him, but it’s just as good as yours. Ilusha will always let you play with it; it shall belong to both of you, both of you.”

“No, I don’t want it to belong to both of us, I want it to be mine altogether, not Ilusha’s,” persisted mamma, on the point of tears.

“Take it, mother, here, keep it!” Ilusha cried. “Krassotkin, may I give it to my mother?” he turned to Krassotkin with an imploring face, as though he were afraid he might be offended at his giving his present to some one else.

“Of course you may,” Krassotkin assented heartily, and, taking the cannon from Ilusha, he handed it himself to mamma with a polite bow. She was so touched that she cried.

“Ilusha, darling, he’s the one who loves his mamma!” she said tenderly, and at once began wheeling the cannon to and fro on her lap again.

“Mamma, let me kiss your hand.” The captain darted up to her at once and did so.

“And I never saw such a charming fellow as this nice boy,” said the grateful lady, pointing to Krassotkin.

“And I’ll bring you as much powder as you like, Ilusha. We make the powder ourselves now. Borovikov found out how it’s made—twenty‐four parts of saltpeter, ten of sulphur and six of birchwood charcoal. It’s all pounded together, mixed into a paste with water and rubbed through a tammy sieve—that’s how it’s done.”

“Smurov told me about your powder, only father says it’s not real gunpowder,” responded Ilusha.

“Not real?” Kolya flushed. “It burns. I don’t know, of course.”

“No, I didn’t mean that,” put in the captain with a guilty face. “I only said that real powder is not made like that, but that’s nothing, it can be made so.”

“I don’t know, you know best. We lighted some in a pomatum pot, it burned splendidly, it all burnt away leaving only a tiny ash. But that was only the paste, and if you rub it through … but of course you know best, I don’t know…. And Bulkin’s father thrashed him on account of our powder, did you hear?” he turned to Ilusha.

“Yes,” answered Ilusha. He listened to Kolya with immense interest and enjoyment.

“We had prepared a whole bottle of it and he used to keep it under his bed. His father saw it. He said it might explode, and thrashed him on the spot. He was going to make a complaint against me to the masters. He is not allowed to go about with me now, no one is allowed to go about with me now. Smurov is not allowed to either, I’ve got a bad name with every one. They say I’m a ‘desperate character,’ ” Kolya smiled scornfully. “It all began from what happened on the railway.”

“Ah, we’ve heard of that exploit of yours, too,” cried the captain. “How could you lie still on the line? Is it possible you weren’t the least afraid, lying there under the train? Weren’t you frightened?”

The captain was abject in his flattery of Kolya.

“N—not particularly,” answered Kolya carelessly. “What’s blasted my reputation more than anything here was that cursed goose,” he said, turning again to Ilusha. But though he assumed an unconcerned air as he talked, he still could not control himself and was continually missing the note he tried to keep up.

“Ah! I heard about the goose!” Ilusha laughed, beaming all over. “They told me, but I didn’t understand. Did they really take you to the court?”

“The most stupid, trivial affair, they made a mountain of a molehill as they always do,” Kolya began carelessly. “I was walking through the market‐place here one day, just when they’d driven in the geese. I stopped and looked at them. All at once a fellow, who is an errand‐boy at Plotnikov’s now, looked at me and said, ‘What are you looking at the geese for?’ I looked at him; he was a stupid, moon‐faced fellow of twenty. I am always on the side of the peasantry, you know. I like talking to the peasants…. We’ve dropped behind the peasants—that’s an axiom. I believe you are laughing, Karamazov?”

“No, Heaven forbid, I am listening,” said Alyosha with a most good‐natured air, and the sensitive Kolya was immediately reassured.

“My theory, Karamazov, is clear and simple,” he hurried on again, looking pleased. “I believe in the people and am always glad to give them their due, but I am not for spoiling them, that is a sine qua non … But I was telling you about the goose. So I turned to the fool and answered, ‘I am wondering what the goose thinks about.’ He looked at me quite stupidly, ‘And what does the goose think about?’ he asked. ‘Do you see that cart full of oats?’ I said. ‘The oats are dropping out of the sack, and the goose has put its neck right under the wheel to gobble them up—do you see?’ ‘I see that quite well,’ he said. ‘Well,’ said I, ‘if that cart were to move on a little, would it break the goose’s neck or not?’ ‘It’d be sure to break it,’ and he grinned all over his face, highly delighted. ‘Come on, then,’ said I, ‘let’s try.’ ‘Let’s,’ he said. And it did not take us long to arrange: he stood at the bridle without being noticed, and I stood on one side to direct the goose. And the owner wasn’t looking, he was talking to some one, so I had nothing to do, the goose thrust its head in after the oats of itself, under the cart, just under the wheel. I winked at the lad, he tugged at the bridle, and crack. The goose’s neck was broken in half. And, as luck would have it, all the peasants saw us at that moment and they kicked up a shindy at once. ‘You did that on purpose!’ ‘No, not on purpose.’ ‘Yes, you did, on purpose!’ Well, they shouted, ‘Take him to the justice of the peace!’ They took me, too. ‘You were there, too,’ they said, ‘you helped, you’re known all over the market!’ And, for some reason, I really am known all over the market,” Kolya added conceitedly. “We all went off to the justice’s, they brought the goose, too. The fellow was crying in a great funk, simply blubbering like a woman. And the farmer kept shouting that you could kill any number of geese like that. Well, of course, there were witnesses. The justice of the peace settled it in a minute, that the farmer was to be paid a rouble for the goose, and the fellow to have the goose. And he was warned not to play such pranks again. And the fellow kept blubbering like a woman. ‘It wasn’t me,’ he said, ‘it was he egged me on,’ and he pointed to me. I answered with the utmost composure that I hadn’t egged him on, that I simply stated the general proposition, had spoken hypothetically. The justice of the peace smiled and was vexed with himself at once for having smiled. ‘I’ll complain to your masters of you, so that for the future you mayn’t waste your time on such general propositions, instead of sitting at your books and learning your lessons.’ He didn’t complain to the masters, that was a joke, but the matter was noised abroad and came to the ears of the masters. Their ears are long, you know! The classical master, Kolbasnikov, was particularly shocked about it, but Dardanelov got me off again. But Kolbasnikov is savage with every one now like a green ass. Did you know, Ilusha, he is just married, got a dowry of a thousand roubles, and his bride’s a regular fright of the first rank and the last degree. The third‐class fellows wrote an epigram on it:

Astounding news has reached the class,
Kolbasnikov has been an ass.

And so on, awfully funny, I’ll bring it to you later on. I say nothing against Dardanelov, he is a learned man, there’s no doubt about it. I respect men like that and it’s not because he stood up for me.”

“But you took him down about the founders of Troy!” Smurov put in suddenly, unmistakably proud of Krassotkin at such a moment. He was particularly pleased with the story of the goose.

“Did you really take him down?” the captain inquired, in a flattering way. “On the question who founded Troy? We heard of it, Ilusha told me about it at the time.”

“He knows everything, father, he knows more than any of us!” put in Ilusha; “he only pretends to be like that, but really he is top in every subject….”

Ilusha looked at Kolya with infinite happiness.

“Oh, that’s all nonsense about Troy, a trivial matter. I consider this an unimportant question,” said Kolya with haughty humility. He had by now completely recovered his dignity, though he was still a little uneasy. He felt that he was greatly excited and that he had talked about the goose, for instance, with too little reserve, while Alyosha had looked serious and had not said a word all the time. And the vain boy began by degrees to have a rankling fear that Alyosha was silent because he despised him, and thought he was showing off before him. If he dared to think anything like that Kolya would—

“I regard the question as quite a trivial one,” he rapped out again, proudly.

“And I know who founded Troy,” a boy, who had not spoken before, said suddenly, to the surprise of every one. He was silent and seemed to be shy. He was a pretty boy of about eleven, called Kartashov. He was sitting near the door. Kolya looked at him with dignified amazement.

The fact was that the identity of the founders of Troy had become a secret for the whole school, a secret which could only be discovered by reading Smaragdov, and no one had Smaragdov but Kolya. One day, when Kolya’s back was turned, Kartashov hastily opened Smaragdov, which lay among Kolya’s books, and immediately lighted on the passage relating to the foundation of Troy. This was a good time ago, but he felt uneasy and could not bring himself to announce publicly that he too knew who had founded Troy, afraid of what might happen and of Krassotkin’s somehow putting him to shame over it. But now he couldn’t resist saying it. For weeks he had been longing to.

“Well, who did found it?” asked Kolya, turning to him with haughty superciliousness. He saw from his face that he really did know and at once made up his mind how to take it. There was, so to speak, a discordant note in the general harmony.

“Troy was founded by Teucer, Dardanus, Ilius and Tros,” the boy rapped out at once, and in the same instant he blushed, blushed so, that it was painful to look at him. But the boys stared at him, stared at him for a whole minute, and then all the staring eyes turned at once and were fastened upon Kolya, who was still scanning the audacious boy with disdainful composure.

“In what sense did they found it?” he deigned to comment at last. “And what is meant by founding a city or a state? What do they do? Did they go and each lay a brick, do you suppose?”

There was laughter. The offending boy turned from pink to crimson. He was silent and on the point of tears. Kolya held him so for a minute.

“Before you talk of a historical event like the foundation of a nationality, you must first understand what you mean by it,” he admonished him in stern, incisive tones. “But I attach no consequence to these old wives’ tales and I don’t think much of universal history in general,” he added carelessly, addressing the company generally.

“Universal history?” the captain inquired, looking almost scared.

“Yes, universal history! It’s the study of the successive follies of mankind and nothing more. The only subjects I respect are mathematics and natural science,” said Kolya. He was showing off and he stole a glance at Alyosha; his was the only opinion he was afraid of there. But Alyosha was still silent and still serious as before. If Alyosha had said a word it would have stopped him, but Alyosha was silent and “it might be the silence of contempt,” and that finally irritated Kolya.

“The classical languages, too … they are simply madness, nothing more. You seem to disagree with me again, Karamazov?”

“I don’t agree,” said Alyosha, with a faint smile.

“The study of the classics, if you ask my opinion, is simply a police measure, that’s simply why it has been introduced into our schools.” By degrees Kolya began to get breathless again. “Latin and Greek were introduced because they are a bore and because they stupefy the intellect. It was dull before, so what could they do to make things duller? It was senseless enough before, so what could they do to make it more senseless? So they thought of Greek and Latin. That’s my opinion, I hope I shall never change it,” Kolya finished abruptly. His cheeks were flushed.

“That’s true,” assented Smurov suddenly, in a ringing tone of conviction. He had listened attentively.

“And yet he is first in Latin himself,” cried one of the group of boys suddenly.

“Yes, father, he says that and yet he is first in Latin,” echoed Ilusha.

“What of it?” Kolya thought fit to defend himself, though the praise was very sweet to him. “I am fagging away at Latin because I have to, because I promised my mother to pass my examination, and I think that whatever you do, it’s worth doing it well. But in my soul I have a profound contempt for the classics and all that fraud…. You don’t agree, Karamazov?”

“Why ‘fraud’?” Alyosha smiled again.

“Well, all the classical authors have been translated into all languages, so it was not for the sake of studying the classics they introduced Latin, but solely as a police measure, to stupefy the intelligence. So what can one call it but a fraud?”

“Why, who taught you all this?” cried Alyosha, surprised at last.

“In the first place I am capable of thinking for myself without being taught. Besides, what I said just now about the classics being translated our teacher Kolbasnikov has said to the whole of the third class.”

“The doctor has come!” cried Nina, who had been silent till then.

A carriage belonging to Madame Hohlakov drove up to the gate. The captain, who had been expecting the doctor all the morning, rushed headlong out to meet him. “Mamma” pulled herself together and assumed a dignified air. Alyosha went up to Ilusha and began setting his pillows straight. Nina, from her invalid chair, anxiously watched him putting the bed tidy. The boys hurriedly took leave. Some of them promised to come again in the evening. Kolya called Perezvon and the dog jumped off the bed.

“I won’t go away, I won’t go away,” Kolya said hastily to Ilusha. “I’ll wait in the passage and come back when the doctor’s gone, I’ll come back with Perezvon.”

But by now the doctor had entered, an important‐looking person with long, dark whiskers and a shiny, shaven chin, wearing a bearskin coat. As he crossed the threshold he stopped, taken aback; he probably fancied he had come to the wrong place. “How is this? Where am I?” he muttered, not removing his coat nor his peaked sealskin cap. The crowd, the poverty of the room, the washing hanging on a line in the corner, puzzled him. The captain, bent double, was bowing low before him.

“It’s here, sir, here, sir,” he muttered cringingly; “it’s here, you’ve come right, you were coming to us…”

“Sne‐gi‐ryov?” the doctor said loudly and pompously. “Mr. Snegiryov—is that you?”

“That’s me, sir!”

“Ah!”

The doctor looked round the room with a squeamish air once more and threw off his coat, displaying to all eyes the grand decoration at his neck. The captain caught the fur coat in the air, and the doctor took off his cap.

“Where is the patient?” he asked emphatically.

Chapter VI.
Precocity
“What do you think the doctor will say to him?” Kolya asked quickly. “What a repulsive mug, though, hasn’t he? I can’t endure medicine!”

“Ilusha is dying. I think that’s certain,” answered Alyosha, mournfully.

“They are rogues! Medicine’s a fraud! I am glad to have made your acquaintance, though, Karamazov. I wanted to know you for a long time. I am only sorry we meet in such sad circumstances.”

Kolya had a great inclination to say something even warmer and more demonstrative, but he felt ill at ease. Alyosha noticed this, smiled, and pressed his hand.

“I’ve long learned to respect you as a rare person,” Kolya muttered again, faltering and uncertain. “I have heard you are a mystic and have been in the monastery. I know you are a mystic, but … that hasn’t put me off. Contact with real life will cure you…. It’s always so with characters like yours.”

“What do you mean by mystic? Cure me of what?” Alyosha was rather astonished.

“Oh, God and all the rest of it.”

“What, don’t you believe in God?”

“Oh, I’ve nothing against God. Of course, God is only a hypothesis, but … I admit that He is needed … for the order of the universe and all that … and that if there were no God He would have to be invented,” added Kolya, beginning to blush. He suddenly fancied that Alyosha might think he was trying to show off his knowledge and to prove that he was “grown up.” “I haven’t the slightest desire to show off my knowledge to him,” Kolya thought indignantly. And all of a sudden he felt horribly annoyed.

“I must confess I can’t endure entering on such discussions,” he said with a final air. “It’s possible for one who doesn’t believe in God to love mankind, don’t you think so? Voltaire didn’t believe in God and loved mankind?” (“I am at it again,” he thought to himself.)

“Voltaire believed in God, though not very much, I think, and I don’t think he loved mankind very much either,” said Alyosha quietly, gently, and quite naturally, as though he were talking to some one of his own age, or even older. Kolya was particularly struck by Alyosha’s apparent diffidence about his opinion of Voltaire. He seemed to be leaving the question for him, little Kolya, to settle.

“Have you read Voltaire?” Alyosha finished.

“No, not to say read…. But I’ve read Candide in the Russian translation … in an absurd, grotesque, old translation … (At it again! again!)”

“And did you understand it?”

“Oh, yes, everything…. That is … Why do you suppose I shouldn’t understand it? There’s a lot of nastiness in it, of course…. Of course I can understand that it’s a philosophical novel and written to advocate an idea….” Kolya was getting mixed by now. “I am a Socialist, Karamazov, I am an incurable Socialist,” he announced suddenly, apropos of nothing.

“A Socialist?” laughed Alyosha. “But when have you had time to become one? Why, I thought you were only thirteen?”

Kolya winced.

“In the first place I am not thirteen, but fourteen, fourteen in a fortnight,” he flushed angrily, “and in the second place I am at a complete loss to understand what my age has to do with it? The question is what are my convictions, not what is my age, isn’t it?”

“When you are older, you’ll understand for yourself the influence of age on convictions. I fancied, too, that you were not expressing your own ideas,” Alyosha answered serenely and modestly, but Kolya interrupted him hotly:

“Come, you want obedience and mysticism. You must admit that the Christian religion, for instance, has only been of use to the rich and the powerful to keep the lower classes in slavery. That’s so, isn’t it?”

“Ah, I know where you read that, and I am sure some one told you so!” cried Alyosha.

“I say, what makes you think I read it? And certainly no one told me so. I can think for myself…. I am not opposed to Christ, if you like. He was a most humane person, and if He were alive to‐day, He would be found in the ranks of the revolutionists, and would perhaps play a conspicuous part…. There’s no doubt about that.”

“Oh, where, where did you get that from? What fool have you made friends with?” exclaimed Alyosha.

“Come, the truth will out! It has so chanced that I have often talked to Mr. Rakitin, of course, but … old Byelinsky said that, too, so they say.”

“Byelinsky? I don’t remember. He hasn’t written that anywhere.”

“If he didn’t write it, they say he said it. I heard that from a … but never mind.”

“And have you read Byelinsky?”

“Well, no … I haven’t read all of him, but … I read the passage about Tatyana, why she didn’t go off with Onyegin.”

“Didn’t go off with Onyegin? Surely you don’t … understand that already?”

“Why, you seem to take me for little Smurov,” said Kolya, with a grin of irritation. “But please don’t suppose I am such a revolutionist. I often disagree with Mr. Rakitin. Though I mention Tatyana, I am not at all for the emancipation of women. I acknowledge that women are a subject race and must obey. Les femmes tricottent, as Napoleon said.” Kolya, for some reason, smiled, “And on that question at least I am quite of one mind with that pseudo‐great man. I think, too, that to leave one’s own country and fly to America is mean, worse than mean—silly. Why go to America when one may be of great service to humanity here? Now especially. There’s a perfect mass of fruitful activity open to us. That’s what I answered.”

“What do you mean? Answered whom? Has some one suggested your going to America already?”

“I must own, they’ve been at me to go, but I declined. That’s between ourselves, of course, Karamazov; do you hear, not a word to any one. I say this only to you. I am not at all anxious to fall into the clutches of the secret police and take lessons at the Chain bridge.

Long will you remember
The house at the Chain bridge.

Do you remember? It’s splendid. Why are you laughing? You don’t suppose I am fibbing, do you?” (“What if he should find out that I’ve only that one number of The Bell in father’s bookcase, and haven’t read any more of it?” Kolya thought with a shudder.)

“Oh, no, I am not laughing and don’t suppose for a moment that you are lying. No, indeed, I can’t suppose so, for all this, alas! is perfectly true. But tell me, have you read Pushkin—Onyegin, for instance?… You spoke just now of Tatyana.”

“No, I haven’t read it yet, but I want to read it. I have no prejudices, Karamazov; I want to hear both sides. What makes you ask?”

“Oh, nothing.”

“Tell me, Karamazov, have you an awful contempt for me?” Kolya rapped out suddenly and drew himself up before Alyosha, as though he were on drill. “Be so kind as to tell me, without beating about the bush.”

“I have a contempt for you?” Alyosha looked at him wondering. “What for? I am only sad that a charming nature such as yours should be perverted by all this crude nonsense before you have begun life.”

“Don’t be anxious about my nature,” Kolya interrupted, not without complacency. “But it’s true that I am stupidly sensitive, crudely sensitive. You smiled just now, and I fancied you seemed to—”

“Oh, my smile meant something quite different. I’ll tell you why I smiled. Not long ago I read the criticism made by a German who had lived in Russia, on our students and schoolboys of to‐day. ‘Show a Russian schoolboy,’ he writes, ‘a map of the stars, which he knows nothing about, and he will give you back the map next day with corrections on it.’ No knowledge and unbounded conceit—that’s what the German meant to say about the Russian schoolboy.”

“Yes, that’s perfectly right,” Kolya laughed suddenly, “exactly so! Bravo the German! But he did not see the good side, what do you think? Conceit may be, that comes from youth, that will be corrected if need be, but, on the other hand, there is an independent spirit almost from childhood, boldness of thought and conviction, and not the spirit of these sausage makers, groveling before authority…. But the German was right all the same. Bravo the German! But Germans want strangling all the same. Though they are so good at science and learning they must be strangled.”

“Strangled, what for?” smiled Alyosha.

“Well, perhaps I am talking nonsense, I agree. I am awfully childish sometimes, and when I am pleased about anything I can’t restrain myself and am ready to talk any stuff. But, I say, we are chattering away here about nothing, and that doctor has been a long time in there. But perhaps he’s examining the mamma and that poor crippled Nina. I liked that Nina, you know. She whispered to me suddenly as I was coming away, ‘Why didn’t you come before?’ And in such a voice, so reproachfully! I think she is awfully nice and pathetic.”

“Yes, yes! Well, you’ll be coming often, you will see what she is like. It would do you a great deal of good to know people like that, to learn to value a great deal which you will find out from knowing these people,” Alyosha observed warmly. “That would have more effect on you than anything.”

“Oh, how I regret and blame myself for not having come sooner!” Kolya exclaimed, with bitter feeling.

“Yes, it’s a great pity. You saw for yourself how delighted the poor child was to see you. And how he fretted for you to come!”

“Don’t tell me! You make it worse! But it serves me right. What kept me from coming was my conceit, my egoistic vanity, and the beastly wilfullness, which I never can get rid of, though I’ve been struggling with it all my life. I see that now. I am a beast in lots of ways, Karamazov!”

“No, you have a charming nature, though it’s been distorted, and I quite understand why you have had such an influence on this generous, morbidly sensitive boy,” Alyosha answered warmly.

“And you say that to me!” cried Kolya; “and would you believe it, I thought—I’ve thought several times since I’ve been here—that you despised me! If only you knew how I prize your opinion!”

“But are you really so sensitive? At your age! Would you believe it, just now, when you were telling your story, I thought, as I watched you, that you must be very sensitive!”

“You thought so? What an eye you’ve got, I say! I bet that was when I was talking about the goose. That was just when I was fancying you had a great contempt for me for being in such a hurry to show off, and for a moment I quite hated you for it, and began talking like a fool. Then I fancied—just now, here—when I said that if there were no God He would have to be invented, that I was in too great a hurry to display my knowledge, especially as I got that phrase out of a book. But I swear I wasn’t showing off out of vanity, though I really don’t know why. Because I was so pleased? Yes, I believe it was because I was so pleased … though it’s perfectly disgraceful for any one to be gushing directly they are pleased, I know that. But I am convinced now that you don’t despise me; it was all my imagination. Oh, Karamazov, I am profoundly unhappy. I sometimes fancy all sorts of things, that every one is laughing at me, the whole world, and then I feel ready to overturn the whole order of things.”

“And you worry every one about you,” smiled Alyosha.

“Yes, I worry every one about me, especially my mother. Karamazov, tell me, am I very ridiculous now?”

“Don’t think about that, don’t think of it at all!” cried Alyosha. “And what does ridiculous mean? Isn’t every one constantly being or seeming ridiculous? Besides, nearly all clever people now are fearfully afraid of being ridiculous, and that makes them unhappy. All I am surprised at is that you should be feeling that so early, though I’ve observed it for some time past, and not only in you. Nowadays the very children have begun to suffer from it. It’s almost a sort of insanity. The devil has taken the form of that vanity and entered into the whole generation; it’s simply the devil,” added Alyosha, without a trace of the smile that Kolya, staring at him, expected to see. “You are like every one else,” said Alyosha, in conclusion, “that is, like very many others. Only you must not be like everybody else, that’s all.”

“Even if every one is like that?”

“Yes, even if every one is like that. You be the only one not like it. You really are not like every one else, here you are not ashamed to confess to something bad and even ridiculous. And who will admit so much in these days? No one. And people have even ceased to feel the impulse to self‐ criticism. Don’t be like every one else, even if you are the only one.”

“Splendid! I was not mistaken in you. You know how to console one. Oh, how I have longed to know you, Karamazov! I’ve long been eager for this meeting. Can you really have thought about me, too? You said just now that you thought of me, too?”

“Yes, I’d heard of you and had thought of you, too … and if it’s partly vanity that makes you ask, it doesn’t matter.”

“Do you know, Karamazov, our talk has been like a declaration of love,” said Kolya, in a bashful and melting voice. “That’s not ridiculous, is it?”

“Not at all ridiculous, and if it were, it wouldn’t matter, because it’s been a good thing.” Alyosha smiled brightly.

“But do you know, Karamazov, you must admit that you are a little ashamed yourself, now…. I see it by your eyes.” Kolya smiled with a sort of sly happiness.

“Why ashamed?”

“Well, why are you blushing?”

“It was you made me blush,” laughed Alyosha, and he really did blush. “Oh, well, I am a little, goodness knows why, I don’t know…” he muttered, almost embarrassed.

“Oh, how I love you and admire you at this moment just because you are rather ashamed! Because you are just like me,” cried Kolya, in positive ecstasy. His cheeks glowed, his eyes beamed.

“You know, Kolya, you will be very unhappy in your life,” something made Alyosha say suddenly.

“I know, I know. How you know it all beforehand!” Kolya agreed at once.

“But you will bless life on the whole, all the same.”

“Just so, hurrah! You are a prophet. Oh, we shall get on together, Karamazov! Do you know, what delights me most, is that you treat me quite like an equal. But we are not equals, no, we are not, you are better! But we shall get on. Do you know, all this last month, I’ve been saying to myself, ‘Either we shall be friends at once, for ever, or we shall part enemies to the grave!’ ”

“And saying that, of course, you loved me,” Alyosha laughed gayly.

“I did. I loved you awfully. I’ve been loving and dreaming of you. And how do you know it all beforehand? Ah, here’s the doctor. Goodness! What will he tell us? Look at his face!”

Chapter VII.
Ilusha
The doctor came out of the room again, muffled in his fur coat and with his cap on his head. His face looked almost angry and disgusted, as though he were afraid of getting dirty. He cast a cursory glance round the passage, looking sternly at Alyosha and Kolya as he did so. Alyosha waved from the door to the coachman, and the carriage that had brought the doctor drove up. The captain darted out after the doctor, and, bowing apologetically, stopped him to get the last word. The poor fellow looked utterly crushed; there was a scared look in his eyes.

“Your Excellency, your Excellency … is it possible?” he began, but could not go on and clasped his hands in despair. Yet he still gazed imploringly at the doctor, as though a word from him might still change the poor boy’s fate.

“I can’t help it, I am not God!” the doctor answered offhand, though with the customary impressiveness.

“Doctor … your Excellency … and will it be soon, soon?”

“You must be prepared for anything,” said the doctor in emphatic and incisive tones, and dropping his eyes, he was about to step out to the coach.

“Your Excellency, for Christ’s sake!” the terror‐stricken captain stopped him again. “Your Excellency! but can nothing, absolutely nothing save him now?”

“It’s not in my hands now,” said the doctor impatiently, “but h’m!…” he stopped suddenly. “If you could, for instance … send … your patient … at once, without delay” (the words “at once, without delay,” the doctor uttered with an almost wrathful sternness that made the captain start) “to Syracuse, the change to the new be‐ne‐ficial climatic conditions might possibly effect—”

“To Syracuse!” cried the captain, unable to grasp what was said.

“Syracuse is in Sicily,” Kolya jerked out suddenly in explanation. The doctor looked at him.

“Sicily! your Excellency,” faltered the captain, “but you’ve seen”—he spread out his hands, indicating his surroundings—“mamma and my family?”

“N—no, Sicily is not the place for the family, the family should go to Caucasus in the early spring … your daughter must go to the Caucasus, and your wife … after a course of the waters in the Caucasus for her rheumatism … must be sent straight to Paris to the mental specialist Lepelletier; I could give you a note to him, and then … there might be a change—”

“Doctor, doctor! But you see!” The captain flung wide his hands again despairingly, indicating the bare wooden walls of the passage.

“Well, that’s not my business,” grinned the doctor. “I have only told you the answer of medical science to your question as to possible treatment. As for the rest, to my regret—”

“Don’t be afraid, apothecary, my dog won’t bite you,” Kolya rapped out loudly, noticing the doctor’s rather uneasy glance at Perezvon, who was standing in the doorway. There was a wrathful note in Kolya’s voice. He used the word apothecary instead of doctor on purpose, and, as he explained afterwards, used it “to insult him.”

“What’s that?” The doctor flung up his head, staring with surprise at Kolya. “Who’s this?” he addressed Alyosha, as though asking him to explain.

“It’s Perezvon’s master, don’t worry about me,” Kolya said incisively again.

“Perezvon?”[7] repeated the doctor, perplexed.

“He hears the bell, but where it is he cannot tell. Good‐by, we shall meet in Syracuse.”

“Who’s this? Who’s this?” The doctor flew into a terrible rage.

“He is a schoolboy, doctor, he is a mischievous boy; take no notice of him,” said Alyosha, frowning and speaking quickly. “Kolya, hold your tongue!” he cried to Krassotkin. “Take no notice of him, doctor,” he repeated, rather impatiently.

“He wants a thrashing, a good thrashing!” The doctor stamped in a perfect fury.

“And you know, apothecary, my Perezvon might bite!” said Kolya, turning pale, with quivering voice and flashing eyes. “Ici, Perezvon!”

“Kolya, if you say another word, I’ll have nothing more to do with you,” Alyosha cried peremptorily.

“There is only one man in the world who can command Nikolay Krassotkin—this is the man”; Kolya pointed to Alyosha. “I obey him, good‐ by!”

He stepped forward, opened the door, and quickly went into the inner room. Perezvon flew after him. The doctor stood still for five seconds in amazement, looking at Alyosha; then, with a curse, he went out quickly to the carriage, repeating aloud, “This is … this is … I don’t know what it is!” The captain darted forward to help him into the carriage. Alyosha followed Kolya into the room. He was already by Ilusha’s bedside. The sick boy was holding his hand and calling for his father. A minute later the captain, too, came back.

“Father, father, come … we …” Ilusha faltered in violent excitement, but apparently unable to go on, he flung his wasted arms round his father and Kolya, uniting them in one embrace, and hugging them as tightly as he could. The captain suddenly began to shake with dumb sobs, and Kolya’s lips and chin twitched.

“Father, father! How sorry I am for you!” Ilusha moaned bitterly.

“Ilusha … darling … the doctor said … you would be all right … we shall be happy … the doctor …” the captain began.

“Ah, father! I know what the new doctor said to you about me…. I saw!” cried Ilusha, and again he hugged them both with all his strength, hiding his face on his father’s shoulder.

“Father, don’t cry, and when I die get a good boy, another one … choose one of them all, a good one, call him Ilusha and love him instead of me….”

“Hush, old man, you’ll get well,” Krassotkin cried suddenly, in a voice that sounded angry.

“But don’t ever forget me, father,” Ilusha went on, “come to my grave … and, father, bury me by our big stone, where we used to go for our walk, and come to me there with Krassotkin in the evening … and Perezvon … I shall expect you…. Father, father!”

His voice broke. They were all three silent, still embracing. Nina was crying quietly in her chair, and at last seeing them all crying, “mamma,” too, burst into tears.

“Ilusha! Ilusha!” she exclaimed.

Krassotkin suddenly released himself from Ilusha’s embrace.

“Good‐by, old man, mother expects me back to dinner,” he said quickly. “What a pity I did not tell her! She will be dreadfully anxious…. But after dinner I’ll come back to you for the whole day, for the whole evening, and I’ll tell you all sorts of things, all sorts of things. And I’ll bring Perezvon, but now I will take him with me, because he will begin to howl when I am away and bother you. Good‐by!”

And he ran out into the passage. He didn’t want to cry, but in the passage he burst into tears. Alyosha found him crying.

“Kolya, you must be sure to keep your word and come, or he will be terribly disappointed,” Alyosha said emphatically.

“I will! Oh, how I curse myself for not having come before!” muttered Kolya, crying, and no longer ashamed of it.

At that moment the captain flew out of the room, and at once closed the door behind him. His face looked frenzied, his lips were trembling. He stood before the two and flung up his arms.

“I don’t want a good boy! I don’t want another boy!” he muttered in a wild whisper, clenching his teeth. “If I forget thee, Jerusalem, may my tongue—” He broke off with a sob and sank on his knees before the wooden bench. Pressing his fists against his head, he began sobbing with absurd whimpering cries, doing his utmost that his cries should not be heard in the room.

Kolya ran out into the street.

“Good‐by, Karamazov? Will you come yourself?” he cried sharply and angrily to Alyosha.

“I will certainly come in the evening.”

“What was that he said about Jerusalem?… What did he mean by that?”

“It’s from the Bible. ‘If I forget thee, Jerusalem,’ that is, if I forget all that is most precious to me, if I let anything take its place, then may—”

“I understand, that’s enough! Mind you come! Ici, Perezvon!” he cried with positive ferocity to the dog, and with rapid strides he went home.

Book XI. Ivan
Chapter I.
At Grushenka’s
Alyosha went towards the cathedral square to the widow Morozov’s house to see Grushenka, who had sent Fenya to him early in the morning with an urgent message begging him to come. Questioning Fenya, Alyosha learned that her mistress had been particularly distressed since the previous day. During the two months that had passed since Mitya’s arrest, Alyosha had called frequently at the widow Morozov’s house, both from his own inclination and to take messages for Mitya. Three days after Mitya’s arrest, Grushenka was taken very ill and was ill for nearly five weeks. For one whole week she was unconscious. She was very much changed—thinner and a little sallow, though she had for the past fortnight been well enough to go out. But to Alyosha her face was even more attractive than before, and he liked to meet her eyes when he went in to her. A look of firmness and intelligent purpose had developed in her face. There were signs of a spiritual transformation in her, and a steadfast, fine and humble determination that nothing could shake could be discerned in her. There was a small vertical line between her brows which gave her charming face a look of concentrated thought, almost austere at the first glance. There was scarcely a trace of her former frivolity.

It seemed strange to Alyosha, too, that in spite of the calamity that had overtaken the poor girl, betrothed to a man who had been arrested for a terrible crime, almost at the instant of their betrothal, in spite of her illness and the almost inevitable sentence hanging over Mitya, Grushenka had not yet lost her youthful cheerfulness. There was a soft light in the once proud eyes, though at times they gleamed with the old vindictive fire when she was visited by one disturbing thought stronger than ever in her heart. The object of that uneasiness was the same as ever—Katerina Ivanovna, of whom Grushenka had even raved when she lay in delirium. Alyosha knew that she was fearfully jealous of her. Yet Katerina Ivanovna had not once visited Mitya in his prison, though she might have done it whenever she liked. All this made a difficult problem for Alyosha, for he was the only person to whom Grushenka opened her heart and from whom she was continually asking advice. Sometimes he was unable to say anything.

Full of anxiety he entered her lodging. She was at home. She had returned from seeing Mitya half an hour before, and from the rapid movement with which she leapt up from her chair to meet him he saw that she had been expecting him with great impatience. A pack of cards dealt for a game of “fools” lay on the table. A bed had been made up on the leather sofa on the other side and Maximov lay, half‐reclining, on it. He wore a dressing‐ gown and a cotton nightcap, and was evidently ill and weak, though he was smiling blissfully. When the homeless old man returned with Grushenka from Mokroe two months before, he had simply stayed on and was still staying with her. He arrived with her in rain and sleet, sat down on the sofa, drenched and scared, and gazed mutely at her with a timid, appealing smile. Grushenka, who was in terrible grief and in the first stage of fever, almost forgot his existence in all she had to do the first half‐ hour after her arrival. Suddenly she chanced to look at him intently: he laughed a pitiful, helpless little laugh. She called Fenya and told her to give him something to eat. All that day he sat in the same place, almost without stirring. When it got dark and the shutters were closed, Fenya asked her mistress:

“Is the gentleman going to stay the night, mistress?”

“Yes; make him a bed on the sofa,” answered Grushenka.

Questioning him more in detail, Grushenka learned from him that he had literally nowhere to go, and that “Mr. Kalganov, my benefactor, told me straight that he wouldn’t receive me again and gave me five roubles.”

“Well, God bless you, you’d better stay, then,” Grushenka decided in her grief, smiling compassionately at him. Her smile wrung the old man’s heart and his lips twitched with grateful tears. And so the destitute wanderer had stayed with her ever since. He did not leave the house even when she was ill. Fenya and her grandmother, the cook, did not turn him out, but went on serving him meals and making up his bed on the sofa. Grushenka had grown used to him, and coming back from seeing Mitya (whom she had begun to visit in prison before she was really well) she would sit down and begin talking to “Maximushka” about trifling matters, to keep her from thinking of her sorrow. The old man turned out to be a good story‐teller on occasions, so that at last he became necessary to her. Grushenka saw scarcely any one else beside Alyosha, who did not come every day and never stayed long. Her old merchant lay seriously ill at this time, “at his last gasp” as they said in the town, and he did, in fact, die a week after Mitya’s trial. Three weeks before his death, feeling the end approaching, he made his sons, their wives and children, come upstairs to him at last and bade them not leave him again. From that moment he gave strict orders to his servants not to admit Grushenka and to tell her if she came, “The master wishes you long life and happiness and tells you to forget him.” But Grushenka sent almost every day to inquire after him.

“You’ve come at last!” she cried, flinging down the cards and joyfully greeting Alyosha, “and Maximushka’s been scaring me that perhaps you wouldn’t come. Ah, how I need you! Sit down to the table. What will you have—coffee?”

“Yes, please,” said Alyosha, sitting down at the table. “I am very hungry.”

“That’s right. Fenya, Fenya, coffee,” cried Grushenka. “It’s been made a long time ready for you. And bring some little pies, and mind they are hot. Do you know, we’ve had a storm over those pies to‐day. I took them to the prison for him, and would you believe it, he threw them back to me: he would not eat them. He flung one of them on the floor and stamped on it. So I said to him: ‘I shall leave them with the warder; if you don’t eat them before evening, it will be that your venomous spite is enough for you!’ With that I went away. We quarreled again, would you believe it? Whenever I go we quarrel.”

Grushenka said all this in one breath in her agitation. Maximov, feeling nervous, at once smiled and looked on the floor.

“What did you quarrel about this time?” asked Alyosha.

“I didn’t expect it in the least. Only fancy, he is jealous of the Pole. ‘Why are you keeping him?’ he said. ‘So you’ve begun keeping him.’ He is jealous, jealous of me all the time, jealous eating and sleeping! He even took it into his head to be jealous of Kuzma last week.”

“But he knew about the Pole before?”

“Yes, but there it is. He has known about him from the very beginning, but to‐day he suddenly got up and began scolding about him. I am ashamed to repeat what he said. Silly fellow! Rakitin went in as I came out. Perhaps Rakitin is egging him on. What do you think?” she added carelessly.

“He loves you, that’s what it is: he loves you so much. And now he is particularly worried.”

“I should think he might be, with the trial to‐morrow. And I went to him to say something about to‐morrow, for I dread to think what’s going to happen then. You say that he is worried, but how worried I am! And he talks about the Pole! He’s too silly! He is not jealous of Maximushka yet, anyway.”

“My wife was dreadfully jealous over me, too,” Maximov put in his word.

“Jealous of you?” Grushenka laughed in spite of herself. “Of whom could she have been jealous?”

“Of the servant girls.”

“Hold your tongue, Maximushka, I am in no laughing mood now; I feel angry. Don’t ogle the pies. I shan’t give you any; they are not good for you, and I won’t give you any vodka either. I have to look after him, too, just as though I kept an almshouse,” she laughed.

“I don’t deserve your kindness. I am a worthless creature,” said Maximov, with tears in his voice. “You would do better to spend your kindness on people of more use than me.”

“Ech, every one is of use, Maximushka, and how can we tell who’s of most use? If only that Pole didn’t exist, Alyosha. He’s taken it into his head to fall ill, too, to‐day. I’ve been to see him also. And I shall send him some pies, too, on purpose. I hadn’t sent him any, but Mitya accused me of it, so now I shall send some! Ah, here’s Fenya with a letter! Yes, it’s from the Poles—begging again!”

Pan Mussyalovitch had indeed sent an extremely long and characteristically eloquent letter in which he begged her to lend him three roubles. In the letter was enclosed a receipt for the sum, with a promise to repay it within three months, signed by Pan Vrublevsky as well. Grushenka had received many such letters, accompanied by such receipts, from her former lover during the fortnight of her convalescence. But she knew that the two Poles had been to ask after her health during her illness. The first letter Grushenka got from them was a long one, written on large notepaper and with a big family crest on the seal. It was so obscure and rhetorical that Grushenka put it down before she had read half, unable to make head or tail of it. She could not attend to letters then. The first letter was followed next day by another in which Pan Mussyalovitch begged her for a loan of two thousand roubles for a very short period. Grushenka left that letter, too, unanswered. A whole series of letters had followed—one every day—all as pompous and rhetorical, but the loan asked for, gradually diminishing, dropped to a hundred roubles, then to twenty‐five, to ten, and finally Grushenka received a letter in which both the Poles begged her for only one rouble and included a receipt signed by both.

Then Grushenka suddenly felt sorry for them, and at dusk she went round herself to their lodging. She found the two Poles in great poverty, almost destitution, without food or fuel, without cigarettes, in debt to their landlady. The two hundred roubles they had carried off from Mitya at Mokroe had soon disappeared. But Grushenka was surprised at their meeting her with arrogant dignity and self‐assertion, with the greatest punctilio and pompous speeches. Grushenka simply laughed, and gave her former admirer ten roubles. Then, laughing, she told Mitya of it and he was not in the least jealous. But ever since, the Poles had attached themselves to Grushenka and bombarded her daily with requests for money and she had always sent them small sums. And now that day Mitya had taken it into his head to be fearfully jealous.

“Like a fool, I went round to him just for a minute, on the way to see Mitya, for he is ill, too, my Pole,” Grushenka began again with nervous haste. “I was laughing, telling Mitya about it. ‘Fancy,’ I said, ‘my Pole had the happy thought to sing his old songs to me to the guitar. He thought I would be touched and marry him!’ Mitya leapt up swearing…. So, there, I’ll send them the pies! Fenya, is it that little girl they’ve sent? Here, give her three roubles and pack a dozen pies up in a paper and tell her to take them. And you, Alyosha, be sure to tell Mitya that I did send them the pies.”

“I wouldn’t tell him for anything,” said Alyosha, smiling.

“Ech! You think he is unhappy about it. Why, he’s jealous on purpose. He doesn’t care,” said Grushenka bitterly.

“On purpose?” queried Alyosha.

“I tell you you are silly, Alyosha. You know nothing about it, with all your cleverness. I am not offended that he is jealous of a girl like me. I would be offended if he were not jealous. I am like that. I am not offended at jealousy. I have a fierce heart, too. I can be jealous myself. Only what offends me is that he doesn’t love me at all. I tell you he is jealous now on purpose. Am I blind? Don’t I see? He began talking to me just now of that woman, of Katerina, saying she was this and that, how she had ordered a doctor from Moscow for him, to try and save him; how she had ordered the best counsel, the most learned one, too. So he loves her, if he’ll praise her to my face, more shame to him! He’s treated me badly himself, so he attacked me, to make out I am in fault first and to throw it all on me. ‘You were with your Pole before me, so I can’t be blamed for Katerina,’ that’s what it amounts to. He wants to throw the whole blame on me. He attacked me on purpose, on purpose, I tell you, but I’ll—”

Grushenka could not finish saying what she would do. She hid her eyes in her handkerchief and sobbed violently.

“He doesn’t love Katerina Ivanovna,” said Alyosha firmly.

“Well, whether he loves her or not, I’ll soon find out for myself,” said Grushenka, with a menacing note in her voice, taking the handkerchief from her eyes. Her face was distorted. Alyosha saw sorrowfully that from being mild and serene, it had become sullen and spiteful.

“Enough of this foolishness,” she said suddenly; “it’s not for that I sent for you. Alyosha, darling, to‐morrow—what will happen to‐morrow? That’s what worries me! And it’s only me it worries! I look at every one and no one is thinking of it. No one cares about it. Are you thinking about it even? To‐morrow he’ll be tried, you know. Tell me, how will he be tried? You know it’s the valet, the valet killed him! Good heavens! Can they condemn him in place of the valet and will no one stand up for him? They haven’t troubled the valet at all, have they?”

“He’s been severely cross‐examined,” observed Alyosha thoughtfully; “but every one came to the conclusion it was not he. Now he is lying very ill. He has been ill ever since that attack. Really ill,” added Alyosha.

“Oh, dear! couldn’t you go to that counsel yourself and tell him the whole thing by yourself? He’s been brought from Petersburg for three thousand roubles, they say.”

“We gave these three thousand together—Ivan, Katerina Ivanovna and I—but she paid two thousand for the doctor from Moscow herself. The counsel Fetyukovitch would have charged more, but the case has become known all over Russia; it’s talked of in all the papers and journals. Fetyukovitch agreed to come more for the glory of the thing, because the case has become so notorious. I saw him yesterday.”

“Well? Did you talk to him?” Grushenka put in eagerly.

“He listened and said nothing. He told me that he had already formed his opinion. But he promised to give my words consideration.”

“Consideration! Ah, they are swindlers! They’ll ruin him. And why did she send for the doctor?”

“As an expert. They want to prove that Mitya’s mad and committed the murder when he didn’t know what he was doing”; Alyosha smiled gently; “but Mitya won’t agree to that.”

“Yes; but that would be the truth if he had killed him!” cried Grushenka. “He was mad then, perfectly mad, and that was my fault, wretch that I am! But, of course, he didn’t do it, he didn’t do it! And they are all against him, the whole town. Even Fenya’s evidence went to prove he had done it. And the people at the shop, and that official, and at the tavern, too, before, people had heard him say so! They are all, all against him, all crying out against him.”

“Yes, there’s a fearful accumulation of evidence,” Alyosha observed grimly.

“And Grigory—Grigory Vassilyevitch—sticks to his story that the door was open, persists that he saw it—there’s no shaking him. I went and talked to him myself. He’s rude about it, too.”

“Yes, that’s perhaps the strongest evidence against him,” said Alyosha.

“And as for Mitya’s being mad, he certainly seems like it now,” Grushenka began with a peculiarly anxious and mysterious air. “Do you know, Alyosha, I’ve been wanting to talk to you about it for a long time. I go to him every day and simply wonder at him. Tell me, now, what do you suppose he’s always talking about? He talks and talks and I can make nothing of it. I fancied he was talking of something intellectual that I couldn’t understand in my foolishness. Only he suddenly began talking to me about a babe—that is, about some child. ‘Why is the babe poor?’ he said. ‘It’s for that babe I am going to Siberia now. I am not a murderer, but I must go to Siberia!’ What that meant, what babe, I couldn’t tell for the life of me. Only I cried when he said it, because he said it so nicely. He cried himself, and I cried, too. He suddenly kissed me and made the sign of the cross over me. What did it mean, Alyosha, tell me? What is this babe?”

“It must be Rakitin, who’s been going to see him lately,” smiled Alyosha, “though … that’s not Rakitin’s doing. I didn’t see Mitya yesterday. I’ll see him to‐day.”

“No, it’s not Rakitin; it’s his brother Ivan Fyodorovitch upsetting him. It’s his going to see him, that’s what it is,” Grushenka began, and suddenly broke off. Alyosha gazed at her in amazement.

“Ivan’s going? Has he been to see him? Mitya told me himself that Ivan hasn’t been once.”

“There … there! What a girl I am! Blurting things out!” exclaimed Grushenka, confused and suddenly blushing. “Stay, Alyosha, hush! Since I’ve said so much I’ll tell the whole truth—he’s been to see him twice, the first directly he arrived. He galloped here from Moscow at once, of course, before I was taken ill; and the second time was a week ago. He told Mitya not to tell you about it, under any circumstances; and not to tell any one, in fact. He came secretly.”

Alyosha sat plunged in thought, considering something. The news evidently impressed him.

“Ivan doesn’t talk to me of Mitya’s case,” he said slowly. “He’s said very little to me these last two months. And whenever I go to see him, he seems vexed at my coming, so I’ve not been to him for the last three weeks. H’m!… if he was there a week ago … there certainly has been a change in Mitya this week.”

“There has been a change,” Grushenka assented quickly. “They have a secret, they have a secret! Mitya told me himself there was a secret, and such a secret that Mitya can’t rest. Before then, he was cheerful—and, indeed, he is cheerful now—but when he shakes his head like that, you know, and strides about the room and keeps pulling at the hair on his right temple with his right hand, I know there is something on his mind worrying him…. I know! He was cheerful before, though, indeed, he is cheerful to‐day.”

“But you said he was worried.”

“Yes, he is worried and yet cheerful. He keeps on being irritable for a minute and then cheerful and then irritable again. And you know, Alyosha, I am constantly wondering at him—with this awful thing hanging over him, he sometimes laughs at such trifles as though he were a baby himself.”

“And did he really tell you not to tell me about Ivan? Did he say, ‘Don’t tell him’?”

“Yes, he told me, ‘Don’t tell him.’ It’s you that Mitya’s most afraid of. Because it’s a secret: he said himself it was a secret. Alyosha, darling, go to him and find out what their secret is and come and tell me,” Grushenka besought him with sudden eagerness. “Set my mind at rest that I may know the worst that’s in store for me. That’s why I sent for you.”

“You think it’s something to do with you? If it were, he wouldn’t have told you there was a secret.”

“I don’t know. Perhaps he wants to tell me, but doesn’t dare to. He warns me. There is a secret, he tells me, but he won’t tell me what it is.”

“What do you think yourself?”

“What do I think? It’s the end for me, that’s what I think. They all three have been plotting my end, for Katerina’s in it. It’s all Katerina, it all comes from her. She is this and that, and that means that I am not. He tells me that beforehand—warns me. He is planning to throw me over, that’s the whole secret. They’ve planned it together, the three of them—Mitya, Katerina, and Ivan Fyodorovitch. Alyosha, I’ve been wanting to ask you a long time. A week ago he suddenly told me that Ivan was in love with Katerina, because he often goes to see her. Did he tell me the truth or not? Tell me, on your conscience, tell me the worst.”

“I won’t tell you a lie. Ivan is not in love with Katerina Ivanovna, I think.”

“Oh, that’s what I thought! He is lying to me, shameless deceiver, that’s what it is! And he was jealous of me just now, so as to put the blame on me afterwards. He is stupid, he can’t disguise what he is doing; he is so open, you know…. But I’ll give it to him, I’ll give it to him! ‘You believe I did it,’ he said. He said that to me, to me. He reproached me with that! God forgive him! You wait, I’ll make it hot for Katerina at the trial! I’ll just say a word then … I’ll tell everything then!”

And again she cried bitterly.

“This I can tell you for certain, Grushenka,” Alyosha said, getting up. “First, that he loves you, loves you more than any one in the world, and you only, believe me. I know. I do know. The second thing is that I don’t want to worm his secret out of him, but if he’ll tell me of himself to‐ day, I shall tell him straight out that I have promised to tell you. Then I’ll come to you to‐day, and tell you. Only … I fancy … Katerina Ivanovna has nothing to do with it, and that the secret is about something else. That’s certain. It isn’t likely it’s about Katerina Ivanovna, it seems to me. Good‐by for now.”

Alyosha shook hands with her. Grushenka was still crying. He saw that she put little faith in his consolation, but she was better for having had her sorrow out, for having spoken of it. He was sorry to leave her in such a state of mind, but he was in haste. He had a great many things to do still.

Chapter II.
The Injured Foot
The first of these things was at the house of Madame Hohlakov, and he hurried there to get it over as quickly as possible and not be too late for Mitya. Madame Hohlakov had been slightly ailing for the last three weeks: her foot had for some reason swollen up, and though she was not in bed, she lay all day half‐reclining on the couch in her boudoir, in a fascinating but decorous déshabillé. Alyosha had once noted with innocent amusement that, in spite of her illness, Madame Hohlakov had begun to be rather dressy—top‐knots, ribbons, loose wrappers, had made their appearance, and he had an inkling of the reason, though he dismissed such ideas from his mind as frivolous. During the last two months the young official, Perhotin, had become a regular visitor at the house.

Alyosha had not called for four days and he was in haste to go straight to Lise, as it was with her he had to speak, for Lise had sent a maid to him the previous day, specially asking him to come to her “about something very important,” a request which, for certain reasons, had interest for Alyosha. But while the maid went to take his name in to Lise, Madame Hohlakov heard of his arrival from some one, and immediately sent to beg him to come to her “just for one minute.” Alyosha reflected that it was better to accede to the mamma’s request, or else she would be sending down to Lise’s room every minute that he was there. Madame Hohlakov was lying on a couch. She was particularly smartly dressed and was evidently in a state of extreme nervous excitement. She greeted Alyosha with cries of rapture.

“It’s ages, ages, perfect ages since I’ve seen you! It’s a whole week—only think of it! Ah, but you were here only four days ago, on Wednesday. You have come to see Lise. I’m sure you meant to slip into her room on tiptoe, without my hearing you. My dear, dear Alexey Fyodorovitch, if you only knew how worried I am about her! But of that later, though that’s the most important thing, of that later. Dear Alexey Fyodorovitch, I trust you implicitly with my Lise. Since the death of Father Zossima—God rest his soul!” (she crossed herself)—“I look upon you as a monk, though you look charming in your new suit. Where did you find such a tailor in these parts? No, no, that’s not the chief thing—of that later. Forgive me for sometimes calling you Alyosha; an old woman like me may take liberties,” she smiled coquettishly; “but that will do later, too. The important thing is that I shouldn’t forget what is important. Please remind me of it yourself. As soon as my tongue runs away with me, you just say ‘the important thing?’ Ach! how do I know now what is of most importance? Ever since Lise took back her promise—her childish promise, Alexey Fyodorovitch—to marry you, you’ve realized, of course, that it was only the playful fancy of a sick child who had been so long confined to her chair—thank God, she can walk now!… that new doctor Katya sent for from Moscow for your unhappy brother, who will to‐morrow—But why speak of to‐ morrow? I am ready to die at the very thought of to‐morrow. Ready to die of curiosity…. That doctor was with us yesterday and saw Lise…. I paid him fifty roubles for the visit. But that’s not the point, that’s not the point again. You see, I’m mixing everything up. I am in such a hurry. Why am I in a hurry? I don’t understand. It’s awful how I seem growing unable to understand anything. Everything seems mixed up in a sort of tangle. I am afraid you are so bored you will jump up and run away, and that will be all I shall see of you. Goodness! Why are we sitting here and no coffee? Yulia, Glafira, coffee!”

Alyosha made haste to thank her, and said that he had only just had coffee.

“Where?”

“At Agrafena Alexandrovna’s.”

“At … at that woman’s? Ah, it’s she has brought ruin on every one. I know nothing about it though. They say she has become a saint, though it’s rather late in the day. She had better have done it before. What use is it now? Hush, hush, Alexey Fyodorovitch, for I have so much to say to you that I am afraid I shall tell you nothing. This awful trial … I shall certainly go, I am making arrangements. I shall be carried there in my chair; besides I can sit up. I shall have people with me. And, you know, I am a witness. How shall I speak, how shall I speak? I don’t know what I shall say. One has to take an oath, hasn’t one?”

“Yes; but I don’t think you will be able to go.”

“I can sit up. Ah, you put me out! Ah! this trial, this savage act, and then they are all going to Siberia, some are getting married, and all this so quickly, so quickly, everything’s changing, and at last—nothing. All grow old and have death to look forward to. Well, so be it! I am weary. This Katya, cette charmante personne, has disappointed all my hopes. Now she is going to follow one of your brothers to Siberia, and your other brother is going to follow her, and will live in the nearest town, and they will all torment one another. It drives me out of my mind. Worst of all—the publicity. The story has been told a million times over in all the papers in Moscow and Petersburg. Ah! yes, would you believe it, there’s a paragraph that I was ‘a dear friend’ of your brother’s ——, I can’t repeat the horrid word. Just fancy, just fancy!”

“Impossible! Where was the paragraph? What did it say?”

“I’ll show you directly. I got the paper and read it yesterday. Here, in the Petersburg paper Gossip. The paper began coming out this year. I am awfully fond of gossip, and I take it in, and now it pays me out—this is what gossip comes to! Here it is, here, this passage. Read it.”

And she handed Alyosha a sheet of newspaper which had been under her pillow.

It was not exactly that she was upset, she seemed overwhelmed and perhaps everything really was mixed up in a tangle in her head. The paragraph was very typical, and must have been a great shock to her, but, fortunately perhaps, she was unable to keep her mind fixed on any one subject at that moment, and so might race off in a minute to something else and quite forget the newspaper.

Alyosha was well aware that the story of the terrible case had spread all over Russia. And, good heavens! what wild rumors about his brother, about the Karamazovs, and about himself he had read in the course of those two months, among other equally credible items! One paper had even stated that he had gone into a monastery and become a monk, in horror at his brother’s crime. Another contradicted this, and stated that he and his elder, Father Zossima, had broken into the monastery chest and “made tracks from the monastery.” The present paragraph in the paper Gossip was under the heading, “The Karamazov Case at Skotoprigonyevsk.” (That, alas! was the name of our little town. I had hitherto kept it concealed.) It was brief, and Madame Hohlakov was not directly mentioned in it. No names appeared, in fact. It was merely stated that the criminal, whose approaching trial was making such a sensation—retired army captain, an idle swaggerer, and reactionary bully—was continually involved in amorous intrigues, and particularly popular with certain ladies “who were pining in solitude.” One such lady, a pining widow, who tried to seem young though she had a grown‐up daughter, was so fascinated by him that only two hours before the crime she offered him three thousand roubles, on condition that he would elope with her to the gold mines. But the criminal, counting on escaping punishment, had preferred to murder his father to get the three thousand rather than go off to Siberia with the middle‐aged charms of his pining lady. This playful paragraph finished, of course, with an outburst of generous indignation at the wickedness of parricide and at the lately abolished institution of serfdom. Reading it with curiosity, Alyosha folded up the paper and handed it back to Madame Hohlakov.

“Well, that must be me,” she hurried on again. “Of course I am meant. Scarcely more than an hour before, I suggested gold mines to him, and here they talk of ‘middle‐aged charms’ as though that were my motive! He writes that out of spite! God Almighty forgive him for the middle‐aged charms, as I forgive him! You know it’s— Do you know who it is? It’s your friend Rakitin.”

“Perhaps,” said Alyosha, “though I’ve heard nothing about it.”

“It’s he, it’s he! No ‘perhaps’ about it. You know I turned him out of the house…. You know all that story, don’t you?”

“I know that you asked him not to visit you for the future, but why it was, I haven’t heard … from you, at least.”

“Ah, then you’ve heard it from him! He abuses me, I suppose, abuses me dreadfully?”

“Yes, he does; but then he abuses every one. But why you’ve given him up I haven’t heard from him either. I meet him very seldom now, indeed. We are not friends.”

“Well, then, I’ll tell you all about it. There’s no help for it, I’ll confess, for there is one point in which I was perhaps to blame. Only a little, little point, so little that perhaps it doesn’t count. You see, my dear boy”—Madame Hohlakov suddenly looked arch and a charming, though enigmatic, smile played about her lips—“you see, I suspect … You must forgive me, Alyosha. I am like a mother to you…. No, no; quite the contrary. I speak to you now as though you were my father—mother’s quite out of place. Well, it’s as though I were confessing to Father Zossima, that’s just it. I called you a monk just now. Well, that poor young man, your friend, Rakitin (Mercy on us! I can’t be angry with him. I feel cross, but not very), that frivolous young man, would you believe it, seems to have taken it into his head to fall in love with me. I only noticed it later. At first—a month ago—he only began to come oftener to see me, almost every day; though, of course, we were acquainted before. I knew nothing about it … and suddenly it dawned upon me, and I began to notice things with surprise. You know, two months ago, that modest, charming, excellent young man, Pyotr Ilyitch Perhotin, who’s in the service here, began to be a regular visitor at the house. You met him here ever so many times yourself. And he is an excellent, earnest young man, isn’t he? He comes once every three days, not every day (though I should be glad to see him every day), and always so well dressed. Altogether, I love young people, Alyosha, talented, modest, like you, and he has almost the mind of a statesman, he talks so charmingly, and I shall certainly, certainly try and get promotion for him. He is a future diplomat. On that awful day he almost saved me from death by coming in the night. And your friend Rakitin comes in such boots, and always stretches them out on the carpet…. He began hinting at his feelings, in fact, and one day, as he was going, he squeezed my hand terribly hard. My foot began to swell directly after he pressed my hand like that. He had met Pyotr Ilyitch here before, and would you believe it, he is always gibing at him, growling at him, for some reason. I simply looked at the way they went on together and laughed inwardly. So I was sitting here alone—no, I was laid up then. Well, I was lying here alone and suddenly Rakitin comes in, and only fancy! brought me some verses of his own composition—a short poem, on my bad foot: that is, he described my foot in a poem. Wait a minute—how did it go?

A captivating little foot.

It began somehow like that. I can never remember poetry. I’ve got it here. I’ll show it to you later. But it’s a charming thing—charming; and, you know, it’s not only about the foot, it had a good moral, too, a charming idea, only I’ve forgotten it; in fact, it was just the thing for an album. So, of course, I thanked him, and he was evidently flattered. I’d hardly had time to thank him when in comes Pyotr Ilyitch, and Rakitin suddenly looked as black as night. I could see that Pyotr Ilyitch was in the way, for Rakitin certainly wanted to say something after giving me the verses. I had a presentiment of it; but Pyotr Ilyitch came in. I showed Pyotr Ilyitch the verses and didn’t say who was the author. But I am convinced that he guessed, though he won’t own it to this day, and declares he had no idea. But he says that on purpose. Pyotr Ilyitch began to laugh at once, and fell to criticizing it. ‘Wretched doggerel,’ he said they were, ‘some divinity student must have written them,’ and with such vehemence, such vehemence! Then, instead of laughing, your friend flew into a rage. ‘Good gracious!’ I thought, ‘they’ll fly at each other.’ ‘It was I who wrote them,’ said he. ‘I wrote them as a joke,’ he said, ‘for I think it degrading to write verses…. But they are good poetry. They want to put a monument to your Pushkin for writing about women’s feet, while I wrote with a moral purpose, and you,’ said he, ‘are an advocate of serfdom. You’ve no humane ideas,’ said he. ‘You have no modern enlightened feelings, you are uninfluenced by progress, you are a mere official,’ he said, ‘and you take bribes.’ Then I began screaming and imploring them. And, you know, Pyotr Ilyitch is anything but a coward. He at once took up the most gentlemanly tone, looked at him sarcastically, listened, and apologized. ‘I’d no idea,’ said he. ‘I shouldn’t have said it, if I had known. I should have praised it. Poets are all so irritable,’ he said. In short, he laughed at him under cover of the most gentlemanly tone. He explained to me afterwards that it was all sarcastic. I thought he was in earnest. Only as I lay there, just as before you now, I thought, ‘Would it, or would it not, be the proper thing for me to turn Rakitin out for shouting so rudely at a visitor in my house?’ And, would you believe it, I lay here, shut my eyes, and wondered, would it be the proper thing or not. I kept worrying and worrying, and my heart began to beat, and I couldn’t make up my mind whether to make an outcry or not. One voice seemed to be telling me, ‘Speak,’ and the other ‘No, don’t speak.’ And no sooner had the second voice said that than I cried out, and fainted. Of course, there was a fuss. I got up suddenly and said to Rakitin, ‘It’s painful for me to say it, but I don’t wish to see you in my house again.’ So I turned him out. Ah! Alexey Fyodorovitch, I know myself I did wrong. I was putting it on. I wasn’t angry with him at all, really; but I suddenly fancied—that was what did it—that it would be such a fine scene…. And yet, believe me, it was quite natural, for I really shed tears and cried for several days afterwards, and then suddenly, one afternoon, I forgot all about it. So it’s a fortnight since he’s been here, and I kept wondering whether he would come again. I wondered even yesterday, then suddenly last night came this Gossip. I read it and gasped. Who could have written it? He must have written it. He went home, sat down, wrote it on the spot, sent it, and they put it in. It was a fortnight ago, you see. But, Alyosha, it’s awful how I keep talking and don’t say what I want to say. Ah! the words come of themselves!”

“It’s very important for me to be in time to see my brother to‐day,” Alyosha faltered.

“To be sure, to be sure! You bring it all back to me. Listen, what is an aberration?”

“What aberration?” asked Alyosha, wondering.

“In the legal sense. An aberration in which everything is pardonable. Whatever you do, you will be acquitted at once.”

“What do you mean?”

“I’ll tell you. This Katya … Ah! she is a charming, charming creature, only I never can make out who it is she is in love with. She was with me some time ago and I couldn’t get anything out of her. Especially as she won’t talk to me except on the surface now. She is always talking about my health and nothing else, and she takes up such a tone with me, too. I simply said to myself, ‘Well, so be it. I don’t care’… Oh, yes. I was talking of aberration. This doctor has come. You know a doctor has come? Of course, you know it—the one who discovers madmen. You wrote for him. No, it wasn’t you, but Katya. It’s all Katya’s doing. Well, you see, a man may be sitting perfectly sane and suddenly have an aberration. He may be conscious and know what he is doing and yet be in a state of aberration. And there’s no doubt that Dmitri Fyodorovitch was suffering from aberration. They found out about aberration as soon as the law courts were reformed. It’s all the good effect of the reformed law courts. The doctor has been here and questioned me about that evening, about the gold mines. ‘How did he seem then?’ he asked me. He must have been in a state of aberration. He came in shouting, ‘Money, money, three thousand! Give me three thousand!’ and then went away and immediately did the murder. ‘I don’t want to murder him,’ he said, and he suddenly went and murdered him. That’s why they’ll acquit him, because he struggled against it and yet he murdered him.”

“But he didn’t murder him,” Alyosha interrupted rather sharply. He felt more and more sick with anxiety and impatience.

“Yes, I know it was that old man Grigory murdered him.”

“Grigory?” cried Alyosha.

“Yes, yes; it was Grigory. He lay as Dmitri Fyodorovitch struck him down, and then got up, saw the door open, went in and killed Fyodor Pavlovitch.”

“But why, why?”

“Suffering from aberration. When he recovered from the blow Dmitri Fyodorovitch gave him on the head, he was suffering from aberration; he went and committed the murder. As for his saying he didn’t, he very likely doesn’t remember. Only, you know, it’ll be better, ever so much better, if Dmitri Fyodorovitch murdered him. And that’s how it must have been, though I say it was Grigory. It certainly was Dmitri Fyodorovitch, and that’s better, ever so much better! Oh! not better that a son should have killed his father, I don’t defend that. Children ought to honor their parents, and yet it would be better if it were he, as you’d have nothing to cry over then, for he did it when he was unconscious or rather when he was conscious, but did not know what he was doing. Let them acquit him—that’s so humane, and would show what a blessing reformed law courts are. I knew nothing about it, but they say they have been so a long time. And when I heard it yesterday, I was so struck by it that I wanted to send for you at once. And if he is acquitted, make him come straight from the law courts to dinner with me, and I’ll have a party of friends, and we’ll drink to the reformed law courts. I don’t believe he’d be dangerous; besides, I’ll invite a great many friends, so that he could always be led out if he did anything. And then he might be made a justice of the peace or something in another town, for those who have been in trouble themselves make the best judges. And, besides, who isn’t suffering from aberration nowadays?—you, I, all of us are in a state of aberration, and there are ever so many examples of it: a man sits singing a song, suddenly something annoys him, he takes a pistol and shoots the first person he comes across, and no one blames him for it. I read that lately, and all the doctors confirm it. The doctors are always confirming; they confirm anything. Why, my Lise is in a state of aberration. She made me cry again yesterday, and the day before, too, and to‐day I suddenly realized that it’s all due to aberration. Oh, Lise grieves me so! I believe she’s quite mad. Why did she send for you? Did she send for you or did you come of yourself?”

“Yes, she sent for me, and I am just going to her.” Alyosha got up resolutely.

“Oh, my dear, dear Alexey Fyodorovitch, perhaps that’s what’s most important,” Madame Hohlakov cried, suddenly bursting into tears. “God knows I trust Lise to you with all my heart, and it’s no matter her sending for you on the sly, without telling her mother. But forgive me, I can’t trust my daughter so easily to your brother Ivan Fyodorovitch, though I still consider him the most chivalrous young man. But only fancy, he’s been to see Lise and I knew nothing about it!”

“How? What? When?” Alyosha was exceedingly surprised. He had not sat down again and listened standing.

“I will tell you; that’s perhaps why I asked you to come, for I don’t know now why I did ask you to come. Well, Ivan Fyodorovitch has been to see me twice, since he came back from Moscow. First time he came as a friend to call on me, and the second time Katya was here and he came because he heard she was here. I didn’t, of course, expect him to come often, knowing what a lot he has to do as it is, vous comprenez, cette affaire et la mort terrible de votre papa. But I suddenly heard he’d been here again, not to see me but to see Lise. That’s six days ago now. He came, stayed five minutes, and went away. And I didn’t hear of it till three days afterwards, from Glafira, so it was a great shock to me. I sent for Lise directly. She laughed. ‘He thought you were asleep,’ she said, ‘and came in to me to ask after your health.’ Of course, that’s how it happened. But Lise, Lise, mercy on us, how she distresses me! Would you believe it, one night, four days ago, just after you saw her last time, and had gone away, she suddenly had a fit, screaming, shrieking, hysterics! Why is it I never have hysterics? Then, next day another fit, and the same thing on the third, and yesterday too, and then yesterday that aberration. She suddenly screamed out, ‘I hate Ivan Fyodorovitch. I insist on your never letting him come to the house again.’ I was struck dumb at these amazing words, and answered, ‘On what grounds could I refuse to see such an excellent young man, a young man of such learning too, and so unfortunate?’—for all this business is a misfortune, isn’t it? She suddenly burst out laughing at my words, and so rudely, you know. Well, I was pleased; I thought I had amused her and the fits would pass off, especially as I wanted to refuse to see Ivan Fyodorovitch anyway on account of his strange visits without my knowledge, and meant to ask him for an explanation. But early this morning Lise waked up and flew into a passion with Yulia and, would you believe it, slapped her in the face. That’s monstrous; I am always polite to my servants. And an hour later she was hugging Yulia’s feet and kissing them. She sent a message to me that she wasn’t coming to me at all, and would never come and see me again, and when I dragged myself down to her, she rushed to kiss me, crying, and as she kissed me, she pushed me out of the room without saying a word, so I couldn’t find out what was the matter. Now, dear Alexey Fyodorovitch, I rest all my hopes on you, and, of course, my whole life is in your hands. I simply beg you to go to Lise and find out everything from her, as you alone can, and come back and tell me—me, her mother, for you understand it will be the death of me, simply the death of me, if this goes on, or else I shall run away. I can stand no more. I have patience; but I may lose patience, and then … then something awful will happen. Ah, dear me! At last, Pyotr Ilyitch!” cried Madame Hohlakov, beaming all over as she saw Perhotin enter the room. “You are late, you are late! Well, sit down, speak, put us out of suspense. What does the counsel say. Where are you off to, Alexey Fyodorovitch?”

“To Lise.”

“Oh, yes. You won’t forget, you won’t forget what I asked you? It’s a question of life and death!”

“Of course, I won’t forget, if I can … but I am so late,” muttered Alyosha, beating a hasty retreat.

“No, be sure, be sure to come in; don’t say ‘If you can.’ I shall die if you don’t,” Madame Hohlakov called after him, but Alyosha had already left the room.

Chapter III.
A Little Demon
Going in to Lise, he found her half reclining in the invalid‐chair, in which she had been wheeled when she was unable to walk. She did not move to meet him, but her sharp, keen eyes were simply riveted on his face. There was a feverish look in her eyes, her face was pale and yellow. Alyosha was amazed at the change that had taken place in her in three days. She was positively thinner. She did not hold out her hand to him. He touched the thin, long fingers which lay motionless on her dress, then he sat down facing her, without a word.

“I know you are in a hurry to get to the prison,” Lise said curtly, “and mamma’s kept you there for hours; she’s just been telling you about me and Yulia.”

“How do you know?” asked Alyosha.

“I’ve been listening. Why do you stare at me? I want to listen and I do listen, there’s no harm in that. I don’t apologize.”

“You are upset about something?”

“On the contrary, I am very happy. I’ve only just been reflecting for the thirtieth time what a good thing it is I refused you and shall not be your wife. You are not fit to be a husband. If I were to marry you and give you a note to take to the man I loved after you, you’d take it and be sure to give it to him and bring an answer back, too. If you were forty, you would still go on taking my love‐letters for me.”

She suddenly laughed.

“There is something spiteful and yet open‐hearted about you,” Alyosha smiled to her.

“The open‐heartedness consists in my not being ashamed of myself with you. What’s more, I don’t want to feel ashamed with you, just with you. Alyosha, why is it I don’t respect you? I am very fond of you, but I don’t respect you. If I respected you, I shouldn’t talk to you without shame, should I?”

“No.”

“But do you believe that I am not ashamed with you?”

“No, I don’t believe it.”

Lise laughed nervously again; she spoke rapidly.

“I sent your brother, Dmitri Fyodorovitch, some sweets in prison. Alyosha, you know, you are quite pretty! I shall love you awfully for having so quickly allowed me not to love you.”

“Why did you send for me to‐day, Lise?”

“I wanted to tell you of a longing I have. I should like some one to torture me, marry me and then torture me, deceive me and go away. I don’t want to be happy.”

“You are in love with disorder?”

“Yes, I want disorder. I keep wanting to set fire to the house. I keep imagining how I’ll creep up and set fire to the house on the sly; it must be on the sly. They’ll try to put it out, but it’ll go on burning. And I shall know and say nothing. Ah, what silliness! And how bored I am!”

She waved her hand with a look of repulsion.

“It’s your luxurious life,” said Alyosha, softly.

“Is it better, then, to be poor?”

“Yes, it is better.”

“That’s what your monk taught you. That’s not true. Let me be rich and all the rest poor, I’ll eat sweets and drink cream and not give any to any one else. Ach, don’t speak, don’t say anything,” she shook her hand at him, though Alyosha had not opened his mouth. “You’ve told me all that before, I know it all by heart. It bores me. If I am ever poor, I shall murder somebody, and even if I am rich, I may murder some one, perhaps—why do nothing! But do you know, I should like to reap, cut the rye? I’ll marry you, and you shall become a peasant, a real peasant; we’ll keep a colt, shall we? Do you know Kalganov?”

“Yes.”

“He is always wandering about, dreaming. He says, ‘Why live in real life? It’s better to dream. One can dream the most delightful things, but real life is a bore.’ But he’ll be married soon for all that; he’s been making love to me already. Can you spin tops?”

“Yes.”

“Well, he’s just like a top: he wants to be wound up and set spinning and then to be lashed, lashed, lashed with a whip. If I marry him, I’ll keep him spinning all his life. You are not ashamed to be with me?”

“No.”

“You are awfully cross, because I don’t talk about holy things. I don’t want to be holy. What will they do to one in the next world for the greatest sin? You must know all about that.”

“God will censure you.” Alyosha was watching her steadily.

“That’s just what I should like. I would go up and they would censure me, and I would burst out laughing in their faces. I should dreadfully like to set fire to the house, Alyosha, to our house; you still don’t believe me?”

“Why? There are children of twelve years old, who have a longing to set fire to something and they do set things on fire, too. It’s a sort of disease.”

“That’s not true, that’s not true; there may be children, but that’s not what I mean.”

“You take evil for good; it’s a passing crisis, it’s the result of your illness, perhaps.”

“You do despise me, though! It’s simply that I don’t want to do good, I want to do evil, and it has nothing to do with illness.”

“Why do evil?”

“So that everything might be destroyed. Ah, how nice it would be if everything were destroyed! You know, Alyosha, I sometimes think of doing a fearful lot of harm and everything bad, and I should do it for a long while on the sly and suddenly every one would find it out. Every one will stand round and point their fingers at me and I would look at them all. That would be awfully nice. Why would it be so nice, Alyosha?”

“I don’t know. It’s a craving to destroy something good or, as you say, to set fire to something. It happens sometimes.”

“I not only say it, I shall do it.”

“I believe you.”

“Ah, how I love you for saying you believe me. And you are not lying one little bit. But perhaps you think that I am saying all this on purpose to annoy you?”

“No, I don’t think that … though perhaps there is a little desire to do that in it, too.”

“There is a little. I never can tell lies to you,” she declared, with a strange fire in her eyes.

What struck Alyosha above everything was her earnestness. There was not a trace of humor or jesting in her face now, though, in old days, fun and gayety never deserted her even at her most “earnest” moments.

“There are moments when people love crime,” said Alyosha thoughtfully.

“Yes, yes! You have uttered my thought; they love crime, every one loves crime, they love it always, not at some ‘moments.’ You know, it’s as though people have made an agreement to lie about it and have lied about it ever since. They all declare that they hate evil, but secretly they all love it.”

“And are you still reading nasty books?”

“Yes, I am. Mamma reads them and hides them under her pillow and I steal them.”

“Aren’t you ashamed to destroy yourself?”

“I want to destroy myself. There’s a boy here, who lay down between the railway lines when the train was passing. Lucky fellow! Listen, your brother is being tried now for murdering his father and every one loves his having killed his father.”

“Loves his having killed his father?”

“Yes, loves it; every one loves it! Everybody says it’s so awful, but secretly they simply love it. I for one love it.”

“There is some truth in what you say about every one,” said Alyosha softly.

“Oh, what ideas you have!” Lise shrieked in delight. “And you a monk, too! You wouldn’t believe how I respect you, Alyosha, for never telling lies. Oh, I must tell you a funny dream of mine. I sometimes dream of devils. It’s night; I am in my room with a candle and suddenly there are devils all over the place, in all the corners, under the table, and they open the doors; there’s a crowd of them behind the doors and they want to come and seize me. And they are just coming, just seizing me. But I suddenly cross myself and they all draw back, though they don’t go away altogether, they stand at the doors and in the corners, waiting. And suddenly I have a frightful longing to revile God aloud, and so I begin, and then they come crowding back to me, delighted, and seize me again and I cross myself again and they all draw back. It’s awful fun. it takes one’s breath away.”

“I’ve had the same dream, too,” said Alyosha suddenly.

“Really?” cried Lise, surprised. “I say, Alyosha, don’t laugh, that’s awfully important. Could two different people have the same dream?”

“It seems they can.”

“Alyosha, I tell you, it’s awfully important,” Lise went on, with really excessive amazement. “It’s not the dream that’s important, but your having the same dream as me. You never lie to me, don’t lie now: is it true? You are not laughing?”

“It’s true.”

Lise seemed extraordinarily impressed and for half a minute she was silent.

“Alyosha, come and see me, come and see me more often,” she said suddenly, in a supplicating voice.

“I’ll always come to see you, all my life,” answered Alyosha firmly.

“You are the only person I can talk to, you know,” Lise began again. “I talk to no one but myself and you. Only you in the whole world. And to you more readily than to myself. And I am not a bit ashamed with you, not a bit. Alyosha, why am I not ashamed with you, not a bit? Alyosha, is it true that at Easter the Jews steal a child and kill it?”

“I don’t know.”

“There’s a book here in which I read about the trial of a Jew, who took a child of four years old and cut off the fingers from both hands, and then crucified him on the wall, hammered nails into him and crucified him, and afterwards, when he was tried, he said that the child died soon, within four hours. That was ‘soon’! He said the child moaned, kept on moaning and he stood admiring it. That’s nice!”

“Nice?”

“Nice; I sometimes imagine that it was I who crucified him. He would hang there moaning and I would sit opposite him eating pineapple compote. I am awfully fond of pineapple compote. Do you like it?”

Alyosha looked at her in silence. Her pale, sallow face was suddenly contorted, her eyes burned.

“You know, when I read about that Jew I shook with sobs all night. I kept fancying how the little thing cried and moaned (a child of four years old understands, you know), and all the while the thought of pineapple compote haunted me. In the morning I wrote a letter to a certain person, begging him particularly to come and see me. He came and I suddenly told him all about the child and the pineapple compote. All about it, all, and said that it was nice. He laughed and said it really was nice. Then he got up and went away. He was only here five minutes. Did he despise me? Did he despise me? Tell me, tell me, Alyosha, did he despise me or not?” She sat up on the couch, with flashing eyes.

“Tell me,” Alyosha asked anxiously, “did you send for that person?”

“Yes, I did.”

“Did you send him a letter?”

“Yes.”

“Simply to ask about that, about that child?”

“No, not about that at all. But when he came, I asked him about that at once. He answered, laughed, got up and went away.”

“That person behaved honorably,” Alyosha murmured.

“And did he despise me? Did he laugh at me?”

“No, for perhaps he believes in the pineapple compote himself. He is very ill now, too, Lise.”

“Yes, he does believe in it,” said Lise, with flashing eyes.

“He doesn’t despise any one,” Alyosha went on. “Only he does not believe any one. If he doesn’t believe in people, of course, he does despise them.”

“Then he despises me, me?”

“You, too.”

“Good,” Lise seemed to grind her teeth. “When he went out laughing, I felt that it was nice to be despised. The child with fingers cut off is nice, and to be despised is nice….”

And she laughed in Alyosha’s face, a feverish malicious laugh.

“Do you know, Alyosha, do you know, I should like—Alyosha, save me!” She suddenly jumped from the couch, rushed to him and seized him with both hands. “Save me!” she almost groaned. “Is there any one in the world I could tell what I’ve told you? I’ve told you the truth, the truth. I shall kill myself, because I loathe everything! I don’t want to live, because I loathe everything! I loathe everything, everything. Alyosha, why don’t you love me in the least?” she finished in a frenzy.

“But I do love you!” answered Alyosha warmly.

“And will you weep over me, will you?”

“Yes.”

“Not because I won’t be your wife, but simply weep for me?”

“Yes.”

“Thank you! It’s only your tears I want. Every one else may punish me and trample me under foot, every one, every one, not excepting any one. For I don’t love any one. Do you hear, not any one! On the contrary, I hate him! Go, Alyosha; it’s time you went to your brother”; she tore herself away from him suddenly.

“How can I leave you like this?” said Alyosha, almost in alarm.

“Go to your brother, the prison will be shut; go, here’s your hat. Give my love to Mitya, go, go!”

And she almost forcibly pushed Alyosha out of the door. He looked at her with pained surprise, when he was suddenly aware of a letter in his right hand, a tiny letter folded up tight and sealed. He glanced at it and instantly read the address, “To Ivan Fyodorovitch Karamazov.” He looked quickly at Lise. Her face had become almost menacing.

“Give it to him, you must give it to him!” she ordered him, trembling and beside herself. “To‐day, at once, or I’ll poison myself! That’s why I sent for you.”

And she slammed the door quickly. The bolt clicked. Alyosha put the note in his pocket and went straight downstairs, without going back to Madame Hohlakov; forgetting her, in fact. As soon as Alyosha had gone, Lise unbolted the door, opened it a little, put her finger in the crack and slammed the door with all her might, pinching her finger. Ten seconds after, releasing her finger, she walked softly, slowly to her chair, sat up straight in it and looked intently at her blackened finger and at the blood that oozed from under the nail. Her lips were quivering and she kept whispering rapidly to herself:

“I am a wretch, wretch, wretch, wretch!”

Chapter IV.
A Hymn And A Secret
It was quite late (days are short in November) when Alyosha rang at the prison gate. It was beginning to get dusk. But Alyosha knew that he would be admitted without difficulty. Things were managed in our little town, as everywhere else. At first, of course, on the conclusion of the preliminary inquiry, relations and a few other persons could only obtain interviews with Mitya by going through certain inevitable formalities. But later, though the formalities were not relaxed, exceptions were made for some, at least, of Mitya’s visitors. So much so, that sometimes the interviews with the prisoner in the room set aside for the purpose were practically tête‐à‐tête.

These exceptions, however, were few in number; only Grushenka, Alyosha and Rakitin were treated like this. But the captain of the police, Mihail Mihailovitch, was very favorably disposed to Grushenka. His abuse of her at Mokroe weighed on the old man’s conscience, and when he learned the whole story, he completely changed his view of her. And strange to say, though he was firmly persuaded of his guilt, yet after Mitya was once in prison, the old man came to take a more and more lenient view of him. “He was a man of good heart, perhaps,” he thought, “who had come to grief from drinking and dissipation.” His first horror had been succeeded by pity. As for Alyosha, the police captain was very fond of him and had known him for a long time. Rakitin, who had of late taken to coming very often to see the prisoner, was one of the most intimate acquaintances of the “police captain’s young ladies,” as he called them, and was always hanging about their house. He gave lessons in the house of the prison superintendent, too, who, though scrupulous in the performance of his duties, was a kind‐ hearted old man. Alyosha, again, had an intimate acquaintance of long standing with the superintendent, who was fond of talking to him, generally on sacred subjects. He respected Ivan Fyodorovitch, and stood in awe of his opinion, though he was a great philosopher himself; “self‐ taught,” of course. But Alyosha had an irresistible attraction for him. During the last year the old man had taken to studying the Apocryphal Gospels, and constantly talked over his impressions with his young friend. He used to come and see him in the monastery and discussed for hours together with him and with the monks. So even if Alyosha were late at the prison, he had only to go to the superintendent and everything was made easy. Besides, every one in the prison, down to the humblest warder, had grown used to Alyosha. The sentry, of course, did not trouble him so long as the authorities were satisfied.

When Mitya was summoned from his cell, he always went downstairs, to the place set aside for interviews. As Alyosha entered the room he came upon Rakitin, who was just taking leave of Mitya. They were both talking loudly. Mitya was laughing heartily as he saw him out, while Rakitin seemed grumbling. Rakitin did not like meeting Alyosha, especially of late. He scarcely spoke to him, and bowed to him stiffly. Seeing Alyosha enter now, he frowned and looked away, as though he were entirely absorbed in buttoning his big, warm, fur‐trimmed overcoat. Then he began looking at once for his umbrella.

“I must mind not to forget my belongings,” he muttered, simply to say something.

“Mind you don’t forget other people’s belongings,” said Mitya, as a joke, and laughed at once at his own wit. Rakitin fired up instantly.

“You’d better give that advice to your own family, who’ve always been a slave‐driving lot, and not to Rakitin,” he cried, suddenly trembling with anger.

“What’s the matter? I was joking,” cried Mitya. “Damn it all! They are all like that,” he turned to Alyosha, nodding towards Rakitin’s hurriedly retreating figure. “He was sitting here, laughing and cheerful, and all at once he boils up like that. He didn’t even nod to you. Have you broken with him completely? Why are you so late? I’ve not been simply waiting, but thirsting for you the whole morning. But never mind. We’ll make up for it now.”

“Why does he come here so often? Surely you are not such great friends?” asked Alyosha. He, too, nodded at the door through which Rakitin had disappeared.

“Great friends with Rakitin? No, not as much as that. Is it likely—a pig like that? He considers I am … a blackguard. They can’t understand a joke either, that’s the worst of such people. They never understand a joke, and their souls are dry, dry and flat; they remind me of prison walls when I was first brought here. But he is a clever fellow, very clever. Well, Alexey, it’s all over with me now.”

He sat down on the bench and made Alyosha sit down beside him.

“Yes, the trial’s to‐morrow. Are you so hopeless, brother?” Alyosha said, with an apprehensive feeling.

“What are you talking about?” said Mitya, looking at him rather uncertainly. “Oh, you mean the trial! Damn it all! Till now we’ve been talking of things that don’t matter, about this trial, but I haven’t said a word to you about the chief thing. Yes, the trial is to‐morrow; but it wasn’t the trial I meant, when I said it was all over with me. Why do you look at me so critically?”

“What do you mean, Mitya?”

“Ideas, ideas, that’s all! Ethics! What is ethics?”

“Ethics?” asked Alyosha, wondering.

“Yes; is it a science?”

“Yes, there is such a science … but … I confess I can’t explain to you what sort of science it is.”

“Rakitin knows. Rakitin knows a lot, damn him! He’s not going to be a monk. He means to go to Petersburg. There he’ll go in for criticism of an elevating tendency. Who knows, he may be of use and make his own career, too. Ough! they are first‐rate, these people, at making a career! Damn ethics, I am done for, Alexey, I am, you man of God! I love you more than any one. It makes my heart yearn to look at you. Who was Karl Bernard?”

“Karl Bernard?” Alyosha was surprised again.

“No, not Karl. Stay, I made a mistake. Claude Bernard. What was he? Chemist or what?”

“He must be a savant,” answered Alyosha; “but I confess I can’t tell you much about him, either. I’ve heard of him as a savant, but what sort I don’t know.”

“Well, damn him, then! I don’t know either,” swore Mitya. “A scoundrel of some sort, most likely. They are all scoundrels. And Rakitin will make his way. Rakitin will get on anywhere; he is another Bernard. Ugh, these Bernards! They are all over the place.”

“But what is the matter?” Alyosha asked insistently.

“He wants to write an article about me, about my case, and so begin his literary career. That’s what he comes for; he said so himself. He wants to prove some theory. He wants to say ‘he couldn’t help murdering his father, he was corrupted by his environment,’ and so on. He explained it all to me. He is going to put in a tinge of Socialism, he says. But there, damn the fellow, he can put in a tinge if he likes, I don’t care. He can’t bear Ivan, he hates him. He’s not fond of you, either. But I don’t turn him out, for he is a clever fellow. Awfully conceited, though. I said to him just now, ‘The Karamazovs are not blackguards, but philosophers; for all true Russians are philosophers, and though you’ve studied, you are not a philosopher—you are a low fellow.’ He laughed, so maliciously. And I said to him, ‘De ideabus non est disputandum.’ Isn’t that rather good? I can set up for being a classic, you see!” Mitya laughed suddenly.

“Why is it all over with you? You said so just now,” Alyosha interposed.

“Why is it all over with me? H’m!… The fact of it is … if you take it as a whole, I am sorry to lose God—that’s why it is.”

“What do you mean by ‘sorry to lose God’?”

“Imagine: inside, in the nerves, in the head—that is, these nerves are there in the brain … (damn them!) there are sort of little tails, the little tails of those nerves, and as soon as they begin quivering … that is, you see, I look at something with my eyes and then they begin quivering, those little tails … and when they quiver, then an image appears … it doesn’t appear at once, but an instant, a second, passes … and then something like a moment appears; that is, not a moment—devil take the moment!—but an image; that is, an object, or an action, damn it! That’s why I see and then think, because of those tails, not at all because I’ve got a soul, and that I am some sort of image and likeness. All that is nonsense! Rakitin explained it all to me yesterday, brother, and it simply bowled me over. It’s magnificent, Alyosha, this science! A new man’s arising—that I understand…. And yet I am sorry to lose God!”

“Well, that’s a good thing, anyway,” said Alyosha.

“That I am sorry to lose God? It’s chemistry, brother, chemistry! There’s no help for it, your reverence, you must make way for chemistry. And Rakitin does dislike God. Ough! doesn’t he dislike Him! That’s the sore point with all of them. But they conceal it. They tell lies. They pretend. ‘Will you preach this in your reviews?’ I asked him. ‘Oh, well, if I did it openly, they won’t let it through,’ he said. He laughed. ‘But what will become of men then?’ I asked him, ‘without God and immortal life? All things are lawful then, they can do what they like?’ ‘Didn’t you know?’ he said laughing, ‘a clever man can do what he likes,’ he said. ‘A clever man knows his way about, but you’ve put your foot in it, committing a murder, and now you are rotting in prison.’ He says that to my face! A regular pig! I used to kick such people out, but now I listen to them. He talks a lot of sense, too. Writes well. He began reading me an article last week. I copied out three lines of it. Wait a minute. Here it is.”

Mitya hurriedly pulled out a piece of paper from his pocket and read:

“ ‘In order to determine this question, it is above all essential to put one’s personality in contradiction to one’s reality.’ Do you understand that?”

“No, I don’t,” said Alyosha. He looked at Mitya and listened to him with curiosity.

“I don’t understand either. It’s dark and obscure, but intellectual. ‘Every one writes like that now,’ he says, ‘it’s the effect of their environment.’ They are afraid of the environment. He writes poetry, too, the rascal. He’s written in honor of Madame Hohlakov’s foot. Ha ha ha!”

“I’ve heard about it,” said Alyosha.

“Have you? And have you heard the poem?”

“No.”

“I’ve got it. Here it is. I’ll read it to you. You don’t know—I haven’t told you—there’s quite a story about it. He’s a rascal! Three weeks ago he began to tease me. ‘You’ve got yourself into a mess, like a fool, for the sake of three thousand, but I’m going to collar a hundred and fifty thousand. I am going to marry a widow and buy a house in Petersburg.’ And he told me he was courting Madame Hohlakov. She hadn’t much brains in her youth, and now at forty she has lost what she had. ‘But she’s awfully sentimental,’ he says; ‘that’s how I shall get hold of her. When I marry her, I shall take her to Petersburg and there I shall start a newspaper.’ And his mouth was simply watering, the beast, not for the widow, but for the hundred and fifty thousand. And he made me believe it. He came to see me every day. ‘She is coming round,’ he declared. He was beaming with delight. And then, all of a sudden, he was turned out of the house. Perhotin’s carrying everything before him, bravo! I could kiss the silly old noodle for turning him out of the house. And he had written this doggerel. ‘It’s the first time I’ve soiled my hands with writing poetry,’ he said. ‘It’s to win her heart, so it’s in a good cause. When I get hold of the silly woman’s fortune, I can be of great social utility.’ They have this social justification for every nasty thing they do! ‘Anyway it’s better than your Pushkin’s poetry,’ he said, ‘for I’ve managed to advocate enlightenment even in that.’ I understand what he means about Pushkin, I quite see that, if he really was a man of talent and only wrote about women’s feet. But wasn’t Rakitin stuck up about his doggerel! The vanity of these fellows! ‘On the convalescence of the swollen foot of the object of my affections’—he thought of that for a title. He’s a waggish fellow.

A captivating little foot,
Though swollen and red and tender!
The doctors come and plasters put,
But still they cannot mend her.

Yet, ’tis not for her foot I dread—
A theme for Pushkin’s muse more fit—
It’s not her foot, it is her head:
I tremble for her loss of wit!

For as her foot swells, strange to say,
Her intellect is on the wane—
Oh, for some remedy I pray
That may restore both foot and brain!

He is a pig, a regular pig, but he’s very arch, the rascal! And he really has put in a progressive idea. And wasn’t he angry when she kicked him out! He was gnashing his teeth!”

“He’s taken his revenge already,” said Alyosha. “He’s written a paragraph about Madame Hohlakov.”

And Alyosha told him briefly about the paragraph in Gossip.

“That’s his doing, that’s his doing!” Mitya assented, frowning. “That’s him! These paragraphs … I know … the insulting things that have been written about Grushenka, for instance…. And about Katya, too…. H’m!”

He walked across the room with a harassed air.

“Brother, I cannot stay long,” Alyosha said, after a pause. “To‐morrow will be a great and awful day for you, the judgment of God will be accomplished … I am amazed at you, you walk about here, talking of I don’t know what …”

“No, don’t be amazed at me,” Mitya broke in warmly. “Am I to talk of that stinking dog? Of the murderer? We’ve talked enough of him. I don’t want to say more of the stinking son of Stinking Lizaveta! God will kill him, you will see. Hush!”

He went up to Alyosha excitedly and kissed him. His eyes glowed.

“Rakitin wouldn’t understand it,” he began in a sort of exaltation; “but you, you’ll understand it all. That’s why I was thirsting for you. You see, there’s so much I’ve been wanting to tell you for ever so long, here, within these peeling walls, but I haven’t said a word about what matters most; the moment never seems to have come. Now I can wait no longer. I must pour out my heart to you. Brother, these last two months I’ve found in myself a new man. A new man has risen up in me. He was hidden in me, but would never have come to the surface, if it hadn’t been for this blow from heaven. I am afraid! And what do I care if I spend twenty years in the mines, breaking ore with a hammer? I am not a bit afraid of that—it’s something else I am afraid of now: that that new man may leave me. Even there, in the mines, under‐ground, I may find a human heart in another convict and murderer by my side, and I may make friends with him, for even there one may live and love and suffer. One may thaw and revive a frozen heart in that convict, one may wait upon him for years, and at last bring up from the dark depths a lofty soul, a feeling, suffering creature; one may bring forth an angel, create a hero! There are so many of them, hundreds of them, and we are all to blame for them. Why was it I dreamed of that ‘babe’ at such a moment? ‘Why is the babe so poor?’ That was a sign to me at that moment. It’s for the babe I’m going. Because we are all responsible for all. For all the ‘babes,’ for there are big children as well as little children. All are ‘babes.’ I go for all, because some one must go for all. I didn’t kill father, but I’ve got to go. I accept it. It’s all come to me here, here, within these peeling walls. There are numbers of them there, hundreds of them underground, with hammers in their hands. Oh, yes, we shall be in chains and there will be no freedom, but then, in our great sorrow, we shall rise again to joy, without which man cannot live nor God exist, for God gives joy: it’s His privilege—a grand one. Ah, man should be dissolved in prayer! What should I be underground there without God? Rakitin’s laughing! If they drive God from the earth, we shall shelter Him underground. One cannot exist in prison without God; it’s even more impossible than out of prison. And then we men underground will sing from the bowels of the earth a glorious hymn to God, with Whom is joy. Hail to God and His joy! I love Him!”

Mitya was almost gasping for breath as he uttered his wild speech. He turned pale, his lips quivered, and tears rolled down his cheeks.

“Yes, life is full, there is life even underground,” he began again. “You wouldn’t believe, Alexey, how I want to live now, what a thirst for existence and consciousness has sprung up in me within these peeling walls. Rakitin doesn’t understand that; all he cares about is building a house and letting flats. But I’ve been longing for you. And what is suffering? I am not afraid of it, even if it were beyond reckoning. I am not afraid of it now. I was afraid of it before. Do you know, perhaps I won’t answer at the trial at all…. And I seem to have such strength in me now, that I think I could stand anything, any suffering, only to be able to say and to repeat to myself every moment, ‘I exist.’ In thousands of agonies—I exist. I’m tormented on the rack—but I exist! Though I sit alone on a pillar—I exist! I see the sun, and if I don’t see the sun, I know it’s there. And there’s a whole life in that, in knowing that the sun is there. Alyosha, my angel, all these philosophies are the death of me. Damn them! Brother Ivan—”

“What of brother Ivan?” interrupted Alyosha, but Mitya did not hear.

“You see, I never had any of these doubts before, but it was all hidden away in me. It was perhaps just because ideas I did not understand were surging up in me, that I used to drink and fight and rage. It was to stifle them in myself, to still them, to smother them. Ivan is not Rakitin, there is an idea in him. Ivan is a sphinx and is silent; he is always silent. It’s God that’s worrying me. That’s the only thing that’s worrying me. What if He doesn’t exist? What if Rakitin’s right—that it’s an idea made up by men? Then if He doesn’t exist, man is the chief of the earth, of the universe. Magnificent! Only how is he going to be good without God? That’s the question. I always come back to that. For whom is man going to love then? To whom will he be thankful? To whom will he sing the hymn? Rakitin laughs. Rakitin says that one can love humanity without God. Well, only a sniveling idiot can maintain that. I can’t understand it. Life’s easy for Rakitin. ‘You’d better think about the extension of civic rights, or even of keeping down the price of meat. You will show your love for humanity more simply and directly by that, than by philosophy.’ I answered him, ‘Well, but you, without a God, are more likely to raise the price of meat, if it suits you, and make a rouble on every copeck.’ He lost his temper. But after all, what is goodness? Answer me that, Alexey. Goodness is one thing with me and another with a Chinaman, so it’s a relative thing. Or isn’t it? Is it not relative? A treacherous question! You won’t laugh if I tell you it’s kept me awake two nights. I only wonder now how people can live and think nothing about it. Vanity! Ivan has no God. He has an idea. It’s beyond me. But he is silent. I believe he is a free‐mason. I asked him, but he is silent. I wanted to drink from the springs of his soul—he was silent. But once he did drop a word.”

“What did he say?” Alyosha took it up quickly.

“I said to him, ‘Then everything is lawful, if it is so?’ He frowned. ‘Fyodor Pavlovitch, our papa,’ he said, ‘was a pig, but his ideas were right enough.’ That was what he dropped. That was all he said. That was going one better than Rakitin.”

“Yes,” Alyosha assented bitterly. “When was he with you?”

“Of that later; now I must speak of something else. I have said nothing about Ivan to you before. I put it off to the last. When my business here is over and the verdict has been given, then I’ll tell you something. I’ll tell you everything. We’ve something tremendous on hand…. And you shall be my judge in it. But don’t begin about that now; be silent. You talk of to‐morrow, of the trial; but, would you believe it, I know nothing about it.”

“Have you talked to the counsel?”

“What’s the use of the counsel? I told him all about it. He’s a soft, city‐bred rogue—a Bernard! But he doesn’t believe me—not a bit of it. Only imagine, he believes I did it. I see it. ‘In that case,’ I asked him, ‘why have you come to defend me?’ Hang them all! They’ve got a doctor down, too, want to prove I’m mad. I won’t have that! Katerina Ivanovna wants to do her ‘duty’ to the end, whatever the strain!” Mitya smiled bitterly. “The cat! Hard‐hearted creature! She knows that I said of her at Mokroe that she was a woman of ‘great wrath.’ They repeated it. Yes, the facts against me have grown numerous as the sands of the sea. Grigory sticks to his point. Grigory’s honest, but a fool. Many people are honest because they are fools: that’s Rakitin’s idea. Grigory’s my enemy. And there are some people who are better as foes than friends. I mean Katerina Ivanovna. I am afraid, oh, I am afraid she will tell how she bowed to the ground after that four thousand. She’ll pay it back to the last farthing. I don’t want her sacrifice; they’ll put me to shame at the trial. I wonder how I can stand it. Go to her, Alyosha, ask her not to speak of that in the court, can’t you? But damn it all, it doesn’t matter! I shall get through somehow. I don’t pity her. It’s her own doing. She deserves what she gets. I shall have my own story to tell, Alexey.” He smiled bitterly again. “Only … only Grusha, Grusha! Good Lord! Why should she have such suffering to bear?” he exclaimed suddenly, with tears. “Grusha’s killing me; the thought of her’s killing me, killing me. She was with me just now….”

“She told me she was very much grieved by you to‐day.”

“I know. Confound my temper! It was jealousy. I was sorry, I kissed her as she was going. I didn’t ask her forgiveness.”

“Why didn’t you?” exclaimed Alyosha.

Suddenly Mitya laughed almost mirthfully.

“God preserve you, my dear boy, from ever asking forgiveness for a fault from a woman you love. From one you love especially, however greatly you may have been in fault. For a woman—devil only knows what to make of a woman! I know something about them, anyway. But try acknowledging you are in fault to a woman. Say, ‘I am sorry, forgive me,’ and a shower of reproaches will follow! Nothing will make her forgive you simply and directly, she’ll humble you to the dust, bring forward things that have never happened, recall everything, forget nothing, add something of her own, and only then forgive you. And even the best, the best of them do it. She’ll scrape up all the scrapings and load them on your head. They are ready to flay you alive, I tell you, every one of them, all these angels without whom we cannot live! I tell you plainly and openly, dear boy, every decent man ought to be under some woman’s thumb. That’s my conviction—not conviction, but feeling. A man ought to be magnanimous, and it’s no disgrace to a man! No disgrace to a hero, not even a Cæsar! But don’t ever beg her pardon all the same for anything. Remember that rule given you by your brother Mitya, who’s come to ruin through women. No, I’d better make it up to Grusha somehow, without begging pardon. I worship her, Alexey, worship her. Only she doesn’t see it. No, she still thinks I don’t love her enough. And she tortures me, tortures me with her love. The past was nothing! In the past it was only those infernal curves of hers that tortured me, but now I’ve taken all her soul into my soul and through her I’ve become a man myself. Will they marry us? If they don’t, I shall die of jealousy. I imagine something every day…. What did she say to you about me?”

Alyosha repeated all Grushenka had said to him that day. Mitya listened, made him repeat things, and seemed pleased.

“Then she is not angry at my being jealous?” he exclaimed. “She is a regular woman! ‘I’ve a fierce heart myself!’ Ah, I love such fierce hearts, though I can’t bear any one’s being jealous of me. I can’t endure it. We shall fight. But I shall love her, I shall love her infinitely. Will they marry us? Do they let convicts marry? That’s the question. And without her I can’t exist….”

Mitya walked frowning across the room. It was almost dark. He suddenly seemed terribly worried.

“So there’s a secret, she says, a secret? We have got up a plot against her, and Katya is mixed up in it, she thinks. No, my good Grushenka, that’s not it. You are very wide of the mark, in your foolish feminine way. Alyosha, darling, well, here goes! I’ll tell you our secret!”

He looked round, went close up quickly to Alyosha, who was standing before him, and whispered to him with an air of mystery, though in reality no one could hear them: the old warder was dozing in the corner, and not a word could reach the ears of the soldiers on guard.

“I will tell you all our secret,” Mitya whispered hurriedly. “I meant to tell you later, for how could I decide on anything without you? You are everything to me. Though I say that Ivan is superior to us, you are my angel. It’s your decision will decide it. Perhaps it’s you that is superior and not Ivan. You see, it’s a question of conscience, question of the higher conscience—the secret is so important that I can’t settle it myself, and I’ve put it off till I could speak to you. But anyway it’s too early to decide now, for we must wait for the verdict. As soon as the verdict is given, you shall decide my fate. Don’t decide it now. I’ll tell you now. You listen, but don’t decide. Stand and keep quiet. I won’t tell you everything. I’ll only tell you the idea, without details, and you keep quiet. Not a question, not a movement. You agree? But, goodness, what shall I do with your eyes? I’m afraid your eyes will tell me your decision, even if you don’t speak. Oo! I’m afraid! Alyosha, listen! Ivan suggests my escaping. I won’t tell you the details: it’s all been thought out: it can all be arranged. Hush, don’t decide. I should go to America with Grusha. You know I can’t live without Grusha! What if they won’t let her follow me to Siberia? Do they let convicts get married? Ivan thinks not. And without Grusha what should I do there underground with a hammer? I should only smash my skull with the hammer! But, on the other hand, my conscience? I should have run away from suffering. A sign has come, I reject the sign. I have a way of salvation and I turn my back on it. Ivan says that in America, ‘with the good‐will,’ I can be of more use than underground. But what becomes of our hymn from underground? What’s America? America is vanity again! And there’s a lot of swindling in America, too, I expect. I should have run away from crucifixion! I tell you, you know, Alexey, because you are the only person who can understand this. There’s no one else. It’s folly, madness to others, all I’ve told you of the hymn. They’ll say I’m out of my mind or a fool. I am not out of my mind and I am not a fool. Ivan understands about the hymn, too. He understands, only he doesn’t answer—he doesn’t speak. He doesn’t believe in the hymn. Don’t speak, don’t speak. I see how you look! You have already decided. Don’t decide, spare me! I can’t live without Grusha. Wait till after the trial!”

Mitya ended beside himself. He held Alyosha with both hands on his shoulders, and his yearning, feverish eyes were fixed on his brother’s.

“They don’t let convicts marry, do they?” he repeated for the third time in a supplicating voice.

Alyosha listened with extreme surprise and was deeply moved.

“Tell me one thing,” he said. “Is Ivan very keen on it, and whose idea was it?”

“His, his, and he is very keen on it. He didn’t come to see me at first, then he suddenly came a week ago and he began about it straight away. He is awfully keen on it. He doesn’t ask me, but orders me to escape. He doesn’t doubt of my obeying him, though I showed him all my heart as I have to you, and told him about the hymn, too. He told me he’d arrange it; he’s found out about everything. But of that later. He’s simply set on it. It’s all a matter of money: he’ll pay ten thousand for escape and give me twenty thousand for America. And he says we can arrange a magnificent escape for ten thousand.”

“And he told you on no account to tell me?” Alyosha asked again.

“To tell no one, and especially not you; on no account to tell you. He is afraid, no doubt, that you’ll stand before me as my conscience. Don’t tell him I told you. Don’t tell him, for anything.”

“You are right,” Alyosha pronounced; “it’s impossible to decide anything before the trial is over. After the trial you’ll decide of yourself. Then you’ll find that new man in yourself and he will decide.”

“A new man, or a Bernard who’ll decide à la Bernard, for I believe I’m a contemptible Bernard myself,” said Mitya, with a bitter grin.

“But, brother, have you no hope then of being acquitted?”

Mitya shrugged his shoulders nervously and shook his head. “Alyosha, darling, it’s time you were going,” he said, with a sudden haste. “There’s the superintendent shouting in the yard. He’ll be here directly. We are late; it’s irregular. Embrace me quickly. Kiss me! Sign me with the cross, darling, for the cross I have to bear to‐morrow.”

They embraced and kissed.

“Ivan,” said Mitya suddenly, “suggests my escaping; but, of course, he believes I did it.”

A mournful smile came on to his lips.

“Have you asked him whether he believes it?” asked Alyosha.

“No, I haven’t. I wanted to, but I couldn’t. I hadn’t the courage. But I saw it from his eyes. Well, good‐by!”

Once more they kissed hurriedly, and Alyosha was just going out, when Mitya suddenly called him back.

“Stand facing me! That’s right!” And again he seized Alyosha, putting both hands on his shoulders. His face became suddenly quite pale, so that it was dreadfully apparent, even through the gathering darkness. His lips twitched, his eyes fastened upon Alyosha.

“Alyosha, tell me the whole truth, as you would before God. Do you believe I did it? Do you, do you in yourself, believe it? The whole truth, don’t lie!” he cried desperately.

Everything seemed heaving before Alyosha, and he felt something like a stab at his heart.

“Hush! What do you mean?” he faltered helplessly.

“The whole truth, the whole, don’t lie!” repeated Mitya.

“I’ve never for one instant believed that you were the murderer!” broke in a shaking voice from Alyosha’s breast, and he raised his right hand in the air, as though calling God to witness his words.

Mitya’s whole face was lighted up with bliss.

“Thank you!” he articulated slowly, as though letting a sigh escape him after fainting. “Now you have given me new life. Would you believe it, till this moment I’ve been afraid to ask you, you, even you. Well, go! You’ve given me strength for to‐morrow. God bless you! Come, go along! Love Ivan!” was Mitya’s last word.

Alyosha went out in tears. Such distrustfulness in Mitya, such lack of confidence even to him, to Alyosha—all this suddenly opened before Alyosha an unsuspected depth of hopeless grief and despair in the soul of his unhappy brother. Intense, infinite compassion overwhelmed him instantly. There was a poignant ache in his torn heart. “Love Ivan!”—he suddenly recalled Mitya’s words. And he was going to Ivan. He badly wanted to see Ivan all day. He was as much worried about Ivan as about Mitya, and more than ever now.

Chapter V.
Not You, Not You!
On the way to Ivan he had to pass the house where Katerina Ivanovna was living. There was light in the windows. He suddenly stopped and resolved to go in. He had not seen Katerina Ivanovna for more than a week. But now it struck him that Ivan might be with her, especially on the eve of the terrible day. Ringing, and mounting the staircase, which was dimly lighted by a Chinese lantern, he saw a man coming down, and as they met, he recognized him as his brother. So he was just coming from Katerina Ivanovna.

“Ah, it’s only you,” said Ivan dryly. “Well, good‐by! You are going to her?”

“Yes.”

“I don’t advise you to; she’s upset and you’ll upset her more.”

A door was instantly flung open above, and a voice cried suddenly:

“No, no! Alexey Fyodorovitch, have you come from him?”

“Yes, I have been with him.”

“Has he sent me any message? Come up, Alyosha, and you, Ivan Fyodorovitch, you must come back, you must. Do you hear?”

There was such a peremptory note in Katya’s voice that Ivan, after a moment’s hesitation, made up his mind to go back with Alyosha.

“She was listening,” he murmured angrily to himself, but Alyosha heard it.

“Excuse my keeping my greatcoat on,” said Ivan, going into the drawing‐ room. “I won’t sit down. I won’t stay more than a minute.”

“Sit down, Alexey Fyodorovitch,” said Katerina Ivanovna, though she remained standing. She had changed very little during this time, but there was an ominous gleam in her dark eyes. Alyosha remembered afterwards that she had struck him as particularly handsome at that moment.

“What did he ask you to tell me?”

“Only one thing,” said Alyosha, looking her straight in the face, “that you would spare yourself and say nothing at the trial of what” (he was a little confused) “… passed between you … at the time of your first acquaintance … in that town.”

“Ah! that I bowed down to the ground for that money!” She broke into a bitter laugh. “Why, is he afraid for me or for himself? He asks me to spare—whom? Him or myself? Tell me, Alexey Fyodorovitch!”

Alyosha watched her intently, trying to understand her.

“Both yourself and him,” he answered softly.

“I am glad to hear it,” she snapped out maliciously, and she suddenly blushed.

“You don’t know me yet, Alexey Fyodorovitch,” she said menacingly. “And I don’t know myself yet. Perhaps you’ll want to trample me under foot after my examination to‐morrow.”

“You will give your evidence honorably,” said Alyosha; “that’s all that’s wanted.”

“Women are often dishonorable,” she snarled. “Only an hour ago I was thinking I felt afraid to touch that monster … as though he were a reptile … but no, he is still a human being to me! But did he do it? Is he the murderer?” she cried, all of a sudden, hysterically, turning quickly to Ivan. Alyosha saw at once that she had asked Ivan that question before, perhaps only a moment before he came in, and not for the first time, but for the hundredth, and that they had ended by quarreling.

“I’ve been to see Smerdyakov…. It was you, you who persuaded me that he murdered his father. It’s only you I believed!” she continued, still addressing Ivan. He gave her a sort of strained smile. Alyosha started at her tone. He had not suspected such familiar intimacy between them.

“Well, that’s enough, anyway,” Ivan cut short the conversation. “I am going. I’ll come to‐morrow.” And turning at once, he walked out of the room and went straight downstairs.

With an imperious gesture, Katerina Ivanovna seized Alyosha by both hands.

“Follow him! Overtake him! Don’t leave him alone for a minute!” she said, in a hurried whisper. “He’s mad! Don’t you know that he’s mad? He is in a fever, nervous fever. The doctor told me so. Go, run after him….”

Alyosha jumped up and ran after Ivan, who was not fifty paces ahead of him.

“What do you want?” He turned quickly on Alyosha, seeing that he was running after him. “She told you to catch me up, because I’m mad. I know it all by heart,” he added irritably.

“She is mistaken, of course; but she is right that you are ill,” said Alyosha. “I was looking at your face just now. You look very ill, Ivan.”

Ivan walked on without stopping. Alyosha followed him.

“And do you know, Alexey Fyodorovitch, how people do go out of their mind?” Ivan asked in a voice suddenly quiet, without a trace of irritation, with a note of the simplest curiosity.

“No, I don’t. I suppose there are all kinds of insanity.”

“And can one observe that one’s going mad oneself?”

“I imagine one can’t see oneself clearly in such circumstances,” Alyosha answered with surprise.

Ivan paused for half a minute.

“If you want to talk to me, please change the subject,” he said suddenly.

“Oh, while I think of it, I have a letter for you,” said Alyosha timidly, and he took Lise’s note from his pocket and held it out to Ivan. They were just under a lamp‐post. Ivan recognized the handwriting at once.

“Ah, from that little demon!” he laughed maliciously, and, without opening the envelope, he tore it into bits and threw it in the air. The bits were scattered by the wind.

“She’s not sixteen yet, I believe, and already offering herself,” he said contemptuously, striding along the street again.

“How do you mean, offering herself?” exclaimed Alyosha.

“As wanton women offer themselves, to be sure.”

“How can you, Ivan, how can you?” Alyosha cried warmly, in a grieved voice. “She is a child; you are insulting a child! She is ill; she is very ill, too. She is on the verge of insanity, too, perhaps…. I had hoped to hear something from you … that would save her.”

“You’ll hear nothing from me. If she is a child I am not her nurse. Be quiet, Alexey. Don’t go on about her. I am not even thinking about it.”

They were silent again for a moment.

“She will be praying all night now to the Mother of God to show her how to act to‐morrow at the trial,” he said sharply and angrily again.

“You … you mean Katerina Ivanovna?”

“Yes. Whether she’s to save Mitya or ruin him. She’ll pray for light from above. She can’t make up her mind for herself, you see. She has not had time to decide yet. She takes me for her nurse, too. She wants me to sing lullabies to her.”

“Katerina Ivanovna loves you, brother,” said Alyosha sadly.

“Perhaps; but I am not very keen on her.”

“She is suffering. Why do you … sometimes say things to her that give her hope?” Alyosha went on, with timid reproach. “I know that you’ve given her hope. Forgive me for speaking to you like this,” he added.

“I can’t behave to her as I ought—break off altogether and tell her so straight out,” said Ivan, irritably. “I must wait till sentence is passed on the murderer. If I break off with her now, she will avenge herself on me by ruining that scoundrel to‐morrow at the trial, for she hates him and knows she hates him. It’s all a lie—lie upon lie! As long as I don’t break off with her, she goes on hoping, and she won’t ruin that monster, knowing how I want to get him out of trouble. If only that damned verdict would come!”

The words “murderer” and “monster” echoed painfully in Alyosha’s heart.

“But how can she ruin Mitya?” he asked, pondering on Ivan’s words. “What evidence can she give that would ruin Mitya?”

“You don’t know that yet. She’s got a document in her hands, in Mitya’s own writing, that proves conclusively that he did murder Fyodor Pavlovitch.”

“That’s impossible!” cried Alyosha.

“Why is it impossible? I’ve read it myself.”

“There can’t be such a document!” Alyosha repeated warmly. “There can’t be, because he’s not the murderer. It’s not he murdered father, not he!”

Ivan suddenly stopped.

“Who is the murderer then, according to you?” he asked, with apparent coldness. There was even a supercilious note in his voice.

“You know who,” Alyosha pronounced in a low, penetrating voice.

“Who? You mean the myth about that crazy idiot, the epileptic, Smerdyakov?”

Alyosha suddenly felt himself trembling all over.

“You know who,” broke helplessly from him. He could scarcely breathe.

“Who? Who?” Ivan cried almost fiercely. All his restraint suddenly vanished.

“I only know one thing,” Alyosha went on, still almost in a whisper, “it wasn’t you killed father.”

“ ‘Not you’! What do you mean by ‘not you’?” Ivan was thunderstruck.

“It was not you killed father, not you!” Alyosha repeated firmly.

The silence lasted for half a minute.

“I know I didn’t. Are you raving?” said Ivan, with a pale, distorted smile. His eyes were riveted on Alyosha. They were standing again under a lamp‐post.

“No, Ivan. You’ve told yourself several times that you are the murderer.”

“When did I say so? I was in Moscow…. When have I said so?” Ivan faltered helplessly.

“You’ve said so to yourself many times, when you’ve been alone during these two dreadful months,” Alyosha went on softly and distinctly as before. Yet he was speaking now, as it were, not of himself, not of his own will, but obeying some irresistible command. “You have accused yourself and have confessed to yourself that you are the murderer and no one else. But you didn’t do it: you are mistaken: you are not the murderer. Do you hear? It was not you! God has sent me to tell you so.”

They were both silent. The silence lasted a whole long minute. They were both standing still, gazing into each other’s eyes. They were both pale. Suddenly Ivan began trembling all over, and clutched Alyosha’s shoulder.

“You’ve been in my room!” he whispered hoarsely. “You’ve been there at night, when he came…. Confess … have you seen him, have you seen him?”

“Whom do you mean—Mitya?” Alyosha asked, bewildered.

“Not him, damn the monster!” Ivan shouted, in a frenzy. “Do you know that he visits me? How did you find out? Speak!”

“Who is he! I don’t know whom you are talking about,” Alyosha faltered, beginning to be alarmed.

“Yes, you do know … or how could you—? It’s impossible that you don’t know.”

Suddenly he seemed to check himself. He stood still and seemed to reflect. A strange grin contorted his lips.

“Brother,” Alyosha began again, in a shaking voice, “I have said this to you, because you’ll believe my word, I know that. I tell you once and for all, it’s not you. You hear, once for all! God has put it into my heart to say this to you, even though it may make you hate me from this hour.”

But by now Ivan had apparently regained his self‐control.

“Alexey Fyodorovitch,” he said, with a cold smile, “I can’t endure prophets and epileptics—messengers from God especially—and you know that only too well. I break off all relations with you from this moment and probably for ever. I beg you to leave me at this turning. It’s the way to your lodgings, too. You’d better be particularly careful not to come to me to‐day! Do you hear?”

He turned and walked on with a firm step, not looking back.

“Brother,” Alyosha called after him, “if anything happens to you to‐day, turn to me before any one!”

But Ivan made no reply. Alyosha stood under the lamp‐post at the cross roads, till Ivan had vanished into the darkness. Then he turned and walked slowly homewards. Both Alyosha and Ivan were living in lodgings; neither of them was willing to live in Fyodor Pavlovitch’s empty house. Alyosha had a furnished room in the house of some working people. Ivan lived some distance from him. He had taken a roomy and fairly comfortable lodge attached to a fine house that belonged to a well‐to‐do lady, the widow of an official. But his only attendant was a deaf and rheumatic old crone who went to bed at six o’clock every evening and got up at six in the morning. Ivan had become remarkably indifferent to his comforts of late, and very fond of being alone. He did everything for himself in the one room he lived in, and rarely entered any of the other rooms in his abode.

He reached the gate of the house and had his hand on the bell, when he suddenly stopped. He felt that he was trembling all over with anger. Suddenly he let go of the bell, turned back with a curse, and walked with rapid steps in the opposite direction. He walked a mile and a half to a tiny, slanting, wooden house, almost a hut, where Marya Kondratyevna, the neighbor who used to come to Fyodor Pavlovitch’s kitchen for soup and to whom Smerdyakov had once sung his songs and played on the guitar, was now lodging. She had sold their little house, and was now living here with her mother. Smerdyakov, who was ill—almost dying—had been with them ever since Fyodor Pavlovitch’s death. It was to him Ivan was going now, drawn by a sudden and irresistible prompting.

Chapter VI.
The First Interview With Smerdyakov
This was the third time that Ivan had been to see Smerdyakov since his return from Moscow. The first time he had seen him and talked to him was on the first day of his arrival, then he had visited him once more, a fortnight later. But his visits had ended with that second one, so that it was now over a month since he had seen him. And he had scarcely heard anything of him.

Ivan had only returned five days after his father’s death, so that he was not present at the funeral, which took place the day before he came back. The cause of his delay was that Alyosha, not knowing his Moscow address, had to apply to Katerina Ivanovna to telegraph to him, and she, not knowing his address either, telegraphed to her sister and aunt, reckoning on Ivan’s going to see them as soon as he arrived in Moscow. But he did not go to them till four days after his arrival. When he got the telegram, he had, of course, set off post‐haste to our town. The first to meet him was Alyosha, and Ivan was greatly surprised to find that, in opposition to the general opinion of the town, he refused to entertain a suspicion against Mitya, and spoke openly of Smerdyakov as the murderer. Later on, after seeing the police captain and the prosecutor, and hearing the details of the charge and the arrest, he was still more surprised at Alyosha, and ascribed his opinion only to his exaggerated brotherly feeling and sympathy with Mitya, of whom Alyosha, as Ivan knew, was very fond.

By the way, let us say a word or two of Ivan’s feeling to his brother Dmitri. He positively disliked him; at most, felt sometimes a compassion for him, and even that was mixed with great contempt, almost repugnance. Mitya’s whole personality, even his appearance, was extremely unattractive to him. Ivan looked with indignation on Katerina Ivanovna’s love for his brother. Yet he went to see Mitya on the first day of his arrival, and that interview, far from shaking Ivan’s belief in his guilt, positively strengthened it. He found his brother agitated, nervously excited. Mitya had been talkative, but very absent‐minded and incoherent. He used violent language, accused Smerdyakov, and was fearfully muddled. He talked principally about the three thousand roubles, which he said had been “stolen” from him by his father.

“The money was mine, it was my money,” Mitya kept repeating. “Even if I had stolen it, I should have had the right.”

He hardly contested the evidence against him, and if he tried to turn a fact to his advantage, it was in an absurd and incoherent way. He hardly seemed to wish to defend himself to Ivan or any one else. Quite the contrary, he was angry and proudly scornful of the charges against him; he was continually firing up and abusing every one. He only laughed contemptuously at Grigory’s evidence about the open door, and declared that it was “the devil that opened it.” But he could not bring forward any coherent explanation of the fact. He even succeeded in insulting Ivan during their first interview, telling him sharply that it was not for people who declared that “everything was lawful,” to suspect and question him. Altogether he was anything but friendly with Ivan on that occasion. Immediately after that interview with Mitya, Ivan went for the first time to see Smerdyakov.

In the railway train on his way from Moscow, he kept thinking of Smerdyakov and of his last conversation with him on the evening before he went away. Many things seemed to him puzzling and suspicious. But when he gave his evidence to the investigating lawyer Ivan said nothing, for the time, of that conversation. He put that off till he had seen Smerdyakov, who was at that time in the hospital.

Doctor Herzenstube and Varvinsky, the doctor he met in the hospital, confidently asserted in reply to Ivan’s persistent questions, that Smerdyakov’s epileptic attack was unmistakably genuine, and were surprised indeed at Ivan asking whether he might not have been shamming on the day of the catastrophe. They gave him to understand that the attack was an exceptional one, the fits persisting and recurring several times, so that the patient’s life was positively in danger, and it was only now, after they had applied remedies, that they could assert with confidence that the patient would survive. “Though it might well be,” added Doctor Herzenstube, “that his reason would be impaired for a considerable period, if not permanently.” On Ivan’s asking impatiently whether that meant that he was now mad, they told him that this was not yet the case, in the full sense of the word, but that certain abnormalities were perceptible. Ivan decided to find out for himself what those abnormalities were.

At the hospital he was at once allowed to see the patient. Smerdyakov was lying on a truckle‐bed in a separate ward. There was only one other bed in the room, and in it lay a tradesman of the town, swollen with dropsy, who was obviously almost dying; he could be no hindrance to their conversation. Smerdyakov grinned uncertainly on seeing Ivan, and for the first instant seemed nervous. So at least Ivan fancied. But that was only momentary. For the rest of the time he was struck, on the contrary, by Smerdyakov’s composure. From the first glance Ivan had no doubt that he was very ill. He was very weak; he spoke slowly, seeming to move his tongue with difficulty; he was much thinner and sallower. Throughout the interview, which lasted twenty minutes, he kept complaining of headache and of pain in all his limbs. His thin emasculate face seemed to have become so tiny; his hair was ruffled, and his crest of curls in front stood up in a thin tuft. But in the left eye, which was screwed up and seemed to be insinuating something, Smerdyakov showed himself unchanged. “It’s always worth while speaking to a clever man.” Ivan was reminded of that at once. He sat down on the stool at his feet. Smerdyakov, with painful effort, shifted his position in bed, but he was not the first to speak. He remained dumb, and did not even look much interested.

“Can you talk to me?” asked Ivan. “I won’t tire you much.”

“Certainly I can,” mumbled Smerdyakov, in a faint voice. “Has your honor been back long?” he added patronizingly, as though encouraging a nervous visitor.

“I only arrived to‐day…. To see the mess you are in here.”

Smerdyakov sighed.

“Why do you sigh? You knew of it all along,” Ivan blurted out.

Smerdyakov was stolidly silent for a while.

“How could I help knowing? It was clear beforehand. But how could I tell it would turn out like that?”

“What would turn out? Don’t prevaricate! You’ve foretold you’d have a fit; on the way down to the cellar, you know. You mentioned the very spot.”

“Have you said so at the examination yet?” Smerdyakov queried with composure.

Ivan felt suddenly angry.

“No, I haven’t yet, but I certainly shall. You must explain a great deal to me, my man; and let me tell you, I am not going to let you play with me!”

“Why should I play with you, when I put my whole trust in you, as in God Almighty?” said Smerdyakov, with the same composure, only for a moment closing his eyes.

“In the first place,” began Ivan, “I know that epileptic fits can’t be told beforehand. I’ve inquired; don’t try and take me in. You can’t foretell the day and the hour. How was it you told me the day and the hour beforehand, and about the cellar, too? How could you tell that you would fall down the cellar stairs in a fit, if you didn’t sham a fit on purpose?”

“I had to go to the cellar anyway, several times a day, indeed,” Smerdyakov drawled deliberately. “I fell from the garret just in the same way a year ago. It’s quite true you can’t tell the day and hour of a fit beforehand, but you can always have a presentiment of it.”

“But you did foretell the day and the hour!”

“In regard to my epilepsy, sir, you had much better inquire of the doctors here. You can ask them whether it was a real fit or a sham; it’s no use my saying any more about it.”

“And the cellar? How could you know beforehand of the cellar?”

“You don’t seem able to get over that cellar! As I was going down to the cellar, I was in terrible dread and doubt. What frightened me most was losing you and being left without defense in all the world. So I went down into the cellar thinking, ‘Here, it’ll come on directly, it’ll strike me down directly, shall I fall?’ And it was through this fear that I suddenly felt the spasm that always comes … and so I went flying. All that and all my previous conversation with you at the gate the evening before, when I told you how frightened I was and spoke of the cellar, I told all that to Doctor Herzenstube and Nikolay Parfenovitch, the investigating lawyer, and it’s all been written down in the protocol. And the doctor here, Mr. Varvinsky, maintained to all of them that it was just the thought of it brought it on, the apprehension that I might fall. It was just then that the fit seized me. And so they’ve written it down, that it’s just how it must have happened, simply from my fear.”

As he finished, Smerdyakov drew a deep breath, as though exhausted.

“Then you have said all that in your evidence?” said Ivan, somewhat taken aback. He had meant to frighten him with the threat of repeating their conversation, and it appeared that Smerdyakov had already reported it all himself.

“What have I to be afraid of? Let them write down the whole truth,” Smerdyakov pronounced firmly.

“And have you told them every word of our conversation at the gate?”

“No, not to say every word.”

“And did you tell them that you can sham fits, as you boasted then?”

“No, I didn’t tell them that either.”

“Tell me now, why did you send me then to Tchermashnya?”

“I was afraid you’d go away to Moscow; Tchermashnya is nearer, anyway.”

“You are lying; you suggested my going away yourself; you told me to get out of the way of trouble.”

“That was simply out of affection and my sincere devotion to you, foreseeing trouble in the house, to spare you. Only I wanted to spare myself even more. That’s why I told you to get out of harm’s way, that you might understand that there would be trouble in the house, and would remain at home to protect your father.”

“You might have said it more directly, you blockhead!” Ivan suddenly fired up.

“How could I have said it more directly then? It was simply my fear that made me speak, and you might have been angry, too. I might well have been apprehensive that Dmitri Fyodorovitch would make a scene and carry away that money, for he considered it as good as his own; but who could tell that it would end in a murder like this? I thought that he would only carry off the three thousand that lay under the master’s mattress in the envelope, and you see, he’s murdered him. How could you guess it either, sir?”

“But if you say yourself that it couldn’t be guessed, how could I have guessed and stayed at home? You contradict yourself!” said Ivan, pondering.

“You might have guessed from my sending you to Tchermashnya and not to Moscow.”

“How could I guess it from that?”

Smerdyakov seemed much exhausted, and again he was silent for a minute.

“You might have guessed from the fact of my asking you not to go to Moscow, but to Tchermashnya, that I wanted to have you nearer, for Moscow’s a long way off, and Dmitri Fyodorovitch, knowing you are not far off, would not be so bold. And if anything had happened, you might have come to protect me, too, for I warned you of Grigory Vassilyevitch’s illness, and that I was afraid of having a fit. And when I explained those knocks to you, by means of which one could go in to the deceased, and that Dmitri Fyodorovitch knew them all through me, I thought that you would guess yourself that he would be sure to do something, and so wouldn’t go to Tchermashnya even, but would stay.”

“He talks very coherently,” thought Ivan, “though he does mumble; what’s the derangement of his faculties that Herzenstube talked of?”

“You are cunning with me, damn you!” he exclaimed, getting angry.

“But I thought at the time that you quite guessed,” Smerdyakov parried with the simplest air.

“If I’d guessed, I should have stayed,” cried Ivan.

“Why, I thought that it was because you guessed, that you went away in such a hurry, only to get out of trouble, only to run away and save yourself in your fright.”

“You think that every one is as great a coward as yourself?”

“Forgive me, I thought you were like me.”

“Of course, I ought to have guessed,” Ivan said in agitation; “and I did guess there was some mischief brewing on your part … only you are lying, you are lying again,” he cried, suddenly recollecting. “Do you remember how you went up to the carriage and said to me, ‘It’s always worth while speaking to a clever man’? So you were glad I went away, since you praised me?”

Smerdyakov sighed again and again. A trace of color came into his face.

“If I was pleased,” he articulated rather breathlessly, “it was simply because you agreed not to go to Moscow, but to Tchermashnya. For it was nearer, anyway. Only when I said these words to you, it was not by way of praise, but of reproach. You didn’t understand it.”

“What reproach?”

“Why, that foreseeing such a calamity you deserted your own father, and would not protect us, for I might have been taken up any time for stealing that three thousand.”

“Damn you!” Ivan swore again. “Stay, did you tell the prosecutor and the investigating lawyer about those knocks?”

“I told them everything just as it was.”

Ivan wondered inwardly again.

“If I thought of anything then,” he began again, “it was solely of some wickedness on your part. Dmitri might kill him, but that he would steal—I did not believe that then…. But I was prepared for any wickedness from you. You told me yourself you could sham a fit. What did you say that for?”

“It was just through my simplicity, and I never have shammed a fit on purpose in my life. And I only said so then to boast to you. It was just foolishness. I liked you so much then, and was open‐hearted with you.”

“My brother directly accuses you of the murder and theft.”

“What else is left for him to do?” said Smerdyakov, with a bitter grin. “And who will believe him with all the proofs against him? Grigory Vassilyevitch saw the door open. What can he say after that? But never mind him! He is trembling to save himself.”

He slowly ceased speaking; then suddenly, as though on reflection, added:

“And look here again. He wants to throw it on me and make out that it is the work of my hands—I’ve heard that already. But as to my being clever at shamming a fit: should I have told you beforehand that I could sham one, if I really had had such a design against your father? If I had been planning such a murder could I have been such a fool as to give such evidence against myself beforehand? And to his son, too! Upon my word! Is that likely? As if that could be, such a thing has never happened. No one hears this talk of ours now, except Providence itself, and if you were to tell of it to the prosecutor and Nikolay Parfenovitch you might defend me completely by doing so, for who would be likely to be such a criminal, if he is so open‐hearted beforehand? Any one can see that.”

“Well,” and Ivan got up to cut short the conversation, struck by Smerdyakov’s last argument. “I don’t suspect you at all, and I think it’s absurd, indeed, to suspect you. On the contrary, I am grateful to you for setting my mind at rest. Now I am going, but I’ll come again. Meanwhile, good‐by. Get well. Is there anything you want?”

“I am very thankful for everything. Marfa Ignatyevna does not forget me, and provides me anything I want, according to her kindness. Good people visit me every day.”

“Good‐by. But I shan’t say anything of your being able to sham a fit, and I don’t advise you to, either,” something made Ivan say suddenly.

“I quite understand. And if you don’t speak of that, I shall say nothing of that conversation of ours at the gate.”

Then it happened that Ivan went out, and only when he had gone a dozen steps along the corridor, he suddenly felt that there was an insulting significance in Smerdyakov’s last words. He was almost on the point of turning back, but it was only a passing impulse, and muttering, “Nonsense!” he went out of the hospital.

His chief feeling was one of relief at the fact that it was not Smerdyakov, but Mitya, who had committed the murder, though he might have been expected to feel the opposite. He did not want to analyze the reason for this feeling, and even felt a positive repugnance at prying into his sensations. He felt as though he wanted to make haste to forget something. In the following days he became convinced of Mitya’s guilt, as he got to know all the weight of evidence against him. There was evidence of people of no importance, Fenya and her mother, for instance, but the effect of it was almost overpowering. As to Perhotin, the people at the tavern, and at Plotnikov’s shop, as well as the witnesses at Mokroe, their evidence seemed conclusive. It was the details that were so damning. The secret of the knocks impressed the lawyers almost as much as Grigory’s evidence as to the open door. Grigory’s wife, Marfa, in answer to Ivan’s questions, declared that Smerdyakov had been lying all night the other side of the partition wall. “He was not three paces from our bed,” and that although she was a sound sleeper she waked several times and heard him moaning, “He was moaning the whole time, moaning continually.”

Talking to Herzenstube, and giving it as his opinion that Smerdyakov was not mad, but only rather weak, Ivan only evoked from the old man a subtle smile.

“Do you know how he spends his time now?” he asked; “learning lists of French words by heart. He has an exercise‐book under his pillow with the French words written out in Russian letters for him by some one, he he he!”

Ivan ended by dismissing all doubts. He could not think of Dmitri without repulsion. Only one thing was strange, however. Alyosha persisted that Dmitri was not the murderer, and that “in all probability” Smerdyakov was. Ivan always felt that Alyosha’s opinion meant a great deal to him, and so he was astonished at it now. Another thing that was strange was that Alyosha did not make any attempt to talk about Mitya with Ivan, that he never began on the subject and only answered his questions. This, too, struck Ivan particularly.

But he was very much preoccupied at that time with something quite apart from that. On his return from Moscow, he abandoned himself hopelessly to his mad and consuming passion for Katerina Ivanovna. This is not the time to begin to speak of this new passion of Ivan’s, which left its mark on all the rest of his life: this would furnish the subject for another novel, which I may perhaps never write. But I cannot omit to mention here that when Ivan, on leaving Katerina Ivanovna with Alyosha, as I’ve related already, told him, “I am not keen on her,” it was an absolute lie: he loved her madly, though at times he hated her so that he might have murdered her. Many causes helped to bring about this feeling. Shattered by what had happened with Mitya, she rushed on Ivan’s return to meet him as her one salvation. She was hurt, insulted and humiliated in her feelings. And here the man had come back to her, who had loved her so ardently before (oh! she knew that very well), and whose heart and intellect she considered so superior to her own. But the sternly virtuous girl did not abandon herself altogether to the man she loved, in spite of the Karamazov violence of his passions and the great fascination he had for her. She was continually tormented at the same time by remorse for having deserted Mitya, and in moments of discord and violent anger (and they were numerous) she told Ivan so plainly. This was what he had called to Alyosha “lies upon lies.” There was, of course, much that was false in it, and that angered Ivan more than anything…. But of all this later.

He did, in fact, for a time almost forget Smerdyakov’s existence, and yet, a fortnight after his first visit to him, he began to be haunted by the same strange thoughts as before. It’s enough to say that he was continually asking himself, why was it that on that last night in Fyodor Pavlovitch’s house he had crept out on to the stairs like a thief and listened to hear what his father was doing below? Why had he recalled that afterwards with repulsion? Why next morning, had he been suddenly so depressed on the journey? Why, as he reached Moscow, had he said to himself, “I am a scoundrel”? And now he almost fancied that these tormenting thoughts would make him even forget Katerina Ivanovna, so completely did they take possession of him again. It was just after fancying this, that he met Alyosha in the street. He stopped him at once, and put a question to him:

“Do you remember when Dmitri burst in after dinner and beat father, and afterwards I told you in the yard that I reserved ‘the right to desire’?… Tell me, did you think then that I desired father’s death or not?”

“I did think so,” answered Alyosha, softly.

“It was so, too; it was not a matter of guessing. But didn’t you fancy then that what I wished was just that ‘one reptile should devour another’; that is, just that Dmitri should kill father, and as soon as possible … and that I myself was even prepared to help to bring that about?”

Alyosha turned rather pale, and looked silently into his brother’s face.

“Speak!” cried Ivan, “I want above everything to know what you thought then. I want the truth, the truth!”

He drew a deep breath, looking angrily at Alyosha before his answer came.

“Forgive me, I did think that, too, at the time,” whispered Alyosha, and he did not add one softening phrase.

“Thanks,” snapped Ivan, and, leaving Alyosha, he went quickly on his way. From that time Alyosha noticed that Ivan began obviously to avoid him and seemed even to have taken a dislike to him, so much so that Alyosha gave up going to see him. Immediately after that meeting with him, Ivan had not gone home, but went straight to Smerdyakov again.

Chapter VII.
The Second Visit To Smerdyakov
By that time Smerdyakov had been discharged from the hospital. Ivan knew his new lodging, the dilapidated little wooden house, divided in two by a passage on one side of which lived Marya Kondratyevna and her mother, and on the other, Smerdyakov. No one knew on what terms he lived with them, whether as a friend or as a lodger. It was supposed afterwards that he had come to stay with them as Marya Kondratyevna’s betrothed, and was living there for a time without paying for board or lodging. Both mother and daughter had the greatest respect for him and looked upon him as greatly superior to themselves.

Ivan knocked, and, on the door being opened, went straight into the passage. By Marya Kondratyevna’s directions he went straight to the better room on the left, occupied by Smerdyakov. There was a tiled stove in the room and it was extremely hot. The walls were gay with blue paper, which was a good deal used however, and in the cracks under it cockroaches swarmed in amazing numbers, so that there was a continual rustling from them. The furniture was very scanty: two benches against each wall and two chairs by the table. The table of plain wood was covered with a cloth with pink patterns on it. There was a pot of geranium on each of the two little windows. In the corner there was a case of ikons. On the table stood a little copper samovar with many dents in it, and a tray with two cups. But Smerdyakov had finished tea and the samovar was out. He was sitting at the table on a bench. He was looking at an exercise‐book and slowly writing with a pen. There was a bottle of ink by him and a flat iron candlestick, but with a composite candle. Ivan saw at once from Smerdyakov’s face that he had completely recovered from his illness. His face was fresher, fuller, his hair stood up jauntily in front, and was plastered down at the sides. He was sitting in a parti‐colored, wadded dressing‐gown, rather dirty and frayed, however. He had spectacles on his nose, which Ivan had never seen him wearing before. This trifling circumstance suddenly redoubled Ivan’s anger: “A creature like that and wearing spectacles!”

Smerdyakov slowly raised his head and looked intently at his visitor through his spectacles; then he slowly took them off and rose from the bench, but by no means respectfully, almost lazily, doing the least possible required by common civility. All this struck Ivan instantly; he took it all in and noted it at once—most of all the look in Smerdyakov’s eyes, positively malicious, churlish and haughty. “What do you want to intrude for?” it seemed to say; “we settled everything then; why have you come again?” Ivan could scarcely control himself.

“It’s hot here,” he said, still standing, and unbuttoned his overcoat.

“Take off your coat,” Smerdyakov conceded.

Ivan took off his coat and threw it on a bench with trembling hands. He took a chair, moved it quickly to the table and sat down. Smerdyakov managed to sit down on his bench before him.

“To begin with, are we alone?” Ivan asked sternly and impulsively. “Can they overhear us in there?”

“No one can hear anything. You’ve seen for yourself: there’s a passage.”

“Listen, my good fellow; what was that you babbled, as I was leaving the hospital, that if I said nothing about your faculty of shamming fits, you wouldn’t tell the investigating lawyer all our conversation at the gate? What do you mean by all? What could you mean by it? Were you threatening me? Have I entered into some sort of compact with you? Do you suppose I am afraid of you?”

Ivan said this in a perfect fury, giving him to understand with obvious intention that he scorned any subterfuge or indirectness and meant to show his cards. Smerdyakov’s eyes gleamed resentfully, his left eye winked, and he at once gave his answer, with his habitual composure and deliberation. “You want to have everything above‐board; very well, you shall have it,” he seemed to say.

“This is what I meant then, and this is why I said that, that you, knowing beforehand of this murder of your own parent, left him to his fate, and that people mightn’t after that conclude any evil about your feelings and perhaps of something else, too—that’s what I promised not to tell the authorities.”

Though Smerdyakov spoke without haste and obviously controlling himself, yet there was something in his voice, determined and emphatic, resentful and insolently defiant. He stared impudently at Ivan. A mist passed before Ivan’s eyes for the first moment.

“How? What? Are you out of your mind?”

“I’m perfectly in possession of all my faculties.”

“Do you suppose I knew of the murder?” Ivan cried at last, and he brought his fist violently on the table. “What do you mean by ‘something else, too’? Speak, scoundrel!”

Smerdyakov was silent and still scanned Ivan with the same insolent stare.

“Speak, you stinking rogue, what is that ‘something else, too’?”

“The ‘something else’ I meant was that you probably, too, were very desirous of your parent’s death.”

Ivan jumped up and struck him with all his might on the shoulder, so that he fell back against the wall. In an instant his face was bathed in tears. Saying, “It’s a shame, sir, to strike a sick man,” he dried his eyes with a very dirty blue check handkerchief and sank into quiet weeping. A minute passed.

“That’s enough! Leave off,” Ivan said peremptorily, sitting down again. “Don’t put me out of all patience.”

Smerdyakov took the rag from his eyes. Every line of his puckered face reflected the insult he had just received.

“So you thought then, you scoundrel, that together with Dmitri I meant to kill my father?”

“I didn’t know what thoughts were in your mind then,” said Smerdyakov resentfully; “and so I stopped you then at the gate to sound you on that very point.”

“To sound what, what?”

“Why, that very circumstance, whether you wanted your father to be murdered or not.”

What infuriated Ivan more than anything was the aggressive, insolent tone to which Smerdyakov persistently adhered.

“It was you murdered him?” he cried suddenly.

Smerdyakov smiled contemptuously.

“You know of yourself, for a fact, that it wasn’t I murdered him. And I should have thought that there was no need for a sensible man to speak of it again.”

“But why, why had you such a suspicion about me at the time?”

“As you know already, it was simply from fear. For I was in such a position, shaking with fear, that I suspected every one. I resolved to sound you, too, for I thought if you wanted the same as your brother, then the business was as good as settled and I should be crushed like a fly, too.”

“Look here, you didn’t say that a fortnight ago.”

“I meant the same when I talked to you in the hospital, only I thought you’d understand without wasting words, and that being such a sensible man you wouldn’t care to talk of it openly.”

“What next! Come answer, answer, I insist: what was it … what could I have done to put such a degrading suspicion into your mean soul?”

“As for the murder, you couldn’t have done that and didn’t want to, but as for wanting some one else to do it, that was just what you did want.”

“And how coolly, how coolly he speaks! But why should I have wanted it; what grounds had I for wanting it?”

“What grounds had you? What about the inheritance?” said Smerdyakov sarcastically, and, as it were, vindictively. “Why, after your parent’s death there was at least forty thousand to come to each of you, and very likely more, but if Fyodor Pavlovitch got married then to that lady, Agrafena Alexandrovna, she would have had all his capital made over to her directly after the wedding, for she’s plenty of sense, so that your parent would not have left you two roubles between the three of you. And were they far from a wedding, either? Not a hair’s‐breadth: that lady had only to lift her little finger and he would have run after her to church, with his tongue out.”

Ivan restrained himself with painful effort.

“Very good,” he commented at last. “You see, I haven’t jumped up, I haven’t knocked you down, I haven’t killed you. Speak on. So, according to you, I had fixed on Dmitri to do it; I was reckoning on him?”

“How could you help reckoning on him? If he killed him, then he would lose all the rights of a nobleman, his rank and property, and would go off to exile; so his share of the inheritance would come to you and your brother Alexey Fyodorovitch in equal parts; so you’d each have not forty, but sixty thousand each. There’s not a doubt you did reckon on Dmitri Fyodorovitch.”

“What I put up with from you! Listen, scoundrel, if I had reckoned on any one then, it would have been on you, not on Dmitri, and I swear I did expect some wickedness from you … at the time…. I remember my impression!”

“I thought, too, for a minute, at the time, that you were reckoning on me as well,” said Smerdyakov, with a sarcastic grin. “So that it was just by that more than anything you showed me what was in your mind. For if you had a foreboding about me and yet went away, you as good as said to me, ‘You can murder my parent, I won’t hinder you!’ ”

“You scoundrel! So that’s how you understood it!”

“It was all that going to Tchermashnya. Why! You were meaning to go to Moscow and refused all your father’s entreaties to go to Tchermashnya—and simply at a foolish word from me you consented at once! What reason had you to consent to Tchermashnya? Since you went to Tchermashnya with no reason, simply at my word, it shows that you must have expected something from me.”

“No, I swear I didn’t!” shouted Ivan, grinding his teeth.

“You didn’t? Then you ought, as your father’s son, to have had me taken to the lock‐up and thrashed at once for my words then … or at least, to have given me a punch in the face on the spot, but you were not a bit angry, if you please, and at once in a friendly way acted on my foolish word and went away, which was utterly absurd, for you ought to have stayed to save your parent’s life. How could I help drawing my conclusions?”

Ivan sat scowling, both his fists convulsively pressed on his knees.

“Yes, I am sorry I didn’t punch you in the face,” he said with a bitter smile. “I couldn’t have taken you to the lock‐up just then. Who would have believed me and what charge could I bring against you? But the punch in the face … oh, I’m sorry I didn’t think of it. Though blows are forbidden, I should have pounded your ugly face to a jelly.”

Smerdyakov looked at him almost with relish.

“In the ordinary occasions of life,” he said in the same complacent and sententious tone in which he had taunted Grigory and argued with him about religion at Fyodor Pavlovitch’s table, “in the ordinary occasions of life, blows on the face are forbidden nowadays by law, and people have given them up, but in exceptional occasions of life people still fly to blows, not only among us but all over the world, be it even the fullest Republic of France, just as in the time of Adam and Eve, and they never will leave off, but you, even in an exceptional case, did not dare.”

“What are you learning French words for?” Ivan nodded towards the exercise‐book lying on the table.

“Why shouldn’t I learn them so as to improve my education, supposing that I may myself chance to go some day to those happy parts of Europe?”

“Listen, monster.” Ivan’s eyes flashed and he trembled all over. “I am not afraid of your accusations; you can say what you like about me, and if I don’t beat you to death, it’s simply because I suspect you of that crime and I’ll drag you to justice. I’ll unmask you.”

“To my thinking, you’d better keep quiet, for what can you accuse me of, considering my absolute innocence? and who would believe you? Only if you begin, I shall tell everything, too, for I must defend myself.”

“Do you think I am afraid of you now?”

“If the court doesn’t believe all I’ve said to you just now, the public will, and you will be ashamed.”

“That’s as much as to say, ‘It’s always worth while speaking to a sensible man,’ eh?” snarled Ivan.

“You hit the mark, indeed. And you’d better be sensible.”

Ivan got up, shaking all over with indignation, put on his coat, and without replying further to Smerdyakov, without even looking at him, walked quickly out of the cottage. The cool evening air refreshed him. There was a bright moon in the sky. A nightmare of ideas and sensations filled his soul. “Shall I go at once and give information against Smerdyakov? But what information can I give? He is not guilty, anyway. On the contrary, he’ll accuse me. And in fact, why did I set off for Tchermashnya then? What for? What for?” Ivan asked himself. “Yes, of course, I was expecting something and he is right….” And he remembered for the hundredth time how, on the last night in his father’s house, he had listened on the stairs. But he remembered it now with such anguish that he stood still on the spot as though he had been stabbed. “Yes, I expected it then, that’s true! I wanted the murder, I did want the murder! Did I want the murder? Did I want it? I must kill Smerdyakov! If I don’t dare kill Smerdyakov now, life is not worth living!”

Ivan did not go home, but went straight to Katerina Ivanovna and alarmed her by his appearance. He was like a madman. He repeated all his conversation with Smerdyakov, every syllable of it. He couldn’t be calmed, however much she tried to soothe him: he kept walking about the room, speaking strangely, disconnectedly. At last he sat down, put his elbows on the table, leaned his head on his hands and pronounced this strange sentence: “If it’s not Dmitri, but Smerdyakov who’s the murderer, I share his guilt, for I put him up to it. Whether I did, I don’t know yet. But if he is the murderer, and not Dmitri, then, of course, I am the murderer, too.”

When Katerina Ivanovna heard that, she got up from her seat without a word, went to her writing‐table, opened a box standing on it, took out a sheet of paper and laid it before Ivan. This was the document of which Ivan spoke to Alyosha later on as a “conclusive proof” that Dmitri had killed his father. It was the letter written by Mitya to Katerina Ivanovna when he was drunk, on the very evening he met Alyosha at the crossroads on the way to the monastery, after the scene at Katerina Ivanovna’s, when Grushenka had insulted her. Then, parting from Alyosha, Mitya had rushed to Grushenka. I don’t know whether he saw her, but in the evening he was at the “Metropolis,” where he got thoroughly drunk. Then he asked for pen and paper and wrote a document of weighty consequences to himself. It was a wordy, disconnected, frantic letter, a drunken letter in fact. It was like the talk of a drunken man, who, on his return home, begins with extraordinary heat telling his wife or one of his household how he has just been insulted, what a rascal had just insulted him, what a fine fellow he is on the other hand, and how he will pay that scoundrel out; and all that at great length, with great excitement and incoherence, with drunken tears and blows on the table. The letter was written on a dirty piece of ordinary paper of the cheapest kind. It had been provided by the tavern and there were figures scrawled on the back of it. There was evidently not space enough for his drunken verbosity and Mitya not only filled the margins but had written the last line right across the rest. The letter ran as follows:

FATAL KATYA: To‐morrow I will get the money and repay your three thousand and farewell, woman of great wrath, but farewell, too, my love! Let us make an end! To‐morrow I shall try and get it from every one, and if I can’t borrow it, I give you my word of honor I shall go to my father and break his skull and take the money from under the pillow, if only Ivan has gone. If I have to go to Siberia for it, I’ll give you back your three thousand. And farewell. I bow down to the ground before you, for I’ve been a scoundrel to you. Forgive me! No, better not forgive me, you’ll be happier and so shall I! Better Siberia than your love, for I love another woman and you got to know her too well to‐day, so how can you forgive? I will murder the man who’s robbed me! I’ll leave you all and go to the East so as to see no one again. Not her either, for you are not my only tormentress; she is too. Farewell!
P.S.—I write my curse, but I adore you! I hear it in my heart. One string is left, and it vibrates. Better tear my heart in two! I shall kill myself, but first of all that cur. I shall tear three thousand from him and fling it to you. Though I’ve been a scoundrel to you, I am not a thief! You can expect three thousand. The cur keeps it under his mattress, in pink ribbon. I am not a thief, but I’ll murder my thief. Katya, don’t look disdainful. Dmitri is not a thief! but a murderer! He has murdered his father and ruined himself to hold his ground, rather than endure your pride. And he doesn’t love you.
P.P.S.—I kiss your feet, farewell! P.P.P.S.—Katya, pray to God that some one’ll give me the money. Then I shall not be steeped in gore, and if no one does—I shall! Kill me!

Your slave and enemy,
D. KARAMAZOV.

When Ivan read this “document” he was convinced. So then it was his brother, not Smerdyakov. And if not Smerdyakov, then not he, Ivan. This letter at once assumed in his eyes the aspect of a logical proof. There could be no longer the slightest doubt of Mitya’s guilt. The suspicion never occurred to Ivan, by the way, that Mitya might have committed the murder in conjunction with Smerdyakov, and, indeed, such a theory did not fit in with the facts. Ivan was completely reassured. The next morning he only thought of Smerdyakov and his gibes with contempt. A few days later he positively wondered how he could have been so horribly distressed at his suspicions. He resolved to dismiss him with contempt and forget him. So passed a month. He made no further inquiry about Smerdyakov, but twice he happened to hear that he was very ill and out of his mind.

“He’ll end in madness,” the young doctor Varvinsky observed about him, and Ivan remembered this. During the last week of that month Ivan himself began to feel very ill. He went to consult the Moscow doctor who had been sent for by Katerina Ivanovna just before the trial. And just at that time his relations with Katerina Ivanovna became acutely strained. They were like two enemies in love with one another. Katerina Ivanovna’s “returns” to Mitya, that is, her brief but violent revulsions of feeling in his favor, drove Ivan to perfect frenzy. Strange to say, until that last scene described above, when Alyosha came from Mitya to Katerina Ivanovna, Ivan had never once, during that month, heard her express a doubt of Mitya’s guilt, in spite of those “returns” that were so hateful to him. It is remarkable, too, that while he felt that he hated Mitya more and more every day, he realized that it was not on account of Katya’s “returns” that he hated him, but just because he was the murderer of his father. He was conscious of this and fully recognized it to himself.

Nevertheless, he went to see Mitya ten days before the trial and proposed to him a plan of escape—a plan he had obviously thought over a long time. He was partly impelled to do this by a sore place still left in his heart from a phrase of Smerdyakov’s, that it was to his, Ivan’s, advantage that his brother should be convicted, as that would increase his inheritance and Alyosha’s from forty to sixty thousand roubles. He determined to sacrifice thirty thousand on arranging Mitya’s escape. On his return from seeing him, he was very mournful and dispirited; he suddenly began to feel that he was anxious for Mitya’s escape, not only to heal that sore place by sacrificing thirty thousand, but for another reason. “Is it because I am as much a murderer at heart?” he asked himself. Something very deep down seemed burning and rankling in his soul. His pride above all suffered cruelly all that month. But of that later….

When, after his conversation with Alyosha, Ivan suddenly decided with his hand on the bell of his lodging to go to Smerdyakov, he obeyed a sudden and peculiar impulse of indignation. He suddenly remembered how Katerina Ivanovna had only just cried out to him in Alyosha’s presence: “It was you, you, persuaded me of his” (that is, Mitya’s) “guilt!” Ivan was thunderstruck when he recalled it. He had never once tried to persuade her that Mitya was the murderer; on the contrary, he had suspected himself in her presence, that time when he came back from Smerdyakov. It was she, she, who had produced that “document” and proved his brother’s guilt. And now she suddenly exclaimed: “I’ve been at Smerdyakov’s myself!” When had she been there? Ivan had known nothing of it. So she was not at all so sure of Mitya’s guilt! And what could Smerdyakov have told her? What, what, had he said to her? His heart burned with violent anger. He could not understand how he could, half an hour before, have let those words pass and not have cried out at the moment. He let go of the bell and rushed off to Smerdyakov. “I shall kill him, perhaps, this time,” he thought on the way.

Chapter VIII.
The Third And Last Interview With Smerdyakov
When he was half‐way there, the keen dry wind that had been blowing early that morning rose again, and a fine dry snow began falling thickly. It did not lie on the ground, but was whirled about by the wind, and soon there was a regular snowstorm. There were scarcely any lamp‐posts in the part of the town where Smerdyakov lived. Ivan strode alone in the darkness, unconscious of the storm, instinctively picking out his way. His head ached and there was a painful throbbing in his temples. He felt that his hands were twitching convulsively. Not far from Marya Kondratyevna’s cottage, Ivan suddenly came upon a solitary drunken little peasant. He was wearing a coarse and patched coat, and was walking in zigzags, grumbling and swearing to himself. Then suddenly he would begin singing in a husky drunken voice:

“Ach, Vanka’s gone to Petersburg;
I won’t wait till he comes back.”

But he broke off every time at the second line and began swearing again; then he would begin the same song again. Ivan felt an intense hatred for him before he had thought about him at all. Suddenly he realized his presence and felt an irresistible impulse to knock him down. At that moment they met, and the peasant with a violent lurch fell full tilt against Ivan, who pushed him back furiously. The peasant went flying backwards and fell like a log on the frozen ground. He uttered one plaintive “O—oh!” and then was silent. Ivan stepped up to him. He was lying on his back, without movement or consciousness. “He will be frozen,” thought Ivan, and he went on his way to Smerdyakov’s.

In the passage, Marya Kondratyevna, who ran out to open the door with a candle in her hand, whispered that Smerdyakov was very ill, “It’s not that he’s laid up, but he seems not himself, and he even told us to take the tea away; he wouldn’t have any.”

“Why, does he make a row?” asked Ivan coarsely.

“Oh, dear, no, quite the contrary, he’s very quiet. Only please don’t talk to him too long,” Marya Kondratyevna begged him. Ivan opened the door and stepped into the room.

It was over‐heated as before, but there were changes in the room. One of the benches at the side had been removed, and in its place had been put a large old mahogany leather sofa, on which a bed had been made up, with fairly clean white pillows. Smerdyakov was sitting on the sofa, wearing the same dressing‐gown. The table had been brought out in front of the sofa, so that there was hardly room to move. On the table lay a thick book in yellow cover, but Smerdyakov was not reading it. He seemed to be sitting doing nothing. He met Ivan with a slow silent gaze, and was apparently not at all surprised at his coming. There was a great change in his face; he was much thinner and sallower. His eyes were sunken and there were blue marks under them.

“Why, you really are ill?” Ivan stopped short. “I won’t keep you long, I won’t even take off my coat. Where can one sit down?”

He went to the other end of the table, moved up a chair and sat down on it.

“Why do you look at me without speaking? I’ve only come with one question, and I swear I won’t go without an answer. Has the young lady, Katerina Ivanovna, been with you?”

Smerdyakov still remained silent, looking quietly at Ivan as before. Suddenly, with a motion of his hand, he turned his face away.

“What’s the matter with you?” cried Ivan.

“Nothing.”

“What do you mean by ‘nothing’?”

“Yes, she has. It’s no matter to you. Let me alone.”

“No, I won’t let you alone. Tell me, when was she here?”

“Why, I’d quite forgotten about her,” said Smerdyakov, with a scornful smile, and turning his face to Ivan again, he stared at him with a look of frenzied hatred, the same look that he had fixed on him at their last interview, a month before.

“You seem very ill yourself, your face is sunken; you don’t look like yourself,” he said to Ivan.

“Never mind my health, tell me what I ask you.”

“But why are your eyes so yellow? The whites are quite yellow. Are you so worried?” He smiled contemptuously and suddenly laughed outright.

“Listen; I’ve told you I won’t go away without an answer!” Ivan cried, intensely irritated.

“Why do you keep pestering me? Why do you torment me?” said Smerdyakov, with a look of suffering.

“Damn it! I’ve nothing to do with you. Just answer my question and I’ll go away.”

“I’ve no answer to give you,” said Smerdyakov, looking down again.

“You may be sure I’ll make you answer!”

“Why are you so uneasy?” Smerdyakov stared at him, not simply with contempt, but almost with repulsion. “Is this because the trial begins to‐ morrow? Nothing will happen to you; can’t you believe that at last? Go home, go to bed and sleep in peace, don’t be afraid of anything.”

“I don’t understand you…. What have I to be afraid of to‐morrow?” Ivan articulated in astonishment, and suddenly a chill breath of fear did in fact pass over his soul. Smerdyakov measured him with his eyes.

“You don’t understand?” he drawled reproachfully. “It’s a strange thing a sensible man should care to play such a farce!”

Ivan looked at him speechless. The startling, incredibly supercilious tone of this man who had once been his valet, was extraordinary in itself. He had not taken such a tone even at their last interview.

“I tell you, you’ve nothing to be afraid of. I won’t say anything about you; there’s no proof against you. I say, how your hands are trembling! Why are your fingers moving like that? Go home, you did not murder him.”

Ivan started. He remembered Alyosha.

“I know it was not I,” he faltered.

“Do you?” Smerdyakov caught him up again.

Ivan jumped up and seized him by the shoulder.

“Tell me everything, you viper! Tell me everything!”

Smerdyakov was not in the least scared. He only riveted his eyes on Ivan with insane hatred.

“Well, it was you who murdered him, if that’s it,” he whispered furiously.

Ivan sank back on his chair, as though pondering something. He laughed malignantly.

“You mean my going away. What you talked about last time?”

“You stood before me last time and understood it all, and you understand it now.”

“All I understand is that you are mad.”

“Aren’t you tired of it? Here we are face to face; what’s the use of going on keeping up a farce to each other? Are you still trying to throw it all on me, to my face? You murdered him; you are the real murderer, I was only your instrument, your faithful servant, and it was following your words I did it.”

“Did it? Why, did you murder him?” Ivan turned cold.

Something seemed to give way in his brain, and he shuddered all over with a cold shiver. Then Smerdyakov himself looked at him wonderingly; probably the genuineness of Ivan’s horror struck him.

“You don’t mean to say you really did not know?” he faltered mistrustfully, looking with a forced smile into his eyes. Ivan still gazed at him, and seemed unable to speak.

Ach, Vanka’s gone to Petersburg;
I won’t wait till he comes back,

suddenly echoed in his head.

“Do you know, I am afraid that you are a dream, a phantom sitting before me,” he muttered.

“There’s no phantom here, but only us two and one other. No doubt he is here, that third, between us.”

“Who is he? Who is here? What third person?” Ivan cried in alarm, looking about him, his eyes hastily searching in every corner.

“That third is God Himself—Providence. He is the third beside us now. Only don’t look for Him, you won’t find Him.”

“It’s a lie that you killed him!” Ivan cried madly. “You are mad, or teasing me again!”

Smerdyakov, as before, watched him curiously, with no sign of fear. He could still scarcely get over his incredulity; he still fancied that Ivan knew everything and was trying to “throw it all on him to his face.”

“Wait a minute,” he said at last in a weak voice, and suddenly bringing up his left leg from under the table, he began turning up his trouser leg. He was wearing long white stockings and slippers. Slowly he took off his garter and fumbled to the bottom of his stocking. Ivan gazed at him, and suddenly shuddered in a paroxysm of terror.

“He’s mad!” he cried, and rapidly jumping up, he drew back, so that he knocked his back against the wall and stood up against it, stiff and straight. He looked with insane terror at Smerdyakov, who, entirely unaffected by his terror, continued fumbling in his stocking, as though he were making an effort to get hold of something with his fingers and pull it out. At last he got hold of it and began pulling it out. Ivan saw that it was a piece of paper, or perhaps a roll of papers. Smerdyakov pulled it out and laid it on the table.

“Here,” he said quietly.

“What is it?” asked Ivan, trembling.

“Kindly look at it,” Smerdyakov answered, still in the same low tone.

Ivan stepped up to the table, took up the roll of paper and began unfolding it, but suddenly he drew back his fingers, as though from contact with a loathsome reptile.

“Your hands keep twitching,” observed Smerdyakov, and he deliberately unfolded the bundle himself. Under the wrapper were three packets of hundred‐rouble notes.

“They are all here, all the three thousand roubles; you need not count them. Take them,” Smerdyakov suggested to Ivan, nodding at the notes. Ivan sank back in his chair. He was as white as a handkerchief.

“You frightened me … with your stocking,” he said, with a strange grin.

“Can you really not have known till now?” Smerdyakov asked once more.

“No, I did not know. I kept thinking of Dmitri. Brother, brother! Ach!” He suddenly clutched his head in both hands.

“Listen. Did you kill him alone? With my brother’s help or without?”

“It was only with you, with your help, I killed him, and Dmitri Fyodorovitch is quite innocent.”

“All right, all right. Talk about me later. Why do I keep on trembling? I can’t speak properly.”

“You were bold enough then. You said ‘everything was lawful,’ and how frightened you are now,” Smerdyakov muttered in surprise. “Won’t you have some lemonade? I’ll ask for some at once. It’s very refreshing. Only I must hide this first.”

And again he motioned at the notes. He was just going to get up and call at the door to Marya Kondratyevna to make some lemonade and bring it them, but, looking for something to cover up the notes that she might not see them, he first took out his handkerchief, and as it turned out to be very dirty, took up the big yellow book that Ivan had noticed at first lying on the table, and put it over the notes. The book was The Sayings of the Holy Father Isaac the Syrian. Ivan read it mechanically.

“I won’t have any lemonade,” he said. “Talk of me later. Sit down and tell me how you did it. Tell me all about it.”

“You’d better take off your greatcoat, or you’ll be too hot.” Ivan, as though he’d only just thought of it, took off his coat, and, without getting up from his chair, threw it on the bench.

“Speak, please, speak.”

He seemed calmer. He waited, feeling sure that Smerdyakov would tell him all about it.

“How it was done?” sighed Smerdyakov. “It was done in a most natural way, following your very words.”

“Of my words later,” Ivan broke in again, apparently with complete self‐ possession, firmly uttering his words, and not shouting as before. “Only tell me in detail how you did it. Everything, as it happened. Don’t forget anything. The details, above everything, the details, I beg you.”

“You’d gone away, then I fell into the cellar.”

“In a fit or in a sham one?”

“A sham one, naturally. I shammed it all. I went quietly down the steps to the very bottom and lay down quietly, and as I lay down I gave a scream, and struggled, till they carried me out.”

“Stay! And were you shamming all along, afterwards, and in the hospital?”

“No, not at all. Next day, in the morning, before they took me to the hospital, I had a real attack and a more violent one than I’ve had for years. For two days I was quite unconscious.”

“All right, all right. Go on.”

“They laid me on the bed. I knew I’d be the other side of the partition, for whenever I was ill, Marfa Ignatyevna used to put me there, near them. She’s always been very kind to me, from my birth up. At night I moaned, but quietly. I kept expecting Dmitri Fyodorovitch to come.”

“Expecting him? To come to you?”

“Not to me. I expected him to come into the house, for I’d no doubt that he’d come that night, for being without me and getting no news, he’d be sure to come and climb over the fence, as he used to, and do something.”

“And if he hadn’t come?”

“Then nothing would have happened. I should never have brought myself to it without him.”

“All right, all right … speak more intelligibly, don’t hurry; above all, don’t leave anything out!”

“I expected him to kill Fyodor Pavlovitch. I thought that was certain, for I had prepared him for it … during the last few days…. He knew about the knocks, that was the chief thing. With his suspiciousness and the fury which had been growing in him all those days, he was bound to get into the house by means of those taps. That was inevitable, so I was expecting him.”

“Stay,” Ivan interrupted; “if he had killed him, he would have taken the money and carried it away; you must have considered that. What would you have got by it afterwards? I don’t see.”

“But he would never have found the money. That was only what I told him, that the money was under the mattress. But that wasn’t true. It had been lying in a box. And afterwards I suggested to Fyodor Pavlovitch, as I was the only person he trusted, to hide the envelope with the notes in the corner behind the ikons, for no one would have guessed that place, especially if they came in a hurry. So that’s where the envelope lay, in the corner behind the ikons. It would have been absurd to keep it under the mattress; the box, anyway, could be locked. But all believe it was under the mattress. A stupid thing to believe. So if Dmitri Fyodorovitch had committed the murder, finding nothing, he would either have run away in a hurry, afraid of every sound, as always happens with murderers, or he would have been arrested. So I could always have clambered up to the ikons and have taken away the money next morning or even that night, and it would have all been put down to Dmitri Fyodorovitch. I could reckon upon that.”

“But what if he did not kill him, but only knocked him down?”

“If he did not kill him, of course, I would not have ventured to take the money, and nothing would have happened. But I calculated that he would beat him senseless, and I should have time to take it then, and then I’d make out to Fyodor Pavlovitch that it was no one but Dmitri Fyodorovitch who had taken the money after beating him.”

“Stop … I am getting mixed. Then it was Dmitri after all who killed him; you only took the money?”

“No, he didn’t kill him. Well, I might as well have told you now that he was the murderer…. But I don’t want to lie to you now, because … because if you really haven’t understood till now, as I see for myself, and are not pretending, so as to throw your guilt on me to my very face, you are still responsible for it all, since you knew of the murder and charged me to do it, and went away knowing all about it. And so I want to prove to your face this evening that you are the only real murderer in the whole affair, and I am not the real murderer, though I did kill him. You are the rightful murderer.”

“Why, why, am I a murderer? Oh, God!” Ivan cried, unable to restrain himself at last, and forgetting that he had put off discussing himself till the end of the conversation. “You still mean that Tchermashnya? Stay, tell me, why did you want my consent, if you really took Tchermashnya for consent? How will you explain that now?”

“Assured of your consent, I should have known that you wouldn’t have made an outcry over those three thousand being lost, even if I’d been suspected, instead of Dmitri Fyodorovitch, or as his accomplice; on the contrary, you would have protected me from others…. And when you got your inheritance you would have rewarded me when you were able, all the rest of your life. For you’d have received your inheritance through me, seeing that if he had married Agrafena Alexandrovna, you wouldn’t have had a farthing.”

“Ah! Then you intended to worry me all my life afterwards,” snarled Ivan. “And what if I hadn’t gone away then, but had informed against you?”

“What could you have informed? That I persuaded you to go to Tchermashnya? That’s all nonsense. Besides, after our conversation you would either have gone away or have stayed. If you had stayed, nothing would have happened. I should have known that you didn’t want it done, and should have attempted nothing. As you went away, it meant you assured me that you wouldn’t dare to inform against me at the trial, and that you’d overlook my having the three thousand. And, indeed, you couldn’t have prosecuted me afterwards, because then I should have told it all in the court; that is, not that I had stolen the money or killed him—I shouldn’t have said that—but that you’d put me up to the theft and the murder, though I didn’t consent to it. That’s why I needed your consent, so that you couldn’t have cornered me afterwards, for what proof could you have had? I could always have cornered you, revealing your eagerness for your father’s death, and I tell you the public would have believed it all, and you would have been ashamed for the rest of your life.”

“Was I then so eager, was I?” Ivan snarled again.

“To be sure you were, and by your consent you silently sanctioned my doing it.” Smerdyakov looked resolutely at Ivan. He was very weak and spoke slowly and wearily, but some hidden inner force urged him on. He evidently had some design. Ivan felt that.

“Go on,” he said. “Tell me what happened that night.”

“What more is there to tell! I lay there and I thought I heard the master shout. And before that Grigory Vassilyevitch had suddenly got up and came out, and he suddenly gave a scream, and then all was silence and darkness. I lay there waiting, my heart beating; I couldn’t bear it. I got up at last, went out. I saw the window open on the left into the garden, and I stepped to the left to listen whether he was sitting there alive, and I heard the master moving about, sighing, so I knew he was alive. ‘Ech!’ I thought. I went to the window and shouted to the master, ‘It’s I.’ And he shouted to me, ‘He’s been, he’s been; he’s run away.’ He meant Dmitri Fyodorovitch had been. ‘He’s killed Grigory!’ ‘Where?’ I whispered. ‘There, in the corner,’ he pointed. He was whispering, too. ‘Wait a bit,’ I said. I went to the corner of the garden to look, and there I came upon Grigory Vassilyevitch lying by the wall, covered with blood, senseless. So it’s true that Dmitri Fyodorovitch has been here, was the thought that came into my head, and I determined on the spot to make an end of it, as Grigory Vassilyevitch, even if he were alive, would see nothing of it, as he lay there senseless. The only risk was that Marfa Ignatyevna might wake up. I felt that at the moment, but the longing to get it done came over me, till I could scarcely breathe. I went back to the window to the master and said, ‘She’s here, she’s come; Agrafena Alexandrovna has come, wants to be let in.’ And he started like a baby. ‘Where is she?’ he fairly gasped, but couldn’t believe it. ‘She’s standing there,’ said I. ‘Open.’ He looked out of the window at me, half believing and half distrustful, but afraid to open. ‘Why, he is afraid of me now,’ I thought. And it was funny. I bethought me to knock on the window‐frame those taps we’d agreed upon as a signal that Grushenka had come, in his presence, before his eyes. He didn’t seem to believe my word, but as soon as he heard the taps, he ran at once to open the door. He opened it. I would have gone in, but he stood in the way to prevent me passing. ‘Where is she? Where is she?’ He looked at me, all of a tremble. ‘Well,’ thought I, ‘if he’s so frightened of me as all that, it’s a bad look out!’ And my legs went weak with fright that he wouldn’t let me in or would call out, or Marfa Ignatyevna would run up, or something else might happen. I don’t remember now, but I must have stood pale, facing him. I whispered to him, ‘Why, she’s there, there, under the window; how is it you don’t see her?’ I said. ‘Bring her then, bring her.’ ‘She’s afraid,’ said I; ‘she was frightened at the noise, she’s hidden in the bushes; go and call to her yourself from the study.’ He ran to the window, put the candle in the window. ‘Grushenka,’ he cried, ‘Grushenka, are you here?’ Though he cried that, he didn’t want to lean out of the window, he didn’t want to move away from me, for he was panic‐stricken; he was so frightened he didn’t dare to turn his back on me. ‘Why, here she is,’ said I. I went up to the window and leaned right out of it. ‘Here she is; she’s in the bush, laughing at you, don’t you see her?’ He suddenly believed it; he was all of a shake—he was awfully crazy about her—and he leaned right out of the window. I snatched up that iron paper‐weight from his table; do you remember, weighing about three pounds? I swung it and hit him on the top of the skull with the corner of it. He didn’t even cry out. He only sank down suddenly, and I hit him again and a third time. And the third time I knew I’d broken his skull. He suddenly rolled on his back, face upwards, covered with blood. I looked round. There was no blood on me, not a spot. I wiped the paper‐weight, put it back, went up to the ikons, took the money out of the envelope, and flung the envelope on the floor and the pink ribbon beside it. I went out into the garden all of a tremble, straight to the apple‐tree with a hollow in it—you know that hollow. I’d marked it long before and put a rag and a piece of paper ready in it. I wrapped all the notes in the rag and stuffed it deep down in the hole. And there it stayed for over a fortnight. I took it out later, when I came out of the hospital. I went back to my bed, lay down and thought, ‘If Grigory Vassilyevitch has been killed outright it may be a bad job for me, but if he is not killed and recovers, it will be first‐rate, for then he’ll bear witness that Dmitri Fyodorovitch has been here, and so he must have killed him and taken the money.’ Then I began groaning with suspense and impatience, so as to wake Marfa Ignatyevna as soon as possible. At last she got up and she rushed to me, but when she saw Grigory Vassilyevitch was not there, she ran out, and I heard her scream in the garden. And that set it all going and set my mind at rest.”

He stopped. Ivan had listened all the time in dead silence without stirring or taking his eyes off him. As he told his story Smerdyakov glanced at him from time to time, but for the most part kept his eyes averted. When he had finished he was evidently agitated and was breathing hard. The perspiration stood out on his face. But it was impossible to tell whether it was remorse he was feeling, or what.

“Stay,” cried Ivan, pondering. “What about the door? If he only opened the door to you, how could Grigory have seen it open before? For Grigory saw it before you went.”

It was remarkable that Ivan spoke quite amicably, in a different tone, not angry as before, so if any one had opened the door at that moment and peeped in at them, he would certainly have concluded that they were talking peaceably about some ordinary, though interesting, subject.

“As for that door and Grigory Vassilyevitch’s having seen it open, that’s only his fancy,” said Smerdyakov, with a wry smile. “He is not a man, I assure you, but an obstinate mule. He didn’t see it, but fancied he had seen it, and there’s no shaking him. It’s just our luck he took that notion into his head, for they can’t fail to convict Dmitri Fyodorovitch after that.”

“Listen …” said Ivan, beginning to seem bewildered again and making an effort to grasp something. “Listen. There are a lot of questions I want to ask you, but I forget them … I keep forgetting and getting mixed up. Yes. Tell me this at least, why did you open the envelope and leave it there on the floor? Why didn’t you simply carry off the envelope?… When you were telling me, I thought you spoke about it as though it were the right thing to do … but why, I can’t understand….”

“I did that for a good reason. For if a man had known all about it, as I did for instance, if he’d seen those notes before, and perhaps had put them in that envelope himself, and had seen the envelope sealed up and addressed, with his own eyes, if such a man had done the murder, what should have made him tear open the envelope afterwards, especially in such desperate haste, since he’d know for certain the notes must be in the envelope? No, if the robber had been some one like me, he’d simply have put the envelope straight in his pocket and got away with it as fast as he could. But it’d be quite different with Dmitri Fyodorovitch. He only knew about the envelope by hearsay; he had never seen it, and if he’d found it, for instance, under the mattress, he’d have torn it open as quickly as possible to make sure the notes were in it. And he’d have thrown the envelope down, without having time to think that it would be evidence against him. Because he was not an habitual thief and had never directly stolen anything before, for he is a gentleman born, and if he did bring himself to steal, it would not be regular stealing, but simply taking what was his own, for he’d told the whole town he meant to before, and had even bragged aloud before every one that he’d go and take his property from Fyodor Pavlovitch. I didn’t say that openly to the prosecutor when I was being examined, but quite the contrary, I brought him to it by a hint, as though I didn’t see it myself, and as though he’d thought of it himself and I hadn’t prompted him; so that Mr. Prosecutor’s mouth positively watered at my suggestion.”

“But can you possibly have thought of all that on the spot?” cried Ivan, overcome with astonishment. He looked at Smerdyakov again with alarm.

“Mercy on us! Could any one think of it all in such a desperate hurry? It was all thought out beforehand.”

“Well … well, it was the devil helped you!” Ivan cried again. “No, you are not a fool, you are far cleverer than I thought….”

He got up, obviously intending to walk across the room. He was in terrible distress. But as the table blocked his way, and there was hardly room to pass between the table and the wall, he only turned round where he stood and sat down again. Perhaps the impossibility of moving irritated him, as he suddenly cried out almost as furiously as before.

“Listen, you miserable, contemptible creature! Don’t you understand that if I haven’t killed you, it’s simply because I am keeping you to answer to‐morrow at the trial. God sees,” Ivan raised his hand, “perhaps I, too, was guilty; perhaps I really had a secret desire for my father’s … death, but I swear I was not as guilty as you think, and perhaps I didn’t urge you on at all. No, no, I didn’t urge you on! But no matter, I will give evidence against myself to‐morrow at the trial. I’m determined to! I shall tell everything, everything. But we’ll make our appearance together. And whatever you may say against me at the trial, whatever evidence you give, I’ll face it; I am not afraid of you. I’ll confirm it all myself! But you must confess, too! You must, you must; we’ll go together. That’s how it shall be!”

Ivan said this solemnly and resolutely and from his flashing eyes alone it could be seen that it would be so.

“You are ill, I see; you are quite ill. Your eyes are yellow,” Smerdyakov commented, without the least irony, with apparent sympathy in fact.

“We’ll go together,” Ivan repeated. “And if you won’t go, no matter, I’ll go alone.”

Smerdyakov paused as though pondering.

“There’ll be nothing of the sort, and you won’t go,” he concluded at last positively.

“You don’t understand me,” Ivan exclaimed reproachfully.

“You’ll be too much ashamed, if you confess it all. And, what’s more, it will be no use at all, for I shall say straight out that I never said anything of the sort to you, and that you are either ill (and it looks like it, too), or that you’re so sorry for your brother that you are sacrificing yourself to save him and have invented it all against me, for you’ve always thought no more of me than if I’d been a fly. And who will believe you, and what single proof have you got?”

“Listen, you showed me those notes just now to convince me.”

Smerdyakov lifted the book off the notes and laid it on one side.

“Take that money away with you,” Smerdyakov sighed.

“Of course, I shall take it. But why do you give it to me, if you committed the murder for the sake of it?” Ivan looked at him with great surprise.

“I don’t want it,” Smerdyakov articulated in a shaking voice, with a gesture of refusal. “I did have an idea of beginning a new life with that money in Moscow or, better still, abroad. I did dream of it, chiefly because ‘all things are lawful.’ That was quite right what you taught me, for you talked a lot to me about that. For if there’s no everlasting God, there’s no such thing as virtue, and there’s no need of it. You were right there. So that’s how I looked at it.”

“Did you come to that of yourself?” asked Ivan, with a wry smile.

“With your guidance.”

“And now, I suppose, you believe in God, since you are giving back the money?”

“No, I don’t believe,” whispered Smerdyakov.

“Then why are you giving it back?”

“Leave off … that’s enough!” Smerdyakov waved his hand again. “You used to say yourself that everything was lawful, so now why are you so upset, too? You even want to go and give evidence against yourself…. Only there’ll be nothing of the sort! You won’t go to give evidence,” Smerdyakov decided with conviction.

“You’ll see,” said Ivan.

“It isn’t possible. You are very clever. You are fond of money, I know that. You like to be respected, too, for you’re very proud; you are far too fond of female charms, too, and you mind most of all about living in undisturbed comfort, without having to depend on any one—that’s what you care most about. You won’t want to spoil your life for ever by taking such a disgrace on yourself. You are like Fyodor Pavlovitch, you are more like him than any of his children; you’ve the same soul as he had.”

“You are not a fool,” said Ivan, seeming struck. The blood rushed to his face. “You are serious now!” he observed, looking suddenly at Smerdyakov with a different expression.

“It was your pride made you think I was a fool. Take the money.”

Ivan took the three rolls of notes and put them in his pocket without wrapping them in anything.

“I shall show them at the court to‐morrow,” he said.

“Nobody will believe you, as you’ve plenty of money of your own; you may simply have taken it out of your cash‐box and brought it to the court.”

Ivan rose from his seat.

“I repeat,” he said, “the only reason I haven’t killed you is that I need you for to‐morrow, remember that, don’t forget it!”

“Well, kill me. Kill me now,” Smerdyakov said, all at once looking strangely at Ivan. “You won’t dare do that even!” he added, with a bitter smile. “You won’t dare to do anything, you, who used to be so bold!”

“Till to‐morrow,” cried Ivan, and moved to go out.

“Stay a moment…. Show me those notes again.”

Ivan took out the notes and showed them to him. Smerdyakov looked at them for ten seconds.

“Well, you can go,” he said, with a wave of his hand. “Ivan Fyodorovitch!” he called after him again.

“What do you want?” Ivan turned without stopping.

“Good‐by!”

“Till to‐morrow!” Ivan cried again, and he walked out of the cottage.

The snowstorm was still raging. He walked the first few steps boldly, but suddenly began staggering. “It’s something physical,” he thought with a grin. Something like joy was springing up in his heart. He was conscious of unbounded resolution; he would make an end of the wavering that had so tortured him of late. His determination was taken, “and now it will not be changed,” he thought with relief. At that moment he stumbled against something and almost fell down. Stopping short, he made out at his feet the peasant he had knocked down, still lying senseless and motionless. The snow had almost covered his face. Ivan seized him and lifted him in his arms. Seeing a light in the little house to the right he went up, knocked at the shutters, and asked the man to whom the house belonged to help him carry the peasant to the police‐station, promising him three roubles. The man got ready and came out. I won’t describe in detail how Ivan succeeded in his object, bringing the peasant to the police‐station and arranging for a doctor to see him at once, providing with a liberal hand for the expenses. I will only say that this business took a whole hour, but Ivan was well content with it. His mind wandered and worked incessantly.

“If I had not taken my decision so firmly for to‐morrow,” he reflected with satisfaction, “I should not have stayed a whole hour to look after the peasant, but should have passed by, without caring about his being frozen. I am quite capable of watching myself, by the way,” he thought at the same instant, with still greater satisfaction, “although they have decided that I am going out of my mind!”

Just as he reached his own house he stopped short, asking himself suddenly hadn’t he better go at once to the prosecutor and tell him everything. He decided the question by turning back to the house. “Everything together to‐morrow!” he whispered to himself, and, strange to say, almost all his gladness and self‐satisfaction passed in one instant.

As he entered his own room he felt something like a touch of ice on his heart, like a recollection or, more exactly, a reminder, of something agonizing and revolting that was in that room now, at that moment, and had been there before. He sank wearily on his sofa. The old woman brought him a samovar; he made tea, but did not touch it. He sat on the sofa and felt giddy. He felt that he was ill and helpless. He was beginning to drop asleep, but got up uneasily and walked across the room to shake off his drowsiness. At moments he fancied he was delirious, but it was not illness that he thought of most. Sitting down again, he began looking round, as though searching for something. This happened several times. At last his eyes were fastened intently on one point. Ivan smiled, but an angry flush suffused his face. He sat a long time in his place, his head propped on both arms, though he looked sideways at the same point, at the sofa that stood against the opposite wall. There was evidently something, some object, that irritated him there, worried him and tormented him.

Chapter IX.
The Devil. Ivan’s Nightmare
I am not a doctor, but yet I feel that the moment has come when I must inevitably give the reader some account of the nature of Ivan’s illness. Anticipating events I can say at least one thing: he was at that moment on the very eve of an attack of brain fever. Though his health had long been affected, it had offered a stubborn resistance to the fever which in the end gained complete mastery over it. Though I know nothing of medicine, I venture to hazard the suggestion that he really had perhaps, by a terrible effort of will, succeeded in delaying the attack for a time, hoping, of course, to check it completely. He knew that he was unwell, but he loathed the thought of being ill at that fatal time, at the approaching crisis in his life, when he needed to have all his wits about him, to say what he had to say boldly and resolutely and “to justify himself to himself.”

He had, however, consulted the new doctor, who had been brought from Moscow by a fantastic notion of Katerina Ivanovna’s to which I have referred already. After listening to him and examining him the doctor came to the conclusion that he was actually suffering from some disorder of the brain, and was not at all surprised by an admission which Ivan had reluctantly made him. “Hallucinations are quite likely in your condition,” the doctor opined, “though it would be better to verify them … you must take steps at once, without a moment’s delay, or things will go badly with you.” But Ivan did not follow this judicious advice and did not take to his bed to be nursed. “I am walking about, so I am strong enough, if I drop, it’ll be different then, any one may nurse me who likes,” he decided, dismissing the subject.

And so he was sitting almost conscious himself of his delirium and, as I have said already, looking persistently at some object on the sofa against the opposite wall. Some one appeared to be sitting there, though goodness knows how he had come in, for he had not been in the room when Ivan came into it, on his return from Smerdyakov. This was a person or, more accurately speaking, a Russian gentleman of a particular kind, no longer young, qui faisait la cinquantaine, as the French say, with rather long, still thick, dark hair, slightly streaked with gray and a small pointed beard. He was wearing a brownish reefer jacket, rather shabby, evidently made by a good tailor though, and of a fashion at least three years old, that had been discarded by smart and well‐to‐do people for the last two years. His linen and his long scarf‐like neck‐tie were all such as are worn by people who aim at being stylish, but on closer inspection his linen was not over‐clean and his wide scarf was very threadbare. The visitor’s check trousers were of excellent cut, but were too light in color and too tight for the present fashion. His soft fluffy white hat was out of keeping with the season.

In brief there was every appearance of gentility on straitened means. It looked as though the gentleman belonged to that class of idle landowners who used to flourish in the times of serfdom. He had unmistakably been, at some time, in good and fashionable society, had once had good connections, had possibly preserved them indeed, but, after a gay youth, becoming gradually impoverished on the abolition of serfdom, he had sunk into the position of a poor relation of the best class, wandering from one good old friend to another and received by them for his companionable and accommodating disposition and as being, after all, a gentleman who could be asked to sit down with any one, though, of course, not in a place of honor. Such gentlemen of accommodating temper and dependent position, who can tell a story, take a hand at cards, and who have a distinct aversion for any duties that may be forced upon them, are usually solitary creatures, either bachelors or widowers. Sometimes they have children, but if so, the children are always being brought up at a distance, at some aunt’s, to whom these gentlemen never allude in good society, seeming ashamed of the relationship. They gradually lose sight of their children altogether, though at intervals they receive a birthday or Christmas letter from them and sometimes even answer it.

The countenance of the unexpected visitor was not so much good‐natured, as accommodating and ready to assume any amiable expression as occasion might arise. He had no watch, but he had a tortoise‐shell lorgnette on a black ribbon. On the middle finger of his right hand was a massive gold ring with a cheap opal stone in it.

Ivan was angrily silent and would not begin the conversation. The visitor waited and sat exactly like a poor relation who had come down from his room to keep his host company at tea, and was discreetly silent, seeing that his host was frowning and preoccupied. But he was ready for any affable conversation as soon as his host should begin it. All at once his face expressed a sudden solicitude.

“I say,” he began to Ivan, “excuse me, I only mention it to remind you. You went to Smerdyakov’s to find out about Katerina Ivanovna, but you came away without finding out anything about her, you probably forgot—”

“Ah, yes,” broke from Ivan and his face grew gloomy with uneasiness. “Yes, I’d forgotten … but it doesn’t matter now, never mind, till to‐morrow,” he muttered to himself, “and you,” he added, addressing his visitor, “I should have remembered that myself in a minute, for that was just what was tormenting me! Why do you interfere, as if I should believe that you prompted me, and that I didn’t remember it of myself?”

“Don’t believe it then,” said the gentleman, smiling amicably, “what’s the good of believing against your will? Besides, proofs are no help to believing, especially material proofs. Thomas believed, not because he saw Christ risen, but because he wanted to believe, before he saw. Look at the spiritualists, for instance…. I am very fond of them … only fancy, they imagine that they are serving the cause of religion, because the devils show them their horns from the other world. That, they say, is a material proof, so to speak, of the existence of another world. The other world and material proofs, what next! And if you come to that, does proving there’s a devil prove that there’s a God? I want to join an idealist society, I’ll lead the opposition in it, I’ll say I am a realist, but not a materialist, he he!”

“Listen,” Ivan suddenly got up from the table. “I seem to be delirious…. I am delirious, in fact, talk any nonsense you like, I don’t care! You won’t drive me to fury, as you did last time. But I feel somehow ashamed…. I want to walk about the room…. I sometimes don’t see you and don’t even hear your voice as I did last time, but I always guess what you are prating, for it’s I, I myself speaking, not you. Only I don’t know whether I was dreaming last time or whether I really saw you. I’ll wet a towel and put it on my head and perhaps you’ll vanish into air.”

Ivan went into the corner, took a towel, and did as he said, and with a wet towel on his head began walking up and down the room.

“I am so glad you treat me so familiarly,” the visitor began.

“Fool,” laughed Ivan, “do you suppose I should stand on ceremony with you? I am in good spirits now, though I’ve a pain in my forehead … and in the top of my head … only please don’t talk philosophy, as you did last time. If you can’t take yourself off, talk of something amusing. Talk gossip, you are a poor relation, you ought to talk gossip. What a nightmare to have! But I am not afraid of you. I’ll get the better of you. I won’t be taken to a mad‐house!”

“C’est charmant, poor relation. Yes, I am in my natural shape. For what am I on earth but a poor relation? By the way, I am listening to you and am rather surprised to find you are actually beginning to take me for something real, not simply your fancy, as you persisted in declaring last time—”

“Never for one minute have I taken you for reality,” Ivan cried with a sort of fury. “You are a lie, you are my illness, you are a phantom. It’s only that I don’t know how to destroy you and I see I must suffer for a time. You are my hallucination. You are the incarnation of myself, but only of one side of me … of my thoughts and feelings, but only the nastiest and stupidest of them. From that point of view you might be of interest to me, if only I had time to waste on you—”

“Excuse me, excuse me, I’ll catch you. When you flew out at Alyosha under the lamp‐post this evening and shouted to him, ‘You learnt it from him! How do you know that he visits me?’ you were thinking of me then. So for one brief moment you did believe that I really exist,” the gentleman laughed blandly.

“Yes, that was a moment of weakness … but I couldn’t believe in you. I don’t know whether I was asleep or awake last time. Perhaps I was only dreaming then and didn’t see you really at all—”

“And why were you so surly with Alyosha just now? He is a dear; I’ve treated him badly over Father Zossima.”

“Don’t talk of Alyosha! How dare you, you flunkey!” Ivan laughed again.

“You scold me, but you laugh—that’s a good sign. But you are ever so much more polite than you were last time and I know why: that great resolution of yours—”

“Don’t speak of my resolution,” cried Ivan, savagely.

“I understand, I understand, c’est noble, c’est charmant, you are going to defend your brother and to sacrifice yourself … C’est chevaleresque.”

“Hold your tongue, I’ll kick you!”

“I shan’t be altogether sorry, for then my object will be attained. If you kick me, you must believe in my reality, for people don’t kick ghosts. Joking apart, it doesn’t matter to me, scold if you like, though it’s better to be a trifle more polite even to me. ‘Fool, flunkey!’ what words!”

“Scolding you, I scold myself,” Ivan laughed again, “you are myself, myself, only with a different face. You just say what I am thinking … and are incapable of saying anything new!”

“If I am like you in my way of thinking, it’s all to my credit,” the gentleman declared, with delicacy and dignity.

“You choose out only my worst thoughts, and what’s more, the stupid ones. You are stupid and vulgar. You are awfully stupid. No, I can’t put up with you! What am I to do, what am I to do?” Ivan said through his clenched teeth.

“My dear friend, above all things I want to behave like a gentleman and to be recognized as such,” the visitor began in an excess of deprecating and simple‐hearted pride, typical of a poor relation. “I am poor, but … I won’t say very honest, but … it’s an axiom generally accepted in society that I am a fallen angel. I certainly can’t conceive how I can ever have been an angel. If I ever was, it must have been so long ago that there’s no harm in forgetting it. Now I only prize the reputation of being a gentlemanly person and live as I can, trying to make myself agreeable. I love men genuinely, I’ve been greatly calumniated! Here when I stay with you from time to time, my life gains a kind of reality and that’s what I like most of all. You see, like you, I suffer from the fantastic and so I love the realism of earth. Here, with you, everything is circumscribed, here all is formulated and geometrical, while we have nothing but indeterminate equations! I wander about here dreaming. I like dreaming. Besides, on earth I become superstitious. Please don’t laugh, that’s just what I like, to become superstitious. I adopt all your habits here: I’ve grown fond of going to the public baths, would you believe it? and I go and steam myself with merchants and priests. What I dream of is becoming incarnate once for all and irrevocably in the form of some merchant’s wife weighing eighteen stone, and of believing all she believes. My ideal is to go to church and offer a candle in simple‐hearted faith, upon my word it is. Then there would be an end to my sufferings. I like being doctored too; in the spring there was an outbreak of smallpox and I went and was vaccinated in a foundling hospital—if only you knew how I enjoyed myself that day. I subscribed ten roubles in the cause of the Slavs!… But you are not listening. Do you know, you are not at all well this evening? I know you went yesterday to that doctor … well, what about your health? What did the doctor say?”

“Fool!” Ivan snapped out.

“But you are clever, anyway. You are scolding again? I didn’t ask out of sympathy. You needn’t answer. Now rheumatism has come in again—”

“Fool!” repeated Ivan.

“You keep saying the same thing; but I had such an attack of rheumatism last year that I remember it to this day.”

“The devil have rheumatism!”

“Why not, if I sometimes put on fleshly form? I put on fleshly form and I take the consequences. Satan sum et nihil humanum a me alienum puto.”

“What, what, Satan sum et nihil humanum … that’s not bad for the devil!”

“I am glad I’ve pleased you at last.”

“But you didn’t get that from me.” Ivan stopped suddenly, seeming struck. “That never entered my head, that’s strange.”

“C’est du nouveau, n’est‐ce pas? This time I’ll act honestly and explain to you. Listen, in dreams and especially in nightmares, from indigestion or anything, a man sees sometimes such artistic visions, such complex and real actuality, such events, even a whole world of events, woven into such a plot, with such unexpected details from the most exalted matters to the last button on a cuff, as I swear Leo Tolstoy has never invented. Yet such dreams are sometimes seen not by writers, but by the most ordinary people, officials, journalists, priests…. The subject is a complete enigma. A statesman confessed to me, indeed, that all his best ideas came to him when he was asleep. Well, that’s how it is now, though I am your hallucination, yet just as in a nightmare, I say original things which had not entered your head before. So I don’t repeat your ideas, yet I am only your nightmare, nothing more.”

“You are lying, your aim is to convince me you exist apart and are not my nightmare, and now you are asserting you are a dream.”

“My dear fellow, I’ve adopted a special method to‐day, I’ll explain it to you afterwards. Stay, where did I break off? Oh, yes! I caught cold then, only not here but yonder.”

“Where is yonder? Tell me, will you be here long? Can’t you go away?” Ivan exclaimed almost in despair. He ceased walking to and fro, sat down on the sofa, leaned his elbows on the table again and held his head tight in both hands. He pulled the wet towel off and flung it away in vexation. It was evidently of no use.

“Your nerves are out of order,” observed the gentleman, with a carelessly easy, though perfectly polite, air. “You are angry with me even for being able to catch cold, though it happened in a most natural way. I was hurrying then to a diplomatic soirée at the house of a lady of high rank in Petersburg, who was aiming at influence in the Ministry. Well, an evening suit, white tie, gloves, though I was God knows where and had to fly through space to reach your earth…. Of course, it took only an instant, but you know a ray of light from the sun takes full eight minutes, and fancy in an evening suit and open waistcoat. Spirits don’t freeze, but when one’s in fleshly form, well … in brief, I didn’t think, and set off, and you know in those ethereal spaces, in the water that is above the firmament, there’s such a frost … at least one can’t call it frost, you can fancy, 150 degrees below zero! You know the game the village girls play—they invite the unwary to lick an ax in thirty degrees of frost, the tongue instantly freezes to it and the dupe tears the skin off, so it bleeds. But that’s only in 30 degrees, in 150 degrees I imagine it would be enough to put your finger on the ax and it would be the end of it … if only there could be an ax there.”

“And can there be an ax there?” Ivan interrupted, carelessly and disdainfully. He was exerting himself to the utmost not to believe in the delusion and not to sink into complete insanity.

“An ax?” the guest interrupted in surprise.

“Yes, what would become of an ax there?” Ivan cried suddenly, with a sort of savage and insistent obstinacy.

“What would become of an ax in space? Quelle idée! If it were to fall to any distance, it would begin, I think, flying round the earth without knowing why, like a satellite. The astronomers would calculate the rising and the setting of the ax, Gatzuk would put it in his calendar, that’s all.”

“You are stupid, awfully stupid,” said Ivan peevishly. “Fib more cleverly or I won’t listen. You want to get the better of me by realism, to convince me that you exist, but I don’t want to believe you exist! I won’t believe it!”

“But I am not fibbing, it’s all the truth; the truth is unhappily hardly ever amusing. I see you persist in expecting something big of me, and perhaps something fine. That’s a great pity, for I only give what I can—”

“Don’t talk philosophy, you ass!”

“Philosophy, indeed, when all my right side is numb and I am moaning and groaning. I’ve tried all the medical faculty: they can diagnose beautifully, they have the whole of your disease at their finger‐tips, but they’ve no idea how to cure you. There was an enthusiastic little student here, ‘You may die,’ said he, ‘but you’ll know perfectly what disease you are dying of!’ And then what a way they have sending people to specialists! ‘We only diagnose,’ they say, ‘but go to such‐and‐such a specialist, he’ll cure you.’ The old doctor who used to cure all sorts of disease has completely disappeared, I assure you, now there are only specialists and they all advertise in the newspapers. If anything is wrong with your nose, they send you to Paris: there, they say, is a European specialist who cures noses. If you go to Paris, he’ll look at your nose; I can only cure your right nostril, he’ll tell you, for I don’t cure the left nostril, that’s not my speciality, but go to Vienna, there there’s a specialist who will cure your left nostril. What are you to do? I fell back on popular remedies, a German doctor advised me to rub myself with honey and salt in the bath‐house. Solely to get an extra bath I went, smeared myself all over and it did me no good at all. In despair I wrote to Count Mattei in Milan. He sent me a book and some drops, bless him, and, only fancy, Hoff’s malt extract cured me! I bought it by accident, drank a bottle and a half of it, and I was ready to dance, it took it away completely. I made up my mind to write to the papers to thank him, I was prompted by a feeling of gratitude, and only fancy, it led to no end of a bother: not a single paper would take my letter. ‘It would be very reactionary,’ they said, ‘no one will believe it. Le diable n’existe point. You’d better remain anonymous,’ they advised me. What use is a letter of thanks if it’s anonymous? I laughed with the men at the newspaper office; ‘It’s reactionary to believe in God in our days,’ I said, ‘but I am the devil, so I may be believed in.’ ‘We quite understand that,’ they said. ‘Who doesn’t believe in the devil? Yet it won’t do, it might injure our reputation. As a joke, if you like.’ But I thought as a joke it wouldn’t be very witty. So it wasn’t printed. And do you know, I have felt sore about it to this day. My best feelings, gratitude, for instance, are literally denied me simply from my social position.”

“Philosophical reflections again?” Ivan snarled malignantly.

“God preserve me from it, but one can’t help complaining sometimes. I am a slandered man. You upbraid me every moment with being stupid. One can see you are young. My dear fellow, intelligence isn’t the only thing! I have naturally a kind and merry heart. ‘I also write vaudevilles of all sorts.’ You seem to take me for Hlestakov grown old, but my fate is a far more serious one. Before time was, by some decree which I could never make out, I was pre‐destined ‘to deny’ and yet I am genuinely good‐hearted and not at all inclined to negation. ‘No, you must go and deny, without denial there’s no criticism and what would a journal be without a column of criticism?’ Without criticism it would be nothing but one ‘hosannah.’ But nothing but hosannah is not enough for life, the hosannah must be tried in the crucible of doubt and so on, in the same style. But I don’t meddle in that, I didn’t create it, I am not answerable for it. Well, they’ve chosen their scapegoat, they’ve made me write the column of criticism and so life was made possible. We understand that comedy; I, for instance, simply ask for annihilation. No, live, I am told, for there’d be nothing without you. If everything in the universe were sensible, nothing would happen. There would be no events without you, and there must be events. So against the grain I serve to produce events and do what’s irrational because I am commanded to. For all their indisputable intelligence, men take this farce as something serious, and that is their tragedy. They suffer, of course … but then they live, they live a real life, not a fantastic one, for suffering is life. Without suffering what would be the pleasure of it? It would be transformed into an endless church service; it would be holy, but tedious. But what about me? I suffer, but still, I don’t live. I am x in an indeterminate equation. I am a sort of phantom in life who has lost all beginning and end, and who has even forgotten his own name. You are laughing— no, you are not laughing, you are angry again. You are for ever angry, all you care about is intelligence, but I repeat again that I would give away all this super‐stellar life, all the ranks and honors, simply to be transformed into the soul of a merchant’s wife weighing eighteen stone and set candles at God’s shrine.”

“Then even you don’t believe in God?” said Ivan, with a smile of hatred.

“What can I say?—that is, if you are in earnest—”

“Is there a God or not?” Ivan cried with the same savage intensity.

“Ah, then you are in earnest! My dear fellow, upon my word I don’t know. There! I’ve said it now!”

“You don’t know, but you see God? No, you are not some one apart, you are myself, you are I and nothing more! You are rubbish, you are my fancy!”

“Well, if you like, I have the same philosophy as you, that would be true. Je pense, donc je suis, I know that for a fact; all the rest, all these worlds, God and even Satan—all that is not proved, to my mind. Does all that exist of itself, or is it only an emanation of myself, a logical development of my ego which alone has existed for ever: but I make haste to stop, for I believe you will be jumping up to beat me directly.”

“You’d better tell me some anecdote!” said Ivan miserably.

“There is an anecdote precisely on our subject, or rather a legend, not an anecdote. You reproach me with unbelief, you see, you say, yet you don’t believe. But, my dear fellow, I am not the only one like that. We are all in a muddle over there now and all through your science. Once there used to be atoms, five senses, four elements, and then everything hung together somehow. There were atoms in the ancient world even, but since we’ve learned that you’ve discovered the chemical molecule and protoplasm and the devil knows what, we had to lower our crest. There’s a regular muddle, and, above all, superstition, scandal; there’s as much scandal among us as among you, you know; a little more in fact, and spying, indeed, for we have our secret police department where private information is received. Well, this wild legend belongs to our middle ages—not yours, but ours—and no one believes it even among us, except the old ladies of eighteen stone, not your old ladies I mean, but ours. We’ve everything you have, I am revealing one of our secrets out of friendship for you; though it’s forbidden. This legend is about Paradise. There was, they say, here on earth a thinker and philosopher. He rejected everything, ‘laws, conscience, faith,’ and, above all, the future life. He died; he expected to go straight to darkness and death and he found a future life before him. He was astounded and indignant. ‘This is against my principles!’ he said. And he was punished for that … that is, you must excuse me, I am just repeating what I heard myself, it’s only a legend … he was sentenced to walk a quadrillion kilometers in the dark (we’ve adopted the metric system, you know) and when he has finished that quadrillion, the gates of heaven would be opened to him and he’ll be forgiven—”

“And what tortures have you in the other world besides the quadrillion kilometers?” asked Ivan, with a strange eagerness.

“What tortures? Ah, don’t ask. In old days we had all sorts, but now they have taken chiefly to moral punishments—‘the stings of conscience’ and all that nonsense. We got that, too, from you, from the softening of your manners. And who’s the better for it? Only those who have got no conscience, for how can they be tortured by conscience when they have none? But decent people who have conscience and a sense of honor suffer for it. Reforms, when the ground has not been prepared for them, especially if they are institutions copied from abroad, do nothing but mischief! The ancient fire was better. Well, this man, who was condemned to the quadrillion kilometers, stood still, looked round and lay down across the road. ‘I won’t go, I refuse on principle!’ Take the soul of an enlightened Russian atheist and mix it with the soul of the prophet Jonah, who sulked for three days and nights in the belly of the whale, and you get the character of that thinker who lay across the road.”

“What did he lie on there?”

“Well, I suppose there was something to lie on. You are not laughing?”

“Bravo!” cried Ivan, still with the same strange eagerness. Now he was listening with an unexpected curiosity. “Well, is he lying there now?”

“That’s the point, that he isn’t. He lay there almost a thousand years and then he got up and went on.”

“What an ass!” cried Ivan, laughing nervously and still seeming to be pondering something intently. “Does it make any difference whether he lies there for ever or walks the quadrillion kilometers? It would take a billion years to walk it?”

“Much more than that. I haven’t got a pencil and paper or I could work it out. But he got there long ago, and that’s where the story begins.”

“What, he got there? But how did he get the billion years to do it?”

“Why, you keep thinking of our present earth! But our present earth may have been repeated a billion times. Why, it’s become extinct, been frozen; cracked, broken to bits, disintegrated into its elements, again ‘the water above the firmament,’ then again a comet, again a sun, again from the sun it becomes earth—and the same sequence may have been repeated endlessly and exactly the same to every detail, most unseemly and insufferably tedious—”

“Well, well, what happened when he arrived?”

“Why, the moment the gates of Paradise were open and he walked in, before he had been there two seconds, by his watch (though to my thinking his watch must have long dissolved into its elements on the way), he cried out that those two seconds were worth walking not a quadrillion kilometers but a quadrillion of quadrillions, raised to the quadrillionth power! In fact, he sang ‘hosannah’ and overdid it so, that some persons there of lofty ideas wouldn’t shake hands with him at first—he’d become too rapidly reactionary, they said. The Russian temperament. I repeat, it’s a legend. I give it for what it’s worth. So that’s the sort of ideas we have on such subjects even now.”

“I’ve caught you!” Ivan cried, with an almost childish delight, as though he had succeeded in remembering something at last. “That anecdote about the quadrillion years, I made up myself! I was seventeen then, I was at the high school. I made up that anecdote and told it to a schoolfellow called Korovkin, it was at Moscow…. The anecdote is so characteristic that I couldn’t have taken it from anywhere. I thought I’d forgotten it … but I’ve unconsciously recalled it—I recalled it myself—it was not you telling it! Thousands of things are unconsciously remembered like that even when people are being taken to execution … it’s come back to me in a dream. You are that dream! You are a dream, not a living creature!”

“From the vehemence with which you deny my existence,” laughed the gentleman, “I am convinced that you believe in me.”

“Not in the slightest! I haven’t a hundredth part of a grain of faith in you!”

“But you have the thousandth of a grain. Homeopathic doses perhaps are the strongest. Confess that you have faith even to the ten‐thousandth of a grain.”

“Not for one minute,” cried Ivan furiously. “But I should like to believe in you,” he added strangely.

“Aha! There’s an admission! But I am good‐natured. I’ll come to your assistance again. Listen, it was I caught you, not you me. I told you your anecdote you’d forgotten, on purpose, so as to destroy your faith in me completely.”

“You are lying. The object of your visit is to convince me of your existence!”

“Just so. But hesitation, suspense, conflict between belief and disbelief—is sometimes such torture to a conscientious man, such as you are, that it’s better to hang oneself at once. Knowing that you are inclined to believe in me, I administered some disbelief by telling you that anecdote. I lead you to belief and disbelief by turns, and I have my motive in it. It’s the new method. As soon as you disbelieve in me completely, you’ll begin assuring me to my face that I am not a dream but a reality. I know you. Then I shall have attained my object, which is an honorable one. I shall sow in you only a tiny grain of faith and it will grow into an oak‐tree—and such an oak‐tree that, sitting on it, you will long to enter the ranks of ‘the hermits in the wilderness and the saintly women,’ for that is what you are secretly longing for. You’ll dine on locusts, you’ll wander into the wilderness to save your soul!”

“Then it’s for the salvation of my soul you are working, is it, you scoundrel?”

“One must do a good work sometimes. How ill‐humored you are!”

“Fool! did you ever tempt those holy men who ate locusts and prayed seventeen years in the wilderness till they were overgrown with moss?”

“My dear fellow, I’ve done nothing else. One forgets the whole world and all the worlds, and sticks to one such saint, because he is a very precious diamond. One such soul, you know, is sometimes worth a whole constellation. We have our system of reckoning, you know. The conquest is priceless! And some of them, on my word, are not inferior to you in culture, though you won’t believe it. They can contemplate such depths of belief and disbelief at the same moment that sometimes it really seems that they are within a hair’s‐breadth of being ‘turned upside down,’ as the actor Gorbunov says.”

“Well, did you get your nose pulled?”[8]

“My dear fellow,” observed the visitor sententiously, “it’s better to get off with your nose pulled than without a nose at all. As an afflicted marquis observed not long ago (he must have been treated by a specialist) in confession to his spiritual father—a Jesuit. I was present, it was simply charming. ‘Give me back my nose!’ he said, and he beat his breast. ‘My son,’ said the priest evasively, ‘all things are accomplished in accordance with the inscrutable decrees of Providence, and what seems a misfortune sometimes leads to extraordinary, though unapparent, benefits. If stern destiny has deprived you of your nose, it’s to your advantage that no one can ever pull you by your nose.’ ‘Holy father, that’s no comfort,’ cried the despairing marquis. ‘I’d be delighted to have my nose pulled every day of my life, if it were only in its proper place.’ ‘My son,’ sighs the priest, ‘you can’t expect every blessing at once. This is murmuring against Providence, who even in this has not forgotten you, for if you repine as you repined just now, declaring you’d be glad to have your nose pulled for the rest of your life, your desire has already been fulfilled indirectly, for when you lost your nose, you were led by the nose.’ ”

“Fool, how stupid!” cried Ivan.

“My dear friend, I only wanted to amuse you. But I swear that’s the genuine Jesuit casuistry and I swear that it all happened word for word as I’ve told you. It happened lately and gave me a great deal of trouble. The unhappy young man shot himself that very night when he got home. I was by his side till the very last moment. Those Jesuit confessionals are really my most delightful diversion at melancholy moments. Here’s another incident that happened only the other day. A little blonde Norman girl of twenty—a buxom, unsophisticated beauty that would make your mouth water—comes to an old priest. She bends down and whispers her sin into the grating. ‘Why, my daughter, have you fallen again already?’ cries the priest. ‘O Sancta Maria, what do I hear! Not the same man this time, how long is this going on? Aren’t you ashamed!’ ‘Ah, mon père,’ answers the sinner with tears of penitence, ‘ça lui fait tant de plaisir, et à moi si peu de peine!’ Fancy, such an answer! I drew back. It was the cry of nature, better than innocence itself, if you like. I absolved her sin on the spot and was turning to go, but I was forced to turn back. I heard the priest at the grating making an appointment with her for the evening—though he was an old man hard as flint, he fell in an instant! It was nature, the truth of nature asserted its rights! What, you are turning up your nose again? Angry again? I don’t know how to please you—”

“Leave me alone, you are beating on my brain like a haunting nightmare,” Ivan moaned miserably, helpless before his apparition. “I am bored with you, agonizingly and insufferably. I would give anything to be able to shake you off!”

“I repeat, moderate your expectations, don’t demand of me ‘everything great and noble’ and you’ll see how well we shall get on,” said the gentleman impressively. “You are really angry with me for not having appeared to you in a red glow, with thunder and lightning, with scorched wings, but have shown myself in such a modest form. You are wounded, in the first place, in your esthetic feelings, and, secondly, in your pride. How could such a vulgar devil visit such a great man as you! Yes, there is that romantic strain in you, that was so derided by Byelinsky. I can’t help it, young man, as I got ready to come to you I did think as a joke of appearing in the figure of a retired general who had served in the Caucasus, with a star of the Lion and the Sun on my coat. But I was positively afraid of doing it, for you’d have thrashed me for daring to pin the Lion and the Sun on my coat, instead of, at least, the Polar Star or the Sirius. And you keep on saying I am stupid, but, mercy on us! I make no claim to be equal to you in intelligence. Mephistopheles declared to Faust that he desired evil, but did only good. Well, he can say what he likes, it’s quite the opposite with me. I am perhaps the one man in all creation who loves the truth and genuinely desires good. I was there when the Word, Who died on the Cross, rose up into heaven bearing on His bosom the soul of the penitent thief. I heard the glad shrieks of the cherubim singing and shouting hosannah and the thunderous rapture of the seraphim which shook heaven and all creation, and I swear to you by all that’s sacred, I longed to join the choir and shout hosannah with them all. The word had almost escaped me, had almost broken from my lips … you know how susceptible and esthetically impressionable I am. But common sense—oh, a most unhappy trait in my character—kept me in due bounds and I let the moment pass! For what would have happened, I reflected, what would have happened after my hosannah? Everything on earth would have been extinguished at once and no events could have occurred. And so, solely from a sense of duty and my social position, I was forced to suppress the good moment and to stick to my nasty task. Somebody takes all the credit of what’s good for Himself, and nothing but nastiness is left for me. But I don’t envy the honor of a life of idle imposture, I am not ambitious. Why am I, of all creatures in the world, doomed to be cursed by all decent people and even to be kicked, for if I put on mortal form I am bound to take such consequences sometimes? I know, of course, there’s a secret in it, but they won’t tell me the secret for anything, for then perhaps, seeing the meaning of it, I might bawl hosannah, and the indispensable minus would disappear at once, and good sense would reign supreme throughout the whole world. And that, of course, would mean the end of everything, even of magazines and newspapers, for who would take them in? I know that at the end of all things I shall be reconciled. I, too, shall walk my quadrillion and learn the secret. But till that happens I am sulking and fulfill my destiny though it’s against the grain—that is, to ruin thousands for the sake of saving one. How many souls have had to be ruined and how many honorable reputations destroyed for the sake of that one righteous man, Job, over whom they made such a fool of me in old days! Yes, till the secret is revealed, there are two sorts of truths for me—one, their truth, yonder, which I know nothing about so far, and the other my own. And there’s no knowing which will turn out the better…. Are you asleep?”

“I might well be,” Ivan groaned angrily. “All my stupid ideas—outgrown, thrashed out long ago, and flung aside like a dead carcass—you present to me as something new!”

“There’s no pleasing you! And I thought I should fascinate you by my literary style. That hosannah in the skies really wasn’t bad, was it? And then that ironical tone à la Heine, eh?”

“No, I was never such a flunkey! How then could my soul beget a flunkey like you?”

“My dear fellow, I know a most charming and attractive young Russian gentleman, a young thinker and a great lover of literature and art, the author of a promising poem entitled The Grand Inquisitor. I was only thinking of him!”

“I forbid you to speak of The Grand Inquisitor,” cried Ivan, crimson with shame.

“And the Geological Cataclysm. Do you remember? That was a poem, now!”

“Hold your tongue, or I’ll kill you!”

“You’ll kill me? No, excuse me, I will speak. I came to treat myself to that pleasure. Oh, I love the dreams of my ardent young friends, quivering with eagerness for life! ‘There are new men,’ you decided last spring, when you were meaning to come here, ‘they propose to destroy everything and begin with cannibalism. Stupid fellows! they didn’t ask my advice! I maintain that nothing need be destroyed, that we only need to destroy the idea of God in man, that’s how we have to set to work. It’s that, that we must begin with. Oh, blind race of men who have no understanding! As soon as men have all of them denied God—and I believe that period, analogous with geological periods, will come to pass—the old conception of the universe will fall of itself without cannibalism, and, what’s more, the old morality, and everything will begin anew. Men will unite to take from life all it can give, but only for joy and happiness in the present world. Man will be lifted up with a spirit of divine Titanic pride and the man‐ god will appear. From hour to hour extending his conquest of nature infinitely by his will and his science, man will feel such lofty joy from hour to hour in doing it that it will make up for all his old dreams of the joys of heaven. Every one will know that he is mortal and will accept death proudly and serenely like a god. His pride will teach him that it’s useless for him to repine at life’s being a moment, and he will love his brother without need of reward. Love will be sufficient only for a moment of life, but the very consciousness of its momentariness will intensify its fire, which now is dissipated in dreams of eternal love beyond the grave’… and so on and so on in the same style. Charming!”

Ivan sat with his eyes on the floor, and his hands pressed to his ears, but he began trembling all over. The voice continued.

“The question now is, my young thinker reflected, is it possible that such a period will ever come? If it does, everything is determined and humanity is settled for ever. But as, owing to man’s inveterate stupidity, this cannot come about for at least a thousand years, every one who recognizes the truth even now may legitimately order his life as he pleases, on the new principles. In that sense, ‘all things are lawful’ for him. What’s more, even if this period never comes to pass, since there is anyway no God and no immortality, the new man may well become the man‐god, even if he is the only one in the whole world, and promoted to his new position, he may lightheartedly overstep all the barriers of the old morality of the old slave‐man, if necessary. There is no law for God. Where God stands, the place is holy. Where I stand will be at once the foremost place … ‘all things are lawful’ and that’s the end of it! That’s all very charming; but if you want to swindle why do you want a moral sanction for doing it? But that’s our modern Russian all over. He can’t bring himself to swindle without a moral sanction. He is so in love with truth—”

The visitor talked, obviously carried away by his own eloquence, speaking louder and louder and looking ironically at his host. But he did not succeed in finishing; Ivan suddenly snatched a glass from the table and flung it at the orator.

“Ah, mais c’est bête enfin,” cried the latter, jumping up from the sofa and shaking the drops of tea off himself. “He remembers Luther’s inkstand! He takes me for a dream and throws glasses at a dream! It’s like a woman! I suspected you were only pretending to stop up your ears.”

A loud, persistent knocking was suddenly heard at the window. Ivan jumped up from the sofa.

“Do you hear? You’d better open,” cried the visitor; “it’s your brother Alyosha with the most interesting and surprising news, I’ll be bound!”

“Be silent, deceiver, I knew it was Alyosha, I felt he was coming, and of course he has not come for nothing; of course he brings ‘news,’ ” Ivan exclaimed frantically.

“Open, open to him. There’s a snowstorm and he is your brother. Monsieur sait‐il le temps qu’il fait? C’est à ne pas mettre un chien dehors.”

The knocking continued. Ivan wanted to rush to the window, but something seemed to fetter his arms and legs. He strained every effort to break his chains, but in vain. The knocking at the window grew louder and louder. At last the chains were broken and Ivan leapt up from the sofa. He looked round him wildly. Both candles had almost burnt out, the glass he had just thrown at his visitor stood before him on the table, and there was no one on the sofa opposite. The knocking on the window frame went on persistently, but it was by no means so loud as it had seemed in his dream; on the contrary, it was quite subdued.

“It was not a dream! No, I swear it was not a dream, it all happened just now!” cried Ivan. He rushed to the window and opened the movable pane.

“Alyosha, I told you not to come,” he cried fiercely to his brother. “In two words, what do you want? In two words, do you hear?”

“An hour ago Smerdyakov hanged himself,” Alyosha answered from the yard.

“Come round to the steps, I’ll open at once,” said Ivan, going to open the door to Alyosha.

Chapter X.
“It Was He Who Said That”
Alyosha coming in told Ivan that a little over an hour ago Marya Kondratyevna had run to his rooms and informed him Smerdyakov had taken his own life. “I went in to clear away the samovar and he was hanging on a nail in the wall.” On Alyosha’s inquiring whether she had informed the police, she answered that she had told no one, “but I flew straight to you, I’ve run all the way.” She seemed perfectly crazy, Alyosha reported, and was shaking like a leaf. When Alyosha ran with her to the cottage, he found Smerdyakov still hanging. On the table lay a note: “I destroy my life of my own will and desire, so as to throw no blame on any one.” Alyosha left the note on the table and went straight to the police captain and told him all about it. “And from him I’ve come straight to you,” said Alyosha, in conclusion, looking intently into Ivan’s face. He had not taken his eyes off him while he told his story, as though struck by something in his expression.

“Brother,” he cried suddenly, “you must be terribly ill. You look and don’t seem to understand what I tell you.”

“It’s a good thing you came,” said Ivan, as though brooding, and not hearing Alyosha’s exclamation. “I knew he had hanged himself.”

“From whom?”

“I don’t know. But I knew. Did I know? Yes, he told me. He told me so just now.”

Ivan stood in the middle of the room, and still spoke in the same brooding tone, looking at the ground.

“Who is he?” asked Alyosha, involuntarily looking round.

“He’s slipped away.”

Ivan raised his head and smiled softly.

“He was afraid of you, of a dove like you. You are a ‘pure cherub.’ Dmitri calls you a cherub. Cherub!… the thunderous rapture of the seraphim. What are seraphim? Perhaps a whole constellation. But perhaps that constellation is only a chemical molecule. There’s a constellation of the Lion and the Sun. Don’t you know it?”

“Brother, sit down,” said Alyosha in alarm. “For goodness’ sake, sit down on the sofa! You are delirious; put your head on the pillow, that’s right. Would you like a wet towel on your head? Perhaps it will do you good.”

“Give me the towel: it’s here on the chair. I just threw it down there.”

“It’s not here. Don’t worry yourself. I know where it is—here,” said Alyosha, finding a clean towel, folded up and unused, by Ivan’s dressing‐ table in the other corner of the room. Ivan looked strangely at the towel: recollection seemed to come back to him for an instant.

“Stay”—he got up from the sofa—“an hour ago I took that new towel from there and wetted it. I wrapped it round my head and threw it down here … How is it it’s dry? There was no other.”

“You put that towel on your head?” asked Alyosha.

“Yes, and walked up and down the room an hour ago … Why have the candles burnt down so? What’s the time?”

“Nearly twelve.”

“No, no, no!” Ivan cried suddenly. “It was not a dream. He was here; he was sitting here, on that sofa. When you knocked at the window, I threw a glass at him … this one. Wait a minute. I was asleep last time, but this dream was not a dream. It has happened before. I have dreams now, Alyosha … yet they are not dreams, but reality. I walk about, talk and see … though I am asleep. But he was sitting here, on that sofa there…. He is frightfully stupid, Alyosha, frightfully stupid.” Ivan laughed suddenly and began pacing about the room.

“Who is stupid? Of whom are you talking, brother?” Alyosha asked anxiously again.

“The devil! He’s taken to visiting me. He’s been here twice, almost three times. He taunted me with being angry at his being a simple devil and not Satan, with scorched wings, in thunder and lightning. But he is not Satan: that’s a lie. He is an impostor. He is simply a devil—a paltry, trivial devil. He goes to the baths. If you undressed him, you’d be sure to find he had a tail, long and smooth like a Danish dog’s, a yard long, dun color…. Alyosha, you are cold. You’ve been in the snow. Would you like some tea? What? Is it cold? Shall I tell her to bring some? C’est à ne pas mettre un chien dehors….”

Alyosha ran to the washing‐stand, wetted the towel, persuaded Ivan to sit down again, and put the wet towel round his head. He sat down beside him.

“What were you telling me just now about Lise?” Ivan began again. (He was becoming very talkative.) “I like Lise. I said something nasty about her. It was a lie. I like her … I am afraid for Katya to‐morrow. I am more afraid of her than of anything. On account of the future. She will cast me off to‐morrow and trample me under foot. She thinks that I am ruining Mitya from jealousy on her account! Yes, she thinks that! But it’s not so. To‐morrow the cross, but not the gallows. No, I shan’t hang myself. Do you know, I can never commit suicide, Alyosha. Is it because I am base? I am not a coward. Is it from love of life? How did I know that Smerdyakov had hanged himself? Yes, it was he told me so.”

“And you are quite convinced that there has been some one here?” asked Alyosha.

“Yes, on that sofa in the corner. You would have driven him away. You did drive him away: he disappeared when you arrived. I love your face, Alyosha. Did you know that I loved your face? And he is myself, Alyosha. All that’s base in me, all that’s mean and contemptible. Yes, I am a romantic. He guessed it … though it’s a libel. He is frightfully stupid; but it’s to his advantage. He has cunning, animal cunning—he knew how to infuriate me. He kept taunting me with believing in him, and that was how he made me listen to him. He fooled me like a boy. He told me a great deal that was true about myself, though. I should never have owned it to myself. Do you know, Alyosha,” Ivan added in an intensely earnest and confidential tone, “I should be awfully glad to think that it was he and not I.”

“He has worn you out,” said Alyosha, looking compassionately at his brother.

“He’s been teasing me. And you know he does it so cleverly, so cleverly. ‘Conscience! What is conscience? I make it up for myself. Why am I tormented by it? From habit. From the universal habit of mankind for the seven thousand years. So let us give it up, and we shall be gods.’ It was he said that, it was he said that!”

“And not you, not you?” Alyosha could not help crying, looking frankly at his brother. “Never mind him, anyway; have done with him and forget him. And let him take with him all that you curse now, and never come back!”

“Yes, but he is spiteful. He laughed at me. He was impudent, Alyosha,” Ivan said, with a shudder of offense. “But he was unfair to me, unfair to me about lots of things. He told lies about me to my face. ‘Oh, you are going to perform an act of heroic virtue: to confess you murdered your father, that the valet murdered him at your instigation.’ ”

“Brother,” Alyosha interposed, “restrain yourself. It was not you murdered him. It’s not true!”

“That’s what he says, he, and he knows it. ‘You are going to perform an act of heroic virtue, and you don’t believe in virtue; that’s what tortures you and makes you angry, that’s why you are so vindictive.’ He said that to me about me and he knows what he says.”

“It’s you say that, not he,” exclaimed Alyosha mournfully, “and you say it because you are ill and delirious, tormenting yourself.”

“No, he knows what he says. ‘You are going from pride,’ he says. ‘You’ll stand up and say it was I killed him, and why do you writhe with horror? You are lying! I despise your opinion, I despise your horror!’ He said that about me. ‘And do you know you are longing for their praise—“he is a criminal, a murderer, but what a generous soul; he wanted to save his brother and he confessed.” ’ That’s a lie, Alyosha!” Ivan cried suddenly, with flashing eyes. “I don’t want the low rabble to praise me, I swear I don’t! That’s a lie! That’s why I threw the glass at him and it broke against his ugly face.”

“Brother, calm yourself, stop!” Alyosha entreated him.

“Yes, he knows how to torment one. He’s cruel,” Ivan went on, unheeding. “I had an inkling from the first what he came for. ‘Granting that you go through pride, still you had a hope that Smerdyakov might be convicted and sent to Siberia, and Mitya would be acquitted, while you would only be punished with moral condemnation’ (‘Do you hear?’ he laughed then)—‘and some people will praise you. But now Smerdyakov’s dead, he has hanged himself, and who’ll believe you alone? But yet you are going, you are going, you’ll go all the same, you’ve decided to go. What are you going for now?’ That’s awful, Alyosha. I can’t endure such questions. Who dare ask me such questions?”

“Brother,” interposed Alyosha—his heart sank with terror, but he still seemed to hope to bring Ivan to reason—“how could he have told you of Smerdyakov’s death before I came, when no one knew of it and there was no time for any one to know of it?”

“He told me,” said Ivan firmly, refusing to admit a doubt. “It was all he did talk about, if you come to that. ‘And it would be all right if you believed in virtue,’ he said. ‘No matter if they disbelieve you, you are going for the sake of principle. But you are a little pig like Fyodor Pavlovitch, and what do you want with virtue? Why do you want to go meddling if your sacrifice is of no use to any one? Because you don’t know yourself why you go! Oh, you’d give a great deal to know yourself why you go! And can you have made up your mind? You’ve not made up your mind. You’ll sit all night deliberating whether to go or not. But you will go; you know you’ll go. You know that whichever way you decide, the decision does not depend on you. You’ll go because you won’t dare not to go. Why won’t you dare? You must guess that for yourself. That’s a riddle for you!’ He got up and went away. You came and he went. He called me a coward, Alyosha! Le mot de l’énigme is that I am a coward. ‘It is not for such eagles to soar above the earth.’ It was he added that—he! And Smerdyakov said the same. He must be killed! Katya despises me. I’ve seen that for a month past. Even Lise will begin to despise me! ‘You are going in order to be praised.’ That’s a brutal lie! And you despise me too, Alyosha. Now I am going to hate you again! And I hate the monster, too! I hate the monster! I don’t want to save the monster. Let him rot in Siberia! He’s begun singing a hymn! Oh, to‐morrow I’ll go, stand before them, and spit in their faces!”

He jumped up in a frenzy, flung off the towel, and fell to pacing up and down the room again. Alyosha recalled what he had just said. “I seem to be sleeping awake…. I walk, I speak, I see, but I am asleep.” It seemed to be just like that now. Alyosha did not leave him. The thought passed through his mind to run for a doctor, but he was afraid to leave his brother alone: there was no one to whom he could leave him. By degrees Ivan lost consciousness completely at last. He still went on talking, talking incessantly, but quite incoherently, and even articulated his words with difficulty. Suddenly he staggered violently; but Alyosha was in time to support him. Ivan let him lead him to his bed. Alyosha undressed him somehow and put him to bed. He sat watching over him for another two hours. The sick man slept soundly, without stirring, breathing softly and evenly. Alyosha took a pillow and lay down on the sofa, without undressing.

As he fell asleep he prayed for Mitya and Ivan. He began to understand Ivan’s illness. “The anguish of a proud determination. An earnest conscience!” God, in Whom he disbelieved, and His truth were gaining mastery over his heart, which still refused to submit. “Yes,” the thought floated through Alyosha’s head as it lay on the pillow, “yes, if Smerdyakov is dead, no one will believe Ivan’s evidence; but he will go and give it.” Alyosha smiled softly. “God will conquer!” he thought. “He will either rise up in the light of truth, or … he’ll perish in hate, revenging on himself and on every one his having served the cause he does not believe in,” Alyosha added bitterly, and again he prayed for Ivan.

Book XII. A Judicial Error
Chapter I.
The Fatal Day
At ten o’clock in the morning of the day following the events I have described, the trial of Dmitri Karamazov began in our district court.

I hasten to emphasize the fact that I am far from esteeming myself capable of reporting all that took place at the trial in full detail, or even in the actual order of events. I imagine that to mention everything with full explanation would fill a volume, even a very large one. And so I trust I may not be reproached, for confining myself to what struck me. I may have selected as of most interest what was of secondary importance, and may have omitted the most prominent and essential details. But I see I shall do better not to apologize. I will do my best and the reader will see for himself that I have done all I can.

And, to begin with, before entering the court, I will mention what surprised me most on that day. Indeed, as it appeared later, every one was surprised at it, too. We all knew that the affair had aroused great interest, that every one was burning with impatience for the trial to begin, that it had been a subject of talk, conjecture, exclamation and surmise for the last two months in local society. Every one knew, too, that the case had become known throughout Russia, but yet we had not imagined that it had aroused such burning, such intense, interest in every one, not only among ourselves, but all over Russia. This became evident at the trial this day.

Visitors had arrived not only from the chief town of our province, but from several other Russian towns, as well as from Moscow and Petersburg. Among them were lawyers, ladies, and even several distinguished personages. Every ticket of admission had been snatched up. A special place behind the table at which the three judges sat was set apart for the most distinguished and important of the men visitors; a row of arm‐chairs had been placed there—something exceptional, which had never been allowed before. A large proportion—not less than half of the public—were ladies. There was such a large number of lawyers from all parts that they did not know where to seat them, for every ticket had long since been eagerly sought for and distributed. I saw at the end of the room, behind the platform, a special partition hurriedly put up, behind which all these lawyers were admitted, and they thought themselves lucky to have standing room there, for all chairs had been removed for the sake of space, and the crowd behind the partition stood throughout the case closely packed, shoulder to shoulder.

Some of the ladies, especially those who came from a distance, made their appearance in the gallery very smartly dressed, but the majority of the ladies were oblivious even of dress. Their faces betrayed hysterical, intense, almost morbid, curiosity. A peculiar fact—established afterwards by many observations—was that almost all the ladies, or, at least the vast majority of them, were on Mitya’s side and in favor of his being acquitted. This was perhaps chiefly owing to his reputation as a conqueror of female hearts. It was known that two women rivals were to appear in the case. One of them—Katerina Ivanovna—was an object of general interest. All sorts of extraordinary tales were told about her, amazing anecdotes of her passion for Mitya, in spite of his crime. Her pride and “aristocratic connections” were particularly insisted upon (she had called upon scarcely any one in the town). People said she intended to petition the Government for leave to accompany the criminal to Siberia and to be married to him somewhere in the mines. The appearance of Grushenka in court was awaited with no less impatience. The public was looking forward with anxious curiosity to the meeting of the two rivals—the proud aristocratic girl and “the hetaira.” But Grushenka was a more familiar figure to the ladies of the district than Katerina Ivanovna. They had already seen “the woman who had ruined Fyodor Pavlovitch and his unhappy son,” and all, almost without exception, wondered how father and son could be so in love with “such a very common, ordinary Russian girl, who was not even pretty.”

In brief, there was a great deal of talk. I know for a fact that there were several serious family quarrels on Mitya’s account in our town. Many ladies quarreled violently with their husbands over differences of opinion about the dreadful case, and it was only natural that the husbands of these ladies, far from being favorably disposed to the prisoner, should enter the court bitterly prejudiced against him. In fact, one may say pretty certainly that the masculine, as distinguished from the feminine, part of the audience were biased against the prisoner. There were numbers of severe, frowning, even vindictive faces. Mitya, indeed, had managed to offend many people during his stay in the town. Some of the visitors were, of course, in excellent spirits and quite unconcerned as to the fate of Mitya personally. But all were interested in the trial, and the majority of the men were certainly hoping for the conviction of the criminal, except perhaps the lawyers, who were more interested in the legal than in the moral aspect of the case.

Everybody was excited at the presence of the celebrated lawyer, Fetyukovitch. His talent was well known, and this was not the first time he had defended notorious criminal cases in the provinces. And if he defended them, such cases became celebrated and long remembered all over Russia. There were stories, too, about our prosecutor and about the President of the Court. It was said that Ippolit Kirillovitch was in a tremor at meeting Fetyukovitch, and that they had been enemies from the beginning of their careers in Petersburg, that though our sensitive prosecutor, who always considered that he had been aggrieved by some one in Petersburg because his talents had not been properly appreciated, was keenly excited over the Karamazov case, and was even dreaming of rebuilding his flagging fortunes by means of it, Fetyukovitch, they said, was his one anxiety. But these rumors were not quite just. Our prosecutor was not one of those men who lose heart in face of danger. On the contrary, his self‐confidence increased with the increase of danger. It must be noted that our prosecutor was in general too hasty and morbidly impressionable. He would put his whole soul into some case and work at it as though his whole fate and his whole fortune depended on its result. This was the subject of some ridicule in the legal world, for just by this characteristic our prosecutor had gained a wider notoriety than could have been expected from his modest position. People laughed particularly at his passion for psychology. In my opinion, they were wrong, and our prosecutor was, I believe, a character of greater depth than was generally supposed. But with his delicate health he had failed to make his mark at the outset of his career and had never made up for it later.

As for the President of our Court, I can only say that he was a humane and cultured man, who had a practical knowledge of his work and progressive views. He was rather ambitious, but did not concern himself greatly about his future career. The great aim of his life was to be a man of advanced ideas. He was, too, a man of connections and property. He felt, as we learnt afterwards, rather strongly about the Karamazov case, but from a social, not from a personal standpoint. He was interested in it as a social phenomenon, in its classification and its character as a product of our social conditions, as typical of the national character, and so on, and so on. His attitude to the personal aspect of the case, to its tragic significance and the persons involved in it, including the prisoner, was rather indifferent and abstract, as was perhaps fitting, indeed.

The court was packed and overflowing long before the judges made their appearance. Our court is the best hall in the town—spacious, lofty, and good for sound. On the right of the judges, who were on a raised platform, a table and two rows of chairs had been put ready for the jury. On the left was the place for the prisoner and the counsel for the defense. In the middle of the court, near the judges, was a table with the “material proofs.” On it lay Fyodor Pavlovitch’s white silk dressing‐gown, stained with blood; the fatal brass pestle with which the supposed murder had been committed; Mitya’s shirt, with a blood‐stained sleeve; his coat, stained with blood in patches over the pocket in which he had put his handkerchief; the handkerchief itself, stiff with blood and by now quite yellow; the pistol loaded by Mitya at Perhotin’s with a view to suicide, and taken from him on the sly at Mokroe by Trifon Borissovitch; the envelope in which the three thousand roubles had been put ready for Grushenka, the narrow pink ribbon with which it had been tied, and many other articles I don’t remember. In the body of the hall, at some distance, came the seats for the public. But in front of the balustrade a few chairs had been placed for witnesses who remained in the court after giving their evidence.

At ten o’clock the three judges arrived—the President, one honorary justice of the peace, and one other. The prosecutor, of course, entered immediately after. The President was a short, stout, thick‐set man of fifty, with a dyspeptic complexion, dark hair turning gray and cut short, and a red ribbon, of what Order I don’t remember. The prosecutor struck me and the others, too, as looking particularly pale, almost green. His face seemed to have grown suddenly thinner, perhaps in a single night, for I had seen him looking as usual only two days before. The President began with asking the court whether all the jury were present.

But I see I can’t go on like this, partly because some things I did not hear, others I did not notice, and others I have forgotten, but most of all because, as I have said before, I have literally no time or space to mention everything that was said and done. I only know that neither side objected to very many of the jurymen. I remember the twelve jurymen—four were petty officials of the town, two were merchants, and six peasants and artisans of the town. I remember, long before the trial, questions were continually asked with some surprise, especially by ladies: “Can such a delicate, complex and psychological case be submitted for decision to petty officials and even peasants?” and “What can an official, still more a peasant, understand in such an affair?” All the four officials in the jury were, in fact, men of no consequence and of low rank. Except one who was rather younger, they were gray‐headed men, little known in society, who had vegetated on a pitiful salary, and who probably had elderly, unpresentable wives and crowds of children, perhaps even without shoes and stockings. At most, they spent their leisure over cards and, of course, had never read a single book. The two merchants looked respectable, but were strangely silent and stolid. One of them was close‐shaven, and was dressed in European style; the other had a small, gray beard, and wore a red ribbon with some sort of a medal upon it on his neck. There is no need to speak of the artisans and the peasants. The artisans of Skotoprigonyevsk are almost peasants, and even work on the land. Two of them also wore European dress, and, perhaps for that reason, were dirtier and more uninviting‐looking than the others. So that one might well wonder, as I did as soon as I had looked at them, “what men like that could possibly make of such a case?” Yet their faces made a strangely imposing, almost menacing, impression; they were stern and frowning.

At last the President opened the case of the murder of Fyodor Pavlovitch Karamazov. I don’t quite remember how he described him. The court usher was told to bring in the prisoner, and Mitya made his appearance. There was a hush through the court. One could have heard a fly. I don’t know how it was with others, but Mitya made a most unfavorable impression on me. He looked an awful dandy in a brand‐new frock‐coat. I heard afterwards that he had ordered it in Moscow expressly for the occasion from his own tailor, who had his measure. He wore immaculate black kid gloves and exquisite linen. He walked in with his yard‐long strides, looking stiffly straight in front of him, and sat down in his place with a most unperturbed air.

At the same moment the counsel for defense, the celebrated Fetyukovitch, entered, and a sort of subdued hum passed through the court. He was a tall, spare man, with long thin legs, with extremely long, thin, pale fingers, clean‐shaven face, demurely brushed, rather short hair, and thin lips that were at times curved into something between a sneer and a smile. He looked about forty. His face would have been pleasant, if it had not been for his eyes, which, in themselves small and inexpressive, were set remarkably close together, with only the thin, long nose as a dividing line between them. In fact, there was something strikingly birdlike about his face. He was in evening dress and white tie.

I remember the President’s first questions to Mitya, about his name, his calling, and so on. Mitya answered sharply, and his voice was so unexpectedly loud that it made the President start and look at the prisoner with surprise. Then followed a list of persons who were to take part in the proceedings—that is, of the witnesses and experts. It was a long list. Four of the witnesses were not present—Miüsov, who had given evidence at the preliminary inquiry, but was now in Paris; Madame Hohlakov and Maximov, who were absent through illness; and Smerdyakov, through his sudden death, of which an official statement from the police was presented. The news of Smerdyakov’s death produced a sudden stir and whisper in the court. Many of the audience, of course, had not heard of the sudden suicide. What struck people most was Mitya’s sudden outburst. As soon as the statement of Smerdyakov’s death was made, he cried out aloud from his place:

“He was a dog and died like a dog!”

I remember how his counsel rushed to him, and how the President addressed him, threatening to take stern measures, if such an irregularity were repeated. Mitya nodded and in a subdued voice repeated several times abruptly to his counsel, with no show of regret:

“I won’t again, I won’t. It escaped me. I won’t do it again.”

And, of course, this brief episode did him no good with the jury or the public. His character was displayed, and it spoke for itself. It was under the influence of this incident that the opening statement was read. It was rather short, but circumstantial. It only stated the chief reasons why he had been arrested, why he must be tried, and so on. Yet it made a great impression on me. The clerk read it loudly and distinctly. The whole tragedy was suddenly unfolded before us, concentrated, in bold relief, in a fatal and pitiless light. I remember how, immediately after it had been read, the President asked Mitya in a loud impressive voice:

“Prisoner, do you plead guilty?”

Mitya suddenly rose from his seat.

“I plead guilty to drunkenness and dissipation,” he exclaimed, again in a startling, almost frenzied, voice, “to idleness and debauchery. I meant to become an honest man for good, just at the moment when I was struck down by fate. But I am not guilty of the death of that old man, my enemy and my father. No, no, I am not guilty of robbing him! I could not be. Dmitri Karamazov is a scoundrel, but not a thief.”

He sat down again, visibly trembling all over. The President again briefly, but impressively, admonished him to answer only what was asked, and not to go off into irrelevant exclamations. Then he ordered the case to proceed. All the witnesses were led up to take the oath. Then I saw them all together. The brothers of the prisoner were, however, allowed to give evidence without taking the oath. After an exhortation from the priest and the President, the witnesses were led away and were made to sit as far as possible apart from one another. Then they began calling them up one by one.

Chapter II.
Dangerous Witnesses
I do not know whether the witnesses for the defense and for the prosecution were separated into groups by the President, and whether it was arranged to call them in a certain order. But no doubt it was so. I only know that the witnesses for the prosecution were called first. I repeat I don’t intend to describe all the questions step by step. Besides, my account would be to some extent superfluous, because in the speeches for the prosecution and for the defense the whole course of the evidence was brought together and set in a strong and significant light, and I took down parts of those two remarkable speeches in full, and will quote them in due course, together with one extraordinary and quite unexpected episode, which occurred before the final speeches, and undoubtedly influenced the sinister and fatal outcome of the trial.

I will only observe that from the first moments of the trial one peculiar characteristic of the case was conspicuous and observed by all, that is, the overwhelming strength of the prosecution as compared with the arguments the defense had to rely upon. Every one realized it from the first moment that the facts began to group themselves round a single point, and the whole horrible and bloody crime was gradually revealed. Every one, perhaps, felt from the first that the case was beyond dispute, that there was no doubt about it, that there could be really no discussion, and that the defense was only a matter of form, and that the prisoner was guilty, obviously and conclusively guilty. I imagine that even the ladies, who were so impatiently longing for the acquittal of the interesting prisoner, were at the same time, without exception, convinced of his guilt. What’s more, I believe they would have been mortified if his guilt had not been so firmly established, as that would have lessened the effect of the closing scene of the criminal’s acquittal. That he would be acquitted, all the ladies, strange to say, were firmly persuaded up to the very last moment. “He is guilty, but he will be acquitted, from motives of humanity, in accordance with the new ideas, the new sentiments that had come into fashion,” and so on, and so on. And that was why they had crowded into the court so impatiently. The men were more interested in the contest between the prosecutor and the famous Fetyukovitch. All were wondering and asking themselves what could even a talent like Fetyukovitch’s make of such a desperate case; and so they followed his achievements, step by step, with concentrated attention.

But Fetyukovitch remained an enigma to all up to the very end, up to his speech. Persons of experience suspected that he had some design, that he was working towards some object, but it was almost impossible to guess what it was. His confidence and self‐reliance were unmistakable, however. Every one noticed with pleasure, moreover, that he, after so short a stay, not more than three days, perhaps, among us, had so wonderfully succeeded in mastering the case and “had studied it to a nicety.” People described with relish, afterwards, how cleverly he had “taken down” all the witnesses for the prosecution, and as far as possible perplexed them and, what’s more, had aspersed their reputation and so depreciated the value of their evidence. But it was supposed that he did this rather by way of sport, so to speak, for professional glory, to show nothing had been omitted of the accepted methods, for all were convinced that he could do no real good by such disparagement of the witnesses, and probably was more aware of this than any one, having some idea of his own in the background, some concealed weapon of defense, which he would suddenly reveal when the time came. But meanwhile, conscious of his strength, he seemed to be diverting himself.

So, for instance, when Grigory, Fyodor Pavlovitch’s old servant, who had given the most damning piece of evidence about the open door, was examined, the counsel for the defense positively fastened upon him when his turn came to question him. It must be noted that Grigory entered the hall with a composed and almost stately air, not the least disconcerted by the majesty of the court or the vast audience listening to him. He gave evidence with as much confidence as though he had been talking with his Marfa, only perhaps more respectfully. It was impossible to make him contradict himself. The prosecutor questioned him first in detail about the family life of the Karamazovs. The family picture stood out in lurid colors. It was plain to ear and eye that the witness was guileless and impartial. In spite of his profound reverence for the memory of his deceased master, he yet bore witness that he had been unjust to Mitya and “hadn’t brought up his children as he should. He’d have been devoured by lice when he was little, if it hadn’t been for me,” he added, describing Mitya’s early childhood. “It wasn’t fair either of the father to wrong his son over his mother’s property, which was by right his.”

In reply to the prosecutor’s question what grounds he had for asserting that Fyodor Pavlovitch had wronged his son in their money relations, Grigory, to the surprise of every one, had no proof at all to bring forward, but he still persisted that the arrangement with the son was “unfair,” and that he ought “to have paid him several thousand roubles more.” I must note, by the way, that the prosecutor asked this question whether Fyodor Pavlovitch had really kept back part of Mitya’s inheritance with marked persistence of all the witnesses who could be asked it, not excepting Alyosha and Ivan, but he obtained no exact information from any one; all alleged that it was so, but were unable to bring forward any distinct proof. Grigory’s description of the scene at the dinner‐table, when Dmitri had burst in and beaten his father, threatening to come back to kill him, made a sinister impression on the court, especially as the old servant’s composure in telling it, his parsimony of words and peculiar phraseology, were as effective as eloquence. He observed that he was not angry with Mitya for having knocked him down and struck him on the face; he had forgiven him long ago, he said. Of the deceased Smerdyakov he observed, crossing himself, that he was a lad of ability, but stupid and afflicted, and, worse still, an infidel, and that it was Fyodor Pavlovitch and his elder son who had taught him to be so. But he defended Smerdyakov’s honesty almost with warmth, and related how Smerdyakov had once found the master’s money in the yard, and, instead of concealing it, had taken it to his master, who had rewarded him with a “gold piece” for it, and trusted him implicitly from that time forward. He maintained obstinately that the door into the garden had been open. But he was asked so many questions that I can’t recall them all.

At last the counsel for the defense began to cross‐examine him, and the first question he asked was about the envelope in which Fyodor Pavlovitch was supposed to have put three thousand roubles for “a certain person.” “Have you ever seen it, you, who were for so many years in close attendance on your master?” Grigory answered that he had not seen it and had never heard of the money from any one “till everybody was talking about it.” This question about the envelope Fetyukovitch put to every one who could conceivably have known of it, as persistently as the prosecutor asked his question about Dmitri’s inheritance, and got the same answer from all, that no one had seen the envelope, though many had heard of it. From the beginning every one noticed Fetyukovitch’s persistence on this subject.

“Now, with your permission I’ll ask you a question,” Fetyukovitch said, suddenly and unexpectedly. “Of what was that balsam, or, rather, decoction, made, which, as we learn from the preliminary inquiry, you used on that evening to rub your lumbago, in the hope of curing it?”

Grigory looked blankly at the questioner, and after a brief silence muttered, “There was saffron in it.”

“Nothing but saffron? Don’t you remember any other ingredient?”

“There was milfoil in it, too.”

“And pepper perhaps?” Fetyukovitch queried.

“Yes, there was pepper, too.”

“Etcetera. And all dissolved in vodka?”

“In spirit.”

There was a faint sound of laughter in the court.

“You see, in spirit. After rubbing your back, I believe, you drank what was left in the bottle with a certain pious prayer, only known to your wife?”

“I did.”

“Did you drink much? Roughly speaking, a wine‐glass or two?”

“It might have been a tumbler‐full.”

“A tumbler‐full, even. Perhaps a tumbler and a half?”

Grigory did not answer. He seemed to see what was meant.

“A glass and a half of neat spirit—is not at all bad, don’t you think? You might see the gates of heaven open, not only the door into the garden?”

Grigory remained silent. There was another laugh in the court. The President made a movement.

“Do you know for a fact,” Fetyukovitch persisted, “whether you were awake or not when you saw the open door?”

“I was on my legs.”

“That’s not a proof that you were awake.” (There was again laughter in the court.) “Could you have answered at that moment, if any one had asked you a question—for instance, what year it is?”

“I don’t know.”

“And what year is it, Anno Domini, do you know?”

Grigory stood with a perplexed face, looking straight at his tormentor. Strange to say, it appeared he really did not know what year it was.

“But perhaps you can tell me how many fingers you have on your hands?”

“I am a servant,” Grigory said suddenly, in a loud and distinct voice. “If my betters think fit to make game of me, it is my duty to suffer it.”

Fetyukovitch was a little taken aback, and the President intervened, reminding him that he must ask more relevant questions. Fetyukovitch bowed with dignity and said that he had no more questions to ask of the witness. The public and the jury, of course, were left with a grain of doubt in their minds as to the evidence of a man who might, while undergoing a certain cure, have seen “the gates of heaven,” and who did not even know what year he was living in. But before Grigory left the box another episode occurred. The President, turning to the prisoner, asked him whether he had any comment to make on the evidence of the last witness.

“Except about the door, all he has said is true,” cried Mitya, in a loud voice. “For combing the lice off me, I thank him; for forgiving my blows, I thank him. The old man has been honest all his life and as faithful to my father as seven hundred poodles.”

“Prisoner, be careful in your language,” the President admonished him.

“I am not a poodle,” Grigory muttered.

“All right, it’s I am a poodle myself,” cried Mitya. “If it’s an insult, I take it to myself and I beg his pardon. I was a beast and cruel to him. I was cruel to Æsop too.”

“What Æsop?” the President asked sternly again.

“Oh, Pierrot … my father, Fyodor Pavlovitch.”

The President again and again warned Mitya impressively and very sternly to be more careful in his language.

“You are injuring yourself in the opinion of your judges.”

The counsel for the defense was equally clever in dealing with the evidence of Rakitin. I may remark that Rakitin was one of the leading witnesses and one to whom the prosecutor attached great significance. It appeared that he knew everything; his knowledge was amazing, he had been everywhere, seen everything, talked to everybody, knew every detail of the biography of Fyodor Pavlovitch and all the Karamazovs. Of the envelope, it is true, he had only heard from Mitya himself. But he described minutely Mitya’s exploits in the “Metropolis,” all his compromising doings and sayings, and told the story of Captain Snegiryov’s “wisp of tow.” But even Rakitin could say nothing positive about Mitya’s inheritance, and confined himself to contemptuous generalities.

“Who could tell which of them was to blame, and which was in debt to the other, with their crazy Karamazov way of muddling things so that no one could make head or tail of it?” He attributed the tragic crime to the habits that had become ingrained by ages of serfdom and the distressed condition of Russia, due to the lack of appropriate institutions. He was, in fact, allowed some latitude of speech. This was the first occasion on which Rakitin showed what he could do, and attracted notice. The prosecutor knew that the witness was preparing a magazine article on the case, and afterwards in his speech, as we shall see later, quoted some ideas from the article, showing that he had seen it already. The picture drawn by the witness was a gloomy and sinister one, and greatly strengthened the case for the prosecution. Altogether, Rakitin’s discourse fascinated the public by its independence and the extraordinary nobility of its ideas. There were even two or three outbreaks of applause when he spoke of serfdom and the distressed condition of Russia.

But Rakitin, in his youthful ardor, made a slight blunder, of which the counsel for the defense at once adroitly took advantage. Answering certain questions about Grushenka, and carried away by the loftiness of his own sentiments and his success, of which he was, of course, conscious, he went so far as to speak somewhat contemptuously of Agrafena Alexandrovna as “the kept mistress of Samsonov.” He would have given a good deal to take back his words afterwards, for Fetyukovitch caught him out over it at once. And it was all because Rakitin had not reckoned on the lawyer having been able to become so intimately acquainted with every detail in so short a time.

“Allow me to ask,” began the counsel for the defense, with the most affable and even respectful smile, “you are, of course, the same Mr. Rakitin whose pamphlet, The Life of the Deceased Elder, Father Zossima, published by the diocesan authorities, full of profound and religious reflections and preceded by an excellent and devout dedication to the bishop, I have just read with such pleasure?”

“I did not write it for publication … it was published afterwards,” muttered Rakitin, for some reason fearfully disconcerted and almost ashamed.

“Oh, that’s excellent! A thinker like you can, and indeed ought to, take the widest view of every social question. Your most instructive pamphlet has been widely circulated through the patronage of the bishop, and has been of appreciable service…. But this is the chief thing I should like to learn from you. You stated just now that you were very intimately acquainted with Madame Svyetlov.” (It must be noted that Grushenka’s surname was Svyetlov. I heard it for the first time that day, during the case.)

“I cannot answer for all my acquaintances…. I am a young man … and who can be responsible for every one he meets?” cried Rakitin, flushing all over.

“I understand, I quite understand,” cried Fetyukovitch, as though he, too, were embarrassed and in haste to excuse himself. “You, like any other, might well be interested in an acquaintance with a young and beautiful woman who would readily entertain the élite of the youth of the neighborhood, but … I only wanted to know … It has come to my knowledge that Madame Svyetlov was particularly anxious a couple of months ago to make the acquaintance of the younger Karamazov, Alexey Fyodorovitch, and promised you twenty‐five roubles, if you would bring him to her in his monastic dress. And that actually took place on the evening of the day on which the terrible crime, which is the subject of the present investigation, was committed. You brought Alexey Karamazov to Madame Svyetlov, and did you receive the twenty‐five roubles from Madame Svyetlov as a reward, that’s what I wanted to hear from you?”

“It was a joke…. I don’t see of what interest that can be to you…. I took it for a joke … meaning to give it back later….”

“Then you did take— But you have not given it back yet … or have you?”

“That’s of no consequence,” muttered Rakitin, “I refuse to answer such questions…. Of course I shall give it back.”

The President intervened, but Fetyukovitch declared he had no more questions to ask of the witness. Mr. Rakitin left the witness‐box not absolutely without a stain upon his character. The effect left by the lofty idealism of his speech was somewhat marred, and Fetyukovitch’s expression, as he watched him walk away, seemed to suggest to the public “this is a specimen of the lofty‐minded persons who accuse him.” I remember that this incident, too, did not pass off without an outbreak from Mitya. Enraged by the tone in which Rakitin had referred to Grushenka, he suddenly shouted “Bernard!” When, after Rakitin’s cross‐ examination, the President asked the prisoner if he had anything to say, Mitya cried loudly:

“Since I’ve been arrested, he has borrowed money from me! He is a contemptible Bernard and opportunist, and he doesn’t believe in God; he took the bishop in!”

Mitya, of course, was pulled up again for the intemperance of his language, but Rakitin was done for. Captain Snegiryov’s evidence was a failure, too, but from quite a different reason. He appeared in ragged and dirty clothes, muddy boots, and in spite of the vigilance and expert observation of the police officers, he turned out to be hopelessly drunk. On being asked about Mitya’s attack upon him, he refused to answer.

“God bless him. Ilusha told me not to. God will make it up to me yonder.”

“Who told you not to tell? Of whom are you talking?”

“Ilusha, my little son. ‘Father, father, how he insulted you!’ He said that at the stone. Now he is dying….”

The captain suddenly began sobbing, and plumped down on his knees before the President. He was hurriedly led away amidst the laughter of the public. The effect prepared by the prosecutor did not come off at all.

Fetyukovitch went on making the most of every opportunity, and amazed people more and more by his minute knowledge of the case. Thus, for example, Trifon Borissovitch made a great impression, of course, very prejudicial to Mitya. He calculated almost on his fingers that on his first visit to Mokroe, Mitya must have spent three thousand roubles, “or very little less. Just think what he squandered on those gypsy girls alone! And as for our lousy peasants, it wasn’t a case of flinging half a rouble in the street, he made them presents of twenty‐five roubles each, at least, he didn’t give them less. And what a lot of money was simply stolen from him! And if any one did steal, he did not leave a receipt. How could one catch the thief when he was flinging his money away all the time? Our peasants are robbers, you know; they have no care for their souls. And the way he went on with the girls, our village girls! They’re completely set up since then, I tell you, they used to be poor.” He recalled, in fact, every item of expense and added it all up. So the theory that only fifteen hundred had been spent and the rest had been put aside in a little bag seemed inconceivable.

“I saw three thousand as clear as a penny in his hands, I saw it with my own eyes; I should think I ought to know how to reckon money,” cried Trifon Borissovitch, doing his best to satisfy “his betters.”

When Fetyukovitch had to cross‐examine him, he scarcely tried to refute his evidence, but began asking him about an incident at the first carousal at Mokroe, a month before the arrest, when Timofey and another peasant called Akim had picked up on the floor in the passage a hundred roubles dropped by Mitya when he was drunk, and had given them to Trifon Borissovitch and received a rouble each from him for doing so. “Well,” asked the lawyer, “did you give that hundred roubles back to Mr. Karamazov?” Trifon Borissovitch shuffled in vain…. He was obliged, after the peasants had been examined, to admit the finding of the hundred roubles, only adding that he had religiously returned it all to Dmitri Fyodorovitch “in perfect honesty, and it’s only because his honor was in liquor at the time, he wouldn’t remember it.” But, as he had denied the incident of the hundred roubles till the peasants had been called to prove it, his evidence as to returning the money to Mitya was naturally regarded with great suspicion. So one of the most dangerous witnesses brought forward by the prosecution was again discredited.

The same thing happened with the Poles. They took up an attitude of pride and independence; they vociferated loudly that they had both been in the service of the Crown, and that “Pan Mitya” had offered them three thousand “to buy their honor,” and that they had seen a large sum of money in his hands. Pan Mussyalovitch introduced a terrible number of Polish words into his sentences, and seeing that this only increased his consequence in the eyes of the President and the prosecutor, grew more and more pompous, and ended by talking in Polish altogether. But Fetyukovitch caught them, too, in his snares. Trifon Borissovitch, recalled, was forced, in spite of his evasions, to admit that Pan Vrublevsky had substituted another pack of cards for the one he had provided, and that Pan Mussyalovitch had cheated during the game. Kalganov confirmed this, and both the Poles left the witness‐box with damaged reputations, amidst laughter from the public.

Then exactly the same thing happened with almost all the most dangerous witnesses. Fetyukovitch succeeded in casting a slur on all of them, and dismissing them with a certain derision. The lawyers and experts were lost in admiration, and were only at a loss to understand what good purpose could be served by it, for all, I repeat, felt that the case for the prosecution could not be refuted, but was growing more and more tragically overwhelming. But from the confidence of the “great magician” they saw that he was serene, and they waited, feeling that “such a man” had not come from Petersburg for nothing, and that he was not a man to return unsuccessful.

Chapter III.
The Medical Experts And A Pound Of Nuts
The evidence of the medical experts, too, was of little use to the prisoner. And it appeared later that Fetyukovitch had not reckoned much upon it. The medical line of defense had only been taken up through the insistence of Katerina Ivanovna, who had sent for a celebrated doctor from Moscow on purpose. The case for the defense could, of course, lose nothing by it and might, with luck, gain something from it. There was, however, an element of comedy about it, through the difference of opinion of the doctors. The medical experts were the famous doctor from Moscow, our doctor, Herzenstube, and the young doctor, Varvinsky. The two latter appeared also as witnesses for the prosecution.

The first to be called in the capacity of expert was Doctor Herzenstube. He was a gray and bald old man of seventy, of middle height and sturdy build. He was much esteemed and respected by every one in the town. He was a conscientious doctor and an excellent and pious man, a Hernguter or Moravian brother, I am not quite sure which. He had been living amongst us for many years and behaved with wonderful dignity. He was a kind‐hearted and humane man. He treated the sick poor and peasants for nothing, visited them in their slums and huts, and left money for medicine, but he was as obstinate as a mule. If once he had taken an idea into his head, there was no shaking it. Almost every one in the town was aware, by the way, that the famous doctor had, within the first two or three days of his presence among us, uttered some extremely offensive allusions to Doctor Herzenstube’s qualifications. Though the Moscow doctor asked twenty‐five roubles for a visit, several people in the town were glad to take advantage of his arrival, and rushed to consult him regardless of expense. All these had, of course, been previously patients of Doctor Herzenstube, and the celebrated doctor had criticized his treatment with extreme harshness. Finally, he had asked the patients as soon as he saw them, “Well, who has been cramming you with nostrums? Herzenstube? He, he!” Doctor Herzenstube, of course, heard all this, and now all the three doctors made their appearance, one after another, to be examined.

Doctor Herzenstube roundly declared that the abnormality of the prisoner’s mental faculties was self‐evident. Then giving his grounds for this opinion, which I omit here, he added that the abnormality was not only evident in many of the prisoner’s actions in the past, but was apparent even now at this very moment. When he was asked to explain how it was apparent now at this moment, the old doctor, with simple‐hearted directness, pointed out that the prisoner on entering the court had “an extraordinary air, remarkable in the circumstances”; that he had “marched in like a soldier, looking straight before him, though it would have been more natural for him to look to the left where, among the public, the ladies were sitting, seeing that he was a great admirer of the fair sex and must be thinking much of what the ladies are saying of him now,” the old man concluded in his peculiar language.

I must add that he spoke Russian readily, but every phrase was formed in German style, which did not, however, trouble him, for it had always been a weakness of his to believe that he spoke Russian perfectly, better indeed than Russians. And he was very fond of using Russian proverbs, always declaring that the Russian proverbs were the best and most expressive sayings in the whole world. I may remark, too, that in conversation, through absent‐mindedness he often forgot the most ordinary words, which sometimes went out of his head, though he knew them perfectly. The same thing happened, though, when he spoke German, and at such times he always waved his hand before his face as though trying to catch the lost word, and no one could induce him to go on speaking till he had found the missing word. His remark that the prisoner ought to have looked at the ladies on entering roused a whisper of amusement in the audience. All our ladies were very fond of our old doctor; they knew, too, that having been all his life a bachelor and a religious man of exemplary conduct, he looked upon women as lofty creatures. And so his unexpected observation struck every one as very queer.

The Moscow doctor, being questioned in his turn, definitely and emphatically repeated that he considered the prisoner’s mental condition abnormal in the highest degree. He talked at length and with erudition of “aberration” and “mania,” and argued that, from all the facts collected, the prisoner had undoubtedly been in a condition of aberration for several days before his arrest, and, if the crime had been committed by him, it must, even if he were conscious of it, have been almost involuntary, as he had not the power to control the morbid impulse that possessed him.

But apart from temporary aberration, the doctor diagnosed mania, which premised, in his words, to lead to complete insanity in the future. (It must be noted that I report this in my own words, the doctor made use of very learned and professional language.) “All his actions are in contravention of common sense and logic,” he continued. “Not to refer to what I have not seen, that is, the crime itself and the whole catastrophe, the day before yesterday, while he was talking to me, he had an unaccountably fixed look in his eye. He laughed unexpectedly when there was nothing to laugh at. He showed continual and inexplicable irritability, using strange words, ‘Bernard!’ ‘Ethics!’ and others equally inappropriate.” But the doctor detected mania, above all, in the fact that the prisoner could not even speak of the three thousand roubles, of which he considered himself to have been cheated, without extraordinary irritation, though he could speak comparatively lightly of other misfortunes and grievances. According to all accounts, he had even in the past, whenever the subject of the three thousand roubles was touched on, flown into a perfect frenzy, and yet he was reported to be a disinterested and not grasping man.

“As to the opinion of my learned colleague,” the Moscow doctor added ironically in conclusion, “that the prisoner would, on entering the court, have naturally looked at the ladies and not straight before him, I will only say that, apart from the playfulness of this theory, it is radically unsound. For though I fully agree that the prisoner, on entering the court where his fate will be decided, would not naturally look straight before him in that fixed way, and that that may really be a sign of his abnormal mental condition, at the same time I maintain that he would naturally not look to the left at the ladies, but, on the contrary, to the right to find his legal adviser, on whose help all his hopes rest and on whose defense all his future depends.” The doctor expressed his opinion positively and emphatically.

But the unexpected pronouncement of Doctor Varvinsky gave the last touch of comedy to the difference of opinion between the experts. In his opinion the prisoner was now, and had been all along, in a perfectly normal condition, and, although he certainly must have been in a nervous and exceedingly excited state before his arrest, this might have been due to several perfectly obvious causes, jealousy, anger, continual drunkenness, and so on. But this nervous condition would not involve the mental aberration of which mention had just been made. As to the question whether the prisoner should have looked to the left or to the right on entering the court, “in his modest opinion,” the prisoner would naturally look straight before him on entering the court, as he had in fact done, as that was where the judges, on whom his fate depended, were sitting. So that it was just by looking straight before him that he showed his perfectly normal state of mind at the present. The young doctor concluded his “modest” testimony with some heat.

“Bravo, doctor!” cried Mitya, from his seat, “just so!”

Mitya, of course, was checked, but the young doctor’s opinion had a decisive influence on the judges and on the public, and, as appeared afterwards, every one agreed with him. But Doctor Herzenstube, when called as a witness, was quite unexpectedly of use to Mitya. As an old resident in the town who had known the Karamazov family for years, he furnished some facts of great value for the prosecution, and suddenly, as though recalling something, he added:

“But the poor young man might have had a very different life, for he had a good heart both in childhood and after childhood, that I know. But the Russian proverb says, ‘If a man has one head, it’s good, but if another clever man comes to visit him, it would be better still, for then there will be two heads and not only one.’ ”

“One head is good, but two are better,” the prosecutor put in impatiently. He knew the old man’s habit of talking slowly and deliberately, regardless of the impression he was making and of the delay he was causing, and highly prizing his flat, dull and always gleefully complacent German wit. The old man was fond of making jokes.

“Oh, yes, that’s what I say,” he went on stubbornly. “One head is good, but two are much better, but he did not meet another head with wits, and his wits went. Where did they go? I’ve forgotten the word.” He went on, passing his hand before his eyes, “Oh, yes, spazieren.”

“Wandering?”

“Oh, yes, wandering, that’s what I say. Well, his wits went wandering and fell in such a deep hole that he lost himself. And yet he was a grateful and sensitive boy. Oh, I remember him very well, a little chap so high, left neglected by his father in the back yard, when he ran about without boots on his feet, and his little breeches hanging by one button.”

A note of feeling and tenderness suddenly came into the honest old man’s voice. Fetyukovitch positively started, as though scenting something, and caught at it instantly.

“Oh, yes, I was a young man then…. I was … well, I was forty‐five then, and had only just come here. And I was so sorry for the boy then; I asked myself why shouldn’t I buy him a pound of … a pound of what? I’ve forgotten what it’s called. A pound of what children are very fond of, what is it, what is it?” The doctor began waving his hands again. “It grows on a tree and is gathered and given to every one….”

“Apples?”

“Oh, no, no. You have a dozen of apples, not a pound…. No, there are a lot of them, and all little. You put them in the mouth and crack.”

“Nuts?”

“Quite so, nuts, I say so.” The doctor repeated in the calmest way as though he had been at no loss for a word. “And I bought him a pound of nuts, for no one had ever bought the boy a pound of nuts before. And I lifted my finger and said to him, ‘Boy, Gott der Vater.’ He laughed and said, ‘Gott der Vater.’… ‘Gott der Sohn.’ He laughed again and lisped, ‘Gott der Sohn.’ ‘Gott der heilige Geist.’ Then he laughed and said as best he could, ‘Gott der heilige Geist.’ I went away, and two days after I happened to be passing, and he shouted to me of himself, ‘Uncle, Gott der Vater, Gott der Sohn,’ and he had only forgotten ‘Gott der heilige Geist.’ But I reminded him of it and I felt very sorry for him again. But he was taken away, and I did not see him again. Twenty‐ three years passed. I am sitting one morning in my study, a white‐haired old man, when there walks into the room a blooming young man, whom I should never have recognized, but he held up his finger and said, laughing, ‘Gott der Vater, Gott der Sohn, and Gott der heilige Geist. I have just arrived and have come to thank you for that pound of nuts, for no one else ever bought me a pound of nuts; you are the only one that ever did.’ And then I remembered my happy youth and the poor child in the yard, without boots on his feet, and my heart was touched and I said, ‘You are a grateful young man, for you have remembered all your life the pound of nuts I bought you in your childhood.’ And I embraced him and blessed him. And I shed tears. He laughed, but he shed tears, too … for the Russian often laughs when he ought to be weeping. But he did weep; I saw it. And now, alas!…”

“And I am weeping now, German, I am weeping now, too, you saintly man,” Mitya cried suddenly.

In any case the anecdote made a certain favorable impression on the public. But the chief sensation in Mitya’s favor was created by the evidence of Katerina Ivanovna, which I will describe directly. Indeed, when the witnesses à décharge, that is, called by the defense, began giving evidence, fortune seemed all at once markedly more favorable to Mitya, and what was particularly striking, this was a surprise even to the counsel for the defense. But before Katerina Ivanovna was called, Alyosha was examined, and he recalled a fact which seemed to furnish positive evidence against one important point made by the prosecution.

Chapter IV.
Fortune Smiles On Mitya
It came quite as a surprise even to Alyosha himself. He was not required to take the oath, and I remember that both sides addressed him very gently and sympathetically. It was evident that his reputation for goodness had preceded him. Alyosha gave his evidence modestly and with restraint, but his warm sympathy for his unhappy brother was unmistakable. In answer to one question, he sketched his brother’s character as that of a man, violent‐tempered perhaps and carried away by his passions, but at the same time honorable, proud and generous, capable of self‐sacrifice, if necessary. He admitted, however, that, through his passion for Grushenka and his rivalry with his father, his brother had been of late in an intolerable position. But he repelled with indignation the suggestion that his brother might have committed a murder for the sake of gain, though he recognized that the three thousand roubles had become almost an obsession with Mitya; that he looked upon them as part of the inheritance he had been cheated of by his father, and that, indifferent as he was to money as a rule, he could not even speak of that three thousand without fury. As for the rivalry of the two “ladies,” as the prosecutor expressed it—that is, of Grushenka and Katya—he answered evasively and was even unwilling to answer one or two questions altogether.

“Did your brother tell you, anyway, that he intended to kill your father?” asked the prosecutor. “You can refuse to answer if you think necessary,” he added.

“He did not tell me so directly,” answered Alyosha.

“How so? Did he indirectly?”

“He spoke to me once of his hatred for our father and his fear that at an extreme moment … at a moment of fury, he might perhaps murder him.”

“And you believed him?”

“I am afraid to say that I did. But I never doubted that some higher feeling would always save him at the fatal moment, as it has indeed saved him, for it was not he killed my father,” Alyosha said firmly, in a loud voice that was heard throughout the court.

The prosecutor started like a war‐horse at the sound of a trumpet.

“Let me assure you that I fully believe in the complete sincerity of your conviction and do not explain it by or identify it with your affection for your unhappy brother. Your peculiar view of the whole tragic episode is known to us already from the preliminary investigation. I won’t attempt to conceal from you that it is highly individual and contradicts all the other evidence collected by the prosecution. And so I think it essential to press you to tell me what facts have led you to this conviction of your brother’s innocence and of the guilt of another person against whom you gave evidence at the preliminary inquiry?”

“I only answered the questions asked me at the preliminary inquiry,” replied Alyosha, slowly and calmly. “I made no accusation against Smerdyakov of myself.”

“Yet you gave evidence against him?”

“I was led to do so by my brother Dmitri’s words. I was told what took place at his arrest and how he had pointed to Smerdyakov before I was examined. I believe absolutely that my brother is innocent, and if he didn’t commit the murder, then—”

“Then Smerdyakov? Why Smerdyakov? And why are you so completely persuaded of your brother’s innocence?”

“I cannot help believing my brother. I know he wouldn’t lie to me. I saw from his face he wasn’t lying.”

“Only from his face? Is that all the proof you have?”

“I have no other proof.”

“And of Smerdyakov’s guilt you have no proof whatever but your brother’s word and the expression of his face?”

“No, I have no other proof.”

The prosecutor dropped the examination at this point. The impression left by Alyosha’s evidence on the public was most disappointing. There had been talk about Smerdyakov before the trial; some one had heard something, some one had pointed out something else, it was said that Alyosha had gathered together some extraordinary proofs of his brother’s innocence and Smerdyakov’s guilt, and after all there was nothing, no evidence except certain moral convictions so natural in a brother.

But Fetyukovitch began his cross‐examination. On his asking Alyosha when it was that the prisoner had told him of his hatred for his father and that he might kill him, and whether he had heard it, for instance, at their last meeting before the catastrophe, Alyosha started as he answered, as though only just recollecting and understanding something.

“I remember one circumstance now which I’d quite forgotten myself. It wasn’t clear to me at the time, but now—”

And, obviously only now for the first time struck by an idea, he recounted eagerly how, at his last interview with Mitya that evening under the tree, on the road to the monastery, Mitya had struck himself on the breast, “the upper part of the breast,” and had repeated several times that he had a means of regaining his honor, that that means was here, here on his breast. “I thought, when he struck himself on the breast, he meant that it was in his heart,” Alyosha continued, “that he might find in his heart strength to save himself from some awful disgrace which was awaiting him and which he did not dare confess even to me. I must confess I did think at the time that he was speaking of our father, and that the disgrace he was shuddering at was the thought of going to our father and doing some violence to him. Yet it was just then that he pointed to something on his breast, so that I remember the idea struck me at the time that the heart is not on that part of the breast, but below, and that he struck himself much too high, just below the neck, and kept pointing to that place. My idea seemed silly to me at the time, but he was perhaps pointing then to that little bag in which he had fifteen hundred roubles!”

“Just so,” Mitya cried from his place. “That’s right, Alyosha, it was the little bag I struck with my fist.”

Fetyukovitch flew to him in hot haste entreating him to keep quiet, and at the same instant pounced on Alyosha. Alyosha, carried away himself by his recollection, warmly expressed his theory that this disgrace was probably just that fifteen hundred roubles on him, which he might have returned to Katerina Ivanovna as half of what he owed her, but which he had yet determined not to repay her and to use for another purpose—namely, to enable him to elope with Grushenka, if she consented.

“It is so, it must be so,” exclaimed Alyosha, in sudden excitement. “My brother cried several times that half of the disgrace, half of it (he said half several times) he could free himself from at once, but that he was so unhappy in his weakness of will that he wouldn’t do it … that he knew beforehand he was incapable of doing it!”

“And you clearly, confidently remember that he struck himself just on this part of the breast?” Fetyukovitch asked eagerly.

“Clearly and confidently, for I thought at the time, ‘Why does he strike himself up there when the heart is lower down?’ and the thought seemed stupid to me at the time … I remember its seeming stupid … it flashed through my mind. That’s what brought it back to me just now. How could I have forgotten it till now? It was that little bag he meant when he said he had the means but wouldn’t give back that fifteen hundred. And when he was arrested at Mokroe he cried out—I know, I was told it—that he considered it the most disgraceful act of his life that when he had the means of repaying Katerina Ivanovna half (half, note!) what he owed her, he yet could not bring himself to repay the money and preferred to remain a thief in her eyes rather than part with it. And what torture, what torture that debt has been to him!” Alyosha exclaimed in conclusion.

The prosecutor, of course, intervened. He asked Alyosha to describe once more how it had all happened, and several times insisted on the question, “Had the prisoner seemed to point to anything? Perhaps he had simply struck himself with his fist on the breast?”

“But it was not with his fist,” cried Alyosha; “he pointed with his fingers and pointed here, very high up…. How could I have so completely forgotten it till this moment?”

The President asked Mitya what he had to say to the last witness’s evidence. Mitya confirmed it, saying that he had been pointing to the fifteen hundred roubles which were on his breast, just below the neck, and that that was, of course, the disgrace, “A disgrace I cannot deny, the most shameful act of my whole life,” cried Mitya. “I might have repaid it and didn’t repay it. I preferred to remain a thief in her eyes rather than give it back. And the most shameful part of it was that I knew beforehand I shouldn’t give it back! You are right, Alyosha! Thanks, Alyosha!”

So Alyosha’s cross‐examination ended. What was important and striking about it was that one fact at least had been found, and even though this were only one tiny bit of evidence, a mere hint at evidence, it did go some little way towards proving that the bag had existed and had contained fifteen hundred roubles and that the prisoner had not been lying at the preliminary inquiry when he alleged at Mokroe that those fifteen hundred roubles were “his own.” Alyosha was glad. With a flushed face he moved away to the seat assigned to him. He kept repeating to himself: “How was it I forgot? How could I have forgotten it? And what made it come back to me now?”

Katerina Ivanovna was called to the witness‐box. As she entered something extraordinary happened in the court. The ladies clutched their lorgnettes and opera‐glasses. There was a stir among the men: some stood up to get a better view. Everybody alleged afterwards that Mitya had turned “white as a sheet” on her entrance. All in black, she advanced modestly, almost timidly. It was impossible to tell from her face that she was agitated; but there was a resolute gleam in her dark and gloomy eyes. I may remark that many people mentioned that she looked particularly handsome at that moment. She spoke softly but clearly, so that she was heard all over the court. She expressed herself with composure, or at least tried to appear composed. The President began his examination discreetly and very respectfully, as though afraid to touch on “certain chords,” and showing consideration for her great unhappiness. But in answer to one of the first questions Katerina Ivanovna replied firmly that she had been formerly betrothed to the prisoner, “until he left me of his own accord…” she added quietly. When they asked her about the three thousand she had entrusted to Mitya to post to her relations, she said firmly, “I didn’t give him the money simply to send it off. I felt at the time that he was in great need of money…. I gave him the three thousand on the understanding that he should post it within the month if he cared to. There was no need for him to worry himself about that debt afterwards.”

I will not repeat all the questions asked her and all her answers in detail. I will only give the substance of her evidence.

“I was firmly convinced that he would send off that sum as soon as he got money from his father,” she went on. “I have never doubted his disinterestedness and his honesty … his scrupulous honesty … in money matters. He felt quite certain that he would receive the money from his father, and spoke to me several times about it. I knew he had a feud with his father and have always believed that he had been unfairly treated by his father. I don’t remember any threat uttered by him against his father. He certainly never uttered any such threat before me. If he had come to me at that time, I should have at once relieved his anxiety about that unlucky three thousand roubles, but he had given up coming to see me … and I myself was put in such a position … that I could not invite him…. And I had no right, indeed, to be exacting as to that money,” she added suddenly, and there was a ring of resolution in her voice. “I was once indebted to him for assistance in money for more than three thousand, and I took it, although I could not at that time foresee that I should ever be in a position to repay my debt.”

There was a note of defiance in her voice. It was then Fetyukovitch began his cross‐examination.

“Did that take place not here, but at the beginning of your acquaintance?” Fetyukovitch suggested cautiously, feeling his way, instantly scenting something favorable. I must mention in parenthesis that, though Fetyukovitch had been brought from Petersburg partly at the instance of Katerina Ivanovna herself, he knew nothing about the episode of the four thousand roubles given her by Mitya, and of her “bowing to the ground to him.” She concealed this from him and said nothing about it, and that was strange. It may be pretty certainly assumed that she herself did not know till the very last minute whether she would speak of that episode in the court, and waited for the inspiration of the moment.

No, I can never forget those moments. She began telling her story. She told everything, the whole episode that Mitya had told Alyosha, and her bowing to the ground, and her reason. She told about her father and her going to Mitya, and did not in one word, in a single hint, suggest that Mitya had himself, through her sister, proposed they should “send him Katerina Ivanovna” to fetch the money. She generously concealed that and was not ashamed to make it appear as though she had of her own impulse run to the young officer, relying on something … to beg him for the money. It was something tremendous! I turned cold and trembled as I listened. The court was hushed, trying to catch each word. It was something unexampled. Even from such a self‐willed and contemptuously proud girl as she was, such an extremely frank avowal, such sacrifice, such self‐immolation, seemed incredible. And for what, for whom? To save the man who had deceived and insulted her and to help, in however small a degree, in saving him, by creating a strong impression in his favor. And, indeed, the figure of the young officer who, with a respectful bow to the innocent girl, handed her his last four thousand roubles—all he had in the world—was thrown into a very sympathetic and attractive light, but … I had a painful misgiving at heart! I felt that calumny might come of it later (and it did, in fact, it did). It was repeated all over the town afterwards with spiteful laughter that the story was perhaps not quite complete—that is, in the statement that the officer had let the young lady depart “with nothing but a respectful bow.” It was hinted that something was here omitted.

“And even if nothing had been omitted, if this were the whole story,” the most highly respected of our ladies maintained, “even then it’s very doubtful whether it was creditable for a young girl to behave in that way, even for the sake of saving her father.”

And can Katerina Ivanovna, with her intelligence, her morbid sensitiveness, have failed to understand that people would talk like that? She must have understood it, yet she made up her mind to tell everything. Of course, all these nasty little suspicions as to the truth of her story only arose afterwards and at the first moment all were deeply impressed by it. As for the judges and the lawyers, they listened in reverent, almost shame‐faced silence to Katerina Ivanovna. The prosecutor did not venture upon even one question on the subject. Fetyukovitch made a low bow to her. Oh, he was almost triumphant! Much ground had been gained. For a man to give his last four thousand on a generous impulse and then for the same man to murder his father for the sake of robbing him of three thousand—the idea seemed too incongruous. Fetyukovitch felt that now the charge of theft, at least, was as good as disproved. “The case” was thrown into quite a different light. There was a wave of sympathy for Mitya. As for him…. I was told that once or twice, while Katerina Ivanovna was giving her evidence, he jumped up from his seat, sank back again, and hid his face in his hands. But when she had finished, he suddenly cried in a sobbing voice:

“Katya, why have you ruined me?” and his sobs were audible all over the court. But he instantly restrained himself, and cried again:

“Now I am condemned!”

Then he sat rigid in his place, with his teeth clenched and his arms across his chest. Katerina Ivanovna remained in the court and sat down in her place. She was pale and sat with her eyes cast down. Those who were sitting near her declared that for a long time she shivered all over as though in a fever. Grushenka was called.

I am approaching the sudden catastrophe which was perhaps the final cause of Mitya’s ruin. For I am convinced, so is every one—all the lawyers said the same afterwards—that if the episode had not occurred, the prisoner would at least have been recommended to mercy. But of that later. A few words first about Grushenka.

She, too, was dressed entirely in black, with her magnificent black shawl on her shoulders. She walked to the witness‐box with her smooth, noiseless tread, with the slightly swaying gait common in women of full figure. She looked steadily at the President, turning her eyes neither to the right nor to the left. To my thinking she looked very handsome at that moment, and not at all pale, as the ladies alleged afterwards. They declared, too, that she had a concentrated and spiteful expression. I believe that she was simply irritated and painfully conscious of the contemptuous and inquisitive eyes of our scandal‐loving public. She was proud and could not stand contempt. She was one of those people who flare up, angry and eager to retaliate, at the mere suggestion of contempt. There was an element of timidity, too, of course, and inward shame at her own timidity, so it was not strange that her tone kept changing. At one moment it was angry, contemptuous and rough, and at another there was a sincere note of self‐ condemnation. Sometimes she spoke as though she were taking a desperate plunge; as though she felt, “I don’t care what happens, I’ll say it….” Apropos of her acquaintance with Fyodor Pavlovitch, she remarked curtly, “That’s all nonsense, and was it my fault that he would pester me?” But a minute later she added, “It was all my fault. I was laughing at them both—at the old man and at him, too—and I brought both of them to this. It was all on account of me it happened.”

Samsonov’s name came up somehow. “That’s nobody’s business,” she snapped at once, with a sort of insolent defiance. “He was my benefactor; he took me when I hadn’t a shoe to my foot, when my family had turned me out.” The President reminded her, though very politely, that she must answer the questions directly, without going off into irrelevant details. Grushenka crimsoned and her eyes flashed.

The envelope with the notes in it she had not seen, but had only heard from “that wicked wretch” that Fyodor Pavlovitch had an envelope with notes for three thousand in it. “But that was all foolishness. I was only laughing. I wouldn’t have gone to him for anything.”

“To whom are you referring as ‘that wicked wretch’?” inquired the prosecutor.

“The lackey, Smerdyakov, who murdered his master and hanged himself last night.”

She was, of course, at once asked what ground she had for such a definite accusation; but it appeared that she, too, had no grounds for it.

“Dmitri Fyodorovitch told me so himself; you can believe him. The woman who came between us has ruined him; she is the cause of it all, let me tell you,” Grushenka added. She seemed to be quivering with hatred, and there was a vindictive note in her voice.

She was again asked to whom she was referring.

“The young lady, Katerina Ivanovna there. She sent for me, offered me chocolate, tried to fascinate me. There’s not much true shame about her, I can tell you that….”

At this point the President checked her sternly, begging her to moderate her language. But the jealous woman’s heart was burning, and she did not care what she did.

“When the prisoner was arrested at Mokroe,” the prosecutor asked, “every one saw and heard you run out of the next room and cry out: ‘It’s all my fault. We’ll go to Siberia together!’ So you already believed him to have murdered his father?”

“I don’t remember what I felt at the time,” answered Grushenka. “Every one was crying out that he had killed his father, and I felt that it was my fault, that it was on my account he had murdered him. But when he said he wasn’t guilty, I believed him at once, and I believe him now and always shall believe him. He is not the man to tell a lie.”

Fetyukovitch began his cross‐examination. I remember that among other things he asked about Rakitin and the twenty‐five roubles “you paid him for bringing Alexey Fyodorovitch Karamazov to see you.”

“There was nothing strange about his taking the money,” sneered Grushenka, with angry contempt. “He was always coming to me for money: he used to get thirty roubles a month at least out of me, chiefly for luxuries: he had enough to keep him without my help.”

“What led you to be so liberal to Mr. Rakitin?” Fetyukovitch asked, in spite of an uneasy movement on the part of the President.

“Why, he is my cousin. His mother was my mother’s sister. But he’s always besought me not to tell any one here of it, he is so dreadfully ashamed of me.”

This fact was a complete surprise to every one; no one in the town nor in the monastery, not even Mitya, knew of it. I was told that Rakitin turned purple with shame where he sat. Grushenka had somehow heard before she came into the court that he had given evidence against Mitya, and so she was angry. The whole effect on the public, of Rakitin’s speech, of his noble sentiments, of his attacks upon serfdom and the political disorder of Russia, was this time finally ruined. Fetyukovitch was satisfied: it was another godsend. Grushenka’s cross‐examination did not last long and, of course, there could be nothing particularly new in her evidence. She left a very disagreeable impression on the public; hundreds of contemptuous eyes were fixed upon her, as she finished giving her evidence and sat down again in the court, at a good distance from Katerina Ivanovna. Mitya was silent throughout her evidence. He sat as though turned to stone, with his eyes fixed on the ground.

Ivan was called to give evidence.

Chapter V.
A Sudden Catastrophe
I may note that he had been called before Alyosha. But the usher of the court announced to the President that, owing to an attack of illness or some sort of fit, the witness could not appear at the moment, but was ready to give his evidence as soon as he recovered. But no one seemed to have heard it and it only came out later.

His entrance was for the first moment almost unnoticed. The principal witnesses, especially the two rival ladies, had already been questioned. Curiosity was satisfied for the time; the public was feeling almost fatigued. Several more witnesses were still to be heard, who probably had little information to give after all that had been given. Time was passing. Ivan walked up with extraordinary slowness, looking at no one, and with his head bowed, as though plunged in gloomy thought. He was irreproachably dressed, but his face made a painful impression, on me at least: there was an earthy look in it, a look like a dying man’s. His eyes were lusterless; he raised them and looked slowly round the court. Alyosha jumped up from his seat and moaned “Ah!” I remember that, but it was hardly noticed.

The President began by informing him that he was a witness not on oath, that he might answer or refuse to answer, but that, of course, he must bear witness according to his conscience, and so on, and so on. Ivan listened and looked at him blankly, but his face gradually relaxed into a smile, and as soon as the President, looking at him in astonishment, finished, he laughed outright.

“Well, and what else?” he asked in a loud voice.

There was a hush in the court; there was a feeling of something strange. The President showed signs of uneasiness.

“You … are perhaps still unwell?” he began, looking everywhere for the usher.

“Don’t trouble yourself, your excellency, I am well enough and can tell you something interesting,” Ivan answered with sudden calmness and respectfulness.

“You have some special communication to make?” the President went on, still mistrustfully.

Ivan looked down, waited a few seconds and, raising his head, answered, almost stammering:

“No … I haven’t. I have nothing particular.”

They began asking him questions. He answered, as it were, reluctantly, with extreme brevity, with a sort of disgust which grew more and more marked, though he answered rationally. To many questions he answered that he did not know. He knew nothing of his father’s money relations with Dmitri. “I wasn’t interested in the subject,” he added. Threats to murder his father he had heard from the prisoner. Of the money in the envelope he had heard from Smerdyakov.

“The same thing over and over again,” he interrupted suddenly, with a look of weariness. “I have nothing particular to tell the court.”

“I see you are unwell and understand your feelings,” the President began.

He turned to the prosecutor and the counsel for the defense to invite them to examine the witness, if necessary, when Ivan suddenly asked in an exhausted voice:

“Let me go, your excellency, I feel very ill.”

And with these words, without waiting for permission, he turned to walk out of the court. But after taking four steps he stood still, as though he had reached a decision, smiled slowly, and went back.

“I am like the peasant girl, your excellency … you know. How does it go? ‘I’ll stand up if I like, and I won’t if I don’t.’ They were trying to put on her sarafan to take her to church to be married, and she said, ‘I’ll stand up if I like, and I won’t if I don’t.’… It’s in some book about the peasantry.”

“What do you mean by that?” the President asked severely.

“Why, this,” Ivan suddenly pulled out a roll of notes. “Here’s the money … the notes that lay in that envelope” (he nodded towards the table on which lay the material evidence), “for the sake of which our father was murdered. Where shall I put them? Mr. Superintendent, take them.”

The usher of the court took the whole roll and handed it to the President.

“How could this money have come into your possession if it is the same money?” the President asked wonderingly.

“I got them from Smerdyakov, from the murderer, yesterday…. I was with him just before he hanged himself. It was he, not my brother, killed our father. He murdered him and I incited him to do it … Who doesn’t desire his father’s death?”

“Are you in your right mind?” broke involuntarily from the President.

“I should think I am in my right mind … in the same nasty mind as all of you … as all these … ugly faces.” He turned suddenly to the audience. “My father has been murdered and they pretend they are horrified,” he snarled, with furious contempt. “They keep up the sham with one another. Liars! They all desire the death of their fathers. One reptile devours another…. If there hadn’t been a murder, they’d have been angry and gone home ill‐humored. It’s a spectacle they want! Panem et circenses. Though I am one to talk! Have you any water? Give me a drink for Christ’s sake!” He suddenly clutched his head.

The usher at once approached him. Alyosha jumped up and cried, “He is ill. Don’t believe him: he has brain fever.” Katerina Ivanovna rose impulsively from her seat and, rigid with horror, gazed at Ivan. Mitya stood up and greedily looked at his brother and listened to him with a wild, strange smile.

“Don’t disturb yourselves. I am not mad, I am only a murderer,” Ivan began again. “You can’t expect eloquence from a murderer,” he added suddenly for some reason and laughed a queer laugh.

The prosecutor bent over to the President in obvious dismay. The two other judges communicated in agitated whispers. Fetyukovitch pricked up his ears as he listened: the hall was hushed in expectation. The President seemed suddenly to recollect himself.

“Witness, your words are incomprehensible and impossible here. Calm yourself, if you can, and tell your story … if you really have something to tell. How can you confirm your statement … if indeed you are not delirious?”

“That’s just it. I have no proof. That cur Smerdyakov won’t send you proofs from the other world … in an envelope. You think of nothing but envelopes—one is enough. I’ve no witnesses … except one, perhaps,” he smiled thoughtfully.

“Who is your witness?”

“He has a tail, your excellency, and that would be irregular! Le diable n’existe point! Don’t pay attention: he is a paltry, pitiful devil,” he added suddenly. He ceased laughing and spoke as it were, confidentially. “He is here somewhere, no doubt—under that table with the material evidence on it, perhaps. Where should he sit if not there? You see, listen to me. I told him I don’t want to keep quiet, and he talked about the geological cataclysm … idiocy! Come, release the monster … he’s been singing a hymn. That’s because his heart is light! It’s like a drunken man in the street bawling how ‘Vanka went to Petersburg,’ and I would give a quadrillion quadrillions for two seconds of joy. You don’t know me! Oh, how stupid all this business is! Come, take me instead of him! I didn’t come for nothing…. Why, why is everything so stupid?…”

And he began slowly, and as it were reflectively, looking round him again. But the court was all excitement by now. Alyosha rushed towards him, but the court usher had already seized Ivan by the arm.

“What are you about?” he cried, staring into the man’s face, and suddenly seizing him by the shoulders, he flung him violently to the floor. But the police were on the spot and he was seized. He screamed furiously. And all the time he was being removed, he yelled and screamed something incoherent.

The whole court was thrown into confusion. I don’t remember everything as it happened. I was excited myself and could not follow. I only know that afterwards, when everything was quiet again and every one understood what had happened, the court usher came in for a reprimand, though he very reasonably explained that the witness had been quite well, that the doctor had seen him an hour ago, when he had a slight attack of giddiness, but that, until he had come into the court, he had talked quite consecutively, so that nothing could have been foreseen—that he had, in fact, insisted on giving evidence. But before every one had completely regained their composure and recovered from this scene, it was followed by another. Katerina Ivanovna had an attack of hysterics. She sobbed, shrieking loudly, but refused to leave the court, struggled, and besought them not to remove her. Suddenly she cried to the President:

“There is more evidence I must give at once … at once! Here is a document, a letter … take it, read it quickly, quickly! It’s a letter from that monster … that man there, there!” she pointed to Mitya. “It was he killed his father, you will see that directly. He wrote to me how he would kill his father! But the other one is ill, he is ill, he is delirious!” she kept crying out, beside herself.

The court usher took the document she held out to the President, and she, dropping into her chair, hiding her face in her hands, began convulsively and noiselessly sobbing, shaking all over, and stifling every sound for fear she should be ejected from the court. The document she had handed up was that letter Mitya had written at the “Metropolis” tavern, which Ivan had spoken of as a “mathematical proof.” Alas! its mathematical conclusiveness was recognized, and had it not been for that letter, Mitya might have escaped his doom or, at least, that doom would have been less terrible. It was, I repeat, difficult to notice every detail. What followed is still confused to my mind. The President must, I suppose, have at once passed on the document to the judges, the jury, and the lawyers on both sides. I only remember how they began examining the witness. On being gently asked by the President whether she had recovered sufficiently, Katerina Ivanovna exclaimed impetuously:

“I am ready, I am ready! I am quite equal to answering you,” she added, evidently still afraid that she would somehow be prevented from giving evidence. She was asked to explain in detail what this letter was and under what circumstances she received it.

“I received it the day before the crime was committed, but he wrote it the day before that, at the tavern—that is, two days before he committed the crime. Look, it is written on some sort of bill!” she cried breathlessly. “He hated me at that time, because he had behaved contemptibly and was running after that creature … and because he owed me that three thousand…. Oh! he was humiliated by that three thousand on account of his own meanness! This is how it happened about that three thousand. I beg you, I beseech you, to hear me. Three weeks before he murdered his father, he came to me one morning. I knew he was in want of money, and what he wanted it for. Yes, yes—to win that creature and carry her off. I knew then that he had been false to me and meant to abandon me, and it was I, I, who gave him that money, who offered it to him on the pretext of his sending it to my sister in Moscow. And as I gave it him, I looked him in the face and said that he could send it when he liked, ‘in a month’s time would do.’ How, how could he have failed to understand that I was practically telling him to his face, ‘You want money to be false to me with your creature, so here’s the money for you. I give it to you myself. Take it, if you have so little honor as to take it!’ I wanted to prove what he was, and what happened? He took it, he took it, and squandered it with that creature in one night…. But he knew, he knew that I knew all about it. I assure you he understood, too, that I gave him that money to test him, to see whether he was so lost to all sense of honor as to take it from me. I looked into his eyes and he looked into mine, and he understood it all and he took it—he carried off my money!”

“That’s true, Katya,” Mitya roared suddenly, “I looked into your eyes and I knew that you were dishonoring me, and yet I took your money. Despise me as a scoundrel, despise me, all of you! I’ve deserved it!”

“Prisoner,” cried the President, “another word and I will order you to be removed.”

“That money was a torment to him,” Katya went on with impulsive haste. “He wanted to repay it me. He wanted to, that’s true; but he needed money for that creature, too. So he murdered his father, but he didn’t repay me, and went off with her to that village where he was arrested. There, again, he squandered the money he had stolen after the murder of his father. And a day before the murder he wrote me this letter. He was drunk when he wrote it. I saw it at once, at the time. He wrote it from spite, and feeling certain, positively certain, that I should never show it to any one, even if he did kill him, or else he wouldn’t have written it. For he knew I shouldn’t want to revenge myself and ruin him! But read it, read it attentively—more attentively, please—and you will see that he had described it all in his letter, all beforehand, how he would kill his father and where his money was kept. Look, please, don’t overlook that, there’s one phrase there, ‘I shall kill him as soon as Ivan has gone away.’ So he thought it all out beforehand how he would kill him,” Katerina Ivanovna pointed out to the court with venomous and malignant triumph. Oh! it was clear she had studied every line of that letter and detected every meaning underlining it. “If he hadn’t been drunk, he wouldn’t have written to me; but, look, everything is written there beforehand, just as he committed the murder after. A complete program of it!” she exclaimed frantically.

She was reckless now of all consequences to herself, though, no doubt, she had foreseen them even a month ago, for even then, perhaps, shaking with anger, she had pondered whether to show it at the trial or not. Now she had taken the fatal plunge. I remember that the letter was read aloud by the clerk, directly afterwards, I believe. It made an overwhelming impression. They asked Mitya whether he admitted having written the letter.

“It’s mine, mine!” cried Mitya. “I shouldn’t have written it, if I hadn’t been drunk!… We’ve hated each other for many things, Katya, but I swear, I swear I loved you even while I hated you, and you didn’t love me!”

He sank back on his seat, wringing his hands in despair. The prosecutor and counsel for the defense began cross‐examining her, chiefly to ascertain what had induced her to conceal such a document and to give her evidence in quite a different tone and spirit just before.

“Yes, yes. I was telling lies just now. I was lying against my honor and my conscience, but I wanted to save him, for he has hated and despised me so!” Katya cried madly. “Oh, he has despised me horribly, he has always despised me, and do you know, he has despised me from the very moment that I bowed down to him for that money. I saw that…. I felt it at once at the time, but for a long time I wouldn’t believe it. How often I have read it in his eyes, ‘You came of yourself, though.’ Oh, he didn’t understand, he had no idea why I ran to him, he can suspect nothing but baseness, he judged me by himself, he thought every one was like himself!” Katya hissed furiously, in a perfect frenzy. “And he only wanted to marry me, because I’d inherited a fortune, because of that, because of that! I always suspected it was because of that! Oh, he is a brute! He was always convinced that I should be trembling with shame all my life before him, because I went to him then, and that he had a right to despise me for ever for it, and so to be superior to me—that’s why he wanted to marry me! That’s so, that’s all so! I tried to conquer him by my love—a love that knew no bounds. I even tried to forgive his faithlessness; but he understood nothing, nothing! How could he understand indeed? He is a monster! I only received that letter the next evening: it was brought me from the tavern—and only that morning, only that morning I wanted to forgive him everything, everything—even his treachery!”

The President and the prosecutor, of course, tried to calm her. I can’t help thinking that they felt ashamed of taking advantage of her hysteria and of listening to such avowals. I remember hearing them say to her, “We understand how hard it is for you; be sure we are able to feel for you,” and so on, and so on. And yet they dragged the evidence out of the raving, hysterical woman. She described at last with extraordinary clearness, which is so often seen, though only for a moment, in such over‐wrought states, how Ivan had been nearly driven out of his mind during the last two months trying to save “the monster and murderer,” his brother.

“He tortured himself,” she exclaimed, “he was always trying to minimize his brother’s guilt and confessing to me that he, too, had never loved his father, and perhaps desired his death himself. Oh, he has a tender, over‐ tender conscience! He tormented himself with his conscience! He told me everything, everything! He came every day and talked to me as his only friend. I have the honor to be his only friend!” she cried suddenly with a sort of defiance, and her eyes flashed. “He had been twice to see Smerdyakov. One day he came to me and said, ‘If it was not my brother, but Smerdyakov committed the murder’ (for the legend was circulating everywhere that Smerdyakov had done it), ‘perhaps I too am guilty, for Smerdyakov knew I didn’t like my father and perhaps believed that I desired my father’s death.’ Then I brought out that letter and showed it him. He was entirely convinced that his brother had done it, and he was overwhelmed by it. He couldn’t endure the thought that his own brother was a parricide! Only a week ago I saw that it was making him ill. During the last few days he has talked incoherently in my presence. I saw his mind was giving way. He walked about, raving; he was seen muttering in the streets. The doctor from Moscow, at my request, examined him the day before yesterday and told me that he was on the eve of brain fever—and all on his account, on account of this monster! And last night he learnt that Smerdyakov was dead! It was such a shock that it drove him out of his mind … and all through this monster, all for the sake of saving the monster!”

Oh, of course, such an outpouring, such an avowal is only possible once in a lifetime—at the hour of death, for instance, on the way to the scaffold! But it was in Katya’s character, and it was such a moment in her life. It was the same impetuous Katya who had thrown herself on the mercy of a young profligate to save her father; the same Katya who had just before, in her pride and chastity, sacrificed herself and her maidenly modesty before all these people, telling of Mitya’s generous conduct, in the hope of softening his fate a little. And now, again, she sacrificed herself; but this time it was for another, and perhaps only now—perhaps only at this moment—she felt and knew how dear that other was to her! She had sacrificed herself in terror for him, conceiving all of a sudden that he had ruined himself by his confession that it was he who had committed the murder, not his brother, she had sacrificed herself to save him, to save his good name, his reputation!

And yet one terrible doubt occurred to one—was she lying in her description of her former relations with Mitya?—that was the question. No, she had not intentionally slandered him when she cried that Mitya despised her for her bowing down to him! She believed it herself. She had been firmly convinced, perhaps ever since that bow, that the simple‐hearted Mitya, who even then adored her, was laughing at her and despising her. She had loved him with an hysterical, “lacerated” love only from pride, from wounded pride, and that love was not like love, but more like revenge. Oh! perhaps that lacerated love would have grown into real love, perhaps Katya longed for nothing more than that, but Mitya’s faithlessness had wounded her to the bottom of her heart, and her heart could not forgive him. The moment of revenge had come upon her suddenly, and all that had been accumulating so long and so painfully in the offended woman’s breast burst out all at once and unexpectedly. She betrayed Mitya, but she betrayed herself, too. And no sooner had she given full expression to her feelings than the tension of course was over and she was overwhelmed with shame. Hysterics began again: she fell on the floor, sobbing and screaming. She was carried out. At that moment Grushenka, with a wail, rushed towards Mitya before they had time to prevent her.

“Mitya,” she wailed, “your serpent has destroyed you! There, she has shown you what she is!” she shouted to the judges, shaking with anger. At a signal from the President they seized her and tried to remove her from the court. She wouldn’t allow it. She fought and struggled to get back to Mitya. Mitya uttered a cry and struggled to get to her. He was overpowered.

Yes, I think the ladies who came to see the spectacle must have been satisfied—the show had been a varied one. Then I remember the Moscow doctor appeared on the scene. I believe the President had previously sent the court usher to arrange for medical aid for Ivan. The doctor announced to the court that the sick man was suffering from a dangerous attack of brain fever, and that he must be at once removed. In answer to questions from the prosecutor and the counsel for the defense he said that the patient had come to him of his own accord the day before yesterday and that he had warned him that he had such an attack coming on, but he had not consented to be looked after. “He was certainly not in a normal state of mind: he told me himself that he saw visions when he was awake, that he met several persons in the street, who were dead, and that Satan visited him every evening,” said the doctor, in conclusion. Having given his evidence, the celebrated doctor withdrew. The letter produced by Katerina Ivanovna was added to the material proofs. After some deliberation, the judges decided to proceed with the trial and to enter both the unexpected pieces of evidence (given by Ivan and Katerina Ivanovna) on the protocol.

But I will not detail the evidence of the other witnesses, who only repeated and confirmed what had been said before, though all with their characteristic peculiarities. I repeat, all was brought together in the prosecutor’s speech, which I shall quote immediately. Every one was excited, every one was electrified by the late catastrophe, and all were awaiting the speeches for the prosecution and the defense with intense impatience. Fetyukovitch was obviously shaken by Katerina Ivanovna’s evidence. But the prosecutor was triumphant. When all the evidence had been taken, the court was adjourned for almost an hour. I believe it was just eight o’clock when the President returned to his seat and our prosecutor, Ippolit Kirillovitch, began his speech.

Chapter VI.
The Prosecutor’s Speech. Sketches Of Character
Ippolit Kirillovitch began his speech, trembling with nervousness, with cold sweat on his forehead, feeling hot and cold all over by turns. He described this himself afterwards. He regarded this speech as his chef‐d’œuvre, the chef‐d’œuvre of his whole life, as his swan‐song. He died, it is true, nine months later of rapid consumption, so that he had the right, as it turned out, to compare himself to a swan singing his last song. He had put his whole heart and all the brain he had into that speech. And poor Ippolit Kirillovitch unexpectedly revealed that at least some feeling for the public welfare and “the eternal question” lay concealed in him. Where his speech really excelled was in its sincerity. He genuinely believed in the prisoner’s guilt; he was accusing him not as an official duty only, and in calling for vengeance he quivered with a genuine passion “for the security of society.” Even the ladies in the audience, though they remained hostile to Ippolit Kirillovitch, admitted that he made an extraordinary impression on them. He began in a breaking voice, but it soon gained strength and filled the court to the end of his speech. But as soon as he had finished, he almost fainted.

“Gentlemen of the jury,” began the prosecutor, “this case has made a stir throughout Russia. But what is there to wonder at, what is there so peculiarly horrifying in it for us? We are so accustomed to such crimes! That’s what’s so horrible, that such dark deeds have ceased to horrify us. What ought to horrify us is that we are so accustomed to it, and not this or that isolated crime. What are the causes of our indifference, our lukewarm attitude to such deeds, to such signs of the times, ominous of an unenviable future? Is it our cynicism, is it the premature exhaustion of intellect and imagination in a society that is sinking into decay, in spite of its youth? Is it that our moral principles are shattered to their foundations, or is it, perhaps, a complete lack of such principles among us? I cannot answer such questions; nevertheless they are disturbing, and every citizen not only must, but ought to be harassed by them. Our newborn and still timid press has done good service to the public already, for without it we should never have heard of the horrors of unbridled violence and moral degradation which are continually made known by the press, not merely to those who attend the new jury courts established in the present reign, but to every one. And what do we read almost daily? Of things beside which the present case grows pale, and seems almost commonplace. But what is most important is that the majority of our national crimes of violence bear witness to a widespread evil, now so general among us that it is difficult to contend against it.

“One day we see a brilliant young officer of high society, at the very outset of his career, in a cowardly underhand way, without a pang of conscience, murdering an official who had once been his benefactor, and the servant girl, to steal his own I.O.U. and what ready money he could find on him; ‘it will come in handy for my pleasures in the fashionable world and for my career in the future.’ After murdering them, he puts pillows under the head of each of his victims; he goes away. Next, a young hero ‘decorated for bravery’ kills the mother of his chief and benefactor, like a highwayman, and to urge his companions to join him he asserts that ‘she loves him like a son, and so will follow all his directions and take no precautions.’ Granted that he is a monster, yet I dare not say in these days that he is unique. Another man will not commit the murder, but will feel and think like him, and is as dishonorable in soul. In silence, alone with his conscience, he asks himself perhaps, ‘What is honor, and isn’t the condemnation of bloodshed a prejudice?’

“Perhaps people will cry out against me that I am morbid, hysterical, that it is a monstrous slander, that I am exaggerating. Let them say so—and heavens! I should be the first to rejoice if it were so! Oh, don’t believe me, think of me as morbid, but remember my words; if only a tenth, if only a twentieth part of what I say is true—even so it’s awful! Look how our young people commit suicide, without asking themselves Hamlet’s question what there is beyond, without a sign of such a question, as though all that relates to the soul and to what awaits us beyond the grave had long been erased in their minds and buried under the sands. Look at our vice, at our profligates. Fyodor Pavlovitch, the luckless victim in the present case, was almost an innocent babe compared with many of them. And yet we all knew him, ‘he lived among us!’…

“Yes, one day perhaps the leading intellects of Russia and of Europe will study the psychology of Russian crime, for the subject is worth it. But this study will come later, at leisure, when all the tragic topsy‐turvydom of to‐day is farther behind us, so that it’s possible to examine it with more insight and more impartiality than I can do. Now we are either horrified or pretend to be horrified, though we really gloat over the spectacle, and love strong and eccentric sensations which tickle our cynical, pampered idleness. Or, like little children, we brush the dreadful ghosts away and hide our heads in the pillow so as to return to our sports and merriment as soon as they have vanished. But we must one day begin life in sober earnest, we must look at ourselves as a society; it’s time we tried to grasp something of our social position, or at least to make a beginning in that direction.

“A great writer[9] of the last epoch, comparing Russia to a swift troika galloping to an unknown goal, exclaims, ‘Oh, troika, birdlike troika, who invented thee!’ and adds, in proud ecstasy, that all the peoples of the world stand aside respectfully to make way for the recklessly galloping troika to pass. That may be, they may stand aside, respectfully or no, but in my poor opinion the great writer ended his book in this way either in an access of childish and naïve optimism, or simply in fear of the censorship of the day. For if the troika were drawn by his heroes, Sobakevitch, Nozdryov, Tchitchikov, it could reach no rational goal, whoever might be driving it. And those were the heroes of an older generation, ours are worse specimens still….”

At this point Ippolit Kirillovitch’s speech was interrupted by applause. The liberal significance of this simile was appreciated. The applause was, it’s true, of brief duration, so that the President did not think it necessary to caution the public, and only looked severely in the direction of the offenders. But Ippolit Kirillovitch was encouraged; he had never been applauded before! He had been all his life unable to get a hearing, and now he suddenly had an opportunity of securing the ear of all Russia.

“What, after all, is this Karamazov family, which has gained such an unenviable notoriety throughout Russia?” he continued. “Perhaps I am exaggerating, but it seems to me that certain fundamental features of the educated class of to‐day are reflected in this family picture—only, of course, in miniature, ‘like the sun in a drop of water.’ Think of that unhappy, vicious, unbridled old man, who has met with such a melancholy end, the head of a family! Beginning life of noble birth, but in a poor dependent position, through an unexpected marriage he came into a small fortune. A petty knave, a toady and buffoon, of fairly good, though undeveloped, intelligence, he was, above all, a moneylender, who grew bolder with growing prosperity. His abject and servile characteristics disappeared, his malicious and sarcastic cynicism was all that remained. On the spiritual side he was undeveloped, while his vitality was excessive. He saw nothing in life but sensual pleasure, and he brought his children up to be the same. He had no feelings for his duties as a father. He ridiculed those duties. He left his little children to the servants, and was glad to be rid of them, forgot about them completely. The old man’s maxim was Après moi le déluge. He was an example of everything that is opposed to civic duty, of the most complete and malignant individualism. ‘The world may burn for aught I care, so long as I am all right,’ and he was all right; he was content, he was eager to go on living in the same way for another twenty or thirty years. He swindled his own son and spent his money, his maternal inheritance, on trying to get his mistress from him. No, I don’t intend to leave the prisoner’s defense altogether to my talented colleague from Petersburg. I will speak the truth myself, I can well understand what resentment he had heaped up in his son’s heart against him.

“But enough, enough of that unhappy old man; he has paid the penalty. Let us remember, however, that he was a father, and one of the typical fathers of to‐day. Am I unjust, indeed, in saying that he is typical of many modern fathers? Alas! many of them only differ in not openly professing such cynicism, for they are better educated, more cultured, but their philosophy is essentially the same as his. Perhaps I am a pessimist, but you have agreed to forgive me. Let us agree beforehand, you need not believe me, but let me speak. Let me say what I have to say, and remember something of my words.

“Now for the children of this father, this head of a family. One of them is the prisoner before us, all the rest of my speech will deal with him. Of the other two I will speak only cursorily.

“The elder is one of those modern young men of brilliant education and vigorous intellect, who has lost all faith in everything. He has denied and rejected much already, like his father. We have all heard him, he was a welcome guest in local society. He never concealed his opinions, quite the contrary in fact, which justifies me in speaking rather openly of him now, of course, not as an individual, but as a member of the Karamazov family. Another personage closely connected with the case died here by his own hand last night. I mean an afflicted idiot, formerly the servant, and possibly the illegitimate son, of Fyodor Pavlovitch, Smerdyakov. At the preliminary inquiry, he told me with hysterical tears how the young Ivan Karamazov had horrified him by his spiritual audacity. ‘Everything in the world is lawful according to him, and nothing must be forbidden in the future—that is what he always taught me.’ I believe that idiot was driven out of his mind by this theory, though, of course, the epileptic attacks from which he suffered, and this terrible catastrophe, have helped to unhinge his faculties. But he dropped one very interesting observation, which would have done credit to a more intelligent observer, and that is, indeed, why I’ve mentioned it: ‘If there is one of the sons that is like Fyodor Pavlovitch in character, it is Ivan Fyodorovitch.’

“With that remark I conclude my sketch of his character, feeling it indelicate to continue further. Oh, I don’t want to draw any further conclusions and croak like a raven over the young man’s future. We’ve seen to‐day in this court that there are still good impulses in his young heart, that family feeling has not been destroyed in him by lack of faith and cynicism, which have come to him rather by inheritance than by the exercise of independent thought.

“Then the third son. Oh, he is a devout and modest youth, who does not share his elder brother’s gloomy and destructive theory of life. He has sought to cling to the ‘ideas of the people,’ or to what goes by that name in some circles of our intellectual classes. He clung to the monastery, and was within an ace of becoming a monk. He seems to me to have betrayed unconsciously, and so early, that timid despair which leads so many in our unhappy society, who dread cynicism and its corrupting influences, and mistakenly attribute all the mischief to European enlightenment, to return to their ‘native soil,’ as they say, to the bosom, so to speak, of their mother earth, like frightened children, yearning to fall asleep on the withered bosom of their decrepit mother, and to sleep there for ever, only to escape the horrors that terrify them.

“For my part I wish the excellent and gifted young man every success; I trust that his youthful idealism and impulse towards the ideas of the people may never degenerate, as often happens, on the moral side into gloomy mysticism, and on the political into blind chauvinism—two elements which are even a greater menace to Russia than the premature decay, due to misunderstanding and gratuitous adoption of European ideas, from which his elder brother is suffering.”

Two or three people clapped their hands at the mention of chauvinism and mysticism. Ippolit Kirillovitch had been, indeed, carried away by his own eloquence. All this had little to do with the case in hand, to say nothing of the fact of its being somewhat vague, but the sickly and consumptive man was overcome by the desire to express himself once in his life. People said afterwards that he was actuated by unworthy motives in his criticism of Ivan, because the latter had on one or two occasions got the better of him in argument, and Ippolit Kirillovitch, remembering it, tried now to take his revenge. But I don’t know whether it was true. All this was only introductory, however, and the speech passed to more direct consideration of the case.

“But to return to the eldest son,” Ippolit Kirillovitch went on. “He is the prisoner before us. We have his life and his actions, too, before us; the fatal day has come and all has been brought to the surface. While his brothers seem to stand for ‘Europeanism’ and ‘the principles of the people,’ he seems to represent Russia as she is. Oh, not all Russia, not all! God preserve us, if it were! Yet, here we have her, our mother Russia, the very scent and sound of her. Oh, he is spontaneous, he is a marvelous mingling of good and evil, he is a lover of culture and Schiller, yet he brawls in taverns and plucks out the beards of his boon companions. Oh, he, too, can be good and noble, but only when all goes well with him. What is more, he can be carried off his feet, positively carried off his feet by noble ideals, but only if they come of themselves, if they fall from heaven for him, if they need not be paid for. He dislikes paying for anything, but is very fond of receiving, and that’s so with him in everything. Oh, give him every possible good in life (he couldn’t be content with less), and put no obstacle in his way, and he will show that he, too, can be noble. He is not greedy, no, but he must have money, a great deal of money, and you will see how generously, with what scorn of filthy lucre, he will fling it all away in the reckless dissipation of one night. But if he has not money, he will show what he is ready to do to get it when he is in great need of it. But all this later, let us take events in their chronological order.

“First, we have before us a poor abandoned child, running about the back‐ yard ‘without boots on his feet,’ as our worthy and esteemed fellow citizen, of foreign origin, alas! expressed it just now. I repeat it again, I yield to no one the defense of the criminal. I am here to accuse him, but to defend him also. Yes, I, too, am human; I, too, can weigh the influence of home and childhood on the character. But the boy grows up and becomes an officer; for a duel and other reckless conduct he is exiled to one of the remote frontier towns of Russia. There he led a wild life as an officer. And, of course, he needed money, money before all things, and so after prolonged disputes he came to a settlement with his father, and the last six thousand was sent him. A letter is in existence in which he practically gives up his claim to the rest and settles his conflict with his father over the inheritance on the payment of this six thousand.

“Then came his meeting with a young girl of lofty character and brilliant education. Oh, I do not venture to repeat the details; you have only just heard them. Honor, self‐sacrifice were shown there, and I will be silent. The figure of the young officer, frivolous and profligate, doing homage to true nobility and a lofty ideal, was shown in a very sympathetic light before us. But the other side of the medal was unexpectedly turned to us immediately after in this very court. Again I will not venture to conjecture why it happened so, but there were causes. The same lady, bathed in tears of long‐concealed indignation, alleged that he, he of all men, had despised her for her action, which, though incautious, reckless perhaps, was still dictated by lofty and generous motives. He, he, the girl’s betrothed, looked at her with that smile of mockery, which was more insufferable from him than from any one. And knowing that he had already deceived her (he had deceived her, believing that she was bound to endure everything from him, even treachery), she intentionally offered him three thousand roubles, and clearly, too clearly, let him understand that she was offering him money to deceive her. ‘Well, will you take it or not, are you so lost to shame?’ was the dumb question in her scrutinizing eyes. He looked at her, saw clearly what was in her mind (he’s admitted here before you that he understood it all), appropriated that three thousand unconditionally, and squandered it in two days with the new object of his affections.

“What are we to believe then? The first legend of the young officer sacrificing his last farthing in a noble impulse of generosity and doing reverence to virtue, or this other revolting picture? As a rule, between two extremes one has to find the mean, but in the present case this is not true. The probability is that in the first case he was genuinely noble, and in the second as genuinely base. And why? Because he was of the broad Karamazov character—that’s just what I am leading up to—capable of combining the most incongruous contradictions, and capable of the greatest heights and of the greatest depths. Remember the brilliant remark made by a young observer who has seen the Karamazov family at close quarters—Mr. Rakitin: ‘The sense of their own degradation is as essential to those reckless, unbridled natures as the sense of their lofty generosity.’ And that’s true, they need continually this unnatural mixture. Two extremes at the same moment, or they are miserable and dissatisfied and their existence is incomplete. They are wide, wide as mother Russia; they include everything and put up with everything.

“By the way, gentlemen of the jury, we’ve just touched upon that three thousand roubles, and I will venture to anticipate things a little. Can you conceive that a man like that, on receiving that sum and in such a way, at the price of such shame, such disgrace, such utter degradation, could have been capable that very day of setting apart half that sum, that very day, and sewing it up in a little bag, and would have had the firmness of character to carry it about with him for a whole month afterwards, in spite of every temptation and his extreme need of it! Neither in drunken debauchery in taverns, nor when he was flying into the country, trying to get from God knows whom, the money so essential to him to remove the object of his affections from being tempted by his father, did he bring himself to touch that little bag! Why, if only to avoid abandoning his mistress to the rival of whom he was so jealous, he would have been certain to have opened that bag and to have stayed at home to keep watch over her, and to await the moment when she would say to him at last ‘I am yours,’ and to fly with her far from their fatal surroundings.

“But no, he did not touch his talisman, and what is the reason he gives for it? The chief reason, as I have just said, was that when she would say, ‘I am yours, take me where you will,’ he might have the wherewithal to take her. But that first reason, in the prisoner’s own words, was of little weight beside the second. While I have that money on me, he said, I am a scoundrel, not a thief, for I can always go to my insulted betrothed, and, laying down half the sum I have fraudulently appropriated, I can always say to her, ‘You see, I’ve squandered half your money, and shown I am a weak and immoral man, and, if you like, a scoundrel’ (I use the prisoner’s own expressions), ‘but though I am a scoundrel, I am not a thief, for if I had been a thief, I shouldn’t have brought you back this half of the money, but should have taken it as I did the other half!’ A marvelous explanation! This frantic, but weak man, who could not resist the temptation of accepting the three thousand roubles at the price of such disgrace, this very man suddenly develops the most stoical firmness, and carries about a thousand roubles without daring to touch it. Does that fit in at all with the character we have analyzed? No, and I venture to tell you how the real Dmitri Karamazov would have behaved in such circumstances, if he really had brought himself to put away the money.

“At the first temptation—for instance, to entertain the woman with whom he had already squandered half the money—he would have unpicked his little bag and have taken out some hundred roubles, for why should he have taken back precisely half the money, that is, fifteen hundred roubles? why not fourteen hundred? He could just as well have said then that he was not a thief, because he brought back fourteen hundred roubles. Then another time he would have unpicked it again and taken out another hundred, and then a third, and then a fourth, and before the end of the month he would have taken the last note but one, feeling that if he took back only a hundred it would answer the purpose, for a thief would have stolen it all. And then he would have looked at this last note, and have said to himself, ‘It’s really not worth while to give back one hundred; let’s spend that, too!’ That’s how the real Dmitri Karamazov, as we know him, would have behaved. One cannot imagine anything more incongruous with the actual fact than this legend of the little bag. Nothing could be more inconceivable. But we shall return to that later.”

After touching upon what had come out in the proceedings concerning the financial relations of father and son, and arguing again and again that it was utterly impossible, from the facts known, to determine which was in the wrong, Ippolit Kirillovitch passed to the evidence of the medical experts in reference to Mitya’s fixed idea about the three thousand owing him.

Chapter VII.
An Historical Survey
“The medical experts have striven to convince us that the prisoner is out of his mind and, in fact, a maniac. I maintain that he is in his right mind, and that if he had not been, he would have behaved more cleverly. As for his being a maniac, that I would agree with, but only in one point, that is, his fixed idea about the three thousand. Yet I think one might find a much simpler cause than his tendency to insanity. For my part I agree thoroughly with the young doctor who maintained that the prisoner’s mental faculties have always been normal, and that he has only been irritable and exasperated. The object of the prisoner’s continual and violent anger was not the sum itself; there was a special motive at the bottom of it. That motive is jealousy!”

Here Ippolit Kirillovitch described at length the prisoner’s fatal passion for Grushenka. He began from the moment when the prisoner went to the “young person’s” lodgings “to beat her”—“I use his own expression,” the prosecutor explained—“but instead of beating her, he remained there, at her feet. That was the beginning of the passion. At the same time the prisoner’s father was captivated by the same young person—a strange and fatal coincidence, for they both lost their hearts to her simultaneously, though both had known her before. And she inspired in both of them the most violent, characteristically Karamazov passion. We have her own confession: ‘I was laughing at both of them.’ Yes, the sudden desire to make a jest of them came over her, and she conquered both of them at once. The old man, who worshiped money, at once set aside three thousand roubles as a reward for one visit from her, but soon after that, he would have been happy to lay his property and his name at her feet, if only she would become his lawful wife. We have good evidence of this. As for the prisoner, the tragedy of his fate is evident; it is before us. But such was the young person’s ‘game.’ The enchantress gave the unhappy young man no hope until the last moment, when he knelt before her, stretching out hands that were already stained with the blood of his father and rival. It was in that position that he was arrested. ‘Send me to Siberia with him, I have brought him to this, I am most to blame,’ the woman herself cried, in genuine remorse at the moment of his arrest.

“The talented young man, to whom I have referred already, Mr. Rakitin, characterized this heroine in brief and impressive terms: ‘She was disillusioned early in life, deceived and ruined by a betrothed, who seduced and abandoned her. She was left in poverty, cursed by her respectable family, and taken under the protection of a wealthy old man, whom she still, however, considers as her benefactor. There was perhaps much that was good in her young heart, but it was embittered too early. She became prudent and saved money. She grew sarcastic and resentful against society.’ After this sketch of her character it may well be understood that she might laugh at both of them simply from mischief, from malice.

“After a month of hopeless love and moral degradation, during which he betrayed his betrothed and appropriated money entrusted to his honor, the prisoner was driven almost to frenzy, almost to madness by continual jealousy—and of whom? His father! And the worst of it was that the crazy old man was alluring and enticing the object of his affection by means of that very three thousand roubles, which the son looked upon as his own property, part of his inheritance from his mother, of which his father was cheating him. Yes, I admit it was hard to bear! It might well drive a man to madness. It was not the money, but the fact that this money was used with such revolting cynicism to ruin his happiness!”

Then the prosecutor went on to describe how the idea of murdering his father had entered the prisoner’s head, and illustrated his theory with facts.

“At first he only talked about it in taverns—he was talking about it all that month. Ah, he likes being always surrounded with company, and he likes to tell his companions everything, even his most diabolical and dangerous ideas; he likes to share every thought with others, and expects, for some reason, that those he confides in will meet him with perfect sympathy, enter into all his troubles and anxieties, take his part and not oppose him in anything. If not, he flies into a rage and smashes up everything in the tavern. [Then followed the anecdote about Captain Snegiryov.] Those who heard the prisoner began to think at last that he might mean more than threats, and that such a frenzy might turn threats into actions.”

Here the prosecutor described the meeting of the family at the monastery, the conversations with Alyosha, and the horrible scene of violence when the prisoner had rushed into his father’s house just after dinner.

“I cannot positively assert,” the prosecutor continued, “that the prisoner fully intended to murder his father before that incident. Yet the idea had several times presented itself to him, and he had deliberated on it—for that we have facts, witnesses, and his own words. I confess, gentlemen of the jury,” he added, “that till to‐day I have been uncertain whether to attribute to the prisoner conscious premeditation. I was firmly convinced that he had pictured the fatal moment beforehand, but had only pictured it, contemplating it as a possibility. He had not definitely considered when and how he might commit the crime.

“But I was only uncertain till to‐day, till that fatal document was presented to the court just now. You yourselves heard that young lady’s exclamation, ‘It is the plan, the program of the murder!’ That is how she defined that miserable, drunken letter of the unhappy prisoner. And, in fact, from that letter we see that the whole fact of the murder was premeditated. It was written two days before, and so we know now for a fact that, forty‐eight hours before the perpetration of his terrible design, the prisoner swore that, if he could not get money next day, he would murder his father in order to take the envelope with the notes from under his pillow, as soon as Ivan had left. ‘As soon as Ivan had gone away’—you hear that; so he had thought everything out, weighing every circumstance, and he carried it all out just as he had written it. The proof of premeditation is conclusive; the crime must have been committed for the sake of the money, that is stated clearly, that is written and signed. The prisoner does not deny his signature.

“I shall be told he was drunk when he wrote it. But that does not diminish the value of the letter, quite the contrary; he wrote when drunk what he had planned when sober. Had he not planned it when sober, he would not have written it when drunk. I shall be asked: Then why did he talk about it in taverns? A man who premeditates such a crime is silent and keeps it to himself. Yes, but he talked about it before he had formed a plan, when he had only the desire, only the impulse to it. Afterwards he talked less about it. On the evening he wrote that letter at the ‘Metropolis’ tavern, contrary to his custom he was silent, though he had been drinking. He did not play billiards, he sat in a corner, talked to no one. He did indeed turn a shopman out of his seat, but that was done almost unconsciously, because he could never enter a tavern without making a disturbance. It is true that after he had taken the final decision, he must have felt apprehensive that he had talked too much about his design beforehand, and that this might lead to his arrest and prosecution afterwards. But there was nothing for it; he could not take his words back, but his luck had served him before, it would serve him again. He believed in his star, you know! I must confess, too, that he did a great deal to avoid the fatal catastrophe. ‘To‐morrow I shall try and borrow the money from every one,’ as he writes in his peculiar language, ‘and if they won’t give it to me, there will be bloodshed.’ ”

Here Ippolit Kirillovitch passed to a detailed description of all Mitya’s efforts to borrow the money. He described his visit to Samsonov, his journey to Lyagavy. “Harassed, jeered at, hungry, after selling his watch to pay for the journey (though he tells us he had fifteen hundred roubles on him—a likely story), tortured by jealousy at having left the object of his affections in the town, suspecting that she would go to Fyodor Pavlovitch in his absence, he returned at last to the town, to find, to his joy, that she had not been near his father. He accompanied her himself to her protector. (Strange to say, he doesn’t seem to have been jealous of Samsonov, which is psychologically interesting.) Then he hastens back to his ambush in the back gardens, and there learns that Smerdyakov is in a fit, that the other servant is ill—the coast is clear and he knows the ‘signals’—what a temptation! Still he resists it; he goes off to a lady who has for some time been residing in the town, and who is highly esteemed among us, Madame Hohlakov. That lady, who had long watched his career with compassion, gave him the most judicious advice, to give up his dissipated life, his unseemly love‐affair, the waste of his youth and vigor in pot‐house debauchery, and to set off to Siberia to the gold‐ mines: ‘that would be an outlet for your turbulent energies, your romantic character, your thirst for adventure.’ ”

After describing the result of this conversation and the moment when the prisoner learnt that Grushenka had not remained at Samsonov’s, the sudden frenzy of the luckless man worn out with jealousy and nervous exhaustion, at the thought that she had deceived him and was now with his father, Ippolit Kirillovitch concluded by dwelling upon the fatal influence of chance. “Had the maid told him that her mistress was at Mokroe with her former lover, nothing would have happened. But she lost her head, she could only swear and protest her ignorance, and if the prisoner did not kill her on the spot, it was only because he flew in pursuit of his false mistress.

“But note, frantic as he was, he took with him a brass pestle. Why that? Why not some other weapon? But since he had been contemplating his plan and preparing himself for it for a whole month, he would snatch up anything like a weapon that caught his eye. He had realized for a month past that any object of the kind would serve as a weapon, so he instantly, without hesitation, recognized that it would serve his purpose. So it was by no means unconsciously, by no means involuntarily, that he snatched up that fatal pestle. And then we find him in his father’s garden—the coast is clear, there are no witnesses, darkness and jealousy. The suspicion that she was there, with him, with his rival, in his arms, and perhaps laughing at him at that moment—took his breath away. And it was not mere suspicion, the deception was open, obvious. She must be there, in that lighted room, she must be behind the screen; and the unhappy man would have us believe that he stole up to the window, peeped respectfully in, and discreetly withdrew, for fear something terrible and immoral should happen. And he tries to persuade us of that, us, who understand his character, who know his state of mind at the moment, and that he knew the signals by which he could at once enter the house.” At this point Ippolit Kirillovitch broke off to discuss exhaustively the suspected connection of Smerdyakov with the murder. He did this very circumstantially, and every one realized that, although he professed to despise that suspicion, he thought the subject of great importance.

Chapter VIII.
A Treatise On Smerdyakov
“To begin with, what was the source of this suspicion?” (Ippolit Kirillovitch began.) “The first person who cried out that Smerdyakov had committed the murder was the prisoner himself at the moment of his arrest, yet from that time to this he had not brought forward a single fact to confirm the charge, nor the faintest suggestion of a fact. The charge is confirmed by three persons only—the two brothers of the prisoner and Madame Svyetlov. The elder of these brothers expressed his suspicions only to‐day, when he was undoubtedly suffering from brain fever. But we know that for the last two months he has completely shared our conviction of his brother’s guilt and did not attempt to combat that idea. But of that later. The younger brother has admitted that he has not the slightest fact to support his notion of Smerdyakov’s guilt, and has only been led to that conclusion from the prisoner’s own words and the expression of his face. Yes, that astounding piece of evidence has been brought forward twice to‐ day by him. Madame Svyetlov was even more astounding. ‘What the prisoner tells you, you must believe; he is not a man to tell a lie.’ That is all the evidence against Smerdyakov produced by these three persons, who are all deeply concerned in the prisoner’s fate. And yet the theory of Smerdyakov’s guilt has been noised about, has been and is still maintained. Is it credible? Is it conceivable?”

Here Ippolit Kirillovitch thought it necessary to describe the personality of Smerdyakov, “who had cut short his life in a fit of insanity.” He depicted him as a man of weak intellect, with a smattering of education, who had been thrown off his balance by philosophical ideas above his level and certain modern theories of duty, which he learnt in practice from the reckless life of his master, who was also perhaps his father—Fyodor Pavlovitch; and, theoretically, from various strange philosophical conversations with his master’s elder son, Ivan Fyodorovitch, who readily indulged in this diversion, probably feeling dull or wishing to amuse himself at the valet’s expense. “He spoke to me himself of his spiritual condition during the last few days at his father’s house,” Ippolit Kirillovitch explained; “but others too have borne witness to it—the prisoner himself, his brother, and the servant Grigory—that is, all who knew him well.

“Moreover, Smerdyakov, whose health was shaken by his attacks of epilepsy, had not the courage of a chicken. ‘He fell at my feet and kissed them,’ the prisoner himself has told us, before he realized how damaging such a statement was to himself. ‘He is an epileptic chicken,’ he declared about him in his characteristic language. And the prisoner chose him for his confidant (we have his own word for it) and he frightened him into consenting at last to act as a spy for him. In that capacity he deceived his master, revealing to the prisoner the existence of the envelope with the notes in it and the signals by means of which he could get into the house. How could he help telling him, indeed? ‘He would have killed me, I could see that he would have killed me,’ he said at the inquiry, trembling and shaking even before us, though his tormentor was by that time arrested and could do him no harm. ‘He suspected me at every instant. In fear and trembling I hastened to tell him every secret to pacify him, that he might see that I had not deceived him and let me off alive.’ Those are his own words. I wrote them down and I remember them. ‘When he began shouting at me, I would fall on my knees.’

“He was naturally very honest and enjoyed the complete confidence of his master, ever since he had restored him some money he had lost. So it may be supposed that the poor fellow suffered pangs of remorse at having deceived his master, whom he loved as his benefactor. Persons severely afflicted with epilepsy are, so the most skillful doctors tell us, always prone to continual and morbid self‐reproach. They worry over their ‘wickedness,’ they are tormented by pangs of conscience, often entirely without cause; they exaggerate and often invent all sorts of faults and crimes. And here we have a man of that type who had really been driven to wrong‐doing by terror and intimidation.

“He had, besides, a strong presentiment that something terrible would be the outcome of the situation that was developing before his eyes. When Ivan Fyodorovitch was leaving for Moscow, just before the catastrophe, Smerdyakov besought him to remain, though he was too timid to tell him plainly what he feared. He confined himself to hints, but his hints were not understood.

“It must be observed that he looked on Ivan Fyodorovitch as a protector, whose presence in the house was a guarantee that no harm would come to pass. Remember the phrase in Dmitri Karamazov’s drunken letter, ‘I shall kill the old man, if only Ivan goes away.’ So Ivan Fyodorovitch’s presence seemed to every one a guarantee of peace and order in the house.

“But he went away, and within an hour of his young master’s departure Smerdyakov was taken with an epileptic fit. But that’s perfectly intelligible. Here I must mention that Smerdyakov, oppressed by terror and despair of a sort, had felt during those last few days that one of the fits from which he had suffered before at moments of strain, might be coming upon him again. The day and hour of such an attack cannot, of course, be foreseen, but every epileptic can feel beforehand that he is likely to have one. So the doctors tell us. And so, as soon as Ivan Fyodorovitch had driven out of the yard, Smerdyakov, depressed by his lonely and unprotected position, went to the cellar. He went down the stairs wondering if he would have a fit or not, and what if it were to come upon him at once. And that very apprehension, that very wonder, brought on the spasm in his throat that always precedes such attacks, and he fell unconscious into the cellar. And in this perfectly natural occurrence people try to detect a suspicion, a hint that he was shamming an attack on purpose. But, if it were on purpose, the question arises at once, what was his motive? What was he reckoning on? What was he aiming at? I say nothing about medicine: science, I am told, may go astray: the doctors were not able to discriminate between the counterfeit and the real. That may be so, but answer me one question: what motive had he for such a counterfeit? Could he, had he been plotting the murder, have desired to attract the attention of the household by having a fit just before?

“You see, gentlemen of the jury, on the night of the murder, there were five persons in Fyodor Pavlovitch’s—Fyodor Pavlovitch himself (but he did not kill himself, that’s evident); then his servant, Grigory, but he was almost killed himself; the third person was Grigory’s wife, Marfa Ignatyevna, but it would be simply shameful to imagine her murdering her master. Two persons are left—the prisoner and Smerdyakov. But, if we are to believe the prisoner’s statement that he is not the murderer, then Smerdyakov must have been, for there is no other alternative, no one else can be found. That is what accounts for the artful, astounding accusation against the unhappy idiot who committed suicide yesterday. Had a shadow of suspicion rested on any one else, had there been any sixth person, I am persuaded that even the prisoner would have been ashamed to accuse Smerdyakov, and would have accused that sixth person, for to charge Smerdyakov with that murder is perfectly absurd.

“Gentlemen, let us lay aside psychology, let us lay aside medicine, let us even lay aside logic, let us turn only to the facts and see what the facts tell us. If Smerdyakov killed him, how did he do it? Alone or with the assistance of the prisoner? Let us consider the first alternative—that he did it alone. If he had killed him it must have been with some object, for some advantage to himself. But not having a shadow of the motive that the prisoner had for the murder—hatred, jealousy, and so on—Smerdyakov could only have murdered him for the sake of gain, in order to appropriate the three thousand roubles he had seen his master put in the envelope. And yet he tells another person—and a person most closely interested, that is, the prisoner—everything about the money and the signals, where the envelope lay, what was written on it, what it was tied up with, and, above all, told him of those signals by which he could enter the house. Did he do this simply to betray himself, or to invite to the same enterprise one who would be anxious to get that envelope for himself? ‘Yes,’ I shall be told, ‘but he betrayed it from fear.’ But how do you explain this? A man who could conceive such an audacious, savage act, and carry it out, tells facts which are known to no one else in the world, and which, if he held his tongue, no one would ever have guessed!

“No, however cowardly he might be, if he had plotted such a crime, nothing would have induced him to tell any one about the envelope and the signals, for that was as good as betraying himself beforehand. He would have invented something, he would have told some lie if he had been forced to give information, but he would have been silent about that. For, on the other hand, if he had said nothing about the money, but had committed the murder and stolen the money, no one in the world could have charged him with murder for the sake of robbery, since no one but he had seen the money, no one but he knew of its existence in the house. Even if he had been accused of the murder, it could only have been thought that he had committed it from some other motive. But since no one had observed any such motive in him beforehand, and every one saw, on the contrary, that his master was fond of him and honored him with his confidence, he would, of course, have been the last to be suspected. People would have suspected first the man who had a motive, a man who had himself declared he had such motives, who had made no secret of it; they would, in fact, have suspected the son of the murdered man, Dmitri Fyodorovitch. Had Smerdyakov killed and robbed him, and the son been accused of it, that would, of course, have suited Smerdyakov. Yet are we to believe that, though plotting the murder, he told that son, Dmitri, about the money, the envelope, and the signals? Is that logical? Is that clear?

“When the day of the murder planned by Smerdyakov came, we have him falling downstairs in a feigned fit—with what object? In the first place that Grigory, who had been intending to take his medicine, might put it off and remain on guard, seeing there was no one to look after the house, and, in the second place, I suppose, that his master seeing that there was no one to guard him, and in terror of a visit from his son, might redouble his vigilance and precaution. And, most of all, I suppose that he, Smerdyakov, disabled by the fit, might be carried from the kitchen, where he always slept, apart from all the rest, and where he could go in and out as he liked, to Grigory’s room at the other end of the lodge, where he was always put, shut off by a screen three paces from their own bed. This was the immemorial custom established by his master and the kind‐hearted Marfa Ignatyevna, whenever he had a fit. There, lying behind the screen, he would most likely, to keep up the sham, have begun groaning, and so keeping them awake all night (as Grigory and his wife testified). And all this, we are to believe, that he might more conveniently get up and murder his master!

“But I shall be told that he shammed illness on purpose that he might not be suspected and that he told the prisoner of the money and the signals to tempt him to commit the murder, and when he had murdered him and had gone away with the money, making a noise, most likely, and waking people, Smerdyakov got up, am I to believe, and went in—what for? To murder his master a second time and carry off the money that had already been stolen? Gentlemen, are you laughing? I am ashamed to put forward such suggestions, but, incredible as it seems, that’s just what the prisoner alleges. When he had left the house, had knocked Grigory down and raised an alarm, he tells us Smerdyakov got up, went in and murdered his master and stole the money! I won’t press the point that Smerdyakov could hardly have reckoned on this beforehand, and have foreseen that the furious and exasperated son would simply come to peep in respectfully, though he knew the signals, and beat a retreat, leaving Smerdyakov his booty. Gentlemen of the jury, I put this question to you in earnest; when was the moment when Smerdyakov could have committed his crime? Name that moment, or you can’t accuse him.

“But, perhaps, the fit was a real one, the sick man suddenly recovered, heard a shout, and went out. Well—what then? He looked about him and said, ‘Why not go and kill the master?’ And how did he know what had happened, since he had been lying unconscious till that moment? But there’s a limit to these flights of fancy.

“ ‘Quite so,’ some astute people will tell me, ‘but what if they were in agreement? What if they murdered him together and shared the money—what then?’ A weighty question, truly! And the facts to confirm it are astounding. One commits the murder and takes all the trouble while his accomplice lies on one side shamming a fit, apparently to arouse suspicion in every one, alarm in his master and alarm in Grigory. It would be interesting to know what motives could have induced the two accomplices to form such an insane plan.

“But perhaps it was not a case of active complicity on Smerdyakov’s part, but only of passive acquiescence; perhaps Smerdyakov was intimidated and agreed not to prevent the murder, and foreseeing that he would be blamed for letting his master be murdered, without screaming for help or resisting, he may have obtained permission from Dmitri Karamazov to get out of the way by shamming a fit—‘you may murder him as you like; it’s nothing to me.’ But as this attack of Smerdyakov’s was bound to throw the household into confusion, Dmitri Karamazov could never have agreed to such a plan. I will waive that point however. Supposing that he did agree, it would still follow that Dmitri Karamazov is the murderer and the instigator, and Smerdyakov is only a passive accomplice, and not even an accomplice, but merely acquiesced against his will through terror.

“But what do we see? As soon as he is arrested the prisoner instantly throws all the blame on Smerdyakov, not accusing him of being his accomplice, but of being himself the murderer. ‘He did it alone,’ he says. ‘He murdered and robbed him. It was the work of his hands.’ Strange sort of accomplices who begin to accuse one another at once! And think of the risk for Karamazov. After committing the murder while his accomplice lay in bed, he throws the blame on the invalid, who might well have resented it and in self‐preservation might well have confessed the truth. For he might well have seen that the court would at once judge how far he was responsible, and so he might well have reckoned that if he were punished, it would be far less severely than the real murderer. But in that case he would have been certain to make a confession, yet he has not done so. Smerdyakov never hinted at their complicity, though the actual murderer persisted in accusing him and declaring that he had committed the crime alone.

“What’s more, Smerdyakov at the inquiry volunteered the statement that it was he who had told the prisoner of the envelope of notes and of the signals, and that, but for him, he would have known nothing about them. If he had really been a guilty accomplice, would he so readily have made this statement at the inquiry? On the contrary, he would have tried to conceal it, to distort the facts or minimize them. But he was far from distorting or minimizing them. No one but an innocent man, who had no fear of being charged with complicity, could have acted as he did. And in a fit of melancholy arising from his disease and this catastrophe he hanged himself yesterday. He left a note written in his peculiar language, ‘I destroy myself of my own will and inclination so as to throw no blame on any one.’ What would it have cost him to add: ‘I am the murderer, not Karamazov’? But that he did not add. Did his conscience lead him to suicide and not to avowing his guilt?

“And what followed? Notes for three thousand roubles were brought into the court just now, and we were told that they were the same that lay in the envelope now on the table before us, and that the witness had received them from Smerdyakov the day before. But I need not recall the painful scene, though I will make one or two comments, selecting such trivial ones as might not be obvious at first sight to every one, and so may be overlooked. In the first place, Smerdyakov must have given back the money and hanged himself yesterday from remorse. And only yesterday he confessed his guilt to Ivan Karamazov, as the latter informs us. If it were not so, indeed, why should Ivan Fyodorovitch have kept silence till now? And so, if he has confessed, then why, I ask again, did he not avow the whole truth in the last letter he left behind, knowing that the innocent prisoner had to face this terrible ordeal the next day?

“The money alone is no proof. A week ago, quite by chance, the fact came to the knowledge of myself and two other persons in this court that Ivan Fyodorovitch had sent two five per cent. coupons of five thousand each—that is, ten thousand in all—to the chief town of the province to be changed. I only mention this to point out that any one may have money, and that it can’t be proved that these notes are the same as were in Fyodor Pavlovitch’s envelope.

“Ivan Karamazov, after receiving yesterday a communication of such importance from the real murderer, did not stir. Why didn’t he report it at once? Why did he put it all off till morning? I think I have a right to conjecture why. His health had been giving way for a week past: he had admitted to a doctor and to his most intimate friends that he was suffering from hallucinations and seeing phantoms of the dead: he was on the eve of the attack of brain fever by which he has been stricken down to‐day. In this condition he suddenly heard of Smerdyakov’s death, and at once reflected, ‘The man is dead, I can throw the blame on him and save my brother. I have money. I will take a roll of notes and say that Smerdyakov gave them me before his death.’ You will say that was dishonorable: it’s dishonorable to slander even the dead, and even to save a brother. True, but what if he slandered him unconsciously? What if, finally unhinged by the sudden news of the valet’s death, he imagined it really was so? You saw the recent scene: you have seen the witness’s condition. He was standing up and was speaking, but where was his mind?

“Then followed the document, the prisoner’s letter written two days before the crime, and containing a complete program of the murder. Why, then, are we looking for any other program? The crime was committed precisely according to this program, and by no other than the writer of it. Yes, gentlemen of the jury, it went off without a hitch! He did not run respectfully and timidly away from his father’s window, though he was firmly convinced that the object of his affections was with him. No, that is absurd and unlikely! He went in and murdered him. Most likely he killed him in anger, burning with resentment, as soon as he looked on his hated rival. But having killed him, probably with one blow of the brass pestle, and having convinced himself, after careful search, that she was not there, he did not, however, forget to put his hand under the pillow and take out the envelope, the torn cover of which lies now on the table before us.

“I mention this fact that you may note one, to my thinking, very characteristic circumstance. Had he been an experienced murderer and had he committed the murder for the sake of gain only, would he have left the torn envelope on the floor as it was found, beside the corpse? Had it been Smerdyakov, for instance, murdering his master to rob him, he would have simply carried away the envelope with him, without troubling himself to open it over his victim’s corpse, for he would have known for certain that the notes were in the envelope—they had been put in and sealed up in his presence—and had he taken the envelope with him, no one would ever have known of the robbery. I ask you, gentlemen, would Smerdyakov have behaved in that way? Would he have left the envelope on the floor?

“No, this was the action of a frantic murderer, a murderer who was not a thief and had never stolen before that day, who snatched the notes from under the pillow, not like a thief stealing them, but as though seizing his own property from the thief who had stolen it. For that was the idea which had become almost an insane obsession in Dmitri Karamazov in regard to that money. And pouncing upon the envelope, which he had never seen before, he tore it open to make sure whether the money was in it, and ran away with the money in his pocket, even forgetting to consider that he had left an astounding piece of evidence against himself in that torn envelope on the floor. All because it was Karamazov, not Smerdyakov, he didn’t think, he didn’t reflect, and how should he? He ran away; he heard behind him the servant cry out; the old man caught him, stopped him and was felled to the ground by the brass pestle.

“The prisoner, moved by pity, leapt down to look at him. Would you believe it, he tells us that he leapt down out of pity, out of compassion, to see whether he could do anything for him. Was that a moment to show compassion? No; he jumped down simply to make certain whether the only witness of his crime were dead or alive. Any other feeling, any other motive would be unnatural. Note that he took trouble over Grigory, wiped his head with his handkerchief and, convincing himself he was dead, he ran to the house of his mistress, dazed and covered with blood. How was it he never thought that he was covered with blood and would be at once detected? But the prisoner himself assures us that he did not even notice that he was covered with blood. That may be believed, that is very possible, that always happens at such moments with criminals. On one point they will show diabolical cunning, while another will escape them altogether. But he was thinking at that moment of one thing only—where was she? He wanted to find out at once where she was, so he ran to her lodging and learnt an unexpected and astounding piece of news—she had gone off to Mokroe to meet her first lover.”

Chapter IX.
The Galloping Troika. The End Of The Prosecutor’s Speech.
Ippolit Kirillovitch had chosen the historical method of exposition, beloved by all nervous orators, who find in its limitation a check on their own eager rhetoric. At this moment in his speech he went off into a dissertation on Grushenka’s “first lover,” and brought forward several interesting thoughts on this theme.

“Karamazov, who had been frantically jealous of every one, collapsed, so to speak, and effaced himself at once before this first lover. What makes it all the more strange is that he seems to have hardly thought of this formidable rival. But he had looked upon him as a remote danger, and Karamazov always lives in the present. Possibly he regarded him as a fiction. But his wounded heart grasped instantly that the woman had been concealing this new rival and deceiving him, because he was anything but a fiction to her, because he was the one hope of her life. Grasping this instantly, he resigned himself.

“Gentlemen of the jury, I cannot help dwelling on this unexpected trait in the prisoner’s character. He suddenly evinces an irresistible desire for justice, a respect for woman and a recognition of her right to love. And all this at the very moment when he had stained his hands with his father’s blood for her sake! It is true that the blood he had shed was already crying out for vengeance, for, after having ruined his soul and his life in this world, he was forced to ask himself at that same instant what he was and what he could be now to her, to that being, dearer to him than his own soul, in comparison with that former lover who had returned penitent, with new love, to the woman he had once betrayed, with honorable offers, with the promise of a reformed and happy life. And he, luckless man, what could he give her now, what could he offer her?

“Karamazov felt all this, knew that all ways were barred to him by his crime and that he was a criminal under sentence, and not a man with life before him! This thought crushed him. And so he instantly flew to one frantic plan, which, to a man of Karamazov’s character, must have appeared the one inevitable way out of his terrible position. That way out was suicide. He ran for the pistols he had left in pledge with his friend Perhotin and on the way, as he ran, he pulled out of his pocket the money, for the sake of which he had stained his hands with his father’s gore. Oh, now he needed money more than ever. Karamazov would die, Karamazov would shoot himself and it should be remembered! To be sure, he was a poet and had burnt the candle at both ends all his life. ‘To her, to her! and there, oh, there I will give a feast to the whole world, such as never was before, that will be remembered and talked of long after! In the midst of shouts of wild merriment, reckless gypsy songs and dances I shall raise the glass and drink to the woman I adore and her new‐found happiness! And then, on the spot, at her feet, I shall dash out my brains before her and punish myself! She will remember Mitya Karamazov sometimes, she will see how Mitya loved her, she will feel for Mitya!’

“Here we see in excess a love of effect, a romantic despair and sentimentality, and the wild recklessness of the Karamazovs. Yes, but there is something else, gentlemen of the jury, something that cries out in the soul, throbs incessantly in the mind, and poisons the heart unto death—that something is conscience, gentlemen of the jury, its judgment, its terrible torments! The pistol will settle everything, the pistol is the only way out! But beyond—I don’t know whether Karamazov wondered at that moment ‘What lies beyond,’ and whether Karamazov could, like Hamlet, wonder ‘What lies beyond.’ No, gentlemen of the jury, they have their Hamlets, but we still have our Karamazovs!”

Here Ippolit Kirillovitch drew a minute picture of Mitya’s preparations, the scene at Perhotin’s, at the shop, with the drivers. He quoted numerous words and actions, confirmed by witnesses, and the picture made a terrible impression on the audience. The guilt of this harassed and desperate man stood out clear and convincing, when the facts were brought together.

“What need had he of precaution? Two or three times he almost confessed, hinted at it, all but spoke out.” (Then followed the evidence given by witnesses.) “He even cried out to the peasant who drove him, ‘Do you know, you are driving a murderer!’ But it was impossible for him to speak out, he had to get to Mokroe and there to finish his romance. But what was awaiting the luckless man? Almost from the first minute at Mokroe he saw that his invincible rival was perhaps by no means so invincible, that the toast to their new‐found happiness was not desired and would not be acceptable. But you know the facts, gentlemen of the jury, from the preliminary inquiry. Karamazov’s triumph over his rival was complete and his soul passed into quite a new phase, perhaps the most terrible phase through which his soul has passed or will pass.

“One may say with certainty, gentlemen of the jury,” the prosecutor continued, “that outraged nature and the criminal heart bring their own vengeance more completely than any earthly justice. What’s more, justice and punishment on earth positively alleviate the punishment of nature and are, indeed, essential to the soul of the criminal at such moments, as its salvation from despair. For I cannot imagine the horror and moral suffering of Karamazov when he learnt that she loved him, that for his sake she had rejected her first lover, that she was summoning him, Mitya, to a new life, that she was promising him happiness—and when? When everything was over for him and nothing was possible!

“By the way, I will note in parenthesis a point of importance for the light it throws on the prisoner’s position at the moment. This woman, this love of his, had been till the last moment, till the very instant of his arrest, a being unattainable, passionately desired by him but unattainable. Yet why did he not shoot himself then, why did he relinquish his design and even forget where his pistol was? It was just that passionate desire for love and the hope of satisfying it that restrained him. Throughout their revels he kept close to his adored mistress, who was at the banquet with him and was more charming and fascinating to him than ever—he did not leave her side, abasing himself in his homage before her.

“His passion might well, for a moment, stifle not only the fear of arrest, but even the torments of conscience. For a moment, oh, only for a moment! I can picture the state of mind of the criminal hopelessly enslaved by these influences—first, the influence of drink, of noise and excitement, of the thud of the dance and the scream of the song, and of her, flushed with wine, singing and dancing and laughing to him! Secondly, the hope in the background that the fatal end might still be far off, that not till next morning, at least, they would come and take him. So he had a few hours and that’s much, very much! In a few hours one can think of many things. I imagine that he felt something like what criminals feel when they are being taken to the scaffold. They have another long, long street to pass down and at walking pace, past thousands of people. Then there will be a turning into another street and only at the end of that street the dread place of execution! I fancy that at the beginning of the journey the condemned man, sitting on his shameful cart, must feel that he has infinite life still before him. The houses recede, the cart moves on—oh, that’s nothing, it’s still far to the turning into the second street and he still looks boldly to right and to left at those thousands of callously curious people with their eyes fixed on him, and he still fancies that he is just such a man as they. But now the turning comes to the next street. Oh, that’s nothing, nothing, there’s still a whole street before him, and however many houses have been passed, he will still think there are many left. And so to the very end, to the very scaffold.

“This I imagine is how it was with Karamazov then. ‘They’ve not had time yet,’ he must have thought, ‘I may still find some way out, oh, there’s still time to make some plan of defense, and now, now—she is so fascinating!’

“His soul was full of confusion and dread, but he managed, however, to put aside half his money and hide it somewhere—I cannot otherwise explain the disappearance of quite half of the three thousand he had just taken from his father’s pillow. He had been in Mokroe more than once before, he had caroused there for two days together already, he knew the old big house with all its passages and outbuildings. I imagine that part of the money was hidden in that house, not long before the arrest, in some crevice, under some floor, in some corner, under the roof. With what object? I shall be asked. Why, the catastrophe may take place at once, of course; he hadn’t yet considered how to meet it, he hadn’t the time, his head was throbbing and his heart was with her, but money—money was indispensable in any case! With money a man is always a man. Perhaps such foresight at such a moment may strike you as unnatural? But he assures us himself that a month before, at a critical and exciting moment, he had halved his money and sewn it up in a little bag. And though that was not true, as we shall prove directly, it shows the idea was a familiar one to Karamazov, he had contemplated it. What’s more, when he declared at the inquiry that he had put fifteen hundred roubles in a bag (which never existed) he may have invented that little bag on the inspiration of the moment, because he had two hours before divided his money and hidden half of it at Mokroe till morning, in case of emergency, simply not to have it on himself. Two extremes, gentlemen of the jury, remember that Karamazov can contemplate two extremes and both at once.

“We have looked in the house, but we haven’t found the money. It may still be there or it may have disappeared next day and be in the prisoner’s hands now. In any case he was at her side, on his knees before her, she was lying on the bed, he had his hands stretched out to her and he had so entirely forgotten everything that he did not even hear the men coming to arrest him. He hadn’t time to prepare any line of defense in his mind. He was caught unawares and confronted with his judges, the arbiters of his destiny.

“Gentlemen of the jury, there are moments in the execution of our duties when it is terrible for us to face a man, terrible on his account, too! The moments of contemplating that animal fear, when the criminal sees that all is lost, but still struggles, still means to struggle, the moments when every instinct of self‐preservation rises up in him at once and he looks at you with questioning and suffering eyes, studies you, your face, your thoughts, uncertain on which side you will strike, and his distracted mind frames thousands of plans in an instant, but he is still afraid to speak, afraid of giving himself away! This purgatory of the spirit, this animal thirst for self‐preservation, these humiliating moments of the human soul, are awful, and sometimes arouse horror and compassion for the criminal even in the lawyer. And this was what we all witnessed then.

“At first he was thunderstruck and in his terror dropped some very compromising phrases. ‘Blood! I’ve deserved it!’ But he quickly restrained himself. He had not prepared what he was to say, what answer he was to make, he had nothing but a bare denial ready. ‘I am not guilty of my father’s death.’ That was his fence for the moment and behind it he hoped to throw up a barricade of some sort. His first compromising exclamations he hastened to explain by declaring that he was responsible for the death of the servant Grigory only. ‘Of that bloodshed I am guilty, but who has killed my father, gentlemen, who has killed him? Who can have killed him, if not I?’ Do you hear, he asked us that, us, who had come to ask him that question! Do you hear that phrase uttered with such premature haste—‘if not I’—the animal cunning, the naïveté, the Karamazov impatience of it? ‘I didn’t kill him and you mustn’t think I did! I wanted to kill him, gentlemen, I wanted to kill him,’ he hastens to admit (he was in a hurry, in a terrible hurry), ‘but still I am not guilty, it is not I murdered him.’ He concedes to us that he wanted to murder him, as though to say, you can see for yourselves how truthful I am, so you’ll believe all the sooner that I didn’t murder him. Oh, in such cases the criminal is often amazingly shallow and credulous.

“At that point one of the lawyers asked him, as it were incidentally, the most simple question, ‘Wasn’t it Smerdyakov killed him?’ Then, as we expected, he was horribly angry at our having anticipated him and caught him unawares, before he had time to pave the way to choose and snatch the moment when it would be most natural to bring in Smerdyakov’s name. He rushed at once to the other extreme, as he always does, and began to assure us that Smerdyakov could not have killed him, was not capable of it. But don’t believe him, that was only his cunning; he didn’t really give up the idea of Smerdyakov; on the contrary, he meant to bring him forward again; for, indeed, he had no one else to bring forward, but he would do that later, because for the moment that line was spoiled for him. He would bring him forward perhaps next day, or even a few days later, choosing an opportunity to cry out to us, ‘You know I was more skeptical about Smerdyakov than you, you remember that yourselves, but now I am convinced. He killed him, he must have done!’ And for the present he falls back upon a gloomy and irritable denial. Impatience and anger prompted him, however, to the most inept and incredible explanation of how he looked into his father’s window and how he respectfully withdrew. The worst of it was that he was unaware of the position of affairs, of the evidence given by Grigory.

“We proceeded to search him. The search angered, but encouraged him, the whole three thousand had not been found on him, only half of it. And no doubt only at that moment of angry silence, the fiction of the little bag first occurred to him. No doubt he was conscious himself of the improbability of the story and strove painfully to make it sound more likely, to weave it into a romance that would sound plausible. In such cases the first duty, the chief task of the investigating lawyers, is to prevent the criminal being prepared, to pounce upon him unexpectedly so that he may blurt out his cherished ideas in all their simplicity, improbability and inconsistency. The criminal can only be made to speak by the sudden and apparently incidental communication of some new fact, of some circumstance of great importance in the case, of which he had no previous idea and could not have foreseen. We had such a fact in readiness—that was Grigory’s evidence about the open door through which the prisoner had run out. He had completely forgotten about that door and had not even suspected that Grigory could have seen it.

“The effect of it was amazing. He leapt up and shouted to us, ‘Then Smerdyakov murdered him, it was Smerdyakov!’ and so betrayed the basis of the defense he was keeping back, and betrayed it in its most improbable shape, for Smerdyakov could only have committed the murder after he had knocked Grigory down and run away. When we told him that Grigory saw the door was open before he fell down, and had heard Smerdyakov behind the screen as he came out of his bedroom—Karamazov was positively crushed. My esteemed and witty colleague, Nikolay Parfenovitch, told me afterwards that he was almost moved to tears at the sight of him. And to improve matters, the prisoner hastened to tell us about the much‐talked‐of little bag—so be it, you shall hear this romance!

“Gentlemen of the jury, I have told you already why I consider this romance not only an absurdity, but the most improbable invention that could have been brought forward in the circumstances. If one tried for a bet to invent the most unlikely story, one could hardly find anything more incredible. The worst of such stories is that the triumphant romancers can always be put to confusion and crushed by the very details in which real life is so rich and which these unhappy and involuntary story‐tellers neglect as insignificant trifles. Oh, they have no thought to spare for such details, their minds are concentrated on their grand invention as a whole, and fancy any one daring to pull them up for a trifle! But that’s how they are caught. The prisoner was asked the question, ‘Where did you get the stuff for your little bag and who made it for you?’ ‘I made it myself.’ ‘And where did you get the linen?’ The prisoner was positively offended, he thought it almost insulting to ask him such a trivial question, and would you believe it, his resentment was genuine! But they are all like that. ‘I tore it off my shirt.’ ‘Then we shall find that shirt among your linen to‐morrow, with a piece torn off.’ And only fancy, gentlemen of the jury, if we really had found that torn shirt (and how could we have failed to find it in his chest of drawers or trunk?) that would have been a fact, a material fact in support of his statement! But he was incapable of that reflection. ‘I don’t remember, it may not have been off my shirt, I sewed it up in one of my landlady’s caps.’ ‘What sort of a cap?’ ‘It was an old cotton rag of hers lying about.’ ‘And do you remember that clearly?’ ‘No, I don’t.’ And he was angry, very angry, and yet imagine not remembering it! At the most terrible moments of man’s life, for instance when he is being led to execution, he remembers just such trifles. He will forget anything but some green roof that has flashed past him on the road, or a jackdaw on a cross—that he will remember. He concealed the making of that little bag from his household, he must have remembered his humiliating fear that some one might come in and find him needle in hand, how at the slightest sound he slipped behind the screen (there is a screen in his lodgings).

“But, gentlemen of the jury, why do I tell you all this, all these details, trifles?” cried Ippolit Kirillovitch suddenly. “Just because the prisoner still persists in these absurdities to this moment. He has not explained anything since that fatal night two months ago, he has not added one actual illuminating fact to his former fantastic statements; all those are trivialities. ‘You must believe it on my honor.’ Oh, we are glad to believe it, we are eager to believe it, even if only on his word of honor! Are we jackals thirsting for human blood? Show us a single fact in the prisoner’s favor and we shall rejoice; but let it be a substantial, real fact, and not a conclusion drawn from the prisoner’s expression by his own brother, or that when he beat himself on the breast he must have meant to point to the little bag, in the darkness, too. We shall rejoice at the new fact, we shall be the first to repudiate our charge, we shall hasten to repudiate it. But now justice cries out and we persist, we cannot repudiate anything.”

Ippolit Kirillovitch passed to his final peroration. He looked as though he was in a fever, he spoke of the blood that cried for vengeance, the blood of the father murdered by his son, with the base motive of robbery! He pointed to the tragic and glaring consistency of the facts.

“And whatever you may hear from the talented and celebrated counsel for the defense,” Ippolit Kirillovitch could not resist adding, “whatever eloquent and touching appeals may be made to your sensibilities, remember that at this moment you are in a temple of justice. Remember that you are the champions of our justice, the champions of our holy Russia, of her principles, her family, everything that she holds sacred! Yes, you represent Russia here at this moment, and your verdict will be heard not in this hall only but will reëcho throughout the whole of Russia, and all Russia will hear you, as her champions and her judges, and she will be encouraged or disheartened by your verdict. Do not disappoint Russia and her expectations. Our fatal troika dashes on in her headlong flight perhaps to destruction and in all Russia for long past men have stretched out imploring hands and called a halt to its furious reckless course. And if other nations stand aside from that troika that may be, not from respect, as the poet would fain believe, but simply from horror. From horror, perhaps from disgust. And well it is that they stand aside, but maybe they will cease one day to do so and will form a firm wall confronting the hurrying apparition and will check the frenzied rush of our lawlessness, for the sake of their own safety, enlightenment and civilization. Already we have heard voices of alarm from Europe, they already begin to sound. Do not tempt them! Do not heap up their growing hatred by a sentence justifying the murder of a father by his son!”

Though Ippolit Kirillovitch was genuinely moved, he wound up his speech with this rhetorical appeal—and the effect produced by him was extraordinary. When he had finished his speech, he went out hurriedly and, as I have mentioned before, almost fainted in the adjoining room. There was no applause in the court, but serious persons were pleased. The ladies were not so well satisfied, though even they were pleased with his eloquence, especially as they had no apprehensions as to the upshot of the trial and had full trust in Fetyukovitch. “He will speak at last and of course carry all before him.”

Every one looked at Mitya; he sat silent through the whole of the prosecutor’s speech, clenching his teeth, with his hands clasped, and his head bowed. Only from time to time he raised his head and listened, especially when Grushenka was spoken of. When the prosecutor mentioned Rakitin’s opinion of her, a smile of contempt and anger passed over his face and he murmured rather audibly, “The Bernards!” When Ippolit Kirillovitch described how he had questioned and tortured him at Mokroe, Mitya raised his head and listened with intense curiosity. At one point he seemed about to jump up and cry out, but controlled himself and only shrugged his shoulders disdainfully. People talked afterwards of the end of the speech, of the prosecutor’s feat in examining the prisoner at Mokroe, and jeered at Ippolit Kirillovitch. “The man could not resist boasting of his cleverness,” they said.

The court was adjourned, but only for a short interval, a quarter of an hour or twenty minutes at most. There was a hum of conversation and exclamations in the audience. I remember some of them.

“A weighty speech,” a gentleman in one group observed gravely.

“He brought in too much psychology,” said another voice.

“But it was all true, the absolute truth!”

“Yes, he is first rate at it.”

“He summed it all up.”

“Yes, he summed us up, too,” chimed in another voice. “Do you remember, at the beginning of his speech, making out we were all like Fyodor Pavlovitch?”

“And at the end, too. But that was all rot.”

“And obscure too.”

“He was a little too much carried away.”

“It’s unjust, it’s unjust.”

“No, it was smartly done, anyway. He’s had long to wait, but he’s had his say, ha ha!”

“What will the counsel for the defense say?”

In another group I heard:

“He had no business to make a thrust at the Petersburg man like that; ‘appealing to your sensibilities’—do you remember?”

“Yes, that was awkward of him.”

“He was in too great a hurry.”

“He is a nervous man.”

“We laugh, but what must the prisoner be feeling?”

“Yes, what must it be for Mitya?”

In a third group:

“What lady is that, the fat one, with the lorgnette, sitting at the end?”

“She is a general’s wife, divorced, I know her.”

“That’s why she has the lorgnette.”

“She is not good for much.”

“Oh, no, she is a piquante little woman.”

“Two places beyond her there is a little fair woman, she is prettier.”

“They caught him smartly at Mokroe, didn’t they, eh?”

“Oh, it was smart enough. We’ve heard it before, how often he has told the story at people’s houses!”

“And he couldn’t resist doing it now. That’s vanity.”

“He is a man with a grievance, he he!”

“Yes, and quick to take offense. And there was too much rhetoric, such long sentences.”

“Yes, he tries to alarm us, he kept trying to alarm us. Do you remember about the troika? Something about ‘They have Hamlets, but we have, so far, only Karamazovs!’ That was cleverly said!”

“That was to propitiate the liberals. He is afraid of them.”

“Yes, and he is afraid of the lawyer, too.”

“Yes, what will Fetyukovitch say?”

“Whatever he says, he won’t get round our peasants.”

“Don’t you think so?”

A fourth group:

“What he said about the troika was good, that piece about the other nations.”

“And that was true what he said about other nations not standing it.”

“What do you mean?”

“Why, in the English Parliament a Member got up last week and speaking about the Nihilists asked the Ministry whether it was not high time to intervene, to educate this barbarous people. Ippolit was thinking of him, I know he was. He was talking about that last week.”

“Not an easy job.”

“Not an easy job? Why not?”

“Why, we’d shut up Kronstadt and not let them have any corn. Where would they get it?”

“In America. They get it from America now.”

“Nonsense!”

But the bell rang, all rushed to their places. Fetyukovitch mounted the tribune.

Chapter X.
The Speech For The Defense. An Argument That Cuts Both Ways
All was hushed as the first words of the famous orator rang out. The eyes of the audience were fastened upon him. He began very simply and directly, with an air of conviction, but not the slightest trace of conceit. He made no attempt at eloquence, at pathos, or emotional phrases. He was like a man speaking in a circle of intimate and sympathetic friends. His voice was a fine one, sonorous and sympathetic, and there was something genuine and simple in the very sound of it. But every one realized at once that the speaker might suddenly rise to genuine pathos and “pierce the heart with untold power.” His language was perhaps more irregular than Ippolit Kirillovitch’s, but he spoke without long phrases, and indeed, with more precision. One thing did not please the ladies: he kept bending forward, especially at the beginning of his speech, not exactly bowing, but as though he were about to dart at his listeners, bending his long spine in half, as though there were a spring in the middle that enabled him to bend almost at right angles.

At the beginning of his speech he spoke rather disconnectedly, without system, one may say, dealing with facts separately, though, at the end, these facts formed a whole. His speech might be divided into two parts, the first consisting of criticism in refutation of the charge, sometimes malicious and sarcastic. But in the second half he suddenly changed his tone, and even his manner, and at once rose to pathos. The audience seemed on the look‐out for it, and quivered with enthusiasm.

He went straight to the point, and began by saying that although he practiced in Petersburg, he had more than once visited provincial towns to defend prisoners, of whose innocence he had a conviction or at least a preconceived idea. “That is what has happened to me in the present case,” he explained. “From the very first accounts in the newspapers I was struck by something which strongly prepossessed me in the prisoner’s favor. What interested me most was a fact which often occurs in legal practice, but rarely, I think, in such an extreme and peculiar form as in the present case. I ought to formulate that peculiarity only at the end of my speech, but I will do so at the very beginning, for it is my weakness to go to work directly, not keeping my effects in reserve and economizing my material. That may be imprudent on my part, but at least it’s sincere. What I have in my mind is this: there is an overwhelming chain of evidence against the prisoner, and at the same time not one fact that will stand criticism, if it is examined separately. As I followed the case more closely in the papers my idea was more and more confirmed, and I suddenly received from the prisoner’s relatives a request to undertake his defense. I at once hurried here, and here I became completely convinced. It was to break down this terrible chain of facts, and to show that each piece of evidence taken separately was unproved and fantastic, that I undertook the case.”

So Fetyukovitch began.

“Gentlemen of the jury,” he suddenly protested, “I am new to this district. I have no preconceived ideas. The prisoner, a man of turbulent and unbridled temper, has not insulted me. But he has insulted perhaps hundreds of persons in this town, and so prejudiced many people against him beforehand. Of course I recognize that the moral sentiment of local society is justly excited against him. The prisoner is of turbulent and violent temper. Yet he was received in society here; he was even welcome in the family of my talented friend, the prosecutor.”

(N.B. At these words there were two or three laughs in the audience, quickly suppressed, but noticed by all. All of us knew that the prosecutor received Mitya against his will, solely because he had somehow interested his wife—a lady of the highest virtue and moral worth, but fanciful, capricious, and fond of opposing her husband, especially in trifles. Mitya’s visits, however, had not been frequent.)

“Nevertheless I venture to suggest,” Fetyukovitch continued, “that in spite of his independent mind and just character, my opponent may have formed a mistaken prejudice against my unfortunate client. Oh, that is so natural; the unfortunate man has only too well deserved such prejudice. Outraged morality, and still more outraged taste, is often relentless. We have, in the talented prosecutor’s speech, heard a stern analysis of the prisoner’s character and conduct, and his severe critical attitude to the case was evident. And, what’s more, he went into psychological subtleties into which he could not have entered, if he had the least conscious and malicious prejudice against the prisoner. But there are things which are even worse, even more fatal in such cases, than the most malicious and consciously unfair attitude. It is worse if we are carried away by the artistic instinct, by the desire to create, so to speak, a romance, especially if God has endowed us with psychological insight. Before I started on my way here, I was warned in Petersburg, and was myself aware, that I should find here a talented opponent whose psychological insight and subtlety had gained him peculiar renown in legal circles of recent years. But profound as psychology is, it’s a knife that cuts both ways.” (Laughter among the public.) “You will, of course, forgive me my comparison; I can’t boast of eloquence. But I will take as an example any point in the prosecutor’s speech.

“The prisoner, running away in the garden in the dark, climbed over the fence, was seized by the servant, and knocked him down with a brass pestle. Then he jumped back into the garden and spent five minutes over the man, trying to discover whether he had killed him or not. And the prosecutor refuses to believe the prisoner’s statement that he ran to old Grigory out of pity. ‘No,’ he says, ‘such sensibility is impossible at such a moment, that’s unnatural; he ran to find out whether the only witness of his crime was dead or alive, and so showed that he had committed the murder, since he would not have run back for any other reason.’

“Here you have psychology; but let us take the same method and apply it to the case the other way round, and our result will be no less probable. The murderer, we are told, leapt down to find out, as a precaution, whether the witness was alive or not, yet he had left in his murdered father’s study, as the prosecutor himself argues, an amazing piece of evidence in the shape of a torn envelope, with an inscription that there had been three thousand roubles in it. ‘If he had carried that envelope away with him, no one in the world would have known of that envelope and of the notes in it, and that the money had been stolen by the prisoner.’ Those are the prosecutor’s own words. So on one side you see a complete absence of precaution, a man who has lost his head and run away in a fright, leaving that clew on the floor, and two minutes later, when he has killed another man, we are entitled to assume the most heartless and calculating foresight in him. But even admitting this was so, it is psychological subtlety, I suppose, that discerns that under certain circumstances I become as bloodthirsty and keen‐sighted as a Caucasian eagle, while at the next I am as timid and blind as a mole. But if I am so bloodthirsty and cruelly calculating that when I kill a man I only run back to find out whether he is alive to witness against me, why should I spend five minutes looking after my victim at the risk of encountering other witnesses? Why soak my handkerchief, wiping the blood off his head so that it may be evidence against me later? If he were so cold‐hearted and calculating, why not hit the servant on the head again and again with the same pestle so as to kill him outright and relieve himself of all anxiety about the witness?

“Again, though he ran to see whether the witness was alive, he left another witness on the path, that brass pestle which he had taken from the two women, and which they could always recognize afterwards as theirs, and prove that he had taken it from them. And it is not as though he had forgotten it on the path, dropped it through carelessness or haste, no, he had flung away his weapon, for it was found fifteen paces from where Grigory lay. Why did he do so? Just because he was grieved at having killed a man, an old servant; and he flung away the pestle with a curse, as a murderous weapon. That’s how it must have been, what other reason could he have had for throwing it so far? And if he was capable of feeling grief and pity at having killed a man, it shows that he was innocent of his father’s murder. Had he murdered him, he would never have run to another victim out of pity; then he would have felt differently; his thoughts would have been centered on self‐preservation. He would have had none to spare for pity, that is beyond doubt. On the contrary, he would have broken his skull instead of spending five minutes looking after him. There was room for pity and good‐feeling just because his conscience had been clear till then. Here we have a different psychology. I have purposely resorted to this method, gentlemen of the jury, to show that you can prove anything by it. It all depends on who makes use of it. Psychology lures even most serious people into romancing, and quite unconsciously. I am speaking of the abuse of psychology, gentlemen.”

Sounds of approval and laughter, at the expense of the prosecutor, were again audible in the court. I will not repeat the speech in detail; I will only quote some passages from it, some leading points.

Chapter XI.
There Was No Money. There Was No Robbery
There was one point that struck every one in Fetyukovitch’s speech. He flatly denied the existence of the fatal three thousand roubles, and consequently, the possibility of their having been stolen.

“Gentlemen of the jury,” he began. “Every new and unprejudiced observer must be struck by a characteristic peculiarity in the present case, namely, the charge of robbery, and the complete impossibility of proving that there was anything to be stolen. We are told that money was stolen—three thousand roubles—but whether those roubles ever existed, nobody knows. Consider, how have we heard of that sum, and who has seen the notes? The only person who saw them, and stated that they had been put in the envelope, was the servant, Smerdyakov. He had spoken of it to the prisoner and his brother, Ivan Fyodorovitch, before the catastrophe. Madame Svyetlov, too, had been told of it. But not one of these three persons had actually seen the notes, no one but Smerdyakov had seen them.

“Here the question arises, if it’s true that they did exist, and that Smerdyakov had seen them, when did he see them for the last time? What if his master had taken the notes from under his bed and put them back in his cash‐box without telling him? Note, that according to Smerdyakov’s story the notes were kept under the mattress; the prisoner must have pulled them out, and yet the bed was absolutely unrumpled; that is carefully recorded in the protocol. How could the prisoner have found the notes without disturbing the bed? How could he have helped soiling with his blood‐ stained hands the fine and spotless linen with which the bed had been purposely made?

“But I shall be asked: What about the envelope on the floor? Yes, it’s worth saying a word or two about that envelope. I was somewhat surprised just now to hear the highly talented prosecutor declare of himself—of himself, observe—that but for that envelope, but for its being left on the floor, no one in the world would have known of the existence of that envelope and the notes in it, and therefore of the prisoner’s having stolen it. And so that torn scrap of paper is, by the prosecutor’s own admission, the sole proof on which the charge of robbery rests, ‘otherwise no one would have known of the robbery, nor perhaps even of the money.’ But is the mere fact that that scrap of paper was lying on the floor a proof that there was money in it, and that that money had been stolen? Yet, it will be objected, Smerdyakov had seen the money in the envelope. But when, when had he seen it for the last time, I ask you that? I talked to Smerdyakov, and he told me that he had seen the notes two days before the catastrophe. Then why not imagine that old Fyodor Pavlovitch, locked up alone in impatient and hysterical expectation of the object of his adoration, may have whiled away the time by breaking open the envelope and taking out the notes. ‘What’s the use of the envelope?’ he may have asked himself. ‘She won’t believe the notes are there, but when I show her the thirty rainbow‐colored notes in one roll, it will make more impression, you may be sure, it will make her mouth water.’ And so he tears open the envelope, takes out the money, and flings the envelope on the floor, conscious of being the owner and untroubled by any fears of leaving evidence.

“Listen, gentlemen, could anything be more likely than this theory and such an action? Why is it out of the question? But if anything of the sort could have taken place, the charge of robbery falls to the ground; if there was no money, there was no theft of it. If the envelope on the floor may be taken as evidence that there had been money in it, why may I not maintain the opposite, that the envelope was on the floor because the money had been taken from it by its owner?

“But I shall be asked what became of the money if Fyodor Pavlovitch took it out of the envelope since it was not found when the police searched the house? In the first place, part of the money was found in the cash‐box, and secondly, he might have taken it out that morning or the evening before to make some other use of it, to give or send it away; he may have changed his idea, his plan of action completely, without thinking it necessary to announce the fact to Smerdyakov beforehand. And if there is the barest possibility of such an explanation, how can the prisoner be so positively accused of having committed murder for the sake of robbery, and of having actually carried out that robbery? This is encroaching on the domain of romance. If it is maintained that something has been stolen, the thing must be produced, or at least its existence must be proved beyond doubt. Yet no one had ever seen these notes.

“Not long ago in Petersburg a young man of eighteen, hardly more than a boy, who carried on a small business as a costermonger, went in broad daylight into a moneychanger’s shop with an ax, and with extraordinary, typical audacity killed the master of the shop and carried off fifteen hundred roubles. Five hours later he was arrested, and, except fifteen roubles he had already managed to spend, the whole sum was found on him. Moreover, the shopman, on his return to the shop after the murder, informed the police not only of the exact sum stolen, but even of the notes and gold coins of which that sum was made up, and those very notes and coins were found on the criminal. This was followed by a full and genuine confession on the part of the murderer. That’s what I call evidence, gentlemen of the jury! In that case I know, I see, I touch the money, and cannot deny its existence. Is it the same in the present case? And yet it is a question of life and death.

“Yes, I shall be told, but he was carousing that night, squandering money; he was shown to have had fifteen hundred roubles—where did he get the money? But the very fact that only fifteen hundred could be found, and the other half of the sum could nowhere be discovered, shows that that money was not the same, and had never been in any envelope. By strict calculation of time it was proved at the preliminary inquiry that the prisoner ran straight from those women servants to Perhotin’s without going home, and that he had been nowhere. So he had been all the time in company and therefore could not have divided the three thousand in half and hidden half in the town. It’s just this consideration that has led the prosecutor to assume that the money is hidden in some crevice at Mokroe. Why not in the dungeons of the castle of Udolpho, gentlemen? Isn’t this supposition really too fantastic and too romantic? And observe, if that supposition breaks down, the whole charge of robbery is scattered to the winds, for in that case what could have become of the other fifteen hundred roubles? By what miracle could they have disappeared, since it’s proved the prisoner went nowhere else? And we are ready to ruin a man’s life with such tales!

“I shall be told that he could not explain where he got the fifteen hundred that he had, and every one knew that he was without money before that night. Who knew it, pray? The prisoner has made a clear and unflinching statement of the source of that money, and if you will have it so, gentlemen of the jury, nothing can be more probable than that statement, and more consistent with the temper and spirit of the prisoner. The prosecutor is charmed with his own romance. A man of weak will, who had brought himself to take the three thousand so insultingly offered by his betrothed, could not, we are told, have set aside half and sewn it up, but would, even if he had done so, have unpicked it every two days and taken out a hundred, and so would have spent it all in a month. All this, you will remember, was put forward in a tone that brooked no contradiction. But what if the thing happened quite differently? What if you’ve been weaving a romance, and about quite a different kind of man? That’s just it, you have invented quite a different man!

“I shall be told, perhaps, there are witnesses that he spent on one day all that three thousand given him by his betrothed a month before the catastrophe, so he could not have divided the sum in half. But who are these witnesses? The value of their evidence has been shown in court already. Besides, in another man’s hand a crust always seems larger, and no one of these witnesses counted that money; they all judged simply at sight. And the witness Maximov has testified that the prisoner had twenty thousand in his hand. You see, gentlemen of the jury, psychology is a two‐ edged weapon. Let me turn the other edge now and see what comes of it.

“A month before the catastrophe the prisoner was entrusted by Katerina Ivanovna with three thousand roubles to send off by post. But the question is: is it true that they were entrusted to him in such an insulting and degrading way as was proclaimed just now? The first statement made by the young lady on the subject was different, perfectly different. In the second statement we heard only cries of resentment and revenge, cries of long‐concealed hatred. And the very fact that the witness gave her first evidence incorrectly, gives us a right to conclude that her second piece of evidence may have been incorrect also. The prosecutor will not, dare not (his own words) touch on that story. So be it. I will not touch on it either, but will only venture to observe that if a lofty and high‐ principled person, such as that highly respected young lady unquestionably is, if such a person, I say, allows herself suddenly in court to contradict her first statement, with the obvious motive of ruining the prisoner, it is clear that this evidence has been given not impartially, not coolly. Have not we the right to assume that a revengeful woman might have exaggerated much? Yes, she may well have exaggerated, in particular, the insult and humiliation of her offering him the money. No, it was offered in such a way that it was possible to take it, especially for a man so easy‐going as the prisoner, above all, as he expected to receive shortly from his father the three thousand roubles that he reckoned was owing to him. It was unreflecting of him, but it was just his irresponsible want of reflection that made him so confident that his father would give him the money, that he would get it, and so could always dispatch the money entrusted to him and repay the debt.

“But the prosecutor refuses to allow that he could the same day have set aside half the money and sewn it up in a little bag. That’s not his character, he tells us, he couldn’t have had such feelings. But yet he talked himself of the broad Karamazov nature; he cried out about the two extremes which a Karamazov can contemplate at once. Karamazov is just such a two‐sided nature, fluctuating between two extremes, that even when moved by the most violent craving for riotous gayety, he can pull himself up, if something strikes him on the other side. And on the other side is love—that new love which had flamed up in his heart, and for that love he needed money; oh, far more than for carousing with his mistress. If she were to say to him, ‘I am yours, I won’t have Fyodor Pavlovitch,’ then he must have money to take her away. That was more important than carousing. Could a Karamazov fail to understand it? That anxiety was just what he was suffering from—what is there improbable in his laying aside that money and concealing it in case of emergency?

“But time passed, and Fyodor Pavlovitch did not give the prisoner the expected three thousand; on the contrary, the latter heard that he meant to use this sum to seduce the woman he, the prisoner, loved. ‘If Fyodor Pavlovitch doesn’t give the money,’ he thought, ‘I shall be put in the position of a thief before Katerina Ivanovna.’ And then the idea presented itself to him that he would go to Katerina Ivanovna, lay before her the fifteen hundred roubles he still carried round his neck, and say, ‘I am a scoundrel, but not a thief.’ So here we have already a twofold reason why he should guard that sum of money as the apple of his eye, why he shouldn’t unpick the little bag, and spend it a hundred at a time. Why should you deny the prisoner a sense of honor? Yes, he has a sense of honor, granted that it’s misplaced, granted it’s often mistaken, yet it exists and amounts to a passion, and he has proved that.

“But now the affair becomes even more complex; his jealous torments reach a climax, and those same two questions torture his fevered brain more and more: ‘If I repay Katerina Ivanovna, where can I find the means to go off with Grushenka?’ If he behaved wildly, drank, and made disturbances in the taverns in the course of that month, it was perhaps because he was wretched and strained beyond his powers of endurance. These two questions became so acute that they drove him at last to despair. He sent his younger brother to beg for the last time for the three thousand roubles, but without waiting for a reply, burst in himself and ended by beating the old man in the presence of witnesses. After that he had no prospect of getting it from any one; his father would not give it him after that beating.

“The same evening he struck himself on the breast, just on the upper part of the breast where the little bag was, and swore to his brother that he had the means of not being a scoundrel, but that still he would remain a scoundrel, for he foresaw that he would not use that means, that he wouldn’t have the character, that he wouldn’t have the will‐power to do it. Why, why does the prosecutor refuse to believe the evidence of Alexey Karamazov, given so genuinely and sincerely, so spontaneously and convincingly? And why, on the contrary, does he force me to believe in money hidden in a crevice, in the dungeons of the castle of Udolpho?

“The same evening, after his talk with his brother, the prisoner wrote that fatal letter, and that letter is the chief, the most stupendous proof of the prisoner having committed robbery! ‘I shall beg from every one, and if I don’t get it I shall murder my father and shall take the envelope with the pink ribbon on it from under his mattress as soon as Ivan has gone.’ A full program of the murder, we are told, so it must have been he. ‘It has all been done as he wrote,’ cries the prosecutor.

“But in the first place, it’s the letter of a drunken man and written in great irritation; secondly, he writes of the envelope from what he has heard from Smerdyakov again, for he has not seen the envelope himself; and thirdly, he wrote it indeed, but how can you prove that he did it? Did the prisoner take the envelope from under the pillow, did he find the money, did that money exist indeed? And was it to get money that the prisoner ran off, if you remember? He ran off post‐haste not to steal, but to find out where she was, the woman who had crushed him. He was not running to carry out a program, to carry out what he had written, that is, not for an act of premeditated robbery, but he ran suddenly, spontaneously, in a jealous fury. Yes! I shall be told, but when he got there and murdered him he seized the money, too. But did he murder him after all? The charge of robbery I repudiate with indignation. A man cannot be accused of robbery, if it’s impossible to state accurately what he has stolen; that’s an axiom. But did he murder him without robbery, did he murder him at all? Is that proved? Isn’t that, too, a romance?”

Chapter XII.
And There Was No Murder Either
“Allow me, gentlemen of the jury, to remind you that a man’s life is at stake and that you must be careful. We have heard the prosecutor himself admit that until to‐day he hesitated to accuse the prisoner of a full and conscious premeditation of the crime; he hesitated till he saw that fatal drunken letter which was produced in court to‐day. ‘All was done as written.’ But, I repeat again, he was running to her, to seek her, solely to find out where she was. That’s a fact that can’t be disputed. Had she been at home, he would not have run away, but would have remained at her side, and so would not have done what he promised in the letter. He ran unexpectedly and accidentally, and by that time very likely he did not even remember his drunken letter. ‘He snatched up the pestle,’ they say, and you will remember how a whole edifice of psychology was built on that pestle—why he was bound to look at that pestle as a weapon, to snatch it up, and so on, and so on. A very commonplace idea occurs to me at this point: What if that pestle had not been in sight, had not been lying on the shelf from which it was snatched by the prisoner, but had been put away in a cupboard? It would not have caught the prisoner’s eye, and he would have run away without a weapon, with empty hands, and then he would certainly not have killed any one. How then can I look upon the pestle as a proof of premeditation?

“Yes, but he talked in the taverns of murdering his father, and two days before, on the evening when he wrote his drunken letter, he was quiet and only quarreled with a shopman in the tavern, because a Karamazov could not help quarreling, forsooth! But my answer to that is, that, if he was planning such a murder in accordance with his letter, he certainly would not have quarreled even with a shopman, and probably would not have gone into the tavern at all, because a person plotting such a crime seeks quiet and retirement, seeks to efface himself, to avoid being seen and heard, and that not from calculation, but from instinct. Gentlemen of the jury, the psychological method is a two‐edged weapon, and we, too, can use it. As for all this shouting in taverns throughout the month, don’t we often hear children, or drunkards coming out of taverns shout, ‘I’ll kill you’? but they don’t murder any one. And that fatal letter—isn’t that simply drunken irritability, too? Isn’t that simply the shout of the brawler outside the tavern, ‘I’ll kill you! I’ll kill the lot of you!’ Why not, why could it not be that? What reason have we to call that letter ‘fatal’ rather than absurd? Because his father has been found murdered, because a witness saw the prisoner running out of the garden with a weapon in his hand, and was knocked down by him: therefore, we are told, everything was done as he had planned in writing, and the letter was not ‘absurd,’ but ‘fatal.’

“Now, thank God! we’ve come to the real point: ‘since he was in the garden, he must have murdered him.’ In those few words: ‘since he was, then he must’ lies the whole case for the prosecution. He was there, so he must have. And what if there is no must about it, even if he was there? Oh, I admit that the chain of evidence—the coincidences—are really suggestive. But examine all these facts separately, regardless of their connection. Why, for instance, does the prosecution refuse to admit the truth of the prisoner’s statement that he ran away from his father’s window? Remember the sarcasms in which the prosecutor indulged at the expense of the respectful and ‘pious’ sentiments which suddenly came over the murderer. But what if there were something of the sort, a feeling of religious awe, if not of filial respect? ‘My mother must have been praying for me at that moment,’ were the prisoner’s words at the preliminary inquiry, and so he ran away as soon as he convinced himself that Madame Svyetlov was not in his father’s house. ‘But he could not convince himself by looking through the window,’ the prosecutor objects. But why couldn’t he? Why? The window opened at the signals given by the prisoner. Some word might have been uttered by Fyodor Pavlovitch, some exclamation which showed the prisoner that she was not there. Why should we assume everything as we imagine it, as we make up our minds to imagine it? A thousand things may happen in reality which elude the subtlest imagination.

“ ‘Yes, but Grigory saw the door open and so the prisoner certainly was in the house, therefore he killed him.’ Now about that door, gentlemen of the jury…. Observe that we have only the statement of one witness as to that door, and he was at the time in such a condition, that— But supposing the door was open; supposing the prisoner has lied in denying it, from an instinct of self‐defense, natural in his position; supposing he did go into the house—well, what then? How does it follow that because he was there he committed the murder? He might have dashed in, run through the rooms; might have pushed his father away; might have struck him; but as soon as he had made sure Madame Svyetlov was not there, he may have run away rejoicing that she was not there and that he had not killed his father. And it was perhaps just because he had escaped from the temptation to kill his father, because he had a clear conscience and was rejoicing at not having killed him, that he was capable of a pure feeling, the feeling of pity and compassion, and leapt off the fence a minute later to the assistance of Grigory after he had, in his excitement, knocked him down.

“With terrible eloquence the prosecutor has described to us the dreadful state of the prisoner’s mind at Mokroe when love again lay before him calling him to new life, while love was impossible for him because he had his father’s bloodstained corpse behind him and beyond that corpse—retribution. And yet the prosecutor allowed him love, which he explained, according to his method, talking about his drunken condition, about a criminal being taken to execution, about it being still far off, and so on and so on. But again I ask, Mr. Prosecutor, have you not invented a new personality? Is the prisoner so coarse and heartless as to be able to think at that moment of love and of dodges to escape punishment, if his hands were really stained with his father’s blood? No, no, no! As soon as it was made plain to him that she loved him and called him to her side, promising him new happiness, oh! then, I protest he must have felt the impulse to suicide doubled, trebled, and must have killed himself, if he had his father’s murder on his conscience. Oh, no! he would not have forgotten where his pistols lay! I know the prisoner: the savage, stony heartlessness ascribed to him by the prosecutor is inconsistent with his character. He would have killed himself, that’s certain. He did not kill himself just because ‘his mother’s prayers had saved him,’ and he was innocent of his father’s blood. He was troubled, he was grieving that night at Mokroe only about old Grigory and praying to God that the old man would recover, that his blow had not been fatal, and that he would not have to suffer for it. Why not accept such an interpretation of the facts? What trustworthy proof have we that the prisoner is lying?

“But we shall be told at once again, ‘There is his father’s corpse! If he ran away without murdering him, who did murder him?’ Here, I repeat, you have the whole logic of the prosecution. Who murdered him, if not he? There’s no one to put in his place.

“Gentlemen of the jury, is that really so? Is it positively, actually true that there is no one else at all? We’ve heard the prosecutor count on his fingers all the persons who were in that house that night. They were five in number; three of them, I agree, could not have been responsible—the murdered man himself, old Grigory, and his wife. There are left then the prisoner and Smerdyakov, and the prosecutor dramatically exclaims that the prisoner pointed to Smerdyakov because he had no one else to fix on, that had there been a sixth person, even a phantom of a sixth person, he would have abandoned the charge against Smerdyakov at once in shame and have accused that other. But, gentlemen of the jury, why may I not draw the very opposite conclusion? There are two persons—the prisoner and Smerdyakov. Why can I not say that you accuse my client, simply because you have no one else to accuse? And you have no one else only because you have determined to exclude Smerdyakov from all suspicion.

“It’s true, indeed, Smerdyakov is accused only by the prisoner, his two brothers, and Madame Svyetlov. But there are others who accuse him: there are vague rumors of a question, of a suspicion, an obscure report, a feeling of expectation. Finally, we have the evidence of a combination of facts very suggestive, though, I admit, inconclusive. In the first place we have precisely on the day of the catastrophe that fit, for the genuineness of which the prosecutor, for some reason, has felt obliged to make a careful defense. Then Smerdyakov’s sudden suicide on the eve of the trial. Then the equally startling evidence given in court to‐day by the elder of the prisoner’s brothers, who had believed in his guilt, but has to‐day produced a bundle of notes and proclaimed Smerdyakov as the murderer. Oh, I fully share the court’s and the prosecutor’s conviction that Ivan Karamazov is suffering from brain fever, that his statement may really be a desperate effort, planned in delirium, to save his brother by throwing the guilt on the dead man. But again Smerdyakov’s name is pronounced, again there is a suggestion of mystery. There is something unexplained, incomplete. And perhaps it may one day be explained. But we won’t go into that now. Of that later.

“The court has resolved to go on with the trial, but, meantime, I might make a few remarks about the character‐sketch of Smerdyakov drawn with subtlety and talent by the prosecutor. But while I admire his talent I cannot agree with him. I have visited Smerdyakov, I have seen him and talked to him, and he made a very different impression on me. He was weak in health, it is true; but in character, in spirit, he was by no means the weak man the prosecutor has made him out to be. I found in him no trace of the timidity on which the prosecutor so insisted. There was no simplicity about him, either. I found in him, on the contrary, an extreme mistrustfulness concealed under a mask of naïveté, and an intelligence of considerable range. The prosecutor was too simple in taking him for weak‐minded. He made a very definite impression on me: I left him with the conviction that he was a distinctly spiteful creature, excessively ambitious, vindictive, and intensely envious. I made some inquiries: he resented his parentage, was ashamed of it, and would clench his teeth when he remembered that he was the son of ‘stinking Lizaveta.’ He was disrespectful to the servant Grigory and his wife, who had cared for him in his childhood. He cursed and jeered at Russia. He dreamed of going to France and becoming a Frenchman. He used often to say that he hadn’t the means to do so. I fancy he loved no one but himself and had a strangely high opinion of himself. His conception of culture was limited to good clothes, clean shirt‐fronts and polished boots. Believing himself to be the illegitimate son of Fyodor Pavlovitch (there is evidence of this), he might well have resented his position, compared with that of his master’s legitimate sons. They had everything, he nothing. They had all the rights, they had the inheritance, while he was only the cook. He told me himself that he had helped Fyodor Pavlovitch to put the notes in the envelope. The destination of that sum—a sum which would have made his career—must have been hateful to him. Moreover, he saw three thousand roubles in new rainbow‐colored notes. (I asked him about that on purpose.) Oh, beware of showing an ambitious and envious man a large sum of money at once! And it was the first time he had seen so much money in the hands of one man. The sight of the rainbow‐colored notes may have made a morbid impression on his imagination, but with no immediate results.

“The talented prosecutor, with extraordinary subtlety, sketched for us all the arguments for and against the hypothesis of Smerdyakov’s guilt, and asked us in particular what motive he had in feigning a fit. But he may not have been feigning at all, the fit may have happened quite naturally, but it may have passed off quite naturally, and the sick man may have recovered, not completely perhaps, but still regaining consciousness, as happens with epileptics.

“The prosecutor asks at what moment could Smerdyakov have committed the murder. But it is very easy to point out that moment. He might have waked up from deep sleep (for he was only asleep—an epileptic fit is always followed by a deep sleep) at that moment when the old Grigory shouted at the top of his voice ‘Parricide!’ That shout in the dark and stillness may have waked Smerdyakov whose sleep may have been less sound at the moment: he might naturally have waked up an hour before.

“Getting out of bed, he goes almost unconsciously and with no definite motive towards the sound to see what’s the matter. His head is still clouded with his attack, his faculties are half asleep; but, once in the garden, he walks to the lighted windows and he hears terrible news from his master, who would be, of course, glad to see him. His mind sets to work at once. He hears all the details from his frightened master, and gradually in his disordered brain there shapes itself an idea—terrible, but seductive and irresistibly logical. To kill the old man, take the three thousand, and throw all the blame on to his young master. A terrible lust of money, of booty, might seize upon him as he realized his security from detection. Oh! these sudden and irresistible impulses come so often when there is a favorable opportunity, and especially with murderers who have had no idea of committing a murder beforehand. And Smerdyakov may have gone in and carried out his plan. With what weapon? Why, with any stone picked up in the garden. But what for, with what object? Why, the three thousand which means a career for him. Oh, I am not contradicting myself—the money may have existed. And perhaps Smerdyakov alone knew where to find it, where his master kept it. And the covering of the money—the torn envelope on the floor?

“Just now, when the prosecutor was explaining his subtle theory that only an inexperienced thief like Karamazov would have left the envelope on the floor, and not one like Smerdyakov, who would have avoided leaving a piece of evidence against himself, I thought as I listened that I was hearing something very familiar, and, would you believe it, I have heard that very argument, that very conjecture, of how Karamazov would have behaved, precisely two days before, from Smerdyakov himself. What’s more, it struck me at the time. I fancied that there was an artificial simplicity about him; that he was in a hurry to suggest this idea to me that I might fancy it was my own. He insinuated it, as it were. Did he not insinuate the same idea at the inquiry and suggest it to the talented prosecutor?

“I shall be asked, ‘What about the old woman, Grigory’s wife? She heard the sick man moaning close by, all night.’ Yes, she heard it, but that evidence is extremely unreliable. I knew a lady who complained bitterly that she had been kept awake all night by a dog in the yard. Yet the poor beast, it appeared, had only yelped once or twice in the night. And that’s natural. If any one is asleep and hears a groan he wakes up, annoyed at being waked, but instantly falls asleep again. Two hours later, again a groan, he wakes up and falls asleep again; and the same thing again two hours later—three times altogether in the night. Next morning the sleeper wakes up and complains that some one has been groaning all night and keeping him awake. And it is bound to seem so to him: the intervals of two hours of sleep he does not remember, he only remembers the moments of waking, so he feels he has been waked up all night.

“But why, why, asks the prosecutor, did not Smerdyakov confess in his last letter? Why did his conscience prompt him to one step and not to both? But, excuse me, conscience implies penitence, and the suicide may not have felt penitence, but only despair. Despair and penitence are two very different things. Despair may be vindictive and irreconcilable, and the suicide, laying his hands on himself, may well have felt redoubled hatred for those whom he had envied all his life.

“Gentlemen of the jury, beware of a miscarriage of justice! What is there unlikely in all I have put before you just now? Find the error in my reasoning; find the impossibility, the absurdity. And if there is but a shade of possibility, but a shade of probability in my propositions, do not condemn him. And is there only a shade? I swear by all that is sacred, I fully believe in the explanation of the murder I have just put forward. What troubles me and makes me indignant is that of all the mass of facts heaped up by the prosecution against the prisoner, there is not a single one certain and irrefutable. And yet the unhappy man is to be ruined by the accumulation of these facts. Yes, the accumulated effect is awful: the blood, the blood dripping from his fingers, the bloodstained shirt, the dark night resounding with the shout ‘Parricide!’ and the old man falling with a broken head. And then the mass of phrases, statements, gestures, shouts! Oh! this has so much influence, it can so bias the mind; but, gentlemen of the jury, can it bias your minds? Remember, you have been given absolute power to bind and to loose, but the greater the power, the more terrible its responsibility.

“I do not draw back one iota from what I have said just now, but suppose for one moment I agreed with the prosecution that my luckless client had stained his hands with his father’s blood. This is only hypothesis, I repeat; I never for one instant doubt of his innocence. But, so be it, I assume that my client is guilty of parricide. Even so, hear what I have to say. I have it in my heart to say something more to you, for I feel that there must be a great conflict in your hearts and minds…. Forgive my referring to your hearts and minds, gentlemen of the jury, but I want to be truthful and sincere to the end. Let us all be sincere!”

At this point the speech was interrupted by rather loud applause. The last words, indeed, were pronounced with a note of such sincerity that every one felt that he really might have something to say, and that what he was about to say would be of the greatest consequence. But the President, hearing the applause, in a loud voice threatened to clear the court if such an incident were repeated. Every sound was hushed and Fetyukovitch began in a voice full of feeling quite unlike the tone he had used hitherto.

Chapter XIII.
A Corrupter Of Thought
“It’s not only the accumulation of facts that threatens my client with ruin, gentlemen of the jury,” he began, “what is really damning for my client is one fact—the dead body of his father. Had it been an ordinary case of murder you would have rejected the charge in view of the triviality, the incompleteness, and the fantastic character of the evidence, if you examine each part of it separately; or, at least, you would have hesitated to ruin a man’s life simply from the prejudice against him which he has, alas! only too well deserved. But it’s not an ordinary case of murder, it’s a case of parricide. That impresses men’s minds, and to such a degree that the very triviality and incompleteness of the evidence becomes less trivial and less incomplete even to an unprejudiced mind. How can such a prisoner be acquitted? What if he committed the murder and gets off unpunished? That is what every one, almost involuntarily, instinctively, feels at heart.

“Yes, it’s a fearful thing to shed a father’s blood—the father who has begotten me, loved me, not spared his life for me, grieved over my illnesses from childhood up, troubled all his life for my happiness, and has lived in my joys, in my successes. To murder such a father—that’s inconceivable. Gentlemen of the jury, what is a father—a real father? What is the meaning of that great word? What is the great idea in that name? We have just indicated in part what a true father is and what he ought to be. In the case in which we are now so deeply occupied and over which our hearts are aching—in the present case, the father, Fyodor Pavlovitch Karamazov, did not correspond to that conception of a father to which we have just referred. That’s the misfortune. And indeed some fathers are a misfortune. Let us examine this misfortune rather more closely: we must shrink from nothing, gentlemen of the jury, considering the importance of the decision you have to make. It’s our particular duty not to shrink from any idea, like children or frightened women, as the talented prosecutor happily expresses it.

“But in the course of his heated speech my esteemed opponent (and he was my opponent before I opened my lips) exclaimed several times, ‘Oh, I will not yield the defense of the prisoner to the lawyer who has come down from Petersburg. I accuse, but I defend also!’ He exclaimed that several times, but forgot to mention that if this terrible prisoner was for twenty‐three years so grateful for a mere pound of nuts given him by the only man who had been kind to him, as a child in his father’s house, might not such a man well have remembered for twenty‐three years how he ran in his father’s back‐yard, ‘without boots on his feet and with his little trousers hanging by one button’—to use the expression of the kind‐hearted doctor, Herzenstube?

“Oh, gentlemen of the jury, why need we look more closely at this misfortune, why repeat what we all know already? What did my client meet with when he arrived here, at his father’s house, and why depict my client as a heartless egoist and monster? He is uncontrolled, he is wild and unruly—we are trying him now for that—but who is responsible for his life? Who is responsible for his having received such an unseemly bringing up, in spite of his excellent disposition and his grateful and sensitive heart? Did any one train him to be reasonable? Was he enlightened by study? Did any one love him ever so little in his childhood? My client was left to the care of Providence like a beast of the field. He thirsted perhaps to see his father after long years of separation. A thousand times perhaps he may, recalling his childhood, have driven away the loathsome phantoms that haunted his childish dreams and with all his heart he may have longed to embrace and to forgive his father! And what awaited him? He was met by cynical taunts, suspicions and wrangling about money. He heard nothing but revolting talk and vicious precepts uttered daily over the brandy, and at last he saw his father seducing his mistress from him with his own money. Oh, gentlemen of the jury, that was cruel and revolting! And that old man was always complaining of the disrespect and cruelty of his son. He slandered him in society, injured him, calumniated him, bought up his unpaid debts to get him thrown into prison.

“Gentlemen of the jury, people like my client, who are fierce, unruly, and uncontrolled on the surface, are sometimes, most frequently indeed, exceedingly tender‐hearted, only they don’t express it. Don’t laugh, don’t laugh at my idea! The talented prosecutor laughed mercilessly just now at my client for loving Schiller—loving the sublime and beautiful! I should not have laughed at that in his place. Yes, such natures—oh, let me speak in defense of such natures, so often and so cruelly misunderstood—these natures often thirst for tenderness, goodness, and justice, as it were, in contrast to themselves, their unruliness, their ferocity—they thirst for it unconsciously. Passionate and fierce on the surface, they are painfully capable of loving woman, for instance, and with a spiritual and elevated love. Again do not laugh at me, this is very often the case in such natures. But they cannot hide their passions—sometimes very coarse—and that is conspicuous and is noticed, but the inner man is unseen. Their passions are quickly exhausted; but, by the side of a noble and lofty creature that seemingly coarse and rough man seeks a new life, seeks to correct himself, to be better, to become noble and honorable, ‘sublime and beautiful,’ however much the expression has been ridiculed.

“I said just now that I would not venture to touch upon my client’s engagement. But I may say half a word. What we heard just now was not evidence, but only the scream of a frenzied and revengeful woman, and it was not for her—oh, not for her!—to reproach him with treachery, for she has betrayed him! If she had had but a little time for reflection she would not have given such evidence. Oh, do not believe her! No, my client is not a monster, as she called him!

“The Lover of Mankind on the eve of His Crucifixion said: ‘I am the Good Shepherd. The good shepherd lays down his life for his sheep, so that not one of them might be lost.’ Let not a man’s soul be lost through us!

“I asked just now what does ‘father’ mean, and exclaimed that it was a great word, a precious name. But one must use words honestly, gentlemen, and I venture to call things by their right names: such a father as old Karamazov cannot be called a father and does not deserve to be. Filial love for an unworthy father is an absurdity, an impossibility. Love cannot be created from nothing: only God can create something from nothing.

“ ‘Fathers, provoke not your children to wrath,’ the apostle writes, from a heart glowing with love. It’s not for the sake of my client that I quote these sacred words, I mention them for all fathers. Who has authorized me to preach to fathers? No one. But as a man and a citizen I make my appeal—vivos voco! We are not long on earth, we do many evil deeds and say many evil words. So let us all catch a favorable moment when we are all together to say a good word to each other. That’s what I am doing: while I am in this place I take advantage of my opportunity. Not for nothing is this tribune given us by the highest authority—all Russia hears us! I am not speaking only for the fathers here present, I cry aloud to all fathers: ‘Fathers, provoke not your children to wrath.’ Yes, let us first fulfill Christ’s injunction ourselves and only then venture to expect it of our children. Otherwise we are not fathers, but enemies of our children, and they are not our children, but our enemies, and we have made them our enemies ourselves. ‘What measure ye mete it shall be measured unto you again’—it’s not I who say that, it’s the Gospel precept, measure to others according as they measure to you. How can we blame children if they measure us according to our measure?

“Not long ago a servant girl in Finland was suspected of having secretly given birth to a child. She was watched, and a box of which no one knew anything was found in the corner of the loft, behind some bricks. It was opened and inside was found the body of a new‐born child which she had killed. In the same box were found the skeletons of two other babies which, according to her own confession, she had killed at the moment of their birth.

“Gentlemen of the jury, was she a mother to her children? She gave birth to them, indeed; but was she a mother to them? Would any one venture to give her the sacred name of mother? Let us be bold, gentlemen, let us be audacious even: it’s our duty to be so at this moment and not to be afraid of certain words and ideas like the Moscow women in Ostrovsky’s play, who are scared at the sound of certain words. No, let us prove that the progress of the last few years has touched even us, and let us say plainly, the father is not merely he who begets the child, but he who begets it and does his duty by it.

“Oh, of course, there is the other meaning, there is the other interpretation of the word ‘father,’ which insists that any father, even though he be a monster, even though he be the enemy of his children, still remains my father simply because he begot me. But this is, so to say, the mystical meaning which I cannot comprehend with my intellect, but can only accept by faith, or, better to say, on faith, like many other things which I do not understand, but which religion bids me believe. But in that case let it be kept outside the sphere of actual life. In the sphere of actual life, which has, indeed, its own rights, but also lays upon us great duties and obligations, in that sphere, if we want to be humane—Christian, in fact—we must, or ought to, act only upon convictions justified by reason and experience, which have been passed through the crucible of analysis; in a word, we must act rationally, and not as though in dream and delirium, that we may not do harm, that we may not ill‐treat and ruin a man. Then it will be real Christian work, not only mystic, but rational and philanthropic….”

There was violent applause at this passage from many parts of the court, but Fetyukovitch waved his hands as though imploring them to let him finish without interruption. The court relapsed into silence at once. The orator went on.

“Do you suppose, gentlemen, that our children as they grow up and begin to reason can avoid such questions? No, they cannot, and we will not impose on them an impossible restriction. The sight of an unworthy father involuntarily suggests tormenting questions to a young creature, especially when he compares him with the excellent fathers of his companions. The conventional answer to this question is: ‘He begot you, and you are his flesh and blood, and therefore you are bound to love him.’ The youth involuntarily reflects: ‘But did he love me when he begot me?’ he asks, wondering more and more. ‘Was it for my sake he begot me? He did not know me, not even my sex, at that moment, at the moment of passion, perhaps, inflamed by wine, and he has only transmitted to me a propensity to drunkenness—that’s all he’s done for me…. Why am I bound to love him simply for begetting me when he has cared nothing for me all my life after?’

“Oh, perhaps those questions strike you as coarse and cruel, but do not expect an impossible restraint from a young mind. ‘Drive nature out of the door and it will fly in at the window,’ and, above all, let us not be afraid of words, but decide the question according to the dictates of reason and humanity and not of mystic ideas. How shall it be decided? Why, like this. Let the son stand before his father and ask him, ‘Father, tell me, why must I love you? Father, show me that I must love you,’ and if that father is able to answer him and show him good reason, we have a real, normal, parental relation, not resting on mystical prejudice, but on a rational, responsible and strictly humanitarian basis. But if he does not, there’s an end to the family tie. He is not a father to him, and the son has a right to look upon him as a stranger, and even an enemy. Our tribune, gentlemen of the jury, ought to be a school of true and sound ideas.”

(Here the orator was interrupted by irrepressible and almost frantic applause. Of course, it was not the whole audience, but a good half of it applauded. The fathers and mothers present applauded. Shrieks and exclamations were heard from the gallery, where the ladies were sitting. Handkerchiefs were waved. The President began ringing his bell with all his might. He was obviously irritated by the behavior of the audience, but did not venture to clear the court as he had threatened. Even persons of high position, old men with stars on their breasts, sitting on specially reserved seats behind the judges, applauded the orator and waved their handkerchiefs. So that when the noise died down, the President confined himself to repeating his stern threat to clear the court, and Fetyukovitch, excited and triumphant, continued his speech.)

“Gentlemen of the jury, you remember that awful night of which so much has been said to‐day, when the son got over the fence and stood face to face with the enemy and persecutor who had begotten him. I insist most emphatically it was not for money he ran to his father’s house: the charge of robbery is an absurdity, as I proved before. And it was not to murder him he broke into the house, oh, no! If he had had that design he would, at least, have taken the precaution of arming himself beforehand. The brass pestle he caught up instinctively without knowing why he did it. Granted that he deceived his father by tapping at the window, granted that he made his way in—I’ve said already that I do not for a moment believe that legend, but let it be so, let us suppose it for a moment. Gentlemen, I swear to you by all that’s holy, if it had not been his father, but an ordinary enemy, he would, after running through the rooms and satisfying himself that the woman was not there, have made off, post‐haste, without doing any harm to his rival. He would have struck him, pushed him away perhaps, nothing more, for he had no thought and no time to spare for that. What he wanted to know was where she was. But his father, his father! The mere sight of the father who had hated him from his childhood, had been his enemy, his persecutor, and now his unnatural rival, was enough! A feeling of hatred came over him involuntarily, irresistibly, clouding his reason. It all surged up in one moment! It was an impulse of madness and insanity, but also an impulse of nature, irresistibly and unconsciously (like everything in nature) avenging the violation of its eternal laws.

“But the prisoner even then did not murder him—I maintain that, I cry that aloud!—no, he only brandished the pestle in a burst of indignant disgust, not meaning to kill him, not knowing that he would kill him. Had he not had this fatal pestle in his hand, he would have only knocked his father down perhaps, but would not have killed him. As he ran away, he did not know whether he had killed the old man. Such a murder is not a murder. Such a murder is not a parricide. No, the murder of such a father cannot be called parricide. Such a murder can only be reckoned parricide by prejudice.

“But I appeal to you again and again from the depths of my soul; did this murder actually take place? Gentlemen of the jury, if we convict and punish him, he will say to himself: ‘These people have done nothing for my bringing up, for my education, nothing to improve my lot, nothing to make me better, nothing to make me a man. These people have not given me to eat and to drink, have not visited me in prison and nakedness, and here they have sent me to penal servitude. I am quits, I owe them nothing now, and owe no one anything for ever. They are wicked and I will be wicked. They are cruel and I will be cruel.’ That is what he will say, gentlemen of the jury. And I swear, by finding him guilty you will only make it easier for him: you will ease his conscience, he will curse the blood he has shed and will not regret it. At the same time you will destroy in him the possibility of becoming a new man, for he will remain in his wickedness and blindness all his life.

“But do you want to punish him fearfully, terribly, with the most awful punishment that could be imagined, and at the same time to save him and regenerate his soul? If so, overwhelm him with your mercy! You will see, you will hear how he will tremble and be horror‐struck. ‘How can I endure this mercy? How can I endure so much love? Am I worthy of it?’ That’s what he will exclaim.

“Oh, I know, I know that heart, that wild but grateful heart, gentlemen of the jury! It will bow before your mercy; it thirsts for a great and loving action, it will melt and mount upwards. There are souls which, in their limitation, blame the whole world. But subdue such a soul with mercy, show it love, and it will curse its past, for there are many good impulses in it. Such a heart will expand and see that God is merciful and that men are good and just. He will be horror‐stricken; he will be crushed by remorse and the vast obligation laid upon him henceforth. And he will not say then, ‘I am quits,’ but will say, ‘I am guilty in the sight of all men and am more unworthy than all.’ With tears of penitence and poignant, tender anguish, he will exclaim: ‘Others are better than I, they wanted to save me, not to ruin me!’ Oh, this act of mercy is so easy for you, for in the absence of anything like real evidence it will be too awful for you to pronounce: ‘Yes, he is guilty.’

“Better acquit ten guilty men than punish one innocent man! Do you hear, do you hear that majestic voice from the past century of our glorious history? It is not for an insignificant person like me to remind you that the Russian court does not exist for the punishment only, but also for the salvation of the criminal! Let other nations think of retribution and the letter of the law, we will cling to the spirit and the meaning—the salvation and the reformation of the lost. If this is true, if Russia and her justice are such, she may go forward with good cheer! Do not try to scare us with your frenzied troikas from which all the nations stand aside in disgust. Not a runaway troika, but the stately chariot of Russia will move calmly and majestically to its goal. In your hands is the fate of my client, in your hands is the fate of Russian justice. You will defend it, you will save it, you will prove that there are men to watch over it, that it is in good hands!”

Chapter XIV.
The Peasants Stand Firm
This was how Fetyukovitch concluded his speech, and the enthusiasm of the audience burst like an irresistible storm. It was out of the question to stop it: the women wept, many of the men wept too, even two important personages shed tears. The President submitted, and even postponed ringing his bell. The suppression of such an enthusiasm would be the suppression of something sacred, as the ladies cried afterwards. The orator himself was genuinely touched.

And it was at this moment that Ippolit Kirillovitch got up to make certain objections. People looked at him with hatred. “What? What’s the meaning of it? He positively dares to make objections,” the ladies babbled. But if the whole world of ladies, including his wife, had protested he could not have been stopped at that moment. He was pale, he was shaking with emotion, his first phrases were even unintelligible, he gasped for breath, could hardly speak clearly, lost the thread. But he soon recovered himself. Of this new speech of his I will quote only a few sentences.

“… I am reproached with having woven a romance. But what is this defense if not one romance on the top of another? All that was lacking was poetry. Fyodor Pavlovitch, while waiting for his mistress, tears open the envelope and throws it on the floor. We are even told what he said while engaged in this strange act. Is not this a flight of fancy? And what proof have we that he had taken out the money? Who heard what he said? The weak‐minded idiot, Smerdyakov, transformed into a Byronic hero, avenging society for his illegitimate birth—isn’t this a romance in the Byronic style? And the son who breaks into his father’s house and murders him without murdering him is not even a romance—this is a sphinx setting us a riddle which he cannot solve himself. If he murdered him, he murdered him, and what’s the meaning of his murdering him without having murdered him—who can make head or tail of this?

“Then we are admonished that our tribune is a tribune of true and sound ideas and from this tribune of ‘sound ideas’ is heard a solemn declaration that to call the murder of a father ‘parricide’ is nothing but a prejudice! But if parricide is a prejudice, and if every child is to ask his father why he is to love him, what will become of us? What will become of the foundations of society? What will become of the family? Parricide, it appears, is only a bogy of Moscow merchants’ wives. The most precious, the most sacred guarantees for the destiny and future of Russian justice are presented to us in a perverted and frivolous form, simply to attain an object—to obtain the justification of something which cannot be justified. ‘Oh, crush him by mercy,’ cries the counsel for the defense; but that’s all the criminal wants, and to‐morrow it will be seen how much he is crushed. And is not the counsel for the defense too modest in asking only for the acquittal of the prisoner? Why not found a charity in the honor of the parricide to commemorate his exploit among future generations? Religion and the Gospel are corrected—that’s all mysticism, we are told, and ours is the only true Christianity which has been subjected to the analysis of reason and common sense. And so they set up before us a false semblance of Christ! ‘What measure ye mete so it shall be meted unto you again,’ cried the counsel for the defense, and instantly deduces that Christ teaches us to measure as it is measured to us—and this from the tribune of truth and sound sense! We peep into the Gospel only on the eve of making speeches, in order to dazzle the audience by our acquaintance with what is, anyway, a rather original composition, which may be of use to produce a certain effect—all to serve the purpose! But what Christ commands us is something very different: He bids us beware of doing this, because the wicked world does this, but we ought to forgive and to turn the other cheek, and not to measure to our persecutors as they measure to us. This is what our God has taught us and not that to forbid children to murder their fathers is a prejudice. And we will not from the tribune of truth and good sense correct the Gospel of our Lord, Whom the counsel for the defense deigns to call only ‘the crucified lover of humanity,’ in opposition to all orthodox Russia, which calls to Him, ‘For Thou art our God!’ ”

At this the President intervened and checked the over‐zealous speaker, begging him not to exaggerate, not to overstep the bounds, and so on, as presidents always do in such cases. The audience, too, was uneasy. The public was restless: there were even exclamations of indignation. Fetyukovitch did not so much as reply; he only mounted the tribune to lay his hand on his heart and, with an offended voice, utter a few words full of dignity. He only touched again, lightly and ironically, on “romancing” and “psychology,” and in an appropriate place quoted, “Jupiter, you are angry, therefore you are wrong,” which provoked a burst of approving laughter in the audience, for Ippolit Kirillovitch was by no means like Jupiter. Then, à propos of the accusation that he was teaching the young generation to murder their fathers, Fetyukovitch observed, with great dignity, that he would not even answer. As for the prosecutor’s charge of uttering unorthodox opinions, Fetyukovitch hinted that it was a personal insinuation and that he had expected in this court to be secure from accusations “damaging to my reputation as a citizen and a loyal subject.” But at these words the President pulled him up, too, and Fetyukovitch concluded his speech with a bow, amid a hum of approbation in the court. And Ippolit Kirillovitch was, in the opinion of our ladies, “crushed for good.”

Then the prisoner was allowed to speak. Mitya stood up, but said very little. He was fearfully exhausted, physically and mentally. The look of strength and independence with which he had entered in the morning had almost disappeared. He seemed as though he had passed through an experience that day, which had taught him for the rest of his life something very important he had not understood till then. His voice was weak, he did not shout as before. In his words there was a new note of humility, defeat and submission.

“What am I to say, gentlemen of the jury? The hour of judgment has come for me, I feel the hand of God upon me! The end has come to an erring man! But, before God, I repeat to you, I am innocent of my father’s blood! For the last time I repeat, it wasn’t I killed him! I was erring, but I loved what is good. Every instant I strove to reform, but I lived like a wild beast. I thank the prosecutor, he told me many things about myself that I did not know; but it’s not true that I killed my father, the prosecutor is mistaken. I thank my counsel, too. I cried listening to him; but it’s not true that I killed my father, and he needn’t have supposed it. And don’t believe the doctors. I am perfectly sane, only my heart is heavy. If you spare me, if you let me go, I will pray for you. I will be a better man. I give you my word before God I will! And if you will condemn me, I’ll break my sword over my head myself and kiss the pieces. But spare me, do not rob me of my God! I know myself, I shall rebel! My heart is heavy, gentlemen … spare me!”

He almost fell back in his place: his voice broke: he could hardly articulate the last phrase. Then the judges proceeded to put the questions and began to ask both sides to formulate their conclusions.

But I will not describe the details. At last the jury rose to retire for consultation. The President was very tired, and so his last charge to the jury was rather feeble. “Be impartial, don’t be influenced by the eloquence of the defense, but yet weigh the arguments. Remember that there is a great responsibility laid upon you,” and so on and so on.

The jury withdrew and the court adjourned. People could get up, move about, exchange their accumulated impressions, refresh themselves at the buffet. It was very late, almost one o’clock in the night, but nobody went away: the strain was so great that no one could think of repose. All waited with sinking hearts; though that is, perhaps, too much to say, for the ladies were only in a state of hysterical impatience and their hearts were untroubled. An acquittal, they thought, was inevitable. They all prepared themselves for a dramatic moment of general enthusiasm. I must own there were many among the men, too, who were convinced that an acquittal was inevitable. Some were pleased, others frowned, while some were simply dejected, not wanting him to be acquitted. Fetyukovitch himself was confident of his success. He was surrounded by people congratulating him and fawning upon him.

“There are,” he said to one group, as I was told afterwards, “there are invisible threads binding the counsel for the defense with the jury. One feels during one’s speech if they are being formed. I was aware of them. They exist. Our cause is won. Set your mind at rest.”

“What will our peasants say now?” said one stout, cross‐looking, pock‐ marked gentleman, a landowner of the neighborhood, approaching a group of gentlemen engaged in conversation.

“But they are not all peasants. There are four government clerks among them.”

“Yes, there are clerks,” said a member of the district council, joining the group.

“And do you know that Nazaryev, the merchant with the medal, a juryman?”

“What of him?”

“He is a man with brains.”

“But he never speaks.”

“He is no great talker, but so much the better. There’s no need for the Petersburg man to teach him: he could teach all Petersburg himself. He’s the father of twelve children. Think of that!”

“Upon my word, you don’t suppose they won’t acquit him?” one of our young officials exclaimed in another group.

“They’ll acquit him for certain,” said a resolute voice.

“It would be shameful, disgraceful, not to acquit him!” cried the official. “Suppose he did murder him—there are fathers and fathers! And, besides, he was in such a frenzy…. He really may have done nothing but swing the pestle in the air, and so knocked the old man down. But it was a pity they dragged the valet in. That was simply an absurd theory! If I’d been in Fetyukovitch’s place, I should simply have said straight out: ‘He murdered him; but he is not guilty, hang it all!’ ”

“That’s what he did, only without saying, ‘Hang it all!’ ”

“No, Mihail Semyonovitch, he almost said that, too,” put in a third voice.

“Why, gentlemen, in Lent an actress was acquitted in our town who had cut the throat of her lover’s lawful wife.”

“Oh, but she did not finish cutting it.”

“That makes no difference. She began cutting it.”

“What did you think of what he said about children? Splendid, wasn’t it?”

“Splendid!”

“And about mysticism, too!”

“Oh, drop mysticism, do!” cried some one else; “think of Ippolit and his fate from this day forth. His wife will scratch his eyes out to‐morrow for Mitya’s sake.”

“Is she here?”

“What an idea! If she’d been here she’d have scratched them out in court. She is at home with toothache. He he he!”

“He he he!”

In a third group:

“I dare say they will acquit Mitenka, after all.”

“I should not be surprised if he turns the ‘Metropolis’ upside down to‐ morrow. He will be drinking for ten days!”

“Oh, the devil!”

“The devil’s bound to have a hand in it. Where should he be if not here?”

“Well, gentlemen, I admit it was eloquent. But still it’s not the thing to break your father’s head with a pestle! Or what are we coming to?”

“The chariot! Do you remember the chariot?”

“Yes; he turned a cart into a chariot!”

“And to‐morrow he will turn a chariot into a cart, just to suit his purpose.”

“What cunning chaps there are nowadays! Is there any justice to be had in Russia?”

But the bell rang. The jury deliberated for exactly an hour, neither more nor less. A profound silence reigned in the court as soon as the public had taken their seats. I remember how the jurymen walked into the court. At last! I won’t repeat the questions in order, and, indeed, I have forgotten them. I remember only the answer to the President’s first and chief question: “Did the prisoner commit the murder for the sake of robbery and with premeditation?” (I don’t remember the exact words.) There was a complete hush. The foreman of the jury, the youngest of the clerks, pronounced, in a clear, loud voice, amidst the deathlike stillness of the court:

“Yes, guilty!”

And the same answer was repeated to every question: “Yes, guilty!” and without the slightest extenuating comment. This no one had expected; almost every one had reckoned upon a recommendation to mercy, at least. The deathlike silence in the court was not broken—all seemed petrified: those who desired his conviction as well as those who had been eager for his acquittal. But that was only for the first instant, and it was followed by a fearful hubbub. Many of the men in the audience were pleased. Some were rubbing their hands with no attempt to conceal their joy. Those who disagreed with the verdict seemed crushed, shrugged their shoulders, whispered, but still seemed unable to realize this. But how shall I describe the state the ladies were in? I thought they would create a riot. At first they could scarcely believe their ears. Then suddenly the whole court rang with exclamations: “What’s the meaning of it? What next?” They leapt up from their places. They seemed to fancy that it might be at once reconsidered and reversed. At that instant Mitya suddenly stood up and cried in a heartrending voice, stretching his hands out before him:

“I swear by God and the dreadful Day of Judgment I am not guilty of my father’s blood! Katya, I forgive you! Brothers, friends, have pity on the other woman!”

He could not go on, and broke into a terrible sobbing wail that was heard all over the court in a strange, unnatural voice unlike his own. From the farthest corner at the back of the gallery came a piercing shriek—it was Grushenka. She had succeeded in begging admittance to the court again before the beginning of the lawyers’ speeches. Mitya was taken away. The passing of the sentence was deferred till next day. The whole court was in a hubbub but I did not wait to hear. I only remember a few exclamations I heard on the steps as I went out.

“He’ll have a twenty years’ trip to the mines!”

“Not less.”

“Well, our peasants have stood firm.”

“And have done for our Mitya.”

EPILOGUE
Chapter I.
Plans For Mitya’s Escape
Very early, at nine o’clock in the morning, five days after the trial, Alyosha went to Katerina Ivanovna’s to talk over a matter of great importance to both of them, and to give her a message. She sat and talked to him in the very room in which she had once received Grushenka. In the next room Ivan Fyodorovitch lay unconscious in a high fever. Katerina Ivanovna had immediately after the scene at the trial ordered the sick and unconscious man to be carried to her house, disregarding the inevitable gossip and general disapproval of the public. One of the two relations who lived with her had departed to Moscow immediately after the scene in court, the other remained. But if both had gone away, Katerina Ivanovna would have adhered to her resolution, and would have gone on nursing the sick man and sitting by him day and night. Varvinsky and Herzenstube were attending him. The famous doctor had gone back to Moscow, refusing to give an opinion as to the probable end of the illness. Though the doctors encouraged Katerina Ivanovna and Alyosha, it was evident that they could not yet give them positive hopes of recovery.

Alyosha came to see his sick brother twice a day. But this time he had specially urgent business, and he foresaw how difficult it would be to approach the subject, yet he was in great haste. He had another engagement that could not be put off for that same morning, and there was need of haste.

They had been talking for a quarter of an hour. Katerina Ivanovna was pale and terribly fatigued, yet at the same time in a state of hysterical excitement. She had a presentiment of the reason why Alyosha had come to her.

“Don’t worry about his decision,” she said, with confident emphasis to Alyosha. “One way or another he is bound to come to it. He must escape. That unhappy man, that hero of honor and principle—not he, not Dmitri Fyodorovitch, but the man lying the other side of that door, who has sacrificed himself for his brother,” Katya added, with flashing eyes—“told me the whole plan of escape long ago. You know he has already entered into negotiations…. I’ve told you something already…. You see, it will probably come off at the third étape from here, when the party of prisoners is being taken to Siberia. Oh, it’s a long way off yet. Ivan Fyodorovitch has already visited the superintendent of the third étape. But we don’t know yet who will be in charge of the party, and it’s impossible to find that out so long beforehand. To‐morrow perhaps I will show you in detail the whole plan which Ivan Fyodorovitch left me on the eve of the trial in case of need…. That was when—do you remember?—you found us quarreling. He had just gone down‐stairs, but seeing you I made him come back; do you remember? Do you know what we were quarreling about then?”

“No, I don’t,” said Alyosha.

“Of course he did not tell you. It was about that plan of escape. He had told me the main idea three days before, and we began quarreling about it at once and quarreled for three days. We quarreled because, when he told me that if Dmitri Fyodorovitch were convicted he would escape abroad with that creature, I felt furious at once—I can’t tell you why, I don’t know myself why…. Oh, of course, I was furious then about that creature, and that she, too, should go abroad with Dmitri!” Katerina Ivanovna exclaimed suddenly, her lips quivering with anger. “As soon as Ivan Fyodorovitch saw that I was furious about that woman, he instantly imagined I was jealous of Dmitri and that I still loved Dmitri. That is how our first quarrel began. I would not give an explanation, I could not ask forgiveness. I could not bear to think that such a man could suspect me of still loving that … and when I myself had told him long before that I did not love Dmitri, that I loved no one but him! It was only resentment against that creature that made me angry with him. Three days later, on the evening you came, he brought me a sealed envelope, which I was to open at once, if anything happened to him. Oh, he foresaw his illness! He told me that the envelope contained the details of the escape, and that if he died or was taken dangerously ill, I was to save Mitya alone. Then he left me money, nearly ten thousand—those notes to which the prosecutor referred in his speech, having learnt from some one that he had sent them to be changed. I was tremendously impressed to find that Ivan Fyodorovitch had not given up his idea of saving his brother, and was confiding this plan of escape to me, though he was still jealous of me and still convinced that I loved Mitya. Oh, that was a sacrifice! No, you cannot understand the greatness of such self‐sacrifice, Alexey Fyodorovitch. I wanted to fall at his feet in reverence, but I thought at once that he would take it only for my joy at the thought of Mitya’s being saved (and he certainly would have imagined that!), and I was so exasperated at the mere possibility of such an unjust thought on his part that I lost my temper again, and instead of kissing his feet, flew into a fury again! Oh, I am unhappy! It’s my character, my awful, unhappy character! Oh, you will see, I shall end by driving him, too, to abandon me for another with whom he can get on better, like Dmitri. But … no, I could not bear it, I should kill myself. And when you came in then, and when I called to you and told him to come back, I was so enraged by the look of contempt and hatred he turned on me that—do you remember?—I cried out to you that it was he, he alone who had persuaded me that his brother Dmitri was a murderer! I said that malicious thing on purpose to wound him again. He had never, never persuaded me that his brother was a murderer. On the contrary, it was I who persuaded him! Oh, my vile temper was the cause of everything! I paved the way to that hideous scene at the trial. He wanted to show me that he was an honorable man, and that, even if I loved his brother, he would not ruin him for revenge or jealousy. So he came to the court … I am the cause of it all, I alone am to blame!”

Katya never had made such confessions to Alyosha before, and he felt that she was now at that stage of unbearable suffering when even the proudest heart painfully crushes its pride and falls vanquished by grief. Oh, Alyosha knew another terrible reason of her present misery, though she had carefully concealed it from him during those days since the trial; but it would have been for some reason too painful to him if she had been brought so low as to speak to him now about that. She was suffering for her “treachery” at the trial, and Alyosha felt that her conscience was impelling her to confess it to him, to him, Alyosha, with tears and cries and hysterical writhings on the floor. But he dreaded that moment and longed to spare her. It made the commission on which he had come even more difficult. He spoke of Mitya again.

“It’s all right, it’s all right, don’t be anxious about him!” she began again, sharply and stubbornly. “All that is only momentary, I know him, I know his heart only too well. You may be sure he will consent to escape. It’s not as though it would be immediately; he will have time to make up his mind to it. Ivan Fyodorovitch will be well by that time and will manage it all himself, so that I shall have nothing to do with it. Don’t be anxious; he will consent to run away. He has agreed already: do you suppose he would give up that creature? And they won’t let her go to him, so he is bound to escape. It’s you he’s most afraid of, he is afraid you won’t approve of his escape on moral grounds. But you must generously allow it, if your sanction is so necessary,” Katya added viciously. She paused and smiled.

“He talks about some hymn,” she went on again, “some cross he has to bear, some duty; I remember Ivan Fyodorovitch told me a great deal about it, and if you knew how he talked!” Katya cried suddenly, with feeling she could not repress, “if you knew how he loved that wretched man at the moment he told me, and how he hated him, perhaps, at the same moment. And I heard his story and his tears with sneering disdain. Brute! Yes, I am a brute. I am responsible for his fever. But that man in prison is incapable of suffering,” Katya concluded irritably. “Can such a man suffer? Men like him never suffer!”

There was a note of hatred and contemptuous repulsion in her words. And yet it was she who had betrayed him. “Perhaps because she feels how she’s wronged him she hates him at moments,” Alyosha thought to himself. He hoped that it was only “at moments.” In Katya’s last words he detected a challenging note, but he did not take it up.

“I sent for you this morning to make you promise to persuade him yourself. Or do you, too, consider that to escape would be dishonorable, cowardly, or something … unchristian, perhaps?” Katya added, even more defiantly.

“Oh, no. I’ll tell him everything,” muttered Alyosha. “He asks you to come and see him to‐day,” he blurted out suddenly, looking her steadily in the face. She started, and drew back a little from him on the sofa.

“Me? Can that be?” she faltered, turning pale.

“It can and ought to be!” Alyosha began emphatically, growing more animated. “He needs you particularly just now. I would not have opened the subject and worried you, if it were not necessary. He is ill, he is beside himself, he keeps asking for you. It is not to be reconciled with you that he wants you, but only that you would go and show yourself at his door. So much has happened to him since that day. He realizes that he has injured you beyond all reckoning. He does not ask your forgiveness—‘It’s impossible to forgive me,’ he says himself—but only that you would show yourself in his doorway.”

“It’s so sudden….” faltered Katya. “I’ve had a presentiment all these days that you would come with that message. I knew he would ask me to come. It’s impossible!”

“Let it be impossible, but do it. Only think, he realizes for the first time how he has wounded you, the first time in his life; he had never grasped it before so fully. He said, ‘If she refuses to come I shall be unhappy all my life.’ Do you hear? though he is condemned to penal servitude for twenty years, he is still planning to be happy—is not that piteous? Think—you must visit him; though he is ruined, he is innocent,” broke like a challenge from Alyosha. “His hands are clean, there is no blood on them! For the sake of his infinite sufferings in the future visit him now. Go, greet him on his way into the darkness—stand at his door, that is all…. You ought to do it, you ought to!” Alyosha concluded, laying immense stress on the word “ought.”

“I ought to … but I cannot….” Katya moaned. “He will look at me…. I can’t.”

“Your eyes ought to meet. How will you live all your life, if you don’t make up your mind to do it now?”

“Better suffer all my life.”

“You ought to go, you ought to go,” Alyosha repeated with merciless emphasis.

“But why to‐day, why at once?… I can’t leave our patient—”

“You can for a moment. It will only be a moment. If you don’t come, he will be in delirium by to‐night. I would not tell you a lie; have pity on him!”

“Have pity on me!” Katya said, with bitter reproach, and she burst into tears.

“Then you will come,” said Alyosha firmly, seeing her tears. “I’ll go and tell him you will come directly.”

“No, don’t tell him so on any account,” cried Katya in alarm. “I will come, but don’t tell him beforehand, for perhaps I may go, but not go in…. I don’t know yet—”

Her voice failed her. She gasped for breath. Alyosha got up to go.

“And what if I meet any one?” she said suddenly, in a low voice, turning white again.

“That’s just why you must go now, to avoid meeting any one. There will be no one there, I can tell you that for certain. We will expect you,” he concluded emphatically, and went out of the room.

Chapter II.
For A Moment The Lie Becomes Truth
He hurried to the hospital where Mitya was lying now. The day after his fate was determined, Mitya had fallen ill with nervous fever, and was sent to the prison division of the town hospital. But at the request of several persons (Alyosha, Madame Hohlakov, Lise, etc.), Doctor Varvinsky had put Mitya not with other prisoners, but in a separate little room, the one where Smerdyakov had been. It is true that there was a sentinel at the other end of the corridor, and there was a grating over the window, so that Varvinsky could be at ease about the indulgence he had shown, which was not quite legal, indeed; but he was a kind‐hearted and compassionate young man. He knew how hard it would be for a man like Mitya to pass at once so suddenly into the society of robbers and murderers, and that he must get used to it by degrees. The visits of relations and friends were informally sanctioned by the doctor and overseer, and even by the police captain. But only Alyosha and Grushenka had visited Mitya. Rakitin had tried to force his way in twice, but Mitya persistently begged Varvinsky not to admit him.

Alyosha found him sitting on his bed in a hospital dressing‐gown, rather feverish, with a towel, soaked in vinegar and water, on his head. He looked at Alyosha as he came in with an undefined expression, but there was a shade of something like dread discernible in it. He had become terribly preoccupied since the trial; sometimes he would be silent for half an hour together, and seemed to be pondering something heavily and painfully, oblivious of everything about him. If he roused himself from his brooding and began to talk, he always spoke with a kind of abruptness and never of what he really wanted to say. He looked sometimes with a face of suffering at his brother. He seemed to be more at ease with Grushenka than with Alyosha. It is true, he scarcely spoke to her at all, but as soon as she came in, his whole face lighted up with joy.

Alyosha sat down beside him on the bed in silence. This time Mitya was waiting for Alyosha in suspense, but he did not dare ask him a question. He felt it almost unthinkable that Katya would consent to come, and at the same time he felt that if she did not come, something inconceivable would happen. Alyosha understood his feelings.

“Trifon Borissovitch,” Mitya began nervously, “has pulled his whole inn to pieces, I am told. He’s taken up the flooring, pulled apart the planks, split up all the gallery, I am told. He is seeking treasure all the time—the fifteen hundred roubles which the prosecutor said I’d hidden there. He began playing these tricks, they say, as soon as he got home. Serve him right, the swindler! The guard here told me yesterday; he comes from there.”

“Listen,” began Alyosha. “She will come, but I don’t know when. Perhaps to‐day, perhaps in a few days, that I can’t tell. But she will come, she will, that’s certain.”

Mitya started, would have said something, but was silent. The news had a tremendous effect on him. It was evident that he would have liked terribly to know what had been said, but he was again afraid to ask. Something cruel and contemptuous from Katya would have cut him like a knife at that moment.

“This was what she said among other things; that I must be sure to set your conscience at rest about escaping. If Ivan is not well by then she will see to it all herself.”

“You’ve spoken of that already,” Mitya observed musingly.

“And you have repeated it to Grusha,” observed Alyosha.

“Yes,” Mitya admitted. “She won’t come this morning.” He looked timidly at his brother. “She won’t come till the evening. When I told her yesterday that Katya was taking measures, she was silent, but she set her mouth. She only whispered, ‘Let her!’ She understood that it was important. I did not dare to try her further. She understands now, I think, that Katya no longer cares for me, but loves Ivan.”

“Does she?” broke from Alyosha.

“Perhaps she does not. Only she is not coming this morning,” Mitya hastened to explain again; “I asked her to do something for me. You know, Ivan is superior to all of us. He ought to live, not us. He will recover.”

“Would you believe it, though Katya is alarmed about him, she scarcely doubts of his recovery,” said Alyosha.

“That means that she is convinced he will die. It’s because she is frightened she’s so sure he will get well.”

“Ivan has a strong constitution, and I, too, believe there’s every hope that he will get well,” Alyosha observed anxiously.

“Yes, he will get well. But she is convinced that he will die. She has a great deal of sorrow to bear…” A silence followed. A grave anxiety was fretting Mitya.

“Alyosha, I love Grusha terribly,” he said suddenly in a shaking voice, full of tears.

“They won’t let her go out there to you,” Alyosha put in at once.

“And there is something else I wanted to tell you,” Mitya went on, with a sudden ring in his voice. “If they beat me on the way or out there, I won’t submit to it. I shall kill some one, and shall be shot for it. And this will be going on for twenty years! They speak to me rudely as it is. I’ve been lying here all night, passing judgment on myself. I am not ready! I am not able to resign myself. I wanted to sing a ‘hymn’; but if a guard speaks rudely to me, I have not the strength to bear it. For Grusha I would bear anything … anything except blows…. But she won’t be allowed to come there.”

Alyosha smiled gently.

“Listen, brother, once for all,” he said. “This is what I think about it. And you know that I would not tell you a lie. Listen: you are not ready, and such a cross is not for you. What’s more, you don’t need such a martyr’s cross when you are not ready for it. If you had murdered our father, it would grieve me that you should reject your punishment. But you are innocent, and such a cross is too much for you. You wanted to make yourself another man by suffering. I say, only remember that other man always, all your life and wherever you go; and that will be enough for you. Your refusal of that great cross will only serve to make you feel all your life an even greater duty, and that constant feeling will do more to make you a new man, perhaps, than if you went there. For there you would not endure it and would repine, and perhaps at last would say: ‘I am quits.’ The lawyer was right about that. Such heavy burdens are not for all men. For some they are impossible. These are my thoughts about it, if you want them so much. If other men would have to answer for your escape, officers or soldiers, then I would not have ‘allowed’ you,” smiled Alyosha. “But they declare—the superintendent of that étape told Ivan himself—that if it’s well managed there will be no great inquiry, and that they can get off easily. Of course, bribing is dishonest even in such a case, but I can’t undertake to judge about it, because if Ivan and Katya commissioned me to act for you, I know I should go and give bribes. I must tell you the truth. And so I can’t judge of your own action. But let me assure you that I shall never condemn you. And it would be a strange thing if I could judge you in this. Now I think I’ve gone into everything.”

“But I do condemn myself!” cried Mitya. “I shall escape, that was settled apart from you; could Mitya Karamazov do anything but run away? But I shall condemn myself, and I will pray for my sin for ever. That’s how the Jesuits talk, isn’t it? Just as we are doing?”

“Yes.” Alyosha smiled gently.

“I love you for always telling the whole truth and never hiding anything,” cried Mitya, with a joyful laugh. “So I’ve caught my Alyosha being Jesuitical. I must kiss you for that. Now listen to the rest; I’ll open the other side of my heart to you. This is what I planned and decided. If I run away, even with money and a passport, and even to America, I should be cheered up by the thought that I am not running away for pleasure, not for happiness, but to another exile as bad, perhaps, as Siberia. It is as bad, Alyosha, it is! I hate that America, damn it, already. Even though Grusha will be with me. Just look at her; is she an American? She is Russian, Russian to the marrow of her bones; she will be homesick for the mother country, and I shall see every hour that she is suffering for my sake, that she has taken up that cross for me. And what harm has she done? And how shall I, too, put up with the rabble out there, though they may be better than I, every one of them? I hate that America already! And though they may be wonderful at machinery, every one of them, damn them, they are not of my soul. I love Russia, Alyosha, I love the Russian God, though I am a scoundrel myself. I shall choke there!” he exclaimed, his eyes suddenly flashing. His voice was trembling with tears. “So this is what I’ve decided, Alyosha, listen,” he began again, mastering his emotion. “As soon as I arrive there with Grusha, we will set to work at once on the land, in solitude, somewhere very remote, with wild bears. There must be some remote parts even there. I am told there are still Redskins there, somewhere, on the edge of the horizon. So to the country of the Last of the Mohicans, and there we’ll tackle the grammar at once, Grusha and I. Work and grammar—that’s how we’ll spend three years. And by that time we shall speak English like any Englishman. And as soon as we’ve learnt it—good‐by to America! We’ll run here to Russia as American citizens. Don’t be uneasy—we would not come to this little town. We’d hide somewhere, a long way off, in the north or in the south. I shall be changed by that time, and she will, too, in America. The doctors shall make me some sort of wart on my face—what’s the use of their being so mechanical!—or else I’ll put out one eye, let my beard grow a yard, and I shall turn gray, fretting for Russia. I dare say they won’t recognize us. And if they do, let them send us to Siberia. I don’t care. It will show it’s our fate. We’ll work on the land here, too, somewhere in the wilds, and I’ll make up as an American all my life. But we shall die on our own soil. That’s my plan, and it shan’t be altered. Do you approve?”

“Yes,” said Alyosha, not wanting to contradict him. Mitya paused for a minute and said suddenly:

“And how they worked it up at the trial! Didn’t they work it up!”

“If they had not, you would have been convicted just the same,” said Alyosha, with a sigh.

“Yes, people are sick of me here! God bless them, but it’s hard,” Mitya moaned miserably. Again there was silence for a minute.

“Alyosha, put me out of my misery at once!” he exclaimed suddenly. “Tell me, is she coming now, or not? Tell me? What did she say? How did she say it?”

“She said she would come, but I don’t know whether she will come to‐day. It’s hard for her, you know,” Alyosha looked timidly at his brother.

“I should think it is hard for her! Alyosha, it will drive me out of my mind. Grusha keeps looking at me. She understands. My God, calm my heart: what is it I want? I want Katya! Do I understand what I want? It’s the headstrong, evil Karamazov spirit! No, I am not fit for suffering. I am a scoundrel, that’s all one can say.”

“Here she is!” cried Alyosha.

At that instant Katya appeared in the doorway. For a moment she stood still, gazing at Mitya with a dazed expression. He leapt impulsively to his feet, and a scared look came into his face. He turned pale, but a timid, pleading smile appeared on his lips at once, and with an irresistible impulse he held out both hands to Katya. Seeing it, she flew impetuously to him. She seized him by the hands, and almost by force made him sit down on the bed. She sat down beside him, and still keeping his hands pressed them violently. Several times they both strove to speak, but stopped short and again gazed speechless with a strange smile, their eyes fastened on one another. So passed two minutes.

“Have you forgiven me?” Mitya faltered at last, and at the same moment turning to Alyosha, his face working with joy, he cried, “Do you hear what I am asking, do you hear?”

“That’s what I loved you for, that you are generous at heart!” broke from Katya. “My forgiveness is no good to you, nor yours to me; whether you forgive me or not, you will always be a sore place in my heart, and I in yours—so it must be….” She stopped to take breath. “What have I come for?” she began again with nervous haste: “to embrace your feet, to press your hands like this, till it hurts—you remember how in Moscow I used to squeeze them—to tell you again that you are my god, my joy, to tell you that I love you madly,” she moaned in anguish, and suddenly pressed his hand greedily to her lips. Tears streamed from her eyes. Alyosha stood speechless and confounded; he had never expected what he was seeing.

“Love is over, Mitya!” Katya began again, “but the past is painfully dear to me. Know that you will always be so. But now let what might have been come true for one minute,” she faltered, with a drawn smile, looking into his face joyfully again. “You love another woman, and I love another man, and yet I shall love you for ever, and you will love me; do you know that? Do you hear? Love me, love me all your life!” she cried, with a quiver almost of menace in her voice.

“I shall love you, and … do you know, Katya,” Mitya began, drawing a deep breath at each word, “do you know, five days ago, that same evening, I loved you…. When you fell down and were carried out … All my life! So it will be, so it will always be—”

So they murmured to one another frantic words, almost meaningless, perhaps not even true, but at that moment it was all true, and they both believed what they said implicitly.

“Katya,” cried Mitya suddenly, “do you believe I murdered him? I know you don’t believe it now, but then … when you gave evidence…. Surely, surely you did not believe it!”

“I did not believe it even then. I’ve never believed it. I hated you, and for a moment I persuaded myself. While I was giving evidence I persuaded myself and believed it, but when I’d finished speaking I left off believing it at once. Don’t doubt that! I have forgotten that I came here to punish myself,” she said, with a new expression in her voice, quite unlike the loving tones of a moment before.

“Woman, yours is a heavy burden,” broke, as it were, involuntarily from Mitya.

“Let me go,” she whispered. “I’ll come again. It’s more than I can bear now.”

She was getting up from her place, but suddenly uttered a loud scream and staggered back. Grushenka walked suddenly and noiselessly into the room. No one had expected her. Katya moved swiftly to the door, but when she reached Grushenka, she stopped suddenly, turned as white as chalk and moaned softly, almost in a whisper:

“Forgive me!”

Grushenka stared at her and, pausing for an instant, in a vindictive, venomous voice, answered:

“We are full of hatred, my girl, you and I! We are both full of hatred! As though we could forgive one another! Save him, and I’ll worship you all my life.”

“You won’t forgive her!” cried Mitya, with frantic reproach.

“Don’t be anxious, I’ll save him for you!” Katya whispered rapidly, and she ran out of the room.

“And you could refuse to forgive her when she begged your forgiveness herself?” Mitya exclaimed bitterly again.

“Mitya, don’t dare to blame her; you have no right to!” Alyosha cried hotly.

“Her proud lips spoke, not her heart,” Grushenka brought out in a tone of disgust. “If she saves you I’ll forgive her everything—”

She stopped speaking, as though suppressing something. She could not yet recover herself. She had come in, as appeared afterwards, accidentally, with no suspicion of what she would meet.

“Alyosha, run after her!” Mitya cried to his brother; “tell her … I don’t know … don’t let her go away like this!”

“I’ll come to you again at nightfall,” said Alyosha, and he ran after Katya. He overtook her outside the hospital grounds. She was walking fast, but as soon as Alyosha caught her up she said quickly:

“No, before that woman I can’t punish myself! I asked her forgiveness because I wanted to punish myself to the bitter end. She would not forgive me…. I like her for that!” she added, in an unnatural voice, and her eyes flashed with fierce resentment.

“My brother did not expect this in the least,” muttered Alyosha. “He was sure she would not come—”

“No doubt. Let us leave that,” she snapped. “Listen: I can’t go with you to the funeral now. I’ve sent them flowers. I think they still have money. If necessary, tell them I’ll never abandon them…. Now leave me, leave me, please. You are late as it is—the bells are ringing for the service…. Leave me, please!”

Chapter III.
Ilusha’s Funeral. The Speech At The Stone
He really was late. They had waited for him and had already decided to bear the pretty flower‐decked little coffin to the church without him. It was the coffin of poor little Ilusha. He had died two days after Mitya was sentenced. At the gate of the house Alyosha was met by the shouts of the boys, Ilusha’s schoolfellows. They had all been impatiently expecting him and were glad that he had come at last. There were about twelve of them, they all had their school‐bags or satchels on their shoulders. “Father will cry, be with father,” Ilusha had told them as he lay dying, and the boys remembered it. Kolya Krassotkin was the foremost of them.

“How glad I am you’ve come, Karamazov!” he cried, holding out his hand to Alyosha. “It’s awful here. It’s really horrible to see it. Snegiryov is not drunk, we know for a fact he’s had nothing to drink to‐day, but he seems as if he were drunk … I am always manly, but this is awful. Karamazov, if I am not keeping you, one question before you go in?”

“What is it, Kolya?” said Alyosha.

“Is your brother innocent or guilty? Was it he killed your father or was it the valet? As you say, so it will be. I haven’t slept for the last four nights for thinking of it.”

“The valet killed him, my brother is innocent,” answered Alyosha.

“That’s what I said,” cried Smurov.

“So he will perish an innocent victim!” exclaimed Kolya; “though he is ruined he is happy! I could envy him!”

“What do you mean? How can you? Why?” cried Alyosha surprised.

“Oh, if I, too, could sacrifice myself some day for truth!” said Kolya with enthusiasm.

“But not in such a cause, not with such disgrace and such horror!” said Alyosha.

“Of course … I should like to die for all humanity, and as for disgrace, I don’t care about that—our names may perish. I respect your brother!”

“And so do I!” the boy, who had once declared that he knew who had founded Troy, cried suddenly and unexpectedly, and he blushed up to his ears like a peony as he had done on that occasion.

Alyosha went into the room. Ilusha lay with his hands folded and his eyes closed in a blue coffin with a white frill round it. His thin face was hardly changed at all, and strange to say there was no smell of decay from the corpse. The expression of his face was serious and, as it were, thoughtful. His hands, crossed over his breast, looked particularly beautiful, as though chiseled in marble. There were flowers in his hands and the coffin, inside and out, was decked with flowers, which had been sent early in the morning by Lise Hohlakov. But there were flowers too from Katerina Ivanovna, and when Alyosha opened the door, the captain had a bunch in his trembling hands and was strewing them again over his dear boy. He scarcely glanced at Alyosha when he came in, and he would not look at any one, even at his crazy weeping wife, “mamma,” who kept trying to stand on her crippled legs to get a nearer look at her dead boy. Nina had been pushed in her chair by the boys close up to the coffin. She sat with her head pressed to it and she too was no doubt quietly weeping. Snegiryov’s face looked eager, yet bewildered and exasperated. There was something crazy about his gestures and the words that broke from him. “Old man, dear old man!” he exclaimed every minute, gazing at Ilusha. It was his habit to call Ilusha “old man,” as a term of affection when he was alive.

“Father, give me a flower, too; take that white one out of his hand and give it me,” the crazy mother begged, whimpering. Either because the little white rose in Ilusha’s hand had caught her fancy or that she wanted one from his hand to keep in memory of him, she moved restlessly, stretching out her hands for the flower.

“I won’t give it to any one, I won’t give you anything,” Snegiryov cried callously. “They are his flowers, not yours! Everything is his, nothing is yours!”

“Father, give mother a flower!” said Nina, lifting her face wet with tears.

“I won’t give away anything and to her less than any one! She didn’t love Ilusha. She took away his little cannon and he gave it to her,” the captain broke into loud sobs at the thought of how Ilusha had given up his cannon to his mother. The poor, crazy creature was bathed in noiseless tears, hiding her face in her hands.

The boys, seeing that the father would not leave the coffin and that it was time to carry it out, stood round it in a close circle and began to lift it up.

“I don’t want him to be buried in the churchyard,” Snegiryov wailed suddenly; “I’ll bury him by the stone, by our stone! Ilusha told me to. I won’t let him be carried out!”

He had been saying for the last three days that he would bury him by the stone, but Alyosha, Krassotkin, the landlady, her sister and all the boys interfered.

“What an idea, bury him by an unholy stone, as though he had hanged himself!” the old landlady said sternly. “There in the churchyard the ground has been crossed. He’ll be prayed for there. One can hear the singing in church and the deacon reads so plainly and verbally that it will reach him every time just as though it were read over his grave.”

At last the captain made a gesture of despair as though to say, “Take him where you will.” The boys raised the coffin, but as they passed the mother, they stopped for a moment and lowered it that she might say good‐ by to Ilusha. But on seeing that precious little face, which for the last three days she had only looked at from a distance, she trembled all over and her gray head began twitching spasmodically over the coffin.

“Mother, make the sign of the cross over him, give him your blessing, kiss him,” Nina cried to her. But her head still twitched like an automaton and with a face contorted with bitter grief she began, without a word, beating her breast with her fist. They carried the coffin past her. Nina pressed her lips to her brother’s for the last time as they bore the coffin by her. As Alyosha went out of the house he begged the landlady to look after those who were left behind, but she interrupted him before he had finished.

“To be sure, I’ll stay with them, we are Christians, too.” The old woman wept as she said it.

They had not far to carry the coffin to the church, not more than three hundred paces. It was a still, clear day, with a slight frost. The church bells were still ringing. Snegiryov ran fussing and distracted after the coffin, in his short old summer overcoat, with his head bare and his soft, old, wide‐brimmed hat in his hand. He seemed in a state of bewildered anxiety. At one minute he stretched out his hand to support the head of the coffin and only hindered the bearers, at another he ran alongside and tried to find a place for himself there. A flower fell on the snow and he rushed to pick it up as though everything in the world depended on the loss of that flower.

“And the crust of bread, we’ve forgotten the crust!” he cried suddenly in dismay. But the boys reminded him at once that he had taken the crust of bread already and that it was in his pocket. He instantly pulled it out and was reassured.

“Ilusha told me to, Ilusha,” he explained at once to Alyosha. “I was sitting by him one night and he suddenly told me: ‘Father, when my grave is filled up crumble a piece of bread on it so that the sparrows may fly down, I shall hear and it will cheer me up not to be lying alone.’ ”

“That’s a good thing,” said Alyosha, “we must often take some.”

“Every day, every day!” said the captain quickly, seeming cheered at the thought.

They reached the church at last and set the coffin in the middle of it. The boys surrounded it and remained reverently standing so, all through the service. It was an old and rather poor church; many of the ikons were without settings; but such churches are the best for praying in. During the mass Snegiryov became somewhat calmer, though at times he had outbursts of the same unconscious and, as it were, incoherent anxiety. At one moment he went up to the coffin to set straight the cover or the wreath, when a candle fell out of the candlestick he rushed to replace it and was a fearful time fumbling over it, then he subsided and stood quietly by the coffin with a look of blank uneasiness and perplexity. After the Epistle he suddenly whispered to Alyosha, who was standing beside him, that the Epistle had not been read properly but did not explain what he meant. During the prayer, “Like the Cherubim,” he joined in the singing but did not go on to the end. Falling on his knees, he pressed his forehead to the stone floor and lay so for a long while.

At last came the funeral service itself and candles were distributed. The distracted father began fussing about again, but the touching and impressive funeral prayers moved and roused his soul. He seemed suddenly to shrink together and broke into rapid, short sobs, which he tried at first to smother, but at last he sobbed aloud. When they began taking leave of the dead and closing the coffin, he flung his arms about, as though he would not allow them to cover Ilusha, and began greedily and persistently kissing his dead boy on the lips. At last they succeeded in persuading him to come away from the step, but suddenly he impulsively stretched out his hand and snatched a few flowers from the coffin. He looked at them and a new idea seemed to dawn upon him, so that he apparently forgot his grief for a minute. Gradually he seemed to sink into brooding and did not resist when the coffin was lifted up and carried to the grave. It was an expensive one in the churchyard close to the church, Katerina Ivanovna had paid for it. After the customary rites the grave‐ diggers lowered the coffin. Snegiryov with his flowers in his hands bent down so low over the open grave that the boys caught hold of his coat in alarm and pulled him back. He did not seem to understand fully what was happening. When they began filling up the grave, he suddenly pointed anxiously at the falling earth and began trying to say something, but no one could make out what he meant, and he stopped suddenly. Then he was reminded that he must crumble the bread and he was awfully excited, snatched up the bread and began pulling it to pieces and flinging the morsels on the grave.

“Come, fly down, birds, fly down, sparrows!” he muttered anxiously.

One of the boys observed that it was awkward for him to crumble the bread with the flowers in his hands and suggested he should give them to some one to hold for a time. But he would not do this and seemed indeed suddenly alarmed for his flowers, as though they wanted to take them from him altogether. And after looking at the grave, and as it were, satisfying himself that everything had been done and the bread had been crumbled, he suddenly, to the surprise of every one, turned, quite composedly even, and made his way homewards. But his steps became more and more hurried, he almost ran. The boys and Alyosha kept up with him.

“The flowers are for mamma, the flowers are for mamma! I was unkind to mamma,” he began exclaiming suddenly.

Some one called to him to put on his hat as it was cold. But he flung the hat in the snow as though he were angry and kept repeating, “I won’t have the hat, I won’t have the hat.” Smurov picked it up and carried it after him. All the boys were crying, and Kolya and the boy who discovered about Troy most of all. Though Smurov, with the captain’s hat in his hand, was crying bitterly too, he managed, as he ran, to snatch up a piece of red brick that lay on the snow of the path, to fling it at the flock of sparrows that was flying by. He missed them, of course, and went on crying as he ran. Half‐way, Snegiryov suddenly stopped, stood still for half a minute, as though struck by something, and suddenly turning back to the church, ran towards the deserted grave. But the boys instantly overtook him and caught hold of him on all sides. Then he fell helpless on the snow as though he had been knocked down, and struggling, sobbing, and wailing, he began crying out, “Ilusha, old man, dear old man!” Alyosha and Kolya tried to make him get up, soothing and persuading him.

“Captain, give over, a brave man must show fortitude,” muttered Kolya.

“You’ll spoil the flowers,” said Alyosha, “and mamma is expecting them, she is sitting crying because you would not give her any before. Ilusha’s little bed is still there—”

“Yes, yes, mamma!” Snegiryov suddenly recollected, “they’ll take away the bed, they’ll take it away,” he added as though alarmed that they really would. He jumped up and ran homewards again. But it was not far off and they all arrived together. Snegiryov opened the door hurriedly and called to his wife with whom he had so cruelly quarreled just before:

“Mamma, poor crippled darling, Ilusha has sent you these flowers,” he cried, holding out to her a little bunch of flowers that had been frozen and broken while he was struggling in the snow. But at that instant he saw in the corner, by the little bed, Ilusha’s little boots, which the landlady had put tidily side by side. Seeing the old, patched, rusty‐ looking, stiff boots he flung up his hands and rushed to them, fell on his knees, snatched up one boot and, pressing his lips to it, began kissing it greedily, crying, “Ilusha, old man, dear old man, where are your little feet?”

“Where have you taken him away? Where have you taken him?” the lunatic cried in a heartrending voice. Nina, too, broke into sobs. Kolya ran out of the room, the boys followed him. At last Alyosha too went out.

“Let them weep,” he said to Kolya, “it’s no use trying to comfort them just now. Let us wait a minute and then go back.”

“No, it’s no use, it’s awful,” Kolya assented. “Do you know, Karamazov,” he dropped his voice so that no one could hear them, “I feel dreadfully sad, and if it were only possible to bring him back, I’d give anything in the world to do it.”

“Ah, so would I,” said Alyosha.

“What do you think, Karamazov? Had we better come back here to‐night? He’ll be drunk, you know.”

“Perhaps he will. Let us come together, you and I, that will be enough, to spend an hour with them, with the mother and Nina. If we all come together we shall remind them of everything again,” Alyosha suggested.

“The landlady is laying the table for them now—there’ll be a funeral dinner or something, the priest is coming; shall we go back to it, Karamazov?”

“Of course,” said Alyosha.

“It’s all so strange, Karamazov, such sorrow and then pancakes after it, it all seems so unnatural in our religion.”

“They are going to have salmon, too,” the boy who had discovered about Troy observed in a loud voice.

“I beg you most earnestly, Kartashov, not to interrupt again with your idiotic remarks, especially when one is not talking to you and doesn’t care to know whether you exist or not!” Kolya snapped out irritably. The boy flushed crimson but did not dare to reply.

Meantime they were strolling slowly along the path and suddenly Smurov exclaimed:

“There’s Ilusha’s stone, under which they wanted to bury him.”

They all stood still by the big stone. Alyosha looked and the whole picture of what Snegiryov had described to him that day, how Ilusha, weeping and hugging his father, had cried, “Father, father, how he insulted you,” rose at once before his imagination.

A sudden impulse seemed to come into his soul. With a serious and earnest expression he looked from one to another of the bright, pleasant faces of Ilusha’s schoolfellows, and suddenly said to them:

“Boys, I should like to say one word to you, here at this place.”

The boys stood round him and at once bent attentive and expectant eyes upon him.

“Boys, we shall soon part. I shall be for some time with my two brothers, of whom one is going to Siberia and the other is lying at death’s door. But soon I shall leave this town, perhaps for a long time, so we shall part. Let us make a compact here, at Ilusha’s stone, that we will never forget Ilusha and one another. And whatever happens to us later in life, if we don’t meet for twenty years afterwards, let us always remember how we buried the poor boy at whom we once threw stones, do you remember, by the bridge? and afterwards we all grew so fond of him. He was a fine boy, a kind‐hearted, brave boy, he felt for his father’s honor and resented the cruel insult to him and stood up for him. And so in the first place, we will remember him, boys, all our lives. And even if we are occupied with most important things, if we attain to honor or fall into great misfortune—still let us remember how good it was once here, when we were all together, united by a good and kind feeling which made us, for the time we were loving that poor boy, better perhaps than we are. My little doves—let me call you so, for you are very like them, those pretty blue birds, at this minute as I look at your good dear faces. My dear children, perhaps you won’t understand what I am saying to you, because I often speak very unintelligibly, but you’ll remember it all the same and will agree with my words some time. You must know that there is nothing higher and stronger and more wholesome and good for life in the future than some good memory, especially a memory of childhood, of home. People talk to you a great deal about your education, but some good, sacred memory, preserved from childhood, is perhaps the best education. If a man carries many such memories with him into life, he is safe to the end of his days, and if one has only one good memory left in one’s heart, even that may sometime be the means of saving us. Perhaps we may even grow wicked later on, may be unable to refrain from a bad action, may laugh at men’s tears and at those people who say as Kolya did just now, ‘I want to suffer for all men,’ and may even jeer spitefully at such people. But however bad we may become—which God forbid—yet, when we recall how we buried Ilusha, how we loved him in his last days, and how we have been talking like friends all together, at this stone, the cruelest and most mocking of us—if we do become so—will not dare to laugh inwardly at having been kind and good at this moment! What’s more, perhaps, that one memory may keep him from great evil and he will reflect and say, ‘Yes, I was good and brave and honest then!’ Let him laugh to himself, that’s no matter, a man often laughs at what’s good and kind. That’s only from thoughtlessness. But I assure you, boys, that as he laughs he will say at once in his heart, ‘No, I do wrong to laugh, for that’s not a thing to laugh at.’ ”

“That will be so, I understand you, Karamazov!” cried Kolya, with flashing eyes.

The boys were excited and they, too, wanted to say something, but they restrained themselves, looking with intentness and emotion at the speaker.

“I say this in case we become bad,” Alyosha went on, “but there’s no reason why we should become bad, is there, boys? Let us be, first and above all, kind, then honest and then let us never forget each other! I say that again. I give you my word for my part that I’ll never forget one of you. Every face looking at me now I shall remember even for thirty years. Just now Kolya said to Kartashov that we did not care to know whether he exists or not. But I cannot forget that Kartashov exists and that he is not blushing now as he did when he discovered the founders of Troy, but is looking at me with his jolly, kind, dear little eyes. Boys, my dear boys, let us all be generous and brave like Ilusha, clever, brave and generous like Kolya (though he will be ever so much cleverer when he is grown up), and let us all be as modest, as clever and sweet as Kartashov. But why am I talking about those two? You are all dear to me, boys, from this day forth, I have a place in my heart for you all, and I beg you to keep a place in your hearts for me! Well, and who has united us in this kind, good feeling which we shall remember and intend to remember all our lives? Who, if not Ilusha, the good boy, the dear boy, precious to us for ever! Let us never forget him. May his memory live for ever in our hearts from this time forth!”

“Yes, yes, for ever, for ever!” the boys cried in their ringing voices, with softened faces.

“Let us remember his face and his clothes and his poor little boots, his coffin and his unhappy, sinful father, and how boldly he stood up for him alone against the whole school.”

“We will remember, we will remember,” cried the boys. “He was brave, he was good!”

“Ah, how I loved him!” exclaimed Kolya.

“Ah, children, ah, dear friends, don’t be afraid of life! How good life is when one does something good and just!”

“Yes, yes,” the boys repeated enthusiastically.

“Karamazov, we love you!” a voice, probably Kartashov’s, cried impulsively.

“We love you, we love you!” they all caught it up. There were tears in the eyes of many of them.

“Hurrah for Karamazov!” Kolya shouted ecstatically.

“And may the dead boy’s memory live for ever!” Alyosha added again with feeling.

“For ever!” the boys chimed in again.

“Karamazov,” cried Kolya, “can it be true what’s taught us in religion, that we shall all rise again from the dead and shall live and see each other again, all, Ilusha too?”

“Certainly we shall all rise again, certainly we shall see each other and shall tell each other with joy and gladness all that has happened!” Alyosha answered, half laughing, half enthusiastic.

“Ah, how splendid it will be!” broke from Kolya.

“Well, now we will finish talking and go to his funeral dinner. Don’t be put out at our eating pancakes—it’s a very old custom and there’s something nice in that!” laughed Alyosha. “Well, let us go! And now we go hand in hand.”

“And always so, all our lives hand in hand! Hurrah for Karamazov!” Kolya cried once more rapturously, and once more the boys took up his exclamation: “Hurrah for Karamazov!”

THE END

Combination Solemn JUN 2021

Din Post Story AV

Data Priority Natural Contest MC MAY 2021
Posted on May 17, 2021 by Din Story AV
Il Natural Jumps Joy ,nato a MAY 2021, ha il collegamento con la pubblicazione diretta e la scelta dipende dai suoi contenuti , perche’ esistono varie posizioni da sviluppare.Nella realta’ il contesto di Natural Jumps Joy ,è assai maggiore anche ai contenuti di MAY 2021 e questa posizione è nata grazie a un idea “per integrare ” i contenuti di Data Priority e il riferimento è ai tantissimi domini ,sistemati in oltre 6 anni e da UNO di essi ,è nata l’idea di collocare il Natural Jumps Joy ,anche nei Data Priority:)Le varie posizioni le sistemero’ tra un po’ e qui aggiungo “il nesso naturale” ,rispetto alle “Priorita’” e sono i Dati Veri 🙂Il senso è nei contenuti della prima Data PriorityNel corso della pubblicazione descrivero’ gli sviluppi per il Natural Jumps Joy,mentre in questa posizione creo subito l’unione diretta con MAY 2021 e la prima Data Priority ,ed è arrivata grazie alla collocazione di Microsoft Bing:) Questa posizione è all’interno di MAY 2021 ,ed è facile l’unione con la prima Data Prioriity e insieme rendono molto semplice ,comprendere che la Vera Priorita’ saranno i Dati Veri:) A permettere l’unione ,esiste anche la 5° TPJ ,tramite i suoi collegamenti (è un Bridge URL inseito nella sidebar ,ed esistono 4 pubblicazioni sistemate in 1 solo link:) In questa posizione sistemo solo 2 immagini,perche’ ne esistono tantissime altre da inserire:) Da sola è gia’ sufficente ,per conoscere quali sono le “Vere Priorita’” e non occorre nemmeno descriverne i contenuti ,perche’ è sufficente solo la sua collocazione, ed è inserita dopo tutte le violazioni ,possibili e immaginabili e tutte insieme ,hanno “un unico scopo” ,ed è quello di “Decidere i Valori”:) E’ sufficente scorrere ,solo le immagini ,precedenti a quella sistemata in Goal Data e diventa molto facile intuire i motivi “alla base delle violazioni”:) Questa è la seconda immagine,ed è all’interno di APR 2021Le altre 2 pubblicazioni sono all’interno di Goal Data ,sistemata nella sidebar.L’unione della prima immagine , con la Vera Priorita’ (è quella dei Dati Veri:) è diretta ,perche’ esiste solo la possibilita’ dei contenuti effettivi a creare valore reale e per Google è lo stesso:) Esiste 1 solo GOAL ,inteso proprio come termine ,sistemato in 1 sola posizione ,nelle General Guidelines di Google ,all’interno di oltre 60000 termini effettivi ,ed è unito solo al Main Content:)Nell’immagine di APR 2021 ,esiste invece un unione indiretta ,pero’ è importante lo stesso ,ed inizia da URL Inspection e le descrizioni sono ad APR 2021 e qui sistemo una loro novita’ e cioe’ l’URL Inspection, contiene anche i Fact Check di Microsoft Bing e sono nati quasi nello stesso periodo di Google (SEP 2017) e sopratutto,esistono le stesse condizioni e iniziano dalle “Several Pages Claim Review” e cioe’ è possibile che esistano “Fatti Non Veri” ,inseriti in tante pubblicazioni:)Questa posizione è meravigliosa da inserire nelle Data Priority, proprio per gli INDEX sistemati ad APR 2021 e nelle altre pubblicazioni di Goal Data ,perche’ anche le pubblicazioni dell’anno 2015 ;2016 e gran parte del 2017 , hanno come riferimento temporale ,non i Discoverd (cioe’ quando è stata trovata la pubblicazione la prima volta) ,ma l’attualita’ dell’anno 2021:)E’ una posizione meravigliosa ,perche’ gli INDEX sono anche aumentati (ne erano gia’ 1200 nei contenuti di APR 2021:) e il merito non puo essere “dell’anno corrente” ,perche’ sono iniziati da 2 pubblicazioni ,la prima volta che li ho visti e poi sono passati a 3 e attualmente sono 4 gli INDEX per l’anno 2021:)Quindi è sicuro che ci sono stati dei Discoverd ,rispetto agli anni precedenti e questo dimostra quanto è difficile avere valore reale ,ad iniziare dagli archi temporali necessari e in questo contesto non è possibile nessuna confusione,perche’ esiste 1 sola alternativa ,ed è quella del DE-INDEX e quando avviene, le pubblicazioni coinvolte ,non avranno mai piu’ nessun valore.Potranno restare nel dominio ,pero’ non avranno piu’ nessun Discoverd successivo e quindi ,l’aumento degli INDEX ,potra derivare solo da pubblicazioni che non sono state mai trovate prima ,perche’ nell’anno 2021 ne esistono solo 4 e quindi ,per forza di cose ,per arrivare a quasi 1300 INDEX solo per Microsoft Bing ,sono stati gli altri anni a fornire i contenuti:)Questo passaggio è nato per evidenziare i Valori reali ,uniti “alla Vera Priorita’” e un ottima evidenza ,è descritto nella prima Data Priority ,attraverso il rapporto di Apple con Microsot Bing e poi Google e diventa estremamente facile ,comprendere che non è possibile decidere NULLA ,se non si hanno i valori reali:)La posizione di APR 2021 l’ho inserita anche per un altra novita’ : Inizia dalla richiesta “di revisione di 1 INDEX” e il riferimento è 1 sola pubblicazione e questa posizione “è solo teorica nelle possibilita’” ,perche’ nella realta’ ,dimostra solo che non è possibile decidere nulla ,nemmeno se dovesse esistere la “buona fede dei webmastres” ,semplicemente perche’ non conoscono le posizioni di tutte le altre pubblicazioni presenti in 1 dominio e poi potrebbero essere presenti tante altre violazioni compiute dall’utente e quindi ,l’eventuale richiesta di essere Rendicizzato, è sempre ad alto rischio ,perche’ le probabilita’ maggiori , sono quelle di peggiorare la posizione:)Per i contenuti che seguiranno,diventa importante anche l’altra evidenza ,ed è il nome del dominio e l’eventuale richiesta di essere reindicizzati ,potra’ essere unita solo al dominio con i codici registrati e verificati e la posizione è importante ,perche’ è possibile anche avere gli stessi domini uniti a diversi TLD,ed esiste l’esempio individuale diretto ,perche’ è presente anche il TLD .IT nello stesso account ,ed avra’ sempre dati separati ,dal TLD .COM e da quello di AV e la stessa condizione la possiedono tutti gli utenti ,a prescindere dal numero di TLD presenti (anche per Google Search Console esiste lo stesso contesto). In quest’immagine esiste la sintesi completa dei passaggi precedenti:)In realta’ esiste anche la sintesi dei contenuti che seguiranno ,attraverso il nome effettivo dell’autore,unito al codice specifico del TLD .COM e il senso è molto semplice ,perche’ nei dati che seguiranno,sara’ proprio escluso l’autore e cioe’ME STESSO:)Esiste un altra fantastica sintesi,rispetto ai contenuti di MAY 2021 ,ed è quella dei robots txt e sono uniti alla verifica stessa dei codici e non possono essere modificati successivamente e se fosse l’opposto,non esisterebbe nessun INDEX:) Questa è un unione fantastica con le Vere Priorita’ ,ed ha l’unione diretta con i contenuti di MAY 2021 e di tantissime pubblicazioni precedenti ,compresa la presente ,perche’ tra un po’ ci saranno anche altre posizioni delle API:)Comunque quella di MAY 2021 ,è davvero un unione clamorosa ,perche’ esistono le API dello strumento delle verifiche e tra le tante possibilita’ ho scelto di evidenziare l’opzione degli Ignore,proprio per i robots txt:)La posizione sopra non la conoscevo ,pero’ era noto “il ruolo degli abusi” ,perche’ è sistemato ovunque e il suo vero contesto è unito a coloro “che pensano di avere capacita’ di decidere i valori”:) (alla base di ogni abuso ,esistono proprio queste motivazioni:).Anche per Microsoft Bing esiste la stessa posizione e si raggiunge l’ABUSO in maniera molto semplice , ed è sufficente avere impostazioni diverse ,rispetto alla prima verifica dei codici e i robots txt sono un ottimo esempio ,perche’ la loro eventuale attivazione ,ha 1 solo scopo ,ed è la sistemazione dei Disallow o dei blocchi ,attraverso gli Internal Links OUT .Esiste la liberta’ di scelta anche per queste posizioni ,pero’ non possono essere modificate successivamente ,perche’ diventerbbe un abuso e altre posizioni sono descritte a MAY 2021:).Il contesto di Google ha poi una “magia ulteriore” ,unita agli Abusi delle API e a parte l’arco temporale in cui è arrivata ,la magia è la posizione fisica stessa ,perche’ è all’interno di un numero incredibile di prodotti ,uniti a Google stessa e le posizioni sopra ,sono sistemate “solo in ordine alfabetico” ,ed esistono solo 3 lettere a non avere nessun prodotto unito a loro (compreso anche l’asterisco del cancelletto:) e per quanto riguarda solo la lettera A ,esiste uno “score kilometrico” della barra di scorrimmento laterale e i vari prodotti sono sistemati nella sequenza ,indicata dall’immagine:) Cioe’ esistono 3 prodotti in ogni step e insieme formano lo score kilometrico della barra di scorrimento ,solo per la lettera A e solo da questa posizione deriva il fatto meraviglioso ,per i contenuti di MAY 2021 e per questa Data Priority ,che sia proprio l’ABUSE delle API ,nella prima posizione, in ordine alfabetico, rispetto a tuti i prodotti di Google:) Solo il Caso Supremo è capace di creare questi contesti , perche’ ,indirettamente è arrivato prima l’esempio ,attraverso le API e i robots txt descritti a MAY 2021 e poi il contesto oggettivo degli ABUSI delle API stesse e per “individuare il tocco Divino” ,del Caso Supremo , è sufficente scorrere la pagina di Google Developers All Products e la sistemazione è fatta solo in ordine alfabetico e posso assicurare che non sapevo nulla ,quando ho creato i contenuti di MAY 2021 ,ed era anche oggettivamente impossibile conoscerli , perche’ le API dello strumento delle verifiche ,hanno avuto l’aggiornamento proprio a MAY 2021 ,ed esistono dimensioni colossali dei contenuti ,dedicati solo alle API e tra le tante possibilita’ ,sono andato a scegliere proprio gli Ignore dei robots txt ,uniti alle API stesse e grazie ai dati di Microsoft Bing è facile comprendere quale sia “il senso dell’abuso”:) Il Natural Jumps of Joy ,rappresenta un contesto perfetto ,per sintetizzare i passaggi precedenti ,perche’ sono uniti alla sua nascita stessa,avvenita all’interno di MAY 2021 🙂I Salti Naturali di Felicita’ ,possono essere fatti solo attraverso i Dati Veri e nascono dalla LOGICA del Contesto Globale ,attraverso un paradosso fantastico , perche’ sono talmente elevate le sue dimensioni ,da rendere estremamente facile riconoscere “posizioni innaturali dei dati” e di conseguenza ,il paradosso , del Naturakl Jumps of Joy ,deriva dal fatto che la sua migliore verifica ,deriva dall’innaturalita’ stessa dei dati:)Si comprendera’ facilmente nei contenuti che seguiranno e iniziano da un altra posizione di Microsoft Bing:) Il contesto di quest’immagine è unito sempre ai Dati Reali e saranno le Vere Priorita’:)Anche questa posizione merita i Natural Jumps of Joy ,perche’ non esiste nessuna Submission API e quindi i dati sono tutti Naturali al 100% ,perche’ non è presente nemmeno “il loro opposto” e sono le “richieste di reindicizzazione”:)Per il momento descrivo solo le evidenze unite alla Submission API di Microsoft Bing (con altri metodi ,la stessa posizione è valida anche per Google Search Console) : si possono effettuare 10 Submission in 1 giorno e nella posizione sopra ,non ne esiste nessuno e posso anticipare che non esistono proprio in generale ,in 6 anni e 2 mesi:)qui è sistemato un esempio dell’arco temporale unito alle Submission APIIl limite è 28 giorni e in questa posizione sono conservate tutte le eventuali Submission API create e nello spazio individuale non esiste nessuna e posso assicurare che la stessa posizione riguarda tutti gli archi temporali precedenti:) Nell’immagine sistemata sopra ,esiste un altra evidenza ,ed è quella di Microsoft Clarity e ho fatto la sua attivazione, durante i prelievi descritti ad APR 2021. Anche questa posizione ha il Natural Jumps of Joy 🙂 E’ maggiore dei dati stessi ,perche’ rappresentano solo la parte finale ,del contesto completo e per Microsoft Bing inizia dal suo Goal Data ,semplicemente perche’ senza di ESSO ,i dati sopra non avrebbero nessun valore:) Inizio con la descrizione e la prima è una curiosita’ fantastica ,sistemata nella barra degli indirizzi ,perche’ è unita la favicon stessa di Microsoft al dominio individuale ,ed è una posizione meravigliosa:)Per i dati oggettivi esiste invece una posizione diversa e inizia dal fatto oggettivo del riferimento unico e riguarda solo il dominio del TLD .COM e l’indirizzo sistemato ,non ha come riferimento lo spazio ,ma solo la pubblicazione unita al dominio e non è una qualsiasi ,ma la 2° True Long Story Goal data HDC ,ed è quella che ha portato il traguardo storico dei 3,5 Milons Word:)La pubblicazione è sistemata quiPer comprendere i dati sopra e quelli che seguiranno ,è indispensabile anche unire le dimensioni della pubblicazione specifica:) Aggiungo un particolare curioso ,rispetto ad alcuni dati sistemati a MAY 2021 (il collegamento è nell’immagine iniziale) e cioe’ le dimensioni sono quasi uguali alla pubblicazione del TFD Wiki Globale ,dedicata all’intero Universo ,tranne il notevole dettaglio , che è realizzata da 915 autori per Wiki e naturalmente ,sono esclusi dal Natural Jumps of Joy , perche’ esistono anche 2080 EDITS ,per la stessa pubblicazione e quindi non hanno proprio nulla da festeggiare ,anzi è esattamente l’opposto ,perche’ i tantissimi autori ,sono anche in guerra tra di loro ,proprio per gli EDITS:)Le dimensioni della pubblicazione individuale ,sono da unire ai tempi di permanenza e per il momento non è possibile applicare una comparazione diretta dei dati ,pero’ sono fantastici gia’ in assoluto e poi occorre aggiungere il contesto da cui derivano i dati ,ed è descritto a MAY 2021 ,tramite le numerose DISABILITAZIONI e insieme ad esse ,esiste il contesto oggettivo del Frame Global Limit e non occorre nominare tutti i suoi elementi ,ma è sufficente solo sistemare “un suo mancato Abuso” e sono i Tags degli headers stessi ,semplicemente perche’ esistono solo Original Text e quindi è proprio impossibile abusare dei tags Headers:)Naturalmente per i dati sopra ,questa posizione “non è tanto importante” ,pero’ lo è per la posizione da Engines di Microsoft Bing ,semplicemente perche’ non esisterebbero le immagini sotto:) La prima è quella appena sistemata Per i dati laterali ,tra un po’ sistemero’ il senso delle varie posizioni e per il momento mi limito all’immagine oggettiva e inizia “dal simbolo della busta postale” e indirettamente è molto importante lo stesso, per comprendere i dati che seguiranno,semplicemente perche’ è “un ostacolo in piu’” per realizzare i dati stessi ,ad iniziare dal Depth Scroll 🙂 Hanno un valore progressivo e varia al 5% e l’inizio della “busta postale” , è un gran limite per gli average del Depth Scroll ,perche’ la pubblicazione ha gia’ notevoli dimensioni di suo e l’inizio è occupato “dall’embed di un altro spazio” ,ed è quello del Gold Star e in questo contesto ,non ha i codici e quindi ,non è compreso nei dati e per questo motivo esiste “la busta postale” e la stessa posizione esisterebbe ,anche se fosse presente il TLD .IT o qullo del dominio AV , perche’ i dati ,hanno solo come riferimento il TLD verificato nel webmasters di Microsoft Bing.

Questa è una seconda posiziioneIn questa pubblicazione ho scelto solo 3 immagini dello Score Depth ,perche’ in teoria ,potrebbero essere sistemate tutte le progressioni del 5% ,tra una posizione e quella successiva ,ovviamente grazie al fatto che esistono ,perche’ la pubblicazione,nonostante le sue dimensioni ,iniziando anche dall’embed del Gold Star (tramite la busta postale:) ,ha la visione completa:)In questi dati sono escluse le posizioni individuali ;le Exit Pages e le Entry Pages e naturalmente ,sono esclusi anche i refering di altri spazi (le esclusioni dei refering riguarda anche i rilevamenti di base tradizionale) e il riferimento dei dati sono solo i Desktop in questo Caso e naturalmente ,esiste 1 sola pubblicazione.A differenza di tutti gli altri dati ,esiste poi l’immagine sotto:)

E’ la posizione piu’ bella ,per comprendere il senso vero dei dati e rendera’ molto semplice comprendere anche quali sono le vere priorita’ 🙂Sono e saranno i Dati Veri e l’immagine sopra ,diventa il miglior esempio e non solo per i dati inseriti ,ma per i contenuti che possiede 🙂E’ sistemato il Gran Goal di Microsoft Bing ,ed è lo stesso di Google e il senso è molto semplice e cioe’ i valori reali nascono solo dai contenuti effettivi 🙂Senza di essi ,i dati sopra non avrebbero nessun valore e sono “quasi infinite” le possibilita’ che questo avvenga (gli esempi concreti sono proprio nella pubblicazione specifica:) e poi è possibile aggiungere anche il contesto diretto dei contenuti e il Gran Goal di Microsoft Bing è inserito a quasi 3/4 ,rispetto alle dimensioni della pubblicazione e quindi è gia’ difficile arrivarci e il percorso non è nemmeno diretto ,perche’ le prime posizioni sono occupate dal Gold Star e non avendo dei codici specifici per Microsoft Clarity ,è presente solo la “busta postale” e non fornisce nessun dato ,tranne il 10% in meno negli Scroll Depth:)Comunque,il Gold Star , è parte storica del dominio e quindi lo mantengo lo stesso nella prima posizione e indirettamente è anche molto utile,perche’ rende molto piu’ evidenti i dati:) la pagina di Microsoft Clarity ha poi un altro Plus fantastico ,ed è il background stesso e permette un unione diretta con i contenuti di MAY 2021 🙂l’unione è sistemata qui ,ed è il peso stesso del file:) L’immagine è compressa ,pero’ il peso del file è maggiore di 1,6 MB e naturalmente è unito a qualsiasi pubblicazione ,ed è un contesto fantastico da unire ai dati, anche per Microsoft Clarity ,perche’ il Core Web Vitals esiste anche nel suo contesto e il primo riferimento sono i Loading dei domini e con pesi cosi’ elevati ,solo per il background , è sicuro che sono stati solo i contenuti effettivi a risolvere tutti i Match:)In questa posizione esiste il dominio di AVE’ presente nel webmaster pero’ non ha i codici di Microsoft Clarity. qui è sistemato il TLD .ITAnch’esso ha l’ADD ,ed è l’opzione per avere i codici specifici.Questa è l’unica posizione con i codici e naturalmente ,non è possibile che esista “la confusione dei confini dei domini” (la descrizione è in Goal Data e i collegamenti sono inseriti nei passaggi precedenti e nella sidebar) ,perche’ non sono abilitati nelle impostazioni normali e non esiste nessuna possibilita’ ,che provengano dal contesto descritto ,perche’ sono abilitati solo i domini verificati e non esiste nessuna unione nemmeno tra di loro:) (ad APR 2021 esistono anche le posizioni dei backlinks e non è presente nessuna segnalazione:) Adesso sistemero’ alcune posizioni da cui derivano i dati e la vera importanza è nei contenuti stessi della pubblicazione specifica sistemata 🙂Il riferimento è al Gran Goal di Microsoft Bing e prima di esso ,esistono tutte le violazioni possibili e immaginabili ,proprio in maniera oggettiva ,perche’ sono sistemate nella stessa pagina del Gran Goal:)Senza la sua presenza i dati sopra non avrebbero nessun valore e il contesto è molto importante anche per questa pubblicazione ,perche’ Data Priority ,ha come elementi ,i principali domini del digitale italiano ,ed è molto difficile trovare le loro collocazioni nei Dati Veri:) Per questo motivo esistono solo i social e i piu’ “sofisticati” hanno i dati di Amazon o quelli di Alexa e sono del tutto incompatibili con i dati veri ,ad iniziare dal fatto che non li posseggono nemmeno le piattaforme dirette:) (è sufficente vedere da cosa derivano i dati dei social o quelli di Amazon e l’unica competizione che possono avere ,è quella con la LOGICA ,solo per la sua completa assenza:) Questa è la posizione dei dati descritti nei passaggi precedenti Sono quelli inseriti nella posizione laterale delle Heat Maps e il valore piu’importante è nei contenuti del Gran Goal di Microsoft Bing e anche di Google,ed è possibile anche quantificare i dati ,perche’ sono tutti nati dal Frame Global Limit e quindi solo i contenuti effettivi hanno fatto la differenza e il peso specifico deriva dai loro Match:) E’ sufficente vedere i termini dei Just Time quali sono e tramite la loro rilevanza ,diventa facile comprendere anche il peso specifico ,ed è determinato dai contenuti complessivi e cioe’ i Main Content e quindi Goal data:)(rappresentano il valore reale della 3° Heat map:) Queste sono alcune posizioni interessanti sull’operativita’ di Microsoft Clarity La prima e la seconda faq sono normali e rigurdano la verifica dei codici e l’assenza d’interferenze dei codici Javascript con eventuali altri strumenti presenti.La 3° posizione è invece meravigliosa e altrettanto la risposta:)Per comprendere il contesto ,occorre ricordare la violazione dei “confini ingannevoli dei domini” e proporre dei tracking code su multipli siti ,diventa “una loro copia esatta”:)Se desiderano avere multipli tracking ,esiste 1 sola possibilita’ ,ed è quella di avere Nuovi Project ,per ciascun dominio ,con codici diversi 🙂 (se uniscono vari spazi con confini ingannevoli , non ci saranno nuovi codici ,perche’ saranno proprio eliminati i contenuti tout coure:)Queste sono altre informazioni importanti per Microsoft ClarityL’inizio sono le 2 evidenze ,ed è il dominio con il TLD specifico ,insieme all’evidenza dell’amministratore e sono io stesso e i miei dati sono rimossi dal tracking.Non è possibile bloccare nessun Users ,ma puo essere rimosso solo il Project ,mentre è possibile selezionare “contenuti sensibili” e bloccarli per il tracking.Tutti i dati raccolti dalle Heat Maps di Microsoft Clarity ,non sono utilizzati per le vendite e restano nei database per 1 anno. Il Natural Jumps of Joy deriva anche dai passaggi appena sistemati ,perche’ è il contesto online stesso a permetterlo ,attraverso il paradosso descritto nei passaggi precedenti:)Dopo 6 anni e 2 mesi (il riferimento temporale è sempre il traguardo storico dei 3,5 Milions Word:) ,il Natural Jumps of Joy ,puo’ compiere salti di felicita’ anche rispetto ai suoi contenuti storici e il riferimento sono “i presunti giganti italiani” , uniti al contesto digitale:)Sono centinaia le pubblicazioni fatte ,solo per loro e il motivo è molto semplice ,ed è unito al fatto che esistono valori molto scarsi ,nei presunti giganti:) La vera operativita’ è unita all’immagine storica degli Indifferent Colors 🙂Il link ha il collegamento con la pagina dei Brain Stone dedicata alla raccolta degli elementi uniti agli Indifferent Colors e la data originale ,solo della pagina di raccolta è FEB 2017:)Tutti gli elementi presenti ,per varie ragioni ,sono uniti anche alle priorita’ e conoscendo da anni “come sono fatti realmente” ,è da esckludere che il contesto degli Indifferent Colors possa produrre dei Dati Veri 🙂 Avevo gia’ in mente di unirne alcuni a questa pubblicazione di Data Priority ,ed è stato sufficente ,sceglierne solo UNO ,per “capovolgere tutti i piani”:) Questa è la posizione “meno augurale” per qualsiasi piano ,perche’ i capovolgimenti sono sicuri:)Avevo pensato proprio al Garr ,da unire a Data Priority ,all’interno dei tantissimi elementi degli Indifferent Colors e la prima idea era anche ragionevole ,perche’ sono tutti uniti al contesto digitale ,ed è tra le massime priorita’ e a sua volta è anche inevitabile che sia all’interno di tutte le altre:)Quindi la scelta del Garr era scontata ,perche’ a sua volta è all’interno di un numero elevato di elementi ,uniti anche loro al digitale.E’ presente in quasi tutte le universota’ italiane ,ed ha il monopolio anche del CNR e di tutti i suoi istituti:)Questa era l’idea iniziale e poi debbo confessare “quello che avevo davvero nel cuore” e cioe’ tra le tante possibilita’, ho scelto il “Vecchio Garr” ,perche’ “avevo la netta sensazione” che mi sarei divertito:)Il problema è descrivere il divertimento,perche’ da 1 sola posizione ,sono nati infiniti contesti e tutti pertinentissimi ,rispetto ai contenuti delle Data Priority e sono i Dati Veri:)Unendo il Garr e Horizon ,le probabilita’ di avere Dati Veri ,sono molto scarse e l’inizio è la collocazione italiana dello strumento di EU:) questa è la collocazione di Horizon in Italia;) E’ l’agenzia per la promozione della ricerca in europa e il “vecchio Garr” ha fornito un ottimo aiuto,perche’ la pubblicazione è arrivata ad APR 28 2021:) Sono tantissime le unioni e per iniziare “il contesto italiano di Horizon” ,ho scelto la posizione del suo CMS e l’ottimizzatore diretto del Content Management System è Yoast:)Sempre da questa posizione sono arrivati contesti clamorosi ,ed è stato sufficente seguire il metodo dei Brain Stone e applicare Goal Data a Yoast 🙂La prima posizione è un divertimento fantastico ,unito al Link Building e altrettanto fantastica è l’immagine associata ,perche’ anche questa volta, Yoast ha scelto un campo sportivo ,senza conoscere assolutamente dove si gioca la partita:)Ignore General Fact data:)Sono ancora tante le posizioni da sistemare e per rendere vero il divertimento ,ho inserito l’Ignore General e al suo interno esistono prove concrete, rispetto all’idiozia stessa di Yoast 🙂Cioe’ il fatto che ignorano anche il campo dove si disputano i Match, è assolutamente reale e poi esiste un altra curiosita’ fantastica ,ed è la pubblicazione stessa di Yoast ,unita al termine IGNORE e la data è MAR 9 2021 ,mentre la pubblicazione individuale è arrivata il giorno dopo e naturalmente non lo sapevo:)Esistono tante altre posizioni unite a Yoast e saranno anche in prossime pubblicazioni e in questo contesto ,i contenuti appena sistemati ,sono utilissimi per comprendere l’ambito del Content Management System (CMS:) ,applicato anche all’agenzia italiana APRE ,insieme ad Horizon:)A parte la pubblicazione della della prima Data Priority ,le presenze di Horizon nei Content individuali ,esistono da tanti anni : Una di esse è qui e la data è July 2018 ,ed è il 6° RF della 5DE’ arrivato grazie al termine Budget ,applicato al TFD NASA ,ed è facile da comparare con i costi di Horizon e sono assai maggiori e sopratutto ,lo strumento di EU , è del tutto controproducente ,rispetto al motivo stesso per cui è nato ,ed è la Leadership nell’economia digitale:)Puo essere fatta solo con i dati veri e le nuove collaborazioni di Horizon ,non hanno nessuna possibilita’ di migliorare la sua posizione:)Ho scritto questo passaggio per aggiungere un informazione ,ed è il nuovo Budget di Horizon: quello del TFD NASA ,con tutta l’operativita’ che ha, è quasi uguale a quello dell’anno 2017 ,mentre quello di Horizon ha raggiunto 98,5 Billions di Euro e arrivera’ fino all’anno 2027 e non sono comprese le implementazioni:)Questa posizione è molto utile per evidenziare i dati che seguiranno e sono quelli ufficiali di EU ,per il Recovery Plan. Nella prima Data Priority esistono le posizioni,prima dei negoziati ,per stabilire gli importi economici ,da elargire alle 27 nazioni che formano EU.La parte piu’ importante è il “Current Prices” e il riferimento è l’anno 2018 e posso anticipare che saranno le vere Data Priority,perche’ il calcolo forma un importo economico molto rilevante ,rispetto al Grant complessivo (è il denaro a fondo perduto di EU per i suoi stati mebri) ed è formato da quasi 25 Billions di Euro ,solo calcolando il riferimento del Current Prices, rispetto all’anno 2018.Il nesso con Data Priority è molto semplice ,perche’ solo la differenza rispetto all’anno 2018,corrisponde quasi al Grant economico della Germania e non esiste nessun dubbio,che sia stata la nazione tedesca ad approvare,anche il Recovery Plan in Grant per la nazione italiana.Gli olandesi e altre piccole nazioni hanno ostacolato l’Italia nel recovery Plan solo “per seguire dei propri interessi” (hanno sperato in questo modo di aumentare il Grant economico riservato a loro:),pero’ è solo la Germania che ha deciso realmente,la divisione economica e sara’ solo LEI il riferimento reale delle Data Priority.Horizon è “solo un giocattolo di EU”,ed è facile immaginare che l’unione con il Garr e il contesto di APRE,sia solo un modo “per italianizzare il contesto tecnico di Horizon”,ed è uno sforzo inutile in partenza ,perche’ esiste solo una competizione tra idioti:) Per la Vera Priorita’ e cioe’ i Dati Veri,occorre convincere i Tedeschi e sara’ molto difficile che credano ai dati di EU o a quelli di Horizon:)Questa volta,se “italianizzeranno i dati”, si incazzeranno all’ennesima potenza,ed avranno anche fondate ragioni:) Questo è il Grant italiano e sono dati ufficiali ,ed è secondo solo alla Spagna.Il dato in grassetto è il totale ,mentre gli altri dati ,sono formati dalle percentuali in Amount ,rispetto agli anni in cui verranno elargite le somme di denaro (il 70% dell’amount ,verra’ elargito negli anni 2021 e 2022 ,mentre il restante 30% arrivera’ nel 2023). Questo è il Grant della Germania e sara’ il vero Data Priority ,ed è sicuro che gli elementi digitali italiani e i loro rappresentanti politici dovranno portare i Dati Veri ,perche’ non crederanno assolutamente alle cazzate che “voleranno tra i dirigenti di EU e quelli italiani”:)

Questa è la somma del Grant ,applicata tramite il “Current Prices”:)Il riferimento è l’anno 2018 e sarebbero “gli importi economici a fondo perduto” e sono dati ufficiali e la differenza è formata da 25 billions di Euro ,rispetto al denaro effettivamente elargito.Di conseguenza è normale che i Loans (cioe’ il denaro a prestito) abbia lo stesso contesto:) L’importo dei Loans (denaro a prestito) è quello evidenziato (360 Billion di euro) e poi ciascuno stato membro puo richiedere altri finanziamenti,sempre a prestito , per un importo massimo del 6,8% rispetto ai propri pil e il riferimento temporale è l’anno 2019.qui è sistemato il pdf di EU con tutti i dati ufficiali ,divisi per le 27 nazioni membre Questa è la reale “Next Generation” e rappresenta l’unione dei Loans e dei Grant (750 Billion di euro) e copriranno gli anni dal 2021 al 2027 e il denaro verra’ preso sul mercato e la restituzione avverra’ nel 2058:) Applicando lo stesso Current Prices dell’anno 2018 ,quella sopra sara’ la somma da restituire nel 2058 e i calcoli sono molto pertinenti ,se avessero realmente valore assoluto:)Nella realta’ “sono molto approssimativi” ,perche’ la vera pertinenza di EU ,risiede nella “variante della sfiga” e inizia proprio con il nome ,unito al suo “strumento d’eccellenza” ,ed è nato come Horizon 2020 ,per la leadership nell’economia digitale:)E’ la sua denominazione esatta ,ed è nato nell’anno 2014 e l’unica posizione economica è unita solo alle sanzioni contro “le posizioni dominanti del digitale”,dimenticando che EU ha quasi il 12% degli utenti globali e il 16% sono nella zona europea complessivamente,mentre le “nazioni dominanti” arrivano al 7% degli utenti globali,sommando anche una nazione come il Canada e poi nel 2020 ha fatto l’enplein della sfiga:)Questo è il riferimento dei calcoli per l’anno 2058 e purtroppo anch’esso “è un anno bisestile” (2008:) e la massima inflazione è nata grazie ai tanti fallimenti bancari ,pero’ rispetto al 2020 ,sembra quasi un “contesto favorevole” e quindi la sua percentuale inflattiva ,per l’anno 2058,permette quasi un calcolo ottimista:)Il contesto dell’immagine è in questa pubblicazione:) Per la “scienza della sfiga di EU” , occorre pensare seriamente ,alle priorita’ piu’immediate e sara’ l’anno bisestile 2024 ,gia’ inserito nelle priorita’ di EU stessa:) Per arrivare al 2058 ,occorre superare altri 9 anni bisestili e il contesto è molto piu’ serio delle apparenze ,perche’ le Data Priority ,potranno avere solo dati veri e il riferimento non sara’ EU ,ma la nazione che ha il suo “Golden share” e cioe’ la Germania:) Se faranno cazzate con il Recovery Plan ,non avranno piu’ possibilita’ di chiedere aiuto e la sfiga della nazione italiana è sempre al Top:)Altri dati saranno nel prossimo Just Time e occuperanno tutte le pubblicazioni dei prossimi mesi ,semplicemente perche’ i termini esistono e da SEP 2021 ,iniziera’ anche il ciclo del K3 e saranno 3 anni di match fantastici ,ed esiste anche una notevole sicurezza che i contenuti supereranno anche l’anno 2058 , perche’ sono le proposte complessive a fare la vera differenza ,ed è la stessa applicata anche alle Data Priority e ai loro valori reali:)
Posted in Key Page Unit, TD Space Content
FGL Star Unique Content MAY 2021🟢
Posted on May 17, 2021 by Din Story AV
FGL Star Unique Content MAY 2021 ,inizia dal collegamento con la pubblicazione precedente ( è nell’immagine sopra) e al suo inizio esistono le descrizioni dei contenuti che avra’ MAY 2021 e il riferimento è “alle comparazioni dei calcolatori” ,attraverso dati davvero incredibili:)
I dati in comparazione saranno quelli appena sistemati e sono presenti anche in tante pubblicazioni precedenti e l’unica variante è il riferimento dei dati stessi:)
Nelle precedenti pubblicazioni ,esiste il rapporto tra i volumi delle verifiche e il numero di post presenti ,ed esprimono tutti i possibili conflitti che hanno i contenuti e la variante dei dati sopra è molto semplice ,perche’ è sistemato il rapporto tra il volume generale e tutte le pubblicazioni presenti:)
Il dato finale è 4 a cui seguono 9 numeri + 1009 ,ed esprimono delle potenze ,rispetto al primo dato (cioe’ 4) e sono sistemati per estesso ,perche’ rispetto agli altri calcolatori che sistemero’ , esiste una sequenza esatta dei numeri:)
Nei contenuti che seguiranno , si comprenderanno ancora meglio i rapporti dei dati ,attraverso la semplicita’ stessa di avere Match nei termini che formano tutte le pubblicazioni ,ed è sufficente applicare le ulteriori varinati ,rispetto ai dati del calcolatore:)
La prima è oggettiva ,perche’ nel calcolo delle combinazioni , esistono 3 zeri in meno (il massimo è stato 35000 contro i 3,5 Milions reali dei termini) e poi occorre aggiungere anche le varianti degli average e nel calcolo delle combinazioni ,occorre ipotizzare che tutte le pubblicazioni abbiano almeno 2 mila termini effettivi e nello stesso tempo deve esistere anche un Main Content:)
Queste posizioni non sono comprese nei calcoli delle combinazioni ,pero’ sono fondamentali anche loro ,perche’ l’assenza degli average da 2000 termini ,coinvolge l’Amount e cioe’ la Quantita’ stessa dei contenuti e sono loro a permettere ai Match di avere valore e la stessa importanza riguarda i Main Content ,perche’ senza la loro presenza ,diventa inutile il calcolo dei conflitti stessi ,perche’ non sara’ presente nessun valore:)
Queste posizioni sono molto importanti ,perche’ gli altri dati delle comparazioni non li possiedono , ed esprimono solo “numeri finali” ,mentre quelli del calcolatore delle combinazioni , forniscono dati parziali ,grazie alle importantissime varianti appena descritte e in esse è possibile aggiungere anche il numero di autori 🙂
Il numero di autori,indirettamente,sono anche inseriti nei dati sopra:)
Il riferimento è al numero di “Commenti” ,ed è sufficente che esistano dei links in DoFollow ,per essere inseriti nei volumi generali ,rispetto a qualsiasi dominio:)
E’ molto facile che accada ,perche’ i DoFollow sono tutti superiori al 90% e questa posizione è molto importante ,rispetto ai dati del calcolatore delle combinazioni ,perche’ i suoi riferimenti “non sono generalisti” ,ma riguardano 1 solo dominio ,ed è quello individuale:)
Quindi la presenza o meno di commenti ,con links in DoFollow ,puo fare una notevole differenza ,semplicemente perche’ i contenuti sono creati da tanti autori ,ed è piu’ semplice diversificare i periodi:)
Comunque questa posizione,puo avere anche una lettura opposta ,perche’ se dovessero esistere un numero elevato di commenti in Dofollow ,insieme a percentuali elevate di Copied , trasformerebbe il contesto in idiozia completa ,sia per il gestore del dominio e per coloro che sistemano i commmenti:)
Questa è invece l’unione con il “dato dei followers” ,ed è uguale a “zero” ,semplicemente perche’ non esiste l’abilitazione della Navbar ,da Sempre:)
L’immagine sistemata ha “una versione ridotta” ,per evitare le dimensioni originali e comunque i dati sono quelli sistemati e derivano da FEB 2015 ,ed è facile da verificare ,perche’ esistono tante immagini del dominio e in nessuna di esse è presente la Navbar:)
Solo attraverso di ESSA è possibile “registrarsi come followers” e la scelta fatta a FEB 2015 è stata fantastica ,perche’ grazie all’esperienza degli anni precedenti ,avevo gia’ chiaro in mente “quale fosse il valore reale dei followers” ,ed è uguale a zero:)
In realta’ formano solo degli schemi e ho scelto di eliminarli ,gia’ a FEB 2015 ,perche’ non hanno nessun valore aggiunto reale ,tranne per le violazioni e nello stesso tempo, la posizione richiede pure un notevole impegno e per forza di cose , non è possibile creare contemporaneamente pure dei contenuti validi:)
Quindi la scelta è stata semplice,grazie all’esperienza degli spazi precedenti a FEB 2015 , perche’ pensavo di descrivere solo quello che avevo in mente realmente ,ed era del tutto incompatibile ,con “tanti pensieri format”,quasi sempre sistemati “solo per convenienza”:)
Dal mio “Point of View” ,unito anche all’esperienza degli anni precedenti a FEB 2015 ,questa ERA (ED E’:) ,la reale posizione dei followers e cioe’ solo “pensieri format” ,senza nessun nesso reale con i valori effettivi ,perche’ quasi sempre è esattamente l’opposto:)
E’ possibile verificarlo attraverso i commenti in DoFollow ,perche’ fanno parte dei contenuti effettivi ,rispetto ai domini che li ospitano e nello stesso tempo è possibile verificare anche i valori dei links uniti ai followers e sono peggiori anche dei commenti ,nel creare valore ,perche’ l’unica capacita’ effettiva è di annullarli:)
Queste posizioni saranno molto importanti per i contenuti che seguiranno e avranno un unione molto semplice,proprio grazie ai dati di MAY 2021:)

Per i dati che seguiranno e per unire i passaggi precedenti ,sono fondamentali le impostazioni da cui sono nati:)
Questa è un altra fantastica variante ,rispetto ai dati del calcolatore delle combinazioni stesse e al numero dei followers:)
Il numero di combinazioni dei contenuti ,ha come finalita’ la conoscenza dei possibili Match tra le pubblicazioni e attraverso ESSA ,diventa facile comprendere quali siano i loro valori e la variante del nome del dominio ,non abilitata ,diventa una posizione molto importante ,perche’ i valori dei Content possono essere solo quelli oggettivi ,perche’ non è abilitato nemmeno il nome del dominio:)

Questa è un altra fantastica variante ,unita al senso stesso dei followers e la loro “vera importanza” è nei collegamenti dei Links in DoFollow:)
A stabilire i valori reali ,è la semplice LOGICA ,ed è facilissima da verificare ,attraverso la Scienza di Penguin , perche’ i dati uniti all’immagine sopra ,non hanno nessuna unione con alcuno schema e significa che i Links delle segnalazioni sono naturali e per esserlo debbono anche esistere contenuti pertinenti ,rispetto ai domini segnalati:) (sono i Links Juice:)
Il contesto dell’immagine è qui ,ed è quello del Core Web Vitals:)
Il suo primo riferimento sono i Loading e quindi il peso degli elementi statici ,rispetto a qualsiasi pubblicazione,presente in qualsiasi dominio e questa posizione ,permette di verificare “i valori reali dei followers” (lo Zero Value appartiene proprio a Loro:) e nello stesso tempo ,rappresenta un altra incredibile variante , da potre applicare al calcolatore delle combinazioni ,con assoluta pertinenza ,perche’ i dati sistemati appartengono al dominio individuale ,ed è facile calcolare anche la variante dei pesi degli elementi statici ,perche’ esistono tante pubblicazioni in cui è presente e in nessuna di ESSE ,esistono “pesi leggeri” per il loading e quindi è sicuro ,che sono stati solo i content a fare la differenza al 100%:) .
Per verificare queste posizioni è molto facile,ed è sufficente utilizzare i Servizi degli Engines e sara’ molto semplice compararli ,con i dati del calcolatore delle combinazioni ,perche’ i dati di quest’ultimi ,rappresentano in realta’ 1 solo dominio 🙂
Nei Servizi degli Engines è possibile poi aggiungere “i volumi dei commenti e i links dei followers” e sara’ semplice comprendere quanto sono elevate le varianti ,da unire al calcolatore delle combinazioni stesse e questo contesto ,rende molto facile ,comprendere anche il livello dei dati restituiti dai Servizi degli Engines:)

Anche questa è un ottima posizione ,per comprendere il livello delle varianti ,nella combinazione dei contenuti ,perche’ nei dati generali , non sono compresi nemmeno il nome del dominio e il suo URL:)
Anche questa è una notevole variante ,rispetto al numero delle combinazioni ,gia’ elevatissimo di suo , perche’ nessun commento ha contribuito alle dimensioni dei volumi dei Content e nello stesso tempo esiste 1 solo autore realmente e non è presente “nessun pending Invites” per altri eventuali autori:)
Tra l’altro,se fossero presenti ,arriverebbero dopo 3,5 Milions Word 🙂
Queste sono le impostazioni di 1 pagina e cioe’ esiste 1 sola pubblicazione,ed è la stessa ,rispetto a tutti i domini che partecipano alle verifiche.
Occorre non confondere la Main Page con la Homepage ,semplicemente perche’ quest’ultima non esiste nel dominio individuale e il riferimento di Main Page, è solo l’ultima pubblicazione sistemata nel dominio e le successive page ,hanno sempre 1 Post per 1 pagina:)
Questa sarebbe la posizione normale per tutti i domini delle verifiche e rende molto semplice comprendere da quale contesto sono nati gli Heroic DC ,perche’ hanno 10 pubblicazioni in 1 pagina ,tutte in Full Text e la sistemazione su AV ,non diminuisce i valori ,perche’ i contenuti reali ,al 95% ,sono nati in questo dominio:)
Tra un po’ ci sara’ un altra incredibile dimostrazione pratica e per il momento,continuo con le impostazioni dei dati e sono fondamentali ,per comprendere i valori da cui derivano i reports del calcolatore delle combinazioni:)
Per i commenti ,non esiste nemmeno lo spazio fisico in cui sistemarli e quindi ,i volumi sono effettivamente di 1 solo autore:)
Non sono abilitati nemmeno i commenti attraverso le email e questa posizione ,ha una verifica semplicissima ,perche’ è molto facile trovare “il loro opposto”:)
Sono presenti in quasi tutti i domini e l’unica unione che hanno è quella con i presunti dati dei “rilevamenti di base”:)
Questa posizione ,insieme ai links dei followers e ai commenti normali ,amplificano proprio “i presunti dati dei rilevamenti di base” e indirettamente sono una verifica dei loro valori ,perche’ esiste la sicurezza di procurare solo pessime violazioni:)
Nella realta’ esistono solo degli schemi e la posizione è anche normale ,perche’ coloro che “forniscono dei vantaggi” (tramite i “commenti normali ; i followers dei links in dofollow ; i commenti delle email e tutto il resto) ,a loro volta , ne pretendono altri:)
Questa è la “base razionale degli schemi” e in realta’ è formata solo da idiozia totale ,perche’ occorre prima avere dei contenuti pertinenti ,rispetto a coloro a cui si “fornisce il vantaggio” (il riferimento sono sempre i rilevamenti di base 🙂 e se dovessero essere presenti , significa che il dominio segnalato è anche un competitor ,rispetto a coloro che forniscono il vantaggio,tramite segnalazioni con links in Dofollow e quindi ,l’unico valore reale è l’imbecillitta’ completa:)
Quindi la scelta di non abilitare gli idioti dei commenti e dei followers fatta a FEB 2015 , è stata fantastica ,perche’ non servono assolutamente a nulla:) Chi ha idee diverse si crea uno spazio e se le scrive ,ed è facile prevedere anche i valori dei loro contenuti e nella categoria specifica di quelli individuali ,esiste la sicurezza ,che avranno contenuti , del tutto speculari ,a idioti come loro:) (il riferimento è agli ottimizzatori e amano tanto i commenti e i links dei followers ,perche’ in questo modo è possibile raccontare un numero maggiore di cazzate ,su valori inesistenti e ovviamente sono quelli dei rilevamenti di base:)
Non esiste nessuna abilitazione dei Tags ,sia per le descrizioni nelle ricerche sistemate sopra e anche i Tags in generale ,non hanno nessuna abilitazione e gli esempi sono gia’ sistemati nei passaggi precedenti ,perche’ anche l’URL del dominio e il nome dello spazio stesso ,sono dei Tags anche loro e sono tra i piu’ importanti e la loro assenza ,amplifica notevolmente anche i dati del calcolatore delle combinazioni ,perche’ occorre prima superare tutti i Match possibili del dominio e sono gia’ elevatissimi e se il percorso proibitivo avra’ successo ,nella fase successiva non esiste nessun vantaggio “dei commenti e dei followers” e nello stesso tempo ,non esistono nemmeno i vantaggii naturali ,uniti ai propri Tags e quindi ,resta solo 1 possibilita’ unita ai valori e sono solo i Content Effettivi 🙂
Questi altri dati, se fossero applicati al calcolatore delle combinazioni , produrrebbe un numero di varianti ,assai maggiore ,rispetto all’incredibile dato delle combinazioni stesse:)
Tra l’altro ,le posizioni sistemate non sono nemmeno complete e in questo contesto ,utilizzero’ solo una loro parte ,ed è quella dei robots txt e li ho citati tantissime volte e in questa posizione assumeranno anche un valore maggiore ,perche’ permetteranno di unire ,nella maniera piu’ semplice anche i contenuti del 3° True Long Story Goal Data HDC:)
l’inizio è in questa posizione
Sono le API per la verione premium dello strumento delle verifiche ,ed esistono da sempre ,pero’ proprio a MAY 2021 ,sono arrivati degli sviluppi notevoli , ad iniziare dalle dimensioni dei contenuti stessi 🙂Semplicemente ,attraverso le API è possibile controllare i vari reports ,abilitando o meno alcuni servizi ,presenti nella versione Premium.
Per questa posizione “esiste un gran problema” ,ed è quello degli altri domini ,perche’ le impostazioni debbono essere uguali per tutti e quindi occorre utilizzare solo il software piu’ importante,ed è quello del Natural Brain:)
Nel contesto online è una posizione fondamentale ,perche’ ,escluso gli Engines ,non esistono altri tools capaci di unire i dati e quindi è proprio indispensabile il Natural Brain e occorre applicarlo anche allo strumento delle verifiche:)
Ho sempre descritto i tanti suoi limiti ,anche se tecnicamente è il piu’ sofisticato che esiste e valgono anche per la versione premium ,perche’ è inutile gestire i reports attraverso le API (ovvviamente il servizio è a pagamento) ,se non si conoscono i contenuti originali effettivi ; se non è nota la naturalita’ dei contenuti stessi ; la versione premium e quella normale , non conosce assolutamente l’esistenza stessa dei Main Content ,perche’ possono essere presenti contenuti diametralmente diversi tra di loro ; non riesce a distinguere “la natura dei commenti” ,perche’ fanno parte di dimensioni uniche nei volumi ,attraverso i links in dofollow e quasi sempre hanno dei collegamenti esterni al dominio e solo questa posizione ,potrebbe rendere nulli ,anche i migliori reports dei contenuti interni dei domini ,a causa proprio dei “collegamenti sbagliati”:)
Quindi è proprio indispensabile il Natural Brain ,anche per i Tool piu’ sofisticati ,perche’ in realta’,non esiste nessuno che sia capace di “unire 2 Dati Insieme” ,producendo dei valori reali ,ovviamente tranne gli Engines:)
alle descrizioni precedenti ,occorre aggiungere anche i suoi sviluppi
Per mostrare le dimensioni ,esiste l’evidenza della freccia verde ,nella barra di scorrimento laterale e nel prelievo ,non è stato possibile prelevare la seconda barra , ed è unito alla prima ,per rendere semplice scorrere tutta la pagina:)
Questi particolari sono importanti ,perche’ le dimensioni complessive della pagina sono tutte dedicate agli sviluppi delle API per la versione premium dello strumento delle verifiche e la loro funzione reale è sempre all’interno della “bolla degli IGNORE” ,descritta nel passaggio precedente:)
I contenuti dell’immagine sono invece Posizioni Note e tra le tante possibilita’, ho scelto “quella piu’ interessante ” da unire a MAY 2021 ,ed è legata all’abilitazione o meno dell’IGNORE ,proprio per i robots txt:)
I contenuti appena sistemati rappresentano la migliore unione con il 3° True Long Story Goal Data HDC
L’attivazione o meno dei robots txt ,serve a 1 solo scopo ,ed è quello di sistemare i Disallow verso qualsiasi pubblicazione e sarebbe anche “una posizione normale” ,pero’ a 1 sola condizione e cioe’ ,non è possibile “CAMBIARE IDEA SUCCESSIVAMENTE”:)
Nella versione premium dello strumento delle verifiche, esiste invece la possibilita’ opposta ed è unita proprio al termine IGNORE verso i robots txt ,ed è una posizione assolutamente da non seguire:)
La scelta di Abilitare i rotos txt ,a “FASI ALTERNE” ha 1 sola motivazione ,ed è la stessa per cui “si scrivono i commenti “e si utilizzano i links dei followers ,esclusivamente in DoFollow e cioe’ ,esiste la Presunzione di Decidere i Valori e nel contesto online , è possibile raggiungere questo livello di presunzione,solo attraverso l’Idiozia Totale:)
E’ possibile anche calcolarla ,perche’ “Decidere Valori in proprio” ,significa avere la conoscenza completa di tutto il contesto online ,ed è possibile iniziare proprio dal calcolo delle combinazioni ,valide per 1 solo dominio ,ed è sufficente moltiplicarlo per i Billions di spazi presenti nel web e si ha il dato dell’idiozia totale:)
Nei contenuti che seguiranno si comprendera’ ancora meglio il livello di presunzione ,unito al fatto di “Decidere valori in Proprio” e l’esempio dei robots txt ,unito all’ignore è molto eloquente ,perche’ nella realta’ non ha nessuna possibilita’ di essere applicato 🙂
Comunque ,per i Content individuali ,questa posizione è meravigliosa ,perche’ i robots txt non sono mai stati attivati e questo significa che tutte le pubblicazioni presenti nel dominio ,”non hanno mai avuto nessuna difesa” dai match e con 3,5 Milion Words ,in 1 sola posizione ,per 1 solo autore ,è inevitabile che esistano ,in larga misura pure e un ottima indicazione , è nei dati del calcolatore delle combinazioni:)
Quindi ,il miglior consiglio ,per chi volesse utilizzare la versione premium dello strumento delle verifiche, è quella di non modificare nessuna impostazione ,anche se fossero abilitati i robots txt ,semplicemente ,perche’ nella realta’ non è possibile “applicare gli stessi sistemi”:)
La vesrione normale non permette di avere un numero di “pubblicazioni elevate” ,pero’ è una posizione molto relativa , perche’ 200 verifiche in 1 sola posizione ,rappresentano un dato ciclopico ,tramite gli average applicati ,rispetto ai contenuti tradizionali .
Questo è il volume di MAY 2021 ,ed è ottavo nelle posizioni generali ,rispetto ai content individuali ,pero’ ha 25 pubblicazioni in meno rispetto alla verifica omologa di 1 anno fa’ ,ed era MAY 2020 ,ed è alla 4° posizione (su 34) nei volumi generali:)
Questo è il dato che dovrebbero avere i contenuti tradizionali ,per avere le stesse condizioni dei match che ha avuto MAY 2021:)
E’ sufficente dividere gli average e moltiplicarli per il volume e il dato è molto pertinente ,perche’ grazie alle Opere Top , i contenuti tradizionali sono pienamente noti ,ed è facile unirli al loro dato per MAY 2021:)
Servirebbero 8 vite del Caro Willi (è Shakespeare:) e occorre ipotizzare che abbiano sempre la stessa “capacita’ di scrittura” e 7 vite del Caro Leo (è Tolstoy:) ,per arrivare al dato del contesto tradizionale dei contenuti ,unito a MAY 2021:)
Nelle Opere Top esistono i dati completi ed effettivi e la percentuale maggiore è unita a Copied ,nei confronti delle Opere stesse o di quelli generali di ciascun autore e quindi il calcolo delle “vite necessari” dei grandi autori ,è anche ottimista ,perche’ la prima forma di opera ,è l’originalita’ dei contenuti ,almeno verso Loro Stesse:) (nel calcolo di vite necessarie per arrivare ai dati del contesto tradizionale ,rispetto a MAY 2021 ,non sono compresi gli Edits ,ed è facile intuire che siano largamente presenti nelle opere top “dei grandi autori” 🙂
Nel calcolo delle vite necessarie occorre anche sistemare l’unicita’ di MAY 2021 e non è unita a nessuna Versione Premium dello strumento ,ma è tutto naturale e le selezioni sono assolutamente autonome , rispetto anche a tutti gli altri domini partecipanti:)
Naturalmente esistono anche le differenze rispetto alla versione premium e iniziano dalla Non Abilitazione dei robots txt e quindi significa che non esiste nessuna pubblicazione in Disallow ,su 3,5 Milion Words per 1 solo autore e lo strumento puo compiere le selezioni ovunque,compresi i Broken ,perche’ anche a MAY 2021,sono in realta’ presenti le pubblicazioni:)La posizione dei Broken deriva solo dal fatto che non esistono le abilitazioni e la migliore evidenza è nei dati dei Just Time e degli RF e quindi degli Engines ,semplicemente perche’ non esisterebbero i loro dati ,se fossero presenti oltre 180 pubblicazioni in Broken in 1 solo dominio:) (sarebbero quasi il 20% rispetto a tutte le pubblicazioni e quindi sarebbe anche impossibile avere i dati degli RF e dei Just Time:)
Nella versione premium,sarebbe possibile selezionare o ignorare,le posizioni da cui derivano i broken e nello stesso tempo,attraverso le API dello strumento,sarebbe possibile anche selezionare determinate pubblicazioni,interrompendo la verifica stessa.Nei reports normali tutto questo non esiste (quando iniziano le verifiche non è piu’ possibile bloccare nulla e tantomeno fare delle selezioni aggiuntive:) ,ed è una gran fortuna ,perche’ il valore delle verifiche,non deriva dai dati oggettivi ,ma da quelli del Natural Brain (occorre unire i dati,per comprendere i valori reali e iniziano dall’originalita’ e naturalita’ dei contenuti) ,semplicemente perche’ nella realta’ del contesto online , non esiste nessuna posizione in cui si possa decidere qualcosa,ed è un BENE per il WEB ,perche’ se esistessero “Coloro che Vogliono Decidere” ,sarebbe la sua FINE:)Tra l’altro,non sarebbero capaci di decidere nemmeno nulla , perche’ se avessero valore “le decisioni autonome”,esisterebbero solo le aziende dei TFD in Enterprise e gli elementi uniti alle categorie dei Post Base e la ragione deriva dalle possibilita’ economiche che hanno 🙂 Tra l’altro non sarebbero convenienti nemmeno per Loro ,perche’ sarebbero costretti a investire somme di denaro elevatissime ,in un contesto che non avra’ piu’ nessun valore reale ,a causa proprio delle teste idiote che pensano “di Decidere qualcosa” ,rispetto ai valori reali stessi:)
Questa posizione ha un valore tecnico intrinseco e poi ne esiste UNO oggettivo e cioe’ il cursore per abilitare tutte le posizioni citate nei passaggi precedenti ,è perfettamente funzionante:)
Questa è l’unica “Decisione legittima” e permettera’ l’unione dei passaggi precedenti con i successivi ,tramite una semplice ragione ,ed è quella dei valori reali 🙂
L’esempio degli ignore o meno dei robots txt è perfetto ,perche’ rappresenta realmente i valori reali e non sono uniti a nessun links,ma solo ai contenuti oggettivi:)
ovviamente è possibile fare 1 sola scelta e se vengono attivati i robots txt,significa che esisteranno anche dei disallow ,rispetto a pubblicazioni che possono “avere vari problemi” e quest’ultimi non possono essere risolti con degli Edits e successivamente eliminare i disallow:)Nel contesto online ,i valori possono nascere solo “al primo tentativo” e qualsiasi modifica successiva,è letta solo “nel Contesto di coloro che pensano di Decidere i Valori”,ed è sicuro che le operazioni di modifica sono fatte proprio per questo motivo:)
Il Taken Din Colors Five,grazie ai suoi dati storici ,permette la migliore unione,tra i passaggi precedenti e quelli che seguiranno e a MAY 2021,avra’ anche tante altre unioni e iniziano dai suoi collegamenti effettivi:) (il riferimento è a Din Long Data,sistemata nel footer del dominio:)
Prima di arrivare ai dati di Din Long Data ,il percorso sara’ molto lungo e inizia dall’immagine sopra e l’unione con i valori reali dei dati è quella piu’ banale,perche’ riguarda le porte di accesso per la gestione degli spazi.La 443 è la porta dedicata al trasporto dei pacchetti informatici ; la 80 riguarda la gestione degli spazi ; la 23 è quasi sempre la meno citata e riguarda i login e l’accesso in remoto negli spazi e sono completamente chiuse ,come tutte le altre:)Queste posizioni,hanno anche “una relativa unione” con alcuni tools,dedicati ai “rilevamenti di base”,utilizzando le informazioni degli accessi,uniti alle impostazioni descritte nei passaggi precedenti:)Cioe’ le “Non Abilitazioni” vengono lette come dati e naturalmente,i Tools specifici sono utilizzati da idioti e questa posizione,deriva da un suggerimento fantastico ,ed è nei contenuti della pubblicazione che ha avuto il maggior numero di Match a MAY 2021:) La posizione la sistemero’ tra un po’ e qui posso aggiungere che i valori reali derivano dalla conoscenza completa dei contesti e non esiste nessun paragone possibile,nemmeno con gli spazi precedenti ,sommati tutti insieme ,utilizzando anche un numero di commenti e links elevatissimi:)I dati reali del dominio individuale,coniderando solo il presente,erano maggiori del doppio,rispetto alla somma di tutti i precedenti e questo solo al 5° anno e per il peso specifico dei contenuti,non esiste nemmeno la comparazione e gli unici dati validi,sono solo quelli degli Engines e sono uniti al fattore piu’ importante in assoluto,ed è quello degli archi temporali:)

Questa è la Class C dei 2 dominiLa posizione è semplice,perche’ è presente 1 solo indirizzo in 1 dominio e non sono abilitati i subdomain e quindi,solo i contenuti effettivi ,hanno risolto i tantissimi Match e quelli piu’ proibitivi ,sono proprio all’interno del dominio:) Questo è il contesto da cui sono nati i dati reali,ed occorre sempre ribadirlo , perche’ esistono valori meravigliosi e nello stesso tempo, appartengono esclusivamente a contenuti oggettivi ,senza aver avuto nessun vantaggio,rispetto a tantissimi altri spazi:) Nella realta’ un vantaggio notevole è esistito, ed è stato sufficente rinunciare ai presunti vantaggi,per averne altri reali e le descrizioni sono nei passaggi precedenti:)
Dopo tutti i passaggi precedenti,adesso iniziano le descrizioni fatte per MAY 2021
✨✨✨
Sono sistemate all’inizio del 3° True Long Story Goal Data HDC Il contesto da cui deriva la prima pubblicazione nel numero dei match è incredibile e alcune descrizioni sono nella pubblicazione precedente e altre sono nei contenuti diretti della pubblicazione in Match.Sara’ davvero difficile unirli tutti in MAY 2021 e comunque un grande vantaggio esiste gia’ nel nome della pubblicazione e sono le Close Variants e proprio attraverso esse,avverra’ l’unione con i contenuti di Din Long Data:) (il collegamento è nel banner del footer)
Per il momento cito le posizioni fantastiche della prima pubblicazione in Match,perche’ con 12 Post contro,ha avuto solo il 3% dei conflitti e complessivamente sono poco maggiori di 100 termini,ed è la prima volta che ho visto questa pubblicazione nei Match,ed occorre ricordare l’aspetto piu’ semplice dei conflitti e cioe’ i termini sono eliminate da tutte le pubblicazioni coinvolte,qualsiasi sia il loro numero e ovviamente anche quello dei termini in conflitto.Sembra una posizione ovvia ,pero’ occorre sempre ricordarlo ,perche’ esistono anche le altre pubblicazioni in 1 solo dominio e tra un po’ dimostrero’ quanto è facile essere nei Match ,attraverso l’ultima pubblicazione in conflitto ,contro la prima dei Match,ed ha solo “6 termini”:)
l’immagine normale è quiDai contenuti di quest’immagine,unita ai dati fantastici delle Close Variants ,è arrivata l’idea di creare “comparazioni Stellari” e lo sono nel vero senso delle parole:)
questi erano i dati di APR 2021 ,per l’enciclopedia astronautica
In 1 solo mese esiste una nuova pubblicazione ad essere prima nelle dimensioni e superare 1 Post da 94000 termini effettivi,sistemato in 1 sola pagina,è davvero molto difficile:)L’encyclopedia astronautica ci è riuscita,ed è molto particolare la nuova prima pubblicazione in dimensioni ,perche’ ha oltre 97000 termini e nello stesso tempo è in realta’ solo 1 pagina di INDEX del dominio ,ed essendo formato da un numero elevato di spazi aggregati (tra di essi esiste anche il TFD NASA)
Sono tante le pubblicazioni in cui è presente il TFD NASA
Una di ESSE è Relevance Colors Overall di JUN 2019
Al suo interno esistono anche delle fantastiche comparazioni e tante di esse,sono attualissime,anche rispetto ai Content individuali,nonostante siano trascorsi quasi 2 anni e nel contesto online,forma un arco temporale elevatissimo,sopratutto rispetto alla categoria specifica dei contenuti individuali:) (non esiste nessun altra categoria,ad avere la stessa velocita’ degli sviluppi,rispetto al contesto tecnico online:)
La posizione del TFD NASA,all’interno degli aggregatori dell’enciclopedia astronautica,insieme alla prima pubblicazione in dimensioni di MAY 2021 per il dominio specifico,hanno fornito il miglior suggerimento, per la sistemazione dei contenuti che seguiranno e sono proprio nati dalle dimensioni colossali della prima pubblicazione in dimensioni,insieme al suo ruolo operativo effettivo e cioe’ la pagina è in realta’ una raccolta di links per altre pubblicazioni dello stesso dominio e cioe’ è un INDEX:)Solo all’apparenza “potrebbe sembrare una posizione normale” ,mentre nella realta’ è esattamente l’opposto,perche’ esisteva gia’ la comparazione di APR 2021 per l’enciclopedia astronautica e la prima pubblicazione in dimensioni (da 94000 termini effettivi in 1 sola pagina:) e quindi ,appena ho visto la prima dimensioni per MAY 2021,ho subito pensato che sarebbe stato difficile per Page Solemn “resistere a questo impatto”:).Ancora non avevo aperto la pubblicazione specifica e conoscevo solo il fatto che era composta da oltre 97000 termini effettivi e non conoscevo nemmeno il riferimento dell’acronimo.
Questo è il senso dell’acronimo RSVN e l’inizio ,rende semplice comprendere che sia solo una pagina di INDEX:)
Ho subito pensato che per i dati di Page Solemn,fosse “gia’ finita l’avventura”,durata solo 1 mese ,perche’ avevo in mente i dati di APR 2021,per la prima pubblicazione in dimensioni (era dedicata ad Apollo 11) e quindi sarebbe stato inevitabile avere dati diversi,per MAY 2021, perche’ la pubblicazione ha dimensioni maggiori,ed essendo una pagina di INDEX,diventa molto facile diversificare i termini ,perche’ esistono tantissimi collegamenti con contenuti tutti diversi tra di loro:)
Qui è sistemata la prima pubblicazione dell’enciclopedia astronautica per MAY 2021:)
Ho ripetuto l’operazione diverse volte ,perche’ “stentavo a crederci” ,mentre in realta’ i dati sono effettivamente questi ,applicati ad oltre 97000 termini effettivi e sono i piu’ importanti in assoluto:)
Per esserlo è indispensabile avere il Natural Contest completo e se esistono queste posizioni,qualsiasi altra teoria informatica ,rispetto alle ottimizzazioni, diventa nulla:)In questa posizione,il ruolo piu’ importante e non è un paradosso,è proprio quello “dell’omino della gioia” e dopo aver saltato per 6 anni e 2 mesi,arriva la sua consacrazione a MAY 2021:)
Sara’ Natural Jumps of Joy da MAY 2021 “a fare i salti di felicita’” e l’aspetto fantastico deriva dal fatto che sono molto pertinenti in maniera oggettiva:)E’ sufficente solo vedere i contenuti di JUN 2019 ,uniti al TFD NASA (sono sistemate posizioni dei followers ; dei links uniti ai widgets e tante altre cose:) ; è possibile anche aggiungere i contenuti della prima pubblicazione in Match di MAY 2021 (tra le altre cose sono sistemate le posizioni davvero singolari di Search Metrics:) e tra un po’ sistemero’ un altro esempio del TFD Wiki e tutto l’insieme,serve a certificare la pertinenza di Natural Jumps of Joy:)La certificazione è in realta’ molto semplice , perche’ è gia’ difficile trovare “dati buoni” negli spazi citati e ancora piu’ difficile,è trovarli in “maniera naturale”:)
Ovviamente le stesse posizioni sono nel dominio di “Encyclopedia Astronautica”, perche’ il Natural Jumps of Joy ,è proprio da escludere ,anche se fossero esistiti dati migliori:)Semplicemente è un “dominio aggregatore” dei contenuti di tanti altri spazi e quindi ,i salti di gioia ,non possono proprio esistere, perche’ sono tantissimi gli autori che hanno realizzato i contenuti,ed è molto improbabile “che siano complementari tra di loro” e per comprendere il contesto è sufficente l’esperienza del TFD WIKI:) (addirittura esistono “le guerre degli Edits” e altri particolari li sistemero’ tra un po’:)

Tramite quest’immagine ,inizia la pertinenza massima,rispetto al Natural Jumps of Joy:)Appena ho visto i dati della prima pubblicazione in dimensioni dell’enciclopedia astronautica,addirittura attraverso la posizione dei termini in INDEX, è arrivato subito “il suggerimento della comparazione stellare”,perche’ NULLA ERA PIU’ IMPOSSIBILE:)
La prima unione è Space Math di NASA ,ed è un dominio meraviglioso da inserire in questo contesto e naturalmente è dedicato alla matematica applicata all’universo intero:)
Questa posizione “rendera’ ciclopico,all’ennesima potenza” ,i valori del contesto online,nel vero senso delle parole , perche’ tutte le comparazioni che sistemero’ avranno “dati finiti”,rispetto a contesti completi (il primo esempio sara’ l’intero universo:) Per la posizione del contesto online sara’ invece l’opposto e inizia dal calcolo delle combinazioni ,ed è gia’ relativo di suo ,per le descrizioni fatte e la posizione è fondamentale,perche’ dal calcolo delle combinazioni dei termini, nascono anche i match e poi esiste la differenza piu’ importante,rispetto ai contesti completi (l’esempio è l’universo intero citato sopra),perche’ nella comparazione dei dati stellari ,esiste in realta’ 1 solo dominio per il contesto online e quindi diventa anche facile comprendere “da quale dimensione” arrivano i valori reali,perche’ occorre conoscere in maniera, piena anche i dati di tutti gli altri domini:)
Per rendere il percorso semplice ,è sufficente seguire la prima evidenza del dominio Space Math di NASA (è sufficente digitare il numero 700 problem archive e si ha lo spazio sistemato nell’immagine appena sistemata)
Tra le selezioni ho scelto “la nostra galassia” (Milky Away) e queste sono le impostazioni del dominio Math Space del TFD NASA e per ogni problema,si aprono dei pdf,con le relative soluzioni:)
Questi sono le risposte ai problemi descritti dal Math Space di NASA,per il volume e il peso della Via Lattea:)
Le dimensioni dei calcoli hanno il livello minimo (sono espresse in grammi e centimetri cubici):il peso di tutta la Via Lattea è 2 x 10 elevato alla 42° potenza e cioe’ il numero 10 è seguito da 42 ZERI,espressi tutti in grammi:)
Il volume della Via Lattea ,espresso in cm cubici è 1,6 x 10 elevato alla 66° potenza e cioe’ 10 seguito da 66 ZERI:)
E’ arrivato gia’ il primo esempio concreto di NATURAL JUMPS of JOY:)
L’inizio è in questi dati,ed esprimono il peso e il volume di tutto l’universo e sono diversi solo i riferimenti delle dimensioni (Kg e metri cubi).Il volume di tutto l’universo è 4 x 10 elevato all’80° potenza ,espresso in metri cubi (quindi 10 seguito da 80 ZERI).Il peso dell’intero universo è 1,5 x 10 elevato alla 53° potenza ,espresso in Kg (10 seguito da 53 ZERI:). Questi sono i dati ufficiali e sono gli stessi del Math Space di NASA e cambiano solo le unita’ di misura (per NASA sono espressi sempre in grammi e centimetri cubici anche per l’universo intero:)
I dati sistemati “APPARTENGONO” al TFD Wiki globale e l’APPARTENZA è solo formale,perche’ in realta’ i contenuti appartengono realmente a tanti altri domini:)
Il TFD Wiki è sempre fantastico ,anche nelle percentuali di plagio:)
Ha il 77,2% in plagio e il riferimento è solo ilprimo dominio dei Match e poi ne esistono tanti altri e anche Loro possiedono cospicue percentuali nei Match:)L’aspetto fantastico di Wiki è la denominazione stessa,perche’ il 77,2% di plagio è espresso sotto la voce : SOSPETTA VIOLAZIONE:) (Meravigliosa Wiki 🙂
Il Tool del plagio appartiene sempre a Wikimedia,pero’ le risposte sono degli Engines e questa posizione rende molto facile comprendere da quali volumi derivano i valori reali del contesto online:) Queste posizioni formano solo l’anticipo del primo NATURAL JUMPS of JOY ufficiale,perche’ i suoi dati veri sono nelle immagini che seguiranno:)
Questi sono i termini effettivi dellapubblicazione di Wiki e questo link ha il suo collegamento e naturalmente è un NoFollow:)
Questi sono i dati del primo Natural Jumps of Joy ufficiale:)Esistono 2080 Edits ,applicati a una pubblicazione da 6000 termini e 915 sono gli Editors e cioe’ gli autori,sempre per 1 sola pubblicazione:)A parte i dati oggettivi,con SOSPETTA VIOLAZIONE,al 77,2% in plagio ,esistono 915 autori per 1 sola pubblicazione e anche se esistessero dati unici,non potrebbe mai essere presente il Natural Jumps of Joy,semplicemente perche’non esisterebbe “un autore specifico a cui applicarlo”:)Su Wiki è anche particolarmente difficile farlo,perche’ esiste anche la guerra degli Edits tra gli autori stessi e quindi non potranno mai avere la gioia del Natural Jumps:)E’ una “questione di gusto” ,ed è molto importante,perche’ il Natural Jumps of Joy attiva anche l’entusiasmo nel creare i contenuti,mentre chi “pensa di utilizzare scorciatoie”,non potra mai avere entusiasmo,anche se esistessero dei dati originali:)
Quella appena sistemata è la prima comparazione descritta nel 3° True Long Story Goal Data HDC
Adesso seguiranno le altre:
Questo è il database dei granelli di sabbiaAl suo interno esistono tutte le descrizioni e in questa posizione aggiungo che esistono le divisioni di 17000 spiagge in tutto il mondo (sono compresi anche i deserti:),ed esiste anche un numero esatto dei granelli di sabbia:)
Il numero totale dei granelli è 1 x 10 elevato alla 63° potenza e nel dominio esistono poi tante altre curiosita’ 🙂
Questo dominio è dedicato al calcolo del numero di cucchiai necessari per svuotare tutte le acque del pianeta terra:)
Ovviamente l’operativita’ reale è di altissimo livello,pero’ in questo contesto “servivano dei numeri” ,per rendere massima l’evidenza,rispetto a quelli sistemati nel calcolatore delle combinazioni dei termini:)In quello dedicato alle acque,l’inizio è nei volumi degli oceani e in questa posizione evito tutti i passaggi e sistemo solo alcuni riferimenti dei dati:1 cucchiaio puo contenere 15 grammi di acqua e ai calcoli sono applicate le differenze ,rispetto alle acque marine (la differenza nei calcoli è il 2,5%) e tramite l’unione di tutti i dati,esiste il numero esatto:)
Questo è il dato esatto (è quello evidenziato) del numero di cucchiai necessari per svuotare tutte le acque del pianeta terra.Occorrono 88 piu’ i numeri successivi e l’insieme va’ moltiplicato per 10 elevato alla 24° potenza e nel dato successivo esiste il rapporto completo con tutti gli abitanti del pianeta terra.Ipotizzando che ne siano circa 8 miliardi,ogni abitante deve contribuire con il numero di cucchiai sistemato nel dato di Solution:)Ovviamente sono “dati uniti solo alla fantasia” ,perche’ il 70% del pianeta terra è occupato dalle acque stesse e quindi ,sarebbe proprio impossibile svuotarle realmente:)Comunque è una posizione sempre importante,perche’ nemmeno i “dati estremi,uniti solo alla fantasia”,riescono ad avere comparazioni con le combinazioni dei termini e il loro contesto non è unito a nessuna fantasia ,perche’ determinano i Match stessi dei contenuti del contesto online e quindi anche le rilevanze e i loro valori reali:)L’aspetto fantastico della comparazione deriva dal fatto che quella sistemata riguarda 1 solo dominio e di conseguenza,diventa facile comprendere cosa sia il volume del contesto globale:)Questa posizione rende semplice evidenziare anche la naturalita’ dei contenuti,perche’ è talmente elevato il livello dei Match,da rendere facilmente riconoscibile,l’utilizzo di strumenti automatici:)
E’ possibile iniziare dai domini appena sistemati,ed hanno una caratteristica comune.
è in questa pagina,nella sua parte finale:)
E’ il Powered di Microsoft Bing la “caratteristica comune”,anche rispetto agli Engines di Search.GOV (sono tantissime agenzie governative USA,NASA compresa ,insieme ai domini appena sistemati:)
Queste 2 immagini sono all’inizio del 3° True Long Story Goal Data HDC
Il contesto è arrivato in maniera del tutto casuale e altri dati li sistemero’ in prossime pubblicazioni ,perche’ la presente ha dimensioni gia’ notevoli e comunque alcuni anticipi li sistemero’ lo stesso:)
Questa è l’unione diretta con la 3° True Long Story e gli sviluppi diretti sono sistemati nella sidebar attraverso la Top Page Joy,Goal Data:)
Il collegamento è un Bridge URL ed ha 4 pubblicazioni e la Data Quality di Microsoft Bing è presente in tutte,ed è facile farne anche una sintesi ,perche’ è presente anche il “Gran Goal” e attraverso Esso è facile avere il contesto esatto della Data Quality:)
In questa posizione aggiungo una cosa semplice rispetto alla logica ,ed è il motivo stesso per cui il Powered di Microsoft Bing è cosi’ diffuso in tantissimi altri Engines e ovviamente non esistono dati ufficiali a supporto , pero’ la LOGICA Aiuta Tantissimo lo stesso ,ed è la percentuale stessa del Market Share nelle ricerche:)
Solo per questo motivo permette l’utilizzo delle sue API anche ad altri Engines e questa posizione fornisce un notevole aiuto ,per comprendere tutto il resto, perche’ solo Google è capace di fare meglio e quindi la fantastica Microsoft “si ingegna come puo” ,per avere un proprio spazio nei valori reali del contesto online:)
Da questo contesto è facile comprendere tutte le posizioni dei Don’T Deceive e sono valide per qualsiasi contenuto ,sistemato in qualsiasi categoria e non occorre vedere i dati di Google ,perche’ è sufficente il percorso stesso di Microsoft Bing per elevare la percentuale del suo Powered:) (saranno posizione fantastiche da unire ai Data Priority ,perche’ gli elementi presenti hanno condizioni esattamente opposte alla LOGICA stessa ,ad iniziare dal ruolo dei social marketing e anche dai “dati di Amazon”e dalla sua controllata Alexa:)
Attraverso la sola evidenza ,quest’immagine riesce ad unire tutti i contenuti sistemati 🙂
Nello specifico riguarda proprio la pubblicazione di Microsoft Bing ,pero’ le condizioni sono le stesse anche per le altre categorie:)
Per i Trends sono selezionati solo 5 termini e ovviamente sono i piu’ rilevanti e questa posizione,ovviamente ,è valida anche per il contesto generale,ed è molto diverso dai Trends ,semplicemente perche’ in quest’ultimi non sono presenti le Close Variants e quindi ,esiste l’unione diretta anche con la prima pubblicazione in Match di MAY 2021 ,perche’ è dedicata proprio a Loro:)
Attarverso le Close Variants sono attivati anche i Reorder Words ,pero’ NON SONO GLI UTENTI A DECIDERLO e la posizione è anche Naturale , perche’ i 5 termini piu’ rilevanti ,da soli non possono creare nessun valore reale ,senza i termini effettivi che li contengono e il riferimento è alle proposte complessive di ciascun dominio:)
Quindi i 5 termini piu’ rilevanti ,debbono confrontarsi con i Main Content di ciascun dominio e occorre ipotizzare prima che esistano e che abbiano anche la minor percentuale di Copied possibile e solo da quest’unione,nasce Goal Data:)
Anche quest’immagine deriva dall’inizio del 3° True Long Story Goal Data HDC
Avevo pensato di descriverla in questa pubblicazione ,pero’ occorrono tanti particolari da sistemare e quindi inserisco solo la parte finale e in altre pubblicazioni descrivero’ anche il percorso per arrivarci:)
Questa è la posizione finale degli updates ,ed è fondamentale la data di pubblicazione ,perche’ qualsiasi Core Updates ,arriva ad ESSA:)
Sarebbero tantissimi i datteagli da sistemare e in questa posizione inserisco ilpiu’ importante ed è il riferimento temporale del SEO ,ed è DEC 2020 e in quella data ,aveva ancora scritto che i Changes in 1 anno sono “400 o 500”:)
Quelli reali sono nella sidebar i collegamenti (è la pagina dell’8° RF 6D) e posso anticipare una curiosita’ fantastica ,perche’ l’autore di Google è lo stesso della pagina appena sistemata:)
Molto raramente Google fornisce dati ufficiali e quando lo fa’ ,esistono solo degli autori specifici a poterlo fare:)
E’ il fantastico Danny Sullivan ,ed è l’autore dei Changes reali (circa 3200) ,ed è anche l’autore della pagina di Google Search Central ,arrivato dopo (AGU 2019:) ,mentre i dati del SEO ,sono di DEC 2020,comprese le descrizioni 🙂 (non sistemo il nome ,pero’ è un seo noto e il servizio è a pagamento pure:)
Questa è l’unica posizione ad avere l’impatto dei Core Updates e anche degli Updates normali:) (i Core hanno come riferimento aggiornamenti complessivi di tutti gli algoritmi) .Nemmeno “con un bazzoka puntato contro” ,è possibile trovare qualcosa sui links ;sui followers ;sui commenti e tantomeno sui Tags ,perche’ proprio da Google Search Central (nell’anno di grazia 2009:) ,il piu’ rilevante IGNORE di tutti i tempi:)
A FEB 2015 non lo sapevo e ho scelto solo in maniera ragionevole di sistemare le impostazioni nel modo indicato nei passaggi precedenti e quindi nessun Tags è stato mai abilitato:)
Tra l’altro nel 2009 ,si faceva anche riferimento al decennio precedente e la sintesi è molto semplice ,perche’ non solo i Tags non hanno nessun valore reale ,ma il loro utilizzo ha avuto anche “elevati ABUSI”,ed è facile attualizzare il contesto ,perche’ ancora nell’anno 2021 ,esistono tanti “seguaci dei tags”:)
Il FOCUS dei Core Updates sono solo i contenuti effettivi e null’altro:)
E’ una posizione normale, perche’ gli impatti diretti dei Core Updates sono le General Guidelines e iniziano con il Page Qualiry Rating e il Goal sono i Main Content e poi esiste tutto il resto e l’impatto dei Core Updates ,spesso non permette di “Arrivare al Resto Stesso” ,perche’ esiste il Natural Contest da superare 🙂 L’unica consolazione ,per coloro che pensano di decidere qualcosa,deriva dal fatto che gli impatti dei Core Updates non li riguardano proprio , perche’ tutti i links ; i commenti ; gli ingluencer ,non sono nemmeno nominati nelle General Guidelines e quindi “da bravi idioti” ,possono restare sereni ,perche’ è sicuro che non avranno nessun impatto e ovviamente non avranno nemmeno nessun valore i loro contenuti ,a qualsiasi categoria possono appartenere:)
La pubblicazione ha dimensioni notevoli e gli altri domini che hanno partecipato a MAY 2021 li citero’:
MOZ 229 pub 74% Un 2771 AverageWiki Cebuana 183 Pub 64% UN 1180 AVScreaming 248 Pub 72% UN 2219 AVMarcel Proust 248 Pub 4471 AV 75%Pasomv Santi 153 Pub 5547 AV 92% UNCantalamessa 206 Pub 87% UN 1054 AVGrande Dosto 244 Pub 2986 AV 92% UNAfrinic 219 Pub 67% UN 950 AVComputer World 201 pub 60% UN 1843 AVContent King 54% UN 245 PUB 2227 AVAdvance Web Ranking 219 PUB 81% UN 2175 AVContent Marketing 218 PUB 2552 AV 50% UNImpact 248 PUB 40% UN 3932 AVGIT HUB 230 PUB 67% UN 1480 AVGodaddy DE 234 PUB 1295 AV 67% UNInvestopedia 240 PUB 68% UN 1762 AVForbes 206 PUB 65% UN 2156 AVBigCommerce 228 PUB 83% UN 2158 AVIcann Wiki 163 PUB 84% UN 1379 AVText Broker 164 PUB 68% UN 1915 AVTrustradius 237 PUB 77% UN 4473 AVWiki IT 193 Pub 3202 AV 90% UNIONOS 221 PUB 1635 AV 62% UNWiki Global 235 PUB 4644 AV 87% UNBritannica 247 PUB 69% UN 1736 AVWiki Spagna 221 PUB 3759 AV 89% UNOUR World in Data 218 PUB 73% UN 2334 AVEncyclopedia 228 PUB 93% UN 8358 AVWiki France 3588 AV 84% UN 243 PUBWiki Tedesca 216 PUB 3548 AV 91% UN
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True Long Story Goal Data HDC 3🟢
Posted on April 30, 2021 by Din Story AV
MAY 2020
Il 3° True Long Story Goal Data HDC ,restera’ ancora per un po’ di tempo come prima pubblicazione del dominio (nello stesso tempo è anche la sua Homepage:) ,perche’ ne sono tanti i domini che parteciperanno a MAY 2021.
Ad accoglierlo è la pubblicazione di 1 anno fa’ ,ed ha caratteristiche uniche,perche’ è stato il primo volume a superare i 700000 termini effettivi ,in 1 sola verifica ,per 1 solo autore e nello stesso tempo ,per i contenuti individuali,è stata anche la prima verifica ad aver superato i 3000 termini negli average e in 1 anno e 12 verifiche , non è mai scesa sotto e il particolare piu’ importante ,deriva dal fatto che esistono 12 average, completamente differenti tra di loro e lo è anche quello di MAY 2021:)
Non ha i dati di 1 anno fa’ ,perche’ nei volumi generali ,su 34 verifiche , MAY 2021 è all’ottava posizione ,pero’ ha un contesto fantastico anch’essa ,perche’ esistono 25 pubblicazioni in meno ,rispetto a 1 anno fa’.
Dopo 1 anno, questo è stato il volume generale che ha avuto MAY 2021,ed è sufficente solo citare i pochi domini arrivati ,perche’ in UNO di essi ,è presente un altro dato da Page Solemn:)
Il dominio è sempre quello dell’Enciclopedia Astronautica ,unita a sua volta al TFD NASA,ed è diversa “solo la prima pubblicazione in dimensioni ” per MAY 2021 ,ed ha quasi 100K termini effettivi ,pero’ ,posso anticipare che è “molto distante” dai dati di Page Solemn 🙂
Ho citato questa posizione ,per anticipare anche altri dati che saranno presenti a MAY 2021 e nascono ,proprio dall’Encyclopedia Astronautica , attraverso “un calcolatore molto particolare” e appartiene al TFD NASA e in questa posizione,posso solo citare “l’unione con un altro calcolatore” ,ed è quello delle combinazioni dei termini presenti, in tutte le pubblicazioni del dominio:)
Sara’ un modo fantastico per festeggiare i 3,5 Milion Words , perche’ il calcolatore della NASA è unito a “riferimenti infiniti dei dati” ,mentre in realta’ esistono dei “numeri finiti” e sopratutto verificati con la Logica e cioe’ la Scienza:)
Ovviamente ,iniziando dalla NASA ,il primo dato “teoricamente infinito” è il peso dell’universo stesso e puo essere calcolato 🙂
Con lo stesso metodo e le stesse risorse ,sempre nell’ambito NASA , ho trovato un altra cosa curiosa ,unita sempre a “teorici numeri infiniti” ,ed è il volume di tutte le acque del pianeta terra e la curiosita’ è unita anche alla fantasia e naturalmente non poteva essere “quella banale,unita alla cubatura dei volumi” , ma al numero di “cucchiai necessari” per svuotare tutte le acque del pianeta terra:)
Esiste un numero reale ed esatto e l’ambito degli studi è sempre della NASA e nello stesso contesto ,esiste un altro database molto curioso ,ed è dedicato ai numeri dei granelli di sabbia e nel dato generale ,sono compresi anche i deserti:)
Queste posizioni ,possono sembrare bizzarre da unire ai dati generali ,mentre in realta’ sono state le uniche comparazioni possibili ,con l’altro calcolatore ,ed è quello delle combinazioni dei termini 🙂
Posso anticipare “che nemmeno la somma di tutti i dati bizzarri” ,è paragonabile alla combinazione dei dati e l’aspetto fantastico ,deriva dal fatto che riguarda 1 solo dominio e le stesse operazioni ,debbono essre fatte per tutto il contesto online e senza queste posizioni non esisterebbe nessuna pertinenza dei dati e di conseguenza ,non esisterebbe nemmeno quello economico per gli Engines:)
L’unione di quest’immagine ,potrebbe “sembrare avulsa” dai passaggi precedenti ,mentre esiste l’unione piena e inizia proprio dall’evidenza della freccia di colore verde:)
Le descrizioni sono nella pubblicazione originale e in questa posizione cito l’argomento a cui è unito l’indirizzo:)

https://dinpoststory.blogspot.com/p/key-unit-quality.html
Ad essere davvero Infinita è la Fantasia del Caso Supremo ,perche’ solo LUI ha Capacita’ di Unire l’Impossibile:)
E’ l’unica presenza di colore verde nelle selezioni di categorie per Market Finder e quindi Google e la pubblicazione sistemata è dedicata a Bing:)
La data originale è FEB 2017 ,ed è sufficente vedere il primo link ,per comprendere le unioni attuali e inizia proprio dall’assenza delle combinazioni nei dati ,ed è un fatto positivo ,perche’ il Powered di Yahoo è sempre Microsoft ,pero’,attualmente esistono solo i dati di Bing:)
L’unione con i passaggi precedenti è molto semplice ,perche’ i database ” dei granelli di sabbia” (esistono realmente:) ;il peso della massa dell’universo ; i volumi di tutte le acque del pianeta terra (calcolati attraverso i chucchiai per svuotarli:),hanno un unico riferimento informatico ,attraverso il TFD NASA ,ed è proprio il Powered di Microsoft Bing:)
Quest’immagine meriterebbe decine di pubblicazioni da SOLA e in realta’ gia’ esistono e l’evidenza unita ai changes in 1 anno è attuale ,ed è molto facile verificare gli stessi dati in tantissimi altri ottimizzatori:)
Ovviamente se è inserita in questa posizione ,significa che esistono delle unioni fantastiche con MAY 2021 e iniziano ,in maniera incredibile , perche’ le unioni piu’ importanti sono nella pubblicazione che ha avuto il piu’ alto numero di Match a MAY 2021 (12 contro UNA:)
I particolari saranno nella pubblicazione ufficiale e spero che gli altri domini ,”abbiano dati normali” ,perche’ sara’ gia’ difficile descrivere tutte le posizioni sistemate ,oltre ai dati di questo dominio:)
Da questa posizione iniziano i contenuti originali
True Long Story Goal Data HDC 1 True Long Story Goal Data HDC 2 I Post Base,rappresentano la migliore unione con le pubblicazioni dedicate ai volumi dei contenuti stessi ,perche’ al loro interno ,esistono i motivi da cui sono nati ,ed è una posizione fantastica ,perche’ rendono anche semplice determinare la pertinenza dei Main Content 🙂Al termine di questa pubblicazione sistemero’ alcune posizioni dei Post Base e aggiungero’ anche alcuni altri elementi presenti nella pagina specifica in cui sono sistemati fisicamente i Post Base e sono le altre categorie presenti e la loro scelta ,è dipesa dall’elemento piu’ bello del contesto online ,ed è il VALORE UNICO ,UGUALE per CHIUNQUE:) E’ facilissimo da verificare ,ed è sufficente vedere le categorie presenti nella pagina dei Post Base e se non esistesse il VALORE UNICO per TUTTI ,sarebbero presenti solo LORO 🙂Non esisterebbe nessuna competizione possibile ,ad iniziare dalle risorse economiche e tecniche disponibili e in questo contesto è possibile aggiungere tutti i TFD ,perche’ prevalentemente,sono delle aziende in Enterprise (sono considerate tali ,le aziende con oltre 10000 impiegati) ,ed è possibile aggiungere tutte le “grandi organizzazioni” (anche loro sono nella pagina dei Post Base ,tramite i Social e le Big Data) e insieme a questo contesto , è possibile aggiungere anche la presenza degli High learning ,nella stessa pagina dei Post Base 🙂Gli elementi sistemati sono solo un esempio ,perche’ il numero di categorie reali ,è elevatissimo ,pero’ sono sufficenti “anche le poche presenze” nella pagina dei Post Base ,per comprendere quanto è reale ,l’elemento piu’ bello del contesto online e cioe’ i VALORI REALI sono UGUALI PER TUTTI:) A stabilire questi rapporti ,esiste la verifica piu’ semplice ,ed è l’Esistenza stessa del Contesto Online ,semplicemente perche’ senza valori reali ,non esisterebbe proprio!:)Non esisterebbe nemmeno la necessita’ di “fare link building” ,oppure di sistemare i Pay per Click nei primi fattori di Amazon (i contenuti sono nel primo Goal data) e non ci sarebbe nessuna necessita’ di controllare i “confini dei domini reali” ( sono nei contenuti del 2° Goal Data) , perche’ gli elementi uniti alla pagina dei Post Base ,hanno elevatissime capacita’ economiche ,di acquistare sia i links e anche i clicks e nessun altro dominio ha capacita’ di competere con LORO:) Il links buyng è gia’ una realta’ ,pero’ grazie solo alla presenza degli Engines ,procura pesantissime penalita’ e non arrivano certo dai Social e tantomeno da Amazon:)Se esistessero solo quest’ultimi (Social e Amazon) ,è sicuro che esisterebbero anche i “clicks buyng” e l’unico motivo per cui non è possibile unire la loro presenza ai valori reali ,dipende solo dalla LOGICA , perche’ il contesto online ,avrebbe solo “come valore” ,l’iperinflazione dei dati:)Il senso concreto sara’ nei contenuti di questa 3° True Long Story Goal Data HDC e servira’ per festeggiare i 3,5 Milions Words in 1 solo dominio ,per 1 solo autore e nello stesso tempo , essendo gia’ passato il traguardo (è all’interno del 2° True Long Story Goal Data HDC) ,questi contenuti serviranno per le prossime pubblicazioni e il primo riferimento ,saranno i contenuti che avranno le successive Data Priority . L’unione inizia dal Don’t Deceive Your Users Sara’ fantastica anche l’unione con Don’t Deceive your Business:) L’unione con i passaggi precedenti è semplice ,perche’ il “Don’t Deceive General” è l’unica unione con l’elemento piu’ bello del Contesto Online e cioe’ i VALORI REALI VALGONO PER TUTTI:)E’ sufficente unire il valore economico del contesto online ,con le categorie sistemate nella pagina dei Post Base ,insieme agli Enterprise dei TFD ,ed è facile comprendere il senso pieno dei valori uguali per tutti:) Se potessero “Decidere LORO” ,le cose sarebbero molto diverse ,ed è sicuro che non sarebbe presente nemmeno 1 contenuto,rispetto a quelli che seguiranno:) Le 2 pagine del “Don’T Deceive” sono a loro volta delle raccolte e quindi sistemero’ solo qualche indicazione, perche’ sono tantissimi anche i nuovi contenuti da sistemare:) Inizio da quest’immagine e deriva dal “Don’t Deceive del Business ” e al suo interno esistono le descrizioni e in questa posizione serve per ricordare una cosa semplice,ed è il valore stesso del termine “MATCH”.Solo negli Snippet e nelle categorie del Business (sia per gli Smal ; i Middle e i Business in Enterprise) ,il termine Match ha un senso positivo e cioe’ i termini da cui derivano le selezioni ,debbono essere realmente presenti nelle pubblicazioni ,ovviamente dopo aver avuto i Match ,con tutti gli altri contenuti del contesto online (rappresenta il senso negativo del termine Match ,perche’ spesso i contenuti sono eliminati:)Solo da questa posizione derivano le selezioni delle categorie del Business e il resto è descritto nella pagina specifica,collegata sopra. Quest’immagine deriva da Don’t Deceive your UsersOgni pagina ha poi le sue descrizioni specifiche e in questa posizione, i contenuti dell’imagine sono molto pertinenti anche rispetto alle 2 precedenti True Long Story ,ad iniziare dalla semplice LOGICA:) Se fossero validi “i fattori di Amazon” (il Pay per Click come primo fattore unito ai prodotti:) ,esisterebbero solo “coloro che possono acquistare i clicks” (insieme ai links:) e la “guerra sarebbe anche particolarmente difficile” ,perche’ secondo i dati di Amazon ,il 65% dei pay per click è sistemato nelle prime 2 sue pagine e il fattore ,sempre secondo Amazon , è l’elemento principale ad influenzare i “suoi algoritmi”:)In questa posizione “è possibile fidarsi dei dati di Amazon” ,perche’ esiste la logica ,che siano solo le prime 2 pagine ad essere viste e abbiano le maggiori conversioni:)La posizione è anche fantastica ,perche’ permettera’ di sviluppare anche gli algoritmi ,per il motivo piu’ semplice e sono le loro applicazioni:)Saranno presenti in questa pubblicazione e gia’ Amazon ,fornisce un ottimo esempio: anche ipotizzando che siano gli “algoritmi piu’ sofisticati” ,è sufficente applicare loro ,il Pay per Click come primo fattore (il riferimento è A9 e A10 di Amazon e sono anche loro degli Engines:) per arrivare alla demenza totale:) La fortuna di Amazon deriva dal fatto che esistono gli Engines veri e la stessa fortuna è unita anche a tutti coloro che pensano di “decidere qualcosa” e l’aspetto fortunato deriva solo dal fatto che il contesto online esiste e il merito è solo degli Engines Veri:)Anche i singoli prodotti sono uniti ai Main Content ,ed è il vero e unico Goal data e quindi ,diventa ragionevole il motivo per cui nelle selezioni delle categorie del business,debbono esistere i Match positivi:) (significa che debbono essere presenti i contenuti reali ,insieme ai loro valori 🙂Se il contesto online dipendesse “dalle decisioni dei fattori di Amazon” , avrebbero come unica opzione,”la vendita porta a porta” dei loro prodotti a basso valore aggiunto:) Il guadagno reale di Amazon deriva dal suo Cloud (AWS) ,ed occorre ricordare “che è un semplice storage dei dati” e questa è un altra fortuna per Amazon ,perche’ se dovesse unire “SOLO 2 DATI INSIEME” ,sarebbero capaci “di mandare in tilt ” tutto il suo sistema:) Il Taken Din Colors Five , atraverso la sua nuova dimensione storica , permette di unire i contenuti ,attraverso l’elemento piu’ bello del contesto online ,ed è il VALORE UNICO REALE PER CHIUNQUE e si raggiunge attraverso il Main Content unito anche ai singoli prodotti e l’esempio piu’importante,è inserito nella selezione delle categorie ,attraverso il senso positivo del termine MATCH:)

l’inizio è in quest’immagineServe a dimostrare che la posizione deriva da “1 solo servizio” ,ed è l’unico contesto capace anche di unire il senso positivo del termine MATCH:) (puo essere realizzato in 1 solo modo e cioe’ conoscendo anche tutti gli altri dati:)

Quest’immagine è lo sviluppo del contesto specifico ,ed è quello diretto dei MATCH Positivi:) Esiste l’espansione dell’account ,ed occorre non confonderlo con quello Generale di Google ,perche’ è indispensabile avere anche una 2° registrazione ,pero’ i dati dei MATCH Positivi ,derivano sempre da Google:)

anche queste sono posizioni importantiAttraverso il Delete Account ,non si elimina quello generale di Google ,ma quello specifico di market Finder ,anche se appartiene sempre alla stessa azienda.

l’account specifico è formato da 5 pubblicazioni ,ed è il limite di registrazioneQuindi il Delete Account ha come riferimento proprio le 5 pubblicazioni ,ed è importante anche “il contesto dei colori” e sono uniti alle selezioni delle categorie ,rispetto ai rispettivi volumi delle ricerche e possono variare in circa 1 mese.Ad esempio ,quelle sistemate di colore rosso , significa che le categorie a cui appartengono ,hanno avuto volumi minori ,rispetto all’arco temporale precdente. Esiste poi la presenza del colore nero e indica che esistono volumi simili ai precedenti ,mentre il colore verde indica che esistono volumi maggiori.Questo è un esempio specifico per 1 sola pubblicazione presente e selezionando il “Remove profile” ,viene eliminata la pubblicazione ,ed è possibile sistemarne un altra ,ovviamente se sono presenti Match Positivi ,per essere selezionati nelle categorie.( sempre all’interno del limite delle 5 pubblicazioni presenti). Nella pagina di Don’t Deceive Your Business e anche in quella degli Users ,sono inserite anche le selezioni delle categorie e sono molto semplici ,perche’ derivano solo dai Match positivi e non possono essere scelte individualmente:) E’ una posizione anche “naturale” , perche’ nel contesto online ,è impossibile “fornire libera scelta” e i motivi sono nei passaggi precedenti:) (se esistessero le selezioni autonome ,sarebbero presenti solo gli elementi delle categorie dei Post Base e le aziende Enterprise dei TFD:) qui è sistemata la pagina completa delle pubblicazioni individuali in Market Finder

questa è una selezione per nazioni ,rispetto alle singole categorieOvviamente esistono anche le altre nazioni e possono anche essere selezionate individualmente e l’unione dei dati ,produce le differenti presenze dei colori ,unite alle singole pubblicazioni dell’account di Market Finder ,ed è sempre Google:) (il ciclo dei dati per le categorie ,avvengono ogni 35 giorni)un esempio è sistemato qui

Le immagini di grandi dimensioni le sistemo solo nei link ,pero’ i contenuti sono talmente fantastici da meritare la posizione piena:)Per comprendere il contesto è indispensabile unire anche i contenuti delle 2 pagine di “Don’t Deceive” e le posizioni sopra ,sono un loro sviluppo meraviglioso ,ad iniziare dal fatto che esistono gli archi temporali specifici 🙂Quello diretto dell’immagine è nel prelievo stesso ,mentre nelle pagine dedicate dei “Don’t Deceive” ,esiste come riferimento la data della pubblicazione stessa ,ed è sufficente sottrarre solo pochi giorni e si hanno le date specifiche delle immagini:)E’ una posizione importantissima e degna delle prodezze del Caso Supremo ,perche’ esistono coincidenze talmente perfette , da rendere del tutto impossibile realizzarle ,”tramite capacita’ umane”:)Esistono vari motivi per essere felici ,rispetto alla posizione dei dati:) Il primo è in quest’immagine ,pero’ cambiano le descrizioni ,perche’ “non è necessario rimuovere la posizione” ,eventualmente per sostituirla con un altra pubblicazione ,all’interno del limite delle 5 presenze ,perche’ esistono anche elevate probabilita’ che non sia piu’ presente la pubblicazione ,semplicemente perche’ è stata eliminata dai Match e puo avenire tramite quelli del contesto globale o quelli interni dello stesso dominio in cui è sistemata:)Quindi se è presente dopo alcuni mesi,rispetto alle pagine dei “Don’t Deceive” ,significa che i contenuti sono ancora validi ,per partecipare alle selezioni delle categorie ,ed è sicuro che i Match ci sono stati e sono quelli del Taken Din Colors Five ,ed è un modo fantastico per festeggiare i 3,5 Milions Words:)Tra le pubblicazioni presenti in Market Finder ,esistono i contenuti di “Forever level Unique” ,ed è facile quantificare i suoi archi temporali ,perche’ la pubblicazione è nata ,in maniera augurale, proprio per gli RF e attualmente ne sono 75 e quindi,minimo sono formati da 150 pubblicazioni e i contenuti di “Forever level Unique” ancora RESISTONO ,all’interno del contesto piu’ bello dei Valori reali ,rispetto a tutta la storia dell’umanita’:)Il contesto dei contenuti tradizionali , nemmeno ad anni luce hanno questi valori e sopratutto ,esistono le differenze piu’ elevate ,rispetto al fatto che Valgano per Chiunque:) Questa sezione è tratta dall’immagine precedente e l’aspetto prodigioso del Caso Supremo ,deriva dal fatto che non esisteva prima e il riferimento temporale è formato da pochi mesi ,rispetto alle pagine dedicate al business e agli users:)E’ proprio il valore di Statcounter all’interno del primo Business reale (97% solo per Google:) e Amazon viaggia ,a distanze siderali e il riferimento “del business” sono in realta’ solo le Ads:) Sono importanti ,perche’ quelle online hanno superato da tempo ,tutte le Ads tradizionali,sommate insieme ,pero’ il Business completo ha un livello nettamente superiore e inizia dalla semplice ragione del Content Marketing (è 3 volte maggiore rispetto alle Ads online:) e ovviamente ,è realizzato esclusivamente per gli Engines:)Il TFD Statcounter è all’interno del livello massimo e questa posizione è meravigliosa ,perche’ dopo l’assenza delle Sync Google keywords ; l’assenza delle Ads ; esiste anche l’assenza dei dati ,relativi alle singole categorie ,ed esprimono il valore dei contenuti stessi ,ad iniziare dalla ragione della Loro Esistenza:) Anche questa sezione deriva dall’immagine precedente ,ed è un capolavoro assoluto del Caso Supremo ,perche’ da Sola è capace di sviluppare ,in maniera esponenziale , i contenuti di Data Priority 🙂E’ sistemata anche qui e la data originale dei suoi contenuti è FEB 25 2021:) Posso assicurare che i contenuti sopra ancora non esistevano e ovviamente i sistemi operativi erano presenti in quella data , pero’ nemmeno nei sogni ,potevo immaginare che sarebbe arrivato un contesto ,simile a quello appena sistemato:) Solo per ricordare il motivo ,per cui è presente in Data Priority,il rapporto tra IOS e Android , è unito al valore reale dei Dati ,ed è sicuro che saranno le Vere Priorita’ ,sopratutto nel contesto italiano:) IOS è la Apple e a differenza di Android (Google) ,i suoi sistemi operativi ,sono uniti quasi al 100% ai prodotti diretti della Apple stessa e tra i 2 giganti ,esiste anche il sistema operativo di Windows della Microsoft:)Questo è il contesto dei dati veri ,da cui derivano i Don’t Deceive (Business & Users:) ,ed è facile valutare le pertinenze ,perche’ nemmeno la Apple ,puo’ davvero competere nel contesto online e quindi figurarsi gli altri elementi:)Coloro che pensano di “decidere i valori” , debbono “accodarsi alla Apple” e se solo immaginano di poter fare meglio , esiste 1 solo contesto a permetterlo ,ed è l’idiozia totale:) Tra l’altro ,per completare il Test ,sempre in Data Priority ,esiste anche la presenza piu’ rilevante “a sfavore delle capacita’ reali di Apple” ,ed è la prima nazione del web e cioe’ la Cina:)In Data Priority esistono tutte le descrizioni e in questa posizione sistemo altri dati:)Grazie al termine “Vendor” è arrivato un suggerimento fantastico ,semplicemente unendolo all’ecommerce e da questa posizione è arrivato CIO INDEX e il suo ruolo ,sviluppera’ anche i dati sopra,grazie all’assenza “della presunta posizione dominante di Amazon”:)Il senso è nelle 2 True Long Story Goal Data HDC precedenti e la posizione di Amazon, sara’ molto importante anche nelle Data Priority ,perche’ è un altro elemento da unire alla Vera Priorita’ nel contesto italiano e saranno i Dati Veri:)Qui sono sistemati i Vendor solo per i mobili La posizione dominante di Amazon è del tutto assente e naturalmente nei dati sono comprese anche le periferiche ,rispetto a qualsiasi device.Questo è il Vendor dei tabletsIn questa posizione è presente Amazon ,pero’ è 3° ,ed è a notevole distanza dalla prima:)Ovviamente esistono anche altri prodotti ,pero’ sono presenti anche altri Competitors per Amazon e non domina proprio nessuno:) Qui sono sistemati i Vendor delle ConsoleE’ una “battaglia fantastica” tra Sony e Microsoft e il riferimento sono sempre le posizioni in Worldwide.Dai dati nasce un aspetto fantastico e solo all’apparenza potrebbe sembrare banale e deriva dal fatto che i migliori Vendors ,in qualsiasi categoria, hanno una caratteristica unica ,ed è la Credibilita’ verso i loro prodotti:)
Quest’immagine è uno sviluppo diretto dei contenuti di Data Priority ,attraverso i principali Vendors della Cina ,validi per tutti i device.
Questi sono i sistemi operativi della Cina ,ed è una posizione meravigliosa da comparare con i contenuti di Data Priority ,iniziando proprio dalla Apple ,perche’ la percentuale del mercato cinese è quasi uguale ai suoi strumenti venduti e ovviamente hanno IOS ,come scelta unica nei sistemi operativi:)
Per Android è esattamente l’opposto e il contesto è la nazione Cina e non esiste dubbio che “sia molto piu’ Friendly” verso Apple:)
Nei desktop della Cina ,il primo sistema operativo è Windows e quindi Microsoft e di conseguenza ,diventano fantastici i contenuti di Data Priority ,perche’ se nemmeno la Apple ha capacita’ concrete di competere nel mercato delle ricerche ,non esiste nessuna possibilita’ per altri elementi:)
Da questo contesto, diventa facile comprendere quali sono i motivi per cui i Valori reali ,sono uguali per tutti ,semplicemente perche’ solo da essi deriva la pertinenza dei dati e quindi il valore economico del mercato delle ricerche:)
Per questo motivo i dati possono essere solo quelli VERI e saranno molto importanti per le future Data Priority ,sopratutto nel contesto digitale italiano , perche’ i suoi massimi elementi , “dovranno fare una rivoluzione copernicana” , rispetto alla posizione storica ,occupata esclusivamente dal “FALSO CENTRICO”:)

La posizione del Business (Small ; Middle ; Enterprise) è descritta nelle pagine del Don’t Deceive è sistemata anche qui e al suo interno esiste anche il collegamento con la pagina dedicata al businessLa sintesi delle guidelines del business è molto semplice ,perche’ dipendono al 100% dalle linee guida generali e il loro valore è descritto nei passaggi precedenti:) E’ un contesto fantastico ,perche’ le General Guidelines ,a loro volta ,determinano il business del contesto online ,attraverso la semplice LOGICA ,ed è sufficente solo vedere come sono sistemate ,per comprenderlo:) Iniziando dai contenuti originali effettivi ,attraverso le Grid to records e continuando con tutti gli elementi del Natural Contest ,si raggiunge la posizione reale da cui derivano ,non solo le General Guidelines ,ma la “ragione sociale” stessa degli Engines:) La traduzione operativa è la PERTINENZA DEI DATI e da ESSA nasce il Mega Business del Contesto Online e questa posizione rende molto ragionevole il fatto che esistano VALORI UGUALI PER CHIUNQUE:)

Quest’immagine deriva dal Just Time K2 di FEB 2021E’ moltto pertinente anche in questa posizione ed è sufficente solo unire la prima evidenza ,dedicata alle Quality Guidelines ,valide per qualsiasi posizione,Business compreso:) E’ facile dedurre quanto sia pertinente la prima evidenza e cioe’ non esiste nessun Tool capace di unire i dati delle Quality Guideliness,ed è assolutamente Vero e i migliori testimonial sono la Apple e indirettamente anche Amazon:)(i riferimenti pratici sono nel primo True Long Story:) Questa è una posizione fondamentale per conoscere i dati:) il tracker eliminato è Google stessa:) qui è sistemato un altro esempio Sono i tackers di Wikipedia,per la prima pubblicazione in dimensioni di APR 2021,ed è quella dedicata a Covid-19. E’ sempre la prima pubblicazione di Wiki ,attraverso “la coppiadi strumenti piu’ bella del web”:)Tra l’altro sono “una coppia reale” ,perche’ CLIQZ (l’antitracker per antonomasia) ,ha la proprieta’ oggettiva del Trackers piu’ importante (Ghostery:) .Non esiste nessun blocco su Wiki e i 63 trackers presenti appartengono tutti a Wikimedia:) (il riferimento è sempre la prima pubblicazione in dimensioni di APR 2021)

Tutti i passaggi precedenti ,servono per evidenziare al massimo,quelli appena sistemati:)Naturalmente ,i trackers sono sempre importanti ,pero’ rappresentano “solo il primo livello” dei valori reali ,perche’ i dati occorre poi unirli insieme e sopratutto occorre conoscere anche il contesto da cui sono nati i contenuti ,uniti ai trackers:)Nel Caso specifico,l’elemento del trackers è proprio AWS e nonostante sia “la punta di diamante” nell’informatica di Amazon ,resta sempre un “semplice storage” e quindi non ha nessuna capacita’ reale di unire i dati:) Comunque ,anche ipotizzando che esistesse ,i rilevamenti dei trackers ,sarebbero poi uniti agli algoritmi specifici e nel Caso di Amazon sono gli “Engines A9 e A 10” e quindi non esiste nessuna possibilita’ reale di unire i dati ,semplicemente perche’ è del tutto assente la LOGICA:) (se agli algoritmi vengono applicati i Pay per Click come primo fattore , diventa inutile la posizione dei trackers:) qui sono sistemati alcuni domini ,tra i trackers di Amazon Web Service (AWS)E’ facile dedurre che i dati generali “sono assai approssimativi” ,semplicemente per incapacita’ operativa del trackers stesso:)Comunque una posizione molto importante e curiosa insieme esiste, ed è la percentuale unita all’ecommerce di AWS (occorre ricordare che è sempre la “punta di diamante di Amazon”:) ,ed è uguale a 1/4 rispetto ai trackers del business e naturalmente ,questa notevole differenza, è poi unita all’incapacita’ di unire “il senso stesso dei dati” ,in maniera oggettiva:) (avendo come primo fattore il pay per click ,diventa inutile per AWS dimostrare che è intelligente:)

Queste sono invece le frequenze dei trackers per Amazon diretta Non cambia nulla per i dati reali ,perche’ confluiscono sempre negli algoritmi degli Engines A9 e A 10 e con i loro fattori ,non esisterebbe proprio il contesto online ,perche’ il pay per click ,nella prima posizione ,è equivalente al fatto che sono “gli utenti a decidere le posizioni” e quando questo avviene ,non esiste piu’ nessuna speranza che i Dati siano uniti a VALORI VERI:) Qui è sistemata Amazon CDN ,ed è la prima posizione nelle frequenze dei trackers per AmazonL’acronimo CDN è stato una delle prime presenze nei content individuali dall’anno 2016 e anche in questa posizione ,non cambiano i suoi riferimenti ,perche’ sono sempre gli elementi statici ,presenti nei vari contenuti anche di Amazon.Per la sicurezza degli elementi statici ,la posizione di Amazon è ottima ,pero’ occorre poi l’unione dei contenuti effettivi e si realizzano attraverso gli stessi fattori di AWS e quindi diventa inutile anche avere un ottimo CDN ,perche’ la sicurezza è applicata a VALORI NULLI 🙂Esiste la LOGICA Completa descritta nel primo True Long Story,tramite la differenza nel “trasporto dei pacchetti”: gli Engines Reali , trasportano solo queli Informatici ,mentre la “povera Amazon” deve utilizzare centinaia di KM di nastri trasportatori ,per recapitare i “loro pacchetti a basso valore aggiunto”:)Comunque ,per Amazon (e anche per i social) ,esiste la notevole fortuna che le loro cazzate informatiche, non hanno nessun valore reale e se fosse l’opposto ,semplicemente il contesto online non esisterebbe proprio e i nastri trasportatori di Amazon ,dovrebbero arrivare fino al citofono dei suoi utenti ,per recapitare i loro “miseri pacchetti”:) (lo sono realmente ,perche’ il guadagno reale di Amazon è nel suo Cloud e fanno solo storage ,senza trasportare nulla:)
E’ sempre la pagina dei Post Base a guidare i contenuti di questa 3° True long Story Goal Data HDC e il senso è unito agli elementi delle categorie presenti ,perche’ rappresentano il modo piu’ semplice ,per unire i Valori reali ,Applicati a Chiunque:)I contenuti appena sistemati ,rappresentano la verifica piu’ pertinente e la stessa posizione riguardera’ i contenuti che seguiranno e l’unica differenza è nel divertimento ,perche’ i social ,rappresentano la “parte ludica del web”:)

L’inizio è questa posizione 🙂 E’ la “solita pagina del business di facebook” e in realta’ è unita solo all’Ads:)La novita’ è nell’evidenza di “Education”,a sua volta unita al Learning e applicato questo contesto a Facebook,si è gia’ nel delirio pieno:)qui è sistemato lo sviluppo reale del business E’ unito al “Create AD” e confluisce “nella celebre Audience Network” 🙂 Posso serenamente giurare che è tutto vero al 100% e quindi ,grazie all’immagine sopra ,è “superato anche il pieno delirio”:)in quest’immagine esiste la collocazione oggettiva:)Appartiene alla pagina business di facebook ,ed è la collocazione successiva ad Audience Network e per quanto riguarda gli articoli instantanei ,esistono tante descrizioni in pubblicazioni precedenti (è sufficente sistemare i termini nella ricerca interna per trovarli) ,pero’ non avevo mai trovato quest’unione delirante ,anche con i “Review”:) Solo immaginare che da questi contesti possa derivare dati veri ,è indispensabile essere in malafede totale ,oltre ad essere anche completamente avulsi dalla piu’ semplice logica:)La revisione dei contenuti è parte delle “Egregious Violation” nei Dati Veri e l’unione con gli articoli instantanei , è inutile gia’ in partenza ,ad iniziare dalle loro dimensioni ,perche’ sono tutti dei Thin Content (il riferimento per le AD di facebook sono formate da 350 termini ,ed esistono anche degli idioti che pensano di revisionarli:)

Il delirio deriva da contenuti ufficiali “della grande organizzazione” facebook:)E’ sempre “la solita pagina del business” , applicata solo alle Ads e sono descritte “le linee guida dei review”,applicati agli articoli instantanei ,come se fosse tutto normale ,solo rispetto alla LOGICA:)E’ sufficente immaginare cosa sarebbe il contesto online ,se avessero valore tutte le revisioni e non occorre una fantasia elevata ,perche’ non esisterebbe proprio il contesto online 🙂Nella farneticazione della “grande organizzazione facebook” ,è sistemato anche un mini arco temporale di 10 giorni ,ed è il tempo necessario ,per “approvare i review degli articoli instantanei” ,come se fossero “frutto di operazioni normali”:)Questa posizione rende anche semplice comprendere il valore del Fact checker Poynter ,legato anch’esso alla “grande organizzazione facebook” ,perche’ a sua volta deve “revisionare come fatti veri” , dei contenuti che nascono dalle impostazioni descritte sopra e quindi , è pacifico che l’unica verita’ attribuibile a Poynter ,sia il FALSO ,insieme agli elementi del Data Priority:) Nel delirio di facebook sono citate anche le loro linee guida

anche questi sono contenuti ufficiali della pagina business di facebook:)Le evidenze descrivono in realta’ degli Schemi e la posizione è opposta a qualsiasi LOGICA e la migliore evidenza è nelle categorie della pagina dei Post Base:) Per mostrare le differenze, è sufficente quest’immagine e deriva dalle presunte linee guida “della grande organizzazione facebook” 🙂 Addirittura sono sistemate anche all’interno dei “review degli articoli instantanei” e naturalmente ,non hanno nessuna influenza reale ,perche’ anche le linee guida di facebook sono a loro volta , contenuti “in stile gibberish” ,ed esiste realmente e il suo primo sinonimo,ha come riferimento il NO SENSE:)Esiste l’esempio del copyright ,nelle linee guida di facebook e non ha nessuna presenza e vengono restituite solo “informazioni dettagliate su varie violenze” 🙂Altri esempi delle linee guida di facebook sono in questa pubblicazione E’ sufficente unirle agli elementi del Natural Contest ,presenti nelle categorie dei Post Base ,ed è facile comprendere la posizione da cui derivano i dati reali 🙂Contemporaneamente è anche facile comprendere il motivo per cui Audience Network (l’Ads di facebook e Instagram) ,ha un livello molto scarso e non potrebbe essere diversamente , perche’ le posizioni da cui derivano i dati di facebook ,sono “talmente pacchiane” ,da far sorgere il dubbio del falso , anche nelle menti occupate da solo sassi:)
I Post Base sono le prime pubblicazioni a partecipare ai festeggiamenti per i 3,5 Milions Words ,ed è stato inevitabile iniziare dalla pagina di raccolta dedicata ai Pensieri Associati Perbene:)I suoi contenuti sono attualissimi ,ad iniziare dalle descrizioni del movimento politico, unito ai Pensieri Associati 🙂I Social “hanno solo una fortuna” ,ed è la facilita’ di conoscere “l’affidabilita’ delle persone stesse” ,perche’ nella realta’ sono Falsi ,come la piattaforma che li ospita:)Il povero Casaleggio ,ed è il riferimento dei Pensieri Associati ,si è accorto nell’anno 2021 ,che è circondato da idioti 🙂 Anche quest’immagine è precedente a Jun 2018 ,ed è sempre all’interno della pagina dei Pensieri Associati ,unita ai Post Base ,ed è fantastica la posizione di Audience Network ,ovviamente solo per i contenuti individuali:) I Run by Idiots hanno unioni infinite ,oltre al contesto baturale da cui sono nati 🙂 Questo è il Din Colors Long Power di Jun 2018 e sono tantissime le unioni possibili dei suoi contenuti e iniziano proprio da quelli oggettivi del Long Power stesso ,descritto nella pubblicazione collegata e dagli altri contenuti,dell’intera pagina dedicata ai Post Base:)
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True Long Story Goal Data HDC 2 🟢
Posted on April 30, 2021 by Din Story AV
L’immagine di Page Solemn, ha il collegamento con la precedente True Long Story Goal Data HDC e al suo inizio è sistemato un altro collegamento,tramite la stessa immagine,con la piu’ recente descrizione dei passaggi dedicati a Page Solemn:)Sono nati quasi 3 anni fa’ (JUN 2018) e nei collegamenti citati sopra esistono tutte le descrizioni,tranne i particolari che aggiungero’ in questi contenuti:) L’evidenza di colore verde ,rende sublime i dati del TFD Giacomo Leopardi e nello stesso tempo ,rende straordinari i dati del contesto online:)Il motivo è molto semplice e inizia dal numero di pagine stesseIl riferimento è qui e sono sistemati tutti i Zibaldoni di Giacomo LeopardiIl dato dei termini complessivi è composito ,pero’ i contenuti dei Zibaldoni ,rappresentano la larga maggioranza dei volumi degli scritti e l’aspetto sublime del TFD Giacomo Leopardi è nel numero di pagine complessive ,perche’ rappresentano la posizione reale ,anche per i suoi Zibaldoni:)Proprio da UNO di ESSI è nata la prima Page Solemn a JUN 2018 (i dati sono quelli sistemati nella sidebar) e in quasi 3 anni ,nessun altro dominio è arrivato al suo livello e nelle comparazioni sono compresi anche tantissimi altri autori celebri 🙂Nemmeno il TFD Marcel Proust ,è stato possibile comparare a Giacomo Leopardi (la piu’ recente comparazione è in NOV 2020 e la sua nuova posizione la sistemero’ tra un po’) e a questo occorre aggiungere un altra differenza importante ,rispetto ai dati dei Zibaldoni 🙂 E’ molto semplice ,perche’ la prima Page Solemn è nata dai termini del Detect language originale (sempre attraverso 1 Zibaldone sistemato in 1 sola posizione per 1 solo autore 🙂 ,mentre i dati sopra derivano dalla traduzione nel primo Detect language e la differenza è elevatissima,ad iniziare dai termini unici disponibili:) (sono oltre 10 volte maggiori ,rispetto alla lingua originale del TFD Giacomo Leopardi 🙂Nelle comparazioni è una posizione fondamentale e la migliore evidenza è nei contenuti di NOV 2020 , perche’ sono sistemati i reports del TFD Marcel Proust ,realizzati attraverso il primo Detect language ,mentre Page Solemn di Giacomo leopardi (cioe’ 1 Zibaldone in 1 sola posizione) ,ha sempre avuto i contenuti della lingua originale:)Qualsiasi altro autore celebre ,non è mai arrivato al livello di Page Solemn,anche unendo artificialmente tutte le pagine standard e questa posizione,rende straordinari i dati del contesto online,ad iniziare dall’evidenza del dominio specifico di Giacomo Leopardi e nasce dal numero di pagine (oltre 4200) per realizzare i Zibaldoni , perche’ esistono le sue verifiche dirette ,con average quasi sempre superiori ai 7000 termini effettivi Questo sarebbe l’average standard nei contenuti tradizionali per Giacomo leopardi attraverso tutti i Zibaldoni ,ed è sufficente compararlo con quelli avuti nel contesto online ,per comprendere quanto sia stato prodigioso il TFD Giacomo leopardi:)Il massimo degli average lo ha raggiunto Marcel Proust ,pero’ è equivalente alla meta’ ,rispetto al Campionissimo di Recanati e sopratutto lo ha realizzato con 2 Detect language ,all’interno di 1 dominio,con le stesse opere:)Una dimostrazione ancora piu’ elevata ,è arrivata grazie al dominio Texto.BEST ,perche’ è un “concentrato di grandissimi autori” (esiste anche Proust al suo interno) e i contenuti derivano da selezioni delle singole opere dei vari autori celebri presenti e uniti tutti insieme,poche volte hanno superato la meta’ degli average di Leopardi e a questo occorre aggiungere,una demenza totale dei gestori del dominio ,perche’ i contenuti sono creati in 4 Detect language e sommando tutti questi contesti , non è possibile fare nemmeno una comparazione sull’unicita’ dei contenuti stessi 🙂Quelli del Campionissimo leopardi ,esclusivamente con contenuti in lingua originale ,non sono mai scesi sotto al 90% ,sempre avendo anche average spettacolari ,partendo dal numero di pagine inserito nei passaggi precedenti:) Questa descrizione rappresenta il DNA stesso di Page Solemn e il senso dei suoi dati è semplicissimo ,perche’ è sufficente solo “LA SUA PRESENZA” ,per qualificare e quantificare il valore di tutti gli altri contenuti:)Nasce dall’elemento piu’ semplice del contesto online,ed è la rilevanza dei contenuti stessi e possono essere solo unici ,rispetto a 1 solo dominio e a tutto il contesto globale:)E’ una posizione fantastica da unire al TFD Giacomo Leopardi e anche a tutti gli altri autori delle Opere Top,perche’ esiste l’evidenza massima dei valori reali e nascono da 2 sole possibilita’: la prima è la “conoscenza reale dei contenuti” ,completamente differente dal contesto tradizionale e determina i veri valori anche di tanti autori celebri e si fonda “su un contesto semplice” ,ed è quello degli utenti che non conoscono realmente cosa hanno scritto “i vari celebri autori”:)La seconda possibilita’ è anche piu’ semplice, ed è possibile utilizzare sempre il TFD Giacomo Leopardi per evidenziarla meglio ,ed è il numero incredibile di domini a LUI dedicati e quasi tutti ,hanno esattamente gli stessi contenuti:) Nel contesto online occorre avere “anche il valore aggiunto” ai singoli contenuti e non è sufficente sistemare “solo un autore eccelso” ,perche’ i veri GOAL nei DATI ,nascono dalle proposte complessive e nelle Opere Top, sono quasi del tutto assenti ,perche’ quasi sempre “sono delle novelle” e la piu’ alta percentuale è formata solo da Copied ,verso se stesse o rispetto ad altri contenuti dello stesso autore:)A questo è possibile aggiungere numeri elevatissimi di domini ,dedicati agli stessi autori celebri e naturalmente solo UNO di ESSI puo’ avere rilevanza e di conseguenza ,nemmeno un autore come Giacomo Leopardi ,puo fare la differenza:) Esiste il dominio diretto utilizzato nelle verifiche , come migliore evidenza del fatto che nemmeno un autore come Leopardi ,puo creare valore aggiunto e i motivi sono quelli appena descritti ,ed è l’esistenza stessa di decine di migliaia di domini ,con gli stessi contenuti,dello stesso autore:) Quella appena descritta è la normalita’ e poi gli stessi contenuti degli autori celebri ,possono avere Match con qualsiasi altra proposta ,perche’ i conflitti nel contesto online “non hanno nessun pregiudizio”,rispetto ai presunti valori degli autori celebri ,ma si fondano solo sulla realta’ dei contenuti effettivi ,semplicemente,perche’ a differenza del contesto tradizionale , sono pienamente NOTI:)E’ sufficente applicare il termine DEMONSTRATE a tutto il Natural Contest (Originalita’ effettiva ; Naturalita’ reale ; assenza di violazione di Copyright ; Quantita’ ;Qualita’ ;Piena Comprensione dei Contenuti e Main Content) e se esiste questa possibilita’ ,allora i dati diventano reali:) E’ sufficente Dimostrarlo e la posizione è valida ,per i massimi High Learning a scalare e naturalmente sono compresi anche “i celebri autori” e le “grandi organizzazioni” e sono considerate tali ,gli spazi con tanti autori presenti e 1 solo dominio:) Quest’ultima è una posizione importante,perche’ essendo 1 solo dominio ,esiste anche 1 solo responsabile ,a prescindere dal numero di autori presenti e a LUI è applicato il DEMONSTRATE ,per il valore del suo dominio (esistono gli esempi di Wikipedia ;Facebook ; IBM e tantissimi altri) .Per DIMOSTRARE il loro valore è indispensabile avere tutti gli elementi del Natural Contest e nelle “grandi organizzazioni” il responsabile unico ,deve preoccuparsi che non siano presenti “i colleghi di revisione” (peers review) perche’ non hanno nessun valore aggiunto reale , tranne per le “Egregious Violations” e i responsabili unici delle “grandi organizzazioni” ,possono dire ADDIO a Qualsiasi Valore:)E’ una posizione naturale,perche’ se ogni gestore modificasse i propri contenuti ,sarebbe impossibile determinare alcun valore e quindi “i colleghi di revisione” ,servono solo a Dimostrare quanto è Idiota il responsabile Unico “della grande organizzazione”,perche’ si circonda di autori idioti (nel Caso di facebook sono anche pagati e i dati ufficiali dicono 1,5 Billions di dollari solo nell’anno 2018:) e altrettanto idioti sono “i colleghi di revisione” ,perche’ se hanno capacita’ reali, è sufficente dimostrarlo in altre pubblicazioni:) Tutta la descrizione fatta è dedicata alla nuova Page Solemn e il riferimento è ai dati di Giacomo Leopardi e naturalmente,a questi livelli “non esistono le alernanze” e quindi i dati ,arrivati a JUN 2018 ,resteranno sempre validi e la nuova Page Solemn ,tramite la sua immagine,avra’ nuovi collegamenti e le posizioni le sistemero’ tra un po’:) Prima di farlo , sistemo quest’altra immagine ,ed ha anch’essa dei nuovi collegamenti ,oltre a un NEO Acronimo:)Match Solemn (MS:) e naturalmente l’ho scelto per la nuova pagina ,perche’ è quasi equivalente al primo riferimento di GOAL Data stessa e sono i Main Content (MC:).L’unione con Page Solemn è diretta ,perche’ nasce dal miglior rapporto tra i termini effettivi e i loro unici (la nuova ha oltre 16000 Unici su 63000 effettivi:) e questa posizione permette di eliminare pochi termini e di conseguenza,diventera’ molto piu’ facile avere proposte complessive rilevanti:) Sembra quasi banale la posizione, mentre nella realta’ è difficilissima da trovare e la migliore evidenza è Page Solemn stessa:) Qui è sistemata la raccolta per Page Solemn Nei collegamenti normali il link è sistemato nell’immagine dei Din Colors MS (è quello evidenziato a destra dell’immagine) Tra le sue posizioni ,esiste anche quest’immagine e deriva da MAR 2021 E’ una posizione meravigliosa ,perche’ possiede quasi 1000 termini effettivi in piu’ della nuova Page Solemn e i dati derivano dalle Opere massime in TPJ Level (quindi da 6500 a 7000 termini effettivi) e a questo occorre aggiungere anche il dato piu’ importante e cioe’ i contenuti derivano da 2 Detect language,uniti insieme:) Queste posizioni servivano per avere collegamenti nelle Opere Top ,ed esistono solo contenuti originali e quindi sono escluse le introdizioni e le varie note:)

Questo è un esempio delle presenze ,ed è proprio Giacomo Leopardi La selezione è in Key Stuffing Archive Anche questa posizione è stata utilizzata per i dati delle Opere Top. Questa è la posizione originale di Giacomo Leopardi con oltre 7000 termini effettivi ,ed è anche una posizione ottima rispetto a tanti altri contenuti e un possibile esempio,inizia dagli altri autori celebri ,sistemati nei dati precedenti 🙂 (non è possibile che abbiano termini unici maggiori ,perche’ sono 10 le presenze nella pagina:)Questa posizione dimostra quanto è difficile raggiungere anche il TPJ Level e quindi figurarsi quello di Page Solemn e una dimostrazione pratica è nei dati del primo True Long Story Goal Data HDC:) (il collegamento è nell’immagine iniziale)Rappresentano il senso pratico del keywords Stuffing ,ed è l’eliminazione dei termini in 1 sola pubblicazione e iniziano dai rapporti dei termini effettivi ,rispetto ai loro unici e la stessa posizione riguarda tutto il dominio ,perche’ i Match possono avvenire attraverso qualsiasi contenuto ,ovviamente tranne i domini che hanno delle violazioni e la possibilita’ che siano presenti ,è molto elevata ,ed esiste “l’imbarazzo della scelta” ,per quante violazioni possono esistere:) Quindi la presenza di Page Solemn è davvero molto rara e per questo motivo ho scelto di collocare i suoi contenuti in maniera separata ,rispetto all’originale. La prima immagine di HEROIC DC ha il collegamento con le comparazioni storiche di Page Solemn ,mentre l’evidenza dell’immagine appena inserita ,ha il testo Originale ,ed è composta sempre da 10 pubblicazioni ,ed ha 63700 termini effettivi ,in “triplice versione”:) (contemporaneamente ,sono presenti 2 labels e 1 homepage con gli stessi contenuti ,per 1 sola pagina ,all’interno di sola selezione:)La casualita’ ha fatto poi un regalo fantastico ,perche’ ho sistemato su AV 12 pubblicazioni e derivano dal fatto che avevo lasciato le pagine immuni ,per verificare i dati uniti ai links di HEROIC DC e quando ho sistemato le nuove publicazioni ,non ho verificato nessun dato e la prima volta li ho visti solo nelle dimensioni della verifica:) E’ fantastico il regalo della casualita’ ,perche’ ad avere la prima posizione di Page Solemn è l’Ignore General e non potevano essere altre pubblicazioni ,perche’ ancora non esistevano:) (è arrivata prima di Goal Data e con la presente sono 5 pubblicazioni ,mancanti su AV:) La pagina del Testo originale è anche qui
La prima immagine di Page Solemn APR 2021 ,ha invece il collegamento con la pubblicazioni in cui è arrivata ,ed è la precedente True long Story Goal Data HDC e al suo inizio ,esiste il collegamento con la descrizione storica dei dati di Page Solemn:)Saranno molto importanti per le pubblicazioni future,perche’ sara’ semplice “individuare tutte le posizioni” e lo spazio di Content Level Absolute ,permette le migliori comparazioni dirette ,attraverso l’immagine sotto:) Digitando l’immagine sopra ,si hanno tutti i reports delle verifiche.)La posizione vicina ai collegamenti di Page Solemn e degli HEROIC DC ,direttamente sono anche una conferma del motivo per cui i dati sono cosi’ elevati 🙂La conferma globale avviene attraverso gli RF e i Just Time e sono loro la vera verifica e inizia proprio dai rapporti tra i termini effettivi e i loro unici ,perche’ sono le prime posizioni a determinare i Copied nelle proposte complessive dei Main Content .(è una posizione simile ai Keywords Stuffing ,pero’ valida per tutte le pubblicazioni:)In questa posizione,tralascio anche il ruolo dei fact Check nelle singole pubblicazioni ,perche’ anche loro possono determinare i valori ,rispetto alle pubblicazioni complessive ,ed è sufficente che esistano i “Several Pages Claim Review” e cioe’, fatti non VERI ,sistemati su diverse pubblicazioni.In questo contesto cito solo la posizione diretta dei fact Check ,ed è nelle Strutture Data e l’insieme determina solo uno degli elementi del Natural Contest ,ed è la migliore comprensione di tutti i tempi:)Quindi ,in questa posizione, è possibile bypassare anche i Fact Check ,perche’ esistono le posizioni di Page Solemn e a differenza “di coloro che giocano a fare gli Engines” (il riferimento è ai Fact checkers fuori ordinanza:) ,esistono le presenze dei Copied e in tutto il web raggiungono circa il 40% ,rispetto ai contenuti complessivi e con queste presenze ,è inutile verificare la verita’ dei fatti 🙂 Ne esistono tante davvero curiose e solo per citare “uno dei protagonisti dei fatti veri recenti” ,è possibile descrivere i “Fights di Poynter” contro i contenuti dedicati al coronavirus:)Sono davvero convinto che “Poynter gioca a fare l’Engines” ,perche’ è un impresa titanica ,districarsi negli oceani di contenuti ,creati in 1 solo anno ,solo per la pandemia da coronavirus 🙂Tra un po’ sistemero’ i dati di Wiki globale e fornira’ un evidenza fantastica ,rispetto ai presunti “Fights di poynter” ,perche’ anche dopo 1 anno ,sono sempre i Copied ,ad avere la percentuale piu’ elevata dei contenuti ,anche per il coronavirus:)Quindi è possibile bypassare anche i Fact Chech nella posizione dedicata a Page Solemn ,perche’ il suo contesto oggettivo nasce dall’assenza di Copied e a determinarlo è il miglior rapporto possibile tra i termini effettivi presenti e i loro unici e se dovessero esistere “dati sballati” (iniziano da un rapporto di 1/6) ,diventera’ molto difficile ,la presenza di rilevanze nei contenuti,semplicemente perche’ sono eliminati i termini in conflitto ,rispetto a qualsiasi contenuto e contesto dovessero avere:) ( coronavirus compreso) Per il momento resto solo sui dati di Page Solemn e la casualita’ ,citata nei passaggi precedenti non è unita solo al fatto della simpaticissima coincidenza che sia stato proprio l’Ignore General ,ad aprire le pubblicazioni ,perche’ è prtesente un altra casualita’ e cioe’ non esiste nessun altra pagina ,ad avere le sue stesse dimensioni e ovviamente quando ho sistemato le 12 pubblicazioni, non sapevo assolutamente nulla dei dati e tantomeno conoscevo “quali fossero le loro combinazioni”:)In teoria sarebbe possibile conoscere ogni singola pubblicazione, pero’ sistemarne 10 in 1 sola posizione .diventa impossibile ,perche’ ognuna puo eliminare i termini dell’altra e sono visibili solo quando sono sistemate tutte insieme:)Tra l’altro occorre poi vedere anche le altre pagine successive ,create grazie alle pubblicazioni a scalare e quindi diventa inutile ,conoscere prima i valori delle singole pubblicazioni:)Ho scritto questo passaggio ,per evidenziare le immagini che seguiranno e renderanno fantastica la casualita’:)

Queste sono posizioni dei Click Depth L’assenza di Clicks indica la prima pagina e giustamente esiste lo Status Code 301 nella 2° posizione e non è un Redirect e nemmeno “una Rimozione permanente” ,ma deriva solo dal fatto che l’homepage non esiste:)Sono oltre 63000 i termini e non sono mai esistiti prima e a differenza dei dati delle vaerifica ,esistono anche altre posizioni ,sempre unite alla prima pagina e sono le varie categorie e anch’esse sono formate da contenuti in Full Text e quindi potenzialmente sono tutti possibili Match e tre di loro , sono proprio all’interno della verifica da cui è nata Page Solemn APR 2021:)E’ un contesto meraviglioso:)
Nella pubblicazione unita a HEROIC DC 3 ,esistono le dimensioni ascendenti dei contenuti e la sistemazione è precedente alle altre pubblicazioni inserite ,tra cui l’Ignore General 🙂E’ fantastica questa unione e deriva proprio dal termine Ignore ,presente nel dominio ufficiale del primo Engine dell’universo e non ha un numero di applicazioni elevate ,pero’ le loro applicazioni sono pesantissime ,rispetto ai valori generati per qualsiasi contenuto:)E’ sufficente “Ignorare la migliore comprensione di tutti i tempi” e i Fact Check confluiscono anche in Essa ,attraverso le Strutture data ,per avere reports pessimi e non potranno mai piu’ essere positivi:)La posizione dei Fact Check ha poi un ruolo aggiuntivo ,rispetto a tutte le “farneticazioni dei fatti veri” ,perche’ esistono anche le “Mezze Verita’” ,ad avere pesanti penalita’ ,senza che esista nessun “AVOID Postumo” e la prima ad essere sistemata è davvero curiosa ,perche’ aveva come riferimento proprio GOAL DATA ,rispetto al Page Quality Rating.Le “Mezze verita’” o Half True sono molto piu’ pericolose e subdole dei falsi Totali ,perche’ è facile ingannare gli utenti e naturalmente il fine,è di vendere servizi ,a prescindere dai dati che possono produrre:)L’unica verita’ è l’unione di GOAL Data con i Main Content e solo da ESSI ,deriva il Page Quality Rating e tutto il resto è OUT:)In OUT è possibile sistemare tutte le condizioni che arrivano dai Brain Stone:) Anche quest’immagine deriva da HEROIC DC 3 (il collegamento è nella sua immagine) ,ed è possibile unirla completamente alle condizioni OUT dei Brain Stone ,perche’ esiste l’Ignore piu’ rilevante di tutti i tempi ,ed è quello rivolto a qualsiasi Tags sia per le sue posizioni oggettive (occorre che siano presenti contenuti effettivi non in Copied:) e nello stesso tempo ,esiste l’Ignore completo , perche’ l’utilizzo di Tags ha avuto anche abusi colossali:)L’aspetto fantastico di questa posizione,sono i suoi archi temporali ,perche’ i contenuti del primo Engines dell’universo ,risalgono all’anno 2009,pero’ la loro operativita’ è attualissima ,ed è solo sufficente aggiungere la ragione per comprendere il contesto:) Tra l’altro ,nei contenuti originali del 2009 , si fa’ riferimento anche al decennio precedente ,per stigmatizzare l’abuso stesso dei tags e quindi in realta’,non hanno mai prodotto nessun dato valido nella storia del web:) Anche i Tags sono all’interno dei Brain Stone e quindi è facile individuare quali siano i valori reali per i Goal Data :esistono solo i contenuti effettivi e per raggiungerli ,occorre possedere anche le proposte complessive in 1 solo dominio. Dalla pagina A di Goal Data esistono anche le posizioni di Microsoft Bing E’ solo diverso il percorso descrittivo,pero’ le condizioni generali sono identiche a quelle di Google:) E’ arrivato dopo tutti i link Building ; i Social Schemes ; I reciprocal Links ;i confini ingannevoli dei Subdomini ETC ETC:)E’ un Gran Goal davvero quello di Microsoft Bing e lo ha fatto,attraverso una “sublime presa per il culo” 🙂Al termine di tutte le violazioni ,se proprio vogliono fare “link Build” , è sufficente che gli autori “producano contenuti unici” e possibilmente anche rilevanti e con valore aggiunto:)Quest’immagine proviene sempre da HEROIC DC 3 e questa posizione è direttamente unita anche ai dati di AV e di qualsiasi altro dominio individuale e il senso è nelle evidenze dell’immagine stessa:)E’ il Search Console di Google ,ed è equivalente al webmaster di Microsoft Bing ,ad iniziare dal metodo di registrazione dei codici e quasi sempre ,è formato da un file xml in download e successivamente occorre fare l’upload nel proprio dominio e al termine si effettua la verifica dei codici.E’ una posizione molto importante per comprendere il ruolo degli Index, sistemati nell’immagine di Search Console ,perche’ nel reports degli Index , saranno inseriti solo i domini che hanno verificato i codici e quest’ultimi non potranno essere “modificati in nessun modo” e tantomeno rimossi ,dopo il loro upload.Sistemo l’esempio individuale, per comprendere il valore dei contenuti del Search Console ,dedicato agli Index :i codici individuali di Google ,riguardano solo questo dominio , con 2 TLD verificati (.COM e .IT ) Questa è l’espansione delle Property in Google Search Console e per sistemare un nuovo dominio ,occorre aggiungere nuovi codici con il metodo descritto nel passaggio precedente.Per Microsoft Bing esiste invece anche lo spazio di AV e ogni singolo dominio e TLD ha reports in proprio ,ad iniziare dagli Index.A questo punto avviene l’unione con i contenuti di Search Console ,attraverso i Codici Canonical e determinano “quale versione dei contenuti ” sia quella originale e il codice puo essere sistemato dall’autore ,oppure dagli Engines. Dopo aver sistemato i codici Canonical ,tutte le altre pubblicazioni saranno classificate in Alternate e cioe’ verranno escluse dagli Index. Nei domini individuali esistono tante diversificazioni dei Canonical ,ad iniziare proprio da AV e questa posizione deriva dal fatto “che gli spazi satelliti” hanno la stessa importanza del principale e la scelta è anche logica, perche’ avere “domini di supporto”,senza nessun valore in proprio, renderebbe inutile anche averli 🙂Questa posizione deriva dal fatto che i contenuti di AV o di qualsasi altro dominio individuale,differente dal presente ,hanno dati propri e naturalmente ,possono nascere solo dagli Index ,ed è il valore reale di Google e anche di Microsoft Bing ,insieme al suo “elevatissimo Powered” ,composto da tanti altri Engines ,che si “Ispirano alle sue API”:) (in essi sono compresi anche tutti gli “Engines” che non fanno nessun tracciamento e ne fanno anche un vanto:) Nella realta’ i dati veri ,appartengono tutti a Microsoft Bing e i suoi Index ,sono identici a quelli di Google ,ovviamente considerando solo il percorso dei valori da cui derivano i reports e sono molto semplici ,perche’ entrambi derivano da Goal Data:)Solo i Content producono Dati Veri e il resto “è solo cianfrusagglia” ,quasi sempre utilizzata solo per vendere pessimi servici:) Tornando ai valori degli Index ,grazie ai Canonical ,anche i dati di AV hanno valore in proprio e non occorre il Search Console ,perche’ esiste Google direttamente ,a mostrare dove sono sistemati i Canonical 🙂Per Microsoft Bing ,esistono invece gli esempi diretti degli Index ,nelle precedenti pubblicazioni (il collegamento è nell’immagine iniziale) e prima di sistemare gli altri dati di AV ,inserisco le posizioni indispensabili per avere gli Index.Naturalmente ,non è sufficente sistemare solo i codici Canonical per stabilire quale sia la versione originale ,rispetto a pubblicazioni inserite in vari domini ,perche’ ognuno deve possedere anche i Main Content in proprio e nascono da tutti gli altri elementi del Natural Contest. Solo per citare il primo passo , non è assolutamente possibile sistemare dei codici Canonical per 1 pubblicazione in 1 dominio e avere tutte le altre in alte percentuali di duplicati ,oppure con qualsiasi altra violazione:)Semplicemente gli altri domini non potrebbero avere nessun codice Canonical e la migliore evidenza è nell’immagine sotto:) Appartiene alla pagina A di Goal DataDecisamente è la posizione meno indicata per sistemare dei codici Canonical e sono “i confini ingannevoli dei Subdomini” e potrebbero essere ,nel Caso individuale,tutti gli spazi satelliti:)Nella pagina A di Goal Data esistono le descrizioni e naturalmente sono valide anche per Google ,perche’ “lo scopo reale dei confini ingannevoli” è proprio quello d’ingannare gli Engines:)E’ l’idea peggiore che un autore possa avere ,perche’ solo la presenza di confini “non reali dei domini” ,rende pessima la posizione del dominio principale ,perche’ annullera’ qualsiasi valore anche dei suoi contenuti:)Il contesto è solo quello dell’Ignore General:) Per avere confini dei domini ingannevoli “è indispensabile abilitarli” e sono talmente elevati i rischi ,anche per gli autori onesti ,da permettere la pertinenza piena degli Ignore general Fact Data:)Cioe’ non sanno realmente da quale contesto derivano i dati reali e immaginano che siano solo quelli dei rilevamenti di base ,ed è sicuro che solo per questo motivo abilitano i subdomini:) Per la ricerca dei subdomain non occorrono tool “particolarmente sofisticati” ,perche’ è sufficente vedere se sono abilitati o meno:) Lo strumento sistemato è l’unico “a fornire il reports di 2 subdomain” e nella realta’ il report è uguale agli altri,perche’ non esiste nessuna abiltazione reale:)Il primo è il dominio stesso ,mentre il secondo indirizzo ha l’estensione completa sotto:ftp.dinamicstory.altervista.org Nemmeno questo è un subdominio ,ed è facile verificarlo ,attraverso 1 solo Click e si aprira’ 1 pagina con l’URL sopra e non è una qualsiasi ,ma è l’homepage del dominio e il paradoso è il fatto che non esiste ,semplicemente perche’ non è abilitata nemmeno ESSA:) Quindi i Codici Canonical ,presenti su AV , hanno una posizione sicura ,perche’ non esiste nessuna violazione nemmeno dei Subdomain e sopratutto sono validissimi i Contenuti che possiede ,altrimenti non esisterebbe nessun Index e i migliori Tools in assoluto ,sono solo quelli degli Engines:) Questa non è una novita’ ,perche’ i subdomain non sono mai stati abilitati da FEB 2015 e a parte “le ragioni dei confini ingannevoli” nelle violazioni ,il dato appena aggiunto , rende anche evidente il fatto che non esiste nessuna somma dei dati tra i domini ,proprio in senso operativo:)Alcuni tool indicano le posizioni NON ABILITATE ,come “fattore dei dati nei loro reports” e naturalmente ,sono operativi solo nelle menti degli idioti ,perche’ hanno solo come fattore unico ,l’INVIDIA:)La realta’ dei dati è esattamente opposta e solo il dominio principale al 5° anno,ha piu’ del doppio dei dati rispetto a tutti gli spazi precedenti sommati insieme e per quanto riguarda il peso specifico dei contenuti ,non esiste nemmeno la possibilita’ di comparazione ,rispetto agli spazi precedenti 🙂I Dati vanno pesati ,prima di contarli ,ed esistono i migliori Tools per verificarli e non sono quelli dozzinali ,utilizzati dagli idioti:)L’idiozia è proprio il fattore comune ,tra tanti strumenti e coloro che li utilizzano e nasce dall’Invidia e puo essere verificata in maniera semplice ,perche’ gli idioti “hanno solo un dato alla volta” e non hanno capacita’ di unirli agli altri 🙂 E’ molto facile da verificare ,anche per gli idioti , perche’ solo l’intelligenza reale ,riesce a unire i dati e nel contesto online è proprio indispensabile farlo,perche’ altrimenti non si hanno reports reali:)E’ sufficente “l’esperienza ordinaria” per verificarlo e indirettamente , è presente gia’ nei dati di questa pubblicazione , perche’ se non ci fosse stata la capacita’ di unirli ,non esisterebbero i valori dei contenuti e il contesto online è la migliore posizione per verificarli ,perche’ i reports nascono solo dalla migliore comprensione reale di tutti i tempi e non esiste nessuna comparazione possibile con il contesto tradizionale dei contenuti, perche’ è presente solo l’opposto della piena comprensione:)Questa è la differenza piu’ elevata ,rispetto al valore piu’ importante del contesto online e si raggiunge solo unendo i dati giusti e per i contenuti individuali rappresenta un contesto straordinario ,perche’ tra un po’ arriveranno i 3,5 Milions di termini effettivi in 1 sola posizione e per il 5° dominio individuale e i suoi contenuti , sono nati solo dall’unione di tantissimi dati ,in 6 anni e 2 mesi esatti e rispetto al contesto tradizionale ,esistono “Interlocutori Superlativi ” ,che conoscono “ogni minimo dettaglio” del contesto online e le sue dimensioni sono esponenziali ,rispetto al contesto tradizionale e il dato piu’ interessante ,è la Qualifica Stessa delle Dimensioni ,perche’ hanno 1 solo riferimento e sono i Content degli Index:) Rispetto a tante fluttuazioni dei dati ,assai approssimative , ad iniziare dai Changes degli algoritmi stessi (i sensori piu’ sofisticati ,al massimo sono arrivati a 600 in 1 anno ,mentre i reali sono oltre 3200) ,esistono i dati ufficiali e sono arrivati tramite un equivalenza fantastica: i contenuti eliminati solo in 1 giorno dall’Index di Google,sono equivalenti a 20 Milions della principale Opera di leo Tolstoy ,ed occorre solo ricordare che è formata da 560000 termini effettivi:)

La Goal Data dei 3,5 Milions di termini effettivi è vicinissima:)Confesso di essere molto emozionato , per tutte le cose unite a questo meraviglioso dato e naturalmente il primo riferimento è ai contenuti dei Post Base e saranno presenti nel 3° True Long Story Goal Data HDC e formeranno solo il contesto ufficiale ,per i 3,5 Milions di termini effettivi in 1 solo dominio ,perche’ al dato oggettivo ,mancano circa 500 termini effettivi (questa pubblicazione doveva avere 5100 termini esatti per raggiungere l’obiettivo:) .Il dato piu’ importante d’applicare a questo contesto , è nel passaggio precedente all’immagine del report ,ed è formato dall’unione dei dati ,presenti nei contenuti , rispetto “agli Interlocutori piu’ Capaci” di comprendere pienamente i contenuti ,in tutte le sue forme (compresi gli spazi presenti tra i termini:) e questa è solo UNA delle differenze ,rispetto al contesto tradizionale dei contenuti:)Le altre sono ancora piu’ elevate e iniziano dalle dimensioni stesse dei contenuti online e solo per citare il Detect language individuale (italiano) ,non tra i piu’ rilevanti nelle dimensioni , è 15,3 volte maggiore ,rispetto a tutti i contenuti scritti nella storia dell’umanita’:)Esiste poi la 3° differenza ,altrettanto importante ed elevata e inizia dalle dimensioni stesse ,attraverso l’esempio del Detect language italiano e cioe’ il volume complessivo,rispetto a tutti gli scritti della storia dell’umanita’ ,non derivano da contenuti generici” ,ma hanno come riferimento,esclusivamente ,solo i Content in INDEX e questo contesto ,per forza di cose ,forma la differenza maggiore ,rispetto ai contenuti tradizionali , perche’ hanno avuto gia’ tutti i match delle verifiche i domini che sono sistemati in Index e i conflitti ,avvengono tra tutte le categorie ,presenti nel web ,a prescindere dai contenuti e dal contesto che hanno:) Con l?equivalenza di 20 Milions dell’opera maggiore di leo Tolstoy,eliminati in 1 solo giorno,diventa facile quantificare il livello stesso dei Match ,tra qualsiasi categoria del Contesto Online e naturalmente ,è possibile che esistano contenuti eliminati ,senza aver avuto nemmeno 1 conflitto,a causa delle tantissime violazioni e abusi di ogni genere,praticati:)Esiste poi anche una 3° possibilita’ per essere eliminati ,senza la presenza dei Match e delle violazioni e sono ,semplicemente ,le categorie d’appartenenza dei contenuti e la loro eliminazione è dovuta agli sviluppi stessi delle categorie ,semplicemente perche’ i contenuti non sono piu’ attuali:)Per i content individuali ,questa è la posizione piu’ sublime ,perche’ nessun altra categoria ha la velocita’ degli sviluppi del contesto tecnico online e quindi gli Index presenti sono per forza di cose straordinari ,perche’ debbono avere contenuti attuali ; debbono aver resistito a tutti i Match ,all’interno degli sviluppi piu’ veloci ,rispetto a qualsiasi altra categoria del web e naturalmente, tutto l’insieme è unito solo a contenuti originali ,scritti solo la prima volta:) L’omino della gioia ,dopo salti durati 6 anni e 2 mesi ,insieme al Long Standing Webmasters Guidelines ,ed è il primo riferimento per avere gli Index e quindi i dati reali ; insieme al Taken Against Content Generally e quindi tutti i Match del Contento Online ; insieme ai Time Sensitive Content e quindi tutti i Fact Check ,compresi gli half True e tutte le Strutture data e quest’insieme confluisce nella Migliore Comprensione di Tutti i Tempi e quindi in tutti gli elementi del Natural Contest ,semplicemente perche’ è al suo interno ; insieme a tutti gli elementi del Frame Global Limiti e quindi anche le idee di Origin RF da cui è nata:)Tutti questi elementi, annunciano l’arrivo di Goal Data Solemn e posso assicurare di non aver fatto nulla di proposito,ma è successo tutto grazie solo al Caso:) Saranno i nuovi valori del taken Din Colors Five:) True Long Story Goal Data HDCAPR 2021 Hi 3,5 Milions Words:) Il dato curioso è sistemato qui:) Conoscevo le dimensioni mancanti all’incredibile volume dei 3,5 Milions e per verificare i dati ho fatto solo 2 prelievi e sono il precedente e quello appena sistemato e non è assolutamente facile azzeccare i dati ,vedendo solo le dimensioni e il motivo è nel rapporto tra i caratteri e i termini completi ,perche’,ovviamente, possono variare tanto e la posizione è molto importante ,perche’ gli Stop Words Removed , prevalentemente, sono formati da termini da 3 e 2 caratteri ,mentre l’average dei termini di questa pubblicazione,fino al passaggio precedente ,è formato da 6 caratteri e spero che siano utili per i Match futuri e comunque l’inizio è buono , perche’ è sicuro che i termini “almeno hanno la possibilita’ di arrivare ai conflitti”:) Attraverso gli Stop Words Removed non succede nemmeno questo ,perche’ i termini eliminati prima dei Match ,semplicemente perche’ non sono indispensabili ,per qualsiasi ricerca:)Ho scritto questo passaggio perche’ gli Stop Words Removed sono anche all’interno del calcolatore e non esiste nessun dato ,anche selezionando il Detect language specifico ,perche’ la prevalenza dei termini eliminati ,sono quelli con pochi caratteri e questa posizione è valida per qualsiasi lingua, utilizzata per creare i contenuti.Ovviamente il rapporto ottimo dei caratteri ,rispetto ai termini effettivi, è nato in maniera naturale ,perche’ sarebbe impossibile “l’operativita’ opposta”,sopratutto nel dominio individuale e quindi scrivo solo quello che penso realmente ,senza preoccuparmi di creare conflitti con altre pubblicazioni dello stesso dominio:) Ovviamente spero che ne esistano il meno possibile ,pero’ con 3,5 Milions di termini effettivi in 1 solo dominio ,per 1 solo autore ,diventa impossibile ,creare contenuti ,calcolando tutti i possibili conflitti:)Comunque questa posizione ha un aspetto fantastico e ludico insieme , perche’ crea tantissimo divertimento nello scoprire i dati ,perche’ ho piena consapevolezza che derivano davvero da idee individuali ,senza applicare nessun EDITS:) Esistevano tante altre selezioni da unire a questa pubblicazione e in questa posizione ne citero’ alcuni e poi i content saranno in “post normali”:)Un elemento sara’ questo e la posizione è davvero fantastica ,per l’unione da cui è arrivata:)I migliori suggerimenti arrivano sempre dai TFD e ho utilizzato il termine “Vendor” unendolo all’ecommerce (esistono Wiki ; Statcounter ;Bigcommerce ;Investopedia ;Marketing Charts e altri) in comparazione con i dati di Amazon:)Il senso è nella precedente pubblicazione collegata all’inizio e da quest’insieme è arrivato CIO INDEX e il suo ruolo è descritto nell’immagine stessa e i suoi contenuti sono facili da unire ai valori reali dell’ecommerce e del business generale del contesto online.L’aspetto fantastico di questa posizione ,deriva da un passaggio scritto nella precedente True Long Story Goal Data HDC e sono i contenuti del 6° Gold Star dedicato ad Amazon:)La differenza è fatta dagli archi temporali ,perche’ ho descritto le “presunte posizioni dominanti di Amazona July 2019 ,ed è la data del Gold Star della 6D:) In questa posizione è impossibile sistemare tutte le descrizioni ,inserite solo nella pubblicazione dell’anno 2019 ,pero’ alcune immagini iniziali li sistemero’ lo stesso ,perche’ sono meravigliose ,lette dopo 2 anni e mezzo ,con tutti i contenuti che sono arrivati dopo ,compresa la recente pubblicazione di True Long Story Goal Data.Prima di sistemare le immagini ,anticipo il ruolo che avranno i contenuti dei tools di Amazon:Saranno uniti ai Data PriorityIl senso, a sua volta, è unito alla Priorita’ Vera , ed è sicuro che sara’ quella della Verita’ dei dati ,rispetto a qualsiasi priorita’ siano applicati:)Per il momento ,è possibile anticipare “qualche sospetto” ,sopratutto per i vertici del digitale italiano,perche’ sono prevalentemente uniti solo al “social marketing” e quindi “la verita’ dei dati è gia’ una chimera” e adesso si è aggiunta anche Amazon “a fornire i suoi dati mirabolanti” ,iniziando dai suoi fattori principali 🙂 Per il momento ho inserito solo il Pay per Click e anche gli altri non sono da meno,in demenza e hanno anche dei “gran seguaci” ,tra gli elementi digitali italiani ,ed è sicuro “che faranno parte dei dati”,almeno per il digitale italiano e di conseguenza è inevitabile che sia all’interno anche delle altre priorita’:) Qui è sistemata la pubblicazione dedicata alla 6° Gold Star Inizia da questo snippet ,ed ha gia’ un valore in proprio per i termini sistemati ,perche’esistono solo 2 posizioni in cui il termine Match ha un senso positivo:)UNO è il Business e l’altro sono proprio gli Snippet e il senso è molto semplice,perche’ i termini sistemati ,debbono essere presenti realmente nelle pubblicazioni (non è possibile scrivere termini negli snippet a fantasia:) ,ovviamente dopo aver avuto I Match con gli altri contenuti del contesto globale (è la versione negativa del termine Match ,perche’ spesso indica l’eliminazione dei contenuti ) Questo passaggio è dedicato proprio ai 3 termini evidenziati ,ed è facile intuire che sono rilevantissimi:)Questa è la seconda immagine della 6° Gold Star e da questo contesto ,grazie al custom range ,sono nate “le presunte posizioni dominanti di Amazon” e continuano nei contenuti del 6° Gold Star:)In questa posizione posso ricordare che i 3 termini fanno parte dei Just Time in K2 e a permettere la loro rilevanza ,sono solo i termini effettivi che li contengono e il riferimento non è la sua pubblicazione specifica ,ma i contenuti dell’intero dominio e cioe’ QUESTO!:) E’ il ruolo piu’ bello dei Just Time e degli RF ,perche’ i termini rilevanti qualificano in maniera esponenziale gli effettivi ,in senso oggettivo ,perche’ la presenza di 3 termini di questo livello ,amplifica tutte le combinazioni possibili presenti in 1 dominio e quindi anche i valori dei contenuti 🙂 I 3 termini specifici li sistemero’ nel loro Just Time e per concludere questa pubblicazione ,sistemo una piccola informazione per Wiki Globale:)
Questi sono i dati di Wiki Globale a APR 2021
Sono le dimensioni massime a scalare e per la prima volta esiste una pubblicazione dedicata a Covid-19 nella prima posizione.
Nel corso di 1 solo anno ,le sue dimensioni sono maggiori del doppio rispetto a quelle iniziali ,ed è sufficente citare solo la prima pubblicazione di Wiki dedicata a SE STESSA ,ed ha quasi la meta’ delle dimensioni ,pero’ ha compiuto 20 anni a JAN 2021 e anche la prima pubblicazione di Wiki ha tantissimi EDITS:)
In questa posizione cito solo la 2° pubblicazione in dimensioni evidenziata ,ed è dedicata agli Index di Wikimedia e il riferimento ,sono le sue Guidelines e al suo interno ,oltre ai copyright ;plagiarism e tantissimo altro , esistono anche gli EDITS:)
la pubblicazione è qui:)
Wiki è davvero forte ,perche’ ha sistemato gli EDITS come se fossero “un operazione normale” (probabilmente per questo motivo ha il 40% in Copied per la pubblicazione dedicata al Covid:) ,ed occorre anche ricordare il metodo di fare EDITS e avviene attraverso i suoi database (cioe’ non deve esistere plagio tra gli autori di Wiki stessa:) e l’aspetto piu’ interessante è quello di Wikidata ,perche’ anch’essa partecipa agli EDITS e nell’universo Wikimedia è considerato il “secondo database” , mentre nella realta’ è assai superiore a tutti gli altri domini ,esterni a Wikimedia ,ovviamente esclusi gli Engines:)
Questo contesto rende semplice comprendere quale sia il livello dei Match ,perche’ le condizioni di Wikimedia non li possiede nessun altro dominio:)

Questo è il dato attuale degli EDITS complessivi dei domini Wikipedia:)E’ il miglior modo per festeggiare i 3,5 Milions di termini e anche page Solemn ,perche’ non esiste nessun EDITS:)Grazie WIKI:)Wiki è sempre fantastica ,perche’ possiede anche 1 pagina per i suoi Milestone e tra di essi esistono anche gli EDITS ,come se fosse tutto normale:) Il primo Miliardo di EDITS ,per tutti i domini di Wiki è arrivato nell’anno 2010 ,mentre quello di Wiki globale è recente ,rispetto all’anno 2021:)La pagina dei milestone di Wiki è qui
Posted in Key Page Unit, TD Space Content
True Long Story Goal Data HDC 🍀
Posted on April 30, 2021 by Din Story AV
L’immagine sopra ha il collegamento con la 2° HEROIC DC e al suo interno sono descritti i percorsi dei contenuti, uniti a Din Colors MS (Match Solemn:) e questa posizione servira’ per creare altri collegamenti e le descrizioni saranno nella 2° pubblicazione di True Long Story Goal Data HDC:)
Il nome scelto per questa pubblicazione, deriva dal contesto dei dati generali e avranno numeri progressivi,fino all’arrivo dei 3,5 Milions di termini effettivi:)Nella realta’ “il traguardo sarebbe molto vicino” ,perche’ mancano circa 900 termini effettivi per raggiungere i 3,49 Milions e poi esisterebbero “i restanti 10000” e nel contesto online, è in realta’ un dato notevole ,perche’ esistono conflitti in 1 sola posizione e a differenza del contesto tradizionale dei contenuti,non esiste nulla che “NON SIA NOTO” e non occorre citare i termini effettivi ,perche’ sono NOTI e IMPORTANTI anche gli spazi che esistono tra di loro:)Questo è il contesto generale ,valido per qualsiasi spazio e nel dominio individuale,le posizioni sono “assai peggiori” per i prossimi 10000 termini effettivi ,perche’ l’impatto avverra’ a 3,5 Milions in True Long Story e il loro primo sinonimo è l’originalita’ stessa dei periodi ,uniti al fattore piu’ rilevante in assoluto e sono gli archi temporali “di SOLI 6 ANNI”:).La loro “traduzione operativa” è la presenza o meno di EDITS:)inizia da quest’immagineSono gli INDEX di Microsoft Bing per l’anno 2021 e la novita’ è molto semplice,perche’ esiste una nuova pubblicazione negli INDEX,rispetto ai dati di APR 2021 (il collegamento è nell’immagine iniziale)altre descrizioni sono nel 75° RF

è una novita’ importante,perche’ permette di evidenziare al massimo tanti altri dati:) Il piu’ semplice è la difficolta’ stessa di avere gli INDEX,perche’ le probabilita’maggiori “derivano dal suo opposto”:)Per avere il De-Index non occorronno i dati del contesto globale,perche’ è “Indispensabile prima Arrivarci”,tramite i conflitti dei contenuti interni ai domini.(compresi gli Stop Words Removed e i termini “desueti e antichi”,descritti in APR 2021,perche’ la loro eliminazione dai singoli periodi,rendono poco probabile che esistano poi “delle gran rilevanze”:)Un altra evidenza importante è nei dati del Discovered , perche’ la data temporale,rispetto all’ultima visita è unica in tutti i sensi,ad iniziare dal fatto che non esistera’ un altra simile in qualsiasi arco temporale futuro:)Solo al primo Discoverd della pubblicazione (cioe’ quando è stata trovata la prima volta),esistono le stesse date e questa posizione,insieme ai contenuti di APR 2021,formano l’evidenza migliore,rispetto al DON’T DECEIVE Gloabale:)E’ sufficente vedere gli altri esempi dei Discoverd ,per comprendere che non è possibile Decidere Nulla ,rispetto ai Cicli degli Index (ovviamente ipotizzando che esistano:) e tantomeno è possibile Decidere “qualsiasi priorita’”,rispetto a qualsiasi contenuto:) (un riferimento opposto sono nelle idee balzane di Yoast,attraverso il Cornestone Content,perche’ l’applicazione riguarda proprio la “priorita’”,da unire a qualche contenuto:)Nell’immagine del nuovo Index ,esiste un altra evidenza fantastica ,perche’ non è unito nessun backlinks e quindi il Discoverd è arrivato solo grazie alla Sitemap e ai successivi Match interni al dominio e poi quelli globali:)Scritto il periodo in questo modo,potrebbe sembrare “quasi un contesto banale” per quanto è ovvio e quindi ,occorre sistemare il contesto reale dei dati: deriva da tutti gli elementi del Frame Global Limit ,compresa la piu’ recente posizione “dei commenti” e il riferimento sono i TEXT scritti oggettivi e naturalmente il riferimento è a solo Links in Dofollow:) In APR 2021 esiste l’esempio del dominio TrustradiusI suoi review sono in pratica dei commenti loro stessi ,rispetto a servizi e strumenti e il particolare piu’ importante ,deriva dal fatto che i contenuti effettivi dei gestori del dominio,hanno una “piccolissima quantita”, pero’ sono sempre loro a gestire i collegamenti e sono sistemati tutti links in DoFollow:) (su centinaia di posizioni ,solo nella prima pubblicazione in dimensioni esistono solo 3 NoFollow:)Quindi se i commenti sono all’interno delle dimensioni complessive dei contenuti ,significa che esistono solo links in DoFollow ,ed è molto difficile trovare l’opposto e queste posizioni “non nascono casualmente” ,perche’ sono realizzate proprio per fare Links Schemes o Reciprocal Links ,immaginando che questa posizione possa avere “qualche valore”:) (esistono solo per i rilevamenti di base e per questo motivo hanno ZERO VALUE”:)Di conseguenza,queste posizioni diventano,indirettamente, il miglior tool per comprendere le teste stesse dei gestori dei domini ,perche’ l’esistenza del Reciprocal Links è nota ,ed è molto facile farne parte anche per autori onesti e quindi figurarsi ,coloro che “li sistemano di proposito” nelle loro pubblicazioni:)In questo contesto i commenti e anche i reviews di Trustradius,avranno solo la funzione oggettiva dei TEXT scritti effettivamente ,grazie solo al fatto che hanno sistemato tutti links DoFollow (tranne 3:) e quindi fanno parte dei contenuti di Trustradius e dei tantissimi altri domini in cui sono sistemati e l’importanza in questo contesto è multipla: la prima è la piu’ semplice ,perche’ tramite i links in DoFollow sono anche Abilitati gli autori stessi che hanno scritto i singoli commenti e fanno parte dei contenuti complessivi dei domini specifici e naturalmente ,il numero elevato di autori ,rende meno probabile,almeno in teoria che esistano dei Match nei contenuti:)Quest’ultima posizione ,apre la seconda importanza unita ai commenti , perche’ nei contenuti individuali non sono proprio abilitati da FEB 2015 e quindi i dati sono integrali realmente e lo sono anche i Match:) L’evidenza piu’ paradossale deriva dal fatto che in quasi tutte le verifiche interne ,i Match piu’ elevati sono quelli del nome dell’autore e dei labels e tra un po’ ci sara’ un altra testimonianza fantastica ,perche’ sara’ presente il 3° HEROIC DC ,ed è nato dagli stessi contenuti,pero’ con impostazioni davvero uniche:)

Per il momento torno alla 3° pubblicazione in Index per l’anno 2021Naturalmente se il report è sistemato in questa posizione,significa che esiste l’unione anche con i passaggi precedenti ,ed è molto semplice ,perche’ coloro “che pensano di essere furbi” sistemando tutti links in Dofollow (compresi i commenti con rinvio di links verso altri spazi) , non potranno mai fare nessuna richiesta “di revisione degli index”,perche’ esistono gia’ le penalita’ di Schemes e Reciprocal Links e queste posizioni ,non avranno mai l’AVOID ,a prescindere dai contenuti che possono avere gli spazi:). Esiste solo la possibilita’ di pensarci prima ,di commettere violazioni e abusi e gli schemi dei links ,sono letti solo come tentativo d’inganno da parte degli Engines ,ed hanno anche “fondatissime ragioni” ,perche’ i Reciprocal Links e gli Schemi (compresi anche i commenti) ,sono fatti proprio per quel motivo:)Se fosse l’opposto,sarebbe sufficente che nei links esistessero solo i NoFollow e “avviene molto di rado” e quindi il tool degli idioti è molto pertinente , perche’ la presenza di solo DoFollow “non puo essere casuale” e nello stesso tempo ,esiste la prova dell’idiozia ,perche’ è gia’ difficilissimo creare contenuti validi “che possano resistere agli impatti” di tutti i match colossali del contesto online e fatto questo, il passaggio successivo è la sistemazione di tutti links in DoFollow ,per fare “schema” e quindi annullare tutti gli eventuali valori dei contenuti:)La presenza di un contesto simile deriva da un fatto semplice:Ignore General Facts Data:)Non conoscono in maniera oggettiva ,nemmeno “dove è disputata la partita” e nella pubblicazione originale esiste proprio l’immagine piu’ pertinente a supporto dell’Ignore General ,ed è il “campo delle competizioni di Yoast” e quando ho prelevato l’immagine,rappresentava proprio la sua Homepage:) Gli unici dati reali appartengono solo agli Engines ,ed esiste anche la ragione a confermarlo,perche’ se fosse l’opposto i dati del contesto online ,sarebbero tutti simili ai links in Dofollow e non esisterebbe nessun valore reale ,perche’ sarebbe presente solo l’iperinflazione dei Reciprocal Links:)

In quest’immagine esiste la sintesi dei passaggi appena sistemati:)La descrizione è anche in APR 2021 pero’ in questa pubblicazione esiste la novita’ del Discoverd con la stessa data della prima visita e sara’ molto difficile trovarne un altra uguale:) Per tutte le 1200 pubblicazioni in Index,il Discoverd è gia’ passato da tanto tempo e non potra’ esisterne un altro,perche’ l’unica alternativa è il De-Index per le singole pubblicazione e dopo averlo avuto solo UNA VOLTA,non esiste una “seconda possibilita’” di avere nuovi Index ” aggiustando la pubblicazione” e quindi non esistera’ nessun altro Discovered e per gli eventuali successivi ,sara’ presente l’impatto delle dimensioni del taken Din Colors Five e qualsiasi pubblicazione trovata ,avra’ difficolta’ elevatissime “di uscire indenne dai match” ,solo all’interno del dominio individuale:)Per questi “ragionevoli motivi”,avere il discovered e l’ultima visita nella stessa data,è un occasione unica e la utilizzero’ per sviluppare i passaggi precedenti:) L’unione è molto semplice e inizia proprio da LIVE URL:

questi sono i dati LIVE realmente:) Non debbono esistere “posizioni ingannevoli” attraverso tutti gli schemi dei links in DoFollow ( per la pubblicazione specifica non esiste il problema perche’ non ha nessun backlinks in Dofollow e se fossero dei NoFollow non conterebbero assolutamente nulla:) e sopratutto i codici sopra ,saranno il riferimento per le nuove visite e per i successivi Match e cioe’ possono esistere solo i contenuti originali trovati la prima volta nel dominio ,ovviamente insieme alle altre pubblicazioni in Index.Se dovessero essere “solo un po’ diversi”,l’unica sicurezza è di avere il De-Index e non esistera’ mai piu’,nessun Discoverd per la pubblicazione specifica o per qualsiasi altra:)

Naturalmente deve esistere anche questa posizione degli Satus Code ,perche’ non esiste nessuna possibilita’ di avere l’Index di pubblicazioni in Broken:) (tantomeno con i reciprocal Links e tutti gli Schemi:) Mancavano solo 970 termini effettivi al traguardo di 3,49 Milions complessivi:) i dati sono qui:)Il riferimento è il termine del passaggio precedente e sono 1581 termini e quindi gli ultimi 10000 ,sono gia’ iniziati per arrivare all’incredibile traguardo di 3,5 Milions di termini effettivi ,in 1 sola posizione e per il 5° dominio individuale:) I contenuti che seguiranno in questa pubblicazione e nelle successive saranno del tutto normali e cioe’ esprimero’ solo quello che ho in mente,cercando sempre di unire anche la logica:)E’ facile verificarlo , perche’ in 6 anni , non esiste 1 sola posizione “acquiescente verso le tantissime lezioni degli ottimizzatori” ,ma ho solo espresso delle mie idee unite alla logica e i fatti successivi le hanno sempre confermate:)Nei Brain Stone esiste un amplia sintesi ,:)E’ sufficente vedere gli anni delle pubblicazioni ,attraverso tutte le posizioni dei Brain Stone ,unendole ai maggiori SEO possibili ,ed esistono contenuti effettivi e originali ,senza nessun EDITS aggiunto:)Non è presente nemmeno 1 posizione “acquiescente” ,anzi è esattamente l’opposto e in questo contesto sono compresi anche tantissimi “pesi massimi del digitale italiano” (in pratica tutti e una larga raccolta è all’interno dei Brain Stone,ed è sufficente digitare il logo di Penguin per trovare la pubblicazione)
La pagina è anche qui
La data è FEB 2017 ed è una raccolta di altre pubblicazioni e ovviamente i contenuti effettivi hanno date precedenti e nonostante questo ,i contenuti sono attualissimi e assai pertinenti:)
Questa posizione deriva da un fatto semplice,ed è l’unione della logica con i contenuti stessi e a permetterlo ,è l’assoluta liberta’ di pensiero individuale:)
Se avessi scelto tutte le cazzate dei SEO ,ci sarebbero stati solo 3,5 Milions di banalita’ nei contenuti ,ed è sufficente aprili anche a Caso i testi e poi compararli con quelli di “qualsiasi ottimizzatore” e la differenza si vede all’istante:)
Indirettamente,il miglior testimonial è proprio l’immagine di Penguin e a parte i suoi contenuti diretti (links schemes ;over ottimizzazioni ETC) è la stessa posizione dell’immagine ,a fornire la migliore evidenza ,rispetto ai valori reali e naturalmente nascono solo dai contenuti effettivi:)
Esiste l’unione oggettiva di Penguin proprio con Google My Business
Il link sopra ha il collegamento con la pagina di Don’T Deceive Your Business ,ed è sufficente la sola logica per comprendere le unioni:)
Per evidenziare l’opposto occorre solo vedere i tantissimi contenuti dedicati al business dagli ottimizzatori e l’unica ragione della loro presenza è la vendita del servizio e non ha nulla in comune con il contesto tecnico online , ma esiste solo la speranza di trovare soggetti piu’ imbecilli di loro:)
Il riferimento sono tutti i contenuti uniti ai link building e tra di essi esistono anche i commenti ,tutti uniti a links in DoFollow e da un contesto simile,diventa naturale la conseguenza del Don’T Deceive Generale (Business compreso:) ,perche’ le posizioni degli idioti ,sono create proprio per questo motivo:)
Questa è un altra posizione unita all’immagine oggettiva di Google Penguin e anche in questo Caso le unioni sono molto semplici: iniziano dalle immagini stesse e i suoi dati sono molto interessanti ,perche’ sono assai superiori ” a tutte le previsioni degli ottimizzatori” (30% le immagini e 3% i video:) e sopratutto,sono completamente diverse le loro applicazioni:)
Quest’immagine è utilissima per creare l’unione con i passaggi precedenti e quello che aggiungero’ non è nemmeno una novita’ ,perche’ “la presunta posizione dominante di Amazon” è gia’ descritta nei contenuti del 6° Gold Star:)
Comunque una novita’ esiste e inizia dall’immagine sopra e il riferimento sono i Tools ufficiali di Amazon e la curiosita’ inizia proprio dall’acronimo SEO (il riferimento sono sempre gli Engines ufficiali:) ,del tutto incompatibile con “la presunta posizione dominante” di Amazon:) Indirettamente è proprio questa posizione a svelare le vere posizioni dominanti e proviene dai “fattori ufficiali di Amazon” e per evidenziarli meglio è sufficente la semplice logica anche in questo Caso:)
I PPC sono i Pay per Click e naturalmente sono importanti , pero’ se fossero i primi fattori reali del contesto online ,non esisterebbe quest’ultimo ,per semplice logica e inizia dal fatto che ai Pay per Click occorre prima arrivarci con dei contenuti reali ,ed è facile immaginare “cosa sarebbe il contesto opposto” ,se i valori iniziassero dai Pay per Click:)
Il contesto online sarebbe formato solo da schemi e link building e probabilmente decadrebbe subito l’idea principale di jeff Bezos (il patron di Amazon:) ,perche’ non esisterebbe “il lungo periodo” per verificare l’efficacia delle sue idee,semplicemente perche’ non esisterebbe nemmeno il contesto online:)
Queste posizioni saranno anche in prossime pubblicazioni e l’attualita’ di Amazon è davvero fantastica e inizia dai suoi tools ufficiali e rendono semplicissimo comprendere quelli dei valori reali ,ed è sufficente aggiungere solo la logica aberrante dei pay per Click come “primi fattori”:)
Attualmente ,nei valori di borsa,Amazon ,probabilmente grazie anche alla pandemia del covid-19 ,ha avuto una progressione enorme nelle quotazioni di borsa, pero’ i suoi dati sono “sempre ad alto rischio” ,perche’ in realta’ non è prima in nessun contesto reale e il riferimento è solo all’ecommerce e a sua volta , non è primo in nessuna nazione,rispetto alle categorie complessive del contesto online:)
In questa posizione aggiungo solo il motivo della presenza del Cloud ,ed è arrivato per l’unione oggettiva dell’immagine di Penguin e poi esiste anche la posizione di AWS (Amazon Web Service) e anch’essa si occupa di Cloud e nell’impero di jeff Bezos ,occupa una “piccola percentuale operativa” ,pero’ AWS, rappresenta il 75 / 80% dei ricavi reali di tutta Amazon e quindi quelli che hanno investito nelle sue azioni ,debbono un po’ preoccuparsi:)
Aggiungero’ anche altri contenuti a questo contesto e inizieranno da un fatto curioso per la presunta posizione dominante di Amazon ,ed è il suo valore nella Paid Search degli Engines reali e anche in questo Caso ,è sufficente la logica per comprendere i valori reali 🙂
Amazon è tra i primi investitori nella Paid Search ,ed è una posizione curiosa da unire “alla sua presunta posizione dominante” perche’ è equivalente a dare dell’idiota a jeff Bezos 🙂
Sicuramente non lo è e quindi i veri idioti sono coloro che hanno fatto investimenti nelle sue aziende:)
Aggiungo un altra curiosita’ ed è unita al primo fattore ufficiale di Amazon ,ed è il Pay per Click a cui segue la rilevanza nelle conversioni:)
Nei contesti normali ,sarebbe una posizione logica ,pero’ non sono sistemate nei primi valori ,perche’ ai Pay per Click e alle conversioni occorre prima arrivarci ,attraverso i valori dei contenuti reali e nel contesto ufficiale di Amazon ,addirittura è assente la parte piu’ importante del Market Share ,ed è curiosissima da unire ad Amazon ,ed è il Total Sales:)
Posso anticipare che nei contenuti ufficiali di Amazon ,non esistono nemmeno i sinonimi del Total Sales ,ed è il fine naturale di tutti i Market Share:)
Saranno anche nelle prossime pubblicazioni e la posizione di Amazon ,tramite anche gli altri fattori, formeranno un contesto utilissimo ,per evidenziare meglio i valori reali di dati:)
Per il momento sistemo l’unione della pagina A+ di Goal Data:)
Quando ho creato i suoi contenuti , il riferimento di Goal Data era unito all’elemento vincente realmente ,ed è lo stesso dei contenuti complessivi individuali ,ed è la formidabile logica:)
Per evidenziare il suo valore,tra i contenuti esiste anche l’opposto alla logica stessa ,ed è rappresentato da Alexa. E’ sufficente digitare il suo nome , per trovare tanti contenuti ,con dati esattissimi, del tutto opposti alla semplice ragione ,tranne quella di trovare piu’ imbecilli possibili ,disposti a credere al valore dei loro dati:)
Alexa è l’unico “operatore dei dati” ,compresi anche gli ottimizzatori ,ad avere l’IGNORE completo nelle General Guidelines piu’ importanti al mondo ,ed hanno una caratteristica unica ,rispetto a tutti i fattori di Amazon ,ed è la LOGICA:)
Probabilmente i contenuti di Amazon sono scritti dagli stessi autori di Alexa e la probabilita’ è elevatissima,perche’ è la sua Casa Madre e nella pagina A+ di Goal Data
esistono “le ricerche di Alexa”,denominate “Content Exploration” ,ed è sufficente vederle ,per rendere molto probabile che gli autori che le hanno scritte ,siano gli stessi dei fattori ufficiali di Amazon:)
Questa è l’espansione di Content Exploration di Alexa:)
Il collegamento è nella pagina A+ di Goal data ,ed è sufficente solo vedere l’evidenza ,per comprendere che esistono le stesse teste che hanno sistemato i Pay per Click nella prima posizione dei fattori di amazon:)
I Content Exploration sono “basati sugli aggregati social” e questa è la prima posizione per Alexa e se questi fossero i valori reali ,sarebbe possibile sistemare anche i Pay per Click ,nella prima posizione dei fattori , tanto non cambia nulla ,perche’ i dati deriverebbero solo da “schema totale” 🙂
Nelle posizioni normali dei valori esistono solo le classificazioni in “Social Schemes” e questo fa’ la differenza nei Goal Data e Amazon e Alexa sono un ottimo esempio ,perche’ “non sono affatto i piu’ furbi del contesto online”:)
Sono gli Engines ad essere TOO SMART davvero ,ad iniziare dal lavoro operativo ,perche’ in realta’ “trasportano solo pacchetti informatici” ,mentre la “povera Amazon deve sudare” su centinaia di KM di nastri trasportatori ,per tutti i suoi “pacchetti a basso valore aggiunto”:)
L’unico valore reale per Amazon è nel suo Cloud (è l’unico settore che guadagna davvero 🙂 ,pero’ nemmeno in questa posizione “domina qualcuno” e sopratutto non fornisce nessun dato reale ,perche’ è solo un semplice storage e per Amazon è una fortuna ,perche’ se dovesse gestire i dati veri , fallirebbe all’istante:)
La prova è Amazon stessa,perche’ se fosse capace di gestire i dati veri, avrebbe creato un Engine in proprio e avrebbe trasportato solo pacchetti informatici 🙂
Non ha capacita’ intellettive reali e quindi puo utilizzare solo nastri trasportatori e litigare con tutti i suoi dipedenti:) (è difficile trovare 1 sola sede di Amazon i cui dipendenti siano felici ,perche’ sono quasi tutti “sul piede di guerra”:)
La differenza intellettiva non finisce nemmeno qui ,perche’ Amazon “è diventato anche il capo espiatorio” per tutte le posizioni dominanti e nella realta’ non ne ha nemmeno UNA e questa posizione è utile solo a jeff Bezos ,per aumentare “i valori delle sue azioni”.
Sono i dati reali il vero valore aggiunto e non sono quelli di Big Data ,ma degli strumenti che li sanno unire insieme:)
Solo gli Engines possono farlo ,ed è semplice prevedere che sara’ il vero valore anche per il futuro e per rendere evidente questa posizione ,è sufficente aggiungere la logica ,ed è composta dai Contenuti ;dal Contesto e dalla Credibilita’:)
Applicati ad Amazon ,è davvero difficile trovare contemporaneamente la presenza delle 3 C,perche’ l’operativita’ reale di Amazon ,si fonda sul fatto che il contesto online ESISTA ,ed è sicuro che il merito non è SUO:)
Sempre dalla pagina A+ di Goal Data esistono anche le immagini sotto e rappresentano la migliore evidenza “tra chi utilizza i pacchetti informatici” e coloro che debbono utilizzare i “nastri trasportatoti per i loro pacchetti”:)
Sembra una battuta,mentre la posizione è molto pertinente ,perche’ la differenza puo nascere solo dai valori reali:)

Nella pagina A+ di Goal Data esistono anche questi dati
Si raggiungono attraverso i servizi “di coloro che non utilizzano i nastri trasportatori” per inviare i loro pacchetti:)
Il senso è molto semplice e nasce dai valori reali ,semplicemente utilizzando il sistema inverso agli imbecilli:)
Quest’ultimi “contano solo i dati” ,anche se fossero all’IGNORE 501° nelle posizioni (ipotizzando anche che siano capaci di arrivarci:) ,mentre “la semplice logica” ,unita a un intelligenza assolutamente normale, Quantifica i valori nelle prime posizioni ,grazie ai servizi di “coloro che utilizzano i pacchetti informatici”:) (tra l’altro,a differenza di Alexa sono anche Gratuiti e assolutamente piu’ pertinenti pure:)
Quindi nel contesto online ,i valori “occorre pesarli” prima di contarli e la differenza si nota immediatamente ,ed è sufficente aprire i contenuti di coloro “che pensano solo di contarli”:)
E’ molto difficile trovarli ,perche’ spesso sono incompativbili con “coloro che inviano pacchetti informatici” e cioe’ gli Engines , semplicemente perche’ pensano che abbiano valore “solo gli schemi”:)
I passaggi appena descritti servono per festeggiare i prossimi 3,5 Milions di termini effettivi in 1 sola posizione (sono appena passati i 3,49 Milions:) e la migliore evidenzza è nel periodo precedente ,unito al primo gif e la posizione è meravigliosa ,perche’ nei contenuti complessivi ,scritti in 6 anni e 2 mesi ,non esiste 1 solo periodo “unito a lezioni seo” ,ma è esattamente l’opposto:)
L’aspetto straordinario dei contenuti deriva dal fatto che sono monotematici (lo sono da sempre prima dell’arrivo stesso dei Main Content e sono i veri Goal Data:) e nello stesso tempo ,appartengono alla categoria con il piu’ veloce sviluppo ,perche’ è proprio quella del contesto tecnico online:)
E’ facile verificarlo , perche’ è sufficente selezionare qualsiasi altra categoria e non esiste nessuna che abbia la stessa velocita’ negli sviluppi e avere contenuti attuali dopo 6 anni , sistemati negli Index ,significa 1 sola cosa e cioe’ i contenuti sono validi ,anche dopo un numero incredibile di match avvenuti in 6 anni:)
Solo gli Index del 2015 ne sono oltre 280 per Microsoft Bing e per Google è lo stesso e l’unica differenza sono le posizioni negli spazi individuali ,uniti ai Canonical 🙂
Per comprendere questo passaggio è sufficente aggiungere l’equivalenza temporale del contesto online ,rispetto a quello tradizionale e la categoria tecnica del web è la migliore per farlo, perche’ ha le velocita’ massime negli sviluppi e permettono di rendere realistica anche l’equivalenza temporale di 6 anni:) (corrispondono a 300 anni i contenuti del 2015 e per avere anche l’Index nell’anno 2021 ,significa che sono attuali:)
Per festeggiare questa incredibile posizione ,esistono gli Heroic DC:)
Anche il nome alternativo Din Colors è nato nell’anno 2015 (è all’interno della 3° Comparazione Generale) , ed è unito al fatto che non ho mai seguito “idee seo” ,semplicemente perche’ non mi piacevano e ho iniziato dai background e sono del tutto opposti alla “presunta net etiquette” e prevede solo la presenza di 2 colori 🙂 (bianco e nero 🙂
Dalla posizione opposta sono nati i Din Colors,ed è una collocazione fantastica,perche’ rappresenta al meglio i contenuti effettivi ,in quanto non hanno nessun legame “con le altre presunte etiquette seo” e cioe’ i 3,5 Milions di termini ,sono esclusivamente individuali e il loro valore “è pesato” e contato nel fattore piu’ importante in assoluto e sono gli archi temporali:)
Da essi sono nati i Run Forever e i Just Time e il metodo è sempre quello dei Din Colors e cioe’ sono “contenuti senza nessuna etiquette” e questa posizione è meravigliosa ,perche’ determina la differenza piu’ elevata ,rispetto “ai competitors della categoria del contesto tecnico online”:)
La differenza non deriva da nessuna deontologia degli ottimizzatori ,semplicemente per un fatto oggettivo e cioe’ prima di fare gli RF e i Just Time ,occorre avere contenuti validi in proprio ,ed è facile verificare che in tanti casi ,sono del tutto assenti e da questa posizione,nascono “i servizi sballati” degli ottimizzatori:) Le cazzate piu’ elevate riguardano gli “apporti social” , ed è un contesto molto diffuso ,nei maggiori elementi digitali italiani e nascono da un paradosso assoluto ,perche’ i social non hanno dati validi nemmeno per se
stessi e quindi qualsiasi ottimizzazione è destinata “solo al contesto dei nastri trasportatori dei pacchetti” ,simili alle descrizioni fatte per Amazon:)
Gli Heroic DC al Gran Completo e il loro contesto specifico è nato da “impostazioni incredibili” e solo per ricordarne alcune,esistono 10 pubblicazioni in 1 sola pagina e sono sistemate tutte in Full Text e nello stesso tempo non è presente l’Homepage:) Quindi solo i Content effettivi ,hanno permesso che esistessero i dati specifici ,perche’ gli impatti sono davvero devastanti e quindi la qualifica di HEROIC Din Colors è pertinentissima:)
Questa è stata la prima posizione di HEROIC DC e le dimensioni piu’ elevate,sono arrivate grazie alla 2° pagina, ovviamente tra quelle selezionate.

A MAR 2021 è arrivata la 2° selezione degli HEROIC DC
Per mostrare i dati ,in quel periodo non ho aggiunto nessuna pubblicazione su AV e quindi le selezioni derivano dalle stesse presenze che ha avuto la prima HEROIC DC,con una notevole differenza ,ed è l’assenza della 2° pagina,perche’ è stata la prima in dimensioni:)
Ad APR 2021 le cose si sono completamente capovolte,perche’ esistono nuove pubblicazioni e le pagine precedenti sono scalate nelle successive (solo per citare la 2° pagina della prima selezione,attualmente occupa lo spazio della 4° e 5° su AV e attraverso le nuove pubblicazioni ,scalera’ completamente nella 5° e poi nelle pagine successive).
Questa posizione è importantissima per comprendere quelle che aggiungero’ per APR 2021 degli HEROIC DC ,perche’ esiste l’attuale prima pagina ,ed ha un numero di termini effettivi maggiori di Page Solemn e il riferimento è a quella di Gaicomo Leopardi e posso assicurare che tutti i contenuti sono nati sempre in maniera naturale e ho visto i dati solo quando sono effettivamente arrivati:)
E’ una pagina incredibile e per comprenderla pienamente sono necessari i contenuti dei 3 HEROIC DC:)
Posso ribadire che è assolutamente tutto naturale al 100% ,ed è un metodo anche pieno di logica ,perche’ se fosse l’opposto ,non avrei scritto tutti questi contenuti ,semplicemente perche’ la NOIA ,”sarebbe arrivata prima”:)
Tra le posizioni naturali ,esiste anche l’assenza di EDITS e LIVE URL di Microsoft Bing e l’Eleggibilita’ di Google,tra le tante cose ,possiedono anche l’originalita’ dei contenuti effettivi,scritti solo la prima volta e solo degli idioti ,possono immaginare il contrario ,semplicemente perche’ non avrebbe nessun senso unire gli EDITS a dei valori:)
Il TFD Wiki ,solo qualche settimana fa’ , “ha festeggiato il suo milestone ” negli EDITS e il riferimento è solo Wiki globale e per la prima volta ha superato 1 Miliardo di EDITS ,pero’ nonostante i suoi tanti autori ,i content effettivi non forniscono nessuno stimolo per festeggiarli e alcuni esempi saranno nella prossima pubblicazione e l’unione avverra’ con la prima pubblicazione in dimensioni di Wiki globale e per la prima volta è quella dedicata al Coronavirus e Covid-19 ,ed ha avuto tante presenze nel corso dei precedenti mesi e la sua posizione è iniziata da circa 20000 termini e attualmente sono superiori a 42000 e ovviamente sono tutti EDITS rispetto ai content originali:). E’ rimasta invariata solo 1 posizione ,ed è quella del Copied ,semplicemente perche’ i contenuti effettivi appartengono ad altri domini e se capita per Wiki globale , figurarsi per gli altri spazi:)
Quindi i dati sistemati per gli HEROIC DC ,hanno anche la naturalita’ completa e cioe’ sono scritti solo 1 volta e nelle prime 3 posizioni ,esiste solo la prima pagina:)
In un Caso sarebbe l’homepage (e non esiste) ,nella seconda e terza posizione sono dei labels ,ed è sempre la stessa pagina:) Ovviamente il dato piu’ importante delle selezioni sono gli impatti dei Match che producono e iniziando da 63900 ,ripetuto 3 volte per la stessa pagina ,anche gli HEROIC DC “possono vacillare” ,sopratutto avendo anche in 4 posizione ,la nuova 2° pagina di AV e non ha le dimensioni della precedente,pero’ possiede sempre oltre 48000 termini e anche loro formano i Match:)
questa è una posizione fantastica per avere i valori dei dati:)
L’aspetto piu’ importante è la direzione della freccia unita a URL e in quella posizione,indica le selezioni ascendenti e l’ultima ad essere prelevata è sempre l’homepage di qualsiasi spazio ,a prescindere dal fatto che esista realmente:)
In tutti gli altri spazi delle verifiche è presente realmente ,mentre su AV e in questo dominio,formano solo dei Match ,semplicemente perche’ non esiste e il particolare dei conflitti,sono i 63900 termini effettivi presenti nella prima pagina,ed è classificata anche come homepage e insieme ad essa,esistono anche 2 labels con gli stesi contenuti e quindi sono in conflitto anche loro:)
questa posizione èinvece opposta alla precedente e proprio da essa nascono gli HEROIC DC
Ovviamente la nascita reale è in questo dominio,pero’ anche AV contribuisce notevolmente con le sue impostazioni ,perche’ sono le peggiori possibili d’applicare a qualsiasi contenuto:) Nell’immagine sopra esiste la posizione inversa della freccia ,unita agli URL e indica la progressione delle selezioni delle pubblicazioni ,fino ad arrivare a 215 presenze e l’ultima selezione è nell’altra immagine,ed è l’homepage ,non esistente in realta’:)
qui sono sistemati i dati generali per gli HEROIC DC:)
Sono presenti 215 pubblicazioni e l’average è formato da 2436 termini e ha raggiunto il 73% in unicita’ alle condizioni proibilitive di AV:)
I Contenuti Eroici iniziano dalle prime selezioni degli URL,perche’ sono stati loro a “reggere l’impatto dei Match” ,pero’ esistono anche le pubblicazioni specifiche ad averlo fatto,perche’ possiedono i migliori termini unici mai sistemati ,in generale:)
Naturalmente occorre anche aggiungere il fatto che appartengono a 1 solo autore e la prima pagina attuale di AV ,non ha solo termini effettivi maggiori di Page Solemn (il riferimento è nella sidebar e sono i dati di Giacomo Leopardi:) ,ma ha un numero di termini unici strepitoso e sara’ la prossima Page Solemn e posso aggiungere anche un fatto curioso ,perche’ nelle sistemazioni fatte su AV , la prima pubblicazione ad aprire la pagina è proprio l’Ignore Contest General Facts Data , ed è fantastico da unire ai dati di Page Solemn:) (i collegamenti sono tutti negli HEROIC DC e naturalmente sono cambiate le progressioni delle pagine ,pero’ è sufficente digitare il logo e si ha la prima pagina:)
E’ sicuro che solo per la presenza di questi dati esistono gli HEROIC DC:)
E’ il modo piu’ bello per festeggiare il Count Top dei 3,5 Milions di termini effettivi in 1 sola posizione:)
Nei dati sopra è sistemato il nome del dominio e la categoria (sono i labels) e non c’entrano nulla con le dimensioni dei contenuti effettivi ,perche’ appartengono solo alle altre presenze e sono 10 pubblicazioni e gli stessi dati li hanno anche l’homepage e l’altra categoria presente,semplicemente perche’ è la stessa pagina ,sistemata in 1 sola selezione.Nella realta’,le prime 4 posizioni è come se contenessero 40 pubblicazioni e le prime 30 sono sistemate in 1 sola pagina e quindi piu’ HEROIC DC di questo contesto , è difficile anche da immaginarlo,oltre che trovarlo in altri spazi 🙂
Questi sono alcuni esempi dei termini unici e non è una “posizione particolarmente sofisticata” ,perche’ il loro senso è oggettivo e cioe’ è possibile che esista 1 sola presenza per qualsiasi rilevanza in 1 solo dominio e i Match nascono proprio da questo contesto e quindi i termini possono essere eliminati da qualsiasi pubblicazione presente in 1 solo dominio:)
Per il termine IGNORE sono 94 le presenze nella pagina e sono tutti i termini sistemati in 10 pubblicazioni.
I tool possono essere anche utili,pero’ occorre unire i loro dati e lo strumento sopra è tra i piu’ sofisticati nella ricerca dei termini ,pero’ anch’esso ha l’IGNORE e cioe’ non conosce assolutamente l’originalita’ stessa dei periodi e tantomeno se sono naturali e quindi i dati sistemati vanno poi verificati attraverso gli Engines e sono gli unici a conoscre tutto 🙂 ( esiste la differenza dei pacchetti informatici ,rispetto a coloro che utilizzano i nastri trasportatori per recapitare pacchetti:)
Questo è il dato di Priority all’interno della nuova Page Solemn ,mentre il Search Volume indica solo le volte che i termini sono apparsi nei database dello strumento e non ha nulla in comune con le competition e rappresentano il numero dei domini in cui il termine ha posizioni rilevanti e naturalmente lo strumento non le conosce e anch’esso li chiede agli Engines ,ed è anche normale ,perche’ le vere rilevanze sono in Coloro che trasportano i Pacchetti Informatici:)
questo è un altro esempio dei termini unici,uniti alla nuova Page Solemn (è valido solo per la posizione di Giacomo Leopardi:) ,ed è il termine HEROIC:)
Nelle 10 pubblicazioni che compongono la prima pagina è ripetuto 71 volte e solo una posizione avra’ rilevanza e unndo i 3 esempi sistemati ,insieme alle oltre 16000 altre presenze ,formano il dato dei termini unici ,rispetto a 1 pagina e il rapporto con i termini effettivi , rende facile prevedere quali saranno i valori futuri dei contenuti:)
Con un rapporto elevato ,vengono eliminati i termini e quindi è inutile aspettarsi alcuna rilevanza,mentre i dati sopra hanno un rapporto di 1/4 ,ed è ottimo e sopratutto è naturale:)
Dividendo i dati complessivi per 10 ,ogni pubblicazione presente ha rapporti da Top Page Joy ,ed è sicuro che solo per questo motivo ,esistono anche i dati di AV ,nonostante le “sue micidiali impostazioni”:) Quindi negli archi temporali futuri , è probabile che esistano anche altre Top Page Joy e la prossima è molto vicina ,perche’ esiste la conferma dei dati di High Contest level fino all’attualita’ e se restisteranno ancora per alcuni mesi,sara’ la pubblicazione di chiusura di questa meravigliosa 8° decade:)
Altri dati saranno nella prossima pubblicazione di True Long Story Goal Data HDC e continueranno,fino ad arrivare ai 3,5 Milions di termini ,per questo straordinario Count Top:)
Tutti Eroici i Din Colors:)
Posted in Key Page Unit, TD Space Content
FGL Star Unique Content APR 2021 💢
Posted on April 30, 2021 by Din Story AV
FGL Star Unique Content APR 2021 inizia dal contesto piu’ bello e incredibile insieme e nasce dal 75° RF:) la descrizione è sistemata nella pagina A+ del 75° RF Da questa posizione è nato un nuovo elemento del Frame Global Limit e sono “i Commenti” e il suo riferimento,solo in questo contesto , sono i TEXT effettivi scritti ,semplicemente perche’ sono anch’essi all’interno dei volumi complessivi di tantissimi reports:)Anche la pagina A del 75° RF avra’ tantissime unioni ad APR 2021:) Inizia dal fatto oggettivo,perche’ è l’unica presenza dell’anno corrente ,rispetto alla data di questa pubblicazione e poi esistono i contenuti specifici uniti al termine “GOAL DATA” e posso anticipare che saranno davvero straordinari,rispetto ai contenuti che avra’ APR 2021 ,perche’ risolveranno “UNA VOLTA PER SEMPRE” , tutti i dati delle verifiche interne dei domini:) Tra un po’ sistemero’ i contenuti specifici e il riferimento saranno i numerosi Broken Links presenti anche ad APR 2021 , perche’ sara’ presente l’evidenza migliore che non esistono nella realta’,ma sono uniti solo alla non abilitazione dei vari Tags stessi:)

La posizione di APR 2021 è 7°,nelle dimensioni generaliL’unione con i passaggi precedenti è molto semplice e inizia dal nuovo elemento del Frame Global Limit ,perche’ i volumi generali ,non derivano da nessun “termine scritto nei commenti” ,semplicemente perche’ non sono abilitati dalla nascita stessa del dominio:)E’ molto facile comprendere la sua importanza nei reports ,perche’ in tanti casi formano i volumi maggiori nei Text dei domini , compresi quelli presenti nelle verifiche e tra un po’ aggiungero’ “qualche esempio clamoroso”:) Per il momento sistemo questi dati e aggiungo un fatto curioso,rispetto alla non abilitazione dei Tags:)La prima è temporale ,perche’ i Broken sono arrivati la prima volta a OCT 2020 e quindi esattamente 1 mese dopo SEP 2020 ,ed è l’ORIGIN RF attuale e le impostazioni sono rimaste assolutamente identiche e cioe’ nessun Tags è abilitato:) Tra un po’ sistemero’ l’evidenza migliore,anche rispetto alle impostazioni individuali,perche’ nascono da 1200 INDEX per 1 solo dominio e 1 solo autore e quindi, esistono tutti i dati originali da cui derivano i reports e non possono avere nessuna modifica,in senso oggettivo:)Gli Status Code li sistemero’ tra un po’ ,mentre adesso aggiungo un altra curiosita’ ,ed è l’average stesso di APR 2021 ,ed è formato da 3228 termini effettivi e la differenza con Origin RF ONE è formata solo da 101 termini e nonostante questo è alla 7° posizione generale ,perche’ la presenza dei Broken ha limitato il numero di pubblicazioni ,rispetto alla verifica di 7 mesi fa’:)Comunque,entrambi i reports,hanno una posizione fantastica rispetto a quasi tutti gli altri domini presenti ad APR 2021, perche’ non esiste nemmeno 1 termine ,unito a commenti e la differenza è notevole ,perche’ esistono anche un numero elevato di autori e quindi,almeno in teoria, sarebbe molto piu’ semplice diversificare i contenuti e quindi avere meno Match:) Ovviamente,in questa posizione, viene considerata solo la posizione “dei Text oggettivi” ,uniti ai commenti ,semplicemente perche’ anche loro formano le dimensioni dei volumi per i contenuti interni ai domini. Per quantificare le differenze delle posizioni ,rispetto alle dimensioni dei volumi ,ho scelto “il testo piu’ noto” ,ed è anche il libro piu’ venduto al mondo,ed è la Sacra Bibbia:)Esistono le stesse posizioni dei volumi dei domini con i commenti e l’unica differenza ,rispetto ai contenuti dei volumi tradizionali ,deriva dal fatto che “si chiamano NOTE”:) Il download del backup ha “un nome generico” in file xml e i dati effettivi sono quelli dell’immagine:) altri particolari sono in quest’immagineEsiste sempre il file del download in xml ,ed è presente il mio nome effettivo (Tiziano:) e i Match sono superiori a 1000:) Oltre ai contenuti che sistemero’ subito , ci saranno anche altre unioni in questa pubblicazione e in tante future,perche’ saranno presenti i “ruoli dei commenti” nei Text dei volumi e diventera’ semplicissimo comprendere ,quanto sono meravigliosi i valori sistemati sopra ,uniti ai dati di APR 2021:)Per il momento cito le posizioni oggettive e iniziano con i pesi stessi dei file xml e per avere “solo un riferimento dei valori” ,ho aggiunto la versione audio in Mp3 della Bibbia in lingua Cebuana (è utilizzata nelle Filippine ,oltre alla lingua inglese) .Nel download ho sistemato solo l’esempio,per rendere facile comprendere cosa sia il livello dei file xml :per avere l’audio della Bibbia in lingua Cebuana: occorre uno spazio da 753 MB e il file è anche compresso e quindi il peso effettivo è di sicuro maggiore.La stessa posizione in file xml ,ha un peso di 6,2 MB ,mentre quello individuale effettivo è formato da 30,690 MB:) (il riferimento è l’arco temporale del prelievo e quindi non sono compresi i dati del 75° RF:)qui sono sistemati i dati complessivi della Bibbia in lingua CebuanaQuesta è la prima sezione dei dati e sono sistemati i termini completi (compresi i codici) mentre in Words MS (Microsoft Support) esiste il dato dei termini effettivi. Anche questa sezione è molto importante: l’evidenza di colore blu è in pratica 1 Keywords Stuffing,mentre l’evidenza di colore verde ,possiede anche gli Stop Words Removed. la piu’ recente descrizione è in HEROIC DC:) Esistono degli Stop Words,applicati ai vari Detect language e nello stesso tempo possono essere presenti le impostazioni sistemate nell’immagine e prevedono la selezione di 2 soli caratteri per ciascun termine e anche questa posizione,puo essere all’interno degli Stop Words e il riferimento sono i termini non strettamente necessari ,presenti nei termini di qualsiasi ricerca ,effettuata attraverso qualsiasi Detect language. Qui è sistemata High Contest Level L’unione dei suoi contenuti ,avviene attraverso i termini “Desueti e Antichi” e sono capaci di amplificare notevolmente anche gli Stop Words Removed ,per la semplice ragione che possono esistere tanti termini eliminati ,senza aver avuto nessun Match reale e nello stesso tempo è possibile che i “contenuti rimasti” non abbiano una grande rilevanza:) E’ il senso pratico dei termini “Desueti e Antichi” e la loro presenza è molto piu’ diffusa di quanto si possa immaginare,perche’ è assai presente nelle Opere Top degli autori celebri e sono sistemati anch’essi nei database ,pero’ la rilevanza è molto scarsa:) Questa posizione è importante,perche’ qualifica le dimensioni dei volumi ,rispetto a qualsiasi contenuto : in quelli che sistemero’ tra’ un po’,diventera’ molto facile quantificare il ruolo dei commenti,perche’ esistera’ la presenza di tantissimi autori ,per 1 sola pubblicazione e sara’ facile qualificare anche il dominio,perche’ oltre alla presenza di Copied ,esiste anche un alta percentuale degli Stop Words Removed:) (quasi sempre sono coinvolti i termini da 2 caratteri e alcuni da 3 e quindi è facile anche trovarli e vengono rimossi semplicemente perche’ non sono indispensabili per le ricerche) In High Contest Level ,esistono anche le descrizioni per i termini “Desueti e Antichi” e nel loro Caso ,è ancora piu’ semplice l’applicazione e il miglior esempio è fornito dai reports dei Just Time,perche’ sono composti quasi tutti da termini ad altissima rilevanza e sono del tutto incompatibili con i “termini desueti e antichi”:)Questa posizione serve per creare i contesti ai dati di APR 2021 e sono molteplici ,per le desccrizioni dei passaggi appena sistemati ,semplicemente perche’ nei reports dei contenuti interni dei domini non esistono e quindi nei volumi che sistemero’ sono compresi anche i commenti e le presenze ,piu’ o meno elevate degli Stop Words e dei termini “desueti e antichi”.Nel contesto globale invece esistono i reports completi e naturalmente possono essere solo quelli degli Engines,perche’ nessun altro strumento ha la conoscenza completa e la posizione dei commenti , puo’ variare notevolmente ,rispetto a quella appena descritta 🙂 Inizia dalla pagina A del 75° RF: Bing preferisce vedere links costruiti in maniera organica:)L’unione è molto semplice ,perche’ anche i commenti “fanno parte del link building” ,almeno nella mente dei loro autori:)E’ fantastica l’evidenza di Microsoft Bing ,perche’ non crede in nessun modo “alla buonafede dei webmasters” ,anche per gli scritti nei commenti ,sopratutto quando esistono dei links ,verso gli spazi di coloro che hanno scritto i commenti:) Semplicemente vengono classificati nei Reciprocal Links e diventera’ inutile “verificare qualsiasi Match” dei contenuti interni , perche’ non avranno nessun valore:) Questa è la posizione del Gran Goal descritto nel 75° RF E’ facile l’unione con tutti i passaggi precednti , perche’ esiste 1 sola possibilita’ per avere valore reale ,ed è anche normale e logica ,perche’ altrimenti farebbero tutti “link building” ,ad iniziare anche dai “coomenti” e nessuno avrebbe alcun valore reale ,perche’ si eliminerebbero a vicenda:) In questa posizione sviluppero’ i dati del Gran Goal di Microsoft Bing e indirettamente esistono anche quelli di Google ,perche’ il termine GOAL stesso è unito all’elemento piu’ importante in assoluto e non potrebbe essere altrimenti,ad iniziare dal suo nome:Contenuti Principali;Main Content:) Per sviluppare i dati del Gran Goal di Microsoft Bing,inizio da alcune posizioni non comprese nel 75° RF e la scelta deriva dai tantissimi elementi presenti e insieme ad essi , esistono anche i dati di APR 2021 e la sistemazione dei contenuti che seguiranno,formeranno i migliori contesti rispetto ai suoi reports e di tutte le altre verifiche che ci saranno in futuro:)

L’elemento piu’ importante in questa posizione è il DiscoveredHo scelto gli stessi esempi sistemati nel 75° RF e l’indicazione della data del Discoverd è davvero fantastica ,perche’ è avvenuta 6 mesi dopo la data della pubblicazione originale e il piu’ recente Index è MAR 2 2021 e per avere questi dati ,significa che sono presenti le verifiche da MAY 2016 ,per la pubblicazione specifica e naturalmente iniziano dai contenuti interni ai domini e non debbono esistere Match dalla stessa data del 2016 ,compresi tutti i contenuti che sono arrivati dopo:) Questa posizione è meravigliosa ,perche’ a MAR 2021, è arrivato anche il Backup delle dimensioni complessive (tranne i contenuti del 75° RF) e non esiste posizione migliore di Words Microsoft Support “per contare i termini stessi ” e sono “poco graditi” quelli sistemati nei commenti ,semplicemente perche’ le probabilita’ che il “contesto sia naturale” ,ha un livello molto scarso:) (nella quasi totalita’ dei casi,il ruolo vero dei commenti è solo Reciprocal Links ,ed è una violazione piena:) qui è sistemato un altro esempio del discovered e riguarda la 5°RF SolemnLa data originale della pubblicazione è FEB 2016 ,ed è “stata trovata a JUN 2016” e queste posizioni ,rappresentano anche la migliore evidenza che non esiste “nessuna Priorita’” da “poter suggerire agli Engines” e tantomeno è possibile decidere alcun Ciclo:)L’unica decisione possibile è l’AVOID delle cazzate e l’unica possibilita’ è di “pensarci profondamente” prima di farle ,perche’ non è possibile recuperare nulla,dopo averle fatte:) I commenti inseriti nei Text dei contenuti è solo un esempio e nei dati che aggiungero’ tra un po’ ,sara’ presente anche la responsabilita’ dei gestori dei domini ,perche’ nessuna posizione dei commenti è in NoFollow e quindi,anche lo strumento delle verifiche le sistema nei contenuti effettivi ,semplicemente perche’ sono all’interno delle pubblicazioni e il gestore del dominio,immaginando “di essere un gran furbo” ,ha sistemato tutti links in DOFollow 🙂Il contesto online ,non ha nessuna posizione possibile per i “presunti furbi” e ancora meno ,possiede alcun valore,unito ad imbecilli:)Non sono battute ,ma è la realta’ oggettiva e deriva semplicemente dal fatto ,che se avessero valore gli imbecilli ,non esisterebbe il contesto online,perche’ non avrebbe nessun valore:) qui è sistemato un altro esempio,ed è il discovered per Security Online E’ nata a SEP 2015 ,ed è stata trovata a MAY 2016 e il Discoverd per Microsoft Bing è oggettivo ,perche’ le impostazioni sono valide per chiunque e quindi ,gli Archivi non sono abilitati nemmeno per Microsoft Bing e di conseguenza esiste solo la Sitemap ,ad aver permesso il Discoverd:)Anche per Security Online sono validi gli incredibili dati del Backup di MAR 2021 e rappresentano gli impatti del Taken Din Colors Five e ovviamente debbono essere per forza rilevanti ,perche’ sono elevate anche le dimensioni di Security Online e i Match esistono da MAY 2016 ,almeno per Microsoft Bing e quindi per tutto il suo Powerd ,ed è formato dall’incredibile numero di Engines che si “Ispirano ai dati delle sue API”:) Questa è Microsoft Bing Search API L’unione è nata per i contenuti di Data Priority e il senso è molto semplice ,perche’ la vera priorita’ saranno i Dati Reali:) Iniziano dagli esempi sistemati nella pubblicazione originale di Data Priority e poi grazie ai contenuti del 75° RF ,si sono ulteriormente amplificati ,grazie alla novita’ del Powered di Microsoft Bing:)Dopo anni ,non esiste piu’ la combinazione dati con Yahoo e per gli altri Engines che “si Ispirano ai dati delle API” di Microsoft Bing ,non è cambiato nulla ,perche’ non hanno mai partecipato alla Combinazione Dati di Microsoft:)Quindi i reports sistemati nella pagina A del 75° RF ,assumono un valore perfino maggiore ,perche’ esistono solo i dati di Bing e sono importantissimi ,perche’ rappresentano il contesto tecnico piu’ elevato ,insieme a Google , rispetto a qualsiasi valore dei contenuti:)qui esiste un esempio complementare ai discovered e riguarda l’anno 2021Sono presenti solo 2 pubblicazioni in INDEX ,su 1200 complessive , pero’ esiste la probabilita’ che ne siano presenti altre nei prossimi mesi e il riferimento temporale è negli esempi dei discoverd precedenti:)qui è sistemata una pubblicazione in Index per il 2021l’altra è inserita qui Ovviamente non è sufficente ipotizzare che esistano gli Index,solo attraverso gli esempi dei discoverd precedenti,perche’ potra’ essere simile anche l’arco temporale “delle pubblicazioni trovate”,rispetto alla loro data originale (negli esempi sono circa 6 mesi),pero’ non è sufficente per stabilire il numero di pubblicazioni in Index,perche’ anche i contenuti dell’anno 2021,avranno gli stessi percorsi dei precedenti e per forza di cose iniziano dai match dei contenuti interni dei domini e poi ci saranno quelli globali e solo al termine arriva l’Index e il percorso è uguale per ogni Ciclo,tranne per la “Notevole Variante” dei dati del Backup di MAR 2021:)Per essere in Index,probabilmente solo tra un po’ di tempo,i Match avverranno a 3,5 Milions di termini effettivi e quindi ,sara’ particolarmente dura avera anche nuovi Index e sopratutto confermare i precedenti:)

questo è un contesto straordinario da unire ad APR 2021 e a tutte le verifiche precedenti:)Ovviamente è valido anche per le successive e nel 75° RF esistono solo alcuni mesi ,sistemati come esempio ,unito agli Index:)Quello sopra è invece il totale dell’anno 2015 e al suo interno esistono anche pubblicazoni che non sono presenti negli Index e quindi è facile comparare i dati con quelli delle verifiche interne ,perche’ quelli complessivi sono perfino migliori ,rispetto a tutti quelli sistemati in 34 verifiche,compresa la presente!:) Nell’anno 2015 ci sono state al massimo 15 pubblicazioni presenti,in conflitto con tutte le altre (e anche tra di loro:) e il report appena inserito è completamente differente dai dati interni ai domini ,perche’ esistono “conflitti generali” e sopratutto ,non è “presente nessuna lacuna”,rispetto allo strumento delle verifiche interne dei domini.Non esiste nessun altro al suo livello in senso letterale,pero’ operativamente è “solo Similar ai Major Engine” ,perche’ non conosce l’originalita’ effettiva dei contenuti e ancora meno la loro naturalita’ e insieme a questo ,è del tutto Ignoto il contesto dei collegamenti esterni ai domini e non ha nessuna informazione anche sul recente “Scheme Network” (è descritto nel 75° RF e il riferimento è l’abilitazione dei subdomain)Il senso di queste posizioni è molto semplice, perche’ se esistessero anche dati ottimi nei contenuti interni dei domini,non avrebbero nessun valore effettivo,perche’ non si conoscono i contesti reali dei contenuti:)Nel report sopra,dell’anno 2015 ,i contenuti effettivi si conoscono realmente e la sua posizione ,non deriva “da un percorso storico” ,ma è assolutamente attuale,perche’ il riferimento dei Match è l’anno corrente e il contesto è il Backup del 5° dominio individuale di MAR 2021:) Il Taken Din Colors Five ha quasi dimensioni da 3,5 Milions di termini effettivi e i Match avvengono in 1 sola posizione ;per 1 solo autore effettivo ; in un Detect language,di sicuro non tra i piu’ rilevanti ; esistono solo scritti ; non esistono backlinks ; sono presenti solo Original Text senza nessun Headers ; non è applicata nessuna ottimizzazione ; e contemporaneamente esiste anche il Core Web Vitals e il suo principale elemento è il peso degli elementi statici stessi,rispetto alla velocita’ del loading ,ed è oggettivamente escluso che possa esistere nei contenuti individuali ,perche’ hanno quasi tutti pesi elevati e quindi è sicuro che nessun Match è stato risolto dalla presenza del Core Web Vitals:)La descrizione fatta è il Frame Global Limit e manca l’elemento stesso da cui sono nate le verifiche interne ai domini ,ed è la monotematicita’ stessa dei contenuti ,perche’, per forza di cose ,formano l’impatto maggiore dei Match e la scelta è stata davvero meravigliosa ,perche’ la monotematicita’ è equivalente ai Main Content ,ed è l’elemento di maggior valore in assoluto:) E’ Il GOAL DATA!:)Tornando al dato dell’anno 2015 per gli Index ,non è nemmeno quello maggiore ,perche’ è l’anno 2016 ad esserlo con oltre 300 pubblicazioni in Index e anche questa posizione rende facile comparare i dati che avra’ APR 2021 ,perche’ anche le presenze del 2016 ne sono relativamente poche ,pero’ esistono,ed è facile comprendere quanto possano essere diversi i Match in ogni verifica ,perche’ il range di selezione è amplissimo ,per entrambi gli anni e la selezione dello strumento ,avviene a “totale sua discrezione”:)Solo nella versione premium è possibile selezionare delle pubblicazioni da comparare con altre ,pero’ “è un metodo da non seguire” ,perche’ non esiste nella realta’ e quindi l’unico consiglio serio è di creare contenuti ,per qualsiasi contesto,solo in maniera naturale:)Gli strumenti arrivano sempre dopo e il metodo è anche razionale, perche’ non ci sarebbe nessun entusiasmo nel creare contenuti attraverso strumenti automatici e sopratutto, non risolvono nessun problema legato ai valori reali dei Content ,ma sono capaci solo di creare altri problemi,perche’ i migliori strumenti li possiedono gli Engines e hanno le migliori capacita’ di trovare “Coloro che pensano d’Ingannarli”:)Il valore economico colossale del contesto online ,è mantenuto solo grazie alla presenza degli Engines e quindi solo i valori reali ,sono ammessi!:) Questa è la presenza della Sitemap e nel report è sistemata la data della sua ultima visita,pero’ è presente dall’anno 2016 ,ed è anche normale che esistano i suoi dati,perche’ anche per Microsoft Bing sono valide le stesse impostazioni del dominio e cioe’ non sono abilitati gli Archivi e tutti gli altri Tags:)Quindi resta solo la Sitemap a permettere i Discovered (cioe’ trovare le pubblicazioni;) e il possibile vantaggio,rischia di terminare subito ,perche’ attraverso la Sitemap non esiste nessun Internal Links OUT e quindi tutte le pubblicazioni,possono essere,realmente ,in Match tra di loro e se esistono 1200 Index in 1 solo dominio per 1 solo autore,significa che i Match ci sono stati:)

questi sono gli errori della Sitemap:)Possono essere presenti per tanti motivi e ildato piu’ importante del report èil suo arco temporale e non è quello del prelievo,ma tutto il percorso dei reports dall’anno 2016 e cioe’ dalla presenza stessa della Sitemap:) La sezione sopra è sistemata qui Dopo la presenza della Sitemap ,avere i NoIndex senza nessun dato ,forma un contesto straodinario,sopratutto per il numero delle pubblicazioni stesse presenti negli Index 🙂 Comprese le pagine interne ,esistono circa 1340 pubblicazioni e averne 1200 in Index è un risultato meraviglioso ,per tutte le idee unite ai contenuti stessi 🙂Le idee da cui sono nati i Content individuali sono nei Post Base (il collegamento è nel piccolo background della sidebar destra) ,ed è sufficente iniziare da Din Colors Space 1 (anno 2016) ,per unire anche questi contenuti e tutte le altre pubblicazioni:)Tra l’altro,nei dati del report di Microsoft Bing,sono sistemati anche i Canonical ,pero’ esiste solo l’unione del TLD .COM (oltre al .IT) ,perche’ i reports,sono realizzati solo attraverso i codici verificati e quindi è possibile che i contenuti siano anche in altri domini individuali e abbiano reports diversi ,rispetto a quelli sistemati:)Quindi i valori che sto’ sistemando appartengono solo al TLD verificato e nello stesso tempo,dal 75° RF , (non l’ho visto mai prima) ,esistono solo i valori uniti all’Engine bing e non è piu’ presente la combinazione dati di yahoo e poi di tutto il Powered della Microsoft ,tramite gli altri Engines,Ispirati dai “dati delle sue API”:) La sezione sopra è qui ,ed è una festa assoluta per Goal Data e qualsiasi altra pubblicazione presente ad APR 2021 Non esiste nessun Disallow dei robots txt e la posizione “potrebbe sembrare normale” ,perche’ non esiste proprio l’abilitazione e l’ho sistemata tante volte anche in occasioni recenti:)E’ il contesto stesso in cui è sistemata l’assenza del disallow ,a rendere tutto straordinario, perche’ nessuna pubblicazione ha avuto “alcuna protezione” e i dati dei reports,sono arrivati solo dai contenuti effettivi e questa posizione,unita alle dimensioni colossali del backup, si trasforma in felicita’ totale!:)

qui è sistemata la sezione sopraAnche questa posizione potrebbe sembrare normale e lo è ,perche’ non ci sarebbe nessun Index:)E’ sufficente collocare il contesto anche a quest’immagine,attraverso i passaggi precedenti ,per trasformare anche i contenuti sopra in straordinari:)Sono 1200 pubblicazioni in Index ,solo per il TLD .COM verificato,senza nessun Disallow applicato ,a rendere meravigliosi anche i dati sopra:)A questo occorre aggiungere la cosa piu’ semplice e cioe’ nessuna delle 1200 pubblicazioni dell’Index ,puo’ essere un Thin Content e quindi per forza di cose ,debbono essere presenti anche dimensioni notevoli negli average delle pubblicazioni stesse e quindi è oggettivamente difficile che “esistano pochi match” e nello stesso tempo,sarebbe stato facile avere “qualche problema di malware” all’interno di dimensioni cosi elevate e realizzate anche in un arco temporale assai breve:) (occorre sempre ricordare che il contesto è solo il 5° dominio individuale e l’arco temporale sono solo 6 anni,in 1 sola posizione:)Per tutte le idee sistemate in questi anni ,occorre ribadire anche la felicita’ totale:)

Non esiste nessun redirect nei dati:)Quindi quelli sistemati nel 75° RF ,appartengono solo al TLD .COM e nell’arco temporale solo di alcuni giorni ,esistono dati maggiori del doppio ,rispetto “a quelli dei rilevamenti di base”:) Il riferimento è solo la differenza dei dati e naturalmente non esiste nemmeno la possibilita’ di comparare i valori effettivi:)

Questi “sono tutti i backlinks” applicati a 1200 pubblicazioni in Index e nella realta’ non sono nemmeno tali,perche’ sono semplicemente dei referring e cioe’ sono dei links sistemati nelle pubblicazioni e inseriti in altri spazi.I referring nei rilevamenti di base sono tutti esclusi e nei dati sopra lo stesso:)

questi sono i soli 2 spazi dei backlinks in referring ,all’interno delle 1200 pubblicazioni in Index solo per i codici verificati del TLD .COM:)Quindi non esiste nessun Backlinks reale che abbia “contribuito a creare i valori dei dati” e tra l’altro non esistono nemmeno le possibilita’ di farlo,perche’ le segnalazioni debbono arrivare da domini EQUITY e cioe’ debbono avere pertinenza e valore ,gli spazi segnalatori:)Di conseguenza possono essere solo dei competitors diretti e se fanno segnalazioni ad altri domini ,possono farle solo alle condizioni dei DoFollow e quindi ,i loro spazi non possono avere valore,perche’ solo degli idioti possono segnalare i propri competitors:)qui è sistemata la pagina con le 2 sezioni precedenti

questa sezione e la prossima sono fantastiche da unire ad APR 2021:)Renderanno superfluo tutte le posizioni dei Broken Links ,dallo Status Code massimo possibile,perche’ i codici specifici dei Broken, eventualmente presenti, derivano proprio dalla Microsoft:) Con i dati appena sistemati e gli altri che aggiungero’,non sara’ piu’ necessario ribadire che i Broken derivano solo dalle non abilitazioni dei tags e non esistono nella realta’,almeno nel dominio individuale e la prova maggiore è sistemata sopra e nell’immagine sotto,perche’ gli eventuali Broken,potrebbero essere uniti a 1200 pubblicazioni in Index:)

questa posizione merita l’immagine completa:)I “Died links” sono i Broken e tramite l’evidenza,hoindicato l’espansione dellepossibili violazioni e non esiste nemmeno UNA ,applicata al percorso completo di 1200 pubblicazioni in Index unite al TLD .COM e posso assicurare che non sono nemmeno negli altri reports:)Per i contenuti di APR 2021 e tutte le verifiche precedenti e forse anche le successive ,i dati sopra “sono manna dal cielo” ,perche’ è presente l’evidenza massima per i loro dati:) Le competenze degli status Code per non essere in broken sono dirette per Microsoft e nel settore codici ,esiste anche Github ,ed è proprieta’ sempre di Microsoft:)qui è sistemato il lungo elenco degli Status Code ,ed è lo stesso dell’espansione del TLD .COM del dominio individuale:) Questa posizione non è una novita’ ,pero’ lo è il suo contesto temporale perche’ è il principale e unico riferimento di tutti i dati reali e per la prima volta ,i suoi reports non partecipano alle combinazioni dati di Yahoo:)La collocazione in questa posizione,naturalmente, è unita anche ai passaggi precedenti e solo per restare nell’ambito dei Broken,la prima unione deriva dai Copied stessi dei termini,sistemati negli Anchor Text e diventano dei Duplicate Links e la posizione è molto negativa,perche’ da sola,è capace di rendere nulli tutti i valori,applicati ai contenuti di qualsiasi dominio.Sempre per i valori dei contenuti,esistono anche le posizioni del 75° RF e il riferimento sono “gli schemi network” e riguardano ” i confini ingannevoli degli spazi” e sono in pratica i subdomini abilitati:)Questa posizione dei Content è importante ,perche’ insieme a tanti altri limiti,non è presente nei dati di APR 2021 e in tutte le verifiche precedenti e naturalmente non saranno mai presenti anche nelle successive:)

Nemmeno queste posizioni delle Guidelines di Microsoft Bing sono presenti nei dati di APR 2021 ,ovviamente tranne i Duplicati:)In questa posizione citero’ solo qualche riferimento per i Social Schemes perche’ esiste una novita’ “da schiattare dal ridere”,perche’ è arrivato “il primo Learning di facebook”:) I particolari li sistemero’ in altre pubblicazioni e probabilmente saranno nelle Data Priority,perche’ la vera priorita’,saranno solo i Dati Veri applicati al digitale:)In quasi tutti gli elementi del Data Priority,esiste una larga presenza del social marketing e quindi è inevitabile che sia elevata (per non dire assoluta:) la percentuale dei dati falsi:)In questa posizione cito solo il contesto “del Learning di facebook”,ed è la “sua solita pagina del business” ,unita alle espansioni delle Ads,realizzate tutte “con articoli instantanei”:) Indirettamente sono il miglior testimonial dell’unico valore presente nel contesto online e sono i contenuti e la sua migliore posizione è nell’evidenza di URL Inspection tool:) Occorre fare attenzione ai termini,perche’ tool ha tantissimi riferimenti nel contesto online,attraverso un numero incredibile di strumenti,piu’ o meno utili realmente,perche’ non esiste nessuno in realta’ che sappia unire i dati insieme:)Solo gli Engines possono farlo,perche’ non sono nati da teste idiote come i social e direttamente,l’esempio è proprio il “learning di facebook”,perche’ ha oltre 7000 subdomin abilitati,ed essendo il regno del falso e dello schema è inevitabile che lo siano anche i subdomain:) Seguendo questa linea,sara’ inevitabile “dubitare seriamente”,rispetto ai dati delle priorita’ italiane,perche’ l’unione principale è quella appena descritta:)

il primo URL Inspection tool è solo un esempioLa differenza con quello che seguira’ è nell’evidenza ,semplicemente perche’ è il dominio AV ,ed ha la verifica dei codici ,pero’ l’URL sistemato non appartiene al dominio specifico e nemmeno a quello del TLD .IT.

questa è l’ispezione effettiva:)Non ho scelto a Caso la pubblicazione perche’ i termini che contiene saranno quelli del prossimo Just Time Google Patent K2 e la posizione è fantastica,perche’ non nasce dalla pubblicazione specifica,ma dalle proposte complessive dell’intero dominio,attraverso tutti i termini effettivi presenti,semplicemente perche’ ognuno di essi,puo eliminare gli altri presenti:) La differenza rispetto a tutti gli altri tools del contesto online,deriva dalla conoscenza piena e completa e nasce dalla cosa piu’ semplice ,ed è l’unione dei dati:) Ho evidenziato “la richiesta di revisione” e in teoria è possibile farla ,pero’ occorre possedere prima la Sitemap e accertarsi “che il codice lastmod” sia davvero quello originale.All’interno di URL Inspection,è possibile digitare Live URL e sono sistemati i codici originali,trovati la prima volta e rappresentano un ottimo riferimento per conoscere se i codici Lastmod,non sono stati modificati:)Quindi nella realta’ è molto difficile che la richiesta di revisionare l’index di 1 pubblicazione venga accolta,perche’ è del tutto improbabile che “esistano fondate ragioni degli utenti”:)Comunque questa posizione è importante,perche’ permette “di visualizzare il contesto” nella maniera migliore,in quanto esiste solo 1 pubblicazione alla volta da potre “revisionare per avere gli index” e quindi figurarsi cosa significa averne 1200 per 1 solo spazio e 1 solo autore,unito alle dimensioni dei volumi del backup di MAR 2021:) Non è presente nemmeno 1 revisione e per ottenerle,occorre avere prima la Sitemap e la sua presenza,non è sempre un vantaggio,perche’ saranno unite anche le altre pubblicazioni e quindi diventa facile peggiorare la situazione!:)

Questa è la meravigliosa sezione completa:)E’ il dato piu’ bello per APR 2021 ,senza aver inserito nemmeno 1 suo dato:)Non esistono “problemi nelle Guidelines” di Microsoft Bing e questo potrebbe essere “anche normale” ,se non esistesse il contesto specifico:)Il “riferimento dei problemi” riguarda l’intero percorso (da FEB 2016:) e sopratutto esiste il contesto di 1200 pubblicazioni in Index ,avendo la presenza continua della Sitemap,insieme a tutto il Frame Global Limit ,uniti alle dimensioni del Backup:)Con un contesto simile,senza violare nessuna linea guida,avere 1200 pubblicazioni sul Powered della Microsoft ,con i dati del 75° RF ,è un impresa straordinaria:)Esiste poi la fortuna di non avere piu’ le combinazioni dati di Yahoo e quindi è presente solo Microsoft Bing e nel suo “sterminato Powered” di Engines “Ispirati dalle sue API” ,è possibile aggiungere anche Swisscom e sopratutto AoL:)Grazie al 75° RF ,tutti i passaggi di Microsoft Bing sono validi anche per Google:)E’ sufficente il termine GOAL unito ai Main Content ,attraverso le Grid to Record (sono i 3 codici applicati a qualsiasi periodo) ,per avere gli stessi valori di Microsoft Bing:) Sempre dal 75° RF deriva la posizione delle OFF Page di Google:) Sono completamente ignorate almeno dal 2009 e nel testo originale esiste il riferimento anche per gli anni precedenti e quindi per tutti i soggetti uniti anche alle posizioni di Google ,non esiste 1 solo dato valido in tutta la storia del web:) (nel testo originale è descritto 1 decennio prima del 2009 e quindi è possibile includere nei dati negativi,tutta la storia del web per gli elementi sistemati nell’immagine:)

Anche questa posizione delle General Guidelines di Google è unita a quelle di Microsoft Bing ,rispetto alle Ads:) (nell’abusivo learning di facebook,la posizione è sempre all’interno del business unita alle Ads:)Il learning di fb lo realizza “attraverso gli articoli instantanei” e a parte i contenuti oggettivi,sono essi stessi privi dell’Amount per Google (350 termini formano i post:) e per Bing sono in Thin Content,ed è la stessa cosa,perche’ il riferimento è la Quantita’ stessa dei contenuti:) Il problema di fb deriva dal fatto che è essa stessa Abusiva,rispetto al contesto online:)Questa è l’unica posizione reale delle Ads e la sua principale violazione è il Copied ,a cui segue l’esistenza stessa dei Main Content ,nelle proposte complessive di ciascun dominio.Le presenze dei links arrivano dopo e debbono essere pertinenti ,rispetto ai contenuti collegati ,altrimenti le segnalazioni tornano indietro e saranno penalizzati gli operatori imbecilli che li hanno sistemati:) Questa è la “Stella Polare” dei valori reali 🙂 E’ fantastico il contesto sistemato per APR 2021 ,perche’ i suoi dati oggettivi sono migliori in tutto rispetto a quelli che sistemero’ ,perche’ sono elevatissimi gia’ di loro e sopratutto i dati hanno il percorso completo reale:)Nonostante questo ,APR 2021 ha avuto 199 pubblicazioni e l’average individuale è formato da 3228 termini effettivi e il volume,in 1 sola posizione,è superiore a 640000 termini e l’unicita’ effettiva ha raggiunto il 97%:)Quindi per avere valore maggiore rispetto a questi dati,occorre davvero un contesto fantastico e nasce dal Backup di MAR 2021 e si sviluppa attraverso Microsoft Bing e poi Google:)Qui è sistemata la comparazione diretta con l’anno 2016E’ l’anno con il numero maggiore di pubblicazioni negli Index e naturalmente,sono diverse le dimensioni delle singole pubblicazioni,pero’ l’average generale è formato da quasi 2600 termini effettivi e quindi sono elevate le dimensioni anche dell’anno 2016:)Sono 15 le sue presenze e gli Index dell’anno specifico sono maggiori di 300 pubblicazioni,rispetto all’attualita’ dell’anno 2021 e quindi il range delle selezioni è elevatissimo e per questo motivo,non esiste 1 sola verifica uguale all’altra e nei recenti 12 mesi,quasi tutti i volumi sono stati superiori ai 600000 termini effettivi.La stessa posizione riguarda l’anno 2015 ,perche’ sono presenti solo 9 pubblicazioni e solo le complessive dell’Index sono maggiori a 280 post:) Questo è l’anno 2021 ,ed è presente la Crown Colors e la pagina A del 75° RF ,con oltre 7000 termini effettivi e ovviamente è stata la prima volta che ha partecipato ai Match:)

questa è la pagina della 5° Top Page Joy e ha esordito in maniera fantastica nei Match:)Con oltre 7000 termini ha il 100% di unicita’ e gli unici 2 Match che ha avuto,derivano da 2 pubblicazioni di JAN 2018 ,ed è il 1° RF della 5D ,insieme al suo Plus:)

Esistono anche 30 Internal Links OUT per la pagina A del 75° RF:) Quindi i suoi Match sono stati davvero proibitivi ,perche’ tutte le pubblicazioni presenti sono state in conflitto diretto,grazie proprio alla presenza della Sitemap,perche’ rende raggiungibile qualsiasi pubblicazioni,anche con la presenza degli Internal Links OUT.Sono le pubblicazioni con distanze superiori ai 3 Clicks Depth l’UNA dall’Altra e se non ci fosse stata la Sitemap,sarebbero state escluse e questa posizione rappresenta un gran vantaggio ,perche’ diventa minore il rischio di conflitti:)Per questo motivo anche la Sitemap è nel Frame Global Limit.

E’ fantastica anche la posizione degli External LinksNel dominio individuale i collegamenti esterni sono,prevalentemente dedicati alle immagini e quasi sempre deriva dalle loro dimensioni.Questa posizione è invece speciale ,per la presenza del TLD .IT e nella pubblicazione originale ne ho sistemato solo UNO e poi esistono tantissime altre presenze e quelli presenti nell’immagine sono solo l’inizio.E’ una posizione importante nel Webmasters di Microsoft Bing e in Google Search Console ,perche’ sono presenti le verifiche dei codici del TLD .IT e i reports sistemati riguardano solo il TLD .COM (è il maggiore,pero’ anche il TLD .IT ha una notevole presenza e i contenuti dell’immagine sono un ottimo esempio:)anche quest’immagine aiuta a comprendere il livello dei Match che ha avuto la pagina A del 75° RF al suo esordio nelle verifiche:)Sono le dimensioni a scalare di APR 2021 e la pagina A del 75° RF ,nonostante le sue dimensioni è alla 14° posizione e sopra di essa ,esistono in partenza,gia’ 100000 termini effettivi,potenzialmente tutti in Match,oltre a tutte le altre presenze della verifica,compresi i 30 Internal Links OUT diretti:)

anche quest’immagine è straordinaria:)Sono il numero dei termini in Match a scalare e le prime 4 posizioni hanno tutte le presenze di periodi risistemati.La curiosita è sistemata nei pochi termini della Crown Colors (20) perche’ sono in realta’ presenti in tutte le pubblicazioni (è il nome dell’autore e dei labels) e formano anch’essi dei match,distribuiti in 199 post e quindi determinano anche i dati finali.La somma delle prime 4 posizioni dei numeri dei termini in match ,formata solo da periodi risistemati,è addirittura minore della meta’, rispetto al solo nome dell’autore e dei labels:)

questa è una conferma di quanto siano importanti i dati precedentiSono il numero di pubblicazioni in conflitto contro UNA a scalare e iniziano da 10 e poi esistono 3 gruppi da 8 ,ed è sufficente vedere le dimensioni a scalare dei conflitti ,per immaginare quale sia stato il livello dei Match e questo contesto ,è il migliore in assoluto del settore Copied (non esiste realmente un altro strumento simile) e quindi è facile immaginare cosa siano i dati degli Engines ,perche’ quelli appena sistemati ,sono tecnicamente i piu’ sofisticati possibili nell’oceano di tools del web ,pero’ sono sempre a distanze siderali dagli Engines e quindi dai valori reali dei dati:) Non potrebbe essere in altro modo,perche’ nessuno puo essere al livello di Microsoft Bing e Google e nemmeno la Apple ha le stesse capacita’:) (se fosse l’opposto ,è sicuro che da tanto tempo sarebbe entrata nel mercato delle ricerche 🙂qui sono sistemati gli altri dati del numero di pubblicazioni in Match a scalare La prima pagina,dopo 30 pubblicazioni ,termina a 3 match contro una pubblicazione e i conflitti proseguono fino alla 164° posizione su 199 presenze per APR 2021.qui è sistemata la sintesi dei dati per APR 2021 Queste sono le posizioni di TrustradiusEsistono 239 pubblicazioni e l’average è formato da 4699 termini effettivi e ha raggiunto il 77%.Questi dati saranno molto importanti,perche’ permetteranno l’unione con la posizione dei “Commenti” e ilriferimento in questo contesto,sono solo i TEXT effettivamente scritti, semplicemente perche’ sono all’interno dei volumi del dominio specifico.

Per arrivare alla posizione dei commenti , l’inizio per Trustradius sono il numero di pubblicazioni in Match e iniziano da 35 contro UNA e dopo 30 pubblicazioni ,la prima pagina termina a 14 contro UNA.I conflitti proseguono fino alla 235° posizione,su 239 pubblicazioni presenti e quindi “le cose vanno un po’ male”.Ovviamente esiste un average molto elevato,pero’ anche questa posizione non aiuta tantissimo il contesto dei dati specifici ,perche’ i volumi sono realizzati da un numero di autori elevatissimo e ognuno descrive il proprio settore,fornendo in questo modo dei dati ai vari software o servizi presenti su Trustradius. qui sono sistemati gli altri dati dedicati alla pagina con i numeri dellepubblicazioni in conflitto per Trustradius E’ presente la Sitemap per Trustradius e questa posizione è eccellente ,perche’ permette di rendere semplicissimo comprendere quale sia la difficolta’ reale nel creare valore ai Content:).La Sitemap puo aiutare a trovare le pubblicazioni,pero’ rende anche molto facile creare anche tanti Match e probabilmente solo l’elevato numero di autori presenti nel dominio,ha evitato che i dati fossero molto negativi:) (con 235 pubblicazioni in conflitto su 239 ,partendo da 35 Match contro UNA pubblicazione,non è nemmeno immaginabile che possano esistere reports buoni:)Nel Caso di trusradius esistono invece dati ottimi , pero’ grazie solo ai contenuti che seguiranno!:)

la scelta deriva dalla prima pubblicazione in dimensioni di questa selezione

sono dei review ,uguali a dei commentiPer le varie categorie e servizi,esiste la divisione tra Small e Middle Business e gli Enterprises.La prima pubblicazione nella selezione di trustradius ha 25 review nella pagina specifica e a scalare in dimensioni esistono poi le successive pubblicazioni,ed è quest’inisieme a formare i contenuti reali:)Nel Caso specifico significano 25 autori per la prima pubblicazione in dimensioni di APR 2021 per Trustradius,ed è un contesto curioso,perche’ i Text del dominio specifico,sono in realta’ quasi del tutto assenti:)

questo è solo un esempio e deriva dallaprima pubblicazione in dimensione per Trustradius ,ed è solo UNO dei 25 autori,presenti in 1 solo post:)

tra leprime posizioni in dimensioni esiste anche Adobe Analytics ad APR 2021 per Trustradius:)qui è sistemato un esempio per Adobe La pubblicazione specifica ha oltre 9500 termini “e ilprimo commento” è di un manager di Walmart dedicato ad Adobe.Sono 25 le presenze nellapubblicazione specifica e non esiste nessun TEXT reale dei gestori del dominio:) Questo rende molto facile comprendere cosa significa creare contenuti da 1 solo autore,ed avere pure valore nei reports:) (se 1 solo autore avesse avuto 35 pubblicazioni in Match solo nella prima posizione e dopo 30 post,ne avrebbe avuto 14,continuando i Match fino alla 235° posizione su 239 presenze,i dati finali “sarebbero davvero imbarazzanti”:)

Attraverso la presenza di Adobe Analyrics è stato inevitabile fare questa comparazione:) Ignore Contest General Facta Data:)I contenuti che seguiranno derivano dalla pubblicazione collegata e per introdurla “ho scelto l’immagine piu’ pertinente”, rispetto alla realta’ del Contesto Online:) Tra i tanti Fact Check sistemati nella pubblicazione degli Ignore General ,ne esiste uno davvero curioso ,ed è il Fact Stars e non deriva dalla fantasia ,perche’ esiste davvero:)Facts Star è quiA suggerire questa posizione è stato il TFD NASA, iniziando proprio dai Facts Check e l’insieme fa’ parte di “un aggregatore di contenuti” e formano l’Encyclopedia Astronautuca e solo da ESSA ,poteva nascere la Page Solemn Super Stars:) E’ il LEM di Apollo 11 a mandare oltre le stelle i dati di page Solemn:) Sono oltre 94000 i termini effettivi in 1 sola pubblicazione,ed essendo uno spazio aggergatore ,per forza di cose sono presenti tanti autori,anche in 1 sola pubblicazione:)Dopo Trustradius ,quest’altra presenza rende il contesto straordinario rispetto al livello delle difficolta nel creare valore reale,all’interno del contesto online:)La pubblicazione di Apollo è qui Gli altri dati dei domini saranno nel prossimo Just Time ,perche’ ne esistono tanti da descrivere,per i fantastici contenuti che hanno e non è possibile solo citarli in questa posizione,perche’ hanno dati che meritano dei contenuti adeguati:)
Posted in Key Page Unit, TD Space Content
Long Goal Data 8D RF 5 A ⭐
Posted on April 30, 2021 by Din Story AV
E’ Gold Data ad accogliere APR 2021 e la sua collocazione generale,nei volumi delle dimensioni è alla 7° posizione e naturalmente sono scalate le altre precedenti.
Esistono tanti dati fantastici anche ad APR 2021 e solo per citare un elemento presente in questa pubblicazione (l’HIDE dell’autore e del labels su AV) ,nelle prima 4 posizioni a scalare,per i Match dei termini ,esistono 34 pubblicazioni (1 da 10 conflitti e 3 da 8:) e la curiosita’ è la loro somma ,perche’ è minore della meta’ rispetto al nome dell’autore e ai labels:)
Un altra curiosita’ è questa pubblicazione,perche’ è l’unica presente per l’anno 2021 (a parte la Crown Colors) e quindi i Match sono stati nuovi per forza ,perche’ non esisteva prima di APR 2021:)
E’ un dettaglio importante ,perche’ i contenuti originali sotto sono superiori a 7500 termini effettivi ,ed ha avuto il 100/100 in unicita’,pero’ all’interno di APR 2021:)
Grazie alle sue dimensioni, il 3,48 Milions di termini effettivi in 1 solo dominio,è stato superato e i contenuti
“viaggiano verso il 3,49 Milions” e a questi livelli, anche 10000 termini ,fanno una differenza notevole:)
qui è sistemato l’arrivo di MAR 2021
Qui è sistemato il rapporto per comprendere il valore reale dei 10000 termini effettivi nel contesto online:)
E’ sufficente la comparazione con gli average dei contenuti del contesto tradizionale,rispetto a quelli online e il dato prodotto va’ moltiplicato per il volume:)
Significano oltre 615000 termini effettivi e il riferimento sono solo i contenuti di 1 mese:)
Quello di APR 2021 è sistemato sotto:
qui sono sistemate 3 pubblicazioni di MAR 2021
qui sono sistemate le dimensioni delle altre
Il dato sopra è formato dall’average delle pubblicazioni di MAR 2021 ,diviso quello statndard del contesto tradizionale,moltiplicato per le dimensioni di 1 mese:)
Quindi anche i 10000 termini ,sarebbero sempre da festeggiare nel contesto online,perche’ il dato sopra,ha poi l’impatto delle proposte complessive,ed è la posizione piu’ importante del contesto online,perche’ da essa derivano i Match e quindi i valori reali:)
L’IGNORE the REST di MAR 2021 ha proprio questo come senso,superiore a qualsiasi Tags e nasce dall’eliminazione dei termini effettivi e ad essere ingnorati sono proprio i TAGS:)
Questo è il volume da cui è nata la selezione di APR 2021 e per la prima volta esistono i contenuti “in cui sto scrivendo”:)
Questa è l’eleggibilita’ per la 5° Top Page Joy e al suo interno esiste di tutto:dal Markup delle Strutture Data ,comprese le sue violazioni o modifiche ,insieme a tutti i Fact Check e sono “rigorosamente solo quelli ufficiali”:)
Manca solo una variante importante,ed è il Time Sensitive Content e quindi i dati dello snippet occorre averli sempre:)
Per verificarlo è semplice,ed è sufficente che esiste l’Index della pubblicazione:)
questo è l’Index di Google e quindi l’eleggibilita’ è confermata:)

questo è l’Index di Microsoft Bing
A festeggiare Goal Data ci saranno anche gli HEROIC DC e i loro collegamenti,avranno anche nuovi elementi ,perche’ esiste l’attuale prima pagina,ed è superiore ai termini effettivi di Page Solemn (il riferimento è a quella di Giacomo Leopardi:) e gli unici sono nettamente maggiori e l’aspetto piu’ importante ,deriva dal fatto che i contenuti sono tutti naturali e il loro arco temporale è relativamente breve pure!:)
(tra l’altro nei dati del grandissimo Giacomo Leopradi ,a parte i Zibaldoni ,quasi la meta’ degli scritti complessivi è formato dal suo Epistolario 🙂
Nella pagina A+ del 75° RF , è descritta la scelta del termine “GOAL”,unita alla 5° Top Page Joy:)
la pagina A+ è qui
Nei suoi contenuti sono descritte anche alcune posizioni che “avrebbe avuto” questa pubblicazione ,ed occorre fare “delle modifiche naturali”,perche’ i contenuti saranno diversi rispetto a quelli descritti e il senso dell’EDITS Naturale è molto semplice, ed è sufficente sistemare i contenuti in un altra pubblicazione e sara’ questa pagina A del 75° RF:)
Tra un po’ descrivero’i motivi di questa scelta e sono anch’essi semplici , perche’ sono arrivati altri dati ,perfino migliori rispetto a quelli descritti nella pagina A+ e anch’essi sono uniti al termine GOAL:) Qui esiste la traduzione letterale nella lingua di questi contenuti:)
Nella realta’ non servirebbe nemmeno tradurre i contenuti , perche’ la domanda e la risposta sono molto semplici:)
Ho evidenziato “OFF PAGE” e prima di descriverlo , è sufficente inserire il contesto dei contenuti di Google Search Central ,ed è l’anno 2009 e l’argomento è il piu’ Rilevante Ignore di tutti i tempi e sono i tantissimi Tags:)Tra di essi esistono anche le OFF PAGE ,ed è “naturale la sua unione con il link building” 🙂
Per le OFF PAGE alcuni contenuti sono gia’ in questa pubblicazione:)
Queste unioni appartengono solo alle capacita’ infinite del Caso Supremo ,ed è sufficente vedere la data della pubblicazione e i suoi contenuti diretti ,per verificarlo:)
Alcuni suoi passaggi ,in immagine, li sistemero’ anche tra un po’ e qui posso aggiungere l’opposto al termine GOAL:)
Ignore Contest General Fact Data
Sono pertinentissimi i suoi contenuti ,ed è sufficente unire l’anno 2009 per l’Ignore piu’ Rilevante e poi vedere “gli oceani di contenuti” uniti ai “finti link bulding”. Nella realta’ sono tutti buyng e l’unica alternativa,si fa’ per dire , sono schemi e a loro volta sono uniti anche alle OFF PAGE social:)
La Realta’ è formata solo dall’OUT PAGE ,nel vero senso delle parole , perche’ i contenuti sistemati in questo contesto ,possiedono solo l’IGNORE e la ragione è molto semplice ,perche’ non solo è una violazione , ma esistono anche abusi notevoli,attraverso il link building e i social stessi:)
Quindi esiste la certezza che ignorano anche di essere imbecilli e nella pagina A+ esistono delle descrizioni specifiche e nascono ,dal motivo principale per cui esistono violazioni e abusi nelle OFF PAGE e deriva dall’ignoranza piena,rispetto ai valori reali dei dati:)
Sono i rilevamenti di base a confondere i valori degli imbecilli:)
La pubblicazione collegata al link è il 3° Natural Contest dedicato a Big Data e la posizione del TFD Statcounter è unita solo al suo Learning Center ,attraverso le descizioni delle OFF Page.
Naturalmente ,gli Stats di base non hanno nessuna responsabilita’ ,ad iniziare dalla semplice logica,dovuta al fatto che non conoscono i contenuti reali da cui derivano i dati e tantomeno ,hanno “conoscenze approfondite” “sulla natura dei links stessi”:) (se fossero formati solo da schemi e buyng ,sarebbero indifferenti rispetto a quelli naturali:)
Tutto questo , riguarda la posizione delle OFF PAGE e poi esiste anche l?IGNORE piu’ Rilevante applicato alle ON PAGE ,perche’ i Tags dei Title ; i Tags H1 e sono gli Headers ,insieme alle descrizioni (sono altri Headers) ,non hanno nessuna rilevanza reale ,perche’ l’unico a possedrla, è l’elemento unito al termine GOAL:)
Questo è il Rating reale e il termine GOAL ha 1 sola posizione ,ed è unito alle proposte degli archivi e sono i contenuti complessivi e cioe’ i Main Content:)
La collocazione del termine GOAL sara’ nei Brain Stone:)
E’ una posizione fantastica , perche’ si hanno dei Fact Check immediati e assolutamente veri:)
Tutto il contesto tecnico online passa tra i suoi elementi e ovviamente sono comprese tutte le categorie del web,ed è facile determinare i valori dei loro contenuti ,attraverso “i tantissimi ottimizzatori presenti”:)
Grazie anche agli altri elementi del Brain Stone ,si ha il Fact Check immediato , perche’ appartengono tutti al contesto tecnico online e quindi è possibile consultare “1 sola Entita’”,ed è Google stessa:)
E’ sufficente trovare il termine GOAL o tutti gli altri ,uniti alle OFF PAGE e si avra solo l’Ignore ,rispetto a qualsiasi valore ,unito a qualsiasi categoria:) Il contesto è sempre quello dell’Ignore piu’ rilevante 🙂
L’anno è sempre il 2009 ,pero’ i contenuti sono attuali e rappresentano il termine GOAL ,realmente:)
E’ una posizione importantissima ,perche’ puo causare confusione,grazie alle posizioni di Google Search Appliance .
Il servizio è utilizzato dagli Enterprise e in quel Caso , l’utilizzo dei tags è presente per le normali operativita’ delle aziende,pero’ resta solo 1 servizio a pagamento,ed è “simile all’intranet” e non ha nulla in comune con i valori reali:)
Questa non è solo la divisione degli RF,perche’ indirettamente , è presente anche la protagonista del 75° RF ,ed è la 5° Top Page Joy:)E’ nei contenuti del Time Sensitive Content , ed è arrivata per semplice casualita’ , perche’ era all’interno del primo dominio AV ,sistemato per comparare le dimensioni di questo spazio ,grazie alla caratteristica fondamentale del contesto online e cioe’ hanno valore solo i contenuti in 1 posizione:) Il TFD Marcel Proust è nella stessa pubblicazione delle OFF PAGE E’ la migliore evidenza del senso concreto ,unito a 1 sola posizione dei contenuti ,perche’ non esiste nessun altro autore al livello di Proust e i suoi dati complessivi , hanno 1 sola posizione, al 50%:)Riguarda la sua opera maggiore (1,4 Milions di termini) realizzata in 12 anni,mentre i dati complessivi sono formati da tante altre posizioni e hanno richiesto 23 anni per realizzarli:) Quindi i festeggiamenti della pagina A+ sono molto pertinenti:) In 6 anni esistono poi contenuti anche in altri spazi e attraverso 1 di loro ,è arrivata la 5° Top Page Joy ,ed ha il Canonical nello spazio specifico:) Qui è sistemato il Total Stats del primo dominio AV E’ presente 1 solo autore ; non sono sistemati commenti ; ed è inserito il numero di Post per 1dominio e da uno di essi ,è arrivata la 5° Top Page Joy e l’ho scelta,semplicemente perche’ era la prima in dimensioni e quindi ,era utile per dimostrare che le dimensioni reali in 6 anni sono anche maggiori ,rispetto al dato che ha la pagina A+ di questo 75° RF:)

Anche da questa impostazione derivano i dati da cui è nata la 5° Top Page Joy:) Per i contenuti individuali ,è di sicuro la piu’ curiosa,perche’ sarebbe possibile mettere in Hide i nomi degli autori ; i labels e tutto il resto dei tags:)L’aspetto curioso deriva dal fatto che nei contenuti individuali ,in 33 verifiche interne ,rappresentano i Match piu’ elevati in dimensioni e nemmeno i periodi risistemati ,sono mai arrivati al loro livello:) (sistemando in Hide l’autore e i labels non sarebbero presenti ) I contenuti appena sistemati , hanno l’unione diretta con la 5° TPJ e poi il Caso Supremo ha permesso che arrivasse un altra unione sublime ,ed è nata per la specificita’ del contesto online ,ed è il valore unito a 1 sola posizione dei contenuti. Qui sono sistemati gli altri reports L’idea è arrivata grazie a questa posizione e sono i reports settimanali del TFD Statcounter e l’unione con i contenuti che seguiranno ,deriva dal semplice NO GROUP e cioe’ ogni Project ha dati autonomi e non esiste nessuna somma tra di loro:) L’unione inizia dal 4° Natural Contest per gli strumenti dei rilevamenti di base Lo snippet di Clouflare è proprio l’ideale per fare l’unione con i contenuti che seguiranno e direttamente,saranno anche uniti alla 5° Top Page Joy ,perche’ rappresenteranno i valori reali ,i contenuti che seguiranno,naturalmente ,oltre quelli gia’ sistemati degli IGNORE ,applicati anche alle OFF PAGE 🙂 (per i link building e i social non potrebbe esistere nessun altra ragione ,per gli IGNORE:)Lo snippet di Clouflare è fantastico,nella sua semplicita’ : è sufficente separare i SUBDOMAIN , dallo spazio principale,per avere “dei reports giusti”🙂Cloudflare è anche il provider del TFD Statcounter ,ed è tra i primi al mondo nel suo settore ,pero’ il suo consiglio ,sarebbe meglio non seguirlo , perche’ qualsiasi SubDomain , ha elevati rischi di essere in “Scheme network” e quindi non esistera’ nessun dato valido:)Tra un po’ sistemero’ le unioni dirette e per il momento ,inserisco la parte complementare alla pagina A+ di questo 75° RF e sono i dati “dei rilevamenti di base”,pero’ con 2 novita’ importanti : ovviamente la prima è il diverso arco temporale e allo stesso livello d’importanza,esiste il nuovo “Scheme Network” e semplicemente è l’utilizzo dei Subdomain “negli spazi normali” , mentre nelle grandi organizzazioni ,si arriva allo scheme network ,attraverso il numero elevatissimo di autori ,sistemati tutti in 1 solo dominio:) L’inizio è il NO GROUP ed è valido per qualsiasi Projects individuale E’ facile verificare che l’impostazione esiste da sempre ,perche’ è presente in tante pubblicazioni precedenti e rappresenta la migliore opposizione allo schema network:)In “maniera affettuosa”,gli altri domini individuali li ho sempre definiti “spazi satelliti” e lo sono in maniera operativa ,perche’ sarebbe impossibile sistemare tutto in 1 dominio.Nella pagina collegata al link per il NO GROUP ,esiste anche il dato della Log Quota ; l’arco temporale del prelievo ,ed è eliminato solo il Security Code.Questo è l’Useragent del browser utilizzato per il prelievo dei dati e ovviamente è unito anche all’Ignore per gli indirizzi pubblici individuali (IP) e naturalmente è possibile che ne esista solo UNO ,in maniera dinamica:) (cioe’ cambiano gli IP,pero’ l’IGNORE per il gestore dello spazio resta sempre).Quindi non è possibile fare materialmente nessuno schema ,ed essendo presente il NO GROUP, non è possibile nemmeno avere degli schemi network:) Non esiste nessun trackers unito ai dati:) Queste sono le pubblicazioni unite alla Log Quota e arco temporale specifico Ovviamente sono diverse dalla pagina A+ di questo 75° RF ,perche’ la prima protagonista è proprio LEI:)Nel dominio individuale non esiste l’homepage e quindi il primo post unito al nome del dominio e il secondo ,sono la stessa pubblicazione e nel Caso specifico è proprio la pagina A+ del 75° RF e quindi per forza i dati sono diversi dai suoi contenuti ,sempre per i rilevamenti di base:) Sono presenti 6 pagine da 10 posizioni ciascuna e poi esistono tutti gli altri filtri.queste sono le Entry Pages Sono formate da 5 pagine ,con 10 posizioni ciascuna e sono escluse dai dati. questo è il Bounce Rate per la prima pubblicazione esclusa delle Entry Pages Se fossero inserite nei dati esisterebbero solo 3 Bounce:)Questi sono i dati esclusi attraverso le Exit Pages Il riferimento sono sempre indirizzi unici all’interno della Log Quota e da questa pubblicazione è possibile aggiungere anche l’assenza degli Schemi Network ,perche’ non esiste nessun altro dominio ,a formare “il numero dei dati”:)Per le Exit Pages , vengono considerate solo le ultime pubblicazioni ,prima di uscire dal dominio e non sono considerate nei dati , ovviamente sempre per i rilevamenti di base. Qui è sistemato il Bounce per la prima pubblicazione delle Exit Pages E’ una posizione fantastica,perche’ essendo il nome del dominio e non avendo la presenza della Homepage,il riferimento dei Bounce delle Exit Pages ,è proprio la pubblicazione che ha i rilevamenti di base precedenti e cioe’ la pagina A+ di questo 75° RF:)Se fossero compresi nei dati ,le Exit Page avrebbero avuto solo 2 Bounce per la pagina A+ di questo 75° RF ,ed è una posizione fantastica ,perche’ la pubblicazione ha quasi 5000 termini effettivi e il dominio che la contiene ,ha pesi degli elementi statici molto elevati e quindi i loading “non sono di sicuro tra i piu’ veloci” e quindi la percentuale dei Bounce è un “complimento fantastico”:)questi sono i codici Javascript Sono 500 indirizzi unici per la Log Quota specifica e naturalmente sono per forza di cose diverse dalla diretta precedente , perche’ è ESSA stessa la protagonista in questi dati ,ed è la pagina A+ di questo 75° RF:) Per i codici Javascript ,esistono complimenti anche maggiori ,perche’ i dati hanno superato tutti i filtri ,ed esistono solo 2 Bounce su 500 indirizzi unici 🙂 Qui esiste un altro codice Javascript ed è quello di TPJ Level Cambia il numero di Projects e anche in questo Caso esiste il NO GROUP ,insieme a tutto il resto e da questa pubblicazione è possibile anche sistemare l’assenza di qualsiasi Schema Network 🙂Esiste poi anche un altra differenza importante ,perche’ il dominio appena sistemato non ha nessun contenuto effettivo ,tranne delle immagini e qualche links:) Per avere valore nei Content occorrono Text effettivi ,sia per i video o le immagini e i grafici e gli eventuali scritti sovrapposti ad essi ,non determinano nessun dato effettivo:)Quindi è possibile affermare che per gli strumenti dei rilevamenti di base ,la Presenza o Meno dei contenuti ,è del tutto indifferente e quindi è ragionevole che esista l’IGNORE anche nei loro confronti:)Analatycs & Analysis Have Zero Value! 🙂 Tra un po’ si comprendera anche meglio il motivo e uno dei protagonisti ,sara’ proprio lo Schema Network e la collocazione nel 75° RF e sopratutto nella 5° Top Page Joy ,serve per i suoi festeggiamenti , perche’ è arrivata dal contesto completamente opposto ,ed è l’Universo dei Valori Reali 🙂A festeggiare la 5° Top Page Joy ,indirettamente,è proprio il TFD Statcounter:) E’ uno snippet meraviglioso per festeggiare la 5° Top Page Joy ,ed è possibile iniziare dal fatto oggettivo e cioe’ è molto difficile trovare il suo livello , anche nei domini in cui sono presenti tantissimi autori:)I codici sistemati sono un esempio e servono proprio per “distingure i contenuti dei domini ” in cui sono presenti tanti autori.Queste posizioni sono presenti anche in tanti altri strumenti dei rilevamenti di base e non considerano l’aspetto piu’ importante , per i domini in cui sono presenti tanti autori (sono in tutte le grandi organizzazioni:) ,ed è la presenza di 1 solo responsabile ,ed è un contesto normale ,perche’ i tantissimi autori sono all’interno di 1 solo dominio ,ed è inevitabile avere sia i Match dei contenuti e quelli degli autori stessi 🙂Quindi i codici dell’esempio sopra ,possono al massimo stabilire chi è piu’ idiota ,perche’ se è presente 1 solo dominio ,è possibile che esista solo 1 rilevanza ,a prescindere dal numero di autori presenti:)Sempre dalle FAQ del TFD Statcounter ,esistono anche questi codici Servono per distinguere i “valori delle headline” e sono gli Headers e gli stessi codici possono anche essere sistemati nei domini con tanti autori:)Ovviamente il “Caro TFD Statcounter” (lo è per affetto:) ,fa’ “il suo onesto lavoro” ,di venditore di servizi , pero’ non ha nessun nesso con i valori effettivi , perche’ gli Headers sono dei Tags anche loro e l’unica qualifica che hanno ,è espressa dall’Ignore the Rest ,presente a MAR 2021.Sono i termini effettivi a formare i valori reali e a monte di qualsiasi tags (Headline o Hedears compresi) ,è importantissimo conoscere anche “l’effettiva originalita’ e naturalita’ dei periodi” e il riferimento ,non è 1 pubblicazione ,ma le proposte complessive di 1 dominio 🙂 Se esistono queste condizioni ,anche le Headline saranno bellissime, a prescindere dalla rilevanza stessa dei termini da cui sono formate:) I simpatici codici ,applicati alle Headline, del TFD Statcounter non possono farlo ,mentre lo hanno fatto quelli della 5° Top Page Joy e per forza di cose sono bellissimi ,perche’ hanno dovuto prima “combattere” con le proposte complessive di 1 solo autore e poi con l’intero contesto globale:) Anche questi codici servono per festeggiare la 5° Top Page Joy:) Derivano sempre dalle FAQ del TFD Statcounter e i codici prodotti , dovrebbero essere utilizzati per vedere i rapporti dei valori ,tra post con dimensioni elevate e quelli con immagini e pochi Text scritti:)In questo Caso, è possibile evitare di sistemare i codici ,perche’ saranno presenti solo dei Thin Content e quindi diventa inutile compararli con le pubblicazioni a maggior dimensione , perche’ nei valori reali sono “eliminati a monte”:)
Tutti i passaggi sistemati ,servono in realta’ “solo come introduzione” ,rispetto alla novita’ dello “Schema Network” e ho scelto di sistemare tutto in questa pubblicazione , perche’ rappresenta il modo piu’ bello per festeggiare la 5° Top Page Joy ,per 1 solo autore , ed è semplicissimo farlo ,perche’ esistono condizioni completamente opposte a qualsiasi schema ,ad iniziare dall’immagine sotto:) Questa posizione esiste da sempre ,ed è diventata protagonista da OCT 2020 ,dopo i numerosi Broken Links presenti e sono servite per dimostrare che in realta’ non esistono ,ma derivano solo dalle non abilitazioni di tanti elementi:) (in pratica tutti:) Nei contenuti successivi si sono invece trasformati in una risorsa importantissima,perche’ forniscono la migliore verifica ai valori reali e sono solo i contenuti effettivi ,semplicemente perche’ non esiste altro:)Queste posizioni sono in qualsiasi piattaforma e non occore conoscerle tutte ,per ipotizzare impostazioni completamente diverse e quella piu’ ragionevole ,riguarda i domini con tanti autori presenti e non è nemmeno immaginabile che abbiano i subdomini non abilitati:) Nelle grandi organizzazioni ,in 1 solo dominio è tutto schema tra gli autori e quindi figurarsi se non esistono anche gli schemi network ,realizzati con i subdomi e per farlo,debbono essere per forza di cose abilitati:) (è sufficente citare il primo social marketing e gli schemi sono descritti anche nelle loro “linee guida” ,addirittura nella sezione Brand del business di facebook:) (è sufficente inserire 3 termini nella casella di ricerca interna e si trovano i text diretti delle loro linee guida e cioe’ sono scritti proprio da loro:) Dopo le OFF PAGE ,esistono alcuni “pensieri sui confini dei domini” e il riferimento sono proprio i subdomain ,naturalmente quelli abilitati:)

Sono fantastici i contenuti del TFD Microsoft Bing ,perche’ non esistono equivoci 🙂Per i confini dei “domini ingannevoli” , si ha subito la violazione e non esiste alternativa ad essa ,perche’ le operazioni sono fatte proprio per ingannare gli Engines:)La pubblicazione specifica di Microsoft Bing ha dimensioni notevoli e ho sistemato solo i passaggi piu’ importanti e per unirli alla pagina A+ di questo 75° RF ,è sufficente citare solo il periodo dedicato a TRUE ETHICS DATA GENERAL (è l’immagine per festeggiare i 3,47 Milions di termini effettivi:) ,ed è molto facile ,perche’ il termine ETHIC non è mai nominato ,semplicemente non hanno nessuna fiducia nell’onesta’ degli utenti:)Per risolvere i confini ingannevoli dei domini ,è sufficente non abilitare i subdomini ,ed esiste la sicurezza di non violare nessun Schema Network:) Ovviamente se si è onesti davvero,resta il problema per i valori dei contenuti e per risolverli esiste 1 sola possibilita’ : ELEVATE IT e cioe’ “occorre fare contenuti migliori”!:) Gli schemi tra autori e network non risolvono assolutamente nulla,perche’ non creano nessun valore e spesso si “autoelidono a vicenda” ,prima di compiere le violazioni stesse e proprio da un contesto simile è nato il Run by Idiots:)

Questa è la posizione delle violazioni delle General Guidelines per Microsoft Bing e il link building ,rappresenta la prima unione anche per gli Schemi Network ,perche’ i “confini ingannevoli dei domini” ,hanno proprio questa finalita’:)Non esiste nessun riferimento all’ETICA e visto il contesto ,potrebbe sembrare una battuta ,mentre in realta’ esiste davvero e i suoi contenuti sono all’interno di FEB 2020 (il collegamento è all’inizio dello spazio) .Comunque ,indirettamente ,una posizione ETICA legittima esiste lo stesso ,ed è sufficente solo la parte evidenziata,per averla:)Sarebbe sufficente vedere “links costruiti in maniera organica” e per Google ,sarebbe sufficente che esistessero “Natural Links” e a queste condizioni ,esisterebbe l’ETICA:)La difficolta’ di queste “operazioni etiche”,deriva dal fatto che sarebbe difficilissimo trovare poi “operatori del link building” ,ad iniziare dal contesto effettivo,sistemato sotto:)

Le vere posizioni del link building arrivano subito e addio all’ETICA:)I link reciproci rappresentano lo scopo piu’ semplice e sono complementari in tutto anche agli Schemi Network ,ed esiste anche la sicurezza “sui confini ingannevoli dei domini” come violazione (sono i subdomain ,rigorosamente ABILITATI:) ,perche’ hanno la stessa funzione dei Reciprocal Links:)Per i Buying Links occorre solo citare la posizione netta,rispetto al link building ,insieme all’altro contesto sotto:)

questa è la posizione piu’ bella per festeggiare la 5° Top Page Joy:)A parte “la scontata violazione” del Links farm o Likes farm ,l’evidenza di colore blu ,rappresenta la migliore unione con i termini dedicati alla 5° Top Page Joy:)

Il termine GOAL è unito all’evidenza diretta delle General Guidelines di Google e a quella di Microsft Bing ,ed è meravigliosa,per la posizione stessa che ha: il link deriva dalla pagina dei nuovi “Schemi Netowork” ,associati ai subdomain e il collegamento è con il Link Building 🙂 Questa è la sezione della posizione precedente ,ed è un Gran GOAL:)La sua traduzione pratica ,si trasforma in “una sublime presa per il culo” e inizia dalla collocazione stessa nella pagina dei link building ,all’interno delle General Guidelines di Microsoft Bing 🙂Per creare il “links build” è “sufficente produrre contenuti unici” e ovviamente coloro che pensano di fare “link building” ,non li possiedono ,altrimenti non lo farebbero e coloro che hanno contenuti unici e domini di valore ,non “ci pensano nemmeno di fare le cazzate del link building”.E’ davvero un Gran GOAL ,ed è la festa piu’ bella per la 5° Top Page Joy per 1 solo autore effettivo ,perche’ i suoi dati sono nati dal GOAL di Google e da quello di Microsoft Bing 🙂Avevo in mente di unire il termine a tanti altri spazi ,seguendo il metodo dei Brain Stone ,attraverso la collocazione che hanno fatto tanti domini ,rispetto al termine GOAL e naturalmente il riferimento è sempre il contesto tecnico online,applicato a qualsiasi categoria del web.Lo faro’ in altre pubblicazioni ,perche’ esistono ancora altri contenuti da sistemare e i migliori che seguiranno, rappresentano un altro regalo del TFD Microsoft Bing ,rispetto a qualsiasi pubblicazione individuale e tra un po’ si comprendera’ bene, perche’ il numero delle pubblicazioni nel suo INDEX ,sono quasi uguali a quelle presenti nell’intero dominio individuale:)Solo per fare un calcolo approssimativo,rispetto a questo 75° RF ,per fare i Run Forever a tutte le altre pubblicazioni individuali ,servirebbero oltre 100 anni ,perche’ l’INDEX dei contenuti individuali ,nel database di Microsoft Bing è formato da 1200 pubblicazioni esatte ,solo per questo dominio e ovviamente , prima di tuto l’elenco delle violazioni dei passaggi precedenti , esistono le unicita’ interne al dominio e senza di esse ,non sarebbe possibile nemmeno arrivare alle violazioni ,perche’ i contenuti sono eliminati prima di arrivarci:)Queste posizioni sarebbero gia’ fantastiche e ho sistemato solo una parte delle selezioni ,perche’ quelle che sono arrivate dopo sono assolutamente straordinarie a iniziare dalle infinite unioni che possiede!:)

La piu’ grande difficolta’ consiste nel descrivere le tantissime unioni che hanno i dati sopra:)Cerchero’ di seguire un percorso logico nella descrizione e il primo è il piu’ ovvio , perche’ i dati sistemati,arrivano dopo tutti i passaggi precedenti e insieme ad essi esistono anche i contenuti interni del dominio e se avessero Match elevati,non esisterebbero 1200 pubblicazioni esatte nell’INDEX di Microsoft Bing:)E’ la piu’ bella verifica,rispetto ai dati della medesima,perche’ nel Caso individuale è possibile affermare che i Content sono davvero originali e naturali ; non esiste nessuna violazione di Copyright ; è presente Qualita’ e Quantita’,insieme al dato delle proposte complessive dei Main Content.Nelle verifiche interne,queste posizioni non si conoscono e tantomeno sono noti i collegamenti esterni dei domini verso altri spazi e quindi,non è possibile sapere se i dati interni dei domini sono reali , perche’ è molto facile “essere all’interno di schemi” anche per autori onesti e quindi figurarsi che valore dei dati possono avere “gli autori disonesti diretti” 🙂 Chi opera attraverso tutti i passaggi del link building ,non puo farlo “in maniera casuale e inconsapevole”,perche’ sono tantissime le operazioni da compiere e possono essere fatte solo dagli operatori dei singoli domini o in complicita’ con i loro ottimizzatori la disonesta è diretta,oltre all’imbecillita’ totale:) Quest’immagine è presente in tanti RF ,ed è meravigliosa da unire al Gran GOAL di Microsoft Bing:) Se gli utenti ,vogliono proprio operare attraverso il “build links” è sufficente che abbiano “contenuti unici” e ovviamente è solo “una presa per il culo” ,rispetto ai presuntuosi webmasters del link building:)Se pensano “di risparmiare tempo” nel creare i valori dei contenuti ,attraverso “le scorciatoie” del Link Farms o Likes Farm e da questa pubblicazione è possibile aggiungere anche gli “schemi network” , i presuntuosi webmasters, possono essere ampliamente rassicurati che “lo scorciatoie piu’ veloci” ,non appartengono assolutamente a loro:) Questa posizione esiste da anni e la versione originale “delle scorciatoie piu’ veloci” ,prevedeva semplicemente le violazioni descritte e sono molto facili da evidenziare , perche’ quasi sempre esistono “anche abusi colossali” ,attraverso numeri incredibili di schemi ,all’interno di 1 solo dominio (sono i like farms:) .

Le scorciatoie piu’ veloci hanno anche un nuovo “devastante impatto” e sono i prelievi stessi dei contenuti:)Non è possibile nemmeno fare comparazioni ,ed è sistemata solo l’operativita’ migliore possibile (l’Hugging Face 🙂 ,ed è gia’ elevatissima di suo (3,3 MB al secondo) ,mentre il Bling Fire arriva a 15,3 MB e quindi non esiste nessuna possibilita’ “per i presuntuosi webmastres” di “essere piu’ veloci nella furbizia”, perche’ esiste la certezza matematica ,che appartengono solo all’IGNORE IDIOTS:) (semplicemente ignorano di essere imbecilli:)

Dopo tutti i passaggi sistemati ,questa è una posizione fantastica ,perche’ nasce dal Gran Goal di Microsoft Bing e l’inizio è proprio FEB 2015 ,con 10 pubblicazioni negli INDEX e tra di esse ,esiste anche la prima in assoluto ,presente nel 5° dominio e naturalmente la data è FEB 14 2015:)la posizione è quiL’evidenza migliore è la barra di scorrimento laterale e sara’ molto utile per calcolare le altre presenze che sistemero’ tra un po’:) A FEB 2015 esistono 10 pubblicazioni presenti ,negli INDEX del 2021 e il contesto temporale online ,è completamente diverso rispetto a quello tradizionale (l’equivalenza è 300 anni:) ,ed è una posizione molto importante,perche’ i contenuti debbono essere anche attuali 🙂La prima pubblicazione del 5° dominio è quiE’ meraviglioso anche il nome scelto allora ,perche’ è formato dai termini che pensavo di aver selezionato per il 5° dominio:)Quello assente (DIN) è arrivato ,perche’ gli altri termini erano “gia’ occupati da altri domini” e naturalmente quando l’ho scelto ,non sapevo assolutamente quanto fosse rilevante ,insieme agli altri 2:)Tutte le altre combinazioni dei termini simili ,sommate insieme ,non arrivano a 1/6 della rilevanza del solo DIN e gli altri 2 ,sono due volte maggiori ,rispetto al DIN:)I nomi derivano dalla piattaforma dinamica presente nel 2015 ,ed è molto probabile che gli altri spazi che hanno scelto i termini ,lo hanno fatto per lo stesso motivo ,pero’ anche gli operatori di 6 anni fa’ ,come me , non conoscevano i valori dei termini e hanno scelto i meno rilevanti:)La migliore evidenza è proprio il nome della prima pubblicazione del 5° dominio ,perche’ nemmeno io avevo la conoscenza dei termini che avevo scelto:)Tutti i passaggi appena sistemati, servono per introdurre l’incredibile MAR 2015Per la prima pubblicazione del 5° dominio individuale ,ha dovuto aspettare solo 1 mese ,per avere dei Match incredibili nelle dimensioni dei contenuti ,perche’ MAR 2015 ha 46 INDEX in 1 solo mese e naturalmente i dati sono quelli attuali dell’anno 2021 e quindi,esiste una notevole sicurezza che tanti termini sono stati anche eliminati nei Match all’interno di 1 solo dominio:)Questo è sempre MAR 2015 ,pero’ con la barra di scorrimento per le pubblicazioni presenti E’ facile il rapporto solo con il mese precedente (10 contro 46:) e questi dati saranno anche utili per i prossimi passaggi ,perche’ esistono tante altre posizioni simili a MAR 2015:)Questi dati rendono anche fantastiche le verifiche interne dei domini,perche’ solo il 2015 ha un range di selezione incredibile e l’aspetto straordinario deriva dal fatto che i dati che sto’ sistemando rigurdano solo le pubblicazioni in INDEX ,non nel loro percorso storico ,ma rispetto all’attualita’ dell’anno 2021 e tra un po’ sistemero’ degli esempi concreti:)

questo è un esempio diretto e oggettivo:)E’ il mese di APR 2015 e al suo interno esiste anche la 3° Comparazione Generale e il suo piu’ recente INDEX è JAN 18 2021:) L’INDEX della 3° Comparazione Generale è in MAR 2021 Naturalmente il riferimento temporale è sempre la data di questa pubblicazione e la stessa posizione è uguale per tutti gli altri contenuti in INDEX:) Questo è un altro incredibile dato di APR 2015Insieme alla 3° Comparazione Generale ,ad APR 2015 sono presenti 53 pubblicazioni in INDEX e anche Loro sono attuali 🙂Ovviamente ,per essere presenti in questa posizione ,le singole pubblicazioni non possono essere dei Thin Content ,ma debbono tutte avere delle dimensioni adeguate e naturalmente , non è possibile che esista nulla ,unito ai link building e agli schemi network:)Il contesto piu’ straordinario è il Taken Din Colors Five ,perche’ alla fine di APR 2015 esistevano gia’ 106 pubblicazioni e il riferimento sono solo quelle in INDEX:)In questa posizione esiste un balzo notevole ,ed è DEC 2015Tra le pubblicazioni di DEC 2015 esiste anche TD Search Story 2, ed avra’ un altra unione fantastica e sara’ quella delle Data Priority:)Tra un po’ sistemero’ l’unione generale e iniziera’ proprio da questi report ,per la posizione specifica di Microsoft Bing all’interno della prima Data Priority e l’unione piu’ importante avverra’ attraverso il suo Powered,tramite un altra fantastica novita’ arrivata grazie al 75° RF e alla 5° Top Page Joy:)Lo sistemero’ tra un po’ ,mentre adesso inserisco l’evidenza piu’ importante ,ed è l’index di TD Search Story 2è sistemato qui ,ed è la cache di Microsoft Bing ,ed è facile verificare che esiste la stessa data dell’index rispetto a quella sistemata nello snippet:)Naturalmente il riferimento è sempre la data di questa pubblicazione e poi potranno essere diverse in futuro ,ovviamente se esistera’ un altro INDEX e per essere presente ,non dovranno essere eliminati i termini ,attraverso i Match con le altre pubblicazioni del dominio (potrebbe essere anche quella che sto scrivendo:) e nello stesso tempo dovra’ anche avere l’unicita’ globale dei suoi periodi ,per permettere l’esistenza del prossimo Index di TD Search Story 2:) (ovviamente non debbono essere presenti nemmeno tutte le violazioni elencate nei passaggi precedenti:)Tornando al mese di DEC 2015 ,insieme a TD Search Story 2 ,complessivamente sono presenti 47 pubblicazioni in Index:)Quindi ,solo attraverso 4 mesi del 2015 ,sono presenti 153 pubblicazioni e questo fornisce anche la misura di cosa siano le selezioni delle verifiche interne ai domini ,perche’ la scelta è sempre autonoma dello strumento,tranne nella sua versione premium,perche’ si possono selezionare delle pubblicazioni da comparare con le altre.Ovviamente le verifiche interne le fanno anche gli Engines per ovvie ragioni e sono molto diverse rispetto “al normale strumento delle verifiche”,perche’ la conoscenza è piena ,ad iniziare dall’originalita’ reale dei singoli periodi che compongono le pubblicazioni (ognuno di essi ha 3 codici applicati) e quindi la differenza è notevole : nello strumento delle verifiche è possibile che siano presenti pubblicazioni senza valore reale ,mentre negli Engines è impossibile che accada ,perche’ tutte le pubblicazioni presenti hanno gia’ gli Index e quindi hanno tutti i Match interni ai domini in cui sono sistemate e contemporaneamente esistono anche quelli del contesto globale:)Solo per TD Search Story 2 ,significa aver avuto dai 25 ai 30 Match globali ,insieme a quelli interni al dominio e per i dati della pagina A+ di questo 75° RF,significa aver avuto Match con altri 3,47 Milions e al termine di questa pubblicazione i 3,48 Milions saranno molto vicini:)Ovviamente la stessa posizione dei Match globali è valida per tutte le altre pubblicazioni del 2015 e quelle degli anni successivi:)Qui è sistemato un altro mese ,ed è JUN 2016Sono 41 le pubblicazioni presenti negli INDEX attuali di Microsoft Bing e quelli di Google sono molto simili,a parte le posizioni dei Canonical,anche rispetto ad altri links.Ho scelto questo mese del 2016 ,perche’ esiste anche l’unione con una Top Page Joy ,ed è quella di Security Online ,felicissima del fatto che esiste la 5° Top Page Joy di GOAL DATA:) Qui sono presenti gli Index di APR 2017Anch’essi festeggiano GOAL DATA ,attraverso la presenza di un altra Top Page Joy ,ed è la 5° RF Solemn:)Le pubblicazioni presenti per il mese specifico del 2017 sono 21 e sommate agli altri mesi sistemati ,solo come esempio, da soli formano 218 pubblicazioni e sono “solo 6 mesi” e producono da soli un volume,pari alle dimensioni di 1 verifica sull’unicita’ interna dei contenuti di 1 dominio:).La differenza piu’ straodinaria deriva dal fatto che i dati sistemati appartengono solo agli INDEX per 1 solo autore ,senza nessun Text che derivi da commenti:)

Adesso iniziano le descrizioni fantastiche e permetteranno l’unione generale:)Inizia dal dato sopra per gli Index generali e non ha nulla in comune con i “rilevamenti base”,per i motivi opposti,rispetto ai suoi dati “da azzeccacarbugli informatici”:)Figurarsi se i rilevamenti di base possono anche conoscere “i confini ingannevoli dei domini” e tutti gli altri schemi dei link building ,ed occorre bypassare i contenuti oggettivi,perche’ non conoscono come sono nati e ancora meno conoscono se hanno “avuto modifiche”:)Quindi esistono differenze totali rispetto ai valori reali e questa è solo una posizione oggettiva e poi occorre aggiungere il contesto specifico degli Index complessivi sistemati sopra (1200 esatti:) e non è possibile sintetizzarli solo “con l’esempio dei 6 mesi inseriti”:) Per comprendere i valori reali dei termini effettivi presenti in 1200 INDEX ,le migliori posizioni sono quelle dei Just Time,attraverso l’alta rilevanza dei loro termini e rappresentano la qualifica migliore per quelli che li contengono:)Qualsiasi periodo presente in 1200 pubblicazioni ,avrebbe potuto eliminare gli altri e non ci sarebbe stata nessuna possibilita’ per la presenza delle alte rilevanze ,perche’ da sole,non determinano assolutamente nulla:)E’ sufficente vedere quanti Sono e Quali Sono i termini ad alta rilevanza,con tutte le Close Variants applicate e unirli al dato degli Index ,per comprendere quali sono i contesti reali del report di Microsoft Bing:) Gli strumenti piu’ sofisticati dei rilevamenti di base,nemmeno ad anni luce ,possono avere report simili,perche’ non è sufficente contare i dati ,ma “occorre anche pesarli”:)I numeri dei rilevamenti di base,quasi sempre, sono equivalenti al “peso dell’aria fritta” ,mentre quelli degli Engines ,per ciascun dato ,esiste il peso di 1 elefante e l’aspetto fantastico deriva dal fatto che il rapporto delle equivalenze non è una battuta ,perche’ rappresenta dati pertinentissimi! 🙂

Sara’ quest’immagine a creare l’unione generale ,rispetto a qualsiasi dato:)Nei passaggi precedenti ho citato il primo Data Priority e la protagonista è stata Microsoft Bing e il riferimento è al suo Powered ,insieme ai tanti Engines ,che si “Ispirano ai dati delle sue API”:)Il motivo della collocazione è molto semplice, perche’ il Powered di Microsoft Bing,determina il livello del suo Market Share e solo per citare qualche Engines,Ispirato dai dati di Microsoft ,esiste Qwant.com ; Duck Duck Go ;Ecosia e tanti altri.Uno curioso lo sistemero’ tra un po’ e ho bypassato “l’Engine ufficiale”,unito al Powered di Microsoft Bing ,perche’ rappresenta dopo tanti anni,la novita’ risptto ai reports appena sistemati:) L’immagine appartiene a una pubblicazione di DEC 2019 Ne esistono tante altre simili e nella pubblicazione originale sono sistemate anche tante keywords presenti anche attualmente.Attraverso la ricerca interna del dominio è possibile digitare “Combinazioni Dati Yahoo O Bing” e si hanno tante altre pubblicazioni ,con altri dati ,sempre in combinazione.La novita’ è proprio questa,perche’ non esistono piu’ le combinazioni dei dati sul powered di Microsoft Bing con Yahoo e questa posizione amplifica notevolmente i report sistemati in Data Priority e naturalmente amplifica anche quelli dei contenuti individuali.Occorre sempre ricordare che i dati di Yahoo ,sono assai maggiori rispetto all’Engine Baidu e non ha una nazione come la Cina “a sostenerla integralmente”:) Sempre dalla pubblicazione di DEC 2019 deriva anche quest’immagineA differenza della combinazione dati ,la posizione sopra resta invece valida,ed è l’iscrizione del dominio,nel webmaster di Microsoft Bing .Sono descritte anche le operazioni da fare,attraverso varie opzioni e la piu’ frequebte è il download di 1 file xml e successivamente occorre fare l’upload sul proprio dominio e verificare i codici sul webmaster di Microsoft Bing.Anche per Google Search Console esistono le stesse operazioni e i codici prodotti non si possono modificare e tantomeno rimuovere successivamente e da essi derivano i dati appena sistemati. Questa è la sezione precedente e ho evidenziato il TLD .IT ,semplicemente perche’ esistono anche i suoi reports e sono separati da quelli sistemati ,insieme a quelli del dominio AV e quindi non esiste nessuno schema,nemmeno all’interno di 1 solo dominio:) Se fosse l’opposto,non esisterebbe nemmeno 1 dato e sono facilissimi da verificare e non servono gli oceani di tools presenti in tutto il web ,perche’ l’unico Servizio reale è solo quello degli Engines e a differenza di tanti tools idioti,è anche GRATUITO:) Anche i tool piu’ sofisticati,servono in realta’ “solo per una approssimativa conoscenza”,perche’ l’Ostacolo piu’ Elevato,è rappresentato dall’unione dei dati e nessun tool è capace di farlo e per questo gli Engines vincono sempre:)A questo è possibile aggiungere anche i valori reali dei dati (tutti gli elementi del Natural Contest) e “la conoscenza approssimativa” di tanti tool,si trasforma in totale imbecillita’:) (è sufficente solo vedere lo sterminato numero di tools applicati ai backlinks ,per comprendere il livello dell’idiozia e inizia dal fatto che l’originalita’ dei contenuti,non è quasi mai nemmeno nominata:) qui è sistemata la registrazione del TLD .IT inserito nella sezione sopra E’ avvenuta a MAR 2016 e la posizione del TLD .COM è precedente di alcuni mesi e solo attraverso questi codici o quelli di AV,derivano i reports:) https://dinpoststory.blogspot.it/2015/12/td-search-story-2.html https://dinpoststory.blogspot.com/2015/12/td-search-story-2.html I links sistemati sono un esempio,pero’ i collegamenti sono reali:il primo ha il TLD .IT e il secondo .COM e solo queste 2 posizioni,potranno essere inserite nei Reports e la stessa cosa avviene per Google Search Console.La pubblicazione collegata è TD Search Story 2 ,ed è valida anche con il TLD .IT ,ed è sufficente che esistano i suoi codici e poi ci sara’ il redirect,nel TLD .COM e questa posizione puo essere valida per qualsiasi TLD e l’unica differenza deriva dal fatto che non esistera’ nessun reports, semplicemente perche’ i codici non sono presenti:)Per tutti i contenuti scritti in 6 anni ,questo contesto è superiore al “settimo cielo”,perche’ avevo scelto Microsoft Bing come comparazione nei Data Priority per le sue posizioni specifiche ,unite al suo Powered e il motivo era unito alla “Priorita’ Vera” e sono i Dati Stessi e il riferimento è al contesto digitale italiano,unito quasi esclusivamente solo al social marketing:)Il contesto di Microsoft Bing ,unito anche alla Apple era gia’ perfetto per Data Priority,perche’ la somma del suo Powered ,tramite anche gli altri Engines,oscilla dal 4 al 5% del Market Share e chi pensa di fare meglio del TFD Microsoft,nella migliore delle ipotesi,ha solo sassi nel cervello e da questo contesto è facile quantificare anche il valore del primo Engine e da quest’insieme,diventa facile anche qualificare la Vera priorita’ per il contesto italiano,unito al Recovery Plan di EU e sono i Dati Veri:) Se le Priorita’ digitali saranno unite al social marketing, esisteranno solo dati falsi,ad iniziare dalle verifiche del Fact Check Poynter per il servizio Business di facebook e quindi dei social marketing:)La posizione ufficiale è proprio nella pagina del business “della grande organizzazione facebook” e i suoi presunti valori ,derivano da soli schemi e non è un ingiuria,perche’ il metodo fa’ parte proprio delle loro linee guida:) Questo è “un consiglio operativo per Poynter” e per tutti gli altri Fact Check,fuori ordinanza e cioe’ occorre conoscere prima i contenuti reali e poi occorre conoscere altrettanto bene,il contesto in cui sono realizzati e sviluppati e la stessa posizione puo essere unita ai data priority e il metodo è uguale:) I Fact Check di Microsoft Bing,esistono da SEP 2017 (è la stessa data di Google:) e naturalmente sono anche nei reports individuali per il TLD .COM e non occorre che le pubblicazioni abbiano la data originale,superiore a SEP 2017,perche’ sono coinvolte anche quelle dell’anno 2015 e 2016 ,semplicemente perche’ tutti gli INDEX possono essere solo attuali e quindi nei Reports esistono solo Fatti Veri:)Tra l’altro sono tutti dedicati al contesto tecnico online e sono oggettivamente i piu’ difficili da sistemare,perche’ non esiste nessun altra categoria che abbia la stessa velocita’ negli sviluppi e a questo occorre aggiungere anche la posizione individuale ,perche’ non ho mai seguito “nessuna idea di seo”, ma ho espresso solo quelle personali:) Anche questa posizione è fantastica,ed è nelle prime posizioni del dominio ufficiale di Microsoft Bing,ed èunita al termine GOAL:)La pubblicazione è dell’anno 2014,ed è sufficente il nome perunire anche questi contenuti:)Is SEO the Future? NO e spiegano i motivi e grazie alla fortuna,sono gia’ sistemati nei passaggi precedenti e derivano solo da mie idee ,perche’ questa posizione è arrivata solo grazie alla curiosita’ e non sapevo nemmeno che esistesse:)La ricerca è nata dal termine GOAL e per comprendere il valore effettivo dei seo,è sufficente sistemare il GRAN GOAL “del link built” ,ed è solo quello dei contenuti unici:)Se i seo sono capaci di creare contenuti originali e in maniera naturale,allora avranno valore ,pero’è oggettivamente difficile farlo e ancora peggio “è vendere il servizio”:) Non si puo essere specializzati in tutto e quindi è inevitabile ripetere dei contenuti e di conseguenza è molto difficile creare valore e poi venderlo a chiunque!:) Questo è un altro degli Engines uniti al Powered della Microsoft e sono sistemate un numero incredibile di agenzie USA e a loro volta hanno anche altri domini uniti allo stesso powered.Sara’ nei Just Time per i suoi Honors Tour e in questa posizione,diventa fantastico il contesto storico della Microsoft stessa,perche’ hanno sempre cercato di dividerla,nella stessa nazione in cui è nata:)Sono storiche le dichiarazioni di Bill Gates al congresso USA,per perorare la causa della Non Divisione di Microsoft ,mentre nelle nazioni concorrenti è avvenuto esattamente l’opposto:) La Cina e EU hanno largamente finanziato “le loro creazioni” ed è una peggio dell’altra e le uniche soluzioni che hanno trovato,sono gli attacchi informatici della Cina e le sanzioni per le posizioni dominanti,da EU:)Hanno il 12% degli utenti globali a EU e il 16% nel contesto Europeo e la Cina ha il 52% della macroregione asiatica e a sua volta rappresenta lameta’ del web globale.Gli USA hanno il 7% degli utenti,compresa una nazione come il Canada e unendo piccole isole,formano la macroregione del North America:)Quindi è normale che sia il Natural Brain l’elemento piu’ importante in assoluto:) questa è l’evidenza del Powered per le agenzie USA e anche loro fomano i dati complessivi per Microsoft Bing:)Da questo contesto è nata la 5° Top Page Joy e non potrebbe essere diversamente,perche’ senza saperlo,ha seguito solo il Gran Goal:)Altre posizioni saranno ad APR 2021 e al suo interno ci saranno anche i dati anticipati nella pagina A+ e rigurdano i pesi in backup del dominio individuale,comparati con alcuni altri file in xml e tra di essi ne ho scelto uno curioso,ed è la Bibbia tradotta in lingua Cebuana,ed ha il peso maggiore rispetto a tutte le altre e naturalmente,possiede anche le dimensioni maggiori:la Bibbia in lingua Cebuana ha superato i 900000 termini e nemmeno la lingua inglese ,per la stessa versione della Bibbia è a questo livello (è poco maggiore di 800000) e la versione italiana è anche notevolmente minore (720000 termini effettivi).Per avere questi dati ,la versione in lingua Cebuana della Bibbia,in file xml raggiunge 6,2 MB e rappresentano solo i Text scritti.Esclusa questa pubblicazione e la precedente,il file xml di questo dominio è formato da 30,690 MB,ed è la posizione piu’ bella per accogliere la 5° Top Page Joy:)
Posted in Key Page Unit, TD Space Content
Long Goal Data 8D RF 5 A+ 🎉
Posted on April 30, 2021 by Din Story AV
Il nome scelto per il 75° RF , deriva da tante unioni e saranno all’interno delle 2 pubblicazioni dedicate, ed è sicuro che faranno parte anche delle successive:)
La prima unione,deriva dall’inizio dei contenuti stessi della pubblicazione originale di DEC 2016 e li descrivero’ nella pagina A e in questa posizione posso anticipare che sono davvero fantastici e il motivo riguarda le descrizioni dedicate al Knowledge Graph. Quest’immagine è successiva ai contenuti individuali ,mentre la sua esistenza oggettiva è precedente (2012:) ,ed è sufficente la sintesi dei suoi contenuti, per rendere semplice comprendere il contesto:)
Things not Strings è una sintesi perfetta e l’unione con i contenuti di DEC 2016 ,deriva “dalla qualifica stessa del Knowledge Graph” , ed è descritto come “Top Killing” dei Top Rating e le ragioni sono nei contenuti originali di DEC 2016 e indirettamente sono inseriti anche nell’immagine sopra:) Occorrono i pensieri reali nei contenuti e la “presenza di sole strings” ,realizzate in maniera artificiale ,per avere posizioni nei Ratings,sono difficilissime da rendere compatibili con l’operativita’ del Knowledge Graph stesso:)
Il grafico della conoscenza,rende possibile unire tante altre indicazioni rispetto alle singole query digitate dagli utenti e per rendere possibile queste operazioni “occorre conoscere i Fatti Veri” e l’unica possibilita’ per unire l’insieme deriva dai “pensieri reali” (Things:) e sono completamente escluse “le forme artificiali ” nella creazione dei contenuti (questo è il senso reale di Strings:) .
Il motivo di questa scelta non deriva “da nessuna forma di deontologia” unita a “fantomatiche etiche” ,applicate al contesto online ,ma ha un origine semplicissima ,ed è la PERTINENZA dei DATI e quindi è presente la ragione sociale stessa degli Engines e la “finalizzazione di tutte le operazioni” si traduce nel termine “GOAL”:).
Questa descrizione ,rappresenta l’inizio della pubblicazione protagonista del 75° RF e insieme alla sua data originale effettiva (DEC 4 2016) , è possibile unire anche i contenuti attuali ,ad iniziare dalla pubblicazione precedente Ignore Contest General Facts Data
I fact Check sono nati ufficialmente nell’anno 2017 e derivano direttamente dai dati del Knowledge Graph ,ed hanno la stessa posizione operativa ,proprio in senso letterale:)
La sintesi di “Things not Strings” ,ha come unico riferimento “la Migliore Comprensione di tutti i Tempi” e a sua volta è unita alle Strutture data e al loro interno sono presenti anche i Fact Check e il motivo della posizione, è identico a quello del Knowledge Graph ,ed è quello della pertinenza dei dati:)
La divisione degli RF , è proprio perfetta per unire il passaggio appena sistemato,in maniera completa,ad iniziare dal Time Sensitive Content ,perche’ grazie alla pubblicazione collegata,esiste quella del 75° RF:) Nella pagina A sistemero’ altri dati e unioni,mentre in questa posizione,inserisco il dato piu’ felice ,perche’ è arrivata la 5° Top Page Joy:)
Non avevo pensato a questa posizione per il 75° RF ,perche’ non conoscevo i dati e le prime indicazioni sono arrivate grazie al “Time Sensitive Content” e la protagonista del 75° RF si è trovata al suo interno “quasi per Caso” 🙂Il motivo era unito ai contenuti prresenti negli altri domini individuali e tramite UNO di essi ,è arrivata la 5° Top Page Joy:) Questo è il Canonical della pubblicazione del 75° RF e cioe’ i contenuti appartengono proprio allo spazio indicato:) La prima a festeggiare Long Goal Data ,5° Top Page Joy ,è la Casa Madre delle verifiche interne ai domini e non esiste nessun dubbio che sia la Numero Uno ,nel settore dei Copied:) E’ l’unico Caso in cui il “No Result Found” ha un aspetto positivo,ed è quello descritto nell’immagine:) Non risultano Copied e lo strumento , tramite i suoi sofisticati algoritmi (nel Caso di Copyscape è un Fatto Vero:) ,cerca contenuti simili solo negli INDEX , ed è una posizione di ragionevole intelligenza ,perche’ è inutile cercare contenuti ,non presenti negli INDEX:)Sembra una battuta ,mentre in realta è molto facile trovare l’opposto , insieme al passaggio successivo di Copyscape:)Non sono presi in considerazione i “few features” e sono i Thin Content e cioe’ dove non esiste la Quantita’ dei contenuti stessi e quindi è possibile bypassare tutti gli “articoli instantanei di facebook” ,perche’ sono formati solo da bassa Quantita e altrettanta qualita’:) Un esempio delle operativita’ opposte ,sono nel pricing di Alexa:) E’ sufficente aprire l’evidenza di “Content Exploration” e si comprende facilmente ,perche’ Alexa possiede l’Ignore meno invidiato in assoluto:) (è l’unico dominio sistemato nelle General Guidelines ,espressamente unito a IGNORE 🙂L’aspetto interessante deriva dal fatto che l’operativita’ di Alexa è unita a dei codici e quindi l’unico interesse ,è fornito dai dati sul numero d’imbecilli ,ed è l’unico dato reale:)(è sufficente aprire content exploration ,unirlo ai costi e ai codici prodotti e sara’ semplice verificare che non esiste alternativa all’idiozia totale:) Non esiste nessun dubbio che questo sia un altro Universo rispetto ai dati veri e iniziano dalla semplice logica, completamente opposta ai “content exploration di Alexa”:)Si cercano i contenuti in Index e vengono eliminati i Thin Content e quindi è semplice dedurre che l’algoritmo piu’ sofisticato, è sempre il NATURAL BRAIN:) Per la 5° Top Page Joy ,esiste anche un festeggiamento supplementare:) Nel percorso per arrivare a 3,5 Milions di termini effettivi ,ho scelto di festeggiare anche i passaggi dei 10000 e nel link sopra è sistemato il numero dei termini scritti fino al passaggio precedente . Sono 869 termini e per arrivare a 3,47 Milions ne occorrevano 461:) E’ stata una scelta fantastica e alcuni motivi sono nei termini Overall Ethics:) Faranno parte dei contenuti delle prossime pubblicazioni e in questa posizione ,il dato sopra serve per festeggiare la 5° Top Page Joy e tutte le altre pubblicazioni ,per il motivo piu’ semplice,perche’ il dato rappreesenta il vero contesto dei Match stessi e il riferimento è solo ai contenuti interni ,in 1 dominio:)Dal dato sopra derivano i valori degli RF e dei Just Time, ed è talmente elevato da rendere facile l’esclusione a vicenda dei contenuti , molto prima di arrivare al contesto globale:) La stessa posizione l’avra’ il 3,48 Milions di termini e in pratica la scalata è gia’ iniziata e per festeggiarli mi è venuta in mente ,un contesto semplice , pero’ i dati che ha restituito sono fantastici:) L’idea è iniziata dai contenuti dell’immagine e in questa posizione descrivo solo le evidenze e sono proprio loro ad essere fantastiche ,perche’ i dati complessivi del Taken Din Colors Five ,non hanno nessun commento ,da FEB 2015 ,semplicemente perche’ non sono abilitati:)Per curiosita’ qui sono sistemati gli unici 2 video del dominioE’ una posizione importante ,perche’ nel backup non sono compresi i loro pesi ,ed esiste solo il testo effettivo ,formato da Post e Pagine interne e i commenti ,se fossero stati presenti:)Le possibili unioni sono infinite ,perche’ sono presenti in quasi tutti i domini e fanno parte dei contenuti stessi:)L’unione con il dato del Taken Din Colors Five è semplice ,perche’ è formato da 1 solo autore effettivo ,mentre nei contenuti in cui sono presenti i commenti ,esistono tanti autori ,ed è molto piu’ semplice “diversificare i testi” e quindi avere anche meno conflitti tra i contenuti stessi:)La stessa posizione è sistemata in quasi tutte le Opere Top,sostituendo ai commenti le note e posso anticipare che esistono collocazioni davvero interessanti e la piu’ curiosa è la traduzione della Bibbia in lingua Cebuana:)La sistemero’ nella pagina A del 75° RF e queste posizioni saranno utilissime per creare il miglior contesto ai dati stessi del 75° RF e di tutti gli altri e nello stesso tempo,diventa anche il modo migliore per festeggiare la 5° Top Page Joy, perche’ è difficilissimo avere gia’ “i rapporti giusti dei termini” e ancora peggio sono poi i conflitti all’interno di 1 solo dominio ,perche’ i contenuti sono effettivamente di 1 solo autore e naturalmente , per avere le Top Page Joy,occorre anche possedere l’unicita’ globale,attraverso il numero dei suoi termini e solo dopo questo “proibitivo passaggio” arriva l’INDEX:) E’ sufficente l’evidenza dei commenti in Hide “per la loro localizzazione fisica nello spazio”,a non permettere nessuna presenza di TEXT ,diversi da quelli dell’autore specifico.Essendo i commenti in Hide,non serve nemmeno avere l’account di Google,perche’ non esiste nessuno spazio fisico in cui sistemare gli eventuali text dei commenti. Oltre ai commenti normali , potrebbero essere abilitate anche le e-mail e nei domini individuali ,non esiste questa possibilita’ ,da sempre. Le posizioni dei commenti , oltre alle tante altre NON ABILITAZIONI,deriva dai contenuti di ORIGIN RF ,perche’ il vero Test,sono i contenuti effettivi del contesto tecnico online e per gli stessi motivi è nato il Frame Global Limit:) Anche nei Feed potrebbero essere presenti i commenti e non sono abilitati nemmeno loro. la sezione sopra fa’ parte dei Feed e dei suoi eventuali commenti e serve a dimostrare che non è abilitata Il link appena sistemato ha la sezione completa.Il senso di Enclosure Title e Links è descritto a July 2020qui è sistemata la disabilitazione della navbar Quest’ultima è facile da verificare perche’ si “vede ad occhio nudo” e non è stata mai abilitata.Attraverso essa si potrebbero abilitare i followers e tutte le altre “amenita’ suggerite dagli ottimizzatori”:)Non esiste nulla di tutto questo e poi è possibile aggiungere tutti gli elementi del Frame Global Limit e da questa unione,deriva 1 sola possibilita’ per i dati,ed è esclusivamente quella dei contenuti:)E’ un contesto fantastico per la 5° Top Page Joy,perche’ esistono i dati complessivi avviati verso l’incredibile traguardo di 3,5 Milions nel 5° dominio individuale e i contenuti appartengono a 1 solo autore effettivo,senza nessun termine ,unito ai commenti o alle note delle Opere Top:)Per questi fantastici motivi ,anche i commenti faranno parte del Frame Global Limit e forse ad APR 2021 ,sistemero’ degli esempi meravigliosi:).Alcuni sono recentissimi (il riferimento è ai Dofollow di Poynter e Yoast) e sono presenti centinaia di commenti in 1 sola pubblicazione e anche loro fanno parte dei Text nei volumi dei Content. In questa posizione non cito “i ruoli dei commenti stessi”,uniti ai Dofollow e tra un po’ sistemero’ solo delle collocazioni particolari ,per unire i contenuti che seguiranno e quasi sempre sono i veri motivi ,per cui si “scrivono i commenti” e sono i “rilevamenti di base”:) Per quelli individuali , l’inizio è l’Ignore:)E’ compreso il mio IP ,i Crawlers e i Bot e non sono selezionati gli altri domini (Projects) ,perche’ hanno dati separati.(sono i No Group) Questi sono i tempi di riferimento per i Bounce Rate e rendono superfluo l’Ignore dei Crawlers e Bot , perche’ solo considerando il dominio individuale ,sarebbero necessarti solo 2 secondi ,per avere oltre 1300 pubblicazioni complete:) qui è sistemata l’intera prima pagina Sono le Popular Pages e sono presenti 10 posizioni per 5 pagine e le Log Quota sono formate da 5 giorni. Questi sono i Bounce delle Exit PageIl riferimento temporale del prelievo è nella stessa immagine e le Log Quota sono sempre formate da 5 giorni.Sono state 67 le Exit Pages e se fossero state incluse nei dati dei rilevamenti di base,ci sarebbero stati solo 2 Bounce:) qui sono sistemate le Entry Pages e anch’esse sono escluse Per avere l’opzione Include occorre fare l’upgrade e per i dati reali non cambia assolutamente nulla,perche’ sono tantissime in realta’ le posizioni IGNOTE,ad iniziare dal valore principale e sono i contenuti stessi,in funzione della loro originalita’ effettiva ; della loro naturalita’; della violazione dei copyright ; della Quantita’ e Qualita’ ; sono completamente IGNOTE anche le posizioni dei backlinks e il miglior esempio sono proprio i commenti del passaggio precedente,perche’ per i rilevamenti di base,tutti i DoFollow “sono considerati validi”:)Sarebbe “il mondo ideale” per Poynter ; Yoast ; Facebook ,pero’ non esiste nella realta’ , perche’ non esisterebbe nessun valore reale:)Questa posizione è comunque utilissima , perche’ permette l’evidenza migliore per i valori reali ,ed è il contesto vero da cui è nata la 5° Top Page Joy e tutte le altre:) Tornando alle Entry Pages ,sono 96 le pagine e se fossero sistemati i dati nelle Popular Pages , sarebbero stati presenti 4 Bounce:)qui è sistemata l’intera prima pagina delle Exit PagesSono tutte le escluse e poi esistono anche gli altri filtri ,ad iniziare dalla parte opposta e sono le Entry Pages.Per le Exit esistono 4 pagine,composte da 10 posizioni ciascuna e il limite delle Log Quota (500 indirizzi unici) ha uno spazio di 5 giorni ,pero’ puo essere raggiunto anche in tempi minori e il dato deriva dalla somma delle Popular Pages ,eliminando tutti i filtri e tra di essi esistono anche le Ads:) Qui è sistemata l’intera prima pagina delle Entry PagesSono considerati tali,le pubblicazioni che hanno 1 solo ingresso da parte di 1 indirizzo unico e non vengono incluse nei dati.Per le Entry Pages esistono 4 pagine composte da 10 posizioni ciascuna ,sempre per le stesse Log Quota. qui è sistemato il report dei codici Javascript Sono 500 esatti e per essere presenti,significa che tutti gli indirizzi unici hanno i codici javascript abilitati e quindi non possono essere Crawlers e Bot,semplicemente perche’ non li possiedono:) E’ un rapporto fantastico ,perche’ per la prima volta il Backup ha superato i 30 MB e il volume complessivo in file xml ,è esattamente il doppio,rispetto al Bling Fire ,ed è il piu’ potente dei tokenizer e appartiene a Microsoft Bing.Il Bling Fire arriva a 15,3 MB in 1 secondo e il backup individuale ,per la prima volta è arrivato a 30,690 MB esatti e quindi,servirebbero solo 2 secondi per prelevare tutti i contenuti scritti in 6 incredibili anni:) Quindi ,qualsiasi pubblicazione sarebbe in Bounce e naturalmente per i valori dei dati finali occorre aspettare alcuni giorni,pero’ i prelievi dei tokenizer restano definitivi e saranno loro a determinare i valori ,ad iniziare dall’aspetto piu’ semplice e cioe’ che ne esistano altri successivi:).Nei prelievi dei tokenizer sono gia’ sistemati i Long Standing Webmasters Guidelines e il Time Sensitive Content e per il Taken Against Content Generally , occorre aspettare solo qualche giorno e se i dati “non saranno quelli giusti”,non esistera’ piu’ nessun tokenizer per qualsiasi pubblicazione o per l’intero dominio che le contiene. qui è sistemata la Paid TrafficNon esiste nessun dato presente:) Questo sono le Keyword AnalysisNon è presente nessun dato nella stessa Log Quota e nemmeno in tutte le precedenti:)Non esiste nessun dato dai Search Engines:) Per averli,occorre fare l’upgrade e sopratutto avere i termini validi e per esserlo,non sono le singole pubblicazioni a permetterlo ,ma le proposte complessive di qualsiasi spazio e sono i Main Content e rappresentano il valore piu’ elevato ,rispetto ai dati degli RF e dei Just Time ,perche’ i possibili conflitti riguardano qualsiasi pubblicazione di 1 dominio e quindi sono i termini effettivi ,a formare le vere rilevanze ,anche se non dovessero possederle in proprio:) (è sufficente eliminare gli altri termini attraverso i Match e diventera’ sicuro che non esistera’ nessuna rilevanza ,anche se fossero presenti i termini piu’ performanti:)Qui è sistemato l’aspetto piu’ straordinario rispetto ai valori reali di qualsiasi dato:)Tutti i report sistemati fino a questo momento , hanno contemporanemente ,l’assenza di tutti i Tags e non è possibile sistemare tanti contenuti recenti ,perche’ ne esistono un numero elevatissimo e quindi occorre solo citarli in questa posizione : i Tags hanno l’Ignore piu’ Rilevante in assoluto (dal 2009) e il motivo di questa collocazione è a MAR 2021,ed è sufficente cercare Ignore the Rest:).Il RESTO ,sono i termini effettivi,ed esiste anche l’unione speciale tramite “Things not Strings” e il senso è molto semplice , perche’ se i contenuti “hanno solo funzione di Strings” (in tanti casi i Tags servono proprio a questo:) e Ignorano il RESTO ,ad essere Ignorati saranno e sono proprio i Tags:)Tornando ai contenuti individuali ,non esiste questo problema ,perche’ nessun Tags è abilitato e la migliore dimostrazione è il contesto da cui è nata la 5° Top Page Joy ,ed è il 73° RF e il suo collegamento è nel banner dei Time Sensitive Content:) Tra i Tags esistono anche gli Archivi e non sono mai stati abilitati e il 73° RF è arrivato proprio con essi ,in senso letterale,perche’ l’Archive è all’interno del suo URL ,presente nell’INDEX:) Quindi solo la Sitemap ha permesso di avere i suoi dati,presenti in 1 solo dominio e per evidenziare meglio le sue “dimensioni operative”,mi è venuto in mente di sistemare anche altri spazi individuali,perche’ nel corso di 6 anni,esistono anche altri contenuti e senza saperlo,attraverso il primo dominio di AV ,è arrivata la 5° Top Page Joy:)Tornando ai Tags specifici del TFD Statcounter,l’assenza di dati è davvero curiosa ,perche’ occorre fare l’upgrade in questo settore e nello stesso tempo,occorre che siano abilitati anche i Tags nel dominio individuale e quindi,per forza di cose non possono esistere i dati:) In Unnatural Developer Dati Now esiste la collocazione reale dei rilevamenti di base Analytics e Analysis hanno anche peggiorato “la loro posizione” ,dopo l’arrivo dei Fact Check ,perche’ non conoscono realmente nemmeno l’origine effettiva dei contenuti e quindi figurarsi se possono conoscere se sono veri o falsi 🙂L’unica “via praticabile” per i rilevamenti di base è in Unnatural Developer e cioe’ se è presente il percorso completo,tramite il Natural Contest,i dati diventano reali,pero’ anche i migliori strumenti dei rilevamenti di base,non conoscono “il percorso effettivo” e non esiste nessuna speranza nei confronti dell’onesta degli utenti:) Indirettamente, un ottimo esempio è la “povera Poynter dei presunti fatti reali” e nonostante abbia sistemato l’Etica nel suo Main Menu ,la sua posizione reale, è a “distanze siderali” “dali’onesta stessa”:) (per certificare i fact check di facebook ,è da escludere qualsiasi forma di onesta e di etica:) Questi dati sono reali e l’immagine rappresenta solo un esempio ,compreso il suo arco temporale di riferimento,perche’ è la migliore evidenza che non è possibile sperare “nell’etica e onesta degli utenti”:)L’esempio è ottimo ,perche’ anche i dati generali del contesto online sono assai simili e prevedono solo i migliori 10 Top:)Queste posizioni seguono la ragione piu’ semplice ,ed è quella del Taken Against Content Generally e a sua volta segue la pertinenza dei dati e quindi il valore economico delle ricerche stesse:)

Quest’immagine rappresenta l’unione migliore con la precedente e insieme ,diventano completamente opposti ai dati dei rilevamenti di base:)Ho evidenziato l’INDEX e naturalmente la posizione della piattaforma Blogger è solo relativa ,perche’ “i nuovi operatori avviabili” ,sono validi per chiunque:)Inizia dal default degli INDEX e rappresenta la posizione assoluta e poi esiste l’esempio degli INDEX ,applicati, iniziando dalla 501° posizione e sono IGNORATE ,tutte le posizioni maggiori. L’operatore inserito è il range e potrebbero essere aggiunti dei simboli ai dati (il piu’ comune è quello dei prezzi),per conoscere tutti i reports.Sistemando solo i dati si hanno gli INDEX diretti dei vari domini,uniti ai termini specifici e sono quelli del precedente Just Time.Ho scelto il range da 100 alla 500 posizione e poi potrebbe essere anche applicato “il nuovo operatore avviabile”,partendo dalla 501° posizione ,ignorando tutte le altre precedenti.Anche in questo Caso, è stata una scelta fortunata,perche’ alla 100° posizione,esiste una pubblicazione del TFD Wiki e rappresenta un dono fantastico:)E’ quello sistemato nell’evidenza e indirettamente,rappresenta uno sviluppo fantastico rispetto all’Ignore General Facts Data:)Solo per curiosita’ l’ho sistemato come APP e l’asterisco evidenziato,è in realta’ “il consorzio dei fact check” a cui collabora il sole 24 ore:) Per il TFD Wiki non esiste “l’abilitazione” a differenza del quotidiano economico italiano e la posizione è davvero curiosa,applicata a WIKI ,sopratutto avendo in mente il fatto che il sole 24 ore “ha superato la prova dei fatti a pieni voti”:).Grazie allo snippet sopra è possibile confermare la totale idiozia dei “fact check fuori ordinanza”, perche’ pretendono di certificare dei fatti,senza conoscere nessun dato vero:)Inserire la Non Abilitazione a Wikipedia ,significa essere proprio idioti e avere in mente “solo i rilevamenti di base come valore” e l’idiozia inizia dai rapporti dei passaggi precedenti,ed è sufficente comparare i primi 10 Top dei valori,unendoli al 501° INDEX a seguire:) Gli idioti dei Fact Check fuori ordinanza (sole 24 ore ;Poynter e tutti gli altri),anche se fossero al 501° posto degli INDEX (ipotizzando che siano anche capaci di arrivarci:) , è sicuro che porterebbero come dati,quelli dei rilevamenti di base,attraverso anche un numero esorbitante di commenti:)I valori reali sono quelli indicati sopra e per restare nel settore dei fact Check ,l’unico dato vero , è il numero d’imbecilli:) (se avesse valore la 501° posizione ,attraverso i rilevamenti di base,non esisterebbero i costi del Content Marketing,perche’ diventerebbe inutile la sua presenza:) Tutti i passaggi precedenti derivano “dal Servizio” e non ha nulla in comune con i “fattori generici” di tanti ottimizzatori ,perche’ le restituzioni dei reports riguardano i fattori reali:)Sono tutti gli elementi del Natural Contest e nella pagina A di questo 75° RF ,si unira’ un termine fantastico ,Ignore Contest General e sara’ proprio il termine GOAL:)L’idea è nata per i contenuti della pubblicazione collegata e anche per i passaggi sistemati in questo 75° RF e l’unione è davvero fantastica ,perche’ gli elementi di Ignore Contest General ,non conoscono nemmeno “dove si gioca fisicamente la partita ,ed è sicuro che non conoscono nemmeno da quale sport derivano i Match” e quindi ,per questi elementi ,possono avere valore anche le pagine del 501° INDEX ,dimentincando del tutto a “cosa sono applicate”:) Quindi IGNORANO anche di essere imbecilli e si preoccupano di unire anche “oceani di backlinks” e di sistemare numeri eclatanti di commenti ,pensando che la 501° posizione degli Index (o i milioni di dati che seguono) ,possa essere “un gran valore” 🙂Il termine unico GOAL è utilizzatissimo ,anche da coloro che ignorano dove si disputa la partita e per fortuna ,esiste anche la sua posizione opposta ,perche’ esiste 1 sola sua presenza nelle General Guidelines ,ed è nella prima posizione assoluta del Page Quality Rating e l’unione di GOAL ,rappresenta la finalizzazione di tutte le operazioni ,ed è unito alla “piena comprensione delle proposte complessive ” e cioe’ i GOAL sono i Main Content stessi e rappresentano anche la prima posizione per tutte le Ads online:)Per conoscere i dati di questo contesto ,esistono i SERVIZI e attraversano tutte le General Guidelines e “per fare GOAL” esistono anche le posizioni sotto:) Sono alcune posizione delle Close Variant per le Ads e quest’ultime,essendo unite ai Main Content,il valore è esteso a qualsiasi contenuto.La posizione comune delle Close Variants deriva dal fatto che nessuna di esse è Decisa dagli utenti. Questi sono altri esempi delle Close Variants,ed occorre sempre unire il termine GOAL ai Main Content e questa è “l’unica decisione che possono avere gli utenti”:)Se pensano che i backlinks ; i followers ; i commenti,possano “modificare i valori dei content”,l’unica realta’ è quella dell’Ignore Contest General:) Origin RF e poi i Frame Global Limit ,sono i miglior testimonial dell’opposto e la migliore posizione è nell’evidenza sistemata nell’immagine e per paradosso,non sono i contenuti diretti ,ma la nota applicata:)All’apparenza sembra semplice,ed esprime le condizioni delle Close Variants e cioe’ è indifferente la geolocalizzazione dell’utente,rispetto ai suoi termini di ricerca (nell’esempio è sistemato un utente spagnolo che digita termini in tedesco e vengono restituiti reports nella stessa lingua dei termini digitati,a prescindere dalla posizione fisica dell’utente spagnolo).E’ sufficente applicare alla nota gli elementi del Detect language,per rendere semplice “le esclusioni dei valori”,citati nei passaggi precedenti (i backlinks ;i followers i commenti ETC),perche’ non possono modificare assolutamente nulla ,rispetto al valore unico ,ed è solo quello dei contenuti effettivi:) Se in futuro “dovesse esistere la misura dei backlinks”,l’unica sicurezza sarebbe il suo fallimento,perche’ nemmeno le grandi organizzazioni “potranno sopravivvere”, in quanto non ci sara’ nulla da segnalare ,perche’ esisteranno solo dei “links reciproci”,senza nessun contenuto reale da unire:)Tornando ai Detect language, è possibile applicare anche l’Ignore della geolocalizzazione,ed avviene quando si scelgono dei TLD specifici per i propri contenuti e quindi,quelli della nota,restano solo un esempio,perche’ le restituzioni dei reports,possono avvenire in qualsiasi Detect languege,rispetto a qualsiasi geolocalizzazione che hanno gli utenti. Questo è l’Ignore dei Detect Language uniti alle geolocalizzazioni,ed è sufficente che i vari autori scelgano un TLD specifico o “links espliciti”. In MAR 2021esistono altre descrizioni (insieme ad altri IGNORE:) e in questa posizione è possibile aggiungere l’elemento piu’ pertinente per festeggiare la 5° Top Page Joy e sono i termini rilevantissimi dei Just Time e quasi tutti appartengono al primo Detect language e non hanno Nessun backlinks ; Nessun Followers ; Nessun Commento ETC..:)Sono nati da Origin RF e dai Frame Global Limit e tra i suoi elementi ,da questa pubblicazione,sono presenti anche i “Commenti” e il loro ruolo,è solo quello oggettivo dei text Scritti,ed essendo completamente assenti da FEB 2015 ,significa che le dimensioni del Taken Din Colors Five,sono formati solo da contenuti realmente originali e appartengono a 1 solo autore:) Questa è la posizione generale,al passaggio dei 3,47 Milions di termini effettivi e la posizione è importantissima,perche’ tutti i passaggi precedenti dipendono da questo dato,ad iniziare dai Detect language,perche’ la nota inserita nelle Close Variants è sistemata al “termine dei valori reali”,ed occorre prima arrivarci e per farlo è indispensabile non eliminare i termini attraverso i Match e con il dato generale sopra,valido per 1 sola posizione,è molto facile che possano esistere Match:)Se fosse stato il contesto tradizionale dei contenuti , per avere le stesse condizioni dei Match ,sarebbero stati necessari 36.077.602 termini effettivi e naturalmente debbono poi avere anche 1 sola posizione:).I post, comprese le pagine interne, sono 1335 netti (cioe’ senza nessun Draft) e l’average è molto curioso,perche’ manca meno di 1 termine per 2600:) (l’average effettivo è formato da 2599,25 termini:)In questo contesto,è possibile citare solo i dati di Contest Level Absolute,ed è formato da 10 Milions di termini in 1 sola posizione e per realizzare gli scritti sono occorsi 34 anni e naturalmente ,oltre 400 anni fa’ non esisteva il contesto online,ed è una posizione importante,perche’ i Match avvengono all’interno di qualsiasi dominio e contemporaneamente esistono anche nel contesto globale e solo al loro termine,arrivano i valori dei dati e quindi il reports generale sopra,rappresenta solo un indicazione,perche’,le parita’ di condizioni ,hanno come riferimento solo le dimensioni oggettive dei contenuti e poi occorre aggiungere anche i suoi valori:)(sono il numero degli RF e dei Just Time:)
Altre posizioni per il 75° Rf saranno nella sua pagina A e solo per citarne una, esiste il percorso delle fluttuazioni e sono molto particolari ,perche’ iniziano dalla data originale di DEC 2016 e per arrivare all’attualita’ ,il primo grande ostacolo è sistemato nei contenuti della pagina A+ della sidebar ,perche’ esistono percentuali di fluttuazioni elevatissime e una situazione simile si è verificata anche di recente!:)Naturalmente sono presenti anche “le oscillazioni normali” ,da DEC 2016 e la 5° Top Page Joy,per forza di cose,le ha dovute superare tutte ,perche’ altrimenti non esisterebbe il suo INDEX attuale!:)

La prima descrizione,unita allo spazio della 5° Top Page Joy è di OCT 2015:)E’ stato il primo dominio individuale ad averla e la posizione temporale è maggiore di 1 anno,rispetto alla data originale della 5° Top Page Joy:) qui è sistemata la pagina completaIl prelievo della pagina è stato un po’ difficile,ed esistono alcune posizioni sovrapposte,pero’ non è stato possibile fare meglio!:)Comunque i dati sono fantastici,perche’ 85 Engines sistemati insieme ,non era stato mai presente prima,ed occorre aggiungere anche la cosa piu’ importante e cioe’ i contenuti a cui sono applicati,fa’ la vera differenza:)Per il momento cito gli altri dati,ed esiste lo Status Code 200 e naturalmente la data temporale è quella attuale e la posizione è importantissima , perche’ è possibile unirla all’INDEX e gli stessi dati ,debbono essere stati sempre presenti e applicati alla 5° Top Page Joy:)Sono sufficenti le sue dimensioni per comprendere il contesto reale,perche’ gli 85 Engines,potrebbero averli anche Poynter e Yoast (insieme a tanti altri fact Check e agli idioti dei social) ,pero’ è poco probabile che esista anche un altra pubblicazione simile a cui applicarli:)Alcuni esempi li sistemero’ nella pagina A di questo 75° RF e poi da APR 2021 ci saranno anche gli External Links OUT ,almeno per alcuni domini e sara facile evidenziare,i valori delle applicazioni tecniche del contesto online:)Ovviamente sono importanti ,pero’ debbono esistere dei contenuti validi a cui applicarli:)
La Migliore evidenza dei valori,tra i rapporti tecnici e i contenuti sono in Opera Top Leo Master Contest e il collegamento è nell’immagine sopra:) Esistono i migliori dati tecnici e il servizio è a pagamento ,pero’ non esiste nessuna modifica nei valori reali dei contenuti:)Ad accogliere Goal Data sono le altre 4 meravigliose Top Page Joy:)
Posted in Key Page Unit, TD Space Content
Ignore Contest General Facts Data ©
Posted on March 19, 2021 by Din Story AV
Gli HEROIC DC formeranno la linea guida,rispetto ai contenuti che avra’ questa pubblicazione, ad iniziare dal ruolo piu’ semplice ,ed è quello degli IGNORES 🙂Questa pubblicazione avra’ poi un ruolo multiplo ,perche’ ci saranno i collegamenti con i Data Priority ; con gli RF e i Just Time futuri e sara’ anche collocata nei Brain Stone:)La posizione completa sara’ all’interno dei contenuti che seguiranno e diventera’ semplice l’IGNORE Contest General Facts Data e inizia dall’immagine sotto:) L’immagine deriva da MAR 2021 ,ed è oggettivamente la migliore per iniziare l’Ignore Contest General:)E’ superiore anche a tutti i Facts Data sommati insieme,per il motivo piu’ semplice,perche’ l’Ignore Contest General ,riguarda il “campo delle competizioni stesse” e l’Ignoranza è Totale:)La homepage di Yoast è proprio l’evidenza migliore, perche’ non è Noto nemmeno “il campo dove si disputa la partita”,compreso “l’attivita’ sportiva praticata”:)Nei contenuti di MAR 2021 esiste gia’ una logica piena,applicata all’Ignore Contest General e i contenuti che seguiranno forniranno l’evidenza completa,attraverso un unione davvero curiosa e posso gia’ anticipare che quando ho scritto i contenuti dei 3 Heroic DC ; della prima Data Priority e MAR 2021 ,non conoscevo nemmeno l’esistenza dell’unione piu’ sublime:) Ad accogliere le prime immagini di Ignore Contest General ,poteva essere solo il Brain Stone e rispetto ai contenuti che seguiranno, diventa “quasi una posizione minimalista”,perche’ gli elementi che sistemero’ non arrivano nemmeno alle “Egregious Violation” ;ai “Deprecated Intent” ;alle “Toxic data” ,semplicemente perche’ non conoscono nemmeno dove “si gioca la partita” e tantomeno è noto lo sport a cui competono:) Tramite queste solo 2 immagini ,è possibile affermare un Fatto Vero e cioe’ l’IGNORE Contest General, è nato “attraverso la Trnscendenza”:)Esistono 5 pubblicazioni “assolutamente immanenti” ,rispetto alla logica stessa e la loro “Transcendenza” è unita alla data originale dello snippet ,ed è facile verificare che è arrivata dopo:)E’ proprio Yoast ad essere unito a Poynter (è il suo ottimizzatore:) e quindi ,diventano pertinentissimi i contenuti degli HEROIC DC, anche rispetto all’IGNORE Contest General:) L’immagine deriva da Data PrioritySolo questa collocazione ,rende pertinente l’IGNORE Contest General , perche’ se “la verita’ dei fatti” è cercata dall’elemento sopra, diventa indispensabile IGNORARE dove si gioca la partita stessa e cioe’ i Match dei Content ,ed è l’unico valore reale:) Questo è l’elemento descritto in Data Priority e per unire l’Ignore Contest General ,è molto semplice ,ed è sufficente descrivere la “sua metodologia” nei Fact Check:)Il metodo è in 5 posizioni e non hanno nessun nesso logico e oggettivo con il contesto online stesso ,ed è sicuro che per questo motivo,”certifica facebook”:) qui è sistemata la pagina in immagine con gli altri metodiSarebbe possibile anche bypassarli ,perche’ esiste “un termine comune” a tanti presunti analisti dei fatti, ed è “ETHICS”:) Solo la sistemazione di questo termine,evidenzia il NoSense completo dei presunti “analisti dei fatti” e permette l’unione dell’Ignore Contest General , perche’ non hanno nemmeno la piu’ pallida idea di cosa sia il contesto online:) Quest’immagine,solo in apparenza deriva dalla fantasia, mentre in realta’ rappresenta il contesto online oggettivo:) Gli imbecilli che credono che “possa esistere l’etica” nel contesto online ,possono essere uniti solo a Ignore Contest General e rappresenta “anche l’ipotesi migliore”,perche’ sarebbe possibile unire anche la malafede degli operatori e in tanti casi,diventa la presenza piu’ probabile:)Per comprenderlo,è sufficente immaginare cosa sarebbe il contesto online ,attraverso le linee guida di facebook ,certificate da Poynter,ed esisterebbe solo il falso totale e ovviamente non potrebbe mai avere nessun valore:)Nella realta’ , gli strumenti simili a Poynter non hanno nessuna unione con qualsiasi dato e la verita’ deriva solo dal fatto che si è “trasformato in business anche questa sezione del contesto online” e quindi, ogni operatore cerca di “millantare capacita’ ” del tutto inesistenti,per le ragioni piu’ ovvie ,perche’ i valori dei dati sono complessivi ,ed è indispensabile conoscerli tutti e poi unirli anche insieme:)qui è sistemata la pubblicazione unita all’immagine reale del contesto online:)E’ fantastica anche da sistemare in questa posizione ,perche’ rappresenta “PIRATE” ,ed è l’algoritmo per le violazioni dei copyright ,ed è sufficente vedere le linee guida di facebook ,per notare subito che non esiste nessuna presenza e quindi l’unione con Poynter è proprio l’ideale ,perche’ si “occupa solo di ETICA” e non conosce nessun dato in realta’:) E’ sufficente digitare facebook e copyright nella ricerca interna ,ed esistono tante pubblicazioni a dimostralo ,ed è possibile aggiungere anche “SCHEMA” e non rappresenta nessuna violazione nel principale dominio del social marketing:)Addirittura esiste l’opposto e cioe’ “lo schema rappresenta un valore” e anche in questo Caso ,è sufficente la ricerca interna ,ed esistono dati specifici e la pagina non è una qualsiasi,ma proprio quella del “Business di facebook”:)Tutto questo avviene in 1 Dominio per 1 Piattaforma sola e Poynter si preoccupa dell’Etica ,addirittura in No Profit 🙂 (ufficialmente sarebbe la sua ragione sociale VERA:) Questo è FEB 2020 di 1 anno fa’ ,ed è presente la migliore unione ,non con l’ETICA ,ma con IGNORE Contest General:) Nel Caso specifico è applicata “l’etica al link building” e la posizione è assolutamente demente ,pero’ è perfino migliore rispetto all’Etica di Poynter ,perche’ ,nella sua metodologia, non esiste 1 solo riferimento ai dati reali,ma si fondano solo “sulle presunte capacita’ delle sue fonti”:) questo è il vero motivo per cui esiste il servizio di Poynter:) Per fare queste unioni ,occorre conoscere i Dati Veri e non possono arrivare in nessun modo “dall’Etica”:)Gli “articoli instantanei” per formare le Ads (da 350 termini effettivi:) e hanno pure pagato ,per raggiungere pessimi risultati:) (le fonti ufficiali dicono 1,5 Billions di dollari ,solo per l’anno 2018:) Quindi in realta’, Poynter certifica degli “insider trading” se fosse nel contesto tradizionale ,altro CHE ETICA!:)L’aspetto curioso,deriva dall’idea di Ignore Contest General ,perche’ realmente non conoscono nemmeno “dove si gioca la partita ,in senso fisico” ,ed è sufficente l’espansione sopra del business di facebook, perche’ tutte le posizioni conducono alla formazione delle Ads e solo per logica,i rapporti dovrebbero essere quelli opposti ,perche’ sono i contenuti a dare valore alle “eventuali Ads presenti” e a permettere questo non è 1 pubblicazione ,ma le proposte complessive di 1 dominio:)Quindi Poynter “certifica solo l’aria fritta” ,insieme “all’Etica:) Lo snippet deriva dal Just Time K2 di NOV 2020 E’ solo un esempio, perche’ esistono tantissime immagini simili nel contesto della rete italiana e cambiano solo i domini:) L’unione diretta è con Data Priority e la collocazione “non è casuale” per i piu’ grandi elementi digitali italiani ,perche’ l’ambito del social marketing , permette di “unire le cazzate ai dati” e naturalmente non producono assolutamente nulla e permettono solo di millantare “capacita’ intellettive” del tutto inesistenti:) Attraverso Data Priority sara’ facile verificarlo , perche’ il digitale e i suoi dati possono esistere solo in presenza della Verita’ e le cazzate social ,non sono capaci di millantare nulla,ad iniziare dalla piattaforma di riferimento , perche’ l’unica unione dei suoi dati è quella della lingua araba:) (il riferimento è oggettivo ,rispetto alla nascita dei numeri stessi:)Sempre dal Just Time K2 di NOV 2020 ,deriva l’immagine sopra e l’unione con IGNORE Contest general è diretta e altrettanto lo è con tutti gli spazi uniti al social marketing e cioe’ non conoscono nemmeno dove si gioca la partita:)Nei presunti Brand del business di facebook ,hanno “valore le influenze” e cioe’ sono degli Schemi e solo per logica ,non potranno mai esistere i suoi dati ,anche tra 200 anni , semplicemente perche’ sarebbe lo stesso contesto online a non esistere ,perche’ qualsiasi valore verrebbe estinto reciprocamente:) E’ il giochetto dei social per i loro fanta dati e non hanno nessun nesso con la realta’ e la migliore testimonianza è la loro principale e unica Ads (Audience Network) ,molto vicina allo 0,002% ,avendo 2,5 Billions di utenti ,in 1 solo dominio per 1 piattaforma:) Esiste anche la sicurezza che i miseri dati solo per le Ads non derivano nemmeno dalla principale piattaforma social ,perche’ il primo contributo per Audience Network ,deriva da WordPress,grazie ,addirittura,alle ottimizzazioni di Yoast:)Altre iperboliche unioni con Ignore Contest General ,sono sempre nel Just Time K2 di NOV 2020 Attraverso il Natural Contest Big Data 4 esiste l’unione dei facts Data Veri:)Le posizioni derivano dalla semplice logica ,perche’ nelle “grandi organizzazioni” ,esiste in realta’ 1 solo dominio e quindi è logico che debba esistere 1 solo responsabile.Questa posizione è proprio l’ideale da unire a Poynter, perche’ non solo esiste l’unione con facebook (è anch’essa “una grande organizzazione”:) ,ma sono presenti anche “le risorse di Poynter” per determinare “la verita’ dei suoi fatti”:) In questa posizione non cito direttamente i Fact Check ,perche’ sono gia’ presenti nei 3 HEROIC DC e la differenza non occorre nemmeno descriverla ,perche’ è sufficente 1 solo termine ,da unire alle entita’ di Google Patents ; Google Scholar e ai Fact Check finali ,ed è DEMONSTRATE:)E’ l’unico termine applicato agli HI INDEX e per essere tali,debbono essere trascorsi almeno 5 anni:) Questa è l’ETICA reale per i Fact Check e sono i Brain Stone:) Hanno un vantaggio incredibile rispetto a Poynter e tutti gli strumenti simili ,per la semplice ragione che esistono i fatti reali,rispetto a qualsiasi dato e inizia dalla logica stessa ,ed è la ragione sociale degli Engines e ovviamente è quella economica , ed è sufficente il 3° Top,rispetto a qualsiasi ricerca ,per raggiungere i migliori risultati:) A questo serve realmente il “Taken Against Content Generally” e la posizione dei Brain Stone è proprio l’ideale per raggiungerlo,perche’ le sue posizioni appartengono tutte al contesto tecnico online ,ed è inevitabile il Match rispetto a qualsiasi categoria:) Questo è solo un esempio tratto dai Brain Stone e il vitale applicato ai backlinks ,ha l’estensione sotto e la sua traduzione pratica è anche l’operativita’ reale dei backlinks e non possono risolvere assolutamente nulla se si hanno dei contenuti di “bassa qualita’ ” e scarsa rilevanza:)Per conoscere questi dati è indispensabile che sia noto anche “Tutto il Resto” e non è possibile raggiungerlo “con l’ETICA” :i backlinks possono essere vitali ,se dovessero esistere parita’ di valori nei contenuti e ovviamente , i links debbono essere naturali:) A MAR 2021 esiste proprio l’Ignore the Rest Ho utilizzato come esempio i links applicati ai 4 termini del precedente Just Time K2 e la posizione è gia’ molto particolare ,perche’ a sua volta è unito al Core Web Vitals e la collocazione è molto piu’ vitale,rispetto ai backlinks stessi ,perche’ riguarda gli elementi statici della pubblicazione specifica e quindi i contenuti,se fossero di bassa qualita’ e rilevanza ,avrebbero piu’ problemi ,rispetto a qualsiasi numero di backlinks applicati:)Questa posizione serve per quantificare le differenze presenti nei Brain Stone,rispetto a tutti i presunti “Fact Checkers”,perche’ in realta’ non conoscono nulla e in tanti casi è Ignoto anche il contesto delle competizioni:) (cioe’ non sanno nemmeno dove si gioca la partita:) Questo è un Fatto Vero:)Semplicemente è il numero dei termini sistemati nei links solo per il TLD .IT e ovviamente sono tutti naturali,rispetto ai vari contesti a cui sono applicati,altrimenti non sarebbero nel dato sopra:) Poynter e “le sue organizzazioni”,debbono DIMOSTRARLO di possedere i dati veri e per farlo ,i contenuti dei Brain Stone,rappresentano la scelta migliore,perche’ il contesto tecnico online ,attraversa qualsiasi categoria del web e le posizioni arrivano direttamente nei dati Veri:)Quelli appena aggiunti sono meravigliosi e rendono incredibili quelli di MAR 2021 , per la semplice ragione che i contenuti individuali non hanno nessun Backlinks e quelli sistemati negli snippet sono tutti Naturali ,rispetto ai contenuti specifici che hanno.Nel dato di MAR 2021 (oltre 30 Milions per 4 termini,solo nel TLD .IT:) ,esistono tutti i Reorder Words ; insieme ai sinonimi e ai plurali e ovviamente ,anche gli altri domini ,hanno le proposte complessive,composte dai loro termini effettivi e per essere nelle posizioni sopra ,l’ETICA non ha “spostato nemmeno 1 virgola” 🙂E’ meravigliosa l’immagine aggiunta in questa pubblicazione,perche’ esiste lo stesso TLD ,pero’ sono anche presenti i termini complessivi sistemati nei links e ovviamente,non possono essere dei duplicati:) E’ una posizione straordinaria,perche’ non esiste nessun Backlinks ,insieme a tutti gli altri elementi del Frame Global Limits e i domini in Match hanno tutti contenuti naturali,altrimenti non sarebbero in quella posizione 🙂Ho risistemato l’immagine precedente ,perche’ è unita al passaggio appena inserito e poi esiste anche l’unione con Ignore Contest General ,attraverso i Matched Content uniti alle Ads:) Questo è il senso dei “Matched Content” e non è casuale ilf atto che sia unito ai Fact Check ,perche’ sono entrambi nelle strutture data e a loro volta confluiscono nella migliore comprensione di tutti i tempi ,ed è solo un elemento del Natural Contest.Queste posizioni sono importantissime ,rispetto a qualsiasi altra pubblicazione e in maniera particolare lo saranno per le Data Priority ,applicate al contesto italiano,iniziando proprio dalla specificita’ del “social marketing”:) In questa posizione è sufficente ricordare che la pagina del Business non è Eliggibile e non è una qualsiasi ,ma proprio quella dei Fact checking di facebook e l’unione con Poynter deriva solo dal fatto ,che sono uniti solo dei cazzari:)

Questa è la Class C di Poynter:)Lo Status del suo indirizzo pubblico (IP) è valido e quindi ,occorre ricordare a Poynter che “si trova nel contesto online” ,forse a SUA INSAPUTA! 🙂 Questa posizione è straordinaria e posso assicurare che è del tutto casuale l’esistenza dei termini nel dominio individuale:)
Ho scelto i termini per unirli ai festeggiamenti del 6° anno e non esiste nessun suggerimento “da altri spazi” e tantomeno conoscevo la posizione di Poynter:)
L’unico suggerimento ragionevole deriva dall’Onniscenza del Caso Supremo ,perche’ solo a LUI ,poteva venire in mente questa fantastica unione:)
Nei contenuti individuali,deriva dalla posizione oggettiva che hanno avuto in 6 anni ,la scelta dei 3 termini ,mentre per Poynter ,i 3 termini “rappresentano solo marketing” ,ed essendo unito a facebook , esiste solo il marketing del falso:) (non è casuale il fatto che sia lo stesso dei mezzi di comunicazione tradizionale,ed è il marketing verticale:)
Questa è la prima pubblicazione in dimensioni di Poynter ,su 200 presenze esatte,ed ha oltre 11000 termini.
E’ proprio il business del contesto online “l’argomento di Poynter” e pensa di raggiungerlo attraverso l’Ignore Contest General ,sostituendo i dati Veri ,con L’Etica ;la Filantropia e la metodologia di Poynter stessa:)La Vera Etica inizia dai Dati Veri e rispetto al contesto online ,anche la “zona piu’ impervia dell’Amazzonia” ,al confronto ,sembra “un tappettino di fiori”,perche’ la vera collocazione del contesto online,è quella dell’immagine unita alla violazione dei copyright:) Solo pensare di unire questo Contesto all’Etica , significa essere “totalmente disonesti intellettualmente” ,ed è molto probabile che questa sia la reale posizione di Poynter e di tanti altri strumenti simili , perche’ è poco convincente che esista realmente l’Ignore Contest general 🙂 Cioe’ fanno “finta d’ignorare” ,per millantare le loro False Capacita’ e per verificare questa posizione è sufficente il termine DEMONSTRATE:)E’ applicato a TUTTI ,ad iniziare dagli High Learning a scalare:) Per Poynter sono state presenti 200 pubblicazioni e 1260 è stato il loro average e ha raggiunto il 49%.Nella selezione ho fatto una scelta diversa rispetto a “quelle tradizionali” e ho evidenziato gli External Links OUT e sono i collegamenti verso altri domini.Fanno parte dei tanti limiti che hanno le unicita’ interne dei domini e per ammissione della stessa Poynter ,nei suoi Content esistono anche gli EDITS e quindi è sicuro che i periodi non sono nemmeno quelli originali:) Posso assicurare che questa è la prima pubblicazione in dimensioni di Poynter e riguarda proprio i suoi collegamenti esterni al dominio:)Nelle unicita’ dei contenuti interni agli spazi ,viene solo citata la presenza e ovviamente è un limite importante,perche’ rende facile ,capovolgere completamente qualsiasi dato:)Da APR 2021 sara’ presente nelle verifiche interne e la posizione è molto semplice ,perche’ è facile la selezione : per i Links in NOFOLLOW ,occorre avere la presenza nei codici ,mentre tutto il resto è DoFollow.Per Poynter su 338 links esterni presenti ,solo nella pubblicazione a maggior dimensione ,non esiste nemmeno 1 presenza in NoFollow e solo per citare la 5° posizione,esiste anche il Dofollow per la pessima pagina del business di facebook e l’unica cosa naturale ,deriva dal fatto che la segnalazione torna indietro e quando avviene , i danni li avranno i domini segnalatori:)Tutti i collegamenti sono fatti in questo modo e tra le tantissime presenze ,esistono anche i domini a cui Poynter ha “fatto i Fact Check” e sono tutti in DoFollow anche loro ,a prescindere dal fatto se hanno contenuti validi o meno:) (la pertinenza dei collegamenti non è nemmeno citata:) Dopo aver descritto i backlinks ,mi èvenuto in mente di unirli a Poynter e le 2 risposte sono fantastiche:)La prima è unita al fatto che non esistono dei Gran Match per Poynter e i backlinks e la seconda è unita al Content Marketing,completamente dissociato da Poynter:) Il business dei falsi “arriva solo alle Ads” ,in maniera fraudolenta,perche’ hanno la presunzione di certificare delle Verita’ che non posseggono nemmeno loro!:) E’ la pubblicazione di poynter unita ai backlinks e al content marketing e il paradosso deriva dal fatto che è vera in maniera oggettiva ,pero’ sono falsi i suoi contenuti ,perche’ per “Migliorare le Ottimizzazioni” è indispensabile conoscere prima i dati veri ,inisieme al loro contesto e sviluppo:) Hanno sistemato 338 Dofollow in 1 sola pubblicazione e quindi se ci fossero le ottimizzazioni ,occorre prima sperare che non facciano casini gli spazi collegati ,perche’ ,anche per i DoFollow non esiste “l’AVOID Post Datato”:) (non esistono scelte a “fase alterna” anche per i DoFollow e quindi occorre pensarci prima ,di sistemarli nei collegamenti ,ed esiste solo questa possibilita’!:)https://www.poynter.org/wp-content/uploads/2019/08/content-marketing-2.pdfQuesto è il pdf di Poynter ,rigorosamente in NOFOLLOW:) Questa posizione è arrivata a DEC 2020 e mai l’avevo vista prima nel dominio specifico e la collocazione è anche normale ,perche’ esistono oltre 8000 pubblicazioni nello spazio e i dati hanno come riferimento quelli di MAR 2020 e quindi sono di 1 anno fa’:) (grazie al collegamento di Trust Long Story esistono tutti i dati) Ho scelto questa posizione semplicemente per la logica che possiede e non è quella di Poynter , perche’ prima di conoscere i Fatti Veri , è indispensabile che siano Noti i Dati Veri:)Esiste poi un contesto straordinario perche’ la pubblicazione originale è di NOV 2019 ,ed ha previsioni per l’anno 2030 e non ha avuto nessun EDITS ,anche dopo il devastante impatto,causato dalla pandemia da coronavirus 🙂E’ un contesto fantastico,perche’ utilizzando la stessa logica è possibile prevedere anche i dati tra 200 anni e non potranno mai essere diversi ,perche’ esiste la natura stessa del contesto online e se fossero operativi “gli elementi opposti alla logica” ,semplicemente il contesto online svanirebbe e facebook non arriverebbe nemmeno allo 0,003% delle Ads ,perche’ il contesto online non esisterebbe nemmeno:) Sono sempre i Brain Stone a guidare gli Ignore Contest General Facts Data La pagina collegata è molto particolare rispetto al contesto di questa pubblicazione, perche’ sono sistemate le “Half True” e sono “le mezze verita’” presente in tanti contenuti e anche loro hanno “tanti aspetti negativi” ,tranne per i contenuti di questa pubblicazione ,perche’ anche negli altri strumenti “dei Fact Check,fuori orinanza” le Half True non sono nemmeno nominate 🙂Nella realta’ sono piu’ ingannevoli dei falsi totali , ed è sufficente citare il contesto in cui sono piu’ presenti ,ed è quello degli ottimizzatori stessi:)Degli esempi esistono nella pagina collegata sopra e le “mezze verita’” aiutano tantissimo a vendere ” dei pessimi servizi” e per questo motivo sono utilizzate:) Questi sono i “fact ricercati” dal sole 24 ore,ed esiste anche il servizio a pagamento:)Alcune descrizioni sono nel precedente Just Time K2Al suo interno ,esiste un altro collegamento rispetto a pubblicazioni precedenti e per il sole 24ore è solo un esempio,perche’ esiste un numero elevatissimo di contenuti e nessuno di essi ,puo essere unito a qualsiasi Fatto Vero ,semplicemente perche’ non sono veri i dati:) Esiste “una doppia verifica” per il sole 24 ore , perche’ aderisce al “progetto evidenziato sopra” e naturalmente non cambia nulla,perche’ non esistono dati reali:) Il “progetto di verifica” del sole 24 ore è quello indicato sopra e il fatto che sia stato promosso a “pieni voti” ,deriva semplicemente dalla metodologia (in questo Caso viene denominata CRITERIA:) ,ed è uguale a quella di Poynter e cioe’ “esprimono dei fatti” ,senza conoscere nessun dato reale:)Tra un po’ sistemero’ una curiosita’ ,unita al numero stesso delle fonti ,ed occorre sempre bypassare i contenuti diretti delle fonti stesse,perche’ non si conoscono realmente:)Sara’ il Fact Check del Dow Jones ,ed è sicuro che sia tra le prime borse valori al mondo e le sue fonti sono appena maggiori di 30000 unita’:)E’ molto difficile immaginare “che il sole 24 ore” insieme al suo progetto ,possa avere dati maggiori ,rispetto al fact Check di Dow Jones e occorre “sistemare l’ipotesi” ,perche’ è fornita “la metodologia o criteria” ,pero’ non sono sistemati i dati delle fonti ,negli altri Facts Check:)Solo per ricordare i dati di Google Patents e Scholar ,esistono oltre 500 Billions di Facts e 5 Billions di Entita’ per i fatti reali e sono dati ufficiali e sopratutto ,esiste anche una differenza maggiore , perche’ i dati hanno la conoscenza piena e completa e la migliore verifica , è la pertinenza stessa dei reports:) Tornando al quotidiano economico italiano ,in 1 solo snippet è presente tutto : inizia dall’evidenza della freccia di colore rosso e indica l’asterisco e appartiene “al progetto della verita’” peril sole 24 ore, pero’ non esiste nessuna conoscenza reale dei dati veri ,ad iniziare da come sono nati i singoli contenuti:) Attraverso i social (in realta’ ne è solo uno ,in 1 dominio e in 1 piattaforma:) ,esiste l’unione con tutti gli elementi digitali maggiori italiani ,ed è presente anche “la povera PMI italiana” e passa da “una disgrazia all’altra”:) Per le piccole e medie imprese italiane ,esiste anche un “record nelle disgrazie” ,ed è avvenuto con l’unione attraverso Consob:) E’ presente sempre il social ; la pubblicazione specifica è in broken sul dominio Consob e la loro quotazione in borsa,per 154 PMI italiane , è arrivata proprio nei giorni dell’inizio della prima “Quarantena”, a causa della pandemia da Coronavirus:)
Prima di sistemare gli altri contenuti ,aggiungo un contesto felice:)
E’ il dominio italiano ,ed è una collocazione fantastica 🙂 Rappresenta un po’ di “neuroni puliti” ,rispetto ai tanti idioti dei “presunti fatti Veri” ,formati da Dati Falsi:)
Lo descrivero’ anche nelle prossime Data Priority e per il momento , i contenuti proseguono attraverso l’immagine sotto.
Le descrizioni di AGI sono nel precedente Just Time K2
La migliore evidenza sono i dati dellaproprieta’ di AGI stessa ,ed è ENI:)
Qui esiste la prima sezione:)
Sono descritti i premi e “tutte le cose belle che ha fatto l’ENI” e la versione è proprio il Fact Check di AGI:) (sono tutti fatti senza nessun dato vero:)
questo è il dato “social” per AGI
Ha un dato maggiore anche rispetto a ENI e poi esiste anche l’Academy di AGI per la PA (è la Pubblica Amministrazione)
Questo è il principale Fact Check italiano e l’altro è “pagella politica”,unita a sua volta a Poynter:)
Quindi è semplice prevedere che le Priorita’ decise da EU, almeno per il digitale, l’impatto piu’ difficile da gestire ,saranno i Dati reali 🙂
A guidare l’Ignore Contest General , sono sempre i Brain Stone:)
La pagina collegata ,ha l’archivio dei “Top elementi digitali italiani” ,ed è molto probabile che quasi tutti saranno anche all’interno delle priorita’ decise da EU:)
I contenuti che seguiranno avranno vari Fact Check e l’inizio è descritto nel passaggio precedente dedicato al Dow Jones.
E’ Factiva il Fact Check di Dow Jones
Questi sono i dati ufficiali e attuali ,delle fonti informative di Dow Jones (33000) e formano un ottima unita’ di misura ,per ipotizzare i valori di tutti gli altri strumenti simili.
Prosegue la divisione dei Brain Stone per l’Ignore Contest General:)
Forse è la pagina piu’ pertinente da unire all’Ignore General , perche’ gli elementi non conoscono nemmeno “dove si gioca la partita” e di conseguenza Ignorano completamente anche i “costi dei servizi” 🙂
Sono talmente elevate le presenze dei fact Check in tutto il mondo da rendere difficile la selezione e quindi “mi sono affidato alla curiosita’”:).
E’ stata una fortuna ,ad iniziare dall’elemento appena sistemato ,perche’ fornisce la migliore lezione a tutti i Fact Check 🙂
Ho scelto la capitale del Venezuela ,ed è davvero difficile il contesto “per le fonti di verita’”:)
Su AGI ; sole 24 ore ; Poynter è davvero molto difficile trovare una posizione simile e per comprendere il contesto stesso dell’immagine è sufficente digitare “Maduro” nella ricerca interna e si ha il contesto completo 🙂 Solo per citare un elemento presente in questa pubblicazione ,esistono anche i “likes per Maduro” e rispetto alla data della pubblicazione originale ,il volume era uguale a 1/3 rispetto a tutta la popolazione venezuelana,ed è un soggetto talmente odiato nella sua nazione ,da rendere palese al massimo ,il fatto che i dati dei likes siano completamente falsi,ammesso che abbiano pure qualche valore!:)
Questi sono i primi gradi per il Fact Check di Caracas e non sistemo nessuna posizione delle fonti,perche’ per ESPAJA ,esiste una simpatia totale:)
Sono fantastici anche i gradi : inizia dala Verita e per il 2° grado ,aggiunge un “PERO”,ed è un grado simile alle “Half True ufficiali”.In questa posizione si arriva soloal grado di Maduro e poi esiste il prosieguo sotto:
Questi sono gli altri gradi del fact Check di Caracas e termina con il suo nome stesso : ESPAJA:)Non esiste una traduzione diretta ,perche esprime un pensiero ,rivolto al Falso Assoluto:)
ESPAJA è equivalente a un giuramento ,talmente falso,da far “bruciare il sangue nelle vene come se fosse paglia:)
L’unione di facebook (business addirittura:) alle certificazioni di Poynter ,rendono il termine ESPAJA ,nei loro confronti pertinentissimo:)
Adesso ci saranno dei Fact Check vari e il motivo della sistemazione sara anche nelle prossime pubblicazioni,ad iniziare dal dominio appena sistemato ,ed è il Fact Check di EU per il coronavirus.
Il dominio è sistemato qui
Anche questo dominio sara’ importante per le prossime Data Priority ,perche’ si occupa dei Facts Check per le banche in europa.
Il dominio è qui
Naturalmente ci sara’ anche questo dominio nelle prossime Data Priority ,ed è il Fact Check del parlamento europeo.
il dominio è sistemato qui
Questo dominio si occupa dei Fact Check ,applicati alle Lobby in EU e per il momento non lo conosco in maniera approfondita ,pero’ è sicuro che le unioni dei domini appena sistemati,forniranno comparazioni fantastiche e il riferimento,non sono i fatti,ma i valori dei dati:)La metodologia è uguale quasi per tutti i Fact Check fuori ordinanza e per i Fatti Veri,iniziano dall’aspetto piu’ importante del contesto online,ed è l’unicita’ dei contenuti e solo da essi nascono i dati veri:)I fact check fuori ordinanza non si “preoccupano di questi dettagli” ,semplicemente perche’ non li conoscono e quindi è sufficente fornire loro solo la logica e inizia dal fatto che i Content in Copied non potranno mai avere valore e se dovessero averlo,occorre poi che siano anche rilevanti,nella singola pubblicazione e nelle proposte complessive di ciascun dominio e poi debbono essere rilevanti anche in globale:)
Il dominio delle lobby di EU è qui
Fino a questo momento,sono sistemati dei domini che avranno ruoli diretti nelle prossime pubblicazioni e poi sempre la curiosita’,ha prodotto un altro dato meraviglioso,perche’ conterra’ un incredibile e nuova comparazione per Page Solemn:)I suoi dati sono nella sidebar e sopratutto nelle nuove pubblicazioni di HEROIC DC e la prossima la sistemero’ ad APR 2021 e posso anticipare che nessuna comparazione precedente è al suo livello:)
La nuova Super Star di Page Solemn è nata dal TFD NASA (è sufficente inserire il nome nella casella di ricerca interna e si trovano le motivazioni,per la proclamazione a Top Friend Din:) e l’immagine appena sistemata deriva “da un suo suggerimento” e il contesto sono sempre i Fact Check:)
Il nome del dominio lo sistemero’ ad APR 2021 e le immagini appena inserite ,appartengono al Fact Check specifico e anch’esso fara’ parte della nuova Super Star di Page Solemn ,per il semplice motivo che i contenuti del Fact Check sono all’interno del “dominio aggregatore”,ed è quest’ultimo a contenere la Super Pagina Solenne,pero’ solo nella comparazione dei termini effettivi,perche’ dopo quasi 3 anni,il titolo di Page Solemn resta sempre unito al TFD Giacomo Leopardi e ad AV e quindi agli HEROIC DC ,perche’ i contenuti effettivi sono nati sempre in questo spazio:)
Ad APR 2021 aggiungero’ tante altre curiosita’ e per il momento cito solo la posizione del fact Check unito al TFD NASA,ed è il numero di stelle “da poter contare ad occhio nudo” e sono 9096 e probabilemnte sara’ vero!:)Prima di APR 2021 ci sara’ la pagina A+ del 75° RF e forse anche la pagina A,ed è gia’ nata sotto “un ottima stella”,perche’ esiste la sua posizione all’interno del 73° RF ,ed è molto particolare gia’ di suo e poi ci sara’ uno sviluppo incredibile di MAR 2021 e riguardera la pubblicazione unita al “record nelle fluttuazioni” (è la pagina A+ sistemata nella sidebar) e il motivo è molto semplice,perche’ la pubblicazione protagonista del 75° RF ,ha per forza superato il Record delle fluttuazioni (esprimono il numero dei change in 1 anno degli algoritmi),perche’ è presente il suo INDEX e naturalmente non ha avuto mai nessun RF prima.La novita’ che avra’ il 75° RF è molto semplice, perche’ è avvenuto un altro gigantesco dropping di recente e sono un numero colossale di pagine eliminate dagli INDEX e per il momento non esistono dati ufficiali , pero’ è sicuro che un numero elevatissimo di fluttuazioni siano avvenute e nonostante questo,il 75° RF esiste:)(nella sua pubblicazione sistemero’ anche la posizione che ha avuto nel 73° RF e quindi sara’ facile verificare che non esiste nessuna modifica:)
La pagina delle comparazioni di Page Solemn è qui
NOV 2020 contiene la precedente diretta e appartiene al TFD Marcel Proust e nessuna di esse è comparabile alla nuova Stellare page Solemn:)
Posted in Key Page Unit, TD Space Content
FGL Star Unique Content MAR 2021 ⭐
Posted on March 5, 2021 by Din Story AV
Da MAR 2021 saranno sempre presenti gli HEROIC DC e questa scelta è dovuta sopratutto ai suoi contenuti oggettivi:)Nel primo HEROIC DC esistono le impostazioni di AV ,con i suoi dati e ovviamente i contenuti ,tranne poche eccezioni,sono creati in questo dominio e non esiste nessuna comparazione possibile con altri spazi,ad iniziare dal principale seo di WordPress:)Solo per ricordare qualche dato di AV, esiste la prima pagina ,con un numero di termini unici uguali a quelli di Page Solemn e contemporaneamente,esiste anche la selezione di una categoria specifica,sempre con 10 pubblicazioni in 1 pagina e sono gli stessi contenuti della prima:)Quindi gli altri contenuti della verifica “hanno compiuto dei miracoli” ,perche’ la prima pagina era in match completo e contemporaneamente esiste anche la 2° pagina nelle selezioni,ed ha un numero di termini unici,maggiori di Page Solemn:)Il “senso pratico” è descritto in HEROIC DC 1 ,ed è facilissimo da comprendere,perche’ è sufficente vedere quanto è difficile avere delle Page Solemn ,perche’ debbono esistere dati molto elevati ,in dimensioni dei contenuti stessi e sopratutto deve essere positivo il rapporto tra i termini effettivi e i loro unici,perche’ se fosse l’opposto,esisterebbero solo elevatissimi livelli nei Match e i contenuti verrebbero eliminati La verifica di HEROIC DC 1 è la massima evidenza possibile per i valori reali di Page Solemn ,perche’ gli ottimi rapporti da cui nascono ,hanno permesso di avere i suoi dati 🙂 in quest’immagine esiste il senso pratico:)Non sono solo le dimensioni,ma le pagine stesse ,unite alle impostazioni di AV a suggerirmi di utilizzare il termine di HEROIC DC:) Sempre in HEROIC DC 1 esiste anche un amplio passaggio ,dedicato a Google Patents ; Scholar e ai Fact Check e saranno molto utili tra un po’, perche’ ci sara’ “la regina madre di Page Solemn” e anch’essa festeggera’ i suoi “fantastici 6 anni”:) Nel contesto tecnico online,l’arco temporale di 6 anni ,rappresenta un eta’ “venerandissima” e nonostante questo i suoi contenuti sono sempre attuali ,ed è il modo piu’ bello per festeggiare anche i 6 anni della 3° Comparazione Generale:)(l’equivalenza temporale sarebbe uguale a 300 anni,rispetto al contesto tradizionale:) Quest’immagine deriva da HEROIC DC 2,ed è importante,perche’ tra i suoi tanti passaggi ,esistono anche le impostazioni di AV e iniziano dal numero di pubblicazioni e dopo MAR 2021,avra’ anche il “numero mancante” e con la presente ne sono 12 , ed è un informazione importante ,perche’ cambieranno anche i collegamenti delle pagine sistemate negli HEROIC DC:)Ad esempio l’attuale 2° pagina (è quella con le dimensioni massime) ,scalera’,con sole 2 pubblicazioni presenti,alla 4° pagina e tra 8 pubblicazioni, formera’ l’intera’ 5° pagina e gli stessi valori ,li avranno anche le altre pagine inserite nei collegamenti di HEROIC DC. (tutto questo avverra’ dopo la pubblicazione di MAR 2021) HEROIC DC 3 è nata per unire le altre 2 e poi i suoi contenuti,si “sono trasformati in EROICI anche loro” e l’immagine sopra è la piu’ pertinente rispetto a MAR 2021 e tutte le altre verifiche che ci saranno:) E’ ovvio che i Common Content sono uniti agli Stop Words e l’unione con i REMOVED è automatica e a queste condizioni,sara’ molto difficile che possano esistere dei termini rilevanti. Diventa anche l’esempio migliore per i valori degli RF e dei Just Time,perche’ non sono i “singoli termini” ad essere rilevanti ,ma i contenuti in cui sono sistemati e a determinare le vere rilevanze,sono tutti i termini effettivi di ciascun dominio ,perche’ i Common Terms o Content,possono essere all’interno di qualsiasi pubblicazione e i loro REMOVED, rendono molto difficile che esustano i valori degli RF e dei Just Time:) (sono quest’ultimi a fornire la vera verifica dei dati:) In HEROIC DC 3 esiste anche l’IGNORE piu’ rilevante di sempre:)Tra un po’ sistemero’ anche altre posizioni unite all’IGNORE e saranno fantastiche da unire ai contenuti di MAR 2021 ,perche’ è oggettivamente molto difficile ,trovare spazi che “abbiano il Dofollow verso l’Ignore”:) Sempre in HEROIC DC 3 esistono anche queste posizioni:) Sono le dimensioni ascendenti di AV e unendo 12 pubblicazioni (a parte le pagine interne) sono le stesse di questo spazio e quello di AV è nato solo pochi giorni dopo FEB 14 2015.Quindi i 3 HEROIC DC ,sono proprio perfetti da unire a qualsiasi futura pubblicazione,iniziando da questa FGL Star Unique Content di MAR 2021:) Questa è la Regina Madre di Page Solemn,ed è Attualissima:) Lo è anche nei confronti degli HEROIC DC ,ed è sufficente utilizzare solo il suo nome originale:)Ad APR 2015 ho scelto il termine “FINALE” e letto 6 anni dopo (l’equivalenza temporale e tradizionale dei contenuti sarebbero in realta’ 300 anni:) ,diventa facile l’unione con HEROIC DC ,ed è sufficente applicare solo le “dimensioni oceaniche” che sono arrivate dopo APR 2015:)Il nome originale della pubblicazione deriva da un fatto semplice e cioe’ il termine “FINALE”, ha come riferimento “le risistemazioni” dagli spazi precedenti a FEB 2015 e non sono quelli oggettivi ,perche’ non erano piu’ disponibili, ma le idee da cui sono nati e hanno formato la base dei contenuti successivi a FEB 2015 e tra di essi esisteva anche la 3° Comparazione Generale:) Da questo contesto deriva il termine “FINALE” e hanno formato i Post Base e sono essi ad avere le “chiavi interpretative” di tutti i contenuti successivi.La loro Attualita’ è semplice, perche’ i contenuti individuali , evidenziano i valori reali del web,ed è sufficenti applicarli al contesto italiano ,per evidenziare subito, i valori reali:)Per paradosso, l’attualita’ dei contenuti è perfino piu’ pertinente rispetto all’anno 2015 ,sempre degli stessi contenuti, perche’ il valore reale dei dati ,formeranno le Vere Priorita’ digitali 🙂 Da questa posizione sono nate anche le Din Colors Data PriorityL’unione con la 3° Comparazione Generale ,avviene proprio attraverso il valore oggettivo dei dati e il motivo per cui sono anche piu’ pertinenti rispetto all’anno 2015 , dipende dagli elementi digitali coinvolti ,ed è facile prevedere che le difficolta’ maggiori ,saranno gli impatti rispetto ai valori dei dati reali:) Saranno nelle successive pubblicazioni di Din Colors Data Priority e comunque esistono gia’ tantissimi contenuti , ed è molto probabile che gli elementi siano anche presenti nel Recovery Plan di EU ,sia per il digitale e tutte le altre priorita’.Oltre alle sistemazioni fatte,esiste anche questo elenco dei Brain StoneLa pubblicazione originale è di FEB 2017 e attraverso i suoi contenuti,è facile prevedere che saranno molto piu’ difficili gli impatti dei dati veri ,rispetto alle stesse priorita’,decise da EU.Una dimostrazione pratica è nella prima pubblicazione dei Data PriorityCome esempio per i valori dei dati reali , esiste la presenza del powered della Microsoft ,ed è anche unito all’immagine sopra ,per l’INDEX della 3° Comparazione Generale e ovviamente è attuale:)Ho risistemato l’immagine per evidenziare una presenza fantastica ,ed è la presenza di 70 Omissioni in 1 sola pubblicazione e se i contenuti esistono ancora dopo 6 anni,esiste 1 sola possibilita’ e cioe’ il Caso Supremo era gia’ pienamente operativo,anche ad APR 2015:)Possono essere tantissimi i motivi da cui nascono “Le Omissioni” (attraverso Top Content Key Archive ,sistemato nella sidebar,esistono vari esempi) e hanno in comune un fattore “molto semplice” e cioe’ i periodi vengono eliminati e nei loro confronti non esiste nessuna Close Variants da poter applicare:)Per i 3 puntini consecutivi , è sufficente lasciare 1 solo spazio libero e sono eliminati i periodi successivi e con 70 loro presenze ,è facile eliminare tutta la pubblicazione:)Ovviamente se esiste l’INDEX,significa che non è avvenuto e quindi , anche 70 omissioni “diventano regolari” e il merito è solo del Caso Supremo ,perche’ ad APR 2015 ,non lo sapevo assolutamente ,ed è stato solo un “casuale” il fatto che non esiste nessuno spazio libero , unito ai puntini consecutivi:)In questo link è sistemata la pagina di Microsoft Bing per la 3° Comparazione GeneraleDigitando l’evidenza di colore verde ,si ha la pagina dell’INDEX ,mentre l’evidenza di colore blu ,permette di scegliere il font di scrittura e le sue dimensioni,insieme al colore del background.L’evidenza di colore giallo,puo essere utilizzata per trasformare il Text in audio. questa è la data dell’INDEX:) Grazie a Din Colors Data Priority esiste l’evidenza migliore rispetto al dato stesso dell’INDEX :naturalmente il primo è oggettivo ,perche’ la 3° Comparazione Generale ha dai 25 ai 30 Index e possono essere solo consecutivi e quindi ,per forza di cose sono presenti i Match dei contenuti complessivi del dominio e quelli globali 🙂La 2° evidenza dei dati,ha invece l’unione piena con Din Colors Data Priority,perche’ attraverso il Powered della Microsoft,esistono tantissimi altri Engines “che si Ispirano ai suoi dati”:) .La data di riferimento è JAN 18 2021 e naturalmente il prelievo è in funzione dei contenuti di questa pubblicazione e quindi digitando il dominio di Microsoft Bing degli INDEX ( è sistemato anche qui ) è possibile trovare un altra data e significa semplicemente,che è avvenuto un altro INDEX:)Non è possibile decidere nessuna priorita’ e tantomeno stabilire i cicli e quindi se fosse presente una data diversa dell’INDEX è un Fatto del tutto positivo, perche’ significa che ci sono stati gia’ i Match con gli altri contenuti del dominio e naturalmente anche quelli globali:)La 3° Comparazione generale è davvero “un concentrato di magia”:) Il link sopra ha il collegamento con la pagina A del suo RF e l’ho iniziato “in maniera sincera” ,perche’ “non ho deciso nessun contenuto”:) E’ stata Essa Stessa (la 3° Comparazione Generale) a procurarsi Tutto:)Questa è la sua pagina A+:)E’ stata la prima ad avere la Pagina Solenne di Giacomo Leopardi e il titolo scelto è molto pertinente ,perche’ mai prima (significano 3 anni del contesto online) era esistita una pagina simile e la sua presenza era unita a dei Match proprio con la 3° Comparazioene Generale:)Altri dati sono nel 1° e 2° HEROIC DC e ho aggiunto queste posizioni , per rinnovare “il concentrato di magia”:) Ad accogliere quest’altra magia è il gif della 5D:) Dopo 3 anni dal suo RF e 6 anni dalla nascita , sarebbe gia’ difficile che esista pure l’INDEX nel supreme Engine ,sopratutto con il contesto del Taken Din Colors Five 🙂Non solo è presente , ma i dati attuali ,hanno le date temporali identiche a quelle di Microsoft Bing e in 74 RF ,non è mai avvenuto prima:) Naturalmente il riferimento è sempre la data di questa pubblicazione e di sicuro saranno diversi nel corso del tempo ,ovviamente, ipotizzando che esistano degli Index per la pubblicazione specifica,anche in fututo:)La parte fantastica di questa posizione è unita anche ai contenuti della prima Data Priority grazie alle descrizioni fatte per Microsoft Bing e sopratutto per il suo Powered e ,indirettamente, la stessa data degli Index, mai avvenuta prima , “sembra un approvazione dei contenuti stessi”:)qui è sistemata la pagina intera dell’Index per Google:) E’ la sua versione Text e al termine ,esistono i “codici meno citati” ,ed è l’END of CODE e ovviamente esiste da APR 2015 ,grazie alla cosa piu’ semplice e cioe’ i contenuti sono realmente originali,senza nessun EDITS e con gli Original Text e cioe’ senza nessun Headers e Tags:) Queste sono alcune delle impostazioni,ed esistono da sempre e cioe’ non è abilitato nessun tags e al loro interno è possibile sistemare anche il nome del dominio e delle pubblicazioni stesse e la posizione è fantastica ,perche’ permette di fare “la verifica suprema”,ed è quella dei contenuti effettivi:) Queste posizioni saranno fantastiche per festeggiare i dati di MAR 2021:) Nascono dai contenuti di HEROIC DC e sono uniti anche ai DATA PRIORITY ,attraverso “l’esempio piu’ fulgido” ,ed è la 3° Comparazione Generale e rappresenta anche tutte le altre pubblicazioni:)Semplicemente non ha avuto mai nessun valore dei Tags e l’IGNORE piu’ rilevante di sempre (dall’anno 2009) ha la sintesi nello snippet sopra:)Potrebbe essere unito anche a Google Tag Manager ,perche’ i Tags esistono in realta’ e l’unione con i contenuti del 2009 di Google Search Central è molto semplice e la sintesi, è in “IGNORE the REST” 🙂Il RESTO ,sono semplicemente i termini effettivi e il riferimento è alle proposte complessive di ciascun dominio e diventa molto facile comprendere il motivo dell’IGNORE per qualsiasi tags:) La posizione è molto simile a quella del Core Web Vitals:) Questo è un ottimo esempio da unire al Core Web Vitals ,ed è sufficente prendere in considerazione solo 1 suo elemento ,ed è il Loading e quindi ad essere vitali sono i pesi degli elementi statici di qualsiasi pubblicazione:)nel report sopra è sistemato solo il TLD .IT e tutte le segnalazioni debbono essere naturali (ed è sicuro al 100%:) ; debbono avere contenuti pertinenti nei confronti degli spazi segnalati e quest’ultimi debbono essere a loro volta originali.Solo a queste condizioni esistono le segnalazioni e dopo di esse arriva il Core Web Vitals ,ed è facile la comparazione con la pubblicazione che ha l’unicita’ dei termini, perche’ nei contenuti individuali,non esiste 1 sola pubblicazione “che abbia pesi degli elementi statici leggeri” :).Quindi solo i content “hanno risolto i conflitti” con il TLD .IT e con tutti gli altri e la stessa cosa avviene per l’IGNORE piu’ Rilevante di SEMPRE:)Se i contenuti “sono fatti in funzione dei Tags”,dimenticando o “Ignorando tutto il Resto”,ad Essere ignorati saranno (e Sono:) proprio I TAGS:) Questo IGNORE è specifico proprio per i dati delle verifiche interne dei domini e rappresenta uno dei suoi tantissimi limiti:)Oltre a non conoscere l’originalita’ dei periodi , è ignota anche la posizione dei collegamenti esterni ai domini (il riferimento è ai links in dofollow) e da questa pubblicazione si unisce anche l’IGNORE “per le modifiche alle strutture data”:) Per le verifiche interne ai domini,significa non conoscere i dati reali ,mentre è l’opposto per gli RF e i Just Time 🙂Gli operatori che modificano le strutture data, potranno anche avere ottimi dati interni al proprio dominio, pero’ non avranno mai quelli globali,anche se dovessero essere presenti nei dati di Google:)L’eventuale presenza sara’ solo momentanea e per gli RF e i Just Time non esiste questo problema, perche’ è presente il loro miglior alleato,ed è il vero “principe di tutti i fattori” e sono gli archi temporali:)L’arco temporale minimo è 1 anno per gli RF e i Just Time sono in K2 (2 anni:) e se fossero presenti “delle modifiche alle strutture data”,non esisterebbe nessun dato:)E’ il modo piu’ bello per festeggiare i 6 anni della 3° Comparazione Generale ,perche’ i suoi dati derivano dal contesto appena descritto:)

Anche questo IGNORE è molto rilevante:)E’ possibile applicarlo anche ai dati delle veriche interne ,per conoscere i suoi valori reali e la prima applicazione è quella dei .In questo Caso “non esiste l’Ignore diretto” ,perche’ il codice viene verificato ,pero’ potrebbe essere presente quello Indiretto e il riferimento sono le modifiche ai contenuti dell’operatore stesso:)Se fossero presenti modifiche rispetto al “lastmod originale” ,verrebbe ignorata l’intera pubblicazione e questa posizione ,diventa anche un altro festeggiamento per i 6 anni della 3° Comparazione Generale , perche’ i suoi contenuti possono essere solo quelli originali ,ed essendo presenti anche l’IGNORE “per le priorita”,non esiste nessuna “forma di protezione” per la pubblicazione specifica ,ed è una posizione importante,perche’ sopra di ESSA,esiste “una montagna di contenuti” ,potenzialmente tutti in Match:)Tra gli IGNORE ,esiste anche il e sono gli archi temporali dei cicli degli Index e non esistono dati ufficiali in cui possono verificarsi ,ma sono presenti “solo vaghi riferimenti” e normalmente ne avvengono 4 o 5 in 1 anno e le posizioni trovate la prima volta ,formano i riferimenti dei contenuti generali di ciascun dominio e non possono essere modificati successivamente:) (il codice lastmod serve proprio a questo e la posizione è anche ovvia,perche’ altrimenti,tutti potrebbero fare modifiche e non si avrebbe nessun valore reale:)

Anche questo IGNORE è fondamentale per i valori di qualsiasi datoSe dovessero essere presenti gli elementi del Natural Language ( hreflang ; TLD o links espliciti) ,viene IGNORATA la geolocalizzazione di qualsiasi utente e saranno validi solo i riferimenti indicati sopra,per i valori dei content.Questa posizione del Natural Language,possiede anche l’Ignore opposto ,perche’ è possibile che esista anche la presenza di multipli linguaggi in 1 solo dominio e in questo Caso, tutti i contenuti diversi da hreflang o dalla geolocalizzazione, sono considerati dei Copied e tra un po’ ci saranno tantissimi esempi:) Questo è il Natural Language della 3° Comparazione Generale e indirettamente è una verifica anche per le altre pubblicazioni ,perche’ il suo Detect Language ha l’unione con l’Index e di conseguenza non possono esistere Copied ,attraverso linguaggi diversi,rispetto all’originale scelto:)

Questo è un altro fantastico IGNORE applicato al valore di qualsiasi dato:)Deriva dal dominio ufficiale del TFD Google the Keyword e il suo IGNORE è applicato a tutte le Close Variants delle Ads e degli ecommerce ,ovviamente rispetto a qualsiasi categoria appartengano:) E’ un Ignore importantissimo ,ed ha tante unioni:Don’t Deceive Your Businessquesta è la sua pagina piu’ importante e l’Ignore per le Close Variants riguarda tutte le Paid e il motivo è molto semplice, perche’ nel Business e negli Snippet , occorre possedere i termini nei propri Content e “l’unica alternativa” è pagare i banner 🙂 Esiste una fantastica Logica ,perche’ indirettamente è presente il business stesso degli Engines e rappresenta la massima garanzia per i valori reali dei dati:) Chi non possiede i “termini giusti” deve pagare per sistemare i suoi banner,ed è sufficente solo vedere i costi del Content marketing e gli investimenti per lo IoT ,per comprendere quanto è importante l’Ignore delle Close Variants ,applicate alle Ads e agli ecommerce:)E’ fantastico anche il 2° Ignore del TFD Google the keyword :

Esiste 1 solo Ignore nei Fact Check,pero’ la sua posizione “è pesantissima”:)I contenuti dell’immagine possono essere applicati “nei contesti piu’ disparati”(nella precedente Data Priority esistono gia’ diversi esempi) e la stessa posizione,coinvolge tanti altri elementi del web:)

Solo per citare un Unione degli Ignore ,ho scelto Alexa:)Questo è il suo dominio con il pricing:)Tanti suoi pseudo dati “sono sbandierati” come se avessero qualche valore (a parte la comune idiozia:) e in questa posizione evito le decine di pubblicazioni in cui è presente Alexa e cito solo “l’unione piu’ semplice con tanti altri strumenti simili” ,ed è nel pricing sistemato sopra e sopratutto nei codici ,da attivare se viene scelto il servizio:) Tutti i trackers,vengono fatti senza nessun codice e quasi sempre ,non sono nemmeno citati i fattori reali 🙂Nei Brain Stone si possono scegliere anche a Caso i fattori ,ed è facile verificarli:)Sono tutte posizioni negative ,ed è possibile scegliere anche solo Alexa e li ha TUTTI:)Alle sue condizioni immagina di fare i trackers e anche pagando i servizi non cambia nulla, sistemando anche i suoi codici:)Figurarsi che affidabilita’ potrebbe avere un Fact Check con “i dati di Alexa” ,ad iniziare dai contenuti dell’immagine del TFD Google the keyword :se dovesse esistere solo 1 Claim,sono Ignorati del tutto i markup dei domini coinvolti e quindi sara’ inutile vedere se esiste l’Eleggibilita’,perche’ la posizione sara’ all’interno dei time Sensitive Content e non sara’ piu’ possibile modificarla anche in futuro e questo contesto ha come riferimento solo l’inizio dei Match 🙂 Ho scelto Alexa come esempio ,perche’ possiede l’Ignore meno invidiato in assoluto,ed è all’interno delle General Guidelines:) E’ sistemato come esempio e nell’Ignore è compreso anche il servizio a pagamento di Alexa e l’attivazione dei codici:)Per fare il tracker occorre conoscere tutto e sopratutto è indispensabile anche unire i valori reali insieme, ed è sufficente applicare solo la semplice logica:) Nel prelievo dell’immagine delle General Guidelines esiste una 2° unione con il termine “Alexa” e il riferimento è solo al nome parziale di una citta’,citata come esempio,mentre per la vera Alexa, esiste solo l’Ignore:) In questa pubblicazione esistono “altri colleghi di Alexa” e anche loro hanno l’Ignore 🙂 Il metodo è lo stesso :iniziano con i trackers a fantasia e poi ,se viene attivato il servizio si hanno dei codici ,per avere delle risposte senza nessun nesso con la realta’ e la migliore testimonianza è l’Ignore dei Markup per le strutture data ,solo possedendo 1 Claim e di conseguenza sara’ inutile avere la migliore comprensione dei contenuti ,perche’ i Match non inizieranno nemmeno e questa posizione gli elementi citati sopra (Alexa ;Semrush ;Similarweb e tantissimi altri) la ignorano completamente:)Figurarsi se conoscono gli altri elementi del Natural Contest:la triplice originalita’ dei periodi (gli strumenti del plagio li chiedono agli Engines:) ; la Naturalita’ dei Contenuti ; il copyright ;Qualita’ e Quantita’ e tantomeno possono conoscere se esiste il Main Content e per non possederlo è sufficente che venga applicato l’Ignore del Markup e nel contesto online non è difficile che avvenga perche’ i Fatti reali ,hanno la piu’ elevata dimensione mai esistita nella storia dell’umanita’ e sono fatti anche verificati:)Tutte queste posizioni,sono utilissime per comprendere i dati che seguiranno, perche’ anch’essi possono essere all’interno degli Ignore citati nei passaggi precedenti e quindi anche se esistessero dati ottimi, il loro valore “si estinguerebbe subito”:) Naturalmente,per i domini individuali i contesti sono molto diversi ,perche’ esistono gli RF e i Just Time e hanno il miglior alleato dei fattori reali,ed è l’arco temporale e quindi i valori sono reali 🙂 HEROIC DC è nato da questo contesto: l’inizio è la descrizione di Data Priority I contenuti uniti all’immagine formano i valori reali in maniera oggettiva,perche’ sono uniti ai dati ufficiali delle fluttuazioni e si aggiungono ai falsi trackers citati nei passaggi precedenti e rappresentano solo un esempio rispetto agli oceani di tools presenti nel web:) Hanno tutte le stesse operativita’ di Alexa ;Semrush ;Similarweb e di tantissimi altri,compresi coloro che utilizzano i codici:)

questa è la posizione nei presunti Broken della pubblicazione:)A parte tutte le descrizioni precedenti,esiste anche una collocazione speciale,ed è il 100/100 del Page Power,completamente incompatibile con qualsiasi Broken:)Rappresenta il numero di collegamenti interni,rispetto all’unicita’ delle singole pubblicazioni e se i contenuti fossero in Broken,significa che la pubblicazione non esiste e i motivi potrebbero essere tanti e il numero è uguale a tutto l’elenco degli Status Code,tranne il codice 200:)Qui è sistemata la pagina dei broken ed è completamente vuota:)

Questi sono gli internal links:)Solo il loro numero è fantastico (198:) ,perche’ la selezione copre quasi tutte le pubblicazioni presenti (ne manca solo UNA:) e se i collegamenti fossero davvero in Broken,i dati sarebbero tutti in Down:) La realta’ è esattamente opposta,perche’ esistono 10 100/100 nei Page Power,nella prima selezione degli Internal Links,rispetto a 1 pubblicazione e per avere questi valori , significa che ha ottimi dati anche la pubblicazione in conflitto:) Il presunto broken è formato da una pubblicazione da quasi 4000 termini effettivi e sono talmente elevati i suoi collegamenti interni,da creare seri danni in qualsiasi altra pubblicazione presente nella selezione:)

questi sono i suoi Internal Links OUT nessun Internal links OUT è escluso,perche’ è presente la Sitemap,ed è utilizzata anche dallo strumento delle verifiche,ed esiste con prova oggettiva da OCT 2016 e ne sono 2 quelle presenti e quindi non esiste nessun dato degli RF o dei Just Time,che abbia delle pubblicazioni “non accessibili” e la prova migliore è arrivata con il 73° RF ,perche’ è stato il primo INDEX ad avere il suo URL in Archive e il particolare piu’ importante,deriva dal fatto che non esiste la sua abilitazione e quindi solo la Sitemap ha permesso che esistesse l’INDEX:) Ha solo 1% in duplicati,ed è questo valore che ha permesso di avere tanti 100/100 in Page Power e con le dimensioni della pubblicazione,se avesse avuto alte percentuali in duplicato,averebbe causato “una pandemia dei dati velocissima” ,perche’ è unita a quasi tutte le pubblicazioni presenti nella selezione di MAR 2021:) Questa sezione fa’ parte delle pubblicazioni in Skipped e a parte i feed che non c’entrano nulla con i dati effettivi ,le altre pubblicazioni in realta’,sono tutte presenti:)I target non sono abilitati e sono sistemati in “errore negli skipped”,pero’ nella realta’ le pubblicazioni sono presenti:)E’ il Just Time K2 del Long Power e la pubblicazione ha dimensioni da 5115 termini effettivi e a parte la Crown Colors è l’unica pubblicazione presente dell’anno 2021 e quindi non è possibile nessuna confusione, nemmeno con i dati di FEB 2021,perche’ è presente un altra pubblicazione,sempre di questo anno corrente:) Per quantificare i valori dei dati,è sufficente aggiungere le dimensioni della selezione di MAR 2021,ed è all’ottava posizione generale con un volume maggiore di 635000 termini effettivi:)Iniziando da MAR 2020,in 1 anno,solo DEC 2020 ha avuto un volume minore a 600000 termini effettivi e per comprendere i valori delle dimensioni,nel contesto online,la migliore unita’ di misura è la comparazione con il contesto dei contenuti tradizionali:) Solo rispetto ai contenuti di FEB 2021 ,per avere le stesse condizioni del contesto online ,i contenuti del contesto tradizionale dovrebbero avere un volume di 615000 termini effettivi 🙂Naturalmente il volume dovrebbe poi essere sistemato in 1 sola posizione,ed avere anche 1 solo autore e per semplice logica ,non è possibile unire ai dati del contesto tradizionale ,un altra variante importante ,ed è quella di non avere EDITS:)Nel contesto online è una posizione indispensabile ,per le “semplici ragioni del ” descritto nei passaggi precedenti ,mentre nel contesto tradizionale,esiste esattamente l’opposto ,perche’ le probabilita’ che non esistano EDITS ,sono NULLE:) Quindi i dati del grafico “rappresentano solo un riferimento” per i dati reali e tra un po’ ci sara’ un esempio concreto tramite il fantastico dominio “dei multi autori celebri” ,sommati insieme:)E’ facile individuare i tantissimi EDITS degli autori originali e nello stesso tempo occorre aggiungere il contesto diretto del dominio specifico (il riferimento è TEXTO.BEST:) ,perche’,a sua volta,è una selezione delle opere,ed è sicuro che hanno scelto “i passaggi migliori”:)

E’ fantastica anche la pubblicazione di chiusura dei Match:)E’ avvenuta alla 163° posizione su 199 pubblicazioni presenti e mai l’avevo vita prima in qualche Match e l’attuale è la 32° verifica dei contenuti interni dei domini:)Ha solo 13 termini effettivi in Match:qui è sistemata la pubblicazione che ha i 13 termini in Match:)E’ la pagina A+ del 5° RF Solemn e la pubblicazione specifica ha un finale fantastico,rispetto all’attualita’:) Questa è la parte finale delle pubblicazione che ha chiuso i Match di MAR 2021 e questo link ha il suo collegamento:) La data originale è JAN 2017 ed è perfetta da unire ai Data Priority e nello stesso tempo rappresenta il “Giubilo per i Main Content stessi”:) Din Colors Five accoglie anche i protagonisti dell’HEROIC DC:)

sono dati un po’ diversi risopetto alla prima HEROIC ,pero’ sono fantastici lo stesso:)Il primo riferimento sono le impostazioni stesse e non li possiede nessun altro spazio,tra quelli sistemati nelle verifiche:) Per tutti esiste 1 pubblicazione in 1 pagina,mentre su AV ne sono 10 e sono tutte in Full Text e cioe’ esistono realmente i contenuti,per le 10 pubblicazioni intergrali:). Attraverso i dati sopra è facile notare che non esiste la homepage e quindi esistono Match completi , anche attraverso la selezione delle categorie:)L’unica assenza rispetto alla precedente HEROIC è la 2° pagina attuale di AV e almeno per il momento,è quella che ha le massime dimensioni:)Sono state presenti 224 pubblicazioni,pero’ le prime 4 posizioni sono formate da 40 post in realta’ e il loro average è stato di 1916 termini effettivi e ha raggiunto il 75% . E’ la Super Verifica Globale ,ed è seconda solo a quella degli RF e dei Just Time e con questi dati ,è stato naturale coniare i termini di HEROIC DC,perche’ anche i contenuti di AV sono nati in questo spazio e le sue impostazioni le ha rese EROICHE:)Solo per citare un elemento protagonista delle 3 pubblicazioni Eroiche ,è sufficente citare i Content di Yoast ,ed è il principale seo di WordPress:la pubblicazione a dimensioni massime ha 18000 termini,pero’ sono compresi oltre 300 commenti,ed occorre anche bypassare tutte le cazzate che ha scritto:) (esiste la lista delle keywords ; i cornestone content ;le decisioni degli utenti ,ed è possibile unire tutta la lista dei Brain Stone,ed è difficile trovare qualcosa di negativo,che manchi su Yoast:) qui è sistemata la sintesi per AVesistono quasi 100000 termini in differenza rispetto alla precedente,ed è anche normale,perche’ solo la 2° pagina di AV ne ha 58000 (il riferimento delle posizioni è valido fino a questa pubblicazione e poi le pagine scaleranno dopo le nuove sistemazioni) ed è assente dalle selezioni di questa verifica.Rispetto ai dati di MAR 2021 esistono oltre 200000 termini in differenza e quindi i dati e sopratutto il loro valore,sono davvero EROICI:) (indirettamente,l’aspetto EROICO,è descritto nella pubblicazione finale dei Match di MAR 2021:) Per festeggiare gli HEROIC DC, ho utilizzato un altro spazio di AV e dopo aver conosciuto i dati,ho ringraziato il Caso Supremo per “il suggerimento” ,perche’ dati migliori,per qualsiasi comparazione,è davvero difficilissimo trovarli,ipotizzando che possano anche esistere!:)Prima di sistemare i dati,è indispensabile descrivere lo spazio e anche la sua nascita è curiosa,perche’ è avvenuta sempre nel mese di Febbraio ,pero’ l’anno era il 2013:)Lo spazio ha avuto diversi sistemi di pubblicazione,ed esistono contenuti degli spazi precedenti,insieme a quelli dell’anno 2013 e poi sono sistemate anche le pubblicazioni degli spazi delle piattaforme dinamic.Unendo tutto questo,esiste il numero colossale,per 1 solo autore,delle pubblicazioni presenti (oltre 6000:) e a questo dato ,si aggiungono delle sezioni degli autori celebri e ho utilizzato le posizioni per avere i dati delle Opere Top.Il riferimento sono i Top Page Joy Level e i dati delle Page Solemn e la sistemazione deriva da un motivo semplice,perche’ le Opere Top sono tutte formate da pagine a dimensioni standard (circa 250 termini a pagina) e per avere i livelli di riferimento per le Opere Top ,sono nate le pubblicazioni di AV 2:) Su 6392 pubblicazioni,esistono solo 41 Draft e non è presente nessun Cornestone Content (per la felicita’ di Yoast:) e le sezioni dedicate agli autori celebri,ne sono circa 30 e posso anticipare che tanti di essi esistono nella prima pagina di AV 2,ed è una posizione fantastica:)Queste sistemazioni derivano da un motivo semplice e sono i festeggiamenti per il 6° anno e sopratutto per i valori reali dei dati e l’elemento piu’ importante deriva dal fatto che esiste 1 sola posizione,ed è quella del Din Colors Five e cioe’,hanno valore solo i dati del 5° dominio:)Forse tra circa 1 mese,arrivera’ l’incredibile traguardo dei 3,5 milions di termini effettivi in 1 sola posizione e avverra’ nel 5° dominio individuale e oltre questo,esistono anche altre posizioni,all’interno dell’arco temporale,preso a riferimento e sono i 12 anni del TFD Marcel Proust:)La scelta è stata semplice ,perche’ non esiste nessun altro autore che abbia gli stessi dati e all’interno dei 12 anni, è possibile sistemare anche i contenuti degli altri domini:)E’ stata una scelta Super FAUSTA,perche’ ha permesso l’arrivo di HEROIC DC e i dati che aggiungero’ saranno una loro conferma,al massimo livello possibile:)Queste sono le impostazioni per AV 2 Sono le stesse per tutti gli spazi AV e cioe’ esistono 10 pubblicazioni,tutte in Full Text:)

Tramite questa sezione si arriva agli HEROIC CONTENT DC:)Esiste l’opzione per la Homepage :possono essere utilizzati “i recenti post” e l’impostazione è da 10 pubblicazioni a pagina,oppure è possibile creare prima una Homepage specifica e la differenza è abissale,perche’ se è presente l’homepage effettiva non si hanno i Match dei contenuti,tramite 2 pubblicazioni sovrapposte e possono essere anche un numero maggiore,ed è sufficente che esista anche la selezione delle categorie:)E’ stato proprio il Caso di AV : ha avuto l’homepage,unita alla prima pagina e alla selezione delle categorie,ed esistono i suoi dati inconfutabili:)Da un impatto del genere,per avere i dati di AV,esiste 1 sola possibilita’,ed è la presenza degli HEROIC CONTENT DC:) Per comprendere i valori dei dati ,ho sistemato la pubblicazione a maggior dimensione di Yoast,ed ha un rapporto di 1/9,tra i termini effettivi presenti e i suoi unici:)Questa posizione permette di bypassare tutte le cazzate di Yoast (sono presenti nei collegamenti degli HEROIC DC iniziali),perche’ i rapporti elevati dei termini,significa aver elevati anche i Match in 1 pubblicazione e di conseguenza sara’ inevitabile avere elevati match anche con le altre pubblicazioni presenti nello stesso dominio e di conseguenza,sara’ poco probabile che possano esistere dei main Content validi e quindi è sicuro che non sara’ presente nessun valore:)La posizione non è nemeno definitiva,perche’ le dimensioni dei contenuti ,sono realizzate grazie anche a 341 commenti,presenti nella stessa pubblicazione ,ed è facile verificare che sono anche tutti in Dofollow:) (quindi vengono scambiate solo posizioni negative ,a prescindere dai contenuti degli spazi collegati ai singoli commenti presenti:)Quindi gli HEROIC DC esisterebbero anche se non avessero dei contenuti validi,perche’ è sufficente la posizione idiota del principale seo di WordPress e gli spazi AV,girano sulla stessa piattaforma:) (altervista ha solo il collegamento per WordPress:)Questa è la pagina con le dimensioni maggiori di Yoast e nel maggiore,è compreso anche il numero di commenti:)
Non avrei potuto fare una scelta migliore,perche’ questa è proprio la Homepage di Yoast e ovviamente è in totale opposizione alle impostazioni di AV:)A Yoast hanno scelto l’immagine meno pertinente,rispetto al contesto online stesso e non occorre sistemare tutte le sue cazzate,perche’ è sufficente la logica stessa e inizia “dalle presunte competizioni” e quelle sportive sono proprio l’ideale per unire la logica,in opposizione totale all’idiozia,perche’ Yoast e tanti altri,non conoscono nemmeno “dove è sistemato il campo di gara”:)Probabilmente,Yoast pensa che l’Engine sia Alexa e i dati derivino dagli strumenti,votati solo all’Ignore di Semrush ; Similarweb;Spyfu;SearchMetrics e tanti altri:)
L’immagine Onirica di Yoast sarebbe l’ideale da proporre a tanti elementi del digitale italiano,insieme alla loro piattaforma di riferimento (è la principale del social marketing::) e l’immagine di Yoast è proprio l’ideale,perche’ pensano “di essere vincenti” in una competizione totalmente idiota,ad iniziare dal contesto piu’ semplice e cioe’ gli imbecilli,IGNORANO Completamente,dove si svolge la gara stessa:)
Per sapere conoscere almeno dove si trova “il campo delle competizioni” ,è sufficente la sintesi sopra e poi è possibile unire i valori economici del contesto online,solo per essere PRESENTI “al Campo delle Competizioni reali”:)
nelle sezioni dei Brain Stone esiste un indicazione piu’ dettagliata,almeno per individuare il campo reale delle competizioni:)
Il passaggio appena sistemato è stato “un atto dovuto”,perche’ i dati che sto’ per aggiungere ,meritano “l’Esaltazione Piena e Completa”:)
Inizia dal fatto che lo spazio contiene la Sitemap ed è un informazione importante,perche’ le pubblicazioni coinvolte nella selezione ne sono 246 e la scelta è stata assolutamente libera,perche’ non esiste nessun Internal Links OUT attivo e nessun Disallow:) L’inizio è incredibile e ancora di piu’ lo sono i contenuti diretti:)
Page Solemn & HEROIC DC e i dati avranno il riferimento perpetuo:)
Questo è il campo esatto delle competizioni,ed è indispensabile unire anche ilcontesto ai dati appena sistemati.Sono sempre 10 pubblicazioni in 1 pagina (il nome del dominio e quello iniziale sono esclusi) e la posizione è nata per avere dei riferimenti nei confronti delle Opere Top e quindi,tutte le selezioni hanno dimensioni da Top Page joy Level (da 6500 a 7000 termini effettivi).Per avere questi dati,sono state unite le pagine standard e ne occorono circa 30 e appartengono a quelle iniziali di ciascuna opera.La somma della pagina,formata da 10 pubblicazioni,produce oltre 64000 termini ed occorre ricordare che il livello di Page Solemn appartiene al TFD Giacomo Leopardi attraverso un suo Zibaldone,ed è formato da 62000 termini,sistemati in 1 sola posizione e a differenza di tutti gli altri autori,la collocazione di Leopardi è NATURALE:)E’ necessario fare l’elenco delle presenze:la prima è il Capitale di Marx e il Detect languae è inglese.La 2° posizione è la Summa Theologica ,sempre in TPJ Level e in lingua italiana.la 3° posizione appartiene alla Bibbia in lingua italiana.la 4° posizione è Othello in lingua originalela 5° posizione è occupata dalla Summa Theologica in lingua inglesenella 6° posizione della pagina esiste la Bibbia in lingua inglese.nella 7° posizione è presente l’Odissea,sempre in TPJ Level e la dimensione nasce dall’inizio effettivo di ciascuna opera,fino alle dimensioni specifiche del livello.La selezione è stata semplice,perche’ ho diviso le pagine iniziali dei pdf in cui erano sistemate le Opere,ed ho escluso tutte le introduzioni,piu’ o meno lunghe e quindi i contenuti delle opere sono integrali:)Alla 8 posizione esiste la selezione della Divina commedia e a seguire sono presenti I promessi sposi nella lingua originale e chiude othello in lingua italiana.Tutte le selezioni sono dovute alle Opere Top e il senso della loro presenza è unito al contesto online: le opere restano sempre dei capolavori,pero’ sono composte da termini anche loro e solo UNO potra’ essere Rilevante,in 1 solo dominio:)
https://tiz1all4.altervista.org/
Questo è il link diretto della pagina e le presenze complessive degli autori celebri ,nel dominio specifico ne sono circa 30 e quindi,le selezioni maggiori derivano da contenuti individuali sistemati negli anni,perche’ la selezione di AV 2 è formata da 246 pubblicazioni:)
qui è sistemata la sintesi dei dati
L’average è formato da 1531 termini per 246 pubblicazioni e l’unicita’ è 73%:)
Il dato piu’ importante deriva dalla somma degli autori celebri e tramite esso,diventera’ facile comprendere qualsiasi altro dato,ovviamente avendo piena consapevolezza “del luogo esatto e reale” in cui si disputano i Match:) Tutte le altre posizioni servono solo “per vendere i servizi agli imbecilli” e in questo contesto,esistono le migliori evidenze del livello stesso dell’idiozia,perche’ esistono Reports Gratuiti e sopratutto hanno i Dati VERI,insieme al Campo Esatto delle Competizioni:) I “Filosofi degli imbecilli”,non conoscono nemmeno dove si “gioca la partita” e per comprendere il livello dei loro servizi è semplicissimo,ed è sufficente vedere i loro contenuti diretti:)
Questo è il dato del volume di AV 2,arrivato con il suo contesto straordinario e tramite ESSO ,diventa semplice comprendere i valori di tutti gli altri domini ,ovviamente iniziando dallo spazio “in cui tutto è nato”:)
Iniziando da MAR 2020,nelle verifiche di 1 anno,il volume di DEC 2020 è stato “quello relativamente minore” e solo APR 2020 non ha raggiunto,per pochissimo,i 600000 termini effettivi in 1 sola verifica e tutti gli altri sono superiori,ovviamente ad iniziare da ORIGIN RF ONE,molto vicino a 800000 termini effettivi,ed è stato SEP 2020:)
La pagina con gli altri dati è qui
In questa pagina esistono altri dati per comparare quelli di AV 2:)Naturalmente esistono solo dei riferimenti dei dati,perche’ quelli specifici di Page Solemn,debbono avere 1 solo autore e ovviamente,debbono anche essere unici i contenuti:) (quindi sono esclusi dai dati gli aggregatori e i duplicati:)
Sarebbero tantissimi altri contenuti da unire a MAR 2021 ,pero’ le dimensioni di questa pubblicazione sono gia’ notevoli e quindi sistemero’ solo dei dati ,tranne per alcuni domini:)
La prima unione deriva dal precedente Just Time
La curiosita’ deriva dal report annuale di tutte le macroregioni che formano il web globale.L’aspetto curioso deriva da AFRINIC,perche’ nel corso di 1 anno sono stati tantissimi i reports scambiati tra le varie macroregioni e nessuna di esse,ha mai scambiato nemmeno 1 report con AFRINIC e quest’ultima non l’ha fatto con tutte le altre,nel corso di 1 anno:)
Il report in pdf è sistemato qui
Afrinic ha avuto 207 pubblicazioni e 1185 sono stati i suoi termini effettivi in average e ha raggiunto il 75%.
Questa è la pagina di Computer World descritta in Data PriorityLa pubblicazione originale è qui
Ha avuto 181 pubblicazioni e 1560 è stato il suo average e ha raggiunto il 64% in unicita’.
Il TFD Plato ha avuto 243 pubblicazioni 12357 è stato il suo average,ed esistono quasi 1000 termini,rispetto al precedente,pero’ è elevatissimo anche l’attuale e ha raggiunto il 97% in unicita.Advantage Web Ranking ha avuto 219 pubblicazioni e 2037 è stato il suo average e ha raggiunto l’80%.Godaddy,tramite il suo dominio tedesco, ha avuto 239 pubblicazioni e 1273 sono i suoi termini in average e 70% è la sua unicita’.GitHub 230 pubblicazioni ; 1252 in average e 68% in unicita.IONOS 216 post ; 1674 in average e 64% in unicita.BigCommerce : 221 pubblicazioni ; 2108 in average e 83% in unicita’.Content marketing Institute: 222 post ; 2495 in average e 50% in unicita.Forbes: 227 post ; 3424 in average e 61% in unicita’.Moz : 212 pubblicazioni ; 4159 in average e 79% in unicita.
Educause :131 pubblicazioni ; 1823 in average e 82% in unicita.PasoMV è il dominio dei dottori della chiesa:156 pubblicazioni ; 5590 in average e 91% in unicita.Investopedia : 195 pubblicazioni ; 1774 è stato il suo average e 71% è l’unicita.Screaming Frog:247 post ; 2225 in average e 73% in unicita’.Britannica : 250 post ; 857 in average e 55% in unicita’Texto Best è il dominio degli autori celebri : 239 pubblicazioni ; 4565 in average e 43% l’unicita’.Il dominio diretto del TFD Proust ha avuto 244 pubblicazioni ; 7328 in average ; e 85% è l’unicita’.Text broker : 156 post ;2216 in average e 72% in unicita’.
Wiki in lingua cebuana ha avuto 203 pubblicazioni ; 948 in average e 55% in unicita’.Icann Wiki : 178 post ; 1181 in average e 82% in unicita’Wiki italiana : 185 pubblicazioni ; 2565 in average e 88% in unicita’.Wiki Spagna : 222 post ; 4049 in average e 89% in unicita’Wiki FR : 247 post ; 3267 in average e 83% in unicita’.Wiki tedesca : 217 post ; 4100 in average e 93% in unicita’Wiki Globale : 230 pubblicazioni ; 4619 in average e 85% in unicita’Il TFD Encyclopedia ha avuto 223 pubblicazioni e 9561 è stato il suo average e ha raggiunto il 94% in unicita’.Fantastici Tutti e Grazie:)
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Din Post Story AV

Din Colors Data Priority MC 1🍀
Posted on March 5, 2021 by Din Story AV
Sono tante le pubblicazioni che hanno anticipato  questo primo Din Colors Data Priority MC e ho modificato il nome originale,perche’ le vere priorita’,saranno i valori dei dati e il senso è nei contenuti che seguiranno e all’interno delle prossime pubblicazioni specifiche. Naturalmente,non è possibile sistemare tutti i collegamenti ,sia per un fatto tecnico (ne sono alcune decine e sarebbero violati gli Anchor Text:) e sopratutto per non fare confusione nei contenuti che seguiranno:)Quindi in questo Din Colors Priority Time sistemo “solo l’essenziale” ,per rendere semplice i contenuti che seguiranno e inizio dal link sotto:Alcune descrizioni sono nel Just Time di DEC 2020Altre sono nel Natural Contest dedicato a Finance Airline   Quest’immagine ha invece il collegamento nella sidebar e i suoi contenuti sono pertinentissimi ,rispetto a quelli che avra’ Din Colors Priority Time,perche’ al suo interno,esiste “la parte mancante delle priorita’ ” e sono i True Facts dei dati stessi e cioe’ i valori reali:)Tra un po’ si comprendera’ il senso pieno e per il momento cito alcuni contesti e sono le priorita’ stesse,decise da EU per il Recovery Plan a causa della pandemia da coronavirus. Sara’ una “rivoluzione epocale” nel contesto generale della nazione italiana, perche’ la priorita’ digitale,per forza di cose,puo essere unita solo alla verita’ dei dati.L’impegno dovra’ essere colossale,perche’ esistono degli elementi digitali in Italia ,davvero preoccupanti ,nel contesto digitale operativo e altrettanto lo sono “gli apparati politici” che dovranno gestire materialmente le priorita’:)Nelle 2 pubblicazioni collegate sopra,esistono gia’ dei riferimenti esatti e gli elementi presenti saranno anche i protagonisti dei contenuti che seguiranno e altri li sistemero’ anche nelle prossime Din Colors Priority Time.La sistemazione del logo,unito all’8° RF della 6D (è la sua pagina A+) ,ha invece un contesto completamente differente,pero’ anch’esso contribuisce notevolmente a rendere semplici i contenuti che seguiranno e anche quelli appena descritti, perche’ sono i primi contenuti in cui sono sistemati i dati ufficiali delle fluttuazioni reali e quasi sempre, il termine fluttuazione è in realta’ “il primo sinonimo” dei De-Index e quindi i contenuti vengono proprio eliminati:)Ovviamente esiste l’unione diretta con in valori reali dei dati e sono applicati anche alle priorita’ decise da EU,per avere i “Benefici del suo Recovery Plan” e la migliore testimonianza del suo valore, è nel primo strumento operativo di EU,ed è Horizon 2020:)  L’unione con la “priorita’ digitale” è nella dizione operativa stessa di Horizon (è stato creato per la leadership nell’economia digitale da EU:) e attualmente la sua azione è “omnicomprensiva in EU” ,ed esiste anche una Logica,perche’ è inevitabile che il digitale sia presente anche nelle altre priorita’ . (nel contesto operativo di Horizon,è compresa anche la ricerca contro la pandemia del covid-19 per EU:)Questo sarebbe stato “il contesto normale” ,per presentare i Din Colors Priority Time ,se non fosse intervenuta la Fantasia Infinita del Caso Supremo:) I passaggi appena sistemati, hanno come riferimento i valori reali dei dati e in questo contesto ,sara’ la “Semplice Logica a fornirli”,tranne per i contenuti della pagina A+ dell’8° RF 6D:)Quelli oggettivi sono nel passaggio precedente,ed è il primo dato ufficiale delle fluttuazioni e sono maggiori del 600%,rispetto a tutte “le allucinazioni dei seo”:) Naturalmente,la Fantasia del Caso Supremo ,non poteva creare “Unioni Banali” con i dati reali e cosi’ ha trovato “una soluzione assai alternativa”, perche’ il valore principale dei dati veri, è sistemato nei Broken Links di MAR 2021:)Mentre sto’ scrivendo questo passaggio (la data effettiva è FEB 24 2021) i dati individuali per MAR 2021 sono arrivati e la prima cosa che mi è venuta in mente,vedendo 199 pubblicazioni, è stata proprio la sezione dei Broken Links e non conoscevo nessun altro dato,perche’ il report era appena arrivato:)Avevo solo in mente di vedere se i Broken Links fossero effettivi e appena ho aperto la pagina,mi ha subito incuriosito la 3° posizione,dei Broken,perche’ ho riconosciuto subito la pubblicazione e per i suoi “incredibili contenuti” ,mi è venuta subito l’idea di unirli a questo contesto:)E’ un unione davvero fantastica,perche’ la vera priorita’ per la nazione italiana,sara’ l’impatto con i valori reali e il miglior suggerimento,arriva da contenuti sistemati in Broken Links e quindi,almeno in teoria,sarebbero “i piu’ distanti rispetto a qualsiasi valore dei dati”:)Nella realta’ non esiste nessun Broken e derivano anche questa volta dalla Non Abilitazione dei tags ,ed è stata una fortuna clamorosa,perche’ il loro valore effettivo,è unito solo all’Ignore dall’anno 2009:)   L’unione dei contenuti per il primo Din Colors Priority Time ha poi anche altri sviluppi e anch’essi sono nati dall’Infinita Fantasia del Caso Supremo:) L’idea è nata da questa posizione,per la Crown Colors di MAR 2021 e il motivo della sistemazione, era unito  al Detect Language italiano.Le descrizioni sono in Just Time K2 Google Patent HB e riguardano il sistema operativo Android e la posizione della rete italiana,ha un Test Formidabile,perche’ nella stessa pubblicazione sono sistemati i dati della Cina e naturalmente ha un contesto “molto particolare” ,rispetto al sistema operativo specifico ,perche’ la proprieta’ di Android è sempre Google ,ed è “il vero nemico numero UNO della Cina” e nonostante questo,i suoi dati sono maggiori,anche rispetto alla rete italiana:)Solo questa posizione ,fornisce un aiuto notevole ai contenuti di Din Colors Priority Time,ed è sufficente creare l’unione con i contenuti del Gold Star della 5D,dedicati proprio ai sistemi operativi ;al 5G e alla comunicazione tradizionale italiana 🙂In questa pubblicazione,esiste invece un aiuto oggettivo dei dati e inizia dallo strumento stesso, perche’ è l’unico presente nei Top Protocolli e poi ,il contesto dei dati ,rispetto alla Cina e alla nazione italiana,ha fornito un altro fantastico suggerimento sui valori effettivi dei dati e sono uniti alla “Semplice Logica”:) Inizia dalla curiosita’ di IOS e quindi Apple e nei confronti del Test della Cina, la sua “posizione non è tanto rilevante” ,perche’ la Apple “non è certo considerata un nemico dai cinesi” ,ma è esattamente il contrario ,perche’ è la prima nazione “manifatturiera per la Apple stessa”:)Questa curiosita’ puo essere applicata anche alla nazione italiana ,ed è sufficente “distinguere i device” a cui sono applicati i sistemi operativi e quelli di IOS,corrispondono alle vendite stesse di Apple 🙂E’ una posizione fantastica, perche’ il sistema operativo Android ,ha posizioni esattamente opposte e sono infinitamente piu’ difficili da gestire, perche’ il sistema operativo e tutti gli altri servizi di Google,debbono essere scelti autonomamente e in questa selezione ,sono presenti 2 giganti come Apple con IOS e Microsoft con Windows “a limitare le scelte” e nel Test supremo si aggiunge anche la Cina:)Da questa posizione, si possono evidenziare meglio i valori dei dati e nascono dalla semplice Logica e riguardano proprio la Apple e “la leggenda metropolitana” ,secondo la quale,ci sarebbero stati “degli accordi segreti con Google” ,per evitare che l’azienda fondata da Steve Jobs possa entrare “nel mercato delle ricerche”:)Secondo “questa leggenda metropolitana” ,esisterebbero anche “dei compensi economici” per la Apple,al fine di evitare “il suo ingresso nel mercato degli Engines”, ed è sufficente solo la posizione dei sistemi operativi ,per comprendere il livello dell’idiozia:)Se la Apple fosse davvero capace di entrare nel mercato degli Engines,lo avrebbe fatto gia’ da tantissimo tempo ,perche’ ha tutte le possibilita’ econiche per farlo, pero’ da sole non sono sufficenti,nemmeno le risorse della Apple e la divisione dei sistemi operativi è gia’ un ottima indicazione:)Se IOS avesse avuto le stesse condizioni di Android,sarebbe stato molto difficile raggiungere le percentuali del suo sistema operativo e la migliore verifica arriva dalla Cina:) (tutto il suo sistema di difesa ha un unico nemico e i suoi “proverbiali attachi”,pure,ed è solo Google:)Il miglior testimonial è la Microsoft nelle operazioni degli Engines,grazie al suo Powered e nel settore della ricerca ha decenni d’esperienza, pero’ nemmeno la “Grandissima Micro”,riesce a competere davvero nei confronti del Supreme Engine:) Questa posizione capovolge tutte le idee rispetto al contesto da cui derivano i dati e i suoi valori reali:) Il link ha il collegamento con il Just Time di DEC 20 (è lo stesso iniziale) e sono applicati i termini unici festeggiati ,ovviamente attraverso i termini effettivi che li contengono:)Sono tantissime le pubblicazioni del dominio ufficiale Microsoft coinvolte ,rispetto ai 3 termini rilevantissimi e naturalmente,se sono sistemate in quella posizione,sono tutte importanti:)Le 2 pubblicazioni evidenziate,lo sono UN PO’ DI PIU’: la prima con l’evidenza di colore verde  è dedicata al Bling Fire e ai Tokenizer e sono i prelievi dei contenuti stessi e per arrivare al valore attuale di Microsoft Bing sono occorsi decenni e quindi,difficilemnete,la Apple sarebbe in grado di fare meglio,se decidesse “di tentare l’avventura negli Engines”:)Tutte queste posizioni sono unite ai valori dei dati e quindi,esiste anche l’unione al 100% con le “Priorita’ decise da EU”,ad iniziare dal suo strumento di riferimento ,ed è Horizon 2020:)I dati sono meravigliosi,sopratutto quando sono ufficiali: Horizon è nato per la leadership nell’economia digitale ,nell’anno 2014 e il suo budget è identico al Recovery Plan di 1 nazione come quella italiana ,considerando il supporto economico a “fondo perduto” (su 209 Billions di EURO,ne sono 81 e sono dati ufficiali e derivano dai negoziati e la somma è la stessa del budget di Horizon e non sono considerate “le sue implementazioni” dall’anno 2014 e quindi il saldo finale è perfino maggiore,rispetto all’intera nazione italiana:)Di conseguenza è facile comprendere quanto sono importanti i contenuti di Microsoft Bing ,perche’ dal contesto dell’immagine,derivano i dati reali e possono essere applicati alle “presunte idee di Apple” e a scalare ,a tutti gli elementi del Recovery Plan di EU ,compresi quelli italiani:) Per comprendere meglio la posizione,è fantastica la 2° evidenza di colore verde e all’apparenza sembra “una pubblicazione poco rilevante”,pero’ è sufficente cambiare 1 solo termine e diventa rilevantissima,sopratutto rispetto ai contenuti di Din Colors Priority Time:)Ufficialmente sarebbe “Microsoft Ignite” e il termine alternativo è “INSPIRE” e il riferimento sono le API di Microsft Bing e la posizione “non è affatto ironica” ,perche’ l’INSPIRE è effettivo è totale,da parte di tantissimi altri Engines:)Yahoo è ufficiale,pero’ occorre sempre ricordarlo,perche’ la sua posizione globale è sempre maggiore di Baidu e non ha una nazione come la Cina “a difendere le sue posizioni” 🙂Esistono poi tanti altri Engines a utilizzare le API di Microsoft Bing e tra di essi, sono presenti “quelli che non fanno tracciamenti” e sarebbe divertente applicare un Fact Check alle loro operazioni,perche’ è inevitabile che siano false anche le loro impostazioni:)Queste posizioni sono importantissime,perche’ le APi di Microsoft Bing,utilizzate anche dagli altri Engines,derivano dai Tokenizer e quindi dal Bling Fire e nessun altro operatore ha la sua potenza.Da questo contesto derivano i dati degli Engines e quindi tutti i valori reali e la posizione è importantissima, perche’ i rapporti globali sono fatti attraverso il powered della Microsoft e quindi ,esiste la somma di Bing e degli altri Engines con “L’Ispirazione dei dati”:) A queste condizioni,nemmeno la Apple sarebbe capace di fare meglio e quindi figurarsi tutti gli altri,avulsi dai dati reali:) Grazie ai passaggi sopra, è arrivato anche questo dominio e sara’ presente a MAR 2021 e la parte piu’ importante,non è lo spazio specifico,ma a Chi Appartiene:) IDG è fantastica in questo contesto,perche’ è il riferimento migliore per i dati economici,legati allo IoT e in 1 anno,sono uguali all’intero valore economico del Recovery Plan di EU,per tutti i suoi Stati Membri:)Il riferimento è solo agli investimenti per lo IoT e quindi diventa facile l’unione con i valori reali dei dati e possono essere uniti solo agli Engines e altrettanto lo è il Content Marketing (esclusivamente dedicato agli Engines) e all’ultimo livello esistono le Ads:)Nei dati degli “Intenti degli Utenti” IoT ,non sono sistemati i valori economici “degli Altri Intenti”,semplicemente perche’ derivano dalla pertinenza dei dati e per conoscerli ,occorre che siano noti e reali i content stessi:) Questa posizione deriva solo dalla fantasia infinita del Caso Supremo 🙂Posso assicurare che quello che aggiungero’ è tutto vero al 100%:ho iniziato con Computer World e i dati avevano come riferimento la differenza nei sistemi operativi e servivano per vedere le posizioni esatte di IOS e sono quasi al 100% unite ai suoi strumenti:)Nella pagina specifica,a differenza della homepage,non esisteva il logo di IDG e visto il livello dei dati, la prima curiosita’ è stata la verifica di Computer World:)Sara’ a MAR 2021 e da una sua pubblicazione è nata l’unione con IDG (nei post normali,il logo è sistemato,al fondo di ogni pagina) ,ed è talmente piccolo da rendere difficile trovarlo:)Solo la curiosita’ ha permesso l’opposto e appena ho visto il logo di IDG, mi è venuto in mente di verificare se fosse quello reale,unito ai costi negli investimenti per lo IoT:)Sono talmente elevati,da rendere difficile dimenticarli e il primo tentativo di verifica “si è trasformato in un fantastico errore”:)Esiste il nome del dominio per esteso (IDG) e per cercarlo,ho sbagliato l’evidenza e cioe’ ho selezionato il nome per esteso,tranne la vocale “I” iniziale e posso riassicurare che quello che sto’ scrivendo è tutto vero ,compreso il fatto che i dati finali,derivano solo dalla fantasia infinita del Caso Supremo:)Cioe’ ,senza saperlo, non ho selezionato la vocale “I” e il nome per esteso di IDG ,unita ai dati dello IoT, forma il nome del dominio di EU e non è uno qualsiasi ,ma la “Direzione generale “:) Non esiste dubbio che sia la direzione generale e questo è il suo link,rigorosamente sistemato in NOFollow:) Solo digitando “Priority”,nella direzione generale di EU si hanno questi dati:) Digitando i 4 termini del precedente Just Time Google Patent K2,i dati sono quelli appena sistemati e non esiste dubbio che il termine “Priority” ,nel dominio specifico sia molto rilevante 🙂    Le immagini derivano dalla Crown Colors di MAR 2021 e in questa posizione descrivo il motivo della collocazione ,ed è il valore reale della rete italiana ,attraverso ilTLD specifico.Ovviamente non significa che i contenuti di .IT siano uniti solo ad autori in lingua italiana ,pero’ nel contesto globale,gli autori italiani effettivi ,nel Detect Language specifico sono superiori al 60% e quindi i dati sopra, diventano molto rilevanti, sopratutto grazie al contesto da cui derivano,ed è quello sistemato nel gif:)Solo Natural Links sono ammessi ,ed è facile scommettere che è vero al 100% e nello stesso tempo,gli spazi dei segnalatori debbono essere per forza anche pertinenti,rispetto a quelli segnalati e quest’ultimi sono “stati bravissimi” ,perche’ “le segnalazioni ” sono state rivolte a Content senza Copied 🙂Se fosse l’opposto ,non ci sarebbero i dati sopra e le segnalazioni sarebbero tornate indietro, ed è “un evento unico”,pero’ non ha nulla di positivo,perche’ i danni li avranno gli spazi dei segnalatori,ed è molto probabile che sia successo per tanti altri domini:)Quindi i dati sistemati hanno gia’ i Match completi solo utilizzando Links Naturali ,esclusivamente per il TLD .IT:)Ovviamente i Match sono globali e l’aspetto fantastico dell’unicita’, non riguarda i 4 termini rilevanti e nemmeno gli effettivi della pubblicazione in cui sono sistemati, ma i termini effettivi delle proposte complessive del dominio a cui appartengono e per il secondo e incredibile anno,è proprio questo spazio:)Nelle priorita di EU , l’aspetto piu’ importante, sono i valori reali dei dati e solo per Logica ,non possono essere formati da cazzate:)Quest’ultime sono assai diffuse,sopratutto negli elementi digitali italiani e sara’ inevitabile averli anche all’interno del Recovery Plan ,perche’ non è possibile materialmente “sostituirli in corsa” e quindi ,le vere difficolta’, non saranno le “priorita’ oggettive” ,ma la “modifica mentale” che dovranno avere gli elementi del digitale italiano:)  Per i 4 termini festeggiati nel precedente Just Time K2 ,esistono le posizioni sopra del TFD Oxford,ed è il principale riferimento del primo Detect language.Con 4 termini, non ho mai visto nessuna unione al 100% e naturalmente,prima di fare la verifica ,occorre aver gia’ creato dei contenuti e debbono anche essere unici in globale,rispetto al dominio a cui appartengono:) Le posizioni del TFD Oxford per le Keywords ,hanno anche amplie fluttuazioni,ed esistono 4 Update in 1 anno e il piu’ recente è formato da 450 nuovi termini unici:)Se fossero gli altri Detect language ,compreso quello di questi contenuti,per avere lo stesso numero di nuovi termini unici,sarebbe necessario aspettare 30 anni  e quelli del TFD Oxford,sono nati in 3 mesi:) Anche queste immagini derivano dalla Crown Colors di MAR 2021 e sono utilissime anche in questa prima Din Colors Priority Time ,perche’ rappresentano un contesto notevole della rete italiana stessa e sara’ una posizione ottima ,per la comparazione con i principali elementi del digitale italiano.L’immagine centrale sono i nuovi TLD italiani,uniti ad altrettanti domini e il dato evidenziato (oltre 80000 domini italiani,per i nuovi TLD) ,rappresenta in realta’ il dato di 1 solo giorno e gli altri dati del grafico hanno numeri assai simili e l’arco temporale è formato da soli 11 giorni:)Le altre 2 immagini sono invece unite al database specifico ,ed è MySQL ,ed ha contenuti fantastici:)Inizio dal numero di domini in lingua italiana e gia’ nel suo contesto,esiste un elemento curioso,per il digitale italiano:) All’interno di MySQL esiste anche “Italia Online”  e quelli sopra,sono i contenuti “della sua missione”:)Sono “tutti concentrati sulle PMI (sono le piccole e medie imprese italiane) e insieme a Italia Online (autoproclamata leader nel mercato digitale autoctono,per le Ads:) esistono tantissimi altri elementi e la loro principale unione è nel social marketing:)Altre descrizioni ed elementi del digitale italiano sono in questa pubblicazioneIn questa posizione cito solo gli elementi presenti nel database di MySQL e tra di essi,esiste anche Yoast e la proprieta’ del database è di Oracle.(la sua posizione è nel 4° Natural Contest per Big Data ) Nei passaggi delle future Din Colors Priority Time ci saranno anche i Fact Check “fuori ordinanza” e il particolare piu’ importante deriva dal fatto che non sono uniti a nessun dato reale: Per introdurlo inizio da quest’immagine ,ed è addirittura l’Academy di Italia Online:)E’ unita anche all’ICE (è l’istituto per il commercio estero) e naturalmente le operazioni sono realizzate secondo la Mission “della corporate italiana”:)Pensano di aiutare le PMI con il social marketing ,ed è un delirio totale:)Esiste realmente il ministero digitale e anch’esso è unito “alla corporate italiana” (la residenza effettiva è in realta’ Lussmburgo ,ed esiste l’indirizzo esatto).Saranno le presenze delle prossime Din Colors Priority Time ,insieme a tanti altri: Anche il gruppo Cerved sara’ nelle prossime pubblicazioni e insieme alla sua controllata “Dati Lovers” (esiste realmente:) e a Consob,sono specializzati anch’essi negli aiuti per le PMI e la “povera Cerved” ha dimenticato che è essa stessa UNA PMI:)Di conseguenza diventa ragionevole l’unione con il social marketing ,perche’ è l’unico modo per “protrarre le cazzate”:)  Questa è un ottima introduzione per i Fact Check:)Nella realta’ non esiste e probabilmente,nella corporate italiana ,hanno dimenticato di togliere il banner ,perche’ la sua posizione è attuale:)   Il ruolo di Partner è uguale a qualsiasi altro dato,ad iniziare dagli High lerning a scalare:)Occorre essere Esperti e Affidabili e sopratutto è indispensabile DIMOSTRARLO e il riferimento non riguarda 1 pubblicazione,ma le proposte complessive e cioe’ i Main Content e la posizione deve essere in Long Standing Webmasters Guidelines e quindi la Dimostrazione è Continua:)Probabilmente la “corporate italiana” non ha avuto una “Lunga Dimostrazione” e non è nei Partner di Google e non è difficile ricercarla perche’ i Partners italiani ne sono solo 21:)  E’ una posizione incredibile,perche’ nel regno del falso totale,esiste 1 Sola Verita’,ed è quella evidenziata sopra:)Esiste 1 solo motivo per cui sono presenti i Fact Check ,ed è il business colossale della ricerca:)Ovviamente , facebook non è assolutamente in grado di determinare “nessuna verita” e quindi si è rivolta “a parti esterne” ,ed è una posizione fantastica,perche’ inizia con un Falso Societario:)  Si definisce No Profit e la stessa posizione appartiene a tanti strumenti simili:)In realta’ il Profit esiste ,ed è anche normale ,perche’ il servizio sarebbe molto prezioso,per il Business del contesto online:)Ho utilizzato il condizionale,perche’ esiste un problema notevole ,ed è la Metodologia stessa nella Ricerca dei fatti:) Si cosultano News reciprocamente e le fonti ,non hanno nessuna unione con i dati reali e sopratutto con il contesto online:)E’ un metodo votato solo al fallimento, per la ragione piu’ semplice, perche’ in realta’ i contenuti reali non si conoscono ,ed occorre fare “solo affidamento alla deontologia delle fonti”:)Hanno un idea completamente distorta del contesto online ,perche’ la posizione sopra non è assolutamente praticabile, ed è sufficente comparare il valore economico del contesto online, per comprendere che il fallimento ,se i Fact Checkers seguissero le Metodologia di Poynter, sarebbe sicuro:)A proposito “della deontologia legato al metodo” dei fact Check,secondo Poynter ,esiste “una grande organizzazione”,davvero raccomandabile per la verita’ dei fatti:)E’ l’associazione dei giornalisti europei,ed è nata con i finanziamenti di EU,attraverso il progetto Erasmus:)E’ proprio l’unione ideale per “trovare la verita’ dei fatti”:) Queste sono le posizioni effettive dei fact Check,ed occorre sempre ricordare la loro posizione originale: sono all’interno delle strutture data e insieme ad esse,contribuiscono a formare la migliore comprensione di tutti i tempi e il riferimento non sono solo i contenuti oggettivi,ma tutti gli altri elementi del Natural Contest 🙂  
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Just Time K2 Google Patent HB ✴
Posted on March 5, 2021 by Din Story AV
 Questo Just Time Google Patents K2 ,nasce nel miglior contesto possibile,perche’ arriva dopo le 3 HEROIC DC consecutive e sono proprio i termini ad Alta Rilevanza a Qualificarle e per Quantificare il suo livello,l’unico termine da poter aggiungere è Incredible:)La prima immagine dedicata ai 4 termini ha il collegamento proprio con il contesto incredibile e grazie ai contenuti di HEROIC DC 3, lo è al 100% e tutte le selezioni di questo Just Time Google Patents K2, sono nate da ESSO:) (l’Incredible Contest:) Da HEROIC DC derivano queste 2 immagini e mai prima l’IGNORE è stato cosi’ Rilevante:) E’ arrivato nell’Happy BirthMonth del 6° anno e posso assicurare di non aver fatto nulla di proposito,perche’ è successo tutto in maniera Naturale,ed è oggettivamente anche difficile immaginare il contrario,perche’ sono talmente elevati i contenuti dedicati ai vari Tags ,da rendere semplice supporre che “avessero qualche valore”:)Nei contenuti individuali è sempre esistito l’opposto e le migliori evidenze sono nei 3 mesi finali dell’anno 2020 (il collegamento è nel link iniziale di True Long Story) ,perche’ non esiste nessun Tags abilitato e la migliore evidenza è nel 73° RF:)E’ stato il primo RF e fino a questo momento anche UNICO, ad avere l’INDEX attraverso l’Archive e il particolare piu’ importante è il fatto che non è abilitato da sempre:)Quindi,solo utilizzando la semplice Logica ,eliminando tutti i Tags,restano solo i termini effettivi gli elementi davvero importanti e quindi diventa anche ragionevole la posizione di Google Search Central e altrettanto lo è il suo arco temporale,perche’ l’IGNORE piu’ RILEVANTE esiste dall’anno di grazia,2009:) La fortuna colossale deriva dal fatto che esistono i contenuti degli RF e i Just Time stessi ,sono nati per festeggiare “gli elementi meno citati” del contesto online e in realta’ sono i piu’ importanti:)  Questo è solo un esempio per la divisione dei Tags,ed è facile unirlo all’Incredible Contest di HEROIC DC e l’evidenza piu’ elevata,sara’ solo quella della LOGICA:)In questa posizione ne cito solo alcuni e negli Head Tags sono compresi i termini uniti ai nomi dei domini ;a quello delle pubblicazioni ; agli Headers stessi,ed è molto semplice unirli alla Logica dell’Ignore piu’ Rilevante di sempre, ed è il valore dei termini effettivi in cui sono sistemati anche gli Head Tags:)Lo stesso valore è applicato ai Link Tags e tra di essi,i piu’ citati sono gli Anchor Text e il loro potere reale,deriva sempre dai termini effettivi che li contengono,ad iniziare dal ruolo piu’ semplice e sono i Duplicate Links:) Nella realta’ non esiste nulla di semplice,perche’ in tanti casi,i termini sistemati negli Anchor Text sono formati da Match,presenti nella pubblicazione specifica o nel dominio in cui è sistemata e solo questa presenza, permette l’esistenza della LOGICA completa, rispetto all’IGNORE piu’ Rilevante:)E’ ovvio che dipende dai termini effettivi la loro presenza e l’aiuto dei termini unici,non potra’ esistere, perche’ se sono alti i Match dei termini ,significa che sono presenti rapporti negativi e cioe’ esistono tanti termini ripetuti e pochi unici:)Non potra’ fornire nessun aiuto,nemmeno la List Tags ,perche’ in realta’ è una posizione negativa essa stessa ,in quanto sono solo “una Lista di Keywords”:)Tutte queste posizioni e le altre presenti nell’immagine dei Tags ,appartengono in realta’ a tantissimi contenuti degli ottimizzatori ,ed è possibile sceglierli anche a Caso (inserendo anche l’opzione dei presunti migliori:) e diventera’ molto semplice comprendere la LOGICA dell’IGNORE piu’ Rilevante:)Per rendere semplici le ricerche,è sufficente sistemare gli elementi “meno citati” rispetto ai contenuti dedicati ai Tags (i piu’ imbecilli sono uniti agli Head 🙂 e sono i Termini Effettivi:)Qui è sistemato un suo esempio pratico:)Semplicemente sono i termini effettivi scritti fino a questo momento (prima del link:) e sono 635 e mancano “solo 500” termini per raggiungere i 3,45 Milions:)Questa posizione è proprio l’ideale per comprendere il motivo per cui esistono gli Ignore dei Tags,in tutte le loro forme ,ed è sufficente collocare i termini effettivi, nella loro giusta posizione,ed è quella dei Main Content:)  Nessun termine unico,per quanto sia rilevante,puo avere questa funzione e quindi,solo per LOGICA, esiste l’esclusione delle loro liste e i 4 termini protagonisti di questo Just Time Google Patents K2,rappresentano la migliore evidenza,perche’ nessuna combinazione da 4 termini,ha mai avuto il 100% delle presenze nelle Alte Rilevanze del primo Detect Language:)  Sono tanti i contenuti ancora da aggiungere e aspettando il CounTop dei 3,45 Milions di termini effettivi, aggiungo un altra posizione LOGICA ,ed è il livello stesso del contesto tecnico online e in questa posizione ,è possibile utilizzarlo per il “fattore piu’ semplice”,ed è la determinazione del “Falso Intellettivo”:) I rapporti migliori,rispetto a qualsiasi dato, sono quelli tra i termini effettivi e i loro unici ,ed esiste la “Benedizione Suprema” di Google Search Central, attraverso una LOGICA,talmente elevata,da sembrare quasi banale:)Nella realta’ non lo è affatto, perche’ la nascita dei dati e i loro valori, hanno solo la possibilita’ di essere naturali e lo sono realmente ,in tutto il contesto online e anche questa posizione ha una logica, ed è la SUA esistenza stessa:)Per verificare “i Falsi Intellettivi”, è molto semplice, perche’ i valori reali derivano dalle proposte complessive dei Main Content e non esiste nessuna alternativa alla loro naturalita’, perche’ sono talmente elevate le condizioni delle selezioni, da rendere possibile solo la presenza del Natural Contest e dai termini effettivi presenti:)

Attraverso questi contenuti è facile anche avere la LOGICA ,rispetto agli Ignore dei Tags:)Il riferimento dei seo, non riguarda le “loro operazioni avanzate” , ma è una posizione oggettiva del primo Engine al Mondo:)Inizia dall’evidenza di colore blu e cioe’ non esiste nessun Tool capace di fornire reportas validi e in questa posizione è sufficente aggiungere l’esperienza di tanti anni e cioe’ ,anche gli strumenti piu’ sofisticati, non sono in realta’ capaci di unire nulla:)In questo Caso non esiste l’evidenza,pero’ è altrettanto facile sistemare degli esempi ,uniti all’esperienza e sono i tantissimi fattori dei seo stessi ,attraverso i loro “decantati tool” ,rispetto ai contenuti stessi delle General Guidelines:)In tanti casi ,esistono anche degli enplein e solo per citare “un simpatico protagonista” (il riferimento è ai sensori di Semrush sulle fluttuazioni:) ,non solo hanno sempre sbagliato i dati per anni ,in maniera imbarazzante pure , ma non hanno nemmeno i fattori reali a disposizione:)Esistono “oceani di contenuti a testimoniarlo” e nei Brain Stone esiste una fantastica guida per trovarli ,ed è sufficente applicare le sue sezioni e si avranno tutti i “NoFollow delle linee guida”:)E’ ovvio che dai loro dati non nascera’ nessun valore reale e altrettanto dalle altre evidenze dell’immagine di Google Search Central e l’unione con gli Ignore dei Tags ,rispetto agli elementi piu’ importanti,è molto semplice , perche’ tutti i dati sopra, hanno come riferimento 1 sola pubblicazione e per comprendere il valore reale dei termini effettivi,occorre sistemare le proposte complessive e cioe’ i Main Content:)Diventa molto semplice,il fatto che nemmeno le liste delle migliori Keywords e delle loro combinazioni (tralasciando anche il ruolo delle Close Variant) ,possono modificare nulla,rispetto al ruolo dei termini effettivi e nei contenuti che seguiranno,si comprendera’ ancora meglio!:)

Questa è un altra unione fantastica a favore dei termini effettivi:)Rispetto all’immagine precedente,in questa posizione si passa alle proposte complessive,ed è molto semplice evidenziare i valori reali:)Inizia dal fatto che la scelta del “Primary Language” è nella 4° posizione e non occorre nemmeno sistemare le altre,perche’ esistono gia’ i contenuti di NOV 2020 (il collegamento è nel link di True Long Story) e riguardano proprio i linguaggi utilizzati,ed è possibile sceglierne solo 1 e se ci fossero delle traduzioni,scritte attraverso TEXT Effettivi o contenuti di altri Detect Language,rispetto a quello scelto,tutte le pubblicazioni coinvolte saranno automaticamente classirficate in Duplicati .Ovviamente questa posizione puo nascere solo dai termini effettivi e non sono presi in considerazione “gli eventuali termini rilevanti presenti” e tantomeno ,possono fare differenze i Tags  ,perche’ diventera’ inutile anche sistemarli:)Quindi diventa Logica e Naturale la presenza degli Ignore di Google Search Central dal 2009 ,per tutte le forme dei Tags,perche’ la loro vera operativita’ è sempre “sotto il giudizio” dei termini effettivi che compongono le pubblicazioni.E’ fantastico anche l’AVOID presente e tramite i Brain Stone  è semplice classificarlo , nei valori reali:qualsiasi AVOID ha un unico riferimento, ed è l’eliminazione dei pensieri ,prima di commettere abusi o violazioni di qualsiasi genere e l’esempio sistemato nell’immagine è palese al massimo livello ,perche’ è ovvio che non si possono eliminare i contenuti in multipli linguaggi , dopo averli sistemati:) (occorre pensarci prima di fare cazzate,perche’ non hanno possibilita’ di essere recuperate in nessun modo:)Esiste anche una seconda evidenza fantastica nell’immagine,ed è quella di Android: ufficialmente è sistemata per mostrare la selezione tecnica dei vari linguaggi e poi esiste la sua posizione oggettiva , ed è il maggiore sistema operativo al mondo,per qualsiasi Device e con questo contesto,diventa ovvio la matrice dei valori e dei dati stessi e non per le affermazioni di Google,nonostante siano elevatissime, ma per la logica stessa dei valori:)Questa descrizione era unita alle selezioni che pensavo di fare per questo Just Time Google Patents K2 e la posizione delle immagini sopra ,era unita alle Strutture Data e al loro interno esistono anche i Fact Check e tutto l’insieme ,fa’ parte solo di 1 elemento del Natural Contest ,ed è la migliore comprensione di tutti i tempi:)Posso anticipare che nei contenuti che seguiranno,sara’ evidentissima al massimo,ed è superato anche “l’Incredibile Contesto” sistemato all’inizio di questa pubblicazione,grazie a un idea unita ai 4 termini festeggiati in K2 e sono i “tradizionali Honors Tour” dei Just Time.Il riferimento temporale è sempre SEP 2018 ,ed è la data della nascita della pagina dei Brands:)

I contenuti di quest’immagine permettono l’unione completa con quelli di questa pubblicazione e con HEROIC DC:)All’apparenza  sembra “una semplice lista dei Claim” e per comprendere la sua vera importanza,è sufficente descrivere l’ultimo periodo e anch’esso “ha un apparenza semplice” ,mentre la sua realta’ ,è molto piu’ complessa:)E’ facile comprenderne il senso,perche’ la “Lista dei Claim per i Fact Checks” ,non viene approvata da Google per ognuno di ESSI ,in 1 pubblicazione e a almeno per il momento,esiste 1 solo prelievo per “verificare la verita’ dei fatti”,sempre in 1 pubblicazione e naturalmente,la selezione “Non è Decisa dagli Utenti”:)A queste condizioni sembrerebbe una realta’ semplice ,perche’ esiste 1 sola selezione per 1 pubblicazione (il riferimento è sempre la data di questa pubblicazione e potrebbero esistere condizioni diverse tra qualche mese) e il Supreme Engine ,in maniera ufficiale,dichiara che non tutti i Claim vengono approvati:)Ad essere semplice ,resta solo il passaggio “verso la realta’ complessa” e capovolge tutta la lista dei Claim,perche’ i valori reali,non appartengono a 1 sola pubblicazione ,ma alle proposte complessive dei Main Content e non è casuale il fatto che è lo stesso percorso dei termini effettivi e la loro unione è nell’unicita’ e naturalita’ dei Content:)Per verificare “i loro effetti” è molto facile,ed è sufficente comparare “la lista dei Claim sopra”,con le Several Pages Claim Review, perche’ quest’ultime,hanno una presenza molto diffusa e nascono “dalle condizioni,apparentemente semplici” descritte sopra:) Le Several Pages Claim Review ,apriranno un contesto fantastico,dedicato solo ai Fact Check,attraverso un numero incredibile di tools e formeranno tanti contenuti delle future pubblicazioni e in questa posizione cito solo alcune presenze:nei prossimi Din Colors Priority Time ci sara’ l’AGI ,ed ha “un suo Fact Check” (è l’unione dei giornalisti italiani) ,ed hanno anche una “concorrenza interna”, attraverso il Fact Check specifico ,di un altra testata giornalistica,ed è quella del “Sole 24Ore:)Esistono tantissime pubblicazioni dedicate (una di esse è la 2° Security Online del 2015 ) e solo con i contenuti del Sole 24 Ore,sarebbe possibile aprire un altro dominio (solo per Google ,digitando Sole 24, esistono 157 pubblicazioni:) e l’unione in questa posizione,deriva dal fattore piu’ semplice dei Fact Check,ed è la Credibilita’ stessa degli operatori, nella Ricerca della “Verita’ dei Fatti”:)Sono sufficenti solo i contenuti della pubblicazione sopra ,per rendere nulla qualsiasi Credibilita’ del quotidiano economico e i Fact Check ,non possono avere “fasi alterne” e il Sole 24Ore ne ha tantissime ,ad iniziare “dai suo conti diretti” e sono “assai fallaci”:) E’ sufficente sistemare i termini “Asset e sole 24 ore” e si avra’ il senso pieno “dei conti economici fallaci” ,ed esiste anche la fortuna di avere “ricerche brevi”,perche’ i termini hanno anche basse rilevanze:)L’unica vera rilevanza è in questo contesto e lo sara’ anche per le future pubblicazioni ,perche’ i Fact Check hanno delle collocazioni incredibili e sopratutto non esiste la sua unione reale e operativa ,perche’ la verita’ dei fatti,puo nascere solo se esistono content originali e naturali:) Tra un po’ sistemero’ altri contenuti,uniti agli strumenti dei Fact Check e prima di farlo, inserisco il contesto opposto e nasce dalla credibilita’ stessa:) La Credibility nasce dall’Incredibile volume sistemato sopra:) E’ possibile applicare infiniti contenuti gia’ esistenti e solo per citarne UNO, è sufficente sistemare “SERVIZIO” vs Fattore e attraverso questa posizione,diventa gia’ molto semplice comprendere i dati sopra:).Esistono poi i contenuti diretti scritti in questa pubblicazione,ed è possibile unire il passaggio appena sistemato dei Fact Check,perche’ sono tutti presenti all’interno dei volumi sopra ,pero’ attraverso una differenza fondamentale,rispetto alle miriadi di tools che si occupano dei Fact Check (compresa la versione premium del sole 24 ore:) e deriva dal fatto che i dati sono reali e per esserlo,esiste la differenza piu’ importante,rispetto a qualsiasi altro tools e cioe’ i contenuti si conoscono realmente ,in maniera esattissima e completa ,ad iniziare dalla nascita effettiva dei periodi e dalla loro naturalita’:)Con il volume sistemato sopra per i 4 termini ,non sapevo come “Organizzare l’Honors Tour” ,perche’ è talmente elevato,da rendere difficile creare un “contesto adeguato” e il dubbio è durato pochissimo tempo, perche’ la soluzione è arrivata subito,grazie a HEROIC DC e a UNA sua presenza,ed è la Natural Search:)Il collegamento è nell’immagine iniziale ,ed è sufficente inserire i suoi contenuti anche in questa posizione e diventeranno molto semplici i contenuti che seguiranno:)  Attraverso la Natural Search è arrivata l’idea delle impostazioni sistemate sopra e solo all’apparenza sembrano semplici 🙂Nella realta’ sono assai complesse e per evidenziarle meglio,occorre aggiungere tanti particolari e la posizione finale,avra’ il senso pieno della Credibility,unita ai Fact Check e a qualsiasi altra cosa:)Inizio citando l’unione diretta con HEROIC DC e dopo la Natural Search ,esistono tutti i Tags Ignorati e di conseguenza possono esistere solo i termini effettivi ad avere valore reale e l’unione con i 4 termini festeggiati è molto semplice,perche’ i valori derivano dalle proposte complessive dei Main Content e quindi i veri festeggiamenti ,nascono direttamente dal Taken Din Colors Five:)Solo questa posizione modifica tantissimo i valori dei termini effettivi che contengono i 4 Super Rilevanti,perche’ i Match e quindi l’eliminazione dei termini,possono arrivare da qualsiasi pubblicazione e non esiste nessuna necessita’ che siano presenti i 4 termini rilevantissimi:) E’ sufficente togliere gli effettivi in cui sono sistemati e non avranno nessun valore,nonostante la loro rilevanza e questa operazione puo essere fatta ,attraverso qualsiasi termine,di altre pubblicazioni:)Nel Taken Din Colors Five,esistono “tante possibilita’” di eliminare i termini effettivi e tra un po’ ci sara’ la “consacrazione pratica”, perche’ i 500 termini effettivi mancanti ai 3,45 Milions sono gia’ passati:)Prima di sistemare i dati,inserisco il collegamento con il 74° RFAl suo interno esiste la posizione esatta unita ai Quantum Computer e a loro volta, è presente anche la descrizione nei confronti della loro commercializzazione e il problema di questo contesto,non è di Google,ma dei suoi “Competitors” 🙂Il riferimento diretto è al TFD Intel e alla posizione dell’azienda,perche’ è all’interno di tutti i Super Computer esistenti e quindi ,a differenza dei complimenti formali fatti a Google, in realta’ il TFD Intel è un po’ dispiaciuto,dei suoi successi tecnici:)Probabilmente,proprio per questo motivo,il direttore di Intel Lab ha utilizzato il “contesto commerciale” per sminuire il valore del successo tecnico di Google e la scelta è stata “poco intelligente” ,perche’ Google non ha nessuna necessita’ di commercializzare il Quantum Computer,perche’ è ESSA stessa ,la prima ad averne beneficio,attraverso “la sua normale operativita’”:)Comunque,questa posizione è fantastica,perche’ i 4 termini festeggiati ,hanno proprio l’unione con il Quantum Computer e non è un dominio qualsiasi,ma quello ufficiale di Google stessa e la sua indicazione deriva proprio dalle General Guidelines:)Esistono pochissimi links al suo interno,su oltre 60000 termini effettivi in 1 sola posizione e UNO di essi,è dedicato al dominio ufficiale e nell’universo BIG G è davvero difficile trovarlo,perche’ ne esistono tantissimi e ovviamente sono tutti rilevanti ,pero’ 1 solo è il dominio ufficiale,ed è il TFD Google the keyword:) La proclamazione a Top Friend Din ha sempre delle motivazioni esatte,perche’ nascono da aiuti fantastici e arrivano con tempistiche straordinarie:)Esiste la pagina dedicata a testimoniarlo e per tutti gli altri TFD sistemati,è sufficente inserire i loro nomi nella ricerca interna e si trovano subito le motivazioni per cui sono stati proclamati Top Friend Din:) Per il TFD Google the Keyword la lista è lunghissima: esistono le Close Variant ; le Fluttuazioni Ufficiali  insieme agli update stessi degli algoritmi (per anni,il massimo è stato 600 Update mentre i dati ufficiali dicono 3200 e la differenza nelle fluttuazioni è abissale:); sempre da Google the Keyword sono arrivati anche le Long Standing Webmasters Guideline e il Taken Against Content Generally ; di recente sono arrivati anche i dati ufficiali degli INDEX (100 Milions di GB) e contemporaneamente sono presenti anche i DE-Index in 1 giorno e il volume corrisponde a 20 Milions dell’opera “War & Peace” del Caro Leo Tolstoy:) (è composta da 560000 termini effettivi e quindi è facile fare i calcoli delle fluttuazioni reali,solo in 1 giorno:)Mancava solo l’unione sistemata in questo Just Time Google Patents K2 , proprio con i Quantum Computer e il loro contesto originale è unito alla Credibilita’ stessa ,ed è descritta nel Gold Star atttuale della 7D. E’ nel suo 2° RF e da esso è nato anche Google Patents e la prima unione è proprio la Credibility,ed ha un riferimento esatto e riguarda il piu’ devastante attacco informatico della storia,ad opera della Cina:)Il primo obiettivo era proprio Google ,ed è comprensibile anche “l’incazzatura anche della Cina” ,perche’ ha investito dei patrimoni economici per il “loro primo Engine” e i dati ,fanno schifo anche ai cinesi:) (è l’unico Engine ad essere nato dopo il gigantesco firewall dedicato ,ed è anche il piu’ grande al mondo e l’unico scopo è stato quello di bloccare gli altri Engine ,mentre nel resto del mondo,per Baidu,esistono condizioni completamente capovolte:)Il piu’ grande attacco informatico è nato da questo contesto e quindi,per forza Google era il primo bersaglio e non esiste nessuna azienda informatica o meno che abbia mai dichiarato “di essere stata colpita” ,tranne UNA:)E’ nei dati di Google stessa e da questa posizione è nata la Credibility e l’unione con i contenuti di questa pubblicazione,avviene attraverso il nome stesso dell’attacco:)Nel 2° RF della 7D ,sistemato nel Gold Star attuale,esistono poi altre descrizioni e qui inserisco solo “l’unione essenziale”,ed è proprio il nome del principale attacco informatico della storia:) Il nome è proprio quello sistemato sopra  (Aurora Attack) ed è nato grazie ai laboratori McAfee e quindi Intel e hanno scelto di unire anche lo stesso nome al loro Super Computer e non è “uno qualsiasi”,ma era il piu’ potente ,nella comparazione con i Quantum Computer:)Ho utilizzato il passato remoto,perche’ rispetto alla pubblicazione originale (DEC 2019,sistemata qui ) esiste un nuovo Top nei Super Computer ,ed ha un unione davvero particolare,perche’ indirettamente ,è sistemato nel Natural Contest dedicato a Big Data:)Lo sistemero’ tra un po’,mentre adesso inserisco il passaggio dei 50000:)   Sono 3463 i termini effettivi scritti fino a questo momento:)Servivano 1124 termini effettivi per arrivare all’ incredibile livello di 3,45 Milions e il contesto delle dimensioni è completamente diverso rispetto a “quello tradizionale” ,semplicemente perche’ esiste 1 sola posizione in cui sono sistemati i termini e la loro unica applicazione è nel Natural Contest e per verificare la sua esistenza ,sono sufficenti i dati degli RF e dei Just Time:)Occorre solo sistemare i contenuti complessivi di 1 dominio e poi vedere i volumi prodotti dai termini e per paradosso,le migliori evidenze verranno fornite dai “falsi Fact Check” e sara’ sufficente vedere gli strumenti operativi “che producono i dati” e unirli ai domini dei loro reports ,per comprendere quanto sono elevate le differenze:) il passaggio precedente dei 3,4 Milions è avvenuto all’interno del Natural Contest dedicato a Finance Airline  Dopo la felice sosta dei 50000 termini effettivi , continua la posizione incredibile dei fantastici 4 termini unici 🙂
 E’ proprio questa la pubblicazione unita allo snippet di Google the keyword e non esiste nessun dubbio che sia davvero un Milestone il primo Quantum Computer  e la conferma arriva anche dall’autore della pubblicazione ed è il CEO di Alphabet e quindi di Google stessa:) Nelle pubblicazioni collegate sopra esistono i rapporti tecnici  e nei contenuti del CEO di Google ,esistono delle “semplici considerazioni” e saranno formidabili da unire ai Fact Cecke il senso è gia’ descritto nei contenuti originali:)Attraverso 200 secondi del Quantum Computer è possibile realizzare gli “algoritmi piu’ noti” e i migliori Super Computer attuali ,impiegherebbero migliaia di anni per fare le stesse operazioni:)Fino a questo punto ,le descrizioni sembrano normali e per comprendere il loro senso effettivo, occorre sistemare dei contesti specifici: il primo è il numero di Super Computer stessi e nella pubblicazione originale collegata sopra esiste gia’ un elenco e nessuno di essi è all’interno della comparazione di Google,tranne UNO ,ed è proprio il Super Computer Aurora di Intel.Non è possibile nessuna confusione ,perche’ nei Super Computer ,esistono solo 2 presenze a superare 1 Exaflops :il primo è stato Aurora e il secondo,lo ha appena superata:) E’ un Caso Fantastico questa posizione,perche’ esiste gia’ dei suoi contenuti ,senza conoscere il livello dello sviluppo sopra:)Il riferimento è ai contenuti del Natural Contest 4 dedicato ai database:)Esiste proprio HP Enterprise e il problema dei database è la pertinenza nell’unione dei dati e nemmeno i Super Computer sono capaci di arrivarci e questa posizione è la migliore da unire ai dati del CEO di Google e cioe’ i 200 secondi del Quantum Computer ,sono equivalenti a 10000 di operazioni delle macchine informatiche piu’ potenti attuali ,per produrre i piu’ noti algoritmi:)Il problema nasce proprio a questo punto,perche’ esistono differenze abissali tra gli algoritmi stessi e a questo contesto è possibile aggiungere anche le loro applicazioni: la logica è molto semplice ,perche’ non è possibile comparare l’algoritmo Panda (Conternt di Google) ; l’algoritmo Penguin (links) sempre di Google ; il Rank Brain , a qualsiasi altro algoritmo presente nel contesto online,perche’ le differenze sono talmente elevate ,da renderle visibili “a vista d’occhio” e possono essere anche quantificare,ed è sufficente vedere i reports e sopratutto la pertinenza degli altri dati:) Esiste poi il ruolo del Natural Brain,perche’ gli algoritmi li possiede anche facebook e vista la qualita’ dei suoi content ,probabilmente saranno stati realizzati “da Mini Computer a 1 solo Flop”:)Comunque,per facebook e tutti i social ,anche se utilizzassero gli algoritmi piu’ sofisticati ,esisterebbero sempre dei grandi problemi e il piu’ importante è la loro applicazione e ne potra’ essere solo UNA e sono le linee guida degli strumenti stessi:)Se,per esempio assurdo, venisse deciso di abolire le penalita’ dei Copied, nelle Guidelines,gli algoritmi si comporterebbero di conseguenza e quindi, il valore piu’ elevato deriva sempre dal Natural Brain:)Questi sono i dati di “EL CAPITAN” di hp Enterprise e sopra di esso,nei Super Computer non esiste nulla e nel conteso degli exaflops è presente solo Aurora di Intel e arriva a 1,6 Exaflops ed è stato il riferimento tecnico per gli archi temporali della Glory Tech e sono gli stessi anche di questi contenuti e dei termini festeggiati in K2 e significano 2 anni e il merito non è dei termini della pubblicazione specifica che li contiene,ma quelli complessivi del dominio:) Questa è la vera verifica,insieme a quella degli RF e i termini ad Alta Rilevanza ,restituiscono un aiuto formidabile ai termini effettivi che li contengono,perche’ diventano anche la loro migliore Qualifica e di conseguenza ,ogni pubblicazione degli RF e dei Just Time,produce in realta’ altre migliaia di combinazioni dei termini,anche se non sono tutti rilevanti:) (lo diventano per “interposta Keywords” e lo sono realmente,perche’ hanno contenuto i termini piu’ rilevanti e il valore è applicato a tutto il dominio:)  Queste sono le potenze applicate alle operazioni in exaflops e per arrivare ai calcoli temporali di Google, (200 secondi,contro 10000 anni del piu’ potente Super Computer) è sufficente sostituire la potenza applicata a 10 (18) e inserire 333:)Non è la sola differenza ,perche’ esistono anche i “floating point” e fanno parte dell’informatica classica (le operazioni vanno da 0 a 1) ,ed è completamente differente rispetto al Qubit (è l’unita’ di misura del Quantum Computer) ,perche’ “fluttuano in ogni direzione” e sono capaci di aumentare anche le potenze.Da questo contesto nascono i riferimenti temporali di 200 secondi contro i 10000 anni dei Super Computer attuali e a differenza delle idee del direttore di Intel Lab (si preoccupa del contesto commerciale di Google:),esistono gia’ le applicazioni,operativamente,assai simili al funzionamento stesso del Quantum Computer ,ed è BERT:)La Bidirectional,assomiglia molto alle fluttuazioni del Qubit in ogni direzione e unendo anche la conoscenza tecnica del Quantum Computer,possono migliorare anche posizioni tecniche gia’ elevatissime:)  Adesso iniziano le unioni dirette dei termini festeggiati in questo Just Time Google Patent K2 e ho risistemato la sezione dell’immagine ,perche’ dopo le 2 unioni citate nei passaggi precedenti,ne esiste anche una terza ,ed è la pubblicazione stessa che contiene i 4 termini,ed è unita al Gold Star della 5D:)Sono proprio i sistemi operativi i protagonisti ,uniti a loro volta anche al 5G (il collegamento è nel Gold Star,ed è sufficente digitare quello della 5D) Tra i protagonisti esistevano anche gli elementi sopra,convinti sostenitori, dei “sistemi operativi cinesi” 🙂 (in realta’ non sostengono nulla,semplicemente perche’ non hanno nessuna infiormazione reale:)  Questi sono i sistemi operativi attuali in Cina per i mobili e sono migliori anche rispetto all’anno 2018:)Questi sono i dati della macroregione asiatica,validi per tutti i device. Esiste l’unione citata sopra con la pubblicazione che ha materialmente al suo interno i termini festeggiati e i suoi contenuti sono nati grazie ai sistemi operativi e da essi è facile arrivare alla LOGICA stessa dei dati:) Potra’ essere solo all’interno delle indicazioni dei reports appena inseriti e la macroregione asiatica è un Test elevatissimo,perche’ la Cina ha la sua meta’ in utenti e la macroregione stessa è maggiore della meta’,rispetto all’intero contesto globale:) Queste sono le divisioni ufficiali delle macroregioni e colpisce l’estensione di RIPE ,pero’ resta sempre APNIC,lamacroregione con il numero maggiore di utenti.Questa posizione rende facile anche comprendere,non solo i valori dei dati,ma anche le teste operative globali,ad iniziare dalla Cina e proseguire con EU:)ARIN,per il North America ha il 6,8% degli utenti,ed è compreso anche il Canada ,mentre EU ha l’8,4% e oltre il 14% degli utenti globali,in tutta la zona europea:)Nonostante le loro dimensioni ,hanno oggettivamente un Natural Brain,molto scadente:la Cina compie sempre attacchi e probabilemnte ne studiera’ anche di nuovi ,mentre EU è capace solo “dare sanzioni economiche”,per posizioni dominanti e in realta’,sarebbero loro ad avere “i numeri per dominare” e inoltre hanno finanziato in maniera indecorosa,tanti cretini come loro:)Queste posizioni servono per comprendere da quale contesto derivano i valori reali dei dati:)   Questa è una curiosita’,pero’ è importante lo stesso,ed è il report annuale delle macroregioni (il riferimento dei dati è DEC 31 2020).Sono dati ufficiali delle macroregioni stesse e mi ha colpito Afrinic ,perche’ non esiste nessuno scambio con le altre macroregioni e l’immagine sistemata sopra è solo un esempio:)E’ nata subito una simpatia per Afrinic e posso anticipare che sara’ presente nella verifica di MAR 2021 e in quella pubblicazione sistemero’ anche il pdf ufficiale delle macroregioni ,ed è composto da oltre 20 pagine e per Afrinic non esiste proprio nessuno scambio di dati:)  Per simpatia verso Afrinic ,l’inaugurazione dei Fact Check “fuori ordinanza” inizia da Africa Check:)Appartiene alla Nigeria e anch’essa ha un record simpatico,perche’ possiede 120 Milions di utenti “e solo 27 Milions” sono quelli di facebook:)La nazione italiana ha 54 Milions di utenti e 34 di essi sono quelli uniti a Facebook:)Brava Nigeria:)Nel prossimo Din Colors Priority Time ci sara’ anche facebook nei Fact Check ed è un unione di puro Nosense,perche’ è il tempio del falso totale,pero’ la posizione sara’ molto utile,perche’ “esistono delle verifiche esterne” e l’operatore specifico,richiede anche un iscrizione e possono partecipare solo “le grandi organizzazioni”:)Ne ho trovata una davvero curiosa,ed è l’unione dei giornalisti europei ,anch’essi finanziati da EU e hanno lo stesso soggetto di verifica,di facebook,per i Fact Check,fuori ordinanza:) Questo è un gruppo di fact Check fuori ordinanza e ho evidenziato l’agi italiana e sara’ di sicuro nei Din Colors Priority Time:)In tutti i Fact Check “fuori ordinanza”,manca un aspetto peculiare e sono le originalita’ dei contenuti stessi e tantomeno si conosce se sono naturali o meno 🙂  Per i 4 meravigliosi termini in K2 ,esiste il 100% nelle Alte Rilevanze del TFD Oxford e sopratutto derivano dal contesto piu’ bello che sia mai esistito:)E’ il primo garage di Google e tra l’altro sono solo degli ospiti,perche’ i veri proprietari del garage ,sono i genitori di un amica di oltre 20 anni fa’ e l’amicizia è rimasta,perche’ la signora è l’attuale CEO di Youtube:)Meravigliosi e hanno fatto tutto questo solo per i dati e i 4 termini del Just Time non potevano nascere da un contesto piu’ bello:)
Posted in Key Page Unit, TD Space Content
Din Colors Heroic Time HB ✴
Posted on March 5, 2021 by Din Story AV
Din Colors Heroic Time ha gia’ un contesto speciale,ed è nei contenuti  dei collegamenti del sistema,ed è nato quasi “in maniera casuale”, semplicemente attraverso la sistemazione di altri domini individuali ,perche’ in 6 anni,esistono anche dei contenuti negli altri spazi e questo contesto, serviva per rendere ancora piu’ evidente gli impatti dei dati,rispetto alle dimensioni del dominio,per la semplice ragione,che derivano da 1 sola posizione:)Solo attraverso i rapporti degli Impatti dei dati, il contesto sarebbe stato gia’ EROICO e l’unione con le impostazioni di AV, ha reso la Qualifica Oggettiva:)  Esistono le descrizioni nelle 2 pubblicazioni precdenti e pensavo di creare una pubblicazione che le potesse unire e sarebbe STATA QUESTA, se non fosse intervenuto anche questa volta il Caso Supremo:) Altro che UNIONE, perche’ questa pubblicazione avra’ dati migliori anche delle altre  e HEROIC DC 3 avra’ collegamenti all’interno di qualsiasi altro contenuto futuro e sara’ sufficente solo la sua presenza,per evidenziare al massimo livello,qualsiasi contesto sara’ presente e posso anticipare che fornira’ un aiuto formidabile, per le prossime Din Colors Priority Time:)Le descrizioni saranno nelle pubblicazioni specifiche e qui posso anticipare un nesso logico,alla base di qualsiasi struttura digitale ,ed è il Valore Reale dei Dati e l’unione con le “Priorita’ rispetto al contesto italiano”,sono particolarmente difficili ,non solo per la pandemia da coronavirus,ma per le strutture digitali italiane stesse. Esistono gia’ tanti esempi in precedenti pubblicazioni,con gli elenchi dei principali elementi del digitale italiano e sara’ inevitabile averli anche all’interno delle “Priorita’ decise da EU” .L’unione con HEROIC DC 3,sara’ molto semplice, perche’ esisteranno i valori reali dei dati ,uniti a qualsiasi categoria o “PRIORITA’” e questa posizione sara’ la piu’ difficile realmente, perche’ quasi tutti i principali elementi del digitale italiano,sono uniti al Social Marketing e quindi non esiste proprio nessuna unione logica con i valori reali dei dati e non è una battuta,perche’ esistono gia’ delle unioni “dei principali elementi digitali italiani” ,prima della pandemia, durante la medesima e molto probabilmente,ci saranno anche dopo:) (è sufficente digitare PMI,piccole e medie imprese italiane,nella ricerca interna ,ed esistono gia’ diversi esempi). Esistono anche altre Priorita’ decise da EU e le piu’ importanti riguardano il Green e la Sanita’ ,pero’ è inevitabile che la Priorita’ Digitale sia anche al loro interno,oltre ad avere “una notevole importanza” anche in proprio!:)Altri contenuti li sistemero nei Din Colors Priority Time e adesso inizio dal contesto fantastico, da cui è nata HEROIC DC 3:) https://dinpoststory.blogspot.com/2018/11/mirabilis-natural-search-5d-rf-9_23.html Il contesto da cui è nata HEROIC DC 3 è fantastico e altrettanto lo è l’unione con le 2 pubblicazioni precedenti  e il riferimento è oggettivo, perche’ riguarda proprio le Top Page Joy:)Ho descritto i suoi dati di partenza (da 6500 termini effettivi e 1600 /1700 unici) e naturalmente i contenuti debbono anche essere originali.All’apparenza sembrano dei dati “semplici da raggiungere”,mentre la realta’ è completamente diversa ,ed esistono 12 TPJ Level Content e 34 verifiche complessive a confermarlo e sono particolari Loro Stesse,perche’ escluso il dominio individuale ,quasi tutti gli altri spazi delle verifiche,sono ampliamente ottimizzati,ed è molto difficile trovare le stesse condizioni in “spazi normali”:) (anche gli EDITS di Wiki sono delle ottimizzazioni e altri domini sono degli ottimizzatori a loro volta e Github è anche un CMS:)Nonostante questo contesto,anche i dati delle Top Page Joy,sono molto difficili da trovare e non è sufficente avere dimensioni maggiori ,rispetto a quelle sistemate sopra, perche’ sono indispensabili anche i rapporti tra i termini effettivi e gli unici e superiori a 1/4 ,diventa facile avere “diversi problemi” ,ad iniziare dai Match stessi ,in 1 pubblicazione e quindi diventera’ molto probabile avere conflitti anche con le altre:).Da MAR 2021,ripristinero’ anche questi rapporti nelle verifiche e utilizzero’ le pubblicazioni che saranno presenti intorno ai 7000 termini effettivi o con dimensioni maggiori.L’importanza delle Top Page Joy sono descritte nelle 2 pubblicazioni EROICHE precedenti e il motivo è molto semplice,perche’ forniscono la migliore evidenza per i valori dei dati di Page Solemn,perche’ le loro dimensioni sono quasi 10 volte maggiori e quindi è facile intuire quanto sia difficile trovarle: a JUN 2018, esistevano gia’ 44 RF ,prima di quello dedicato alla 3° Comparazione Generale e nei tantissimi Match dei periodi,mai prima era stata presente 1 pagina come quella di Giacomo Leopardi e il riferimento non sono i dati,ma il rapporto tra i termini effettivi e i loro unici enel contesto online è una posizione fondamentale,perche’ solo 1 termine in 1 pubblicazione e in 1 dominio, puo essere rilevante. Da questa semplice posizione della Natural Search in TPJ, è nata HEROIC DC 3:) Ovviamente non è possibile sistemare tutti i passaggi descrittivi, perche’ hanno dimensioni notevoli e altrettanto elevati saranno i contenuti da unire e quindi ,in questa posizione descrivo solo la sintesi e riguarda gli “Ignore Words” o Stop Words Removed e semplicemente sono i termini “non strettamente indispensabili” per qualsiasi ricerca.E’ possibile poi aggiungere “i termini desueti e antichi” e proprio da essi ,sono nati vari passaggi dellaNatural Search (il collegamento è anche nella sidebar,attraverso la stessa immagine sistemata sopra) ,ed è presente l’esempio della TPJ,unita a Giacomo Leopardi e “la pubblicazione antagonista” (a NOV 2018 è la data della TPJ:) è stata la pagina A+ del 55° RF:)https://dinpoststory.blogspot.com/2018/07/key-page-unit-5d-over-time-rf-5-a.htmlQuesto è il suo indirizzo per estesso e ho scelto questo metodo,perche’ è facile confonderlo con altri indirizzi,ad iniziare dalla pagina A dello stesso RF:)Quindi i dati sistemati nella Natural Search hanno un riferimento esatto e ho scelto la pubblicazione specifica, solo per il fatto che è stata la prima ad avere Giacomo Leopardi al suo interno:)Solo questa posizione,rende elevatissimi i valori nei rapporti tra i termini effettivi e i loro unici , perche’ gli “Ignore Words” sono molto piu’ elevati di quanto si possa immaginare e quindi,quasi sempre diventa inevitabile averli all’interno dei contenuti e sono “automaticamente rimossi” nel vero senso delle parole e tra un po’ sistemero’ un suo esempio pratico e utilizzero la lingua di questo contenuti,all’interno del suo codice specifico.Per il momento sistemo dei dati presenti nella Natural Search e in questa posizione hanno la funzione solo di esempio,ed è possibile applicarlo a tantissimi altri contesti e quello piu’ “curioso e divertente” è il Text Ratio:)E’ descritto anche nella Natural Search e in questa pubblicazione,aggiungo solo l’evidenza,rispetto al Words Ratio e serve solo “per non fare confusione”:)Il Text Ratio è semplicemente il rapporto tra il peso degli elementi statici della pubblicazione e quello del codice HTML,ed esprime il peso dei contenuti oggettivi stessi:) E’ facile trovarlo in tutti i rapporti generali di qualsiasi SEO e per migliorare la posizione del Text Ratio,è sufficente diminuire i pesi degli elementi statici in cui è inserita la pubblicazione.Non occorre “un impegno rilevante” ,mentre è esattamente l’opposto per i Words Ratio ,perche’ occorre prima sistemarli i contenuti e questa posizione è molto difficile per gli ottimizzatori ,perche’ occorre un notevole impegno per avere valore reale,ed è difficile da “coniugare con i costi dei servizi” e i reports successivi:)Quindi,per “causa maggiore” nei presunti fattori dei seo,esistono solo i Text Ratio e per i Words Ratio è difficile vederli anche “solo nominati”,per un altra ragione semplice ,ed è sistemata nell’esempio dei dati della Natural Search e cioe’ i Words Ratio,sono applicati,solo se è presente l’unicita’ di qualsiasi pubblicazione:) (nell’esempio dell’immagine il 63% è in plagio è quindi è inutile vedere se esistono anche gli Ignore Words:)  Adesso iniziano i dati EROICI e GLOBALI e posso anticipare che non escluderanno nessun precedente:dalle Din Long Data (il collegamento è  al fondo del dominio) ; a tutti gli RF ;ai Just Time ;ai Natural Contest ,perche’ si integreranno perfettamente con essi 🙂Il paradosso deriva dal fatto che HEROIC DC 3 ,contemporaneamente,diventera’ uno sviluppo formidabile anche per i Brain Stone:).Ho scelto l’esempio diretto  di Google Code Archive ,per gli Stop Words Removed ,perche’ esiste anche l’unione con Github:) https://github.com/stopwords-iso/stopwords-it Il link per esteso evidenzia anche la pagina specifica ,ed è dedicata agli Stop Words della lingua italiana.L’evidenza è solo l’inizio dei file che contengono “i termini ignorati” (ne sono presenti anche altri nella stessa pagina) e il riferimento è sempre la lingua italiana e il loro senso è lo stesso descritto nella Natural Search e cioe’ sono dei termini,non “strettamente indispensabili” e quasi sempre ,non hanno nemmeno alte rilevanze.Dopo l’accesso attraverso la pagina specifica,tramite il link sistemato sopra ,è sufficente digitare i collegamenti evidenziati o gli altri presenti e si avranno i nomi dei termini ignorati.(la stessa posizione è valida anche per gli altri Detect Language ).Tra un po’ ci saranno altri dati per i contenuti in lingua italiana e anche questa posizione sara’ importantissima per le future Din Colors Priority Time ,perche’ formeranno l’opposto ai dati falsi dei principali elementi del digitale italiano,quasi esclusivamente unito “ai presunti valori dei social marketing”:) (non hanno valore nemmeno le piattaforme social dirette ,ed essendo formate da 1 solo dominio ,non lo possiedono nemmeno le pagine che le compongono e i loro unici dati,derivano solo dalla collocazione nel contesto online e dai valori reali prodotti 🙂Questo è un codice fantastico:)Inizia subito la selezione della lingua italiana e per comprendere il valore del codice sopra,è sufficente aggiungere pochi elementi:)Il piu’ importante è il volume stesso della rete italiana e il riferimento sono le dimensioni dei suoi content e sono equivalenti a 15,3 volte ,tutti gli scritti della storia umana,in maniera complessiva e naturalmente,il riferimento dei dati sono solo gli INDEX e in maniera particolare quelli di Google:) (il calcolo deriva da dati ufficiali 🙂Per comprendere il valore,sono sufficenti i termini evidenziati del codice e il TLD .IT,possiede un doppio riferimento,ed è quello della lingua italiana e la geolocalizzazione degli utenti e la posizione è molto importante ,perche’ i contenuti del Detect Language italiano “sono in realta’ compositi” ,per la semplice ragione che esistono autori anche di altri Detect language e anche loro utilizzano la lingua italiana ,per creare i loro contenuti. Sono circa 70 Milions gli autori in lingua italiana,pero’ quelli “autoctoni effettivi” superano il 60% e nella nazione italiana esiste un altro primato,perche’ possiede anche il piu’ alto numero,nelle divisioni delle lingue interne e quindi il rapporto globale nelle dimensioni dei contenuti,resta sempre elevatissimo,rispetto agli autori italiani effettivi e tramite essi,è presente il valore reale e fantastico della rete italiana e sara’ facile contrapporlo “alle priorita’” ,generati dai principali elementi del digitale italiano. E’ facile prevedere “gli sviluppi dei conflitti” ,perche’ la realta’ della rete italiana,è ignorata completamente, sia dai suoi principali elementi operativi (è sufficente sistemare solo PMI nella ricerca interna e si trovano tante presenze) e da diverse componenti del potere esecutivo italiano e il principale riferimento è il movimento dei “Pensieri Associati”. Sono nati nella rete italiana,pero’ non conoscono realmente come è composta e le loro uniche informazioni sono unite al Social Marketing ,per una ragione semplice ,perche’ è l’unica sezione del contesto online ,ad ammettere esclusivamente cazzate ,per “una ragione deontologica” ,ed è unita alle piattaforme specifiche stesse:) Ho risistemato il codice operativo degli Stop Words,perche’ dopo la descrizione per l’evidenza del TLD .IT,ne esiste un altra fantastica ,ed è il Tokenizer:) Una sua descrizione è nel Just Time di DEC 20Il senso di Tokenizer è il prelievo stesso dei pacchhetti informatici (sono compresi anche gli spazi tra i periodi) e solo per citare il riferimento maggiore attuale ,la velocita’ operativa massima è quella di Bling Fire e appartiene a Microsoft Bing ,ed è uguale a 15,3 MB in 1 secondo:) Solo questa posizione aprirebbe infiniti altri contenuti e il piu’ banale è unito ai rilevamenti di base,perche’ le velocita’ dei Tokenizer (sono i Crawling Process in realta’:) ,non ha nessuna compatibilita’ con qualsiasi strumento di base (diventa inutile anche vedere se sono attivati i codici Javascript ,perche’ è talmente elevata la velocita’ dei Tokenizer,da trasformare tutti i dati in Bounce:).Solo applicando la velocita’ del Bling Fire,è possibile calcolare “il tempo operativo dei Bounce” e se fosse il dominio individuale ,nello stesso minimo arco temporale,il Bling Fire è capace di prelevarne 7 domini,uguali a quello individuale e quindi sarebbero quasi 10000 pubblicazioni e oltre 21 Milons di termini ,ad essere tutte,completamente in Bounce:)In questa posizione,per i Tokenizer,esiste un altro contesto fantastico ,rispetto all’esempio dei dati sopra,perche’ occorre anche ipotizzare che non esiste nessun Ignore Words nei 7 domini ,uguali a quello individuale e naturalmente è impossibile che non siano presenti in 21 Milions di termini e l’arco temporale di riferimento,è sempre quello dei Bounce Rate e quindi pochissimi secondi:)Nella realta’ gli Ignore Words sono presenti in qualsiasi contenuto e nei prelievi dei Tokenizer sono automaticamente eliminati e questa posizione è fondamentale,perche’ i contenuti immuni formeranno gli INDEX e nel loro Caso,non esiste la velocita’ dei Tokenizer, ma è presente il riferimento temporale del “Google Dance”,ed è formato da circa 8 giorni e in questa posizione temporale,vengono uniti i dati dei Tokenizer con tutti i contenuti precedenti e da essi nascono i valori dei dati:)E’ talmente elevata la mole dei dati,da trasfomare anche gli 8 giorni del “Google dance” in operazioni velocissime,perche’ al loro interno esiste il Natural Contest completo ,insieme al Long Stading Webmasters Guidelines e al Taken Against Content Generally ,ed è possibile unire anche i “Time Sensitive Content” e tutto l’insieme,produce l’INDEX e da esso derivano anche i valori dei dati. Ai codici di Github si unisce anche il contributo del TFD Stanford,ed è fantastico:) Attraverso il suo “dominio specifico” (Natural Language processing :NLP.STANFORD.EDU) ,esiste un altra unione straordinaria ,con gli Stop o Ignore Words e sono proprio i Common Content delle tantissime verifiche interne ai domini ,anch’esse unite ai Tokenizer:)E’ una posizione meravigliosa,perche’ evidenzia la cosa piu’ semplice e cioe’ “le mancate unicita’” ,sono eliminate automaticamente dai prelievi stessi e di conseguenza non potranno mai partecipare a nessun INDEX:)E’ sufficente unire i termini degli RF e dei Just Time ,al Taken Din Colors Five e si avra’ una posizione paradossale e sublime insieme, perche’ rappresentano la migliore verifica,rispetto ai dati delle medesime:) Solo per citare l’elemento piu’ importante del Natural Contest (la triplice originalita’ dei periodi) ,se fossero presenti dei problemi ,nei Crawling Process precedenti, non ci sara’ nessun Tokenizer nei successivi e “i termini che hanno problemi ” (nella maggioranza dei casi deriva dal fatto che non sono quelli originali:) ,saranno equiparati agli “Ignore Words” e non servira’ nessun NoFollow interno da parte dei gestori dei domini,perche’ i termini saranno “automaticamente ignorati”:) Adesso sistemo solo alcuni esempi ,per avere “l’Ignore dai Tokenizer stessi” e la lista sopra dei De Index ,è lunghissima:)La prima posizione è scontata e riguarda i duplicati e altrettanto la seconda ,perche’ il Demystifing ,ha come riferimento gli Scraped stessi dei contenuti e il riferimento è ai “prelievi dei Text Effettivi” da altri spazi:) Questo è l’Avoid diretto e nei Brain Stone esiste la pagina specifica  e l’elemento piu’ importante ,non sono “le Cose da Eliminare” ,perche’ ad essere Esclusi sono i “Pensieri prima di commetttere abusi o violazioni”:)Il primo periodo degli Avoid è proprio emblematico,perche’ ad essere eliminate “sono le liste delle Keywords stesse” ,ed è un operazione molto diffusa e in questa posizione aggiungo una cosa curiosa ,ed è quella del seo Yoast ,presente nelle 2 Heroic DC precedenti ,perche’ è proprio la lista delle Keywords nominata nelle sue ottimizzazioni:) E’ scritta direttamente nelle “ultimate guide” di Yoast e il riferimento temporale sono gli ultimi mesi del 2020:)Occorre ricordare che è il principale seo di WordPress e quindi è facile intuire la ragione da cui è nato il titolo di Heroic AV:)Lo spazio specifico sara’ presente anche in altre pubblicazioni e in questa ,tra un po’, ci saranno invece i contesti tecnici di Yoast e sono importanti,perche’ attraverso essi,avverra’ anche l’unione con le dimensioni dei contenuti della lingua italiana:)Per il momento cito solo il primo punto delle “Ultimate Guide ” di Yoast ,ed è “nientepopodimeno CHE”: DECIDI la TUA MISSIONE:)Yoast è proprio convinta “di decidere qualcosa” e tutta “questa sapienza” la trasmette ai suoi utenti,previo lauto pagamento, anche del servizio:)Esiste solo la Logica piu’ semplice a non permettere agli utenti di “Decidere Qualcosa” ,ed è l’esistenza stessa del contesto online ,perche’ l’inaffidabilita’ dei dati sarebbe totale e non esisterebbe nessun loro valore e non l’avrebbero nemmeno i seo,perche’ se fosse possibile “avere decisioni autonome”,non sarebbero nemmeno necessarie le ottimizzazioni e quindi,i seo,sono i peggiori nemici anche di se stessi:) 

Anche questa posizione è importante per non essere nei De IndexSolo i Natural Links possono evitare di essere automaticamente eliminati dai Tokenizer stessi e questa posizione,deriva anche da multipli sviluppi,perche’ la naturalita’ delle segnalazioni ha tante varianti anch’essa e le piu’ importanti sono gli spazi stessi dei “domini segnalatori” ,ad iniziare dalla pertinenza dei loro contenuti e dalla loro originalita’ e rappresentano un evidenza fantastica per gli elementi del Frame Global Limit : nei domini individuali inizia dall’assenza delle segnalazioni e quindi gli HEROIC DC sono nati esclusivamente con le proprie forze,ed è anche una posizione Logica,perche’ l’autore non è imbecille:) Per avere Natural Links occorre che siano pertinenti anche i contenuti degli spazi segnalatori e quindi ,in larga percentuale,sono anche i loro Competitors diretti e di conseguenza esiste il 100% d’imbecillita’ da parte degli autori delle segnalazioni:) L’imecillita’ completa deriva dal fatto che le segnalazioni si trasformano anche in Schemi e questa è la vera ragione per cui vengono fatte e non possono produrre nessun valore reale,tranne quello dell’idiozia completa:)

Anche questa posizione è unita agli Ignore WordsE’ sufficente sistemare il senso di “Canonical” e sono dei codici ,per stabilire quale sia la versione originale ,rispetto a qualsiasi contenuto.L’esempio è proprio AV,perche’ sono presenti tanti Canonical e derivano da una scelta del dominio principale,perche’ gli “spazi satelliti” hanno lo stesso valore e di conseguenza aumenta anche quello del primo dominio:) (avere dei domini satelliti senza “una propria personalita”,svilirebbe anche i valori del principale:)I Codici Canonical possono essere sistemati dagli utenti e se dovessero essere assenti,saranno gli Engines stessi a stabilire quale sia la versione Canonical ,rispetto a qualsiasi contenuto.Dopo questa scelta,tutte le altre pubblicazioni saranno classificate come “Alternate” e non faranno parte di nessun Tokenizer e saranno automaticamente eliminate le pubblicazioni,insieme agli Ignore Words e quello che resta formera’ gli INDEX:)I loro dati,solo per Google ,hanno dimensioni ciclopuiche ,ed è facile immaginare quali sarebbero le dimensioni dei contenuti ,se non esistessero tutte le selezioni degli INDEX:) I dati ufficiali di Google dicono 100 Milions di GB e a differenza di tutti gli altri database,li sanno anche UNIRE,attraverso la migliore comprensione di tutti i tempi e lo è realmente:)  Tutti i passaggi precedenti,uniti agli Ignore Words , hanno le loro ragioni oggettive e operative ,pero’ la loro posizione in questa pubblicazione, serve sopratutto come aiuto,per evidenziare le ragioni del vero CORE CONTEST,che ha fatto nascere anche la 3° HEROIC DC:)

Non ho fatto nulla di proposito,ma è capitato tutto casualmente:)Quest’immagine è capace di rivoluzionare qualsiasi contenuto e nello stesso tempo,è capace di Evolvere anche i dati piu’ pertinenti:)All’apparenza sembra semplice,pero’ è sufficente “metterla alla prova” e diventera’ rivoluzionaria rispetto a tante teorie degli ottimizzatori:)E’ sufficente sistemare tutti i contenuti uniti ai Tags e saranno completamente ribaltati:)Esiste anche il suo aspetto sublime ,perche’ rappresenta il miglior sviluppo ,rispetto a tutti gli elementi del Frame Global Limit ,semplicemente perche’ i dati ufficiali di Google hanno 1 sola unione,ed è quella dei termini effettivi:)

Mai l’Ignore è stato cosi’ rilevante:) nei periodi sopra è come se fossero sistemati tutti i contenuti degli RF ;dei Just Time ; delle verifiche interne dei domini e “l’alfa e l’omega” ha come unici rappresentanti i termini effettivi ,ed è fantastica l’unione con i loro unici, perche’ solo questo rapporto,riesce a modificare i periodi di Google Search Central:)Non lo puo fare nessun Tags e tra di essi ,esiste anche i nomi dei domini e tutto il resto e sono fantastiche anche le impostazioni scelte 6 anni fa’ ,perche’ non esiste nessuna loro abilitazione e quindi solo i Content effettivi,al 100% ,hanno prodotto i valori reali:) Questa è la traduzione nella lingua di questi contenuti e non esiste nessun dubbio,su quali siano le formazioni effettive dei valori reali ,ed è sufficente aggiungere solo la logica per comprenderli:)

è la stessa posizione precedente,pero’ esistono anche le evidenze delle date a permettere un evidenza,perfino maggiore:)Solo questa posizione è capace di Evolvere tutto ,per i Content individuali,mentre per le posizioni opposte , esiste solo la rivoluzione totale.Diventera’ ancora piu’ semplice essere nei Brain Stone 🙂Per Unnatural Developer Dati Now,esiste l’evoluzione completa:)  Per i rilevamenti di base ,eliminando anche i tags,il valore è sotto lo ZERO:) Per quanto riguarda le date ,esiste una collocazione fantastica anche per loro,perche’ il prelievo è recente,mentre l’Ignore per i Tags,risale al 2009:) E’molto semplice evidenziare anche il numero dei contenuti che avranno problemi “da questa rivoluzione”, perche’ è sufficente unire i veri festeggiati del Core Contest e sono i termini effettivi,di qualsiasi pubblicazione:)Li ho descritti in tutti gli RF e i Just Time sono nati proprio per festeggiare i termini effettivi e il miglior modo per farlo ,è quello di evidenziare i termini rilevanti che contengono,ed oggi è arrivata “la Benedizione Suprema”,proprio attraverso gli Ignore Words o Stop Words Removed 🙂Attraverso questa posizione , è stato inevitabile proclamare la 3° Heroic DC consecutiva,perche’ i suoi rapporti, non hanno nulla in comune con gli Ignore Tags,ad iniziare dal fatto che non sono nemmeno abilitati:).L’unica operativita’ effettiva è proprio quella descritta da Google Search Central e l’elemento principale sono proprio i termini effettivi ,in rapporto con i loro unici:) 

Sarebbero infinite le cose da aggiungere alla posizione del Core Contest e in questa pubblicazione cito solo alcuni riferimenti e il primo è quello sopra,unito a “Ignore Words” ,ed è facilissimo da verificare ,perche’ esistono delle evidenze fisiche per quaalificare il fatto che non esistono “dei Gran Match”,rispetto ai termini digitati:) E’ facile intuire quali siano i termini piu’ digitati dagli utenti ,perche’ anch’essi derivano da quelli piu’ rilevanti in globale e nella restituzione dei reports ,avvengono le stesse operazioni dei Tokenizer e cioe’ sono eliminati “i termini non strettamente necessari” e vengono restituiti solo i piu’ rilevanti:)

Queste sono altre 2 fantastiche presenze ,unite a “Ignore Words” e il dominio è quello ufficiale del TFD Google the Keyword:)La migliore comprensione di tutti i tempi ,non solo è reale, ma è unita ai fattori effettivi del Natural Contest e rappresenta la ragione stessa dell’esistenza delle Strutture Data e attraverso questo HEROIC DC 3 ,è arrivata anche la collocazione esatta e dopo l’Ignore Words,esiste anche quello dei tags e quindi,per forza di cose ,restano gli elementi piu’ importanti realmente,per determinare qualsiasi valore e sono i termini effettivi a far parte anche della migliore comprensione di tutti i tempi e insieme al rapporto con i loro unici,diventano nella realta’ le uniche presenze effettive:)Per l’Itgnore Words, è fantastica anche l’unione con i Fact Check e anch’essi fanno parte delle strutture data e quindi sono all’interno anche della migliore comprensione di tutti i tempi e grazie al contesto di HEROIC DC 3 ,diventa facile anche prevedere ,gli impatti degli Ignore Tags, perche’ esistono i dati ufficiali della maggiore entita’ del contesto tecnico online e possono essere tutti classificati nel falso totale:) All’interno dei tags ,possono essere anche sistemate le Long Tail Keywords e diventano l’esempio piu’ facile ,per evidenziare l’Ignore dei Tags ,perche’ sono sempre i termini effettivi che contengono quelli rilevanti (le Long Tail Keywords) a decidere i loro valori e non sono uniti a 1 sola pubblicazione,ma alle proposte complessive dei Main Content:)E’ sufficente vedere quanto sono elevate le dimensioni dei contenuti,solo per questa sezione dei tags e diventera’ facile comprendere anche gli impatti che avranno i Fact Check ,nel determinare il falso dei contenuti stessi:) Solo per citare una presenza in questa pubblicazione ,è sufficente unire “la lista delle keywords” di Yoast e non occorre nemmeno vederle ,perche’ è sicura la presenza solo di “Long Tail Keywords” nella lista:)In 6 anni,solo per questo dominio, i termini effettivi,non sono mai stati nominati e associati alla loro vera importanza e il Core Contest esiste dal 2009 e nei domini Google,se ci fossero delle modifiche, del contesto tecnico online ,sono sempre sistemate in nuovi spazi , ed hanno i collegamenti dei contenuti precedenti.Esiste l’esempio delle Strutture Data stesse e gli spazi precedenti vengono definiti obsoleti ,ed esiste il collegamento per i nuovi .Nel Caso degli Ignore Tags,non è mai avvenuta nessuna modifica dal 2009 e dall’anno 2017,esistono anche i Fact Check ,ed è sufficente utilizzare i Servizi degli Engines,per conoscere tutti i reports:)(è sufficente non confonderli con i fattori e quelli reali ne sono pochi e sono quelli del Natural Contest:)  A tutte le posizioni degli Ignore (sia per i Words e i Tags) ,vanno poi applicate le Close Variants e al loro interno è presente di tutto ,pero’ esiste una differenza fondamentale,perche’ nessuna posizione è decisa dagli utenti e possono essere “grandi come le organizzazioni” e anche loro non hanno capacita’ di decidere nulla:)Esiste una Logica fondamentale,ed è sufficente solo vederle le Close Variants per comprenderlo, perche’ se fossero gli utenti  a Deciderle,non esisterebbe nessun valore nel contesto online ,ed è talmente elevata la sua posizione economica, da rendere Logico il fatto che gli utenti non possono decidere nulla:)Altri dati sono nel collegamento di Din Long Data Twin e lasua immagine è quella attualmente occupata dall’Happy Birthday:) Tutte le posizioni delle Close Variants ,hanno a loro volta altre variazioni:) L’aspetto starordinario deriva dal fatto che esistono “oceani di tools” ,solo per stabilire i valori uniti a ciascuna Close Variants e tanti di essi hanno anche dei costi:)  Nessuno decide queste posizioni e tantomeno lo possono fare gli strumenti automatici (nei Paraphrasing sono largamente utilizzati e si occupano del riordino dei termini).Per qualsiasi Query digitata,esistono 100 variazioni possibili,per ogni Close Variants ,ed occorre ipotizzare di avere contenuti che permettono solo di arrivarci e il percorso è difficilissimo e inizia dai Tokenizzer e se vengono eliminati i termini,non esistera’ piu’ “una seconda possibilita’ di riaverli!” ,perche’ ogni INDEX ha solo la possibnilita’ di essere UNICO e sono sufficenti anche i contenuti di altre pubblicazioni dello stesso dominio,per eliminare i termini degli INDEX:)Potrebbero essere anche quelli che sto’ scrivendo e naturalmente,avendo le dimensioni del Taken Din Colors Five “alle spalle di ogni pubblicazione”,è possibile che accada di eliminare altri termini gia’ presenti negli INDEX:)Ovviamente spero che non avvenga ,ed è altrettanto ovvio che non utilizzo nessuno strumento,per evitare i Match,perche’ sarebbe impossibile verificare tutti i periodi ,rispetto ai nuovi sistemati e questo metodo, deriva dal Naturally Write descritto nella sidebar e nello stesso tempo,garantisce anche la presenza dell’Entusiasmo nel creare i Content:) Il Frame Global Limit ha un vantaggio fantastico,nel Creare Entusiasmo,ed è sufficente capovolgere tutti i suoi limiti ,per trovarlo:) (avendo oceani di Edits e tutte le ottimizzazioni possibili,diventano una noia terrificante tutti i dati:)Nei Din Colors “non esiste questo problema” ,grazie alla scelta del Frame Global Limit e quindi qualsiasi dato,è entusiasmante:) L’immagine sopra è la migliore unione con l’entusiasmo stesso:)  Il riferimento sono gli High learning e a scalare,è valido per chiunque: DEMONSTRATE:) Se possono Dimostrare che i valori e la Quality Content è davvero individuale,sara’ sicuro che l’entusiasmo arrivera’,ed è difficile immaginare che possa esistere una comparazione “con i sistemi tradizionali dei content”,perche’ nemmeno ad “anni luce” ,esistono le stesse selezioni del contesto online 🙂 Per festeggiare  HEROIC DC 3 e anche i 6 anni di questo dominio, sistemo “un ascensione fantastica” e sara’ molto utile anche per tutte le future verifiche:) L’inizio è il numero di pubblicazioni presenti su AV  (1296) e non sono comprese le pagine interne e le ultime pubblicazioni e con la presente ne sono 10:)qui è sistemata la sintesi dei dati per l’Eroica AV:)Sono 223 pubblicazioni,pero’ esistono le impostazioni ,unite anche alla divisione delle categorie (sono i Labels) e ne sono poche unita’,pero’ unite al numero delle pagine (130:) ,formano dei dati colossali anche loro:)Questo è l’inizio ,ed è un impatto “a prova di bomba”:) Esiste la 2° pagina attuale di AV,ed ha dati maggiori di Page Solemn,solo rispetto a Giacomo Leopardi ,perche’ il titolo originale resta sempre su AV:) (la prima ufficiale ha raggiunto il livello di Page Solemn con soli 32000 termini effettivi:)La 2° e 3° posizione,sono in realta’ la stessa pagina e sono divise solo le categorie ,ed hanno un numero di termini unci uguale a quello di Page Solemn.E’ presente poi l’homepage,pero’ non esiste nella realta’ e nella precedente HEROIC DC,esiste anche l’attuale 3°pagina di AV e ha dati maggiori di Page Solemn,pero’ non è presente nella selezione della verifica e potrebbe essere presente nella successiva a FEB 17 2021.qui sono sistemate le altre presenze della prima pagina Sono sempre 30 pubblicazioni e nella realta’ ne sarebbero 75,in 1 sola posizione ,perche’ le prime 5 ,ne posseggono 50:)Ho scelto questa sistemazione,perche’ sara’ particolarmente difficile ripetere gli stessi dati e tra un po’ si comprendera’ molto bene il motivo:)
https://dinamicstory.altervista.org/page/3/?doing_wp_cron=1531819175.7925579547882080078125 
Questi sono i dati dell’Eroica AV e naturalmente vanno uniti anche alle sue impostazioni e sono davvero incredibili,sopratutto dopo aver aggiunto anche i contenuti di Heroic DC 3 e la loro sintesi è nei valori dei termini effettivi 🙂
Il link sistemato per esteso permettera’ l’unione con il Taken Din Colors Five e sara’ sufficente sostituire il numero della pagina per trovare le pubblicazioni che seguiranno e diventera’ molto facile ,comprendere il contesto da cui sono arrivati i dati e per forza di cose iniziano dalle loro dimensioni:)
saranno presenti le pubblicazioni con dimensioni ascendentiIniziano dalla “periferia estrema” delle dimensioni e contemporaneamente sono presenti i Click Depth per arrivarci.
In questa versione non esistono i collegamenti,pero’ è facile arrivarci lo stesso ai contenuti,grazie al link sistemato sopra(è sufficente sostituire la Page 2 con qualsiasi altro numero,fino a 130 e si hanno le pagine in cui sono sistemate le pubblicazioni)
qui si è gia’nel secondo livello delle dimensioni

A 960 pubblicazioni iniziano le dimensioni valide

Dalla posizione 932,sono gia’ superati i 2000 termini effettivi

dalla posizione 810 iniziano le pubblicazioni da 3000 termini effettivi
Dopo quasi 70 pubblicazioni,iniziano le dimensioni da 4000 termini effettivi

Dopo circa 50 pubblicazioni,arrivano ledimensioni da 5000 termini effettivi

In questi dati proseguono le pubblicazioni all’interno della dimensione da 5000 termini

In questo passaggio esistono le dimensioni finali per i 5000 termini effettivi

da questa posizione iniziano i 6000 termini effettivi

i 7000 termini effettivi arrivano subito:)

questa è la prima posizione particolare:)Quasi al termine della 600° posizione,arrivanoledimensioni da 8000 termini effettivi e insieme ad essi esistono anche le selezioni delle prime categorie.  

qui esiste gia’ l’arrivo dei 9000 termini
questo è l’inizio dei 10000 termini

questa è una posizione delle categorie molto particolare:)Sono composte sempre da pubblicazioni e il valore delle sue dimensioni e quello piu’ vicino ai valori originali di Page Solemn:)
le dimensioni poi continuano fino a 58000 termini effettivi e appartiene proprio alla pagina 2 attuale di AV.
Le pubblicazioni normali arrivano invece,fino a 13000 termini e ne esiste solo una con queste dimensioni,ed è JUN 2020:)
questo è invece il percorso opposto:)Sono i Click Depth per arrivare alle pubblicazioni e l’evidenza è proprio la Pagina 2 attuale di AV,perche’ ha le dimensioni maggiori e contemporaneamente esiste l’intera prima pagina,unita a 2 categorie e tutto l’insieme è presente nelle selezioni di AV e tramite le sue incredibili impostazioni,esiste 1 sola possibilita’ per avere i suoi dati e sono i valori dei contenuti oggettivi 🙂
Con i dati sopra non esiste alternativa e poi occorre aggiungere tutto il percorso,partendo dai Tokenizzer e unendo anche gli Ignore Words ,ed è possibile escludere l’Ignore dei Tags,perche’ nei domini individuali,non sono stati mai abilitati:)
Quindi il titolo di HEROIC DC è pertinentissimo:)  
Questa posizione sara’ unita al contesto della lingua italianaIn soli 11 giorni sono oltre 80000 i nuovi domini e per comprendere il valore del dato,nelle prossime pubblicazioni utilizzero’ il database di Yoast:)
In realta’ esistono gia’le selezioni,pero’ questa pubblicazione ha dimensioni gia’ notevoli e le sistemero’ nelle prossime:)
In questa posizione,per festeggiare i dati appena sistemati,insieme ai 6 anni del dominio ,esistono gli spazi sotto,arrivati dopo JUL 2018,per Page Solemn ,ed è possibile anche aggiungere i dati di NOV 2020 e diventera’ molto facile comprendere i valori dei dati appena sistemati:)
Posted in Key Page Unit, TD Space Content
Din Colors Space Heroic OverAll FEB 2021 🟢
Posted on March 5, 2021 by Din Story AV
True Long Story ha la sintesi di tutte le pubblicazioni e potrebbero essere uniti tantissimi altri contenuti ,pero’ in questo modo “svanirebbe la sintesi”  e per FGL Star Unique Content 2021,sarebbe un problema ,perche’ sono tantissimi i contenuti da sistemare:)Heroic Natural Contest Big Data 4Il collegamento della pubblicazione precedente,permette una notevole sintesi, perche’ i suoi contenuti,sono l’anticipo anche degli attuali e l’unione nasce dai termini stessi Natural Contest,semplicemente,perche’ i valori reali,sono applicati a chiunque:)La definizione dei valori è proprio all’interno della pubblicazione ,ed è valida  per i domini Big Data e tutti gli altri presenti nella pagina dei sistemi (il link è nella sidebar attraverso il piccolo background) e formano solo un esempio perche’ sono tantissime le categorie,pero’ le applicazioni sono valide per chiunque,ed è sufficente unire la semplice Logica al Natural Contest stesso. Senza di esso non esisterebbe nessun valore e quindi nemmeno il contesto online e la sua descrizione tecnica,forma i contenuti dei domini individuali e poi ogni categoria ha i propri contesti,pero’ le applicazioni dei valori,sono uguali per tutti:)La migliore verifica sono i Top Friend Din stessi ,perche’ quasi tutti appartengono agli Enterprise,ed avendo una notevole disponibilita’ economica, farebbero solo operazioni di “links buyng”,senza “scomodarsi nella creazione dei content”:)Purtroppo,nemmeno i TFD possono farlo e a scalare,nemmeno le “grandi organizzazioni” sono immuni dal Natural Contest e quindi resta solo 1 possibilita’,per avere valori validi,ed è quella del Main Content:)Il senso di questa introduzione si comprendera’ nei contenuti che seguiranno e indirettamente sono anche sistemati nella prima immagine di True Long Story,attraverso il suo collegamento specifico :La pagina è anche quiE’ fantastico anche il nome scelto oltre 2 anni  fa’  e naturalmente i contenuti non sono quelli originali ,perche’ sarebbe stato impossibile “fare un collegamento continuo” ,per il semplice motivo che le pagine ,scalano ad ogni pubblicazione inserita:)  Quest’immagine deriva dalla prima pubblicazione  di Page Solemn e naturalmente il riferimento temporale è la pubblicazione originale effettiva e quindi è MAY 2018.Il B2B è il “business to business” e sono i valori commerciali tra le aziende stesse e la presenza del Content Marketing per i loro domini è nella percentuale sopra,ed è impossibile realizzarla senza Natural Contest (favorirebbero solo i loro competitors:) Sempre per l’anno 2018,esistono le previsioni per il 2019 e i dati del Content Marketing sono effettivamente quelli e da questa posizione,sarebbero infinite le unioni possibili e qui cito solo i valori delle Ads globali e sono minori di 1/3 ,rispetto ai costi sistemati nell’immagine.E’ facile l’unione con True Long Story,perche’ è sufficente aggiungere solo la Logica ,tramite il Natural Contest e i dati hanno anche la “lunga storia oggettiva”:) Sono quasi 3 anni e l’arco temporale di riferimento è quello del Contesto Online e quindi i dati debbono avere valore per forza,perche’ i contenuti da cui derivano, è come se avessero 150 anni “nel contesto temporale tradizionale”:) (se i valori sono attuali,significa che nessuno ha fatto meglio nel lunghissimo arco temporale tradizionale:) Questi contenuti esistevano nel 2018 e sono anche attuali:) Sono sistemate le ragioni stesse del Content Marketing e anche qui è sufficente la Logica per comprendere tutto il contesto:)Esiste solo l’Oraganic o Natural Search come ragione del Content Marketing e non serve “scomodare CMI” per comprenderlo,perche’ è sufficente immaginare tutto l’Adverstaing tradizionale (tv;stampa,radio etc) e sommate insieme,hanno un valore minore,rispetto alle Ads online:)Il Content Marketing è maggiore della loro somma e naturalmente è anche facile comprendere “chi puo’ spendere somme maggiori di denaro” :saranno sempre le aziende che investono nelle Ads,ed è fantastica la lista sopra di Google,perche’ non occorre nemmeno scorrerla,maè sufficente soloilprimo periodo per unire i valori reali del Natural Contest:) Le Ads appaiono unite se esistono termini rilevanti unite ad esse e per fare questa operazione è indispensabile avere termini rilevanti anche nei conteenuti a cui sono unite,perche’ non sono le Ads a fornire valore,ma è l’opposto:)A testimoniarlo è sufficente il primo periodo della lista:Non Esiste nessun Dato Organico unito alla Paid e debbono fare Molta Attenzione “i presunti furbi degli Sponsored”,perche’ debbono dichiararlo nei loro contenuti ,attraverso la sistemazione dei links in NOFOLLOW:) Le posizioni peggiori saranno “per i presunti influencers” ,perche’ in realta’ esistono solo operazioni da links schemes,attraverso collegamenti in dofollow,senza nessun valore reale aggiunto e la stessa posizione,riguarda gli influenzati dei followers,perche’ in realta’ cercano solo “di avere vantaggi dagli schemi” ,non avendo nessun contenuto valido nemmeno loro:) (è il mutuo soccorso degli imbecilli e ad evidenziarlo è il loro stesso numero ,perche’ è elevatissimo nelle presenze ,pero’ il peso specifico reale è sempre sotto lo ZERO:) I numeri sono applicati a 1 solo dominio per 1 piattaforma e questo sistema (i Deceptive Social) è nato esclusivamente per Fare Schema (il termine vero non è Social ma è PROFIT:) e quindi,gli autori dei social sono anche completamente FESSI , perche’ calcolano “dei vantaggi” (Social Marketing) ,dimenticando la piattaforma stessa, ed è nata esclusivamente per Fare Schema, seguendo “i propri calcoli” e sono completamente sballati:) I numeri dei Deceptive Social nascono grazie alla Credibilita’ del contesto online ,attraverso i valori dei suoi contenuti effettivi e se fosse solo per i social ,non sarebbe assolutamente presente:)Esisterebbe solo la completa In-Credibilita’ e il termine non ha nessuna coniugazione positiva,perche’ i Deceptive social ,sono capaci anche d’ingannare se stessi,in maniera oggettiva ,ed esistono le loro “linee guida” a testimoniarlo:)(nelle loro violazioni,non sono presenti backlinks ; schemi e copyright e quindi sono False anche le loro linee guida 🙂Sono i Content a fare la differenza,a qualsiasi categoria appartengano e questa posizione è proprio l’ideale da unire a Page Solemn 🙂
Heroic Natural Contest Big Data 4 
Nella pubblicazione che ha anticipato FEB 2021 esiste la collocazione di Page Solemn e l’unione con Heoric AV è molto semplice,perche’ in oltre 2 anni,nessun altro dominio è arrivato alle sue posizioni e a testimoniarlo è il primo nome delle verifiche stesse :TPJ Level Content:)  
E’ stato presente per 12 verifiche consecutive e quando l’ho scelto,pensavo che fosse “una selezione adeguata ” e il riferimento sono i dati stessi delle Top Page JOY :debbono essere presenti minimo 6500 termini effettivi e 1600 / 1700 debbono essere i loro termini unici e naturalmente deve essere anche Originale la pubblicazione.
Per l’esperienza fatta in 12 verifiche iniziali e quelle successive alla scelta del nome TPJ Level Content ,la selezione è molto piu’ difficile di quanto immaginavo ,ed occorre anche aggiungere “un contesto esperenziale” ,,perche’ i domini che hanno partecipato a tutte le verifiche ,sono anche “largamente ottimizzati” ,ed è molto improbabile trovare le stesse condizioni “in spazi normali”:)
Nonostante questo,il livello delle Top Page Joy è difficilissimo da trovare e quindi figurarsi cosa sia trovare quelli di Page Solemn:)
E’ sufficente iniziare dai rapporti descritti sopra,dedicati ai TPJ Level e moltiplicarli per tante volte (da 8 a 10:) e a questa posizione,occorre anche aggiungere il primo motivo per cui sono nate le verifiche dei content interni ai domini nel 2018,ed era la “monotematicita’ dei contenuti stessi”:)
Il Main Content è arrivato dopo e anche se fosse esistito prima,non cambia nulla,perche’ i contenuti sono nati semplicemente dalla Logica ,perche’ sarebbe stato materialmente impossibile ,creare contenuti attraverso tanti argomenti 🙂
Per questo motivo ho scelto i domini Wikimedia nelle prime verifiche,perche’ sono esattamente l’opposto,rispetto alla monotematicita’ dei contenuti e il nesso con le verifiche interne è molto semplice, perche’ con Content Monotematici,la probabilita’ di avere Match nei periodi è molto piu’ elevata:)
Comunque la Logica della monotematicita’ ha poi avuto un gran vantaggio ,perche’ proprio da ESSA sono nati i Main Content e anche loro derivano dalla Logica e non è casuale il fatto che sia il valore piu’ importante:) 
Page Solemn è nata da queste unioni e poi sono tante le pubblicazioni dedicate in 2 anni e mezzo e nella sidebar esiste solo 1 collegamento ein questa posizione ne sistemero’ altri e posso anticipare che saranno fantastiche le unioni anche con FEB 2021:)
 https://dinpoststory.blogspot.com/2018/07/key-page-unit-5d-over-time-rf-5-a.html
La prima unione “arriva subito” ,ed è gia fantastica e per comprenderla meglio,occorre sistemare il contesto da cui è nata Page Solemn.
Era il 55° RF (JUN 2018) è la pubblicazione protagonista, era la 3° Comparazione Generale,ed è sufficente vedere solo le sue dimensioni fisiche,per comprendere in maniera piena,cosa siano i livelli delle altre Top Page Joy (ha 1100 termini unici:).
L’immagine sistemata sopra è la pagina A+ del 55° RF e quando l’ho scritta ,ancora non conoscevo i dati di Page Solemn ,ed erano sistemati solo quelli di Giacomo leopradi e il motivo derivava proprio dai tanti Match dei contenuti della 3° Comparazione Generale:)
Prima del 55° RF,ho creato altri contenuti ,sempre uniti ai Match della sua pubblicazione protagonista e tra di esse ,esiste “Gaudium Pages” ,ed è fantastico anche il nome scelto, perche’ senza saperlo, è diventata anche la prima Pubblicazione di Page Solemn:)
 Anche questa sezione appartiene alla pagina A+ del 55° RF ,ed è sufficente vedere la data originale ,per comprendere la pertinenza del periodo e cioe’ non avevo visto mai pagine con i dati di Giacomo leopardi nei 3 anni precedenti e sono centinaia i Top domini esaminati e tanti di essi saranno anche al termine di questa pubblicazione:)
Non sono state presenti nemmeno nei 3 anni successivi (lo saranno a JUN 2021:) e poi la pubblicazione prosegue (la pagina A+) con i suoi contenuti.
Nella risistemazione su AV,solo 1 giorno dopo i dati del 55° RF, mi è venuto in mente di vedere le pubblicazioni presenti nella prima pagina (senza i dati del 55° RF e l’ultima sistemazione era quella di Gaudim Page:) ,ed è arrivata la prima Page Solemn descritta nella sidebar:)
Nel corso di questi anni ho aggiunto anche altri autori e solo per citarne 2 celebri e parigrado a Giacomo Leopardi (Manzoni e Alighieri:) ,sono a notevole distanza dal Campionissimo (leopardi) e il contesto piu’ importante dei dati,deriva dal fatto che i 2 autori celebri hanno “content artificiali” e cioe’ sono occorse quasi 250 pagine standard per arrivare ai termini effettivi di Page Solemn ,mentre quelli di Giacomo Leopardi sono naturali e cioe’ le pubblicazioni esistono realmente e tantissime volte sono state in conflitto tra di loro:)
Nessun altro autore celebre è mai arrivato ai livelli di Giacomo leopardi ,tranne il TFD Marcel Proust (anche se è un po’ distante) e il nuvo che sistemero’ tra’ un po,ed è il Grande Dosto:)
Ho reinserito la sezione della pagina A+ del 55° RF,perche’ esiste l’unione diretta con FEB 2021,ad iniziare dai contenuti originali:) 
Il riferimento alle “combinazioni del Divino Supremo” ,nella pagina A+ del 55° RF, non era ancora Page Solemn,perche’ non conoscevo i suoi dati ,ma sono quelli della macroregione RIPE (sono i Top Protocolli della zona europea) ,ed è sistemata la nascita del dominio stesso,dedicato a Giacomo Leopardi,ed è AGU 2000:) (due mila esatti:)
Dopo 2 anni e mezzo è possibile confermare le capacita’ sovrannaturali del Caso Supremo,conoscendo tutti i dati e le comparazioni ,perche’ ad AGU 2000,i Content di Giacomo Leopardi “erano completi e disponibili” e i gestori del dominio dedicato, li hanno solo sistemati:)
Quindi i dati di Page Solemn “sono molto diversi” ,perche’ sono nati in maniera progressiva,ed è facile supporre che i domini dei celebri autori,non abbiano solo i Content “gia’ confezionati”,ma è molto probabile che siano “compresi anche gli EDITS”:)
La probabilita’ riguarda anche Giacomo Leopardi,ed è assolutamente fantastico,pero’ i suoi dati effettivi ,sono assai simili a quelli del Grande Dosto che sistemero’ tra un po’ e altrettanto simili sono gli archi temporali (circa 30 anni).
I dati maggiori per Giacomo Leopardi sono nella raccolta dei Zibaldoni (Page Solemn deriva da essi) e poi esiste l’epistolario ,ad avere maggiori dimensioni e queste posizioni sono molto importanti ,non per Giacomo Leopardi,ma per i gestori del dominio dedicato,perche’ anche le grandi opere letterarie,sono composte sempre da termini e solo UNO puo essere rilevante,in qualsiasi pubblicazione ,tranne in quelle in cui sono presenti dei Copied:) 
Non è il Caso di Giacomo leopardi (ha le migliori unicita’ tra gli autori celebri e i piu’ alti average) ,pero’ esistono tantissimi altri domini che hanno gli stessi contenuti del Campionissimo e per forza di cose,ne potra’ essere solo UNO rilevante:)
Questo è il miglior contesto per Heroic AV ,perche’ è nata,possedendo 2 Page Solemn contemporaneamente ,ed ha anche aggiunto l’assenza della Homepage e le sue dimensioni attuali,sono uguali ai dati di Page Solemn:) Questo è il dono del Caso Supremo per l’Eroica AV:) 
E’ la pubblicazione originale da cui è nata Page Solemn e anche allora non ho fatto nessuna risistemazione,ed esistevano solo le pubblicazioni,prima del 55° RF:)
https://dinamicstory.altervista.org/page/3/?doing_wp_cron=1531819175.7925579547882080078125
Al suo interno esistono dei collegamenti simili a quello sopra ,pero’ con le pubblicazioni dell’anno 2018 e le avevo sistemate,
quanto fosse difficile avere gli stessi dati di Page Solemn e sono importantissimi,perche’ da essi sono nati I Match di AV e rappresentano la migliore testimonianza per il valore piu’ importante,ed è il rapporto tra i termini unici e gli effettivi ,ed è sicuro che sono stati proprio Loro a far nascere Heroic AV:)
Tornando alla pubblicazione specifica,nei contenuti originali del 2018, la 2° pagina aveva 9830 termini unici e la 3° ne aveva 7268 ,ed è sufficente utilizzare il dato evidenziato dell’URL ,per avere qualsiasi pagina. Questo è solo un esempio per i dati dei termini unici 
Semplicemente solo 1 di essi potra’ essere rilevante ,mentre il search volume ha come riferimento le presenze nei database in 1 mese e non sono da confondere con le Competition dei termini,perche’ rappresentano il numero dei domini,in cui il termine è rilevante e per esserlo,esistono le stesse condizioni presenti nell’immagine e cioe’ occorre fare attenzione “a non ripeterli i termini” ,sia in 1 pubblicazione e in tutte le altre di ciascun dominio,semplicemente perche’ la rilevanza la potra’ avere solo 1 termine e gli altri vengono eliminati (sono considerati dei Copied e se è elevata la sua presenza,è eliminata tutta la pubblicazione o qualsiasi numero fosse presente nei Copied).
Ovviamente l’esempio dei rapporti descritto nell’immagine,è valido solo a 1 condizione e cioe’ che esista il Natural Contest completo:quindi debbono essere originali davvero i periodi ; debbono essere naturali e questa posizione non ha solo il riferimento banale dell’Automated Content,ma possono essere inclusi anche “piccole e semplici traduzioni”,insieme agli strumenti dei rewriters e gli stupidi correttori grammaticali e lo sono realmente,perche’ sono degli strumenti automatici anche loro,ed è molto facile individuarne la presenza e quindi è preferibile fare errori in maniera naturale:) 
Occorre poi aggiungere la Quantita’ e Qualita’ insieme ,per rendere valido l’esempio sopra ,dedicato ai termini unici,ed occorre anche unire le possibili violazioni dei copyright ; la presenza dei Main Content e “l’ultimo ostacolo”,è la migliore comprensione di tutti i tempi,per avere il Natural Contest completo e solo a queste condizioni,l’esempio dei termini unici è valido:) L’unione con Unnatural Developer Dati Now è davvero fantastica:) 
La posizione nell’immagine è solo un esempio e deriva da un collegamento dello spazio di Key TD Archive e in realta’ non esiste nessuna unione,perche’ occorre fare l’Upgrade dello strumento  e sopratutto occorre anche possederle le keywords e il modo per farlo,inizia dall’esempio dei termini unici e poi occorre anche aggiungere i Fact Check ,rispetto ai contenuti creati:)
Quindi è assolutamente ragionevole che gli strumenti analitici hanno Zero value ,ed è molto pertinente la loro posizione in Unnatural Developer Dati Now 🙂
L’unico valore che possono avere gli strumenti dei rilevamenti di base,è l’unione con il Natural Contest,perche’ è la posizione dei valori reali dei Match,mentre l’opposto evidenzia solo il Falso:) 
E’ sufficente prendere in considerazione 1 piattaforma casuale ,all’interno delle grandi organizzazioni ,ed è formata da 1 solo dominio con 2,4 Billions di utenti e raggiunge lo 0,002% per le Ads e nella “cospicua percentuale” sono compresi anche altri spazi che utilizzano “Audience Network”,ed è lo strumento di facebook e Instagram insieme,per le Ads:) (il primo spazio extra,che contribuisce alla cospicua percentuale di Audience Network è WordPress:)
Di sicuro i rilevamenti di base “saranno elevatissimi”,perche’ sono fatti tutti attraverso schemi,pero’ i Match reali sono bassissimi ,perche’ non esistono oggettivamente dei contenuti validi e quindi è una logica conseguenza lapercentuale delle loroAds:)
Il contesto originale è qui e posso ricordare che non è Eliggibile nemmeno la pagina specifica:)
La posizione serve solo per iniziare i Match ,ed è la pagina principale del business “per la grande organizzazione”:)
Sarei davvero curioso ,se nel contesto online esistesse solo Facebook,perche’ sarebbe davvero interessante,vedere quale livello di cazzate è possibile raggiungere:)
Nella pubblicazione originale collegata sopra,esiste un passaggio dedicato ai Brands da pura demenza ,perche’ è presente “lo schema ufficiale” ,riferito proprio ai Brands “e al loro valore”:)
Questo rende ragionevole il fatto che non esiste nessuno schema nelle loro linee guide, come violazione e la demenza è semplice da evidenziare,perche’ la presenza di schemi,rende inutile creare i contenuti ,pero’ senza quest’ultimi si hanno poi li “ZERI Consecutivi” delle Ads sistemate sopra:)
Quindi se esistessero solo i Deceptive social,nel contesto online,il fallimento,è garantito e queste posizioni saranno molto utili peri prossimi Din Colors Priority Time,perche’ la loro prima unione è proprio il Social Marketing:)
Ho sistemato queste posizioni,per evidenziare i valori reali del Contesto Online e grazie “ai nemici social” ,è sufficente aggiungere solo la Logica,opposta ai passaggi precedenti:) 
Qui è sistemato il link precedente per la prima pubblicazione ufficiale di Page Solemn:) 
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https://dinamicstory.altervista.org/page/3/?doing_wp_cron=1531819175.7925579547882080078125
All’interno esiste anche questo link e posso anticipare che fino a FEB 17 2021 ,non avra’ nessuna risistemazione l’Eroico Spazio AV ,ed è una posizione molto importante,perche’ i suoi dati sono quelli sotto:) 
E’ una sequenza fantastica per l’Eroica AV e quindi anche per questo dominio:) 
Le presenze sono sempre 10 pubblicazioni e l’11° è soloilnome dello spazio e non ha nullain comune con i contenuti effettivi:)
Nei 3 anni precedenti di Page Solemn ,non sono mai esistiti i dati sistemati nel 2018 e nemmeno nei 3 anni successivi:)
In 1 sola verifica,esiste la prima pagina di AV con dimensioni uguali a Page Solemn ,nei termini unici e non possedendo l’homepage,esistono dei match completi,con la selezione delle categorie.
Esiste poi la 2° pagina attuale,ed ha termini unici maggiori di Page Solemn e dopo FEB 17 2021,esiste anche la possibilita’ che sia presente la 3° pagina attuale di AV e anch’essa ha termini unici maggiori di Page Solemn e naturalmente,il dato non è unito al fatto che esistono 10 pubblicazioni in 1 pagina,ma ai Match che hanno i termini:)
Derivano dai termini effettivi sistemati qui 
Sono oltre 55000 e iniziano dalla prima pubblicazione dell’attuale 3° pagina di AV  e naturalmente sono quasi gli stessi di questo dominio e attraverso l’Eroica AV,esiste un impatto sui valori dei dati incredibile e a testimoniarlo,sono i prodotti diretti del Natural Contest e cioe’i dati degli RF e dei Just Time:)
L’impatto è anche possibile da calcolare e nella prima pubblicazione dedicata all’Eroica AV (è nel 74° RF) ho unito l’esempio di JAN 2021,ad iniziare dai termini in average e con 196 pubblicazioni,ha avuto quasi 100000 termini effettivi in piu’,rispetto a quelli di AV:)
Per FEB 2021 i dati sono anche maggiori e naturalmente non possiede le prima pubblicazioni di AV in dimensioni,pero’ il suo average ha quasi 1000 termini effettivi in piu’ rispetto ad AV e la posizione generale dei volumi di FEB 2021,sono alla 6° posizione,mentre JAN 2021 è scalato alla 9°.
Nelle verifiche precedenti ho sistemato le impostazioni  di questo dominio e la loro funzione originale,derivava dalla presenza dei Broken Links e dagli skipped (sono presenti in maniera massiccia anche a FEB 2021:) e serviva per evidenziare il fatto che non esistono broken reali,ma derivano solo dal fatto che non sono attivati tanti elementi:)
In questa posizione sistemero’ anche quelli di AV e anch’essi sono molto curiosi e al termine,oltre ai dati oggettivi che possiede AV,sara’ facile intuire perche’ ho scelto il nome di EROICA per AV:)
La posizione Eroica inizia dai dati sopra e sono le impostazioni originali avuti da sempre  e nella piattaforma WordPress,ne esistono tanti simili ,pero’ è difficile trovare le impostazioni Full Text per 10 pubblicazioni in 1 pagina,a parte i valori dei contenuti:)
Quasi sempre esiste il “Summary”,ed è una breve descrizione e poi esiste il collegamento con la pubblicazione specifica e naturalmente,non ha le dimensioni di 10 Post,ma di 1 solo:) 
Nel prelievo sopra esiste anche un aspetto curioso,ed è un errore nel download peri GEO IP e sono uniti a strumenti dei rilevamenti di base su WordPress e la curiosita’ deriva dal dominio stesso da cui nasce il download,ed è Github:)
Sara’ presente tra un po’ e qui posso aggiungere che l’Eroica AV ,ha un average maggiore del doppio,rispetto al dominio ufficiale di Github e a differenza di quest’ultimo,non possiede nemmeno l’homepage:)
Sarebbero tante le cose da unire a Github e qui ricordo solo quella piu’ simpatica “e sono le ottimizzazioni stesse” e nei domini delle verifiche è davvero difficile trovare qualche spazio che non abbia contenuti ottimizzati al massimo livello possibile e in quest’insieme,GitHub è davvero speciale,perche’ ,tra le tante cose, è un operatore CMS esso stesso:) 
Questa è una posizione fantastica ,ad iniziare dal termine “Discourage” riferito ai Search Engines:)
Occorre ricordare che è sempre WordPress ,in qualsiasi piattaforma giri:)
Non occorre scoraggiare i Search Engines “per evitare gli INDEX”,ma è esattamente il contrario e potrebbe sembrare una posizione banale ,se non esistesse l’altra evidenza:)
Hanno unito l’abilitazione della Sitemap con l’Index,come se fosse un unione automatica e anche in questo Caso,è esattamente il contrario:) nelle impostazioni,questa è la piu’ vicina a Heroic AV:) 
la presenza delle Sitemap rende facile trovare le pubblicazioni,pero’ esiste il contrappasso immediato e non riguarda l’Index,ma rende facile il suo Opposto:) (se è presente la Sitemap,a diventare facili sono i De-Index:) 
E’ sufficente 1% di URL in Broken,per rendere negativa la posizione della Sitemap e nel Caso individuale,significa che hanno problemi “solo 13 pubblicazioni” e attraverso la Sitemap è facile trovarle per gli Engines e sara’ molto difficile che esista qualche INDEX:)
L’Eroicita’ di AV,a parte i suoi dati,deriva dalla Priority sistemata nell’immagine e unita alla Sitemap,semplicemente perche’ non esiste nella realta’:)
Nessuno stabilisce qualsiasi priorita’ e non decide nessun Ciclo dei Crawling Process e non puo farlo nemmeno WordPress:)
E’ una piattaforma fantastica,pero’ il suo principale SEO (Yoast) ,”non ha studiato tanto” e anche se l’avesse fatto,non ha capito nulla del contesto online e tra un po’ sistemero’ una conferma:)
Quindi la meravigliosa AV è davvero Eroica,perche’ non esiste nessun aiuto nemmeno dalla piattaforma in cui è sistemata,ma è esattamente l’opposto:) (se avessi seguito le priorita’ di Yoast,non sarebbe mai nata AV e l’unico consiglio da seguire è di fare contenuti migliori e sono le uniche cose che hanno valore reale 🙂
Queste sono le pubblicazioni nette di AV ,rispetto alla data sistemata e naturalmente sono le stesse della sua verifica.
Non esistono le recenti pubblicazioni e non sono comprese le pagine interne e il totale è 1296.
In compenso esiste un altra idea del seo Yoast e sono i Cornestone Content e non esiste nessuna presenza su AV ,grazie al Caso Supremo:)  
E’ Diventata Eroica solo “con le sue forze” e anche con una dose “incredibile di Gran Culo”:) 
Questo è il senso di Cornestone Content attraverso il Mark ,ed è equivalente alle “priority” e cioe’ non esiste proprio e il riferimento è solo 1 pubblicazione:) La risposta per i Mark è lapidaria e cioe’ non esiste nessuna sistemazione possibile ,ed è assai simile a qualsiasi decisione di “Priorita’ dei content” ,semplicemente,perche’ qualsiasi utente e le piattaforme stesse,non decidono assolutamente nulla.
la sezione dell’immagine ha come riferimento i Featured Snippet e sono il massimo nelle ottimizzazioni e poi a scalare,l’applicazione riguarda qualsiasi posizione.
E’ fantastica la chiusura del periodo e cioe’ è inutile preoccuparsi dei Mark ma “Elevates IT” e cioe’ fate contenuti migliori,ed è l’unica soluzione reale:)
Yoast è proprio convinta che ha capacita’ di decisione e la parte evidenziata è unita proprio ai Cornestone Content 🙂
E’ un servizio a pagamento,pero’ questo non giustifica il falso che ha scritto e il riferimento è proprio Google e naturalmente è la maggiorre Entita’ nel contesto tecnico online e hanno scrittoi contenuti sopra:)
E’ sicuro che è un Falso Patentato,nel vero senso delle parole e a questo occorre aggiungere anche la Logica,perche’ anche se fosse possibile sistemare dei MARK,suggeriti dal metodo del Cornerstone Content,l’applicazione riguarda solo 1 pubblicazione e quindi,sarebbe un Falso lo stesso,solo per Logica,perche’ è Naturale che siano i Main Content ad avere valore reale per 1 dominio (compresi quelli delle grandi organizzazioni:) e quindi,diventa inutile preoccuparsi di 1 sola pubblicazione:) (forse l’unica preoccupazione,sara’ il costo del servizio di Yoast:)
qui è sistemata l’immagine precednte unita all’URL di Yoast
Ho scelto questa soluzione,sia per dimostare che i contenuti sono effettivamente di Yoast e nello stesso tempo perche’ possiede 1 URL incredibile in dimensioni ,ed è maggiore dell’immagine stessa selezionata:) 
Questa è la versione “premium di Yoast” e quindi per WordPress:)
L’asterisco di colore verde indica il sevizio premium e inizia dal fatto che gli utenti  non debbono preoccuparsi delle Over Ottimizzazioni,perche’ esiste uno strumento molto intelligente (quello di Yoast:) ,capace “di sistemare i migliori termini”,utilizzando dei sinonimi:) La realta’ è esattamente opposta e oltre ai costi del servizio,occorre preoccuparsi seriamente dei content restituiti da Yoast (o da qualsiasi altro strumento simile),perche’ le probabilita’ maggiori,sono quelle di far parte degli Autonated Content:).Se fosse cosi’ semplice creare valore,esisterebbero solo i domini della versione premium di Yoast (o le “grandi organizzazioni”),mentre la realta’,è completamente diversa e inizia dall’asterisco opposto (quello rosso:) e l’Eroica AV ,deriva solo da quest’ultimo contesto:) Altro che Over,non ha proprio nessuna ottimizzazione e i content non hanno nessun EDITS e sono nati tutti,attraverso la prima e unica scrittura effettiva:)W il Natural Brain:) 
Yoast non lo potra’ mai scrivere,perche’ manchera’ sempre il termine piu’ importante:DEMONSTRATE e poi si unisce tutto il Natural Contest:)
qui è sistemata l’immagine della versione premium di Yoast insieme all’URL specifico questa è un altra posizione fantastica della versione premium di Yoast e quindi di WordPress:) 
L’asterisco di colore verde è sempre la versione premium e inizia con un affermazione del tutto inutile,perche’ Google non ha necessita’ “di amare i collegamenti interni”,ma l’interesse è solo dei gestori dei domini e non occorre nemmeno creare dei blocchi,perche’ sono sufficenti “gli elementi interstiziali” (sono i pop-up) per bloccare il rilevamento stesso:)Quest’ultimo è un dato ufficiale veramente e poi esiste la posizione piu’ importante,perche’ l’ultimo periodo di Yost nella versione premium,è ancora piu’ inutile del primo,perche’ bloccare i links interni,non è affatto una soluzione migliore,perche’ saranno i Main Content ad essere bloccati,ammesso che siano anche presenti:) (se Yoast immagina che sia meglio bloccare i link interni,saranno nulli i Main Content anche se fossero presenti:) la Gloriosa e Eroica AV,non ha nulla di tutto questo e appartiene alla sezione dell’asterisco rosso e quindi i suoi dati,sono davvero sovrannaturali,perche’ è riuscita ad avere dati incredibili,nonostante il contesto in cui è fisicamente sistemata,perche’ possiede indicazioni completamente sballate,anche nella sua versione premium:) (la pubblicazione maggiore di Yoast non raggiunge nemmeno i termini unici di page Solemn,considerando tutti i suoi termini effettivi:) Questa scelta non ha nulla in comune con WordPress e tantomeno con Yoast ,ma è solo individuale ed è strutturale nello spazio dalla data sotto: 
Ovviamente il contesto tecnico ha sempre una doppia valenza,perche’ è unito al contesto dei contenuti effettivi e quindi possono certificare anche anche la totale idiozia,sopratutto quando i servizi hanno pure dei costi:)
Per l’Eroica AV esiste solo la valenza positiva,perche’ i dati tecnici ,sono gratuti e sono applicati a contenuti rilevanti e per verificarli esiste “il miglior strumento in assoluto”,ed è pure gratutito:) 
Questa è un altra unione fantastica per i dati dell’Eroica AV,perche’è unita direttamente alla struttura tecnica e poi Cloudflare,determina un altra unione curiosa,ed è del tutto casuale:)
E’ il primo provider al mondo e per comprendere il livello,è sufficente citare il 2° provider,ed è Google:) 
La curiosita’ deriva dal fatto che Cloudflare è anche l’ISP di Statcounter:)
Queste sono le principali impostazioni di AV e da essi derivano i dati e il loro Eroismo è Totale,perche’ non esiste nemmeno l’aiuto della piattaforma che l’ospita,ad iniziare dal seo di riferimento di WordPress,perche’ AV ha contenuti completamente opposti:)
Qui è sistemata una curiosita’,pero’ è importante lo stesso
E’ il calcolatore delle possibili combinazioni ,tra il numero delle pubblicazioni presenti in 1 dominio e quelle sistemate in 1 verifica.
Ovviamnte puo essere valido per qualsiasi spazio,compresi anche i dati di FEB 2021 e l’unica differenza potrebbe essere la presenza dei Disallow o degli Internal Links OUT.
Ipotizzando che esistano le stesse condizioni di AV e di questo dominio ,ho applicato 1300 pubblicazioni,senza calcolare le pagine interne e il rapporto è con 268 pubblicazioni e il dato nasce dalle presenze stesse di AV ,sottraendo le prime 5 pubblicazioni in dimensioni ,perche’ in realta sono formate da 50 Post (10 ogni pagina) e il totale è proprio 268.
La risposta del calcolatore delle combinazioni possibili ,per 1 sola verifica è: 5 seguito da 9 altri numeri e ad essi se ne aggiungono altri 285:)
Questo è un altro calcolo curioso,ed è quello delle probabilita:)
In questo Caso la curiosita’ è oggettiva  perche’ esiste la notevole variante delle dimensioni stesse di ogni singola pubblicazione e a questo occorre aggiungere i contenuti effettivi presenti.Il calcolo delle probabilita’ è quindi solo una curiosita’ e sistemando il rapporto di 1300 pubblicazioni del dominio ,rispetto alle 223 presenze nella verifica (AV) ,si ha circa l’85% di probabilita’ di essere in Match (il calcolatore utilizza il termine Losing,pero’ il senso è lo stesso:)Comunque anche questa curiosita’ ,nonostante le sue tante varianti,ha un aspetto logico e fondamentale,perche’ il riferimento dei dati,ha 1 sola posizione e quindi diventa utile anche la curiosita’,perche’ è facile unirla “ai contenuti del contesto tradizionale” ,ed è sufficente creare le stesse condizioni del contesto online ,tramite 1 sola posizione effettiva dei Content:) (occorre solo dividere gli average e moltiplicarli per i volumi e si hanno le parita’ di condizioni e raggiunta questa posizione,il calcolo delle probabilita’ sistemato sopra,diventera’ “quasi una percentuale ottimista”:) Grazie Eroica AV perche’ i suoi dati sono anche uniti direttamente a FEB 2021:) 
https://dinpoststory.blogspot.com/2018/07/key-page-unit-5d-over-time-rf-5-a.html
E’ lo stesso link sistemato sopra per Page Solemn,ed è la pagina A+ del 55° RF: 
Nei passaggi precedenti  esistono le descrizioni dei contenuti,mentre in questa posizione assumono il ruolo oggettivo che hanno e cioe’ sono delle risistemazioni dei periodi ,ed è sufficente vedere la pubblicazione originale collegata sopra e si nota subito che la sezione è solo una piccola parte,ed è tutta evidenziata,ed è scritto anche il nome della pubblicazione a cui appartiene:)
Prima della meta’ dell’anno 2018,sono tante le pubblicazioni che hanno dei periodi risistemati e la migliore evidenza è in 34 verifiche e le piu’ basse nelle dimensioni dei volumi,hanno oltre 400000 termini effettivi e nei Top dei Match Words,esistono solo le risistemazioni al loro vertice:)
Sono rimaste naturali anche loro e le posizioni non riguardano mai 1 sola pubblicazione,perche’ i termini in Match vengono eliminati da entrambe o da qualsiasi numero di pubblicazioni dovessero essere in conflitto:)
Sempre nella pagina A+ del 55° RF,esiste contemporaneamente anche un alltra risistemazione:)
nell’evidenza esiste la pagina A+ del 55° RF,unita a Page Solemn:)
Con 8 pubblicazioni contro ,ha solo il 10% in duplicati e quindi è stata salvata dalle sue dimensioni e in genere,avviene l’opposto:)
E’ incredibile poi il valore generale,perche’ nelle prime posizioni dei Match esistono altre 2 pubblicazioni che ne hanno in conflitto altre 8 a loro volta e il volume generale di FEB 2021, è notevolissimo e di conseguenza ,sono state tante le possibilita’ di avere dei Matchquesti sono i match della pagina A+ del 55° RF 
Esistono le 2 risistemazioni dei periodi e poi sono presenti anche altri Match e avere solo il 10% in duplicati,deriva solo dalle dimensioni della pubblicazione e questo rappresenta un pregio elevatissimo,perche’ quasi sempre,avviene l’opposto ,sopratutto nel contesto di FEB 2021,perche’ il suo volume ha dimensioni maggiori di di 645000 termini effettivi:)
Questo è il piu’ recente INDEX della pagina A+ del 55° RF e quindi i limiti,ed è JAN 28 2021:).Quindi la pubblicazione non solo ha superato l’impatto di FEB 2021,ma anche quello del Taken Din Colors Five e solo tra qualche pubblicazione arrivera’ la vetta del 3,45 Milions in 6 anni esatti,ovviamente senza considerare nessun altra posizione e solo per citare quella di Key TD Archive è vicina al mezzo milione di termini e l’arco temporale di 6 anni è davvero speciale ,perche’ rappresenta l’esatta meta’,rispetto all’opera top,scritta in 1 sola posizione,ed è quella del TFD Marcel Proust:)E’ fomata da 1,4 Milions di termini e nessun autore Top è mai arrivato allo stesso livello e il riferimento non è 1 sola opera,ma gli interi scritti di ciascun autore:) Nemmeno Giacomo Leopardi è arrivato al livello di Marcel Proust e occorre sommare tutti gli Zibaldoni e unire tutto l’epistolario leopardiano,per avere dati vicini a Proust e il riferimento è solo la sua opera maggiore realizzata in 12 anni:).E’ un arco temporale straordinario e se i 12 anni fossero applicati ai content individuali,potrebbero essere sistemate altre migliaia di pubblicazioni,scritte nei 4 domini precedenti,uniti solo ai TEXT ,ed è molto probabile che il Taken Din Colors Five,avesse dimensioni quasi doppie,rispetto alle attuali:) 
Qui è sistemata la pagina intera dell’INDEX per il 55° RF
 La parte piu’ importante è il suo contesto perche’ è nata dal Taken Din Colors Five e il paradosso,rispetto a tutte le farneticazioni degli ottimizzatori,deriva dal fatto che ha anche 2 risistemazioni al suo interno e quindi la presa per il culo è colossale:)Nei dati di Yoast “analizzano i plurali e i sinonimi” e nel 55° RF,in 1 colpo solo sono risistemati quasi 600 termini effettivi e con le dimensioni del dominio individuale è proprio scontata la naturalita’ dei contenuti,perche’ è oggettivamente impossibile,creare nuovi periodi,vedendo tutti i precedenti:)L’unica operativita’ possibile è descritta nella sidebar,ed è il Write Naturally,rispetto a qualsiasi strategia si ha in mente,ed è quello che ho fatto sempre,ad inziare dagli RF,perche’ nessuna pubblicazione è mai nata in maniera artificiale e questa posizione,è unita anche alla Logica,perche’ gli strumenti hanno tutte restituzioni standard e sono molto facili da individuare e quindi,esistono elevate probabilita’,nell’utilizzare qualsiasi strumento “non naturale”,di avere solo dei Copied,oppure essere classificati negli strumenti automatici e in tanti casi,esiste la presenza di entrambi:) (tantissimi “Eccelsi Idioti”,aggiungono poi anche i costi,per avere posizioni completamente negative:)
La versione opposta è il codice piu’ semplice,pero’ è anche il piu’ difficile da trovare e appartiene proprio alla pagina A+ del 55° RF,ed è una posizione fantastica,per tutti i contenuti scritti in questa pubblicazione,ed è possibile iniziare dalle 2 larghe sezioni di periodi risistemati e compararli con tutte “le dottrine delle ottimizzazioni”:).Per avere l’End of Code,esiste 1 sola possibilita’ ed è quella di avere contenuti naturali e originali,dalla data di pubblicazione stessa e ovviamente non debbono esistere dei Copied e questa è la posizione piu’ fantastica,perche’ i primi Copied sono proprio all’interno della pubblicazione,pero’ la sua Quantita’ l’ha salvata dai match interni e quelli globali,perche’ l’Index,ha come riferimento tutti i contenuti e indirettamente il loro valore è descritto proprio nella pagina A+ del 55° RF:)(sono i passaggi dedicati a Giacomo Leopardi,prima che arrivassero i dati di Page Solemn:)
 Per verificare l’End of Code finale è sufficente questa impostazione e il link per esteso è sistemato sopra e tramite essa,è possibile verificare quanto è difficile trovare la sua presenza e non occorre aggiungere nessun dettaglio,perche’ sono sufficienti i dati “EASY EASY di Yoast” tramite le “sue mirabolanti macchine” (nella versione premium:) e applicarli alla realta’ dell’End of Code e solo per i Copied,significa che nel 40% non esiste nessuna sua presenza e poi è possibile proseguire anche con le Over Ottimizzazioni e a differenza dei contenuti di Yoast,occorre invece preoccuparsi,perche’ i dati termineranno subito negli Headers e non arriveranno mai piu’ al termine di qualsiasi pubblicazione e solo in questa posizione, è possibile trovare l’End of Code:) Esiste anche l’Index di Microsoft Bing per il 55° RF e la posizione,solo in FEB 2021 è quella dei passaggi precedenti:) 
L’Eroica AV sara’ un aiuto formidabile sempre ,perche’ i suoi dati ,tramite impatti con contesti incredibili,hanno per forza di cose,anche una Logica Fantastica e derivano dai contenuti effettivi “del suo fratellino maggiore”:)
Questa è la posizione generale di FEB 2021 
E’ alla 6° posizione generale e naturalmente i dati sono quelli attuali  e quindi le precedenti posizioni sono scalate nei valori e solo per citare JAN 2021,dall’8° è passato alla 9° posizione.
Se fosse sistemata l’Eroica AV ,il volume sarebbe all’interno della sezione sopra e solo SEP 2019,avrebbe un volume un po’ minore,ed ha anche 14 pubblicazioni in meno rispetto ad AV:)
Ovviamente sono diverse le impostazioni ,pero’ è innegabile che i dati di AV,con il suo contesto incredibile sono nati ,sopratutto perche’ esistono i dati sopra:)
Ad essere eroica è l’idea stessa dei Din Colors Space e il miglior testimonial sono i contenuti della 3° Comparazione Generale e sono attualissimi,nonostante la “sua veneramda eta”:)
(il collegamento è nella sidebar ,attraverso il piccolo background) 
In questa pagina sono sistemati i vari volumi delle dimensioni generali
L’immagine appena  sistemata deriva dalla divisione di DEC 2020 e le prime posizioni,hanno 16 verifiche a scalare e sono concluse dalla 11° TPJ Level,ed è quella che ha avuto le dimensioni massime,rispetto a tutte le precedenti.Con JAN e FEB 2021 sono aumentate 2 posizioni e questo metodo sara’ valido anche per le prossime verifiche,ovviamente se esisteranno volumi maggiori:)Quindi l’incredibile posizione dell’Eroica AV,se fosse sistemata in questo contesto,sarebbe,attualmente,alla 17° posizione,ed è fortunatissima,perche’ ha azzeccato tutto e non ha preso in nessuna considerazione,i consigli del principale ottimizzatore della piattaforma in cui è sistemata:)
Questa è una fantastica curiosita’:)
E’ la prima pubblicazione dell’anno 2021 (a parte la Crown Colors),ed è la pagina A del 74° RF e le sue dimensioni sono composte da oltre 6200 termini effettivi e naturalmente i Match sono generali,rispetto alle pubblicazioni selezionate e ne sono 198 a FEB 2021 e il loro average è maggiore a 3200 termini effettivi:)Esiste 1 solo Match e la pubblicazione è di FEB 2019 (quindi sono 2 anni) e a sua volta ha notevoli dimensioni: 
è quella da 5365 termini:)
Il conflitto ha prodotto solo 30 termini in Match e le 2 pubblicazioni sistemate (FEB 2019),sono state scritte negli stessi giorni e la 2° ha oltre 7000 termini:) Questa posizione è la migliore per dimostrare i valori finali dei Match:) 
I conflitti avvengono con tutte le pubblicazioni ( i Match sono reciproci e generali) e nel Caso specifico sono coinvolti 5 Post (4 + la pubblicazione citata) e solo considerando il Match della pagina A del 74° RF,le dimensioni delle 2 pubblicazioni arrivano quasi a 12000 termini effettivi e le altre presenti hanno dimensioni equivalenti (quindi sono quasi 25000 i termini coinvolti in realta’:)  e l’aspetto fantastico è la somma stessa dei 5 Match,perche’ uniti insieme i termini,non arrivano nemmeno alla meta’,rispetto a 1 singola risistemazione dei periodi del 55° RF:)
Il miglior sviluppo del passaggio appena sistemato è in questa pagina:)
 Sono il numero delle pubblicazioni in Match a scalare:inizia da 8 contro UNA,ed è ripetuto 3 vole,ovviamente attraverso pubblicazioni diverse tra di loro e ilmetodo è sempre quello descritto sopra e quindi sono eliminati i termini effettivi da 9 pubblicazioni.Seguono i conflitti da 7 contro UNA e anch’esso è ripetuto 3 volte,sempre attraverso pubblicazioni diverse.A scalare esistono poi i conflitti da 6 contro UNA e sono ripetuti 2 volte e a questa posizione segue quella da 5 e sono coinvoliti,a loro volta 5 gruppi di pubblicazioni e anche loro hanno termini eliminati.Da queste posizioni nasce tutto il resto,ad iniziare dal Natural Content;dai Google Patents;dai Fact Check e dalla recente Google Scholar e solo al termine si hanno gli INDEX e lo stesso metodo è valido per le altre pubblicazioni a scalare:)Il gruppo delle pubblicazioni,unito ai 4 Match della pagina A del 74° RF (il primo del 2021 ad essere in una verifica) ,sono stati in realta’ 21,a FEB 2021 e ognuno di essi ha le stesse caratteristiche descritte nei passaggi precedenti. Cioe’ non sono 4 le pubblicazioni in cui vengono eliminati i termini ,ma 5 e la differenza è molto semplice,perche’ i termini eliminati dalla pubblicazione in Match,deriva dalla somma dei Post in conflitto:)
Naturalmente esistono altri match a scalare e dopo quelli citati,esistono anche quelli da 3 e sono 26 i gruppi coinvolti,solo nella selezione di FEB 2021 e ad essi seguono il gruppo da 2 e sono 51 e il resto è formato da 1 Match. Tutti i conflitti proseguono fino alla 161° posizione e si conclude con SOLI 7 TERMINI:) 
Qui è sistemata l’evidenza dei termini finali coinvolti per FEB 2021 
Sono dati incredibili e sono capaci di rendere “ragionevoli anche quelli dell’Eroica AV”,nonostante le sue impostazioni proibitive al massimo:)L’aspetto piu’ importante deriva dal fatto,che gli incredibili dati,sono perfino migliori,rispetto a qualsiasi “ottimisstica apparenza”,perche’ nei domini individuali esistono anche gli RF e i Just Time e quindi nei dati sopra,è gia’ implicita la presenza del Natural Contest e non occorre nemmeno sistemare tutte le pubblicazioni del dominio,perche’ in ogni verifica ne esistono quasi 200 e quindi,il Test ha un valore pieno,perche’ senza di essi ,non esisterebbe nessun Main Content:) Se fossero scarsi i dati di 200 pubblicazioni,diventerebbe inutile vedere le proposte complessive e gli RF e i Just Time,hanno come riferimento valori specifici,uniti a 1 sola pubblicazione,pero’ i loro dati derivano dal dominio in cui sono sistemati,perche’ qualsiasi pubblicazione in Match dello spazio,puo eliminare i termini effettivi di ALTRE e quindi non esisterebbe nessun RF e Just Time e con 200 pubblicazioni,a oltre 3200 in average,la possibilita’ di eliminare i termini è davvero elevatissima:) Sono gli Internal Links OUT,dell’unica pubblicazione in Match,contro la prima dell’anno 2021:) 
E’ opposta completamente “alla teoria di Yoast” (è meglio avere i blocchi dei link interni:),mentre le posizioni sopra,sono tutte coinvolte nelle selezioni e fino a FEB 25 2021,è facile verificare che sono tutte presenti e nei dati successivi,esiste il miglior Servizio al Mondo per i dati e si possono verificare quelli successivi e attraverso i Custom range,anche i precedenti e la loro unione deriva da “Sempli Fattori”:).I periodi debbono essere Originali,in tutti i sensi,ad iniziare dai TEXT originali Effettivi,debbono essere unici rispetto al dominio in cui sono sistemati e deve esiste l’unicita’ globale e ovviamente debbono essere anche Naturali ,insieme a tutti gli altri elementi del Natural Contest.Se esistono i “fattori Reali”,allora si possono “Utilizzare i Servizi” e se dovessero essere confusi i ruoli,non si avra’ nessun dato dai SERVIZI:).Non è una battuta,perche’ è una realta’ molto diffusa “la confusione dei fattori” e poi ne esiste uno particolare,in tutti i sensi,ad iniziare dal fatto “che risulta immune dalla confusione dei fattori”,per il motivo piu’ semplice e cioe’ non è quasi MAI NOMINATO:)E’ L’Amount o Quantita’ dei contenuti stessi eoltre a non essere Nominato,spesso non è nemmeno presente in maniera oggettiva:)Questa lacuna ha diverse eccezioni e la piu’ importante è del TFD Plato,perche’ è presente nelle sue Guidelines enaturalmente esiste anche in quella degli Engines,pero’ Plato,ha “fatto di piu’”,perche’ l’Amount occupa anche la prima posizione effettiva delle sue Guidelines:) 
E’ proprio il Caso di festeggiare il “meno citato dei fattori” 
perche’ dopo quasi 1 anno ,è cambiato il Top Average Generale e il nuovo appartiene,da FEB 2021,al TFD Plato:) 
Il nuovo Top Average è formato da 13891 ,fantastici termini effettivi:) 
Per il TFD Encyclopedia a FEB 2021 sono state presenti 226 pubblicazioni e l’average è formato da 6107 termini effettivi e naturalmente è sempre molto elevato e a favore di Encyclopedia,occorre ricordare che possiede sempre la Sitemap e quindi,i suoi dati hanno “una valenza diversa”,perche’ non esiste nessun blocco interno dei links,nei collegamenti tra le pubblicazioni del dominio specifico e quindi non esistono nemmeno blocchi nelle selezioni e questa volta è possibile utilizzare “il consiglio di Yoast”,sul “valore dei blocchi dei links interni”,ed è sufficente interpretarlo all’opposto e si ha la valenza reale dei dati,tramite la presenza o meno della Sitemap:) (quelli di Plato sono dati fantastici,l’average è stellare,pero’ non è presente la Sitemap e quindi il dato finale di Encyclopedia,è perfino migliore:)Ha raggiunto il 91% ,mentre Plato,per la prima volta,in qualsiasi verifica ha lo 0% nei duplicati e solo 1% nei Common Content e quindi la sua unicita’ completa ha raggiunto il 99%,tramite 248 pubblicazioni con l’incredibile average sistemato sopra:) 
Il Grande Dosto  è il nuovo TFD,nato da contesti multipli e molto particolari essi stessi:)la prima descrizione è a DEC 2020 La seconda è a JAN 2021 Esistono varie posizioni per gli autori celebri e tramite Ranker a DEC 2020 ,sono presenti quelle online , mentre qui esistono le selezioni di altri autori (ne sono 125)I dati di entrambe hanno poche differenze e si alternano nella prima posizione,il Caro Leo e il Caro Willi:)Per il Grande Dosto le definizioni “sono completamente opposte”,anche se ha ottime posizioni e in prossime pubblicazioni,sistemero’ i vari passaggi per arrivare “al dominio giusto” del Grande Dosto e in alcune di esse,esistono “giudizi davvero caustici” rispetto al Grande Autore:)Nascono “dal suo pessimismo” ,pero’ “non rappresenta il “contesto completo dell’autore” ,perche’ le sue opere hanno un arco temporale unito “ad aspetti ludici” e per forza di cose è molto particolare ,perche’ il Grande Dosto aveva la “passione del gioco” (sopratutto delle carte) e purtroppo “perdeva spesso” e aveva accumulato tanti debiti e li pagava,scrivendo le sue novelle e quindi,la presenza di “contenuti un po’ pessimisti”,è stata quasi naturale:) Con questo “sistema di scrittura”,ovviamente fatte sempre sotto “ricatto per i debiti contratti”,le opere del Grande Dosto hanno richiesto circa 30 anni per realizzarle.  Per il contesto specifico dell’autore,è nata subito una simpatia e ho cercato di trovare qualche modo per inserirlo,pero’ non esisteva nessun dominio adeguato,semplicemente perche’ esistevano opere parziali e in alcuni erano del tutto assenti.Lo spazio giusto è arrivato da 3 posizioni,davvero particolari e ognuna è indipendente dall’altra e ho solo utilizzato “dei piccoli dettagli”,per arrivare al dominio del Grande Dosto:).In questa posizione cito solo l’ultimo,perche’ è quasi speculare al dominio di Casa Leopardi ,ed è formato da “grandi intelettuali” ,amanti “della bella scrittura”:)Nella realta’ hanno contenuti ,solo con elevati Copied e in essi sono comprese anche tante citazioni e sono “talmente eruditi”,da scriverle direttamente nei TEXT dei contenuti e appena ho visto i dati dei “grandi professori”,mi è venuta in mente Casa leopardi,perche’ i dati degli “esegeti del Grande Dosto” ,sono assai simili:) (sono scarsi entrambi e con bassi average pure:) E’ stata proprio questa posizione,inconsciamente,a suggerirmi che fosse il dominio giusto,per il Grande Dosto e lo è stato realmente:)Qui sono sistemati i suoi dati per rendere oggettivi i passaggi precedenti ,ho sostituito il nome del dominio con MAR 2021 e in quella data sistemero’ quello effettivo e in questa posizione,tramite i passaggi precedenti,sara’ possibile verificare quanto è difficile “trovare il dominio giusto”:)Comunque i dati sistemati sono quelli reali del Grande Dosto e a differenza degli altri autori celebri,esiste 1 solo Detect Language,ed è quello originale:)Ha avuto 175 pubblicazioni e 6503 è stato il suo average e ha raggiunto il 92% e gran parte dei contenuti,sono stati realizzati attraverso il contesto descritto sopra e cioe’ il Grande Dosto pagava i suoi “tanti debiti”,scrivendo le novelle e non esiste dubbio che “un po’ di pessimismo nei suoi contenuti”,sia stato normale,perche’ perdeva anche spesso al gioco:)  Questa è una posizione davvero fantastica per fare qualsiasi comparazione,perche’ è il dominio di tanti celebri autori uniti insieme e l’aspetto straodinario delle selezioni ,deriva dal fatto che i contenuti sono gia’ selezionati a loro volta,perche’ non esistono le opere complete di ciascun autore,ed è difficile da immaginare, che siano contenuti originali a loro volta:) E’ molto probabile che ciascun autore avra’ fatto infiniti EDITS,prima di pubblicare le loro opere,ed escluso Marcel Proust ,nessuno degli autori presenti ,ha contenuti sistemati in 1 sola posizione:)Questo è il contesto generale e poi esiste quello oggettivo,ed è la migliore evidenza ,di quanto sia facile essere in Match,anche per autori diversi tra di loro e il dominio che li ospita ha contenuti con TEXT in 4 Detect language:)Nonostante questo,l’inizio del numero di pubblicazioni in Match è 48 contro UNA e 45 Match ha la seconda:)Le opere restano sempre dei capolavori,almeno per gli autori che le hanno create,pero’ sono composte sempre da termini e solo 1 di ESSI,per 1 Dominio,puo avere rilevanza e gli altri sono eliminati:)  Nel 74° RF esiste anche la posizione di questo autore e anch’esso è presente nel dominio Texto.Best E’ sistemato,per evidenziare anche la presenza numerosa dei Detect language per 1 solo dominio e per l’autore specifico esiste anche 1 doppia colonna,in 1 sola pagina,per gli stessi contenuti in 2 Detect language:)E’ una posizione davvero “molto interessante” e per le dimensioni di questa pubblicazione ,”ampliero’ anche l’interesse” ,attraverso i contenuti che avra’ Din Colors Priority Time ,perche’ attraverso l’autore sopra,sono arrivati anche “notevoli contributi da EU”,descritti sempre nel 74° RF:)Il riferimento è “alla semantica” e viene utilizzata dal “contesto tradizionale” ,per un semplice motivo,perche’ in realta’ non conoscono realmente cosa hanno scritto i celebri autori:) Texto.Best lo ha reso molto semplice,perche’ esiste la loro unione gia’ selezionata e sistemata con traduzioni in TEXT effettivo,attraverso 4 Detect language ,ed esistono “anche dei work in progress”,per sistemarne anche altri,sempre attraverso dei TEXT Effettivi:)queste è la sintesi dei dati per Texto.Best a FEB 2021Ha avuto 239 pubblicazioni e 3469 termini in average e ha raggiunto l’81%,ovviamente sempre con diversi lingue presenti nei Text:)Comunque,la posizione è sempre interessante,perche’ “questi sbalzi dei dati” ,hanno una sola protagonista,ed è la presenza della Sitemap e quindi,”Yoast avrebbe anche ragione” nel bloccare i links interni ,pero’ deve trovare una soluzione per rendere validi i Main Content e non ne esiste nemmeno UNA e tantomeno ,le proposte complessive possono nascere dai blocchi interni:) (di consegunza i blocchi piu’ probabili,diventeranno i pagamenti per i “servizi di Yoast”:)qui è sistemata la sintesi dei dati di JAN 2021 per Texto.Best E’ facile individuare la presenza della Sitemap,perche’ solo con essa è possibile passare dal 44 al 81% e naturalmente è possibile determinare anche l’opposto ,ed è quello di mantenere gli stessi valori , cambiando anche le dimensioni generali dei volumi e per forza di cose sono diverse anche le pubblicazioni presenti.Per Texto.Best esistono anche le differenze negli average ,pero’ nel dominio specifico il valore è molto scarso,perche’ esistono multiple lingue nei contenuti e il riferimento degli average è sempre 1 singola pagina ,per 1 pubblicazione,sistemata in 1 sola colonna:) (quasi tutte le pubblicazioni del dominio specifico hanno invece 2 colonne ,con 2 detect language:)Ho scelto di sistemarlo lo stesso il dominio, perche’ i suoi dati,rappresentano la migliore evidenza per comprendere quello degli altri spazi:) (solo Texto.Best ha queste impostazioni insieme ai dati del TFD Marcel Proust:) Le descrizioni del dominio sono a JAN 2021 Anche questo spazio ha tantissimi autori e tra di essi sono presenti diversi dottori della Chiesa.Il dominio è arrivato grazie a Santa Veronica Giuliani ,ed è “l’Autrice fisica” del Contest Level Absolute e nello spazio specifico,almeno per il momento è sistemata solo una piccola parte della sua opera (1 pubblicazione da 12000 termini e l’altra ne ha circa 200 ), perche’ il volume reale del Contest Level Absolute è formato da circa 10 Milions di termini,scritti in 34 anni e sopratutto sistemati anche in 1 sola posizione,senza nessuna correzione ed EDITS e quindi, è necessario citare la vera Autrice , ed è Nostra Signora del Common Content.Questa è una parte del dominio e poi esistono tanti altri Autori,anch’essi Santi e quindi è naturale che abbiano avuto dei suggerimenti  elevatissimi ,nel vero senso delle parole (sono presenti anche i contenuti di San Giovanni della Croce e parlava direttamente con il divino) .Nonostante questo contesto sovrannaturale,le regole sono uguali per tutti e ho sistemato questo passaggio,perche’ esiste un altra fantastica evidenza nei dati del dominio,ed è il numero di pubblicazioni in Match:)La prima posizione ha 95 Match contro UNA pubblicazione e solo la seconda ne ha 45 e per uscire indenne da una “situazione simile”,occorrono davvero un gran numero di Santi ,oltre all’assenza della Sitemap nel dominio:) Questa è la prima in Match nel numero di pubblicazioni  e i dati che seguiranno non derivano solo dai Santi,ma dall’assenza della Sitemap 🙂Esistono 434 Internal Links OUT,solo per la prima pubblicazione nei Match e senza di essi , è sicuro che il record precedente sarebbe stato ampliamente superato:) (101 match,solo nella prima pubblicazione dei duplicati 🙂qui è sistemata la sintesi del dominio Pasomov.itHa avuto 148 pubblicazioni e 5729 è stato il suo average e ha raggiunto il 92% in unicita’ e quindi è facile comprendere quanto è potente la Sitemap,in ogni sua versione:) (nei dati sopra,per l’assenza:) Gli altri domini presenti a FEB 2021 li citero’:Investopedia ha avuto 228 pubblicazioni e 1471 è stato il suo average e ha raggiunto il 73% in unicita’. Moz 198 pubblicazioni ; 3793 in average e 80% in unicita’.IONOS : 221 pubblicazioni ; 1557 sono stati i suoi termini e 65% è stata la sua unicita.Screaming Frog : 245 pubblicazioni ; 2112 in average e 70% in unicita’.Advanced Web Ranking :230 pubblicazioni ; 1985 in average e 79% è l’unicita’.GitHub : 212 pubblicazioni ; 1184 sono stati i suoi termini in average e 70% è stata l’unicita’.Impact Plus : 247 Post ; 2320 in average e 63% in unicita’.Content Marketing Institute : 220 Post ; 2068 in average e 61% in unicita’.Icann Wiki : 131 Post ; 1347 in average e 84% in unicita’.BigCommerce : 225 Post ; 1985 in average e 83% in unicita’.Forbes 226 Post ; 3593 in average e 61% in unicita’.Britannica : 247 Post ; 1314 in average ; 64% in unicita’.ER Educause : 138 Post ; 1972 in average e 83% in unicita’.Godaddy DE : 240 Post ; 1313 in average e 71% in unicita.Text Broker 160 Post ; 2232 in average e 72% in unicita’.Wiki lingua Cebuana : 187 Post ; 958 in average e 58% in unicita’.Wiki Italy : 203 publicazioni ; 2663 è stato il suo average e 88% è la sua unicita’.Wiki France : 245Post ; 4007 sono stati i termini del suo average e 85% è stata la sua unicita’.Wiki DE : 218 Post ; 3448 è stato il suo average e ha raggiunto il 91% in unicita’.Wiki ES : 213 pubblicazioni ; 3508 è stato il suo average e ha raggiunto l’88% in unicita’.Wiki Globale : 227 pubblicazioni ; 5700 è stato il suo average e ha raggiunto il 91%.Per la festa dei 6 anni ,la migliore posizione è del TFD Marcel Proust e il riferimento sono gli archi temporali,per la posizione unica dei suoi contenuti,solo per l’opera maggiore (12 anni e 23 per tutte le altre ,complessivamente,ed è arrivato a 2,9 Milions ,pero’ tradotti in lingua inglese:)A FEB 2021 ha avuto 248 pubblicazioni e 4375 è il suo average (calcolato in pluri lingue:) e 74% è la sua unicita’.L’immagine sotto, è unita a Marcel Proust mentre l’iframe contiene i Top domini ,uniti insieme a Page Solemn,dopo la sua nascita:) 
Posted in Key Page Unit, TD Space Content
Heroic Natural Contest Big Data 4 🟢
Posted on March 5, 2021 by Din Story AV
 La pubblicazione del 4° Natural Contest per Big Data ,sara’ anche l’anticipo per FEB 2021 e nello stesso tempo ,servira’ per creare la prima Heroic AV:) La prima unione inizia dalla pagina A del 74° RFAd essere Eroico è il numero stesso (74:) ,solo per il fatto che esistono le pubblicazioni,unite agli RF e questa posizione ,non è “mai banale”,ad iniziare dal fatto che non esiste ancora 1 sola pubblicazione, ad aver avuto “un secondo RF”:)Nei contenuti che seguiranno ,si comprendera’ ancora meglio ,quale sia il contesto del “numero 74” e posso anticipare che sara’ proprio quello del Natural Contest,attraverso 1 solo suo elemento e sara’ la Quantita dei Content stessi:) Adesso creo l’unione oggettiva con Heroic AV e inizia proprio dalla pagina A del 74° RF ,ed è stata la prima pubblicazione dell’anno 2021,all’interno di 1 verifica:)Nella parte conclusiva della pubblicazione,ho sistemato i dati di AV ,ed erano gia’ sconcertanti ,perche’ la prima pubblicazione in dimensioni,ha avuto oltre 58000 termini effettivi:)E’ l’intera 2° pagina ,con 10 pubblicazioni e per il momento non esiste nessuna risistemazione nello spazio e quindi i collegamenti all’interno del 74° RF sono quelli effettivi e cioe’ esiste la 2° pagina di AV ,con l’elenco a scalare delle pubblicazioni. (sono tutte in Full Text e quindi i contenuti esistono realmente in ogni pagina:)Grazie alla parte conclusiva del 74° RF ,sara’ anche piu’ facile comprendere i valori dei dati che avra’ FEB 2021:)

E’ possibile iniziare dal dato sopra,ed è proprio quello di AV e la Sua Eroicita’ inizia dai Match inevitabili dell’intera 2° pagina e sono stati molto utili, per comprendere quelli di JAN 2021,perche’ esiste una differenza superiore a 100000 termini effettivi,ed essendo gli stessi contenuti di questo dominio,i suoi valori sono “Oltre le Stelle”,semplicemente perche’ nessun altro dominio possiede le impostazioni di AV ,ma esiste 1 sola pubblicazione in 1 pagina e tutti hanno anche la loro Homepage:)
Nelle impostazioni della piattaforma WordPress ,possono essere presenti anche 10 pubblicazioni in 1 pagina,pero’ è difficilissimo trovarle anche in Full Text ,perche’ in genere sono formate solo da una piccola introduzione e poi i Text reali sono in altre pagine e quindi non possono avere dei Match:)
AV e tutti gli altri spazi hanno solo Full Text  e quindi cambiano notevolmente i valori dei dati e solo per citare la prima in dimensioni,esiste la notevole fortuna di avere i dati di Page Solemn ,ed esistono gia’ da alcuni anni e nessun altro dominio è mai arrivato alle sue posizioni:)
Sono presenti i Big Assoluti e 2 di essi appartengono a Wiki globale e nessuna pubblicazione, ha mai piu’ avuto gli stessi dati:)
Per AV in 1 colpo solo,sono arrivati dati maggiori di Page Solemn e nella stessa verifica,esistono 2 pagine con gli stessi termini unici di Page Solemn:)
I dati sono nella sidebar,mentre quelli di AV,resteranno in questo modo fino a FEB 17 2021 ,ed è sicuro che fino a quella data non faro’ nessuna risistemazione nello spazio,perche’ è sufficente solo 1 pubblicazione,per far scalare tutte le altre ,ed è oggettivamente molto difficile che si possano ripetere gli stessi dati:)
  Nella parte finale del 74° RF 

Ho solo citato la prima dimensione,perche’ è davvero “sconcertante” ,ed è sufficente la comparazione dei dati di Page Solemn e di tutti i domini che sono passati in oltre 2 anni (a JUN 2021 ne saranno 3) ed è arrivata grazie alla pubblicazione magica,per antonomasia ,ed è la 3° Comparazione Generale di APR 2015:)
La posizione di AV è sempre fantastica,perche’ Page Solemn ,appartiene sempre ad ESSA e cambiano solo i riferimenti dei dati:) 
Questi sono i dati della prima posizione di Page Solemn e non esiste nessun dubbio che siano di altissimo livello:)
La parte fantastica di AV,deriva dal fatto che li ha appena migliori,pero’ con soli 32000 termini effettivi e queste posizioni,sono le piu’ importanti del Contesto Online,perche’ determinano tutto il resto e la migliore verifica sono proprio gli RF e i Just Time,semplicemente perche’ i rapporti negativi tra i termini effettivi e i loro unici, determinano tutto il resto:)
Possono essere utilizzate tutte le Keywords ad Alta Rilevanza ,del primo Detect language,pero’ se non esistono i termini effettivi che li contengono,non avranno mai nessun valore:)
A permettere la loro esistenza è proprio il rapporto dei termini e nelle singole pubblicazioni esistono i Keywords Stuffing,mentre nelle verifiche interne dei domini ne sono presenti centinaia di pubblicazioni insieme,ed entrambe hanno come Valore dei Match,l’eliminazione dei termini stessi. Quest’immagine è la vera festa di 6 anni ,considerando solo il 5° dominio  e da essa,è stata Inevitabile la nascita di HEROIC AV:)
La prima dimensione ha solo 3000 termini in meno di Giacomo Leopardi e nel contesto originale non esiste nessuna nota e quindi sono presenti solo i Text effettivi:) 
Dopo 2 anni e mezzo,per 1 solo autore in 1 solo spazio,i dati sono “stati polverizzati”:)  (sono oltre 15400 i termini unici della dimensione maggiore di AV:)
L’incredibile è nella 2° e 3° posizione,perche’ sono in realta’ la stessa pagina (la prima:) ,ed è sufficente togliere ilnome dello spazio e la selezione delle categorie ,per notare che sono le stesse pubblicazioni e ovviamente esiste il Match completo,perche’ la prima pagina,è letta come Homepage,anche se non esiste nella realta’:)
L’eliminazione dei termini attraverso i Match,non avviene mai per 1 pubblicazione (a parte il Keywords Stuffing),ma sono eliminati da entrambe o da qualsiasi numero di pubblicazioni fossero coinvolte ,ed è facile intuire che iniziare i Match da 47000 termini, occorrono Qualita’ Eroiche,per arrivare indenni al finale di AV:)
Solo attraverso le sue impostazioni è stato possibile eliminare 2 pagine (quindi 20 pubblicazioni) ,con un numero di termini unici uguale a quello di Page Solemn ,ed è avvenuto,grazie al fatto che sono le stesse pubblicazioni:) 
Questa è la 2° posizione in dimensioni ,ed è la selezione delle “categorie” e in realta’ sono i Labels: esiste la presenza della Sitemap e a 47000 termini,si è permessa anche “il notevole lusso” di avere 23 Internal Links OUT   e ovviamente,se è presente la Sitemap,significa che nessuna pubblicazione è stata esclusa dai Match:)
Una dimostrazione è nell’altra evidenza e sono i termini eliminati dai Match e nella prima posizione,il volume è formato da 2839 termini e il dato Eroico è il 6% dei Match:)  
Il riferimento sono le dimensioni della selezione (47000 termini) e posso anticipare che in questo Natural Contest per Big Data,non esiste nessun dominio che abbia lo stesso dato nei loro average:)
Nella verifica di FEB 2021,invece esistono dati maggiori negli average,almeno tra quelli noti fino a questo momento:
Natural Contest Big Data 3
L’immagine appartiene alla Big Data precedente , ed è pertinente anche in questa posizione,per diverse ragioni e sono tutte impostanti: la prima riguarda i dati eroici di AV e attraverso ESSA,per forza di cose sono coinvolti anche i valori di questo dominio,perche’ gli elementi del Natural Contest sono tutti presenti e a testimoniarlo sono i dati degli RF e dei Just Time:)
Nelle verifiche interne dei domini esistono diversi limiti,perche’ l’originalita’ effettive dei contenuti non si conosce ; non è possibile sapere se i periodi sono “naturali” ; se esistono violazioni di copyright ; se è presente il Main Content e non è possibile nemmeno conoscere le tantissime cazzate che potrebbero fare i gestori dei domini,attraverso i collegamenti esterni in DoFollow dei loro spazi:) (le descrizioni sono in Unnatural Developer Dati Now e nei Brain Stone)
Nell’immagine sopra è presente solo 1 elemento del Natural Contest e il Little Value, ha come riferimento le dimensioni stesse delle pubblicazioni e cioe’ la Quantita’,ed è indispensabile solo per iniziare i Match dei valori e l’unione con le Ads ,deriva dal motivo piu’ semplice ,perche’ sono i contenuti effettivi a fornire valore alle Ads stesse ,ed è sufficente la “Mancata Quantita’” ,per violare “la police specifica”:) (altre descrizioni sono in Unnatural Developer Dati Now collegata sopra).
Esiste poi un altra ragione ,per cui ho sistemato l’elemento Quantita’ del Natural Contest e riguarda proprio FEB 2021,perche’ dopo quasi 1 anno,esiste il nuovo Top Average generale di tutte le verifiche e appartiene al TFD Plato:)
Le descrizioni saranno nella pubblicazione ufficiale e in questa posizione ,aggiungo solo un aspetto fantastico e nasce dalle linee guida di Plato stessa : è sufficente aprire il logo dei Brands (quello a sinistra ) e nel primo collegamento ,sono sistemate le linee guida di Plato ,ed è proprio la Quantita’ dei Content ,ad essere al suo vertice:)
E’ un indicazione fantastica ,perche’ deriva dal Top stesso degli High Learning e sara’ utilissima per i contenuti che seguiranno,sia perche’ la Quantita’ è assente e spesso,citando i tantissimi Fattori (minimo,sempre 200:) ,non viene nemmeno nominata:) .
In questa posizione, per festeggiare la Quantita’ e quindi tutto il Natural Contest,è sufficente ricordare qual’era il livello del Top Average Generale (13250 termini effettivi:) , ed è arrivato a MAR 2020,attraverso il TFD Encyclopedia:)
Mai piu’ si è ripetutata allo stesso livello ,mentre Plato,solo aJAN 2021,ha superato per la prima volta il livello dei 13000 termini effettivi in Average e a FEB 2021,è arrivata l’apoteosi per Plato:)
Per i contenuti che seguiranno,sistemo un altra curiosita’,unita al TFD Plato: A FEB 2021 saranno sistemati anche 2 nuovi celebri autori e ognuno ha avuto un percorso particolare e l’unione con Plato deriva,naturalmente ,dalla Filosofia:)
L’autore protagonista sara’ “il filosofo del super uomo” e all’interno di Plato ,esistono anche dei contenuti dedicati e l’aspetto curioso ,deriva dal fatto che i contenuti di Plato,sono assai migliori,rispetto “a quelli del filosofo originale”:) 
(lo sono rispetto alla lingua originale e anche nei confronti di 2 Detect language sistemati insieme,utilizzando gli stessi contenuti,del medesimo filosofo 🙂
E’ la posizione reale dei valori del contesto online e saranno molto utili per comprendere i contenuti che seguiranno:

Questa è l’immagine migliore da unire e in questa posizione evito i tanti collegamenti possibili,perche’ ci saranno “delle funzioni dirette” rispetto ai contenuti che seguiranno e poi in altre pubblicazioni sistemero’ anche “ulteriori unioni”:)
Per il momento cito solo la posizione stessa di Google Patents nei Just Time ,ed è straordinaria, perche’ è la migliore evidenza dei valori stessi e non sono i termini ad alta rilevanza (lo sono quasi tutti quelli sistemati nei Just Time 🙂 ,ma gli effettivi che li contengono 🙂

Questa è l’unione piu’ sublime,perche’,i FACT Check nascono per forza dai Google Patents e l’aspetto sublime deriva dal fatto,che non possono essere presenti dei Copied ,perche’ sarebbe inutile “cercare la verita’ dei fatti”:) (tra l’altro sono penalizzate anche le “mezze verita’”,ed esistono tantissimi esempi e possono essere trovati,digitando “half True nella ricerca interna:)
Da questa posizione è possibile sistemare tutti i contenuti di Unnatural Developer Dati Now:)
Rappresentano i valori reali ,ed è sufficente unire la semplice logica ,perche’ è superiore nettamente a qualsiasi rilevamento di base,ed è molto semplice anche la collocazione generale,perche’ Google Patents ha come “primo sinonimo” la Pertinenza dei Dati  e quindi il valore economico delle ricerche:) (per questo solo motivo esistono i Fact Check 🙂
Esiste anche una collocazione specifica rispetto a questa pubblicazione e la sintesi è nell’immagine sotto:

Deriva da un altra pubblicazione dedicata a Big Data
Tutti gli altri collegamenti sono nella sidebar,attraverso il piccolo background e l’immagine appena sistemata,ha la sintesi generale,rispetto a Google Patents ,per un motivo molto semplice,perche’ anche i “database piu’ sofisticati” ,non conoscono nulla ,rispetto alle unioni dei dati ,per gli “intenti degli utenti” e quindi figurarsi che conoscenze possono avere rispetto “agli altri intenti”,sempre degli utenti:) 
Nei contenuti dei database,esistono “tante elecubrazioni” rispetto al “potere dei loro dati”,pero’ la realta’ è molto diversa e sono i domini dei database,loro malgrado,ad essere i migliori testimonials:)
Se avessero reali capacita’,”i poteri dei loro dati”,utilizzerebbero i loro database “come Engines” ,perche’ il vantaggio economico è ciclopico e per il futuro,sara’ anche maggiore:) 
Il primo ha il 94% di Market Share e 3% il secondo e tutti i dati derivano da essi e nei valori economici,per il momento sono escluse anche le Big Data,ed è facile intuire a chi apparterranno anche in Futuro e altrettanto semplice è l’intuizione del valore economico,unito a qualsiasi dato:) Saranno esponenziali anche in futuro e per mantenere le posizioni ,esiste una Logica fantastica ,ed è la Pertinenza dei dati e a questo serve realmente Google Patents:)

Questo è un ulteriore sviluppo rispetto a Google Patents;Scholar e ai Fact Check e deriva dal 71° RF:)
E’ relativamente recente questa posizione (APR 2020) ,ed è il miglior sviluppo rispetto a qualsiasi valore,perche’ è possibile avere tutte le originalita’ dei contenuti,superare tutti i Match (interni ai domini e globali) ,non avere contenuti falsi e nonostante questo,è possibile che esista anche l’immagine sopra:).
Semplicemente significa che i contenuti hanno i dati giusti,pero’ non sono pertinenti rispetto alle ricerche specifiche e ovviamente,la differenza la fanno i termini effettivi che contengono quelli rilevanti:)

Quest’ultimi sono anche i piu’ digitati da qualsiasi utente e per essere rilevanti,significa che esistono anche numerosi spazi ,con contenuti molto pertinenti,rispetto ai termini piu’ pregiati e a permettere questo,sono sempre gli effettivi che li contengono 🙂
Sono loro a determinare il fatto che “Non esistono dei Gran Match” e naturalmente,questa posizione non potra’ piu’ essere modificata per ovvie ragioni e la sua presenza,rendera’ anche negativa la posizione delle altre pubblicazioni.
E’ molto difficile avere dei Main Content validi,non possedendo “dei Gran Match” e questa posizione arriva solo al termine dei Google Patents;Scholar ;Fact Check e naturalmente,occorre prima avere anche i contenuti originali:)
Da questo impianto derivano i valori reali e per gli RF e i Just Time (almeno da APR 2020) non è esistito nessun Match ,che non avesse contenuti rilevanti ,ed è sufficente solo vedere quali sono i termini utilizzati nei Match e sono all’interno dei Brands:)
Sono quasi tutti al 100% nelle Altissime Rilevanze e il riferimento è il primo Detect Language,mentre i termini effettivi che li contengono hanno il rapporto opposto:) (attualmente è uguale a 1/61° quello tra la lingua italiana e il primo Detect Language e il riferimento sono i loro termini effettivi:)

Questa è la progressione da Google Patents a Scholar
Sono tantissime le categorie e sono unite a Hi-INDEX 5 e sono le migliori pubblicazioni,unite anche ai FACT Check.
Il problema,rispetto a tutti i database,è la presenza proprio degli Index ,ad iniziare dal percorso stesso per arrivarci:)
Anche per i Top Index questa è la prima unione  
nel 74° RF esiste la descrizione completaE’ la posizione piu’ semplice,perche’ “le grandi organizzazioni” ,sono i responsabili unici dei contenuti ,rispetto a qualsiasi numero di autori possano avere:)
Prima di questa posizione,esistono gli High Learning nelle General Guidelines e sono anche il primo riferimento per i Top Index e la loro prima applicazione è proprio nei Fact Check sistemati sopra,perche’ generalmente,sono delle “grandi organizzazioni” anche loro,attraverso numeri elevati di autori e spesso sono in “conflitto tra di loro” e alcune ragioni saranno nei contenuti che seguiranno tra un po’:)
Per il momento è sufficente unire 1 solo termine ,applicato agli High Learning e a scalare,è valido per chiunque ,iniziando dalle “grandi organizzazioni” e dai Top Index :
 gli High learning debbono essere Autorevoli ; Esperti ed Affidabili e per unire queste Fantastiche Qualita’,è presente 1 solo termine,valido per chiunque:DEMONSTRATE ,ed è applicato solo a contenuti reali ;originali;naturali;senza violare nessun copyright e che abbiano i Main Content e debbono superare la migliore comprensione di tutti i tempi:)
I Top Index hanno tutto questo,almeno dal 2015 e le pubblicazioni sistemate all’interno di “grandi organizzazioni” ,debbono avere validi anche gli altri autori ,presenti nei contenuti di 1 solo dominio.
Queste posizioni Eccelse formano le Entita’ dei Fact Check ,attraverso l’unico termine effettivo,per avere tutti i valori validi in Long Time ,ed è DEMONSTRATE ,applicato a EAT:) (debbono essere autorevoli;affidabili ed esperti gli autori,anche delle grandi organizzazioni).
qui è sistemato un esempio,rispetto alle varie categorie dei Top Index
questo è un secondo esempio
E’ utile per comprendere quale sia il livello di Google Patents e quindi dei fact Check e la posizione piu’ curiosa è quella di Google stessa,perche’ è l’Entita’ piu’ elevata in assoluto,sopratutto rispetto ai contenuti della categoria unita al contesto tecnico online (sono anche quelli del dominio individuale:) ,perche’ esiste la verifica immediata dei contenuti stessi:) (attraverso quelli dei Brain Stone ,esiste la sicurezza di avere tutti contenuti falsi🙂

Unite ai Top Index esistono anche le “Citations” e posso anticipare che sono davvero fantastiche rispetto ai contenuti che seguiranno e per dimostrarlo,occorre l’aiuto delle General Guidelines:)
Questa è la posizione esatta per rendere le Citations valide:Puo essere sostituito con il termine “Reference”,pero’ la “sostanza non cambia”:).
Occorre una soddisfacente presenza dell’Amount (è un elemento del Natural Contest e cioe’ la Quantita’) e deve avere anche la comprensione piena e naturalmente debbono anche essere originali e naturali i contenuti.
la differenza maggiore rispetto ai Top Index ,non sono nemmeno gli EAT ,perche’ nei Top utilizzati per i fact Check,sono sistemate “solo le singole pubblicazioni” e per rendere valide le “Citations”,occorre che sia l’intero Main Content (MC) ad avere “l’Amount soddisfacente” e quindi “coloro che citano gli altri”,debbono fare Molta Attenzione,perche’ le loro segnalazioni possono facilmente tornare indietro e quando avviene questo percorso,il contesto diventa molto negativo e non si potra’ recuoprare in nessun modo.
Sempre per le Citations è possibile unire anche i contenuti dei links Juice ,perche’ debbono anche essere pertinenti i contenuti di “coloro che citano” e questa posizione è la migliore,per comprendere quale sia il livello dei Top Index e di conseguenza,diventa anche facile evidenziare il livello dei fact Check e quindi di Google Patents e da ESSA,è possibile evidenziare anche l’aspetto piu’ sublime per i Content individuali,perche’ le Altissime rilevanze degli RF e dei Just Time nascono dallo stesso contesto:)
Questo è il momento migliore per festeggiare i 6 anni del dominio individuale ,perche’ i suoi content sono nati dal passaggio appena sistemato e sono opposti ai contenuti che seguiranno,completamente uniti “solo alle Citations”,senza nessun unione effettiva con i contenuti reali:)  
L’inizio è quest’immagine e per il momento descrivo solo l’essenziale ,perche’ sono talmente tanti “gli aiuti forniti” da rendere difficile sistemarli in 1 sola pubblicazione:)  
Il senso di aiuto,riguarda solo la Logica in generale e lo spazio sistemato,esclusivamente per i Loro dati,sarebbe di buon livello,se fossero utilizzabili:)
La parte piu’ importante,per gli Engines segnalati,sono proprio le Citations e naturalmente,non esiste nemmeno 1 riferimento per gli Amount e tantomeno per gli MC:) 
Questa è solo la collocazione esatta di 1 Engine  (cioe’ l’operatore effettivo è Clarivate) e inizia con una meravigliosa demenza,utilissima anche per tantissime pubblicazioni future:)
Si “autonominano” come il piu’ grande al mondo in “Neutral Citation”,ed è una demenza anche nei termini:)
Qualsiasi citazione dovesse esistere,è la Neutralita’ stessa a non poter essere presente,perche’ la pertinenza dei dati è il Core Business degli Engines stessi e quindi se si è “neutrali”,non sara’ mai possibile che esista la pertinenza dei dati:)
Sarebbe come essere “Neutrali rispetto ai Backlinks” e il contesto online diventrebbe solo uno schema e non esisterebbe nessun valore reale,nemmeno per coloro che li acquistano direttamente i links ,perche’ si annullerebbero a vicenda:) 
Sono le Academic dei database e posso assicurare che la posizione è reale ,ed esistono tanti contenuti simili anche nei database che sistemero’ tra un po’:)
Si è chiesto se Google Scholar è un “Academic Database”:)
Sono un po’ incerti ,perche’ sempre secondo loro ,a volte si “comporta come database” e a volte “come Engines”:)
Sembra una posizione banale,pero’ sono le posizioni effettive dei database e si sentono “forse orgogliosi di essere solo dei database”:)
Google è solo un Fantastico Engine e per forza di cose deve avere dei database ,pero’ a differenza “degli orgogliosi dei dati”,li sa’ anche unire, ed è anche molto credibile:) 
Anche in Computer Science esistono sempre i 2 Engines nei Top per le Academic dei database e solo alla 4° posizione è presente Microsoft Academic:) 
Dopo la posizione “Neutrale delle Citazioni” ,questa è un altra demenza equivalente e l’unica collocazione giusta sono i Brain Stone:)
Hanno sistemato anche i peer reviewed e la posizione è attuale rispetto all’arco temporale di questa pubblicazione e poi hanno aggiunto “che il Mondo ha Applaudito”:) Sono favorevole alla fantasia,pero’,almeno per l’anno 2020,sarebbe stato meglio “evitare gli applausi”,sopratutto se uniti anche a una cazzata come quella evidenziata:)
Anche l’altro Top Engine dei database ha la stessa soluzione ,ed effettua solo i trackers delle citazioni,sempre in maniera “Neutrale”:) 
Nemmeno nei social hanno il coraggio di sistemare tutte queste cazzate in 1 solo colpo e posso anticipare,almeno tra quelle trovate,che non sono nemmeno le sole e in questa posizione ne cito “una carina” ,ed è unita proprio ai Top Index,descritti nei passaggi precedenti e cioe’ esiste 1 sola domanda,ed è come fare “per avere gli High Index migliori”:)
I “poveri De-Index” non sono nemmeno citati negli Engines dei database e tantomeno nella loro Academic e hanno sistemato solo il track delle citazioni,sempre “Neutrali” e non “importa se esistono delle modifiche “suggerite dai colleghi di revisione”:)
Lo hanno scritto direttamente Loro ,in maniera evidente al massimo e ci sono le immagini a testimoniarlo:)
La posizione dei Peer Reviewed è in FEB 2020 🙂 
L’Engine vero (altro che sometime database:) l’ha definita “Egregious Violation” ,perche’ è la somma di tante parti negative,ed è possibile anche aggiungere la presunzione e l’imbecillita’ stessa dei “colleghi di revisione”:) 
Esiste solo la logica d’applicare,perche’ “revisionare dei contenuti” ,non ha nessun senso ,perche’ i veri Engine li conoscono prima i Content reali ,altrimenti non esisterebbero Loro,perche’ il contesto online non avrebbe nessun valore:) 
Tra l’altro,i colleghi di revisione,dimenticano il dato piu’ importante ,ed è quello dei Main Content e quindi revisionare una pubblicazione non ha nessun senso logico e ancora meno lo possiedono i content delle grandi organizzazioni,perche’ si dovrebbero,contemporaneamente,revisionare anche i contenuti degli altri autori 🙂
Quindi è altrettanto logico trovarsi applicate le Egregious Violation per i Peer Reviewed e questa posizione non sara’ piu’ modificata e non avra’ mai nessuna Eligginilita’,anche se dovessero esistere dei dati positivi nel futuro:)
Non sono graditi in nessun modo i “Time Sensitive Content” e quindi esiste solo 1 possibilita’,ed è quella di avere i dati giusti sempre:) 
Questa posizione è molto importante,perche’ anche da ESSA,nasce la Credibility ,ed è unita anche alla semplice Logica ,perche’ i 2  Engines dei database,hanno anche dei costi “per il loro servizio” e quindi,in qualche modo dovranno anche giustificarli ,nei confronti dei loro clienti:)
Sara’ molto difficile convincerli ,perche’ il primo Engine al mondo è pure gratuito e il 94% del valore del contesto online,passa attraverso ESSO e non esiste nessuna Neutralita’ nei confronti delle citazioni e tantomeno rispetto ai “colleghi di revisione” ,ma è esattamente l’opposto:)
Adesso iniziano i dati “dei database” e la protagonista sara’ l’Eroica AV,tramite una semplice posizione,ed è la presenza della Homepage:)   
L’inizio è Wikidata e l’aspetto piu’ importante è nell’evidenza:)
Nei content non esiste dubbio che Wikimedia sia il riferimento piu’ importante,perche’ nessun altro dominio ha le sue dimensioni (i primi 18 suoi domini,sono tutti superiori a 1 Milion di pubblicazioni).
Avere Wikidata come secondo database,è un aiuto formidabile,perche’ qualsiasi EDITS (ipotizzando che sia un operazione normale:) ,deve essere approvato dai database di Wikimedia 🙂
questa è la sintesi per Wikidata
Ha avuto 249 pubblicazioni e ha raggiunto il 55% e non possiede nessuna Sitemap e quindi gli Internal Links OUT presenti,hanno “contenuto i danni” e tra l’altro ,sono presenti lo stesso,perche’ i dati sono stati raggiunti con “soli 690 termini effettivi”:)
Esiste poi la presenza dellaHomepage e non possederla,significa avere i Match delle prime pubblicazioni in dimensioni dell’Eroica AV:)
qui sono sistemati i dati di SAP 
Con 235 pubblicazioni ha raggiunto il 44% e il suo average è formato da 1667 termini effettivi.
Questa  è l’homepage attuale di SAP ,ed è un contesto incredibile: inizia da Amazon (è la proprietaria di SAP) ,ed è presente il CEO del database,insieme a quello della Microsoft:)
Per l’Eroica AV,non esiste nulla di simile e non ha nemmeno l’Homepage:)

qui è sistemata la sintesi per i dati di IBMHa avuto 165 pubblicazioni e 1547 è stato il suo average e l’unicita’ dei suoi content,per il “blasone di IBM stessa”, è meglio non citarla:)
Cito solo questa curiosita’ ,attraverso il termine Watson:)
E’ descritto nella pagina A+ del 74° RF 
E’ il SuperComputer di IBM,utilizzato anche da Pfizer e solo per curiosita’ ,ho cercato se fosse presente nelle selezioni del database di IBM.
La risposta è stata positiva e la ricerca interna delle selezioni puo avvenire solo se i termini sono presenti negli URL.
Il dato di Watson non è “tanto confortante” e spero che il SuperComputer ,possa produrre dati migliori,rispetto ai contenuti che gli hanno dedicato:)  
Il dominio dei database di IBM avra’ un nuovo spazio ,ed è sicuro che tra 5 mesi i dati saranno migliori:) 
Comunque quella sistemata è l’homepage attuale del database IBM e appena l’ho vista ho sorriso tanto,perche’ i suoi dati ,assomigliano tanto alla “precarieta’ del ponte tibetano”:)
L’Eroica AV ha attraversato davvero il ponte tibetano,ed è molto piu’ instabile rispetto a quello IBM:)
 Qui è sistemata la sintesi per Teradata
Ha avuto 161 pubblicazioni e ha raggiunto il 67% ,pero’ l’average è un po’ scarso ,ed è formato solo da 905 termini effettivi. 
Auguro “tante cose carine” a Teradata,pero’dopo JAN 17 2021,il futuro è solo dell’Eroica AV ,perche’ esiste la certezza che dati del genere,sara’ molto difficile ripeterli,anche per AV:) 
Per il futuro effettivo esiste poi la Logica e i “dati cazzari e neutrali”,non potranno mai avere valore:) 
E’ fantastica l’Homepage attuale di Cloudera ,ed è dedicata ai Data Impact e hanno prodotto i “super eroi”:)
I dati dei Content reali sono qui e hanno valore anche per i database,ipotizzando che siano anche originali e naturali:) 
Ha avuto 207 pubblicazioni e 1157 è stato il loro average e l’impatto “super eroico” è arrivato al 48%:)
 Questi sono i dati per hp
Sono state presenti 161 pubblicazioni e 1420 è stato illoro average e per simpatia verso hp (è stato il mio primo computer 🙂 non cito i dati della sua unicita’:) 
Il database di hp,si occupa solo di Enterprise ,ed è sicuro che non utilizza i dati degli “Engines neutrali e con i colleghi di revisione”:) 
 Questa è l’homepage di Datameer e sarebbe necessaria una pubblicazione a parte solo per descrivere il suo inizio ,ed è quello evidenziato:)
Lo faro’ in altri contenuti e qui aggiungo solo la cosa piu’ semplice ,ed è l’esistenza stessa della homepage ,ed è presente solo 1 pubblicazione in 1 pagina.
qui è sistemata la sintesi per Datameer
Sono state 222 le pubblicazioni presenti e 1036 è stato il loro average e ha raggiunto il 56% in unicita’.
Per Oracle ho sistemato i dati precedenti ,mentre gli attuali,purtroppo sono un po’ diversi:)
i dati sono sistemati qui
Ha avuto 160 pubblicazioni e 1471 è stato il suo average e ha raggiunto il 42% in unicita’. 
Hadoop ha invece confermato gli ottimi dati:
la sintesi di hadoop è qui 
Ha avuto 217 pubblicazioni e 2341 sono stati i termini effettivi in average e ha raggiunto il 77%.
Hadoop è il software piu’ utilizzato dai database ,pero’ la loro posizione deriva sempre dai contenuti che hanno e quelli appena sistemati,sono i piu’ simili ai Major Engines e ovviamente il riferimento non è a quelli “neutrali nelle citazioni e ai colleghi di revisione”:).
Questo è solo l’inizio per gli Index reali e sono ammessi solo i formati sopra con le relative versioni e questa posizione è solo l’inizio ,non degli Index,ma dei Match dei Content e servono solo per essere “Ammessi”,o Eliggibili attraverso le Strutture Data e al loro interno esistono anche i Fact Check ,ed è molto difficile creare tutte queste unioni “e restare indenni” per arrivare all’Index reale e per ricordare il suo livello,è sufficente citare i volumi dei De-Index in 1 solo giorno (negli Engines con citazioni neutrali sono del tutto assenti:) e sono equivalenti a 20 Milions dei volumi di War & Peace del Caro Leo:) (ogni volume è composto da 560000 termini e 20 Milioni di loro,ogni giorno,formano il De-Index solo per Google:)
Questa è l’unione perfetta per festeggiare i 6 anni di questo dominio e l’Eroica AV è il miglior testimonial:)
Posted in Key Page Unit, TD Space Content
Din Long Data 8D RF 4 A
Posted on March 5, 2021 by Din Story AV
La pagina A del 74° RF,inizia dai collegamenti delle immagini e rappresenteranno l’unica “normalita’” di questa pubblicazione:)
la prima ha il collegamento con la pubblicazione originale e l’immagine di Key Page Unit ,possiede il link della pagina A+ del 74° RF:)
Queste sono le uniche “posizioni normali” che avra’ questa pubblicazione e poi “esisteranno tutti contesti particolari” e iniziano dagli archi temporali (4 anni ) e a loro volta hanno anch’essi “contesti particolari”,per il semplice motivo ,che i dati hanno come riferimento 1 sola posizione (1 dominio) e di conseguenza i valori temporali ,sono completamente differenti rispetto agli “archi temporali tradizionali”:)
Esiste poi il contesto specifico del dominio individuale ,ed è il 5° e sono presenti anche le sue dimensioni e sono quelle del Taken Din Colors Five ,applicate a 1 sola posizione:)
Solo tra pochi giorni,sara’ presente il nuovo riferimento temporale dei 6 anni per il dominio individuale e questa posizione è descritta anche in altre pubblicazioni ,ed occorre sempre ribadirlo,perche’ anche le sue numerose presenze,non forniscono in realta’ nessuna “normalita’” 🙂
Il passaggio appena sistemato,sara’ molto utile per i contenuti che seguiranno,perche’ saranno straordinari i dati che sistemero’ e anch’essi ,”non sono affatto normali” e sono nati ,dal contesto del passaggio precedente:)
Qui è sistemata l’immagine dell’INDEX per il 73° RF:)
Non esiste nessun dubbio “che non sia presente nessuna normalita’” e il paradosso piu’ sublime deriva dal fatto “che non è normale” nemmeno  il contesto in cui è nato,ed è quello descritto nei passaggi precedenti,unito al contesto specifico del dominio individuale:)
https://dinpoststory.blogspot.com/2016/10/key-page-unit-rf-3_20.html
Questo sarebbe il “link normale” della pubblicazione e tra un po’ sistemero’ un esempio pratico di cosa siano le dimensioni del Taken Din Colors Five e posso anticipare ,che sara’ capace di “trasformare anche il link sopra” ,in straordinario,se non fosse presente il link sotto:)
https://dinpoststory.blogspot.com/2016_10_20_archive.html 
Questo è il link effettivo  per il 73° RF e mai prima (significano 72 pubblicazioni,tutte diverse tra di loro:) ,era “capitato in questo modo” e sarebbe gia’ difficile trovarlo nelle pubblicazioni di altri domini (in tutti gli RF fatti ,attraverso i Match completi non ne ho visto mai nessuno uguale:) e quindi figurarsi cosa sia stato l’impatto del Taken Din Colors Five ,con Sitemap attivata,almeno da NOV 2016:)
 Con un contesto del genere ,la probabilita’ piu’elevata,è unita al fatto che non esista l’INDEX 🙂
Questa posizione eleva all’ennesima potenza,tutti i passaggi precedenti ,perche’ rende evidente al massimo,l’unica operativita’ unita all’INDEX,ed è quella della Sitemap,per la semplice ragione che gli Archive,non hanno nessuna abilitazione e questo deriva da FEB 2015 e cioe’ tutta la vita del dominio:)
  Le descrizioni fatte sono state necessarie ,per evidenziare i contenuti straordinari che seguiranno e iniziano da quelli descritti nella pagina A+ di questo 74° RF e immaginavo che ad essere fantastici fossero proprio loro:)
Questo è l’INDEX del 74° RF:) 
E’ avvenuto a JAN 3 2021 e nella pagina A+  ho anticipato gia’ l’unione,ed ero sicuro che fosse gia’ straodinaria:)
E’ JAN 2 2021 l’INDEX del 73° RF:) 
Solo queste 2 date giustificano i contenuti della pagina A+ di questo 74° RF ,perche’ sono la dimostrazione migliore del “Don’T Deceive generale”:) 
Inizia dall’IGNORE Completo verso qualsiasi “Priorita” ,unita a qualsiasi pubblicazione (sono compresi tutti i Mark possibili e immaginabili ) e non è Decisa da nessuno,la frequenza stessa dei rilevamenti.
Solo il codice viene “attentamente osservato” e se ci dovessero essere “contenuti diversi” ,rispetto al rilevamento precedente ,la “lettura” termina all’istante ,ed è sicuro che non ne esistera’ nessun altra in futuro:) (questo è il senso concreto  di MISREPRESENT e cioe’ per i puo esistere 1 sola data ,unita ai contenuti specifici di qualsiasi pubblicazione).
E’ sicuro che questa sia l’immagine migliore per festeggiare 6 incredibili anni:)Nel 73° RF l’ho definita Gold Data e il contesto è da Dream Content e solo l’immagine sopra,giustifica tutti i passaggi precedenti ,uniti alla “normalita’ dei dati”:)
Non è normale nemmeno il contesto ,per le descrizioni fatte e quindi figurarsi cosa sono i dati sopra:)
 I Time Sensitive Content ,hanno il collegamento proprio con il 73° RF e ci saranno anche nelle prossime pubblicazioni e avevo gia’ in mente di unirla agli INDEX in maniera continua ,perche’ il suo contesto è davvero unico e straordinario insieme:).L’unione con il 74° RF era naturale,perche’ è la sua pagina gemella a OCT 2016 e appena ho visto i primi dati,sono stato felice della scelta,perche’ migliore evidenza dei valori dei Content non esiste,in quanto le pubblicazioni sono state scritte negli stessi giorni di OCT 2016 e sono arrivate insieme all’anno 2020,attraversando “un oceano di contenuti”,ed hanno avuto 1 solo giorno in differenza negli INDEX e per possederli,debbono aver avuto,per forza di cose,tutti i Match interni al dominio e quelli globali e senza di essi non ci sarebbero gli RF e i Just Time:)Questa era la posizione descritta nella pagina A+ del 74° RF ,ed è stato normale definirla straordinaria e non immaginavo nemmeno che solo dopo 12 giorni ,ne esistesse un altra,peril73° RF:)Normalmente,i cicli avvengono ogni 2 o 3 mesi,pero’ questa è “solo una casistica” ,perche’ non esistono dati ufficiali e non esiste nemmeno la speranza che possano esistere in futuro,semplicemente perche’ è presente solo l’IGNORE Completo,per qualsiasi selezione di priorita’ e dei cicli stessi dei Crawling Process.Tra l’altro,sarebbe anche una demenza se fosse presente,perche’ le eventuali presenze delle priorita’ e dei cicli,riguarderebbero sempre 1 sola pubblicazione e non avrebbe nessun valore per essere negli INDEX ,perche’ occorre il valore di Tutte le Altre Pubblicazioni presenti in 1 dominio:)Sono i Main Content a fornire il valore reale e quindi ,dovrebbero essere presenti priorita’ e decidere i cicli per tutte le pubblicazioni,ed è facile intuire che non puo essere realizzato in nessun modo 🙂Quest’immagine appartiene al 73° RF e a sua volta è unita alla pagina di Don’t Deceive Your Users Da questa posizione sono nati i “Time Sensitive Content” e anche l’immagine sopra ha un suo contesto e riguarda la posizione delle Strutture Data e le sue Guidelines.Esistono tante descrizioni e qui sistemo solo la posizione piu’ importante,ed è quella delle General Guidelines,perche’ anche le Strutture Data,sono “sotto il loro giudizio finale” e il problema è “arrivarci al giudizio”:)Non è una battuta,ma è la realta’ ,ed è possibile iniziare dalla presenza stessa delle strutture data:  Potrebbe essere anche assente la struttura data,insieme a una lunghissimo numero di opzioni negative e tante descrizioni sono nella pagina di “Don’t Deceive Your Users”,collegata sopra.Il motivo per cui sono le General Guidelines ,a guidare anche le strutture data è molto semplice,perche’ il report appena sistemato,rappresenta solo l’inizio dei Match e non esiste nessuna sua alternativa,perche’ i dati possono essere solo e sempre positivi 🙂E’ il senso del “Time Sensitive Content” ,perche’ in teoria sarebbe possibile avere “reports positivi sporadici” e uguali a quello sistemato sopra,ed è sufficente “cambiare qualche aspetto negativo” 🙂Il “Time Sensitive Content” indica esattamente l’opposto,ed è sufficente la semplice logica per comprenderlo e di conseguenza è possibile avere solo 1 dato esatto nel report dell’eleggibilita’ delle strutture data:)Questa posizione ha anche la versione opposta del report e cioe’ è sufficente che sia negativo 1 sola volta,per non essere piu’ Eliggibile in nessun modo e non esiste nessuna ottimizzazione “per capovolgere i dati”:) All’interno del 73° RF esiste anche l’immagine sopra e sono sistemati i collegamenti del suo Natural Contest  e l’unione ,con i dati appena sistemati,deriva dalla semplice logica ,perche’ rappresentano solo l’inizio dei valori reali e quindi,diventa pertinente il fatto che Analysis e Analytics hanno zero valore ,perche’ ai valori reali occorre prima arrivarci ,ed è indispensabile “Avere Un Inizio”:) Anche i migliori Stats dei rilevamenti di base non conoscono assolutamente nulla dei valori reali e quindi sono solo utilizzati dal Marketing delle cazzate e il paradosso degli idioti ,arriva attraverso i costi degli strumenti:)Solo per citare un esempio,i costi li possiede anche Alexa (è sufficente fare l’upgrade al suo Estimate per conoscerli:) ed ha un record “poco invidiabile” ,perche’ è l’unico strumento,per il marketing delle cazzate,presente nelle General Guidelines,solo come esempio,ed è unito all’IGNORE TOTALE:)E’ un gran paradosso,perche’ gli strumenti hanno quasi tutti dei costi ,mentre il Servizio degli Engines è Gratuito e ovviamente lo è ,perche’ esistono ottime ragioni e sono le posizioni economiche e per attivarle, occorre possedere la migliore pertinenza dei dati,ed è possibile raggiungerla ,tramite l’opposto del marketing delle cazzate e cioe’ occorre conoscere i dati reali e ovviamente,solo quelli originali:) L’immagine deriva dal 4° Natural Content per Finance Airline Anche questa posizione è unita alle Strutture Data e alla sua Eliggibilita’ ,ed è facile unirla al passaggio precedente,perche’ con contenuti falsi, i Match non iniziano nemmeno ,ed esistono ragioni logiche a confermarlo:)  (è la pertinenza dei dati descritta nell’altro passaggio:)  Anche quest’immagine deriva dal 4° Natural Contest di Finance Airline  e anch’essa è unita all’Elegibbilita’ delle strutture data e possiede la stessa logica,perche’ i contenuti falsi non hanno nessuna possibilita’ d’iniziare i Match ,per ovvie ragioni ,ed è sempre la pertinenza dei dati e quindi del valore del contesto online:)Questa sistemazione è unita anche a un fatto oggettivo,ed è il riferimento temporale dell’immagine stessa (DEC 13 2020) e dopo 1 mese,sono presenti gli stessi dati e cioe’ per il momento,è possibile prelevare solo 1 Fact Check per 1 pubblicazione.Solo all’apparenza “potrebbe sembrare un contesto positivo” ,perche’ i True Fact all’interno di 1 pubblicazione ,ne possono essere decine e l’Engine ha la possibilita’ di scegliere quello che vuole e anche con 1 solo Fact Check,diventa molto facile non avere l’Eleggibilita’ nelle strutture data ,perche’ esistono anche le altre pubblicazioni,ed è molto facile “trovarsi all’interno” delle Several Pages Claim Review e quindi diventa logica anche laNon Eligibbilita’,solo per iniziare i Match,perche’ non sara’ presente nessun Main Content:) Questa posizione,rende quasi ottimista quella degli strumenti di rilevamento di base,perche’ la collocazione reale è sotto lo Zero Value:) (non conoscono nessuna posizione reale e quindi figurarsi se possono sapere se sono veri o falsi i contenuti:)Nel marketing delle cazzate ,si sono anche superati nel falso,perche’ hanno sistemato come “Fattore” un Servizio ,ed esistono tantissime posizioni a testimoniarlo e in comune tra di loro,esiste il paradosso piu’ elevato degli imbecilli: le descrizioni dei Fattori,sono a pagamento e non hanno nessun valore reale,mentre il Servizio è Gratuito,ed ha il valore completo,ed è anche l’unico che esiste realmente:)La posizione dell’Eleggibilita’ è la migliore testimonianza,perche’ è unita alla pertinenza dei dati e la loro migliore verifica è l’INDEX finale,perche’ le strutture data sono unite anche ai Fact Check e sono validi per tutte le pubblicazioni di 1dominio:) Quindi non sono sufficenti le unicita’ delle singole pubblicazioni,ma occorre unire anche le Several Pages Claim Review e se fossero presenti,non esisterebbe nessun INDEX:)Din Colors Five 1300 JAN 2021Alcuni passaggi della pubblicazione di JAN 2021,hanno gia’i migliori sviluppi rispetto ai contenuti appena sistemati e l’insieme deriva dalla semplice logica e nasce da una pubblicazione del TFD Content Marketing Institute:)E’ presente un contesto particolare ,perche’ la pubblicazione ha una previsione per l’anno 2030 ,ed è stata scritta,senza nessun EDITS a NOV 2019 e la verifica è la sua Eleggibilita’ 🙂La data è importante,perche’ i contenuti sono capaci di bypassare anche il devastante impatto della pandemia da Coronavirus ,ed utilizzando la sola logica,è possibile fare previsioni anche per l’anno 2030,nonostante la pandemia:) A JAN 2021 sono sistemate 2 posizioni fantastiche ,ed oggi inseriro’ la terza e tramite essa, è possibile fare previsioni anche per i prossimi 200 anni ,ed esiste la sicurezza di azzeccare tutti i dati:)  I collegamenti sono all’interno di JAN 2021 e i contenuti del TFD Content Marketing Institute ,hanno come base la semplice logica e a confermarla,è la parte finale ,attraverso il termine “PREZIOSO” e il riferimento all’esperienza degli utenti è “solo una forma di cortesia” ,perche’ il termine ha un equivalenza oggettiva e cioe’ ad essere preziosi sono le pertinenze dei dati e poi arrivano gli Utenti,perche’ senza i primi ,non è possibile che esistano i secondi e sopratutto ,non sarebbe possibile l’esistenza piu’ preziosa in assoluto e sono gli Altri Intenti,sempre degli Utenti:) 
 Per il 74° RF ,dopo i passaggi appena sistemnati, ho scelto “una soluzione particolare” per festeggiare il suo INDEX:) L’idea è nata dalle vertigini dei dati,tramite i termini effettivi della pubblicazione protagonista del 74° RF:) Il riferimento è all’average di JAN 2021 (la sintesi dei dati è qui  ) e i passaggi precedenti di questa pubblicazione,rappresentano proprio l’ideale da unire ai dati che seguiranno,perche’ negli INDEX sono compresi i Match con tutte le altre pubblicazioni del dominio e nello stesso tempo,esiste anche il loro PREZIOSO aiuto,perche’ se fossero state presenti le Several Pages Claim Review,non sarebbe esistito nessun Main Content e quindi non sarebbero stati presenti gli INDEX:)Anche in questa posizione,l’unica assenza riguarda la normalita’ ,perche’ i Match sono iniziati da quasi 2800 termini e solo a JAN 2021,altre 196 pubblicazioni hanno avuto un average da 3213 termini effettivi e con questi dati è facile avere le vertigini ,mentre è molto difficile “renderli complementari” ,perche’i Match tra le pubblicazioni sono inevitabili e nello stesso tempo,occorre anche evitare che esistano contenuti falsi:)  
Per festeggiare la protagonista del 74° RF ,l’inizio è l’anno in cui è nata:)
qui sono sistemate le altre pubblicazioni,presenti a JAN 2021 per l’anno 2016
 Sono fondamentali per i Match e la stessa importanza lapossiedono le Several Pages Claim Review,perche’ se esistessero loro,non esisterebbe nessun Main Content e non si avrebbe nessun INDEX:)
Le pubblicazioni dell’anno 2016,presenti a JAN 2021 ne sono state 14 e sono davvero fantastiche le prime 2:)
E’ davvero curiosa questa posizione per le prime 2 pubblicazioni in dimensioni dell’anno 2016 e sono separate da 2 soli termini effettivi (DUE:) e nella selezione non sono presenti le protagoniste del 73 e 74° RF:)
Ovviamente sono assenti solo dalla selezione di JAN 2021,pero’ nel dominio esistono lo stesso e le pubblicazioni sopra,per forza di cose sono dei Loro Match  e nello stesso tempo,dopo 4 anni anche loro,hanno i rispettivi RF e gli INDEX sono anche attuali:).
Attraverso i contenuti di questa pubblicazione,per forza di cose,sono unite anche a loro le Several Page Claim Review e non possono essere presenti,perche’ i loro contenuti hanno solo TRUE FACTS ,ed hanno la verifica immediata ,perche’ solol’esistenza dei Main Content ha permesso lapresenza del 74° RF e quindii tutti i fatti sono veri e certificati nella maniera piu’ elevata possibile, perche’ esistono anche i TRUE FACTS del 73° RF e la migliore verifica è il contesto stesso in cui è arrivato:)
Passaggio Intesa del 2016 è qui 
La prima Din Colors Space 1 è qui 
E’ una selezione fantastica e inizia dal fatto che sono le uniche 2 pubblicazioni del 2016,ad aver superato l’average di JAN 2021,nelle dimensioni 🙂
E’ incredibile anche la loro unione ,perche’ i rispettivi contenuti,separati da 2 soli termini effettivi,formeranno anche i Din Colors Priority Time ,da FEB 2021 e sara’ semplice notare quanto sono attuali i contenuti,anche dopo 4 anni e l’arco temporale occorre calcolarlo attraverso quello del contesto online,ed è molto differente da quello tradizionale,ad iniziare dai contenuti globali stessi,creati in 4 anni:) 
Per comprendere i dati sopra,qui esiste un altra posizione 
E’ la verifica di SEP 2019 e per l’anno 2016 sono state presenti 50 pubblicazioni 
qui sono sistemati i suoi dati 
Qui è sistemata la 12° verifica 
Le pubblicazioni dell’anno 2016 ne sono state 57 e 67 ne ha avute la sua diretta precedente. 
i dati sono anche qui 
Attraverso il collegamento del Contest Level Absolute ,è possibile vedere tante altre posizioni per l’anno 2016 e sono molto utili ,per comprendere il contesto da cui derivano i dati:)
E’ sufficente aggiungere questa posizione 🙂 
Da sola è capace di sviluppare l’intero contesto da cui derivano i dati delle unicita’ interne dei domini,perche’ END OF CODE ,ha la capacita’ di “colmare tutti i suoi limiti” 🙂
(originalita’ dei periodi ; la loro naturalita’ ; violazioni di copyright ; presenza dei Main Content ETC )
L’END of Code permette invece di conoscere tutto ,comprese le teste operative dei gestori dei domini ,perche’ esistono elevate possibilita’ di commetere tantissime cazzate e le prime sono i collegamenti in DoFollow dei domini 🙂
Esistono anche i collegamenti in DoFollow interni al dominio e le loro posizioni rendono semplice comprendere anche che “teste operative esistono”:) 
E’ il dominio ufficiale “dell’Organizzazione Intesa” e non esiste una pubblicazione che non sia unita alla “mappa del sito” e questo esempio,è molto utile per comprendere anche i tantissimi links in dofollow dei collegamenti esterni ,perche’ l’unica capacita’ che hanno,è simile a quelli dell’immagine sopra e cioe’ di creare solo danni:)
A queste condizioni,l’End of Code non sara’ mai presente e quindi è inutile vedere i valori interni del dominio,perche’ non esisteranno mai:)
Questa è la pagina della mappa “dell’ Organizzazione Intesa” e non è da confondere con la Sitemap ,ma è una pubblicazione reale ,creata solo per farneticazione da parte dei gestori del dominio:)
In immagine,qui è sistemata la Crazy Map dell’Organizzazione Intesa:) 
Ha dimensioni incredibili ,ed è composta solo da termini effettivi pure:)
Quindi è facile violare anche gli Anchor Text e di conseguenza è inutile ottimizzare lo spazio,perche’ le posizioni negative danneggiano anche le altre pubblicazioni e quindi diventa facile essere nelle Several Pages Claim Review e da questa posizione,non sara’ possibile avere nessun Main Content:)
L’Organizzazione Intesa ,ha poi aggiunto un altra demenza,perche’ possiede anche la Sitemap effettiva e quindi,la presenza della mappa del sito,deriva solo dall’idiozia:)
Il senso di queste posizioni ,deriva dall’esempio rispetto ai contenuti precedenti e poi i suoi contenuti sono uniti anche a quelli dell’anno 2016 ,iniziando proprio da “Passaggio Intesa”e dal primo Din Colors Space e i loro contenuti,formeranno anche la base dei primi Priority Time da FEB 2021:)  
Don’T Deceive Your Business 
Iniziera’ da quest’immagine,ed è valida per il Business e qualsiasi altro dato del contesto online ,ed è sufficente aumentare il numero di esempi sistemati nell’immagine: dopo IBM ; Facebook ; Wiki ,è possibile sistemare tutti i domini in cui sono presenti tanti autori e tra di essi esiste anche l’organizzazione Intesa:)
Attraverso le evidenze dell’immagine sopra,la comprensione di qualsiasi dato diventa semplicissima:) 
Puo essere applicata a qualsiasi contesto e solo come esempio,è possibile immaginare la posizione dei rilevamenti di base ,perche’ l’immagine dedicata dopo il 4° Natural Contest,diventa anche “largamente ottimista” ,in quanto il valore reale di Analysis e Analytics ,sono “sotto lo Zero”:).
Non possono valutare i Content semplicemente perche’ non conoscono nulla di loro e quindi ,è impossibile conoscere anche i loro Match e nei domini delle Organizzazioni è anche peggio,perche’ esistono anche i Conflitti degli autori ,ed è facile che si elimino a vicenda:) 
Per verificarlo è sufficente prendere in considerazione “la Migliore Organizzazione” ,ed è il fantastico TFD Wiki:)
Posso assicurare che è un impresa trovare “qualcosa di Eliggibile” nei suoi Content ,perche’ il responsabile dei Claim è unico per 1 dominio e quindi,i tantissimi autori presenti ,non rappresentano nessun vantaggio per i domini che li ospitano ,ma è esattamente l’opposto:)
Solo il nome dell’Organizzazione è l’unico responsabile dei Fact Check e quindi determina anche l’Eleggibilita’ delle Strutture Data ,ed è facile immaginare quanto sia semplice arrivare alle Several Pages Claim Review per le Organizzazioni:)
Ho scelto di risistemare in immagine il passaggio di CMI,perche’ i suoi contenuti,adesso,sono ancora piu’ pertinenti:)
La descrizione riguarda i social e puo essere applicata a qualsiasi altra piattaforma ,comprese quelle delle Ads e l’aspetto fantastico ,è riservato solo agli autori onesti ,perche’ nessuna “Organizzazione”,per quanto sia potente,avra’ capacita’ di ricatto:)
In realta’ saranno gli autori onesti a poter “ricattare le grandi piattaforme” ,perche’ i valori dei loro Content sono maggiori “al presunto potere delle grandi Organizzazioni” ,ed è facile anche “applicare il ricatto”,ed è sufficente creare Contenuti Veri:) 
Natural Contest Finance Airline 4
Nella pubblicazione esiste un esempio concreto e riguarda “una grande organizzazione” ,disposta a pagare , per avere i “True Facts”:)
Hanno dimenticato che sono loro “i responsabili unici” e quindi,l’unico investimento reale ,sarebbe quello di eliminare il marketing delle cazzate e possono nascere solo da contenuti falsi:) Il riferimento è Facebook e i suoi “articoli instantanei” e non esiste nessuna possibilita’ ,che abbiano inizio i Match dei loro Content ,perche’ prima dell’Eleggibilita’ delle Strutture Data ,esiste il Natural Contest,ed è logica la sua presenza ,perche’ non esiste nessun Fact Check ,applicato a dei Copied e per essere in questo contesto, debbono essere presenti tutti gli elementi del Natural Contest ,ed è sufficente citare solo la Quantita’,per creare l’opposizione netta ,nei confronti degli “articoli instantanei” di facebook:)
E’ una posizione fondamentale per comprendere il “ruolo del social marketing” e delle sue farneticanti applicazioni,sopratutto nel contesto italiano:)
Saranno nei Din Colors Priority Time e in questa posizione,è possibile aggiungere una curiosita’ e nasce dai dati ufficiali stessi di facebook e per l’anno 2018,hanno speso 1,5 Billion di dollari,per “remunerare i loro autori”:)
E’ facile fare una comparazione con le Ads tradizionali italiane,perche’ togliendo il canore RAI,le 2 principali organizzazioni delle Ads italiane (oltre il 90% di tutto il ricavo) ,sommate insieme,non arrivano alla spesa di facebook,per i “suoi articoli instantanei” nell’anno 2018:).
L’Italia,è una nazione tra le prime 10 (6° o 7°) industrializzate al mondo e quindi è una comparazione molto pertinente,sopratutto “grazie al livello raggiunto da facebook”:) E’ allo 0,002% delle Ads,spendendo pure una montagna di denaro e l’aspetto divertente, deriva dal fatto ,che l’esigua percentuale , non è nemmeno oggettivamente sua:) (se dipendesse solo da facebook,da tanto tempo sarebbe presente anche il 3° o 4° ZERO,dopo la virgola:)
W i True Facts e gli Autori Onesti e Grazie anche “alle Grandi Organizzazioni” ,perhe’ permettono il divertimento piu’ sublime:) Senza di loro ,sarebbe gravosa la presa per il culo ,mentre le Organizzazioni ,permettono di renderla semplice,grazie ai loro tantissimi autori e al responsabile unico,per ogni organizzazione:)
In 1 Colpo solo è possibile prenderli per il culo entrambi ,ed esiste la notevole fortuna di avere come Miglior Alleato,la Logica Stessa ,unita ai piu’ elevati Long Time:)
La Logica deriva dall’operativita’ degli Engines stessi e non puotra’ mai essere diversa da quella descritta (sara’ sempre ovvio che esistera’ 1 report per 1 solo dominio:) e poi esiste il contesto economico online a formare il Miglior Alleato della Logica e nessuna Organizzazione è capace “di creare un contesto diverso”,perche’ la Logica è unita a un altro primato degli Engines,ed è la Credibilita’:) 
Il suo sviluppo è gia’ nella pagina A+ di questo 74° RF e il riferimento è al Marketing delle cazzate ,completamente opposto alla Credibility:)
Copied Content Quality Archive 
Nella pagina A+ di questo 74° RF ,ho anticipato la presenza particolare del passaggio dedicato alla leggibilita’ dei Content e il riferimento è agli elementi scelti stessi: ho citato la presenza di Wiki Cebuana e nella leggibilita’ è proprio perfetta la sua presenza ,perche’ i vari gradi sono uniti a loro volta a delle formule e non esiste dubbio che gli strumenti automatici,hanno le migliori possibilita’ di unirle ai gradi stessi:)
Nella pagina  di Key TD Archive esistono tutte le descrizioni e in questa posizione è sufficente ricordare la migliore unione del dominio stesso,ed è il “Write Naturally”,rispetto a qualsiasi strategia si ha in mente:) 
Il collegamento specifico è nella sidebar,ed è unito alle posizioni degli Anchor Text e la collocazione non è casuale,perche’ sono tra gli elementi piu’ potenti e quindi sono anche i piu’ a rischio ,di “Essere Innaturali”:)
La formula del Gunning Fog Score “serve a ricordarlo” ,perche’ è possibile che esista solo  la Naturalita’ dei contenuti ,ed è facile verificarlo:
Natural Language Key Archive 
I contenuti evidenziati derivano direttamente dagli Engines e non serve “un acume tanto elevato” per riconoscere “gli strumenti automatici”,di qualsiasi genere essi siano,perche’ la loro operativita’ è inconfondibile:) (il senso è nel Crazy applicato al Markov Chain ,perche’ occorre essere proprio scemi a immaginare che gli Engines non si accorgano della presenza di macchine per creare contenuti e poi fare anche schemi tra di loro:)
Tornando alla formula del Gunning Fog Score,riesce quindi facile determinare la sua naturalita’,perche’ è oggettivamente impossibile fare diversamente,ed è sufficente leggerla la formula:)
Questa sezione dei gradi della leggibilita’ è applicata al valore Aggiunto nei contenuti e quindi è facile comprendere quanto sia importante e la sua applicazione ,non è nemmeno completa,perche’ la formula prevede anche i rapporti tra il numero dei termini e le sentenze (sono i periodi stessi) e il valore ,quasi mai è quello oggettivo,perche’ è molto facile che siano presenti anche Omissioni e riguardano sia i termini e i periodi.
Sono tante le possibilita’ di avere Omissioni e solo per citare come esempio  quelle individuali,esistono i puntini consecutivi ,in tante pubblicazioni (almeno in quelle dei primi anni del dominio attuale:) e ufficialmente è considerata “una scrittura informale”,pero’ è anch’essa importante,ed è sufficente lasciare 1 solo spazio vuoto ,tra i puntini consecutivi (in genere ne sono 3) per eliminare il periodo successivo o tutti gli altri in cui siano presenti.
La pubblicazione protagonista di questo 74° RF ne ha 9 ,ed esiste la fortuna che non sono presenti spazi vuoti e quindi tutti i periodi sono effettivi e questa posizione è molto importante,perche’ le Omissioni non hanno nessuna Close Variant e naturalmente,non si possono modificare successivamente:) 
Nella sidebar esiste anche il collegamento per Top Content Key Archive e al termine della pagina esistono altre descrizioni  sul numero stesso delle Omissioni e sono collocate nella sezione delle punteggiature.
Sempre nei gradi del Gunning Fog Score,esiste la presenza dei Complex Words e anch’essi determinano la Naturalita’ dei contenuti,semplicemente perche’ è impossibile contare tutti i termini che un autore scrive e classificarli ,contemporaneamente,anche nei Complex Words:) (fanno parte di questa sezione i termini con 3 o un numero maggiore di consonanti e quindi solo gli strumenti automatici potrebbero ricordarsi di tutte queste varianti e provare a sistemarle insieme,secondo la formula del Gunning Fog Score:) 
Questo è un altro esempio,ed è la formula dell’Automated Index e sono validi gli stessi passaggi precedenti.
I rapporti dei gradi sono descritti nella pagina dedicata e in questa posizione è sufficente ricordare la cosa piu’ semplice e cioe’ i gradi della leggibilita’ sono importanti,pero’ non determinano nessun Rating (sono esclusi dai fattori delle Guidelines) ,perche’ l’importanza dei gradi,la possiede solo il dominio a cui appartengono i contenuti e anche in questo Caso esiste una Logica,perche’ effettivamente,quasi sempre sono anche i migliori:) 
Gli Automated Index hanno le posizioni piu’ vicine alla semantica e l’immagine sopra rappresenta solo un anticipo ,rispetto ai Content che avra’ FEB 2021:)
In questa posizione utilizzero l’immagine,per unire un altra Logica del contesto online: 
 Opera Top Leo Master Contest
Questa è la migliore unione tra la Logica e “la presunta semantica” ,ed è molto semplice,perche’ il contesto tradizionale ,non conosce realmente quello che hanno scritto gli autori celebri. 
Questa posizione avra’ poi un unione formidabile con FEB 2021 e tra un po’ citero’ solo l’autore a cui è unita,ed è all’interno del TLD .BEST.

L’inizio è Wiki in lingua cebuana e la pubblicazione scelta deriva solo dalle dimensioni e poi esistono tutti i passaggi appena sistemati ,per rendere la scelta molto pertinente:)
E’ il miglior strumento possibile degli automatici e in questa posizione serve solo per detterminare i gradi,senza nessuna unione con qualsiasi valore,ed occorre sempre ricordare,che nessun contenuto di Wiki è originale  e il dominio in lingua cebuana ,possiede anche dei vantaggi ulteriori,perche’ ha pochissimi “Amministratori di pagine ” (solo 6:) e quindi puo fare tutti gli EDITS che vuole e non sara’ mai bloccato dagli amministratori:) (Wiki globale ne possiede oltre 1000 di Amministratori e controllano,attraverso i vari blocchi,tutte le guerre degli Edits tra gli autori di Wiki stessa:)
Quindi è una posizione formidabile quella di Wiki cebuana:)
Lo è anche la pubblicazione specifica:)
Ha 34 Match contro di LEI e la prima pubblicazione ne ha 43,nella selezione di JAN 2021,per Wiki cebuana e questa posizione è solo una curiosita’,perche’ occorre poi applicare anche il dato peggiore,ed è l’average stesso:) (cioe’ i pessimi dati,sono arrivati,avendo un average poco superiore a 800 termini effettivi e il contesto è quello di Wikimedia ,ed è oggettivamente difficile, trovare soluzioni tecniche ,per strumenti automatici migliori:)

Questi sono i gradi di Wiki cebuama e nella pagina di Key TD Archive esistono tutte le unioni e qui posso ricordare che il riferimento è “TV Guide” e “non è un gran complimento l’unione” ei gradi sono uniti solo al Gunning Fog Score e cioe’ al Valore Aggiunto nei Content ,ed è inutile unire anche gli altri gradi,perche’ è negativo gia’ ilprimo e non sono migliori gli altri,ad iniziare dall’Automated Index:)
Questi sono i rapporti dei termini per Wiki cebuana e da essi derivano i gradi e non esiste dubbio ,che sarebbe il miglior strumento automatico,per unire i valori delle formule e la loro applicazione,riguarda qualsiasi lingua:)
qui è sistemata la pagina completa per Wiki cebuana 
Questa è invece la prima pubblicazione del TLD .Best e FR 216,indica il TFD Marcel Proust nella sua lingua originale. 
Questi sono i suoi gradi e qui è sistemata la pagina 
FR 163 indica Virginia Woolf e le selezioni derivano solo dalle dimensioni piu’ o meno simili a quelle della protagonista del 74° RF e poi occorre aggiungere un altra Logica e sono i contenuti stessi del TLD .BEST e cioe’ sono oggettivamente i migliori contenuti dei vari autori e a loro volta,è poco probabile che siano contenuti realmente originali:) (è facile supporre che esistano tantissimi EDITS,prima di rendere pubbliche le loro opere:)
questi sono i dati per Virginia Woolf 
Nei passaggi precedenti ho specificato che i gradi della leggibilita’ non sono un fattore presente nelle Guidelines ,perche’ occorre possedere prima gli elementi del Natural Contest,per avere valore anche nei gradi della leggibilita’.
La dimostrazione è oggettiva, perche’ i gradi inseriti hanno come riferimento 1 sola pubblicazione e se esistesse un valore,anche per la leggibilita’,i gradi dovrebbero essere estesi a tutte le pubblicazioni dei Main Content per ogni dominio e partendo dai gradi sopra,non sarebbe una “soluzione conveniente” per i celebri autori:) 
Resterebbe solo “la semantica del contesto tradizionale” ,pero’ questa posizione deriva solo dal fatto che non sanno realmente cosa hanno scritto i celebri autori e i tromboni tradizionalisti sfruttano questo contesto, grazie sopratutto all’IGNORE degli utenti,perche’ anche Loro,non conoscono realmente cosa hanno scritto “gli autorevoli autori”:) 
Questo autore sara’ unito alla “semantica del contesto tradizionale” e posso anticipare che sara’ una posizione davvero curiosa e il miglior inizio è gia’ nell’evidenza sopra,ed è una lettera dell’autore stesso per descrivere “le sue opere” (“il suo linguaggio è chiaro”) ,ed è speculare ai contenuti dedicati al Caro leo:)
Cioe’ nel contesto tradizionale,esiste l’Ignore completo e reciproco tra gli autori stessi e il paradosso,deriva dal fatto,che quasi sempre non conoscono nemmeno quello che hanno scritto loro:)
Gli scritti sono effettivamente “chiarissimi”,pero’ in senso negativo:)
Questo èilvolume completo dell’autore specifico e i dati riguardano solo le traduzioni in lingua inglese:)
Esistono oltre 20 posizioni dei content e l’arco temporale è maggiore di 30 anni.
qui è sistemata l’unione dei dati 
Tra i tanti autori ,è presente anche nel TLD .BEST ,con multi Detect language pure:) 
Ovviamente il link è rigorosamente in NOFOLLOW ,perche’ non desidero affatto “che torni indietro”:) 
L’autore è il piu’ vicino a SS ,in tutti i sensi:sia allo scemo di satana e alle teorie nefaste del “nazional socialismo” ,ed è anche una posizione pertinente ,perche’ i gradi sopra ,sono anche molto vicini all’idiozia ,in quanto sono assolutamente negativi e realizzati con 2 Detect Language pure:)
La pagina è sistemata qui 
Non potendo avere la versione originale,solo in lingua tedesca,ho scelto di sistemarla in proprio e il link è quello sotto:
https://dinamic1hc.blogspot.com/2021/01/zarathustra-orginal-vesrion-1.html
Esiste la versione completa e originale:
questi sono i gradi della versione in lingua originale 
Sono una conferma dei dati precedenti e i successivi ,saranno ancora piu’ curiosi,perche’ è arrivata anche la “cultura di EU”,ed ha finaziato anche l’autore con i gradi sopra,unendo “dei termini a fantasia” e cioe’ “Semantica”  e Contesto Online,immaginando davvero che “sia la stessa cosa”,rispetto al contesto tradizionale:) 
Questo passaggio permette di fornire anche buone speranze per il Recovery Plan della fantastica nazione italiana ,perche’ EU, ha finanziato anche l’autore sopra (sempre per la semantica ,non conoscendo nulla realmente di cosa ha scritto:) 
(。◕‿◕。)
https://dinpoststory.blogspot.com/2016/10/key-page-unit-rf-3.html 
questo è il link per esteso della pubblicazione protagonista del 74° RF 
https://dinpoststory.blogspot.com/2016/10/key-page-unit-rf-3_20.html 
Questo è il link del 73° RF ,ed è la pagina A di OCT 2016 e li ho sistemati vicino,perche’ è facile confonderli:)
I gradi sono nelle Academic Papers e il dato piu’ importante,è l’originalita’ stessa,perche’ esiste 1 sola pubblicazione effettiva,senza nessun EDITS,dalla collocazione originale di OCT 2016 e la migliore evidenza sono gli INDEX stessi,perche’ esiste solo lapossibilita’ che siano consecutivi,solo rispetto ai Content Originali Reali:)
qui è sistemata la pagina 
Sono sufficenti i link per esteso ,per verificare che la pubblicazione originale del 74° RF,è proprio la pagina A+ di OCT 2016:) 
questo è il miglior modo per festeggiare il 74° RF:) 
 Ho sistemato anche altri spazi nelle pubblicazioni precedenti ,perche’ diversi contenuti sono presenti anche in altre posizioni.
Lo spazio AV è invece particolare,ed è nato anch’esso a FEB 2015 ,per risolvere “i problemi di allora”,ed ha contenuti quasi uguali a questo spazio,pero’ sono completamente differenti le impostazioni,rispetto a qualsiasi altro dominio:)
Su WordPress ne esistono anche simili e cioe’ hanno 10 pubblicazioni in 1 pagina,senza possedere la Homepage,pero’ è molto difficile trovare le stesse dimensioni di AV ,per 1 solo autore effettivo:)
Questa è solo una premessa e poi i reports sopra,sono spettacolari ,a prescindere da tutto e le prime dimensioni sono arrivate a oltre 58000 termini effettivi ,in 1 sola pagina e in realta’ sono formate da 10 pubblicazioni,in 1 sola posizione,contro tutte le altre:)
Solo considerano di valori a scalare nelle dimensioni,per i primi 5 Top sono presenti in realta’ 50 pubblicazioni nette e il totale delle presenze è 223:)
Questa è la prima pubblicazione da 58000 termini effettivi,ed ha raggiunto lo 0% in duplicati e le vere pubblicazioni presenti non sono 223,ma 218 + 50:) 
qui è sistemata la sintesi di AV
Il suo average è formato da 2319 termini effettivi e ha raggiunto il 78% in unicita’,partendo dai colossi sopra in dimensioni e sono stati scritti 1 sola volta,senza nessun EDITS:)
Questo è il volume di AV e rende strepitosi i dati di JAN 2021,perche’ esistono oltre 100000 termini in differenza,avendo anche 27 pubblicazioni in meno,senza considerare 5 pagine complete e quindi sono altre 50 pubblicazioni per AV:)
La prima pubblicazione in dimensioni inizia dai contenuti sopra,ed è l’attuale 2° pagina di AV.
https://dinamicstory.altervista.org/page/2/?doing_wp_cron=1611252347.4403729438781738281250 
Questo è il suo link completo e restera’ in questo modo per alcuni giorni e poi con le successive risistemazioni,le pubblicazioni andranno a scalare e dopo 10 di esse,torneranno le posizioni attuali,pero’ nella 3° pagina:) (nel link è sufficente sostituire il 2 con il 3 e si avranno le pubblicazioni sotto:)
queste sono le pubblicazioni presenti nell’attuale pagina 2 di AV 
Sara’ anche il prossimo livello di Page Solemn e non sostituira’ la precedente,perche’ i suoi unici sono arrivati con “soli 32000 termini effettivi” 🙂 (i dati sono nella sidebar)
La posizione piu’ importante dei dati è nell’evidenza del nome dello spazio,ed è sufficente digitarlo,per non avere nessuna Homepage,ma esistono 10 pubblicazioni in 1 pagina,ed è solo la prima:)
Questo è l’esempio opposto e amplifica all’ennesima potenza i dati di AV,perche’ sono presenti 10 pubblicazioni in 1 pagina e non è presente l’homerpage:)
Questa è la posizione piu’ sublime,per descrivere da quale contesto è arrivato il 74° RF e visto il livello delle altre pubblicazioni ,non esiste nessuna alternativa,rispetto al fatto che gli ottimi dati,occorre averli prima in proprio:) (con il livello delle pubblicazioni descritto tramite AV,è difficile sperare in problemi delle Altre pubblicazioni per ogni RF e ogni Just Time:)
Questa è la migliore evidenza per i valori reali del contesto online:) 
Sono descritti nella pagina A+ di questo 74° RF e il riferimento sono le posizioni dei termini unici “Coronavirus e Covid-19” e le loro dimensioni su Wikimedia,sono maggiori della pubblicazione storica di Wiki globale,ed è iniziata con la sua nascita (Wikipedia proprio è il suo nome:)  e in questi giorni ha compiuto 20 anni,ed ha avuto oltre 35000 EDITS (le pubblicazioni con i termini unici Coronavirus e Covid-19,hanno appena 1 anno:)
Posted in Key Page Unit, TD Space Content
Just Time Google Patents K2 DEC 20 ©
Posted on March 5, 2021 by Din Story AV
JAN 2021 è arrivato e anche questa volta (è la 4° consecutiva:) ,esiste un numero notevole di Broken Links:)
Se fossero reali ,non “esisterebbero i sorrisi” e i motivi sono descritti nelle 3 precedenti FGL Star Unique Content (i collegamenti sono in Contest Level Absolute) e JAN 2021 avra’ altre descrizioni e iniziano proprio dai contenuti del Just Time sotto, per il motivo piu’ semplice,perche’ non esisterebbero i suoi dati:)
Nei domini con Sitemap ,il Clean degli URL deve essere minore a 1%  ,per “non avere problemi” 🙂 
Anche se il numero dei Broken Links non è reale,comunque crea sempre “dei problemi” ,perche’ è inevitabile che limiti anche la selezione delle pubblicazioni nel loro numero e a JAN 2021 si è fermata a 196 e naturalmente ne sono tantissime e grazie all’average che ha avuto,avrebbe scalato di sicuro tutti i volumi sopra:)Din Data Contest SizeQuesta nuova pagina rendera’ semplice qualsiasi evidenza,perche’ ha i grafici dei vari volumi a scalare e al suo interno esistono anche le posizioni dei “Content tradizionali” .Ovviamente con l’arrivo di JAN 2021 sono cambiate le posizioni e resta sempre valida “la 2° sezione dei volumi” (è quella sistemata sopra) e a scalare alla 9° posizione (cioe’nella fascia successiva) è proprio SEP 2019 ,ed è stato il primo Origin RF ONE Ufficiale,ed è rimasto al vertice per 7 mesi consecutivi:) .Solo questa posizione gia’ fornisce l’evidenza ,per il livello dei dati che ha JAN 2021 e poi occorre aggiungere anche il suo contesto e rispetto a SEP 2019,ha 24 pubblicazioni in meno:)Quindi il suo average è stato strepitoso,ad iniziare dal fatto che le pubblicazioni dell’anno 2020 “ne sono state solo 12” e quindi JAN 2021 ha avuto le principali selezioni ,nello stesso contesto di SEP 2019 e sono quasi 600 i termini effettivi nelle differenze degli average e grazie ad essi,JAN 2021 è arrivato alla 8° posizione generale:)General Crown ColorsQuesta è un altra nuova pagina di key TD Archive e avra’ i dati delle Crown Colors e sono nate per “rendere neutrale la Homepage” ,semplicemente perche’ nel dominio individuale non esiste e diventa Homepage solo la piu’ recente pubblicazione inserita. Senza questo metodo, verrebbero classificate 2 pagine nei duplicati,senza che esistano realmente,ed è facile da verificare,attraverso gli altri domini che partecipano al Test:)Nello spazio individuale,digitando il nome del dominio ,si ha la piu’ recente pubblicazione sistemata e negli altri,si hanno le Homepage:) 
Adesso descrivo alcune novita’ che avra’ JAN 2021 e posso anticipare che nascono solo dalla Fantasia Infinita’ del Caso Supremo:)

Tante descrizioni sono nei collegamenti della pubblicazione originale sotto per i Fact Check e ho evidenziato gli “Half True” e anche loro sono classificati in FALSO:)
La novita’ sara’ formata da un altra pagina dei Brain Stone e sara’ semplice realizzarla perche’ gia’ esistono 4 pubblicazioni “dedicati alle mezze verita’” e il loro contesto effettivo è piu’ subdolo del FALSO Totale ,perche’ “le mezze verita’” sono descritte solo per rendere “piu’ facile l’inganno” ,rispetto ai costi dei servizi seo e al loro valore reale:)

Qui è sistemata la prima pubblicazione
Diventa importante anche la data originale ,ed è MAY 2020 quella individuale, mentre quella dell’Engine è sistemata sotto e posso assicurare che mai prima,avevo visto la sistemazione dei Fact Check in questo modo:) 
Indirettamente un altra fonte della verita’ ,deriva dalla sezione stessa dei FACT CHECK ,ed è la piu’ sublime in assoluto,perche’ esiste anche la Review dei RATING ,per i contenuti che hanno “mezze verita’” 🙂
Non esiste nessuna Revisione dei Ranking e non perche’ “posseggono delle verita’”,ma semplicemente perche’ non hanno nessun valore reale:)
Nelle General Guidelines il Ranking non esiste proprio e quindi, tanti ottimizzatori diventano anche i peggiori nemici di se stessi,oltre a procurare danni ai loro utenti:)
Esistono un numero elevatissimo di Entita’ attraverso le quali “vengono certificati i fatti veri” e tra di ESSE,la piu’ importante Entita’ è Google stessa e quindi è facile immaginare quanto è elevato il livello dell’imbecillita’, anche per le “mezze verita’”:)
Nella pubblicazione collegata sopra (MAY 2020) esiste proprio la descrizione del Page Quality “in mezza verita’”, ed è proprio quello di Google:) 
E’ la migliore testimonianza di quanto sia pertinente il Brain Stone e cioe’ i sassi nel cervello sono reali:) 
Nello stesso dominio ci saranno anche altre pagine: la prima sara’ dedicata agli AVOID e per il momento l’unica fortuna deriva dal fatto che esiste solo 1 Fact Check per 1 pubblicazione ,perche’ tutti gli AVOID,confluiscono direttamente nel FALSO Totale:) (l’unica cosa da eliminare sono i pensieri ,prima di commetere abusi o violazioni ,perche’ nel contesto online l’unica opzione reale e possibile è l’ONESTA’,ed è facilissimo da verificare:)

L’altra novita’ per JAN 2021 inizia da quest’immagine e i termini protagonisti sono quelli del Just Time di DEC 2020 e per questo motivo ho scelto di fare una pubblicazione unica,inisieme ai contenuti originali 🙂L’idea è nata dai contenuti del Just Time di NOV 20
Ho scelto di “replicare la fortuna” anche per DEC 2020 e non sono “rimasto deluso” dalla scelta:)
Inizio dalla cosa piu’ semplice,ed è la divisione della pagine per il dominio ufficiale del TFD Microsoft Bing e sono formate da 10 pubblicazioni in 1 pagina e quindi le complessive unite solo ai 3 termini, sono 1060:)
Sarebbe stato impossibile leggerle tutte e quindi “mi sono affidato all’Onniscenza ” del Carissimo Caso Supremo:)
Non cito tutto il percorso per arrivare ai dati che inseriro’ tra’ un po’, ma solo il tempo necessario per averli,ed è stato brevissimo e sopratutto,con 2 soli dati, diventa possibile qualsiasi unione:)

Sono sufficenti le 2 pubblicazioni sopra,per unire qualsiasi altro contenuto:)
E’ sufficente descriverle un po’,iniziando dal senso pratico di Tokenizer ,ed è il tempo necessario per trasferire tutti i caratteri dei contenuti (punteggiature e spazi compresi) in pacchetti informatici e in pratica è il Crawling Process:)
La posizione ottimale dei Tokenizer è 3,3 MB al secondo ,ed esistono dei rapporti con BERT (quindi Google) sulla velocita’ dei Tokenizer e secondo i dati di Microsoft Bing, arrivano ad oltre 15 MB in 1 secondo:)
Sono polverizzati tutti i dati dei rilevamenti di base ,perche’ non è necessario nemmeno vedere i codici javascript attivati (tra l’altro i Crawling non li possiedono nemmeno:) , ed è sufficente quantificare la velocita’ di Bling Fire e se fosse il dominio individuale (attualmente è oltre 30 MB il suo peso nei contenuti) ,servirebbero solo 2 secondi per prelevare tutti i caratteri:)
Anche l’altra evidenza è fantastica,sopratutto per l’unione con la prima e sono le API stesse di Microsoft Bing e il nesso è con il suo Powered,perche’ è il piu’ utilizzato ,dagli altri Engines,sopratutto da quelli “che non effettuano nessun tracciamento”:)
Sarebbero infinite le possibilita’ d’unione e in questa posizione ne cito solo 2:

Il primo è la regina dei codici ,ed è citata proprio nei Tokenizer da Microsoft (Github è anche una sua proprieta’)
Sara’ presente a JAN 2021 e l’avevo gia’ scelta,perche’ Github avra’ anche l’unione con la divisione delle categorie del contesto online e saranno presenti in tante pubblicazioni che avra’ l’intero anno 2021:)

Questa è un altra fantastica unione e da sola è capace di creare infiniti contenuti:)E’ sufficente creare un altra unione ,ed è il Bling Fire del TFD Microsoft stessa e il suo Powered è distribuito a tanti altri Engines,proprio per i motivi delle percentuali sopra:)E’ possibile aggiungere tutte le cazzate del Social Marketing e naturalmente la posizione del Detect language italiano non è casuale e le posizioni reali sono anche peggiori rispetto alle apparenze ,per 2 semplici motivi: il primo sono gli utenti italiani stessi e il riferimento non è la popolazione della nazione,ma sono gli autori che scrivono in lingua italiana,in tutto il mondo (sono oltre 10 Milions maggiori,rispetto alla popolazione effettiva italiana:)Il 2° motivo è quello unito direttamente agli Engines,ed è il Content Marketing (3 volte maggiore rispetto alle Ads stesse:) e poi a salire esite il costo dello IoT (2 volte maggiore rispetto al Content Marketing) e puo essere riservato solo agli Engines e non hanno nessuna possibilita’ di competere i tantissimi Database,perche’ hanno oceani di dati,pero’ è impossibile unirli tra di loro:)

Da JAN 2021,sara’ presente anche il Contest Level Absolute,in maniera “un po’ particolare”,semplicemente perche’ non esistono contenuti completi pubblicati.
E’ presente solo “una parziale pubblicazione” e la casa editrice (Garzanti) l’ha definita monumentale per le sue dimensioni e lo è realmente ,perche’ l’opera è composta da 488 pagine:)
Nella realta’ è solo “una piccola sezione” rispetto ai contenuti originali e quindi “ho scelto altri percorsi”:)
per “trovare la via giusta” ,l’inizio è nell’evidenza:)La curiosita’,unita al Caso Supremo ,non ha nessun limite:)

Puo sembrare incredibile,pero’ da questa curiosita’ è nata un unione straordinaria:)
Santa Veronica Giuliani ha scritto 21000 pagine nel suo diario in 34 anni  e i contenuti sono sistemati in 1 sola posizione,senza nessuna correzione, ed EDITS:)
Non conoscevo la causa della sua morte e la curiosita’ è arrivata con il termine “Emiplessia” e in realta’ non esiste (lo scritto è nel pdf originale collegato sopra) e il termine reale è Epilessia:)
Non immaginavo nemmeno che potesse esistere “questa strana unione”,per il contesto individuale,perche’ nel Caso di Veronica rappresenta la “fine degli scritti”, mentre è l’opposto per quelli individuali:)Visto il contesto che seguira’,è possibile fare anche un altra unione e il riferimento è la posizione opposta e cioe’ SS:) (è lo scemo di satana:)L’unica sua possibilita’ operativa è nel Regno del Falso e lo è realmente (esiste la bibbia di satana:) e quindi ,non occorre nemmeno aspettare i multipli Fact Check per ogni pubblicazione,perche’ il suo unico fattore è il Falso Completo:)

Sara’ Presente il Caso Supremo e quindi le “mezze verita’” sono da escludere 🙂Il dominio è realizzato attraverso tanti dottori della Chiesa,ed esiste un lungo elenco e non è nemmeno completo e si conclude con il termine “ALTRI” e tra di Essi ,esiste anche Santa Veronica:)A JAN 2021 mostrero’ anche come sono selezionati i contenuti,utilizzando proprio quelli di Veronica e in questa posizione cito solo una comparazione straordinaria e sara’ quella con l’unione degli autori celebri di Texto.Best:) Posso anticipare che i Match saranno davvero fantastici:a favore di Texto.Best esiste il possesso della Sitemap e quindi è oggettivamente piu’ difficile evitare i Match.A favore dei dottori della Chiesa esistono invece i contenuti in 1 solo Detect language e quindi hanno vinto i Santi, perche’ i loro contenuti hanno valore reale:) (Texto.Best è realizzato attraverso 4 Detect Language e sono considerati tutti dei Copied:)Qui è invece sistemato un altro regalo del TFD Oxford:)Sara’ presente in tutto l’anno 2021 e non sono i contenuti oggettivi il motivo,ma come sono sistemati:)Sono i grafici,uniti ai dati del TFD Oxford e l’importanza è molto semplice,perche’ tutti i termini sistemati nelle immagini o nei grafici,non hanno nessun valore per gli INDEX ,ed è un contesto molto importante,perche’ le sole immagini rappresentano il 30% del Market Share (il social marketing aspirerebbe ad avere questa percentuale 🙂 e il loro valore è formato solo dai termini in cui sono sistemate (anche i video hanno la stessa posizione rispetto ai termini,pero’ rappresentano solo il 3% del Market Share:)Ho sistemato questa posizione anche per un motivo pratico,perche’ appartiene a DEC 2020,per il TFD Oxford e tra alcuni giorni ,anch’esso avra’ la verifica di JAN 2021 e quindi è possibile che la pubblicazione non sia piu’ presente tra quelle selezionate.A JAN 2021 ci sara’ poi il TFD Oxford direttamente ,con i suoi Update per l’anno 2020 e posso anticipare che esistono oltre 2100 nuovi termini unici e ovviamente,sono elevati anche i termini effettivi che li contengono.Questa posizione è molto utile per comprendere il contesto,da cui derivano i dati dei contenuti e per i termini di questo JUST TIME (tutti e 3 sono al 100% delle Alte Rilevanze) ,occorre unire anche l’aspetto complementare agli Update e sono le fluttuazioni delle rilevanze stesse:) (non è affatto scontato che i termini restino nelle alte rilevanze e non occorre aspettare 1 anno,perche’ le possibili fluttuazioni e i reports del TFD Oxford avvengono ogni 3 mesi:)Per avere lo stesso numero di termini unici prodotti in 1 anno dal primo Detect language,tutte le altre lingue debbono aspettare,mediamente 200 anni:) (10 o 15 nuovi termini unici ,esistono per le altre lingue in 1 anno:)
La pubblicazione originale inizia da qui (DEC 27 2020)
Questo Just Time Google Patents K2 è dedicato a “termini classici” del dominio e anche in questo Caso,i veri festeggiamenti ,riguardano sempre i termini effettivi che li contengono:) 
Qui è sistemato il senso opposto nei Brain Stone:)
E’ High Idiots Competition Keywords e il riferimento è “alla loro Difficulty” e ovviamente esiste ,pero’ è presente una differenza notevole ,perche’ le difficolta’ degli “High Idiots” sono in 1 sola pubblicazione ,mentre i valori reali ,debbono essere in tutte:)
Il senso è molto semplice,perche’ sono i termini effettivi a rendere possibile la presenza delle Alte Rilevanze e possono farlo,da qualsiasi pubblicazione sia presente in 1 solo dominio e non occorre assolutamente che siano presenti i termini ad Alta Rilevanza:) 
Anche questa pubblicazione dei Brain Stone rende semplice comprendere il livello K2 dei Just Time:)
E’ “L’auotcomplete dedicato alle Long Tail Keywords” e nella realta’ non esiste assolutamente e l’unica possibilita’ di Averle ,deriva dai Match dei termini effettivi:) (se vengono eliminati dai Match non esistera’ nessuna Long Tail Keywords e tantomeno sono gli Autocomplete a “fornirle”:)
Factors Ranking EMD Brain Stone
Questa posizione dei Brain Stone è proprio speciale ,perche’ riguarda direttamente i termini festeggiati in Just Time k2 e tutti gli altri:)
L’ho sistemata solo come esempio,perche’ ne sono tantissime le posizioni simili ,ed esiste solo l’imbarazzo della scelta,per conoscere il livello dell’idiozia di tanti ottimizzatori ,compresi coloro che utilizzano i loro servizi:)
L’evidenza migliore è nel nome stesso della pagina ,ed è facilissimo da verificare,perche’ gli EMD,in tantissimi seo ,sono classificati “come Fattori”:)
Nella realta’ non c’entrano assolutamente nulla,ma sono solo dei preziosi servizi degli Engines e quindi “non hanno le posizioni classiche dei fattori”,pero’ sono all’interno di Tutti Loro ,compresi i recenti sviluppi dei Fact Checks:)

Natural Contest 4° Finance AirlineDopo questa pubblicazione i contenuti dei Brain Stone hanno avuto uno sviluppo totale,ed è iniziato dall’aspetto piu’ semplice ,ed è la verita’ dei FATTI,nel vero senso delle parole!:)Restando alle idee dei “Fattori degli EMD” ,occorre porsi “una semplice domanda”:)Come si fa a conoscere “i Tempi sensitivi dei contenuti”? 🙂E’ possibile anche aggiungere:Come è possibile conoscere i contenuti in Copied interni ai domini:)Come si fa’ a conoscere se esistono Main Content:)Come si fa’ ad avere informazioni “su tutte le violazioni possibili ed immaginabili”:)Ho sostituito il “punto di domanda” con tanti sorrisi ,perche’ sono piu’ pertinenti delle domande stesse:)Probabilmente i seo ,per conto dei loro utenti ,”telefonano agli Engines”:)

La risposta arriva da JUN 2020:)Ne esistono poi tantissime altre e sono tutte uguali ,perche’ esiste 1 solo modo per conoscere i valori reali di qualsiasi reports e occorre chiderli a chi li conosce realmente:)Ho scelto l’immagine sopra,perche’è fantastica anche l’unione e prima di arrivarci ,occorre conoscere anche i contenuti interni ai domini e anche in questo Caso esiste 1 solo modo ,ed è quello della verifica di Google Search:)E’ sufficente fare una prova,attraverso le indicazioni della pagina dei Brain Stone applicati ai “Factors Ranking uniti agli EMD” e posso anticipare che esistono oceani di contenuti,simili o meglio uguali a quelli indicati nella pagina Brain Stone:)
Semplicemente gli EMD non è un Fattore,ma è un servizio e al suo interno esistono tutti i fattori reali e iniziano con gli elementi del Natural Contest:) Senza di essi è inutile vedere le centinaia di fattori descritti sempre dai seo e le risposte dei valori sono negli EMD e non sono uniti ai termini ad Alta Rilevanza,ma agli effettivi che li contengono e il riferimento non è 1 sola pubblicazione,ma l’intero dominio in cui sono sistemati:)
Anche per conoscere queste posizioni esiste il servizio “dei Fattori “:)
Il link ha il collegamento con il 4° Natural Contest Finance Airline e l’ho sistemato in questa posizione per “unirlo ai fattori seo” ,perche’ il suo contesto è davvero fantastico,in quanto sono i fattori stessi ,descritti dagli ottimizzatori, ad avere il Falso Totale:)
Tanti di essi sono nelle pagine dei Brain Stone ,ed è molto facile unirle a tantissimi contenuti degli ottimizzatori in maniera generale,perche’ sono all’interno degli stessi loro domini e anche negli utenti pagatori dei loro servizi:)
Nella pubblicazione precedente,collegata sopra,esistono anche dei riferimenti temporali per i contenuti dei Fact Check e attualmente esiste 1 solo prelievo “per certificare i fatti reali” ,presenti nei contenuti di 1 pubblicazione.
Nonostante questo, esiste gia’ la presenza delle “Several Pages Claim Review” e sono semplicemente un numero maggiore di pubblicazioni e ognuna di esse ha fatti accertati,pero’ sono classificati in FALSO:).
Per il momento non esistono riferimenti temporali , per sviluppare i Check Fact ,all’interno di 1 sola pubblicazione,pero’ sono gia’ presenti altri elementi operativi : il primo è diventato “gia’ un classico” e cioe’ non esiste nessun utente,ottimizzatori compresi,che Possa Decidere Qualcosa!:)
Non Decidono i cicli dei Crawling Process,tranne nelle Re-Indicizzazioni,pero’ è molto difficile che vengano accettate.
Non decidono nessuna priorita’ rispetto ai Content delle pubblicazioni e al suo interno, esistono anche le negazioni dei MARK:) Sara’ contenta la piattaforma WordPress con i suoi Cornerstone Content e a loro volta ,sono uniti ad operazioni in CMS e il risultato finale, è legato proprio alla presenza del MARK:)  
Dopo le “posizioni classiche” del “Don’T Deceive” ,è possibile aggiungere anche quella dei Fact Check ,perche’ Google puo scegliere qualsiasi fatto presente in 1 pubblicazione (non sono gli utenti a deciderlo:) e se fosse negativa,non sara’ piu’ possibile fare nessuna modifica:) 
Oltre a non Decidere Nulla per i Fact Check ,occorre aggiungere anche la cosa piu’ ovvia e cioe’ i contenuti debbono essere gia’ unici (verificare la presenza del FALSO in duplicati non avrebbe nessun senso ,semplicemente perche’ i contenuti appartengono ad altri domini) e l’unicita’ è unita anche alla Quantita’ e quindi è difficile raggiungere la prima ,perche’ l’originalita’ ha come riferimento la posizione globale dei Content (oltre a quella interna dei domini).
Attraverso la Quantita’ dei contenuti ,diventa invece facile il prelievo dei Fact Check e quindi diventa anche ragionevole la presenza delle “Several Pages Claim Review” .
I passaggi precedenti sono serviti per creare il contesto ai termini di questo Just Time e il miglior inizio è nell’immagine appena sistemata:) (è all’interno di Din Long Data Twin e il collegamento è nel banner di divisione e in quello finale del dominio).Sono le Close Variants e possono avere tantissime posizioni e solo per descriverne alcune ,è possibile iniziare dal passaggio precedente dedicato ai “Factors Ranking dei Brain Stone”,unito agli EMD:) Come è possibile conoscere tutte le posizioni dei Paraphrasing?:)Dei Misspelling ; dei Sinonimi ; degli Splitting ETC:).Esiste 1 sola possibilita’ ,ed è quella di chiederlo a chi li conosce ,in maniera globale:).E’ da escludere che possano rispondere al telefono e quindi esiste il servizio delle Quotation Marks (è l’EMD dei deficenti:) e nelle proposte seo ,viene sistemato come “Fattore”:)E’ facile fare la verifica,ed è sufficente prelevare i termini della pagina Brain Stone dedicata ai “Ranking Factors EMD” e si trovano oceani di contenuti simili e in tanti casi,è applicata la dicitura “RIP in PAX,con tomba annessa” per gli EMD:)Nella realta’ è il loro cervello ad “avere il Rip in PAX” ,perche’ l’EMD ha piena vita ,ed è sufficente collocarlo “in maniera Esatta”:)Non è un Fattore ma è un Servizio e attraverso ESSO,si conoscono tutti i Fattori reali,applicato a qualsiasi Content.Esiste poi l’applicazione diretta e sono le Close Variants sistemate sopra ,ed è possibile unire un fantastico paradosso:)Cioe’ le Close Variants non sono Decise dagli Utenti e gli unici ad avere possibilita’ di farlo,sono gli idioti uniti insieme:) (tanti seo e coloro che utilizzano e pagano i loro servizi:)L’unico problema,sono “gli effetti della decisione”,perche’ in realta’ hanno un unica direzione,ed è quella di eliminare gli effetti fantastici delle Close Variants:)Ho sistemato questa posizione,perche’ i volumi dei termini di questo Just Time K2 sono talmente elevati,da rendere molto probabile che nel loro contesto globale,esistano le posizioni appena sistemate: è sicura la posizione dei Reorder Words,a loro volta uniti ai sinonimi e al Paraphrasing ,insieme a tutte le altre voci dell’elenco delle Close Variants e poi ,nei vari Match è sicura anche la presenza delle “Decisioni Errate” e l’elenco è nei contenuti dei Brain Stone:) 
Sono volumi colossali e a loro sono applicati i migliori fattori in assoluto e sono gli archi temporali:)
Sarebbe possibile unire qualsiasi altro contenuto tra quelli individuali e in questa posizione ne aggiungo alcuni:
Questo è il 4° Natural Contest dei rilevamenti di base:)
A differenza di tutti i valori ,i dati sopra hanno il percorso completo e non iniziano dai rilevamenti di base,ma dagli elementi del Natural Contest:)
Anche la pubblicazione precedente di Finance Airline puo essere unita ai termini festeggiati:)

Questa è la prima per Google:)
Solo attraverso questa posizione ,sarebbe possibile aggiungere decine di pubblicazioni e non potendo farlo,aggiungo i contenuti che gia’ esistono:)
Questa è Struttura Data e Snippet dei Brain Stone
Don’T Deceive Your Users
Don’T Deceive Your Business
Ovviamente debbono essere presenti anche “questi elementi”:)Negli RF ;nei Natural Contest e nei Just Time ,non esiste nessuna possibilita’ che “siano presenti solo i tempi sensibili” 🙂

Questa è la prima per Microsoft Bing:)Questa è una posizione straordinaria,perche’ permette di evidenziare il ruolo reale dei termini in Brands,ad Alta Rilevanza,ed è la Restituzione dei valori ,al contesto piu’ importante,ed è quello dei Termini Effettivi:)Sono Loro a permettere che esistano i termini rilevanti ,pero’ quest’ultimi ,se sono presenti ,ed hanno “gli archi temporali giusti” ,restituiscono la migliore qualifica ai termini effettivi che li contengono e l’aspetto straordinario è il riferimento stesso ,perche’ le pubblicazioni sistemate contengono solo i “termini oggettivi” e a permettere il loro possesso,sono i contenuti generali del dominio a cui appartengono:)E’ una posizione normale ,perche’ la prima unicita’ è quella interna dei domini  e sono proprio Loro ad eliminare i termini attraverso i Match e non occorre sistemare nessuna Keyword ad Alta Rilevanza ,perche’ saranno i termini effettivi eliminati ad eliminare o meno,la loro presenza:)Queste sono le vere Keywords Difficulty e sono molto diverse dai contenuti dei Brain Stone e a loro volta derivano da quelli “Esatti degli ottimizzatori”:)Esiste poi un contesto specifico per le 2 pubblicazioni ,presenti nei 2 Engines ,per gli stessi termini: entrambe derivano dal magico anno 2017 ,ed è gia’ molto particolare di suo,perche’ in quell’anno “ho scritto davvero tantissimo” e tante pubblicazioni sono sistemate in un arco temporale di pochissimi giorni e quasi tutte hanno anche dimensioni notevoli:)Un primo esempio è nella raccolta dei Top Imbecilli dei Brain Stone:)Era FEB 2017 ,ed esistono un numero elevatissimo di pubblicazioni e ovviamente,per essere sistemate nella raccolta ,sono nate prima della data indicata:)

Questa è la vera festa dei termini in Brands:)La pubblicazione unita a Google è di NOV 2017 e quella di Microsoft Bing è di JUN 2017 e le posizioni sopra offrono il miglior contesto ,per comprendere anche i passaggi precedenti:)Le Alte Rilevanze non dipendono solo dalla pubblicazione che li contiene ,ma sono i contenuti complessivi di 1 dominio a permettere la loro presenza e gia’ nell’anno 2017 ,le probabilita’ di avere Match erano elevatissime:)E’ sufficente vedere le 2 Maxi raccolte sopra per verificarlo e quando ho scelto di sistemare questa posizione ,posso assicurare che non mi ricordavo assolutamente delle date e quando le ho viste,sono rimasto sorpreso io stesso!:)Nonostante siano raccolte di notevoli dimensioni,l’arco temporale che le separa è brevissimo ,ed è facile verificare che non esiste una pubblicazione uguale all’altra,ed era solo l’inizio dell’anno 2017:)Grazie a questa posizione è possibile aggiungere un altra curiosita’ e sono le date stesse,perche’nelle pagine interne non vengono sistemate ,mentre sono presenti nei Post normali.Per questo motivo ho scelto l’immagine sopra,perche’ era l’unica evidenza possibile per avere il riferimento della data e l’aspetto curioso è molto semplice ,perche’ il numero di pagine interne è separato da quello dei Post :

Questa è la curiosita’ effettiva e riguarda solo il numero dei Post attuali (DEC 2020 fino al 4° Natural Contest per Finance e Airline) e non è compreso il numero di pagine interne.Il dato è effettivo e cioe’ non sono presenti draft ,ma solo pubblicazioni reali e quindi quella che sto’ scrivendo sara’ la 1299° e poi esistono il numero di pagine e il totale è molto vicino alle 1400 pubblicazioni:)Riguardano 1 solo dominio e nel Caso individuale è il 5° e questa posizione permette di modificare l’aspetto curioso dei dati, perche’ quelli di questo Just Time,prima dei Match globali,hanno avuto quelli del dominio e i conflitti sono complessivi tra tutte le pubblicazioni presenti e quindi ,le Alte Rilevanze dei termini in Brands ,non derivano dalle pubblicazioni specifiche sistemate,ma dai contenuti dell’intero dominio:)Tornando all’anno 2017,esiste un altro contesto straordinario,perche’ possiede 3 Top Page Joy su 4 e solo per qualificare una loro posizione ,è sufficente aggiungere la Quantita’ stessa nelle dimensioni delle pubblicazioni,semplicemente perche’ rende molto piu’ elevata la probabilita’ di avere dei Match e quindi di eliminare i termini coinvolti ,in qualsiasi numero di pubblicazioni fossero presenti:) (cioe’ non esistono Match specifici per 1 sola pubblicazione ,ma sono eliminati da entrambe o per qualsiasi altro numero di post fossero coinvolti).Questo passaggio serve anche per introdurre “l’aspetto  complementare dei termini in Just Time” ,ed è il Keywords Stuffing delle pubblicazioni stesse

Questa è solo una parziale restituzione dei valori da parte dei termini in Just Time:)Nelle pubblicazioni normali sarebbe il Keywords Stuffing e prepara per l’unicita’ dei contenuti interni dei domini.Negli RF e nei Just Time avviene l’operazione opposta ,perche’esistono gia’ i dati del contesto globale dopo i Match e la restituzione parziale dei valori,ha un senso molto semplice,perche’ l’applicazione reale non riguarda 1 sola pubblicazione,ma l’intero dominio che le contiene:)I dati sopra delle Total Keywords esprimono il numero di combinazioni possibili in 1 sola pubblicazione e i termini ad Altissima Rilevanza dei Just Time (lo sono nel vero senso delle parole) ,conferiscono la Qualifica Migliore ,ed è valida per tutto il dominio che LE Contiene,semplicemente perche’ sono i termini effettivi delle altre pubblicazioni ad averlo permesso:) Lo sono per i Match dei termini evitati e allo stesso livello d’importanza esiste la presenza del Main Content e sono le proposte complessive ,ed è l’unica posizione a fornire valore reale:)Quindi leTotal Keywords sono per forza di cose “Parziali” e la pubblicazione sistemata è la prima di Google e nella selezione da 3 termini,sono 1489 le Total Keywords,sempre per 1 sola pubblicazione.Quindi non sono considerate le altre presenze del dominio e a questo occorre aggiungere anche l’operativita’ delle Close Variants ,perche’ le Total Keywords sono realizzate solo con i termini effettivi di 1 sola pubblicazione:) qui sono sistemate le combinazioni da 4 terminiSono formate da 1336 Total Keywords Questa è la combinazione da 5 terminiSono formate da 1175 Total Keywords e grazie al Just Time K2, diventa facile “avere dati non parziali” come quelli sistemati, perche’ le applicazioni reali sono quelle dell’intero dominio e grazie alle alte rilevanze dei termini festeggiati, hanno la qualifica migliore dei valori reali:)

Questa è la pubblicazione per Microsoft BingEsistono gli stessi valori descritti sopra e poi è possibile aggiungere un altra caratteristica speciale perche’ la pubblicazione di Google (NOV 2017) e quella di Microsoft Bing (JUN 2017) sono entrambe delle pagine A+ degli RF  e sono quelle piu’ a rischio di avere dei Match ,perche’ hanno contenuti prevalentemente tecnici e quindi è facile ripetersi nei periodi:)Queste sono leTotal Keywords da 4 termini,sempre per Microsoft Bing (2918)Qui sono sistemate le combinazioni da 5 termini (2634)

Questa sezione deriva dall’immagine precedente ,ed è fantastica l’unione con i dati delle Total Keywords:)E’ sufficente unire il volume colossale dei termini ,alle loro altissime rilevanze e diventera’ molto facile comprendere quanto sia stato elevato il livello dei Match:)L’aspetto fantastico è nell’evidenza stessa e il Loading è il principale elemento del Core Web Vitals e ovviamente,non è possibile sistemare tutti i pesi delle pubblicazioni che hanno avuto Match nei termini di questo Just Time, pero’ l’esperienza aiuta tantissimo e per i contenuti individuali, non è mai esistita una pubblicazione che avesse i pesi dei suoi elementi statici leggeri:)Quindi è molto probabile che le stesse condizioni riguardino le pubblicazioni coinvolte in questo Just Time e a rendere il contesto fantastico è un motivo molto semplice e cioe’ l’Elegibbilita’ delle Strutture Data e Snippet ,indicano solo la Possibilita’ che I Match Abbiano Inizio:)I dati reali arriveranno solo al loro termine e di conseguenza ,i pesi degli elementi uniti ai loading ,sono “passati per tutti i conflitti ” ,ed è sufficente scegliere pure a Caso ,tutti i rapporti possibili e immaginabili uniti ai tantissimi domini ,in cui i termini di questo Just Time sono rilevanti 🙂

Oltre al Core Web Vitals ,esistono anche gli AMP,applicati al Loading e posso assicurare che il report delle Strutture Data e Snippet ,deriva proprio dai mobili:)Solo per le dimensioni di questa pubblicazione ,ho evitato di sistemare anche i Desktop,pero’ esistono e ho scelto solo l’opzione mobile ,perche’ rende piu’ facile l’evidenza rispetto ai contenuti individuali ,a causa proprio dei pesi dei loro elementi statici:)Quindi esiste il Report dei Mobili ; il Core Web Vitals ; gli AMP ,tutti uniti insieme e appartengono tutti a Google stessa:)E’ facile quindi immaginare quanto sia elevato il suo valore e questa posizione serve in realta’ per evidenziarne un altra assai superiore:)Per arrivarci occorre 1 solo termine,ed è OPTIONAL:)E’ sufficente aprire “View Details” nei Loading ,per avere il termine OPTIONAL e la sua applicazione deriva dalla somma del Report Mobile,unito ai Core Web Vitals e agli AMP:)E’ il Trionfo dei Content ,senza precedenti ,perche’ la somma sopra dei mobili ,deriva anche dalla conoscenza reale dei dati:)Tutto questo rappresenta solo l’inizio dei Match e la presenza delle Strutture data e Snippet deriva dall’immagine sotto:)
le Strutture Data e gli Snippet sono unite alla migliore comprensione di tutti i tempi:)
Lo sono nel vero senso delle parole e la “comprensione ha vari elementi al suo interno”:il piu’ importante sono i contenuti stessi e poi occorre “vedere anche come sono realizzati”:)
Don’t Deceive Your Users
Nella pagina sono sistemate diverse descrizioni 
Questo è il senso del Markup nelle Strutture Data ,ed è la via piu’ semplice per la piena comprensione dei contenuti e attraverso ESSA ,è facile comprendere anche “le teste degli operatori” 🙂
Sono i Markup delle Strutture Data “Fuorvianti” e il termine deriva solo dalla “Bonta’ degli Engines” ,perche’ il Markup delle Strutture Data hanno posizioni Standard e le percentuali sono quelle sopra e di conseguenza “se sono presenti dati fuorvianti” ,la colpa è solo dei gestori dei domini .
La bonta degli Engines,deriva dalla semplicita’ della violazione (esiste il 100% del Markup Strutture Data con 2 sole voci:) ,perche’ il termine “Fuorviante applicato al Markup” è solo un eufemismo:) (il termine reale nella mente degli Engines è Idiota:)
Attraverso queste stupide posizioni, non esistera’ mai nessuna Eleggibilita’ e di conseguenza non si avranno mai valori reali e ovviamente non si possono modificare successivamente 🙂
Il senso è quello dei “Time Sensitive Content” e cioe’ i dati occorre averli giusti sempre e il “Markup fuorviante”,non lo permette assolutamente:)
Queste posizioni sono importantissime,perche’ permettono di comprendere al 100% il contesto da cui derivano i dati dei termini festeggiati in questo Just Time K2 e sono esattamente all’opposto dei passaggi precedenti:)
Don’t Deceive Your UsersQuesta è un altra posizione straordinaria per comprendere il percorso dei termini festeggiati in questo Just Time K2 e anche in tutti i precedenti e i successivi che ci saranno:)
Deriva direttamente dalle General Guidelines e all’apparenza sembrano “semplici posizioni” e sono indicati solo alcuni esempi ,come responsabili dei domini:)
Il motivo è altrettanto semplice ,perche’ esiste 1 solo dominio ,a prescindere dalle dimensioni delle piattaforme stesse in cui sono sistemati e per unirli ai dati del Just Time ,è sufficente inserire altri esempi e sono i domini degli High Learning,nelle posizioni Low Quality e a determinare questo valore,sono “i Match tra i tantissimi autori”:) 
Questa posizione rende ragionevole i dati dei Just Time ,perche’ le “grandi organizzazioni o business” non hanno nessun vantaggio e spesso è esattamente l’opposto:)
A parte la demenza congenita di facebook ,negli esempi esiste anche il TFD Wiki e se avessero valore “le somme dei contenuti” ,attraverso milioni di autori,esisterebbero solo Loro 🙂
Tra un po’ si comprenderanno ancora meglio questi passaggi,perche’ sara’ presente proprio Wiki globale e in questa posizione aggiungo solo un altra semplice ragione ,opposta alla somma dei dati ,nei domini con tantissimi autori ,ed è la piu’ semplice del contesto online e cioe’ è possibile che esista solo 1 rilevanza in 1 dominio e tutte le altre sono escluse e da questa posizione si passa ai Match del contesto globale:)
E’ possibile aggiungere anche un altra ragione semplice,opposta “alle grandi organizzazioni o business”  responsabili unici,perche’ avere tantissimi autori al loro interno,non qualifica nessun contenuto e non occorre vedere gli autori imbecilli “tout coure” ,perche’,per forza di cose,sono idioti anche coloro che avrebbero delle discrete capacita’ ,perche’ i loro contenuti sono annullati dagli “imbecilli ufficiali”:) 
E’ la meraviglia del Contesto Online e cioe’ non è possibile applicare nessuna “scorciatoia” ,rispetto ai Content reali ,nemmeno per le grandi organizzazioni o business e questo è il motivo per cui è possibile vedere dei dati incredibili e per renderli reali è sufficente applicare il passaggio sopra e l’immagine sotto:)
l’immagine normale è quiI termini di questo Just Time ,hanno tutte le applicazioni sopra ,ed è molto facile “trovare tante organizzazioni o business coinvolte” ,ed è altrettanto semplice verificare gli “infiniti pesi degli elementi statici” presenti nei Match:)
Nonostante le dimensioni di questa pubblicazione,sono tanti ancora i contenuti da inserire e solo per fare un unione “con un organizzazione” presente negli esempi delle general Guidelines ,è possibile citare le Ads e FB e i termini festeggiati sono tutti nelle prime posizioni e tra un po’ sara’ facile comprendere anche il motivo e deriva dalle rilevanze stesse:) (sono tutti e 3 nelle prime posizioni ,per i principali riferimenti del primo Detect language:)
A proposito di “Organizzazioni e Ads”,questa è Facebook a DEC 2020:)
Stanno raggiungendo lo 0,002% Esatto:)
Hanno anche pagato per avere pessimi risultati  ,oltre ad avere 1 solo dominio per 1 piattaforma e un numero elevatissimo di autori pure:)
Occorre poi aggiungere un contesto logico e cioe’ non esiste nessuna garanzia che i dati derivino dal “lavoro oggettivo di Facebook” ,perche’ è molto probabile che sia l’opposto:)
Se dipendesse da facebook direttamente,la probabilita’ maggiore sarebbe stata la presenza “del 3° zero” dopo la virgola ,gia’ da tanto tempo:)
Ho sistemato la posizione,per diverse curiosita’ e l’unuione con i termini festeggiati di questo Just Time K2 ,deriva dal fatto che sono rilevantissimi anche nelle Ads:)
L’immagine appena sistemata è la prima ,ed è molto curiosa e l’ambito è lo 0,002% di Audience Network ,ed è l’Ads di Facebook e potrebbe essere sommata anche Instagram,perche’ i dati sono prodotti nello stesso contesto:)
Che fosse il primo Detect language “sarebbe stato normale” per qualsiasi altra Ads,mentre per Facebook diventa un altra sconfitta,perche’ le percentuali complessive dei content e quindi dei valori reali delle Ads,raggiungono il 60,5% da parte del primo Detect language:)
(la percentuale della lingua inglese ,esprime solo il contributo per arrivare allo 0,002% ,per le Ads di Facebook:)
Esiste poi la curiosita’ delle altre lingue e dopo quella inglese,la maggiore è la lingua Vietnamita e nel contesto dei contenuti globali ,raggiunge 1,7%:).
Per quantificarla è sufficente aggiungere che i suoi contenuti sono 2 volte maggiori ,rispetto al Detect language italiano ,inteso in senso globale (cioe’ tutti gli autori che scrivono in lingua italiana nel mondo e sono circa 70 Milions:)  
L’immagine deriva dal 73° RFE’ molto utile anche in questa posizione,perche’ rende molto facile comprendere quali sono le dimensioni dei conflitti:)
Un riferimento è sistemato qui
La lingua latina,nel dominio specifico di Wikimedia ha oltre 134000 pubblicazioni ,ed è sistemata alla 60° posizione ,su 309 domini Wiki.
Nel contesto globale,la lingua latina ha una posizione “molto curiosa”,perche’ la percentuale è 0,0008% e i maggori contributi derivano da autori di lingua italiana e quest’ultima ha lo 0,8% dei contenuti globali:) (sono dati esattissimi:)
Il riferimento sono solo gli INDEX e naturalmente a formare le dimensioni dei contenuti complessivi sono solo i termini effettivi e questo permette di comprendere in maniera piena quali sono stati i rapporti dei Match per i termini festeggiati in questo Just Time K2:)
Sono sistemati nelle massime rilevanze del primo Detect language e i termini effettivi di quest’ultimo, sono oltre 60 volte maggiori ,rispetto alla lingua utilizzata in questi contenuti e ovviamente anche loro hanno le Close Variants applicate:) 
Nemmeno nei “Dream Content” è possibile immaginare un contesto del genere:)
Le dimensioni di questa pubblicazione sono gia’ notevoli ,ed esistono ancora tanti contenuti da sistemare,per festeggiare i termini di questo Just Time K2:) Alcune posizioni che pensavo di aggiungere le sistemero’ in altre pubblicazioni e qui inserisco solo qualche anticipo: per i CMS citati nel 4° Natural Content Finance Airline ,saranno nel primo FGL Star Unique Content e ovviamente sara’ quello di JAN 2021 e la protagonista sara’ “l’Organizzazione Banca Intesa” e l’aspetto curioso è il suo CMS ,unito alla prima pubblicazione,ed è Internet Banking:)
Sono le risposte dell’istituto bancario (il primo in italia:) ,proprio sul Banking Online ,ed è la pubblicazione a maggior dimensioni ,ed è anche quella con i Copied maggiori 🙂
Per il momento mi limito a queste posizioni,perche’ sarebbero infinite le cose da unire e cito solo il CMS che “Ottimizza banca Intesa”:)
E’ Adobe Experience Manager il CMS di Banca Intesa e non esiste nessun dubbio che sia di altissimo livello ,pero’ non sono Loro a creare i contenuti 🙂
Altro lo sistemero’ nelle prossime pubblicazioni e qui cito solo l’unione con i termini festeggiati in questo Just Time K2 ,ed è possibile iniziare proprio dai CMS sopra e da tutti gli altri elementi del Frame Global Limit 🙂 (solo per avere un idea ,posso aggiungere che tra Adobe e banca Intesa ,non esiste nessuna pubblicizzazione dei costi e la cosa è normale,perche’ i costi dei CMS sistemati,hanno come riferimento solo lo “Small Business” e per le grandi organizzazioni esistono solo dei “contratti privati”:)
Questo conferma l’aspetto straordinario del contesto online,perche’ i valori reali superano anche “le montagne di denaro a disposizione” e la migliore evidenza la fornisce banca Intesa stessa ,grazie ai suoi demenziali Content:)
Pensano davvero “che sia sufficente 1 solo click” ,a rendere “tutto facile” ,mentre è esattamente l’opposto ,perche’ in 1 Click esistono “anche i rispettivi competitors” e hanno “una base culturale” assai diversa,rispetto a Banca Intesa:)

Non è possibile citare tutti “i possibili competitors di banca Intesa” e quindi ho scelto il primo TFD Storico, ed è TD Bank:)
Con questo sistema è facile misurare “quanto è elevato il livello di 1 solo Click” e per verificare le “basi culturali e operative bancarie” ,è sufficente vedere l’operativita’ della banca centrale italiana ,comparata con l’omologa del Canada:) (diversi dati sono gia’ nei Din Colors Space,all’interno dei Post Base e altri sono nella pagina dei Top Friend Din)
Queste posizioni unite ai CMS saranno a JAN 2021 e poi sara’ presente un altro anticipo inaspettato:)

Natural Contest 4 Finance Airline
Nella pubblicazione dedicata ho descritto i nuovi Din Colors Priority Time ,compresa la loro unione ,ed è il digitale italiano e il Social Marketing:)
E’ una posizione inevitabile,perche’ al suo interno esistono “i massimi esponenti ” del digitale italiano stesso,compreso il partito di maggioranza relativa attualmente al governo:)
I dati sono nei Post Base attraverso i “Pensieri Associati” ,ed esiste solo il Social Marketing e il ROI 🙂
Nella pubblicazione collegata esistono anche altri links con contenuti precedenti e sono descritti “alcuni Top digitali italiani” e poi nei Brain Stone ne esistono altri: ho descritto “Italia Online” e si considera “il primo Engine della nazione” (la sede ufficiale è Lussemburgo:) e poi ho aggiunto il Gruppo Cerved e anch’esso “ha un alta considerazione di se stesso” ,perche’ è il primo nei Rating,sempre italiani e i Dati sono “Esclusivamente i LORO”:).
Il Gruppo Cerved a sua volta controlla i “Dati Lovers”e sono termini specifici utilizzati sempre da LORO e l’unico dato sicuro ,è il numero dei dirigenti presenti (solo nei Dati Lovers:) e sono 43:)
L’unione principale di questi elementi è sempre il Social Marketing e la loro principale operativita’ (prima;durante e probabilmente anche dopo la pandemia da Coronavirus) ,riguardano gli aiuti alle PMI (sono le piccole e medie imprese italiane).
E’ un anticipo notevole per i Din Colors Priority Time
Nella pubblicazione precedente avevo solo sistemato il numero dei Broken Links e di sicuro forniranno un ottimo aiuto per i Content Individuali ,semplicemente perche’ quelli di Consob sono reali:)
Esistono poi tante altre curiosita’ interessanti e in questa posizione ne sistemo una,ed è nata dall’unione del Gruppo Cerved con Consob (esistono anche relazioni con la banca centrale italiana) e mi  è venuto in mente proprio l’acronimo delle piccole e medie imprese italiane:)
191 pubblicazioni unite insieme in 1 sola selezione,formano un numero elevatissimo,pero’ non è scontata la presenza del termine specifico negli URL delle pubblicazioni (PMI in questo Caso).
La risposta è stata invece affermativa ,ed esiste 1 pubblicazione proprio nei Broken Links:

Tutte le aziende coinvolte ,hanno la mia simpatia completa:)
Derivano da un Broken Links di Consob e dovrebbero essere aiutati da idioti totali,attraverso il farneticante Social Marketing:)
Non bastando questo,è arrivata la quotazione in borsa a Mar 31 2020 ,in piena quarantena ,causata dalla pandemia da coronavirus:)
Per tutte queste disgrazie consecutive,è impossibile non avere umano affetto per le aziende presenti e quelle sistemate sono solo le prime 5.
qui è inserito l’elenco finale
sono 153  quelle coinvolte a Mar 31 2020 e la pubblicazione che li contiene è in Broken Links sul dominio Consob e nel loro Caso,il Broken è reale:)
Adesso arriva il contesto migliore per evidenziare i valori dei termini di questo Just Time:)
La pagina di Key TD Archive ha i dati dedicati al termine unico “Coronavirus”,pero’ di 7 mesi fa’ ,ed esiste l’unione colossale con le dimensioni dei contenuti ,in cui il termine unico è “rilevante”.Nella realta’ non ha nessuna rilevanza,nonostante le dimensioni dei contenuti siano ulteriormente aumentate ,nel corso del lungo arco temporale,formato da 7 mesi.Il motivo della scarsa rilevanza è dovuto sopratutto all’elevata percentuale in Copied ,attraverso citazioni reciproche , unite al termine unico Coronavirus.

Naturalmente i migliori aiuti arrivano sempre dai TFD e le posizioni sopra sono le migliori possibili per evidenziare i valori dei termini in Just Time:)Ovviamente i valori reali li hanno i termini effettivi e il riferimento non sono le singole pubblicazioni,ma gli interi domini che li contengono:)La data dell’immagine ha come riferimento NOV 2020 e ad evidenziare i valori saranno proprio gli archi temporali ,uniti alle dimensioni a scalare delle pubblicazioni.qui esistono le dimensioni a scalare di DEC 2020 per Wiki GlobaleCambiano completamente ,ed è presente solo 1 pubblicazione dedicata a Covid-19 ,pero’ con contenuti e dimensioni completamente diverse,rispetto a quelle di NOV 2020.

l’immagine è anche quiI rapporti tra i termini unici e gli effettivi, fornisconio sempre i migliori valori (è quasi 1/8 il rapporto e non puo produrre nulla di positivo:)

attraverso quest’altra immagine i valori sono quasi completiIl dato piu’ importante è fornito dagli archi temporali e non sono quelli sopra, ma quelli del TFD Wiki Globale stessa:)Nelle dimensioni delle pubblicazioni arriva appena dopo Covid-19 e Coronavirus ,pero’ esiste la differenza temporale ,perche’ la pubblicazione di Wikipedia è iniziata proprio dalla sua nascita ,ed è JAN 15 2001.I contenuti dedicati al Coronavirus sono sistemati sopra,compresi gli EDITS e tra pochi giorni compiranno 1 anno e saranno 20 anni invece per Wiki Globale:)Nonostante questo “diluvio di contenuti” le rilevanze dei termini unici non sono affatto cambiate rispetto a 7 mesi fa’ e sono solo aumentati i duplicati:)

l’immagine normale è quiNessun altro dominio ha il numero di autori di Wiki e tantomeno i suoi EDITS (oltre 23000 solo per questa pubblicazione in meno di 1 anno:) e quindi è facile comprendere cosa siano le rilevanze degli altri termini e iniziano nel modo piu’ semplice e cioe’ non debbono esserci dei duplicati ,ad iniziare dai contenuti interni dei domini e per eliminare i termini rilevanti,non è affatto necessario scriverli in una pubblicazione,perche’ sono sufficenti i termini effettivi di qualsiasi altra per eliminarli,senza “nemmeno rendersene conto”:)qui è sistemata la pubblicazione dedicata al Coronavirus e anch’essa ha elevata la percentuale dei duplicati

Tra gli “oceani di duplicati ” ho scelto la posizione piu’ semplice ,ed è il nome reale della pandemia da Coronavirus,ed è SARS 2.Il SARS 1 è precedente di 10 anni e non ha ancora nessun vaccino e l’attuale pandemia è solo “una sua variante”.Uno dei protagonisti di 10 anni fa’ è stato Carlo Urbani e l’immagine sotto ha il collegamento con una pubblicazione dedicata:)
Posted in Key Page Unit, TD Space Content
Din Colors Five 1300 JAN 2021 🔝
Posted on March 5, 2021 by Din Story AV
FGL Star Unique Content JAN 2021, è nato gia’ in un contesto molto particolare ,ed è il numero stesso dei Post a cui è unito,perche’ questa pubblicazione sara’ la 1300°:).(il riferimento è il numero dei Post e sono escluse le pagine interne del dominio)
La descrizione è nel Just Time precedente e il collegamento è nell’immagine di Din Colors Five e sara’ la Stella Polare, per i contenuti di JAN 2021:)
La sara’ nel vero senso delle parole,ad iniziare dai suoi contenuti diretti e i riferimenti sono complessivi e anche in questo Caso ,saranno fondamentali le date originali: DEC 22 è quella del Just Time e a DEC 27 è arrivato l’anticipo per JAN 2021:)
Il motivo dell’importanza è molto semplice,perche’ fino a DEC 27 2020,conoscevo solo i dati del dominio individuale e ho solo descritto alcune novita’ che ci sarebbero state nell’anno 2021,iniziando da questo FGL Star Unique Content:)
I dati successivi a DEC 27 2020,hanno “capovolto tutto” e quindi gli scritti originali ,si sono trasformati nell’opposto,rispetto all’utilizzo che pensavo di farne e cioe’,immaginavo di rendere semplici i contenuti di questa pubblicazione,attraverso quelli di DEC 27,mentre i dati reali hanno capovolto tutto:)
Per mantenere la semplicita’ dei contenuti,anche dopo i dati capovolti,rispetto a quelli di DEC 27,è necessario sistemare altre “Stelle Polari”:)
L’immagine appena sistemata è proprio fantastica in questo ruolo,perche’ è Essa Stessa frutto del Caso Divino e cioe’ è la prima Sitemap sistemata in 1 Report,rispetto ai Content individuali e naturalmente quando l’ho fatto,non lo sapevo assolutamente:)
Anche in questo Caso sono fondamentali le date originali e quella dell’immagine è NOV 2016 e quindi copre tutti i cicli dei dati degli RF ,perche’ sono iniziati nelle stesse date:)
Altre descrizioni sono qui
Nel corso dei contenuti che seguiranno,nonostante il capovolgimento dei dati,rispetto alle descrizioni di DEC 27,diventera’ molto facile comprendere quanto siano importanti le 2 Stelle Polari sistemate sopra e poi è possibile aggiungere altri contenuti:I primi sono all’interno di Don’T Deceive Your Users
La Sitemap rende facile comprendere ,quali sono i livelli dei Match e per evidenziarli meglio,è sufficente sistemare il suo opposto:)
L’opposto delle Sitemap sono gli Internal Links OUT ,ed è presente in tante pubblicazioni e non occorre inserire i collegamenti,perche’ ci saranno altri esempi diretti nei contenuti che seguiranno.
Non servira’ nemmeno citarli,perche’ sara’ sufficente vedere l’assenza delle Sitemap,per rendere operativo l’esempio sistemato nell’immagine e diventera’ molto semplice comprendere i valori reali dei dati:)
La stessa posizione ,puo essere applicata per i collegamenti esterni in DoFollow e ipotizzando che i contenuti collegati siano pertinenti tra di loro (Links Juice) ,resta sempre elevato il rischio ,perche’ sono presenti elevate dimensioni in Copied dei contenuti ,anche utilizzando i blocchi degli Internal Links OUT:)
Non sono pensieri teorici,perche’ tra un po’ ci saranno degli esempi oggettivi e i primi che sistemero’,saranno uniti ai contenuti del Just Time dei DEC 20 e riguarderanno gli inaspettati anticipi dei Din Colors Priority Time:)
I protagonisti saranno ” Le Oganizzazioni Banca Intesa e Consob” e non solo esiste l’assenza delle Sitemap e l’elevato utilizzo degli Internal Links OUT,ma hanno loro stessi “una mappa interna” ,sistemata nello stesso dominio ufficiale e ovviamente sono tutti Anchor Text e per forza di cose hanno tantissimi collegamenti e formano solo delle violazioni multiple:)
E’ facile immaginare il livello d’imbecillita’ dei domini che hanno collegamenti in DoFollow verso questi spazi ,ed è possibile aggiungere anche il contesto specifico descritto a DEC 27 (anch’esso ha dati capovolti:) ,ed è l’ottimizzazione del Content Management System di Adobe:)
L’ho definita “una consulenza di ottimo livello” e purtroppo per Adobe,si sono “capovolti anche i suoi dati”:)
I CMS non creano i contenuti,pero’ visto il costo dei servizi,almeno potevano informare “l’Organizzazione Intesa” ,di evitare la “stupidaggine della mappa interna” e tra un po’ sistemero’ degli esempi concreti e in questa posizione cito solo uno dei dati capovolti e riguarda proprio Adobe:)
Tra i nuovi domini che sistemero’ , ci sara’ quello del Cardinal Cantalamessa e la scelta è unita alle presenze multiple dei Detect language e ho pensato subito ai domini del TFD Vatican .VA 🙂
E’ un esempio fantastico,perche’ nel contesto online,hanno riprodotto esattamente “il Modus Operandi” del loro contesto tradizionale (il riferimento è a Radio Vaticana:) e cioe’ esistono tante lingue insieme e formano “un unico contenuto”:)
Nel contesto online esistono Ovvie Ragioni Opposte e cioe’ ,ogni dominio puo utilizzare tutte le lingue che vuole ,pero’ 1 sola puo avere contenuti in rilevanza e tutti gli altri ,formano solo dei Copied:)
Questa era la posizione originale,per cui ho scelto il dominio del Simpatico Cardinal Cantalamessa ,perche’ hanno tutti le stesse impostazioni nei Detect Language e cioe’ non esistono traduzioni,ma sono Text Effettivi,sistemati in tante lingue:).
Fino a questo punto le cose erano normali e poi anche in questo contesto si sono capovolti i dati: non esiste nessuna Sitemap ,ma solo tantissimi Internal Links OUT e quando ho visto il CMS ,per la prima volta mi è venuto in mente di fare 1 EDITS ai content individuali:) 
E’ Adobe il CMS di Vatican.VA e quindi “l’alto livello”,almeno in questo settore ,non puo’ essere piu’ unito ad Adobe:)
Queste posizioni sono unite anche ai valori dei dati delle verifiche ,perche’ il CMS è una sezione importante delle ottimizzazioni ,ed ha anche notevoli costi il suo servizio e la differenza nei dati ,è ovvia,perche’ pochi domini hanno la possibilita’ di permettersi i costi:)
Escluso il dominio individuale (non ho nessuna possibilita’ di sostenere i costi:) e forse il nuovo dedicato ai dottori della Chiesa,tutti gli altri domini presenti a JAN 2021,sono largamente ottimizzati e questa posizione,serve per aggiungere un altra curiosita’ ,capace anch’essa di capovolgere i dati sistemati a DEC 27 e il riferimento è a GitHub 🙂
Ho sistemato la prima unione,ed è particolare essa stessa,perche’ il dominio è arrivato attraverso le posizioni di Microsoft Bing (GitHub è anche di sua prorieta’) e le descrizioni sono a DEC 27.
Ho poi aggiunto altre motivazioni per la scelta di GitHub e riguardano le posizioni delle categorie nel Business del Contesto Online e saranno presenti in successive pubblicazioni.
Dopo le 2 descrizioni per GitHub,mancava la terza e non è presente a DEC 27,semplicemente perche’ non la conoscevo:)
Nei capovolgimenti dei dati,è presente anche un fatto curioso e cioe’ è GitHub stesso un CMS e ovviamente inizia dal dominio diretto:)
Quindi i dati di JAN 2020 saranno davvero colossali ,perche’ al suo interno esiste di tutto e per comprendere i loro valori,saranno fondamentali le 2 Stelle Polari e mi sono anche limitato nelle presenze,perche’ nei capovolgimenti dei dati,è possibile sistemare anche tutti i contenuti dedicati agli strumenti automatici e in loro rappresentanza ,esiste il dominio per antonomasia unito agli Automated Content,ed è Wiki Cebuana:)
A JAN 2021 ha avuto un tonfo totale e non è presente nessuna Sitemap,ma solo tantissimi Internal Links OUT e hanno un po’ “ammortizzato la botta”:)
Esiste poi un altro capovolgimento dei dati ,ed è quello del dominio .BEST,dedicato a tanti autori celebri,tutti uniti insieme:)
In questo Caso,la Sitemap è presente ,pero’ contemporanemente esistono anche 4 Detect language in 1 solo dominio (almeno tra quelli conosciuti fino a questo momento:) 
E’ stata sufficente solo la 2° verifica,per avere il “tonfo totale”,mentre quelle generali sono arrivate alla 32°:)
Fino a questo momento,le descrizioni fatte contengono dati clamorosi e nei capovolgimenti dei dati,non sono nemmeno gli unici accadimenti ,dopo DEC 27, perche’ tra un po’ sistemero’ un altra posizione sublime e sara’ unita’ al Fattore Supremo rispetto a qualsiasi valore e sono gli archi temporali:)
Quest’immagine permette le unioni piu’ sublimi:)E’ all’interno del Just Time precedente (il collegamento è nel Din Colors Five) e in questa posizione cito solo l’unione con i capovolgimnti dei dati ,ed è molto semplice,perche’ nella pubblicazione originale, non avevo nemmeno citato l’evidenza:) 
Search Service
Factors Ranking EMD Brain Stone
L’unione sublime è proprio questa e rispetto alla pubblicazione del JUST Time,esiste anche l’evidenza diretta e ufficiale e cioe’ le Quotation Marks (è l’EMD dei deficenti:) ,non fanno parte assolutamente di nessun Fattore,ma sono solo 1 Servizio,pero’ sono all’interno di tutti i Fattori e di tutti gli operatori Insieme:)Esiste l’unione diretta anche con le verifiche di FGL Star Unique Content,semplicemente per le posizioni mancanti  nei contenuti interni dei domini : non è possibile conoscere se i periodi sono realmente originali ; se sono creati “in maniera naturale” ; se non esistono violazioni ai copyright ;se è presente il Main Content .
Attraverso il servizio è possibile conoscere i valori dei contenuti interni ai domini e in quelli individuali,i suoi reports sono negli RF e nei Just Time ,semplicemente perche’ se non fossero reali,non esisterebbero i loro dati:)
Confondere 1 Servizio con i Fattori,significa non aver seguito nessuna linea guida e tantomeno averle lette e questo è valido per qualsiasi posizione e l’unica alternativa a questo contesto,è il “Deceptive tactics” ,ed esiste solo nella mente degli idioti:)

I contenuti di questa immagine “non sono una novita’”,pero’ la loro posizione non è mai banale,sopratutto grazie all’evidenza e alla nuova posizione in cui è sistemata:)
Complete Idiots Brain Half TrueE’ la nuova pagina dei Brain Stone dedicata alle “mezze verita” all’interno dei Fact Check e ovviamnte,gli errori tra Fattori Reali e Servizi ,sono classificati solo nel Falso Completo:)
Per comprndere il livello dell’idiozia ,è sufficente sistemare la posizione “Mai Banale” ,del Most Trusted Source,ed è Google stessa e la sua percentuale è superiore al 90% in qualsiasi settore 🙂
Se vengono sistemati dei falsi sui contenuti diretti del primo Engine,ad iniziare dalla differenza tra Fattori e Servizi,è legittimo che possa esistere solo la completa idiozia ,ed è anche reciproca rispetto agli utenti che pagano i servizi:)
Avoid Thinks Not Things
Anche questa è una nuova pagina dei Brain Stone e l’unione con i passaggi precedenti è molto semplice ,perche’ l’unica cosa da eliminare sono i pensieri ,prima di commettere violazioni o abusi:) 
Non si possono eliminare “Le Cose” dopo averle fatte!:)
Quindi l’unica vera ottimizzazione è di Fare Contenuti Migliori:)
Don’t Deceive Your UsersIn quest’immagine esiste la migliore sintesi per le possibili ottimizzazioni,ed ha i contenuti piu’ semplici e cioe’ di Crearli Migliori:)
E’ valida per i Featured Snippet ,per i Mark e per qualsiasi altra posizione e non potrebbe essere diversa,perche’ i Featured Snippet,per la posizione specifica che hanno,sono il Top assoluto delle ottimizzazioni stesse e quindi il consiglio (Elevates IT per i content) è valido per chiunque 🙂
Queste 2 nuove pagine hanno un unione diretta anche con i dati dei contenuti interni delle verifiche,perche’ le posizioni dei Brain Stone sono tutte esterne ai domini e quindi è possibile avere anche dati buoni all’interno dei domini e pessimi in globale e se dovesse avvenire,i principali motivi sono negli abusi e violazioni di ogni genere (debbono essere i pensieri in Avoid non le cose:) ,ed è possibile che siano presenti contenuti falsi (comprese le mezze verita’ descritte nella pubblicazione collegata sopra).
L’immagine del Mark unito ai Featured Snippet ha poi anche un unione diretta con i contenuti che sistemero’ tra un po’ e il riferimento sono le ottimizzazioni stesse dei CMS e dopo Adobe,sara’ presente anche WordPress,attraverso il suo seo piu’ importante,ed è Yost:)
Dalla “sua mente” sono nati i Cornestone Content (il Mark è unito ad essi) e il malcapitato dominio ,è proprio quello del Simpatico Cardinal Cantalamessa:) 
I dati interni sarebbero anche molto buoni,pero’ sono fatti con 4 Detect language e il primo è l’Inglese e quindi gli altri diventano tutti dei Copied nel contesto globale:) 
Semplicemente esistono tanti altri domini che si occupano di Teologia ,ed hanno contenuti migliori ,anche rispetto al Predicatore ufficiale della Casa Pontificia e il CMS di WordPress non ha migliorato nulla:)
Questi sono gli account individuali per i primi 2 Engines e la posizione è unita ai passaggi precedenti ,peri motivi piu’ ovvi,rispetto ai contenuti interni dei domini.
E’ possibile avere anche dati ottimi (l’esempio sara’ il Cardinal Cantalamessa:) pero’ i contesti globali possono essere negativi lo stesso e questo dipende da semplici motivi :
è probabile che i periodi non siano originali ; non siano naturali ;esista la violazione del copyright; non esiste la piena comprensione dei contenuti e quindi sono coinvolte anche le strutture data e gli snippet; è possibile che non siano presenti i Main Content ,anche con elevate unicita’ interne,semplicemente perche’ sono diversi i contenuti tra di loro:)
Nei dati dei contenuti interni,queste Cose non si possono conoscere e altrettanto sconosciute sono le posizioni esterne ai domini e possono modificare completamente i dati interni.
Tante delle “informazioni esterne ” ai domini sono nei Brain Stone e per questo motivo sono nati gli RF e i Just Time e sono proprio Loro la migliore verifica ,grazie ai Servizi degli Engines:) 
E’ sufficente chiamarli Fattori e non servira’ nessun Fact Check,perche’ si è gia’ nel Falso 🙂

Questo è un Gran Colpo di Fortuna:)In 1 sola immagine ,esiste la sintesi perfetta dei passaggi precedenti e sono i valori reali dei dati 🙂L’immagine sopra ha anche la sintesi di Unnatural Developer Dati Now:)Il motivo è semplice perche’ ai dati occorre prima arrivarci e i valori reali nascono dal percorso completo e a permettere questo,esiste solo la conoscenza globale dei Content:)Dopo anni di Sync Google Keywords ,per la prima volta è presente StatCounter Keywords e l’aspetto piu’ importante ènei termini piccoli dell’evidenza (Has some account access).Esiste anche la 2° evidenza,ed è quella di Search Console e questa posizione è dovuta solo a un esempio e cioe’ ho creato il collegamento solo per 1 dominio (Key TD Archive) ,ed è registrato sull’Account Google ,pero’ non esiste l’Upgrade di Statcounter e quindi non si possono “sincronizzare le Keywords” e naturalmente,occorre prima possederle e a stabilirlo (o meglio a Deciderlo) ,non sono gli strumenti dei rilevamenti di base:)

Questo è il riferimento dell’account:)qui è sistemato il dominio principaleHo evidenziato l’Upgrade ,ed è sufficente la sua presenza per non avere nessun Sync Google Keywords ,ed è descritto nell’altra evidenza dedicata alla “Configurazione dell’Imposto”:)I collegamenti sono andati bene e le Keywords saranno importate,”Appena Sono Disponibili”:)Esiste anche una terza evidenza ,ed è unita al singolo Project e naturalmente ogni dominio ne possiede uno e non esiste nessuna somma dei loro dati:)Solo per curiosita’ posso citare che sono molto elevati anche per gli strumenti di base,ed è presente anche un aspetto paradossale:)Solo come esempio ho sistemato il nome delle pubblicazioni dalle esclusioni,ed esiste solo questa opzione senza upgrade:)E’ un paradosso fantastico,perche’ non sono proprio abilitati i Tags e i Target nel dominio e la migliore evidenza è nella Stella Polare della Sitemap,semplicemente perche’ non si possono cambiare le impostazioni a piacimento e la migliore evidenza è nei valori dei dati reali e non sono quelli dei rilevamenti di base:) Quindi il riferimento dei dati è almeno NOV 2016 e hanno piena garanzia e la migliore evidenza è nel 73° RF ,perche’ oltre ai Tags non sono abilitati nemmeno gli Archive e quindi per forza di Cose ,è stata la Sitemap a permettere l’INDEX  e le sue condizioni sono le piu’ proibitive per qualsiasi Match,perche’ i conflitti sono generali realmente e nel dominio individuale,solo per il numero dei Post ,significa avere conflitti con altre 1300 pubblicazioni,prima di arrivare ai Match Globali:)Queste sono le prime pubblicazioni eliminate solo per i Page Title:)Non occorrono le date perche’ esistono i nomi delle pubblicazioni ,ed essendo la Log Quota formata da 5 giorni,esiste 1 solo riferimento per le prime 2 posizioni,ed è il Just Time di DEC 20:) (non è presente la Homepage e quindi il nome del dominio e la 2° posizione sono in pratica la stessa pubblicazione)qui è sistemata un ulteriore espansione per Page Titleil prelievo è molto difficile ,pero’ esistono i dati sopra con i nomi delle pubblicazioni,ed è molto facile verificare che i dati sono veri:)questi sarebbero dei Bounce Rate se fosse presente l’opzione IncludeNon è presente in realta’ nessun Bounce e i dati temporali,non sono quelli di Facebook:)(sono considerati validi i dati dopo 3 secondi e i Bounce sopra ,arrivano a 15 secondi 🙂Sempre per l’esclusione dei Page Title,questo èil nome del dominio nei Bounce:)Su 185 presenze escluse in 5 giorni,non ne esiste nemmeno UNO:)Sono escluse anche le mie presenze e per verificare i dati reali,non servono nemmeno le pubblicazioni precedenti ,perche’ la migliore verifica dei dati,ègia’ presente negli RF e nei Just Time:)Il servizio degli Engines è utilissimo anche in questo Caso ,perche’ eistono gli archi temporali dei Crawling stessi e se fosse il Bling Fire di Microsoft Bing ,nei 15 secondi dei Bounce,arriverebbe a prelevare 7 domini completi,uguali a quello individuale e tutte le pubblicazioni presenti sarebbero in Bounce:)
I contenuti sistemati fino a questo momento,formano in realta ‘il contesto rispetto ai dati che seguiranno,perche’ sara’ semplice “contestualizzarli” e per farlo esiste 1 solo riferimento possibile,ed è quello della conoscenza reale di qualsiasi dato e valore e inizia dal Fattore reale piu’ importante,ed è il Long Time,ed è Escluso qualsiasi “Tempo Sensibile” e cioe’ i dati occorre averli giusti sempre e a differenza degli strumenti di base,non esiste nessun Upgrade da fare ,perche’ il Core Business è molto diverso:)
I contenuti dell’immagine sono nella nuova pagina dei Brain StoneE’ sufficente applicarla a tutti gli AVOID e ai passaggi precedenti e diventa semplice il motuivo per cui il LONG TIME è il fattore piu’ importante in assoluto:)
Dopo i capovolgimenti dei dati,rispetto ai contenuti di DEC 27,sempre a JAN 2021 ,è arrivato “anche il reindirizzamento piu’ elevato” rispetto ai valori reali e posso anticipare che è assai speculare al vero Core Business degli Engines:)
Con queste 2 immagini avviene “il reindirizzamento generale” ,rispetto a qualsiasi capovolgimento dei dati 🙂
Il riferimento sono i valori reali e quindi “i reindirizzamenti” ,riguardano anche le posizioni degli Idioti e sono avvenuti nella maniera piu’ semplice e cioe’ utilizzando dei fatti logici e veri insieme:)
I domini delle verifiche forniscono sempre tanti aiuti e a questo si unisce anche il contesto individuale e per descriverlo occorre aggiungere quello che è successo realmente 🙂
Il report è formato da 221 pubblicazioni e naturalmente non è possibile leggerle tutte ,per tutti i domini presenti negli FGL Star Unique Content e per arrivare alla pubblicazione sopra,esiste solo la curiosita’ e posso assicurare che è stata operativa “in maniera velocissima”:)
Il riferimento è solo la prima immagine di Content Marketing Institute (quella con le frecce di colore verde) e non ho visto assolutamente la seconda ,ed è quella che contiene l’unicita’ e anche la data originale della pubblicazione.
Mi ha subito incuriosito “le previsioni per l’anno 2030” e se fosse stato qualsiasi altro autore o dominio,non l’avrei preso nemmeno in considerazione 🙂  (anche Renzi Matteo ha parlato del 2030 ,pero’ non ha nessuna affidabiklita’ 🙂
Per Content Marketing la considerazione è invece notevole e appena ho letto 2030 ,non ho visto piu’ nulla e sono andato direttamente nei contenuti della pubblicazione:)
La data originale l’ho vista solo nel dominio ,ed è NOV 2019 e quindi è aumentata anche la curiosita’ di scoprire i contenuti  ,perche’ pensavo che le previsioni “contenessero anche la variante della pandemia da Coronavirus” ,pero’ la data originale indica l’opposto 🙂
Solo l’autorevolezza di Content Marketing ,mi ha suggerito di continuare la lettura ,perche’ fare previsioni per i prossimi 10 anni ,senza considerare “il contesto pandemico” ,mi sembravano “un po’ azzardati i contenuti”:) (tra l’altro il dominio non ha nessun EDITS e anche la pubblicazione specifica non ha avuto nessuna modifica ,dopo NOV 2019,nemmeno con l’arrivo della pandemia da Coronavirus).
Questo è l’inizio della pubblicazione e il riferimento è proprio l’anno 2030 e la migliore lezione per il Content Marketing è fornita dalla data originale ,perche’ è capace di superare anche “una variante colossale” come la pandemia da Coronavirus:)
Nella realta’ non è affatto difficile “fare previsioni nel Content Marketing” ,perche’ è sufficente unire la logica e il suo contesto è nei passaggi precedenti sistemati : è sufficente fare l’opposto dei Brain Stone e in pratica questa è la sintesi anche per i contenuti di Joe Pulizzi:)
E’ sufficente unire la descrizione del Content Marketing stesso: la sua Unica Ragione è nell’Organic o Natural Search e derivano dai Match dei termini.(la descrizione è presente anche nella sidebar)
Per unire i contenuti ho scelto la prima immagine della pagina dedicata agli AVOID nei Brain Stone:)L’ho scelta per rendere facile anche l’unione con il nome della pagina (AVOID Thinks Not Things) e l’immagine sopra è proprio perfetta ,perche’ non esiste nessun dubbio che gli AVOID sono uniti “Solo ai Pensieri da Eliminare” ,prima di commettere abusi o violazioni:) 
Se fosse possibile eliminare i Duplicati,non esisterebbe Piu’ l’Organic e sarebbe inutile anche vedere i “Tempi Sensibili dei Content” ,perche’ i Copied non esisterebbero piu’ e di conseguenza non esisterebbe piu’ il Content Marketing:)
Questa è la reale sintesi della pubblicazione di Content Marketing Institute e quindi la previsione del 2030 non è affatto “un azzardo” ,perche’ nella realta’ è possibile utilizzare anche il numero “piu’ Caro ai SEO” ,ed è quello “dei 200 fattori”:)
Tramite la sola logica ,è possibile fare anche una previsione tra 200 anni (ipotizziamo di essere nel 2221:) e i contenuti che ci saranno ,avranno dati identici a quelli sopra ,per la semplice ragione che non esiste nessuna loro alternativa,ad iniziare dalla logica stessa:) 
Qualsiasi sviluppo che avra’ il Contesto Online,anche i dati che ci saranno tra 200 anni ,saranno imprescindibili sempre dalla logica,ed è quella descritta sopra:) 
Questa è una sezione di Google Guide per i Servizi,ed è un ottimo esempio per mostrare “un po’ di logica”:).
La prima è la funzione stessa e cioe’ Servizio e chi dovesse classificarle come fattore è gia’ nel Falso ,ed è una penalita’ grave e se ci fossero altri Engines tra 200 anni,questa posizione sara’ sempre imprescindibile dai loro dati:) (non potranno mai esistere degli Engine come Alexa o i SEO,perche’ fallirebbero all’istante ,anche tra 200 anni ,perche’il Marketing delle Cazzate non potra’mai esistere:)
La stessa posizione sara’ riservata all’Operator “Author” ,perche’ anche tra 200 anni,i dati che ci saranno potranno avere solo 1 rilevanza in 1 dominio,qualsiasi Engines Esistera’ e questa posizione deriva solo dalla logica:) 
Di sicuro non esistera’ ,nemmeno tra 200 anni ,la “logica dei social” ,perche’ sono gli unici ad “Avere doppi Match” e cioe’ hanno quello dei termini e quello degli autori stessi,contemporaneamente,essendo 1 solo dominio in 1 piattaforma:) (quindi l’imbecillita’ è totale e tra 200 anni,sempre per logica,non potranno modificare nulla nemmeno ,qualsiasi imbecille ci sara’:)Nella sezione di Google Guide,tra gli operatori ho evidenziato anche “Insubject” ,ed è sistemata nei servixi gruppi e per unirla al Content Marketing è sufficente sistemare il riferimento dell’operatore e il termine “gruppi” ha come riferimento “i Servizi Google in generale” e l’applicazione è molto semplice ,perche’ è unita a 2 sole posizioni,in cui il termine “Match” stesso risulta positivo e cioe’ nel Business e negli Snippet.
Il motivo è il piu’ semplice dell’universo ,perche’ nel Business e negli Snippet è possibile sistemare solo i termini originali delle pubblicazioni ,pero’ solo dopo aver avuto i Match con gli altri domini:)
Non si possono sistemare i “termini a fantasia” ,ma occorre possederli per inserirli nel Business e negli Snippet e quindi,solo per logica,anche tra 200 anni non potranno mai essere diverse le condizioni:)
Struttura Snippet Brain Stone
Questo è un lunghissimo elenco di posizioni negative per gli Snippet e Strutture Data e riguarda proprio le Ads e a maggior ragione sono valide per i Content effettivi,semplicemente perche’ le Ads dipendono da Loro e in maniera esatta,dipendono proprio dai Main Content:)
Di conseguenza lo è anche il Content Marketing e anche in questo Caso, è facile fare la previsione anche per i prossimi 200 anni,ed è sufficente unire solo la logica:)

Questo è solo un esempio tratto dalla “lunga lista” e gli asterischi indicano le posizioni negative.
Ne sono presenti tantissime e poi esiste la posizione generale,ad essere negativa e sono i Match stessi dei termini e valgono per i Brands e qualsiasi altro dominio:)
Solo per Logica,anche tra 200 anni,nel 2221,le condizioni non potranno essere diverse,per forza di cose:)
Quindi la previsione di Content Marketing Institute è assolutamente ragionevole e rispetto alla realta’ della sola logica,per paradosso,è quasi “minimalista”:) 
Qui è sistemata la lunga lista delle posizioni negative per gli Snippet delle Ads
All’interno è sistemato anche il “Review Process” ,ed è lo stesso descritto per i Content:
Per avere le “Best Choice”,occorre inviare la Sitemap con il codice e solo a queste condizioni inizia la revisione 🙂
Il processo di revisione,ipotizando che abbia un inizio,serve per verificare i Match dei termini e dei domini a cui appartengono e solo loro possono sistemarli negli Snippet e nelle categorie del Business.
Anche in questa posizione è possibile aggiungere la logica dei 200 anni ,in maniera ancora piu’ pertinente,perche’ esiste la certezza ,che nemmeno dopo 2 secoli,possa iniziare il processo di revisione:)
Questa è la pubblicazione di Content Marketing Institute
E’ di NOV 2019 e sono le previsioni per il 2030 e ovviamente riguardano il Content Marketing Online e solo i suoi costi sono assai superiori alle Ads online e a loro volta sono maggiori rispetto all’unione di tutte le Ads dei mezzi di comunicazione tradizionale:)
Questo è solo il contesto per inserire la sintesi della pubblicazione,ed è sufficente solo aggiungere che i contenuti sono arrivati prima della pandemia da Coronavirus e non esiste nessun dubbio “che abbia un impatto sconvolgente” rispetto a qualsiasi contesto economico,tranne in quello Online:)
Lo è in maniera oggettiva ,perche’ senza il Web e tutta l’informatica,gli effetti della pandemia sarebbero stati assai peggiori e poi esistono i valori specifici del contesto online e i suoi dati derivano dalla semplice logica e nemmeno l’impatto devastante della pandemia ,puo modificare nulla.
Quindi Content Marketing Institute, ha fatto benissimo a non fare nessun EDITS,perche’ nel 2030 ,le condizioni possono essere solo quelle descritte sottto e posso assicurare che questa pubblicazione,nelle selezioni delle verifiche ,non l’ho mai vista prima durante tutto l’anno 2020 ,ed è arrivata proprio nel momento perfetto,perche’ fornira’ un notevole aiuto per il prossimo Din Colors Priority Time:) (iniziera’ a FEB 2021 e le sue basi nasceranno dal social marketing:)
https://contentmarketinginstitute.com/2019/11/future-marketing-success/
Questo è il link per esteso di Content Marketing Institute e contiene le previsioni per il 2030 e naturalmente possono anche essere utilizzate come comparazione nei confronti delle Ads online e a scalare nei valori,possono essere unite anche le Ads tradizionali ,tramite la somma di tutti i mezzi di comunivazione:) (da FEB 2019 esiste il sorpasso delle Ads online ,ed è sicuro che l’anno 2020 sia andato anche peggio “per i tradizionalisti della comunicazione”)
Se fossero sommate insieme le Ads,il Content Marketing ,avrebbe lo stesso un valore quasi doppio e il suo unico riferimento operativo sono gli Engines e quindi è facile comprendere quanto siano importanti i contenuti sotto:)
Questo è il motivo piu’ semplice,per arrivare alle previsioni del 2030 ,ed è possibile aggiungere altri dati alla logica ,perche’ non è necessario “diversificare gli spazi e i contenuti” ,per arrivare al Disastro ,perche’ esistono gia’ i Main Content “ISTITUZIONALI” e anch’essi sono nati dalla semplice Logica e cioe’ è da imbecilli totali ,pensare che nel contesto online possano esistere dei “Tuttologi” e tra l’altro,sarebbe anche materialmente impossibile “scrivere su tutto”:).
I Main Content sono nati proprio per questo motivo e quindi ,non occorre “passare tutte le esperienze” descritte dall’autore di CMI ,perche’ il Disastro è Sicuro ,prima d’iniziare le “multi esperienze stesse”:) 
A Content Marketing Institute “non esistono mezze misure” nelle espressioni e anche questa posizione ha una logica completa ,ed è possibile anche migliorarla:)
L’Organic Reach ha come riferimento proprio Facebook ,ed è possibile bypassare pure il fatto che non esiste nessun Organico in realta’ e nel contesto specifico, la situazione è anche peggiore,perche’ non solo sono presenti I Match normali dei termini,ma esistono anche i Match degli autori ,essendo sistemati in 1 solo dominio ,all’interno di 1 piattaforma:) 
Quindi il Peggio è Strutturale ,ed è facile fare previsioni anche peri prossimi 200 anni ,ed è sufficente unire solo la Logica:) 
Tanta Logica è fornita da Facebook stessa ,ed è sufficente vedere le sue “linee guida” e digitare Copyright e non esistera’ nessun report e questa è solo una delle loro posizioni unite ai Content 🙂 
Questa è un altra posizione fantastica di Content Marketing Institute ,ed è la prima pubblicazione in dimensioni a JAN 2021 e sono le previsioni per il medesimo anno:)
La pubblicazione dedicata all’anno 2030 è alla 5° posizione in dimensioni nello stesso dominio e dopo i suoi contenuti,tutto il resto “diventa quasi banale” e lo è realmente,perche’ non occorre aggiungere nessun dato,ma solo “la semplice logica” ,ed è possibile fare previsioni anche per i prossimi 200 anni:,ed esiste la sicurezza di azzeccare tutti i dati:)
Questa è la Stella Polare dei dati e aiuta tantissimo a comprendere quelli interni ai domini: restano sempre i limiti nella conoscenza dell’originalita’ effettiva dei periodi e della loro naturalita’ ,ed è possibile aggiungere tutti gli altri elementi del Natural Contest .Tra gli strumenti automatici ,nella naturalita’ dei contenuti ,è possibile sistemare anche i rewriters;gli stupidi correttori grammaticali e anche parziali contenuti tratti dalle traduzioni.
Tra un po’ ci saranno anche dei domini diretti a dimostrarlo e sarebbero di sicuro i Top “di questo particolare settore” ,se i loro dati avessero “qualche valore”:)
(saranno Text Broker per i rewriters e Wiki Cebuana per gli automatici in generale,perche’ esistono sia i contenuti diretti ad essere generati automaticamente e anche le loro correzioni grammaticali ,con EDITS e Paraphrasing “INCORPORATI” ,ed è sicuro al 100% che non esiste nessun altro dominio,ad avere le stesse capacita’ e le stesse possibilita’ tecniche di Wiki Cebuana:) 
W il Natural Brain e W Content Marketing Insitute:)
E’ gia’ scritto nella Stella Polare della Sitemap,perche’ nei dati interni dei domini esistono i limiti citati sopra,pero’ la sua presenza ,eleva tantissimo le differenze nei dati e nel Caso di CMI esistono oltre 6000 pubblicazioni presenti nel dominio ufficiale (i dati sono di alcuni mesi fa’ rispetto a questa pubblicazione e quindi è sicuro che sono anche aumentati e a dimostrarlo è la prima pubblicazione in dimensioni di JAN 2021 per CMI e la data è DEC 2020:).
Solo considerando le 2 pubblicazioni sistemate,esistono 91 pubblicazioni in Internal Links OUT ,per le previsioni del 2030 e 112 per la prima pubblicazione in dimensioni 🙂
Anche con i limiti delle verifiche per i contenuti interni ai domini,avendo questi dati,è facile prevedere come saranno i dati globali e possono essere solo ottimi:) 
Per Wiki Cebuana è invece l’opposto,perche’ i dati sono stati quasi sempre scarsi e a JAN 2021 è riuscita anche a fare peggio e non possiede nessuna Sitemap e quindi “il tonfo reale” “è stato anche ammortizzato” dai blocchi degli Internal Links OUT:) 
Ovviamente,la presenza della Stella Polare della Sitemap ,puo garantire i dati interni ai domini e poi ,se nel contesto globale ,si applicano tutte le cazzate dei Brain Stone, non ci sara’ nulla da fare e tantomeno da ottimizzare:)
Qui è sistemata la sintesi generale dei dati per Content Marketing Institute a JAN 2021
Sono state presenti 221 pubblicazioni e 2102 è stato il loro average e ha raggiunto il 60% in unicita’.
Con tutti i pregi uniti a CMI ,questo è il suo volume generale per JAN 2021.
Ovviamente inizia dal primo Detect Language ,ed è inevitabile che sia l’aiuto migliore per evitare i Match stessi:) (sono 10 volte maggiori i termini unici e oltre 60 volte quelli effettivi e quindi è piu’ facile di sicuro “fare contenuti diversi” e non rischiare conflitti con quelli dello stesso Detect language:)
Din Data Content Size
In questa nuova pagina di Key TD Archive sono sistemati i volumi a scalare delle verifiche interne ai domini e attualmente,alla 18° posizione ,esiste l’11° TPJ Level Content,ed ha un volume quasi simile all’attuale CMI di JAN 2021:) 
Questa è la posizione generale,per JAN 2021 nei contenuti individuali:)
Saranno anche sistemati nella pagina di Key TD Archive e per JAN 2021,attualmente esiste l’ottava posizione,pero’ i suoi dati sono meravigliosi lo stesso e la migliore evidenza è il contesto generale,da cui derivano i dati di Content Marketing Institute:)
Esiste poi anche il contesto oggettivo dei dati sistemati nell’immagine e l’arrivo di JAN 2021,ha fatto scalare alla 9° posizione,SEP 2019 ed è stato il primo Origin RF ONE ufficiale ,ed esistono “solo 1000 termini effettivi in differenza” ,pero’ è elevato il numero di pubblicazioni che le separa e sono 27:) 

Per avere i dati precedenti,per forza di cose sono diversi gli average:)
Se JAN 2021 avesse avuto il numero di pubblicazioni dell’attuale Origin RF ONE (234 Pub.) ,sarebbe arrivato alla 3° posizione generale e non è un ipotesi remota e teorica,perche’ gli average superiori esistono realmente e i primi sono quelli di SEP 2020 e quindi esistono anche le pubblicazioni per poterci arrivare:) (erano gia’ presenti 4 mesi fa’ e a maggior ragione potevano arrivarci le attuali:)
Restando sempre nell’ipotesi che JAN 2021 ,avesse avuto lo stesso numero di pubblicazioni (234),sopra di Lui ,esisterebbero solo i volumi ,rispettivamente, di SEP e JULY 2020:)
Il suo volume sarebbe stato maggiore di 751000 termini effettivi e questa posizione non è teorica, perche’ esiste realmente e l’ho sistemata per aggiungere i dati piu’ importanti: Esiste 1 sola posizione per i volumi e sono nati dal 5° dominio individuale e l’arco temporale da cui derivano le selezioni è vicino ai 6 anni:)
Sono sufficenti questi elementi per cambiare completamente il valore dei dati:)
Per i contenuti che seguiranno,questa è una posizione fondamentale per il contesto dei dati stessi e del loro valore:)
Ovviamente i contenuti della Bibbia hanno come riferimento le loro posizioni oggettive e sono gli average standard nelle dimensioni delle pagine stesse.
Queste sono le dimensioni della Bibbia in lingua italiana,vecchio e nuovo Testamento insieme.
Ho scelto la Bibbia sia per i contenuti che seguiranno e anche per il suo contesto diretto,ad iniziare dalle posizioni stesse per realizzarla:)
I dati derivano dal TFD Wiki globale ,ed esistono varie posizioni e sono quelle indicate sopra,ed è possibile calcolare un loro average ,ed è formato da 75 libri ,per 1 sola Bibbia:) 
Anche gli archi temporali sono formidabili ,perche’ il Vecchio Testamento inizia da 1500 anni Avanti Cristo e arriva a 90 anni Dopo Cristo.
Ovviamente sono elevatissimi anche il numero di autori e questa descrizione riguarda solo il contesto tradizionale:)
L’immagine è tratta sempre dalla nuova pagina di Key TD Archive (è anche qui) ,ed esprime il contesto piu’ semplice,ed è la rilevanza dei termini in 1 dominio e per forza di cose nasce dai Match ,ed è possibile che ne esista solo UNA e tutti gli altri termini sono esclusi.
Per avere le parita’ delle condizioni,è sufficente dividere gli average e moltiplicarli per i volumi e si avranno le dimensioni ,delle parita’ di condizioni:)
Questo sarebbe il dato necessario per avere le stesse condizioni di JAN 2021 nei Match dei termini e cioe’ servirebbero le dimensioni di circa 11 Bibbie in lingua italiana:)
Tra un po’ esistera’ anche un unione diretta ,perche’ ci sara’il dominio del Predicatore della Casa Pontificia e quello dei dottori della Chiesa ,a cui si aggiungera’ anche il dominio degli autori celebri:)
Anche questi dati sono capaci di evidenziare altre differenze ,ed è sufficente sistemare solo le selezioni dell’anno 2020 per JAN 2021.
Ne sono solo 12 e quindi ,per forza di cose sono state le altre 184 pubblicazioni ad elevare l’average e appartengono a tutti gli altri anni,tranne il 2020.
Quindi diventa anche evidente il volume generale ,perche’ questa è la 1300° pubblicazione solo nella sezione Post e poi è sufficente aggiungere altre decine di pagine interne e i prossimi 3,5 Milions di Keywords ,”sono capaci di evidenziarsi da soli”,senza nessun calcolatore:)
E’ una posizione importante,perche’ è capace di modificare anche i rapporti delle Bibbie ,per il motivo piu’ semplice: i suoi dati sono quelli definitivi,mentre JAN 2021 ha solo una selezione del dominio e poi esistono anche altre pubblicazioni.
Se fosse l’intero dominio,servirebbero oltre 70 Bibbie ,per avere le stesse condizioni nelle selezioni e nei Match ,ed è un dato fantastico, perche’ ogni Bibbia ha un average quasi identico,pero’ nelle diverse posizioni dei libri che le compongono:) (75 tra vecchio e nuovo testamento e l’arco temporale è formata da circa 1600 anni 🙂
Questa è un altra ipotesi sui limiti dei dati,nei contenuti interni dei domini,semplicemente perche’ non si conoscono i suoi valori e da Sola è capace di capovolgere anche “i dati piu’ brillanti”:)
Esiste poi il Caso specifico della pubblicazione inserita ,ed è descritta nei collegamenti di Din Colors Five, ed è l?Internet Banking “dell’Organizzazione Intesa” 🙂
Sono tanti i motivi per cui non esiste l’Elegibbilita’ dei Content e sono tutti uniti alle Strutture Data;agli Snippet e quindi alla Migliore Comprensione di tutti i tempi,ovviamente in Match con gli altri domini.
Qui aggiungo le cose piu’ semplici e cioe’i dati dell’immagine sopra,non sono piu’ modificabili e tantomeno da ottimizzare,perche’ il report sara’ unito ai “Time Sensitive Content” e non sono “affatto graditi” ,anche se ci fossero dati diversi in futuro:)
Questa posizione puo essere applicata anche a tutti i domini che partecipano alle verifiche e per farlo servirebbero gli RF e i Just Time per ogni pubblicazione e in questo contesto serve solo per ricordare i tanti limiti che hanno i dati dei contenuti interni dei domini:) 
Anche queste 2 immagini derivano dai contenuti di Din Colors Five Il loro contesto è poi generale e riguarda qualsiasi dominio e l’unione è nei termini evidenziati,semplicemente perche’ sono dei Text reali:)Solo da questa posizione si comprende molto bene perche’ esiste la non Eleggibilita’ per l’Organizzazione Intesa ,ed è dovuta proprio alle loro teste operative:) 
Hanno 28 Headers su 6 disponibili e il 70% in Anchor Text “nella mappa del sito” e la prima pubblicazione in dimensioni è Internet Banking e quindi è facile comprendere che teste operative esistono nell’organizzazione Intesa:) 
La seconda immagine è dedicata a Consob ,ed ho evidenziato il termine “MAPPA”,perche’ anche in questo Caso è un TEXT Effettivo e cioe’ hanno inserito proprio dei termini:)
E’ l’operazione opposta ai Text e Links in Hiden (cioe’ quelli non visibili dagli utenti) e diventa normale che si trasformino tutti in Copied: non vengono considerati i termini del Menu principale e quelli di navigazione,pero’ è possibile sistemarne solo 1 e se ne esistono altri,per forza sono in Copied tra di loro e rispetto ai contenuti che hanno tutte le pubblicazioni.
Sono esclusi anche i termini uniti agli Embed ,eventualmente presenti,pero’ gli elementi di quest’ultimi sono associati alle Strutture Data e anche loro fanno parte dei dati.(ho sistemato di recente l’esempio del Gold Star ,ed è anch’esso un embed e i suoi termini sono esclusi,pero’ o suoi valori sono nei report delle strutture data).

Le posizioni appena sistemate,sono utilissime per evidenziare i valori di quest’immagine:)
Il motivo è molto semplice,perche’ i grafici;le immagini e i video,hanno bisogno dei termini effettivi per raggiungere l’INDEX , ed eliminarli in maniera cosi’ banale, denota solo un alto livello d’idiozia:) (è sufficente evidenziarli e al 99% sono dei termini effettivi e saranno di sicuro in Match tra di loro e con tutti i contenuti del dominio in cui sono sistemati).
Gli altri domini presenti a JAN 2021 avranno una sintesi dei contenuti che pensavo di sistemare ,perche’ la pubblicazione ha gia’ dimensioni notevoli:)
Inizio dall’immagine piu’ simpatica di tutta la verifica e il dominio è quello del Cardinal Cantalamessa:)
E’ presente nelle selezioni e il Text è in lingua spagnola ,ed è fantastico il”DISCULPA”, perche’ la Colpa vera è esattamente l’opposto e cioe’ è possibile la presenza di 1 solo Detect language:)
I dati del Cardinale sarebbero ottimi ,pero’ nelle verifiche interne esiste anche questo limite e capovolge i valori reali dei dati:)

Per il simpatico Cardinal Cantalamessa esiste l’assenza della Sitemap e quindi i dati sono stati “largamente ammortizzati” ,grazie anche a 4 Detect language presenti:) 
Adesso ci sara’il nuovo dominio descritto a DEC 27

l’immagine è anche qui
Sono le 2 uniche pubblicazioni unite a Santa Veronica Giuliani e il dominio è arrivato grazie ad Essa:)
E’ l’Autrice Materiale del Contest Level Absolute e per dichiarazione diretta ,la vera Autrice è “Nostra Signora del Common Content” e nel dominio,tra i tantissimi autori,è sistemata nella voce “ALTRI”:)

Escluse le 2 pubblicazioni di Veronica,gli ALTRI,sono formati da 1496 pubblicazioni
E’ un immagine fantastica,perche’ è “quasi un Miracolo in diretta” :le collocazioni sono perfettissime e realizzate senza Sitemap:)
https://www.pasomv.it/testi/testivari/vg/#0
Questo è il link per esteso della pagina maggiore dedicata a Veronica e i “testi vari” lo sono nel verso senso delle parole:)

I testi vari,sono in realta’ degli Anchor Text,tutti all’interno di 1 pagina e formano un collage e quindi non esiste una pubblicazione unica.
E’ una posizione molto importante,perche’ il sistema rende meno probabile i match interni al dominio ,insieme all’assenza della Sitemap:)
La pubblicazione di Santa Veronica è quella da 12000 termini e a Jan 2021 non è presente nelle selezioni,pero’ aiuta lo stesso a comprendere il contesto del dominio:)
Questo è solo l’inizio delle dimensioni a scalare ,ed esistono dati incredibili e serve per citare un altro autore presente,ed è San Giovanni della Croce:)

Questo è un secondo miracolo in diretta,perche’ esistono i piu’ elevati Match mai visti nel numero di pubblicazioni:)
UNA contro 101:)
Solo i Santi potevano uscire indenni  da un contesto simile e naturalmente le selezioni citate sopra ,hanno aiutato tanto:)
qui è sistemata la sintesi dei dati
Sono state presenti 152 pubblicazioni e l’average è spettacolare ,ed è formato da 5585 termini effettivi e ha raggiunto il 92% in unicita’.
Esiste poi il contesto piu’ sublime e non ho fatto nulla di proposito ,ma è stato solo il Caso Supremo a “organizzare tutto” ,perche’ il dominio appena sistemato,è arrivato proprio il giorno di Natale:)

qui è sistemata la sintesi di Texto.Best per l’unione di autori celebri:)
Alla seconda verifica il tonfo è stato totale (sono passati dal 76 al 44%:) e occorre ricordare che le selezioni sono assai simili a quelle dei Santi e cioe’ non esistono pubblicazioni intere ,ma sono delle selezioni Esse Stesse:)
E’ indispensabile poi aggiungere che esistono 4 Detect language in 1 solo dominio,fino a questo momento, ed è probabile che i diversi work in progress ,aumentino anche il numero di lingue utilizzate:)
L’immagine originale di Wiki in lingua cebuana è quiE’ l’esempio perfetto “delle applicazioni automatiche in generale” e all’interno di Wikimedia ,ne esistono tanti altri con le stesse percentuali pero’ nessun altro dominio ha le dimensioni di Wiki Cebuana,ed è seconda solo a Wiki globale e le distanze non sono nemmeno tanto elevate:)
A JAN 2021 Wiki Cebuana è riuscita a fare un tonfo anche dai dati sopra:)
Questa è la sua 5° verifica e quindi i dati iniziano ad essere importanti :a JAN 2021 sono state presenti 210 pubblicazioni per Wiki Cebuana e ha raggiunto il 48% e l’ha fatto con uno degli average piu’ scarsi di sempre ,in generale:840 termini effettivi:)
Sono “dati fantastici”,ovviamente dal punto di vista di tutti gli altri “domini naturali”,perche’ le condizioni tecnico operative di Wiki Cebuana non li possiede nessun altro spazio:)

Per Wiki Cebuana esistono anche i dati sopra e riguardano tutti gli EDITS di Wikimedia.In questa posizione non cito tutte le unioni possibili,ma sistemo solo una curiosita’ divertente,da parte del TFD Wiki:)
La data del report degli EDITS è DEC 18 2020 e quindi,attualmente è di sicuro maggiore e l’aspetto curioso è la sua sistemazione stessa,ed è inserita nei Milestone di Wikimedia:)
E’ difficilissimo accorgersi dei dati,perche’ ne esistono oceani su Wiki globale e quindi figurarsi cosa sono quelli di Wikimedia:).All’interno dei Loro Milestone,pensavo di seguire i dati di Wiki Globale e arrivato l’anno 2010,esistevano “i festeggiamenti per il primo miliardo di Edits”:)
Sono anni che seguo i domini e i dati degli EDITS li conosco molto bene,almeno negli spazi a maggior dimensione di Wikimedia e mi ricordavo benissimo che Wiki globale,nell’anno 2020,ancora non ha raggiunto 1 miliardo di Edits:) (tra l’altro è molto vicino:)
La divertente curiosita’ è il fatto stesso che esista un Milestone per gli EDITS ,ed è “festeggiato per il primo miliardo dal 2010”:)
Queste posizioni rendono ragionevole il fatto che esistono tanti duplicati anche su Wiki e anche in questo Caso, è sufficente aggiungere la semplice logica agli EDITS stessi:).
Quest’immagine deriva da DEC 2020
Sono nelle linee guida di Wiki ,ed è molto difficile da rendere compatibile con gli EDITS e il senso è quello del Paraphrasing stesso (sono i riordini dei termini) e per conoscere,se esiste la sua presenza,è indispensabile la conoscenza dei contenuti originali e quindi non esiste nessuna compatibilita’ con gli EDITS:) Nella sidebar esiste anche il collegamento con il Plagiarism Patchwork e la loro applicazione deriva dalla semplice Logica,perche’ se Tutti,modificassero tutto,non eisterebbe il contesto online e sopratutto il suo valore:)
GitHub ,da JAN 2021 ,fara’ parte di FGL Star Unique Content e alcune motivazioni sono in DEC 27 (il collegamento è in Din Colors Five 1300) e per le dimensioni di questa pubblicazione ,ho aggiunto l’evidenza massima possibile ,ed è il Google Cloud Archive (sono in pratica i suoi database).Ho inserito solo l’esempio TFD,ed esiste l’Export dei codici su Github,ed è applicato a qualsiasi altro termine.
E’ la migliore testimonianza del livello stesso del dominio e poi esiste la sua collocazione aziendale e la sua Casa Madre è il TFD Microsoft e questo aumenta notevolmente il livello per l’Export di Google Cloud Archive:)

Sono sempre i contenuti i valori reali,anche per la regina dei codici:)
Inizia da 22 Match contro UNA pubblicazione e comunque il dato generale è molto buono,perche’ esistono quasi 60 pubblicazioni immuni:)
qui sono sistemati i dati per Github
Oltre alle pubblicazioni immuni,esiste un altro notevole aiuto,ed èl’average stesso di Github,perche’ non è “tra i piu’ elevati”,ed è formato da 1146 termini effettivi,per 228 pubblicazioni e ha raggiunto il 67% in unicita’.
A proposito di average,questo è il livello massimo,ovviamente per scritti effettivi:)

A MAR 2020 esiste il record assoluto degli average e nemmeno Encyclopedia è piu’ riuscita ad arrivarci e il “miglior tentativo di scalata” è arrivato proprio a JAN 2021,attraverso il TFD Plato:)
Plato ha avuto 13016 termini effettivi,ed è la prima volta ad aver superato la “soglia magica” dei 13000 termini:)

Sono altre oscillazioni della regina degli average e proprio a JAN 2021 ,ha compiuto 1 anno la sua presenza 🙂
L’aspetto fantastico dei dati,è l’unione con la Stella Polare della Sitemap,perche’ il dominio Encyclopedia la possiede,mentre non è presente nel TFD Plato:) Tramite questo “particolare”,cambiano tantissimo i valori dei dati per Encyclopedia e sarebbe anche molto difficile farlo,perche’ sono Ottimi gia’ in proprio:)

Anche questi sono dati fantastici,perche’ esiste “il minimo storico” per il TFD Encyclopedia,ed è avvenuto a MAY 2020 ,con 5246 termini effettivi:) (il minimo ha un senso solo relativo,perche’ di rado,non arrivano a questi dati nemmeno i domini Wiki,ad iniziare da quello globale:) (solo alcuni lo hanno superato,pero’ nessun dominio possedeva 1 solo Detect language:)
A JAN 2021, Encyclopedia ha avuto 224 pubblicazioni e il suo average è formato da 9167 termini effettivi e ha raggiunto il 93% in unicita’.
DEC 2020
I TFD Plato e Encyclopedia accolgono anche il Grande Dosto:)
Le descrizioni sono a DEC 2020 e questo è un anticipo per i dati che avra’ FEB 2021 e sara’ un modo fantastico per festeggiare i 6 anni di questo dominio:)
I TFD forniscono sempre i migliori aiuti e arrivano sempre al momento giusto e il Grande Dosto,ha portato in dono “anche tantissime comparazioni” e una delle migliori è proprio a DEC 2020,attraverso il RANK sistemato:) 
I particolari e i dati saranno a FEB 2021 e qui posso solo anticipare che gli “autori celebri Top” sono “rasi al suolo” dal Grande DOSTO:)
Sia nei Rank online e in quello degli autori ,nelle prime posizioni esistono solo “il Caro Leo” e il “Caro Willi” e a volte si scambiano solo le posizioni:)
Il Grande Dosto li “ha rasi al suolo” e anch’esso è un celebre autore,pero’ ha anche contenuti validi,in 1 solo Detect Language (russo) e i contenuti sono in 1 sola posizione e poi è possibile aggiungere anche i suoi average e per trovare le comparazioni con gli altri autori celebri,è necessario “radere anche il sottosuolo”:) 
Gli altri domini di JAN 2021 saranno nelle pubblicazioni successive e considerando solo il numero dei Post,sara’ la 1301° ,ed avra’ la pagina A+ del 74° RF:)
In questa posizione esiste solo il Din Colors Five per il Grande Dosto:)
Posted in Key Page Unit, TD Space Content
Just Time K2 Google Patent HB ✴
Posted on March 5, 2021 by Din Story AV
 Questo Just Time Google Patents K2 ,nasce nel miglior contesto possibile,perche’ arriva dopo le 3 HEROIC DC consecutive e sono proprio i termini ad Alta Rilevanza a Qualificarle e per Quantificare il suo livello,l’unico termine da poter aggiungere è Incredible:)La prima immagine dedicata ai 4 termini ha il collegamento proprio con il contesto incredibile e grazie ai contenuti di HEROIC DC 3, lo è al 100% e tutte le selezioni di questo Just Time Google Patents K2, sono nate da ESSO:) (l’Incredible Contest:) Da HEROIC DC derivano queste 2 immagini e mai prima l’IGNORE è stato cosi’ Rilevante:) E’ arrivato nell’Happy BirthMonth del 6° anno e posso assicurare di non aver fatto nulla di proposito,perche’ è successo tutto in maniera Naturale,ed è oggettivamente anche difficile immaginare il contrario,perche’ sono talmente elevati i contenuti dedicati ai vari Tags ,da rendere semplice supporre che “avessero qualche valore”:)Nei contenuti individuali è sempre esistito l’opposto e le migliori evidenze sono nei 3 mesi finali dell’anno 2020 (il collegamento è nel link iniziale di True Long Story) ,perche’ non esiste nessun Tags abilitato e la migliore evidenza è nel 73° RF:)E’ stato il primo RF e fino a questo momento anche UNICO, ad avere l’INDEX attraverso l’Archive e il particolare piu’ importante è il fatto che non è abilitato da sempre:)Quindi,solo utilizzando la semplice Logica ,eliminando tutti i Tags,restano solo i termini effettivi gli elementi davvero importanti e quindi diventa anche ragionevole la posizione di Google Search Central e altrettanto lo è il suo arco temporale,perche’ l’IGNORE piu’ RILEVANTE esiste dall’anno di grazia,2009:) La fortuna colossale deriva dal fatto che esistono i contenuti degli RF e i Just Time stessi ,sono nati per festeggiare “gli elementi meno citati” del contesto online e in realta’ sono i piu’ importanti:)  Questo è solo un esempio per la divisione dei Tags,ed è facile unirlo all’Incredible Contest di HEROIC DC e l’evidenza piu’ elevata,sara’ solo quella della LOGICA:)In questa posizione ne cito solo alcuni e negli Head Tags sono compresi i termini uniti ai nomi dei domini ;a quello delle pubblicazioni ; agli Headers stessi,ed è molto semplice unirli alla Logica dell’Ignore piu’ Rilevante di sempre, ed è il valore dei termini effettivi in cui sono sistemati anche gli Head Tags:)Lo stesso valore è applicato ai Link Tags e tra di essi,i piu’ citati sono gli Anchor Text e il loro potere reale,deriva sempre dai termini effettivi che li contengono,ad iniziare dal ruolo piu’ semplice e sono i Duplicate Links:) Nella realta’ non esiste nulla di semplice,perche’ in tanti casi,i termini sistemati negli Anchor Text sono formati da Match,presenti nella pubblicazione specifica o nel dominio in cui è sistemata e solo questa presenza, permette l’esistenza della LOGICA completa, rispetto all’IGNORE piu’ Rilevante:)E’ ovvio che dipende dai termini effettivi la loro presenza e l’aiuto dei termini unici,non potra’ esistere, perche’ se sono alti i Match dei termini ,significa che sono presenti rapporti negativi e cioe’ esistono tanti termini ripetuti e pochi unici:)Non potra’ fornire nessun aiuto,nemmeno la List Tags ,perche’ in realta’ è una posizione negativa essa stessa ,in quanto sono solo “una Lista di Keywords”:)Tutte queste posizioni e le altre presenti nell’immagine dei Tags ,appartengono in realta’ a tantissimi contenuti degli ottimizzatori ,ed è possibile sceglierli anche a Caso (inserendo anche l’opzione dei presunti migliori:) e diventera’ molto semplice comprendere la LOGICA dell’IGNORE piu’ Rilevante:)Per rendere semplici le ricerche,è sufficente sistemare gli elementi “meno citati” rispetto ai contenuti dedicati ai Tags (i piu’ imbecilli sono uniti agli Head 🙂 e sono i Termini Effettivi:)Qui è sistemato un suo esempio pratico:)Semplicemente sono i termini effettivi scritti fino a questo momento (prima del link:) e sono 635 e mancano “solo 500” termini per raggiungere i 3,45 Milions:)Questa posizione è proprio l’ideale per comprendere il motivo per cui esistono gli Ignore dei Tags,in tutte le loro forme ,ed è sufficente collocare i termini effettivi, nella loro giusta posizione,ed è quella dei Main Content:)  Nessun termine unico,per quanto sia rilevante,puo avere questa funzione e quindi,solo per LOGICA, esiste l’esclusione delle loro liste e i 4 termini protagonisti di questo Just Time Google Patents K2,rappresentano la migliore evidenza,perche’ nessuna combinazione da 4 termini,ha mai avuto il 100% delle presenze nelle Alte Rilevanze del primo Detect Language:)  Sono tanti i contenuti ancora da aggiungere e aspettando il CounTop dei 3,45 Milions di termini effettivi, aggiungo un altra posizione LOGICA ,ed è il livello stesso del contesto tecnico online e in questa posizione ,è possibile utilizzarlo per il “fattore piu’ semplice”,ed è la determinazione del “Falso Intellettivo”:) I rapporti migliori,rispetto a qualsiasi dato, sono quelli tra i termini effettivi e i loro unici ,ed esiste la “Benedizione Suprema” di Google Search Central, attraverso una LOGICA,talmente elevata,da sembrare quasi banale:)Nella realta’ non lo è affatto, perche’ la nascita dei dati e i loro valori, hanno solo la possibilita’ di essere naturali e lo sono realmente ,in tutto il contesto online e anche questa posizione ha una logica, ed è la SUA esistenza stessa:)Per verificare “i Falsi Intellettivi”, è molto semplice, perche’ i valori reali derivano dalle proposte complessive dei Main Content e non esiste nessuna alternativa alla loro naturalita’, perche’ sono talmente elevate le condizioni delle selezioni, da rendere possibile solo la presenza del Natural Contest e dai termini effettivi presenti:)

Attraverso questi contenuti è facile anche avere la LOGICA ,rispetto agli Ignore dei Tags:)Il riferimento dei seo, non riguarda le “loro operazioni avanzate” , ma è una posizione oggettiva del primo Engine al Mondo:)Inizia dall’evidenza di colore blu e cioe’ non esiste nessun Tool capace di fornire reportas validi e in questa posizione è sufficente aggiungere l’esperienza di tanti anni e cioe’ ,anche gli strumenti piu’ sofisticati, non sono in realta’ capaci di unire nulla:)In questo Caso non esiste l’evidenza,pero’ è altrettanto facile sistemare degli esempi ,uniti all’esperienza e sono i tantissimi fattori dei seo stessi ,attraverso i loro “decantati tool” ,rispetto ai contenuti stessi delle General Guidelines:)In tanti casi ,esistono anche degli enplein e solo per citare “un simpatico protagonista” (il riferimento è ai sensori di Semrush sulle fluttuazioni:) ,non solo hanno sempre sbagliato i dati per anni ,in maniera imbarazzante pure , ma non hanno nemmeno i fattori reali a disposizione:)Esistono “oceani di contenuti a testimoniarlo” e nei Brain Stone esiste una fantastica guida per trovarli ,ed è sufficente applicare le sue sezioni e si avranno tutti i “NoFollow delle linee guida”:)E’ ovvio che dai loro dati non nascera’ nessun valore reale e altrettanto dalle altre evidenze dell’immagine di Google Search Central e l’unione con gli Ignore dei Tags ,rispetto agli elementi piu’ importanti,è molto semplice , perche’ tutti i dati sopra, hanno come riferimento 1 sola pubblicazione e per comprendere il valore reale dei termini effettivi,occorre sistemare le proposte complessive e cioe’ i Main Content:)Diventa molto semplice,il fatto che nemmeno le liste delle migliori Keywords e delle loro combinazioni (tralasciando anche il ruolo delle Close Variant) ,possono modificare nulla,rispetto al ruolo dei termini effettivi e nei contenuti che seguiranno,si comprendera’ ancora meglio!:)

Questa è un altra unione fantastica a favore dei termini effettivi:)Rispetto all’immagine precedente,in questa posizione si passa alle proposte complessive,ed è molto semplice evidenziare i valori reali:)Inizia dal fatto che la scelta del “Primary Language” è nella 4° posizione e non occorre nemmeno sistemare le altre,perche’ esistono gia’ i contenuti di NOV 2020 (il collegamento è nel link di True Long Story) e riguardano proprio i linguaggi utilizzati,ed è possibile sceglierne solo 1 e se ci fossero delle traduzioni,scritte attraverso TEXT Effettivi o contenuti di altri Detect Language,rispetto a quello scelto,tutte le pubblicazioni coinvolte saranno automaticamente classirficate in Duplicati .Ovviamente questa posizione puo nascere solo dai termini effettivi e non sono presi in considerazione “gli eventuali termini rilevanti presenti” e tantomeno ,possono fare differenze i Tags  ,perche’ diventera’ inutile anche sistemarli:)Quindi diventa Logica e Naturale la presenza degli Ignore di Google Search Central dal 2009 ,per tutte le forme dei Tags,perche’ la loro vera operativita’ è sempre “sotto il giudizio” dei termini effettivi che compongono le pubblicazioni.E’ fantastico anche l’AVOID presente e tramite i Brain Stone  è semplice classificarlo , nei valori reali:qualsiasi AVOID ha un unico riferimento, ed è l’eliminazione dei pensieri ,prima di commettere abusi o violazioni di qualsiasi genere e l’esempio sistemato nell’immagine è palese al massimo livello ,perche’ è ovvio che non si possono eliminare i contenuti in multipli linguaggi , dopo averli sistemati:) (occorre pensarci prima di fare cazzate,perche’ non hanno possibilita’ di essere recuperate in nessun modo:)Esiste anche una seconda evidenza fantastica nell’immagine,ed è quella di Android: ufficialmente è sistemata per mostrare la selezione tecnica dei vari linguaggi e poi esiste la sua posizione oggettiva , ed è il maggiore sistema operativo al mondo,per qualsiasi Device e con questo contesto,diventa ovvio la matrice dei valori e dei dati stessi e non per le affermazioni di Google,nonostante siano elevatissime, ma per la logica stessa dei valori:)Questa descrizione era unita alle selezioni che pensavo di fare per questo Just Time Google Patents K2 e la posizione delle immagini sopra ,era unita alle Strutture Data e al loro interno esistono anche i Fact Check e tutto l’insieme ,fa’ parte solo di 1 elemento del Natural Contest ,ed è la migliore comprensione di tutti i tempi:)Posso anticipare che nei contenuti che seguiranno,sara’ evidentissima al massimo,ed è superato anche “l’Incredibile Contesto” sistemato all’inizio di questa pubblicazione,grazie a un idea unita ai 4 termini festeggiati in K2 e sono i “tradizionali Honors Tour” dei Just Time.Il riferimento temporale è sempre SEP 2018 ,ed è la data della nascita della pagina dei Brands:)

I contenuti di quest’immagine permettono l’unione completa con quelli di questa pubblicazione e con HEROIC DC:)All’apparenza  sembra “una semplice lista dei Claim” e per comprendere la sua vera importanza,è sufficente descrivere l’ultimo periodo e anch’esso “ha un apparenza semplice” ,mentre la sua realta’ ,è molto piu’ complessa:)E’ facile comprenderne il senso,perche’ la “Lista dei Claim per i Fact Checks” ,non viene approvata da Google per ognuno di ESSI ,in 1 pubblicazione e a almeno per il momento,esiste 1 solo prelievo per “verificare la verita’ dei fatti”,sempre in 1 pubblicazione e naturalmente,la selezione “Non è Decisa dagli Utenti”:)A queste condizioni sembrerebbe una realta’ semplice ,perche’ esiste 1 sola selezione per 1 pubblicazione (il riferimento è sempre la data di questa pubblicazione e potrebbero esistere condizioni diverse tra qualche mese) e il Supreme Engine ,in maniera ufficiale,dichiara che non tutti i Claim vengono approvati:)Ad essere semplice ,resta solo il passaggio “verso la realta’ complessa” e capovolge tutta la lista dei Claim,perche’ i valori reali,non appartengono a 1 sola pubblicazione ,ma alle proposte complessive dei Main Content e non è casuale il fatto che è lo stesso percorso dei termini effettivi e la loro unione è nell’unicita’ e naturalita’ dei Content:)Per verificare “i loro effetti” è molto facile,ed è sufficente comparare “la lista dei Claim sopra”,con le Several Pages Claim Review, perche’ quest’ultime,hanno una presenza molto diffusa e nascono “dalle condizioni,apparentemente semplici” descritte sopra:) Le Several Pages Claim Review ,apriranno un contesto fantastico,dedicato solo ai Fact Check,attraverso un numero incredibile di tools e formeranno tanti contenuti delle future pubblicazioni e in questa posizione cito solo alcune presenze:nei prossimi Din Colors Priority Time ci sara’ l’AGI ,ed ha “un suo Fact Check” (è l’unione dei giornalisti italiani) ,ed hanno anche una “concorrenza interna”, attraverso il Fact Check specifico ,di un altra testata giornalistica,ed è quella del “Sole 24Ore:)Esistono tantissime pubblicazioni dedicate (una di esse è la 2° Security Online del 2015 ) e solo con i contenuti del Sole 24 Ore,sarebbe possibile aprire un altro dominio (solo per Google ,digitando Sole 24, esistono 157 pubblicazioni:) e l’unione in questa posizione,deriva dal fattore piu’ semplice dei Fact Check,ed è la Credibilita’ stessa degli operatori, nella Ricerca della “Verita’ dei Fatti”:)Sono sufficenti solo i contenuti della pubblicazione sopra ,per rendere nulla qualsiasi Credibilita’ del quotidiano economico e i Fact Check ,non possono avere “fasi alterne” e il Sole 24Ore ne ha tantissime ,ad iniziare “dai suo conti diretti” e sono “assai fallaci”:) E’ sufficente sistemare i termini “Asset e sole 24 ore” e si avra’ il senso pieno “dei conti economici fallaci” ,ed esiste anche la fortuna di avere “ricerche brevi”,perche’ i termini hanno anche basse rilevanze:)L’unica vera rilevanza è in questo contesto e lo sara’ anche per le future pubblicazioni ,perche’ i Fact Check hanno delle collocazioni incredibili e sopratutto non esiste la sua unione reale e operativa ,perche’ la verita’ dei fatti,puo nascere solo se esistono content originali e naturali:) Tra un po’ sistemero’ altri contenuti,uniti agli strumenti dei Fact Check e prima di farlo, inserisco il contesto opposto e nasce dalla credibilita’ stessa:) La Credibility nasce dall’Incredibile volume sistemato sopra:) E’ possibile applicare infiniti contenuti gia’ esistenti e solo per citarne UNO, è sufficente sistemare “SERVIZIO” vs Fattore e attraverso questa posizione,diventa gia’ molto semplice comprendere i dati sopra:).Esistono poi i contenuti diretti scritti in questa pubblicazione,ed è possibile unire il passaggio appena sistemato dei Fact Check,perche’ sono tutti presenti all’interno dei volumi sopra ,pero’ attraverso una differenza fondamentale,rispetto alle miriadi di tools che si occupano dei Fact Check (compresa la versione premium del sole 24 ore:) e deriva dal fatto che i dati sono reali e per esserlo,esiste la differenza piu’ importante,rispetto a qualsiasi altro tools e cioe’ i contenuti si conoscono realmente ,in maniera esattissima e completa ,ad iniziare dalla nascita effettiva dei periodi e dalla loro naturalita’:)Con il volume sistemato sopra per i 4 termini ,non sapevo come “Organizzare l’Honors Tour” ,perche’ è talmente elevato,da rendere difficile creare un “contesto adeguato” e il dubbio è durato pochissimo tempo, perche’ la soluzione è arrivata subito,grazie a HEROIC DC e a UNA sua presenza,ed è la Natural Search:)Il collegamento è nell’immagine iniziale ,ed è sufficente inserire i suoi contenuti anche in questa posizione e diventeranno molto semplici i contenuti che seguiranno:)  Attraverso la Natural Search è arrivata l’idea delle impostazioni sistemate sopra e solo all’apparenza sembrano semplici 🙂Nella realta’ sono assai complesse e per evidenziarle meglio,occorre aggiungere tanti particolari e la posizione finale,avra’ il senso pieno della Credibility,unita ai Fact Check e a qualsiasi altra cosa:)Inizio citando l’unione diretta con HEROIC DC e dopo la Natural Search ,esistono tutti i Tags Ignorati e di conseguenza possono esistere solo i termini effettivi ad avere valore reale e l’unione con i 4 termini festeggiati è molto semplice,perche’ i valori derivano dalle proposte complessive dei Main Content e quindi i veri festeggiamenti ,nascono direttamente dal Taken Din Colors Five:)Solo questa posizione modifica tantissimo i valori dei termini effettivi che contengono i 4 Super Rilevanti,perche’ i Match e quindi l’eliminazione dei termini,possono arrivare da qualsiasi pubblicazione e non esiste nessuna necessita’ che siano presenti i 4 termini rilevantissimi:) E’ sufficente togliere gli effettivi in cui sono sistemati e non avranno nessun valore,nonostante la loro rilevanza e questa operazione puo essere fatta ,attraverso qualsiasi termine,di altre pubblicazioni:)Nel Taken Din Colors Five,esistono “tante possibilita’” di eliminare i termini effettivi e tra un po’ ci sara’ la “consacrazione pratica”, perche’ i 500 termini effettivi mancanti ai 3,45 Milions sono gia’ passati:)Prima di sistemare i dati,inserisco il collegamento con il 74° RFAl suo interno esiste la posizione esatta unita ai Quantum Computer e a loro volta, è presente anche la descrizione nei confronti della loro commercializzazione e il problema di questo contesto,non è di Google,ma dei suoi “Competitors” 🙂Il riferimento diretto è al TFD Intel e alla posizione dell’azienda,perche’ è all’interno di tutti i Super Computer esistenti e quindi ,a differenza dei complimenti formali fatti a Google, in realta’ il TFD Intel è un po’ dispiaciuto,dei suoi successi tecnici:)Probabilmente,proprio per questo motivo,il direttore di Intel Lab ha utilizzato il “contesto commerciale” per sminuire il valore del successo tecnico di Google e la scelta è stata “poco intelligente” ,perche’ Google non ha nessuna necessita’ di commercializzare il Quantum Computer,perche’ è ESSA stessa ,la prima ad averne beneficio,attraverso “la sua normale operativita’”:)Comunque,questa posizione è fantastica,perche’ i 4 termini festeggiati ,hanno proprio l’unione con il Quantum Computer e non è un dominio qualsiasi,ma quello ufficiale di Google stessa e la sua indicazione deriva proprio dalle General Guidelines:)Esistono pochissimi links al suo interno,su oltre 60000 termini effettivi in 1 sola posizione e UNO di essi,è dedicato al dominio ufficiale e nell’universo BIG G è davvero difficile trovarlo,perche’ ne esistono tantissimi e ovviamente sono tutti rilevanti ,pero’ 1 solo è il dominio ufficiale,ed è il TFD Google the keyword:) La proclamazione a Top Friend Din ha sempre delle motivazioni esatte,perche’ nascono da aiuti fantastici e arrivano con tempistiche straordinarie:)Esiste la pagina dedicata a testimoniarlo e per tutti gli altri TFD sistemati,è sufficente inserire i loro nomi nella ricerca interna e si trovano subito le motivazioni per cui sono stati proclamati Top Friend Din:) Per il TFD Google the Keyword la lista è lunghissima: esistono le Close Variant ; le Fluttuazioni Ufficiali  insieme agli update stessi degli algoritmi (per anni,il massimo è stato 600 Update mentre i dati ufficiali dicono 3200 e la differenza nelle fluttuazioni è abissale:); sempre da Google the Keyword sono arrivati anche le Long Standing Webmasters Guideline e il Taken Against Content Generally ; di recente sono arrivati anche i dati ufficiali degli INDEX (100 Milions di GB) e contemporaneamente sono presenti anche i DE-Index in 1 giorno e il volume corrisponde a 20 Milions dell’opera “War & Peace” del Caro Leo Tolstoy:) (è composta da 560000 termini effettivi e quindi è facile fare i calcoli delle fluttuazioni reali,solo in 1 giorno:)Mancava solo l’unione sistemata in questo Just Time Google Patents K2 , proprio con i Quantum Computer e il loro contesto originale è unito alla Credibilita’ stessa ,ed è descritta nel Gold Star atttuale della 7D. E’ nel suo 2° RF e da esso è nato anche Google Patents e la prima unione è proprio la Credibility,ed ha un riferimento esatto e riguarda il piu’ devastante attacco informatico della storia,ad opera della Cina:)Il primo obiettivo era proprio Google ,ed è comprensibile anche “l’incazzatura anche della Cina” ,perche’ ha investito dei patrimoni economici per il “loro primo Engine” e i dati ,fanno schifo anche ai cinesi:) (è l’unico Engine ad essere nato dopo il gigantesco firewall dedicato ,ed è anche il piu’ grande al mondo e l’unico scopo è stato quello di bloccare gli altri Engine ,mentre nel resto del mondo,per Baidu,esistono condizioni completamente capovolte:)Il piu’ grande attacco informatico è nato da questo contesto e quindi,per forza Google era il primo bersaglio e non esiste nessuna azienda informatica o meno che abbia mai dichiarato “di essere stata colpita” ,tranne UNA:)E’ nei dati di Google stessa e da questa posizione è nata la Credibility e l’unione con i contenuti di questa pubblicazione,avviene attraverso il nome stesso dell’attacco:)Nel 2° RF della 7D ,sistemato nel Gold Star attuale,esistono poi altre descrizioni e qui inserisco solo “l’unione essenziale”,ed è proprio il nome del principale attacco informatico della storia:) Il nome è proprio quello sistemato sopra  (Aurora Attack) ed è nato grazie ai laboratori McAfee e quindi Intel e hanno scelto di unire anche lo stesso nome al loro Super Computer e non è “uno qualsiasi”,ma era il piu’ potente ,nella comparazione con i Quantum Computer:)Ho utilizzato il passato remoto,perche’ rispetto alla pubblicazione originale (DEC 2019,sistemata qui ) esiste un nuovo Top nei Super Computer ,ed ha un unione davvero particolare,perche’ indirettamente ,è sistemato nel Natural Contest dedicato a Big Data:)Lo sistemero’ tra un po’,mentre adesso inserisco il passaggio dei 50000:)   Sono 3463 i termini effettivi scritti fino a questo momento:)Servivano 1124 termini effettivi per arrivare all’ incredibile livello di 3,45 Milions e il contesto delle dimensioni è completamente diverso rispetto a “quello tradizionale” ,semplicemente perche’ esiste 1 sola posizione in cui sono sistemati i termini e la loro unica applicazione è nel Natural Contest e per verificare la sua esistenza ,sono sufficenti i dati degli RF e dei Just Time:)Occorre solo sistemare i contenuti complessivi di 1 dominio e poi vedere i volumi prodotti dai termini e per paradosso,le migliori evidenze verranno fornite dai “falsi Fact Check” e sara’ sufficente vedere gli strumenti operativi “che producono i dati” e unirli ai domini dei loro reports ,per comprendere quanto sono elevate le differenze:) il passaggio precedente dei 3,4 Milions è avvenuto all’interno del Natural Contest dedicato a Finance Airline  Dopo la felice sosta dei 50000 termini effettivi , continua la posizione incredibile dei fantastici 4 termini unici 🙂
 E’ proprio questa la pubblicazione unita allo snippet di Google the keyword e non esiste nessun dubbio che sia davvero un Milestone il primo Quantum Computer  e la conferma arriva anche dall’autore della pubblicazione ed è il CEO di Alphabet e quindi di Google stessa:) Nelle pubblicazioni collegate sopra esistono i rapporti tecnici  e nei contenuti del CEO di Google ,esistono delle “semplici considerazioni” e saranno formidabili da unire ai Fact Cecke il senso è gia’ descritto nei contenuti originali:)Attraverso 200 secondi del Quantum Computer è possibile realizzare gli “algoritmi piu’ noti” e i migliori Super Computer attuali ,impiegherebbero migliaia di anni per fare le stesse operazioni:)Fino a questo punto ,le descrizioni sembrano normali e per comprendere il loro senso effettivo, occorre sistemare dei contesti specifici: il primo è il numero di Super Computer stessi e nella pubblicazione originale collegata sopra esiste gia’ un elenco e nessuno di essi è all’interno della comparazione di Google,tranne UNO ,ed è proprio il Super Computer Aurora di Intel.Non è possibile nessuna confusione ,perche’ nei Super Computer ,esistono solo 2 presenze a superare 1 Exaflops :il primo è stato Aurora e il secondo,lo ha appena superata:) E’ un Caso Fantastico questa posizione,perche’ esiste gia’ dei suoi contenuti ,senza conoscere il livello dello sviluppo sopra:)Il riferimento è ai contenuti del Natural Contest 4 dedicato ai database:)Esiste proprio HP Enterprise e il problema dei database è la pertinenza nell’unione dei dati e nemmeno i Super Computer sono capaci di arrivarci e questa posizione è la migliore da unire ai dati del CEO di Google e cioe’ i 200 secondi del Quantum Computer ,sono equivalenti a 10000 di operazioni delle macchine informatiche piu’ potenti attuali ,per produrre i piu’ noti algoritmi:)Il problema nasce proprio a questo punto,perche’ esistono differenze abissali tra gli algoritmi stessi e a questo contesto è possibile aggiungere anche le loro applicazioni: la logica è molto semplice ,perche’ non è possibile comparare l’algoritmo Panda (Conternt di Google) ; l’algoritmo Penguin (links) sempre di Google ; il Rank Brain , a qualsiasi altro algoritmo presente nel contesto online,perche’ le differenze sono talmente elevate ,da renderle visibili “a vista d’occhio” e possono essere anche quantificare,ed è sufficente vedere i reports e sopratutto la pertinenza degli altri dati:) Esiste poi il ruolo del Natural Brain,perche’ gli algoritmi li possiede anche facebook e vista la qualita’ dei suoi content ,probabilmente saranno stati realizzati “da Mini Computer a 1 solo Flop”:)Comunque,per facebook e tutti i social ,anche se utilizzassero gli algoritmi piu’ sofisticati ,esisterebbero sempre dei grandi problemi e il piu’ importante è la loro applicazione e ne potra’ essere solo UNA e sono le linee guida degli strumenti stessi:)Se,per esempio assurdo, venisse deciso di abolire le penalita’ dei Copied, nelle Guidelines,gli algoritmi si comporterebbero di conseguenza e quindi, il valore piu’ elevato deriva sempre dal Natural Brain:)Questi sono i dati di “EL CAPITAN” di hp Enterprise e sopra di esso,nei Super Computer non esiste nulla e nel conteso degli exaflops è presente solo Aurora di Intel e arriva a 1,6 Exaflops ed è stato il riferimento tecnico per gli archi temporali della Glory Tech e sono gli stessi anche di questi contenuti e dei termini festeggiati in K2 e significano 2 anni e il merito non è dei termini della pubblicazione specifica che li contiene,ma quelli complessivi del dominio:) Questa è la vera verifica,insieme a quella degli RF e i termini ad Alta Rilevanza ,restituiscono un aiuto formidabile ai termini effettivi che li contengono,perche’ diventano anche la loro migliore Qualifica e di conseguenza ,ogni pubblicazione degli RF e dei Just Time,produce in realta’ altre migliaia di combinazioni dei termini,anche se non sono tutti rilevanti:) (lo diventano per “interposta Keywords” e lo sono realmente,perche’ hanno contenuto i termini piu’ rilevanti e il valore è applicato a tutto il dominio:)  Queste sono le potenze applicate alle operazioni in exaflops e per arrivare ai calcoli temporali di Google, (200 secondi,contro 10000 anni del piu’ potente Super Computer) è sufficente sostituire la potenza applicata a 10 (18) e inserire 333:)Non è la sola differenza ,perche’ esistono anche i “floating point” e fanno parte dell’informatica classica (le operazioni vanno da 0 a 1) ,ed è completamente differente rispetto al Qubit (è l’unita’ di misura del Quantum Computer) ,perche’ “fluttuano in ogni direzione” e sono capaci di aumentare anche le potenze.Da questo contesto nascono i riferimenti temporali di 200 secondi contro i 10000 anni dei Super Computer attuali e a differenza delle idee del direttore di Intel Lab (si preoccupa del contesto commerciale di Google:),esistono gia’ le applicazioni,operativamente,assai simili al funzionamento stesso del Quantum Computer ,ed è BERT:)La Bidirectional,assomiglia molto alle fluttuazioni del Qubit in ogni direzione e unendo anche la conoscenza tecnica del Quantum Computer,possono migliorare anche posizioni tecniche gia’ elevatissime:)  Adesso iniziano le unioni dirette dei termini festeggiati in questo Just Time Google Patent K2 e ho risistemato la sezione dell’immagine ,perche’ dopo le 2 unioni citate nei passaggi precedenti,ne esiste anche una terza ,ed è la pubblicazione stessa che contiene i 4 termini,ed è unita al Gold Star della 5D:)Sono proprio i sistemi operativi i protagonisti ,uniti a loro volta anche al 5G (il collegamento è nel Gold Star,ed è sufficente digitare quello della 5D) Tra i protagonisti esistevano anche gli elementi sopra,convinti sostenitori, dei “sistemi operativi cinesi” 🙂 (in realta’ non sostengono nulla,semplicemente perche’ non hanno nessuna infiormazione reale:)  Questi sono i sistemi operativi attuali in Cina per i mobili e sono migliori anche rispetto all’anno 2018:)Questi sono i dati della macroregione asiatica,validi per tutti i device. Esiste l’unione citata sopra con la pubblicazione che ha materialmente al suo interno i termini festeggiati e i suoi contenuti sono nati grazie ai sistemi operativi e da essi è facile arrivare alla LOGICA stessa dei dati:) Potra’ essere solo all’interno delle indicazioni dei reports appena inseriti e la macroregione asiatica è un Test elevatissimo,perche’ la Cina ha la sua meta’ in utenti e la macroregione stessa è maggiore della meta’,rispetto all’intero contesto globale:) Queste sono le divisioni ufficiali delle macroregioni e colpisce l’estensione di RIPE ,pero’ resta sempre APNIC,lamacroregione con il numero maggiore di utenti.Questa posizione rende facile anche comprendere,non solo i valori dei dati,ma anche le teste operative globali,ad iniziare dalla Cina e proseguire con EU:)ARIN,per il North America ha il 6,8% degli utenti,ed è compreso anche il Canada ,mentre EU ha l’8,4% e oltre il 14% degli utenti globali,in tutta la zona europea:)Nonostante le loro dimensioni ,hanno oggettivamente un Natural Brain,molto scadente:la Cina compie sempre attacchi e probabilemnte ne studiera’ anche di nuovi ,mentre EU è capace solo “dare sanzioni economiche”,per posizioni dominanti e in realta’,sarebbero loro ad avere “i numeri per dominare” e inoltre hanno finanziato in maniera indecorosa,tanti cretini come loro:)Queste posizioni servono per comprendere da quale contesto derivano i valori reali dei dati:)   Questa è una curiosita’,pero’ è importante lo stesso,ed è il report annuale delle macroregioni (il riferimento dei dati è DEC 31 2020).Sono dati ufficiali delle macroregioni stesse e mi ha colpito Afrinic ,perche’ non esiste nessuno scambio con le altre macroregioni e l’immagine sistemata sopra è solo un esempio:)E’ nata subito una simpatia per Afrinic e posso anticipare che sara’ presente nella verifica di MAR 2021 e in quella pubblicazione sistemero’ anche il pdf ufficiale delle macroregioni ,ed è composto da oltre 20 pagine e per Afrinic non esiste proprio nessuno scambio di dati:)  Per simpatia verso Afrinic ,l’inaugurazione dei Fact Check “fuori ordinanza” inizia da Africa Check:)Appartiene alla Nigeria e anch’essa ha un record simpatico,perche’ possiede 120 Milions di utenti “e solo 27 Milions” sono quelli di facebook:)La nazione italiana ha 54 Milions di utenti e 34 di essi sono quelli uniti a Facebook:)Brava Nigeria:)Nel prossimo Din Colors Priority Time ci sara’ anche facebook nei Fact Check ed è un unione di puro Nosense,perche’ è il tempio del falso totale,pero’ la posizione sara’ molto utile,perche’ “esistono delle verifiche esterne” e l’operatore specifico,richiede anche un iscrizione e possono partecipare solo “le grandi organizzazioni”:)Ne ho trovata una davvero curiosa,ed è l’unione dei giornalisti europei ,anch’essi finanziati da EU e hanno lo stesso soggetto di verifica,di facebook,per i Fact Check,fuori ordinanza:) Questo è un gruppo di fact Check fuori ordinanza e ho evidenziato l’agi italiana e sara’ di sicuro nei Din Colors Priority Time:)In tutti i Fact Check “fuori ordinanza”,manca un aspetto peculiare e sono le originalita’ dei contenuti stessi e tantomeno si conosce se sono naturali o meno 🙂  Per i 4 meravigliosi termini in K2 ,esiste il 100% nelle Alte Rilevanze del TFD Oxford e sopratutto derivano dal contesto piu’ bello che sia mai esistito:)E’ il primo garage di Google e tra l’altro sono solo degli ospiti,perche’ i veri proprietari del garage ,sono i genitori di un amica di oltre 20 anni fa’ e l’amicizia è rimasta,perche’ la signora è l’attuale CEO di Youtube:)Meravigliosi e hanno fatto tutto questo solo per i dati e i 4 termini del Just Time non potevano nascere da un contesto piu’ bello:)
Posted in Key Page Unit, TD Space Content
Natural Contest Finance Airline 4 🍀
Posted on December 18, 2020 by Din Story AV
Il 4° Natural Contest dedicato alle categorie “Finance & Airline”, inizia dal  nuovo banner e sara’ sistemato in tutte le successive pubblicazioni,insieme a quello originale degli RF .I motivi di questa collocazione , sono nella pagina collegata al link dei “Time Sensitive Content” e sono i contenuti del 73° RF e il motivo è molto semplice, ed è unito al “senso operativo del Time Sensitive Content”,perche’ è possibile anche avere “dei dati giusti,in maniera occasionale” e riguardano le posizioni degli Snippet e delle Strutture Data.I “riferimenti temporali sensibili” sono quelli del Crawling Process,ed è facile creare l’unione,perche’ è sufficente vedere la loro operativita’ e inizia “dagli indirizzi precedenti” e il metodo è unito “alla scarsa fiducia, verso l’onesta’ dei webmasters”:)Se i dati dei content fossero diversi ,rispetto ai Crawling Process precedenti ,non esistera’ nessuna Struttura Data Eliggibile,anche se il Report del Rick Result fosse positivo e da questo deriva il”We Won’T Time Sensitive Content” e l’unione con i dati degli RF ;dei Natural Contest e dei Just Time è fantastica,perche’i loro valori, possono derivare solo dall’opposto:)E’ il Long Standing Webmasters Guidelines e non prevede “nessuna fase alterna” rispetto “ai tempi sensibili dei Crawling Process” ,nei confronti dei contenuti e del contesto originale,rispetto a qualsiasi pubblicazione:)Il passaggio appena sistemato,sara’ fondamentale per i contenuti che seguiranno e l’insieme,avra’ sempre come riferimento le categorie protagoniste di questo Natural Contest (Finance e Airline) e insieme alle altre presenti ,formano “solo una piccola frazione” rispetto al numero colossale di categorie presenti nel contesto online,pero’ sono importanti lo stesso ,grazie al “Fattore Esclusivo del Web” e cioe’le regole esistono e sono valide per tutti al 100%:) Nella percentuale assoluta ,sono compresi anche alcuni “elementi Bicefali ” del Contesto Online e sono i “Deceptive Social”:)Il primo “Loro Cefalo” appartiene al contesto tradizionale e quindi,immaginano che quello Online “sia la stessa cosa” e il loro “secondo cefalo”,si comporta di conseguenza:) Il secondo cefalo dei deceptive social , suppone che nel contesto online l’imbecillita’ abbia lo stesso valore ,rispetto al contesto tradizionale e non è possibile che questo mai avvenga ,perche’ esiste la ragione pratica del 100% unito alle regole,perche’ senza di esse non esisterebbe proprio il contesto online:)Tra un po’ sistemero’ anche altri esempi pratici e indirettamente saranno anche all’interno degli altri contenuti e l’unione è gia’ descritta da tanto tempo,nella pubblicazione collegata alla prima immagine e il link è quello di Din Long Data Twin:)Tra i suoi vari passaggi,esistono anche le Close Variants ,ed hanno una posizione comune tutte le presenti e cioe’ nessuna di ESSE,è Decisa dagli Utenti 🙂 (nei Bicefali dei Deceptive Social immaginano che siano loro a Decidere Qualcosa,perche’ la loro prima testa è in realta’ nel contesto tradizionale e in questo ambito è lecito che anche l’imbecillita’ possa avere dei valori:) 

Il passaggio precedente è fondamentale per comprendere i contenuti che seguiranno e inizio dall’immagine originale appena sistemata,perche’ è ESSA stessa straordinaria:)Appartiene ai contenuti originali della protagonista del 73° RF (OCT 2016) e dopo oltre 4 anni,rappresenta un fantastico e paradossale Amarcord ,perche’ l’attualita’ è migliore rispetto ai contenuti originali:) Esistono i motivi descritti nel 73° RF ,perche’ è il primo ad essere arrivato agli INDEX,con gli Archive ,senza che quest’ultimi siano abilitati:)Sarebbe stata gia’ una posizione difficilissima da sostenere e unire al numero stesso degli RF,perche’ la Non Abilitazione dei Tags,riguarda tutte le pubblicazioni (sono compresi anche i loro nomi ;quelli del dominio ; dei labels e di tante altre cose e alcuni esempi sono qui )

Questi sono altri esempi e posso assicurare al 100% che le impostazioni derivano da FEB 2015 e sono rimaste sempre le stesse:)Tra un po’ si comprenderanno ancora meglio quanto sono importanti queste posizioni e la sezione dell’immagine, è solo l’inizio e il cursore è sempre in posizione non abilitata. (nella normalita’ il cursore è in posizione piu’ bassa,perche’ sono coinvolte tante voci:).Lo stesso sistema è valido per il nome delle singole pubblicazioni e per tutto il resto descritto nella pubblicazione collegata sopra e qui posso aggiungere ,il delirio totale di coloro che pensano di “avere dei dati validi” ,tramite strumenti , addirittura piu’ idioti di loro:) Esiste una ragione piena ,perche’ “le basi dei rilevamenti” sono formate in realta’ dalle esclusioni ,semplicemente perche’ non sono abilitate ,ed è facile ipotizzare che teste possono avere questi idioti e sono quelle Bicefale dei Deceptive Social:) (la loro unica testa pensante è quella del contesto tradizionale e quindi immaginano davvero che i valori reali possano derivare dalla totale idiozia:)Questo passaggio servira’ per introdurre ,uno “sviluppo inaspettato” e riguarda proprio i rilevamenti di base ,realizzati attraverso dei codici reali e il fatto che “siano inaspettati” deriva da una semplice ragione:)Sono recentissimi (sono nel 4° Natural Contest dei rilevamenti di base) e avranno anche un unione con delle date temporali specifiche e giustificheranno “la sorpresa cosi’ ravvicinata”:).Posso anticipare per il momento, che il valore Zero degli strumenti dei rilevamenti di base ,avra’ anche uno sviluppo paradossale ,ed essendo uguale a Zero il valore reale degli strumenti dei rilevamenti di base,esiste 1 sola possibilita’ e cioe’ di Andare SOTTO LO ZERO:)Figurarsi quale possa essere il valore degli strumenti utilizzati dagli idioti e un esempio è nella pagina A+ del 73° RF.L’elemento è Spyfu e poi è possibile aggiungerne tanti altri (Hubspot ; Searchmetric ETC:) e in questa pubblicazione,ci saranno gli sviluppi dei contenuti della pagina A+ ,anch’essi in maniera inaspettata:)Li descrivero’ tutti insieme tra un po’,mentre adesso sistemo altre immagini tratte dalle impostazioni:

Non esiste l’abilitazione del nome del dominio e nemmeno il suo indirizzo e quindi figurarsi il singolo nome delle pubblicazioni o pagine interne:)Unita questa posizione al Frame Global Limit,l’unica conseguenza logica deriva dal fatto che i Content producono il 100% dei valori e tra un po’ esistera’ il senso pieno di queste posizioni:) Per quanto riguarda i subdomain ,esistono gia’ delle descrizioni nel 4° Natural Contest dei rilevamenti di base e i collegamenti li sistemero’ tra un po’. (qui posso aggiungere che non sono abilitati e la differenza è notevole,rispetto a qualsiasi altro rilevamento:)
Questi sono invece degli esempi opposti delle impostazioni e lo sono solo tecnicamente e cioe’ il “cursore funziona”:)Nemmeno in questo Caso è possibile fare i furbi e cioe’ non si possono “attivare o disattivare le funzioni” ,secondo “le proprie convenienze”:)In teoria sarebbe pure possibile farlo , pero anche loro posseggono “il Time Sensitive Content ” ed è facilissimo da verificare,perche’ non esisterebbe nessun INDEX ,anche per operazioni normali:) E’ sufficente fare delle attivazioni o il loro opposto, dopo i Crawling Process e diventera’ molto improbabikle che ne esistera’ un altro successivo e quindi il miglior consiglio, è di lasciare i contenuti naturali,ed è l’unica scelta giusta da fare!:) 

Questa posizione ,rendera’ concreto “il paradossale Amarcord” per il MileStone della pubblicazione protagonista del 73° RF ,semplicemente perche’ l’attualita’ è perfino migliore:)
Il 73° RF è arrivato con l’INDEX in ARCHIVE non Abilitato e di conseguenza,significa che è esistita solo la Sitemap ad averlo permesso ,ed è incalcolabile i conflitti che ha avuto in 4 anni:)
Nella realta’,il numero dei conflitti puo essere anche calcolato e come primo elemento è sufficente sistemare il volume dei contenuti:)
DEC 2020 è arrivata a 3,384 Milions di termini effettivi e dopo le 3 pubblicazioni ,mancavano 1281 termini al traguardo di 3,4 Milions esatti:)
Posso assicurare al 100% che è tutto vero e naturale,perche’ ho scritto solo quello che avevo in mente:)
qui sono sistemati i dati:)

E’ incredibile,pero’ è tutto vero e cioe’ esistevano solo 7 termini per arrivare a 3,4 Milions in meno di 6 anni:)
All’interno dell’immagine esiste un amplia sezione e termina con il periodo evidenziato sopra e naturalmente “non ho contato i termini prima” ma ho prelevato la sezione e l’ho sistemato in un calcolatore:)
Ovviamnte esistono le dimensioni della pagina,pero’ è difficile calcolare a vista il numero dei termini,perche’ possono variare i caratteri e per arrivare a 3,4 Milions, occorrevano 1281 termini 🙂
Dal periodo evidenziato,mancavano solo 8 termini e il report è nato dal primo e unico tentativo:)
Per descrivere il contesto dei contenuti che seguiranno e unirlo ai passaggi precedenti,l’immagine sopra è un ottimo inizio:)
La sua posizione normale è in Unnatural Developer Dati Now

E’ sufficente la divisione delle 2 evidenze di colore verde e bianco ,per rendere facile l’unione anche con i contenuti di questa pubblicazione:nella posizione originale della sezione evidenziata dal colore verde ,esistono dei dati che hanno dei contenuti e in quella di colore bianco ,ha solo dati,senza nessun contenuto:)L’unione è molto facile ,perche’ gli stessi dati riguardano qualsiasi spazio,comprese le categorie protagoniste di questa pubblicazione.Natural Contest Stats Base 4Quando è arrivata la pubblicazione dedicata agli strumenti dei rilevamenti di base,gia’ esisteva l’immagine con la differenza nelle evidenze e per inserirla nel sistema,è nata l’immagine sotto:)

Il senso pieno è nella pubblicazione originale collegata sopra ,ed è pertinente anche la sua collocazione in Unnatural Developer Dati Now,perche’ esiste l’indifferenza reale tra pubblicazioni con contenuti e quelli in cui sono completamente assenti:)L’esempio è estremo,pero’ esiste realmente in tanti altri spazi e deriva dall’aspetto piu’ semplice e cioe’ gli strumenti dei rilevamenti di base,non conoscono assolutamente nulla dei vari contesti e come sono uniti tra di loro.Quindi è ragionevole anche la posizione descritta nell’immagine,unita ai suoi contenuti diretti e in questa pubblicazione, le posizioni saranno anche peggiori e il livello sara’ “il Sotto Zero”, descritto nei passaggi precedenti:)Per arrivarci occorrono anche i contenuti della pagina A+ del 73° RFPotrebbero essere sistemati tutti anche in questa posizione e per rendere semplice l’unione, cito solo qualche passaggio ed è quello dedicato allo strumento Spyfu in rapporto ai Fact Check:)Per rendere semplici i contesti dei contenuti che seguiranno,la migliore indicazione è la data stessa della pubblicazione della pagina A+ del 73° RF ,ed è NOV 26 2020.Tra un po’ si comprendera’ molto meglio il ruolo delle date e in questa posizione sistemo alcuni contenuti uniti ai Fact Check:Il primo e il piu’ importante è nei contenuti di JUN 2020

Altre posizioni sono nei 2 Don’T Deceive di Key TD Archive
Altre posizioni sono in Snippet e Struttura Data nei Brain Stone
Al termine dei nuovi contenuti,sistemero’ anche una posizione “molto particolare” unita agli Snippet e Strutture Data e posso anticipare che “cambiera’ notevolmente il suo valore”:)

Il senso delle Date è unito al dominio stesso di Google Search CentralE’ in pratica un evoluzione del suo Developer e la prima volta che l’ho visto in assoluto ,è proprio in occasione della pagina A+ del 73° RF e per quanto riguarda i Fact Chech,mai prima erano sistemati in questo modo:)Questo è solo il primo riferimento temporale e tra un po’ ne sistemero’ un altro.Per il momento cito solo le evidenze,ed è l’unione delle Strutture Data con i Fact Chech e a determinare le differenze con tutte le posizioni precedenti è il Claim Review (Revisione del reclamo:) e solo questi 2 termini,sono capaci di mandare Sotto Zero il valore dei dati degli strumenti di rilevamento di base:) Il motivo è semplice perche’ non conoscono nessun contesto e nessun contenuto e quindi figurarsi se conoscono se sono veri o falsi !:)

Prima di proseguire con i dati ,esiste l’immagine sopra e fornisce la migliore comprensione in tutti i sensi:)I Crawling Process formano le Grid to Records ,ed esiste 1 solo indirizzo a cui sono applicati 3 codici ,per qualsiasi periodo del contesto online e per questo motivo diventa indispensabile iniziare dagli indirizzi precedenti,ad ogni Crawling Process e ovviamente occorre ipotizzare che ne esista UNO,successivo al Precedente:)Spesso non avviene ,ed è facile anche quantificare il suo livello ,perche’ esistono i contenuti eliminati in 1 giorno (le dimensioni sono equivalenti a 20 Milions dell’opera War & Peace del Caro Leo Tolstoy,in 1 solo giorno:) ed è sufficente moltiplicarli per il ciclo dei processi (nella normalita’ ne avviene UNO ogni 2 o 3 mesi) .Per i Crowling Process,nessun utente decide il loro ciclo e tantomeno puo stabilire se esistono delle Priorita’ (al loro interno esistono anche tutti i MARK,compreso i Cornestone Content di WordPress:) e l’unica operativita’ effettiva che hanno,è di evitare il Claim Review,ed esiste 1 solo modo per farlo e cioe’ i Contenuti debbono essere Tutti Veri:)

Questa è una sezione dell’immagine precedente e l’ho sistemata in questa posizione ,per aggiungere un altra evidenza ,ed è quella di Advanced SEO:)Occorre sempre ricordare le date e il primo riferimento è quella della pagina A+ del 73° RF (NOV 26 2020:) ,ed è importante per un semplice motivo,perche’ l’evidenza sopra ,senza aggiungere “nemmeno 1 virgola” , amplifica all’ennesima potenza i contenuti del Brain Stone:)Sono nati prima dei Fact Check e la loro ragione è molto semplice,perche’ se vengono sistemati i contenuti del Brain Stone,esiste solo la possibilita’ di essere classificati in FALSO Totale:)Questo è il motivo reale per la presenza dei FACT CHECK e poi esiste il suo contesto operativo e non è descritto da nessuna parte, pero’ è facile da intuire ,ed è nella ragione sociale stessa degli Engines,ed è quella economica:)La sua migliore unione è nella pertinenza dei dati e la posizione dei FACT CHECK , ha un impatto anche piu’ importante,perche’ non coinvolge le posizioni “economiche classiche” ,ma quelle degli “Others Intent”:)E’ sufficente unire il Content Marketing ai costi degli Intenti degli Utenti (IoT) ,ed occorre solo aggiungere che gli “Altri Intenti” hanno un valore assai maggiore per ovvi motivi,semplicemente perche’ sono superiori agli intenti stessi degli utenti,ed è facilissimo da verificare ,perche’ quasi sempre le indicazioni degli Engines ,sono di gran lunga migliori,anche rispetto “alle idee di ricerca piu’ brillanti di qualsiasi utente”:)Questo è il motivo reale per cui sono presenti i FACT CHECK e di conseguenza i SEO debbono “cambiare strategia” e la migliore indicazione è quella dei Brain Stone:) (se continuano con le loro cazzate,la strada da percorrere sara’ brevissima e sara’ anche inevitabile che conduca “a qualche elevato precipizio”:)

Queste sono le uniche 3 possibilita’ che ha l’unione dei FACT CHECK con le strutture dataSolo il RATING avra’ valore e a questa posizione occorre aggiungere la cosa piu’ ovvia e cioe’ i contenuti debbono appartenere al dominio specifico e solo dopo la sua unicita’ ,sono applicati i Check Fact:) 

Nemmeno il Rating è definitivo,perche’ ha delle divisioni anch’essoSolo attraverso la 4° e 5 posizione si raggiunge l’INDEX .

l’immagine normale è quiE’ sufficente seguire l’evidenza di colore rosso e indica che esistono tante pubblicazioni con “Several Claim Review” e l’applicazione del MARK,in questo Caso esiste ,pero’ non sono gli utenti a Deciderlo:)La posizione è decisamente negativa e nonostante questo,non è nemmeno definitiva e il motivo è nell’immagine sotto:)

fino a questo momento,questa è la posizione piu’ importanteE’ la seconda data di riferimento ,ed esiste anche l’evidenza dell’Engine (la stellina:) e amplifica notevolmente l’aspetto negativo delle Several Claim Review precedente, semplicemente perche’ esiste 1 solo Fact Check ,attualmente,da unire a 1 pubblicazione e quindi figurarsi cosa saranno gli effetti dei Fact Check completi:)

Questa è la traduzione letterale ,nel Detect language di questi contenuti 🙂 Solo per citare un elemento presente nella pagina A+ del 73° RF (le cazzate di Spyfu:) ,sara’ divertente vederlo con i FACT Check completi 🙂

Il contesto originale dell’immagine è quiDeriva dal TFD Google the Keyword e sono dati ufficiali.Sono pertinentissimi anche in questa posizione e “cambiano solo i riferimenti” (dal Knowledge Graph ai Fact Check e a Google Patent)Sono le posizioni da cui derivano “i True Facts” e gli “incroci dei dati” hanno come riferimento 500 Billions di Facts e nessun altro al mondo possiede un database del genere:)Il contesto non è ancora finito ,perche’ esistono le Entities e sono i vari domini “che hanno Fatti Verificati e Certi” con cui confrontare tutti gli altri:)L’aspetto fantastico è il numero stesso ,ed è sufficente tradurlo nella pratica e il miglior modo per farlo è Google stessa ,perche’ rappresenta solo “Un Entita”:)
Questa è la migliore combinazione per comprendere i Fact Check:)
Essendo Google stessa un Entita’ ,è ovvio che le migliori verifiche dei True Facts,riguardino se stessa:)
Il Brain Stone è nato proprio dalle “posizioni opposte alle Guidelines” e le ragioni sono ovvie, perche’ direttamente forniscono le migliori verifiche,rispetto a qualsiasi valore dei reports:)
E’ sufficente la prima pagina con gli elenchi “delle posizioni negative” ,solo nell’Entita’ Google e si comprende facilmente cosa sia l’impatto dei Check Facts:)
Esistono poi altre 4,999 Billions di Entita’ ,attraverso le quali verificare i fatti descritti in tutti i contenuti e solo per il momento è presente 1 rilevamento dei Fact Check in 1 pubblicazione (ipotizzando che abbia gia’ contenuti unici) ,pero’ anche con il contesto attuale , è possibile che esistano le”Several Pages Claim Review” e formano un aspetto molto negativo gia’ in proprio, perche’ non potranno essere presenti le proposte complessive e cioe’ i Main Content e di conseguenza non si avra’ nessun valore e nessun Index:) 
Questa è l’immagine della Struttura Data e Snippet citato sopra
Il link ha il collegamento con la pagina dei Brain Stone e dopo l’ingreso dei Fact Check ,peggiorano anche le sue posizioni:)
Il motivo è semplice ,ed è sistemato nell’evidenza e cioe’ sono coinvolti anche spazi esterni nelle penalita’.
(attraverso la posizione in contenuti falsi ,avranno anche loro problemi maggiori 🙂
Il nuovo banner dei “Time Sensitive Content” ha il collegamento con il 73° RF  e tra i suoi passaggi , esiste anche la posizione della fantastica rete italiana:)

Dai contenuti del 73° RF è nata anche la posizione sopra e Din Colors Priority Time ,da FEB 2021 ,fara’ parte delle categorie del Natural Contest 🙂Ci saranno domini legati ad EU e altri tratti dai Brain Stone e la scelta’ è quasi obbligata ,perche’al suo interno esistono le posizioni maggiori italiane del digitale:) (purtroppo sono maggiori solo perche’ non ne esistono altre 🙂

Il metodo che avra’ Din Colors Priority Time ,nasce dai contenuti del 73° RF  e dallo Snippet sopra e formeranno la contrapposizione con la reale rete italiana:)Quelli dello Snippet saranno ASSOCIATI al Social Marketing e sopra esiste un ottima evidenza,ed è quella di “Italia Online”:)Le descrizioni sono nel Just Time K2 di NOV 20Al suo interno esistono anche ” i Dati Lovers” ,sempre italiani e anch’essi hanno una passione smodata per il Social Marketing:)Ovviamente esiste una logica ,ed è quella Bicefala dei Deceptive Social e cioe’ pensano di essere ancora nel contesto tradizionale e quindi si possono raccontare tante cazzate ,supponendo realmente che gli utenti siano imbecilli come loro:) (è sufficente vedere i contenuti dei loro spazi,per avere la certezza che sono davvero degli idioti:)Il problema piu’ grave ,saranno le priorita’ di EU,unite al digitale,,perche’ nel contesto italiano ,”le virtu del Social Marketing sono assai diffuse” e questo è il motivo della nascita di Din Colors Priority Time e altro lo descrivero’ da FEB 2021.

Sempre nel Just Time K2 di NOV 20 esistono i Social direttamente:)Sono sistemati anche altri collegamenti precedenti ,ed esiste solo l’imbarazzo della scelta ,per stabilire quale sia la posizione piu’ demente:)Probabilmente è quella della piattaforma stessa ,perche’ in realta’ è composta da 1 solo dominio ,ed ha 2,5 Billions di utenti e la sua Ads raggiunge lo 0,002%:)Nonostante le pluri posizioni dementi,quest’immagine è capace anche di aumentarle:)Sono le posizioni degli “articoli instantanei” per Audience Network ,ed è l’Ads di facebook:)

I Social oltre ad essere idioti sono anche completamente disonesti:)Sono loro dati ufficiali e ho scelto l’anno 2018 perche’ “gli altri non erano disponibili”:)La disonesta’ nasce da un fatto semplice e cioe’ se hanno pagato i loro utenti per creare “articoli instantanei”,pensavano “di avere qualche vantaggio”:)Sono sempre i contenuti a determinare il valore delle Ads e non l’opposto e con 350 termini effettivi ad “articolo instantaneo”,non iniziano nemmeno i Match per i valori reali e di conseguenza diventa una posizione logica e normale quella delle Ads di Facebook:) Cioe’non solo esiste una piattaforma per 1 solo dominio ,con 2,5 Billions di utenti,ma hanno anche pagato per raggiungere dei pessimi risultati:)

Questa è una posizione fantastica e forse avra’ una cornice speciale in futuro:)Sono le policies dei Brand e al 3° punto, esiste l’unione con gli strumenti dei rilevamenti di base:)Neri primi 3 secondi,non puo essere incluso nulla e il motivo è semplice,perche’ questo è l’arco temporale dei rilevamenti di Facebook e Instagram:)Nemmeno i Bounce Rate arrivano a questo livello e quindi diventa ragionevole il fatto che esista lo 0,002% in Ads di facebook,semplicemente perche’ i valori reali esistono e di conseguenza è anche elevata la presenza dell’intelligenza e non puo essere raggiunta con le cazzate e i falsi nei valori reali:)
Questa è una curiosita’ pero’ è importante ,ed è il Font da cui sono nati tanti scritti individuali ,ed è il Cola:)
La scelta non è stata casuale,perche’ è unita’ ai Top Friend Din e tra di essi,esiste anche la presenza dell’azienda Coca-Cola:)
Rappresentano la migliore verifica dei valori reali del web ,ad iniziare dalle dimensioni stesse delle aziende:) (con la forza economica che hanno si potrebbero permettere le migliori soluzioni tecniche e di ottimizzazione,unite anche a un numero elevato di operatori:).
A queste condizioni esisterebbero solo i domini dei TFD ,perche’ nessuno potrebbe competere con loro, mentre la realta’ è esattamente opposta e cioe’ anche i TFD,debbono avere “i dati giusti” per creare valore reale:)
La scelta del TFD Coca-Cola ha poi un valore aggiunto notevole,rispetto alle idee completamente false del Social Marketing:) 
Se venisse considerato il Contesto Globale,nessuno elemento del Social Marketing ha le stesse capacita’ di raccontare cazzate:)
Il TFD Coca-Cola ha costruito un impero colossale “utilizzando acqua e zucchero”  e poi ha unito anche “una leggenda sulla sua formula magica” e l’unico vero scopo è il fatto che il mito Coca-Cola “si è autoalimentato”:) 
Non per Nulla,sono i veri maestri del Marketing (altro che gli imbecilli dei social:) e poi nel Contesto italiano,il TFD Coca_Cola ha dato un altra prova magistrale delle sue capacita’:)
(i contenuti sono nella pagina dei Top Friend Din:)
Quest’immagine serve per aumentare le posizioni della fantastica rete italiana.e poi è sufficente unire i contenuti del 73° RF e si ha il senso pieno dei contenuti,opposti alle idee false del Social Marketing:)
In questa pubblicazione esistono i percorsi per arrivare al dato sopra
Il numero esprime quello dei GB per contenere tutti gli scritti della storia umana complessiva.
Nella pubblicazione sono sistemati anche i pesi ufficiali dei GB di Google stessa,per il suo database completo e da questa posizione deriva anche quelli della rete italiana e il riferimento sono solo gli Index. 
Per Microsoft Bing non esistono dati ufficiali e quello sistemato appartiene a un azienda tedesca e poi ne esistono altri con dati poco maggiori e attraverso essi, è possibile calcolare anche gli Index della rete italiana e solo per Bing sono circa 3 volte maggiori,rispetto a tutti gli scritti della storia umana:)
Questo è il contesto reale dei dati e a differenza dei contenuti tradizionali,esistono selezioni esponenziali ,ad iniziare dalla cosa piu’ semplice e cioe’ qualsiasi Index riguarda 1 sola posizione e per essere presente,è indispensabile che gia’ esista la Quantita’:) 
E’ sufficente vedere come sono realizzati i “contenuti tradizionali” ,ad iniziare dal fatto che nessuno possiede 1 sola posizione,ma è esattamente l’opposto:)
Solo il TFD Marcel Proust ha il 50% dei suoi contenuti in 1 sola posizione (è la sua opera maggiore) ,ed escluso Giacomo Leopardi, nell’unione dei contenuti,la percentuale maggiore degli autori Top del contesto tradizionale, è largamente formata da Copied ,anche utilizzando average scarsi:)
Tutte queste posizioni hanno un unione piena con le categorie Finance e Airline ,non solo perche’ sono valide per qualsiasi dominio,ma per il contesto oggettivo che hanno le categorie stesse:)

Nessun altra industria ha questi livelli e solo i dati sopra ,forniscono la migliore evidenza  dei valori reali:)

Questi rapporti appartengono al 3° Natural Contest ,ed è il rapporto tra le banche tradizionali e quelle online e nei dati esiste un importante variante non sistemata, ed è quella temporale del Coronavirus:)
Quindi per la finanza tradizionale le posizioni sono “anche ottimiste” ,ed è del tutto improbabile che i dati in futuro,”invertano gli indirizzi”:)
All’inizio di questo Natural Contest avevo pensato di unire i contenuti delle pubblicazioni precedenti ,ovviamente con sviluppi,rispetto alle categorie Finance e Airline ,perche’ sono davvero particolari le sue posizioni:)
La prima Natural Contest Finance e Airline è arrivata con il 51° RF ,ed è quello di Indifferent Colors e da essa sono nate le Din Colors Academy e sono ancora presenti ,ed hanno tutte l’Index:) 
Grazie a questa pubblicazione mi è venuto in mente di creare anche i Priority Time dei Din Colors:) Per i domini che utilizzero’ sarebbe stato piu’ opportuno chiamarli Indifferent Colors,perche’ è la loro vera collocazione,pero’ i casini con la pandemia da Coronavirus ne sono gia’ tanti e quindi ho scelto i termini normali dei Din Colors:)
Il 2° Natural Contest ,sempre in maniera casuale è arrivato con l’Origin RF ONE di NOV 2019 e anch’esso avrebbe tanti contenuti da unire e altrettanti li possiede il 3° Natural Contest di Finance Airline e tra le tante posizioni ne ho scelto solo UNA:)
(i collegamenti sono nella pagina dei sistemi attraverso il piccolo background della sidebar)
L’arco temporale dell’immagine è May 2020 e la sua posizione è unita al ruolo dei termini unici e dopo 7 mesi è quasi uguale.
La sua posizione deriva da un fatto semplice ,perche’ nessun altro termine unico ha avuto le dimensioni dei contenuti dedicati al termine “Coronavirus” e la sua collocazione,è la migliore per determinare il valore degli altri termini unici.
La posizione ufficiale sara’ nella prossima pubblicazione dei Just Time K2 e per il termine unico “Coronavirus”,sara’ coinvolto il TFD Wiki Globale e diventera’ molto semplice comprendere il motivo per cui esistono pochi spazi in cui il termine unico è rilevante:) Semplicemente i volumi dei contenuti sono elevatissimi,pero’ esistono tantissimi Copied e per questo motivo esistono pochissimi domini rilevanti e quindi,dopo 7 mesi se si hanno gli stessi dati,l’unica speranza deriva dal fatto che siano almeno Originali i contenuti dedicati ai vaccini ,contro il Coronavirus:)

Inizio dalla “divertentissima banca d’italia” e comincia subito con un gran regalo,perche’ la prima pubblicazione è dedicata proprio alla vigilanza:)
Solo questa posizione ,rende evidente il motivo dei Run Forever e cioe’ si conoscono i dati e anche “le teste operative”:)
Sono descritte nella prima DiN Colors Space dell’anno 2016,ed è sufficente vedere come è fatta la vigilanza per comprendere tutto il resto:)   
Esistono poi tantissimi altri contenuti per la divertente banca centrale italiana,ed è molto probabile che sara’ anche all’interno del Recovery Plan e forse si occupera proprio del digitale,vista la sua “alta competenza”:) (nella categoria finance ,unita al digitale sara’ sicura la sua presenza:)
Ha avuto 205 pubblicazioni e 1168 è il suo average e ha raggiunto il 49%:) 

Il ruolo di EBA è descritto nei precedenti Natural Contest dedicati a Finance Airline: ha avuto 250 pubblicazioni e 16% è la sua unicita’,pero’ possiede anche l’average piu’ elevato ,ed è formato da 5315 termini effettivi.

Moodys ha avuto 218 pubblicazioni e il loro average è formato da 1250 termini e ha raggiunto il 25% in unicita’:) 

IATA è l’agenzia internazionale di controllo della categoria Airline .
Ha avuto sempre ottime posizioni ,mentre questa volta “ha dati in picchiata”:)
Ha avuto 237 pubblicazioni e 2725 termini effettivi in average e ha raggiunto il 21% in unicita’:)
La Reuters è tra le principali agenzie finanziare e il suo dominio tedesco è stato sempre tra i migliori:)
In questa occasione le cose sono andate decisamente male :ha 185 pubblicazioni e 33% è stata la sua unicita’ ,pero’ l’h raggiunta con un average tra i piu’ scarsi di sempre ,ed è formato da 743 termini effettivi:)

Airline Reporter ha avuto 245 pubblicazioni e 1720 è stato il suo average e ha raggiunto il 66%
FICO rappresenta molto bene i valori reali e iniziano dal fatto che non sono i suoi:)
Ha avuto 226 pubblicazioni e 1413 è il suo average e ha raggiunto il 39%:)
Banca Intesa la sistemero’ anche nel prossimo Just Time K2 ,perche’ sara’ unita’ a una posizione CMS:)
Per il momento,l’anticipo sopra ,diventa un ottima introduzione ai Content Management System e iniziano dal fatto che debbono essere i domini a creare i Content 🙂
Sono le risposte all’Internet Banking  ,ed è proprio perfetta questa posizione,perche’ la pubblicazione ha elevata solo la percentuale dei Copied:)
Intesa ha avuto 230 pubblicazioni e 1219 sono i termini in average e ha raggiunto il 31% ,attraverso un “numero imprecisato di autori “:)
Occorre sempre ricordare le percentuali del Banking Online e qualsiasi priorita’ si ha nel digitale,non è capace di fare nessun miracolo:) (occorrono i contenuti per farli 🙂 
Per Consob esistono i “migliori Broken Links mai visti” e saranno molto utili per i dati individuali,semplicemente perche’ nel Caso di Consob esistono realmente:)
E’ presente anche un unione per i prossimi Din Colors Priority Time e nasce dai “Dati Lovers” sistemati nei passaggi precedenti ,perche’ la loro casa madre (Cerved) è unita proprio a Consob ; alla banca d’italia e a tanto altro,sempre nel contesto digitale italiano.
Secondo “i loro dati”,il gruppo Cerved è il primo italiano nei Rating e le loro migliori operazioni ,sono unite al social marketing e sara’ inevitabile averli anche all’interno del Recovery Plan ,per la “priorita’ nel digitale”:)Quindi solo “per Sperare che andra’ bene” , non è nemmeno sufficente il Santo della citta’ natale di Giuseppe Conte (San Giovanni Rotondo e Padre Pio) ,perche’ le cose sono davvero complicate e quindi l’unica speranza reale è quella che intervenga il Caso Supremo in Prima Persona:) 
I contenuti sono realizzati sempre in maniera naturale e viste le dimensioni di questa pubblicazione, “l’alba dei 3,4 Milions” volge gia’ al prossimo traguardo:) 
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